Io sono il vento

di roxy92
(/viewuser.php?uid=143794)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 15: *** Capitolo 14 ***
Capitolo 16: *** Capitolo 15 ***
Capitolo 17: *** Capitolo 16 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Ho voluto un prologo breve e spero poco noioso. Piccolo entra in scena dal primo capitolo. Spero di trovare qualcuno la prossima volta. Ciao ;)

Quando non ricordi il tuo passato, è come se un macigno fosse sempre in procinto di caderti addosso. Ce l’hai sospeso sopra alla testa, trattenuto da un filo sottile.

Il terrore che il presente sfumi come il tempo trascorso è una morsa che attanaglia lo stomaco e a tratti non fa respirare. Se sei abbastanza forte, ore, giorni, minuti e secondi, ti scivolano addosso come se il tempo non esistesse.

Le tue mani sembrano vuote ai sentimenti e ti ritrovi sempre a stringere il niente. Non hai nulla per cui vivere e nulla per cui morire.

Ci sono momenti in cui ti chiedi se ti buttassi di sotto, quanti passanti si accorgerebbero del tuo gesto…oppure ti illudi di poter essere un eroe: se non provi paura, puoi vivere con coraggio e gonfiare di botte qualche scellerato.

Poi te ne chiedi il senso. Te ne freghi e lasci che l’altalena di onnipotenza e depressione ricominci.

Guardi la gente felice sotto di te, mentre ti affacci alla finestra, e sogni di poter scendere da quella giostra infernale che è la tua vita. Per sopravvivere, lei aveva scelto di non pensarci.

Non aveva voluto amici. Non avrebbe saputo cosa farsene. Riempiva la testa di cose difficili e impegnative.

Se la sua mente non aveva tempo libero, non si sarebbe creata degli stupidi castelli in aria. Viveva di nozioni, tecnica.

Almeno quello le veniva bene. La tecnologia usciva come una cosa istintiva dalle sue mani, così come la lotta. L’istinto non ha bisogno di ragione per funzionare.

Quello che non aveva messo in conto, era che non si può per sempre fuggire dalla propria anima.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Proseguire troppo a lungo solo con un linguaggio introspettivo e metaforico temo disorienti e annoi chi legge. Dal momento che non ho la mano di Joyce, ho deciso di mettere in mezzo anche una parte narrativa ogni tanto. Spero di non rendere la storia meno interessante. Se mi fate sapere che ne pensate, faccio sempre in tempo a modificare la rotta comunque. Buona Pasqua e buona lettura :)

La punta della matita che scivolava sulla carta aveva un suono rilassante.

All’inizio Piccolo era stato infastidito da quella presenza estranea nei suoi spazi. Poi aveva finito per abituarsi.

Per quella ragazza lui era invisibile e, alla stessa maniera, per lui, quell’estranea quasi non esisteva.

Ormai aveva imparato a scandire le tre ore che precedevano l’alba coi suoi movimenti lenti e precisi che imprimevano una nuova immagine su quell’album.

La vedeva che stava seduta in una posa simile alla sua. Probabilmente, anche quella era una strana forma di meditazione.

La luce radente del sole, che piano piano rischiarava il cielo, allungava la sua ombra in una lunga figura filiforme. La ragazza poggiava uno a uno i pennelli nell’erba, mentre con l’altra mano teneva una tavolozza.

Il namecciano aveva iniziato a chiedersi cosa accidenti dipingesse poiché, nel momento esatto in cui il sole era sorto, lei appallottolava il foglio, infastidita, e lo gettava in acqua.

Di solito, si infilava le dita nei capelli e li tirava, in un chiaro gesto di stizza, Piccolo non sapeva dire se contro l’ambiente o solo contro se stessa.

Quella mattina doveva essere stata diversa, perché aveva gettato in acqua tutto l’album, scaraventandolo lontano. Gli era parso che si asciugasse una lacrima, andando via.

Mentre ne osservava la schiena minuta allontanarsi, la studiò meglio. Non aveva un’aura, però, a primo impatto, non gli era mai parsa davvero umana.

Forse per quel colore carico degli occhi, a metà tra il cielo notturno e le nubi della tempesta o, magari, per quei capelli che scintillavano a ogni scatto della testa, coi riflessi alternativamente dell’oro e della fiamma.

C’era un contrasto in lei, come una forza sotterranea trattenuta a fatica. Avrebbe dovuto testarla da vicino e la cosa non lo interessava. Probabilmente, se l’avesse avuta davanti, neppure l’avrebbe riconosciuta.

Rimasto solo, mentre volava in basso, nell’erba fresca vicino la cascata, si accorse di qualcosa che era rimasto impigliato tra le rocce e non era stato portato a valle dalla corrente.

Si bagnò il polso ma, curioso, tirò su quell’album su cui era stato lavorato tanto ed era stato scartato così, per un futile impeto di rabbia.

Lo scrollò delle ultime gocce e lo guardò meglio. Si stropicciò gli occhi, che non poteva essere. Girò più volte le prime pagine.

Il soggetto era sempre lo stesso: quel posto lui lo amava da quando era bambino, per quello restava a meditare ogni ora libera accanto a quella cascata.

Come accidenti era, però, che i colori, nell’ultimo disegno, non erano quelli della terra ma di Namecc?

“Signora, io qua ho finito.”

S’era pulita le mani con lo straccio che aveva tirato fuori dalla tasca della salopette di jeanz. Non era stata accurata e, quando si terse il sudore dalla fronte, si sporcò per buona parte di nero.

Ormai aveva rimesso a nuovo metà degli elettrodomestici di casa Son. L’auto volante era stata l’ultimo successo, l’ultima fatica.

Chichi le aveva parlato a ruota libera, per tutto il tempo degli affari di casa propria, riuscendo a strapparle al massimo qualche monosillabo.

“Non sei un tipo molto loquace, tu...”

Le disse, porgendole un succo d’arancia che la più giovane terminò in fretta.

L’aveva vista alzare le spalle, come per mostrarsi d’accordo nell’aver constatato una cosa ovvia.

“Sei di queste parti?”

Tentò ancora.

“Non sono di nessuna parte. Io viaggio, signora.”

La donna inarcò un sopracciglio, prima di sedersi un attimo, di fronte a lei. La vide chinare la testa, come se si vergognasse di quella attenzione.

“Ti va di restare a pranzo con noi?”

Le era sembrata tremendamente sola e provava una gran pena. Si chiese da quanto vagasse per il mondo, senza essere più in grado di stringere rapporti umani.

L’idea che fosse una combattente piuttosto in gamba le era balenata in testa quando l’aveva vista sollevare l’auto in garage come se fosse un pezzo di cartone, con una naturalezza che aveva conosciuto già in suo figlio e suo marito.

Le pagò il dovuto e l’accompagnò alla porta.

“Per quanto resterai da queste parti?”

La giovane si sciolse la bandana rossa e smosse un po’ i capelli mossi.

“Giorni… al massimo poche settimane.”

Rispose pratica. In verità, neppure lei lo sapeva. Se non scappava via prima, era perché aveva avuto una buona impressione del posto e di quella singolare donna. Addirittura, abbozzò un mezzo sorriso.

“Se ripassi a casa mia, potrei presentarti la mia famiglia…”

La prima parte della frase non sortì alcun effetto mentre la giovane si apprestava a salire sulla sua moto nera.

“…non esistono combattenti più forti sulla terra del mio Goku e del mio Gohan.”

La seconda la bloccò sul posto.

Chichi fu trafitta da uno sguardo penetrante, che non s’aspettava.

“Perché?”

La padrona di casa esitò.

“…perché cosa?”

Ripeté, incerta.

“Per quale motivo vuoi che una come me conosca la tua famiglia?”

Per un istante sbatté le palpebre, stupita. Non pensava fosse così difficile intendere il motivo del suo gesto. Intenerita, le sorrise.

“Ho capito che sei una brava ragazza e che la cosa potrebbe farti piacere.”

Si sentì addosso lo sguardo dell’animale selvatico che deve scegliere se fidarsi dell’uomo che gli tende la mano oppure no.

“Ci penserò. Grazie dell’offerta.”

Sospirò, mentre la ragazza ingranava la marcia e correva via.

In fin dei conti, quel che poteva fare per aiutarla, l’aveva fatto. Quello che non immaginava, era di averla colpita tanto.


Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Spero tanto di non aver fatto pasticci con un capitolo di questo tipo, l'ho riletto mille volte ma non sono riuscita a fare di meglio.

A chi legge la sentenza, di vita o morte che sia. :)

Da quando si era svegliata non era rimasta ferma più di un mese nello stesso posto. La sua nuova vita era cominciata tra le pareti bianche della stanza asettica di un ospedale, alla città dell’ovest.

C’era rimasta per un periodo abbastanza lungo. Ad assisterla, si erano succedute almeno quattro diverse infermiere. Stessa uniforme bianca, stessa faccia.

La prime cosa che aveva imparato erano l’indifferenza e la compassione. La dottoressa che le aveva chiesto il nome e da dove venisse, non ci aveva messo molto a liquidare il suo problema: amnesia.

Forse era perché lei non era molto collaborativa come paziente o. semplicemente, non c’era mai stata simpatia tra loro. A tutte le sue domande, l’unica risposta era che non sapeva. Nella sua testa era tutto bianco o tutto nero.

Non vi era traccia neppure di un ricordo. Le fratture, invece, quelle no, guarivano in fretta. A una velocità sorprendente, quasi spaventosa. Non sopportava più di essere considerata il fenomeno da baraccone del reparto di medicina generale.

Così, appena possibile, si era liberata degli stracci da ammalata, zaino in spalla fornito dalle suore della cappella interna, medicine nel cestino prima dell’ingresso principale ed era scappata.

Appena fu all’esterno, nel caos della città, si sentì mancare. Tutto quel rumore e quelle luci accecanti la colpirono così forte da tramortirla. Quello non era mai stato il suo mondo.

Doveva aver tremato. La voce distorta di qualcuno le aveva chiesto se aveva bisogno di aiuto e si era fatto tutto distorto poi nero. Si era aggrappata solo per qualche istante, ma spalancò gli occhi quando capì che il passante sconosciuto l’avrebbe riportata nel luogo da cui era finalmente uscita.

Si era liberata con uno strattone allora, ed era corsa via, disperdendosi nel dedalo di vie e persone della stazione ferroviaria. Lei quel mondo non lo conosceva. Non solo non le piaceva. Già lo detestava.

Quel giorno corse via, dalla prima mattina fino al tramonto, dalle strade principali fino alle periferiche, quando alle case si sostituirono edifici e gli sguardi curiosi dei rari tizi che incrociava. Per quanto le gambe la ressero, arrivò ai vicoli più bui della città.

Si fermò, stremata, vicino a un gatto dagli occhi gialli che tagliavano le tenebre come punte di un coltello, tra qualche bidone rovesciato, muffe, altri umori di cui percepiva l’odore pungente.

Eppure, quel buio e quel fetore facevano meno male del frastuono e del caos che l’avevano colpita quella mattina tremenda. Quel gatto rognoso che soffiava si era avvicinato a graffiarla, ma lei non aveva badato al sangue che doveva colare dal suo braccio tagliato.

Rispose con un ringhio, un verso selvaggio che bastò a spaventare la bestiola e farla fuggire via, in un cozzare di coperchi rovesciati e bidoni. Poi aveva lasciato scivolare la schiena sui mattoni sudici e umidi di quel vicolo, stretto e malsano.

Aveva chiuso le palpebre, pesanti come macigni. Senza dubbio, l’oscurità era meglio del caos che l’aveva travolta.

Tutti gli esseri umani non avevano volto e se ce l’avevano era sempre lo stesso. La ragazza si era data della sciocca mentre si riavviava una ciocca più fastidiosa, dietro l’orecchio a punta.

Ormai, le sue unghie erano così lunghe che faceva fatica a stringere i pennelli. Il bianco e il nero che aveva in testa avevano assunto i colori strani di un mondo che non esisteva. Non ricordava che si chiamasse Namecc.

Da quando aveva conosciuto quella strana donna, Chichi si chiamava, aveva avuto l’impressione che, se avesse teso la mano, davvero si sarebbe trovata meno sola.

“Il mio Goku e il mio Gohan sono i combattenti più forti della terra.”

Quelle parole erano incise come un marchio nella sua testa. Era fuggita tanto a lungo. Che male avrebbe fatto se si fosse fermata qualche giorno in più, nello stesso posto?

Si morse il labbro. Forse la donna si sbagliava. Ne aveva già conosciuti tanti di presunti combattenti più forti della terra, tutti i buoni a nulla usciti dalla scuola di mister satan. Li aveva atterrati con uno, al massimo due colpi, trattenendosi un sacco, per giunta.

“Il mio Goku e il mio Gohan sono i combattenti più forti della terra.”

Non le era mai successo prima di stringere così forte da rompere il pennello.

Aveva riposto decisa l’album, colta dalla frenesia d’una ragazzina che si avvicina a qualcosa che, insieme, la attira e la spaventa. Aveva imboccato il sentiero e aveva lanciato sul selciato la capsula con la moto. Addirittura senza casco, aveva dato gas per dirigersi verso casa Son.

Non s’era accorta minimamente che ogni suo movimento era stato tenuto sotto stretta osservazione.

Piccolo aveva scrutato, un po’ indispettito, ogni leggero cambiamento e vibrazione della sua aura perché sì, ora era certo che la ragazza ne aveva una, ed era a dir poco particolare.

Sciolta la posa meditativa, inarcò un sopracciglio, vittima di una certa sorpresa. Che intenzioni aveva quella matta, nel dirigersi verso casa Son?

“Ehi ragazzina? Che intenzioni hai?”

Una voce profonda l’aveva bloccata prima che potesse bussare alla porta. Si girò veloce, allerta.

Non aveva percepito il minimo suono alle proprie spalle. Spalancò gli occhi, nel trovarsi davanti una persona simile.

Non aveva mai visto un essere umano così alto, e sì che lei non era propriamente bassina. Fu colpita da quegli occhi così scuri, come un pozzo senza fondo. Il fatto che fosse verde, era un particolare secondario.

“Che intenzioni hai tu?”

Gli rispose, già pronta ad attaccare. Per esperienza, aveva capito che con chi era così diretto c’era sempre poco da scherzare. L’uomo aveva uno strano ghigno in faccia e non era per niente ben disposto, a giudicare da come teneva le braccia strette al petto.

“Sono un amico di Gohan. Tu chi sei, piuttosto?”

Chi era lei? Avrebbe voluto tanto potergli dare una risposta. Lo avrebbe voluto davvero.

Cercò di tergiversare. Non era chiaro neppure a lei stessa quali fossero le sue intenzioni. Non aveva mai agito così da bambina.

“Non te l’hanno insegnato a presentarti prima di chiedere il nome a qualcuno?”

Non ottenne lei risposta, per cui decise di ignorarlo. Quando però si ritrovò ad avere il polso bloccato, quella furia che s’impossessava di lei quando era in pericolo esplose subito.

Repentina si girò su se stessa. Lo colpì con un gancio alla guancia e il crack che era seguito non era un dente che si spezzava, ma qualcuna delle sue ossa.

Non c’era andata a piena potenza. Voleva liberarsi, non fargli del male. Anche se per pietà, fu lasciata andare. Barcollò appena. Non s’aspettava che avrebbe impattato contro una superfice così dura.

Si inginocchiò un attimo, trattenendo al petto la parte lesa. Anche se era un dolore lancinante, non avrebbe pianto.

“Ma di che diavolo sei fatto? Di metallo rinforzato?”

Appena preoccupato, il namecciano aveva provato a schiarirsi la voce, nel tentativo di chiederle se fosse ancora intera. Tirò un sospiro di sollievo, quando vide che scuoteva le dita, in piedi dopo pochi istanti.

“Ti pare il modo di fare con la gente, questo? Potevi farti male per davvero!”

Aveva urlato e la sua pazienza era arrivata già al limite.

“Ha parlato l’insegnante di buone maniere.”

L’afferrò per la maglietta e stava già ringhiando. Mai si sarebbe fatto prendere in giro da una ragazzina.

Però, neppure lui aveva capito che quella non voleva essere toccata, perché la testata sul naso non l’aveva messa proprio in conto.

Era deciso a farla fuori, perché la misura era colma già da un pezzo.

Stava per colpirla lui, quando si spalancò la porta di casa Son. Chichi era apparsa sulla soglia, tra le braccia una cesta colma di biancheria da stendere. Dapprima solare, sul suo volto si era dipinta subito un’espressione terribile.

“Che-cosa-le-stai-facendo?”

Aveva scandito a chiare lettere.

La mano aperta davanti alla faccia di quella matta, con una sfera energetica pronta ad esplodere, lasciava poco spazio all’immaginazione.

Piccolo non provò neppure a giustificarsi. Il suo corpo fremette, nel disperato tentativo di calmarsi. Tremava letteralmente. Non seppe neppure lui come vi riuscì.

Diede le spalle alle due donne e annunciò che aspettava Goku nel solito posto.

Prima di spiccare il volo, però, rivolse l’ultimo sguardo all’estranea. Aveva un’espressione a dir poco omicida.

La ragazza deglutì. Quella era la prima volta che ricordava la paura.


Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Ammetto che mi sto divertendo a complicare un pò le cose. Se avrete pazienza, spiegherò.

Ad ogni modo, spero che Piccolo non risulti troppo OOC.

Se ci siete, ciao alla prossima! :)

Era la prima volta che al bianco e al nero della sua mente s’aggiungeva un nuovo colore. Il rosso. Fino ad allora, lo aveva visto sgargiante nelle insegne pubblicitarie che si era lasciata alle spalle in fretta o impertinente e caldo, nei fiori estivi e di primavera.

Quello che vedeva lei era una tinta corposa, scura, che si diramava veloce, in un intrico sottile e complesso, come di rami rinsecchiti. Scivolava sottile e sinuoso, simile ad acqua che corre sul letto d’un fiume.

Storse la bocca mentre ne prese coscienza. Quello non era un semplice colore: era sangue.

