L'Emblema della Farfalla

di _wayward
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E gli dei risero ***
Capitolo 2: *** Porta alle tenebre ***
Capitolo 3: *** Da queste ceneri ***
Capitolo 4: *** Immagina, un poema ***



Capitolo 1
*** E gli dei risero ***


Autore: _wayward.
Titolo: L'Emblema della Farfalla ~
Fandom: Originale » Fantasy.
Rating: Giallo.
Genere: Long fic [1/15].
Personaggi/Pairing: Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole: ~5049.
Avvertimenti: -
Disclaimer: Mine ©.
Note: [0] … And the Gods Laughed – F. Brown, 1943.
♦ Un grazie di cu[...]ore a Sammy, grazie al quale questo racconto non si chiama Pan di Stelle.
1) Per il prompt "pietra" dei magici Faràs su COW–T3 #maridichallenge
2) Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è veramente vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con tanto di vocabolario e quan'altro mi venga in mente.

Introduzione: «Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.



~ L'Emblema della Farfalla
Capitolo I ~ E gli dei risero [0]



In principio erano bestie senza coscienza di essere stati creati e senza desiderio di scoprirne la ragione.
L'unico scopo di una vita era conquistare territori, mangiare quanto più possibile, bere per ubriacarsi e sopravvivere agli inverni lottando contro le razze priorie.
Sovrani di ogni sesso ed origine erano sorpassati dal tempo e dalle ere: non vi era dinastia a governare il regno ma solo la legge del più forte.
Quando la Regina si presentò al mondo, le carestie divoravano i campi ed il peccato corrodeva gli animi degli uomini privi di volontà.
Ella non era altri che la figlia d'un pastore eppure custodiva nella sua memoria la luce della Stella dell'Ovest dalla quale ogni anima nasce e cade sulla terra e sapeva, ancor prima di essere Regina, di dover intervenire per riportare la verità al cospetto del mondo.
Combattendo per la liberazione dai Traditori del Cielo, si dimostrò degna d'onore ed unì, sotto il vessillo della Luce, popoli di qualsiasi razza.
Quando perfino il re morente, abbagliato dalla sua grazia, abdicò in suo favore, Ella adottò l'Erede Bambino e le terre dei contadini si colmarono di frutti, le cisterne si riempirono di dolce rugiada e perfino la magia, dimenticata a causa dell'egoismo umano, tornò a scorrere potente fra le vene degli Eletti.
Il giorno dell'Incoronazione, la Regina rinunciò al proprio nome e si fece chiamare Thempsa, ovvero farfalla di luce, perché era così che, nei suoi sogni, la Stella dell'Ovest, la più lucente fra gli astri, l'aveva riconosciuta.
Thempsa, la Regina – che unificò il regno e per esso si sacrificò, morendo nell'ultima battaglia contro gli stessi Traditori che non erano riusciti a vederne la luce.
Il suo corpo, martoriato dai colpi nemici, venne bruciato e le sue ceneri sparse nel vento, sopra il mare tempestoso che dimostrava, attraverso tuoni e tempeste, il lutto della natura nell'aver perso Colei che, più pura, aveva camminato sul suo suolo.
Le leggende narrano, poi, che da una nuvola, emerso un tiepido raggio di sole, uno sciame di farfalle volò fino al Reggente ed all'Erede Bambino, portando con sé il rosso mantello della Regina, perso in battaglia e finalmente ritornato all'erede al trono. Il sangue di Thempsa, prova della sua sofferenza e passione, aveva lasciato inciso sopra le cuciture quello che sarebbe diventato il simbolo della dinastia.
Lasciato cadere ai piedi del bimbo, era il segno della bontà della Stella dell'Ovest che, come dono d'amore alle proprie creature, lanciava, nelle tenebre della morte, un grido di speranza al mondo.
«A ricordare la speranza di un popolo senza guida, che la Stella dell'Ovest ha riportato a casa» questo venne ricamato sul mantello con lettere d'oro fuso, dall'orafo più famoso del regno, poiché erano state le parole pronunciate dalla Regina prima dell'inizio della sua ultima battaglia.
Nessuno, in futuro, avrebbe mai dovuto dimenticare il sacrifico di Colei che aveva amato il suo popolo più di se stessa e che era stata in grado, sola, di mostrare al mondo la luce della Stella.
Quando l'Erede Bambino divenne re, affidò il mantello alle cure della sontuosa Cattedrale in cui aveva vissuto – costruita per volere della Regina – e gli Eletti lo riposero al centro della costruzione, spiegato contro le vetrate in modo che, ogni giorno, il sole appena sorto avrebbe illuminato e fatto brillare le sue parole dorate.
Nessuno avrebbe mai dovuto dimenticare.

***

I capelli rossicci si sporcarono di fango quando appoggiò l'orecchio al terreno.
Sotto il cinguettio degli uccelli ed il fruscio del vento fra gli alberi, si fece strada prepotente il rumore di zoccoli contro la strada battuta e quello più attutito di due ruote che seguivano i cavalli.
«Stanno arrivando» mormorò, scrutando le ombre dei rami che si stagliavano come artigli di fronte a lui.
L'uomo robusto poco più indietro si accarezzò la barba scura e si limitò a osservare il filo spesso agganciato a due tronchi opposti.
«Sei sicuro che funzionerà?» chiese d'un tratto con voce bassa che nascose malamente l'incertezza.
L'altro posizionò una fiaschetta piena di liquido denso proprio ai lati di un piccolo arbusto ed alzò le spalle. «Bartr» lo chiamò, scostando una ciocca di capelli impolverati dalla fronte. «quante volte ha funzionato?»
«Non le ho contate» sbuffò Bartr per poi dargli le spalle.
«Nemmeno io» ammise questo. Il primo raggio di sole della giornata andò a colpire proprio il vetro della fiaschetta e lui si affrettò a nasconderla meglio. «Quante volte non ha funzionato, allora?» chiese comunque, dopo un paio di minuti di silenzio.
«Mai, Nateh'n.»
Evidentemente soddisfatto, l'altro estrasse una fionda dalla cinta e scavalcò una fila di cespugli. «Bene. Quindi ci sono davvero poche probabilità che questa sia la prima volta in cui non funzioni»
Bartr aprì la bocca per ribattere ma la richiuse subito dopo, spostò il peso del corpo da un piede all'altro e poi scompigliò con una mano i propri capelli, stringendosi il mantello attorno alle braccia muscolose.
Il Nateh'n gli scoccò uno sguardo impettito. «Hai intenzione di dirmi cosa ti turba, Bartr, o preferisci farti investire dal nostro prossimo bottino?»
«Ecco» esclamò quest'ultimo senza smettere di guardare preoccupato il sentiero. «è proprio questo presunto bottino che mi preoccupa. Non ho proprio ben capito per quale motivo abbiamo deciso di fidarci di Lucky.»
«Lucky» nel pronunciare quel nome l'altra figura venne scossa da un fremito ed i suoi occhi si fecero più scuri. «un giorno ucciderò quello stronzo, Bartr. Ma per ora mi deve un favore – oh, un grosso favore, dal momento che ho rischiato di farmi ammazzare per recuperare quella maledetta gallina senza nemmeno ricavarne un uovo – e, sì, ci fidiamo delle sue informazioni perché ho controllato che siano vere.»
Bartr sbatté le palpebre.
«Carrozza partita stamani all'alba» continuò l'altro. «Carica. Tre guardie più il cocchiere ed un passeggero. Probabilmente uno spocchioso nobile che parte per assistere ai funerali del re portandosi appresso i cambi d'abito più eleganti e, se saremo fortunati, ci sarà una moglie altrettanto spocchiosa con il collo ricoperto di gioielli.»
«Forse» ammise Bartr.
«Esattamente. E la faccia incredula di Lucky quando gli negherò la sua parte e lo appenderò alla porta della taverna legato per le caviglie sarà la nostra ricompensa. Un'ottima ricompensa paragonata ai rischi che-»
Un fruscio fra gli alberi lo fece zittire immediatamente e Bartr scattò verso il nascondiglio che si era precedentemente costruito. Il rumore degli zoccoli contro il terreno si faceva sempre più forte e, impugnata la fionda, il Nateh'n fece cenno al compagno di stare in silenzio ed appiattirsi contro i cespugli.
Quando il cavallo della prima guardia entrò nella sua visuale, piccole pietre iridescenti furono caricate sulla fionda, pronte per essere scagliate e la carrozza, seguita dalle altre due guardie, fu ben preso a pochi metri da loro.
Il Nateh'n puntò lo sguardo sulle zampe anteriori del primo cavallo che, senza saperlo, si stava avvicinando al filo teso da Bartr.
Ancora un passo...
Un raggio di sole colpì il cavaliere negli occhi e la prima pietra colpì con un piccolo schiocco la fronte del cocchiere, esattamente pochi istanti prima che lo zoccolo del cavallo rompesse il filo, facendo esplodere la fiaschetta in una nebbia verdastra di fumo e veleno.

Un cavallo si impennò sulle zampe posteriori, disarcionando il cavaliere già intontito a causa della trappola mentre la carrozza, senza più guida, sterzava bruscamente verso sinistra, ribaltandosi su se stessa.
I due assalitori approfittarono del trambusto per colpire anche le ultime due guardie e le osservarono cadere, impotenti, in un sonno profondo.
Bartr strinse l'elsa della spada che spuntava da sotto il mantello e si fece largo nel fumo fuoriuscito dalla fiaschetta di veleno. «Nateh'n?»
«Sono qui» la voce del Nateh'n indicava che questi era a pochi passi da lui, ancora immerso nel fitto vapore verde. «La carrozza si è ribaltata, vado a controllare che siano tutti dormienti.»
Una fiala vuota attraversò la sua visuale e Bartr riuscì a prenderla al volo per un soffio.
«Aspetta il mio segnale» stava dicendo l'altro. «per risucchiare la trappola.»
L'uomo robusto annuì con un grugnito e tagliò le funi che tenevano i cavalli, ancora in preda al panico, incatenati alla carrozza. Attirato dallo sbuffo d'aria calda poco sopra la sua spalla, intravide l'esemplare più vicino a lui rimpicciolirsi fino a raggiungere le dimensioni di una grossa lucertola e sparire in un bagliore bluastro dopo aver svolazzato intorno al suo braccio, così come gli altri svædiphan. Quelli delle guardie, evidentemente privi di costrizioni magiche, erano scomparsi nel momento in cui i loro cavalieri erano caduti a terra e Bartr li immaginò ricomparire nelle proprie scatole di metallo prima del tempo stabilito per il ricambio: avrebbero causato non poche perplessità ai loro stallieri.
«Svædiphan al posto di semplici cavalli» mormorò all'ombra chiara che si muoveva poco lontano da lui. «Dovremo allontanarci in fretta, una volta finito.»
Le uniche risposte furono i passi del Nateh'n che si avvicinavano e lo scricchiolio di una porta, ma, proprio quando era pronto a far scattare all'indietro il tappo della fiala, un fendente tagliò l'aria ed il rumore di qualcosa di pesante che cade a terra rimbombò nel silenzio degli alberi.
«Maledizione» nella nebbia, la voce del compagno risultò ancora più preoccupata. «Bartr, apri il- ah» un altro tonfo contro il metallo.
Bartr fece scattare la molla della fiala ed il tappo, dalla forza che ci mise, cadde a terra mentre lui si allontanava e la nebbia si diradava velocemente, risucchiata dalla fialetta incantata.
«Nateh'n..?» sguainò la spada giusto in tempo per parare un colpo diretto alla propria gola.
Davanti a lui, con una mano stretta alla base del collo e l'altra all'elsa della lama con cui aveva appena cercato di ucciderlo, un giovane uomo dai vestiti eleganti ed i capelli chiarissimi lo fissava con un'espressione estremamente concentrata.
«Non c'è bisogno di usare la spada» esclamò Bartr, indietreggiando ancora. «Lasciatela cadere e non vi faremo del male.»
«Dovrei restare senza difese davanti a dei briganti?» Il giovane strinse maggiormente la mano vicino al collo e tentò un nuovo affondo. «Combattete. Se volete rubare qualcosa deprederete il mio cadavere.»
«Non abbiamo intenzione di uccidere nessuno» ribatté Bartr prima di far saettare gli occhi in cerca del compagno.
Il giovane soffocò un'imprecazione. «Avete già ucciso le guardie ed il cocchiere! Come potete-» si fermò solo quando sentì il metallo freddo del coltello del Nateh'n premergli contro la gola e Bartr fu rapido a fargli cadere di mano la spada con un fendente non troppo vicino alla mano da tagliarlo ma abbastanza da costringerlo a mollare la presa.
«Non abbiamo ucciso nessuno, razza di bambino impertinente» sussurrò il Nateh'n alla sua nuca. «stanno solo dormendo.»
Il giovane spalancò gli occhi.
«Anche voi dovreste essere addormentato come loro, eppure non lo siete.»
Il Nateh'n afferrò i polsi del giovane e glieli portò dietro la schiena, pronto a legarli insieme, lasciando senza protezione il ciondolo a forma di goccia che pendeva dal suo collo.
Bartr inclinò la testa. «Opale,» disse, portando una mano a sfiorarlo. «deve essere incantato»
«Niente di nuovo, no?» sbottò il giovane, strattonando le braccia senza successo. «Anche voi dovete averne una.»
Il Nateh'n ghignò e strinse di più il nodo che stava ultimando, prima di strappargli il ciondolo dal collo per infilarlo in una tasca della casacca verde. «Non in oro massiccio, bambino» e quest'ultimo si divincolò ancora. «Beh, direi che abbiamo finito. Bartr!» urlò rivolto al compagno che stava perquisendo la carrozza. «Prendi quello che c'è e passami la fiala: lo leghiamo, gli facciamo annusare un po' di veleno e ce ne andiamo in tutta tranquillità.»
«Aspettate, avete intenzione di lasciarmi qui?» sussurrò il giovane.
«Esattamente. Dove ho messo la corda più lunga... ah, ecco. Adesso... ouch, e smettetela di muovervi» il Nateh'n lo trascinò di peso fino all'albero più vicino e fece passare la corda intorno al tronco e fra i polsi legati del giovane.
«Siete dei vigliacchi!» urlò quest'ultimo, senza dargli la soddisfazione di stare fermo. «Come- come potete fare questo? È un lavoro da codardi che hanno paura di affrontare chiunque in un combattimento serio e siete- siete-»
«Non c'è bisogno che vi sforziate, davvero» continuò il Nateh'n.
Gli occhi del giovane saettarono lungo tutta la sua figura, dagli stivali sporchi di fango al mantello scuro che gli si adagiava leggero sulle spalle, e si spalancarono all'improvviso nel momento in cui si posarono sulle sue orecchie, malamente nascoste dai capelli ricci.
«Come...» sussurrò. «Come potete fare questo ai vostri antenati che combatterono al fianco della Regina?»
Bartr, che nel frattempo aveva recuperato i cavalli dalla radura in cui li avevano lasciati, lanciò al compagno un sacco pieno di monete recuperate dalle cinture delle guardie e sospirò nel sentire le parole del giovane – sembrava talmente sconvolto che gli scappò addirittura una risatina.
«Non di nuovo la storia degli elfi che galoppano verso la luce, vi prego...» imprecò il Nateh'n, sbattendosi una mano sulla fronte per scostarsi i capelli. «Bartr, allontaniamoci prima che decida di venire meno alla promessa di non uccidere nessuno.»
Quest'ultimo ridacchiò di nuovo e salì in sella al proprio cavallo.
«Dov'è il vostro tanto decantato onore?» urlò ancora il giovane, con un ultimo, disperato, tentativo.
«L'onore di quest'elfo-» tentò di rispondere il Nateh'n ma l'altro lo interruppe di nuovo.
«La vostra razza è conosciuta in tutto il regno per questo e voi vi abbassate ad assalire carrozze di passaggio?»
«Bartr, passami quella maledetta fiala» con uno svolazzo del mantello, l'elfo tornò sui propri passi e si accostò al giovane.
«Non potete lasciarmi qui» disse questo, con lo stesso tono di voce che avrebbe usato una madre per ammonire i propri figli.
«Invece posso» il Nateh'n ghignò. «E vi dirò di più; dal momento che la vostra voce mi da sui nervi, ora cadrete in un sonno profondo.»
«Andiamo, Nateh'n, lascialo qui a urlare e sbrighiamoci.»
Il compagno fissò Bartr con un sopracciglio alzato e lo sguardo truce cosicché questi si decise a lanciargli la fiala con il veleno.
«Buonanotte, 'llîas.»
Appena prima che riuscisse a togliere il tappo, il giovane girò il capo verso gli alberi alla sua sinistra.

