Shrouded in the ash.

di LumineNoctis
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** I, ceno amorevolmente con i Padroni degli Inferi. ***
Capitolo 3: *** II, profumo di mortali. ***
Capitolo 4: *** III, la Madre dei Mostri fa un salto all'Inferno. ***
Capitolo 5: *** IV, il dio messaggero scopre che esisto. ***
Capitolo 6: *** V, Zeus mi vuole uccidere. ***
Capitolo 7: *** VI, strani incubi angoscianti. ***
Capitolo 8: *** VII, Caronte mi mostra il suo nuovo gessato Armani. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Poseidone ha avuto un figlio.
Zeus pure.
Perché Ade no?
 
L’ha avuto infatti, un figlio. Una figlia, per la precisione. Si chiama Cinder. Cinder come cenere, una polverina grigia dimenticata, spazzata via dal vento bollente e zolfoso degli Inferi. Il risultato di un fuoco troppo violento e troppo breve esploso fra un Dio e una mortale. Che unione stupida, quella. Se avessero saputo che genere di vita orrenda avrebbero procurato alla creaturina che stava per nascere, forse sarebbero stati attenti. Forse Ade se ne sarebbe rimasto negli Inferi con Persephone. O forse no.
 
Sta di fatto che la mia vita fa schifo. Io sono quella creaturina, purtroppo.
 
Sono nata nel regno di Ade, fatto di fuoco e disperazione. L’inferno. Sono rimasta lì quattordici lunghi anni, nascosta nel castello di pietra lavica e ossidiana di mio padre, attenta a non far scoprire agli altri dei della mia esistenza. Ade aveva deciso di nascondermi finchè non sarei stata abbastanza grande e forte da sopravvivere da sola, e poi mi avrebbe mandata da mia madre, nel mondo mortale. E così Ade, dio degli Inferi, crudele e potente, aveva preso a cuore la sorte di sua figlia, piccola e debole e mortale. Suona male, a dirsi. 

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Capitolo 2
*** I, ceno amorevolmente con i Padroni degli Inferi. ***


Tock tock.
- Avanti – mugugnai, sollevando la testa dal cuscino.
Persephone entrò, seguita dallo strascico ondeggiante del suo vestito striminzito di seta rossa. Non capivo perché doveva essere sempre così maledettamente bella e affascinante. Forse per suo marito? Naaah, sapevo bene che lei lo odiava. Forse solo per la soddisfazione di essere bella e vederlo posare l’occhio.
- Tesoro, scendi a mangiare? – disse lei.
- Arrivo subito – le sorrisi.
La mia matrigna era una delle poche cose belle di quel posto torrido. Dolce, sicura di sé, premurosa, spiritosa. Un modello da seguire. 
Lei sorrise a sua volta, i denti bianchi a contrasto con la pelle ambrata. 
Richiuse la porta delicatamente, e rimasi un secondo ad ascoltare i suoi passi che rimbombavano sulla scala di marmo.
Mi infilai una vestaglia nera. Non era dignitoso presentarsi davanti ad un dio in pigiama. Chissà perché, ma fuori dalla mia stanza mi sentivo perennemente osservata e giudicata, sempre tenuta ad essere all’altezza di ogni situazione. Rifeci la coda di cavallo, che si era accasciata da un lato a forza di stare immobile sul letto. Rivolsi un sorrisetto sprezzante allo specchio. Come al solito i miei occhi risaltavano sull’incarnato pallido. Erano di un rosso mattone, con la parte più interna, attorno alla pupilla, gialla. Inquietanti. 
 