Sbatté più volte le palpebre, tremante. Il primo ricorda parziale che emergeva dalla nebbia che aveva in testa era orrendo.

Le fu del tutto estraneo il sorriso radioso della donna innanzi a lei che la cingeva la spalla e la invitava ad entrare.

“Non devi aver paura di Piccolo. E’ tutta scena.”

Tutta scena un piffero. Quello s’era arrabbiato sul serio e, a ben riflettere, la sua era una rabbia giustificata.

“Mio marito e mio figlio sono molto più in gamba di lui. Lo terranno a bada, vedrai.”

Non ce n’era bisogno. C’erano belve molto più feroci di quel guerriero dalla pelle verde. Non ricordava quali, ma il sangue che aveva visto ne era la prova.

“Ho fatto un errore a tornare qui.” Si era liberata dall’abbraccio di Chichi dolcemente, per poi inchinarsi.

“Mi scusi ancora, anche con quel guerriero, se è possibile.”

Anche se poco, era più consapevole di sé, c’era una scintilla diversa, nel suo sguardo. Mentre se ne andava, aveva gli occhi stanchi.

Piccolo c’era andato giù subito pesante: niente riscaldamento quella mattina. Per il sayan non era certo un problema, però lo incuriosì quell’atteggiamento. Goku gli bloccò il pugno a mezz’aria.

“Di un po’: stai mica così per quella ragazza di cui mi ha accennato Chichi?”

Il namecciano ritirò subito il braccio e gli diede le spalle. Sì, l’amico aveva fatto centro.

In realtà. Goku sapeva l’accaduto per filo e per segno. Voleva solo la versione dell’altro. L’aveva raggiunto a terra.

“Ma è riuscita davvero a colpirti?”

Sapeva che gli sanguinava il naso, quando aveva lasciato casa sua. Se non si fosse sbrigato ad evitare la sfera energetica, avrebbe fatto una fine simile. Di certo non aveva scelto l’approccio migliore per avere informazioni.

“Mi ha preso di sorpresa. Fine della storia!”

Colpito e affondato. Il sayan, giusto per una frazione di secondo, si cucì la bocca.

“Ad ogni modo, avrebbe voluto chiederti scusa.”

Credeva di essere abbastanza sveglio, ma rispetto al namecciano ne aveva sempre saputa più di una in meno.

“Lo so dove vuoi andare a parare! Non ti passi nemmeno per l’anticamera del cervello di andare a cercarla per farla allenare con noi!

Non è al nostro livello! Non può esserci di nessuna utilità! E’ solo una psicolabile! Una matta!”

Goku aveva alzato le mani in segno di resa. Lo supplicò di calmarsi. Era già chiuso quell’argomento. Si passò la mano dietro la nuca.

“Ti pare normale una che va ad attaccare la gente senza motivo e passa la notte a dipingere invece di dormire?”

Sorrise sornione a quell’affermazione, data di getto.

“Tu che sai di come passa la notte? La spii per caso?”

Rosso come poche volte in vita sua, non in grado di fornire una risposta soddisfacente, Piccolo si era trattenuto a fatica dall’esplodere. Non c’era proprio verso di avere pace per quella giornata.

Agitato, si era comportato come un pivello per tutto l’allenamento e verso l’ora di pranzo decise di battere dignitosamente in ritirata.

Ormai era una questione di principio svelare chi fosse quella matta. Bastava attendere qualche ora, che scendesse la sera. Trasalì, invece, quando la trovò già li, accovacciata, come al solito, con quei fogli sulle ginocchia.

La ragazza non ne aveva ancora buttato nessuno in acqua e pareva affaticata. Quella volta, il guerriero non iniziò a meditare. Volle osservarla e basta.

Anche uno come lui capiva che non c’era bisogno di infierire: stava già male. Prese posto in cima alla cascata. Udì chiaramente lo stomaco della giovane che borbottava, eppure non la vide alzarsi per cercare qualcosa da mangiare.

L’ultima scena che stava dipingendo doveva essere più importante del cibo. Il guerriero aveva strabuzzato gli occhi per cercare di vedere meglio, ma non aveva la vista affinata quanto l’udito.

La controllò attentamente fino a quando, dopo il tramonto, quella chinò il capo all’improvviso e il pennello le scivolò di mano, rotolando per qualche centimetro in terra, subito arrestato da qualche filo d’erba.

Una strana inquietudine si impossessò di lui nel momento in cui accadde. Non si fermò a pensare. Volle solo appurare di persona.

Atterrò con una certa urgenza dietro di lei. Leggero, senza proferire parola, di portò al suo fianco. Non c’era bisogno di essere un genio per capire che s’era addormentata. Alzò in fretta un piede, quando si accorse che calpestava uno dei suoi fogli.

Avendo cura di non svegliarla, si sedette vicino a lei. Era deciso a capire meglio cosa nascondesse. Un moto di disgusto gli arricciò la fronte e le labbra quando distinse quei corpi fatti a pezzi e coperti di sangue.

L’unica persona ancora in vita in quelle scene era una bambina atterrita che non avrebbe avuto neppure il coraggio di chiedere pietà.

Piccolo lasciò cadere quei fogli nel punto esatto in cui li aveva trovati. Si voltò lentamente verso la ragazza, che ancora dormiva, con gli occhi circondati da profonde occhiaie.

Che gli fosse preso un colpo se quella bambina ritratta non era lei! Che razza di passato si portava appresso per essere così strana? Che accidenti le avevano fatto? Il male massacra le persone anche senza toccarle e certe esistenze ne sono la prova.

In quel momento in cui l’aveva così vicina, si chiese come sarebbe stato il loro primo incontro se, qualsiasi cosa le fosse successa, non le fosse accaduta affatto.

Istintivamente si toccò il naso. Si era arrabbiato tanto, proprio perché gli aveva fatto male. Era stata rapida, imprevedibile. Aveva compreso che lei aveva avuto paura e voleva vivere. Di quello, non poteva farle una colpa.

Si era dimostrata abile a colpirlo, ma se fosse stata davvero preparata, si sarebbe accorta di lui giorni prima, si sarebbe svegliata all’improvviso e avrebbe combattuto ancora. Mai gli avrebbe permesso quella vicinanza. Evidentemente, non aveva nessuna conoscenza della percezione delle aure.

In quello stato, era un bersaglio facile. La guardò ancora, mentre ciondolava la testa e, come un velo, i capelli biondi, quasi argentei alla luce della luna, le coprivano il viso pallido.

Bisognava guardarla bene, ma con un po’ d’attenzione, si capiva che non era una umana. Aveva un’aura diversa, più selvaggia, come quella di certi animali.

Aveva lineamenti meno aggraziati di quelli della cyborg 18 che, oggettivamente, quanto a bellezza, nemmeno a lui erano indifferenti. Non era paragonabile neppure alla moglie di Goku o a Bulma. Eppure era piacevole da guardare, se non altro quando dormiva.

Mentre i grilli frinivano e lui si perdeva in certe stupidaggini, c’erano degli strani rumori nella vegetazione. Il namecciano si fingeva ignaro, ma era da tanto che li ascoltava.

Aveva percepito un brivido da subito. Perché non aveva dubbi che erano aure simili a quella della ragazza ed erano ostile. Era qualcuno che cercava vendetta e, appena se ne sarebbe andato, l’avrebbe uccisa.

Ci pensò su solo un altro istante, poi decise.


Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Capitolo forse un pò strano, di passaggio. Sarà che con questo tempo strano sono tremendamente strana anche io. Com'è buffa la vita a volte.Simile a una corda che si tende e si spezza. Ok. Basta cose noiose. Si inizia. Un saluto a tutti. Spero nella vostra clemenza e ... nella vostra curiosità, ammesso che riuscirò a stuzzicarla. :)

Le aveva preso il polso e se l’era fatto passare dietro il collo. Aveva portato il braccio sotto le sue ginocchia e l’aveva sollevata facilmente: era leggera.

Mentre la portava via dal luogo dove erano svenuti i suoi nemici, si domandò il perché del loro odio.

Attorno a loro c’era ancora silenzio. I passi del guerriero e i suoi respiri erano sovrastati a malapena dagli animali che ricominciavano a zampettare nel sottobosco e dal battere delle ali degli uccelli, che si gettavano di nuovo nell’aria sicura.

Piccolo guardò la ragazza, ancora addormentata. Stranamente, non gli dava fastidio il viso di quella sulla sua spalla. Al contrario: sapere di una creatura all’apparenza fragile e in realtà pericolosa, lo inorgogliva.

In un certo senso, era davvero felice che un essere simile, come lui, avesse un legame con Namec. Non conosceva quasi nulla degli alieni che popolavano il suo pianeta d’origine, della sua gente. Presto avrebbe imparato qualcosa di più sul suo passato.

Con quella speranza l’aveva allontanata dall’obelisco, dalla cascata. L’aveva condotta in un luogo più riparato, dove nessuno avrebbe potuto disturbare il suo riposo.

“L’arte della spada non ha molte regole.”

Era una voce altera, baritonale e profonda. Erano parole di un guerriero che non ammetteva repliche e non aveva tempo da perdere con dei mocciosi.

Gli occhi scuri del suo maestro avevano il colore del cielo quando le stelle sono già spente e facevano paura come la notte. Si muoveva rapido, inquieto, come una barca in balia delle onde.

La lunga chioma dorata sbuffava a ogni suo passo come una pioggia di sole. Carezzava di tanto in tanto le else delle spade appese ai fianchi.

A differenza della maggior parte degli uomini della tribù, procedeva scalzo e non girava a torso nudo. Si diceva che fosse per nascondere un’orrenda cicatrice o un sinistro tatuaggio, qualcosa che lo sfregiava.

“In realtà, di regola ce n’è una sola…”

Tutti i suoi compagni avevano avuto paura quando quel sinistro individuò li passò in rassegna con lo sguardo, uno a uno. Lei non aveva fatto eccezione. Forse aveva tremato di più.

“…o sei abile a usare la spada o muori su di essa.”

L’unica emozione tradita con quella frase era una fredda indifferenza. Non erano certo figli suoi, quei bambini. Haldir non aveva un cuore.

I più malevoli dicevano che la cicatrice che copriva con quei vestiti, era il segno di quando glielo avevano strappato. Nessuno conosceva la storia di quel guerriero abilissimo, giovane ed alquanto eccentrico.

Per questo, le male lingue si erano premurate di costruirgliene uno oscuro. All’inizio, anche lei aveva avuto paura.

Quando il maestro la guardava con quegli zaffiri di tenebra, per lo spavento, lei neppure riusciva a respirare. Era un personaggio cattivo e nessuno si sarebbe mai aspettato che avrebbe mosso un dito per salvarli, figurarsi rischiare tanto.

“Non dovrà essere solo un’arma.”

Haldir aveva sguainato una spada e l’aveva fatta roteare con maestria.

“…dovrà essere la vostra anima.”

Aveva spiegato fermandosi proprio di fronte a lei, causandole un crampo allo stomaco. Non era stato facile, in sua presenza, imparare a dominare la paura.

Udendola agitarsi nel sonno, probabilmente preda di un incubo, Piccolo provò a scuoterla per la spalla. Si fermò solo quando riuscì a svegliarla.

“Ce ne hai messo a riprenderti.”

Esordì, incrociando le braccia al petto. Si chiese perché accidenti continuasse a stare zitta e fissarlo insistentemente.

A disagio, arrossì e le ordinò di raccontargli chi fosse. Fra tutte le risposte che avrebbe potuto avere quella proprio non se l’aspettava. Fu un sospiro, un sussurro lieve lo sciocco della sua lingua.

“Il mio nome è Galen…”

La fanciulla aveva esitato ad alzare la fronte, le sue guance erano più rosee del solito. Aveva deglutito. In presenza di quell’individuo, sembrava non riuscire a dominare le proprie emozioni.

Si portò una mano al petto, come se, così, potesse imporre il ritmo del proprio battito cardiaco. Le sembrava di essere ritornata quella bambina delicata che doveva essere stata e fissava il suo interlocutore con occhi imploranti.

Tuttavia, lo capiva benissimo di essere ancora in vita solo grazie a lui. Si fece coraggio e sostenne il suo sguardo.

“…ti ringrazio dell’aiuto…”

Di nuovo, la voce cominciò a mancarle. Non la intimidiva il tono fiero di quell’uomo. La spaventava altro.

Era dal baratro che si ritrovava al posto del proprio passato che continuava a fuggire. Svelarlo, era come dare corpo e importanza a quel pensiero, renderlo reale e, per questo, più spaventoso.

“…vorrei tanto risponderti, ma non posso. Davvero: io non so chi sono.”

Si era riavviata i capelli dietro l’orecchio ed era rimasta in attesa: di un rimprovero urlato, di un semplice commento.

Il namecciano aveva solo sbuffato e nascosto una mano sotto al proprio mantello. Aveva tirato fuori dalla tuta un rettangolo di carta che le aveva buttato ai piedi. La osservò rigirare tra le dita quell’album gualcito dall’acqua, confusa.

Rimase stranito quando si trovò costretto a spiegare il perché del suo gesto. Arrabbiato, aveva allora sciolto la posa meditativa. Aveva iniziato a sfogliare senza riguardo quei paesaggi dalle tinte ormai scolorite.

Quando aveva trovato il disegno che gli interessava, l’aveva strappato dal resto dei fogli. Glielo aveva agitato sotto al naso.

“Questo pianeta è Namec e tu lo conosci! Non mentire! Ti ho vista mentre lo disegnavi!”

Continuò per almeno un minuto a scuotere quel povero disegno finché lei, come se si fosse riavuta all’improvviso, glielo strappò di mano, si massaggiò le tempie e si decise ad esaminarlo. Piccolo si sentì fremere quando lei lo appallottolò e lo gettò nell’erba.

“E’ un posto che non esiste. Un mio stupido sogno.”

Che diritto aveva, quella, di screditare un pianeta di cui era così orgoglioso? La afferrò per le spalle e la obbligò ad alzarsi.

“Quel posto esiste ed è il pianeta da cui provengo. Tu adesso mi dici qual è il tuo legame con Namec.”

Parò senza problemi il pugno diretto al suo viso. La spinse via e la fece barcollare appena. Sentiva mille emozioni confondersi nell’aura di quella femmina, scemare in fretta la sicurezza della guerriera.

“…non esiste…”

La lasciò ripetere due o tre volte, come un disco rotto. Si girò con una morsa allo stomaco, quando vide le lacrime sfuggire con rabbia dalle sue mani bianche e dalle sue ciglia. Al momento, quella ragazza era troppo scossa per smettere di piangere.

“… se questo Namec esiste, io non ne ho ricordo.”

Restarono ancora un po’ così, incerti, entrambi a contatto con una situazione nuova e difficile da comprendere, in bilico su di un terreno sul quale era difficile muoversi.

Fu Piccolo, per primo, ad alzare le spalle e rimettersi a terra, a gambe incrociate. Il guerriero l’aveva guardata. Invece di avere notizie da lei, si era rassegnato che le avrebbe raccontato qualcosa.

Riparato dalla folta vegetazione, Haldir aveva scosso il capo, divertito. Avrebbe continuato a controllarli per qualche altro minuto, poi se ne sarebbe andato. Di tutte le cose assurde che aveva immaginato sarebbero successe, quell’incontro proprio non se l’aspettava.


Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 4 ***


Non c’è nulla di più leggero delle lacrime del cielo che lambiscono la pelle, quando colano sul viso e sulle ciglia. Soprattutto quando corri in fretta, tanto da spezzare il vento al tuo passaggio. Le senti simili punte di spilli, a tocchi di dita invisibili che solleticano con carezze inconsistenti e tagliano appena.

In quello stato tra il sonno e la veglia, doveva aver aperto gli occhi per sbaglio. Le stelle sfrecciavano veloci sopra di lei.

Forse stava cadendo. No. S’era addormentata in un luogo al livello del terreno. Non poteva cadere.

Stava sognando: era l’unica spiegazione possibile. Le sembrava che qualcuno la portasse via. Via da cosa? Dove si trovava prima c’era tanto sangue ed era in pericolo.

Il vento si spostava veloce attorno a lei. Un cuore batteva forsennato accanto al suo orecchio. Provò a girarsi ma il viso era troppo pesante. Il suo corpo un macigno.

Dalla nebbia emergeva un volto diverso e simile al suo. Chi era non lo sapeva. Se chiudeva gli occhi e ascoltava soltanto, poteva sentire il vento sibilare e avvolgerli, portarli lontano.

Chi era quell’uomo che la conduceva al sicuro, con la sua furia? Delle due spade che portava in vita, ne stringeva una in mano. Non era solo un’arma. Pareva quasi il prolungamento del suo braccio.

Inquieto, Piccolo guardava il viso della ragazza, riverso nel vuoto. Sarebbe stato un guaio se si fosse svegliata all’improvviso, iniziando a dimenarsi.

Non era un sonno sereno quello in cui era caduta. Si muoveva impercettibilmente. Sulle sue labbra parole di una lingua sconosciuta.

Cercò di accelerare, per atterrare il prima possibile al palazzo del supremo. Come gli era venuto in mente di portarla fin lassù?

Aveva pensato ad un posto sicuro e il primo era stato quello. Una volta affidata la ragazza a qualcuno, sarebbe tornato a sistemare le presenze che percepiva. Non dovevano essere troppo potenti.

Il brivido che aveva alla schiena, però, non solo non l’aveva abbandonato un attimo, ma era più intenso. Guardò in basso e gli scappò quasi un urlo. Se prima li percepiva, ora poteva vederli. Erano due. Si stavano arrampicando sull’obelisco di Balzar. Procedevano rapidissimi.

Apparentemente umani, indossavano solo dei pantaloni bianchi e avevano ciascuno due spade appese alla vita. Appena si accorsero di essere stati intercettati, si nascosero nella parte in ombra dell’obelisco, continuando a salire.

Il guerriero, pietrificato, aveva imprecato, per poi riprendere a volare più in fretta possibile e, poiché le sciagure non capitano mai da sole, la ragazza che teneva in braccio si stava anche svegliando.