Il sibilo della freccia, totalmente inaspettato, lo colse talmente di sorpresa che lasciò cadere il veleno per terra.
«Bartr!»
I due cavalli si impennarono e diedero voce ad un nitrito all'unisono, per poi galoppare disordinatamente verso il fitto del bosco; l'elfo vide con la coda dell'occhio il compagno stringersi il braccio e si concentrò sui dardi infuocati che, come dal nulla, avevano iniziato a riversarsi contro l'intera zona.
«Maledetto Lucky!» urlò, più a se stesso che a qualcuno in particolare.
Tirando a terra Bartr appena in tempo per evitare che un'altra freccia lo colpisse, il Nateh'n si accorse di altri zoccoli contro il terreno – talmente vicini che capì solo in quel momento che erano stati avvolti nella stoffa per evitare di farsi sentire a grandi distanze – e l'altra carrozza entrò nella loro visuale appena un istante dopo.
Spinse l'altro dietro gli arbusti che avevano fatto da scudo visivo alla loro trappola, schivando una seria pressoché infinita di dardi che ormai si erano conficcati persino nei corpi inerti delle guardie addormentate. L'urlo del giovane ancora legato lo costrinse a voltarsi in direzione della carovana.
Una nuvola di fuoco e polvere si alzava dalle braccia dell'uomo in piedi vicino al cocchiere e gli occhi del Nateh'n si assottigliarono mentre la bocca si curvava in una smorfia a causa del peso di Bartr.
«L'opale, sbrigatevi!» urlò il giovane e l'elfo, impegnato nel cercare di tenere sollevato Bartr, nemmeno gli diede retta.
«Slegatemi e passatemelo!»
«Smettetela, non avete capito che-» sbottò mentre il rumore della carrozza in avvicinamento e lo scoppiettio del fuoco nella nuvola che sempre più si addensava sopra di loro coprivano la sua stessa voce.
«Slegatemi.»
L'ordine, tanto sicuro quanto disperato, lo costrinse a capitolare e con un solo fendente del coltello tagliò le corde che tenevano il giovane stretto all'albero mentre l'altra mano, senza nemmeno rendersene conto, si era infilata nella propria tasca ed ora stava lanciando al ragazzo quel suo dannato ciondolo.
Si risolse tutto in pochi secondi.
La carrozza deviò per non andare a sbattere contro quella precedentemente ribaltata; il mago, con un sorriso ben poco rassicurante appena visibile sotto il cappuccio rosso sangue, si voltò verso di loro nell'esatto momento in cui li superava ed una bolla azzurra li circondò di luce appena prima che la tempesta di fuoco si abbattesse sulle loro teste.
Un inferno di scoppi di fuoco ed i fumi dell'incendio avvolsero l'intera zona ma nemmeno una fiammella riuscì a penetrare l'illusione di stare galleggiando in mezzo alla luce e, senza volere dedicarsi al pensiero della propria sopravvivenza, il Nateh'n spostò l'attenzione sulla ferita di Bartr.
Quando il sangue smise di uscire copiosamente e lui riuscì a medicarla, l'incendio si stava spegnendo e la bolla era sul punto di dissolversi.
Il giovane era ancora in piedi davanti a loro, con i palmi rivolti verso l'alto ed il ciondolo, completamente dorato, sospeso sopra questi.

***

Aprì gli occhi, richiamato dalla luce soffusa intorno a lui e si tirò a sedere di scatto.
C'era un fuoco, poco lontano – non uno di quelli lanciati dal mago, notò, tranquillizzandosi – e non era legato al tronco di un albero.
Girò la testa per cercare una qualche traccia dei due banditi e notò che uno di loro, l'uomo muscoloso che pareva ricordare si chiamasse Bartr, giaceva sotto un paio di coperte dall'altra parte del fuoco.
«Ben svegliato, llîas» esclamò una voce ironica poco dietro di lui e, girandosi, vide l'elfo dai capelli rossicci che scrutava attentamente il cielo con espressione impassibile.
Si stupì nel vedere le prime stelle brillare sopra di loro, pensando che il suo ultimo ricordo risaliva a quella mattina, quando, dopo aver placato l'incendio, era probabilmente svenuto per lo sforzo.
«Thomas» disse nel momento in cui il silenzio si fece troppo denso per essere sopportato.
L'elfo inclinò un sopracciglio e tornò a fissare gli astri. «Thomas, l'impertinente che non sa tenere la bocca chiusa ma, al contempo, ha un utile aggeggino che placa una tempesta di fuoco evocata e salva la vita ai briganti che volevano derubarlo. Il nome non suona molto bene con quello che segue, vi devo avvertire.»
Thomas abbassò il capo e si appoggiò le mani sulle gambe.
«A proposito, l'ho riposto nella vostra tasca. Anche se dubito che possa servirvi ancora»
Frugò dove gli era stato detto di cercare e ne tirò fuori l'opale che, pur essendo ancora attaccato alla catenella dorata, era ormai completamente annerito. Thomas scacciò i pensieri che si stavano affollando nella sua mente, ripose il ciondolo nel sacchetto che teneva appeso alla cintura e si decise ad interrompere il fastidioso silenzio che si era venuto a creare.
«Voi?» chiese infatti e l'elfo, indicato il compagno addormentato, disse semplicemente: «Bartred. Bartr è più veloce».
«E voi?» ripeté allora il giovane, corrucciando le sopracciglia.
«Non avete certo bisogno di saperlo.»
«Se l'ho chiesto significa che avrei piacere nel sentire il nome di colui al quale ho salvato la vita»
L'elfo sbuffò. «Solo perché eravamo nel raggio d'azione della vostra sfera magica non vuol dire che io sia in debito con voi.»
«Allora perché non sono legato?» domandò Thomas alzando leggermente la voce.
«Ero troppo stanco per farlo. Ho dovuto trascinarvi lontano dalla zona bruciata per quasi tutto il pomeriggio» si giustificò l'elfo, senza cambiare espressione né distogliere lo sguardo dal cielo.
Thomas lasciò scorrere un paio di minuti durante i quali individuò la propria spada in un angolo dell'accampamento improvvisato, insieme ad un paio di borse e le redini sciolte dei due cavalli che dovevano essere scappati durante il trambusto, poi soffiò contro il fuoco per far alzare le ceneri calde e disse: «È Nateh'n, no?»
Per la prima volta l'altro scoppiò in una fragorosa risata e puntò gli occhi su di lui, lasciandogli notare il verde quasi trasparente dell'iride.
Solo quando Thomas alzò un sopracciglio questi si decise a spiegargli il perché di quello scoppio improvviso di ilarità. «Nateh'n non è il mio nome.»
Il giovane continuò a fissarlo.
«È elfico» si limitò a spiegare, tornando ad alzare la testa. «significa “colui che viene dalla terra di Nath [1]”.»
«Non c'è da stupirsi» sussurrò allora Thomas, stringendosi nella cotta di maglia rifinita in argento quando la brezza primaverile lo colse in pieno petto. «che uno come voi venga da quel posto.»
L'elfo sorrise di nuovo. «Non vengo da Nath.»
«Allora per quale motivo vi fate chiamare in questo modo?» sbottò il giovane.
«Non mi faccio chiamare in nessun modo. Bartr mi chiama Nateh'n perché è lì che ci siamo incontrati.»
«E allora» sbuffò Thomas. «come vi dovrei chiamare?»
«Non chiamatemi.»
Abbassando il capo, il giovane scosse la testa un paio di volte e decise di lasciar cadere l'argomento. «Quanto distiamo da Alenea [2] ?»
«A piedi è un po' più di mezza giornata di viaggio, all'incirca» fu la riposta precisa del brigante.
Il profumo di fiori che caratterizzava la città e la vista dell'imponente Cattedrale, il giardino interno illuminato dai raggi del sole e da quelli delle stelle, si insinuarono prepotentemente nella mente di Thomas e si ritrovò a mordersi il labbro inferiore. «Sulla seconda carrozza» esclamò ad un tratto, portando una mano a stringere il ciondolo d'opale attraverso la stoffa della sacca. «c'era il mio maestro, lui... potrebbe essere in pericolo. Devo avvisare le guardie e tornare – esitò per una frazione di secondo – a casa.»
«Nessuno vi trattiene» fece allora l'elfo, per nulla interessato alla sorte del suo mentore, ma l'altro alzò comunque il volto, stupito dal fatto che non avrebbe cercato di venderlo al mercato nero come schiavo o ucciderlo per mettere all'asta i suoi organi.
«Davvero?»
Il crepitio del fuoco riempì l'aria per un paio di secondi ed il rumore lontano di campane che battevano fra loro gli strinse lo stomaco in una morsa che si rifiutò di comprendere.
«Se riuscite ad entrare in città, siete libero di restarvi» rispose infine il Nateh'n.
«Che significa?»
«Esattamente quello che ho detto» si alzò improvvisamente dal giaciglio sul quale era seduto e, afferrato un sacchetto nero, lo tirò in grembo a Thomas. «Le porte sono chiuse e le guardie non lasciano entrare nessuno.»
L'altro spalancò gli occhi fissi sulle bacche presenti nel sacchetto. «Cos- perché?»
«È quello che ho intenzione di scoprire, 'llîas. Ho uno sfortunato impostore da impiccare e non sarà certo un manipolo di esaltati in divisa a fermarmi» e rise nel vedere l'espressione infastidita del nobile.
«È un insulto?» chiese sempre quest'ultimo, dopo una lunga pausa.
Fu il turno del Nateh'n di alzare un sopracciglio.
«“Hìas”. Anche prima mi avete chiamato così.»
«È 'llîas, non hìas» e storse il naso. «Significa bambino viziato e siete libero di giudicare voi se sia un insulto o la verità.»
Thomas fece per ribattere ma un basso lamento del proprio stomaco lo convinse ad assaggiare invece un paio di noci – pur senza riuscire a togliersi la convinzione che fossero avvelenate – e quando il Nateh'n si accucciò al fianco di Bartr, controllando la ferita al braccio e borbottando fra sé una serie di imprecazioni sconnesse contro un certo “Lucky”, capì che la conversazione era finita.

Le stelle della sera prima avevano lasciato il posto ad un'alba nuvolosa, proprio sopra la sua testa.
«Continuo a non capire perché dobbiamo legarlo.»
«Se mi costringi a spiegartelo di nuovo giuro che lego anche te, Bartr.»
Due voci parlavano, sovrapponendosi l'una sull'altra e Thomas aprì gli occhi di scatto quando le riconobbe: ricci capelli rossi caddero improvvisamente davanti alla sua visuale e si rese conto solo a causa della pressione esercitata sui propri polsi delle corde che lo legavano. Di nuovo.
«Ecco fatto» stava mormorando contro il suo orecchio, stringendogli le mani dietro la schiena, il bandito elfo a cui aveva salvato la pelle il giorno prima e che, evidentemente, non era così riconoscente come avrebbe dovuto essere.
Thomas arrossì e tentò inutilmente di scostarsi, finendo sdraiato sulla spalla e con la braccia che gli dolevano. «Perché- oh, ancora?»
«Oh, ben svegliato» sorrise il Nateh'n da sopra di lui, gli stessi abiti logori del giorno prima e gli occhi verdi ancora più brillanti, nella luce mattutina.
Proprio mentre stava per rispondere, due braccia robuste lo afferrarono per le spalle e lo misero a sedere per terra, vicino ai rimasugli del fuoco.
«Mi dispiace, Thomas» disse Bartr, assicurandosi che non cadesse di nuovo, e lui diresse tutta la propria ira contro l'elfo.
«Avevate detto che ero libero!»
«Lo siete» ribatté quest'ultimo prima di posarsi una mano al centro del petto. «tecnicamente. In pratica, fino a quando resterete qui da solo con Bartr-punta-di-freccia... diciamo che le corde sono solo un'assicurazione, d'accordo?»
Thomas arricciò il naso. «Punta di freccia?»
«Già, godetevi pure la compagnia dell'omone che ha paura di togliersi uno spillo dal braccio mentre sbrigo i miei affari.»
La pacca che colpì l'elfo sulla schiena fece sobbalzare anche il ragazzo.
«Non ho paura» stava dicendo Bartr. «Solo, tu non sei certo il miglior medico che abbia mai conosciuto, Nateh'n.»
«Oh, certo» quest'ultimo si allontanò di un paio di passi e si gettò il lungo mantello che aveva indossato anche il giorno prima sulle spalle. «però non aspettarti che scavi una fossa per il tuo cadavere, quando la ferita farà infezione e morirai dissanguato.»
«Non-»
«Va bene» esclamò Thomas, interrompendo sul nascere la battuta di Bartr. «se il problema è il pericolo contro Bartr, perché non mi portate con voi?»
«Portarvi con me?» l'elfo scoppiò a ridere. «Sto andando in città, 'llîas, e non è proprio il caso di avere un moccioso pronto a vendermi alle guardie in qualunque momento al seguito. Ho già qualche... conto in sospeso, con loro.»
«Non venderei nessuno alle guardie» sbottò Thomas, le sopracciglia inarcate verso l'alto.
Bartr si sedette poco vicino a lui e l'elfo sembrò sinceramente stupito per una frazione di secondo.
«Lasciate piuttosto che ci parli» continuò il giovane. «Le convincerò a lasciarci entrare.»
«Non ci riuscireste, credetemi» ribatté il Nateh'n, riprendendo l'aria divertita di poco prima. «Hanno chiuso fuori perfino la baronessina Cleomòth. Oh, avresti dovuto vedere la sua faccia, Bartr, era rossa come un freylin [3] impazzito al pensiero dell'affronto che stava subendo e- ehm, lasciamo perdere» si riscosse da quel pensiero divertente solo all'ennesima occhiataccia del giovane.
«Se i cancelli sono chiusi come dite» ribatté quest'ultimo. «non riuscirete certo ad entrare nemmeno da solo.»
Il Nateh'n alzò le spalle e scrutò il cielo nuvoloso senza dar peso alle sue parole; solo un paio di minuti dopo sembrò accorgersi che stava ancora aspettando una sua risposta.
«I cancelli non sono l'unico ingresso della città» gli disse, alternando gli occhi fra la sua figura legata sul giaciglio e le nubi sopra di loro.
Thomas trattenne l'ennesimo sbuffo.
«E, fra l'altro, credetemi» sorrise di nuovo l'elfo, prima di chinarsi a raccogliere una manciata di terra e polvere da sistemare nella tasca interna della casacca. «non vorreste sapere dove sono situati gli altri.»

***

Le ruote della carrozza continuavano a girare velocemente sul terreno sassoso, producendo un acuto stridio, unico suono nella valle deserta.
«Maestro» sussurrò una voce flebile alla figura assopita dell'uomo. Ingombranti vestiti costosi lo avvolgevano completamente e sulla fronte, sotto i corti capelli scuri e fra le rughe dettate dal tempo, il cerchio dorato simbolo degli Eletti brillava alla luce dell'alba.
«Maestro» mormorò ancora la creaturina umanoide che, da un angolo della carrozza, non osava avvicinarglisi ulteriormente ed i suoi occhi, grandi e brillanti come mele mature, saettarono, scattanti, lungo tutto il corpo del padrone. «Maestro, è appena sorto il sole e l'Eletto con la veste rossa ha detto di assicurarmi che foste sveglio.»
Un profondo sospiro si levò dall'uomo, ancora appoggiato allo schienale in pelle.
«Maestro» squittì di nuovo la vocetta.
«Sono sveglio, Nessa» esalò il Maestro e la sua voce profonda fece tremare la creatura di sollievo.
«Sia ringraziata la Luce dell'Ovest che sta accompagnando il nostro tragitto» pregò velocemente questa, prima di porgere al Maestro una ciotola d'acqua fredda.
Rifiutando con un gesto lento l'acqua, il Maestro si perse ad osservare la distesa di sabbia che scorreva velocemente oltre il vetro. «La Luce dell'Ovest...»
«La ringrazierò di nuovo quando saremo arrivati a Cremysta [4] , Maestro» fece Nessa, portandosi la ciotola d'acqua al petto fasciato.
Un raggio di sole entrò nell'abitacolo e si rifletté contro l'anello argentato che, appoggiato in grembo all'uomo, costringeva uniti i lembi di un'ampia pergamena scura arrotolata su se stessa. Gli occhi del Maestro, sopra le marcate occhiaie che ne caratterizzavano il volto, si abbassarono, improvvisamente incupiti.
«La Luce dell'Ovest» sussurrò nuovamente, più rivolto a se stesso che ad altri.
Nessa inclinò il capo contro la spalla sinistra, indecisa se intervenire o limitarsi al silenzio, ma il Maestro non le diede il tempo di decidere.
«Forse non ce ne sarà bisogno.»
Quando, il mattino dopo, la carrozza si sarebbe fermata con ultimo scossone di fronte alle mura in pietra di Onalĩa, la creatura sarebbe ancora stata impegnata a riflettere sul significato di quella frase.


