Paint it Black

di Aya_Brea
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La caduta degli eroi ***
Capitolo 2: *** Attraverso il mirino ***
Capitolo 3: *** A sangue freddo ***
Capitolo 4: *** Quando il bianco divenne nero ***
Capitolo 5: *** Happy Birthday ***
Capitolo 6: *** Fra le fila della polizia ***
Capitolo 7: *** Kirschwasser ***
Capitolo 8: *** La chimica dell'odio ***
Capitolo 9: *** Interrogatorio a doppio taglio ***
Capitolo 10: *** L'alba di un uomo solo ***



Capitolo 1
*** La caduta degli eroi ***


 Premessa:



Ciao a tutti amici lettori di EFP! :) Ahimè, e ahiVOI, son tornata con una nuova fanfiction!
Mi sembra però doveroso fare delle piccolissime precisazioni, onde evitare casini e casotti!
La fanfiction è interamente concentrata sul passato del nostro caro Gin, ebbene si.
Pertanto compariranno un po' di personaggi di mia invenzione e altri membri dell'Organizzazione.
Per il suo vero nome ho optato per JAKE. Mi piaceva xD ci stava! :) spero piaccia anche a voi!
Il linguaggio sarà un po' secco e scarno, meno poetico rispetto al solito e forse ogni tanto ci sarà qualche parolaccia
Nulla di grave comunque :) Beh, detto questo, spero che vi piacerà come ho reso (o per meglio dire, come ho tentato)
di rendere il passato di Gin, facendo in modo che potesse essere in linea col personaggio Goshiano :D 
Spero di non avervi annoiato eccessivamente e spero che questo insolito esperimento vi piaccia!
P.S: Ho messo l'avvertimento OOC perché, seppur Gosho non parli mai del passato dei MiB,
non vorrei che se lo facesse, fosse troppo stravolto rispetto all'originale. Vi lascio.
Buona lettura :)


Aya_Brea 






1. La caduta degli eroi

"I look inside myself and see my heart is black 
I see my red door and it has been painted black 
Maybe then I'll fade away and not have to face the facts 
It's not easy facing up when your whole world is black

(The Rolling Stones - Paint in Black)


Era una di quelle calde giornate estive in cui la coltre di afa si manifesta sottoforma di aloni rarefatti, tanto spessi e definiti che in lontananza tutto appare tremolante e fumoso.
Il sole era oramai alto nel cielo ma di tanto in tanto nuvoloni densi e bianchi si infittivano di fronte a quel disco estremamente luminoso, impedendo momentaneamente ai suoi raggi di battere con violenza contro la terra arida e secca.
Lungo la grande autostrada dislocata fuori dal centro abitato si stava svolgendo una grande parata d'auto d'epoca e tutto era stato predisposto meticolosamente per l'occasione: la grande lingua di asfalto bollente era sgombra e su entrambi i lati erano poste delle transenne piene di ghirlande e decorazioni. C'era gente di tutte le età: bambini, giovani, anziani, donne, famigliole giunte lì per caso; era un gran via vai e fra di loro si respirava davvero aria di festa.
L'attesa e la trepidazione esplosero in un tripudio di mormorii e grida esultanti, non appena comparvero all'orizzonte le prime automobili.
Le carrozzerie tirate a lucido brillavano come degli specchi e da qualsiasi angolazione le si osservasse, si poteva ben notare il meraviglioso gioco di luci che esse producevano in quel clima torrido. Alla testa della sfilata vi era una vecchia Ferrari fiammante, di un rosso vivido ed intenso: sembrava non portarsi alle spalle il peso dei suoi anni e a giudicare dal roboante suono del motore, pareva non aver perso neanche la grinta della sua potente cilindrata.
Il piccolo Jake strepitò al di là delle transenne affinché il padre lo prendesse in braccio e lo sollevasse da terra: era troppo basso per poter osservare quello spettacolo d'altri tempi. Dall'alto del suo metro e novanta, l'omone robusto alle sue spalle si chinò per afferrare quel bimbo scalpitante, poi, come se stesse mostrando una coppa, alzò le braccia e lasciò che Jake si sedesse sulla transenna.
"Ci vedi così?" L'uomo aveva dei morbidi capelli biondi pettinati indietro e indossava un paio di eleganti occhiali da sole: sembrava decisamente troppo agghindato per una semplice parata d'auto d'epoca. Un Rolex d'oro gli avvolgeva il polso, mentre una collana altrettanto costosa e sfavillante gli illuminava il petto.
Jake dispiegò lo sguardo verso quelle macchine via via sempre più vicine e non poté far altro che sgranare i suoi piccoli occhietti verdognoli, sia per lo stupore che per la commozione: erano bellissime, ancor più affascinanti di come se l'era sempre immaginate nei suoi piccoli sogni di fanciullo. Fra gli occhi lucidi e il cuoricino palpitante in petto, si prese del tempo per rispondere. "Ci vedo benissimo, papà." Sussurrò piano. L'emozione crebbe a dismisura quando la Ferrari fu vicina ad entrambi, talmente vicina che Jake tese il braccio oltre la transenna, convinto di poterla quasi sfiorare.
Le auto proseguirono la loro trionfante parata, fra calorosi applausi ed ammirazione, fin quando fu possibile scorgere all'orizzonte l'ultimo bolide, quello che avrebbe definitivamente chiuso la sfilata.
In quel preciso istante sembrò che il cuore di Jake avesse perso un battito: le sue iridi oramai stanche per il caldo cocente seguirono, nonostante tutto, l'intero percorso che stava compiendo quell'ultimo gioiellino scintillante.
Era una vecchia Porsche nera dalla linea morbida ed accattivante, le cui curve erano leggere ma essenziali e proprio in virtù della sua caratteristica fisionomia, pareva essere stata rubata dai sognanti anni '40. Nella mente del piccolo Jake cominciarono a rincorrersi innumerevoli quadretti e storie infarcite di gangster, di pistole, di strade buie e sudice, di eroi notturni pronti a sacrificare anche se stessi pur di estirpare le radici del male. E quanto avrebbe voluto essere quel giustiziere coraggioso che ha sempre la battuta pronta e un asso nella manica.
Mentre la sua fervida immaginazione viaggiava senza sosta, la Porsche continuò a muoversi lungo l'asfalto, fin quando non divenne un minuscolo puntino nero all'orizzonte.
 
 
 
 
 
Quella mattinata era letteralmente volata, ma il pomeriggio era ancora lungo e denso di emozioni ed avventure.
Jake era al parco con i suoi amici: quel piccolo riquadro verde, fra decine di alberi rigogliosi e fiori freschi, era tutta la sua vita.
Takashi, suo padre, era spesso fuori casa e la maggior parte delle volte la solitudine ed il silenzio di quella villa lo opprimevano più di qualsiasi altra cosa: sua madre non abitava più con loro da quasi due anni. Sapeva soltanto che si era trasferita in America per poter continuare il proprio lavoro. Di lei gli era rimasto soltanto l'amore per i nomi occidentali. Nient'altro. Per giunta riuscivano a sentirsi davvero poco, tanto che spesso lei si dimenticava persino di chiamarlo. Di sicuro non era facile la vita che conduceva e il più delle volte, Jake si sentiva emarginato e "diverso" dai propri coetanei, che al contrario si ritrovavano a vivere nel calore di una famiglia "al completo."
Era sempre stato un ragazzino chiuso ed isolato, forse perché nel corso degli anni si era creato una spessa coltre di ghiaccio fra lui ed il mondo esterno e proprio grazie a quella corazza, a quella sottospecie di barriera protettiva, egli si sentiva al sicuro: aveva ormai il suo piccolo mondo da difendere e preservare.
Il cielo si tinse pian piano di un tenero colore aranciato e finalmente si sollevò una brezza fresca a mitigare quel clima così fermo e caldo. Alcuni bambini se l'erano già svignata, altri aspettavano soltanto le loro mamme. Questo per Jake, non accadeva mai. Era come se non ce l'avesse, una madre.
Se ne stava sulla torretta dello scivolo assieme ad un suo compagno di scuola: da quell'altezza, sembrava di starsene appostati su di un gran torrione, lontano da tutti e da tutti, con la visuale ben aperta sotto di loro.
“Questo pomeriggio è stato fantastico! Non potevo crederci, quelle auto sono super!” Esclamò Jake con lo sguardo rivolto alla strada che si intravedeva fra le fronde degli alberi. “Papà mi ha detto che quella nera si chiama Porsche. E’ un modello molto vecchio.”
L’amico spingeva gli avambracci sul bordo in legno della torretta e osservava Jake con un flebile sorriso. “A me piacciono le auto sportive.”
“E’ quel che credevo anche io.”
Continuarono a chiacchierare con tale fervore ed entusiasmo da non accorgersi del sole che calava inesorabile e che al posto delle colorazioni aranciate cedeva il passo alla sera scura e dimessa. Il parco era completamente deserto.
Improvvisamente i due ragazzini udirono uno scalpiccio confuso muoversi sulla ghiaia bollente: si volsero entrambi e con terrore notarono che tre ragazzacci avanzavano con occhi sprezzanti ed aria strafottente.
“Ehi, voi. Scendete immediatamente da lì. Quella è la nostra postazione.” Urlò uno del gruppetto, compiendo minacciosamente un passo in avanti.
Jake mandò giù la saliva e strinse i pugni con vigore. “Non c’è scritto mica il vostro nome. Noi rimaniamo qui quanto ci pare e piace.” Anche lui assunse un’espressione di sfida. Non era la prima volta che quei stupidi bambocci tormentavano la tranquillità di quel luogo.
Rui, il compagno di Jake, si precipitò giù dallo scivolo, pregando all’altro di seguirlo. “Dai Jake, questi ci ammazzano di botte, scendi e non fare l’eroe!”
Ma il piccolo biondino non aveva alcuna intenzione di demordere, né tantomeno di arrendersi di fronte a quei brutti ceffi. Una folata di vento gli scompigliò i capelli, poi quando tutto tacque, le punte gli sfiorarono nuovamente le guance. Era un bambino così magro e gracile che non avrebbe fatto paura a nessuno: sembrava come un tenero fuscello pronto a spezzarsi in qualsiasi istante.
“Guardatelo, sembra una femminuccia con quei capelli!” Un coro di risate tuonò fragoroso e terribilmente fastidioso nel silenzio della sera.
“Si, hai ragione.” Il ragazzino sputò a terra e si pulì le labbra con l’avambraccio. “Facciamogli vedere chi comanda qui.” Detto così, infatti, i tre si slanciarono lungo le scale e accerchiarono il povero Jake, che nella frenesia del momento sentì la sua gola farsi sempre più secca: le parole per controbattere faticavano ad uscire dalle sue labbra, incapaci di articolare anche il suono più flebile.
“Che c’è, il gatto ti ha per caso morso la lingua?”
Jake fu come paralizzato. Tremava, si sentì irrimediabilmente debole contro quei ragazzi più grandi di lui d’un paio d’anni. Li osservava dal basso, loro dall’alto della loro strafottenza parevano dei colossi pronti a schiacciarlo. Quello più robusto lo afferrò per il colletto della t shirt e lo spinse con violenza sul bordo dello scivolo, poi lo scaraventò giù con un colpo, incurante delle resistenze del piccolo biondino.
Il bimbo sentì le ossa scricchiolare dopo il violento impatto col suolo. Gli occhi iniziavano a bruciare, la vista si offuscava. Quando si sollevò, dolorante, vide che stavano malmenando Rui.
“No! Lasciatelo! Vi prego, lasciatelo!” Gridò Jake, stringendo i denti sulle labbra salate: le guance erano piene di lacrime. Strinse i pugni, riempiendoseli di terra. “Lasciatelo!”
Rui era ridotto ad un colabrodo, stramazzava al suolo e boccheggiava, pieno di lividi e sangue: uno straccio incapace addirittura di reclamare un aiuto. Il ragazzino che lo stava picchiando più degli altri si sfilò un coltellino dalla tasca dei pantaloni e Jake non poté fare nient’altro che assistere, ad occhi sgranati. Imbelle, mentre si compì quel tragico incidente.
In una frazione di secondo quella lama si piantò dritta nello stomaco di Rui ed un irruento fiotto di sangue schizzò sul viso del piccolo omicida, egualmente scioccato per il gesto inconsciamente compiuto.
Con la rapidità di un fulmine, quei tre si dileguarono, lasciando Jake e Rui soli in quel parco che pareva essere abbandonato da tutti.
Fra i due piccoletti c’era la distanza di qualche metro: Rui era riverso in terra ed il suo volto portava un’espressione placida e serena, mentre Jake, completamente inebetito, percepiva il suo respiro farsi sempre più rapido. Cercava ossigeno, cercava la vita, quella vita flebile che era appena stata strappata di fronte ai suoi occhi innocenti.
Sentì una voragine risucchiargli il cuore e la paura fu talmente totalizzante che le sue gambe schizzarono e con un rapidissimo movimento scattò verso l’uscita del parco, correndo via e lasciandosi per sempre alle spalle il suo più caro amico.
Era un fallito, non era stato in grado neanche di soccorrerlo.
 
 
 
 
 
Jake tirò fuori dalle tasche dei pantaloni un grosso mazzo di chiavi e si sollevò in punta di piedi per aprire la porta di casa: il padre utilizzava l’abitazione come se fosse un albergo e spesso non c’era. Ma quella sera, proprio quella stramaledetta sera, la luce nel salone era stranamente accesa e il piccolo aveva già sentito le risate di una donna e il televisore a basso volume che diffondeva stronzate a valanga: suo padre era uno di quelli capaci di sorbirsele tutte.
Suo padre, assieme alla sua nuova compagna, Julie.
Difatti non appena il bimbo ebbe varcata la soglia intravide i due stravaccati sul divano, stretti in un abbraccio che non aveva nulla di affettuoso: probabilmente lei era la solita sgualdrina che sfruttava gli uomini soltanto per via del loro portafogli. Ma queste cose Jake non poteva ancora comprenderle appieno. Sapeva soltanto che l’odore nauseabondo di quelle sigarette che entrambi fumavano a ripetizione, gli dava ai nervi. Per non parlare poi delle numerose tracce di rossetti che trovava in giro per casa o sui vestiti del padre.
Era tutto uno schifo. Ogni cosa.
“Papà, sono a casa.” L’uomo inspirò e poi diede una sbuffata di fumo.
“Me ne sono accorto. Julie ti ha preparato qualcosa per cena. Ehi, ma si può sapere che hai fatto?”
Il piccolo mostrava le gambette piene di lividi e il viso era ancora caldo e incrostato di lacrime secche mescolate a terra e polvere.
“Vatti a dare una lavata, fai schifo, Cristo.” Aggiunse Takashi sprezzante. Un paio di profonde occhiaie gli solcavano entrambi gli occhi, terribilmente gonfi e rossi. Probabilmente era fatto di cocaina, o di altre schifezze che gli procurava Julie.
Jake abbassò timidamente il capo, nonostante le palpebre non fossero più in grado di trattenere quei lacrimoni che oramai gli inondavano le pupille verdi. Strinse i denti ed annuì, con la coda fra le gambe, sconfitto.
Aveva bisogno di lui, aveva bisogno di una carezza, di un conforto, di una parola.
Anche soltanto di uno sguardo. Si, gli sarebbe bastato.
Il padre continuava soltanto ad inveire contro di lui e a sputargli il suo odio sul visetto pallido e smorto. “E tagliati quei capelli, sembri una checca!”
Basta. Non una parola di più. Oltretutto anche quella donna aveva preso a fissarlo divertita, come se fosse stato un nuovo fenomeno da baraccone. Al diavolo loro due.
Corse su per le scale con la velocità di un fulmine e si chiuse a chiave nella sua camera, completamente solo ed immerso nel buio. C’era soltanto un affascinante gioco di luci lunari che filtravano dalla tapparella e rotolavano morbidamente giù, sulla moquette.
Jake si sedette a terra e brancolò con le mani per poter raggiungere il telecomando, dopodiché accese la televisione a volume alto, nel vano tentativo di sovrastare le voci di quei due al piano inferiore.
Nella piccola scatola nera, che ad ogni fotogramma diffondeva un tenute bagliore bluastro, veniva proiettata la vittoriosa figura del classico sceriffo dei film Western.
Un sorriso amaro ed intriso di sarcasmo si dipinse sul volto tetro di Jake, oscurato in parte dai ciuffetti che gli ricadevano sulla fronte. In quel preciso istante sentì l’odio germogliare dentro di lui, il piccolo seme della vendetta si impiantò nel suo cuore come un estraneo ben accetto.
Non appena sollevò il viso vide una lunga strada, tortuosa e nera, irta di pericoli e di rami inestricabili. Il futuro era come l’incubo più orrendo che avesse mai vissuto e avrebbe soltanto voluto prenderlo a pugni, con tutta la rabbia che gli ribolliva in corpo. S’alzò dalla sua posizione e tese entrambe le braccia verso il televisore, poi con un colpo secco e violento la spinse giù. La voce trionfante dello sceriffo tacque per sempre e lo schermo esplose letteralmente accompagnato da fumo nero e scintille.
La vita non era come nei film e Jake si sentì tradito da quelle avventure, da quegli eroi, da quei sorrisi, da quella strabordante felicità che trasudava ovunque, su ogni canale.
La realtà era ben diversa da quella che aveva sempre osservato al di là di uno schermo freddo e così dannatamente lontano.
Non appena il televisore cessò di sfrigolare, dentro di lui il suo animo si acquietò; sembrò come se qualcuno lo avesse prosciugato di tutte le forze. Si lasciò ricadere nuovamente in terra e pianse. Pianse per ore, fin quando le lacrime non cessarono automaticamente.
Fuori c’era ancora un gran baccano, ma lui sentiva soltanto un assordante silenzio invadergli l’anima, pervaderlo da dentro ed insinuarsi nelle profondità delle sue viscere, nelle membra.
Quello fu il giorno in cui Jake, comprese che non avrebbe più incarnato il ruolo della vittima indifesa. Era giunto il momento di prendere saldamente le redini di una nuova vita e buttarcisi a capofitto.
Fu l’ultima volta in cui Jake pianse per qualcuno.
Perché non avrebbe più avuto lacrime da versare.  

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Capitolo 2
*** Attraverso il mirino ***


2. Attraverso il mirino

10 anni dopo 


Jake iniziò a detestare la scuola dall’età di dieci anni. Odiava tutto quel che si annidava al suo interno: secondo lui nella struttura scolastica vegetava la feccia della società, fra professori incompetenti e sottopagati, fino a finire al bidello in fondo al corridoio, che al posto di lavorare se ne stava in panciolle a leggersi un libraccio o a fumare sigarette una dietro l’altra. Ma non era soltanto il personale a suscitargli la nausea, il ribrezzo: i suoi compagni erano quanto di più insulso potesse esistere sulla faccia della terra. Aveva preso le distanze da qualsiasi conoscente. Capitava di rado che chiacchierasse con qualcuno.
Verso i diciassette anni, però, la sua condizione di emarginato e di incompreso cominciò a mutare radicalmente ed il piccolo Jake si lasciò scivolare alle spalle il suo passato di vile bimbo innocente.
L’istituto che frequentava in quegli anni era piuttosto rinomato, anche per l’elevato livello culturale e per le lezioni eccellenti che vi si tenevano. In un ambiente così inquadrato, perfetto e coerente, il comportamento di Jake divenne piuttosto famoso, tanto da conferirgli una nomina decisamente importante. Lo conoscevano tutti lì dentro.
Spavaldo, arrogante, presuntuoso ma spesso cinico e calcolatore. Alcuni lo descrivevano come un ragazzo dal portamento altezzoso ed aristocratico: in effetti Jake si considerava una spanna al di sopra di tutti gli altri e proprio in virtù di questa sua convinzione si arrogava il diritto di guardare chiunque dall’alto in basso. Un ribelle, in poche parole. Un ribelle inconsapevole di star compiendo rapidamente il cammino più tortuoso ed infame che un uomo potesse intraprendere nella propria vita.
 
 
 
 
 
La piccola Lily era arrivata in anticipo quella mattina e una volta varcata la soglia d’entrata della sua classe aveva dato un’occhiata veloce: i banchi erano lucidi ed in ordine, le sedie ciascuna al proprio posto, i finestroni in fondo alla parete aperti su di un bellissimo giardino intorno al quale ruotava tutta la struttura. Quel primo giorno si respirava un’aria tiepida e piena di fermento, specialmente per gli alunni che si accingevano a frequentare il Liceo per la prima volta. Lo ricordava bene il suo approccio con quella scuola: era così timorosa e chiusa, così fragile e debole che chiunque, se avesse voluto, avrebbe potuto spezzarla come un ramoscello morbido e friabile. Ma quell’atmosfera le infondeva tanta voglia di fare e di studiare, di apprendere cose nuove e di sperimentare interessanti esperienze. Voleva godersi quel penultimo anno e dare il meglio di sé per conseguire ancora degli ottimi risultati.
Volteggiò fra i banchi fino a prendere il proprio: posatovi lo zaino infatti, quella postazione fu sua. Poteva stare vicino alla finestra, cosi che se avesse voluto, avrebbe potuto volgere il capo durante le lezioni e dare uno sguardo alle bellissime piante che crescevano rigogliose nel giardino.
Si sedette e trasse un grande respiro, empiendosi i polmoni di quel fresco odore di pulito. Dopodiché si alzò nuovamente e raggiunse la porta.
Sostando presso l’entrata poteva dispiegare il suo sguardo lungo il corridoio, che inevitabilmente iniziava a popolarsi di studenti di tutte le età. Un gran sorriso le illuminò il visetto dalla pelle chiara, attorniata da una deliziosa chioma di capelli biondo cenere. D’improvviso però, quelle minuscole pieghette agli angoli delle sue labbra scomparvero lentamente, lasciando spazio a un paio di occhioni verdi completamente spalancati e tersi: lungo il corridoio riconobbe la figura di Jake.
Il ragazzo camminava al centro del corridoio e la sua lunga chioma bionda era ripartita in grandi ciocche che gli ricadevano lungo la schiena. Indossava un paio di pantaloni scuri e una t shirt nera che aderiva perfettamente al suo corpo magro ed asciutto. Non appena fu vicino a lei, Lily non poté far altro che deglutire a fatica, notando immediatamente quanto fosse alto. Sfiorava il metro e novanta ed oltre ad essere ben piazzato aveva un paio di occhi verdi che la fecero raggelare.
“Quando la finirai di fare la maestrina, Lily? Passano gli anni ma tu non cambi mai.” Borbottò lui riservandole una bieca occhiataccia, poi si fece avanti e le diede uno strattone per poter entrare in classe. Il ragazzone andò a sedersi proprio dietro al banco della ragazza e con fare disinvolto accavallò le gambe sul piano appena lucidato.
Lily parve parecchio contrariata da quel gesto ma non ebbe il coraggio per controbattere o per rammentargli come dovesse comportarsi: aveva paura delle sue reazioni impulsive e più di tutto la terrorizzavano le storie che si raccontavano sul suo conto. Peggiorava di anno in anno.
“Che intendi per maestrina?” Sibilò mentre compiva qualche passo nella sua direzione.
Jake sfilò dalla tasca dei pantaloni un pacco di sigarette e se ne sfilò una, noncurante che in classe non si potesse fumare. Si prese del tempo per rispondere a quella ragazzina e se la accese con estrema lentezza. Infine, quando la portò fra le labbra e ne trasse una lunga tirata, i suoi occhi di ghiaccio si piantarono in quelli di lei.
“Hai sempre quest’aria da sottuttoio che mi da francamente ai nervi. Sempre così perfettina. Ce l’hai il ragazzo?” Chiese Jake, con una sottile vena di sarcasmo nel tono.
La ragazza si appoggiò contro il bordo di un banco e si maledì per essere arrivata così presto. Le sue gote presero a colorarsi di un tenue rossore. “Veramente si. Mi sono fidanzata con Robert.”
A quelle parole il biondo spirò il fumo in aria e alcuni ciuffi di capelli gli ricaddero sulla fronte. “Ma Robert di classe nostra?”
“Già, proprio lui.” Ammise.
“Non posso crederci. Ti sei messa con quell’idiota?” Jake assunse un’espressione vagamente divertita e Lily non poté non notare il suo sguardo diventare sempre più invadente: la fissava e seguendo i suoi occhi si rese conto che guizzavano sul suo corpicino, sulle gambe, poi nuovamente sul viso. Si sentì in imbarazzo.
“Ma no, non dire così. Non è un idiota. E’ un bravo ragazzo.”
“Bravo ragazzo? Bellezza, ti conviene levarti il velo che ti copre gli occhi.” Osservò Jake con estrema naturalezza. Lily non riuscì però a controbattere poiché dalla porta cominciarono ad entrare altri studenti. Quella conversazione fu stroncata momentaneamente e la ragazza poté finalmente tirare un bel sospiro di sollievo. Era difficile tenergli testa.
 
 
 
 
 
La campanella sancì finalmente il termine delle lezioni e una grande massa di studenti si riversò all’uscita dell’edificio. Jake, con la sua tracolla in spalla dovette sgomitare per farsi largo fra quella marmaglia esagitata.
“Dannazione, levatevi di mezzo.” Quei marmocchi delle prime sezioni stavano sempre fra i piedi. Scese le scalette d’ingresso e un fiotto di sole lo accecò: si portò l’avambraccio contro la fronte e avanzò fra le altre persone, solitario come sempre.
“Oh guardate chi c’è!” Un ragazzaccio alto e dall’aria strafottente si avvicinò al biondo, seguito dai suoi due fidati scagnozzi. Robert aveva una bella chioma nera e un paio d’occhi azzurri che avrebbero conquistato qualsiasi ragazza dell’Istituto. Un latin lover con la fama dell’attaccabrighe.
Jake sembrò non curarsi del nuovo arrivato, ma anzi, si ravvivò i capelli biondi che nuovamente discesero lungo la schiena, poi con estrema nonchalance si apprestò a continuare il suo cammino lungo il vialetto alberato.
“Ehi, brutto stronzo, sto parlando con te.” Robert lo raggiunse nuovamente e lo afferrò per un polso, dandogli uno strattone violento. A quel punto Jake si volse di scatto e i suoi occhi si iniettarono di sangue: con un gesto altrettanto deciso si divincolò dalla presa e gli sferrò un pugno in pieno viso. I due suoi amici indietreggiarono di qualche passo.
“Si può sapere che diavolo vuoi, Robby?” Lo canzonò Jake, serrando i denti ed osservandolo mentre tentava di riprendersi da quel colpo. Non appena il ragazzo si tastò il viso, si rese conto che l’altro gli aveva praticamente rotto il setto nasale. Il sangue gli scivolava lungo le labbra, colando poi dal mento. “Dannato bastardo. Te lo dico io cosa diavolo voglio.” Robert ringhiava furiosamente e con uno scatto si slanciò verso Jake per contrattaccare.
Noncuranti dei pochi passanti a quell’ora, fra i due si svolse una violenta colluttazione, al termine della quale Jake si ritrovò con le spalle contro il muro e con qualche graffio che gli solcava la guancia sinistra. Entrambi ansimavano, si sfioravano l’un l’altro e si tenevano perché nessuno dei due potesse svignarsela.
“Jake, te lo dirò una volta sola. Lascia in pace Lily.”
Dopo quelle parole minacciose e piene di astio, il biondo si lasciò andare ad una risata sommessa. “Vorrai scherzare? Quella maestrina non avrà neanche baciato un ragazzo in vita sua.” Robert era davvero malconcio, poteva permettersi di replicare in maniera piuttosto altezzosa.
La risposta infatti non mancò di suscitare nel ragazzo moro un moto di rabbia e di stizza, a seguito della quale abbandonò la presa e si allontanò.
“Io ti ho avvisato, Jake. So che ti diverti a far soffrire le ragazze, ma con lei non attacca. Mettitelo bene in testa.” Con tanto di indice puntato ed occhi stretti in due fessure, Robert sentenziò questa minaccia e si dileguò rapidamente.
Jake scosse il capo e si accese una sigaretta, portandosela fra le labbra.
Quell’ultimo frase aveva risuonato nella sua mente non come un monito, ma al contrario, come una stimolante sfida da affrontare.
 
 
 

 
Jake camminò ancora a lungo prima di poter raggiungere la stradina della sua villetta: il padre era incredibilmente ricco e alle spalle aveva un patrimonio immenso. Da piccolo aveva creduto che tutti quei soldi derivassero da un lavoro nobile ed onesto ma col tempo si rese conto che non era assolutamente così e che le cose stavano diversamente: dietro allo spaccio di droga, ad appalti truccati, omicidi e furti c’era sempre lui. In un modo o nell’altro quell’idiota era sempre coinvolto in affari loschi.
Soltanto dopo anni riuscì a capire che il padre non era quell’uomo comune che aveva sempre conosciuto, ma che al di là delle sue vesti si celava l’identità di uno dei capi più temuti della mafia giapponese, la Yakuza. Lo testimoniavano inoltre gli innumerevoli tatuaggi che percorrevano la sua schiena, fra grandi draghi dalla tortuosa coda lunga e stravaganti disegni tribali.
Il biondo ripensava continuamente alle parole di disprezzo che gli aveva propinato fin da quando era solo un bimbo e più ci ripensava, più l’odio cresceva oltre ogni limite. Lo odiava.
Fra mille ed altri pensieri, egli non si accorse neanche della voce che proveniva alle sue spalle, tuonante fra i versi incessanti delle cicale.
“Jake! Mi senti?!” Una piccoletta gli si affiancò, col fiato corto per aver corso a lungo.
Il ragazzo volse il capo e sembrò quasi cadere dalle nuvole. “Lily? Che c’è?”
Dopo aver deglutito ed aver ripreso parte del respiro che le mancava, lo guardò dritto negli occhi. “Mi dispiace Jake, davvero, mi dispiace!” Congiunse le manine contro il petto, supplichevole.
A quel punto il biondo credette di non aver afferrato il senso di quella conversazione, così si limitò a sollevare le sopracciglia, interrogativo.
“Robert! Avevi ragione su di lui. E’ un idiota. Gli avevo semplicemente detto che avevamo parlato e si è fatto strane idee e ti è venuto a cercare e oddio io …”
Jake le strinse le mani sulle spalle e la osservò: quello sguardo così profondo e quella presa inaspettata stroncarono completamente il discorso concitato della ragazzina.
“Non preoccuparti, va tutto bene.” Quelle parole ebbero il potere di concludere la conversazione, tanto che Lily si perse completamente negli occhi verdi di Jake. Era ipnotizzata, inebetita.
Quando le mani di lui sciolsero la presa ella si sentì sollevata e sorrise, dapprima incerta, poi fu più convinta. “Grazie comunque. Sospettavo che fosse un imbecille. E alla fine si è rivelato per quello che è.”
Il biondo annuì lievemente e poi infilò entrambe le mani nelle tasche, in procinto di andarsene.
“Jake, aspetta. Senti magari qualche giorno possiamo vederci e studiare insieme, ti va?” La voce le si strozzò in gola, il suo cuore perse un battito e rimase in attesa, scrutando i suoi occhi per carpire una qualche risposta, un’emozione, un battito di ciglia. Ma dalla sua espressione cupa non traspariva nulla di tutto ciò.
“Non credo sia il caso.”
Le sue parole furono gelide. Lily strinse i pugni e annaspò, prima di rispondere nuovamente. “Magari non a studiare. Ho saputo che sei un appassionato di armi, mio padre ha un fucile ad aria compressa. Potresti … insegnarmi come si usa.” Rise, nervosa.
Finalmente vide negli occhi di Jake un brillio insolito, poi un sorrisetto, a suo parere delizioso, delinearsi sulle labbra. “Dici che potremmo usarlo?”
“Certo!”
Jake le si avvicinò nuovamente e la osservò. “Quando?” D’un tratto era sembrato molto interessato a simile proposta, talmente interessato che lei dovette quasi indietreggiare.
“Anche oggi pomeriggio. Se ti va.”
“Allora ci vediamo oggi pomeriggio alle quattro.”
“Ok, oggi pomeriggio alle quattro. Va benissimo. Ciao Jake!” Lily si voltò e corse via.
Che strana ragazza, pensò lui rientrando in casa e posando la sua tracolla sul divano. Il padre era già a casa e non appena il figlio varcò la soglia lo richiamò per appurare che si trattasse di lui. L’uomo comparve presso lo stipite della porta del salotto e lo osservò dall’alto in basso.
“Ancora quei capelli lunghi? Quando te li taglierai?”
Jake gli rivolse un’occhiataccia: quella camicia fucsia che aveva addosso era quanto di più schifoso avesse mai visto. “E tu quando smetterai di indossare quella robaccia? Comunque no, non li taglio. E no, non entrerò nella Yakuza dopo di te. Ci si vede.” Fece un lieve cenno e lo superò per poter salire le scale. Il padre voleva che il figlio seguisse le sue stesse orme ma purtroppo per lui era fuori discussione.
Non voleva diventare un fallito. Non voleva soldi e potere. Né tantomeno la gloria. Quello a cui agognava era qualcosa di ben diverso, seppur così maledettamente simile.
“Farai una brutta fine, Jake.” Concluse il padre. “Sei un idiota.”
Il biondo rise sommessamente e si morse il labbro. ‘Quello a fare una brutta fine sarai tu, caro paparino.’
 
