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Lista capitoli: Capitolo 1: *** Premessa *** Capitolo 2: *** Colazione - Ricatto d'avena (Rowizyx) *** Capitolo 3: *** Colazione - Colazione in Sala Grande (Ida59) *** Capitolo 4: *** Spuntino - Cioccolata (Astry) *** Capitolo 5: *** Spuntino - Tormenti e merendine di zucca (Witch Violet) *** Capitolo 6: *** Pranzo - Materne preoccupazioni (Ida59) *** Capitolo 7: *** Pranzo - Certe cose non cambiano (Starliam) *** Capitolo 8: *** Merenda - La pausa del té (Boll11) *** Capitolo 9: *** Cena - Richiamo paterno (Ida59) *** Capitolo 10: *** Cena - La punizione (Nykyo) *** Capitolo 11: *** Cena - Il primo appuntamento (Ranze) *** Capitolo 12: *** Relax dopo cena - Riflessi di sangue (Ida59) *** Capitolo 13: *** Relax dopo cena: Fantasia al cioccolato (Sage) *** Capitolo 14: *** Relax dopo cena - Brindisi per un amico (Ida59) *** Capitolo 15: *** Spuntino di mezzanotte - Non voglio il tuo aiuto (Astry) *** Capitolo 16: *** Spuntino di mezzanotte - Il brindisi (Stefi) *** Capitolo 17: *** Spuntino di mezzanotte - L'ultima cena? (OcchioMalocchio) *** Capitolo 18: *** Spuntino di mezzanotte - In alto il calice (Rowixyz) *** Capitolo 19: *** Spuntino di mezzanotte - Il Cenacolo (Stefi) *** Capitolo 20: *** Spuntino di Mezzanotte - Erba (Nykyo) *** Capitolo 21: *** Spuntino di mezzanotte - Alla Fine della Notte (Mariacarla) *** Capitolo 22: *** Spuntino di mezzanotte - Inedia per me (di Earendil/Manuel Lanhart) *** Capitolo 23: *** Spuntino di mezzanotte - Premio di mezzanotte (Ida59) *** Capitolo 24: *** Spuntino di mezzanotte - ritardi e ritorni (Starliam) ***
La raccolta di
fanfictions (23 tra one-shot e flash-fic) che state per leggere nasce quasi per
gioco, su un forum, “Magie Sinister” (http://magiesinister.forumcommunity.net/),
dedicato al mondo di Harry Potter in generale e a Severus Piton in particolare.
Gli utenti del forum,
che sono poi anche gli autori (ben 13 persone) dei vari racconti, un pomeriggio
chiacchieravano placidamente sul rapporto del loro beniamino, Severus, con il
cibo e le bevande. (http://magiesinister.forumcommunity.net/?t=5055779)
Perché è così (almeno
nei libri) magro? Non gli piace mangiare? O non ha mai tempo per nutrirsi come
si deve, tra una lezione e una sessione di spionaggio? Oppure, magari, si priva
dei peccati di gola per punirsi dei troppi rimorsi?
Questo si domandavano
gli autori e, tra una chiacchiera e l’altra, alcuni di loro hanno iniziato a
postare sul forum brevi scenette (quasi abbozzi di fictions) che illustrassero
la loro opinione, finchè una di loro non ha resistito e, colta da improvvisa
ispirazione, ha buttato giù un’intera one-shot sull’argomento.
Così è nata l’idea di
questa raccolta, che si è poi sviluppata al punto da essere suddivisa a seconda
del momento del giorno e del tipo di pasto su cui sono incentrati i racconti. (http://magiesinister.forumcommunity.net/?t=5108303)
Secondo l’idea di
base, in ogni fanfictions Severus Piton doveva mangiare o bere qualcosa (non
importava cosa e, come vedrete, in almeno un caso, il gesto di mangiare diventa
mera metafora), oppure desiderare un cibo e, anche nel caso in cui lo si fosse
lasciato a digiuno, l’autore doveva rendere, anche solo implicitamente, la
propria idea del rapporto di Piton con il cibo.
Non sussistevano
invece limitazioni riguardanti il genere. In questa raccolta troverete racconti
introspettivi, malinconici, drammatici, romantici, perfino comici.
Allo stesso modo
leggerete di Severus a volte anche molto differenti tra loro e il rapporto col
cibo non sarà univoco, bensì avrete tante versioni dello stesso tema quanti
sono i racconti e gli autori, perché, ovviamente, ognuno di loro ha la sua
personalissima visione al riguardo.
Confidiamo che tra
così tanti Severus Piton ognuno di voi troverà quello che più saprà
coinvolgerlo ed emozionarlo e speriamo che vi divertirete nel leggere la
raccolta anche solo la metà di quanto gli autori si sono divertiti a scriverla
(e si sono divertiti parecchio, se alcuni di loro hanno voluto scrivere più di
un racconto per questa piccola antologia).
Sarebbe già un
grandissimo successo.
NOTA SULLO “SPUNTINO DI MEZZANOTTE”:
Man mano che l’idea di questa raccolta prendeva forma, alcuni autori si sono
appassionati al punto da trarne anche una sfida di scrittura, intitolata
“Spuntino di Mezzanotte”. (http://magiesinister.forumcommunity.net/?t=5241249)I racconti scritti per questa specifica
sfida, anch’essi presenti nella raccolta, presentano, dunque, una differenza
rispetto a tutti gli altri.
La differenza
consiste nel fatto che, in questo caso, sussistevano delle limitazioni alle
quali ogni autore doveva forzatamente attenersi.
Le regole erano
queste: “Deve trattarsi di una drabble/flash-fic/one-shot, con Severus come
protagonista principale, deve riguardare il suo rapporto con cibo/bevande e
deve svolgersi di notte nel Cerchio dei Mangiamorte”.
RINGRAZIAMENTI SPECIALI DA PARTE DELLE AMMINISTRATRICI DEL
FORUM “MAGIE SINISTER”: Nykyo e Ida59 sono orgogliose di
aver ospitato sul proprio forum questa iniziativa e ci tengono a ringraziare
tutti gli utenti/autori che hanno voluto partecipare ed hanno reso possibile
questa raccolta. Un ringraziamento anche a tutti gli utenti del forum che, pur
non avendo scritto, hanno appoggiato gli autori, con il betaggio o con i
commenti e il loro sostegno. Un grazie generale, quindi, a tutta la piccola ma
crescente comunità di Magie Sinister, unica, affiatata e calorosa, con
l’augurio che continui sempre così.
Infine, un
ringraziamento speciale a chi, tra gli autori della raccolta, ha voluto
scrivere su Severus Piton pur non considerandolo il proprio personaggio
preferito: il vostro sforzo, in questo senso, vale doppio.
A tavola con Severus
COLAZIONE
Ricatto d'avena (Rowizyx)
Colazione in Sala Grande (Ida59)
SPUNTINO
Cioccolata (Astry)
Tormenti e merendine di zucca (Witch Violet)
PRANZO
Materne preoccupazioni (Ida59)
Certe cose non cambiano (Starliam)
MERENDA
La pausa del tè (Boll11)
CENA
Richiamo paterno (Ida59)
La punizione (Nykyo)
Il primo
appuntamento (Ranze)
RELAX DOPO CENA
Riflessi di sangue (Ida59)
Fantasia al cioccolato (Sage)
Brindisi per un amico (Ida59)
SPUNTINO DI MEZZANOTTE
Non voglio il tuo aiuto (Astry)
Il brindisi (Stefi)
L’ultima cena? (OcchioMalocchio)
In alto il calice (Rowixyz)
Il Cenacolo (Stefi)
Erba (Nykyo)
Alla Fine della Notte (Mariacarla)
Inedia per me stesso (Earendil)
Premio di mezzanotte (Ida59)
Mattina: troppo presto per
agitare su e giù un cucchiaino pieno di porridge cercando di farlo apparire
interessante, troppo presto per dover ascoltare i suoi capricci.
- Avanti, apri la bocca.
- Ngo!
Tentò di buttarla sul gioco, disperata: - Guarda, arriva il drago per entrare
nella caverna...
-Ngo!
Eileen Prince in Piton lasciò cadere la posata nella scodella di porcellana
chiara, senza sapere cos’altro inventarsi. Non si reputava una mamma
asfissiante, eppure suo figlio non sapeva dire altro. No. Sempre e sempre no.
La giornata era appena iniziata e già la donna si sentiva stanchissima: aveva
armeggiato per più di un’ora con i fornelli per preparare una colazione decente
senza usare la magia, tentando di compiacere per una volta il marito.
Fermò alcune ciocche dei suoi lunghi capelli neri dietro l’orecchio sinistro,
incerta sul da farsi. In effetti le frittelle bruciacchiate non erano molto
invitanti, dovette riconoscerlo, e nemmeno la pappa d’avena aveva un buon
sapore.
Lo sapeva, l’aveva assaggiato sia per controllarne la temperatura che per
dimostrare a suo figlio che era ottimo. Si vergognava un po’ ad imbrogliarlo in
quel modo, ma non era stata istruita per essere una brava casalinga o una
cuoca, perciò non poteva fare di più.
Doveva imparare a mostrare più polso: non riusciva nemmeno a rimproverarlo
quando combinava qualche pasticcio o non le ubbidiva; come avrebbe potuto?
Era il suo tesoro, l’unica cosa che nella vita aveva fatto davvero bene. E
senza usare la magia, a parte forse un piccolo aiuto fornito molto tempo prima
da un’ampolla di Amortentia...
Guardò teneramente il suo bambino, seduto su un seggiolone dalla lungimirante
età; teneva una manina stretta a pugno in bocca e continuava a fissarla con i
suoi grandi occhi scuri, troppo seri e profondi per la sua età.
Su quel visetto paffuto spiccavano le tracce del porridge che Eileen non era
riuscita a fargli mangiare.
Tanta fatica per preparare quel pasto e nessuna gratificazione! Tobias non se
ne sarebbe nemmeno accorto, era uscito di buon’ora per andare al lavoro
dimenticandosi perfino di fare colazione.
Il pensiero del marito le fece ritrovare la grinta: al diavolo la promessa di
adattarsi allo stile di vita babbano, aveva bisogno di trovare una soluzione!
- Severus, lo sai che i bambini cattivi, che non mangiano tutta la loro pappa,
non possono giocare con la scopetta volante? — Il piccolo smise di assaggiare
le proprie dita, rimanendo a bocca aperta, improvvisamente interessato dalle
parole della madre.
Il manico di scopa giocattolo che la strega aveva comprato appena qualche
giorno prima a Diagon Alley era appoggiato in un angolo della stanza; ad Eileen
non servì altro che un colpo di bacchetta per farlo Evanescere, sotto lo
sguardo spaventato del bimbo.
- È così, tesoro: come faresti a volare senza le energie per tenerti alla
scopa?
Non si era mai sentita tanto fiera di essere stata smistata a Serpeverde; in
realtà, la scopa non levitava a più di cinquanta centimetri dal pavimento, ma
per l’età di Severus era più che sufficiente.
Sapeva di aver trovato un ottimo argomento per convincerlo ad ubbidire, si era
innamorato di quel giocattolo non appena l’aveva scartato: come a dare ragione
ai pensieri della madre, il pargolo scoppiò in un pianto disperato.
- Sei blutta e cattiva, mamma... Non ti voglio più bene!
Eileen non sopportava di vederlo così, ma decise di tenere duro: già non aveva
alcun controllo sul marito, non sarebbe stato lo stesso per suo figlio.
- Severus, se tu mangiassi tutta la pappa, forse la mamma ricorderebbe
l’incantesimo per far riapparire la tua scopa.
Non servì aggiungere altro. Il bambino la guardò fisso ancora per un momento,
moderando i singhiozzi, poi con la velocità di un Bolide impazzito afferrò il
cucchiaino e vuotò la sua tazza.
La madre sorrise molto soddisfatta, ringraziando Merlino e Morgana che le
avevano donato la magia. Sapeva benissimo che, pur di non rinunciare al suo
divertimento preferito, Severus avrebbe fatto molto di più che mangiare un po’
di porridge dal pessimo gusto; probabilmente si sarebbe occupato di mettere in
ordine i giocattoli dopo averli usati, o magari avrebbe addirittura dormito con
le candele spente, da bravo maghetto coraggioso.
- Inito tutto! — Altro che finito, nella foga di non lasciare una sola goccia
di latte aveva rischiato di strozzarsi!
Eileen pulì il volto del suo cucciolo con un bavaglino su cui aveva
amorevolmente ricamato orsetti e arcobaleni, poi fece riapparire la scopa e gli
permise di scendere dal suo alto sgabello.
Guardandolo trotterellare in giardino, scoppiò a ridere: ora capiva come sua
madre fosse riuscita per tanti anni a seguire quelle maledette lezioni di
ballo.
Capitolo 3 *** Colazione - Colazione in Sala Grande (Ida59) ***
Genere: introspettivo, drammatico
Genere: introspettivo, drammatico
Personaggi: Piton
Era: Harry a Hogwarts
La prima colazione, dopo la Cruciatus notturna cui
Voldemort l’ha lungamente sottoposto, no, Severus non riesce proprio a
gradirla, ma l’affronta con orgoglio, il capo dolorosamente ritto in mezzo agli
studenti.
(Tratto da “Luci e ombre del cristallo – ovvero – La
Studentessa”: Cap. 8 – Natale a casa Malfoy)
Scrollò il capo
davanti al riflesso nello specchio: troppo pallido, troppe occhiaie, troppe
rughe incise sul volto stanco e scavato. Dimostrava almeno dieci anni di più
dei suoi quasi 36 anni.
Troppe Cruciatus, negli
ultimi mesi,per indispensabili
informazioni non rivelate e per torture non praticate con la pretesa crudeltà.
La Cruciatus di
Voldemortogni volta lasciava il
segno dolorosamente più a lungo[1], la
testa che scoppiava il mattino dopo in Sala Grande, mentre le grida degli
studenti si sovrapponevano, in fin dei conti perfino gradite, sebbene gli
trapassassero impietosamente il cranio, a ben altre urla che ancora gli
inchiodavano l’anima.
Così tornava lentamente a rivivere in quest’altra realtà
diurna, così meravigliosamente insignificante e monotona, anche se così a lungo
vituperata quando era ancora la sua unica realtà d’attesa. La rimpiangeva, ora
che danzava su quel filo sottile, tra la vita e la morte, il bene ed il male,
la luce e le tenebre.
Era sempre più penoso camminare orgogliosamente ritto in
mezzo ai tavoli vocianti, i muscoli ancora irrigiditi dal dolore, le ossa
brucianti e la pelle tesa fino al punto di lacerarsi. Ma non avrebbe mai
ceduto, mostrando loro il suo strazio. Anche sedersi era un tormento, quasi le
giunture delle ginocchia non funzionassero più dopo tutto quel tempo passato
alla impietosa mercé del suo odiato Signore d’un tempo.
Di mangiare, neppure se ne parlava, nonostante la gentile
insistenza di Minerva: lo stomaco si rifiutava recisamente, ancora orrendamente
contorto, e poi l’intestino non sarebbe stato in grado di svolgere il
necessario lavoro.
No, si limitava a sorbire solo un po’ di tè caldo, giusto
per ritrovare un po’ di tepore, riuscendo a fatica a dominare il lieve tremore
alle mani che ancora non lo voleva abbandonare.
Poi la nuova giornata di lezione, sempre tediosamente e
gradevolmente uguale alla precedente, ancora e sempre a leggere il sospetto
negli occhi degli allievi ed il forzato rispetto nello sguardo dei colleghi,
imposto ed ottenuto solo grazie all’autorità di Silente.
Quel mattino della vigilia di Natale avrebbe solo voluto
dormire ancora un poco, ma con l’agognato sonno arrivava il consueto tormento
degli incubi ed anche quella breve pace gli era negata.
Erano sei mesi, ormai, che mangiava poco e dormiva meno.
Maledizione, c’era un motivo più che valido se perdeva peso a vista d’occhio e
diventava sempre più pallido!
[1]Per onestà intellettuale devo
riconoscere che l’idea originale appartiene aduna splendida storia di Doc_Ste pubblicata sul Sotterraneo di Piton con
il titolo “Severus, uomo, professore, spia, mangiamorte…”. Poi le carissime
Niky e Alexia (Nykyo e Boll11 per i lettori di EFP) hanno di recente rinverdito
questo ricordo.
I suoi occhi nerissimi si
posarono su quel piccolo piatto e sulla profumatissima tavoletta nera che
spiccava tentatrice sulla porcellana finemente decorata.
-Cioccolata! –
Il viso del mago si contrasse in una smorfia disgustata: un sorriso
malinconico, il suo maledetto sorriso, era apparso
improvvisamente nella mente di Piton.
Remus Lupin, quello sciocco dispensatore di cioccolata, era tornato a Hogwarts
per tormentarlo, e per giunta era riuscito a strappargli il posto che agognava.
Si guardò intorno, la Sala Grande era deserta.
Fece un passo avanti, quel piccolo dolcetto era davvero invitante, perché non
approfittare?
Si chinò sul piatto e, con due dita, quasi con timore, staccò da un angolo un
minuscolo pezzetto di dolce e se lo portò lentamente alle labbra.
Era davvero deliziosa. Chiuse gli occhi, una sensazione di pace e di benessere lo
invase.
Possibile che uno come lui potesse ancora provare
piacere per qualcosa? Ne aveva ancora il diritto?
Si guardò la punta delle dita, erano sporche di cioccolata; le sue labbra si
piegarono appena in una smorfia, mentre si imponeva di resistere alla
tentazione di compiere il gesto banale di leccarsi le dita.
No, non sarebbe stato da lui, per Silente, per Lupin e per qualunque altro
uomo, sarebbe stata la cosa più naturale del mondo, ma non per Severus Piton. Sembrava quasi che, negandosi questi piccoli piaceri,
volesse in qualche modo impedirsi di vivere appieno.
Senza neanche pensarci si lasciò cadere sulla panca di legno dove, ogni giorno,
decine di studenti prendevano posto in attesa di
gustare l’ultima prelibatezza creata per loro dagli Elfi domestici. Si portò la
mano in tasca, non quella sporca di cioccolata che continuava a tenere col
palmo rivolto verso il proprio viso, contemplando le prove inequivocabili del
suo piccolo misfatto, ma l’altra, quella ancora pulita e “innocente”. Afferrò
tra pieghe del mantello una pergamena sgualcita, sulla quale brillava un
sigillo aperto di un rosso sgargiante. La srotolò stentatamente con una sola mano
per non sporcarla di dolciume, e restò a contemplare la scrittura minuta che la
riempiva completamente.
Quante inutili parole, pensò.
Silente, evidentemente, aveva sentito il bisogno di sprecarne parecchie per
giustificare la sua scelta. Forse credeva che un fiume d’inchiostro sarebbe
bastato a portarsi via la sua rabbia e la sua
delusione. Si sbagliava.
Le dita si strinsero rabbiosamente sul foglio.
Avrebbe potuto semplicemente parlargliene di persona, eppure aveva
scelto questo modo più distaccato: un filo continuo tracciato con una
grafia elegante, per spiegare perché, l’uomo che odiava, ora si trovava dietro
la cattedra che lui aveva sempre desiderato.
Meccanicamente la sua mano tornò sul piccolo piatto, un altro
pezzetto di cioccolata si spezzò tra le dita sottili.
“Hogwarts ha bisogno di te Severus”, gli aveva ripetuto fino alla nausea il
vecchio mago.
“Non possiamo rischiare che la maledizione possa allontanarti dalla scuola”.
Certo, lo sapeva, aveva giurato di fare tutto ciò che era in suo potere per
rendere Hogwarts un posto sicuro. Si era ritrovato persino a fare da angelo
custode a quel piccolo impiastro di Potter.
Si portò quella piccola briciola di piacere alle
labbra, quasi a voler contrastare, con il suo sapore dolce, l’amara delusione
che aveva provato.
I suoi occhi continuavano a muoversi lentamente seguendo il filo di quelle
parole, “Remus sarà un ottimo insegnante”.
La pergamena scricchiolò pericolosamente fra le dita del mago fin quasi a
strapparsi, mentre le sue pupille nerissime erano come risucchiate da quelle
frasi che ormai conosceva a memoria
“Sono certo che saprai lasciare da parte i vecchi rancori e accettare di
collaborare con lui”.
No, questa volta Silente si sbagliava, si sbagliava di
grosso. Aveva messo un lupo dentro una scuola, come poteva essere stato così
folle.
I denti stridettero in modo sgradevole, ma, immediatamente,
il dolcetto liberò il suo aroma dietro le labbra contratte del mago,
domando, almeno in parte, le fiamme della sua collera.
Severus allungò di nuovo il braccio sul piatto, questa volta con rabbia. Un
altro pezzo della profumata tavoletta cedette alla pressione delle sue dita con
un sonoro schiocco.
Scosse il capo: Silente stava commettendo un grosso errore, se ne sarebbe reso
conto molto presto, il vecchio pazzo doveva solo augurarsi che la sua
sconsideratezza non costasse delle vite.
- Severus! – Il mago bruno sussultò, la sua mano scivolò
nella tasca del mantello, nascondendo la pergamena agli occhi del nuovo
arrivato.
- Lupin! – grugnì gelido.
L’altro si avvicinò, fermandosi esattamente alle spalle di Piton. Il professore
di Pozioni era praticamente pietrificato sul suo sgabello, con la schiena
innaturalmente diritta, una mano in tasca stretta attorno alla lettera del
preside, e l’altra sul tavolo chiusa a pugno per
nascondere le macchie di cioccolata che imbrattavano allegramente i suoi
polpastrelli.
Lupin si sporse da sopra la spalla dell’altro fissando il poco di dolce che
restava nel piatto.
- Vedo che hai approfittato del mio spuntino Severus,
niente funziona meglio della cioccolata per riacquistare il buon umore, non
trovi? –
- Questo lo credono gli sciocchi. – gli angoli della
sua bocca si sollevarono lentamente a formare qualcosa che somigliava ad un
ghigno minaccioso, mentre gli occhi neri dardeggiarono in quelli grigi
dell’altro quasi a volerne forare le pupille.
- Tu, invece, non hai tardato molto a metterti a tuo agio qui dentro, vero
Lupin? – La sua voce era mortalmente bassa.
- Non dovresti lasciare le tue cose in giro, questa sala non è la tua cucina.-
Si alzò lentamente fronteggiando l’altro mago, - ora, se non ti dispiace… -
- Beh, sì, in effetti mi dispiace, mi dispiace questo
tuo atteggiamento. – Rispose Remus, incrociando le braccia in un atteggiamento
di sfida.
- Io mi preoccupo solo dell’incolumità dei ragazzi di questa scuola, ma questo
è un problema che non ti sei mai posto. –
- Credi che non mi stia a cuore il loro benessere? O ne fai una questione personale? -
- Quello che ti sta a cuore non mi riguarda affatto,
Lupin, ma se qualcuno perderà la vita a causa della tua sconsideratezza, non ti
basterà un po’ di cioccolata per dimenticare i tuoi problemi. –
- Tu ne sai qualcosa, non è così? –
Gli occhi del mago bruno scintillarono pericolosamente.
Lupin si morse il labbro, forse si era spinto troppo oltre, non voleva ferirlo.
Trattenne il fiato, mentre aspettava la reazione di Piton.
Per un attimo, ebbe l’impressione che l’aria si fosse
congelata intorno a loro come se fosse diventata solida. Il mago dai
capelli neri, abbassò la testa senza, però, distogliere lo sguardo dagli occhi
grigi del suo interlocutore, uno sguardo che faceva paura.
Lupin fece istintivamente un passo indietro: al di là di
quelle iridi scure aveva visto l’inferno.
- Sì, io lo so. – Disse, semplicemente l’altro, ma qualcosa nella sua voce fece
rabbrividire il nuovo Professore di difesa, mentre un pensiero agghiacciante
s’insinuava nel suo cervello: se James non l’avesse fermato, quell’inferno sarebbe stato anche il suo.
Lupin rimase muto a fissare il suo ex compagno di scuola che, voltandogli le
spalle, infilò rapidamente il grande portone della
sala.
Per un attimo il mantello si gonfiò come una vela tra le ante della porta per
poi sparire col suo proprietario lasciando l’altro mago a contemplare
pensieroso il corridoio deserto.
La colazione aveva lasciato un
buco nello stomaco di Severus Piton, anche perché non toccava cibo da giorni.
Nonostante tutte le cose deliziose che si potevano mangiare, per lui aveva
tutto un sapore aspro e stantio.
Non era il suo stomaco a stare a male, ma la sua mente e il suo cuore.
Ogni volta che Severus provava a mandare giù un boccone gli si bloccava in
gola.
Non riusciva a smettere di pensare a quante vite aveva tolto il piacere di
farlo e il rimorso di coscienza lo logorava, ma ciò non gli aveva mai tolto
l’appetito, però ultimamente il suo pensiero era uno solo: il ritorno del
Signore Oscuro.
Come si doveva comportare? Doveva distruggere la fede che Silente aveva riposto
in lui o rimanere al suo fianco?
Forse l'unica soluzione era restare a guardare lo svolgersi degli eventi e
prendere poi posizione.
Mentre la classe svolgeva il compito assegnatole, Severus rivolse il suo
sguardo stanco fuori.
Fuori... cosa stava succedendo lì fuori? Fuori dalle maestose e magiche mura di
Hogwarts?
In quel momento sentì una fitta... a volte pensava alla scuola come alla sua
casa. Un pensiero che ormai non gli capitava più di avere da molto tempo.
Il Torneo Tremaghi aveva, però, sconvolto il limbo nel quale viveva negli
ultimi anni, quell'Harry Potter... era tornato dal cimitero dei Riddle e aveva
dato una notizia per lui catastrofica,
Lord
Voldemort era tornato.
Certo i segni c'erano già da qualche tempo, ma ora ne aveva la certezza.
Severus aveva sempre pensato che il Signore Oscuro non sarebbe più tornato,
sarebbe rimasto per sempre un "parassita", ma le cose erano cambiate.
Un Mangiamorte resta per sempre un Mangiamorte, o muore.
Era una verità che lui conosceva bene, non voleva scappare per tutta la vita e
finire torturato o ucciso in modo crudele, come era capitato a molti genitori e
parenti dei ragazzi ai quali lui ora insegnava.
Era talmente immerso in questo turbinio di pensieri ed angosce che l'arrivo
dell'intervallo lo fece quasi sussultare.
Guardava quei ragazzini mangiare le loro merende di zucca e in quel momento li
invidiò, avrebbe voluto assaggiarne una (da ragazzino erano le sue preferite),
sentire il dolce profumo e il morbido pan di spagna, ma sapeva che non sarebbe
successo.
Forse era meglio prendere una decisione il più in fretta possibile, così magari
quel tormento sarebbe finito.
Severus però non si era accorto che, mentre pensava al cibo, Harry lo stava
fissando.
A Harry in quel momento sembrò che Piton stesse quasi "sbavando",
forse aveva molta fame? Solo allora, si rese ricordò che Piton non aveva fatto
colazione quella mattina… anzi, a dire il vero, erano parecchi giorni che
vedeva il suo piatto ancora pieno quando il Professore si alzava dal tavolo.
