La maledizione della casa nella laguna

di nephylim88
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dannazione? ***
Capitolo 2: *** Riunione di famiglia ***
Capitolo 3: *** Primi segnali ***
Capitolo 4: *** Cosa sei disposto a fare? ***
Capitolo 5: *** Chi sono, in realtà? ***
Capitolo 6: *** Una tragica serata ***
Capitolo 7: *** La vera famiglia Borgia ***
Capitolo 8: *** Marco ***
Capitolo 9: *** Epilogo - Due mesi dopo ***



Capitolo 1
*** Dannazione? ***


Non posso dire di essere mai stato un accanito credente. Proprio per niente. Ma ora che anche un'altra persona è morta, ora che lei è morta, e io ne sono in parte responsabile... come faccio? Davvero, ora sono terrorizzato per la mia anima immortale.

Lo so, nel 2013 tanti trovano assurdo credere nell'anima, quell'inutile suppellettile che ci portiamo dietro per tutta la vita, e che poi, una volta morti, andrà archiviata in uno dei due grandi schedari dei due grandi Signori dell'universo: Satana e Dio Padre. Ma ora, non sono più così sicuro che sia così inutile, quel suppellettile.

Mi chiamo Giorgio. Mi sono laureato cinque anni fa in architettura a Venezia. Ma, con la crisi che c'era, mi sono ritrovato a fare l'agente immobiliare per l'agenzia “Borgia & figli”, agenzia con filiali in tutta Italia, specializzata nella vendita di case antiche, per lo più con una fama sinistra, anche se i proprietari, Rodrigo Alessandro e suo figlio Cesare, sostengono che si tratti di un puro caso. All'inizio trovavo alquanto ridicola l'omonimia tra i miei datori di lavoro e la famiglia più incline agli intrighi nella storia italiana, tanto più che pareva che Cesare avesse anche una sorella di nome Lucrezia, ma ora questa coincidenza non mi sembra più una coincidenza, e mi fa rabbrividire. Mi sono dovuto licenziare. La cosa che mi fa più schifo è che una parte di me concorda con i miei amici e parenti, che sono stato scemo a mollare un lavoro così ben retribuito in questi tempi così tormentati. In fondo, le case che vendevamo erano straordinariamente costose, e interessavano un sacco di ricconi eccentrici che spesso arrivavano a pagarle anche più del loro prezzo! Di conseguenza, la mia percentuale era molto alta. E pare che, se avessi dimostrato i requisiti richiesti, nel corso degli anni non solo la mia percentuale si sarebbe alzata, ma sarei addirittura diventato socio! Ma i miei amici e familiari non sanno cosa sono quei particolari requisiti. E nemmeno io sono sicuro di saperli tutti.

Cominciò tutto sei mesi fa. Ormai era da tre anni che lavoravo per quell'agenzia. Che non assomigliava per niente ad un'agenzia: l'edificio della sede era un palazzo veneziano del 1700, con le decorazioni del soffitto in oro, e un enorme lampadario a gocce nella sala principale. Ero in ritardo, così praticamente corsi fino alla sala principale, dove trovai Rodrigo che parlava in francese con una bella signora sulla cinquantina. Già a vederla, mi resi conto che quella donna era speciale. Mi sentivo già legato a lei, in un certo senso. Non c'era stato il classico colpo di fulmine, ci mancherebbe! E tuttora non posso dire di essermene innamorato. E se lo ero, beh, ero (sono!) abbastanza disilluso da sapere che una storia tra un uomo di trent'anni e una donna di cinquanta difficilmente funziona.

Si voltarono entrambi verso di me.

Oh, Giorgio!” esclamò Rodrigo, vedendomi “Ben arrivato! Madame, voici l'agent qui vous accompaignera à la maison!”

Lei mi sorrise.

Bonjour, madame. Je vous demande pardon, je ne parle pas bien français...” le dissi, impacciato.

Oh, non si preoccupi” rispose lei, sempre con quel sorriso stampato in volto “Parlo abbastanza l'italiano. Anzi, preferisco parlarlo, con lei, visto che devo venire a vivere qui!”.

Devo ammettere che ero impressionato. La sua cadenza francese non era poi così marcata, appena un minimo di erre moscia e un po' di nasali tradivano la sua origine.

Bene, signora! Allora, che case vuole vedere?”

Veramente ne ho scelta solo una. Ca' Dario.”

Una brezza gelida mi sfiorò un orecchio. Forse era un presagio, ma non ci feci molto caso, in quel momento.

Molto bene, signora! Vogliamo andare?”

 

Può chiamarmi Geneviève, se vuole!” urlò la signora, per sovrastare il rumore del vaporetto e della gente che vociava intorno a noi.

Solo se lei mi chiamerà Giorgio e ci daremo del tu!”

Sorrise. Sorrideva sempre.

Come mai ti vuoi trasferire qui, Geneviève?”

Ho sempre amato l'Italia. In particolare Venezia. E quando mio marito è morto, ho deciso di lasciare la Francia e venire a vivere qui.”

Mi spiace molto per la sua perdita, davvero!”
“Erano anni che era malato, lo amavo moltissimo, ma devo ammettere che quando è morto è stato un sollievo, in un certo senso. Vederlo soffrire stava uccidendo anche me.” Assunse un'aria malinconica. Una lacrima scese sulla sua guancia. Decisi di cambiare argomento.

Come mai proprio villa Dario?”

Come? Oh!” si riscosse “beh, in verità ne avevo considerate altre, ma poi il signor Borgia mi ha fatto vedere le foto di quella villa, e me ne sono innamorata!”

Lei conosce la fama di quella villa?”

No, veramente.”

Gira voce che sia maledetta, visto che è stata costruita su un antico cimitero. Tanti dei suoi proprietari precedenti sono andati in bancarotta, per un motivo o per un altro, e tanti di loro si sono suicidati tra quelle mura. In effetti, era già da qualche anno che la villa non veniva occupata, proprio per questo motivo.”

Oh, ma sono superstizioni ridicole!”

è quello che penso anch'io!” risi.

Dio, quanto ci sbagliavamo!

 

 

Ciao a tutti! Allora, volevo fare alcune precisazioni su questo racconto.

Ho basato la storia su una leggenda che chiunque vive a Venezia, o l'ha frequentata, conosce.

Cà Dario è un palazzo rinascimentale la cui costruzione è stata commissionata da tale Giovanni Dario, nel 1400 e rotti. Ma, si vocifera, fu costruita su un antico cimitero (addirittura alcuni sostengono che fosse un cimitero templare). La figlia di Giovanni Dario, la cui dote consisteva appunto in questo palazzo, morì di crepacuore a seguito del tracollo finanziario del marito. Da allora, molti dei proprietari fecero una gran brutta fine: morti violente, suicidi, bancarotta, scandali... per dire, anche uno di quelli coinvolti in Tangentopoli, se non ricordo male, si sparò nel 1993 proprio in quella villa. L'ultima morte risale al 2002, quando un americano che l'ha affittata, è morto di infarto nel giro di una settimana. Pare che lo stesso Woody Allen fosse interessato all'acquisto, ma ha desistito di fronte alla sua sinistra fama (opinione personale: è una grande fortuna per il cinema!).