~


Glossario:

[1] “Perfino i bambini sanno minacciare, qui.
La birra profuma di erba fresca ma ha lo stesso sapore dell'acqua piovana e quando ti scorre nella gola la vista ti si annebbia non tanto per l'ebbrezza quanto per il suo pessimo gusto.
Sono già stato derubato tre volte, da quando sono arrivato – perfino dal proprietario della locanda in cui alloggio che, quando ho scoperto il furto, ha indicato come scusa la “forza dell'abitudine” – e la scorsa settimana ho incontrato una donna elegante, nella taverna della Città Superiore, con lunghi capelli lucenti, occhi da cerbiatta ed uno stemma regale al dito. Ha continuato a sorridermi per tutta la serata e, dopo essere finiti abbracciati l'uno all'altra sul retro della taverna, ha preteso di essere pagata! Quando, allibito per la cifra da lei richiesta, mi sono rifiutato da darle quei soldi, mi ha colpito alla testa ed è fuggita assicurandosi di prelevare diverse monete dalle mie tasche. Ed era una nobildonna, capite? [...]
Dicono che a Nath siano tutti ladri, eppure nessuno specifica mai che le loro vittime sono solo ed unicamente gli stranieri.”
Tratto da “Annotazioni di un furfante truffato”, di Tarson Ja'Toundh.

[2] “[...] e quando i suoi occhi si riempiranno della luce della Cattedrale e le sue narici del profumo dei fiori che circondano Alenea, solo allora il viandante capirà di essere finalmente a casa.”
Cantico della Luce dell'Ovest, settantaduesimo verso.

[3] “Sono poche le armi che possono fermare un freylin. Con le tre fila di corna sotto il mento e gli zoccoli, pesanti, che battono sul terreno, solo pochi forestieri possono vantarsi – o ringraziare la Stella – nel raccontare di lui e della sua pelle rossa, rilucente sotto il cocente sole del deserto, mentre si avvicina in corsa pronto a caricare la sua preda.”
Dal quindicesimo volume del catalogo “Survive or Surrender” di Saciv Saamoi, avventuriero del deserto.

[4] “Se la vista di Alenea riesce ad evocare il profumo dei fiori di lavanda e delle violette, l'unico odore che caratterizza Cremysta è quello dei soldi.
Non c'è famiglia che non abbia almeno un membro mercante di mestiere e, da quando il tredicesimo re ha deciso di eleggere la città capitale e la gioventù della nobiltà dell'Impero vi si è trasferita di massa, risulta impossibile ignorare, camminando per le strade, le urla degli acquirenti che contrattano su qualsiasi prezzo.”
L'Enciclopedia del Buon Mercante, Ihnes Llepoiska.

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Capitolo 2
*** Porta alle tenebre ***


Autore: _wayward.
Titolo: L'Emblema della Farfalla ~
Fandom: Originale » Fantasy.
Rating: Giallo.
Genere: Long fic [2/15].
Personaggi/Pairing: Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole: ~4721.
Avvertimenti: -
Disclaimer: Mine ©.
Note: [0] Gateway to Darkness – F. Brown, 1949.
1) Per il prompt "fisso" dei magici Faràs su COW–T3 #maridichallenge

Introduzione: «Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.




~ L'Emblema della Farfalla
Capitolo II ~ Porta alle tenebre [0]



C'erano tre uomini nel vicolo.
Il Nateh'n si costrinse contro il muro dietro alla taverna, tirando il cappuccio del mantello fin davanti agli occhi e stringendo la fionda con la mano libera.
Cercando di nascondersi il più possibile, concentrò la sua attenzione sul più piccolo di loro, con sudici capelli neri, lucidi a causa della sporcizia, le orecchie decisamente più grandi della norma ed un paio di denti placcati in oro ben visibili nella bocca spalancata.
«Amici!» gracchiava mentre sventolava una bottiglia vuota di liquore. «Vi offro da bere! A tutti vo- ouch» il calcio che ricevette alla gamba lo fece crollare a terra a sputare sangue e saliva.
«Non siamo tuoi amici» ribatté uno degli altri uomini, con un'ascia da battaglia in bella vista sotto il mantello scuro.
«Ma come?» sibilò quello a terra, portandosi la bottiglia sotto il naso per annusarne l'odore. «Io-- sono stato io ad indicarvi il colpo migliore della... della-- della vostra lurida vita!»
Tentò di alzarsi ma la mano pesante di colui che aveva parlato prima lo costrinse di nuovo sulla strada.
«Quale colpo?» sussurrò improvvisamente il terzo uomo, rimasto finora nell'ombra dell'insegna del locale.
Il Nateh'n si sporse un poco dalla sua posizione per vederne meglio il volto ma non riuscì che a scorgere la forma del cappuccio marrone che gli copriva la nuca.
«Il-- il colpo...» l'altro scoppiò improvvisamente in una risata isterica e divenne evidente a tutti che era palesemente ubriaco. «--il colpo che... ah! Quel colpo!»
«Lascialo perdere, Ouf. Non ci darà nulla di più che la soddisfazione di vederlo gemere contro il pavimento» disse l'uomo con il cappuccio, carezzando il fodero della propria spada.
«Non quest'oggi, forse» mormorò fra i denti digrignati colui che era stato chiamato Ouf, prima di afferrare l'ubriaco per il bavero della veste e sollevarlo di scatto. «Ascoltami bene, carogna.»
Il sibilo con cui Ouf pronunciò quell'appellativo rimbombò nella strada vuota e la bottiglia che l'uomo teneva ancora in mano cadde a terra, infrangendosi in più di mille pezzi.
«Non c'era nulla ad attenderci nel luogo da te indicato: né carrozza né tanto meno quel cadavere che ci avevi promesso» continuò. «Così ora siamo costretti ad anticipare una parte del piano che avrei personalmente preferito mettere in atto il più tardi possibile.»
L'ubriaco boccheggiò, pendendo dalle sue parole.
«E noi ci aspettiamo che tu ci ripaghi del tempo che abbiamo perso, delle nostre aspettative infrante e di tutti questi intoppi. Avevi promesso oro, denaro e riconoscimento, carogna da quattro soldi, ed è quello che dovrai darci, mi hai capito?»
L'uomo ridacchiò per un breve istante, per poi balbettare qualcosa di incomprensibile in risposta ed annuire con il capo.
«Bene» replicò il terzo, estraendo il pugnale dalla cinta e l'ubriaco impallidì. «E noi ti lasceremo andare, vivo, perché sappiamo che sei un uomo di parola ma, sono sicuro che tu lo sappia, una promessa è una promessa.»
Ouf gli afferrò i polsi con una mano mentre con l'altra gli tirava verso il basso la mascella. «Nel frattempo però, ci prendiamo questi.»
L'urlo soffocato dell'uomo e lo zampillio del sangue dalla sua bocca costrinsero il Nateh'n a distogliere lo sguardo e, poi, a trattenere il respiro fino a quando non sentì più i passi dei due mercenari che si allontanavano.
Nel vicolo, tremante e impiastricciato di sangue un po' ovunque, l'ubriacone tentava di rimettersi in piedi fra i cocci di bottiglia, senza successo. L'elfo, avvicinatosi finalmente, si prese qualche istante per lasciare che questi percepisse la sua presenza e scostò con lo stivale una manciata di vetri da sotto la sua mano.
«Aiut-- aiutami-- a...» sputò praticamente l'uomo, senza riuscire nemmeno ad alzare il capo.
Un corvo gracchiò sopra di loro ed il Nateh'n si limitò ad inclinare la testa contro la spalla per vedere meglio la situazione all'interno della sua bocca; al posto dei due denti d'oro, che prima rilucevano ai pochi raggi del sole, ora stava un grosso spazio vuoto, pieno di sangue, saliva ed un liquido denso e verdastro che richiamava il vomito.
«Sai» storse le labbra in una smorfia. «te l'ho sempre detto che avresti fatto meglio a tenere la bocca chiusa.»
L'uomo la spalancò ancora di più, boccheggiando, e strabuzzò gli occhi.
«Mi dispiace Lucky,» continuò il Nateh'n. «ma questa non sembra proprio essere la tua giornata fortunata.»

Lucky gemette di nuovo e l'elfo lo lasciò cadere senza premura sul letto della stanza che era stato obbligato ad affittargli.
Il locandiere, un uomo dall'aspetto rude e con grandi cerchi dorati appesi alle orecchie li aveva guardati male non appena erano entrati ma, alla vista delle monete lanciate sul bancone – prese dal fondo degli stivali di Lucky, si era limitato ad annuire silenziosamente, indicandogli il piano superiore.
«Grazie, amico-- grazie, amico mio» stava gemendo ora quello, fra un conato di vomito e l'altro.
«Sta' zitto, Lucky, se non vuoi che ti cavi i denti che ti sono rimasti» sbottò il Nateh'n prima di tirare le tende alla finestra e chiudere a chiave la porta.
Lucky borbottò qualcosa che lui decise di ignorare e si dedicò piuttosto al controllo della ferita al polpaccio che si era causato impigliandosi in una trappola nelle vie sotterranee; il taglio appariva lungo e slabbrato ed uno spiacevole formicolio aveva appena iniziato a percorrergli tutta la gamba ma decise che avrebbe controllato solo una volta tornato all'accampamento che la lama non fosse stata avvelenata.
Una risata gracchiante dell'uomo, ancora ubriaco, lo riportò alla situazione.
«Lucky» esclamò infatti, tirandosi il mantello sulle spalle. «ero qui per appenderti alla porta della taverna per i genitali» l'uomo sussultò e la sua faccia sembrò ancora più tumefatta di quanto fosse in realtà. «... ma ti lascerò in pace, considerato che hai già fatto arrabbiare persone più cattive di me e Bartr, almeno per adesso, se mi darai una spiegazione abbastanza lunga e dettagliata di quanto è successo ieri.»
L'altro si nascose fra i cuscini ma, allo sbattere delle persiane fuori dalla finestra, tornò con lo sguardo sul Nateh'n. Era piuttosto confuso.
«Il colpo, Lucky. La carovana e l'attacco. E, soprattutto, l'altra carovana» a quel punto Lucky sembrò ritrovare la memoria e scoppiò di nuovo a ridere, salvo poi finire per sputare un grumo di sangue sul pavimento sporco.
«Quel colpo!» disse, quando riuscì a riprendere fiato. «Quel colpo che-- oh, ahah-- ooh, quel calice di birra era così- ma mi uccideranno se-- non hanno trovato il cadavere..? Ma-- ah-»
Il Nateh'n fissò gli occhi su di lui, scostando di poco la casacca verde sul fianco, in modo da fargli intravedere il pugnale che era attaccato alla cintura.
«Oh-- andiamo, non hai capito cosa sta succedendo?» riuscì a domandare Lucky, battendo una mano sul proprio ginocchio. «La città chiusa, la carrozza e quell'altra, e poi il mago e-» rabbrividì. «il mago...»
«Cosa c'entra la città chiusa in questa storia? Lucky questo-»
«Non l'hai capito?» ripeté quest'ultimo.
Il rumore di colpi leggeri contro la porta raffreddò all'istante l'atmosfera.
Il Nateh'n estrasse velocemente il pugnale dalla cintura e si portò vicino al muro, pronto all'attacco.
«Signori? Ho portato dell'acqua.»
Con circospezione, l'elfo fece sbloccò la serratura e la maniglia si abbassò, permettendo ad una sagoma femminile di entrare nella stanza. Questa appoggiò velocemente un catino colmo fino all'orlo sulla scrivania sudicia e poi si girò ad osservare meglio i due mentre anche il Nateh'n faceva scorrere lo sguardo su di lei.
«Avete bisogno di bende?»
Lucky fece per rispondere ma l'elfo fu più veloce a dire: «Non è necessario.»
La donna fece un breve inchino, i capelli scuri le caddero sul petto e la lampada fece brillare i cerchi d'oro che le bucavano i lobi, mentre usciva con la stessa rapidità con cui era entrata.
Non appena la porta fu di nuovo chiusa, il Nateh'n fece scattare la serratura.
«Parla» intimò poi all'altro uomo. «Ora.»
Lucky deglutì ancora. «Era un piano pe--rfetto. Serviva qualcuno per l'attacco e-- ah, siete arrivati voi. Perfetto.»
«Quale piano, Lucky?» la voce dell'elfo risuonò più bassa del solito alle orecchie dell'ubriaco, fra le sottili mura della camera.
«Già, già- quale piano? Non ti sei accorto di quello che sta per succedere? Era perfetto e--» Lucky si fermò, come se avesse appena colto un particolare di prima importanza. «Tu... sei vivo.»
Il Nateh'n alzò un sopracciglio.
«Sei vivo. Ecco cosa non funziona è che-- e allora anche lui... Oh, per la luce della Stella,adesso capisco perché...»
«Lui?» mormorò l'elfo prima di studiare attentamente il contenuto della sacca che l'uomo aveva lasciato cadere quando erano entrati. «Intendi che quella trappola era solo una scusa per uccidere quel moccioso che si atteggia a principino?»
Lucky lo fissò a metà fra il divertito e lo stupito.
«È solo un bamboccio biondo» continuò il Nateh'n, per nulla convinto. «Di chi è figlio per meritarsi così tanta attenzione?»
«Non lo sai?» rise con tutto il fiato che gli era rimasto in gola. «Del re, elfo.»

***

Bartr occhieggiò il cielo con aria preoccupata.
Il sole stava per tramontare, le provviste di cibo già misere scarseggiavano ed il Nateh'n non era ancora tornato dalla città.
Lasciò cadere quindi lo sguardo sul ragazzo disteso sopra la sua sacca da viaggio, con le mani ancora legate dietro la schiena e la testa persa fa chissà quali pensieri – forse maledizioni nei confronti del suo compagno.
Ridacchiò e scosse la testa.
«Non è crudele come sembra, sai?»
Thomas non sollevò nemmeno le palpebre. «Se lo dite voi...» rispose in un sottile borbottio che cessò solo quando il brigante, avvicinatosi in lunghe ma lente falcate, ebbe tagliato la corda che teneva uniti i suoi polsi.
Il ragazzo si sollevò a sedere ed inclinò la testa mentre lui tornava a lucidare il proprio arco. «Perché l'avete fatto?»
«Siete stato in quella posizione tutto il giorno» fece spallucce Bartr.
Thomas continuò a fissarlo interrogativo.
«Avevo promesso che non vi avrei slegato fino al tramonto, non è colpa mia se lui non è ancora tornato.»
«Voi non siete per davvero un brigante» disse d'un tratto l'altro, dopo un lungo silenzio, e fu il turno di Bartr di stupirsi.
«Intendo dire, non lo siete sempre stato, vero?»
«Ah!» sghignazzò l'uomo. «Immagino che la vera domanda sia cosa ci fa un gentiluomo come me insieme ad un elfo cattivo ed approfittatore.»
Thomas abbassò lo sguardo e si grattò la nuca. «Non si può dire che sia propriamente gentile...» fece, più rivolto a se stesso che all'altro.
«Non fatevi ingannare dalle apparenze. Io, ad esempio, sono sempre stato un ladro.»
«Che tipo di ladro?»
«Di quelli che rubano» rispose Bartr con sarcasmo. «Volevo fare l'addestratore di sgrunge [1] ma mi serviva un capitale iniziale per comprarne uno» continuò, all'occhiata stralunata di Thomas. «così mi è stato proposto un affare interessante. Ho capito dopo il mio primo furto che ad essere ladro avrei avuto una paga decisamente migliore.»
Nonostante la disapprovazione, il ragazzo non poté fare a meno di sorridere. «Questo però non spiega come vi siete incontrati.»
«Nateh'n mi ha salvato la vita.»
Le sopracciglia di Thomas svettarono in alto.
«È la verità in fondo alla lunga storia» ribatté Bartr. «ma non chiedeteglielo. Probabilmente vi risponderebbe che non era sua intenzione o qualcosa del genere.»
Il ragazzo scosse la testa e piegò le ginocchia per alzarsi quando una dolorosa fitta alla schiena lo costrinse a sdraiarsi di nuovo.
«Dolori?»
«Un po'» ammise, di gran lunga più rilassato nei confronti della situazione rispetto a quella mattina.
«Vi offrirei una pomata» esclamò Bartr, poco prima di stringere il braccio bendato al petto e sospirare profondamente. «ma temo di averla consumata tutta.»
«Il vostro braccio» ricordò lui. «La punta della freccia è davvero ancora impigliata nella carne?»
«Solo una scheggia, in realtà. Ma ci farò l'abitudine» rispose prontamente Bartr.
Thomas si massaggiò lentamente i polsi senza distogliere lo sguardo dall'imponente uomo seduto sul tronco tagliato di una betulla, per ponderare le proprie parole.
Nonostante la stazza, il naso più grande del normale e la folta barba scura che gli nascondeva il mento, l'intera figura di Bartred non aveva nulla del bandito. Un fazzoletto a quadri legato intorno al collo lo rendeva più simile, in effetti, ad uno di quegli allevatori che arrivavano periodicamente alla Cattedrale per portare i propri animali migliori da immolare sull'altare della Stella.
«Potrei...» fece infine. «potrei darci io un'occhiata. Non sono molto bravo ma, forse...»
«Non offendetevi se non sono ansioso di sottopormi al vostro esame.»
Il ragazzo corrucciò le sopracciglia.
«Non che abbia qualcosa contro di voi» fu svelto a dire Bartr. «Nateh'n mi ha raccontato che vi devo la vita ma preferisco tenermi la mia punta di freccia. Va bene così.»
Thomas scosse la testa ed infilò lentamente una mano nel sacchetto che teneva legato in vita più per la forza dell'abitudine che per altro: il ciondolo, completamente opaco, era ancora al suo posto. Era la stessa pietra a forma di goccia che gli era sembrata così brillante, la sera prima di partire, poggiata quasi casualmente sulla sua scrivania a bearsi e risplendere del sole che attraversava le colorate vetrate della Cattedrale eppure, ora, di quello splendore non rimaneva alcuna traccia.
Un ululato risuonò poco lontano, nel fitto degli alberi e fu di nuovo Bartr ad interrompere il silenzio fra loro.
«Stavate andando a Cremysta, vero? Sono passate una decina di carrozze su quello stesso pezzo di strada, non molto prima della vostra» specificò di fronte all'espressione sbigottita del ragazzo. «Immagino che il funerale di un re sia un evento che nessuno nobile abbia voglia di perdere.»
Thomas abbassò il capo. Tre tramonti – tre giorni e tre notti di viaggio – era il tempo stimato più volte dal Maestro per raggiungere la capitale, senza intoppi di alcun genere, ma ormai non sarebbe arrivato in tempo nemmeno a dorso di un Efyo [2].
Cercò, scavando nel profondo dei propri sentimenti, di trovare il giusto rimorso che un figlio dovrebbe provare nel mancare alla cerimonia funebre in onore del padre, eppure, al centro del proprio petto, rimbombava soltanto il debole “oh” che era uscito dalle sue labbra quando la notizia della morte del re gli era stata recapitata.
«Mi dispiace per questo contrattempo» esclamò Bartr quando lo vide incupirsi all'improvviso.
«No» ribatté lui. «Tanto non era una cerimonia a cui tenessi davvero partecipare.»
Il brigante inclinò il capo e lo osservò con un'espressione profonda, alla ricerca di qualcosa che Thomas non seppe identificare, poi, decidendo probabilmente di credere alle sue parole, tornò alla lucidatura dell'arco.
«Comunque sia andata, penso che a quest'ora il responsabile dell'attacco sia morto.»
«Sapete chi è stato?»
Bartr inclinò le labbra in una smorfia. «Un insulto alla razza umana: puzzolente, perennemente ubriaco ed esperto di brigantaggio il cui reddito massimo è sempre stato una manciata di monete. È stato lui ad indicarci la vostra carrozza. Io avevo suggerito di non fidarsi di lui. Non di nuovo. Oh, spero solo che non lo impicchi per davvero sopra la porta della locanda» borbottò a denti stretti e Thomas trattenne uno sbuffo all'immagine che si era venuta a creare della peggiore feccia di Alenea.

