Another Day

di WtFerdie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I get so lost without you ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** I get so lost without you ***


Dopo essere tornato dall'ospedale mi diressi in camera e chiusi la porta a chiave. Nella stanza c’erano due letti: il mio era vicino alla porta e un altro, quello di mio fratello Daniel, di fianco alla finestra. Mi sedetti sul letto di mio fratello con le spalle contro il muro dopo aver socchiuso le tende. Abbracciai il suo cuscino immaginando fosse lui. Aveva 19 anni, quindi due anni in più di me, anche se io ne dimostro molto meno per aspetto fisico e ...intelligenza.
Io sono sempre stato quello idiota, incosciente che si caccia sempre nei guai. Lui, invece, è sempre stato quello intelligente responsabile che farebbe di tutto per proteggermi e non farmi finire all’ospedale dopo aver fatto una delle mie solite cazzate. Sta volta però  in ospedale ci era finito lui, per una malattia. Esattamente non mi hanno detto cosa abbia, so solo che dovrà stare lì per un po’ per trasfusioni e terapie varie. Non è giusto! Sono io quello che fa cazzate, io dovrei essere al suo posto. Forse è colpa mia se è malato... io lo faccio star male. Vorrei non essere mai nato.
Vorrei che Daniel fosse a casa come al solito e non mi importa se, come al solito, mi ruba le mutande mentre sono sotto la doccia; una volta le ho perfino ritrovate dentro ad una scatola vuota di cereali! Non mi sono mai arrabbiato per questo, anzi, mi diverto a cercarle.
 
Sentii mio padre battere contro la porta e urlare.
“Thomas, esci da quella maledetta stanza. Non puoi startene chiuso lì dentro!”
“Sì che posso.”
“Non fare lo stupido. Alza il culo e apri la porta, altrimenti la butto giù.”
“Cristo, no! Vattene.”
“Thomas, devi imparare a essere come tuo fratello. Non puoi fare sempre il bambino!”
“Smettila di mettere sempre in mezzo Daniel. Vaffanculo!”
Diedi un pugno contro il muro. Odio quel uomo. Per lui esiste solo Daniel il “ragazzo d’oro”.
 
Sentii muoversi il letto: era il nostro cane. Voleva che gli lanciassi la pallina da tennis che avevo preso dalla sua cuccia. Invece che lanciargliela gli toccai la coda e lui cominciò a girare su se stesso per riuscire a mordersela, finché non cadde dal letto. Non c’è da domandarsi perchè lo abbiamo chiamato Jester.
“Ancora non capisco perchè Daniel ti abbia scelto. Secondo lui eri il più sveglio dei tuoi fratelli. Poveri loro... eh, Jester? ...ma che... smettila di leccare il mobile!”
Si allontanò e mise le zampe sul muso. Povero idiota.
 
Spensi la luce e aprii la finestra. Guardai il cielo come faceva Daniel. Adesso che era in ospedale aveva una finestra che dava sulla facciata della palazzina adiacente. Era un vero schifo. Mi venne in mente che aveva un diario su cui scriveva le posizioni delle stelle e altro. Me ne aveva parlato il giorno stesso. Frugai sotto al letto. Quel diario aveva almeno 5 anni, ma alla fine non aveva utilizzato nemmeno metà. Lo sfogliai velocemente. A lui non piace parlare molto. In genere gli piace ascoltare. Dice che lo fa sentire bene. Gli credo, ma io non ne sono capace, mi distraggo spesso. Non mi piace nemmeno parlare. Preferisco tenermi tutto per me, forse questo è il motivo per cui parlo da solo, anzi, intrattengo dei veri e propri discorsi con me stesso. Probabilmente, se i più grandi oratori greci assistessero alle mie riunioni tra me e me, sarebbero commossi. Mi padre pensa sia un problema. È colpa sua se adesso mi tocca andare dalla psicologa, che nemmeno è laureata. È come se mi utilizzasse come cavia per i suoi studi. Ha 21 anni ed è bionda... non è niente male, però non so il suo nome. Forse una volta me l’ha detto ma non ricordo.
 
Mi soffermai a leggere una pagina. Era del’8 gennaio 2008. Diceva che in quel periodo stava molto male, quindi ha fatto degli esami in ospedale. Continuai a leggere
“ultimamente mi gira spesso la testa. C’è chi dice che è anemia, chi invece sia qualcosa di più grave. A me non importa, voglio solo che tutto ritorni come prima. Non ho detto niente a Tom, non voglio che si preoccupi. Adesso è ancora a scuola. Gli ho comprato un paio di bacchette per la batteria. Ho promesso che gli avrei insegnato a suonarla. Appena arriva a casa gli faccio vedere come farle roteare tra le dita. Gli si illuminano gli occhi quando lo faccio. Per me è una soddisfazione. “presi le bacchette, ormai vecchie, e ci giocherellai continuando a leggere “È sempre triste, non fa altro che pensare a sua madre, per come l’ha trattato non dovrebbe nemmeno essere viva. Non avrebbe mai dovuto abbandonarlo. Per colpa sua è sempre chiuso in se stesso e parla poco con gli altri. Non ha mai avuto amici e non si è mai interessato a niente. Io sono tutto quello che ha. Tutto questo mi rende maledettamente triste!” Aveva ragione. Lui è tutto quello che ho.
 
