Ekleipsis di Ailis_ (/viewuser.php?uid=42715)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Siete voi il mio demonio o il mio angelo? ***
Capitolo 2: *** Here I am ***
Capitolo 3: *** It's such a shame for us to par ***
Capitolo 4: *** Eyes on the prize ***
Capitolo 5: *** I'll hold you 'til hurt is gone ***
Capitolo 6: *** I'm looking back on yesterday ***
Capitolo 7: *** Le difficoltà aumentano quando ci si avvicina alla meta ***
Capitolo 8: *** Knowing that the faith is all I hold ***
Capitolo 9: *** I can't stand the pain, how could this happen to me? ***
Capitolo 10: *** Every breath, every hour has come to this, one step closer ***
Capitolo 11: *** And all I want is the taste that your lips allow ***
Capitolo 12: *** It was gone with the wind, but it's all coming back to me now ***
Capitolo 13: *** The tears I cry behind this hazel eyes ***
Capitolo 14: *** Tomorrow finds the best way out is through ***
Capitolo 1 *** Siete voi il mio demonio o il mio angelo? ***
Ekleipsis- Prologo
Buongiorno!
Eccomi
con la mia prima storia in questo fandom. In realtà l'ho
sempre
seguito a fasi alterne ed ero rimasta indietro nella terza stagione,
ma quando ho scoperto la famiglia degli Originali... be', non mi sono
più persa una puntata.
Probabilmente
loro, Stefan e Caroline sono il motivo per cui continui a seguirla,
benché se continua così prima o poi la Plec li
farà fuori tutti.
Importante!
Comunque,
la storia ha bisogno qualche piccola precisazione.
Qui,
Stefan è partito con Klaus dopo aver salvato Damon,
sì, ma non c'è
mai stato nessuna compulsione né è mai diventato
il vampiro freddo
e scostante che abbiamo visto per metà della terza stagione.
Lui
è tornato da Elena e qui sono felici e contenti. Be',
più o meno.
Klaus
è rimasto a sua volta a Mystic Falls, ma quello che
farà lì non
sarà d'interesse per noi in questa fic. La mia storia si
riallaccia
alla terza stagione solo dall'episodio 13, quando gli Originali si
risvegliano.
Ora
vi lascio al prologo.
La
frase è di Oscar Wilde e farà da apertura per
l'intera storia
mentre il titolo del capitolo è di Victor Hugo.
Per
chi fosse interessato, lei è Julya.
Ekleipsis
"Tutti
dicono che l’amore fa male, ma non è vero.
La solitudine fa
male. Il rifiuto fa male.
Perdere qualcuno fa male.
Tutti
confondono queste cose con l’amore,
ma in realtà, l’amore è
l’unica cosa in questo mondo
che copre tutto il dolore
e ci
fa sentire ancora meravigliosi”
Oscar
Wilde
Siete
voi il mio demonio o il mio angelo?
Ansimò
nel caldo asfissiante del Cairo e qualcuno le deterse il sudore dalla
fronte.
La
sua stanza aveva un'ottima vista, affacciata direttamente sulle
piramidi appena fuori città. Con un po' di immaginazione
poteva
anche vedere con la mente la zona degli scavi dove aveva lavorato
fino alla settimana precedente.
Prima
che la febbre colpisse anche lei.
Julya
Peskov era una ragazza curiosa, aiutante dell'archeologo, disposta a
sfidare qualunque cosa per amor di conoscenza.
Il
suo più grande sogno, fin da che avesse memoria, era
risolvere uno
dei grandi misteri della storia.
Riuscire
in un simile intento era quanto aveva mosso i suoi studi in diciotto
anni di vita e quando il suo mentore, l'uomo che le aveva insegnato
tutto senza chiedere niente in cambio, aveva acconsentito a portarla
con sé al Cairo aveva pensato che fosse un sogno.
Un
vero scavo, la possibilità concreta di
mettere a frutto tanti anni di studi e di trovare davvero qualcosa...
non ci aveva creduto fino a quando non si era trovata sotto la cappa
di calore della capitale egiziana.
Allora
era diventata l'ombra di Gregory Lewitt e lo aveva accompagnato
dovunque, certa che solo così avrebbe potuto trarre il
massimo
beneficio.
Non
avrebbe saputo dire quando si fosse ammalata: sapeva solo che, a un
certo punto, alcuni membri della spedizione avevano contratto la
malattia e che questa si era diffusa a macchia d'olio.
Gregory
non era ancora stato colpito, per quanto ne sapeva Julya.
Aveva
visto il corso della malattia e, a giudicare dal proprio stato,
dedusse che mancasse poco alla fine.
Con
straordinaria freddezza calcolò quanto tempo le restasse da
vivere e
rivolse lo sguardo verso le piramidi.
Il
suo più grande rimpianto sarebbe stato aver concluso la sua
vita
senza aver mai risolto nessun mistero, senza aver mai scoperto
qualcosa di davvero grandioso.
Avrebbe
voluto parlare, ma dalle labbra le uscì solo un mormorio
indistinto
e dagli occhi le sfuggì una lacrima.
Non
avrebbe mai più rivisto San Pietroburgo, sua madre e tutta
la sua
famiglia, ma piangere per quello sarebbe stato nobile, giusto.
E Julya non
era certa che le sue
lacrime fossero solo per
quello.
Avrebbe
voluto vivere per sempre per poter raggiungere tutti i traguardi che
si era prefissa e avere ancora la possibilità di rivedere la
sua
famiglia. Avrebbe fatto di tutto per una seconda possibilità.
All'improvviso
sentì un tramestio intorno a sé, ma era troppo
debole per capire
cosa stesse accadendo; a un certo punto, si accorse che non c'era
più
nessuno accanto al suo letto a parte una persona.
Non
ne mise a fuoco i lineamenti, ma si accorse confusamente che aveva
magnetici occhi scuri che calamitarono la sua attenzione.
Altre
mani le asciugarono il sudore dalla fronte e poi le labbra dell'uomo
si aprirono.
“Avete
l'aria di una che ha bisogno una mano”
Si
accorse che nel suo sguardo qualcosa era cambiato, ma era troppo
stanca per capire cosa. Il suo cuore accelerò i battiti,
come se
corresse verso il momento in cui avrebbe cessato di battere.
“Sarebbe
davvero uno spreco lasciar morire una così bella giovane
donna”
osservò quasi soprappensiero lo sconosciuto, come se lei non
fosse
lì a sentire le sue parole.
Ansimò
alla ricerca di aria e seppe che il suo ultimo respiro si stava
avvicinando. Allora accadde qualcosa che non poteva ancora capire e
che avrebbe cambiato la sua vita per sempre.
Qualcosa
premette sulle sua labbra e per riflesso bevve ciò che lo
sconosciuto le aveva porto. Aveva un sapore strano, diverso da
qualunque cosa avesse mai assaggiato prima e altrettanto afrodisiaco.
Poi,
il suo cuore smise di battere e Julya morì in un assolato
giorno di
Aprile.
Continua
**
|
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Capitolo 2 *** Here I am ***
Here am I- TVD
Buongiorno!
Il
programma era di aggiornare il venerdì, il giorno dopo
l'uscita
della nuova puntata, ma adesso il telefilm è in pausa e io
ho
pensato di portarmi avanti, pubblicando più di un capitolo
alla
settimana.
Anche
se la storia non ha ricevuto molte recensioni, ringrazio chi ha letto
e spero sia piaciuto.
Da
qui in avanti, conoscerete meglio Julya.
Buona
lettura!
Here I am
“Words
like violence
Break the silence
Come crashing
in
Into my little world
Painful to me
Pierce
right through me
Can't you understand
Oh my little
girl”
Enjoy
the silence- Depeche Mode
Quando
il taxi la lasciò di fronte a casa Salvatore, Julya
alzò una mano
per ripararsi dal sole e al dito brillò un anello di zaffiri
e
diamanti.
Sorrise
appena mentre trascinava i propri bagagli fin sulla porta di casa e
suonò. Contò cinquanta respiri prima che la porta
si aprisse e si
parasse di fronte a lei la figura di un ragazzo.
Era
alto, moro e con un sorriso sfacciato che le piacque subito.
D'istinto riconobbe in lui uno spirito per certi versi affine e seppe
che sarebbero diventati amici e le sue sensazioni non sbagliavano
quasi mai.
“Buongiorno,
cerco Stefan Salvatore”
Il
ragazzo di fronte a lei alzò un sopracciglio, poi si
voltò verso
l'interno e chiamò.
“Certo,
sarà qui tra un attimo”
Si
spostò e Julya interpretò quel gesto come un
invito a entrare, ma
doveva averlo frainteso perché rimase bloccata sulla porta e
il suo
sorriso venne sostituito da una smorfia infastidita.
“Ah,
una cosa prima di decidere se farti entrare o piantarti un paletto
nel cuore: chi ti manda?”
“Non
mi manda nessuno. Sono qui per vedere un vecchio amico”
La
soppesò per svariati secondi e poi le fece cenno di entrare.
L'ingresso della casa era ampio, ma non proprio arioso o allegro con
tutti quei colori così scuri.
“Niente
di personale” le disse il ragazzo – di cui peraltro
non sapeva
ancora il nome- “ma di questi tempi non si sa mai. Spero che
tu non
te la sia presa” continuò con un sorriso allegro
che a Julya
sapeva tanto di presa in giro.
“E
dimmi, come mai vuoi vedere mio fratello?”
Ora
tutto era chiaro. Be', dire che si assomigliassero sarebbe stato
mentire spudoratamente perché non avrebbero potuto essere
più
diversi. Pure, c'era in loro qualcosa che li accomunava: doveva
essere la bellezza disarmante e il fatto che avessero entrambi un
sorriso da farfalle allo stomaco, anche se per motivi diversi.
Tuttavia,
non avrebbe risposto alla domanda perciò gli rivolse un
sorriso
enigmatico e si guardò intorno, ignorando l'espressione
contrariata
sul bel viso del suo interlocutore.
“Comunque,
io sono Julya”
“Damon”
Attesero;
vedeva che Damon spasimava dalla voglia di chiedere ancora e la cosa
la divertiva. Sapeva che il suo modo di fare – sempre
così
misterioso ed enigmatico- non era sempre piacevole, ma quel piccolo e
innocente gioco non avrebbe ucciso nessuno e la divertiva sempre.
Aveva
incontrato tanti vampiri nella sua vita da immortale e molti avevano
convenuto con lei che fosse praticamente un miracolo che fosse
riuscita a conservare il proprio carattere e la propria essenza anche
dopo la trasformazione.
Julya
non era del tutto certa di essere sempre la stessa, ma era decisa a
non piangersi addosso per quel che era successo.
Dopotutto,
anche se non aveva chiesto espressamente di essere trasformata in
vampiro, era stata lei a pregare per una seconda possibilità.
Perciò
si era impegnata per rendere la propria vita unica ed elettrizzante
in ogni momento, cercando di mettere a frutto l'incredibile dono che
le era stato fatto: una seconda possibilità.
Se
non le fosse stata concessa, non avrebbe mai conosciuto Stefan. Lo
ricordava come se fosse accaduto il giorno prima.
Lei
faceva la cantante in un night club di Philadelphia e lo aveva
adocchiato subito, dall'alto del palco e nonostante la luce soffusa e
pregna di fumo.
Ci
era voluto un mese perché lui le rivolgesse la parola, ma
Julya era
divertita da quei giochi di sguardi, sorrisi e occhiate fugaci e non
avrebbe fatto il primo passo per niente al mondo.
A
quel tempo Stefan era “lo squartatore” e Julya
già sapeva che un
giorno il peso delle sue azioni sarebbe ricaduto su di lui.
“Chi
era alla porta?”
La
voce di Stefan la riportò alla realtà e quando
scese l'ultimo
gradino fece un passo avanti, come se ci fosse bisogno di quello
perché lui la vedesse.
Si
sarebbe accorto della presenza di Julya anche in una stanza piena di
gente. Guardando in quegli occhi, scuri e ridenti come li ricordava,
tutte le emozioni e i sentimenti che lei gli
suscitava si
riversarono su di lui come una doccia ghiacciata e fu come se non
fossero passati decenni dal loro ultimo incontro.
“Ciao,
Stefan”
Avrebbero
potuto passare secoli – anche millenni, probabilmente- ma
Julya gli
avrebbe fatto sempre lo stesso effetto: come il canto di una sirena,
una droga pericolosa almeno quanto il sangue.
Provò
un milione di sensazioni diverse nel risentire la sua voce: amarezza,
felicità, rancore, desiderio, abbandono.
Era
tutto talmente confuso che ci mise più di qualche secondo a
mettere
abbastanza ordine tra i suoi pensieri da poter parlare.
“Che
ci fai qui?”
“Ho
bisogno di aiuto” ammise sinceramente e con un sorriso
talmente
candido e spensierato che Stefan non riuscì a non provare
rabbia.
Preferì
lasciarsi sommergere da questa, piuttosto che ammettere con se stesso
che lo feriva sapere che Julya non sarebbe mai andata a cercarlo se
non avesse avuto bisogno di lui per qualcosa. Avrebbe voluto
chiederle se avesse mai sentito la sua mancanza, ma non era sicuro di
essere pronto ad ascoltare la risposta.
“Abbiamo
abbastanza problemi, non ho certo il tempo di farmi carico anche dei
tuoi. Ora devo andare”
Julya
gli si piazzò davanti, mani sui fianchi e sguardo deciso:
aveva
dimenticato che, per essere così piccola, sapeva essere un
fastidio
enorme.
“So
che non sei contento di vedermi” iniziò e a Stefan
parve che la
sua voce si incrinasse un po' “ma ho davvero bisogno di te.
Ho
bisogno un aiuto”
Per
un attimo si chiese se aiutarla non fosse la cosa giusta da fare e i
suoi occhi, grandi e supplicanti, gli fecero salire le parole alle
labbra.
Forse,
dopotutto, poteva perdonarle di essersene andata e averlo lasciato
proprio quando aveva più bisogno di un'amica.
Non
avrebbe dovuto biasimarla per averlo fatto e si chiese se avrebbe mai
potuto perdonarla.
Vedendolo
tentennare, Julya fece un passo avanti e il calore del suo corpo e il
suo profumo colpirono Stefan con la forza di uno schiaffo, deliziosi
come la più inebriante delle essenze.
In
un attimo, desiderò davvero di essere in grado di
perdonarla, ma per
quanto lo volesse, non era sicuro di poterlo fare con il cuore
così
lasciò la domanda in sospeso.
Però
Julya era ancora lì e lei non sarebbe stata contenta fino a
quando
non avesse avuto una risposta.
“Devo
andare”
“Stefan!”
lo richiamò, ma lui l'aveva già aggirata
così gli si parò di
nuovo di fronte, proprio a metà strada tra lui e la porta.
“Non
puoi andartene senza avermi dato una risposta”
“Non
ora. Devo andare a scuola, ne parleremo quando torno”
“Ma...”
Avrebbe
dovuto ricordare che era dannatamente testarda. La afferrò
per le
spalle e la scosse appena perché il suo messaggio risultasse
più
incisivo.
“Dopo”
scandì e, quando vide la sua espressione farsi ancora
più ostinata,
aggiunse “Resta qui. Damon ti cercherà un posto
dove stare e
quando tornerò a casa ne parleremo”
Si
fiondò fuori di casa prima che la sua protesta lo
raggiungesse e in
un attimo partì con la sua Jaguar.
In
casa, Julya lo guardò andarsene con gli occhi socchiusi e le
labbra
atteggiate a un'espressione di stupore.
Si
voltò verso Damon.
“Sbaglio”
domandò “o sta cercando di evitarmi?”
Damon
fece spallucce “Questo teen-drama ve lo
dovete risolvere da
soli. Per ora, il mio compito è mostrarti la tua
stanza”
*
“E
non ti ha detto perché è qui?”
Elena
non era particolarmente contenta che un altro vampiro fosse giunto in
città. Un vampiro che per di più era una donna,
probabilmente
bellissima, e che sembrava scombussolare l'equilibrio di Stefan.
“Non
gliene ho dato il tempo” ammise.
Sapeva
che Julya non si sarebbe arresa troppo presto perché lei era
fatta
così, testarda ai limiti dell'incoscienza.
A
volte aveva pensato che lei assomigliasse un po' agli ibis sacri
nell'Egitto in cui era morta, tanti decenni prima: elegante e bella,
il suo sguardo intelligente era sempre fisso sul premio.
Essere
un vampiro non cambiava la natura della persona e Julya doveva essere
sempre stata così, incapace di staccare gli occhi dal suo
obiettivo.
A
volte la invidiava per questo perché sembrava attingere
dalla
propria missione una forza di volontà enorme.
“Non
hai neanche un'idea?”
“Non
è facile entrare nella mente di Julya. E' un'intellettuale,
nella
sua testa sono stipati così tanti argomenti che sarebbe
difficile
capire quale sia il tarlo del momento” ammise sinceramente.
“Quindi
oltre che bella, mi stai dicendo che è anche intelligente?
Perfetto”
borbottò Elena e Stefan scoppiò a ridere di
gusto, attirandola a sé
e scoccandole un bacio sulla tempia.
Quel
genere di atmosfera, quell'insolita pace... ecco, era esattamente
ciò
che non avrebbe permesso all'arrivo di Julya di rovinare.
Non
le avrebbe permesso di scombussolare la sua vita ancora una volta:
aveva imparato la lezione. Julya era come un ciclone: non avvisava
del suo passaggio, si faceva strada a forza e portava via qualunque
cosa, sempre per quella maledetta abitudine di guardare solo alla
metà senza curarsi di ciò che calpestava nel
percorso.
Ma
non voleva pensarci, non voleva rimuginare su quel pensiero che era
un po' la storia della loro amicizia.
Ma
non era mai stata solo un'amicizia e dopo che lei se n'era andata per
inseguire un altro di quei misteri storici che tanto amava, il loro
rapporto si era ridotto a essere ancor meno.
“Stefan?”
La
voce di Elena, ancora stretta tra le sue braccia, lo riportò
con i
piedi per terra.
“Che
aspetto ha questa Julya?”
“Non
devi preoccuparti di lei, Elena. Per quanto sia bella, tu
sei...”
“No,
no, non è per quello. E' che credo che sia proprio
là” e indicò
un punto alle spalle di Stefan.
Julya
era proprio di fronte all'ingresso della scuola e leggeva un foglio,
apparentemente ignara delle occhiate incuriosite degli studenti che
le passavano accanto.
“Che
diavolo ci fa qui?”
Stefan
si alzò e si diresse verso Julya con lunghe falcate, Elena
alle
calcagna che si sistemava la tracolla sulla spalla e cercava di
stargli dietro senza correre.
“Non
ti avevo detto di stare a casa?”
Julya
gli rivolse un sorriso radioso che riuscì solo a irritarlo:
gli
sembrava che si stesse facendo beffa di lui, ma Stefan sapeva che
Julya era davvero felice di vederlo e forse quella era la parte
peggiore.
“Mi
annoiavo e così ho pensato di fare un giro”
“Bene,
ora puoi tornare lì e aspettarmi”
Allora
assunse un'espressione contrariata “Non ci penso neanche. Tra
le
tante cose che ho fatto nella mia vita, non ho mai frequentato un
liceo americano e così mi sono iscritta”
La
afferrò per un braccio “Non ci pensare neanche,
Julya”
“Andiamo,
Stef” lo prese in giro avvicinandosi di un passo
“cosa c'è di
male? Devo forse pensare che tu non mi voglia qui?”
“Non
devi pensarlo. E' esattamente così”
Seppe
di averla ferita nel momento in cui strinse le labbra e
sbatté le
ciglia. Era sempre stata come un libro aperto per lui, capace di
leggere qualunque sentimento le divampasse nell'animo. Poi aveva
pensato di essersi sbagliato e che in realtà non era mai
stato
davvero in grado di capirla, ma non era così.
Sapeva
leggere ciò che passava nei suoi occhi e, ancora di
più, aveva il
potere di scatenarle dentro grandi sentimenti, qualunque essi
fossero.
“Cosa
ti ho fatto per meritare questo?” sussurrò e scese
tra di loro un
velo di rancore e incapacità di comprendersi che
sfociò in un
silenzio teso in cui i loro occhi non si lasciarono mai.
A
spezzare quell'atmosfera pesante fu Elena che si frappose fra i due.
“Ok,
direi che non è proprio il momento né il posto
adatto per sostenere
questa conversazione. Andate a casa, entrambi” li
esortò, anche se
avrebbe di gran lunga preferito tenere Stefan lontano da quella
specie di silfide dagli occhi da cerbiatta.
Si
guardarono per un momento. Lo sguardo di Stefan si aprì un
poco, al
contrario quello di Julya divenne duro come acciaio e scosse il capo.
“No.
Io resterò qui e compilerò i moduli per
l'iscrizione. Poi paleremo”
Detto
questo, se ne andò lasciandosi alle spalle solo il suo
profumo
-vaniglia nera per i capelli, rosa e mirra per la pelle- e Stefan
sospirò.
Avrebbe
dovuto saperlo: la convivenza con Julya sarebbe stata difficile.
Poteva tentare di evitarla a scuola, provare a non rivolgerla la
parola se si fossero incontrati, ma Julya sarebbe stata sempre un
passo avanti lui e prima o poi lo avrebbe fatto capitolare.
Alla
fine, probabilmente, avrebbe ottenuto che la ascoltasse e,
altrettanto probabilmente, sarebbe anche riuscita a persuaderlo ad
aiutarla in qualunque folle impresa si fosse imbarcata quella volta.
Non
avrebbe avuto bisogno di alcun potere: gli sarebbe bastato implorarlo
sinceramente, guardandolo negli occhi e avrebbe
capitolato
perché Julya aveva su di lui un potere strano, uno che
neanche
Katherine ed Elena avevano mai avuto.
Ed
era questo – più delle sue richieste e di tutto il
resto- a
spaventarlo: il fatto che probabilmente avrebbe rivoltato il mondo
per lei.
*
Mentre
tornava alla villa dei Salvatore, Julya rimuginava.
Canticchiava
una vecchia canzone russa che intonava sempre sua madre per far
addormentare suo fratello Aleskeij, quando faceva i capricci o
semplicemente non voleva dormire.
Non
avrebbe dovuto andare a cercare Stefan, solo con il senno di poi se
ne rendeva conto.
Ancora
una volta aveva permesso al proprio egoismo di farle fare la cosa
sbagliata. Forse, se non se ne fosse resa conto sarebbe stata
perdonabile: avrebbero detta di essere fatta così, che non
poteva
farci nulla.
Però
lei non era fatta così e aveva scelto
di andare da lui, pur
sapendo che rivederla non sarebbe stato facile per Stefan.
Sapendo
che non avrebbe potuto perdonarla. Si era chiesta se poteva accettare
il suo disprezzo per raggiungere il traguardo e si era detta che lo
poteva fare, ma solo ora che era lì si rendeva conto di non
aver mai
davvero creduto che Stefan potesse odiarla.
Aveva
considerato la possibilità, ma non l'aveva mai presa sul
serio. In
fondo al cuore aveva sperato di ritrovare Stefan che le sorrideva,
Stefan che le prendeva la mano tra le sue, Stefan che le accarezzava
i capelli e la guardava con un'intensità tale da farle
venire le
farfalle allo stomaco.
Aveva
sperato di ritrovare Stefan come lo aveva lasciato, come se il tempo
non fosse passato. Ma era stata stupida, ottenebrata da un desiderio
irrealizzabile anche per loro, congelati in un istante eterno.
Forse,
si disse mentre attraversava il lungo viale, avrebbe solo voluto
l'occasione di recuperare il tempo perso e rimediare all'errore che
aveva commesso tanti anni prima.
Forse
la scelta giusta sarebbe stata andarsene anche stavolta, lasciare che
fosse felice senza che lei gli piombasse tra capo e collo a
rovinargli l'esistenza.
Sorrise
con nostalgia pensando a quanto potesse essere beffardo il destino:
anche decenni prima aveva fatto la stessa scelta per la stessa
ragione.
Lo
ricordava come fosse stato solo il giorno prima.
Lavorava
come cantante in un night club di Philadelphia ed erano gli anni dei
proibizionismo, uno dei periodi d'oro per la malavita e i baristi
più
intraprendenti, quando si erano conosciuti. Ricordava il suo smoking
e che le aveva detto qualcosa sulla sua voce, un complimento a cui
lei aveva ribattuto con un sorriso saccente che era il peggior
abbordaggio della storia.
Ricordava
anche che erano stati mesi meravigliosi, ma neanche in quel periodo
aveva dimenticato la sua ossessione.
Poi,
un giorno, era arrivata una lettera da uno dei suoi contatti in Medio
Oriente, un uomo di cui si fidava poco ma che sembrava aver
rintracciato una traccia per ciò che stava cercando con
tanto
impegno da decenni.
Aveva
dovuto scegliere: restare con Stefan, aiutarlo a non cadere nel
baratro, oppure andare. Aveva scelto di partire, ma non lo aveva
detto a Stefan.
Gli
aveva sorriso e gli aveva chiesto di restare con lei quella notte e
lui lo aveva fatto. Avevano bevuto whisky -di gran lunga il loro
liquore preferito- avevano giocato a carte e poi Stefan era crollato
mentre lei aveva fatto i bagagli e se n'era andata senza guardarsi
indietro.
Capiva
perché Stefan fosse arrabbiato, come avrebbe potuto non
esserlo?
Ma
lei non poteva andarsene, aveva bisogno di aiuto per raggiungere il
suo scopo. Erano decenni che ci provava e ora era talmente vicina al
premio che non avrebbe permesso a niente di impedirle il passaggio.
Se
doveva convincere Stefan, lo avrebbe fatto, in un modo o nell'altro.
Aveva
quasi raggiunto casa Salvatore quando le venne in mente che forse
sarebbe stato meglio trovarsi una casa propria, anche solo un piccolo
appartamento da affittare per il tempo necessario.
Poi,
con un sorriso malizioso, pensò che fosse più
giusto restare a casa
Salvatore. Stefan non avrebbe acconsentito ad aiutarla, ma lei poteva
fargli cambiare idea: aveva molte frecce al suo arco e non avrebbe
esitato a usarle tutte per farlo capitolare.
Continua
**
|
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Capitolo 3 *** It's such a shame for us to par ***
It's such a shame for us to part- TVD
Buongiorno!
Come
promesso, mi porto avanti con gli aggiornamenti questa settimane e
pubblico il nuovo capitolo. Sì, dovrei essere a studiare, lo
so.
Vedo
i libri che mi guardano – sì, i miei libri mi
guardano- con
disapprovazione, ma che volete farci?
Domani
me ne pentirò amaramente, ma non potevo resistere alla
tentazione.
Vi
lascio al capitolo: vi aspetta la rivelazione, il
motivo per
cui Julya è tornata.
Buona
lettura^^
It's
such a shame for us to par
Nobody
said it was easy
It’s
such a shame for us to par
Nobody
said it was easy
No
one ever said it would be this hard
Oh
take me back to the start
The
scientist- Coldplay
Stava
sistemando alcuni vestiti in cassetto quando Stefan era entrato in
camera.
L'aveva
guardata per un po' mentre, intenta nel suo lavoro, continuava a
canticchiare una canzone russa che la ossessionava.
Sapeva
che era giunto il momento di sedersi e parlare, ma avrebbe voluto
poter rimanere ancora qualche minuto così, provando a
illudersi che
tra loro niente si fosse mai incrinato.
Sarebbe
stato bello.
Julya
sapeva che Stefan la stava guardando, appoggiato alla stipite della
porta, ma aveva paura che voltarsi avrebbe voluto dare il via alla
distruzione di quello pseudo-legame che ancora li univa.
Alla
fine, fu lui a sedersi sul letto accanto al borsone che Julya stava
svuotando.
“Presumo
che fosse più o meno questo che facevi l'ultima volta che ci
siamo
visti, mentre io dormivo”
Julya
incassò il colpo mordendosi le labbra.
“Sì,
più o meno” ammise sinceramente.
“Immagino
che per te sia stata molto dura”
“Non
prendermi in giro, Stefan”
Le
sue sofferenze non potevano essere paragonate a quelle di Stefan. Il
suo rimorso, la tristezza, la solitudine non reggevano il confronto
con la repulsione, l'odio verso di sé e il desiderio di
autodistruzione, questo Julya lo sapeva, ma non era disposta ad
accettare che la decisione più difficile della sua vita
venisse
criticata a cuor leggero.
“Perché
sei tornata, Julya?”
All'improvviso,
sembrò che Stefan fosse molto stanco e Julya si
lasciò cadere
accanto a lui abbandonando ciò che stava facendo con un
sospiro. Lo
capiva: anche a lei sembrava di avere improvvisamente le spalle
oppresse da un peso enorme.
Occhi
fissi sul premio, Juls.
“Te
l'ho detto, ho bisogno di aiuto”
“Per
cosa?”
A
quel punto Julya avrebbe dovuto raccontargli tutta la storia, quella
vera, spiegargli cosa la
spingesse alla disperata
ricerca del reperto, farlo non perché dovesse, ma
perché era la
cosa giusta da fare. E anche se non era sempre stata brava a farla,
voleva almeno provarci.
Per
Stefan, si era detta.
Eppure,
non era sicura. Oh, voleva disperatamente dire
tutto a Stefan
e lasciare che secoli di tentativi, fallimenti e delusioni trovassero
finalmente una consolazione tra le sue braccia, ma vedeva i suoi
occhi e non vi leggeva nessuna possibilità di perdono.
Allungò
una mano per cercare la sua, ma Stefan la allontanò. Allora
capì:
non ci sarebbe stata nessuna comprensione per lei,
per le sue
azioni e per il motivo che l'aveva spinta ad agire, nessun affetto,
nessun amore.
Quello
era il vecchio Stefan, una persona che era andata e che non sarebbe
tornata, che lei -stupida e sciocca,
così ingenua da credere
che bastasse tornare per riavere indietro ciò che
aveva
lasciato- aveva lasciato andare.
The
show must go on, pensò
con un
groppo alla gola e così si preparò a raccontargli
una parte della
storia.
Non
le importava più di raccontare una bugia che l'avrebbe fatta
sembrare una creatura spregevole: perché avrebbe dovuto
preoccuparsene? Stefan la odiava già e lei sentiva di non
potergli
raccontare quella parte
della verità.
“Sto
cercando il santo Graal” confessò alla fine,
reprimendo il groppo
di lacrime che le opprimeva la gola.
Stefan
socchiuse le palpebre, poi scoppiò a ridere di gusto, come
se avesse
appena raccontato una bella barzelletta.
“Tu
devi essere impazzita. Il Graal è un'invenzione,
Julya”
“Non
è così” si ostinò lei
“Ho dedicato la mia vita a questo, pensi
che lo farei se non avessi la certezza che
esiste, da qualche parte nel mondo?”
All'improvviso
lo sguardo di Stefan si fece affilato “Ed è per
questo che te ne
sei andata? Per una favola della buonanotte?”
Il
sorriso che si aprì sul volto di Julya era amaro
“Se me ne fossi
andata per un altro motivo sarebbe stato accettabile, Stefan?”
Aveva
colpito il punto, si disse il ragazzo: per qualunque motivo se ne
fosse andata, non sarebbe mai stato abbastanza agli occhi di Stefan.
“Ascoltami”
lo incalzò “so che cosa pensano tutti. La gente
crede che sia una
leggenda, una cosa tipo Mantello dell'Invisibilità, ma non
è così.
Dopotutto, tu più di tutti dovresti credere che io non sia
pazza.
Siamo vampiri, Stefan: creature leggendarie per definizione, non
dovremmo neanche esistere. Ma siamo qui e se esistiamo noi,
perché
non può farlo anche il Graal?”
“Ammettiamo
che esista. Come pensi di trovarlo?”
“Per
tanti anni ho cercato una traccia e ho trovato qualcosa. Capisci,
Stefan? Dopo tanti anni, potrei essere vicina a trovare ciò
che
cercavo. Aiutami” lo implorò, guardandolo negli
occhi e cercando
di trasmettergli tutta la sincerità e il bisogno che sentiva
dentro.
“Perché
lo stai cercando?”
Sperava
che non le facesse quella domanda perché era esattamente a
quella
che non avrebbe potuto rispondere sinceramente.
Non
ora che tra loro si era creata quella distanza abissale.
“Ambizione,
suppongo”
Si
sentì una creatura spregevole quando vide lo sguardo del
vampiro, ma
si costrinse a non abbassare il proprio.
Stefan
aveva pensato di non essere in grado di negarle il proprio aiuto,
aveva creduto che fino a quando lei lo avesse guardato in quel
modo, lui
avrebbe capitolato. E
invece si era sbagliato.
Non
poteva tenderle una mano, non ora che aveva capito di trovarsi di
fronte a una copia di suo fratello, forse addirittura peggiore.
Damon
poteva essere egoista e spietato, ma almeno si era sforzato di
cambiare per Elena e – voleva vederla così, anche
se forse si
sbagliava- anche per lui, suo fratello.
Lei
no. Julya pensava solo a se stessa e non gli importava di ferire gli
altri. Lei era peggio di Damon: lui almeno non si era mai finto
migliore di quanto non fosse in realtà.
“No”
Si
alzò e si diresse a lunghe falcate verso la porta. Julya lo
imitò e
si aggrappò al suo braccio.
“Per
favore, Stefan” lo supplicò.
Aveva
creduto che, qualunque cosa lei gli avesse chiesto, lui l'avrebbe
fatta solo per vederla felice; fu strano accorgersi che neanche i
suoi occhi supplicanti e il suo sorriso -seppur stiracchiato e
tremante- avevano più potere su di lui.
Era
il simbolo del fatto che non era più lo Stefan di una volta.
“No.
Per quel che mi riguarda” sibilò “puoi
anche andare al diavolo”
Detto
questo, attraversò l'uscio e Julya si ritrovò
letteralmente a mani
vuote, senza nessuno che la raccogliesse quando si lasciava scivolare
a terra.
*
Julya
non era mai stata il tipo da piangersi addosso per troppo tempo e,
per quanto si sentisse abbandonata, non
avrebbe lasciato che quel senso di scoramento la sopraffacesse.
C'erano
troppo cose da fare, indizi da trovare e lei aveva sempre meno
pazienza. Erano secoli che attendeva un segno concreto e ora che lo
aveva trovato, che era così vicina al Graal, non voleva
più perdere
tempo.
Quella
sera, però, avrebbe fatto un giro in città: la
sua mente era troppo
obnubilata dalla discussione con Stefan per potersi rivelare
produttiva.
Avrebbe
chiesto a Damon se c'era qualche posto in cui potesse andare, ma
prima volta fare quattro passi.
Sotto
la doccia, le parole di Stefan non facevano che accalcarsi nella sua
mente e ripetersi come una litania.
Avrebbe
potuto fermarle e chiuderle in un cantuccio, un posto dove non
avrebbe mai più potuto trovarle, ma aveva ancora bisogno di
assaporare e comprendere le emozioni che le avevano fatto provare.
Non
le avrebbe dimenticate, anche se forse avrebbe potuto: capiva cosa
avesse provato Stefan, il senso di abbandono che doveva averlo
annichilito quando si era svegliato e aveva capito che se n'era
andata senza rimpianti.
Ma
quello era ciò che credeva lui: il più grande
rimpianto che avesse
era proprio quello di non avergli chiesto di andare con lei.
Ma
allora pensava che fosse la scelta migliore, anche se a distanza di
anni non era facile ricordarne il motivo.
Uscì
dalla doccia in fretta, prima che troppi pensieri le procurassero un
mal di testa con i fiocchi e si infilò nel primo vestito che
pescò
dall'armadio.
Fu
una fortuna che Damon fosse a casa perché non le andava
proprio di
vagare per la città senza meta, magari elemosinando
informazioni dai
passanti.
“C'è
un posto dove possa andare per non passare la serata a
compatirmi?”
gli chiese con un sorriso che voleva dissimulare la verità
nelle sue
parole.
“Il
Grill. Non aspettarti chissà che, ma è sempre
meno del tuo
allettante programmino. Stavo andando lì, vuoi un
passaggio?”
Julya
scosse il capo “No, grazie. Farò una
passeggiata”
“Certo”
la prese in giro “e come pensi di arrivarci se non sai dove
si
trova? Forza di volontà?”
“No,
teletrasporto. Sei il primo a cui confesso il mio segreto”
ammise
con uno sguardo così serio che Damon si stupì:
pensava che chiunque
frequentasse il suo fratellino fosse incapace di un po' di sana
ironia e sarcasmo, ma evidentemente Julya era l'eccezione che
confermava la regola.
Si
era aspettato una nuova Lexie e invece... lei gli piaceva decisamente
di più.
Intanto
la vampira aveva indossato il cappotto e aveva varcato la soglia.
“Sono
contento che ne abbiamo parlato!” le urlò dietro e
lei alzò una
mano in segno di saluto, senza voltarsi.
Dopo
una passeggiata di venti minuti, Julya non aveva ancora deciso se
Mystic Falls le piacesse o meno.
Non
aveva niente che le ricordasse la sua San Pietroburgo, ma non era
sicura che potesse esistere un posto -al di là di San
Pietroburgo
stessa- che potesse reggere il paragone nella sua mente.
Era
stata a Londra, Berlino, Vienna e tutte le capitali d'Europa e Parigi
era la sua patria d'elezione; nonostante tutto, San Pietroburgo aveva
nel suo cuore un posto speciale, dal quale nessuna altra
città
avrebbe potuto spodestarla.
Non
era la più bella o la più ricca, ma era la sua casa
e questo
niente lo avrebbe mai cambiato.
Per
le vie di Mystic Falls si respirava già l'atmosfera del
Natale
-anche a un mese di distanza- con le luci bianche e colorate sulle
facciate delle case e sugli alberi e le canzoni di Natale che le
casse posizionate in punti strategici propinavano continuamente.
Forse
quella era la parte migliore di tutte quelle decorazioni.
A
Julya la musica piaceva, proprio come le piaceva cantare. Era da
tanto che non lo faceva più.
A
dire il vero, erano decenni che non faceva più niente
a parte
cercare e cercare ancora. Era diventato più che lo scopo di
una
vita: era letteralmente la sua vita.
Doveva
solo sperare che ne valesse la pena.
Ma
quella era -avrebbe dovuto essere, si corresse- una serata di relax e
perciò si concentrò su un altro argomento.
Intanto
aveva raggiunto il Grill, a giudicare dall'enorme insegna che faceva
bella mostra di sé in alto sulla facciata.
Rimase
piacevolmente colpita dall'interno; era esattamente come se lo
immaginava: un locale un po' vecchio stile dai colori scuri e con un
angolo bar da far invidia a qualunque locale alla moda di una
città
ben più grande.
Nell'aria
c'era odore di fritto, di cibo e di alcool, ma le piacque: dava
l'impressione di un ambiente allegro, privo di complicazioni e di
pretese.
Si
avvicinò al bar e si lasciò scivolare su uno
sgabello, poi ordinò
una tequila. Non le piaceva bere, ma diminuiva la sete e quella sera
aveva bisogno di un deterrente ai pensieri scomodi.
“Tequila?
Davvero?”
Riconobbe
la voce beffarda di Damon Salvatore e non ebbe bisogno di voltarsi:
si accomodò accanto a lei senza bisogno di essere invitato e
si fece
portare un bicchiere di bourbon.
“Bourbon?
Sul serio?” lo scimmiottò.
“Sai,
di solito chi ordina tequila è una persona tranquilla e
serena”
“Ti
svelerò un segreto” si avvicinò appena
voltando lo sgabello in
modo da poterlo fronteggiare “Chiunque lo abbia detto, di
sicuro
non beve tequila”
Damon
rise della sua smorfia e ammise che quella ragazza era divertente.
Come diavolo faceva ad essere amica di Stefan?
“In
ogni caso” aggiunse “di solito non bevo tequila.
Preferisco di
gran lunga uno scotch di ottima annata, possibilmente al malto e
molto invecchiato”
“Il
fascino delle cose vecchie” la prese in giro e Julya rise
ancora.
Poi
Damon cambiò argomento “Stefan ti ha presentato
qualcuno dei suoi
amici?”
Julya
rise abbandonando la testa indietro “Sì, certo,
magari tra un
litigio e l'altro. Oppure, ancora meglio, dopo aver
cercato di
evitarmi e prima delle sue recriminazioni”
Damon
ghignò, poi sorseggiò ancora un po' del suo
bourbon e alla fine si
alzò, portando con sé il bicchiere e Julya.
“Bene,
allora farò io gli onori di casa. Certo, mi rendo conto che
non sono
fighi come noi, ma questo è ciò che passa il
convento”
Julya
rise e per un attimo si chiese quanto sarebbe stata più
facile la
sua vita se l'avesse guardata con gli occhi di Damon.
Poi
si accorse che lui la stava trascinando verso il piccolo palco
rialzato dove c'era il tavolo da biliardo. Intorno, un gruppo di
ragazzi rideva a crepapelle guardando la ragazza impegnata a spaccare
il triangolo perfetto per iniziare la partita.
Avrebbe
voluto protestare e magari andarsene, ma erano troppo vicini e il
gruppo si era già fermato e li guardava con
curiosità.
“Signori,
signore” salutò Damon accennando un saluto con la
mano in cui
teneva il drink mentre con l'altra indicava Julya “Lei
è Julya...”
e allora Damon si accorse di non conoscere il suo cognome,
perciò
lasciò perdere “Un'amica di Stefan”
concluse.
Buffo,
pensò Julya, che proprio lui fosse il meno contento di
vederla.
Probabilmente Stefan credeva che quella sorta di faccia da poker che
aveva indossato servisse a ingannarla, ma doveva aver dimenticato che
lei sapeva leggere benissimo anche dietro le sue
maschere.
Decise
di non fare nulla e si impresse un bel sorriso sul volto mentre
stringeva una mano dopo l'altra, fino ad arrivare a una ragazza
bionda, un vero vulcano che la travolse con un milione di domande.
“Di
dove sei?”
“Se
intendi dove sono nata, allora la risposta è San
Pietroburgo”
“Sei
russa?”
I
suoi occhi brillavano di eccitazione e Julya si sentì un po'
una
star sotto i riflettori con tutte quelle attenzioni. Annuì
con un
sorriso radioso.
“Allora,
ti va di unirti per la partita?”
Era
stato Matt a parlare, il classico bravo ragazzo della porta accanto:
le ricordava un po' suo fratello Aleskeij, anche se non avrebbero
potuto essere di due bellezze più diverse.
“Certo,
perché no”
A
quel punto Stefan sbottò. Si era detto che andava bene che
Julya si
infilasse in casa sua, nella sua città e nella sua scuola,
ma non
poteva accettare che entrasse anche lì, tra i suoi amici.
“Non
hai niente di meglio da fare? Nessun mitico reperto da
cercare?”
Tutti
tacquero, imbarazzati e Julya incassò ancora una volta la
stoccata
perché sapeva di meritarsela.
Si
voltò con un sorriso, ma un osservatore attento avrebbe
notato che
era stiracchiato e teso.
“Allora,
chi inizia?”
Cercava
a tutti i costi di evitare lo scoppiò dell'ennesima lite, ma
sembrava che stavolta Stefan non fosse disposto a mollare.
Si
sistemò con le braccia sulla stecca e con il mento
appoggiato su di
esse, simulando una tranquillità che non provava.
“Davvero,
Juls, non hai nulla di meglio da fare?”
“Ok,
Stefan” lo fronteggiò con lo sguardo lampeggiante
“abbiamo
capito l'antifona: sei arrabbiato. Io ho fatto un errore -nel 1928,
Cristo santo!- e tu non vedi l'ora di farmelo pesare per
l'eternità.
Ma puoi, per questa sera, non dico dimenticarlo, ma fare finta che
non sia così importante?”
Stefan
scoppiò a ridere e la tensione e l'imbarazzo crebbero
intorno a
loro. Julya scosse il capo e si chinò sul tavolo per aprire
la
partita.
Sperava
che quello servisse ad alleggerire l'atmosfera e a evitare ulteriori
discussioni, ma si sbagliava.
“Potrei,
ma lo faccio per loro. Non vorrei vederti entrare nel gruppo,
diventare loro amica, per poi andartene nel
momento in cui
troverai qualcosa di più importante”
“Oh,
quindi è questo che pensi” lo prese in giro mentre
sceglieva quale
palla imbucare. Le piene o quelle con la fascetta?
“Sì,
è esattamente ciò che penso. Credo che tu sia
viziata ed egoista,
senza un minimo di altruismo o di spirito di sacrificio. A volte mi
chiedo come ho potuto pensare di...”
“Di
cosa? Di volermi bene?” lo sfidò a continuare,
certa che l'avrebbe
ferita, ma non le importava. Che lo facesse, se così poteva
sentirsi
meglio.
Dal
canto suo, Stefan era contenta che avesse continuato la frase a modo
suo. Lui l'avrebbe fatto in modo diverso, ma ora tra loro non c'era
più niente, solo una distanza enorme fatta di rancore e
incomprensione.
Erano
come le rive opposte di un fiume: vicini, ma incapaci di colmare
quella breve distanza che li avrebbe riuniti.
“Te
ne sei andata” le ricordò ancora una volta.
“Oddio!
Sì, me ne sono andata” sbottò lei
“E tu non riuscirai mai a
perdonarmi. Come potresti, non ci riesco nemmeno io”
“Sai,
avrei anche preso in considerazione l'idea di passare oltre se tu
fossi riuscita a darmi una buona motivazione. Ma tu lo hai fatto per
ambizione personale!”
Scoppiò
a ridere, come se lo divertisse e Julya si chiese come avesse fatto a
crederci così in fretta. Aveva mentito con lo scopo di
essere
creduta, ma non pensava che Stefan la credesse così meschina
da
fidarsi ciecamente della sua bugia.
Con
un sorriso amaro ricordò che le persone vedono esattamente
ciò che
vogliono vedere: dunque Stefan voleva che fosse
così e forse,
se gli avesse raccontato la verità, avrebbe potuto crederle.
Ma
lui l'avrebbe perdonata sapendo l'altra parte della storia?
Guardando
nei suoi occhi verdi, capì che non ci sarebbe stata nessuna
comprensione né perdono per lei.
E
allora perché raccontarglielo? Perché esporre la
parte più remota
del proprio cuore e la propria anima agli occhi di un giudice?
“Hai
ragione” ammise posando la stecca “ho di meglio da
fare”
“No,
dai, Julya, resta. Avrai così tante cose da
raccontare” la incitò
Caroline e Julya le fu grata per il suo tentativo, ma
preferì
rifiutare.
Voleva
solo andarsene a casa, stendersi sul letto e rileggersi le storie sul
Graal. Non voleva lavorare, ma sperava che leggendo quelle vecchie
leggende e quei racconti le tornasse alla mente il motivo per cui
agiva, lo scopo di un'intera esistenza.
Occhi
fissi sul premio.
Continua
**
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Capitolo 4 *** Eyes on the prize ***
Eyes on the prize- Ekleipsis 4
Bonjour
a tout le monde!
Sono
tornata, contenti?
Be',
spero davvero di sì.
In
ogni caso, due piccole note prima di iniziare il capitolo. Per quello
che concerne il sacro Graal, mi sono ispirata al film
“Indiana
Jones e l'ultima crociata”.
Tutto
ciò che è scritto sulla coppa da qui in avanti
è tratto dal film e
da Wikipedia, con giusto qualche variazione da parte della mia
fantasia.
Chi
ha visto il film sa di cosa parlo, ma era giusto che tutti sapessero
che mi sono ispirata a fonti esterne.