Aveva visitato una locanda, una volta.
Era talmente piccolo da potersi infilare nel sacco destinato ai semi da trasportare fino alla campagna poco fuori la città e così aveva fatto, in un impeto di curiosità e di avventura in cui già si vedeva vagare per strade lastricate d'oro, a giocare con coetanei dagli occhi grandi e lentiggini sul naso, elogiato dai passanti per la sua gentilezza e le buone maniere. Era sceso, tappandosi le narici a causa dell'odore acre che permeava l'aria in quella zona, alla prima fermata della carrozza e si era intrufolato subito per nascondersi dalle guardie cittadine in un edificio pericolante che, visto dall'esterno, aveva tutta l'aria di essere disabitato.
L'odore era aumentato non appena si era chiuso la porta alle spalle.
Uomini e donne vestiti di stracci si ammassavano intorno ad un bancone, alcuni attaccati alla canna di vecchie bottiglie di vino ed altri, ai lati di un grande tavolo, insultavano la Stella, colpevole di non avergli suggerito le carte degli avversari. Dall'alto soffitto pendevano ragnatele ovunque ed in un angolo il raccapricciante disegno stilizzato di un uomo impiccato riprendeva il nome che svettava sull'insegna fuori dall'edificio.
Mentre correva nella direzione della Cattedrale, visibile da tutta la città, era inciampato nei suoi stessi passi ed era finito contro le gambe del Maestro, uscito in gran fretta alla sua ricerca. Accertatosi che non era ferito – tutt'al più spaventato – il Maestro l'aveva stretto a sé, cimentandosi in una lunga ramanzina su quanto fosse pericoloso, per lui, visitare altri luoghi prima del momento opportuno. Thomas, mordendosi il labbro inferiore, aveva infine annuito lentamente e non era più uscito dalla Cattedrale.
Non fino ad allora.

***

Il pugnale sfregò contro la giugulare di Lucky ed un rivolo di sangue andò ad aggiungersi a quello che macchiava già i suoi vestiti.
«Parla, Lucky.»
Il tono dell'elfo non era per nulla simile a quello ironico che aveva usato fino ad allora e l'altro deglutì, senza però riuscire ad allontanarsi dalla lama.
«Era perfetto» iniziò, gli spasmi dell'alcool sostituiti dal freddo pungente della paura. «Avreste dovuto morire tutti, specialmente lui. I mercenari... ai mercenari avevano promesso gli effetti personali. Avrebbero dovuto portare indietro il corpo. La colpa sarebbe andata ai briganti, un attacco sventato purtroppo troppo tardi per salvare la vita al principe. Che peccato.»
Il Nateh'n inclinò la testa. «E tu cosa c'entri in tutto questo? Cosa c'entriamo io e Bartr?»
«Oh, non era un mio il piano è-- ah, solo loro» rise alla grossa, i buchi sanguinanti lasciati al posto dei denti dorati in bella vista. «Io dovevo trovare i briganti giusti. Qualcuno facilmente incolpabile, abbastanza famoso per le sue malefatte un po' ovunque, qualcuno specializzato nell'attacco alle carrozze in viaggio e disposto ad attaccare quella giusta senza avere la possibilità di notare gli stemmi reali.»
«La trappola di nebbia...» intuì l'elfo e Lucky annuì freneticamente.
«Hanno chiesto a me perché conosco non solo i migliori furfanti» ridacchiò. «ma anche i loro metodi. Dovevo trovare qualcuno esattamente come voi, qualcuno che avrebbe causato una grossa sfiducia nei confronti un'antica e importante razza. O magari due.»
«Di cosa stai parlando?» la mano che impugnava il pugnale spinse ancora di più contro la gola di Lucky che si esibì in un gracchiante lamento attutito.
«Lo sanno tutti, sai?» il suo tono era ormai disperato. «Lo capiscono, quando vedono le tue trappole e quella fionda maledetta-- sarebbe stato il pretesto perfetto ma ora, ora... oh.»
Il Nateh'n lo lasciò cadere all'indietro, contro la testiera del letto, e si allontanò di un paio di passi.
«Un colpo di stato» sussurrò fra i denti. «Ci hai fatto finire nel bel mezzo di un colpo di stato.»
«Niente di personale, elfo» gracchiò Lucky, circondandosi la nuca con le braccia.
La voce del Nateh'n rimbombò nella camera dopo una manciata di secondi in cui l'unico rumore era stato il respiro rauco del furfante.
«Lucky» disse e l'interessato girò la testa, puntandola oltre la finestra oscurata dalle tende. Solo uno spiraglio di luce rossastra, proprio nel punto in cui i due lembi delle tende si univano, lasciava intravedere gli edifici adiacenti.
Il Nateh'n rinfoderò il pugnale e fissò gli occhi verdi su di lui. «Dimmi chi, Lucky. Chi sta dietro tutto questo?»
L'uomo incurvò gli angoli delle labbra verso l'alto. «Temo che dovrai capirlo da s-»
Il sorriso di Lucky si riempì di sangue.

«Lucky!»
Il Nateh'n si gettò a terra di fianco al letto ed urtò il comodino mentre un'altra freccia, rompendo ciò che rimaneva della finestra, si infilava nel legno della scrivania, esattamente dov'era lui qualche secondo prima. Si girò e riuscì solo a vedere un lembo di stoffa verde, strappato dalla sua casacca ed ora impigliato nella freccia, che subito un nuovo sibilo gli sfrecciò pericolosamente vicino alle orecchie.
Oltre le tende ormai squarciate, il secondo uomo che aveva minacciato Lucky nel vicolo – con ancora il cappuccio a nascondergli il viso – puntava una balestra verso di lui.
Un'altra freccia scoccò e l'elfo si lanciò contro la porta, sfondandola per la foga e cadendoci sopra. Rotolò sulla sinistra e si sforzò di tirarsi in piedi ignorando il dolore sordo al polpaccio, per iniziare a correre lungo il corridoio scuro.
Il rumore di un piatto infranto contro il pavimento lo fece fermare proprio in cima alle rampe di scale.
«L'elfo dai capelli rossi. Primo piano, quinta stanza» stava dicendo la donna con gli anelli alle orecchie, indicando un punto oltre la sua spalla.
«Dannazione.»
L'altro mercenario, Ouf, salutò la sua imprecazione con un ghigno mentre lui riprendeva a correre, stavolta nella direzione opposta.
Andò a sbattere contro un paio di persone che uscivano dalle proprie camere per capire cosa fosse stato tutto quel trambusto e, non appena percepì la corsa pesante del mercenario dietro di lui, sorpassò un uomo in accappatoio ed entrò nella sua camera, chiudendone la porta a chiave.
Una prostituta nuda, in piedi accanto al letto, urlò ma lui la ignorò e si fiondò verso la finestra già spalancata.
Si lasciò sfuggire l'ennesima bestemmia che fu coperta dagli strilli della donna: non c'era nulla su cui potesse saltare se non il canale di scolo dell'acqua che stava ad un paio di metri di distanza, proprio sull'edificio di fronte. «Oh, merda...»
Il colpo dell'ascia contro la porta, avvertito per prima dalla prostituta che corse a nascondersi in bagno, lo fece indietreggiare di tre passi dalla finestra.
«Non andrai lontano» la calma del mercenario oltre il legno gli fece capire che, davvero, aveva i secondi contati e sentì distintamente una voce nelle orecchie – guarda caso con lo stesso timbro di Bartr – che gli domandava se preferiva morire squartato da un'ascia oppure sfracellato contro il lastricato.
Nel dubbio, decise che avrebbe che avrebbe optato per la seconda.

Quando i piedi sfiorarono il terreno, non riuscì ad evitare di finire in ginocchio.
Aveva i palmi delle mani scorticati nel tentativo di afferrare il canale di scolo che, come aveva immaginato poco prima di saltare, non aveva retto il suo peso e si era staccato dalla casa per poi schiantarsi a pochi passi da dove lui era invece riuscito ad atterrare.
Facendo uno sforzo immane per alzarsi da terra, il Nateh'n notò che una nuova striatura rossa gli impiastricciava la gamba fino alla caviglia.
Si trascinò fin dietro l'angolo di un edificio e solo quando, con la schiena premuta contro il muro, si azzardò a guardare verso il primo piano della locanda, vide che Ouf, ora dietro alla finestra spalancata, si stava allontanando lentamente, voltandogli le spalle.
Lui riprese a camminare nella direzione opposta.
Troppo concentrato sui propri passi per evitare di rovinare per terra, si limitò a seguire la strada ciottolata, appoggiandosi ogni tanto ai sacchi della spazzatura per riacquistare l'equilibrio e controllare che nessuno lo stesse seguendo.
I mercenari erano due, si fermò a ragionare quando un'anziana con uno scialle rossastro gli passò accanto. In quelle condizioni non sarebbe mai riuscito a seminarli, a meno che loro non avessero deciso di lasciarlo andare o, prospettiva meno allettante, di tendergli una trappola più avanti.
Svoltò in una strada secondaria a sinistra e continuò a camminare in tutta fretta fino a che qualcuno non gli andò a sbattere contro.
Allarmato per non averlo nemmeno avvertito, portò d'abitudine una mano alla cintura, in cerca della fionda e spalancò gli occhi.
La baronessina Cleomòth sbuffò infastidita di fronte al suo silenzio. «Certo, non scusatevi nemmeno, elfo, mi raccomando.»
«Baronessa, non ho tempo adesso» balbettò il Nateh'n, allontanandosi di un paio di passi e stringendo spasmodicamente lo spazio vuoto contro la coscia sinistra, nascosto dal lembo strappato della casacca, di solito occupato dalla fionda.
Una candela si accese nella sua mente.
Sotto il pezzo di stoffa rimasto alla locanda...
«Come- VOI!?» gracchiò la baronessina e l'elfo si morse la lingua, provando a distanziarla ulteriormente se non ché lei si aggrappò al suo braccio, strattonandolo per tenerlo fermo.
«Voi, ah! Ora mi restituirete le mie perle, se non volete che vi consegni alle guardie.»
«Quali perle?» tentò il Nateh'n, senza risultare per niente convincente. «Temo che mi abbiate scambiato per qualcun aargh-ltro.»
L'elfo si portò la mani sinistra intorno al polso opposto e constatò solo in quel momento che non riusciva a muoverlo senza incorrere in fitte lancinanti.
«... oh» mormorò la baronessina alla vista del sangue sulla gamba. «Siete sudicio!»
«Perspicace.»
«Come osate?!» squillò allora quella, mollandogli il braccio solo per tirargli uno schiaffo in pieno volto.
Il rumore dell'impatto contro la sua guancia spaventò un paio di corvi lì vicino ed un movimento sul tetto accanto alla strada attirò l'attenzione del Nateh'n.
«Vi ho perfino permesso di cogliere il mio fiore...» si stava lamentando Cleomòth mentre, a pochi metri sopra di loro, il mercenario incappucciato li teneva sotto tiro.
L'elfo deglutì ed abbracciò la baronessina.
«Ma che state..?»
«State zitta, se ci tenete alla vita.»
Lei smise di respirare; la lama del coltello le sfiorava la schiena. «Che cosa volete da me? Non ho altre perle ora» sussurrò contro il suo orecchio.
«Zitta» mormorò nuovamente il Nateh'n e lei ubbidì.
Improvvisando una strana danza – in cui la baronessina stava sempre davanti alla balestra – lui la fece volteggiare fino all'incrocio successivo per poi spingerla malamente in un vicolo.
«Vi prego, lasciatemi andare!»
Lui rinfoderò il pugnale e si voltò verso la viuzza che si biforcava ulteriormente a pochi metri da loro.
«Dove siamo?» sussurrò, più rivolto a se stesso che a qualcuno in particolare.
«Di fronte alla Cattedrale» rispose prontamente Cleomòth. «Seguite questa stradina e vi ci troverete davanti, ora lasciatemi andare, vi prego.»
La baronessa cadde malamente per terra quando lui, ricordando il passaggio che dall'impianto acquifero sul retro della Cattedrale arrivava fino poco fuori città, la spinse di lato ed iniziò a correre – per quanto la propria gamba potesse sopportare – verso il centro di Alenea.
Si fermò a nemmeno dieci passi di distanza e si voltò di nuovo verso la baronessina, ora in piedi e tremante, contro il muro: solo in quel momento l'immagine di lei che poche ore prima inveiva contro le guardie cittadine affinché la lasciassero entrare, con i contorni sfocati a causa del dolore, si accese nella sua mente.
«Pensavo avessero chiuso i cancelli» fece con una sfumatura interrogativa nella voce.
Lei singhiozzò e rispose velocemente: «Li hanno riaperti meno di un'ora fa. Ma non fanno passare né cavalli né carrozze. Io stavo tornando a casa.»
Il Nateh'n, però, aveva smesso di ascoltarla. Avrebbe dovuto essere probabilmente sollevato – niente viaggi nelle fogne per uscire dalla città – ma la stessa sensazione allarmante di poco prima gli suggeriva, lanciando un segnale di pericolo imminente, che la riapertura dei cancelli cittadini non fosse affatto una buona notizia.
«Vi prego» gracchiò ancora Cleomòth. «non uccidetemi.»
Ma lui aveva già deciso il prossimo passo e, stando attento a camminare in punti in cui risultasse poco visibile dai tetti circostanti, riprese la lenta corsa verso la Cattedrale.
Il sole era ormai calato del tutto e la Stella dell'Ovest, la più luminosa fra gli astri così come la prima ad apparire, gli fece da faro nelle tenebre della sera. [3]


~


Glossario:

[1] “Lo sgrunge lo fissò con i suoi occhietti infossati e scrollò l'immenso corpo sporco di fango.
«Scommetto che ora sai di che parlo, eh?» chiese colui che prima era stato uno sgrunge a sua volta e che ora, invece, era l'uomo in piedi di fronte a lui. «Passi la vita a rotolarti nel fango e non hai nemmeno la possibilità di vedere il cielo.»
Il possente animale emise un flebile lamento.
«Oh, sono sicuro che tu abbia capito ma preferisco rimanere uomo ancora per un altro po'.»
Detto questo, l'uomo si incamminò verso il villaggio e l'allevatore crudele restò tramutato in una di quelle creature che aveva impunemente maltrattato per il resto della sua vita.
Non vide mai più il cielo.”
Tratto da “Venti favole senza morale (più una)”, raccolte da Tsegh M. Mirborr.