Rimasi un attimo a guardarmi le braccia. Facevano schifo. Piene di tagli dal polso al gomito. So che non dovrei farlo... Una volta Daniel se n’è accorto, da allora mi tiene d’occhio. Mi faccio schifo. Non ricordo nemmeno il giorno in cui ho iniziato e, francamente, non mi interessa. Continuai a leggere. Il 10 gennaio “Non mi hanno detto esattamente che ho, ma meglio così; rischierei di dire tutto a Tommy. Non voglio farlo preoccupare.” Mi tornò in mente quello che avevo visto quel giorno in ospedale. Daniel era molto pallido e debole, faceva quasi fatica a camminare a lungo. I dottori che continuavano a entra nella sua stanza che si chiedevano come mai non migliorasse dopo tutto quello che stavano facendo per lui. Deve migliorare, non può arrendersi. Senza di lui sono un disastro, senza di lui non sono niente. 

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Capitolo 2
*** 2 ***


Il giorno del suo compleanno Daniel venne dimesso. La mattina stessa andai dalla psicologa. Non aveva uno studio, quindi stavamo in camera sua. La stanza mi ha sempre messo depressione, sembra quella di una donna di 50 anni: il letto sempre in ordine con coperte grigie o color crema, uno scaffale di libri vecchissimi di psicologia (forse del padre) e una scrivania vuota. Teneva l’armadio chiuso a chiave e non aveva né poster né foto. Decisamente deprimente. Ero arrivato con un’ora di anticipo e lei era ancora in pigiama, o meglio, una maglietta aderente della Princeton e dei pantaloncini, anch’essi aderenti, piuttosto corti.

“Eccomi.” Si sedette di fianco a me “Hai novità su tuo fratello?”
“Torna oggi. Dicono che stia bene.”
Parlammo per una mezz’oretta, o meglio, lei parlò. Io mi limitati ad annuire di tanto in tanto ma continuavo a distrarmi guardandola. Devo ammettere che è figa… ma sembra le manchi l’anima, mi dà i brividi.
“Ci vediamo tra due giorni.”
“Salutami tuo fratello.”
Mi diressi alla porta.
“Thomas.” Mi girai verso di lei. “Ta va di venire a mangiare qui domani sera?”
“Forse.”
“In ogni caso ti aspetto per le 18.”
“Ciao.”

In casa c’erano più di 25 gradi e io avevo addosso il golfino. Quando Daniel arrivò era irriconoscibile. Pallido, magro e i capelli neri si erano allungati cadendogli sugli occhi e dandogli un’aria inquietante. Ma come al solito rideva. Lo abbracciai.
“Daniel, promettimi che non andrai più in quel posto di merda!”
“Ci proverò. Perchè non ti togli il golfino? Hai il sudore che ti gocciola sulla fronte.”
Mi asciugai con la manica.
“Ma ho la pelle d’oca per il condizionatore.”
Si fece serio, maledettamente serio.
“Il condizionatore è spento. Non fare lo stupido, toglitelo. L’ho capito…”
“Scusa, non adesso.”
Mi faceva male toglierlo per due motivi: il tessuto a contatto mi faceva bruciare le ferite e poi non volevo che lui le vedesse.
“Thomas, guardami negli occhi. Promettimi che non lo rifarai!”
Lo guardai ma non risposi.
“Thomas!”
“Ci…ci proverò.”
“Ti odio quando fai così!”
Se ne andò in un’altra stanza. 

Nel frattempo arrivò mio padre. Sentì solo l’ultima frase; questo gli bastò per farlo incazzare. Mi afferrò per un braccio, cercai di non urlare, e mi portò in cucina. 
“Thomas, tu sei la rovina di questa famiglia. Da quando sei in questa casa non fai altro che far star male mio figlio. Non so cosa hai fatto, ma se sento ancora che lo ferisci, giuro che hai finito di vivere. I figli delle puttane non meritano di avere una famiglia. Tu non vali niente.”
Io e Daniel da piccoli frequentavamo lo stesso asilo e giocavamo assieme. Qualche anno dopo dovette cambiare scuola, quindi chiese a suo padre di adottarmi. Ci mise un bel po’ per convincerlo. “Gli avevo detto che avresti solo procurato un mucchio di guai!”

Io e Daniel eravamo sdraiati sul tappeto della stanza. Lui lanciò una pallina da tennis contro il muro, la presi al volo e la lanciai a mia volta. Continuammo così per quasi un'ora, poi Daniel si tirò su e si sedette.
"In ospedale ho conosciuto una ragazza."
"Ah si?!" 
Feci il finto interessato aspettando che si decidesse a lanciarmi la pallina.
"È capitata per sbaglio nella mia stanza." 
"Ok."
"Dai Tom!" 
Finalmente lanciò la pallina... contro il mio petto.
"Ehi, fa male!"
 "Senti, adesso ti porto da lei."
"Per forza?"
Si alzò e mi trascinò in macchina con lui.
"Dan."
"Si?"
"Questa me la paghi."
Sorrise. 

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