The Game

di charliesstrawberry
(/viewuser.php?uid=195364)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Twelve ***
Capitolo 3: *** Seattle ***
Capitolo 4: *** Giocare col fuoco ***
Capitolo 5: *** Game Over ***
Capitolo 6: *** Un po' troppa fantasia ***
Capitolo 7: *** Charles Darrow ***
Capitolo 8: *** Stasi ***
Capitolo 9: *** Una felpa ***
Capitolo 10: *** Castelli di carte ***
Capitolo 11: *** Inaspettato ***
Capitolo 12: *** Una buona scusa ***
Capitolo 13: *** Il gioco dell'oca ***
Capitolo 14: *** Casa ***



Capitolo 1
*** Prologo ***




Prologo.

L’auto fece un salto di quasi quattro metri prima di atterrare sull’asfalto con un fischio di ruote assordanti e continuare il suo tragitto a tutta velocità. Il ragazzo che era al volante fece un ampio - anche se breve - sorriso eccitato sfoderando due fossette agli angoli della bocca, poi accelerò intercettando nuovamente i suoi inseguitori.
Ci fu non squillo improvviso che si propagò all’interno dell’automobile facendolo sussultare, schiacciò un pulsante al lato destro del volante e rispose «Qui, Styles» fissò accigliato la strada buia davanti a se.
«Haaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaarry» trillò una voce dall’altro capo del telefono e il diretto interessato si lasciò sfuggire un sorriso anche se breve come il precedente.
«Louis» ribatté vagamente divertito facendo una brusca sterzata in un vicolo malconcio abbattendo un paio di bidoni della spazzatura.
«Che fai amico?» chiese Louis con vago interesse.
«Vuoi proprio saperlo?» l’altro fece una pausa «Al momento sono piuttosto impegnato, cerco di seminare due o forse tre spacciatori che mi stanno alle calcagna ed… è solo un sospetto, ma credo vogliano farmi fuori» rispose grave con una nota d’ironia, l’altro ridacchiò e poi fece un sospiro malinconico.
«Quanto vorrei essere al tuo posto, sono ad un convegno di vecchi decrepiti a sorvegliare uno che potrebbe schiattare da un momento all’altro» il ragazzo al voltante si lasciò andare in una fragorosa risata.
«Ti cederei volentieri il mio posto» disse infine svoltando prima a destra e poi a sinistra infilandosi in un ennesimo vicolo.
«Dove sei?»
«Ancora a Montecarlo» ribatté lui stringendo i denti e schiacciando con forza il piede sull’acceleratore spingendo l’auto al massimo che schizzò in avanti premendolo contro il sedile di pelle.
«Cazzo Harry, sbrigati a risolvere questa faccenda!» Harry corrucciò la fronte e alzò gli occhi al cielo scuotendo la testa, come se fosse facile intercettare un traffico di droga praticamente dal nulla: zero tracce, zero indizi; anche se poi alla fine ci era riuscito. Ed era proprio per quello che si trovava in quella situazione con il rischio - se non fosse stato addestrato come si deve - di andare a schiantarsi contro un muro.
Diede un’altra fugace occhiata allo specchietto retrovisore: doveva fare in fretta, niente distrazioni «Addio Louis» quindi rispose reprimendo una risata.
«Io non…» il ragazzo interruppe la chiamata divertito tornando a prestare tutta la sua attenzione sulla strada. Ce l’aveva quasi fatta, doveva solo attirarli nella sua trappola.

«Complimenti Styles» il capo rise nel suo tono caldo e profondo da uomo di mezza età e afroamericano per poi battere le mani «erano mesi che stavamo cercando di venire a capo della faccenda» tutti usavano apostrofare quelle missioni suicida come “faccende”; quando era bambino suo padre utilizzava lo stesso termine, e disse così anche l’ultima volta che lo rivide.
«Grazie capo» borbottò Harry imbarazzato grattandosi la nuca. Certe volte però avrebbe voluto avere una vita normale, essere un tipo normale che va in una scuola normale. Non il figlio di un ex agente della C.I.A. morto inspiegabilmente a causa di una banda di pazzi armati con uno strano e perverso senso dell’umorismo.
«Hai due settimane di riposo figliolo, potresti approfittarne per tornare da tua madre» disse apprensivo l’uomo che l’aveva sempre visto un po’ come un figlio che non aveva mai avuto: il figlio del suo migliore amico.
«È proprio quello che ho intenzione di fare» sorrise gentilmente Harry ma prima che potesse aggiungere altro due omoni entrarono nella stanza mettendosi ai lati della porta lasciando poi passare il terzo, molto più minuto.
Il capo del capo di Harry aveva fatto il suo raro ingresso nella centrale di Manhattan, il che voleva dire solo una cosa: grossa faccenda.
«Sam è un piacere rivederti e tu Harry, come stai?» chiese allegramente Gregory Spencer, il primo ricambiò il sorriso freddamente mentre il secondo era piuttosto confuso quando fece lo stesso.
«Bene grazie, signore. Arrivederla» disse educatamente e si avviò verso la porta, sapeva esattamente quando era il momento di congedarsi.
«Oh no ragazzo, resta pure! Questa è una faccenda che riguarda anche te» si sedette su una delle sedie di pelle di fronte alla scrivania dove poco prima Harry era seduto e dove prese posto nuovamente accigliato. Guardò Sam ma lui stava fissando i documenti che il suo capo stava tirando fuori dalla sua ventiquattrore nera con la mascella serrata in una posizione tesa e preoccupata.
Quando Spencer si voltò a parlare verso di lui, Harry sussultò. Cominciava a chiedersi se non avesse fatto qualcosa di grave. Eppure in tutte le sue sette missioni suicida non aveva sbagliato nemmeno una mossa. Okay forse qualcuna, ma erano sempre state poco determinati.
«Molti anni fa» cominciò l’uomo minuto con il volto tirato in un espressione poco confortante «abbiamo avuto a che fare una banda di… psicopatici che ci ha dato parecchio filo da torcere. E che ancora oggi è a piede libero» Harry si agitò sulla sedia, aveva uno stranissimo brutto presentimento che si trattasse proprio di quegli psicopatici, «molti dei migliori nostri uomini sono stati assassinati e tra questi anche…» Sam batté una mano sulla scrivania interrompendolo.
«Non è necessario che lui partecipi! Siamo in grado di occuparcene noi, Greg» tuonò con la sua voce profonda e calda.
L’altro gli lanciò un’occhiata mortificata ma non sembrava poi così sincero «il ragazzo è l’unico che può farlo. Nessun altro può intrufolarsi in quella scuola e fingersi uno studente in modo credibile, Sam» parlò asciutto.
Harry tossì attirando l’attenzione dei due che parevano averlo dimenticato del tutto «non ho ancora capito qual è effettivamente il mio ruolo in tutto questo» ribatté.
«Sono tornati» rispose Spencer senza girarci più troppo intorno «la banda, The Game, è tornata. Il gioco è ricominciato» il ragazzo sbarrò gli occhi.
«Che cosa devo fare?» rispose immediatamente.
Un gioco. suo padre era morto per un gioco spietato e sciocco, non aspettava che vendicarsi da quasi dieci anni. «Harry no, sei troppo coinvolto!» sbottò il migliore amico di suo padre, ma Spencer alzò una mano irritato coprendo la sua voce «è l’unico che può farlo!» ripeté.
«E voglio farlo» rispose risoluto stringendo i pugni sui suoi jeans scuri «che cosa devo fare?» disse di nuovo ignorando gli avvertimenti, le minacce e infine le suppliche di Sam.
Tra i documenti che aveva sparpagliato sulla scrivania già incasinata di Sam, Spencer ne ripescò uno che sembrava solo il primo di una serie di molti altri «Lascia che ti mostri i piani…».



~Note. 
Salve a tutti! Per prima cosa ribadiamo che questa storia è scritta a quattro mani, di conseguenza siamo in due a parlarvi u.u Siamo Carla e Anna e ci teniamo a dire che questa storia conta moltissimo per noi perché ci abbiamo messo cuore e anima (e sudore); ma soprattutto questo nostro lavoro non può che essere fortunato perché è stato partorito la notte di Natale. (ehm, evitiamo commenti sulla nostra pazzia, ahaha) Quindi insomma ci teniamo parecchio, e speriamo davvero che sia di vostro gradimento, e se lo è sarebbe bello ricevere delle recensioni da parte vostra C: (lasciatele anche se non vi piace, non ci offendiamo v.v)
Un piccolo chiarimento: questo account appartiene a Carla, mentre l'account personale di Anna è questo qui:
OffTheChain__ (cliccate)
Un'ultima cosa! Uno speciale ringraziamento a colei che ci ha fornito di questo meraviglioso banner, grazie tante
@momsensvoice! C: 
Un bacio enorme a tutti coloro che hanno pensato di leggere questa ff. Vi promettiamo che, se deciderete di leggerci, non vi deluderemo (: 
Anna & Carla. 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Twelve ***




Twelve.

Robert Douglas era uno degli uomini d'affari più in vista di Seattle. Una casa da sogno, una famiglia da far invidia a quelle delle pubblicità dei dentifrici, una quantità innumerevole di carte di credito. Viveva una vita felice.
Si divideva equamente tra lavoro e famiglia, senza mai trascurare nulla: portava la figlia in campeggio da piccola, la domenica sera a volte rimaneva in casa in pigiama a guardare qualche film comico con la moglie, e restava comunque l'uomo più ricco della città.
Tutti lo conoscevano: finanziava una miriade di progetti locali e il suo nome appariva ovunque, perfino nelle barzellette e nei modi di dire comuni. “Roba che solo Douglas potrebbe permettersi!”, “Ma per chi mi hai preso, per Robert Douglas? Non li ho tutti questi soldi!”, e via dicendo. Ciò nonostante, Robert era ben voluto dagli abitanti di Seattle. Nell'immaginario comune era, sì, quel riccone con dieci automobili extra-lusso che abitava in una villa stratosferica, ma era anche l'uomo di buon cuore che aiutava i senzatetto con i suoi soldi, finanziava alcune scuole in difficoltà e faceva beneficenza agli ospedali per bambini con malattie terminali. Era “una brava persona”; uno che sguazzava nel denaro ma che, in fondo, non esitava ad aiutare il prossimo.
Poi, ovviamente, c'era anche chi lo considerava un avaro che “faceva solo scena” e a cui importava soltanto dei suoi amati soldi.
Ma Robert sapeva bene, e l'aveva imparato a dure spese lungo il corso della sua carriera, che non arrivi ad una posizione del genere senza farti qualche nemico: e lui, di nemici, ne aveva eccome, tanti quanti erano quelli che si fingevano suoi amici.
Tra gli avversari politici, quelli in campo finanziario, coloro che lo odiavano a prescindere perché era ricco, e i vandali che per gioco tentavano di fare irruzione in casa sua con lo scopo di rubacchiare qualcosa, l'uomo aveva collezionato una bella schiera di inimicizie. Eppure ciò non l'aveva mai preoccupato più di tanto, almeno fino a quando i suoi nemici rimanevano a lui noti.
Ma che fare quando non conosci l'identità di chi ti minaccia? Quando questo qualcuno si diverte con i tuoi sentimenti e le tue paure, come se stesse giocando al gioco dell'oca?
Da qualche settimana a quella parte, Robert riceveva misteriose lettere di minacce anonime. Non ci avrebbe fatto troppo caso, se non fosse stato che tutto ciò che aveva trovato scritto in quei fogliettini gialli dalle righe larghe (proprio come quelli di scuola), si era avverato in un batter d'occhio.
La prima volta non si era disturbato neanche a porvi attenzione: aveva trovato tra la posta quello strano fogliettino, che sembrava tanto un indizio del Monopoli, e l'aveva buttato via senza pensarci troppo.

Sei avanzato di due caselle, ma sei finito in fallo. Sarai costretto a tornare indietro di tre caselle e cancellare le tue azioni.
THE GAME.

Lì per lì Robert era rimasto perplesso e aveva riso, pensando che evidentemente qualche ragazzo aveva sbagliato indirizzo, nel tentativo di fare uno scherzo ad un amico.
Ma quella sera stessa in ufficio era accaduto un manicomio. Proprio come aveva predetto il bigliettino, i bilanci di tutte le sue azioni finanziarie erano stati cancellati. I computer erano impazziti, qualche hacker aveva avuto accesso al sistema, non si sapeva come, ed aveva eliminato migliaia di dollari con un solo click. Le segretarie di Douglas erano impazzite totalmente, ed erano state costrette a fare straordinari su straordinari per riprendere il lavoro perduto.
Robert non aveva subito collegato, ma era stato all'arrivo del secondo biglietto che aveva capito il nesso.

Anche se le azioni sono state cancellate, sei riuscito a recuperarle. Complimenti! Avanzi di sette caselle, ma i dadi sono stati davvero a tuo favore, stavolta?
THE GAME.

Il giorno dopo, una volta fuori dal suo ufficio, Robert scoprì che la sua Maserati non c'era più. Nessuno aveva visto niente, l'unica cosa che tutti sapevano era che prima l'automobile era parcheggiata lì, di fronte allo studio, e poi era svanita di colpo. Puff. Al suo posto, il proprietario aveva trovato due dadi da gioco, che mostravano il numero sette.
Fu con quell'episodio che Robert cominciò a sospettare che si trattasse di una faccenda seria. Dati cancellati, macchine rubate... di certo era più di una semplice banda di ragazzi scapestrati. Nonostante avesse denunciato il furto d'auto alla polizia poco più di un mese prima, ancora non c'era traccia della sua povera Maserati, e l'uomo non si aspettava di avere notizie in un futuro prossimo.
Il terzo biglietto arrivò ad una distanza abissale rispetto agli altri due, tanto che Robert aveva avuto il tempo di pensare che quella faccenda fosse conclusa definitivamente. E invece...

Stai avanzando sempre di più... Oh, sei appena passato dal Via. Devi pagare una tassa, altrimenti, come la macchina, perderai un'altra delle tue carte importanti.
THE GAME.