 
 
 
 
Lily era sola a casa poiché entrambi i suoi genitori lavoravano fino a tarda sera. A causa di questa necessità era diventata piuttosto autonoma e sapeva ormai badare a se stessa: cucinava, stirava, lavava i vestiti e svolgeva tutte le faccende domestiche come una brava mogliettina. Certo, era una vita dura, ma almeno poteva essere più indipendente rispetto alle sue coetanee.
Si muoveva avanti e indietro nel salotto e di minuto in minuto rivolgeva dei brevi sguardi all’orologio che troneggiava sulla parete, sopra a un bel vaso di fiori.
Erano le quattro meno cinque e lei non sapeva davvero come comportarsi con un tipo come Jake.
Eppure le piaceva. Dopotutto era davvero un ragazzo affascinante. Forse il suo carisma magnetico era dovuto proprio al suo essere così schivo e apparentemente disinteressato. Inoltre aveva sempre avuto questa propensione verso il ruolo della “crocerossina” che si impegna per liberare e salvare le anime dannate e Jake pareva proprio il tipo in cerca del suo aiuto. Non sapeva che quella volta sarebbe stato inutile.
D’improvviso il trillo del campanello la fece letteralmente sobbalzare. “Arrivo!” Corse alla porta e la aprì. Per poco non le si mozzò il fiato in gola.
‘Mamma mia che figo.’ Pensò lei, osservandolo per qualche istante. Stava proprio bene con quella t shirt bianca e quei pantaloni scuri. Forse era la prima volta che indossava qualcosa di diverso dal nero. “Prego, entra pure.” Balbettò lei.
Jake la guardò solo per qualche secondo, poi spaziò altrove e osservò la sua casa, per quel che si poteva vedere dall’ingresso: sembrava spaziosa, ampia, essenziale ma carina.
“Sei sola, vero?”
Lily trasalì un istante. “Si. Perché?”
“Sembra molto simile a casa mia. Non c’è quasi mai nessuno.”
“Davvero? E tuo padre?”
“Mio padre è uno Yakuza.” Affermò il biondo con naturalezza, poi sprofondò le mani nelle tasche e cominciò a gironzolare per casa.
“Cosa? Stai scherzando, vero?!” La ragazzina lo seguiva. La stava inquietando parecchio.
Lui si fermò proprio presso l’entrata del giardino al pianterreno.
“Ti sembro uno che scherza? Purtroppo capitano le disgrazie in famiglia. Mio padre è una di quelle. Ma comunque non me ne faccio un problema. Anche perché presto lo risolverò.”
La biondina fu molto imbarazzata e preferì non rispondere. Non volle prolungare ulteriormente quel discorso, ma il fatto che il padre fosse un mafioso la mise subito sulla difensiva. “Non mi hai risposto comunque. Vuoi qualcosa da bere, da mangiare?”
“No.”
“Bene, allora aspettami in giardino. Ti mostro il gioiellino di mio papà.”
Jake entrò in giardino e si mise a perlustrare la zona: il pavimento era interamente piastrellato da grandi mattonelle in cotto e tutto era perfettamente ordinato, l’erba tagliata da poco e grandi alberi a fare da schermo a vicini troppo indiscreti. Si appoggiò contro il muretto e sollevò un ginocchio, poi si accese una sigaretta. Gli uccellini cinguettavano sopra le fronde e volteggiavano di tanto in tanto fra i rami.
“Eccomi.” Lily comparve oltre la grata imbracciando un bel fucile di precisione, evidentemente pesante data la sua espressione sofferente e la goffaggine con cui lo reggeva: l’altra mano era impegnata a trattenere le scatole di piombini. “Aiuto! Casca tutto!” Disse divertita.
Jake si sfilò la sigaretta di bocca e le diede una mano a posare le cose a terra, poi riprese nuovamente l’arma fra le mani. La guardava meticolosamente, mentre Lily era intenta a guardare invece il biondo, che nella concentrazione era ancora più bello.
“Allora che dici, ti piace?”
“Beh, proviamolo.” La guardò negli occhi e ci fu un insolito silenzio, apparentemente incolmabile.
Dopodiché Jake si allontanò e si schienò contro il fusto di un albero, poi imbracciò il fucile e lo strinse saldamente a sé, calando lo sguardo oltre l’ottica. C’era un bersaglio fissato sul lato opposto.
Lily rivolse lo sguardo presso il crocicchio nero, poi verso di lui. La sua posizione lo faceva sembrare un professionista, tanto che fu stupita dalla dimestichezza che aveva con quell’arma. Era così sicuro di sé, immobile, concentrato. Il dito era fermo contro il grilletto. Lo sentiva che respirava ancora. Anche l’aria, ad eccezione di un lieve venticello, era sospesa. Il momento prima che il proiettile fuoriesce dalla canna è sempre così: carico di adrenalina.
Partì un piombino. Il primo colpo non fu dei migliori, ma Jake sorrideva, entusiasta.
“Maledetto. Il vento mi ha fregato.” Sussurrò.
“Dai, riprova!” Lo incitò Lily: stavolta preferì avvicinarsi a lui per osservare meglio il suo secondo tiro. Stava ricaricando l’arma: il piombino calzò perfettamente, poi puntò nuovamente verso il bersaglio. Lily lo sentì respirare in maniera controllata e flemmatica. Rabbrividì.
Il secondo colpo fu degno di un esperto.
“Bravo Jake, te la cavi eh! Ma come fai a sapere tutte queste cose?”
Jake si rilassò e appoggiò il fucile a terra, contro il fusto dell’albero. “Riviste. Non è difficile leggere roba di questo genere.”
“Posso provare?”
“Fa pure.”
In realtà Lily non sapeva proprio da dove cominciare: afferrò quell’aggeggio e lo sollevò. Ma come diavolo faceva Jake? Fra le sue braccia pareva così incredibilmente leggero. Cercò di imitare il ragazzo e quindi di adottare la sua stessa posizione di tiro. A quel punto si sentì come abbracciata; il biondo era alle sue spalle e la avvolgeva da dietro con entrambe le braccia. Le sue mani scivolarono ai polsi di lei e la “guidarono” nell’assumere la corretta impugnatura.
“Stai morbida.” Sibilò, proprio affianco al suo orecchio. Lily deglutì con fatica.
“S-si. Ci provo.” Sorrise. ‘Se continui a bisbigliarmi così e a tenerti avvinghiato come un polipo non riuscirò a muovere neanche un muscolo!’
Jake era piuttosto consapevole che lei fosse imbarazzata, ma non se ne curò molto. La accompagnò in ogni suo gesto. “Devi controllare il respiro, poi quando ti senti pronta raggiungi piano il grilletto con l’indice. Trattieni il fiato e lo premi dolcemente.”
Lei annuì. Fece quanto detto ma il colpo fece cilecca.
‘Che incapace.’ Jake rise. “Dai, su. Puoi fare di meglio.” Le strinse nuovamente i polsi. “Sei troppo tesa, diamine. Rilassati.”
“Se, una parola.” Non ci riusciva proprio, a rilassarsi. Lo sentiva respirare dietro di lei, un caldo sospiro le solleticava il collo e la clavicola, sentiva il suo petto contro la schiena e … Si staccò come d’istinto. “Dai, tieni, fai tu. Io sono davvero negata.”
Il biondo sorrise. Quegli occhi erano smaliziati e … Crudeli?
Trascorsero l’intero pomeriggio a sparare, tanto che Jake consumò un buon numero di piombini ma realizzò un altrettanto buon numero di centri. Era davvero un asso con quel fucile.
Gli piacque immediatamente l’idea di fare fuoco da distanza lontane: lo intrigava la possibilità di poter sparare silenziosamente dei proiettili che, pronti a fendere con un sibilo l’aria rarefatta, avrebbero colpito l’obiettivo con discrezione e segretezza.
Ora era lui a starsene sul torrione e ad avere il pieno controllo sul mondo sottostante, ignaro della sua presenza, ignaro di un occhio felino che lo osservava attraverso le lenti di un mirino.
Doveva frequentare più spesso quella ragazza.   








Salve salvino gente! :)
Spero vi sia piaciuto anche questo capitolo. Diciamo che sto ripercorrendo un po' qualche evento saliente.
Io Gin/Jake me lo immagino come un ragazzo abbastanza comune, ma già con delle piccole prerogative che lo rendono differente da tutti gli altri. 
Sarei davvero curiosa di sapere cosa ne pensate! :) Diciamo che il vostro parere sarebbe fondamentale per migliorarmi sempre di più!
Un grande bacione a tutti coloro che hanno inserito la storia nelle seguite/preferite e coloro che hanno recensito!
Grazie davvero.
<3 Al prossimo capitolo! ;)

Aya_Brea

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Capitolo 3
*** A sangue freddo ***


3. A sangue freddo



Quella mattinata scolastica sembrava non voler più volgere al termine: l’ora di biologia, seppur di sessanta minuti, si stava prolungando all’inverosimile e Jake non riusciva più a seguire le parole del professore, che nella sua mente avevano perso completamente un qualsiasi filo logico: gli parevano tante frasi sconnesse che di tanto in tanto giungevano soltanto a disturbare la sua mente, troppo intenta a pensare ad altro.
Il biondo incrociò le braccia contro il petto e volse il capo altrove, incontrando con lo sguardo i volti annoiati e stremati dei ragazzi delle altre sezioni, i cui pallidi occhi smorti rilucevano al di là delle finestre. Dando un’ulteriore occhiata nella sua classe non mancò di incontrare visi simili. Non c’era nulla da fare: l’ultima ora era sempre distruttiva. Una buona parte della classe fingeva di seguire la lezione, altri invece, incuranti dell’insegnante, disegnavano o scarabocchiavano incantevoli ghirigori sugli angoli dei quaderni, altri ancora cercavano di intavolare fugaci e frammentate conversazioni.
Jake posò lo sguardo sulla schiena di Lily e la vide invece attenta: prendeva appunti, reclinava poco il capo sul foglio e la sua manina procedeva speditamente e senza indugi. Pareva quasi che la penna fosse dotata di un’anima che le permettesse di proseguire autonomamente.
“Lily.” La voce del ragazzo alle sue spalle era incredibilmente bassa e suadente. Un brivido le percorse la colonna vertebrale e inavvertitamente la calligrafia si inceppò. Volse appena il busto e incrociò lo sguardo penetrante di Jake. “Ehi, dimmi.”
“La vuoi piantare di seguire quell’idiota? Dai, parliamo un po’.” Si stava evidentemente annoiando.
Lily sorrise a malapena, ma dalla sua posizione terribilmente incerta trapelava il timore di essere scoperta a chiacchierare col suo compagno. “Tra poco è quasi finita l’ora, su. Mi interessa questa lezione.”
“Più di me?”
Quell’azzardo le fece arrivare il cuore in gola. “No, ma che stai dicendo? Senti, facciamo così. Oggi a pranzo sono sola, se vuoi puoi venire da me, così parliamo tutto il tempo che ci pare, va bene?”
Il ragazzo dai lunghi capelli biondi le riservò un perfido sorrisetto. “Secchiona inutile.” Eppure nel suo tono non c’era neanche un briciolo di ironia: quell’affermazione aveva tutta l’aria di essere una pesante offesa. Lei abbassò piano il capo e tornò ai suoi appunti. Le tremavano le mani. Gli avrebbe volentieri mollato un ceffone.
Mezz’ora più tardi la campanella sancì la fine della lezione e come sempre i ragazzi abbandonarono i loro banchi con rinnovato entusiasmo. Lily mise in ordine le sue cose e infilò i quaderni nello zaino con estrema lentezza: ci era rimasta davvero male.
D’un tratto Jake le si avvicinò, proprio nel momento in cui tutti avevano lasciato l’aula. Erano soli.
“Vuoi darti una mossa?”
“Sei uno stronzo, Jake.” Farfugliò lei mentre i singulti la scuotevano tutta. Il ragazzo comprese al volo che se l’era presa per la precedente affermazione, nonostante non potesse osservarla in viso. Così le si avvicinò e le cinse la vita con entrambe le braccia. “Guarda che scherzavo.” La sua voce divenne un sussurro.
“Che scherzo di cattivo gusto. Lasciami, non toccarmi.” La presa si affievolì, fino a sciogliersi definitivamente.
“Come vuoi.”
“E pensare che avevo anche una bella proposta da farti.” Aggiunse lei con tono rammaricato e colmo di rancore. Ma quel tono destò nuovamente la curiosità di Jake, il quale non mancò infatti di chiederle ulteriori informazioni.
“I miei hanno casa al mare, non lontano da qui. Pensavo che potresti venire con noi. Magari invito un altro paio di amici di classe e andiamo a passare il week end lì. La stagione ce lo permette ancora, per fortuna.” La piccoletta biondina si mise lo zaino in spalla e col capo reclinato all’indietro osservò il ragazzo. Era decisamente troppo alto per lei.
“Ci sto. A patto che tu ti tolga quel muso lungo.”
Lily sorrise.
 
 
 
 
 
Il week-end non tardò ad arrivare e con esso le tanto agognate vacanze. Anche se i ragazzi avevano soltanto pochi giorni a disposizione, si sarebbero divertiti ugualmente. Per quell’anno, avrebbero salutato il mare con la promessa di farvi ritorno l’estate successiva.
Dopo aver posato gli zaini a casa di Lily, i cinque compagni di scuola si recarono in spiaggia: data la stagione ormai agli sgoccioli, la gente era veramente poca. Il manto sabbioso si stendeva a perdifiato di fronte a loro e il mare infinito, placido e limpido, pareva ancor più caldo e affascinante. Le luci dell’alba si rifrangevano nell’atmosfera, creando un insolito clima di calma e serenità.
Sull’orizzonte rotolavano come mille scintillanti diamanti, i riflessi dei raggi del sole.
“E’ tutto nostro!” Lily allargò le braccia e compì una giravolta su se stessa, alludendo al fatto che in quel luogo sconfinato vi fossero soltanto loro. Rivolse uno sguardo a Jake e lo vide fermo lì al suo fianco: i suoi occhi verdi erano come persi in quell’oceano trasparente.
“Jake? Ci sei?”
Lui annuì poco dopo. “Pensavo.” Dopodiché si sfilò la maglietta nera e rimase soltanto col costume scuro, uno di quei modelli stile bermuda che tanto andavano di moda. Lily non poté non osservarlo con ammirazione: aveva un fisico perfetto. Era magro e asciutto, ma i muscoli non gli mancavano di certo, specialmente nella parte della fascia addominale. Quei suoi capelli biondi rilucevano di platino. “Wow, complimenti Jake.” Le scappò.
Lui rise sommessamente e si sfilò dalla tasca del costume il pacco delle sigarette, poi se ne portò una alle labbra. “Mi sto allenando per diventare un killer professionista.” Con un rapido gesto fece compiere un volo al pacchetto di Lucky Strike e poi guardò la ragazza.
“Bella questa! Sei sempre il solito scemo.” Lily si sfilò il vestito e lasciò che anche il suo corpicino ricevesse il sole del mattino.
‘Non male, però.’ Pensò Jake, osservandola.
 
I ragazzi continuarono a conversare, poi si sdraiarono sugli asciugamani e si presero qualche ora di dovuto riposo. L’aria era ferma, sonnecchiare sulla sabbia calda era davvero piacevole: oltretutto regnava il silenzio, inframmezzato soltanto dalla melodia tenue delle onde del mare, spumose e lente come a voler creare una flebile ninna nanna.
Qualche ora più tardi però, comparve all’orizzonte un uomo. Aveva tutta l’aria di muoversi verso il loro ombrellone.
Lily sollevò il capo e riconobbe la camicia celeste e i pantaloni neri indossati da quel tizio che via via si faceva sempre più vicino. Era suo padre.
“Papà! Che ci fai qui?” La biondina si alzò in piedi e assunse un’espressione contrita. Non doveva essere particolarmente contenta di quella visita inaspettata. “Ti avevo già detto di non venire. Sono con gli amici.”
Jake si rigirò più volte e poi si soffermò ad osservare l’uomo che conversava amabilmente con la figliola: a giudicare dalla sua uniforme doveva essere un poliziotto impegnato nel suo abitudinario giro di ronda. Intorno alla vita aveva avvolta una fondina e una pistola e fu proprio quel particolare a destare la sua attenzione.
“Bambina mia, quante storie. Ero in servizio e ho deciso di venirti a trovare. Tranquilla me ne vado subito.”
Il biondo si perse completamente nei suoi pensieri e i suoi occhi cominciarono a vagare frenetici fra gli infinitesimi granelli di sabbia che gli stavano ad un palmo dal naso. Con la stessa frenesia spasmodica raggiunse l’ennesima sigaretta e se la accese. Un ghigno perverso gli si era delineato sulle labbra. Sentiva l’adrenalina scorrergli nelle vene.
 
 
 
 
 
Jake e gli altri consumarono la loro intera giornata lì, fin quando le luci della sera non li avevano costretti ad andar via.
Cenarono nei pressi del lungo mare e decisero in seguito di farsi una passeggiata sulla stradina che costeggiava la spiaggia. Era tutto illuminato ma altrettanto deserto. Soltanto i locali pullulavano di persone e di ragazzi. Il mare nero alla loro destra emanava un certo timore reverenziale, ma tuttavia era al contempo affascinante e misterioso.
“Che bello, mi mancava proprio il clima di vacanza. Già mi sono rotto le scatole di andare a scuola.” Commentò uno dei ragazzi che era con loro e che si era incantato nel calciare un sasso lungo il suo percorso.
Lily si unì alla loro conversazione ma non mancò di notare che Jake era proprio alle loro spalle: durante tutta la giornata non aveva fatto altro che isolarsi, fumare e starsene sulle sue. A quel punto dovette rallentare il passo per poter camminare al suo fianco.
“Ehi, va tutto bene?”
Lui aveva le mani in tasca e guardava dritto di fronte a sé. “Perché dovrebbe andare male?”
“Non parli mai con noi.” Il tono di lei era basso e sentito.
Jake si fermò e la costrinse a fare altrettanto. “Mi hanno stancato quei tre. Perché non li lasciamo andare al loro dannato pub e non ce ne torniamo a casa?” Lily schiuse le labbra per poter controbattere ma lui le impedì di proseguire qualsiasi sua frase e interruppe qualsiasi suo pensiero: le aveva afferrato il mento con una mano e col pollice le accarezzava lo zigomo. “Ho voglia di stare da solo con te.” Aggiunse poi sottovoce, di modo che gli altri non potessero sentire. La ragazza percepì chiaramente un vuoto allo stomaco e nel guardare quegli occhi terribili ed enigmatici si sentì come trasportata da una forza a lei estranea: una forza che non le permise di offrirgli un diniego. “Aspettami qui, avverto gli altri.”
 
 
 
 
 
L’oscurità aveva inghiottito ormai ogni cosa, ma non per questo la città marittima si era assopita: fuori dalle abitazioni vi era ancora un gran movimento e se si tendevano le orecchie si potevano udire musiche lontane che testimoniavano lo svolgimento di varie feste notturne e di falò lungo la spiaggia. Una lingua di fuoco si distingueva oltre il cielo nero e nell’aria si era sollevato un gran polverone di sabbia e di fumo. Nell’atmosfera aleggiava ancora l’odore dell’arrosto e della birra.
Jake e Lily si fermarono di fronte alla porta di casa e lei prese a frugare frettolosamente nella borsetta, in cerca del mazzo di chiavi.
Proprio in quell’istante sentì le mani di lui stringersi contro i fianchi ed effettuare una breve pressione. “Muoviti.” La incitò.
Finalmente lei riuscì ad aprire la porta. Il ragazzo non le diede neanche il tempo di accendere le luci che lei si vide premere violentemente contro la porta.
“Oddio, Jake che fai?” Lily non poteva vederlo, ma sentiva il suo respiro sulla pelle e le sue mani scorrere veloci sul suo corpo inerme. Ogni volta che la sfiorava il suo respiro accelerava di poco, poi la lasciava senza fiato. “Dai, almeno accendiamo la luce.” La bionda annaspò nel tentativo di tendere il braccio verso l’interruttore, ma Jake fu abbastanza lesto nell’impedire che ciò avvenisse. Le bloccò il polso e con l’altra mano si insinuò sotto al leggero tessuto della canottiera di lei, sfiorandole la schiena con le dita e scoprendola incredibilmente calda. Lily gemette nel sentire quel contatto così freddo.
Il biondo si spinse contro il suo corpo e dopo innumerevoli baci sul collo trovò finalmente le sue labbra. Nonostante il trasporto lui appariva comunque abbastanza controllato, mentre Lily aveva preso lentamente ad ansimare. Jake le strinse una mano al seno e la sentì mugolare. “Finalmente ti sento viva.” Commentò aspramente e col respiro più corto.
“Jake io non so come dirtelo ma …” Non riusciva proprio a racimolare quelle stupide parole che aveva da dirgli: che doveva dirgli. Aveva paura di sembrare una stupida ai suoi occhi ed era terrorizzata dal giudizio che un tipo spavaldo come lui avrebbe potuto esprimere nei suoi confronti. Improvvisamente le mancò il respiro e un brivido si impadronì del suo corpo non appena Jake sfiorò la sua coscia.
A quel punto fu lui a concludere la sua frase. “Non c’è problema.” Bofonchiò.
“Farà male?”
Lui strinse i denti: gli dava ai nervi. “Stai zitta.”
 
 
 
 
 
In quella minuscola stanzetta era piombato d’improvviso un silenzio quasi innaturale e dalla finestra aperta entrava una piacevole brezza marina, che inoltrandosi furtivamente nella camera, sospingeva le lenzuola bianche del letto.
Jake appoggiava dolcemente la schiena sul davanzale e senza batter ciglio osservava il corpicino nudo di quella ragazza: la luce dei lampioni filtrava attraverso il piccolo riquadro della finestrella e accarezzava le curve sinuose di lei, che ignara della presenza di Jake, dormiva ancora beatamente. I capelli biondi erano sparsi sul cuscino e distinti in grandi ciocche lucide.
Il ragazzo diede una lunga e avida tirata alla sua sigaretta e fece volar via il mozzicone ormai consumatosi. Dopodiché, senza far rumore e con passi felpati, si infilò una t-shirt grigia e ripose nella tasca dei pantaloni quel che aveva cercato a lungo.
Prima di abbandonare la stanza però, egli si fermò per qualche ultimo istante ad osservare Lily, il cui petto si gonfiava ritmicamente e con insolita tenerezza. L’indomani si sarebbe svegliata senza nessuno al suo fianco e quella sua prima volta si sarebbe consumata lì, inutilmente, come quel poco che era rimasto dell’ultima sigaretta di Jake. Soltanto polvere e cenere.
 
 
Alcuni minuti più tardi il ragazzo si ritrovò a percorrere il grande stradone che lo avrebbe finalmente condotto nei pressi del suo quartiere e per grande fortuna lo ritrovò stranamente solitario e silenzioso. Infilò le mani nelle tasche e proseguì lungo i suoi passi col capo sollevato.
D’un tratto però sentì un vociare confuso provenire da uno dei viottoli che si immettevano in quello principale, così rallentò l’incedere della sua camminata e cercò di carpire attentamente le loro parole. Divenivano sempre più nitide e chiare.
“Ma alla fine l’avete vista quella? Era uno schianto!” Una risata fragorosa accompagnò la sua entrata in scena: Robert si parò proprio di fronte alla figura di Jake. Era con un paio di suoi amici di scorribande e tutti e tre avevano l’aria di aver bevuto qualche bicchierino di troppo. Barcollanti e ciondoloni, si avvicinarono al biondo.
“Ma tu guarda che fortuita coincidenza! Parli di schianti e compare questo idiota sul tuo cammino. Jake, maledetto. Io e te dobbiamo parlare.” Robert pareva il più vigile e sveglio della combriccola, ma il suo tono era ugualmente sbiascicato per via dell’alcol. I suoi occhi erano rossi e costellati di microscopiche vene pulsanti.
Jake lo scansò con un violento spintone e senza averlo neanche degnato di uno sguardo tentò di aggirare quel grattacapo. “Vattene a casa, sei ubriaco fradicio.” Sentenziò, gelido.
Non riuscì a percorrere neanche una decina di metri che si vide afferrato brutalmente da quei due ragazzoni: uno lo afferrò per i capelli e un altro lo spinse contro il muro freddo. A quel punto si aggiunse anche Robert, che inizialmente si tenne in disparte. “Ok Jake, ora mi godo io lo spettacolo. Mentre ti massacrano di botte.”
Il biondo schiuse le labbra per poi serrare con forza i denti: arrivò un primo pugno sul viso, poi giunse un altro colpo devastante alla bocca dello stomaco. Jake emise un flebile mugolio di dolore e tossì. Non era la prima volta che faceva a botte con qualcuno: così, egli non mancò di reagire. Nonostante la fitta all’addome fosse tremendamente acuta, riuscì comunque a contrattaccare con un potente destro: la tecnica fu talmente efficace che il primo cadde rovinosamente al suolo.
“Robert, te lo ripeto. Vattene a casa. Non è giornata.” Le parole di Jake erano volutamente distanziate e ‘misurate’. Ma il moro fece un cenno all’amico e questi si scagliò nuovamente contro l’avversario. Stavolta Jake non riuscì a difendersi da una violenta testata, che ebbe l’effetto di fargli battere il capo contro il muro alle sue spalle. Improvvisamente quel che aveva intorno cominciò a girare vorticosamente e nonostante la sua esperienza sul ‘campo’, sentì le gambe cedere e pian piano la sua schiena scivolò giù, grattando contro il calcestruzzo poroso e procurandogli un immenso bruciore.
Robert si avvicinò a lui e dall’alto poteva scorgere gli occhi verdi di Jake fra i molteplici ciuffi di capelli biondi: sprezzanti, cinici, imbevuti di odio e di sarcasmo. Quello sguardo strafottente non l’aveva mai sopportato. Cominciò a prenderlo a calci nello stomaco, fino a fargli sputare sangue.
“Non dovevi toccare Lily. Io ti avevo avvisato.” Continuava ad urlare fra le percosse. Ma ad un tratto egli si sentì una presa salda alla caviglia, poi Jake fece leva e si sollevò in ginocchio: Robert rimase come paralizzato. Paralizzato da quel che il biondo brancolava con la mano sinistra.
“Ma che cazzo fai? Sei impazzito? Posa quella pistola! Parliamone.” Balbettò il moro. Istintivamente si ritrovò a sciogliere la sua presa e l’amico che era con lui decise che era preferibile darsela a gambe. Il vicolo tornò nuovamente buio e solitario.
“Allora? Il gatto ti ha per caso mangiato la lingua? Se sparo non ci sarà nessuno a soccorrerti nel raggio di venti miglia.” La risata perfida di Jake riecheggiò tetra in quella notte ferma. Finì per rialzarsi in piedi, nonostante i colpi subiti e i rivoli di sangue che gli scolavano lungo il mento. Si leccò piano le labbra e la presa alla pistola si fece più salda e decisa.
“Dai Jake, ti prego. Non fare stronzate. Ti ho detto che si risolve. Ti pago. Ok?” La voce di Robert era stucchevole e supplichevole da far schifo.
“Non mi importa nulla. Non voglio i soldi di un ipocrita come te.” Il tono di Jake non ammetteva repliche e il suo indice era vertiginosamente vicino al grilletto. “I tuoi presunti amici se la sono data a gambe e ti hanno lasciato solo. Nessuno piangerà la tua morte. O forse qualcuno ci sarà al tuo funerale.”
“Lily.” Deglutì quell’altro. “Non fare l’idiota, io e te potremmo essere buoni amici e …”
“Mi hai seccato. Salutami il Diavolo da parte mia e digli che sulla terra ha un degno rivale pronto a sfidarlo.” Un ghigno sadico illuminò il suo volto, stranamente oscurato per via della luce notturna. L’indice si adagiò dolcemente contro il grilletto e poi si sentì uno sparo talmente forte da far vibrare l’aria.
Robert si accasciò al suolo crollando con un tonfo sordo e quella scena di morte penetrò nella mente di Jake riportando alla luce i ricordi di quell’omicidio consumatosi nell’oscurità di un parco giochi. Il biondo si fermò ai piedi del corpo ancora caldo e lo guardò: l'adrenalina gli annebbiava completamente la vista, il suo respiro era ancora corto ed irregolare. Cercò di riprendersi velocememente, poi, dopo aver riposto la sua arma si infilò nuovamente le mani in tasca e continuò per la sua strada, lasciandosi alle spalle un cadavere ormai privo di vita.
Doveva sbrigare un’altra, ultima, spinosa faccenda. E non poteva perdere tempo.
Soltanto dopo essersi tolto quell’impaccio sarebbe stato finalmente libero. 








Rieccomi con un altro capitolo :)
Mazza quanto sono stata crudele con Jake, stavolta :( Che ne pensate??? 
Non vedo l'ora di postare il prossimo capitolo ... credo che non avrò più il grattacapo di scrivere 'Jake' (piccolo spoiler.. eheh)... 
Ogni santa volta scrivevo "Gin", per poi rendermi che... non è ancora Gin!!! Ahahaha :) Vedremo vedremo... :P Non vi voglio togliere la curiosità. 
Crudele.. hauahauhauaha
Ringrazio come sempre tutti coloro che si fermeranno anche soltanto a leggere questo esperimentino!
Un bacino grande a tutti quanti i miei lettori :) 
Buone vacanze, alla prossima! 