Per la prima volta Harry si preoccupò del suo insegnante.
Severus sentì lo sguardo di Harry entrargli dentro come se il ragazzo stesse
leggendo nella sua mente. Lo guardò negli occhi e per un istante si sentì quasi
a disagio.
Sbottò: "Potter non ti hanno insegnato che non si fissano le persone? Sei
proprio un insolente come tuo padre".
Harry si voltò furioso e prese a parlare con i suoi amici, era stato proprio
uno sciocco a preoccuparsi per quell'acido di Piton.
Severus era nervoso, quella sensazione di disagio la provava quando guardava
Silente negli occhi. Ma forse erano solo paranoie che insidiavano la sua mente,
forse era soltanto perché, in quei giorni, aveva un senso di colpa troppo
grande dentro di se, forse... forse.
Sapeva che molti lo avevano perdonato per il suo passato, ma non era quello il
suo tormento, era l'indecisione che in questi ultimi giorni provava, lo faceva
sentire sporco, come se la portasse scritta sulla fronte, e tutti lo guardavano
male, bisbigliando alle sue spalle.
La mente gioca brutti scherzi a volte, anche per uno bravo come lui a
padroneggiare i pensieri.
L'intervallo era finito.
Si ritornava alla lezione, forse spiegare un nuovo argomento ai ragazzi
l'avrebbe distratto da tutto: da Harry, da Silente, dal cibo e dal Signore
Oscuro.
Forse i suoi pensieri per quel giorno l'avrebbero lasciato in pace, così
all'ora di pranzo forse sarebbe risuscito a mandare giù un boccone.
Allora si rese conto che c'erano troppi "forse" e troppe incertezze,
era ora di decidere e mettere le cose in chiaro il prima possibile, non poteva
aspettare in silenzio che qualcosa ancora cambiasse. La lezione incominciò...
Il pranzo è iniziato ormai da un pezzo, ma il posto del
Professor Severus Piton è ancora vuoto.
Minerva scrolla appena la testa cercando lo sguardo azzurro
di Silente: il Preside si sta servendo un’abbondante razione di purea di
patate. I suoi occhi brillano interessati, pregustando il sapore della
traboccante cucchiaiata di cibo che si sta generosamente infilando in bocca: è
incredibile di quanto appetito sia ancora dotato alla sua veneranda età, pensa
l’insegnante di Trasfigurazione.
Finalmente Minerva riesce ad agganciare lo sguardo di
Silente e fargli notare che il posto del Professor Piton è, ancora una volta,
desolatamente vuoto: quel povero ragazzo finirà per morire di fame!
Per un breve attimo la luce azzurra degli occhi del Preside
s’incupisce e lui sospira appena, mentre deglutisce il saporito boccone:
Minerva ha ragione, quel ragazzo non si cura abbastanza di se stesso.
Un lieve cenno affermativo di Silente e la McGranitt si
alza, le labbra tirate ed il viso preoccupato, mentre si dirige ancora una
volta verso lo studio di Piton per sollecitarlo a venire a pranzare.
Minerva rabbrividisce appena quando l’aria umida del
sotterraneo penetra nelle fragili ossa e la sua ombra sottile si allunga sulle
vecchie pietre del corridoio.
Bussa discretamente alla pesante porta dello studio.
Nessuna risposta.
Ma la vecchia insegnante sa che Severus è nel suo studio:
glielo ha confermato lo sguardo limpido di Albus; nessuna pericolosa missione
per lui, in questo grigio e freddo sabato mattino.
La mano torna a bussare con più insistente decisione finché
la porta si apre da sola, girando piano sui cardini, con un sibilo acuto:
Severus è di spalle, chino su un calderone a rimestarne con attenzione il
contenuto.
- Severus! – sussurra la maga in tono di contenuta
esortazione.
Il mago si raddrizza piano e volge appena il capo verso di
lei, il viso pallido e scavato in parte coperto dai lunghi capelli neri.
Minerva fa il solito, lieve ma deciso cenno di richiamo: è
un rituale conosciuto, che si ripete ormai quasi ogni giorno.
Severus sbuffa appena, poi guarda con aria incerta il
calderone ed il liquido ribollente dal quale si sprigiona un esile filo di
fumo. Chissà se da quella pozione, dopo un lungo e minuzioso lavoro, potrà
emergere la salvezza per Silente?
Le fiamme per un attimo si riflettono nei suoi occhi neri e
profondi mentre rivolge nuovamente il viso verso la maga.
Il sorriso che Minerva gli rivolge cela come sempre un
piccolo rimprovero, ma, soprattutto, racchiude una tenera e materna
preoccupazione che lo mette ogni volta a disagio. Severus raddrizza le spalle e
serra le labbra sottili mentre solleva un poco il sopracciglio, simulando
un’infastidita indifferenza; quindi lancia un’occhiata alla vecchia pendola: si
è fatto veramente tardi, come ogni volta, e la vecchia maga è preoccupata per
lui, che non mangi abbastanza.
Se avesse solo quello di cui preoccuparsi, sarebbe un uomo
tranquillo e quasi felice.
Un sorriso amaro piega gli angoli delle labbra, mentre con
la bacchetta, obbediente e rassegnato, spegne il fuoco ed il bollore subito si
calma. Un’ultima occhiata alla sua pozione, quasi di desiderio, poi segue in
silenzio Minerva, nel frusciare elegante e discreto del suo lungo mantello
nero.
Quando ho ricevuto il suo invito, non ho neanche
pensato all'eventualità di non accettare. In verità me lo aspettavo, certe
abitudini non passano mai, neanche se tutto intorno a noi crolla e si
trasforma. Piccole cose a cui rimaniamo attaccati con
le unghie e con i denti, come per coltivare l'illusione che tutto sia rimasto
come prima.
Naturalmente anche questo non è del tutto vero: siamo contenti
quando le cose cambiano in meglio. E sicuramente è quello che è
successo; anche se non sono del tutto sicura di come
gli ultimi avvenimenti abbiano influito su Severus.
Sono entrata nel locale che mi ha indicato nella lettera, e mi sono seduta ad
aspettarlo. Non ho neanche risposto al suo invito, non ce n'era
bisogno: lui sa meglio di me che mi sarei presentata. E' un ristorante del tipo
che piace a lui, in stile "vecchia Inghilterra"; molto affascinante
con gli inserti di legno, gli alti sgabelli e i barili vuoti. Sfoglio il menu
distrattamente, indovinando quale sceglierà fra i piatti proposti: agnello
arrosto con salsa di menta.
Alzo lo sguardo dal menu proprio mentre lui sta
entrando. Non è cambiato, fatta eccezione per i capelli più lunghi e una
sottile cicatrice sulla fronte: l'unica che non è riuscito a
eliminare dopo essere stato colpito da quell'ippogrifo.
Mi alzo per accoglierlo, e gli vado incontro di qualche passo. Mi stringe le
mani e mi saluta con due baci sulle guance, come sempre.
- Ciao, Severus.
- Ciao. Come stai?
- Bene, grazie. E tu?
Mi fa un cenno affermativo con la testa, mentre sulle labbra si disegna un
sorriso triste. Mi siedo di nuovo, imitata da lui, che apre il menu, senza
accennare a parlare di nuovo. Sorrido, leggermente divertita. Le cose cambiano,
ma alcune cambiano meno di altre. Il mondo magico può
affrontare i più grandi stravolgimenti, essere quasi schiacciato da un pazzo di
cui nessuno pronuncia il nome, e vincere grazie
all'audacia di un ragazzino; e io, anno dopo anno, mi troverò sempre a pranzo
con Severus in un locale come questo; ad aspettare il cameriere mentre lui
fissa il menu in silenzio.
Ma forse, le altre volte questo velo di imbarazzo non c'era. E' normale che ci
sia: l'ultima volta che ci siamo visti, Voldemort era ancora vivo, lui faceva
ancora la spia e non aveva ancora ucciso Silente. Gli avvenimenti dei mesi
successivi sono tanti, e troppo pesanti per evitare
che l'imbarazzo si sieda come un commensale sgradito al nostro tavolo. Anche
se, da un mese a questa parte, il mondo magico (e non solo...) è molto più leggero.
- Ma guarda...
alza appena lo sguardo dal menu ingiallito e mi scocca uno sguardo
interrogativo.
- Chi avrebbe mai detto che un giorno avresti avuto un particolare in comune
con Harry Potter?
Per un attimo pare non capire, poi si tocca la cicatrice sulla fronte e
sogghigna. Per breve istante, nello sguardo divertito che mi lancia e in quel
lampo di arguzia che vi traspare, vedo qualcosa del
vecchio Severus. Del Severus ragazzino, che mi prendeva in giro
quando sbagliavo catastroficamente una pozione e che rideva alle mie
battute.
Il cameriere arriva a interrompere il flusso dei miei ricordi.
- Io prendo agnello arrosto con salsa di menta, grazie.
Sorrido; certe cose non cambiano.
- Per me lo stesso, grazie.
Chiude il menu e lo consegna al cameriere. Adesso ho tutta la sua attenzione. Ma è lui il primo a parlare.
- Allora, che hai fatto in questi dieci mesi?
Dieci mesi? E' passato così tanto? Mi sembra passato
al massimo un mese, da quando entrò in quel vecchio
pub, bagnato fradicio per l'acqua che veniva giù a catinelle, e l'ombra di un
peso enorme sulle spalle.
Adesso quell'ombra sembra non averla più; ma in
quella piccola ruga sotto l'occhio e in quella cicatrice sulla fronte ci leggo
amarezza che gli si è incollata addosso, per far parte di lui per sempre.
- Niente di particolare, le solite cose. Sono andata avanti
col mio lavoro, ho visto i miei amici... Niente di che, davvero.
Per un attimo mi viene da aggiungere "e tu?", ma mi fermo appena in
tempo. So bene cosa ha fatto lui in questi dieci mesi, non c'è mago o strega
che non lo sappia. I giornali hanno parlato
approfonditamente di come la sua condizione sia cambiata rapidamente; da
assassino odiato da tutti a eroe del mondo magico. Non
che questo gli possa rendere quello che ha perso.
- Immagino che non ci sia bisogno di raccontarti quello che ho fatto io,
invece. Avrai letto tutto sui giornali...
Mi guarda inarcando il sopracciglio, mentre il
cameriere di prima ci porta i piatti fumanti. Severus continua a guardarmi,
mentre spiega il tovagliolo e se lo sistema con cura sulle gambe. So quale
risposta vuole da me. Vuole che gli dica che ho letto
tutto e so già tutto, che capisca che, se voglio fargli qualche domanda, non è
questo il momento adatto, perchè lui non ha voglia di parlarne. Lo accontento.
- Si, Severus. Ho letto tutto quello che ti è successo in questi mesi.
- Non ne avevo dubbi. Non è mai stato da te perderti
qualche pettegolezzo, l'occasione di indagare nella vita degli altri;
soprattutto la mia.
- Beh, non è certo colpa mia se venivi a piangere tutte le tue lacrime sulla
mia spalla perchè Lily Evans non voleva
saperne!
Mi lancia il tovagliolo, sempre sorridendo, e io rido:
un altro sprazzo del vecchio Severus, prima che torni a concentrarsi sul cibo.
L'agnello è ottimo, e capisco perfettamente perchè Severus se lo stia godendo
in silenzio. E' sempre stato un amante dei piatti raffinati: filetto al pepe
verde, salmone affumicato, risotto allo champagne.
Ha sempre mostrato un gusto particolare nella scelta e nell'apprezzamento dei
diversi piatti; fin da quando cenavamo insieme al tavolo dei Serpeverde.
Anche io mi gusto la carne, cotta al punto giusto, ma ancora rossa al centro.
Ricordo che una volta, anni fa, davanti a un piatto
fumante di stufato alla Guinness, mi spiegò che amare
la cucina per lui, era come amare la vita. "Il cibo viene
associato, inconsciamente al nostro modo di rapportarci alla vita. Se una persona non ama il cibo, disprezzerà la vita
stessa".
Quante volte ho ripensato a queste parole, negli anni a seguire! Quanta
speranza hai dovuto avere, Severus? Quante volte avrai
dovuto ricercare dentro di te questo amore per la
vita, perchè ti desse la forza per continuare a fare tutto quello che stavi
facendo?
Per un po' non parliamo, godiamo il cibo in silenzio. Severus sembra rilassato,
non più nervoso come negli incontri precedenti.
Severus finisce il pranzo con un bicchiere di Whisky di malto scozzese, come
sempre. Per me, invece, un espresso all'italiana. Quando ci portano le ordinazioni, una smorfia di
disgusto gli si dipinge sul volto.
- Quella roba è disgustosa. Come diavolo fai a berla?
Sorrido, mescolando lo zucchero di canna nella tazzina.
- Lo sai che mi piace l'espresso.
- Noi inglesi siamo bravissimi a preparare molte cose, ma di certo non
l'espresso.
- Vorrà dire che prima o poi andrò a berlo direttamente in Italia.
- Intanto, pensa a stasera.
Lo guardo
- Che c'è stasera?
Sembra quasi imbarazzato. Tiene lo sguardo fisso sul bicchiere, che fa
dondolare leggermente, facendo oscillare il liquido ambrato al suo interno.
- Alla RoyalAlbert Hall
suonano il Requiem di Mozart... Ti
andrebbe di venirci con me?
Abbasso lo sguardo sulla tovaglia, continuando a mescolare lo zucchero che
ormai sarà più che sciolto.
- Perchè no?
Severus sorseggia il
suo tè sforzandosi di trovarlo gradevole.
Quel caldo liquido ambrato, in realtà, lo disgusta.
Minerva ci ha messo troppo zucchero.
Quando con un tono che non ammetteva repliche, gli ha ordinato di fare una
pausa dal suo lavoro le ha visto agitare la bacchetta e far fluttuare verso di
loro un vassoio con una teiera fumante, due tazze e un piatto ricolmo di shortbread.
Non contenta della sua totale inerzia e della sua ostinata intenzione di non
alzare lo sguardo dai volumi che stava consultando, l’ha vista afferrare con
gesto secco un esile cucchiaino d’argento e affondarlo nella zuccheriera.
Ben quattro cucchiaini colmi su cui aveva versato l’ Earl Grey.
Non ama quel tè.
Sembra amaro, ma in realtà quel retrogusto di bergamotto gli lascia sulla
lingua e nella gola un sapore dolciastro.
E’ un tè indeciso.
Oltretutto è smielato e lui di solito lo prende amaro.
E preferisce il robusto Irish Breakfast.
Dunque sorseggia l’ Earl cercando di mascherare la repulsione dietro la
porcellana candida della tazza, ascoltando con poco interesse la vecchia maga.
E’ sempre così preoccupata.
Ha notato che ha saltato il pranzo e anche la colazione ed ha voluto accertarsi
che il suo corpo scarno ingerisse qualcosa.
Per questo, crede, gli tende un biscotto con cipiglio severo, la sottile linea
della bocca piegata in una smorfia decisa.
Severus odia gli shortbread.
Sono talmente pieni di burro che un boccone potrebbe saziare l’intera Hogwarts.
“No, grazie Minerva.”
Lei non fa una piega.
Continua a tendergli quel biscotto senza battere ciglio.
Se Severus non leggesse nei suoi occhi quello che smentisce la bocca, le
avrebbe già intimato di togliersi dai piedi.
Non sa perché, ma Minerva gli vuole bene.
Quella vecchia strega gli vuole bene.
Afferra il biscotto con poco garbo.
Glielo strappa dalle mani e lo avvicina alla bocca.
Prima di addentarlo rimane un secondo a fissarla considerando se lasciar
emergere la sua vena caustica o cedere alle sue premure.
Si limita a sibilare:
“Non è con tutto questo zucchero che puoi addolcirmi, Minerva, ma forse riesci
ad uccidermi.”
E risoluto affonda i denti nella frolla.
Ha gli occhi chiusi ed il viso pallido e stanco, solcato da
rughe profonde che ne intagliano le linee spigolose, precocemente invecchiato
da strazianti rimorsi, profonde preoccupazioni ed un’eccessiva magrezza.
Il respiro è leggero, ma ogni tanto un lieve tremito gli
percorre il petto e distorce dolorosamente i suoi lineamenti; non sta dormendo,
non sono incubi, quelli: sono solo i suoi dannati ricordi, il passato che gli
impedisce di vivere il presente e sognare un futuro, le colpe maledette di un
giovane ingenuo cui un uomo non sa mettere riparo, non sa perdonare.
Abbandonato sulle sue gambe vi è un voluminoso libro di
pozioni: antichi veleni e filtri fatali il cui ricordo
si è spento nella notte dei tempi; macabre illustrazioni annunciano l’effetto
del liquido letale.
Colui che crede d’essere ancora il suo
Padrone pretende da lui un nuovo veleno, dai micidiali e dolorosi effetti.
Sa bene su quale terribile filtro dovrebbe cadere la sua
scelta, eppure non ha la forza di girare quella pagina, di scorrere quelle
mortali istruzioni.
Sospira piano mentre si morde le labbra in un accesso
d’inutile ira: è tutta colpa sua, solo sua e niente e nessuno può aiutarlo, né
può alleviare le sue pene.
Neppure Silente.
Lo sa, lo sa perfettamente che il vecchio Preside è lì, da
alcuni interminabili istanti, a fissarlo dalle fiamme del camino, il volto
impertinente a sorridergli dietro alle lenti a mezzaluna.
Silente l’ha perdonato e sa sorridergli: gli darebbe anche
una paterna pacca sulla spalla se solo lui sapesse permetterglielo.
La vorrebbe, quella benevola manata, ha
un dannato bisogno dell’abbraccio di quell’uomo che
ama come il padre che non ha mai avuto: ma sa anche che
non glielo permetterà mai, perché mai vorrà e potrà concedersi quella piccola
consolazione, quel minimo infinitesimale perdono di cui ha bisogno più
dell’aria che respira e del cibo che non riesce neppure più a trangugiare.
No, le urla strazianti delle sue vittime esploderebbero
dentro la sua testa e le loro mani scheletriche allontanerebbero il vecchio da
lui, ricordandogli ancora e per sempre che non ha diritto ad alcun perdono, ad
alcuna consolazione
E’ per questo che Severus finge di non vederlo e
tiene gli occhi serrati stretti.
Intanto, non ha per nulla fame, neppure un po’.
Ma il crepitio delle fiamme si fa
infine fastidioso ed il sorriso di Silente è troppo intensamente luminoso per
continuare ad ignorarlo: lo vede, anche con gli occhi chiusi, sente il suo
sguardo affettuoso su di sé e questo, anche contro la sua stessa volontà, gli
da consolazione e forza per continuare ad andare avanti.
Severus sospira profondamente e riapre gli occhi, fissandoli
sulla vecchia pergamena del pesante libro che tiene fra le mani: non girerà
quella pagina, non in questa sera e, forse, potrebbe anche riuscire a trovare
un antidoto. Non laverà le sue colpe passate ma potrebbe
aiutarlo ad evitare nuovi rimorsi.
Con uno scatto deciso chiude il libro e rialza lo sguardo,
nero e impenetrabile come sempre.
E’ tardissimo e in Sala Grande la cena è quasi finita: sa
bene perché il volto di Silente gli sorride impaziente tra le fiamme.
Ha capito, lo sa benissimo che il vecchio ha capito quale
straziante morte contiene quell’antico libro: glielo
ha letto nell’ombra cupa che per un breve istante ha appannato il suo sorriso.
E lui non ha fame, no, per nulla: ha
solo una grande e irrefrenabile nausea, una mano che gli stringe con violenza
la bocca dello stomaco. Cercare di cacciar giù qualcosa, per far contento il
vecchio, gli costerà uno sforzo immenso.
Ma lo farà, come sempre.
Ora, però, deve alzarsi, subito: deve impedirgli di parlare,
non deve permettergli di condividere le sue colpe, di rendere più leggero il
suo fardello.
Non sarebbe giusto, anche se in questo momento sente di
averne un infinito bisogno.
Appoggia il libro mortale sul ripiano e si alza mormorando
stizzito:
- Va bene, Albus, va bene: ora
arrivo! Stai mandando in giro scintille dappertutto: se non la
pianti finirai per dar fuoco al tappeto! –
Ma non mi sorridere, ti prego, non lo
fare: perché non lo merito, non merito nulla di tutto ciò che tu mi hai dato
fino ad ora e che ancora mi darai.
- Ma non pensare che intenda
abbuffarmi come fai tu! –
L’ultimo sorriso mentre il volto di Silente scompare dalle
fiamme.
Ora è solo e finalmente può lasciarsi andare: non sa più
sorridere al suo riflesso nello specchio, perché vede solo un assassino.
Ma al camino, sì, al camino vuoto ha
finalmente imparato a sorridere.
All’ombra impalpabile di un padre, all’uomo che ha saputo
riportalo alla vita: sì, a lui ha imparato a sorridere.
Anche se Albus non dovrà mai saperlo.
S’incammina nella tenue oscurità del sotterraneo,
preparandosi mentalmente alla luce, al calore ed al rumore che lo accoglieranno in Sala Grande.
Ed al cibo che dovrà mangiare, per
continuare a vivere, perché Silente vuole così; perché dice che, anche per un
assassino come lui, esiste ancora un futuro.
Hermione
Granger bussò alla pesante porta di quercia borchiata, fissandosi i piedi.
Merlino! Lei in punizione: che onta tremenda e incancellabile!
Che macchia insopportabile sul suo curriculum scolastico.
Ne aveva avuti di brutti incubi in cui i peggiori voti della storia di Hogwarts
le venivano incontro beffardi e ghignanti, minacciando di annidarsi nei
risultati dei suoi G.U.F.O., ma erano solo sogni molesti.
Il Professor Piton invece era vero, temibile e caustico ed era stato di poche
parole, ma decise - Granger, è l'ultima volta che suggerisci a Paciock contro
ogni mio esplicito divieto. In punizione nel mio studio alle 20:00 in punto! -
In punizione con Piton: disonorevole e raccapricciante.
Chissà che orribile e sadica trovata aveva in serbo per lei il Maestro di
Pozioni.
La porta girò sui cardini da sola ed il vano a sesto acuto incorniciò la figura
tanto temuta del docente.
Ma non era seduto alla sua scrivania, con aria truce, come Hermione si era
aspettata.
Stava in piedi e teneva in mano una specie di scatolone di legno, carico di
pacchi e boccette.
Lo porse all'allieva, sollevando appena un sopracciglio - Lo porterai tu,
Signorina "Suggeriscoio" - soggiunse - Ci trasferiamo in classe. -
Non aggiunse altro, né una risposta al saluto d'ordinanza della ragazzina, né
una qualsiasi altra sillaba.
Semplicemente uscì, col suo solito passo svelto che gli gonfiava il mantello
alle spalle come una vela, e la precedette lungo il corridoio freddo e male
illuminato.
Da dietro una colonna, che evidentemente delimitava l'ingresso segreto alla
Sala Comune di Serpeverde, fecero capolino tre facce divertite e ridenti: Draco
Malfoy e gli immancabili Tiger e Goyle.
Sghignazzarono qualche frasetta di scherno all'indirizzo di Hermione che, data
la situazione, non potè replicare, ma li guardò con la minaccia di una futura
vendetta nelle indignate iridi castane.
Merlino, Merlino, che vergogna! In punizione. Le veniva quasi da piangere.
Piton, dal canto suo finse di ignorare che quei tre non avrebbero mai dovuto
ficcare anche solo il naso fuori dalla loro Sala a quell'ora.
Ma, quando la Granger chinò il capo per non mostrar loro che aveva gli occhi
lucidi, ne approfitto per fargli segno di sparire.
Poi si fermò sulla porta dell'aula e lasciò che l'allieva la varcasse per
prima.
- Metti tutto sul primo bancone e inizia ad accendere il fuoco, mentre prendo
il calderone che ti servirà per preparare la pozione di stasera - ordinò.
Hermione, ovviamente, si affrettò ad eseguire.
Ma era anche curiosa.
La sua punizione consisteva nel preparare un filtro? Che tipo di distillato
sarebbe stato?
Da un lato c'era il suo animo di studentessa curiosa e assetata di sapere che
la pungolava: forse non sarebbe stato poi così male, magari avrebbe imparato
qualcosa di nuovo e interessante.
Le sarebbe piaciuto conoscere una pozione che nessun altro studente del suo
anno aveva ancora padroneggiato.
In questo Hermione sarebbe stata una perfetta Serpeverde: non le mancava
l'ambizione.
Però, c'era anche una parte di lei che era letteralmente terrorizzata.
Se il Professor Piton aveva deciso di farle preparare un elisir di qualche
tipo, si poteva star certi che doveva essere un preparato difficilissimo e
probabilmente sgradevole.
Magari gli ingredienti si sarebbero rivelati pungenti, schifosi, urticanti.
Non riuscire a eseguire il compito l'avrebbe fatta sentire ancora più sciocca e
umiliata e poi, forse, sarebbe andata via dall'aula sconfitta, stanca morta e
con le mani (o peggio la faccia) piagata da ustioni o vesciche.
Certo, sarebbe andata così, perchè il Professore odiava i Grifondoro e
detestava Harry, nonchè lei e Ron di riflesso.
Beh, non solo di riflesso... A dirla tutta, loro tre l'avevano spesso e
volentieri trattato in maniera irrispettosa, avevano messo in dubbio la sua
lealtà al Preside Silente, l'avevano accusato di mille nefandezze.
Ma comunque...
- Signorina Granger! Ti ho forse concesso di imbambolarti come se ti avessero
pietrificata? Tira fuori gli ingredienti, SUBITO! Al lavoro. Questa è una
punizione, non un tour guidato dei sotterranei! -
Hermione si riscosse, arrossendo fino alla radice dei capelli.
- Mi scusi... Professore... - balbettò e iniziò a fare come le era stato detto.
Con la coda dell'occhio, però, scoccò un'occhiata curiosa al docente che ora
teneva tra le mani uno stravagante calderone di un metallo indefinibile (forse
argento?) e di grandi dimensioni.
Non enorme, ma di gran lunga più basso, tondeggiante e largo di quelli di
peltro che usavano solitamente a lezione.
Questo era nuovo, lucidissimo, tanto che ci si poteva specchiare sulla sua
superficie concava priva di qualunque decorazione.
Hermione non ne aveva mai visto uno simile, ma le ricordava vagamente qualcosa.
Però non ebbe il tempo di domandarsi cosa.
Piton aveva depositato con delicatezza il calderone sul fuoco (che Hermione
nemmeno ricordava di aver effettivamente acceso, persa come era stata nei
propri pensieri) e ora la fissava, a braccia conserte, con quelle paurose iridi
nere imperscrutabili.
- Devo ripetermi? – sibilò minaccioso e la ragazza scosse il capo, iniziando a
togliere i vari ingredienti dalla scatola, con dita lievemente tremanti.
Lui la lasciò fare, rimanendo in silenzio, con aria cupa e per nulla
accomodante.
Hermione svolse ogni pacchetto ed aprì i barattoli.
Erano ingredienti ben strani.