Il messaggio stavolta non era difficile da decifare: avrebbe dovuto pagare una somma di denaro, oppure... oppure qualcosa, o peggio, qualcuno a lui caro sarebbe scomparso. Era proprio questa la cosa frustrante: non sapere cosa proteggere, chi c'era sotto il mirino questa volta. Ma Robert non avrebbe corso questo rischio ancora, e non aveva esitato a contattare i servizi segreti in richiesta di protezione.
Gregory Spencer, il capo della C.I.A., venuto a conoscenza della sua situazione, lo aveva subito contattato personalmente, assicurandogli protezione dai suoi uomini migliori, e il massimo della segretezza.
«Veda, signor Douglas», aveva esordito Spencer in videoconferenza, «Il “The Game” è una segreta associazione a delinquere, in attività dal '98. Normalmente noi della C.I.A. non ci mettiamo molto a scovare i responsabili di questo genere di organizzazioni, eppure dopo quasi quindici anni non siamo ancora riusciti a scoprire chi c'è a capo di tutto questo. Sono un osso duro. Come avrà visto lei stesso, la pecurialità dell'organizzazione consiste nel trattare questo giro quasi come... un gioco. Le lettere di minacce sono piene di metafore e allusioni che richiamano i giochi da tavolo, e loro stessi a vicenda si chiamano “Giocatori”. Nonostante ciò serva anche e soprattutto per arricchirsi, è tutto un gioco per loro. Soltanto che giocano con le vite della gente».
Robert si aspettava che quelli della C.I.A. l'avrebbero tranquillizzato, e invece era accaduto tutto il contrario: grazie a loro si era scoperto in trappola, aveva realizzato di essere finito nella rete di un ragno pericoloso e giocherellone, che si divertiva a giocare con le vite umane.
Robert rabbrividì. Solo il pensiero che sua moglie, sua figlia e chiunque gli stava attorno avessero potuto essere in pericolo per colpa sua lo faceva sudare freddo. Più volte, durante quella lunga settimana, aveva pensato di mollare: di pagare quella maledetta mazzetta e lavarsene le mani definitivamente, perché questo era l'unico modo concreto che aveva di proteggere i suoi cari. E se anche quelli dei servizi segreti avevano provato a rassicurarlo, cos'altro gli rimaneva da fare? Aveva pensato e ripensato, e se ne vergognava molto, ma spesse volte era giunto alla conclusione che pagare una mazzetta adesso sarebbe stato meglio che pagare il riscatto di un rapimento un domani; o peggio, una bara mortuaria.
Robert rabbrividì ancora. Si voltò per guardarsi intorno, alla ricerca di qualche spiffero che poteva avergli provocato questa reazione, ma scoprì, a malincuore, che la paura era il vento più gelido.
Era notte fonda. Il cielo era così tetro e nuvoloso da non lasciare spazio neanche ad una stella. Dalla grande finestra del suo studio l'uomo fissava la stradina di fronte a casa sua con un'espressione apparentemente mite; in realtà, un groviglio di sensazioni lo attanagliava e gli chiudeva lo stomaco, impedendogli di mostrare alcuna emozione in particolare. Era ansioso. Spaventato. Irrequieto. Avvilito.
L'orologio segnava le tre di notte, e fuori la città era morta. In lontananza Robert scorgeva il centro della grande Seattle, sempre attivo: ma la zona residenziale in cui si ergeva la sua gigantesca villa andava a letto presto, proprio come un bambino piccolo che l'indomani ha scuola. Anche Robert normalmente, a quell'ora, si sarebbe ritrovato tranquillamente tra le braccia di Morfeo, nel caldo letto matrimoniale accanto alla sua dolce Eloise. Ma quella notte era rimasto in piedi, a misurare a grandi passi il perimetro del suo studio e a lanciare occhiate impazienti al di fuori della finestra, in direzione della strada. Era in attesa dell'arrivo di un'equipe molto particolare.
Malgrado i suoi istinti, volti a risolvere la faccenda il più presto possibile, Robert sapeva che pagare la mazzetta a quelli del The Game sarebbe stato un grosso errore, nonché un terribile atto di viltà: per cui si era affidato totalmente alle esperte mani della C.I.A., conscio del fatto che da solo non sarebbe mai riuscito a risolvere un bel niente.
Erano all'incirca le tre e mezza quando l'uomo udì uno squillo al cellulare, che era il segnale accordato. Sussultò. Erano già lì? Strano: non aveva visto nessuno arrivare fuori in strada. Si sporse nuovamente dalla finestra, ma non c'era traccia di anima viva né tanto meno di una nuova macchina posteggiata nel suo campo visivo.
Pur tuttavia, nel dubbio, scese le scale ed aprì la porta d'ingresso, come aveva accordato precedentemente di fare allo squillo del suo telefono. Con sua enorme sorpresa, sulla soglia si stanziava Gregory Spencer, che gli sorrideva benevolo, per la prima volta dal vivo, e con una schiera di persone al suo seguito.
«Prego, entrate». Robert si fece da parte in modo da farli entrare tutti: per primo avanzò Spencer, che aveva sicuramente l'espressione più normale tra quella sfilza di persone. Dietro di lui si fecero strada almeno... una dozzina di persone, calcolò approssimatamente Robert, con stupore. Non si aspettava certo di ricevere questo gran numero di persone come protezione.
Erano quasi tutti uomini, di stazza parecchio possente e con un'andatura più che autoritaria; c'erano anche due donne tra di loro, ma di certo non sfiguravano o smorzavano l'impressione di vigore del gruppo. L'uomo non poté fare a meno di notare l'abbigliamento impeccabile di ognuno di loro: avevano indosso dei completi con pantaloni e giacca neri, accompagnati da una camicia bianca, senza cravatta; le donne indossavano dei tailleur analoghi, anche se invece dei pantaloni portavano delle gonne, non troppo corte ma comunque abbastanza sagomate. Robert li osservò molto attentamente, e fu stupito dalle espressioni che tutti recavano in volto: sembravano apatici, freddi, eppure infondevano un senso di austerità calma, detenevano una sorta di atteggiamento intimidatorio che, però, da un lato conferiva anche una certa sicurezza. Nessuno sorrideva o si mostrava quanto meno cordiale. 
Robert si affrettò ad affiancare Spencer e fece velocemente strada al gruppo, verso il grande salone di casa Douglas. Si sedette ad uno degli enormi divani di pelle bianca della sala, indicando agli altri i posti liberi.
«Prego, accomodatevi», intimò.
Tuttavia solo Spencer si sedette nel divano di fronte al suo. Gli altri rimasero in piedi, disposti in una sorta di strano schieramento accanto a loro, con quelle espressioni di calmo distacco dipinte in volto.
«Bene, signor Douglas», esordì Spencer. «Per prima cosa vorrei scusarmi per l'orario; ma, come immagino sappia, il nostro lavoro non è esattamente facile da svolgere in pieno giorno».
Robert scosse la testa e si sforzò di mettere su un sorriso rilassato. «Ma si figuri».
Spencer lo guardò per qualche istante in silenzio, come se stesse pensando a qualcosa di più importante, poi riprese il discorso. «So che per adesso lei deve essere sconvolto, signor Douglas, ma le assicuro che questa squadra le garantirà il massimo della sicurezza».
Robert annuì, senza proferir parola e lanciò un'occhiata curiosa al gruppo di belle statuine che adesso popolava il suo salotto.
«Ecco, glieli presento. William, Jacob, Paul e Seth si occuperanno della sorveglianza del perimetro della sua villa», l'uomo indicò quattro energumeni che stavano in prima fila, ed in quel momento quei corpi megalomeni conferirono a Robert uno strano senso di sicurezza, di protezione. «Joshua e Alicia penseranno alle entrate più interne». A questo punto si fecero avanti un uomo dalla stazza altrettanto possente a quelli presentati prima, ed una delle due donne del gruppo. Robert fece un cenno d'assenso. «Thomas e Simon saranno invece responsabili del suo ufficio di lavoro, e di tutti i suoi dipendenti. Non abbandoneranno il luogo neanche un istante», continuò Spencer. Robert annuì ancora, sempre più sorpreso: non si aspettava di ricevere anche una protezione per il suo posto di lavoro e per chi lavorava per lui. «Sarah si prenderà cura della sicurezza di sua moglie», fece ancora l'uomo, mentre Robert osservava avanzare una donna sulla quarantina con un ordinatissimo caschetto di capelli castani ed un sorriso enigmatico. Sperò con tutto se stesso che questa Sarah fosse brava nel suo lavoro, perché non avrebbe sopportato di perdere la sua Eloise per colpa di quei criminali. Ma certo che era brava, si rispose subito da solo, era pur sempre un agente dei servizi segreti americani per un motivo. Spencer continuò. «Andrew e Bill saranno invece le sue guardie del corpo personali. Per lei abbiamo riservato i nostri agenti più esperti». Nonostante la voce di Spencer sembrasse sincera, Robert non poté fare a meno di guardare con un'aria scettica quel Bill, che si presentava come un uomo sulla sessantina, dagli occhi chiari e gentili – seppur sempre lontani ed austeri come quelli di tutti gli altri – ed un sottile strato di capelli bianchi sulla testa. Non era un po'... avanti con l'età, per essere un agente della C.I.A.? «Oh, ed infine abbiamo Harry», riprese Spencer, senza lasciargli il tempo di completare il suo pensiero. Solo ora Robert si accorse che l'ultima persona rimasta non era altro che un ragazzo. Probabilmente non ci aveva fatto caso prima per via delle espressioni così serie e professionali di tutti, e a causa di quel clima così “adulto”... ma era così che doveva essere. Quell'Harry aveva ancora i lineamenti di un bambino, la faccia pulita, i capelli un po' arruffati: doveva aver avuto diciassette, massimo diciott'anni. Che diavolo ci faceva un ragazzino in una squadra dei servizi segreti? Robert sollevò un sopracciglio, ancora più scettico di quanto non lo era stato riguardo all'anziano Bill. «Harry si occuperà di proteggere sua figlia Charlotte. So che cosa sta pensando ma, mi creda, non si faccia ingannare dalle apparenze. Harry sarà giovane, ma sa il fatto suo. Nonostante la sua età è riuscito a portare a termine casi dei quali neanche i nostri veterani erano venuti a capo. Se fosse stato qualcun altro, alla sua età, non avrei mai osato affidargli un caso così importante: ma di Harry ci fidiamo. Ed è perfettamente qualificato per affrontare una missione del genere».
Robert fissava il ragazzo e quello lo guardava di rimando, senza paura o alcuna insicurezza negli occhi. Sembrava sereno e forse anche un po' imbarazzato dalle parole del suo capo, pur tuttavia assumeva un'espressione che sembrava voler dire “Ho passato di peggio. Queste cose per me sono bazzecole”. E Robert volle credervi.
Tossicchiò. «Certamente... Certamente... Veda, signor Spencer, un furto d'auto non mi tocca minimamente. Tutto quello che voglio, però, è sapere che la mia famiglia è nelle giuste mani», si giustificò Robert.
«Sua figlia sarà al sicuro», una terza voce, calda e decisa, ma indubbiamente più giovanile, s'intromise. L'uomo fu sorpreso di sentire Harry parlare, forse perché era il primo di quel gruppo silenzioso, o meglio, muto, a proferir parola.
Annuì e sorrise al ragazzo, come a fargli capire che gli credeva; Harry non ricambiò.
«Perfetto», riprese Spencer battendo le mani per un istante, e sembrò rilassarsi su quel divano. «Abbiamo quattro sorveglianti per l'esterno della villa, due per le entrate più interne, due per il suo ufficio, due per lei, uno per sua moglie ed uno per sua figlia. In tutto dodici». Dodici, ripeté Robert mentalmente: allora il suo conto era corretto. «Non esiti a chiamare, nel caso avesse bisogno di qualcun altro. Le manderemo immediatamente altri agenti».
Robert fece un segno d'assenso. Tutta quella situazione era così assurda ed inverosimile che dovette chiudere gli occhi per qualche istante e cercare di fare mente locale.
«C'è un'altra cosa», dichiarò infine Douglas, mentre si stropicciava stancamente gli occhi. «Riguarda mia figlia Charlie».
Spencer annuì, mentre Harry assumeva un'aria interessata e professionale. «Dica pure».
«Mia moglie è a conoscenza delle minacce, ma la mia Charlie... Beh, non le ho detto nulla. Ha solo diciott'anni, sa com'è, tra la scuola e tutto il resto, non reggerebbe tanta pressione». Robert udì Harry sbuffare in maniera irriverente a queste parole, e subito dopo colse Spencer lanciargli un'occhiataccia assassina per richiamarlo all'ordine. «Quindi gradirei che ne rimanesse all'oscuro», concluse infine. Detto questo l'uomo guardò prima il ragazzo, poi Spencer.
«Non c'è problema», fece quest'ultimo. «Ognuno di questi agenti ha ricevuto delle informazioni particolari riguardanti la missione. Il piano riservato ad Harry è quello di farlo agire in incognito a prescindere. Siamo già penetrati nel database della scuola di sua figlia Charlotte, e l'abbiamo registrato come un nuovo studente. Inoltre abbiamo fatto in modo che tutte le sue ore di lezione combacino perfettamente con quelle di sua figlia, così che non sarà sola neanche un attimo». Robert aprì la bocca per la sorpresa. Beh, erano pur sempre i servizi segreti, pensò: se non fossero stati capaci loro di fare queste cose, chi altri? «Per Harry quindi non sarà un problema fare in modo che Charlotte non sappia di essere sorvegliata. È sempre stato molto discreto».
Robert annuì di nuovo, rasserenato da quelle parole e dall'espressione tranquilla del ragazzo. «Perfetto allora», confermò.
«Bene. Credo sia tutto», fece Spencer alzandosi di scatto dal divano, e Robert lo imitò per fargli strada verso la porta. Il primo controllò distrattamente l'orologio hi-tech che aveva al polso. «Meglio sbrigarsi, ho un aereo che mi aspetta ed una riunione alle sei del mattino».
Robert aprì la porta di casa, e una folata di vento gelido lo investì, cozzando con il riscaldamento della casa, sempre rigidamente acceso. «Grazie di tutto, signor Spencer».
Questo sorrise, e per la prima volta sembrò sorridere sinceramente, senza doversi forzare per cortesia. «Dovere, signor Douglas. È il nostro Stato per primo a chiederci di proteggere i suoi cittadini, ed è quello che facciamo. A partire da stasera non si dovrà più preoccupare del The Game; ce ne occuperemo noi, stia tranquillo», lo rassicurò l'uomo.
Robert sospirò e poi, qualche istante dopo, ripensando a quelle parole, assunse un'espressione incuriosita. «A partire da stasera?», domandò incredulo.
Spencer annuì tranquillamente. «E da quando, se no? La nostra squadra sta andando a posizionarsi proprio ora. Per quanto riguarda gli agenti addetti alla sua sicurezza personale e della sua famiglia, vale a dire Andrew, Bill, Sarah ed Harry – e qui indicò i quattro agenti rimasti dietro di lui – non le dispiace, vero, che stiano qui durante la notte?».
Robert aggrottò le sopracciglia. «Nel... nel mio salotto?», chiese confuso.
L'altro sollevò le spalle. «So che sono addetti alla sicurezza personale, ma ci sembrava quanto meno indelicato metterveli alle calcagna anche di notte: non farebbero altro che fissarvi dormire e sarebbe strano. Rimarranno vigili... ma possono farlo anche dal piano terra di casa sua, senza dover necessariamente violare la vostra privacy».
L'uomo annuì, sempre più confuso. «Certo, ma ho delle stanze per gli ospiti, al piano di sopra. Ci sono abbastanza letti per-»
«Suvvia, signor Douglas. I miei agenti non sono certo qui per dormire, la notte. Se mai avranno bisogno di qualche minuto di riposo, i suoi divani sono parecchio comodi». Robert sollevò un sopracciglio. Voleva davvero privare quelle dodici persone di dormire per... quanto?
Per quanto si sarebbe ritrovato in quello stato di allerta, con guardie del corpo da ogni parte, ed il terrore di perdere qualcuno di importante che cresceva un secondo dopo l'altro?

«Ovviamente, al vostro risveglio, lei, sua moglie e Charlotte non troverete alcuna traccia di loro. A maggior ragione ora che sanno di dover mantenere un profilo basso e non far capire nulla a sua figlia», aggiunse Spencer.
La mente di Robert a questo punto era un groviglio di informazioni senza un filo logico. Forse per l'ora, forse per il fatto che l'arrivo in casa propria di dodici spie dei servizi segreti in piena notte non è esattamente qualcosa che capita tutti i giorni, ma l'uomo sentiva la testa scoppiare, e le facoltà di parlare abbandonarlo gradualmente. «D'accordo», biascicò un'ultima volta, senza neanche far troppo caso a ciò a cui aveva appena acconsentito.
«Arrivederci, signor Douglas», fece Spencer pima di uscire, in un tono che gli parve fin troppo solenne.
«Arrivederci», disse poi Robert meccanicamente, mentre osservava l'uomo svanire nell'oscurità della notte.

*capitolo scritto da Carla. 


~Note. 
Salve bella gente! Prima di tutto vorremmo precisare una cosa che ci è sfuggita nel prologo, e cioè che è stato scritto da Anna (: mentre questo capitolo è scritto da Carla (ecco perché fa così schifo u.u).
Comuuuunque, vorremmo ringraziare tutti i 42 che hanno inserito la storia tra i seguiti e i 28 che l'avete messa nei preferiti. E ovviamente grazie a coloro che si sono fermati per recensire! Grazie mille, davvero, è tantissimo per una fanfiction che sia arrivata solo al prologo! :) Questo capitolo forse potrà risultare un po' monotono e noioso, ma era necessario per spiegare un po' la storia che c'era dietro in maniera più dettagliata, così che possiate capire meglio. Vi promettiamo però che dal prossimo capitolo in poi vedremo Harry nel pieno dell'azione (: 
Grazie ancora a chiunque ci degni d'attenzione, un bacio! - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Seattle ***




Seattle.

Qualche settimana prima…

«Dove dovrai andare questa volta?»
«Seattle»
«Seattle?»
«Seattle.»
«Harry»
«Mamma»
Era da più di dieci minuti che andavano avanti così, lei gli faceva una domanda, lui le rispondeva a monosillabi.
«Seattle è dall’altra parte del paese, così lontana» piagnucolò sua madre e lui aggrottò la fronte.
«Sono stato perfino in Russia e tu mi vieni a dire che Seattle è lontana? Ma ti senti mamma?!» sbottò incredulo e confuso.
«Harry per l’amor del cielo, questa volta è diverso!» ribatté lei aggrappandosi alla sua camicia per scuoterlo e tentare di farlo ragionare, avrebbe perfino supplicato.
«Non mi accadrà niente» le promise, come ogni volta del resto.
«Pensa ai tuoi fratelli, loro ti adorano. Cosa dirò a loro quando non tornerai più?» aggiunse lei con enfasi.
«È stato Sam. È stato Sam a dirtelo vero?»
«Si, è stato lui! Non permetterò che mio figlio si faccia ammazzare da una banda di pazzi, è già successo una volta con-» la donna abbassò il tono di voce lanciando uno sguardo al salotto dove i suoi due figli minori guardavano la TV ignari «…con tuo padre, non voglio perdere anche te» gli occhi le si riempirono di lacrime ma non li scostò nemmeno per un secondo da quelli di suo figlio.
«Non mi perderai, pensi che Sam o Bill lascerebbero che io corra dei rischi? Devo solo proteggere una ragazza!» tentò di rassicurarla.
«Non sei obbligato, puoi dimetterti in ogni momento!» protestò ancora e il ragazzo sospirò.
«Sappiamo entrambi che non lo farò» ribatté lui, certo che era obbligato. Aveva preso la decisione di seguire le orme del padre defunto a otto anni, non avrebbe certo rinunciato proprio adesso che era ad un passo dall’ottenere giustizia «dov’è Robin?» chiese d’un tratto tentando di depistarla.
«Al lavoro. Non cercare di cambiare discorso, sappiamo entrambi che hai la testa calda! Se dovessi… dovessi fare qualche sciocchezza, agire d’impulso» il panico nella sua voce era palpabile, il ragazzo le strinse le mani sulle spalle.
«Mamma sta calma, non agirò d’istinto. Pensi che qualcuno me lo permetterebbe? Questa è una missione come un’altra, sto solo facendo il mio lavoro. Papà non c’entra niente» in parte mentiva, ma davvero non avrebbe potuto mai agire d’impulso, questa volta ne andava della vita di troppa gente.
La donna sospirò pesantemente e gli gettò le braccia al collo stringendolo a sé come se fosse ancora un bambino anche se ormai era una spanna più alto, e lui ricambiò la stretta goffamente.
«Verrò a trovarti» promise accarezzandole la schiena quando la sentì singhiozzare «non sto andando al macello, mamma» commentò alzando gli occhi al cielo.
La donna si staccò bruscamente reprimendo lei per prima il primitivo istinto di prenderlo a schiaffi «Spero con tutta l’anima che sia così, il tuo sarcasmo è poco opportuno perché direi che è proprio quello che stai andando a fare. Ma pensa a tua madre, al tuo patrigno e ai tuoi fratelli. Hai idea di cosa succederebbe a questa famiglia se tu morissi?» altre lacrime le rigarono le guance e lui sbuffò accarezzandone una per toglierne via alcune.
«Ti giuro che non mi farò ammazzare, hai così poca considerazione delle mie abilità?» mormorò vagamente offeso e lei scosse la testa.
«Proprio perché sei il migliore mi preoccupo maggiormente» sospirò «mi verrai a trovare? Quando? Sei appena tornato…» chiese poi sua madre tentando di alleviare l’ansia che le opprimeva il cuore, ma sarebbe stato tutto inutile, non gli sarebbe passata fino a quando lui non sarebbe tornato sano e salvo.
«E spero di tornare presto… Non lo so quando, appena avrò un attimo libero! Te lo prometto, e ti chiamerò!» con un ennesimo sospiro la donna annuì quasi impercettibile, ormai rassegnata.
«Quando devi partire?»
«Fra tre giorni» disse, e sua madre ebbe un tuffo al cuore. Probabilmente non avrebbe rivisto suo figlio per mesi, sperando sempre che la faccenda finisse in fretta e senza complicazioni; e aveva solo tre giorni per passare del tempo con lui «torno da Trevor e Becky» annunciò infine sgattaiolando in salotto.
«A chi va una partita con l’Xbox?» urlò allegramente facendo sussultare il suo fratellastro che a momenti si appisolava dinnanzi ad una noiosissima puntata di Dora l’esploratrice a causa di sua sorella.
La donna a suo malgrado sorrise, quanto avrebbe voluto una famiglia normale. Un figlio con una vita normale e un futuro sicuro, non un agente della CIA. Aveva solo diciotto anni e non aveva fatto altro fino ad allora che sventare rapine, scovare bande di malviventi e proteggere la vita di persone innocenti; era fiera di lui, ma non avrebbe sopportato di perderlo.

