From Abercrombie, with love xx

di Fog_
(/viewuser.php?uid=122168)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Non ne vali la pena ***
Capitolo 2: *** Andrea, Luke e Freddie ***



Capitolo 1
*** Non ne vali la pena ***




1
Non ne vali la pena

 

«Stronza»
Il suo tono aspro e crudele. L’insulto uscito da quella bocca che aveva baciato la mia così tante volte che avrebbe potuto fare concorrenza alle stelle della nostra galassia. Labbra familiari, labbra carnose, labbra screpolate dai miei morsi della notte precedente. Fare l’amore fino ad esaurire le forze, fin quasi a farci male, era quello che succedeva ogni volta che litigavamo.
Ma quella volta era diverso.
«Sei solo un’anoressica del cazzo, ti preferivo quando pesavi due tonnellate e gli altri non ti si cagavano neanche di striscio»
Il mio corpo scivolò come senza forze contro la parete della sua stanza. Incrociai le gambe, le mani a coprire il viso, le dita tra i capelli, il respiro mozzato dai singhiozzi.
Non ero mai stata abbastanza per lui e non lo sarei mai stata.
«Cos’è Elisabetta? Non ti basto solo io? Vuoi che qualcun altro ti faccia godere come faccio io? Urlare come faccio io?»
Incassavo, non guardandolo così che non avrebbe potuto ferirmi. Finchè era solo la sua voce quella che mi tormentava potevo continuare a fingere di essere solo in un brutto sogno, un incubo peggiore di quelli dove vorresti correre e invece resti sempre allo stesso punto.
«Avevi ME. Dio, Elisabetta, ME. Quello che hai sempre voluto. Oppure mi sbaglio? Forse mi hai solo e sempre illuso e tutto quello che siamo stati l’hai finto per arrivare a questo. PER SCOPARTI IL MIO MIGLIORE AMICO»
I rumori di un vetro infranto superarono anche le sue parole. Spaventata, lo guardai per la prima volta da quando eravamo lì. Gli occhi dai contorni violacei, la mascella squadrata più contratta del solito, i capelli sparati ovunque. Aveva un’aria malsana che quasi faceva paura.
Per terra i cocci di una bottiglia di vodka erano sparpagliati ovunque. Assomigliavano a come mi sentivo in quel momento. Non semplicemente scheggiata, ma rotta. Completamente frantumata.
E senza possibilità di ricomporre i pezzi.
Avrei avuto così tante cose da dirgli, forse delle scuse, forse spiegargli come erano andate sul serio le cose, forse confessargli che il vero stronzo era stato il suo migliore amico o che alla fine era stato tutto per colpa sua, ma le tenni per me. Lo amavo.
Lo amavo con anima e cuore e ogni singola particella del mio corpo, per questo preferivo che odiasse me piuttosto che se stesso o peggio Stefano, il suo unico punto di riferimento da sempre. Solo che lui non l’avrebbe mai capito.
Anche volendo, non mi avrebbe mai lasciato spiegare.
Era troppo testardo, troppo orgoglioso.
Se diceva quelle cose di me, poi, forse non mi amava più come ci eravamo amati una volta.
 «Vaffanculo» sussurrai quasi, cercando di rialzarmi. Ero instabile e la testa mi girava forte, le mani mi tremavano così tanto che riuscire a prendere lo zaino gettato lì accanto sembrò un’impresa.
«Ho sopportato tutto. I tuoi attacchi di panico, i tuoi problemi alimentari, le tue sbronze colossali, e tu mi ripaghi così?» continuava a gridare non rendendosi conto, forse, di in che stato mi trovassi.
Ero un corpo senz’anima, svuotata dall’unica cosa che davvero mi era mai importata: il mio amore per lui.
«Sei una buona a nulla, non ne vali la pena»
Fu quella forse la cosa che più mi ferì.
Fece più male di un braccio rotto, più di un tuffo da dieci metri.
Fece male perché era la verità.
Io non ne valevo la pena.
Impiegando ogni parte di me per mantenere in controllo e non cadere di nuovo per terra, uscii dalla camera da letto ed andai in salone mentre lui mi seguiva come un fantasma. E urlava, urlava cose che a volte non avevano senso, urlava di quanto inutile fossi fino a farmelo credere davvero.