C’era una specie di tubero che non aveva alcun odore particolare, ed
assomigliava vagamente ad una cipolla.
Poi varie polveri dagli aromi pungenti e strani, ma non sgradevoli e tutte dai
colori vivaci.
Una era rossa e un’atra pareva zolfo tanto era gialla. Ce n’era una terza che
sembrava composta da minuscoli cristalli opachi.
Ma nessuna delle tre le causò spiacevoli reazioni cutanee.
Non bruciavano, non pizzicavano, non erano in alcun modo irritanti.
E poi c’erano degli strani funghi scuri e piatti, anche quelli senza alcun
particolare profumo o metifica puzza.
Ed anche una strana pianta, immersa in un liquido chiaro, dentro un barattolo
di vetro trasparente. Era bianca come se non avesse mai visto né luce né linfa
e a Hermione fece un po’ senso.
Infine, l’unica cosa davvero disgustosa: carne cruda tagliata in viscide fette
sottili e larghe, dalla consistenza molliccia e non meno bianchiccia del
vegetale di poco prima.
Senza riuscire a trattenersi dallo storcere il naso, Hermione si disse che
doveva essere rospo.
Neville avrebbe vomitato.
Anche lei fu sul punto di farlo perché le parve che quell’ingrediente fosse
stato scelto per farsi beffa di lei e lanciarle un chiaro presagio: aiutava
sempre Neville, anche se non doveva? Bene, alla prossima occasione sarebbe
stato Oscar l’ingrediente smembrato da maneggiare durante la punizione.
La Granger non era mai stata poi tanto convinta che Piton fosse cattivo nel
modo che Harry riteneva, cioè che fosse fedele a Voldemort, ma lo considerava
capacissimo di giocare a lei o a Neville un simile tiro.
Le venne perfino il dubbio raccapricciante che l’avesse già fatto.
- Non è il rospo di quell’impiastro di Paciock, sta tranquilla – disse d’un
tratto Piton, come se le avesse appena letto nella mente.
- Ma poteva esserlo… - aggiunse, perfidamente mellifluo, mentre lei deglutiva a
vuoto.
Poi le mise tra le mani, ancora un po’ tremolanti, un rotolo di pergamena.
- Segui le istruzioni, io starò a guardare – concluse laconico e sedette sul
bordo della cattedra, sempre con le braccia incrociate sul petto, a osservarla
lavorare.
Hermione strabuzzo gli occhi e si morse un labbro: un elenco di nomi più strani
e misteriosi non l’aveva mai visto.
Lance di drago? Polvere degli Dei?
Cosa mai voleva farle preparare il Professor Piton? Era forse una pozione
oscura e proibita? E poi che ne avrebbe fatto? L’avrebbe testata su di lei? Con
quali tremendi effetti?
Rabbrividì, ma strinse i denti; con Piton non c’era da discutere, doveva
scontare la sua punizione e basta.
Si mise all’opera e sebbene le istruzioni le suonassero particolarmente
stravaganti decise che sarebbe riuscita al primo tentativo.
Non voleva trovarsi davanti un Professor Piton ancora più irritato e irridente,
non intendeva passare tutta la notte in quell’aula gelida e umida e poi ne
andava del suo onore.
Bastava l’onta della punizione, senza aggiungerci anche un fiasco solenne.
Di certo alla fine Piton non l’avrebbe lodata, ma comunque avrebbe saputo che
Hermione Granger quando si mette in testa una cosa la fa presto e bene.
Lavorò sodo e alacremente, cercando di scordarsi curiosità e disgusto che
potevano ostacolarla, tanto il Professore non avrebbe avuto pietà né risposto
alle sue domande.
Infine, sudata e stanca, ma in cuor suo soddisfatta, ascoltò le parole in cui
tanto aveva sperato – Bene, la pozione è pronta, puoi smettere di mescolare,
Granger, abbiamo finito –
A quel punto si aspettava che lui le dicesse per cosa aveva faticato tanto,
sbucciandosi un paio di dita col coltello d’argento, ritrovandosi con gli occhi
lucidi senza sapere bene il perché e inondandosi di vapore che le aveva reso
ancor più crespi i capelli castani.
Per altro, se doveva fare da cavia almeno voleva scoprire per cosa.
Ma Piton la stupì – Ora puoi andare. Immediatamente nel tuo dormitorio. Adesso!
E bada di non fare nessuna delle deviazioni tanto care al tuo amico Potter! –
- Ma… Ma… - balbettò shockata.
Ancora una volta lui parve leggerle la mente.
- E’ questa la punizione perfetta per un’impicciona come te: non intendo dirti
cosa hai appena distillato. La curiosità sarà un’ottima compagna con cui
dividere la notte. E ora, fuori di qui! -
Hermione dovette dargli ragione: sarebbe morta di curiosità, ci avrebbe pensato
e ripensato girandosi nel letto, senza pace fino all’indomani mattina, quando
avrebbe potuto scaraventarsi direttamente dalle lenzuola agli scaffali della
biblioteca per cercare di risalire alla pozione dal nome degli ingredienti che
la componevano.
Tanto li rammentava a memoria, sarebbe stato impossibile scordarli.
Filò via rapida, prima che Piton potesse peggiorare la situazione, levando per
sopramercato una cinquantina di punti a Grifondoro, e lo lasciò solo nell’aula
tetra.
Severus attese qualche istante, poi sfoderò la un lungo legno sottile.
Ma non era la sua bacchetta: terminava in una propaggine tondeggiante.
Era un mestolo da cucina.
Si avvicinò lentamente al curioso calderone, quasi sovrapensiero, inalando a
pieni polmoni i vapori che ancora ne fuoriuscivano.
Le sue narici gli rammentarono la propria disattenzione.
- Ma certo, che sciocco, avevo incantato gli odori perché quella piccola
impudente cadesse nello scherzo e non si accorgesse di niente – mormorò tra sé
e sé e questa volta impugnò davvero la bacchetta.
La puntò prima sulla porta, sigillandola, e poi sul paiolo, pronunciando
silenziose parole che nessun altro potè udire, finchè gli aromi che aveva
pregustato non si spanserò per la stanza.
Infine si sedette sul bancone che tante volte aveva ripulito dai disastri degli
alunni e sorrise beffardo, intingendo il mestolo nel delizioso piatto di pollo
al curry con funghi e bambù che un’inconsapevole Hermione Granger aveva appena
cucinato per lui.
Ed era anche una brava cuoca, la piccola strega, constatò assaggiando in punta
di cucchiaio.
Sale al punto giusto, curry quanto piaceva a lui e quel pizzichino di paprica
che poteva donargli il briciolo di calore che tanto raramente si concedeva.
Non amava i piatti elaborati di solito, ma andava matto per quel particolare
manicaretto babbano, tanto che s’era procurato tempo addietro una pentola di
quelle che i Babbani chiamavano Wok.
La migliore per cucinare la pietanza che ora intendeva gustarsi con tutta la
calma concessa dalla solitudine.
E fra tante occasioni in cui s’era lasciato tentare da quel cibo esotico,
questa sarebbe stata la volta in cui più l’avrebbe trovato gustoso, perché il
miglior condimento era la consapevolezza che Hermione Granger nei giorni
successivi sarebbe diventata matta a scartabellare libri nell’infruttuosa
ricerca di ingredienti assolutamente inesistenti.
Ma non rise, perché non gli sarebbe parso dignitoso morire soffocato da un
intingolo orientale, per quanto cucinato nel migliore dei modi.
La neve
cadeva da giorni su Kensington Road, nella periferia di Salisbury.
Alle volte
minuscole briciole d’argento turbinavano nella rapida ed agile danza del vento;
talvolta, invece, i fiocchi si facevano più grandi e compatti mentre la loro
discesa diveniva lenta e monotona.
La guerra
era cessata da tre anni soltanto ed i maghi portavano i segni, esteriori ma
soprattutto interiori, di tutto quel sangue e dolore.
Le casette
vittoriane di Kensington Road, però, immerse in quella coltre ovattata,
parevano un’oasi di tranquillità, un piccolo angolo di paradiso, come se mai
fosse stato sfiorato dagli orrori perpetrati da Lord Voldemort e dai suoi
fedeli Mangiamorte.
I bambini
giocavano a palle di neve e costruivano felici i pupazzi nel giardino di casa,
mentre gli adulti vegliavano su di loro attraverso le finestre.
Un’anziana
signora, infagottata sotto un pesante pastrano blu, passeggiava per la via,
guardando gli alberi spogli di foglie ma coperti di neve, così come la strada
ed i tetti.
Osservando
da lontano quel pacifico quadretto, nessuno avrebbe potuto immaginare ciò
ch’era successo.
Anche a
Kensington Road, però, molte famiglie erano state barbaramente spezzate e tanti
di quei bimbi che giocavano con la neve erano rimasti orfani di padre, di madre
o di entrambi i genitori e vivevano presso i nonni o altri parenti
sopravvissuti alla strage.
Severus
s’avvicinò alla vetrata del salotto e scrutò il cielo, seguendo con lo sguardo
il cadenzato ondeggiare dei fiocchi, immerso nei suoi pensieri.
Aveva
lasciato Spinner’s End definitivamente quattro anni prima, dopo il matrimonio
con Alice Rivens e la nascita di Markus, il loro bambino.
Si voltò a
guardarlo. Colpito da una lieve infreddatura, il piccolo era stato costretto a
rimanere a casa e giocava con due pupazzetti, accovacciato accanto al fuoco sul
tappeto rosso, il preferito della madre.
-Papà.-
disse infine, avvicinandosi all’uomo -Ma tu e la mamma come vi siete
innamorati?
Severus si
sedette su una poltrona di chintz rossa e lo prese in braccio.
-E’ una
lunga storia, piccolo mio.- mormorò accarezzandolo dolcemente sul capo -Ma te
la racconterò.
***
Era il
primo settembre 1971.
Le
matricole, timide ed un po’ spaurite, seguirono una giovane Minerva Mc Granitt
attraverso le imponenti porte della Sala Grande.
Era il loro
giorno, quello in cui avrebbero scoperto in quale nobile Casa sarebbero state
accolte.
Severus
stava abbacchiato in un angolo e sembrava volersi estraniare da tutta quella
situazione: -Intanto mi sbatteranno subito fuori, perché dovrebbero volere un
buono a nulla come me?- si disse, fissandosi in silenzio la punta delle scarpe.
Il Cappello
Parlante intonò la sua canzone ad un cenno della docente e, una volta ch’esso
ebbe terminato, la donna lo prese tra le mani e l’appoggiò sul capo della
piccola Erika Abbot, per poi cominciare a chiamare, in ordine alfabetico, tutti
gli altri ragazzini.
-Piton.-
disse ad un tratto –Severus Piton, è il tuo turno.
Il giovane
marciò lentamente verso l’insegnante, gli occhi fissi a terra, attendendo
pazientemente la sua sorte.
-Mmm… -
fece il Cappello- Grande talento, ottime doti…
-Ma non
farmi ridere.- gli rispose laconico Severus.
-Tu puoi
diventare qualcuno, ma ricorda che questo implica grandi responsabilità. Prendi
bene le tue decisioni o te ne pentirai… in eterno… Serpeverde!
Un boato di
grida e applausi si scatenò dal tavolo ornato di verde ed argento e centinaia
di ragazzi lanciarono in aria i loro berretti in onore del nuovo compagno.
Una volta
tornato il silenzio, Minerva scorse il dito sulla pergamena dei nuovi iscritti
e lesse il nome successivo: -Rivens, Alice.
Fu allora
che Severus la vide per la prima volta.
Era una
ragazza alta e snella dalla bellezza acerba dell’adolescenza e profumava di
buono, di sapone e fiori di campo.
I capelli
castani le ondeggiavano dolcemente sulle spalle, mentre avanzava verso la Mc Granitt.
Quando
incrociò lo sguardo di Severus abbozzò un timido sorriso e le sue guance si
tinsero d’una tenue sfumatura di rosso, mentre il ragazzo scrutava i suoi occhi
di diamante, ammaliato dal loro scintillio.
-Com’è
bella… - pensò, raggiungendo il tavolo di Serpeverde –Sembra una principessa
delle favole…
Entrambi,
in quel magico istante, espressero il desiderio di riuscire a conoscersi, ma la
timidezza, cattiva consigliera di entrambi, fece sì che non si scambiarono mai
nemmeno un saluto fugace.
***
Il sole
scintillava sui vicoli di Hogsmeade.
La
primavera era arrivata da un pezzo e le piccole aiuole di cui il borgo era
pieno traboccavano di primule, violette, candide margherite, rossi papaveri,
giunchiglie odorose e splendide orchidee, dai colori accesi e brillanti.
I ragazzi,
in gita con la scuola, passeggiavano a coppie o gruppetti e formavano chiassosi
capannelli davanti alle vetrine dei negozi, primo tra tutti Mielandia, dove
finivano per entrare e spendere buona parte dei loro risparmi in Api Frizzale,
lecca-lecca, gelatine Tutti i Gusti+1, gelati, Cioccorane ed altre prelibatezze
che il famoso caramellaio offriva loro a piene mani.
I
professori sfruttavano la giornata di libertà per gustare un pranzo
pantagruelico a base di vitellone e punte d’asparagi fritte, innaffiato da
Burrobirra o dal sublime Idromele di Madama Rosmerta e per parlare del più e
del meno con la simpatica proprietaria del locale.
Ma non
Severus.
Egli
detestava le chiacchiere inutili e, per di più, la carne non gli piaceva
affatto.
Preferiva
ripiegare sulla parte più antica del borgo, ormai disabitata e passeggiare,
meditando in silenzio, da solo. Così, anche quel giorno s’era staccato dal
gruppo ed aveva raggiunto la zona di Oldtown.
La strada,
coperta di ciottoli irregolari, era piuttosto scomoda e piena di buche, ma
l’uomo l’amava così com’era: vissuta, provata dal tempo, con le sue luci e le
sue ombre, proprio come lui.
-Severus!
–una voce familiare lo riscosse dai suoi pensieri.
L’uomo si
voltò e sorrise timidamente:-Alice, come mai non sei da Rosmerta con gli altri?
-Troppo
rumore.- rispose allegra- Volevo stare un po’ con me stessa e visitare di nuovo
questi luoghi, vedere come sono cambiati. Sai, sono anni che non vengo qui ed
anche il vecchio mi sembra nuovo.
-Già.-
ammise lui –Sei stata lontana per molto tempo…
Avrebbe
voluto dire “per troppo tempo”, ma non se la sentì di mettersi in gioco fino a
quel punto.
-Sì e poi…
io preferisco il pesce!
Passeggiarono
fianco a fianco per un’ora circa, un po’ in silenzio ed un po’ parlando, ma
senza mai osare sfiorarsi.
-Alice.
–disse infine Severus.
-Sì?
-Mi
chiedevo se… visto che abbiamo la serata libera… non ti andrebbe di venire a
casa mia per cena?
La donna
avvampò all’istante:-Io… volentieri…
-Cucinerò
io per te e, ti assicuro, sarà la cena più buona della tua vita.
***
L’affilata
lama del coltello affondò nelle morbide carni fresche del tonno, producendo
tagli precisi e regolari. Strisce lunghe e sottili s’allineavano pian piano sul
tavolo della cucina di Spinner’s End, dove Severus stava lavorando alacremente.
-Tonno…
cetrioli… come da tradizione…-si disse.
Affettate
anche le verdure, l’uomo iniziò la preparazione del riso, una sorta di rituale,
quasi come una pozione.
Prese
un’ampia ciotola colma d’acqua molto fredda e v’aggiunse il gohan, mescolandolo velocemente con la
mano. Poi lo schiacciò, facendo scolar via tutta l’acqua e ripeté l’operazione
più volte, finché non fu morbido al punto giusto.
Dopo averlo
fatto sgocciolare a dovere, lo pose in una casseruola con abbondante acqua
calda e lo lasciò un quarto d’ora a bollire, durante il quale preparò il
condimento a base di sale, aceto, zucchero, wasabi
e salsa di soia, che incorporò a cottura ultimata.
-E ora la
parte più complessa…- mormorò, ponendo l’alga nori su uno stuoino di bambù –Bene, nori, uno strato di riso, un
pizzico di wasabi per dare un tocco di piccante in più, tonno e cetrioli...
perfetto…
Avvolse con
maestria l’alga su se stessa, aiutandosi con lo stuoino e tagliò il rotolo in
fettine non troppo spesse.
Infine le
dispose ordinatamente e le guarnì con gamberetti e salsa di soia.
-E’ pronto
e farà un figurone.- apparecchiò la tavola in stile orientale, aprì una
bottiglia di saké e si sedette in attesa: Alice sarebbe arrivata entro breve.
***
Quando
Severus aprì laporta rimase senza
fiato.
Alice era
perfetta come una dea, fasciata da un lungo abito di seta verde trifoglio,
memoria dei suoi natali.
Portava una
margherita tra i capelli ed aveva quel profumo, lo stesso profumo della prima
volta.
-S... sei
bellissima.
Lo guardava
con quegli occhi di rugiada e sorrideva...
-Accomodati
pure nella mia umile dimora. –disse e, da perfetto cavaliere, la scortò fino al
tavolo, la fece sedere e le servì un bicchiere di saké –Ho una sorpresa per te…
ACCIO!
Il vassoio
del maki-sushi si sollevò lentamente e fluttuò fino al centro del tavolo, dove
si posò con dolcezza.
-Sushi!
Fantastico, sono anni che non lo mangio!
-Spero che
ti piaccia, assaggia.
La donna
sollevò una fettina con le bacchette di bambù, mentre Severus la fissava
tesissimo.
-Ottimo!
-D…davvero?
-Sì,
perfetto, sei veramente un ottimo cuoco, oltre ad essere un pozionista
eccezionale… propriocome ai tempi della
scuola.
Fu così,
con un piatto di maki-sushi, che la timidezza si sciolse, lasciando libero il
loro desiderio di aprirsi, parlarsi, amarsi.
***
-Papà… la
mamma era bella?
Severus lo
abbracciò, con gli occhi lucidi:- Sì, Markus, era bellissima… bellissima… te ne
saresti innamorato anche tu se solo… se solo il Signore Oscuro non ce l’avesse
portata via.
Sono qui, ancora una volta
solo, nel mio freddo e oscuro sotterraneo: il camino è spento, come sempre, a
negarmi anche il miserevole conforto di quel calore e quella luce che non sento
di meritare, ma cui anelo incessantemente, dopo averli irrimediabilmente
perduti quando ho compiuto quella folle scelta, tanti anni fa, accecato
dall’ingenua ricerca di una conoscenza che poteva regalarmi un immenso potere,
troppo sporco di sangue perché potessi veramente stringerlo nelle mie mani, e
farne uso.
Eppure, in questa sera così triste e umida, non voglio
negarmi il momentaneo sollievo di una buona coppa di pregiato vino rosso.
Annego il mio nero sguardo nei riflessi di sangue del
sottile cristallo ed immagini mai dimenticate si fanno lentamente strada nel
rosso intenso di questo profumato liquido. Tormentosi ricordi mi assalgono: da
quindici anni non mi danno tregua e, notte dopo notte, strappano gemiti
disperati dalle mie labbra serrate, sempre più martoriate da denti aguzzi e
crudeli.
L’antico libro rimane abbandonato a lungo sulle mie gambe
immobili: i vecchi caratteri neri sembrano contorcersi come serpenti deliranti,
rincorrendosi senza posa sulla pergamena sottile.
La mia pallida mano è abbandonata quasi senza vita tra loro,
incapace di respingere le immagini sfocate che la mia memoria crea sulle
fragili pagine: le grida delle mie vittime, acute e stridenti come allora, mi
trapassano il cervello, mi seccano la gola, mi tolgono il fiato, mi condannano
senza speranza, ogni notte più della precedente.
Serro gli occhi di colpo e traggo un lungo sospiro, cercando
di sfuggire a questa mia straziante realtà che mai mi abbandona: un nuovo sorso
del sanguigno liquido scorre nella mia gola, caldo, cercando di ricacciare
indietro il dolore, nel fondo di un cuore che ormai sa solo soffrire, dopo aver
fatto solo soffrire.
Stringo delicatamente il libro tra le mani: quasi con amore
accarezzo con dita lievi le fragili pagine, cercando di cancellare il mio
passato, rinnegandolo con tutto il mio essere, tentando di costruire un nuovo
futuro cui sono completamente disposto ad immolare la mia inutile vita.
Eppure, quelle immagini non svaniscono, sono indelebilmente
scolpite nei miei ricordi, pagine di pietra che inabissano il mio cuore in un
lago di sangue.
Il rosso liquido oscilla ancora pericolosamente nel pregiato
cristallo, acre sangue nei miei pensieri e aromatico vino nelle mie mani.
L’ultimo sorso, inutile per dimenticare chi sono, vano
tentativo di un uomo che non può rinnegare se stesso se non combattendo ogni
giorno contro l’oscurità.
Chiudo il libro, ripongo il bicchiere e mi alzo
avvicinandomi al letto: una nuova notte di incubi mi attende, ma domattina sarò
di nuovo pronto a combattere, per sradicare le tenebre dal nostro mondo, quelle
tenebre che anche io ho contribuito a costruire e che ora soffocano la mia
anima, ma non la mia volontà.
Un giorno lacererò quel velo di tenebra che mi tiene
prigioniero, strapperò questo marchio maledetto dalla mia carne e sarò libero,
infine, di pagare fino in fondo le mie colpe inginocchiandomi ai piedi delle
mie vittime, implorando un perdono che non merito.
E dai miei occhi sgorgheranno ardenti lacrime di sangue, in
cambio di quello innocente che ho ignobilmente versato, ad aprire la via ad
un’anima lacerata e distrutta, eppure ancora tenacemente viva, che, finalmente,
tornerà a vedere la luce.
L’ora di
cena era passata da qualche minuto e il professor Severus Piton raggiunse le
sue stanze di pessimo umore, disgustato dal malsano chiacchiericcio di quegli
orridi alunni che si ingozzavano come rosei maialini da spiedo nella Sala
Grande.
La cena serale era stata più ricca del solito di intingoli vari, prosciutti
arrosto, patate al burro, aringhe affumicate, piselli stufati e tutta una
nauseante carrellata di dolcetti grassi e gelatinosi della stessa consistenza
di un mattone.
Proprio non gli riusciva di mandare giù neanche un boccone davanti a quelle
facciotte beote che lo fissavano continuamente con occhi sbarrati come se
potesse sbranarli da un momento all’altro!
In fondo le voci che lo dipingevano come un orco assetato di sangue erano – in
parte – esagerate! Possibile che quei ragazzetti non avessero niente di meglio
da fare che inventare storie sul suo conto?!
Tutta colpa di quella peste bubbonica di Potter, ne era certo!
Il professore chiuse la porta dietro di sé, sospirando, augurandosi ancora una
volta di riuscire a sopravvivere agli anni che gli restavano in compagnia del
terribile allievo.
Voleva solo concedersi uno dei suoi spuntini serali (combinati a casaccio con
quello che aveva nella sua modesta dispensa), perfezionare il distillato su cui
stava lavorando e prendere una pozione contro l’incipiente mal di testa, magari
accompagnata da un bicchiere di vino, prima di sperare in un sonno senza sogni.
Subito i suoi occhi attenti captarono un particolare che non faceva parte del
suo abituale mobilio.
Il vassoio d’argento faceva bella mostra di sé sulla scrivania di mogano e
sopra di esso una coppa rosso scuro.
“Un regalo di Albus.” Pensò il professore, inacidito, seccato una volta di
troppo per quella benevola invadenza.
“Mi auguro che questa volta si sia risparmiato il salmone affumicato. Sono
secoli che mi conosce e ancora insiste a non capire che il salmone mi da la
nausea!” disse a se stesso, stizzito.
Ma questa volta si sbagliava.
Anche a distanza, il naso dell’uomo, allenato a captare ogni minima variazione
d’odore in campo di pozioni, avvertì il familiare effluvio di cioccolato.
Avanzò circospetto, come se si preparasse ad affrontare chissà quale nemico,
come se Lord Voldemort in persona potesse fare capolino, emergendo dalle spire
del dolce.
Ma quello se ne stava li, beato e inoffensivo, una morbida e profumata distesa
che accese all’istante i sensi dell’uomo.
Roso dalla curiosità, suo malgrado, fece scivolare un dito magro lungo la
superficie compatta e lievemente spugnosa del budino.
Un residuo velato rimase attaccato al polpastrello e senza riflettere l’accostò
alle labbra socchiuse.
Un attimo solo e poi l’allontanò, infastidito.
L’aroma caldo gli si sciolse in bocca, esplodendo in voluttuose ondate di
effimero piacere.
Sospirò, rassegnato, e afferrato il cucchiaio si servì di generose dosi del
dolce morbido e goloso, che spariva tra le labbra avide, solitamente contratte
in una smorfia sprezzante.
Quel terribile vecchiaccio ne sapeva una più del diavolo, considerò Severus,
soffocando un principio di risata isterica e ripulendo la bocca macchiata di
cioccolato con un fazzoletto, cercando di dimenticare l’attimo di cedimento.
Non era un mistero che persino l’Oscuro Signore temesse Silente!
Il professore ebbe la fulminea visione del Preside che offriva a Lord Voldemort
un vassoio di frizzanti bonbon al limone, conversando amabilmente. ( “Prendili pure, Tom, caro ragazzo. Sono i tuoi preferiti!” )
Sospirò, cercando di ricacciare quel terrificante pensiero.
Aveva proprio bisogno di un bicchiere di brandy!
Si sedette sulla poltrona malandata, davanti al camino, versandosi una dose
generosa di liquore.
Il liquido sgorgò bruciante e ambrato, come sangue da una ferita appena incisa.
Severus lo sorseggiò lentamente, lasciando che la scia di umido calore gli
scivolasse lungo la gola.
Socchiuse gli occhi, abbandonando la testa contro lo schienale della poltrona,
al ricordo di quell' appagata completezza…ricordo di piaceri troppo a lungo
negati e mai sopiti.
Una figura alta e
magra avanza con decisone nei sotterranei: le fiamme nei bracieri si alzano per
un momento, sprigionando nuovi e scintillanti bagliori, quasi ad annunciare il
suo passaggio e ad illuminargli meglio la via; poi tornano a languire
tranquille alle sue spalle, in un rispettoso inchino, sottomesse al comando
della sua lunga mano sottile, ormai irrimediabilmente bruciata da oscure fiamme
ben più letali.
Ora è davanti alla
pesante porta di quercia decorata da scuri serpenti bronzei, sfumature di luce
che sembrano fluttuare nell’oscurità. Leva la mano per bussare ma il massiccio uscio
si apre da solo e l’ombra della stanza lo avvolge, inghiottendo anche i
serpenti, immobili ora, solo buio nel buio.
Il vecchio Preside
scuote il capo e tende la mano verso il camino che s’illumina all’improvviso
del riverbero di fiamme rigogliose; poi ammicca mostrando a Severus una
polverosa bottiglia di spesso ed istoriato cristallo: un liquido scuro brilla rubando
riflessi d’ambra alle fiamme.