Aya_Brea


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Capitolo 4
*** Quando il bianco divenne nero ***


4. Quando il bianco divenne nero




Erano le due di notte e come di consueto Takashi si intratteneva con la sua nuova compagna Julie: erano entrambi seduti sul divano e dalla finestra aperta sul salotto proveniva un ventaccio che sollevava qualsiasi cosa presente sul tavolinetto di fronte a loro. L’uomo biondo dovette premere il palmo della mano contro la bustina trasparente ricolma ancora di polverina bianca. Cocaina, molto probabilmente.
“Attento tesoro, se ci vola perdiamo un sacco di soldi.” Proferì la donna con tono languido. Poi lo accarezzò dolcemente sul petto. Entrambi avevano già fatto qualche tirata di quella schifezza, a giudicare dal comportamento disinibito e spigliato che trapelava in ogni loro gesto e in ogni parola.
“Fossi matto! Ho dovuto ammazzare un paio di cazzoni cinesi per guadagnarmi un chilo di questa roba. Ma da una parte meglio così. La Triade ci sta dando troppi grattacapi ultimamente.”
La donna si slanciò verso di lui e salì a cavalcioni sulle gambe di Takashi, poi prese a baciarlo appassionatamente.
Pareva una scenetta di un film di serie B, e questo, Jake, non mancò di notarlo. Mentre loro infatti erano intenti a scambiarsi quelle squallide effusioni, non avevano avuto modo di sentire la chiave girare nella serratura e la porta d’ingresso aprirsi lentamente. Il ragazzo biondo arcuò la mano contro lo stipite della porta e si parò proprio dinanzi a loro, col braccio sinistro sollevato e la pistola stretta fra le dita.
Non appena Julie vide la fisionomia fiera di quell’alto ragazzone compì un balzo e sgranò gli occhi, terrorizzata e “catturata” dall’arma che brancolava a mezz’aria.
“Jake, Cristo! Ma che fai?” Takashi si allarmò e scattò in piedi immediatamente. “Abbassa quella cosa.”
Al biondo parve che quella situazione si stesse riproponendo con le medesime battute che aveva recitato ipocritamente lo stesso Robert, qualche attimo prima: in fondo quei due non erano poi così diversi. Erano dei cani, degli sporchi mercenari scaraventati sulla terra per dare tormento e per sputare idiozie, falsità, menzogne, ipocrisie. Non capiva perché quell’idiota di suo padre avesse creato sogni di carta, avesse sposato sua madre, avesse messo al mondo uno come lui. Proprio non riusciva a capacitarsene. Tutti i sogni che si era creato puzzavano di marcio e di stantio. Perché aveva seminato i germogli di qualcosa che non avrebbe saputo preservare, curare, salvaguardare ed amare? Perlomeno lui, Jake, era coerente.
“Papà, vorrei soltanto farti una domanda.” Il tono di lui era così dannatamente lontano, impersonale, piatto. “Mi spiegheresti perché mi avete partorito? Pura e semplice curiosità, non volermene.”
Takashi roteò gli occhi e scosse nervosamente il capo, come se quella domanda l’avesse disorientato: per qualche istante si sentì come disarcionato per sempre dal suo cavallo. Lui, il grande fantino della Mafia giapponese, era stato sbalzato sul selciato sabbioso e fumante da suo figlio. Il destriero regale che avrebbe sputato sui suoi stessi passi. “Che domande sono, Jake? Lo sai benissimo il motivo.”
Jake sorrise di scherno e poi rivolse uno sguardo sprezzante nei confronti di Julie. “Ma l’hai vista quella lì? Mi basta guardarla negli occhi per capire che razza di abominio sei. Sei solo spazzatura, caro paparino. Abbi almeno il coraggio di rispondere alla mia domanda.” Tornò nuovamente con lo sguardo negli occhi sgranati del padre.
“Credevo che tu potessi seguire le mie orme, figliolo. Ma mi sbagliavo.”
“La verità è che non mi hai mai amato abbastanza. Ma anche se ci fosse una minima possibilità che tu potessi farlo, ora quel tuo amore sarebbe inutile. E lo sai perché?” La stretta contro il calcio della Beretta divenne salda e serrata come la morsa di uno squalo. “Lo sai perché?” Ripeté, accentuando quell’impeto di rabbia con uno strattone violento del braccio.
“No, perché?” Takashi sollevò le braccia in alto, vedendo suo figlio sfigurarsi. Non si era neanche accorto che qualcuno l’aveva probabilmente massacrato di botte: il sangue gli scolava ancora lungo la maglietta. “Perché, Jake? Dimmelo. Non lo so.” Sussurrò a quel punto, imbelle.
“Perché Jake è morto, papà. E’ morto quando ha visto quel suo compagno morire di fronte ai suoi occhi. E’ morto quando mamma ci ha lasciati perché tu ti facevi d’eroina e tornavi a casa con qualche baldracca al seguito. E’ morto quando ti trascinavi il tuo lavoro a casa, quando dicevi a tuo figlio che era un idiota, un incompetente, una checca, un fifone. Jake è morto tanti anni fa. Il Jake che avrebbe potuto amarti non c’è più. E sei stato proprio tu a preparargli la sua sepoltura. Ma dopotutto ti ringrazio per tutto questo. Sembra buffo.” Si morse il labbro dolcemente, come se quel discorso l’avesse preparato durante tutti quegli anni della sua vita acerba. “Non ho più legami, non sarò più schiavo di niente e di nessuno. E sarò libero. Io non ho più bisogno di un fallito come te.” Deglutì. La saliva che aveva in bocca aveva il retrogusto del sangue. “Addio.”
Dopo quella sentenza, Jake premette il grilletto con forza e l’ultimo proiettile di piombo schizzò via dalla canna per andare a perforare il petto di Takashi, il cui corpo fu scagliato contro il divano per via dell’impatto violento. Julie arcuò le dita affusolate fra i capelli e tirò un urlo mostruoso.
“Sta’ zitta, le tue urla mi irritano.” Come se si fosse arrogato il diritto di far fuori chiunque si parasse dinanzi a lui, Jake sparò un altro ennesimo colpo, poi scaricò il caricatore sul corpo di quella donna. Nuovamente calò il silenzio, divenuto ormai compagno delle sue lunghissime giornate. Provò una sensazione indescrivibile di vuoto. Si sentiva appunto, svuotato di qualsiasi cosa.
La libertà era dunque quella? Era quello il sentore e il profumo della libertà?
Sentiva solo tanto freddo. Decise di richiudere la finestra e di andare a rovistare nella credenza per cercare qualche tranquillante. Le sue mani avevano preso a tremare vistosamente per via dell’adrenalina e dell’endorfina che oramai circolava senza sosta nelle sue vene.
Due cadaveri erano rimasti lì nel salone, ma decise di non curarsene ulteriormente; così, allo stesso modo di com’era entrato, Jake uscì dalla porta d’ingresso e fu nuovamente in strada.





Non sapendo dove recarsi si infilò nel primo pub malfamato che aveva incontrato lungo la propria via.
Era uno di quei localacci notturni frequentati dalla feccia più infima della città: malviventi, avanzi di galera, drogati. Perlomeno però, quel luogo gli avrebbe consentito di passare inosservato per il resto della notte. Sicuramente sarebbe incappato in guai molto grossi con la polizia. Non appena il biondo entrò nel locale si vide tutti gli occhi puntati addosso e in un certo qual modo dovette ringraziare lo sguardo criminoso che gli veniva rivolto: era pieno di sangue incrostato sulla maglietta ed era sbattuto come un cencio. Si sedette a gambe larghe sullo sgabello sgangherato al fianco del bancone, poi, come in trance, passò in rassegna le molteplici bottiglie di liquore che troneggiavano sulle mensole dietro al Barman. Nell’atmosfera vi era una cappa di fumo denso e un vociare confuso e rauco. Per non parlare del puzzo d’alcol che impregnava addirittura la mobilia dell’intero pub. Si chiese dove diavolo fosse finito.
“Ragazzo, cosa vuoi? Abbiamo finito tutto, purtroppo.” Il Barman si avvicinò al biondo, pur rimanendo dall’altro lato del bancone. Era intento a pulire un bicchierone in vetro con l’ausilio di una pezzuola sudicia. “Ci è rimasto soltanto qualche liquore, qualche acquavite …”
Jake si accese una sigaretta e poi appoggiò un gomito sul piano in legno del bancone, disseminato di piccoli residui di alcol. “Cosa ti è rimasto?”
L’uomo posò quel che stava pulendo e rivolse una rapida occhiata alle sue spalle. “Rum, amari vari, Vodka e Gin.”
“Ecco si, mi dia quest’ultimo. Gin.”
“Non so quanto sia buono se bevuto da solo.”
“Mi dia un bicchiere di Gin. Non fa differenza.”
Rassegnato, il Barman afferrò la bottiglia di Gin e gliene riempì un bel bicchierino traboccante di acquavite forte e trasparente. “Ecco qui.”
Jake osservò il vetro scintillare, poi si sfilò la sigaretta dalle labbra e ne scolò il contenuto in un solo unico sorso.
“Ehi! Ragazzo!” L’uomo che l’aveva servito sorrise. “Vacci piano!”
In effetti il liquore era scivolato giù lungo la sua gola senza alcuna difficoltà, ma doveva ammettere che era parecchio forte. “Me ne dia un altro.”
Ne bevve complessivamente due. Alla fine aveva raggiunto lo scopo di avere il cervello lievemente più sgombro di pensieri e di provare quel senso di leggerezza che solo l’alcol riesce a conferire all’animo umano. Se ne stava per scolare un terzo bicchierino, quando un colpo deciso dietro alla schiena non lo fece letteralmente sputare: parte di quella schifezza gli finì di traverso.
“Ma sei impazzito o cosa, Aniki? Tre bicchieri di Gin, vuoi forse andare all’altro mondo?”
Jake tossì violentemente e strinse gli occhi per poter mettere a fuoco l’uomo che gli si era avvicinato bonariamente: era un omaccione robusto e tarchiato e il suo abbigliamento era  il più strano e bizzarro che avesse mai visto; un completo nero, un paio di occhialoni scuri ed obsoleti e infine un buffo cappello dello stesso colore, che lo faceva rassomigliare ad un gangster degli anni ’30. Il tizio in questione prese posto al suo fianco e ordinò un bicchierino di Rum.
“Sei in missione per conto di Dio, o stai cercando il tuo Elwood Blues per riformare i Blues Brothers?” Jake fece una lunga tirata alla sua sigaretta: che strano incontro.
L’uomo sorrise ampiamente e gli rivolse un’occhiata complice. “Tu hai tutta l’aria di essere un ragazzetto in gamba, vero?”
Il biondo ciccò nel posacenere e sollevò le sopracciglia. “E cosa te lo fa pensare?”
“Beh, quella maglietta sporca di sangue, il tuo chiaro intento autolesionistico di farti del male con del Gin e …”
“Cos’hai contro il Gin?”
“Hai ammazzato qualcuno, Aniki?”
Jake serrò i denti. Per quale motivo quel tipo si arrogava il diritto di chiamarlo ‘fratello’? E come aveva tratto quelle conclusioni così veritiere? Era un poliziotto in borghese?
“Smettila di chiamarmi ‘Aniki’. Non ho ucciso nessuno, io. Piuttosto, cosa sei, un piedipiatti? Se è così, smamma. Mi stanno antipatici gli sbirri.”
“Oh, abbiamo qualcosa in comune allora. Guarda caso stanno antipatici anche al sottoscritto. Comunque piacere, Vodka.” Il bestione al suo fianco, pur essendo seduto e pur essendo molto più basso di lui, lo superava egregiamente per peso e per stazza. Gli tese la mano e Jake gliela strinse.
“Che razza di nome è Vodka?”
“E’ un nome come tanti, ma come nessuno.”
L’uomo completamente vestito di nero si sollevò in piedi con difficoltà, poi assunse l’espressione di colui che vuole congedarsi. “Allora ci si vede, Aniki.”
“Addio, Vodka.” Rispose Jake. Per quale arcano motivo avrebbero dovuto rincontrarsi? Un addio era decisamente più appropriato. Il biondo lo seguì con lo sguardo fin quando non ebbe varcata la soglia, poi, voltato nuovamente il capo nel suo bicchierino di Gin, udì chiaramente la porta richiudersi con un rumore pesante.
 
 
 
 
 
Il giorno seguente, Jake lo trascorse senza sapere effettivamente cosa fare e come comportarsi: la strada era dannatamente pericolosa, in più, le volanti della polizia pullulavano ovunque e c’erano sbirri dappertutto. Dopo essersi immesso in una delle tante stradine di Tokyo, egli si mise a passeggiare con disinvoltura, cercando di non destare sospetti in passanti troppo indiscreti. C’era gente di ogni genere in giro, nonostante i negozi fossero ancora in fase di apertura. Qualche istante più tardi sentì il suo cellulare vibrare nella tasca.
Sul display luminoso vi era un messaggio composto da un paio di righe.
“Ciao Jake, sono Lily. Sono ormai tre giorni che non vieni a scuola, sono preoccupata. Stai bene? Mi manchi.”
Il ragazzo trasse un sospiro seccato e premette il tasto finalizzato all’eliminazione di quell’sms. Nel preciso istante in cui l’indice si spostò per poter poi riporre il cellulare, Jake sentì chiaramente un allarme squarciare il silenzio di quella consueta mattina giapponese: una mattina come tutte le altre, ma che per lui si sarebbe trasformata ben presto nella più entusiasmante avventura che avesse mai vissuto. Da quel momento, la sua vita sarebbe cambiata.
L’aria vibrava con violenza e un tripudio di urla fece scalpitare parte della gente che popolava quella via così apparentemente tranquilla: un flusso caotico e disordinato si riversava fuori dall’edificio a pochi metri da Jake. Il biondo corse fra la folla e sgomitò ulteriormente per aprirsi un varco: fermatosi di fronte all’entrata sollevò il capo in alto: un gigantesco palazzone dalle vetrate scintillanti si ergeva come una colonna verso il cielo.
Quella era senza ombra di dubbio la popolare banca giapponese che la settimana prima era stata presa di mira da una banda di rapinatori.
Il biondo non riuscì a capacitarsi della situazione, poiché si senti disarcionato da un paio di poliziotti armati fino ai denti di grossi fucili d’assalto. “Levati ragazzo! Scappa. Dobbiamo presidiare l’uscita.” Jake li osservò, confuso. Osservò quei due agenti penetrare nell’edificio e richiudersi i portelloni alle loro spalle: una scarica di proiettili si udì distintamente, al punto che la gente riversatasi fuori prese nuovamente a gridare disperatamente.
“Ma che diavolo sta succedendo là dentro?”
 
 
 
All’interno della Banca era il delirio più totale: c’erano cadaveri dappertutto, schizzi di sangue e banconote in terra. Come se non bastasse, alcuni cumuli di macerie erano sparsi ovunque. Il pavimento, un tempo luminoso e sfavillante, era disseminato di vetri e schegge, costellato da microscopici residui di polvere e bossoli esplosi. Ovunque si sentivano raffiche e spari, ma via via sempre più diradati nel tempo e nello spazio.
La banda di malviventi era stata completamente sbaragliata: ne mancavano soltanto due all’appello: la polizia sapeva che altri due soggetti si stavano nascondendo abilmente lì dentro. Come topi. In trappola. Vodka si sentiva esattamente come un topo in trappola.
Schiena appiccicata contro il muro e pistola stretta nella mano destra, l’omone se ne stava silenziosamente e col fiato in gola, in un angolino, in un anfratto, ad aspettare che qualcuno arrivasse. Se quel qualcuno si fosse minimamente avvicinato, avrebbe sparato senza remore.
Sentì alcuni passi leggeri, poi improvvisamente comparvero di fronte a lui un paio di poliziotti: il primo si beccò la pallottola, ma il secondo sparò il suo colpo in direzione dell’uomo vestito di nero, colpendolo ad un braccio e costringendolo inevitabilmente a mollare la salda presa intorno al calcio della pistola. “Dannato sbirro!”
“Finalmente vi abbiamo preso. Ora che vi sbatteremo al fresco finalmente sapremo tutto di voi.” Sembrava essere finita per sempre. Poteva dire addio alla sua brillante carriera di Criminale.
Il poliziotto aveva tutta l’aria di volergli piazzare due belle manette ai polsi, ma non si rese conto che alle sue spalle un’ombra si stagliava nitidamente contro il muro dietro di lui.
“Io l’avevo detto che non sopportavo gli sbirri.” La voce di Jake si diffuse fiocamente in quella porzione della Banca, poi si sentì un forte sparo. La guardia crollò a terra con un foro nei pressi della schiena e Vodka, come animato dal sacro fuoco, schizzò in piedi. “L’uomo del Gin!”
“Fa’ silenzio, Vodka. Ci sono sbirri dappertutto.”
“Si. Si.” Cercò di ricomporsi, nonostante l’entusiasmo. Se lo sentiva. Se lo sentiva che quel ragazzo era un tipo in gamba. Entrambi sgattaiolarono da quel nascondiglio e Vodka serrò la mano alla maglietta di Jake. “Come faremo ad uscire da qui?”
“C’è un’uscita dall’altra parte della Banca. Gli sbirri non l’hanno ancora raggiunta. Consideralo il tuo giorno fortunato.”
“No, ragazzo. Questo è il tuo giorno fortunato.” Jake volse appena il capo: nonostante gli occhi di quell’uomo fossero celati dal solito paio di lenti scure, lesse nel suo sguardo e nella sua espressione, qualcosa di maledettamente misterioso.
“Appena saremo fuori di qui mi dirai quel che hai da dirmi. Ora muoviamoci.”
 
 
 
 
 
Vodka inserì il freno a mano e si fermò proprio nei pressi di una sperduta collinetta. L’automobile che avevano rubato aveva fatto il suo discreto lavoro, anche se si trattava di una vecchia Sedan sgangherata. Il motore era ancora caldo e la carrozzeria rilasciava nell’aria altrettanto bollente, un vapore umido, accompagnato da uno strano scoppiettio.
“Che macchinona. Abbiamo avuto fortuna” Vodka aprì la portiera e uscì dall’abitacolo, dando una pacca sul tettuccio. Anche Jake fece altrettanto: la sua folta chioma bionda venne agitata da una leggerissima sferzata di vento.
Jake giunse proprio sul ciglio dello strapiombo e si accese una sigaretta.
Oltre quella vallata si stendeva a perdifiato l’intero paesaggio cittadino, disseminato di enormi grattacieli e minuscole abitazioni, se confrontati con quei colossi che sfioravano le nuvole.
Era ormai il crepuscolo e al di là della città, il cielo si colorava di rosso cremisi. Finalmente c’era pace e tranquillità, finalmente c’era silenzio.
“Allora Vodka, per quanto tempo dovremo rimanere fuori città?”
L’omone si avvicinò al ragazzo dai lunghi capelli di platino e si infilò le mani in tasca: era stata una giornata decisamente stancante, oltre che piena zeppa di avvenimenti. “Non ne avremo bisogno, Jake.”
“Mi stavi dicendo dell’Organizzazione.”
“Devo ancora parlare con il Boss, ma credo che non ci siano problemi, Aniki. Mi hai salvato la vita.”
“Piantala con questa roba melodrammatica, Vodka. Dimmi piuttosto, ho bisogno di qualcosa di particolare per entrare nell’Organizzazione?” Jake si sfilò la sigaretta dalle sue labbra soltanto per poter buttare fuori una colonna di fumo.
“Un nome in codice. E dei vestiti appropriati.”
“Hai idee per un eventuale nome in codice?”
“Certo. Gin. Quale nome migliore per inaugurare il passaggio dalla vecchia vita alla nuova vita?”
Il cielo era ancora di un rosso intenso e vivido, ma già tendeva a scolorarsi assumendo la pallida colorazione del violaceo bluastro. Il giorno volgeva ormai al termine.
“Gin. Mi piace.” Sottolineò con voce bassa e roca. Anche la sua sigaretta stava lentamente morendo fra le sue labbra. La prese fra l’indice ed il pollice e lasciò che scivolasse giù dal dirupo. “Senti, per quanto riguarda i vestiti, voglio un cappello come il tuo.”
“Oh, questo?” Vodka se lo tastò con entrambe le manone, poi rise. “Effettivamente fa molto Blues Brothers.”
“Avrei un’altra richiesta da farti.” Jake volse il capo verso di lui e lo guardò, così terribilmente serio che anche Vodka dovette assumere un simile contegno.
“Dimmi.”
“Mi piacerebbe avere una Porsche 356A.” Affermò con voce piatta.
“Non credo sarà un problema. Solo che è difficile trovarne ancora qualcuna in circolazione.”
Jake trasse un lungo sospiro. “Andiamocene.” Senza proferire null’altro, il biondo si mosse nuovamente verso la Sedan: oramai il cielo era scuro.
“Ah, Gin!” Vodka lo richiamò. Era strano sentirsi chiamare con quel nome. Era come se lui dovesse rispondere dell’identità di un’altra persona. Jake era davvero morto, dunque?
“C’è un’ultima cosa che voglio dirti.” Vodka si avvicinò all’auto. “Tutti coloro che entrano nell’Organizzazione recidono un filo con la vita che conducevano prima. E per recidere intendo proprio tagliare. Tagliare qualsiasi cosa. Qualsiasi legame, nome o persona che sappia della nostra identità. Se il Boss dovesse scoprire qualcosa che ci lega ancora al passato sarebbe un vero grattacapo da togliersi di dosso.”
“Non c’è problema. Dammi una settimana di tempo e farò il possibile.”
“Va bene. Ti ho soltanto avvisato. Ora andiamocene sul serio, si sta facendo tardi e domani devi essere bello carico per il tuo primo incarico. Domani l’Organizzazione ti mette alla prova, Gin. Vedi di non deludermi.”
“Con chi credi di parlare, eh?” Jake sorrise beffardo, poi si infilò in macchina e nell’istante in cui la portiera metallica emise il suo clangore, egli diede addio a quel panorama, a quell’erba, a quel suolo, a quella vecchia vita, sepolta ormai all’ombra di una collinetta.
Sembrava come se tutto stesse svanendo. Tutto sbiadiva, tutto si scoloriva. Tutto stava inesorabilmente passando dal bianco al nero.
Tutto stava finendo per dare il benvenuto ad un nuovo inizio. 








Salve a tutti, gente, belli e brutti! XD ok, questo angolino fa pietà -.- seriamente... Non mi sto impegnando molto! Ahahahh!!
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto *.* E spero soprattutto di poter continuare a scrivere questo periodo, data l'immensa mole di studio per i test d'ingresso all'Uni :) Spero che possiate essere comprensivi :((( 
Tanto ci sono i soliti 4 gatti (poverelli XD) che mi seguiranno.. o come diceva Manzoni, i miei 24 lettori (erano 24? Comunque faceva il falso modesto.. tsk u.u)
Giiiiiiiiiin *.* Che bastardone! Ahauhuahauahua :)
Fatemi sapere cosa ne pensate, sono troppo curiosa di avere il vostro parere *.*
Un bacino a tutti voi, buone vacanze! Divertitevi :)

Aya_Brea

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Capitolo 5
*** Happy Birthday ***


5. Happy Birthday




Gin afferrò le chiavi del suo nuovo appartamento e se le infilò rapidamente in tasca: Vodka gli aveva procurato gli abiti che erano consentiti ai membri dell’Organizzazione, così, aveva deciso di indossarli subito per poi potersi recare presso la loro base operativa.
Non appena la porta si richiuse alle sue spalle venne colpito dalla presenza dell’omone con gli occhiali scuri, che sostava tranquillamente sul pianerottolo.
“Che ci fai tu qui?” Borbottò Gin, gelido.
“Ma come, Aniki? Devo accompagnarti.”
Il ragazzo trasse un sospiro seccato. “Ma per chi mi hai preso scusa?” Non era abituato a quel cappello nero calato sul capo, così afferrò la tesa fra l’indice ed il pollice per poterlo adagiare più comodamente sulla fronte, disseminata come sempre, da molteplici ciuffi biondastri.
“Sai, Gin. Questi vestiti ti donano parecchio.” Affettuosamente, Vodka gli diede una grande pacca sulla spalla.
“Piantala. Non è giornata.” Gin avanzò di qualche passo per potersi distanziare da quel bestione: non avrebbe potuto sostenere a lungo i suoi modi amichevoli.
“Ho capito. Va bene, va bene. Sto zitto.”
“Ecco.” Replicò l’altro. Avanzò fin quando non raggiunse il portone, poi premette la mano contro la maniglia e un fiotto di sole lo accecò momentaneamente. Quei raggi luminosi ebbero l’effetto di riscaldare in maniera inverosimile il suo vestiario: un lungo impermeabile nero lo avvolgeva, slanciandolo ulteriormente e ricadendo morbidamente ad ogni suo passo. Quasi dettato da un impulso meccanico, egli si sfilò dalla tasca il pacchetto delle sue adorate sigarette, poi se ne portò una fra le labbra.
“Credo che oggi conoscerai Vermouth.”
Mentre camminavano l’uno di fianco all’altro, il biondo diede una tirata carica di nicotina. “Che bella fantasia. Un branco di ubriachi.”
Vodka si lasciò andare ad una risata sguaiata. “Stai attento, sa’. Piuttosto che ad una donna, vai incontro ad una splendida serpe.” Il suo tono era divenuto più sommesso e confidenziale.
“Vermouth è una donna, dunque. Non credevo.”
“E della peggior specie, aggiungerei. Quando vuole, sa essere molto crudele. Inoltre è subdola.”
“Credo che avrà pane per i suoi denti. Vi fate mettere i piedi in testa da una donna?”
“E’ la preferita del Boss.”
“E con ciò?” Gin fece rotolare la sua sigaretta fra le dita. Il suo marcato maschilismo era evidenziato ancor di più da un velo di sottile sarcasmo. “Manca ancora tanto?” Borbottò poi, impaziente.
“No, siamo arrivati.”
I due uomini in Nero si addentrarono in una lunga galleria dal soffitto basso e logoro e qualche metro più avanti, Vodka si sfilò una chiave dalla tasca per poterla girare nella serratura della piccola porticina arrugginita che se ne stava incassata proprio nel bel mezzo di quel tunnel. Un clangore metallico riecheggiò cupamente, ma finalmente, Gin poté intravedere una lunga scalinata che si inoltrava in profondità.
“Dopo di te, Gin.” Disse Vodka, il quale si premunì di farlo entrare per primo. A quel punto il biondo gli rivolse un’occhiataccia di sottecchi e lo osservò come per volersi assicurare che quell’omone non gli stesse riservando qualche brutto scherzo. Ad ogni modo, se la sarebbe cavata ugualmente, anche se le loro intenzioni non fossero state delle migliori.
Lo scalpiccio delle loro scarpe risuonò ovattato per qualche secondo, fin quando entrambi non raggiunsero l’ennesima porta laminata in alluminio. Fu Vodka ad aprirla.
Non appena le due ante si dischiusero, un lungo corridoio dalle pareti bianche si stagliò di fronte ai loro occhi, in netto contrasto col tunnel che avevano percorso qualche attimo prima: sul soffitto erano disposte delle lunghe strisce di luce al neon, mentre lungo i muri vi erano numerose vetrate a specchio, che per il momento non avrebbero rivelato quel che si celava nelle stanze adiacenti. Sembravano tanti uffici dislocati in modo da affacciare tutti su quell’unico corridoio.
“Qui lavora la gran parte dei nostri scienziati.”
“Scienziati?” Gin spense la sua sigaretta sotto la suola della scarpa e prese a camminare: un silenzio quasi religioso aleggiava nell’aria. “Sembra di essere all’ospedale.”
“Le pareti sono insonorizzate. L’Organizzazione vanta un discreto numero di abili ricercatori, ma non so precisamente di cosa si occupino.”
“No? Avresti potuto chiedere.” Il biondo era intento a studiare ogni microscopico dettaglio che quel luogo potesse offrire, deciso più che mai a carpire il maggior quantitativo di informazioni: la voce di Vodka gli giungeva ovattata e lui si limitava a rispondergli distrattamente con degli atoni monosillabi.
“Certe volte è meglio non fare troppe domande. Imparerai presto quel che significa discrezione.”
“Io me ne infischio della discrezione. Dov’è Vermouth?”
Finalmente giunsero in fondo al corridoio, ove un grande incrocio permetteva al percorso di diramarsi in più direzioni. Non appena svoltarono l’angolo per poterne percorrere una, Gin notò che alla sua destra, premuta contro la parete, v’era una donna a braccia conserte: la sua figura slanciata e longilinea era costretta in uno stretto tailleur bordeaux, il cui tessuto tirava in più punti per via delle curve sinuose del suo corpo. Uno schianto, un viso sottile ed un paio di occhi azzurri da mozzare il fiato.
“Eccomi.” Proferì, languidamente. I capelli dorati le ricadevano sulle spalle senza alcun impedimento, fluenti. “Molto piacere, Gin.”
Gin moriva dalla voglia di lasciare che il suo viso venisse incorniciato da un tetro sorriso, ma per il momento preferì rimanere algido e distaccato. “Tu devi essere Vermouth.”
La donna rise sommessamente, poi si scansò dal muro. “Ottima deduzione, caro.” Quegli appellativi erano stucchevoli da far schifo. Ticchettando con le sue scarpe vertiginose, Vermouth si avvicinò ad entrambi, ma la sua attenzione ricadde immediatamente sul biondo, che, stranamente, non aveva mosso ciglio e non sembrava essere minimamente colpito dalla sua bellezza. Quel ragazzo era incredibilmente alto.
Istintivamente, ella allungò una mano verso il suo viso, ma con sua grande sorpresa, si vide avvolgere il polso da una presa salda e vigorosa. Gli occhi di Vermouth si spalancarono per l’estemporaneo stupore: non si sarebbe mai aspettata quel tipo di reazione: per pochi, brevi istanti, Gin le fece sperimentare tutta la freddezza che emanava dal suo sguardo. Come disorientata, lei ritirò immediatamente la mano, scioltasi con difficoltà dalle dita di Gin.
“Sei un bel ragazzo. Spero che tu sarai altrettanto in gamba.” La donna proferì quelle parole con fare altezzoso, decisamente contrita per quell’affronto. “Seguitemi.”
Gin ghignò fra sé, consapevole di essersi finalmente liberato dell’atteggiamento mellifluo che quell’arpia aveva creduto di potergli riservare. Nessuno doveva prendersi tutta quella confidenza. Infilò le mani in tasca e proseguì lungo l’ennesimo corridoio, esattamente identico a quel che avevano percorso poco prima.
Vermouth li condusse all’interno di una stanza in penombra: sul fondo vi era una grande scrivania in mogano e dietro di essa troneggiava un’enorme cartina topografica, disseminata di croci rosse e di segnacci apparentemente privi di significato. La luce da tavolo emanava una flebile luce giallognola. “Allora, Gin. Il gran colpo è previsto per stasera.” La donna aggirò elegantemente la scrivania e vi posò entrambi i palmi delle mani, standosene ritta in piedi di fronte alla carta geografica. “I punti che vedi indicati qui sono i luoghi dove è possibile appostarsi e sparare. Si vocifera, o meglio, mi hanno detto che sei un abile cecchino.”
“Me la cavo.” Rispose Gin, con le mani riparate nelle tasche dell’impermeabile: i suoi occhi non osavano distogliere lo sguardo da quella donna.
“Bene. Il nostro target è un uomo piuttosto giovane, una stella nascente della politica, ma con alle spalle una serie illimitata di processi e di cause sospese o rinviate a giudizio. Il problema è che noi, figuriamo in una di quelle cause. Uno dei nostri si è incautamente fatto coinvolgere e ci ha fatti finire nei guai. Così, ora ci tocca rimediare.”
Vodka inspirò. “Dobbiamo ucciderlo, dunque.”
“No, Vodka. Ho intenzione di mandare qualcun altro al suo fianco. Per metterlo alla prova.”
Gin sollevò le sopracciglia: quanto sarebbe durato ancora, quel teatrino? Sentiva un prurito corrergli lungo le dita. Doveva fumare.
“Per le modalità di movimento ti metterai d’accordo col tuo compagno, ok, Gin? Vi incontrerete per la prima volta alle otto di questa sera, qui.” La donna premette il polpastrello dell’indice su una delle tante ‘x’ rosse.
“D’accordo. Tutto chiaro.” Gin ruotò i tacchi e fece per dileguarsi; se solo la voce di Vermouth non avesse nuovamente infranto il silenzio calato in quella stanza.
“Ricorda, tesoro. Evita contatti ravvicinati: meno sanno, meglio è. Massima discrezione.” L’ultima parola non mancò di infastidirlo, così, il biondo si limitò a fare un lieve cenno col capo, poi finalmente riuscì a congedarsi. Vodka lo osservò fin quando non fu giunto all’uscita e vedendolo accendersi un’altra sigaretta gli sfuggi un sorriso: non capiva se quel suo viziaccio fosse dovuto al nervosismo oppure al semplice bisogno di soddisfare i propri desideri.
 