Urlava e ogni parola era una coltellata.
«Non voglio vederti mai più»
Alla fine l’aveva detto.
Mi ero appoggiata al divano per sostenere il peso delle sue parole. Era finita, dopo quattro anni, dopo tanti di quei litigi e tante di quelle paci. Dopo l’amore, dopo il sesso, dopo le sigarette e le sbronze, dopo il divertimento e i sogni, dopo le notti in bianco a ripetere per gli esami di maturità e quelle passate ad ascoltare musica stesi sotto le stelle.
Finita.
Non avrei mai creduto di poter scrivere quella parola sulla nostra storia.
Finita.
Niente più Elisabetta e Giorgio.
Quando però mi vide sulla soglia di casa sua, pronta ad andarmene, a dargli le spalle, si rese davvero conto di ciò che stava succedendo. Così corse da me e mi spinse contro quel legno levigato e mi afferrò il viso tra le mani. Sentii le sue labbra sulle mie e ci lasciammo trasportare da un bacio impetuoso che sapeva di addio, di dolore e delle mie lacrime. Non avrei mai più sentito ciò che provavo in quel momento, così infilai le dita tremanti nei suoi capelli e lo spinsi ancora più vicino, bisognosa di lui, del suo calore, del suo amore.
Cose che ormai non c’erano più.
E poi gli dissi addio.
Corsi via sulle gambe instabili, via da quel posto, via da lui, via da tutti. Non volevo tornare a casa, non volevo vedere niente che mi ricordasse di lui, di noi, ma in quella città così piccola era impossibile.
L’unica soluzione possibile mi sembrava quella di scappare, scappare e non tornare mai più, scappare nell’unico posto sarei sempre voluta andare.
Nello zaino c’erano soldi abbastanza per sopravvivere una settimana, un biglietto aereo prepagato che mio fratello mi aveva regalato per andare a trovarlo e che portavo sempre con me e una sciarpa. Trascinando ciò che restava di me, magari sarei riuscita a sopravvivere a quella notte infernale.
E magari anche al giorno dopo.
E a quello dopo ancora.
Quello che successe dopo non importa, ci fu un taxi e una lungo tragitto verso la meta passato a piangere silenziosamente, un aeroporto mezzo vuoto e un miracolo che mi permise di avere l’opportunità di andare dove volevo. Restai seduta su una di quelle scomode poltroncine di ferro a fissare il vuoto con la testa che non riusciva neanche a pensare a niente. Sentivo solo dolore ovunque.
Quando arrivò l’ora di imbarcarsi preparai il mio biglietto, ultimo disponibile per quel volo, e mi incamminai verso il gate sotto lo sguardo di gente oppressa dalle valigie che studiava il mio misero zaino con sconcerto.
Loro non capivano. Se Giorgio era sempre stato  il mio tutto, in quel momento non avevo più niente.
Prima di salire sull’aereo cercai il cellulare nella tasca della giacca e vi trovai una decina di messaggi di Stefano, quel fatidico migliore amico di Giorgio. Ce n’era uno anche suo, ma semplicemente ignorai tutto.
Se scappavo fisicamente, dovevo farlo anche mentalmente.
Così cercai un numero in rubrica, quello di mia madre, e le scrissi di non preoccuparsi se non mi vedeva in giro, mentre a mio fratello che l’avrei raggiunto in mattinata.
Nel suo appartamento in Vigo Street.
A Londra.
Poi semplicemente estrassi a forza di unghie la sim dal telefono e me la gettai alle spalle, così come avrei fatto con il mio passato e il mio dolore un giorno.
Perché si, forse prima o poi sarebbe andato via, ma per il momento non potevo fare altro che aggrapparmi a quella speranza.


Fog's corner
Salve! :)
Bene, non so da dove precisamente sia uscita questa storia, considerando che al momento ho una long in corso che ha tutt'altro argomento e sono sommersa da impegni presi nei contest sul forum, però ho buttato giù questo prologo di getto. quest'idea è stata concepita dalla mia testolina probabilmente dopo essere stata l'ennesima volta in un Abecrbombie o anche per colpa di un'insana fissazione per Francisco Lachowski (a cui è ispirato il personaggio maschile che conoscerete nel prossimo capitolo).