Era pronto a tapparle la bocca o tramortirla nel caso avesse opposto resistenza. Con sommo stupore, però, non accadde niente di tutto ciò. Si scambiarono un lungo sguardo silenzioso, in cui si osservarono a vicenda, come cercando di scandagliare le menti reciproche, senza riuscirci.

A uscire sconfitto da quel primo scontro fu Piccolo che arrossì e puntò il naso all’insù, imbarazzato e confuso. Si sarebbe aspettato tutto, meno che quella richiesta.

Appena poggiò il piede sull’ampio pavimento circolare, la ragazza, a prima vista calma, gli chiese due spade. Il guerriero non aveva nulla e le materializzò in un attimo, grazie alla sua magia.

Non appena le ebbe tra le mani, lei le impugnò in fretta. Le fece roteare con troppa maestria per non sapere quel che faceva.

“ Sono qui per me, se non ti intrometti non accadrà nulla. Li porto via da qui.”

Piccolo aveva provato a trattenerla. Sapeva che mancava poco. Che accidenti le era preso in quella manciata di ore? Sembrava sempre meno la persona che lo aveva assalito.

“Grazie delle armi e scusa per la botta che ti ho dato.”

Lo salutò, portandosi fino al limitare del pavimento. Il namecciano aveva alzato il braccio, chiedendole che intenzioni avesse. La bloccò. Non voleva che si buttasse.

“Per me sono pesci piccoli. Davvero, me la sbrigo da sola.”

Avrebbe voluto chiamarla per nome, ma ancora non lo conosceva. La teneva di nuovo per il polso, ma lei non aveva più paura. Lo guardava con curiosità e interesse, ma non c’era tempo.

“Tu hai il tuo onore. Lascia che io pensi al mio. Ti spiegherò quel che posso. Lo giuro.”

Aveva visto la fermezza d’un guerriero suo pari. La lasciò andare. Lo fece vacillare un attimo quel sorriso. Udì solo un grazie prima che lei si gettasse di sotto, nel vuoto.

Sembrava che danzasse. Piccolo ne aveva viste poche di cose così in vita sua. Gli venne da paragonarla a una foglia sospinta da un vento impetuoso o a quei lapilli di cenere che si estinguono in fretta nell’aria scura e calda quando cola la lava dei vulcani: nell’aspetto innocui, in realtà, se li tocchi bruciano le mani.

Gli animali più pericolosi della terra non erano i dinosauri o le tigri coi loro affilati denti a sciabola. Le creature e le piante più letali hanno colori tenui, che si confondono all’entrata dell’abisso. Sono più simili ai petali delle rose in boccio o ai veli delle meduse sottomarine.

Quella ragazza era temibile alla stessa maniera.

Ne lei ne gli altri due erano in grado di volare. Tutti e tre combattevano lasciandosi cadere nel vuoto. Ogni tanto conficcavano le lame delle spade sulla pietra dura dell’obelisco. Aggrappandosi ad esse, eseguivano salti acrobatici, veloci giravolte. Guadagnavano qualche decina di centimetri, per poi sprofondare inesorabilmente per metri.

Nel loro scontro, Piccolo sarebbe stato solo un elemento di disturbo. Non avevano tirato un calcio o un pugno, scagliato una sola onda. La loro energia non era spirituale. Veniva dal pianeta. Era come se scendessero più lentamente di qualsiasi altro corpo in caduta libera, simili ad esseri senza peso.

Se non fosse stata vestita con quegli abiti terrestri, sarebbe stata perfetta. O, forse, erano le armi che le aveva fornito lui, a stonare tra le sue mani. Ciò nonostante, non riusciva a smettere di guardarla nemmeno per un istante, in bilico tra meraviglia e sgomento.

Perché se era certo che era così sorprendente era anche chiaro che, quando avrebbero toccato terra, gli altri due si sarebbero trovati piuttosto malconci.

I loro corpi erano pieni di tagli. Se avesse esercitato una pressione appena maggiore, e avrebbe potuto farlo, lei li avrebbe letteralmente ridotti in pezzi, come i cadaveri di quei disegni.

Come il namecciano aveva intuito, i due si accasciarono nell’erba. La ragazza aveva gettato le armi ai loro piedi, come scottata.

Riprendeva brandelli di ricordi molto lentamente. Ciò che era riuscita a fare, lo doveva soprattutto all’istinto.

C’era tanta tecnica dietro, esercizio fino allo sfinimento, ma anche un’intima natura. Qualcuno le aveva insegnato e le aveva insegnato bene.

“Ti resta poco da cantar vittoria. Sei l’ ultima. Morirai presto.”

Ad aver parlato era uno di quei ragazzi che l’avevano seguita.

“Farai la fine di tutti gli altri e di quel maledetto del tuo maestro . Non resterà nulla di te. Sparirai come il resto del tuo clan.”

Riusciva a stare sollevato solo puntellandosi sui gomiti, presto sarebbe svenuto come l’altro. Era poco più vecchio di lei e aveva uno sguardo che la turbava nel profondo.

La ragazza arretrò di un passo. Era quella l’oscurità che l’aveva ridotta così. Di quella aveva paura, non delle minacce di quel guerriero dalla pelle verde.

Li aveva sconfitti, resi inermi, eppure, iniziava a passare davvero al terrore. Indietreggiò ancora, fin quando non sbatté contro qualcosa, o qualcuno. Si girò e riconobbe quel guerriero altissimo, che le aveva prestato aiuto.

Vide che non era più arrabbiato e sorrise. Con lui era al sicuro.

Avrebbe voluto ringraziarlo e dirgli tante cose, ma le gambe cedettero all’improvviso. Il nero che l’avvolse, però, non la spaventava più così tanto.


Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Ho scritto anche questo pezzo un pò di getto. Spero sia uscito un pò meglio del precedente. Se ancora ci siete, buona lettura!

Non aveva mai riflettuto sull’effetto che potesse avere il suono della sua voce. Era sempre stato un tipo solitario, avvezzo al silenzio e alla meditazione.

In quel momento, mentre si trovava a raccontare di un pianeta che conosceva solo all’apparenza e più per sentito dire, si rendeva conto di quanto, a volte, le proprie parole potesse risultare vuote a se stesse ed estranee.

Di Namecc, lui, aveva conosciuto solo gli ultimi istanti, l’ultimo respiro prima della fine, come di un dio votato a morte che, prima di sparire, per l’ultima volta, si rialza.

Aveva percepito quel sentimento come una leggera nostalgia e una scossa che gli attraversava le vene e i muscoli, quando era atterrato per la prima volta in quel luogo meraviglioso da cui aveva avuto origine la sua razza e aveva potuto assistere solo al suo rapido ed inesorabile declino.

Così, all’improvviso, si era ritrovato a stare zitto, a reggere lo sguardo curioso di una ragazzina che, presto, gli avrebbe rinfacciato di essere un inetto in quel genere di situazioni.

La bionda aveva raccolto le braccia al petto. Col mento poggiato sulle ginocchia, aveva chiuso agli occhi, nel tentativo di liberare la mente e cercare di immaginare l’oggetto di quel racconto.

Stupita dal silenzio dell’altro, aveva poi finito per aprire di nuovo gli occhi e inarcare un sopracciglio, con un sospiro.

“Anche a te manca un po’ del tuo passato, giusto?”

Non c’era delusione o malizia in quella frase. Era una semplice constatazione, l’evidenza dei fatti.

“Non ho problemi di testa, io!”

Aveva allora risposto il guerriero, piccato, alzandosi in fretta. Mentre le dava le spalle, contrariato, vide chiaramente lo sguardo comprensivo che gli era rivolto.

“La calma è la prima cosa di cui si ha bisogno, in questo genere di situazioni. Non otterrai nulla, finché non sarai completamente padrone di te.”

Stava per mandarla al diavolo, quando si accorse che aveva ripreso in mano quel disegno rovinato e richiuso le palpebre, come se si concentrasse.

Così preferì zittirsi e stare in attesa. Rimase deluso quando lei scosse il capo.

“Non ricordo altro oltre a poche immagini sfocate, ma ho come l’impressione che l’aria avesse un profumo diverso rispetto alla terra. Qualcosa di fresco e speziato. Qualcosa che…”

La ragazza serrò le palpebre, una goccia di sudore scivolò giù per la tempia.

“…qualcosa che permeava molte delle forme di vita di quel pianeta e conferiva un profumo caratteristico ai suoi abitanti.”

Dopo pochi secondi, mostrò nuovamente le iridi azzurre.

“Su di te non c’è quel profumo.”

Il namecciano, scettico e confuso, si portò una mano alla tempia.

“Ah, sì? E cosa credi che fosse?”

La osservò mordersi il labbro, agitata.

“Qualcosa di vivo… qualcosa di verde…”

La vide massaggiarsi il collo.

“Una pianta?”

Pareva una domanda, ma non lo era. Fulminea aveva tirato fuori dei colori consumati da una tasca dei jeanz. Aveva recuperato uno di quei fogli rovinati e si era messa a disegnare veloce sulla parte bianca, dopo aver girato un paesaggio di poca importanza.

Curioso, Piccolo si era seduto nuovamente. Incrociate le braccia al petto, l’aveva lasciata fare.

Si cucì la bocca per principio, mentre quello schizzo ancora abbozzato prendeva la forma di un tipo di vegetazione di cui qualche namecciano gli aveva parlato.

“Sai come si chiama?”

Esordì ad un certo punto, mentre quella era ancora al lavoro. Quella domanda la rallentò ma non la fece fermare.

“A…”

La prima lettera c’era, ma forse era un caso. Lei la ripeté due o tre volte, incapace di continuare.

“Agyssa.”

Riuscì a pronunciare alla fine, quando la bozza era ormai ultimata, prima di girare il foglio per mostrarglielo e attendere un suo commento.

Il guerriero percepì chiaramente la paura in lei, una speranza che poteva alimentarsi e darle forza o estinguersi subito, colpendola duramente.

Gli parve che avesse anche paura a respirare. Così annuì e basta, deciso, dopo averle lasciato qualche secondo di incertezza.

La sua risposta ebbe il potere di bloccarla sul posto, costringendola nella posa di una statua per lunghi istanti.

Il namecciano iniziò a chiedersi che mai le fosse preso. Aveva iniziato ad agitarle la mano di fronte alla faccia, incapace di capire perché si fosse imbambolata.

Inarcò un sopracciglio, quando quella si coprì il viso con le mani e scoppiò in un pianto silenzioso, incapace di controllare tutte quella lacrime.

“Tu non sei normale. Che motivo c’è di frignare adesso?”

Dovette aspettare che si calmasse, per essere informato che, da quando si era svegliata, quello era il suo primo ed unico ricordo ad essersi dimostrato reale.

Non si aspettava di essere abbracciato all’improvviso e non fu abbastanza risoluto da scrollarsela di dosso, soprattutto quando quella, tra un singhiozzo e l’altro, aveva cercato di spiegargli quanto immenso e insperato fosse stato l’aiuto che le aveva dato.

Pietrificato, non abituato a gestire certe situazioni, aspettò che la pazza lo lasciasse libero e si spostasse dal suo mantello, lasciandogli di nuovo suo spazio vitale.

Era rimasto seduto a terra, mentre lei, asciugandosi la guancia col dorso della mano, si era di nuovo alzata in piedi.

“Non potrò mai ringraziarti abbastanza.”

Impacciato, aveva sbuffato e annuito solamente.

“Che farai adesso? Quelli che hanno cercato di farti fuori torneranno. Sarai sempre in pericolo.”

Le chiese quando si rese conto che lei stava andando via.

La bionda alzò le spalle.

“In qualche modo me la caverò.”

Gli sorrise mentre si alzava, andando nella sua direzione.

“Non so perché ce l’hanno con me. Però, come hai visto, li so gestire.”

Gli tese la mano e Piccolo, anche se riluttante, la strinse con decisione.

“Piuttosto, se non riuscirò a ricordare nient’altro, sappi che tornerò per farti altre domande.”

Il guerriero borbottò che poteva fare come le pareva, con poco entusiasmo e un leggero rossore alle guance.

Quando definitivamente la giovane stava per riprendere la direzione da cui proveniva, le chiese, curioso, dove abitasse. La risposta lo lasciò un po’ spiazzato.

“Io sono il vento! Tutto il mondo è la mia casa.”

Le sue labbra si mossero in una piega meno dura mentre la ragazza, allargate le braccia alla vegetazione circostante per dare enfasi alle sue parole, rischiò di inciampare su una radice sporgente, perché camminava all’indietro, rivolta a lui.

Quando fu solo, scosse il capo. Certo che, in giro, se ne trovava di gente strana.


Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Ho cancellato gli ultimi capitoli perchè non mi piacevano. Spero che questo sia un pò meglio.

So che è a dir poco particolare, ma di storie carine che trattano personaggi meno fuori dagli schemi ce ne sono e davvero ben fatte. Per cui non faccio danno tentando un approccio diverso... Spero :) Poi se anche a me lasciate un commento, positivo o negativo che sia, mi fate felice.

Quella mattina rientrava in quei boschi per un motivo preciso. Con quel gigante dal cuore buono e l'aria minacciosa, non era stata del tutto sincera.

Non aveva ricordato solo il profumo di una pianta o l'aroma che caratterizzava i suoi simili. Mentre la frescura delle foglie la racchiudeva, chiuse gli occhi e si fermò un attimo.

Liberò con un gesto fluido i capelli dalla bandana in cui la costringeva da tempo. Sciolse le stringhe degli anfibi e udì attenta ogni più piccolo suono.

Chiudendo gli occhi, riusciva ad affinare l'udito quel tanto che bastava per accorgersi dell'esatta pressione che il suo piede esercitava calpestando i primi fili d'erba.

Poteva percepire l'ape posarsi sul fiore dallo stelo flessuoso pochi metri più in là. Iniziò a muovere i primi passi, come il bruco che emerge dalla crisalide e torna rinnovato alla vita. Mentre schioccava le dita e le sue unghie crescevano in lunghezza, si chiese come poteva aver ignorato così a lungo la propria intima natura. C'erano ancora molti punti in ombra nel suo passato, ma mai e poi mai avrebbe dovuto dimenticare chi era davvero.

Non appena individuò le spade che Piccolo le aveva fornito pochi giorni prima, si chinò a raccoglierle. I suoi occhi azzurri brillavano come zaffiri mentre si rispecchiavano in quelle superfici lunghe e sottili, taglienti e perfette.

Non doveva essere la prima volta che la sua immagine veniva riflessa da un'arma, ma era la prima volta che non provava disagio nell'osservarsi. Stava finalmente tornando se stessa, anche se c'era molta tenebra nella sua mente.

Si voltò nel punto in cui aveva lasciato i suoi assalitori agonizzanti. DIede le spalle infastidita, non certo con paura. Al contrario, per certi versi era compiaciuta della sua abilità.

Le else rotearono con un guizzo repentino tra le sue dita e dispersero la luce del sole. Era un suono familiare quello che la ragazza sentiva.

Iniziò a cocentrarsi e tutto fu subito chiaro. Le parole esatte uscirono come una melodia dalla sua bocca.

Pochi istanti dopo, una brezza leggera le carezzava la pelle mentre il suo corpo perdeva consistenza e lei reclinava il capo all'indietro. I suoi capelli danzavano come fiamme mentre nel vorticare del vento sparì come vento lei stessa.

La sua anima, allora, volò rapidissima, non seppe dire se alla velocità del suono o a quella del fulmine.

Sfrecciò leggera nel cielo, a toccare le piume degli uccelli e il contorno delle foglie. Raggiunse la punta delle vette che si stagliavano alte all'orizzonte li nei pressi e si fermò all'improvviso, nel momento esatto in cui lo vide.

Il suo corpo, prima inesistente, divenne un macigno all'improvviso. Incapace di resistere, iniziò a precipitare verso il suolo.

Trattenne a fatica un gemito mentre impattava tra le rocce.

Quel rumore, a Piccolo,non poteva passare inosservato. Il guerriero l'aveva vista apparire tra le nuvole all'improvviso e gli era preso quasi un colpo.

Aveva sciolto la meditazione in fretta ed era volato nella sua direzione. Restò a bocca aperta quando le sue dita, cercardo di stringerle il polso, non riuscirono ad afferrare nulla. Si chiese se stesse sognando e si strofinò gli occhi.

Poi la vide alzarsi da terra reggendosi la testa, una decina di metri sotto di lui. Preoccupato, l'espressione tesa, la raggiunse, mentre lei si sedeva a gambe incrociate.

Si chiedeva come accidenti fosse riuscita ad apparirgli così davanti. Per un attimo, poi, gli era quasi sembrata un fantasma. La stava osservando come se, davvero, lo fosse.

Fra tutti i fenomeni a cui aveva assistito in vita sua, non aveva mai avuto esperienza di qualcosa del genere.

"Come hai fatto?" Le domandò, fermo e vagamente minaccioso. La studiava eppure non la trovava troppo diversa dall'ultima volta che aveva incontrata.

"Cosa mi nascondi?"

Era diversa solo per una luce nuova nello sguardo e per quel rossore che le colorava le guance.

La conosceva troppo poco e lei conosceva troppo poco se stessa per ammettere che era stata distratta per averlo visto.

Ne sarebbe passata parecchia di acqua sotto i ponti prima che Galen avesse ammesso di averlo scoperto in lui la bellezza.

Come al loro primo incontro, col namecciano era finita con una serie di insulti e un pugno. Mentre se ne andava, mesta, si massaggiava la guancia dolorante.

Non c'era la terrestre a proteggerla quella volta e quel colpo non glielo aveva risparmiato nessuno. Piccolo era forte, il più forte che avesse mai incontrato, fino ad allora.

Inavvertitamente, sorrise.Non importava che fosse arrabbiato. Ad ogni costo, avrebbe trovato il modo per scusarsi. Non capiva perchè, ma sapeva solo che doveva rivederlo ancora.