Qualche settimana dopo…

«Tutto questo è davvero deprimente e patetico» borbottò Harry a se stesso rifugiato nella sua Audi R8 nera e lucida nel grande parcheggio della scuola. Odiava il liceo pur non avendoci mai messo piede, la sua istruzione l’aveva ricevuta da persone molto più competenti di semplici professori, sapeva tutto quello che c’era da sapere e non moriva certo dalla voglia di mettersi sui libri.
Afferrò la maniglia della portiera ma esitò «Non ce la faccio, non posso farlo!» sbottò esasperato strizzando gli occhi ed infilandosi le mani tra i capelli.
Percepì una stretta immaginaria sulla sua spalla destra «Certo che ce la fai Harry» era la voce confortante di suo padre, quella voce che era da sempre annidata nella sua testa e nei momenti difficili saltava fuori infondendogli coraggio e sicurezza. Era così che molte volte aveva evitato di perdere la testa mantenendo il sangue freddo; aveva affrontato criminali a mani nude, sparava da quando aveva tredici anni, sventava rapine e rapimenti. E adesso non riusciva a fare una cosa facile come quella?
Era vero, non era abituato a stare tra i suoi coetanei, ma quando mai avrebbe imparato se mai avrebbe provato? E poi si lamentava con se stesso di volere una vita normale.
E comunque sia era lì per lavoro, doveva farlo e basta. In fondo le sue mansioni erano poche e semplici: 1. Intercettare la ragazza; 2. Tenerla d’occhio e 3. Presentarsi a lei come un nuovo studente.
Prese un grosso respiro, afferrò il suo zaino e scese dall’auto chiudendo le sicure «Bell’auto amico!» commentò un ragazzo battendogli una mano sulla spalla.
«Grazie» biascicò Harry osservando mentre si allontanava con un amichevole cenno del capo, tutto sommato non era cominciata poi tanto male. Guardò soddisfatto il suo gioiellino e represse il desidero di accarezzarne il cruscotto prima di allontanarsi ed intrufolarsi nell’edificio.
Si trascinò in segreteria per ritirare i libri – tanto per fare scena – che non avrebbe mai aperto e la combinazione del suo armadietto. Percorse il corridoio incontrando molti occhi curiosi, e molti altezzosi, che lo squadravano dall’alto in basso. Si guardò intorno chiedendosi dove fosse Charlotte Douglas, dato che – ovviamente – il suo armadietto confinava con quello di Harry.
Non ci mise molto a scoprirlo: «Guarda un po’ cosa ci porta il vento, carne fresca» commentò qualcuno e quando il ragazzo si voltò associò il viso alle foto che aveva visto di lei, la figlia di Douglas era proprio di fronte a lui.
Alzò un sopracciglio «Ce l’hai con me?» chiese. La ragazza annuì e le altre due dietro di lei ridacchiarono, osservandole meglio Harry si accorse che avevano le divise identiche, erano cheerleader.
«Sei nuovo non è vero?» domandò ancora Charlotte sfacciata, lui fece sì con la testa e lei gli rivolse un sorriso abbagliante, aveva i capelli biondi raccolti in una coda alta sopra la testa.
«Molto piacere, io sono Harry Styles» le porse la mano ricambiando il sorriso, per lo meno era gentile e simpatica.
«Charlotte Douglas, ma per gli amici Charlie» rispose lei con uno strano luccichio malizioso negli occhi azzurri dalle lunghe ciglia.
«Charlie» ripeté lui.
«Ho detto per gli amici, questo non implica che tu lo sia» ribatté lei e le sue amiche scoppiarono a ridere osservando la reazione sconvolta di Harry rimasto senza parole, aveva parlato troppo in fretta.
«Ma…» lei non gli lasciò nemmeno il tempo di mettere insieme una frase che divertita si allontanò lungo il corridoio con le altre due al seguito.
Il ragazzo rimase a fissala interdetto e poi lentamente si accigliò «Non te la prendere amico, fa così con tutti. È solo una stronza viziata» commentò un ragazzo affiancandolo, Harry si voltò a guardarlo pienamente d’accordo con lui. Aveva un accenno evidente di barba scura, i capelli neri e gli occhi castano chiaro.
«Zayn» allungò una mano, ma lui lo guardò diffidente facendolo ridere «sta tranquillo, non sono tutti come lei qui dentro. Fidati!» l’altro gli fece l’occhiolino, allora riluttante lui gli strinse la mano.
«Harry»
«Allora Harry, conosci qualcuno in questa scuola?» lui scosse la testa cercando di valutare quel Zayn, sembrava a posto. Ma le apparenze ingannano sempre, l’aveva scoperto nel corso del tempo con il lavoro che faceva e un attimo prima con la figlia di Douglas.
«Adesso conosci me» gli strizzò nuovamente l’occhio e fece un sorriso incoraggiante «vieni, ti faccio fare un giro» disse poi infilandosi le mani nel giubbotto nero di pelle e avviandosi dalla parte opposta.

«È stata fantastica con quello nuovo prima» Elena riprese a ridere e Caroline la seguì a ruota.
«Avreste dovuto vedere la sua faccia!» aggiunse la seconda, il resto delle cheerleader si lasciò andare in sorrisi e risatine false più delle prime due.
«Scegliamo bene il nostro capitano dopo tutto, complimenti hai passato l’esame capo!» Brittany le batté il cinque prima che la campanella suonasse distraendole dalla solita riunione mattutina negli spogliatoi.
Le ragazze si divisero ed Elena e Charlie rimasero da sole «però quel ragazzo non era male» commentò la prima mentre la seconda era intenta a specchiarsi risistemandosi la coda.
«Mmh… tu dici? Ma non l’hai visto, sembrava uno straccione! Quella maglietta bianca poi è del tutto fuori moda, era di tendenza più tre anni fa forse… con un bel visino non ci fai niente, ricordalo sempre» commentò e l’altra annuì con troppa enfasi forse per mascherare il fatto che in realtà la pensava in modo diverso.
«Giusto, hai ragione!» l’assecondò appunto.
«Che abbiamo alla prima ora?» domandò Charlie mettendosi del lucidalabbra con cura senza preoccuparsi di fare tardi a lezione.
«Letteratura» le ricordò Elena e lei fece un verso tra il disgustato e lo scocciato. Uscì dallo spogliatoio lasciando che la sua amica portasse anche il suo libro, era il nuovo acquisto della squadra, doveva meritarsi il posto se voleva continuare a tenerselo.
Quando entrò in classe la professoressa Jenkins aveva già cominciato la lezione e quindi – come al solito – le rivolse un’occhiataccia «Ma bene, vedo che la signorina Douglas ci ha degnato della sua presenza. Prego si accomodi pure con calma, faccia come se fosse a casa sua, ha tutto il tempo del mondo» l’accolse sarcastica.
«Per la verità professoressa Jenkins» cominciò prendendo posto al solito banco «questo posto è come se fosse un po’ casa mia, dopotutto mio padre finanzia questa scuola se non sbaglio» concluse soddisfatta guardandosi le unghie lucide e accuratamente smaltate.
Il viso della Jenkins diventò paonazzo e la solita vena che le si gonfiava sulla fronte quando perdeva le staffe apparve evidente e minacciosa, ma non disse nulla. Non serviva a niente discutere con Charlotte Douglas, lei era la reginetta indiscussa della scuola, e non solo al ballo. Era inutile spedirla dal preside perché tanto, come aveva detto lei, suo padre finanziava quella scuola e nessuno poteva farle niente, nemmeno metterla in punizione; e lei lo sapeva bene, ne approfittava perfino.
Quando la professoressa riprese il controllo di se stessa tornò a rivolgersi alla classe con un sorriso mesto anche se dentro di lei ribolliva di rabbia «Non vi ho ancora presentato il nostro nuovo studente, ragazzi» la donna si raddrizzò gli occhiali sul naso e indicò un punto non molto lontano da Charlie, e quando la ragazza si voltò si accorse che era proprio lo straccione di cui si era presa gioco poco prima.
«Suvvia non essere timido, presentati alla classe» lo incoraggiò la professoressa, e lui si alzò in tutto il suo metro e ottanta facendo stridere la sedia sul pavimento.
«Salve» disse imbarazzato e la classe ridacchiò, lui si grattò la nuca «mi chiamo Harry Styles e…vengo da Manhattan, New York» aggiunse per poi risedersi alla svelta.
«È un vero piacere averti fra noi Harry, dopo ti stilerò una scaletta di ciò che abbiamo fatto fino ad ora per metterti in pari col programma» gli annunciò la professoressa e lui annuì semplicemente, per poi incrociare lo sguardo di Charlie e alzare un sopracciglio.
Benché avesse promesso a sua madre di non agire d’impulso questa volta non riuscì proprio a trattenersi – tanto non sarebbe morto nessuno, tantomeno lui. Anzi, avrebbe ottenuto la sua piccola rivincita – e le mostrò il medio con un sorriso di sfida che gli increspò le labbra.


*capitolo scritto da Anna. 


~Note. 
Helloo! Dunque, innanzi tutto vogliamo dire ancora mille grazie a tutti voi che leggete questa storia, che l'avete inserita tra le preferite e/o le seguite. Siamo molto soddisfatte dall'andamento che sta prendendo, soprattutto perché siamo ancora al secondo capitolo! (: Qui cominciamo a vedere qual è la missione di Harry, e per la prima volta conosciamo il personaggio di Charlie! Dite un po', corrispondeva alle vostre aspettative? Secondo noi no! ahahah (: 
Ad ogni modo se voleste contattarci, anche per essere aggiornati ogni volta che postiamo, ecco i nostri account twitter:
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).

Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, se sì lasciate qualche recensione se vi va grazie ancora, a presto con il prossimo capitolo! Un bacio. - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Giocare col fuoco ***




Giocare col fuoco.

Il frastuono delle voci era assordante. Gli schiamazzi, le urla, i rumori agghiaccianti di oggetti che sbattevano l'uno contro l'altro, la gente che si spingeva...
Era l'inferno quello, o la mensa scolastica? Harry sbuffò, mentre avanzava con cautela in quell'enorme sala in cui il caos regnava sovrano. Si voltò da una parte, ed il suo sguardo fu catturato da un gruppo di ragazzi che per gioco si tiravano del cibo a vicenda. Il ragazzo assunse un'espressione indignata, per poi soffermarsi ad osservare un altro gruppo di persone che schiamazzava a voce alta.
Sembravano tanti animali. Starnazzavano, si gettavano il cibo addosso, si davano spintoni anche solo per salutarsi. Erano quelli i suoi coetanei? Se fosse stato un ragazzo normale, sarebbe arrivato a diventare uno di loro?
Anche volendo, si disse Harry, non sarebbe mai riuscito a sembrare come la gente che lo attorniava in quel momento. Lui era cresciuto tra i sussurri, in un luogo dove le parole avevano una valenza particolare, dove si imparava a riflettere prima di agire; dove uno sparo è uno sparo e un pugno è un pugno, dove nessuno oserebbe metterti le mani addosso "per scherzo". Aveva passato l'infanzia con persone che avevano ben più del doppio dei suoi anni, non aveva idea di come comportarsi ora, fra coetanei. Aveva presto scoperto che "quelli della sua età" erano completamente diversi da lui e questo gli dava preoccupazioni perché, più del fatto che si sentisse un pesce fuor d'acqua, in questo modo era difficile passare inosservato; e di lì al perdere la copertura il passo era breve.
Il ragazzo si guardò intorno in cerca di quella stronza biondina che avrebbe dovuto proteggere ma, malgrado la sua vista fosse impeccabile, era davvero impossibile riuscire a distinguere qualcuno in quella caotica massa di persone.
Mentre ancora si guardava intorno, confuso e spaesato, fu distratto da una mano che veniva sventolata proprio nel suo campo visivo: si accorse che era Zayn, il ragazzo che aveva conosciuto il giorno precedente. Era seduto con due suoi amici, e sembravano consumare il pranzo in tutta tranquillità. Il moro gli stava facendo segno di avvicinarsi. Anche se di malavoglia, Harry si costrinse a raggiungerli: magari loro sapevano dove si trovava Charlie, in caso contrario li avrebbe scaricati con la prima scusa che gli sarebbe venuta in mente.
«Ehi, ragazzo nuovo!», fece Zayn sorridendogli cordiale.
«Ehi», rispose Harry ricambiando quel sorriso con fare un po' tentennante. Il giorno prima il ragazzo era stato molto gentile con lui: gli aveva mostrato i luoghi più frequentati della scuola – poco importava che Harry ne conoscesse già tutta la planimetria a memoria – e l'aveva anche invitato a pranzare con lui. Ad Harry Zayn sembra simpatico ed avrebbe voluto davvero fermarsi a pranzo con lui ed i suoi amici, ma il dovere veniva sempre prima: e si dava il caso che quella simpaticona di Charlie avesse avuto delle prove extra con le cheerleaders il giorno prima, proprio durante l'ora di pranzo; per cui Harry aveva dovuto declinare l'invito di Zayn, o meglio, dargli buca.
«Che fine avevi fatto ieri?», domandò quest'ultimo, mentre indicava una sedia vuota accanto a lui, che Harry si decise ad occupare.
«Ho avuto dei problemi con l'orario. Quell'idiota della segretaria mi ha tenuto per tre quarti d'ora lì dentro perché non riusciva a far funzionare la stampante», mentì spudoratamente, ma con estrema prontezza. Se volevi lavorare alla C.I.A. dovevi essere un bravo bugiardo, capace di mettere in piedi scuse credibili in meno di qualche istante.
Zayn annuì comprensivo, poi si rivolse ai due suoi amici che gli sedevano accanto. «Ragazzi, lui è Harry, il ragazzo nuovo. Viene da Manhattan», spiegò. Poi si rivolse al riccio: «Loro due sono Niall», e qui indicò il biondino dalla bocca piena e che portava un cappellino verde con visiera, «e Liam», un ragazzo dall'espressione seria ed i capelli color castano chiaro. Entrambi gli sorrisero con fare cortese.
«Piacere», fece Harry accennando un sorriso, per poi continuare a guardarsi intorno freneticamente. Dove diavolo era Charlie? Non aveva prove quel giorno, sarebbe dovuta essere in mensa.
«Ieri l'ho salvato dalle grinfie della Douglas», ridacchiò Zayn rivolto ad i suoi compagni, che sorrisero divertiti e scossero la testa, come a mostrare compassione nei confronti di quel povero ragazzo nuovo che non aveva ancora capito i meccanismi della scuola.
«Sta' tranquillo, è stronza con tutti, quella», gli assicurò Niall con una scrollata di spalle, mentre masticava qualcosa.
«Me ne sono accorto», mormorò distrattamente Harry, che nel frattempo passava nuovamente in rassegna i tavoli con lo sguardo. Improvvisamente fu catturato dalla vista di due ragazze con indosso la divisa da cheerleader e... bingo! Accanto a loro c'era Charlie, tra le braccia di un ragazzo di cui Harry riusciva a vedere solo la nuca, perché di spalle. Il riccio inarcò un sopracciglio: perché non era stato informato del fatto che Charlie avesse un ragazzo?
«È fidanzata?», domandò a Zayn, forse con un po' troppo interesse, perché quest'ultimo scoppiò a ridere.
«Non mi dire che vuoi provarci, amico!», fece con gli occhi sgranati ed un enorme sorriso di scherno in volto.
«No... no», chiarì subito lui scuotendo più volte la testa e grattandosi la nuca, «mi chiedevo piuttosto quale idiota potrebbe mai volerle stare dietro», disse e si costrinse a ridacchiare. Zayn, Liam e Niall sorrisero ed annuirono, mostrandosi d'accordo.
«Si chiama Matt Standford. E sì, è un deficente di prima categoria. Ma da questo punto di vista direi che stanno bene insieme», affermò Liam mentre Harry osservava i due, intenti a mangiarsi la faccia a vicenda.
«Se non questo è amore...», commentò con fare sarcastico ed un'espressione schifata, e gli altri risero.
«Comunque non stanno davvero insieme», puntualizzò Niall, «Cioè sì, stanno insieme, ma hanno una sorta di relazione aperta».
«Vuoi dire che stanno insieme ma entrambi possono scoparsi chi altri vogliono senza farsi problemi?», fece Harry.
Niall annuì prontamente. «Esatto. Sono più... indefinibili», spiegò, e l'altro fece un cenno d'assenso.
«Beh, che siano fidanzati, indefinibili o in una relazione aperta... a me fanno comunque schifo entrambi, anche come singoli», osservò Zayn ed Harry, dal canto suo, non poté far altro che assentire, almeno per quanto riguardava Charlie; ma era più che certo che quel Matt fosse fatto della stessa pasta.
«Lasciando perdere questo», fece Zayn di punto in bianco, «ci sarebbe una festa sabato prossimo. Anche se è a casa di quel pallone gonfiato di Standford... io, Liam e Niall ci andiamo. Sei dei nostri?», chiese.
Una festa a casa del ragazzo di Charlie? Harry si mostrò pensieroso per qualche istante. Poi decise di assumere un'aria scocciata: «Ci sarà anche quella rompipalle bionda?», chiese, mascherando alla perfezione il vero scopo di quella sua domanda.
Niall scoppiò a ridere. «Proprio non la reggi, eh?». Harry si strinse nelle spalle.
«Sì, ci sarà purtroppo», fece a quel punto Liam. Perfetto, pensò il ragazzo.
«Va beh, non importa. Sarò felice di venirci con voi», si affrettò a dire per sviare l'argomento, da un lato ancora incredulo per il fatto che qualche ragazzo normale lo avesse davvero appena invitato ad una festa. Scrollò subito via quel pensiero: lui era in missione, stava lavorando. E si dava il caso che avesse appena trovato un alibi perfetto per sorvegliare Charlie sabato sera, non un modo per farsi degli amici.
«Comunque amico, sul serio, non ci fare caso. La Douglas sarà una stronza di prima categoria e tutto quello che vuoi, ma se stai lontano dal suo tappeto rosso lei non ti dà fastidio», lo rassicurò Zayn sollevando le spalle. «Basta ignorarla. E lei ignora te».
Harry annuì, prima di sospirare impercettibilmente. Ignorarla. Fosse stato così facile.