Detto
questo, vi lascio alla storia
Eyes
on the prize
Quasi
tutto il segreto delle anime grandi si
racchiude
in questa parola: perseverando.
Victor
Hugo
Una
settimana, cioè sette giorni, centosessantotto ore,
diecimilaottanta
minuti e seicentoquattro mila ottocento secondi – che poi,
lei non
li aveva certo contati a
uno a uno!- dopo la litigata al Grill, lei e Stefan ancora non si
parlavano e Julya sapeva che non era una di quelle volte in cui tutto
si risolveva con un bel bicchiere di whisky e tanti cari saluti.
A
dire la verità, neanche lei voleva che fosse così
facile. Le andava
bene essere accusata, disprezzata e ancora accusata, ma c'era un
limite a tutto e la sua pazienza non era infinita, anche se qualcuno
avrebbe potuto dire che lo fosse, visto che inseguiva lo stesso
obiettivo da quasi cento secoli.
Il
fatto era che con i reperti storici era più facile; le
persone,
invece, creavano un sacco di problemi: soffrivano, provavano
sentimenti e reagivano di conseguenza, spesso fraintendevano le
azioni altrui e non era sempre facile rimediare.
Insomma,
c'erano una serie di variabili che rendevano più difficile
perseverare.
E
Julya... be', lei non era brava a correggere i propri errori, troppo
orgogliosa per accettare di averne fatti. Anche
ora che Stefan la odiava, non riusciva a non provare rancore verso di
lui che, insomma!, era così cieco da non vedere la sua bugia
per ciò
che era.
E
non aveva nessun diritto di essere in collera con lui perché
razionalmente lei aveva torto, ma era un vampiro e, anche se oramai
non era più una novellina, le sue emozioni erano comunque
molto più
intense di quanto un essere umano potesse immaginare e gestire.
Comunque,
ciò che provava per Stefan non aveva alcuna importanza, non
in quel
momento. Così decise di dedicarsi al proprio lavoro.
Tirò
fuori un fascicolo pieno di documenti, appunti e fotografie e ne
estrasse alcune che ritraevano una tavola di arenaria che aveva
stimato risalire al XII secolo.
La
tavoletta aveva una storia travagliata e per trovarla Julya ci aveva
messo secoli. Aveva spremuto tutto il suo ingegno e tutta la sua non
trascurabile conoscenza della storia per trovare un manufatto,
qualcosa da cui partire.
Alla
fine, l'aveva scovata per caso in uno scavo in Turchia mentre fingeva
di essere una studentessa in vacanze e curiosava tra i reperti di
notte, quando nessuno poteva vederla.
Lei
era lì, semi-distrutta e incompleta, ma non era stato
possibilità
per Julya fraintendere ciò che c'era scritto.
Era
latino, non ci era voluto nulla per tradurlo: “dove
la coppa che contiene il Sangue di Gesù Cristo risiede per
sempre”
erano
le esatte parole che l'avevano fatta sobbalzare.
Se
fosse stata ancora viva, il suo cuore sarebbe partito al galoppo per
la scoperta. Avrebbe potuto rubarla, ma aveva preferito scattare foto
su foto e lasciare Ankara il giorno successivo.
Era
talmente elettrizzata!
Non
aveva ancora letto tutta l'iscrizione perciò si
apprestò a farlo in
quel momento.
Le
bastò leggere per intero ciò che aveva trovato
per capire di essere
a un punto morto. La tavoletta le confermava l'esistenza di un Graal
da cercare, ma a parte questo non diceva nulla.
Gole,
deserti, montagne, vallate... le venivano in mente migliaia, se non
milioni, di posti che potevano corrispondere a quella descrizione e
mancava più di metà della tavoletta.
Era
a un punto morto e trovare la tavoletta non era servito a niente.
Aveva sperato che fosse un gioco facile e dopo tanti anni non si
sarebbe arrabbiata se avesse trovato un'indicazione più
esplicita,
una cosa come “per
il sacro Graal da quella parte” o
“seconda stella
a destra e poi dritto fino al mattino”.
Invece
no: si trovava ancora
a
giocare alla caccia al tesoro e il colmo era che lei non aveva
neanche una cartina del posto in cui scavare.
Ebbe
un momento di abbattimento.
Se
davvero non aveva in mano altra che aria fritta, allora anche il suo
viaggio fino a Mystic Falls era stato una perdita di tempo.
Tutta
la tristezza, la rabbia e il dolore non erano serviti a nulla
più
che riaprire vecchie ferite.
Dovette
sopprimere il ringhio che le era salito alle labbra e la tentazione
di rompere qualcosa, come se mandare in frantumi un vaso o un mobile
potesse permettere a lei di tenere insieme tutti i pezzi.
Alla
fine chiuse gli occhi e strinse i pugni così forte da
ferirsi. Poi
si alzò e uscì dalla stanza a passo di marcia,
incurante del sangue
che le macchiava le unghie e i polpastrelli: sarebbe guarita da sola,
cosa le importava di cosa avrebbe pensato la gente vedendo il
sangue?
Incrociò Stefan. Lui stava salendo le scale proprio
mentre lei aveva messo il piede sul primo gradino e le
scoccò
un'occhiata di scherno quando vide i pugni serrati e sentì
l'odore
del sangue.
“Come
procedono i tuoi studi?”
Julya
assottigliò lo sguardo, indecisa se accettare anche quella
stoccata
o reagire. Francamente, credeva di aver sopportato fin troppo e non
era da lei subire passivamente, qualunque errore dovesse scontare.
Insomma,
aveva fatto cose ben peggiori
che
lasciare Stefan e mai aveva permesso a qualcuno di trattarla in quel
modo.
Ma
lui era Stefan e, per quanto si impegnasse, non riusciva a vedere in
lui che l'amico di un tempo.
Alla
fine, optò per la via diplomatica.
“Procedono”
proclamò con voce stentorea.
“Immagino
che sia per questo che sei così arrabbiata”
“Attento”
sibilò facendo un passo avanti e avvicinandosi
“non sono
esattamente dell'umore adatto a farmi prendere in giro”
Stefan
rise e si chinò su di lei per sussurrarle all'orecchio.
Sembrava un
momento così intimo, così dolce che Julya
sperò che potesse
perdonarla ed essere di nuovo suo amico, proprio quando aveva
più
bisogno di conforto.
Niente
nella sua vita stava andando come lo aveva programmato e, sotto
l'aria da dura, sentiva di andare alla deriva.
“Sei
patetica. Sono contento che le tue ricerche non procedano come
speravi”
Julya
sentì una marea di sensazioni contrastanti. Il cuore le
balzò in
gola e poi sprofondò sotto i piedi con un sussulto,
boccheggiò e
impallidì.
Poi
ringhiò, ma Stefan non sembrò per niente
impressionato. Sembrava
piuttosto divertito
e
Julya si chiese dove diavolo fosse finito il suo amico.
Perché, poco
ma sicuro, lui non lo era.
Tremò
da capo a piedi per la rabbia, la delusione, la frustrazione e tutte
quelle sensazioni che la facevano soffocare, annaspando alla ricerca
di aria come se stesse annegando.
Fu
sul punto di dire qualcosa, ma la voce la tradì e non le
restò
altro da fare che schiaffeggiarlo con tutta la forza che aveva.
“Nonostante
tutti i tuoi tentativi” annunciò con voce tremula
“non riuscirai
a tenermi lontana e io non mi arrenderò”
Stefan
non si aspettava le sue parole né lo schiaffo;
barcollò, ma Julya
non vide quale fu la reazione successiva perché era
già scivolata
giù dalle scale ed era uscita di casa sbattendo la porta.
*
“E
poi se n'è andata”
Stefan
finì di raccontare e si accasciò sullo schienale
del letto di
Elena. Non avrebbe voluto parlarne, ma lei aveva visto che era
turbato da qualcosa e lo aveva sommerso di domande fino a quando,
stremato, non aveva iniziato a raccontare.
Julya
si stava rivelando più problematica di quel che avesse
pensato. In
quella settimana era rimasta per lo più nella sua stanza e
non aveva
disturbato, questo era vero, ma Stefan sentiva la sua presenza in
ogni momento della giornata.
Sentiva
il suo respiro al piano di sopra, il fruscio delle pagine che
sfogliava con tanta ostinazione di continuo e gli veniva spontaneo
immaginare la sua espressione in quel momento.
Immaginava
fosse un mix di disappunto e rabbia silenziosa, con le labbra serrate
e un sopracciglio inarcato a riprova della sua insoddisfazione.
“E
tu non pensi di esserti un po' meritato quello schiaffo?” gli
domandò Elena esitante.
Si
era detta che sarebbe stata dalla parte di Stefan in quella
questione, perché lui era il suo ragazzo e lei una perfetta
estranea, ma provava dispiacere per Julya, immaginando il muro di
silenzio e rancore con cui doveva trovarsi a combattere ogni giorni a
casa Salvatore.
Certo,
aveva sbagliato, ma non meritava per questo di essere perdonata?
Segretamente,
era stupita dal comportamento di Stefan. Lui non era un santo, aveva
commesso molti errori e ne aveva visti commettere agli altri.
Nonostante
ciò, aveva trovato la forza di perdonarli o, comunque, di
iniziare a
farlo. Damon era un ottimo esempio.
Loro
si erano uccisi a vicenda, la questione era molto delicata, ma vedeva
i passi avanti che facevano l'uno in direzione dell'altro sulla via
del perdono.
Ci
sarebbe voluto ancora del tempo per riuscire a passare oltre a un
gesto così grave, ma era sicura che il tempo avrebbe sanato
del
tutto le ferite del passato.
Dunque,
perché Stefan non riusciva a perdonare un gesto
così blando al
confronto come quello di Julya?
A
volte si chiedeva se non ci fosse di più di quel che Stefan
le aveva
raccontato.
Rimasero
un po' in silenzio, fino a quando Stefan non le fece cenno di andare
a sistemarsi tra le sue braccia ed Elena lo fece.
Quando
Stefan la strinse a sé, si accorse che nonostante tutto le
preoccupazioni non erano scomparse.
Continuava
a pensare a Julya, allo schiaffo, a ciò che aveva visto nei
suoi
occhi e a chiedersi cosa fare con lei.
Ma
non era il momento, non ora che Elena era tra le sue braccia e lui
avrebbe dovuto pensare solo a lei.
Eppure
l'immagine di Julya lo tormentava e forse, dopotutto, lo schiaffo se
lo era meritato davvero.
La
voce di Elena interruppe i suoi pensieri.
“Come
vi siete conosciuti?”
“E'
una lunga storia” ammise con un sorriso nostalgico
“c'era un
locale a Philadelphia e lei cantava mentre io ero in pista
e...”
“Tu
ballavi?”
“Più
o meno”
Stefan
rise ed Elena si tirò su, guardandolo con gli occhi scuri
ridenti
“Voglio sapere tutto. Tu che balli senza essere obbligato...
questa
sì che è una scoperta!”
Rise
anche lei e Stefan le fu grato per aver alleggerito l'atmosfera.
Passarono il pomeriggio così, Elena a ridere e Stefan
raccontando il
proprio passato.
*
Non
sapeva neanche lei come avesse fatto a trovare quel locale
così
carino, ma era contenta di averlo fatto.
Era
piuttosto isolato, in una via secondaria, e lei ci era entrata per
caso mentre vagava senza una meta.
Aveva
sperato di trovare una libreria: i libri la calmavano sempre quando
sentiva di essere un groviglio indistinto di sensazioni e non
riusciva a capire da dove iniziare per mettere ordine.
Invece
aveva scovato quella piccola caffetteria che si era rivelata una
cioccolateria e una pasticceria.
E
be', lei aveva un debole per il cioccolato e per i dolci,
così si
era accomodata a un tavolino di legno chiaro in un angolo e aveva
ordinato.
Anche
se come vampira non aveva bisogno di cibo, lei si era aggrappato con
forza al suo lato umano. Non aveva mai pensato di spegnere i
sentimenti, anche se forse sarebbe stato molto più semplice,
né
aveva mai abbandonato le abitudini che aveva quando era ancora viva e
il cuore le pulsava nel petto.
Forse
sarebbe stato tutto più facile se avesse dimenticato
ciò che era
stata un tempo, glielo avevano detto in molti, ma lei non li aveva
ascoltati.
Smettere
di aggrapparsi a ciò che le restava della propria
umanità avrebbe
voluto dire privarsi anche di momenti come quello, rari sprazzi di
serenità che le ricordavano che lei non era solo un abominio
della
natura.
Aprì
un libro e si portò la tazza di cioccolata alla bocca,
sospirando
poi di piacere. Era tutto ovattato, anche la canzone che usciva dalla
radio vintage sulla mensola dall'altro lato della stanza. Persino la
musica era vintage in quel posto.
Si
immerse nella lettura e Hemingway la cullò con le sue
parole. Aveva
un modo di scrivere travolgente, asciutto, conciso, ironico, ma non
avrebbe potuto essere altrimenti visto che Hemingway era stato un
uomo spavaldo e malinconico, a volte un po' spaccone.
“Addio
alle armi?
Davvero?”
La
voce di Caroline Forbes la riportò con i piedi per terra e
riemerse
da quel mix di lettura e ricordo mentre la vampira si sedeva di
fronte a lei.
“Già.
E' un bel libro e Hemingway era un uomo affascinante”
“Lo
hai conosciuto?”
Caroline
era così genuinamente sorpresa che Julya rise. Poi si chiese
se
fosse mai stata così piena di luce: la invidiava per quello.
Sembrava
accettare la realtà così com'era, buttandosela
alle spalle con un
sorriso ottimista... era mai stata così lei?
Non
credeva.
"Sì,
prima che cominciasse a scrivere tutti quei meravigliosi
libri”
“Devi
aver avuto una vita davvero eccitante”
“Non
è stata male” le concesse chiudendo il libro e
sorridendole.
Caroline le piaceva, non solo per quell'ottimismo innato che sembrava
renderla impermeabile a ogni tentativo di distruggerla. Lei era luce
pura, bianca, accecante.
E
Julya, che non era mai stata luce ma neanche tenebra, ne era
affascinata e non capiva come l'altra potesse trovare qualcosa di
ammaliante in lei.
“A
dire la verità” continuò
“è stata più di questo. E' stata
bella.
Sono nata nel 1872, a San Pietroburgo, ma quando sono stata
trasformata ero al Cairo e avevo diciotto anni”
“E
cosa ci facevi in Egitto?”
Julya
sorrise della curiosità di Caroline e continuò
con la propria
storia. Era così tanto tempo che non la raccontava e le
faceva uno
strano effetto risentirla.
“Ero
l'assistente di un intellettuale, una sorta di archeologo. Vedi, dopo
la traduzione della stele di Rosetta, l'egittologia era diventata
materia di enorme interesse e non sai quanti studiosi di storia
antica scelsero di unirsi agli scavi.
L'Europa
era in fermento: Bismark con la sua Germania era l'ago della
bilancia, ma era la belle époque e la
vita nelle capitali
europee era brillante, c'era speranza ovunque, fiducia nel progresso
e l'arte conobbe un periodo di enorme splendore in molti campi.
C'erano
scavi in tantissimi luoghi del Egitto. Il mio maestro, Gregory
Lewitt, era appassionato di antichità e un esperto di
civiltà
egizia: una rarità in un impero arretrato come la
Russia” si
interruppe un momento, ricordando il volto grassoccio di Gregory e il
suo sorriso allegro, il naso arrossato per qualche bicchierino di
vodka di troppo e lo sguardo penetrante, ma bonario.
Quando
era piccola pensava che lui fosse Babbo Natale e non solo
perché
arrivava puntuale la mattina del sette gennaio (*) per portare
qualche piccolo dono a tutti i contadini del suo latifondo.
“D'altronde,
lui era un inglese. Aveva ereditato la proprietà da sua
madre o
qualcosa del genere: alcuni dettagli della mia vita passata sono un
po' sfuocati. Comunque, aveva un modo di trattare coloro che
lavoravano alle sue dipendenze che lasciava intendere che non fosse
russo. Era gentile, soprattutto con noi bambini e aveva aperto per
noi una scuola dove potessimo ricevere un'educazione rudimentale. Non
so bene perché scelse di essere il mio
istruttore
privato, non
so cosa vide in me, ma mi prese sotto la sua ala e mi
insegnò tutto
ciò che sapeva. Poi, a diciotto anni, mi chiese di seguirlo
in
Egitto. Sono morta lì, per una febbre”
“E
poi cosa hai fatto?”
“Ho
viaggiato. Mi ci è voluto un po' prima di riuscire a
controllarmi
del tutto, ma alla fine ce l'ho fatta. Nel frattempo, ho visitato
l'Europa e ho conosciuto personaggi di cui tu hai letto solo nei
libri di storia. Ho conosciuto Lev Tolstoj e ho letto il manoscritto
di Guerra e Pace quando era ancora solo una bozza,
ho visto la
costruzione della Torre Eiffel, ho ascoltato Emily Dickinson leggere
le sue poesie e ho assistito alla prima esposizione di un sacco di
quadri di Monet, Degas e quanti altri”
“Hai
conosciuto Emily Dickinson?”
La
voce di Caroline e il sussulto con cui si era avvicinata le fecero
capire che doveva essere una fan della grande poetessa che anche lei
aveva tanto apprezzato. Annuì e sorrise.
“E
quando hai conosciuto Stefan?”
Quella
era una nota dolente.
Julya
non era sicura di volerne parlare, ma ricordava quella notte e la
faceva sempre sorridere, a volte con nostalgia.
Caroline
se ne rese conto.
“Scusa,
non dovevo chiedertelo”
“No,
non preoccuparti. E' solo che dopo gli avvenimenti recenti mi chiedo
se torneremo mai a essere le due persone che eravamo una
volta”
Caroline
si fece seria in volto e avvicinò la sedia a lei.
“Sai,
forse dovresti parlarne con qualcuno. Quando è stata
l'ultima volta
che ti sei confidata con qualcuno?
“Uhm,
era il 1910 e me n'ero andata da poco da New Orleans. Ero ubriaca e
credo di aver parlato con un venditore di tappeti, a Nairobi”
Caroline
scoppiò a ridere e alla fine Julya la imitò
“In effetti” ammise
tra una risata e l'altra “ho questo vago ricordo e credo che
alla
fine mi abbia anche convinta a comprarlo, uno dei suoi
tappeti”
Allora
risero di più e fino ad avere le lacrime agli occhi, poi
ripresero a
parlare e lentamente il discorso si fece sempre più
personale.
Julya
aveva avuto delle amiche, ma non aveva mai approfondito nessun
legame, un po' perché troppo impegnata a studiare -quando
era umana,
per avere un futuro migliore di quello che le sarebbe spettato se
fosse rimasta a San Pietroburgo- un po' perché troppo presa
dalla
propria ricerca – dopo, quando era stata trasformata.
Perciò
era una sensazione insolita quella che provava in quel momento, con
Caroline. Si sentiva libera, compresa e accettata per quello che
era, importante.
“Che
cosa stai cercando così disperatamente, Julya?” le
chiese a
tradimento. Non si aspettava una domanda così diretta, ma
avrebbe
risposto.
Probabilmente
le sue ricerche si sarebbero bloccate a quel punto morto,
perciò
cosa aveva da nascondere? Foto di una tavoletta e fogli pieni di
favole della buonanotte?
“Sai
cos'è il sacro Graal, Caroline?”
La
ragazza scosse la testa e Julya continuò la sua spiegazione
“E',
secondo la leggenda, la coppa in cui venne versato il sangue di
Cristo. Ha poteri enormi, tra cui anche quello di riportare in vita i
morti. E questo che cerco”
“Ma
se è una leggenda cosa ti fa credere che esista?”
“Anche
i vampiri sono leggende, in teoria, ma io non mi sento molto
leggendaria, non so tu”
“Ma
perché ha tanto valore per te?”
Le
sorrise appena, misteriosa ed enigmatica “Questo è
un segreto,
Care. Ma oramai sono a un punto morto e, detto sinceramente, non so
più dove andare a sbattere la testa”
“Qual
è il problema? Posso aiutarti?”
“Be',
a meno che tu non abbia a disposizione qualcuno che sia su questa
terra da almeno un migliaio di anni e possa darmi alcune
informazioni, non credo che tu possa fare molto”
Poi
accadde qualcosa che non si era aspettata. L'espressione di Caroline
fu attraversata da un lampo di comprensione e mutò fino a
diventare
radiosa.
“Oggi
è la tua giornata fortunata”
*
Mezz'ora
e tante chiacchiere dopo erano davanti alla porta di una bella villa
che, a occhio e croce, risaliva ai primi anni dell'ottocento.
Una
bella casa in stile coloniale che rivelò un arredo sapiente
ed
elegante all'interno: fu una bella sorpresa perché i colori
si
sposavano alla perfezione l'uno con l'altro e decorazioni e ambiente
erano chiaramente frutto di un occhio esperto.
“Ora
mi puoi spiegare dove siamo e cosa stiamo facendo qui?”
Julya
era, come lei, una vera e propria maniaca del controllo e non
sopportava di non sapere di non avere in mano la situazione, anche se
a guidarla era Caroline e di lei si fidava.
“Sappi
solo che sto facendo un enorme sacrificio a portarti qui: non sono
contenta neanche io, ma Klaus è un originale e potrebbe
avere le
risposte che cerchi”
“Aspetta,
Klaus Mikaelson?”
Caroline
annuì e suonò il campanello senza far caso al
volto di Julya. Una
mezza dozzina di sensazioni diverse fecero capolino per poi
scomparire nell'arco di un millesimo di secondo, tanto che mezzo
minuto dopo il suo volto era di nuovo una maschera indecifrabile.
Venne
ad aprire proprio Klaus e Julya si chiese se l'avrebbe riconosciuta:
dopotutto, erano passati tanti anni.
Lo
sguardo di Klaus si concentrò solo su Caroline e
sembrò escludere
tutto il resto anche quando le fece entrare.
Con
sollievo si accorse che Caroline gli piaceva: Klaus
non faceva
mai favori a qualcuno per nulla, ma forse se glielo avesse chiesto
lei, Julya avrebbe ottenuto ciò che voleva.
A
dire il vero, si sentiva un'approfittatrice a pensare di agire il
quel modo, tuttavia non vedeva altre vie d'uscita dalla situazione
ingarbugliata in cui si era ritrovata.
Prese
il coraggio a due mani – per un attimo si sentì
come una bambina
che ha combinato una marachella e teme di essere sgridata- poi si
disse che non aveva affrontato una rivoluzione e due guerre mondiali
per indietreggiare di fronte a Klaus.
“Ciao
Klaus, ti ricordi di me?”
Si
impresse sul viso un sorriso pieno di supponenza; lui le sorrise e
Julya seppe che sì, non l'aveva dimenticata.
“Certo.
Julya, una delle vampire create da Kol”
“Già,
quella che era presente la volta in cui gli hai infilato un pugnale nel
cuore” gli fece presente con voce pacata, come se il ricordo
di
quella violenza non le facesse venire i brividi ogni volta che ci
pensava.
Ricordava
con nostalgia Kol: lui l'aveva trasformata e si era preso cura di lei
quando si era risvegliata.
La
guardava sempre con un sorriso e gli occhi languidi di passione e
sentimento. Non aveva dimenticato come la stringeva a sé e i
suoi
baci... oh, i suoi baci erano afrodisiaci almeno tanto quanto il suo
sangue.
Avevano
vissuto insieme per quasi vent'anni prima che Klaus lo pugnalasse.
O
meglio, avrebbe voluto ricordarlo, ma la verità era che non
aveva
mai osato pensare a lui da quando Klaus glielo aveva portato via
perché ogni volta che ci provava si sentiva straziata e con
un
enorme buco nel petto.
Per
un po' aveva preferito credere di aver scambiato la gratitudine per
amore, ma sapeva che aveva solo tentato di ingannare se stessa per
non ammettere che Kol era stato davvero il suo primo amore e che le
mancava da morire ogni giorno, anche quando non pensava a lui. Una
perdita non può essere cancellata dal cuore e lei non era
andata
oltre.
In
fondo, poteva anche essere diventata una vampira, ma restava sempre
quella ragazza piena di speranza che non riusciva a dire addio e, in
profondità, che mai si era rassegnata, che lo aspettava
ancora.
Comunque
non doveva permettere a quel ricordo, per quanto doloroso, di
influenzarla in quella delicata conversazione.
“A
cosa devo questa piacevolissima visita?” domandò
mentre faceva
loro cenno di accomodarsi.
“Ho
bisogno un favore”
“Dritta
al punto: mi piace. Sentiamo, di cosa si tratta?”
“In
realtà, di niente di più che una spiegazione. O
notizie, chiamale
come vuoi”
“Su
cosa?”
“Ecco,
questa è la parte strana. Sono alla ricerca del sacro Graal.
E sì,
lo so che si pensa che sia un oggetto leggendario, ma possiamo
saltare tutta quella parte e passare alle domande?”
Klaus
non fece domande, si sistemò meglio sul divano e le fece
cenno di
continuare.
“La
settimana scorsa, ad Ankara, ho trovato una tavoletta in cui viene
descritto con dovizia di particolari il luogo dove riposa il santo
Graal. Purtroppo, la tavola è incompleta e ne manca
più di metà,
il che la rende praticamente inutile per il mio scopo. Si parla di
gole, vallate, deserti, ma è tutto molto vago”
Klaus
annuì e si sporse verso di lei “Capisco il punto.
Forse posso
aiutarti. Lascia che ti racconti una favola della buonanotte”
Si
alzò e andò verso una grande cassaforte. Quando
tornò a sedersi,
aveva con sé un libro dall'aria molto antica che
posò con cura sul
tavolo.
L'occhio
esperto di Julya stimò che doveva essere più o
meno coevo alla
tavoletta. Lo aprì e ne lesse le scritte in francese antico
mentre
Klaus continuava la sua storia.
“Ho
sentito questa storia durante uno dei miei viaggi in Oriente: negli
anni delle crociate giravano molti racconti di cavalieri che
avrebbero trovato il vero calice di Cristo. Erano tutte fandonie,
chiaramente, ma una di queste mi colpì. Il Graal, dopo
essere stato
affidato a Giuseppe di Arimatea, scomparve e non se ne seppe
più
nulla per un migliaio di anni, fino a quando non venne ritrovato da
tre cavalieri della prima crociata, tre fratelli”
Julya
annuì “La conosco” ammise “la
leggenda dice che due di questi
tre fratelli attraversarono il deserto diretti in Francia, ma solo
uno di questi la raggiunse. E si suppone che abbia raccontato la sua
storia a un frate francescano prima di morire di vecchiaia”
La
voce le tremò nel pronunciare le ultime parole e
abbassò di scatto
lo sguardo sul libro. Poi guardò di nuovo Klaus con tanto
d'occhi e
un'espressione di genuina sorpresa sul viso.
“Non
si suppone” la corresse l'ibrido “quello
è il racconto che il
frate francescano trascrisse in cui narra la vita del
cavaliere”
“E
rivela il luogo in cui si trova il Graal?”
Accarezzò
le pagine con dolcezza, guardandole con desiderio e speranze, come se
all'improvviso dovessero prendere vita e raccontarle tutto
ciò che
custodivano da tanti secoli. Non credeva che un giorno avrebbe mai
potuto toccare con mano quel libro -che per lei era sempre stato
inarrivabile- ma poterne sfiorare le pagine la faceva sentire un
passo più vicina al Graal, allo scopo di una vita intera.
Le
tremavano le dita per l'emozione e se avesse avuto ancora un cuore
vivo probabilmente avrebbe iniziato a battere furiosamente nel petto,
poteva quasi sentirlo.
“Non
lo so” ammise Klaus “Non l'ho mai letto con
attenzione. Suppongo
che possa farlo tu”
“Dov'è
la fregatura?”
Se
c'era una cosa che aveva imparato era proprio che nessuno faceva mai
niente per niente, figuriamoci Klaus: doveva solo sperare che non
fosse un prezzo troppo alto da pagare.
Si
sporse verso di lei, un mezzo sorriso a incurvargli le labbra piene.
“Consideralo
un pagamento anticipato”
“Per
cosa?”
“Se
prenderai quel libro, sarai in debito con me” la
avvisò, ma Julya
non lo ascoltava più. Non le importava il prezzo che avrebbe
pagato:
dannazione, avrebbe venduto la sua anima se fosse servito a portarla
al Graal perciò qualunque cosa le chiedesse non avrebbe
fatto alcune
differenza.
Prese
il libro con delicatezza e strinse al petto poi, sotto lo sguardo
preoccupato di Caroline, strinse la mano a Klaus.
Per
lei non valevano contratti scritti o firme: era una donna d'altri
tempi e una stretta di mano valeva più di qualunque altra
cosa.
Si
alzarono e Klaus le accompagnò alla porta. Con la coda
dell'occhio,
Julya vide che lo sguardo di Klaus era solo per Caroline e
accennò a
un mezzo sorriso.
Era
quasi certa che se era riuscita a farsi ascoltare e a ottenere un
favore da Klaus lo doveva alla presenza di Caroline perciò
si
appuntò di ringraziarla in qualche modo.
“Grazie,
Care” esalò quando furono fuori “Non hai
idea di quanto sia
importante per me”
“Su
questo hai ragione. Un giorno forse capirò perché
conta così
tanto”
“Un
giorno lo vedrai con i tuoi occhi” le promise e con il libro
in
mano le sembrò di potercela fare davvero.
Si
fermarono in piazza: da lì ognuna avrebbe preso la propria
strada
verso casa.
“Stai
cullando il libro” la prese in giro Caroline nel notare lo
sguardo
quasi adorante con cui Julya guardava il volume.
Rise
e Caroline notò come sembrasse diversa da prima. A volte
Julya
sembrava cupa e rigida, fredda come una stalattite di ghiaccio, ma
aveva un sorriso magico, così luminoso da sembrare fatto di
luce
pura.
E
capiva cosa avesse visto Stefan in lei perché Julya aveva un
fascino
sofisticato e indefinito che si propagava nell'aria insieme al suo
profumo e a quel sorriso, a volte sfacciato, a volte supponente,
altre radioso come le stelle, la luna e il sole.
Julya
le piaceva, anche se non capiva la sua ossessione per la ricerca di
qualcosa che avrebbe potuto rivelarsi una favola. Per il resto, aveva
avuto una vita eccitante e splendida, proprio come la sognava
Caroline e la invidiava per questo.
“Credo
che andrò dritta a casa a studiare questo tesoro”
annunciò Julya.
“Aspetta,
aspetta, aspetta! Hai davvero intenzione di chiuderti per
chissà
quanto tempo in una stanza, da sola, a studiare?”
“Non
sarò sola” tentò Julya con un sorriso
“ci sarà il libro”
Caroline
le lanciò un'occhiataccia che Julya interpretò
come “cambia
risposta, o te lo brucio” o qualcosa del genere.
“Non
puoi farlo!”
“No?”
“No!
Senti, stasera fai pure quel che vuoi, ma domani ci sarà una
festa a
casa di Tyler e sarebbe una splendida occasione per rilassarti un
po'. Andiamo” aggiunse quando la vide tentennare
“il libro non
scapperà mica. Dopo potrai studiare tutto il tempo che
vorrai”
A
quel punto Julya non poté che abbassare la testa e le spalle
in
segno di resa mentre Caroline le sorrideva entusiasta.
Se
non altro, una delle due era felice.
“Bene,
sono contenta che tu venga”
“Ho
scelta?”
“No”
“Chiaramente”
“Va
bene. Dovrò solo trovare qualcosa da mettere; dopotutto,
credo che
mi farà bene partecipare a questa festa...”
“...
alla quale parteciperà anche Stefan” aggiunse
Caroline, pronta a
ricordarle che oramai aveva detto sì e non poteva
rimangiarsi la
parola data.
Ci
fu minuto di silenzio, poi Julya scrollò le spalle.
“Anche
una bevuta al Grill però sembra davvero
allettante” constatò
salvo ricevere una spinta poco delicata da parte di Caroline.
“Scherzavo!”
si affrettò allora ad aggiungere “Dai,
accompagnami a casa”
“Ehi,
sei tu la più vecchia: non dovresti essere tu ad
accompagnare me?”
si indignò la bionda e Julya rise con sprezzo.
“Mi
hai appena costretto a venire alla festa. Accompagnarmi a casa, Care,
è il minimo” e si incamminò.
Allora
Caroline rise più forte e la seguì.
Continua
**
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Capitolo 5 *** I'll hold you 'til hurt is gone ***
Capitolo 5 Ekleipsis
Buondì!
Cercherò
di pubblicare il venerdì ora che The vampire diaries
è ripreso regolarmente , ma
se la settimana si rivelasse più leggera del solito magari
passerò
a due aggiornamenti, chissà.
Comunque,
nello scorso capitolo avete avuto modo di conoscere meglio il passato
di Julya. Ora, il suo presente sarà l'oggetto del capitolo,
in
particolare il rapporto Julya/Stefan.
Ma
non vi anticipo nulla, se no che sopresa è?
Vi
avverto, il capitolo non è lungo, ma è di
passaggio e mi serviva
per “sistemare” alcune cose.
Buona
lettura.
Lo
dedico alle splendide persone che leggono e commentano.
Ma
anche a quelle che leggono e basta.
I'll hold
you 'til hurt is gone
Never
gonna be alone!
From this moment on,
if you ever feel like letting go,
I
won't let you fall.
Never gonna be
alone!
I'll hold you 'til the hurt is
gone.
Nickelback-
Never gonna be alone
“L'ultima
volta che ho partecipato a una festa era il 1945, gli abiti erano
decisamente diversi e i cocktail... no, quelli sono rimasti
uguali”
ammise sorseggiando il liquore direttamente dalla bottiglia che un
ragazzo, abbastanza ubriaco da non aver bisogno di essere soggiogato
perché mollasse la sua preda, le aveva gentilmente lasciato.
Caroline
rise e lanciò un'occhiata all'amica, quella sera
più bella che mai
nel suo abito nero e viola che faceva risaltare ancora di
più il
contrasto tra la pelle chiara e i capelli color cioccolato.
“Davvero
è stata l'ultima volta?”
“Da quel momento non ho fatto che
studiare e cercare”
“Allora
mi sa che hai molte cose da recuperare”
“Credo
che inizierò da quella bottiglia di vodka
laggiù”
Julya
si diresse verso il tavolo dove erano state appoggiate bevande e
cibarie varie ma si voltò quando Caroline la
chiamò.
“Non
pensi di aver già bevuto abbastanza?”
La
guardò con un sopracciglio inarcato e l'espressione
divertita.
“Care,
sono russa” e se ne andò con passo sicuro,
facendosi largo tra la
folla come se non esistesse.
Si
versò un bicchiere di vodka e la sorseggiò piano.
Aveva un buon
sapore e le ricordava la sua vita da umana, quando beveva la vodka
rubata a loro padre durante le feste di paese con i suoi fratelli.
Stefan
comparve al suo fianco con un bicchiere vuoto da riempire e
l'espressione neutra. Non si parlavano ancora e non le piaceva quella
situazione.
Qualcosa
doveva cambiare perché se avessero continuato ad
asserragliarsi
sulle loro posizioni, Julya non avrebbe mai potuto convincerlo ad
aiutarla.
Dentro
di sé sapeva che era una scusa, un modo per non ammettere
con se
stessa che voleva solo essere perdonata e avere di nuovo qualcuno al
proprio fianco.
Forse
sarebbe bastato chiedere scusa, supplicarlo di
perdonarla fino
a quando non lo avesse fatto... forse sarebbe bastato inghiottire
l'orgoglio e parlare con il cuore in mano.
Lo
fermò prima ancora di aver deciso cosa fare.
“Non
ce la faccio a essere arrabbiata con te” ammise “e
vorrei che tu
mi aiutassi in ciò che sto facendo”
Stefan
la guardò come se pensasse che fosse impazzita
“Non hai capito? La
risposta è sempre no”
“Sei
tu che non capisci”
Forse era ubriaca, probabilmente se ne
sarebbe pentita entro poche ore, ma lui era Stefan e questo sembrava
bastarle in quel momento.
“Come
hai potuto credere davvero che io agisca solo per ambizione?”
mormorò amareggiata “Se tu sei arrabbiato, io sono
delusa. Credevo
mi conoscessi abbastanza da capire che c'è molto di
più”
Gli
scoccò un'occhiata piena di rimpianto e se ne
andò, non prima di
aver rubato dalla tavolo una bottiglia di ottimo whisky.
Con
suo enorme rammarico, Julya aveva scoperto di essere il tipo da
sbornia triste.
Aveva
sperato che il whisky e la vodka e il bourbon -che era davvero buono
e Damon aveva ragione, ma lei non glielo avrebbe mai detto- potessero
cancellare il suo lato più cupo e triste... e invece no.
Se
non altro, quella sera non avrebbe avuto problemi di sete: aveva
abbastanza liquore in corpo da poter gestire la fame per tutta la
notte.
Si
appoggiò con i gomiti sulla balaustra del terrazzo su cui
aveva
trovato rifugio. Fuori, la band cambiò canzone e
attaccò con un
lento.
La
ragazza aveva una bella voce, roca, intensa, da brividi sotto la
pelle e c'era un bel vento freddo che le ricordava la sua Russia e
che portava il profumo della prima neve.
In
un attimo di follia, si issò sulla balaustra con un mezzo
sorriso e
gli occhi socchiusi. Le sfuggì una risata e si
ricordò che a lei
piaceva davvero l'inverno.
Le
piaceva il ghiaccio su cui pattinare perché le ricordava la
Neva a
Dicembre, la neve, le luci, gli alberi spogli.
La
gente odiava l'inverno, ma lei no. Le portava un pezzo di casa a ogni
ventata, in qualunque parte del mondo fosse.
“Dovresti
scendere”
Aveva
sentito arrivare Stefan, ma perché scendere quando stava
così bene
lì?
“Io
non credo. Qui si sta bene”
“Preferirei
che scendessi”
“Non
fare finta che ti importi. E comunque” gli ricordò
con un sorriso
“io non posso morire. Sono già morta,
ricordi?”
“Va
bene”
Lo
sentì avvicinarsi, ma non se ne curò fino a
quando non la prese in
braccio e la trascinò giù di peso. La
portò tra le braccia come se
fosse una principessa fino all'interno dello studio di casa Lockwood
mentre la musica cambiava.
La
mise a terra e lei si allontanò, stizzita e contrariata,
senza dire
una parola. Era alticcia e cominciava a sentire la stanchezza -anche
se era piuttosto certa che fosse una reazione psicologica- gravarle
addosso come un peso. Non aveva la forza di preoccuparsi del
disprezzo di Stefan o di ciò che stava pensando.
“Ti
sei mai pentita di essertene andata?”
Julya
si chiese se fosse il caso di dirgli la verità. Lo
guardò negli
occhi e vide che finalmente qualcosa era cambiato.
Brillavano
di una luce che non c'era mai stata e Stefan sembrava di nuovo come
lo ricordava. Forse, chissà, era l'alcool che le faceva
vedere ciò
che voleva, ma non le importava. Aveva così tanto bisogno di
lui.
“Ogni
giorno ho rimpianto di non averti chiesto di venire con me”
“E
perché non sei tornata?”
“Perché,
per quanto volessi disperatamente averti accanto, non potevo
dimenticare il motivo per cui me n'ero andata”
“La
tua ambizione...”
Non
si aspettava che Julya si voltasse di scatto, sferzando l'aria con i
lunghi capelli bruni.
“Non
è mai stata quella! Ti prego, credimi: ho mille motivi per
volere
quel calice, ma l'ambizione non è mai stato tra
quelli”
E
Stefan non dubitò neanche per un momento delle sue parole e
sì,
poteva fidarsi perché conosceva Julya e, anche se aveva
scelto di
vedere in lei solo un'ambiziosa egoista, sapeva che non lo era mai
stata.
Era
ferito e aveva voluto credere che fosse una
creatura
spregevole: così sarebbe stato più facile odiarla.
Ma
lei gli stava chiedendo di perdonarla e vedeva la muta richieste nei
suoi occhi lucidi e ardenti.
“Mi
sono sentito così solo” soffiò mentre
Julya si avvicinava a lui.
“Ho
ucciso migliaia di persone e tu te n'eri andata, lasciandomi senza
nessuno a cui appoggiarmi quando ne avevo più
bisogno”
Julya
guardò nei suoi occhi e vide il rimpianto, il dolore
straziante
dettato dalla consapevolezza delle proprie azioni, il senso di
abbandono.
Di
slancio lo strinse a sé e Stefan la avvolse con le proprie
braccia,
premendosela contro per sentirla più vicina, stringendo
tanto da
farle male.
“Non
ti lascerò più cadere, non sarai di nuovo
solo”
Le
sembrò che all'improvviso tutta la sofferenza di quegli
anni, le
morti, le devastazioni e gli inganni fossero tornati alla mente di
Stefan e tornò a galla anche il proprio senso di solitudine.
In
quel momento, sembravano entrambi due naufraghi alla disperata
ricerca di un modo per sopravvivere.
All'improvviso
non fu più Julya la roccia nella tempesta mentre Stefan
affondava il
capo tra i suoi capelli. Lasciò che sfogasse tutto il suo
dolore
contro il suo collo mentre lo stringeva più forte, come a
dirgli che
non lo avrebbe lasciato andare una seconda volta.
“Andrà
tutto bene” si ritrovò a mormorare accarezzandogli
i capelli. Non
lo avrebbe lasciato andare, non più.
E
sapeva che Stefan non l'aveva ancora perdonata del tutto, l'aveva
letto nei suoi occhi prima che la stringesse a sé, ma non le
importava. Era un primo passo sulla via giusta, sulla strada per
tornare al punto in cui erano lasciati, un nuovo inizio.
*
“Ehi”
Julya
alzò lo sguardo dal libro e lo posò su Stefan.
Era appoggiato allo
stipite della porta e le rivolgeva un sorriso un po' tirato, ma Julya
apprezzò il tentativo.
“Ciao”
“Come
procede?”
Julya
si stupì per la domanda, ma la sua sorpresa raggiunse
l'apice quando
Stefan si fece avanti e si appoggiò con le mani allo
schienale della
sedia.
“Bene”
ammise ed era vero, per una volta.
“Per
ora il libro non mi ha detto nulla che non presumessi già,
ma se non
altro ora posso dire di essere certa di averci sempre visto
giusto”
Stefan
pensò che si stesse contenendo e che doveva essere davvero
difficile
per lei non gongolare spudoratamente.
Gli
venne da ridere: Julya non era cambiata dagli anni '20.
La
discussione di due sere prima, alla festa di Tyler, li aveva
riavvicinati e aveva permesso a Stefan di imboccare la via del
perdono.
Certo,
erano ben lungi da riavere il loro vecchio rapporto, ma se non altro
ci stavano provando.
Un
passo alla volta, si
era detto e
sembrava che Julya accettasse il suo modo di procedere.
“Davvero?
E quali erano queste supposizioni?”
“Stefan,
vuoi davvero saperlo? Insomma, so che non è così,
ma se ti
raccontassi tutto avrei l'impressione che tu mi stia aiutando”
Stefan
soppesò un momento il problema poi prese la sua decisione
“E se
volessi aiutarti?”
Julya
lo guardò con dolcezza e gratitudine, ma scosse la testa.
“Non
acceleriamo i tempi, Stef. So che non sei ancora pronto per
questo”
“Ma
io voglio esserlo! Senti, noi due abbiamo tanti anni da recuperare e
quale miglior modo per perdonarti che capire perché mi hai
abbandonato?”
Uno
a zero per te, pensò
Julya che
a quell'obiezione non sapeva proprio come ribattere. Forse
perché
era perfettamente ragionevole e inappuntabile.
Si
morse il labbro, meditando. Perché no? Perché non
cedergli la
possibilità di perdonarla davvero?
Perché
se lo facessi, gli darei libero accesso alla mia anima, a ogni mia
più piccola debolezza. E non so se sono pronta a farlo.
Ma
Stefan stava facendo uno sforzo e la sua proposta era una mano tesa.
In un rapporto, non sarebbe bastato che uno dei due facesse un passo
avanti. Accettare il suo aiuto, ora, sarebbe stato il suo modo di
prendere quella mano e stringerla forte.
“Va
bene, va bene. Vieni qui e ascoltarmi, ti servirà”
Gli
indicò il libro “Quello è un antico
manoscritto redatto dalla
mano di un frate francescano in cui questi narra la vita e le gesta
di un cavaliere. Ora, la leggenda vuole che questo cavaliere fosse
uno dei tre fratelli che trovarono il Graal durante la prima
crociata”
“Come
sai tutte queste cose?” le domandò alzando appena
lo sguardo dal
manoscritto.
“Sono
decenni che lavoro a questo. Ti stupiresti della quantità di
cose
che conosco in materia storica, Stefan”
Gli
sorrise, enigmatica e un po' presuntuosa, come aveva fatto nel 1928,
nel night club di Philadelphia.
“Comunque”
lo ammonì “il libro non rivela dove si trova il
Graal, ma il
cavaliere è sicuro di aver lasciato due indizi lungo il
cammino che
possano rivelarlo”
Sotto
lo sguardo attento di Stefan, trafficò con i fogli sparsi
sulla
scrivania alla ricerca di chissà cosa fino a estrarre un
paio di
foto.
“Uno
è questa, una tavoletta di arenaria”
“Ma
è incompleta”
“Giusto.
L'altro indizio, è sepolto con l'altro fratello”
“E
immagino che non dica dove sia la tomba, vero?”
Julya
rise. Se l'archeologia – o in qualunque modo si volesse
chiamare
ciò che stavano facendo- fosse stata davvero piena di
risposte
immediate, allora non avrebbe impiegato più di un secolo a
raggiungere quel traguardo.
Stefan
avrebbe dovuto imparare a pazientare perché ora stavano
avendo molta
fortuna -più di quanta ne avesse mai avuta, a dire il vero-
ma le
cose avrebbero potuto cambiare il loro corso molto presto.
Era
una continua sfida, un incessante allenamento per il suo cervello. La
ricerca e la scoperta costante erano per lei l'unica fonte di vero
divertimento.
“No”
ammise “ma io credo che si trovi a Venezia”
E
vide che Stefan stava per farle una domanda, magari su come facesse a
sapere che era lì, ma Julya alzò una mano per
fermarlo.
“Non
chiedermi come faccio. Diciamo solo che è una
supposizione”
“E
come pensi di avvalorarla?”
Il
sorriso che Julya li rivolse fu così radioso che ne rimase
abbacinato per un momento.
“Semplice.
Andando in Italia”
“E
io verrò con te”
Subito
dopo averlo detto, si chiese perché lo avesse fatto. In
realtà,
voleva andare con lei. Non perché avesse
bisogno di essere
protetta – era sicuro che sapesse farlo benissimo da sola- ma
quale
miglior modo per passare del tempo insieme di un viaggio a Venezia?
Julya
lo guardò mordendosi il labbro e con uno sguardo
così preoccupato
che Stefan si chiese cosa avesse detto di male.
“Stefan”
iniziò tentennando e prendendogli una mano tra le sue
“non è un
viaggio di piacere, lo sai? Insomma, potremmo dover attraversare
passaggi sotterranei, gallerie, cunicoli. Poi, è Venezia:
vuol
dire che ci sarà tanta acqua... Credi di essere pronto a
rischiare
che si rovinino i tuoi capelli pieni di gel?”
Stefan
ci mise un momento per realizzare la battuta di Julya che aveva
perciò avuto tutto il tempo di alzarsi in piedi e
allontanarsi con
un sorriso malandrino.