 
 
 
 
Era ormai sera, il grande orologio digitale troneggiava su di un alto edificio nel centro di Tokyo: con precisione meticolosa, il dispositivo segnava le otto meno cinque. Ai piedi del gran colosso in calcestruzzo vi era un ampio incrocio e nonostante l’ora, il luogo pullulava ancora di gente intenta ad ultimare gli acquisti domenicali: la grande città Giapponese era ancora sveglia e lo si poteva evincere dalle molteplici vetrine, dai minuscoli quadratini gialli sui grattacieli, dal gran via vai di persone cariche delle loro buste, dai ragazzi e dalle ragazze dal passo decisamente più svelto per potersi ritirare in fretta. Pian piano quella calca informe cominciò a diradarsi, fin quando le strade divennero finalmente sgombre, libere. Soltanto qualche macchina circolava a quell’ora.
Gin costeggiò l’enorme edificio dell’orologio con passo rapido ma con fare disinvolto e distinto, stando attento a non dare troppo nell’occhio: il suo vestiario nero gli permetteva di agire indisturbato, dato che quegli abiti erano come una sorta di seconda pelle che consentiva loro di confondersi con l’oscurità della notte. Come corvi.
Il biondo camminò ancora per qualche metro, poi la sua attenzione fu immediatamente rapita dall’uomo che se ne stava al di là della strada, premuto contro la sua automobile nera e con le braccia robuste incrociate presso il petto. Doveva essere il suo compagno. Si avvicinò cautamente e con l’accorgimento di mantenere sempre la dovuta distanza e riservatezza, prese a scrutarlo analiticamente, con quei suoi occhi vigili e freddi.
“Irish. Giusto?”
L’uomo si scansò dalla sua macchina e sciolse le braccia, dapprima conserte: era alto, muscoloso e slanciato. Si poteva dire che lui e Gin sfiorassero la stessa altezza. Irish aveva una maglietta grigia a maniche lunghe e il tessuto, per via della sua aderenza, evidenziava quanto quel tipo dovesse faticare per mantenersi così in forma. Il biondo riuscì a facilmente a decifrare la personalità criptica ed autoritaria di Irish: bastava guardarlo negli occhi, per poter capire di che pasta fosse fatto. Ligio al dovere, capace di sostenere qualsiasi sforzo e stress, sia psicologico che fisico.
“Già.” Quest’ultimo assunse immediatamente un’espressione seccata, come se occuparsi di quella missione con Gin gli procurasse non pochi grilli per la testa. “Mettiamo subito in chiaro una cosa. E’ la prima e l’ultima volta che lavoro con un ragazzino.” Effettivamente Irish era più grande di Gin e fra loro correvano approssimativamente quindici anni di esperienze, di vita, ma anche di sangue e di morte. Nonostante questo, però, il biondo fu alquanto contrariato da quell’affermazione: per lui la differenza di età era semplicemente una formalità. Lo sapeva bene: gli bastava pensare al suo defunto padre.
“Sta tranquillo. Non appena questo incarico sarà concluso avrò modo di far sì che non si verifichi più questa spiacevole eventualità.” Il biondo si avvicinò: una lieve sferzata di vento si sollevò da terra, infilandosi prepotentemente nel suo impermeabile nero e facendolo gonfiare ritmicamente: gli occhi di ghiaccio di Irish e di Gin si scontrarono nuovamente e improvvisamente calò il gelo.
“E allora, biondino? Che hai da guardare?”
“La prossima volta che ti rivolgi a me con questo tono ti ammazzo.” Replicò Gin, sprezzante. Quel loro sguardo si prolungò per qualche frazione di secondo, anche se ad entrambi quel tempo parve durare un’eternità. Alla fine fu Irish a lasciar perdere: era molto più ‘anziano’ per poter dar credito alle parole di un moccioso, oltretutto non poteva permettersi di fallire a causa di un simile disguido. Si passò una mano fra i capelli di platino e aggirò l’automobile. “Sali in macchina.”
Il biondo aprì lo sportello ed entrambi entrarono nell’abitacolo: non appena si chiusero entrambe le portiere, piombò nuovamente il silenzio: uno di quei silenzi in cui è meglio tacere, piuttosto che aprir bocca. La tensione era palpabile, l’aria intensamente rarefatta e pesante da tagliarsi con la lama di un coltello.
Il rombo del motore proruppe impetuoso, degradando poi d’intensità e lasciando spazio al canto solitario dell’acceleratore.
Gin allungò il proprio sguardo oltre il finestrino: la città mutava velocemente ed i grattacieli della Tokio moderna si tramutavano lentamente in dei complessi non più così adiacenti, ma più ampi e lontani gli uni dagli altri. La zona industriale era molto più curata e altolocata, tanto che solo i più grandi magnati della finanza o del commercio decidevano di costruire in quei terreni. Gli bastò sollevare il capo per notare un cielo tremendamente bigio e nuvoloso.
Le luci correvano di fronte ai suoi occhi verdi, tanto veloci da non poterne cogliere neanche il minimo bagliore. Ad un tratto sentì distintamente il cellulare vibrare nella tasca. Lo sfilò e prese a fissare il display. Un messaggio. Spinse il tasto verde, incurante di Irish che, seppur stesse guidando, gli lanciava delle fugaci occhiatacce.
“Jake, mi trovo a doverti scrivere un messaggio per una cosa così orribile, ma purtroppo non ho avuto altri modi. Sei sparito, ma spero che tu stia bene. Ho saputo di tua madre. Non doveva andarsene così giovane. La vita a volte fa schifo. E’ tutto uno schifo … Non pretendo di comprendere il tuo dolore, ma voglio aiutarti. Ti prego Jake, fatti sentire … Sto male.”
Gin lesse ancora quel nome: “Jake”. Un sorriso amaro gli si dipinse sul viso. Era come se quella ragazza si stesse rivolgendo ad un morto. Era terribilmente assurdo aver appreso della morte della madre tramite un messaggio di Lily. Tutto fu incomprensibile in quel momento: sua madre era morta? Non sapeva neanche che era malata, non sapeva nulla di nulla. Eppure bruciava ancora, quella ferita che aveva sul cuore, come uno squarcio palpitante, come una bruciatura esposta ad un fiotto di alcol. Strinse il cellulare fra le dita e guardò nuovamente fuori dalla finestra.
“Che c’è, Gin? Qualcosa non va? Non è che ci hai ripensato?” Avrebbe dovuto uccidere un uomo, magari era stato colto dai sensi di colpa.
“Fatti gli affari tuoi, non è cosa che ti riguardi. Non ci ho ripensato.” Gin tentò di scacciar via quei pensieri e una volta infilatosi nuovamente il cellulare nella tasca, ripensò alla sua missione. Doveva uccidere. Voleva uccidere.
“Meglio per te allora. Siamo arrivati.” Irish parcheggiò la sua auto affianco a tutte le altre. Dal cruscotto si intravedeva un grande edificio dalla pianta a ferro di cavallo e un magnifico giardino pieno di pini. Alla loro destra vi era una sottospecie di torrione più antico la cui superficie mostrava profonde crepe e numerosi punti in cui la struttura era cedevole: una lunghissima scalinata si arrampicava tutt’intorno al complesso, come un nastro avvolto più volte intorno ad esso.
“Vedi quel palazzo? Trovati un posticino tranquillo e aspetta me. Io entrerò nel complesso e recupererò un paio di documenti importanti. Ci sentiremo tramite questi microfoni.” Irish aprì il bauletto incassato nel cruscotto e poi ne diede uno al biondo. “Sui sedili posteriori c’è il tuo fucile di precisione. Non sprecare munizioni.”
Gin ispirò profondamente: Dio, avrebbe voluto spaccargli la faccia. Sentiva tutti i muscoli tesi e vibranti di rabbia, il suo respiro cominciava a divenire più sostenuto ed artificiale. “Cristo, ma per chi mi hai preso?” Strinse il pugno e quasi istintivamente gli afferrò il colletto della maglia. Sembrava che nuovamente si fosse parato un muro fra i due.
“Vuoi far saltare tutto, novellino?”
“Sta’ zitto. Vecchio.” Gin lasciò la presa con un forte strattone, poi scese dall’auto sbattendo la portiera: si sbrigò a prendere quel dannato fucile e a trovarsi un posto da cui poter sparare liberamente, qualora fosse giunto il momento. Alla fine lo trovò, proprio in cima a quel torrione che avevano visto poc’anzi.
 
 
 
 
 
Trascorse un’ora dal loro arrivo, ma di Irish, nessuna traccia. Non si era ancora fatto sentire.
Gin se ne stava chinato sul bordo di un muretto, a quasi cinquanta metri da terra: il vento era ancora più freddo là sopra. Teneva gli avambracci appoggiati sul cemento freddo e sul polso poggiava morbidamente la canna del suo fucile, puntato ormai da più di trenta minuti. Si manteneva immobile, come il più abile dei cecchini: sapeva che era così che si comportavano i professionisti. Fermi come sassi, vigili, concentrati oltre ogni limite, oltre ogni barriera che l’organismo potesse imporre ad ogni singolo organo. La sua visuale non si spostava neanche per un istante, poiché sapeva che da un momento all’altro, oltre quel crocicchio, avrebbe potuto avvistare la testolina del loro politico. E in quel momento avrebbe trattenuto il fiato, si sarebbe riempito i polmoni di quell’aria glaciale e solo allora, avrebbe spinto delicatamente l’indice sul grilletto.
Nel più placido silenzio di quella notte, Gin sentì sfrigolare il suo auricolare.
“Ehi, ragazzo. Ci siamo. Fa’ attenzione.”
Era giunto il momento tanto atteso. Inizialmente fu convinto quasi di aver percepito i suoi neuroni attivarsi per mandare tanti segnali elettrici al cuore, per far sì che pompasse più sangue e che lo sostenesse in quel frangente così delicato. Mandò giù la saliva e fece un profondo respiro: oltre le lenti dell’ottica osservò la porta dell’edificio aprirsi: sembrava incredibilmente vicino, quel piccolo uomo, ignaro della presenza dell’assassino che gli avrebbe fatto schizzare le cervella. Era incredibile: le distanze parevano ora così relative. Un po’ come la sua nuova vita.
Gin spostò con precisione millimetrica la canna del fucile, poi compì le dovute manovre: i ricordi di quando sparava con Lily gli trapassarono la mente. Strinse l’arma e lasciò che il dito indice scivolasse lungo il grilletto e che il proiettile appena sparato facesse il suo naturale corso. Era fatta.
Con un gesto repentino, il biondo abbassò nuovamente il fucile: gli sembrò di non muovere i muscoli da una settimana, ma perlomeno quando riuscì a sporgersi oltre il muretto, vide l’uomo steso a terra, immerso in una pozza scura del suo stesso sangue caldo. Concluso l’affare, Gin si portò il microfono alle labbra: “E’ a terra.”
“Ok. Bel colpo. Andiamocene …”
Gin strinse gli occhi in una fessura e da quell’altezza riuscì ad intravedere chiaramente delle volanti della polizia sfrecciare nella loro direzione: subito spiegarono le sirene all’inseguimento.
“Merda, Gin! I piedipiatti. Questo non era previsto. Dannazione. Andiamocene.”
Il biondo rise sommessamente e nuovamente imbracciò il fucile fra le braccia: non più freddo e metallico come lo aveva stretto la prima volta, ma caldo e maneggevole come se l’avesse sempre utilizzato, come se in poco tempo avesse guadagnato la fiducia di un amico. Subito, quello strumento di morte divenne parte di sé. Era tutto così, fottutamente divertente.
“Lasciami fare.”
“Ma sei impazzito?! Gin.” Lo richiamò inutilmente, Irish, oramai uscito dall’edificio.
Le auto della polizia sgommarono proprio di fronte al parcheggio e una serie quasi interminabile di agenti si riversò fuori dalle proprie vetture. Nel frattempo era accorsa anche l’ambulanza.
Gin intravide Irish attraverso il mirino del suo fucile. “Irish. Allontanati. Non voglio guai con l’Organizzazione.”
“Maledizione, che diavolo vuoi fare?” Urlò questi, agitato. Non sopportava la sfrontatezza di quel giovane.
“Farli saltare in aria. Togliti di mezzo, mi intralci.”
Irish serrò i denti e con essi, il calcio della sua pistola: era incredibile come quel tizio si fosse tramutato nel protagonista indiscusso di quel teatrino. “Tu sei pazzo.”
Il biondo rise semplicemente, poi si strappò di dosso quell’auricolare. Se il suo compagno avesse afferrato il senso delle sue azioni si sarebbe riparato, altrimenti, avrebbe fatto soltanto la figura dell’idiota.
Gin sparò un paio di colpi e fece crollare due agenti vicini al cadavere del politico, poi iniziò a far fuoco contro la parte posteriore di una di quell’auto parcheggiate là sotto. Sentiva gli spari sibilare contro la sua spalla; uno lo ferì nei pressi della spalla e gli strappò letteralmente un lembo dell’impermeabile e di pelle. Digrignò i denti come una bestia e decisamente incollerito, scaricò tutti i colpi che aveva sul medesimo obiettivo: inaspettatamente, al penultimo colpo che gli rimaneva in canna, l’automobile emise un lampo di luce, poi esplose con un boato indescrivibile. I fumi e i resti della deflagrazione svilupparono un incendio doloso di grande portata.
Si, decisamente, Gin era un pazzo. Ma ne era consapevole.
 
 
 
 
 
Il fumo si levava lento nell’aria rarefatta: si ritrovò a tossire, sbattuta al suolo freddo nel bel mezzo di un inferno di fuoco e sangue: sollevò il viso sporco di terra e vide soltanto corpi carbonizzati attorno a lei. A quel tripudio di urla disperate e spari era subentrato un silenzio quasi irreale. Era un’atmosfera tremendamente opprimente. Le veniva da piangere, ma si limitò ad alzarsi in piedi. In fondo aveva avuto fortuna a rimanere illesa: forse aveva soltanto respirato del monossido di carbonio, ma nulla che l’avrebbe uccisa.
Un poliziotto le si avvicinò furtivamente. “Agente Kirara. Si sente bene?”
La ragazza annuì flebilmente: la sua divisa da poliziotta era sporca, sembrava che fosse scivolata nella tromba di un camino.
“Io si. Ma i nostri uomini …” Era piuttosto eloquente, inutile proseguire.
Il collega dell’agente Kirara trasse un sospiro ricolmo di rassegnazione. “Credo che abbiamo a che fare con qualcosa di molto più grande, stavolta.”
Ma la ragazza dai lunghi capelli corvini era assorta, anche il suo sguardo era rivolto altrove, come se stesse guardando presso un punto indefinito di quella tabula rasa. “Non importa, Agente. Questi bastardi non l’avranno vinta.” Serrò i denti, ancora rapita da qualcosa: probabilmente era soltanto catturata dalle immagini di vendetta che si stavano inoltrando nella sua mente. “Gli farò mangiare la polvere a quei brutti stronzi.”
 
 
 
 
 
Gin socchiuse le palpebre stanche e lasciò che l’acqua calda gli distendesse le membra: una bel bagno era quel che ci voleva per portare a termine quella giornata. Il getto della doccia non era particolarmente intenso, quasi come se volesse farsi accarezzare dall’acqua che gli scorreva lungo la schiena nuda. Qualche minuto più tardi uscì dalla doccia e si infilò un paio di pantaloni scuri, poi tornò nuovamente in balcone con i capelli completamente bagnati. Non era il tipo da prendersi una polmonite per così poco.
Aveva due cellulari in mano. Uno apparteneva a Jake, l’altro, era quello dell’Organizzazione. Su quest’ultimo c’era un messaggio, ma decise di aprirlo successivamente. Utilizzò prima l’altro. Compose in pochi minuti un breve sms.
“Sono andato a vivere a Londra. Mi dispiace, ma non potremo vederci più. Addio”
 Inserì il destinatario. Lily. Spedì senza troppe manfrine. L’ultima cosa che fece fu quella di sfilare la scheda sim: l’avrebbe bruciata più tardi.
Poco dopo decise di leggere anche l’altro messaggio: era decisamente più curioso. Chissà, magari si sarebbe trattato di Irish, indispettito per quel suo ultimo spettacolo pirotecnico.
“Buonasera dolcezza. Il Boss è stranamente colpito dall’esito dell’operazione di oggi. Non volendo hai coperto qualsiasi tipo di prova di cui avrebbe potuto disporre la Scientifica. I miei complimenti Gin. Ti auguro buona notte.”
In fondo al messaggio, il biondo scorse un post scriptum: “Ops, che sbadata. Quasi dimenticavo. Buon diciottesimo compleanno, my dear.
Vermouth.”







Eccomi!!! Oddio, scusatemi tantissimo per il ritardo con cui posto..
E' stato ed è, ahimè, un Agosto all'insegna dello studio! Spero che vi sia piaciuto questo capitolo >.< è quasi impossibile scrivere decentemente ed in tranquillità qui in campagna con 3 cugini piccoli, pappagalli al seguito e galline e polli che proseguono per la tangente XD ahahahaha... 
Ringrazio tutti i miei fedelissimi lettori *.* Quanto vi amo?? Ahahahaa, troppo! Grazie di tutto, siete fantastici u.u 
Una nuova new entry si affaccia nel piccolo mondo degli uomini in nero... chi mai sarà???
Lo scopriremo nella prossima puntata!
To be continued! XD

Aya_Brea

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Capitolo 6
*** Fra le fila della polizia ***


6. Fra le fila della polizia

  5 Anni dopo



Faceva freddo, quella notte. Il vento si era ormai placato, ma aveva lasciato lungo le strade scure, una pungente atmosfera ghiacciata: la pioggia di qualche ora prima si addensava in delle luride pozzanghere lungo i marciapiedi ed i lampioni si accendevano ad intermittenza, come se anche gli elementi artificiali stessero partecipando al degrado cittadino in cui era piombata la Tokyo dei sobborghi.
Gin si teneva ben stretto nelle sue spalle possenti, ma la leggera camicia bordeaux che indossava non lo faceva stare per nulla a proprio agio; anzi, per via della morbidezza del tessuto, sentiva piuttosto freddo. I lunghi capelli biondi gli scivolavano giù per la schiena, fermandosi proprio nei pressi della cinta dei suoi pantaloni neri. Trasse un sospiro seccato e proseguì per la propria strada: per una manciata di metri il paesaggio non fece altro che offrirgli case logore, gatti randagi, lattine che rotolavano e brutti ceffi dall’aria poco raccomandabile, poi finalmente la situazione sembrò mutare radicalmente: le strade divennero pullulanti di ragazzi e ragazze e come d’improvviso, il giovane biondo venne trasportato in una movida piuttosto movimentata. Imperterrito, egli procedette ancora, fino a quando non intravide l’insegna luminosa del locale che cercava. Il luogo coincideva perfettamente con tutte le indicazioni che gli erano state fornite.
Si fece largo fra la calca di gente: le procedure di ingresso, seppur brevi, furono per lui di una seccatura indescrivibile. Cinque minuti più tardi, Gin scese una breve rampa di scale: l’ambiente che gli si parava dinanzi era articolato in un’unica, immensa sala. Nella parte centrale vi era un imponente bancone circolare con degli sgabelli tutt’intorno, dove un aitante barman si stava dilettando nella preparazione di alcuni cocktail esotici. Nella zona retrostante, invece, la sala era adibita probabilmente all’area discoteca: la musica fu la prima cosa che trafisse i poveri timpani del biondo: musica assordante, che gli avrebbe comunque garantito di agire più o meno indisturbato. I riflettori illuminavano la sala in un’infinità di gradazioni e tonalità differenti, e le piastrelle nere del pavimento riflettevano quei bagliori sgargianti alla stregua di tanti microscopici specchi.
Il biondo diede una rapida occhiata al suo orologio, poi si avvicinò al bancone: era la prima volta che si mostrava al “pubblico”,  sfoggiando tanta eleganza e nonchalance.
“Fammi un Cognac.” Si sedette con altrettanta risolutezza e si rivolse al barman con un tono che decisamente, non ammetteva repliche. Era stato talmente diretto che quest’ultimo non aveva mancato di servirlo con stizza.
Più il Cognac diminuiva di livello nel bicchierino, più il locale si riempiva di persone: sarebbe stato difficile individuare l’obiettivo.
Il liquore si era ridotto ad una misera posa che galleggiava sul fondo, sospinto costantemente dal biondo che roteava il bicchiere. ‘Maledizione. Avrebbero potuto affidare quest’incarico a qualcun altro. Spero di non dovermi sorbire questo inferno ancora a lungo.’
Molti uomini e donne erano presenti in sala e fra di essi un gran via vai, un movimento sfrenato e febbrile: chi in cerca dell’alcol, chi in cerca di belle donne o di semplice divertimento. Eppure non un volto conosciuto, non un tratto, né un lineamento che potesse ricondurlo all’uomo che doveva far fuori. Si stava decisamente spazientendo, anche perché quel suo incarico non era affatto semplice. Improvvisamente però, egli allungò il proprio sguardo e scorse fra una decina di testoline arruffate, l’accenno di una chioma bionda a lui fin troppo conosciuta: pian piano la folla prese a diradarsi proprio in quel punto, tanto che gli fu possibile riconoscere la figura longilinea e snella di una ragazza. Non aveva dubbi: le ciocche di capelli le scendevano morbide e lunghe sulla schiena ed il suo corpicino era più sottile, più raffinato, più elegante e decisamente più maturo e “formato”. Lily. Quella era Lily, senza ombra di dubbio.
Inevitabilmente le dita affusolate di Gin si serrarono intorno al bicchiere ormai caldo, strinse anche i denti e percepì un battito irregolare accavallarsi assieme a tutti gli altri.
‘Merda, la situazione si complica.’ Pensò. Volse il capo altrove e si portò una mano nella tasca dei pantaloni per afferrarsi il pacchetto delle sue adorate sigarette: il momento più frequente nella vita del biondo, ma che aveva sempre la capacità di distrarlo da qualsiasi preoccupazione. Proprio quando il filtro si posò fra le sue labbra, egli sentì una pacca sulla spalla: si volse repentino, quasi con un improvviso scatto. La sigaretta gli scivolò giù, rotolando a terra.
“Te la spassi, eh Gin?” Era la voce di Irish, fra l’altro l’avrebbe riconosciuto fra mille altre persone: il suo sorrisino sul volto non presagiva nulla di buono. Indossava un lupetto nero a collo alto ed un paio di jeans chiari: aveva l’aria spavalda e sicura, la stessa che aveva mostrato il giorno del loro primo incontro. Ne era passato di tempo, ma i loro rapporti non erano cambiati. Non c’era l’astio manifesto che aleggiava in precedenza, ma nonostante tutto, correva ancora del risentimento e dell’indifferenza fra i due.
“Che ci fai qui, Irish?” Chiese Gin con molta nonchalance, anche se traspariva un lieve nervosismo per via della sigaretta oramai sprecata.
“Dai piani alti mi hanno fatto sapere che avresti avuto bisogno di un supporto. Il nostro uomo non è solo, si è portato un paio di amici e qualche spacciatore che sta nel loro giro.”
“E ho bisogno di aiuto? Perché mai avrei bisogno di aiuto?” Il biondo si morse un labbro e lo scrutò: gli occhi del suo interlocutore erano gelidi, ma al contempo vivi nella loro placida saggezza.
“Io mi limito semplicemente ad eseguire gli ordini, mio caro Gin, anche quando essi non rientrano nel mio codice etico o nella mia sfera di simpatie. Al contrario di te.”
Il giovane killer si alzò in piedi e lasciò scivolare sul bancone la banconota del suo drink, dopodiché indicò l’entrata ad Irish. “Appostati lì. Io devo rimanere coperto il più possibile.”
“E per quale motivo?”
“Non sono affari che ti riguardano.”
L’uomo dalla stazza imponente si guardò intorno con circospezione: il suo ghigno si allargava sempre più, senza abbandonarlo. “Non dirmi che c’è qualcuno che ti conosce?”
“Vorrai scherzare? Sarebbe già morto.”
“Me lo auguro.” Rispose l’altro. Dopo questo piccolo battibecco, Irish si dileguò fra la torma di gente e si allontanò da Gin, il quale, al contrario, se ne stette in disparte. Preferì confondersi fra la folla, piuttosto che essere immediatamente riconosciuto da Lily.
Nuovamente provò ad allungare il proprio sguardo per vedere se lei era ancora lì, eppure si rese conto di averla persa di vista. Trascorsero ancora altri minuti, forse una quindicina, forse mezz’ora, forse soltanto cinque. Eppure quel tempo sembrò essersi dilatato in una maniera indescrivibile. Il biondo cominciava a spazientirsi: era quasi giunto all’apice, fin quando non sentì una mano posarsi delicatamente sulla sua spalla, poi far pressione sul tessuto morbido color vinaccia.
“Ma sei proprio tu …” La voce era flebile, incantevole e melodiosa. Fu rotta da un singhiozzo. “Sei proprio tu, Jake?!”
Gin si morse il labbro inferiore fino a farsi male, poi decise di voltarsi: il gesto fu di una lentezza estenuante, tanto che la biondina poté vedere il suo viso rivelarsi poco a poco e i contorni divenire sempre più nitidi e conosciuti.
Finalmente, dopo tanti anni, i due incrociarono nuovamente i loro sguardi: fu strano. Terribilmente strano. Fu come se in quei frangenti silenziosi, il mondo intorno fosse stato inghiottito in una voragine immensa e loro due fossero rimasti in bilico sull’unica porzione di terra rimasta integra. Gin si scoprì incredibilmente cinico e freddo, il suo cuore non ebbe alcun moto emotivo, la sua espressione lo manifestava chiaramente: ne esprimeva il completo distacco e la naturalezza tipica dello spietato assassino che era diventato.
Lei invece, in quello sguardo rivide tutto il proprio passato: la notte trascorsa insieme, le lenzuola fredde che sfregavano contro il suo corpo caldo, i suoi capelli morbidi e le sue braccia stringerla con forza. E’ come se in quegli occhi, lei avesse rivissuto tutto. Dal primo momento, all’ultimo: quando la tristezza, cioè, aveva preso fissa dimora nel proprio cuoricino spezzato e sanguinante.
Il biondo dischiuse le labbra, ma le sue parole furono come dei coltelli piantati nel torace.
“Sparisci.”
La ragazza sentì nuovamente la sgradevole sensazione di sentirsi di troppo, di sentirsi inadeguata e scomoda. “Sono cinque anni che non ci vediamo e tu sai dirmi solo di sparire?”
Lui non rispose. Si limitò semplicemente a guardare altrove. Non aveva di certo del tempo da perdere appresso ad una ragazzina petulante.
“Sto parlando con te, Jake!”
A quel punto lei si vide afferrare il polso con rabbia: anche gli occhi di lui aveva perso totalmente la fisionomia della precedente pacatezza: ora erano socchiusi in un’inquietante fessura. E la fissavano. Con odio.
“Stai sbagliando persona, dolcezza. Levati di mezzo.” Così, con l’ennesimo strattone, egli lasciò che la ragazza si allontanasse da lui.
“Perché mi fai male? Che ti ho fatto? Che ho fatto, io, per meritarmi questo, eh?” Le sue grida gli giunsero ovattate, sia per via della musica che per via di un rumore che aveva ormai imparato a conoscere fin troppo bene: gli spari di un’arma da fuoco. Come d’impulso, infatti, il biondo si volse e notò che presso l’entrata c’era Irish che aveva appena steso a terra un uomo dalla corporatura robusta. Una pozza di sangue si spargeva lungo i gradini all’ingresso, digradando e formando delle pozze sulle piastrelle lisce: una scia di un rosso scuro e grumoso scendeva in rivoli giù per il muro.
“Oh mio Dio.” La biondina si portò entrambe le mani alle labbra e sbarrò gli occhi, terrorizzata. La sua paura crebbe a dismisura quando notò che Gin stringeva fra le dita della mano sinistra una pistola piuttosto poderosa. Jake era forse diventato un poliziotto? La risposta non tardò ad arrivare. E avrebbe preferito di gran lunga non riceverla. Non in quel modo così brutale.
Gin deglutì e sparò un altro colpo presso l’entrata: la gente urlava in preda al panico, riversandosi nelle direzioni più disparate. Non si capiva più nulla lì dentro: la musica cessò di colpo, per lasciare spazio all’immane sottofondo di urla e spari.
Irish corse presso il bancone centrale e si riparò lì dietro: non appena si fu accovacciato a terra, le bottiglie sopra le mensole esplosero per via della scarica di pallottole. L’alcol fiottava a fiumi attraverso i vetri rotti. L’uomo si sporse più volte per poter far fuoco. C’era uno scontro fra bande ed era in atto un vero e proprio regolamento di conti. Affari con la droga e porcherie di quel genere. Roba per l’Organizzazione.
Gin era a pochi metri da Irish: aveva fatto fuori la gran parte degli uomini del loro rivale, così decise che era giunto il momento di concludere l’altra questione spinosa profilatasi quella sera stessa. Infilò la pistola nella cinta dei pantaloni e si avviò verso il retro del locale: di Lily, nessuna traccia.
Percorse l’intera sala, inghiottito dalla penombra. Dovevano aver spento gli impianti delle luci: intravedeva soltanto il piccolo spiraglio giallo delinearsi in terra e provenire direttamente dai bagni. Spinse la porta con l’avambraccio e il contrasto luminoso lo accecò momentaneamente. Un lungo corridoio interamente piastrellato di bianco si delineava di fronte a lui. Stette per un istante in silenzio e proprio in quel piccolo frangente, Gin sentì chiaramente dei tacchi. Stavolta fu il suo viso ad illuminarsi, ma di un ghigno sadico e perverso. Era in trappola.
“Tesoro, lo so che sei qui dentro. Vieni fuori.” La sua voce era falsamente canzonatoria e stucchevole. Il biondo si avvicinò al muro e camminando lentamente, prese a costeggiarlo: sfilò la pistola dalla cinta e fece scivolare la canna contro le piastrelle della parete al suo fianco. “Lilyyy …” La richiamò con tono più basso, ma concitato. “Avanti, non farti pregare.” Rise sommessamente. Avanzò ancora con passo felpato, poi spinse la porta dell’anti-bagno: la vide per pochissimi secondi, mentre si intrufolava nella porta che dava nella zona riservata alle signore e se la richiudeva alle spalle.
“Che sciocca. Non voglio mica farti del male.” Si stava abituando talmente tanto a quel tipo di vita, che riusciva persino a percepire la tensione sottile aleggiare nell’aria: la sentiva, anche se soltanto nel suo cervello, ansimare forte per via della paura. Toccava con mano il terrore provato dalla ragazza. “Siamo un po’ grandi per giocare a nascondino, che dici?” Il biondo pose fine alla scenata e diede inizio ai giochi: corse verso la porta del bagno delle donne ed aprì con uno scatto, spalancandola e scorgendo in quale dei sei bagni era scappata. Fu più lesto e rapido di lei, tanto che afferrò con una mano il pomello della porta e impedì che potesse richiuderla: sentiva la resistenza di Lily, seppur minima, al confronto della sua forza. Ma voleva giocare con lei. Decise di lasciare che lei si sforzasse.
“Lasciami! Aiuto!” La biondina gridò: alcune lacrime le rigavano il viso. “Aiutatemi!”
“Non ti sentirà nessuno. Là fuori saranno scappati tutti. Sei stata stupida.” Rise nuovamente: evitò che l’ennesimo strattone di lei facesse chiudere la porta.
“Jake. Ma chi sei diventato?” La sua voce ora, era simile ad un sussurro fra i molteplici singhiozzi. La sua presa divenne meno salda, finché la porta non si aprì completamente. La piccola si accasciò al suolo e Gin poté vederla mentre scivolando in terra, la sua gonna si apriva come la corolla di un fiore.
“Le persone cambiano.” Fu la risposta di lui. Una risposta che non aveva alcun significato. Si avvicinò a lei e strinse una ciocca dei suoi capelli, tirandola con violenza. “Devo porre fine alla tua esistenza, affinché quel che sono ora possa continuare a vivere.”
Lily lasciò che lui la sollevasse: le lacrime non cessavano di inondarle gli occhi e di colarle lungo le guance. Quando furono a pochi centimetri l’uno dall’altro, i loro visi si sfiorarono quasi, al punto che lei sentì nuovamente il suo profumo. Gin la spinse contro il muro del bagno e le piantò gli occhi sulle labbra, tremanti. “Piccoletta, spero che tu non mi abbia tradito in questi anni.”
Lei scosse timidamente il capo, nervosa. “No. Dopo che mi hai rubato la verginità in quel modo, non direi. Faccio fatica ad andare con uomo. Per colpa tua.”
Lui spinse una gamba fra le sue e la guardò, ancor più attentamente. La pistola si sollevò fino alla sua tempia. La sentì sussultare. “Credevo che fosse rimasto un bel ricordo.”
“Un bel ricordo un accidenti!” Un brivido la scosse violentemente. Stava diventando invadente e decise che quello era il momento per agire. Lily si scansò dal muro e con un colpo netto scansò il braccio con cui teneva la pistola: un colpo partì dritto nel bel mezzo di una delle piastrelle del soffitto, poi con un gesto altrettanto rapido, la biondina svelò un coltello che, dal principio, aveva trattenuto fra le dita. Glielo piantò dritto nell’addome e lo spinse in profondità, nella sua carne. Un fiotto di sangue scolò dalla lama acuminata.
“Brutta … puttana!” Ringhiò lui, mentre tentava di impedire che sgattaiolasse via.  Eppure la ragazza ci riuscì. Aveva avuto la sua piccola vendetta, e forse poteva ancora sperare nella salvezza. Le faceva male. Le faceva male il solo pensiero che lui potesse morire dopo quella coltellata. Che stupida, pensò.
 