Altra cosa: se esiste un'agenzia immobiliare Borgia, dico subito che non intendo assolutamente farle cattiva pubblicità, tanto più che non ne sono proprio al corrente, dell'esistenza di un'agenzia con questo nome. Il mio intento era di creare una certa ambiguità e un certo legame fra il mondo presente e quello che succede a Giorgio e Geneviève, e una famiglia estremamente famosa per gli intrighi e gli omicidi. E l'unico nome che mi è venuto in mente è proprio “Borgia”.

Detto questo: Buona lettura! Spero che per ora questo racconto vi piaccia! Fatemi sapere!

Baci,

Nephylim

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Capitolo 2
*** Riunione di famiglia ***


Fu due giorni dopo, il momento in cui mi accorsi che qualcosa non quadrava. Entrai nel mio ufficio. Mi ero appena seduto, pensando che forse avrei fatto meglio ad andare a procurarmi un caffè, quando entrò Cesare. Era alquanto agitato, non lo avevo mai visto così. Di solito, i miei titolari erano persone quasi fredde. Sicuramente avevano un temperamento scevro da emozioni. Quindi, fu una sorpresa per me, la vista di un Cesare Borgia scarmigliato che spalancava la porta come se dovesse scardinarla. “Giorgio, ho bisogno che ti occupi della vendita di una casa!”

Ecco una cosa che mi sembrava parecchio strana del mio lavoro: i miei titolari non vendevano mai le case direttamente. Se ne occupavano gli agenti che assumevano, e basta. L'unica cosa che importava è che le case venissero vendute, e considerato il target, erano anche abbastanza rilassati su questo. Almeno, credo che lo fossero. Dirò la verità, non sapevo proprio come reagivano se una casa non veniva venduta: non accadeva mai una simile evenienza. All'agenzia Borgia andava gente intenzionata a comprare. Punto e basta.

“D'accordo, ma... Mi scusi, Cesare, ma va tutto bene?” lo scrutai, preoccupato.

“Sì, certo! Sono solo un po' su di giri, oggi arriveranno mia sorella e la compagna di mio padre! È da tanto che non le vedo!”

“La compagna di suo padre? Vuole dire che non è sua madre?”

“No, mamma non la vediamo da parecchio tempo. E personalmente non ne sento poi così tanto la mancanza, se mi è concessa una piccola confidenza da uomo a uomo.”

Sollevai appena le sopracciglia, come a dire “Ah.”. A dire il vero, ero anche un po' a disagio.

“Allora” dissi alla fine “qual è la casa che devo vendere?”

 

“D'accordo, Genéviève, ci sentiamo più tardi!”. Chiusi la telefonata e rientrai in agenzia. Da una parte ero di ottimo umore. La vendita era andata benone. Sospettavo che il tipo a cui avevo venduto la casa fosse un po' scemo, l'avevo proposta a 5 milioni di euro, e lui aveva insistito per farmi un assegno da 7. E sì che gli stupidi non diventano milionari...

Dall'altra parte, ero preoccupato per Genéviève. Il suo umore era peggiorato di parecchio. Credevo che fosse per il lutto, in fondo, da quello che avevo capito, il marito era morto da poco. Decisi che quella sera l'avrei portata in un ristorantino nel ghetto ebraico. Le avrebbe fatto bene prendere un po' d'aria. In fondo, ca' Dario, per quanto bella, era decisamente opprimente!

“Oh, Giorgio!” la voce secca di Alessandro mi inchiodò lì dov'ero. Dirò la verità: Alessandro mi inquietava non poco. Quando ti parlava, aveva sempre l'aria di uno che non pensa quello che dice. E quando si presentava all'improvviso, nel suo completo Armani, o Cavalli, o Cheaccidentinesoio, prendevi dei fieri colpi!

“Signor Borgia...” feci spontaneamente un mezzo inchino. Altra cosa strana di quell'uomo: aveva un che di autorevole, che spingeva anche l'impiegato meno leccapiedi del mondo del lavoro a diventare servile.

“Come ti è andata, la vendita?”

“Bene, bene. Benissimo, anzi. Anche se è stata un po' bizzarra. Ha insistito per comprare la casa ad un prezzo più alto di quello da noi proposto.”

Alessandro rimase un attimo interdetto, poi scoppiò a ridere. “Sì, in effetti Cesare si era dimenticato che quello era il vecchio Cavanaugh! Ha fatto una scommessa con il suo socio di comprare per sei mesi solo oggetti con i prezzi col numero 7 davanti!”

Rimasi basito. Certo che quei ricconi potevano permettersi davvero di tutto! Comprese le scommesse cretine! Alessandro stava davanti a me e rideva con le lacrime agli occhi. 'Altro esempio di riccone strano...' pensai. Anche se, in termini economici, come ho già detto, non mi potevo certo lamentare, ed era comunque grazie a lui!

“Beh, dai, abbiamo già perso troppo tempo.” farfugliò, appena riprese fiato “coraggio, giovanotto. Sono arrivate mia figlia e la mia compagna. Vieni, che te le presento.”

Entrammo nella sala riunioni, dove Cesare stava bevendo del tè con due splendide donne. In sala riunioni ci sarò stato un paio di volte. Era ampia, con le pareti stracolme di affreschi e i soliti lampadari a gocce tipici di Venezia. In mezzo alla sala stava un ampio tavolo ovale in legno massiccio, con tutto attorno delle sedie imbottite. Ma solo quel giorno realizzai che era tutto lì. Voglio dire, in altre aziende, che io sappia, nelle sale riunioni ci sono computer e proiettori per le presentazioni. Ma nell'agenzia, l'unico pc che avevo visto era quello nel mio ufficio.

Appena mi videro, Cesare e le due donne si alzarono e mi sorrisero. Una era alta, bionda e pallida. Normalmente preferisco le brune, ma lei era comunque splendida. Venne verso di me allungando la mano. “Piacere, Lucrezia!”. Strinsi la mano e sorrisi. “Un'altra omonimia con la famiglia Borgia!” le dissi, quasi ridendo.

“Non ve l'hanno detto? Siamo loro discendenti. E a quanto pare i miei familiari vivono nel mito della nostra famiglia. E ci hanno affibbiato i nomi dei nostri antenati.”

“Ah!” mi limitai a dire.

Si fece avanti l'altra donna. “io sono Giulia! Molto piacere!”

Giulia era di una bellezza che apprezzavo di più. Aveva gli occhi castani e una carnagione meno delicata di quella di Lucrezia. Il suo viso aveva una sorta di luce magnetica che mi affascinava.

“Anche lei è una Borgia?”

“No, no. Il mio cognome è Farnese.”

Sollevai le sopracciglia, ma non dissi nulla. Il suo nome mi aveva acceso un piccolo allarme, ma non riuscivo a capire perché. Così lo misi da parte.

“Allora, Giorgio! Come si trova qui?”