Severus solleva
piano una mano e le fiamme si abbassano, docili, lasciando solo una brace che
rosseggia cupa: l’oscurità torna ad essere regina incontrastata nella stanza,
mentre due bicchieri lievitano nell’aria fino a poggiarsi sul tavolino davanti
a lui.
- Non c’è bisogno
di tutta quella luce, Albus: lo verso io nei bicchieri, questa sera!
Non voglio luce
adesso, non voglio che tu possa leggere il dolore sul mio volto.
So che cederò, devo
farlo, ormai mi hai convinto dell’assoluta necessità di quella follia; so che
stasera sei venuto per strapparmi alfine quella promessa maledetta, che
costringerà la mia volontà ben più strettamente di quel Voto mortale.
Ma al buio Albus,
ti prego, non devi vedere le lacrime nei miei occhi.
- Severus… ti
prego…
Ti interrompi al
gesto stizzito della mia mano.
So benissimo cosa
vuoi dire, me lo hai ripetuto fin troppe volte in questi mesi, mentre
disperatamente cercavo una soluzione che non esisteva: il veleno di quelle
fiamme oscure sta bruciando la tua vita dall’interno, lentamente e
dolorosamente, mentre tu sorridi ed io non posso fare nulla, assolutamente
nulla.
Non posso guarire
quell’antica maledizione, non posso salvare la vita del mio unico amico.
Anche se vorrei.
Così potrò solo
ucciderti e salvare la mia vita.
Anche se non
vorrei.
Prendo la bottiglia
dalle tue mani e verso una generosa dose per entrambi: vuoto il mio bicchiere
in un solo lungo sorso, lasciando che il liquido mi scenda bruciante nella gola,
desiderando solo di poter bruciare anche il mio cuore.
La mia anima,
invece, arderà nelle fiamme dell’Inferno qui, su questa terra, alla corte
dannata del Signore dell’Oscurità, dopo che avrò compiuto ciò che deve essere
fatto.
Di nuovo verso il
liquore nel mio bicchiere, sotto il tuo sguardo preoccupato. Di nuovo lo vuoto
in un sol fiato, mentre tu resti immobile, in piedi davanti a me, il bicchiere
stretto nella tua povera mano annerita.
La mia condanna:
non aver saputo fare nulla per quella mano, io che pensavo d’essere infallibile
con le mie pozioni ed i miei contro-incantesimi.
Stringo la
bottiglia e mi lascio cadere sulla poltrona, stanco di combattere una battaglia
ormai persa; un bicchiere, poi un altro ancora: fiamme liquide a bruciare gli
ultimi residui di un’indomita volontà.
Hai vinto Albus,
con i tuoi sorrisi, la tua pazienza e la tua insistenza: hai vinto tu, come
sempre.
Ti ucciderò, come
mi hai ordinato.
Se sarà necessario
lo farò, se non ci saranno alternative eseguirò i tuoi ordini; se servirà a
salvare l’anima di Draco dannerò la mia, senza la più piccola esitazione.
Alzo gli occhi nel
buio, a cercare l’azzurra tranquillità del tuo sguardo: puoi fidarti di me,
come sempre.
Ma non c’è alcun
bisogno di parole tra noi.
Hai capito tutto,
lo sai che ho finalmente ceduto: lo sai quanto sto soffrendo e quanto ancora
soffrirò, anche se l’oscurità ci avvolge, caparbia.
Ho bisogno di
abituarmi di nuovo ad avere le tenebre intorno a me: lo capisci, vero Albus?
Molto presto la mia
vita sarà fatta solo di dolorose tenebre, inutile cercare di sfuggire loro:
sono il mio destino.
Ti sei seduto di
fronte a me, stanco ma soddisfatto, e levi il tuo bicchiere cercando di
coinvolgermi in un inaccettabile brindisi, in onore della tua morte.
Rimango immobile,
rigido, le labbra serrate ed il pugno stretto intorno al bicchiere.
- Alla tua salute,
Severus!
Vuoti il bicchiere
d’un fiato, come un giovanotto incosciente che ha una lunga vita davanti a sé e
mille ragioni per festeggiare una difficile vittoria.
Una stupida lacrima
brilla nelle tenebre dei miei occhi: so che l’hai vista e non la negherò.
Ti ucciderò Albus,
ma non brinderò alla vita che mi regali.
Non brinderò alla
tua morte, ma lascerò che questa lacrima preziosa nasca in onore di un amico.
Chiudo gli occhi,
li serro stretti, e la lacrima scende, scivola piano sulla mia gota pallida,
pesante del mio dolore, greve della mia disperazione.
I
Mangiamorte sono riuniti in cerchio, Lucius Malfoy è lì, nel suo posto d’onore
alla destra del Signore Oscuro, non ha pronunciato una
sola parola per tutto il tempo.
Se ne sta immobile, come pietrificato, mi sembra di sentire il respiro
affannoso che si condensa sul freddo metallo della maschera, in questa notte
gelida, mentre la neve continua a cadere attaccandosi al suo volto d’argento e
spegnendone anche il più piccolo bagliore, dietro il suo velo opaco.
In questo paesaggio ovattato e irreale il cerchio di tuniche nere mi appare più
macabro che mai.
Un cerchio dal quale oggi manca un uomo, il suo posto è occupato da un semplice
bastone conficcato nel terreno.
Non è una cosa insolita, è questo che Voldemort pretende dai suoi Mangiamorte:
assistere alla punizione di un loro compagno. Il mio Signore impartisce sempre
i suoi castighi di fronte a tutti i suoi adepti, perché tutti siano consapevoli
di cosa aspettarsi nel caso non dovessero servirlo con la dovuta solerzia.
Questa notte è toccato a me. Mio è il posto lasciato
vuoto nel cerchio.
Dopo quasi un’ora di Cruciatus, il mio corpo è affondato nella neve fresca
formando, coi suoi violenti spasmi, una pozza scura di
fango gelido.
Non sento quasi più il dolore, ho solo freddo.
Non chiudo gli occhi, non perché non voglia farlo, ma perché i muscoli del mio
volto sono come irrigiditi: vedo il mio amico con le mani lungo i fianchi, le
dita gonfie e arrossate per il gelo si stringono improvvisamente e con forza
lacerando la pelle delle nocche.
So cosa stai pensando, Lucius: ti stai chiedendo se ho meritato questa
punizione.
Un’importante missione è fallita, apparentemente per un mio errore.
Riesco quasi a sorridere.
Un errore, certo, uno dei tanti. Riesci ancora a credere che io sia capace di
sbagliare così grossolanamente, Lucius?
Ti stai chiedendo se sia giusto? Magari stai cercando di convincere te stesso
che lo sia. Eppure, se il tuo Padrone non avesse
improvvisamente interrotto questo tormento, probabilmente ti saresti gettato su
di me trascinandomi fuori da questa melma, senza
pensare alle conseguenze. Te l’ho letto negli occhi.
Quando Voldemort solleva la bacchetta, sento solo il bisogno di proteggermi da
questo gelo che ormai è penetrato fin nelle mie ossa, mi raggomitolo,
portandomi le ginocchia al petto, ho ancora gli occhi spalancati ma non riesco
più a vedere niente e non sento alcun suono uscire dalla mia bocca, anche se mi
rendo conto di averla aperta in modo innaturale. Ho
l’impressione di essermi slogato la mandibola.
Poi, improvvisamente, mi sento afferrare per le braccia e trascinare fuori dall’acqua. Lucius, sei tu?
Sono gelato, tremo per le conseguenze della Cruciatus, ma anche per il
freddo.
Voldemort, lascia che il mio amico si occupi di me, non interviene, bensì, dopo
aver atteso per un po’ senza parlare, si smaterializza semplicemente. Ed è proprio nello stesso momento che un vociare si
solleva dal cerchio, una risata spezza il silenzio, come una lama.
- Perché non l’hai lasciato dov’era? Quel traditore non merita la tua pietà –
gracchia la maga alta dai lunghi capelli neri
- Perché non la fai finita, Bella? Non ho voglia di ascoltare il tuo continuo
starnazzare – Lucius mi stringe con maggior vigore, tentando di arrestare questo insopportabile tremore. Mi aiuta a sedermi su una
radice sporgente. Non ho la forza di reagire e mi abbandono completamente
lasciandomi scivolare lungo il tronco di un grosso albero.
Deve togliermi immediatamente questi vestiti bagnati, prima che mi si congelino
addosso. Prende ad armeggiare con i bottoni della mia casacca, ma il freddo ha
irrigidito le sue dita e il fango misto a ghiaccio sui miei vestiti, rende
ancora più complicato il tutto. Continuo a non vederlo, ma lo sento affannarsi,
mentre cerca di salvarmi la vita
- Maledizione, Bella, vuoi darmi una mano? – Grida
spazientito
Immagino la faccia di quella donna, ecco che si avvicina riluttante, si china
su di me
- Se fosse dipeso da me, ora saresti già morto –
soffia a pochi centimetri dal mio viso.
Lei non è come te, Lucius, lei non è accecata
dall’amicizia. Sa che sareste potuti morire tutti
questa notte, e sa che sono io la causa. Non è stato un errore, no.
Muovo appena le labbra, ma le parole rimangono imprigionate tra i denti stretti
all’inverosimile.
Ora che è così vicina, il suo viso compare davanti ai miei occhi, seppur
sfocato.
Mi guarda con disgusto, tuttavia fa ciò che Lucius le ha appena
chiesto. Le sue esili dita hanno presto ragione di questa
prigione di bottoncini, mi libera dai miei vestiti bagnati e Lucius mi avvolge
nel suo mantello caldo e asciutto.
L’abbraccio di questa soffice stoffa di lana è una sensazione davvero piacevole,
Sbatto le palpebre, comincio a riappropriarmi dell’uso dei miei muscoli e la
prima cosa che faccio è piegare le labbra in una smorfia: Voldemort ha ordinato
a tutti di restare qui e aspettare, lui ha i suoi piani, ma certo non si
preoccupa molto del benessere dei suoi seguaci.
La temperatura è scesa parecchio stanotte, accendere un fuoco non è
consigliabile: qualcuno potrebbe vederlo.
A differenza di Bellatrix, Lucius non approva affatto, è nervoso e preoccupato.
Forse si sta chiedendo cosa potrebbe avere in mente il Signore
Oscuro, augurandosi di non dover aspettare tutta la notte per scoprirlo.
Il mio amico si siede al mio fianco e mi fissa pensieroso. E’ per me che ti
preoccupi, Lucius?
Devo essere ridotto in uno stato pietoso. Forse ti stai chiedendo quanto potrò
resistere a questa temperatura.
Improvvisamente scatta in piedi e prende a frugarsi nelle tasche.
Sollevo stancamente gli occhi, la mia vista sta migliorando, fisso stupito il
piccolo contenitore metallico che Lucius ora tiene nel palmo della mano. Lo
posa per terra e puntando sul minuscolo oggetto la sua bacchetta, sussurra
- Engorgio -
Spalanco gli occhi: una zuppiera, una zuppiera d’oro. Anche Bellatrix si avvicina fissando il contenitore
con aria curiosa.
- Ti sei portato la cena, Lucius? Già che c’eri, potevi portarti un elfo
domestico con la tua riserva di vino d’annata –
Sono quasi scoppiato a ridere.
- Perché rinunciare alle comodità, Bella? – Posa la punta della bacchetta sul
coperchio della zuppiera che diviene rovente, una nuvola di vapore si sprigiona
dal suo interno appena il mago toglie l’incantesimo che sigillava il coperchio.
Un fortissimo profumo di mandorle riempie l’aria.
Il mio viso si contrae in una smorfia di disgusto: decisamente
il mio stomaco non vuole saperne di accogliere un qualsiasi cibo.
Al contrario, Bellatrix sembra gradire: ne assapora a
pieni polmoni la piacevole fragranza,
- Minestra di mandorle, Lucius? Ma è una ricetta
babbana -
- Già! Provala Bella, non troverai una minestra migliore di questa in tutta
Londra –
Bellatrix fa un gesto di stizza, ma poi si volta e prende a raccogliere pezzi
di legno, pietre, tutto quello che riesce a trovare. Ammucchia il tutto e
pronuncia l’incantesimo di trasfigurazione: una pila di ciotole di porcellana
appare ai suoi piedi. Ne afferra una e si posiziona di fronte a Lucius
aspettando pazientemente la sua porzione.
Lucius sorride beffardo, poi afferra una delle ciotole e, dopo averla riempita
di brodo caldo, si china verso di me che continuo a tremare stringendomi nel
suo mantello.
– questa ti scalderà – dice, poi prende le mie mani e le tiene premute sulla
ciotola calda.
Volto la testa di lato, l’idea di inghiottire quel liquido biancastro mi
nausea, tento di sottrarmi, tuttavia il calore sprigionato da quel coccio che
Lucius mi ha infilato a forza tra le mani è davvero piacevole.
Lascio che il caldo riporti la sensibilità alle mie dita gelate.
Gli altri Mangiamorte si sono avvicinati, ognuno con la sua ciotola in mano.
Sono di nuovo in cerchio. Abbasso lo sguardo su ciò che stringo tra le mani.
L’odore delle mandorle non mi piace, ma il vapore sul viso mi fa sentire
meglio, mi avvicino sempre di più alla mia porzione di minestra, finché le mie
labbra non vengono in contatto con quel liquido.
Scotta, mi viene in mente che la minestra di mandorle andrebbe servita fredda
e, automaticamente, il mio sopracciglio s’inarca: è incredibile come io riesca
ad essere pignolo persino in un simile frangente.
Lucius continua a fissarmi, ora però, non è preoccupazione quella che gli leggo negli occhi, ora vuole sapere, ora mi chiederà se ho
volutamente rischiato di far uccidere il mio migliore amico.
Scuote la testa
- Non posso credere che tu possa aver commesso un errore così grossolano,
Severus, e non voglio credere che tu possa averlo fatto deliberatamente -
Sollevo la testa e lo guardo negli occhi
- Me lo stai chiedendo, Lucius? Devo dedurre che ti accontenteresti della mia
parola?- Mi sorprendo per l’asprezza della mia voce.
Non risponde, forse, dopotutto non vuole sapere la
verità. Non vuole sapere che sta salvando la vita al proprio nemico.
E’ questo che siamo diventati ormai, Bellatrix ha
ragione, dovevi lasciarmi dov’ero. Dovevi lasciarmi morire. Noi non siamo più amici, Voldemort ci ha tolto anche questo.
Mando giù un sorso di minestra, è densa e vellutata, tuttavia mentre sento il
liquido caldo invadermi piacevolmente, risvegliando il mio corpo, so di non
meritarlo.
Questa stupida minestra brucia come veleno, il veleno della menzogna.
Se ci dovessimo trovare l’uno contro l’altro, un
giorno, io non esiterò ad ucciderti. Farò il mio dovere, sono
quello ormai, solo un dovere da compiere, io non ho amici.
Tu ne hai, Lucius?
Smetto di sorseggiare il mio brodo, fisso i suoi occhi di
ghiaccio, non ha ancora assaggiato la sua porzione di minestra.
Fino a quando continuerai a considerarmi tale?
Forse un giorno sarai tu ad uccidere me. Lo faresti,
Lucius, se Voldemort te lo ordinasse?
Forse no, forse sei migliore di me. Forse tu puoi ancora scegliere di avere
amici.
Guardo Bellatrix, si sta godendo la sua parte di brodo chiacchierando
amabilmente con un uomo che non riesco ad
identificare, mi volta le spalle e indossa il cappuccio.
Le mie labbra si piegano in una smorfia amara. Abbasso immediatamente lo
sguardo affondando di nuovo il viso nella mia ciotola, mi vergogno di me
stesso, mi vergogno di quello che sono diventato. Ho
perso il diritto di guardarvi negli occhi, quando ho deciso di tradirvi tutti,
quando ho giurato che avrei contribuito alla vostra distruzione.
Il vapore caldo misto all’aroma di alloro sale a
bruciarmi gli occhi, vorrei piangere.
Perchè non mi è concesso combattere a viso aperto? Vorrei gridare in faccia a
quella bestia, ciò che penso di lui. Vorrei non dover mentire a chi mi sta
salvando la vita. Invece me ne sto qui, protetto dal tuo mantello e dalla mia
bugia. Salvato, preservato dall’unica cosa che desidero davvero: la
morte.
Non ce la faccio più, improvvisamente mi alzo, muovo qualche passo incerto, non
devo cadere, mi sforzo di comandare ai miei muscoli di fare il loro dovere.
Lucius mi sta guardando, è di nuovo preoccupato.
So che, se mi vedesse vacillare, scatterebbe in piedi per afferrarmi, ma io non
voglio.
Non voglio essere aiutato, non voglio la tua amicizia,
Lucius, non la merito.
Gli consegno la ciotola, poi lascio cadere il mantello e mi allontano
nella neve.
Non voglio il tuo aiuto.
Ma se potessi scegliere di morire, vorrei che fosse per mano tua.
Risale, alla cucina medioevale la almond soup
(minestra di mandorle), bianchissima e vellutata. In un brodo di vitello,
aromatizzato con alloro e mace (macis, il guscio della noce moscata), si
aggiungono mandorle e pane, precedentemente passati al
mixer. Si addensa poi con un tuorlo e un po' di panna acida (o uguali quantità
di panna e latte), si lascia riposare per un'ora e si serve, correggendo con
succo di limone e pepe di cayenna.
Il mago si avvicino’
cauto, fino a trovarsi di fronte al suo Lord.
<< Eccomi padrone, al vostro servizio. >> mormoro’ sottomesso a
capo chino, fissando il marmo nero del pavimento e i bei mocassini ai piedi di
Voldemort.
<< Proverai il Veritasserum! Ssono proprio curiosso… Ssai, potrebbe anche
darssi che ti ssi è raggrinsita la dote del Pozionista, no? E che qui mi rifili
un digesstivo… Uah! Uah! >>
L’occorrente apparve dal nulla: grosso calice in cristallo, fiaschetta di
Veritaserum e una non precisata bevanda in un cartone. I presenti osservavano
attenti la scena.
<< Ecco fatto, una goccia per babbo Voldemort, una per “sietta”
Bellatriss e una per il tuo cuginetto Codalisscia… >> commento’ divertito
l’Oscuro Lord mentre faceva scivolare dalla pipetta tre gocce di Veritaserum in
un calice << E mi ssto ssprecando Sseveruss: il Veritasserum te lo sservo
in un ottimo… mmh… Boia ‘sste fiaccole del casso… >> bofonchio’
esasperato dalla scarsa illuminazione, mentre faceva una piccola pausa per
leggere il nome del vino stampato sul cartone; poi annuncio’ pomposo << …
Trapesno Vino Mavrud*! … Ma non c’è l’annata… boh…Bevi!! Poi mi dirai… tutto!!
>> ordino’ cambiando nettamente il tono della voce da cantilena in un
minaccioso sibilo.
(* Trapezno Vino Mavrud, cioè vino da tavola Mavrud)
Severus stava sempre impalato davanti al suo Signore, lo sguardo volto verso le
eleganti scarpe italiane del Lord. Sicuramente erano cucite a mano e davano
l’impressione di essere comode; gli piacevano, anche se lui preferiva i suoi
stivaletti Jeffrey West. Lentamente avanzo’, mantenendo pero’ il capo chino per
mostrare la sua sottomissione.
<< Allora cossa mi ssai dire? >> chiese impaziente Lord Voldemort
che gli porgeva fremente il bicchiere.
Severus lo prese, lo alzo’ tenendolo con due dita per lo stelo e osservo’
interessato il vetro e il contenuto controluce; schiocco’ poi un dito contro il
cristallo facendolo vibrare.
Inclino’ leggermente il capo: << Grand Ballon in cristallo, forse un
Dartington? Indicato per i rossi corposi… >>
<< No, crisstallo di Boemia. Un ricordo di un fine ssettimana con la mia
Bella… Qua nei dintorni. Passsseremo fra qualche giorno a… diciamo ritirare… il
ressto del mobilio del maniero. Ai proprietari ormai non sserve piu’… >>
si pavoneggio’ Voldemort cercando la mano di Bellatrix per un languido
baciamano.
La donna, onorata, chiuse leggiadra gli occhi. Severus ignoro’ la scena, stava
rigirando lentamente il bicchiere per analizzare la lacrima che il vino
lasciava sulle pareti del cristallo.
<< Troppo glicerolo… >> annuncio’ quasi impacciato, sapendo a cosa
andava incontro.
Poi avvicino’ il nasone al bicchiere per l’esame olfattivo, inspiro’ e dopo
alcuni secondi contorse il viso in una smorfia; non disse nulla, altrimenti
avrebbe offeso il suo padrone.
<< Bevi! >> ordino’ nuovamente infastidito dalla smorfia l’Oscuro
Signore << Bevi e dammi il tuo giudisio! Sservo! >>
Severus esegui’ gli ordini e degluti’ un primo abbondante sorso di vino e
Veritaserum. Quel vino cosi’ aspro e scadente non meritava pieta’, e il gusto
del Veritaserum lo rendeva ancor piu’ schifoso. Non impiego’ le sue doti di
Occlumante; decise di non mentire, cosi’ avrebbe convinto il suo Signore, Bella
e Peter: << Mio Signore… è indescrivibile: é in un cartone e sa di
tappo!! Ed è troppo giovane… di un acidita’… troppo freddo, il bouquet non si
sviluppa come dovrebbe… sarebbe piu’ idoneo servirlo in un petit Ballon e
qualche grado piu’ temperato. >> citava mentre sorseggiava e degustava
elegantemente il vino; poi sputo’ l’ultimo goccio nel calice e concluse
<< Ha potenziale ma per ora lo servirei solo dopo accurata decantazione,
per via del… gusto di tappo! E non di certo ad un conoscitore… >> sorrise
biasimante inarcando una sopracciglia.
Ecco, era stato proprio sincero, e Voldemort se ne accorse. Questi aggrotto’ la
fronte e assunse un aria minacciosa, respiro’ lentamente e a fondo, come per
immagazzinare ancor piu’ ferocia.
<< Crucio! >> sbotto’ alzandosi dal trono e puntando la bacchetta
contro il suo servo prediletto, e mentre riponeva la bacchetta chiese
sprezzante: << Sstupido troglodita. Hai ssaccheggiato un ssupermercato al
possto di un’enoteca?! >>
Peter, che di vino proprio non se ne intendeva, da terra e contorcendosi,
implorava con gli occhi sbarrati dalla paura: << Pieta’… pieta’ mio
Signore… Eminenza, l’Eccelso, Supremo, Grandioso, Onnipotente, Divino >>
<< Ma piantala! Ho ssmesssso da un bel po’ e te ne ho lanciato ssolo uno
di Crucio, per giunta nemmeno cossi’ dolorosso! Era ssolo una pacca motivante,
ssmidollato! >> sbraito’ l’Oscuro Lord con disprezzo.
<< Oh grazie! Grazie mio Signore! Com’è umano lei! >> rantolava da
terra Pettigrew, strisciando fantozzianamente devoto verso il suo padrone e
cercando con la mano argentea di toccargli le scarpe e lucidarle.
Bellatrix, sempre accanto al trono, volse lo sguardo al cielo. Che strazio
quell’essere senza dignita’, invogliava veramente a punirlo… Pero’… perché non
punire anche Snape? Se pensava di piombare improvvisamente al cospetto del
Lord, dopo tanto tempo, e prendersi il posto lasciato da Lucius, a cui lei
ambiva, si sbagliava.
Con un sorrisetto pericoloso si avvicino’ felina a Voldemort, si rivolse a lui
strabuzzando gli occhi come una cerbiatta e sfiorandogli con la punta delle
dita una spalla: << Mio Signore… Severus è diventato veramente affabile,
brillante oserei dire… in questi ultimi anni di… latitanza… >> e aggiunse
carica d’invidia strusciandosi quasi contro l’Oscuro Signore sempre in piedi
<< Se per il vino ha trovato parole tanto gentili… chissa’ come definira’
la sua devozione e lealta’ per Vostra Grazia… >> e aggiunse seducente
sotto voce << È ancora sotto l’effetto del Veritaserum. >>
<< Angelo mio… >> rispose lui dolce e paterno << Il nosstro
piccolo Sseveruss non era latitante, definiamolo essilio il ssuo, poche
informasioni ma precisse e utili. Luciuss mi riferiva tutto… >>
Snape se ne stava sempre impassibile, silenzioso e servile davanti al suo
Signore. Pettigrew si era accucciato ai piedi di Voldemort, che gli tiro’ una
pedata mentre si avvicinava a Severus. Gli giro’ attorno come per esaminarlo,
eccolo qui il suo figliol prodigo, tornato dal babbo dopo cosi’ tanto tempo… e
Bellatrix era invidiosa dell’interesse che destava nel suo Signore!
Le fiaccole magiche illuminavano fiocamente e silenziose quella sala interrata,
il silenzio era insopportabile, nemmeno un orologio che scandisse i secondi,
niente, solo il silenzio e quella fievole luce. Lui solo contro gli altri tre.
Voldemort si rischiaro’ la voce mentre si allontanava da Severus; mollo’ ancora
una pedata al suo fedele servo che, sempre accovacciato a terra, squitti’ dalla
gioia per tanta attenzione.
<< Comunque è un’ottima idea, Angelo mio… come ssempre… >> disse soave
il Lord alla sua Bella << Sseveruss? Dimmi la verita’, non mentire!
>> e lo guardo’ profondamente negli occhi, mentre scandiva la sua domanda
chiave: << Ssono ssempre il tuo Ssignore? Anche dopo cossi’ tanti anni?
>>
Severus alzo’ lo sguardo verso Voldemort. La penombra rendeva i contorni di
quel viso disumano e senza naso ancor piu’ duri. Gli occhi rossi e ardenti
bruciavano, accecando quasi, chi avesse avuto la sfrontatezza di guardarlo
negli occhi. Bellissimo non era, non si poteva negarlo… Faceva pero’ al suo
caso, avrebbe risposto sinceramente a quella domanda a doppio senso…
<< No, voi non siete piu’ il mio Signore di allora! No! Ogni volta che
poso il mio ignobile sguardo su quello che dovrebbe essere il vostro volto,
trovo solo un viso che ricorda tratti nobili ma a cui manca il naso! Il mio
Padrone è stato indebolito e deturpato da quello schifoso mezzosangue! Ridotto
a un’entita’ scheletrica, condannato ad essere per sempre raccapricciante. Uno
schifo, uno scempio magico… >> rispose duro Snape apparentemente incapace
di mentire offendendo cosi’ profondamente Voldemort.
Accecato dalla rabbia, il Lord non capi’ che Snape aveva aggirato il senso vero
della domanda.
<< Crucio! Crucio! Crucio! Crucio!! >> sibilava capriccioso questi
fuori di sé.
Offeso e infuriato torturava Severus con quella maledizione, scintille e un
fascio luminoso scaturivano da quella bacchetta nera e lunga che gia’ aveva
inflitto tanto dolore e ucciso innocenti.
