Feu et flammes

di Eryca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Le prime fiamme ***
Capitolo 2: *** Fiamme rosse, i suoi capelli ***



Capitolo 1
*** Le prime fiamme ***


1.

Le prime fiamme

 

 

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14 Luglio 1789

 

 

Sono un’ombra.

 

Me lo ripeto nella mente come un mantra, cercando di crederci veramente così da poter passare inosservato, mentre serpeggio scaltro tra le strade infuocate di Parigi.

Una Parigi che sta urlando, si sta dimenando furiosa.

Mi appiattisco dietro l’angolo di una casa non appena scorgo dall’altra parte un gruppo di emissari del sovrano correre verso di me, al centro della via.

Sono un’ombra, mi dico, mentre la tensione sboccia dentro me come un fiore primaverile.

Li vedo cambiare direzione, attirati dalle fiamme provenienti da una casa al fondo della via, che ormai è un vero e proprio campo di battaglia.

Fuoco e fiamme. Ovunque.

Grida e morte. Ovunque.

Spade e zappe. Ovunque.

Eccola, la mia tanto amata Parigi, quella romantica ed elegante, ridotta a fumo e dolore, a rabbia e ribellione. È quello che volevo.

Do un’ultima timorosa occhiata alla strada e mi rendo conto che è sgombera, se non per una madre ricurva su quello che deve essere il cadavere del suo bambino. Piange disperata, il viso arrossato, mentre stringe gli stracci del giovane. Non voglio guardare.

Conosco così bene queste strade che non ho bisogno di alzare la testa per sapere dove mi trovo: quarta svolta, ora c’è il panettiere, ancora due case poi devo girare a destra.

Cammino sicuro, isolandomi da quella carneficina che sta avvenendo intorno a me, cerco di estraniarmi da quel delirio, altrimenti non riuscirei ad arrivare alla mia meta e impazzirei, proprio come sta accadendo a quel vecchio. Un vecchio che non camperà ancora a lungo.

Eccola.

La locanda resta nascosta dalla città e sembra essere distante dalla realtà attuale, quella che sta rendendo la mia amata ville cenere. Adesso corro, sono stufo di rimanere allo scoperto, così sbatto violentemente la porta di legno marcio ed entro.

La prima cosa che sento è il puzzo di sudore stantio e liquore di basso costo.

La seconda è il frastuono dei bicchieri che sbattono l’uno con l’altro.

La terza sono le risate sguaiate dei presenti.

La quarta è lui, il mio migliore amico, seduto capotavola in uno dei lunghi tavoloni in legno. Lui è nato da capotavola, penso osservandolo dall’uscio, e morirà come tale.

Tutti hanno gli occhi puntati su di lui: come si potrebbe non degnarlo di uno sguardo? È semplicemente impossibile non rimanere incantati dalla sua persona.

Mi avvicino e gli poso una mano sulla spalla. «Maximilien Robespierre 

Si gira non appena sente pronunciare il suo nome, il mio migliore amico, e mi riserba uno di quei sorrisi che gli hanno permesso di accaparrarsi tanti fedeli e tante conquiste.

«Addirittura nome e cognome, Léon Delavierre?» mi canzona, senza però rifiutare il mio gioco. Mi fa segno di prendere posto accanto a lui, quello che mi spetta di diritto e nessuno potrebbe mai portarmi via.

Mi stupisco nel vedere il viso familiare di Julien, figlio dell’avvocato di Poisson, che non aveva mai deciso di prendere posizione, ma sempre preferito spostarsi da parte a parte secondo i suoi bisogni.

Robespierre si alza, facendo slittare la sedia a terra, e alza il boccale di birra scadente, mentre i suoi occhi ardono di una fiamma appassionata, gloriosa. Lo so, perché anche io sento lo stesso fuoco dentro le miei iridi, così come nel mio cuore.

È la passione che solo un rivoluzionario può avere.

«Signori. Amici.» inizia a parlare il mio amico, scandendo bene le parole. La locanda si ammutolisce, perché i discorsi di Maximilien riescono a farti accapponare la pelle da quanto sono entusiasmati e nessuno osa mai pronunciare una parola.