Haldir era rimasto ad osservare tutta la scena nell'ombra. Come da un pò di tempo da quella parte, aveva continuato a tenere d'occhio l'ex-allieva.

L'istinto gli aveva suggerito fin da subito che un legame con un esponente di quella razza non era una buona cosa, ma l'intelletto aveva messo quel dubbio a tacere.

Piccolo non era come i suoi simili: era un demone. Che male le avrebbe potuto fare? Capiva che la ragazza andava riacquistando i propri ricordi prorpio per la vicinanza con lui e, fino ad allora, aveva cercato di non intervenire.

Ora, però, il rischio era troppo forte. Era maturata molto in quegli anni i cui erano stati lontani, ma lui la conosceva. L'aveva vista crescere e sapeva benissimo quanto era salda nei suoi propositi.

Ricordava benissimo quando era stato costretto ad imporle quel sigillo. Un colpo che aveva inferto alla ragazzina, ma che sanguinava anche nel suo petto.

Meglio senza memoria, però, s'era detto, che senza vita. Così, su Namecc, la sua anima non aveva vacillato.

Avrebbe dovuto agire di nuovo e in fretta. Prima Galen non era abbastanza capace per opporsi, allora che era cresciuta non era più così scontato.

Strinse saldo le spade al fianco e tremarono le else.

Meglio senza memoria che senza vita, cercò di convincersi, ancora.


Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


Dal momento che ho incasinato un po’ la storia, giustamente, mi è stato fatto notare che chi legge rischia di non capirci più nulla. Per cui:

Riassunto puntate precedenti:

La mia protagonista si sveglia tra gli umani senza memoria. E’ un abile meccanico e non sopporta di avere rapporti con altre persone.

Non è umana e pare aver vissuto in precedenza su Namec. La curiosità di Piccolo nei suoi confronti, all’inizio, è alimentata da questo.

Successivamente la ragazza viene attaccata da tizi della sua razza, che si dimostra tuttavia in grado di battere, dietro aiuto esterno del namecciano.

Il legame con Piccolo si consolida di più quando Galen riesce a riacquistare almeno uno dei suoi ricordi perduti grazie a lui: non si sa ancora come, ma pare che lui la aiuti in questo.

Nel frattempo, altri tasselli del passato cominciano a combaciare, quando Galen prende più consapevolezza della sua natura.

Qui entra in scena il tizio che le ha insegnato a combattere. La mia storia è introspettiva e questo capitolo darà voce anche ai suoi pensieri. Se ci siete ancora, buona lettura.

La libertà va conquistata con la forza e se ti attaccano per privarti di essa, tu devi essere più forte ancora: non un guerriero, una belva.

Per chi nasce schiavo, la forza si misura dal numero degli avversari sconfitti, dalla magnificenza delle sue vittorie, dall’efficacia delle sue tecniche. La paura delle vittime è la misura della grandezza dell’assalitore.

Per molto tempo, su tutto ciò non aveva nutrito dubbi. Se c’era un modo per uccidere, lui lo conosceva. La spada, la magia, la mente: nulla aveva segreti per lui.

Nato tra creature senza nome, il suo nome era diventato leggenda. Loro erano esseri potenti, che si comandavano secondo un preciso ordine gerarchico, ma non erano immortali.

Quando era ancora giovane, il suo signore sapeva che un guerriero come lui poteva morire presto, in tutti i posti possibili ma mai nel suo letto. La sua capacità non doveva andare perduta. Così il re gli aveva propinato quel gruppo di orfanelli. Da essi avrebbe dovuto forgiare il suo erede.

Quanti ne fossero morti, non importava: erano tutti piccoli nessuno, se fossero spariti, non avrebbe fatto differenza. Haldir, sbuffando e con un ghigno aveva accettato, a metà tra lo schifato e il divertito. Anche lui s’era trovato tra loro quand’era bambino. Chissà che quell’idea balorda non si fosse rivelata efficace!

Incurante di quelle piccole vite, si era calato nell’assurda veste di insegnante. Tra tutte le cose che gli sarebbero successe, mai avrebbe pensato di affezionarsi.

Col tempo, aveva imparato a conoscere ciascuno di loro, a farne dei guerrieri temibili, suoi pari. Se prima il popolo aveva solo lui da temere, poi iniziò a temere anche i suoi allievi: troppo potenti, troppo imprevedibili.

Li attaccarono singolarmente, batterli uno ad uno un dispendio di energie enorme per i soldati del sovrano, ma ce la fecero. Se ne accorse tardi Haldir, ma se ne accorse.

Giunse in tempo a salvare solo quella ragazzina che fra tutti era la più gracile e quasi inutile. Le lame che calarono sui suoi allievi le avrebbe ricordate fino all’ultimo giorno della sua miserabile vita.

Le cicatrici le avrebbe conservate per sempre. Per salvare l’ultima fra i suoi allievi combatté non come un guerriero, ma come una belva. Il vento che utilizzò per scappare, però, era così forte che lo allontanò per lungo tempo dalla terra.

Disgraziato come era, approdò con quella ragazzina tra un popolo di maghi e smidollati. Tutto ci sarebbe voluto per farle terminare l’addestramento, meno che il contatto con gente simile. Non appena la bambina conobbe infatti per sbaglio alcuni di essi, iniziarono le rogne, gli alterchi, i litigi. Galen, pur se inesperta, era determinata quanto lui, ma a mandare al diavolo l'addestramento. Non le importava di tornare in patria a vendicarsi.

Aveva un altro ideale di libertà lei: il sangue non avrebbe mai dovuto imbrattare le lame che manovrava, sporcare le sue mani. Forte delle parole sciocche e assurde di qualche vecchiardo namecciano, era arrivata a sfidarlo apertamente.

Per lei, era il suo maestro l’unico vincolo a privarla della libertà. Haldir non era un educatore, ma una belva.

Le aveva insegnato a vivere sull’orlo dell’abisso e sapeva che, a quel punto, non poteva lasciarla correre verso la luce, perché in quel caso, la piccola ci avrebbe lasciato le penne. Meglio senza memoria che morta, si disse. Il sigillo ai ricordi, privandola di tutti i suoi insegnamenti, forse le avrebbe permesso di vivere la vita che desiderava.

Fallito come maestro, aveva voluto tentare un gesto da amico. In patria, certo, non la poteva riportare. Tra gli umani, forse, Galen avrebbe potuto restarci.

Esseri dissimili nel cuore, ma poco nell’aspetto e il tempo, si sa, lenisce tutte le differenze. Per questo la lasciò alla città dell’ovest.

Era l’unico gesto magnanimo che la belva poteva. La lasciò vicino alla luce, mentre lui tornò all’abisso.

Non l’aveva mai abbandonata del tutto. Vegliava su di lei di nascosto, ombra vigile e discreta. Ciò che Galen credeva il destino, era in realtà la sua guida che la indirizzava.

Come quel manuale di meccanica buttato in un vicolo, ai suoi piedi, mentre la ragazzina vagabondava tra i vicoli alla ricerca di riparo, o i primi pezzi di ricambio per la moto, anche quelli gettati alla rinfusa tra i rifiuti.

Erano poco più che rottami quelli che aveva fornito, gli faceva un effetto strano ritrovarli assemblati in un veicolo così complicato.

Si chiese che razza di vernice avesse usato, per risultare così scura all’ombra del primo pomeriggio. Anche la temperatura del metallo era troppo bassa, per il clima in cui si trovavano. Sorrise. Era sicuro un qualche ritrovato della scienza umana per mantenere il motore a una temperatura accettabile in caso di eccessivo utilizzo.

Era diventata davvero capace, quella matta. Da piccola, gli aveva rinfacciato che le mani dovevano servire ad altro, oltre che a manovrare la spada ed uccidere. Con i fatti, quel proposito, l’aveva dimostrato.

Chissà se, in qualche angolo della sua coscienza, Galen ricordava ancora quell’episodio. Serrò le palpebre per scacciare quella tristezza. Lui non aveva il minimo problema a controllare le proprie emozioni. L’unica cosa che si permetteva, era qualche raro dubbio.

Si era domandato, talvolta, se anche lui, mollate le armi, avrebbe potuto fare qualcosa di quella sua miserabile vita. Il silenzio che avvolgeva la sua anima era un no impresso col fuoco.

Lui era tenebra. Ma avrebbe dato qualsiasi cosa perché una sorte simile non fosse toccata anche a lei. L’avrebbe protetta dagli ultimi assalitori della loro razza, tornati per sterminare maestro e allieva, l’ultima minaccia.

L’avrebbe privata un’altra volta della memoria, ma solo per poco tempo, quel poco che bastava per portarla in salvo di nuovo. Poi non si sarebbe mai più intromesso. Il suo proposito era ritornare in patria, ammazzare il sovrano bastardo che aveva ordinato l’omicidio dei suoi allievi, che alla fine aveva amato alla stregua di figli. Se ci avesse lasciato le penne o meno non importava.

Nel caso peggiore sarebbe andato a scusarsi coi suoi allievi di persona, sempre che chi fosse stato a guardia del girone più basso dell’inferno non l’avesse imprigionato prima.

Aveva tutta l’eternità. Per ogni cosa ci sarebbe stato tempo. Quello che mancava allora.

Si girò lentamente in direzione dei passi leggeri e veloci che si avvicinavano. Con uno scatto della spalla tirò indietro il mantello chiaro quel tanto che bastava da liberare il fianco e permettergli di impugnare la spada. Galen non si sarebbe fatta sigillare di nuovo senza combattere. Reagire era il suo unico insegnamento di cui lei aveva fatto tesoro.

Sorrise compiaciuto, prima di sparire nel vento e balzarle addosso. Nel suo braccio, si scatenava l’impeto della tempesta.

Il tempo si era fermato. Le gocce di sangue scuro che colavano dalla sua guancia e picchiettavano a terra scandivano secondi pesanti come ere. Sulle sue labbra chiare si affacciava solo un sussurro.

Si chiedeva come era potuta diventare così potente, tanto da resistere almeno al suo primo attacco. La durezza che leggeva nel suo sguardo era la stessa che caratterizzava il proprio.

Haldir si rese conto in quel momento di aver tergiversato troppo. Era diventata un’avversaria temibile, un’avversaria degna. Le unghie di Galen erano sporche del suo sangue.

Non era una tecnica che aveva appreso da lui e neppure il namecciano poteva averle suggerito di usare le unghie come lame.

La osservò mettersi in posizione d’attacco e caricare il pugno. La ragazza dunque non aveva ancora riacquistato la piena padronanza del respiro del vento. Era la sua unica speranza di una vittoria rapida.

Si era reso conto tardi che l’aura di un guerriero si stava avvicinando. Imprecò mentalmente contro tutti quei musi verdi, che gli avevano procurato sempre e solo grane, ma non si mosse.

Quella era l’occasione giusta per farla pagare a lui per tutti gli altri

. Ringhiò e impugnò più saldo le else mentre, fiero, puntava i piedi a terra e si concentrava.


Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Non aveva tempo per pensare. Doveva tramortirla nel più breve tempo possibile, o almeno renderla inoffensiva quel tanto che bastava per realizzare il suo proposito.

Mentre si puliva la guancia col dorso della mano, non potè che compiacersi sempre più dei progressi della ragazza. Era da tantissimo tempo che qualcuno non riusciva a ferirlo.

"Sei migliorata molto."

Ammise suo malgrado, una nota di tristezza nella voce.

"...ma non abbastanza."

Si avventò su di lei e mentre la giovane si metteva in posizione d'attacco. Già concentrato, si disperse nel vento. La sua supplica di perdono arrivò come un sospiro. La sua stretta sul collo come una stilettata.

Era ricomparso all'improvviso ed era riuscito subito ad afferrarla. L'effetto sorpresa, a volte, è la miglior strategia. Aveva iniziato a sollevarla da terra, affranto.

"Sta calma. Durerà un attimo."

Tremò appena mentre Galen gli rivolgeva uno sguardo di puro odio. Non era quello il sentimento che avrebbe voluto da parte della sua allieva.

Posò la mano aperta sulla fronte madida della vittima, che iniziava a chiudere gli occhi per la mancanza di ossigeno. Aveva già iniziato a recitare la formula quando quel raggio di luce lo prese alla spalla. Era troppo preso per rendersi conto che quel muso verde fosse già arrivato.

Haldir allentò la presa sul collo della giovane e accompagnò con un braccio la sua caduta verso terra, in modo da poggiarla senza farle provare altro dolore. La osservò dormire placidamente.

"Che le hai fatto, bastardo?"

Gli insulti di Piccolo non lo raggiungevano affatto. Il namecciano si sentì trafitto dall'espressione dell'avversario. Riconobbe subito quella freddezza: la prima volta, Galen lo aveva trattato allo stesso modo.

Deglutì mentre lo straniero estraeva le spade e le faceva volteggiare con quella leggerezza che possiede solo il vento. Era del tutto diverso dai mocciosi che avevano attaccato l'amica giorni prima ed erano stati battuti con facilità impressionante. Quelli erano polvere a confronto.

La stessa maestria di Galen, la stessa tecnica. Il namecciano, istintivamente, indietreggiò di un passo.

"Stavolta la farò finita con voi namecciani."

A mostrare quanto Haldir fosse fuorioso, solo il tremore delle sue dita sull'elsa.

"La farò finita con voi una volta per tutte. Non la travierete un'altra volta."

Piccolo riuscì ad evitare il fendente all'ultimo. Aver visto all'opera Galen si era rivelata la sua salvezza. Imprecò mentalmente. Doveva inventare qualcosa alla svelta.

Nella mente di Haldir, al viso giovane di Piccolo, si sostituiva quello più vecchio di un altro namecciano. Le sembianze di uno solo di quel popolo, si moltiplicavano fino a raffigurare i volti di tutti gli abitanti di quel villaggio.

Quando Galen, infatti, era meno alta di lui e non gli arrivava neppure alla spalla, quando si ritrovarono sperduti su quel pianeta, lei aveva rinnegato il suo ordine di non aver rapporti con quella gente. All'inizio, sciocco, non aveva detto nulla.

Aveva creduto che si trattasse di un caso fortuito: lei era entrata in quel dannato villaggio solo per riaccompagnare un bambino che s'era perso.

L'allieva aveva lasciato quel posto in fretta e, in un primo momento, aveva creduto che non ci avesse più rimesso piede.

Parte dell'addestramento della loro razza di nomadi, era la mera sopravvivenza.Le aveva lasciato libertà. Col senno di poi, troppa.

Galen eseguiva le sue tecniche ma, piano piano, si allontanava sempre più da lui, molto più di quanto lo fosse sempre stata. Solo per colpa loro, di quei maledetti namecciani.

Per quando se ne rese conto, il capovillaggio, per la ragazza, era diventato un punto di riferimento troppo importante. Haldir ricordava benissimo quelle parole. Aveva ancora la cicatrice nell'anima.

"Il mio maestro è fortissimo, ma non ha sempre chiaro il concetto di bene e male."

Così aveva confidato Galen al saggio, credendo di essere sola con lui. La ragazza ignorava di essere spiata.

Non era la prima volta che insultavano Haldir, ma, allora, il fendente era della sua ultima allieva, dell'ultima erede che egli lasciava dietro di sè.

"E' vero che ci hanno distrutto, ma non condivido la sua idea di vendetta."

Galen fissava un punto dell'erba azzurra ai suoi piedi e si coprì gli occhi con le mani.

"Vuole fare ai nostri nemici ciò che loro fecero a noi."

La sua voce, quando era col suo maestro, non era mai alterata dal pianto. Haldir si chiese se fosse perchè non lo ritenesse degno di essere messo a parte di quella debolezza o perchè lei lo credesse incapace di comprenderla. Entrambe le ipotesi lo ferirono ancora.

"Crede che la vendetta cambi qualcosa. L'unica cosa che cambierà sarà che saremo noi a causare tutto quel dolore."

La giovane aveva stretto convulsamente la casacca all'altezza del cuore, come se la ferita aperta la notte che avevano massacrato i suoi compagni sanguinasse ancora.

"Con che diritto farò ad altri quello che hanno fatto a me? Io non lo voglio quel sangue sulle mani."

A quell'estraneo Galen non aveva timore di mostrare le guance rigate dalle lacrime.

"Non è che ho paura: io non temo ne dolore ne morte. "

Di quello fu orgoglioso il guerriero, li come maestro non aveva fallito.

"Ma non accetto di essere parte di quel male."

Vide il dorso di quelle dita esili tergersi le palpebre in fretta, lo sguardo fiero tornare quello di sempre. Il vecchio namecciano, fino ad allora in silenzio, aveva aperto le labbra rugose.

"Prova semplicemente a parlare al tuo maestro. Sono sicuro che capirà ciò che senti."

Galen aveva spalancato le palpebre. Quelle erano le parole più sagge e inutili che potevano essere applicate ad un caso come il loro. Anche Haldir era sbigottito: che razza di consigli dava quello?

Quel vecchio trombone non aveva capito che nella loro razza non c'era posto per certe sciocchezze? Galen, invece, si, aveva capito. In lei si era accesa una fiamma di lucidità folle.

"Hai ragione: hai ragione gli parlerò."

Sfiorò l'elsa delle spade che aveva al fianco.

"Gli farò capire nell'unico modo possibile."

Aveva chinato il capo Haldir: l'unico modo possibile era il duello all'ultimo sangue.

Mentre osservava Piccolo fremeva. Da troppo tempo tratteneva la sua potenza. Sarebbe stato quel gigante verde il primo a perire a causa della sua furia.

Il namecciano, in posizione di difesa, serrò i pugni, pronto a parare i suoi colpi. Non si stupì troppo quando l'avversario sparì dalla sua vista. L'istinto gli suggerì di alzarsi in fretta in volo.

Aveva ragione: l'aria sotto di lui diventò fredda, tanto da ghiacciare il terreno ed impedirgli la visuale per effetto di una nebbia spessa.

All'improvviso, fu come se mille aghi gli penetrassero nella carne e uscendo ne staccassero via la pelle. Il namecciano gemette. Quando riusì ad aprire gli occhi si rese conto che migliaia di cristalli di ghiaccio, che splendevano taglienti, vorticavano sospinti da quel vento, che altro non era la furia di un'aura.