Il fascio di energia magica aveva investito Severus, trasformando ogni nervo
del suo corpo in un filo rovente, un dolore fisico e psichico indescrivibile,
nessuna via di scampo, nessun trucco per sviare quella tortura che lo avrebbe
portato alla pazzia… Appena raggiunto dal Crucio, si era accasciato a terra,
ripiegandosi e contorcendosi su sé stesso sopraffatto da quel dolore lancinante
che lo obbligava a tendere innaturalmente ogni nervo e muscolo del suo corpo e
gli faceva quasi scoppiare la testa dal dolore. Secondi che parvero
un’eternita’.
Voldemort, con un’insolito ghigno stampato sulle labbra finissime, interruppe
per un istante la tortura, forse per riprendere fiato. Poi avrebbe finito quel
servo che lo aveva insultato spudoratamente sotto l’influsso del Siero della
verita’. Ecco cosa la semplice stizza di Voldemort poteva causare: ancora un
paio di scariche e il sipario si sarebbe chiuso, e la storia finita. Severus
Snape, finalmente libero da promesse, giuramenti e aspettative di terzi… Perché
no?
Ma… e tutto il resto? Il resto della storia? Siamo arrivati fin qui per dire
FINE?!
Ma… farlo morire cosi’, solo perché Voldemort sta sviluppando un narcisismo e
non accetta di essere diventato un pelo piu’ bruttino, ma pur sempre
affascinante, si articola a volte ancora in modo sgrammaticato, non capisce un
accidente di vini e non digerisce la superiorita’ di Snape in questo campo?
Ancora una volta siamo
qui, tutti riuniti al suo cospetto, ma invece che in piedi e in attesa di
ordini siamo seduti davanti ad un tavolo, in attesa di festeggiare.
Per la prima volta, sul volto di Voldemort, vedo un’emozione che, in un essere
umano, potrebbe essere la felicità.
E’ normale, stasera pensa di aver colto la vittoria definitiva, e come lui
tutti gli altri. Un brusìo eccitato percorre il cerchio dei Mangiamorte, quei
pochi che c’erano stanno riferendo agli altri i particolari. Quando Voldemort
si alza, cala il silenzio , ordina. Uno ad uno
tutti i presenti tolgono le maschere d’argento e le posano sul tavolo davanti a
loro, con gesto meccanico eseguo l’ordine e quando sollevo il capo, un
inevitabile moto di stupore percorre i presenti, sento i loro sguardi su di me,
benché continui a fissare il mio volto riflesso dalla maschera che ho posato
innanzi.
Voldemort parla di nuovo < Severus ha deciso che conserverà sul volto quelle
cicatrici, a perenne ricordo di questa grande notte. La notte che vede
finalmente la nostra vittoria! Silente è caduto, infine!>
Un furioso grido di esultanza scaturisce dalle gole di tutti, solo Draco,
seduto al mio fianco, rimane muto, il volto pallido come quello di un fantasma.
Un ricordo! Come se avessi bisogno di quelle cicatrici per ricordare per sempre
questa notte, squarci ben più profondi solcano la mia anima maledetta, dopo ciò
che ho fatto in cima alla torre.
Ho eseguito i suoi ordini, fino in fondo, come sempre. Eppure ora che mi
rimane? Nessun sorriso dietro la barba d’argento, per riscaldare il gelo nel
mio cuore. Nessun luccichio nello sguardo di quegli occhi azzurri, per
illuminare il buio della mia anima.
Se la maschera che ho davanti dovesse rappresentare il mio vero volto, la bocca
sarebbe schiusa in un grido di dolore e gli occhi dovrebbero piangere lacrime
di sangue.
E invece devo di nuovo seppellire i sentimenti e andare avanti, la vera
missione comincia ora: senza di lui.
Le parole di Voldemort mi giungono come da un’altra galassia, ha voluto un
banchetto stanotte, per festeggiare la fine di Silente e io e Draco siamo gli
ospiti d’onore, come può pensare che possa mangiare, quando a fatica respiro?
Non tocco nemmeno una delle pietanze che mi sono davanti, non voglio mangiare,
non ricordo nemmeno come si fa, ora tutto il mio essere è solo dolore.
Guardo il ragazzo al mio fianco, avrei voluto impedirlo, avrei voluto tenerlo
lontano da tutto questo, ma invece ho fallito.
Tutti sono in festa, convinti che nessuno li possa più fermare ormai, Voldemort
ordina un brindisi e le sue parole, per la prima volta, riportano la mia
attenzione al luogo dove mi trovo.
< Stasera festeggiamo due morti > dice Lui < quella di Silente e
quella di un traditore! Alzate i calici!> tutti lo imitano levando al cielo
il proprio bicchiere, anche io afferro il mio, svogliato.
< Oggi fra noi è seduto un traditore, e io so chi è, finalmente. Da tempo
uno di voi mi ha tradito, ha sperato che Silente l’avrebbe protetto, stasera
avrà finalmente capito la potenza del Signore Oscuro, ma ormai per lui è tardi:
nella sua coppa è stato messo del veleno, ora bevete... tutti.>
Osservo il liquido vorticare pigro all’interno del mio calice, come me, altri
sono indecisi, l’odiosa voce di Bellatrix mi esorta
Paura? E di cosa? Della Morte? No, non della Morte, di aver fallito ancora una
volta, forse. Quello che ho fatto stanotte è stato inutile, è servito solo a
macchiare di più la mia anima già lorda di sangue innocente, e alla fine
Voldemort mi ha scoperto.
C’è davvero la Morte nel mio bicchiere? La Sposa agognata e da tempo desiderata
è davvero qui fra le mie mani?
Conoscendo Voldemort, sarà un veleno che uccide tra atroci tormenti, non certo
una morte rapida.
Eppure anche quello non sarebbe che un lieve castigo, per le mie innumerevoli
colpe.
Lentamente, assaporandolo, bevo il mio vino e incontro la mia condanna.
Nulla.
Non sento nulla, o meglio, non succede nulla: tutti hanno vuotato i loro calici
e nessuno sembra essere stato avvelenato.
Voldemort sorride, < ho mentito > ci dice, < non c’era nessun veleno
>.
Bellatrix sembra delusa, mai quanto lo sono io però. Un macabro scherzo o forse
un’altra prova per i suoi seguaci?
Tutti sembrano tesi e nervosi, Voldemort continua < era solo uno scherzo,
nessuna coppa era avvelenata >, nessuno tra i Mangiamorte parla, sono tutti
muti. Poi un uomo accanto a Bellatrix scoppia in una bassa risata, “sciocco”
penso subito, e lo sguardo di Voldemort non promette nulla di buono < lo
trovi divertente Artemius? >
< Molto > risponde lui, di nuovo penso “sciocco, sei finito” e infatti
Voldemort estrae la bacchetta e grida < Avada Kedavra!>, il raggio verde
smeraldo inchioda Artemius sul posto, con un’espressione stolida sul volto.
< Padrone, perchè?> piagnucola la donna seduta al suo fianco.
< Soltanto il traditore avrebbe trovato divertente un simile scherzo,
convinto di averla scampata. Un innocente si sarebbe infuriato o avrebbe
pianto, di sicuro non si sarebbe divertito. Imparate a riconoscere i traditori,
anche se da oggi non credo ce ne saranno più. Dovreste sapere che il Signore
Oscuro sa tutto, che non dimentica e che, soprattutto, non perdona.>
Dunque sono ancora salvo, non mi è ancora concesso di morire. Sarebbe troppo
bello, sarebbe troppo facile: la mia condanna sarà vivere.
Salgo
lentamente le scale, lasciando che il freddo s’impossessi delle mie stanche
membra. Le ferite richiedono attenzioni che non ho alcuna voglia di prestare
loro.
Un sorso di buon vino allevierà il mio spirito, ben più bisognoso.
Ho attinto alla migliore riserva dei Prince per questa occasione, perché tu non
mi giudichi avaro.
Il dolce nettare che ancora riposa nascosto nelle cantine è tutto ciò che
questo palazzo in rovina può ancora offrire.
Ho deciso di brindare alla tua memoria proprio tra le fastose poltroncine
tarmate e i mobili consunti, tra mille e una ragnatele e decenni di polvere che
avvolgono un regno dimenticato dal tempo e dalla stessa vita.
Da troppo tempo manco da casa ormai, nascondiglio perfetto per un assassino in
fuga; tuttavia troppi ricordi si accaniscono contro di me in queste stanze, il
mio non sarà un lungo soggiorno.
Un bicchiere sbreccato sembra invitarmi ad usarlo con la sua lunga ombra,
figlia delle candele ormai quasi esaurite che ho acceso per non camminare alla
cieca.
La bacchetta è sul tavolo, gettata senza cura, e lì resterà: strumento di
distruzione, mai più mi servirò di te!
Nessun rumore dal piano di sopra: là un ragazzino riposa in quella che era la
mia stanza, vent’anni fa, furibondo per quello che ho fatto. Non è il solo e
vorrei solo che se ne rendesse conto.
Questo è un onore che avrei volentieri evitato, anche a costo della mia stessa
vita.
Domani lo riporterò a sua madre, che mi stringerà in un abbraccio carico di
gratitudine cosicché io possa detestarmi ancora di più.
Ripenso a questa notte, a tutto quello che porterà, ma allontano subito i miei
fantasmi: non è il tempo delle lacrime questo e tu lo sai meglio di me.
Verrà, come sempre, ma non ora.
Solo rabbia e risentimento mi fanno compagnia nell’attesa di una nuova alba
odorosa di morte, della tua morte.
Stappo la bottiglia che ho scelto nei sotterranei, senza alcuna fretta o
energia.
Il vino scende gorgogliante dal collo sottile di vetro scuro, rosso e torbido
come il sangue, forte e corposo quanto basta.
Lo porto lentamente alle labbra, per assaggiarlo e bagnarmi la bocca secca
prima di levarlo in alto.
Le dita tremano contro il freddo cristallo, senza controllo, mentre la mia voce
crolla inesorabile nel silenzio, roca e lontana.
Stringo dolorosamente i denti per non singhiozzare come un bambino. Il dolore è
più forte di quanto avevo immaginato. Una ferita che non si rimarginerà mai.
È un saluto affettato ed incolore il mio, proprio come me, ma so che ti sarà
più caro di tante vuote parole.
Addio, Albus, amico mio.
Capitolo 19 *** Spuntino di mezzanotte - Il Cenacolo (Stefi) ***
Genere: comico
Genere: comico
Personaggi: Piton, Voldemort e Mangiamorte vari
Era: Harry a Hogwarts
Premessa: Quello che state per leggere è uno dei cosiddetti
"missing moments", ossia quei pezzi del racconto di cui sappiamo che
sono accaduti, ma JKR non ci ha raccontato, per cui non possiamo dire cosa
esattamente sia successo. In questo caso è un missing moment del IV° libro. Voldemort è risorto e, in ritardo di due ore, Severus è tornato da lui...
E non
c’é il due senza il tre: dopo la Chiesa cattolica e Dan Brown, provo anch’io ad
interpretare il celebre dipinto di Leonardo da Vinci. Immaginatevi l’Ultima
cena e con un po’ di fantasia e tanti cappucci neri, quella serata avrebbe
potuto svolgersi anche in questo modo:
Il Cenacolo (Stefi)
Bellatrix fu l’unica a rimanere impassibile quando le porte dell’Oval office si
riaprirono, svelando finalmente il mistero che gelosamente avevano custodito
per alcuni minuti. Gli altri Mangiamorte e i novizi scelti, al contrario,
rimasero folgorati da tanta eleganza e tanto stile. La sala ovale era rimasta
uguale nella struttura, mutando pero’ da anfiteatro in miniatura (con le
gradinate in pietra, il trono marmoreo e tutto cio’ che anche Giulio Cesare
avrebbe desiderato) a maestoso salone per ricevimenti. L’atmosfera, da luminosa
e ludica si era trasformata in intima ma esclusiva. Al centro della sala,
Severus aveva piazzato la tavola nera con le sembianze bestiali e le sedie
assortite. La sedia vertebrata piu’ grande, quella per il capo tavola,
troneggiava pericolosa nel mezzo della parte piu’ lunga della tavola. Alla sua
destra e sinistra altre dodici sedie attendevano i dodici migliori Mangiamorte.
La tavola era stata apparecchiata in modo da lasciare un lato libero, ed era
stata parzialmente coperta da una scintillante tovaglia in broccato color crema
che lasciava libere le gambe della tavola. Lo splendore dei lucidissimi mobili
neri faceva a gara con i fili argentati del broccato e lo sfavillio delle
stoviglie in argento finemente cesellato. Nessuno si mosse, nessuno fiato’,
nessuno oso’ mettere piede sulle lastre di lucido marmo nero, che rimandavano
anch’esse bagliori riflettendo la luce delle fiamme che ardevano nei bracieri.
PUFF!
Dal nulla, sulla sedia del Lord, si manifesto’ abbondante fumo verde.
L’arrosto? No, il fumo si dissolse lentamente lasciando il posto ad una rada
nebbiolina e un puzzo di zolfo: la figura dell’Oscuro Signore si delineava
lenta e trionfale sul suo maestoso trono.
Il Moccioso aveva inscenato anche l’apparizione del Suo Signore con tanta
bravura… Bellatrix era furente! Sprezzante fissava la tavola imbandita a festa
e noto’ velenosa piu’ che mai: << C’era bisogno di tanto sfarzo per uno
spuntino di mezzanotte? Inoltre s’è dimenticato dei novizi scelti! Staranno in
piedi a fissarci mentre mangiamo, forse… Evidentemente le scarse doti magiche
di quel mentecatto non bastano per far apparire ancora alcune tavole e delle
panchine per i novi >>
PAFF!
L’apparizione delle mancanti mense e seggiole smorzo’ la sillaba conclusiva
della Senior Deatheater.
Alcune tavole rotonde, anch’esse imbandite, riempirono lo spazio rimasto fra la
tavola ovale e le pareti dalle colonnine a forma di costole che ornavano le
pareti bombate. Dei bicchieri in cristallo tintinnarono limpidi, mossi dalle
vibrazioni imposte dalla materializzazione.
<< Ho optato per il cristallo di Dartington, questa volta… >>
osservo’ una conosciuta voce suadente << … Bellatrix… >>
<< Aaaargh! >> gracchio’ carica di stizza la Lestrange << E
tutto cio’ per uno spuntino?! Pensi di offuscarci le papille gustative con
questa farsa? Credi cosi’ di farci passare plebei panini per elaborata
pietanza? Sei patetico e ridicolo. Moccioso! >>
Ma nessuno fece caso all’invidia della Senior Deatheater. Le sue parole
rimasero nell’aria per poco, assorbite dai rumori causati dall’agitazione dei
presenti. I mantelli dei commensali frusciavano, accompagnati dallo stupore e
dalla curiosita’, verso l’interno della sala. Infatti non solo i cenni di Lord
Voldemort invitavano ad entrare, anche un esotico e speziato profumo che si era
manifestato da poco.
Il flusso di mantelli fluiva all’interno dell’Oval office, incurante
dell’isolotto imbronciato che Bellatrix simboleggiava. Alla sua sinistra e alla
sua destra scorrevano i compagni, noncuranti della strega e del mago immobili
uno accanto all’altro.
<< Non entri, Bellatrix? Pecchi abbondantemente e sovente di tutti e sei
i vizi capitali, ignorando di fare onore anche al settimo! Dimentichi
l’ingordigia, la gola! Tsk, Tsk… non sei coerente… >> commento’ ironico
Snape arricciando le labbra in uno dei suoi tipici e taglienti sorrisi.
Mentre terminava la frase si uni’ all’ultimo commensale che ordinato entrava in
sala.
<< Puzza! >> sibilo’ la strega << Nella sala c’è una puzza…
saranno i tuoi tramezzini che puzzano cosi’. Che schifo! >> aggiunse
laconica la Mangiamorte mentre si incamminava anche lei per prendere posto alla
tavola << Mangiare a questa ora tarda… sono certa che non digeriro’
nemmeno una briciola del tuo schifoso spuntino! >>
Davanti all’Oscuro si era formato un gruppetto di curiosi.
<< Sscio’! Via! Mi offusscate, mi… date fasstidio! Boia! >> sibilo’
seccato Voldemort, mentre con la mano eseguiva gestacci per evidenziare le
parole appena pronunciate.
<< Mio signore… >> s’azzardo’ Piotr Slutsky << Ci sono dei
cartellini ornati e ripiegati sparpagliati sulla tavola… anche davanti a vostra
Signoria ce n’è uno. Cosa sono? >>
Severus rispose leggermente infastidito da cosi’ poca immaginazione: <<
Segnaposto! Se leggi su ogni cartellino, noterai che il nostro Signore ha
apposto di proprio pugno il nome del commensale. Li’ prendera’ posto. >>
Phlippe Ledoux, accortosi del “faux-pas” di Piotr, si affretto’ a riportare sua
Signoria il Lord di buon umore, o almeno di contenere il danno causato dal
collega…
<< Uh! Oh! Ravissantes! Magnifiques! Quelles jolies “garde-places”
Monseigneur ! >> e dopo essersi inchinato varie volte, ricordando i
movimenti di un coltellino a serramanico incantato, saltello’ pimpante alla
ricerca del suo posto leggendo ad alta voce i nomi alla destra del Lord
<< Bellatrix… c’est une femme… Severus… non, pas ici… Piotr… non plus…
>> poi si sposto’ per leggere i nomi alla sinistra del suo Pardone
<< Thomas… rien! Jack… Oooh, Philippe, c’est moi , je trouvé ma place!
>>
Andrej si gratto’ il cappuccio nero, indeciso se porre o no la domanda.
Si fece coraggio e chiese piu’ cortese che mai, indicando il segnaposto di
Voldemort: << Mio Signore… come mai sul suo cartellino c’è scritto “CEO”?
>>
Infatti sulla tavola, davanti a Voldemort, c’era un cartellino che riportava
quelle tre lettere.
<< Si-i-o… Cosa vuol dire? >> gli fece eco un folto coro di
Mangiamorte incuriositi.
<< Ma boia d’un boia! Vuol dire “Chief Essecutive Officer”! In poche
parole comando io qui’… sse non ss’era ancora capito! Ssono o non ssono
l’Essssere Ssupremo?? Boia d'un boia, che banda di ‘gnurant che ssiete.
>>
Lesti i curiosi sfumarono liberando la vista al Lord. Ognuno trovo’ il suo
posto e finalmente lo spuntino poteva essere consumato. Novizi e Mangiamorte sedevano
compiti, solo il rumore degli stomaci bramosi insisteva contro il silenzio
spettrale calato sull’Oval office. Dalle zuppiere in argento, disposte sulle
tavole, si levava un promettente vapore, e ancor piu’ promettente era il
profumo che solleticava le narici degli affamati. Il Signore oscuro fece
servire il vino e scoperchiare contemporaneamente le terrine da incantesimi.
Finalmente il misterioso contenuto venne rivelato.
Il cuoco Snape si alzo furtivo e annuncio’ il nome della pietanza: <<
Spaghetti al pesto! Accompagnati da un Pigato “Tenuta della Croce” anno 1995,
vino bianco leggero, da servire fresco. >> per poi risedersi distinto e
posare il tovagliolo sulle gambe.
Mestoli incantati servirono dei lunghissimi fili gialli lambiti da pezzettini verdi
e un colore chiaro indefinito. Il tutto dava l’idea di essere piuttosto oleoso.
Magiche grattugie e pezzi di un formaggio a pasta dura levitavano sui piatti
facendo nevicare fiocchi di saporito condimento supplementare. Incuriositi
sguardi seguivano i movimenti, sperando di poter presto assaggiare quel cibo
misterioso. Bellatrix, sempre piu’ schifata, si porto’ la maschera da
Mangiamorte al viso: la puzza non identificata le dava il voltastomaco. Lord
Voldemort impugno’ la forchetta e la calo’ con forza nel suo piatto, ripescando
alcuni spaghetti che esibi’ a mo’ di trofeo.
<< Buon appetito! Diamoci ssotto! Abbuffatevi come sse fosssse l’ultimo
vosstro passto! Ssiete invitati! È tutto aggratiss! Uah… Uah… >>
Altre forchette seguirono quella del Lord. Non tutte riuscivano a portare alla
bocca del commensale degli spaghetti. I feroci Mangiamorte lottavano impotenti
e impacciati con quei fili oleosi che scivolavano villani nei piatti in
finissima porcellana fiorentina. Qualcuno chiese se poteva usare un incantesimo
per inforcare con successo la pasta impertinente. Severus a malincuore lo
permise.
Un coro di “Collocibus” si diffuse, accompagnando il rumore cristallino che le
posate in argento producevano punzecchiando le preziose ceramiche.
<< Aaah… Uuuh… Questa ssalssa… Oooh boia, com’è piccante! Cossa ci hai
messsso dentro?! Provala! >> ordino’ l’Oscuro Signore a Severus agitando
le mani verdastre davanti alla bocca come per farsi aria.
Approfittando dell’occasione, una mano argentea spunto’ da sotto il tavolo e
tasto’ furtiva nel piatto di Philippe alla ricerca di cibo; ma si ritiro’
subito, per evitare la posata a quattro punte del mago francese. L’Oscuro Lord
allungo’ verso il cuoco la forchetta con un boccone di spaghetti al pesto
letteralmente annodati sopra.
Allungandosi per raggiungere Severus, passo’ con il boccone proprio sotto il
naso di Bellatrix, ben protetto dalla maschera. Nonostante l’argentea barriera,
l’odore penetrante dell’aglio s’insinuo’ prepotente dietro le quinte del
metallico sipario, deciso a farsi riconoscere dalla Mangiamorte. L’operazione
ando’ in porto e questa fece cadere l’argento forgiato, portandosi veloce le
mani davanti al naso sigillandolo.
Arretro’ un poco, spaventatissima: << Iiiih! C’è aglio dentro! C’è aglio
dentro!! Non ne voglio! Evanesco!! Evanesco allium!!>> gridava isterica
la Mangiamorte.
La sedia vertebrata accolse il movimento brusco della strega fremendo e
producendo un rumore di ossa scricchiolanti.
Mentre Snape provava la salsa dal suo piatto (non c’era motivo di mettere in
bocca la forchetta leccata da Voldemort, la salsa era la stessa!), Thomas
Fisher commento’ preoccupato: << Severus ha sbagliato la ricetta…
>>
Il cuoco mastico’ lentamente il boccone, facendolo passare su tutte le parti
della lingua per gustarlo attentamente. Non c’era nulla di strano nel suo
pesto, la consistenza e le percentuali degli ingredienti erano a dir poco
perfette: pestato nel mortaio non troppo grosso e non troppo fine, sale marino
quanto bastava, un basilico maturo al punto giusto… tanto da trasportare con
l’immaginazione alle soleggiate Terre liguri, pinoli maturi leggermente
tostati, il miglior olio d’oliva in commercio, un parmigiano da concorso e una
decente nota d’aglio finale che stuzzicava il palato a masticazione conclusa… Una
sogno di una salsa, che accompagnava esclusivi spaghetti di grano duro cotti in
abbondante acqua salata fino a raggiungere la tipica denominazione di
“consistenza al dente”. Per una volta si era addirittura distanziato dalla
pessima abitudine che aveva di spezzare gli spaghetti prima di immergerli
nell’acqua bollente… (N.d.a Ditemi voi se non ci siano i presupposti per preparare una salsa
meritevole di lodi!)
<< Mio Signore, la pietanza è riuscita perfettamente. È solo un po’
saporita, ma per un mago del vostro calibro non risultera’ difficile abituarsi
al gusto corposo della salsa. >>
Piotr, nel frattempo, aveva posato una mano sulla spalla di Bellatrix per
riportarla alla ragione: << Ma dai, non fare cosi’ la schizzinosa! Se poi
ti puzzera’ l’alito ti farai dare un po’ di acqua dentifricia da Snape! Mangia!
Non hai nemmeno assaggiato… >>
Nuovamente la mano fantasma spunto’ da sotto la tavola rubando una grosso pezzo
di Parmigiano.
E Thomas, sempre scettico: << Io non credo che quell’acqua dentifricia
elimini completamente l’odore di aglio, dovrei provare questo miracolo per
l’igiene orale, per crederci. >>
Piotr gli rispose: << Non ti sei accorto che con Nagini funziona? Simeon
la da anche alla serpe e da all’ora l’odore di carne putrida nei nostri bagni è
sparito! >>
Simeon, avendo udito il suo nome, si volto’ di scatto e volle sapere: <<
Cosa ho fatto io? >>
Philippe si stava agitando perché pensava di aver consegnato a Severus l’erba
sbagliata.
<< Mio Signore… Sono forse io il colpevole? >> chiese rivolgendosi
al Lord che aveva ancora il palato in fiamme.
La mano, che in apparenza non apparteneva a nessuno dei commensali, apparve
nuovamente da sotto la tavola e intinse un dito argentato in una zuppiera
contenente spaghetti al pesto.
Bartholomeus alzo’ la voce per fare un’osservazione a Piotr: << Attento!
Metti via il coltello del pane, posalo! Stavi quasi tagliando la tovaglia in
broccato. Se continui a gesticolare a quel modo con quel coltello in mano, in
un domani, potresti addirittura tagliare, che so io… un orecchio a qualcuno!!
>>
Per fortuna la voce di Bartholomeus copri’ il grido, quasi uno squittio, del
proprietario del dito argentato che aveva provato anche lui la saporitissima
salsa incriminata.
Il Lord ingurgito’ a fatica gli spaghetti, avendo cura di lasciare piu’ pesto
possibile nel piatto.
Severus Snape lo noto’ e chiese cortesemente a Lord Voldemort se poteva
intingere un boccone di ciabatta all’olio nel suo piatto, per “pulirlo”.
Sarebbe stato un vero crimine sprecare quella salsa divina…
Il dolore è rosso, come lo
sfrecciare di linee incandescenti sullo schermo nero delle palpebre chiuse.
Saetta da un nervo all’altro; atteso, ma non per questo meno feroce
nell’azzannare i muscoli e spezzargli il fiato in gola.
Due ore di ritardo hanno il loro prezzo rovente.
Gli valgono il ruvido incontro con gli steli d’erba piegati e divelti dal suo
strazio, e hanno la consistenza della terra che penetra cedevole sotto le
unghie, tra le ciglia, nei capelli, perfino nelle narici e tra le pieghe delle
vesti.
Terra impastata di umidità, paura, e sofferenza sulle sue labbra, tirate a
ferire il volto in una smorfia contorta.
Ha una sua perfida eleganza, il dolore, nel modo agile in cui s’inarca in un
fiammeggiante ponte di luce: dalla punta della bacchetta di Voldemort, fino a
congiungersi col suo petto ansante.
Leggero, solca l’aria, distorcendo le tenebre all’intorno.
Esaltandole nel suo bagliore irato.
Sono le molteplici pieghe in cui il tormento lo accartoccia al suolo, impotente
e scomposto, ad essere oscenamente indecorose.
Così tenta d’imprimere alle sue membra una forza pari a quella della Cruciatus,
per donare loro, se non fermezza, almeno la dignità di spasmi più controllati.
Un po’ come un Imperius privo di parole, che assecondi il rombo impazzito del
cuore.
Prima era più facile.
