Bittersweet memories

di _marty
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** 1. Conta fino a tre. ***
Capitolo 3: *** 2. Una busta color panna. ***
Capitolo 4: *** 3. Maschere di ogni tipo. ***
Capitolo 5: *** 4. Sembrava più viva. ***
Capitolo 6: *** 5. Una falsa percezione. ***
Capitolo 7: *** 6. Piccoli respiri. ***
Capitolo 8: *** 7. Grandi bambini. ***
Capitolo 9: *** 8. Passare inosservati. ***
Capitolo 10: *** 9. Diversa dalle altre. ***
Capitolo 11: *** 10. Bambole ed anatre. ***
Capitolo 12: *** 11. Buio limpido. ***
Capitolo 13: *** 12. Proporzioni. ***
Capitolo 14: *** 13. Indugiare. ***
Capitolo 15: *** 14. Piccole dosi. ***
Capitolo 16: *** 15. C'è o non c'è. ***
Capitolo 17: *** 16. Paura di sbiadire. ***
Capitolo 18: *** 17. Cinque anime. ***
Capitolo 19: *** 18. Guardarsi intorno. ***
Capitolo 20: *** 19. Sogni, ricordi e realtà. ***
Capitolo 21: *** 20. Crollare. ***
Capitolo 22: *** 21. Rette parallele. ***
Capitolo 23: *** 22. Mille significati. ***
Capitolo 24: *** 23. Altrove. ***
Capitolo 25: *** 24. Pasta frolla. ***
Capitolo 26: *** 25. Innamorarsi insieme. ***
Capitolo 27: *** 26. Protezione e solitudine. ***
Capitolo 28: *** 27. Portare via. ***
Capitolo 29: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 

Bittersweet memories






 

 

Una bambina di dieci anni non poteva che esserne allegra, avrebbe passato l’estate con la sua famiglia e la campagna di sua nonna era la fonte di divertimento per ogni bambino. Il loro soggiorno lì avrebbe fatto comodo a tutti ma soprattutto a Charlotte, le avrebbe fatto bene respirare un po’ di aria di campagna. In estate il caldo torrido della città non faceva altro che farla stare male e, a volte, si trovava a passare ore e ore con l’inalatore sulle labbra.




 

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Si sedette comodamente e aspettò che si chiudessero le porte del vagone, si guardò intorno e i suoi occhi vennero catturati dalla figura di un giovane ragazzo, lo aveva visto varie volte su quel treno ma sempre di sfuggita. Spesso lui scendeva quando lei saliva e viceversa, lo aveva sempre categorizzato come una di quelle persone sfuggenti anche se non sapeva proprio niente di lui o della sua vita. Era riuscito ad entrare per un pelo e adesso si era seduto dalla parte opposta del vagone: era impaziente.





 

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Charlotte non capiva cosa voleva dire amare,
non capiva perché a parte due o tre ragazzi che
aveva pensato importanti, non c’era mai stato
nessuno che le aveva strappato il cuore. 





 

 





 

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spazio autrice
Ed eccomi qui con una nuova cosina, è da un po' che pensavo di scrivere questa storia e più volte non ho avuto le forze per andare avanti, poi ho trovato i volti dei protagonisti per caso e mi sono detta che forse era arrivato il momento di continuare questo progetto. E' qualcosa senza pretese, semplice e spero che i personaggi e le loro dinamiche vi facciano innamorare come hanno fatto con me. Questo prologo introduce Charlotte e dice già tantissimo di lei, sarà lei la protagonista di questa storia.
Ho creato un gruppo dove è possibile parlare della storia, vi lascio il link e spero di rivedervi lì :) http://www.facebook.com/groups/527766340607066/ Buona lettura.

Ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 2
*** 1. Conta fino a tre. ***


 

Capitolo 1.


 



Aveva perso il treno per l’ennesima volta.

Si era ripromessa che sarebbe uscita da casa quei pochi minuti prima per evitare di dover fare tutte le cose di fretta, ma eccola lì. Charlotte, una ragazza sulla ventina, che si fermava dopo aver corso per tutto il perimetro della stazione, non bastava che fosse in ritardo ma la posizione del binario non la aiutava: si trovava dalla parte opposta rispetto all’entrata. Una corsa immensa, gocce di sudore inutili per un treno che non c’era o, almeno, prima c’era ma era partito senza di lei. Si riprese un attimo e poi si sedette, svogliatamente, sulla panchina. Il prossimo treno sarebbe passato nella successiva mezz’ora e lei aveva tutto il tempo di finire quel maledetto paragrafo. Si, perché era stato lui a farle perdere ogni tipo di cognizione di tempo, era stato lui a farla preparare in fretta, il motivo per cui si trovava lì era proprio quel paragrafo. Non era riuscita a staccare gli occhi di dosso a quelle pagine, lo faceva solo per controllare l’orologio, solo per sapere quanto tempo aveva per finire il paragrafo, solo per sapere se tutte quelle strane cose che faceva facevano parte di qualche tipo di psicosi o nevrosi o poteva considerarsi sana o comunque psicotica al 10%. Si perché il loro professore di clinica, durante un convegno, lo aveva detto chiaro e tondo: ognuno di noi è in parte psicotico, nessuno è del tutto sano. Prese lo zaino e lo posizionò esattamente sulle sue gambe, accarezzò dolcemente la copertina del libro e poi si guardò attorno per un attimo, non voleva sembrava una stramba, una donna folle che si metteva a dare affetto ad un libro, gli importava non sembrarlo anche se poteva esserlo. Sorrise tra sè e sè e si ributtò a capofitto nella lettura.

Il paranoico vive una angoscia dissimulata, prossima al terrore: si sente sotto il giogo di un persecutore onnipotente che tutto vede e tutto sa di lui e che, in verità di ciò, gode smisuratamente. L’isterizzazione o un ulteriore paranoizzazione si rivelerebbero in questo caso disastrose per il paziente non meno che per l’analista, ben presto assimilabile alla figura del persecutore.

Era scritto proprio in quelle righe il motivo per cui aveva deciso che avrebbe trattato con i bambini, ora e sempre. Gli adulti erano troppo complessi, un isterico avrebbe potuto rivedere in lei una figura persecutoria e quindi un bel giorno sarebbe salito in seduta con una altrettanto simpatica pistola in mano. Quello era solo uno dei modi in cui sapeva che sarebbe morta se avesse deciso di psicoanalizzare gli adulti, con i bambini sarebbe stato diverso, sarebbe riuscita ad evitare che diventassero gli stessi adulti malati di cui aveva paura. O almeno ci sperava. Il treno arrivò con quel suo solito fruscio aleggiante e in seguito sentì stridere i freni, era decisamente lì. Aspettò che la porta si fermasse proprio davanti a lei, fece scendere le persone che si trovavano sul treno e delicatamente, poggiando un piede dopo l’altro, si andò a sedere nel posto che era solita occupare quando saliva su quel mezzo. Lo aveva scelto con cura durante quel lungo anno, li aveva provati tutti giorno dopo giorno ma c’era sempre qualcosa che la infastidiva. Troppa luce, troppa polvere, troppo contatto umano. Da quel posto, invece, riusciva ad avere una visuale perfetta di ciò che era quel vagone del treno, poteva osservare chi entrava ed usciva, poteva tenere sotto d’occhio continuamente la sua borsa, non che avesse qualcosa di prezioso, poteva godersi l’ombra assoluta e poteva ascoltare durante le giornate invernali il battere della pioggia senza essere disturbata, e senza sentire le voci che pullulavano durante le ore di punta. Si sedette lì comodamente e aspettò che si chiudessero le porte del vagone, si guardò intorno e i suoi occhi vennero catturati dalla figura di un giovane ragazzo, lo aveva visto varie volte su quel treno ma sempre di sfuggita. Spesso lui scendeva quando lei saliva e viceversa, lo aveva sempre categorizzato come una di quelle persone sfuggenti anche se non sapevo proprio niente di lui o della sua vita. Era riuscito ad entrare per un pelo e adesso si era seduto dalla parte opposta del vagone: era impaziente. Tamburellava le dita sul sedile davanti e guardava la finestra per capire con che velocità andava il treno. Charlotte lo sentì incitare il treno, anche se lo aveva detto fin troppo piano, voleva che tenesse un andatura più veloce ma lui, e tutti in quel vagone, sapevano che sarebbe stato inutile pregare per una cosa del genere. Poco dopo si tranquillizzò realizzando che la strada era ancora parecchio lunga e che non si potevano pretendere grandi cose da un treno come quello, vecchio di 30 anni.  Così cercò una posizione quanto più comoda in quel sedile di plastica sformato dal tempo e incrociò le braccia guardandosi intorno. Iniziò a osservare tutte le persone che si trovavano sul vagone, una per una, Charlotte sapeva che prima o poi avrebbe guardato anche lei dritta negli occhi ma non fece niente per evitarlo. C’era qualcosa di già noto in lui, qualcosa che però continuava a sfuggirgli, il ragazzo passò di persona in persona, da un’anziana ad una bambina e poi posò gli occhi su di lei. Si guardarono, lui la scrutò con un po’ più d’interesse rispetto agli altri, sorrise sornione e poi passò al vecchietto con il bastone che si trovava seduto davanti a lei.  Quel sorriso piuttosto che lusingarla la fece imbestialire, sentì le guance diventarle rosse per quel sentimento che stava provando e si alzò in piedi portandosi davanti alla porta dell’uscita. Ora era lei a voler scendere subito da quel treno, si sentì  due occhi, come due proiettili, puntati addosso per tutto il tempo ma aveva deciso di non dargli peso, il tizio l’aveva già innervosita abbastanza per quel giorno. Aspettò la sua fermata e fece per scendere, toccò terra e ad un certo punto sentì un corpo sbattergli addosso. Chiuse gli occhi, quel giorno era il giorno buono per uccidere qualcuno. Li aprì di nuovo e si girò verso il colpevole di quell’azione: era lui. La guardò per un attimo, si spostò completamente dalla porta del vagone per poi rigirarsi, sorriderle come prima, fare spallucce e andare via correndo. Charlotte dovette riprendersi per alcuni minuti mentre vedeva quella sagoma allontanarsi, avrebbe dato di matto, respirò piano, contò fino a tre.

Uno, sarà meglio per lui che lei non lo veda più.
Due, sarà meglio per lei andare a lezione.
Tre…


“Charlotte ho pensato di venirti a prendere, so quanto detesti la strada fino alla facoltà, soprattutto se sei da sola”.
“Ciao, Violet!”
Esclamò con gioia, non era mai stata così felice di vedere la sua migliore amica. Prima che Violet iniziasse a informarla delle novità che riguardavano l’università e prima che si dirigessero verso l’edificio in cui quel giorno si sarebbe svolta la lezione, Charlotte lanciò un’occhiata verso la direzione che aveva preso il ragazzo ma di lui, nemmeno l’ombra.







spazio autrice
Mi ero fermata qui quando avevo iniziato a scrivere tempo fa e adesso sono già a 20 pagine di word LOL la cosa mi preoccupa e anche tanto, sono troppo presa dalla storia e scrivo senza sosta. A ogni modo questo primo capitolo ci fa conoscere Charlotte, ci fa capire un pò chi è, cosa fa, cosa studia e ci fa anche conoscere un po' del suo carattere. Tende a innervosirsi facilmente, sopratutto con questo tipo di persone ma per il resto è una ragazza riservata e che preferisce non mettersi sotto i riflettori. Questo primo capitolo non è lunghissimo, ci sono già abbastanza informazioni, le parole sono pesate e ogni cosa ha un suo significato :) Spero di avervi incuriosito con questo primo capitolo, già un paio di capitoli sono pronti ma preferisco aspettare qualche giorno prima di pubblicare. La parte centrale, scritta in corsivo, è presa direttamente da un libro che mi è capitato di studiare mesi fare per un esame; è inutile dire, credo che si capisca, che studio psicologia e questa cosa sarà presente nella storia. A parte questo non ci saranno chiari riferimenti ma qualche nozione qua e là, a cui Charlotte pensa quando si trova in difficoltà o cerca di fare chiarezza nelle cose. Bene, mi sono dilungata e anche troppo! Buona lettura ^^

Ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 3
*** 2. Una busta color panna. ***


 

Capitolo 2.









“Fammi capire un attimo.”
Lo disse soffocando le risate.
“Tu sei così inferocita perché un ragazzo, carino da come lo hai descritto.” - continuò ammiccando - “Ti ha sorriso?”
“Non era solo il sorriso, era tutto il contesto.”
Rispose con fermezza Charlotte.
“E poi mi è venuto addosso.”
Si massaggiò il braccio.
“Fa ancora male.”
“Non ti capirò mai Charlotte! Proprio mai.”
La guardò un' ultima volta, prima di chiudere gli occhi e buttarsi sul prato.
La sede della facoltà in cui andavano Charlotte e Violet non era altro che un vecchio monastero, le figure religiose se ne erano andate ormai da anni ma le mura erano ancora lì. Non potevano dirsi solide e rigide, ma quando la città non ha soldi e i palazzi sono tutti occupati, i monasteri o i vecchi conventi risultano perfetti come sede per l’università. Certo, le aule con solo 50 posti, posizionate in posti ambigui, dove non prende il cellulare e la puzza di piedi aleggia nell’aria, erano gli effetti collaterali di quella situazione; era così anche quando i loro genitori andavano all’università, ma nessuno si era preso la briga di sistemare la situazione.
Charlotte seguì l’amica in quel gesto e chiuse gli occhi anche lei, per prendere un po’ di sole. Quei raggi, seppur deboli, risultavano parecchio confortanti in quelle giornate così fredde, quando il tuo unico desiderio sarebbe quello di stare sotto due piumoni piuttosto che uscire e affrontare il mondo. D'un tratto quel silenzio, così piacevole, fu interrotto da uno scatto veloce di Violet.
“Me ne ero totalmente dimenticata!”
Charlotte aprì un attimo gli occhi e poi li richiuse, quell’espressione che l’amica aveva in viso non le piaceva per niente.
“Stasera c’è una festa in un palazzo antico, poco lontano dal centro. Noi dobbiamo andarci.”
Sottolineò quell’ultima frase facendo capire che non avevano scelta, quella sera dovevano essere lì.
“Non credo proprio.”
Rispose Charlotte, con gli occhi ancora chiusi per via del sole che le riscaldava il viso.
“Dai, dai, dai.”
Iniziò a strattonare l’amica.
“Daaaai! La scorsa volta avevi promesso.”
Come una nuvola, Violet si mise davanti Charlotte: la ragazza sentì che qualcosa si era interposta tra lei e quel calore e aprì gli occhi, forzata.
“Che c’è?”
“Daaaai!”
Iniziò a sbattere i piedi come i bambini piccoli, quando la mamma non compra loro il gelato.
“Violet, la scorsa volta eri stata tu a promettere qualcosa, non io. La cazzata l’hai fatta tu, non io.”
Charlotte chiuse di nuovo gli occhi e continuò a bearsi di quel calore, l’amica si ammutolì a quelle parole, era palese che Charlotte non l’aveva ancora perdonata dopo più di sei mesi. I minuti che seguirono furono parecchi imbarazzanti, in quanto nessuna delle due sembrava proferire parola, Violet era visibilmente ferita e Charlotte aveva ancora gli occhi chiusi nonostante sapesse che c’era andata pesante.


L’ultima volta, lei l’aveva persa di vista per un attimo ma se l’era presa comoda e aveva continuato a parlare con Claire. Si era detta che Violet era responsabile di se stessa, che non aveva motivo di seguirla e di essere la sua ombra. Si lasciavano tutti dopo tanti anni di fidanzamento ed era sicura che la sua migliore amica stava bene. Era la prima volta che uscivano dopomesi e quel locale era parecchio tranquillo.
Aveva continuato a parlare per un po', poi aveva guardato l’orologio e, non vedendo da nessuna parte Violet, aveva preso 
il cellulare e aveva guardato l’orario. Aveva dato un’altra occhiata in giro e poco dopo aveva sentito una piccola vibrazione alla mano, sperava che Violet stesse bene, voleva sperarlo.
"Charlotte, ho bisogno di te."
Aveva letto quel messaggio e il cuore le era salito in gola, aveva digitato i numeri, aveva sbagliato troppe volte, aveva maledetto il touchscreen, le tremavano le gambe.
Se le è successo qualcosa giuro che non me lo perdonerò mai.
Si era detta quelle parole e aveva sentito il telefono vibrare, ancora, aveva preso la telefonata ma riusciva a sentire poco. Aveva un orecchio praticamente tappato con la mano, nell’altro era poggiato il telefono.


“Tra poco inizia la lezione, sarebbe il caso di andare.”
Ruppe il ghiaccio Violet iniziando, poco dopo, a raccogliere le sue cose.
“Mi è uscito male, lo sai.”
“Lo so.”
“A ogni modo possiamo andare.”
Accennò un sorriso Charlotte e aggiunse.
 “L’unico problema che si pone è che non ho proprio nessuna voglia di mettermi in collant, minigonna e con le tette al vento, soprattutto con questo freddo.”
Violet in risposta iniziò a cercare qualcosa nella sua borsa, o come la chiamavano loro “la borsa di Mary Poppins”, ci potevi trovare di tutto, sciarpe di lana in piena estate, rossetti, penne scariche, libri, ma mai quello che veramente cercavi. Tirò fuori prima il braccio e poi anche ciò che aveva trovato: una busta color panna.
“Ecco qui, c’è scritto tutto.”
Charlotte aprì la busta e lesse l’invito, era gradito l’abito scuro e il tutto si sarebbe svolto a lume di candela.
“Molto fine e interessante.”
“Esatto e poi hai sempre detto che sarebbe stata interessante,una serata in cui si ballava e non c’erano quei laser accecanti.”
“Potrei anche considerarlo se non fosse che non so cosa mettere, come sai i miei abiti scuri si contano sulle punta delle dita e nessuno sembra adatto a questa serata.”
“I negozi esistono per un motivo.”
“Questo è anche vero.”
“Allora è deciso, stasera usciamo e non puoi tirarti indietro.”
Violet aveva deciso, per entrambe, aveva preso la palla al balzo nel momento in cui Charlotte aveva risposto malamente, aveva dato le spalle all’amica e aveva continuato a camminare dritta verso l’aula.
“Se arrivi tardi a lezione io di sicuro non ti prendo il posto.”
Aggiunse Violet, e Charlotte si ritrovò, quasi, a correrle dietro; quello era il loro modo di fare pace.
Le lezioni erano passate velocemente, Violet si era dimostrata parecchio entusiasta e l’idea di andare a quella festa non faceva altro che farla sorridere. Charlotte non era riuscita a seguire granché dato che la sua amica continuava a fare disegni di eventuali vestiti che avrebbe potuto indossare, e le faceva continuamente domande attraverso un foglio che alla fine era diventato logoro e stropicciato per tutte quelle volte che avevano scritto e poi cancellato. In seguito erano andate in un negozio al centro, avevano trovato un vestito che calzava perfettamente a Charlotte ed erano tornate a casa per prepararsi.
“Adesso che mi sento una salsiccia ambulante, credo che possiamo andare.”
Charlotte fece una semi piroetta attorno a se, ravvivò i capelli con le mani e afferrò la borsa che avrebbe portato quella sera. Non credeva di essere così esibizionista però qualche volta le era necessario. Violet rise, un po’ perché era veramente divertita e un po’ perché Charlotte era goffa e impacciata, per poi prendere le chiavi della macchina e dirigersi verso l’abitacolo color senape.
“Mi sorge solo un dubbio.”
Espresse Charlotte mentre erano già a metà strada.
“Potrei anche sapere chi ti ha dato l’invito?”
Violet tossì e rise.
“Cosa dovrei capire da un colpo di tosse?”
“Che per una volta dovresti farti i cavoli tuoi.”
Si girò verso Charlotte.
“E’ un esempio però.”
“Certo, perché, dati i precedenti, due domande non te le dovresti fare?”
“La casa non è grande, l’evento è riservato, Matthew non ci sarà e, Charlotte, hai solo vent’anni, le preoccupazioni sei pregata di lasciarle ai vecchi. Grazie.”
Tagliò corto Violet.
Charlotte decise di star zitta per il resto del tempo, prima di ritrovarsi giù dalla macchina e davanti ad un portone totalmente bianco. Guardò per un attimo l’amica e disse piano.
“Lo sai perché mi preoccupo.”
“Lo so perché, Charlotte. Lo so. ”
Ammise Violet, con una pausa.
“Ma ti assicurò che stavolta sarà diverso.”


“Dove sei?”
“In bagno.”
“Arrivo subito.”
Le gambe non le sentiva più, aveva dato spallate a chiunque all’interno di quel locale prima di arrivare in bagno.
“Violet.”
Aveva bussato a tutti bagni. Aveva aspettato. Aveva visto aprire la porta. L’aveva vista in uno stato pietoso.
“Non ti chiederò cosa è successo.”
Non glielo aveva chiesto ma l’aveva giudicata, in malo modo.
“Grazie.”
“Non mi ringrazieresti se sapessi cosa sto pensando.”
Le aveva allungato la mano e l’aveva risollevata.
“Non ho bevuto, ho solo incontrato Matthew. Abbiamo parlato, era ubriaco e mi ha detto di tutto” – fece una pausa, la voce le vibrava, stava per ricominciare a piangere – “Mi ha anche detto che mi ha tradita.”
L’espressione di Charlotte mutò, si addolcì anche se di poco; aveva ancora rabbia, dolore, seccatura dentro di lei perché non avrebbe mai voluto vedere la sua migliore amica così, non per colpa di qualcuno come Matthew.
Charlotte, però, non riusciva a capire che i sentimenti di Violet andavano aldilà di ciò che poteva provare lei in quell’istante. L’aver amato qualcuno per tanto tempo non lo si dimentica, l’essere lasciati da qualcuno dopo tanto tempo è difficile, sapere di essere traditi dalla persona che ami ancora, brucia. Fa male se ancora cerchi un motivo per redimerlo, per giustificarlo, per addossarti tu tutte le colpe di un rapporto senza lieto fine. Charlotte non capiva cosa voleva dire, non capiva perché a parte due o tre ragazzi che aveva pensato importanti non c’era mai stato nessuno che le aveva strappato il cuore. Charlotte non capiva perché non poteva, quel tipo di amore la capisci solo se lo hai provato, sulla tua pelle.




spazio autrice
Lo so, ho aggiornato in ritardo ma ancora devo capire un attimo con che cadenza postare (se avete qualche tipo di suggerimento a riguardo: illuminatemi!! (: ). Parliamo di questo capitolo, si sa qualcosa del rapporto tra Violet e Charlotte, perchè Charlotte è scettica nell'andare a ballare e come Violet, che adesso sembra un'altra persona, porta una grande ferita dentro. A poco a poco stiamo entrando all'interno della storia, per ora le cose sembrano normali ma succederà qualcosa già dal prossimo capitolo. Le cose da ora in poi si andranno a complicare e conoscerete Charlotte non per quello che appare ma per quello che è. Bene, già mi sono sbilanciata troppo, sono felice dei vostri commenti vuol dire che avete apprezzato e ora risponderò alle recensioni (vi dico da subito che appena le postate io le leggo solo che preferisco rispondervi con calma e poco dopo aver postato il capitolo così unisco le due cose). Prima di salutarvi e vederci la prossima settimana, vi dico che ho creato un profilo su facebook ---> Marty EFP dove durante la settimana scriverò qualche frase spoilerosa, metterò le foto dei nostri protagonisti e pubblicherò del lavori grafici sulla storia (: Mi farebbe piacere se richiedeste l'amicizia così che, di tanto in tanto, commentate e mi fate sapere cosa ne pensate ^^ Credo di aver finito, grazie e buona lettura.

 

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Capitolo 4
*** 3. Maschere di ogni tipo. ***


 

Capitolo 3.


 

 


“Avanti Violet, hanno invitato te, non me. Suona.”
Incoraggiò Charlotte.

“E va bene, faccio io.”
Violet fece una leggera pressione sull’interruttore del citofono e quasi subito la porta si aprì, non c’era nessun cartello che indicasse la direzione o il piano dove si stava svolgendo la festa. Cosa più strana era che non c’era nemmeno un accenno di musica, Charlotte e Violet si limitarono a guardarsi con fare interrogativo e poi, di comune accordo, decisero di iniziare a salire le scale: una porta doveva sicuramente aprirsi. Era difficile con tacchi nove centimetri salire le scale e soprattutto quel tipo di scale, Violet non scherzava quando parlava che la festa si sarebbe svolta in un vecchio palazzo, non era fatiscente ma quasi. Scalino dopo scalino le due continuarono a guardarsi, Charlotte stava per aprire bocca e lamentarsi quando una porta, al piano di sopra, si aprì. Le ultime due rampe e sarebbe finito il calvario, potevano farcela.
Violet arrivò per prima e salutò la tipa che si trovava davanti, aveva anche un nome che Charlotte tendeva sempre a dimenticare, era dello stesso anno delle due ragazze ma la carismatica tra le due amiche, quella che intratteneva rapporti con altri colleghi, era Violet.
“Ciao Mary, grazie per l’invito.” disse Violet sorridendo alla tipa.
Ecco come si chiamava - pensò Charlotte. Prese una puntina dalla sua scrivania immaginaria, scrisse sul suo foglio immaginario il nome e fissò sulla sua bacheca immaginaria quel nome. Mary era un nome anonimo ma, magari, le sarebbe tornato utile ricordarselo.
“Ciao Mary, grazie davvero.” - aggiunse Charlotte.
Mary era anonima anche nel vestirsi, come avrebbe potuto Charlotte ricordarsi di lei se non aveva un tratto che la caratterizzasse?
Charlotte era la ragazza che in un film si soffermava a guardare il naso dell’attore x o y, Charlotte era la ragazza che aveva dato un soprannome alle persone che conosceva basandosi su una parte del corpo strana o diversa, il problema di tutto ciò era che Charlotte all’apparenza non sembrava quel tipo di ragazza. All’università poi stava per i fatti suoi, sembrava osservare distrattamente il mondo ma alla fine aveva sempre una chiara visione di chi e cosa le stava intorno e sapeva che tra le centinaia di colleghi entrati con lei ai test d’ingresso pochi anni prima non poteva fidarsi nemmeno di uno, eccetto Violet e altre tre o quattro persone.
Se c’era una parola che descriveva alla perfezione il loro anno era: disgustoso. Disgustoso come un bagno pubblico alle undici di sera, disgustoso come l’odore di pesce fritto che rimane in casa il giorno dopo che lo hai cucinato e disgustoso come qualcosa di rivoltante, che al solo pensarci ti sale un conato di vomito. Se ti danno informazioni sbagliate volutamente, se non accennano ad un saluto dopo aver passato ore e ore insieme e se agli esami fanno finta di non sapere, la parola disgustoso non risulta attinente?
Tutto ciò da sommare al suo problema relativo al non riuscire a fidarsi delle persone, i motivi di questa diffidenza si trovavano tutti nella sua infanzia, motivi che potevano essere chiamati tranquillamente traumi infantili. Agli occhi di Charlotte, l’atteggiamento che aveva, lo riteneva giustificato e, per lo stesso motivo, aveva trovato in Violet l’unica persona di cui potersi fidare lì dentro. Lei, nonostante fosse molto più aperta, più disponibile con tutti, riusciva ad essere sincera solo con Charlotte. Due anni prima, non era stato amore a prima vista, c'erano state un po' a legarsi, condividevano solo le lezioni, appunti e qualche libro, poi le cose erano cambiate. Un giorno Violet le aveva confessato un dettaglio piuttosto personale e da quel momento Charlotte aveva capito che poteva aprirsi con lei, lasciare alle spalle i suoi traumi, ed aprisi; si raccontarono tutta la vita vissuta fino a quel momento e colmarono quei vent’anni che avevano vissuto l’una senza l’altra. 
“Hai una bellissima casa Mary, non lo sapevo.”
Violet aveva ragione, se il palazzo era fatiscente all’esterno non si poteva dire lo stesso di quell’appartamento; tutto, dal lampadario al divano, era moderno. Il contrasto bianco nero rendeva l’arredamento interessante in svariati sensi e il tutto affiancato alle luci soffuse dava la giusta atmosfera al tema della serata.
“Tutto merito di mia madre.”
Disse compiaciuta.
“Prima di lasciarvi libere vi spiego alcune cose.”
Iniziò a muoversi come un vigile urbano al semaforo, muovendo le braccia per indicare le direzioni, a destra il buffet, a sinistra la ragazza che tiene i cappotti e le borse e di fronte la pista da ballo, tutte cose che le ragazze erano capaci di vedere con i propri occhi.
“E un’ultima cosa, abbiamo aggiunto alla festa il dettaglio delle maschere. Quindi...”
Mary si girò a prendere una delle due scatole, da cui uscivano maschere di ogni tipo.
“L’altro è la scatola per i ragazzi. Scegliete quella che più preferite e che più vi rappresenta. ”
La ragazza fu interrotta dal suono del citofono e si congedò sorridendo.
“Per una volta posso dire che abbiamo fatto bene a venire.”
Charlotte  sussurrò, piano, quelle parole all’amica prima di scegliere la maschera e dirigersi a sinistra per posare il cappotto e la borsa.
La maschera che aveva scelto si abbinava perfettamente al suo vestito, tutta bianca con qualche dettaglio color oro e una piuma che sarebbe andata a finire vicino al suo orecchio destro. Violet, poco dopo, la raggiunse e passarono la prima parte della serata a salutare una parte dei loro colleghi, compagni del liceo e addirittura compagni delle elementari, la maschera serviva a poco se già li conoscevi ma se non conoscevi poteva diventare qualcosa di interessante. L’appartamento iniziò a riempirsi lentamente, la musica non aveva toni altissimi ma anche se li avesse avuti non si sarebbe sentito niente poiché le pareti erano sonorizzate, motivo per cui nelle scale Violet e Charlotte non avevano sentito niente.
Passarono una buona parte della serata a chiacchierare tra di loro, a commentare alcuni vestiti che saltavano più all’occhio, a ballare qualche canzone più orecchiabile in pista e nel frattempo l’appartamento era sempre più pieno. La quantità di gente presente aveva reso l’aria a tratti soffocante e per quel motivo Charlotte aveva deciso di uscire nel terrazzino a prendere una boccata d’aria, a differenza di Violet che aveva preferito rimanere dentro per via del troppo freddo. La porta che conduceva al terrazzo aveva solo un’anta, sembrava una normale porta come tutte le altre che conducevano alle numerose stanze della casa, e non faceva minimamente pensare ad un terrazzo così grande. A risvegliarla da quello stupore ci pensò il vento che le scompigliò i capelli, rendendo vani tutti i tentativi di farli sembrare normali e facendoli sembrare ancora più fuori posto rispetto al solito. Percorse il terrazzo fino ad arrivare alla ringhiera e lì si perse a guardare le luci della città, non c’erano fari che distorcevano quel panorama e nel frattempo riusciva ad assaporare quel silenzio, quella calma, quella pace che non c’era dove era prima. Sospirò a lungo e iniziò a pensare a quante cose avrebbe dovuto fare quell’anno, la conclusione dei suoi tre anni all’università, l’essere catapultati dopo qualche mese in un altro ateneo e in un’altra vita, il tutto sommato al poco tempo per fare tutte quelle cose; stranamente, stare lì la rilassava. Quel panico, quella stretta alla pancia, quella tachicardia che le prendeva ogni volta che le sfiorava uno di quei pensieri ora, era del tutto assente; quel silenzio era meglio di una birra di troppo o di una sigaretta fumata per nervosismo.
Riaprì gli occhi e si girò a guardare verso la porta, era assurdo come in quella casa ci fosse una chiara rappresentazione della sua vita, con il caos ogni cosa le sembrava impossibile da superare, con il silenzio tutto era più chiaro, ogni cosa risultava come un ostacolo che poteva essere superato. Le si stampò un sorriso in faccia, sorrise solo perché si sentì stupida a vedere che tutto è superabile, tutto è possibile ma solo se lo vedi nella prospettiva giusta, se di qualcosa che ti sembra enorme ne vedi solo un pezzo, viene tutto più facile. Si prese in giro così, con un sorriso. Continuò a scrutare il terrazzo quando vide qualcuno, un ragazzo con una maschera, anche lui. Charlotte si spaventò e iniziò a respirare sempre più velocemente, la bocca quasi asciutta, ma non si stupì più di tanto. L’aveva studiato l’anno prima, il sistema simpatico svolge quell’azione di attacco/fuga, lei si stava sentendo attaccata dal ragazzo e il suo organismo la stava mettendo nella condizione di fuggire.
“Scusami non volevo spaventarti”.
Il ragazzo si alzò dalle tegole del tetto e, dopo essersi ripulito un po', iniziò ad avvicinarsi a lei. Urlare per comunicare non lo entusiasmava.
“Più che spaventarmi mi stai inquietando, e non poco.”
Continuò Charlotte, respirando a fatica e cercando di mettere spazio tra di loro camminando.
“Da quanto tempo sei qui?”
Aggiunse la ragazza.
“Da prima che venissi tu.”
“Quindi piuttosto che andare via o avere questa conversazione prima, sei solo rimasto a guardare?”
“Sì, il che mi rende un maniaco stalkerizzante, anche se non lo sono.”
Sorrise sinceramente, non perché fosse divertito ma perché era evidente che non volesse disturbarla.
“Vedo che siamo della stessa opinione.”
Charlotte ricambiò il sorriso.
“Già.”
Il ragazzo annuì con la testa e bevve un altro po' della sua birra in bottiglia.
“Hai una maschera buffa!” - esclamò Charlotte - “Come mai hai scelto questa?”
“E’ vero, è troppo colorata ma per noi ragazzi non c’era molta scelta. E la tua?”
“La mia si abbina al vestito.”
“Vero.”
Continuò a bere. Adesso si trovavano l’uno di fronte all’altra.
Charlotte si tranquillizzò un attimo, sorrise e tutto l’imbarazzo che non aveva provato fino a quel momento, si riversò nelle sue guance facendole diventare rosse. Non aveva idea di cosa le fosse preso, non era così spontanea e non faceva domande specifiche a persona sconosciute, perché il tipo che aveva davanti era uno sconosciuto.
“Siamo entrambi parecchi diversi dalle maschere che abbiamo scelto.”
Aggiunse la ragazza.
“Così sembra.” - tagliò corto lui, per poi aggiungere - “spesso la maschera che indossiamo non è necessariamente di plastica o con delle piume sopra.
Toccò la piuma della maschera di Charlotte sfiorandole, impercettibilmente, l’orecchio. Aveva detto quella frase per impressionarla e c’era, anche, riuscito.
“E tu, ragazzo, che maschera indossi oggi?”  
“La maschera di un buon ascoltatore, ragazza.
Spostò la mano dal viso di Charlotte e la infilò dentro la sua tasca destra, per farsi calore.
“E cosa vorresti ascoltare?”
Charlotte decise di stare al suo gioco, per una volta poteva prendersi una pausa dalla ragazza seria ed equilibrata di ogni giorno.
“Il motivo per cui ti sei messa a contemplare la città e ti sei sentita, stranamente, tranquilla.”
“Uhm.”- fece un pausa- “Ok, ma solo se poi mi dirai il motivo per cui tu eri qui.”
Senza farselo ripetere due volte, il ragazzo tese la mano verso Charlotte.
“Abbiamo un accordo?”
“Direi di sì.”
Strette la mano del ragazzo.
“Allora, da dove posso iniziare?”

Per quella sera, Charlotte, aveva voglia di mettersi alla prova.





spazio Autrice
Eccomi qui, dopo un po' più di una settimana esatta ^^ Questo nuovo capitolo è il mio preferito pubblicato fino a ora e che, in generale, ho scritto. E' pienissimo, lo so, ma non me la sono sentita a dividerlo in due perchè non sapevo in che punto avrei dovuto dividerlo e soprattutto quando l'ho scritto, l'ho scritto tutto insieme e ormai per me il terzo capitolo era così ** Allora, abbiamo Charlotte alla festa, Charlotte che racconta un altro pezzo della sua vita, che racconta brevemente come si sono incontrate lei e Violet e Charlotte malinconica che incontra questo bel ragazzo. Il ragazzo rimarrà "sconosciuto" per molti capitoli, come scritto, entrambi hanno una maschera, non copre tutto il viso ma metà, dalle sopracciglia a sopra il mento quindi, come ho scritto volutamente, se non conosci la persona da prima è difficile capire chi è. Non scrivo altro perchè se no, inizio con gli spoiler e non è mia intenzione XD A inizio capitolo ho messo queste tre immagini per farvi capire un po' che maschera indossasse Violet e come era la festa in se, so che magari non vi importa niente ma quando leggo le storie mi fa piacere vedere e non solo leggere. Detto ciò spero che il capitolo vi piaccia, grazie mille per le recensioni a cui ora risponderò e grazie a chi mi ha inserita tra preferite/ricordate/seguite se avete voglia di lasciare un commento, fate pure! Anzi ne sarei felicissima.
Alla prossima, Martina!
 

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Capitolo 5
*** 4. Sembrava più viva. ***


 

Capitolo 4.


 

Era già passata un’ora e Charlotte era lì, su quel terrazzo, a parlare con uno sconosciuto. Erano rimasti in piedi per tutto quel tempo, ad una distanza ottimale, né troppo lontana ma nemmeno troppo vicina, lo spazio indispensabile per sentire le proprie parole. La prima impressione era stata che il ragazzo era più interessato a gustarsi la sua birra piuttosto che parlare con lei, ma poi quando aveva finito di bere aveva lanciato una corda verso Charlotte e lei, stranamente, aveva deciso di afferrarla, non al volo ma quasi. Era assurda quella situazione, se lo era detta più volte durante quell’ora, ma continuava ad andare avanti; trovava un certo conforto nel parlare con lui, a prescindere dai pochi attimi di silenzioso imbarazzo che aveva superato tranquillamente, senza problemi. Avevano parlato di tutto, dei loro problemi, delle idee che avevano e di tutti i sogni che un giorno avrebbero voluto veder realizzati, discorsi importanti con una persona appena conosciuta.
“E’ passata un’ora.”
“Di già?”
Il ragazzo le sorrise.
“Di già.”
Dopo tutto quel tempo continuavano ad indossare le loro maschere di plastica, nessuno dei due se l’era tolta per primo, forse per paura di essere giudicati o forse perché era più facile continuare a pensare di parlare con una persona incognita piuttosto che con qualcuno che abbia un viso ben delineato.
“Passa veloce il tempo con te.”
Continuò lui.
“So essere interessante quando voglio, ma sotto questa maschera non sono così.”
“E come sei?”
Charlotte prese un po’ di coraggio e si tolse, delicatamente, la maschera.
“Sarei così.”
Gli sorrise.
“Quella che ho appena tolto era la mia maschera della sincerità. Spesso tendo a trattenere le cose.”
“Vai benissimo anche così, te lo assicuro.”
Era un gioco di sguardi il loro, adesso lui era in grado di vederla interamente, come la ragazza che era, come Charlotte; solo con un tocco di sincerità in più. Quella maschera l’aveva resa più onesta, l’aveva aiutata a dire tutto, per una volta, a non omettere niente. L’ultimo punto era più che ricorrente nella sua vita, omettere per non ferire, per non ammettere le cose, per lasciare le cose come stavano e per far rimanere stabile quell’equilibrio precario. Lui, però, continuava a non mostrarsi; Charlotte aveva potuto sentire sincerità nelle sue parole, non c’erano pause nel suo parlare, tutto era stato detto di getto, tutto d’un fiato.
“Adesso vorrei capire cosa c’è sotto la tua, di maschera.”
Charlotte si avvicinò gradualmente, era decisa a togliergli la maschera, voleva vederlo, davvero; sorrise, passo dopo passo, e lui sfoderò il suo sorriso migliore.
“Potresti rimanere delusa.”
“Potrei non rimanere delusa.”
Aveva una voce profonda, a tratti ammaliante, accompagnata ad una minimica facciale che seguiva le sue parole; poteva sentirlo ridere attraverso il suo sguardo, il suo mento, le sue labbra. Tendeva a scandire bene ogni parola, dare la giusta tonalità; o aveva avuto una buona insegnante di fonetica alle elementari, oppure aveva seguito uno di quei corsi teatrali di dizione.
Erano quattro i passi che li avevano allontanati fino a quel momento, Charlotte continuò a guardarlo dritto negli occhi e poi allungò la mano, la vicinanza era troppa, il confine tra l’isola del ragazzo e quella della ragazza non era più definito e lui lo rese ancora più sbiadito. Superò quella barriera invisibile che entrambi avevano eretto e posò le sue labbra su quelle di Charlotte, non era sicuro che lei avrebbe ricambiato, si conoscevano da un’ora ma a lui sembrava che si conoscessero da una vita. Si era buttato, ci aveva provato e lei stava ricambiando quel bacio, stava mettendo ancora più legna sul fuoco, l’intensità di quel contatto era aumentata e continuava a salire di giri. Si interruppero un attimo per poi riprendere quel bacio, facendolo durare un’altra manciata di minuti. Non appena finirono si guardarono ancora, nessuno dei due sapeva chi dovesse cominciare per primo a parlare, a dire qualcosa.
“Adesso devo andare.”
Il ragazzo esordì per primo.
“Ma non ho visto nemmeno chi sei sotto la maschera.”
Lui iniziò ad allontanarsi.
“Meriti di meglio, Charlotte.”
Aveva detto il suo nome, lo sconosciuto a cui non aveva mai detto il suo nome, aveva appena pronunciato quelle nove lettere; lo guardò dritto negli occhi alla ricerca di una risposta ma lui si limitò a darle le spalle e dirigersi verso la porta. Adesso che lui non poteva vederla, si toccò con le dita le labbra, riusciva a sentire ancora quei baci, era ancora stupita ma non sapeva dove dirigere quello stupore: verso il nome mai pronunciato o verso il caos che le aveva lasciato? Realizzò che avrebbe dovuto seguirlo dopo averlo visto aprire la porta e chiudersela alle spalle, corse fino alla porta nonostante quei maledetti tacchi, la aprì ma di lui nessuna traccia, era stato inghiottito dai corpi che ballavano quasi avvinghiati nella pista da ballo.
“Charlotte!”
Sentì urlare Violet chiamandola, ma continuava a cercarlo, con gli occhi, con il corpo, con il cuore.
“Meno male che era solo una boccata d’aria fresca.”
Rivolse a Violet un’occhiata, le annuì velocemente e poi continuò la ricerca, tutto era in secondo piano, la musica troppo forte, l’ennesima canzone con troppi bassi, con troppo ritmo ma tutto era un sottofondo. Violet provò a chiedere un qualche tipo di informazione su cosa avesse fatto, dove fosse andata ma anche lei era stata messa da parte, poco dopo si convinse che fosse inutile cercare e prese ad ascoltare l’amica.
“Sono stata fuori più di un’ora, lo so. Adesso, però, possiamo andare?”
Quasi implorò l’amica.
“C’è troppa gente e si è fatto tardi.”
Vide Violet accennare un “sì” con la testa ed entrambe andarono a recuperare le giacche. Cercarono Mary per dieci minuti buoni ma di lei nessuna traccia, di sicuro era andata in qualche parte della casa con il ragazzo che aveva rimorchiato a metà serata. Poco prima di andare via cercarono la scatola da cui avevano preso le maschere, per posare le loro ma trovarono solo lo scatolone con le maschere dei ragazzi.
“Potremmo tenerla, tanto Mary non se ne ricorderà domani.”
“Facciamo così.”
Tagliò corto Charlotte.
D’un tratto la sua maschera, come se fosse presa da vita propria, scivolò dalle sue mani e lei si abbassò per raccoglierla cercando di non cadere maledicendo le scarpe poco comode, ancora una volta. Nel momento in cui si rialzò i suoi occhi si posarono sullo scatolo con le maschere dei ragazzi e in quel momento intravide la maschera colorata. Era quella indossata da lui e senza pensarci due volte, la afferrò: di quella sera le sarebbe rimasta qualcosa, insieme ai ricordi.


“Sei silenziosa da quando siamo saliti in macchina.”
Provò a dire Violet, cercando di fare parlare Charlotte.
“Lo so.”
“E cos’hai? Si può sapere?”
“Niente, ho preferito rimanere un po’ fuori in terrazzo. C’era troppa calca.”
“Questo ho potuto constatarlo anche con i miei occhi, solo che quando sei tornata eri diversa.”
“Già.”
“Siamo arrivate.”
“Buonanotte Violet.”
“Buonanotte Charlotte.”
“Domani mi spieghi, giusto?”
“Giusto.”
Scosse la mano salutando l’amica e poi si girò in direzione del portone di casa, aprì con le chiavi che sua madre le aveva regalato per il suo diciassettesimo compleanno, salì con l’ascensore fino al suo piano e poi entrò in casa. Un’ondata di aria calda la investì e prima di gironzolare per casa, per svolgere le solite attività post-festa, scese dai trampoli. Quelle malefiche scarpe, oltre ad essere scomode, erano rumorose e non voleva svegliare i suoi genitori per quel motivo. Infilò le pantofole con il testone gigante di Minnie prima nel piede destro e poi in quello sinistro, sfilò la borsa dal braccio e poi  la seguì il cappotto. Non aveva voglia di spogliarsi in quel momento, non aveva voglia di struccarsi, non aveva voglia di fare nulla, la stanza era immersa nel silenzio, lo stesso identico silenzio del terrazzo, di qualche ora prima.
Fu in quel momento che si sdraiò a terra, la testa inarcata verso destra, le braccia incrociate, ma non del tutto, vicino al petto e le gambe, le gambe erano ognuna in una posizione diversa ma piegate su stesse scaricando il peso sui piedi. Si sentì in imbarazzo per se stessa. Non sapeva definire lo stato in cui era, non sapeva se essere felice per la bella serata che aveva trascorso o arrabbiata perché aveva dato un bacio ad uno sconosciuto che tra l’altro non avrebbe più rivisto. Non sapeva se essere grata o furiosa nei confronti del ragazzo, non sapeva se l’avrebbe più visto, non sapeva come avrebbe fatto a riconoscerlo. Strisciò sui gomiti, verso la borsa che aveva fatto cadere a terra poco prima e recuperò la maschera. Aveva solo questa cosa di lui, una stupida maschera colorata che aveva pure preso in giro; si sdraiò nuovamente sul tappeto e iniziò a contemplarla.

Alla luce era ancora più bella.
Alla luce sembrava più colorata.
Alla luce sembrava più viva.

Viva, come si era sentita lei quella sera. Una maschera stava sciogliendo i nodi, le stava dicendo come sentirsi, le stava rendendo le cose più chiare. Era sicura che non lo avrebbe più rivisto, sapeva poco di lui, le aveva solo detto che anche lui andava all’università, che era intelligente ma si impegnava poco e che dopo la laurea voleva prendersi un anno sabatico per girare il mondo. Conosceva i suoi gusti musicali, il suo libro preferito ma nient’altro. Continuò a giocherellare con la maschera, passandosela tra le mani. Lui però sapeva chi era lei, aveva visto il suo volto, sapeva il suo nome, se lui l’avesse voluto, si sarebbero rincontrati. 








spazio autrice.
Il programma di postare un capitolo a settimana è un pò andato a farsi benedire ma non posso postare costantemente se il capitolo viene letto poco. Questo capitolo è molto più intenso rispetto agli altri, è strano essere arrivati già ad un momento importante della storia in pochi capitoli ma, come avrete capito non andrà tutto così bene per loro. Charlotte è invaghita e anche tantissimo, lo potete capire dalle sue parole e soprattutto ora è nel pallone, per la prima volta è qualcosa che non può controllare e la cosa la infastidisce tantissimo! Dato che siamo già al quarto capitolo mi piacerebbe sapere se secondo voi la storia sta prendendo una piega giusta, se la direzione che ho imboccato va bene e se "il tono" è lo stesso dal primo capitolo. Lascio a voi commenti, vi ringraziamo tantissimo per le recensioni, per tutte le letture e spero che questo capitolo vi piacerà ^^ Ho creato un gruppo su facebook relativo alla storia, potete iscrivervi e magari dire che state leggendo, cosa vi piace, non vi piace! Vedete voi ^^ Alla prossima!

Ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 6
*** 5. Una falsa percezione. ***


 

Capitolo 5.


 

Il giorno dopo le lezioni iniziavano alle due del pomeriggio, ma Charlotte non era riuscita a dormire se non per poche ore e il suo aspetto era, ovviamente, cadaverico. Cercò di sistemare le occhiaie con il fondotinta ma fu tutto inutile, Violet avrebbe preso la palla al balzo e le avrebbe detto di vuotare il sacco. Fece un pranzo veloce, la classica insalata di lattuga con il pollo, e poi uscì di casa. Anche quel giorno avrebbe dovuto prendere il treno, ma per una volta non dovette aspettare, dato che era arrivata appena in tempo. Stessa porta, stessi sedili, stessa posizione strategica e stessa gente. Appoggiò la testa sul finestrino e rimase così durante il tragitto, si era sentita osservata tutto il tempo dal ragazzo che il giorno prima le era venuto addosso, ma quel giorno aveva deciso di ignorarlo. Al solito, poco prima che dovesse scendere alla sua fermata si alzò e si sistemò davanti alla porta, si tenne stretta alla sbarra metallica del treno prima di allentare definitivamente la presa e uscire. Qualcuno le venne addosso, ma non si sprecò nemmeno a guardare la persona in faccia, sentì solo delle scuse. Quando prendeva il treno era sempre così, la gente troppo impegnata a scendere non faceva altro che venirle addosso, passarle accanto come un razzo senza considerare il suo corpo e la sua persona: facendola sentire invisibile. Le scuse le sembrarono familiari.

Scusami non volevo spaventarti.

Era lui. Guardò nella direzione opposta rispetto a lei, verso dove era andato lui ma c’era troppa gente. Non riusciva a vedere nessuno, non riusciva a distinguerlo, la prima volta era andato mimetizzandosi con gli altri, la seconda aveva fatto la stessa cosa. Se riusciva a essere così anonimo, identico agli altri, forse aveva ragione a dirle che lei si meritava di più. Continuò a cercarlo per qualche minuto ma, semplicemente, si rassegnò. Era buio, lo aveva visto solo per metà, non sarebbe stata capace di riconoscerlo, era un dato di fatto e non poteva cambiare le cose. Si incamminò, come il giorno prima, verso il palazzo in cui aveva lezione e dopo aver trovato l’aula si andò a sedere in una delle tante sedie disponibili, prese il posto anche per Violet e aspettò in silenzio.
Si disse che aveva sentito male, che non poteva essere lui, che era una di quelle allucinazioni volute, solo una falsa percezione in assenza di uno stimolo reale. Anche se lo stimolo reale, la botta alla spalla, esisteva non voleva dire che quelle scuse, dette con quello specifico tono di voce, potevano corrispondere a lui. Quella era decisamente un’allucinazione per farle avere la sensazione che in realtà lui l’aveva davvero cercata, che alla fine non era poi così insignificante e che forse qualche essere umano maschile poteva anche essere attratto da lei.
“Non hai idea della confusione, Charlotte.”
Violet era arrivata correndo, buttando Mary Poppins sul suo tavolino e alla fine salutò l’amica.
“Immagino.”
Si ricompose un attimo, non voleva che Violet iniziasse a bombardarla di domande, non aveva proprio voglia di risponderle; lei si sedette vicino a Charlotte e riprese un po’ di fiato.
“Hai trovato il libro? L’esame è la prossima settimana.”
“Mi dovrebbe arrivare l’email a breve.” – rispose Charlotte – “Però se arriva dovrei iniziare a studiare e, per ora, non ne ho voglia.”
Si girò verso Violet.
“Almeno ho una buona scusa per non studiare, no?”
“Senza la materia prima, non si va lontano.”
“Esatto.”
Violet sistemò le sue cose, uscì il portacolori, il quaderno, il libro: classico assetto da studio; era solita accamparsi nel banco del giorno nonostante ci dovesse passare pochissimo tempo, l’unico problema era che non fosse a casa sua. Il professore era già mezz’ora in ritardo ma il tempo per lui era relativo, era nei suoi standard arrivare tardi e fin dalla prima lezione era stato chiaro su questo punto. Lapidario. Era arrivato con un’ora di ritardo e pur essendo in difetto non si era scusato, lui era un classico esempio di Dio sceso in terra. Lui era il professore e nessuno poteva dirgli niente su come comportarsi e sul rispetto degli altri individui.
“Ah, Charlotte, le giornate di tirocinio come stanno andando?”
“Normali, ci fanno solo osservare, osservare e osservare. Ma di colloqui individuali ancora niente. Tu, invece, hai fissato la data di inizio?”
“Sì, tra una settimana.”
“Speriamo che vada tutto bene.”
“Lo sai che non parlarne non farà scomparire il problema?”
“Lo so.”
“Almeno, stai bene?”
Charlotte la guardò e con uno scatto veloce uscì dall’aula, Violet la raggiunse poco dopo.
“Ieri sera ho conosciuto un ragazzo.”
La ragazza esordì così, con una frase ad effetto e con un pausa. Si prese un attimo per riformulare i suoi pensieri, per cercare i termini giusti ma alla fine continuò il discorso con le stesse parole che si era detta la sera prima.
“Solo che non ho idea di come si chiami, non ho idea di dove trovarlo e non so nemmeno che faccia abbia dato che Mary ha avuto la trovata geniale delle maschere.”
“E’ solo un ragazzo, Charlotte.”
“Il problema è che lui sa il mio nome senza che io glielo abbia detto, lui mi conosce e io no, e questa cosa mi fa andare fuori di testa.”
Quella frase chiarì le idee a Violet: la cosa era un tantino complicata.
“Oggi non se ne parla di seguire questo cafone di un professore. Aspettami qui, prendo le borse.”
Charlotte annuì.
Si diressero verso le macchinette, presero il solito caffè e poi si andarono a sedere nel posto più isolato, dove nessuno le avrebbe sentite e dove sarebbero potute stare in santa pace.
Charlotte spiegò il tutto con calma, in ordine cronologico e a poco a poco sentì meno il peso di quel macigno che si ritrovava.
“A me da fastidio l’incertezza del tutto. E’ lo stesso principio per cui detesto i primi appelli con una nuova materia.” – fece una pausa – “Non so cosa aspettarmi, non so che domande potrebbero fare e la cosa mi mette ansia.”
“Qui la cosa è parecchio diversa.”
“Lo so, appunto per questo mi sento ancora più ansiosa. Sa il mio nome senza che io glielo abbia detto, sa come sono fatta fisicamente perché mi ha visto, mi ha baciata e poi mi viene a dire che merito di più.”
Charlotte boccheggiò.
“E’ assurdo, Violet.”
“Ora alla domanda che ti porrò tu dovrai rispondermi sinceramente.”
“Ok.”
“Cosa vuoi fare a riguardo? Cercarlo?”
“No.”
Disse quel no di getto, senza pensarci, il suo inconscio glielo aveva suggerito e lo aveva detto così, su due piedi.
“Come no?”
“No.”
Era un no deciso, era quella l’unica cosa sicura di tutta la situazione. Non voleva cercarlo perché le sembrava inutile, perché aveva mille ragioni per non farlo, perché si sentiva stupida. Aveva passato, forse, la serata più bella della sua vita fino a ora; era riuscita a essere sincera, a non essere paranoica, a non assillarsi da sola per il suo futuro ma non poteva rimanere attaccata per sempre a quella sera. Se lui fosse stato davvero interessato a lei, se lei lo aveva colpito particolarmente come aveva fatto sembrare, l’avrebbe trovata; aveva troppe informazioni su di lei per lasciarla andare.
Il discorso, Violet e lei, lo avevano concluso con quel no che aveva il sapore di un imperativo categorico. Come diceva Kant: “Un imperativo categoricodenota un'assoluta e incondizionata richiesta che dichiara la sua autorità in qualsiasi circostanza, entrambi necessari e giustificati come un fine in sé stesso.” Quel no valeva sempre. Buttarono i bicchierotti di plastica nell’apposito cassonetto della raccolta differenziata e andarono a controllare se la lezione fosse iniziata o meno. Il professore aveva chiamato per dire che la sua lezione per quel giorno non si sarebbe svolta e quindi le due amiche decisero di tornare a casa; per quel giorno le preoccupazioni erano finite lì ma non per Charlotte e i suoi pensieri riguardo al ragazzo. Nonostante avesse deciso che non lo avrebbe cercato, continuò a pensare alla sera prima; ci pensò durante tutto il tragitto per tornare a casa, sperò di risentire la sua voce ma non accadde nulla. D’un tratto un brivido di freddo le percorse la schiena,allungò le maniche del maglione e cercò di farsi così un po’ di calore, anche se il calore che cercava era di diverso tipo.