Seriamente, non mi aspetto molto, è solo una cosa così per deliziare voi donzelle che come me siete rimaste folgorate almeno una volta dalle bellezze di quel negozio (e che si, molte sono solo apparenza) o, per chi non ci fosse mai stato, volesse  leggere una storia che ha come protagonisti modelli da togliere il fiato. E comunque, ripensandoci meglio, talvolta ci saranno anche argomenti non proprio leggeri da affrontare e la storia sulla quale si baserà tutto sarà anche abbatsanza seria, di quegli amori che ti travolgono, avete presente no?
Ok, la smetto, perchè a parte una linea generale non ne so molto neanche io ahahah chi vivrà, vedrà.
Fatemi sapere cosa ne pensate, un recenzione è sempre ben accetta :))
bacioni e alla prossima, Fog_ 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Andrea, Luke e Freddie ***




2
Andrea, Luke e Freddie


 
 

Andrea era sempre stato il fratello migliore del mondo, protettivo, scontroso, spesso testa di cazzo ma anche amorevole, proprio come dovrebbe essere un fratello più grande. Aveva lasciato l’Italia il giorno stesso in cui aveva superato gli esami di maturità per trasferirsi a Londra dal suo migliore amico e in dodici mesi che era lì non si era deciso a tornare a casa neanche una volta. Non lo vedevo da allora.
Mi aveva regalato quel biglietto di andata e ritorno per il compleanno e l’avevo accettato con la promessa di andarlo a trovare, ma l’occasione non c’era mai stata. Tra la maturità, la ricerca di un università che mi interessasse davvero e i problemi con Giorgio, in realtà, non avevo avuto tempo per nessuno. Avrei dovuto farmi perdonare.
Il volo per Londra era stato fin troppo lungo e tormentato, con quell’ansia portata dal non avere più Giorgio accanto che mi distruggeva da dentro, ma una volta toccata terra mi ero resa conto che ne era valsa la pena. La città scorreva lenta oltre i finestrini del taxi ed era così diversa da quella a cui ero abituata che probabilmente ci avrei messo un po’ ad adattarmi, però mi piaceva.
Non che volessi restare lì per molto, certo.
Il tempo almeno di realizzare cosa era successo e perché.
Di abituarmi a sopravvivere senza una parte di me.
Quando mi resi effettivamente conto di dove fosse quella “Vigo Street” dove avrebbe dovuto abitare Andrea, mi resi conto che ci saremmo dovuti fare una lunga, lunghissima chiacchierata. Certo, l’avrei accettato anche se fosse stato un pappone o un qualche tipo di boss mafioso inglese, ma almeno avrebbe potuto dirmelo.
Dove si era mai sentito che due studenti universitari abitassero in una traversa di Regent Street?
Erano forse diventati miliardari senza dire niente a nessuno? Magari erano anche emirati in Arabia Saudita e si erano comprati un pozzo di petrolio.
Tutto era possibile.
Pagai il tassista senza neanche guardare quanto gli lasciavo, come ringraziamento silenzioso per non essersi girato ogni volta che aveva sentito un mio singhiozzo sommesso, e scesi dall’auto trascinandomi la borsa in spalla. La strada era a modo suo tranquilla, almeno rispetto a tutte le altre che la circondavano, e più che altro intasata da quel tipo di gente che viveva di mattina. Lavoratori in giacca con la ventiquattrore e studenti di tutte le età, persone con caffè bollenti in mano, altre tutte intente in qualche conversazione al telefono e altre ancora prese dalla fretta. Ti passavano tutti accanto senza degnarti di uno sguardo, come se fossi invisibile, ed era proprio ciò di cui avevo bisogno in quel momento. Scomparire e basta.
«Non capisci Luke, tu non la conosci» una voce catturò la mia attenzione, facendomi partire il cuore. Nonostante con quell’accento inglese fosse completamente diversa, nonostante non la sentivo da tanto di quel tempo, doveva essere sua. Andrea. «Lei è piccola, debole e indifesa. Continua a non rispondere al telefono e potrebbe essergli successo qualcosa. Impazzirei se fosse così. È la mia sorellina»
«ed è qui»
Parlai nel momento esatto in cui Andrea mise piede fuori dal portone. Dovetti gridare, perché mi trovavo sul marciapiede di fronte, e lui era lì e aveva la sua faccia da fratellone preoccupato ed era bello come sempre.