In quell'aria, concentrandosi, poteva scorgere il profilo sfumato dell'avversario che brandiva le spade. Ogni cristallo era la scia di un suo fendente.

Piccolo imprecò: come poteva aver ragione di n avversario privo di forma? Gettò lo sguardo verso la ragazza riversa a terra, il cui viso era in parte coperto da diverse ciocche dorate. La sua consolazione era che lei non si trovava in pericolo.

Assunse la posizione meditativa. Anche se era in mezzo a quel turbine di lame dove concentrarsi e riflettere. Non sapeva dire perchè. Non gli importava se ci avesse lasciato la pelle.

Voleva solo combattere con onore. Per se stesso e forse, soprattutto per lei. Calò le palpebre sulle sue iridi più nere del carbone e dell'ebano, teso a richiamare tutta la sua forza interiore.

Il suo spirito combattivo aveva iniziato a crescere in fretta, la luce della sua aura a risplendere come sole attorno alla sua figura. Non se ne sarebbe andato senza tentare il tutto per tutto, anche se quel tutto sarebbe stato ingigantire la sua forza e lasciarla esplodere come quella di una supernova. Era un tentativo estremo e fors'anche inutile.

Chissà in quale momento quella pazza dai capelli biondi gli era penetrata così tanto nell'anima da rendere così pazzo pure lui. Non gli importava. Si sarebbe lasciato esplodere per portarsi all'inferno quel demonio che l'aveva colpita. Galen non ci sarebbe mai riuscita da sola e voleva essere libera.

Lo capì in quel momento che per donarle ciò che più desiderava le avrebbe dato anche la propria vita. Ne era consapevole. Era la seconda volta che si sacrificava per qualcuno che contava. Solo, mentre se ne andava, avrebbe desiderato sapere cosa avrebbe provato se gli fosse dato di vederla sorridere nel modo gioiso in cui rideva Gohan, con la certezza di essere lui la causa di quel sorriso.

Si vergognò di se stesso per quella debolezza mentre i cristalli di ghiaccio iniziavano a martoriare più in profondità il coprispalle, tanto che ne sentiva il metallo scricchiolare. Ormai, il suo corpo non doveva essere poi troppo diverso da quelli che ricordava nei disegni di Galen. Se non era stato fatto a pezzi, era perchè quel bastardo si voleva divertire.

Non gli avrebbe dato soddisfazione di vittoria. Serrò le labbra, pronto ad esplodere col suo ultimo grido di guerra, al ritmo del proprio cuore che pompava impazzito nel petto. Era pronto a scatenare la vendetta che la stessa Galen bramava. Del suo avversario non sarebbe rimasto nulla.

Fu in quell'attimo sospeso prima della fine, quando aveva già iniziato a scatenare la propria forza, che senti il calore di un abbraccio fragile sulle spalle, una voce nota che non avrebbe mai immsginato così dolce.

"Cosa stai facendo?"

Interdetto, non seppe cosa rispondere.

"Cosa stai facendo? Tutto questo non è necessario."

Si sentì mancare Piccolo. Non gli importava capire perchè lei fosse arrivata li. Ciò ce gli fece male fu accorgersi delle sue lacrime sulle spalle.

"Voglio che torni all'obelisco per farti curare."

Provò a controbattere e si rese conto di non essere padrone dei suoi movimenti, stretto in quella morsa da cui non avrebbe mai voluto liberarsi. Vedeva l'erba, le rocce e gli animali sopra di sè: il cielo azzurro e le nubi bianche sopra la testa. Le proprie mani e le proprie gambe, però, non riusciva a scorgerle.

Era talmente leggero, come se il suo corpo non esistesse. Provò a girarsi verso Galen e il suo cuore si fermò: anche se piangeva, non erano lacrime amare.

"E' merito tuo, vero?"

Mentre lei le annuiva, si rese conto di essere nello stesso identico stato di Galen e del suo maestro. La ragazza promise che l'avrebbe fatto tornare normale, non appena l'attacco del suo maestro sarebbe cessato.

"Ma tu ora devi andare. Qui me la cavo benissimo da sola."

Provò ad opporsi ma costretto ad osservare attorno a se, notò che quegli stessi cristalli che lo avevano ridotto allo stremo, in quel momento non potevano nulla contro di lui.

"Ora riesco a ricordare ogni cosa. Io sono la sua ultima allieva. Conosco tutti i suoi segreti e ho l'esperienza per padroneggiarli."

Anche se non poteva vederla a pieno, percepì il tocco delle sue labbra sulla guancia e le lacrime quasi asciutte sul viso.

"Farò in modo di trasportarti sull'obelisco."

Deciso ad opporsi in tutti i modi, il namecciano non potè però nulla contro il torpore inesorabile che calò sui suoi sensi. Si addormentò sulla pietra dura dell'obelisco, come drogato.

Il peso del suo corpo l'aveva colpito come un macigno.

Imprecò contro se stesso per averla lasciata sola, consapevole che, in quella battaglia tra allieva e maestro, non c'era posto per lui e i suoi sentimenti.


Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


Era buffo come in quei momenti, che sapeva avrebbero dovuto essere gli ultimi, i ricordi della sua vita precedente le ripassassero davanti dopo esserle mancati così a lungo.

La bambina che tremava cercando di impugnare un'arma troppo grande per le sue mani, aveva la sua stessa paura in quel momento. Era alta la metà della lama e doveva brandirla come un prolungamento di sè.

Avrebbe imparato presto, ma il dolore dei tagli e dei colpi inferti avrebbero mutato profondamente anche la fragilità della sua anima. Si chiese da che parte fosse finita quella bambina, mentre scrutava gli spostamenti del maestro come una preda braccata.

Forse era semplicemente rassegnata, preparata al fatto che tutto dovesse finire. La morte li avrebbe abbracciati entrambi: lei e il suo maestro, le ultime due bestie del clan.

Bestie, sì, così li chiamavano, loro che si battevano, per scelta o per imposizione, come esseri privi di senno.

Secondo Haldir, solo l'istinto contava: quello guidava l'intelligenza. Ma l'istinto era lontano dall'onniscenza: Galen non sapeva spiegare in che modo. Ciò che era certo, era che con quello scontro sarebbe stato chiarito tutto.

Mentre Haldir ruggiva e con l'anima a pezzi ripartiva alla carica, lei chiudeva gli occhi per concentrarsi. Non avrebbe indietreggiato di un passo e finchè sarebbe stata in vita non gli avrebbe dato possibilità di vittoria.

Basta dimenticare, basta scappare. Saltò in alto e lasciò che il suo corpo diventasse vento. Insieme al suo maestro, si gettò nel gorgo della tempesta.

Il cielo sereno si rabbuiò in fretta per il contrasto delle loro aure. Le nubi si addensarono grigie all'orizzonte. Prese a sibilare il vento per quella radura. Presto l'erba avrebbe assaggiato gocce di pioggia che avevano il sapore del sangue.

Dende osservava il cielo. Capiva benissimo cosa stava accadendo e teneva le spalle basse, affranto.

Una goccia di pioggia gli lambì la pelle verde, la guancia delicata. Alle sue ciglia sfuggì una lacrima, che terse col dorso della mano, in fretta.

Non era giusto. Non voleva permettere che allieva e maestro si battessero a quel modo. Aveva accolto subito quella accorata preghiera.

“Trattienilo! Non permettere che si svegli e torni da me. Ti scongiuro!”

Si tormentava al pensiero dell'amico, ancora intontito per l'intervento di Galen. Di sicuro Piccolo non l'avrebbe raccontata se lei non avesse cercato di proteggerlo.

Ma lui, il supremo, era davvero obbligato a lasciare andare le cose così?

L'antico accordo tra il primo supremo della terra e quella razza era chiaro: le creature del vento promettevano di non danneggiare gli esseri umani, a patto di avere il pieno controllo delle terre estreme; il supremo non avrebbe mai dovuto interferire nelle loro questioni, in nessuna di esse, soprattutto se riguardavano l'arte bellica.

Possibile che avesse davvero le mani legate per quello stupido patto? Galen e Haldir erano diversi dai loro simili: non erano mai stati crudeli per il gusto di esserlo.

Come supremo, Dende aveva la facoltà di conoscere le loro storie e aveva scoperto quanto fossero differenti. Quei due non meritavano quella fine.

Il patto però restava: reciproca indifferenza. Tutte le creature dell'aria se ne fregavano del supremo e lui doveva fare altrettanto.

Al giovane namecciano si illuminarono gli occhi: Galen per prima aveva contravvenuto al patto, nel momento in cui l'aveva pregato di non svegliare Piccolo. In quel modo, lui era diventato automaticamente libero di fare altrettanto!

Annuì deciso per la sua intuizione. Corse all'interno del palazzo, urlando a gran voce il nome di Piccolo. Forse era un tentativo inutile, ma era l'unica cosa che poteva fare.

Mentre volava giù dall'obelisco, il guerriero namecciano ripensava alle parole di Dende. Avrebbe voluto conoscere fin da subito la storia di Galen e del suo maestro, ma non immaginava fosse così particolare.

La loro razza spadroneggiava sulla terra da molto prima che il pianeta fosse colonizzato dagli esseri umani. Loro altro non erano che i discendenti delle prime divinità naturali che giravano sulla terra.

Il loro potere era stato incontrastato fintanto che il pianeta conservava la sua verginità. Poi, con la colonizzazione da parte degli umani, diminuendo il potere del pianeta, diminuiva anche il loro.

Da divinità superiori, erano divenuti poco più che guerrieri, spettri dei loro antenati, così vendicativi da covare sempre il desiderio di vendicarsi degli uomini, quali distruttori della terra.

Pur essendo forti quanto i sayan, quando questi erano atterrati come invasori la prima volta, anche se capaci di porre fine subito alla loro minaccia, vollero restare in disparte, tanto accecati dalla vendetta da preferire la distruzione propria e del pianeta. Bastava che il genere umano terminasse con esso.

Avrebbero preferito quella sorte piuttosto che sopravvivere ancora, fianco a fianco dei loro nemici.

Il primo supremo, garante della sicurezza degli uomini, aveva combattuto a lungo contro di loro, trovando un po' di pace solo con quel maledetto patto. Quell'accordo era stato buono per millenni.

Reciproca indifferenza. Tutte le creature dell'aria, orgogliose e meschine, l'avevano sempre rispettato.

Solo Galen, fino ad allora, l'aveva tradito. Ma Galen non era come i suoi compagni. Non lo era mai stata. In lei il desiderio di affrancarsi dai dettami della sua gente era sempre stato linfa vitale, sangue che scorre nelle vene.

Haldir, anche lui, scosso dal seme del dubbio instillato dall'allieva, era tanto che non si comportava come nessuno dei suoi simili.

Pur di proteggere quell'allieva che amava come una figlia dalla furia di un sovrano folle, era arrivato a scomodare la magia più potente, fin quasi a distruggere il proprio corpo per togliere a Galen la memoria. Era a quello schifoso mondo degli esseri uomini che aveva affidato il suo bene più prezioso, l'unica possibilità di salvezza per la ragazza.

Per anni, si era mimetizzato lui stesso in quella razza ostile, che detestava eppure rispettava, per osservare la ragazza e vegliare silenzioso su di lei. Pur odiandoli, non aveva mai alzato le mani su un essere umano. Aveva anzi imparato a lavorare per loro, per guadagnarsi soldi in cui vivere, si era costretto a tollerarli abbastanza da viverci in mezzo, con grossi sacrifici. Alcuni, forse, addirittura li amava.

Prima lui poi Galen. Quel sovrano pazzo che voleva decimarli era tornato alla carica. Li voleva morti, entrambi, gli ultimi diversi della loro razza.

Haldir era giovane nel corpo, ma troppo vecchio nel cuore per fidarsi di un supremo bambino, quand'anche lui gli avesse offerto il suo aiuto. Non gli avrebbe mai creduto.

Conosceva solo l'ineludibilità della legge del suo re. Per questo avrebbe ucciso la sua allieva per poi morire lui stesso.

Dende sapeva di non essere abbastanza forte per opporsi a quel proposito, ma Piccolo e gli altri forse si. Per questo li chiamava a raccolta. Gli aveva chiesto di separare quei due, farli ragionare, promettergli che li avrebbero aiutati quando i loro simili, sentendoli ancora vivi, sarebbero venuti in forze a reclamare nuovamente le loro vite.

Piccolo aveva accelerato ulteriormente l'andatura. Doveva raggiungere gli altri prima possibile, condurli da quei due. Da solo poteva bloccarne uno solo. L'aiuto di Goku e Gohan gli era indispensabile.

Un solo attimo, si ripeteva, e avrebbe potuto essere troppo tardi.

Per quanto mi riguarda, ancora pochi capitoli e si concluderà la storia.

Nel caso la trama non fosse chiara (mi rendo conto che per il mio particolare modo di scrivere potrebbe succedere) fatemi sapere e provvederò ad aggiungere nel prossimo capitolo un altro breve riassunto.

Se ancora ci siete, buona lettura. :D


Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


Il ballo del destino aveva iniziato il suo corso e lei, come una sciocca, si era illusa di essere lei stessa l'ago che guidava la bussola della sua vita e della sua morte.

Sotto la pioggia battente che appiccicava la stoffa degli abiti ai suoi muscoli tesi e stanchi, aveva digrignato i denti una ancora una volta. Una delle ultime bestie ruggiva e l'acqua rappresa era come se le gridasse di lasciar perdere.

Non era più la bambina arrabbiata: era una guerriera matura e prima ancora una donna. Era anche il suo cuore ebbro della battaglia che si dimenava. La sua anima non voleva rinunciare all'amore, ai sentimenti e alla vita.

La luce celata negli occhi scuri di Piccolo era la folgore che le indicava dove tagliare, il suo mantello che vibrava nel vento il fazzoletto leggero che le solleticava la guancia.

A differenza dei suoi compagni caduti, non le sarebbe toccata la pace dell'oblio. Lei aveva troppi motivi per restare su quella terra, poco importava se priva di corpo, tra gli esseri umani.

Lei sarebbe sempre rimasta li, a piangere e ridere in silenzio, come soffio vivace che lambiva le dita di colui che amava.

L'aveva capito Piccolo? L'aveva inteso quel testardo d'un namecciano ciò che lei provava?

Quel supremo bambino gli avrebbe raccontato del suo gesto? Quando lei sarebbe sparita, gli avrebbe detto che aveva cercato di proteggerlo?

Sì, si rispose sicura. Anche se giovane, Dende era come quel vecchio saggio di Namec: aveva intelligenza e cuore.

Se anche il loro re fosse stato così, molte cose avrebbero potuto essere diverse. Addirittura, lei si sarebbe potuta innamorare.

La spada cozzò contro quella di Haldir e ghignò, beffarda. In fondo non poteva avercela col suo maestro. Erano vittime entrambi di un fato avverso, di un destino orrendo.

Fece forza contro le lame, poi si tirò indietro. La mossa repentina sbilanciò appena l'avversario, che rimase incerto per pochi attimi. Non era certo uno stratagemma sufficiente per metterlo in difficoltà.

La guardò negli occhi Haldir, ma non riuscì a reggere a lungo il suo sguardo. Era diventata davvero bella e, solo per il fatto di essere stata cresciuta da lui, era colpevole.

“Perdonami.”

La sua voce uscì lieve, inconsistente, nemmeno una preghiera. Una supplica solamente.

La più giovane fra le bestie sorrise e le sue labbra rosse parvero aver catturato i primi raggi dell'aurora. Lo aveva già perdonato da tanto. Eppure non sarebbe bastato. Per loro, c'era solo la possibilità di combattere.

Mentre volava verso di loro, Piccolo si chiedeva che razza di tecnica stessero usando. Era come se la terra stessa gemesse con loro.

Gli pareva che nell'ululare del vento si udisse un pianto, un grido strozzato. Non aveva mai udito nulla del genere in vita sua.

Un'inquietudine potente gli attraversava le membra. Accelerò l'andatura ma volare diventava gravoso.

Delle correnti d'aria assurde lo sbalzavano avanti e indietro, incepace di proseguire dritto. Non seppe se essere contento o arrabbiato che padre e figlio sayan si trovassero più o meno nella sua situazione.

Si chiese in che modo avrebbero potuto aver ragione di quei due pazzi. Gli parve di aver udito una voce maschile chiedere perdono e si bloccò all'improvviso, credendo di essere diventato pazzo.

Possibile che fosse davvero Haldir ad aver supplicato? Si toccò gli occhi e non capì perché li sentiva bagnati. Cos'era quella sensazione orrenda alla bocca dello stomaco e perché quelle lacrime? Che motivo aveva di piangere?

Si rese conto così di essere come in diretto contatto con i sentimenti di Haldir e arrossì fino alle orecchie quando fu in grado di comprendere quelli di Galen.

“Che ti prende Piccolo?”

Tremò all'idea che quel sayan potesse intendere il motivo del suo turbamento.

“Perché adesso stai piangendo?”

Non aveva né il tempo né le capacità per spiegare una cosa così complicata a un citrullo come quello.

“Non sto affatto piangendo! E' l'effetto di questo vento magico!”

Tagliò corto, punto sul vivo, pronto a ripartire. Goku, per la propria incolumità, decise di tacere ed arrivare subito al posto. Gli avevano detto che c'era bisogno di calmare due persone e forse salvarle da molte altre. Era la moltitudine di avversari che gli interessava, ma il namecciano sembrava del tutto restio a fornire dettagli sull'argomento.

Stanco, optò allora per trasformarsi. In quel modo il vento non gli dava più fastidio e superò agilmente l'amico, fino ad arrivare a quella radura. Atterrò nel punto in cui il vento era più forte ed agitò il braccio in aria.

Al namecciano, che faceva quasi fatica a tenere gli occhi aperti, prese quasi un accidenti. Va bene che era forte, ma come aveva fatto a centrare un avversario come Haldir al primo colpo?