Scesi le scale, velocemente, lo sguardo radicalmente a fissarmi i piedi nudi, per non guardare, neanche di sfuggita, il paesaggio fuori dalle finestre vittoriane. Desolazione. Fuoco. Demoni alati ossuti e gracchianti che sputavano fuoco verso le anime stipate nei buchi del Tartaro. 
Arrivai nella Sala da Pranzo. Il lungo tavolo di mogano troneggiava la sala, con tre sedie ossute, due capotavola, e una solitaria, a metà di un lato del tavolo. Mio padre arrivò barcollando dalle scale dietro di me, e una zaffata di puzza di zolfo mi investì. Mi scansai, sperando di confondermi con la parete di ossidiana. Non successe. 
- Vieni a tavola, Cinder – sbottò, la sua voce tagliente che ghiacciava le ossa.
Sbuffai, sprezzante. Spostai la sedia, sapendo che il grattare della sedia sul pavimento lo infastidiva. Lo feci più forte. Mi sedetti, guardando di sbieco mio pare che digrignava i denti. Basta davvero poco a far infervorare gli dei.
Persephone arrivò canticchiando una canzoncina malinconica, stringendo tra le braccia un grosso piatto carico di carne al sangue. Lo poggiò davanti a mio padre, rivolgendogli uno sguardo fortemente ammiccante. Imprecai in silenzio. 
Si sedette anche lei a tavola, senza interrompere lo sguardo appassionato ad Ade, che aveva già afferrato il coltello. Poi Persephone distolse lo sguardo.
- Andrapodon! – gridò, con la testa rivolta verso il camino, in greco. ‘Schiavo’, tradussi mentalmente.
Le fiamme diventarono nere, e poi tornarono arancione. Dal cornicione uscì una piccola figura raggrinzita e pallida, avvolta in stracci. Era il servo che, da sempre, ci serviva ogni pasto, e ogni notte puliva il palazzo. Non sapevo definire cosa fosse, forse un cadavere emaciato e piccolino, un ammasso di carne animato dalla volontà di Ade. Fattostà che questo essere sapeva far apparire all’istante ogni ben di dio, in piatti di bronzo finemente decorato. Ade, invece, mangiava la carne cruda dei preziosi animali di Demetra, dea dell’ agricoltura e madre di Persephone, che quest’ultima amava uccidere e preparare con le sue mani per il suo amato maritino. In teoria gli dei potrebbero nutrirsi esclusivamente di Nettare ed Ambrosia, ma Ade preferiva macchiasi anche del peccato della gola. Persephone approfittava del cibo degli dei, invece. Il servo infernale le posò davanti un calice di ossidiana riempito di liquido fresco ed ambrato, ed un piatto pieno di pezzi di quella che sembrava ambra tagliata a forma di gemma. Persephone pretendeva che la sua Ambrosia fosse tagliata sempre a forma di gioiello. Il servo posò davanti a me un piatto colmo di melograni e frutti dell’oppio, i frutti degli Inferi.. Poi mi sistemò davanti un calice identico a quello di lei, pieno dello stesso liquido ambrato. Lo bevvi. Anche gli dei sentono il sapore di ciò che amano o desiderano di più, e ciò funzionava anche per una semidea come me. Aveva un sapore strano, dolce e vaniglioso. L’avevo sempre amato.
La mia matrigna guardò torva il mio piatto, sorseggiando il suo Nettare. Infatti, quando Ade aveva l’aveva rapita dal cospetto di sua madre, lei aveva accettato di mangiare soltanto sei chicchi di melograno. Da quel momento, odiava il frutto che le ricordava l’inizio della sua vita col suo dolce maritino. Avvertivo i grugniti di Ade che addentava la sua carne, e il gorgoglio del sangue che colava fuori dalle membra degli animali e probabilmente gli finiva nei capelli incolti.
- Di cosa sa, per te? – chiesi a Persephone, indicando con il mento il calice. 
Lei deglutì prima di rispondermi. Assunse un tono dolcemente malinconico. 
- Sa di casa, di frutta e verdura fresca scaldata al sole. 
Sottolineò per bene la parola ‘sole’, sperando che Ade cogliesse il suo risentimento.
Sapevo bene che amava il potere che le dava essere la regina degli Inferi, ma sapevo anche che le mancava l’Olimpo, durante i sei mesi che era costretta a passare in quel buco puzzolente.
Ade si pulì il sangue dalla barba.
- Cindy, ho promesso a quella mortale che compiuti quattordici anni avresti passato la primavera e l’estate nel mondo mortale. Purtroppo devo mantenere la promessa, ho promesso col sangue.
Non sapevo cosa intendesse per ‘promesso col sangue’, ma decisi che non mi interessava. Riguardava di certo o qualcosa di raccapricciante o qualcosa di assolutamente non adatto alla mia età. Notai però con quale disprezzo pronunciasse la parola ‘mortale’.
Ero assolutamente combattuta, anche se sapevo che questo momento sarebbe arrivato, prima o poi. Odiavo questo buco torrido, ma mi immaginavo il mondo mortale come un posto ancora più squallido e puzzolente. E odiavo mia madre già per il solo motivo di aver sfidato un Dio al sottile gioco dell’amore. Chi aveva vinto? Di certo non io.
- Non voglio andarci – sibilai, lanciandomi un chicco di melograno in bocca. Lo schiacciai con la lingua sul palato, e il suo succo dolce ed acidulo mi esplose sulla punta della lingua. Mi scese in gola, lavando via un po’ dell’ amarezza che avrei voluto dedicare a quella discussione.
- Oh, tu ci andrai, invece – si infervorì Ade, mandando scintille con gli occhi.
- E sennò? – chiesi, beffarda.
Lui fece un respiro profondo, come per calmarsi, si alzò dalla sedia, e scostò la tenda di velluto nero dalla finestra. Subito i Campi della Pena e una parte dei Campi Elisi mi balzarono agli occhi.
- Ti mando dalle Furie, per aiutarle con il loro lavoro – sentenziò, gelido, indicando con il dito una zona piena di rivoletti di lava dei Campi della Pena.
Osservai Aletto che scuoteva la sua torcia sopra i Dannati, e le tre Furie che sollevavano e cercavano di far cadere nella lava altri. Rabbrividii.
- Preferisco una bella vacanza alle Isole dei Beati, grazie – sorrisi con innocenza. Anche il servo, che stava in piedi a testa bassa, in un angolo, parve cogliere il mio sarcasmo. Lo sentii squittire.
Lui contrasse la mascella, andandosi a sedere sul suo trono di ossa fuse. Si scostò i capelli lunghi e corvini dal viso, e si accasciò un poco.
- Tu ci andrai – disse calmo – lo farai e basta.
Non risposi, gli lanciai un’occhiata velenosa e mi rivolsi a Persephone, addolcendo un poco il tono di voce.
- Tu che ne pensi? 
Lei alzò le mani e sgranò gli occhi, da falsa innocente. 
- Io? Oh, cara, io non rimarrei in questo buco putrido un istante di più – mi sussurrò ad un orecchio, in modo che Ade non sentisse. Aveva accavallato una gamba, scostando un poco la veste nera, e ora passava un dito magro sul profilo delle ossa del suo trono. 
Sorrisi alla mia matrigna. Del resto, se lei non vedeva l’ora di tornare in superficie un motivo c’era. E non avevo voglia di passare sei mesi da sola con Ade, a sbirciare di nascosto il ricevimento delle sue guardie e delle varie creature a suo servizio, e neanche di stare ad osservare il suo modo animale di mangiare carne cruda. No, non sarei rimasta. Era ora di provare a respirare della vera aria.