Quando i suoi occhi mi trovarono, ci mise due secondi a raggiungermi.
«O mio Dio, Libby» sussurrò mentre mi abbracciava senza darmi neanche il tempo di guardarlo. Avevo la guancia pressata contro il suo petto e le sue braccia così familiari mi si stringevano intorno. Sembravo così piccola al suo confronto. Avevamo solo un anno di differenza, eppure lui era sempre stato più maturo, più imponente, e lì tra le sue braccia mi sentivo in qualche modo a casa. Mi aiutavano a tenere insieme ciò quel poco che restava di me.
«Devi smetterla di preoccuparti» sussurrai mentre allentava un po’ la presa, ma solo quanto bastava per poterci guardare in faccia. I capelli biondi, gli occhioni blu, i lineamenti duri,  era sempre perfetto, sempre il mio fratellone.
E mi stava guardando storto.
«Che hai fatto ai tuoi bellissimi capelli castani?» domandò spalancando la bocca incredulo. La sua mano salì dalla mia schiena per prendere una ciocca di capelli e se la arrotolò tra le dita.
«Li ho fatti biondi quest’estate, forse mi mancavano troppo i tuoi» cercai di scherzare sorridendo e, nonostante sembrasse decisamente contrario, sorrise anche lui. Poi mi strinse un’ultima volta prima che un colpo di tosse richiamasse la nostra attenzione. Il tizio con cui Andrea stava parlando era ancora fermo davanti al portone e ci fissava incuriositi, posando lo sguardo prima su di me e poi su di lui. Lo osservai mentre attraversavamo per raggiungerlo, sembrava un tipo piuttosto strano. Non era così che mi aspettavo il fatidico “Freddie”, migliore amico e compagno d’avventura di Andrea. Avevo immaginato più qualcuno simile a mio fratello, di certo non uno con l’aria da fattone, la barba incolta di qualche giorno, alto non più di me e con indosso vestiti larghi e slabbrati. Decisamente no.
«Libby, ti presento il mio coinquilino Luke» disse Andrea mentre questo Luke mi allungava la mano. Ma non si chiamava Freddie? «Luke, lei è mia sorella Elisabetta»
Luke forse, tutto sommato, non doveva essere male. Sfoderò un sorriso che mi ispirò subito fiducia e quando mi si avvicinò per darmi due baci sulla guancia, quasi mi fece ridere. Tipo strano, ma forte. Probabilmente.
«Andrea, ma non si chiamava Freddie?» parlai in inglese, così da non escludere Luke, e subito dopo le mie parole i due si guardarono e scoppiarono a ridere. Peccato che non ci trovassi niente di divertente.
«Dici che dovrei sentirmi onorato di essere stato scambiato per Freddie?» disse allora Luke, facendomi capire che avevo fatto una colossale figura di merda. Evidentemente, erano in tre ad abitare quella casa.
E Luke non era Freddie.
«No Luke, tu sei come sei, e sai che sei il mio preferito»
Mi piaceva il modo in cui quei due scherzavano, soprattutto perché amavo vedere Andrea ridere. Stava bene lì, era raggiante, aveva trovato il suo posto nel mondo.
E io? Io ce l’avevo un posto nel mondo?
Solo fino a poche ore prima avrei risposto che era tra le braccia di Giorgio, ma se quella non era più un’opzione possibile, sarei riuscita a trovare una valida alternativa?
«Freddie è all’università, tornerà per l’ora di pranzo» spiegò Andrea mentre si decidevano a tornare dentro. Aveva capito che qualcosa non andava quando mi aveva chiesto dove fosse il mio bagaglio ed io gli avevo risposto che non ce l’avevo, però continuava a non volere spiegazioni. Stava aspettando il momento giusto, come sempre quando mi vedeva turbata.
«Quindi siete in tre» osservai mentre salivamo la scalinata presente all’interno del portone. Luke, da qualche gradino più su, si girò a guardare Andrea con un’occhiata alla  “lei non sa come funziona, vero?” che un po’ mi diede fastidio, ma che fu subito dimenticata dato che rimasi ancora una volta stupita dal posto in cui vivevano. In quel momento, però, dall’interno.