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Si sente invincibile per un attimo, sente il cuore battere all’impazzata.
Non aveva corso, aveva solo camminato velocemente verso l’uscita, sa di avercela fatta, si gira e rigira per vedere se fosse seguito, se lei lo seguisse, ma si limita solo a sorridere. Lui sorride.
Piega il busto in due, appoggia le mani sulle ginocchia. E’ al limite di un collasso ma continua a sorridere e poi inizia a ridere, ride come un folle. Si passa le mani tra i capelli: la prima, la seconda, la terza volta e continua a ridere. “Non ci credo.” sussurra tra sè e sè. Si fa serio per un attimo e poi continua a ridere. Ride di gioia, ride di gusto, cerca di tenere la mano ferma sul petto, ha paura che in un attimo il cuore gli possa scoppiare. L’ha baciata, e le ha sconvolto la vita allo stesso tempo





spazio autrice
I capitoli di mezzo come questi qui sono quelli più stronzi, sono difficili da scrivere e so che in parte rimarrete delusi perchè magari si vorrebbe sapere qualcosa in più su di lui ma penso di aver già lasciato abbastanza xD C'è tanto dal suo punto di vista alla fine, riferito alla sera prima ovviamente, però ancora non si capisce molto XD Sto procedendo lentamente lo so ma se non fosse così la storia non sarebbe in un certo senso reale, la gente è presa dalla propria vita e non può concentrarsi solo su un ragazzo incontrato o si mette alla ricerca folle di quest'ultimo. Il dialogo tra Violet e Charlotte ho voluto inserirlo per fare capire meglio come si sente lei, tra loro c'è questo dialogo onesto e sincero che è raro da trovare ed è bene che abbiano parlato di ciò che è successo, Violet è andata a parare dove Charlotte non sarebbe mai arrivata da sola, cioè su cosa lei avrebbe fatto in maniera concreta dopo la sera precedente. Spero che il capitolo vi piaccia e il prossimo riguarderà solo Charlotte, iniziamo ad addentrarci in ciò che le è successo da piccola ^^ Grazie per le recensioni, per chi segue e grazie alle ragazze del forum che mi sostengono sempre in ogni cosa ^^
Ho creato un gruppo Facebook sulla storia, se volete vedere spoiler, immagini o altro ancora questo è il posto giusto!
Grazie ancora e alla prossima (:

Ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 7
*** 6. Piccoli respiri. ***


 

Capitolo 6.


 

Charlotte non era sempre stata così, diffidente, sulle sue, così che se la tirava. Quando era piccola aveva visto tanti film in tv, mandavano spesso in onda quello con Linsday Lohan bambina, che veniva spedita in campeggio e lì scopriva di avere una gemella, o quello con le sorelle Olsen che ne combinavano di tutti i colori. Aveva sempre guardato quei film con gli occhi lucidi, con tanta emozione ma la cosa che puntualmente le interessava sapere era se alla fine del film le due bambine oltre ad essere sorelle rimanevano amiche, amiche per sempre. Charlotte pensava che l’amicizia fosse al di sopra di un rapporto di sangue, si poteva essere imparentati,non per forza amici, ma se lo si era, niente poteva mettersi in mezzo; sostanzialmente, credeva nell’amicizia e al detto chi trova un amico, trova un tesoro. Il problema è che questa concezione della vita l’aveva portata a fidarsi sempre di chi aveva intorno, a credere che le parole delle persone fossero sincere e che chiunque potesse essere suo amico, non riusciva a capire che c’erano diversi livelli di amicizia e che non sempre ciò che dai, ritorna indietro. Aveva trovato tanti amici ma nessuno di loro era un tesoro, nessuno di loro era così prezioso come quei film americani facevano credere; erano tutti pronti a farti del male, a ridere se ti succedeva qualcosa di male, a spingere un coltello nella ferita piuttosto che toglierlo; tutto ciò non era iniziato durante la sua adolescenza, al liceo, quando le ragazze sono cattive per cognizione di causa, era iniziato prima, alle scuole elementari.



22 Novembre. Charlotte, otto anni.


Si trovava lì ormai da mezz’ora, la ricreazione era già finita ed era sicura che  nessuno sarebbe venuto a salvarla. Charlotte da quando aveva quattro anni soffriva di attacchi di panico, all’inizio erano rari ma poi erano andati via via intensificandosi. Veniva colta da un misto di tensione e paura che si trasformava in terrore, puro terrore; nessuno era riuscito a capire il perché, il medico aveva solo detto qualcosa, in un linguaggio fin troppo specifico e le aveva detto di comprare un inalatore. Lo portava sempre nella tasca destra del grembiule che era solita mettere a scuola e lo usava quando ne aveva un bisogno impellente. Ormai riusciva a capire quando un attacco si stava presentando e proprio in quell’esatto momento, stava iniziando: stava respirando a fatica. Il dottore, in quella occasione, le aveva detto anche qualcos’altro.
Charlotte, se hai una delle crisi e non riuscissi a prendere l’inalatore fai dei piccoli respiri, uno dopo l’altro e riuscirai a respirare, almeno fino ad arrivare all’inalatore.
L’attacco era in agguato, l’ansia la strava travolgendo, la tensione riusciva a percepirla dentro le sue vene ma non sarebbe riuscita a raggiungere l’inalatore. Uno dei suoi compagni di classe, non aveva visto chi nello specifico, aveva preso l’oggetto metallico e lo aveva gettato nel wc. Charlotte aveva cercato di prenderlo sporcandosi di quell’acqua putrida ma proprio quando stava per afferrarlo, avevano tirato la catenella e l’inalatore insieme al resto era stato risucchiato dal condotto del water.
La bambina aveva iniziato a spingere tutti per uscire da lì, per uscire da quel bagno grande pochi metri quadrati, per cercare di respirare qualcosa di diverso rispetto all’odore delle sue mani luride, la cui puzza si espandeva alle  sue narici e si agganciava ai suoi polmoni. Non riuscì a fare niente, le forze insieme al suo istinto di sopravvivenza la stavano a poco a poco abbandonando, lasciandola lì, aldilà di quell’anta di legno, chiusa dal peso degli altri bambini. L’unica cosa che riusciva a chiedere era un perché, che non faceva altro che non avere nessuna risposta.
 La campanella che segnava l’inizio della nuova ora stava suonando ma il compito di chiuderla definitivamente lì spettava a una sola persona, l’ultima al mondo che avrebbe potuto immaginare: Lucy.
“Scusami Charlotte, ma se non faccio così mi escluderanno dal gruppo.”
Le aveva detto quella frase prima di mettere una sedia dietro alla serratura della porta, le stava spezzando il cuore, dilaniandolo in ogni modo possibile e Charlotte aveva pensato che era la cosa più ingiusta da fare a lei; ma che forse c’era un motivo per quell’azione, che forse aveva fatto qualcosa per meritarselo. Lucy era la sua migliore amica, la sua compagna di banco, fino al pomeriggio prima avevano preso un gelato insieme dopo scuola e ora tutto non aveva senso. Si soffermò a pensare a come poteva uscire da lì, l’ora successiva era quella di ginnastica ed era così dispersiva che spesso lei era rimasta seduta in una panchina e nessuno se ne era accorto. Il fiatò le mancò, si sentì soffocare e quella tensione, quell’ansia di prima, stava cominciando a diventare terrore.


Piccoli respiri. Piccoli respiri.


"Ce la puoi fare, Charlotte." Si ripeteva quelle frasi fatte ormai da tanto tempo, troppo tempo, fece in modo che la sua schiena aderisse perfettamente alle mattonelle fredde del bagno e si lasciò scivolare.


Piccoli respiri. Piccoli respiri. Charlotte ce la puoi fare.


In un mese era già la terza volta ma a sua madre non aveva detto niente. Fino a ora era stata in silenzio perché non voleva perdere Lucy, era la prima volta che si univa a loro. Aveva preferito loro a lei, aveva preferito non essere presa in giro, non essere presa di mira, aveva preferito schierarsi contro di lei piuttosto che contro di loro. Charlotte non era stata scelta, lei non valeva la pena di essere scelta, di essere aiutata. Lei non valeva niente perché se la sua migliore amica non l’aveva scelta, nessuno l’avrebbe mai scelta.


Piccoli respiri. Piccoli respiri. Charlotte ce la puoi fare. Solo se vuoi.


Ma voleva? Era stanca.
Non riusciva più a sostenere quell’inferno e aveva solo otto anni, avrebbe continuato a vivere la sua vita legata ad un aggeggio infernale ed era sicura che avrebbe incontrato sempre bambini così. Guardava un punto fisso di fronte a lei ormai da troppo tempo, la testa le era diventa pesante, la vista a poco a poco si stava annebbiando. Non era la prima volta che provava quella sensazione. Sarebbe svenuta da un momento all’altro, lo sapeva, scivolò alla sua destra, vicino alla porta.


Per lei non c’era modo di salvarsi, non c’era modo di essere salvata.


Sentì dei passi andare nella sua direzione, sempre più veloci, sempre più vicini, sentì togliere la sedia, aprire la porta e venirle vicino. Stava sognando ne era sicura, sentiva degli strattoni, qualcuno che chiamava il suo nome. Charlotte mi senti? Qualcuno le stava dando dei colpetti in faccia con la mano ma lei non sentiva niente. Chiamate un ambulanza. Aprì gli occhi per un attimo, guardò distrattamente la figura che aveva davanti ma non ci riusciva, non riusciva a rimanere lucida. Esitò un attimo e poi crollò a terra, del tutto.


Forse era stata salvata.


Aprì gli occhi all’ospedale, sua madre e suo padre erano lì. Sorrise appena perché vide le loro facce preoccupate, sua madre le venne vicino.
“Sappiamo tutto, domani cambierai scuola.”
“Scusa Charlotte, scusami. Scusaci.”
“Perché? Perché a me?”
Sua madre iniziò a piangere, le tenne la testa tra le mani e la guardò dritta negli occhi.
“Tu sei speciale, più degli altri” disse singhiozzando – “E loro non si sforzano di capire, non capiranno mai.”
La strinse forte a se ma Charlotte continuava a non capire, i supereroi venivano venerati perché erano speciali, perché avevano quella cosa in più, se lei era così speciale, perché non la avrebbero mai capita? Perché lei no?



Forse, col tempo, si sarebbe salvata.








spazio autrice
Quando l'ho scritto l'ho trovato molto pesante come capitolo e ho deciso di renderlo conciso ma breve, cercando di pesare le parole quanto più possibile per renderlo piacevole, anche se di piacevole c'è ben poco.  Questo insieme ad altri due o tre capitoli riguarda il passato della nostra protagonista e vi darà modo di capirla meglio, già con questo si aprono tanti scenari, scrivendo il capitolo ho avuto sempre in mente questa frase, su tumblr si vedono set di gif a ripetizione ma ce la vedo molto con Charlotte e quello che ha passato.
The loneliest people can be the kindest. The saddest people sometimes smile the brightest. The most damaged people are filled with wisdom. All because they do not wish the pain they've endured on another soul. 
Solitamente le persone che portano tante cose dentro sono come Charlotte ma vedremo tra un paio di capitoli, nel prossimo flashback, cosa è successo dopo l'ospedale e dopo questo evento così traumatico ma soprattutto come la bambina è riuscita a superare questa situazione. 
Non vedevo l'ora di farvi sapere di più su Charlotte e la sua infanzia e spero che adesso via siano molte cose più chiare. Spero davvero che il capitolo sia di vostro gradimento, non mi rimane che ringraziarvi per la lettura, per le persone che seguono la storia e soprattutto le ragazze che sono qui a commentare ogni singolo capitolo. Non avete la minima idea di quanto io sia grata a voi che spendete due parole per dire cosa pensate della storia. Vi ricordo come sempre che ho un gruppo in cui vado pubblicando aggiornamenti, foto e copertine varie, potete benissimo richiedere l'iscrizione e io sarò felice di accettarvi. Grazie ancora   ♥ 


Ringrazio _eterea_  che sta betando la storia. 

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Capitolo 8
*** 7. Grandi bambini. ***


 

Capitolo 7.


 

La settimana dopo la festa Charlotte sembrava essersi, in qualche modo, ripresa.
L’incertezza che quell’incontro le aveva provocato era volata via ma era impensabile non pensarci ogni giorno, dedicava a lui più che una manciata di minuti: tutto cominciava con un notevole abbassamento dei suoni e dei rumori attorno a lei e continuava, sempre, con lei che fissava un punto non definito del muro che aveva di fronte. Non pensava più a come fosse stata presa alla sprovvista o al fatto che non lo avrebbe più rivisto, ma riusciva a focalizzarsi sulle luci della città, alle loro labbra che si incontravano, bacio dopo bacio, e allo sguardo di lui. Aveva cercato di rimodellarlo nella sua mente, dargli una nuova sfumatura, attribuirlo a qualcuno di già noto ma con scarsi risultati.
Di solito, quel suo momento di presenza fisica e assenza mentale era accompagnato a dei crampi allo stomaco, un attorcigliamento continuo all’interno della sua pancia che tendeva a scomparire con un massaggio. Non aveva idea della causa scatenante di quei momenti, non c’erano odori, immagini o colori che gli facevano pensare a quella sera, succedevano e basta; insorgevano all’improvviso e nei momenti più disparati, nonostante lei riuscisse a capire quando arrivavano non era capace di mandarli via a suo piacimento. Stava iniziando, in quell’esatto momento, e lei non poteva concedersi quei minuti, non poteva perché era nel bel mezzo di un colloquio di gruppo e avrebbe dovuto seguire, ascoltare con attenzione e non pensare ad altro.
Durante quel tipo di colloquio si sedevano tutti in cerchio, il terapeuta iniziava parlando di com’erano andate le cose durante la settimana appena trascorsa e tutti a turno dovevano rispondere, un po’ come gli alcolisti anonimi della televisione. Com’era già successo in precedenza, la figura che aveva di fronte a sé era la dottoressa che la stava seguendo in quell’esperienza di tirocinio, a volte le dava addosso, cercava di rendere Charlotte più diretta, senza peli sulla lingua e adesso, in preda ad uno di quei momenti avrebbe guardato la dottoressa e non il muro bianco di casa sua. Cercò di distogliere quei pensieri, allontanare lo sguardo di lui, le labbra, il loro bacio ma, semplicemente, non ci riusciva; le veniva difficoltoso su ogni fronte. Per quanto avesse detto di no, per quanto avesse provato ad allontanare quella sera dalla mente, non ci riusciva, non riusciva a lasciarlo andare. Dovette attendere che quello stato l’abbandonasse prima di sospirare e ricomporsi.

“Allora, Steve come è andata la tua di settimana?”
Steve era il ragazzo a cui Charlotte si era affezionata di più all’interno della clinica, lo vedeva sempre così timido, con quel pizzico di ingenuità in cui si rivedeva un po’. Lui si limitò a sorridere per poi coprirsi gli occhi con le mani e ridere di cuore, succedeva così con i ragazzi all’interno della clinica, non stavano bene, non avevano un quoziente intellettivo elevato ma sapevano ridere. Erano grandi nella stazza, nell’età ma rimanevano dei grandi bambini agli occhi di Charlotte.
“E’ andata bene, se ridi.”
Riuscì a strappare un sorriso anche alla dottoressa.
“Bene.”
Continuava a ridere.
“Bene, questa settimana abbiamo mangiato la crostata alla nutella.”
“Sono felice per te, Steve.”
“Grazie dottoressa.”
Si asciugò le lacrime dagli occhi e continuò a sorridere.
“E con gli altri come è andata?”
“Ho litigato con Charlie.”
Pensò un attimo a quando fosse accaduta quella cosa, contò con le dita i minuti, le ore e poi i giorni.
“Un giorno prima di ieri.”
Provò a ricontrollare se ciò che aveva detto prima fosse corretto.
“Credo, non sono sicuro”.
Scrollò le spalle, sapeva di non poterci fare molto.
“Hai detto bene, ieri. Avete fatto pace?”
“Sì, subito.”
Si alzò dalla sedia e corse verso Charlie.
“Anche se a volte non lo dice, lui mi vuole bene.”
Lo abbracciò, cingendogli le braccia attorno alla testa, lo stritolò appena, cercò di comunicargli tutto l’affetto che poteva ma Charlie stava iniziando a scocciarsi, non amava quelle manifestazioni pubbliche e quella morbosità.
“Dai Steve, adesso basta.”
Lo riprese la dottoressa.
“Lo sai che Charlie si innervosisce facilmente.”
Come un bambino appena rimproverato Steve si ricompose, si scusò prima con la donna, poi con Charlie e tornò a sedersi nella sua sedia, continuando a scusarsi come se fosse la prima volta.
Le passava così le ore in clinica, cercando di cogliere ogni aspetto, capire cosa infastidiva quei ragazzi e ascoltando con le orecchie ma anche e soprattutto con ogni muscolo del suo corpo. Fino ad ora aveva assistito solo a colloqui in gruppo, mai a uno individuale e, nonostante questo a Charlotte dispiacesse, cercava di farlo notare quanto meno possibile. Avrebbe voluto vedere con i suoi occhi quell’altro tipo di colloquio per conoscere un altro aspetto del lavoro che un giorno avrebbe fatto, un’altra faccia della medaglia, un altro momento nella vita dei ragazzi della clinica che credeva più vero e forse più sincero. Lei voleva conoscere tutto, avere una visuale ampia, piena di informazioni, aveva a che fare con quei sentimenti ogni volta che il colloquio finiva e doveva tornare a casa. Anche quella giornata di tirocinio si era conclusa e, come sempre, Charlotte ripose il camice bianco dentro alla borsa, per poi scivolare fuori dalla porta e passare dallo studio della dottoressa per salutare.
“Dottoressa io vado. Alla prossima settimana.”
“Charlotte, un attimo.”
Rimase spiazzata, cosa poteva volere da lei? Di solito non parlavano mai, si limitava a salutarla con un “ciao” amichevole.
“Entra e chiudi la porta.”
“Sì, certo.”
“La prossima è l’ultima volta che vieni qui, vero?”
“Sì, dottoressa.”
“So che fino ad ora hai assistito solo a terapie di gruppo.”
Fece sì con la testa.
“E ho notato che hai acquisito un certo occhio quindi ritengo che la prossima volta tu possa assistere ad un colloquio individuale.”
Charlotte rimase senza parole.
“Consideralo un regalo per il lavoro ben svolto.”
“Grazie.”
“E’ uno dei pazienti che seguo fuori dalla clinica, lo faccio venire qui per comodità. E’ inutile che te ne parli ora nello specifico, la prossima volta avrai modo di leggere la sua cartella clinica.”
La donna in tutto quel tempo aveva continuato a scribacchiare in alcuni fogli, aveva alzato lo sguardo poche volte solo per capire se la ragazza la stesse ascoltando, e provava a smorzare l’emozione che trapelava dagli occhi di Charlotte facendole capire che ciò che avrebbe fatto non era niente di che dato che lei vedeva questi casi ogni giorno, erano la normalità, per lei. La ragazza non si capacitava del motivo di quel modo di fare, la dottoressa era sempre scostante nei suoi confronti, sempre a comunicarle con il corpo che quello che le stava facendo vedere era normale, che prima o poi sarebbe diventato un’ abitudine, cercava di succhiarle via tutto quell’entusiasmo che manifestava; senza alcuna ragione, senza un motivo apparente.
“Grazie dottoressa, non ha idea di quanto per me sia importante questa cosa.”
“Non ringraziarmi. Ti anticipo solo che il colloquio è fissato per il mese prossimo, quindi sta a te scegliere se finire le ore la settimana prossima o tra un mese.”
“Preferisco tra un mese.”
“Come preferisci.”
Charlotte si limitò a sorridere, non voleva ringraziare più del dovuto, non voleva mostrare tutta la sua allegria per quella notizia, voleva che rimanesse per lei dato che la donna sembrava non comprenderla. L’unica persona che le venne in mente in quel momento, l’unica che avrebbe voluto chiamare era Violet, avevano sperato tanto che quella cosa succedesse e l’amica lo sapeva che Charlotte bramava quel momento dal primo giorno che aveva messo piede in quella clinica.
 “Assisto ad un colloquio individuale!”
“Non ci credo!”
La sentì urlare dall’altra parte del telefono. Era felice per Charlotte, felicissima.
“Charlotte, non sai quanto sono felice.”
“Più di me non puoi esserlo,  ma lo so.”
“Dato che sei dell’umore adatto volevo dirti che stasera Mary ci ha invitate ad un’altra festa, non organizza lei, però è come quella dell’altra volta. Ho pensato che…”
“Violet, possiamo andare, so già cosa mettere. Dobbiamo festeggiare, in qualche modo.”
“Forse potresti incontrarlo, di nuovo.”
Le sembrò di ricevere un secchio d’acqua gelata in testa, con la notizia del colloquio era riuscita, in parte, a dimenticarsi del ragazzo, del bacio di una settimana prima, venne investita da quell’ondata di ricordi con la stessa identica consequenzialità. Tutto l’entusiasmo sembrò affievolirsi in un attimo ma riuscì ancora a sorridere un po’, avrebbe potuto incontrarlo o forse no ma poteva avere una possibilità, una schifosa possibilità.




Come sempre guidava Violet, Charlotte se ne stava comodamente seduta nel sedile del passeggero anche se le contrazioni allo stomaco sembravano non passare. Non era tranquilla e nonostante sapesse che quella sera non sarebbe servita a niente, se non a deluderla ancora, non riusciva a darsi pace. Si passò una mano sulla pancia.
“Charlotte, dai.”
“E’ come se sentissi un conato di vomito imminente.”
Violet rise, sapeva che a Charlotte non era mai piaciuto qualcuno a quei livelli e la invidiava un po’ nel vederla in quel modo, così stupita e così incerta delle sue reazioni fisiche.
“Violet, ti prego. Non ridere.”
“Sei solo strana, e hai quella luce negli occhi.”
Lo disse con una certa spontaneità, gli occhi puntati sulla strada, tenendo le mani salde al volante.
“Quale luce?”
“Quella luce, Charlotte. Quella luce.
“Ah…”
Lasciò la frase incompleta, a mezz’aria, non era sicura di aver capito bene, ma quella sensazione sommata alle fitte alla pancia non facevano altro che confermare qualcosa che Charlotte non era stata capace di ammettere. Le si era smosso qualcosa dentro, nella profondità di quel suo cuore che le sembrava atrofizzato dal tempo e dal non aver mai trovato la persona giusta; un macigno era stato spostato, in maniera quasi definitiva. Si lasciò cullare da quei pensieri e quelle strane sensazioni fino a quando arrivarono alla festa.
“I vostri nomi?”
“Violet Price e Charlotte Matthews.”
“Entrate pure.”


spazio autrice
Ecco il nuovo capitolo, ho voluto soffermarmi ancora una volta sulla vita di Charlotte, anche il tirocinio è un aspetto della sua vita ed è bene anche contestualizzare cosa fa lei durante le giornate, non pensa solo al ragazzo. E' sempre una ragazza di venti anni ed ha un'ambizione alle spalle che prima era molto forte, adesso è un po' affiancata da altro però ha sempre un obbiettivo primario. Violet in tutto ciò la adoro, prossimamente scriverò un bel capitolozzo su di lei per farvela conoscere meglio, è sempre la voce della verità, a volte è come una pulce nell'orecchio di Charlotte ma le amiche servono anche a questo. 
In tutto ciò ci tengo a spiegare il motivo della scelta della dottoressa di essere così "pesante" nei confronti della ragazza, dettaglio che ovviamente non si può sapere dato che il POV è di Charlotte e non della donna, nonostante la dottoressa sia scostante, a tratti odiosa, ha preso molto a cuore Charlotte. Si è rivista tantissimo nella ragazza e ha cercato di smorzarle un pò le aspettative perchè purtroppo l'esperienza di tirocinio non è sempre "valida" e lei l'ha potuto constatare quando era giovane, quindi ha agito in questo modo per evitare che rimanga troppo delusa in seguito. Pensandoci è una cosa molto logica ma Charlotte non ne può sapere niente XD quindi cerchiamo di redimere la figura della dottoressa che poverina sta cercando di proteggere la nostra protagonista. Detto ciò siamo già a buon punto con la storia, se ora stiamo procedendo lentamente (ho preferito farvi inquadrare il "mondo di Charlotte" per bene) le cose si faranno sempre più interessanti, molte domande avranno risposta e vedrete che il prossimo capitolo vi terrà col fiato sospeso, o quasi! 
Siete aumentati nel numero dei seguiti, preferiti e ricordati quindi grazie! Le letture sono parecchie nei capitoli però se è possibile vi invito a recensire, anche due righe sarebbero perfette anche per farmi capire se la direzione della storia vi sta piacendo o meno ^^ Ringrazio come sempre le ragazze del forum che seguono la storia assiduamente e commentano lasciando sempre opinioni splendide.
Vi ricordo che la storia ha un gruppo su facebook : bittersweet memories.


Come sempre,  ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 9
*** 8. Passare inosservati. ***


 

Capitolo 8.


 


Quel posto era raffinato, le tende in raso bianco davano un tocco di tranquillità e i lampadari in cristallo facevano riflettere la luce in mille sfaccettature diverse. Charlotte adorava quel tipo di cose, per l’esattezza le piaceva l’idea di andare in un posto completamente nuovo per vedere come la gente aveva organizzato la propria abitazione. Le feste ormai non si svolgevano più in quei locali soffocanti, in quelli da cui non vedevi l’ora di uscire per via della massa e della poca aria; era tutto su invito, il trucco stava nell’essere inseriti nel giro giusto. Violet era riuscita a inserirsi, e anche bene a quanto pareva. Le feste a cui avevano partecipato negli ultimi tre anni non erano mai state troppo caotiche, forse solo qualcuna ma per il resto sempre tranquillità e se c’era troppa folla andavano via loro. L’appartamento era più grande rispetto a quello di Mary, era su più livelli  e aveva la particolarità di avere la pista da ballo sistemata all’interno di una stanza normale; era abbastanza grande, c’era pure il deejay e non andava ad interferire con il resto della casa. Se volevi ballare aprivi quella porta e ti catapultavi nella musica assordante, se invece volevi passare una serata tranquilla a chiacchierare potevi stare aldilà della porta, magari a sorseggiare un drink dato che c’era un angolo bar abbastanza fornito. In quell’angolo avevi l’impressione di stare in uno di quei bar americani alla Sex and the City con tanto di sgabello alto, per appoggiarsi nell’eventualità che i tacchi troppo alti ti avessero stancata. Per la prima volta Violet e Charlotte ebbero la sensazione che a quella festa ci fosse gente mai vista. La loro città non poteva essere paragonata esattamente ad una metropoli, era grande ma alla fine si conoscevano tutti o per lo meno fino a quel momento loro credevano che fosse così. Salutarono un paio di persone, qualche collega, qualche ragazza conosciuta la settimana prima ma era sempre più evidente che Charlotte era lì solo fisicamente e non con la testa, continuava a guardarsi intorno cercando una sagoma familiare o una voce già sentita. Violet le aveva dato più volte qualche gomitata, tanto per farle capire che stava esagerando e che era a tratti inquietante ma lei continuava, imperterrita.
“Io vado in bagno.”
“Vai pure.”
Charlotte rispose così all’amica, non l’accompagnò, ma si diresse verso il bar; avevano ballato fino a quel momento e aveva voglia di bere un bicchiere d’acqua.
“Scusa.”
Un ragazzo le venne addosso.
“Scusami da morire.”
Aveva lo sguardo basso perché aveva provato a rimanere in piedi dopo il forte scossone che lui le aveva dato e non aveva ancora visto chi avesse davanti. Prese un lungo respiro e posizionò gli occhi davanti a lei, sul ragazzo.
“Non ti preoccupare.”
Concluse quella frase e rimase, metaforicamente, a bocca aperta.
Il ragazzo del treno, quello che l’aveva fatta imbestialire, quello che le aveva sorriso, quello che le era arrivato addosso giorni prima era di nuovo davanti a lei.
“Ciao.”
Le sorrise di nuovo in quel modo, come pochi giorni prima, inarcando quell’ angolo della bocca e il nervosismo si impadronì di lei, si impegnò a tenere a bada le sue azioni tanto che si limitò a fulminarlo con lo sguardo e ad alzare gli occhi al cielo, si pentì di avergli detto di non preoccuparsi, sapevano chi era chi, sapevano di prendere lo stesso treno ma lei non riusciva a sopportarlo.
"Senti, mi dispiace.”
“Per oggi o per ogni volta che mi vieni addosso?”
Insinuò Charlotte.
“Per entrambe.”
Continuò ancora con quel sorriso.
“Vedo che non passo inosservato, allora.”
Allungò la mano verso la sua.
“Io sono Eric.”
“Charlotte.”
Pronunciò il suo nome per tagliare corto, non gli diede nemmeno la mano perché non voleva nessun contatto, incrociò le braccia per fare in modo che lui la lasciasse in pace, poi  gli diede le spalle e si diresse velocemente verso il bagno, era lì che doveva andare.
“Posso offrirti qualcosa per sdebitarmi?”
Era fastidioso e l’aveva pure seguita.
“No.”
Non lo aveva nemmeno degnato di uno sguardo, gli dava ancora le spalle e lui continuava ad andarle dietro.
“Sicura?”
Insistette lui, ancora.
Charlotte continuò ad ignorarlo e si posizionò davanti alla porta del bagno, avrebbe aspettato che Violet uscisse, lui sembrava non demordere, continuava a chiederle se potesse offrirle qualcosa. Fu alla decima volta che la ragazza decise di dire di sì, non perché gli piacesse o altro ma perché Violet aveva già abbandonato il bagno da tempo e un pensiero stupido le si era insinuato in testa, magari il ragazzo del tetto era lì quella sera e se l’avesse vista con qualcun altro avrebbe fatto qualcosa. O magari no, erano tutte congetture mentali senza un punto di arrivo; l’unica certezza che poteva avere era che Eric non era il ragazzo con la maschera, il suo tono di voce era diverso, i suoi occhi erano di un altro colore e quella volta in treno, quando aveva intuito che il ragazzo del tetto fosse lì, semplicemente non c’era nonostante la voce fosse la sua. Era destinata a cercarlo sempre, a guardarsi intorno in continuazione, per lei senza quella maschera lui non esisteva, non aveva un’identità, se non il “ragazzo del tetto” o il “ragazzo mascherato”, come preferiva chiamarlo Violet.
Eric e lei si ritrovarono davanti a un bicchiere di cui sconosceva il nome, aveva ordinato la stessa identica cosa per entrambi senza chiederle cosa desiderasse, un altro punto a suo sfavore e un altro motivo per Charlotte di guardarsi intorno e cercarlo. Iniziò a parlare di come fosse lento il treno, che avrebbero dovuto cambiare i sedili una volta tanto ma lei si limitava ad ascoltarlo e a sorridere quando più le conveniva, tanto per fargli capire che stava seguendo il suo discorso non perché fosse davvero interessata. Non aveva ancora toccato il bicchiere quando Eric la guardò per incitarlo a farlo.
“L’alcool e io non andiamo molto d’accordo. Poi se non sono io a sceglierlo, non ci troviamo proprio.”
Rispose educatamente Charlotte.
“Te lo faccio cambiare?”
“Se vuoi bevilo tu, a me non cambia. Non volevo comunque che mi offrissi qualcosa da bere.”
Eric si portò una mano sul cuore e mimò un’espressione dispiaciuta.
“Così mi offendi.”
“Non era mia intenzione.”
“Sei innamorata di un altro? E’ evidente.”
Uscì quella frase dal nulla, con disinvoltura, con la stessa maestria di un mago che fa uscire un coniglio bianco dal capello nero e, come ogni mago che si rispetti, ebbe modo di scorgere stupore nelle iridi della ragazza.
“In realtà no.”
“Allora diciamo che sei fedele ad un ragazzo con cui non stai?”
“Non sei la persona più adatta con cui parlarne e considerando che sono solo quattro le persone di cui mi fido, tu non rientri in questa cerchia.”
Sorrise anche lei, alzando l’angolo della bocca.
“Così mi fai venire voglia di far parte di quella cerchia.”
“Fattela passare.”
“Sei sempre così simpatica?”
“Solo con chi voglio.”
Continuò a torturarlo con quel sorriso, con quel lembo di pelle ancora all’insù, ancora sfottente, forse più di prima.
“Io però so una cosa, che forse lui non sa.”
“Sì? E sarebbe?”
“L’altro giorno ti ho vista sul treno accarezzare quel libro.”
“Mi piace quello che studio.”
Posò lo sguardo sul centrino che poco prima sosteneva il drink che lui le aveva offerto, aveva la sensazione che Eric la stesse prendendo in giro.
“Lo faccio anche io.”
“Non è vero, stai mentendo.”
“E’ vero.”
“E allora perché lo hai detto?”
“Tu non menti mai, Charlotte?”
“Trattengo le cose per la maggior parte del tempo.”
Charlotte si sentì mancare il fiato, spalancò gli occhi e iniziò a sentirsi terribilmente in colpa, aveva già detto quella cosa, pochi giorni prima a un’altra persona, a colui a cui era fedele senza starci realmente, un altro soprannome era stato aggiunto e lei non faceva altro che sentirlo sempre più vicino. Gradualmente iniziò a sentire le emozioni di una settimana prima, il ricordo dell’odore del vento nel terrazzo sembrò stuzzicarle le narici insieme a qualcosa di più noto, percepì un tocco invisibile sulle labbra e stava per rivivere tutto, ancora e ancora. Scosse la testa e cercò di ricomporsi, non voleva che le sue allucinazioni avessero il sopravvento sulla sua razionalità, sulla sua persona, già era abbastanza ovvio che lui continuasse ad apparire in ogni discorso o frase, ma scatenarle quelle emozioni, no: non glielo avrebbe permesso.
Eric notò che era passata ad un altro mondo, ai suoi pensieri più profondi, capì che Charlotte era diversa dalle altre, le altre ragazze gli avrebbero dato quel tipo di risposte per provocarlo e alla fine portaselo a letto: quella ragazza nello specifico no. Sapeva già che fosse differente, nessuna accarezzava i libri in quel modo, nessuna si imbronciava per un sorriso di troppo o per una botta in treno. Charlotte era unica nel suo genere e anche Eric era riuscito a capirlo.
“Stai bene?”
Chiese lui, esitò un attimo prima di metterle la mano su un braccio.
“Sì.”
Charlotte fece una pausa.
“Si è già fatto tardi quindi devo cercare la mia amica.”
Si congedò con un debole sorriso ma lui continuava a rincorrerla, stavolta solo con la sua voce.
“Ci vediamo al prossimo treno.”
Charlotte si era già girata ma fece cenno di sì con la testa, per fargli capire che lo aveva sentito; tutta l’allegria che aveva sentito la mattina per via del colloquio individuale era già andata via. Non era da lei, non era lei.

 

Se lei avesse accennato a lui, in qualsiasi modo, con una frase, con qualcosa che apparteneva a loro, lui avrebbe agito; senza ripensamenti, senza guardarsi indietro.







spazio autrice. (leggimi solo a fine capitolo)

Siamo già all'ottavo capitolo e finalmente, sarete mooolto contenti, abbiamo scoperto un pò di cose.
Il ragazzo del treno e il ragazzo del tetto non sono la stessa persona, non so se i segnali erano chiari, se magari speravate che fossero la stessa persona così che fosse più semplice ma non è così. All'inizio pensavo di non complicare le cose, fare scoprire tutto con calma ma poi scrivendo di questa festa ho capito che mancava qualcosa, le battute che scrivevo, il dialogo tra Eric e Charlotte aveva un tono diverso e i due ragazzi non potevano assolutamente essere la stessa persona. Eric fino ad ora lo adoro, ha quel sarcasmo, quella battuta sempre pronta che spiazza Charlotte e la sorprende completamente e ha bisogno anche di questo ** Come ben capite la ragazza è presa dal ragazzo del tetto, c'è poco da fare ma Eric lo vedremo, mi sono affezionata troppo a lui per farvelo perdere di vista <3 
Spero che il capitolo via sia piaciuto, che tutto sia chiaro e vi avverto che con questo capitolo chiudiamo una parte della storia e ci avviamo ad un'altra, avremo ancora più risposte, ancora flashback di Charlotte da piccola e soprattutto più Violet ^^
Vi ringrazio per i seguiti e le splendide recensioni, mi fa sempre piacere ricevere i vostri commenti** Infine vi ricordo che la storia ha un gruppo su facebook : bittersweet memories all'interno troverete spoiler, immagini e  avrete modo di capire quando aggiornerò ^^ 
Alla prossima!!



Come sempre,  ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 10
*** 9. Diversa dalle altre. ***


 

Capitolo 9.


 



Andrew quella sera nemmeno voleva andarci alla festa, i suoi amici lo avevano costretto perché negli ultimi giorni non sembrava lui; gli avevano assicurato che si sarebbe divertito e lo avevano trascinato con loro. Non aveva fatto parola a nessuno di Charlotte e della serata della settimana prima, ma era evidente che qualcosa fosse successa.
“C’ è qualcosa di cui vuoi parlarci, Andrew?”
“Mia madre mi sta addosso con l’università e ho troppe cose per la testa.”
“Io penso che hai bisogno di far prendere aria al tuo amico lì sotto.”
Jacob era sempre quello fine, senza peli sulla lingua e che parlava a sproposito per la maggior parte del tempo. Non erano più tornati sull’argomento perché erano convinti che Andrew avesse detto tutto, si sa i ragazzi non tendono a chiedere più dettagli, ad approfondire le cose, lasciano stare ma non perché non importa loro ma solo perché credono che gli stai dicendo la verità. Quale sarebbe il punto nel dire una cosa per un’altra? Nessuno, ma Andrew lo faceva e anche spesso.
Aveva pensato a Charlotte ogni giorno durante quella settimana e aveva rimpianto numerose volte di non essersi tolto la maschera e di non averle detto il suo nome; era fuggito come un ragazzino alla prima cotta adolescenziale, ridendo pure. Il quadro lo rendeva un’idiota su ogni punto di vista, da qualsiasi angolo la guardava la risposta era sempre quella, non aveva mai reagito così ad un bacio. Si era fatto prendere dal panico ed era fuggito, si era sentito come Forrest Gump, dove corri Forrest?, e lui camminava velocemente con il cuore che gli scoppiava fuori dal petto piuttosto che con una scatola di cioccolatini in mano. Poi l’aveva rincontrata alla stazione, le era arrivato addosso senza volerlo, avrebbe voluto fermarla, dirle che era lui il ragazzo del tetto ma si era limitato a mormorare un mi dispiace e ad andare via. Gli si era accartocciato lo stomaco e aveva paura che sarebbe stato troppo imbarazzante per lei, ma soprattutto per lui; fondamentalmente, non sapeva cosa dirle e soprattutto come dirlo.
Tra l’altro non era nemmeno sicuro che parlarle fosse una buona idea, quella sera quando l’aveva vista esprimersi e gesticolare pacatamente per sottolineare i concetti che aveva in testa si era reso conto che lei non sarebbe mai stata adatta a lui. L’aveva lasciata andare perché era troppo, aveva le idee chiare sul suo futuro, sapeva chi era, era determinata, a differenza sua che aveva chiaro solo il numero di volte in cui era stato rimandato agli esami.
Andrew aveva bisogno di una ragazza come Charlotte nella sua vita solo che non era sicuro che a lei bastasse, perciò era scappato, fuggito come il peggiore dei ladri pur sapendo che per entrambi quella sera era stata importante. Si erano messi a nudo, si erano spogliati di ogni maschera e quei baci avevano scatenato in entrambi qualcosa di più profondo che andava a scavare nella loro anima e che andava aldilà di ogni immaginazione. Si rendeva conto che spesso la sua razionalità predominava su tutto, non lasciando spazio a nient’altro e infatti non si spiegava perché proprio lei, perché quelle cose non le aveva mai provate con nessuna delle ragazze che aveva avuto fino a ora e perché lei era così diversa dalle altre. Ammetteva di essere stato superficiale fino a quel momento, spesso seguiva i consigli di Jacob, si faceva guidare da qualcosa che stava notevolmente più sotto rispetto al suo cervello, a muoverlo era qualcosa di fisico ma non se ne era mai pentito, fino a quel momento. Era stato immorale su ogni fronte ma sapeva che a Charlotte non avrebbe mai riservato lo stesso trattamento; ma quelle erano solo congetture, pensieri alquanto inutili dato che non aveva il coraggio di piazzarsi per una settimana davanti alla facoltà di Psicologia e aspettare che arrivasse. Non lo avrebbe fatto perché, appunto, non sapeva cosa dirle ed era sicuro al cento per cento che lei gli avrebbe mollato un ceffone così forte che si sarebbe sentito in tutto il monastero.
Quella sera, avrebbe voluto essere da tutt’altra parte, a cercare di dare un senso alla sua vita e a trovare delle strategie per parlare con Charlotte dato che con molta probabilità se la stava facendo scappare per quel maledetto coraggio che non riusciva a trovare da nessuna parte. Non appena arrivato si era staccato dai suoi amici ed era andato a prendere la solita birra che lo accompagnava in quelle serate inutili. La prima parte della serata la passava sempre così, poi adocchiava qualcuna, faceva finta di ascoltarla e finivano a farlo da qualche parte; non sapeva perché fosse così insensibile, perché non riuscisse a legarsi con nessuno, forse i suoi genitori non erano stati un chiaro esempio d’amore o forse non aveva mai trovato la persona giusta.
Davvero insensibile fino a quei baci, fino a quei brividi e fino a una settimana fa; buttò giù un altro sorso della sua birra, chiuse flebilmente gli occhi e quando li riaprì riuscì a scorgere una chioma rossa, non aveva sperato nemmeno per un momento che Charlotte potesse essere lì, quella sera: non lo credeva possibile. Iniziò a seguirla con gli occhi per svariati minuti, la analizzò attentamente e notò che all’apparenza risultava diversa rispetto alla scorsa settimana, si guardava troppo intorno ed era molto più curata nell’aspetto. Gli passò per la mente che magari era in quel modo per lui, che stava cercando lui, che era rimasta così colpita da volergli parlare ancora e che non era così male rispetto a come si descriveva. In fondo lei non sapeva nemmeno che volto avesse, conosceva solo il suo tono di voce e qualche dettaglio della sua vita, era plausibile che lo stesse ricercando. Scosse la testa e cercò di mandare via quel pensiero, inutilmente.
Più cercava di non pensarci e più vedeva veridicità nelle sue parole.

Charlotte era lì per lui,
cercava lui,
si era vestita in quel modo per lui,
aveva sistemato meglio i capelli per lui.

Si sentì presuntuoso, quel tratto non faceva parte della sua personalità ma intanto eccolo lì; forse, per una volta, poteva anche permetterselo. In mezzo a quei pensieri, a quella presunzione, vide Charlotte sedersi al bar con un ragazzo. La voglia di essere al suo posto, di tornare indietro nel tempo per presentarsi a lei come meritava si attanagliò allo stomaco, spasmi più forti di quando si era trovato nel treno e l’aveva urtata lo colpirono e in quel momento realizzò che doveva fare qualcosa. Era sicuro che se non avesse fatto niente, l’avrebbe persa e forse per sempre, si convinse che se lei era lì, se l’aveva rivista per la terza volta era per un motivo. Ogni cosa accade per un motivo e voleva darglielo lui un senso. Si diresse verso lo sgabello del bar, prese il posto accanto a lei e lei non gli rivolse nemmeno uno sguardo; non pretendeva che fosse così, sapeva che lei non sarebbe riuscita a riconoscerlo senza quella maschera. Stava ascoltando tutto e si era ripromesso che se lei avesse fatto un qualche accenno a loro, avrebbe fatto qualcosa, non sapeva ancora cosa ma un’azione che avrebbe cambiato le cose. Riuscì ad osservarla con la coda dell’occhio e notò le sue mani, erano occupate a giocare con il centrino di carta che poco prima aveva ospitato un drink già bevuto, ci stavo giocando per nervosismo da ormai troppo tempo e il risultato erano quei brandelli di carta racchiusi nelle sue mani.
“Non è vero, stai mentendo.”
“E’ vero. Tu non menti mai?”
“Trattengo le cose per la maggior parte del tempo.”
Eccolo il riferimento che stava cercando. Spesso tendo a trattenere le cose. La vide trattenere il respiro, essersi pentita di quella confessione di troppo e in quella reazione si convinse che avrebbe dovuto cambiare le cose perché con il suo pensiero, che aveva ritenuto malato fino a quel momento, aveva fatto centro.
Lei era lì per lui, lei stava cercando lui, ne era sicuro.
“Stai bene?” chiese il tipo.
“Sì.”
Fece una pausa.
“Si è già fatto tardi quindi devo cercare la mia amica.”
La vide congedarsi con un debole sorriso e sentì la voce di lui rincorrerla.
“Ci vediamo al prossimo treno.”
Era già girata ma fece cenno di sì con la testa.
Adesso lui aveva poco tempo per agire, per fare quel qualcosa che avrebbe cambiato tutto, scolò l’ultima goccia della sua birra ormai calda e si diresse verso l’incerto.



Charlotte era letteralmente fuggita, aveva un senso di colpa enorme e sapeva che tutto ciò non serviva a niente. Eric non le interessava, la intimidiva in un certo senso, ed era rimasta tutta contratta sulla sedia durante quel drink offerto. Non riusciva a sopportarle quel tipo di persone. Se c’era una cosa in cui era brava era il discernere le persone in base alle prima impressioni e lui non l’aveva convinta dal primo istante in cui l’aveva visto sul treno. Era sbagliato pensare a qualcuno in quei termini ma aveva sempre avuto ragione. Iniziò a cercare Violet per tutto l’appartamento e alla fine la trovò a parlare con un ragazzo più grande di lei ma che sembrava la persona perfetta per Violet. Decise di non disturbarla, si meritava di conoscere qualcuno dopo la storia con Matthew e poi era sbagliato trascinarla via ogni volta che si annoiava o che la situazione diventava difficile: anche Violet doveva divertirsi. Si allontanò da dove era l’ amica e iniziò a dare un’occhiata alla casa, era riuscita a vedere solo un unico piano, il primo, così si decise a salire sopra cercando di non farsi notare. L’amica di Mary non aveva specificato dove si potesse o non si potesse andare all’interno della casa, ma Charlotte si mosse con cautela. In quel piano si riusciva a percepire la stessa aria di quello di sotto, anche se c’era un tocco in più di eleganza; la sua attenzione venne colpita da una porta socchiusa. S’infilò lì dentro con la stessa cautela di cui si era armata prima e rimase stupita dalla bellezza di quella stanza. C’erano solo scaffali con tantissimi libri e al centro della stanza un grande tappeto con un divano in pelle sopra; se avesse avuto un posto così a casa sua avrebbe perso pomeriggi interi. La bellezza di quella stanza stava nella quantità di libri, alcuni fin troppo datati, e nell’odore di vissuto che c’era. Si diresse verso uno degli scaffali e iniziò a vedere cosa conteneva, subito gli balzò all’occhio L’interpretazione dei sogni di Freud. Era stato stampato nel 1899, lo stesso anno della prima edizione, Charlotte ebbe un brivido di eccitazione che le percorse tutta la schiena, aveva un pezzo raro davanti. Quel libro era sopravvissuto al nazismo, al periodo in cui Freud era stato considerato sbagliato per via delle sue scoperte, per aver attribuito eroticità al neonato e, soprattutto, per essere nato da genitori ebrei. Si guardò intorno, constatò che non ci fosse nessuno e decise di sfogliarlo.

« Tutti i sogni sono sogni di comodità, ubbidiscono all'intento di continuare il sonno, anziché quello di svegliarsi. Il sogno è il custode, non il perturbatore, del sonno. Il sogno non si occupa mai di inezie; non permettiamo alle quisquilie di disturbarci nel sonno. I sogni apparentemente innocenti si rivelano maliziosi, quando ci si sforza di interpretarli. Il desiderio di dormire… »

Non riuscì a finire la frase che le luci si spensero. Non aveva idea di come orientarsi in quella casa e si pentì di essere salita al piano di sopra senza dire niente. Si sentì in trappola lì dentro, come all’interno di una gabbia in cui non riusciva a muoversi; cercò di orientarsi, muoversi in base a dove ricordava che gli oggetti fossero. D’un tratto sentì la porta aprirsi e poi richiudersi, era arrivato qualcuno.
“Charlotte, sei qui?”
Esitò un attimo, non riusciva a respirare.
“E’ andata via la luce.”






spazio autrice.
Luci spente, buio e la frase finale da chi sarà mai detta?
Abbiamo avuto modo di conoscere un pò di più Andrew, adesso sappiamo chi era chi fino a ora. Probabilmente si era creata un pò di confusione ma come vedete il "mi dispiace" che Charlotte aveva sentito non era totalmente campato in aria e non apparteneva ad Eric ma proprio ad Andrew. Si sono scontrati, lei non è una visionaria pazza e si stanno cercando tantissimo. Per questo capitolo ci tenevo a scrivere qualche parolina ma nient'altro, mi sembra parecchio corposo di suo e credo che spiani il terreno per il prossimo capitolo. Abbiamo chiare alcune cose ma è tempo di capire dell'altro sul passato di Charlotte :)
Grazie mille per tutti i seguiti, preferiti e ricordati, crescete ogni capitolo e ne sono davvero felice. Ringrazio Bruli e lilyhachi che hanno lasciato un parere lo scorso capitolo e Laura, Ilenia, Alice, Alessandra e Dona che passano sempre a darmi i pareri sul forum ^^
Ogni volta a fine capitolo vi ricordo che ho un gruppo su facebook in cui ci sono spoiler, si capisce quando si aggiorna e a volte metto immagini :) 
 bittersweet memories

Al prossimo aggiornamento e spero che il capitolo vi sia piaciuto ^^ 
Come sempre,  ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

 

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Capitolo 11
*** 10. Bambole ed anatre. ***


 

Capitolo 10.