«Quest’oggi la nostra Rivoluzione è finalmente divenuta reale.» Fa una pausa. Dà il tempo di assimilare le informazioni, vuole che ognuno di noi colga il senso delle sue frasi. «Siamo passati dal confabulare rintanati in lurida locande, al vedere il nostro popolo camminare per le strade armati e orgogliosi.»

La sento, la passione. È impossibile non farsi contagiare dallo spirito entusiasta di Robespierre, sarebbe in grado di convincere un contadino che i suoi frutti sono marci anche se in realtà sono succosi.

E il mio cuore scalpita.

Il sangue pompa veloce, quasi non avesse più la pazienza di aspettare e io fremo, fremo su questa sedia, perché vorrei alzarmi, vorrei sguainare la spada e tagliare la testa a Luigi XVI.

Ma non mi muovo.

Non finché Maximilien parlerà.

«Questo è un giorno glorioso, per la Francia, amici miei. Perché il popolo si è alzato, si è impadronito della Bastiglia e ha deciso che è lui il padrone di Parigi.» La sua voce va in crescendo, si alza, e posso notare come anche l’animo dei presenti si eccita, esattamente come il mio amico, che ormai non sta più nella pelle.

«E noi abbiamo il dovere di prenderci ciò che è nostro!» urla, adesso, mentre gli uomini si alzano in piedi, imitando il loro leader, e prendono in mano le loro birre.

«Liberté, Egalité, Fraternité!»

I boccali si scontrano l’uno con l’altro, mentre le urla si fanno insopportabili e il mio cuore festeggia, proprio come il resto della locanda.

Siamo noi i padroni della Francia.

Siamo noi i sovrani.

Nulla sarà in grado di fermarci.

E, mentre la mia birra fuoriesce dal bicchiere, grido con un sorriso stampato in volto.

«Vive la France!»

 

*

 

Bastien.

 

Corro tra la folla impazzita, spingo una giovane ragazzina con gli occhi lucidi e non mi interessa di ciò che può esserle successo, perché il mio obiettivo è uno e solo uno.

Devo trovare Bastien, il mio piccolo fratellino. Ricaccio le lacrime che insistono per uscire, non ho tempo per piangere, ora, potrò farlo non appena avrò Bastien tra le braccia.

Continuo a correre, ma non so nemmeno più dove io sia o quale sia la mia meta. Maledico mio padre che ci ha mandati a comprare il latte, oggi, nella migliore latteria di Parigi per festeggiare il compleanno di mio fratello.

Bastien, Bastien, piccolo, dove sei?

Se solo fossimo rimasti nei nostri nascosti quartieri, come i ratti, ora non ci troveremmo in questo marasma di corpi in panico, di fiamme alte che mi bruciano il viso, mentre dinanzi a me, l’immagine dei popolani che scalpitano con le loro zappe mi fa venire l’emicrania.

Sono stanca, le gambe mi dolgono e il mio viso è probabilmente sporco di cenere. Voglio solamente trovare Bastien, tutto il resto non ha un senso. Ma, in fondo, come può avere un senso tutta la morte che mi attornia? Ci sono solo cadaveri e sangue.

Sangue. Sangue.

Fuoco e fiamme.

E sangue.

La gente intorno a me sta gridando, scappa e fugge e grida e scalpita e muore, muore, muore. E io non posso fare altro che continuare a correre, tirare gomitate e farmi spazio, perché – non posso fermarmi, bambina che piangi – devo trovare il mio piccolo Bastien.

L’odore del fumo mi invade le narici, mi impedisce di respirare, mi soffoca, mi sembra di andare in fiamme, mi sento bruciare. È la sensazione più brutta che io abbia mai avuto, non riesco a fermarla e la testa mi duole, così come le gambe.

Bastien. Devo trovare Bastien.

Il ricordo del dolce viso di mio fratello mi induce a continuare a camminare, cercando di ignorare tutta questa gente che viene contro. Mi fermo un attimo, in mezzo alla strada, e mi rendo conto che barcollo e le persone mi spingono e io non sono in grado di stare in piedi e crollo, crollo come tutte le mie certezze, crollo come il nostro sovrano, Luigi XVI, crollo, crollo, crollo e basta.