Considerando la magnifica posizione del palazzo, mi ero aspettata un buco di appartamento e quella magari non era una casa enorme, ma aveva quel nonsochè di speciale. Un loft con i muri in mattone rosso, esattamente come all’esterno, con salone, cucina e sala da pranzo open  space. Una scala a chiocciola portava ad un soppalco a vista che ospitava una camera da letto, mentre le altre stanze  dovevano essere nel corridoio che si apriva tra salone e cucina. Divani di pelle, isola in cucina, cataste di giochi della playstation, cd e libri ovunque.  Calorosa, moderna ed efficiente.  Sembrava perfetta. Era un posto in cui ci vivresti volentieri.
«Tre, due, cinque, arriviamo anche ad essere in sei»
Andrea chiuse la porta dietro di me, poi mi posò un braccio intorno alle spalle con fare protettivo e mi regalò uno dei suoi meravigliosi sorrisi. Era un modo tutto suo per farmi in qualche modo sentire a casa.
Anche se…tre? Cinque? Sei persone lì dentro?
Come? Perché?
«La casa è del padre di Freddie e glie l’ha regalata alla maturità, ma tutte le spese sono naturalmente a suo carico. Mantenere un appartamento del genere non è facile, così abbiamo svoltato alcune stanze in altre camere da letto e le affittiamo agli studenti. Tutto sommato, è divertente» spiegò Andrea leggendo la domanda nel mio sguardo interrogativo. Luke, che nel frattempo si era seduto su uno degli sgabelli della cucina, ci guardò con un ghigno.
«Non ti affezionare troppo a me, me ne andrò tra poche settimane»disse fingendo un’aria malinconica. Sorrisi. Forse me ne sarei andata prima io di lui.
Poi, improvvisamente, sentii Andrea irrigidirsi al mio fianco.
«Merda» esclamò coloritamente guardando l’orologio sul suo polso. Si fiondò verso il tavolo della pseudo sala da pranzo e afferrò uno zaino distrutto, sotto lo sguardo incuriosito mio e di Luke.
«Sono le dieci meno un quarto, genio. Abbiamo lezione tra quindici minuti» gridò verso l’amico e a quel punto anche lui spalancò gli occhi e gli corse accanto.
Giusto, Andrea era lì a Londra per frequentare l’università, non solo per divertirsi e dividere quella magnifica casa con perfetti sconosciuti. Doveva andare a lezione. E io sarei rimasta sola. Di nuovo.
«Ascoltami Libby, io e Luke dobbiamo scappare, ma tu fai come se fossi a casa tua. C’è una mappa della città e della metro appesa al frigo, delle sterline di emergenza nella scatola di biscotti su quella mensola, le chiavi son sul bancone, il mio numero lo sai quindi chiama per qualsiasi cosa. Torno per l’ora di pranzo, faccio il prima possibile, promesso» le parole scorrevano veloci dalle sue labbra mentre con le mani mi teneva il viso fermo in direzione del suo. «Non so perché sei qui, ma per qualsiasi cosa tranquilla, la risolveremo insieme. Londra è sempre la soluzione»
Mi lasciò un bacio sulla fronte, sincero e preoccupato, ma prima che potessi anche solo ringraziarlo seguì Luke oltre la porta d’ingresso.
Le sue parole, in qualche modo, mi si erano incatenate al cuore e stavano facendo da morfina. Non sentivo niente in quel momento. Non ero felice, né triste.
Semplicemente ero vuota.
Persa in una casa non mia, una città non mia, in uno stato d’animo che, però, conoscevo fin troppo. Come sapevo che erano oltre dodici ore che non mangiavo, ma nonostante questo non andai in cucina.
Piuttosto mi gettai su un divano di pelle nera mezzo sfondato  e afferrai un libro poggiato lì per terra, lasciato aperto ad una pagina con l’orecchietta in alto. Modo curioso di tenere il segno.
Sfogliai le pagine distratta finchè gli occhi non iniziarono a chiudersi e a quel punto crollai, sfinita da tutto ciò che mi era successo.
Crollai, ma persino il mio sonno fu tormentato.
 
«Eli perché non sei con Giorgio?»
Fu Stefano il primo a trovarmi, quella notte, nell’angolino buio di quella discoteca troppo rumorosa e troppo piena di gente. Non avevo voglia di parlare con lui. Con lui e con nessun altro.