 



Charlotte, dopo l’episodio con Lucy e i suoi compagni di classe, aveva cambiato, necessariamente, scuola; i primi giorni erano stati terribili, si ritrovava sempre in solitudine e a piangere in un qualche angolo del cortile. Poi qualcosa era cambiata, forse perché i bambini erano venuti a conoscenza di tutta l’intera faccenda per mezzo di qualche madre con la lingua troppo lunga o forse perché Charlotte stava, passo dopo passo, guarendo.
Oltre al cambio di scuola, i suoi genitori avevano convenuto che andare da uno psicoterapeuta facesse a caso loro, per quanto li avesse rassicurati come coppia, non avevano mai avuto idea di quanto fosse stato difficile per Charlotte parlare con uno sconosciuto della cosa che l’aveva più ferita al mondo. All’inizio si era chiusa a riccio, le prime sedute erano state piene di silenzi imbarazzanti, la dottoressa Drew le chiedeva qualcosa di generico, lei si limitava a rispondere educatamente e poi iniziava l’osservarsi reciprocamente per i primi cinque minuti e poi per il resto dell’ora. Successivamente la dottoressa, capendo che la situazione era più complicata di quanto apparisse, si decise a farla comunicare in maniera differente: le aveva comprato una bambola, fisicamente identica alla bambina, e gliela aveva regalata.
“Questa è la tua bambola, puoi chiamarla come vuoi.”
All’inizio Charlotte aveva deciso di non accettare quel regalo, cercava di fare capire che in realtà lo disprezzava ma quando la dottoressa era distratta non faceva altro che guardare al giocattolo con i suoi occhi, tutto ciò accompagnato alla voglia di prenderla tra le mani e giocarci.
Se prima la dottoressa non si allontanava dalla seduta per nessun motivo adesso lasciava un po’ di spazio a Charlotte e al suo piccolo alter-ego; il tutto infrangeva un minimo di regole nella conduzione della psicoterapia ma sapeva che, ogni volta che lei abbandonava la stanza, la bambina correva ad accarezzare la bambola ed esprimeva se stessa. Una volta l’aveva vista posare un delicato bacio sulla guancia dell’oggetto inanimato e sussurrarle: andrà tutto bene Char, ti riprenderai.
Da quel momento la dottoressa aveva compreso che Charlotte si era identificata in quella bambola e diceva a lei ciò che in realtà voleva che fosse detto a lei, costantemente. La bambina voleva essere rassicurata, coccolata, compresa, così come lei faceva con quel piccolo giocattolo che aveva chiamato, dimezzando il suo nome in Char.
Quella bambola poteva essere il mezzo per fare guarire Charlotte, una volta per tutte, e la dottoressa dopo quei silenzi che l’avevano frustrata e immotivata trovò nel giocattolo la soluzione. Era stata sciocca a non pensarci prima, a non pensare al gioco come un mezzo, per parlare più forte e chiaro delle parole, doveva aver dimenticato Winnicott e le sue teorie sui bambini da qualche parte nel suo cervello; comunicare attraverso una bambola i propri stati d’animo, prendersi cura di un giocattolo allo stesso modo come si vorrebbe che gli altri prendessero cura di noi, quella sembrava essere la soluzione. Così un giorno aveva pensato bene di spiazzarla con una domanda inaspettata, era sicura che la bambina avrebbe parlato per la bambola raccontando di se stessa, cercando quel briciolo di forza che aveva per vivere.
“Charlotte, dimmi, come sta Char?”
La bambina la guardò spalancando gli occhi, credeva di aver fatto piano, di aver guardato dietro ogni angolo e porta per non essere vista, per non essere sentita mentre giocava con la sua bambola.
“Oggi bene.”
Stava rompendo quel guscio, uscendo dal suo letargo.
“Ma ha passato un periodo difficile.”
“Sai dirmi perché?”
La donna sapeva di essere andata oltre, sapeva che osare così tanto avrebbe potuto avere un esito più negativo che positivo ma tentò lo stesso, aveva fiducia in Charlotte.
“I suoi compagnetti l’hanno trattata male.”
La bambina prese la bambola in mano, come a volerla consolare, abbracciandola, non tenendo conto della dottoressa davanti a sè, non tenendo conto del mondo che avrebbe potuto giudicarla.
“Non è vero, Char?”

La bambola era stata l’inizio, l’inizio di quella che poteva chiamare nuova vita. Le crisi erano a poco a poco diminuite e l’inalatore lo portava dietro più per sicurezza e non perché ne avesse realmente bisogno, o quasi. A scuola le cose andavano sempre meglio, non rimaneva più sola, riusciva a sorridere e spesso i suoi compagni di classe maschi la invitavano a giocare.  Molto spesso la ricreazione la passava con loro e i suoi dialoghi, a differenza delle altre bambine, non si soffermavano sul bambino più carino ma sulla partita di calcio che avrebbe affrontato l’indomani. Inconsciamente aveva deciso che stare dalla parte dei maschi la rendeva immune, era fermamente convinta che nessuno le avrebbe più potuto fare del male fisico. Solo che non si rendeva conto che quel tipo di male sarebbe guarito, che c’era qualcosa che andava aldilà del dolore fisico, qualcosa di più sottile che andava a scavare nell’animo, nell’autostima, qualcosa di cui solo un individuo di genere femminile sarebbe stato capace.
Infatti, il giocare con i bambini, l’essere scelta per prima rispetto alle altre bambine nell’ora di educazione fisica e l’essere diventata la migliore amica del bambino su di cui avevano tutte una cottarella, erano tutti elementi che facevano parlare le bambine. Avrebbero voluto essere come Charlotte, disinvolte e a loro agio ma piuttosto che chiedere come lei ci riusciva parlavano male di lei, ripescavano la storia dell’inalatore per ferirla provando, ripetutamente, a farle rivivere quei momenti di panico già vissuti. Il tempo però era riuscita a guarirla, piano piano, seduta dopo seduta, ma c’era riuscito e Charlotte aveva preso tutto il coraggio che aveva in corpo per affrontarle. Essendo subdole negavano tutto, ma la bambina rispose a tutte quelle parole dette piano che aveva sentito sussurrare, a tutti quei discorsi che aveva sentito passivamente dietro la porta del bagno; rispose a tutto mettendo le cose in chiaro e aveva sottolineato che il bambino in questione era solo suo amico. Il resto delle scuole elementari lo aveva passato tranquillamente, con questo equilibrio che era tutto tranne ciò che la voce nel vocabolario esprimeva.

L’estate dopo gli esami di quinta elementare, i suoi genitori avevano pensato che la casa della nonna in campagna era il posto ideale dove trascorrere il resto delle vacanze.
Charlotte, fino a metà agosto la nonna ci ospita nella casa in campagna.
Una bambina di dieci anni non poteva che esserne allegra, avrebbe passato l’estate con la sua famiglia e la campagna di sua nonna era la fonte di divertimento per ogni bambino. La nonna era rimasta sola, ormai da quattro anni, e si era rifugiata in quella casa per sfuggire alla routine quotidiana che non avrebbe fatto altro che ricordargli l’amore della sua vita, con cui era riuscita a superare la guerra ma non un cuore troppo debole. La loro tenuta era immensa, contava più di cinque ettari di terreno e ormai era diventato il rifugio ideale per ogni tipo di animale, ne avevano pure perso il conto. Il loro soggiorno lì avrebbe fatto comodo a tutti ma soprattutto a Charlotte, le avrebbe fatto bene respirare un po’ di aria sgombra da smog, dato che nell’ultimo periodo per via del caldo torrido si era ritrovata a dover riprendere l’inalatore.
Il viaggio era durato parecchio ma Charlotte lo aveva passato per metà dormendo, i suoi genitori erano soliti portarle un piccolo cuscino e così lei con la scusa che fosse irresistibilmente morbido lo abbracciava e poi cadeva in un sonno profondo insieme a lui. Usavano quella tattica perché erano a conoscenza di quanto la propria figlia odiasse la macchina e come il relativo mal di testa fosse insopportabile. A volte risultavano troppo comprensivi, troppo attenti ma pensavano di non esserlo abbastanza, se lo fossero stati davvero non avrebbero permesso che loro figlia fosse tratta in quel modo da bambini di otto anni. Piccole creature con fin troppa cattiveria.
“Nonna, ciao.”
Corse ad abbracciarla, le cinse il bacino facendo in modo che si accoccolasse sulla sua pancia e sorrise, tanto.
“Che bella la mia nipotina.”
Accarezzò la testa della bambina continuando ad averla attaccata al suo corpo, si erano mancate e quello era il modo più semplice per dimostrarlo.
Le prime giornate erano passate in mezzo alla natura, poi la nonna aveva notato l’interesse che il bimbo dei vicini provava per Charlotte e aveva spronato la nipote a conoscerlo.
“Quello è Andrew, il figlio dei nostri vicini.”
La nonna indicò un bambino poco lontano che stava correndo all’impazzata verso un punto predefinito; poteva essere di uno o due anni più grande.
“Cosa sta facendo, nonna?”
Chiese piano come se non avesse voluto che lei la sentisse.
“Credo stia andando verso il lago. Pochi giorni fa mi ha detto di aver scoperto che delle anatre hanno messo casa lì.”
Charlotte sgranò gli occhi per lo stupore, non aveva mai visto delle anatre, sapeva che quella era un’occasione unica per vederle così si girò con fare indeciso verso la nonna. Come se avesse capito tutto l’anziana signora fece cenno di sì con la testa e Charlotte iniziò a correre nella stessa direzione del bambino.
Aveva corso fino al lago e adesso si ritrovava ad essere stanchissima. Si sedette su dei fili morbidi di erba per dieci minuti fin quando non riuscì a riprendere fiato. Si era nascosta bene e riusciva a guardare Andrew che gettava del pane secco dentro al lago, ma da quella posizione non riusciva a vedere le anatre di cui la nonna le aveva parlato. Non appena si riprese si alzò da quella posizione così comoda e camminò lentamente verso il bambino; da un lato non voleva spaventarlo ma dall’altro sapeva che il camminare in quel modo dava modo di pensare a qualcosa di sospetto quindi accelerò un po’ il passo.
Andrew si girò verso di lei.
“Che belle le anatre, non è vero?”
Charlotte era troppo timida per rispondere e si limitò ad arrossire, lui non le sembrava come i suoi compagni di classe stupidi e sempre pronti a preparare scherzi che l’avrebbero fatta piangere; c’era qualcosa di diverso in lui, che andava aldilà di un bambino, una certa gentilezza che non aveva mai visto in nessuno. Continuava a lanciare il pane alle anatre e a girarsi verso Charlotte ogni qual volta che prendeva altro pane da una bustina di carta.
“Vuoi farlo anche tu? E’ divertente!”
Protese il sacchetto verso Charlotte e lei si avvicinò di poco a lui.
Senza dire niente, Andrew lasciò scivolare un po’ di pane nella manina della bambina e le fece cenno di lanciarlo in direzione delle anatre.
“Se vuoi al posto di lanciarlo puoi fare in modo che loro mangino dalla tua mano.”
Il bambino piegò le sue gambe lentamente e poco dopo si mise seduto vicino alla riva del lago, prese un po’ di pane e lo mise a giacere nella sua mano.
“Vedi? Così.”
Due piccole anatre si avvicinarono a lui e una delle due ebbe il sopravvento nel mangiare dalla sua mano.
“Dai fallo anche tu così anche l’altra anatra mangia qualcosa.”
Charlotte non se lo fece ripetere due volte, seguì i movimenti fatti poco prima dal bambino e si sedette accanto a lui con la mano piena di pane.
L’anatra che poco prima era rimasta delusa nuotò verso di lei e sporse il becco per del cibo, avvicinò la sua mano e cominciò a divorare quei piccoli pezzettini. Charlotte iniziò a ridere, sentiva un formicolio sulla mano e lei adorava il solletico. L’anatra continuò a dimenarsi prendendo quanto più cibo possibile e lei aveva le lacrime agli occhi, anche quando sua nonna le faceva il solletico finiva per fare in quel modo. Andrew, accanto a lei, la guardava sorridendo, nonostante in un primo momento le fosse sembrata timida , gli stava dimostrando che sapeva ridere. Charlotte si riprese poco dopo, si sistemò e si girò vero Andrew che sembrava averla osservata per tutto quel tempo. Prima di riprendere del tutto fiato iniziò a osservarsi i piedi, lo faceva quando era particolarmente imbarazzata. Avrebbe aspettato ancora un po’ prima di ringraziarlo per averla resa partecipe quel giorno, solo che aveva paura di dire le parole sbagliate. Lui non sapeva il suo nome, né tantomeno poteva immaginare che lei sapesse il suo. Così Charlotte si decise a rendere note entrambe le cose.
“Grazie Andrew.”
Lo disse piano, scandendo ogni parola sperando che così capisse meglio nonostante la tonalità di voce bassa. Guardò l’espressione del ragazzo capendo che non aveva idea di come sapesse il suo nome, non si erano nemmeno parlati fino a quel momento.
“Io sono Charlotte comunque…”
Andrew fece capire che in fondo non gli interessava come potesse essere possibile o altro e le tese la mano.
“Piacere.” 
Un movimento rigido seguì quelle parole. L’imbarazzo che non aveva manifestato prima era spuntato in quel momento, Charlotte seguì quel movimento di mano e sorrise tra sé e sé pensando che i ruoli si erano invertiti nel giro di pochi minuti.
“Allora ci vediamo.”
“Sì, ci vediamo.”
Andrew fece un cenno con la mano e la vide allontanarsi.
Charlotte stava andando via, si girò un attimo verso quel ragazzo e vide che i suoi occhi erano ancora rivolti a lei. Inarcò il labbro destro, una piccola fossetta si materializzò proprio poco sotto la guancia e sorrise.
Era un unico sorriso verso lei che non aveva niente a che fare con i suoi compagni di classe e i loro stupidi scherzi, quello lo aveva sottolineato già due volte nella sua testa.
Lei lo sapeva, quella era l’inizio dell’estate più bella della sua vita.






spazio autrice.
E' passato molto tempo dall'ultimo aggiornamento, il capitolo era già pronto ma ho avuto bisogno di rileggerlo troppe volte. Succedono tante cose, si parla ancora di Charlotte bambina e spero che un capitolo più lungo lo apprezziate perchè a dividerlo mi sembrava davvero un peccato. Come vedete il nostro ragazzo misterioso, il nostro Andrew fa/faceva già parte della vita di Charlotte; non so se sia risultato chiaro ma in ogni caso lo spiego, immaginate che Charlotte nonostante la psicoterapia e i nuovi compagni delle elementari non ha più trovato qualcuno che le riservasse le stesse attenzioni come Andrew. Sopratuttto aveva bisogno di vedere un sorriso che fosse solo per lei, che le facesse intendere che nel mondo esiste qualcuno che può volerle bene, quell'estate verrà ricostruita meglio con il tempo e avrete modo di vederla dagli occhi dei due protagonisti. In questo capitolo ci ho messo davvero il cuore, ho cercato di scriverlo dagli occhi dei diversi punti di vista, la dottoressa Drew, Charlotte, Andrew e ancora Charlotte più grande.
E' inutile dire che ormai questa storia fa parte di me.
Come ad ogni fine capitolo ringrazio TANTISSIMO tutti voi che seguite la storia, in queste settimane si sono aggiunte altre due ragazze che mi regalano recensioni splendide, Mary e Microcip_Emozionale ma non posso fare altro che ringraziare soprattutto voi che seguite ogni capitolo con costanza e soprattutto tanto amore, non credevo che sarei riuscita a portare avanti questo progetto.
Grazie a tutti voi che seguite la storia ma soprattutto a Bruli, lilyhachi, Lali, Mary, Alys, Bellins e Ile.
La storia ha un gruppo su facebook, lì aggiorno con immagini, improbabili spoiler e anche progetti futuri per la storia (: lascio il link: bittersweet memories gruppo facebook

Come sempre,  ringrazio _eterea_  che sta betando la storia.

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Capitolo 12
*** 11. Buio limpido. ***


Capitolo 11.


 




“Chi è?”
La voce le era familiare ma voleva esserne sicura.
“Lo sai chi sono, Charlotte.”
“Non puoi essere tu.”
“Ti sei guardata intorno per tutta la sera.”
“Non è vero.”
“Stavi cercando me.”
Il ragazzo si era avvicinato a lei, era stata in grado di sentire i suoi passi sempre più decisi e, adesso, lui si trovava proprio alle sue spalle. Iniziò a sfiorarle il braccio destro con il palmo della mano.
“Non è vero.”
Sussultò a quel tocco gelido.
“Stai mentendo.”
Adesso, dopo aver percorso tutto il braccio, continuò a toccarla solo con un dito, indicandole parti già note del suo corpo; arrivò alla spalla a pochi centimetri dall’incavo del collo.
“Non è vero”.
Non riusciva a respirare, sentì sempre meno aria entrarle dentro ai polmoni e non riusciva a muoversi; ogni singola parte del suo corpo era come atrofizzata. Aveva desiderato tanto quel momento nell’ultima settimana, ma aveva iniziato a dare ragione a quella piccola parte del suo corpo che la invitava a lasciar perdere, per sempre. Era solo un ragazzo conosciuto ad una festa, era solo uno sconosciuto che le aveva rubato un bacio, era solo la migliore conversazione della sua vita, era solo qualcuno che l’aveva capita più a fondo di qualsiasi altra persona.
Si avvicinò ancora di più al corpo alla ragazza, le provocò un brivido non appena le sfiorò il collo con le dita e poi avvicinò la sua bocca all’orecchio di lei. Ebbe modo di sentire il suo debole respiro prima che ripetesse, con più convinzione, ciò che aveva detto prima.
“Stai mentendo.”
Si era guardata intorno fino a quel momento, aveva camminato tra le persone cercando di individuare la sua voce tra le tante, aveva cercato di identificare un dettaglio anche minimo in gente che non conosceva. L’aveva cercato tutta la sera e per la prima volta gli stava mentendo.
“Lo sai che non appena torna la luce potrò vederti?”
“Lo so, ma perché insisti tanto nel volermi vedere?”
Non sapeva cosa rispondere, fra tutti i mille discorsi che aveva immaginato nella sua mente, nessuno era simile a quello, nessuno rispondeva a quella domanda. Aveva immaginato che lei sarebbe riuscita a riconoscerlo tra tanti volti ignoti, aveva sperato di vederlo fuori dall’aula e che lui si presentasse con fare galante come “il ragazzo misterioso”, ma l’unica cosa che non si era mai chiesta era quella domanda. Perché vederlo? Qual era il punto? L’aveva sorpresa.
“A te piace l’idea di me, non me.”
Avrebbe voluto dirgli che non era vero, che in realtà lei lo avrebbe voluto in ogni modo ma si limitò a sviare il discorso, a provocarlo perché quello, Charlotte, lo sapeva fare bene. Non era brava in molte cose ma sapeva come rispondere a tono, lo aveva fatto poco prima con Eric e ci sarebbe riuscita anche con lui.
“Non ho mai detto qualcosa relativo al piacere.”
Non aveva modo di vederlo con gli occhi ma lo percepì con il cuore, le stava sorridendo, stava raccogliendo quel tono di sfida per mandarle ancora di più in panne il cervello, le sue emozioni.
“Lo sai che il linguaggio non è solo verbale?”
Charlotte deglutì a fatica, la sua bocca poteva mentire, le sue parole potevano  ma il suo corpo no e il rimanere lì, lasciarsi esplorare non lo avrebbe convinto del contrario. Il silenzio era totale, lei non sapeva cosa rispondergli, non sapeva come far cadere le sue accuse; non erano in tribunale ma lui l’aveva sfidata in ogni senso.
“Se dici di non essere abbastanza, di essere convinto che a me piace l’idea che ho di te, perché sei qui?”
Colpito. Silenzio, stavolta il suo.
“Non riesco a lasciarti andare.”
Affondato. Charlotte non riuscì a contenersi, erano stati onesti l’uno con l’altra e sarebbe stata onesta anche in quel momento. Entrambi erano consapevoli che quello che avevano condiviso non era solo una serata, una bella serata da sconosciuti ma qualcos’altro. Entrambi erano stati smossi, si era creato un legame che li portava a cercarsi, a rivedersi e a rincorrersi.
Lasciò la sua razionalità in una stanza, buttò la chiave e si girò verso il ragazzo.
“Allora non farlo.”
Andò a sottolineare il concetto baciandolo, la prima, la seconda, la terza volta. Senza sosta. Stava cercando, seppur disperatamente, di dargli qualcosa di suo; qualcosa che se le cose fossero rimaste com’erano le avrebbe dato la possibilità di riconoscerlo tra gli altri. In mezzo ad una folla lei sperava che sarebbe stata in grado di vederlo, un volto noto in mezzo agli sconosciuti, una lampadina al centro di una stanza buia, una perla infondo all’oceano. Nemmeno per un attimo si era pentita di essersi, in un certo senso, avventata su di lui; lui aveva ricambiato quel bacio, quei baci, ed ognuno di essi era sempre più coinvolgente, sempre più profondo; era evidente che da lì a poco avrebbero fatto qualcosa di sciocco, avventato, che avrebbe dovuto avere una collocazione diversa rispetto a quel momento. Charlotte si staccò un attimo per prendere un po’ di fiato, finse di avere un attimo di lucidità, un bagliore di razionalità che le era apparso dal nulla e senza che ne fosse consapevole iniziò a toccargli la faccia con le punta delle dita. Si sentiva come un cieco, che cerca di leggere, che annaspa un attimo nel capire come muoversi, concentrò tutte le sue forze nei polpastrelli per conoscerlo. La fronte era alta, spaziosa e poteva sentire morbidezza nella sua pelle, gli occhi si trovavano proprio sotto le sopracciglia ben delineate; poco dopo scese verso il naso, dritto senza nessuna imperfezione. Poteva sembrare una persona comune, come tutte le altre ma non lo era, se lo sentiva. Continuò toccandogli le labbra, sfiorando con le dita ogni centimetro di quella bocca vellutata, spostò le mani verso i suoi capelli, li sentì soffici al tatto e poi posizionò entrambe le mani sulle sue guance. Sentì un formicolio per via della barba ma riuscì ad accarezzarlo con tutta la dolcezza che aveva in corpo prima di riprendere dal bacio che aveva interrotto poco prima. Sembrava che nessuno dei due volesse smettere, che non ne avessero mai abbastanza, che nessuno dei due avesse la forza per staccarsi e dirigersi verso quella porta e andare via. Al buio era tutto concesso, loro potevano stare insieme, riuscivano a condividere momenti fondamentali della propria vita ma la realtà risultava diversa, amara.
D’un tratto si sentì una voce, sembrava l’amica di Mary.
“La festa è finita tutti a casa.”
Il ragazzo prese la mano di Charlotte e la condusse verso la porta, insieme scesero le scale, ancora con le guance rosse per ciò che era accaduto prima, ancora con il cuore a battere forte, così forte da poter scoppiare, ancora a sentire le loro labbra, ancora mano nella mano.
“Charlotte, Charlotte, dove sei?”
Riuscì a distinguere la voce di Violet tra le altre, c’era un clima di agitazione percepibile, ognuno cercava qualcuno, ognuno cercava gli amici ma Charlotte non voleva andare via, perché sapeva che quell’azione avrebbe segnato la fine. Non sarebbe riuscita a vederlo e tutto sarebbe rimasto come prima, sapeva di avere i minuti contati prima di porre fine alle preoccupazioni di Violet, rispondere all’amica ed andare via. Un pensiero le passò per la mente, qualcosa che aveva fatto per puro passatempo e che credeva che non sarebbe risultato utile.


Stava rigirando la matita tra le mani, era davanti a quel libro da molto tempo ma era da tutt’altra parte; un pomeriggio del tutto senza frutti e continuava a fissare il solito punto nella parete di fronte. Se fino ad ora aveva pensato all’impossibilità di rincontrarlo adesso riteneva che forse non era così difficile rivedersi. Aveva iniziato ad esplorare ogni singola possibilità, ogni frase e alla fine era arrivata alla conclusione che potevano dirsi qualcosa ma lei voleva che lui avesse modo di cercarla veramente. Forse si erano detti poco, forse aveva dimenticato di aver accennato a Psicologia quindi si decise a scrivere il suo nome e il suo numero di cellulare in un foglio. Ne fece diverse copie e poi ne inserì una per ogni borsa, se lo avesse incontrato gli avrebbe dato uno di quei foglietti e sarebbe fuggita via, almeno così era sicura che lui sapeva come trovarla; tutto dipendeva dalla voglia di cercarla.



C’era qualcosa tra di loro e se lui non le permetteva di guardarlo in faccia doveva impegnarsi di più, superare quell’ostacolo e mostrarsi, quando si sarebbe sentito pronto. Prese quel piccolo foglietto di carta e lo mise nella sua mano.
“Non lasciarmi andare. Ti prego.”
Guardò in direzione del ragazzo, strette la sua mano ancora di più e lo baciò per sigillare quella preghiera, che non faceva che renderla ridicola, fragile e indifesa; ma lei, aveva deciso di abbassare ogni difesa con lui.
Lasciò gradualmente la sua mano, lo guardò un’ ultima volta cercando di individuare un qualche tipo di dettaglio in mezzo a quel buio pesto e poi si girò definitivamente. Il loro destino dipendeva da lui.






spazio autrice
magari ve lo aspettavate, oppure no.
Questo è uno di quei capitoli che è difficile da scrivere, spesso non si vuole cadere nel volgare, evitare di scrivere tutto nello specifico ma si vuole lasciare qualcosa al lettore, una sorta di batticuore leggendo, virgola dopo virgola e frase dopo frase. Rileggendo più volte mi sono resa conto che c'è questa sensualità tra i due e che fosse giusto farli toccare davvero e non solo tramite i loro pensieri e i loro discorsi. Non ho altro da dire perchè penso che il capitolo parli per se, siamo arrivati ad un punto in cui è Andrew a dover fare qualcosa, Charlotte ha già fatto abbastanza. Il prossimo capitolo si vedranno tanti pensieri post-serata, spero che il tutto vi sia piaciuto e di ricevere le vostre opinioni anche per capire un pò cosa pensate di questo capitolo; ho scritto poco in queste note anche per questo XD 
Vi ricordo che la storia ha un gruppo facebook a cui potete richiedere di iscrivervi: bittersweet memories.
E ringrazio _eterea_ per il betaggio alla storia ^^

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Capitolo 13
*** 12. Proporzioni. ***



 



Capitolo 12.





“Non ti abbiamo visto più, Andrew.”
Jacob gli cinse il collo.
“Vuoi una sigaretta?”
L’amico, da quando era uscito, non aveva spiccicato parola; continuava a rimanere in silenzio, aveva il foglietto di Charlotte in tasca e aveva la testa affollata da mille pensieri su cosa fare con quel pezzo di carta.  Prese una sigaretta, la accese e aspirò tutto quello che c’era di buono in quegli otto centimetri di tabacco: niente.
“Almeno, sai, te la sei scopata?”
Andrew scoccò un’occhiata all’amico, pensava di essere riuscito a non destare nessun tipo di sospetto su dove era stato in quelle sere iniziate con lui e finite a orari diversi, in posti separati.
“Di che stai parlando?”
“Non sono cretino.”
E su questo Jacob aveva pure ragione, erano coetanei e si sa come funzionano queste cose, se sparisci per il resto della serata è perché sei troppo impegnato a vomitare o a baciare qualcuna.
“Comunque no.”
“Perché?”
“In alcune, ci vedi qualcosa di più.”
In realtà solo in Charlotte, non c’erano altre con cui poterla anche minimamente paragonare.
“Cos’è? Ti sei innamorato?”
Un po’ di fumo gli andò di traverso e tossì cercando di buttare quello in eccesso.
“Andrew, i legami nuocciono gravemente alla salute.”
“Quelle sono le sigarette.”
“Anche loro ma i legami, i rapporti, i sentimenti fanno più male.”
Saggezza alle quattro di notte fumando una sigaretta, solo con Jacob. Quello era uno dei motivi per cui erano diventati amici, una frase a tirarlo su quando ne aveva bisogno o forse quando era troppo ubriaco e fatto per ragionare in maniera lucida, e per mettere su quella corazza che era solito indossare. I sentimenti avevano fatto male a Jacob; ne aveva parlato solo una volta dopo una serata di quelle, come le chiamava lui, devastanti. Era la solita storia, amare tanto una ragazza, dare tanto per lei e poi essere lasciati per uno stupido motivo. Forse la quantità di amore verso qualcuno era proporzionale alla quantità di sofferenza che veniva dopo, dopo quando hai il cuore infranto, quando non riesci ad alzarti dal letto e quando non vuoi uscire per paura di incontrarla. In quel girovagare a vuoto si erano ritrovati vicino al molo, erano saliti sul cemento armato che stava a strapiombo sul mare e avevano continuato a fumare lì.
“Ti prendo una birra?”
“No, Jacob. Per stasera ho bevuto abbastanza.”
“Sei sempre così tu, eh.”
Lo vide allontanarsi, adesso c’erano solo lui, la sua sigaretta, il mare e i ricordi di quella sera con Charlotte.



- - - - - - - - - - - - -



Era già tornata a casa ma era evidente che non riuscisse a dormire. Si era messa a letto ma più che girarsi e rigirarsi tra le lenzuola non poteva fare niente, sentiva ancora quei baci, le mani sul suo corpo e continuava a figurarsi un volto che però non accennava a mostrarsi nella sua mente. D’un tratto si mise seduta a letto, appoggiò la schiena contro la spalliera e si decise a infilarsi un paio di cuffie dentro le orecchie, impostò la riproduzione casuale e quasi chiese al lettore una canzone che facesse per lei, che esprimesse i suoi sentimenti riguardo al ragazzo del tetto e che in un certo la rispecchiasse in quel momento.


Eccomi qui ad aspettare…

Niente di più appropriato.

Questa è la nostra ultima notte ma è tardi - This is our last night but it's late 
E sto provando a non dormire  - And i'm trying not to sleep 
Perché so che quando mi sveglierò, dovrò scivolare via - Cause I know when I wake I will have to slip away


Esattamente come lei, la sera prima. Alla fine era andata via, aveva lasciato un pezzettino di carta in mano a quel ragazzo ed era andata via. Adesso non riusciva a dormire per tutta quell’adrenalina che ancora aveva in corpo ma soprattutto perché non voleva dimenticare tutto, non voleva lasciarsi alle spalle quella serata, non voleva addormentarsi perché sapeva che si sarebbe di nuovo allontanata da lui e poi sarebbero passati altre ore, altri giorni, sapeva che avrebbe rivissuto gli stessi momenti della settimana prima e non sapeva se ce l’avrebbe fatta, se il suo cuore fosse capace di resistere a tutto questo. La canzone continuava a suonare, a scorrere e ogni verso sembrava sempre più adatto a lei, a lui, a loro.  

Perchè alla luce del giorno saremo per conto nostro -  Cause in the daylight we'll be on our own 
Ma stanotte ho bisogno di stringerti così vicina - But tonight I need to hold you so close



Forse avevano bisogno l’uno dell’altra solo per quelle sere, quelle in cui si sentivano troppo soli per stare separati, tanto per passare la serata in maniera differente,  ma se fosse stato così non si sarebbe spiegato il motivo per cui lui aveva detto quelle frasi. Non riesco a lasciarti andare. Sentiva che con lei era sincero in ogni modo, dietro una maschera, dietro il buio, dietro tutto riusciva a sentire lui e la sua onestà che non faceva altro che farle battere il cuore ogni volta che sentiva sussurrare qualcosa. Ma forse non era così, il volersi così tanto, la percezione di essere andati oltre i semplici confini di “due sconosciuti” era solo un’illusione; forse era tutto nella testa di Charlotte, forse lui aveva pensato che quella potesse essere una bella sfida e che forse poteva anche approfittarne. Alla fine ci aveva ricavato un bel bacio la volta prima e la seconda volta, magari, con tutto questo fascino del ragazzo impossibile e senza volto le avrebbe aperto le gambe senza pensarci due volte. Solo che non era andata secondo i suoi piani; ma quali erano i suoi piani?
Se fosse stato così, lei c’era cascata come una stupida. 
Forse non era quello che credeva e si era lasciata prendere dagli eventi. Sentì un vuoto dentro di sé, enorme, non sapeva come era riuscita a ritrovarsi così in basso, così triste in meno di un’ora.



- - - - - - - - - - - - - - - - -



“Jacob, pensi che la dimenticherai mai?”
“Chi?”
Andrew cercò di fargli capire con il suo sguardo di chi stessero parlando.
“Ah…”
Bevette un sorso del cocktail appena preso.
“Non credo.”
Poi buttò giù il resto, come se fosse uno shortino e non un bicchiere di plastica stracolmo; aveva preferito tutte quelle sostanze per non affrontare il mondo, gli altri e i suoi pensieri che gli facevano notare giorno dopo giorno dove avesse sbagliato.
“Le hai più parlato?”
“Quale sarebbe stato il punto, nel parlarle?”
“Magari una spiegazione.”
“Voleva lo stronzo, quello che la teneva sulle spine e io, quando mi innamoro, non sono capace di farlo. Che senso ha diventare un emerito coglione con la persona che ami?”
“Nessuno.”
“Appunto.”
Jacob aveva il bicchiere, ormai vuoto, tra le mani; cercava un ultima goccia che lo aiutasse a non ritornare lucido, a non riprendere tutti quei suoi ricordi.
“Andrew io penso che questa ragazza ti ha preso e anche tanto.”
“Non è vero.”
“Non ne vuoi parlare, ci dici bugie per non farci indagare più di tanto, sparisci nel bel mezzo di una serata.”
“Mi sento attratto da questa ragazza, non voglio solo farmela, è come se la conoscessi da una vita.”
“Allora lo vedi che ho ragione?”
“La prima volta che l’ho vista, alla festa in maschera della ragazza dal nome insignificante. Come si chiamava? Non me lo ricordo mai.”
Mosse la mano verso Jacob per fargli dire il nome.
“Mary?”
“Sì, ecco. Lei.”
“L’ho vista parlare con una sua amica, ho sentito pure il suo nome e mi è piaciuta subito, parlava bene, era vestita benissimo e ammetto che all’inizio volevo rimorchiarla e procedere con le solite cose.”
“Perché non lo hai fatto?”
“L’ho persa di vista e dato che mi sentivo poco lucido credevo di essermela sognata. Poi mi sono fatto dare un po’ di caffè per svegliarmi, stranamente me lo hanno messo in una bottiglia di birra e sono uscito fuori, in quel terrazzo. Hai presente?”
“Si, c’era una bella vista.”
“Mi metto sopra le tegole, continuo a bere il caffè formato famiglia e poi la vedo, di nuovo. Era uscita in terrazzo, guardava il mondo ed è inutile dire che ero sorpreso e mi sono ritrovato a sputare il caffè.”
“E lei non se n’è accorta?”
“Dopo. L’ho rassicurata di non essere un maniaco e a quel punto abbiamo iniziato a parlare. Bevevo il caffè per svegliarmi, per capacitarmi di quello che avevo davanti, sicuramente le sarò sembrato un alcolizzato. Mi sono trovato bene, direi benissimo, mi ha ascoltato, l’ho ascoltata e questa cosa non mi era mai successa.”
“Lo so. Di solito nemmeno le ascolti.”
“Appunto. Poi la bacio e il cuore mi batte fortissimo.”
Jacob aveva iniziato a ridere.
“Tu ridi, mi stava uscendo dal petto.”
“E cosa hai fatto?”
“Me ne sono scappato.”
“E i piani originari?”
“Sono andati in frantumi alla sua prima parola.”
"Cazzo."
L'amico se ne uscì così. Andrew si aspettava un qualche tipo di risposta più complessa ma niente.
"E poi? Che altro è successo?"
"L'ho incontrata in treno l'altro giorno, mentre stavo venendo da te, ci siamo scontrati, le ho chiesto scusa e me ne sono scappato per la seconda volta. Non sono riuscito a salutarla, l'ho solo osservata nel vagone per tutto il tempo, sembrava pensierosa."
"Mi sa che, anche lei, è abbastanza presa."
"Perché anche? Io non sono preso."
"Andrew, ci sei dentro fino al collo e scommetto che anche stasera vi siete visti."
"Sì."
"Mentre mancava la luce?"
"Sì. Si era guardata intorno per tutta la sera."
Più ne parlava e più sembrava reale quella situazione.
"L'ho sentita parlare con uno sconosciuto e ha detto a lui la stessa cosa che aveva detto a me la settimana scorsa."
"Coincidenze."
"No."
Andrew tuonò quella risposta perché sapeva che non era vero.
"Dopo averla detta se n’è pentita, l'ho visto dai suoi occhi."
Jacob scosse la testa, ormai il suo amico lo aveva perso del tutto.
"E cosa è successo al buio?"
"Ci siamo baciati, ho provato sensazioni più intense dell'altra volta e poi quando hanno detto di tornare a casa, lei mi ha baciato ancora e mi ha lasciato un biglietto."
"Fallo vedere."
Lo prese dalla tasca e lo mostrò all'amico che lo lesse ad alta voce.
"C'è il suo nome, il suo numero di cellulare, perché non la chiami?"
"Non saprei come comportarmi."
"Sembri un ragazzino."
Jacob buttò il bicchiere nel cestino e accese l'ennesima sigaretta, guardando il mare e le luci della città. Andrew si girò i pollici, imbarazzatissimo, e poi sussurrò più a se stesso che all'amico.
"Lo so."
"Ma perché lei non ti ha cercato?"
"La scorsa volta avevo la maschera, lei l'aveva tolta ma io no. In treno, ovviamente, lei non aveva idea di chi fossi e stasera poco prima che entrassi nella stanza in cui lei si trovava era andata via la luce."
"Andrew te la gestisci tu la situazione. La prossima mossa è la tua."
Il ragazzo annuì e i due ebbero modo di guardarsi per un po’. Jacob lo aveva compreso, aveva fatto le domande giuste e l'ultima frase che aveva detto racchiudeva tutto. Era lui a dover fare la prossima mossa, era lui che avrebbe dovuto decidere se chiamarla o meno, il coltello l'aveva dalla parte del manico: l'avrebbe ferita definitivamente o avrebbe fatto rimanere un grande punto interrogativo su loro due?
Quel tipo di sentimenti, di emozioni, si provavano una volta nella vita e lui era riuscito a provarli solo con lei ma forse non era in grado di provare quelle emozioni; sarebbero rimaste all'inizio ma poi sarebbero volate via, come i sentimenti che suo padre e sua madre avevano provato l’un l’altro, prima che scomparissero e venissero risucchiati da quel vortice di tristezza e abbandono che avevano caratterizzato il Natale dei suoi dodici anni. I suoi ricordi iniziavamo da quel giorno, prima non esisteva niente.



 
 

 spazio autrice.
Eccoci con il nuovo capitolo, c'è stato un po' ad arrivare perchè ho dovuto un attimo riordinare tutto nella mia mente e nella storia. Questo capitolo penso sia stato necessario, finalmente capiamo un pò di Andrew, sappiamo che lui conosce il nome di Charlotte per un motivo e vediamo tutto attraverso i suoi occhi, come ha vissuto e ha sentito gli eventi. Conosciamo anche qualcosa di Jacob e il motivo per cui si è imposto di essere superficiale con il mondo; come potete vedere anche Andrew ha un suo passato, i suoi ricordi iniziano nel Natale dei suoi 12 anni ma vi faccio capire meglio.
L'estate di Charlotte dalla nonna è stata durante i suoi 10 anni, quando vede Andrew lei sa che lui è un po' più grande, la loro differenza di età è di due anni; quindi quell'estate Charlotte aveva 10 anni e lui 12. Il compleanno di Andrew è il 15 Gennaio, quello di Charlotte è l'8 di Maggio, quindi se vi fate due calcoli avrete la risposta che la fine del capitolo vi ha suscitato: Andrew si è dimenticato anche di Charlotte?
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, so che è di passaggio, che è una sorta di ripasso della storia ma ci sono alcuni parallelismi tra lui e Charlotte (Mary XD) che mi hanno fatto sorridere! Buona lettura e grazie a tutti, a chi segue, chi mette tra i preferiti e grazie alla ragazze del gruppo facebook e a coloro che commentano ogni capitolo con tanta pazienza **
Ieri ho pubblicato una oneshot introspettiva "Remember me, Special Needs." se avete tempo mi piacerebbe ricevere una vostra opinione (:
Vi lascio il link al gruppo, se siete curiosi degli spoiler e soprattutto di cosa succederà nei prossimi capitoli il gruppo è il posto giusto :DD bittersweet memories : gruppo facebook!

ps: la canzone è daylight dei maroon 5!
ringrazio eterea che beta la storia ^^

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Capitolo 14
*** 13. Indugiare. ***



Capitolo 13.







Essere affettuosa con sua madre non era da lei, dopo tutto quel tempo non riusciva ancora a perdonarle parecchie cose, eppure si era ritrovata a darle un bacio veloce prima di uscire di casa.
“A cosa devo tutto questo affetto?”
“A me sembra minimo.”
La sera prima si era addormentata da un momento all’altro, aveva sentito una stanchezza crescente farsi spazio dentro di sè ed era caduta nelle braccia di Morfeo. Svegliarsi senza aver dato un senso alla sera prima, l’aveva fatta alzare con ancora più confusione ma poteva farci poco e sperava che Violet l’avrebbe aiutata in quell’arduo compito, anche se sembrava vederci un lato positivo. C’era speranza in Charlotte, la volta scorsa c’era solo confusione, adesso un barlume di aspettativa si era affacciato su di lei e, per la prima volta, non lo respingeva. Le sue intenzioni non erano chiare, questo era più che evidente, ma adesso lui aveva un nome, un cognome e un numero. Poteva sembrare una zombie ma almeno era una zombie speranzoso. Certe parole di alcune canzoni le sembravano familiari, forse fin troppo, e non riusciva a togliersi quell’espressione dalla faccia, era un misto tra aspettativa e il solito sorrisetto di nervosismo che la accompagnava in quelle giornate incerte, colorate di grigio e con tante nuvole che sbiadivano il cielo.
Aspettava come sempre il suo treno, quello delle nove e un quarto perché quello delle nove lo aveva appena perso e aspettava anche qualcos’altro, aveva impostato per la prima volta nella sua vita la suoneria al cellulare. Avrebbe dovuto guardarlo in continuazione ma le sembrava ovvio che lui non avrebbe chiamato subito, non avrebbe mandato un messaggio di amore il giorno dopo, sapeva che lui aveva bisogno di tempo e lei era disposta a dargliene. Le sembrava di essere tornata indietro, aspettare qualcosa da un ragazzo e reprimere la voglia di guardare in continuazione il cellulare; sorrise tra sé e sé e si rese conto di essere un po’ patetica.
“Cos’è quel sorrisetto?”
Aveva già notato Eric prima ma le era sembrato sufficiente ignorarlo: magari lui si era dimenticato della sera prima e invece no. A quanto pareva non era così che stavano le cose, forse per lui aveva un qualche tipo di importanza.
“Quale sorrisetto?”
“Sembri nervosa.”
“Come ti ho detto ieri, non sei la persona adatta per queste cose.”
“E come ti ho detto ieri, mi piacerebbe fare parte di quella cerchia.”
Stavano l’uno accanto all’altra, Charlotte non lo aveva nemmeno guardato negli occhi, entrambi aspettavano che arrivasse quel treno guardando alla propria destra ma solo uno dei due sperava che il tempo si accorciasse. La ragazza guardò impaziente l’orologio, mancavano ancora cinque minuti all’arrivo del treno.
“Senti, Charlotte.”
Eric prese la mano sinistra della ragazza e la tenne con tutte e due le sue.
“Ricominciamo da capo, facciamo finta che non ti sono mai venuto addosso.”
Si schiarì la voce.
“Tabula rasa.”
Charlotte lo guardò sottecchi, sentiva un lieve tono di presa in giro come la sera prima, lo scrutò un attimo cercando di leggere le sue intenzioni ma non riuscì a vedere niente. Credeva che forse avrebbe potuto assecondarlo, forse sarebbe stato il caso di iniziare tutto da capo; in fondo non lo conosceva, aveva costruito tutto su un pregiudizio ma d’altro canto le sue sensazioni insieme alle sue prime impressioni non l’avevano mai tradita. Ritrasse la mano velocemente, aveva indugiato troppo in quel calore.
“Non adesso.”
“Il tuo ragazzo è geloso?”
Insinuò Eric.
“Vedi, dovresti smetterla con queste provocazioni.”
Rispose gelidamente Charlotte.
“Scusami, allora.”
“Se ci riuscissi potremo anche ricominciare da capo.”
Charlotte non ebbe modo di vederlo ma lui stava sorridendo.
Si sentì il treno arrivare da lontano, Eric entrò prima di lei e si posizionò nel solito sedile, quello arancione, mezzo rotto, tremolante; attese che Charlotte facesse la sua mossa ma lei non avrebbe mai rinunciato al suo di sedile, ancora non erano pronti ad ascoltarsi. Il viaggio sembrò più lungo del solito ed Eric la osservò durante tutto il tragitto, a volte i loro sguardi si incrociavano, gli occhi di Charlotte indugiavano qualche momento in più del dovuto ma non avevano più avuto modo di parlare; si erano salutati con un cenno di testa tanto per non essere maleducati ma, a Charlotte, quel ragazzo continuava a metterla in soggezione. Un tipo di sentimento che non provava nemmeno con il ragazzo mascherato, con lui riusciva ad essere più sciolta ma con Eric no. Fondamentalmente quest’ultimo l’aveva presa in giro per qualcosa che adorava fare e non voleva essere sminuita per quello.
Quella mattina, più delle altre volte, aveva bisogno di Violet, lei sarebbe riuscita a rendere tutto chiaro, magari sarebbe riuscita a districare quella nebbia che la stava avvolgendo quasi soffocandola.
Si erano date appuntamento un’ora prima rispetto all’inizio della lezione per fare colazione e per raccontarsi della serata di ieri, aveva atteso un altro po' e poi Violet era arrivata.
“Raccontami del ragazzo con cui ti ho vista parlare prima della mia sparizione.”
“D’accordo.”
Si sedettero nel primo tavolo disponibile, prenotarono velocemente la colazione e poi Violet iniziò a parlare.
“Si chiama Steve, ha ventisei anni e ha una carriera da chirurgo appena avviata. Poi lo hai visto, no?”
Charlotte annuì ma venne distratta dal telefono di Violet che squillava senza sosta.
“Come mai non rispondi?”
“E’ il numero di Matthew e non ho voglia di rispondere.”
“Non sono una sua fan ma io ti direi di farlo.”
Cercò di convincerla con i suoi occhi, per quanto odiasse Matthew e lo ritenesse un emerito idiota pensava che Violet lo avrebbe dimenticato solo nel momento in cui sarebbe stata capace di parlargli senza alcun problema, senza nessun tipo di risentimento.
“Okay.”
Schiacciò il verde del pulsante e rispose.
“Dimmi Matthew.”
Roteò gli occhi.
“Perché vuoi vedermi? Non ne ho assolutamente voglia.”
Aprì leggermente la bocca.
“Non ci credo che sei dietro di me.”
Charlotte guardò alle spalle di Violet e lì c’era un Matthew sorridente; lo vide alzarsi e sorridere ad entrambe.
“Buongiorno donne.”
Si limitarono a guardarlo.
“So che non posso parlare da solo con Violet quindi volevo prendere un appuntamento con te, ci sono molte cose di cui vorrei parlarti.”
“Tipo? L’hai pure tradita e vorresti dare spiegazioni?”
“Charlotte vedi che ce l’ho una bocca.”
Arrivò la ragazza del bar con i cornetti e le due cioccolate calde.
“Il ragazzo si aggiunge a voi?”
“Assolutamente no.”
Lo dissero all’unisono, intrecciando le loro voci e la cameriera ebbe modo di intuire la situazione tanto che annuì e andò via senza scomporsi.
“Allora?”
“Voglio parlare con te, da soli.”
“Te l’ho detto mille volte, puoi fare di tutto ma se mi tradisci non hai più possibilità.”
“Va bene, non vuoi ascoltare.”
Cercò qualcosa nel suo giubbotto di pelle, scavò in tutte le tasche e alla fine recuperò una busta.
“Qui c’è tutto quello che devi sapere. In ogni caso mi dispiace.”
Si era alzato, aveva sistemato la sedia e poi si era avvicinato ai capelli di Violet, aveva inspirato profondamente il suo odore e le aveva posato un dolce bacio sulla nuca.
“Ciao anche a te, Charlotte.”
Le due ragazze erano rimaste allibite, c’era un qualche tipo di cambiamento nell’aria, aveva colpito anche Matthew e adesso non facevano altro che guardarsi.
“E ora, che faccio?”
“Leggila.”
Violet aprì piano la busta e si immerse nella lettura, non aveva idea di cosa avrebbe letto.


- - - - - - - - - - 
 


Violet e Matthew si erano conosciuti in una mattinata di primavera identica a quella, con tanto di vento e piumino invernale. Lei aveva diciassette anni, lui due più di lei e il caso li aveva fatti incontrare, perché si trattava di quello, di destino, fato, qualsiasi nome avessero mai attribuito a quella cosa, era di quello che si stava parlando. Due persone con gusti, interessi, scuole e giri di persone assolutamente diverse che un giorno si incontrano grazie a un gelato alla fragola.

Se quella volta lui avesse percorso da solo la strada di casa senza il suo amico, non avrebbe mai fatto quella scommessa.
Se quella volta Violet fosse uscita un’ora dopo come era solita fare, l’occasione non si sarebbe nemmeno presentata.
Se quella volta lui non avesse preso quella strada per tornare a piedi a casa, non si sarebbero mai incontrati.
Se quella volta lei non avesse avuto voglia di un gelato alla fragola, non ci sarebbero mai stati loro due.
Se solo una di quelle cose si fosse avverata, Violet non starebbe ancora maledicendo quel giorno di primavera di troppi anni prima.



“Quindi ti piace la fragola?”
“Scusa, ci conosciamo?”
Iniziò a ridere e Violet continuò a mangiare il gelato alla fragola con il cucchiaino di plastica, si sedette comodamente sulla panchina e aspettò che lui le rispondesse, quel ragazzo era davvero buffo.
“Ho fatto una scommessa con il mio amico lì, in fondo.”
Provò ad indicare l’amico senza che lui se ne accorgesse, continuando a sorriderle, forse assurdamente cercava di tranquillizzarla ma lei continuava a guardarlo con un misto di indifferenza e fastidio, a ogni modo era più concentrata a mangiare il suo gelato che sembrava si stesse sciogliendo piuttosto che rispondergli.
“Se mi scrivi il tuo numero su questo foglio ti lascio in pace.”
“Ma quanti anni hai? Due?”
Violet sbatté le palpebre velocemente, ora era visibilmente infastidita.
“Ne ho diciannove.”
Mangiò un altro cucchiaio di gelato e poi iniziò a scrutarlo dalla testa ai piedi, lo trovava interessante ma non erano quelli i modi per chiedere un numero di cellulare; se ne infischiava della scommessa, poteva anche perderla, non voleva essere un trofeo, un foglio con un numero accanto a tanti altri.
“Sai che non succederà, giusto?”
Il viso di Matthew cambiò espressione, forse era stata la prima a dirgli di no, a non dargliela vinta ma a lei non importava.
“Non siamo oggetti noi donne, e poi il modo di chiederlo è sbagliato.”
Il ragazzo riusciva a sentire l’odore di fragola emanato dal gelato, riusciva a distinguere pure l’odore di balsamo della ragazza ma non riusciva a staccare gli occhi dai suoi: era la prima.
“Puoi darmi un numero sbagliato.”
“Non succederà.”
Violet scosse la testa.
Potrei essere l’amore della tua vita.”
“Non credo, i tuoi modi lasciano a desiderare.”
“Dici?”
“Io voglio un uomo di classe, non un ragazzino pure maleducato.”
“Mai dire mai.”
Le sorrise e raggiunse il suo amico, Violet continuò a mangiare il suo gelato, continuò ad assaporarlo cucchiaio dopo cucchiaio e vide lui scrollare le spalle, parlare con l’amico e poi andare via. Poco prima le rivolse una lunga occhiata, l’aveva incuriosita e quella chiacchierata sarebbe stata la prima di tante.


Il loro primo bacio era stato su una panchina due mesi dopo.
Sembravano due bambini alla prima esperienza, timidi e insicuri.
Nessuno sapeva da che parte andare, come baciare, dove mettere le mani, sapevano solo di avere il cuore battere a mille, nient’altro. 
Per Violet era comprensibile, era il suo secondo ragazzo in assoluto ma per Matthew no. Non avevano ancora avuto il tempo di discutere bene l’argomento “vecchie storie”, avevano ben chiara solo una cosa: erano attratti l’un l’altra.
Erano stati dieci minuti buoni a baciarsi, senza prendere fiato, con le aspettative raggiunte del tutto e a ringraziare il cielo che fossero su una panchina e non sotto un tetto in cui sarebbe potuto succedere ben altro. Erano ragazzini con gli ormoni a mille, non robot privi di emozioni.


La prima sorpresa di Matthew era stata una scatola che conteneva 70 cioccolatini, uno per ogni giorno che avevano passato insieme, 62 al cioccolato a latte, il gusto preferito di Violet, 8 al cioccolato fondente, il gusto odiato dalla ragazza. Per sottolineare che non sempre erano andati d’accordo, a volte avevano litigato, c’erano stati giorni al cioccolato fondente, al cioccolato che lei non piaceva e altri in cui erano riusciti ad assaporarsi bene, a fondo, in un prato sotto le stelle, su una panchina di un parco, in un letto con le lenzuola blu notte a fare l’amore, in 62 modi diversi ma sempre con una sfumatura dolce di fondo.
Cioccolato al latte e Cioccolato fondente.
Violet e Matthew.