[2] “So che sono estinti da anni, Martin, ma credimi quando ti dico che ne ho visto uno.
Deve essere uscito dall'acqua nel momento in cui mi sono voltato verso il sentiero e ne ho percepito la presenza solo grazie all'infrangersi di alcuni schizzi contro il suo corpo.
Stava ritto sulle due zampe anteriori – identiche a quelle di un cavallo –, proprio al centro del lago, il corto pelo grigio scintillava come un raggio di sole intrappolato in uno specchio e la sua coda... ah!, la sua coda, Martin, era molto più grossa di quanto tu possa mai immaginare.
Si snodava semplicemente, partendo dal dorso privo di zampe posteriori, e lo avvolgeva in una spirale d'aria fresca fino a coprire più di metà della superficie del lago.
Non puoi immaginare il mio stupore – e la mia delusione! – quando lui si immerse di nuovo nelle acque. [...]
Ti ricordi le leggende che ci raccontavano quando eravamo piccini, sul fatto che gli Efyo altro non siano che le schegge in cui si spezza un tornado quando arriva al culmine della sua velocità di rotazione?
Non aspettare il mio ritorno, Martin, perché cavalcherò il vento.
Dalle ultime righe de “Una lunga lettera di L. E. Carvym – pubblicata dal fratello Martin un anno dopo la sua scomparsa.

[3] “[...] e la Stella dell'Ovest disse: «Costruirete la mia Cattedrale nel punto in cui, alzando lo sguardo al cielo, sarò esattamente sopra di voi».”
Cantico della Luce dell'Ovest, ventisettesimo verso.

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Capitolo 3
*** Da queste ceneri ***


Autore: _wayward.
Titolo: L'Emblema della Farfalla ~
Fandom: Originale » Fantasy.
Rating: Giallo.
Genere: Long fic [3/15].
Personaggi/Pairing: Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole: ~4633.
Avvertimenti: -

Disclaimer: Mine ©.
Note: [0] From These Ashes – F. Brown, 1950.
1) Per il prompt "viaggio” dei magici Faràs su COW–T3 #maridichallenge

Introduzione: «Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.




~ L'Emblema della Farfalla
Capitolo III ~ Da queste ceneri [0]



La Cattedrale irradiava magnificenza attraverso la densa oscurità che invece l'avvolgeva.
Non era certo la prima volta che la vedeva e, anche se aveva soggiornato ad Alenea per un lungo periodo ancor prima di dirigersi verso Nath, non riuscì a resistere all'impulso di lanciarle uno sguardo rapito.
Sulle immense vetrate che ne ricoprivano quasi l'intera superficie la solita, piccola scintilla [1] dorata volava rapidamente, rendendo i contorni di ciascuna delle figure rappresentate luminescenti.
Il Nateh'n lasciò che la smorfia di dolore che aveva sul viso si trasformasse in un lieve sorriso: nessun luogo era permeato dalla stessa atmosfera che si trovava alla Cattedrale, né il santuario di pietra sulla vetta di Picco d'Asca, né le placide acque sacre del Ganell, a sud di Ilmìat.
Neppure il fascino proibito della città di Rovér – con l'enorme facciata di ghiaccio dell'Ambasciata, proprio sopra gli scogli frastagliati che si affacciavano sul mare Svænsyv – sarebbe mai riuscita ad eguagliare la magnificenza dell'imponente costruzione al cui centro, secondo le leggende, era custodito il rosso mantello della Regina.
Il miagolio di un gatto selvatico lo riscosse dai propri ricordi e gli fece alzare gli occhi verso i tetti delle abitazioni circostanti; non era possibile che il mercenario l'avesse seguito saltando da un tetto all'altro così come sembrava improbabile che un uomo riuscisse a stare in equilibrio sopra le guglie che ricoprivano il tetto della Cattedrale senza essere visto, eppure il Nateh'n non riusciva a togliersi la fastidiosa sensazione di pericolo che gli lanciava il proprio stomaco.
Attraversò velocemente la piazza, dovendosi appoggiare più volte alle statue di marmo che le facevano da guardiani per non cadere, e si acquattò contro il muro quando un ragazzetto, ridente e senza scarpe, gli passò accanto correndo verso la direzione opposta.
Nell'angolo sud-ovest, la Cattedrale era collegata attraverso un ponte sopraelevato di un paio di metri all'edificio in cui alloggiavano gli Eletti e l'elfo rimase stupito dal non trovarvi le guardie che di solito sorvegliavano il passaggio: perfino il portone che dava ingresso agli alloggi era chiuso.
Il Nateh'n corrucciò le sopracciglia, si sporse verso l'altro per avere conferma dell'effettiva mancanza di guardie prima di passare sotto il ponte e, una volta giunto proprio di fronte ad una delle vetrate inferiori, sbirciò all'interno.
Solo un paio di candele illuminavano le tre navate laterali, oltre alla luce naturale della notte che filtrava attraverso il lucernario sull'alto soffitto, la scintilla si muoveva veloce entro le vetrate nel lato opposto della Cattedrale ed il suo bagliore era appena sufficiente per rischiarare l'arazzo sul muro centrale, raffigurante la Regina prima della sua ultima battaglia, ed il leone intagliato sulla lunga colonna orizzontale che divideva l'abside dai corridoi.
Stava per voltarsi e dirigersi verso l'ingresso dell'impianto acquifero – una porticina in legno a dieci passi di distanza che arrivava a malapena all'altezza delle sue ginocchia – quando un movimento improvviso lo costrinse ad assottigliare gli occhi.
La sagoma scura, fin troppo armata per essere un Eletto, si voltò verso l'ingresso della Cattedrale, lasciando che la luce lunare si riflettesse sulla lama dell'ascia che portava con sé.

«Fossi in te, mi allontanerei in fretta.»
Il Nateh'n trattenne il fiato e si girò lentamente verso il mercenario incappucciato, facendo scivolare una mano verso la cintura e...
«Cercavi questa?»
Strinse lo spazio vuoto sotto la casacca.
La sua fionda, legno chiaro ed elastici di felce, roteava veloce intorno al polso dell'uomo e l'elfo socchiuse gli occhi: anche se le ombre della notte ne nascondevano i tratti, avrebbe riconosciuto la sua voce fin sotto all'oceano.
«Cézras» mormorò, cercando il suo sguardo.
«Ęlanhecγnn
Il mercenario fece un passo verso di lui, si portò le mani alla nuca e lasciò che il cappuccio gli ricadesse sulle spalle.
«Non è il mio nome» ribatté il Nateh'n prima di rendersi conto che il sangue aveva iniziato a pulsare più velocemente contro la sua pelle.
L'occhio di vetro brillò per un istante, sul volto di Cézras, ed il suo sorriso si distorse in un ghigno sinistro mentre il rumore del mare in tempesta avvolgeva entrambi. Dalla nuca ora rasata, al tempo del ricordo si diramava una chioma di folti capelli scuri e gli occhi dell'uomo erano entrambi più blu del fondale marino.
Un urlo soffocato rimbombò nella mente dell'elfo.
«Cosa vuoi?»
Cézras rise con voce rauca. «C'è sempre solo una cosa che voglio, lo sai.»
«Lo so» fece il Nateh'n, puntando lo sguardo sulle chiazze nere che gli macchiavano la pelle proprio nel punto in cui il collo veniva ricoperto dalla divisa grigia che aveva sempre portato.
La bambina piangeva nello scafo della nave e lui si conficcò le unghie nel palmo della mano che ancora riusciva a muovere pur di farla smettere.
«Hai ancora quei brutti incubi, Ęlanhe
«Quali incubi?» alzò gli angoli delle labbra in un sorriso freddo.
Cézras si avvicinò ancora senza smettere di fissarlo e il Nateh'n rabbrividì impercettibilmente quando un tuffo nell'acqua emerse dalla nebbia dei ricordi.
«Cosa vuoi?» chiese di nuovo.
«Ti aiuterò a scappare» disse, indicando con un cenno del mento l'altro mercenario ancora chinato oltre le vetrate della Cattedrale. L'elfo si girò; Ouf non poteva sentirli ma la costatazione non impedì ad un nuovo brivido di risalirgli la schiena.
«Perché dovrei fidarmi?» sussurrò, forse più rivolto a se stesso che all'altro.
«In nome della nostra vecchia amicizia?» ghignò Cézras.
Il Nateh'n sobbalzò e fece un passo a sua volta mentre irrigidiva la mascella.
«Quale amicizia?»
La scintilla disegnò i contorni delle figure alle sue spalle: una luce fioca illuminò il volto del mercenario poco prima che questi si girasse verso gli alloggi degli Eletti.
«Non mi servi a nulla morto» ribatté, serio, lisciandosi la divisa sulle cosce. «Né a me, né ai miei capi. Non ora, perlomeno.»
«Ah si? E chi sono i tuoi capi?»
Anche senza vederlo, l'elfo percepì il sogghigno sulla sua bocca. «Ti vogliono morto. È importante conoscere i loro nomi?»
«Saprei da chi devo scappare.»
La risata dell'uomo, aspra e gracchiante, lo colse di sorpresa e nel momento in cui si voltò di profilo – nascondendo alla sua vista l'occhio di vetro, completamente bianco – la mano del Nateh'n si serrò intorno al manico del coltello.
«Nella via dietro il condotto dell'acqua, di fronte alle stanze di esercitazione degli Eletti, è legato un cavallo» esclamò improvvisamente Cézras. «Prendilo, esci in fretta dai cancelli e non ti preoccupare di non essere visto: stiamo preparando dei ritratti da spedire in tutto il regno.»
L'elfo assottigliò gli occhi.
«Perché me lo stai dicendo?»
«Te l'ho già detto» sorrise l'altro. «Ci servi vivo ancora per un po'.»
Le parole di Lucky, le poche che era riuscito a cavargli prima di vederlo morire, lo portarono alla giusta intuizione. «Vi serve un capro espiatorio.»
Cézras non lo degnò di uno sguardo.
«Qualcuno a cui addossare le responsabilità dello scoppio di una guerra» rincarò ed a quel punto l'altro sorrise.
«A quanto pare sei uno dei fortunati» e accarezzò il legno liscio della sua fionda.
«D'accordo» esalò il Nateh'n dopo una lunga pausa. «Dammi la mia fionda e me ne andrò esattamente come mi hai chiesto di fare.»
«Non penso tu abbia capito» mormorò il mercenario ancor prima che lui tendesse una mano verso l'arma. «La mia non è un'offerta che puoi declinare e restare vivo» lanciò un'occhiata significativa al sangue che aveva creato dei grumi sopra il taglio sulla sua gamba. «Puoi decidere di scappare attraverso il condotto acquifero come volevi fare e decretare la tua morte, subito.
Oppure puoi stipulare un patto.»
Il Nateh'n inclinò leggermente il capo.
«Prendi quel cavallo e vattene. Nessuno ti torcerà un capello, nessuno ti seguirà. Torna a qualunque sia il punto del bosco da cui sei partito e convinci il principe ad arrivare alle porte di Cremysta.»
«Cosa ti fa pensare che sappia dov'è?»
«Sarebbe già rientrato in città, altrimenti.»
«Cosa ci guadagnate voi a lasciarmi andare?» domandò a quel punto l'elfo, arretrando impercettibilmente verso il condotto acquifero.
Cézras sorrise. «Oltre ad un colpevole perfetto? La morte dell'Erede.»
«Fantastico» rispose con sarcasmo. «Cosa ci guadagno io, invece?»
«La possibilità di ottenere la pietà del capo una volta che avrà ucciso il principe.»
Il Nateh'n serrò le labbra.
«Non mi pare che tu abbia molta scelta, Ęlanhecγnn
Le piccole rughe intorno agli occhi dell'uomo, tratti che prima non aveva notato – proprio perché erano inesistenti, quando ancora era abituato a sentire quel nome – ora erano solchi profondi sulla sua pelle, simili alle colline di sabbia che si creano nel deserto dopo il passaggio di un temporale.
Il fresco vento che veniva dal mare gli scompigliò i capelli mentre gli dava le spalle e, incerto sulle proprie gambe come se il dolore e la stanchezza fossero tornati a gravare su di lui solo in quel momento, si allontanò di tre passi. Poi si morse la lingua e strinse le dita attorno al polso dolorante ma non riuscì ad impedire al proprio corpo di voltarsi di scatto.
«Cosa ti fa essere così sicuro da credere che, varcati i cancelli di Alenea, non scapperò il più lontano possibile?»
Il sibilo di una miccia che si accende lanciò riflessi baluginanti sull'occhio bianco del mercenario e le ombre sul suo volto, causate dall'improvvisa luce, trasformarono il suo ghigno nelle fauci aperte di un animale.
Gli occhi del Nateh'n volarono all'origine della fiamma – poco più alta di una decina di centimetri, proprio al centro della Cattedrale – e si spalancarono all'istante.
Il silenzio della notte venne infranto dai piccoli scoppiettii dell'arazzo che prendeva fuoco e dai passi pesanti di Ouf che rimbombavano, da qualche parte oltre le vetrate; la scintilla, intrappolata nel vetro, si muoveva come impazzita ed iniziò ad emettere strilli acuti che ad orecchie umane sarebbero sembrati solo poco più alti di un qualsiasi mormorio soffocato.
«Come ti ho già detto» sussurrò Cézras prima di estrarre la balestra, legare ad una freccia la sua fionda e puntarla contro le figure rappresentate dietro di lui. «mi allontanerei il più in fretta possibile.»
Nel frastuono che seguì, il Nateh'n non ebbe il tempo di accorgersi che la sua domanda non aveva ricevuto alcuna risposta.