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Capitolo 3
*** II, profumo di mortali. ***


Arrancai sugli scalini, seguita da Persephone. Era ora di tornare nella mia stanza a seguire il filo delle venature bronzee nell’ossidiana del soffitto, come facevo sempre quando non spiavo il lavoro di mio padre, mangiavo o chiacchieravo con Persephone o Caronte.
Ma ora avevo qualcosa a cui pensare. Potevo immaginarmi il mondo di sopra, che ora, dopo averci ragionato,sembrava piuttosto allettante. Me lo immaginavo come quello della foto sgranata che mi aveva mostrato Caronte. Era una cosa strana, blu, ed enorme. C’erano delle increspatura bianche, nel velo blu. Sembrava quasi lo Stige, ma non era nero, e non ci galleggiavano i rifiuti morali dell’umanità. Sembrava una cosa pulita e fresca. Cercai di immaginami di che cosa profumasse. Negli Inferi non c’erano odori. L’unica cosa che si sente è la puzza di zolfo. Sempre, è impossibile che arrivi un odore. Non sapevo cosa fossero, gli odori, ma una volta me ne aveva parlato Persefone. Diceva che tutto, là sopra, avesse un odore, buono o cattivo. Le persone, i fiori, le strade, il Sole. Io mi ero chiesta come potesse il Sole avere un odore, ma non avevo replicato. Ma le mie narici, ne ero certa, non si sarebbero mai abituate all' odore acre dello zolfo.
-          Sei emozionata? – mi chiese la mia matrigna, chiudendo la porta di camera mia.
Annuii, fissandomi la punta dei piedi.
-          Ti piacerà, stanne certa. So che non ti alletta l’idea di incontrare tua madre, ma potrebbe sorprenderti.
Le sorrisi di sottecchi, ma non le risposi. Lei mi accarezzò una spalla, e se ne andò. Mi parve di sentire il rumore risucchiato di qualche bacio appassionato fra lei e il maritino. Mi concentrai sulla sfumatura dei miei calzini.
 
 

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Capitolo 4
*** III, la Madre dei Mostri fa un salto all'Inferno. ***


Il giorno dopo feci le valigie. Sarei partita il giorno successivo. Quando il trolley di pelle fu riempito del tutto, Persephone entrò nella stanza.
-          Già fatto le valigie? – chiese.
-          Uh, si, ma non sono certa di aver preso tutto il necessario.
Lei alzò un sopracciglio, rivolta alla valigia traboccante.
Si avvicinò, tirò fuori una tunica di raso nero, quella che solevo tenere sempre. Ne sfilò un’altra, e un’altra ancora. La mia valigia era piena solo di tuniche nere.
-          I mortali non si vestono così, Cindy.
-          Queste sono comode.
-          A loro non importa.
Sbuffai.
Lei frugò ancora, tirando fuori gli aggeggi mortali che Caronte mi regalava, di tanto in tanto. Non avevo idea a cosa servissero, ma se a lui piacevano, così appassionato di mode e comodità mortali, voleva dire che mi sarebbero potute servire.
Tirò fuori un oggettino marrone con due prismi traslucidi.
-          Occhiali da sole Gucci, Caronte ti tratta bene – rise.
Continuò la ricerca.
-          Un frullatore.
-          Un che?
-          Frullatore, è un aggeggio che si usa per frullare i cibi. – ripose, soprappensiero.
Ah, già. I mortali si cibano di cibi di una varietà infinita. E nonostante questo devono pure ingurgitare animali. Si, era stato un racconto che avevo chiesto a Persephone tante volte, che trovava l’idea di mangiare gli animali stupida quanto me. Quanto si trattava dei bovi divini di Demetra che ingurgitava suo marito, però, non diceva niente.’Ma un dio ha bisogno di lusso’, diceva sempre lei, ridendo.
-          Direi che avrai bisogno di vestiti nuovi, per confonderti fra loro. Di solito chi và in giro con una tunica nera viene preso per pazzo, o cinico. Te lo sconsiglio, Cindy. – disse lei.
Annuii. Nei sei mesi che passava sull’Olimpo, aveva tempo di osservare i mortali, e passare del tempo fra loro, volendo.  Per una che passa quattordici anni sottoterra, senza mai vedere altro che la faccia scavata di un dio, il bel sorriso di una dea segregata e le facce tristi dei morti,  era difficile immaginare il modo di vestire dei mortali. Riposi questo interrogativo nel cassetto delle ‘cose imprecisate’, incastrandolo fra le migliaia di altre cose.
-          Dai, finisci qui e vieni giù – disse dolcemente, uscendo.
Chiusi la valigia, e scesi. Mio padre era già tornato nella sua forma divina. Enorme, alto una quindicina di metri. Con un cenno allo scranno, questo si ingrandì, e diventò della giusta grandezza per farlo sedere comodo. Persephone, con grazia, fece lo stesso. Per ricevere le visite di solito usavano la loro forma classica, a parte per le creature e i messaggeri più confidenti, a meno che persone che avevano in progetto cose raccapriccianti come ‘aggiungere idee di altri modi per morire nelle menti dei suicidi’ potessero essere definite ‘confidenti’.
Io mi accontentai di restare alta un metro e settanta, e mi rannicchiai contro il fiore di loto nero che era il trono della mia matrigna. Lei mi strizzò l’occhio, mentre Ade sembrava preoccupato. Era la prima volta che mi mostravo ai visitatori. La notizia della mia esistenza si sarebbe presto diffusa anche sull’Olimpo.
Il portone di mogano rifinito in bronzo della sala del trono si spalancò, dopo un velocissimo bussare di battente.
Un corpo martoriato, così magro da vedersi chiaramente ogni singolo osso, vestito con una divisa militare, fece capolino nella stanza.
-          Abrotos despotes – lagnò ansante la guardia, inchinandosi. ‘Divino signore’, aveva detto il corpo. Proferì anche un inchino a Persefone e a me.
Ade fece un gesto annoiato con la mano, incoraggiandolo a continuare.
- La Divina Echidna è qui, signore – disse.
Feci una silenziosa risatina sprezzante. I corpi di guardia erano schifosamente codardi e lecchini, al punto di definire divina qualsiasi creatura mitologica. Ma per fortuna ad Ade, il suo vero padrone, riservavano un rispetto esclusivo. Anche perché, se non fosse stato così, lui li avrebbe segregati eternamente nelle zone più buie e putride del Tartaro.
Mio padre gemette. – Falla entrare – sentenziò.
Il portone si aprì di nuovo. Una donna grassa dai tratti deformati e serpenteschi avanzò, a passi lenti e rispettosi. Arrotolato a un polso, stava un serpente corallo semi addormentato. Vidi chiaramente la sua lingua biforcuta frustare l’aria davanti a se, poi vibrò fra le labbra squamose e tornò fra le sue enormi e grasse guancie. Ecco, la grande Echidna, madre di ogni Mostro. Un donnone verdastro molto poco attraente.
-          Sua Magnificenza – sibilò, inchinandosi un poco. Nonostante l’orgoglio nauseante verso se stessa, tutti temevano il dio degli Inferi. Tutti.
Si inchinò anche alla Regina degli Inferi, e poi si bloccò. Mi aveva visto, interrompendo il suo inchino a metà. Per quanto non fosse una creatura particolarmente intelligente, capì in poco tempo chi fossi. Sarà stato per via dei miei occhi innaturalmente rossi e gialli. Fece un passo indietro, preoccupata.
-          Divino Ade, chi è questa mortale? – fece, indignata.
-          Non parlare così di mia figlia, Echidna. E’ mia figlia, si. E’ una semimortale, una mezzosangue. – disse annoiato Ade.
-          Una semidea – sussurrò Echidna.
Mi strinsi nelle spalle, cercando di mantenere lo sguardo fermo nei suoi occhi da rettile e l’atteggiamento superbo.
-          Non c’è bisogno che lo riferisci a mio fratello. Convocherò Ermes.
Tutti, nella stanza, compresa io, lo fissarono. Sapevamo tutti che era rarissimo che Ermes venisse convocato negli Inferi, era raro anche per gli altri dei maggiori. Era successo all’inizio della prima Guerra Mondiale. Quella sarebbe stata la seconda volta.
-          Ne sei certo? Forse.. – gli mormorò Persephone. Lui la zittì con un gesto della mano, e lei sembrò offesa. Si ricompose scostandosi i capelli da una spalla.
-          Comunque, cosa sei venuta a riferirmi?
Echidna esitò.
-          La Folgore è stata rubata.