 
 
 
 
Lily era seduta in un piccolo ufficio privo di mobilia: di fronte a lei c’era soltanto una logora scrivania in mogano, mentre al suo fianco, disposta lungo la parete dove vi era anche l’entrata, un vetro a specchio che non le permetteva di vedere chi vi fosse dall’altro lato. Immersa nel caldo tepore del suo golfino azzurro, ella si asciugò prontamente una lacrima. Era stata fortunata, dopotutto Jake, o meglio, Gin, non l’aveva malmenata. Tirò su col naso e poi vide la porta aprirsi.
Entrò una ragazza alta, magra, dal fisico asciutto e fasciato dall’elegante uniforme di polizia: la giacca era bluastra e anche la gonna: i tacchi la slanciavano.
Si avvicinò al tavolo con incedere posato, dopodiché puntò il faretto sul tavolo, diritto sul volto di Lily. Dopo aver posizionato la luce, ella si ravvivò i capelli scuri: un grande ciuffo di capelli neri le ricadeva sul visino sottile, mentre altre ciocche corvine le scivolavano poco più giù delle spalle. Aveva le labbra rosee per via del rossetto, il rimmel e un paio di occhi verdi che non avevano bisogno di essere evidenziati ulteriormente. La sua espressione divenne immediatamente seria.
“Te lo chiederò ancora una volta. Cosa sai di lui?”
“Agente, io non so nulla! Gliel’ho già detto.” Era stremata da quelle domande, poste a tamburo come una serie martellante. Quella donna era esteriormente così carina, ma al contempo così severa e dura.
“Balle! Sono tutte balle!” A quel punto l’agente Aiko Kirara si sollevò in piedi e appuntellò con forza i palmi delle mani contro la scrivania: un tonfo risuonò cupamente nell’ufficio, alcuni fogli si alzarono e si adagiarono mollemente in terra. Gli occhi della poliziotta erano fissi su quella biondina ormai abbattuta ed intimorita. “Lo stai proteggendo, ti rendi conto? Sei una stupida!”
Lily deglutì amaramente ed il suo sguardo vagò altrove.
Ma Aiko continuò con lo stesso tono sostenuto, addirittura via via più concitato ed alterato. “Ti rendi conto della cazzata che stai facendo?”
“Io so soltanto che lui non è più quello che conoscevo.”
“Ah, allora lo conoscevi, eh?” Batté il pugno contro il tavolo, e il rumore vibrò nell’aria. “E quando vi siete conosciuti?”
“Al liceo.” Lily non aveva voglia di riprendere quel frangente del suo passato. Non voleva riportare alla luce quei ricordi. Non voleva pensare ancora al coltello piantato nell’addome di Jake. “Eravamo compagni di classe.”
“E poi? Cosa è successo?”
E la biondina riprese a parlare: il suo racconto faceva acqua da tutte le parti, era evidente. Perché era altrettanto evidente che lei avesse volutamente omesso il loro coinvolgimento sentimentale.
“In questa storia manca qualcosa. Devi dirci quello che sai.”
Lily esitò. A quel punto però, dopo l’ennesimo silenzio, l’Agente Kirara si chinò verso di lei e le afferrò il golfino, tirandola a sé. “Quel mostro ha ucciso mio padre, lo capisci? Come devo dirtelo che sei l’unica che può aiutarci?” Glielo urlò praticamente in faccia. “Come?!”
La porta si aprì nuovamente; la biondina era inebetita, terrorizzata ed incapace di rispondere. Fortunatamente altri agenti erano accorsi per ‘liberarla’ da quell’interrogatorio divenuto oramai troppo opprimente e serrato. Era evidente che le indagini sarebbero state delicate, dato il coinvolgimento da parte di Aiko.
La donna uscì dalla sala degli interrogatori e si appoggiò contro il muro: si passò una mano contro il viso e trasse un sospiro amareggiato. Dio, le veniva da piangere. Aveva da poco perso il padre per mano di quell’uomo, i ricordi erano ancora vivi e pulsanti, tanto che una lacrima non mancò di riaffiorarle sulla guancia: la asciugò con la manica della giacca e tentò di calmarsi quasi subito. Quando sollevò il capo, ella vide la porta del corridoio aprirsi, poi un paio di guardie che trattenevano un uomo per entrambe le braccia: era alto, i capelli grigiastri e il braccio avvolto da una fascia bianca utilizzata per una fasciatura di fortuna. Mantenne il capo basso per tutto il percorso, tanto che i ciuffi gli ciondolavano di fronte agli occhi. Le passò proprio di fronte, a pochi centimetri.
Un poliziotto fece il suo ingresso qualche istante più tardi, giocherellando col manganello attaccato al cinturone.
“L’abbiamo beccato alla sparatoria di questa notte. E’ uno di quell’Organizzazione di cui si parla.”
Aiko rivolse nuovamente lo sguardo verso il fuggiasco, stavolta, inevitabilmente più interessata.
“Ma davvero? Interessante. Davvero interessante.” 







Ok, vi starete tutti chiedendo dove sia finita..
Ebbene, l'importante è che sia qui ora! Ahahahaha :D Spero che continuerete a seguire questa storia, e spero soprattutto di non aver perso colpi in questo periodo che non ho scritto. Si perchè, ho fondamentalmente studiato.
Per i test d'ingresso all'Università... :)
Medicina purtroppo mi è andato male, ma spero che Chimica e Tecnologie Farmaceutiche sia andato come spero *_* le graduatorie escono il 20 :) speriamooooooo!! *_* Diventerà una piccola Shiho Miyano in pratica ahahhahah :D Produrrò io l'antidoto per Shin :P
Ahahahahah :D Vi saluto, spero che vi sia piaciucchiato il chappy e... si entra nel vivo :P

Baciiiiiiiiiiiiii


Aya_Brea

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Capitolo 7
*** Kirschwasser ***


7. Kirschwasser




Quella notta faceva freddo, il vento spirava pungente e sembrava di essersi inoltrati con prepotenza nel gelo invernale.
Irish constatò che se non fosse stato per quella maledetta finestrella, avrebbe potuto sperare di sopravvivere. Se ne stava premuto contro il muro della cella e non riusciva ad addormentarsi. Eppure era stanco. Stanco e ferito: intorno al braccio destro aveva avvolta una benda bianca, ormai impregnata del suo stesso sangue. Avrebbe dovuto cambiarla e farsi una nuova fasciatura, ma in quelle condizioni, nulla era permesso.
Lo avevano sbattuto in isolamento, e per di più gli avevano riservato una delle peggiori celle che  avesse mai ‘visitato’ in tutta la propria vita: le piastrelle erano marce, il pavimento sudicio e solcato da profonde crepe. E poi rimaneva pur sempre quella maledetta finestra lì in alto, che con le sue pesanti sbarre non poteva sostituirsi neanche ad un rocambolesco piano di fuga.
Era intrappolato. E a dirla tutta cominciava a sentire anche i morsi della fame.
Le sue dita percorsero il volto stremato e segnato dagli eventi di quella notte: più si soffermava a pensare, più gli riveniva in mente il volto di quella Lily che scappava dal suo aguzzino. Se non fosse stata per quella ragazzina, forse Gin non si sarebbe lasciato trasportare e forse lui non si sarebbe ritrovato in quella schifosissima cella. Nel più completo silenzio, egli sollevò il capo ed intravide un cielo scuro e nero all’interno di quel piccolo spicchio di muro. Era notte. Gli altri prigionieri stavano probabilmente dormendo, cullati da chissà quale sogno ed appigliati a chissà quale speranza.
‘Maledizione, devo trovare un modo per fuggire.’ Già. Sembrava facile. Facile a dirsi, difficile a farsi. Ben presto però, la stanchezza sopraggiunse e lo colse quasi alla sprovvista, posandosi pesantemente sulle sue palpebre. Stava quasi per addormentarsi, quando improvvisamente egli sentì il clangore metallico di una porta che si apriva: tese immediatamente le orecchie e si mise in ascolto. Udì chiaramente il rumore dei passi di qualcuno che si stava avvicinando sempre più.
“E’ pronta la cena.” Irish riconobbe che si trattava di una ragazza e fu parecchio colpito. Si alzò in piedi e raggiunse la porta della cella. C’era una piccola grata metallica che li separava e la ragazza fu colta da un visibile sussulto quando si ritrovò ad un palmo dagli occhi glaciali di quell’assassino.
“E che c’è per cena?” Irish spinse la spalla contro la porta e si mise a braccia conserte, osservando attentamente il volto di quella ragazzina: aveva un visetto piccolino e sottile, dai lineamenti graziosi e sfuggevoli. I suoi capelli neri erano raccolti in una coda di cavallo, ma alcuni ciuffi le spezzavano la fronte, conferendole un’aria alquanto furba e sbarazzina. Un paio di occhioni verdi completavano il quadretto di quel piccolo angelo dalla pelle diafana. 
“Pollo e verdura.” Bofonchiò lei, non molto convinta. Indossava una scarna uniforme blastra e sblusata e sembrava che le stesse due volte, per quanto era larga e pesante.
Irish sorrise leggermente e continuò a fissarla. “Che aspetti?”
“Si. Scusa.” La piccola si morse il labbro con forza e le sue guance avvamparono violentemente. Si chinò in terra e lasciò che il piatto scivolasse al di sotto della porta, poi si sollevò nuovamente in piedi, ritrovandosi ancora addosso lo sguardo vigile e fiero di Irish.
“Sembri spaesata.” Sottolineò l’uomo.
La sua interlocutrice era visibilmente scossa e a dirla tutta, anche molto spaventata. “E’ che si tratta del mio primo giorno di lavoro. Mi sento a disagio.”
“E’ normale.” Annuì, l’altro, con tono sicuro. “Senti, le sai fare le fasciature?”
La colse alla sprovvista per l’ennesima volta e così balbettò confusamente qualcosa che aveva tutta l’aria di essere un ‘si’.
Irish le mostrò il suo braccio. “Questa benda è impregnata di sangue, avrei davvero bisogno di fare una nuova fasciatura. Non vorrete lasciarmi qui a morire dissanguato, vero?”
La ragazza scosse visibilmente il capo. “No, certo che no.”
“Perché non vieni a farmene una tu?” La osservò ancor più profondamente: fra di loro correva soltanto quella grata metallica.
“Non posso! Se mi scoprono mi licenziano, perderò il lavoro.”
“Ehi.” Irish doveva giocarsi tutte le proprie carte se voleva avere una speranza di salvezza. Le fece un cenno con l’indice e la invitò ad avvicinarsi di più alla grata, di modo che potesse sussurrarle qualcosa che sentisse soltanto lei. Una volta che il suo viso sfiorò la grata, egli prese a parlare con tono basso e silenzioso. “Ho qualcosa di meglio per te. Apri la porta.”
 
 
 
 
 
Gin aveva le mani ben infilate nelle tasche del suo morbido impermeabile nero, e con la solita ed ormai consolidata sicurezza, percorreva rapidamente il lungo corridoio che lo separava dall’ufficio Centrale dell’Organizzazione. Non appena fece il suo ingresso all’interno della sala, notò che al di là della scrivania vi era la donna dai fluenti capelli biondi, Vermouth, mentre di fronte a lei vi erano due grandi divani neri dove sedevano sia Irish che Vodka.
Lei sorseggiava beatamente un Martini, tenendo appoggiata la coppa del suo calice in cristallo proprio sul palmo della mano: il liquido giallo roteava mollemente sospinto da quel tocco delicato ed elegante.
“Oh Gin, eccoti, finalmente. Stavamo aspettando soltanto te.” Esordì quest’ultima con tono suadente.
“Irish, che ci fai tu, qui?” Gin evitò di rispondere alla donna e la sua attenzione ricadde immediatamente sull’uomo. Inaspettatamente, egli era seduto lì in piena tranquillità, con le braccia incrociate contro il suo petto ampio e possente.
“La prigione era un po’ troppo scomoda per uno come me. E poi ho sfruttato un’occasione decisamente succulenta.”
Vodka sollevò le sopracciglia. “Aniki, vieni a sederti.” Invitò il proprio compagno a prender posto al loro fianco, ma contrariamente a quanto richiesto, il biondo si appoggiò contro lo schienale del divano e diede le spalle ai tre. “Sto bene così.”
Improvvisamente era calato un grande silenzio: la luce al neon sfrigolava fastidiosamente e Gin ebbe l’impressione di esser passato da un luogo completamente illuminato a giorno, ad uno illuminato prettamente da scarna ed asettica luce artificiale: lì dentro sembrava come essere avvolti in una notte senza tempo, come perenne. La tensione era talmente tangibile che qualsiasi cosa pareva essere immobile: l’unica cosa provvista di movimento, era la polvere che si intravedeva per via dei raggi luminosi. Essa volteggiava lenta nell’aria, noiosa.
“C’è una questione di cui voglio parlarvi. Vi ho convocato qui proprio per questo motivo. Non di certo per farvi scannare l’un l’altro.” Vermouth ruppe finalmente quel silenzio e si prese del tempo per potersi scolare l’ultimo goccio del suo Martini Dry. Posò il bicchiere e gli altri non mancarono di notare l’impronta delle sue labbra disegnatasi sul bordo trasparente della coppa di vetro.
“Dicci. Siamo in ascolto.” Proferì Vodka, interessato.
La bionda accavallò con disinvoltura le proprie gambe nude e si osservò meticolosamente le unghie di una mano. “Dato che sei arrivato in ritardo, Gin, ti riassumerò brevemente la situazione. Irish è uscito di prigione grazie ad una novellina che faceva il turno di ronda notturna.”
“Vecchio Volpone!” Fu il commento di Vodka, che nel frattanto aveva assunto un’aria divertita e bonaria: gli mancava soltanto che battesse una pacca sulla spalla di Irish.
“Le modalità di come è avvenuto il tutto sono di scarso spessore. Quel che abbiamo scoperto, però, è di gran lunga interessante. Durante la fuga dei due, infatti, la ragazzina ha mostrato un grande potenziale. E’ un’abilissima tiratrice, per questo le abbiamo promesso un posto all’interno dell’Organizzazione, per evitare qualsiasi problema con la polizia, e per tenerla buona.” Vermouth trasse un lievissimo sospiro e con un colpetto della nuca si ravvivò i lunghi capelli biondi. Le sue ciglia scure e lunghe si muovevano con grazia sopra la cornea trasparente.
“Wow, un cecchino donna! Irish, sei stato veramente molto fortunato. Non è da tutti i giorni.” Il solito commentino ironico di Vodka non si fece attendere.
“Sarà una mezza cartuccia.” Gin sfilò la sua ennesima sigaretta dal pacchetto e se la portò fra le labbra ancor prima di accendersela: il filtro aveva quel sapore caratteristico che lo mandava in estasi. Qualche secondo più tardi un alone di fumo si alzò verso il soffitto.
“Il piano consiste in questo: ricordate quei trafficanti di droga Italiani che dovevano consegnarci dieci chili della loro roba?”
“Si. E quindi?” Il biondo inspirò avidamente dalla sigaretta, con tale veemenza che i presenti sentirono il suo respiro entrargli con prepotenza nelle narici.
“Questa notte è previsto il ritiro della merce.”
“E cosa c’entra la ragazza?” Il bestione dagli occhiali scuri mostrò ancora una volta la propria inadeguatezza: Gin pensò che doveva essere terribilmente stupido per non aver capito ancora nulla.
“Ma è ovvio. Vermouth vuole che uno di noi controlli la ragazza mentre ritira la droga.”
“Esatto, sweetie. Proprio così.” La donna si compiacque, poi si passò le dita sulla nuca. “Contrariamente a quanto accade di solito, le operazioni di ricezione saranno svolte da questa fantomatica ragazzina. Ma ho bisogno che due di voi la sorveglino. Vi apposterete silenziosamente presso il luogo dell’incontro e farete in modo che tutto fili liscio. Poi, una volta concluse le operazioni burocratiche andrete a prenderla e la scorterete presso il quartier Generale.”
“E chi andrà?” Chiese Vodka.
Irish si strinse nelle spalle e poi li osservò entrambi: il biondo gli dava le spalle. “Andate voi due, io me ne lavo le mani. Si sentirebbe al sicuro se mi presentassi io. Mi conosce già.”
Gin non lo fece, ma se avesse potuto farlo, avrebbe sicuramente tirato un sospiro di sollievo: non che Vodka fosse simpatico, ma l’idea di svolgere un altro lavoro assieme ad Irish gli faceva salire il sangue al cervello. Non lo sopportava, erano due personalità completamente differenti e completamente divergenti. Bianco e nero. Con Vodka invece c’era una specie di complicità che non era neanche lontanamente paragonabile all’amicizia, eppure si trovava a proprio agio a lavorare con quell’imbecille. “Si, è meglio per tutti.” Concluse, dunque.
“Bene. Per facilitare il riconoscimento abbiamo dato un nome in codice alla ragazza. D’ora in poi il suo nome sarà Kirsch.”
“Cos’è il Kirsch, un liquore?” Vodka guardò sia Vermouth che Irish, e fu proprio quest’ultimo a rispondergli.
“Credo si tratti di un distillato alla ciliegia.”
“Che schifo!” Vodka rise di gusto.
 
 
 
 
 
Gin non vedeva l’ora di respirare nuovamente l’aria alla luce del sole: percorse a ritroso il corridoio calpestato in precedenza, esattamente come aveva fatto qualche minuto prima. D’un tratto però, egli vide che a qualche metro da lui, presso le scalette d’entrata, vi era una ragazza dai lunghi capelli castani attorniata da un considerevole numero di valige e buste: una piccola marmocchietta dal caschetto color castano chiaro si era avvinghiata, petulante, ad una delle sue due gambette.
Il biondo alzò le sopracciglia: da quando era entrato a far parte dell’Organizzazione, l’uomo non si era mai interessato a quel che avveniva dalla parte degli scienziati: era come se in quel piccolo sotterraneo coesistessero due differenti realtà: nell’una, vi erano gli scienziati, i ‘cervelli’, gli esperti nella tecnologia farmaceutica e della sperimentazione tossicologica. Dall’altra invece, vi era la parte operativa: assassini, cecchini, bombardieri, killer spietati ed artificieri.
Braccio e mente vivevano in due globi distinti ed apparentemente privi di contatto reciproco.
Ultimamente Gin era venuto a conoscenza dei piani dell’Organizzazione, e pur non avendo mai approfondito l’argomento, sapeva che le ricerche erano focalizzate sulla produzione in serie di un particolare tipo di tossina. Si trattava di una nuova ricerca che avrebbe condotto alla creazione di un’arma letale ed invisibile: e questo era il tratto più interessante della sostanza. Una volta disintegrate le cellule dell’organismo ospite, sarebbe stato proprio quest’ultimo a demolire automaticamente la tossina. Era impensabile quanto l’Organizzazione avesse guadagnato in termini di notorietà ed efficienza, se quella “cosa” fosse andata in porto.
Il biondo si avvicinò ulteriormente, ma prima che potesse scorgere il viso della piccola biondina, un altro uomo si avvicinò alle due e la sollevò di peso, stringendola e avvolgendola fra le sue braccia.
Che scena patetica. Era da tanto che non abbracciava qualcuno. Non aveva neanche la più pallida idea di cosa significasse ricevere un abbraccio. Continuò a camminare ed osservò l’altra ragazza rimasta sola, sola con le sue valige. Tentava con evidente difficoltà di caricarsi in spalla tutto il possibile.
“Mi hanno lasciata qui da sola, maledizione.”
“Voi siete le sorelline di cui parlava Vermouth?” Gin si fermò proprio di fronte a lei: era una ragazza molto carina ed il suo corpo era magro e sottile. Le donava quel vestitino azzurro che aveva indosso.
“Si, siamo noi. Suppongo che tu ti riferisca a noi.” Cercò di sollevare un carico piuttosto pesante.
“Come ti chiami?”
“Akemi. Akemi Miyano.” A quel punto lei emise un gemito stizzito e lasciò perdere quel che stava facendo. Guardò l’uomo a pochi passi da lei e quel che la colpì immediatamente furono i suoi occhi: non le piacquero affatto, specialmente quello sguardo indagatore. Si sentì subito ‘nuda’ e priva di qualsiasi protezione. “Siamo venuti qui con mia sorella per continuare la ricerca ma fra qualche giorno Shiho sarà spedita nuovamente all’estero per poter proseguire gli studi.” La ragazza non fu in grado di sostenere gli occhi dell’uomo, così, con piena disinvoltura e portandosi una ciocca castana dietro l’orecchio, ella riprese ad armeggiare con le sue cose.
“Capisco. Beh, allora buon lavoro. Akemi.” Gin le riservò un ghigno, dopodiché, senza neanche averle detto il suo nome, proseguì per la propria strada.
Ad Akemi, quell’uomo non piacque per niente.
 
 
 
 
 
Era notte.
Il cielo nero di un’immobilità surreale.
Gin aprì il finestrino della sua Porsche e vi appoggiò il braccio, lasciando che penzolasse fuori a peso morto. Il suo compagno Vodka era lì affianco a lui e se ne stava stranamente in silenzio. Entrambi sollevarono lo sguardo e notarono una piccola sferetta bianca balenare nel buio, attorniata da innumerevoli nuvole grigiastre.
“Kirsch. Mi ispira.” Borbottò d’un tratto il biondo mentre i suoi occhietti stretti in delle fessure vagavano nell’infinità di quell’universo che li sovrastava, li inghiottiva letteralmente. Le stelle brillavano ad intermittenza ed alcune più delle altre.
“Spero che non sia così altezzosa come lo è Vermouth.” Esclamò Vodka.
Gin scosse piano il capo. “Alla fin fine sarà una in gamba.” Allungò il braccio per poter accendere la radio.
“Cosa metti, Aniki?”
Una melodia tenue e bassa li avvolse come per magia: soave, lenta, a tratti sognante. Era l’inizio di una famosa canzone dei Pink Floyd.
“Mi piace l’inizio di questa canzone. Shine on you crazy Diamond. Splendi diamante folle.” Il ragazzo scivolò più giù sul proprio sedile e si accese una sigaretta. Chiuse gli occhi: per qualche istante percepì soltanto la parte strumentale di quella splendida traccia.
Non c’era musica. C’era soltanto silenzio, nella sua mente. Il petto di Gin si gonfiava e poi si sgonfiava piano; Vodka comprese che era meglio non svegliarlo da quella dimensione onirica. Si premunì personalmente di osservare quando sarebbe arrivata la ragazza.
I cantanti dei Pink Floyd sembravano quasi sussurrare le loro parole, inframmezzati da schitarrate e da acuti melanconici.
“Shine on you Crazy diamond!” Cantavano entrambi. E Gin sorrideva fra sè, come se alcuni ricordi stessero riaffiorando in superficie. Erano il gruppo preferito di quell’idiota di suo padre.
“Però aveva del buon gusto.” Se ne uscì, così. Di punto in bianco e nella piena consapevolezza che Vodka non avrebbe mai potuto comprendere.
“Aniki, Kirsch è arrivata.” Lo richiamò strattonandolo per un lembo dell’impermeabile. “Eccola!”
Il biondo riaprì piano gli occhi e spense lo stereo con un rapido gesto.
Poté intravedere la ragazza che sostava proprio nei pressi di un grande albero di quercia. Si guardava intorno circospetta e si stringeva nel suo giaccone nero. “Mi sembra molto disorientata, siamo sicuri che sia Kirsch?”
“Ma si, Aniki, dev’essere lei. Corrisponde alla descrizione. Ed ha anche i capelli legati. E’ lei senza ombra di dubbio.”
“Vediamo come si comporta.”
Una sferzata di vento la costrinse a tirarsi su la zip del giubbotto. Non appena vide gli uomini con i quali doveva incontrarsi si avvicinò a loro e si presentò con una vigorosa stretta di meno. I due uomini in nero all’interno della Porsche la videro parlottare per circa una decina di minuti, dopodiché comparve finalmente la misteriosa valigetta. A quel punto lei si preoccupò di aprirla per visionarne il contenuto, dopodiché, al termine di un’attenta analisi, la richiuse e ringraziò cordialmente i negoziatori. Fu allora che Gin aprì la portiera della sua Porsche fiammante e la raggiunse, nel più completo silenzio.
“Kirsch.”
Il volto di quella piccoletta fu improvvisamente illuminato da un raggio di luna e nel bel mezzo di quella pelle così bianca, due occhioni verdi scintillarono, pieni del loro fascino. “Tu devi essere Gin.”
“Ottimo intuito. Dammi pure la valigetta.”
Kirsch gli porse la ventiquattrore ed entrambi salirono in macchina: lei si sedette sul sedile posteriore, fra quelli di Vodka e Gin.
“Devo dire che è stato entusiasmante questo primo incarico.” Commentò lei con un tono sprezzante e pieno di sarcasmo.
“Ehi, ehi, ragazza mia. Frena.” Esordì Vodka con un tono decisamente bonario e alla mano. “Volevamo semplicemente capire se potevamo fidarci di te. Tutto qui. La parte operativa arriverà. Arriverà dopo ma dovrai aspettare le solite procedure. Qui da noi funziona così.”
“Ci avete messo un anno per fidarvi di me.” Gin si intromise nel discorso. “Mettendomi in combutta con Irish.”
“Il rispetto bisogna guadagnarselo. Ed io non ho fretta.” Concluse Kirsch. “Potresti rimettere la canzone che c’era prima?”
Gin si voltò per qualche istante, nonostante le mani fossero ancora posizionate sul volante: la vide sorridergli a mezza bocca, spavalda.
“E va bene.”
Premette il pulsantino dello stereo e la macchina svoltò al primo incrocio utile, immettendosi poi in una di quelle minuscole stradine della grande Metropoli.








Scusateeeeeeeeeeeee per l'immenso ritardo, ma oltre ad essere successi spiacevoli imprevisti, la pennetta dove avevo la storia su Gin si è sfondata e ho dovuto riscrivere tutto da capo. Aihmè.. :( ed infatti non so quanto sarà fantastico questo capitolo. Anche se è piuttosto importante ai fini della storia. Che.. Ho completamente stravolto.
Avevo delle informazioni scritte sul mio blocco degli appunti ma una notte le ho cambiate, per via di un lampo di genio! :D ahahahaha
Spero vi piaccia questo capitolo!
E bando alle ciance, amici miei, sono ufficialmente una studentessa in CTF!!!! (Chimica e tecnologie farmaceutiche)! Che bello *________* sono davvero troppo felice!!! :) Diventerò una Shiho U_U 
<3
Un bacio a tutti, fortissimo. Grazie a tutti coloro che recensiscono, ed un grazie speciale a Monica che ha letto tutta la storia :P sei un tesoro! 