***

Nessa strinse la pergamena arrotolata che reggeva con le braccia ossute al petto e squittì spaventata quando uno degli uomini con il cappuccio rosso la spinse in avanti.
Gli Incappucciati non le piacevano.
I loro mantelli – del colore del sangue, le faceva notare la sua coscienza – gli svolazzavano intorno quando camminavano ma, nonostante la premura che mettevano nel nascondere le loro fattezze, Nessa aveva capito.
Lei era più bassa di qualsiasi umano ed arrivava a stento alla metà coscia di una donna adulta: la stoffa rossa calata sul volto non impediva alla creaturina di vedere i loro visi ed era per questo che ne era così spaventata. Tatuaggi scuri li ricoprivano quasi interamente e, seppure i loro incantesimi li indicassero come Eletti, nessun cerchio d'oro risplendeva sulle loro fronti.
Nessa aveva letto fin troppe volte il Cantico della Luce dell'Ovest per non intuire le loro origini.
Lisciò con il dorso della mano l'anello argentato che teneva la pergamena arrotolata e provò un moto d'orgoglio salirle agli occhi; il Maestro l'aveva investita di tutta la sua fiducia nell'incaricarla di consegnare l'oggetto prezioso personalmente nelle mani dell'uomo a cui gli Incappucciati la stavano conducendo.
Nessa chinò il volto paffuto a terra proprio a causa della loro presenza: certo, avrebbe preferito di gran lunga che fosse il Maestro a camminare accanto a lei ma comprendeva i motivi che l'avevano spinto a fare scendere soltanto lei – e due piccoli gruppi di quegli uomini con il cappuccio – alla cittadella portuale di Onalĩa per poter proseguire senza soste il viaggio verso Cremysta.
«Segui i loro ordini, Nessa, e quando l'avrai consegnata, un'altra carrozza vi porterà alla Capitale» le aveva detto, prima che la carrozza ripartisse verso i campi che si stagliavano all'orizzonte, e così lei avrebbe fatto. Quando era rimasta sola con loro, poi, i gruppi si erano divisi; solo un ristretto manipolo, così aveva capito, l'avrebbe accompagnata alla sua meta.
Il lontano rumore delle campane sulle torrette poste fuori dalla città le fecero alzare gli enormi occhi al cielo perché, completamente circondata dalle gambe degli Eletti e dai loro mantelli rossi, era l'unica cosa che potesse vedere veramente anche se, a giudicare dal silenzio che permeava la città, era facile intuire quanto i suoi abitanti fossero ben poco inclini ad uscire di casa senza la sicurezza della luce solare.
Sorrise leggermente, stando bene attenta a non lasciare scivolare la pergamena scura, e sgambettò più in fretta per seguire il passo della sua scorta quando vide con piacere il primo raggio di sole della giornata saettare veloce fra le stelle del mattino fino a ché, con grande sorpresa da parte sua, i mantelli rossi non smisero di svolazzare.
Ferma poco dietro i primi due Incappucciati, Nessa udì prima i colpi pesanti contro il legno e, qualche minuto dopo, una voce assonnata rispondere da oltre la porta.
«Apra» disse soltanto la voce di una donna nascosta sotto il cappuccio e la serratura scattò non appena ebbe finito di parlare.
Un anziano signore, con grossi bassi sotto il naso ed una cuffia da notte ancora sul capo, spalancò la porta e si fece da parte per farli entrare.
Nessa, sospinta da uno dei due Incappucciati che stavano alle sue spalle, si intrufolò silenziosa nella dimora dell'uomo ed attese trattenendo il fiato finché la porta non venne di nuovo chiusa.
«Royal Roguen» esclamò la stessa Eletta di prima e lui sussultò leggermente.
«Come conoscete il mio nome?» mormorò l'ometto, sfilando la cuffia dalla propria nuca.
Lei lo ignorò.
«Dicono che siate il miglior orafo dell'Impero e, se questo è vero, gradiremmo la vostra collaborazione.»
I baffi di Royal Roguen tremarono. «In cosa, se posso chiedere?»
In quel momento, mentre Nessa era impegnata ad osservare le piccole fiamme delle candele che danzavano nella penombra sopra un tavolo sul fondo della stanza, l'Incappucciato al suo fianco la spinse di nuovo e lei scattò in avanti, più attenta che mai, fino a porgere la pergamena fra le mani del signore.
«Ehm, grazie» fece lui non appena la creatura, dopo un buffo inchino, fu tornata al proprio posto ed alzò lo sguardo sui presenti.
Nessuno parlò.
Sospirando nervoso, Royal Roguen si diresse verso il proprio tavolo da lavoro e, inforcati un paio di piccoli occhiali dalla montatura in corno, sfilò l'anello d'argento dalla pergamena e la srotolò.
Un piccolo pezzo di stoffa scuro, piegato attentamente, scivolò da essa e cadde sul tavolo ma nessuno, a parte Nessa, sembrò farci caso.
Il signore, invece, afferrò una delle candele lì vicino e la avvicinò alla lettera, iniziando a leggere ciò che vi era scritto. I suoi baffi fremettero mentre gli occhi, dietro il vetro degli occhiali, scorrevano velocemente sulla pergamena, rincorrendo le lettere d'inchiostro che, grazie alla fiammella, Nessa intravedeva dietro il foglio. Gli Incappucciati, immobili nei loro mantelli rossi, stettero in silenzio per tutta la durata della lettura e lei li imitò, limitandosi ad accarezzare distrattamente il laccio blu stretto sui propri gomiti.
Il Maestro sembrava così giovane quando gliel'aveva legato, inginocchiandolesi di fronte, così tanto tempo prima che la creatura non era sicura di ricordare l'affetto che aveva provato nei suoi confronti.
«Ricordati sempre a chi appartieni, Nessa» le aveva sussurrato e lei, pavoneggiandosi inconsciamente davanti agli altri rotsie [2] del mercato, aveva giurato eterna fedeltà al Maestro. Avrebbe sempre indovinato i suoi desideri – gli aveva detto in un mormorio eccitato –, così era e sarebbe sempre stato finché il Maestro avesse voluto tenerla con lui.
L'espressione del Maestro, quel giorno...
Nessa sbatté le palpebre all'espressione estremamente stupita che si stava venendo a creare sul volto di Royal Roguen; le sopracciglia inarcate sulla fronte e la bocca un poco spalancata, l'uomo abbassò la pergamena senza lasciarsi scappare il minimo suono. La posò con cautela sul tavolo e solo a quel punto dedicò piena attenzione a ciò che ne era caduto quando aveva iniziato a leggere.
Alzò gli occhi sugli Incappucciati, come a chiedere loro la prossima mossa, ma nessuno rispose alla sua tacita domanda così, preso finalmente un respiro, si decise a sfiorare la sua superficie con la punta della dita.
Nessa inclinò la testa e, quando lui sollevò un lembo della stoffa, i suoi occhi si spalancarono ed uno squittio involontario le uscì dalle labbra, subito coperte dai propri palmi.
«Per la Luce--!» esclamò Royal Roguen, coprendosi anch'egli la bocca con l'altra mano.
Il lembo di stoffa tagliato a forma rettangolare, lungo quanto un avambraccio, pendeva delicatamente dalla sua presa e le due lettere dorate ricamate sopra riflettevano la luce delle candele ignorando l'emozione che stavano causando a chi le osservava.
«Ditemi che è una copia» gemette ad un tratto l'uomo.
La donna che aveva parlato prima fece un passo avanti, si liberò del cappuccio, lasciando che le stesse candele illuminassero la fitta rete di tatuaggi disegnati sul suo volto, e Royal Roguen arretrò velocemente. Urtò la sedia e storse la bocca spalancata mentre Nessa si stringeva con uno spasmo le spalle.
«Che la Stella ci aiuti» sussurrò lui, questa volta con voce talmente bassa che la creatura, spaventata com'era, credette di essersela immaginata mentre gli altri Incappucciati avanzavano dello stesso passo.
Nessuno di loro parlò.

***

Fumo denso si levava all'orizzonte insieme al sole.
Bartr stava seduto sopra un ramo spezzato, esattamente di fronte alle braci del fuoco che la sera prima aveva acceso. Thomas, qualche passo più in là, si era addormentato a notte inoltrata appoggiato al tronco di una betulla mentre lui non ci sarebbe riuscito nemmeno se se lo fosse imposto.
Con gli occhi puntati in direzione di Alenea, osservava il grigio spettrale di un incendio non ancora domato salire veloce verso il cielo, sperando soltanto che il Nateh'n fosse già in viaggio per tornare all'accampamento.
Era raro che lui e il suo compagno, da quando erano diventati tali, si separassero per più di un paio di giorni ma lo era ancora di più che l'elfo decidesse di viaggiare la notte, specialmente sapendo di dover attraversare una foresta che, seppure conoscesse come le proprie tasche, comportava sempre un margine elevato di rischi quindi non avrebbe dovuto attendere il suo arrivo prima di quella sera, eppure...
Il giovane nobile si mosse appena, sfregando la guancia contro la ruvida corteccia dell'albero, e corrucciò le sopracciglia quando un timido raggio di sole fece capolino fra i rami circostanti. Mugugnò qualcosa d'incomprensibile e spalancò gli occhi per iniziare a guardarsi intorno con espressione piuttosto confusa; solo quando incrociò la figura di Bartr – mantello sfilacciato e barba compresa – tornò ad appoggiare la schiena al tronco.
«Ben svegliato» gli disse il brigante e Thomas abbozzò un sorriso assonnato.
Bartr lo vide con la coda dell'occhio stropicciarsi le palpebre con il dorso delle mani e solo una manciata di minuti dopo, sbadigliando sonoramente, il ragazzo andò a sedersi accanto a lui.
«Non è ancora tornato?» fu la prima cosa che gli chiese.
Bartr scosse la testa in segno di diniego.
«Ascoltate» fece Thomas, riempiendo il silenzio che si era venuto a creare. «Penso che dovremmo tornare in città. Spiegherò io alle guardie cosa è successo, non dovete preoccuparvi»
«Non credo sarebbe una buona idea» rispose Bartr e, allo sguardo interrogativo del giovane, si limitò ad indicare con il mento il fumo lontano.
Thomas schizzò in piedi e domandò con un fil di voce: «Un incendio?».
«Bello grosso» rispose l'altro.
«Nel bosco?»
Bartr negò nuovamente. «È troppo lontano. Viene da Alenea.»
La mano di Thomas si strinse intorno alla sacca in cui teneva l'opale e lui si riscosse solo nel sentire la pietra fredda sul proprio palmo, poi, mordendosi il labbro inferiore, fece un passo in avanti.
«Devo tornare...»
Il mercenario non capì cosa volesse dire perché, improvvisamente, il rumore di quattro zoccoli sul terreno era arrivato alle sue orecchie; anch'esso proveniva dalla direzione della città.
Scattò verso l'arco, poggiato poco lontano dai resti del fuoco, e lanciò la spada pregiata al suo legittimo proprietario che, accortosi dello stesso suono, si nascose dietro un arbusto. Bartr lo imitò, tendendo una freccia con il braccio sano e reggendo l'arco con l'altro.
Il rumore, frattanto, si faceva sempre più vicini a loro.
Non c'erano cambiamenti nell'andamento del cavallo, notò Bartr in quel momento, quindi chiunque stesse arrivando non era qualcuno che poteva essersi perso ma, piuttosto, che conosceva bene l'ubicazione del fortuito accampamento.
Pregò che fosse il Nateh'n.

Quando il cavallo entrò nel loro campo visivo, iniziarono a pensare entrambi che fosse solo: nessun fantino stava sul suo dorso. L'animale passò dunque in mezzo allo spiazzo, si impennò per un istante quando posò uno zoccolo sulle braci – qualcosa di pesante cadde dal lato del cavallo che non vedevano, nell'azione – e continuò la sua falcata in mezzo alla foresta.
Accanto al fuoco, il Nateh'n si rialzò barcollante, imprecò e cadde di nuovo. Bartr lasciò cadere l'arco e corse verso di lui.
«Ma che diamine hai combinato?» gli urlò quando arrivò sufficientemente vicino da notare le sue condizioni.
Il Nateh'n – tutta la gamba impiastricciata di sangue, una spalla che sporgeva in maniera innaturale, il polso stretto nella mano sinistra, numerosi taglietti sul volto, foglie di qualsiasi tipo fra i capelli e l'impronta di tre delle cinque dita della contessina ancora ben visibili sulla guancia – lo fissò con evidenti intenzioni omicide.
«D'accordo» mormorò Bartr per poi spostarlo di peso sopra il tronco cavo lì vicino. «Prima siediti»
«Certo, come se sedermi mi rimettesse a posto tutt- ahi!, no, non toccarmi la spall- AAAAH!»
«Era uscita dall'incavo» si giustificò ed il Nateh'n, mordendosi la lingua, si accasciò sul posto.
Fu la voce di Thomas, dopo un lungo silenzio, a riscuoterlo dall'incoscienza.
«Avete visto l'incendio?»
L'elfo sussultò ma tenne il viso rivolto al terreno.
«Da dove è partito?» chiese ancora il ragazzo.
Questa volta alzò lo sguardo e lo posò su un punto poco sopra i suoi occhi. Thomas sostenne l'analisi ma, cercando di apparire del tutto calmo, si appiattì con la mano i capelli biondi che gli cadevano sulla fronte.
Dopo un tempo che parve interminabile, il Nateh'n si alzò sulle proprie gambe e si allontanò, instabile, di un paio di passi. «Bartr, raccogli le tue cose, ce ne andiamo.»
L'altro brigante corrucciò le sopracciglia. «Dove credi di poter andare in quelle condizioni, scusa?» gli domandò e, come per confermare involontariamente le sue parole, il Nateh'n si lasciò scappare un gemito quando si chinò per raccogliere la sacca delle provviste appoggiata ai sassi del fuoco. Si girò in direzione di Bartr e fece per ribattere quando Thomas gli si mise davanti.
«Da dove è partito l'incendio?»
Il canto di un allodola riempì il vuoto seguente alla sua domanda ma il ragazzo non desistette e, serrando le labbra in una linea sottile, si avvicinò fino a che avrebbe potuto contare le poche lentiggini sul quel viso sporco di terriccio ed erba. Gli occhi verdi lo fissavano quasi brillando, nella tiepida luce mattutina, con aria di sfida e Thomas capì, dai rapidi sguardi che lanciava al cerchio dorato simbolo degli Eletti, nascosto dai propri capelli, che l'elfo sapeva.
Fu tentato di portarsi di nuovo la mano alla fronte ma si trattenne e, anzi, fece un ulteriore passo in avanti; ancora qualche centimetro ed i loro nasi avrebbero potuto sfiorarsi.
«Avete qualcosa da dire?» sussurrò il Nateh'n, inarcando gli angoli delle labbra in un sorriso camuffato dal dolore.
Thomas rabbrividì e nemmeno sentì il richiamo di Bartr alle loro spalle. «Ho bisogno di saperlo» gli sussurrò a testa alta, invece. «Da dove è partito l'incendio?»
«Dalla Cattedrale» Il sorriso dal suo volto era sparito ed ora lo guardava con un espressione impassibile. «vostra maestà» ammiccò con un sussurro alla sua fronte e Thomas si allontanò di scatto.
«La Cattedrale è bruciata?!» esclamò Bartr ad alta voce.
Il Nateh'n sospirò e si scostò i capelli dagli occhi con uno sbuffo, per poi voltarsi in direzione di Alenea: il fumo, denso e scuro, non aveva ancora smesso di salire al cielo.
«Cattedrale, stanze degli Eletti, forse anche le case più vicine» mormorò senza particolare inflessione nella voce prima di lasciarsi cadere sul tronco cavo.
«Per la Stella...» il bisbigliò di Bartr venne coperto dal fruscio della casacca verde del Nateh'n che veniva lanciata a terra mentre lui tirava fuori dal sacchetto contenente le bacche una manciata abbondante di piccoli frutti rossastri.
Senza curarsi degli altri due, alzò lo sguardo solo dopo un lungo sorso dalla borraccia. «Bartr, prendi la map-- ehi..! EHI!, 'llîas, dove pensate di andare?»
«Thomas!»
«Siete uno stupido se pensate di poter cambiare la situazione!» gli urlò dietro il Nateh'n, poco prima che il ragazzo potesse sparire oltre il folto degli alberi. Thomas si fermò e Bartr vide la sua mano stringersi intorno all'elsa della spada.
«Non potete fare nulla, ormai.»
Fu un attimo e si girò di nuovo verso di loro. Nemmeno una decina di secondi dopo la sua lama sfiorava la gola del Nateh'n e Bartr puntava il proprio arco alla sua schiena.
L'elfo non batté ciglio.
«Perché non siete rimasto?!» sbraitò il ragazzo, il cerchio giallo sulla sua fronte brillava leggermente di luce propria.
«Abbassa l'arco, Bartr.»
Il compagno esitò ma, alla fine, riavvicinò la corda all'asta di legno senza scoccare alcuna freccia.
«Come avete potuto permettere che accadesse una cosa simile?» inferì ancora il ragazzo ma la sua voce, dall'urlo che era stata, andava scemando.
«Mi avrebbero ucciso» rispose il Nateh'n, posando il palmo della mano sopra la parte piatta della spada. Thomas schiuse di nuovo le labbra ma lui fu più veloce a continuare. «e uccideranno anche voi se tornerete.»
«Non–»
«Lo faranno» spinse la lama verso il basso e si alzò in piedi facendo forza sulla gamba sana. «Avreste già dovuto essere morto. E così Bartr e io.»
Thomas indietreggiò di un passo, lasciando che la punta della spada strisciasse sul terreno e Bartr scelse quel momento per avanzare. «A chi mai dovrebbe interessare la nostra morte? Lucky?»
«Lucky è morto» ed il viso del Nateh'n sembrò improvvisamente più stanco.
«L'hai ucciso davvero?» domandò Bartr, posandogli una mano sull'avambraccio.
«Av- aah, la spalla, Bartr!»
«Oh, scusa.»
Il Nateh'n tossì un paio di volte. «Avrei voluto» esclamò quando il dolore si fece più debole. «La situazione è più complicata di quanto sembra. Lucky era solo una pedina e qualcuno l'ha ucciso prima di me. Quanto avrei voluto essere io...»
Bartred lo fissò impaziente ma la voce dell'altro ragazzo arrivò prima della sua. «Chi erano gli uomini incappucciati sulla seconda carrozza?»
Il Nateh'n alzò lo sguardo verso di lui e si stupì di trovare i suoi occhi chiari ancora puntati su di lui ma, proprio dal lampo di intuizione che vi vide attraverso, seppe che aveva capito.
«Non lo so» ammise, ignorando il sopracciglio inarcato del proprio compagno. «Mercenari, forse.»
«Erano Eletti. Non ci sono Eletti al di fuori della Cattedrale.»
«Già...» l'elfo si passò la lingua sulle labbra, l'espressione improvvisamente livida, con il volto a fissare qualcosa che stava proprio dietro le spalle di Thomas, poi incurvò il busto verso il basso. «A quanto pare vi sbagliate.»
«Cosa c'entra questo, adesso?» chiese titubante Bartr, girando la testa prima nella direzione dell'uno e poi dell'altro.
«La domanda è un'altra» ghignò a quel punto il Nateh'n ed il ragazzo arretrò ancora, impercettibilmente. «Perché è raro che le rivoluzioni scoppino senza alcun motivo e forse faremmo bene a chiedere all'Erede perché qualcuno sia disposto ad ucciderlo, piuttosto che averlo come re.»
«All'Erede...?» un paio di occhi castani si puntarono improvvisamente sulla figura che, in disparte, impugnava ancora la spada. «Oh.»
«Già, Bartr.»
«... vostra maestà?»
Il sorriso dell'elfo si allargò.