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Capitolo 5
*** IV, il dio messaggero scopre che esisto. ***


Echidna se ne andò dopo un breve inchino. Ade rimase impietrito.
-          Questo vuol dire che si potrebbe scatenare una guerra fra dei, non è vero? – chiesi, con la voce roca.
- E’ così. – rispose Ade, secco. Si alzò, goffo nella sua dimensione divina. Si chinò verso il pavimento, mormorando qualche parola in greco antico. Allargò i palmi e li richiuse.
Poi tornò a sedersi, massaggiandosi le tempie.
Pochi secondi dopo, il portone si aprì, accompagnato dal rumore soffice di due piccoli ali che sbattono. Io corsi a nascondermi dietro una colonna del porticato dell’atrio delle scale.
Ed Ermes, il messaggero divino, con sandali alati calzati ai piedi, entrò nel grande atrio col pavimento di lucida e liscia ossidiana. Era alto, snello e muscoloso, i capelli castano chiaro, la barba sfatta. Gli occhi, di un bruno chiaro spruzzato di verde, socchiusi in un espressione ribelle e scaltra.
-          Ade – salutò lui, inchinandosi, un sorriso beffardo stampato sulle labbra. Nessun dio si inchinava l’un l’altro, ma Ermes lo faceva per prendere un po’ in giro il megalomanismo degli dei maggiori.
-          Ermes, come stai? – ghignò Ade in risposta.
-          Oh, non bene. Sono appena stato chiamato negli Inferi, sai. – rispose, sempre sorridendo.
Ade sbuffò, sprezzante.
-          Beh, cosa mi devi dire? – continuò Ermes.
-          Voglio mostrarti una cosa, in verità. – disse lui, alzandosi e tornando alla dimensione mortale. Persephone fece lo stesso.
-          Oh, in questo caso.. – mormorò sorpreso il dio messaggero, e si rimpicciolì anche lui.
Ade mi raggiunse, dietro la colonna. Scorsi l’espressione interrogativa e curiosa di Ermes, e poi mi feci avanti.
Chissà cosa avrà pensato. Una mortale pallida e dagli occhi rossi, vestita di seta nera, era sbucata da una colonna di pietra lavica, nel palazzo del Dio degli Inferi. Avrà percepito la mia aura divina, ma nessun figlio di dei, nella storia dell’Olimpo, era convissuto col genitore divino. Mai.
-          Ade – fece lui, la voce tremante, per soffocare la rabbia e lo sbigottimento. – Questa, questa è una mezzosangue.
Mio padre incrociò le braccia, in segno di sfida.
-          Si, è mia figlia. E’ una semidea, per l’esattezza.
Ermes aprì la bocca per ribattere, ma Ade continuò.
-          E’ per questo che ti ho chiamato. Voglio che comunichi la sua esistenza ai miei due, ehm, fratelli. – disse, facendo sembrare la questione la cosa più elementare del mondo.
-          I tuoi fratelli ti uccideranno, Ade. – ribattè Ermes.
Ade rise.
-          Sono immortale, sai. Sarò pure stipato in questo buco, a sorbirmi le nanie dei  morti, ma sono sempre un dio. Solo perché ho preso il bastoncino più corto, questo non mi ha tolto il potere! – ululò lui, infervorandosi ad ogni parola di più.
-          Come la metti col Patto? – chiese noncurante della scenata il dio messaggero.
-          Il Patto? – mi intromisi io.
Ermes mi guardò come se potesse ammazarmi da un momento all’altro.
-          Si, piccola mortale, il Patto. Quelli che i Tre Pezzi grossi fecero dopo la questione di Thalia Grace.
Il Patto. Ora ricordavo. Dopo che Zeus aveva trasformato sua figlia Thalia in un albero, lui, Poseidone e Ade, i tre fratelli, si promisero che non avrebbero più avuto figlia dai mortali.
-          Anche Poseidone l’ha infranto – accusò Ade, puntando un dito con rabbia contro il soffitto.
-          Già, l’ha confessato al Consiglio d’Inverno di anni fa,  poco dopo la sua nascita. Ma non l’ha ancora riconosciuto, sai. – ammise il dio.
-          Bene, e se l’ha infranto Poseidone, perché io non avrei potuto? E comunque Cindy…
-          Cindy? Cindy?! Ho capito bene? Questo è il nome che il potente Dio degli Inferi ha dato a sua figlia?! – rise Ermes, beffardo.
Strinsi i pugni. Lui dovette accorgersi della mia rabbia, perché smise di ridere. Probabilmente dovevo far paura, alla fin fine.
-          Mi chiamo Cinder. Cinder, come cenere. Non Cindy. Cindy è un diminutivo. Sai cos’è un diminutivo?
Sia mio padre sia Persephone, che fino ad adesso era stata zitta ed immobile, con le belle sopracciglia corrucciate dalla preoccupazione, sia Ermes mi guardarono, increduli. Non solo avevo mancato di rispetto ad un dio, dandogli del tu, ma avevo usato il tono più velenoso che riuscì a tirarmi fuori dalla gola.
Il dio messaggero rimase impassibile, ma contrasse la mascella. Cambiò discorso.
-          E comunque ora non è il tempo adatto per altre notizie del genere, sull’Olimpo. La Folgore..
-          Lo so, lo so! La Folgore è stata rubata, e mio fratello si è messo a frignare perché ha perso il giocattolino. Lo so. – Poi riprese, vedendo l’espressione sbigottita di Ermes. - Uh, me l’ha detto Echidna, me l’è venuto a riferire poco fa.
-          Ma forse la Madre dei Mostri non ti ha detto una cosa importante.
Ade si fece interessato.
-          Zeus ha accusato Poseidone di aver rubato la Folgore. Molti pensano che sia stato invece suo figlio… Fattostà che si sono dichiarati guerra. Se entro il solstizio d’estate l’arma non ritornerà al suo posto, beh, sarà una catastrofe. La Terza Guerra Mondiale, come minimo.
-          E io ci andrò di mezzo, altre anime giungeranno, e questo posto diventerà ancora più soffocante – sospirò Ade, risedendosi allo scranno di ossa fuse.
-          Penso di aver finito, qui – si riscosse Ermes, offeso per l’egocentrismo del dio dei morti.
-          Porta i miei più gentili ed umili ossequi sull’Olimpo, cugino – feci io, inchinandomi sarcastica. Ermes mi lanciò un’occhiataccia velenosa di rimando, ma non ribattè. Forse aveva accettato l’idea che la figlia di Ade sarebbe stata come il padre, maligna, sprezzante e fastidiosa.

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Capitolo 6
*** V, Zeus mi vuole uccidere. ***