Non riesco ad alzarmi, sto cercando la forza, le ultime energie per farlo, ma non ne ho e il fumo sembra essere l’unica cosa reale. Sento una fitta di dolore insopportabile allo stomaco e mi rendo conto che mi hanno calpestata. Letteralmente. Qualcuno mi è passato sopra. Come si può passare sopra ad una persona distesa a terra, invece di aiutarla? Forse non l’ha fatto perché sembro un cadavere. Sembro un cadavere? Dio, sono un cadavere, sono un cadavere. Inizio a piagnucolare, come una bambina capricciosa, e sento la mia voce rotta mormorare: «Sono un cadavere».

Mi devo alzare, mi devo alzare, mi devo alzare, mi devo alzare. Continuo a ripeterlo nella mia mente, devo riuscire a ritrovare i comandi del mio cervello, il fumo non può aver la meglio. In un attimo di lucidità mi rendo conto che i miei pensieri sono così confusi, come quelli di un pazzo, uno di quelli che vengono rinchiusi.

Bastien, piccolo mio, dove sei?

Bastien, piccolo mio, ti troverò.

Chiudo gli occhi, ormai non ha più senso continuare a lottare. Sono distesa sulla strada polverosa, sento le persone passarmi sopra, farmi male. Come posso vivere?

Ho sempre pensato che l’Inferno sarebbe stato doloroso, ma questo è peggio, questo è l’Inferno sulla Terra. Perché fa così male?

Sto pensando a quanto vorrei che finisse in fretta, tutto, quando mi sento alzare da terra. Forse sto volando, forse è così che succede quando la tua anima lascia il corpo: sembra di essere uno di quei teneri usignoli che cinguettano. È così?

Eppure la puzza del fumo persiste, così come il rumore di grida e i pianti disperati. Tutto è come prima, niente è cambiato. A parte il fatto che non sono più a terra.

L’unica cosa concreta sono due braccia forti che mi stringono, mentre il resto è irreale e lontano, come l’Inghilterra da cui viene William, il burattinaio vagabondo.

E sembra che questa due braccia – sì, sono solo questo per me – mi stiano portano via. Sì, mi sto spostando, credo. È difficile mettere a fuoco ciò che mi sta intorno, soprattutto con le palpebre che si impongono per non alzarsi.

Il mondo, ora, è tutto sensazioni, odori e voci. Anzi, no, grida disperate.

Ho il terrore che la testa debba scoppiare da un momento all’altro, ma mi impongo di aprire gli occhi, devo vedere chi sono le due braccia che mi stanno mettendo in salvo.

Apri gli occhi, apri gli occhi, apri gli occhi.

La prima cosa che metto a fuoco sono dei capelli.

Biondi, sembrerebbe, ma non ne sono sicura, perché sono sporchi. E puzzano di fumo.

Sbatto gli occhi, cercando di eliminare quella sfocatura che mi fa vedere ogni cosa con contorni in dissolvenza. Un viso.

Un uomo.

Sono tra le braccia di un uomo.

Un uomo che non è mio padre e nemmeno Bastien.

«Bastien...» mormoro, ma l’uomo che mi tiene non mi sente. Forse non ho neanche parlato, l’ho solo immaginato.

Il viso del mio salvatore diviene sempre più sfocato e io mi rendo conto che le palpebre hanno di nuovo deciso di andare in sciopero. Ma questa volta il dolore alla testa è divenuto lancinante. E io non riesco più a sopportarlo.

Mi dispiace, Bastien, piccolo mio...

Perdonami, bambino, ma non ci riesco, è troppo doloroso...

Bastien...

E mentre questi pensieri confusi si fanno spazio tra la mia mente, il mondo si spegne e io rimango inerme tra le braccia di uno sconosciuto.

Sono morta, riesco solo più a pensare.

Poi, il nulla.

 

*

 

 

 

 

 

Angolo Autrice

 

Donne, Uomini, Maghi e Babbani,

sono lieta di presentarvi il mio nuovo progetto “Feu et Flammes”. Come avrete ben notato, la storia si svolge durante la Rivoluzione francese e i protagonisti sono Léon e la ragazza, che avete conosciuto in questo capitolo. Sicuramente il progetto di una long Storica è molto azzardato, non so quanti lettori potrò accaparrarmi (è bruttissimo come termine, ma fatemelo passare), ma comunque sia spero che qualcuno di voi possa apprezzare questa piccola follia.

Altra piccola pazzia: avrete sicuramente visto che Robespierre – personaggio storico realmente esistito – fa parte della storia, quindi vi chiedo di essere clementi se romanzerò un po’ la sua vita, ma cercherò di attenermi abbastanza alla sua biografia.