«Abbiamo litigato» sussurrai, ma lui mi sentì comunque. O forse lesse il mio labiale. O forse era abituato a sentire quelle parole.
Dovevo sembrare davvero distrutta ai suoi occhi, perché si sedette al mio fianco e lasciò che poggiassi la testa nell’incavo della sua spalla. Sapeva di sigarette e alcol. Sapeva di quel posto.
«hai bevuto, eli?»
La risposta già la conosceva, così mi limitai ad annuire.
«Hai fumato?»
Annuii ancora, non protestando quando la sua mano afferrò la mia e la strinse affettuosamente. Perché era di quello che avevo bisogno, sapere che non ero sola, che c’era qualcuno oltre Giorgio nella mia vita.
E semplicemente restammo così, seduti in quel locale che sapeva di sudore, su quel pavimento sporco, uniti dalle nostre mani.
E non me ne fregava di niente.
Finchè non mi baciò.
«No Ste»
Lo allontanai con la poca forza rimasta, sentendo per la prima volta in quattro anni il sapore delle labbra di qualcuno che non fosse Giorgio sulle mie.
Stefano mi baciò ancora.
Mi alzai dal pavimento, ma lui fu più veloce.
Mi spinse contro il muro, le sue mani mi bloccavano lo spalle e la sua bocca era sulla mia e il suo corpo spingeva contro il mio.
E io avrei voluto solo morire.
Perché avevo fumato ed ero ubriaca e non avevo le forze per respingerlo, perché avevo litigato con Giorgio ancora una volta, perché ero solo una stupida ragazzina e perché stavo permettendo al migliore amico del mio ragazzo di toccarmi come solo lui aveva sempre fatto.
Cercai di ribellarmi, ci provai davvero, ma non servì a niente.
Stefano mi trascinò in bagno e io gridavo e nessuno sembrava sentirmi.
Una volta soli, lo guardai bene per la prima volta quella sera.
Non l’avevo mai notato, ma i suoi occhi avevano lo stesso colore di quelli di Giorgio.
E allora qualcosa scattò in me. Forse non avevo la forza di ribellarmi, però potevo concentrarmi su di loro.
E fingere che quello fosse Giorgio e non Stefano. E che le cose sarebbero tornate come una volta.
Facemmo sesso guardandoci negli occhi.
Poi ci trovò Giorgio.
 
«Non so chi sia questo Giorgio, ma devi svegliarti Beth.Tuo fratello mi ha obbligato di nutrirti»
Una voce storpiò la scena nella mia testa, il ricordo di quella maledetta sera, il mio incubo ricorrente. L’immagine del viso di Giorgio scomparve piano dalla mia mente e, nonostante cercassi di riafferrarla, sembrava allontanarsi sempre più. Forse perché qualcuno mi stava scuotendo la spalla e non lo stavo sognando.
No.
Qualcuno mi scuoteva davvero la spalla.
Qualcuno con un buonissimo profumo addosso.
E con un accento inglese.
Spalancai gli occhi e quasi sobbalzai su quel divano che probabilmente aveva preso la forma del mio corpo.
Sentivo il peso del libro sulla pancia e quello di una mano attorno alla spalla. Una mano? La mano di chi?
Lanciai un urlo e saltai in aria per davvero questa volta, finendo in qualche modo seduta sui cuscini di pelle.
Mi poggiai una mano sul cuore e cercai di respirare normalmente mentre i miei occhi mettevano a fuoco la figura che mi si presentava davanti.
Solo che probabilmente fu peggio, perché le palpitazioni aumentarono all’istante.
Lì davanti a me, inginocchiato per terra, c’era un ragazzo che probabilmente sarebbe diventato la mia nuova definizione di “perfezione”. Capelli castani morbidi e scompigliati; occhi           di un marrone scuro, profondo; labbra carnose, ma senza esagerare; i tratti del viso erano morbidi, tranne per la mascella appena squadrata e mi sorrideva divertito. Un sorriso da infarto.
«Giuro che non volevo spaventarti» la sua voce mi distolse dallo squadrarlo intensamente, ricordandomi che non era un poster o un manichino. Era una persona vera, in carne ed ossa. Esisteva qualcuno del genere. Ommiodio.