Doveva sforzarsi di chiudere la mente, all’inizio.
Questo allontanava la percezione della tortura fisica.
Era necessario concentrarsi solo sui pensieri.
Ogni frammento di memoria era stato preservato o sacrificato con cura
meticolosa.
I più innocui ad aprire le fila di quell’esercito di menzogne che solo poteva
marciare in sua difesa.
Bugie preparate da tempo per reggere al vaglio dell’Oscuro Signore.
Somministrate con disperata perizia.
Una per volta. Con calma, misurando la voce sull’intensità dello sguardo, e
accordando il respiro ai gesti. Plasmando la cera pallida degli zigomi e i
vertici delle labbra, costringendoli ora a puntare verso l’alto, ora a segnare
un solco pallido di contrito stupore sul volto affilato.
Come se non potesse credere che la sua lealtà fosse messa in dubbio.
Almeno finchè la Cruciatus non era iniziata, aveva adattato l’involucro di se
stesso alle aspettative di quelle pupille di rettile, che lo fissavano, che
erano dentro di lui; smaniose di penetrargli l’anima.
Un muscolo alla volta, aveva ricomposto, sulla tavola anatomica della propria
espressione, una maschera cucita su misura.
La spia più preziosa di Silente indossa da sempre due maschere. Una di rigido
argento, adesso giace abbandonata e riversa sul prato, a fissare il cielo
notturno con le cieche orbite vuote. Le stelle, troppo distanti, non si
prendono nemmeno il disturbo di riverberare la propria luce pulsante sul liscio
metallo inanimato.
L’altra porta il suo stesso naso imponente e ricalca il suo viso, ma nemmeno
lei è specchio fedele: non riflette che falsità.
Facendosene scudo, ha lasciato che gli occhi dell’Oscuro Signore s’incuneassero
nelle sue iridi nere, scivolando sinuosi tra i misteriosi ingranaggi del suo
cervello.
Meccanismi alla cui perfetta manutenzione sovrintende da anni, preservandoli
dalle vampe dannose del sentimento col gelo sapientemente ricreato nel proprio
petto.
Anche questa notte, hanno funzionato a dovere.
I ricordi che mai avrebbero potuto contraddire la sua recita schierati avanti
e, nel fondo dell’anima, quelli che, se scoperti, avrebbero significato il
fallimento totale di una vita di guerra. Accanto a loro, gelosamente
trattenute, le memorie che, pur non tradendolo, conservavano per lui un senso
speciale. Anch’esse riposte, nella speranza quasi inconscia di poterle
conservare inviolate.
Ma, in realtà, lo sapeva: li avrebbe dati in pasto al serpente che dipanava le
spire nel suo intimo, se fosse stato necessario.
Sarebbero stati immolati sull’altare di una causa il cui officiante era Albus
Silente.
Senza esitazioni.
Pensieri, immagini, sensazioni. Severus Piton, da anni, sa dosarli tutti a
meraviglia sul bilancino dell’inganno; simili a invisibili ingredienti della
pozione più preziosa.
Li ha sapientemente miscelati, fino ad un attimo fa.
A volte, è riuscito perfino a vederli, man mano che li chiamava a raccolta o li
celava ancor più in profondità.
Spesso, anche prima che Lui risorgesse, quando si esercitava nella complicata
arte dell’Occlumanzia, preparandosi ad oggi, riusciva ad averne una visione
nitida, come se fossero palpabili.
Erano e sono custoditi in scrigni di rimorso, caparbietà e desiderio di
rivalsa, proprio come le strane creature preservate da liquide, potenti
misture, nei barattoli del suo laboratorio.
Quando li ripone dentro di sè, lo fa sempre con ordine meticoloso.
Poco prima, aprendoli alla cupidigia di controllo dell’Oscuro Signore, in
alcuni casi, ha potuto risentirne addirittura l’aroma.
Profumo di giorni conclusi e di attimi che si ripeteranno, ma, immancabilmente,
avranno ogni volta un sapore lievemente diverso.
Quello della pioggia sui tetti di Hogwarts, ad esempio, è un ricordo che gli
riesce addirittura di sentire sul palato. Rotondo e pieno come una spezia.
La molle terra ha un gusto diverso: sa di orgoglio ricacciato in gola e di
senso del dovere.
Finchè la Legilimanzia è stato il solo strumento dell’avida e sospettosa
inquisizione di Voldemort, gli è quasi sembrato di poter ascoltare, nel
silenzio delle lapidi e del buio, il clack sonoro di ognuna di quelle memorie
dischiuse ad arte; centellinate. Proprio come lo schiocco secco del coperchio
di un recipiente di vetro, aperto da dita sicure.
Poi la Cruciatus ha sommerso quella fievole sensazione, col suo grido
trionfante.
L’anatema usa le sue stesse corde vocali per irriderlo, proclamando il potere
dell’Oscuro Signore.
L’erba ha voluto accoglierlo, meno infida delle gambe, che, cedendo alle
lascive lusinghe della sofferenza, l’hanno lasciato cadere.
Da prima, quando è crollato in ginocchio, i fili sottili l’hanno accettato,
lambendogli le vesti, umidi e freddi, quasi a dargli conforto dal calore che
pareva sciogliere dall’interno tutto il suo essere.
Infine, in un contatto più intimo e prolungato, violentemente schiacciata sotto
il peso del suo corpo, che le continue contratture trattenevano riverso al
suolo, l’erba ha sofferto muta il suo stesso dolore.
Voldemort ha continuato a invaderlo col suo tossico potere, astenendosi solo
dall’infrangere le delicate barriere che ancora lo tengono immune dalla follia.
Per il tempo di molti respiri spezzati, mentre combattere la Legilimanzia
dell’Oscuro Signore si faceva man mano difficile quanto concedere ai polmoni la
tregua di una boccata d’aria, Severus si è scoperto a pregare che la mano tesa
dell’oblio lo soccorresse.
Anche il bacio corrotto dell’irreparabile demenza gli è parso desiderabile più
di quello di qualunque amante.
Ma sapeva di non poter cedere, e non era questo il modo in cui poteva accettare
davvero di perdere la propria battaglia.
Così ha inciso con un morso feroce l’interno delle guance, ingoiando quel
tepore denso e dolciastro che gli rammentava di vivere, ed ha continuato a
lottare.
Non ha sentito alcun male. Gli artigli della Cruciatus sono più acuminati dei
suoi denti, e sanno azzannare in più punti contemporaneamente.
Alla fine ha vinto.
La propria sopravvivenza, e di sicuro la guerra per la supremazia sulla propria
mente.
Il prezzo non è stato indifferente.
E’ così ogni volta. Anche i vincitori piangono lutti incalcolabili, sebbene
fingano sempre che ne sia valsa la pena.
Lui ha dovuto sacrificare un piccolo manipolo di ricordi inermi.
Reminiscenze nude, impreparate a combattere, deboli rispetto alle menzogne
guerriere di cui si circonda da sempre.
Bocconi della sua infanzia, sparute e rare gemme di gioia, o di infelicità e
umiliazione, per lui non meno preziose.
Sua madre che gli mostrava per la prima volta un lungo legno sottile,
agitandolo sotto i suoi occhi stupiti, spalancati sul fiorire di gemme rosse in
un vaso, fino ad allora vuoto.
Aveva solo due anni, ma incredibilmente rammenta ancora a perfezione il
delicato turgore ricurvo dei petali, arricciati come appena dischiusi nel
soffio tiepido della primavera.
Ne ha risentito il profumo persistente e sottile.
Ha ascoltato di nuovo le parole di lei, gonfie d’orgoglio e aspettative:
“Questa è una bacchetta magica, Severus. Un giorno anche tu ne possiederai
una”.
E lui, con le manine tese ad afferrare quell’incredibile balocco, ancora
agitate solo dall’infantile, banale, intento di portarlo alla bocca e saggiarne
con i sensi la consistenza.
Le sue dita più adulte, magre, lunghe e lievemente nodose, strette per la prima
volta a realizzare la profezia di quel giorno.
Ha ricordato la presa ancora lievemente esitante; i polpastrelli che seguivano
i rilievi dello strano decoro inciso sul manico.
Olivander scrutava intento le varie prove. Solo due, in verità, dinnanzi a
quegli inquietanti occhi velati, mentre lo stregone annuiva.
Nera d’ebano, robusta eppure flessibile, la sua bacchetta aveva vibrato per la
prima volta, l’anima magica guidata dalla volontà e dal movimento ora sicuro
del polso.
Dodici pollici e mezzo di legno pregiato, a rinchiudere scaglie del dorso di un
Petardo Cinese. Il più esotico dei Draghi, per le ambizioni di un giovane mago
che non aveva mai lasciato l’Inghilterra, se non a volte nei sogni di bambino.
Questi i due attimi della sua vita che, per primi, aveva abbandonato
all’irrispettosa incursione dell’Oscuro Signore, come si fa con i moribondi,
lasciati indietro sulla linea sanguigna del fronte.
Poi altri, cui preferiva non ripensare.
La tortura dei baci di Eileen Prince sulla sua fronte già pallida di bimbo,
esposti al fiammeggiare delle iridi inumane di Voldemort, l’aveva ferito non
meno di quella del corpo.
Ma si era lasciato profanare, ruggendo via la rabbia insieme al dolore, senza
che nessuno potesse distinguere l’una dall’altro.
Non era stato più facile cedergli l’emarginazione dei tempi di scuola, il
desiderio vano d’essere accettato senza dover soccombere all’omologazione,
l’ira e il rancore verso i suoi aguzzini, l’affetto trasformato in insulto da
uno sciocco contraccolpo d’orgoglio, e sputato come veleno sull’unica persona
che mai l’avesse difeso.
Eppure, vi aveva aggiunto anche il grigiore di mille giorni tutti uguali dietro
a una cattedra, la frustrazione delle proprie vocazioni, la meschinità
umanissima che a volte lo corrodeva.
Non aveva risparmiato quasi niente, pur sapendo che, certo, avrebbe riavuto
indietro ogni memoria, ma insozzata e irrimediabilmente contaminata dalla
prepotenza del padrone di cui ancora portava il marchio inciso nella carne.
Aveva tenuto per sé solo i rimorsi, e i sentimenti che facevano parte del suo
bagaglio di penitente e di spia.
Gli altri erano stati sospinti fuori dai loro rifugi, palesati a Voldemort,
perché a volte esibire la propria fragilità ad un Legilimante è come mettere
tra le sue mani un’arma letale, ma un ottimo Occlumante sa servirsi anche delle
debolezze a proprio vantaggio.
E lui sapeva di esserne in grado.
Un tempo, l’Oscuro Signore aveva colto i segni delle sue incertezze e le aveva
utilizzate per farne uno schiavo. Ora, si aspettava di avere nuovamente accesso
libero e incondizionato alla sua mente.
Opporsi troppo strenuamente sarebbe servito solo ad insospettirlo, mentre lasciarlo
rovistare incurante tra sensazioni e ritagli del suo essere, era il modo
migliore per ingenerare in Voldemort nuova fiducia e false sicurezze.
Di tutto questo, aveva avuto piena conferma.
Infine, il suo antico mentore si era ritirato, lasciandogli in bocca e tra le
tempie il sentore acre della propria dignità negata, come una scia corrosiva
che non l’avrebbe mai abbandonato del tutto.
Ma lo scontro era cessato.
Forse l’Oscuro Signore continuava a non confidare ciecamente in lui, né si era
aspettato che lo facesse, però non vi erano prove che Severus Piton avesse
tradito gli ideali di gioventù, il suo Signore e i vecchi compagni.
Si era reso conto che questo significava continuare a vivere, solo una manciata
di secondi dopo aver intimamente esultato per ciò che era appena riuscito a
fare.
Mettere in scacco il più grande Legilimante di tutti i tempi.
Nemmeno il dolore era riuscito a spegnere l’impeto d’orgoglio che aveva
sveltito i battiti del suo cuore.
Lui poteva mentire a Voldemort, perfino sotto tortura.
Stava finalmente per diventare l’uomo di Silente. Non più solo nell’attesa, ma
anche nell’azione.
La vera partita era appena iniziata.
Solo in fondo alle viscere un piccolo nodo pulsante di malinconica pena lo
tormentava, malgrado tutto.
Era la consapevolezza di quanto ormai la menzogna fosse connaturata in lui, al
punto di sgorgare spontanea in sua difesa, divenuta ormai un automatismo
talmente vitale e perfezionato che nemmeno per un istante aveva dovuto pensare
a come servirsene.
Mentiva con la medesima meccanica facilità inconscia con la quale respirava o
batteva le palpebre.
Se avesse dovuto riflettere per riuscirci, sarebbe morto.
All’Oscuro Signore non sarebbe sfuggita la mano che muoveva i fili dei suoi
pensieri facendone marionette d’assalto.
Se era ancora vivo e poteva finalmente cominciare a combattere sul serio, era
esclusivamente perché sapeva trasfigurare la bugia in realtà e la verità in
inganno.
Eppure, l’accorgersene portava con sé l’amarezza di perdersi sempre di più.
Quanto restava ormai di Severus? Chi era Severus?
Aveva ricacciato indietro quest’interrogativo, sostituendolo con una muta
preghiera: che un giorno saperlo, non avesse più alcuna importanza, nemmeno per
lui.
Anche la Cruciatus si era conclusa, insieme con la prepotente Legilimanzia
dell’Oscuro Signore.
Voldemort gli aveva concesso il tempo di tirare il fiato.
Sapeva che la tregua non sarebbe durata a lungo.
Fino ad allora, la tortura era stata solo uno strumento, un prolungamento
atroce del potenziale invasivo con cui il suo antagonista gli aveva smembrato
il cervello, alla ricerca di fedeltà o tradimento.
Ma l’Oscuro Signore non l’aveva ancora realmente punito per il gravissimo
ritardo nell’accorrere alla sua imperiosa chiamata.
L’avrebbe fatto, Severus ne era certo.
Così, aveva approfittato del silenzio della notte, rotto solo dal tamburo
impazzito del suo cuore, per richiamare a se le forze residue e placare la sete
avida dei polmoni.
Poi, aveva tentato di rialzarsi.
Perché era nella sua indole orgogliosa e caparbia, e, per quella notte, aveva
lasciato calpestare fin troppo la propria dignità.
Né Voldemort si sarebbe aspettato di meno da lui, sebbene fosse un’aperta
sfida.
L’Oscuro Signore gli conosceva quest’ostinata fierezza e, almeno in questo,
Severus Piton non era cambiato.
Aveva stretto i pugni, un attimo prima di sollevarsi sulle ginocchia tremanti,
perché era sicuro che nell’esatto istante in cui fosse riuscito almeno in parte
a rivendicare, anche nella postura, il suo decoro di uomo, Voldemort avrebbe
ripreso il tormento, solo per esibirlo domo, dinnanzi alla platea silenziosa
dei pochi Mangiamorte rimasti nel cerchio.
Non era stato smentito.
Ancora una volta, il fuoco rovente della Cruciatus aveva bruciato la sua
volontà di affrontare il proprio nemico in piedi.
Ed era stato peggio, con la mente ormai libera di appuntarsi ossessiva solo
sulle unghiate di dolore che, pur non spandendo il suo sangue, lo dilaniavano
ripetutamente, affondando nei muscoli, saggiando la flessibilità delle ossa,
grattando sulle corde tese dei nervi.
* * *
La nausea è
verde, come la linfa che sanguina dai fili d’erba recisi, macchiando col suo
sapore acidulo lo smalto dei denti, serrati in uno scricchiolio dolente della
mandibola.
Non è ancora finita.
Severus non è più in grado di dire da quanto tempo continua.
Sebbene libera dalle incursioni dell’Oscuro Signore, la sua mente non
percepisce più lo scorrere lineare del tempo.
Forse sono ore, o appena manciate di eterni secondi, minuti dilatati dallo
sfilacciarsi della sua coscienza.
Un angolo recondito del suo cervello lotta ancora, con una sola priorità: non
spegnersi definitivamente, perché Voldemort potrebbe tornare ad invaderlo in
qualunque momento e la spia non può permettersi di farsi cogliere alla
sprovvista.
Mai.
Il resto è buio ottuso, illuminato solo da quegli sprazzi di rossa sofferenza,
a riversare nel suo stomaco verdi colate di disgusto, per farle poi risalire
lungo la gola in lunghi conati a malapena trattenuti.
L’unico sforzo che riesce ancora a compiere coscientemente è quello necessario
per affondare il capo nelle zolle devastate dai suoi spasmi e mordere,
lacerando i gambi sottili che gli solleticano il viso, innocenti eppure
condannati.
C’è stato un momento, non sa più dire quando, in cui il suono delle sue stesse
grida arrochite è divenuto insopportabile più del dolore.
Inaccettabile degradazione, osceno e indecoroso omaggio ad una potenza di cui
non riconosce più il dominio.
Così, farebbe qualunque cosa, pur di riuscire a non urlare.
Non importa se la terra gli lega la bocca, mescolandosi con la sua saliva.
Né del sentore di clorofilla morente che ormai gli invade anche le narici,
acuendo la nausea.
Quasi non respira, premuto contro quel farinoso guanciale disfatto, ma passerà.
Rammenta a se stesso che in fondo lo merita, perché il sangue chiama sangue, ed
il dolore è un dono che torna sempre tra le mani di chi per primo l’ha
elargito.
E’ giusto, ma pensarlo lo riempie di un ribrezzo ancor più incontenibile, che
nulla ha a che fare col cibo.
Lo riconosce anche nella vuota oscurità in cui affonda sempre più rapidamente
di minuto in minuto: disgusto di sé, uno dei suoi più fedeli compagni.
Una presenza che gli cammina sempre accanto.
Eppure non può arrendersi.
Ha assicurato ad Albus che sarebbe stato in grado, che era pronto.
Non era vero. Almeno non completamente.
Sulla sua perizia ha contato fin dal principio, e non ne è stato tradito, ma
non si è mai realmente preparati a lasciarsi violare mente e anima, per quanto
si possa fingere di esserlo.
L’ennesimo conato che lo scuote gli rammenta che solo poche ore prima sedeva in
Sala Grande, intento ad una rapida cena, prima dell’ultima prova del Torneo
Tremaghi.
Non aveva mandato giù che pochi bocconi, svogliatamente, per nulla attento a
quel che gli si materializzava di volta in volta nel piatto.
Il cibo, da sempre, lo interessa ben poco.
Ha, come tutti, qualche piatto preferito; ci sono spezie, aromi, sapori che lo
allettano, o che gli rammentano attimi, colori, persone, al punto che a volte
assaggiarli è un modo per ricordare o per concedersi piccole briciole di
normalità.
Ciò nonostante, non indulge mai nelle profumate lusinghe della gola, un po’ per
indole, e in parte perché la sua mente e il suo cuore si soffermano sempre su
qualcosa di ben più grave rispetto alle gioie del palato.
Severus Piton si nutre perché deve, e nient’altro.
Gli basta anche solo ritrovarsi alle prese con una nuova pozione, o tenere per
la prima volta tra le dita un volume mai letto, per scordarsi totalmente il
cibo, ignorando perfino gli indignati brontolii del suo stomaco.
Quando più pressanti ansie gli rimbombano tra le tempie, pur non solcando la
sua fronte con un corruccio evidente, allora potrebbe anche dimenticarsi di
mangiare per giorni.
A volte è accaduto che lo facesse davvero.
A Spinner’s End, dove non ha l’obbligo di presenziare ai pasti di un’intera
scuola, e sfugge al preoccupato controllo delle iridi chiare di Silente o al
lieve tepore che sente, pur non ammettendolo, ogni volta che Minerva s’informa
di lui, fingendo leggerezza e domandandogli se quella mattina ha fatto
colazione. Del resto, lei palesa la medesima formalità distratta anche nel
chiedergli, talvolta, se ha dormito abbastanza; la reale apprensione che la
anima svelata suo malgrado dall’accentuarsi della dolcezza negli occhi severi.
Domani, magari, le leggerà in viso anche qualche nuova ruga, mentre lei lo
scruterà in cerca di comprendere quale prezzo ha pagato per ottenere il proprio
ruolo in prima linea.
Le risponderà brusco che è abituato a dormire ben poco, ma né la sua mente né
il suo fisico ne hanno mai sofferto, e sbocconcellerà qualcosa, solo per
dimostrarle che sta bene, anche se non è vero, ed ora il solo pensiero della
tavola dei professori, appetitosamente imbandita, gli rivolta le viscere con
una nuova ondata di nausea, quasi incontenibile.
Poi, all’improvviso l’anatema cessa di sezionargli le carni con la sua lama
invisibile.
La voce stessa di Voldemort pare sovrastarlo, provenendo dall’alto, mentre il
corpo appena rinnovato del mago oscuro getta la sua ombra di tenebra sullo
spettacolo del suo, ancora prono e tremante.
“Voglio crederti, Severus. Vivrai per continuare a servirmi lealmente, come
sempre” sibila freddo come vento di dicembre tra i rami ormai spogli di un
albero.
“Mi aspetto grandi cose da chi ha osato non rispondere subito ai miei comandi,
solo per tributarmi la sua fedeltà più assoluta… ”
Severus sente il brivido della certezza percorrergli la schiena, mentre le
membra tremano al comando di una paura che non potrà mai frenare i suoi passi,
ma che gli è impossibile non avvertire. La sente nel correre selvaggio del
sangue di vena in vena.
Non sarà l’ultima prova cui l’Oscuro Signore lo sottoporrà. Finchè Voldemort
avrà vita, la mente di Severus Piton dovrà essergli offerta.
Dovrà prostituire le sue emozioni e memorie alle voglie di un padrone, donando
altre menzogne, come una puttana stanca elargisce sorrisi di cui non conosce la
gioia, con gli occhi spenti e il cuore pesante.
Se è questo il prezzo per il riscatto della propria anima, lo farà, pur di
veder spegnere un giorno la brace indegna di quegli occhi infuocati dell’altrui
sangue.
“Del resto” e nel tono di Voldemort aleggia una sorridente minaccia che si
rispecchia ferale sul volto deforme, senza illuminarlo, “da oggi in poi, c’è
posto solo al mio fianco o contro di me. Ma tu sei intelligente, Severus, sai
scegliere. Sai che non tollererò più alcun ostacolo alla mia ascesa”.
La pelle del mago percepisce ogni stilettata di velenoso avvertimento,
attraverso quella voce, distorta quanto l’uomo da cui promana. La comprende,
prima ancora che udirla, nel sollevarsi spontaneo dei rilievi del Marchio
sull’avambraccio sinistro.
Il teschio si sta facendo più che mai nitido in quel preciso istante. Lo sa
anche senza vederlo.
L’Oscuro Signore è in lui, e sempre lo sarà, con lasciva prepotenza priva di
calore, finchè non l’avrà fermato.
“Alzati ora, puoi andare” è il distratto congedo ad uno schiavo la cui vita è
stata appena risparmiata da chi l’ha comprata.
Gli viene graziosamente concesso di risollevarsi, gli viene consentito
magnanimamente di camminare di nuovo a testa alta, se avrà forze sufficienti
per farlo.
Col volto levato, come se fosse un uomo e non solo un oggetto su cui le arcane
iridi di rettile non posano nemmeno più uno sguardo sdegnoso.
Ma è solo una farsa.
Lui conta meno di niente. Nessuno esiste per Lord Voldemort, se non come mezzo
con cui raggiungere i propri fini.
Questo pensiero lo trattiene al suolo ancora per un momento, a tentare di
ricomporre il volto perché non s’increspi in solchi profondi di rabbia, quando
alzerà finalmente il capo.
Non può permettersi di mostrare quanto è grato e orgoglioso di essere un
fragile e patetico essere umano, e non una creatura priva di qualunque
sentimento come l’oscuro stregone che già gli volta le spalle.
Credeva di conoscere il ghiaccio di un cuore domato da anni di rinunce, ma c’è
più gelo in un solo schioccare di dita del suo antico mentore di quanto mai ne
abbia conosciuto nel silenzio vuoto del suo sotterraneo, o nelle notti
interminabili d’incubi, pregni di struggente rimorso.
E’ abbastanza da soffocargli ogni calore nel petto, tranne quello, doloroso,
che ancora gli impregna i muscoli indolenziti.
Voldemort si smaterializza senza più un cenno, e gli altri ne seguono
obbedienti l’esempio, sforzandosi d’ignorare il terrore che ciascuno di loro ha
provato per tutto il tempo: quello di divenire anche loro nulla più che un
insignificante grumo di morte abbandonato tra le tombe immote.
Facendo leva più sulla volontà che sulle braccia, Severus si spinge a sedere
sui talloni, tentando di non pensare alla terra che ancora crepita tra i denti,
ostinati a non schiudersi per paura di lasciar uscire nausea e bile.
Solamente allora si accorgere di non essere solo nel vecchio cimitero
dimenticato.
Peter Minus, Codaliscia, è rimasto indietro e lo osserva con un’espressione che
riesce a riportarlo ai giorni di scuola.
L’orgasmo dell’aver assistito al suo strazio gli luccica ancora in fondo agli
occhi, ridotti a due fessure dal crudele e profondo godimento.
“Sempre a terra, eh, Snivellus? Gli anni passano, ma tu non cambi mai: finisci
comunque in ginocchio” lo beffa, pur avendo cura di tenersi a debita distanza
dalla figura fremente ancora china sul prato.
L’esperienza gli ha insegnato che Severus Piton, per quanto vessato, è capace
di azzannare il bastone con cui lo si pungola, in qualunque momento.
Non riceve in cambio lo scatto nervoso che s’era aspettato.
Se anche le gambe fossero già salde, Severus non sprecherebbe per lui un
singolo cedimento del proprio ferreo autocontrollo.
Si alza lentamente.
Inspira.
Muove un breve passo vacillante, eppure deciso, in direzione dell’Animagus e la
bacchetta è già stretta nel pugno. Il rilievo eccessivo delle nocche sul legno
dell’impugnatura è l’unico segno esteriore della furia che lo anima.
“Ricorda, patetico ratto: non importa quanto tu ora sia vicino all’Oscuro
Signore, io per te sono Severus Piton! Pronuncia ancora una volta solo mezza
sillaba di quel nomignolo idiota, e ti giuro che sarai morto prima che la
successiva faccia in tempo ad uscirti di bocca!”
Lo scandisce con tale composta malevolenza ad infiammare il nero delle iridi,
da scordarsi di avere il palato ancora incrostato d’erba e ribrezzo.
Perfino Minus, arretrando, dimentica lo sfacelo delle vesti di Piton e non
riesce più a scorgere l’inusuale groviglio annodato dei capelli corvini,
normalmente trattenuti in due bande severe a incorniciare l’austerità del viso.
Vede solo una minaccia che gli si fa incontro sicura, e se si azzarda a
replicare è soltanto per convincere se stesso che non potrà mai avverarsi.
“L’argento di questa” ribatte, alzando tronfio la sua mano nuova, ma ugualmente
compiendo un altro passo indietro, “vale molto più di quello della tua
maschera”. Gli occhi sporgenti lasciano correre lo sguardo allarmato fino al
metallico viso da Mangiamorte dimenticato sul prato.