Alla
fine, alzò gli occhi al cielo “Anche tu!”
Poi
le lanciò un cuscino e il resto della giornata
passò così, con due
vecchi amici che imparavano a poco a poco a fidarsi di nuovo l'uno
dell'altro.
Continua
**
|
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Capitolo 6 *** I'm looking back on yesterday ***
Capitolo 6 Ekleipsis
I'm looking
back on yesterday
I
thought our days would last forever,
but
it wasnt our destiny,
'cause
in my mind we had so much time,
but
i was so wrong,
no
i can believe me i can still find the strengh in the moments
we
made
I’m lookin back on yesterday.
Leona
Lewis- Yesterday
“Uhm,
Venezia non è cambiata di una virgola dall'ultima volta che sono
stata qui. E neanche allora mi piaceva più di tanto”
Julya
si sistemò la giacca mentre Stefan afferrava i bagagli e li
trascinava giù dal battello che li aveva portati nella zona del loro
hotel.
Lo
aveva scelto Stefan e Julya lo aveva lasciato fare, troppo occupata a
organizzare il proprio materiale per pensare a cose più pratiche
come la sistemazione e il viaggio.
Erano
una bella squadra, insieme, e il loro affiatamento aumentava ogni
giorno che passava.
“Non
capisco perché tu ce l'abbia tanto con questa città”
“Ehi,
io non ce l'ho con nessuno. Dico solo che non è la città in cui
sceglierei di vivere” ammise mentre si infilavano in una vietta
secondaria nella zona del ponte dei sospiri.
“No,
neanche io ti vedo a vivere qui” concesso dopo averla soppesata per
un attimo che le fece palpitare il cuore.
“Troppo
romanticismo nell'aria” spiegò Stefan e Julya si chiese se non
dovesse sentirsi un po' offesa. Poi fece spallucce.
Arrivarono
di fronte all'albergo, un piccolo hotel a conduzione famigliare,
discreto ma carino e con una splendida vista sul cuore di Venezia.
“Io
devo fare una commissione” annunciò prima che entrassero prima di
aggiungere in fretta, prima che Stefan potesse replicare “Tu fai il
check in e vai a farti un giro per Venezia. A quanto ho capito, tutto
questo romanticismo è perfetto per te” lo prese in giro,
vendicandosi per la stoccata di poco prima.
Stefan
alzò gli occhi al cielo, ma non disse niente perciò Julya pensò
che non dovesse dispiacergli più di tanto la possibilità di godersi
un po' l'atmosfera vivace e brulicante di vita di Venezia.
Con
passi rapidi, si infilò nelle vie secondarie della città fino a
raggiungere un vecchio edificio, un po' fatiscente.
Prima
di entrare, indossò la sua miglior maschera di impassibilità e
freddezza, ben sapendo che solo mostrando il lato peggiore
dell'essere vampiro avrebbe ottenuto ciò che voleva.
Un
gruppo di ragazzi seduto sul muretto lì vicino la stava fissando e
quella non era una bella cosa: per ciò che era andata a fare lì
avrebbe preferito passare inosservata.
Forse,
rifletté con il senno di poi, non avrebbe dovuto indossare una
giacca così bianca e stivali così palesemente costosi.
Pazienza,
si disse.
Salì
le scale per quattro piani, appartamento numero tredici.
Bussò
alla porta e si premurò di stamparsi in faccia il sorriso più
gelido e predatore del suo repertorio, non esattamente il genere di
espressione che avrebbe invogliato qualcuno a invitarla nella propria
dimora.
Quando
la serratura scattò, si trovò di fronte a un uomo sui trent'anni
che strabuzzò gli occhi quando la riconobbe e tentò di sbatterle la
porta in faccia.
Tentativo
patetico visto che Julya lo fermò appoggiandosi all'uscio con
noncuranza, come se lui non stesse facendo leva con tutta la sua
forza e lei non stesse tentando di bloccarlo.
“Ciao,
Noah”
“Che
diavolo vuoi ancora da me? Ti ho detto tutto quello che sapevo sul
Graal l'ultima volta che ci siamo visti”
Julya
roteò una mano e alzò gli occhi al cielo “Lo so, lo so. Ma ho una
specie di patto da proporti”
Noah
sembrava disgustato “Non stringerei mai un accordo con una della
tua specie” sputò con disgusto.
Fu
allora che Julya decise che aveva bisogno di un motivo per ricordarsi
chi era lei e cosa poteva fare.
In
un attimo, Noah si trovò dentro casa, inchiodato al muro mentre la
vampira lo teneva sollevato da terra con una mano attorno al suo
collo.
L'espressione
sul suo viso era di freddo cinismo, quella del vampiro di fronte alla
preda.
“Senti,
Noah. Io non voglio farti del male: ne verrebbe fuori una bella
questione, tra ambasciate ed estradizione. Però è stato un viaggio
molto lungo e non sono di ottimo umore perciò, davvero, tu non vuoi
contrariarmi più di quanto non già sia, giusto?”
Noah
annuì, a corto di parole e di aria, e quando Julya lo lasciò
andare, cadde a terra ansimando e respirando forte.
“Sono
qui per la tomba del cavaliere” chiarì quando si sedettero, lei
sul divano, lui sulla poltrona più distante.
“L'avevo
intuito”
“Già.
Tu mi hai detto che credevi che la tomba fosse qui e che le tue
ricerche ti stavano confermando questa teoria. La mia domanda è: a
che punto sei?”
“Perché
dovrei dirtelo?”
“Perché
ti prenderai il merito della scoperta, ovviamente. Io troverò la
tomba, prenderò ciò di cui ho bisogno e tu diventerai famoso per
aver trovato un importante reperto storico. Ora, riformulo la
domanda: a che punto sei?”
Il
silenzio di Noah ebbe il potere di contrariarla più di quanto non
fosse, ma si impose di attendere. Contò un centinaio di respiri
prima che Noah si alzasse e iniziasse a trafficare tra la moltitudine
di scartoffie ammassate sulla scrivania ed estrarne un libricino.
Glielo
porse e Julya lo aprì. Dentro c'erano disegni di quelli che potevano
essere affreschi, mappe senza nome e migliaia di appunti.
“C'è
un foglietto con dei numeri romani, lì dentro. Non so cosa vogliano
dire: li ha scritti il capo del progetto di recupero per il quale ho
lavorato negli ultimi tempi. Ora, lui è morto e...”
“E
tu ti sei preso il suo libretto di appunti e hai trovato questo, ma
non sai che cosa voglia dire” completò Julya senza smettere di
sfogliare le pagine.
“No,
non ho bisogno una risposta” lo bloccò prima che potesse
protestare mentre si alzava. Aveva esattamente ciò di cui
necessitava ed era in quel libretto. Forse Noah non aveva compreso a
pieno di avere tra le mani una vera e propria guida per la ricerca
del Graal, ma lei non era così ottusa.
“Questo”
aggiunse mentre si dirigeva verso la porta “viene con me. Come
promesso, quando troverò la tomba ti manderò un messaggio; ti
basterà andare lì e annunciare al mondo il prodigioso ritrovamento”
Noah
annuì e non ebbe il coraggio di protestare o chiedere come lo
avrebbe contattato. Sapeva fin troppo bene che Julya lo avrebbe
trovato anche quando lui avrebbe preferito rimanere nascosto.
Intanto,
la vampira si chiuse la porta alle spalle e si abbandonò a un mezzo
sospiro sollevato.
Durante
il tutto il percorso per tornare all'hotel rimuginò sui numeri
scritti sul foglietto. Tre, sette e dieci, scritti in numeri romani.
Potevano rappresentare qualunque cosa perciò avrebbe dovuto
analizzarli con attenzione per capire il loro significato.
Ma
lo avrebbe fatto la mattina dopo perché in quel momento, tra le
strade strette e i ponti di Venezia, voleva prendersi un momento per
assaporare la sensazione di essere di un passo più vicina a
raggiungere lo scopo di una vita.
La
sua mente si fece piacevolmente leggera mentre annegava nella
consapevolezza di essere sempre più prossima alla meta. Certo, non
avrebbe cantato vittoria fino a quando non avesse stretto tra le dita
il calice, ma almeno poteva concedersi di osservare le cose da una
prospettiva più ottimista.
Guardando
il cielo – pieno di nuvole, prossimo al calare della sera-
raggiunse l'hotel.
Alla
piacevole consapevolezza di aver vinto una battaglia era velocemente
sopraggiunta un'ondata di stanchezza che la sopraffece.
Partì
dalla testa e raggiunse ogni remoto angolo del suo corpo, così
intensa da farle venire voglia di sedersi su una panchina e dormire
fino al giorno dopo.
Voleva
cadere in uno si quei sonni senza sogni e potersi svegliare la
mattina dopo con la mente sgombra e silenziosa come non era mai
durante le ultime giornate.
Quando
entrò nella stanza, Stefan non c'era.
La
stanza era calda e luminosa, molto ariosa con quei colori chiari e le
finestre ampie sul balcone bianco. L'aria profumata e accogliente
raggiunse il suo viso come uno schiaffo e la sonnolenza che l'aveva
colta divenne insopportabile: le si chiudevano gli occhi e uno
sbadiglio poco elegante le deformò il viso.
Si
lasciò scivolare sul grande letto e si sfilò gli stivali con un
unico gesto fluido prima di accoccolarsi su se stessa.
La
sua espressione si fece all'istante più rilassata: non c'era niente
di più delizioso che la sensazione del tepore di una stanza
accogliente -anche se lei non poteva sentire freddo- che lentamente
risaliva dai piedi lungo le gambe, si fermava nel ventre e da lì si
irradiava in tutto il resto del corpo.
Si
sentiva languida come un gattino al sole.
Si
disse che avrebbe chiuso gli occhi solo un momento, giusto il tempo
di riposarsi un po' dopo le dodici ore di viaggio, ma nel momento in
cui chiuse le palpebre cadde tra le braccia di Morfeo.
Stefan
la trovò così, con le gambe raccolte al petto e i capelli sparsi
sul materasso come una macchia di cioccolato caldo.
Si
chiese se fosse o meno il caso di svegliarla: aveva prenotato in una
piccola pizzeria proprio dietro il palazzo ducale, ma Julya sembrava
così tranquilla e pacifica...
Alla
fine, Julya si svegliò da sola quando sentì Stefan sedersi accanto
a lei. Mugugnò qualcosa e si stropicciò gli occhi con le mani.
“Che
ore sono?” biascicò con la voce ancora impastata dal sonno.
"Le
otto”
“Uhm,
ho fame. Andiamo da qualche parte a mangiare?”
“Ho
prenotato in una pizzeria. Ho sentito che è la migliore della città”
Julya
annuì con più convinzione, in sincrono con il suo stomaco
brontolante e schizzò sotto la doccia.
Sentiva
il getto d'acqua e poteva immaginare intenta a massaggiarsi
delicatamente la braccia, le gambe e le spalle.
Si
lasciò scivolare sul letto, pensando a lei e al suo volto prima,
proprio mentre dormiva.
Quando
era sveglia non aveva mai un'espressione così pacifica, quasi
angelica. C'erano momenti in cui gli sembrava di trovarsi di
fronte a una specie di terremoto o uragano, sempre in movimento, e
allo stesso tempo gli ricordava una bottiglia di ottimo champagne:
sofisticata, frizzante e affascinante.
Sapeva
essere rumorosa anche quando sedeva in silenzio nella stanza: c'era
qualcosa in lei, nella sua stessa essenza, che sembrava riempire
l'aria in qualunque momento.
Julya,
proprio come lo champagne, gli piaceva e gli andava alla testa; lo
faceva sentire leggero, come se vivesse in un universo in cui tutte
le cose erano facili e belle.
Sospirò
con la certezza che, qualunque cosa fosse il sentimento che provava
per Julya, gli avrebbe provocato solo guai.
E
quella vacanza, dopotutto, non avrebbe semplificato proprio niente.
*
Julya
rideva da una notevole quantità di tempo e così di cuore che Stefan
non si lasciò pregare e raccontò gli aneddoti più divertenti della
sua vita solo per continuare ad ascoltare quel suono così musicale.
“Non
ti ci vedo proprio a un concerto di Bon Jovi, a cantare a
squarciagola sotto un palco, ballando” ammise con il fiato
corto per il troppo riso.
Si
sporse un po' sul tavolo e sorseggiò l'acqua nel suo bicchiere.
Avevano oramai finito la cena e si stavano godendo un po' l'atmosfera
che si era creata tra loro, intima e allegra come lo era stata negli
anni venti.
Julya
guardò fuori dalla finestra e notò il cielo limpido, le acque calme
e provò il desiderio di godersi la città.
“Andiamo
a fare una passeggiata?”
“Pensavo
che Venezia non ti piacesse”
“Diciamo
che ho voglia di concederle una chance” ammise e, quando Stefan
annuì e si alzò, lei lo seguì.
Pagarono
e in un attimo si ritrovarono a passeggiare lungo il Canal Grande a
braccetto, come due amici qualunque
in una serata come tante.
Fu
Stefan a rompere il silenzio che si era creato; Julya si stava
godendo l'atmosfera placida di una notte veneziana.
“Sai,
a volte mi chiedo perché tu sia davvero alla ricerca del Graal”
“E'
molto complicato, Stef. E io non voglio davvero appesantire una bella
serata con certi discorsi”
“Lo
capisco. Ma forse parlarne...”
“Lo
faremo” gli promise “Un giorno ti dirò tutto, ma ora non credo
di essere ancora pronta a parlarne con qualcuno. Credo di non essere
più abituata ad avere qualcuno con cui aprirmi”
“A
dire la verità, io ricordo che neanche nel 1928 eri particolarmente
brava a farlo”
“Non
ho mai avuto problemi a parlare con te” gli ricordò, piccata.
“Vero,
ma direi che sono l'eccezione che conferma la regola. Credo che sia
per il mio fascino” ammise con aria pensierosa e Julya rise.
La
serietà del momento precedente svanì come fumo nell'aria e Julya
gli fu grata di aver cambiato argomento.
“O
per i tuoi capelli”
Stefan
la guardò con un'espressione profondamente ferita che fece ridere
ancora di più Julya. Si alzò in punta di piedi e gli passò una
mano tra i capelli.
Solo
un vampiro avrebbe potuto sentire l'odore che emanavano, un mix di
shampoo e profumo di gel che si unì al dopobarba di Stefan.
Era
virile e le piacque. Lo ispirò a fondo, sempre in punta di piedi e
appoggiandosi alle sue spalle.
“Mi
stai... annusando?”
La
guardò con entrambe le sopracciglia inarcate e Julya scoppiò a
ridere.
“Credo
di sì” ammise.
Ripresero
a camminare con un sorriso, chiacchierando come facevano negli
anni venti, quando Stefan la riaccompagnava a casa dopo aver passato
la notte nel night club dove lavorava.
Stefan
continuava a raccontare e a un certo punto Julya cominciò a
guardarlo in modo diverso, con uno sguardo concentrato e riflessivo.
C'era
qualcosa di strano nel modo in cui Stefan la faceva sentire, ma era
sempre stato così. Se il suo cuore non fosse già stato fermo da
secoli, avrebbe detto che era lui, con il suo sorriso e il modo di
essere, a bloccarlo.
La
faceva sentire come una ragazza come tante e le sembrava di avere uno
stuolo di farfalle che si agitava nello stomaco.
Non
avrebbe saputo dire cosa fosse: era la prima volta che si sentiva
così vulnerabile, così umana. Eppure
era la parte che le piaceva di più, quel sentirsi così normale.
Non
aveva mai provato nulla di simile prima d'allora e anche quando c'era
Kol le cose erano completamente diverse, impossibili da paragonare.
Con
un sussulto, cercò di riportare alla memoria il suo primo amore e si
rese conto con tristezza di non avere ricordi.
Se
n'erano andati con lui ed era stata lei a lasciarli andare: era stato
più facile, piuttosto che trovare la forza di aggrapparsi ad essi.
Non
ne andava fiera e dopo tanti anni avrebbe voluto avere qualcosa da
ricordare. Invece non le restava che un anello al dito e la blanda
rimembranza di un sorriso che a poco a poco sarebbe scomparso insieme
a tutto il resto.
Ogni
giorno sarebbe stato sempre più difficile ricordare i dettagli del
viso di Kol, il suo sorriso e i suoi occhi e si odiava per aver
permesso che accadesse.
Stefan
si accorse che Julya non lo ascoltava più e che il suo sguardo si
era fatto cupo.
“Tutto
bene?”
“Cercavo
solo di ricordare una cosa”
Stefan
l'attirò a sé, cingendola con le braccia. Non chiese spiegazioni;
lasciò che Julya sentisse solo che era lì per lei e che avrebbe
ascoltato qualunque cosa, le sue parole o i suoi silenzi.
Si
strinse a lui socchiudendo gli occhi, dando la colpa alla stanchezza
di quella debolezza e dicendosi che il giorno dopo sarebbe andato
tornato tutto a posto.
Però
la notte era ancora giovane e il giorno lontano dall'arrivare perciò
poteva concedersi ancora per un po' di viaggiare sulle ali della
memoria.
Fu
grata a Stefan di quell'abbraccio e del calore che vi infuse: per una
volta, non avrebbe dovuto fingere di non essere sola e un insolito
sfarfallio all'altezza del petto le fece notare che qualcosa stava
cambiando nel suo modo di vedere il ragazzo.
Era
stato un ammiratore, poi un amico fino a diventare il migliore
amico -anche se Stefan rideva
quando lo definiva così- e ora il loro rapporto stava lentamente
approdando a una nuova definizione, qualcosa che Julya non
comprendeva a pieno.
Di
una cosa però era sicura.
Provo
qualcosa per Stefan, ammise con
se stessa. Cosa... be', quella era tutta un'altra storia.
Continua
**
|
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Capitolo 7 *** Le difficoltà aumentano quando ci si avvicina alla meta ***
Ekleipsis 7
Buondì!
Eccomi
tornata da voi!
Ho
deciso che gli aggiornamenti regolari non mi piacciono proprio per
niente, che avere una data fissata rovina ogni sorpresa e io adoro le
soprese – non è vero, le odio, ma una scusa dovevo
pur trovarla,
vi pare?
Comunque,
ecco il nuovo aggiornamento.
La
frase che fa da titolo non è tratta da una canzone -come al
solito-
ma è del buon vecchio Goethe.
Buon'anima.
Ultima cosa: l'immagine è stata eseguita da Graphic
Emotions, una pagina su FB che crea timeline e annessi e connessi
meravigliosi, come potete vedere.
Bo',
vi lascio alla storia.
Buona
lettura ^^
Le
difficoltà aumentano più ci si avvicina alla meta
La
nostra meta non è mai un luogo, ma piuttosto un nuovo modo
di vedere
le cose.
Henry
Miller, Big
Sur e le arance di Hyeronymus Bosch
“Era
davvero indispensabile svegliarsi così presto? E dove stiamo
andando?”
Julya
alzò gli occhi al cielo e lo fulminò con
l'ennesima occhiataccia.
Erano svegli da nemmeno un'ora e quella non era certo la prima con
cui lo aveva raggelato, ma Stefan sembrava non aver ancora recepito
il messaggio.
“Stiamo
andando in biblioteca”
“A
fare cosa?”
“Te
lo dirò quando arriveremo”
Scese
gli ultimi gradini con un salto e si ritrovarono davanti a una piazza
e un grande edificio bianco. Era chiaramente una costruzione antica
che sembrava tutto meno che una biblioteca.
“Non
sembra una biblioteca” confessò Stefan mentre lo
conduceva dentro
“Era una chiesa, per caso?”
“In
realtà sì”
Lo
condusse tra gli scaffali, in fondo alla costruzione dove faceva
bella mostra di sé un enorme vetrata colorata, prima di
continuare a
parlare.
“Poggia
su un suolo sacro. Molte delle colonne e dei tesori che un tempo
erano contenuti in questa chiesa sono stati portati dall'Oriente,
dopo la prima crociata. Trofei di guerra” aggiunse con un
sorriso
che Stefan non riuscì a decifrare.
Conoscendola,
poteva immaginare che più che per la guerra in
sé, le dispiacesse
immaginare quanti tesori inestimabili e chiese e templi e
meravigliosi edifici fossero stati abbattuti nel corso dei secoli.
A
volte lo stupiva la capacità di Julya si essere
così indifferente
alla vita umana ed essere allo stesso tempo così umana.
“E
noi cosa stiamo cercando?” le domandò mentre si
sedevano a un
tavolo in disparte, dove nessuno poteva sentirli parlare e avrebbero
avuto la loro privacy.
“Ieri
sono andata da un amico che mi ha dato questo quadernino. Dentro
c'era un foglio con dei numeri romani e voglio capire cosa
significhino”
“E
come pensi di fare? Nel corso della storia i numeri hanno avuto
migliaia di significati diversi. Pensa ai pitagorici, ai riti
esoterici, alla sequenza di Fibonacci...”
“Grazie
per la lezione di numerologia, Stefan. E' per questo che siamo in
biblioteca”
“Aspetta,
aspetta: tu vuoi che io e te, due vampiri, due!, ci
mettiamo a
spulciare ogni libro contenuto qui che riguardi questo
argomento”
“Non
ogni libro” si imbronciò lei “solo
quelli che parlano della
numerologia all'epoca dei crociati”
Stefan
aprì la bocca per dire qualcosa e farle notare che questo
non
cambiava niente, ma quando vide il sorriso di Julya e la sua
espressione caparbia capì che non sarebbe cambiato niente
perciò si
rassegnò a una lunga giornata di letture.
Otto
ore, una ventina di libri e chissà quante pagine dopo,
Stefan e
Julya non avevano ancora trovato niente.
“Be'”
tentò la vampira abbandonandosi contro lo schienale della
poltroncina “il tre è facile. Potrebbe rappresenta
la Trinità, la
perfezione divina. Il sette... be', è il numero dei cicli
lunari,
connesso con l'idea di equilibrio e il dieci... il dieci...”
tentennò un po' e Stefan la guardò inarcando le
sopracciglia,
seriamente affascinato da come Julya stesse cercando di dare una
dignità a quella teoria campata per aria.
Alla
fine, anche lei si arrese “Va bene, non so neanche io cosa
sto
dicendo”
“Dovremo
continuare ancora per molto?” domandò allora
Stefan appoggiando le
braccia sul tavolo e il mento su di esse nella perfetta imitazione di
uno sguardo da cucciolo che fece sussultare il cuore
-metaforicamente, si intende- di Julya.
“Fino
a quando non troveremo qualcosa. E non provare a fare quella faccia,
non mi impietosisco. Occhi fissi sul premio, Salvatore” lo
richiamò, ma la verità era che stava
incoraggiando se stessa.
L'idea
di fallire ora che era così vicina la annichiliva
più di qualunque
altra cosa.
“Stanno
per chiudere. Sistemiamo i libri e nascondiamoci da qualche parte. Ci
troviamo quando sarà tutto chiuso proprio qui”
Raccolsero
i volumi e li infilarono di nuovo nei loro scaffali, poi si
dileguarono e rimasero nascosti fino a quando il ragazzo del bancone
non ebbe spento ogni luce ed ebbe serrato la porta.
Anche
allora rimase per un veloce inventario e a Julya non restò
che
sistemarsi meglio sulla trave su cui si era appollaiata e attendere
con pazienza.
In
realtà fu grata all'uomo per quella pausa. Al buio, nel
silenzio
della biblioteca scandito solo dalle pagine sfogliate, ebbe modo di
riorganizzare i propri pensieri e di controllare di nuovo il
libretto.
Con
la coda dell'occhio, notò che la luce era impercettibilmente
mutata
e pensò che fuori dovesse essere sorta la luna
perché la vetrata,
con i suoi colori e il disegno, era più luminosa.
Solo
allora la osservò con più attenzione, mettendo da
parte l'occhio
dell'esteta per lasciare spazio a quello dell'archeologa.
Le
ricordava qualcosa che aveva già visto da qualche parte, ma
non in
un'altra chiesa o in un posto che avesse visitato.
Era
qualcosa di più recente e meno vivido, come se in
realtà lo avesse
scorto appena mentre scartabellava alcune pagine.
La
comprensione la colse proprio quando il bibliotecario spense tutte le
luci e la vetrata fu l'unico strumento di illuminazione.
Non
aveva potuto vederli dal tavolo dove erano seduti perché
erano
esattamente sotto la finestra, ma da quella posizione non ebbe
problemi a scorgere tre numeri romani, uno per ognuna delle tra parti
in cui era scandita la vetrata: un tre a sinistra, un sette al centro
e un dieci a destra.
Troppo
eccitata per rimanere ferma, abbassò lo sguardo alla ricerca
di
Stefan, ma di lui neanche l'ombra.
Come
aveva fatto a non pensarci? Quei numeri erano coordinate, niente di
più semplice. Nessun significato allegorico, nessuna
simbologia: a
volte la soluzione più scontata era anche quella vera.
Scrutò
nell'ombra alla ricerca di Stefan, ma il suo sguardo si posò
solo
sul pavimento, una distesa di marmo bianco, verde e rosso posto in
modo da formare un quadrato con un'enorme X nel mezzo.
E
allora si chiese come diavolo avesse fatto a non accorgersene
perché
la tomba era lì, esattamente sotto i suoi piedi e lo era
sempre
stata.
Così
vicina che davvero le sarebbe bastato allungare una mano per
toccarla.
Scese
con un balzò e Stefan le fu accanto in un battito di ciglia.
Lo
guardò con gli occhi brillanti di emozione e la voce
tremante, quasi
stesse per scoppiare a piangere.
“E'
qui. La tomba è sempre stata qui e questa X non è
che un dieci...
il dieci che cercavano, Stefan!”
Lui
ci mise un attimo a capire, ma Julya era già piegata sul
pavimento e
lo toccava con la devozione di un fedele, quasi gli stesse chiedendo
scusa per quello che stava per fare.
Con
uno scatto e un rumore assordante, tirò su una lastra e la
posò di
lato con tutta la delicatezza che riuscì a mettere insieme.
“Come
hai fatto?”
“Ho
guardato le cose da un'altra prospettiva, letteralmente. Dai, aiutami
a scendere”
Stefan
afferrò le mani che lei gli porse e la fece scivolare
giù. La sua
vista da vampiro ci mise un secondo ad abituarsi al buio, il tempo
che Stefan impiegò a lasciarsi scivolare accanto a lei.
Stefan
si guardò intorno dubbioso, ma il volto di Julya era radioso
e gli
diede la forza di fidarsi di lei e di fare ciò che diceva.
Dopotutto,
aveva cercato il Graal per duecento anni, studiato e fatto ricerche:
se c'era qualcuno che sapeva cosa stava facendo, quella era lei.
Julya
trafficò nelle tasche e ne estrasse un accendino. Ne portava
sempre
uno con sé, per ogni evenienza e anche se non aveva bisogno
di luce
per illuminare i luoghi più bui grazie alla sua super vista.
Si
avviò con una mano posata sul muro, guardando i pittogrammi
dipinti
sulla nuda pietra e sfiorando le incisioni.
Julya
sapeva che quello era solo un passo avanti e che per trovare il Graal
ne avrebbe dovuti fare ancora molti altri, ma non riuscì a
impedirsi
di sospirare e non poté impedire al proprio cuore di
gonfiarsi di
commozione e orgoglio.
Non
era solo una scoperta. Aveva combattuto, faticato, sacrificato un
discreto numero di cose per quella ricerca e ora si stava avvicinando
sempre di più.
Spazzò
la polvere con la mano libera e comparve un'altra X.
“A
quanto pare” mormorò con la voce rotta
dall'emozione “la X
indica proprio il punto dove scavare”
“Spostati,
la butto giù”
Julya
annuì e lasciò che Stefan si facesse largo tra le
pietre e i
detriti prima di seguirlo. Non le servì annusare l'aria per
accorgersi che era petrolio quello in cui avevano immerso i piedi. I
cadaveri erano ammucchiati in nicchie lungo le pareti e di loro non
restavano che ossa e qualche brandello di vestito lambito dal
combustibile.
Afferrò
malamente un perone – o una tibia, non era sicura di che
parte
della gamba fosse- e lo avvolse con un pezzo di stoffa prima di
dargli fuoco con l'accendino.
Stefan
la guardò con un'espressione a metà tra il
sorpreso e il divertito
alla quale lei rispose solo facendosi largo tra i resti dei cadaveri
con un'alzata di spalle.
Attraversò
il lungo corridoio incurante dell'acqua che si alzava sempre di
più
e lentamente le lambiva i polpacci, sempre più in alto.
Non
si sarebbe fermata e sentiva che Stefan era dietro di lei, silenzioso
e pronto a scattare in caso di pericolo.
Si
bloccò con un gemito di sorpresa solo quando il corridoio
svoltò in
una specie di anticamera in cui montagne di topi squittivano
impauriti, consci della presenza di due predatori come Julya e
Stefan.
“Disgustosi”
sibilò.
Eppure
non sarebbero certo bastati due topini di troppo a fermarla. Lei era
nata in una casupola nella campagna intorno a San Pietroburgo e i
topi erano all'ordine del giorno nelle case piene di spifferi e
malandate.
Se
forse stata umana avrebbe tentennato, ma era un vampiro – la
razza
di predatori per eccellenza- e sapeva che i topi sarebbero scappati
lontano non appena avessero sentito la sua presenza incombere.
E
così fu: la strada si liberava man mano che lei procedeva.
“Ma
come” le domandò Stefan con l'espressione
scontenta di un bambino
a cui è stato negato un pezzo di dolce “niente
grida stridule o
convulsi tentativi di saltarmi in braccio?”
Julya
ridacchiò e gli dedicò un mezzo sorriso senza
smettere di camminare
e guardare avanti.
Occhi
fissi sul premio.
Camminarono
per qualche metro fino a quando non si aprì di fronte a loro
una
specie di stanza dove era custodita una tomba.
Era
impossibile sbagliarsi: era l'unica che avessero incontrato nel loro
viaggio e non poteva che essere lei, la tomba del
cavaliere.
Con
poche falcate, la vampira attraversò lo spazio che la
divideva dal
sepolcro e lo carezzò con dita esitanti, come se fosse stato
il
volto di un amante disperso e finalmente ritrovato.
Poi
gettò di lato il coperchio e rivelò le ossa,
ancora perfettamente
composte nella posa in cui erano state sistemate alla sepoltura, del
cavaliere che stringeva tra le mani una spada e lo scudo.
Con
un gemito di sorpresa, Stefan riconobbe in quello scudo lo stesso
simbolo che aveva visto nelle foto che Julya gli aveva mostrato.
“Ce
l'abbiamo fatta” sospirò, ma Julya non lo
ascoltava più: aveva
già tirato fuori il proprio cellulare e scattato le foto che
le
servivano.
Quando
rimise in tasca il cellulare, si prese un minuto per contemplare lo
scudo. Anche nell'oscurità, Stefan si accorse che aveva gli
occhi
lucidi di orgoglio e commozione nel leggere le parole incise nel
metallo.
Dal
canto suo, Julya sentiva di avere gli occhi gonfi di lacrime e il
cuore pieno di gioia. Era lì, scritto sullo scudo: il nome
della
città da cui partire.
Alessandretta.
Alla
fine, ce l'aveva fatta. E sì, non aveva ancora il Graal tra
le mani,
ma adesso era davvero a un passo da lui, così vicino che
quasi
poteva stringerlo tra le dita.
Stefan la sentì singhiozzare, ma sul suo viso non c'erano
lacrime. La
passò un braccio intorno alle spalle e la strinse a
sé.
“Dovremmo
andare” le sussurrò all'orecchio, ma Julya si
ricompose e scosse
il capo.
“Ancora
un momento. Ho atteso così tanto di sapere dove fosse il
Graal...
lasciami assaporare l'attimo, prima che se ne vada”
Stefan
annuì, ma non la lasciò andare come se temesse
che se l'avesse
fatto sarebbe andata in frantumi.
“Per
secoli ho cercato questo nome... e ora ce l'ho fatta”
sussurrò
alzando lo sguardo su di lui e fissandolo con gli occhi lucidi.
Le
sue parole scemarono e all'improvviso tutto si fece silenzio. Non ci
fu più rumore che riuscisse a penetrare la bolla che si
erano creati
intorno.
Le
iridi scure di Julya si spostarono dagli occhi di Stefan alle sue
labbra, come attratte da una calamita, incapace di pensare ad altro
che non fosse la loro consistenza e la loro bellezza.
Avrebbe
voluto poterla assaggiare in quel momento, dimenticando il posto e la
situazione non esattamente adatti. Era certa che un bacio di Stefan
potesse cancellare ogni sensazioni e trasportarla in un'altra
realtà.
E
lei lo desiderava così tanto!
Si
alzò in punta di piedi e si avvicinò alle sue
labbra, ma il ragazzo
voltò appena la testa e si trovò a sfiorare la
guancia.
“Mi
dispiace Julya, non posso”
“Non
puoi o non vuoi?” gli domandò con una punta di
amarezza nella
voce.
“Entrambe,
credo. Amo Elena, la amo davvero, ma non voglio negare di sentire
qualcosa per te che va oltre all'amicizia. Nonostante questo”
si
affrettò ad aggiungere quando la vide pronta a ribattere
“voglio
Elena perché la amo come non ho mai
amato nessun altro. E per
te farei di tutto, ma...”
Tentennò
prima di concludere la frase perché sapeva cosa si provava a
essere
allontanati per qualcun altro.
Per
lei era più semplice, si disse: l'altra non era sua sorella
né
un'amica. Eppure, nei suoi occhi c'era la stessa sofferenza che aveva
visto sul proprio viso quando aveva capito che Elena provava qualcosa
anche per Damon.
Fu
Julya a completare la frase “Ma questo sentimento non
è
altrettanto intenso”
Stefan
fece per parlare, ma Julya alzò una mano per zittirlo
“Fa come se
niente di tutto questo fosse mai accaduto, ok? Restiamo amici”
Gli
rivolse un sorriso radioso e Stefan avrebbe quasi creduto che andasse
davvero tutto bene se non fosse stato per ciò che vedeva nei
suoi
occhi.
“Julya...”
Si
fermò quando sentì un rumore e anche Julya si
voltò in quella
direzione scrutando nell'ombra con gli occhi socchiusi.
Quando
capirono che c'era davvero qualcuno, era troppo tardi per nascondersi
e li trovarono lì, in piedi di fronte alla tomba
scoperchiata, tesi
come corde di violino e pronti ad attaccare.
La
velocità con cui si mossero per accerchiarli fece subito
capire che
non erano umani, non tutti almeno.
Su
sei persone, tre erano vampiri, ma guardandoli Julya non avrebbe
saputo dire se fossero o meno più forti di loro.
“Uhm,
qualcosa mi dice che non siete qui per una visita di piacere”
scherzò Julya mentre cercava di capire come cavarsi
d'impiccio.
“Infatti.
Il mio nome è Werner e vorrei ringraziarvi per averci
condotto fino
a qui. Probabilmente non ce l'avremmo fatta se voi non aveste trovato
l'ingresso”
Il
vampiro che aveva parlato aveva un forte accento tedesco e
sull'avambraccio, dove la camicia era stata arrotolata, faceva bella
mostra di sé una svastica.
Julya
alzò gli occhi al cielo “Perfetto. Ci mancava
proprio il vampiro
filonazista con la mania per i tatuaggi da Mangiamorte”
Stefan
la guardò come se fosse impazzita e lei spalancò
la bocca in
un'espressione di sentita sorpresa.
“Ti
sembra il momento?”
“Be',
potrebbe non esserci un dopo perciò perché
tenersi le cose per sé?”
“Certo,
meglio fare dell'ironia piuttosto che cercare una via di
fuga” la
prese in giro, ma cogliendo le occhiate di Julya che gli faceva cenno
indicando il varco nella parete alle loro spalle.
Dovevano
solo trovare il momento per saltarvi dentro: a quel punto, avrebbero
corso fin in superficie e si sarebbero nascosti fino all'arrivo del
sole.
A
quel punto, i vampiri avrebbero dovuto nascondersi e loro avrebbero
avuto tutto il tempo di fuggire via.
“La
ragazza è saggia” si intromise il tedesco
apparentemente divertito
“tra poco sarete morti perciò dite pure
ciò che volete”
“Uhm,
un veloce chiarimento. E' il classico piano da cattivo per la
dominazione del mondo?”
“Già.
I classici funzionano sempre”
Julya
gli restituì il sorriso e ringraziò il cielo del
sangue freddo che
erano riusciti a mantenere. Andare nel panico avrebbe segnato la loro
fine.
Ma
per fuggire dovevano prima assicurarsi un minimo vantaggio
perciò
Julya si preparò a buttarsi alle spalle tutto l'istinto di
autoconservazione e ad avvicinarsi al tedesco.
Ad
ogni passo in avanti sentiva tutto il suo corpo cercare di ritrarsi e
urlarle di scappare; fu uno strazio dover sopprimere ogni ragionevole
voce che le dicesse di tenersi alla larga, una delle quali aveva
anche la voce di Stefan.
“Sono
d'accordo” confermò oramai a pochi passi
“ma mi chiedevo: voi
avete la certezza che non tenteremo la fuga? Insomma, guardiamo le
statistiche: abbiamo discrete possibilità di mettervi al
tappeto e
quell'apertura nel muro sembra fare proprio al caso nostro”
Indicò
con l'indice lo squarcio che poco prima lei e Stefan avevano
osservato con attenzione. Quasi riusciva a immaginare la faccia
stupita di Stefan e, se faceva un po' di attenzione, quasi riusciva a
sentire il suo cervello lavorare a pieno regime per capire che cosa
diavolo stesse progettando di fare.
Ma
stavolta avrebbe potuto solo affidarsi a lei e all'innato senso senso
di Julya che le diceva che non era la direzione giusta, che se
volevano salvarsi dovevano gettarsi in acqua.
Come
previsto, il resto del gruppo fece fronte comune di fronte
all'apertura e lasciò scoperto tutto il resto della cripta.
Continuò
a camminare e guardò Stefan, sperando che capisse cosa
doveva fare.
Per fortuna, sembrava che la loro antica empatia non fosse scomparsa,
anche a dispetto degli anni e di tutte le vicissitudini che avevano
affrontato.
“Bene,
direi che è meglio muoversi prima che sorga il sole. Qualche
ultima
parola?”
Julya
ammiccò e si aprì in un sorriso luminoso, poi
sussurrò a pochi
passi da lui in russo “Do svidaniya”
Con
uno scatto, tentò di colpire il vampiro, ma lui la
bloccò. Doveva
essere più giovane di lei perché la sua forza era
notevolmente
minore, ma non era importante.
Con
la stessa velocità, Stefan gli afferrò il collo
di sorpresa e
glielo ruppe con un suono secco che fece venire i brividi a Julya.
Poi, mentre gli altri due vampiri scattavano per fermare la loro
fuga, Julya si tuffò e Stefan la seguì.
Quando
finalmente poterono uscire dal loro nascondiglio erano le nove di
mattina e il sole era pallido in cielo, ma almeno c'era.
“Dobbiamo
fare i bagagli e andarcene il più in fretta
possibile”
Julya
anuì. La fortuna di essere un vampiro si vedeva proprio in
momenti
come quelli, quando si trovava ad aspettare al freddo e al buio,
completamente fradicia.
“Andiamo
in albergo. Intanto io prenoto l'aereo”
“Dove
stiamo andando?”
“Alessandretta
corrisponde all'attuale Iskenderun, in Turchia. Se pensò che
due
settimane fa ero a un passo dal Graal e non lo sapevo...”
Stefan
non fece domande, troppo spossato -nonostante la sua natura di
vampiro- per chiedere spiegazioni.
Julya
se ne accorse e il suo sguardo si addolcì “Poco
più avanti c'è
una banca del sangue. Va a nutrirti, Stefan, ne hai bisogno”
“E
tu no?”
Julya fece spallucce. Lei era abituata a stare senza
nutrimento per periodi di tempo più lunghi e non aveva alle
spalle i
rapporti burrascosi con il sangue di Stefan perciò poteva
resistere
ancora un po', il tempo di arrivare a Iskenderun.
Inoltre,
aveva imparato da umana a sopportare la fame, quando i lunghi e
rigidi inverni russi rendevano difficile la vita di chi si sostentava
solo con il lavoro delle proprie braccia.
C'erano
volte in cui non mangiavano per giorni, quando suo padre non riusciva
a trovare cibo nei campi o un lavoro per guadagnare abbastanza da
permettersi una pagnotta di pane.
“Dobbiamo
muoverci”
Stefan
mugugnò qualcosa poi la bloccò. La gente li
guardava, ma Julya non
se ne curò. Nel momento in cui gli occhi di Stefan cercarono
i suoi
perse la cognizione dello spazio e ci furono solo più loro
due.
Ma
doveva ricordare che lui l'aveva rifiutata, che aveva scelto Elena -e
il suo orgoglio ferito e il suo cuore spezzato questo non l'avrebbero
scordato tanto in fretta- e che sarebbero sempre stati solo amici.
“Sicura
che tra noi vada tutto bene?”
“Certo, certo. E poi non abbiamo
tempo di preoccuparci di questo. Non so quanto vantaggio abbiamo e se
sono tornati indietro sapranno anche loro dove andare,
perciò
dobbiamo sbrigarci”
“Ehi,
se tu puoi fare battute su Harry Potter in procinto di morte, io
potrò...” si fermò quando
notò l'occhiataccia che Julya gli
lanciò da dietro una ciocca di capelli.
“No,
eh?”
“No”
“Va
bene, va bene. Muoviamoci e via dalle scatole questa Venezia”
Continua
**
|
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Capitolo 8 *** Knowing that the faith is all I hold ***
Ekleipsis 8
Buon
inizio di settimana, gente!
Be',
in realtà il lunedì non è mai buono
per nessuno, ma sorvoliamo,
va.
Bo',
vi posto con un po' di ritardo un altro capitolo, ma per farmi
perdonare l'assenza della scorsa settimana, questa penso
pubblicherò
due capitoli.
O
forse no. Chissà.
E'
un capitolo molto importante, questo, e vi farà scoprire un
bel po'
di cose nuove. Tra le tante, il motivo per cui Julya cerca il calice.
Ah, ultima nota poi giuro che mi dileguo: le "prove" di cui Julya
parlerà sono spudoratamente tratte da "Indiana Jones e
l'ultima crociata".
Comunque,
il banner è opera di un'altra pagina su FB, Katerina
Graphic, e
trovo che sia adorabile.
Buona
lettura a tutti^^
Knowing
that the faith is all I hold
Questa
è l'ora di piombo e chi le sopravvive
la
ricorda come gli assiderati
rammentano
la neve:
prima
il freddo, poi lo stupore, infine
l'inerzia.
Emily
Dickens
“Ricordami
ancora una volta perché abbiamo preso i cammelli”
Julya
era, a voler usare una definizione piuttosto blanda, molto
contrariata. Mentre il suo cammello incedeva nel deserto turco con la
sua andatura ondeggiante si chiedeva sinceramente perché
avessero
dovuto affittare quelle due cavalcature quando entrambi sapevano che
correndo avrebbero impiegato molto meno tempo.
“Sarebbe
stato strano avventurarsi nel deserto a piedi, non
credi? Non
dovevamo tenere un basso profilo?”
“Già”
lo prese in giro lei “Perché qui è
pieno di gente che può
vederci”
Stefan
le scoccò un'occhiata indecifrabile e poi tornò a
guardare di
fronte a sé con un cenno del capo.
“Tu
hai decisamente passato troppo tempo con Damon”
“Interessante.
Nel 1928 dicevi che assomigliavo a tuo fratello. E allora non lo
avevo ancora conosciuto”
“Touché”
Julya
tornò a fissare la distesa di sabbia di fronte a
sé con un sorriso
soddisfatto e non protestò per i successivi dieci minuti,
cosa per
cui Stefan fu infinitamente grato.
Per
carità, lui adorava Julya, ma a volte la sua lingua
tagliente e i
suoi commenti sarcastici gli ricordavano un po' troppo Damon.
Non
che fosse colpa sua e delle sua pessima influenza: Julya non aveva
mai avuto bisogno che nessuno le insegnasse l'arte di essere ironica.
Lei
aveva il dono, come lo definiva con un sorriso
malandrino, di
solito accompagnato da un'occhiata furba e un po' presuntuosa.
Aveva
visto il volto di Julya attraversato da tante espressioni e avrebbe
saputo dire cosa provasse in qualunque occasione, ma in quel momento
la sua espressione era impassibile e Stefan capì che aveva
lo
sguardo fisso sul premio.
Era
la sua frase preferita, probabilmente il motto che avrebbe fatto
ricamare su uno stemma se ne avesse avuto uno.
Stefan
la ammirava per questo: non aveva mai visto nessuno con una
volontà
tanto forte, tanto salda e inespugnabile.
Chissà,
forse molte persone avrebbero abbandonato un progetto come quello di
Julya da un pezzo, tanto tempo e tanti fallimenti prima.
Ma
lei no e Stefan era curioso di sapere quale obiettivo potesse darle
tanta forza. Ma lei glielo avrebbe detto?
“Hai
una determinazione ammirevole” le confessò,
indeciso su come farle
la domanda che tanto lo incuriosiva.
“Sono
sempre stata così, la trasformazione ha solo acuito questo
lato di
me”
“Ed
è solo per questo?”
Allora
Julya capì dove voleva andare a parare e non poté
dargli torto. Lo
aveva trascinato in un viaggio che si stava rivelando più
difficoltoso del previsto, dall'altra parte del mondo e senza dirgli
esattamente perché lo stava facendo: Stefan aveva tutto il
diritto
di sapere perché.
Dopotutto,
le mancava avere qualcuno con cui parlare di quel genere di cose. E
se non poteva farlo con Stefan, con chi avrebbe dovuto?
“Credo
che tu non stessi mentendo quando hai detto che lo facevi per
ambizione. Non fraintendermi” aggiunse quando la vide
inarcare un
sopracciglio e guardarlo perplessa “penso che non sia il vero
motivo, ma ti conosco e tu sei attratta da questo genere di cose in
un modo che io non riesco a capire”
“E'
vero” ammise con un pallido sorriso. Era sempre stato
così: la
storia e gli antichi manufatti avevano su di lei un fascino strano,
diverso da quello che esercitavano sulla maggior parte delle persone.
Non
le importava quali vantaggi avrebbe ottenuto da questo o
quell'oggetto: era lui, la storia che racchiudeva, a irretirla. Non
aveva mai capito come questo potesse accadere: sapeva solo che
così
era e che le stava bene perché quello aveva
dato uno scopo
alla sua vita quando Kol se n'era andato, quando era rimasta sola,
tanto tempo prima che Stefan entrasse nella sua vita.
E
anche allora il richiamo delle antichità era stato
più forte della
loro amicizia. E nonostante questo, non era stato facile lasciare
Stefan e continuare la sua ricerca, ma aveva scelto e quello si
era rivelato più importante.
“Credo
che tu abbia il diritto di sapere tutta la storia. Chissà,
forse
capirai anche perché ti ho lasciato solo tanto tempo fa. O
forse non
riuscirai a perdonarmi lo stesso”
“Io
ti ho perdonata”
Julya
ridacchiò e lo guardò con uno sguardo strano,
divertito e paziente
“Tu vuoi perdonarmi e l'aver preso
questa decisione è la
parte più importante, ma ci vorrà del tempo. Ed
è giusto che sia
così, Stefan: non è sbagliato dare al tempo la
possibilità di
farci guarire per poter passare oltre”
Julya
credeva davvero che fosse così.