Aya_Brea


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Capitolo 8
*** La chimica dell'odio ***


8. La chimica dell'odio



Gin si strinse nel suo impermeabile nero e stette ad osservare il tramonto per qualche breve istante: conclusasi quella breve pausa di normalità, l’uomo sentì nuovamente il bisogno di riallacciarsi alle dolci consuetudini. Sfilò una sigaretta dal suo pacchetto di Lucky Strike e se la portò fra le labbra gelate dal freddo: la debole fiammella del cerino diede un lieve tepore alle sue mani ghiacciate: doveva ammettere che quella sera il Generale Inverno gli stava dando del filo da torcere. Il cielo rosso cremisi accennava a colorarsi di un violaceo tumefatto e bluastro.
D’un tratto, quel surreale silenzio fu interrotto da un breve calpestio sull’erba, tanto che il biondo non poté far a meno di voltarsi: fra i tronchi degli alberi intravide la piccola Kirsch che si faceva strada, stretta nel suo piumino colore del carbone.
“Buonasera, Gin.” Esordì la ragazza: non appena le sue labbra si dischiusero, una nuvoletta di vapore bianca si sollevò nell’aria. L’uomo in nero pensò che quel corpicino stava combattendo per regolare la temperatura interna: lui, invece, disponeva di uno spaventoso meccanismo omeostatico.
“Fa freddo, eh?” Concluse dunque, Gin.
Kirsch si sfregò le mani guantate l’una contro l’altra, poi quando fu investita dal fumo di sigaretta del suo interlocutore, un violento colpo di tosse la colse alla sprovvista. “Santo Dio, smettila con quella schifezza! Non vorrai mica ammazzarmi prima del tempo?”
Gin inspirò a pieni polmoni e trattenne il fiato, dopodiché, quasi per ripicca, buttò fuori il fumo proprio sulla faccina di Kirsch. “Falla finita, che vuoi che sia.” Ghignò.
“Che tu sia maledetto.” La giovane volse il capo altrove e qualche attimo più tardi fu sorpresa nell’essere avvolta da un altro odore, stavolta decisamente più piacevole. “Noto che hai fatto la doccia nel profumo, stasera. Hai per caso un appuntamento o sei sempre così ...” Non seppe come continuare la frase, anche perché non voleva dargli l’impressione di stare flirtando.
“Sarà il bagnoschiuma.”
“Eccezionale. Se anche il tuo amico fosse così attento all’igiene, forse riuscirei a lavorare con voi molto più volentieri.” Kirsch sorrise lievemente, poi si infilò le mani nei tasconi del suo giubbotto. “Che facciamo, entriamo?”
Gin sollevò la sua sigaretta oramai a metà. “Dammi il tempo di finirla. Intanto entra.”
La ragazza annuì, gli riservò ancora qualche altra occhiata prima di immettersi nel tunnel che l’avrebbe portata nel quartier generale dell’Organizzazione.
Gin si prese del tempo prima di entrare: dopotutto gli piaceva farsi aspettare, specialmente se era quell’arpia di Vermouth a doverlo attendere. Dentro il suo cervello sentiva già le chiacchiere arcigne che gli stava rivolgendo, le sue continue lamentele sul fatto che volesse sempre prendersela comoda, o sul suo comportamento ribelle. Aveva la smania di voler procedere sempre controcorrente, anche perché la normalità non rientrava nelle sue prerogative: lui tendeva all’eccesso, voleva oltrepassare quella linea che demarcava il confine fra la vita e la morte, voleva vivere sempre sul filo del rasoio.
Lasciò che il mozzicone della sigaretta si perdesse fra l’erbaccia; era giunto il momento di mettere alla prova quella ragazzina.
Vermouth e Kirsch lo aspettavano in un laboratorio: la ragazza dalla lunga coda di cavallo era seduta sul lastrone bianco, fra un lavandino ed un altro e alle sue spalle v’erano una decina di provette semipiene. Pareva una bimba con le sue gambette sottili che scalciavano avanti ed indietro. Vermouth invece era appoggiata contro il mobile centrale ed ostentava il suo solito atteggiamento di superiorità: “Dovrei comprarti un orologio. Ti aspettavamo.”
Gin avanzò noncurante delle solite prediche della donna: il suo sguardo cadde immediatamente su Kirsch e sul suo visino angelico, privo di qualsiasi preoccupazione, ed al contrario, completamente rilassato.
Vermouth non mancò di notare i loro sguardi, ma decise di infischiarsene. “Ho già accennato a Kirsch che stavolta l’obiettivo non è un regolamento di conti, ma è qualcosa di molto più grosso che ha a che fare col futuro della nostra Organizzazione.”
Gin strinse i denti. Non tollerava quelle introduzioni, lui era un mercenario, un killer professionista, non uno statista. Per ora si accontentava di svolgere delle semplici mansioni, tutto l’apparato che stava dietro alle questioni dell’Organizzazione non lo aveva mai minimamente interessato.
“Taglia corto, arriva al dunque.”
Kirsch sbraitò, agitandosi e gesticolando con le sue manine avvolte dai guanti neri. “Quante storie, lascia che parli.”
Il biondo le riservò un’occhiataccia: doveva mettere in riga quella sgualdrinella.
Vermouth inspirò: il sopracciglio destro ebbe un tic nervoso e si sollevò spontaneamente. “Dicevo: Miyano sta svolgendo delle interessanti ricerche sul nuovo farmaco che abbiamo intenzione di sintetizzare e pare che in un laboratorio non lontano da qui si stiano svolgendo delle sperimentazioni poco ortodosse. Il vostro compito è quello di recuperare i documenti compromettenti e gli studi effettuati dai loro ricercatori. E’ molto probabile, inoltre, che ci sia una spia che gli fornisce informazioni sul nostro farmaco sperimentale, per questo motivo, il vostro ultimo obiettivo sarà quello di disporre delle cariche esplosive nei pressi dei punti nevralgici della struttura. And then… Boom! L’edificio salterà in aria assieme a tutte le prove.”. La donna si scostò dal tavolo, facendo vibrare la doppia elica di DNA protesa verso il soffitto, poi si avvicinò ad una scatola posta nel bel mezzo della stanza. Si chinò per permettere ai due di visionarne il contenuto. C’era dell’esplosivo imballato e trattenuto da uno scotch marrone, un paio di mascherine nere per la protezione di bocca e naso, ed infine, due telecomandi per azionare il meccanismo di detonazione. “Qui c’è tutto l’occorrente. Dividetevelo. Quell’edificio deve sparire dalla faccia della terra.”
Kirsch scivolò già dal lastrone luccicante con un abile balzo e la sua coda saltellò sulla sua schiena come uno schiocco di frusta. “E come faremo a riconoscere i nostri documenti, Vermouth?”
Gin osservava entrambe le donne: l’una, elegante e posata, l’altra, disinvolta nella sua aderente tuta nera. Erano due individui completamente differenti.
“Credo che siano delle cartellette con una denominazione particolare. Il farmaco imperfetto, il metabolita secondario imperfetto, qualcosa di simile. Prendete tutti i fascicoli che ritenete interessanti.”
“Diciamo che me la cavo con la chimica, ma se avessimo a portata di mano un ricercatore, credo che sarebbe tutto più facile. Che ne pensate?”
Il biondo si leccò le labbra, poi le storse in una specie di smorfia. “Dovremmo portarci un imbecille al seguito? Ci rallenterebbe.”
Vermouth seguì Kirsch volteggiare fino a raggiungere il biondo: fra i due c’era una notevole differenza in termini di altezza, specialmente per la ragazza che non indossava scarpe alte, ma semplici anfibi. “Ma che dici! Secondo me invece è un’ottima idea, anzi, potremmo ottimizzare i tempi con un esperto al nostro fianco. Perché non coinvolgiamo direttamente Akemi?”
“E’ fuori discussione.” La donnona bionda si mise a braccia conserte, un gesto dichiaratamente difensivo. “Gli scienziati non possono uscire dalla nostra base.”
“Ed invece la trovo un’ottima idea.” Un’altra voce soverchiò tutte le altre e d’improvviso, senza alcun tipo di preavviso, comparve sullo stipite della porta, la figura magra e longilinea di Akemi Miyano, completamente a suo agio nel suo morbido camice bianco. “So che non è carino origliare, ma in questo momento voi siete proprio nel mio laboratorio.” Sorrise debolmente. Notò subito la presenza di Gin, che, come si sarebbe aspettata, aveva preso a fissarla intensamente con lo sguardo del predatore: evitò gli occhi dell’uomo ma si mantenne ferma sulla donna bionda.
“E’ rischioso. Lo sai?”
Akemi annuì. “Dal momento che sono io la responsabile del progetto, ritengo opportuna la mia partecipazione diretta alle operazioni.” Sino a quel momento aveva cercato di non guardare Gin, ma non appena ebbe pronunciato quella frase, si sentì la risata colma di scherno provenire propria dalla bocca di quell’assassino.
“Ci rallenteresti soltanto. Ma se ci tieni tanto potremmo anche fare un’eccezione.”
Vermouth ci pensò su per qualche secondo: “E va bene. Portate anche Akemi.”
La scienziata fece il suo ingresso definitivo nel laboratorio e prese posto di fronte ad una centrifuga per la separazione dei costituenti delle soluzioni. “Quando sarà ora di andare al centro di ricerche venitemi a trovare qui.” Concluse lei, risoluta.
Gin osservò il profilo di Akemi, delineato dalla linea dritta del camice bianco: non era cattiveria, la sua. Si trattava di pura deformazione professionale. E’ quella spasmodica curiosità e quell’ebbrezza terribile, che fanno sprofondare nel baratro anche lo scienziato più serio e ligio ai principi morali. Prima o poi, tutti i migliori facevano quella fine: attratti maledettamente dal proibito, e distrutti fatalmente dalla loro stessa, eccezionale creazione.





L’organizzazione preferiva colpire nel bel mezzo di una notte fredda e anche quella volta, gli uomini in nero non abbandonarono la loro abitudinaria modalità operativa.
L’automobile di Gin era parcheggiata qualche chilometro fuori città, in una distesa ove era possibile scorgere una vegetazione molto fitta ed intricata: le strade asfaltate si erano rapidamente trasformate in delle lingue sabbiose prive di contorni definiti, mentre la moltitudine delle villette aveva preso a digradare sempre più. Il centro di ricerca, infatti, sorgeva in una zona ampia, spaziosa, ma lontana da occhi indiscreti. Nel bel mezzo di una landa desolata e buia, Akemi, Gin e Kirsch intravidero la struttura delinearsi gradualmente. Erano edifici grigi e dall’aria vagamente futuristica, inseriti all’interno di un inquietante perimetro in filo spinato: fra il tessuto metallico dell’intelaiatura pendevano numerosi cartelli di pericolo, accompagnati da frasi realizzate in caratteri cubitali e scheletri che presagivano morte. Gin aveva lasciato la Porsche a qualche metro di distanza, preferendo piuttosto il percorso a piedi.
Nonostante fosse notte, e nonostante le attività di ricerche fossero ferme, alcune guardie stavano effettuando il loro classico giro di ronda. Le loro teste ciondolavano a destra e a sinistra; probabilmente il peso delle armi imbracciate ed il freddo che penetrava loro nelle carni, non doveva essere piacevole, tutt’altro. Erano stanchi. E questo Gin e Kirsch, non mancarono di notarlo.
Il biondo fece scivolare il mozzicone della sigaretta in terra ed impugnò la pistola. “Kirsch.” Il suo sguardo ghiacciato si posò fra le iridi tremolanti della ragazza. “Tu posizionerai gli ordigni sul lato retrostante e nelle condutture più profonde, nei sotterranei. Dovrebbe esserci il pannello comandi o la sala dove è centralizzata la corrente elettrica. Se piazzerai una bomba lì dentro, sarà più facile innescare una reazione a catena. Io e Akemi procediamo verso i laboratori.”
La dottoressa Miyano aveva il capo chino, le ciocche scure dei suoi splendidi capelli lunghi ondeggiavano a tratti per colpa del vento, e proprio al di sotto delle palpebre, gli occhi si stavano riempiendo di lacrime calde: una, piccola e furtiva, le rigò il viso, divenendo così, immediatamente fredda. Le guance erano rosse e pulsanti per via della tensione: a dirla tutta, Akemi aveva paura di quel che avrebbe visto lì dentro, perché una simile visione, ne era certa, non sarebbe stata dissimile da quel che l’aspettava. In quel centro di ricerca, lei avrebbe ritrovato il proprio destino. Un brutto presentimento l’aveva completamente bloccata. Quasi come di scatto, la mano dell’uomo biondo si serrò intorno al suo collo e risalì con violenza contro il mento: si ritrovò col volto reclinato all’indietro, e con gli occhi dritti in quelli cinici di Gin.
“Si può sapere che hai? Muoviamoci. E’ già un peso averti fra i piedi. Datti una mossa.”
Kirsch aveva già percorso una decina di metri e si era inoltrata fra la fitta vegetazione ormai scura come la pece per via dell’oscurità della notte.
Il biondo avvertì con fastidio, che le sue labbra erano secche e riarse; dovette leccarsele piano per poterne riacquisire la giusta percezione. La mano si strinse ancora al calcio della pistola, poi si sfilò dalla tasca dell’impermeabile, il silenziatore. Lo ruotò attorno alla canna dell’arma e la puntò in direzione della prima guardia per controllare che la mira fosse ben calibrata: un ulteriore sguardo gli permise di scorgere le posizioni delle sentinelle. Sul lato della principale porta d’ingresso v’erano delle guardie e decise che avrebbe fatto fuori semplicemente quelle quattro.
“Non fare passi falsi, qualsiasi cosa succeda rimani dietro di me.”
Akemi colse quell’ammonizione come un commento sarcastico e le parve piuttosto strano perché una frase simile, in un altro contesto, l’avrebbe addirittura confortata. Non ebbe neanche il tempo per pensare, che vide l’uomo sollevare il braccio per sparare il suo primo colpo. Seguì il percorso della pallottola e qualche secondo dopo il corpo della guardia crollò giù come un sacco dapprima ricolmo di farina e poi improvvisamente vuotato del proprio contenuto. Il suo cuore ebbe un sussulto non appena la mano di Gin si strinse intorno al suo polso: Akemi venne sbalzata dalla sua posizione e costretta a correre verso il filo spinato: quest’ultimo sfrigolava incessantemente e fu allora che la ragazza comprese il motivo di quegli innumerevoli cartelli affissi lì vicino. Erano fili elettrificati. Che orrore.
Una sentinella si volse e vide chiaramente la massa di capelli platinati ondeggiare a pochi passi da lui, ma fu troppo tardi perché quelle sue grida d’aiuto potessero fuoriuscire dall’epiglottide: il respiro gli si mozzò in gola ed un fiotto di sangue gli schizzò dalla tempia.
“Vai a vedere se ha una tessera.” La voce di Gin risuonò pacata e dal tono basso. Stava ordinando ad Akemi di frugare nelle tasche di un cadavere bello fresco.
“Non mi starai chiedendo di …?” La ragazzina rabbrividì nel ritrovarsi quegli occhi piantati su di lei: erano più eloquenti di qualsiasi altro tipo di ordine. “Va bene.”
“Sbrigati.” Gin strinse i denti e si avvicinò con cautela al dispositivo di lettura delle tessere magnetiche, posto proprio al fianco della porticina metallica che sbucava chissà dove. Le sue dita erano percorse dal brivido adrenalinico che solo la morte sapeva regalargli: nulla, in vita, era così eccitante ed al contempo, entusiasmante, che avere il pieno di controllo sulla vita delle persone. Il suo sangue pulsava di endorfine, non poteva nasconderlo. Non a se stesso. Sorrise a mezza bocca ed osservò il corpo di Akemi flettersi a terra: le sue manine rovistavano nei tasconi della guardia con un timore ed una premura ridicole. “Guarda che è morto.” Sibilò, colmo di sarcasmo.
La scienziata si sollevò da terra e in un improvviso impeto di rabbia gli scaraventò fra le dita quella fottuta tessera magnetica. “Io nutro del rispetto per le persone, al contrario di qualcuno qui presente.”
Gin osservò la scheda. “Come sta la tua piccola sorellina?”
Akemi deglutì: un piccolo bolo di saliva cercava di farsi strada lungo la faringe, trovando l’ostacolo della sua subitanea agitazione. “Cosa c’entra, ora?”
“Era per ammazzare il tempo.” Gin spinse la maniglia della porta ed il piccolo spicchio di ambiente che andava diradandosi mostrò ad entrambi un lungo corridoio illuminato soltanto da una luce lattea proveniente dal pavimento. La sua battuta gli piacque, per la strana analogia con quel che aveva appena compiuto poc’anzi.
“In realtà la stanno spedendo in America per continuare gli studi.”
“Magari si troverà più a suo agio, lontana da una sorella così eccessivamente premurosa e maestrina.” Rise sommessamente e nel frattempo compì i primi passi sul pavimento lastricato, completamente bianco e quasi trasparente: al di sotto si osservava un fitto intreccio di cavi colorati e circuiti. Akemi lasciò che quella conversazione morisse lì, e la sua attenzione fu fortunatamente rapita dall’ambiente così cupo e silenzioso.
“Credo che non si aspettino visite.” Gin avanzò ancora e si guardò intorno: un numero elevato di porte dava su quell’unico corridoio, e non aveva la più pallida idea di come ispezionare tutti quei luoghi e quelle stanze. Azionò la ricetrasmittente per potersi mettere in contatto con Kirsch.
“Dove sei?” Sussurrò il biondo. La risposta tardò ad arrivare, ma fu accompagnata come da uno strano crepitio.
“Sono fuori: sto mettendo il primo carico di C4. Voi?”
“Siamo dentro, ma è un labirinto, qui.”
“La zona era oscurata dal satellite, mi dispiace. Comunque i laboratori dovrebbero essere nei sotterranei.”
Akemi stava osservando ancora il pavimento, dal quale si levava una strana scia luminosa: era assorta nei propri pensieri, quando istintivamente afferrò il braccio di Gin. “I laboratori sono nella parte sotterranea, si. Solitamente è sempre così.”
Il biondo chiuse la conversazione con Kirsch senza che la ragazzina potesse avere l’opportunità di parlare: fu subito interessato al tono concitato che mostrava Akemi. Sembrava aver compiuto una scoperta a dir poco sensazionale. Continuò: “Anche da noi, abbiamo bisogno di materiale inorganico per svolgere determinati esperimenti, e quel tipo di materiale è contenuto in delle grandi cisterne. Ci sono degli enormi bomboloni che contengono questi elementi altrimenti presenti sottoforma di gas nell’atmosfera.”
“Dovremmo andare nei sotterranei?”
“Ci dev’essere un ascensore qui dentro. Basta trovarlo.”
Il biondo allungò il proprio sguardo e continuò a camminare: gli bastò svoltare l’angolo per scoprire la presenza di un ascensore: la pulsantiera sulla destra era grande, un bottone verde diffondeva un alone luminoso del medesimo colore. Il lungo corridoio parve ad entrambi ancor più ampio di quanto non lo fosse realmente. Non appena furono di fronte alle porte metalliche, Gin premette il tasto alla propria destra e si mise in attesa. “Santo cielo, avrei proprio voglia di una sigaretta.”
Akemi lo osservò: c’erano momenti in cui non gli sembrava così cattivo come voleva far credere, ma alla fine si convinse che probabilmente quella era tutta apparenza; probabilmente quella che indossava era una maschera, una bellissima maschera completamente sprecata e rovinata da quei due occhi pieni di odio. Un sibilo metallico accompagnò l’apertura delle porte, così che sia Akemi che Gin, potessero entrare nell’ascensore. Ci furono altri istanti di silenzio, ma tacquero entrambi.
Gin si tenne premuto contro la parete laterale, ma non appena le porte si aprirono nuovamente, egli tentò di articolare una fugace e rapidissima avvisaglia, rendendosi conto, pochi secondi più tardi, di aver sbagliato totalmente i propri tempi.
Akemi si vide strappata da terra e sollevata di peso nel preciso istante in cui le sue suole ebbero varcata la soglia: due mani robuste le si arcuarono alla gola, mentre un braccio possente le avvolse l’addome in una presa da cui non avrebbe potuto liberarsi in alcun modo. Gridò, ma fu tutto inutile. Trascorsero pochissimi frammenti di secondo: la ragazza fu letteralmente scaraventata contro il muro: la schiena scivolò contro il muro e lei giurò di aver sentito addirittura il suono macabro delle sue ossa rompersi per via del violento impatto.
‘Maledizione’. Il biondo era ancora lì, nel punto cieco dell’ascensore: la sua mano era stretta al calcio della pistola, stava soltanto aspettando il momento giusto per uscire allo scoperto e piantare un paio delle sue pallottole nel cranio di quegli idioti. Contò mentalmente fino a tre, poi si sporse con uno scatto: istintivamente, la prima cosa che vide, fu il corpo della ragazza steso in terra, poi, immediatamente dietro la sua testa, un rivolo di sangue che corrompeva irrimediabilmente il bianco della parete. Successivamente, i suoi occhi si sollevarono sulle uniformi delle guardie. Tutto questo avvenne in un lasso di tempo molto breve.
“Sparategli! E’ l’intruso, sono quelli dell’Organizzazione!” Uno dei due loschi figuri evitò prontamente il colpo sparato dalla pistola di Gin, e con un balzo furioso si lanciò in un violento corpo a corpo col biondo: Gin ricevette un pugno in pieno volto, sferrato con veemenza e con la precisa intenzione di fracassare il naso dell’avversario. L’uomo in nero sentì il suo cappello scivolargli lungo la schiena, poi percepì un dolore lancinante proprio in mezzo agli occhi. La vista si offuscò quasi subito, ma fortunatamente riuscì a riprendersi con rapidità, anche per via dell’affronto subito. Parò l’avambraccio contro il collo della guardia e lo spinse indietro in un impeto di rabbia, poi, non appena quest’ultimo mostrò il primo segno di cedimento, Gin ebbe il tempo per riafferrarlo alla collottola, con uno strattone. Non si era dimenticato dell’altro soldato lì affianco, che nel frattempo, stava tirando un paio di calcioni alla ragazza: Akemi urlava, piangeva, si contorceva fra innumerevoli spasmi di dolore, fin quando uno sparo silenzioso non riecheggiò nella sua testolina: il suo aggressore cadde in terra con un foro appena fresco, proprio nel bel mezzo del cranio. Il cadavere giaceva a pochi centimetri da lei, era così vicino che la scienziata dovette tentare di retrocedere ancor di più, nonostante fosse già parata contro la parete: la schiena le faceva male, incredibilmente male. Dopo l’ennesimo tentativo di colluttazione, Gin pose fine alla miserabile vita di quella sentinella, il cui ingegno era da sempre stato sprecato per compiere quel lavoro così ignobile: l’ennesimo proiettile di piombo si fece largo nel torace dell’uomo. L’ennesimo morto.
Akemi fece leva sulle braccia indolenzite, ed improvvisamente le sue ossa emisero uno scricchiolio sinistro, macabro. Attraverso le sue palpebre smorte e stanche, intravide la figura di Gin che si chinava con nonchalance per poter riprendere il cappello caduto in terra: anche il suo volto era ricoperto da sottili rivoli di sangue, ma pareva non curarsene affatto.
Soltanto più tardi, diedero un’occhiata al corridoio: era differente da quello al piano superiore. Le pareti erano ugualmente bianche, ma i pavimenti erano di metallo, il soffitto disseminato di gigantesche condutture. Un fiotto di acqua passò proprio sopra alle loro teste.
“Sono i rifornimenti di materiale chimico. Siamo vicini ai laboratori.” Akemi si avvicinò ad una prima porta, poi vi appoggiò piano il capo in modo che l’orecchio potesse premere contro di essa. Nel silenzio, ella poté udire chiaramente delle urla, dei rantoli: non appartenevano alla specie umana, ma parevano piuttosto provenire dalle fauci di qualche strano animale. “Sento qualcosa qui dentro.”
Gin sospirò, seccato. “Entra e da’ un’occhiata. Io rimango qui a perlustrare la zona.”
 
 
 
La porta dietro di lei si richiuse piano, fino a quando anche il più piccolo spiraglio di luce non si fu spento. Quei suoni gutturali divennero sempre più acuti, ma ad essi se ne accavallarono degli altri, dannatamente intensi e terrificanti. Akemi sfiorò il muro con le dita e procedette a tentoni nella disperata ricerca di un interruttore: trovatolo, un bagliore luminoso si diffuse nella parte inferiore della stanza. Su tutto il perimetro più basso correvano delle luci al neon che gettavano la loro luce rossa. La ragazza decise di compiere i suoi primi, timidi passi. Era tutto così inquietante là dentro. Il pavimento risuonava ma un rumore più forte degli altri scatenò letteralmente il putiferio: si sentì un continuo sferragliamento, poi dei lamenti animaleschi provenire in fondo alla sala. Fu allora, che Akemi riuscì a scorgere il resto del laboratorio: in un’ala nascosta, decine di gabbie arrugginite erano ammassate le una sopra le altre ed in ognuna di esse albergava un animaletto diverso. Ratti, scimmie, conigli. Erano tutti terrorizzati, tutti con gli occhi riversati fuori dalle orbite, tutti spelacchiati e costretti da qualche cartellino. La scienziata si morse il labbro ed avanzò verso di loro: una piccola scimmietta se ne stava attaccata alle sbarre della gabbia, serrando le sue zampe e reclamando aiuto con i suoi occhioni pieni di lacrime. C’era un velo di tristezza che ricopriva quelle cavie costrette vigliaccamente al di là delle sbarre.
“Piccola, ma come ti hanno ridotta? Come?” In un flebile sussurro, Akemi sfiorò le lunghe dita della scimmietta ed in breve anche i suoi occhi si colmarono di lacrime: il suo pensiero corse immediatamente alla sua sorellina, Shiho. Non voleva che quella realtà divenisse il destino dell’unica persona a cui teneva di più al mondo. Non lo avrebbe permesso. Sua sorella non avrebbe dovuto sporcarsi le mani a quel modo.
Inaspettatamente, la scimmia si dimenò frenetica, i suoi occhi schizzavano sangue: la ragazza dovette ritirare la mano con prontezza, per evitare che quella cavia la mordesse. Dio solo sapeva quali esperimenti si tenevano in quel centro di ricerche. Fu quasi felice nel sapere che nel giro di pochi minuti quella struttura sarebbe saltata in aria. Però aveva paura, voleva salvare quelle piccole creature innocenti divenute vittime di un’inutile carneficina.
“Si può sapere che diavolo stai combinando?” Gin aveva fatto il suo ingresso nel laboratorio e Akemi constatò che la luce rossa non faceva che aumentare quell’inquietante gioco di ombre che aleggiavano sul volto del biondo, ancora macchiato di sangue. Lo vide avvicinarsi al tavolo centrale, poi pian piano, egli prese a rovistare fra le mille scartoffie lì presenti. “Smettila di frignare e vieni a dare un’occhiata. Non ti ho portata per fare la crocerossina.” Gin non staccò gli occhi da quei fascicoli, né tantomeno dalle proprie mani che scivolavano fra mille documenti.
Akemi strinse i denti nell’udire quelle parole cariche di sarcasmo: come diavolo faceva, un uomo, ad essere tanto crudele e spietato? I suoi passi divennero delle falcate nervose. Afferrò il tavolo con entrambe le mani e dovette trattenersi dal rovesciarlo in terra: gradualmente, le sue dita sottili presero a visionare il contenuto di quei fogli. C’erano tantissimi appunti sparsi qua e là, alcuni scritti a penna, altri a matita: fra le mille righe svettavano esagoni e strutture molecolari, equazioni di reazioni chimiche, reagenti e prodotti che lei non aveva mai visto in vita sua. Trapelava, da quelle righe, un fascino ambiguo, particolare.
Gin la osservava, silenziosamente.
“Credo che siano tutte formule di neurotossine. Stanno effettuando degli studi tossicologici sugli effetti di alcune strane sostanze chimiche. Non ho mai visto queste molecole prima d’ora. Sono modificate. Qualcuno qui, dev’essere esperto in ingegneria molecolare. Sanno come manipolare i composti. E questo vuol dire che sono finanziati in maniera piuttosto generosa. Porto tutti questi fogli.” Asserì lei con convinzione disarmante, talmente decisa che persino Gin se ne stupì.
“Tutti? Come faremo a portarli?”
Akemi aggirò il tavolo e cominciò ad aprire ogni singolo cassetto, ogni singolo armadietto, nella speranza di trovare qualche grande busta in cui inserire tutti quei documenti.
“Muoviti, Kirsch ha piazzato l’ultima carica.”
La ragazza non riusciva a togliersi dalla mente il musetto di quella scimmia, che, in un brevissimo istante, aveva abbandonato i suoi spasmi di follia per lasciarle, o per meglio dire, per regalarle, un ultimo, straziante sguardo. Doveva andare avanti, non poteva permettersi di morire. La posta in palio non era mai stata così preziosa.
Alcuni minuti più tardi, Akemi aveva riordinato tutte le proprie carte nella busta, prelevando assieme a quelle informazioni, molteplici campioni disseminati sui banconi del laboratorio. Stava facendo scivolare l’ultima provetta di plastica nella sacchetta, quando un tonfo non la fece letteralmente sobbalzare. Gin fece altrettanto ma non ebbe il tempo per potersi voltare: una pistola fredda gli premeva contro la schiena. Riuscì a ruotare soltanto il capo, appena in tempo per poter vedere il volto del suo aggressore: una poliziotta dai lunghi capelli neri e col berretto blu calato sulla fronte.
Il biondo rise sommessamente. “Ci mancavano solo i piedi piatti. Chi vi manda?” La canna della pistola si inoltrò quasi fra le sue vertebre.
“Taci, cane!” Urlò lei. “Ci manda la polizia, chi vuoi che ci mandi? Non prendermi per il culo.” Un altro agente entrò dalla porta alle loro spalle, stavolta puntando il suo fucile verso Akemi. Quest’ultima lasciò che la busta scivolasse a terra e non esitò a sollevare le braccia in alto, spaventata. Le parole le si erano bloccate nei pressi dell’epiglottide, sapeva che non avrebbe spiccicato una sola lettera. Per la prima volta da quando l’aveva incontrato, ella osservò il volto placido di Gin e si ritrovò istintivamente a frugare nei suoi occhioni verdi, anch’essi fissi in quelli di lei, nel vano e disperato tentativo di richiedere aiuto: se l’avessero portata in centrale, non avrebbe potuto aiutare Shiho a liberarsi di loro. Per la prima volta, Akemi Miyano si ritrovò costretta ad implorare l’aiuto di quell’assassino. Ma accadde tutto così in fretta …
Il biondo tentò di divincolarsi dalla presa, si sentì un colpo sordo vibrare nell’aria, poi conficcarsi nel muro: a quello sparo il tripudio di animali nelle gabbie cominciò ad agitarsi vertiginosamente, latrando e sputando, gemendo. Era l’inferno. Gli artigli di quelle bestie graffiavano contro le sbarre ed in quel caos, Akemi giurò di aver visto la poliziotta brandire un’enorme siringa pescata alla rinfusa in uno di quei cassetti: la scienziata era crollata a terra, con le ginocchia doloranti per via della caduta, ma questo non le impedì di sollevare il capo e di vedere come l’agente Kirara avesse piazzato l’ago nel collo morbido di Gin. La vista le si era offuscata, sarebbe svenuta di lì a poco.
Il biondo lottò con tutte le proprie forze, ma quando quella cannula affondò nella sua carne, egli sentì chiaramente il liquido penetrargli nelle vene e cominciare a scorrere assieme al suo sangue. Qualcosa si stava mescolando ai suoi globuli rossi. Fu impossibile provare ad opporre resistenza. L’ultima cosa che vide,fu il volto di quella poliziotta, fiera nello sfoggiare il suo sorrisino tronfio.
“Ti farò a pezzi, dolcezza.” Gli aveva sussurrato, Gin, prima di svenire.








Ok, ok. Questo è decisamente un tempo da bradipo.
Ma son successe tante cose, specialmente dal punto di vista MEDICO-SALUTARE che mi hanno angosciata e non mi hanno permesso di scrivere. Davvero. 
Mi dispiace, scusateeeeeeeeeeeeeeee se non ho aggiornato, mi sento talmente arrugginita ora a scrivere ç_ç aiuto ç_ç spero che continuerete a seguirmi, nel bene e anche nel male. Anche perché qui la storia si complica veramente molto. 
In compenso, credo di aver scritto davvero un bel capitolo lungo, spero che vi sia piaciuto. 
L'università procede benissimo, l'ambiente è meraviglioso ed ho trovato davvero il mio futuro. 
Un abbraccio a tutti, from la pazza...