Il sorriso cortese che mi aveva riservato all’inizio si trasformò in un ghigno divertito, eppure non fece battute sul come lo stavo guardando e contemplando o sul fatto che il battito del mio cuore probabilmente riusciva a percepirlo anche lui, no. Semplicemente stava lì, scrutandomi a sua volta, ancora inginocchiato davanti al divano e con una mano tra i capelli.
«Potevi uccidermi, lo sai?» buttali lì, notando che il silenzio iniziava a farsi imbarazzante. Non sapevo chi fosse, non sapevo se finalmente avevo davanti il tanto amato Freddie o un qualche altro coinquilino, a dirla tutta per quanto sapevo poteva anche essere un ladro.
Però aveva parlato di Andrea.
E come mi aveva chiamata?
«Addirittura? Forse perché sono troppo bello» i punti che aveva guadagnato risparmiandosi la batta prima li aveva persi in meno di un secondo con quella frecciatina. L’originalità dei ragazzi mi sorprendeva ogni giorno di più, dovevo ammetterlo.
Erano così prevedibili.
Il ragazzo si alzò aggiustandosi un attimo la maglietta, poi mi allungò una mano e tornò al caro vecchio sorriso. «io sono Freddie»
«E a quanto pare tu sai chi sono io. Com’è che mi hai chiamato?»
«Beth. Lo so che tuo fratello ti chiama Libby, ma Beth è il mio soprannome preferito per Elizabeth»
Freddie parlava veloce e non con quell’inglese semplificato di Andrea, ma con l’accento di chi era nato e vissuto lì. Era affascinante da sentire, ma capirlo era tutto un altro paio di maniche.
Dovette accorgersi dalla mia espressione che non riuscivo a seguirlo, perché dopo avermi lanciato un’ennesima occhiata divertita cominciò a rallentare o almeno a scandire meglio le parole, per quanto gli fosse possibile.
Seguii con lo sguardo la sua camminata tranquilla fino all’area cucina, dove aprì il frigo e prese a scrutarci dentro con molta disinvoltura, come se non ci fossi. Così lo lasciai fare, tornando per un secondo a me stessa.
Il cuore stava iniziando a calmarsi ma, considerando il sogno che mi aveva fatto compagnia, la mia espressione doveva essere piuttosto sconvolta. L’orologio sulla parete segnava l’una, il che significava che dovevo aver dormito per più di due ore, eppure mi sentivo più stanca di prima e mi faceva male lo stomaco. Era fame, eppure mangiare sarebbe stato peggio. Avrei dovuto trovare una distrazione.
Mi alzai e cominciai a girare per la stanza, sfiorando le pareti di mattoni e gli oggetti poggiati a caso su una mensola della libreria, leggendo i titoli dei libri o quelli dei videogiochi sparpagliati ovunque, apprezzando come quel caos e l’apparente disposizione senza senso o talvolta a contrasto dei mobili fosse così orrenda da sembrare perfetta. Era strano, ma non avrei cambiato niente.
Alla fine, capitai davanti alla finestra che donava luminosità a quel posto. Gli infissi erano in legno bianco e tutta la struttura proponeva la forma di un esagono tagliato a metà, con una panca incassata sul lato più esterno. Rimasi lì incantata, senza la voglia o la forza di muovermi. C’era Londra appena oltre quel vetro, una città unica, magnifica, piena di nuove opportunità, , e al tempo stesso riuscivo a scorgere il mio riflesso, una me troppo esile, con i capelli spettinati, il trucco ancora sbavato e gli occhi gonfi. Ed era tutto lì.  Ciò che separava “Elisabetta” con tutto il fardello che si portava dietro da una nuova vita era solo un vetro. Ma avevo la forza di distruggerlo?
«Beth» sussurrai passandomi le dita sotto gli occhi, cercando di levare via il nero in eccesso. «Beth» ripetei ancora, più forte, più convinta, dando le spalle alla vetrata. Potevo rincominciare da lì?
Sentii la risata di Freddie echeggiare per casa, seguita dal rumore di una padella che sbatteva, così guardai proprio lui, nonostante avessi paura che a fissarlo troppo si sarebbe consumato. O forse consumato lo era già. Troppi sguardi addosso mentre camminava per strada, troppe attenzioni da chiunque. Una bellezza del genere doveva essere un bel peso.