Un
perdono rapido, immediato a volte non era che il risultato di una
rabbia fasulla o, in alternativa, una sorta di umiliazione o
vendetta.
Per
perdonare qualcuno ci voleva tempo, pazienza e comprensione. Era un
po' come curare una ferita: a prescindere dalla sua gravità,
bisognava darle il tempo di spurgare, di cicatrizzarsi e lentamente
sparire. Quella era, a suo dire, l'unica forma possibile di perdono e
avrebbe comunque lasciato dietro di sé un marchio, un
indelebile
ricordo di ciò che era stato.
“Comunque”
riprese in fretta “non è questo di cui vuoi
parlare. Vuoi sapere
perché voglio il Graal, ma per spiegartelo dovrò
raccontarti una
storia”
Stefan
annuì e Julya continuò. I cammelli camminavano
lenti e la valle era
ancora lontana mentre intorno a loro l'atmosfera cambiava.
“Era
il 1911 e io ero tornata in Russia per vedere la mia famiglia. Non
potevo avvicinarli: a loro era stato detto che ero morta al Cairo e
così dovevano continuare a credere. Volevo vedere come
stavano,
quale vita vivevano dopo la mia morte e volevo vedere Aleskeij. Lui
era ancora un bambino quando io me ne sono andata e volevo sapere se
si fosse sposato, avesse avuto dei figli... queste cose qui, insomma.
Ma quando arrivai scoprii che la mia famiglia era stata spazzata via
dal colera. Mia madre, mio padre, Vladirmir... di loro non restavano
che ossa, sepolte in stupide fosse anonime senza che io potessi fare
nulla per dare loro la sepoltura che meritavano”
Si
fermò un momento, stringendo le redini con forza a quel
ricordo.
Ricordò l'odore di cipolle nella piccola baracca nella
campagna
intorno a San Pietroburgo, il silenzio assordante nelle stanze quando
non veniva rotto dallo sferragliare dei treni e il volto sofferente
di Aleskeij mentre respirava a malapena.
“Solo
Aleskeij era ancora in vita, ma era chiaro che stava per andarsene
anche lui. Accecata dalla disperazione, non ho pensato. Sono corsa a
casa di una donna che tutti credevano essere una strega e l'ho
scongiurata di aiutare mio fratello. Io sentivo la sua aura, sapevo
che i pettegolezzi erano veri.
Alla
fine, ho dovuto minacciare di ucciderla perché si decidesse
a
seguirmi. Quando arrivammo, era troppo tardi. Ma io non potevo
accettarlo, non in quel momento e feci una cosa folle, l'azione che
condizionò la mia vita da quel momento in poi: chiesi alla
strega
più tempo, un modo per conservare il corpo di mio fratello
fino a
che non avessi trovato come riportarlo in vita”
Stefan
la guardò con gli occhi spalancati, incredulo. Nonostante
ciò,
riusciva a capire cosa avesse spinto Julya a comportarsi
così.
Come
poteva non capire, quando lui avrebbe fatto l'impossibile per salvare
suo fratello?
“E
la strega mi esaudì. Fece un incantesimo e ora mio fratello
giace in
una bara, morto, ma intatto, in attesa che io trovi il Graal che
è
l'unica cosa che può riportarlo alla vita”
“Io
ti capisco, davvero. Ma perché non lo hai vampirizzato?
Perché non
lo hai lasciato andare?”
“Era
un anno difficile per me. Mi sentivo sola, disperata, abbandonata
e credo di essere andata dalla mia famiglia per ricordare a
me
stessa che c'era ancora al mondo qualcuno che mi amava, anche se per
loro ero morta. Quando ho scoperto che anche l'ultima di quelle
persone stava per andarsene... non lo so, non sono riuscita a dirgli
addio”
“Ma
non sei sempre stata sola, nei secoli a venire. C'ero io”
Fu
più forte di lui ricordarglielo, anche se si era ripromesso
di
capirla e passare oltre. Eppure non comprendeva.
Era
stata sola, ma poi era arrivato lui e nonostante questo lei se n'era
andata per inseguire il suo grande scopo.
Che
senso aveva, dunque?
“So
cosa stai pensando. Anche tu ti sei sentito solo e non capisci
perché, anche quando ho trovato un amico che mi stesse
accanto, ti
ho abbandonato. Ma andiamo, Stef, non è la stessa cosa. Tu
non sei
mai stato davvero solo: anche
quando pensavi di esserlo, avevi sempre tuo fratello. Disperso in
chissà quale angolo del mondo, a compiere chissà
quali azioni
spregevoli, ma sapevi comunque che c'era qualcuno che ti avrebbe
amato qualunque cosa tu fossi diventato. Volevo solo la stessa
possibilità, un amore altrettanto grande e
irriducibile”
Confessare
la sua più grande debolezza fu per Julya come togliersi un
masso dal
petto, come tornare a respirare dopo una lunga apnea.
All'improvviso,
si sentì più leggera e liberarsi di quel segreto
– il più intimo
e nascosto che avesse- con Stefan la fece sentire diversa.
Se
lui fosse stato un'altra persona, forse aprirsi così tanto e
svelargli la parte più vulnerabile di sé
l'avrebbe terrorizzata a
morte, ma lui era Stefan e sapeva che sarebbe andato tutto bene
perché, per quante azioni spregevoli e morti avesse sulla
coscienza,
ai suoi occhi restava una persona molto migliore di quanto lui stesso
non credesse.
E
lo amava anche per quello, anche se non sapeva che tipo di amore
fosse.
Ma
quelle considerazioni e quello sguardo dolce e intenso non facevano
che metterla ancora di più in crisi.
Intanto
avevano raggiunto la valle, una gola circondata da alture a forma di
mezzaluna in cui non sarebbero mai riuscita a entrare se non avessero
trovato un sentiero o avessero abbandonato lì i cammelli.
Julya
smontò e si sedette sulla sabbia calda del deserto.
“Che
fai? Non cerchiamo un modo per accedere?”
“Prima
devi vedere una cosa”
Aprì
il libretto e lo sfogliò fino a fermarsi a un certo punto,
porgendoglielo.
“Quando
arriveremo nella grotta, dovremo affrontare tre prove: il respiro di
dio, la parola di dio e il sentiero di dio”
“Non
ti seguo”
“Sono
prove tratte da sant'Anselmo. La prima dice che solo l'uomo penitente
potrà passare; la seconda, solo sulla parola di dio si
potrà
procedere; la terza e ultima dice che solo saltando con un balzo
dalla testa del leone l'uomo potrà dimostrarsi degno del
sacro
Graal”
“E
cosa vuol dire?”
Julya
fece spallucce “Non ne ho idea”
Non
era esattamente ciò che Stefan sperava di sentire
perché sapeva che
neanche l'ignoto avrebbe fermato Julya.
Non
le aveva mai fatto paura il non sapere cosa la aspettava: al
contrario, sembrava che fosse piuttosto uno stimolo ad andare avanti.
A
Stefan faceva un po' paura la tendenza di Julya a rischiare tutto con
il pericolo di rimanere con niente in mano.
Ma
ora aveva capito perché e in qualche modo poteva quasi
condividere
il suo bisogno; sperava solo che, una volta raggiunto il suo scopo,
avrebbe abbandonato quel gioco pericoloso.
Conoscendola,
non era così fiducioso.
“Andiamo?”
“E
come intendi...”
Non
finì la frase. Con un ultimo sorriso, Julya si era
già lanciata giù
nella gola, fendendo l'aria a una velocità impossibile ma
con una
grazia ammirevole, assorbendo l'impatto con il suolo con la punta dei
piedi.
“Già,
come ho fatto a non pensarci” borbottò prima di
imitarla.
*
Mezz'ora
e parecchia sabbia nei vestiti dopo, Julya e Stefan trovarono
finalmente l'ingresso al luogo dove era custodito il Graal.
“Non
so come sia passato inosservato per tanto tempo”
constatò il
ragazzo riferendosi alla parete di roccia modellata per sembrare la
faccia di una modesta chiesa.
Julya
dovette ammettere che, in effetti, non avrebbe mai potuto passare
inosservato. Insomma, non capitava esattamente tutti i giorni di
trovare un tempio in un deserto.
L'interno
tuttavia non aveva subito la stessa lavorazione della facciata: dopo
l'ingresso, si apriva una lunga galleria di terra rossiccia, alta e
stretta, piena di ostacoli, probabilmente massi caduti nel corso del
tempo dalla volta.
Stefan
aprì la bocca per parlare, ma una voce li raggiunse e
ammutolì.
Anche Julya l'aveva sentita e si era irrigidita all'improvviso,
nascondendosi di scatto dietro un masso.
Stefan
la imitò e lei gli fece cenno di tacere, anche se non ce
n'era
davvero bisogno. La vampira si sporse un po' per vedere e il suo
volto si trasformò in una maschera di angoscia e rabbia
quando
riconobbe il vampiro delle catacombe, Werner.
Con
lui c'erano gli altri due vampiri – entrambi dai capelli
scuri, uno
nerboruto e l'altro smilzo-, ma gli umani erano diversi: c'erano due
donne stavolta, una ragazza giovane e dai capelli rossi e l'altra
più
adulta, con una crocchia di capelli neri a incorniciarle il viso.
Julya
immaginò che non dovesse essere troppo difficile trovare
collaboratori con la promessa della vita eterna, anche se non aveva
certo bisogno del Graal per concedere certe cose.
Comunque,
non era importante.
Dovevano
trovare il modo di entrare e trovare il Graal prima di quella
ridicola banda di cattivi da strapazzo, a meno di non volersi trovare
a fare i conti con un fan di Hitler al quale, disgraziatamente, era
stata donata l'immortalità.
Spremette
ogni parte della sua non trascurabile intelligenza alla ricerca di un
modo per aggirare l'ostacolo, ma loro occupavano tutto l'ingresso e
non c'era possibilità di entrare senza essere visti.
All'improvviso
ci fu un grido e poi qualcosa rotolò giù dalle
scale, proprio fino
ai loro piedi. Allora Julya si accorse che era una testa e
deglutì a
stento, ricordando le tre prove di cui aveva parlato a Stefan.
Neanche
essere un vampiro le avrebbe permesso di sopravvivere se le fosse
stata tagliata la testa.
O
forse sì, ma non aveva proprio voglia di sondare i limiti
della
propria natura quel giorno.
“Julya...”
“Non
è proprio il momento, Stef. Dobbiamo trovare il modo per
entrare
senza farci vedere”
“Uhm,
ho come l'impressione che sia superfluo”
“Cosa
stai...”
Alle
sue spalle c'era Noah, l'amico al quale si era rivolta per avere il
libretto, e teneva tra le mani una balestra con tanta forza da far
sbiancare le nocche.
Incoccato
al posto della classica freccia, c'era un paletto di legno e Noah
puntava dritto al cuore di Stefan.
Julya
calcolò le possibilità e capì che non
avrebbe avuto modo di
saltare alla gola dello studioso e ucciderlo prima che sparasse o
gridasse perciò alzò le mani e ringhiò
appena, cosa che fece
fremere Noah e sorridere Stefan.
Nel
momento in cui si alzarono altre balestre spuntarono fuori e vennero
puntate su di loro, con enorme fastidio di Stefan e rabbia di Julya.
Il
vampiro biondo si fece avanti con un mezzo sorriso divertito
“Speravo
di rivedervi ancora. Abbiamo giusto bisogno di un volontario per
affrontare qualunque cosa ci sia da quella parte”
“Mi
dispiace, ma nessuno di noi due è molto propenso ad aiutare
un
idiota filonazista”
“Quindi
sei disposta a lasciare che il Graal rimanga lì piuttosto
che
lasciarmelo toccare?”
Aveva
toccato un nervo scoperto, Stefan lo capì dall'espressione
negli
occhi di Julya. La risposta più giusta sarebbe stata sì,
ma
se avesse lasciato perdere Julya non avrebbe mai più riavuto
indietro suo fratello e ogni cosa si sarebbe rivelata vana.
Due
secoli sprecati a causa di uno idiota con manie di grandezza. Oh,
Stefan vedeva la rabbia lampeggiare negli occhi di Julya e sapeva che
non era mai un buon segno.
In
un attimo, seppe che non avrebbe lasciato il Graal dove si trovava
né
lo avrebbe ceduto al tedesco, ma che piuttosto lo avrebbe ucciso con
le proprie mani insieme a tutta la sua combriccola.
“No”
ammise Julya a labbra strette “ma senti cosa
accadrà: io entrerò
lì dentro e prenderò il Graal. Lo
porterò via con me, ma prima
ucciderò tutti voi a uno a uno e sarà un piacere
per me strapparti
personalmente il cuore dal petto”
Werner
rise, come se non credesse che lei lo avrebbe fatto e Stefan
pensò
che fosse sciocco sottovalutare Julya quando parlava con un tono
così
serio e pericoloso. Faceva paura persino a lui che pure sapeva che
non gli avrebbe mai fatto del male.
Julya
non vi badò e si fece avanti.
Gradino
dopo gradino, Stefan la guardò infilarsi nell'altro
corridoio,
diretta verso chissà quale destino.
Avrebbe
voluto fermarla o andare con lei, ma non glielo avrebbero permesso.
Sperò
solo che Julya sapesse cosa stava facendo e che tornasse da lui. Non
voleva lasciare andare un'amica ora che l'aveva appena ritrovata.
“Solo
l'uomo penitente potrà passare”
Julya
procedeva con circospezione, ripetendo le parole di Sant'Anselmo come
se fossero un mantra.
Aveva
paura, ma era anche emozionata come una scolaretta, a dispetto del
fatto che rischiava la vita a ogni passo.
Nella
sua testa si alternavano tutti i significati possibili di quelle
parole. I suoi sensi erano tesi al massimo nello sforzo di captare
qualunque movimento, ma l'unico rumore era quello dei suoi stivali
sulla terra rossa.
L'uomo
penitente... l'uomo penitente è umile al cospetto di dio.
Umile...
lei non lo era mai stata, non sapeva cosa volesse dire quella parole
e con che coraggio dunque pretendeva di seguire quel cammino?
Non
c'era nessuna umiltà nella sua ricerca, solo arroganza.
Era
lì per cercare di ingannare la morte; lei
stessa
era un tiro mancino alla volontà divina che aveva sancito un
ciclo
inamovibile per l'uomo: vita, crescita, morte.
Non
ci poteva essere presunzione peggiore della sua che voleva sovvertire
quell'ordine naturale.
Cosa
fa l'uomo umile? Chiede perdono, si umilia, si inginocchia.
Le
ragnatele di fronte a lei si mossero come agitate da una brezza
leggera e ci fu uno strano rumore, come se qualcosa si fosse azionato
all'improvviso e i suoi riflessi da vampira agirono prima che lei
potesse pensare razionalmente.
Si
gettò a terra e scivolò in avanti prima che le
due lame potessero
tagliarla a metà e si ritrovò a fissare il
soffitto con un gemito.
“Sono
passata!” urlò a Stefan e il ragazzo
respirò di sollievo, anche
se sapeva che quello era solo l'inizio.
Intanto
Julya si ripulì dalle ragnatele e dalla polvere e
continuò il suo
cammino.
“La
seconda sfida è la parola di dio”
ricapitolò gettando di lato la
sacca in cui teneva il libretto.
Guardando
di fronte a sé, non fu difficile immaginare cosa volesse
dire
“parola di dio”.
“Perfetto”
borbottò tra sé e sé “E' il
nome di dio” mormorò sconsolata.
Teologi,
studiosi e letterati si interrogavano su quel quesito da migliaia di
anni ed era il più grande mistero della storia.
Come
potevano pretendere che lei lo risolvesse in qualche minuto?
Osservò
le lettere che componevano il mosaico sul pavimento. Si sentiva
vibrare di adrenalina e di emozione, anche se sapeva che
quell'ostacolo avrebbe potuto interrompere la sua ricerca.
No,
non lo avrebbe permesso, non ora che era letteralmente a pochi metri
dalla meta.
Poi
le venne un'idea, il colpo di genio.
Con
un balzo, fu sulla lettera e, poi sulla g
e infine
sulla o.
Ego,
io.
“Io.
Dio è in tutti noi”
Provò
un moto di orgoglio, ma si disse che avrebbe avuto tempo per
insuperbirsi e farsi i complimenti da sola.
Trepidante,
si infilò in un cunicolo sempre più piccolo, le
cui pareti le si
stringevano sempre di più intorno fino a modellarsi quasi
intorno al
suo corpo.
Affrettò
il passo e si ritrovò a correre senza neanche capire quando
avesse
iniziato. Si bloccò di scatto arpionando la roccia intorno a
lei per
non cadere nel precipizio.
“La
terza prova: il sentiero di dio”
Julya
calcolò che avrebbe potuto saltare fin là, ma
sarebbe poi riuscita
ad atterrare nella nicchia dall'altra parte della roccia?
Sembrava
piccola anche per lei che pure era minuta.
“Abbi
fiducia in te stessa, Juls”
La
parola fiducia fu un campanello nella sua testa. Fiducia voleva dire
anche fede e che cos'era quello di fronte a lei se non un balzo della
fede?
Quello
sì che era un vero problema.
Lei
non aveva mai creduto in dio come ci credeva la maggior parte delle
persone. Da piccola, sua madre aveva tentato di inculcarle i principi
della chiesa in qualunque modo, a volte anche con la forza, ma Julya
era sempre stata più testarda.
Forse
c'era qualcosa lassù, ma qualunque cosa fosse sicuramente
non era
interessato a intromettersi nelle faccende dei mortali.
Non
aveva cambiato prospettiva quando era diventata un vampiro; al
contrario, la sua convinzione si era solo rafforzata e quando
guardava in uno specchio vedeva solo la dimostrazione delle proprie
teorie.
Se
ci fosse stato un dio come lo volevano i cristiani, non avrebbe
permesso a predatori spietati come i vampiri di vivere tra i suoi
figli.
Perciò,
quel balzo si rivelava più problematico del previsto.
Saltare
o non saltare?
Non
sarebbe riuscita a risalire da quel baratro se fosse caduta, non
quando non beveva da giorni ed era più debole del solito.
Con
il senno di poi, non era stata un'idea geniale correre nella gola
senza essersi prima nutrita.
Con
una mano sul petto e chiudendo gli occhi, saltò.
Si
aspettava di cadere per miglia, invece la suola degli stivali
toccò
subito terra e lei barcollò aprendo gli occhi di scatto.
Con
un sorriso tirato e un gemito procedette con passi esitanti, sperando
di avere fortuna ad ogni passo e arrivare dall'altra parte.
Anche
se il suo cuore era immobile, le sembrava di sentirlo pulsare insieme
al rombo del sangue nelle vene.
Sentiva
la vicinanza del calice, l'energia magica che emanava arrivava fino a
lei e quasi le vennero le lacrime agli occhi nel pensare che era
quasi arrivata.
Le
ricacciò indietro dicendosi che si sarebbe concessa di
piangere –
una volta, una sola volta e poi mai più- solo quando avrebbe
stretto
a sé Aleskeij.
Prima,
c'erano ancora troppe cose che potevano andare storte.
Si
accucciò e scivolò a gattoni lungo il cunicolo.
Quello sì che era
da penitente, ma non le importava di sbucciarsi le ginocchia e
rovinare il pantalone.
L'uomo
che la accolse alla fine del tunnel avrebbe potuto sembrare un
fantasma visto il suo pallore, ma non lo era.
Era
uno dei tre fratelli della leggenda, colui che era rimasto a vegliare
sul calice probabilmente.
Le
rivolse un sorriso gentile, da nonno e le fece cenno di avvicinarsi.
“Sono
passati così tanti anni da quando ho visto qualcuno...
nessuno è
mai giunto fino a qui, sino a oggi”
“Tu
sei uno dei tre fratelli?”
“Il
più valoroso e nobile dei tre, scelto per proteggere il
calice”
“Sono
passati settecento anni”
L'uomo
annuì “Un'attesa molto lunga”
“Attesa?”
Il
cavaliere annuì ancora “Sapevo che un giorno
qualcuno sarebbe
giunto per prendere il mio posto, un altro cavaliere. Non mi
aspettavo che fosse una donzella a fare la sua comparsa, ma suppongo
che la nobiltà alberghi in qualunque animo”
Alzò
la spada e gliela porse con dignità. Julya sentì
un groppo alla
gola di fronte alla solennità di quel momento, ma non poteva
accettare.
Non
era nata per quello, lei lo sapeva.
Non
era per nobiltà d'animo che era giunta fin lì, ma
per abilità e
conoscenze. Non aveva i sacri valori dei cavalieri né la
loro
dirittura morale: qualcun altro sarebbe giunto un giorno e sarebbe
stato lui il giusto protettore del Graal.
“Aspetta.
E' complicato da spiegare ma...”
Venne
interrotta dall'arrivo di Werner e della sua aiutante dai capelli
rossi. Ringhiò, ma l'altro non se ne curò, come
se lei non fosse lì
a sbarrargli la strada.
“Che
meraviglia... quale di questi è il Graal? Non sono uno
storico, non
saprei scegliere” ammise guardando con occhi colmi di
cupidigia
ogni calice d'oro come se non desiderasse altro che prenderli tutti e
portarli via con sé.
“Scegli
con attenzione” lo esorta il cavaliere con voce stanca, come
se
avesse all'improvviso perso ogni forza “il vero Graal ti
darà vita
eterna e potere. Allo stesso modo, il falso ti toglierà
tutto”
“Scelgo
per te” si offrì la ragazza dai capelli rossi e
iniziò ad
analizzare ogni calice, scrutandoli con uno sguardo così
intelligente e attento che Julya sentì un brivido di paura
solcarle
la schiena e farla fremere.
Alla
fine afferrò un calice d'oro meravigliosamente intarsiato di
pietre
preziose, una coppa il cui valore sarebbe stato inestimabile per
qualunque gioielliere.
“E'
degna di un re” convenne Werner guardandola con venerazione
prima
di immergerla in una conca d'acqua limpida.
Julya
non tentava di rivolgersi al cielo da tanti secoli e non era neanche
sicura che ci fosse qualcuno ad ascoltarla.
Dopotutto,
non avrebbe potuto dare torto a chiunque fosse lassù -sempre
che ci
fosse qualcuno- se avesse scelto di ignorare le sue richiesta.
Comunque,
era disposta a correre il rischio: quel giorno sentiva di poter
provare a credere, almeno per qualche ora.
Così
chiese che avesse sbagliato e che l'acqua lo uccidesse per poter
tentare a sua volta di trovare il Graal.
Forse
era contrario a tutti gli ideali che il Graal rappresentava, ma lei
era sicura di meritare di trovarlo. I suoi scopi non erano malvagi e
lo avrebbe riportato indietro presto, giusto il tempo di riportare in
vita Aleskeij.
Con
il cuore in gola guardò il vampiro suggere l'acqua, poi ci
fu un
momento di attesa. Un attimo che nella mente di Julya fu
un'eternità
prima che quello cominciasse a gemere e a invocare aiuto mentre si
disidratava lentamente.
Non
fu un bello spettacolo guardare mentre la pelle diventava come carta
velina e si accartocciava su se stessa, ma Julya non volle perdersene
nemmeno un secondo, godendo di quell'angoscia in ogni secondo fino a
quando non divenne polvere ai suoi piedi.
“Ha
scelto... molto male” ammise con uno sguardo annoiato il
cavaliere
e Julya provò la tentazione di scoppiare a ridere mentre la
ragazza
tentava la fuga.
Ma
Julya ricordava il sorriso sfacciato e derisorio che le aveva rivolto
quando li avevano catturati e si era ripromessa di ucciderli tutti
così in un attimo i suoi denti le squarciarono la carotide
mentre si
saziava.
Se
non altro, il suo sangue aveva un ottimo sapore.
Il
cavaliere non si scompose e, quando ebbe finito, le fece segno di
scegliere. Non la avvertì, ma Julya immaginava che pensasse
che ciò
che era appena successo fosse un monito sufficiente.
Soppesò
con attenzione ogni calice, cercando di riportare alla mente tutte le
letture che aveva fatto sull'ultima cena e sul santo Graal.
Era
facile immaginare una coppa tanto potente come un oggetto sontuoso,
pieno d'oro e pietre preziose, un calice degno del re dei re.
Eppure
era troppo facile e un minuto prima si era
rivelata la scelta
più sbagliata che potesse essere fatta.
Se
davvero il Graal era la coppa da cui Gesù Cristo aveva
bevuto
all'ultima cena, avrebbe davvero potuto essere un oggetto prezioso?
Un semplice falegname avrebbe potuto bere da una coppa d'oro?
In
tutta quella massa di delizie luccicanti, solo una poteva essere il
calice di un falegname.
Era
piccola e sgraziata, invisibile se paragonata alle altre, ma proprio
per questo poteva essere solo lei.
Non
le restava che un modo per scoprirlo.
Si
fece coraggio e la immerse nell'acqua poi si prese un momento per
pensare alla propria vita. Faceva tanto cliché, ma
ripercorse con la
mente le tappe saliente della propria vita e si disse che dopotutto
era stata una bella vita.
Aveva
partecipato a molte delle più importanti scoperte
archeologiche
degli ultimi due secoli, aveva preso parte ai primi movimenti
femministi, si era schierata contro la fucilazione dello zar e della
sua famiglia nel 1918 e poi era stata una flapper dell'età
del jazz.
Aveva
avuto la fortuna di essere amata, anche se chi l'aveva fatto se n'era
andato e l'aveva lasciata a fare i conti con la solitudine.
Era
molto più di quanto molte persone potessero dire.
Con
un sospiro, prese un bel sorso d'acqua e fu come provare di nuovo per
la prima volta la sensazione di bere sangue umano.
Si
sentiva ebbra; la sensazione di potere era indescrivibile, quasi lo
sentiva scorrerle nelle vene. Era afrodisiaco e perfetto come neanche
il sangue più buono che avesse mai assaggiato avrebbe saputo
essere.
Si
voltò verso il cavaliere che le sorrise con soddisfazione e
condiscendenza, come un nonno di fronte alle prodezze della propria
nipote.
“Hai
scelto con saggezza. Ma il Graal non dovrà mai oltrepassare
il
grande sigillo: questo è il limite e prezzo
dell'immortalità”
Il
sorriso di Julya scemò e si sentì come se le
avessero dato un
calcio alla testa. Per un attimo le idee le si mischiarono nella
testa confusamente e non seppe più nulla di ciò
che la circondava.
Avrebbe
voluto chiedere di ripetere, ma sapeva di aver sentito e compreso
bene ciò che le era stato detto.
Solo
che non riusciva ad accettarlo perché avrebbe voluto dire
che
Aleskeij non sarebbe più tornato in vita e che ogni
cosa era
stata inutile.
Boccheggiò
quando comprese a pieno quel pensiero e perse la cognizione di tutto
ciò che la circondava.
Non
provò a chiedere un'eccezione perché sapeva che
non potevano
essercene.
Doveva
essere quella la punizione per la sua arroganza: aveva tentato di
sfidare la morte, pensato addirittura di poterla vincere ancora una
volta e le era stato permesso per due secoli di crederlo per poi far
crollare ogni sua convinzione come un castello di carte proprio alla
fine.
Era
stato molto peggio così.
Aveva
accarezzato l'idea di riabbracciare suo fratello, per un attimo
–
un solo secondo mentre portava il calice verso il bacile- si era
concessa di progettare una vita con lui.
Aveva
immaginato la sua espressione quando lo avrebbe portato a Parigi e
Londra o dovunque volesse andare, aveva sognato di vederlo innamorato
e felice, aveva vagheggiato l'idea di essere una famiglia.
Invece
tutto le era scivolato dalla dita come sabbia trasportata dal vento
ed era lì, accasciata sulla terra rossa senza sapere cosa
fare.
Era
persa e aveva tanto bisogno di qualcuno che
rimettesse insieme
i pezzi che stavano andando alla deriva.
Riemerse
dalla nebbia quando sentì due braccia cingerla e sollevarla
con
delicatezza. Trovò lo spazio per sperare che fosse Stefan
– perché
se così non fosse stato avrebbe voluto dire che era morto-,
ma
quella fu l'ultima cosa che riuscì a provare.
“Non
può essere portato via da questa grotta”
mormorò e non riconobbe
la propria voce.
Poi,
come se qualcuno avesse battuto le mani e fatto scomparire tutto, ci
fu solo un vuoto impossibile da riempire.
“E
questa d'ogni mia speranza
e'
la silenzio fine.
Sorse
tra bei colori il mio mattino
precoce
ed arida la fine”
Emily
Dickens
Continua
**
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Capitolo 9 *** I can't stand the pain, how could this happen to me? ***
Capitolo 9 Ekleipsis
Ma
buondì, bella gente!
Ebbene
sì, ecco il nuovo capitolo, uscito fresco fresco dalla
cartella e
pubblicato subito per voi.
Spero
che il capitolo piaccia e, piccolo spoiler, aspettatevi tristezza.
Tristezza
a palata, davvero.
Per
il resto, vi lascio alla storia.
Buona
lettura^^
Una piccola, ma indispensabile correzione e
aggiunta.
Questo capitolo è ispirato dalla
bellissima storia di Sissi Bennet
Ashes&Wine
nel fandom "Il diario del vampiro", nella
sezione libri.
Vi lascio il link e vi consiglio di leggerla perché credo
che sia fantastica.
Grazie.
I can't stand the pain, how could this happen to me?
And
I can't stand the pain
And I can't make it go away
No
I can't stand the pain
How could this happen to me
I
made my mistakes
I've got no where to run
Untitled-
Simple Plan
Erano
tornati a Mystic Falls da una settimana e Julya non aveva ancora
accennato a uscire dalla sua stanza.
Ogni
mattina sentiva suonare la sveglia e lasciava che continuasse a farlo
fino a quando non si spegneva o veniva spenta. Non
lo sapeva. Aveva solo una certezza: non avrebbe abbandonato il suo
nascondiglio neanche con la forza.
Non
aveva dormito per giorni fino a quando la stanchezza non aveva avuto
il sopravvento, facendola piombare in un sonno dal quale si era
svegliata ancora più provata. Non aveva nemmeno pianto
perché
avrebbe richiesto troppe forze.
Era
solo rimasta immobile avvolta nel piumone che aveva trascinato con
sé, con la gambe strette al petto con tanta forza da
arrivare a
pensare che non sarebbe mai più riuscita a stenderle.
Aveva
provato a pensare a cosa fare, ma si era accorta di essere senza
prospettive.
Solo
in quel momento, dovendo fare i conti con il proprio fallimento, si
rese conto di non aver mai davvero contemplato la
possibilità che
qualcosa andasse storto.
Certo,
aveva pensato che ci potessero essere intoppi nella sua ricerca,
ritardi, problemi, ma il risultato... quello, dall'alto della sua
presunzione, non lo aveva mai messo in dubbio.
E
non aveva pensato neanche per un attimo che, se avesse fallito, si
sarebbe improvvisamente trovata a fare i conti con il lutto che non
aveva affrontato quasi un secolo prima.
Le
piombò tutto sulle spalle e fu come una doccia fredda, ma
non ebbe
la forza di fare altro che sussultare e fremere per un attimo, prima
di tornare immobile, fissando il pavimento con aria assente.
Il
primo a provare a farla uscire era stato Stefan, ma Julya non era
riuscita nemmeno a guardarlo in faccia.
Aveva
scoperto di essere terrorizzata da lui quando aveva sentito la sua
voce: ogni cosa di lui le ricordava ciò che era appena
successo e la
ferita che le squarciava il petto pulsava più forte, come se
qualcuno vi avesse versato sopra del sale. L'aveva chiamata per un
po', poi se n'era andato senza aver ottenuto nulla.
Poi
era stato il turno di Caroline e persino Damon si era scomodato.
Le
aveva rifilato una frase del tipo “Smetti di fare
l'adolescente
sociopatica e vieni fuori” alla quale lei non aveva risposto
e alla
fine anche lui, il più testardo di tutti, aveva capitolato
con
un'imprecazione.
Non
pensava che potessero mandare qualcun altro perciò quando
vide la
porta aprirsi ebbe un guizzò di sorpresa.
Si
appiattì contro il pavimento e seguì con
circospezione gli stivali
che muovevano passi incerti per la stanza.
“Julya?”
Era
Elena.
Ovvio
che fosse
Elena: chi altri
avrebbero potuto mandare?
“Non
staresti più comoda sul letto? Vorrei parlarti”
Julya
non rispose, ma se non altro alzò gli occhi dal pavimento
per
fissarli in quelli di Elena.
“Va
bene, allora vengo io”
L'espressione
nelle iridi di Julya la spinse a desistere e alzare le mani in segno
di resa, stendendosi poi sul pavimento, abbastanza lontano da Julya
da concederle il suo spazio.
“Parleremo
da qui. Sai, mi sono accorta che da quando sei arrivata io e te non
abbiamo mai parlato.
Ed è strano perché Stefan ti vuole molto bene,
davvero molto”
Attese,
sperando che Julya rispondesse, ma la ragazza si limitò a
continuare
a fissarla.
“Sono
contenta che tu non sia partita”
“Rimango
solo perché non ho nessun altro, ora” ammise.
“Perciò
non pensi di andartene tanto presto?”
“Dove
dovrei andare, Elena? Mio fratello è morto, non ho trovato
il Graal
e non tornerà mai da me. Non ho più nulla”
le
spiegò con calma, la voce così piatta che Elena
sentì un brivido
lungo la schiena e le sembrò di provare un po' della
tristezza che
sentiva Julya.
“Sai,
io ti capisco. Mio padre e mia madre sono morti e io mi sono sentita
esattamente come ti senti tu ora”
“Perciò
immagino che sarai venuta qui a dirmi che dovrei rialzarmi e farmi
forza, che le cose brutte accadono e non si può fare niente
per
evitarle”
“In
realtà, ero venuta a dirti il contrario”
Quello
la sorprese e Elena riuscì addirittura a leggere la
perplessità sul
suo viso, nonostante la poca luce, e si voltò di lato per
guardarla
meglio.
“Quando
sono morti i miei genitori, la gente non faceva che dirmi quelle cose
e io li odiavo per questo. Certo, non mi sono mai infilata sotto un
letto per una settimana, ma cavolo!, se hai voglia di startene
lì,
fallo”
“Dici
davvero?”
“Sì.
Hai diritto ad avere il tempo di guarire e non è giusto
pretendere
da te che tu reagisca subito. Con il tempo, troverai un modo di
venire a patti con tutto quel dolore” le promise e c'era una
tale
sincerità nel suo sguardo che Julya non ne dubitò.
“Ora
devo andare. Suppongo che ci vedremo, prima o poi”
Detto
questo, si sollevò e uscì dalla stanza, non prima
di averle
regalato un sorriso motivante.
Julya
le fu grata per quelle parole. Le pareva strano che fosse stata
proprio Elena a darle la spinta che le serviva per fare il passo
successivo, ma si trovò a desiderare di
provare
qualcosa che non fosse
più solo un vuoto devastante.
Non
era ancora un vero sentimento, ma era un passo avanti rispetto al
nulla e all'apatia.
Ora,
la cosa più sensata sarebbe stato alzarsi e cercare di
mettere
insieme qualcosa per
tirare avanti ogni giorno.
Lo
avrebbe fatto, ma non in quel momento. Aveva ancora bisogno di
restare sola perché, nonostante tutto, non era ancora sicura
di aver
superato la fase di negazione della realtà.
Lo
capiva dal fatto che ogni volta che si risvegliava dal suo sonno
agitato sperava ancora che fosse tutto frutto della sua fantasia.
Un
giorno avrebbe ripreso in mano le redini della sua vita. Con cura e
attenzione si sarebbe costruita una quotidianità e avrebbe
trovato
un nuovo sogno, qualcosa a cui dedicarsi, ma fino a quando non si
fosse sentita pronta avrebbe tirato dritto per la propria strada
senza curarsi di tutto.
A
ben pensarci, sarebbe stato facile smettere di provare qualunque
cosa. Sarebbe
bastato premere
l'interruttore e non avrebbe più sentito nulla, come per
magia.
Eppure
non voleva farlo.
Julya
si conosceva: se avesse spento la propria umanità in quel
momento,
l'avrebbe riaccesa prima o poi e allora riaffrontare quell'inferno
sarebbe stato mille volte più doloroso, come essere bruciata
viva
con lentezza esasperante.
Non
sarebbe stata così codarda da tirarsi indietro di fronte al
dolore.
Per un essere umano soffrire era una sorta di garanzia sulla vita,
una conferma di esserci ancora,
ma la maggior parte dei vampiri credeva che la stessa regola non
valesse per loro.
Stupidamente,
pensavano che essere morti fisicamente li rendesse anche morti
dentro, incapaci di
provare emozioni intense che non fossero l'odio, la brama di sangue,
la vendetta.
Julya
non era dello stesso parere. Al contrario, vedeva nei vampiri
creature in grado di provare sentimenti di un'intensità
disarmante,
mille volte più potenti di quelli degli esseri umani.
Per
loro, rabbia, dolore, frustrazione, desiderio, amore... tutto veniva
amplificato.
Era
per quel motivo che i vampiri si rifugiavano dietro l'interruttore e
spegnevano la loro umanità, a volte per sempre:
perché era più
facile non sentire.
Dopotutto,
si riduceva tutto a quello: codardia e coraggio, facce speculari
della stessa medaglia.
Con
quel pensiero, socchiuse gli occhi e si addormentò senza
accorgersene.
*
Non
sapeva quando fosse
successo, ma lentamente Julya aveva ripreso a provare emozioni.
Non
sapeva se considerarlo un miglioramento, però.
Passava
dalla tristezza alla rabbia così in fretta che i suoi sbalzi
d'umore
non avrebbero avuto nulla da invidiare a una donna incinta.
Era
come una bomba a orologeria, pronta a esplodere in qualsiasi momento
e un po' le faceva paura perché non sapeva cosa aspettarsi
dalla
detonazione.
Poteva
andare meglio, ma sicuramente la situazione sarebbe solo peggiorata
perché sapeva cosa voleva dire toccare il fondo e sapeva di
non
esserci neanche vicina.
Non
poteva fare altro che attendere l'esplosione.
Alla
fine, arrivò a notte fonda, paradossalmente nell'unica sera
in cui
fosse riuscita a trovare un po' di quiete nell'alcool.
Era
appena tornata a casa e ondeggiava pericolosamente mentre saliva le
scale. Ad un certo punto, si tolse le scarpe e continuò la
salita,
ma non sembrò andare molto meglio perché alla
fine capitolò sul
pianerottolo ridacchiando.
Rimase
lì fino a quando non sentì una porta aprirsi e
all'improvviso
apparve Stefan. Anche da sbronza, Julya avrebbe saputo riconoscere le
sue espressioni senza problemi e lui aveva addosso proprio quella da
“cavaliere in scintillante armatura”, quella che
odiava di più
in situazioni come quelle.
“Hai
bevuto” constatò, il volto così
impassibile da farle credere che
quella fosse più che altro l'espressione da
“è il momento della
ramanzina, spero che tu non abbia fretta”.
“Io
l'ho sempre detto che tu sei così perspicace”
biascicò
lei, concludendo la frase con qualche difficoltà di
pronuncia.
Il
suo accento russo, di solito sapientemente occultato,
contaminò la
pronuncia e rese più difficile per Stefan capirla.
“Cosa
hai bevuto?” le domandò scendendo un paio di
gradini, giusto per
essere a portato di mano nel caso fosse scivolata di nuovo mentre
tentava con scarso successo di rimettersi in piedi.
“Rilassati,
Stef. Ho...” e ci mise un po' a ricordare quanti anni avesse,
contando velocemente un paio di volte “140 anni. Sto bene e
posso
cavarmela da sola”
“Indubbiamente
non hai bisogno di essere difesa e non mi preoccupo della tua salute
fisica. Ma tu non stai bene”
“Ah
no?” gli domandò con un ghigno seducente e uno
sguardo lascivo,
quasi osceno “Potresti farmi stare bene tu”
Si
alzò in punta di piedi e gli posò una mano
intorno alla nuca,
stringendo con l'altra i capelli. Stefan si voltò appena in
tempo
perché le labbra di lei sfiorassero la sua guancia, poi la
afferrò
e la scostò da sé.
“Sei
ubriaca” la freddò, ma Julya era davvero troppo
brilla per
prendere qualcosa sul serio.
Ridacchiò
ancora.
“E'
così importante?”
“So
cosa stai cercando di fare” la ammonì. Le voleva
bene, la amava
davvero -anche se non nel modo in cui amava Elena- e l'idea
di
essere duro con lei lo feriva, ma sapeva che doveva farlo.
Julya
non sarebbe tornata a essere se stessa senza una terapia d'urto. Una
volta guarita gli avrebbe tenuto il broncio per mesi o, più
probabilmente, gli avrebbe conficcato un pugnale nello stomaco per
vendetta, ma poi sarebbe passata oltre, di nuovo normale.
“Stai
fuori da casa per giorni interi, torni a orari improponibile puzzando
di alcool e sangue, fai la sgualdrina con me: stai cercando di
attirare l'attenzione, Julya?” la prese in giro tenendole il
viso
tra le mani perché non potesse evitare il suo sguardo.
A
sorpresa, Julya lo inchiodò con occhi lampeggianti di furia
e
indignazione “Non me ne importa niente della tua attenzione!
Perché
dovrebbe importarmi se ho una vita sregolata quando non mi sembra
neanche di viverne una? Non ho più niente, Stefan!”
Per
un attimo provò la sua stessa tristezza e gli venne voglia
di
stringerla a sé quando si rese conto di non poter cedere ora
che
aveva iniziato.
Aveva
scelto la linea dura e doveva essere coerente fino alla fine se
voleva che funzionasse.
“Hai
deciso di fare la vittima? Io ho provato a starti accanto: sono
rimasto steso sul tuo pavimento per quasi due giorni e tu non mi hai
neanche guardato in faccia!”
“Non
te l'ho chiesto”
“No,
l'ho fatto perché ti voglio bene e vedere che sei l'ombra di
te
stessa mi spezza il cuore. Dimmi cosa devo fare, dimmi cosa
vuoi”
la pregò guardandola negli occhi con uno sguardo
così intenso e
appassionato che probabilmente avrebbe fatto sospirare di desiderio
anche la ragazza più frigida.
Ma
Julya rimase impassibile; forse Stefan aveva ragione e lei era
davvero diventava un fantasma.
“Non
voglio niente” rivelò “non faccio i
capricci, non cerco
attenzioni. Non mi importa di nulla, neanche di me
stessa”
A
quel punto Stefan capì e si sentì quasi
sommergere dal peso di
quella dichiarazione.
Julya
andava in giro a bere sangue umano, ubriaca, senza controllo, con il
pericolo di essere scoperta esattamente per
quello: perché
per lei vivere o morire erano diventati la stessa cosa.
“Vorrei
che tu non fossi seria”
“Perché
non dovrei? Ho così tante cose per cui
continuare a
sopportare questa eternità...”
“Va'
a dormire, Julya. Ne parleremo un'altra volta”
Stefan
aveva bisogno di un po' di tempo per metabolizzare tutte quelle
informazioni e per decidere come comportarsi.
La
verità era che lo stato emotivo di Julya lo aveva sconvolto
e
turbato più che se l'avesse vista spegnere per sempre le sue
emozioni per cercare di placare un po' la sofferenza.
Doveva
dormirci su e anche Julya, ma prima aveva bisogno una conferma.
“Promettimi
che non farai nulla di avventato”
Ma
Julya tacque e lo guardò con sprezzo, come a sfidarlo a
proibirle di
fare qualunque cosa volesse.
“Julya...”
Nelle
sue parole c'era un avvertimento a non andare troppo oltre
perché
avrebbe fatto ciò che doveva fare per proteggere Mystic
Falls e
farla ritornare la Julya di un tempo.
“Che
c'è Stefan?” sbottò allora
“Se non mi comporterò da bambina
obbediente cosa farai? Mi rinchiuderai? Mi ucciderai? Fallo”
lo
incitò facendo un passo avanti “strappami il
cuore!” gli gridò
in faccia “Strappalo
ora! Credi mi importerebbe? Fallo!” lo incitò
ancora, nella
disperata speranza che la esaudisse, che mettesse davvero fine a
quell'inferno.
Furono
le parole che fecero traboccare il vaso. Stefan se la caricò
in
spalle e si catapultò giù dalle scale e poi
ancora più giù, in
cantina.
La
lasciò cadere quando furono nella stanza accanto a quella
dove un
tempo Zach coltivava la verbena e si richiuse la porta alle spalle,
appena in tempo per evitare che lei fuggisse.
“Fammi
uscire di qui, Stefan! Fammi uscire!” strillò con
tutta l'aria che
aveva nei polmoni e la sua voce raggiunse in effetti toni piuttosto
notevoli, ma avrebbero dovuto farci l'abitudine.
Julya
era stata una cantante, le sue corde vocali erano più che
allenate e
ci sarebbe voluto un po' perché si stancasse di urlare,
cocciuta
com'era.
Ma
lui non aveva fretta.
Mentre
se ne andava si disse che l'avrebbe guarita, in un modo o nell'altro.
*
“Falle
i complimenti per i polmoni: per urlare così da due giorni
devono
essere allentatissimi” gli ricordò Damon mentre
scendeva con una
sacca di sangue per Julya.
Era
rinchiusa nella cella da quarantotto ore e aveva fatto il possibile
per non far passare inosservata la sua presenza almeno fino a un paio
di ore prima.
Aveva
urlato chiamando il nome di Stefan, poi era passata alle minacce, poi
alle suppliche per poi tornare alle intimidazioni.
All'inizio
Damon lo aveva trovato divertente, ma alla seconda notte in bianco
aveva smesso di ridere.
Nessuno
avrebbe potuto dire che non fosse una vampira perseverante.
Raggiunse
la cella e la trovò rannicchiata in un angolo che lo
guardava da
sotto le ciglia, attraverso una ciocca di capelli scivolatale davanti
al viso.
Se
gli sguardi avessero potuto uccidere Stefan sarebbe morto
all'istante, trafitto da migliaia di coltelli.
“Oggi
il carrello della mensa passa prima?” gli domandò
facendo
schioccare la lingua contro il palato e aprendosi in un sorriso
beffardo, mentre nei suoi occhi brillava ancora la rabbia.
“Io
e Damon andiamo a casa di Klaus per trattare” la
informò con
disinvoltura.
Ma
Julya non poteva sapere cosa era accaduto negli ultimi giorni. Non
sapeva che Stefan aveva sottratto a Klaus le bare che si trascinava
dietro dovunque andasse e le aveva nascoste dove lui non poteva
trovarle.
O
almeno, così aveva pensato fino a quando Damon non era stato
costretto a nascondere quella sigillata per evitare che Klaus se le
riprendesse tutti.
A
ben pensarci, era solo grazie a lui se avevano ancora qualcosa da
scambiare.
“Ti
aggiornerò quando torno” le promise.
A
una parte di lui piangeva nel cuore nel doverla trattare
così, come
se fosse una prigioniera, ma lo faceva per lei: aveva già
dimostrato
di aver preso una pessima china e non sembrava intenzionata a
rimettersi in carreggiata troppo presto.
Fino
a quando non fosse rinsavita, sarebbe rimasta lì, anche se
avesse
supplicato e pregato fino alle lacrime.
Julya
aveva avuto due giorni per pentirsi di essere esplosa in quel modo.