Aya_Brea

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Capitolo 9
*** Interrogatorio a doppio taglio ***


9. Interrogatorio a doppio taglio



Nero. Intorno a lui non c’era nient’altro che oscurità. Riaprì gli occhi e per qualche istante credette addirittura di esser diventato cieco. Ma poi comprese rapidamente che nonostante le palpebre spalancate, il nero continuava ad offuscargli completamente la vista. Ci vedeva, eccome, ci vedeva benissimo, ma non avrebbe saputo distinguere il luogo nel quale era stato scaraventato.
Gin tentò di ricostruire mentalmente quel che era accaduto prima che l’agente della polizia lo tramortisse, ma i ricordi della sua mente erano terribilmente vaghi, confusi, intrecciati gli uni con gli altri in un groviglio inestricabile. Pian piano, assieme alla coscienza che diveniva vivida e tangibile, egli cominciò a percepire anche le altre sensazioni che sino ad allora erano rimaste sopite. Un dolore tremendo si infiltrava fra le ossa dei suoi polsi, stretti saldamente da uno stralcio di corda ruvida e robusta. Provò ad articolare qualche movimento, ma si ritrovò semplicemente ad arcuare le dita indolenzite.
‘Che diavolo? Dove mi trovo?’ A quel punto se lo chiese mentalmente, per appurare che non fosse diventato pazzo, che non fosse vittima di qualche strana droga somministratagli da quei luridi piedi piatti. Eppure la dimensione onirica lo stava abbandonando, e quella situazione spiacevole stava divenendo una tragica realtà. Si slanciò con il corpo in avanti e si rese conto di essere appeso per i polsi al soffitto; le scarpe strusciavano ancora al suolo poroso, ma nonostante ciò, era in grado di sbilanciarsi in ogni direzione volesse. Fu allora che ricollegò il tutto: i polsi dolenti, le braccia come atrofizzate e il freddo che lo scuoteva visibilmente. Si morse il labbro con forza, volendo entrare con più prepotenza nella propria coscienza: “Ehi! Bastardi!” Si dimenò: il gancio a cui era avvolta la corda cigolava ad ogni suo spasmo di rabbia. Il biondo strinse i denti più che poté: quella condizione lo stava letteralmente mandando al manicomio. Un tipo come lui non riusciva a rimanere costretto in una gabbia, era contro la sua stessa natura selvaggia.
Pochi minuti più tardi si sentì il rumore di una porta aprirsi; Gin risollevò il capo con uno scatto, con una tale rapidità da sentire chiaramente i muscoli rimettersi in moto. Udì una serie di passi e comprese che doveva trattarsi di due individui: il ticchettio lento e regolare doveva appartenere ad una donna, mentre il sordo rumore di anfibio, doveva necessariamente essere quello di una guardia nerboruta. Stavano procedendo nella sua direzione, a giudicare dall’intensità crescente di quel calpestio.
La porta della sala si aprì con violenza e in un secondo l’ambiente venne rischiarato da una fortissima luce al neon. Gin non riuscì a trattenere un lamento contrariato: quel bagliore improvviso lo accecò, come coltelli conficcati nelle pupille. “Dannazione!”
Il biondo era nelle medesime condizioni in cui lo avevano lasciato, Aiko Kirara poté constatarlo con una brevissima occhiata. “Vedo che finalmente ti sei svegliato, Jake.”
Gin aveva ancora gli occhi semi-chiusi. Quando li riaprì sentì un tonfo balenargli in petto: quel nome, nonostante non volesse ammetterlo, gli procurava un fiotto di emozioni contrastanti, ma al di fuori di quelle labbra, risuonò alla stregua di vero e proprio, dolore fisico. “Jake? Non conosco nessuno con questo nome.” L’uomo aprì gli occhi e finalmente vide la donna che lo aveva ridotto in quello stato. La divisa della polizia, bluastra e ricca di ornamenti, le calzava alla perfezione, come se fosse stata realizzata su misura per quelle forme così volutamente celate. Le dedicò uno sguardo molto interessato e profondo.
“Strano, perché la tua amichetta, Lily, dice di aver conosciuto un ragazzo molto speciale con tale nome.” Aiko incrociò le braccia al petto e guardò l’omone al suo fianco, anch’egli munito di uniforme e di manganello alla cintola.
“Oh. Donne. Si innamorano sempre di soggetti lontani dalla loro portata.” Gin non smise un istante di fissare la donna, nonostante la presenza dell’altro poliziotto fosse di gran lunga più ingombrante.
“Si dice che le mele buone si trovino sempre sulla sommità dell’albero. E ho imparato a mie spese che ciò corrisponde al vero. Magari le piacevi davvero.”
Il prigioniero strinse i denti ed assunse uno sguardo minaccioso: si diede la spinta all’indietro e tentò di raggiungerla, ma immediatamente, il poliziotto al fianco di Kirara si sfilò il manganello dalla cintura e gli assestò un colpo dritto al fianco. “Non ci provare.” Il biondo si placò momentaneamente, ma grazie a quel colpo capì di essere a petto nudo. I bastardi volevano torturarlo? La polizia non poteva adottare quei metodi così drastici.
Nel silenzio, riecheggiò la risata di Aiko, divertita più per quell’affronto, che per le percossa. “Stai buono lì, Jake. Lo sai che non hai via di scampo. Almeno finché non ci avrai detto quello che vogliamo sapere.” Cominciò a tracciare un cerchio intorno al biondo, che, contrariamente a lei, rimase immobile nella stessa posizione: il fianco gli bruciava. “Sappiamo dell’Organizzazione, sappiamo del tuo passato, abbiamo tutte le tue credenziali e sappiamo persino dei trascorsi malavitosi di tuo padre. Non ti conviene tornare pulito e carino a casa tua. O mi sbaglio? Non è così che funziona da voi? Se qualcuno scopre qualcosa del tuo passato, o si mette sulle tracce dell’Organizzazione deve morire. Mi sbaglio? Io non credo che la facciano passare liscia a quelli che ci forniscono le piste su cui indagare.”
“Vorresti dire che per me è meglio collaborare con voi piuttosto che ritornarmene a casa? Io non ho alcuna Organizzazione con cui fronteggiarmi. Sono solo.” Sorrise, sardonico. “Solo come un cane, agente.”
A quel punto Kirara si avvicinò a lui. “Ma non farmi ridere. Io te l’ho detto, ti conviene parlare.” La ragazza si fermò a qualche centimetro da lui: ne poteva annusare l’odore, poteva sentire il suo respiro empirgli i polmoni e gonfiargli mollemente il petto, con regolarità. Era come fronteggiare una tigre in gabbia: finché rimaneva fra le sbarre non doveva temere, non ne aveva motivo, ma se quelle barriere fra lei e lui si fossero rotte, forse avrebbe temuto quegli occhi così spiritati e quel sorriso ricolmo di sarcasmo.
Gin fece ciondolare il capo verso sinistra: rimase a fissarla come una statua di sale. 
Quel giochino si prolungò per una decina di minuti, fra le innumerevoli e martellanti domande della donna, e le battutine colme di sarcasmo del biondo.
Gin, ormai stremato da quell’interrogatorio serrato e borioso, lasciò che sul volto gli si dipingesse un ghigno smaliziato: “Sai, agente, non mi aspettavo un simile trattamento da voi. Da un corpo così onorevole come quello della polizia. Non avete un codice morale da dover rispettare?”
Aiko Kirara manteneva le braccia strette al petto, in un gesto quasi inconsciamente difensivo, e le ulteriori domande del biondo la infastidivano. Si stava spazientendo, soprattutto perché quel tizio credeva di essere una spanna al di sopra di loro: lo avevano in pugno, lì, nel bel mezzo di una cella, ammanettato, eppure lei non riusciva a sentirlo ‘suo’, non riusciva ad imporre la sua autorità su quell’assassino. Era come se con quei suoi occhi di ghiaccio, egli fosse irraggiungibile, inafferrabile, continuamente sfuggevole come una sferzata di vento. Un vento freddo che rischiava di raggelare anche le sue intenzioni più ardite.
Si sforzò di sorridergli con scherno: “Sai, il mondo non è tutto rosa e fiori come lo vogliono dipingere le televisioni, i giornali. Son tutte stronzate. I poliziotti hanno il preciso compito di far rispettare le leggi, ma più di ogni altra cosa, hanno a cuore il senso della giustizia. E voi rappresentate tutto quello in cui non crediamo. Se per arrivare al cuore della vostra organizzazione abbiamo un solo uomo che vi appartiene, sfruttiamo ogni mezzo in nostro possesso. Lecito o illecito che sia. E smettila di farmi la predica. Non sei credibile, neanche un po’. Jake.”
“Ti piace proprio chiamarmi con quel nome, non è vero?”
“Magari ti è rimasto ancora un briciolo di umanità per ricordarti che non sei un uomo in balia di un lurido ideale, ma che hai avuto anche tu un passato. Non mi interessa se si è trattato di un passato burrascoso, o se è stato il periodo più bello della tua vita. Mi interessa che tu comprenda quanto sia importante costruire noi stessi sulle nostre fondamenta. Non rinnegare quello che sei stato.”
Gin si inumidì le labbra, ormai secche per via della condizione precaria in cui si trovava da più di quattro ore. Cosa diavolo si era messa in testa quella poliziotta? Non riuscì a comprenderla, e non riuscì a capire se quelle sue parole fossero soltanto un mero tentativo di estorcergli delle informazioni o di muoverlo a compassione.
“Senti, non so quali problemi tu abbia avuto nei miei confronti, ma vorresti spiegarmi per quale motivo mi stai dando la caccia?” Il biondo sbottò, improvvisamente, con un tono da cui trapelava il suo avvilimento, ma anche la sua sincera curiosità.
A quel punto il volto della ragazza si rabbuiò e alcuni ciuffi corvini le ridiscesero sulle palpebre basse: stava guardando in terra, nel tentativo di trovare le parole, nel tentativo di scacciare quelle orribili immagini dalla propria mente. Si slanciò verso il prigioniero e in un impeto di rabbia si attaccò alle sue spalle, scuotendole vigorosamente: i suoi occhi erano spalancati e pieni di lacrime, ma i suoi lineamenti tutt’altro che avviliti, al contrario, dimostravano quanto sangue le stesse scorrendo nelle vene. 
“Hai ucciso gli uomini di cui mi fidavo, hai ucciso i miei compagni di lavoro, i compagni con cui ho condiviso tutto. La mia vita, le mie speranze, i miei fallimenti, le mie fatiche, le mie lacrime e le gocce del nostro sudore! Hai ucciso un pezzo del mio cuore, portando via loro. E poi …” Il biondo non mostrava ancora alcun segno di cedimento, e questo la mandava in bestia, le faceva esplodere la carotide. “Hai fatto fuori mio padre. Il mio orgoglio … La mia gioia.” Gli sferrò uno schiaffo di manrovescio e si allontanò immediatamente, per evitare ogni sua reazione.
Ma dopo che quell’esternazione le aveva lasciato un poco di serenità, osservò che lui non aveva battuto ciglio, non aveva mostrato alcun tipo di cedimento. Nulla. Era rimasto immobile nella medesima, scomoda posizione in cui lo aveva lasciato.
Piombò un silenzio tetro come la morte, un silenzio terribilmente opprimente che costrinse Kirara a pensare che probabilmente si era esposta troppo; si sentì fragile, si sentì di aver tradito se stessa per essersi confidata con un uomo come quello.
Ma fu allora, proprio quando si stava mentalmente maledicendo, che Gin si schiarì la voce e sorrise nuovamente. Alzò lo sguardo verso la donna.
“E’ buffo. E’ buffo come per te il passato sia stato importante. Ma per inciso, se avessi provato a costruire qualcosa sulle mie fondamenta, sarebbe crollato tutto. Perché era marcio sin dall’inizio, i mattoni erano così fragili e pieni di crepe, che avrebbero potuto cedere da un momento all’altro. E così ho deciso di buttar via tutto e ricominciare da capo. In un altro terreno, con altri mezzi e con altri materiali. Fu allora.” Inspirò, poi il suo sguardo cominciò a vagare altrove, come per visualizzare i momenti salienti della propria vita. “ … che mi sentii davvero libero. Senza radici, senza passato. Un uomo nuovo.” La citazione non era stata inserita alla sprovvista, ma col preciso intento di riportare alla memoria la creazione dell’uomo nuovo, un atto propagandistico così intensamente desiderato da tutti i regimi totalitari.
“E’ proprio questa idea da cerebrolesi che vi spinge tutti all’Inferno. Non si può rinnegare il passato.” Lo ripetè, la poliziotta.
“Io e te siamo molto simili. Entrambi siamo stati segnati dalla morte di qualcuno. Ma è paradossale come le diverse prospettive di un medesimo avvenimento ci abbiano portato a vivere due vite completamente opposte. Tu, immolata per quella che tu definisci giustizia, io, immolato per una mia causa personale. O per la libertà.”
“Smettila di sparare palle. Ne ho abbastanza. Marino, occupatene tu.” Aiko strinse i denti con stizza e si avviò alla porta, non prima di aver fatto un cenno al suo collega.
L’uomo robusto si sfilò il manganello dalla cintura e prese a farlo roteare con fare minaccioso.
“Non parlerò, neanche sotto tortura.” Gin sorrise con strafottenza, la stessa strafottenza che non mancò di abbandonarlo neanche quando i primi colpi gli si abbatterono sul torace nudo e svilito. Non poteva dargliela vinta.
 
 
 
 
 
Kirsch era un bagno di acqua: la pioggia l’aveva colta alla sprovvista prima che potesse mettere piede nella sua stanza. Da un po’ di tempo aveva preso l’abitudine di dormire presso l’Organizzazione: la sua camera era piccola e disadorna, ma aveva tutto l’indispensabile perché potesse trovarsi comunque a suo agio. Un letto morbido, una scrivania con parecchi cassetti e un termosifone che buttava aria calda ventiquattro ore su ventiquattro. E in quella sera così maledettamente fredda, non desiderava altro che rintanarsi in quel suo piccolo nido e farsi una bella dormita. La strigliata per via dell’arresto di Gin se la sarebbe beccata il giorno seguente.
Akemi era stata fortunata, ed anche grazie al suo aiuto era riuscita a svignarsela prima che i poliziotti la stanassero definitivamente. Gin, invece, era finito dritto in gattabuia. Chissà come se la passava.
Percorse il corridoio principale in religioso silenzioso, calpestando mollemente il pavimento per timore di far troppo rumore: alcune goccioline di acqua picchiettavano in terra con ritmo lento e regolare. I suoi vestiti erano completamente zuppi e la tuta nera le aderiva fastidiosamente contro il corpicino ghiacciato. Si sfilò l’elastico della coda e una folta massa di capelli neri si sparse sulle sue spalle e sulla schiena madida d’acqua. ‘Maledizione, mi prenderò una bella polmonite.’ Si trascinò pian piano verso la sua stanza e prese a rovistare nelle tasche del suo zaino per trovare le chiavi. Finalmente afferrò il portachiavi, poi spinse la porta con estrema lentezza e con un gesto dettato dall’abitudine procedette a tentoni per accendere l’interruttore della luce. Con uno scatto, la lampadina sul soffitto si accese quasi immediatamente, diffondendo un caldo bagliore nella stanzetta. Non fece neanche in tempo a voltarsi, che percepì chiaramente la presenza di qualcuno. Fu allora, che si volse.
Sul suo letto, immacolato e con le coperte ancora tirate su, era disteso un uomo. Aveva le gambe accavallate e la sigaretta morbidamente appoggiata fra le labbra.
“Irish?” Kirsch si richiuse sbutio la porta alle spalle. Il suo tono l’aveva letteralmente tradita, facendo trapelare quanto quella visita inaspettata l’avesse indispettita. In realtà, il cuore aveva preso a martellarle in petto senza volersi fermare.
L’uomo si sollevò seduto e spense la sigaretta nel posacenere adagiato sul comodino. La guardò con fare indagatore, scrutandola da capo a piedi. “Come mai sei arrivata così tardi?”
La piccoletta deglutì e si morse vistosamente il labbro inferiore. “C’era traffico, ho dovuto aspettare che la polizia concludesse il giro di ronda. Non ho potuto fare nulla per liberare Gin, mi dispiace.”
“Ce ne hai messo di tempo per capire che non ce l’avresti fatta.”
“Non potevo dare nell’occhio, Santo Cielo.” Kirsch cominciava ad infervorarsi, ma lo faceva in maniera così nervosa da incrementare soltanto i sospetti dell’uomo in nero.
Irish si alzò in piedi e le si avvicinò: quest’ultimo era persino più alto e robusto di Gin e la loro differenza non faceva che metterla ulteriormente a disagio. Si sentiva piccola piccola al cospetto di quell’omone che le stava facendo il terzo grado.  
“Non alterarti, carina. Volevo farti soltanto qualche domanda. Sai che siamo sempre parecchio diffidenti nei confronti delle reclute, no?”
Lei annuì con poca convinzione, ma decise ugualmente di non controbattere. Prolungare la conversazione non era la migliore delle scelte, per cui decise di starsene in silenzio a guardarlo negli occhi. L’uomo le posò una mano sulla spalla e la sentì sussultare. “Fatti una doccia calda e cambiati. Non vorrai prenderti una polmonite.” Il suo tono era cambiato in una manciata di secondi, il chè non fece altro che sorprendere Kirsch, rimasta allibita nella sua contemplazione. Quella premura le fece dimenticare completamente tutto il resto. E quando l’uomo fu uscito dalla stanza, ella si rese conto di non avergli neanche chiesto perché fosse entrato lì e soprattutto, per quale motivo lo avesse fatto.
 
 
 
 
 
La notte era ferma, l’aria sospesa ed immobile: un sottile strato di nebbia si sollevava dal basso verso l’alto, creando una candida sospensione di umidità. La pioggia aveva cessato di riversarsi sulla terra, ma le strade asfaltate erano ancora bagnate e disseminate di pozzanghere nere. Era tutto così etereo e stantio da sembrare finto. Di tanto in tanto si udivano i malinconici latrati di qualche cane randagio e persino le automobili sembravano essersi smaterializzate.
Gin non riusciva a prendere sonno, anche per via di quell’atmosfera così dannatamente fittizia e noiosa. Era in pessime condizioni e per via delle torture subite aveva anche difficoltà a respirare normalmente. Quei bastardi.
La porta della cella si aprì piano, rivelando uno spicchio di luce frangersi sul pavimento. Di nuovo quella poliziotta. Ma stavolta sembrava venire in pace. In qualche modo, Gin, glielo lesse sul volto.
Il silenzio del momento fu interrotto dal rotolio fragoroso di una lattina, poi la porta si chiuse ancora. Fortunatamente, dalla finestrella posta in alto, proveniva un bagliore lunare che illuminava la stanza quasi a giorno, differentemente dalla sera precedente, nella quale quella piccola finestrella era stata chiusa.
Le sagome di entrambi erano allora, facilmente distinguibili, ed ognuno riconobbe la fisionomia dell’altro, contornata da una sottile linea biancastra.
Aiko si piazzò di fronte al corpo dell’uomo, teso e rovinato in più punti per via delle percosse di qualche ora prima. C’era una pozza scura del suo sangue, sotto di lui, e i lividi gli macchiavano l’addome, assieme ad alcuni rivoli rossi che gli scivolavano sul volto.
“Ti hanno conciato per le feste, eh?” La ragazza parlò sottovoce, come se quella visita non le fosse stata ordinata da qualcuno, ma fosse soltanto il frutto della propria volontà. Il silenzio era un vincolo sacro che nessuno dei due si sarebbe premunito di spezzare.
Gin rise aspramente e a tratti dei colpi di tosse lo colsero di sorpresa. “Molto gentile da parte tua, venire a farmi visita a conti fatti. Il tuo collega me le ha date di santa ragione.”
“Ha fatto bene. Non ti sei ancora deciso a collaborare, piuttosto?”
“Era animato dallo stesso sentimento che mi spinge ad uccidere. Quando capirete che voi siete una razza addirittura peggiore della nostra?”
“Non cambiare discorso.” Il tono di Aiko si scaldò quasi subito.
“E’ stata quella stupida a parlare vero?” Gin aveva ripreso nuovamente la propria serietà.
A quella domanda la ragazza aggrottò le sopracciglia e parve crollare giù dalle nuvole, come dimostrò anche la propria espressione disorientata. “Di chi stai parlando?”
“Di Lily. Lo sai benissimo. L’avrete spremuta come un limone.”
“Lily non ha colpe. Non le torcerai un capello.”
“Ha la colpa di aver parlato e di avermi gettato nel disonore. Ma anche lei avrà quel che si merita.” Gin socchiuse piano gli occhi: Aiko compì qualche passo indietro finché la sua schiena non aderì al muro freddo della cella, dopodiché si lasciò scivolare a terra. Non capiva per quale motivo, ma improvvisamente si era sentita stanca e spossata, aveva necessariamente bisogno di starsene in quella posizione. Forse un calo di zuccheri, uno sbalzo di pressione dovuto alla tensione; ma non riuscì a spiegarselo razionalmente.
Il biondo non fiatò ulteriormente, ma quando riaprì gli occhi, vide semplicemente che si era accasciata al suolo, il suo respiro lento arrancava faticosamente. “Che ti prende, poliziotta?” Esclamò, sinceramente colpito da quella sua insolita reazione.
Gli occhi di lei si offuscarono di una patina lattea che le impedì di mettere a fuoco, tutto intorno aveva preso a vorticare rapidamente, il buio la stava pian piano inghiottendo da dentro, la coscienza dapprima vivida e chiara la stava abbandonando come la flebile fiammella di un fiammifero. Poi non riuscì più a comprendere nulla di quel che le stava succedendo.
L’uomo si sentì nuovamente spedito nella sua atmosfera cupa e silenziosa, ma stavolta, animato da uno spirito di sopravvivenza. “Sogni d’oro, Agente.” Sibilò.
 
 
 
 
 
Non sapeva chi fosse stato ad avvelenarla, non sapeva per quale motivo l’avessero fatto, e soprattutto non era riuscito a riconoscere l’ombra della figura che di soppiatto, si era introdotta nella cella per liberarlo dalla sua prigionia. Si ricordava semplicemente del sollievo che aveva provato quando gli erano state recise le corde che costringevano i suoi polsi e le sue braccia in quella posizione innaturale. Dopodiché, fuggire, era stato semplice come mandar giù un bicchier d’acqua. Ma di quella persona, nessuna traccia. Forse si era trattato semplicemente di uno dei suoi colleghi mandato in avanscoperta per dargli una mano.
Lo stradone su cui si affacciava il viottolo della loro base era un acquitrino: ovunque v’erano ampie pozze di acqua, i marciapiedi laterali erano franati in più punti e avevano riversato la terra bagnata sulla strada: soltanto alcune automobili sfrecciavano lungo il selciato, sfolgorando grazie ai loro fari gialli. Gin maledì l’ennesimo automobilista che aveva percorso lo stradone, poiché nel tentativo di evitare un gatto randagio, per poco non lo aveva beccato. L’unico regalino che gli aveva riservato, era stato un bel bagno d’acqua.
‘Brutto bastardo, avrebbe potuto far fuori quella bestiaccia.’ L’uomo trasse un profondo sospiro, poi si appostò al fianco della porta d’ingresso, stremato: fu allora, che sul ciglio di tale ingresso comparve la figura robusta di Vodka. Non appena vide il suo partner ridotto in quelle condizioni non mancò di sgranare gli occhi. “Oh santo Cielo, fratello! Come ti hanno pestato.”
“Piantala di fare la madre premurosa. La mia è morta, non me ne serve un’altra. Ti stavo aspettando.” Si ravvivò i capelli con un gesto, poi cercò di districarsi un nodo presso la parte terminale di una ciocca. “Chi è stato a liberarmi, in centrale?”
L’omone con gli occhiali scuri sollevò le sopracciglia, come incredulo. “Veramente Aniki, nessuno. O meglio, non avevamo predisposto che venissi liberato.”
A quel punto Gin si morse il labbro internamente e prese a scrutare Vodka, senza guardarlo effettivamente, ma trapassandolo con lo sguardo e pensando ad altro: chi poteva avere interesse nel liberarlo? Non di certo la polizia. Ma doveva pur trattarsi di qualcuno che lo conosceva.
“Ah, Aniki.” Fu nuovamente Vodka a distoglierlo dai suoi pensieri. “Irish mi ha detto che comincia a nutrire dei sospetti nei confronti di quella ragazzina, Kirsch.”
“Che dice il vecchio, a riguardo?”
“Crede che possa trattarsi della poliziotta.”
Il biondo si avvicinò alla porta. “Vedremo. Nel frattempo entriamo. Ho bisogno di farmi visitare dalla Miyano. Mi sono ricordato che prima di tramortirmi, quella ficcanaso mi ha iniettato qualcosa. Non vorrei lasciarci le penne. Non prima di avergliela fatta pagare.” Vodka non poteva saperlo, ma con quella frase voleva riferirsi ad entrambe le donne che gli stavano dando del filo da torcere: Lily ed Aiko.
“Chi? Cosa?! Non ti seguo, fratello, ma che stai farneticando?”
Gin gli ringhiò addosso, ma poi strinse i pugni in un gesto di stizza. “Lasciamo perdere. Piuttosto, hai un pacchetto di sigarette con te? Muoio dalla voglia di farmi un tiro.”
 
 
 
 
 
Akemi si infilò il camice bianco e fece schioccare i suoi guanti in lattice perché aderissero perfettamente alle sue manine, dopodiché si avvicinò al tavolo operatorio dove era sdraiato Gin: le sue ferite sul petto erano ancora fresche e palpitanti, ma averlo lì, a respirare regolarmente come un qualsiasi essere umano, le infondeva un certo senso di superiorità e di soddisfazione. Forse era stata la prima ad averlo sottomano in maniera così subdola: lo osservò da capo a piedi e gli riservò un gran sorriso. “Eccoci qui, rilassati, non ti farò male.” Gli afferrò il braccio e con l’unica mano libera andò a rovistare nel piattino dove aveva disposto un paio di siringhe e un laccio emostatico: afferrato quest’ultimo, glielo avvolse saldamente all’altezza del gomito. Brancolava minacciosamente la sua siringa nella mano sinistra. “Apri e chiudi il pugno.”
“Lo so come funziona.” Ribatté aspramente lui: si sentiva tutto un fremito su per il corpo: odiava gli scienziati, i medici. E odiava comportarsi come una cavia da laboratorio: ma in quel momento il suo egoismo aveva prevalso su tutto il resto.
“Non farla così drammatica. Non sarà un piccolo prelievo a strapparti via la tua dignità.”
Quando l’ago gli penetrò nella vena, egli distolse lo sguardo altrove, poi si perse negli occhi concentrati di Akemi. “Cosa dicevano riguardo Aiko Kirara?”
La ragazza sfilò la siringa con un gesto rapido ed indolore, dopodiché si avvicinò al bancone dove erano state precedentemente predisposte delle provette sigillate: riversò il sangue all’interno di una, fra le tante. “La poliziotta? Pare che abbia diffuso un paio di articoli riguardanti l’Organizzazione. E ha anche citato alcuni nomi di membri ben in vista. Ci sei anche tu, fra quei nominativi.” Alla scienziata parve non rappresentare un problema: non si era mai sentita perfettamente integrata in quell’ambiente, anzi, non vedeva l’ora di spiccare il volo altrove per potersi creare una nuova vita.
Gin, invece, scattò seduto sul lettino, non appena ebbe udito quelle parole. La faccenda andava complicandosi, e l’agente Kirara aveva oltrepassato quella sottile linea rossa che mai e poi mai, avrebbe dovuto oltrepassare.
 
 
 
 
 
Aiko era finalmente ritornata a casa dopo una stressante giornata lavorativa: assieme ai propri colleghi, aveva dovuto sbrigare alcune pratiche e sbrogliare alcuni procedimenti penali oramai agli sgoccioli, e contrariamente a quanto aveva previsto, quell’incarico le aveva assorbito gran parte del proprio tempo libero; così, aveva deciso di trattenersi in ufficio il più possibile, per eliminare almeno in parte, la mole più consistente del proprio lavoro. In quelle ore non aveva fatto altro che pensare alla fuga di Gin: era frustrata, si sentiva in colpa.
Si richiuse la porta alle spalle e già presso l’ingresso, prese a sbottonarsi la giacca della divisa, poi aprì i primi due bottoni della camicia e si avvicinò al tavolino dove vi era un bel bicchierone. Lo riempì d’acqua e cominciò a bere avidamente: le scale le avevano prosciugato le ultime risorse a sua disposizione.
‘Cavolo, ho lasciato la televisione accesa. Che idiota che sono. Mi arriverà una bolletta talmente salata che non mi basterà lo stipendio di questo mese. Ah, che scema!’ Aiko si sfilò anche i tacchi e procedette con i piedi nudi, avvolti dai collant. Afferrò il telecomando e proprio in quel momento si accorse di qualcosa a terra: un piccolo particolare posto lì per disturbare l’armonia della mobilia. Si avvicinò ulteriormente e notò che si trattava di un pezzo di carta un poco sgualcito sui bordi, così decise di afferrarlo.
Di fronte a lei c’era il grande finestrone del salone, le cui ante affacciavano sul complesso di palazzoni disposti sullo stradone opposto al proprio condominio: fra le tende color pesca si intravedeva una bella porzione di luci e calcestruzzo.
Aiko non riuscì a leggere neanche il primo rigo di quella lettera, che improvvisamente il vetro della finestra implose fragorosamente, poi un proiettile si conficcò nel muro, e lei giurò di aver sentito l’acciaio vibrare nell’aria e trascinarsi con sé una scarica di microscopici frammenti di vetro. La finestra era ridotta ormai in pezzi, tutti sparsi sulla moquette rossa: dall’esterno si insinuò una roboante folata di vento freddo, poi calò il silenzio.
La poliziotta era ancora chinata a terra, raggomitolata e tremante per lo spavento: si teneva ancora le dita fra i capelli corvini e i suoi occhi non facevano che percorrere quelle righe marchiate a fuoco su quel semplice pezzo di carta: era come ipnotizzata, non riusciva a muovere neanche un muscolo e per un istante ebbe come l’impressione che se avesse distolto lo sguardo, qualcuno avrebbe continuato a spararle addosso.

“Abbandona la tua battaglia personale, poliziotta.
Per questa volta te la sei cavata con un buco nel muro.
Ma ricordati che un cecchino non sbaglia mai per due volte consecutive.
La prossima potrebbe essere l’ultima.”








Aaaaaaaaaaaiuto! Questo capitolo non mi convince per niente, a parte qualche brevissimo frammento che mi è uscito decentemente.. U_U Mah, sarà l'ansia per gli esami che mi corrode :(
Spero che vi sia comunque piaciuto, è un capitolo un po' strano, a tratti introspettivo... Beh, lascio a voi il giudizio, intanto non posso che augurarvi un...

BUON 2013!!!!!!!!!!!!!!!! :) 

Vi abbraccio tutti <3 

A presto, 

Aya_Brea

 

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Capitolo 10
*** L'alba di un uomo solo ***


10. L'alba di un uomo solo




Il sole si attardava a tramontare, ma alle sue spalle, dai grandi finestroni del suo ufficio, si dispiegavano due grandi lingue di luce rossa, che rifrangendosi sulla mobilia e sul parquet, creavano un’insolita atmosfera di polvere in sospensione. Aiko Kirara stava scrivendo le ultime righe del proprio rapporto, a tratti la penna a sfera incespicava sul foglio bianco, poi riprendeva a trattenerla con forza fra le dita. Le nocche le divennero quasi bianche, non appena si accorse di aver confuso una parola del testo, con una che le stava frullando nella testa. La mano infatti, scriveva automaticamente, ma la sua mente era totalmente altrove. Quando sollevò il capo per guardarsi intorno, si rese conto che il giorno stava ormai volgendo al termine. 
Il capitano le aveva consigliato caldamente di rientrare a casa il prima possibile, senza aspettare inutilmente la fine del proprio turno lavorativo; eppure lei era stata assorbita da quell’incarico e fra una cosa ed un’altra non aveva fatto fede alla promessa. Raccolse in fretta le proprie cose e spinta dal timore che i suoi pensieri potessero divenire realtà, si fiondò verso l’ascensore principale: presso le scale d’uscita vi erano due agenti ad aspettarla. Li guardò entrambi con aria interrogativa.
“Cosa ci fate voi qui?” Trattenne le scartoffie che si portava sottobraccio. 
“Il capitano ci ha ordinato di farle da scorta, Agente. E’ piuttosto preoccupato per la sua incolumità.”
“E’ vero, con gente simile alle calcagna la prudenza non è mai troppa.” 
Aiko sollevò le sopracciglia. “Non ne avevamo parlato. Insomma, ha fatto tutto da solo. Poteva almeno mettermi al corrente di queste sue decisioni così azzardate.” L’idea di essere seguita da altri due agenti non la allettava, anzi, le sarebbero stati d’intralcio, così fastidiosamente appiccicati alle costole. “Per questa sera passi pure la sua decisione, ma da domani parlerò io con il Capitano. Posso cavarmela benissimo da sola. E poi è una questione fra me e loro.” Kirara sapeva benissimo di aver intrapreso una missione rischiosa e fra le altre cose, sapeva anche di star combattendo una battaglia personale. Nessuno, infatti, sapeva che lei stessa si occupava del caso. 
I tre poliziotti scesero le scale e furono in strada: a quell’ora non c’era molto traffico, le macchine passavano di rado. Il cielo era ormai di un bluastro pallido, in alcuni punti vi erano alcune spruzzate di viola e su quel manto colorato le ultime rondini si apprestavano a cercare i ripari per trascorrere la notte. Anche le persone stavano rincasando. Soltanto quelle tre anime in pena, percorrevano il viottolo che costeggiava la striscia delle villette a schiera. Erano ormai lontani dal centro abitato. Aiko si strinse nel suo giubbotto d’ordinanza e si guardò intorno con circospezione: seppur volesse dare l’impressione di non essere agitata, gli eventi della notte precedente l’avevano scossa. Non riusciva più a chiudere occhio, non dormiva da almeno due giorni e non avrebbe mai immaginato che quella tensione così forte avrebbe gravato in quel modo sul suo fisico. Non si reggeva neanche in piedi.
“Si sente bene, Agente?” Uno dei due poliziotti la prese sottobraccio, ma lei lo respinse prontamente. 
“Sto bene, per fortuna siamo quasi arrivati. Ho soltanto bisogno di sdraiarmi sul divano.” 
La ragazza percorse una decina di metri, ma poi si accorse di non essere seguita. I due uomini di scorta erano rimasti indietro. Si voltò per poterli richiamare, ma una violenta manganellata la colpì alla tempia. La vista le si offuscò immediatamente, un mugolio di dolore sfuggì dalle sue labbra, ma fortunatamente quel colpo non le fece perdere i sensi. I due poliziotti erano ancora di fronte a lei e successe tutto così in fretta che non riuscì a capire nulla: la afferrarono per i polsi, poi le strinsero entrambe le braccia per impedirle di muoversi ulteriormente.  
Un violento colpo di spranga si abbatté sulla tempia di Aiko, che, perso l’equilibrio, crollò in terra con un tonfo. L’asfalto era fredda e dura, lei sollevò il capo e lo vide: alto ed imperioso in quel suo cappotto nero, col solito ghigno stampato sul volto. 
“Che tu sia maledetto, Gin!”
Il biondo la osservò mentre sveniva, mentre i suoi occhi verdi si richiudevano contro la propria volontà, mentre i suoi muscoli dapprima tesi, si rilassavano. “Io sarò pure maledetto, Agente, ma tu sei veramente una sciocca.” I due uomini che avevano scortato Aiko si rivelarono infatti, due tirapiedi dell’Organizzazione, assoldati per evitare di incorrere in problemi con un’eventuale scorta affibbiata alla ragazza. Tutto stava filando liscio come l’olio. 
“Portatela nella cella all’ultimo piano interrato. E’ giunto il momento di far chiarezza.”
 