“Ho donato io al Padrone una nuova vita e un corpo. Non dimenticartene!”
conclude, ma non osa ripetere lo sprezzante appellativo d’un tempo.
Severus non è mai davvero innocuo, e lui non intende scoprire se si può morire
nell’intervallo che corre fra una esse e l’altra di un soprannome spietato.
Però, non sa andarsene senza un’ultima stilla di sadico piacere, quindi lo
fustiga un’ultima volta “Eri un vero spettacolo, mentre ti contorcevi gridando.
Eri molto meglio di quel ragazzino… L’ho ucciso io, è caduto esattamente nello
stesso punto in cui non hai fatto che strisciare. Proprio lì, dove sei
crollato. Potevi fare la sua stessa fine, ma sarebbe stato meno divertente
starti a guardare”.
Poi svanisce svelto, in un impeto di codarda prudenza.
Finalmente solo, Severus si concede di cedere ancora. O forse, sarebbe tornato
comunque all’abbraccio dell’erba, il cui sentore sulla lingua ora gli pare il
fiele più amaro che abbia mai bevuto.
Quasi si aspetta di distinguere, tra terriccio e linfa, anche il sapore
dolciastro del sangue di Cedric Diggory, ed un lungo conato lo piega.
Si chiude su se stesso, il viso tra le ginocchia.
Tossisce raccapriccio e saliva, premendosi le mani sullo stomaco, per frenarlo
prima che riversi il suo contenuto sul tappeto erboso.
Gli parrebbe di compiere un orribile sacrilegio, di profanare una tomba.
Non può, deve riuscire a trattenersi.
Nel buio che lo circonda, è come se l’oscurità della notte avesse rubato alla
solitaria distesa di steli tutto il verde, per riversarlo nella sua gola, cui
tenta disperatamente di impartire l’ordine di serrarsi.
Alla fine riesce, ricacciando indietro anche le poche lacrime, scese a lavargli
in due umide scie il volto contratto.
Le sente ancora, salate, agli angoli degli occhi e nel naso, mentre riesce a
stento a infilare qualche respiro tra i colpi di tosse che gli squassano il
petto.
Ascolta il battito del proprio cuore, ma sente soltanto l’assenza di altri
battiti che si sono spenti prima del tempo, poche ore addietro.
Esclude anche quel suono straziante dalla propria mente, finchè non riesce a
percepire esclusivamente il silenzio della tanta morte che ha intorno.
Questo lo calma, adagio.
Raddrizza le spalle.
Non aveva mai pensato di uscire indenne da questa notte, ma non tornerà al
necessario scrosciare di una doccia e al fresco riparo delle proprie lenzuola,
finchè non si sarà ricomposto.
Può mostrarsi così alla critica sfacciata delle stelle che lo occhieggiano
tremule dall’alto, ma mai a Silente.
Riscopre piano i propri muscoli, convincendoli a non smettere di cooperare col
cervello.
Si riappropria, con un gesto rapido, della più leggera tra le sue due maschere,
quella d’argento, facendola sparire tra le pieghe del mantello. Poi torna ad
indossare l’altra, assai più gravosa, dipingendosi il viso di fredda
imperscrutabilità.
Rassettare e ripulire le vesti non lo purifica affatto. Non lo assolve dal
passato, né dalla sensazione di non essere stato pronto abbastanza per evitare
il ritorno di Voldemort e salvare una vita innocente.
Ingoia gli ultimi grumi d’erba e fango, rammentandosi che perfino Potter è
stato ad un passo dal baratro, quella notte.
Tutto poteva andare perduto.
Ma non accadrà più che l’Oscuro Signore lo colga impreparato.
Non può permetterlo.
Ci saranno sicuramente altre Cruciatus, nuove menzogne propinate col veleno nel
cuore, nuove vittime innocenti, ma prima o poi tutto questo avrà fine.
Forse lui non vedrà quel giorno, ma riuscirà a condurre Voldemort verso una
distruzione che, finalmente, non preveda ritorno.
Lo giura, ad ogni singolo filo d’erba, alle lapidi, anche quelle che non
affondano le loro immobili radici di marmo in questo cimitero.
Lo promette a se stesso, un attimo prima di smaterializzarsi, nel viola
dell’alba che inizia ad allungare le sue dita di luce sugli angeli di pietra
mutilati dal tempo, e sulle urne mute con le loro sbiadite incisioni di nomi e
cordoglio.
E’ solo questione di tempo; un giorno, ogni conto sarà saldato.
Allora, se potrà, tornerà qui, a inginocchiarsi.
Ma solo per un dovuto dignitoso omaggio alla prima inconsapevole vittima della
nuova guerra.
E’ dolce la
sera. Offre una consolazione malinconica, antica. Mi fermo alla finestra,
aspetto, osservo il mondo che passa. Il tramonto, il primo buio.
Attendo la notte.
Buonanotte… Londra.
Ascolto ed osservo. Socchiudo gli occhi ed immagino un colore per questo vento sottile che scivola
tra le fessure, solleva le tende. Corteggia la luce, la dolce fiamma della
candela.
A volte… la spegne.
Io so che questo vento è rosso come la furia, come la passione, come la vita.
Come l’ultima scintilla della fiammella che si lascia domare. Ed anche quando
resta solo oscurità, io so che è stato fatto per amore. Solo per amore.
La luce si è spenta, si sono riaccese le stelle. Sopra
Londra, sopra I banchi di nebbia e fumo. Sopra di noi. Oltre la vetrata.
Il Signore e la sua Corte.
C’è lui al centro di tutto, lui con la sua strana luce
oscura. Un punto buio in una stanza nera. Il potere, il destino, la morte. E
noi. Noi raccolti in preghiera.
Il Signore e la sua Corte. Ecco!
Un’immagine sospesa a metà tra un dipinto dell’Ottocento, ed
un mosaico Bizantino. Mi piace pensarlo.
Così il cerchio è perfetto. L’Oscuro Signore, e noi. Lucius
alla sua destra, ed io alla sua sinistra… come angeli castigatori al fianco di
un dio irritato dalla stupidità degli uomini. E Bellatrix con una rosa
rossa tra i capelli e gli occhi accesi come tizzoni ardenti, e Rodolphus che con un sorriso sbilenco sul viso non la perde
di vista neanche per un solo istante, con l’adorazione che solo l’amore sa
dare, l’amore che ha resistito al dolore ed alla
privazione. Antonin nell’angolo più scuro, Evan che sfiora i suoi dadi da gioco attraverso il tessuto
della giacca. Tutti gli altri.
Siamo noi, senza maschere. Più veri che nella luce di
mille soli.
E’ così; quando la Corte
si ritrova in un cerchio che comprende tutti i nostri sogni, le nostre
speranze, i nostri sentimenti ed i nostri rimorsi… non
ci sono più maschere; quelle le lasciamo per il resto del mondo, per chi crede
che solo quello che si muove nella luce sia puro e vero.
E quando persino le stelle cominciano a spegnersi e tutte le decisioni più
amare sono state prese… l’Oscuro Signore arretra verso i battenti della
finestra e verso i suoi desideri che lui solo conosce… lì dove nessuno può
raggiungerlo, e noi attendiamo un gesto di Lucius, quasi un gesto
galante verso le porte che si aprono per incanto sulla nostra piccola stanza
dei piaceri.
Allora i profumi delle spezie si rivelano senza nascondere nulla: la cannella,
il cacao, lo zenzero. Il delizioso aroma degli arrosti e dei
dolci, e lo splendore degli argenti.
Sappiamo essere uniti nel dolore, lo siamo nella gioia.
E’ in questi momenti che non ho dubbi sulla mia, sulla nostra umanità: qualcuno
ha detto che ciò che conta è il fine, ma non la strada che intraprendi per
arrivare. Altri ancora, al contrario, scrivono che quel che importa è il
viaggio e non la meta.
So che non è così semplice, ma non ho mai creduto che questa persona chiamata
Severus fosse “semplice”. Non lo sono. Ma come ogni altro essere umano al
mondo, che sia un mago o che non lo sia, che viva qui
o a migliaia di chilometri di distanza… so apprezzare il piacere di una cena
con le uniche persone che abbia mai creduto amiche. Questo fa di me una
persona comune nonostante tutto. Anche questo conta.
- Allora, Severus? – la voce di Lucius mi richiama spesso dalle mie
riflessioni. Lui mi da una piccola pacca sulla spalla,
come si usa fare tra amici, e attende che anche io varchi la soglia del nostro
giardino delle delizie.
Quando avevo molti anni di meno, quando ero bambino, abitavo in un villino
grigiastro senza altro orizzonte che la imponente
sagoma di una ciminiera, con l’imperativo di non poter mai aprire la finestra
senza essere soffocato dagli effluvi di quella che di solito viene chiamata “civiltà
moderna”: sbuffi di vapore e banchi di fumo.
Ma certe notti avevo l’impressione che nonostante i vetri chiusi… un piccolo
spiffero di vento riuscisse ad entrare, a scivolare
verso il mio letto… e sapeva di curry, e di spezie esotiche, di vecchie storie,
di viaggi, di avventure. Di una umanità differente… Lo
racconto così, in breve. Due parole per dire di anni di fantasticherie.
…E se avessi aperto la finestra mi sarei affacciato su
un mondo più vasto, privo di ciminiere. Un immenso e puro giardino. Un giardino profumato dei piaceri provenienti dai quattro più
remoti angoli del Creato. Nel mondo che verrà, in quel mondo che desidero costruire… non ci saranno
più ciminiere: forse quello che ho visto è uno dei
motivi per quello che sono.
- Allora, Severus? Cosa stai sognando adesso? -
Gli sorrido – Chissà… -
Anche Lucius sorride prima di correre incontro a
Narcissa che, come una brava padrona di casa, già ci aspetta dall’altra parte.
Così siamo qui, ancora qui tutti insieme.
- Ancora un pò d’arrosto, grazie. -
Sono questi i momenti in cui riesco davvero a “sentire” i sapori, a cercare i
retrogusti, a immaginare nuovi modi per esaltare quella carne o quel dolce;
forse per il resto del tempo digiuno solo per questo. Certi giorni, immerso tra
vapori e provette dimentico ogni altra cosa. Ci sono
solo i miei esperimenti. Ma non adesso: lo ripeto ancora ed
ancora a me stesso, sollevando una forchetta d’argento e sorridendo ad un
cosciotto di pollo.
La nostra cena, la Corte
alle prese con i più innocenti e goduriosi divertimenti. E dopo… ancora qui,
quando già albeggia.
E ogni volta so che la poltroncina foderata di velluto verde sarà mia, che
siederò con un calice di vino scuro come il sangue tra le dita, ed allungherò i piedi verso le braci ardenti nel camino.
Narcissa si sarà addormentata sul divanetto senza finire una partita a scacchi,
e Lucius sarà scivolato al pianoforte. Bellatrix e Rodolphus
staranno discorrendo a voce bassa, lei con la punta delle dita e l’angolo della
bocca ancora sporchi di zucchero a velo, e lui con un vassoio ormai vuoto in
una mano ed un fazzolettino di lino nell’altra. Evan immerso in un solitario a carte, edAntonin immobile come una sentinella al balcone. Barty perduto nella lettura di un libro.
Ciascuno di noi ha qualcosa da fare, ciascuno di noi sa cosa deve fare.
Ciascuno di noi sa quando essere una persona… e quando un soldato.
Sappiamo vivere, oltre che dare la morte.
E tutto questo ha un senso per noi, per me.
Continuiamo a credere, a sperare. A vivere.
Ecco perché sorseggio ancora questo vino, e sorrido. Sorrido al futuro, alla
fine di quella che chiamano notte.
Il sole
tramonta al di là dell’orizzonte ed il mio cuore con
lui.
Scende lento in abissi da cui ero faticosamente risalito, e in cui ancora di nuovo mi getto dai facili castelli di equilibrio che mi ero
voluto costruire.
Vacua, la bacchetta mi fissa da terra, domandandomi il perché di tanto male, e
forse in fondo me lo sto chiedendo anch’io.
Solo… non trovo risposta se non nella mia fedeltà.
<>, dici prima di volare, Albus, e le parole
graffiano le pareti dell’anima.
Lo guardo, e lo scaglio giù, così come gli ho promesso.
Già, promesse, frasi che suggellano destini, e dispensano dolore come se fosse bello vedersi morire ogni giorno poco a poco.
Ormai non ha più senso la mia anima, e nonostante fossi cosciente di quello che
dovevo fare sulla Torre, non ho più forza questa notte da riservare a me stesso
dopo quello che ho fatto e ad ipotetiche scuse, che so
il mio cuore abbandonerebbe lungo la mia strada insanguinata.
Ripenso incessantemente a quello che è accaduto a scuola solo un paio d’ore fa,
e già mi sembra lontanissimo.
Un soffio gelido del mio passato, un’altra lacrima che lentamente va a spegnere
il fuoco nero nei miei occhi!
Tutto questo è ciò che resta di sbagliati ideali di gioventù.
Tutto questo mi resta delle tue dolci promesse, Oscuro, e adesso che ti ho
davanti, realizzo ancor di più d’aver fatto il mio dovere e di non aver mai
cessato di tradirti, solo per Albus.
Capisco che a volte la coerenza ha un prezzo assai più caro del tradimento
stesso.
Tu non hai più un’anima: l’hai perduta inesorabilmente lungo la via
all’immortalità.
Io l’ho smarrita tempo addietro, misero mortale che ora cerca riscatto nel
silenzio e nella solitudine di cui voglio circondarmi ora più che mai.
La mia fedeltà non è mai andata a te, Signore Nero, se non in principio, quando
ero un giovane cieco. D’un tratto gli occhi scintillanti di un mago buono,
l'unico che tu abbia mai temuto, mi hanno fatto comprendere la mia verità, chi
io fossi realmente, e la lealtà è andata a lui, potente Bianco a stagliarsi
contro le tue tenebre.
Ho distrutto lui, la luce che mi guidava, solo in nome di una guerra che deve
proseguire, al di là delle vittime che miete.
Mentre la notte si affaccia sul mio mondo sempre più vuoto, ho
freddo. E la mia anima urla disperata e bisognosa di
coraggio.
So che devo andare avanti, come ti ho promesso, Albus, e niente mi fermerà.
Ti ho ucciso perchè lo volevi, in nome dell'Ordine e
della salvezza di Draco.
Non sei morto per te, ma per tutti noi.
Ora comincino le danze.
Ondeggiamo in questo cerchio, mangiando la morte, mangiando
le nostre vite, dannate e asservite alla causa dei folli. O almeno le vostre
vite. Io mi sono ravveduto grazie al Bianco, ma il fio delle mie colpe non sarà
mai interamente pagato. Troppe sangue da me versato. Ondeggiamo intorno a te, Oscuro, il sole del destino
di questi fanatici, nella notte più tremenda. E del mio.
Perché, voglio o non voglio, il mio futuro dipende
unicamente dalla tua caduta.
Tra tutti il tuo sguardo è fisso su di me, illuminato da un orgoglio che
accresce ancora il mio disprezzo per la persona che sono, e persevera nella
falsità fingendosi un servo quale non sono mai stato
di nessuno.
Sì, l'ho ucciso, ma non per te, ma per lui, e lui è morto per gli altri.
Fingevo - che attore superbo - d'obbedire a un tuo ordine scagliandolo nel
vuoto.
E invece il suo destino se l'era segnato da solo, il Bianco, e aveva incaricato
me d'impersonare la sua ultima ora.
E ancora una volta ti ho ingannato.
Ti avvicini, sembri quasi sfiorare la terra di noi miseri esseri umani. Mi
consegni un pugnale d’argento, puro e immacolato.
Pronto ad essere screziato di nuovo e a costellarmi la
vita di nuove morti. Il pegno per un figliol prodigo che torna dal padre dopo
tanto tempo.
Mi accogli di nuovo tra i tuoi adepti, ma non sai che sono solo una spia.
Mormoro un fievole ringraziamento, e riprendo a salmodiare il tuo nome. A te
non importano esseri lucidi e intelligenti che realizzino servizievoli i tuoi
capricci, ma fredde macchine di morte, prive di volontà.
E cosa sono io, se non il vuoto che si aggira sulla terra, sbiadendo nel nulla
di un’esistenza che ho perduto tempo fa, e ho perso
ancora uccidendo contro il mio volere? Non forse tradito innanzitutto me
stesso? Cosa sono, se non la fredda luce della luna che si
riflette in mari dannati e deserti maledetti?
Sono un uomo spento, e nulla più, dalle mie mani morte senza confini per chi si
frappone fra noi e la vittoria finale.
Morte senza fine, in un mondo più buio e senza ragione nella violenza, di cui
io mio malgrado recito benissimo la parte.
Morte per il Bianco, a cui è andata fino all'estremo
istante la mia lealtà: non potevo fare altrimenti, ma me ne dolgo all'infinito. Ed ora ciò che bramo è solo il sonno. Sono un uomo e
nulla più, ma i bisogni restano.
E magari, quando questa farsa sarà conclusa, mi ritirerò in qualche tana come
un topo solitario e mangerò prima di dissolvermi in sogni tormentati.
Ho freddo, e fame.
Mi sembra un secolo che ho assaporato del cibo.
Forse sto semplicemente diventando sempre meno umano, e mi allontano dalle più
basilari necessità fisiche. O forse voglio illudermi che non mi risveglierò, e
che sono libero di scegliere: scegliere di lasciarmi andare, uscire di scena in punta di piedi senza che nessuno pianga sulla
mia tomba, se mai ne avrò una.
Una volta che avrò lasciato questo cerchio di sangue che ti celebra, potrò
trovare un pò di requie, mangiare e poi finalmente
dormire.
Forse non merito nemmeno di nutrirmi di quelle poche vivande che qualche buon mangiamorte mi ha procurato e sistemato nel nascondiglio
destinatomi da te, Oscuro.
Forse dovrei lasciarmi morire di fame, non toccare mai più cibo e acqua, fonte
di vita per gli esseri umani. Ma io non sono più un essere umano.
Forse lasciarmi morire di fame sarebbe la pena più giusta.
Inedia... sì.
Ti ho sempre obbedito, Albus: non ti seccherai se per una volta assecondo un
mio desiderio. Perchè continuare a vivere? Perchè fingere di essere ancora un uomo? Nè cibo, nè acqua, solo
morte.
Mi piacerebbe, ma non posso: una promessa mi vincola.
Non ti ho ucciso per nulla, ma perchè così mi hai ordinato, Bianco.
E se muoio, il mio gesto sarebbe vano e graverei la mia anima dell'ulteriore peso di aver tradito anche te, alla fine.
Non posso farlo.
Continuerò a vivere.
Così sia, degna conclusione della tua preghiera che ho
esaudito controvoglia sulla Torre, prima di ucciderti, Bianco, e prima di
raggiungere te, Oscuro, e voi odiati automi di distruzione.
Non ti avrò ucciso per nulla, almeno, Albus.
E dunque, ancora non è finita, e dovrò aspettare prima di lasciarmi ai sogni e alla notte.
Non posso morire.
Allora vivrò anche domani portando a termine il mio compito e aiutare il
prescelto dal destino a distruggerti.
E ancora soffrirò.
Capitolo 23 *** Spuntino di mezzanotte - Premio di mezzanotte (Ida59) ***
Premio di mezzanotte
Genere: Introspettivo, drammatico, romantico
Personaggi: Piton, Voldemort, Mangiamorte vari e Personaggio
Originale
Era: Harry a Hogwarts
Premio di mezzanotte (Ida59)
Il possente maniero
dei Lestrange sfidava il vento da secoli, fortezza invincibile nella notte
senza stelle.
L’abbandono di cui
era stato vittima per lunghi anni non aveva certo potuto intaccare le sue
spesse mura, che, insensibili alle lusinghe di vani orpelli, facevano bella
mostra della loro scura pietra, levigata dal respiro del tempo.
Solo pochi
tendaggi, di pesante velluto verde, ammantavano le slanciate bifore allineate
lungo le due pareti laterali ed intervallate da bracieri di ferro brunito che,
con catene dagli scuri anelli, pendevano dai soffitti a cassettoni.
Il fuoco ardeva con
furia nel grande camino, la cappa istoriata con il rilievo dell’antico stemma
della famiglia Lestrange, e illuminava il gruppo di persone che discuteva
animatamente, disegnando fosche ombre guizzanti sui loro visi.
Il padrone di casa,
in piedi di fianco al camino, riflessi d’ametista negli occhi[1], osservava
orgoglioso la moglie, nera e selvaggia bellezza, che brillava agli occhi del
loro Signore:
- Ora che tutti i
tuoi Mangiamorte sono di nuovo tornati a te, Signore, - esclamò Bellatrix
rivolgendo di sfuggita un penetrante sguardo al marito, - nulla più potrà
ostacolare i tuoi piani!
Voldemort sorrise
condiscendente, il cadaverico viso tagliato dalla rossa ferita della bocca
sottile:
- Dovremmo
ringraziare anche Severus, per questo. – sibilò, girandosi verso il mago che era
seduto in una poltrona discosta dal gruppo e stava osservando silenziosamente
il fuoco, - Non credi?
Piton sollevò
lentamente il volto pallido e scavato e le fiamme del camino si riflessero per
un istante nei profondi occhi neri del mago, densi di ombre cupe.
Per un lungo
momento, le iridi di rubino di Voldemort scrutarono a fondo quelle del fedele
Mangiamorte che era riuscito ad eliminare il suo rivale di sempre.
- Ancora non mi hai
chiesto nulla, come premio, per aver ucciso quel protettore di babbani,
Severus, e sono ormai passati oltre sei mesi. – sibilò l’Oscuro, senza mai
interrompere il penetrante contatto visivo con l’altro. – Mi hai dimostrato
tutta la tua più completa fedeltà e ora sai bene che puoi chiedermi qualsiasi
cosa. – lo sollecitò ancora.
Piton sostenne
impavido il suo sguardo, gli occhi neri che scintillavano nel viso impassibile,
segnato da una sottile cicatrice, appena visibile sulla guancia sinistra.
Solo una piccola
striatura sulla pelle pallida, assolutamente nulla rispetto alle profonde
lacerazioni della sua anima, insanabili da quella notte maledetta in cui aveva
ucciso il solo amico che aveva, provandogli, con infinita sofferenza, la sua unica evera fedeltà.
Odiava quegli occhi
che lo scrutavano e violavano la sua intimità, obbligandolo a rinnegare
continuamente i suoi sentimenti per poter ancora una volta mentire. Lo
disgustava, ogni volta di più, dover creare quelle ributtanti emozioni
d’esultanza davanti alla morte dell’unica persona che aveva avuto piena fiducia
in lui. Non sopportava più quella soffocante maschera d’imperscrutabilità che
portava scolpita sul volto e negava la sua dolorosa umanità.
Ma doveva farlo.
Non per sé, non per
la propria misera vita, di cui non gli era mai importato nulla, ma per il
futuro di quel mondo magico che lo aveva ormai definitivamente bandito come
infame traditore e crudele assassino.
Per poter
continuare la ricerca degli Horcrux, per tener fede alle promesse fatte a
Silente, senza mai poterlo piangere, fragile emozione ancora e sempre sottratta
alla sua corrotta umanità.
Così, era solo il
suo cuore che stillava invisibili lacrime di sangue dalle inguaribili ferite
dell’anima.
Sul suo viso,
pallido e scavato, solo quella cicatrice, ed il più rigoroso e impietoso
autocontrollo che gli proibiva anche il più impercettibile sospiro.
Piton si alzò
lentamente dalla poltrona per avvicinarsi a quella dove sedeva Voldemort,
attorniato dai suoi Mangiamorte, e inchinandosi un poco in segno di rispetto,
lo lusingò:
- C’è tempo, mio
Signore. L’importante è averti pienamente soddisfatto: questo è il premio più
ambito!
Il riflesso
sanguigno del fuoco ondeggiò nelle iridi di Voldemort che, finalmente,
abbandonarono soddisfatte quelle del suo servo.
- Bene, il mio
ultimo piano è ormai stato messo a punto e per questa sera abbiamo finito. –
sibilò facendo cenno a Rodolphus. – E’ quasi mezzanotte e molti dei tuoi amici
sono ancora a digiuno. Dov’è finita la rinomata ospitalità dei Lestrange?
Il Mangiamorte
rispose prontamente battendo le mani tre volte e, subito, le porte dell’antico
salone si aprirono lasciando entrare una fila di piccoli elfi domestici che
portavano, sollevati sopra le teste, voluminosi vassoi d’argento, carichi di
cibi prelibati e vini pregiati.
Il delizioso
profumo delle vivande si sparse per la sala, mentre i minuti servitori
mescevano il vino agli ospiti comodamente adagiati nei morbidi divani di
broccato verde scuro. Le squisite pietanze furono servite in piatti di
trasparente porcellana posati sui bassi tavolini antistanti canapè e dormeuse
sparsi per il salone.
Tintinnii di
cristallo si mescolarono presto ad appagate esclamazioni d’approvazione, mentre
i convitati si apprestavano a placare la fame attingendo a piene mani dal lauto
banchetto che era loro offerto.
Solo Piton si era
ritirato in disparte, disdegnando il cibo, lo stomaco vuoto che si rifiutava
recisamente di saziarsi.
Accadeva sempre
così, dopo ogni incursione di Voldemort nella sua mente: il disgusto per aver
dovuto, ancora una volta, rinnegare il dolore per la morte di Albus, era troppo
forte. Non si sarebbe mai abituato, ne era certo, ed ogni volta era sempre più
penoso e difficile ricreare immagini di soddisfatto tripudio là dove c’era
solo, invece, la sua profonda e straziante disperazione.
Ogni volta si
chiedeva se fosse riuscito, ancora, ad imbrogliare il suo orrido Signore.
Era sempre vivo,
certo, ed era anche riuscito ad individuare un altro Horcrux, passando poi
l’informazione a Lupin, ma questo non significava affatto che il suo padrone si
fidasse veramente di lui e lo dimostrava con quelle improvvise e pericolose
invasioni della sua mente.
Non poteva
permettersi di rilassarsi, mai, neppure per un fugace istante: doveva sempre
essere sul chi vive, pronto a respingere ogni attacco.
Le sorti del mondo
magico erano nelle sue mani e quella sera era venuto a conoscenza di importanti
informazioni che doveva far avere al più presto a Lupin, l’unica persona che
Silente aveva messo al corrente del proprio folle piano.
Ora, però, Piton
osservava le fiamme voltando le spalle all’allegra compagnia, risate come
scoppi nelle sue orecchie, l’eco di una Maledizione ancora e sempre nei suoi
pensieri ed un mortale lampo verde negli occhi.
E quel sussurro:
“Severus… ti prego…”, amplificato nel ricordo, che, più d’ogni altra cosa,
tormentava il suo cuore.
Strinse i pugni,
nessuno stava facendo caso a lui, e si morse le labbra: cosa avrebbe dato per
potersi permettere di crollare!
Sarebbe bastato
poco, pochissimo, un infimo varco aperto nella mente a rivelare l’immensa sofferenza
che provava, ed il sangue che vedeva riflesso negli occhi dell’Oscuro Signore
sarebbe stato il suo, oblio di una vita perduta.