Stessa cosa vale per i fatti storici: non garantisco che il racconto sarò lindo e privo di imperfezioni storiche, perché probabilmente non sarà così; cercherò di attenermi cronologicamente agli eventi accaduti nel periodo e di non stravolgere troppo ciò che è successo.

Per il resto, avrete notato che ho usato – durante la parte della ragazza – molte e congiunzioni, che possono risultare errate, ma l’ho fatto per dare l’idea del suo tormento e di questo dolore incessante. Stessa cosa per le frasi confuse e spezzate.

Lo splendido banner che vedete a inizio capitolo è opera di Ellie, una bravissima scrittrice che vi consiglio vivamente – e, come potete vedere, anche un’eccellente grafica.

Spero che la storia vi possa appassionare, fatevi sentire in tanti, mi raccomando.

 

Un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 2
*** Fiamme rosse, i suoi capelli ***


2.

Fiamme rosse, i suoi capelli

 

Non ricordo il momento preciso in cui sono emersa dal fondo di un profondo pozzo nero, in cui niente aveva un senso eppure tutto sembrava averne, per ritrovarmi a fissare un soffitto affrescato che mi fa pensare alla Francia quale città conosciuta in tutto il mondo – è così che dice William, il burattinaio inglese – per le sue sfarzose regge. Ho sempre sentito parlare delle magnifiche feste organizzate a Versailles, ma non ho mai potuto rendere l’idea astratta di tutto ciò concreta: io sono una popolana, sono un niente.

Mio padre parla spesso di rivoltarsi, citando il personaggio di spicco del momento, un certo Robespierre; dovrei essere d’accordo con lui e con il resto della mia gente, ma sono indignata nel vedere come egli parlamenti bene le sue tesi dicendo che “il popolo è sovrano”, per poi tornare alla sua vita agiata, alle sue cariche amministrative.

Sostiene che lui è come noi, ma allora perché non l’ho mai visto camminare tra le strade della periferia, sgobbare per guadagnarsi un pezzo di pane? Perché – se lui è come noi – indossa le vesti di un aristocratico e dorme in un letto confortevole?

Perché, perché, perché – se lui è come noi – guarda da lontano la rivolta, al sicuro, mentre le persone muoiono mutilate, massacrate, sbudellate?

Sento il viso bagnato e mi rendo conto che una lacrima sta scorrendo sul mio viso. Erano anni che non mi sfogavo in questo modo: io non sono una di quelle nobildonne capricciose che possono permettersi di piagnucolare perché non hanno ricevuto il tè. No. Io mi alzo quando il sole sorge, mi tiro su le maniche della vecchia veste scolorita e mi appresto a lavorare, perché mio padre – quel pover’uomo – non può fare tutto da solo; Bastien – Bastien, piccolo mio, dove sei? – è così piccolo che lavora occasionalmente e mia madre è morta durante il suo secondo parto.

Continuo a tenere gli occhi puntati sul grosso disegno a muro. L’affresco è così bello che sembra essere stato dipinto da una mano divina: tutto il soffitto è blu a rappresentare il cielo e due putti si abbracciano al centro della scena, contornati da nuvolette dorate, mentre altre figure angeliche svolazzano. Non avevo mai visto una parete dipinta, ne avevo solo sentito parlare, e ora fisso sconvolta l’opera d’arte, mentre mi rendo conto di essere sdraiata su un letto.

Un letto.

Non una brandina in legno, così rigida che potrebbe far venire il mal di schiena a chiunque.

Un letto.

Il panico – che era rimasto assopito – si impadronisce del mio corpo e non mi dà la possibilità di avere un buon risveglio. Il fatto che solo i ricchi possano permettersi un letto – un letto, ma è possibile che sia un vero letto? – mi rende impossibile pensare di trovarmi in una casa popolare. Mon Dieu, dove sono finita?

Mi metto a sedere sul comodo materasso – che splendida sensazione – e mi rendo conto che l’affresco non è l’unico elemento aristocratico della stanza: pregiati arazzi in velluto rosso oscurano la finestra e mobili in legno cerato decorano lo spazio.