Al suono dell'ultima campanella, tutti gli studenti schizzavano fuori dall'edificio scolastico come se fosse appena stata scagliata una bomba puzzolente all'interno, o si fosse scatenata un'epidemia di peste. Ciò provocava un orribile ingorgo alla porta principale, e che impiegava almeno cinque minuti buoni per sciogliersi del tutto. Harry aveva deciso che, tra tutte le cose orribili del liceo, l'uscita era di gran lunga la peggiore. Si sentiva soffocare, tra gente che spintonava e tirava, e doveva fare appello ad una forza sovraumana per poter reprimere l'istinto di prendere la pistola che teneva nella tasca nascosta della sua felpa e sparare in aria, giusto per far allontanare tutti quelli intorno a lui in un batter d'occhio. Non era claustrofobico o altro, ma semplicemente non sopportava la folla che si accalcava. Il giorno precedente aveva rischiato di stendere al suolo un povero quindicenne che, cadendo perché spinto da qualcun altro dietro, si era appoggiato al suo braccio.
Fosse stato per Harry, avrebbe aspettato all'interno della scuola che le acque si calmassero, per poi uscire più tardi in tutta tranquillità: ma non era certo lui a decidere delle sue azioni, bensì Charlie, la quale, non si sapeva come, all'uscita diventava capo di quella mandria di bisonti, riuscendo così ad uscire per prima, totalmente illesa. Vero era anche che ogni dove lei passasse si apriva una sorta di varco di persone, cosa che Harry trovava estremamente ridicola.
Quando finalmente riuscì a liberarsi da quel labirinto di gente, raggiunse un albero e vi si appoggiò casualmente al tronco con la schiena e la pianta di un piede, mentre incrociava le braccia al petto con disinvoltura. Normalmente avrebbe raggiunto la sua macchina subito, ma stavolta rimase a fissare da lontano Charlie che amoreggiava pubblicamente con il suo Matt.
Non voleva fare lo stalker né tanto meno provava piacere nel vedere quei due slinguazzarsi, ma sapeva che era proprio Charlie a voler parlare con lui.
«Avresti dovuto vederlo, Caroline! Mi ha fatto il dito medio. A me! Capito? A me!», aveva gridato al telefono Charlie seduta sul suo letto, la sera prima.
Harry, dal canto suo, appostato di nascosto sul balcone della camera di lei, non aveva alcuna intenzione di origliare le sue conversazioni private; ma era stata lei ad aver urlato, e a quel punto Harry non poteva ignorarlo.
«Che razza di deficente! Ma ti rendi conto?», la voce della ragazza si era arrestata per qualche istante, mentre Harry si era trovato costretto a coprirsi la bocca con una mano, per via delle risate che rischiavano di farlo scoprire. «No, ma lui non ha capito con chi ha a che fare, evidentemente», e qui aveva ridacchiato, sadica. «Se continua così gli rovinerò la vita. Non mi ci vuole proprio nulla a farlo espellere, sai? Mi basta fare una chiacchieratina con mio padre». Il suo tono altezzoso, e terribilmente... cattivo, aveva creato un'espressione di disgusto sul volto di Harry. Davvero quella piccola principessa presuntuosa sarebbe stata capace di fare una cosa del genere ad una persona?
«Tuo padre può solo ringraziarmi per quello che sto facendo, dolcezza», le aveva risposto sottovoce Harry tra sé e sé, mentre osservava il profilo di lei agitare le braccia e sbraitare al cellulare, dalla fessura che la tenda della sua stanza creava.
«Oh, non m'importa. Domani gli andrò a parlare alla fine della scuola. Devo solo fargli capire contro chi si è messo e chi è che comanda. Lo rimetterò in riga».
Rimettermi in riga?, aveva pensato Harry, schifato. Era lei a non aver capito contro chi si era messa perché, se lui conosceva praticamente ogni minimo dettaglio della sua quotidianità, dal suo numero di scarpe ai cereali che mangiava a colazione, lei non aveva la più pallida idea di chi fosse lui e del ruolo che stesse svolgendo nella sua vita adesso.
Il flashback ed i pensieri di Harry furono interrotti dallo squillo del cellulare, che vibrava impaziente nella sua tasca. Quando vide il numero impresso sullo schermo sospirò leggermente e roteò gli occhi al cielo. Poi rispose alla chiamata e portò il cellulare all'orecchio.
«Non hai niente di meglio da fare che chiamarmi mentre sono in servizio eh, Tomlinson?», fece il riccio fingendosi scocciato, eppure un lieve sorriso divertito era apparso sul suo volto, dando vita a due fossette da bambino sulle guance.
L'interlocutore rispose con la sua solita risata cristallina. «Che posso fare se sei sempre in servizio?», ed effettivamente aveva ragione. Negli ultimi due mesi aveva dovuto risolvere ben quattro faccende, ed i giorni in cui era stato a Manhattan non potevano essere più di una decina. Lui ed il suo migliore amico Louis non si vedevano da un'eternità.
Harry sospirò. «Quindi tu non stai lavorando?», domandò.
Louis, dall'altra parte della cornetta, fece uno schiocco con la lingua. «Sono tornato l'altro ieri da Milano, ho due settimane di riposo prima di quel convegno di cui ti avevo parlato, in Sud Africa. Tutto inutile: tu non ci sei e mia madre sta cercando dei dati top secret su non so quale uomo di stato a Tokyo. Mi ritrovo a passare le mie vacanze in centrale, ad addestrare marmocchi al posto di Bill. E' frustrante, capisci?»
Harry ridacchiò. «Dovresti cominciare a cercarti una ragazza, amico», scherzò.
«Certo... Con il lavoro che faccio, non durerebbe neanche due giorni».
Il riccio sospirò: lui lo sapeva bene.
Anche la madre di Louis era un'agente della C.I.A. e, oltre a lei ed Harry, Louis non aveva poi così tante persone con cui passare il suo tempo, al di fuori della centrale di lavoro. Ma era così un po' per tutti: Harry, per esempio, non aveva amici fuorché Louis e pochi altri ragazzi più o meno grandi, agenti al distretto di New York. Le relazioni, poi, erano la cosa più difficile. Come fai a stare con una ragazza quando sei due giorni a casa e due mesi in giro per il mondo, per di più in missioni suicide? Non era così facile neanche la comunicazione a volte, e spesso ad Harry capitava che non sentisse sua madre per settimane. Era tutto troppo imprevedibile per riuscire a mantenere i rapporti con le persone. Figuriamoci poi con chi non poteva venire a conoscenza del loro lavoro! Perché, ovviamente, solo le rispettive famiglie potevano saperlo, e basta.
«Piuttosto, come va scolaretto?», riprese a parlare Louis, con voce intrisa di puro sarcasmo.
Harry strabuzzò gli occhi. «Chi te l'ha detto?», sbuffò scocciato, roteando gli occhi al cielo.
«Bill», fece l'altro prima di scoppiare a ridere. «Sei finito in un liceo, che sfigato!», continuò tra una risata e l'altra.
«Ah. Ah. Ah. Hai finito di sfottere? Vai ad insegnare ai bimbi di dodici anni come si tiene in mano una calibro 6, mentre io proteggo una ragazza vittima di minacce di rapimento».
«E che fai, la inviti al ballo?», Louis riprese a ridere più forte, sembrava fin troppo divertito da tutto ciò.
«Idiota», fece Harry. «Magari fosse così facile! Mi è capitata una stronzetta che si crede la reginetta della scuola. Patetico», commentò, mentre osservava Charlie ed il suo ragazzo che finalmente si congedavano con un ultimo, lungo e disgustoso bacio.
«Louis, ti devo lasciare», dichiarò Harry, prima che quello potesse rispondere.
«Ciao amico, ci sentiamo», fece il ragazzo dall'altra parte della cornetta, e simultaneamente riattaccarono la chiamata.
In quello stesso istante, una volta sollevato lo sguardo di nuovo, Harry vide Charlie camminare nella sua direzione, con fare altezzoso e superbo. Si arrestò a circa un metro da lui, fissandolo in tralice, come se si aspettasse che fosse lui il primo a parlare. Come se si aspettasse delle scuse.
Harry non disse nulla: sostenne il suo sguardo con atteggiamento di sfida, ed aspettò.
«Harry Styles», pronunciò lei quasi solennemente, probabilmente aspettandosi una reazione sorpresa di fronte al fatto che conosceva il suo cognome. Harry sorrise con fare beffardo di fronte alla sua sicurezza.
«Dimmi», rispose comunque, rivolgendole un falsissimo sorriso a trentadue denti.
«Ti va di fare lo spiritoso?», lo sfidò lei, inarcando un sopracciglio. Ridacchiò con fare isterico, in un modo che ad Harry apparve fin troppo inquietante. «Forse non hai ancora capito come funzionano le cose in questa scuola».
Harry incrociò le braccia al petto sostenendo il suo sguardo. «Illuminami», fece con arroganza.
«Non ti conviene avermi come nemico, sai? Primo, nessuno si mette contro di me. Secondo, chi si mette contro di me fa una brutta fine».
«Terzo, non me ne frega un cazzo», concluse Harry con un sorrisino stronzo.
La ragazza lo fulminò con lo sguardo. «Tu lo sai chi sono io?», lo provocò.
«Charlotte Douglas», fece lui, e avrebbe potuto aggiungere tante di quelle cose che sapeva sul suo conto da farle venire i brividi; gli dispiaceva non poter parlare.
«Sono la figlia di Robert Douglas. Mio padre finanzia questo posto. Hai sentito ieri, no? La scuola è mia. Mia, hai capito?».
Harry rispose con una sonora risata di scherno che non fece altro che far imbestialire ancor di più la ragazza.
«Posso farti espellere da scuola quando voglio, ricordalo. Portami rispetto», gracchiò ancora Charlie.
Harry sbuffò sonoramente. «Mi dispiace, ma io non porto rispetto alle oche vanitose». Il ragazzo in quel momento avrebbe giurato di vedere del fumo fuoriuscire dalle orecchie e dal naso della bionda.
«Non ti hanno insegnato che non si gioca con il fuoco, Styles?».
Quest'ultimo le rivolse un verso di scherno. «Fidati, me l'hanno insegnato eccome», fece in un terribile tono di sfida. «C'è altro o posso andare, Miss Stronzetta 2013?».
Charlie lo fulminò e strinse i denti. «Vedrai, Harry Styles. Vedrai cosa ti aspetta». E detto questo la biondina fece dietro front, per poi dirigersi verso la sua automobile.
Il riccio la osservò allontanarsi, prima di prendere la sua Audi R8, pronto a seguirla nuovamente. Tra tutte le ragazze del mondo da poter proteggere, doveva capitargli proprio una principessina convinta? Harry sospirò. Ora lo sapeva per certo: se non avessero provveduto quelli del The Game, avrebbe pensato lui stesso a far fuori Charlie Douglas.
 

*capitolo scritto da Carla. 


~Note. 
Salve gente! Per prima cosa: grazie a tutti coloro che seguono/preferiscono/recensiscono e via dicendo, siete davvero carinissimi! <3 Come seconda cosa, abbiamo visto che nessuno di voi si aspettava una protagonista femminile con un carattere del genere! ahaha :D Di questo siamo contente, perché eravamo certe che la nostra Charlie vi avrebbe stupiti. E forse adesso anche voi la odierete almeno quanto la odia Harry ma è fisiologico, presto vedremo come si svilupperanno le cose.
Il prossimo capitolo è parecchio interessante, vi avvertiamo. Speriamo di mantenere questa velocità di aggiornamento - un capitolo alla settimana, dovrebbe andare bene! Voi continuate a recensire e a farci sapere che ne pensate (:  
Questi sono i nostri account twitter:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).

Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Game Over ***




Game Over.

«Cristo Elena, aiutami!» piagnucolò Charlie dinnanzi alla sua sontuosa cabina armadio che traboccava di ogni genere di vestiti. E lei non sapeva cosa mettersi.
«Quello rosso è molto carino» biascicò la ragazza intimidita, lei la fulminò con lo sguardo.
«Non mi basta essere carina! Devo far crepare d’invidia tutte, soprattutto Caroline. Crede che non lo sappia che mi parla alle spalle? E anche tu!» la povera Elena rimpicciolì sotto quell’accusa arrossendo fino alla punta dei capelli scuri.
«Questo non è vero!» protestò. Era un’insinuazione falsa, non che amasse il modo in cui la trattava la bionda, ma lei non era quel tipo di persona.
«Oh lascia perdere, non importa!» sbottò Charlie immergendosi nuovamente nel suo “armadio”, tanto per fare un eufemismo.
«Io l’ammazzo. Giuro che l’ammazzo, a lei e pure l’amica!» sbraitò Harry sottovoce mentre percorreva il tetto dell’enorme villa dei Douglas a grandi passi con le mani affondate nelle tasche dei jeans. Quanto tempo ci vuole per scegliere uno stramaledettissimo vestito?
«Harry? Va tutto bene?» il ragazzo si voltò di scatto incontrando gli occhi altrettanto chiari di Bill vagamente confusi, sbuffò sfacciatamente evidenziando il suo disappunto.
«Se escludi il fatto che vorrei strangolare la ragazza che dovrei proteggere, che il liceo sembra una gabbia di matti, che sto per andare ad una festa dove ci sono ragazzi… normali» fece una smorfia «e che non ho uno straccio di conversazione con cui intrattenerli e dubito che di armi sappiano qualcosa, allora sì. Va tutto bene, cristallino» concluse sarcastico.
Bill incurvò lentamente le labbra in un sorriso e poi senza riuscire più a trattenersi scoppiò in una fragorosa risata «dovresti vedere la tua faccia, ragazzo mio» il diretto interessato si accigliò.
«Fantastico aggiungiamo anche la beffa al danno» borbottò aspettando che l’ilarità dell’uomo scemasse lentamente.
Alla fine Bill sospirò «Allora, andiamo per gradi. Charlotte non deve essere così terribile, non dare giudizi affrettati! Suo padre è un brav’uomo e sua madre è molto dolce e gentile» questa volta toccò ad Harry ridere, ma a differenza sua senza alcuna traccia di divertimento.
«Allora è stata adottata, è l’unica spiegazione. Perchè è una vipera! Viziata e piena di sé, e non c’è niente di affrettato in questo, Bill» l’uomo aggrottò la fronte.
«E che cosa vorresti fare adesso, rinunciare alla missione? Fammi finire!» lo ammonì mettendo a tacere le sue proteste «Quella ragazza fin da bambina è stata trattata come una principessa, suo padre le ha messo il mondo ai suoi piedi. Puoi biasimarla se si comporta così? C’è chi è più fortunato di altri, Harry.» gli mise una mano sulla spalla come se volesse confortarlo «E comunque sia quando questa faccenda sarà conclusa tornerai a Manhattan e non la rivedrai mai più, sei qui solo per lavoro. Non perdere di vista le cose importanti, non lasciarti travolgere dagli eventi» il ragazzo annuì rassegnato, aveva ragione.
«E non autocommiserarti, tu sei normale. Sono certo che ci sono un sacco di argomenti di cui potete parlare, ma come ti ho detto non perdere…»
«Di vista le cose importanti, si ho capito.» concluse alla svelta alzando gli occhi al cielo, come se fosse facile stare dietro a una principessa megalomane, cercare di sembrare normale e contemporaneamente stare sull’attenti e prepararsi ad affrontare qualche pazzo mascherato con una perversa e malsana idea di gioco.
“Una bazzecola…” pensò sarcastico.
«Bill, il signor Douglas e la sua signora sono pronti per andare.» Andrew apparve sulla porta del terrazzo, l’altro annuì e scoccò un’ennesima occhiata truce ad Harry.
Il ragazzo prese un profondo respiro liberatore, salì sul parapetto e si lanciò di sotto nel vuoto. Cadendo afferrò prontamente il ramo di uno dei maestosi alberi che adornavano il grande parco che i proprietari chiamavano - per modo di dire - giardino, e si lasciò ondeggiare prima di atterrare sull’asfalto del vialetto in modo composto senza fare una piega. Si affrettò a girare l’angolo e salì a bordo della sua Audi R8 che spariva nella notte, in appostamento. Controllò l’orologio: 20.15 e da come si erano messe le cose non si sarebbe mosso di lì per almeno tre quarti d’ora.