Piccolo sospirò, deluso per essersi dimostrato praticamente inutile in quella situazione a cui teneva così tanto.

“Ma chi diamine sei tu?”

Aveva domandato intanto il malcapitato a terra, pulendosi la guancia con la mano libera dalla spada.

Allora che il vento si era placato, dopo pochi istanti, apparve pure lei. Piccolo se la trovò davanti e perse un battito.

“Per quale motivo sei tornato?”

Il namecciano non si curava affatto della sua reazione, dal momento che aveva potuto intuire i sentimenti che lei celava in sé.

Non l'aveva ascoltata minimamente ed era felice del fatto che, per combattere, lei stesse usando la spada che lui stesso le aveva forgiato con la magia, quella prima volta che l'aveva vista all'opera.

Non le diede il tempo di controbattere. Le carezzò una guancia. Era tornato per salvarla. Era stupido spiegare ciò che è ovvio.

“Ascolta. Possiamo aiutarvi.”

A quella rivelazione Galen si scostò veloce da lui, come scottata.

“Non dire assurdità e vattene. Nessuno vi ha chiesto niente!”

Per fortuna Piccolo sapeva che non doveva credere neppure a una parola.

“Voi non volete che finisca così.”

Si era rivolto anche all'altro che, più che come ad un alieno, lo squadrava come qualcosa che si vorrebbe schiacciare.

“Ah, sì? Tu conosci addirittura le nostre volontà!”

Haldir aveva agitato il braccio in aria, sarcastico, mentre da seduto tornava impiedi.

“Io conosco ogni cosa!”

Tuonò il guerriero dalla pelle verde, alzando la voce di un'ottava.

“L'ho sentito mentre attraversavo il vento delle vostre aure.”

Spiegò arrossendo. Aveva guardato in terra.

In quel modo, era come se avesse ammesso di aver spiato negli intimi recessi del cuore della giovane che voleva salvare.

Cercò di non curarsi del fatto che Galen fosse diventata all'improvviso più rossa di lui. Girò il viso, sentendosi battere sulla spalla.

“Non solo hai capito che quel vento era il prodotto delle nostre aure, ma sei anche stato in grado di spiare i nostri sentimenti?”

All'insinuazione di Haldir, annuì deciso. Quel maledetto era quasi più alto di lui e aveva le iridi grigie e chiarissime, quasi bianche.

Il maestro riprese l'allieva. Era inutile vergognarsi dei propri sentimenti. C'è una parte di sé che va solo accettata.

“Quanto a te...”

Aveva stretto più forte la mano sulla sua spalla.

“...Piccolo... “

Assunse un'aria compiaciuta mentre gli si rivolgeva.

“...in che modo vorresti aiutarci?”

Mentre l'allieva lo osservava spiritata, rinfoderò la spada.

“...se sei così capace da poter vedere chiaramente in noi, chissà, forse sei davvero in grado di aiutarci.”


Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo 12 ***


Forse sembrerà un capitolo inutile, ma sentivo necessario spiegare un po' meglio il rapporto allieva – maestro, dal momento che gran parte della mia storia è incentrata su di loro.

Non pretendo di esserci riuscita pienamente, ma così dovrebbe essere più chiaro l'argomento. Galen aveva girato alternativamente il capo verso Piccolo e Haldir, del tutto incapace di rendersi conto che quella fosse effettivamente la realtà, la sua realtà.

Osservò di sfuggita i due sayan, padre e figlio, che in quella radura, tra lei e le due figure maschili più importanti della sua vita, stonavano come cavoli a merenda. Deglutì, ancora confusa.

“Maestro...”

Alzò la voce, che uscì chiara e decisa. Pretendeva per sé l'attenzione di tutti e due.

“...che intenzioni avete?”

Se poteva pensare di giocare il namecciano, Haldir non poteva certo sperare di prendere in giro anche lei. Ci era cresciuta insieme. Lo conosceva troppo.

L'uomo si zittì subito. Sapeva che l'allieva non avrebbe mollato l'osso facilmente. Poteva solo risponderle ed essere sincero.

“Voglio provare a capire il motivo per cui ti sei sempre ribellata ai miei insegnamenti. Non sei più una bambina. Sei mia pari ora.

Se continui a ribellarti, devi avere le tue buone ragioni. Voglio solo cercare di comprenderle.”

Doveva aver dato una risposta soddisfacente, perché lei aveva abbassato la testa.

“Dunque riponete in me tutta questa fiducia?”

Seccato di dover perdere tempo a spiegare una cosa ovvia, annuì solamente, prima di continuare a rivolgersi a Piccolo.

Aveva allevato tutti i suoi allievi senza il minimo cenno d'affetto, ma che li amava come figli doveva essere chiaro ad ognuno.

Per quale altro motivo, dopo tutti quegli anni, avrebbe continuato a cercare vendetta altrimenti? L'unico cruccio della sua vita era di essere arrivato tardi a scongiurare la strage che li aveva sterminati tutti.

“Sei una sciocca se ne hai dubitato.”

La ragazza non aveva mai capito l'esatta portata di quel legame. Prima di essere affidata a lui, le avevano ripetuto così tante volte che la sua vita era inutile e che Haldir era un mostro, che aveva finito per prenderlo come un dato di fatto.

Si sciolse all'istante una catena che la vincolava da sempre. Aveva visto il suo maestro a torso nudo solo una volta. Haldir aveva un'orrenda cicatrice vicino al cuore e si era sempre premurato di nasconderne la storia.

Egli era riservato e volubile, eccentrico all'inverosimile, caratterizzato da una freddezza nei modi che non si poteva cambiare. Era anche più introverso di Piccolo, ma non era vero che non aveva un cuore.

Semplicemente, aveva dovuto lottare per impedire che glielo strappassero. Non era cattivo, era che non lo avevano educato ad essere diverso e, per quando aveva avuto modo di comprendere l'esatta portata dei buoni sentimenti, molti aspetti gli erano già sfuggiti.

Galen lo aveva visto riempire di botte e tagli i suoi compagni. Con lei stessa, non era mai stato un santo. Non aveva mai ricordato un abbraccio o una carezza da parte sua.

Haldir aveva gli occhi grigi, quasi bianchi, leggeri come i veli delle nubi quando l'inverno è scalzato dalla primavera o poco prima che il cielo si chiuda, quando sta per scatenarsi la tempesta. Lui non era bravo con le parole, ma il suo sguardo apparentemente assente penetrava l'anima delle persone più a fondo della sua spada.

Le sue uniche certezze erano le armi e i suoi allievi. Lo aveva accusato di non saper distinguere il bene dal male. Cosa poteva aver significato, per lui, quelle parole? Cosa si provava a perdere tutte le proprie certezze?

All'epoca, lei era la sua ultima allieva, la sua unica ragione di vita. Galen strinse i pugni. Per sua natura, Haldir non poteva capire il suo bisogno di libertà. Perché a differenza sua, lui sapeva che non le sarebbe mai stata concessa.

Due bestie come loro, per liberarsi davvero dal giogo della loro razza, potevano solo morire. Il loro re li avrebbe cercati ovunque pur di ucciderli.

Allora, Haldir preferiva farla morire di sua mano ed estinguersi lui stesso. Era pronto anche a quello, pur di assecondarla.

La giovane si sentì sporca, ingrata, sciocca. Quanto tempo la aveva aspettata il suo maestro? A capo chino, pianse.

Eccolo li, pronto addirittura a parlare con Piccolo, figlio di una razza che reputava inutile quanto quella umana, solo per provare a farla felice.

Non era degna dell'arte che aveva appreso e del legame rapprensentato da quelle spade.

Era sempre stata concentrata unicamente su se stessa. Ai suoi compagni caduti, al suo maestro, ci aveva mai pensato?

“Grazie.”

Haldir smise di parlare al namecciano solo un istante. Era chiaro che l'avesse sentita.

Annuì impercettibilmente, apparentemente incurante. Il suo viso non era in grado di sorridere ma l'anima, quella si, insieme al vento risplendeva.

Mentre la sua allieva smetteva di frignare e si portava al fianco di Piccolo, ghignò compiaciuto. Non gli era mai piaciuta la stirpe dei namecciani, ma quel guerriero era differente, come loro era stato un demone.

“Io e Galen per il re dobbiamo morire: o ci ammazziamo tra noi o ci ammazzano loro.

Visto che siamo ancora vivi, presto ci attaccheranno in forze. Noi che siamo le ultime bestie siamo forti, ma non invincibili.

Sprecherebbero anche tutta la razza pur di farci fuori. Preferiscono perire tutti, piuttosto che lasciare in giro noi. Sarà come quando massacrarono i miei allievi.

Se starai in mezzo, non ti faranno sconti. Ti tratteranno come noi. Sei ancora certo di restare? La morte di spada è onorevole ma è dolorosa.”

Piccolo non era tipo da tirarsi indietro a quella prospettiva e rispose sicuro di sì.

Goku, che aveva ascoltato senza capirci molto, a parte che c'era da menare le mani, ricordò di essere presente anche lui, insieme a Gohan.

Haldir sfoderò le spade, eccitato.

“Allora preparatevi.”

Roteò le lame e ricreò il vento che lo avvolgeva prima.

“Galen, tu con me.”

Piccolo sentì l'adrenalina scorrere lungo il corpo mentre la ragazza ripeteva gli stessi movimenti del maestro.

“Ci siamo.”


Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo 13 ***


Il vero inizio dello scontro.

Predonate la lentezza degli aggiornamenti, ma questo è un periodo nero. Kiss!

”Ci siamo.”

Quelle due uniche parole furono lo spartiacque tra il momento in cui riusciva ancora a reggersi sulle sue gambe e quello in cui cominciava a fare fatica a tenersi in piedi.

Piccolo si portò una mano davanti agli occhi. Si chiese in quale modo avrebbe potuto essere d'aiuto se faticava a compiere anche i movimenti più elementari.

Allieva e maestro avevano praticamente scatenato un gorgo che alimentavano con la propria aura. Piccolo sentiva la stoffa della tuta divenire via via più fredda, la udiva sfrigolare quasi come se stesse bruciando.

Faceva fatica a credere che fosse semplicemente vento. Con difficoltà inquadrò Goku e Gohan.

Loro avevano ragione di quella forza grazie alla trasformazione in super sayan. Lui, invece, come avrebbe fatto?

“Non devi resistere. Fa come loro.”

Galen doveva essere arrivata senza che se ne accorgesse a sussurrargli all'orecchio. Eppure la percepiva lontano da sé.

Doveva essere per l'effetto di prima: evidentemente, in mezzo a quel vortice, le loro anime erano in qualche modo in contatto.

“Non posso farmi venire i capelli biondi io!”

La sentì ridere. Era un suono stupendo.

“Guardali. Davvero non capisci la differenza tra te e loro?”

Gli parve di percepire una carezza sulla guancia, un soffio più caldo che gli girava appena il viso.

“Loro sono sayan e io namecciano?”

Era un moto di disappunto quando il soffio caldo si dileguava?

“A differenza di te loro non hanno paura di se stessi! Libera l'istinto, abbandonati.”

Si stava già arrabbiando.

“Se mi abbandono a questo casino mi fracasserò da qualche parte!”

Era come se quel soffio caldo passasse veloce da una spalla all'altra solleticandogli la schiena alla velocità della luce, causandogli una leggera scossa sulla pelle.

“Libera la parte più malvagia di te e dominala! Ormai non c'è più tempo.”

Il profilo della ragazza apparì e disparve ai suoi occhi quasi come un fantasma, ma la sua voce era tremendamente vicina.

“Sono qui.”

Piccolo udì solo un leggero fendente, un rumore che a malapena si distingueva dal gorgo. La corrente non aveva rallentato la sua forza nemmeno per un istante.

Quando vide rotolare quella cosa le sue labbra si tesero in un moto di puro disgusto. I pezzi del cadavere del primo nemico imbrattavano già quella radura. Il namecciano, non seppe dire come, intravedeva brillare la lama rossa di Haldir, sporca di sangue.

Era il vero aspetto delle bestie quello. Solo allora iniziava a comprendere a pieno il significato dei quadri di Galen, quando da bambina rifiutava quel modo di combattere. Non gli piaceva. Era così anche lei? Tremò a quel pensiero.

“Maestro!”

Quel richiamo forte e deciso era la risposta che sperava. Galen non era così. Si sentì sciocco ad aver dubitato.

“Meno sangue possibile!”

Vide la ragazza chinarsi per chiudere le palpebre già rigide di quella testa decapitata, in un gesto rispettoso e raccapricciante.

“Era solo un ragazzo!”

La udì bisbigliare. Anche Haldir si era manifestato e l'aria spostava i suoi capelli lunghi in molte direzioni, soprattutto verso l'alto.

“O noi o loro. Conosci la tecnica. Una sola pedina può fare la differenza.”

Con la punta della spada sporca, indicò la vittima alle spalle dell'allieva.

“Se conosci un contrattacco migliore alla loro tecnica usalo. Io ho solo questo e venderò cara la pelle.”

Il guerriero fece roteare la lama e scomparve di nuovo. Aveva finto di non vedere l'espressione scioccata del figlio del sayan. Non gli importava. Nessuno li obbligava a restare.

Solo un leggero rimorso lo prese al pensiero di quanto quello sgomento somigliasse a ciò che causava in Galen ancora bambina.

“Non intendo uccidere avversari non alla mia portata.”

Quando fu circondata da quattro nuovi arrivati, il namecciano si chiese come lei avrebbe rispettato quel proposito.

Quei ragazzi somigliavano a Galen e Haldir in modo impressionante: avevano la stessa carnagione e gli stessi riflessi nei capelli, ma l'abisso che li separava era lo stesso che poteva esserci fra un fragile umano e un sayan.

“Sparite. Siete polvere.”

La minaccia del maestro aveva il tono di una profezia. I loro visi impallidivano mentre le loro gambe tremavano e li portavano via.

“Sayan, Piccolo...”

In tre si girarono verso di lui.

“Voi siete molto forti e combattete diversamente da noi.”

Non capivano perché stava rinfoderando le armi.

“Se Galen facesse in modo di rendere visibili tutti questi inetti ai vostri occhi, voi riuscireste a renderli inoffensivi senza fargli troppo male, giusto?”

Piccolo, che aveva già avuto modo di vederli all'opera, aveva inteso: Haldir voleva la testa di uno solo.

Non avrebbe fatto sporcare di sangue le mani della sua allieva e lui avrebbe avuto la vendetta che tanto bramava.

“Vuoi uccidere il tuo re, giusto?”

Non ebbe bisogno del suo cenno d'assenso. Colse il petto di Galen alzarsi e abbassarsi più in fretta, a causa del respiro lievemente accelerato.

“Siete sicuro di poter riuscire, voi da solo?”

Ancora nessuna risposta ad una domanda sciocca e Piccolo percepì una lieve spinta a tirargli il mantello.

“Arriveranno da ovest.”

Precisò la ragazza, dando le spalle al sole che iniziava a rosseggiare con dita di fuoco, nel cremisi accecante dell'alba.

Il namecciano si perse un attimo ad ammirare quelle fiamme che le si riflettevano nei capelli e coloravano la pelle chiara. La lasciò fare mentre si sedeva a terra, nella posizione del loto.

Lei doveva concentrarsi e probabilmente le sarebbe aspettato qualcosa di poco facile. Sospirò e chiuse le palpebre. Mentre liberava la mente e la sua immagine diventava via via trasparente, si alzò un vento simile e diverso da prima.

C'era solo la sua aura e non pure quella del suo maestro. Era una brezza più impertinente e caldo, che si infilava sotto i vestiti a solleticare la pelle. Lei non avrebbe tagliato se non ce ne fosse stato bisogno, era un alito che non aveva bisogno di essere guidato.

Piccolo fu in grado di vederla mente volteggiava al fianco di Gohan e sussurrava al suo orecchio, rapidissima. Le sue labbra distese in un moto di stupore mostrarono il bianco dei suoi canini. Gohan era stato in grado di vedere e tramortire altri due ragazzi.

Il namecciano sbatté le palpebre, confuso. Quando era arrivata anche da Goku se le vadeva anche seduta a terra, innanzi a sé?

Erano tre duplicazioni o era sempre lei che si muoveva velocissima? Al pugno leggero di Goku ne svenivano altri 5.

La scrutò sbuffando. Quanto ci avrebbe messo per tornare da lui?

“Sei per caso geloso?”

Arrossì e non le rispose. Lo era ed era contento. Si domandava solo quanti altri ne sarebbero arrivati e quanto lei avrebbe retto in quello stato. Si augurò che fosse solo un'impressione che la l'aura di Gale fosse già diventata impercettibilmente più debole.


Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo 14 ***


Il vero inizio dello scontro.

Perdonatemi per il ritardo per gli aggiornamenti. Questo è l'inizio della fine, scritto di getto. Spero possa piacere.

Se però vi aspettavate un epilogo normale, temo abbiate sbagliato storia. Magari fatemi capire comunque che ne pensate, in bene o in male.

PS: Forse Piccolo è OOC, ma c'è da sempre questo avvertimento. :)

Impressione? No, non lo era. In quel modo la ragazza faceva il triplo della fatica: doveva avvertire i due sayan e ancora lui.

Ossevando le minuscole gocce di sudore che iniziavano a imperlarle la fronte, imprecò contro se stesso, per non essere in grado di gestire la situazione da solo.

Era lì per aiutarla, non per farla indebolire di più. Si concentrò di nuovo quando la percepì tornare da sé.

Il sussurro ai suoi orecchi gli apriva gli occhi su quei ragazzetti da colpire: alcuni non avevano sentimenti, altri tremavano e si disperdevano come sabbia ai pugni suoi e dei compagni.

“Galen, quanti ce ne sono ancora?”

La ragazza sorrise e non gli rispose: non lo sapeva. Sparendo di nuovo, causò al namecciano una nuova preoccupazione.

Piccolo spostò lo sguardo alla propria destra.

Haldir restava immobile come una statua, ipnotizzato a guardare un punto preciso dell'orizzonte. Pareva non esserci tracccia di emozione sul suo viso, solo una concentrazione assoluta che lo portava dentro e all'esterno di se stesso.