Mi porto le mani alla testa e premo sulle meningi, cercando di affievolire il dolore lancinante e ricordare come ho fatto ad arrivare in questo posto. Ricordo, come se fossero ancora presenti, il fumo, la folla e la paura di non poter trovare Bastien.

Bastien.

Il suo nome mi provoca una fitta allo stomaco e il senso di colpa non tarda ad arrivare, portandosi con sé lo stimolo di piangere. Sono sempre stata una sorella premurosa, ho stretto la mano di Bastien come se fosse l’unico appiglio al mondo così tante volte che ora mi sembra impossibile non sentire le sue dita intrecciate alle mie.

Piango, mentre l’immagine del mio fratellino che mi prega di non lasciarlo da solo si fa spazio nella mia mente, quasi a voler aumentare il mio dolore.

Ed ecco che, proprio come ogni volta, iniziano a spuntare dalla terra sotto cui erano sepolti i “se avessi fatto”, pretendendo l’attenzione che meritano; ma io non ho proprio tempo per crogiolarmi nel rimorso, così uso il metodo migliore per spronarsi: mi colpisco in faccia con una forza che non mi è propria e riprendo il controllo.

Devo utilizzare il pragmatismo che è in me. Prima devo occuparmi di ciò che ha un’importanza vitale: capire dove mi trovo.

Sono sicura che questa casa appartiene all’uomo che mi ha messa in salvo.

Bene, Amélie Lebeau, puoi farcela, mi sprono scendendo dal grosso letto a baldacchino.

Noto senza stupore che indosso ancora la mia veste, più sporca e polverosa del solito a causa della brutta esperienza subita; cerco invano di scacciare via il ricordo di me stessa a terra, calpestata da decine di persone. Il mio corpo viene percorso da un’ondata di brividi.

La porta è pesante e devo impiegare tutte le mie forze per riuscire, infine, ad aprirla. Un corridoio buio, illuminato solo da alcuni candelabri, mi da il benvenuto nell’abitazione. Il soffitto è a cassettoni dorati e le pareti sono interamente dipinte con motivi orientali, secondo la moda del momento. Tutto questo sfarzo mi mette a disagio, io sono abituata a vivere in una squallida casa popolare, tra la paglia e un umile camino a scaldare le fredde notti invernali, non ho mai neanche visto un simile lusso prima d’ora. Dentro di me, emozioni contrastanti: la meraviglia di fronte ad un senso dell’estetica così raffinato dichiara guerra alla parte del mio cervello che rivendica il diritto del popolo di avere più cibo e meno tasse da pagare. Sì, anche io, in fondo, condivido gli ideali di mio padre; ma se penso che quei dannati rivoluzionari hanno fatto sì che perdessi Bastien, divento livida di rabbia. Cammino timida attraverso il corridoio, quando sento delle voci: mi affretto a sentire da dove provengono e, non appena individuo la sorgente, le seguo.

Sono sull’uscio di un’enorme salone, incapace di muovere un solo muscolo e completamente sconvolta alla vista di tanta sontuosità. Anche questo soffitto è affrescato, ma in maniera totalmente diversa dalla stanza in cui mi sono svegliata: il disegno rappresenta una scena biblica che non sono in grado di riconoscere e i colori sono così accesi che mi abbagliano. Il pavimento è liscio e io non ho mai visto niente di simile, mi sembra fuori da ogni grazia – oh, com’è bello, com’è bello.

Al centro della stanza è posizionato un lungo tavolo in legno pregiato, così lucido che sono sicura venga curato più di un neonato.

E solo ora mi accorgo della presenza di un uomo, seduto a capotavola, al fondo della sala.

Quel viso.

Trattengo il fiato, incapace di respirare.

È l’uomo che mi ha salvata.

 

*

 

 

 

Ha gli occhi più grossi che io abbia mai visto, la popolana.

Ma quello che più mi sconvolge è la sua espressione esterrefatta, come se fosse impossibile che si trovi veramente qui, in questo luogo, e in mia presenza. Come darle torto? Non ha praticamente senso che una come lei sia al cospetto di uno come me.

Eppure – stento a crederci – le ho salvato la vita.