Non feci nemmeno a tempo a rispondere “bene”, che Cesare praticamente mi travolse dicendo “è il nostro migliore agente!”

“Beh,” tentennai un po' “in realtà sono l'unico... almeno qui a Venezia...”

“Non fare il modesto, Giorgio! Fidati, nelle altre succursali non facciamo tanti soldi come li facciamo qui!”

Feci per rispondere che, in fondo, è la città di Venezia a richiamare così tanta clientela. Ma poi decisi di starmene zitto. In fondo, i complimenti mi facevano piacere...

Rimasi in silenzio per il resto del tempo che passammo in sala riunioni, ascoltando le loro chiacchiere e fissando le due donne. Passi i nomi della famiglia Borgia, ma perché quello di Giulia Farnese mi metteva addosso quell'ansia così opprimente?

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Capitolo 3
*** Primi segnali ***


Rientrai in casa. Era stata una giornata abbastanza infruttuosa, a dire il vero. Ma non era un particolare problema, con la vendita di Ca' Dario, mi ero garantito almeno un paio di mesi senza troppe preoccupazioni finanziarie. Forse anche di più, considerando che non sono mai stato il tipo che va in giro a far bagordi.

Mi guardai in giro. Adoro casa mia, anche se è discretamente vecchia e un po' in decadenza. Credo che lo stabile fosse del 1800, o giù di lì, con il pavimento in legno, di quelli che quando ci cammini sopra scricchiolano da matti e sembra quasi che sotto ci sia uno spazio vuoto. Mi avviai verso il bagno, facendo scrocchiare il mio collo irrigidito. Aprii il rubinetto e lasciai scorrere l'acqua per un po', per farla scaldare. Nel frattempo mi spogliai, poi mi cacciai sotto l'acqua. Mi ritrovai a pensare che, in realtà, il mio lavoro non mi piaceva poi molto. In fondo le case antiche non si vendono così tanto, non capita spesso che un milionario venga nella nostra agenzia per comprare ville. Il che rendeva il mio lavoro molto noioso, sebbene molto remunerativo. A dire il vero, Alessandro Borgia mi diceva sempre che non era necessario che mi presentassi tutti i giorni, bastavano un paio di volte a settimana. Ma io conoscevo perfettamente la mia indole, e l'inoperosità mi rendeva depresso. Così, passavo giornate intere a telefonare a ricconi (per lo più americani, gli unici che sapevo essere abbastanza interessati a case con un alto potenziale di infestazione di fantasmi). Oppure a cercare case in vendita da prendere su commissione, non solo a Venezia, ma anche nei dintorni. Beh... dintorni è un eufemismo, visto che ormai praticamente giravo per tutto il Veneto! In pratica funzionava così: periodicamente, tre giorni a settimana li passavo in ufficio a telefonare in giro, e gli altri due li trascorrevo girando per le varie città e cittadine del Veneto. Ero arrivato fino a Feltre, così facendo. Certo, non potevo girare per tutto l'anno a cercare case da acquisire e rivendere. Ok che avevo un rimborso spese, ma non volevo esagerare!

L'acqua improvvisamente si ghiacciò. “Dannazione!” strillai, come una donnetta. Ma perché diavolo l'amministratore non faceva riparare quella dannata caldaia? A quel punto mi insaponai rapidamente e poi mi sciacquai ancora più velocemente. Poi uscii dalla doccia, bene intenzionato a chiamarlo e a dirgliene quattro. Allungai la mano verso il cellulare. Fu a quel punto che venni colto di sorpresa da una chiamata in entrata. Guardai il display per identificare il numero, ancora un po' stordito dal nervosismo che mi aveva preso. Poi risposi.

“Ciao Géneviève!”

“Ciao Giorgio! Disturbo?”

“Assolutamente no!” farfugliai mentre mi asciugavo un paio di gocce che mi stavano colando sul petto. Erano trascorsi un po' di giorni dalla vendita di Ca' Dario. Io e Géneviève ci eravamo scambiati il numero, e ci sentivamo tutti i giorni, per un motivo o per l'altro. Devo confessare che la sentivo molto più vicina di parecchie persone che conoscevo da molto più tempo. Quasi più vicina del mio migliore amico.

“Mi chiedevo se stasera hai da fare.”

“No, assolutamente!”

“Che ne diresti di venire qui a cena, allora?”

“Nella tua casa maledetta?? Brrrr!” scherzai. Lei scoppiò a ridere “Certo che ci sarò! Devo portare qualcosa?”

“No, non ti preoccupare! Ti aspetto per le otto, allora!”

Guardai l'ora. Erano le sette e mezza.

“Forse tarderò un pochino, dipende se faccio a tempo a prendere i mezzi.”

“Ti aspetto!” ripeté. Poi riattaccò.

 

Mezzora dopo ero al cancello di Ca' Dario. Puntuale come le tasse, dice sempre mia madre. Le mie piccole paranoie sul mio eventuale ritardo erano completamente infondate. Avevo persino fatto a tempo a fermarmi in una pasticceria a prendere un po' di pastine, giusto per non arrivare a mani vuote. Lei mi aprì, e quando mi vide, sorrise, raggiante.

“Sei anche arrivato puntuale, hai visto?”

Le sorrisi di rimando, poi la seguii dentro casa. Mi colse una sensazione molto strana, entrando. Come se stessi entrando in un mondo sconosciuto. E sì che ci ero già entrato altre volte, lì dentro! Mi riscossi, pensando che, dopotutto, ero solo molto stanco. Tanto più che la casa, che era discretamente illuminata, sembrava in qualche modo oscura. Tetra. Sì, decisamente ero stanco!

Seguii Géneviève in soggiorno.

“Ma lo sai” mi disse “che il tuo stupido racconto su questa casa mi ha impressionato?” rise “Ora sento presenze strane dappertutto!”

“Davvero? Tipo?”

“Beh, magari sto leggendo, e mi passa un soffio d'aria fredda a fianco.”

“Sarà uno spiffero, tieni conto che questa casa è antica.”

“Oppure vedo qualcosa muoversi con la coda dell'occhio.”

“Sono sicuro che questo è dovuto al fatto che devi ancora ambientarti.”

“Sì, ne sono certa! Ma ammetto che fa impressione!”

“Madame Dubois?” una voce interruppe la nostra conversazione. Mi voltai, e vidi una signora anziana sulla soglia, vestita con una divisa da cameriera “Je peux servir le diner.”

“Oh, merci, Julie!” le rispose Géneviève.

“Ah, beh!” la presi in giro “non mi avevi detto che hai anche una cameriera!”
“Julie lavora per me da quando mi sono sposata. A dire il vero non mi interessava poi molto che mi seguisse in Italia, ero disposta a mandarla in pensione, ma lei ha insistito per continuare a lavorare con me. Siamo molto affezionate l'una all'altra. E ora andiamo a mangiare! La cena è pronta!”