Si
era ripromessa di tenersi tutto dentro per non dover più
vedere
quegli sguardi di compassione che la mandavano su tutte le furie, ma
l'altra sera era scoppiata definitivamente e ora si trovava in quella
schifosissima cella a bere sangue e mangiare toast che, peraltro,
neanche le piacevano.
Era
arrabbiata con se stessa e con Stefan e lo era stata anche la notte
scorsa, quando gli aveva mostrato la parte peggiore del suo dolore
solo per togliergli dalla faccia quell'espressione severa.
Era
tanto chiedere di essere semplicemente ignorata? Julya non credeva.
Dopotutto,
aveva tante cose a cui pensare perciò perché non
poteva lasciare
che lei sprofondasse lentamente nel proprio baratro?
Nessuno
pensava che fosse giusto lasciare che sentisse ciò
che voleva
e provavano tutti a guarirla, ma lei non lo voleva.
“Non
sprecarti. Il mio udito è piuttosto buono e da qui si sente
tutto
perfettamente” replicò con asprezza guardando con
desiderio il
sangue.
Aveva
sete e Stefan gliene dava abbastanza per farla stare bene, ma non per
renderla forte. Il che era una seccatura perché se avesse
bevuto
abbastanza sangue avrebbe potuto scappare, anche con la verbena che
lui si era premurato di cospargere sulla porta, per tenerla lontana.
Evidentemente
non aveva ancora capito quanto lei fosse testarda.
“Ho
qualche minuto e io e te dobbiamo parlare” la
informò sedendosi a
su una sedia che si era probabilmente portato dalla cucina.
“Mi
dispiace, ma la mia gola è piuttosto provata”
“Fino
a due ore fa sembrava in perfetta forma”
“Punti
di vista, immagino”
Stefan
le porse l'intera sacca di sangue e Julya ne fu sorpresa. Ovviamente
non si sarebbe mai sognata di protestare e cominciò a
suggere con
calma il delizioso nettare.
AB
positivo, il suo preferito.
Ma
sapeva che Stefan non si sarebbe levato dai piedi troppo in fretta e
perciò lo accontentò sbuffando.
“Va
bene, parliamo”
“Potremmo
iniziare dal tuo show delirante di due sere fa. Saltando il fatto che
mi sei saltata addosso...”
“Andiamo,
mi sarei fermata prima. Non ero così ubriaca”
“No,
lo immagino...”
“Bene,
allora è tutto chiarito. Sono contenta che ne abbiamo
parlato” lo
prese in giro inarcando le sopracciglia con disappunto quando Stefan
scosse la testa.
“Bel
tentativo, ma non funziona. Comunque, non è di questo che
voglio
parlare. Vorrei capire cosa ti passa per l'anticamera di quel
cervello che ho sempre considerato più che
brillante”
Julya
fu ben lungi dal sentirsi lusingata e aggrottò le
sopracciglia in
un'espressione perplessa.
“Allora
prova a leggermi nel pensiero” lo incitò
“Oh, non puoi” si
finse dispiaciuta portandosi una mano alla
bocca in un gesto di finta sorpresa.
Con
uno scatto repentino Stefan si chinò su di lei e la
inchiodò con i
propri occhi verdi. Julya si aspettava di sentire qualcosa -un
rimescolio nello stomaco o uno sfarfallio- ma non provò
nulla che
non fosse rabbia.
A
dire il vero non vedeva oltre il velo di rancore che le offuscava lo
sguardo.
“Sono
sicuro che la vera Julya sia ancora lì dentro”
“Non
c'è una vera e una falsa Julya. Io sono sempre io, ma le
persone
cambiano”
“Lo
dici solo perché stai male e non vedi oltre tutto questo, ma
passerà. Tu sei migliore di così”
“Non
mi conosci, non mi vedi da ottant'anni. Non sai chi sono”
ringhiò
scuotendo i capelli, frustrata.
“Tu
non sei così e questo mi basta. Vedi di tornare in te,
ragazza
interrotta, perché la tua rabbia non ti porterà
da nessuna parte:
non dovresti mai permettere alle ferite di farti diventare qualcuno
che non sei” le ricordò alzandosi.
Il
loro tempo era finito e lui non aveva ottenuto nulla: solo
più
frustrazione e sconforto, ma nessun passo avanti.
Non
sapeva cosa fare con lei perciò l'avrebbe lasciata ancora un
po' lì
ad aspettare che le tornasse un po' di buonsenso.
Julya
guardò Stefan richiudersi la porta alle spalle senza l'ombra
di un
espressione sul volto. Lo sentì salire le scale e solo
quando fu
certa che fosse lontano si permise di sospirare piano.
Poi
si accorse di avere ancora in mano la sacca di sangue: evidentemente
Stefan era stato troppo distratto dalla loro lite per ricordarsi che
gliene aveva data una intera.
Le
si illuminarono gli occhi e guardò la porta come se non la
vedesse,
come se riuscisse già a vedere oltre.
Bevve
dalla sacca fino all'ultima goccia e l'assaporò tutto con
calma,
proprio come avrebbe fatto se avesse avuto tra le mani una tazza di
buon caffè o di whisky.
Voleva
essere sicura che Stefan e Damon fossero andati via di casa e poi
avrebbe avuto tutto il tempo di uscire perché era abbastanza
certa
che la cena sarebbe andata per le lunghe.
Lanciò
di lato la sacca di sangue e si avvicinò con circospezione
alla
porta. Si sentiva rinata, certo, ma una bella bevuta non avrebbe reso
meno doloroso il contatto con la verbena.
Aveva
pensato che Stefan ne avesse messa appena un poco, giusto
perché ne
avesse sentore. Di certo non si era aspettata che l'avesse
letteralmente ricoperta.
Non
fu facile aprirla: a ogni spallata le sembrava che qualcuno le avesse
versato dell'acido sulla pelle e poi sulla carne viva.
Bruciava
come il fuoco, forse anche di più, e non era per niente
piacevole.
L'odore poi le dava alla testa e le provocava una sgradita sensazione
di debolezza e capogiri.
Alla
fine riuscì a scardinarla e a strisciare fuori.
Purtroppo,
aveva sottovalutato Stefan, ma lui non aveva fatto altrettanto con
lei. Nel momento esatto in cui cercò di risalire le scale,
trascinando un po' la gamba ammaccata in via di guarigione,
sentì
uno scatto e prima di poter fare qualcosa si trovò a terra
con un
paletto intriso di verbena conficcato nello stomaco e uno tra le
mani.
Stefan
doveva aver previsto che sarebbe riuscita a bloccarne uno e per
questo aveva sistemato una seconda trappola.
Quella
l'avrebbe pagata cara: gli avrebbe cosparso ogni cosa -letto, abiti,
diari, Elena- con così
tanta verbena che avrebbe
dovuto dare fuoco a tutto.
Ansimò
e le mancò il fiato per un secondo mentre strappava il
paletto dalla
propria carne. Ma la verbena bruciava -dannazione se bruciava!- e lei
si sentiva più debole che mai.
Un
ringhio le distolse i lineamenti, ma era troppo spossata per fare
qualcosa di concreto. Si appiattì
ancora di più contro il
pavimento e lasciò cadere la testa di lato, scivolando nel
sonno
senza accorgersene.
Continua
**
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Capitolo 10 *** Every breath, every hour has come to this, one step closer ***
Capitolo 10
Buonsalve.
No,
non ho scusanti per il ritardo, ma stavolta penso che in queste note
mi dilungherò un poco.
Scherzavo,
sarò breve perché, davvero, mi basta una parola.
Il
fatto è... be', grazie.
Grazie
a chi recensisce perché mi regala un bel momento, a chi ha
storia tra le preferite/seguite/ricordate e anche a chi ha letto e
pensato “Ehi, mica male questa storia” o
“Mi piace proprio”,
anche se non ha recensito.
In
questo momento, poter scrivere è una delle poche cose che mi
aiuta.
Vi giuro che risponderò a tutte le recensioni, il prima
possibile. Purtroppo ora non mi è possibile, ma ce la
farò.
Dedicato
a tutti voi.
Every
breath, every hour has come to this, one step closer
Il
vuoto di lunghi anni di distanza
può
un attimo colmare,
poiché
l'assenza del mago non rompe l'incantesimo
Emily
Dickinson
La
cena era andata esattamente come i fratelli Salvatore volevano, anche
se ora si trovavano con cinque Originali e senza la minima idea di
cosa ci fosse in quella che Bonnie e sua madre stavano cercando di
aprire.
Apparentemente
la situazione non era delle migliori, se non fosse stato per il fatto
che Klaus non sembrava in un ottima posizione, così
costretto dalle
braccia del fratello, e neanche gli altri apparivano esattamente di
ottimo umore.
Inutile
dire che Stefan non vedeva l'ora di andarsene e concludere quella
battaglia una volta per tutte.
A
casa ne aveva un'altra ad attenderlo e non era sicuro che il livello
di difficoltà fosse di molto inferiore.
Julya
sapeva rivelarsi un osso duro, quando voleva, e se si fosse messa in
testa di fargli passare le pene dell'inferno allora lo avrebbe fatto
e non sarebbe stato per niente divertente.
Non
capiva come lei non comprendesse che lo faceva
solo perché le
voleva bene e voleva vederla di nuovo sorridere come faceva prima che
si addentrassero di propria volontà in quella ricerca del
Graal.
Con
il senno di poi, non era stata una grande idea iniziare
quell'impresa, ma lui pensava che Julya avesse calcolato tutti
i
rischi.
Ora
però non era il momento di piangere sul latte versato e
doveva
mettersi al lavoro per farla tornare in sé.
“Siete
liberi di andare” li congedò Elijah con un cenno
del capo,
accennando un sorriso ironico “E' una questione di
famiglia”
Damon
e Stefan erano quasi alla porta quando questa si spalancò e
Stefan
venne travolto da Julya che lo trascinò a terra senza
curarsi del
posto, del momento e di qualunque altra cosa.
Il
suo vestito era sporco di sangue e gli occhi scuri spiccavano sulla
pelle più pallida che mai, chiaro segno che per liberarsi
aveva
dovuto superare tutte le trappole.
Per
quanto seccato, Stefan non poté non provare un briciolo di
ammirazione per la forza d'animo e la testardaggine che Julya aveva
avuto.
Molti
si sarebbero fermati alla porta tinteggiata con la verbena.
“Tu!
Lurido bastardo” inveì contro di lui e
probabilmente se avesse
avuto un pugnale glielo avrebbe ficcato nello stomaco, esattamente
come lui aveva fatto con lei.
“Mi
hai pugnalata e avvelenata con la verbena!”
La
spinse via e si rimise in piedi. Julya aveva gli occhi luccicanti di
furia, i capelli spettinati e le labbra aperte in una specie di
ringhio roco.
“Andiamo
a parlarne fuori”
“Parlarne?”
ringhiò lei “io non voglio parlarne. Voglio solo
farti provare le
stesse cose che ho provato io”
A
quel punto intervenne Damon.
O
meglio, si sarebbe sicuramente intromesso con qualche commento
sarcastico -e Stefan già lo vedeva balenare nei suoi occhi e
raggiungere le labbra incurvate nel solito sorriso beffardo- ma
qualcun altro intervenne.
“Julya”
Si
voltò e a quel punto Stefan assistette al rapido susseguirsi
di
diverse espressioni sul volto della vampira. Dapprima vi fu in
disappunto, come se pensasse che qualcuno la stesse prendendo in
giro, poi sorpresa, incredulità, disorientamento e infine i
suoi
occhi si accesero in un modo che Stefan non aveva mai visto.
Gli
era sembrato impossibile calmare Julya, ma ora, dopo la tensione
iniziale, sembrava essere improvvisamente in pace e pareva quasi che
la sua persona emanasse luce.
“Kol”
La
sua voce ebbe un inaspettato potere su di lei, probabilmente
perché
non si aspettava di sentirla.
Per
prima cosa provò frustrazione perché
pensò che quella fosse
un'allucinazione da verbena invece che la realtà.
Sarebbe
stato troppo bello se così non fosse stato e Julya non
credeva che
quel periodo potesse portarle qualcosa di buono.
Poi
però Kol sorrise nel suo solito modo, con quel irresistibile
mix di
irriverenza e fascino, e Julya capì che era la
realtà.
Tuttavia
le ci volle un attimo per connettere le idee e realizzare davvero
che Kol era lì, non più in una bara con
un pugnale nel petto.
Sbatté
le palpebre con una buffa espressione di incredulità e
sorpresa sul
volto fino a quando la consapevolezza non la colpì in pieno
petto
come un luminoso lampo di luce bianca, tanto intenso da far
sciogliere come neve al sole la rabbia e il rancore.
D'un
tratto le sembrò di essersi illuminata, come se avesse visto
il sole
dopo tanto tempo e invece era solo Kol.
Ma
il punto era esattamente quello: lui era Kol e non c'era nessun solo
quando si trattava di lui e di lei.
Pensava
di aver smesso di provare qualcosa per lui, ma ora che era
lì, di
fronte a lei con quel suo solito sguardo, sentì che non era
mai
stato vero.
Qualunque
cosa avesse provato per Stefan – e qualcosa c'era stato,
anche se
era stato fuggevole come un temporale estivo- non era nulla
paragonato a quello che provava in quel momento e solo
perché
lui la stava guardando.
Avrebbe
voluto toccarlo, ma temeva che se si fosse avvicinata e avesse
provato a stringerlo a sé si sarebbe accorta che era tutta
un'illusione del suo stupido subconscio.
Come
se avesse bisogno che lui le dicesse cosa
desiderasse e non lo
sapesse già da sola.
Titubò
nella speranza di trovare il coraggio di avvicinarsi.
Lui
la aspettava con un sorriso, guardandola con occhi così
intensi da
farle venire la lacrime agli occhi. E non seppe come o quando fosse
passata dal groppo alla gola al pianto, ma si trovò con le
guance
bagnate di lacrime in un battito di ciglia.
Non
ricordava neanche l'ultima volta che aveva pianto come una bambina.
Doveva
essere uno spettacolo orrendo, con i capelli fuori posto, gli occhi
cerchiati dal mascara che si scioglieva e l'abito sporco di sangue e
terra.
“Ti
sono mancato, tesoro?”
Lo
chiedeva anche?
Certo
che le era mancato: ogni minuto di ogni giorno, anche se aveva fatto
di tutto per dimenticarlo.
Aveva
seppellito se stessa e il proprio cuore tra i libri di storia,
filosofia e teologia per trovare il Graal e non aveva chiuso gli
occhi di fronte ai grandi drammi della sua vita perchè se
avesse
trovato il Graal sarebbe andato tutto bene.
Ma
non era vero, era solo una bugia che aveva inventato per riparare se
stessa dalla sofferenza che altrimenti l'avrebbe travolta come
un'onda.
Ma
aveva solo ottenuto di rimandare la resa dei conti e l'unico
risultato che aveva ottenuto era stato di rendere le cose
più
difficili e più dolorose.
“Il
gatto ti ha mangiato la lingua?” le domandò
ancora, ma stavolta
sembrava più incerto, titubante.
Fece
un passo avanti e posò il bicchiere di vino sul mobile
accanto
all'ingresso.
Julya
moriva dalla voglia di abbracciarlo, davvero.
Ogni
parte del suo corpo le diceva di stringerlo a sé e non
mollare la
presa fino a quando non fosse stata sicura di non cadere
più, ma
all'ultimo momento si bloccò.
Il
suo corpo diceva una cosa, il suo cuore un'altra e la sua testa ne
diceva un'altra ancora.
Tra
loro c'era la distanza di un passo: le sarebbe bastato un piccolo
movimento per essere tra le sue braccia.
Ma
non poteva, ecco il punto.
Non
poteva stringerlo a sé e rendere tutto reale
perché se se ne fosse
andato un'altra volta... oh, se lui fosse andato via ancora di lei
avrebbero raccolto solo cocci e non ci sarebbe stato nulla da fare
per rimetterla insieme.
Lei
era già a pezzi ed era fragile. Permettere a Kol
– ed era
lui il punto- di avvicinarsi di nuovo a lei in quel momento avrebbe
potuto essere la sua fine.
Julya
era diversa dalle altre persone.
La
gente normale
–
non i vampiri folli come lei- cercava il conforto degli amici, dei
parenti, di un compagno. Lei invece lo rifuggiva come la morte ed era
un eccellente paragone perché pur di non morire lei era
diventata
una vampira.
Il
punto era che le faceva paura – una paura insensata e
irrazionale-
l'idea di permettere a qualcuno di avvicinarsi a lei così
tanto
proprio quando era così vulnerabile, così
terribilmente esposta.
Non
poteva farlo.
Si
sottrasse a quella vicinanza asciugandosi gli occhi.
“Io...
devo andare” balbettò e senza attendere oltre
scomparve oltre la
porta.
Kol
fissò il punto oltre il quale era sparita apparentemente
imperturbabile, ma nei suoi occhi c'era ancora lo stesso sguardo con
cui l'aveva guardata l'ultima volta perché per lui non era
cambiato
nulla.
Julya
sarebbe sempre stata sua, anche se fossero passati
più di
cento anni e il mondo avesse iniziato a ruotare su un nuovo asse.
*
Non
si era accorta di aver camminato sino a casa di Caroline sino a
quando lei non era uscita e si era seduta accanto a lei, proprio
sotto il portico.
All'inizio
non parlarono, stringendosi nei propri vestiti e guardando l'una
davanti a sé, l'altra un punto sul selciato di fronte alla
casa.
Dentro
casa, l'orologio stava scoccando la mezzanotte, ma sembrava che
nessuna delle due avesse troppa fretta di rientrare e rimanere da
sola.
Entrambe,
quella sera, avrebbero preferito non dover restare da sole.
Fu
Caroline a spezzare il silenzio.
“Hai
un aspetto terribile”
“Anche
tu non sembri proprio in forma”
“Mio
padre sta morendo”
“Mio
fratello è morto”
“Che
schifo”
“Puoi
scommetterci”
Ci
volle un attimo perché i loro cervelli prendessero atto
dell'intera
conversazione e poi scoppiarono a ridere.
Probabilmente
la loro era solo una reazione allo stress degli ultimi giorni, una
sorta di valvola di sfogo, un po' come la rabbia per Julya e il
pianto per Caroline.
Risero
fino alle lacrime e alla fine Caroline non smise di piangere,
appoggiandosi alla spalla di Julya che la sostenne come poté.
Caroline
pianse e lei la invidiò per questo, perché la sua
era una reazione
normale di fronte a un lutto; la invidiò
perché sembrava
così facile per Caroline manifestare il proprio dolore
mentre lei,
che provava la stessa emozione, probabilmente con la stessa
intensità, non sapeva fare altro che tenersele dentro fino a
implodere e poi afflosciarsi su se stessa.
“Grazie”
le sussurrò mentre si asciugava con una mano le guance e gli
occhi
bagnati di lacrime “Questo non è un periodo facile
neanche per te”
“Per
questo non mi devi ringraziare. Non c'è nessuno che ti
capisca come
me”
Caroline
accennò a un mezzo sorriso per poi tornare seria e triste,
anche se
questo non offuscò minimamente la luce che sembrava emanare.
Chissà
se c'era stato un tempo in cui anche lei sembrava risplendere di luce
propria, un po' come una stella.
“E'
stata una pessima giornata”
“Puoi
dirlo forte. Sto cercando di decidere quale sia stato il momento
più
traumatico”
“Pensavo
che avresti detto il momento in cui hai scoperto le trappole piazzate
perché tu non fuggissi”
“Quello”
ammise con un sospiro, appoggiando le braccia sulle ginocchia
e
sistemandoci la testa sopra “non
è stato divertente. Ma credo che rivedere l'uomo che mi ha
creata e
che ho amato e amo ancora dopo cento anni... uhm, credo sia appena
schizzato in cima alla mia lista dei momenti più
destabilizzanti”
“Aspetta,
quando è successo? E lui chi è? Come è
successo?”
“Trenta
minuti fa, più o meno. E lui è Kol, il fratello
minore di Klaus. Il
resto non lo so”
Caroline
non indagò oltre.
Si
sistemò meglio affianco a quella che aveva imparato a
considerare
un'amica e rimasero in silenzio.
All'improvviso
non furono più due amiche sedute sotto un porticato, ma due
spiriti
affini, accomunati dalle azioni beffarde di un destino ingiusto.
Nessuna
delle due meritava ciò che le era capitato, di questo
Caroline era
fermamente convinta.
Eppure
non sembrava importante a nessuno.
La
ragazza le prese una mano tra le sue e la strinse appena.
Julya
sentì una fitta al petto e le fu grata di quello. Non
credeva di
aver trovato in lei un'amica così meravigliosa, ma era
più che
chiaro che aveva valutato male il tesoro che aveva scoperto.
Caroline
non era solo piena di luce, ma anche leale e generosa e Julya lo
sentiva, percepiva l'affetto e la sua presenza lì accanto a
lei,
anche nella difficoltà.
Fu
strano pensare di avere accanto qualcuno del genere: non era
abituata, ma era innegabilmente bello.
Era
sicura che tra loro ci fosse un legame speciale, anche se si
conoscevano da così poco.
Non
c'era bisogno di alcune etichetta per questo legame: era lì
e tanto
bastava.
“Lo
ami ancora?” le chiese la bionda senza voltarsi, giusto per
rompere
il silenzio. Se non aveva qualcosa a cui pensare avrebbe continuato a
vagare con la mente verso la stanza in cui suo madre stava morendo e
non lo voleva fare, non fino a quando non fosse tornata dentro ad
affrontare la schifosa realtà e avrebbe potuto dare
libertà al
proprio dolore.
“Non
lo so” confessò con un sospiro tremulo
“credevo di aver
dimenticato ogni cosa di lui e mi odiavo per questo, ma è
bastato
che mi guardasse... oh, ogni cosa è tornata alla mente. Ma
non
posso, ora, permettere a qualcuno di avvicinarsi a
me”
“Stai
lasciando che io ti sia vicina” le fece notare, ma la sua
voce era
dolce e carezzevole, senza alcuna nota di biasimo.
“E'
diverso per il semplice fatto che lui è Kol
e questo fa tutta
la differenza del mondo”
Poi
si accigliò e sembrò ricordarsi all'improvviso
qualcosa di
fastidioso perché sbuffò e poi si morse il labbro.
“Ma
qui non dobbiamo parlare di me. Io posso aspettare”
“Non
ne voglio parlare”
“No”
concesse Julya attirandola a sé in un abbraccio
“non dobbiamo per
forza parlare. Ma volevo che sapessi che sei la cosa più
vicina a
un'amica che abbia mai avuto e che se hai bisogno... be', seconda
stanza a destra a casa Salvatore”
“E
se decidessi di rintanarmi sotto un letto?”
“Ti
chiederei di tenermi un posto. O di venire sotto il mio: è
grande e
c'è un sacco di spazio anche per te”
Caroline
le sorrise e la strinse, attirandola un po' di più a
sé per
ringraziarla di essere lì per lei, nonostante tutto.
Si
separarono quando comparve sulla soglia Liz Forbes ed entrambe
capirono che era quasi giunto il momento.
“Va'”
la incitò Julya “ci vediamo domani,
Caroline”
La
ragazza annuì e caracollò oltre la porta di
ingresso, sostenendo
sulle spalle un peso davvero enorme per un corpo così
minuto, ma
Julya la capiva.
Rimase
sola sotto il portico fino a quando non trovò la forza di
dirigersi
verso casa. Voleva solo nascondersi sotto le coperte e dormire.
Continua
**
**
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Capitolo 11 *** And all I want is the taste that your lips allow ***
And all I want is the taste that your lips allow
And
all I want is the taste that your lips allow
Give
a little time to me
We’ll burn this out
We’ll play hide and
seek
To turn this around
And all I want is the taste
That
your lips allow
Give
me love- Ed Sheeredan
Julya
non credeva che sarebbe riuscita a riposare quella notte, invece si
era addormentata appena aveva posato la testa sul cuscino.
Forse
era stata la doccia calda ad allentare un po' di tensione e a
sgombrarle un poco la mente, abbastanza da permetterle di scivolare
in un sonno senza incubi.
Si
risvegliò solo quando un raggio di sole si intrufolò tra le tende
tirate malamente e le colpì il viso.
Mugugnò
indispettita e si infilò sotto le coperte, laddove neanche la luce
avrebbe potuto disturbarla.
Il
suo letto era talmente caldo e accogliente, così protettivo, che
per un momento dimenticò tutto e scivolò in una sorta di
dormiveglia rilassato.
Poi
però le ritornò tutto alla mente: il Graal, il fallimento, suo
fratello, Kol.
Provò
ancora a nascondersi sotto le coperte come quando era ancora umana e
cercava di proteggersi dai mostri cattivi, ma stavolta loro erano
dentro di lei e una coperta non li avrebbe fermati.
Con
un sospiro tremulo ripensò a lui e allo sguardo che gli aveva visto
negli occhi.
Chissà
cosa aveva pensato quando era schizzata fuori di casa come se avesse
la morte alle calcagna.
Probabilmente
credeva che lei non lo amasse più, che non le importasse nulla di
lui ora.
Ma
non era così e forse un giorno sarebbe riuscita a farglielo capire
di nuovo.
Prima
doveva prendersi cura di se stessa.
Sentì
suonare il campanello, ma lo ignorò. Dopotutto, c'erano Stefan e
Damon da qualche parte, svegli e pimpanti, che potevano benissimo
andare ad aprire.
Ma
il campanello suonò ancora dopo pochi minuti e Julya si mise a
sedere analizzando bene la casa intorno a lei.
Era
silenziosa, pacifica. Questo poteva voler dire solo una cosa: Stefan
e Damon non erano in casa.
Peccato,
non vedeva l'ora di far scontare a Stefan il suo pernottamento nella
cella.
Per
un attimo vagheggiò sui mille modi in cui avrebbe potuto fargliela
pagare. Stava giusto immaginando una piccola e innocua tortura che
aveva imparato in Giappone tanti anni prima quando il campanello
suonò ancora e allora si decise a scendere.
Scivolò
fuori dal letto con suo enorme rammarico, ripromettendosi di tornarci
al più presto e di godersi la mattinata tra le coperte, magari con
un bel libro.
Il
suo disappunto fu enorme quando vide che alla porta non c'era
nessuno.
Stava
quasi per richiudersela alle spalle con un colpo secco quando vide
che, posato sullo zerbino, c'era una busta con il suo nome scritto in
splendida grafia.
Mentre
chiudeva la porta la soppesò tenendola tra due dita, guardando la
fattura elegante e sentendo ancora un vago sentore di inchiostro
fresco e carta nuova, unito a un appena accennato profumo di
ceralacca.
Unì
gli indizi e non fu difficile capire chi potesse mandare un biglietto
così raffinato, ma solo quando ruppe il sigillo – stando attenta
perché era davvero un bel sigillo, come non se ne vedevano più-
ebbe la conferma delle proprie supposizioni.
Vi
preghiamo di unirvi alla famiglia Mikaelson per balli e
festeggiamenti stasera alle 7 p.m.
Scoppiò
a ridere senza riuscire a trattenersi e si disse che quello era
esattamente il genere di cosa che si aspettava facessero.
Lo
girò e si trovò a fissare una nota scritta a mano da una
calligrafia che le fece improvvisamente venire le farfalle allo
stomaco.
Sarò
davvero felice solo quando ti avrò stretta a me per il primo ballo-
Kol.
Sorrise,
anche a dispetto del fatto che avrebbe dovuto rimanere impassibile.
Accarezzò le parole e immaginò che dovesse aver fatto un gesto
simile anche lui.
Fu
un po' come se potesse avere un po' del contatto che si era negata la
sera prima e che non si sarebbe concessa neanche quella sera.
Non
sarebbe andata al ballo.
La
sua forza di volontà poteva essere lodata da tutti e considerata
invincibile, ma nessuno sapeva il fascino che avessero su di lei le
tentazioni e Kol era decisamente la più attraente.
Immaginò
il suo sorriso sfacciato, i suoi occhi ardenti e il suo modo di fare
affascinante e sexy. Il desiderio e – inevitabile e
innegabile- l'amore si accesero in lei, ma cercò di negarlo a se
stessa con una determinazione quasi ammirevole.
Doveva
uscire e occupare la giornata o sarebbe impazzita.
A
velocità vampiresca si versò una tazza di caffè – il migliore
che casa Salvatore potesse fornire- e salì le scale altrettanto in
fretta.
L'intenzione
era quella di farsi una bella doccia tonificante, vestirsi e andare
fuori. Il Grill, decise, quando vide il messaggio di Caroline con cui
la avvisava che lei ed Elena erano lì e la aspettavano.
Le
trovò entrambe sedute al tavolo intente a parlottare fitto fitto e a
guardare chissà cosa.
Si
lasciò scivolare tra le due.
“Che
cosa stiamo fissando?” domandò con lo stesso tono da cospiratrice
con cui parlavano Elena e Caroline.
La
prima sobbalzò, mentre l'altra le dedicò appena un'occhiata e un
cenno del capo.
“Rebekah
ha appena invitato Matt al ballo di stasera. Sarà a casa Mikaelson”
“Lo
so”
Due
paia di occhi schizzarono verso di lei e la fissarono, una con
sorpresa, l'altra con curiosità.
“Come
fai a saperlo?”le domandò Elena.
Julya
si prese tutto il tempo per ordinare da bere prima di decidere se
fosse il caso di rivelare anche a lei la verità.
Dopotutto,
Elena aveva già dimostrato di essere dalla sua parte e lei non
vedeva l'ora di sfogarsi e trovare sollievo da ciò che la
angustiava.
“Ho
ricevuto anche io l'invito” ammise sorseggiando il suo bicchiere di
spremuta fresca.
“Non
ti offendere, ma perché? Non sapevo che tu avessi qualche
collegamento con gli Originali”
“Più
di quanti tu non immagini” ridacchiò Caroline voltandosi verso
Julya con un'espressione e un sorriso luminosissimi, ma decisamente
poco rassicuranti.
Elena
e Caroline la guardarono e Julya si chiese se non dovesse iniziare ad
avere paura. Non era un'esperta, ma da quegli sguardi capiva che
stava arrivando uno di quei momenti di confidenze tra ragazze che
ricordava appena di aver mai vissuto.
Forse
nella sua vita da umana, ma era un ricordo vago e sfuocato,
impossibile da collocare.
Decise
di fingere di non capire, anche se doveva immaginare che non avrebbe
funzionato. Elena e Caroline volevano sapere e non si sarebbero
accontentate fino a quando non avessero raggiunto il loro scopo.
“Che
c'è?”
“Ieri
sera te la sei cavata con due parole, ma oggi è un altro giorno e
voglio i dettagli” intimò Caroline e Julya fu costretta a posare
il bicchiere con l'aria del condannato a morte.
“E
non c'è nessuna possibilità di evitare questa conversazione, vero?”
“Neanche
mezza” confermò la bionda.
“E
va bene” si arrese Julya.
“Tu,
Elena, non lo sai, ma è stato Kol a crearmi. Avevo diciotto anni e
stavo morendo di febbre gialla in Egitto, ma saltiamo la parte
strappalacrime e veniamo al punto. Come da copione di ogni pessima
commedia romantica, mi sono innamorata di lui e quando Klaus gli ha
conficcato il pugnale nel cuore...” lasciò un attimo la frase in
sospeso e il suo sguardo si fermò su un punto a caso del tavolo “non
è stato per niente facile. Ho lasciato che ogni ricordo che avevo di
lui se ne andasse perché, forse, così sarei stata bene. E poi ho
iniziato a cercare il Graal, forse nella speranza che avere un
obiettivo così grande potesse non farmi pensare. E ha funzionato,
per cento anni”
“Stai
dicendo che hai cercato il Graal solo per questo?”
“No.
Mi sono espressa male” si corresse “ho iniziato la mia ricerca
quando mio fratello è morto, sapendo che era l'unica cosa che
potesse ridarmelo. Ma forse se non fossi stata sola, avrei trovato il
coraggio di lasciare andare mio fratello nel 1911. In realtà, è
tutto molto complicato e melodrammatico” notò con un sopracciglio
sollevato e un'espressione di vago disappunto.
“Benvenuta
nel club. Parli con la presidentesse delle situazioni complicate”
scherzò Elena e Julya dovette ammettere che, tra tutte e tre,
nessuna aveva alle spalle un periodo facile né davanti a loro se ne
prospettava uno.
Che
ne era stato del periodo in cui era felice e contenta e vagava per
l'Europa senza un pensiero al mondo che non fosse arte, bellezza e
cose felici e facili? Aveva la sensazione che non sarebbe tornato
tanto presto.
“Vorresti
rivedere Kol?”
“Non
vedo l'ora” ammise “ma non lo farò. E' un momento delicato per
me e sto iniziando adesso a sentirmi diversa. Non so se va
meglio o meno, ma qualcosa sta cambiando e voglio capire in che modo
prima di avvicinarmi di nuovo a una persona che ha sempre avuto il
potere di sconvolgermi, in bene o male che sia” confessò con
sguardo risoluto.
“Questo
potrebbe essere un problema” constatò Caroline, ma prima che Julya
potesse protestate intervenne Elena.
“Stasera
c'è il ballo”
A
quel punto la ragazza capì e scosse il capo con energia “Non ci
pensate neanche! Io non verrò”
“Se
saremo insieme, saremo più forti. Abbiamo bisogno di essere unite”
la incitò Caroline “Ci sarà Matt e noi possiamo difenderci, ma
lui no”
“Andiamo,
Julya” la spronò ancora Elena dando man forte all'amica “dimmi
che non vedi l'ora di indossare un bel abito e fare la tua comparsa
abbagliando i presenti, per poi ballare con Kol”
Julya
le dedicò l'occhiata più truce del suo repertorio, ma non riuscì a
impedirsi di immaginare la scena che, con tanta maestria, Elena le
aveva suggerito.
Le
parve quasi di riuscire a vedere i capelli che danzavano a ogni
passo, le dita che sfioravano bicchieri di pregiato champagne e
l'abito che ondeggiava durante le danze; sentiva le dita di Kol sulla
schiena nuda e lo vedeva sorridere come a dirle che sapeva che non
avrebbe resistito e lui aveva ragione, dannazione!, lei non poteva.
“Dannazione”
imprecò puntando un dito contro Elena e mulinando la chioma castana
“io ti odio, lo sai?”
Lei
sorrise “Stasera alle sette”
*
Kol
si era appena lasciato alle spalle Damon Salvatore e il sindaco
Lockwood.
La
festa si sarebbe rivelata un vero successo e, se tutto fosse andato
bene, avrebbe anche rimediato il sangue di qualche bella ragazza. Ne
aveva già adocchiate alcune con un profumo delizioso.
Si
chiedeva se Julya avrebbe accettato il suo invito.
La
conosceva e avrebbe giurato che non sarebbe venuta, non dopo aver
visto la sua reazione la sera prima.
Ciò
nonostante, era sicuro che lei lo avrebbe sorpreso: lo faceva sempre.
Era
la parte più bella di lei, la capacità di stupirlo proprio quando
pensava di sapere come avrebbe agito.
Ma
lei era così, imprevedibile perché faceva ciò che le diceva il
cuore, affascinante e con uno sguardo così intenso da fargli venire
i brividi.
Non
si aspettava la reazione della sera prima, ma sapeva che lei era
felice di vederlo, anche se era fuggita via.
Aveva
visto nei suoi occhi la felicità attraverso il velo di lacrime, non
poteva sbagliarsi: forse non sapeva prevedere quale decisione avrebbe
preso, ma conosceva le sue espressioni.
Vagò
un po' tra gli ospiti, stringendo e baciando mani, sfoderando il suo
sorriso affascinante.
Una
ragazza che aveva salutato poco prima gli sorrise dall'altra parte
della stanza e Kol ricambiò senza farsi pregare, ammiccando appena.
“Vedo
che certe abitudini sono dure a morire” lo prese in giro
bonariamente Rebekah comparendo come per magia al suo fianco.
Era
bellissima nel suo abito verde ed era sicuro che più di un ragazzo
in sala avrebbe fatto carte false per essere il suo cavaliere, quella
sera.
“Che
vuoi che ti dica. Sono in astinenza da più di cento anni”
Rebekah
sorrise appena e sorseggiò il suo fluté di champagne prima di
parlare “A proposito, chi era la ragazza di ieri sera?”
“Julya”
“Una
delle vampire che hai creato? Un altro passatempo?” gli domandò
con una punta di divertimento, come se la facesse ridere la
prospettiva di un essere umano trasformato per essere un giocattolo.
Kol
stava per rispondere quando il suo sguardo cadde per caso
sull'ingresso e ammutolì.
C'era
solo la musica – una canzone lenta e sensuale, perfetta per
l'ingresso di una silfide come Julya- e lei.
Lei,
bellissima con quel vestito rosa, con quei boccoli bruni
negligentemente appoggiati di lato, con quel sorriso tentatore, con i
suoi meravigliosi occhi scuri contornati da ciglia lunghe e
altrettanto scure.
Quella
sera non c'era niente di tenue in lei, forse solo il colore del
vestito.
Perse
per un attimo il suo solito sorriso e la sua mente fu riempita solo
dall'immagine di lei, dalla sua bellezza bruna e dal profumo che lo
raggiungeva anche da lì.
Era
sempre lo stesso: rose e mirra, vaniglia nera e un vago alone del
profumo delle orchidee. Deliziosa.
Lasciò
Rebekah di punto in bianco e attraversò la folla senza badare ad
altro che a Julya, seguendo con lo sguardo i suoi movimenti per non
perderla di vista.
La
raggiunse proprio mentre si sporgeva appena oltre il piano bar per
chiedere un martini.
“Sempre
anticonformista, a quanto pare”
Julya
sobbalzò e lo guardò con una strana espressione, un mix di timore e
desiderio, come se stesse facendo violenza su se stessa per non fare
qualcosa che bramava ardentemente.
Le
prese una mano e la baciò, indugiando con le labbra un po' più del
necessario e sentendola fremere per quel contatto.
“Le
vecchie abitudini sono dure a morire” ammise lasciandosi andare a
un mezzo sorriso.
Julya
si chiese se avrebbe tirato in ballo quello che era successo la sera
prima.
Non
era sicura di volerne parlare. Visto che Caroline ed Elena l'avevano
praticamente costretta a presentarsi al ballo, sperava almeno di
potersi divertire senza troppi pensieri.
Ci
fu un momento di silenzio in cui Kol si avvicinò appena. Tra loro
c'era una distanza di poco inferiore a quella che ci sarebbe stata
tra due amici, ma Julya sentì il suo spazio vitale violato.
Le
parve che la presenza di Kol la sovrastasse e, con disappunto, si
accorse che andava bene così e che sarebbe rimasta tutta la sera in
quella sorta di mondo privato.
“Sei
bellissima stasera”
“Anche
tu non sei male”
Kol
ammiccò “Faccio quel che posso con i doni che madre natura mi ha
dato, sweetie”
Julya
lo guardò un momento, poi rise.
Non
la risata stiracchiata che aveva sfoderato in quei giorno o il
pallido sorriso che aveva rifilato a chiunque, ma la prima vera
risata da settimane.
“Sono
passati tanti anni e ancora mi chiami così?” lo prese in giro e il
ghiaccio che aveva sentito tra loro fino a poco prima scomparve.
Lui
la chiamava sempre così, con una dolcezza e una tenerezza capaci di
farla sciogliere.
“Come
dovrei chiamarti?”
“In
nessun altro modo, credo. Mi piace” ammise sinceramente
sorseggiando l'ultimo goccio di martini e posando il bicchiere.
Si
avvicinò ancora di un passo e l'atmosfera intorno a loro si fece
elettrica. Erano ancora nel loro mondo perfetto, uno in cui non c'era
dolore e le cose era facili e belle, ma un fuoco sottile si intromise
e serpeggiò lungo la schiena di Julya.
La
sua vicinanza aveva lo stesso effetto di una scarica di adrenalina e
la capacità di farla tendere all'inverosimile.
Ma
sapeva anche per esperienza che a una sua carezza si sarebbe sciolta
come neve al sole e se l'avesse baciata in quel momento non avrebbe
saputo impedirglielo.
“Non
avrei smesso di farlo comunque” sussurrò spingendosi un po' in
avanti con il viso “riservami il primo ballo”
Le
accarezzò appena la guancia e il collo. Un tintinnio giunse ovattato
alle sue orecchie, ma era così presa da Kol che non capì subito
cosa fosse.
“A
tra poco” le sussurrò ancora e poi raggiunse i suoi fratelli.
Julya
non riuscì ad ascoltare le parole di Elijah. Sentiva che diceva
qualcosa, ma il suo discorso attraverso la sua mente come un'onda e
se ne andò senza lasciare traccia, lasciandola a chiedersi cosa
diavolo avesse detto.
Ma
era ancora nel suo mondo felice e non le importava di non riuscire a
capire cosa la gente dicesse.
Per
una sera poteva permettersi di essere felice, contenta e
possibilmente poco sobria.
La
comparsa di Stefan intaccò la bolla perfetta che si era creata con
l'arrivo di Kol e la riportò alla realtà.
“Il
fatto che tu sia qui ha per caso qualcosa a che fare con la cosa,
qualunque essa sia, che ti lega a un Originale?” le domandò con un
mezzo sorriso e sorseggiando champagne.
“Potrebbe.
E il fatto che tu sia qui ha per caso a che fare con l'incontro di
Elena ed Esther?”
“Mi
spieghi come fai a sapere sempre tutto?”
“Chiamalo
intuito o udito vampiresco” lo prese in giro con una sana dose di
sarcasmo rubandogli il bicchiere di champagne dalle dita e
sorseggiandolo lentamente.
“Giusto.
Quindi cosa pensi di fare? Tornare dal tuo amante originale?”
“Sinceramente,
per ora i miei piani non si spingono oltre il presente. Detto questo,
ti suggerisco di non preoccuparti per me e pensare a Elena. E con
questo, vado. Ho promesso il primo ballo al mio amante originale”
lo scimmiottò lasciandogli il bicchiere di champagne oramai
vuoto ed entrando nella splendida sala da ballo.
Trovò
Kol e lui l'accolse con un sorriso meraviglioso, come se non avessero
smesso un momento di stare insieme.
Per
un attimo si chiese se per lui fosse cambiato qualcosa, se l'amasse
ancora.
Presero
posizione insieme agli altri ballerini e Kol le strinse le mani. Con
il senno di poi, forse avrebbe fatto meglio a indossare un paio di
guanti perché sentire il contatto con la pelle calda di Kol la
faceva rabbrividire di aspettativa, cosa che non avrebbe
assolutamente dovuto fare.
Il
valzer era stato il ballo preferito di Julya da quando Kol l'aveva
presentata alla corte dello zar Nicola. All'epoca non credeva di
essere davvero tra tutti quei nobili, non lei, la figlia di un povero
contadino.
Con
il tempo aveva imparato a non sottovalutare le vie del destino perché
a volte potevano portare a risultati inaspettati.
La
musica scendeva sulle loro teste e contribuiva a creare una sorta di
universo parallelo in cui contavano solo la danza e se stessi, con i
propri sentimenti e la volontà del proprio cuore.
Con
una piroetta, Kol la strinse a sé e Julya prese la sua mano.
Alzò
lo sguardo su di lui e lo guardò dritto negli occhi senza alcune
esitazione. Non finse una timidezza che non provava, ma cercò
deliberatamente il suo sguardo e gli sorrise.
“Sei
diventata una ballerina ancora più brava” le confessò in un
sussurro.
“Ho
avuto tanto tempo per allenarmi”
“Sai,
ieri non mi hai risposto” le ricordò mentre continuavano a
volteggiare per la sala. Julya lo guardò con un'espressione confusa
che Kol trovò adorabile.
“Ti
sono mancato, Julya?”
Era
la domanda che temeva di dover affrontare e che non avrebbe voluto
sentirsi fare.
Certo
che le era mancato, ma non era pronta a esprimere ad alta voce come
si era sentita quando lui l'aveva lasciata sola.
Per
più di un secolo il dolore per la perdita di Kol era stato parte di
lei, un sorta di modo per tenerlo legato al proprio cuore e per non
dimenticarsi del tutto di lui.
E
anche se ora lui era lì e la stringeva, non era del tutto pronta a
un cambiamento che le avrebbe portato via una parte di sé che era
stata tale per tanti anni.
La
sofferenza per l'assenza di Kol era legata a doppio filo a quella per
la morte di suo fratello: lasciare andare l'una voleva dire perdere
anche l'altro.
E
non era preparata a lasciarsi alle spalle l'unica cosa che le
dimostrava che suo fratello era esistito.
Non
voleva che il tempo le facesse dimenticare anche Aleskeij, l'ultimo
fragile legame con la propria famiglia perché i secoli stavano
stavano portando via dalla sua mente i volti di sua madre, di suo
padre e di Vladimir.
Forse
era un modo contorto di vedere la realtà, più complicato di un cubo
di Rubik, ma era così che la vedeva e avrebbe avuto bisogno di tempo
per lasciare andare tutto.
“Ti
prego, non mi va di parlarne”
“Perché?”
Non
seppe cosa rispondere: dirgli la verità avrebbe voluto rendere nulla
la sua richiesta e non dirgliela avrebbe voluto ferirlo.
Con
sorpresa si rese conto che nulla era cambiato da tanti decenni prima,
quando avrebbe fatto qualunque cosa per non fargli del male.
“Non
farmi quella domanda perché non posso risponderti. E non farlo vuol
dire ferirti”
“E
tu non lo hai mai voluto fare”
“Lo
sai che è così”
E
Kol sapeva che era vero. Anche a un secolo di distanza, Julya restava
protettiva nei suoi confronti. Quando lei gli aveva confessato di non
volerlo ferire, mai e in nessun modo, a qualunque costo, aveva riso.
Non
era abituato a essere trattato con tanta dolcezza e dedizione, ma
Julya aveva la capacità -innata e insolita per un vampiro, creature
capricciose per definizione- di provare una lealtà e una fedeltà
fuori dal comune nei suo confronti.
Si
era persino chiesto se non fosse asservita, ma il suo libero arbitrio
era palese in ogni azione e ogni volta che lo contraddiceva, lo
prendeva in giro e lo sfidava: tutte cose che gli piacevano
moltissimo.
Niente
a che vedere però con dolcezza con cui gli carezzava i capelli prima
di andare a letto o con la tenerezza dei suoi sorrisi.
Era
ciò di cui aveva sempre avuto bisogno: una donna sincera,
appassionata, che amasse lui e nessun altro e gli donasse tutta
se stessa, senza riserve.
A
quel punto la danza prevedeva un cambio di cavaliere e così Kol non
poté continuare a fare domande e dovette lasciarla scivolare tra le
braccia di un altro uomo.
Tuttavia
Julya sapeva che quella conversazione era solo all'inizio e lui non
si sarebbe arreso fino a quando non avesse avuto una risposta.
I'm
reaching out
to let you know that you're not alone
and
you can't tell, I'm scared as hell
'cause I can't get you on
the telephone
so just close your eyes
well honey,
here comes a lullaby
your very own lullaby
Lullaby-
Nickelback
Aveva
visto Matt e Rebekah uscire e, memore delle parole di Caroline su
quanto lui fosse indifeso contro un vampiro, si accomiatò e scivolò
fuori dalla sala con discrezione.
Fece
attenzione a non farsi notare mentre seguiva i due ragazzi e alla
fine riuscì ad attraversare la casa e raggiungere lo spiazzo dove
erano state parcheggiate le auto.
Maledisse
i tacchi alti che la rallentavano sul pietrisco e sull'erba, oltre al
fastidioso scricchiolio che temeva raggiungesse le orecchie di
Rebekah.