 

Sono appena uscito dalla locanda, il comizio è terminato così come le bevute e, chi ha alzato un po’ troppo il gomito, è stato scortato in una delle squallide camere della pensione. Mi aggiro tra le strade infuocate di una Parigi che stento a riconoscere, schivando con agilità i corpi che sembrano crollarmi addosso, esanimi. Non ho mai visto niente del genere e mi sembra quasi surreale, come uno di quei romanzi cavallereschi del circolo bretone che mi faceva leggere il Curato. Il fragore della rivolta arriva alle mie orecchie come un martello, ma non posso deconcentrarmi se voglio rimanere in vita.

Sto per imboccare il vialetto dove la carrozza mi sta attendendo – salvezza, salvezza! – quando noto un fatto bizzarro: in centro alla strada, vi è una porzione di spazio che le persone sembrano evitare – o almeno alcune di loro – aggirandola. Mi avvicino, stimolato dalla mia curiosità innaturale e mi rendo conto che la gente sta evitando un corpo. Anzi, una giovane donna.

 

Non accenna a muovere un muscoloso, quella divinità dai capelli del colore del diavolo e continua a guardarmi sbalordita e forse anche un po’ intimorita. E io, seduto in tutta la mia eleganza, mi domando ancora perché l’abbia messa in salvo, facendomi carico della sua persona. Avrei potuto calpestarla, come ha fatto il resto della gente intorno a lei: nessuno se ne sarebbe accorto, se non i suoi familiari. Nessuno le avrebbe fatto un funerale. Lei è niente.

Ma chi può avere il potere di dire quali vite valgono e quali no?

 

Ha i capelli rossi, questo cadavere.

Il pelo del diavolo.

Dovrei girare sui tacchi e andarmene, in fondo è quello che ho sempre fatto quando si trattava di semplice plebe. Eppure, forse per quella particolare caratteristica malefica, non riesco a staccarle gli occhi di dosso. Ho sempre avuto seri dubbi sul fatto che i capelli rossi significassero il male e, in effetti, sono solo i cattolici fanatici che continuano a crederci. Ma è radicato in me, come ogni tipo di pregiudizio sociale.

Poi, d’un tratto, il cadavere tossisce.

Non è un cadavere! mi dice il mio cervello, additandomi come un imbecille. E ora? Che cosa faccio? Il dubbio si insinua nella mia mente come un tarlo, impedendomi di usare la mia tanta adorata razionalità, oggetto della mia filosofia.

Intorno a me la guerriglia continua a impazzare e capisco che non ho molto tempo per prendere una decisione. Qualcosa – che non saprei definire – di assolutamente incontrollato, che va contro ogni mio ideale di razionalità, mi sussurra che quella ragazza merita di vivere.

Seguo il mio istinto, mandando in frantumi anni di studi.

 

Maximilien non sarebbe affatto fiero di me, ne sono più che certo. Ho agito senza logica, dando libero sfogo alla passione che è dentro di me. Che cosa ne è di tutti i miei ideali secondo i quali la ragione trionfa?

Predichi bene ma razzoli male, mi ammonisce la mia coscienza.

Scaccio i dubbi – ormai è tardi per il pentimento – e mi concentro sulla figura che sta sull’uscio della stanza, ancora completamente immobile.

«Spero abbiate riposato bene, Mademoiselle» utilizzo il tono più educato che conosca, la voce alta a causa dell’ampiezza dalla stanza. La vedo sussultare, come se la mia voce l’avesse riportata alla realtà. Che strano personaggio.

«V-voi...» inizia titubante, ma poi si ferma. Ha una voce flebile e dolce, come quella di una ragazzina che ancora non è cresciuta. Non riesco a capire quanti anni possa avere, questo cadavere vivente. «Voi chi siete?» domanda, infine.

Quello che mi sconvolge non è tanto ciò che ha detto, ma il fatto che l’abbia detto.

Molte persone durante la mia vita mi hanno posto tale domanda, ma erano Generali, nobili parigini oppure membri dell’alta borghesia. Gente al mio stesso livello.

E ora, questo cadavere, questa feccia che è pari al nulla, ha il coraggio di chiedermi chi sono io, guardandomi con quei suoi occhi fieri.

«Forse dovreste dirmi chi Voi siate, non credete?» Il mio tono di voce è tagliente, segno che il mio orgoglio è stato evidentemente ferito.

Indossa una veste scura così sudicia che quasi mi fa ribrezzo e mi chiedo come possa non sentire l’impulso di togliersela. Continua a rimanere immobile e io non posso fare altro che osservarla.