-          Cindy, puoi andare un secondo di sopra? Io e tuo padre dobbiamo parlare di una cosa – mi disse gentilmente Persephone, la voce roca e carica di preoccupazione di chi non ha parlato da un po’.
-          Si, Cinder, vai di sopra, ora. – fece Ade di rimando, secco.
Alzai un sopracciglio alla vistosa differenza di stile fra le due richieste. Sicuramente avrebbero dovuto parlare di qualcosa che riguardava me, o gli dei, o la Folgore. Arrancai su per le scale scure, intontita. Una guerra fra dei. Sarebbe stata una catastrofe. E la Folgore? Quale grande idiota masochista e megalomane ruberebbe la Folgore? E chi era questo figlio di Poseidone? Me lo immaginavo come un ragazzetto grasso e viziato dagli occhi azzurri e porcini. Avevo appena appoggiato la mano sulla maniglia, quando mi chiesi come mai non stavo già origliando la conversazione fra mio padre la mia matrigna. Scesi le scale, con passo felpato, appoggiandomi alla stessa colonna dietro cui mi ero nascosta ad Ermes.
-          …figlio di Poseidone, sospetteranno anche di lei – stava osservando Persephone.
-          Questo è probabile. Mio fratello la prenderà di mira, potrebbe anche ucciderla! – mugghiò Ade.
Sussultai.
-          Potremmo tenerla qui, potremmo non farla andare da sua madre.. Nel mondo mortale sarebbe in pericolo..
-          Questo non è possibile. Facendo questa promessa, ho bevuto un po’ del sangue della mortale, e lei ne ha bevuto un po’ del mio. Infrangendo la promessa, l’icore la ucciderebbe, e il suo sangue ucciderebbe me – spiegò. – Non posso permetterlo.
Pietà o egoismo? Quale sarebbe potuto essere il motivo?
-          E comunque – continuò Ade – qui potrebbe comunque essere in pericolo. Ricordati che tutte le creature sotto il mio comando possono essere anche controllate da Zeus.
-          Deve per forza tornare nel mondo mortale, quindi, sei mesi all’anno dal giorno del suo compleanno, come me – disse sprezzante Persephone. Sapevo che ciò che le stava a cuore era la mia sorte, non quella del marito.
-          C’è un posto sicuro. Uno solo. – mormorò Ade.
-          Il Campo Mezzosangue – completò la mia matrigna.
Il Campo. Me ne avevano parlato, Ade e Persephone. Il posto dove i figli degli dei imparavano a sopravvivere e a difendersi dai mostri mitologici. In effetti sembrava l’unica soluzione: sarei stata nel mondo mortale, ma anche al sicuro.
-          Vallo a dire a Cinder, deve sapere – disse ruvido Ade.
Io corsi su per le scale, cercando di non fare rumore con i piedi nudi sopra la pietra gelida. Mi inciampai nella veste, ma riuscii a lanciarmi sul letto un istante prima che Persephone si materializzasse nella stanza.
-          Allora? – chiesi, disinvolta, puntellandomi sui gomiti.
Lei si sedette sul letto.
-          L’unica soluzione è il Campo Mezzosangue.
In quell’istante mi sentii contenta. Non solo me ne sarei andata da questo buco puzzolente, ma avrei vissuto e combattuto fra miei simili.
Sorrisi.
-    Contenta? – chiese lei, leggermente sconcertata.
-     Si – sorrisi ancora.
- Starai tre mesi al Campo – aggiunse lei.
Il mio sorriso si spense un poco.
-          Tre? E gli altri tre mesi?
-          Beh, starai con tua madre, e andrai in una scuola mortale – disse, un po’ imbarazzata.
Avvertii i tratti del viso indurirmisi di colpo.
-          Con quella non ci sto. – sbottai, dura.
-          Lo so, ma sono questi i patti - sussurrò spiacente.
Grugnii.
-          Quando partirò?
-          Il giorno del tuo compleanno, domani. Ma non partirai da sola, verrò con te, e poi io tornerò sull’Olimpo, da mia madre – sorrise, sognante.
Abbozzai un sorrisino. Almeno qualcuno era felice di tornare dalla propria madre…
Mi lasciai cadere sul letto, sfinita. Chiusi gli occhi, coprii quelle due palline rosse e strane con le mie candide palpebre diafane e marmoree. Scivolai nel sonno, cullata
dalle malinconiche e lente nanie cantate dai morti.
 
 

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Capitolo 7