Charlie era soddisfatta mentre si specchiava, alla fine aveva indossato un vestito blu cobalto in contrasto con la sua pelle chiara che lasciava scoperta la schiena, coperta poi dai suoi capelli biondi che ricadevano in soffici onde sinuose.
E aveva indossato le sue vertiginose scarpe col tacco in tinta con l’abito da 847 dollari - di cui andava molto fiera - prese la borsetta e scese le scale con la sua innata eleganza. Poi si rivolse ad Elena e quel tratto della sua natura sfumò lentamente.
«Guida tu, non mi va ti togliermi le scarpe» le ficcò con prepotenza le chiavi della sua decapottabile rosso fiammeggiante tra le mani - ignorando il fatto che la sua amica indossasse come lei scarpe altrettanto alte, e che quindi lei avrebbe dovuto togliersele - e si diresse fuori dalla porta facendo ondeggiare i capelli in maniera teatrale.
Salendo in auto osservò il suo riflesso nello specchietto retrovisore con ammirazione «Non vedo l’ora di vedere la reazione di Caroline, oh e di Matt» commentò con enfasi e un sorriso le increspò le labbra lucide.
«Li lascerai a bocca aperta» sorrise Elena senza però distogliere gli occhi dalla strada, lei non la giudicava, dopotutto era semplicemente fatta così. E poi se l’avesse fatto, sarebbe stata sbattuta fuori dalle cheerleader in quanto “nuova arrivata”. Charlie le ripeteva sempre che quel posto doveva meritarselo. 
La villa degli Standford non era certo grande e sontuosa come quella dei Douglas, diciamo che in linea di successione si poteva classificare come la seconda più grande del quartiere.
La ragazza scese con un sorrisetto appena accennato e si lisciò le pieghe quasi inesistenti del vestito, proprio quando una macchina nera e visibilmente costosa, anche più della sua, parcheggiò proprio lì di fianco. Charlie strabuzzò gli occhi che poi si infiammarono di rabbia quando Harry Styles discese dalla suddetta auto.
«Forse dovresti riportare la macchina a chi l’hai rubata prima che la polizia venga ad arresti, Styles» commentò perfida, lui alzò un sopracciglio.
«Forse dovresti tornartene da sola negli inferi prima che il diavolo in persona venga a cercarti, Douglas.» rispose per le rime lui.
Prima che Charlie potesse urlargli altro contro qualche altra cattiveria Elena la prese per un braccio «Non ne vale la pena, Matt ti sta aspettando» pensò bene di ricordarle.
Lui scosse la testa guardandola andare via e si trattenne dal lanciarle dietro qualcosa quando lei si voltò per mostrandogli il dito medio.
Harry non riusciva proprio a capire come potessero esistere persone come Charlotte Douglas e i ricconi che frequentava, erano tutti così impegnati a fare stronzate! Perché quelle erano solo stronzate.
Nel mondo succedevano un sacco di cose brutte, la gente moriva di fame e si suicidava per i debiti. E loro si preoccupavano di indossare abiti che costavano più di una casa.
Di cose ne accadevano molte anche sotto il suo naso, ma lei non riusciva a vedere niente al di là del suo riflesso: non riusciva a vedere quanto suo padre fosse in pena, non riusciva a vedere quanto sua madre fosse terrorizzata all’idea di perdere tutto quello che amava, e per di più non riusciva a guardarsi davvero.
Ah! Quanto avrebbe voluto inserire il codice del suo conto corrente - perché poteva - in un bancomat ed estrarre tutti i suoi soldi per poi gettarli in un fiume come fossero coriandoli, sarebbero stati sprecati in modo migliore.
Harry storse le labbra appoggiandosi ad una parete qualsiasi sperando di passare inosservato, era peggio che stare a scuola. Non era mai andato ad una festa, ovviamente, e ora sapeva di non essersi perso proprio niente. In quel salotto regnava il caos, la festa era cominciata solo da mezz’ora - o meglio, lui era arrivato da mezz’ora a causa di Charlie e le sue manie di protagonismo - e la metà degli invitati era già ubriaca. Per non parlare della scena disgustosa a cui aveva dovuto assistere: ossia un idiota del secondo anno che probabilmente non reggeva per niente all’alcol, aveva imbrattato il grande tappeto costoso che si stendeva sul pavimento della stanza col proprio vomito.
«Eccoti qua! Ma dov’eri finito?» gli urlò Liam spuntando all’improvviso, lui alzò le spalle.
«Ci ho messo un po’ per trovare la strada, mi sono perso un paio di volte» mentì con disinvoltura, qualcun altro gli batté una mano su una spalla.
«Dopo tutto è il ragazzo nuovo» lo giustificò Zayn con una risata «tieni» gli porse poi un bicchiere.
«Che cos’è?» domandò diffidente.
«Del semplice succo di frutta» lo informò Liam «corretto con della vodka» aggiunse poi con disapprovazione.
«Allora no, grazie» ribatté Harry, niente alcolici in servizio.
Zayn alzò gli occhi al cielo sospirando rassegnato «Anche tu?» scosse il capo «allora vado a prenderti una coca cola» sbuffò anche se vagamente divertito.
«Prendila anche a me già che ci sei!» gli urlò dietro Liam per sovrastare la musica, anche se non era certo che l’altro avesse sentito…
Sorseggiando la sua bibita analcolica Harry non staccò nemmeno per un attimo gli occhi da Charlie che ballava al centro della pista attirando tutta l’attenzione su di sé, e sembrava essere davvero a suo agio.
Per quanto stronza, antipatica, cattiva, rompiscatole e viziata potesse essere quella ragazza, Harry non poteva negare il fatto che fosse molto bella. Probabilmente in altre circostanze l’avrebbe presa a schiaffi, però in quel momento era così spensierata ed infantile da sembrare innocua e perfino carina, forse era ubriaca. Chi l’avrebbe riaccompagnata a casa? Ammesso che ci fosse tornata.
Un brivido di disgusto gli percosse la schiena all’idea che lei potesse rimanere a casa di Stanford a fare chissà che.
«Mmh… Harry, Harry, Harry» lo canzonò Liam accostandoglisi all’orecchio «conosco quello sguardo…» lui si voltò di scatto.
«Ma neanche per sogno, Liam non farti strane id…» d’un tratto la musica cessò, Charlie era sparita dalla pista e mentre Harry stava già pensando al peggio la sentì parlare: «Come osi rubarmi le idee!» la sua voce era più acuta del solito: si, era ubriaca.
Tutti, e quindi anche lui, si accalcarono attorno a lei che reggeva un bicchiere vuoto in una mano e il contenuto sembrava essere stato versato sul vestito di qualcun'altra, un vestito identico al suo.
Harry alzò gli occhi al cielo esasperato e poi anche le mani come se stesse implorando l’aiuto di qualche forza divina.
Diede una gomitata a qualcuno per farsi spazio «Io non ti ho rubato proprio niente» l’altra ragazza, la vittima, sembrava sull’orlo delle lacrime.
«Stai indossando uno straccio che somiglia al mio vestito, dove l’hai preso? In saldo?» fece un ghigno malefico, come se adesso comprare roba in saldo fosse qualcosa di cui vergognarsi, la madre di Harry lo faceva da una vita. «Tanto tutti sappiamo che non potresti mai permettertelo a prezzo pieno, tuo padre è sommerso dai debiti!» rise di gusto mentre l’altra ragazza scappò a rifugiarsi da qualche parte.
Il ragazzo scosse la testa indignato; poteva sopportare un sacco di cose, pure un pugno in faccia, ma certe prepotenze proprio non le reggeva «Complimenti» nonostante fosse fumante di rabbia persino lui fu sorpreso di sentire la sua voce, tutti si voltarono a guardarlo mettendolo a disagio ma continuò senza battere ciglio: «deve essere davvero soddisfacente umiliare qualcuno che è più debole di te, ti senti potente? Sei stata davvero fenomenale» sbottò con sarcasmo battendo le mani e l’applauso riecheggiò nel salotto immerso in un silenzio teso, nessuno si era mai permesso di parlarle in quel modo.
Lei alzò gli occhi al cielo «Fatti gli affari tuoi, Styles! Vai a piagnucolare dal tuo paparino» rise nuovamente.
«Mio padre è morto» sibilò lui e fu – anche se non nel medesimo momento – soddisfatto di averla messa a tacere.
Poi si voltò e uscì a grandi passi fuori dalla porta e raggiunse il parcheggio furioso, consapevole di essersi fatto trascinare dagli eventi: proprio come Bill gli aveva avvisato di non fare. Aveva voglia di urlare e prendere a calci qualcuno.
Non poteva andarsene ma non avrebbe sopportato di continuare a vedere lei e tutti quegli idioti stipati in quella stanza.
Si arrestò di colpo guardandosi intorno, qualcosa non quadrava: il cofano della decappottabile rossa di Charlie era aperto, e qualcuno ci armeggiava all’interno: dal suono sembrava che stesse sfregando qualcosa contro qualcos’altro.
«Che cazzo stai facendo?» sputò Harry tra i denti sorprendendo l’individuo alle spalle, era molto più basso ed esile di lui. L’altro sobbalzò ma prima che potesse fare qualsiasi mossa il ragazzo gli afferrò il braccio e glielo torse intrappolandoglielo dietro la schiena, quello mugugnò e solo allora Harry si accorse che indossava una maschera: il personaggio principale del monopoli, il vecchietto col cilindro e i baffi.
Ciò lo lasciò basito e bastò a distrarlo, la maschera approfittando della sua confusione si liberò dalla sua presa sferrandogli un calcio in uno stinco, Harry indietreggiò barcollando.
La maschera prese la rincorsa alzandosi da terra per sferrargli un cacio dritto in faccia, prontamente e con destrezza lui si spostò di lato e gli afferrò la caviglia scaraventandola per terra, da dove si rialzò quasi nello stesso momento. Si fronteggiarono, occhi verdi in occhi inespressivi e burloni.
La maschera attaccò nuovamente, Harry anticipò la sua mossa e si parò con un braccio sferrandogli un pugno con l’altro. Stordito l’individuo indietreggiò e lui ne approfittò per strappargli via la maschera, liberando una chioma nera e fluente: era una donna.
«Maledizione!» urlò «chi sei? Un spia o qualcosa del genere?!» sbottò.
«Sbagliato, sono l’esattore delle tasse scopri le tue carte o abbandonerai questa partita» ribatté Harry e lei sbiancò «che c’è? Posso giocare anche io a questo gioco.» approfittando del suo attimo di smarrimento le piombò addosso afferrandola per i capelli.
La donna si dimenò «lasciami andare ragazzino! Non sai quello che fai» Harry strinse di più il pugno sulla sua testa e lei gemette.
«So esattamente quello che sto facendo, avanti parla! Chi ti manda, chi è il tuo capo?!» sbraitò lui costringendola a rimanere ferma.
Lei rise cogliendolo di sorpresa «Non è così facile» disse ed estrasse qualcosa dal suo stivale nero: una siringa.
«Oh certo, anche all’allegro chirurgo è un gioco da tavolo» borbottò Harry non sapendo se esserne più irritato o esasperato.
Prima che gliela strappasse dalle mani lei parlò: «Ho perso, game over» con la traccia di un sorriso sinistro sul volto si impiantò la siringa all’altezza dello stomaco iniettandosi un liquido trasparente e denso.
«No!» riuscì solo a dire Harry sgomento.
“COSA…?!” mollò la presa e il corpo della donna cadde rovinosamente al suolo inerme.


*capitolo scritto da Anna. 



~Note. 
Hellooooo! Innanzi tutto scusate il ritardo, ma io (Carla) sono stata parecchio impegnata con la scuola in questo periodo, ma beh alla fine siamo riuscite a postare nonostante tutto (: Che vi avevamo detto? Questo capitolo è un po' una "svolta", ed il finale è una sorpresa sicuramente! Chi se lo aspettava che la signorina se la pensasse e si conficcasse quella siringa addosso? Ops. 
Comunque sia, abbiamo tanti ringraziamenti da fare: per prima cosa a tutte le persone che hanno aggiunto la storia tra le seguite/preferite/ricordate e tutti coloro che hanno recensito, siete adorabili! E inoltre vorremmo ringraziare per l'ennesima volta jas_ che ha messo il nostro banner in una delle sue fic, gentilissima davvero!
Probabilmente adesso il vostro odio verso Charlie sarà arrivato alle stelle ma, come abbiamo già detto, pazientate ancora un po' e vedrete come si svilupperanno le cose. 
Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, fateci sapere cosa ne pensate al riguardo, magari in una recensione o come volete voi :)
Questi sono i nostri account twitter:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna)

Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Un po' troppa fantasia ***




Un po' troppa fantasia.

Harry fece avanti e indietro un'ultima volta in quel tratto di parcheggio, per poi fermarsi nuovamente di fronte al corpo della donna che giaceva per terra, esanime. Era morta. Andata. Caput. Il ragazzo le aveva tastato più volte il polso per accertarsene, e aveva esaminato per bene quella siringa che si era iniettata addosso, che all'odore sembrava proprio veleno; tuttavia l'avrebbe inviata in centrale per farla esaminare per bene. Per il resto, aveva perquisito il corpo da ogni parte, ma non aveva trovato nulla: niente cellulare, cip infilato nell'orecchio per comunicare, nessun localizzatore. Sembrava proprio che chi l'aveva mandata fosse già a conoscenza del suo destino, tanto che l'aveva anche fornita di una rapida maniera per ammazzarsi senza dover rivelare i segreti di quel pazzo gioco suicida.
«Game Over», ripeté Harry in un sospiro angustiato, rigirandosi tra le mani quel bigliettino di carta gialla che aveva trovato sul parabrezza della macchina di Charlie.

Passi un turno e rimani bloccato sulla tua casella. Paga i soldi al banco prima che la tua principessina venga rinchiusa nel castello.
THE GAME.

Era chiaro come il sole, a questo punto, che i Giocatori puntavano a Charlie. Era sempre stata quella l'ipotesi più plausibile, infatti Harry sin da subito si era chiesto per quale motivo avessero dovuto mandare solo lui a proteggerla, senza affiancargli qualcun altro.
Sbuffò e scosse la testa velocemente: non era il momento di fare congetture, quello. Doveva riportare la stronzetta a casa il più presto possibile, prima che il The Game si accorgesse che la loro inviata era morta; o forse già lo sapevano e stavano preparando qualcos'altro per quella sera stessa.
Prima di tornare dentro diede un'occhiata ai motori della decappottabile rosso fiammante. Merda, pensò. La donna aveva fatto in tempo a manomettere i freni, e dovevano essere per forza sostituiti: non c'era il tempo. Harry diede un calcio alla ruota della macchina, esasperato.
«Styles! Che diavolo stai facendo?!», una voce stridula lo richiamò, e voltandosi Harry sospirò sollevato: Charlie avanzava verso di lui, barcollante sui suoi tacchi vertiginosi, con aria ben poco sobria, eppure furiosa. Almeno non sarebbe dovuto andarla a cercare di nuovo in mezzo a quella mischia di ubriachi. «Che cazzo stai facendo con la mia macchina, deficiente?!», ripeté quando gli fu più vicina.
Il ragazzo rimase a guardarla senza dire una parola, mentre cercava di macchinare una soluzione. La ragazza nel frattempo si sporse sui motori dell'automobile, e quando vide i freni manomessi sbottò: «Che cazzo hai fatto!». Sollevò una mano in aria ma Harry le afferrò il polso prima che le sue cinque dita potessero colpire la guancia di lui e lasciargli un sonoro schiaffo.
«Sei ubriaca», fece Harry incrociando gli occhi di lei, tanto spiritati quanto confusi.
«Brutto stronzo», sputò Charlie, e lui fu costretto a scostare la testa, colpito dal suo terribile alito che puzzava di alcool.
«Ubriaca fradicia», sentenziò infine il ragazzo con una smorfia schifata, e senza dire altro lo trascinò verso la sua macchina, continuando a tenerla per un polso.
«Lasciami stare, Styles!», gracchiò la bionda tentando di opporre resistenza, ma era tutto inutile perché primo, era ubriaca, e secondo, non sarebbe comunque riuscita a battere un agente della C.I.A.
Harry sbuffò. Era sicuro che, con quei tacchi che aveva ai piedi e con la lucidità che possedeva in quel momento, presto sarebbe caduta rovinosamente al suolo. Senza pensarci più di una volta la prese per la vita e se la caricò in spalla, ignorando le lamentele e i pugni che la bionda gli lasciava sulla schiena.
Con una mano aprì la portiera della sua Audi e adagiò la ragazza sul sedile del passeggero, per poi metterle la cintura di sicurezza.
«Fammi uscire!», si lamentò lei con una voce alquanto stridula, che ad Harry faceva venire tanta voglia di stenderla con un pugno. «Voglio tornare dentro dal mio Matt».
Il ragazzo strinse i pugni, per evitare di agire d'impulso e farle del male fisicamente. Perché doveva essere così odiosa?
«Fai silenzio», le intimò con un'occhiata assassina: l'ultima cosa che voleva era che "il ragazzo nuovo" fosse visto da qualcuno mentre caricava Charlotte Douglas in macchina durante una festa, per portarla chissà dove.
Lei lo guardò per un istante prima di prendere un grosso respiro e socchiudere le labbra, ma Harry fece in tempo a tapparle la bocca con una mano. «Non. Urlare. Chiaro?», le ordinò lui con un fare autoritario ed estremamente severo, tanto che la ragazza si limitò a guardarlo spaventata e ad annuire piano, come un cagnolino che ha appena ricevuto una bastonata. «Ti sto riportando a casa», la rassicurò a questo punto, prima di chiudere la portiera della macchina e prendere posto sul sedile del conducente.
«Sei uno stronzo, Styles», Charlie ridacchiò istericamente, facendo ciondolare la testa da una parte all'altra.
Harry inarcò un sopracciglio con le mani sul volante, mentre teneva d'occhio la notte scura che scorreva di fronte a lui. «Io sarei lo stronzo? Ma ti sei guardata allo specchio, Douglas?», non poté fare a meno di risponderle.
«Sì, e sono bellissima, non trovi?», sorrise osservandosi sullo specchietto retrovisore dell'auto. «Matt era impazzito, stasera. Ti odio! Avrei dovuto passare la notte a casa sua», piagnucolò incrociando le braccia al petto.
E grazie al cielo, pensò Harry tra sé e sé: non avrebbe sopportato di passare la nottata sul balcone della camera di Standford, a tenerla d'occhio mentre si dava alla pazza gioia con il suo ragazzo. Ripensò all'immagine del ragazzo, quella sera: era completamente partito, ed Harry era più che sicuro che non si trattasse solo di quei succhi di frutta corretti con del vodka.
Avrebbe dovuto far presente al signor Douglas, si disse, che sarebbe stato più probabile che la sua Charlie fosse morta per overdose di qualcosa ad una di queste feste, che rapita da quei psicopatici del The Game. Adesso era solo ubriaca, ma Harry durante la festa aveva visto circolare intorno a sé una quantità indicibile di eroina, cocaina ed ecstasy, neanche fossero caramelle. Aveva intravisto da lontano perfino Zayn farsi una canna. Sul serio i ragazzi della sua età si divertivano ubriacandosi e drogandosi in quel modo? Avevano la minima idea dei danni cerebrali che la droga poteva causare in loro? Per non parlare delle disfunzioni del fegato, collassi cardio-circolatori... i disturbi psicologici. Dal canto suo, Harry non avrebbe mai sopportato l'idea di danneggiarsi il cervello "per divertimento": e, nonostante anche a lui piacesse bere alcolici come chiunque altro, non si ubriacava mai, perché l'idea di perdere il controllo delle proprie facoltà mentali era inammissibile. Significava perdere se stesso: era questo che piaceva ai giovani, finire come Charlie, dire frasi sconnesse e non capire ciò che accadeva intorno a loro?
«Quella stronza di Susan Loyd aveva il mio vestito. Ma l'hai vista? Era orrenda! Per fortuna gliel'ho fatta pagare», prese a dire Charlie nel silenzio dell'abitacolo, immerso nella notte.
«Sei stata grandiosa, davvero», commentò Harry con indignazione ed un pungente sarcasmo nella voce. Era incredibile che fosse fiera di quello che aveva fatto; che non avesse sensi di colpa o rimorsi, che, dopo aver umiliato una persona più debole e fragile di lei, pensasse di aver fatto la cosa giusta. «Sei solo un'egoista viziata», sputò poi a bassa voce, senza distogliere lo sguardo dalla strada.
Fu sorpreso di non sentirla rispondere alla sua provocazione, e quando si voltò a guardare lei teneva gli occhi chiusi e, con la testa appoggiata da un lato, respirava regolarmente in un sonno profondo.