Forse
volevano solo stare un po' soli, ma il suo sesto senso aveva iniziato
a suonare come una sirena quando li aveva visti uscire e lei aveva
imparato a fidarsi nel corso degli anni.
Si
sistemò dietro un albero, abbastanza vicina per sentire cosa
stessero dicendo ma non da essere vista dai deboli occhi umani di
Matt.
Apparentemente
non sembrava che stesse per accadere nulla e Rebekah e Matt
sembravano due ragazzi come tanti, intenti a concedersi un minuto di
pace nel trambusto della festa.
Ma
Julya era troppo acuta per lasciarsi ingannare dalla apparenze e
aveva capito che tipo di persona fosse Rebekah perciò quando sentì
che la sua voce cambiava nel dire a Matt di rientrare e vide Kol alle
spalle del ragazza, capì.
Dopotutto,
conosceva ogni espressione di Kol e lui aveva l'espressione da
“vampiro affamato che ha appena perso la cena”.
Furente
di rabbia, marciò a passi frettolosi verso l'Originale e gli si
piantò di fronte, le mani sui fianchi e l'espressione battagliera.
“Cosa
pensavi di fare?”
“Vuoi
davvero saperlo?”
“Come
ti è venuto in mente di pensare di uccidere Matt?” lo rimproverò
alzando la voce. Era troppo arrabbiata per ricordare la conversazione
di prima e provare imbarazzo e a Kol sembrò di essere tornato a
quando stavano insieme.
“Me
lo hai chiesto Rebekah. E poi siamo vampiri, facciamo
esattamente queste cose”
“Oh,
allora questo si che è un validissimo motivo” lo prese in giro,
salvo poi rincarare la dose “A volte sei un proprio un bambino
capriccioso”
“Allora
insegnami a non esserlo” la provocò avvicinandosi e lasciando
scivolare provocatoriamente la mani sui fianchi di lei, accarezzando
appena la schiena e attirandola un poco a sé.
Sfoderò
anche il suo sorriso più affascinante.
“Smettila
di fare la faccia da Kol” lo rimproverò, tutt'altro che
rabbonita, ma distratta dalle meravigliose sensazioni che le donavano
le sue mani su di lei.
“Fare
cosa?” scoppiò a ridere e Julya si indispettì al punto tale da
dimenarsi e marciare verso la casa, intenzionata a tornare dentro e
godersi la festa senza dar peso all'atteggiamento da pallone gonfiato
di Kol.
“Ferma,
sweetie. Tu potrai anche tergiversare quanto vuoi, ma prima ti ho
fatto una domanda e voglio una risposta”
“Ti
ho già detto che non l'avrai”
“Allora
resteremo qui fino a quando non ti deciderai a cambiare idea”
E
per dare maggior valore alle proprie parola la bloccò contro un
lucido fuoristrada, appoggiando le braccia intorno a lei e
schiacciandola con il peso del proprio corpo.
“Perché
devi essere sempre così maledettamente insistente?”
“Perché
è importante per me”
Si
guardarono per quella che sembrava un'eternità e alla fine Julya
sospirò pesantemente.
“Certo
che mi sei mancato, Kol”
“E
allora perché ieri sei scappata via come se avessi visto la morte?”
I
suoi occhi bruciavano come fuochi e Julya si sentì sciogliere sotto
quello sguardo così intenso, come se il suo cuore avesse ripreso a
battere.
“Il
fatto è che il dolore per la tua scomparsa è, nella mia mente
contorta, legato a quello per la perdita della mia famiglia. Ho paura
che lasciare andare uno voglia dire perdere anche l'altro. E il
dolore è tutto ciò che mi resta di loro” ammise con il cuore a
pezzi e gli occhi lucidi di rabbia e lacrime represse.
Odiava
piangere: si sentiva debole e vulnerabile, con quel fastidioso
desiderio di mettere a tacere tutto e la vocina che le suggeriva che
poteva farlo.
“Ma
la tua famiglia è morta, Julya. Da tanti decenni ed è il
momento di lasciarla andare”
Fu
allora che qualcosa si incrinò.
Dentro
di sé, Julya continuava a provare rabbia, ma non si era accorta che
era un meccanismo di difesa per non sentire altro.
L'aveva
fomentata, canalizzata e indirizzata verso qualcosa o qualcuno,
pensando che fosse il suo modo di accettare la morte della persone
che aveva amato.
Si
era sbagliata.
Fino
ad allora aveva sempre negato a se stessa la verità, trincerandosi
dietro muri di silenzio, rancore e rabbia, non permettendosi di
pensare mai ad Aleskeij, a Vladimir e ai suoi genitori come morti.
Persi,
irrigiditi, andati.
“La
mia famiglia è morta” farfugliò disorientata, guardando Kol come
se si aspettasse che le spiegasse qualcosa che non capiva.
“Già.
Non ci sono più, ma tu devi passare oltre e lasciarli andare”
Il
dolore fu come un paletto conficcato nel cuore, anzi, probabilmente
ancora più intenso e disarmante.
La
colpì come una frustata sulla carne viva e boccheggiò, anche se non
aveva davvero bisogno di aria.
Tuttavia
si sentì soffocare e la consapevolezza le piombò tra capo e collo
in quel momento: era così grande e pesante che la fece barcollare e
sarebbe scivolata a terra se Kol non l'avesse afferrata.
Aprì
le braccia per accoglierla e Julya vi si lasciò scivolare.
Gli
afferrò la giacca e lo strinse a sé, chiudendo gli occhi per un
momento.
Kol
aveva ragione: era il momento di lasciarli andare e di imparare a
tenerli con sé in modo più sano, come era giusto che fosse.
Capì
che, segretamente, aveva provato odio verso se stessa e si era
imposta di non andare oltre, come se farlo fosse un insulto alla loro
memoria. Ma si era sbagliata e il passato doveva solo essere lasciato
andare.
“YA
lyublyu tebya, vi voglio bene” mormorò contro la camicia di
Kol, come se i loro fantasmi fossero davvero lì e potessero
sentirla. Ci sperava, in un certo senso, e volle credere che fosse
così “Ma ora dovete andare”
Kol
la strinse ancora un po' e rimasero abbracciati per un tempo che
parve loro troppo breve, fino a quando Julya non si districò
dolcemente e raddrizzò le spalle in un gesto di sfida.
“Ora
dobbiamo rientrare”
“Non
vuoi andare a casa?” le domandò
“No.
Se devo riprendere in mano le redini della mia vita, tanto vale che
inizi da stasera. Mi sono pianta addosso per troppo tempo” ammise
con un gesto spavaldo, scuotendo i capelli e alzando il mento.
“Un
ultima cosa, allora” la afferrò per una mano e la strinse a sé di
nuovo, costringendola a guardalo e posando una mano sul collo.
Julya
pensava che l'avrebbe baciata, ma lui si limitò a guardarla con
occhi intensi e il solito sorriso affascinante, sfiorando appena la
sua fronte con le labbra “Ora puoi stringermi a te senza paure”
gongolò.
Julya
rise e gli sferrò un amichevole pugno sulla spalla prima di
incamminarsi verso la casa con Kol alle calcagna.
Non
sapeva cosa fossero in quel momento, ma di una cosa era assolutamente
certa: potevano sembrare amici, ma lei e Kol sarebbero sempre stati
un passo oltre.
Non
erano mai stati semplici amici e quella terra di nessuno in cui si
trovavano non piaceva a nessuno dei due.
*
“E'
stato un ballo... costruttivo” ammise Elena indossando la stola
dorata.
“Te
lo concedo, ma questo non toglie che mi abbiate costretto”
“Non
sembravi così scontenta mentre ballavi con Kol” la prese in giro
con un sorriso sornione.
“Oh,
sta' zitta!” la rimbrottò Julya scoccandole un'occhiataccia.
A
Elena parve di vederla arrossire appena, ma forse era solo
un'allucinazione. In ogni caso, non ebbe modo di verificare – e di
proseguire con la sua tortura- perché vide il volto di Julya
voltarsi verso l'esterno a velocità vampiresca e la sua espressione
cambiò.
Da
distesa divenne perplessa e infine preoccupata.
La
vide marciare fuori, i tacchi alti contro il pavimento di marmo e i
capelli che ondeggiavano sulla spalla destra.
La
seguì di corsa, sollevando il vestito per non inciampare.
Capì
che c'era un problema, e uno serio, quando vide che si muovevano
nella stessa direzione i fratelli Mikaelson e Stefan.
Julya
arrivò per prima e sussultò quando vide Kol steso a terra privo di
sensi e Damon che lo sovrastava.
Il
primo istinto fu ringhiare e sbatterlo lontano da Kol, magari
conficcandogli un pugnale nello stomaco come avvertimento.
Il
secondo fu sopprimere il primo e ragionare.
Sopraggiunse
Stefan insieme a Elena e a tutti i fratelli di Kol. Quello poteva
rivelarsi un vero problema, se non che Damon si allontanò lasciando
l'Originale steso a terra.
Guardando
le facce degli altri, Julya capì di essere l'unica vagamente
preoccupata. D'altronde, loro non potevano morire così facilmente
perciò era stata una reazione sciocca, la sua, dettata puramente da
un residuo di riflesso umano.
Stefan
borbottò qualcosa alle sue spalle, ma lei non vi badò.
Si
piegò su Kol e gli carezzò la guancia con dolcezza, abbozzando un
mezzo sorriso, per poi affondare la mano tra i suoi capelli.
“Dovremmo
portarlo dentro”
Dovevano
averci già pensato perché in un attimo Finn si caricò il fratello
minore in spalle e un minuto dopo furono in una piccola sala dove la
musica giungeva ovattata.
“Voi
andate pure” li invitò Julya. La festa era ancora in pieno
svolgimento e l'assenza dei padroni di casa si sarebbe notata “Resto
io qui”
Se
ne andarono tutti tranne Rebekah.
“Ha
tentato di fare del male a Matt anche dopo che gli ho detto di non
farlo. Dovrei arrabbiarmi”
“Non
preoccuparti, Rebekah. Quando si sveglierà dovrà fare i conti con
me e, senza offesa, credo di essere di gran lunga peggiore di
qualunque sorella arrabbiata”
“Lo
lascio nelle tue mani, allora”
“Ottima
scelta”
Allora
rimasero soli, lei e Kol. Si lasciò scivolare per terra, sul tappeto
che il suo occhio esperto giudicò di fattura persiana, e si sfilò
discretamente le scarpe con il tacco.
Avrebbe
potuto alzarsi e prendere un libro dalla libreria, ma stava davvero
bene seduta lì e non ci pensò due volte a cercare un'altra
occupazione.
Alla
fine sciolse i capelli, posò la testa sul divano e guardò Kol che
dormiva.
Quando
era sveglio non aveva mai un'espressione così pacifica, quasi
angelica. Era il risvolto positivo del guardare qualcuno
addormentato: lo si poteva vedere sotto una luce diversa e sentirlo
ancora più vicino, almeno per un po'.
Non
che lei ne avesse bisogno: sentiva che lui era già fin troppo
vicino e, per quanto le facesse paura, era altrettanto emozionante,
come il brivido di fronte a uno strapiombo, una sorta di miscela di
paura istintiva e attrazione.
Non
le passò neanche per l'anticamera del cervello di spostarsi o
smettere di fissarlo. Al contrario, cominciò ad accarezzargli
distrattamente una mano.
Si
addormentò all'improvviso, con la testa appoggiata sulle proprie
braccia e una mano in quella di Kol.
Fu
così che, sei ore dopo e quando il sole era già alto nel cielo, il
vampiro si svegliò e sorrise.
Sorriso
che scomparve quando Julya si svegliò poco dopo. Furono venti minuti
brutti per tutti.
Continua
Lo
so, neanche voi ci credete.
Però
sì, ho aggiornato e per farmi perdonare, pubblico ben due capitoli.
Non riuscirò a rispondere alle recensioni, però due parole
generiche per le ragazze che hanno recensito vorrei spenderle.
Innanzitutto,
grazie: è sempre bello vedere qualcuno che recensisce, perciò vi
ringrazio di cuore per le belle parole.
Sono
contenta che vi piaccia Julya e che apprezziate che in questa storia
Damon ed Elena siamo una comparsa, mentre Stefan domina la scena come
co-protagonista insieme a Julya e Kol.
Ma
tranquilli, non ci saranno triangolo in stile “The vampire
diaries”, qui. Julya è per il vero amore, per quanto questo sia
complicato da raggiungere.
E
non dico altro, se no vi spoilero tutto u.u
Be',
direi che ora potete godervi il capitolo numero due di oggi.
|
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Capitolo 12 *** It was gone with the wind, but it's all coming back to me now ***
Ekleipsis
It was
gone with the wind, but it's all coming back to me now
“All I have,
all I need, he's the air
I would kill to breathe
Holds my love in his hands,
still I'm
searching for something
Out of breath, I am left hoping someday
I'll breathe again”
Breathe again- Sara Bareilles
Julya entrò
in casa sperando che non ci fosse nessuno, ma le sue speranza andarono in
frantumi appena aprì la porta e venne superata da un' Elena con un diavolo per
capello.
“Ciao anche
a te, Elena!” le urlò dietro senza ottenere risposta.
"Che cosa mi
sono persa?” domandò entrando in casa e dirigendosi verso la cucina alla
disperata ricerca di una tazza di caffè.
Lo trovò
proprio sul fornello, ancora caldo: una vera rarità in una casa di vampiri che
consumavano per lo più alcolici.
Se ne versò
una tazza generosa, ispirando forte il profumo forte della bevanda e lo
corresse con latte e un poco di caramello, giusto per renderlo più dolce.
Di solito il
caffè non le piaceva molto: era più il tipo da tè caldo o latte con il miele,
ma quel giorno si sentiva insolitamente grintosa, come se si fosse svegliata da
un lungo sonno con un'altra personalità.
Per guarire
davvero ci sarebbe voluto del tempo, ma adesso era sulla strada giusta e lei ci
credeva: sarebbe stata bene.
“Elena ha
una crisi di coscienza” le spiegò sbrigativamente Damon.
“E si
presume che io sappia per che cosa?” domandò portandosi la tazza alle labbra
senza smettere di guardare i due fratelli.
“Ieri sera
Esther ha voluto vedere Elena e le ha confidato il suo piano: con il sangue
della doppelganger ha legato tutti i suoi figli così da poterli uccidere. Morto
uno, moriranno anche tutti gli altri” le spiegò Damon, ignorando le occhiate di
ammonimento di Stefan.
Per quanto
amasse Julya, non era sicuro che fosse un bene confidarsi con lei. Lei non
avrebbe avuto gli scrupoli di Elena, ma erano altre le motivazioni per cui
avrebbe potuto cercare di ostacolarli.
Aveva visto
come guardava Kol e Stefan temeva che per un sentimento del genere non avrebbe
esitato a mandarli tutti al diavolo per schierarsi dalla parte di Klaus.
Avrebbe
anche potuto capirla, ma c'era in ballo troppo per lasciare che le emozioni
mandassero tutto in fumo, così cercò nell'espressione di Julya qualcosa che gli
facesse capire da che parte si sarebbe schierata.
Il suo volto
rimase impassibile, una maschera granitica il cui unico movimento era quello di
sorbire il caffè con calma.
“E perché lo
avrebbe fatto?” domandò la ragazza con lo stesso tono con cui avrebbe accolto
un pettegolezzo poco ghiotto.
“Per
rimediare al male che ha creato, ha detto”
“Capisco”
Finì il
caffè e lasciò la tazza su un mobile a caso, poi imboccò la via della scale
sempre con la solita espressione di inalterata calma, come se non le avessero
confessato che la dinastia degli Originali stava per estinguersi e lei stava
per perdere di nuovo una persona palesemente importante.
Stefan non
credeva che potesse accettare tutto con così tanta serenità.
“Tutto qui?
Non cerchi di convincerci a salvare almeno uno di loro? Nessuna
espressione da cucciolo nella speranza di persuaderci?” le domandò Stefan
appoggiandosi alla balaustra e guardandola con circospezione.
“Servirebbe?”
“Come
abbiamo detto a Elena, no. Democrazia in atto”
Salì alcuni
gradini prima che Stefan le rivolgesse una domanda. L'unico modo per vincolare
Julya era farla promettere: sapeva quanto importante fosse per lei la parola
data e se c'era una cosa che poteva fermarla era quella.
Infranta
quella, avrebbe potuto solo rinchiuderla di nuovo.
“Mi prometti
che non interferirai?”
“Ti prometto
che farò ciò che è giusto” promise con un sorriso. Damon si ritenne
soddisfatto, ma Stefan conosceva Julya e sapeva che quelle parole potevano
ritorcersi contro di loro.
Ma Stefan
scelse di darle fiducia: dopotutto, aveva detto “la cosa giusta” e la
morale di Julya non poteva essere così distorta da credere che fosse giusto
salvare gli Originale.
Non doveva.
*
Quando si
chiuse la porta alle spalle, il sorriso leggero che Julya si era costretta a
indossare scomparve come se lo avessero lavato via con un colpo di spugna.
Si sfilò
velocemente il vestito e lo infilò in una gruccia, pronto per la lavanderia,
poi si infilò sotto il getto caldo della doccia, il posto migliore in cui
pensare.
Mentre si
insaponava i capelli, pensò alla promessa fatta a Stefan.
“Farò ciò
che è giusto”
Be', lo
avrebbe fatto: ciò che era giusto per lei. In quelle ultime due piccola
parole c'era tutta la differenza del mondo.
Quando Damon
le aveva spiegato il piano di Esther aveva dovuto far ricorso a tutta la sua non
trascurabile esperienza per non lasciar trasparire la rabbia e non correre a
casa Mikaelson e avvertirli.
Si era detto
che doveva agire con più attenzione perciò aveva indossato la proprio migliore
faccia da poker e aveva ascoltato.
Non le
importava nulla di cosa volesse fare Esther, del perché o di quando lo avrebbe
fatto: sapeva già che non glielo avrebbe permesso.
Aveva appena
ritrovato Kol: non avrebbe lasciato che nessuno glielo portasse via.
Non le
importava che fossero amici, amanti o qualunque altra definizione intermedia:
lei lo amava, questa era una certezza e a prescindere da tutto.
Non ci fu
nessuna sfuriata o melodramma: prese la sua decisione e seppe che l'avrebbe
seguita fino allo estreme conseguenze.
Non si
sarebbe fermata a una via di mezzo: o avrebbe salvato Kol o sarebbe morta per
farlo.
In realtà
era più facile a dirsi che a farsi.
Julya era
terrorizzata all'idea di morire e sperava di non arrivare al punto di doversi
sacrificare. Ma se fosse successo, l'avrebbe fatto con tutto il coraggio e la
dignità che avrebbe potuto mettere insieme.
Dopotutto,
morire per lui sarebbe stato un buon modo per andarsene.
Non avrebbe
potuto trovare qualcosa che meritasse di più la sua vita: in fondo, gli aveva
promesso che lo avrebbe amato per sempre, che gli avrebbe dato la sua
vita... quello era solo un modo più macabro di rispettare la propria parola.
Presa la
propria decisione, fu il momento di ideare un piano e seguirlo.
Lasciò la
propria mente libera di vagare sulle proprie possibilità mentre si infilava un
paio di calze scure e pesanti, lasciando scivolare sopra un maglioncino oro
pallido che faceva risaltare i suoi boccoli castani.
Andare da
Elena non avrebbe avuto senso: aveva bisogno di un alleato forte e lei era solo
un'umana.
I pensieri
associati di alleato e potente le accesero una lampadina sulla
testa e si chiese come diavolo avesse fatto a non pensarci prima.
C'era una
persona a cui potesse rivolgersi e che avrebbe potuto guadagnare da quella
vicenda perciò si infilò una gonna nera a vita alta e un paio di stivaletti, il
primo paio che pescò dalla scarpiera e che le sembrasse potesse abbinarsi.
Si fiondò
fuori di casa a rotta di collo, con le punte dei capelli ancora umide, contenta
solo che né Damon né Stefan fossero lì per vedere la sua fuga.
Quando
ingranò la marcia della macchina aveva una sola destinazione: casa Mikaelson.
*
Era stato
con enorme disappunto che aveva scoperto che Elijah non era a casa. Perciò
aveva vagato per la città e per sua fortuna lo aveva trovato mentre scendeva
dalla macchina diretto a casa Gilbert.
“Elijah” si
fermò di fronte a lui e gli fece cenno di entrare nell'auto “Devo parlarti”
aggiunse quando lo vide perplesso.
Allora annuì
e si accomodò sul sedile del passeggero.
“Sentiamo”
la incitò mentre premeva sull'acceleratore e si allontanava da quella via,
diretta verso la foresta.
“Ho delle
brutte notizie”
“Hanno a che
fare con l'incontro di Elena e mia madre?”
Julya annuì,
non sorpresa dall'acume di Elijah. Era sempre stato il fratello più razionale e
acuto, ai suoi occhi persino il più intellettualmente brillante.
“Elena mi ha
mentito ieri sera, me ne sono accorto subito. Cosa mi ha tenuto nascosto?”
“Le vere
intenzioni di Esther. Non vuole uccidere Klaus, Elijah”
Julya non
staccò gli occhi dalla strada, ma la sua voce tremò impercettibilmente al
pensiero di cosa sarebbe potuto succedere quel giorno.
“Vuole
ucciderci tutti, vero?”
Annuì e si
ricompose, decisa a impedire alla propria voce di tremare ancora. Raggiunsero
il bosco e Julya fermò la macchina dietro un muro di alberi, in un punto in cui
non sarebbe passato nessuno.
“Perché sei
venuta a dirmelo?”
“Non è
questo il punto” gli fece notare “sappi che non ti sto ingannando, non sono qui
per farti perdere tempo o qualunque altro sotterfugio di venga in mente. Sono
dalla vostra parte”
“Sei molto
legata a Kol e credo che questo ti renda un'alleata fedele” constatò e Julya
annuì.
Elijah aveva
centrato il punto: Kol. Era per lui che era lì e forse aveva anche capito che
se non ci fosse stato lui li avrebbe lasciati morire senza troppe remore.
“Comunque,
non possiamo agire senza un piano” constatò Julya
“E io credo
di avere una mezza idea” la informò.
Julya tirò
un sospiro di sollievo.
“Ti ascolto”
“Per il
rituale, mia madre avrà bisogno di incanalare di nuovo l'energia delle streghe
Bennet e lo farà nel plenilunio. L'unico modo è spezzare la linea di sangue”
ammise con rammarico.
Elijah
poteva anche essere un vampiro, ma Julya sapeva della sua nobiltà d'animo e
della sua etica.
Non doveva
piacergli molto l'idea di fare del male a Bonnie o a sua madre, ma era
questione di priorità: o loro o le Bennet.
Nella mente
di Julya, era un ultimatum leggermente modificato: o loro, o Kol.
E lei non
aveva dubbi su chi avrebbe scelto.
“Ma io non
so dove trovarle” le ricordò e Julya si disse che aveva ragione. Ma c'era chi
poteva cercarle e fare quel che doveva essere fatto.
“Hai bisogno
di Elena. Rinchiudila da qualche parte e vai da Salvatore minacciando di
ucciderla se non fermeranno Esther e il suo rituale”
Elijah
soppesò il piano e, quando decise che era l'unica alternativa che gli restasse,
lo analizzò a fondo e lo modificò abbastanza da renderlo più efficace.
“Controllerai
tu Elena?” le domandò a un certo punto. Non era sicuro che Julya si sarebbe
spinta fino al limite perciò titubava nell'assegnarle quel ruolo.
Sembrava
determinata a fare ciò che doveva essere fatto, ma si sarebbe spinta davvero
fino al punto di uccidere un'amica?
“No. Se
Stefan e Damon sapessero che Elena è con me, non penserebbero mai che sia in
pericolo. Deve essere qualcun altro, qualcuno che li spaventi davvero”
“Per
fortuna, ho la persona che fa al caso nostro” la informò dopo averci pensato
per un momento.
“Rebekah”
L'Originale
annuì “Ho un altro compito per te: va' al Grill e tieni d'occhio Kol e Niklaus”
“Va bene”
Detto
questo, accese la macchina e riportò Elijah di fronte a casa di Elena. Il piano
avrebbe preso il via subito: non c'era un momento da perdere.
Le sembrava
di avere in testa un enorme orologio a pendolo che scandiva rumorosamente le
ore, i minuti e i secondi, come a ricordarle che, per quel giorno, il tempo
contava eccome.
Lasciato
Elijah, fece inversione e si diresse verso il Grill.
*
Appena
entrata nel locale, non fu difficile individuare Kol e Klaus.
Erano seduti
al bancone e sembrava che stessero discutendo con due ragazzi. Solo
avvicinandosi si accorse che erano Alaric e Meredith.
“Buongiorno”
salutò con un pigro gesto della mano, sporgendosi sul bancone accanto a
Meredith e guardandosi intorno alla ricerca del barista.
Aveva decisamente
bisogno di un altro caffè, nonostante le sei ore di sonno ai piedi di un divano
di casa Mikaelson.
In realtà,
non ne aveva tratto grande giovamento perché si sentiva ancora un po'
indolenzita sulle spalle.
“All'improvviso
questo posto si è riempito di vampiri” constatò Meredith e Julya le rivolse un
sorriso glaciale, una specie di smorfia fintamente cordiale.
Capiva che
non fosse contenta di avere tutta quella gente intorno: dopotutto, era un
appuntamento tra lei e Alaric, ma non per questo Julya riuscì a racimolare
abbastanza simpatia da ignorare la frecciata o essere gentile.
“Suppongo
succeda in una città piena di vampiri annoiati”
Ordinò un
cappuccino con tanta schiuma e poi aggiunse con noncuranza “In ogni caso, io
sono qui solo per non stare a casa e leggere in tranquillità” sventolò con
grazia una copia un po' consunta de “Jane Eyre” di Charlotte
Bronte.
Klaus colse
la palla al balzo e specificò con un sorriso.
“Anche noi
siamo usciti solo per distrarci un po'. Vero, Kol?”
Allora Julya
notò qualcosa a cui no aveva prestato attenzione prima. Era così impegnata a
fingere di essere lì per caso che non si era accorta dello sguardo intenso e
chiaramente interessato con cui Kol guardava Meredith.
Dapprima
inarcò elegantemente un sopracciglio mentre si diceva che no, sicuramente si
era sbagliata e che doveva proprio andare a fare una visita oculistica perché i
suoi occhi cominciavano a fare cilecca.
Riguardò
meglio e non vide nessun cambiamento.
Provò un
insolito fastidio diffuso che le fece fremere le dita, unito a una certa
possessività che le fece venire voglia di rivendicare ciò che considerava suo.
Quando mise
bene a fuoco quel pensiero si diede della stupida: Kol non era suo, anche
se qualcuno avrebbe potuto dire che lo era stato per tanto tempo.
Anche alla
luce di quel pensiero razionale, il fremito non si calmò e non smise di provare
fastidio e per un attimo balenò nei suoi occhi una scintilla di rabbia che
cercò di nascondere.
Si accorse
che Kol stava parlando con lei solo quando si voltarono tutti dalla sua parte.
Allora non si dette la pena di nascondere il proprio fastidio.
“Come?”
“Chiedevo se
volessi bere qualcosa con noi, sweetie”
“Grazie” gli
rivolse un sorriso, quello che Kol aveva imparato a catalogare come falso “ma
preferisco dedicarmi al mio libro”
Poi si
congedò, lasciandosi scivolare su un tavolo vicino alla zona dei tavoli da
bigliardo e aprendo il libro con un gesto secco.
All'improvviso,
la prospettiva di passare la giornata a fare il cane da guardia di Pancopinco e
Pincopanco non sembrava più così allettante.
Klaus gli
stava raccontando qualcosa a proposito di un qualche avvenimento dell'ultimo
decennio, qualcosa che si era perso e che probabilmente neanche gli
interessava.
A lui la
storia non piaceva particolarmente, al contrario di Julya che sembrava
spasimare per cose come i libri, i manufatti e gli antichi reperti.
La stessa
Julya che se ne stava appoggiata alla sedia, sorseggiando il terzo cappuccino
della giornata, senza neanche alzare lo sguardo dal libro.
All'inizio
sembrava che lo leggesse più che altro per fare qualcosa, ma in quel momento
sembrava davvero avvinta dal racconto.
Così
concentrata, così assorta: Kol ne scrutò i lineamenti, ammirando il modo in cui
si mordeva le labbra o si arricciava una ciocca di capelli tra le dita.
Si chiese
all'improvviso come avesse passato quei decenni senza di lui e gli venne voglia
di andare lì e chiederle di raccontagli tutto.
Voleva
sapere ogni cosa: chi aveva conosciuto, dove era stata, cosa aveva visto e
fatto. Era cambiata, anche se fisicamente aveva sempre lo stesso aspetto da diciottenne Per lui era
bellissima, anche se si rendeva conto che ci fossero donne ben più belle di lei
al mondo.
Eppure non
ce n'era nessuna che lo attraesse come lei: bellezza e cervello... una
combinazione a cui era impossibile resistere.
Purtroppo
non era l'unico a non riuscire a resistere al fascino di Julya e assistette
senza fare nulla all'arrivo di un ragazzo che si sedette di fronte a lei.
Ad un certo
punto lei scoppiò a ridere e Kol decise che non poteva non ascoltare.
“E' un libro
stupendo” stava dicendo il ragazzo.
Kol doveva
ammettere che sapeva quale carta giocare: Julya adorava i libri e parlarne
voleva dire guadagnare parecchi punti.
“Già, lo
credo anche io. Anche se il mio preferito resta Cime Tempestose” ribatté
lei accarezzando il dorso del libro con gentilezza.
Il resto
della conversazione continuò sull'onda delle chiacchiere letterarie, ma Kol si
concentrò sui gesti: Julya scuoteva la testa, rideva, si spostava i capelli di
lato e gesticolava animatamente, si divertiva.
Si divertiva
con qualcuno che non era lui.
“Attento,
fratellino. Se li fissi ancora un po' qualcuno potrebbe pensare che tu sia geloso”
lo prese in giro Klaus portandosi alla bocca il bicchiere e sorseggiando
piano il liquore.
“Non diciamo
sciocchezze. Io non sono geloso”
“Strano,
perché lo sembri”
“Andiamo,
perché dovrei? Tra me e lui non c'è competizione”
Rise e cercò
di scacciare la fastidiosa vocina che gli diceva di andare lì, prendere Julya e
portarla lontano, dove sarebbe stata solo sua.
“No, infatti.
Julya però sta parlando con lui” gli fece notare e Kol socchiuse gli occhi
infastidito.
Però Klaus
aveva ragione: per quanto potesse pensare di essere al di sopra di quel
bamboccio, era lui al tavolo di Julya.
Provò
l'infantile desiderio di ricambiarla con la stessa moneta e farla sentire come
si lui in quel momento.
A volte non
la capiva proprio. La sera
prima sembrava che avessero finalmente trovato la strada da percorrere per
tornare a essere Kol e Julya, insieme, e invece lei sembrava ancora più
distante.
Non si
sarebbe mai accontentato di essere suo amico. L'aveva trasformata guidato dall'istinto,
con la vaga consapevolezza che lei sarebbe stata speciale. E lo era.
Non poteva
accettare solo la sua amicizia perché sapeva che non gli sarebbe mai
bastata. L'avrebbe sempre guardata come la propria compagna.
La amava,
dannazione! Voleva solo stringerla a sé, baciarla fino a farle diventare le
labbra gonfie di baci, fare l'amore con lei.
Bruciava di
desiderio per lei e sapeva che lo stesso valeva per Julya: era sempre stato
così tra loro.
Capiva di
essere tornato in un periodo difficile per Julya e che, probabilmente, voleva
rimettere insieme i pezzi prima di pensare a loro, ma lui non poteva
aspettare.
Doveva
trovare il modo di accelerare i tempi.
Ebbe un'idea
quando vide il guizzo di fastidio nei suoi occhi nel momento in cui il ragazzo
prese il libro e se lo rigirò tra le mani.
Julya, così possessiva,
lo considerava ancora suo? Perché se la risposta fosse sta sì,
allora avrebbe avuto la chiave per raggiungere i suoi scopi. Non avrebbe mai
sopportato che flirtasse con un'altra.
Guardò verso
il bigliardo dove la ragazza che aveva adocchiato poco prima giocava.
Poi sorrise.
Avrebbero
scoperto molto presto quanto grande fosse la pazienza di Julya Peskov.
“But if I
touch you like this
And if you kiss me like that
It was so long ago
But it's all coming back to me
If you touch me like this
And if I kiss you like that
It was gone with the wind
But it's all coming back to me”
It's all
coming back to me now- Celine Dion
Julya si era
sempre considerata una persona paziente.
Non poteva non
esserlo: aveva cercato per più di cento anni il Graal... questo avrebbe
dovuto significare pur qualcosa.
Perciò
pensava di potersi fregiare a buon diritto di quella nomea, anche se qualcuno l'avrebbe
definita più cocciuta che paziente.
Comunque,
quel giorno si trovò a dover necessariamente riconsiderare la propria
definizione di pazienza.
Il commento
su Caroline - “sembra così appetitosa”- fu il primo dettaglio a
infastidirla, ma dopotutto aveva ragione: Care era bellissima e anche lei
l'avrebbe trovata desiderabile se fosse stata un uomo.
Fu il suo
sorriso a provocarle un vago senso di rabbia che le fece battere appena le dita
sul tavolo, segno che cominciava a irritarsi.
Le occhiate
maliziose a Meredith inflissero un duro colpo alla sua capacità di
sopportazione e la sua pazienza vacillò al punto che pensava si sarebbe rotta
come un vaso lasciato cadere a terra.
Vaso che si
frantumò nel momento in cui Kol iniziò a flirtare con Meredith.
Dalla sua,
la ragazza aveva almeno il pregio di star facendo di tutto per mandarlo via e
questa fu l'unica cosa che la salvò dall'ira di Julya.
Ira che si
riversò tutta su Kol.
Cosa pensava
di fare? Lo conosceva abbastanza da sapere che stava giocando, ma non poteva
accettarlo.
Lo capiva,
ma non poteva ammettere quel comportamento.
Forse era
egocentrico e tremendamente narcisistico pensare che Kol stesse flirtando con
Meredith per farla pagare a lei, ma come poteva non pensarlo quando lui le
scoccava ogni tanto quelle occhiate così compiaciute e divertite?
Ma non era
un gioco e Kol avrebbe dovuto saperlo.
Lo conosceva
abbastanza da capire le sue motivazioni: non riusciva a comprendere cosa ci
fosse tra loro e probabilmente non accettava l'idea che si fossero arenati in
una monotona terra di nessuno.
Lo sapeva
perché era più o meno quello che provava anche Julya.
O meglio,
una parte di lei che doveva combattere tutti i giorni con l'altra, quella che
le ricordava che era presto per pensare
a loro e che era invece il momento di occuparsi di se stessa per un po'.
E quella
parte era furibonda con Kol perché non riusciva a darle un po' di spazio, solo
un poco, quel tanto che bastava per prendersi cura di se stessa.
Voltò la
testa dall'altra parte, arrabbiata con se stessa per non riuscire a decidere
cosa provare e perché era stufa di provare rabbia.
Dopo
l'accettazione non avrebbe dovuto andare meglio? Ma ci sarebbe voluto
tempo.
Il ragazzo
di fronte a lei disse qualcosa sull'andare a prendere un altro drink e lei
annuì solo, abbastanza sicura che fosse il momento di passare dal caffè a
qualcosa di più forte.
Era stata
talmente concentrata su se stessa e su ciò che sentiva dentro che si
accorse solo in quel momento che qualcosa era cambiato intorno a lei.
Aggrottò le
sopracciglia e socchiuse gli occhi alla ricerca del dettaglio, aguzzando i
sensi fino a quando non si accorse di non sentire più la voce di Kol in
sottofondo.
Si voltò di
scattò verso la zona del bigliardo e trasalì nel notare che non c'era più e che
con lui era scomparso anche Alaric.
Non era
decisamente un buon segno.
“Proklyatʹya”
imprecò e si alzò di scatto. Qualcosa non stava andando bene, ma lei
avrebbe fatto in modo che le cose tornassero a girare nel giusto ordine.
Lasciò i
soldi sul tavolino e corse fuori.
La piazza
era semi vuota, a esclusione di una coppia che camminava mano nella mano e un
paio di ragazzi che la stavano attraversando, probabilmente diretti al Grill.
Tutti i suoi
sensi extra di vampira si misero in allerta alla ricerca di un odore, un
oggetto o un rumore fuori posto, qualcosa che le dicesse dove andare.
Fu
fortunata: una folata di vento portò con sé il profumo di Kol, un naturale
profumo di cannella unito al suo nuovo dopobarba – che lei aveva già sentito,
in uno dei suoi viaggi nelle profumerie parigine-: proveniva dall'ingresso sul
retro del locale.
Le bastò
pensare di muoversi e in un attimo fu di fronte alle scale; ancora più facile
fu saltare i gradini con un balzo e atterrare elegantemente accanto a Stefan.
Il pugnale
che, visto lo squarcio sulla maglia di Kol -ancora steso per terra, cosa che le
provocò una fitta acuta di rabbia-, doveva essere appena stato estratto dal suo
petto, giaceva a terra; lo raccolse e lo porse a Elijah.
Stefan la
guardò come se lo avesse appena tradito nel peggiore dei modi.
Ai suoi
occhi, era lui ad averla tradita: sapeva cosa provava per Kol, eppure aveva
fatto quello che doveva. Avrebbe
fatto del male a lei, pur di salvare Elena. Se la ragazza fosse stata salva, a
Stefan e Damon non sarebbe importato nulla di ferire proprio lei.
Ma era
esattamente quello che stava facendo lei: per salvare Kol – e la sua famiglia,
ma quello era un effetto collaterale- era disposta a fare qualunque cosa, anche
infliggere dolore a chi si metteva sulla sua strada.
Non erano
poi tanto diverse: tutti e tre volevano qualcosa così disperatamente da non
curarsi del prossimo.
“Avevi detto
che avresti fatto la cosa giusta” la accusò.
Julya gli
rivolse lo sguardo più freddo che avesse a disposizione “La cosa giusta per me”
La verità
era che, dietro la rabbia e le labbra serrata in una linea severa, era solo
stanca. Si era ritrovata spesso in quei giorni a chiedersi cosa sarebbe
successo se avesse semplicemente smesso di sentire, ma non poteva cedere
a quella prospettiva deliziosa.
Non poteva
cessare di provare emozioni: erano quelle che le ricordavano che era ancora
viva, anche dopo tanti decenni, ed erano parte di lei.
Certo che
non poteva lasciarle andare: come si poteva staccarsi da una parte di se?
Non si curò
delle chiacchiere di Elijah e Damon mentre si accucciava di fianco alla figura
ancora priva di sensi di Kol.
Gli carezzò
delicatamente una guancia e gli scostò i capelli dalla fronte, senza riuscire a
trattenere un mezzo sorriso.
La faceva
rabbrividire il pensiero che quelli potevano essere i loro ultimi momenti insieme.
Ma stavolta non sarebbe stato per un po' -magari altri duecento anni o cose
del genere-, quella volta sarebbe stato per sempre.
Non poteva
accettarlo, era il suo limite.
Quando Klaus
lo aveva pugnalato, per quanto doloroso, terribile e insopportabile fosse
stato, non aveva mai perso del tutto la speranza di poterlo rivedere, prima o
poi.
Ma stavolta
era diverso e lei non riusciva a contemplare un mondo in cui non ci fosse Kol.
Non
sarebbe scomparso se Kol fosse morto, razionalmente lo sapeva, ma Julya era
certa che il suo universo sarebbe collassato su se stesso se non fosse
riuscita a salvarlo.
Era
un concetto così tanto più grande di lei da non riuscire a neanche a concepirlo
nella sua interezza.
Kol aprì gli
occhi e lei tornò con i piedi per terra, abbandonando i propri pensieri. Ci
mise un momento a capire cosa fosse successo, come se si stesse semplicemente
svegliando da un sonnellino.
Dal modo in
cui si spinse verso la sua mano e sorrise soddisfatto, Julya sospettò che
quell'aria disorientata fosse solo una finzione, ma non si ritrasse.
Gli sfiorò
piano la guancia e gli zigomi con la punta delle dita, dandogli un colpetto
dispettoso al naso con l'indice.
“Che è
successo?” le chiese mentre si rimetteva in piedi e si spolverava i pantaloni.
“E' una
lunga storia, te la spiego strada facendo”
“Nostra
madre ci ha uniti con un incantesimo e sta cercando di ucciderci” riassunse
Elijah facendo loro cenno di muoversi.
“Oppure te
lo dirà adesso tuo fratello” mormorò con sarcasmo e Kol le sorrise mentre
camminavano a passo spedito.
Julya non
pensava che l'avrebbero portata con loro -non di propria volontà, almeno- ma fu
ben felice di tacere e li seguì fino alla macchina di Elijah.
Salirono
tutti i tre mentre, poco più in là, Damon e Stefan saltavano sulla Mustang e
partivano diretti verso lo stesso luogo, probabilmente attraverso un'altra
strada.
Non voleva
sapere quale fosse il loro piano: non vedeva nulla di buono da quella vicenda
e, anche se fino a quel momento nessuno si era ancora fatto male, non credeva
che avrebbe potuto dire la stessa cosa a fine giornata.
In macchina
nessuno fiatava. Julya si chiese che cosa stessero pensando: loro madre, la
donna che avevano creduto m0rta da secoli, stava cercando di ucciderli.
Loro madre,
dannazione! Non potevano essere indifferenti o unicamente animati dall'istinto
di autoconservazione: per lei era impensabile.
Se fosse
stata al loro posto, avrebbe provato un dolore atroce alla consapevolezza di
essere considerata un abominio dalla propria madre.
Le si
sarebbe spezzato il cuore in mille pezzi. Tuttavia, non poteva davvero capire
cosa stessero provando perché sua madre era morta e, se anche fosse stata viva,
non credeva che avrebbe mai tentato di farle una cosa del genere.
Magda Peskov
poteva avere tanti difetti -e dio solo sapeva quanti ne avesse-, ma amava i
suoi figli e li avrebbe protetti con la stessa forza di una leonessa che
difenda i propri cuccioli.
Sua madre
l'avrebbe sempre amata e ai suoi occhi sarebbe sempre stato la piccola
Julya, la sua unica figlia femmina.
Ci era
voluto un po' perché se ne rendesse conto: quando era piccola sua madre le
faceva un po' paura, così severa e brusca, troppo orgogliosa persino per
abbandonarsi a un gesto di affetto con i propri figli.
Era morta da
un pezzo quando aveva capito che in realtà li aveva amati anche più di loro
padre, che era sempre tutto sorrisi e abbracci.
Nel segreto
del proprio animo, allevandoli come persone forti, indipendenti, coraggiose e
capaci di scegliere la propria strada, lei aveva dato loro tutto quello
che aveva e nel modo migliore.
Se l'avesse
vista trasformata in vampira, Julya non dubitava che l'avrebbe amata comunque.
Senza carezze, senza smancerie, ma nel modo più autentico e sincero.
E di questo
lei era grata.
Allungò una
mano e trovò quella di Kol, seduto accanto a lei sul sedile posteriore; gliela
strinse forte, come a ricordargli che era lì con lui, per lui.
Non se lo
aspettava, lo capì dall'espressione sorpresa sul suo volto e ne fu intenerita.
Forse
pensava che lei non lo amasse più e dopotutto aveva ragione di crederlo: da
quando era tornato non aveva fatto che tentare di allontanarlo.
Ma quella
giornata le aveva fatto capire di essere stanca. Non poteva continuare a tenere
le persone alla larga per paura che la ferissero ancora.
E
soprattutto era spossata dal continuo tentativo di allontanare Kol. Con lui era
più difficile perché sembrava avere l'insolito talento di infilarsi sotto la
pelle e arrivarle al cuore in modi che non pensava fossero possibili.
Ma non
avrebbe più dovuto combattere, non dopo quella giornata così assurda che aveva
dimostrato chiaramente che anche loro -che erano vampiri e avevano l'eternità a
disposizione- non dovevano lasciarsi sfuggire nessuna occasione.
Nel momento
in cui decise di arrendersi, si sentì come liberata da un peso e leggera come
una farfalla.
Quando scese
dalla macchina, le parve quasi di poter saltare così in alto da toccare le
stelle.
Lasciò che
Elijah e Klaus li precedessero lungo la salita della collina e trattenne Kol.
Si disse che
avrebbe dovuto fare in fretta, ma che non poteva tacere ancora: Kol poteva
morire di lì a breve e quelli potevano essere i loro minuti insieme.
Ma non
c'erano parole che potessero spiegare davvero cosa provasse, perciò, per una
volta, agì senza pensare.
Si alzò
sulle punta e lo baciò, aggrappandosi alla sua nuca con la disperazione del
naufrago nella tempesta.
I suoi baci
non erano cambiato ed erano più afrodisiaci del suo stesso sangue. Quando le
sue labbra si mossero delicatamente sulle sue e le circondò la vita con le
braccia per stringerla a sé fu come se un flusso di ricordi si fosse riversato
nella sua mente e tutto quello che pensava di aver perso tempo prima fu di
nuovo lì.
Ora niente
glielo avrebbe mai più portato via.
Kol sapeva
cosa fare per farla sospirare e quando le morse delicatamente il labbro,
accarezzandolo poi con la lingua, Julya si aggrappò con più forza al suo collo,
languida e appagata come una gatta al sole.
“Dobbiamo
andare” gli fece presente con il fiato corto quando abbandonò le sue labbra,
posando la fronte su quella di lui mentre la stringendola ancora a sé.
Elijah e
Klaus avevano fatto pochi metri in quel lasso di tempo, segno che non doveva
esserne passato molto, anche se a Julya era sembrata un'eternità bellissima.
Kol sembrava
contrariato, ma non si oppose quando lei sciolse la sua presa e la seguì lungo
la salita.
Raggiunsero
gli altri due giusto in tempo per arrivare insieme alla cima e trovarsi proprio
di fronte al grande cerchio magico allestito per l'incantesimo.
Se avesse
avuto ancora un cuore pulsante, quello di Julya avrebbe iniziato a galoppare
all'impazzata.
“Figli miei,
venire avanti” li invitò ignorando la sua presenza.
Meglio così,
si disse: avrebbe potuto studiare la situazione senza nessuna interferenza.
Quello al
centro della stella a cinque punte doveva essere Finn, il fratello con cui non
aveva mai parlato.
Si chiese
perché fosse disposto a sacrificarsi.
Per lei, che
aveva ancora paura della morte come quando era umana, era una scelta
incomprensibile. Il vampirismo ai suoi occhi non era una maledizione, ma forse
dipendeva da ciò che era e dalle sue esperienze.
Aveva visto
esseri umani compiere azioni più atroci ed efferate di quelle compiute da molti
vampiri perciò non riusciva a credere che fosse l'essere vampiri a renderli
abomini.
Tra vampiri
e mostri c'era una differenza abissale, un oceano di scelte, decisioni e modi
di vedere.
“Che bello”
sentì dire a Kol con il tono ironico che usava quando era arrabbiato “Siamo
bloccati qui con il figlio preferito che fa l'agnello sacrificale. Mi fai pena,
Finn” sputò guardando il fratello con disprezzo.
Julya non
ascoltò la risposta di Esther.
Lei non
riusciva a capire: loro avevano quello che avrebbe tanto desiderato, una
famiglia, eppure la gettavano via come se non fosse niente.