*** VI, strani incubi angoscianti. ***


Sognai, di notte. Non sapevo dire se fosse un incubo od un bel sogno, ma avendo vissuto quattordici anni circondata dell’incubo peggiore per molti mortali, la morte, beh, avevo un concetto di ‘paura’ molto particolare.
C’era una grande distesa blu, quella che mi affascinava tanto, quella delle cartoline sgranate di Caronte. La distesa si increspava, di distendeva, si piegava su se stessa si contorceva all’infinito. C’era un suono rombante, costante, ritmato, assolutamente rilassante e fiero. C’era il sole, quella palla luminosa che non avevo mai visto, che la mia pelle non aveva mai avvertito, che mi ero immaginata tante volte dopo i racconti di Persephone. E poi c’era una cosa strana, una sorta di piacevole brivido lungo la nuca, che si inoltrava nella mente e faceva vibrare di delicato piacere tutte le membra. Arrivava ogni volta che inspiravo. Un odore. O almeno, quello che pensavo fosse un odore, dato che non ne avevo mai sentito uno in tutta la mia corta e monotona vita. Sapeva di fresco, di pulito, ed era anche pungente, salato. Aveva un pizzico di quel retrogusto che sentivo nel Nettare, ma non sapevo definirlo con nessuno dei miei sensi. Ma poi, tutto si scurì, o forse fu solo il sole che si spense. Un fulmine si abbatté sulla distesa blu, illuminandola di luce elettrica ed azzurrina. Rabbrividii nel letto. E poi, il velo si divise. Quelle pieghe schiumose che si formavano ribollirono al confine del baratro che si formò. Sul fondo dei due muri di roba blu che si erano formati, spuntò un grosso braccio, che chissà perché non riuscivo a visualizzare bene, come i morti, che li vedi chiaramente solo con la coda dell’occhio. Il braccio si alzò, sferzò la roba blu, creò altra schiuma bianca e altre increspature. Un ruggito scosse l’aria, e io mi ritrovai nel letto, i capelli incollati al collo dal sudore freddo, a fissare le venature bronzee del soffitto.
Scostai le coperte con un calcio, ed appoggiai i piedi sull’ossidiana gelida, ma non mi mossi neanche quando i polpacci urlarono per il freddo urticante che si era insinuato su per le mie gambe. Ma il dolore fisico sciacquò via l’irrequietezza strana ed indefinibile che mi stringeva le costole e lo stomaco.
Mi alzai dal letto, intorpidita. Mi sfilai la canotta e lasciai scivolare giù i pantaloni lungo le mie gambe magre. Dopo due respiri profondi, mi sentii meglio. Aspettai che il sudore evaporasse, fino a sentirmi la pelle di nuovo asciutta.
Perché questo incubo? Possibile che la consapevolezza di incontrare mia madre per la prima volta mi giocasse questi scherzi?
Scossi la testa.
Solo un incubo. Un incubo, Cinder.
Uh, quello era il giorno del mio compleanno, mi ricordai. Mi infilai una delle toghe nere, scesi le scale, ed andai a sedermi sopra il trono di ossa fuse di mio padre. Andiamo, ero, come dire, la principessa degli Inferi. Un incubo faceva quell’effetto a colei che in qualche modo era padrona della morte? Inverosimile.
-          Auguri, Cindy! – esclamò melliflua Persephone, arrivando nell’atrio. Aveva un vestito di raso grigio, con inserti di perle sullo strascico.
-          Grazie – sorrisi.
-          Uhm, si, ‘guri – grugnì Ade, arrivando poco dopo di lei e portandosi dietro una zaffata di zolfo.
Feci una smorfia.
Lui mi fissò, aspettando che mi levassi dal suo trono. Mi alzai, e mi sedetti per terra davanti al camino, acceso da poco dal servo.
-          Partirete oggi, allora – fece Ade dopo qualche minuto di silenzio, coperto dallo scoppiettio pigro del fuoco.
Colsi una minuscola punta di nostalgia e risentimento nel suo tono, che mi lasciò stupefatta.
Nessuna delle due rispose, e lasciammo regnare l’imbarazzato silenzio.
-          Cindy, chiederò alle Furie di tenerti d’occhio per me, okay? – disse mio padre, alla fine.
-          Che cosa? – chiesi, girandomi di scatto, i miei capelli lunghi che mi frustarono la spalla.
-          E’ solo per avere tue notizie, sai – si giustificò.
Sbuffai, per l’ennesima volta in dieci minuti. Avrei preferito che Ade si mostrasse più… Ade.
 