Il primo litigio nemmeno lo ricordavano più, l’ultimo era fin troppo chiaro.
C’erano Matthew e Violet in una stanza, lui era ubriaco ma voleva comunque parlarle.
“Dopo tre anni insieme mi aspettavo che combattessi di più per noi, Violet.”
“Mi hai detto che non mi ami più, cosa avrei dovuto fare?”
“Trattenermi. Lo sai che non credevo a ciò che ti ho detto.”
“Mi hai detto che non mi ami, non ho motivo di rincorrerti.”
Aveva iniziato a ridere, sembrava un idiota.
“Allora ho fatto bene.”
“A fare cosa?”
“Non senti una certa pesantezza sopra la testa?”
“Sei ubriaco, non sai nemmeno cosa dici.”
“Ti ho tradita prima di lasciarci.”
Violet rimase senza parole, nemmeno un minimo rispetto.
“Goditi la svuota palle. Non ti darà mai niente di quello che ti ho dato io.”
Se ne era andata sbattendo la porta e lui si era fatto scappare l’amore della sua vita, l’unica donna che lo aveva mai fatto sentire amato e tutto perché voleva che lei dicesse chiaro e tondo cosa provava. Era arrivato a dire una cosa estrema, non ti amo Violet e non credo di averlo mai fatto, solo per sentirsi dire che lo avrebbero superato insieme, che non era la fine e che lei avrebbe fatto di tutto per tenerlo insieme. In quel momento aveva bisogno di una certezza e lei non era stata in grado di dargliela; lui aveva bisogno di uno di quei pomeriggi al mare a parlare di loro, del loro futuro, per capire che lei lo amava ancora che non era troppo presa da altro e dagli esami. Voleva che accantonassero la vita per un giorno e si dedicassero a loro. Non si erano capiti e lei aveva pensato che lui non l’amasse più davvero, aveva creduto a ogni sua parola e anche adesso credeva fermamente che lui l’avesse tradita. Spingere ancora di più con le sue affermazioni per averla più vicina? Pessima mossa, Matthew. Adesso sei un mostro per l’amore della tua vita.


Lui aveva imparato i modi dopo che Lei glieli aveva insegnati.
Lei era l’amore della sua vita, lui era l’amore della sua vita.
Lei insieme al sangue aveva l’orgoglio a scorrerle tra le vene,
Lui aveva paura che l’amore non fosse mai abbastanza.






spazio autrice.

Siamo arrivati a questo nuovo capitolo, ho amato scrivere la seconda parte su Matthew (si ho cambiato nome da Mattia a Matthew) e Violet. Su loro due avevo sempre pensato di non scrivere niente, di lasciarli così come erano ma poi me li sono immaginati, ho visto un Matthew perfetto e le mie dita hanno scritto da sole di loro due. Ci sono tante cose in questo capitolo e vorrei veramente sapere la vostra opinione su tutto quanto, adoro Matthew e spero tanto che vi piaccia come piace a me, con le sue insicurezze e il suo amore per Violet. Eric e Charlotte son tanto bellini e nel prossimo capitolo ci saranno ancora loro, Andrew per ora è nei suoi pensieri e in questo momento non si sa che sta facendo ma arriverà pure lui. Ogni fine capitolo vi dico sempre GRAZIE per l'entusiasmo dimostrato nei confronti della storia, per tutti i seguiti, i preferiti e i ricordati, GRAZIE alle ragazze del forum, GRAZIE a voi che recensite ogni capitolo con tanto amore e GRAZIE  davvero tanto, non credo che ci sarebbe questa storia senza di voi. Ringrazio anche i nuovi lettori e spero di non avervi deluso.
Come ogni fine capitolo vi ricordo che la storia ha un gruppo su facebook, basta richiedere l'iscrizione e io accetto tutti quanti :) bittersweet memories gruppo facebook
Grazie ancora e al prossimo capitolo :)

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Capitolo 15
*** 14. Piccole dosi. ***


Capitolo 14. 








“Cosa ti ha scritto? Scuse scommetto, solo scuse.”
“Non sembrano scuse, qui dentro sembra esserci il suo cuore.”
“Cioè?”
“Dice che non mi ha mai tradita, che ha detto di averlo fatto per provocarmi e che mi ama.”
“E allora perché ha detto il contrario?”
“Alla festa mi aveva detto che avrei dovuto lottare per lui e voleva solo questo. Voleva che lo tenessi vicino a me, che gli dicessi che lo amavo. In effetti gli esami in quel periodo mi avevano preso completamente.”
“Non poteva semplicemente dirlo?”
“Lo sai che non è mai stato bravo con le parole e, a quanto scrive lui, non ci riusciva: ogni volta che provava a tirare fuori l’argomento, io parlavo dei miei esami.”
“In effetti sei stata un po’ nervosa in quel periodo.”
“Lo so.”
Violet spostò il piatto con il suo cornetto, era evidente che non avesse più fame, e mise i gomiti sopra al tavolo per poi tenersi la testa con le mani.
“Come ho fatto a non capirlo, Charlotte?”
La vide sentirsi in colpa e nascondere tra le dita le lacrime che avevano iniziato a scenderle giù per le guance. In quelle occasioni, Charlotte non sapeva mai cosa fare, non sapeva come consolare le persone, non ci riusciva. Spostò la sedia vicino a lei e prese ad accarezzarle la schiena, convinta che a Violet potesse bastare, convinta che la conoscesse così bene da non aspettarsi nient’altro. Quel gesto racchiudeva tutto quello che avrebbe voluto dirle, avrebbe voluto dire di non preoccuparsi, che era normale non accorgersi di certe cose e che la colpa non era la sua, ma non riuscì a dire niente e continuò quel movimento su e giù per rassicurarla; forse era come Matthew, loro non riuscivano a dire le cose alle persone a cui tenevano di più ma… a vent’anni bastava come giustificazione?
“Scappiamo. Andiamo da qualche parte, dobbiamo capire la nostra vita di ora.”
“E dove ce ne andiamo?”
“Mia nonna mi chiede di andare da lei in campagna ogni volta che ci sentiamo, ma per via degli esami le ho sempre detto di no. Potremo andare da lei per questo fine settimana, che ne dici?”
“E l’esame?”
“Ci portiamo i libri dietro e studiamo.”
Violet si asciugò le lacrime di troppo, si ricompose e sorrise a Charlotte.
“Io adoro le lasagne di tua nonna.”
“Lo so. Un punto in più per scappare.”
Ricambiò quel sorriso e abbracciò l’amica. Forse avrebbe dovuto abbracciarla prima ma adesso le sembrava il momento più appropriato.
“Grazie, Charlotte.”
“Mangi qualcosa? Hai ordinato a vuoto.”
“Va bene, ma a che ora è la lezione?”
“Tra 10 minuti.”
“Ci saranno tutti i posti occupati.”
“Proviamo?”
“Ma si.”
Fecero quanto più veloce possibile l’ultima parte del corridoio di corsa. La porta dell’aula più piccola della facoltà era ancora aperta e trovarono due posti, in ultima fila. La professoressa non era ancora arrivata e così Violet ebbe modo di salutare alcuni colleghi, mentre anche Charlotte faceva lo stesso. Quel giorno si sentiva un po’ più socievole del solito.
Si sistemarono per la lezione.
“E se gli scrivo una lettera pure io?”
“A chi?”
“A Matthew.”
“Non mi pare una buona idea.”
“No, nemmeno a me.”
“Al ragazzo del tetto ho dato il mio numero.”
A Violet cadde la matita a terra, si girò verso Charlotte e cercò di scuoterla, poi guardò l’orologio.
“E’ da un’ora che siamo insieme e me lo dici solo adesso? Se ha il tuo numero, vi siete incontrati?”
“Sì.”
Iniziò a scuotere la mano per farsi aria.
“Perché sono più emozionata io, che tu?”
“Ho un po’ di speranza ma non più di tanto. Provo a concentrarmi su cose più reali, sarei felice se chiamasse, mandasse un messaggio e facesse capire qualcosa, ma ormai nemmeno ci spero più.”
Iniziò a riempire di disegni il foglio che aveva sotto gli occhi, doveva prenderci gli appunti.
“Ti ha detto qualcosa? Sembri più pessimista.”
“Mi ha detto che non vuole lasciarmi andare, ci siamo baciati a lungo e se non fosse stato che la festa era finita, credo che mi sarei trovata nuda in quello studio.”
Gli occhi di Violet cambiarono, si soffermò a guardare il pezzo di carta che Charlotte aveva sotto la matita e si rattristò: scarabocchi di tutti i tipi andavano a formare un volto immaginario con tanti punti interrogativi. Charlotte si stava innamorando di un ragazzo quasi inesistente e non vedeva altro che rammarico e tristezza all’orizzonte: era il suo turno di consolarla.
“Ti chiamerà, ne sono sicura.”
“Chissà.”
Violet provò a cambiare il soggetto della conversazione, l’aveva vista parlare anche con un altro ragazzo al bar.
“Hai incontrato qualcun altro ieri?”
“Sì, ho conosciuto il ragazzo del treno.”
“Chi? Quello che ti aveva sorriso?”
“Sì, lui. Si chiama Eric.”
“Come ti sembra? Cretino come pensavi?”
“Non ti so dire, l’ho incontrato pure stamattina e, sinceramente, quando sono con lui mi sento un po’ in soggezione.”
La porta si aprì di scatto e tutti i ragazzi in aula si ricomposero: la professoressa era arrivata.
“Ne parliamo dopo.”


“Dato che la lezione è finita, io torno a casa.”
“Ma dovevamo parlare di Eric.”
“Abbiamo il fine settimana per parlare di lui, del ragazzo del tetto e soprattutto di Matthew. Non me ne sono dimenticata, eh!”
Violet sorrise, sperava che non ricordasse.
“A che ora ti passo a prendere?”
“Chiamo mia nonna e ti faccio sapere.”
“Aspetto la tua chiamata, allora.”
“Sì. Sono in ritardo per il treno. Se perdo questo, devo aspettare mezz’ora. A metà mattina ne passano meno e per di più sono pieni.”
Aveva salutato Violet e l’aveva abbracciata più a lungo, non era mai stata troppo espansiva ma di Violet si fidava e sapeva che quell’affetto non sarebbe andato perso. Aveva imboccato la solita strada per la fermata del treno e si ritrovò a camminare velocemente, forse troppo, ma nonostante avesse il fiatone non poteva fare altrimenti. Mezz’ora di studio poteva farle comodo e si sarebbe portata avanti con il programma dell’esame imminente perché con Violet non era certa che sarebbe riuscita a concludere qualcosa a casa di sua nonna.
Per il senso di dovere che si era fatto spazio in lei, iniziò a correre: il treno era appena arrivato e rischiava di perderlo per un pelo.
Non chiuderti, non chiuderti.
Un ultimo sforzo, un po’ più di velocità ed era dentro.
Riprese fiato, respiri irregolari, battiti sempre meno veloci. Avrebbe voluto sedersi da qualche parte così da riposarsi in maniera completa, ma guardandosi attorno non riuscì a vedere niente che facesse al caso suo, perché c’era solo un posto libero: vicino ad Eric.
Si soffermò a guardarlo, a fare congetture sul motivo per cui fosse lì, -una lezione finita prima, una commissione sbrigata presto-, e spostò velocemente lo sguardo, dato che lui era concentrato su altro, girandosi lentamente per non dare nell’occhio. Sperava non l’avesse vista.
“Charlotte?”
Si sentì chiamare con un tono incerto.
“Charlotte.”
Si girò verso di lui, non poteva fare altrimenti.
“Il posto vicino a me è libero, siediti.”
Non poteva tirarsi indietro. Si fece spazio tra i passeggeri del treno, si resse ancora un po’ alla sbarra metallica e poi si sedette, vicino a Eric. Una qualche catastrofe era nell’aria, se lo sentiva.
“Se vuoi parlare, parliamo, sennò, niente. Lo so che non mi sopporti.”
Lo disse rassegnato, con un tono di voce più basso, come se volesse convincere se stesso; e si girò verso il finestrino. Charlotte si voltò a guardarlo, sotto quell’aria impertinente, quelle battutine acide per attirare l’attenzione, forse c’era qualcosa in più.
“Che ci fai qui?”
“Sono appena tornato dall’università. Tu?”
“Lo stesso, sono scesa per solo due ore. Svegliarsi presto per niente.”
“Infatti, lo dico sempre pure io. Cosa studi?”
“Psicologia, tu?”
“Lo sapevo! Mi sei sempre sembrata troppo riflessiva.”
“Eric…”
Gli lasciò capire che non sopportava quel tono di sfottimento.
“Scusa.”
“Tu?”
“Ingegneria ma non mi piace particolarmente.”
Il telefono di Charlotte iniziò a suonare.
“Credo ti stia suonando il cellulare.”
“Il mio?”
Si sorprese, non conosceva la sua suoneria e non era preparata. Non poteva essere lui, non doveva esserlo. Lesse sul display, sconosciuto e non sapeva cosa fare.
“Non rispondi?”
“Sì. Pronto?”
Non era riuscita a prenderlo. Poteva essere il ragazzo del tetto o forse no, solo quegli operatori telefonici fastidiosi che offrono il nulla.
“Questa è la tua fermata?”
Sperava che le rispondesse di no.
“Questa volta sì, devo andare a trovare un amico.”
Maledizione, pensò Charlotte - “Anch’io.”
“Allora scendiamo insieme.”
“Non credo sia una buona idea.”
“Perché? Mica voglio saltarti addosso.”
Charlotte scosse la testa.
“Ci conosciamo praticamente da quanto? 20 ore?”
“E cosa vuol dire, ragazzina?”
“Che è troppo, io le persone le prendo a piccole dosi, tutto questo non mi va bene.”
“Secondo me è perché non mi sopporti, se fosse stato qualcun altro non ti saresti fatta problemi.”
Aveva ragione, con il ragazzo del tetto non si era fatta alcun problema.
“Poco fa ti avevo detto che non eri obbligata a parlarmi.”
“Lo so.”
“Non puoi decidere tu quanto tempo parlare con le persone e dove parlarci, ma dato che secondo te è giusto così, decido di andarmene. Ciao.”
Le fece un cenno con la mano, come un soldato di altri tempi e scese dal treno, lasciandola lì, immobile. Le porte stavano per chiudersi, rischiando di farle perdere la fermata di casa, così sgusciò fuori appena in tempo.
Riusciva a scorgere Eric, davanti a lei, che aveva preso a camminare molto velocemente, era evidente che volesse lasciarsela alle spalle dal modo di posare i piedi sul terreno. Percepì che fosse anche un po’ seccato. D’un tratto lo vide girarsi, accorciare la loro distanza e dirle qualcosa.
“Sai Charlotte, c’è un solo momento in cui sembri te stessa.”
Contò uno con le dita e mise l’indice in evidenza prima di continuare.
“Quando abbassi lo sguardo e ti guardi le mani. In quel momento riesco a riconoscerti, per il resto racconti qualcosa che nemmeno ti rappresenta.”
Non seppe cosa rispondere, era del tutto inaspettata quella dichiarazione: l’aveva letta in un attimo. Lo vide allontanarsi, mettere nuovamente distanza tra loro due e lasciarla dietro.
Perché, poi? Si conoscevano da poco e lui voleva tutto e subito, voleva grandi chiacchierate, grandi discussioni fino a notte fonda, ma lei era riflessiva, diffidente e voleva le cose a piccole dosi; piccole dosi di pasta, piccole dosi di dolce, piccole dosi d’amore. Con i sentimenti funzionava come il cibo, aveva paura di fare indigestione e stare male, e non voleva, non di nuovo.


Charlotte al liceo aveva un’amica, Lauren.
La chiamava amica in maniera convenzionale, in realtà era qualcuno con cui passare il tempo, qualcuno a cui interessava poco quello che avevi da dire e che parlava in continuazione. A volte, Charlotte non riusciva a seguirla, ma sapeva ascoltare e spesso i suoi consigli risultavano pure utili.
Lauren le aveva presentato quello che sarebbe stato il suo primo ragazzo, un certo Harry: occhi verdi, capelli biondi e tanto fascino.
Charlotte si era fatta desiderare tanto, aveva provato a essere sfuggente per essere rincorsa e alla fine si erano messi insieme dopo le vacanze di Pasqua del primo anno di liceo. Non poteva dire di esserne stata innamorata, ma sicuramente era stata presa e lo stesso era stato per lui che giorno dopo giorno non aveva fatto altro che riempirla di regali, i più disparati, ma sempre qualcosa che le piaceva. Una collana, un orsetto con dentro i Baci Perugina, un dolce alla nutella preparato con le sue mani.
“Charlotte io penso di amarti.”
“Fa schifo come dichiarazione d’amore.”
La solita corazza.
“Io so di amarti.”
“Già va un po’ meglio.”
Lo aveva attirato a se e baciato, ma non era riuscita a rispondere niente, forse perché aveva la bocca impegnata o probabilmente perché non provava lo stesso per lui; lui glielo aveva ripetuto più volte, ma lei si limitava a guardarlo e poi adoperarsi a fare qualcos’altro che non includeva lui. Come era giusto che fosse, lui aveva iniziato ad allontanarsi e un altro ragazzo, Kyle, aveva iniziato a ronzare attorno a Charlotte.
Charlotte non poteva dire di aver tradito Harry con Kyle e nemmeno il contrario, aveva iniziato ad uscire con quest’ultimo come amici poi si erano baciati e a lei, contro ogni sua aspettativa, si era contorto lo stomaco. Un bel bacio, di quelli alla francese, con poca saliva, con tanta esperienza dietro che fan venire voglia di averne ancora un po’, giusto per non dimenticarsene.
Era arrivata l’estate, i vestiti indossati erano stati sempre meno e Charlotte e Kyle, una volta, si erano ritrovati a non averne più. Forse perchè il caldo aveva dato loro alla testa o forse solo perché lui le aveva detto poco prima che la amava e lei, non essendo brava ad esprimere i sentimenti, si era fiondata sulle sue labbra per ricambiare con i gesti.
Avevano fatto l’amore, forse nel modo più semplice del mondo, ma Charlotte aveva provato una gioia dentro che era riuscita ad esprimere solo con le labbra, con un sorriso stampato sul volto, con gli occhi che sorridevano e con l’assenza di parole ad esprimere la sua felicità.
La mattina dopo, quando si era svegliata, aveva accarezzato a lungo i capelli di Kyle: se solo si fosse svegliato in quel momento avrebbe voluto farlo ancora, nonostante fosse un po’ indolenzita, solo per sussurrargli che quell’amore che lui provava lo sentiva anche lei, con la stessa intensità o forse più forte.
“Buongiorno.”
“Buongiorno a te.
L’aveva baciata di nuovo, a lungo, con più trasporto e quando avevano ripreso a guardarsi, Charlotte aveva deciso di rompere quel blocco che aveva. Il cuore aveva iniziato a batterle forte, le parole erano sembrate accostarsi velocemente.
“Lo sai che ti amo anche io?”
 Kyle aveva annuito, le aveva sorriso e poi avevano ripreso da dove avevano lasciato la sera precedente, prima di addormentarsi, prima di completare la loro felicità.
Avevano passato gli anni di liceo insieme, le ricreazioni insieme, le gite scolastiche a sgattaiolare fuori dalle stanze quando i professori si ritiravano in camera. Erano stati felici, il loro amore non era riuscito a spegnersi, nemmeno per un attimo, ma poi era arrivato il ma, durante l’estate del quinto anno.
“Ho fatto richiesta per studiare in un’altra città.”
“Puoi provare anche qui, la facoltà c’è.”
“Sì, ma se non entro?”
“Troveremo un modo.”
“Charlotte, lo sto già trovando. Non posso rimanere un anno fermo.”
“Dopo i test ne riparliamo.”
Avevano allungato di pochi mesi, ma poi le previsioni di Kyle si erano avverate. Lui non era entrato e aveva preferito andare fuori, non pensare all’amore, non rimanere con Charlotte ma scegliere qualcos’altro: la sua ipotetica carriera.
Charlotte, che aveva aperto il suo cuore a lui, lasciandolo scoperto, senza protezioni, si era ritrovata a riprenderselo, malconcio, quasi spezzato e con mille cerotti sopra; come se delle bende potessero lenire tutto quel dolore. Forse era quello il problema della sua vita, non essere mai scelta dalle persone che amava. Lei le avrebbe scelte in ogni caso, le avrebbe salvate e messe su un’isola deserta per tenerli al sicuro ma loro non avrebbero scelto lei, mai.
“La lontananza potrebbe rafforzarci.”
A quella frase Charlotte aveva sorriso.
“Sai pure tu che non è così.”
Avevano vissuto gli ultimi giorni insieme, scandendo ogni ora, ogni minuto, come se dovessero morire l’indomani; in realtà loro sarebbero scomparsi, non ci sarebbero più stati Charlotte e Kyle ma solo Charlotte e solo Kyle, in due parti diverse del mondo, in due pezzi di terra lontani, mai più insieme.
Dicono che quando una persona muore, lei non sarà più capace di pensarti, tu non avrai più un posto nel suo cuore ed è per questo che ti manca, perché sai che non ti dedicherà più niente. In questo modo Charlotte aveva iniziato a pensare di Kyle.
Lo pensava morto perché arrivato nella nuova città aveva smesso, smesso di cercarla, di chiamarla, di scriverle sono ancora vivo, smesso di pensare a lei come parte della sua routine, e alla fine la ragazza lo aveva pensato morto perché sapeva che lui non le avrebbe più dedicato nemmeno un minuto della sua vita. Aveva pianto perché Charlotte non era così forte come si credeva e poi aveva ripreso ad indossare quella corazza, aveva indossato per prima la parte che copriva il petto, per evitare i colpi più duri, quelli che avrebbero potuta danneggiarla totalmente, e poi il resto.
Era riuscita pure a rafforzarla, ma questo fino a Violet, a Eric e ad Andrew, di cui ancora non sapeva il nome.
 

spazio autrice
questo capitolo ha un po' tardato ad arrivare, dovevo sistemare qualcosina e Alys mi ha aiutato a mettere ordine al tutto, quindi se il capitolo è così ben riuscito ringraziate lei <3 Siamo al 14esimo capitolo della storia, tutto procede e conosciamo qualche dettaglio in più di Charlotte e soprattutto di Eric, non ci ha pensato due volte a dire a Charlotte come stavano le cose e forse ha fatto anche bene, in fondo questa ragazza ci piace anche per questo suo tirarsela <3 Nel prossimo capitolo Violet e Charlotte andranno dalla nonna ma non so ancora dirvi cosa succederà!
Spero che il capitolo sia di vostro gradimento e come sempre grazie, a voi che leggete, recensite, mettete tra seguite,preferite e ricordate <3
Ricordo che la storia ha un gruppo facebook : bittersweet memories
Grazie ancora ** e anche ad Alys che mi ha aiutata tanto <3

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Capitolo 16
*** 15. C'è o non c'è. ***




 

Capitolo 15.






Erano arrivate la sera stessa dalla nonna, si erano giustificate dicendo che studiando insieme avrebbe concluso di più e i loro genitori ci erano cascati in pieno, avrebbero studiato qualcosa ma i loro discorsi si sarebbero soffermati su altro per la maggior parte del tempo. Charlotte non andava dalla nonna da un paio di anni e tornare lì, in quella campagna che le aveva regalato piccoli momenti di tranquillità, la rallegrava; ogni volta le sembrava di tornare bambina, quando la sua felicità era fatta da tutte quelle cose che la stupivano fino a farla rimanere a bocca aperta. L’abbraccio con sua nonna fu dei più lunghi e più affettuosi della sua vita, aveva sempre questa strana paura di doverla perdere da un momento all’altro e quindi ogni volta la abbracciava più che poteva, era l’unica persona con cui riusciva ad essere così espansiva, era l’unica che non l’aveva mai delusa.
“Charlotte, sei più alta!”
“Non è vero, nonna.”
“A me sembra di si.”
“A Violet non dici niente? E’ troppo magra.”
“Non è vero, Charlotte!!”
“Mia nipote ha ragione ma mangi abbastanza?”
“No, non mangia niente ultimamente.”
“Problemi di cuore?”
“Sì.”
Ammise Violet imbarazzandosi un po’.
“Niente che non si possa risolvere con un bel piatto di lasagne. Ci ho lavorato tutto il pomeriggio quindi non puoi dirmi di no.”
Gli occhi di Violet andarono a formare dei cuoricini e Charlotte scosse un po’ l’amica.
“Approviamo entrambe.”
Avevano passato la cena a parlare di Violet, della lettera di Matthew, del non avere idea di cosa fare e la nonna aveva ascoltato con attenzione, commentando a più riprese che Matthew, l’unica volta che lo aveva visto, sembrava un ragazzo simpatico e che l’unico motivo per cui non aveva detto niente a Violet era perché lei era una ragazza troppo in gamba.
“Ma tu lo ami ancora, Violet?”
La nonna di Charlotte era convinta che tutto girasse intorno all’amore, che non ci fossero mezze misure a riguardo, o ami o non ami, o bianco o nero, l’amore o resta o se ne va, non aveva mai creduto ad altro, l’amore c’era o non c’era.
“Sì.”
Lo disse così di getto che sia Charlotte che sua nonna rimasero allibite.
“Dopo mezz’ora che non avevi idea di cosa fare, te ne esci con questo si?”
“E che ci posso fare? Parlandone ho capito che se non lo amassi, non sarei così arrabbiata con lui, sarei  indifferente.”
“E ora?”
“Possiamo pensarci domani?”
“Io sparecchio la tavola, voi due ragazze andate fuori. C’è la panca a dondolo che Charlotte adora.”
“Non è vero.”
“Andate su.”
Charlotte fece strada a Violet e arrivano fino a dietro la casa, riuscirono ad arrivare ad una parte poco illuminata per poi sedersi.
“E’ comoda.”
“Quando ero piccola ci venivo spesso, si possono vedere le stelle da qui.”
Charlotte adorava quella panca di legno perché l’aveva costruita suo nonno qualche settimana prima che morisse, pensava che ci fosse una parte di lui lì dentro, a volte aveva l’impressione che lui potesse essere vicino a lei a dondolarla; quelle travi di legno, un giorno, sarebbero state il ricordo più forte che aveva dei suoi nonni. Quando era piccola era solita addormentarsi tra le gambe di sua nonna che, nel frattempo, la cullava con quei movimenti per alleviarle gli attacchi di ansia.
Per quanto fosse attaccata a quel dondolo, non poteva dimenticare le stelle, le aveva viste solo un’altra volta in quel modo, così nitide, così sgombre da nuvole e da inquinamento atmosferico: anni prima, in spiaggia, con Kyle.
“A cosa pensi, Charlotte?”
“L’ha costruita lui, questa.”
“Chi?”
“Mio nonno.”
“Davvero?”
“Sì. Non parlo molto di lui, purtroppo ero troppo piccola per ricordarlo.”
“E’ morto presto?”
“Sì ma dopo tutto questo tempo mia nonna lo ama ancora. Non so come faccia.”
“Penso che quel tipo di amore sia difficile da dimenticare, forse si sbiadisce un po’ per il tempo ma rimane.”
“Come te e Matthew?”
“Forse come noi due.”
“Violet, lo sai. Io non riesco a dimenticare chi mi ha fatto male ma so che tu hai un carattere diverso. Se lo ami, vai da lui, fate l’amore tutte la notte, tutta la mattina, tutto il tempo che volete e fate pace. Ti meriti la tua felicità e se pensi che Matthew è quello giusto, ricostruite.”
“E’ come se in una tazzina rotta si mette lo scotch?”
“E’ brutto come esempio ma ci sta, attaccate insieme ogni pezzo e vedrete che con il tempo dimenticherete di averla rotta.”
Charlotte si riscoprì brava a dare consigli, gli anni di pratica con Lauren erano serviti a qualcosa, forse, ma con Violet riusciva a parlare come se stesse parlando a se stessa; non sapeva se quello specifico consiglio lo avrebbe mai seguito, ma se Kyle un giorno fosse tornato con lo stesso tipo di amore di Matthew lei non sarebbe riuscita a riparare qualcosa perché non voleva. Aveva imparato a stare senza di lui e allo stesso modo aveva fatto Kyle, adesso stava con un’altra nella sua bella città straniera e, anche se si fosse presentata l’opportunità di averlo davanti, lei si sarebbe limitata a guardarlo e mandarlo via. Le tornava in mente spesso, soprattutto quando si ripresentavano momenti di vita vissuti unicamente con lui, lasciarsi non solo faceva male al cuore ma lasciava anche quello strascico di ricordi che tornavano in mente nei momenti meno consoni. Scosse la testa per mandare via Kyle e godersi il tempo con Violet.
“A volte vai nel tuo mondo.”
“Sei mia amica anche per questo, no?”
“Si ma ancora non abbiamo affrontato i tuoi argomenti, piuttosto bollenti.”
Charlotte la guardò per poi prendere ad imitarla.
“Ne parliamo domani.”
“Mi prendi in giro? Lo sai che muoio dalla voglia di sapere tutto.”
“Abbiamo tre giorni per parlarne.”
“No, voglio saperlo ora. Lo so che a modo tuo sei riservata ma hai bisogno di parlarne, è come se ti stessi tenendo una bomba dentro e prossimamente esploderà.”
“Diamo un nome al ragazzo del tetto perché mi sono scocciata a chiamarlo ragazzo del tetto.”
“Mi sembra giusto. Lo vuoi chiamare John Smith? E’ un nome tarocco che usano nei telefilm americani per fare le rapine.”
Charlotte iniziò a ridere di cuore, si immaginò un tizio barbuto con una parrucca di capelli di plastica e con un naso rosso sul naso, era più simile ad un clown che ad un uomo. Entrambe, quando volevano, avevano una vivida immaginazione.
“Va bene, chiamiamolo John.”
“Allora?”
“Quando è andata via la luce, io ero al piano di sopra, l’amica di Mary ha una libreria immensa e stavo leggendo L’interpretazione dei sogni di Freud, va via la luce ed entra… John, giusto?”
“John Smith, ladro John.”
“Eh, John entra, mi dice che è andata via la luce, lo sento più vicino, mi fa sciogliere nella maniera più assoluta e mi sussurra in una maniera troppo sensuale: Non riesco a lasciarti andare, Charlotte.
Violet iniziò a ventolarsi con la mano.
“E sei svenuta?”
“Che stai dicendo! Quale svenuta!”
“E poi?”
“E poi l’amica di Mary dice di andare a casa, noi ci ricomponiamo, io lo prendo per mano e poi tu hai iniziato a urlare il mio nome.”
“Sono sempre inopportuna, vero?”
“Se urli io mi preoccupo, quindi ho lasciato un foglietto nella sua mano con nome e numero di cellulare e sto aspettando un suo segno di vita.”
“Ah.”
“E che vuol dire “ah”? Mi sento un'idiota, ho sempre questo cellulare nelle mani e l’unico momento in cui stavo facendo altro mi arriva una chiamata da un anonimo a cui non riesco a rispondere.”
“Era lui, sicuro. Nei film americani John Smith fa sempre così, chiama la moglie per dire le sue ultime parole prima di essere ucciso e la moglie non risponde mai.”
“Basta con questo John Smith.”
“E va bene, ormai ero entrata nel personaggio. Ma cosa stavi facendo?”
“Stavo parlando con Eric, sul treno.”
“Vi siete rivisti?”
“Sì.”
Charlotte non aveva fatto le sue solite facce stupite, infastidite o quelle che sottolineavano qualcosa, si era limitata a raccontare, senza esultare, forse con troppa naturalezza; la sua vita si stava trasformando in un casino ed era in preda a due ragazzi: uno che la attirava terribilmente e l’altro che la stuzzicava costantemente.
“Ma a te chi piace?”
“Che domanda è, Violet? Li conosco appena.”
“Non è vero, ti sei già fatta un’idea su di loro.”
“E va bene.”
“Ma perché devo mettermi lì con il rametto per farti parlare? Non puoi solo dirle le cose? Sei fastidiosa.”
Lo conosceva quel tono di Violet, le faceva notare tratti del suo carattere ad ogni pezzo di conversazione per farla parlare; in fondo aveva ragione, avrebbe dovuto evitare di trattenere le cose. Ecco un nuovo riferimento, del tutto casuale, al ragazzo del tetto.
“Ti dico quello che so, il ragazzo del tetto…”
“John!”
“John mi attrae, non l’ho visto in faccia, potrebbe essere mutilato, con una cicatrice da pirata ma mi attrae la sua voce, il suo modo di fare, come mi sfiora e poi sento di essere stata capita e ascoltata e non ho mai provato niente del genere fino a ora.”
“Non credo sia mutilato.”
“Nemmeno io ma lo devo mettere in conto se mai lo vedessi in faccia.”
“Okay ma Eric?”
“E’ fastidioso, distratto, impertinente, pungente con le sue parole e ogni volta che ci vediamo parla di me come se mi conoscesse da una vita e quella corazza che ho, cade completamente. Sinceramente non so se voglio solo essere amata o capita e so che entrambi potrebbero darmi questo ma…”
“Ma tu hai paura, non riesci a dimenticare il “dopo” Kyle?”
“Cosa? Che stai dicendo?”
“Li vedo i tuoi occhi, hanno paura. Non vuoi bruciarti e stai solo sfiorando ognuno di loro come quando i bambini giocano a far passare il dito sopra una candela accesa. Hai bisogno solo di un po’ di calore e pensi che ciò ti possa bastare ma, ovviamente, non ti basterà per sempre.”
Charlotte si limitò a non rispondere, c’era poco da dire e Violet si avvicinò abbracciandola, ricambiando il favore della mattina prima, con la coperta di lana che la nonna le aveva dato prima. Un po’ di quel calore le avrebbe fatto bene, aveva bisogno che quella solitudine che spesso intravedeva nei suoi occhi fosse scacciata via, le capitava spesso di sentire Charlotte da qualche altra parte con la mente e ogni volta le costava andare a riprenderla. Portarla indietro per farla tornare da lei ed evitare che si ammalasse di quella solitudine che a volte la prendeva. Probabilmente non avrebbe mai superato del tutto la storia di Kyle ma era convinta che, se l’avesse abbracciata ogni volta che intravedeva un po’ di quella infelicità, tutto sarebbe andato bene.
“Andiamo a dormire?”
“Tu inizia a cambiarti, Violet. Io ho bisogno di un attimo.”
“Come preferisci.”
Essere amiche comprendeva anche quello, essere consolati e poi provare a ricomporsi, rimettendosi in piedi da soli anche se con uno sforzo snaturale. Charlotte si alzò dalla panca e iniziò a girare intorno al giardino, al buio tutto sembrava più bello, era capace di vedere qualche lucciola illuminare gli alberi e poi vide una luce di fronte a lei.
Andrew. Possibile che erano tornati e la nonna non le aveva detto niente? Non vedeva quella luce accesa da anni. Le sarebbe piaciuto rivederlo solo per chiedergli perché non le aveva scritto più. Osservò un’ultima volta quella luce e la sagoma della casa prima di ritornare sui suoi passi e andare a letto.
 
 
 
L’indomani iniziarono presto a studiare, fino alle dodici lo studio era stato intenso, le ragazze si erano ritrovate più volte a guardarsi chiedendosi cosa il libro volesse dire e Violet non faceva altro che ripetere che quelli erano professori di psicologia e non di lettere, mentre Charlotte si limitava a scrollare le spalle. Il tempo era andato via via migliorando e quindi avevano usufruito del tavolo fuori, era posizionato in modo da avere una chiara vista dell’ambiente circostante e la ragazza lanciava occhiate sempre più lungo verso casa del primo bambino che le aveva fatto battere il cuore all’impazzata. Sapeva che, dopo aver visto la luce accesa la sera prima, aveva continuato a guardare in quella direzione, sperava di riconoscere una testa mora ricciolina da lontano ma spesso erano solo alberi secchi che si muovevano.
“Cosa c’è d’interessante, lì di fronte?”
Charlotte sbarrò gli occhi e riprese a sottolineare il libro. Violet capì che non ne voleva parlare e cominciò a tirare verso di se il libro da cui stava studiando l’amica.
“Ferma che si rompe.”
“Cos’è Charlotte?”
“Niente d’importante.”
“Ultimamente per te niente è importante.”
La ragazza prese a sbuffare, lasciò la presa dal libro e cominciò a raccontare di lei, Andrew, le anatre e il fatto che in una giornata di quell’estate aveva dato un bacio a fior di labbra a quel bambino. Violet la guardava con occhi sognanti, aveva sempre detto che avrebbe voluto dare il suo primo bacio così e non durante uno stupido obbligo o verità.
“E perché non vi siete più rivisti?”
“Loro non sono più venuti qui.”
“Se non sono più venuti perché guardi?”
“La luce ieri sera era accesa, non lo era da molto tempo.”
Lo sguardo di Violet cambiò e si alzò di scatto.
“Violet?”
La chiamò la prima volta.
“Violet!”
La chiamò per la seconda volta.
“Violet!!”
Ed era arrivata alla terza.
“Dove stai andando?”
“Sei una codarda.”
Si posizionò davanti alla porta e iniziò a bussare, Charlotte si nascose dietro un albero e appoggiò le spalle sulla corteccia; non voleva vederlo perché non era pronta, aveva immaginato un loro incontro in mille modi ma così no. Era consapevole che da così lontano, non sarebbe riuscita a sentire niente ma, in fondo, non voleva sentire. L’amica aveva bussato due volte ma nessuno stava aprendo alla porta, prima che Violet andasse via un ragazzo con una sigaretta in bocca aprì.
“Tu sei Andrew, giusto?”
“Si e tu, sei?”
“Un’amica della ragazza che abita qui di fronte, si chiama Charlotte.”
Andrew al nome Charlotte trasalì un attimo ma provò a non far trapelare alcuna emozione, non si ricordava della ragazza in questione a differenza di un’altra ragazza con lo stesso nome che lo stava facendo uscire fuori di testa.
“E chi è questa Charlotte? Non mi ricordo, sinceramente.”
“Vi siete visti quando eravate piccoli in questa campagna.”
“Non mi ricordo davvero, com’è che ti chiami?”
“Violet.”
“Non mi ricordo di nessuna Charlotte, Violet mi spiace.”
“Non è possibile. Aspetta un attimo.”
Andrew rimase alla porta e vide Violet correre per tutto il vialetto che separava le due case e cercare l’amica, la trovò dietro un albero e la trascinò con sé. Aveva appena rialzato lo sguardo quando vide due occhi verdi fissarlo, come avevano già fatto altre volte, in una stanza, al buio, dopo un bacio. Ma perché Violet sosteneva che loro due si erano già incontrati da piccoli? Ricordava che in terza media era venuto per la prima volta in quella campagna ma era già grande, non più piccolo, era un ragazzino. Era alquanto confuso ma doveva stare attento, Charlotte era intelligente e lo avrebbe riconosciuto dal suo tono di voce; aveva prestato troppa attenzione alla sua voce e al suo corpo per passare inosservato.
“Adesso dovresti averla più presente, te ne ricordi o no?”
Scosse la testa e continuò a fumare la sua sigaretta.
“Perché no?”
Violet sembrava visibilmente dispiaciuta, non credeva che Andrew non riuscisse a ricordarsi di Charlotte. Lei era una di quelle persone che ti lasciava qualcosa, non poteva semplicemente averla dimenticata; Charlotte lo guardava pensando che non se lo immaginava per niente così, per lei sarebbe sempre rimasto quel bambino paffutello di anni prima ma con quell’aria familiare di sempre. Lo vide scrollare le spalle e guardarla ancora negli occhi, non le aveva staccato nemmeno una volta lo sguardo di dosso.
“Sei diventato muto?”
A quel punto, Charlotte decise di intervenire, Violet si stava visibilmente innervosendo.
“E’ evidente che non si ricorda, non è stato così importante come lo è stato per me.”
Sorrise inarcando un po’ le labbra, in maniera dolce ma allo stesso tempo amara, faceva male vedere che quell’estate di tanti anni fa aveva cambiato la vita solo a lei. Avrebbe voluto privarlo di qualcosa che riteneva allo stesso modo importante e quella sigaretta le sembrava una giusta ricompensa; per lui in quel momento era più importante di lei.
Si avvicinò a lui come se dovesse baciarlo e poi gli strappò di bocca quella sigaretta, la girò tra le dita la mise nella giusta posizione, se la portò sulle labbra, inspirò a fondo, si lasciò guardare un attimo e se ne andò, ripercorrendo all’indietro il vialetto per casa di sua nonna. Violet prima di seguire l’amica si limitò a dire una delle sue frasi a effetto per uscire di scena.
“Non guardi così qualcuno che non conosci.”
“Basta con questo interrogatorio, non sono qui per farmi psicoanalizzare.”
Chiuse la porta in faccia a Violet e poggiò le spalle al muro. Charlotte era lì a pochi metri da lui e non era riuscito a dire niente, adesso stava assaggiando la sua sigaretta con le stesse labbra che aveva fatto sue solo un paio di sere prima.
“Chi era, Andrew?”
“Charlotte.”
“Chi?”
“Quella Charlotte, Jacob.”
“Ah. La tua Charlotte.”





spazio autrice
E si conclude un nuovo capitolo, scritto totalmente e completamente di getto. E' stata una sorpresa pure per me vedere Andrew in questo capitolo ma secondo me la vera protagonista è Violet ha un'immaginazione fantastica, a volte è impaziente, non lascia spazio a Charlotte ma se non facesse così non saprebbe mai niente dall'amica. Non mi soffermo troppo a commentare perchè vorrei sapere i vostri pareri sul capitolo che spero, vivamente, vi sia piaciuto ** Come sempre vi ringrazio, siete in tanti a seguire la storia e spero sempre di stare andando nella direzione giusta :)
Come sempre vi lascio il link del gruppo della storia: bittersweet memories e grazie <3

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Capitolo 17
*** 16. Paura di sbiadire. ***




 

Capitolo 16.






Prima di abbracciarla aveva aspettato di entrare in casa e chiudere bene la porta.
“Mi dispiace.”
Violet aveva visto parecchia delusione nei suoi occhi, le aveva buttato le braccia attorno al collo per rincuorarla e Charlotte era rimasta totalmente sorpresa da quell’abbraccio soprattutto perché non credeva di capirne il motivo.
“Per cosa?”
“Che Andrew non si ricorda.”
Fu come un girare la lama di un coltello lentamente, molto lentamente.
“E’ passato tanto tempo, se non fosse stato il mio primo bacio magari non me lo sarei ricordato nemmeno io.”
Sfoderò di nuovo quel sorriso, lo stesso di poco prima, e lo girò a Violet. Non voleva passare per la bambina che si rattristava per così poco, le faceva male non essere ricordata, quello lo ammetteva, ma a farla sorridere amaramente era più qualcosa legata alla sua autostima; sapeva già di possederne poca e in quel modo era diminuita un altro po’. Pensava che lei avesse avuto un forte impatto su di lui, pensava che quei sorrisi fossero solo per lei, addirittura credeva che i suoi occhi, quando la guardavano, diventavano di una sfumatura più chiara, come se cambiassero per lei, come se avessero un colore unico, il colore di quando erano insieme. Tutte quelle notti prima di andare a dormire, tutte quelle volte che ricordava quell’estate, vedeva sempre quell’azzurro a fare da sfondo ai loro momenti, il loro azzurro, l’azzurro degli occhi di Andrew. Adesso quegli occhi erano gli stessi e le era sembrato di vedere quella sfumatura più chiara di anni prima ma si ripeteva che fosse impossibile.
“E’ possibile, ma chi non si ricorda delle ragazze che bacia? Soprattutto in una campagna come questa?”
“Andrew?”
“Evidentemente si.”
Nonostante le continue domande della nonna passarono il pranzo senza dire molto, ripresero a studiare subito, come se non avessero tempo di dire qualcosa o come se non avessero voglia di dire niente. Charlotte in alcuni momenti andava indietro nei ricordi per cercare di convincersi che quelle erano le fantasie di una bambina e che aveva dato tutta quell’importanza a Andrew perché lui era arrivato dopo Lucy e i suoi compagni di classe ed era riuscito a darle tutta quella gentilezza che lei non aveva mai ricevuto. Probabilmente il motivo era quello ma in ogni caso era sicura di una cosa: lui, che lo ricordasse o meno, l’aveva aiutata ad aprirsi, era stato determinante nella sua vita perché, tenendole stretta la mano, era riuscito a farle superare quel momento. Lui sapeva cosa aveva passato, sapeva di Lucy e l’aveva aiutata a diventare forte, a diventare più sicura; che ricordasse, adesso, non era importante, era stato un tramite per superare al meglio quel periodo e non poteva che essergli riconoscente.
“Non ci ho capito molto di questa parte, tu?”
Violet interruppe quei pensieri silenziosi.
“Sì, avevo preso degli appunti a lezioni. Li leggo?”
“Sarebbe perfetto.”
Le tattiche di Violet erano utili per farla ritornare con i piedi fermi sulla terra. Non se lo immaginava un giorno senza di lei, senza che la riprendesse, senza che cercasse di sapere di più sulle cose, non s’immaginava nessun evento senza Violet. Andrew aveva fatto la sua parte, ne era certa, ma Violet in quegli anni era stata fondamentale, adesso si fidava un po’ di più del mondo nonostante avesse sempre quella paura costante di bruciarsi, definitivamente.
“Rivediamo il primo capitolo? Non è che quelle teorie mi sono chiare.”
“Se vuoi le ripeto io, Violet. Già le avevo fatte a casa.”
“Va bene.”
Così parlarono di criminologia fino a poco prima di pranzo, infermità mentale, incapacità di intendere e di volere, carceri e cosa centravano veramente gli psicologi in tutto quel contesto. Violet sembrava abbastanza interessata alla materia, forse perché tendeva ad attribuire giusto o sbagliato a tutto ma soprattutto perché nei successivi dieci anni si vedeva a fare perizie psichiatriche, a saper riconoscere chi mentiva e chi no. Si sentiva un po’ la Patrick Jane della situazione, il corpo che le parlava, che le faceva capire le intenzioni delle persone. Tuttavia, sapeva bene che psicologia non voleva dire essere lettori della mente o della mano, significava essere umani, cogliere quella sfumatura in più e capire le cose ancora prima che gli altri le capissero.


“Andrew, oensi ti abbia riconosciuto?”
“Non credo.”
Era già arrivato alla quarta sigaretta in cinque minuti, nonostante fosse impossibile fumarne una ogni minuto, lui in qualche modo c’era riuscito.
“Sembri una ciminiera Andrew, dai.”
Jacob gli tolse con le dita la sigaretta appena accesa, per poi spegnarla sotto il getto d’acqua del rubinetto della cucina.
“Io ora la chiamo.”
“Prima stai zitto davanti a lei, quando avresti potuto parlarle o dirle qualcosa faccia a faccia, mentre ora, invece, la vuoi chiamare? Io l’ho sempre detto che i telefoni hanno rovinato il mondo.”
Andrew aveva già digitato il numero quando Jacob finì di dire le sue considerazioni personali sul mondo. Sentiva squillare a vuoto e un po’ di quella sicurezza che lo aveva spinto a chiamare, era già svanita.


“Violet mi sta vibrando il cellulare, è uno sconosciuto.”
“Sarà John! Rispondi.”
Violet emise una sorta di urletto per incitare l’amica a prendere la chiamata.
“Pronto?”
“Ciao, sono io.”
Charlotte alzò le sopracciglia e indicò il telefono come per dire è lui.
“Immaginavo. Dimmi.”
“Volevo solo sentirti. Come stai?”
“Sono in mezzo allo studio, tra poco ho un esame.”
“Allora ti chiamo in un altro momento?”
“No no, anzi, sono felice che tu abbia chiamato. Mi stavo iniziando a sentire stupida per averti dato il mio numero, credevo non mi avresti chiamato.”
Violet la guardò con fare interrogativo, lei non si sarebbe esposta così tanto e per dipiù con uno sconosciuto, e vide Charlotte portarsi una ciocca di capelli dietro l’orecchio, lo faceva solo in due occasioni: stress o imbarazzo. Ed era evidentemente imbarazzata.
“Dovevo chiamarti.”
Andrew si alzò dal tavolo da cucina, fece segno a Jacob di aspettarlo lì e salì le scale per avere un po’ d’intimità.
“Charlotte…”
“Dimmi almeno il tuo nome, non so nemmeno questo.”
“Se te lo dico, cosa cambia?”
“Posso immaginarmi come sei, ti do nomi come il ragazzo del tetto, il ragazzo mascherato e da oggi sei John.”
Charlotte rise e Andrew ricambiò quella risata.
“Perché John?”
“La mia amica sostiene che nei telefilm americani chi non vuole farsi trovare si fa chiamare John Smith.”
Il ragazzo rise più forte.
“Io vorrei farmi trovare ma ho paura.”
Tutto d’un tratto era diventato serio.
“Solo il tuo nome, per favore.”
“Charlotte…”
Lasciò il suo nome a mezz’aria, come se le sue parole si stessero dissolvendo nell’aria, come se non avesse più la forza di parlare, di andare avanti con quella discussione, come se quel coraggio che aveva trovato fosse svanito all’improvviso.
“Sto iniziando a pensare che avresti dovuto lasciarmi andare la prima volta. Sul tetto.”
“Perché?”
“Perché per te, per qualche strano motivo, non sono abbastanza. Non merito di sapere il tuo nome, di sapere il tuo numero, merito solo di sentirti così vicino da soffocare.”
“Non era mia intenzione, mi dispiace.”
“Perché sei tornato? Non era tua intenzione ma sei tornato.”
Charlotte tratteneva a stento le lacrime, sapeva di stare esagerando ma non poteva fare niente.
“Se non fossi tornato avresti capito che non era amore.”
“Amore?”
Era incredula a quella parole, lui, ipotetico John Smith, parlava d’amore.
“Non sei l’unica a stare impazzendo. Sei ovunque, fumo come un disperato, non riesco a dormire e io le ragazze me le scopo.”
“Ah, bravo. E a me cosa dovrebbe interessare?”
“Dovrebbe interessarti dato che, come avrai capito, con te è diverso. Dammi tempo.”
"Tempo?"
“Sì, tempo. Voglio che tra noi funzioni ma ho bisogno di tempo."
"Se lo ritieni sufficiente, va bene."
Charlotte sapeva che in quel momento avrebbe dovuto osare e chiedergli il suo nome, lei gli aveva concesso qualcosa, adesso stava a lui ricambiare.
"Puoi dirmi come ti chiami?"
"Andrew, mi chiamo Andrew.”
Il ragazzo sussurrò il suo nome e a Charlotte sembrò che adesso avesse tutto un senso; Andrew, non poteva non chiamarsi così. Sentì ogni dubbio dissolversi, ogni stretta allentarsi, due volte quel nome, con la stessa identica importanza. “Due Andrew nella mia vita.”
“Chi era l’altro?”
“Il bambino a cui ho dato il mio primo bacio.”
Andrew capì tutto, Charlotte inconsapevolmente stava parlando di lui, era per questo che Violet lo aveva aggredito in quel modo.
“Si?”
“Sì. Un giorno forse ti racconterò tutta la storia.”
“Mi piacerebbe sentirla.”
“E a me raccontarla.”
“Allora Charlotte ci sentiamo, ti chiamo presto.”
“Ti aspetto.”
“Ciao, Charlotte.”
“Ciao.”
Chiusero entrambi allo stesso momento, Andrew scese sotto e si limitò a guardare Jacob con uno sguardo confuso, sia Andrew che Charlotte, in due case parallele, l’una di fronte all’altra, cercarono conforto contro il muro mentre sia Jacob che Violet tentavano di chiedere qualcosa, entrambi fecero finta di non sentire niente, avevano troppa paura di dimenticare le loro voci, troppa paura di sbiadire quei discorsi con altre parole che sarebbero risultate di troppo, troppa paura che quella sarebbe stata l’ultima volta.



“Sì, torniamo stasera. Tra un’ora partiamo, lascio Violet e torno a casa.”
“Stai attenta Charlotte.”
“Sì, mamma sto attenta.”
Chiuse il telefono e sistemò le valigie.
“Nonna, tua figlia è assillante.”
“Lo so ma comprendila, ha solo te.”
Charlotte sbuffò e guardò Violet.
“Pure tu sei figlia unica, perché tua mamma non fa così?”
“Non lo so, forse perché la loro non è stata una scelta. Avrebbero voluto vivere giovani e liberi per sempre ma poi, sai com’è, qualcosa è andato storto.”
“Ogni giorno mi chiedo com’è che ancora non siamo schizofreniche o bipolari.”
“Siamo troppo forti per esserlo.”
Violet le diede una gomitata affettuosa e Charlotte le sorrise.
“Vuoi salutare Andrew prima di andare via?”
“Non è il caso. Mi è bastato vederlo una volta.”
“Va bene.”
Sistemarono tutto nel cofano della macchina per poi andarsi a dondolare un altro po’ sulla sedia a dondolo.
“Penso che mi mancherà questa pace.”
“Pure a me.”
“Parlerai con Matthew quando tornerai?”
“Sì credo che sia arrivato il momento.”
“Cosa gli dirai?”
“Che mettiamo lo scotch sulla tazzina.”
“Non mi prendere in giro.”
Charlotte le sorrise e le diede un colpetto sulla gamba.
“Ahi.”
“Dai che non ti ho fatto niente.”
L'amica divenne seria un attimo e poi chiese a Violet quello che l’affliggeva da quando aveva chiuso quel telefono.
“Pensi che mi richiamerà?”
“Ha detto che lo avrebbe fatto.”
“Sì, lo ha detto.”
“Allora forse lo farà. In caso contrario, troveremo una soluzione.”
Violet guardò un po' più a lungo Charlotte per farle capire che non sarebbe stata sola e che lei sarebbe stata sempre al suo fianco. Poco dopo decisero di andare via, volevano avere il tempo di fare una doccia prima di andare a dormire. In quella strada del ritorno, con le nuvole sopra, l’odore di legna bruciata a stuzzicarle il naso e qualche grillo che faceva notare la sua presenza, Charlotte tornò indietro a qualche anno prima.