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Capitolo 4
*** Cosa sei disposto a fare? ***


Trascorsero diverse settimane. La mia vita andava avanti tranquilla. La vendita delle case andava straordinariamente bene. Ne vendevo una ogni due settimane, più o meno. Uscivo con i miei amici, chiacchieravo con Lucrezia Borgia e Giulia Farnese. A dire la verità, sospettavo che entrambe ci provassero spudoratamente con me. Quante volte entravano nel mio ufficio con una scusa qualsiasi, e con quelle minigonne che lasciavano ben poco all'immaginazione! E vogliamo contare le numerose carezze dietro la nuca, o il saggiare continuamente i miei (?) muscoli? E gli sguardi maliziosi che ogni tanto bersagliavano la patta dei miei pantaloni?

Se da un lato il mio ego maschile prendeva il volo, dall'altro ero a disagio. Non avevo la ragazza, né intendevo trovarmene una nell'immediato. Stavo bene così come stavo, nella mia solitudine e tranquillità. E avere quelle donne (e una di loro era la compagna del mio capo!) che mi facevano il filo mi metteva non poca confusione! Oltretutto mi facevano sentire un pivellino alla sua prima cotta! Ed era successa una cosa un po' particolare. In realtà, inizialmente sembrava molto insignificante. Talmente insignificante che solo la sera della morte di Généviève capii che non lo era poi così TANTO. Anzi!

Ero in ufficio. Avevo appena contattato un cliente molto interessato ad una villa veneta nell'alta padovana. Una villetta piuttosto insulsa, secondo me. Non era molto grande, né molto famosa. Avevo parlato con alcune persone del luogo, e metà di loro non conosceva nemmeno il nome di quella magione! Ma, nonostante questo, aveva anche lei le sue leggende. Quella che mi era rimasta impressa parlava di un buco nella chiesetta della villa, sotto una piastrella rotta, che pareva non avesse fondo. Mi accordai per trovarmi col cliente due giorni dopo. Gli avrei fatto visitare la villa. Era già interessato a comprarla, anzi mi aveva già fatto un'offerta. Ma era prassi fargli almeno vedere dove sarebbe andato ad abitare!

Avevo appena messo giù il telefono, quando entrò Cesare, seguito da Lucrezia. Avevano entrambi un sorrisetto gelido stampato in faccia.

“Hai concluso ancora, eh, Giorgio?” la voce di Cesare era alquanto tagliente. Onestamente, ebbi paura. Ero convinto di fare qualcosa che non andava. Come si spiegava quello sguardo, sennò?

“Ha bisogno di qualcosa, Cesare?” domandai, cercando di stare tranquillo.

“Oh, su, rilassati! Non sono qui per mangiarti!” scoppiarono entrambi a ridere. Quando smisero, l'espressione sembrava più cordiale. Ciononostante, notai, avevano entrambi lo stesso sguardo gelido dei serpenti.

“Allora...?” bofonchiai.

“Siamo qui per parlarti di lavoro!” cinguettò allegra Lucrezia. Si sedettero sulle sedie di fronte alla mia scrivania. Intrecciai le dita sul piano del tavolo, e mi misi in ascolto.

“Come sai, noi siamo una ditta in continua espansione. Questa storia di vendere case antiche attira la clientela! Specie se sono 'infestate'!” Cesare fece il segno delle virgolette con le dita. “Ora! Quello di cui abbiamo bisogno per espanderci è un team estremamente dinamico, pronto a qualsiasi cosa pur di vendere! E, come ti abbiamo già detto quando ti abbiamo assunto, se questo team lavora bene, lo premiamo! Certi agenti sono diventati addirittura soci!”

Dove voleva andare a parare?

“Abbiamo controllato il fatturato delle nostre filiali. Beh, la sede di Venezia è quella che rende di più. E questo grazie al tuo fantastico team!”

“Composto solo da me...” borbottai.

“Non fare il modesto! Tu hai inventiva, spirito di iniziativa, voglia di lavorare! Da solo hai venduto più case del team di Roma! Questi sono alcuni dei requisiti per diventare nostro socio!” era così eccitato che a momenti se la faceva addosso... Lucrezia stava seduta al suo fianco con un sorriso misterioso stampato in faccia.

“E quali sarebbero gli altri requisiti per diventare socio?”

“Diciamola così...” intervenne la donna, sempre con quel sorriso enigmatico “cosa sei disposto a fare, pur di riuscire nel lavoro?”

Rimasi zitto per un po', prima di rispondere un incerto “Beh, in verità non lo so...”

“Vorresti diventare nostro socio?” Lucrezia e Cesare mi guardarono pieni di aspettativa.

“Sì, certo!”

“Ok. Al momento giusto valuteremo noi se sarai... degno... di quel ruolo!”

Detto questo si alzarono e se ne andarono. Io rimasi a fissare la porta dell'ufficio, stranito. Davvero mi volevano come socio? Come diavolo avrei dovuto fare per dimostrare di essere 'degno' di quel ruolo?


E quando non era il lavoro a mettermi in difficoltà, c'era Généviève. Ormai ero sempre più preoccupato. Non si faceva vedere, né sentire, per parecchi giorni di fila, e quando lo faceva era sempre più abbattuta.

“Généviève, ti manca così tanto, tuo marito?” le domandavo spesso. Era una domanda scema e priva del benché minimo tatto, lo so, ma era l'unico sistema che avevo per capire meglio i suoi sentimenti. Con un “stai bene?” ricevevo solo una laconica alzata di spalle. Non che, alla domanda su suo marito, rispondesse tanto di più. Un vago “suppongo di sì” era la norma.

Oltretutto, Julie, la sua domestica, se n'era andata. Di punto in bianco. Aveva mollato lì la sua datrice di lavoro, che chiaramente stava male. Se l'era svignata, quella stronza! Ero indignato al massimo, quando Généviève me l'aveva detto. Ma lei... lei sembrava fregarsene. Girava per casa con quello sguardo vacuo che metteva i brividi. Ormai ero da lei tutte le sere, per assicurarmi che mangiasse almeno una volta al giorno. Non posso dire di essere mai stato particolarmente testardo. Con un'altra persona, prima o poi avrei mollato la presa, e l'avrei mandata a quel paese, con un lapidario “se non vuoi aiutarti tu da solo, perché devo farti io da psichiatra?”. Ma con lei non ce la facevo. Proprio non ci riuscivo! Forse era la sensazione che mi prendeva quando varcavo il cancello di villa Dario. Una sensazione di gelo terribile. In un momento di idiozia, avevo detto sghignazzando a Marco, il mio migliore amico, che capivo perfettamente che cosa provava Harry Potter quando aveva a che fare con un dissennatore. Scemo che non ero altro! Avevo cercato di buttare in ridere una questione serissima. Quando entravo lì, mi sentivo come se ogni singola cellula del mio corpo fosse svuotata di ogni energia. Quella casa era opprimente. Tuttavia non riuscivo a portare Généviève fuori di lì. Sembrava quasi legata a quel posto. Quando tornavo a casa mia, mi sentivo come se avessi le pile scariche. Nonostante questo, la sera dopo ero lì, più battagliero. Non intendevo in nessun modo lasciare Généviève lì da sola!