«Si, Beth, ti piace?» domandò girandosi un secondo per ricambiare il mio sguardo, poi tornò ai fornelli comunque conservando un sorriso sulle labbra. Mugugnai qualcosa di libera interpretazione, non ero ancora sicura di come mi stesse, ma ero felice che finalmente almeno un amico di mio fratello non mi chiamasse “Libby”. Con il tempo era diventato insopportabile. «Beth, come quella vecchia canzone dei Kiss»
Come se si fosse improvvisamente ricordato di qualcosa, Freddie lasciò la padella sul fuoco e ancora con una spatola di legno in mano corse verso l’angolo accanto alla televisione, quello dove avevo notato dei vecchi dischi in vinile. Cercò qualcosa per pochi secondi, poi udii un rumore graffiato e subito dopo una canzone riempì il silenzio. Non aveva l’alta qualità delle solite canzoni, non aveva il loro stampo e neanche un accenno di beat, eppure mi sembrò dannatamente meravigliosa.
La prima parola che la voce graffiata del cantante pronunciò fu Beth ed in qualche modo mi sentii onorata.
E  poi il mio cuore smise di battere.
Freddie mi stava facendo segno di avvicinarmi.
«Allora Beth, me lo concedi il tuo primo ballo a Londra?» la sua mano si protese verso la mia, invitandomi ad afferrarla, e mi chiesi se qualcuna avesse mai avuto il coraggio di dire “no” a quel bellissimo faccino sorridente. In quel momento, io non ne ebbi la forza. L’istinto fu più forte anche dell’imbarazzo portato dal non saper ballare.
Strinsi la sua mano con il cuore che era già partito e quando mi trascinò più vicina lo ringraziai silenziosamente per aver comunque mantenuto almeno un po’ di distanza tra i nostri corpi. Del resto, ci conoscevamo solo da una decina di minuti.
Ondeggiammo sulle note melodiche della canzone e mentre io mi sentivo imbarazzata e impacciata –soprattutto a causa del suo palmo aperto poggiato sulla mia schiena – lui sembrava la persona più rilassata al mondo, come se fossimo amici di vecchia data o coinquilini da una vita. I muscoli delle sue braccia guizzavano da sotto il maglioncino blu a trecce che indossava ed attiravano decisamente troppa attenzione, così come i denti perfetti che mostrava ogni volta che distendeva le labbra o il fatto che avesse dei lineamenti così delicati da far invidia a Ken. Mi destabilizzava.
Andrea aveva trovato qualcuno bello almeno quanto lui.
«Credi che un ballo basti per farti perdonare il fatto di avermi quasi ucciso per lo spavento?» scherzai dopo un po’ che il silenzio tra noi aveva iniziato ad infastidirmi. Freddie, che mi superava almeno di venti centimetri, mi guardò divertito dall’alto e prima di rispondere mi fece fare una piroetta.
«Ehi, questo è solo il comitato di benvenuto. Drew mi obbliga a trattarti bene, nutrirti a dovere e mantenere una certa distanza»abbassò lo sguardo tra i millimetri che ci separavano «sto rispettando tutti i punti» concluse soddisfatto.
«Drew?»
«Si, Drew, tuo fratello. Andrea, Andrew, Drew. Hai molto da imparare»
«non ho intenzione di restare molto»
Forse la canzone finì troppo presto, o forse troppo tardi dato che ormai la figuraccia per non saper ballare l’avevo fatta, ma finì e Freddie si allontanò, eppure il suo profumo rimase nell’aria intorno a me ancora per molto.
Un profumo conosciuto, profumo di… Abercrombie -il posto dove ti saresti aspettato di trovare ragazzi come lui.-
«Ah, no? E perché sei venuta?»
Per fortuna, riuscii ad evitare di dover rispondere a quella domanda grazie alla porta di casa che si era spalancata. Apparve un Andrea affannato e un po’ sconvolto, forse anche un po’ spaventato.
Non salutò nessuno.
Semplicemente corse verso di me, guardandomi preoccupato e facendomi agitare.
Mi porse il suo cellulare.
«C’è Giorgio al telefono, e sta gridando come un pazzo. Vuole parlare con te»

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1632171