Charlie era furiosa. E confusa.
A dire il vero non sapeva esattamente con chi prendersela, se con se stessa, con Matt, con Elena oppure con quel deficiente di Harry Styles.
L'ultima cosa che ricordava con chiarezza della festa era di aver buttato del succo di frutta sul vestito di quella troia di Susan Loyd, e che poi Styles le aveva fatto una sorta di ramanzina davanti a tutti. Di lì in poi aveva cominciato a bere a più non posso, e tutti i ricordi della serata erano sbiaditi in un mucchio di flashback confusi e e sfocati. Si era svegliata nel suo letto il giorno dopo, non sapeva come: aveva ancora indosso il vestito della festa ma era senza scarpe e sotto le coperte, tutte le luci erano spente e la porta chiusa. Eppure l'ultima cosa che ricordava era una litigata con Styles nel parcheggio, perché lui, probabilmente per vendicarsi, le aveva manomesso i freni della macchina. Poi l'aveva presa in braccio e portata nella sua Audi, ma a quel punto Charlie non era del tutto sicura che si trattasse di un ricordo vero e proprio, oppure di una sua fantasia: non ricordava Styles che la riportava a casa e, cosa ancora più strana, la mattina dopo la sua macchina era nel vialetto, con i freni completamente a posto.
Eppure era sicura di non aver guidato lei. Che l'avesse accompagnata a casa Elena? Poco probabile, quella stronzetta si limitava ad obbedirle solo quando le ordinava qualcosa; mai che decidesse di farle un favore di sua spontanea volontà. E lei pretendeva di entrare nel gruppo delle cheerleader con quell'atteggiamento?
Matt era rimasto a casa e, non trovandola più in giro, aveva deciso di passare la notte con la prima troietta di turno. A Charlie questa cosa della relazione aperta non avrebbe dovuto dare fastidio, ma era davvero odiosa. Lui non ci aveva pensato due volte a sostituirla, giustificandoci con un semplice "Beh, tu non c'eri": e lei doveva starsene zitta e ingoiare la pillola, perché, effettivamente, non poteva dirgli proprio niente.
Con ciò, aveva passato il week-end più strano della sua vita. Suo padre, probabilmente per la prima volta dopo diciott'anni, le aveva categoricamente impedito di uscire. Si era giustificato dicendo che dovevano passare un bel week-end in famiglia. Chiusi in casa. A non far nulla.
Non aveva mai sentito niente di più strano, ma sospettava che, con il lavoro stressante che faceva, suo padre ogni tanto desse un po' di matto. Come in quei giorni: era sempre fin troppo stressato e preoccupato, quando andava a lavoro sembrava un'anima in pena e salutava lei e sua madre Eloise come se fosse l'ultima volta che le avesse viste e stesse andando al patibolo.
Neanche sua madre era stata in condizioni ottimali nelle ultime settimane: sempre terribilmente agitata e ansiosa, Charlie non riusciva quasi più neanche a fare una conversazione normale con lei.
Tuttavia la ragazza aveva cose più importanti a cui pensare.
«Allora, sabato sera tu e Matt avete fatto fuoco e fiamme, eh?», le disse Elena maliziosamente, dandole una lieve gomitata mentre attraversavano l'ampio corridoio della scuola, gremito di studenti.
«Sta' zitta», l'ammonì la ragazza, facendole intendere che non era dell'umore giusto. Voleva dimenticare quella serataccia. Era andato tutto per il verso storto: una ragazza le aveva copiato il vestito, Styles l'aveva insultata davanti a tutti senza che lei facesse in tempo a rispondergli, non era riuscita a passare la nottata con Matt e per di più si era ubriacata troppo da poter ricordare i dettagli, e potersela prendere effettivamente con qualcuno.
«Susan Loyd l'altra sera è scoppiata a piangere in bagno», ritentò poco dopo Elena, mentre si affaccendava a sistemare i libri nell'armadietto di Charlie, e la ragazza la stava a guardare a braccia conserte, appoggiata con la schiena alla fila degli armadietti. «Ben fatto», aggiunse la moretta porgendole il lucidalabbra e reggendole lo specchietto davanti al viso.
«Ben le sta. Così impara a comprare i vestiti in saldo e provare a copiarmi il look», commentò la biondina mentre si ritoccava il trucco.
In quello stesso momento una figura si avvicinò a loro e tossicchiò sonoramente.
«Che vuoi?», fece Charlie scocciata, lanciando un'occhiataccia al viso sereno di Harry Styles.
Lui la indicò con un cenno della testa. «Sei appoggiata al mio armadietto», le fece notare semplicemente.
«E allora?».
«E allora spostati».
«Ma neanche per sogno». Charlie chiuse il tappo del suo lucidalabbra e lo porse nuovamente ad Elena, che lo ripose accuratamente nell'armadietto di lei. Harry osservò la scena con un'espressione che vagava tra lo sconcertato e lo schifato. «Ti devo parlare, Harry Styles», annunciò poi, e lanciò un'occhiata eloquente alla sua amica, questa rispose con una interrogativa. Charlie sbuffò e roteò gli occhi al cielo, prima di dire chiaramente: «Elena, vattene». La ragazza arrossì di colpo ed annuì obbediente; poi si allontanò quasi di corsa senza aggiungere altro.
«Allora, che cosa vuoi?», fece Styles annoiato, incrociando le braccia al petto e fissandola dall'alto del suo metro e ottanta.
«Lo sai benissimo», sputò lei, e alla sua espressione confusa continuò: «sabato sera mi hai manomesso la macchina».
Harry corrugò la fronte, sorpreso. «Ma che stai dicendo?».
«Dopo che ho versato il bicchiere addosso a Susan, tu sei uscito fuori e mi hai rotto i freni dell'auto», fece lei sicura.
L'altro scoppiò a ridere. «Ma scherzi?».
Charlie scosse la testa: «No, me lo ricordo! Mi hai rotto i freni e mi hai accompagnato a casa con la tua macchina. Poi hai riparato la macchina e l'hai riportata a casa mia, non è vero?».
A quel punto Styles si stava sbellicando dalle risate. «Ma sei scema? Per quale motivo avrei dovuto?».
«Perché volevi vendicarti, ecco perché!», sbottò la ragazza.
Lui scosse la testa piano, vagamente divertito. «Se avessi voluto vendicarmi, perché mai ti avrei accompagnato a casa, e poi fatto avere la tua macchina riparata?».
Charlie tacque per un secondo. «Perché sei un idiota, ecco perché!».
«E poi dimmi, come avrei fatto a riportarti indietro la macchina se non ho le chiavi, e non so neanche l'indirizzo di casa tua?», fece con evidente sarcasmo.
La ragazza era sempre più confusa. Styles aveva ragione, eppure come si spiegavano i suoi ricordi? Lei era certa di aver visto quei freni rotti della macchina, e Styles lì vicino...
«E allora come mai io ricordo queste cose, eh?», disse in tono di sfida.
Il ragazzo sollevò un sopracciglio. «Secondo me hai lavorato un po' troppo di fantasia», commentò, rivolgendole un sorriso sarcastico. «Te lo dico io cos'è successo. Ti ho vista l'altra sera, eri completamente ubriaca. Devi aver preso la tua macchina e guidato fino a casa, e poi durante la notte la tua mente si è inventata tutta questa storia assurda», aggiunse sicuro di sé.
Charlie lo osservò per un istante e ridusse gli occhi a due fessure. «Resti comunque un deficiente, Styles», fece prima di allontanarsi.
Harry la guardò camminare ancheggiando verso l'aula della prima ora, e sbatté la testa contro il suo armadietto: c'era mancato poco.

*capitolo scritto da Carla. 


~Note. 
Salveeee! Dunque questo capitolo è forse un po' noioso e di transizione, ma serviva proprio, anche perché la povera Charlie stava sclerando, come avrete notato probabilmente ahahha. Però comunque adesso scopriamo che il vero obiettivo del The Game è proprio Charlotte; fondamentalmente ce lo immaginavamo già, ma adesso ne abbiamo la conferma assoluta. Scusate il ritardo nel postare, cerchiamo sempre di essere puntuali ma ogni tanto si sgarra! :) 
Visto che il prossimo capitolo sarà postato la settimana prossima, auguriamo una buona Pasqua a tutti quanti! Mangiate tante uova di cioccolato e godetevi queste meritatissime vacanze! <3
Ecco i nostri account twitter:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Queste invece sono le nostre altre fanfiction. Ci farebbe davvero piacere se passaste a dare un'occhiata!

Anna: Teenage Dirtbag - Toys.

Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Charles Darrow ***




Charles Darrow.

Era tardi quando Charlie rientrò a casa riaccompagnata da Matt, era furiosa e da un po’ di tempo a quella parte, quella era l’emozione che prevaleva più delle altre. Dov’erano finiti i giorni felici da ragazza ricca e super popolare?
Si tolse il capotto costoso e fece per chiamare la governante, ma ci ripensò e andò a depositarlo da sola nella cabina armadio del sottoscala. Quando vi riemerse camminò diretta al piano superiore, ma poi si fermò ai piedi delle scale ascoltando le voci dei suoi genitori giungere dal salotto, che nonostante cercavano di rimanere basse si capiva lo stesso che stavano litigando.
Si avvicinò silenziosamente alla porta: «Robert non ne posso più, questa situazione è opprimente! Non mi sento al sicuro nemmeno in casa mia! Non ho più la mia privacy, non ho più niente. L’unica cosa che mi è rimasta è la paura. La paura che tu o tutto ciò che amo mi lasciate!» sbottò sua madre Eloise. Charlie scostò di poco la porta intravedendo parte della stanza, scorse suo padre contrarre il volto in un espressione dolorosa, come se gli avessero appena dato un pugno nello stomaco.
«Non succederà, ascoltami ti prego, stanno tutti facendo il possibile per risolvere questa situazione. Non sarà per molto» annuì con enfasi come se oltre a lei, stesse tentando di convincere anche se stesso «cosa vuoi Eloise? Dimmelo e io te lo darò, ma ti prego…» la ragazza trattenne il fiato, suo padre si comportava sempre nello stesso modo, quando aveva paura di perdere qualcosa o non riusciva ad ottenerla lui… lui se la comprava. Era una brutta cosa? Charlie era confusa.
«Robert per l’amor di Dio! Non voglio niente!» esclamò esasperata «voglio solo sapere che c’è una possibilità per noi, un futuro!» Charlie la vide agitare le mani e voltarsi di scatto verso la finestra. Cosa significava? Stavano per divorziare?
«Eloise» la voce di suo padre era poco più che un sussurro e lei dovette sforzarsi per capire il resto della frase «certo che c’è un futuro per noi, sistemeremo ogni cosa. Sistemeremo ogni cosa.» ripeté abbracciandola nonostante lei fosse ancora di spalle, e quando lo fece sua madre scoppiò a piangere.
La ragazza si rimise dritta, le veniva quasi da vomitare e non c’entrava niente con le sudice mani di Matt che chissà quante altre ragazze avevano toccato nello stesso modo. Salì le scale lentamente ed entrò nella sua stanza come fosse un automa, richiuse la porta alle sue spalle e si lasciò scivolare contro fino a sedersi sul pavimento.
Aveva sempre pensato che i divorzi fossero una cosa di cui alla gente piace parlare o che almeno facessero scalpore, per lo meno quello degli altri lo era stato. Ma in quel momento non aveva proprio voglia di parlare di quello che aveva creduto di sentire anzi, non aveva voglia di parlare affatto.
Di solito lei evitava i problemi, era più facile e divertente concentrarsi su quelli degli altri, ma questo non poteva ignorarlo. In diciotto anni della sua vita, pur sapendo bene che sua madre era una persona sensibile, non l’aveva mai vista piangere in quel modo; e non aveva mai visto suo padre così arrendevole, sofferente e disperato. Che cosa stava succedendo attorno a lei?

Harry si guardò nervosamente intorno alla ricerca di Charlie mentre attraversava il corridoio insieme a Niall, lui svoltò l’angolo e allora dovette per forza fermarsi.
«Niall dove mi stai portando? Le lezioni cominceranno tra poco» si giustificò nel disperato tentativo di tornare indietro per non perdere di vista la ragazza.
«Andiamo Harry, che importa se perdi la prima ora di lezione!» continuò l’amico riprendendo a camminare. Lui sospirò, si guardò indietro e poi guardò Niall che lo incitava a seguirlo, che doveva fare?
«Ho visto Charlie andare in classe appena ha messo piede a scuola, la sua amica le ha portato i libri» lo informò il biondo. Strano, perché quella stronzetta non era in corridoio a molestare qualche altro povero studente imponendogli la sua stupida supremazia?
E cosa ancora più strana, come faceva Niall a sapere quello che stava cercando? Aggrottò le sopracciglia, molto probabilmente la sera della festa Liam si era fatto l’assurda idea che Charlotte Douglas potesse piacergli, e l’aveva detto al suo migliore amico. In altre circostanze Harry avrebbe alzato gli occhi al cielo per la bocca larga di Liam e avrebbe riso a crepapelle per le assurdità che andava dicendo, ma qualcosa gli diceva che quel ragazzo non era uno che andava a sbandierare certe cose ai quattro venti. C’era qualcosa di strano, così si affrettò a seguire il biondo.
Niall oltrepassò il teatro, la mensa, la grande aula di musica e scese una rampa infinita di scale conducendolo negli spogliatoi della palestra.
«Dobbiamo allenarci?» chiese Harry confuso e vagamente sarcastico, il suo amico si affacciò fuori nel corridoio, voltò la testa prima a destra e poi a sinistra, e poi chiuse la porta a due battenti con il manicotto antipanico alle spalle.
«Non credo tu abbia bisogno di allenarti» ribatté Niall appoggiandosi alla stessa porta con le braccia incrociate al petto, Harry alzò un sopracciglio.
«In che senso, non ti seguo» disse confuso.
«So chi sei Harry, e quello che fai» disse il biondo, l’altro si irrigidì e spalancò la bocca sconvolto come per parlare ma non ne uscì nulla. Come sapeva della sua copertura?
Non era una buona cosa quella, rischiava di far saltare tutto il piano, doveva affrettarsi a riprendere il suo contegno e il suo distacco.
«Che intendi dire? Sono uno studente, e studio» disse ma nel momento stesso in cui quella bugia frase si formulò fuori dalle sue labbra constatò quanto fosse debole e stupida.
«Tu sei un agente segreto! Una spia di qualche associazione internazionale» disse Niall sicuro di sé, Harry ce la mise tutta per scoppiare in una fragorosa risata quanto meno convincente, appoggiò una mano alla parete come per reggersi e con l’altra si asciugò le lacrime agli occhi.
«Niall tu guardi troppi telefilm» disse dandogli una pacca sulla spalla «senza offesa amico, ma questa cosa è davvero assurda!» si voltò e fece per aprire la porta.
«Io ti ho visto, sabato» disse e Harry sbarrò gli occhi ancora nascosto alla sua vita. Poi cercò di assumere un espressione normale e si voltò lentamente, ora era davvero nei guai. Come poteva trovare un modo negare l’evidenza?
«E che cosa hai visto, sentiamo?» chiese fingendosi scettico.
«Ti ho visto pestare uno che aveva una maschera, e poi quando se l’è tolta era una donna!» sbatté le mani come se non potesse ancora crederci e nei suoi occhi luccicò una scintilla d’eccitazione «e poi l’ho vista ammazzarsi, ha tirato qualcosa fuori dal suo stivale e si è uccisa mentre tu la tenevi ferma. Avresti dovuto vedere la tua faccia, amico.» rise per poi farsi di nuovo serio «Sicuramente anche io avrei avuto la stessa reazione non c’è dubbio ma ehi, è stato davvero fort…» Harry lo prese per le spalle e lo scosse lentamente fermando la sua raffica di parole.
«Niall! Vuoi stare zitto? Tu…tu credi di averlo visto, ma probabilmente eri ubriaco o qualcosa di simile, magari ti hanno drogato» provò Harry ma lui si accigliò e si divincolò dalla sua presa, lui lo lasciò andare.
«Primo: non sono così stupido da farmi drogare. Secondo: non ho mai fatto uso di stupefacenti, al massimo ho fumato qualche sigaretta. Terzo: raramente capita che mi ubriachi, e poi ero appena arrivato alla festa. Avevo fatto tardi! E quarto: io so esattamente cosa ho visto, non cercare di convincermi del contrario!» sbottò e Harry sospirò rassegnato.
«E va bene! Hai visto quello che hai visto, e adesso che cosa hai intenzione di fare? Vuoi andare a dirlo in giro?» domandò anche se terrorizzato al solo pensiero.
«Ma no! Certo che no!» lo rassicurò «voglio solo qualche dettaglio in più, voglio aiutarti! È tutto così figo, voglio partecipare!» si entusiasmò.
«Tu non sai quello che dici Niall!» si affrettò a ribattere Harry «è pericoloso. Apprezzo il tuo interesse ma no grazie, non metterò in pericolo la vita di qualcun altro! Specie la tua, sei un mio… amico» e nel dirlo se ne rese davvero conto.
«Gli amici nei momenti di difficoltà si sostengono a vicenda!» protestò Niall e Harry scosse la testa con veemenza.
«Io ho tutto sotto controllo.»
«Certo, per questo hai caricato la Douglas in macchina col rischio di farti vedere da tutti e hai lasciato il cadavere di quella donna lì dove capitava per riaccompagnarla a casa!» Harry deglutì, non ci aveva pensato. Era stato un madornale errore, imperdonabile, che gli sarebbe costata la costata la carriere se…
«Qualcun altro ha visto qualcosa?» chiese con un filo di voce, e grazie al cielo Niall scosse la testa.
«No, non proprio. Mentre non c’eri, sono riuscito a convincere un paio di persone che quella ragazza si era sentita male e io le stavo tenendo compagnia. Erano tutti ubriachi, nessuno sa niente.» Harry si lasciò andare in un sospiro liberatore.
«Allora, adesso mi spieghi cosa fai davvero? Me lo devi!» disse il biondo con enfasi, Harry si sedette su una delle panche bianche e si infilò le mani tra i capelli «puoi fidarti di me» aggiunse l’amico prendendo posto accanto a lui.
«Non una parola di questo con nessuno, nemmeno con Zayn e Liam! Se qualcuno, o peggio Charlie, dovesse venirlo a sapere sarebbe la fine per me, mi sbatterebbero fuori dalla C.I.A»
«Sei un agente della C.I.A?!» urlò entusiasta Niall.
«Sshhh» lo ammonì Harry.
«Hai ragione, scusa. Sto zitto!» fece il gesto di chiudersi a chiave la bocca e buttarsi la chiave alle spalle.
«Si, sono un’agente della C.I.A. come mio padre che…» si fermò un attimo, non era il momento di aprire la parentesi: padre morto mentre “giocava a carte” «Robert Douglas ci ha ingaggiati perché un’associazione di squilibrati che si fanno chiamare “The Game” lo stanno minacciando per soldi. Le loro strategie si basano sui giochi da tavolo, usano metafore e altre stramberie. Il mio compito è proteggere sua figlia, fine della storia.» concluse il riccio.
Niall rifletté per qualche istante e poi annuì «ecco perché quella donna aveva la maschera di Charles Darrow» si portò una mano sul mento pensieroso.
«Chi?»
«Charles Darrow è quello che ha inventato Monopoli, sai il gioco da tavolo più famoso del mondo» disse il biondo lasciandolo basito «Mio nonno è un vero patito per queste scemenze» si affrettò a spiegare.
«Quindi sai come funziona il gioco nei dettagli? Conosci le strategie?» man mano che la conversazione andava avanti Harry sentiva crescere qualcosa nelle sue viscere, gioia? Speranza?
«Conosco tutti i giochi» Niall sorrise intuendo la stessa cosa, poteva davvero aiutarlo «anche se mio nonno è più bravo» disse.
«Dov’è tuo nonno?» chiese euforico.
«Lui… lui è un uomo d’affari, non c’è mai a casa. Però tornerà a Natale, tra non molto tempo» disse, Harry si morse il labbro, che doveva fare? Poteva davvero mettere in pericolo la vita di Niall o di un membro della sua famiglia? No, certo che no!
«Non lo so…» disse infine Harry.
«Prometto che non farò niente di stupido o insensato, ai tuoi ordini!» si alzò camminando avanti e indietro per poi fermarsi di fronte a lui.
«Ho letto il bigliettino sul parabrezza dell’auto di Charlie» Harry alzò gli occhi al cielo.
«Dovresti imparare a farti gli affari tuoi, potresti metterti sul serio nei guai» lo rimproverò l’altro, ma Niall non ci fece caso.
«Penso che vogliano ucciderla o rapirla»
«A questo ci ero arrivato anche io»
«E credo che la maschera fosse collegata, Charles Darrow ha inventato il gioco. E quindi è un pezzo grosso, allora perché stava tagliando i freni dell’auto di Charlie? Cioè perché di persona? Di solito quelli importanti mandano qualcun altro… vuol dire che stavano cercando di dirti qualcosa, probabilmente sanno che la C.I.A. è coinvolta» ci fu un attimo di silenzio «e forse significa che il signor Douglas ha fatto qualcosa che ha danneggiato questa banda, ha tagliato le redini di qualche grande piano che avevano in mente» aumentò il passo facendo quasi girare la testa a Harry «e forse i soldi sono solo un diversivo. Forse vogliono solo fargliela pagare perché si è messo in mezzo!» quando concluse Harry era davvero sconvolto, il suo ragionamento, per quanto folle, sembrava plausibile. Che doveva fare? Di certo non poteva parlarne con Bill né tantomeno chiamare Sam a Manhattan, anche perché il suo compito era solo quello di proteggere la figlia di Robert Douglas non mettersi ad indagare sui depravati meccanismi mentali di quella banda di pazzi. O non ne sarebbe uscito più, proprio come suo padre. E Sam avrebbe fatto di tutto per ritrascinarlo a New York.
«Niall io non so se tu hai ragione o meno, ma…» la campanella coprì il suono della sua voce «adesso dobbiamo andare, ci penseremo.» si affrettò a dire.
«Vuoi dire che posso aiutarti?» chiese eccitato l’amico.
«Solo se starai dietro le quinte» disse lanciandogli un’occhiataccia, l’altro annuì contento «e soprattutto, acqua in bocca.»
«Sarò muto come una tomba» Niall uscì dagli spogliatoi seguito dal riccio.
«Piuttosto cerca di non finirci in una tomba» ribatté Harry torvo.