Quella sera andai di nuovo da lei, con il necessario per fare una pasta alla carbonara. Aprii il cancello, che emise un cigolio sinistro. Da quel momento mi riprese la sensazione di nausea opprimente che ormai avevo imparato a collegare a quella casa. Guardai attentamente il cortile e la casa. Sentii i muscoli tendersi, come se stessi per essere attaccato. Sono sicuro che ci fosse qualcuno, lì. Una presenza indefinita. Alzai lo sguardo verso le finestre. Una tenda venne scostata. Con mia enorme sorpresa, vidi un uomo affacciato alla finestra. Ma fu una visione alquanto fugace. Si tolse immediatamente alla mia vista, e la tenda ritornò al suo posto.

Perplesso, mi avviai verso la porta d'ingresso. Bussai. Genéviève venne ad aprirmi dopo un tempo che mi parve infinito. Mi sembrò stare meglio rispetto alla sera prima.

“Oh, ciao Giorgio...” anche il suo saluto sembrava meno fiacco.

“Genéviève, tutto bene?”

“Certo... perché?”

“Oh, nulla. Senti, ti vanno degli spaghetti alla carbonara?” misi in mostra il sacchetto della spesa.

“Ah... ehm... no grazie... io... beh, stasera preferirei stare sola.”

La guardai. Era pallida, evidentemente dimagrita. La luce dei suoi occhi sembrava spenta. Avrei tanto voluto dirle di no, che sarei rimasto. Ma era anche vero che in quel periodo forse le stavo un po' troppo addosso. Con riluttanza, annuii. In fondo non era sola, c'era sempre quell'uomo che avevo visto alla finestra. Me ne andai. Una volta in strada, tirai fuori il cellulare e chiamai Marco per andare a prendere uno spritz.

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Capitolo 5
*** Chi sono, in realtà? ***


Due ore dopo, ero ancora con Marco, a parlare del più e del meno. E, a dirla proprio tutta, eravamo alquanto alticci.

“Sai” mi disse lui, sorridendo col suo sorriso sghembo da 'non sono brillo, ma non mi ci vorrà molto per diventarlo' “l'altro giorno sono passato davanti alla tua agenzia, e ho visto un pezzo di gnocca da levare il fiato vicino all'entrata!”

“Bionda o bruna?”

“Ti pare che rivolga le mie attenzioni ad una comunissima bruna? Lo sai che sono per le perle rare! No, bionda, bionda!”

“Allora era Lucrezia! Bella, eh?”

“Bella? Divina! Che dici, un appuntamento lo si potrebbe combinare?”

“Che fai, scherzi? Quella è milionaria, figurati se esce con uno spiantato come te!” ridacchiai.

“E andiamo! Un tentativo lo possiamo fare, no? Non hai detto che c'è anche una bruna?”

“Sì, Giulia. Molto bella anche lei, devo dirlo. Più di Lucrezia.”

“Se è bruna, impossibile! Dai, proviamo a proporci! Una bella uscita a quattro!”

Il bello è che, da come mi guardavano, forse avrebbero anche accettato. E credo che avrebbero accettato una sveltina. Ma questo non lo dissi a voce alta. Ok, alticcio, ma non ubriaco fradicio! Restammo zitti per un po'. Poi Marco fermò una cameriera e ordinò un caffè.

“A dire la verità” mi disse “ho notato una cosa un po' strana, di quella ragazza. Nel senso, avevo l'impressione di averla già vista. Come hai detto che fa, di cognome?”

“Borgia.”

“Lucrezia Borgia?” le sopracciglia di Marco quasi volarono via dalla fronte per lo stupore. Poi scoppiò a ridere. “E vorrai mica dirmi che ha un fratello di nome Cesare?”

“Certo.” Marco smise di ridere, chiaramente chiedendosi se per caso lo stessi prendendo in giro.

“Beh...” mi misi sulla difensiva “Lucrezia mi ha spiegato che vivono talmente nel mito di quei Borgia, che gli sono stati appioppati gli stessi nomi. A quanto pare, sono loro discendenti.”

Marco continuò a fissarmi. Poi tirò fuori il suo telefono e cominciò a digitare qualcosa. Dopodiché me lo passò. Guardai lo schermo luminoso. Avevo un'immagine davanti, il cui titolo era “presunto ritratto di Lucrezia Borgia”. Mi guardava una donna con i capelli biondi e quell'aria enigmatica tipica delle donne dipinte nel Rinascimento. C'era una vaga somiglianza con la Lucrezia che conoscevo, ma non capivo dove volesse arrivare Marco. Lo guardai, perplesso.

Senza dire una parola, Marco si riprese il telefono e digitò qualcos'altro. Poi me lo ridiede. A quel punto mi prese un colpo. Adesso stavo guardando la foto di una statua di cera rappresentante una donna bionda, sulla trentina, di una bellezza sconvolgente, lo sguardo gelido. Il titolo dell'immagine era “statua di Lucrezia Borgia”. E poi il nome di un museo. Cominciai a sudare freddo. Quella donna era identica alla Lucrezia che conoscevo io. Ma che diavolo...?

“Ho fatto una stupidaggine a farti vedere prima il dipinto, visto che i dipinti sono fuorvianti nel farti capire il vero volto delle persone. Spesso venivano 'abbellite' secondo gli standard dell'epoca, per cui una donna orribile diventava stupenda in un suo ritratto.”

“Mi stai dicendo che...”

“La tua datrice di lavoro è un caso genetico molto raro. In fondo, le caratteristiche genetiche vengono ereditate fino ad un massimo di sette generazioni dopo averle tramandate, poi si perdono. Oppure quella donna è Lucrezia Borgia. La vera Lucrezia Borgia, nata nell'aprile del 1480.”

Inghiottii saliva, prima di rispondere “Ma andiamo, magari hanno preso ispirazione dalla mia datrice di lavoro per fare la statua!”

“Sì. Può darsi. Niente di più probabile. Ma non tirerei un sospiro di sollievo, se fossi in te. Quella statua è stata costruita circa ventisette anni fa. Questo vuol dire che la tua datrice di lavoro aveva... due anni?”

Cominciai a tremare. “diciamo pure che do per buona l'ipotesi del caso genetico.”

“Io invece no. Non possiamo sapere esattamente che aspetto avevano i nostri antenati. La maggior parte di noi, anche andando a cercare molto indietro nei secoli, ha origini molto umili. Per cui discende da una famiglia che non poteva permettersi ritratti. E quelli che si potevano permettere ritratti, comunque li facevano falsare, per nascondere difetti fisici.”

“E allora come fai a sapere che quella è la vera Lucrezia Borgia?”

“Te l'ho detto. Basta un semplice programma al computer e una conoscenza di base dell'estetica rinascimentale, e si è in grado di ricostruire qualsiasi viso. E un pizzico di logica. Come mai la tua datrice di lavoro è precisa identica ad una statua costruita quando lei aveva a malapena due anni, in un'epoca dove i programmi che ti ho citato prima non esistevano, o comunque non erano certo a disposizione di un museo poco famoso come quello dove si trova la statua?”.