Ma non poteva
ancora permettersi di morire: prima, tutti gli Horcrux dovevano essere
individuati e distrutti.
Avrebbe tenuto
tutto per sé solo l’ultimo, Nagini: l’avrebbe platealmente uccisa davanti a
Voldemort, rivelandogli finalmente, con tutto il proprio orgoglio, che lui,
Severus Piton, era stato l’artefice della sua distruzione.
Poi sarebbe morto,
tra i mille tormenti che l’Oscuro gli avrebbe inflitto.
Finalmente felice.
Se solo non ci
fosse stata anche lei… la sua dolce Corinne.
Era quello che
aveva sempre voluto, morire e pagare per le sue colpe, ma solo fino a qualche
mese prima, quando l’aveva trovata, morente, tra le macerie della casa, in
mezzo ai cadaveri martoriati dei suoi cari, vittime sacrificate alla causa
dell’Ordine da un mago che aveva rifiutato la magia e si era ritirato a vivere
tra i babbani ma che poi, al momento del bisogno, aveva coraggiosamente messo a
repentaglio la propria vita e quella dei suoi figli offrendosi di fare da
tramite per passare a Lupin, suo nipote, le preziose informazioni recuperate da
Piton.
Il mago aveva
accettato quell’inestimabile offerta e per due mesi i suoi resoconti erano
regolarmente filtrati verso l’Ordine, fino a quella notte, quando l’ira
distruttrice di Voldemort aveva annientato l’intera famiglia, compresa la
bambina e i due ragazzini: il vecchio Dustin non aveva ceduto e non aveva
tradito la sua copertura. Non aveva detto neppure una parola: così glieli
avevano ammazzati tutti davanti agli occhi, lentamente, uno per uno.
Era arrivato troppo
tardi, ancora una volta, in tempo solo per poter pietosamente chiudere loro gli
occhi.
Poi, quel gemito
lieve aveva bloccato ogni suo gesto ed aveva scoperto che Corinne, la figlia
maggiore, di neppure venticinque anni, era ancora viva, sopravvissuta chissà
come a quell’orrendo massacro.
L’aveva presa
delicatamente tra le braccia, cercando di rassicurarla, ed era quindi fuggito
via smaterializzandosi e portandola con sé: aveva operato su di lei ogni
incantesimo di guarigione che conosceva, con tutta la sua disperata dedizione;
le aveva somministrato potenti pozioni ed era rimasto immobile al suo
capezzale, per interminabili giorni, pregando intensamente per la sua vita.
Corinne, alla fine,
si era risvegliata e gli aveva sorriso.
A lui, alla causa
di ogni sua disgrazia.
E la sua vita era
improvvisamente cambiata.
In quel sorriso
aveva poco per volta ritrovato la speranza per un futuro diverso e, nel corso
dei mesi successivi, lei era incredibilmente riuscita a fargli nuovamente amare
la vita, a fargli desiderare di trascorrerla solo con lei.
Si era innamorato
della giovane Corinne, perdutamente, e lei lo ricambiava teneramente, chiamandolo
il suo salvatore.
Se solo avesse
saputo chi veramente era, che era solo lui la causa per la quale tutta la sua
famiglia era stata distrutta e lei aveva rischiato di morire!
Aveva un disperato
bisogno di quell’amore, più dell’aria che respirava o del cibo che lo teneva in
vita; desiderava intensamente Corinne, eppure non voleva averla, conscio
dell’enorme pericolo in cui l’avrebbe messa se fosse diventata la sua donna.
L’amava
immensamente, eppure sapeva che doveva tenerla lontana da sé, per il suo bene;
che doveva proteggerla, prima di tutto da se stesso.
Almeno fino a
quando l’Oscuro Signore non fosse stato distrutto.
Era questo il
grande cambiamento: ora aveva un futuro in cui sperare, una felicità per la
quale combattere.
- Vieni a mangiare
qualcosa, Severus.
Il mago si riscosse
bruscamente dai suoi pensieri, ripristinando immediatamente l’usuale e dura
maschera d’impassibilità, preoccupato solo che qualcosa dei suoi intensi
sentimenti avesse potuto filtrare all’esterno, sui suoi lineamenti.
Ma era una voce
stanca, strascicata, quella del mago che gli aveva parlato: solo l’ombra
dell’uomo che un tempo era stato il potente Lucius Malfoy.
Oltre un anno di
prigionia ad Azkaban non lo aveva minimamente piegato, ma la morte di Draco e
la pazzia di Narcissa lo avevano distrutto. Viveva solo per vendicare il
figlio, per uccidere quell’Auror maledetto, e, quella sera, Voldemort gliene
aveva finalmente dato la possibilità.
- Non ho fame,
Lucius. – rispose stancamente.
Il raffinato volto
dell’amico era ricoperto da sottili rughe, ragnatele di dolore che lo
imprigionavano. E lui era colpevole anche di questo, di non aver saputo
mantenere fino in fondo la promessa fatta alla bella Narcissa, di non aver
saputo proteggere Draco dall’ira di Voldemort che, consapevolmente, e ancora
una volta, lo aveva mandato incontro alla morte.
Solo questo era
riuscito a nascondere a Lucius, che la morte di Draco era stata voluta dal suo
Padrone, perché sapeva che conoscere questa verità lo avrebbe definitivamente
annientato.
Lui, intanto,
faceva gli amari conti con la propria coscienza e con il viso di Silente, che
aveva dato la vita per l’anima di quel ragazzo.
L’anima, però,
quella era riuscito a fargliela mantenere integra e pura, ma quell’innocenza,
che lui aveva perduto tanti anni prima, era costata la vita al ragazzo, senza
che potesse fare nulla per salvarlo.
Solo chiudergli gli
occhi, pallido argento che non avrebbe mai scordato.
- Bevi almeno
qualcosa, - insistette Lucius porgendogli una coppa di vino, rosso rubino. –
Sai che Lui vuole che ci divertiamo
in queste occasioni.
Piton accettò la
coppa e si obbligò a poggiare le labbra sul sottile cristallo, sorbendo un
piccolo sorso del profumato vino, mentre si rendeva conto che, alle sue spalle,
nuove esclamazioni erano improvvisamente nate, figlie d’una eccitazione che
aveva radunato i Mangiamorte nel loro maledetto Cerchio al centro del salone
delle feste del maniero dei Lestrange.
Chiuse gli occhi e
deglutì, fingendo di assaporare il delizioso vino.
Quella notte si prospettava
interminabile e lui non ce la faceva già più: non sarebbe riuscito a resistere
ancora, non voleva più assistere impassibile ai loro perversi e crudeli giochi.
Riaprì gli occhi, a
fatica, per tornare a quell’orrido incubo che era ormai diventata la sua vita.
I piccoli elfi
stavano deponendo su uno spazioso tavolo, con faticosa cura, un lungo vassoio
dove era adagiata una giovane donna coperta di trasparenti veli: l’erotico
dolce, generosamente offerto dal padrone di casa ai suoi amici.
Piton non riuscì a
trattenere un sospiro di sgomento, mentre Lestrange si chinava sulla ragazza e,
lascivamente, le passava la mano sul corpo indifeso, levando lentamente un
sottile velo dopo l’altro.
- Ecco qui il
“piatto forte”, amici miei, magnanimamente offerto dal nostro Padrone! –
esclamò, lasciando cadere a terra l’ultimo strato d’impalpabile seta.
Eccitate e volgari
esclamazioni fecero seguito al gradito dono, mentre Rodolphus si chinava di
nuovo per sollevare un poco il busto della ragazza, inerme e sensuale odalisca
che non poteva sottrarsi al suo tocco, la mente annebbiata da una pozione che
le toglieva ogni volontà, il viso ed i capelli ancora celati da un delicato
pizzo.
Il suo corpo,
invece, era svelato alla loro vista, reso evidente dai provocanti lembi di
trasparente tessuto che ancora la coprivano, insieme a rosse ciliegie,succosi acini d’uva e delicati frutti di
bosco disseminati per ogni dove sulla sua nivea pelle.
Piton strinse i
pugni sotto il mantello, il viso impassibile a scrutare la nuova vittima per la
quale, ancora una volta, non avrebbe potuto fare nulla.
Solo chiuderle
pietosamente gli occhi, una volta che quegli animali avessero finito di
banchettare con il suo giovane e seducente corpo.
Poi Lestrange
strappò via la preziosa trina dal suo capo.
Una cascata dorata,
in morbidi e lunghi riccioli, scese a nasconderle le spalle ed il petto, mentre
gli occhi, resi enormi dal terrore, scrutavano l’ambiente intorno a lei.
Piton si sentì
morire.
Chiuse gli occhi.
Li strinse forte.
Poi li riaprì.
L’incubo più
terrificante gli gelò il sangue nelle vene, mentre le parole di Lestrange
pronunciavano la sua infernale condanna:
- E’ tutta per voi,
per soddisfare il vostro appetito: è la figlia di quel rinnegato che passava
informazioni all’Ordine della Fenice, che era incredibilmente riuscita a
sopravvivere alla nostra giusta vendetta!
Corinne, la sua
Corinne! Come poteva salvarla?
Com’erano potuti
arrivare fino a lei? Forse era stato scoperto?
La sua vita non
contava nulla, ma quella di Corinne aveva un inestimabile valore: nessuno di
quei depravati doveva toccarla, nessuno doveva offenderla con lo sguardo,
nessuno doveva farle del male.
Lottò strenuamente
contro la disperazione, cercando di impedire che trasparisse dai suoi occhi; si
oppose tenacemente all’angoscia che voleva deformare la maschera
imperscrutabile del suo volto; desiderò d’indossare ancora l’odiata maschera
d’argento affinché la sua adorata Corinne non potesse riconoscerlo in quel
manipolo di anime putrefatte.
Ma era troppo
tardi.
La pozione che le
avevano fatto bere le impediva di ordinare ai suoi muscoli di lottare contro
quelle mani che le insudiciavano il corpo, ribellandosi a quei bastardi, ma lo
aveva perfettamente riconosciuto.
L’odio verso di lui
era esploso improvviso nella mente della sua dolce Corinne, aperta al suo
sguardo senza protezione alcuna, certa che lui fosse solo uno di loro, un
assassino che aveva crudelmente causato la morte della sua famiglia, per poi
ingannare e circuire la sua ingenuità facendole credere d’averle salvato la
vita.
Nel fugace istante
di uno sguardo, l’odio aveva soppiantato l’amore che in Corinne stava crescendo
per lui.
Ed aveva ucciso
ogni sua speranza nel futuro.
Irrimediabilmente.
Lei lo odiava.
Definitivamente.
Glielo leggeva nei
chiari occhi nocciola, dove fino a poco tempo prima aveva brillato la dorata
luce dell’amore.
Ora vi era solo
l’oscurità, bruciante, dove giacevano le ceneri del loro amore.
- Bene, era proprio
la frutta che ci mancava! – grugnì Amycus spingendo giù di nuovo la ragazza sul
vassoio ed allungando poi le mani rapaci, spostandole i capelli dal busto,
mentre i suoi occhi brillavano di lussuria. – Questi due bei meloncini sono
tutti da mangiare…
Gli sembrava di
impazzire: com’era possibile, la sua delicata Corinne, alla mercé di quei
porci!
Nella calca,
qualcuno da dietro lo spinse rudemente in avanti e Severus si trovò a pochi
centimetri dal tavolo.
- E che dire di
queste succose ciliegine? – rilanciò oscenamente Tiger sghignazzando, mentre si
chinava, ingordo, sul petto della giovane, spingendo via Amycus. – Sono tutte
da succhiare!
Come poteva
rimanere immobile, mentre quel bastardo stava per profanare la donna che amava,
ma che lui non aveva mai neppure osato sfiorare; la donna che desiderava
infinitamente, ma che aveva sempre e solo voluto delicatamente accarezzare con
il suo ardente respiro, le labbra ingorde sempre controllate dalla sua ferrea
volontà, a sussurrarle piano il suo infinito e rispettoso amore.
Tiger si rialzò e
sul volto, rosso d’eccitazione, spiccava un soddisfatto riso sguaiato; afferrò
dal vassoio una manciata di ciliegie e se le ficcò in bocca bofonchiando
ammiccante:
- Dai Severus,
serviti anche tu: sono belle sode e stuzzicano l’appetito!
Il mago contemplò
la sua Corinne, quasi del tutto nuda davanti a lui, come mai l’aveva vista
prima, né mai aveva immaginato di poterla vedere.
Di nuovo fu preda
del rimorso: il passato, con tutte le sue colpe, era stato adagiato senza pietà
su quel vassoio, ed in lui vi era tutta l’orrenda consapevolezza di quello che
stava accadendo alla donna che amava e quello che, ancora più agghiacciante,
sarebbe presto stato perpetrato su di lei!
-
Allora, che aspetti? – lo incalzò bruscamente Goyle. – O ti sbrighi, o ti togli
di mezzo!
Corinne
lo guardò, odio e terrore ad oscurare la luce ambrata dei suoi occhi, mentre
lui, con estenuante e tormentata lentezza, si costrinse a raccogliere della
frutta fra quella sparsa sul corpo della giovane donna, ben attento a non
sfiorare nemmeno la sua candida pelle, ormai macchiata dal succo di more,
ciliege e fragole che altre irrispettose mani avevano ignobilmente spremuto su
di lei nella ricerca del loro osceno godimento.
Sempre lentamente
portò alle labbra una succosa mora, negli occhi lo strazio più profondo,
riflesso nel disprezzo di quelle iridi che lui conosceva solo dolci come il
miele, e crudelmente s’impose di ingoiarla, insieme alla sua disperazione.
Qualcuno alle sue
spalle, smanioso, lo spinse bruscamente di lato:
- Non mi piace la
frutta: preferisco queste succulente cosce!
La mano prepotente
di Goyle s’infilò tra le gambe strettamente serrate di Corinne che gemette,
cercando di ritrarsi: l’effetto della pozione che le imponeva di rimanere
succube evidentemente cominciava ad indebolirsi, mentre l’odio verso l’uomo che
fino a poco prima amava s’ingigantiva sempre più. Severus era lì, a pochi passi
da lei, e la stava osservando completamente impassibile, masticando con
noncuranza una mora. Le aveva sempre e solo mentito sul suo amore: un’unica,
grande e vergognosa menzogna, giacché ora l’abbandonava in pasto ai suoi
famelici e immondi compagni.
- Guarda che bel
cetriolone è già pronto per te!
Piton represse a
fatica un rantolo: no, non poteva permettere loro di violare il suo tesoro, di
farle del male, di offenderla ancora con le loro sconce battute ed i lascivi
sguardi. Lei, il suo prezioso amore, la sua luce meravigliosa, l’ultima
speranza di un futuro ormai perduto, di nuovo seppellito dalle irrimediabili
colpe del suo passato.
Avrebbe solo voluto
urlare il suo amore disperato, slanciarsi verso di lei ed avvolgerla in un
tenero abbraccio protettivo, tra le sue braccia rispettose, celandola a quegli
sguardi voraci, impedendo loro di toccare quella carne delicata che anche lui
bramava ma che si era sempre negato, non ritenendo di meritarsi quel dolce
sogno.
Invece, si rivolse
con imperturbabile calma verso Voldemort e sentì la sua gelida voce reclamare
solo per sé l’osceno premio.
Quella sua
imprevista richiesta sorprese così tanto il suo padrone che egli fece solo un breve
cenno d’assenso in direzione della ragazza: un balenio di rossa luce nei suoi
occhi e i Mangiamorte che si accalcavano intorno a Corinne si trovarono
sospinti con violenza di lato, la giovane preda in bella vista sul vassoio, ora
solo per lui.
Si avvicinò
lentamente, lo sguardo incollato agli occhi ambrati della donna che amava, cui
mai, per nulla al mondo, avrebbe potuto fare del male, e si sentì respinto dal
suo furioso odio impotente.
Si chinò piano su
di lei e, delicatamente, la sollevò tra le braccia.
Corinne, ancora
impossibilita a ribellarsi a causa della pozione, gli sputò in faccia, con
forza, tutto il suo sdegnato disgusto.
Avrebbe voluto
inginocchiarsi davanti a lei e implorare perdono, ma solo la strinse più forte
a sé e si diresse veloce verso il fondo della sala, trascinandola via da quel
luogo ripugnante, ormai pienamente conscio d’averla perduta per sempre.
*
Oltre un’ora più
tardi, Piton si ripresentò nel salone, salutato da volgari esclamazioni di
giubilo: Amycus, che nel corso di un’accesa partita a dadi si era aggiudicato
il secondo assaggio, si alzò di corsa, ma il mago lo fermò, parandosi con
decisione davanti all’uscita.
- No, lei è solo
mia!
- Non sono queste
le regole. – ringhiò Amycus. – L’hai avuta per primo, ora fatti da parte!
- No, è solo mia. –
ribadì Piton con decisione. – Intendo sposarla domani.
FINE
Gioco
perverso,
Nuda senza volontà,
Vostro banchetto.
L'odio che ho nei miei occhi,
Diventerà amore.
Bellissimo Tanka, scritto da Ranze quale
omaggio alla mia storia, che svela che la stessa avrà, ovviamente, una lunga e
felice (sebbene non immediata) continuazione!
[1] Non so perché, ma nel
fandom Rodolphus Lestrange è ormai famoso per i suoi occhi viola!
Capitolo 24 *** Spuntino di mezzanotte - ritardi e ritorni (Starliam) ***
Grifondoro e Serpeverde camminavano nel corridoio dirigendosi verso
l’aula di Storia della Magia per affrontare la prima lezione dell’anno, i nuovi
arrivati che non avevano mai assistito ad una lezione di KP erano vagamente
intimoriti perché i compagni p
Il rumore
delle risate e dei festeggiamenti si spense di colpo. Tutti si erano voltati
verso l'entrata, dalla quale il nuovo arrivato aveva appena fatto il suo
ingresso. Rimase un attimo immobile, come per abituarsi a quell'accoglienza a
dir poco glaciale. I suoi occhi erano fissi sull'occupante dell'alto scranno
che, a un capo della lunga tavolata rettangolare, sovrastava tutti i
commensali.
- Vieni avanti, Severus. Ti stavo aspettando.
L'uomo si avvicinò lentamente, nel silenzio opprimente della sala. Arrivato di
fronte al suo signore, si inginocchiò e chinò il capo, sempre senza dire una
parola.
- Sai che io sono sempre stato molto magnanimo con i miei Mangiamorte... anche
quando non se lo meritano. Ebbene, prima di punirti voglio quindi darti la
possibilità di spiegarti. Qual è stata la ragione del tuo ritardo?
- Mio signore...
Severus aveva iniziato a parlare con voce sicura, ma resa bassa dal fatto di avere
ancora il capo chinato.
- No. Alzati in piedi e parla davanti a tutti. Anche loro meritano delle
spiegazioni.
La voce glaciale lo aveva interrotto, con la rabbia che trasudava da ogni
sillaba. Era evidente che avrebbe dovuto faticare non poco per convincerlo. Non
importava. Ci era abituato. Si alzò in piedi con calma e rimase a fissare il
suo signore negli occhi, senza degnare gli altri occupanti della tavola di un
solo sguardo.
- Mio Signore, devi scusarmi per aver preso questa iniziativa senza consultarti,
ma come tu puoi comprendere, non ce n'è stato il tempo.
Mi ero accorto da tempo, come tutti gli altri, che il Marchio stava diventando
sempre più scuro, e mi stavo preparando con gioia al momento in cui sarei
tornato al suo cospetto. Ma quando mi è giunta la tua chiamata, la scuola di
Hogwarts e i suoi occupanti si trovavano in una situazione particolare. Forse
ho peccato di presunzione, ma ho pensato che ti avrei reso un utile servizio
rimanendo per un po' a raccogliere informazioni. Senza contare che se fossi
sparito subito avrei fatto insospettire il vecchio Silente, mentre così ho la
sua completa fiducia; in quanto si è convinto che sono qui solo su suo ordine.
Sul volto scarno e pallido di Voldemort si dipinse un sorriso glaciale.
- Molto bene, Severus. Più tardi avrò bisogno di un colloquio con te in
privato. Ci sono molte... molte cose... che necessitano di un chiarimento. Ma
possono aspettare. Per il momento godiamoci questo banchetto. In fondo è
l'inizio di una nuova epoca per noi, no? Codaliscia!
L'ometto seduto alla sinistra di Voldemort sollevò di scatto la testa.
- Vattene in fondo al tavolo, fai sedere Severus.
Codaliscia si alzò sempre tenendo la testa bassa, cercando di evitare lo
sguardo di fuoco di Piton.
Dal momento che si trovava alla destra di Voldemort, per poter raggiungere il
posto alla sua sinistra fu costretto a fare tutto il giro della grande tavola.
Una regola mai detta ma inderogabile vietava infatti nel modo più assoluto, di
passare dietro la schiena del Signore Oscuro. Tutti dovevano rimanere, in ogni
istante, ben visibili. Di nuovo sentì gli sguardi di tutti su di sè, mentre si
avviava al posto che gli era stato destinato.
C'era ancora il piatto di Codaliscia; Severus lo scansò con una smorfia di
disgusto e si sedette. Non aveva bisogno di nascondere le emozioni negative che
Minus suscitava in lui: non era una presenza gradita a nessuno di loro.
In silenzio, si servì di qualche pezzo di carne di agnello dal vassoio davanti
a sè, mentre il chiacchiericcio ricominciava, vivace come se non fosse mai
stato interrotto. Notò che nessuno gli rivolgeva la parola, come se non fosse
mai arrivato. Voldemort aveva detto qualcosa agli altri, prima che lui
entrasse? Sicuramente. L'Oscuro Signore non aveva osato dire di più davanti
agli altri per poter continuare a giocare ancora un po' a fare il padre-padrone
premuroso e indulgente. 14 anni di lontananza erano troppi, anche per i seguaci
più accaniti. Non voleva correre neanche il minimo rischio di perdere la loro
fiducia; anche un solo Mangiamorte un po' meno convinto degli altri, allo stato
attuale delle cose, poteva rappresentare un pericolo.
Non sapeva che cosa sarebbe accaduto "dopo", ma poteva facilmente
immaginarlo. Anche se adesso Voldemort sembrava di buonumore, aveva visto il
luccichio rabbioso nei suoi occhi. Non sarebbe stato facile riuscire a
convincerlo, stavolta. A suo favore c'era il fatto che dopo anni passati a
contatto con lui, sapeva quali argomenti sollevare. L'unica cosa che
interessava a Voldemort era il successo. Il suo successo, tutto il resto non
contava. Qualunque azione potesse contribuire al successo, per lui era ben
accetta. Sarebbe riuscito a dimostrargli che il suo ritardo di due ore era
servito a portargli grossi vantaggi?
Ridacchiò distrattamente a una battuta su Silente (o era su Moody?) che aveva
fatto il Mangiamorte alla sua destra.
Sì, ci sarebbe riuscito: avrebbe dovuto riuscirci, se voleva sperare di
rimanere vivo. Per anni si era allenato e si era preparato per questo momento.
La sua mente era impenetrabile, la sua resistenza al dolore molto alta. Ma
questo, ovviamente, non poteva evitargli di sentirsi un fremito dentro. Paura,
agitazione, insicurezza. Sapeva che prima o poi questo sarebbe successo, e si
era preparato mentalmente. Ma non poteva fare a meno di temere quella che
poteva essere la conclusione del loro "colloquio". Il fatto che fosse
sempre riuscito a convincere Voldemort non significava che ci sarebbe riuscito
anche stavolta, per quanto fosse preparato. Deglutì e prese un altro boccone.
La carne era saporita e cotta al punto giusto, proprio come piaceva a lui. Ma
al momento non riusciva proprio a godersela, così come non si era mai goduto
aclun pranzo o rinfresco offerto dal "suo" signore. Il cibo aveva
un'ampia parte nei rituali dei Mangiamorte, così come vino e alcool in genere.
Spesso non mancavano anche altri tipi di sostanze, per esaltare l'aggressività
e l'eccitazione. Per Piton, dover mangiare e bere in allegria con quella gente
era sempre stato difficile, ma mai come ora. Poche ore prima era successa una
cosa indescrivibilmente crudele, e invece di urlare la sua rabbia al
responsabile (come avrebbe voluto tanto fare) doveva ridere e scherzare. E
sperare che lo lasciasse vivo ancora un po'. Inghiottì un altro boccone,
seguito da un sorso di vino bianco frizzante.
Voldemort e Lucius, intanto, commentavano gli avvenimenti di quella sera,
congratulandosi per ciò che era successo e rammaricandosi per ciò che, invece,
non era potuto accadere. Avrebbe dovuto partecipare alla conversazione, per farsi
vedere interessato.
- E' un peccato che mi sia sfuggito. Avrei potuto farla finita una volta per
tutte. A ripensarci, avrei potuto ordinare a Codaliscia di tagliargli la gola.
Così avrei avuto tutto il sangue che mi serviva e mi sarei sbarazzato di lui in
un momento solo. Sì, tagliargli la gola. Come si fa con gli agnelli...
Il boccone di agnello che Severus stava masticando, sembrò improvvisamente
inchiodarsi al suo palato. Piton dovette prendere un respiro profondo prima di
riuscire a deglutire.
Lucius scoppiò in una risata profonda, di gola, assolutamente sincera, subito
seguito da Voldemort. Severus si unì a loro, iniziando a pensare al possibile
svolgimento del suo colloquio privato con il Signore Oscuro.
- Il vecchio Silente si deve essere proprio rimbambito, non si è accorto di
nulla per mesi!
Altra risata.
Avrebbe potuto dire senza problemi come era stato scoperto Barty Crouch e che
fine aveva fatto.
- Sì, e tutti gli altri? Incredibile come gliela abbiamo fatta sotto il naso!
Altra risata.
Ma avrebbe taciuto del ritorno di Sirius Black.
- Avrei proprio voluto vedere la faccia di Silente!
Risata.
Avrebbe potuto dire che Silente pensava di ricostituire l'Ordine. Lo avrebbero
saputo comunque.
- Proporrei un brindisi. Per il nostro fidato amico, che ha permesso
materialmente la mia rinascita, tessendo con grande maestria questo inganno per
mesi e mesi. Purtroppo ci ha lasciati, ma tutti noi gli dobbiamo molto.
Tutti si alzarono in piedi e tesero i bicchieri colmi di buon vino.
Brindisi.
Ma non avrebbe detto niente di ciò che era successo in infermeria.
Finito il brindisi, diversi Mangiamorte si avviarono a tornare alle loro case.
Mantelli addosso e maschere sul volto, si salutavano stringendosi la mano,
congratulandosi per il ritorno dell'Oscuro. Piton salutò Lucius e Aletto,
vedendo con la coda dell'occhio Voldemort che si alzava.
Ecco, era arrivato il momento. Respirò a fondo, ricacciando indietro i
sentimenti di paura che in quel momento non gli servivano.
Gli ultimi due Mangiamorte erano già usciti dalla porta, quando Piton si voltò
verso il Signore Oscuro.
- Severus... vieni.