“Dai Charlotte, se riesci a salire fino a qui sopra, vedrai una cosa da urlo.”
Andrew sembrava entusiasta e alla bambina non andava di deluderlo.
“Però devi darmi una mano, io con questo” – indicò l’inalatore – “non posso andare lontano.”
“Va bene, allora facciamo che ogni 5 passi ci fermiamo.”
Charlotte annuì e vide il volto di Andrew illuminarsi ancora di più.
“Allora, iniziamo.”
“Uno”
Misero prima un piede avanti e poi l’altro.
“Due.”
Fecero lo stesso.
“Adesso più veloce, Charlotte.”
“Tre, quattro e cinque.”
“Ci fermiamo?”
“Sì, un minuto e riprendiamo.”
E così facendo erano arrivati fino in cima. Charlotte non si pentì nemmeno un attimo della fatica che aveva provato salendo, era la cosa più bella che avesse mai visto.
“Ti piace qui?”
“E' bellissimo.”
All’orizzonte si scorgeva la costa, tantissimi alberi fitti fra di loro e dato che il sole era coperto da qualche nuvola riuscivano a vedere tutto con meno luminosità ma più nel dettaglio.
“Sdraiati, guardiamo il cielo.”
Charlotte annuì ancora e si sdraiò, mettendo le braccia dietro la testa in modo da evitare di scompigliarsi la treccia che aveva fatto la mattina stessa con tanta cura, per riuscire a farla in quel modo aveva dovuto esercitarsi per ore con le sue bambole.
“Qual è il tuo colore preferito, Andrew? Il mio è il rosso.”
“A me piace l’azzurro.”
Osservò il cielo con occhi sognanti.
“Azzurro come il cielo”
Puntò il cielo con l’indice.
“Però non questo azzurro qui. A me piace il cielo dopo le nottate di pioggia, è più azzurro”.
La bambina rise.
“Non esiste il più azzurro!”
“Per me sì.”
Charlotte aveva preso a fargli il solletico, proprio vicino ai fianchi, sapeva che quello era il suo punto debole, Andrew iniziò a ridere con le lacrime e la bambina notò che fino a quel momento non lo aveva mai visto così felice.
“Quando andiamo a vedere le anatre?”
“Se vuoi anche ora. Andiamo? Ora la strada è tutta in discesa.”
Andrew presa la mano di Charlotte e insieme scesero lungo il sentiero. La bambina tirò un attimo la mano e, non appena Andrew si girò, lo avvicinò a sé e gli diede un bacio a fior di labbra. Andrew arrossì così violentemente che Charlotte ebbe paura che potesse svenire da un momento all’altro.
“Perché?”
“Grazie.”
Charlotte sfoderò il suo sorriso più radioso, quello più dolce o forse quello più sincero. Andrew ricambiò e poi si girò per andare al lago, continuarono a stringersi le mani perché a loro quel poco bastava.




Un giorno le sarebbe piaciuto raccontarlo al piccolo Andrew per farglielo ricordare ma forse, forse quella sera avrebbe dovuto capirlo dall’azzurro, più azzurro, della maglietta che indossava sotto la giacca nera che quello era il suo Andrew.






spazio autrice
Siamo ad un nuovo capitolo, sono successe tante cose, si sono urlati al telefono, hanno quasi litigato ma alla fine si sono parlati come avrebbero fatto di presenza. Andrew continua a non volersi mostrare ma non può fare altro, ha chiesto del tempo e Charlotte è disposta a dargliene, ancora. In questo capitolo ci sono stati ancora altri dettagli e il flashback che, personalmente, dopo quello delle anatre, adoro tantissimo. Spero che il capitolo sia di vostro gradimento e spero di ricevere le vostre considerazioni. Come sempre grazie mille a tutte voi che seguite la storia con tanta passione <3
Ricordo che la storia ha un gruppo facebook: bittersweet memories.
Al prossimo capitolo :)

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Capitolo 18
*** 17. Cinque anime. ***


Capitolo 17.



Violet aveva detto a Matthew che si sarebbero incontrati nello stesso posto in cui si erano conosciuti anni prima, lei era arrivata lì con molto anticipo e, non appena arrivata, le era sembrato di sentire un profumo di fragola aleggiare nell’aria. Sapeva che era solo una sensazione, che era impossibile, ma per un attimo sperò che quell’odore le desse la stessa forza di anni prima. Le gambe le tremavano dall’emozione, le mani erano sudaticce e appiccicose e il cuore le martellava senza sosta; non sapeva come iniziare quel discorso, avrebbe preferito attaccarlo, insultarlo nel migliore dei modi per come aveva sofferto ma aveva paura che se ne sarebbe scappato a gambe levate. In fondo non era riuscito a capirla una volta, figuriamoci la seconda in cui si presupponeva che si dovessero riappacificare. Faceva avanti e dietro con le gambe, si fissava più volte le ballerine nere che indossava come porta fortuna e si pentì di essere arrivata in anticipo; aveva questa assurda abitudine che la rendeva solo più nervosa. Si ripeteva in testa che in fondo Charlotte avesse ragione, loro si amavano e potevano ricostruire insieme. Continuava a muoversi istericamente, avanti, indietro, seduta sulla panchina e ad ogni passo accompagnava un pensiero alternato al guardare l’orologio. Mancava poco e tutto sarebbe finito, non importava come sarebbe uscita da quella situazione, sapeva solo che avrebbero parlato e lei avrebbe saputo tutta la verità.
“Violet?”
Stava guardando l’albero davanti a sé e a quel richiamo si girò lentamente; la voce di Matthew la fece trasalire, dopo tutto quel tempo continuava ad avere quelle strane farfalle allo stomaco quando pronunciava il suo nome.
“Matthew.”
Non ebbe modo di guardarsi allo specchio, tutto quel contegno che pensava di aver riacquistato cadde in frantumi quando lui la raggiunse a grandi falcate e la abbracciò. Matthew aveva questo modo di fare, forse troppo espansivo, e ti abbracciava come per possederti, per farti capire che non hai scampo e che è lui a decidere quando potrai andartene. Violet inspirò a fondo il suo odore, usava ancora lo stesso profumo che le aveva regalato lei tanti anni prima misto a quell’odore di pulito dettato dal suo bagnoschiuma al sandalo. Chiuse un attimo gli occhi e poi si abbandonò a quel pianto liberatorio che aspettava da mesi, desiderava quell’abbraccio più di qualsiasi cosa, le erano mancate quelle braccia, le erano mancati quegli abbracci e soprattutto le era mancato lui. Le sue braccia, che prima si trovavano parallele alle sue gambe, incominciarono a contrarsi e farsi sempre più vicine a lui, non voleva abbracciarlo subito, non voleva assecondarlo ma sapeva che quella partita la stava vincendo lui e che adesso tutte le domande, tutte le parole erano inutili. Alla fine si lasciò andare a quell’abbraccio che la fece sentire sempre meno sola e a pervaderla fu un senso di pienezza che non provava dall’ultima volta che si erano baciati.
“Perdonami, non ti meritavi niente di tutto quello che ho fatto.”
Le sussurrò quelle parole all’orecchio e niente le sembrò più perfetto, aveva sognato mille volte quella frase ma non credeva che potesse effettivamente mai sentirla, soprattutto da lui che era sempre stato orgoglioso.
“Potrai mai perdonarmi?”
Matthew sciolse quell’abbraccio e Violet ebbe appena il tempo di asciugarsi le lacrime.
“Puoi?”
La ragazza annuì con tutta la convinzione che aveva in corpo e Matthew le sorrise, non lo vedeva così felice da tempo, per lui era come se l’avesse riconquistata un’altra volta e questa volta, però, per sempre.
“Grazie.”
Violet ricambiò quel sorriso ma non riusciva ancora a dire niente, aveva paura che sarebbe stato superfluo dire qualcosa e soprattutto che sarebbe scoppiata a piangere di gioia come un’idiota. Matthew sembrò capire e si avvicinò a lei, ancora una volta, la prese in braccio e le fece face un giro completo su se stesso.
“Grazie, grazie, grazie.”
Prima che piedi di Violet toccassero terra, i loro nasi si sfiorarono, si guardarono negli occhi a lungo e poi la ragazza lasciò che le loro labbra si toccassero, Matthew in un primo momento sembrò esserne sorpreso ma poi ricambiò quel bacio che racchiudeva quanto si erano mancati, quanto l’esistenza dell’uno fosse stata inutile senza l’altra e quanto l’orgoglio li avesse danneggiati, tanto da perdersi.


Avessi un altro modo per guardarti lo farei.


Charlotte, una volta, pensava a se stessa come uscita da quei film americani ambientati negli anni sessanta, un cappello di paglia in testa, le braccia intrecciate, la mano pendente con una sigaretta tra le dita e quegli occhiali da sole, piccoli e tondi a farle da tramite per il mondo. Si immaginava in quel modo da ogni parte, come se avesse un' aureola attorno a sè piena di mistero, di sensazioni di positive e credeva che un giorno tutta quella indifferenza, se presa per mano, sarebbe svanita così come era arrivata. Violet l’aveva presa per mano, l’aveva stretta forte e adesso era in ansia per la sua migliore amica, sperava dal profondo del suo cuore che risolvesse tutto con Matthew. Aveva sempre visto al loro amore come qualcosa che avrebbe voluto, l’appartenersi, lo stare sempre insieme e c’era qualcosa nel modo di lui di guardarla che le faceva trattenere il fiato. Era come se, in quel momento, esistesse solo lei, che gli altri avessero perso importanza e c’era solo Violet per lui, e per lei c’era solo Matthew. Solo una persona l’aveva fatta sentire allo stesso modo, Andrew. Sul tetto l’aveva guardata in quel modo dalla prima parola scambiata, come se avesse avuto un’apparizione angelica o qualcos’altro. Provava a distrarsi bevendo la birra ma aveva avuto la sensazione che quando lei guardava il paesaggio sul tetto, lui guardava solo lei. Aveva sognato tutta la vita che qualcuno la guardasse in quel modo, ma alla base aveva sempre cercato un certo tipo di amore, quel tipo di amore intimo, con qualcuno che la conoscesse per quella che era davvero, con quella persona con cui non si faceva scrupoli a dire quello che pensava o che la accettasse anche senza trucco. Dopo tanti mesi da single, dopo quelle poche persone ma del tutto sbagliate, era convinta che dovesse essere qualcuno che conosceva una parte di sè, un piccolo dettaglio che conoscevano solo loro due. Si dice che i più grandi amori nascono da un piccolo segreto, da una piccola sfaccettatura condivisa che li tiene silenziosamente legati tra loro e Charlotte ne era fermamente convinta. Ne aveva vista di coppie così, che nel mezzo di una chiacchierata si guardavano e sorridevano, credendo che quella sfumatura non potesse essere colta da nessuno, se non da loro.

 
Avessi una ragione per scordarti, proverei.


Eric, probabilmente, poteva apparire come un ragazzo normale, socievole e aveva quelle ciocche bionde che lo facevano apparire più gentile di quanto non fosse. In quegli ultimi giorni si era preso una sbandata enorme per una ragazza che era evidente che non avesse alcuna voglia di essere amata, o per lo meno di essere amata da lui. L’aveva vista molte volte sul treno negli ultimi mesi, se ne stava in disparte a pensare ma aveva notato che nelle ultime settimane quei pensieri si erano intensificati, la vedeva più assorta del normale. Era distratta, si girava all’improvviso e a volte sembrava andare in un altro mondo completamente, come se quello reale non le bastasse più. Per lui, Charlotte era una sorta di sogno che diventava realtà, gli erano sempre piaciute le ragazze pensierose, che dicevano sempre quello che pensavano e che avevano quella strana espressività negli occhi, che spesso diceva più di mille parole. In quel momento si trovava ad aspettare il treno, quel giorno non aveva una meta precisa ma sperava di poterla vedere, per stuzzicarla un po’ o forse perché negli ultimi giorni non averla vista gli aveva fatto pensare che lo stesse evitando. L’ultima volta le aveva risposto male, se ne erano andato via un po’ seccato ma questi erano i rapporti per Eric, burrascosi all’inizio ma intensi fino alla fine. Si guardò intorno ma di lei nessuna traccia, il treno era già arrivato e lui si andò a sedere nel posto che Charlotte era solita occupare. Si sistemò un attimo e poi prese le stesse posizioni che assumeva Charlotte, aveva un che di confortante quel posto, gli faceva guardare le cose in maniera armoniosa e si aveva chiaramente idea di tutto ciò che si aveva intorno.
E’ una maniaca del controllo pensò Eric, ma in fondo non la conosceva poi così tanto da trarre conclusioni. Ricordava ancora la prima volta in assoluto che le era arrivato addosso, era stato dopo quella volta che le aveva sorriso e lei si era seccata, aveva fatto in quel modo solo per scrollarle di dosso un piccolo fiore secco che le si era appeso sotto la manica destra del cappotto. Adesso quei petali lilla si trovavano in mezzo a un libro, al terzo piano dello scaffale della libreria del suo studio, ma poco importava: per quel giorno non c’era ancora e stava iniziando a mancargli.


Avessi un altro giorno per guardarti, lo farei


Andrew quel giorno si trovava al molo, lo stesso di qualche giorno prima, aveva deciso di andare via dalle lezioni per la noia che lo aveva pervaso troppo presto e si trovava sopra quei soliti blocchi di cemento che sovrastavano il mare. Stare lì solo, con la musica a fargli compagnia lo intristiva parecchio, sentiva un po’ di solitudine farsi spazio in lui e guardava il mare sempre con quella sigaretta in mano. Ormai era totalmente dipendente dalla nicotina nei momenti in cui era troppo nervoso, per il resto poteva anche farne a meno, era una di quelle persone che non si disperava se le aveva finite o aveva dimenticato il pacchetto a casa. Era raro che fumasse alle feste, il fatto di fumare lo pensava più come una cosa personale, da condividere solo con se stesso, piuttosto che un momento di gruppo; anzi, li odiava quelli che fumavano per spirito di partecipazione. Il non avere una propria opinione sulle cose era uno di quei modi di fare che Andrew odiava, storceva il naso ogni volta e forse era per questo che Charlotte l’aveva colpita così tanto. Sentendola parlare sul tetto, aveva avuto la piena sensazione che lei avesse sempre idea delle cose che stesse dicendo e ci leggeva dentro una coerenza che poche volte aveva incontrato, forse solo con se stesso.
Tirò un sospiro così profondo, che sentì il fumo invadergli i polmoni, fin all’ultima costola, e rifletté che nelle ultime settimane qualsiasi discorso che avveniva nella sua mente andava a fluire in un’unica direzione con relativo crampo allo stomaco. Si malediceva in continuazione ma non riusciva ad aiutare quei sentimenti che sembravano essersi impressi bene in ogni parte della sua mente senza lasciare spazio a nient’altro. Ancora se le ricordava le parole di Jacob Cos’è? Ti sei innamorato? lui aveva dato una risposta stupida ma non poteva farci niente. Nella sua testa aveva tutto chiaro, i sintomi erano chiari, il problema stava nel saperli esprimere in maniera adeguata e lui non riusciva a mettere due parole dietro all’altra e dichiarare tutto con una frase. Si guardò intorno, in quel molo c’era solo lui, nessuno poteva pensare che fosse pazzo se avesse parlato ad alta voce, così si decise a fare una prova.
“Io sono i… i…”
Primo tentativo miseramente fallito, non riusciva nemmeno a riaprire la bocca per completare la frase, balbettava anche un po’.
“I… infatuato”
Cercare parole simili non l’avrebbe aiutato, magari se avesse iniziato con il soggetto di quella frase sarebbe andata meglio.
“Charlotte, senti, i… io so…o…o… no”
Prese un lungo respiro.
Si schiarì la voce.
“Sono un coglione disperato.”
Buttò fuori tutta l’aria che aveva in gola.
Era impossibile dirlo, figuriamoci dimostrarlo a qualcuno.
 

Avessi una ragione per fermarti, proverei.

 
Matthew stava accarezzando Violet da più di un quarto d’ora, le si era addormentata accanto dopo aver visto un film a casa sua e lui non aveva avuto la voglia di svegliarla da quel sonno. Continuava a toccarle delicatamente la guancia con movimenti regolari perché non la credeva reale. Erano passati tre giorni dal loro nuovo primo bacio, dall’essere nuovamente una coppia e non faceva altro che sperare che lei non cambiasse idea e fuggisse via da lui. Sapeva quanto l’aveva ferita, lo aveva letto nei suoi occhi quando lui l’aveva chiamata al parco, aveva visto un rapido flash di tutti quei mesi che avevano vissuto l’uno senza l’altro e gli si era creato un vuoto. Quel giorno era andato lì solo per sentirsi insultare, per essere preso a brutte parole e per essere poi abbandonato in pochi minuti e, invece, Violet aveva avuto la forza di perdonarlo perché aveva creduto a ogni parola scritta nella lettera. La difficoltà nello scrivere quelle parole era stata immensa ma sapeva che era l’unico modo per parlare con lei, per usare le parole giuste e darle le spiegazioni che meritava. Si era spinto oltre, aveva detto di averla tradita e non era vero, aveva detto di non amarla e non era vero, solo una cosa era vera: l’amore profondo che li legava e che continuava a legarli. Sapeva di conciliarle il sonno accarezzandola, lo aveva imparato nel corso degli anni insieme, era più forte di una ninna nanna e lui continuava in quel movimento. Violet respirò forte un attimo e poi si svegliò, aprendo gradualmente i suoi occhi.
“Stavo dormendo?”
“Direi di sì.”
Le rispose con un sorriso enorme, gli era mancata pure quella domanda, quando si addormentava all’improvviso e al risveglio si chiedeva cosa avesse fatto.
“Ah..Scusami.”
“Per cosa?”
“Ti ho pure sbavato.”
“Vuol dire che avevi sonno e io sono un cuscino morbido.”
“Sofficissimo.”
Violet ricambiò quel sorriso e iniziò a puntellarlo con le dita per fargli il solletico.
“Dai, lo sai che se no rido.”
“E che ci fa?”
Aveva continuato con quei movimenti veloci e Matthew stava ridendo a crepapelle.
“Dai, amore smettila.”
Era come se fosse stata sganciata una bomba, Violet si bloccò di scatto, sistemò le mani e le posò sulle proprie gambe.
“Ancora è presto, Violet. Scusa.”
“No, non lo è.”
Matthew sembrò sorpreso dalla risposta appena datagli.
“E cosa?”
“E’ solo che sembra che tu non te ne sia mai andato, mentre invece non è così.”
Violet si era già messa in piedi.
“Lo so e mi dispiace per quello.”
“E’ come se avessimo ripreso da dove avevamo lasciato. Prima della festa, prima che mi dicessi che non mi amavi più, avevo dormito su di te come oggi e avevamo visto un film. Mi ricordo pure il titolo.”
“Rapunzel.”
Lo dissero all’unisono, come se quel pomeriggio fosse ben impresso nelle menti di entrambi.
“Quel cavallo era troppo simpatico.”
“E non cambiare discorso.”
“Okay.”
“Devi promettermi una cosa.”
Matthew alzò il sopracciglio destro ed esitò un attimo prima di farle cenno di sì con la testa.
“Cosa?”
“Se non dovessi più amarmi, se provassi qualcosa per un’altra, voglio saperlo subito.”
“Lo sai che non succederà mai?”
“Devi solo promettere.”
Violet lo guardò fisso negli occhi.
“Lo prometto.”
“Non incrociare le gambe o le dita o le mani.”
“Niente di niente.”
“Promesso?”
“Promesso. Però devo darti una cosa.”
“Un’altra lettera?”
“No, un’altra cosa. Ti piacerà.”
Matthew si alzò dal divano e si diresse verso la cucina, in quel frangente Violet sentì un brivido di freddo pervaderla la schiena così si avvicinò alla coperta che poco prima le cingeva le spalle.
“Chiudi gli occhi.”
“Perché? Non ho mica cinque anni.”
“A volte sì, un attimo.”
Violet socchiuse le palpebre e lo sentì avvicinarsi, sedersi accanto a lei su quel divano e aspettare che riaprisse gli occhi per mostrarle il suo dono. Avvolto in un incarto azzurro, c’era un cioccolatino, un piccolo pezzo di cioccolato, lo stesso che anni prima lui le aveva regalato.
“Cioccolato al latte?”
“Sì.”
Quasi si stupì che, dopo quel tempo, lui ricordasse ancora cosa le piacesse.
“Avevo detto che ti sarebbe piaciuto.”
Sorrise compiaciuto verso di lei e Violet vide nei suoi occhi che, adesso, era a tratti rilassato. Lo vide stendere i piedi sul mobiletto rosso davanti al divano, stendersi su di esso e alzare il braccio verso lo schienale accennando a Violet che quello era il suo posto, nessun’altro. La ragazza si decise ad avvicinarsi, si sistemò la coperta, scartò il cioccolatino e mentre assaporava quella cioccolata finissima, pensava a loro.
Cioccolato al latte e Cioccolato fondente.
Violet e Matthew.





spazio autrice.
Nuovo capitolo, diverso dal solito e devo dire che fino ad ora è uno di quelli che più mi soddisfa. Ho fatto parlare i nostri cinque protagonisti, avete conosciuto anche Matthew più nello specifico e spero che il tutto sia stato di vostro gradimento. E' un capitolo di passaggio, adesso è come se avessi nuove basi e nuove conclusioni e potessimo passare alla nuova parte. Vi ricordo che prossimamente ci sarà un colloquio psicologico a cui Charlotte dovrà assistere, c'è solo da capire con chi, anche se penso che dai diversi dettagli lasciati in giro capirete bene chi è! Le frasi che intervallano i diversi capitoli sono presi dalla canzone "Avessi un altro modo" di Marco Mengoni, dall'atmosfera e da come la canta al concerto mi è sembrata molto adatta per i nostri protagonisti. Come ogni capitolo vi ringrazio per tutto, a chi segue, ricorda e preferisce e alle ragazze che ogni capitolo sono lì per recensire <3 GRAZIE MILLE! 
Ricordo che la storia ha un gruppo facebook, sarebbe bello se richiedeste l'iscrizione perchè scrivo sempre quando aggiorno e aggiungo pezzi di capitolo ogni volta che scrivo (: bittersweet memories.
Alla prossima, Marty (:

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Capitolo 19
*** 18. Guardarsi intorno. ***


Capitolo 18.



Violet aveva aggiornato l’amica velocemente e si erano abbracciate a lungo.
Charlotte si ritrovò ad essere felice per Violet e per la sua felicità. Erano già passati quattro giorni da quando erano state in campagna della nonna e tornare alla normalità non era stato poi così semplice, ritrovarsi a lezione, sedute, ad ascoltare le parole dei professori era sempre più difficile. Nel frattempo Charlotte aveva la sensazione di essere sola per la maggior parte del tempo, Violet aveva sempre gli occhi a cuoricino, durante le lezioni aveva la testa per aria e non riusciva a staccarsi dal suo cellulare; inoltre, la vedeva sorridere più del dovuto e spesso le aveva detto “Ora lo trovo io questo Andrew”. Charlotte, puntualmente, si limitava a scrollare alle spalle, un po’ per dirle “fai come vuoi” ma soprattutto perché ci credeva poco, davvero poco e aspettava, anche lei impaziente, una bella chiamata che diceva chiaramente dove vedersi e quando. La ragazza sospirò e continuò a prendere gli appunti sul quaderno, aveva un enorme vortice di pensieri, soprattutto per l’imminenza dell’esame. Sarebbe stato la settimana dopo ma lei sentiva di avere una preparazione sommaria, come se avesse tanti post-it attaccati l’uno sull’altro; era sicura che, se fosse entrato uno spiraglio di vento nel suo cervello, si sarebbe staccato uno di quei pezzi di carta per poi portarsi dietro tutti altri. Guardò Violet e notò anche i cuori nel quaderno, un po’ se ne era dimenticata ma adorava vederla così, felice ma allo stesso tempo diversa, era come se avesse smesso di cercare. Prima cercava il Matthew che non poteva avere attorno a sé, lo cercava in ogni angolo, in ogni strada, vagava con gli occhi in cerca di un suo dettaglio per stare meglio e per rendersi conto che non aveva perso niente ma adesso che lui era di nuovo accanto a lei, che senso aveva cercarlo?  Aveva tutto quello che aveva bisogno a un battito di cuore.



La lezione era passata molto lentamente, Charlotte non riusciva a reggere tutti quei concetti di leadership e grafici di forme alquanto assurde e spesso, quando perdeva in aria le frasi dei professori, organizzava cosa avrebbe fatto nei giorni successivi. Il colloquio si stava avvicinando e lei era sempre più emozionata riguardo a quello che avrebbe visto, sapeva di aver idealizzato tanto quel momento ma non poteva fare altrimenti. Le parole della dottoressa le risuonavano nelle orecchie e la sua curiosità cresceva, chi sarebbe stato il protagonista? Chi avrebbe dovuto vedere Charlotte attraverso uno specchio?
“Allora la lezione finisce qui. Il capitolo spiegato oggi è il dodici, domani continuerò con le slide.”
Charlotte segnò il capitolo, avrebbe studiato tutto a casa e si avviò velocemente a sistemare i libri.
“Quando hai il colloquio?”
“Mercoledì prossimo.”
“Ma l’esame è giovedì.”
“Lo so ma devo andare.”
“Sì, secondo me quest’esperienza ti piacerà.”
“Spero di non aver idealizzato troppo questo momento.”
“Secondo me no, Charlotte. E poi chissà chi è, potrebbe essere anche un nostro collega.”
“Okay che sono pazzi ma non fino a questo punto.”
Violet rise compiaciuta e Charlotte si rese conto che quelle battutine sarcastiche non le uscivano da tempo.
“Viene a prenderti Matthew?”
“Sì. Tu? Vuoi un passaggio?”
“No, grazie. Preferisco andare a piedi.”
“Vuoi incontrare Eric, eh?”
Charlotte si sorprese alla domanda di Violet, in realtà non ci aveva nemmeno più pensato a lui o quantomeno non in quel senso. Non esisteva che facesse delle cose solo per vederlo, non poteva perdere pezzi di se stessa, non poteva annullarsi come aveva fatto in passato solo per pochi minuti.
“Non direi.”
“Allora accetta il passaggio.”
“Non sono dell’umore di vedere due fidanzati sbaciucchiarsi.”
Sospirò prima di continuare la sua argomentazione.
“Sono felice della vostra felicità ma non posso stare nel sedile dietro della macchina a guardarvi. Scusa, Violet.”
“Almeno sei stata onesta e ti capisco.”
Violet sembrò non essersela presa e salutò subito l’amica per precipitarsi da Matthew, Charlotte gli fece un lieve cenno con la testa per poi imboccare la strada verso il treno.
Era egoista, ne era consapevole, non riusciva a guardare altre coppie, gente baciarsi, divorarsi la faccia e poi con l’arrivo della nuova stagione, la situazione diventava insostenibile per una single incallita, le strade pullulavano di coppie felici e ai primi mesi di vita di coppia. Charlotte puntualmente pensava che si sarebbero lasciati dopo poco, quegli amori avevano vita breve, il tempo di mettere il costume di bagno e lanciarsi in quegli inutili amori estivi. Più percorreva quelle strade e più aveva voglia di tornare a casa e rintanarsi lì dentro, quasi barricandosi. Da quando Andrew non l’aveva più chiamata non aveva tutta questa voglia di vedere amore in giro, anzi si era data della rincoglionita perché aveva creduto alle parole del ragazzo. Andava bene la timidezza ma solo la prima volta, non la seconda e pure la terza. Si posizionò davanti la fermata e vide Eric appoggiato su un lampione con la testa china su un libro. Si diresse verso di lui come se le sue gambe si muovessero da sole.
“Sogno o son desto?”
“Non sogni.”
“Allora posso dire che mi hai disturbato tu e non io.”
Eric le sorrise un po’, alzò quel lembo di pelle e una piccola fossetta si andò a materializzare proprio sulla sua guancia; Charlotte fece finta di non notarlo ma ebbe modo di guardarlo un attimo in più.
“Diciamo di si.”
“Come stai?”
“Sono stata meglio, tu?”
“Annoiato. Sai andare all’università, tornare, studiare. Mi secca.”
Charlotte annuì e si soffermò a guardare i suoi occhi, non avevano un colore fuori dal comune, erano marroni, grandi ma fin troppo profondi. Le sembrò di arrancare un attimo con il respiro, non ci aveva fatto mai caso, forse perché era troppo intenta a notare i dettagli, quelle cose poco comuni, ma non aveva notato quanto fosse diverso nella sua ordinarietà. Si soffermò a guardare i capelli, chissà come sarebbe stato toccarli, magari sarebbero stati soffici come Andrew ma in quelle sfumature di biondo ci vedeva il colore del grano, della paglia e della campagna di sua nonna d’estate.
“Stai bene?”
Charlotte trasalì.
“Sì, scusa. Stavo pensando.”
“Guardando i miei capelli?”
Eric continuò con quel suo sorriso, alzando un sopracciglio più in alto dell’altro e Charlotte arrossì violentemente, era stata scoperta ma si limitò a volgere via lo sguardo.
“Torni a casa?”
“Sì, Eric. Le lezioni mi hanno stancata.”
“Lì c’è il tuo treno.”
“E tu?”
“Prendo il prossimo.”
Charlotte lo guardò interrogandolo, era curiosa di sapere perché non lo avrebbe preso.
"Perchè? Se posso chiedertelo."
“Mi farebbe male non parlarti per dieci minuti interi o far sfociare tutto in un litigio, come la scorsa volta. Presumo che nemmeno tu voglia queste due cose quindi, ripeto, prendo il prossimo.”
La ragazza rimase a bocca aperta ma allo stesso tempo sbalordita, lui tendeva a darle queste piccole frecciatine ogni tanto, forse per vedere se fosse attenta o forse perché voleva dirle senza pochi giri di parole quello che provava.
“Puoi comunque prenderlo. Oggi non ho problemi a parlarti per dieci minuti.”
Charlotte si passò una mano dietro l’orecchio per poi sistemare una ciocca di capelli troppo ribelle.
“Se lo dici tu. In ogni caso mi sembri nervosa.”
Eric scrollò le spalle come se avesse detto la cosa più normale del mondo e Charlotte si ricompose per darsi un contegno, ormai nemmeno gli diceva più di smetterla con tutte quelle insinuazioni continue, che di falso avevano poco ma che la infastidivano.
“Scusami Charlotte.”
“Posso anche sedermi insieme a te ma…”
“Smettila di fare queste battutine.”
Adesso Eric la stava pure imitando.
“Va bene, smetterò di fare le mie battutine inutili.”
Charlotte sospirò e rese evidente la sua esasperazione, non sapeva più come gestirlo, come se ci fosse un modo.
“Sali pure tu, Eric?”
Il viso del ragazzo si illuminò un attimo, gli occhi divennero un po’ più chiari e poi si decise a salire sul treno; pian piano stava togliendo pezzi di quel muro costruito abilmente intorno a lei e lo stava facendo entrare.
“Sì, vengo.”
Charlotte lo guardò ancora un attimo e pensò che forse non c’era niente di male nell’avere una nuova persona nella sua vita, per quanto fosse pieno di difetti la ragazza non faceva altro che dirsi che probabilmente non sarebbe riuscito a deluderla più degli altri.
 

“In fondo le lezioni di ingegneria informatica sono interessanti ma non è quello che voglio fare. Sto assecondando mio padre, so che potrò avere un posto sicuro quando mi laureo e quindi seguo svogliatamente tutto ma poi ho buoni risultati. Non sono cretino, insomma.”
“Sicuramente no ma non condivido. Io ho scelto la mia facoltà per passione. Non immaginerai di studiare altro se non quello che amo.”
“Il fatto è che io leggo anche quello che amo.”
Charlotte sembrò stupita da quella affermazione.
“Come? E dove lo trovi il tempo?”
“La notte, quando aspetto qualcosa, quando aspetto qualcuno. Non hai visto che poco fa leggevo?”
Charlotte ricordò, rivide Eric sotto il lampione ad aspettare il treno e annuì.
“Ecco, sono questi quei momenti.”
Si sistemò meglio sul sedile arancione, allungò le mani verso l’alto per poi posizionarle dietro la testa, incrociando le dita.
“Rendono la vita a tratti migliore e compensano il non studiare quello che amo.”
Alla ragazza sembrò una spiegazione plausibile ed ebbe modo di ricredersi un attimo su di lui, sotto quei movimenti distratti e quella sua iperattività, c’era una voglia di vivere che le era entrata per un attimo nelle vene.
“Penso di essere arrivata.”
“Sì, vero. Allora niente, ci vediamo presto.”
Charlotte esitò un attimo, avrebbe voluto conoscerlo un po’ meglio, voleva ricredersi un altro po’.
“Vicino casa mia c’è una gelateria. Se vuoi possiamo andare insieme.”
Eric le sorrise, in quell’affermazione la ragazza lo stava mettendo a conoscenza che forse poteva entrare nel suo mondo ma Eric sapeva che lei non era del tutto pronta e non voleva forzare la mano, era passato poco tempo dal non sopportarsi al tollerarsi con un debole sorriso sulle labbra.
“Per oggi passo, mi prenoto la prossima volta.”
Charlotte sembrò sollevata dall’affermazione, lo aveva fatto più per gentilezza, più per dimostrare a lui che in realtà lei era diversa ma si limitò solo ad aggiungere un pezzo di frase e sorridergli.
“Si, sarà per la prossima.”
Lo salutò velocemente e scese dal treno, si voltò un attimo indietro sperando di incontrare gli occhi marroni di Eric ma lui era già chino sul suo libro, non sapeva niente di lui eppure adesso la cosa stava incominciando ad intrigare pure lei. Mise le mani dentro le tasche, cercò di camminare più velocemente e, in meno tempo rispetto al solito, arrivò a casa. Tolse le scarpe, i vestiti, si infilò subito il pigiama e iniziò a cucinare per il pranzo. Per l’ennesima volta sarebbe stata da sola ma con il tempo le importava sempre di meno, all’inizio pensava che il pranzo fosse importante, in fondo le famiglie nelle pubblicità della Mulino Bianco erano sempre attorno ad una tavola imbandita, come se non vedessero l’ora di stare insieme, ma nella sua famiglia non funzionava così. I suoi genitori erano presi dal lavoro e spesso preferivano fare straordinari e doppi turni per avere qualche soldo in più al mese, anche se la necessità non c’era. L’unico periodo in cui i suoi genitori le erano stati davvero accanto era stato dopo essere svenuta a scuola, avevano passato un mese con lei, guardando insieme i film Disney il pomeriggio e preparando ogni giorno una ciambella diversa, ma poi erano tornati alla solita vita. Se risultavano assenti fisicamente, non si  poteva dire che fosse lo stesso per quanto riguardava la loro presenza aleatoria. Charlotte era sommersa da chiamate al cellulare, avevano l’accortezza di non disturbarla durante le lezioni e quando usciva ma per il resto, a pranzo, il pomeriggio e, quando proprio non riuscivano a tornare a cena, la bombardavano. Era un modo stupido di tenere le cose sotto controllo nonostante la loro assenza fisica ma a vent’anni non era più giustificabile. Uscì dal congelatore uno di quei pasti precotti che tanto odiava, lo infilò velocemente nel microonde e poi si abbandonò sul divano. Era stanca di quel momento della sua vita, dettato da un’incertezza che per lei non aveva né capo né coda, socchiuse gli occhi e sistemò meglio il cuscino sotto la sua testa. Provò a tranquillizzarsi ma venne distratta dal telefonino che squillava, si diede della stupida per averlo lasciato sul tavolo, e fece tutto velocemente per prendere la chiamata.

“Pronto?”
Aveva il fiatone inutilmente. Gli anni senza palestra si stavano facendo sentire.
“Sono Andrew.”
“Ah.”
Provò a riprendere fiato ma il cuore aveva perso un battito.
“Scusami se non ti ho chiamato. In realtà non ho scuse ma non ci riuscivo.”
Charlotte aggrottò la fronte e mise un braccio sopra il tavolo per sostenersi.
“Okay. Quindi?”
“Quindi niente, volevo farti solo sapere che sono vivo.”
“Va bene ma tu ci hai mai pensato di farti vedere da qualcuno?”
Stava iniziando ad alzare la voce.
“Da uno bravo, però.”
Andrew stava ridendo.
“Charlotte sei divertente ma non ha senso questa cosa.”
“Invece ce l’ha, questa cosa che fai. Ti mostri, ti esponi, ti nascondi, è un misto tra fobia sociale e altro. Io ti consiglio di andarci.”
“Ti ho già detto l’altra volta che non so come gestirle queste cose.”
“Va bene ma non vedendoci e sapendo solo il tuo nome io non posso aiutare a gestirla. Mettiti un attimo nei miei panni, okay?”
“Okay.”
Andrew deglutì nervosamente.
“Mi baci la prima volta, la seconda volta se non era per l’amica di Mary mi sarei ritrovata senza vestiti.”
“Questa parte non sarebbe stata affatto male.”
Andrew ritornò a quella sera ed ebbe la conferma che si sarebbero spinti oltre, che in fondo lei forse provava lo stesso.
“Sicuramente, ma capisci che a parte la tua voce, il tuo corpo e la consapevolezza che con te ho una connessione che non ho mai avuto con nessuno, io non so niente di te?”
“Sì.”
“Bene, allora mi spieghi cosa dovrei fare? Dimmi esattamente cosa dovrei aspettare. Cosa mi dovrebbe frenare dal conoscere altre persone?”
Andrew rimase in silenzio.
“Niente. Il tuo silenzio dice che non mi frena niente. Sarebbe più semplice per tutti e due lasciarci andare.”
“Non sono sicuro di volerlo, Charlotte.”
“Nemmeno io ma se tu non riesci a mostrarti e io non riesco ad aspettarti così tanto, vuol dire che in fondo le cose devono rimanere come sono.”
Il ragazzo deglutì a fatica, cercò una boccata d’ossigeno da qualche parte con scarsi risultati.
“Charlotte, io..”
“Cosa?”
“Io credo di essere..”
Charlotte provò a lasciarlo parlare ma Andrew sembrava in serie difficoltà.
“E’ meglio che lasciamo le cose così come sono, Andrew.”
“Non sono d’accordo ma ti capisco. Un giorno ci riuscirò Charlotte.”
“Lo spero.”
La telefonata finì in quel modo, senza che nessuno dei due avesse qualcosa da aggiungere.


Charlotte si buttò nuovamente sul divano, come se fosse stata svuotata dentro, ignorando il suono incessante del microonde che aveva finito la cottura.
Andrew si precipitò verso le sue sigarette e finì il pacco da 20 in meno di un’ora.
Charlotte allungò la mano verso il cuscino, provò ad abbracciarlo per avere un qualche tipo di conforto.
Andrew chiamò la ragazza che poche settimane prima gli aveva lasciato il suo numero di cellulare e sfogò ogni tipo d’istinto con lei, non gli importava che volto avesse, non gli importava che non fosse Charlotte. Jacob aveva ragione, l’amore faceva male e lui, in quel modo assurdo, stava provando ad eliminare ogni traccia di quel veleno dal suo organismo.



spazio autrice
Nuovo capitolo, più tardi del solito ma mi sono dovuta prendere necessariamente un momento ^^ Questo capitolo è stato difficoltoso, sapevo che prima o poi Andrew e Charlotte si sarebbero allontanati, per via della timidezza dell'uno e l'imprudenza dell'altra, ma speravo di dover ritardare questo momento. Adesso sono ognuno per se e chissà se Eric non riusciva a intrufolarsi in questa frattura che si è venuta a creare, già lo sta facendo e Charlotte lo sta lasciando entrare. In fondo, non ha niente da perdere. Nel prossimo capitolo ci sarà il famoso colloquio, già lo sto scrivendo quindi credo che arriverà prima del previsto. Come sempre GRAZIE  a ognuna di voi, rendete la storia quello che è e non saprei davvero come fare senza di voi, spero che lasciate due parole su questo capitolo o un vostro parere in generale, mi farebbe moltissimo piacere avere nuovi recensori (:
Come sempre vi ricordo il gruppo della storia: bittersweet memories.
Grazie ancora e a presto <3

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Capitolo 20
*** 19. Sogni, ricordi e realtà. ***


 
Capitolo 19.




 
Erano ancora alla festa dell’amica di Mary. Sentiva ancora l’ultima frase sulle labbra, sentiva ancora “allora non farlo”, lui che la stringeva più forte a sè, lei che gli cingeva le mani attorno al collo, lui che la baciava con più passione, con più esigenza, come se non bastasse mai, come se si stesse inebriando di quei baci per la prima volta, come se nessuno dei due volesse considerare il mondo, eccetto quelle due paia di labbra da baciare, da torturare e da assaporare così a fondo da avere la sensazione di non respirare e di morire senza quei tocchi. Charlotte si staccò un attimo, toccò il suo volto, i suoi capelli, come era davvero successo in quella festa e aspettava di sentire da un momento all’altro quelle parole che li avevano separati ma non udì niente. Andrew si avvicinò di nuovo a lei, prese di nuovo a baciarla, con più trasporto e iniziò a toccarle i capelli, accarezzarle un braccio con il dorso della mano e cingerle i fianchi, con tanta decisione, tale che Charlotte trasalì un attimo e poi si avvicinò ancora a lui. Lo spinse verso il divano, si posizionò sopra di lui e continuò a baciarlo, stavolta non riuscivano più a distinguere dove finisse la bocca di lei e la lingua di lui, sembravano sospesi nel tempo. Andrew spostò le sue labbra per posarle sul collo di Charlotte, lasciare una traccia di baci leggeri fino alla spalla per poi far scendere una delle due bretelle del vestito. La ragazza sospirò e lui ripetè lo stesso movimento con l’altro lembo di stoffa, baciandole ogni centimetro di pelle disponibile, ogni millimetro scoperto. Charlotte prese a toccarlo di nuovo, toccò lentamente il collo e percepì un brivido pervadere Andrew, poi andò a sbottonare, lentamente, la sua camicia per poi toccare il suo corpo. Era muscoloso, come se lo era immaginato la prima volta e prese a sfiorarlo con più dolcezza ed enfasi, Andrew prese le mani di Charlotte e le strinse forte per poi baciarla di nuovo, più a fondo. Baci sempre più caldi, sempre più avvolgenti che li portarono a diventare una cosa sola in poco tempo, in pochi istanti si appartenerono nella maniera più nobile di tutte e che, aveva un significato che prescindeva dalla pura fisicità della cosa, inserendo tutto quel sentimento che provavano. Gli affondi erano lenti ma decisi, Charlotte si ritrovava a sospirare al buio sentendo il piacere invaderle il cuore e Andrew dirigeva in quel modo perché aveva troppa paura che tutto finisse troppo presto. Provavano a stringere di più l’abbraccio che li teneva legati, così da colmare la distanza tra i loro cuori.
“Dimmi almeno il tuo nome”
Charlotte era sempre stata esigente e disse quelle parole un po’ strozzate per via di quello che stava provando. Andrew le rispose con un sospiro cercando di tornare un attimo lucido.
“Andrew, mi chiamo Andrew.”
Charlotte sorrise e pensò che quel nome le aveva dato felicità due volte nella sua vita.



Charlotte spalancò gli occhi e si mise seduta a letto. Era successo tutto pochi giorni prima, lei e Andrew che avevano deciso di finirla lì, ma quel sogno evidenziava come in realtà le cose non dovessero rimanere le stesse. Odiò se stessa per quel sogno, adesso si ritrovava con un imbarazzo crescente tra le gambe, le guance rosse per l’emozione e tanta voglia di far diventare realtà quel sogno. Si strofinò gli occhi, avvicinò il cuscino verso di se e provò a pensare di avere Andrew accanto a sè, ad accarezzarle i capelli e mandare via tutta quella voglia che aveva di lui in quel momento. Controllò l’orario e constatò che era solo mezzanotte, chiuse gli occhi ed ebbe modo di sentire un sospiro addosso, pensò di averlo un attimo vicino, e sperò di riprendere il sogno da dove lo aveva lasciato. Aveva bisogno di dormire, l’indomani sarebbe stata la sua giornata decisiva, quella che aspettava da tre anni.
Le era stato detto di arrivare puntuale e lei si trovava in macchina ad aspettare già da mezz’ora. L’appuntamento era alle nove e mezza e lei era lì già dalle nove, non si sentiva lucida e aveva dormito poco tra il sogno poco consono su Andrew e i vari risvegli di soprassalto; aveva l’eccitazione a mille, l’adrenalina scorrerle tra le vene e aveva paura che finisse tutto troppo in fretta. All’inizio vedendo l’andazzo, vedendo che avrebbe visto solo gruppi avrebbe voluto finire quanto prima, esaurire quelle ore e dedicarle allo studio ma ora quella prospettiva le sembrava da escludere. Avrebbe voluto vedere di più, aumentare il conteggio o, semplicemente, sperare che la prossima volta avrebbe assistito solo a colloqui. La dottoressa le aveva chiamato per ricordarle dell’appuntamento, come se fosse possibile dimenticarlo, come se lei potesse dimenticarlo, come se ancora non avesse capito Charlotte come fosse, dopo centosettantacinque ore insieme, la donna sembrava non averla capita. Pensieri vorticanti su come si dovesse comportare, su come dovesse agire la accompagnarono durante quella mezz’ora e proprio quando la sua mente si soffermò su un ultimo dettaglio decise di tagliare corto e uscire. Sperava di non conoscere il soggetto che sarebbe andata ad analizzare, sarebbe stato imbarazzante trovarselo davanti, guardarsi negli occhi, riconoscersi e ascoltare la sua seduta. Dettaglio che fece aumentare l’ansia di Charlotte ma che era del tutto impossibile: era solo una tirocinante, lei.
“Allora Charlotte ti faccio vedere.”
Aveva già il camice bianco addosso e si limitò a seguire la dottoressa, l’idea di conoscere la persona e trovarsela davanti continuava a ronzarle in testa soprattutto perché la dottoressa non aveva detto niente a riguardo. Camminarono seguendo lo stesso percorso che erano solite fare per le terapie di gruppo, solo che al posto di aprire la porta verde con sopra i disegni dei ragazzi girarono a destra e poi continuarono lungo tutto il corridoio. Si addentrano all’interno di un area totalmente sconosciuta a Charlotte, era tutta bianca, i colori e le risate dell’altra ala erano stati totalmente sostituiti da un ambiente quasi asettico, sembrava di essere all’interno di una lampadina a basso consumo energetico.
Continuarono a camminare per un'altra manciata di minuti e poi la dottoressa aprì una porta, all’interno uno specchio, due sedie, un tavolo e un divano color pelle. Erano pochi i colori all’interno di quella stanza, pochi i mobili, poche le finistre, l’essenziale per una seduta.
“Charlotte questa è la sala in cui si svolgerà il colloquio. Tu starai dietro quello specchio.”
Le indicò con decisione l’oggetto speculare e le sorrise, la ragazza annuì soddisfatta.
“Grazie per l’opportunità, davvero.”
La dottoressa fece un gesto con la mano, come per dirle che era inutile ringraziarla arrivate a quel punto, e iniziò a darle delle informazioni sul paziente che avrebbero visto.
“Considera che la persona in questione non viene spesso. Tende a fuggire ogni volta che si arriva alla risoluzione del problema, ha avuto un trauma da bambino e ha dimenticato tutto quello era successo prima del trauma. Sto provando a fargli ricordare le cose ma prima devo chiedergli come sta andando, l’ultimo colloquio risale a un anno fa.”
“Capisco.”
La porta si aprì in un gesto automatico: era una delle altre tirocinanti.
“Il paziente è arrivato.”
“Bene, Charlotte la mia assistente ti condurrà alla porta. Ricordati che non potrai intervenire in alcun modo, quindi stai seduta, prendi appunti o fai quel che preferisci. In quella stanza ci siamo solo io e lui e, soprattutto, lui crede che sia così.”
Charlotte annuì ancora, le sembrò di aver ricevuto le raccomandazioni che si fanno ai bambini quando vanno al parco, non toccare, non correre, non cadere e non respirare. Seguì la collega e si ritrovò in uno sgabuzzino, pensava che fosse più grande di quanto sembrasse ma aveva le stesse identiche dimensioni dello specchio, niente di meno e niente di più. Si chinò su una sedia di quelle apri e chiudi scomodissime e per un attimo si pentì di aver aspettato così a lungo, non era niente di così dinamico, niente come aveva immaginato. Si guardò attorno un attimo, gli scatoloni erano pieni zeppi di fogli sbiaditi dal tempo e dalla polvere e notò che l’unica cosa “nuova” all’interno di quella stanza era la sedia, possibilmente prima di lei qualcun’altra era stata seduta lì.
“Accomodati pure.”
Il ragazzo si incamminò verso la dottoressa, le strinse la mano e si sedette di fronte a lei. Charlotte non ebbe modo di capire chi fosse ma le importava poco, per lui quel paziente poteva anche darle le spalle ma sapeva che avrebbe appresso tanto, nonostante quegli scatoloni disordinati, quella polvere che le stuzzicava il naso e l’essere in una stanza minuscola.
“Devo scusarmi con lei, dottoressa.”
Aveva appena scritto la data su un foglio che la penna le cade di mano, quella era la voce di Andrew, del suo Andrew, quello del sogno della notte precedente.
“Non preoccuparti Andrew. Ormai mi sono abituata ai tuoi sbalzi, se così vogliamo chiamarli.”
Era lui, dietro quelle spalle, ci sarebbe stato lui, lo avrebbe visto per la prima volta. Il cuore iniziò a martellarle dentro al petto, non riusciva a coordinare i suoi neuroni e una lacrima iniziò a scendere lungo la guancia. Non sapeva quale delle due cose avesse aspettato più a lungo, vedere in faccia il ragazzo per cui aveva preso una cotta o assistere ad un colloquio psicologico.
“Parlami di questi ultimi mesi.”
Charlotte vide Andrew guardare in basso e riorganizzare un po’ le idee prima di rispondere.
“Mamma sta molto meglio, adesso sta con Anthony un’artista americano e sembra felice. Io vivo ancora a casa da solo, devo dire che non mi dispiace ma qualche giorni fa sono andato in campagna con Jacob.”
“Jacob è sempre tuo amico?”
“Sì certo.”
Charlotte pensò subito che era quello il motivo per cui non si era fatto più sentire.
“Da cosa fuggivi?”
La ragazza vide Andrew trasalire un attimo ed esitare con la dottoressa.
“A me puoi dirlo.”

La seduta deve essere un ambiente chiuso, protetto.

“Da una ragazza ma poi l’ho rincontrata in campagna. E’ assurdo.”
Charlotte non ebbe il tempo di pensare a niente che Andrew iniziò a parlare come un fiume in piena, senza che la dottoressa potesse fermarlo o fargli altre domande.
“Ho incontrato questa ragazza e credo di provare qualcosa di più profondo, io non gliene ho mai parlato, dottoressa, e la cosa mi imbarazza un po’, io non sono mai stato innamorato di nessuna. Non ci sono mai riuscito, fino ad ora ho solo appagato i miei istinti sessuali e questa ragazza mi fa muovere tutto. Sento quelle maledette farfalle allo stomaco che vorrei solo sterminare e non riesco a non pensarci. Sono andato in campagna perché volevo fuggire alla possibilità di incontrarla ancora ma me la sono ritrovata davanti.”
“E cosa hai fatto?”
“Sono stato in silenzio e ho lasciato che andasse via. Il fatto è che lei non sa che volto ho quindi non sa che ero io. Mi ha detto che già mi conosceva ma io non l’ho mai incontrata, non prima di una festa.”

Charlotte si portò una mano alla bocca, le sembrava uno scherzo di cattivo gusto, non era possibile, tra tante persone al mondo il suo Andrew e l’Andrew della sua infanzia non potevano essere la stessa persona. Aveva bisogno di guardarlo in faccia, una necessità che iniziò a pervadere ogni nervo del suo corpo, avrebbe aperto la porta di quello studio, spaccato lo specchio che li separava, solo per guardarlo veramente. Guardarlo negli occhi, riconoscerlo e conoscerlo davvero.

“Spiegami meglio questa cosa.”
“Lei, anzi una sua amica ha bussato alla porta di casa e mi ha chiesto se ricordavo di questa ragazza. Mi ha detto esplicitamente che io e Charlotte, si chiama così, ci eravamo già conosciuti tempo prima nella stessa campagna.”
“Lei ti ha parlato?”
“Sì, ha detto che evidentemente non era stata così importante come credeva. Io, però, non ricordo di averla conosciuta prima.”
“Andrew, quand’è stata la prima volta che sei andato in quella casa?”
“L’estate della terza media.”
“Quanti anni avevi?”
“13 anni.”
“C’eri mai andato prima?”
“Che io mi ricordi, no.”
“E dopo?”
“No, mia madre non voleva più tornarci.”
“Andrew, ritengo che tu ci sia stato e che tu questa ragazza l’abbia davvero conosciuta prima. Ti ricordo del blocco che hai relativo alla separazione dei tuoi genitori.”
“Non riesco a capire.”
“Avevi 13 anni l’estate che sei andato lì, l’estate prima ne avevi 12, i tuoi genitori si sono separati nell’inverno tra questi due eventi. Tu ricordi poco chiaramente cosa era successo prima quindi è possibile che tu ci sia stato lì ma non te ne ricordi.”


Ecco i motivi per cui lui non ricordava, ecco perché.


“Probabile. C’è un modo per recuperare quei ricordi?”
“Andrew te l'ho già detto. Dobbiamo agire alla base, dobbiamo capire cosa ti ha fatto dimenticare. Ci abbiamo provato in questi anni, ti sei aperto un po’ ma non so dirti nient’altro.”
“Non è stata la separazione dei miei genitori?”
“Sì ma dobbiamo capire il motivo scatenante, quale evento di quell’inverno ti ha fatto rimuovere tutto. Sdraiati e parliamo.”
“Non mi sento a mio agio così, posso camminare e fumare?”
“Va bene ma apriamo la finestra.”