Tacqui. Ormai sembravo avere perso ogni capacità di rispondere a qualsiasi persona mi sottoponesse a domande pressanti.

Marco digitò rapidamente qualcosa sul suo smartphone. Poi me lo fece vedere di nuovo. Non ci volle un genio per capire che davanti avevo il ritratto di Cesare. Che assomigliava anche lui vagamente al mio datore di lavoro. Per non parlare del ritratto di papa Alessandro. Ci misi un po' a realizzare che erano tutte sciocchezze. Scossi la testa “Andiamo, Marco, sei completamente ubriaco! Questi ritratti hanno solo una vaga somiglianza coi miei datori di lavoro! Come diavolo puoi aspettarti che io creda ad una totale assurdità come quella che mi stai propinando?”

“Sei il solito zuccone” sbottò lui, inacidito. Era sempre stato molto permaloso.

Calò di nuovo il silenzio. Poi, Marco mi chiese “Come fa di cognome, Giulia?”

“Farnese. Si chiama Farnese.”

Trattenne il fiato per un nanosecondo, poi replicò “Tu sai chi era Giulia Farnese, vero?”

Scossi la testa, senza specificare che il nome mi ricordava comunque qualcosa.

“Giulia Farnese era il nome di una delle amanti di papa Alessandro. Probabilmente fu quella che amò di più.”

Lo fissai. “In effetti, Giulia è la compagna di Rodrigo Alessandro.” esalai, aggrottando la fronte.

Marco mi fissò di rimando, gli occhi che chiaramente esprimevano qualcosa tipo 'e tu credi ancora che sia una coincidenza?'.

“Marco, io... insomma, non posso credere che i miei datori di lavoro siano gli stessi cospiratori del Rinascimento. Se anche fosse, cosa diavolo sarebbero? Demoni? Zombie? Fantasmi?”

“Non lo so. Giorgio, non lo so proprio. Ma non riesco a credere alle pure coincidenze, e lo sai.”

“Già. Infatti per spiegarti le cose inventi assurdità paranormali!”

Detto questo, misi i soldi sul tavolo per pagare la mia parte, e me ne andai.

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Capitolo 6
*** Una tragica serata ***


La sera dopo, ero di nuovo davanti al cancello di villa Dario. Era stata la classica giornata di merda, quella che comincia male e, di solito, come imparai quella sera, finisce peggio. Avevo passato le ore di lavoro a fissare ogni singolo Borgia che passava davanti al mio ufficio. Trasalivo ogni volta, a dire il vero. E ogni due minuti guardavo il mio cellulare sperando che Marco mi scrivesse qualcosa, qualsiasi cosa. Anche solo un 'brutto stronzo' andava bene. Ma quel silenzio telefonico mi preoccupava. Da quanto ero distratto, mi ero pure attirato una solenne lavata di capo da Cesare, e considerando che, comunque, non stavo facendo molto meno del solito, questo dice tutto su quanto stravolto dovevo essere! Avevo anche provato a chiamare Genéviève, per sapere come stava. Non mi aveva risposto. Per culminare la giornatina, ero andato a prendermi un kebab consolatorio all'ora di pranzo. Delizioso... favoloso... peccato che, passando sopra ad un ponte, ero inciampato sui miei stessi piedi. E il kebab? Beh... cibo per pesci! O per ratti. O per pesci-ratto. Dio solo sa le mutazioni genetiche che si sono effettuate nelle acque quasi putride di Venezia. Avevo imprecato in tutte le lingue che conoscevo, e anche qualcuna inventata per l'occasione. Poi me n'ero tornato in ufficio, furioso col mondo intero, .

E ora ero lì, davanti alla villa più famosa di Venezia. O almeno, la villa più nota ai fissati con il paranormale. E Genéviève non rispondeva. Suonai nuovamente, un po' impaziente. Ancora nessuna risposta. Rimasi tranquillo per qualche altro minuto, poi suonai una terza volta, prima di attaccarmi al cancello, scrollandolo e urlando come un pazzo. Sorprendentemente, questo si aprì. A quanto pare un gancio era rotto. Entrai, mentre la consueta sensazione di oppressione si impadroniva di me. Mi avviai verso la porta, con le gambe pesanti. Bussai energicamente. Niente. In bocca mi sentii il sapore rugginoso della paura. Cosa stava succedendo a Genéviève? Dov'era finita?

Tempestai di pugni la porta, chiamando Genéviève a gran voce. Non ottenendo di nuovo risposta, presi una decisione in 3 secondi netti. Soldi ne avevo. Alla peggio, avrei ripagato la porta. Così diedi una spallata poderosa al legno. Dovetti fare due o tre tentativi prima di poter entrare.

Quasi caddi nella sala dell'ingresso. Mi diedi una scrollata, e mi passai la mano fra i capelli per darmi una rassettata. Fu allora che la vidi. Genéviève. Appesa per il collo ad un lampadario a gocce tipico di Venezia, la faccia cerea, quasi grigia, la lingua gonfia fra i denti e gli occhi quasi fuori dalle orbite. Urlai. Urlai e urlai. Poi fu tutto buio.


“Giorgio? Giorgio!” erano passate due ore. Ero seduto fuori dalla porta di ingresso di ca' Dario e fissavo il pavimento, sotto shock. Mi voltai a guardare Katia, la mia amica paramedico. Mi stava guardando con aria comprensiva.

“Sai se ci sono parenti che possono occuparsi di lei?”

“No. Suo marito è morto mesi fa, e non avevano figli. E non mi ha mai accennato niente riguardo a nipoti, fratelli o sorelle.”

“Ok. Manderemo la salma all'obitorio, e un annuncio alla sua città d'origine. Se non si presenta nessuno, si occuperà il comune delle esequie.”

Annuii. Non avevo molta voglia di parlare, e se anche avessi voluto, mi sentivo come se una palla da tennis mi stesse bloccando la gola, quindi sarebbe stato perfettamente inutile aprire bocca.

“Non è stata colpa tua, Giorgio.” la voce di Katia arrivava dolce alle mie orecchie. Una lacrima mi scivolò sulla guancia.

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Capitolo 7
*** La vera famiglia Borgia ***


Tre giorni dopo ero di nuovo al lavoro. Non aveva senso restare a casa a pensare che, se solo fossi rimasta con lei... se solo l'avessi aiutata a superare quella brutta depressione... se solo non avessi preferito uno spritz all'aiutare un'amica... se solo... se solo... se solo...

No. Se avessi continuato così sarei impazzito. Via, via, al lavoro! Il funerale era fissato per il giorno dopo, nessuno era venuto a reclamare la salma. Mi sentivo distrutto. Davvero ero l'unico a cui importasse qualcosa di quella donna? Neanche Julie si era fatta viva! E neppure l'uomo misterioso... ne avevo parlato con la polizia, ma non c'era traccia di altre persone, in quella casa, oltre a Genéviève. E sarebbe stato anche utile trovarne, di altre persone, visto che non si capiva come avesse fatto a impiccarsi. Non c'erano scale, né segni che indicassero che era stata uccisa e poi appesa al lampadario. Genéviève era morta impiccata a quel lampadario, e nel modo peggiore, visto che era morta soffocata, e non col collo spezzato come poteva capitare a certi impiccati. Cos'era successo, lì dentro?