 
 
 
 
Gin camminava a passo spedito, lo sguardo fisso e concentrato, l’impermeabile che volteggiava ad ogni suo passo cadenzato. Il suo respiro era leggermente accelerato, sentiva i battiti del suo cuore non più così regolari, il tremolio impossessarsi febbrilmente delle sue mani. In fondo al corridoio scorse il figurino atletico di Kirsch. 
“Dove vai così di corsa, Gin?” La ragazza si frappose fra lui e l’ascensore, poi spalancò le braccia con aria di sfida.
“Levati di mezzo, Kirsch. Devo occuparmi di una piccola mosca fastidiosa.” Gin la scansò in malo modo e tentò di proseguire per la propria strada, ma la ragazza si pose nuovamente a difesa delle proprie motivazioni, afferrandolo per i lembi dell’impermeabile. 
“Ehi, si può sapere che cosa avete tutti quanti? Irish si comporta in modo strano, Vermouth è imperscrutabile, ora ti ci metti anche tu.”
Gin serrò i denti e la fulminò con lo sguardo. “Dimentichi del luogo in cui ti trovi, Kirsch. Ripeto,  Levati dai piedi, ora. Sparisci.” Avanzò nuovamente e premette il pulsante per richiamare l’ascensore, poi aggiunse: “A sistemare te, ci penserò più tardi.” 
Quando le porte dell’ascensore si richiusero, lei sentì un brivido intenso correrle lungo la schiena, poi i suoi occhietti si spalancarono e si fusero col freddo acciaio di fronte a lei. 
 
 
 
 
 
Aiko Kirara si risvegliò in un momento della giornata imprecisato, non seppe giudicare quanto tempo fosse passato dall’aggressione, ma si accorse immediatamente di essere seduta su una sedia, il suo corpo era ancorato ad essa con delle corde robuste che le impedivano qualsiasi movimento. Una striscia di nastro argentato le premeva sulle labbra, infatti non appena provò ad articolare alcune parole, una serie di mugoli si sparse per la stanza, riecheggiando cupamente. Le pareti erano di un grigiastro smorto e spento, non si udivano rumori ad eccezione dei cigolii della propria sedia, del suono sordo ed ovattato dei suoi respiri. Una goccia di sudore le solcò la guancia, poi improvvisamente il terrore si impadronì del suo corpo. Iniziò a dimenarsi come un animaletto in trappola, a gemere nel tentativo vano che qualcuno la sentisse. Ma dove diavolo era finita? 
D’un tratto la porta della cella si spalancò, poi si richiuse con un clangore metallico: Gin non poté far a meno di annusare l’aria stracolma di umidità, di chiuso, di stantio. “Non deve essere stato un bel risveglio, dico bene, Agente?” 
La ragazza lo fissò, ben presto i suoi occhietti divennero due fessure iniettate di sangue. Si dimenò in uno spasmo di rabbia e lo vide avvicinarsi pericolosamente a lei, mentre con la mano destra si stava sfilando una sigaretta dal pacchetto delle sue stramaledettissime sigarette. Non poteva neanche controbattere. 
Il biondo piazzò la punta della sua scarpa sulla sedia, fra le gambe di lei, poi, col gomito poggiato sul ginocchio, gli sbuffò una nuvola di fumo proprio contro il viso. “Se sei reclusa qui dentro, sappi che è soltanto colpa tua. Non avresti dovuto ficcare il naso nei nostri affari. Ma una cosa positiva c’è stata, effettivamente.” Abbandonò la sua posizione minacciosa e prese a camminare intorno alla ragazza. “Ora ho la certezza che dietro Kirsch non si celi una scaltra poliziotta.” 
Aiko strinse i denti con tutta la forza che aveva in corpo, provò a divincolarsi nuovamente dalle corde che la stringevano come un salame, ma ebbe come unico risultato, quello di cadere rovinosamente a terra, con tutta la sedia. Un mugolio di dolore le si strozzò nella gola. 
Gin rise sommessamente, poi le si avvicinò nuovamente e le spinse il piede contro lo stomaco. “Piantala di muoverti come un’assatanata, non hai speranze di sbrogliare quei nodi con la sola forza del pensiero.” La stava trattando come uno dei suoi tanti mozziconi di sigaretta, gettata a terra senza alcun riguardo, incurante del fatto che il pavimento fosse sporco e pieno di condensa. “I nostri uomini hanno perquisito la tua casa. Sai cosa vi hanno trovato? I nostri documenti riservati, le nostre azioni, tutti i nostri contratti e le nostre informazioni tracciabili. Non ho bisogno di capire come tu sia arrivata ad averli, ma so soltanto che fra meno di due ore quella miniera d’oro brucerà, e la tua fatica si trasformerà in un cumulo di cenere e fumo.”
Aiko sbarrò gli occhi: avrebbe incendiato la sua casa? La notizia inizialmente non la preoccupò, anche perché per il momento la sua priorità era quella di sopravvivere. Ripensando però alla vita vissuta fra quelle quattro mura, gli occhi le si riempirono di lacrime. Non fiatò. 
“E’ buffo, non trovi? Che ora sia io ad avere il coltello dalla parte del manico. E’ vero, avrai pure avuto il tuo piccolo momento di gloria, in cui i tuoi superiori si saranno congratulati con te per aver messo K.O un famoso fuorilegge. Ti sarai sentita orgogliosa e piena di coraggio, non è forse così?” Rimase in silenzio ad osservarla, poi sbuffò del fumo verso il soffitto. “Ecco, ora permettimi di riprendere quel momento, dolcezza. Te lo ruberò con il sangue e con i denti.” 
 
 
 
 
 
La porta della cella si richiuse nuovamente. 
Finalmente le urla erano cessate, finalmente il sangue aveva smesso di scorrere, finalmente, quell’uomo se n’era andato. 
Aiko giaceva in terra, aveva il volto pieno di lacrime e lividi violacei: un tremore intermittente si era impadronito di lei ed i suoi pensieri fluivano veloci come un torrente in piena. Il silenzio della cella era così opprimente da darle fastidio. Quel mostro gliele aveva date di santa ragione, si ritrovò persino a maledire il giorno in cui aveva deciso di dar loro la caccia. 
‘Che stupida.’ Pensò. Per via dello scotch sulla bocca non poteva neanche esprimere a parole tutto il dolore che provava, era come un tarlo che la rosicchiava da dentro e che non avrebbe potuto rimuovere. Era un fardello insopportabile, una sensazione quasi paragonabile alla terribile inerzia che prova l’uomo quando si ritrova intrappolato in un incubo da cui non riesce a svegliarsi. E lei si ritrovava catapultata a capofitto in quello strazio. 
Sbarrò gli occhi quando udì nuovamente il rumore della porta, sentì quasi il ‘sapore’ delle percosse sulla pelle. Ma contrariamente a quanto aveva immaginato, dalla porta comparve una ragazza dalla tuta nera e i capelli corvini legati in una coda fluente. 
Era Kirsch.
Aiko Kirara farfugliò qualcosa e cominciò a dimenarsi, ma il tocco gentile della ragazza la fece acquietare quasi subito.
“Stai tranquilla, sono qui per liberarti.” La ragazzina stava abilmente sbrogliando i nodi che la tenevano prigioniera ma dal suo tono flebile e dai suoi movimenti frettolosi, la poliziotta capì che doveva fare in fretta, e che tutto quel che stava facendo, lo stava facendo nella più completa clandestinità. “Al piano superiore c’è una porta che dà sul retro. Devi attraversare la sala macchine e un paio di corridoi. La porta è blindata, ha un codice di sicurezza che ne consente l’apertura. Ventiquattro, novantanove, settantanove. Non te lo dimenticare.” 
Un mugolio interrogativo fuoriuscì dalla bocca della poliziotta: la stretta delle corde si faceva sempre più lenta, presto sarebbe stata in grado di liberarsene. Avrebbe voluto chiederle il motivo di quel comportamento: non rientrava nei suoi piani, in nessuno dei suoi schemi vi era quella remota possibilità di fuga. La situazione stava scivolando via dalle mani di entrambe. 
Quando Aiko fu finalmente libera, la prima cosa che fece fu quella di strapparsi con rabbia il nastro argentato dalla bocca, poi si alzò in piedi. Kirsch aveva compiuto uno scatto verso la porta e stava per dileguarsi; prima di farlo sorrise con sincerità. Fu un sorriso dolce e carico di malinconia. Uno di quei sorrisi che non si regala a chiunque, ma soltanto a chi se lo merita davvero. Eppure un misto di nostalgia trapelava da quegli occhi verdi. “Sei una poliziotta in gamba. Mi hai sempre ricordato qualcuno. Qualcuno che al contrario di te, non ha mai avuto il coraggio per cambiare le cose. Addio, Aiko.” 
Kirsch corse via come un fulmine, non si voltò neanche quando sentì Kirara urlare il proprio nome. Non voleva voltarsi e lasciare che quella poliziotta così coraggiosa vedesse il suo volto bagnato di lacrime. Non era giusto. 
 
 
 
 
 
Gin si era finalmente concesso un attimo di riposo: dopo essere entrato nella propria stanza, era andato in bagno a lavarsi le mani. L’acqua che turbinava nel lavandino si mescolò subito al sangue rosso vivo, poi, come se nulla fosse, scivolò giù nelle tubature, portandosi con sé il misfatto appena compiuto. Con quelle stesse mani ormai pulite si diede una lavata anche al viso., come se potesse veramente pulire lo sporco che aveva dentro. 
L’acqua grondò giù dal mento, poi un altro rumore si accavallò con prepotenza a quello del rubinetto aperto. Qualcuno bussava con insistenza alla sua porta. 
“Un momento, Cristo.” Si passò un asciugamano sul volto e aprì la porta. Vermouth aveva il viso contrito in una smorfia. 
“Gin, la poliziotta.” 
“Cosa? Cosa diavolo è successo?” 
“E’ fuggita.” La donna aveva la lingua riarsa ed il fiatone. Molto probabilmente aveva corso per permettergli di apprendere la notizia. Il biondo allora fu scaltro e rapido, uscì assieme a Vermouth e corse lungo il corridoio, impartendo ordini alla donna come se ormai non vi fosse più una gerarchia da rispettare. 
“Raduna i nostri uomini ma tienili a debita distanza. Voglio occuparmene personalmente.” 
“Gin!” 
“Fa’ come ti dico!” 
Dopo aver superato la donna, egli continuò a correre verso l’uscita: come diavolo aveva fatto a scappare, quella maledetta? Fu allora che notò Kirsch in fondo al corridoio, armeggiare con un telefono cellulare fra le mani. Le si avvicinò e le afferrò un braccio con forza, costringendola a guardarlo negli occhi. “Tu vieni con me.”
“Cosa?” Kirsch cadde letteralmente dalle nuvole, nonostante si sentisse estremamente colpevole dell’accaduto. Si lasciò strattonare dall’uomo, incapace di reagire. “Che ti dice il cervello, Gin? Non ho fatto niente, dannazione.”
“Non ho detto nulla di simile. Ti ho ordinato di seguirmi.” E così facendo, egli la trascinò letteralmente con sé. Le torse quasi il polso per scortarla fino al garage sotterraneo. 
“Ahia, mi fai male, porca miseria. Lasciami, ti sto seguendo e posso farlo anche senza la tua presa ferrea.”
Gin si comportava come se non la stesse neanche ascoltando. La scaraventò vicino al posto di guida e richiuse la portiera con un gesto stizzito, dopodiché si mise al volante. Inserì la retromarcia e con una rapida sterzata sgommò verso l’uscita. 
Kirsch ritirò le gambe presso il petto e le avvolse con entrambe le braccia. Oltre il parabrezza poteva osservare le luci giallastre della città farsi spazio oltre la coltre di nebbia e di acqua lungo le strade. Pioveva a dirotto e il cielo sembrava coperto da un manto di nuvole grigio topo, l’atmosfera era rarefatta per via della fitta, ma intensa pioggerella. Ogni gocciolina sferzava sulla carrozzeria della Porsche, producendo un ritmico concerto di ticchettii. 
“Si può sapere per quale motivo mi hai portato con te?” 
“Lo scoprirai presto, tesoro.” Gin strinse le mani intorno al volante, le riservò un’occhiata rapida e fugace, prima di ritornare ad osservare la strada di fronte a lui. 
A quel punto Kirsch rimase in silenzio. Trascorsero altri minuti interminabili, fin quando lei non ruppe nuovamente il ghiaccio. “Senti, mi spieghi come fai a sapere dove è diretta la poliziotta?”
“Semplice. Non appena le ho detto che avremmo bruciato la sua casa, le saranno venuti in mente i bei ricordi che aveva di suo padre. Magari le spediva delle lettere, magari conserva ancora gli album fotografici e idiozie di questo genere. Sarà andata a riprendersele prima che le fiamme gliele inghiottiscano per sempre. Ma per sua sfortuna noi saremo più veloci di lei.”
Kirsch deglutì, continuò ad osservare i lampioni balenare fra la pioggia arrabbiata. “Non capisco ancora cosa c’entro io in questa storia.”
Gin tornò nuovamente serio, stavolta sembrò faticare per trovare le parole da pronunciare. Non era affatto facile. “Voglio metterti alla prova.” 
La ragazzetta non ebbe neanche il tempo per rispondere, poiché Gin aveva inchiodato bruscamente la sua vettura retrò. “Eccola, è lei!” Oltre il marciapiede, infatti, la poliziotta in uniforme si stava addentrando in un viottolo buio: la videro entrambi scendere le scale e sparire nei cunicoli della metropolitana. Il biondo ciccò la sua sigaretta nel posacenere della Porsche, si slanciò fuori dall’automobile, seguito da Kirsch. L’aria era umida, non aveva ancora smesso di piovere e le pozzanghere si susseguivano sul selciato irregolare. Corsero entrambi nell’oscurità della notte, seguendo la fuggitiva. 
I loro passi frenetici riecheggiavano chiaramente, accompagnandoli gradino dopo gradino, sempre più giù. Le luci al neon vibravano con tutto il loro vigore, e a differenza dell’atmosfera precedente, sembrava di essersi immersi in un luogo senza tempo e senza riferimenti. La metropolitana a quell’ora era pressoché deserta. 
Gin afferrò saldamente il polso di Kirsch e la trascinò con sé: quando giunsero nei pressi della banchina, scorsero la figura di Aiko aggirarsi nervosamente fra le imponenti colonne rossastre che sorreggevano il soffitto. La metro tardava ad arrivare, il tabellone indicava che mancavano ancora sei minuti all’arrivo del prossimo treno. Il biondo fece guizzare lo sguardo dalle lettere verdastre al blu scuro dell’uniforme di Aiko. Un ghigno si dipinse sulle sue labbra. 
“Sei minuti, Agente. Più che sufficienti per eliminarti dalla faccia della terra.” Mentre pronunciava a gran voce tali parole, sentì Kirsch dimenarsi nel tentativo di sciogliersi dalla sua presa. 
Aiko fu come paralizzata: aveva sentito i loro passi farsi sempre più vicini, ma la voce dell’uomo aveva un’intensità totalmente differente. Non ebbe neanche il coraggio per voltarsi. Era rischioso buttarsi a capofitto in quella sparatoria, ma era altrettanto folle dar credito ai propri pensieri. Alla fine optò per l’ultima soluzione possibile: corse rapida come un fulmine e non esitò neanche quando giunse sul ciglio del baratro, oltre la linea gialla che non bisognava mai sorpassare. Si gettò sui binari e vi cadde rovinosamente. Faticò a rialzarsi e quando lo fece si rese conto di essersi sbucciata un ginocchio per via dell’impatto al suolo metallico, stracolmo oltretutto del pietrisco della massicciata. 
“E’ completamente pazza.” Bofonchiò l’uomo biondo, che non aveva potuto evitare quel gesto disperato di fuga: aveva provato a spararle, ma la ragazza si era lanciata prima che il proiettile potesse raggiungerla. A quel punto prese anche lui la decisione drastica di seguirla: non poteva lasciarla sfuggire, non ora che l’aveva quasi in pugno. 
Gin scivolò assieme a Kirsch sulle rotaie: in fondo al tunnel si scorgeva la poliziotta correre, balenare in quel buio pesto come una microscopica macchiolina blu. 
“No Gin, ti prego! Tu sei pazzo almeno quanto lei!” Kirsch gli si era ancorato al petto come una sanguisuga, lo scuoteva vigorosamente nel tentativo di fargli cambiare idea. Ma l’uomo in nero era inamovibile e fermo nella sua missione redentrice. La scansò gentilmente e le sorrise sardonico. “Pensa a correre, dolcezza.” 
Entrambi si avventurarono nella pesta oscurità di quel cunicolo: sei minuti scarsi e la metro avrebbe nuovamente ripercorso la sua corsa abitudinaria.  
Gin sollevò il braccio con il quale impugnava saldamente la pistola: scaricò un intero caricatore contro la poliziotta in fuga. Proiettile dopo proiettile, la loro distanza andava riducendosi progressivamente, Aiko si sentiva braccata, aveva il respiro pesante, in fondo alla gola sentiva il sapore aspro del sangue, il cuore le stava impazzendo nel petto. 
Il tunnel era lungo ed accidentato, la pesante ghiaia fra le rotaie rendeva incredibilmente difficoltosa la corsa dei tre. 
Kirsch seguiva con fatica il biondo, era impressionata dai suoi scatti così rapidi, oltretutto non sembrava per nulla stanco da quell’inseguimento. Continuava a ricaricare la propria arma anche in corsa: era un killer professionista, ormai. 
Aiko si strinse una mano contro il petto, nella convinzione che stavolta il cuore le sarebbe balzato fuori dal corpo: un proiettile le perforò la gamba sinistra, ma lei non sentì alcun dolore. Era terrorizzata dal fatto che le sue articolazioni avessero ceduto e che improvvisamente quel colpo l’avesse fatta crollare a terra. Allora il suo viaggio poteva dirsi concluso? 
Si voltò faticosamente indietro: contrariamente a quanto si sarebbe aspettata, Gin e Kirsch non la stavano seguendo, ma si erano immessi in una biforcazione che li avrebbe ricondotti nuovamente fuori dalla metropolitana. Richiuse gli occhi per qualche attimo, poi ritornò a guardare dritto di fronte a sé. Il terreno sotto di lei tremava, un roboante boato si faceva minacciosamente più vicino. 
Due occhi gialli la fissavano, correvano verso di lei, sembravano accecarla con la loro luce così intensa e forte. 
 
 
 
 
 
Kirsch seguì Gin senza batter ciglio, silenziosa ed abbattuta come un cagnolino che torna regolarmente a piangere sulla tomba del proprio padrone. Teneva gli occhi bassi e si trascinava priva di vitalità, gradino dopo gradino, sempre più in alto. Vedeva l’impermeabile nero del suo ‘partner’, il fumo che lo succedeva le si infiltrava nelle narici. Una serie di ricordi la investirono come una tempesta violenta. Il biondo spinse la mano contro la maniglia di una porta metallica ed in un baleno furono entrambi colpiti dal silenzio di quella notte. Finalmente aveva smesso di piovere. Il cielo era ancora disseminato di nuvole grigie, che stagliandosi sul nero, sembravano essere delle nette pennellate di vernice. 
Kirsch avanzò di qualche passo: erano soli su quel terrazzo, soltanto un’esile ringhiera li separava dallo strapiombo. Le mattonelle del pavimento erano chiare, l’aria fredda e pungente come se si preparasse per nevicare. 
Gin si avvicinò alla ringhiera e vi posò il fucile di precisione appena prelevato dal bagagliaio della sua auto. Richiamò la ragazzina con un gesto e poi si accese una sigaretta. 
“Aiko si è salvata. Non so come abbia fatto, ma si è salvata. I nostri uomini sono pronti ad entrare in azione.” 
Kirsch riconobbe l’abitazione della poliziotta, una cinquantina di metri distante dalla loro posizione. Una fitta al cuore. 
“Non appena comparirà all’orizzonte la farai fuori una volta per tutte. Un solo colpo, non tollero errori.” Gin si appoggiò alla ringhiera e diede le spalle al palazzo di fronte: aveva gli occhi puntati su Kirsch. Riconobbe quel tremolio nei suoi occhi spaventati. 
“Perché io? Non puoi farlo tu?” Sembrò agitarsi.
“Ho bisogno che lo faccia tu.” Il suo sguardo imperscrutabile era perennemente posato sulla ragazza, freddo, glaciale. Ostile. Voleva torturarla psicologicamente prima che sputasse la verità, prima che si dipingesse chiara e nitida come uno schizzo di sangue sul muro. L’avrebbe condotta mano nella mano verso l’Inferno, poi l’avrebbe spinta giù. 
Kirsch annuì. Era consapevole delle sue intenzioni, non le serviva altro per capire che lui, aveva capito tutto. Ogni cosa. 
Lasciò scorrere le mani sul metallo del fucile, dopodiché lo imbracciò saldamente fra le braccia. Non lo ricordava così pesante e difficile da maneggiare. Si sentiva sul corpo lo sguardo appiccicoso di Gin. Una lacrima le attraversò la guancia: tremava per il freddo, ma tremava anche perché non si era mai sentita così male in vita sua. Nel crocicchio del mirino comparve Aiko, grazie al cielo era viva. 
“Sparale. La vedo anche io da qui.” La voce dell’uomo la fece sussultare. L’indice si appuntò contro il grilletto. Era colta dagli spasmi, non avrebbe beccato neanche una lattina a cinque metri in quelle condizioni. Quando il terrore era giunto all’apice sopportabile, lei si spazientì e scaraventò il fucile a terra. “Non ce la faccio, cazzo! Non ce la faccio, io non posso spararle! Io non sono come te!” La ragazzina continuava ad urlare in faccia al biondo, con gli occhi rossi di lacrime. 
Gin sospirò soddisfatto. Era venuta allo scoperto senza che lui avesse detto o fatto nulla. “E così alla fine hai deciso di mostrarti per quella che sei veramente. Una brava ragazza. Dico bene? D’altronde non si possono cambiare le persone.” Le si avvicinò: solo alcuni centimetri si frapponevano fra lui, il carnefice, e lei. La vittima. 
“Ho riconosciuto immediatamente il modo in cui hai imbracciato il fucile. Riconosco il tuo profumo, le tue parole, la tua voce, nonostante sia cambiata.” Gin le sfiorò il mento con le dita, si fece ancor più vicino per toccarle le labbra. “E soprattutto, ricordo ancora i tuoi baci.” Con un gesto violento le strappò i capelli: fra le dita stringeva una stupida parrucca sintetica, una parrucca nera che per troppo tempo aveva nascosto quei suoi fluenti capelli biondi. 
“Un paio di lenti a contatto e una parrucca non ti rendono diversa, Lily.” 
La biondina si portò le mani sul volto e cominciò a singhiozzare: bruciava sentirsi dire quelle parole. Con il viso ancora immerso fra le dita, ella cominciò a raccontare.
“Il piano era quello di scoprire il più possibile sull’Organizzazione, Aiko mi aveva detto di collaborare, ma io avevo sempre rifiutato perché non volevo mettermi contro di te. Ma poi le cose sono sfuggite dalle previsioni di entrambe.” Finalmente lei lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Gin si era allontanato. 
“La poliziotta non sapeva che mi ero inserita nell’Organizzazione, non so se ha capito che dietro Kirsch c’ero io. Le fornivo tutti i documenti di cui aveva bisogno, mantenendomi nell’anonimato. Ma non potevo sperare di cavarmela con te. Sei sempre stato troppo intelligente. E troppo spietato.” 
Il biondo ascoltò le sue parole, poi scosse il capo. Riprese la sua pistola e gliela puntò contro. “Già. Troppo spietato. Mi sono buttato il passato alle spalle, ma ogni volta mi stavi fra i piedi nonostante non volessi farti fuori. Te la sei cercata. Sei corsa incontro alla morte, Lily.” 
Una folata di vento sferzò il volto di entrambi. 
“Vodka e gli altri prenderanno Kirara, la sua casa presto sarà inghiottita dalle fiamme. Perché? Perché l’hai fatto?”
Lily guardò altrove, non le piaceva vederlo mentre puntava quella sua arma contro di lei. Le faceva male, avrebbe preferito morire subito. “C’è qualcosa di più importante della semplice vendetta o della semplice guerra in onore della giustizia.” Una lingua di fuoco si era levata al cielo, crepitando. Si sentivano le urla della poliziotta. La bionda strinse i denti. “Non ti riconosco più. E’ proprio vero che Jake è morto. E mi dispiace. Gli volevo bene.”
“Smettila.” Gin strinse la mano contro il calcio della pistola. “Smettila o ti sparo.”
“Eppure hai gli stessi occhi di allora. Forse era destino.” Lei si morse il labbro e sentì che erano salate. “E no. Non ti scomodare. Ci penserò io.” 
Sfilò dalla cintola la propria pistola e se la puntò proprio alla tempia. Il grilletto le sembrò leggerissimo, non ci mise neanche un secondo a premerlo con tutta la forza che aveva dentro. E dopo quello sparo, la bionda crollò a terra, in un lago di sangue. 
Gin dischiuse le labbra e non riuscì a distogliere lo sguardo da quella piccola creatura stesa a terra. Indifesa, corrotta, ma allo stesso tempo pura. 
Era tornato tutto silenzioso, soltanto il crepitio del fuoco era vivo al di là della strada. 
Faceva freddo, nonostante tutto. 
 
 
 
 
 
Gin fermò la sua Porsche presso il promontorio che affacciava sulla città: gli ricordava un preciso momento della propria vita. Quel momento in cui il suo passato era morto assieme a Jake. Le ultime parole di Lily gli affollavano la mente, non riusciva a disfarsene. Era così difficile. 
La macchina emanava ancora il calore della marmitta e del motore: il biondo si sfilò l’impermeabile nero e lo gettò sull’erba bagnata, assieme al cappello che aveva sempre calato sul capo. Si sedette a terra ed appoggiò la schiena contro il paraurti della sua automobile. 
Sollevò lo sguardo verso il cielo, oramai sgombro di nuvole e stracolmo di stelle. Brillavano ad intermittenza, alcune più di altre. Poi c’erano quelle più piccole che sembravano affievolirsi, quasi stessero per morire da un momento all’altro. Spaziò il suo sguardo altrove, lungo la città. 
Rimase lì tutta la notte, immobile, a fumarsi le ultime sigarette rimastegli nel pacchetto. Lo aveva detto e pensato più volte, ma quella fu veramente la fine di Jake e l’inizio di Gin. 
La madre era morta, il padre lo aveva ammazzato a sangue freddo, Lily si era suicidata di fronte ai suoi occhi, ma era come se l’avesse uccisa lui, con le sue stesse mani. In un certo qual modo, aveva compreso la logica contorta per cui quella ragazza si era tolta la vita di propria spontanea volontà. Forse aveva voluto evitargli anche quel dispiacere. 
Ma era stato inutile. Era davvero buona, dopotutto. E lui, terribilmente solo in quello sputo di mondo.
L’ultimo mozzicone di sigaretta scivolò giù dal burrone, lanciò un’imprecazione per aver terminato l’unica compagna che avrebbe potuto alleviare il suo dolore. Quando sollevò nuovamente il capo vide che il cielo cominciava a tingersi di viola: uno spicchio timido di sole faceva capolino sulla linea frastagliata dell’orizzonte. 
Si ritrovò a pensare stupidamente, che il sole sorgeva per tutti. 
Indistintamente. 
Giorno dopo giorno. 

Ed anche per tutti coloro che non lo meritavano. 
 



"Ancora qui
ancora tu
ora però

Io so chi sei
chi sempre sarai


e quando mi vedrai
ricorderai
ancora qui
ancora tu
e spero mi perdonerai
tu con gli stessi occhi
sembri ritornare a chiedermi di me
di come si sta
e qui dall’altra parte
come va.

L’erba verde
l’aria calda
sui miei piedi
e sopra i fiori
si alza un vento tra i colori
sembri quasi tu
anche il cielo cambia nome
così bianco quel cotone
è veloce che si muove
perso in mezzo al blu."



 

 




Ok. Lo so che determinati passaggi non vi sembreranno molto chiari. 
Ma ultimamente non riesco a spiegare tutti i passaggi della mia storia, volutamente li lascio così, un po' sospesi. Non so perché, ma spero che vi sia piaicuto ugualmente. 
In realtà (ahimè sigh sob ç_ç) questo è il capitolo conclusivo della prima parte di questa storia, ed anche della vita di Gin. E la parte finale di quel mondo che ho inventato e creato di sana pianta... In realtà vorrei scrivere qualcosa che si avvicini di più al mondo Goshiano, quindi l'incontro con Shiho, con Akai e così via... Ma per farlo ho bisogno di tempo, devo rileggermi Conan e creare nuovamente un'atmosfera veritiera. 
Per questo ho deciso di troncare qui. La fine è un po' così, evanescente. Accade tutto così in fretta, sono sicura di avervi lasciato con l'amaro in bocca e con molti interrogativi, specialmente con la frase finale XD 
Ma era quello che sentivo di scrivere, spero che vi sia piaciuta questa storia, io mi sono divertita parecchio nel realizzarla. Adoro queste storie piene di sangue e sparatorie.. ahaaahhahahahaha!!! 
Vi lascio con la canzone che mi ha ispirata per questo pezzo finale. 
Mi piace terribilmente lasciare i credits alla fine XD Ascoltatela mi raccomando :) 


https://www.youtube.com/watch?v=lP-wrI8G1bE


Aya_Brea

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