A volte dovrete assecondare i vostri pazienti ma nel frattempo dovete porre un limite, fate loro capire che siete voi a comandare e che loro possono fare qualcosa solo perché lo avete concesso voi.

Charlotte vide la dottoressa alzarsi, aprire la finestra e sedersi sul divano; non riusciva a capire come fosse stata così cieca, avrebbe dovuto riconoscere Andrew tra le mille persone ma non c’era riuscita e proprio quando lo aveva sotto il naso le era stato difficile riconoscerlo. Attraverso lo specchio riuscì a vedere Andrew alzarsi e guardare lo specchio, lo guardò in faccia per la prima volta, sembrava distrutto e si era portato la sigaretta alla bocca con tanta naturalezza. Il ragazzo non credeva che aldilà di quel vetro ci fosse qualcuno, o addirittura lei, così si avvicinò sempre di più per poi poggiare la fronte sulla superficie fredda. Charlotte sentì l’istinto di alzarsi, lo assecondò e andò a sistemarsi nella stessa posizione. Si trovarono l’uno di fronte all’altra, solo con uno specchio a separarli e Charlotte sentiva l’irrefrenabile voglia di averlo tra le braccia e portare via tutto quel dolore.
“Allora Andrew?”
Il ragazzo si girò di scatto verso la dottoressa e appoggiò la schiena sul vetro, Charlotte allungò la mano verso la sua schiena e provò a trasmettergli un po’ di calore, invano.
“Sì. Allora.”
“Ti ricordi qualcosa di quel periodo?”
La breve pausa. La solita breve pausa.
“Ogni Natale mia madre cucinava la crostata di mele, quell’anno non ebbe modo di cucinarla. Ho capito che qualcosa stava cambiando da quel momento e dallo sguardo che mio padre rivolgeva a mia madre, l’attaccava verbalmente ogni giorno e se faceva qualcosa di sbagliato glielo diceva.”
“L’ha mai attaccata fisicamente?”
“Non che mi ricordi.”
“Ne sei sicuro?”
“Credo di esserne sicuro.”
“Allora oggi facciamo una cosa diversa dal solito, io ti dico alcune parole e tu mi dici cosa ti ricordano e cosa ricordano all’Andrew di quel periodo.”
“Okay.”
Si passò una mano per i capelli, si guardò un attimo allo specchio e Charlotte credette che lui l’avesse vista davvero, così indietreggiò un attimo e si sedette di nuovo sulla sedia. Il ragazzo cercò con le mani l’ennesima sigaretta, l’accese e si rivolse alla dottoressa.
“Iniziamo.”
Parole di ogni tipo, colori, frutti, tipi di alberi e poi parole che interessavano lui, era evidente che la dottoressa fosse convinta che Andrew avesse visto qualcosa quell’inverno e Charlotte lo vide attraverso le parole che la donna usò dopo. L’associazione di parole consisteva nel dire velocemente a cosa si pensava, si riteneva che l’inconscio così parlasse attraverso la bocca del paziente e la dottoressa stava usando quel metodo e le parole giuste.
“Papà.”
La dottoressa si schiarì la voce per richiamare l’attenzione di Andrew.
“Si?”
“Tuo padre ha spaccato un piatto una volta?”
“Sì.”
“Tua madre si è fatta male?”
“Le è arrivato addosso quel piatto e ha avuto un livido per due settimane intere.”
“Quindi tuo padre ha effettivamente fatto del male a tua madre.”
Andrew sembrò disorientato, ricordava solo adesso quell'evento, nella maniera più nitida che potesse immaginare. “Sì.”
Charlotte lo vide accompagnare quella parola ad un cenno di testa e per la prima volta lo vide seriamente sofferente, lo vide prendersi le mani come per tapparsi ogni modo per guardare al mondo.
“Andrew? Non chiuderti, non di nuovo.”
“Voglio indietro i miei ricordi ma non posso ricordare tutte queste cose, mi fanno male.”
“Se prometti di venire da ora in poi ogni settimana, io posso aiutarti. Siamo già risaliti a cosa, ora c’è solo da capire e mettere al suo posto il resto. Devi solo fidarti di me.”
“Riuscirò ad amarla?”
“Chi?”
“La ragazza che ho conosciuto. Mio padre amava mia madre ma poi ha smesso.”
“L’amore può finire ma non necessariamente diventare violento.”
Andrew annuì, intrecciò le braccia tra loro e aspettò che la dottoressa lo congedasse.
“Ci vediamo giovedì prossimo.”
“Sì, a presto.”
Charlotte lo vide uscire dalla porta sconvolto e si sentì inutile perché sapeva che quello che avrebbe potuto fare, non poteva farlo. Si asciugò le lacrime che, incessanti, le erano uscite dagli occhi e provò a darsi un contegno; non aveva mai pianto per qualcuno e la propria sofferenza, mai prima di quel momento. Aveva visto Andrew struggersi, portare con sè una ferita mai sanata e rivissuta in continuazione attraverso gli occhi di sua madre e il dolore che aveva provato, dolore che lui aveva dentro per la sua incapacità ad amare. Era come un uccello in gabbia che un giorno sarebbe riuscito a volare via, un giorno. Si sentì in colpa per tutte le volte che lo aveva insultato, per tutte le volte che aveva lasciato perdere e per l’unica volta in cui lo aveva lasciato andare via. Lui poteva amare e stava iniziando a farlo con Charlotte, lei poteva fargli ricordare cosa avevano condiviso, poteva riuscirci ma si scoraggiò immensamente. Lei in quella stanza non doveva esserci, lei ufficialmente non aveva mai assistito a niente di tutto quello che era successo lì dentro, lei non sapeva niente, lei in quel momento non esisteva. Sarebbe rimasta impotente pur sapendo, si sentì come legata ai polsi e ai piedi senza potersi muovere, immobile e in quel momento nuove lacrime andarono a colmarle il viso. Non si era mai sentita così nella sua vita, mai. Udì passi familiare venire vicino alla porta e poi aprirla.
“Andiamo Charlotte.”
La ragazza esitò un attimo prima di seguire la dottoressa.
“Lo sapevo che non avrei dovuto farti vedere niente. Ancora sei troppo emotiva.”
La donna guardò meglio la ragazza e capì che quel tipo di emotività non la riguardava personalmente, stava piangendo per quel ragazzo e quello che lui stava provando ma poi capì che quelle lacrime non potevano essere attribuite ad uno sconosciuto, nessuno si sarebbe preso il disturbo, nemmeno la persona più sensibile.
“Sei la sua Charlotte? La ragazza che ha conosciuto?”
Charlotte non ebbe modo né di annuire e nemmeno di dire niente, altre gocce salate parlarono per lei e i suoi sentimenti e per la prima volta la dottoressa decise di abbassare i toni accusatori nei confronti della sua tirocinante.
“Mi dispiace. Adesso forse capisci meglio il perché di certe sue azioni ma ti consiglio di non innamorarti di lui, l’amore che potrebbe provare non so che a grado sarà e mi spaventa.”
Charlotte continuò singhiozzando, come se avesse perso l’unica persona di cui avrebbe potuto innamorarsi.
“Ha bisogno di far uscire questo amore e ha bisogno di tempo ma non so quanto.”
La donna si avvicinò verso la ragazza, le diede un piccolo colpo sulle spalle e capì quanto avesse sbagliato a farle vedere quel colloquio; non immaginava che avrebbe potuto conoscere Andrew. All’inizio aveva scelto lui perché sapeva che per Charlotte sarebbe stato oltremodo interessante ma in quel momento ogni certezza era crollata, le aveva dato un peso enorme da portare.
“Sei disposta ad aspettare?”



spazio autrice.
Non so se la persona che vi aspettavate è stata quella effettiva che è comparsa. In ogni caso vi chiedo di dirmi cosa ve ne è parso, ho cercato quanto più di far quadrare tutto, con l'età e ho cercato di far parlare in maniera quanto più esplicita la dottoressa per fare capire meglio le cose e la loro sequenzialità. Andrew non ha niente di irrisolvibile, ha solo paura di amare per colpa di cosa ha visto e per colpa di suo padre. Sicuramente vi farò vedere perchè la cosa lo ha così segnato attraverso dei brevi flashback della sua vita. Adesso Charlotte ha un bel peso da portarsi addosso, ormai conoscete il suo carattere quindi capirete quanto sarà difficile per lei; inizia la parte più " profonda" della storia e lei riuscirà a maturare ancora di più. Mi sono soffermata tanto e come sempre spero davvero che il capitolo sia di vostro gradimento, è uno dei miei preferiti e spero di ricevere davvero tutti i vostri pareri, ne ho bisogno per capire in che direzione sta andando la storia. Come sempre ringrazio voi lettrici, risponderò alle recensioni quanto prima, e tutti voi che preferite, ricordate e seguite. Grazie davvero tanto e al prossimo capitolo 

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Capitolo 21
*** 20. Crollare. ***




 

Capitolo 20.






“Pronto? Violet?”
Sentì la sua voce esitare sperando che avesse digitato il numero giusto, sperando che non avesse chiamato inutilmente e che quegli squilli lunghi non fossero a vuoto. Aveva la stessa tonalità di voce di quando Violet, troppo tempo prima, le aveva chiamato: la sera in cui Matthew le aveva detto del tradimento.
“Come è andata? Lo conoscevi?”
Charlotte non sapeva cosa rispondere a Violet, aveva configurato tanti volti ma non quello dell’unica persona che non avrebbe mai immaginato, nemmeno nei sogni più reconditi, nemmeno nei suoi desideri più inconsci.
“Era Andrew, Violet.”
“Andrew chi? Il bambino o Jon smith?”
“Entrambi. Sono la stessa persona.”
“Dove sei?”
“Sono nel parcheggio della clinica, dentro la mia macchina.”
“Arrivo subito, dammi il tempo della strada.”
Violet forse aveva capito che in quel parcheggio desolato, in un terreno che fino a qualche tempo prima era un semplice campo da calcio, si trovava la sua migliore amica in preda alla tristezza più assoluta. Aveva giurato di averla sentita piangere, di aver sentito una piccola stonatura nel pronunciare la parola "macchina", era sicura che il suo posto in quel momento non fosse dall’altra parte del tavolo con Matthew ma con Charlotte in quel solito abitacolo, accanto all’unica persona che avrebbe considerato per sempre parte integrante della sua vita.


Charlotte si era ritrovata su quel sedile di stoffa senza che ne fosse realmente consapevole. Aveva svolto le ultime pratiche burocratiche per attestare che il suo tirocinio si era concluso e poi i suoi piedi l'avevano portata lì. Aveva fatto quei gesti automatici che si erano ripetuti negli ultimi mesi e si era seduta sul suo sedile, tenendo le mani strette al volante. Era in evidente stato di shock e non sapeva come colmare quel dolore, che la seduta ed Andrew stesso le avevano scaraventato addosso senza che lei lo volesse. In quella seduta lei avrebbe dovuto solo assistere, avrebbe dovuto rimanere seduta, avrebbe dovuto prendere appunti con la solita penna nera e il solito blocco ad anelli dove scarabocchiare. Nessuna parola, nessun legame, nessuna faccia: un po' come il sesso occasionale, quello che i suoi coetanei amavano fare nei bagni pubblici, negli angoli più nascosti e bui delle feste o con qualche amico mentalmente più aperto. Stare un po’ di tempo con una persona, entrare in una piccola bolla di sapone per poi dimenticare tutto, lasciandosi quell’esperienza alle spalle facendo rimanere solo una piccola traccia, il piacere e il sollievo fisico appena provato. Ma Charlotte quel tipo di cose le evitava, non le amava e a volte le criticava pure, lei con un ragazzo avrebbe voluto parlare, magari di un buon libro, davanti ad una cioccolata calda nella sua caffetteria preferita in centro, non si sarebbe mai concessa così, solo per una volta, solo per dimenticare un attimo il mondo ma con Andrew avrebbe fatto un’eccezione. Non sapeva nemmeno come definire il loro secondo incontro oppure il sogno fatto la notte prima, la rendeva ipocrita in ogni modo immaginabile o umana come poche altre persone?
Si guardò le mani e vide le nocche bianche, stava stringendo più forte del dovuto il volante della macchina così si decise a mollare la presa e massaggiarsi le mani. Stava soffrendo per il male indiretto che aveva fatto a Andrew, stava ancora pensando agli svariati abbracci dati a Violet negli ultimi mesi e stava pensando a come c'era rimasta un po' male quando Eric le aveva detto che sarebbe andati a prendere il gelato un’altra volta. Dov'era finita la sua corazza? L'aveva indossata ma adesso dove era finita? Il suo problema era il non riuscire a lasciare le emozioni dietro la porta, come per il sesso, come per la seduta e la sua vulnerabilità l’aveva scoperta con Andrew e quando c’era di mezzo lui c'erano i sentimenti e lei non poteva limitarsi a scrivere su una cartella clinica i progressi del paziente o sistemarsi il vestito dopo aver finito. Lei sentiva ognuno di quei sentimenti e non riusciva a stare da parte, a vedersi consumare da loro. Per lei esistevano le parole, esistevano i legami, esistevano le facce.



"Prima che inizi a raccontare devi sapere che infrangi almeno la metà delle regole del codice deontologico."
Violet lo aveva detto schiettamente, dopo le ultime lezione all’università sull’etica professionale aveva preso ancora più seriamente la sua futura professione.
"Lo so, infatti voglio solo esprimere un concetto senza raccontare della seduta."
"Non credo che capirò molto, allora."
"Andrew non può provare amore, non se non lo aiuta qualcuno."
"E perché?"
"Non posso dirtelo. Allo stesso tempo però non si sa se sarà mai in grado di provarlo in maniera completa o meno.'
Charlotte aveva cercato di esprimere al meglio la situazione ma non poteva, le parole da dire erano troppe ma sapeva che non sarebbe riuscita a dire di più, non senza violare qualcosa in cui credeva.
"E tu saresti la sua prima cavia? Non esiste Charlotte!"
C'era preoccupazione in quelle parole ma Charlotte non sembrava farci caso.
"Ma io non posso lasciarlo andare, lui mi ha salvata."
Aveva detto quella frase di getto come se quella spiegazione fosse tutto per lei, come se per Charlotte solo quello fosse importante. Sentiva la necessità di ricambiare l'affetto che Andrew le aveva dato appena dieci anni prima, non sapeva in che modo ma quello le sembrava il più plausibile. Voleva portare via quel dolore e la voglia di farlo era diventata più forte dopo quel colloquio, dopo averlo sfiorato attraverso un vetro opaco, dopo aver visto quanto si sentisse perso a causa sua, a causa di Charlotte e dell'amore che stava iniziando a provare per lei.
"In che senso ti ha salvata?"
"Dieci anni fa, quell'estate, mi ha cambiato la vita. Lui mi ha dato speranza, mi ha fatto riavere fiducia nel mondo, se non ci fosse stato lui con le sue corse, con le anatre, con i campi di grano, io non sarei qui. Non sarei diventata così senza di lui, non riuscirei ad avere più fiducia nel mondo."
Il discorso nella mente di Charlotte aveva un senso ma per Violet sembravano solo parole accostate tra di loro che avevano a malapena un senso ma non poteva giudicarla, lei aveva perdonato Matthew, lei non aveva mai subito le stesse cose di Charlotte, lei aveva sempre avuto attacchi sicuri, Charlotte no. 
"Ma lui lo sa chi sei?”
“No.”
“E allora in qualità di cosa vuoi aiutarlo? Per lui sei solo una ragazza conosciuta ad una festa.”
Charlotte sbarrò gli occhi e concentrò a guardare lo sterzo nero che aveva davanti, in fondo era solo quella ragazza, qualcuno di cui lui avrebbe potuto innamorarsi ma che effettivamente non aveva nessun ruolo nella vita del ragazzo. Si passò le mani tra i capelli e poi appoggiò la guancia sinistra sullo sterzo, rivolgendo lo sguardo a Violet, la sua espressione era un misto tra disperato ed esausto.
“Cosa posso fare? Ho avuto due volte la sensazione di pienezza assoluta che colmasse ogni angolo della mia vita e tutte e due volte è stato con Andrew. ”
Socchiuse gli occhi come per rivivere quegli istanti di nuovo, uno dopo l’altro.


Un’anatra che le solletica la mano.
Due bambini che guardano il cielo.
Tante parole dentro a un diario segreto.
Due bocche che si baciano in un terrazzo troppo freddo.
Due mani che si intrecciano per non lasciarsi andare.
Uno specchio che li divide.



“Sarà difficile dimenticarlo per la seconda volta e io non voglio lasciarlo andare. Se è vero quello che ha detto lui è solo, non ha nessuno.”
“Charlotte ho capito ma lui non è adeguato, non sa cosa vuol dire amare e questi esperimenti dovresti lasciarglieli fare con qualcun’altra.”
“Ma sono stata io ad accendere la miccia. Lo so.”
La ragazza provava ad indicarsi più volte come a voler sottolineare che era lei, per Andrew esisteva solo lei, lei aveva scatenato qualcosa, non una di quelle ragazze che lui si portava solo a letto, lei, Charlotte, la stessa ragazza che aveva rincontrato per caso.
“Spero anche io che sia così ma tu saresti il suo primo amore. Ha avuto una crescita sentimentale ritardata e lo abbiamo studiato, Charlotte.”
“Lo so.”
“Può anche avere le sembianze di un ragazzo di vent’anni ma è povero di emozioni, non sa cosa sono e potrebbe ferirti e io non voglio.”
“Nemmeno io.”
“E allora perché vuoi farti del male così?”
“Potrei insegnargli l’amore, tu l’hai fatto con Matthew.”
“E’ vero ma noi lo abbiamo conosciuto insieme, siamo cresciuti insieme, abbiamo costruito i nostri sentimenti insieme, tu sai già cosa vuol dire amare.”
“Posso rifare tutto, per Andrew lo farei. Ricomincerei da capo.”
“Non so cosa dirti, ti sei scelta la strada per la sofferenza Charlotte e hai già iniziato a percorrerla da sola.”
“E’ necessario, Violet.”
“Mi chiedo solo come farai a contattarlo, non hai il suo numero, non hai niente e mi è sembrato di capire che tu gli hai urlato al telefono l’ultima volta.”
“Verrà da me, me lo sento.”






spazio autrice
Capitolo certamente più corto degli altri che arriva ad un orario insolito ma penso che non sia affatto povero di contenuti. Siamo davanti all'ennesimo pensiero di Charlotte, lei che si riconsidera, si critica nuovamente e ne ha bisogno. Si entra in forte contrasto tra la personalità della nostra protagonista e quello che fanno i suoi coetanei e dalle piccole cose si evince, ancora, che lei è diversa ma allo stesso tempo limitata perchè non riuscirà mai a comprendere tutto, infondo è per tutti così. Andrew è una parte fondamentale della sua vita, non riesce a dimenticare nè lui da bambino e nemmeno lui da grande, sembra che la sua concezione d'amore sia racchiusa nella sua figura ma non è proprio così dato che lui non si ricorda di lei da bambina. Inutile dire che l'incontro l'ha sconvolta e dovrà farci i conti nei prossimi capitoli. Come sempre, spero che il capitolo sia di vostro gradimento, vedo che i seguiti e i preferiti sono aumentati a dismisura quindi davvero grazie, spero solo che qualcuna di voi metta da parte la timidezza ed esprima ciò che pensa del capitolo o della storia in generale, io sono sempre qui :)
Buona lettura e come sempre vi ricordo il gruppo Facebook, bittersweet memories <3

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Capitolo 22
*** 21. Rette parallele. ***




 

Capitolo 21.






                                                                              

  12 settembre 2003. Charlotte. 10 anni.
Caro diario,
sono passate un paio di settimane ma continuo a sperare
che Andrew possa mandarmi una lettera. Me lo aveva
promesso, ha detto che mi avrebbe scritto. Spero che stia
bene, spero che mi scriva presto, mi manca. Diario, secon-
do te dovrei scrivergli io? Lo so che non puoi rispondermi
in nessun modo ma vorrei tanto che lo facessi. Adesso de-
vo andare, mamma mi chiama per la cena. A presto, dor-
mi bene.
Charlotte.
 





25 dicembre 2003. Andrew. 12 anni e mezzo.
“Mamma? Stai bene?”
“Sì, penso di sì.”
“Ma il piatto si è rotto su di te.”
“Arriverà un livido tra un po' ma poi passerà tutto, Andrew. Te lo prometto.”
“Sei sicura?”
“Ti ho mai detto una bugia?”
Andrew scosse la testa e ricambiò il debole sorriso che sua madre gli aveva appena rivolto. Quella era la prima volta che sua madre gli mentiva e lui l’aveva capito perché il livido era rimasto per tanto tempo, perché lei piangeva di nascosto mentre lavava i vestiti e soffocava i gemiti di pianto facendo scorrere l’acqua dal rubinetto. Suo padre se ne era andato di casa qualche mese dopo e anno dopo anno, natale dopo natale, compleanno dopo compleanno dimenticava qualcosa di lui. Aveva dimenticato le lunghe corse in spiaggia, aveva dimenticato la bicicletta regalata per Natale, aveva dimenticato i loro rimbalzi sul tappeto elastico e aveva dimenticato anche il colore degli occhi di suo padre; dopo anni non sapeva più se erano azzurri come i suoi o di un qualche altro colore sbiadito.
A pochi mesi dall’uscita definitiva di suo padre dalla sua vita, aveva iniziato a dormire con sua madre, capitava sempre più spesso che le facesse compagnia durante la notte e per lei era un modo come un altro per ritornare alla normalità. Spesso Andrew rimaneva sveglio fin quando non sentiva il sonno di lei farsi più pesante, bastava quello per tranquillizzarsi, bastava che ci fosse lui con lei. Probabilmente stava rivivendo un qualche complesso edipico mai risolto ma a lui stava bene così, amava sua madre e sapeva che da quella brutta situazione sarebbero usciti insieme, che prima o poi avrebbero sorriso senza quell’alone di tristezza intorno agli occhi.





8 Maggio 2004. Charlotte. 11 anni appena compiuti.
Caro diario,
oggi è il mio compleanno, faccio undici anni e la scuola
insieme al mio primo anno di scuola media sta finendo.
Se penso che solo un anno fa stava iniziando l’estate più
bella della mia vita mi viene da piangere. Non ti ho detto
niente ma Andrew non mi ha più scritto, probabilmente
si è dimenticato di me o del mio indirizzo. Non lo so, ancora
non riesco a spiegarmelo. E’ strano che dopo tutto questo tempo
io pensi ancora a lui. Spero solo di ricontrarlo un giorno,
avrei tante cose da dirgli, lui mi ha salvata, non so come
ma grazie a lui sono riuscita a sbloccarmi.
Scusami se non ti scrivo spesso ma la scuola è pesante e la sera sono così
stanca che vado a dormire. E’ arrivata la nonna quindi ti saluto.
Spero di scriverti presto.
Charlotte.





12 Giugno 2004. Andrew. 13 anni.          
“Mamma sono stato promosso.”
Aveva sentito urlare sua madre dall’altra parte del telefono.
“Così divento sordo.”
“Lo sapevo, appena torni andiamo a cena fuori.”
“Anche la torta al cioccolato con la nutella in mezzo va bene.”
“Allora te la preparo. Torna presto, ti aspetto.”
Il primo anno di liceo si era appena concluso con la visione dei risultati e Andrew era uno di quei ragazzi nella norma, studiava, riusciva a raggiungere la sufficienza senza particolari difficoltà e si era creato il gruppetto di amici con cui uscire il sabato. Quel giorno era uscito di casa in fretta per sapere i risultati ma anche perché suo padre aveva chiamato per l’ennesima volta a casa, sua madre non c’era e lui aveva preferito chiudersi la porta dietro le spalle piuttosto che urlargli contro. Il numero di casa era rimasto sempre lo stesso ma lui continuava a chiamare, sua madre appena vedeva il numero trasaliva, Andrew si innervosiva visibilmente ed entrambi non volevano rispondere; quell’uomo per loro era morto nello stesso momento in cui aveva messo piede sul pianerottolo di casa, con la valigia in mano. Aveva l’umore a terra e aveva deciso di fermarsi un attimo a fumare prima di andare via, aveva preso l’abitudine di sfogare il nervoso così, un po’ di catrame occasionale, tanto per macchiarsi i polmoni e colorarseli un po’ di grigio.
“Hai da accendere?”
Una voce in mezzo al nulla lo colse di sorpresa, guardò in direzione della persona che aveva davanti e lo riconobbe subito, Andrew aveva già visto quel ragazzo, per caso durante una ricreazione. Era rimasto colpito dal suo amore per la propria ragazza, la guardava come se ogni sua parola fosse preziosa e lo vedeva innamorarsi ogni giorno sempre di più, a ogni battito delle sue ciglia, ad ogni intreccio di mani.
“Sì certo, tieni.”
“Grazie. Io sono Jacob e tu?”
“Andrew.”
C’era un leggero imbarazzo nell’aria ma Jacob provò a rompere il ghiaccio, com’era solito fare con tutti, anche con gli estranei.
“Qualsiasi cosa tu abbia passerà, te lo assicuro.”
Andrew aveva riso un attimo per poi diventare serio.
“Non penso. E’ una di quelle cose che mi porterò dietro per tutta la vita.”





7 Febbraio 2006. Andrew. 15 anni. Ore 12:30.
Il terzo anno di liceo, Andrew e Jacob erano diventati effettivamente amici. Andrew prima lo aveva respinto, non gli piaceva l’idea di avere un migliore amico ma poi una sera, quando sua madre era rimasta nella loro casa in campagna e lui si sentiva troppo solo, aveva guidato con il motorino fino a casa di Jacob e aveva sfogato tutta la frustrazione che si era tenuto dentro, confermando che era come se qualcosa dentro di lui si fosse danneggiata, in maniera definitiva.
“Stasera c’è quella festa di cui ti avevo parlato.”
“Non credo di venire, mia madre ha bisogno di me.”
“Anche stasera?”
“Sì, anche stasera.”
“Allora non ti dispiace se la chiamo un attimo, giusto? Me lo confermerà lei.”
Andrew non ebbe nemmeno il tempo di correre verso Jacob che lui era già fuggito via.
“Pronto?"
"Dammi."
"Salve signora.”
“Dammi quel telefono, Jacob. Dammelo.”
Andrew stava iniziando a scaldarsi ma Jacob lo ignorò con noncuranza.
“Volevo chiederle se stasera Andrew può venire con me ad una festa.”
“Dammelo.”
“Può? Davvero? Allora lo passo a prendere stasera alle 8. Va bene? Perfetto. Grazie signora.”
Jacob chiuse la chiamata e si stampò un sorriso in faccia.
“Io non voglio venire, mia madre ha bisogno di me.”
“No, tua madre non ha bisogno di te.”
“Che cazzo ne vuoi sapere tu, niente, non sai niente.”
Jacob si fece d’un tratto serio e Andrew nel frattempo urlava come una donna in piena sindrome premestruale.
“Io so tutto, Andrew. Lo so e so anche che mentre tua madre si sta rifacendo una vita là fuori, tu non vivi. Hai presente?”
“Non è vero che non vivo. Vado a scuola e ho degli amici.”
“Ci sei mai andato ad una festa?”
“No, E quindi? Non mi piace andare.”
“Non lo puoi sapere perché non ci sei mai andato.”
“E non ci andrò.”
“Stasera andrai e giuro che se non vieni con me, ti prendo a calci da qui alla festa.”
Andrew scosse la testa e Jacob si fece più insistente.
“Hai solo 15 anni, devi uscire con una ragazza, devi dare il tuo primo bacio, devi vivere, queste cose fanno parte della tua vita. Tua madre è parte integrante di te ma tu, oggi, devi vivere. Non li avrai 15 anni per sempre.”
“Tu non lo sai cosa vuol dire. Io porto avanti la famiglia, io consolo mia madre, non sai un cazzo Jacob.”
“E basta con la storia del piccolo uomo. Hai capito che non mi interessa o no? E’ solo una sera.”
“L’ho capito ma…”
“No, il ma non esiste. Tua mamma ha detto di sì, non la stai abbandonando, non la stai lasciando sola. Tu stasera vieni con me.”




7 Febbraio 2006. Andrew. 15 anni. Ore 19:57.
“Sicura che starai bene? Posso sempre dire a Jacob che non vado.”
“Puoi andare, Andrew. Quante responsabilità devi prenderti?”
“Nessuna, ma sei sicura?”
Sua madre annuì con la testa e sperò che non gli avesse mentito come l’ultima volta che le aveva posto quella domanda.
“Stai tranquillo.”
Il suono del citofono rimbombò per tutta la casa, Jacob sapeva farsi riconoscere. Andrew si precipitò a rispondere, a volte aveva l’impressione che lui e Jacob fossero una coppia di fidanzati, lui che passava a prenderlo, che citofonava in maniera particolare e Andrew che correva verso il citofono per non farlo aspettare.
“Chi è?”
“Sono io, Jacob. Scendi.”
“Sì. Sto scendendo.”
Andrew rivolse un ultimo sguardo a sua madre, si augurò che lei potesse stare senza di lui per una sera, che non le sarebbe successo niente, che per una volta anche lui avrebbe potuto avere 15 anni e non dieci in più e che Jacob avesse ragione. Scese gli scalini quanto più in fretta possibile, a ogni scalino sentì di allontanarsi sempre di più da sua madre e di essere un po’ più vicino a riprendersi la sua individualità, la sua libertà.
“Tutto okay?”
Andrew non rispose, non sapeva se nella sua vita avrebbe mai potuto dire che tutto andasse bene ma in quel momento sentiva che, la costrizione fattagli appena la mattina prima da Jacob, aveva avuto un senso e riusciva a coglierlo solo avendolo davanti. C’era Jacob con la sua macchinetta cinquanta rossa fiammante, c’era la sua canzone preferita sputata fuori dalle casse di quel piccolo abitacolo e c’erano lui e il suo migliore amico, l’uno davanti all’altro.
“Dai sali su, ti ho messo la tua canzone preferita.”
“Non mi piace poi così tanto.”
“Ma zitto che fino a stamattina la canticchiavi.”
Jacob alzò il volume e spinse il pedale dell’acceleratore mentre lui e Andrew ridevano, spensierati, o forse come due quindicenni nel pieno della loro adolescenza con nessun pensiero in testa.
  
 
 
 
7 Febbraio 2006. Charlotte. 13 anni. Ore 19:57.
Caro diario, è da tanto che non ti scrivo.
Sono passati mesi dall’ultima volta. Ti
aggiorno velocemente, ho una nuova amica,
più che altro lei parla e io la ascolto; non posso
dire che sia un rapporto a doppio senso dato
che quando parlo fa altro. In ogni caso provo a
darle consigli ma non fa altro che passare da un
ragazzo all’altro. Stasera andrò alla mia prima
festa in discoteca, è Carnevale ma non ho intenzione
di vestirmi di qualcosa, spero solo che a qualcuno non
venga la brillante idea di buttare uova o quant’altro. Penso
che sia arrivata Lauren quindi alla prossima, non so quando.
Charlotte.




7 Febbraio 2006. Andrew. 15 anni. Ore 20:33.
“Ma io non mi sono travestito, potevi dirmelo Jacob.”
“Io non sono vestito e nemmeno tutto il resto dei ragazzi.”
“E che senso ha non travestirsi alla festa di carnevale?”
“Ti fai troppe domande.”
Jacob non finì nemmeno di parlare che la sua espressione cambiò di colpo, addolcendosi.
“C’è Lily.”
La ragazza si avvicinò verso loro e scoccò un bacio sulle labbra di Jacob.
“Allora vi lascio.”
“Perché, Andrew? Possiamo farci un giro insieme.”
Lily inizialmente annuì ma, non appena Jacob girò la testa verso la testa, fulminò Andrew con lo sguardo, facendogli capire che era meglio che se ne andasse da qualche altra parte.
“No, preferisco farmi un giro da solo. Ho visto Mark lì dietro quindi penso che andrò a salutarlo.”
“Va bene, allora ci vediamo in giro.” 
Andrew si limitò ad annuire e, prima di andare verso Mark, si diresse verso il bar. Aveva voglia di una birra, una di quelle in bottiglia, a casa di solito ne divideva una a pranzo con sua madre e quella sera decise di prendersene una solo per sé, per alleggerirsi un po’, per spingere via i pensieri.
“Una birra per me.”
“Hai almeno 16 anni?”
Il barista lo chiese per pura formalità ma in realtà non gli importava la risposta dato che gli stava già preparando la birra, togliendo il tappo e facendo risalire le bollicine lungo il collo della bottiglia.
“Sì.”
“Tieni.”
Buttò giù il primo sorso e poi andò in mezzo alla folla. Mark era poco lontano e fece fatica a raggiungerlo, la sala si era riempita in poco tempo, si sentiva il cattivo odore di alcuni ragazzi troppo sudati, si vedevano ragazze che coprivano una parte del corpo svestendo la parte opposta per via dei vestiti troppo corti e la calca era talmente tanta che si ritrovò a percorrere l’ultimo pezzo di strada chiedendo inutilmente “permesso”.
 


 
7 Febbraio 2006. Charlotte. 13 anni. Ore 21:44.
“Charlotte, forza.”
“Sì, è che mi viene male con questi tacchi. E’ la prima volta che li metto.”
La ragazza era visibilmente irritata, non sapeva per quale assurdo motivo si era fatta trascinare in quel manicomio. Era la sua prima festa, la prima volta che indossava quelle scarpe malefiche e l’ultima volta che sarebbe andata con Lauren in un posto del genere; le aveva già fatto fare il giro della pista una decina di volte solo per farsi una bella sfilata e far posare tutti gli sguardi dei ragazzi su di lei. Non che fosse difficile notare Lauren, aveva un pellicciotto bianco sulle spalle e Charlotte, nonostante lo avesse osservato a lungo, non riusciva a capirne l’utilità: di sicuro non la copriva.
“Con le scarpe non si fa così, prima ti fai i giri a casa e poi vai in discoteca. Non il contrario, sciocchina. Rientriamo.”
Lauren riprese con l’undicesimo giro della pista.
“E’ la tua prima festa, vero?”
Charlotte annuì.
“Che carina.”
Lauren le pizzicò le guance e continuò a guardarsi intorno.
“Magari dai il tuo primo bacio, Charlotte.”
“Non credo proprio. Poi con un ragazzo che nemmeno conosco? Non esiste.”
“Non esistono i sentimenti. Stasera devo baciare almeno due ragazzi diversi, se no non me ne vado”.
Charlotte guardò “l’amica” con disgusto e dato che si era già incamminata la seguì, anche se con difficoltà. Camminare su quei trampoli era difficilissimo, non credeva che fossero così scomodi, quando li aveva comprati al negozio le stavano comodi.
“Dove andiamo, Lauren? Mi fanno male i piedi.”
“Sai che mi interessa. Se vuoi rimani qui.”
“No, no ti seguo.”
Charlotte si scontrò contro un ragazzo che le pestò anche un piede.
“Ahi ma stai attento.”





7 Febbraio 2006. Andrew. 15 anni. Ore 21:46.
“Ahi ma stai attento.” Andrew era finito sopra una ragazza e le aveva schiacciato un piede.
“Scusami.”
Lei alzò lo sguardo verso di lui, lo guardò con disprezzo e poi andò via con l’amica. Andrew la guardò allontanarsi ed ebbe l’impressione di averla già vista da qualche parte, quei capelli rossi non gli erano del tutto estranei. Non ebbe il tempo di indagare ancora perché la sua attenzione venne subito colpita da una sua compagna di classe che gli si buttò addosso.
“Kathy? Stai bene?”
“Hai deciso di venire?”
Lei lo guardò con occhi luccicanti.
“Sì, stasera mi sono preso una pausa.”
“Non ci posso credere.”
Andrew la guardò un attimo meglio, posò la birra ormai vuota sul tavolo appena in tempo per afferrare Kathy che, ubriaca, stava barcollando.
“Ehi, ehi, ti prendo io.”
“Grazie, Andrew. Sei così gentile.”
Poi il ragazzo le aveva preso un bicchiere d’acqua e si erano seduti a parlare in un tavolino, al riparo dalla musica troppo forte, al riparo da occhi indiscreti.
“Ti senti meglio?”
“No ma almeno non ho vomitato. La scorsa volta è andata peggio.”
Lei provò a sorridere ma lui sembrava fin troppo perplesso, non vedeva un chiaro motivo per cui lei avesse potuto ubriacarsi, era la ragazza più brava della classe, i suoi genitori li aveva visti più volte e sembravano amarla incondizionatamente.
“Perché ti sei ubriacata? La tua vita è perfetta.”
Kathy arrossì e volse lo sguardo altrove. Andrew prese la sua mano e la appoggiò su quella di lei.
“A me puoi dirlo, Kathy. Se hai qualche problema puoi parlarmene.”
L’attenzione della ragazza venne catturata da quella mano calda sulla sua e lei, ancora con l’alcool nelle vene, dichiarò tutto apertamente senza tralasciare nulla.
“Mi sono innamorata di te il primo giorno di scuola del primo anno ma tu non mi hai mai guardata.”
Andrew ritrasse subito la mano e vide delusione negli occhi della ragazza.
“Non sono adatto per queste cose e mi dispiace che tu ti sia innamorata della persona sbagliata.”
“Ma tu non sei sbagliato Andrew, sei perfetto, sei…”
Kathy capì di essersi messa in ridicolo e decise di lasciare quella frase a mezz’aria mentre vedeva Andrew ritornare alla festa, con le mani dentro ai jeans e il senso di colpa alle stelle. Aveva passato la serata con una ragazza che era perdutamente innamorata di lui da tre anni e lui non se ne era nemmeno accorto, chissà quante volte lui l’aveva guardata per curiosità e lei aveva pensato che quello sguardo significasse qualcosa di più profondo. Era fuori dal mondo reale, perché era troppo preso da sè e dal suo di mondo.




 
7 Febbraio 2006. Charlotte. 13 anni. Ore 22:13.
“Perché ti annoi, Charlotte?”
“Dimmelo tu perché, Lauren.”
Charlotte aveva iniziato ad alzare la voce.
“Mi fanno male i piedi, uno mi ha pestato un piede rovinandomi la scarpa, tu hai già limonato con il primo per una buona mezz’ora e adesso stai aspettando il prossimo. In tutto ciò io sto da sola per tutta la sera.”
“Vuoi conoscere qualcuno? Va bene, aspetta.”
Uscirono dal bagno, Charlotte scese dal lavello del locale e seguì, ancora, Lauren.
“Harry? Harry!”
Alzò la mano e fece cenno al ragazzo di avvicinarsi, lui camminò velocemente fino a raggiungere le due ragazze.
“Ciao Lauren.”
Le scoccò un bacio sulla guancia e poi spostò l’attenzione verso Charlotte.
“Lei è Charlotte.”
“Piacere, sono Charlotte.”
“Io sono Harry.”
“Allora vi lascio. Buona serata.”
Charlotte guardò Lauren scomparire in mezzo alla folla ma non le importò più di tanto di dove sarebbe andata, era stanca e forse con Harry sarebbe riuscita a sedersi un attimo e a riposarsi.




 


7 Febbraio 2006. Andrew. 15 anni. Ore 22:25
Andrew si ritrovò a esplorare una parte della discoteca che fino ad ora non aveva nemmeno visto. Uscì fuori dalla porta scorrevole e si ritagliò, di nuovo, un attimo di solitudine. Si accese una delle sue solite sigarette occasionali, giusto per dimenticare che aveva illuso la sua compagna di classe Kathy aiutandola a riprendersi dall’ubriacatura e che prossimamente se la sarebbe ritrovata attorno dato che se ne erano andato a metà della sua dichiarazione.
“Hai da accendere?”
Il ragazzo si voltò verso la ragazza che aveva dietro di sè.
“Sì, tieni.”
Lei si avvicinò verso di lui e non considerò minimamente l’accendino che lui teneva in mano, si precipitò verso la sigaretta che lui teneva in bocca, fece aderire la sua con quella del ragazzo e aspirò quanto più forte possibile per accendere la sua di sigaretta. Nessuno aveva mai fatto una cosa del genere con lui, non credeva nemmeno che fosse possibile accendere una sigaretta da una già accesa senza accendino.
“Intendevo questo per accendere, non il tuo stupido accendino.”
Andrew si limitò a farle un cenno con la testa, per farle capire che ciò a lui non interessasse minimamente.
“Non parli, eh? Io sono Lauren.”
Lei si avvicinò a lui ma Andrew sembrava impassibile.
“Lo so che ti piaccio. Ho visto la tua faccia mentre accendevo la sigaretta.”
Il ragazzo alzò un sopracciglio verso l’alto e continuò a guardarla, poteva anche piacergli ma a lui sembrava una ragazza un po’ stupida e presa da sé.
“Consideri altri al di fuori di te stessa, Lauren?”
“Solo se sono carini, come te.”
Sbattè più volte le ciglia per rendere la frase appena detta interessante e poi si precipitò sulle labbra di Andrew. Il ragazzo rimase con gli occhi spalancati, la sigaretta ancora in mano e poi sentì una lingua insinuarsi nella sua bocca. Come primo bacio faceva schifo, letteralmente.




 
7 Febbraio 2006. Charlotte. 13 anni. Ore 23:05
“Era interessante, Harry?”
“Diciamo di sì.”
“Ti ha baciata?”
Lauren arrivava sempre al dunque.
“Ci ha provato ma l’ho rifiutato. A te come è andata?”
“Ho baciato un altro ragazzo ma penso fosse gay.”
“Perché?”
“L’ho baciato e poi mi ha spostata. E’ sicuramente gay.”
“Solo perché ti ha rifiutata è gay?”
Lauren annuì e Charlotte scoppiò a ridere, questo ragazzo aveva capito tutto dalla vita. Lo ammirava senza conoscerlo.





 
11 Aprile 2009. Andrew. 18 anni. Ore 02:44
Era arrivato l’anno della maturità. Era arrivata la gita dell’ultimo anno di scuola. Era arrivata l’ultima notte in hotel. Era arrivato il momento della prima volta di Andrew.
“Dai, Andrew.”
“Sei sicura? Non vorrei che fosse troppo.”
“Ho una cotta per te da un anno ormai, l’ho già fatto e voglio divertirmi un po’ stasera.”
“Ma cosa dirà Kathy? E’ la tua migliore amica ed è innamorata di me da almeno cinque anni.”
“Non dirà niente perché non lo scoprirà mai.”
Michelle aveva già tolto la maglietta ed era rimasta con solo il reggiseno e il perizoma leopardato addosso.
“Vuoi ancora lagnarti per Kathy o approfittarne?”
La ragazza si girò, sfilò gli ultimi indumenti che aveva addosso e, prima di infilarsi dentro le coperte, rivolse un ultimo sguardo malizioso ad Andrew. Il ragazzo esitò un attimo, pensava a come avrebbe ferito Kathy ma poi si disse che non valeva la pena rimuginare troppo su un amore che non ricambiava quando avrebbe potuto fare qualcosa di concreto quella sera. Si spogliò anche lui e entrò nel letto insieme a Michelle, la sentì ridere prima di iniziare a baciarla. Quel bacio era decisamente migliore dell’ultimo che aveva dato, Michelle sembrava fin troppo esperta e sapeva fino a dove spingersi, era già nuda ma Andrew ebbe modo di esplorare un po’ il suo corpo, era la prima volta che toccava una ragazza ed era curioso di sapere come fosse fatto realmente. Conosceva la fisionomia per via di alcuni video che aveva visto con Jacob ma nella realtà era tutto diverso, Michelle era morbida e a lei piaceva che lui l’accarezzasse.
“Andrew se vuoi, insomma.”
La vide arrossire al buio, sotto le coperte e lui annuì. Iniziò a percorrere la superficie del suo corpo con l’indice e sentì la pelle di lei reagire a ogni suo tocco, prese un po’ di coraggio e spostò la sua mano verso la pancia, le solleticò un attimo l’ombelico e poi scese poco più giù, la accarezzò delicatamente e poi prese a massaggiarla lentamente, nella sua parte più sensibile, quella più nascosta. Non aveva idea se stesse facendo bene o no ma si rassicurò sentendo i piccoli gemiti che la ragazza emetteva, i baci di lei si fecero più prepotenti e subito dopo si mise a cavalcioni su di lui.
“Fai piano, okay?”
E Andrew ci aveva messo un po’ di dolcezza, un po’ di tormento e riusciva a sentire la testa leggera per un po’. Senza pensare a suo padre, senza pensare a sua madre e senza accennare a quel passato che a volte si presentava davanti a lui come un vuoto, come se in quelle foto che ritraevano lui da bambino ci fosse qualcun altro che non fosse lui, qualcun altro che aveva vissuto la sua vita prima di quel Natale, prima che tutto andasse a pezzi.






spazio autrice
questo è uno di quei capitoli che non vorresti mai scrivere perchè dentro c'è tanta tristezza e c'è l'essenza di uno dei protagonisti. Andrew è smarrito, ha vissuto con l'ombra di qualcosa che non ricorda e qui ci sono tutti gli eventi che lo hanno segnato in qualche modo. Il piatto rotto, suo padre che va via di casa, il suo essere premuroso solo con sua madre, Jacob, il suo primo bacio e la sua prima volta. Sono tutti elementi fondamentali che vi aiutano a capire meglio Andrew che a parer mio è complesso tanto quanto Charlotte, se non di più. Charlotte in questo capitolo fa da ombra ma in fondo lei e Andrew hanno vissuto alcuni attimi insieme e le loro strade si sono intrecciate più volte di quanto pensano, anche solo con il pensiero. Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento e grazie come sempre a voi che mi seguite con tanto amore. Vi lascio qui un piccolo specchietto in cui si contestualizzano le date di nascita e gli avvenimenti di Andrew e Charlotte: 
http://i.imgur.com/oAf4bnR.jpg
Al prossimo capitolo <3
ps: vi ricordo che la storia ha un gruppo su facebook con spoiler, immagini e quant'altro (:

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Capitolo 23
*** 22. Mille significati. ***




 

Capitolo 22.






Era in uno stato da vegetale da ben due settimane, Andrew non aveva scritto, non aveva chiamato, non aveva fatto niente e lei continuava a ricordare ogni cosa, ogni singolo momento di quella seduta, sempre più vivido a ogni rintocco delle lancette dell’orologio sul muro della cucina. Violet aveva cercato di muoverla con le parole, con alcune provocazioni e perfino con gli insulti ma niente riusciva a farle riconsiderare la sua posizione, sarebbe rimasta in quello stato fluttuante per ancora molto tempo. L’unica cosa che, stranamente, riusciva a motivarla in qualche modo era lo studio. L’esame, che doveva provare il giorno dopo il colloquio, era stato spostato a tre settimane dopo e lei era nuovamente immersa nello studio. Le sue giornate erano caratterizzate sempre dalla stessa routine, sveglia, colazione, studio, pranzo, studio, cena e letto; per poi ricominciare nuovamente il giorno dopo con la sveglia e con la tristezza fin dentro le ossa. Sua madre aveva provato a dirle qualcosa, suo padre pensava che fosse l’influenza stagionale, quella che ti fa sentire le ossa rotte e le fitte alla testa ma Charlotte all’ennesima domanda sui sintomi aveva risposto scrollando le spalle e rifugiandosi sotto le coperte. Il letto ormai era il giusto posto per ripararsi dal mondo, dove sorseggiare la cioccolata calda davanti alla televisione, dove studiare, dove mangiare, un letto a una piazza e mezzo, il suo piccolo mondo. A volte alzava la coperta per andare in bagno ma non voleva guardarsi allo specchio, aveva paura di riscoprire una certa consapevolezza su quanto fosse inutile in quel momento della sua vita e, soprattutto, non era disposta a vedere la condizione delle sue occhiaie, scure e scavate sulla pelle. Dopo i vari insulti, lei e Violet comunicavano tramite messaggi, cosa successa solo per il primo mese di conoscenza, e lo faceva più per l’amica che per se stessa, solo per farle capire che era ancora viva e che all’esame si sarebbe presentata. Aveva passato un’altra settimana così e poi era arrivato il tanto atteso momento dell’esame; per quella volta non aveva riscontrato particolari problemi di stomaco, corse in bagno o conati di vomito imminenti, tutto le sembrava scivolare via.
Aveva guidato fino all’università con forse troppa calma, aveva parcheggiato nelle solite strisce a pagamento e poi era andata in giardino, a sedersi in una di quelle panche in legno fatta solo per due persone. Un posto per sé e l’altro per la sua borsa, stracolma di fotocopie, appunti, post-it e libri troppo grandi per il carico della materia. Prese un respiro profondo e provò a inondare i polmoni di quell’aria frizzantina che adorava percepire sulla pelle, socchiuse un attimo gli occhi e quando li riaprì mise a fuoco la parte opposta del giardino. Ricordò alcuni mesi prima e come tutto fosse iniziato lì, in quel pezzo di terra: una busta color panna in fondo a una borsa, la testa di Violet a coprire i deboli raggi di sole e Charlotte seccata per un sorriso di troppo.
Il sorriso di Eric, che in quei giorni era venuto in mente a Charlotte solo per qualche secondo, per sottolinearle come avrebbe dovuto intelligentemente sentirsi attratta da lui e non da quel folle di Andrew e tutti i relativi problemi. Una persona senza un apparente disturbo mentale, sempre a cercarla e a chiederle un’opportunità per stare insieme, senza che dovesse essere lei a soffrirci della situazione. Aveva iniziato a molleggiare le gambe accavallate e a ricercare il nulla nella borsa, solo per non pensarci, per non ritornare a toccare tasti dolenti ma non ci riusciva. Probabilmente era una questione di karma, lo stesso male che aveva fatto a Eric le stava tornando con gli interessi da parte di Andrew o forse erano tutte grandi cazzate e come al solito si stava facendo sopraffare dalle emozioni. Chiuse nuovamente gli occhi e provò a mettere in testa pensieri o ricordi felici, i più felici, un po’ come Harry Potter con l’expecto patronum, non che Andrew potesse essere paragonato a un Dissennatore ma era capace di toglierle quel poco di felicità che possedeva, dandogli tanta di quella tristezza che non riusciva più a reggere. Sentì vibrare il telefono nella tasca del giubbotto e, essendo sicura che fosse Violet, non indagò su chi fosse e rispose senza indugio.
“Pronto?”
“Sono Andrew.”
Era davvero lui, avrebbe riconosciuto quella voce tra mille, si irrigidì non sentendo più nessuno degli arti e non riuscendo a pronunciare nessun tipo di parola. Solo sentendo pronunciare il suo nome stava iniziando a tornare indietro, stava tornando a quella seduta e a tutto quel dolore percepito attraverso un vetro, lo sentiva lei e lo sentivano pure i suoi occhi.
“Lo so, Charlotte lo so che non mi vuoi parlare e che non vuoi più sentirmi ma…"
“Andrew.”
Lo fermò pronunciando il suo nome, stava iniziando a dire sempre le stesse cose, farfugliare senza comporre frasi di senso compiuto.
"Mi ero preparato tutto un discorso perfetto in testa ma questo non lo è.”
“Ti faccio solo una domanda.”
“Tutto quello che vuoi, Charlotte.”
“Hai chiamato con il tuo numero o con lo sconosciuto?”
“Con il mio numero, perché?”
Charlotte sorrise tra sé e sé, provò a non far sentire quel piccolo cambiamento di espressione attraverso il telefono, così prese il respiro per dire tutto insieme, tutto in fila.
“Tra mezz’ora ho un esame e devo dare il meglio di me, se continuo a parlare ancora con te farò tardi e poi non credo che sarò in condizione di affrontarlo. Ti ho dato tutto il tempo che vuoi, adesso devi darmelo tu.”
“Sono stato inopportuno, perdonami.”
“Non è vero, non potevi saperlo.”
“Allora mi chiami tu?”
“No, facciamo che mi chiami tu, che questo discorso me lo rifai da capo e questa volta bene, senza pause, ripetizioni e se vuoi puoi farmelo pure di presenza.”
Le sembrò di percepire entusiasmo dall’altra parte del telefono e lo confermò Andrew non appena rispose.
“Va bene. Ti chiamo io.”
“A presto.”
Tasto rosso e si lasciò scivolare il telefono in tasca.
Se lo stava immaginando davanti in maniera vivida, lui che non dorme da tanto, lui che ha dovuto prendere un coraggio immenso per chiamarla con il suo vero numero senza nascondersi e lui che stava iniziando a guarire, perché dietro quella telefonata fatta in quel modo e in quel momento c’erano mille significati dietro che lei non riusciva nemmeno a concettualizzare a parole. E lei, cosa si poteva dire di lei? Era apparsa gelida, quasi senza sentimenti, quando quello che provava per lui era come un insieme di colori caldi, giallo, arancione, fino al rosso, quello più scottante. Percepì una nuova vibrazione, controllò il cellulare e si accorse che era Violet.
“Sono in cortile, tu dove sei?”
“Il professore ha già fatto l’appello, sei la seconda, muoviti.”
Violet aveva appena chiuso il telefono e a lei aveva iniziato a battere il cuore forte, le sue classiche sensazioni prima di un esame stavano iniziando a farsi sentire e provò a raccogliere alla meno peggio i libri e infilarli velocemente nella borsa. Era già stata chiamata e la prossima sarebbe stata lei, i battiti del suo cuore si fecero prepotenti e iniziò a correre come non mai, l’aula era troppo lontana e per un attimo odiò l’avere la propria facoltà all’interno di un monastero antico, le scale erano tutte uguali, i corridoi pure e i numeretti accanto alle porte erano sbiaditi dopo tutti quegli anni. Fece due volte il giro del piano, la prima volta per cercare l’aula, la seconda volta per camminare e smaltire il fiatone e l’ansia che si era accumulata, dopo entrò nella stanza e riconobbe istantaneamente Violet.
“La prossima sei tu, dov’eri finita?”
“Sotto.”
Sistemò i libri, prese il libretto, il documento di identità e attese che il professore la chiamasse. Per quel giorno c’era lui che chiamava l’appello, firmava i voti e nel frattempo un’assistente che interrogava, incrociò le dita sotto il banco sperando che fosse una persona alla mano e che quantomeno le avrebbe prestato attenzione.
“Matthews?”
Charlotte alzò velocemente la mano facendosi notare dal professore, prese i libri e andò a sedersi vicino a quella cattedra mangiata dal tempo.
“Signorina mi parli della simulazione.”
“In che senso, simulazione?”
“Insomma quando si simula una certa cosa.”
“Non capisco il contesto.”
“Se già non sa rispondermi alla prima domanda non vedo come si possa continuare l’esame.”
L’assistente schiarì la voce e poi decise di riprovarci.
“Le sto chiedendo la simulazione, quando si accusa qualcuno ed esso simula un certo stato mentale.”
Charlotte, con quelle paroline in più, si rese conto che quell’argomento lo sapeva, lo conosceva alla perfezione, solo che non era riuscita come al solito a contestualizzare, pensando che fosse la domanda impossibile, quella che l’avrebbe fottuta.
“La so, ho avuto un attimo di confusione.”
“Bene, allora spieghi, forza. Abbiamo altre trentadue persone da esaminare.”
“Allora la simulazione è un modo per simulare quindi fingere di possedere un disturbo, in alcuni casi si può fingere di essere incapaci di intendere e di volere davanti alla legge. Questa tecnica è spesso suggerita dagli avvocati ai propri clienti per evitare condanne più pesanti. E’ bene capire cosa vuol dire incapacità di intendere e di volere dato che questo concetto e quello di infermità mentale vanno insieme.”
Se prima l’assistente non era per niente interessata a quell’esame perché riteneva che Charlotte non valesse niente, ebbe modo di ricredersi con quelle poche parole. La ragazza aveva parlato di infermità mentale, dei relativa criteri e poi aveva toccato ogni punto di quella materia, passando per il tipo di pena attribuibile, collegando i casi in cui entrambi i genitori erano perseguibili per legge per poi concludere con la condizione specifica dell’affidamento. L’assistente l’aveva lasciata parlare per poi interromperla solo quando Charlotte si era fermata per riprendere fiato.
“Va bene così. Ha toccato tutti gli argomenti quindi non ho motivo di farle altre domande. Vorrei darle la lode ma all’inizio non mi ha capita quindi non posso.”
“Non importa, va benissimo così.”
“Ne è sicura signorina?”
“Sì, certo.”
Charlotte sorrise provando a rassicurare l’assistente, in fondo a lei non importava del voto, le importava che alla fine della giornata sapesse le cose che aveva studiato.
“Allora, le do 30.”
“Okay.”
La ragazza sorrise ancora, strette la mano all’assistente e si alzò velocemente con il libretto in mano. Vide gli occhi delle colleghe seguirla, era sicura che si stessero chiedendo che voto avesse preso, e poi andò a sedersi vicino a Violet.
“Complimenti.”
“Direi di sì, un’altra materia in meno per la laurea. Tra quanto sei?”
“La prossima.”
“Ottimo. Chiamo mia madre e torno.”
Violet annuì sorridendole e Charlotte, sentì l’istinto di accarezzarle la spalla per ricambiare quel sorriso e rassicurarla ma ritrasse la mano, le sembrò un gesto inutile in quel momento, era come se fosse sicura che Violet non avrebbe apprezzato. Uscì e digitò velocemente il numero sulla tastiera del cellulare, sua madre se la sarebbe presa un po’ per la lode ma in fondo un trenta andava bene a tutti.