 

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Capitolo 8
*** VII, Caronte mi mostra il suo nuovo gessato Armani. ***


Persephone mi venne incontro e mi carezzò una spalla. La sua mano morbida e calda mi sciolse un poco i muscoli intorpiditi. Le sorrisi da sopra la mia spalla.
-          Hai i bagagli pronti?
Annuii.
-          Dobbiamo partire in fretta. Tuo padre ha contattato tua madre, attraverso Iride.
Mi immaginai Ade a cercare di controllare dell’acqua, e a parlare con la sua voce ruvida e seccata a del vapore acqueo. Ridicolo.
-          Ti aspetta fra poco – continuò lei.
-          Poco quanto? – chiesi.
-          Poco il tempo di arrivare Phoenix – sorrise.
Si rizzò in piedi, e richiamò la mia valigia con un gesto della mano.
-          Tu non hai una valigia? – chiesi, curiosa.
-          Oh, no. Ho tutte le mie cose sull’Olimpo sai.
Ed ecco uno dei momenti che temevo di più. Il saluto con il dio degli Inferi.
Mi avvicinai al suo trono, titubante.
-          Ehm, allora ciao, ci si vede fra sei mesi..
E poi, sorprendentemente si sporse un po’ avanti dal suo trono, e mi abbracciò, goffo. Rimasi stupita, ma ricambiai, un po’ distaccata. Mi accorsi della sua mano ruvida sopra la mia spalla, da cui era scivolata la veste.
Ma allora teneva davvero a me. O forse Persephone gli aveva chiesto di mostrarsi affettuoso. Lei lo baciò con passione, e io mi voltai, incredibilmente interessata ai fregi scolpiti nel cristallo scuro del cornicione del camino. Un satiro ferito da una spada, da quello che sembrava Pan, il grande protettore dei satiri e della natura, e cercava di fuggire. Una figura femminile era stata trafitta dal pugnale dal marito. Un guerriero, catturato dai nemici, si era ficcato una pietra appuntita nello stomaco. Tutto il fregio era incorniciato da viti e frutti di melograno, grassi e succosi, e fiori di giglio, il fiore del peccato.
Un ultimo risucchio sordo mi indicò che Ade e sua moglie avevano finito i convenevoli. Persephone si strinse nel mantello da viaggio, facendosi aprire il portone da una delle guardie in divisa militare. Se fosse stata da sola, si sarebbe materializzata, ma c’ero io fra i piedi. Sarei morta all’istante se mi fossi materializzata con lei.
Fuori dal palazzo, i morti si inchinarono davanti a noi, silenziosi, tristi e rispettosi.
Percorremmo le Praterie degli Asfodeli, lentamente, mentre le anime accalcate aprivano un varco per farci passare, il viso chino. Non avevo mai visto gli Inferi, se non attraverso le finestre del palazzo. I morti sembravano solo molto tristi, non mettevano particolarmente in soggezione. Ci sussurravano cose che non riuscivo a capire, mentre Persephone gli rispondeva di sfuggita, a cenni.
-          Li capisci? – chiesi.
-          Già, ma non parlano una vera lingua. Non so come spiegarlo, non è una cosa definibile. Li capisco, come tuo padre, perché in qualche modo sono sottomessi a noi. – spiegò lei.
Rimasi in silenzio. Da sempre mi stupivo dei meccanismi sottilmente legati ai peccati umani degli Inferi, erano così subdoli.
L’enorme grotta si stava chiudendo verso l’imbocco del tunnel che ci avrebbe portato sulle sponde dello Stige, e poi, nel mondo mortale.
La strada iniziò a piegarsi in salita, e gli spiriti si diradarono. Cercavano di stare il più lontano possibile dal fiume, che emanava un aura di grandiosa inquietudine e tristezza.
Sbucammo nell’antro. In lontananza, l’enorme sagome di Cerbero, il rotweiler a tre teste che sorveglia l’entrata degli Inferi. Era sdraiato, il testone stancamente posato su una zampa, la pancia si alzava e si abbassava ritmicamente.
Camminavamo velocemente, in silenzio. Ogni volta che mi accorgevo quanto fossimo vicine alla superficie, lo stomaco mi si annodava, sempre più stretto.
-          Come pensi sarà tua madre? – mi chiese all’improvviso la mia matrigna.
Me la immaginavo come un’anonimissima signora di mezza età, con anonimissimi capelli di un anonimissimo marrone, che viveva in un anonimissimo appartamento di un’anoninimissa zona dell’anonimissimo deserto dell’anonimissima Arizona.
-          Mhh.. Anononima.
Lei ridacchiò, ma non disse più niente. Inciampai nella coda di Cerbero, lui alzò la testa e ringhiò, ma quando mi riconobbe prese ad uggiolare e scodinzolare.
-          Ciao, cuccioletto – fece Persephone, lanciandogli un enorme bistecca cruda apparsa dal nulla. Lui la addentò, e la ingoiò intera. Con la lingua della testa centrale prese a leccarmi una mano, e con le altre due si inchino rispettoso alla sua padrona. Ripresimo a camminare. Raggiungemmo la dogana, dove i morti venivano smistati nel posto dove avrebbero passato l’eternità. Passammo dalla fila per le Isole dei Beati, completamente vuota. Era triste vedere come non ci fossero più umani dall’animo puro… Ade mi aveva raccontato che, nelle ere antiche, gli eroi erano molti, e la fila per le Isole non erano mai vuote.