Smeraldi, i suoi occhi.

Fiamme rosse, i suoi capelli.

«Non so come sono arrivata in questa abitazione e non so chi Voi siate.» dice a denti stretti «Siete Voi a dovermi delle spiegazioni.»

La mia rabbia arriva come una tempesta estiva ed esplode, invadendomi. Mi alzo di scatto dalla sedia e procedo a grandi passi verso la ragazza. Ho perso il mio tanto amato autocontrollo e la mia facciata di tranquillità è andata a fare una passeggiata, lasciandomi solo e furioso. La fronteggio e ora posso vedere quanto i lineamenti del suo viso siano delicati: ha una pelle chiarissima e i suoi capelli sembrano ancora più rossi, da vicino.

Mi rendo conto di non aver mai visto occhi così verdi in tutta la mia vita.

Ti faccio stare zitta io, puttana.

«Io sono Léon Derville e Voi mi dovete portare rispetto.» Le sputo in faccia queste parole come se fossero gli insulti più offensivi che conosca. «Avrei dovuto lasciarvi morire.»

Cerco di placare la tormenta dentro di me, rendendomi conto che mi sono esposto davanti ad una semplice popolana, la quale non ha alcun diritto di vedere le mie debolezze.

Merde!

«Voi...?» La sua voce è incredula e incerta, mentre la domanda rimane sospesa nell’aria. «Siete Voi l’uomo che mi ha salvata?»

La sua bocca è semiaperta e le parole non dette aleggiano tra di noi, come se fossero state scritte nel pulviscolo.

I suoi occhi mi stanno ringraziando, lo leggo nelle sue iridi, che sembrano le pagine aperte di un libro complesso ed entusiasmante.

E io rimango muto, attonito, sconvolto, incapace di pronunciare una qualsiasi parola, quando mi accorgo che sulle sue guance stanno scendendo lente – quasi volessero essere sicure che io mi accorga di loro – le lacrime.

Com’è possibile che in cinque minuti di incontro – averla tenuta svenuta tra le braccia non conta – tutte queste emozioni si stiano facendo spazio tra di noi? Noi? Me e la popolana.

La popolana.

Richiamo all’ordine le emozioni che ho sempre cercato di riporre nel cassetto del dimenticatoio e mi ricompongo, dicendomi che ho già fatto anche troppo per questa feccia, quindi non deve interessarmi il suo pianto – il suo dolce, dolcissimo pianto – e nemmeno la sua sorte.

Ho una missione molto più importante di cui occuparmi.

«René!» Al richiamo, la mia cameriera entra nella stanza con il solito cipiglio impeccabile, degno di una membra educata della servitù nobile.

«Dai a questa Mademoiselle dei vestiti puliti, poi falla accompagnare a casa sua da François.» La donna annuisce al mio tono severo, gli occhi rivolti verso il pavimento.

Do un’ultima occhiata alla popolana, prima di uscire di scena, e mi rendo conto che le lacrime le si sono seccate sulle guance. Mi guarda con fermezza e nei suoi occhi riesco a scorgere perplessità.

Volto la schiena e sono sulla porta, quando la sento mormorare: «Sono Amélie Lebeau.»

Silenzio. Non rispondo, ma resto fermo sulla porta. Senza uscire, senza entrare. 

«Me lo avevate chiesto e io non Vi avevo risposto.» dice con semplicità, eppure riesco a intravedere le sue scuse implicite, dietro quella confessione.

Sento il suo Perdonatemi dietro ad un semplice nome.

Esco dalla stanza, senza guardarmi dietro le spalle.

Amélie Lebeau.

La ragazza dai capelli fiammanti.

 

*

 

 

Angolo Autrice

Ho cercato di riprodurre abbastanza fedelmente il clima settecentesco, utilizzando elementi della moda del tempo, come ad esempio lo stile orientaleggiante; spero di essere stata abbastanza credibile nella descrizione della “casa” di Léon. Per il resto, ho scelto di usare la forma di cortesia del “Voi”, visto e considerato che all’epoca era nella quotidianità.

Che ne pensate di Amélie? E di Léon? Ho proprio voglia di sentire i vostri pareri a riguardo, quindi fatevi sentire! ;)

Lascio a voi i commenti!

Un bacione,

Eryca.

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