“30 anche io.”
“Perfetto.”
Charlotte le sorrise e i sentimenti, che poco prima aveva represso, ritornarono dentro di lei tanto che provò ad abbracciarla. Aveva bisogno della sua migliore amica, adesso più che mai.
“Non così velocemente.”
Violet la rifiutò malamente e la ragazza sembrò prendersela.
“Perché?”
“Sei scomparsa, mi hai trattata male e adesso sei tutta felice.”
“Sì, mi sono tolta questa materia. Cosa c’è di così sbagliato?”
“Niente ma hai superato magicamente tutta la fase “Andrew”?”
Violet si mise a sottolineare quell’ultima frase con le dita, facendo su e giù con l’indice e il medio di entrambe le mani.
“Va bene stare male per un ragazzo ma è da tre settimane che non ho notizie di te. I messaggi sono stati solo un modo inutile di comunicare, non hai voluto nemmeno che mi avvicinassi.”
“Quella che ha dovuto raccogliere i pezzi dopo che Matthew ti ha lasciato, sono stata io.”
Charlotte puntò il dito verso di sè, più volte.
“Io ho bisogno dei miei tempi, un esame mi rallegra, volevo condividerlo con te ma evidentemente sei più presa dal farmi notare che è da tre settimane che non ci sentiamo. Sì, ti ho scritto solo messaggi, e allora? Quel colloquio mi ha distrutta e non lo sai cosa vuol dire vedere la persona di cui potresti innamorarti aldilà di quel vetro che mette a nudo la sua anima.”
Adesso era seccata e sapeva di urlare e piangere allo stesso tempo, anche se non gliene importava minimamente.
“Quindi no, la fase non mi è passata e sì sono felice dell’esame perché mi sono impegnata per non pensare ad Andrew e ho avuto i miei risultati.”
“Charlotte, stavo solo…”
“Non mi interessa.”
Quella era la prima volta in cui a Charlotte non interessava cosa Violet avesse da dire, l’aveva ferita e lo aveva fatto senza considerarla. Sentiva una enorme fitta alla pancia, gli occhi che le bruciavano all’impazzata e la delusione per le parole di Violet era stata affiancata alle emozioni che quel colloquio continuava a suscitare nella sua mente. Lei non lo voleva quello stato d’animo eppure continuava a trovarselo dentro di sé, come se lei e Andrew dovessero portare quel peso insieme, come se i fardelli portati in due fossero più leggeri.


Era arrivata alla macchina ancora con le lacrime sul viso e con una mano impegnata a cercare le chiavi della macchina dentro la borsa, riuscì a recuperarle dopo l’ennesimo tentativo e mentre si asciugava le lacrime scorse una figura osservarla dall’altro lato della strada. Fece finta di non averla percepita, magari era solo uno dei tanti parcheggiatori abusivi che si aggiravano nei dintorni ma notava con la coda dell’occhio che la figura era sempre più vicina. Aprì prontamente il portellone della macchina e ci si chiuse dentro, aveva il cuore a mille e sperava che quella figura se ne fosse andata, non ebbe il tempo di mettere la sicura che sentì aprire lo sportello del passeggero e velocemente vide una chioma bionda intrufolarsi.
“Fuori dalla macchina, chi sei?”
Charlotte stava urlando come una pazza.
“Sono io, sono io. Eric.”
“Sei un’idiota.”
Charlotte gli diede uno scappellotto e poi un altro sul braccio sinistro.
“Mi fai male.”
In realtà lo stava dicendo scherzando e la forza di Charlotte poteva essere paragonata a quella di un criceto.
“Pensavo fossi un ladro, pensavo di morire. Sei stupido. Ti odio.”
Le lacrime si erano sostituite alle sue labbra increspate per indicare quanto si fosse seccata e la fitta che fino a poco tempo prima era localizzata alla pancia, si stava spostando verso il cuore.
“Ho capito, mi dispiace.”
Charlotte provò a respirare una prima volta normalmente, poi una seconda volta più a fondo ma niente sembrava farla calmare. Era come se da lì a poco avesse avuto un attacco di panico della stessa intensità dell’episodio del bagno ma era impossibile, non dopo tutto quel tempo. Si poggiò una mano sul petto, l’altra la allungò verso la portiera della macchina per cercare un appoggio solido dove sostenersi.
“Stai bene?”
La voce di Eric sembrava lontana, arrivava alle sue orecchie come un suono ovattato, i respiri erano sempre più brevi, l’ossigeno sempre meno e realizzò che non era impossibile, il dottore una volta lo aveva detto ma credeva di aver sconfitto quel suo demone interiore anni prima, una volta per tutte.


“Dottore, è possibile che tornino?”
“Purtroppo sì, se un giorno dovesse essere soggetta a troppo stress, potrebbero tornare. Per questo motivo deve sempre tenere un inalatore dietro. E’ noioso ma necessario.”
Il dottore si avvicinò a Charlotte e la guardò dritta negli occhi con l’aggeggio metallico in mano.
“Fallo per te stessa, portalo sempre dietro.”


“Mamma non può ripresentarsi, lo sappiamo tutti e due.”
“Non voglio rischiare. Ne metto uno, avvolto nella plastica, in ogni macchina. Se dovessi essere in tensione o stressata o dovesse succederti qualcosa, è lì.”





“E… e… rr…ic”
Continuava a non respirare e lui sembrava imbambolato a guardare Charlotte non avendo la minima idea di cosa le stesse succedendo. Poi iniziò a mettere insieme i sintomi e ricordò dell’unica volta in cui aveva letto di alcuni disturbi relativi alla sfera dell’ansia e quello che aveva davanti era uno di quelli. La ragazza iniziò a indicare dietro di lui, Eric provò a spostare lo sguardo verso quella direzione e poi individuò un piccolo inalatore avvolto nella carta trasparente, quello l’avrebbe salvata, l’avrebbe fatta respirare di nuovo. Glielo porse delicatamente e vide Charlotte poggiarselo sulle labbra, vide il ritmo del suo respiro regolarizzarsi e avviarsi verso la normalità. Fu il quarto d’ora più lungo della vita di Eric, aveva avuto l’impressione di aver condiviso con lei uno dei momenti più intimi dell’esistenza della ragazza e aveva avuto una paura immane dentro al corpo, tale che quando Charlotte si girò a guardare Eric per ringraziarlo, lui era bianco come un lenzuolo.
“Stai bene, Charlotte?”
Lei annuì anche se Eric sembrava il vero malato.
“Tu come stai?”
“Bene.”
La guardava con gli occhi sbarrati.
“Sei sicuro?”
“No, per niente. Ho avuto una paura tremenda, non sapevo cosa fare e temevo che saresti morta da un momento all’altro.”
Charlotte rise e provò a buttarla sul comico.
“Sì in effetti, la sensazione è stata come morire.”
Eric non sembrò cogliere quella sfumatura di scherzo e Charlotte lo capì subito dalla sua espressione preoccupata.
“Sto scherzando, eh.”
“Sì, sì, si era capito.”
Eric non si rassicurò per niente perché continuava a guardarla come se fosse un fantasma e prese a parlare senza lasciarle spazio.
“E’ stata colpa mia, vero? Oggi volevo solo farti una sorpresa. Pensavo di passare per l’università e sperare di incontrarti e mi ero portato della cioccolata da condividere ma non volevo spaventarti. Perdonami.”
Charlotte lo vide veramente dispiaciuto e allungò la mano sulla sua, provò a dargli un po’ di calore nel frattempo che Eric la guardava con uno sguardo totalmente spento.
“Se vuoi ti accompagno a casa, Eric.”
“Possiamo rimanere ancora un altro po’ così? Lo so, non mi sopporti ma voglio che ti riprendi per bene prima, se vuoi posso guidare anche io. Perché hai avuto l’attacco?”
Charlotte abbandonò la mano di Eric e la posò delicatamente sul suo sedile, girandosi un po’ verso lui, con solo il cambio a separare le loro gambe.
“Quando era piccola ci convivevo, poi crescendo era scomparso ma adesso dopo un sacco di anni è ritornato.”
“Sei stressata?”
Charlotte si voltò verso di lui e se lo trovò più vicino, la guardava incuriosito e a tratti stupito.
“Abbastanza.”
Lei si girò verso di lui e lui aprì un po’ il finestrino per evitare che si appannasse tutto per via dell’escursione termica tra dentro e fuori la macchina.
“Come mai?”
Al solito faceva sempre le domande giuste, lo vide avvicinarsi ancora di più, era come se volesse che le parole arrivassero più dirette, senza percorrere troppa distanza.
“Ho dato poche ore fa l’ultimo esame ma credo che sia stata una serie di cose.”
Charlotte si passò nervosamente una mano tra i capelli, come al solito.
“Tipo?”
“Eric lo so che sei curioso e tutto quello che vuoi ma ti conosco poco. Ti giuro vorrei conoscerti meglio, darti un’opportunità ma è evidente che tu non...”
Non ebbe modo di finire quella frase che lui si era sporto verso di lei, quel poco che bastava, le aveva messo le mani attorno al viso sfiorandole delicatamente i capelli e l’aveva baciata, un bacio a stampo fugace che le aveva resettato il cervello per un attimo. Nella sua mente non c’era Andrew, non c’era Violet, non c’era nessuna preoccupazione, c’era solo Eric, le sue labbra e le sue mani che l’avevano avvolta come se così ogni preoccupazione fosse andata via. Eric si allontanò velocemente, sapeva di aver fatto un errore anche se la faccia di Charlotte non confermava e nemmeno negava qualcosa, era incerta, impaurita, stordita. Lo guardò ancora, con le labbra semi socchiuse ma lui adesso stava guardando fuori dal finestrino, in tutt’altra direzione.
“Eric, senti.”
Si girò verso di lei con poco entusiasmo, era come se già immaginasse cosa gli avrebbe detto.
“La tua serie di cose ti ha fatto avere un attacco di panico e io penso a baciarti, come uno stupido.”
“No, è che..”
Eric le sorrise, forse era il sorriso più triste che avesse mai visto nella sua vita.
“Il fatto è che, Charlotte, io voglio stare con te. Non provavo una cosa del genere da tanto tempo e all’improvviso sento un’irrefrenabile voglia di sapere ogni singola cosa di te, dal tuo colore preferito alla tua canzone preferita ed è terribilmente sbagliato volere queste cose da te.”
“Perché?”
“Perché è evidente che tu non puoi provare qualcosa per me, nemmeno un po’. Tu hai la tua vita e il famoso ragazzo che ami e che è sempre presente. In questa macchina è come se ci fossero tre persone e non due e io non posso, non di nuovo.”
Charlotte non riusciva più a sostenere il suo sguardo, così lo abbassò osservandosi a lungo le mani.
“E’ evidente che io non ho nessuna voce in capitolo. Hai scelto tutto tu, Eric.”
“E cosa vorresti dirmi? Ho detto qualcosa di sbagliato?”
“No ma lui quando mi hai baciato non c’era e, anche, in questo momento non c’è.”
“Posso sapere chi è? Devi amarlo tanto.”
“In realtà non credo di amarlo ma fa parte della mia vita da tanto tempo, solo che lui si è dimenticato di me una volta e ora potrebbe ricordare chi sono aldilà del fatto che ci siamo rincontrati. Io e lui non ci siamo mai dati una possibilità e lui mi ha salvata, quando la mia speranza nei confronti del genere umano si era affievolita, lui mi ha preso la mano e mi ha riportato al mondo.”
“E come vi siete rincontrati?”
“A una festa in maschera.”
“Dovevo parlarti quella volta in treno, quando ti ho sorriso e ti sei seccata, forse sarebbe stato diverso.”
“Forse ma non saprei dirti.”
Charlotte smise di torturarsi le dita e lo guardò dritto negli occhi, cosa c’era di così sbagliato in lei? Eric le stava offrendo il suo cuore su un piatto d’argento, per la prima volta dopo tempo riusciva sentirsi a suo agio con lui e adesso stava buttando via ogni possibilità.
“Ne sono sicuro. In ogni caso qui c’è la cioccolata che ti avevo portato e dentro c’è pure il mio numero. Grazie.”
Lo guardò con sguardo incredulo.
“Per cosa?”
“In questa macchina mi hai mostrato tanto di te stessa e penso che se rimango un minuto di più qui dentro rischio di innamorarmi definitivamente di te.”



spazio autrice
E' passato un po' dall'ultimo capitolo ma sono qui e spero vivamente che questo non vi deluda. Ho impiegato molto tempo a scriverlo perchè volevo fosse perfetto e ho dovuto rileggerlo più e più volte perchè c'erano sempre alcune frasi che non mi convincevano molto. Sono successe molte cose e penso che la cosa che più a colpito, oltre al momento tra Charlotte e Eric, sia stata la litigata tra Violet e Charlotte. E' come se avessero detto a voce alta i propri pensieri e avevano bisogno di questo confronto, Violet a parte l'assenza di Charlotte ha solo vissuto in funzione di Matthew e Charlotte si è allontanata da lei per tutti quei motivi descritti negli scorsi capitoli, il suo sentirsi fuori posto, un po' esclusa e totalmente presa dalla situazione con Andrew. Scusate ancora per il ritardo e ringrazio come sempre voi lettrici che seguite, ricordate, preferite e soprattutto commentate. Spero di ricevere ancora i vostri pareri e al prossimo capitolo che, sicuramente, arriverà al più presto.
Bittersweet memories ha un gruppo facebook in cui potrete leggere spoiler e vedere i lavoretti grafici che faccio.
Alla prossima, marty (:

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Capitolo 24
*** 23. Altrove. ***




 

Capitolo 23.






Non sapeva come definire le sue impressioni su quel bacio e sul fatto che Eric se ne fosse andato poco dopo, solo dopo aver accennato ad Andrew. Sentiva riecheggiare dentro alle orecchie quelle parole, che a lei sembravano vuote, ma che in realtà avevano un significato immenso. Andrew era davvero sempre con lei? Le sembrava che Eric avesse detto una frase stupida, lo aveva anche preso in giro ma Charlotte nel suo profondo sapeva che fosse così. Andrew era una figura spirituale che stava accanto a lei da troppo tempo, lui l'aveva guidata quando le situazioni si erano fatte macchinose, lei chiudeva gli occhi e immaginava una piccola mano intrufolarsi tra le sue dita e stringerla per darle forza come anni prima, come quell’estate in campagna, forse lei era Dante e lui il suo Virgilio. Partì con la macchina senza conoscere la destinazione, girò a vuoto per ore ed era certa di aver percorso il lungo mare per la seconda volta in quell’esatto momento. Era partita non sapendo cosa avrebbe trovato alla fine di quella corsa, risposte o solo altre domande? Aveva litigato con Violet duramente, forse era stata troppo impulsiva ma allo stesso tempo sapeva che non era l’unica ad avere torto in quella discussione. La colpa era di entrambe, lei si era fatta prendere troppo dalla sua situazione e Violet l’aveva lasciata fare. Non aveva mai avuto una vera amica e forse era quello il suo problema, non sapeva bene come gestire i rapporti ma a volte necessitava dei suoi spazi, come nell’ultimo mese. Per quanto fosse felice che Matthew fosse tornato nella vita di Violet, notava che lei avesse totalmente trascurato i rapporti, non solo con lei ma con tutti quanti.
Quindi la scusa di Violet qual era? Nella mente di Charlotte nessuna risposta sembrava calzare, a parte una, Violet era innamorata ma a lei non sembrava una scusa plausibile. Charlotte si ritrovò a passare per l’ennesima volta accanto al mare e a quel punto decise di fare una breve sosta, era sicura che non avrebbe trovato niente alla fine di quella corsa. Non ci sarebbe stata nessuna risposta quando avrebbe girato le chiavi delle macchina, quando sarebbe scesa dalla macchina; c’era solo Charlotte, un sapore sbiadito di un paio di labbra che non avrebbe mai immaginato di baciare, un vuoto sempre più lacerante dentro al petto e il mare. Uscì dalla macchina senza curarsi dei troppi libri sparsi e prese in mano la cioccolata che Eric le aveva regalato, non aveva idea di come facesse a sapere che lei adorava la cioccolata  fondente ma lo apprezzò, anche se non vedeva il senso di quell’azione. Lui aveva chiaramente detto che non avrebbe voluto innamorarsi di lei, più di quanto già non lo fosse, però fino a poco prima del bacio era disposto a regalarle quella tavoletta di cioccolata e a mettersi in gioco. A Charlotte venne spontaneo chiedersi cosa avesse di così speciale, in fondo con Eric non avevano parlato molto, però lui già parlava di amore, così come Andrew. Entrambi dicevano di essere innamorati, solo che il primo lo dimostrava e l’altro no, entrambi dicevano di amare ma non era nemmeno sicura che sapessero cosa fosse l’amore.
Prese a togliersi i calzini, le scarpe e, quando i suoi piedi incontrarono i piccoli cristalli di sabbia gelida, rabbrividì un attimo; Charlotte voleva sedersi sulla spiaggia, fregandosene della sabbia o dei pantaloni che si sarebbe sporcata, voleva guardare il mare. Aveva scelto quel pezzo di spiaggia, tra tanti altri, perché lì era come se ci fosse una parte di sé, ogni volta che sentiva che i pensieri si stessero sovraffollando andava lì a svuotare la mente. Il mare riusciva a calmarla in qualche modo e spesso vedeva infrangere le onde sulla sabbia allo stessa velocità dei suoi pensieri. Quando era piccola, le poche volte che andava a mare, le piaceva galleggiare come se fosse morta e sperare che le onde la portassero altrove, in un posto molto più interessante e senza alcun tipo di dolore.
Si sedette a terra, sospirò, prese le cuffie dalla borsa e le collegò al cellulare, cercò una canzone che facesse a caso suo ma niente sembrava rispecchiarla così tanto, avrebbe ricorso alla tanto amata riproduzione casuale e, nel frattempo che la prima canzone partiva, aprì la tavoletta di Eric. Assaporò il primo pezzo di cioccolata e poi si accorse che dentro c’era un pezzo di carta, lungo quanto tutta la tavoletta, si incuriosì parecchio e aprì quel foglio con foga, facendo scivolare in mezzo alle sue gambe un piccolo fiore essiccato.

“Se stai leggendo questo foglio vuol dire che l’ho fatto davvero.
 Sì, insomma, ti ho dato davvero la tavoletta di cioccolata e tu l’hai aperta per mangiarla. Proprio adesso stai immaginando la mia voce che ti dice queste cose e penserai, tra le tante cose che pensi di me, che sono più stupido di quanto tu possa pensare. Aprendo avrai notato un piccolo fiore, beh è questo il motivo per cui ti sono venuto addosso quel giorno. Avevo notato il fiore, sotto il gomito sinistro del tuo cappotto e volevo prenderlo per ricordarmi così dell’unica ragazza che si era innervosita per un mio sorriso di troppo. Lo so, sa di stalker folle, ma non era la prima volta che ti guardavo in treno, ti ho vista tante volte seduta a guardare altrove o a leggere uno di quei libri che ti porti sempre dietro. Non so cosa voglio comunicarti con questo foglio, ah si lo so.
Tu mi piaci Charlotte, scusa se mi sono fatto odiare ma adesso sai perché e probabilmente avrei dovuto fare tutto come le persone normali, chiedere il tuo nome o usare la scusa del “Posso sedermi vicino a te?”.
ps: so che ti piace la cioccolata fondente (se te lo fossi chiesto) perché una volta lo hai detto a tua madre.”


Charlotte sorrise malinconicamente ed ebbe tanti piccoli flashback.
Lei che percorreva la strada per la stazione di fretta, controllando che avesse il biglietto da timbrare sul treno e lei che, avendo rivolto la sua attenzione dentro a quella borsa, aveva strofinato il cappotto e il suo gomito sinistro sulle piante della vicina per poi sistemare la rotta, percorrendo la strada quanto più dritta possibile. Lei che provava a scrollarsi tutti quei fiori che accidentalmente le si erano appiccicati sul cappotto di lana, Eric che le sorrideva e che si scontrava contro di lei, solo per toglierle l’ultimo fiore che non si era accorta di avere, e non perché era maleducato e rozzo. Ricordò della telefonata con sua madre, suo padre faceva il compleanno e lei diceva espressamente che avrebbe preferito la torta con il cioccolato fondente, perché a lei e suo padre piaceva così e non al latte. Tanti piccoli pezzi di un puzzle che si andavano a incastrare, una prospettiva diversa rispetto alla sua che andava a raccontare un'altra Charlotte, la ragazza che tutti vedevano. Era stato lì per tutto quel tempo, senza che lei se ne fosse realmente accorta e forse conosceva Charlotte, più di quanto lui volesse ammettere. Lei aveva letto quelle parole e le era venuta in mente quella frase che Eric le aveva pronunciato tempo fa.
Sai Charlotte, c’è un solo momento in cui sembri te stessa. Quando abbassi lo sguardo e ti guardi le mani. In quel momento riesco a riconoscerti, per il resto racconti qualcosa che nemmeno ti rappresenta.”
E allora, chi era Charlotte? All’esterno sembrava riservata, sulle sue e risultava autentica solo dentro ai suoi pensieri, solo quando era troppo intenta a pensare ad altro, a perdersi nel mondo. Erano troppe consapevolezze in una mattina, tutto era stato così impetuoso, come il mare in quel momento. La chiamata di Andrew, l’esame, il litigio con Violet, Eric in macchina, l’attacco di panico, il bacio con Eric e lei, lei e il mare. Andò alla ricerca di un altro pezzo di cioccolata, come se quello potesse risolvere qualcosa, come se potesse far rallentare tutti quei pensieri e poi vide, alla sua destra, un ragazzo avvicinarsi al mare, smise di masticare immediatamente non appena riconobbe quel paio di spalle.
 

Quelle spalle le avrebbe conosciute tra mille e quella espressione di stupore nel vederla gliel'aveva rivolta solo lui, si era girato verso di lei nello stesso istante in cui Charlotte aveva posato gli occhi su di lui ed entrambi avevano avuto la stessa identica reazione. Avevano esitato, era evidente che volessero scappare dall’altra parte del mondo ma entrambi si resero conto che non era la cosa più matura da fare, non dopo tuti quegli anni. Charlotte volse lo sguardo dall’altra parte, guardando ancora il mare e percepì la figura di Kyle farsi sempre più vicina, lo avrebbe riconosciuto sempre, anche a distanza di anni, riconoscerlo era sempre facile per Charlotte. Lo aveva guardato troppe volte dormire, lo aveva disegnato troppe volte con l'indice passando e ripassando sopra il dito e lo aveva sognato troppe volte per dimenticarsi la sua sagoma. Se lo ricordava con qualche chilo in più, adesso sembrava averne persi troppi e aveva acquistato un pallore, un po' cadaverico. Quando stavano insieme non toccava nemmeno le sigarette per caso, anzi si ritrovava a rompere quelle degli amici per farli smettere, quindi Charlotte si stupì quando vide del fumo uscire dalla bocca di Kyle.
“Credevo che non ti avrei più rivista. ”
“Lo speravo anche io.”
Lui le sorrise e buttò via la sigaretta.
“Posso sedermi?”
“Hai una spiaggia intera, puoi sederti dove vuoi.”
Il ragazzo si sedette di fronte a lei, dando le spalle al mare, era come se volesse tutta la sua attenzione.
“Questa punta di acidità non ti è passata mai, vero?”
Charlotte rise, prendendosi in giro.
“Non vedo che significato possa avere detto da te.”
Rise più forte e Kyle sembrò non capire.
“Disse la ragazza che mi aveva lasciato andare.”
“Cosa? Non credo di aver sentito bene.”
“No, niente. Come stai?”
“Hai avuto due anni per chiedermelo.”
“E’ vero ma adesso sono qui.”
Charlotte non riusciva più a essere divertita, il suo cuore si era riempito di risentimento e non riusciva a far mutare quel sentimento, più provava a scacciarlo via e più le venivano alla bocca insulti e parole che non avrebbe dovuto pronunciare.
“Non è più importante, non più.”
Infilò velocemente i calzini, sbagliando il lato e riempiendosi i piedi di sabbia, più di quanto già non lo fossero, e poi le scarpe. Le sembrò di fare una fatica immensa, a ripercorrere la strada al contrario, la sabbia si era fatta più pesante sotto ai suoi piedi e anche se voleva lasciare Kyle lì, insieme a un’altra parte di sé, lui si mise davanti a lei bloccandole il passaggio.
“Parla con me, ti prego.”
La ragazza lo guardò negli occhi, quella tonalità di marrone faceva male, ancora male.
“Sono passati due anni, Kyle. Non siamo amici, non stiamo insieme, non devo farti nessun favore.”
“Sarei venuto comunque in questi giorni a casa tua, c’è una cosa che devo dirti.”
Charlotte lo guardò un ultima volta e poi lo superò, quello era il loro vero addio, lei che era rimasta senza parole e lui che provava a ricostruire, a riconsolidare un rapporto ormai finito. Lo sentì chiamarla, correre ancora e Charlotte sentì una scarica di rabbia invaderla, sapeva che se avesse avuto le forze lo avrebbe spintonato fino a farlo cadere a mare, così si limitò solo a girarsi. Non lo aveva guardato bene fino a quel momento, non aveva visto aldilà di quel volto così scavato.
 “Mia madre sta morendo, Charlotte e ha chiesto di te.”
Le sembrò un tentativo assurdo, all’inizio pensava che avesse provato il tutto per tutto e che non fosse vero ma poi Kyle aveva pianto e Charlotte riconosceva le sue vere lacrime,  riconosceva lui che stava male. Lei aveva proposto di andare a casa sua a prendere un caffè, lui si sarebbe calmato e soprattutto avrebbero avuto il tempo del tragitto per casa per maturare quella scelta. Alla ragazza sembrò opportuno farlo entrare, come al solito i suoi genitori non c'erano e lui aveva bisogno di lei, anche se riteneva che non se lo meritasse, nemmeno un po’. Entrando, lui aveva provato a mantenere un certo distacco, a non guardare nessun oggetto che potesse sembrargli familiare e Charlotte se n’era accorta.  Si sedettero in cucina e mentre Charlotte preparava il caffè, lo vide fissare il frigorifero, la calamita del loro viaggio in Portogallo era ancora lì, nella stessa identica posizione, dopo tutti quegli anni.
“Non hai cambiato niente.”
“Cosa avrei dovuto cambiare?”
“Credevo che avessi buttato tutto ciò che riguardava me.”
Lo sentì avvicinarsi a lei.
“Vuoi una mano?”
Il suo fiato sempre più vicino.
“Sì. Stai attento al caffè, nel frattempo poso i libri.”
Lo vide deluso ma fece finta di non farci caso. Gli sorrise e si incamminò con passi decisi verso la sua camera. Buttò tutto a terra, chiuse a chiave la porta e iniziò a prendere lunghi respiri. Non era lo stesso caso di prima e dell’attacco di panico, era solo l’effetto che Kyle le faceva dopo tutti quegli anni.

Quando era tornata in cucina, lo aveva trovato a guardare la finestra con la tazza in mano. Non era la prima volta che lo guardava in quella posizione, la loro ultima discussione era iniziata così ed era finita in quel modo inutile. Aveva distolto lo sguardo da fuori e aveva posato i suoi occhi su Charlotte per poi sorriderle come faceva sempre, con quel pizzico di malizia che lo caratterizzava: non si era mai sentita più nuda in vita sua.
“Kyle perché sei qui? Perché cercarmi ora?”
Charlotte aveva preso la sua tazza, il suo caffè e poi si era seduta sulla sedia, quella a capotavola, e aveva visto Kyle fare lo stesso. Le aveva spiegato che aveva dovuto lasciare gli studi l'anno dopo che si era trasferito e che aveva riprovato il test per entrare nella loro città per continuare a studiare qui l’anno dopo, entrando, convalidando alcune materie e stando vicino a sua madre. Non le aveva specificato il modo in cui stava morendo ma Charlotte poteva immaginarlo, c'era solo una cosa graduale ma fatale. 
“Sa che le manca poco e mi chiede sempre di te. Natale è vicino e volevo farle questo regalo, sono convinto che sarà l’ultimo anno insieme.”
Era evidente che si vergognasse a dire quelle parole.
“Lo hai detto ora che sei tornato l’anno scorso, quindi hai avuto un anno per venire qui da me. Avresti potuto parlarmi di tua madre, della tua vita, di tutto. Io ero legata a tua madre ma non capisco perché chiede di me.”
“Ti vuole bene, per lei sei sempre stata la figlia che non ha mai avuto.”
“Kyle non stiamo più insieme, da tempo. E’ finita quando hai iniziato a non rispondermi più.”
Sembrò ferito da quelle parole, era come se le avesse sentite pronunciare per la prima volta.
“Mia madre non lo sa che ci siamo lasciati, non gliel’ho detto.”
“Per quale motivo?”
“Perché mi è difficile ammetterlo, anche dopo tutto questo tempo. Non avevo il coraggio di tornare da te, mi sono divertito all’inizio ma me ne sono pentito subito. Non sai cosa darei per tornare indietro.”
“E’ tardi e mi dispiace per tua madre ma non posso.”
“Ci rimarrà malissimo.”
“Lo immagino ma noi, noi non esistiamo più. Io non ti devo niente.”
“Sei egoista, Charlotte.”
“Non mi interessa e credo dovresti andare.”
“Si lo credo anche io.”
Kyle lo disse digrignando i denti, era seccato, era evidente che fosse così, prese velocemente le sue cose e Charlotte fu felice di farlo uscire da quella porta. Era stato come metter via una scatola, con tutte le cose, con tutto ciò che riguardava Kyle; era riuscita a sentirsi dire che in fondo a lui ancora mancava, che avrebbe fatto tutto da capo ma in quel momento poco le importava. Per lei Kyle non era più niente ed era sicura che da quel momento in poi non avrebbe più avuto alcun tipo di nostalgia per lui, per il loro rapporto e per il modo in cui lui l’aveva fatta sentire. Si passò una mano tra i suoi capelli lisci, iniziò ad attorcigliarli tra le dita per formare dei piccoli boccoli e provò a pensare a cosa avrebbe fatto con la madre di Kyle. Aveva mentito spudoratamente, non è vero che non sarebbe andata da lei, quella donna per un certo periodo della sua vita era stata più presente di sua madre e le doveva quello. Lo avrebbe fatto per lei e non per Kyle, glielo doveva.




 spazio autrice
Intanto auguri di buon anno a voi lettrici <3
Siete ancora qui a seguire la storia e la cosa mi fa un immenso piacere, ho anche notato che si sono aggiunte nuove lettrici e ne sono felicissima <3 Questo capitolo è stato lungo da scrivere, anche difficile ma arriva un momento nella vita in cui devi fare i conti con tutto e Charlotte ha appena affrontato tutto questo. Bhè non c'è tanto da dire, il capitolo parla da sè, è pieno di emozioni, di pensieri e forse vediamo una Charlotte più matura, che non ricade negli stessi errori.
Grazie come sempre a voi che mi seguite, commentate, preferite, ricordate <3
Ricordo che la storia ha un gruppo: bittersweet memories
A presto (:

 

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Capitolo 25
*** 24. Pasta frolla. ***


 

Capitolo 24.


 



Andare in ospedale era una di quelle cose che odiava fare. Lo odiava perché non sopportava l’odore di alcool che sentiva nell’aria, lo odiava perché il colore bianco non era tra i suoi preferiti e le ricordava, inconsciamente, la seduta di poche settimane prima di Andrew e odiava l’idea di andare lì perché, se fosse stato per lei, non si sarebbe mai trovata in quel posto. Kyle aveva detto sommariamente dove si trovava sua madre, lei lo aveva appuntato nella sua mente ma non aveva la certezza che lui quel giorno non ci sarebbe stato. Voleva evitare di vederlo perché sapeva che, se lui l’avesse vista lì, avrebbe tratto conclusioni affrettate, conclusioni che non esistevano perché per Charlotte il loro rapporto era finito quando lui era uscito da casa sua, pochi giorni prima. Provò a ricordare il numero della stanza e dopo aver girato ogni piano dell’ospedale, riuscì a scorgere il letto della madre di Kyle, Emily. La cosa fondamentale che le dava più fastidio, era la depersonalizzazione dell’individuo, stare in ospedale era come essere un numero indistinto, avere una cartella clinica di plastica trasparente come gli altri ed essere un individuo che in quel momento è lì per qualcosa, qualcosa che va curato per liberare un letto, per poi ricominciare il ciclo.
Entrò in stanza, stranamente calma, Emily era da sola; la donna percepì una figura avvicinarsi a lei e si girò a guardare Charlotte.
“Credevo che non saresti più venuta.”
“Lo credevo anche io.”
Emily sorrise e Charlotte provò a ricambiare ma con scarsi risultati. Kyle aveva detto che la madre stava poco bene, che non sapeva per quanto tempo avrebbe vissuto e riuscì a costatarlo con i suoi occhi. Era parecchio dimagrita in faccia, per non parlare delle braccia che erano diventate scheletriche, insieme alla pelle che sembrava semplicemente appoggiata alle ossa. Probabilmente Charlotte aveva indugiato troppo a guardare, tanto che la donna provò a far scendere le maniche del pigiama per evitare che la ragazza vedesse ancora, era evidente che si vergognasse dello stato in cui era. Charlotte non l’aveva mai vista così, nemmeno quando aveva avuto la febbre alta e lei e Kyle erano rimasti tutta la notte a farle compagnia.
“Prendi la sedia, Charlotte. Siediti vicino a me.”
La ragazza annuì e andò a prendere la sedia che si trovava sotto al tavolino, era sicura che la donna mangiasse lì i suoi pasti, poi si soffermò un istante a guardare oltre la finestra. Riusciva a vedere tutta la costa, a immaginare quel pizzico di sollievo che la donna provava nel consumare i pasti lì, Emily poteva guardare il mare e mangiare qualcosa, come amava fare da sempre. Glielo aveva detto lei di andare al mare per rilassarsi e lo aveva detto, pure lei, a Kyle di portare Charlotte a mare per la loro prima volta. Portala lì, Charlotte non riuscirebbe mai a dimenticarlo.
“C’è una bella vista, Emily.”
Lo disse, avvicinando la sedia al suo letto.
“Si è vero. Ho avuto fortuna. Avrei potuto pranzare vicino al bagno o condividere la stanza con un’altra vecchiaccia come me, ma posso ritenermi fortunata.”
Charlotte rise, davvero, sembrava che il ghiaccio di prima si fosse, a un tratto, rotto.
“Cosa mi racconti? Non ti vedo da due anni.”
“Sto bene, sto frequentando l’università di psicologia qui in città. Sono felice in questo momento.”
“Puoi leggermi nella mente? Cosa sto pensando?”
Il solito senso comune che Charlotte sopportava poco ma detto da Emily sembrava la cosa più naturale al mondo.
“Non funziona così.”
Sorrise.
“E poi aspetto la laurea per poter leggere la mano.”
Emily sorrise di gusto, lei e Charlotte era sempre state apparentemente legate tra loro quando, in realtà, non c’era una vera connessione tra loro; tranne Kyle, ovviamente.
“Da quanto tempo vi siete lasciati tu e Kyle?”
Charlotte si pietrificò in volto, non sentì più nemmeno le gambe, doveva sospettare che lei lo sapesse, Kyle non era mai riuscito a nascondere qualcosa a sua madre e lei era troppo risoluta per essersi fatta sfuggire un dettaglio così importante della vita di suo figlio.
“Lui parla di voi come se ancora steste insieme ma mi rendo conto che non è così. Quando stavate insieme, aveva una luce diversa negli occhi, adesso è solo arrabbiato con il mondo e parla di te in continuazione, solo per convincermi che state insieme.”
“Mi spiace, Emily.”
“Non dispiacerti Charlotte cara, davvero. Lo so che quando era a studiare fuori non rispondeva più alle tue chiamate, so che andava ogni sera a ballare. Ce l’ho aggiunto anche io su Facebook, sotto un nome falso quindi so cosa combina.”
“Nome falso?”
“Sì, se avesse saputo che ero io non mi avrebbe aggiunto né ora né mai. Ho messo le foto di una donna attraente e lui mi ha aggiunta subito.”
Charlotte prese a ridere.
“Bionda, poco coperta e con foto provocanti?”
“Esattamente, come fai a saperlo?”
“Ho provato a capire come la conoscesse per mesi, era troppo bella per averlo aggiunto.”
Emily scoppiò a ridere, Charlotte scorse delle lacrime scenderle giù dagli occhi e poi vide la donna mettersi ritta con la schiena e prendere dei piccoli respiri.
“Amo ridere, è la cosa che più mi piace fare ma adesso devo limitarmi solo a sorridere o avere queste risate a metà, questa malattia mi sta distruggendo.”
Era come se una bomba fosse stata sganciata, così, dal nulla. Per un attimo Charlotte aveva dimenticato il contesto, era come se ci fossero Emily e lei in una stanza, a ridere, a parlare, ma la donna l’aveva fatta ritornare alla realtà. La malattia c’era ed era insieme a loro, per quanto potesse sembrare assurdo era in quella stanza, Charlotte si sentì in colpa e vedendo Emily seduta male si avvicinò per sistemarle il cuscino.
“Charlotte ti auguro di essere felice, mi spiace per mio figlio, lui non riesce a capire le cose importanti e se le lascia scappare sempre. Mi dispiace soprattutto per tutta la sofferenza che ti ha procurato, lo so che lo amavi e so quanto hai potuto soffrire.”
“Grazie. Avrei voluto sapere prima come stavi, me lo ha detto solo un paio di giorni fa e volevo evitare di incontrarlo qui.”
“Hai fatto bene, potrebbe immaginare che ha ancora una chance ma non l’ha più.”
“Cosa te lo fa pensare?”
“Perché so come sei fatta Charlotte, ho sempre ascoltato i tuoi discorsi e so che lo hai aspettato per tanto tempo, lo hai paragonato a qualcuno ogni volta che conoscevi un ragazzo nuovo e adesso è come se non esistesse per te. E poi sono convinta che hai incontrato qualcuno che ti ha stravolto la vita, sarebbe assurdo il contrario.”
“Forse la laurea in psicologia dovresti prenderla tu Emily.”
Vide i suoi occhi sorridere.
“Lascio spazio a te, Charlotte. Ti conviene andare, tra poco arriverà l’infermiera a fare tutte quelle cose che non auguro a nessuno, quindi hai appena il tempo per salutarmi come si deve.”
Charlotte annuì, sistemò la sedia al suo posto, guardando ancora il mare e poi si diresse verso Emily. Si abbassò a darle un bacio sulla fronte ma la donna la abbracciò con quella poca forza che aveva, Charlotte fu presa alla sprovvista ma ricambiò quell’abbraccio.
“Adesso vai su. Avrai di meglio da fare che stare con me.”
La ragazza la guardò per l’ultima volta, mimò un grazie con le labbra e si apprestò a uscire dalla porta.
“Charlotte?”
Sentì la voce di Emily e si girò verso il letto.
“Sì?”
“Il tempo non è mai abbastanza.”
Le fece cenno con la testa e lasciò che quelle parole si depositassero dentro di lei mentre prendeva l’ascensore; sapeva che il tempo fosse tiranno, lo sapeva ogni volta che vedeva sua nonna con un nuovo acciacco o i sentimenti delle persone mutare, ma allora perché non aveva mai fatto qualcosa a riguardo? Pensò ad Eric e a come le cose sarebbero state diverse se lui si fosse presentato prima e poi pensò ad Andrew e al fatto che, se la tutor del tirocinio non le avesse proposto il colloquio, lei non avrebbe mai saputo la verità. Era arrivato il tempo di decidere e si ritrovò a digitare un numero, che ormai aveva stampato a caratteri indelebili nella sua mente.
“Sono io, ho bisogno di vederti.”
 
 
Non era stato facile convincerlo ma alla fine avevano concordato di vedersi in quel parco, lei era andata a comprare dei biscotti di pasta frolla nel panificio di fronte e aveva iniziato a mangiare. Pensava che così ogni tipo di crampo allo stomaco le sarebbe passato ma non era così, avrebbe preferito una bottiglia di Vodka piuttosto che quei biscotti ma non le sembrava consono. Non riusciva ad accostare lucidamente due pensieri, appena si chiedeva se quella fosse la scelta la giusta, la risposta non sembrava giusta, così il suo cuore le diceva di aspettare che lui arrivasse, se sarebbe arrivato. Aveva comprato biscotti tutti a forma di cuore e aspettava che lui venisse per offrirgliene uno, per intavolargli il discorso così e fargli capire più facilmente cosa provava ma rigirandosi quel cuore tra le dita, le sembrò una cosa stupida, di essere tornata alle scuole elementari. Si sedette sulla panchina, era verde come il colore degli occhi di Charlotte, e sospirò con quella busta piena di biscotti a forma di cuore sulle gambe; lo aveva aspettato così a lungo che le sembrò insignificante aspettare qualche momento in più.


Non credeva che Charlotte alla fine lo avrebbe chiamato, toccava a lui chiamarla ma come al solito lei era diversa e mentre percorreva la strada per quel parco, si chiedeva perché proprio quel giorno. Sentiva il cuore battergli all’impazzata, voleva capire perché lo aveva chiamato, perché sentiva il bisogno di vederlo e si fermò di colpo quando vide Charlotte seduta sulla panchina. Sentì il fiato mancargli, il cuore perdere un battito e poi un altro e si rese conto che alla luce era ancora più bella. Fino a quel momento si erano sempre visti alle feste o quella volta in campagna, quando lui l’aveva guardata di sfuggita per evitare di parlarle. I suoi capelli erano belli, sottili e con delle sfumature rosse che lo facevano impazzire, i suoi occhi erano vivaci e verdi come dei fili di erba e il suo viso era ancora più dolce, con quelle labbra in cui avrebbe voluto perdersi. Nelle ultime sedute con la psicologa avevano fatto molti progressi e avevano parlato molto di Charlotte, la donna era convinta che Charlotte sarebbe riuscita a riportarlo alla parte inconscia che riguardava la sua infanzia. Scosse la testa, sarebbe andato da lei, avrebbe percorso quello spazio che li divideva e nel frattempo avrebbe provato a non farsi scoppiare le tempie per la tensione.


Lo vide avvicinarsi a poco a poco, lentamente, e non seppe cosa fare, alzarsi e andargli incontro o rimanere lì seduta, facendo finta di non averlo visto. Si limitò solo a guardare nella sua direzione e scrutarlo dalla testa ai piedi, non lo credeva possibile. Non pensava che sarebbe riuscito a venire, pensava che l’avrebbe lasciata lì a morire di freddo e ad aspettarlo invano. Alla luce era diverso, lo aveva già visto in campagna ma adesso riusciva a vederlo meglio, lui era Andrew, lo stesso Andrew che aveva voluto bene da piccola e lo stesso Andrew che le aveva stravolto la vita con una maschera e un bacio.
“Alla luce è più difficile, vero?”
Charlotte decise di rompere il ghiaccio così e lui le sorrise, annuendo.
“Non conosco bene questa zona quindi mi ci è voluto un po’, mi spiace.”
“Non preoccuparti.”
Charlotte si era alzata per andargli incontro, con la busta dei biscotti in mano.
“Ne vuoi uno? Li ho appena comprati.”
Gli porse il sacchetto, lo aprì appena e lui affondò la mano per prendere uno di quei dolcini di pasta frolla. Indugiò un attimo sulla forma e sorrise a Charlotte.
“Carini.”
La ragazza arrossì.
“Sono anche buoni.”
Vide Andrew mangiarli con gusto.
“E’ vero, solo che io preferisco quelli ricoperti di cioccolato per metà.”
“Anche io ma non c’erano.”
Si sorrisero, ancora.

Andrew, se senti qualcosa e vuoi dirlo alle persone, digliela. Aiuta il nostro lavoro e ti aiuta nel rapporto con gli altri.

Andrew si fece d’un tratto serio e guardò Charlotte.
“Posso baciarti?”
La ragazza si irrigidì, non era una domanda che qualcuno le aveva mai fatto, non riuscì a dire niente se non fare un gesto meccanico con la testa per dire di sì, che voleva, anche se era stupido ridurre tutto a un semplice cenno. Si avvicinò a lui, lo guardò dritto negli occhi e poi appoggiò la propria fronte su quella del ragazzo; i loro nasi si sfiorarono, Charlotte chiuse gli occhi per sentirlo più vicino, per inspirare ancora di più il suo odore e quando riaprì gli occhi si perse nelle sue iridi azzurre. Troppo familiari, come aveva potuto non riconoscerli quella sera?
Dentro a quelle pozze vide tutto il suo mondo, Andrew e lei che si tengono per mano, loro due che corrono per la campagna, loro due che si baciano al buio e con una maschera e poi Andrew chiuse gli occhi. Spostò la sua testa verso destra e andò a baciare le labbra di Charlotte, quel bacio aveva il sapore della pasta frolla, era esigente, come se avesse bisogno di quel paio di labbra per sopravvivere e ad ogni respiro, sentiva le mani di Andrew muoversi su tutto il suo corpo. Avevano entrambi aspettato a lungo quel momento per diversi motivi, Charlotte che voleva baciarlo alla luce del sole, essendo consapevole di chi avesse davanti e Andrew che voleva stare con lei, senza aver paura e dando a lei tutto ciò che teneva dentro, tutto quell’affetto che si era permesso di donare solo a sua madre. Ripresero fiato perché l’aria era poca, i respiri troppo affannati, non era consono baciarsi in quel modo in pubblico e Andrew voleva parlargli di tutto ma soprattutto voleva parlare con Charlotte. Aveva tante cose da dirle.



spazio autrice
E' vero è passato parecchio tempo ma l'università e la sessione invernale ha chiamato parecchio. Il capitolo era già pronto solo che non riuscivo a concluderlo, volevo descrivere al meglio l'ultima scena e spero di esserci riuscita. Parla da sé, sembra di essere arrivati a una conclusione e devo dire che la storia sta per volgere al termine, ci saranno un paio di capitoli e poi un epilogo. Grazie come sempre a chi segue e spero che qualcuno voglia lasciare il proprio parere (: Ancora grazie, per tutto.
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Capitolo 26
*** 25. Innamorarsi insieme. ***


 

Capitolo 25.