Bah... ad ogni modo. Quel giorno ero discretamente depresso, ma avevo deciso di piantarla di autocommiserarmi. Genéviève non l'avrebbe voluto. Così mi avviai verso l'ufficio. Entrai e vidi che, sulla scrivania, avevo lasciato delle pratiche da portare a Cesare. Sospirando, le raccolsi e le portai all'ufficio del direttore. Le appoggiai sulla scrivania della segretaria di Cesare, quel giorno stranamente assente, e feci per bussare, quando sentii il mio nome, accompagnato dalla parola “mammoletta”. Restai basito, poi, una volta verificato di essere solo, appoggiai l'orecchio alla porta di legno e ascoltai.


“Quel ragazzo è un debole!” la voce credo fosse di Rodrigo.

“Forse non lo è così tanto, prima l'ho visto entrare al lavoro come se nulla fosse successo.” Questo era Cesare.

“Beh, c'è da dire che, se sapesse, non resterebbe poi così impassibile!” Lucrezia. O era Giulia?

“Dici che se la prenderebbe con noi?” no, questa era Giulia.

“In fondo, siamo stati noi a uccidere quella francese.” Cesare. Spalancai gli occhi, inorridito. Quasi mi persi il resto del discorso.

“E come potrebbero accusarci? Ufficialmente è stata lei a suicidarsi.” Lucrezia rise, quasi deliziata.

“Sì, ma...”

“Oh, Cesare, dai! Come potrebbero mai scoprire che è grazie ai nostri poteri se l'abbiamo fatta penzolare da un lampadario che sta a 5 metri da terra?” ero nauseato e inorridito. Con che abominio avevo a che fare?

“Grazie ai nostri poteri e a Ca' Dario, comunque!” intervenne Giulia.

“Già... quella casa è il portale perfetto per l'Inferno, il concentrato di energia negativa parassita per eccellenza! Oserei dire che quell'energia negativa è così perfetta che credo che quella cretina non si sia neanche accorta della nostra presenza, da quanto era in trance!”

“Ma papà, non siamo così al sicuro!” la voce di Cesare era molto acuta “Giorgio ti ha visto affacciarti alla finestra!” mi coprii la bocca con la mano per soffocare un gemito.

“Non credo proprio che mi abbia riconosciuto, o i gendarmi sarebbero già alle mie costole. Insomma, resta solo da vedere cosa deciderà di fare. Se vuole unirsi a noi, dovrà partecipare al rituale. Altrimenti dovremo eliminarlo.” mi si gelò il sangue nelle vene. “Avete già provveduto al cadavere della donna?”

“Sì, padre. È già a villa Dario. Stasera faremo il rituale e spediremo quella vacca all'inferno.” la voce di Cesare era mortifera.

“Molto bene...” Rodrigo si interruppe. “Onestamente sono proprio contento che questa volta sia toccato a una francese. Non li ho mai sopportati, i francesi! Vi ricordate quella volta di Carlo VIII, quando ha tentato di conquistare la penisola?”

A quel punto scappai.


Ero troppo sconvolto per proferire una sola parola. Con chi diavolo avevo a che fare, realmente? Arrivato a casa, scrissi una lettera di dimissioni. Non chiedetemi come feci a mantenere la lucidità mentale per scrivere la lettera e fare finta di niente. Ma non potevo continuare a lavorare per gli assassini di Genéviève. Forse era la consapevolezza che, se avessi dato segno di sapere qualcosa, sarei stato ucciso anch'io.

La misi nella cassetta delle lettere dell'agenzia. Poi tornai a casa. A parte le commissioni di base per procurarmi il cibo, non ne uscii per un bel po'.


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Capitolo 8
*** Marco ***


Era da parecchio tempo che non vedevo Giorgio. All'inizio ero troppo arrabbiato con lui. È sempre stato uno zuccone testardo che deve per forza sbattere il naso contro le cose per crederci, e neanche in quel caso è detto che lo faccia. Erano trascorse due settimane dall'ultima volta che l'avevo visto. Avevo pensato migliaia di volte di chiamarlo, ma poi avevo lasciato perdere. Fino a quando non incontrai Katia, la nostra amica paramedico.

“Ehi, Marco!” mi trovavo vicino alla stazione di Venezia, quando mi sentii chiamare.

“Katia!” risposi, sorridendo.

“Come stai, vecchio?” aveva sempre questa bruttissima abitudine. Odiavo farmi chiamare vecchio. Ma a lei lo concedevo, di chiamarmi così. Ci avevo fatto il callo!

“Oh, come al solito, cara la mia crocerossina... e tu?”

“Bene, bene! Ultimamente all'ospedale ho fatto un sacco di turni, quindi ho avuto molto poco tempo per me. Il che mi fa venire in mente: Giorgio si è ripreso? Non ho avuto tempo di chiamare neanche lui!”

“Come sarebbe a dire, scusa?”

“Vuoi dire che non sai cos'è successo?” Katia mi guardò come se le avessi detto che la notte mi piaceva mettermi i vestiti da donna.

“Saranno due settimane che non gli parlo, abbiamo litigato. Cos'è successo?” chiesi, preoccupato.

“È morta la sua amica, quella francese... sai, quella che abitava a ca' Dario.”

Il mio cuore perse un paio di battiti.

“Dai, non puoi non averlo sentito! Era su tutti i giornali!”

Non seguivo i giornali. E lei lo sapeva. Ma c'era da dire che quella casa è talmente famosa a Venezia che c'era davvero da stupirsi che non avessi sentito la notizia tramite la rete più antica del mondo: i pettegolezzi.

“Come... come è morta?”

“Giorgio l'ha trovata impiccata al lampadario della sala centrale. La polizia ha dovuto archiviare il caso come suicidio, ma c'è un elemento che non torna.”

“Cioè?”

“Beh, il lampadario è a cinque metri da terra, e non si sa come abbia fatto a impiccarsi da sola. Quando siamo arrivati, non c'era una scala con cui avrebbe potuto aiutarsi, e Giorgio garantisce che non c'era neanche quando è arrivato lui. E non c'era nessuno con lei. E anche le chiavi della casa c'erano tutte, per cui non si può neanche dire che qualcuno sia entrato, l'abbia uccisa, e poi se ne sia andato chiudendo a chiave una porta.”

“E a che scopo, poi? Una cosa del genere la si può fare solo a una persona che si conosce, e lei non conosceva nessuno, qui a Venezia, a parte Giorgio...” Katia annuì. “Buon Dio, quel testone non mi aveva detto nulla...” finii col borbottare. Mi voltai e, senza salutarla, corsi verso casa di Giorgio.

Salii le scale che portavano al suo appartamento. Beh, più che salirle, volai. E cominciai a bussare come un forsennato. Praticamente gli sfondai la porta. L'uomo che venne ad aprirmi era l'ombra del Giorgio che conoscevo.