Lentamente si spogliava della casacca per restare a torso nudo. Il figlio di Al Satan si concesse un istante per osservare gli strani simboli che ornavano il suo corpo.

Erano simili a fregi concetrici che partivano dal lato del cuore e si irraggiavano su tutto il suo petto, fino alla schiena, dipinti a tratti larghi e neri. Intervellati a segni di vecchi morsi e oscure cicatrici, sembravano trame studiate ad arte per imbrattare un corpo perfetto.

Piccolo deglutì. Il cuore di Haldir: si rese conto che aveva un battito strano. Non un solo ritmo, non una anomalia: in quello era come se si sovrapponessero i cuori di due diversi esseri. Il namecciano, in collegamento mentale col supremo, comprese e inorridì.

Quell'orrendo tatuaggio non era solo un disegno, ma qualcosa di vivo, che rubava la vita all'ospite come un parassita. Ne avvertì la sinistra aura pulsare e, tra i due battiti cardiaci, uno affievolirsi.

Il nome di Haldir sfuggì alle sue labbra e Galen lo raggiunge, rassicurandolo.

“Il maestro sa ciò che fa. Quella è la sua bestia, la parte peggiore di sé che riesce a comandare.”

Il guerriero annuì e non ebbe il coraggio di contraddirla: quella cosa veniva da Haldir, si, ma lo stava corrodendo. Era la radice della sua forza, ma sarebbe anche stata il motivo della sua morte.

Certo era che, se l'avesse usata bene, insieme a lui quella cosa poteva portare chi lui desiderava all'altro mondo.

“Proteggila sempre.”

La voce baritonale di Haldir risuonò nella mente di Piccolo e il guerriero accettò semplicemente la sua preghiera.

“Tienila lontano da me quando arriverà il momento e non permettere che la sua anima diventi nera come la mia.”

Lasciò che la bestia iniziasse ad allontanarsi lentamente da quel posto. Ne intravide le lame crescere in potenza mentre gli dava le spalle, i suoi capelli scompigliati drappeggiavano il suo corpo.

Era assurdo che Galen non capisse cosa stava accadendo al suo maestro, ma Haldir le aveva insegnato l'uso della spada e non la magia oscura. Piccolo posò la mano con forza sulla spalla della ragazza, con lo scopo di rincuorarla e non renderla consapevole.

“Tieni duro. Sono sicuro che ne restano davvero pochi.”

Si lasciò uscire uno dei suoi rari sorrisi, mentre lei riprendeva fiato. Le sfiorò la guancia col dorso delle dita, facendola arrossire. La ragazza non doveva percepire cosa stava accadendo realmente. All'improvviso, però, Galen spalancò gli occhi e restò immobile.

“Il re è qui!”

Esclamò, girandosi di scatto. Era pronta a raggiungerlo, quando fu bloccata per il braccio. Il pugno di Piccolo allo stomaco la fece piegare su se stessa, tra l'incredulità dei sayan.

“Andiamo via.”

Spiegò ai compagni, prendendo la ragazza in braccio e facendosi scuro.

“Ma...gli avversari non sono ancora finiti. Se non li blocchiamo tutti, Haldir si troverà in difficoltà.”

Era una cosa troppo complicata per farla comprendere a Goku, in quel momento.

“Haldir ha cambiato strategia. Non gli importa di questi avversari. Ha comunque un modo per sistemare tutto da sé.”

Il sayan, però, si era accorto della sua mano che fremeva.

“Intendi lasciare che si sacrifichi, giusto?”

A quelle parole e al silenzio del namecciano, Gohan impallidì.

“Se continuiamo di questo passo, Galen sarà presto senza energie e noi saremmo comunque perduti. Così, invece, i simili di Galen e Haldir possono scegliere se restare a combattere col loro re oppure andarsene.

Vivere o morire sarà una loro scelta e non una responsabilità degli altri. Galen vuole vivere libera dal peso di quella scelta e Haldir vuole conferirle questa libertà. Io intendo rispettare questo proposito, in tutto e per tutto.”

Detto ciò fece cenno di seguirlo in volo per raggiungere l'obelisco. Salutarono Dende con un viso funereo.

Il supremo già sapeva e non ebbe il coraggio di aggiungere altro. Solo, il giovane posò la mano sulla fronte della ragazza svenuta tra le braccia di Piccolo.

“La farò dormire un altro po'. Ne ha bisogno.”

In realtà, voleva che non si svegliasse nel momento esatto in cui l'aura di Haldir, cresciuta come una supernova, sarebbe esplosa portandosi appresso quella del suo re.

Piccolo non era ancora in grado di sostenerla abbastanza da accettare quel dolore. Anche lui aveva bisogno di riposo.

Doveva ancora capire a pieno per quale motivo si accetta consapevolmente un potere maligno allo scopo di usarlo a fin di bene.

Lo lasciò fare, mentre raggiungeva una delle stanze private con la scusa di adagiare Galen su di un letto comodo.

Il namecciano raggiunse una delle aree più interne del tempio sacro. Scelse una sala dalle pareti bianche ed essenziali. La pose sopra le coperte candide e la guardò riposare placidamente.

Era bella e fragile come una semplice umana. Sarebbe stato più facile se lo fosse stata per davvero.

Le sfiorò la fronte e la abbandonò nel silenzio intimo di quella camera, prima di dirigersi verso la stanza dello spirito e del tempo.

Arrivato li, si richiuse la porta alle spalle e si buttò su una sedia dall'alto schienale. Non voleva allenarsi. Bisognava però che restasse solo.

Chinò il capo in avanti e afferrò il capo tra le mani. Poi, in un impeto di rabbia, gettò via copricapo e mantello. Urlò il suo nome, quello di Galen e quello di Haldir. Anche quello di suo padre.

C'era così tanta furia in lui da devastarlo. Impotente, lasciò che le lacrime sfuggissero al suo controllo. Doveva liberarsi in fretta di quei sentimenti negativi e assurdi, presto, prima che Galen si svegliasse.

Ripensò al suo viso delicato, immobilizzato nella morsa del sonno. Ringhiò di lacrime e ira, sentendosi impotente.

Niente. Non era stato in grado di fare niente per opporsi agli eventi. Anni di allenamenti massacranti si erano rivelati il nulla.

Eppure, in una stanza vicino a lui, qualcuno lo aspettava.

“Solo un altro minuto.... un altro minuto ancora.”

Spiegò a se stesso, riuscendo finalmente a calmare la propria furia. Poco dopo, era in piedi, le sue dita sul pomello della porta.

Percepì chiaramente quell'esplosione tremenda e chiuse gli occhi, maledicendo se stesso per aver abbandonato quel pazzo, ma aveva avuto le sue ragioni.

Di una cosa, però, fu grato al cielo: pace.

Fu quella la sensazione che percepì, mentre l'aura di Haldir partiva per sempre da quella terra.

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo 15 ***


Il suo cuore batteva. Da tanto tempo non lo srntiva così forte. Quando era cucciolo e si tuffava in acqua per catturare i pesci, lo udiva rimbombare negli orecchi. Era il tamburo che sanciva il passo fiero della sua forza, il ritmo indomabile a cui la sua brama di potere cresceva. Niente poteva resistergli, non c'era nulla che gli fosse superiore. Tutti lo temevano e lo ammiravano. Così doveva essere. La fiamma che distrugge e purifica trova nello stesso bruciare la sua ragion d'essere. In quella loro terra fredda, arida e inospitale, il nome di Haldir era diventato il fuoco che dilaniava ogni cosa, un potere troppo grande che andava imbrigliato. La magia: quella doveva essere la cura. Le parole seducenti del suo re l'avevano convinto: separa da te la tua parte malvagia. Donale vita propria. Poi, dominala, e sarai ancora più invincibile.

Così era stato, ma gli era stato anche imposto un giogo. L'artefice dell'incantesimo avrebbe per sempre avuto il controllo di quella nuova creatura: così il suo re aveva preso possesso della sua forza. Lui, da ragazzino ingenuo qual era, si era lasciato abbindolare da parole seducenti. Fesso, c'era cascato. Crescendo aveva capito cosa significasse avere un padrone e un guinzaglio. S'era fatto torvo, più scaltro. Aveva iniziato a studiare la magia da se stesso. Aveva compreso di non poter sciogliere l'incantesimo da solo: doveva uccidere chi aveva compiuto l'incantesimo, ma poi sarebbe morto lui stesso.

Non aveva mai avuto un motivo valido, fino a quel momento. Mentre sollevava quel bastardo da terra per il collo, sentiva quella cosa ritornare in lui, parte di se, libero di nuovo, come quando era ragazzo. Sorrise e assaporò cosa significasse essere completo. Liberò la stretta sul collo del bastardo e gli permise di toccare terra coi propri piedi. Poi, lo immobilizzò in una stretta erculea. Iniziò a far crescere la propria aura.

“Tu sei pazzo.”

Rise a quell'insinuazione da parte dell'avversario.

“Sì, lo sono. Lo sono sempre stato.”

Strinse più forte e iniziò a librarsi in volo.

La folgore della sua aura bruciava la carne impura del suo avversario, tanto da farlo urlare. Scottava anche la propria.

“Andremo dai miei allievi che hai massacrato e gli chiederemo perdono insieme.”

Il re continuava a dimenarsi e l'avrebbe fatto ancora per poco. Haldir chiuse gli occhi, beandosi di quella ritrovata forza. Aveva impiegato pochi attimi per aver ragione del suo avversario e per tornare da chi amava ci avrebbe messo ancora meno.

Non era mai stato capace di sorridere, eppure, chissà perchè, nell'ultimo istante della sua vita era in grado di farlo.

Sfinito, Piccolo si decise ad uscire da quella stanza. Fiero, cerco di non mostrare quella debolezza. Lungo il tragitto, trovo Gohan ad aspettralo. Il bambino si affiancò a lui, silenzioso.

“Come stai?”

Il namecciano tese le labbra in una piega dura. A ben pochi avrebbe permesso quella confidenza.

“Bene.”

Troncò subito il discorso. A lungo, si sarebbe portato dietro il peso della propria incapacità.

Con quale coraggio avrebbe raccontato a Galen la verità? C'erano troppi aspetti di quel rapporto allieva-maestro che gli erano oscuri. Lei e Haldir erano anche padre e figlia, fratello e sorella. Avrebbe scommesso che, se fosse passato del tempo e lui e Galen non si fossero mai incontrati, quel legame sarebbe evoluto in molto di più. C'era un filo inscindibile tra le loro anime, dettato non tanto dai sentimenti ma dall'eredità di sangue che si portavano appresso. L'aveva capito nel momento esatto in cui si era reso conto del reale stato di Haldir: ciò che Haldir era diventato, sarebbe ciò che sarebbe capitato a Galen, se lei fosse stata abbandonata, priva di una guida saggia che la indirizzasse.

Il potere che cresceva in lei era troppo grande e una mente esperta avrebbe potuto approfittarne. Un simile potere andava sigillato.

Piccolo entrò nella sua stanza che si stava svegliando. Pregò Gohan di uscire e, rimasti soli, provò a sedersi vicino a lei, sul letto. Il materasso si abbassò sotto il suo peso. Sperava in una sua parola, attendeva qualsiasi cosa che spezzasse quel silenzio. La ragazza pareva avere gli occhi vuoti, sembrava una maschera rotta in pezzi. Le carezzò appena i capelli e la mano gli rimase sospesa a mezz'aria, mentre lei si portava con la testa sul ginocchio piegato. Sembrava così piccola mentre gli stringeva il torace con le mani. Non osò interrompere quel pianto liberatorio. Galen non era ancora una maschera in frantumi.

Per un attimo spiazzato, non seppe che fare mentre lei si aggrappava alla sua maglia. Ogni volta che singhiozzava sommessa, era come se il suo stesso corpo vibrasse per un colpo potente. La sollevò fino ad incontrare i suoi occhi rossi di lacrime e le permise di nascondere la fronte all'incavo del suo collo. Nessuno oltre lui aveva il diritto di essere testimone di quella debolezza.

Passò molto tempo prima che lei si allontanasse e si tergesse le ciglia con le dita.

La mattina li colse ancora abbracciati, il braccio di Piccolo adagiato sul suo fianco, a disegnare il profilo del suo corpo femmineo. Galen si era girata lentamente verso di lui, attenta a non disturbare il suo riposo mentre indugiava per la prima volta con le dita sul contorno duro delle sue labbra. Non aveva avuto il coraggio di contaminarle con le proprie. Si era liberata con una lentezza inaudita. Avrebbe voluto sfiorarlo ancora una volta, ma non ne ebbe il coraggio. Posò veloce i piedi a terra e si affacciò alla finestra. Portò le mani sul davanzale di marmo della finestra aperta e i raggi del sole investirono a pieno la sua figura. Piccolo si svegliò mentre quell'esplosione della luce bianca dell'alba avvolgeva la ragazza. Non gli era mai parsa così donna e lontana da lui come in quel momento. La chioma dorata e dai riflessi del fuoco riluceva ancora di più e lo sguardo di Galen era lontano. Si portò alle sue spalle con la certezza di essere stato udito. Era sicuro che i pensieri di Galen fossero tornati a ricordi che non gli appartenevano, persi in episodi di cui lui non faceva parte. Intrecciò le dita fra i suoi capelli con la foga di un possesso che oltre alla sua anima bramava anche il suo corpo. Sospirò nel trattenersi. Non sarebbe stato facile abbattere tutte le mura che ancora la circondavano.

 

“Stai andando via?”

Dende sbattè più volte le palpebre mentre lei, seduta con una gamba penzoloni nel vuoto, aggiustava il gambale di cuoio dell'altra. Nei giorni successivi alla morte di Haldir aveva recuperato in tutto e per tutto il modo di vestire della sua gente. Assomigliava parecchio a quello di antichi guerrieri e il giovane namecciano, pur scoprendosi parecchie volte sul punto di riderle dietro tanto lo trovava buffo, aveva preferito tacere. Aveva una sorta di timore nei suoi confronti e il carattere taciturno e ombroso di lei certo non aiutava. Si rendeva però chiaramente conto della tristezza che la sconvolgeva e aveva il timore che Galen potesse fare qualche colpo di testa. Piccolo, anche se non lo dava a vedere, la controllava in ogni momento. In un certo senso, insomma, se l'aspettava. Quando vide l'amico rincasare con la faccia scura e l'aura a pezzi, il supremo non ebbe dubbi nell'indovinare la causa.

Con tutto il tatto possibile tentò di indagare, ma anche a lui fu riservata una porta sbattuta in faccia.

Piccolo aveva preso a calci uno dei pesi con cui era solito allenarsi. Era furibondo. Ancora non credeva possibile che lei avesse deciso di sparire così, senza lasciare un messaggio di dove potesse essersi cacciata, neppure la minima traccia. Aveva provato ad instaurare un dialogo con lei, ma non era facile comunicare quando l'altro era ostile a farlo. Di riposare per quella notte non ci sarebbe stato verso. A passo deciso raggiunse la stanza dello spirito e del tempo. Se non altro, avrebbe sfogato la rabbia in allenamento.

 

 

La luce dell'alba lo colse che ancora lottava contro una copia di se stesso. Aveva la tuta stracciata in più punti ed era grondante di sudore. Era furioso e ancora confuso. All'inizio non si rese conto dei passi che calpestavano la sabbia scintillante per i primi raggi del giorno nascente. Quando aprì gli occhi, una lunga ombra filiforme si apprestava nella sua direzione. Il namecciano deglutì. Faticò a trattenere preoccupazione e rabbia.

“Dove sei stata?”

Tuonò, senza voltarsi, nell'attesa che la ragazza si portasse al suo fianco. Non riuscendo a sopportare quella lentezza, conscio della sua naturale rapidità, si girò di scatto e l'afferrò per l'avambraccio.

“Dove-sei-stata?”

Sibilò ancora, con le labbra a pochi centimetri dalla sua fronte. Non reggeva più anche il fatto che lei rifiutasse di incrociare il suo sguardo. Se avesse ceduto il passo al vecchio se stesso, le avrebbe sciolto la lingua a suon di schiaffi. Invece, la lasciò andare. Solo in quei giorni, che aveva avuto a che fare con qualcuno che amava e non parlava mai, si rendeva conto di quanto fosse insostenibile, a volte, il silenzio.

La lasciò andare con stizza, col cuore ancora colmo di rabbia. Perchè non glielo diceva chiaramente quanto era debole e incapace di proteggerla, di renderla felice? Perchè non gli risparmiava quel supplizio, rivelandogli una volta per tutte che se ne voleva andare?

“Volevo recuperare il corpo del maestro, per concedergli una degna sepoltura.”

Leggermente più calmo, il namecciano si concesse di credere a quelle parole.

“Che bisogno c'era di fare tutto da sola?”

La bionda rispose mesta.

“Per noi è così. Solo ai membri del clan è concesso sapere e vedere dove i compagni riposano.”

All'improvviso, la sua voce assunse una nota diversa.

“Io detesto quel posto e non volevo che tu mi vedessi ancora in quella condizione.”

Piccolo non capì il senso dell'ultima frase. Più calmo, la obbligò a spiegare.

“In quale condizione?”

La arpionò di per la spalla prima che gli sfuggisse di nuovo. Non gli fu facile convincerla a mostrargli il volto.

“Più fragile e inutile di una donna umana.”

Piccolo l'attirò a sé deciso. L'abbracciò con trasporto e le cinse la vita. Non le diede il tempo di obiettare mentre la sollevava in volo, nuovamente diretti verso il palazzo del supremo.

Non l'avrebbe lasciata più sola. In un modo o nell'altro, l'avrebbe guarita. L'avrebbe protetta sempre, anche da se stessa.

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Capitolo 16 ***


Premessa:

Lo scritto in corsivo rappresenta le scene in casa Son, quello normale le scene tra Piccolo e Galen.

Capitolo 16

Piccolo ha una fidanzata?”