*capitolo scritto da Anna. 


~Note. 
Buongiorno gente! Avete passato una buona Pasqua? Mangiato uova di cioccolato a volontà, vero? Speriamo di sì!
A parte questo, che ne pensate del capitolo? Finalmente Charlie comincia a capirci qualcosa, o meglio a sospettare! E, chissà se avete notato, ma c'è un miiinimo cambiamento comportamentale in lei.
E poi abbiamo questo Niall curiosone che si impiccia degli affari degli altri!
Vogliamo ringraziare tutti voi che continuate a seguire/preferire/recensire la nostra storia. Siete gentilissimi! Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto - e scusateci per il ritardo nel postare!
Alla prossima :)
Ci potete trovare su twitter: 
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Queste invece sono le nostre altre fanfiction:

Anna: Teenage Dirtbag - Toys.

Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Stasi ***




Stasi.

Avete presente quelle mattine buie e tristi, quelle in cui, quando suona la sveglia, non vorresti fare altro che scaraventarla dall'altra parte della stanza ed ignorarne il suono? Quelle mattine statiche, deprimenti e anche un po' noiose, in cui il tuo unico desiderio è quello di rimanere con la testa sotto le coperte a fissare il nulla assoluto?
Era esattamente una di queste mattine per Charlie Douglas. Il caldo piumone sembrava più invitante del solito, e la luce del sole che entrava nella stanza buia, filtrata dai buchi della serranda, sembrava l'acerrimo nemico che si presentava a distruggere ogni speranza di pace. La sveglia, puntuale come al solito, gracchiava che erano le sette in punto e che si sarebbe fatto tardi.

La povera Charlie ci mise dieci minuti buoni prima di uscire dal letto, e più tempo del solito per prepararsi per la scuola. Quella mattina sembrava un'automa: si muoveva lentamente, camminava piano, indugiava spesso e si ritrovava troppe volte ferma in un punto della sua camera con lo sguardo fisso nel vuoto, a pensare a chissà che cosa.
Non sapeva cosa le stesse succedendo, ma negli ultimi giorni era fin troppo pensierosa: a scuola, anziché chiacchierare e sparlare di altra gente con le amiche, stava in silenzio a pensare. A casa non raccontava la sua giornata a sua madre, ma taceva e rifletteva. Stava anche cominciando a perdere l'abitudine di stare al telefono per ore con le amiche la sera, perché quello si trasformava in un eterno monologo della persona dall'altra parte della cornetta.
Era una sorta di periodo di stasi, per lei. I suoi genitori non litigavano, ma da come li aveva sentiti parlare qualche sera prima avevano tutta l'aria di essere sul punto di separarsi.
Non sapeva proprio come scacciare via quel groviglio confuso di pensieri dalla sua testa, perché più cercava di liberarsene più questi le martellavano continuamente addosso.
«Charlie? Stai andando a scuola?». La voce di sua madre la bloccò sull'uscio: la ragazza si voltò per poi vedere Eloise Douglas avanzare verso di lei, ancora in vestaglia. Da un po' di giorni non andava più al lavoro, diceva di star male: eppure, salvo un'aria un po' troppo preoccupata, sua madre sembrava in gran forma.
«Sì, mamma. Bisogno di qualcosa?», chiese.
La donna scosse la testa sorridendole lievemente. «No, solo... Sta' attenta».
Charlie roteò gli occhi al cielo. «Sto andando a scuola, mamma», ripetè, con un velo d'ironia nella voce, «Pensi che mi rapirà qualcuno o...»
«Tu sta' attenta e basta, okay?». Lo sguardo di sua madre era severo e allarmato, nonostante nascondesse una nota affettuosa e apprensiva.
«D'accordo. Ci vediamo più tardi», fece la ragazza semplicemente. Prima di andare però, si allungò per abbracciarla, cosa che colse la donna totalmente di sorpresa. Non che non si abbracciassero mai, ma... era raro; specie che la cosa partisse da Charlie. Eloise ricambiò l'abbraccio, anche se con un po' di ritardo, stringendo di più la figlia al suo petto. Charlie poteva avvertire tutta la sua preoccupazione e frustrazione, e detestava doversi sentire così impotente.
Sospirò pesantemente, prima di salutarla di nuovo e dirigersi verso la sua macchina.
Non capiva il perché di quell'avvertimento: non era la prima volta che sua madre le intimasse di stare attenta, ma nelle ultime settimane la cosa accadeva con una frequenza incredibile, e in più vedeva che lo sguardo negli occhi di Eloise era cambiato: era come se intendesse per la prima volta quelle parole, come se stavolta fosse davvero convinta che ci fosse chissà quale pericolo ad aspettarla una volta varcato il cancello scolastico.
Charlie parcheggiò la macchina nel grande cortile della scuola e scendendo fece caso solo di rado all'automobile di Styles che si fermava accanto alla sua. Chissà perché arrivava a scuola sempre al suo seguito; dedusse che doveva abitare dalle sue parti, eppure non l'aveva mai visto in giro. Meglio così, si disse, non avrebbe sopportato di dover vedere quel deficiente anche al di fuori della scuola.
Facendo il suo ingresso nei corridoi, Charlie ebbe la conferma che quella era una “giornata no”: non solo Elena le aveva appena mandato un messaggio, scusandosi perché era bloccata a letto con la febbre alta – e quindi non ci sarebbe stato nessuno a portarle i libri, quella mattina – ma fu costretta ad assistere, a pochi armadietti dal suo, allo spettacolino di Matt che limonava bellamente con una troietta del secondo anno. Rimase a bocca aperta.
Il suo “ragazzo” sembrava non accorgersi della sua presenza; ma tutti gli studenti che adesso li avevano accerchiati la stavano fissando in attesa di una mossa, come gli avidi spettatori di una corrida attendono con trepidazione che il toro cominci a sbraitare di fronte al mantello rosso del matador.
Quando finalmente Matt Standford si degnò di sollevare lo sguardo da quella poco di buono che aveva di fronte e guardarsi intorno, Charlie inspirò ed espirò. Chiunque stesse osservando la scena avrebbe potuto giurare di vedere del fumo uscirle dalle orecchie e dal naso: la temibile, bellissima ma anche tremendamente spaventosa Charlotte Douglas non era mai stata così terrificante. Gli sguardi del ragazzo e della ragazza si incrociarono, e lui non si mostrò per nulla turbato, al contrario le sorrise in un cenno di saluto.
La bionda sentiva i brusii alle sue spalle ed il sangue ribollirle nelle vene.
Sapeva di essere giunta al limite massimo. Non avrebbe più aspettato. Non avrebbe più indugiato. Non avrebbe più sopportato altre scene simili. Questo era davvero troppo. Sentì che essere usata in quel modo non era più una comodità, era diventata una pura umiliazione pubblica, alla quale lei stessa stava contribuendo. Non si fermò a rifletterci più di tanto, e nello stesso istante in cui avvertì le guance avvampare di rabbia si precipitò su Matt, per poi stampargli un bel cinque sulla guancia e correre via.

«Educazione fisica. La tortura di ogni studente».
Harry roteò gli occhi al cielo di fronte al tono melodrammatico del biondino. «Andiamo Niall, non può essere così tremenda», scherzò mentre appoggiava un piede sulla panchina dello spogliatoio, per allacciarsi meglio una scarpa. «Cos'è che fate, di solito?».
«Non può essere così tremenda, dici? Te lo dico io cosa facciamo. Inutili ed infinite arrampicate su corde appese al soffitto e stremanti combattimenti a mani nude tra di noi», replicò il ragazzo.
«Fate Wrestling?», fece Harry sorpreso, sollevando un sopracciglio.
Niall strizzò gli occhi. «Una specie. Non so spiegartelo neanch'io. Ma vedi, io non sono tagliato per fare queste cose, insomma guardami», il ragazzo si indicò, «non sono esattamente muscoloso. Preferirei di gran lunga fare sport come il calcio o il baseball», ammise con uno sbuffo.
Harry sorrise lievemente. «Guarda che i muscoli non c'entrano niente», spiegò. «Comunque, tra i due quello a lamentarsi dovrei essere io, visto che non ho mai fatto una lezione di educazione fisica in vita mia. Anzi, a dire il vero non ho mai assistito ad una lezione normale e basta», disse con un sospiro lieve, attento a non farsi sentire da nessun altro al di fuori di Niall.
Quest'ultimo stava per replicare, quando in lontananza udirono il fischietto del professor Benson che decretava l'inizio della lezione. Si guardarono in faccia per un istante prima di precipitarsi all'interno della palestra, dove già il resto della parte maschile della classe era raggruppata da una parte. Le ragazze si dilettavano poco lontano in una sorta di ginnastica ritmica, ed Harry riuscì a distinguere Charlie tra le altre.
«Oggi ci dedichiamo alla lotta libera», esordì Benson, «Sapete tutti come funziona. Chiamerò due di voi ed il vincitore avrà poi diritto a scegliere il suo avversario successivo, e così via. Voglio un gioco pulito, d'accordo?».
Harry sbuffò annoiato, mentre Matt Standford e Toby Smith avanzavano all'appello del professore: Standford mise K.O. il pover Toby in meno di due minuti, cingendogli il collo con un braccio e costringendolo a dimenarsi al tappeto, fino a quando Benson non si decise a contare gli ultimi tre secondi, che decretarono la vittoria dell'altro.
Il professore soffiò nel suo amato fischietto, per poi sfregarsi sapientemente le mani, come se stesse per cominciare un pasto luculliano - Harry non potè fare a meno di considerare quel suo gesto alquanto inquietante. «Smith, vedi di lavorare di più sulla difesa. Molto bene, Standford. Chi vuoi come prossimo avversario?».
Matt sollevò un angolo della bocca con fare sadico, mentre i suoi occhi piccoli e maligni passavano in rassegna tutti i suoi compagni. Si bloccò fissando per qualche istante Harry, poi proclamò: «Voglio quello nuovo». Il professore, così come tutti gli altri compagni, puntarono lo sguardo su di lui. «Sì proprio tu, Styles. Vieni se hai coraggio. Tranquillo, starò attento a non farti troppo male», aggiunse il ragazzo, rivolgendogli un sorriso in trepidazione.
Il riccio senza dire una parola avanzò a passo lento fino al tappetino, per poi fronteggiare il ragazzo. Matt Standford era alto poco più di lui, ma in quanto a muscoli beh... non c'era paragone. Harry era sempre stato magro e piuttosto mingherlino, e nonostante si fosse fatto un po' di addominali negli ultimi anni della sua vita, di certo non poteva competere con gli enormi muscoli che aveva Standford nelle braccia, e in generale in tutto il corpo. Sembrava uno di quei modelli pompati che utilizzavano nelle pubblicità per gli attrezzi da palestra, o quelli che figuravano nelle confezioni dei cereali. Decisamente... troppo.
«Uno, due... tre!», dichiarò il professor Benson, ed in contemporanea Matt si accinse a scagliare un colpo in pieno stomaco ad Harry, il quale riuscì a schivarlo senza alcuna difficoltà.
Il riccio sollevò un sopracciglio, mentre teneva fermo il braccio ancora proteso in avanti di un Matt decisamente sorpreso: «E da quando i pugni in pieno stomaco sarebbero regolamentari in questo sport?», osservò con un pungente sarcasmo, approfittando della sorpresa dell'altro. A quel punto Standford, con le braccia bloccate in aria dalla stretta dell'avversario, fece per dargli una ginocchiata ma anche stavolta trovò il vuoto.
Ancora cercava di liberarsi dalla ferrea presa di Harry, ma quest'ultimo voleva porre fine a quel teatrino il più presto possibile: con uno slancio repentino riuscì a far roteare il corpo del ragazzo a trecentossessanta gradi in aria, per poi farlo atterrare di schiena sul tappetino, stravolto. Il coach contò gli ultimi tre secondi della partita, e solo allora Harry si accorse degli sguardi scioccati di tutti i suoi compagni. Stavano tutti lì impalati a guardarlo a bocca aperta, mentre nella grande palestra echeggiava l'applauso concitato di Niall, che sorrideva come un padre fiero del proprio figlio. Benson aveva aggrottato le sopracciglia con fare sorpreso, e Matt era ancora a terra, troppo stravolto per reagire in qualche modo.
«Ma come diavolo hai fatto?», esordì una voce sorpresa in mezzo alla mischia.
Harry arrossì lievemente quando con la coda dell'occhio si accorse che anche alcune ragazze – tra cui anche Charlie – avevano interrotto le loro attività per osservare la scena, allibite. Si grattò lievemente la nuca con fare timido, prima di sollevare leggermente le spalle. «Io, ehm... Ho fatto karate da piccolo», inventò di punto in bianco, ben consapevole del fatto che la mossa che aveva appena eseguito era di un livello più che avanzato... altro che karate per bambini.
Che idiota. Per l'ennesima volta si era fatto prendere troppo dal corso degli eventi, e per l'ennesima volta aveva rischiato che la sua copertura saltasse. Eppure, pensò abbassando lo sguardo e vedendo Standford ancora sdraiato, ne era proprio valsa la pena.
Protese una mano verso di lui e l'aiutò ad alzarsi. «Spero di non averti fatto troppo male», sorrise bastardamente, prima di fargli l'occhiolino.