Se lei
avesse avuto i suoi fratelli, non avrebbe mai potuto disprezzarli, tradirli,
umiliarli.
Perché non
poteva semplicemente passare oltre ai torti fatti e subiti e volersi bene come
una famiglia?
E pensare
che lei avrebbe dato tutto solo per riavere uno dei suoi parenti.
Le parole di
Esther superarono la barriera che si era creata intorno mentre meditava e
inorridì.
Come poteva
una madre dire ai propri figli che non erano altro che maledizioni durate
generazioni?
I tre
fratelli non sembravano turbati da quelle parole, ma Julya vide il volto di Kol
contrarsi appena e socchiudere un poco gli occhi.
Gli prese
una mano e intrecciò le dita con le sue, come a dirgli che qualunque cosa fosse
successa a lui, lei lo avrebbe seguito.
Ma non
avrebbe permesso che morisse senza combattere. Non avrebbe chiesto pietà, non a
una donna pronta a uccidere la propria famiglia per risistemare i conti con gli
spiriti, ma avrebbe lottato.
“Vedo lo
sguardo battagliero nei tuoi occhi, giovane fanciulla, ma qui non puoi entrare”
le ricordò la strega con un mezzo sorriso di vittoria.
“Mi auguro
che lei riesca nel suo piano” annunciò guardandola con disprezzo “perché se va
a monte sarò la prima a saltarle alla gola” continuò.
La donna le
sorrise accondiscendente, come se stesse parlando con una bambina che vagheggia
su qualcosa di impossibile.
“Mi chiedo
cosa ti porti qui. Dopotutto, tu non sei coinvolta in tutto questo”
“Non è vero.
Riguarda anche me”
Esther
abbassò appena lo sguardo sulle mani intrecciate del figlio e della ragazza e
sorrise. Mancavano pochi minuti alla luna piena e Julya sperava che, qualunque
cosa avessero in mente Stefan e Damon, la facessero in fretta.
Non le
piaceva affidarsi a qualcun altro, forse anche per via del suo patologico
bisogno di controllare tutto, ma quella sera non aveva scelta e sperava di non
doverne uscire a pezzi.
“Il tuo
coraggio ti fa onore” ammise Esther, con una punta di compiacimento. Se suo
figlio fosse stato ancora umano e avesse portato a casa una ragazza come lei,
ne sarebbe stata fiera.
Era il
genere di donna di cui aveva bisogno Kol: determinata a difendere chi amava a
tutti i costi, appassionata e leale, testarda e probabilmente con una sana dose
di buoni principi.
“Non si
tratta di coraggio” le confessò inchiodandola con uno sguardo limpido e sicuro
“E' solo che io non posso perdere un'altra persona che amo” ammise e senza
accorgersene fece un passo avanti, come se pensasse che il suo corpo minuto
potesse fare da scudo a quello di Kol.
Esther
rimase sorpresa.
Era chiaro
che avrebbe preferito che non ci fossero scontri e che l'idea di morire la
terrorizzava; ciò nonostante, era disposta a farlo per suo figlio, un abominio
che lei aveva creato.
E solo
perché lo amava, in un modo che non comprendeva.
“Non mi
aspetto che lei capisca”
E aveva
ragione: Esther non capiva come una vampira avesse conservato una capacità di
amare così umana.
“Invece
posso. Amo i miei figli” le spiegò con calma, senza scomporsi minimamente. Non
si aspettava certo che lei le rivolgesse quello sguardo così sprezzante e quel
sorriso arrogante.
“E'
difficile crederlo quando le sue azioni fanno pensare al contrario. Ma sa una
cosa? Va bene che lei faccia quel che vuole. Solo, non venga a cercare di
rifilarmi delle assurde bugie, per favore”
Ma quella
conversazione era inutile, Julya lo sapeva.
Esther non
avrebbe cambiato idea neanche guardando in faccia qualcuno che amava suo figlio
con tanta intensità perché considerava
il suo dovere verso gli spiriti più importante, al di sopra dei suoi stessi
figli e dei propri sentimenti, qualunque essi fossero.
E questo
Julya non poteva né capirlo né condividerlo.
Esther capì
che lei non avrebbe mai compreso, non fino a quando fosse stata un'anima così
votata all'amore.
Guardò la
luna: era arrivato il momento.
Ma qualcosa
non andò come doveva e all'improvviso si alzò il vento e le fiaccole
cominciarono a muoversi mentre Esther supplicava le streghe della dinastia
Bennet di non abbandonarla.
Allora Julya
capì che qualunque cosa avessero fatto Damon e Stefan aveva funzionato e si
sentì invadere da un moto di speranza.
Le fiamme si
alzarono ancora e ancora, fino a diventare così intense da far male alla vista.
Si sentì afferrare per la vita e si scontrò con il petto di Kol mentre la
riparava con il proprio cappotto dalla luce e dal calore.
La strinse a
sé con forza, appoggiando il capo tra i suoi capelli e riparandosi a suo volta
fino a quando le fiamme non si spensero del tutto.
“Stai bene?”
le domandò carezzandole i capelli.
“Sì, grazie.
Tu?”
Lui annuì e
la abbracciò stretta, baciandole i capelli e sospirando di sollievo. Aveva
sempre avuto un forte istinto di autoconservazione, ma quando erano arrivati
alla casa delle streghe e lui aveva realizzato che Julya era lì, a rischiare
la vita con loro, aveva capito che c'era qualcosa di cui gli importava di
più di se stesso.
Le sue
parole gli avevano scaldato il petto ed era felice: se quelli dovevano essere i
suoi ultimi istanti, almeno lei aveva ammesso di amarlo.
Ma quando si
era messa di fronte a lui per proteggerlo gli era venuta voglia di strangolarla
per la sua imprudenza: poteva essere una vampira così incurante della propria
vita? Dove aveva lasciato l'istinto di sopravvivenza?
Ora stavano
bene, ma lo turbava e spaventava il modo in cui non aveva esitato a frapporre
se stessa per salvare lui.
Non poteva
garantire che la propria vita non sarebbe stata costellata di altri rischi o
che sua madre non avrebbe ritentato di ucciderli.
Davanti ai
suoi occhi non si prospettava nessun futuro felice e luminoso, non in tempi
brevi.
E sapeva che
Julya si sarebbe sempre schierata di fronte a lui per proteggerlo.
Era
esattamente ciò che non doveva permettere che accadesse.
Avrebbe
dovuto proteggerla, non far sì gettasse in pasto alla morte, incurante di ogni
ragionevole istinto!
Ma c'era
dell'altro.
Quando
l'aveva trasformata, l'aveva fatto per egoismo. C'era in lei una purezza e
un'innocenza che lo avevano conquistato e ai suoi occhi lei avrebbe sempre
conservato un po' di quel candore.
Con il senno
di poi, si chiese se non avesse già intuito allora -almeno a livello inconscio-
che lei avrebbe potuto essere la compagna perfetta.
Una nemesi,
perché Julya lo era, ma proprio per questo capace di dargli ciò di cui aveva
bisogno: amore incondizionato, cieca lealtà e un po' di sana moralità.
La parte più
egoista e impulsiva di lui avrebbe voluto tenerla con sé, ma per una volta, una
sola, doveva pensare a cosa fosse meglio per lei.
La decisione
migliore per Julya era uscire per sempre dalla sua vita. Era una scelta
importante e ci sarebbero stati momenti in cui la forza di attuarla sarebbero
venuti meno, ma non poteva restare con lei.
Sarebbe
stata al sicuro, possibilmente lontana dalla sua famiglia e da Mystic Falls.
Lui era una
mina vagante. Lo divertiva, prima di conoscere lei. E anche allora non aveva
smesso del tutto di esserlo, anche se Julya sembrava aver gettato una luce
nuova sulla sua intera esistenza.
Aveva
giurato di proteggerla, ma ora rischiava di ferirla.
Non poteva
lasciare che accadesse.
“Andiamo” la
incitò tenendola per mano. Era la loro ultima sera, Kol aveva deciso. Era la
decisione più difficile che avesse mai preso.
Continua
**
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Capitolo 13 *** The tears I cry behind this hazel eyes ***
The tears I cry behind this hazel eyes- Ekleipsis13
The tears I cry behind this hazel eyes
Here I am,
once again
I'm torn into pieces
Can't deny it, can't pretend
Just thought you were the one
Broken up, deep inside
But you won't get to see the tears I cry
Behind these hazel eyes
Behind this hazel eyes- Kelly Clarckson
Camminarono
mano nella mano diretti alla casa dei Salvatore.
Julya non
era sicura di trovare le proprie cose ancora nella sua stanza: pensava
piuttosto che Stefan le avrebbe lasciato tutto sul prato con il monito di non
tornare.
Avrebbe
fatto bene a farlo e a Julya non sarebbe importato. Aveva fatto la cosa giusta,
ecco tutto.
Passeggiavano
in silenzio da un pezzo, ma non le dispiaceva: la strada era deserta e buia e si
vedeva uno splendido cielo stellato invernale.
Provò un
moto di nostalgia: per quanto bello, niente avrebbe eguagliato lo stesso
spettacolo tra le montagne russe.
O meglio, le
montagne com'erano un tempo: disabitate, fredde e selvagge, proprio come piacevano
a lei.
Lo
spettacolo era mozzafiato, con il cielo nero steso come un mantello trapunto di
diamanti sulle montagne e sulle vallate.
L'aria
fredda, l'altezza, il profumo degli alberi e della notte: tutto trasmetteva una
meravigliosa sensazione di libertà.
Era
l'emozione più simile a ciò che dovevano provare gli uccelli a ogni volo,
l'opprimente sconforto di fronte all'infinito e il sussulto del cuore nel
trovarsi di fronte a qualcosa di tanto grande e tanto bello.
Alzò appena
il capo, scostando una ciocca di capelli che minacciava di finirle sugli occhi.
Si alzò una
folata di vento freddo e Kol la tirò a sé, cingendole le spalle con un braccio,
come se volesse proteggerla dal gelo.
Quella notte
sarebbe partito, ma poteva almeno godersi quelle ultime ore con lei: quando
Julya avrebbe scoperto che se n'era andato, probabilmente non lo avrebbe
perdonato.
E forse
voleva che non lo facesse perché così sarebbe stata al sicuro.
“A cosa stai
pensando?” le domandò.
“Alla mia
Russia” ammise con una sguardo affettuoso, come se stesse parlando di un'amica
che non vedeva da tanto tempo.
“Ti manca
molto?”
“A volte.
Più che altro mi manca avere una vera casa”
“Non ne hai
trovata una in tutti questi anni?” le domandò con un sorriso sghembo che le
avrebbe fatto battere il cuore se avesse potuto.
“Ho
viaggiato molto, sai? E' stato bello
scoprire il mondo” ammise con un sorriso al ricordo di tutte le avventure che
aveva vissuto, le grandi personalità che aveva incontrato e i momenti storici
di cui era stata testimone: i grandi moti rivoluzionari, la prima guerra
mondiale e la rivoluzione russa, la seconda guerra
mondiale e molto altro.
“Hai avuto
una bella vita senza di me, Julya?” le chiese senza mezzi termini, rivolgendole
però un sorriso affascinante che avrebbe dovuto rappresentare quanto fosse
spensierato, ma Julya non si lasciò ingannare.
“Ho
attraversato due secoli di storia, ho visto il mondo cambiare sotto i miei
occhi e non sempre in meglio. E' stata una bella vita, a suo modo, ma non c'è
stato momento in cui non ti avrei voluto con me, Kol, anche quando cercavo
disperatamente di non pensarti” lo rassicurò, fermandosi e carezzandogli il
volto con un accenno di sorriso.
Gli posò il
capo sulla spalla per un momento, alzandosi in punta di piedi per arrivare a
sfiorargli il collo con la punta del naso.
“Un giorno
ti racconterò tutto” gli promise.
Per un
attimo il sorriso di Kol vacillò, ma lei non lo vide e quando alzò lo sguardo
era di nuovo al suo posto, intatto.
Kol annuì:
non poteva certo dirle che quel giorno non sarebbe mai arrivato e che,
probabilmente, l'indomani mattina si sarebbe rimangiata qualunque cosa avrebbe
detto quella sera.
Decise di
non pensarci: erano le loro ultime ore insieme e voleva assaporarle a fondo.
“Sì, anche
io ti racconterò di come sia stare in una bara per più di cento anni”
ridacchiò.
Julya si
separò da lui e gli carezzò distrattamente una guancia prima di riprendere a
camminare, mano nella mano.
Le piaceva:
sembrava quasi di essere una coppia di ragazzi normali che passeggiavano
insieme.
“Mi è
mancato tutto questo” ammise Julya con
un sorriso
“Che cosa?”
Avrebbe
voluto dire che le erano mancate le passeggiate, le risate, le chiacchierate, i
baci, le carezze, gli sguardi, le mani intrecciate, il suo profumo e avrebbe potuto
continuare ancora.
Alla fine,
preferì sintetizzare.
“Tu”
“Davvero mi
ami ancora?”
La domanda
di Kol arrivò inaspettata. Julya si voltò con calma; non doveva ponderare una
risposta perché ce n'era solo una vera.
“Ne hai mai
dubitato?”
“Non è la
risposta alla mia domanda”
Si fermò un
momento: dirlo avrebbe reso la cosa irreversibile e non avrebbe più potuto
rimangiarsela.
“Posso aver
avuto dei dubbi” ammise, aprendogli il proprio cuore “ma alla fine so di averti
sempre amato” affermò.
Lo fece
sorridere il suo tono di voce, così sicuro, e i suoi occhi, così sinceri e
privi di ombre. Julya era per lui un libro aperto e tante volte le aveva detto
che aveva il cuore sulle labbra e che sarebbe bastato un bacio per portarglielo
via.
Per fortuna,
quel bacio era stato suo.
Erano
arrivati davanti a casa Salvatore, ma Kol le impedì di andare. La baciò ancora
e ancora, indugiando sulle sue labbra e lasciandola libera solo per riprenderla
e baciarla ancora.
Non riusciva
a separarsi da lei, non ora che sapeva che sarebbe stato un addio. La baciò
un'altra volta e decise che quella sarebbe stata l'ultima.
La lasciò
andare con un vuoto nel petto, costretto però a sorridere mentre le diceva
addio.
“Julya?” la
chiamò prima che entrasse con una stretta al cuore.
“Sei l'unica
che abbia mai amato” le confessò sfoderando il migliore dei suoi sorrisi da
seduttore e lei si illuminò. Sapeva che Kol poteva essere ironico,
strafottente, seducente, affascinante o arrogante a seconda dell'umore del
giorno, ma non era mai romantico a quei livelli.
Per un
attimo si chiese se non dovesse preoccuparsi, ma poi si disse che era solo
suggestione.
Kol era lì e
sarebbe andato tutto bene.
“Buona
notte, Kol”
Si chiuse la
porta alle spalle e lui se ne andò. Se si fosse fermato ancora un secondo di fronte
a quella porta avrebbe perso ogni coraggio.
*
Entrò in
casa con un sorriso così spensierato che un'espressione che, in un altro
momento e sul viso di qualcun altro, avrebbe definito “sdolcinata” e non si
sarebbe risparmiata l'ironia.
Ma era
felice e avrebbe avuto tutto il tempo del mondo, il giorno dopo e quello dopo
ancora, per ridere della propria espressione: ora voleva solo godersi quella
sensazione che non provava da molto tempo.
Si sfilò le
scarpe con il tacco per non fare rumore sul parquet, ma quando passò davanti
alla sala si accorse che Stefan era seduto sul divano e sorseggiava un
bicchiere di whiskey.
“Bentornata”
la salutò sollevando il bicchiere e alzandosi per avvicinarsi.
La sua
espressione non avrebbe potuto essere più chiara: stava per arrivare una
litigata con i fiocchi e i controfiocchi.
Sospirò
sconsolata e una smorfia le deformò il viso per un attimo. Dopotutto, capiva
perché fosse arrabbiato.
Lo era stata
anche lei, fino a poche ore prima, ma poi aveva compreso.
Julya aveva
capito che non poteva prendersela con Stefan – né con nessun altro- per aver
cercato di uccidere Klaus, anche se questo avrebbe voluto dire spazzare via tutta la famiglia degli Originali.
Se non fosse
stato coinvolto anche Kol, a Julya non sarebbe importato e probabilmente si
sarebbe anche schierata dalla sua parte e lo avrebbe aiutato, ma con i se e
i ma non si poteva fare e cambiare nulla.
Kol era
finito in mezzo a tutta quella storia e quello sì che faceva tutta la
differenza del mondo.
Solo che
Stefan sembrava non capire e la guardava come se lei avesse commesso l'azione
più riprovevole del mondo.
Ma lui aveva
agito esattamente come lei per salvare Elena!
“Vuoi
davvero litigare ora, Stefan? E' tardi ed è stata una giornata davvero lunga,
per entrambi. Andiamo a dormire” sospirò tentando di blandirlo sfoderando la
migliore delle sue espressioni provate.
“Non voglio
litigare”
Julya si
trattene dal fargli notare che allora avrebbe dovuto lavorare sulla sua
espressione perché sembrava proprio dire tutto il contrario.
“Voglio
capire perché sembri patologicamente incapace di mantenere le promesse. O
almeno, le promesse che fai a me”
“Questo non
è corretto” gli fece notare con pacatezza, troppo stanca anche per alterarsi
“io ho rispettato la mia promessa e ho fatto ciò che era giusto”
“Dimmi che
ti sei solo adattata al piano di Elijah e che tu non centri niente con il
rapimento di Elena” la pregò trattenendo a stento la rabbia.
In realtà,
voleva solo qualcuno con cui sfogarsi e Julya sembrava la vittima perfetta. Stefan
capiva benissimo perché avesse agito in quel modo: lui aveva fatto la stessa
cosa e sapeva che lo aveva fatto perché, per quanto sembrasse
impossibile, lei amava Kol almeno tanto quanto lui amava Elena.
“No, io ed
Elijah abbiamo ideato il piano. Non ti chiederò scusa per aver fatto ciò che
andava fatto”
“Elena
poteva morire!”
“Come è
successo alla madre di Bonnie, intendi? Andiamo” lo esortò con una punta di
cattiveria “non essere ipocrita”
Avrebbe
voluto dirle che non era vero, che era completamente diverso, ma Julya aveva
ragione, maledettamente ragione e lui non aveva nessun diritto di arrabbiarsi
con lei per aver giocato bene le sue carte.
“Devo
dirtelo: non pensavo fossi così brava a mentire, ingannare e usare le persone”
“Non mi
piace farlo, ma qui sembra che funzioni così e sai una cosa? Devi imparare le
regole del gioco e poi giocare meglio di tutti gli altri se vuoi sopravvivere”
gli ricordò.
Era stata la
sua politica in tempo di guerra, quando in Germania persino affermare che la
campagna in Russia non stava andando bene era considerato alto tradimento e lei
aveva dovuto imparare a sopravvivere.
Non che i
nazisti potessero farle qualcosa, ma non poteva rischiare che il suo segreto
venisse scoperto e fare la spia per gli inglesi non rendeva le cose facili.
“A quanto
pare sei diventata una delle giocatrici più brave”
Julya alzò
le spalle e non si diede la pena di ribattere.
“Mi
dispiace, Stefan. Sai che non volevo deluderti, ma dovresti anche capire che
non potevo fare altrimenti”
“Una scelta
c'è sempre”
“E io l'ho
fatta, solo che stavolta ho scelto ciò che andava bene a me: tu più di
tutti dovresti capire che non potevo scegliere diversamente”
Stefan lo
capiva, ma non era ancora pronto ad ammetterlo ad alta voce. Forse aveva solo
bisogno di dormirci un po' sopra.
Il giorno
dopo avrebbero avuto la mente abbastanza sgombra da poter discutere con calma e
ragionevolmente di qualunque cosa.
“Andiamo a
dormire” sospirò, imboccando la via delle scale per raggiungere la propria
stanza.
Si stupì nel
sentirsi trattenere dalla mano di Julya appoggiata sul suo braccio.
“Un'ultima
cosa, Stefan. So che cerchi di proteggere Elena, ma ora gli Originali sono
ancora uniti. Te lo chiedo per favore: aspetta a fare qualunque cosa tu voglia
fare contro Klaus. Ti prego, aspetta” lo pregò.
Non era sua
intenzione scivolare in un tono così supplichevole ma la voce si era incrinata
senza che potesse fare impedirlo.
Julya
immaginò di non avere un aspetto molto temibile in quel momento, con gli occhi
probabilmente un po' lucidi per la stanchezza e la voce tremula.
No, non
doveva sembrava per nulla la vampira forte e disposta a tutto pur di proteggere
chi amava che voleva apparire.
Eppure
Stefan capì lo stesso che, dietro l'apparenza, lei era disposta a fare tutto il
necessario per Kol.
In fondo,
non la biasimava: stavano facendo entrambi la stessa cosa, solo su due fronti
diversi.
“Ne
parleremo domani” sospirò e stavolta non si lasciò fermare mentre saliva le
scale.
Quella non
era una vittoria, Julya lo sapeva, ma se non altro non era neanche una
sconfitta. Si poteva dire che c'era da lavorare, ma era sicura che il giorno
dopo sarebbero riusciti a incontrarsi a metà strada.
Intanto, il
suo letto la aspettava.
*
Fu l'odore
di qualcosa di dolce e caldo a svegliarla.
Non realizzò
subito di cosa si trattasse e rimase un po' a rigirarsi nel letto,
crogiolandosi nel calore delle coperte e annusando l'aria profumata.
Sarebbe
rimasta così anche tutta la mattina, ma aveva mille ragioni per alzarsi.
Voleva
vedere Kol: ora che l'aveva ritrovato avrebbe passato con lui tutto il tempo
che aveva a disposizione.
Si infilò la
vestaglia, poi scese le scale a piedi nudi e con
un bel sorriso.
Il delizioso
aroma proveniva dal salotto e quando si fermò all'ingresso trovò il tavolino di
fronte al divano pieno dei suoi dolci preferiti e di delizioso tè.
C'era tutto
quello che una donna avrebbe potuto desiderare, dalle brioche fumanti e
profumate ai macarons dei colori più strampalati, passando per cupcakes
dall'aspetto delizioso.
Solo un
vampiro avrebbe potuto mangiare quella quantità di cibo senza ingrassare e
Julya era davvero felice di far parte della categoria.
“Buongiorno”
salutò con un sorriso, lasciandosi scivolare sul divano accanto a Damon e
servendosi il tè.
Afferrò un
macarons viola e lo morse: un delizioso sapore di viola le invase la bocca.
“Questo è un
vero banchetto. Cosa stiamo festeggiando?” domandò sorseggiando il tè.
“Niente di
particolare” borbotta Damon alzando le spalle e scoccando un'occhiata
significativa a Stefan.
Julya la
colse con la coda dell'occhio e si chiese cosa diavolo stessero tramando.
Stefan non
sembrava di ottimo umore.
Più che
altro pareva esitare, come se non sapesse bene cosa fare e si rigirava tra le
dita una busta.
“Cos'è
quella?” gli domandò sporgendosi per osservare meglio la carta color crema.
Stefan
sembrò combattuto da un dilemma interiore, Julya glielo leggeva negli occhi.
Alla fine, forse capì che comunque Julya si sarebbe impadronita di quella
lettera che sembrava la fonte di ogni angoscia e gliela porse, non senza
qualche esitazione.
Quando vide
la grafia e la riconobbe, ebbe un tuffo al cuore.
Senza
neanche aprirla seppe che il contenuto non le sarebbe piaciuto, ma cercò di
farsi forza: forse si sbagliava, forse andava ancora tutto bene.
Le cose non
potevano cambiare nell'arco di poche ore, si disse. Neanche il fato poteva
essere tanto beffardo nei suoi confronti.
Racimolò
tutto il coraggio che riuscì a trovare e aprì la busta. Le sembrò di aver
compiuto uno sforzo immane perciò si prese un momento, anche se neanche lei
sapeva bene perché.
Alla fine
abbassò lo sguardo sulla pagina vergata di fresco e fittamente coperta dalla
scrittura allungata di Kol.
Lesse tutto
d'un fiato e quando ebbe finito non trovò la forza di muoversi.
Dentro di
sé, la sera prima aveva capito che c'era qualcosa di strano, ma non aveva
voluto ammetterlo con se stessa.
Lei non
riusciva a capire perché. Sembrava così felice di averla di nuovo accanto, le
era parso così innamorato.
Forse aveva
visto ciò che voleva vedere: dopotutto, la gente lo faceva spesso.
Non
importava che si fosse sbagliata.
L'unica cosa
che contava davvero era la sensazione di abbandono che le squarciò il petto. La
conosceva bene, solo che stavolta non aveva nessuno scopo più grande a cui
aggrapparsi, nessun sogno da inseguire in cui annegare le pene.
Ecco, si disse con
rabbia, accartocciando la lettera tra le dita, questa è esattamente la
ragione per cui non avrei dovuto lasciarmi andare.
Si accorse
di avere gli occhi lucidi un momento prima di sentire le lacrime bagnarle le
guance. Se le asciugò in fretta e con un gesto furioso.
“Mi
dispiace, Julya”
Stefan
sembrava davvero dispiaciuto, ma Julya aveva bisogno di qualcuno su cui sfogare
la rabbia perciò non esitò ad aggredirlo.
“No, non è
vero. Sei contento che mi abbia lasciata perché speri che questo mi faccia
arrabbiare abbastanza da smettere di preoccuparmi”
“Mi reputi
così meschino?”
“Già”
intervenne Damon “Santo Stefan non sarebbe mai così crudele da essere felice
per le tue sofferenze”
Sembrava che
la stesse prendendo in giro, ma Julya percepiva una certa sincerità sotto le
apparenze.
Inspirò a
fondo, ma quando espirò le uscì solo un sospiro tremulo.
La verità
era che le sembrava che avessero preso il suo mondo e lo avessero ribaltato un
paio di volto, neanche fosse stato una bella palla di neve. Ora aveva
l'impressione che le girasse la testa.
Non voleva
piangere ancora, ma sentiva il groppo in gola e sapeva che le lacrime sarebbero
arrivate.
Lo sapeva
lei e lo aveva capito anche Stefan.
Le si
sedette accanto e le passò un braccio intorno alle spalle mentre Damon si
alzava e li lasciava soli.
Non era il
tipo da consolare una ragazza e Julya aveva bisogno di un amico, qualcuno che
le stesse accanto e non le permettesse di sprofondare in un altro baratro ora
che ne era uscita.
“Piangi” la
incitò.
Sapeva
quanto potesse essere liberatorio: lui non ci era riuscito quando aveva pensato
che Katherine fosse morta e il dolore lo aveva accompagnato per decenni.
“Non voglio
piangere ancora. Mi sembra di non fare altro” singhiozzò.
“Non posso
lasciarlo andare” ammise tra le lacrime “non voglio”
“Andrà tutto
bene” le giurò.
Le carezzò i
capelli con dolcezza, mentre Julya guardava con gli occhi lucidi il cibo
abbandonato.
Per qualche
ragione, quel pensiero la spezzò.
Kol se n'era
andato e si sentiva di nuovo sola, ma il pensiero dei dolci dimenticati sul
tavolo e del tè oramai freddo furono il punto di rottura.
Per qualche
ragione, quel pensiero fu quasi peggio di tutto il resto. Allora il coraggio la
abbandonò e scoppiò a piangere.
“Hai
intenzione di essere arrabbiata con me ancora per molto?”
Julya non
degnò Stefan neanche di un'occhiata e continuò imperterrita la lettura del suo
libro. Il fuoco nel caminetto del salotto scoppiettava allegramente e sul
tavolino c'erano una bottiglia di vino rosso italiano e un calice.
Dato che
sembrava più che decisa a ignorarlo, Stefan decise che l'avrebbe costretta a
prendere atto della propria presenza.
Le spostò le
gambe dal divano e si lasciò cadere accanto a lei con un sorriso. Non funzionò.
Julya si
limitò a ripiegarsi su se stessa e ad accoccolarsi contro l'altro lato del
divano, girando pagina come se niente fosse successo.
“Cosa
leggi?” le domandò allora.
Niente.
Fu costretto
a scoprirlo da solo leggendo il titolo: “Le anime morte”, in lingua
originale.
“E' un bel
libro?” le domandò
Sapeva che
niente poteva darle più fastidio che essere continuamente interrotta mentre
leggeva così si versò un bicchiere di liquore e si preparò a farle altre
domande.
“Sai, Alaric
di là si è portato da leggere Moby Dick, ma non credo che leggerà molto ora che Klaus
gli ha spezzato il collo” rifletté.
Il suo piano
funzionò.
Julya alzò
gli occhi dal libro e lo fulminò con lo sguardo “Non hai altro da fare?
Estorcere ad Alaric dov'è il paletto, ad esempio”
“Fino a
quando non si sveglierà ho ben poco da fare”
“Ed è una
buona ragione per seccare me?”
“E'
un'ottima ragione per tentare di placare la tua rabbia”
“Analizziamo
i fatti, Stefan” lo invitò chiudendo il libro. Il suo tono lasciava presagire
che sarebbe sicuramente stata una conversazione all'insegna del sarcasmo, ma
almeno gli rivolgeva la parola.
“Mi sono
presa qualche giorno di vacanza, sperando di tornare e non trovare
l'apocalisse. Invece torno e cosa scopro? Che tu e l'allegra combriccola di
ammazzavampiri non solo avete provato a uccidere gli Originali, ma che ne avete
addirittura impalato uno”
“Ma Kol sta
bene, quindi non c'è motivo di essere arrabbiata” provò a blandirla, ma Julya
non si lasciò raggirare.
“Per puro
tempismo! Poteva morire, lo sai? A essere onesti, potevamo morire tutti” gli
fece notare e un brivido di paura le attraversò la schiena.
Quando aveva
saputo cosa era successo mentre era a rilassarsi in un centro benessere tra le
montagne di Aspen, in Colorado, tutta la calma che aveva faticosamente
raggiunto durante il soggiorno rilassante era andata a farsi benedire e aveva
iniziato a inveire contro Stefan, Damon, Elena, persino Caroline e Matt.
Quando poi
le avevano raccontato di ciò che era successo a Sage e alla discendenza di
Finn... be', poco era mancato che le venisse un attacco isterico.
Dopo di che,
gli aveva parlato solo per mostrargli la sua rabbia.
“Per questo
dovresti aiutarmi. Se recuperiamo il paletto, saremo tutti salvi”
Julya
avrebbe voluto fargli notare che darle un paletto tra le mani in quel momento
poteva non essere una scelta molto brillante, ma preferì tacere.
Il silenzio
tra loro si protrasse per un po', fino a quando Stefan prese il proprio cellulare
e compose un numero.
Rispose
Damon.
Stefan gli
raccontò la situazione sorseggiando di quando in quando il suo brandy e
guardando un punto fisso sul moro di fronte.
Anche se
aveva riaperto il libro, Julya era attenta e non si perdeva un secondo della
conversazione di Damon e Stefan.
Dopotutto,
da quella situazione dipendeva anche la sua vita.
“E' arrivato
Klaus” lo informò Stefan “non è molto paziente” constatò con un cenno del capo.
“Kol deve
avergli detto che siamo a Denver”
Julya scattò
a sedere, sbattendo le palpebre con un'espressione confusa. Il suo cervello,
per quanto brillante, ci mise un momento a realizzare ciò che aveva appena
sentito.
Kol,
Denver...
Quando
riuscì a dare un senso a quelle parole, trasalì.
Sapeva
dov'era Kol ed era decisa a raggiungere Damon. Il loro intento era trovare
questa Mary Porter e se Kol voleva ostacolarsi allora era certa che il modo
migliore per trovarlo fosse seguire Elena e Damon.
Non le
importava che lui le avesse detto di non cercarlo e che sarebbe stata meglio
senza di lui: erano cazzate.
Se voleva
lasciarla, doveva dirglielo guardandola negli occhi. E forse neanche allora
Julya avrebbe accettato di perderlo ancora.
Nell'ottica
di Julya, non c'era un'altra possibilità diversa da loro due insieme: era
giusto che fosse così, non poteva essere altrimenti.
Si alzò di
scatto e raggiunse la proprio camera a velocità vampiresca. Non si era accorta
di avere Stefan alle spalle fino a quando non era entrato nella sua stanza un
secondo dopo.
“Dove vai?”
“Raggiungo
Damon a Denver”
“Julya...”
“No. Non
provare a fermarmi, non cercare di convincermi: io vado a Denver” ringhiò
infilando vestiti e scarpe in una borsa di pelle il più velocemente possibile.
Badava
appena a ciò che stava prendendo, pescando quasi a caso dai cassetti e dagli
armadi.
Le venne in
mente che non avrebbe potuto andare in macchia: ci sarebbe voluto poco meno di
un giorno intero e lei non aveva così tanto tempo.
“E se non
volesse vederti?” le domandò.
Julya non si
diede la pena di fermarsi e iniziò a cercare il proprio cellulare: doveva
chiamare l'aeroporto più vicino.
“Dovrà
farlo” ringhiò “se n'è andato e mi ha lasciato una lettera. Capisci? Lui mi ha
lasciato una lettera. A me! Se vuole dirmi addio, lo farà guardandomi negli
occhi”
Sapeva cosa
stava pensando Stefan.
Probabilmente
credeva che fosse la classica ragazza innamorata incapace di rassegnarsi e a
lei non importava che la pensasse così.
Lui non
aveva visto come Kol la guardava la sera prima che se ne andasse, non aveva
sentito i suoi baci sulle proprie labbra e non avrebbe potuto capire.
“Non c'è
niente che possa fare per farti cambiare idea”
Non era una
domanda e Julya non si diede la pena di rispondere.
“Allora” gli
domandò mentre prendeva il cellulare “hai intenzione di stare lì o pensi di darmi
una mano a trovare il numero dell'aeroporto?”
“Che cosa
vuol dire <siamo in viaggio per il Kansas, raggiungici>?” strillò
Julya facendo voltare tutti coloro che si muovevano intorno a lei.
C'era gente
che cercava il proprio gate di imbarco, altra che ne usciva eppure tutti si
girarono ad osservare quella giovane ragazza intenta a urlare al telefono così
Julya abbassò la voce.
“Vuol dire
che siamo in viaggio per il Kansas e che se vuoi puoi raggiungerci” chiarì
Damon dall'altro capo del telefono.
Era
abbastanza sicura che se lo avesse avuto a portata di mano lo avrebbe
strangolato, ma dovette accontentarsi di ringhiare attraverso il telefono.
“E come
dovrei fare?”
“Noleggia un
auto, vola, teletrasportati, fai l'autostop... stupiscimi”
Prendi un
bel respiro, Juls, e non ringhiare: la gente ti guarda.
“Damon,
passami Elena”
“Non vuoi
più parlare con me, splendore?”
“E' per il
tuo bene” lo rassicurò con un sorriso che non prometteva nulla di buono “o mi
passi Elena o so che dirai qualcosa che mi farà imbestialire e quando ci
incontreremo Kol sarà l'ultimo dei tuoi problemi”
“Come siamo
suscettibili” la prese in giro, ma il momento di silenzio che seguì le fece
capire che aveva seguito il suo suggerimento e infatti la voce che sentì subito
dopo era quella di Elena.
“Ciao,
Julya”
“Ehi. Senti,
da quanto siete in viaggio?”
“Poco più di
un'ora”
“Bene. Io
noleggerò un auto e vi raggiungerò. Dimmi dove devo andare”
Ci mise un
po' a spiegarle la strada, ma nel frattempo Julya era giù riuscita a prendere
un auto -una lucida Mercedes nera- e a imboccare l'autostrada per il Kansas.
Quando posò
il telefono sul sedile accanto a lei, aveva già recuperato un terzo del
tragitto compiuto da Damon ed Elena.
Era stata
fortuna: loro avevano preso la strada normale, quella più lunga.
L'autostrada
e la velocità sostenuta le avrebbero fatto recuperare terreno in breve tempo.
Forse non
sarebbe riuscita ad arrivare prima di loro, ma avrebbe ritardato di poco.
Mentre
guidava, l'attenzione alla strada non le impedì di pensare ad altro. Avrebbe
dovuto prestare maggiore cura, lo sapeva, ma la velocità e il movimento le
conciliavano la riflessioni e si ritrovava a pensare a cose che non c'entravano
niente con quello che stava facendo senza sapere perché.
Era
più forte di lei.
Forse
Stefan aveva ragione: non avrebbe dovuto andare. Ma se voleva trovare il modo
di chiudere anche quella storia, doveva essere Kol a dirle addio e doveva farlo
guardandola negli occhi.
Ma
era una bugia e non ci credeva nemmeno lei.
Non
sarebbe mai riuscita a chiudere per sempre con lui, neanche se l'avesse
trattata nel peggiore dei modi e l'avesse tradita.
In
realtà, dubitava che Kol potesse fare l'una o l'altra cosa.
Sapeva
che le persone lo vedevano come un vampiro irresponsabile, a volte infantile,
egoista, sconsiderato, capriccioso, forse anche un po' gigolò, dedito per lo
più al sarcasmo e incapace di comportarsi con cognizione di causa.
Kol
era pieno di difetti, Julya li vedeva senza bisogno che qualcuno glieli
elencasse.
Ma
sapeva anche che c'era anche molto altro in lui.
Aveva
passato vent'anni con lui, trascorrendo ogni secondo della proprio giornata al
suo fianco e aveva imparato a conoscerlo.
Ad
esempio, Julya sapeva che dava sfoggio del proprio sarcasmo solo quando temeva
che qualcosa potesse ferirlo; era protettivo, a volte ai limiti del possessivo,
e non aveva mai visto nessuno capace di amare – una volta superate tutte le sue
paure, ovviamente- con tanta passione.
Forse
l'aver visto il lato migliore di lui non l'avrebbe aiutata a dimenticare.
Se
avesse potuto considerarlo una creatura spregevole magari sarebbe riuscita a
dimenticarsi di lui, ma il fatto era che lei lo conosceva come nessun altro e
lo amava.
Incondizionatamente
e al di là di ogni possibile spiegazione.
Sospirò
e accese la radio. La radio trasmetteva una vecchia canzone che conosceva e
canticchiò piano.
Non
c'era alcuna logica, ma quella canzone le fece venire in mente i suoi giorni da
umana.
Erano
un po' confusi, ma c'erano cose che non avrebbe mai dimenticato e le tornarono
alla mente in quel momento, sulle note di quella canzone un po' triste che
sembrava rivangare la storia tormentata della sua famiglia.
“Please
don't leave me here.
Life,
for now, I've come to fear
You've
dropped me of and left me here,
whit
nothing here to fin my way”
Non
c'erano dubbi che quella fosse la casa giusta: vedeva la macchina di Damon poco
più avanti e scorgeva quello che probabilmente doveva essere Jeremy intento a
battere il piede per terra, impaziente.
Spense
l'auto e si fermò un momento.
Quella
poteva essere l'ultima volta in cui si sarebbe sentita così, innamorata.
Poteva
entrare in quella casa e vedere il proprio mondo sconvolto un'altra volta.
Sentiva che stavolta poteva affrontarlo: dopo aver affrontato tanti
sconvolgimenti credeva di poter sopportare tutto.
Il
punto era che sopportare era ben diverso da accettare.
Non
sarebbe finita in mille pezzi, ma sapeva che non avrebbe mai potuto
rassegnarsi.
D'un
tratto capì che quella sarebbe stata la sua croce per l'eternità.
Non
la morte, il vampirismo o il disprezzo per se stessa, ma l'amore.
La
sua umanità e l'incapacità di spegnerla erano lo scotto da pagare per la sua
vita. Fato, Fortuna, Destino le erano sempre sembrati cose troppo effimere e
intangibili per affidarvisi seriamente.
“Ciò che l'uomo pensa di se stesso – ecco ciò che regola o
piuttosto indica il suo destino” aveva sempre detto, citando Henry
David Thoreau.
Ora però si chiedeva se non fosse stato proprio il Fato, quella
Tyche che i greci tanto temevano e rispettavano, a far sì che lei restasse così
umana.
La sua punizione e il suo più grande pregio, probabilmente.
Le tremavano le labbra sotto il peso del pensiero di ciò che
sarebbe successo. Eppure scese dall'auto a testa alta, ostinatamente orgogliosa
e determinata ad arrivare fino in fondo.
Quel rapporto troncato a metà era peggio di qualunque abbandono.
Superò Jeremy senza farsi vedere e sgattaiolò fino all'ingresso.
La tipica casa americana, dipinta di un bianco e un azzurro così
infantili che le ricordarono il vestito di Alice nel paese delle meraviglie.
Aprì la porta con circospezione, pur sapendo che se ci fosse stato
un vampiro lì dentro l'avrebbe sentita comunque.
Entrò in punta di piedi, maledicendosi per non aver scelto un paio
di scarpe più basse e che facessero meno rumore sul pavimento.
All'improvviso il ticchettio dei tacchi sembrava più uno sparo in
una notte silenziosa.
La casa era strapiena, ingombra di ogni tipo di cianfrusaglia. Il
suo occhio di antiquaria esperta valutò che dovevano esserci anche alcuni
tesori lì dentro, come la scacchiera in legno e alabastro che aveva tutta
l'aria di risalire al primo '700 o uno scrittoio addossato alla parete in stile
Luigi XIV.
Probabilmente insieme a quelli vi era molto d'altro: libri,
mobili, suppellettili e chissà quali altri preziosi manufatti.
Conoscendo Mary, immaginava che non sapesse il valore del piccolo
tesoro che si trovava in casa.
Era il 1895 e Julya e Kol erano a Londra quando le aveva
presentato Mary. Quell'incontro fuggevole le era bastato per capire che non le
piaceva per niente e non l'aveva più rivista.
Il pavimento scricchiolava a ogni passo, i tacchi si incastravano
tra le fughe delle assi di legno del parquet, ma non importava: avrebbe potuto
mettersi a saltare su quel pavimento malandato e rumoroso e comunque non
l'avrebbe sentita nessuno.
Ogni rumore sarebbe stato coperto da quello che proveniva dalla
stanza accanto alle scale, esattamente di fronte a lei.
Con il cuore in gola, si avvicinò in punta di piedi e gettò uno
sguardo alla stanza
Damon era steso a terra e Kol lo guardava con il sorriso di un
bambino al luna park, ma non quello sincero e felice, ma quello che Julya aveva
imparato ad associare ai guai, grossi e dolorosi guai.
E la mazza che roteava con serena disinvoltura non migliorava
l'impressione generale.
Non si accorsero della sua presenza subito.
La mazza d'alluminio calò ancora un paio di volte su Damon sotto
lo sguardo sbigottito di Elena e Julya.
“Elena, scappa” le intimò Damon, ma Kol la spinse lontano e allora
Julya decise che era il momento di intervenire prima che qualcuno si facesse
davvero male.
“Kol!”
Lo afferrò per un braccio per trattenerlo, come se ce ne fosse
bisogno: la sua voce aveva avuto il potere di fermarlo con la mazza a
mezz'aria.
Spostò la mano sul suo petto e lo spinse indietro, lontano da
Damon. Guardando il suo volto, Julya non avrebbe saputo dire se sembrasse
infastidito di vederla o fosse solo sorpreso.
Di certo non si aspettava di vederla lì.
“Che diavolo ci fai tu qui?”
Si frappose fra lui e Damon e afferrò il manico della mazza per
toglierglielo di mano, ma Kol non mollò la presa.
“Puoi lasciarla, per favore? Possiamo parlare anche come persone
civili” lo rimbrottò e a Kol parve di essere tornato indietro nel tempo, quando
lo sgridava per le sua maniere.
Gli piaceva che cercasse di impartirgli qualche lezione, di quando
in quando, soprattutto perché quelle lavate di capo finivano sempre in un
letto, dove facevano l'amore fino a quando non erano sazi l'uno dell'altro.
Una fitta acuta di desiderio gli fece quasi dimenticare il motivo
per cui se n'era andato da Mystic Falls lasciandole una lettera.
In effetti, con il senno di poi si chiese come avesse fatto a
pensare che Julya si sarebbe rassegnata.
Non avrebbe dovuto essere così felice di vederla e provò a
reprimere quel sentimento.
Alla fine scoppiò in lui come un fuoco d'artificio e raggiunse
ogni parte del suo corpo, anche se si costrinse a nasconderlo dietro
un'espressione arrabbiata.
“Di cosa dovremmo parlare, sweetie?” la derise “Voglio solo
pareggiare i conti”
La superò prima che potesse fermarlo e tornò a colpire Damon. Il
braccio, la schiena e ancora la schiena... le sembrò di essere tornata a quando
era umana e i nobili russi non esitavano a usare la violenza con i loro servi.
Potevano non ricordare i volti dei suoi concittadini o come si
chiamassero le sue amiche, ma non avrebbe mai dimenticato le frustate, gli
schiaffi e le violenze gratuite dei nobili e della polizia.
La brutalità e l'ignoranza erano la parte peggiore di quella
Russia ed erano stati una ferita aperta per tanto tempo, abbastanza da
impedirle di fermarsi a lungo a San Pietroburgo nei secoli successivi alla sua
trasformazione.
Provò la stessa sensazione di rabbia e impotenza, lo stesso
prurito alle mani e sembrò che niente fosse cambiato.
Ma non era così: lei era un vampiro e di certo non era inerme.
“Kol, fermati!” lo supplicò facendosi avanti e poggiandogli una
mano sul braccio. Non sembrò darle ascolto e si preparò a infierire ancora.
“Per favore, basta” riprovò e stavolta sembrò sentirla.
Kol incontrò gli occhi scuri e intensi di Julya. Si placò e si
lasciò sfilare docilmente la mazza dalle dita.
Aveva un potere enorme su di lui e Kol non se n'era mai reso
conto.
Si sentiva suo nel senso più profondo del termine, come se
lui fosse stato una bambola e lei la sua proprietaria.
Non c'era nulla che non avrebbe fatto per compiacerla, anche
smettere di picchiare Damon Salvatore.
Lasciò che lui ed Elena se ne andassero mentre loro rimasero lì.
Forse avrebbe dovuto andarsene: ogni minuto che indugiava accanto
a lei la decisione di abbandonarla si fiaccava sempre di più, sfibrandosi
lentamente.
Rimasero in silenzio per un po'. Kol la guardava apertamente
mentre Julya camminava per la stanza, toccando e valutando ciò che vi trovava
con attenzione.
“Quindi non hai smesso di interessarti di storia” notò mentre
scrutava con uno sguardo meravigliato ed estasiato un cofanetto di legno
intarsiato dall'aria piuttosto antica.
“Non avrei mai potuto” ammise.
“E' sempre stata la tua più grande passione” constatò Kol.
Julya stava solo aspettando il momento giusto per parlare e quando
sentì che Elena e Damon se ne andavano si voltò con uno sguardo deciso che fece
capire a Kol che era arrivato il momento di chiarire.
“Perché te ne sei andato?”
Fece spallucce. Non le avrebbe detto la verità: non sarebbe
servito. Anzi, avrebbe solo vanificato il suo tentativo di tenerla al sicuro.
“Mystic Falls non fa per me”
“Te ne sei andato senza una parola, un saluto”
“Ti ho lasciato una lettera”
Non aveva avuto nessuna reazione fino a quel momento: lo aveva
guardato con freddezza, le labbra strette in una posa severa e il volto
impenetrabile.
Quello faceva ancora più paura.
La calma mortale con cui Julya stava parlando lo spaventava cento
volte di più delle sue epiche lavate di capo.
Forse perché sembrava distante, come se non le importasse: questo
lo feriva più di ogni altra cosa.