Bulma si sporse all'improvviso verso Goku, facendogli andare il boccone di traverso. Il sayan rimase immobile per qualche secondo, poi annuì in fretta, come in preda ad un tic.

Chi è? La conosco? Da quanto stanno insieme? “

Il guerriero le fece cenno di calmarsi e porre una domanda alla volta.

Si chiama Galen ed è praticamente impossibile che tu sappia di chi si tratta.”

Aveva addentato un altro involtino.

E' una ragazza particolare, che non riesce a stare con le altre persone....”

Bulma aveva incarcato un sopracciglio. Se persino Goku aveva notato quella cosa, doveva trattarsi di un aspetto davvero molto evidente.

... ma che sembra molto a suo agio insieme a Piccolo.”

A quelle parole, nella mente della brillante scienziata si era dipinta l'immagine di un'orchessa verde con gli occhi iniettati di sangue o di una pazza assassina. Aveva incrociato le braccia al petto e si era appoggiata meglio con la schiena alla sedia. I suoi occhi erano corsi alla padrona di casa, che tornava dalla cucina con il terzo piatto da portata e doveva saperla lunga sull'argomento.

Chichi, infatti, non tardò a soddisfare la curiosità dell'amica.

Pensare che la prima volta che si sono incontrati si sono picchiati!”

Il tavolo aveva tremato quando la donna aveva poggiato la pietanza e lei si era appuntata le mani ai fianchi.

Allora sono intervenuta io e ho intimato a Piccolo di non attaccarla, ma ricordo benissimo che quel mostro aveva il naso che gli sanguinava.”

Non poteva fare a meno di avercela ancora col namecciano per avergli strappato per un anno suo figlio e il pensiero che anche lui fosse stato messo in riga da un'esponente del suo stesso sesso, in qualche modo, la sollevava.

Galen l'aveva colpito forte.”

Vegeta, fino ad allora indifferente alla cosa, era rimasto stupito del fatto che esistessero esemplari namecciani femminili, preparati al punto di tener testa al guerriero più valente del loro pianeta.

Goku aveva risposto a bocca piena, dopo aver smesso di ridere e rischiato di rovesciare nel piatto ciò che stava masticando.

Galen è terrestre. Non è originaria di Namek. E' nata e cresciuta sulla terra., anche se non è umana.”

A quel punto, capire era diventata una questione di principio e la famiglia Brief non se ne sarebbe andata senza sapere tutto. Solo, Gohan, per tutto il tempo in religioso silenzio, si chiese cosa sarebbe accaduto se Piccolo fosse venuto a conoscenza del fatto che gli affari suoi erano stati spiattellati in pubblica piazza, specie in quel momento delicato, in cui Galen si stava riprendendo per la dipartita di Haldir e il namecciano era teso come una corda di violino per lo stato in cui lei si trovava.

Il ragazzo pregò vivamente a tutti di tenere quelle rivelazioni per loro e non seppe dire se l'avvertimento aveva sortito effetto. Era però certo che qualcuno, su all'obelisco, aveva gli orecchi che gli fischiavano.


 

Piccolo aveva starnutito. Non gli fischiavano gli orecchi. In compenso gli pizzicava il naso. Non gli era mai successo e non ci aveva dato peso. Erano parecchie le cose che non gli erano mai accadute prima di quel periodo ed era sopravvissuto comunque.

Tutto a posto?”

Galen gli si era avvicinata. Era la prima volta che lo vedeva così e i suoi occhi parevano diventare più grandi quando era curiosa. Gli aveva tirato un asciugamano dai due che aveva poggiato in terra. Uno l'aveva portato sulle spalle.

Seguiva sempre Piccolo nei suoi allenamenti alla stanza dello spirito e del tempo ma glielo aveva ripetuto più di una volta: lei amava gli spazi aperti. Per certi versi, persino quel palazzo immenso e quasi disabitato le andava stretto.

Li, però, poteva godere del silenzio che la città non offriva e stava molto meglio che tra gli esseri umani. Era uscita dalla stanza per raggiungere la piattaforma principale. Avrebbe atteso il namecciano sedendosi sul bordo, con le gambe a penzoloni nel vuoto.

Le piaceva quando il vento le passava sulla pelle ancora bagnata dal sudore e sentiva freddo. In qualche modo, le ricordava il passato. Poi, sbuffando, avrebbe assecondato il namecciano che le urlava appresso di infilarsi sotto la doccia o si sarebbe presa un malanno. Non riusciva ancora a ficcarglielo in quella testaccia verde che era più resistente di quanto la reputasse.

Abbassò le palpebre e si concentrò nel vento. C'era qualcosa che non le tornava. Quell'odore... non poteva essere lui. Si alzò veloce e corse di nuovo verso la stanza dello spirito e del tempo. Doveva parlarne a Piccolo. Due mesi prima, quando aveva cercato in lungo e in largo il corpo del maestro per seppellirlo, era stata in grado solo di rinvenire le sue armi. Possibile che fosse sconvolta al punto di non aver considerato a pieno quella eventualità?


 

Bulma aveva elegantemente accostato la tazzina di caffè alle labbra dipinte di rosso. Aveva soffiato sulla bevanda troppo calda, per poi assaggiarla. Era più seria, in quel momento.

Certo che ne ha passate davvero molte, poverina.”

Aveva aggiunto un' altra zolletta di zucchero: la bevanda era troppo amara e lei era perfettamente in linea. Poteva permettersi qualche caloria in più.

Però mi sembra ancora assurdo che Piccolo riesca a starle vicino in momento così delicato. Voglio dire...”

Aveva immerso il cucchiaino e girato un po'.

Non è esattamente la persona più cordiale di questo mondo. Persino Vegeta è meno scorbutico di lui.”

Il chiamato in causa l'aveva incenerita con lo sguardo e aveva grugnito qualcosa, per poi tornare nella sua indifferenza.

Ti sbagli.”

Gohan era intervenuto di nuovo. Tra tutti, era il solo che si era impegnato a spezzare una lancia per il suo maestro.

Quando papà era nell'aldilà ha saputo essermi di gran conforto. Non si direbbe, ma sa essere una persona eccezionale.”

A disagio nel trattare quegli argomenti, aveva abbassato il viso verso il centro della tavola.

Poi, Galen è stata allevata da un maestro severo come lui. Sono sicuro che Piccolo sia la persona migliore per aiutarla in questo momento. Senza contare che, nonostante siano di due razze completamente diverse, nell'animo sono molto simili.”

Bulma aveva appoggiato la tazzina nel piatto e l'aveva guardato un po' spaventata.

Intendi dire che si comporta come un demone anche lei?”

Il piccolo sayan si era affrettato a correggersi.

Intendo dire che è riservata e indipendente alla stessa maniera. Galen non attacca le persone. Solo, le sopporta poco. Insomma, è scostante, ma innocua. Anzi, sono sicuro che se fosse chiamata in caso di pericolo, si metterebbe in gioco nonostante il rischio, come molti di noi.”


 

Piccolo si era ritrovato a fronteggiare un piccolo tifone e aveva iniziato ad urlare di smetterla di tirarlo per il braccio, che era perfettamente in grado di camminare da solo.

Si può sapere che accidenti t'è preso?”

Mai una volta da quando la conosceva l'aveva vista preda di quella frenesia. Aveva liberato il braccio con un strattone e l'aveva preceduta vicino al bordo della piattaforma. Aveva incrociato e braccia al petto e guardato le nuvole sottostanti. Non percepiva nulla di anomalo.

Davvero non senti niente?”

Lo sguardo deluso della ragazza lo spinse a provare e riprovare di nuovo, invano. Alla fine, stizzito, negò. Galen, allora, lo arpionò all'improvviso per il polso. Si gettò nel vuoto, portandoselo appresso. Non gli diede il tempo di iniziare a volare. Era stata troppo veloce a trasformare anche lui in vento.

Dove vuoi andare?”

Confuso, il namecciano sapeva che non doveva lasciarle la mano o sarebbe tornato normale all'improvviso. Vedeva i capelli lunghi della ragazza agitarsi veloci sulla schiena. Era a dir poco elettrizzata. Da quando non la trovava così?

Raggiungeremo il luogo che solo alla mia razza è concesso. Andremo dove ho seppellito il mio maestro.”

Piccolo era confuso.

Hai sempre ripetuto che nessuno può accedervi senza permesso, me compreso.”

Galen portò l'altra mano all'elsa della spada che era apparsa al suo fianco.

Se qualcuno dei miei simili ci ostacolerà, mostrerò questo lascia-passare. Non sarò Haldir, ma sono pur sempre l'ultima bestia. Hanno paura di me, giustamente.”

Sul viso del guerriero dalla pelle verde si era dipinto un sorriso beffardo. La ragazza stava tornando in sé e non sarebbe stato certo lui a contraddirla. Tuttavia, il piano non gli era ancora chiaro.

Perchè andiamo laggiù?”

Piccolo si guardava attorno. Sotto di loro, seminascosto dalle nubi, cominciava a stagliarsi un deserto di ghiaccio.

Per controllare il punto esatto dove ho seppellito le armi di Haldir.”

Le armi? Mi avevi detto di aver sistemato il suo corpo!”

Si rese conto del suo fugace rimorso dal vacillare della sua aura.

Per quanto io l'abbia cercato, delle sue sposglie sono riuscita a rintracciare solo le spade.”

La presa alle sue dita si era fatta più salda: Galen cercava il suo conforto e lui ricambiò deciso.

Ho pensato che il suo corpo fosse esploso, ma poco fa... sono sicura di aver percepito la sua aura. Forse... Haldir è vivo.”

Piccolo tacque, incapace di controbattere.

Se è così, il maestro, per prima cosa, avrà recuperato le sue armi. Per questo voglio controllare.”

Galen aveva sciolto le dita dalle sue, per permettergli di recuperare le sue sembianze.

In caduta libera, il namecciano atterrò con una leggera flessione delle ginocchia. Si girò verso la ragazza. Lei arrivò sul ghiaccio come se fosse una piuma. Tese di nuovo la mano verso di lui e l'altro non negò quel contatto. Il guerriero capiva benissimo che, in quel luogo mistico, si scatenava una strana magia. C'era una luce soffusa, come una melodia nella nebbia.

Ascolta unicamente la mia voce.”

Piccolo annuì. Il suo udito era sensibile e i suoni confusi che arrivavano ai suoi orecchi avevano il potere di tramortire chiunque. Cercò di concentrarsi sulla mano della ragazza. Risalì con lo sguardo verso la pelle chiara del suo braccio scoperto, fino alla spalla ed ai suoi capelli d'oro e di fuoco, che li sembravano più chiari, esili come il sole dell'inverno.

Qualcosa disturbava la sua aura e iniziava a provare fastidio alla bocca dello stomaco. Solo in seguito, gli sarebbe stato rivelato che quell'insieme confuso di sensazioni era dovuto al potere delle creature del vento, le cui spoglie erano custodite in quel luogo.

Siamo quasi arrivati.”

La voce della ragazza gli giungeva lontana, disturbata. Se non fosse per le sue dita esili, eppure strette alle sue e così calde, si sarebbe ritrovato a vagare in uno strano sogno. Fu condotto fino ad un punto in cui le pareti di due montagne di ghiaccio si univano ad impedire il passaggio. Vi era una fenditura in quelle mura naturali e Galen lo indirizzò li dentro.

Era buio. Non appena i loro occhi si abituarono alla penombra, la giovane gli lasciò la mano. Si era diretta in un punto preciso di quella strana grotta e aveva tratto qualcosa dalla roccia, all'altezza del suo viso. Il namecciano si toccò la tempia. Sudava, benchè non si fosse stancato per nulla. Era come se gli mancasse l'aria.

Cosa diavolo è questo posto?”

Galen era tornata da lui. Aveva portato con se una torcia. Le fiamme imporporavano le sue guance e si riflettevano nelle sue iridi rese più scure e profonde dalla mancanza di luce dell'ambiente.

Questo posto è permeato dalla magia dei miei avi. Ti trovi dove a nessun umano sarà mai concesso. Qui, non è mai entrato alcun supremo.”

Ormai gli aveva reso chiaro il concetto che, se le avesse lasciato la mano, la forza che emanava dall'aria stessa l'avrebbe schiacciato.

Non appena le toccò il polso, il namecciano si sentì meglio. Riuscì ad orientarsi e distinguere i contorni precisi delle stalattiti sopra la sua testa, dei rivoli d'acqua che gocciolavano dal soffitto o serpeggiavano tra i suoi piedi. Si trattava di una grotta sotterranea scavata dalle mani sapienti della natura, nell'arco delle ere. Una caverna come tante, ma arcana come poche. Più si inoltravano dentro, più i cunicoli si ampliavano, fino a divenire gallerie, strade. D'un tratto, si affacciarono su uno specchio d'acqua che rifletteva le sculture di pietra e luce scanalate dall'acqua. Per parecchi secondi, Piccolo restò ad ammirarle senza fiato, col naso all'insù. Poi, portò il viso ad altezza normale. Si bloccò e spalancò le palpebre.

Cosa sono quelli?”

Indicò, inorridito, temendo già la risposta, nello scorgere delle strane figure umane con elmi a coprire la testa, bloccati nel ghiaccio.

Esattamente ciò che sembrano.”

La risposta non gli piacque per nulla, mentre la giovane lo portava più prossimo a quei cadaveri ibernati. Per fortuna, le armature li coprivano del tutto e, se Galen non avesse parlato di cimitero, di certo il namecciano non avrebbe subito realizzato, con disgusto, cosa avesse avuto davanti.

Con che razza di tecnica li... tumulate così?”

Chiese con un certo ribrezzo.

Noi non tumuliamo i nostri morti, li lasciamo semplicemente a dormire su queste pareti. Poi, la nostra terra liriprende a sé e li accoglie nel suo seno, come puoi vedere da te.”

Fu condotto abbastanza avanti in quella macabra sfilata. Poi, Galen si arrestò all'improvviso, come pietrificata. Fissava un punto in cui la parete di ghiaccio pareva scavata con un colpo secco dall'esterno. Deglutì e si rivolse a Piccolo.

Qui io avevo lasciato le sue spade. Una volta che questo luogo reclama qualcosa a sè, si dice che solo il legittimo proprietario può reclamarlo.”

Il namecciano aggrottò la fronte per poi sorridere, di rimando. Era felice. Haldir non gli andava troppo a genio, soprattutto da quando si era reso conto di quanto fosse forte il legame tra lei e la persona che amava. Però sapeva anche quanto Galen gli fosse affezionata e la sua gioia era la cosa più importante. Piccolo l'attirò a sé. La strinse forte. In quella grotta dove c'era morte l'abbracciò stretta a sé e le baciò la fronte. Fu irruento. La fiaccola che l'altra teneva cadde e si spense ai loro piedi.

Sono felice per te.”

Sciolto anche quel nodo, potevano finalmente essere liberi. L'idillio si incrinò d'un tratto, quando una stalattite sopra le loro teste iniziò ad incrinarsi in modo preoccupante. Deciso, il namecciano le aveva preso il polso, diretto come un razzo verso il percorso inverso.

Io qui non ci resto un attimo in più del necessario.”

Aveva decretato, senza possibità d'appello. Aveva finto di non sentire la ragazza che rideva, sì, ma di lui.


 

Goku e Vegeta erano all'esterno di casa Son, intenti a discutere dei fatti loro. Il principe dei Sayian era curioso della tecnica usata dalla ragazza di Piccolo e non si capacitava del fatto che l'amico non ne sapesse nulla, pur avendola vista diverse volte.

Sei il solito superficiale.”

Lo aveva rimproverato, alzando la voce.L'alterco era stato però bloccato dall'avvicinarsi di due aure, una conosciuta. Piccolo era atterrato a pochi metri da loro e, se tanto riportava tanto, quella che si aggrappava alla sua tuta doveva essere la sua fantomatica compagna.

Vegeta l'aveva squadrata con curiosità, causandole rossore alle guance e prurito alle mani. La sensazione, per la ragazza, si enfatizzò quando si rese conto che l'altro esemplare sayan s'era portato appresso la famiglia. La sua donna era il prototipo di umana che lei detestava di più: testa funzionante e lingua lunga. Appena l'aveva inquadrata, aveva stretto la stoffa della tuta di Piccolo in un gesto che era a metà tra l'implorare di non essere lasciata in balia di quella e la minaccia che gliela avrebbe fatta pagare se solo avesse osato pensare di farlo.

Si era decisa a staccarsi da lui solo perchè Piccolo aveva una reputazione da difendere e, davvero, sapeva che aveva avuto i nervi tesi troppo a lungo a causa della sua debolezza.

Non avevano bisogno di fermarsi li, ma Piccolo desiderava discutere con Gohan degli ultimi sviluppi o, semplicemente, mettere a parte un carissimo amico di una grossa rogna appena tolta. Così aveva ingoiato il rospo per amore di lui ma, nel momento in cui aveva incrociato il cipiglio della turchina, aveva deciso che avrebbe dato il meglio di se, contro il compagno, negli allenamenti del giorno dopo.

Si era inchinata, tutta d'un pezzo, prima che potessero iniziare a tempestarla di domande. Comprendeva benissimo quanto la gente potesse diventare curiosa sul suo conto.

Ci aveva provato, quando erano dentro casa, a svelare il meno possibile dei fatti suoi, ma niente e nessuno poteva vincere l'intelligenza di Bulma Brief. Suo malgrado, Galen capì quel giorno che, a volte, non basta il potere del vento e l'anima del guerriero per farla in barba ad una fragile umana.


 

NOTE AUTORE:

E' un epilogo “aperto”, che spero scorra leggero come il tempo che passa, perchè ci sono cose che accadono indipendentemente dalla nostra volontà, natualmente. Il mio intento era ricreare, almeno un po', quella naturalezza.

A chi ha continuato a starmi vicino fino ad ora, anche quando io sono sparita, mando un ringraziamento particolare, di tutto cuore.

Chissà, forse questo non sarà un addio, ma solo un arrivederci.

Un saluto e un abbraccio,

Roxy :)

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1014511