Superammo la dogana, ed arrivammo in uno spiazzo che si apriva sulle rive dello Stige.
Caronte se ne stava rannicchiato contro la parete, e sfogliava una rivista di moda. Aveva la testa coperta dal cappuccio della tunica color fumo, e la alzò un poco quando si accorse di noi.
-          Maestà! Cinder! – esclamò, e ci venne incontro. Caronte aveva una specie di istinto materno verso di me. Lo abbracciai, un po’ rudemente, e poi lui si inchinò a Persephone.
-          Partite già? – chiese.
Annuii. – Per quello che è successo, sai, il furto della Folgore.
-          Oh, si, ho saputo- disse mogio lui.
-          Stando qui, sarà in pericolo. Zeus sospetta di lei, ora che sa della sua esistenza… - intervenne Persephone.
-          Ma.. Anche se starà da sua madre, nel mondo mortale, sarà in pericolo! – si agitò Caronte.
Fece dei strani gesti con le mani, finchè la lunga barca scura che fungeva da taxi, affiorò dall’acqua nera.
-          Appena arriverà l’estate, la manderemo al Campo Mezzosangue. – rispose Persephone.
-          E perché non mandarcela subito!
Intervenni, inquieta. – Perché gli dei hanno contatti molto diretti, al Campo. Raramente si prendono la briga di scendere sulla Terra. Quindi, dovrò stare un po’ nel mondo mortale, dove solo i mostri potranno attaccarmi, e un po’ al Campo, dove gli dei potrebbero farmi pentire di essere nata.
Caronte alzò un sopracciglio.
-          Brutta faccenda… - aggiunse, sottovoce. Salimmo sulla gondola. Era rarissimo che Caronte facesse il tratto fluviale a ritroso, dagli Inferi alla Terra. Nessuno mortale faceva ritorno, mentre dei e mostri si materializzavano.
Era tutto molto silenzioso, spettralmente silenzioso. Si sentiva il lieve rumore che facevano i fianchi della barca nel lambire l’acqua, e i ruggiti furiosi di Cerbero, in lontananza. Mi distrassi nel guardare gli sterminati soffitti della caverna, finchè qualcosa urtò leggermente la barca. Era la riva.
-          Arrivati – sospirò Caronte.
Scendemmo. Davanti a noi, c’era un muro roccioso, con una apertura grossa e completamente buia. Caronte entrò, e Persephone lo imitò noncurante. Entrai anche io, titubante.
Caronte mosse le dita, e il pavimento di alzò, o forse era il soffitto che si abbassava. Guardai terrorizzata la mia matrigna, che si controllava le unghie, rilassata.
-          Oh, Cindy, è un ascensore! – fece, accorgendosi del mio terrore.
-          Mhh, ok. – mugugnai. – Ma non ci spiaccicherà al soffito, giusto?
Lei rise, finchè un grazioso ding mi fece sussultare.
Le porte dell’ ascencoso si aprirono, mostrando una sala luminosa, arredata da sala d’attesa.
-          Questi sono gli studi di registrazione R.I.P, una copertura per l’ingresso degli Inferi. – spiegò Persephone.
-          Oh, è stata una mia idea, quella degli studi di registrazione! – si gongolò Caronte. Si sfilò il cappuccio, e la sua veste fumosa si trasformò in un elegante gessato grigio scuro.
-          Bello vero? Armani Code, limited edition.
Frugò nella tasca interna della giacca, ed inforcò degli occhiali da sole, coprendosi le orbite vuote. Né Ade, né Persephone, né nessuno mi mostravano mai le orbite vuote, preferivano farsi comparire un paio di occhi. Ma anche se mi capitava di vederli senza occhi, non ci facevo caso.
Nella sala erano stipate diverse anime, le stesse che dimoravano nell’oltretomba, solo con i contorni leggermente più definiti. Alcune camminavano nervosamente, altre guardavano sconsolati l’ascensore, altri fissavano il vuoto seduti su una poltrona. Semplicemente, aspettavano di giungere nel luogo dell’eternità.
-          Pronta? – fece la mia matrigna, porgendomi una mano. Oramai, il portone era davanti a noi.
-          Buona fortuna, Cinder – disse Caronte.
Strinsi forte la mano di Persephone, e il gondoliere aprì i portoni.
- Benvenuta nel mondo dei mortali – sussurrò Persephone. 




Angolo autrice.

Ciao a tutti! Vi chiedo scusa se non ho aggiornato per un sacco di tempo. Ora finalmente sono tornata, con un capitolo che in realtà non mi convince molto, ma vabbè. 
Aggiornerò presto, lo giuro sullo Stige. e.e
Sto costruendo il personaggio di Cinder attorno a quello che è il mio carattere, i miei pensieri ed il mio modo di agire. Io sono lei. Quindi, se vi piace Cinder, vi piaccio io. (?)

Alla prossima.


Ringrazio IMMENSAMENTE Iris96 e Charmed_Trent per aver letto e recensito questo nuovo capitolo.

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