Lo terrorizzava l'idea che, un giorno, lo avrebbe semplicemente
trattato con indifferenza. Perciò sentirla urlare e accalorarsi era
rassicurante: fino a quando fosse stato in grado di scatenare tutta la sua
passionalità -fosse in un letto o mentre la baciava o gli urlava contro-
avrebbe avuto la certezza di occupare un posto speciale nel suo cuore.
Era tutto quello che chiedeva per l'eternità, dato che non poteva
più avere lei.
Fu un sollievo vedere i suoi occhi lampeggiare d'ira e rabbia.
“Una lettera!” si indignò “Dopo tanti anni, tu mi lasci una misera
lettera” sputò la parola come se fosse un insulto.
Aveva tutto il diritto di essere arrabbiata: la sua non era stata
per niente una nobile mossa. Non poteva permettersi però di mostrarle i propri
veri sentimenti perciò si stampò in faccia il miglior sorriso affascinante e
sperò che funzionasse.
“Mi dispiace” ammise “Vent'anni sono tanti per stare con una persona
e ora mi sono reso conto che l'impegno non è per me”
L'espressione di Julya subì varie trasformazioni. Dapprima sul suo
viso vi fu sorpresa, poi indignazione, rabbia e infine qualcosa che Kol non
riuscì a decifrare.
“So che non sarà facile rinunciare a me” la derise sempre con il
solito sorriso seducente e sarcastico “sono bello e affascinante, ma credo che
l'eternità non sia per noi” ammise senza ombra di dispiacere.
“Una volta eri più abile a mentire” lo freddò “Non so se
arrabbiarmi per ciò che stai dicendo o sentirmi insultata perché per uscirtene
con frasi del genere devi credermi davvero stupida”
Si avvicinò abbastanza da sfoderare la sua arma vincente, quegli
occhi così intensi e grandi ai quali nessuno avrebbe potuto resistere.
Probabilmente non lo faceva intenzionalmente, solo che i suoi
occhi avevano su Kol un effetto strano, un po' come la sua presenza e la sua
vicinanza.
“Sai una cosa? Io so perché te ne sei andato, il vero motivo”
iniziò con calma, guardandolo negli occhi con uno sguardo limpido e sicuro “Hai
paura di mettermi in pericolo, di farmi male. Ma me ne farai di più andandotene
via”
“Un giorno ti passerà e smetterai di pensare a me” sussurrò.
Tutta la sua baldanza era scomparsa nel momento in cui si era
sollevata sulle punte e aveva appoggiato la sua fronte su quella di lui, le
loro labbra a un soffio le une dalle altre.
“Ho passato cento anni senza di te e posso assicurarti che non
smetterò mai di amarti” gli fece notare guardandolo negli occhi.
Avrebbe voluto che Julya lo cacciasse via invece che supplicarlo
di restare: sarebbe stato molto più semplice.
Invece lei intrecciò una mano con la sua e gliela strinse.
Non desiderava altro che abbracciarla, baciarla e non lasciarla
più andare, ma si impose di non abbandonare il suo piano.
Per lei, si disse, lo faceva solo per lei.
Gli ci volle tutta la forza di volontà di cui disponeva per
allontanarsi e superarla.
“Hai promesso che non mi avresti mai lasciata” gemette.
La sua voce era un sussurro spezzato e Kol resistette alla
tentazione di voltarsi. Sapeva cosa avrebbe visto: occhi lucidi, appannati di
lacrime e labbra tremanti, l'unica espressione capace di mandarlo nel panico.
Aveva visto piangere tante ragazze prima che le uccidesse, ma non
avrebbe sopportato di vedere le lacrime sul suo volto.
Se si fosse voltato, non se ne sarebbe mai più andato.
“Mi stai ferendo” continuò
in un mormorio.
Kol si ostinava a non guardala negli occhi e Julya non riusciva a
capire perché. Aveva compreso che non sarebbe rimasto con lei, ma non riusciva
accettarlo.
Non era pronta al dolore che la invase quando realizzò che lo
avrebbe perso per sempre. Non pensava avrebbe fatto tanto male.
“Starai meglio senza di me” la consolò.
“Non è vero!” esplose Julya slanciandosi verso di lui e
stringendogli le braccia intorno alla vita. Affondò il viso nella sua schiena e
non trattenne più le lacrime.
Non le importava di sembrare un'eroina da romanzo di terza
categoria o la protagonista di qualche soap opera: non poteva perdere Kol.
Era tutto ciò che le restava e l'idea di essere separata da lui la
faceva sentire come un marinaio di fronte alla tempesta perfetta.
Annichilita, le sembrava di boccheggiare alla ricerca del sollievo
dal dolore.
La verità era che non le importava di non essere il tipo che
piange per amore; non le importava di nulla.
Voleva disperatamente essere felice con Kol.
“Non abbandonarmi” lo pregò, ma dato che lui continuava a restare
immobile tra le sue braccia decise di giocarsi il tutto per tutto.
“Tutti se ne vanno dalla mia vita, per un motivo o per l'altro.
Tutti mi lasciano sola; non andartene anche tu”
Era un colpo basso, lo sapevano entrambi, ma sembrò funzionare
perché Kol dovette stringere i denti e chiamare a raccolta tutta la propria
determinazione per liberarsi dalla presa di Julya e allontanarsi.
Il suo cuore era a pezzi: chiunque avesse visto in lui solo un
vampiro egoista e privo di sentimento, psicopatico, avrebbe cambiato idea nel
vedere l'espressione sul suo viso.
Sembrava un uomo divorato da un fuoco interiore.
Julya lo seguì fino al portico. Avrebbe dovuto lasciarla così,
andarsene senza aggiungere una parola, ma non riuscì a trattenersi.
“Se puoi, tienimi in un angolo del tuo cuore”
Si sarebbe accontentato di un piccolo spazio, un misero angolo
nella sua memoria e nei suoi ricordi.
“Non farlo!” gli urlò dietro mentre si inoltrava nel bosco.
“Kol! Torna indietro, dannazione! Dico sul serio: vattene ora e mi
perderai per sempre!” lo minacciò.
Julya non credeva che se ne sarebbe andato davvero. Si sarebbe
voltato e avrebbe fatto dietro-front per tornare da lei.
Era nell'ordine naturale della cose e loro erano destinati l'uno
all'altra.
Quando lo vide inoltrarsi nella boscaglia anche quella certezza
vacillò per poi sfumare del tutto quando lo vide scomparire tra gli alberi.
Forse era finita davvero.
“It's a tear in the dark
all alone in the car.
In pieces, in pieces”
When a heart breaks- Dave Barnes
Bumbunì’s note
-Buonsera! Ecco, ho deciso di allungare i capitoli, un po’ per
poter concludere prima dato che davvero un sacco di storie ancora aperte, un po’
perché volevo dargli più “sostanza”.
- Poi, volevo ringraziare chi segue/legge/ha inserito tra i
preferito la storia. Casomai un giorno vi andasse di farmi sapere cosa ne
pensate, accetterò con piacere la vostra opinione.
|
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Capitolo 14 *** Tomorrow finds the best way out is through ***
Tomorrow finds the best way out is through
Ebbene, siamo alla fine.
Questo è l’epilogo
definitivo della storia. Non ci saranno seguiti, solo gli spin-off
collegati a questa long.
Colgo perciò l’occasione di ringraziare chi ha letto, recensito e
inserito la storia tra i preferiti/seguiti.
E’ stato un vero piacere poterla scrivere e spero che l’abbiate
apprezzata.
Detto questo, buona
lettura.
Tomorrow finds the best way out is through
“I know you're leaving now
Cause I held on to my way tightly
Stay still until you know
Tomorrow finds the best way out is
through”
Ungodly hour-The Fray
La seconda volta era stato più facile raggiungere il Graal.
Si era inginocchiata per passare oltre le lame, aveva composto il
nome di dio e si era lasciata scivolare sulla sottile lastra di roccia che
attraversava il precipizio per giungere di nuovo laddove riposava il calice e
il cavaliere che lo custodiva.
“E' una sorpresa per me rivedervi qui, giovane fanciulla” ammise
il templare abbassando subito la spada.
“E' una sorpresa anche per me” confermò Julya.
In realtà non avrebbe voluto tornare lì, ma non le era venuta in
mente idea migliore.
A Mystic Falls la situazione era sempre più tesa e Julya sentiva
che sarebbe accaduto qualcosa di terribile a breve.
Aveva pensato che fosse solo la sua immaginazione a giocarle
brutti scherzi e che doveva essere l'atmosfera.
Aveva provato a ignorare quella sorta di sirena che suonava nella
sua testa, ma aveva scoperto presto di non riuscire a metterla a tacere.
In realtà, la paura la attanagliava da quando Stefan le aveva
raccontato cosa era successo alla discendenza di Finn quando lui era morto.
Il pensiero di morire in quel modo la terrorizzava, ma quando
pensava che sarebbe successo solo dopo la morte di Kol si sentiva ancora
peggio.
Era un pensiero troppo grande da realizzare e Julya non lo
comprendeva a pieno.
Quando poi era venuto alla luce il casino di Alaric aveva capito
che non c'era più tempo. Così aveva fatto i bagagli in fretta ed era partita,
sostenendo che forse avrebbe potuto trovare una persone che potesse aiutarli.
Era una bugia.
Aveva bisogno di qualcosa che la proteggesse e la aiutasse a
sopravvivere a quella città. Forse avrebbe dovuto solo andarsene: se avesse
lasciato Mystic Falls sarebbe stata al sicuro, lontana da ibridi, licantropi,
streghe e Originali.
Ci aveva pensato più di una volta, ma la conclusione era sempre
stata la stessa: non poteva partire.
Si era detta che lo faceva per Stefan, ma sapeva di mentire a se
stessa: restava solo perché tutto in quella città le ricordava Kol e lei aveva
un disperato bisogno di tenersi stretto tutto ciò che era legato a lui.
Fosse la stupida strada che avevano percorso insieme la notte in
cui se n'era andato o la lettera che le aveva scritto.
Per quello era tornata ad Alessandretta.
La leggenda voleva che, al di là dei poteri curativi, il Graal
potesse molto altro: tra i vampiri che credevano all'esistenza di quel cimelio
serpeggiava la diceria che bere sangue dal calice rendesse più forti, più
veloci, più potenti, quasi come un Originale.
Julya era lì per scoprire se era tutto vero.
“Cosa vi porta qui, mademoiselle?”
“Voglio fare un piccolo esperimento” mormorò abbassandosi per
cercare il Graal. Era un po' nascosto, proprio dietro un grande calice
tempestato di rubini e diamanti, un vero tesoro che qualunque collezionista
avrebbe voluto possedere.
La coppia di Cristo appariva ancora più insignificante al confronto.
Chissà, forse anche quello avrebbe potuto essere uno spunto di riflessione
sulle apparenze e il messaggio cristiano, ma a lei non importava.
Afferrò il calice e vi versò dentro il sangue che aveva conservato
dentro una boccetta.
Non sapeva cosa sarebbe successo: poteva diventare inarrestabile,
poteva trasformarsi in un mostro oppure restare se stessa.
La gamma di opzioni era piuttosto vasta, ma Julya era disposta a
correre il rischio per il vero motivo per cui era lì e teneva il calice tra le
mani.
Contro ogni
logica e ragionevole pensiero, una parte di lei credeva che se fosse stata più
forte e avesse saputo difendersi, Kol non avrebbe più avuto motivi per
andarsene.
Allora
avrebbero potuto essere felici insieme, come era giusto che fosse, com'era
destino.
Inspirò ed espirò a fondo, poi bevve il sangue tutto d'un sorso,
come se fosse stato un bicchierino di tequila.
Come la prima volta, la sensazione di potere fu inebriante. Era
ebbra, sentiva che nuova linfa le scorreva nelle vene.
Qualunque cosa fosse, era come un'onda calda e afrodisiaca. Le
sembrava di avere tra le mani tutto il potere del mondo, la possibilità di
disporre di qualunque cosa volesse.
Assaporò la nuova sensazione: tutto il mondo intorno a lei
sembrava amplificato, come se all'improvviso tutti i suoi nervi si fossero tesi
e fosse in allerta.
Ma non c'era nessun pericolo e con stupore realizzò che erano solo
i suoi nuovi sensi, più nitidi di quanto non fossero mai stati.
Ma il vero potere lo sentiva nella propria mente, come se avesse
sviluppato una sorta di spazio extra.
“E' meraviglioso” esalò leccandosi le labbra per ripulirle dal
sangue.
Il cavaliere non disse niente, ma se anche lo avesse fatto Julya
dubitava che vi avrebbe prestato davvero attenzione.
Era concentrata solo su se stessa e sulle proprie sensazioni.
Sentiva che niente avrebbe potuto farle del male, non fino a quando avesse
continuato a sentirsi così incredibilmente invincibile.
In quel momento suonò il cellulare.
Lesse il nome sul display: Stefan.
Qualcosa le diceva che non doveva avere buone notizie. In effetti,
si sarebbe stupita del contrario.
“Esther è tornata e ha trasformato Alaric. Ora c'è solo il suo
alter ego cacciatore di vampiri”
*
“Her bag is now much heavier
I wish that I could carry her
But this is our ungodly hour”
Ungodly hour- The fray
Non era tornata a Mystic Falls.
I voli dalla Turchia non erano particolarmente affidabili e così
aveva dovuto fare scalo ad Atene e poi a Vienna.
Il teoria, l'itinerario prevedeva ancora una fermata a Londra e
Buenos Aires prima di arrivare finalmente a Richmond, da cui avrebbe viaggiato
in macchina fino a Mystic Falls.
In pratica, le cose erano andate in maniera molto diversa.
La sosta a Vienna sarebbe stata piuttosto lunga, così si era
accampata fuori dal gate e aveva iniziato a passeggiare per i negozi.
Poi si era ritrovata davanti al tabellone delle partenze e aveva
visto il nome della sua città, San Pietroburgo.
Le erano tornate in mente il centro storico, la prospettiva
Nevskij e la Neva e aveva ripensato al profumo dei dolci russi, al freddo
pungente e al bianco dei marmi delle cattedrali che svettavano contro il cielo
azzurro.
Due ore dopo era atterrata a San Pietroburgo.
Non sapeva neanche lei cosa fare così aveva solo passeggiato lungo
la prospettiva Nevskij e si era fermata ad aspettare la sera davanti
all'Hermitage per poterlo guardare una volta illuminato.
Non ricordava che fosse tutto così bello.
Aveva ripreso la sua passeggiata: la città era affollata di
turisti di ogni nazionalità, coppie che passeggiavano mano nella mano e gruppi
di amici che passavano da una vetrina all'altra ridendo.
Il suo sguardo si oscurò e il sorriso scomparve quando vide una
ragazza e un ragazzo mentre giocavano nel parco intorno a una grande fontana.
Avevano ingaggiato una battaglia di palle di neve e sembravano
così spensierati. Julya li invidiava.
Lei, un vampiro, che poteva avere dal mondo qualunque cosa
desiderasse, invidiava due mortali.
Loro avrebbero vissuto ancora qualche decennio, poi si sarebbero
spenti.
Lei invece avrebbe avuto l'eternità per godere di tutto ciò che
era bello, eppure non avrebbe chiesto altro che stare in quel parco di San
Pietroburgo a fare a palle di neve con Kol.
Affondò il viso nella sciarpa per nascondere la piega triste delle
labbra e attraversò il parco. Non sapeva doveva stava andando, erano le sue
gambe a guidarla.
Capì dove stava andando solo quando superò un pesante cancello
dipinto di nero e si accorse di aver raggiunto il cimitero dove era sepolta la
sua famiglia.
Guardò il lungo corridoio di ghiaia che si stendeva tra le lapidi.
Non era sicura di essere pronta a entrare.
I suoi genitori e i suoi fratelli le mancavano ogni giorno, un
vuoto nel petto che però stava lentamente cominciando a guarire.
Era grata a Kol e a Stefan per averla aiutata, anche se in modi
diversi. Era grazie a loro se cominciava a vedere le cose in modo diverso, da
una prospettiva più sana.
Alla fine raccolse il coraggio a due mani e percorse a passo
spedito la stradina, fino a raggiungere un grande abete.
Doveva avere parecchi decenni e sotto la sua ombra riposavano più
di una decina di tombe, le più maestose di quella zona del cimitero.
Una volta un servo della gleba non avrebbe mai potuto permettersi
una sepoltura di quel genere, ma quando Julya era diventata vampira aveva fatto
in modo che venissero spostati in tombe più degne.
Era un po' sbiadite – ma d'altronde erano lì dal 1911-, senza
l'ombra di un fiore o di una candela.
Aveva accettato il fatto che fossero andati e non sarebbero
tornati la sera del ballo a casa Mikaelson, ma c'era ancora qualcosa che doveva
fare.
Doveva dire loro addio: solo così avrebbe potuto iniziare
davvero a chiudere la voragine che aveva nel petto.
Non avrebbe tentato di recuperare ciò che era svanito, non più
almeno. Avrebbe sfruttato il vuoto di quelle perdite per riempirlo con qualcosa
di nuovo.
Ci sarebbe voluto del tempo, ma si sarebbe presa cura di se stessa
e sarebbe rinata come una fenice delle sue ceneri.
Tornò all'ingresso e vi trovò un armadietto pieno di candele. Ne
prese quattro, lasciò la sua offerta e tornò alle tombe.
Era
arrivato il momento.
Julya
accese le candele, le sistemò sulle lapidi e le guardò una ad una. Era passato
tanto tempo da quando la sua famiglia se n'era andata, ma lei non li aveva mai
lasciati andare.
Li
aveva sempre tenuti stretti al petto, nascosti laddove nessuno avrebbe potuto
vederli. Ma anche loro meritavano di riposare.
Forse
accendere una candela non avrebbe chiuso quel conto di sospeso ma Julya sapeva
che non lo faceva per la sua famiglia.
Lo
faceva per se stessa perché un gesto simbolico era quello di cui aveva bisogno lei
per dire addio. Forse non avrebbe ottenuto nulla da quel gesto, ma era
tutto ciò che poteva fare.
Le
candele brillavano. Non c'erano date sulle lapidi, solo pezzi di pietra sotto i
quali Julya non è nemmeno certa che si trovassero le ossa dei suoi fratelli e
dei suoi genitori.
Non
importava: l'unica cosa che contava era che, nel momento in cui quella candela
si sarebbe spenta, lei si sarebbe lasciata definitivamente alle spalle il
proprio passato.
“Fino
ad ora mi sono aggrappata al mio dolore per non lasciarvi andare, ma non può
continuare. E' ora che impari a tenervi con me in modo più sano, più giusto.
Sarete sempre nel mio cuore, ma dovete passare oltre” ammise.
Smise
di parlare, come se fosse in attesa di qualcosa e si accorse con un mezzo
sorriso che, chissà quanto a fondo, una parte di lei aveva sperato di vedere i
fantasmi della propria famiglia lì, accanto a lei per salutarla un'ultima
volta.
Quella
era la prova definitiva che non sarebbero tornati. Aveva fatto tutto ciò che
poteva, ora doveva solo fare l'ultimo passo e lasciare che se ne andassero.
“Sarete
sempre una parte di me, di ciò che sono. Sarà come doveva essere tanto
tempo fa”
La
sua famiglia era ciò che l'aveva fatta diventare la donna che era prima di
essere trasformata in vampiro: ci sarebbero stati momenti in cui avrebbe
rivisto loro nei propri gesti, ma ora poteva sopportarlo.
“Vi
ho voluto bene, ve ne voglio ora ve ne vorrò per il resto della mia vita, per sempre”
la voce le tremò e si ritrovò con le guance bagnate di lacrime in un
battito di ciglia.
Quella
era la fine, l'ultimo saluto e lasciò che fosse accompagnato dalle proprie
lacrime: era quanto di più vero potesse trovare in quel momento.
Si
diceva che nessuno si accorgesse di quando un fantasma se ne andasse e Julya
non sentì nulla, ma nella sua mente fu come se un'onda si fosse placata piano,
come se il vento avesse smesso di soffiare.
Allora
si sentì libera e svuotata, come se si fosse tolta dalle spalle tutto ciò che
vi era posato fino a quel momento.
Non
ci fu più nulla e fu strano guardare le cose da una nuova prospettiva.
Ora
sapeva che sarebbe andato tutto bene e che qualunque cosa si sarebbe risolta.
Rimase
in silenzio a commemorare quel momento: oltre ai fantasmi dei suoi genitori e
dei suoi fratelli, vide andarsene una parte di sé.
Il
suono del telefono giunse inaspettato a turbare la solennità di quel momento.
Si accigliò nel vedere che era Stefan.
“Klaus
è morto” esordì.
La
sua voce era incolore e Julya non seppe come interpretarla. Doveva essere
felice? Non era una buona notizia? Era ciò che Stefan voleva, che tutti volevano
ora che il legame con i suoi fratelli era stato spezzato.
“Era
il nostro capostipite, mio, di Damon e di Caroline” le spiegò e allora un lampo
di comprensione squarciò il buio nella mente di Julya.
Trattenne
rumorosamente il fiato. Avrebbe perso Stefan. E Caroline.
La
consapevolezza che se ne sarebbero andati anche loro la travolse e le tremarono
le mani.
Aveva
finalmente trovato due amici sinceri, a cui era davvero affezionata e
non poteva perderli, non in quel momento.
Si
sentì impotente e frustrata, lontana da loro migliaia di chilometri e fu di
nuovo come essere umana e dover affrontare la morte senza poterla combattere e
allontanare.
A
cosa serviva essere vampiri se si doveva continuare a vivere nella paura di
morire a causa di creature come Klaus? Non era giusto.
“Perciò,
ora morirai”
“Così
pare. Ho pensato che non mi avresti mai perdonato se non ti avessi chiamato
prima di andare”
“Hai
perfettamente ragione. Non ti avrei mai perdonato”
Dall'altro
lato del telefono, Stefan accennò un sorriso e poi rimase un momento in
silenzio.
“Dove
sei?”
“A
San Pietroburgo. Sai, avevo bisogno di prendermi un momento per salutare i miei
genitori. Già che sono qui potrei prendermi un momento per salutare anche te”
scherzò, ma il tremolio nella sua voce mandò a monte qualsiasi tentativo di
sdrammatizzare.
“Julya...”
“No,
aspetta, lasciami parlare. Io... io non sono brava a esprimere a parole i miei
sentimenti, ma tu stai per morire e non voglio che tu te ne vada senza sapere
che ti amo. Non nel modo in cui amo Kol o quello in cui tu ami Elena, ma
ti amo. C'è stato un tempo in cui pensavo che fosse proprio quel tipo di
amore, ma mi sbagliavo. Eppure non riesco a immaginare la mia vita senza di te”
“Siamo
stati separati per tanto tempo. Sarà come tornare a quel periodo” la consolò.
“No,
non sarà uguale. Allora, anche se non eri con me, sapevo che da qualche parte
nel mondo c'era un vampiro di nome Stefan che mi voleva bene e che ci sarebbe
sempre stato per me, per quanto arrabbiato o deluso. Ora non avrò neanche più
quello”
Respirò
a fondo per calmare il tremito della voce e alzò gli occhi al cielo, in
silenzio. Sentiva che le bruciavano e le lacrime si accalcavano già agli
angoli.
Sarebbe
rimasta al telefono con Stefan fino a quando non sarebbe morto: forse non
poteva trascorrere fisicamente con lui i suoi ultimi momenti, ma poteva
essergli accanto comunque.
“Quello
che è successo a Venezia...” iniziò Stefan.
“E'
tutto a posto, Stefan. Credo di aver avuto un momento di confusione. Ed è vero,
ti amo, un po' come ho amato i miei fratelli”
“Anche
io ti amo come la sorella che non ho mai avuto. Per quel che vale, ti ho
perdonato per essertene andata nel 1928, perdonata davvero”
“Grazie”
sussurrò aprendosi in un sorriso lacrimoso.
Rimasero
in silenzio. L'unica cosa che Julya riusciva a sentire era il rumore del
respiro di Stefan, calmo e regolare, come se non stesse per morire.
Non
era sicura che se le fosse capitata la stessa sorte sarebbe riuscita a
mantenersi altrettanto salda e impassibile.
“Resterò
al telefono con te fino a quando non arriverà la fine” proclamò a un certo
punto la vampira per rompere il silenzio.
Dall'altro
lato, Stefan scosse la testa “No, Julya. Io andrò da Elena e quel che deve
succedere, succederà. Non essere triste” la ammonì bonariamente, con un sorriso
malinconico.
Gli
sarebbe mancata, ma più di tutto sapeva che lui sarebbe mancato a lei e
quello era il pensiero peggiore.
“Quindi
questa è davvero la fine” mormorò, ma quelle parole non riuscirono a fare altro
che far sorridere Julya.
“Ci
sono tante cose che devo ancora imparare, Stefan, ma c'è una cosa che ho
capito: non c'è fine che non porti un nuovo inizio perciò, io credo che ci
rivedremo. Non so come, non so quando, ma ti rincontrerò”
“Per
essere una che non crede nel destino o in dio, ha una fede incrollabile in
questo”
“E'
perché me lo dice il mio istinto”
“Addio, Julya”
La
candela morì lentamente e Julya lasciò che ciò che era stato scivolasse dalle
dita e si alzasse verso il cielo come il fumo della candela.
“Da svidaniya, Stefan”
**
“Je
profitte de cette robe là-bas, merci”
La commessa,
una signora un po' anziana, le sorrise dall'altro lato della bancherella e
Julya afferrò l'abito che aveva scelto, un po' vintage ma troppo bello per
essere lasciato nelle mani di qualcun altro.
“Passez vous une bonne journée”
Julya
continuò la sua passeggiata lungo il quartiere latino, fermandosi di quando in
quanto davanti a qualche bancherella di vecchi dischi in vinile o gioielli.
Le piaceva
un sacco quella piccola tradizione che si era creata da quando si era sistemata
a Parigi.
Alla fine
non era tornata a Mystic Falls.
Aveva
lasciato San Pietroburgo il giorno dopo aver detto addio alla propria famiglia,
subito dopo la chiamata di Stefan che le diceva che stavano bene, anche se
sembrava impossibile.
Le aveva
raccontato di Elena e le aveva chiesto di tornare, ma quando aveva preso in
seria considerazione l'idea si era accorta di non poterlo fare.
Non era
tornata e Stefan aveva capito, accettato, la sua decisione: forse aveva
compreso che era ciò di cui Julya aveva bisogno per guarire davvero.
Aveva scelto
di sistemarsi a Parigi.
Aveva
affittato un piccolo appartamento a Montmatre, in un edificio vecchio stile.
Era all'ultimo piano, con un terrazzo che aveva sistemato con baldacchini,
tavolini, poltrone e tendaggi.
Si era anche
iscritta alla Sorbone, corso di laurea in Antichità classiche e orientali.
Lentamente,
aveva iniziato a stare meglio.
Non era
guarita dalla sera alla mattina e a volte si sentiva ancora fragile come il
cristallo, ma Parigi le stava facendo davvero bene.
Con
sorpresa, aveva scoperto che la cosa più difficile da dimenticare e da accettare
era l'assenza di Kol.
Gli aveva
promesso che non lo avrebbe mai perdonato e che se se ne fosse andato l'avrebbe
persa per sempre, ma era una bugia.
Era suonata
una menzogna alle sue stesse orecchie già allora; con il tempo era diventata
ancora più una falsità.
Non era
neanche riuscita ad arginare i ricordi, a seppellirli da qualche parte dove non
potesse trovarli.
Per un
secolo aveva cercato di dimenticare qualunque cosa riguardasse loro per non
soffrire; forse non era più disposta a farlo.
In cuor suo,
avrebbe amato Kol fino a quando non le avessero infilato un pugnale nel petto.
E forse anche allora il suo amore sarebbe sopravvissuto, aleggiando come un
fantasma sulla terra.
Il fatto era
che Kol le mancava da morire.
Nonostante
il dolore, il senso di abbandono e la tristezza, non riusciva a smettere di
amarlo con ogni fibra di sé.
Era il loro
tipo di amore: potevano farsi male e ferirsi, ma avrebbero comunque continuato
ad amarsi.
Per Julya
era facile amare qualcuno di cui si fidava ciecamente; il difficile era provare
lo stesso verso qualcuno che si era dimostrato più volte inaffidabile e pieno
di difetti.
Forse si
sarebbe ripresa più in fretta se avesse tentato di mettere da parte i ricordi,
ma la verità era che non ci aveva neanche provato.
In fondo al
cuore, continuava a sperare che lui tornasse da lei.
Sospirò e si
infilò in una delle vie secondarie del quartiere. Anche lì era pieno di
bancherelle e su una di quelle era posato un vecchio giradischi. Nell'aria
vibravano le note di una canzone di Cole Porter.
L'intera
atmosfera ricordava tanto “Midnight in Paris”: aveva adorato quel film, forse
perché le aveva restituito l'immagine di Parigi come la vedeva lei.
Non solo
Notre Dame, Versailles, l'Operà o il Sacro Cuore, ma una città magica in ogni sua
parte.
Si sistemò
la paglietta sul capo e si fermò a prendere un gelato: poteva anche essere
diventata una vampira, ma niente l'avrebbe fatta rinunciare a una coppetta di
semifreddo alla meringa e gelato all'anguria.
Lo assaporò
mentre si fermava ad ascoltare la musica su una panchina, guardando la gente
che camminava con gli occhi socchiusi.
“Sapevo che
ti avrei trovata qui: amavi questo posto già nel 1900”
Balzò dalla
panchina e il gelato cadde a terra. Aveva desiderato così tanto che Kol
tornasse eppure in quel momento non riuscì a fare altro che strabuzzare gli
occhi e stupirsi.
Si ricompose
in fretta, mascherando il turbamento e la gioia di vederlo dietro una maschera
di freddezza.
Cosa diavolo
ci faceva lì?
Kol si era
aspettato esattamente quella reazione.
A dire il
vero, quando aveva visto che teneva un mano un gelato aveva avuto paura che
glielo lanciasse contro. Per sua fortuna, era finito a terra.
Quando
l'aveva lasciata in Kansas, aveva vagato un po' per gli States. Era stato in
Florida per un po', poi a Los Angeles.
Aveva
pensato che ragazze in bikini e alcolici potessero lenire la sensazione di
vuoto che non lo abbandonava mai, ma si era reso conto fin troppo presto di non
essere più fatto per quella vita.
Julya gli
mancava e più di una volta aveva pensato di tornare a Mystic Falls e implorarla
di perdonarlo, ma ogni volta si era detto che sarebbe stato peggio per lei.
Lì era al
sicuro.
Grande
errore: quando Rebekah lo aveva chiamato per informarlo di ciò che stava
succedendo in città, aveva subito pensato a lei e aveva capito.
Julya non
era per niente al sicuro senza di lui. In realtà, la sua famiglia era una delle
cose che potevano farle del male e certo vivere in una città abitata da lupi
mannari non era esattamente ciò che un vampiro avrebbe definito “vita sicura”.
Senza
contare che la combriccola di vampiri e umani con cui si intratteneva sembrava
fin troppo propensa a cacciarsi nei guai o ad attirarli.
Stando
lontano da lei poteva proteggerla da se stesso, ma chi l'avrebbe protetta dal
resto del mondo?
Non avrebbe
mai dovuto lasciarla, farla sentire così sola e abbandonata: Julya non lo
meritava.
Lei gli era
sempre stata accanto, lo aveva sgridato, sfidato, spronato, gli aveva dato
tutto di sé: amore, lealtà, passione. Lei ci aveva creduto davvero e meritava
qualcuno che avesse il coraggio di starle accanto.
E voleva
essere lui, Kol, quel qualcuno.
Così aveva
deciso di tornare da lei, ma Rebekah gli aveva detto che era partita. Non era
stato facile trovarla, ma alla fine era riuscito a sapere dove si trovasse:
avrebbe dovuto aspettarselo.
Rintracciarla
a Parigi era stato facile: era bastato andare nei luoghi che sapeva esserle
cari, quelle che più l'avevano emozionata quando l'aveva portata a Parigi per
la prima volta, nel 1900.
Si era
aspettato la sua reazione, ma di certo non aveva previsto che poi avrebbe messo
insieme quell'espressione fredda e distaccata, esattamente ciò che più temeva.
Avrebbe
preferito che urlasse e gli riversasse addosso tutta la sua rabbia, piuttosto
che vederle addosso ancora per un minuto quello sguardo distante e impassibile.
Tra loro si
frappose un silenzio spesso come lastra di cemento e Kol sentiva l'improvvisa
lontananza di Julya come un dolore fisico.
Kol aprì la
bocca per parlare, ma Julya fu più rapida.
“Cosa
diavolo vuoi?”
“Te?” tentò,
ma ottenne solo un sopracciglio inarcato e nessun sorriso.
Non si era
aspettato che gli saltasse addosso, ma di certo pensava che gli avrebbe
riservato un benvenuto meno gelido e distaccato.
“Non ti
avvicinare” lo avvertì quando fece un passo avanti verso di lei.
Ovviamente
non le diede ascolto e superò velocemente la panchina: ora non c'erano più
barriere fisiche che potessero separarli.
“Davvero,
hai fatto un corso per ignorare così spudoratamente le mie richieste?” si lagnò
Julya, le labbra serrate in una linea dura e gli occhi ardenti di rabbia.
Ecco, ora
andava decisamente meglio: se non altro, il suo volto aveva perso la sua
impassibilità.
“Julya...”
La sorprese
l'uso del suo nome: di solito Kol la chiamava in mille modi – ad esempio
sweetie o darling, di gran lunga i suoi preferiti- e usava il suo nome solo
quando voleva dirle qualcosa di importante oppure farle capire che era un
momento emotivamente intenso.
“Non
provarci, Kol. Ti avevo detto che non ti avrei perdonato, che mi avresti perso
se te ne fossi andato e tu lo hai fatto lo stesso. Non puoi tornare ora e
pretendere che faccia come non fosse successo niente” sibilò.
Kol le
rivolse il suo migliori sorriso affascinante “Io non ho mai detto di essere
tornato per restare. Potrei anche essere solo di passaggio”
Julya si
irrigidì. Non aveva detto nulla di compromettente, di questo era sicura, ma Kol
aveva letto tra le sue parole chissà quale messaggio.
In realtà,
sapeva che aveva ragione: lui non aveva mai detto di voler restare e nella sua
mente il fatto che fosse tornato voleva dire proprio quello.
Una parte di
lei voleva solo gridargli di restare, di non lasciarla mai più andare, ma
l'orgoglio le serrava le bocca e le impediva di parlare con il cuore in mano.
“Allora vai”
lo invitò sfoderando lo sguardo più freddo del proprio repertorio “vai e non
tornare, Kol”
Il sorriso
scomparve dal volto di Kol, spazzato via dalle sue parole e fece ancora un
passo avanti.
“Prima devi
ascoltarmi”
“Non devo
fare nulla”
“Julya...”
“Va' via,
Kol”
“Ho
sbagliato, va bene?” sbottò alla fine, stringendole un polso tra le dita con
delicatezza “Sono stato un vero bastardo. Tu mi hai supplicato di restare e io
ti ho lasciata senza guardarmi indietro. Ma è stata la cosa più difficile che
abbia mai fatto”
“Ti aspetti
una medaglia d'oro al coraggio?”
“No. Mi
aspetto che tu mi dia almeno un minuto per spiegare, per cercare di farti
cambiare idea, anche se con tutta la tua testardaggine non sarà facile”
“Non stai
migliorando la tua situazione” lo informò incrociando le braccia.
“Mi
dispiace. Ho sbagliato, va bene? E' quello che faccio sempre. Io sono
capriccioso, ma tu sei sempre stata lì a farmi notare i miei errori, a
prendermi a calci se necessario. Noi siamo così”
Julya rimase
in silenzio.
“Non volevo
ferirti”
“Ma davvero?
Non lo avrei mai detto” lo prese in giro.
“Volevo solo
proteggerti”
“E non hai
pensato che potessi proteggermi da sola? Che volessi solo te e del resto
non mi sarebbe importato?” sibilò a denti stretti.
“No, perché
ai miei occhi tu resti l'umana che ho salvato in Egitto, la bella studiosa di
storia che si è dimostrata l'unica donna che abbia mai amato. E' questo il
punto” ammise, oramai pronto a parlare con il cuore in mano “io ti amo e questo
mi rende irrazionale e pronto a tutto per farti stare bene”
Julya non
voleva provare quella fastidiosa sensazione di felicità, non voleva
ammorbidirsi né desiderava sentire quello sciocco calore nel ventre che si
diffondeva lungo tutto il corpo.
Voleva la
rabbia, la disillusione, l'amarezza. Ma come poteva restare impassibile di
fronte a quelle parole?
Suo
malgrado, sentì i muscoli sciogliersi, la espressione farsi più dolce e
probabilmente le brillavano anche gli occhi. Dannazione, quando si era
trasformata nella brutta copia di un'eroina da romanzo?
“Non posso
vivere senza di te. Non posso vivere senza la mia vita, come non posso vivere
senza la mia anima. E ti amo. Questo non conta più nulla?”
Julya non
riuscì a parlare, sopraffatta da quelle parole. Aveva persino citato Heartcliff
e sapeva quando lui odiasse quel genere di libri.
“So che
domani sera alcuni tuoi amici organizzeranno una festa” annunciò e Julya si
chiese da quanto tempo la stesse osservando per saperlo “lascia che sia il tuo
cavaliere. Dammi solo quest'occasione”
Julya tentennò:
non era sicura che dalla sua riposta dipendesse solo la festa del giorno dopo.
**
“It isn't
that hard boy, to like you or even love you
I will follow you down down down,
Why? Cuz you're unbelievable
So if you're going crazy just grab me and take me
I would follow you down, down, down,
like
anywhere, anywhere “
Million
dollar man- Lana del Rey
“Ho appena
incontrato il ragazzo più sexy del pianeta” annunciò Ada quando raggiunse il
bar.
“Davvero?”
si informò Julya mordendo un dolcetto appena preso dal ricco buffet che
l'ospite aveva predisposto.
Non c'era
che dire: Eugenè Dupont sapeva come organizzare una festa e i contatti del
padre nell'ufficio del sindaco dovevano aver sicuramente aiutato per procurarsi
quella location.
Julya
immaginava che non fosse facile ottenere di poter organizzare una festa – per
quanto a scopo di beneficenza, il cui ricavato sarebbe stato devoluto a un
orfanotrofio- in uno dei saloni del palazzo delle Tuilleries.
“Già.
Peccato che non fosse interessato a me” sbuffò sistemando i gomiti sul bancone
e ordinando un cocktail.
“Cercava te”
ammise.
“Me?”
“Già. Fino a
prova contraria sei tu Julya Peskov, giusto?”
“Descrivimelo”
“Alto,
capelli castani, decisamente affascinante, sorriso da capogiro”
Non le servì
altro per capire di chi stesse parlando. Abbandonò il piano bar e attraversò la
sala a passo spedito, il vestito che ondeggiava alle sue spalle e i capelli che
sobbalzavano a ogni passo.
Non aveva
bisogno che Ada le dicesse dove trovarlo: le sarebbe bastato usare il proprio
nuovo super olfatto.
Da quando
aveva bevuto il sangue dal Graal tutti i suoi sensi si erano acuiti e nella sua
mente c'era molto più spazio di prima, come se le servisse un posto più
spazioso dove catalogare le centinaia di informazioni in più che il suo
cervello riceveva rispetto a prima.
Era ancora
una strana sensazione, non del tutto spiacevole.
Seguì il
famigliare profumo e lo trovò di fianco a una statua di marmo della dea
Afrodite, intento a guardarla sorseggiando un bicchiere di champagne.
Quando la
vide, Kol si aprì in un sorriso.
“Buonasera”
la salutò, inchinandosi appena e afferrandole la mano per un baciamano più
lungo del necessario.
“Dall'espressione
sul tuo bel viso direi che non ti aspettavi che venissi davvero”
“In effetti
hai ragione” ammise “Non pensavo che fosse il tuo genere di festa”
“Infatti non
lo è, ma non mi sarei mai perso la possibilità di passare una serata con te né
di vederti con quel vestito”
Suo
malgrado, Julya abbassò lo sguardo sul proprio abbigliamento. Sapeva che quel vestito
le stava bene, lo aveva scelto apposta. Era di un bel blu reale, lungo fino al
pavimento, tutto chiffon e seta lucida, con un delizioso ricamo floreale che le
lambiva la vita e saliva fino alla scollatura.
Metteva in
risalto la propria carnagione chiara e i capelli e gli occhi scuri.
Avrebbe
voluto dire di averlo indossato solo perché la faceva sentire bella, ma una
parte di sé sapeva di averlo scelto perché lo pensasse anche Kol.
“Sei sempre
così romantico” si lagnò con una smorfia.
“Faccio del
mio meglio” ammise afferrando un paio di bicchiere di champagne da un cameriere
di passaggio.
Julya prese
il calice che le porgeva e brindò con lui prima di sorseggiare la bevanda. In
realtà, il giorno prima Kol era stato molto romantico con quella super dichiarazione
d'amore, ma a essere veramente sincera, non poteva negare che non l'aveva fatta
sentire come aveva pensato.
Insomma, una
dichiarazione del genere era il sogno di ogni donna normale, ma forse quello
era il punto: lei non era normale, non in quel genere di cose.
Le piacevano
le cose dolci, ma fino a un certo punto: era più che altro per la passione, il
fuoco, gli sguardi intensi e burrascosi e i baci come se non dovessero esserci
un domani.
E sapeva che
anche Kol era quel genere di uomo perciò, forse, nella sua testa, non riusciva
a vedere la completa sincerità in quelle parole.
Non era il suo
Kol.
Fu proprio
lui a interrompere il silenzio in cui avevano sorseggiato lo champagne e si
erano guardati di quando in quando, l'uno di fronte all'altro e fin troppo
vicini.
“Sai, ho
saputo che sei tornata a San Pietroburgo”
“Hai saputo?”
gli domandò guardandolo con un'occhiata che lasciava intendere quando poco ci
credesse “Comunque, sì, sono tornata a casa per un po'”
“E come mai
hai scelto proprio ora di tornare a casa?”
Fece
spallucce e sorseggiò ancora un po' del suo drink “Volevo salutare la mia
famiglia come si deve”
“E come è
stato?”
Julya lo
soppesò per un attimo prima di rispondere. Sembrava noncurante, ma sapeva
vedere oltre l'apparenza e sapeva che era preoccupato per lei.
Probabilmente
immaginava che ci fossero state lacrime, rabbia, dolore e di nuovo l'incapacità
di dire addio, ma si sbagliava.
Poteva avere
ancora tante cose da imparare, ma se aveva appreso una cosa in questi ultimi
mesi era proprio dire addio.
“Liberatorio”
ammise “Ma non è il momento di parlarne” gli fece notare indicando la sala e il
centro della pista “Questa è una festa e io voglio ballare”
Kol non se
lo fece ripetere due volte.
Lasciarono i
calici sul vassoio di un cameriere e si infilarono in pista proprio mentre la
musica cambiava e il ritmo allegro di una canzone jazz passò a quello più lento
e sensuale di una canzone pop che aveva anche qualcosa di esotico.
Kol le passò
un braccio intorno alla vita e lei si aggrappò al suo collo, ma una delle sue
mani venne afferrata da lui che la tenne stretta nella sua.
Non erano
vicini quanto Kol avrebbe voluto, ma immaginava di doversi accontentare di
tenerla tra le braccia.
Il suo
profumo -rosa e mirra in armonia con una fragranza che non conosceva- era
inebriante, forse l'essenza più deliziosa che avesse mai sentito.
“Allora” le
chiese a un certo punto, avvicinandosi al suo orecchio. Le sfiorò i capelli con
il proprio respiro e Julya rabbrividì “come sto andando? Sei ancora arrabbiata
con me?”
“Pensi che
bastino due complimenti, un bicchiere di champagne, un ballo e la tua bella
faccia per farti perdonare?”
“Bella
faccia?”
“Oh,
andiamo! Comunque, sono ancora arrabbiata con te. Non riesco a dimenticare come
mi sono sentita quando te ne sei andato”
“Juls...”
“Sapevi che l'ultima cosa di cui avevo bisogno era essere abbandonata dalla
persone che ho amato di più al mondo, eppure te ne sei andato comunque. Non so
tu, ma io credo di avere il diritto di arrabbiarmi”
“Non ha
senso dirti di nuovo quello che ti ho detto ieri. A questo punto, posso fare
solo un ultima cosa”
Julya fece
per chiedergli cosa, ma Kol la mise a tacere con le proprie labbra.
La baciò con
tanta intensità da costringerla a sollevarsi sulle punte dei piedi,
stringendola a sé e affondando una mano nei capelli.
Quello era da Kol:
un bacio così travolgente e intenso da sconvolgere il suo mondo, da lasciarla
scarmigliata, con le labbra umide e gonfie, le guance arrossate e gli occhi
brillanti. Era la passione che mancava nella dichiarazione del giorno prima,
quella che la faceva struggere di desiderio e amore.
Il giorno
prima era stato l'uomo che ogni donna avrebbe voluto, romantico, dolce, pronto
a fare di tutto per lei; in quel momento, era chi voleva Julya.
La musica
finì insieme al loro bacio e Kol le rivolse un ultimo sorriso seducente prima
di allontanarsi tra le folla.
Julya rimase
in pista per un attimo, incapace di capire cosa stesse facendo, poi realizzò
che doveva aver pensato che lei non lo voleva più nella sua vita o che, almeno
per il momento, voleva essere lasciata sola.
Si
sbagliava.
Uscì dalla
sala a passo svelto, attraversando una galleria dopo l'altra seguendo la scia
del profumo di Kol.
Non era mai
stata così contenta di avere sensi super sviluppati.
Arrivata nei
giardini fu più difficile seguire la scia, contaminata dalle essenze dei fiori
e dagli odori che provenivano dalla città circostante.
Vagò per un
po' alla ricerca, arrivando al jardin du carrousel e fermandosi un attimo a
guardarlo. Le tornò alla memoria la prima volta che Kol l'aveva portata a
Parigi.
Era
primavera, allora, e avevano passeggiato a lungo tra quei giardini. Avevano
camminato per i giardini sottobraccio, così vicini che lei poteva sentire il
calore del suo corpo forte accanto al proprio mentre si guardavano e si
sorridevano.
Era uno dei
ricordi che conservava più gelosamente.
Camminò un
po' per quella parte del giardini, fino a quando non agganciò di nuovo la scia
olfattiva di Kol e la seguì fino a quando non lo trovò di fronte a una fontana
di marmo bianco.
“Adesso
potrei pensare che tu sia diventato un tipo nostalgico” lo prese in giro con
dolcezza, affiancandolo.
“Be', ho
appena ricevuto un rifiuto dall'unica donna che amo”
“Oh, non
essere così romantico, Kol, o mi si carieranno tutti i denti”
“Perché sei
qui?”
“Perché tu
sei un idiota e io sono qui per fare quello che mi viene meglio”
Kol alzò
elegantemente un sopracciglio, ma non ebbe il tempo di chiedere delucidazioni
perché Julya mise a tacere tutto con un bacio.
Sulla bocca
di Kol, le labbra di Julya gli dissero che lo amava, che era la sua ultima
possibilità e, quando gli morse la lingua, sembrò anche promettergli che lo
avrebbe fatto soffrire se l'avesse lasciata.
Come se ce
ne fosse bisogno: non se ne sarebbe mai andato.
Lo baciò come
se non dovesse esserci un domani, ma davanti a loro ne avevano un'infinità,
insieme.
Fine
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