“Perché cazzo non mi hai chiamato, brutto idiota??” tentai di tenere la voce bassa, ma non ebbi grandissimo successo.

Lui mi guardò. E il suo sguardo mi fece rabbrividire. Era... vacuo... mi sentivo come se fissassi delle finestre che davano su una stanza vuota.

“Giorgio, tutto bene?”

“No...” bofonchiò “lei è all'inferno...”

“Cosa?”

“Inferno... colpa mia... sono stati loro... colpa mia...”

A quel punto, ero stufo. Stufo del suo non considerare le mie teorie a prescindere, stufo del suo non coinvolgermi nei suoi problemi, stufo di non capire cosa gli passava per la testa. Mi infuriai. E gli rifilai due ceffoni. Sembrò funzionare.

“MA SEI IMPAZZITO?” urlò. Dal pavimento arrivarono due colpi. Il solito vicino rompiballe.

“No, TU sei impazzito, caro mio!! Che diavolo ti sta succedendo?”

Mi fissò per un attimo, poi scoppiò in lacrime. Chiamatemi antiquato, maschilista, quello che volete. Ma, vedere un uomo piangere, per me è uno spettacolo penoso. Ero tremendamente in imbarazzo. Ma ero anche preoccupato. Se Giorgio piangeva, allora la faccenda era molto seria.

“Giorgio, che è successo?”

“Avevi ragione tu, su di loro.”

“Su chi?”

“I Borgia. Sono quei Borgia. Io non so cosa siano, ma sono stati loro a uccidere Genéviève.”

Rimasi in silenzio, basito. Devo ammettere che mi è sempre piaciuto l'esoterismo. Ma non è che ci credessi poi così tanto. E quando ho formulato la teoria per cui i datori di lavoro di Giorgio erano creature maledette, ero piuttosto ubriaco. Non avrei mai pensato che come teoria fosse così valida. D'altra parte, è sempre così, non c'è gente meno credente nei fantasmi di quelli affascinati da essi. Vale anche per demoni, Satana, incantesimi... chi ne è affascinato, raramente ci crede. E chi ci crede, raramente ne è affascinato, ma terrorizzato. In effetti, fu in quell'istante che l'esoterismo perse per me ogni attrattiva.

“Cosa hai intenzione di fare?” chiesi, a voce molto bassa.

“Non lo so. Mi sono procurato acqua santa, ma non so quanto funzionerà. Vorrei scappare, ma quei... cosi... sono molto potenti. Mi troverebbero! Vogliono eliminarmi!”

“Ok, adesso calmati!”

“No, non dirmi di calmarmi! Quei... fantasmi... demoni... quello che sono!, catturano le anime delle persone e le scaraventano all'inferno! Hanno fatto lo stesso con Genéviève. E io gliel'ho permesso! Genéviève è all'inferno per colpa mia! E vogliono fare lo stesso con me!”

“Cosa posso fare?”

“Niente. Niente. Non c'è niente da fare. Li aspetto. Ho provato a contattare preti, esorcisti, chiunque! Mi ritengono pazzo!”

Non potevo dare loro torto, a dirla tutta.

In quel momento, il telefono di Giorgio squillò. Lui impallidì.

“Giorgio, non rispondere...”
“Sono loro!”
“Non. Rispondere.”

“Devo!”

Afferrò il telefono, e rispose, correndo in un'altra stanza. Non sentii quello che disse. E non capii neanche con chi era al telefono. Dopo due minuti mise giù.

“Devo andare!” disse precipitosamente.

“Dove?” mi ignorò “ehi, aspetta!” urlai. Lui corse fuori chiudendo la porta dietro di sé. Rimasi lì per un po', fermo in piedi come un baccalà. Fu l'ultima volta che lo vidi.


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Capitolo 9
*** Epilogo - Due mesi dopo ***


Da “Il Gazzettino”

“Dopo due mesi di indagini, la polizia ha deciso di dichiarare chiuso il caso della scomparsa della famiglia Borgia, proprietari dell'agenzia immobiliare Borgia. Nessun indizio porta a credere che siano morti, né emigrati.

Intanto, la loro agenzia è stata rilevata da un loro agente, Giorgio Salmaso, il quale ha dichiarato di non sapere che fine hanno fatto i suoi datori di lavoro. Inizialmente sospettato, Salmaso è stato poi scagionato da tutte le accuse...”


“Ieri mattina è stata rinvenuta un'altra salma a Ca' Dario. Stavolta la vittima è un uomo di quarant'anni, tale George Sullivan, amministratore delegato della Sonny's. La polizia non è ancora giunta a nessuna conclusione, se non che l'assassino ha lo stesso modus operandi di quello di Genéviève Dubois, il cui caso è stato riaperto dopo il rinvenimento del secondo cadavere. Sullivan, infatti, è stato trovato impiccato al lampadario dell'ingresso di Villa Dario, allo stesso modo della Dubois. Giorgio Salmaso, tornato ad essere una volta di più il proprietario della villa maledetta, si è dichiarato addolorato per le circostanze funeste in cui si trova una delle ville più belle di Venezia, esprimendo la sua speranza che il colpevole di questi omicidi venga trovato...”


Lisa chiuse il giornale, un po' sconvolta. Lei lavorava come agente per Giorgio Salmaso, e in tutta sincerità stava cominciando a considerare che forse quell'uomo portava un po' di sfiga. Ma ovviamente non poteva parlarne, o avrebbe perso il lavoro. Entrò in agenzia e si diresse verso il suo ufficio. Vide le pratiche che la sera prima aveva dimenticato di portare a Giorgio. Sbuffando, le raccolse e andò verso l'ufficio del direttore. Le poggiò sulla scrivania fuori dall'ufficio, e fece per bussare, quando una specie di nenia giunse alle sue orecchie. Perplessa, appoggiò l'orecchio contro la porta, cominciando a sentire anche un lezzo di carne marcia. Trattenne un conato.

“Signore delle mosche, aiutami ora” era la voce di Giorgio! “ti offro carne corrotta, cibo andato a male. Aiutami nella mia profana missione di portarti anime di cui nutrirti. Aumenta il mio potere. Così sia.”

In preda al panico, Lisa scappò. Non tornò mai più in ufficio.


ANGOLO DELL'AUTRICE: Ciao! Scusate il mega ritardo! Onestamente mi ero stancata di questa storia, ma cancellarla non mi sembrava giusto, così l'ho finita, seppure un po' in fretta! Spero che comunque vi piaccia.

Ah, la preghiera a Satana è un riferimento ad un libro di Stephen King, “le notti di Salem”. E per gli interni di ca' Dario, io non so se sono fatti come li ho descritti, non essendoci mai stata (non che non ci abbia provato, ma la aprono raramente al pubblico). Quindi, se vi capita di visitarla e vedete che non è fatta come l'ho descritta, non abbiatevene a male! Ho solo lavorato di fantasia! Se volete sapere come è successo che Giorgio si sia trasformato in un pazzo satanista, non avete che da mandarmi un messaggio, e spiegherò tutto.

Tante belle cose!

Nephylim88

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