~


Glossario:

[1] “È una pratica estremamente barbara.
Nessuna creatura meriterebbe mai di essere rinchiusa all'interno del vetro di finestre e lampade al fine di illuminare la sera o creare pacchiani effetti luminescenti, tanto meno le scintille.
Quanto alla loro presunta pericolosità, sosteniamo che queste creaturine dalla morfologia probabilmente umana – seppure non visibile a causa della loro luce – siano, se lasciate libere, assolutamente innocue.
Le leggende a proposito della loro capacità di far scomparire chiunque con un solo tocco non sono mai state confermate e rimangono, appunto, solo leggende.”
Dal “Manifesto sull'uso improprio della magia” redatto da G. R. Jowlink.

[2] “Il rotsie indicò il proprio petto con le lunghe dita arcuate e tu vedesti il grande e vivo fiore giallo – che pulsava proprio sopra il suo cuore – sibilare lentamente. I due velenosi sfilacciamenti rosa che poco prima avevano ucciso il tuo compagno fuoriuscirono dal centro del fiore e si allungarono verso di te ma, con un movimento veloce, facesti in modo che le funi che vi avevano portato all'interno della grotta si attorcigliassero attorno alla vita della creatura.
[...]
Con il petto fasciato, il rotsie ti giurò fedeltà eterna.”
Tratto da “Creature addomesticate” di Phortesi Caphrolini.

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Capitolo 4
*** Immagina, un poema ***


Autore: _wayward.
Titolo: L'Emblema della Farfalla ~
Fandom: Originale » Fantasy.
Rating: Giallo.
Genere: Long fic [4/15].

Personaggi/Pairing: Il Nateh'n, Thomas, Bartred, Aera.
Parole: ~4659.
Avvertimenti: -

Disclaimer: Mine ©.
Note: [0] Imagine, a poem – F. Brown, 1955.
1) Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è veramente vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con tanto di vocabolario e quan'altro mi venga in mente.

Introduzione: «Ti piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa avventura.




~ L'Emblema della Farfalla
Capitolo IV ~ Immagina, un poema [0]



Avevano camminato in silenzio per tutto il giorno.
Thomas si strinse nelle spalle e rimpianse, nel freddo vento che si era levato da almeno un paio d'ore, il non aver accettato il mantello che Bartr gli aveva offerto quella mattina. Poi lo sguardo penetrante del Nateh'n spezzò i suoi pensieri e lui riportò le braccia lungo i fianchi, ad accarezzare l'elsa della propria spada che oscillava lievemente a tempo con il suo passo.
Bartr, subito dietro all'elfo che, pur zoppicando, si ostinava ad avanzare, gli lanciò un'occhiata preoccupata che Thomas tentò di ignorare.
Era stato Bartr ad avere insistito pur di accompagnarlo quantomeno fino al porto di Onalĩa, quella mattina – dopo essersi inginocchiato di fronte a lui ed avergli promesso di aiutarlo a raggiungere la capitale con qualsiasi mezzo. Il Nateh'n a quel punto si era alzato, sempre barcollante, e, il sorriso gelato sul volto, aveva detto al compagno: «Fa' come vuoi».
Quando, raccolte un paio di sacche dall'accampamento, l'elfo aveva fatto per andarsene, Bartr lo aveva fermato stringendogli l'avambraccio.
«Che cosa stai facendo?»
«Me ne vado» aveva detto l'altro.
«Non possiamo certo andarcene così.»
«Può venire anche lui, se vuole» una smorfia era nata sul volto del Nateh'n. «Sono sicuro che si troverà bene a Nath. O da qualche parte vicino al Ganell.»
Bartr aveva scosso la testa. «Dobbiamo aiutarlo.»
«No, non dobbiamo» e si era fatto più distante. «Tu vuoi farlo, non vedo perché questo dovrebbe coinvolgere anche me.»
«Che cosa ti prende?» aveva chiesto Bartr, alzando le folte sopracciglia.
Il Nateh'n aveva serrato la mascella ed il suo sguardo si era posato su di lui.
Poi avevano iniziato a parlare fra di loro, ma, seppure impegnato nella conversazione, l'elfo non aveva smesso di fissarlo. Thomas era riuscito a sostenere i suoi occhi che, implacabili, cercavano quasi di oltrepassargli l'anima stessa e, infine, proprio dal verde limpido di quell'iride, fra una parola ed un'imprecazione verso il proprio compagno, aveva intravisto qualcosa.
L'odio ed il rimpianto si erano schiantati su di lui con una forza che, se colto impreparato, l'avrebbe fatto indietreggiare.
Con il mento alzato verso l'alto, il fumo che saliva dalla Cattedrale alle spalle e gli occhi del Nateh'n ad accusarlo di crimini mai commessi, Thomas si era sentito l'essere più miserabile del regno.

***

L'unica cosa che Aera ricordava era il suo sorriso.
Non che l'avesse realmente visto di persona, certo, ma sua madre gliene aveva parlato così tante volte che l'immagine che si era costruito era ormai impressa nella sua memoria come se fosse un effettivo ricordo.
Ogni tanto, Aera usciva sotto la pioggia – perché era l'unico momento in cui la balia era troppo impegnata a raccogliere l'acqua piovana che filtrava attraverso i buchi del tetto per tenerlo d'occhio – e correva fino alla biblioteca vicino al porto. Se l'unica guardia lì posta era il vecchio Aldebrani, allora riusciva a sgusciare furtivo sotto fra le sue gambe ed a rifugiarsi in qualche angolo buio, con l'unico conforto dell'unico libro che amasse e del ticchettio della pioggia sul vetro delle finestre.
Aera non sapeva leggere – la balia faceva di tutto, giorno per giorno, al fine di insegnargli a “diventare un buon partito”, anche se questo per lui non suscitava un grande interesse e tanto più dal momento che aveva ancora qualche dubbio su cosa essere un buon partito volesse significare. Nonostante questo, però, si impegnava a seguire con il piccolo dito spesso sporco di fango le lettere scure sulla pagina, osservava con diligenza le varie immagini ed annuiva, per dare enfasi alla narrazione, quando raggiungeva un punto particolarmente ostico in cui proprio non riusciva a ricordare la storia.
Era questo uno dei motivi per cui Aera amava quel libro dalla copertina logora e malconcia: sua madre gliel'aveva letto così tante volte, quando era più piccolo, che avrebbe potuto forse recitarlo a memoria.
L'altro, invece, arrivava nel momento in cui il bambino girava l'ultima pagina.
Il ritratto sfocato di un uomo dai capelli biondi, con l'armatura ben lucidata ed il cerchio d'oro sulla fronte, il più luminoso che Aera avesse mai visto, gli sorrideva attraverso la polvere.
Spesso accarezzava il foglio con la punta dell'indice, tracciando contorni del suo viso, dagli occhi chiari fino al mento, e cercando di ricordare la voce di sua madre quando ancora non era costretta a letto, schiacciata dalla malattia.
«Tuo padre è un eroe» gli raccontava, cullandolo dolcemente davanti al camino. Le lacrime le scivolavano sulle guance senza che lei facesse nulla per fermarle. «Non dimenticarlo mai.»
Aera non voleva dimenticare ma era difficile ricordare qualcuno che non aveva mai conosciuto.
Quando la madre si era ammalata e la balia era diventata la persona più influente nella sua vita, quest'ultima aveva iniziato a plagiarlo con ben altri tipi di storie.
A volte Aera entrava silenziosamente nella camera della madre, le prendeva la mano e qualche lacrima scendeva veloce lungo le sue guance.
«Lui non mi ha dimenticato» sussurrava contro le lenzuola bianche, negando le parole della balia in un solo singhiozzo, ma, nelle notti più fredde, nemmeno i sospiri confortevoli della madre riuscivano a farglielo credere.
Poi erano arrivati.

Pioveva.
Aera aveva visto i loro mantelli rossi svolazzare, bagnati, nell'aria tiepida della sera; aveva capito dove fossero diretti ed aveva avuto paura. Si era nascosto dietro il cesto di frutta che la signora Llin lasciava ogni giorno fuori dalla porta della propria casa.
Aveva visto, spaventato, la balia che apriva la porta in seguito al loro bussare e, quando loro si erano spinti dentro la casa, Aera aveva sobbalzato così forte che il cesto si era rovesciato.
L'avevano visto, la balia gli aveva gridato qualcosa e lui non aveva saputo far altro che iniziare a correre verso la direzione opposta, senza mai guardarsi indietro.
Solo quella notte, infreddolito ed ancora terrorizzato dai passi pesanti dei loro stivali sulla strada battuta, aveva avuto il coraggio di tornare.
Si era affacciato alla finestra e, dopo aver appurato che la casa fosse vuota, vi si era praticamente buttato dentro.
La balia, con un grosso livido nero sotto l'occhio destro, era seduta in silenzio sulla sedia su cui si appoggiava Aera da piccolo, per ascoltare i racconti della madre.
Quando aveva messo piedi nella stanza, la donna aveva alzato lo sguardo e gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, abbracciandolo poi come mai, in otto anni di conoscenza, aveva fatto.
Dietro di lei, il letto era vuoto.

***

Thomas scivolò sopra una foglia particolarmente bagnata e cadde con le ginocchia sul terreno roccioso.
«Ouch.»
Accidenti a quell'elfo.
Singhiozzò quando si accorse che con la torcia stava per appiccare fuoco ad un arbusto lì vicino.
L'aveva legato, saccheggiato – salvo poi restituito le poche cose preziose che effettivamente aveva –, legato di nuovo e, se fosse stato per lui, l'avrebbe lasciato in quello stato fino al suo ritorno.
Si supponeva che dovesse essere lui, Thomas, e non l'altro ad avere il diritto di mostrarsi offeso.
A quanto pareva, invece, doveva esserci qualche regola non scritta nella cultura elfica che sanciva il contrario.
Thomas sospirò e si fece forza per tornare in piedi – cercando di tenere la torcia sufficientemente lontana da qualsiasi elemento infiammabile.
Quando era tramontato il sole, senza dire nemmeno una parola, l'elfo aveva lasciato cadere una delle due sacche che trasportava ai piedi di una quercia. Poi, scambiando un'occhiata d'intesa con Bartr, si era allontanato verso la direzione opposta da cui erano arrivati.
Thomas aveva fatto per seguirlo ma l'altro uomo gli aveva posato una mano sulla spalla e, scuotendo la testa, gli aveva chiesto aiuto nel montare l'accampamento.
L'elfo non era tornato nemmeno per cenare.
«Non è colpa vostra» l'aveva rassicurato Bartr, divorando quelle che sembravano essere intestina di cervo molto, molto attorcigliate fra loro.
Lui non aveva potuto far altro che annuire mentre non riusciva ad ordinare in alcun modo i pensieri che gli vorticavano in testa.
Poco tempo dopo, Bartr aveva lanciato l'ultimo ceppo di legno nel fuoco e gli aveva augurato buona notte.
Thomas aveva provato a dormire, davvero – e non che fosse comunque facile, con i rumori della foresta a tenerlo sveglio ed il forte russare dell'altro uomo poco distante da lui – ma qualsiasi tentativo di trovare una posizione comoda portava con sé nuovi pensieri e nuove preoccupazioni.
Ogni volta che chiudeva gli occhi, il fumo che saliva lento nel cielo di quel mattino di stagliava contro le sue palpebre.
Thomas aveva deciso di rimandare il momento in cui riflettere sugli eventi degli ultimi giorni.
Non poteva, semplicemente; almeno non ora dal momento che non sembrava affatto reale.
La Cattedrale in fiamme, il Maestro rapito, un colpo di stato.
In sé, covava ancora la speranza che fosse tutto un incubo dal quale potersi risvegliare al più presto: prima del prossimo passo nel buio della foresta, si sarebbe risvegliato nel proprio letto, avrebbe fatto colazione, sarebbe sceso in cortile ad allenarsi con la spada e gli altri Eletti gli avrebbero lanciato i soliti sguardi sprezzanti. Avrebbe poi pranzato da solo, nell'immensa sala che era riservata agli eredi al trono, perché nessuno dei suoi fratelli – fratellastri, come gli ricordavano ogni sfortunata volta in cui si incontravano nei corridoio – si fermava mai ad aspettare il suo arrivo, oppure con il Maestro, ancora troppo concentrato sui suoi studi per offrirgli un'adeguata compagnia ma quantomeno non sarebbe stato soltanto il rumore delle sue posate a risuonare nell'ambiente.
Se anche solo si fermava a pensare che tutti loro, dagli Eletti alle guardie e dai sacerdoti ai suoi fratelli, potevano essere morti...
Una nuova caduta interruppe i suoi pensieri ma questa volta dovette poggiare la mani per terra onde evitare di sbattere la faccia.
La torcia, che aveva lasciato andare istintivamente, rotolò vicino ad un cespuglio in fiore che prese fuoco all'istante.
Mordendosi il labbro inferiore per non urlare dalla frustrazione, Thomas soffocò la fiamma con i guanti prima che potesse ridurre tutta la vegetazione attorno a lui in un mucchio di cenere.
Seguire l'elfo gli era sembrata un'idea valida, quando si era rassegnato all'insonnia; solo ora ne vedeva i lati negativi. Non solo non aveva tenuto contro del buio e del suo pessimo senso d'orientamento ma nemmeno del fatto che, anche ammesso l'avesse infine trovato davvero, cosa mai avrebbe potuto trarre da uno come lui?
Quando finalmente anche l'ultima lingua di fuoco si fu spenta, Thomas si lasciò cadere all'indietro.
Nemmeno le stelle sopra di lui, quelle poche che si intravedevano attraverso la fitta coltre degli alberi, gli diedero il conforto di cui aveva bisogno.
«State cercando di dare fuoco all'intera foresta?»
La voce ironica a pochi passi da lui lo colse talmente di sorpresa che sobbalzò, portando la mano all'elsa della spada – salvo poi ricordarsi che l'aveva lasciata all'accampamento in favore del pugnale che gli aveva offerto Bartr. Non ebbe comunque bisogno di rispondere perché, una manciata di secondi dopo, una soffice luce blu illuminò un paio di stivali di fronte a lui.
Thomas sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi del Nateh'n ma questo si era già voltato per incamminarsi in mezzo agli arbusti.
«Non ho intenzione di aspettarvi.»
Senza farselo ripetere, Thomas si ritrovò a seguire la flebile luce attraverso la foresta.