 



Quando Andrew le aveva chiesto di andare a casa sua, Charlotte aveva annuito senza esitazioni; durante il tragitto per andare a casa di lui aveva detto ancora sì nella sua testa e vedeva, di tanto in tanto, il ragazzo guardarla solo per controllare se lei avesse avuto un qualche tipo di ripensamento. Prima che entrassero a casa sua, lui le aveva dato un bacio leggero sulla guancia e si era messo a cercare le chiavi dentro alle tasche enormi dei suoi pantaloni, Charlotte lo osservò ancora un po’ e poi decise di avvicinarsi ancora di più al corpo del ragazzo per tranquillizzare lui ma soprattutto lei. Era come se avesse bisogno di un ulteriore prova che fosse davvero lui, che il suo Andrew e il ragazzo mascherato fossero la stessa persona, come se fosse necessario. Lui la guardò ancora, sorridendo ancora e forse più di prima e, quando entrarono a casa sua, a Charlotte mancò un battito del suo cuore. Prima avrebbe fatto caso alla casa, a come era stata arredata ma in quel momento non vide niente se non Andrew; uno sfondo sfocato aldilà delle sue spalle, solo lui nitido e definito come poche cose.
“C’è un po’ di disordine ma spero tu voglia perdonarmi.”
Andrew si passò una mano tra i capelli, per farle capire che non era previsto niente di tutto ciò e si sedette sopra la spalliera del divano.
“Sembri mia madre.”
Charlotte lo prese in giro e Andrew rise.
“Scusa, vuoi qualcosa da mangiare?”
“Abbiamo già mangiato i biscotti.”
“Sì hai ragione, allora vuoi un bicchiere d’acqua?”
“Sto bene così.”
“Allora mi dai la giacca che la poso?”
Charlotte annuì, rimase con gli occhi incollati a quelli di Andrew e si tolse, lentamente, il cappotto, ravvivò i capelli e continuò a guardarlo. Lo aveva visto farsi serio e inumidirsi le labbra con la lingua, come se il suo organismo si fosse fermato, come se lui riuscisse a percepire solo lei, come se anche per lui tutto in quel momento era diventato sfocato, eccetto Charlotte.
“Tieni.”
Il ragazzo sembrò ritornare alla realtà e prese l’indumento dalle mani della ragazza, le loro mani si sfiorarono per un attimo ed entrambi arrossirono, come se si fossero toccati per la prima volta. Andrew andò a posare la giacca nell’appendiabiti dell’ingresso e poi ritornò in cucina, dove aveva lasciato Charlotte poco prima.
“Charlotte credo di doverti delle scuse, devo spiegarti tante cose di me perché se no, tu non capisci niente di niente e potresti impazzire.”
“Mi siedo su questo divano e mi racconti tutto, okay?”
La ragazza provò a tranquillizzarlo e Andrew la guardò ancora, annuì e si sedette sul tavolo, proprio di fronte a Charlotte.
“Quindi.”
La prima pausa.
“Allora.”
La seconda pausa.
“Non so come cominciare.”
Charlotte sorrise.
“Dai, con parole tue.”
“Come se fosse semplice.”
Notò un tono di fastidio in Andrew, più verso se stesso che per la battuta di Charlotte, odiava non sapersi esprimere, odiava non riuscire a mettere le parole in fila.
“Io sono Andrew, lo stesso ragazzo della campagna e della maschera. Si vede, cioè, potevi anche pensare che non fossi io, però io coincido sicuramente alla campagna ma potrei non coincidere con la maschera.”
La ragazza annuì.
“Sì lo so, lo avevo capito. Eri sul tetto.”
“Sì, tu avevi una maschera e poi ci siamo baciati.”
“Esattamente e poi tu te ne sei scappato.”
Andrew le sorrise.
“Non direi scappato, è solo che mi è sembrato troppo per me. Mi sono sentito spiazzato, tu sapevi bene cosa stavi facendo della tua vita e io mi trovavo nel vuoto più profondo.”
“Almeno sai dove ti trovi, c’è gente che non sa nemmeno quello.”
“In effetti.”
Il ragazzo inclinò la testa per darle ragione.
“In ogni caso il punto non è quello.”
Charlotte lo guardò ancora, sprofondando sul divano, era morbido e sentiva di potersi sentire a casa, in qualche modo.
“Io sono Andrew, la stessa persona e credo che ci siamo conosciuti da piccoli ma io non ricordo molto quel periodo o almeno solo qualcosa.”
Doveva fare finta di non capire, Charlotte doveva fingere.
“Non capisco cosa intendi.”
Andrew si sedette vicino a lei e provò a comporre una frase sensata, sforzandosi in tutti i modi.
“Noi ci siamo conosciuti pochi mesi prima che io perdessi parte dei miei ricordi. Mio padre se ne è andato di casa quel Natale e io mi sono difeso in questo modo, decidendo di non ricordare più lui e quello che c’era prima.”
Andrew fece una pausa e la ragazza vide un senso di libertà aleggiare sul suo volto, insieme ad un sorriso sincero e dei respiri sempre più veloci.
“Non credevo che sarei riuscito a dirlo.”
Charlotte sentì i suoi occhi inumidirsi, poco prima di iniziare a piangere.
“Perché piangi?”
La ragazza mise le mani sopra agli occhi, tappandoseli, per non far vedere a lui quella sua debolezza, per non far vedere che lei già conoscesse in realtà quelle cose e come sentisse un coltello sprofondare nel suo cuore ogni volta che ricordava cosa lui aveva passato.
“Niente.”
Sei lettere per mentire ma anche un cieco avrebbe capito che c’era ben altro dietro a quel niente.
“Ho detto qualcosa di sbagliato? Perdonami, ti prego.”
Andrew si sedette vicino a lei e iniziò ad accarezzarle la testa, anche se Charlotte continuava a non farsi vedere, lui sentiva che starle vicino fosse la cosa giusta in quel momento. Era inutile toglierle le mani dagli occhi, era inutile forzarla. Toccò ancora quei capelli morbidi che aveva desiderato accarezzare da tanto e si avvicinò a lei abbracciandola. Andrew lasciò che Charlotte si appoggiasse completamente al suo petto e a lui, con tutto il suo peso, così che entrambi sentissero il corpo dell’altro. Si rese conto che una cosa del genere non l’aveva mai fatta, che aveva dato così tanto affetto solo a sua madre, abbracciandola in quel modo solo per proteggerla e lo stesso stava facendo con Charlotte. La voleva proteggere dal mondo, dalle sue parole ma fondamentalmente stava dando ancora fiducia a lei, come la prima volta, sul tetto.
Sentì la ragazza asciugarsi le lacrime e schiarirsi la voce, continuò a rimanere accoccolata tra le sue braccia prima di guardarlo fisso negli occhi, come se per la prima volta notasse le sue iridi color nocciola, i suoi capelli troppo folti e le sue labbra carnose.
“Charlotte io lo so che sono stato scostante, che a volte non riuscivo a farmi capire ma per la prima volta mi sto innamorando e non so come gestire il tutto. Non lo so davvero.”
La ragazza si limitò a guardarlo, ancora con gli occhi lucidi per il pianto ma carichi di emozione perché non si aspettava che alla fine avrebbe sentito quelle parole uscire dalle sue labbra.
“Possiamo farlo insieme. Non sono un esperta in relazione d’amore, anzi, faccio un po’ schifo ma possiamo provare a innamorarci insieme.”
Andrew le sorrise e poi le posò un delicato bacio sulle labbra, un bacio completamente diverso rispetto a quelli che si erano scambiati fino a ora. In quel gesto c’era tutto la riconoscenza, l’amore e tutte le cose più pure che non era mai riuscito a provare prima, con Charlotte era stato come iniziare a respirare perché nessuno fino a quel momento gli aveva mai spiegato come fare.
 
 
 
Erano rimasti abbracciati per tanto tempo, nessuno dei due aveva detto qualcosa perché sapevano di rovinare quell’attimo così perfetto che ricercavano da troppo tempo fino a quando Charlotte li aveva interrotti, aveva sentito il respiro di Andrew farsi più pesante e aveva paura che si fosse addormentato.
“Andrew?”
“Mmh?”
“Ti sei addormentato?”
“No.”
Rise.
“Tu ti sei addormentata?”
“No, nemmeno io.”
“Vuoi sapere qualcos’altro di me, Charlotte?”
Aveva quella domanda sulla punta della lingua da quando erano entrati lì dentro, si staccò da quell’abbraccio percependo un brivido di freddo e si mise di fronte a lui, ancora sul divano.
“Sì. Però devi essere sincero.”
“Va bene.”
Andrew capì che quella domanda doveva essere alquanto seria, la ragazza aveva cambiato espressione e lui sembrava preoccupato.
“Perché mi hai portata qui?”
Il ragazzo trasalì, gli sembrava la cosa più ovvia da fare.
“Sono stata troppo diretta, scusami. E’ che pensavo…”
Charlotte si rigirò i pollici, arrossì e cercò di spostare lo sguardo altrove.
“Sì sì, hai pensato bene, cioè no.”
Andrew si mise composto, sistemando la schiena sul bracciolo del divano e grattandosi la barba mentre Charlotte lo guardava sorridendo tra sé e sé.
“Volevo parlare, dirti tutto e mi sembrava più giusto spostarci.”
“Di solito, quando si chiede a una ragazza di andare a casa sua, è per altro. Volevo solo capirci meglio.”
“Sì hai ragione ma non volevo darti quell’impressione. Troppe volte ho fatto così senza darci peso e non voglio fare così anche con te.”
“Troppe volte? E quante?”
Charlotte alzò il sopracciglio destro, provando ad indagare maggiormente.
“Non è importante. E’ solo che te l’ho detto anche al telefono, per me è sempre esistito il contatto fisico e non i sentimenti che esistono aldilà di quel contatto.”
“Allora sarebbe meglio iniziare con la lezione numero uno, in amore si deve essere sinceri quindi raccontami di queste storie.”
Andrew la guardò male, come riusciva ad ottenere quello che voleva?
“Inizia tu, forza.”
“Perché io? Ad una richiesta rispondi con una richiesta?”
Charlotte gli sorrise e iniziò a fargli il solletico, Andrew rise e alla ragazza sembrò di vedere quel sorriso sincero di tanti anni prima, quando si trovavano in campagna.
“Va bene, va bene.”
“Ecco, dai racconta.”
“Ricordo che il primo bacio è stato ad una festa di carnevale in discoteca, ti ricordi quella che poi hanno chiuso?”
“Sì, il Lightly.”
“Esatto.”
“E come è stato?”
“Spiacevole, mi ricordo che questa ragazza mi si è proprio buttata addosso e mi ha infilato la lingua in bocca.”
Andrew rabbrividì a quel pensiero.
“Quella sera c’ero anche io.”
“Non ti credo.”
“Sì sì, ti giuro. Ero andata con la mia migliore amica del tempo, Lauren. Una tipa appariscente, con un pellicciotto bianco, sicuramente l’avrai notata.”
Charlotte era scettica e nel frattempo Andrew aveva cominciato a ridere a crepapelle.
“No, aspetta un attimo. Aveva un pellicciotto bianco e i capelli neri e lisci come spaghetti?”
“Esatto.”
“Oddio.”
Lui si era appena interrotto continuando a ridere e a lei mancavano dei pezzi per condividere quella risata.
“Ho dato a lei il mio primo bacio.”
Charlotte sbarrò gli occhi, tra mille scenari immaginabili di Andrew e il suo primo bacio, non immaginava lui e Lauren. Era lui che, tempo prima, l’amica aveva definito come gay. Adesso si spiegava il motivo, curvò le labbra così da formare un sorriso e poi continuò a punzecchiarlo con qualche altra domanda.
“E la prima volta?”
“Gita del quinto anno.”
“Dai ma sono cliché le tue due prime volte. Discoteca e gita della scuola.”
Andrew annuì consapevole.
“Poi ho avuto tutti amori da discoteca, sono uno stereotipo anche per quello ma non posso farci niente. Adesso sono curioso di sapere di te, il tuo primo bacio, la tua prima volta e i tuoi amori.”
Erano ancora su quel divano e Andrew si rilassò un po’, poggiando la testa al limite del divano e prendendo la relativa forma tondeggiante. Charlotte lo guardò e si mise con la testa proprio di fronte a lui, sarebbe stato strano parlare di sé e non sapeva nemmeno quali fossero i punti salienti della sua storia.
“A quella festa di Carnevale, mentre Lauren era con te, ho conosciuto meglio Harry e una settimana dopo ho dato il mio primo bacio a lui. Niente di particolare.”
Andrew si sentì un attimo ferito, sapere che Charlotte avesse baciato qualcun altro lo infastidiva e non poco.
“Il mio primo amore è stato Kyle, la mia prima volta è stata pure con lui. Poi lui ha deciso di andare a studiare fuori e mi ha lasciata, riuscire a dimenticarlo è stato difficile perché mi ha fatto sentire piccola, come se non valessi la pena di mantenere una relazione a distanza, come se io non fossi abbastanza.”
Il ragazzo notò del disappunto nelle parole di Charlotte ma riuscì a capire che quell’esperienza era riuscita a renderla così com’era e che a tratti la ragazza fosse riconoscente a questo Kyle.
“Poi non c’è stato niente fino a ora. Però devo essere onesta con te, Andrew.”
Alzò la testa dalla spalliera del divano e guardò Andrew dritto negli occhi.
“Ho conosciuto un altro ragazzo in questo periodo, prima che la luce andasse via
a quella festa.”
“Sì, ho capito. E quindi?”
Non c’era dispiacere negli occhi del ragazzo e Charlotte sembrò notarlo, anche lui in quelle giornate era stato con altre ma loro due non stavano ancora insieme, lui pensava che la loro storia si fosse già conclusa e che non avrebbe mai avuto un risvolto del genere.
“Lo stesso giorno che tu mi hai chiamata con il tuo vero numero, lui mi ha baciata, ho chiarito che c’era qualcun altro nella mia vita.”
“E chi c’è nella tua vita?”
Charlotte sembrò stupirsi da quella domanda, non era chiaro chi ci fosse in quel momento nella sua vita? Andrew era davvero così indietro con il concetto di amore e innamoramento che non riusciva a crederci.
“Devo davvero dirlo?”
“C’è un altro? Lo sapevo.”
Lui guardò basso verso le sue mani, come se lì potesse trovare una risposta e Charlotte appoggiò le sue dita su quelle del ragazzo e le strinse forte attorno alla sua mano.
“Sei tu, Andrew. Sei tu l’altra persona. Lo sei sempre stato.”
Il ragazzo non riuscì più a resistere e la baciò sulle labbra, riprendendo quel bacio che si erano scambiati al parco, con il sapore di pasta frolla a fare ancora da sfondo e loro due da protagonisti.
“Farò del mio meglio, te lo giuro.”
E Andrew riprese a baciarla con più passione e più desiderio, come se volesse mangiarla e farla diventare parte di sé, per non perderla più come aveva già fatto una volta. Sentì le mani di lei avvolgergli la  nuca, per poi passare alle guance, staccarsi e guardarlo negli occhi. Non credeva possibile che alla fine avrebbe potuto baciarlo in quel modo, a casa sua, sul suo divano.
“Charlotte.”
Sospirò il suo nome, scandendolo piano.
“Insegnami a fare l’amore.”
Era come se le avesse fatto la dichiarazione d’amore più grande, sentì il cuore colmarsi di quella gioia che non provava da tempo e di quell’amore che aveva sperato di trovare, che riusciva a darle quella pienezza che aveva sempre cercato, quel sentirsi completa che le era mancato, fino a quel momento. Lo guardò annuendo, confermando che quella era una buona idea e catturò la sua mano, Andrew gli indicò dove fosse la sua stanza e prima di entrare circondò Charlotte con le sue mani, prendendola in braccio.
Lei, nonostante fu presa alla sprovvista, incrociò le gambe attorno al suo bacino, reggendosi sulle sue braccia ancora attorno al collo di Andrew; prese a baciarlo piano, un bacio dopo l’altro, come se avesse iniziato a contare.
Un bacio, due baci, tre baci e poi Andrew aveva fatto sdraiare Charlotte sul letto. La sovrastava con il corpo, scaricando la forza sul braccio sinistro, baciandola e accarezzandole il volto con la mano destra, come se con ogni polpastrello riuscisse a sentirla più sua. Charlotte si avvicinò ancora più a lui, continuando a baciarlo come se interrompere quel contatto fosse nocivo per entrambi e Andrew si spostò alla destra di Charlotte, sdraiandosi anche lui a letto. La ragazza si rannicchiò, portando il corpo verso la direzione di Andrew e rendendo più agevole il contatto delle loro labbra, poco dopo il ragazzo fece la stessa cosa per avvicinarsi ancora di più a lei, cingendole la vita con il braccio e toccandole la schiena per avvolgerla quanto più. Charlotte si staccò delicatamente dalle labbra di Andrew e poggiò la fronte sulla sua, per guardarlo meglio, per non avere più in mente quella sagoma oscura con mille punti interrogativi, per sentirlo più reale di quanto già non fosse e Andrew sembrò cogliere quella sfumatura nei suoi occhi, tanto che le sussurrò di nuovo qualcosa tra le labbra, piano piano.
“Sono reale, Charlotte. Non scappo più.”
Lei sorrise e si avvicinò di nuovo a lui per baciarlo, doveva insegnargli a fargli l’amore, a metterci tanto sentimento in quell’atto a cui lui aveva sempre dato troppo poco peso, come se fosse privo di significato. Si mise seduta, lasciò che Andrew si sdraiasse completamente, posando la testa sul suo cuscino e poco dopo si mise a cavalcioni su di lui, come in quel sogno di poco tempo prima, come tutte quelle volte che lo aveva immaginato. Lo guardò sorridendo e, piano piano, si avvicinò a lui, accorciando ogni tipo di distanza con un bacio, le sue labbra andarono a baciare prima quelle di Andrew, per poi passare alla guancia, al lobo dell’orecchio e al collo con una lentezza inimmaginabile. Sentì Andrew sospirare e non immaginò che reazione gli avrebbe provocato baciargli altre parti del suo corpo, così si avvicinò di nuovo al suo volto, lo baciò ancora e poi gli chiese di mettersi seduto per togliergli più agilmente la giacca e poi la maglietta. Quando vide i suoi addominali, Charlotte capì che adesso era tutto più reale che mai, come non lo era mai stato. Lo spinse un po’ per farlo sdraiare e prese a baciare le sue spalle, larghe e possenti, per poi passare ai fianchi morbidi e alla sua pancia.
“Per fare l’amore, ci vuole dolcezza.”
Glielo sussurrò all’orecchio, dopo essere già risalita e aver posato, nuovamente, un bacio sul collo del ragazzo. Percepì Andrew annuire e sospirare, nessuna lo aveva mai baciato in quel modo, nessuna prima di Charlotte. La ragazza notando che Andrew tendeva a tenere gli occhi chiusi e lasciarla fare, si tolse la maglietta e, con sorpresa del ragazzo, lo abbracciò nuda. Entrambi sentirono il calore dell’altro e Andrew l’abbraccio più stretta perché in quel momento capì che quel calore che non aveva mai immaginato di avere, lo aveva proprio tra le sue braccia. Dopo aver tolto i pantaloni a Charlotte e anche i suoi, scostò le lenzuola del suo letto, infilandosi dentro insieme alla ragazza; continuarono a baciarsi ancora più intensamente, a tratti delicatamente e più volte Andrew si chiese se stava andando bene, non voleva essere troppo impetuoso, non voleva fare finire tutto subito e aspettò che Charlotte si sentisse pronta.
“Credo che dovremo prendere qualcosa.”
Andrew annuì e poco dopo si ritrovò dentro di lei, a fare l’amore, ed era esattamente come entrambi avevano immaginato. Era lento, dolce e con tanto di quel sentimento che entrambi riuscirono a sentirlo a percepirlo attraverso la pelle e il loro cuore; andarono avanti così, fin quando si sentirono sazi l’uno dell’altra. Ancora con il respiro affannato, si guardarono e Charlotte si accoccolò ancora sul torace di Andrew, così da sentire il battito del suo cuore decelerare e ritornare alla normalità. Rimasero così per altre ore, in quella perfezione fugace.


spazio autrice
E quindi eccoci qui, non è un pesce d'aprile, è davvero il nuovo capitolo! Ci sono stata un po' a scriverlo ma avevo bisogno del mio tempo dato che è un capitolo in cui tante cose vanno al loro posto e a mio avviso questo è uno dei capitoli più importanti di tutta la storia. Charlotte e Andrew si sono trovati, direi finalmente, ma allo stesso tempo so che scrivendo di loro così ho rispettato i loro tempi, Andrew è "immaturo" dal punto di vista dei sentimenti ed era impensabile fare in un altro modo. Spero che il capitolo di piaccia, che sia valsa la pena aspettare e al prossimo capitolo <3
Grazie mille a chi legge, recensisce, mette tra preferiti, seguiti e ricordati, la storia esiste anche grazie a voi ^^ Come sempre a me fa piacere ricevere le vostre opinioni. Alla prossima e vi ricordo che bittersweet memories ha un gruppo facebook :)

 

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Capitolo 27
*** 26. Protezione e solitudine. ***


 

Capitolo 26.


 





Lo guardava dormire da parecchi minuti.
Subito dopo aver fatto l’amore, Andrew l’aveva guardata, le aveva dato un altro bacio sulle labbra e aveva iniziato a parlare di come si sentiva completo in quel momento. Nel frattempo aveva visto le sue palpebre farsi sempre più pesanti e si era addormentato tra una parola e un’altra. Charlotte non lo riteneva un gesto da maleducati, anzi, aveva sempre pensato che riuscire ad addormentarsi vicino ad un’altra persona era dettato dal trovarsi bene, così bene da rilassarsi completamente e addormentarsi. Per lei era così ma non poteva essere certa che per Andrew fosse lo stesso. Sospirò a fondo, sentendo l’aria invaderle pienamente i polmoni e si andò ad accoccolare sul suo petto, cingendo la vita del ragazzo con il braccio destro. Appoggiò l’orecchio su quel corpo, per sentire il ritmo dei battiti del cuore di Andrew e, se prima non riusciva a stargli dietro, pian piano si abituò a quelle pulsazioni continue ed incessanti. Ebbe modo di ascoltare la parte più intima del ragazzo, come se adesso lo stesse ascoltando davvero, come se stesse ascoltando il vero Andrew e sentì un brivido correrle lungo la schiena. Era sbagliato fare paragoni in quel momento ma Kyle non si era mai addormentato accanto a lei e quindi Charlotte non era mai riuscita a soffermarsi su di lui; a posteriori quel rapporto sembrava completamente sbagliato, come se fosse stato meglio che non esistesse. Percepì Andrew sussultare e diresse lo sguardo verso di lui: si era appena svegliato.
Il ragazzo ci mise qualche secondo a capire che si trovava a casa sua, nel suo letto e per di più accanto a Charlotte. La guardò negli occhi e le sorrise, strofinandosi con una mano l’occhio sinistro.
“Scusa Charlotte, non lo so cosa mi è successo.”
E invece lo sapeva cosa gli era successo, si trovava così bene da essersi addormentato.
“La stanchezza ci sta, Andrew.”
“Ti assicuro che non sono per niente stanco.”
Charlotte sentì il suo tono farsi allusivo e gli diede un buffetto sulla pancia.
“Classica battuta da ragazzo.”
Lui le sorrise, si girò verso la porzione di letto dove era sdraiata e la circondò con entrambe le braccia, abbracciandola.
“Dai sto scherzando. Avresti dovuto capirlo, eh. Sei tu la psicologa qui.”
E mentre Charlotte rideva, Andrew si perse ad ascoltare il tono della sua risata, tra l’odore dei suoi capelli e la morbidezza della sua pelle.


but as long as you are with me, there is no place i’d rather be.  
 
 
“Andrew, sono già le cinque e mezza del pomeriggio. Per quanto vorrei rimanere qui insieme a te, devo andare.”
La vide rivestirsi, coprendo sempre più pezzi di quella pelle che poco prima aveva accarezzato e avendo la consapevolezza che ci sarebbero stati altri milioni di pomeriggi come quelli. Charlotte si guardò allo specchio, guardò Andrew ancora nudo sotto il piumone e si sarebbe intrattenuta di più se non fosse stato per l’influenza di sua madre.
“I miei capelli stanno messi male come sembrano?”
Andrew rise e le fece cenno di andare verso il letto e sedersi. Le accarezzò le ciocche ramate, cercando di uniformarle e le lasciò dei leggeri baci prima sulla guancia e poi sulle labbra.
“Così non me ne vado più, però.”
“Lo scopo è quello.”
Si lasciò baciare altre due volte prima di alzarsi, repentinamente, dal letto.
“Vestiti, devi accompagnarmi alla porta.”
Andrew recuperò i suoi vestiti e dopo averli indossati, percorsero la strada verso l’ingresso di casa sua a ritroso, con ancora i ricordi di poche ore prima impressi nella mente.
“Allora io vado.”
“In realtà volevo accompagnarti fino alla macchina. Siamo venuti qui a piedi e da qui al parco non è il massimo.”
Charlotte si sorprese, gli aveva insegnato tutto sull’amore così velocemente?
“Così ti perdi il calore di casa tua.”
Fece finta di non ascoltarla, afferrò le chiavi di casa e chiuse con cura la porta. Le prese la mano, poco dopo, e le lasciò un leggero bacio sulla bocca.
“Mi basta l’odore del tuo bagnoschiuma sul mio cuscino, per adesso.”
La vide arrossire e non dire niente, era come se avesse trovato un modo per zittirla e anche velocemente. Strinse più forte le dita attorno alla sua mano e a poco a poco sincronizzarono il passo, andarono sempre più lentamente perché entrambi sapevano che si sarebbero lasciati alla fine di quella camminata, anche se per poco. Arrivarono alla macchina senza aver fatto grandi discorsi, avevano parlato del tempo, di quelle nuvole che volevano prepotentemente oscurare il sole e alla fine si guardarono, lasciandosi le mani e mettendosi l’uno di fronte all’altra.
“La prima volta che ci siamo incontrati mi hai detto che sarei rimasta delusa da cosa c’era sotto la maschera ma adesso sono sempre più convinta che non sia così.”
Andrew le sorrise e la abbracciò forte, sentendola più vicina di quanto non fosse mai stata, lasciò che fosse il suo corpo a parlare per lui e provò a trasmetterle quanto lui fosse felice e quanto aspettasse da tutta la vita qualcuno che gli dicesse che lui valeva la pena, che lui valesse ogni singola emozione provata.
“Non potevi rendermi più felice di così.”
Charlotte rimase stupita perché non credeva che quella frase potesse fargli quell’effetto e, poco dopo essersi staccata da quell’abbraccio, gli prese il viso con le mani per baciarlo; non appena il contatto tra le loro labbra finì, la ragazza si avvicinò alla macchina. Inserì la chiave metallica e girò in senso antiorario per aprire l’abitacolo, posò un delicato bacio sulla guancia di Andrew e con un sorriso lo salutò, subito prima di posizionarsi sul sedile. Indossò la cintura di sicurezza, come ogni neopatentata esistente nel mondo, e scosse la mano verso Andrew che si era spostato sul marciapiede. Strinse più forte le mani sul volante e spinse l’acceleratore, cambiando poco dopo marcia, aprì il finestrino per fare entrare un po’ di aria e lasciò che il vento le scompigliasse i capelli. Mai come in quel momento sentiva di essere completa, sapeva che avrebbe scandito ogni momento di quella giornata nella sua mente ma non voleva iniziare in quel momento; avrebbe aspettato di sdraiarsi sul suo tappeto color fiordilatte.



Tolse le scarpe aiutandosi con i piedi e, dopo aver infilato le pantofole, passò per la cucina ancora con la giacca addosso. Sua madre era seduta sul divano, con il plaid fin sopra al naso e gli occhi lucidi per la febbre, Charlotte era sicura che le fosse salita la temperatura.
“Come ti senti?”
“Male.”
Si diresse verso l’armadietto della cucina e prese il termometro elettronico, lo riteneva poco affidabile ma in casa dopo l’ultima influenza avevano solo quello.
“Tieni, mamma.”
“Grazie.”
“Levo la giacca e torno subito, okay?”
La donna annuì, sistemando il termometro e sorridendo, appena, a Charlotte, che andò in camera sua velocemente. Posò la giacca nell’armadio, i vestiti nell’anta adiacente e poi si infilò subito il pigiama, data la giornata freddolosa. Non sapeva se Andrew si sarebbe fatto sentire ma nel dubbio controllò il cellulare, notò un’icona lampeggiante che toccò con foga.
Era lui.
Quando ci si innamora, si manda un messaggio per sapere se sei arrivata a casa?
Sorrise tra sé e sé come un’idiota, non le capitava da troppo tempo.
Vedo che sei sulla buona strada! A ogni modo sono arrivata.
Premette invio subito e lasciò cadere il cellulare sul letto, così da cercare un elastico per raccogliere i capelli. Si guardò allo specchio e si riscoprì diversa, aveva le guance più colorate e le labbra gonfie, leggermente arrossate. Era così che appariva dopo aver fatto l’amore? Evidente a chiunque. Si avvicinò di più alla superficie riflettente e ricordò le parole di Violet riguardo a quella luce negli occhi, constatando che l’amica avesse ragione. Sentì il telefono vibrare sul letto e si precipitò a prenderlo.
“Pronto?”
“Le telefonate sono previste?”
Era Andrew.
“Aspetta un secondo.”
Charlotte andò verso la porta di camera sua e la socchiuse, non voleva che sua madre sentisse qualcosa.
“Sì, sono previste.”
“Ci vado bene come ragazzo innamorato?”
“Secondo me non ti stai nemmeno impegnando a fare tutte queste piccole cose.”
“E’ vero, non mi sto impegnando. Sono spontanee.”
“Intendevo proprio questo.”
La ragazza si sdraiò sul suo tappeto, come aveva sognato di fare poco prima, e ascoltò ancora la voce di Andrew, per non dimenticarselo.
“Tua madre come sta?”
“Sta misurando la temperatura proprio ora ma devi vederla, ha la coperta fino alle orecchie.”
Lo sentì ridere dall’altra parte del telefono e si rese conto che per lei si era messa male dato che cominciò a ridere pure lei, come se fosse stata contagiata, come se avesse senso solo la sua risata. Fu interrotta da sua madre che, con la poca voce che le rimaneva, gridava il suo nome.
“Il termometro avrà suonato, devo andare.”
“Charlotte?”
“Dimmi.”
“Ci vediamo domani? Ho bisogno di vederti.”
Lei sorrise, di nuovo.
“Vedrò cosa posso fare.”
“Lo so che non hai niente da fare.”
“Lo so anche io ma voglio tenerti sulle spine.”
“Sei stronza.”
“Anche.”
“Ci sentiamo dopo, dai.”
“A dopo, Andrew.”
Chiuse il telefono con un enorme sorriso sulla faccia, stava andando troppo bene come ragazzo e sapeva che era tutto spontaneo. Provò a ricomporsi, passando per il bagno, sciacquandosi la faccia, così da non destare alcun sospetto con sua madre e ritornò in cucina.
“Trentotto e mezzo. Potevi fare di più.”
“Il senso dell’humor no, Charlotte. Sto malissimo.”
“Almeno stacchi dal tuo amato lavoro.”
“Così posso stare più tempo con te.”
Charlotte si fece un rapido conto e, nonostante sapesse che l’indomani non ci sarebbero state altre lezioni, rifletté che era l’unico modo per vedere Andrew.
“Mi sembra che domani ho lezione, non vorrei sbagliarmi.”
Evitò di guardarla negli occhi per non dirle una bugia così palese e puntò la sua attenzione sul lavandino, dove stavano ancora i piatti della sera prima, pronti per essere asciugati.
“Va bene anche mezza giornata. Non abbiamo avuto il tempo di parlare in questi ultimi giorni e volevo capire come è andato il tirocinio quel giorno.”
“Avremo tempo.”
Charlotte si girò verso sua madre e sorrise, provando a dimenticare tutte le volte in cui non c’era abbastanza tempo perché lei o suo padre dovevano lavorare.


 
Avrebbe voluto chiamare Violet. Dirle tutto ciò che era successo, farle capire che non sempre aveva ragione ma si limitò a fissare lo schermo del cellulare, con il polpastrello sul tasto verde e ogni muscolo immobile. L’amica aveva le sue ragioni ma non era riuscita a mettersi nei suoi panni, non era riuscita a capire cosa stesse realmente succedendo nella sua vita in quel momento. Charlotte aveva considerato Matthew e Violet come la coppia perfetta ma sapeva che per lei non c’era posto all’interno di quel duo, non esistevano più i pomeriggi a studiare insieme o le serate a guardare film prettamente femminili, dove si parlava di cerette inguinali o colleghi interessanti. A lei mancava Violet e il non parlare faceva male al loro rapporto, tanto che aveva fatto litigare entrambe. Charlotte aveva difficoltà ad aprirsi, aveva mandato solo pochi messaggi in tre settimane ma Violet l’aveva assecondata e la tua migliore amica non dovrebbe fare così: i manuali non lo prevedono. Si soffermò a guardare ancora quel nome e il numero sottostante ma non si sentiva pronta a fare quella chiamata, sapeva che entrambe avevano bisogno di sbollire quel litigio prima di vomitarsi addosso parole di troppo, che non avrebbero potuto rimangiarsi. La sua camera era ampia, aveva una finestra con le tende color verde acqua che aveva comprato la primavera precedente, il letto ad una piazza e mezza che riusciva ad alleviarle ogni sofferenza, il tappeto rotondo color fiordilatte che si trovava al centro della stanza e, di fronte al letto, si trovava un armadio a tre ante, sempre aperto con tutti i vestiti in disordine. La sua stanza le piaceva e riusciva a farle percepire una certa tranquillità, come se lì potesse essere sicura dal mondo e quel senso di protezione lo aveva avvertito in maniera analoga in camera di Andrew. Sentiva un certo calore attraversarle il cuore e ricordò subito la sensazione di freddo che aveva percepito qualche settimana prima sul treno, quando aveva pensato che allungare le maniche del maglione fosse sufficiente. Sua madre si era spostata a letto dopo aver bevuto la tazza di latte e adesso Charlotte riusciva a sentire l’eco del suo respiro in quella casa ma per la prima volta non si sentiva sola, si era sempre sentita così anche quando stava con Kyle ma adesso sentiva meno il peso di quella solitudine. Aveva sempre creduto che la solitudine fosse soggettiva, sentirsi soli in mezzo a tante persone o sentirsi felici in solitudine e in quel momento si trovava ad essere felice anche se da sola, con le gambe rannicchiate al petto e con il sapore di Andrew ancora tra le labbra. 




spazio autrice
Ce l'ho fatta, il capitolo è qui e credo che prendi tanto l'essenza di Andrew e Charlotte. Adesso stanno insieme e Andrew sta provando ad essere un buon fidanzato con tutti quei piccoli accorgimenti; in fondo, per lui è semplice sapere cosa fare, deve fare tutto l'opposto per rendere una ragazza felice. Abbiamo visto anche la madre di Charlotte, nella sua vita ci sono anche i genitori per quanto lei li consideri poco. La rottura con Violet è evidente ma Charlotte è propensa a un chiarimento ^^ Spero che il capitolo sia di vostro gradimento, credo che questo è il penultimo. Il prossimo sarà l'ultimo e poi seguirà un epilogo che concluderà la storia. Grazie per tutti i vostri pareri, grazie per i seguiti, ricordi e preferiti. Grazie, davvero grazie.
Alla prossima, Marty.
ps: bittersweet memories ha un gruppo facebook.

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Capitolo 28
*** 27. Portare via. ***




 

Capitolo 27.








Charlotte era sempre di buon umore, Andrew la ricopriva di attenzioni e a lei piaceva tantissimo riceverle. C’erano momenti in cui si rabbuiava, in cui pensava alla notevole frattura che si stava via via delineando tra lei e Violet ma Andrew riusciva a distrarla. Era stato semplice per entrambi aprirsi perché sapevano di essere al sicuro, erano convinti che dopo tutto quello che avevano passato non avrebbero potuto cambiare l’opinione che avevano l’uno dell’altra perché la voglia di appartenersi era troppa. Giorno dopo giorno, erano andati in tutti quei posti che erano soliti frequentare e avevano condiviso ogni singola abitudine, giusto per conoscersi ancora di più. Andrew aveva portato Charlotte al molo, le aveva raccontato di quando aveva provato a dire al vento cosa provava per lei e lei lo aveva abbracciato forte, sapendo quanto gli era costato tutto quello. Avevano fumato insieme una sigaretta, era una delle poche volte in cui il ragazzo condivideva quel momento con qualcuno che non fosse Jacob, e avevano parlato ancora dei loro interessi. Andrew aveva un amore viscerale per i fumetti, adorava Batman e quanto fosse più umano e reale nonostante fosse un supereroe e si erano precipitati a casa del ragazzo per iniziare a vedere insieme la trilogia dei film perché Charlotte non ne capiva molto di fumetti e aveva percepito che per il suo ragazzo potesse essere importante. Entrati in camera del ragazzo, si sedettero sul letto, appoggiando le spalle al muro e avevano iniziato a vedere quei film; Charlotte aveva avuto modo di ricredersi e Andrew era entusiasta di aver condiviso un’altra parte di sé con lei. Ogni volta che guardava la ragazza sentiva di essere a casa, di essere arrivato alla fine di ciò che stava cercando, anche se non aveva mai iniziato una vera e propria ricerca, l’aveva trovato lei e non poteva che esserle riconoscente.

Nonostante Charlotte non lo avesse accennato, Andrew aveva insistito per andare a vedere dove la ragazza passasse le giornate universitarie. Era sempre stato curioso di vedere la struttura della facoltà di Psicologia ma non conoscendo nessuno non sapeva come entrare lì dentro, aveva paura che potessero capire che non fosse uno studente di quel corso di laurea e che potessero cacciarlo. Erano entrati e il ragazzo aveva spalancato la bocca.
“Ma siamo ad Hogwarts o cosa?”
Charlotte aveva sorriso ma subito era ritornata seria e gli aveva stretto la mano più forte: aveva paura di incontrare Violet. Andrew aveva notato subito quel cambiamento, aveva distolto lo sguardo dal palazzo e lo aveva diretto verso lei.
“Cosa c’è?”
La ragazza lo guardò di stucco, era impossibile che se ne fosse accorto.
“Sì, me ne sono accorto. Cosa succede?”
“Se dico niente non mi credi, vero?”
Andrew le sorrise e le sfiorò il naso con la punta del suo.
“No, non ti credo. Mi dispiace. Dovrai raccontarmi tutto.”
Charlotte si rassegnò e cominciò a spiegare la situazione, era inevitabile che dovesse parlare di lui, era Andrew il motivo per cui avevano litigato e non poteva che dire come stavano le cose, anche se non avevano più parlato di ciò che era successo tra di loro prima che stessero insieme.
“Devi sapere che ogni volta che ci vedevamo ancor prima di sapere chi fossi, rimanevo giornate a letto senza fare niente perché stavo male.”
Il ragazzo, che poco prima stava osservando Charlotte giocare con le mani per il nervosismo, scattò la testa all’insù rimanendo sorpreso.
“E poi, lo so che non dovrei dirtelo però è giusto che tu lo sappia. Andrebbe contro il codice deontologico ma credo io possa fare un’eccezione dato che ti riguarda.”
La guardò, ancora, non avendo idea di cosa aspettarsi.
“Noi non abbiamo parlato molto del prima, però io ho assistito al tuo primo colloquio con la psicologa. Ero dietro allo specchio.”
Rimase a bocca aperta, Andrew aveva sempre considerato l’idea che potesse esserci qualcuno aldilà di quella stanza ma non credeva fosse davvero possibile.
“Piangevi per quello allora, a casa mia, quando te ne ho parlato.”
Charlotte annuì e poco dopo aggiunse qualche parola, esprimendo i suoi sentimenti.
“Ho capito in quel momento chi fossi ma volevo solo morire quando ti ho sentito raccontare quelle cose. Volevo abbracciarti ma non potevo e mi sono sentita così impotente dopo, così inutile.”
Andrew provò a immaginare quell’emozione e si rese conto che era troppo difficile, immaginò Charlotte con quel peso e capì che doveva essere stato insopportabile. Le lasciò la mano e, nonostante il dispiacere momentaneo della ragazza, prese solo lo slancio per abbracciarla più forte e più a lungo.
“Non volevo arrecarti quel dolore.”
Sentendo il profumo del ragazzo dentro alle narici, Charlotte percepì gli occhi inumidirsi, non poteva permettersi di piangere, non adesso, non che adesso era suo. Alzò le mani e andò a cingere le braccia attorno ai suoi fianchi, abbandonandosi completamente sul petto del ragazzo. Andrew le accarezzò la testa e nel frattempo provò a stringerla più forte, con lo stesso intento utopico che Charlotte aveva ipotizzato durante quella seduta: portava via tutto il dolore, portare via tutta la sofferenza.

Ci era voluto un po’ per farla stare meglio, per evitare che riprendesse a piangere ma, poco dopo, Andrew l’aveva spinta a raccontare tutto. Tra Charlotte e Violet era complicato, non sapeva cosa rispondere perché con Jacob non aveva mai avuto quei problemi. Crearsi problemi dove non ce ne fossero era la differenza sostanziale tra le amicizie femminili e quelle maschili. Le ragazze tendono a farsene di più, i ragazzi molto di meno, così aveva consigliato a Charlotte di chiarire non appena ne avesse avuto l’occasione e soprattutto la voglia perché, in fondo, tutti quegli anni di amicizia non andavano sprecati.
“E’ stata solo un’incomprensione, riuscirete a risolvere tutto e poi anche io avrei fatto così con Jacob. Se arrivasse una ragazza che ha questi atteggiamenti un po’ ambivalenti e che non ha idea dell’amore, sarei abbastanza protettivo nei suoi confronti. Non vorrei che ci rimanesse male perché so già quanto lui ha sofferto per la sua ex ragazza.”
La ragazza era sdraiata su di lui e Andrew continuava ad accarezzarle i capelli per tranquillizzarla.
“Credi lo abbia fatto per proteggermi?”
“Sì. Nessuno vorrebbe vedere ferite le persone che ama.”
Charlotte sorrise e confermò a se stessa che con Andrew era al sicuro. Non l’avrebbe ferita così facilmente, ne era sicura.
“La prospettiva della protezione non l’avevo colta.”
“Ti vuole un gran bene per dirti così e poi tu ti allontani volentieri dalle persone.”
La ragazza annuì alle parole di Andrew, sapeva quanto potesse essere distruttiva a volte; si toccò il volto, in cerca di qualche lacrima che le era rimasta sul viso e realizzò che fosse il caso di andare a darsi una sistemata.
“Credo che andrò in bagno. Mi aspetti qui?”
“Certo, potrei perdermi qui dentro.”
Charlotte rise e riconobbe che Andrew avesse ragione, si era persa almeno quattro volte lì dentro prima di riconoscere ogni corridoio, ormai sapeva dove andare maggiormente per abitudine e non per altro. Si avviò verso il bagno con passo veloce, incontrò qualche collega nei corridoi e ricambiò il saluto con un semplice sorriso, entrò in bagno poco dopo e riconobbe subito la figura che aveva davanti: Violet.
Non sapeva se fosse il caso dire qualcosa, non sapeva in realtà come doversi comportare, leggeva solo imbarazzo negli occhi di entrambe e Violet sembrava seccata. Passò accanto a lei, facendo finta di niente, per poi guardarsi allo specchio, inumidire un pezzo di carta con l’acqua del rubinetto e tamponarsi le guance, dove poco prima c’erano le sue lacrime.
“Per quanto tempo ancora dobbiamo ignorarci, Charlotte?”
Aveva un tono sommesso ma allo stesso tempo sentiva che, se fosse stato il caso, Violet sarebbe stata pronta a controbattere.
“Dimmi quanto tempo passa così mi organizzo.”
Quella frase appena aggiunta sembrava più una provocazione che altro, Charlotte se prima sciacquava le mani con noncuranza adesso la guardava dal riflesso dello specchio; prima di risponderle controllò che ci fossero solo loro lì dentro.
“Le persone civili fanno in un modo, Violet. Se hai qualcosa da dirmi, dimmela, senza girarci intorno.”
Buttò il pezzo di carta dentro al cestino e poi si girò verso la ragazza, appoggiandosi al lavandino.
“Mi hai esclusa dalla tua vita senza chiedermi se a me stava bene.”
“Ma davvero? E quando lo avrei fatto?”
“Prima dell’esame di criminologia.”
“Sono rimasta a casa a studiare, sono rimasta a casa a riprendermi dal colloquio. Ovviamente tu parli e giudichi senza sapere, non posso dirti che cosa è successo perché va contro ogni morale ma fatteli due conti.”
Charlotte provò a riprendere fiato e a controllarsi, non voleva urlare ai quattro venti cosa stava succedendo tra loro due.
“Io, la tua amica Charlotte, frignerei per un ragazzo? Ma quanto poco mi conosci?”
Violet rimase basita a quelle parole e Charlotte riuscì a scorgere incertezza, probabilmente non aveva considerato che potesse essere una cosa importante.
“Non sei giustificata a scomparire e mandare solo messaggi per tre settimane.”
“E non è colpa mia se tu non mi hai chiamata per sapere come stavo quindi siamo pari.”
“Non ti ho chiamata per lasciarti il tuo spazio.”
“Violet e la cazzata dello spazio. Per caso sei il mio fidanzato che mi “lasci lo spazio”?”
Sapeva di averla presa in giro ma quella motivazione era alquanto ridicola, il concetto di lasciare spazio era una delle cose più inutili che i ragazzi si fossero inventati per lasciare una ragazza senza troppe spiegazioni e per non ricontattarla mai più. Violet riteneva che Charlotte avesse bisogno di spazio ma lei non le aveva mai chiesto nulla di ciò.
“Okay, hai ragione. Ho sbagliato, dovevo essere più presente. E’ solo che avevo paura che ti saresti fatta male, Andrew non lo conosci, non lo sai chi è e ho paura che possa ferirti come Kyle.”
Ecco il lato protettivo di cui parlava Andrew ma che non riusciva ad accettare.
“Allora secondo questo principio non dovrei conoscere nessuno e stare con nessuno perché potrei ferirmi. In effetti dovrei prendere esempio da te, che adesso sei tornata con il ragazzo che ti aveva ipoteticamente tradito.”
“Non dico questo.”
“E allora cosa dici?”
“E’ seguito da una psicoterapeuta, non sta bene.”
“Allora suggerisci che dalla prossima volta in poi, mi presento ad un ragazzo chiedendogli il nome e poi se va in terapia?”
Le labbra di Charlotte si piegarono in un sorriso, non sapeva davvero cosa dire e nemmeno come nascondere il nervosismo che le bolliva dentro.
“Non so se ti rendi conto di quello che stai dicendo, Violet. Andrew c’era da prima, era il ragazzo del tetto, era un ragazzo come tutti e io l’ho voluto da quando abbiamo parlato la prima volta.”
“Ma Eric? Mi sembra più adatto a te.”
Charlotte cominciò a ridere, non per divertimento ma per se stessa; adesso parlava di chi potesse stare meglio con lei e non di chi sentisse più vicino.
“Eric mi ha detto che tra noi due c’è sempre stata un’altra persona e che non era disposto a conoscermi ancora perché sapeva che ci sarebbe sempre stato un altro.”
Fece una breve pausa, per fare capire all’amica che anche un estraneo se ne era accorto.
“Non gli ho mai parlato di Andrew e lui l’ha capito dal primo istante.”
“Mi dispiace Charlotte ma non credo saremo mai d’accordo su questa cosa.”
La ragazza dai capelli ramati sospirò e guardò Violet un ultima volta prima di uscire dal bagno. Non sapeva se le sarebbe corsa dietro, a questo punto non sapeva più niente su di lei, e non le andava di indagare ulteriormente. Sentì gli occhi inumidirsi e le lacrime scendere a ogni passo che la allontanava da Violet. Si pentì per ogni volta che l’aveva appoggiata in qualcosa di sciocco e capì che niente di tutto ciò era tornato indietro, niente, nemmeno una briciola. Forse Charlotte non avrebbe mai potuto avere un’amica perché pretendeva troppo dagli altri, pretendeva troppo da Lucy che non l’aveva scelta, pretendeva troppo da Lauren che non la ascoltava e pretendeva troppo da Violet che non la appoggiava.
“Charlotte? Fermati.”
Sapeva di non avere la voglia di guardarla in faccia perché era in uno stato pietoso, sapeva che se non si fosse fermata il loro rapporto sarebbe finito lì e sapeva di doverle dire un’ultima cosa, per farle capire che avesse torto, per ferirla come stava facendo lei. Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e si girò verso di lei.
“Stiamo insieme, Andrew ed io stiamo insieme.”
Il colpo era stato devastante per Violet. Riuscì a stento a risponderle.
“Quando è successo?”
“E’ successo e mi sto innamorando di lui e lui si sta innamorando di me ed è questo che conta. Non importa in quanti pezzi potrebbe rompersi il mio cuore, importa solo quello che sto provando e non voglio più tirarmi indietro.”
Aveva pronunciato quelle parole a fatica perché fino a quel momento erano dentro la sua testa, fluttuanti e senza avere una cognizione logica. Adesso che riusciva a pronunciarle tutto aveva più senso, stava abbandonando di nuovo la corazza che aveva rindossato, osservandone i colpi che l’avevano ferita e sentendosi più forte di prima, come non lo era mai stata.
“Io ti ringrazio, tu vuoi proteggermi ma non ti ho mai chiesto di farlo. Speravo solo mi appoggiassi ma non è così.”
Charlotte strinse le spalle, rassegnandosi con quelle parole e guardò Violet dritta negli occhi: non l’aveva mai sentita più lontana. Non sapeva cosa stesse pensando, non sapeva cosa avrebbe detto.
“Hai almeno considerato le cose?”
“Mi stai facendo sempre le stesse domande, facciamo così. Vieni con me un attimo?”
“D’accordo.”
Violet rispose subito, senza farsi pregare ulteriormente, la condusse verso il giardino, dove poco prima aveva lasciato Andrew; si girò verso di lei nel momento in cui capì che aveva visto il ragazzo.
“Vieni, te lo presento.”
Charlotte si interruppe, guardò in direzione verso Andrew e incrociò i suoi occhi, si annuirono silenziosamente e, anche se il ragazzo non aveva idea di cosa avrebbe dovuto fare, assecondò Charlotte.
“Lei è Violet e lui è Andrew.”
Li vide stringersi la mano e non dire niente, era evidente che stessero aspettando le sue istruzioni.
“Violet io non posso convincerti che lui non mi ferirà, può dirtelo lui. Solo lui sa cosa prova per me.”
Sorrise ad entrambi, diede un leggero bacio sulle labbra di Andrew e li lasciò lì, al centro di quel cortile a parlare tra loro. Sapeva che Andrew sarebbe stato convincente o, quantomeno, lo sperava con tutta se stessa; c’era una cosa che aveva imparato in tutti quegli anni, l’unico messaggio chiaro è quello che esce dalla profondità del tuo cuore.




spazio autrice.
Eccoci qui con l'ultimo capitolo della storia. Sapevo già che sarebbe andata così la lite tra Charlotte e Violet ma ne sono piuttosto soddisfatta. Alla fine non si capisce bene come vadano le cose, non si sa se loro due chiariranno e nemmeno cosa si diranno Andrew e Violet ma sono le due persone più importanti per Charlotte quindi troveranno un modo per fare funzionare le cose. La prima parte del capitolo sembra una sorta di telecronaca ma mi è sembrato più giusto far capire come si sono svolte le cose tra Andrew e Charlotte e come abbiano deciso di conoscersi a fondo. In fondo Charlotte, come ho scritto qualche capitolo fa, ha sempre voluto questo tipo di amore "era convinta che dovesse essere qualcuno che conosceva una parte di sè, un piccolo dettaglio che conoscevano solo loro due. Si dice che i più grandi amori nascono da un piccolo segreto, da una piccola sfaccettatura condivisa che li tiene silenziosamente legati tra loro e Charlotte ne era fermamente convinta. Ne aveva vista di coppie così, che nel mezzo di una chiacchierata si guardavano e sorridevano, credendo che quella sfumatura non potesse essere colta da nessuno, se non da loro." Con Andrew hanno condiviso un passato, hanno un segreto comune e sanno cogliersi come nessun'altro. 
Spero che questo capitolo sia di vostro gradimento e ci vediamo al prossimo aggiornamento che conterrà l'epilogo, ambientato un anno e mezzo dopo. I ringraziamenti verranno fatti il prossimo capitolo ^^

Ricordo che c'è un gruppo su facebook di bittersweet memories e alla prossima!

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Capitolo 29
*** Epilogo. ***


 

Epilogo.






Charlotte - Un anno e mezzo dopo.
E poi tra dieci anni, vorrei ritrovarmi ancora qui.
Non in questo letto scomodo con le molle uscite di fuori e nemmeno con questa tinta di capelli che non mi si addice; vorrei ritrovarmi insieme ad Andrew, a guardarlo addormentarsi con la mia mano che gli accarezza i capelli subito dopo aver fatto l'amore. Tra dieci anni esatti vorrei ancora scrivere di lui e di noi due insieme sul mio diario, di come ci teniamo la mano forte ogni volta che usciamo giusto per sentirci più vicini.
Giorno dopo giorno, mi rendo sempre più conto che se non avessi incontrato lui sarei rimasta da sola, non sarei mai riuscita a intendermi con qualcuno così come faccio con lui: riusciamo a capirci con un sorriso e certe volte anche con meno.
Mi innamoro ogni giorno di lui, ogni volta che scopro un suo modo di fare divertente o qualche difetto che si manifesta nelle piccole cose. Se dovessi tornare indietro, farei le cose diversamente solo per guadagnare tempo e stare insieme da prima ma mi rendo conto che forse non ci sarebbe mai stato quell’ equilibrio che c’è adesso. Ci sarà sempre una cosa che non saprò mai di lui, non saprò mai cosa si sono detti lui e Violet in quel cortile, so solo che le cose sono cambiate in positivo e mi sta bene così.
Conosco ogni sua abitudine, ogni cosa che gli piace, ogni singola cosa.
So che il suo colore preferito è l’azzurro, so che ha due sorrisi e io ho l’esclusiva di vederli entrambi, so che adora il profumo della mia pelle e so, anche, che adora il cioccolato bianco. Sento di conoscerlo e ne ho la conferma ogni giorno.
Vorrei, sempre tra dieci anni, che continuassimo ad avere le nostre abitudini, il picnic al mare per ogni nostro anniversario, i pomeriggi a studiare insieme per gli esami, i regali improvvisi senza avere un’occasione da festeggiare e tante di quelle altre cose che ormai fanno parte di me, come se fossero lì da sempre. Tra tutte queste cose c’è solo un’altra cosa che vorrei rimanesse così com’è, vorrei che Andrew continuasse a guardarmi come fa adesso, come se fossi l'unica al mondo e come se ogni posto fosse una città straniera, camminare per le strade e non prestare attenzione agli altri ma solo alla persona che hai accanto a te, a un battito di cuore.








spazio autrice
Sì, è finita. Bittersweet memories è ufficialmente finita. Iniziano già a mancarmi i miei personaggi, Charlotte e la sua spontaneità, Andrew e la sua paura d'amare, Eric e la sua voglia di vivere, Violet e il suo orgoglio e Matthew e il suo coraggio. E' stato difficile scrivere questa storia, perchè mi ha portato più volte a mettere alla prova me stessa, a mettermi nei panni degli altri e provare a costruire una logica in tutti i ragionamenti. Spero di aver reso i miei personaggi reali, che ognuna delle loro caratteristiche sia rimasta impressa e che un giorno magari uno di loro possa venirvi in mente; da scrittrice sarebbe una grande soddisfazione. Da questo racconto mi porterò tanto perchè in fondo bittersweet memories è anche una parte della mia vita, che sarà davvero difficile da dimenticare. Avevo scritto un pezzo di bittersweet memories mai pubblicato che adesso mi sembra più che appropriato e mi va di condividerlo con voi .
"Quando si sta per concludere un ciclo lo sai, hai visto quel momento avvicinarsi giorno dopo giorno, passo dopo passo ma poi alla fine quando arriva quell’attimo non puoi più tornare indietro. Charlotte stava per finire quell’esperienza e non faceva altro che dire che quello era l’ultimo giorno e che alla fine nulla era importante in quel momento, c’era il dopo a consolarla a farle credere che non avrebbe rimpianto la fine. Nonostante volesse chiudere quella scatola della sua vita, passare alla prossima e metterci un bel coperchio sopra, sapeva che quei mesi l’avrebbero determinata ora e sempre. Non avrebbe mai dimenticato i sorrisi scambiati alle otto di mattina, nemmeno quelle confidenze fatte sotto i portici in pietra lavica, per non parlare della fiducia che era riuscita a riacquistare nei confronti del mondo, ma soprattutto delle persone."
Devo ringraziare voi lettori, recensori e membri del gruppo di Facebook, grazie alla vostra costanza mi avete dato la speranza che i miei personaggi potessero essere davvero così emozionanti come pensavo. Grazie a voi che avete seguito e spero davvero che continuerete a seguirmi, vi lascio il link della storia di Eric Unspoken words, spero di continuare a leggervi.
A presto e grazie <3

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