C'era un fiume, lì vicino.
Thomas conosceva le mappe geografiche di tutto il regno a memoria e sapeva che il Lliuto divideva la strada fra Alenea ed Onalĩa esattamente a metà, ma questo non l'aveva certo aiutato ad orientarsi meglio né a notare il rumore dell'acqua che scorreva.
Quando arrivarono in uno spiazzo erboso accanto al quale una conca sulla parete del fiume aveva creato un piccolo laghetto più simile ad una grossa pozzanghera che ad altro, il Nateh'n lasciò cadere dei pezzi di legno vicino alle braci di un fuoco ormai spento.
La luce blu che teneva in mano, che altri non era che un sasso fluorescente, si spense al contatto con una delle tasche dell'elfo ma la luna, piena, era perfettamente visibile in quel punto della foresta e la sua luce era più che sufficiente.
Poco più in là, la casacca bagnata che aveva indossato era appesa al ramo di un albero.
«Le braci sono ancora calde» disse il Nateh'n senza rivolgergli alcuno sguardo e Thomas si avvicinò titubante, osservandolo mentre frugava all'interno della propria sacca, prima di sedersi accanto al focolaio.
L'elfo zoppicava ancora, anche se tentava di non darlo a vedere; estrasse un involucro di pelle e poi delle foglie scure dalla tasca, per lasciarsi cadere con un mugugno soffocato a pochi passi da lui.
«Sembra una tagliola per vllyne [1] » mormorò Thomas quando l'altro sollevò la stoffa che gli copriva il polpaccio.
Il Nateh'n fece una smorfia. «È una tagliola per vllyne.»
Il taglio partiva da dietro il ginocchio ed arrivava fino alla caviglia, seguendo un percorso visibilmente dentellato lungo il quale la pelle era stata lacerata in più punti, probabilmente nel tentativo di liberarsi dalla presa.
Thomas lasciò che cadesse di nuovo il silenzio mentre l'altro passava delicatamente le erbe sulla ferita slabbrata. Una volta, con un esemplare cucinato servito nel proprio piatto, il Maestro gli aveva spiegato il senso delle trappole che veniva piazzate dappertutto: dal momento che il vllyne era estremamente bravo a liberarsene, anche se poi perdevano talmente tanto sangue da morire comunque poco lontano dalla tagliola, i cacciatori avevano dato inizio ad una competizione al termine della quale vinceva colui che aveva catturato l'animale senza lasciarlo scappare.
I segni netti e quasi geometrici sulla carne cotta, gli aveva mostrato il Maestro, indicavano infatti che la trappola aveva ucciso il vllyne all'istante e che questi non aveva avuto nemmeno il tempo di dimenarsi.
Ottime carni, aveva aggiunto il Maestro ma Thomas, pur facendosi forza per ignorare il conato di vomito che gli saliva dallo stomaco, non era riuscito a mangiarle.
«Avete bisogno di aiuto?» la sua stessa voce lo colse impreparato nel momento in cui uscì dalla sua gola e persino l'elfo sembrò sorpreso. Solo un istante, poi il solito ghigno comparve sulle sue labbra.
«Voi?» gli chiese con un tono che non sembrava affatto divertito. «Cosa potreste fare?»
Thomas portò istintivamente una mano alla propria fronte; lui non poteva vederlo ma sapeva che il cerchio sulla sua fronte stava brillando.
«Potrei aiutarvi con le bende.»
«Nient'altro?»
Thomas esitò a rispondere – qualcosa, nel sorriso del Nateh'n, lo avvertiva di star giocando con il fuoco.
«Non insegnano ai giovani Eletti alcun incantesimo di guarigione?»
La consapevolezza che si nascondeva dietro quelle semplici parole fece cadere di nuovo il silenzio. Lo scorrere del fiume coprì ogni altro rumore se non il fruscio delle foglie sulla gamba dell'elfo ed il vento che faceva oscillare le cime degli alberi.
Il Nateh'n fissava davanti a sé, sempre con un sorrisetto vittorioso sulle labbra, e Thomas, che fino a quel momento l'aveva imitato, si girò verso di lui.
«Invece insegnano agli elfi come lanciare un incantesimo dormiente.»
Il sorriso sulle sue labbra scomparì ma continuò a tenere lo sguardo lontano.
«Evidentemente,» la voce del Nateh'n divenne quasi un sussurro ma quanto di più serio Thomas avesse sentito negli ultimi giorni. «abbiamo più cose in comunque di quanto pensassimo.»
Sospirando, Thomas si lasciò cadere all'indietro e chiuse gli occhi.
«Era magia, quella con cui avete addormentato le guardie della carrozza. Non l'effetto collaterale del fumo.»
Il Nateh'n sbuffò. «In realtà quel fumo dovrebbe far cadere addormentati» asserì lentamente per poi aggiungere, a voce talmente bassa che Thomas non capì bene cosa volesse dire: «... se solo quell'imbroglione tenesse fede a quello che promette sui propri prodotti.»
Un ululato in lontananza riempì l'aria prima di nuove parole.
«Era debole e si confondeva con il resto ma era magia senza alcun dubbio» continuò Thomas. «Si percepisce il suo sfrigolio nell'aria come l'elettricità prima di un temporale.»
«Così dicono» ribatté il Nateh'n.
«Pensavo che gli elfi non ne fossero capaci.»
«Pensavo che ogni re dovesse per forza possederla.»
Thomas aprì la bocca per rispondere ma non riuscì ad emettere alcun suono. Quando sollevò le palpebre si stupì nel trovare un paio di occhi che lo fissavano di rimando a nemmeno un passo da lui.
Non si accorto che il Nateh'n si fosse sdraiato né che lo stesse guardando.
La luce della luna gli accarezzava la guancia rivolta verso l'alto, i capelli erano schiacciati malamente contro il terreno e le sue orecchie, stagliate contro il buio della foresta, sembravano ancora più lunghe; non c'erano sorrisi ironici o di scherno sul suo volto, solo una profonda stanchezza dettata dagli occhi che quasi brillavano, sotto le stelle.
«Non dovreste andare a Cremysta.»
Thomas sbatté le palpebre un paio di volte prima di accorgersi che l'altro aveva parlato: troppo concentrato nell'osservare i suoi occhi, non si era nemmeno accorto di quando aveva mosso le labbra.
«Vi stanno aspettando là» continuò l'elfo, a bassa voce e senza distogliere lo sguardo. «e non per un'accoglienza regale. Cézras non si fermerà fino a quando non vi avrà ucciso.»
Un lampo gli attraversò l'iride.
«Chi è Cézras?»
Il Nateh'n prese un lungo respiro prima di rispondere e la sua voce si abbassò ancor di più. «Un mercenario.»
Esitò. «Era...» iniziò e Thomas si fece più attento, capendo che qualcosa di importante era in arrivo.
Ma poi, senza darsi la possibilità di continuare, il Nateh'n scosse la testa e si voltò dalla parte opposta.
«È qualcuno da cui è meglio scappare» e questa volta la sua voce si fece più risoluta.
Il giovane fece per chiedergli di continuare ma l'altro lo interruppe ancor prima che potesse proferir parola.
«Vi accompagnerò da qualcuno che potrà aiutarvi» promise l'elfo. «ma poi le nostre strade si divideranno.»
Una folata di vento gelido si insinuò fra loro e Thomas non riuscì a fare niente per rompere quella barriera che li separava.
Ancora un volta, la conversazione era finita e non c'era nulla che potesse essere aggiunto.

***

Le prime luci dell'alba si riflettevano sulle guglie dorate del palazzo reale e le urla degli abitanti di Cremysta avrebbero coperto il rumore delle ruote contro la strada e lo scalpiccio dei cavalli di qualsiasi carrozza.
Pecklo aspettava di fronte alle enormi porte del palazzo ma nemmeno lui avrebbe saputo dire se quelle erano grida dettate dalla gioia o dal malcontento.
«Dov'è la regina?» Un abitante malconcio cadde in ginocchio di fronte alle guardie. «Perché non si mostra?»
La guardia più vicina strinse la mano intorno all'elsa della propria spada. «È usanza che la regina non esca dalle proprie camere per almeno nove giorni dalla morte del re, popolano.»
«Che vengano mangiate dagli hooke [2], le usanze!» urlò una voce che riuscì a sovrastare le altre.
«Ha ragione» esclamò di nuovo l'uomo in ginocchio. «Abbiamo il diritto di sapere cosa sta succedendo!»
«Vi consiglio di ritornare fra la folla, popolano.»
«No!» una donna si era arrampicata sullo stesso gradino in cui stava Pecklo. «È stata la Regina Thempsa ad insegnarci a combattere per i nostri diritti: non lasceremo che le sue parole vengano dimenticate!»
La guardia sollevò la spada e Pecklo, sospirando, si ricordò il motivo per il quale si era ritirato come sacerdote nel palazzo reale. Alzò una mano e ondate di energia verdastra si diffusero nella piazza, allontanando gli abitanti troppo vicini all'entrata. L'uomo malconcio cadde indietro addosso ad una lavandaia.
«Per favore, brava gente» esclamò con voce ferma, facendosi avanti fra il manipolo di guardie. «I vostri desideri sono nel giusto, ma non abbiamo la possibilità di rispondere alle vostre domande.»
«Se non ora,» gridò la stessa donna di prima. «allora quando?»
«Presto» promise Pecklo. «Ma ora non servirà a niente radunarsi contro-»
La mano posata rapidamente sulla sua spalla lo interruppe e persino la folla rimase in attesa, mentre il corriere appena uscito dal palazzo gli sussurrava qualcosa all'orecchio.
Pecklo sospirò nuovamente.
«Bene» rispose, a bassa voce. «Fate aprire i cancelli laterali. Chiunque ci sia, in quella carrozza... Non possiamo permetterci che la folla scateni una rivolta.»
Il corriere annuì e tornò sui propri passi.
«Brava gente,» riprese Pecklo. «le risposte arriveranno, ma non oggi. Oggi è un giorno di commemorazione: i funerali del nostro amato re saranno celebrati nel pomeriggio e sono sicuro che nessuno di voi abbia il desiderio di macchiare il suo ricordo con uno di spargimento di sangue all'alba della sua morte.»
Solo la donna di prima fece per ribattere ma qualcuno la zittì in tempo e, con un mormorio soffuso e l'aiuto delle guardie, la piazza tornò deserta – come avrebbe dovuto essere.
La carrozza si palesò solo una manciata di minuti dopo.
Pecklo, con un gesto, indicò i cancelli aperti del giardino interno poi, lasciandosi alle spalle una preghiera alla Stella, seguì le guardie oltre i portoni.

«Che la Luce dell'Ovest illumini i nostri cammini.»
Pecklo camminò rapidamente fra i corridoi illuminati ancora dalle fiamme delle torce appese ai muri.
Quando arrivò di fronte alle porte per i giardini interni, si passò una mano sulla fronte – il simbolo degli Eletti era nascosto dai capelli neri che andavano ingrigendosi sulle tempie – prese un profondo respiro e si forzò ad attraversarle.
Le ultime stelle, oltre i maestosi alberi del cortile, sparivano all'orizzonte ma nemmeno questo riuscì a non far infrangere le speranze dell'uomo, alla vista di coloro che stavano di fronte a lui.
«Maestro» sussurrò, abbassando il capo in un saluto formale.
L'anziano, alzando solo allora lo sguardo su di lui, chiuse gli occhi per restituirgli al saluto.
Le guardie della scorta avevano già iniziato a sbrigliare gli svædiphan che scomparivano man mano, tornando immediatamente nei recinti per loro adibiti.
Pecklo tenne aperte le porte dietro di lui, invitando il Maestro ad entrare.
«Spero che non siate troppo stanco per il viaggio, Maestro» esclamò, mentre questo lo oltrepassava. «Le vostre stanze sono già pronte, nel caso abbiate bisogno di riposare.»
«Ragazzo mio,» esalò il Maestro e Pecklo non poté nascondere un sorriso di malinconia al ricordo dei tempi in cui egli aveva insegnato al ragazzino che era stato. «temo che non ci sia tempo per riposo. Non in un giorno come questo.»
Un soldato semplice si parò davanti a loro prima che altro potesse essere aggiunto.
«Maestro» esclamò con un inchino, prima di voltarsi verso Pecklo e ripetere il gesto. «Primo Sacerdote. La regina ed il Consigliere Adrian hanno richiesto udienza con la massima priorità.»
«Pensavo che fossimo attesi nella Sala del Consiglio per discutere con i nobili riuniti» ribatté il sacerdote.
La guardia non si mosse. «Con la massima priorità, Primo.»
«Suppongo che i nobili dovranno aspettare» sospirò Pecklo ed il soldato si girò per fargli strada fino alle stanze della regina. Il Maestro, restando in silenzio, si limitò a seguirli attraverso il palazzo, fermandosi occasionalmente per un breve respiro. Pecklo fu tentato di chiedere se avesse di aiuto ma, prima ancora di poter aprire la bocca, si rese conto di essere giunto a destinazione.
La regina, seduta accanto alle enormi finestre della stanza matrimoniale – la più grande e lussuosa del palazzo – non li degnò che di uno sguardo stanco da sopra la spalla.
I capelli chiarissimi che le ricadevano sulle spalle ricurve la facevano apparire ancora più vecchia di quanto non fosse e quando parlò la voce uscì con fatica dalla labbra secche.
«Maestro» sussurrò e quasi immediatamente un violento attacco di tosse le fece portare una mano al petto.
«Vostra maestà» salutò in rimando il Maestro che, di fronte alla vecchia regina, sembrava di gran lunga più giovane.
«Vostra maestà» ripeté una voce preoccupata da oltre la scrivania contro la parete frontale. «Non dovreste sforzarvi così tanto: potevo pensare io a questa faccenda.»
La regina si lasciò scappare un piccolo sorriso. «Ti ringrazio, Adrian, ma non posso rimandare i miei doveri nei confronti del regno.»
La Consigliera – Pecklo notò solo in quel momento che indossava l'armatura ufficiale della guardia cittadina – tornò a sedersi dietro la scrivania, senza però smettere di lanciare occhiate preoccupate alla regina.
«Mi dispiace di avervi deviato dall'incontro con i nobili riuniti» esclamò dopo una manciata di secondi, la solita voce autoritaria che era aveva consigliato il re per più di quindici anni. «Ma la regina ed io abbiamo bisogno di risposte precise prima di quell'incontro. Quindi--»
«Per favore, Gladys» la voce della regina era un sussurro in confronto a quella di Adrian. «Ditemi che il vostro messaggero era in errore.»
Dopo un lungo silenzio, il Maestro parlò.
«No, vostra maestà. Vorrei tanto potervi mentire, in queste circostanze.»
La regina lasciò che la testa le cadesse contro il petto ed Adrian chiuse gli occhi, recitando con le labbra un pezzo del Poema [3].
La lucente spada lasciò cadere/ terra nei capelli, volto coperto dal fango/ solo gli occhi del cielo potevan vedere/ e la battaglia finì in quell'ultimo giorno.
«Raccontate ogni cosa dal suo inizio, Maestro.»
Pecklo chiuse gli occhi a sua volta.
«Tre giorni fa sono partito insieme all'Erede ed a una piccola scorta di soldati dalla Cattedrale di Alenea. Le due carrozze si sono distanziate come previsto.
A poco più di mezza giornata di viaggio, ancora nei boschi presso la città, degli uomini incappucciati hanno assaltato la carrozza su cui viaggiavo: erano Eletti ma non li avevo mai incontrati prima né avevano il marchio dorato sulla fronte.»
Rosso di sangue il dorato mantello/ rubato dai gemiti della morte arrivata/ farfalla libera dal dolce fardello/ una rosa di fuoco, leggenda era nata.
«Hanno lanciato un tempesta di fuoco ma sono riuscito a completare un incantesimo che ci ha permesso di uscire indenni dalle fiamme. L'Erede era con loro, così come l'elfo dai capelli rossi e l'arma incantata» il Maestro chinò il capo e la sua voce si spense. «Non ha fatto nulla per evitare la tempesta.»
Il mondo fu tomba di tanto splendore/ le nubi piangevan i suoi passi leggeri/ la terra tremò il suo infinito dolore/ lacrime del Bambino, negli occhi suoi veri.
«La notizia dell'incendio ci è arrivata al tramonto del terzo giorno. È partito dalla Cattedrale e si è diramato fino agli appartamenti degli Eletti: solo una decina sono sopravvissuti.»
Poi, fra le luci dell'alba/ scia di farfalle attraverso le colline/ il segno e la salma/ persino sopra le correnti marine.
«L'elfo è stato visto scappare poco dopo.»
La regina scosse lentamente la testa ed un altro attacco di tosse la fece piegare.
«Gli altri..?» persino la voce di Adrian apparì incerta.
«Nessuno dei principi è uscito dalla Cattedrale.»
Il sacerdote portò le mani al collo ed alzò lo sguardo verso il soffitto alto.
Il suono delle campane della chiesa, esattamente di fronte al palazzo, fece tremare i vetri mentre lo scalpiccio oltre la porta indicava che, finalmente, la servitù si era svegliata ma niente, in quell'istante – nemmeno il rumore della boccetta di inchiostro che si infranse contro il pavimento quando Adrian fece cadere ogni oggetto dalla scrivania – poté sovrastare la cantilena terribile delle lacrime di una madre.
Pregando al tempo/ d'illuminar la sera/ sola Stella, nel vento/ dell'ora nostra più nera.


~


Glossario:

[1] “Il vllyne sorrise da sotto i baffi e fece per addentare il primo pesce caduto dal carretto del cacciatore quando un orso gli si parò davanti.
«Dove hai trovato tutti questi pesci?» gli chiese con voce grave, indicando con gli artigli il lago ghiacciato.
«Li ho pescati» esclamò senza esitazione il vllyne. «Fai un buco nel ghiaccio ed immergici la coda: vedrai quanti pesci abboccheranno!» e l'orso, non molto noto per la propria intelligenza, se ne andò per fare come gli era stato detto.
Così il vllyne poté mangiare tranquillamente il pesce che aveva rubato; poi, quando fu sazio, tornò a trotterellare verso la foresta ma incappò in una delle tagliole lasciate dal cacciatore e morì.”
Tratto da “Venti favole senza morale (più una)”, raccolte da Tsegh M. Mirborr.

[2] “Non è per vantarmi ma ho incontrato, in tutta la mia vita, ben tre hooke e nessuno di loro mi ha ucciso.
Le leggende li descrivono sempre come demoni mostruosi, con corna ed artigli, pronti ad ingannare chiunque creda alle loro parole per sbranare la loro anima prima che questa possa ritornare nell'abbraccio della Luce dell'Ovest.
Non credete a tali menzogne.
Gli hooke non sono altro che dolci fanciulle, il più delle volte indifese, maltrattate per essere più belle di molte altre.
[...] Una di loro mi ha spiegato un giorno che, molto tempo fa, erano adorate da noi mortali perché possiedono il dono di avverare qualsiasi nostro desiderio [...].
Proprio non capisco tutta questa malignità nei confronti di cotal bellezza soave!”
Tratto da “La ballata del cadavere vanitoso” di Flov Cetar H. P.

[3] “Si racconta che, esattamente cent'anni dopo la morte della Regina, nei giorni cupi delle guerre contro la Confederazione di Elsàvon, un giovanotto pensieroso camminasse lungo il litorale a sud di Alenea.
Colto improvvisamente da una divina visione, il giovane corse a casa ed iniziò a scrivere.
Dopo tre anni, rimirando il lavoro più impegnativo di tutta la sua carriera di scrittore e poeta, Lhira Nediigate si disse soddisfatto: il Poema – allora intitolato “Il poema della regina” – era finalmente ultimato.”
Dal capitolo su Lhira Nediigate di “Biografie non autorizzate”, autore ignoto.

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