«Lasciami stare, Matt! È finita, hai capito? Fi-ni-ta. Non ti voglio più vedere!». Una voce che Harry conosceva fin troppo bene echeggiò nel corridoio, e quando vide Charlie seguita dal suo – a quanto pareva – ex ragazzo avvicinarsi, Harry nascose tutta la testa nel suo armadietto, fingendosi del tutto indaffarato a fare qualcosa... lì dentro.
Sentì l'armadietto accanto al suo sbattere, prima che una furiosa Charlotte Douglas ci scaraventasse all'interno alcuni libri.
«Andiamo Charlie, qual è il problema?».
«Mi dà fastidio, capisci? Non puoi metterti a baciare ragazze nel mezzo del corridoio della scuola e pensare che mi stia bene. Non puoi!», sbottò lei gesticolando animatamente.
Lui sbuffò scocciato. «Cos'è, pretendi che stia sempre con te?».
Charlie incrociò le braccia al petto e scosse la testa, con fare deluso. «Io non pretendo proprio niente, Matt. Voglio solo che tu esca dalla mia vita ora. Non voglio più stare con te», proclamò, e la sua ultima frase aveva un che di estremamente solenne, come una sorta di emendamento supremo.
Matt roteò gli occhi al cielo, prima di dare un pugno ad un armadietto accanto a loro. «Non importa. Tanto ne trovo a migliaia di altre troiette come te», fece lui prima di girare i tacchi e dirigersi dalla parte opposta.
Harry, del tutto imbarazzato, improvvisò un ridicolo motivetto fischiettato, mentre per la cinquantesima volta in due minuti tirava fuori un libro a caso dall'armadietto, lo sfogliava un po' e lo rimetteva dentro.
Charlie, fortunatamente, non ci fece caso. Fece sbattere per l'ultima volta lo sportello del suo, di armadietto, prima di correre fuori, dalla parte opposta. Quasi come fosse una reazione automatica, Harry non ci mise molto per raggiungerla: nascosto dietro ad un pilastro, la vide seduta sui gradini che davano al parcheggio della scuola, con il capo chino verso terra e le spalle che si sollevavano a tratti. Stava... piangendo?
Il ragazzo sospirò, prima di guardarsi intorno: la scuola era ormai deserta, e si udivano nel silenzio solo i singulti irregolari di Charlie. Senza pensarci troppo uscì fuori dal suo nascondiglio e si andò a sedere accanto alla ragazza.
«Non ci credo», esclamò, anche se con un tono piatto e senza alcuna enfasi, facendo voltare di scatto la biondina. Non si era accorta che Styles si era avvicinato, né che si fosse seduto al suo fianco. «La principessa della scuola, capo delle cheerleaders e reginetta di tutte le feste, Charlie Douglas... piange?», finì il ragazzo con una punta d'ironia nella voce, anche se con un tono per nulla cattivo o permaloso. Era come se fosse sul punto di consolarla.
«E adesso tu che cosa vuoi, eh? Lasciami in pace», borbottò arrabbiata la ragazza, mettendo su una specie di broncio che fece sorridere il ragazzo: sembrava proprio una bambina piccola.
«Cos'è, piangi per quello scemo di Standford?», chiese Harry mentre roteava gli occhi al cielo in un'espressione esasperata. Questi adolescenti erano tutti terribilmente prevedibili.
Charlie asciugò con i palmi delle mani le lacrime che le erano scivolate lungo le guance, riuscendo sempre a mantenere un certo contegno. «E se anche fosse? Vattene via Styles, non ho bisogno che un coglione come te venga a dirmi che è lui a rimetterci».
«Ma infatti non avevo la minima intenzione di dirtelo», ribattè il riccio con un lieve sbuffo canzonatorio. Fosse stato nei panni di Matt avrebbe festeggiato la liberazione da una principessina testarda ed insopportabile come lei; quindi non aveva certo intenzione di mentire dicendole che lui non la meritava e cazzate varie.
«Che cosa vuoi, allora? Farti beffe di me, prendermi in giro?».
«Tranquilla, non ho intenzione di rubarti le mansioni», fece il ragazzo con una lieve ironia nella voce, poi sospirò. A dire il vero non sapeva nemmeno lui perché si era avvicinato: da un lato Charlie gli aveva fatto pena, dall'altro la detestava, perché pensava fosse stupido piangere per una cosa così... così futile. C'erano cose più importanti per cui disperarsi: lui avrebbe potuto nominargliene una dozzina, come minimo, di fronte alle quali lei sarebbe sbiancata. Alla fine decise di essere sincero. «È solo che... lo trovo così insensato. Piangere per un deficiente che ti ha tradita, intendo. È davvero così importante? Ci sono cose peggiori al mondo, intorno a te... E tu te la prendi per uno come Standford?».
Charlie rimase in silenzio a guardarlo dietro quegli occhi lucidi di pianto, sebbene impassibili.
«Le cose succedono. La vita va avanti. Ma tu sei qui, oggi. Sei viva: e solo questo dovrebbe bastare per renderti felice. Ma no, tu hai una bella vita, una famiglia che ti vuole bene, tanti soldi... Davvero tutto questo non ti basta? Davvero vorresti di più, Charlie?». Harry la guardò negli occhi per un istante, duramente, poi tornò a guardare le macchine nel parcheggio di fronte a lui. «Giorno dopo giorno, la gente muore. Si ammala. Rischia la vita per lavoro, o semplicemente perché ha fatto la cosa giusta. Il mondo va male, capisci? E il fatto che tu pianga in questo modo perché ti sei lasciata con un ragazzo che neanche amavi, beh, mi fa imbestialire».
Charlie continuò a guardarlo con fare sostenuto. Di colpo incrociò le braccia al petto e gli riservò un'occhiata infastidita. «Chi sei tu per dire che non lo amassi?», disse, visibilmente irritata dalle parole del riccio.
Lui rise, ma la sua era più una risata amara, senza divertimento o ilarità. «Perché ne sono sicuro», disse semplicemente, e poi continuò a parlare prima che la ragazza lo provocasse di nuovo. «Il tuo, Charlie, non è un pianto da cuore spezzato. Il tuo è il pianto di una bimba viziata che non ha ottenuto il suo ultimo giocattolo e ora fa i capricci», puntualizzò.
Aveva detto tutto quello che pensava di lei. Certo, aveva evitato di dirle in faccia che la trovava una stronzetta viziata e testarda, ma forse aveva trovato una maniera più velata e delicata per farglielo capire; non che immaginasse che la sua visione delle cose, delicata o no, facesse piacere a Charlie.
Quest'ultima rimase a fissare il pavimento del parcheggio, con un'espressione quanto meno indecifrabile in viso. Poi scosse la testa e, rivolgendosi ad Harry, sputò: «Va' a farti fottere, Styles», prima di alzarsi ed allontanarsi il più possibile dal ragazzo.


*capitolo scritto da Carla. 


~Note. 
Buonsalve gente! Come prima cosa ci scusiamo per il ritardo nel postare, ma Carla è stata in gita con la scuola e considerato che postiamo dal suo account... Tra l'altro, se dobbiamo essere del tutto sincere, ci siamo rimaste un po' male per le recensioni che sono calate di botto negli ultimi capitoli, e volevamo prendere più tempo per averne di più... ma non sono aumentate per nulla ): Speriamo che la storia continui ad entusiasmarvi come all'inizio perché, credeteci, il bello deve ancora arrivare (: 
I nostri account twitter:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Le nostre fanfiction:

Anna: Teenage Dirtbag - Toys.

Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Una felpa ***




Una felpa.

Harry aveva sempre pensato che Seattle fosse una di quelle città da meta turistica. Anche se piovosa, era una di quelle che più lo affascinavano e che aveva sempre voluto visitare, col suo simbolico space needle e la sua famosa serie televisiva – che sua madre seguiva assiduamente da una vita in tv – Grey’s Anatomy; aveva sempre pensato a cose entusiasmanti e folli; fino a quel momento.
Mai si sarebbe immaginato che proprio a Seattle se ne sarebbe stato nella sua amata Audi nera a battere la fronte volontariamente e ripetutamente sul volante di pelle esasperato, a maledire il suo stupido lavoro, le sue stupide “faccende”, una stupida banda di depravati e un’esasperante ragazza ricca e stronza.
Per colpa sua, era appostato ormai da ore sul ciglio di un marciapiede in centro, dove dall’altro lato della strada la ragazzina viziata se la spassava bellamente con quelle oche delle sue amiche, in quella che sembrava essere una lussuosa ed esclusiva caffetteria.
Quella che doveva essere solo una breve pausa caffè in compagnia, si era trasformato in un susseguirsi di risatine e chiacchiere infinite su cose insulse come “il ballo prima delle vacanze di natale”.
E questo Harry lo sapeva grazie ad un microchip che proprio quella mattina – prima che Charlie si alzasse – aveva piazzato in una delle pieghe della gonna della sua divisa da cheerleader.
Il tramonto però era già passato da un pezzo, ed il cielo si era ridotto ad una serie di strisce di colore diverso che diventavano sempre più scure: il ragazzo sospirò annoiato oltre ogni limite dell’immaginazione umana.
«Spettegolano già tutto il giorno a scuola, che accidenti hanno ancora da dirsi!?» sbottò all’improvviso tra sé.
«Ma la Douglas non sembra molto partecipe non trovi?» borbottò qualcuno spuntando alle sue spalle, Harry sobbalzò voltandosi di scatto.
«Ma che diavolo… Niall! Che cavolo ci fai qui?!» urlò colto di sorpresa, e lui non veniva mai: “colto di sorpresa”.
«Mmh…» Niall si sfregò gli occhi assonnato «beh mi sono nascosto nella tua auto per seguirti, ma poi mi sono addormentato» disse grattandosi la testa con una risata tra l’imbarazzato e il dispiaciuto.
«Tu non puoi stare qua, dio ma come te lo devo dire? Ti ho permesso di darmi un ipotetico aiuto. Non devi intrometterti, è troppo pericoloso!» sbraitò Harry passandosi una mano tra i capelli.
«Certo, perché tu in questo momento stai rischiando la vita» commentò sarcastico il biondo saltando sul sedile anteriore accanto a lui «a proposito, questa macchina è davvero figa!» Harry sorrise, dopotutto quella era il suo gadget preferito.
«Grazie» fece una pausa e poi si accigliò nuovamente «ma questo non giustifica la tua presenza qui!» l’altro alzò gli occhi al cielo.
«Andiamo Harry, non stai facendo niente. Stai qui ad annoiarti, scendi accidenti! Entra in quella caffetteria, prenditi qualcosa, fai finta di incontrarla per caso e resta lì a parlaci, la controlleresti meglio!» suggerì l’amico, in effetti a quello non aveva pensato minimamente, ma quando ci rifletté meglio fece una smorfia.
«Vuoi scherzare? Separate, quelle dementi sono insopportabili, figuriamoci tutte insieme!» fece presente «e poi ho la mia bellissima ricetrasmittente e il mio bel microchip a fare tutto il lavoro» Niall annuì.
«E come mai la tua “protetta”» mimò le virgolette con le mani «se ne va?» Harry si voltò immediatamente, giusto il tempo per vederla andare via in macchina con la sua amica – per modo di dire – Caroline.
«Cristo!» batté un pugno sul volante suonando accidentalmente il clacson «scendi, su avanti scendi!» si rivolse velocemente a Niall.
«Non è carino lasciarmi qui» si lamentò, Harry gli rivolse un’occhiataccia.
«Non è carino nemmeno intrufolarsi nella macchina di qualcuno e saltare fuori all’improvviso, distraendolo da quello che sta facendo!» Niall aprì la portiera.
«Okay, mi dispiace» alzò le mani e gli fece un sorriso «ci vediamo a scuola, agente» si portò una mano alla fronte imitando il saluto militare, e entrambi scoppiarono a ridere.

«Ed è per questo che quel pivello del primo anno è stato rinchiuso nell'armadietto 13 giù negli spogliatoi» rise Caroline, e la sua risata squillante fece sobbalzare Charlie.
«Cosa?» chiese distratta, ultimamente ogni argomento le sembrava inutile.
La sua amica fece una lieve smorfia «niente, lascia perdere» la dissuase infine, anche se lei comunque non aveva intenzione di stare ad ascoltare un minuto di più quelle assurde sciocchezze.
Quasi non si riconosceva, in una settimana le erano successe così tante cose e tutte insieme che era stato impossibile non fermarsi a pensare per un momento. Che diavolo stava facendo? Cosa accadeva davvero intorno a lei? Che quel ragazzo sconosciuto, ora non più tanto, avesse ragione? Chi era davvero Charlie?
«Ho saputo di te e Matt» commentò – con l’intenzione di essere cattiva e di ferire – l’altra, Charlie aggrottò le sopracciglia ma tutto sommato se lo aspettava.
«Già, è stato davvero pessimo» si limitò lei, invece che vomitare fuori tutti gli insulti e le cattiverie che di solito avrebbe riservato a ragazzi che come lui la “tradivano”, e ce n’erano stati. Ma, forse, era colpa sua.
Charlie si sorprese anche di questo, in tutta la sua vita non aveva mai pensato di prendersi la colpa di qualcosa, lei non faceva ma nulla di sbagliato; fino al quel momento almeno.
«È un po’ di giorni che sei strana, non sarai mica incinta?» Caroline le lanciò un’altra maligna frecciatina per poi ridere.
«Parla per te, certe cose non finiscono del dimenticatoio tanto in fretta. O sbaglio Caroline?» e come al solito poi fu lei ad essere cattiva. Ma questa volta si accorse che le veniva davvero facile usare le parole per ferire gli altri. Infatti, si riferiva ad un episodio accaduto qualche anno prima.
Nell’auto calò un religioso silenzio disturbato solo dal sottofondo che la radio era diventata, Caroline entrò nella proprietà dei Douglas e percorse l’immenso “vialetto” – tanto per fare un eufemismo – sostando infine davanti alla sontuosa entrata.
«Grazie» rispose Charlie seccamente scendendo dall’auto.
Caroline fece un sorriso tirato, dopotutto era Charlie che comandava. La sua reputazione a scuola e il suo posto nella squadra dipendevano esclusivamente da lei, e quindi non avrebbe mai potuto mostrare del risentimento nei suoi confronti; almeno non faccia a faccia «ci vediamo domani, buona notte! E non pensare a quello stronzo di Matt» e quello fu un patetico e debole tentativo di esserle amica.
Charlie si limitò ad un cenno del capo prima di rientrare in casa; nell’ingresso la governante le venne incontro con un faccia livida, e le chiede il giubbotto.
Così alla ragazza venne spontaneo chiederle, anche se di norma non parlava e non si interessava minimamente della vita della “servitù”, soprattutto perché non prestava attenzione a nulla: «Va…va tutto bene?» in quel momento scoprì di non sapere nemmeno il suo nome, ed era da anni che quella donna frequentava casa sua.
L’espressione di stupore sul volto della governante la fece sentire a disagio, e Charlotte Douglas non si sentiva mai a disagio. Tanto che si pentì quasi di averle fatto quella domanda stupida.
«Sì signorina, va tutto bene. Grazie per avermelo chiest…» ma la sua voce fu sovrastata da quella di suo padre.
«Eloise! Ti rendi conto di quello che mi stai chiedendo?» sbottò ma sua madre rispose prontamente per niente intimidita, e il suo tono di voce era anche peggiore di quello di lui.
«Si Robert, me ne rendo conto perfettamente. Non ne posso più delle minacce, degli avvisi di morte, e di tutte queste stronzate» Charlie sobbalzò più per l’ultimo termine, che mai avrebbe pensato di sentire pronunciato da sua madre, che per “avvisi di morte e minacce”.
«Non posso abbandonare i miei dipendenti al loro destino. E non posso abbandonare il mio lavoro, senza di esso noi non vivremmo nel lusso più sfrenato! Non potremmo permetterci nemmeno la metà di quello che abbiamo, nemmeno la metà di ciò che desidera tua figlia!» se poco prima aveva sobbalzato, ora era pietrificata: Robert Douglas non aveva mai parlato di lei così.
«Signorina, vada di sopra» la governante le appoggiò una mano sulla spalla; e per quanto sconosciuta e nuova fu quella stretta, la confortò almeno un po’.
«A noi non serve tutto questo Robert, il lusso e i soldi sono soltanto un di più! Io non ti ho sposato per questo, dov’è finito mio marito? Non avevamo quasi niente prima, se non quella piccola azienda di tuo padre, nel New Jersey, torniamo lì. Andiamo via, vendiamo la tua compagnia. Salviamoci la vita, Robert ti prego» Eloise stava supplicando, Eloise Douglas non aveva mai supplicato.
«No, non posso farlo. Tesoro ascolta…» cominciò suo padre, ma Charlie si voltò verso la governante decisa ad non ascoltare una sola parola di più, fino a quando non ci avrebbe capito qualcosa.
«Come si…» arrossì imbarazzata e a disagio «come si chiama lei?» domandò sentendosi stupida e meschina, sentimenti che per la prima volta facevano breccia nel suo animo egocentrico e viziato.
«Patricia cara» fece un sorriso mesto, ma poi assunse un espressione mortificata quando sentì i genitori di lei alzare nuovamente il tono di voce «vada nella sua stanza, le porto qualcosa da mangiare. Un panino va bene?» domandò con nonchalance.
Charlie stava per dire di no, che di sera non mangiava carboidrati e che lei avrebbe dovuto saperlo, ma poi si rese conto di avere un buco nello stomaco e che qualunque cosa sarebbe andata bene.
«Va bene, grazie» ripeté salendo le scale alla svelta, scappando via dalla realtà per rifugiarsi nel suo mondo privato che a poco a poco le stava scivolando via dalle mani. Lei viveva in una bolla di sapone, ma questa sembrava essere appena scoppiata. Ora si sentiva vulnerabile, scoperta e forse anche in pericolo.

Una felpa.
Charlotte Douglas indossava una felpa. Un paio di jeans, delle converse e: una felpa. Non era mai accaduto, a memoria d’uomo, un episodio di quella portata. Una felpa.
Quel giorno “una felpa” era diventata la parola preferita di tutto il corpo studentesco, nei corridoi non facevano che bisbigliare quelle tre sillabe.
Charlie però camminava spedita verso il suo armadietto, a testa basta e di pessimo umore. Le parole della sera precedente risuonavano ancora nella sua testa forti e chiare “nemmeno la metà di ciò che desidera tua figlia!” era ferita, ed era una brutta sensazione quella.
Ora che stava dall’altra parte, dalla parte delle persone ferite, si sentiva a disagio a camminare in mezzo a tutte quelle che, di norma, prendeva di mira. E così aveva il cappuccio tirato su e lo sguardo inchiodato al pavimento, quella non era Charlotte Douglas. Quella era una sottospecie di surrogato, forse più umano e persino comprensivo o compassionevole.
«Beh, che avete da guardare?» disse sgarbata ad un gruppo di ragazzine che la fissavano dall’alto in basso sgomente «oggi non sono disponibile per foto, passate domani magari» le congedò inserendo la combinazione e aprendo con poco garbo l’armadietto.
«Charlie!» Elena si fece strada fino a lei, indossava la divisa da cheerleader e prima di parlare rimase ad osservarla per qualche minuto confusa. Poi con un colpo di tosse si schiarì la voce «alla prima ora abbiamo biologia» disse e allungò una mano per prendere il libro di lei.
«Posso anche portarmelo da sola» disse togliendoglielo dalle mani sgarbatamente.
«Ma io pensavo…»
«Pensavi male» finì la frase per lei, ma poi la guardò in faccia e sospirò «Mi… mi dispiace, è che non devi per forza portarmeli tu. Non ti sbatterò fuori dalla squadra, ormai ci sei dentro e sei brava, sta' tranquilla» anche perché le cheerleader era l’ultima cosa di cui doveva preoccuparsi.
«Oh…» Elena sembrava confusa, sorpresa, sgomenta e leggermente preoccupata, se non spaventata «tu stai… stai bene vero?» chiese.
Charlie alzò un sopracciglio pronta ad una battuta sarcastica e forse offensiva, ma poi guardandosi intorno si accorse che lei era l’unica delle sue amiche ad essere lì, al suo “cospetto” quando era evidente che aveva qualcosa di strano «No» disse semplicemente.
«Cos’hai che non va? Non starai pensando di diventare una di quelle emo…» ed indicò un gruppo di ragazze con i piercing e i tatuaggi infondo al corridoio di fianco alle scale, vestite di nero con borchie e catene, e sembravano appena uscite da un raduno di motociclisti.
Charlie scoppiò a ridere «No! Certo che no» e nel dirlo si tolse via il cappuccio «è solo una giornata no, andiamo in classe» disse con un sorriso che ancora le increspava le labbra.
«Styles, Horan siete in ritardo» li riproverò il professore di biologia quando Harry Styles fece il suo trionfale ingresso in classe seguito da Niall Horan, al quale rivolse un’occhiataccia che metteva i brividi.
«Ci scusi, abbiamo avuto un piccolo… imprevisto» e quando i due ragazzi attraversarono la fila, Charlie notò Harry dare un pugno al suo amico, che fece una smorfia ma prese posto alla svelta senza fiatare.
«Come stavo dicendo prima che mi interrompeste» disse il professor Torres alzando gli occhi al cielo «che ho in mente un progetto, di solito all’ultimo anno è di usanza fare queste cose… sapete com’è, giusto per essere sicuro che almeno quel libro non vada sprecato o che rischi di rivedervi l’anno prossimo» commentò. Poi si voltò verso la lavagna e vi fece scorrere sopra il gessetto componendo la frase “progetto di biologia” e cinque rispettivi punti da seguire per avere successo.
«Si lavora a coppia, maschio e femmina!» dalla classe si levò un coro di sbuffi e lamentele che il professore mise a tacere. Harry borbottò tra sé un «fantastico» come se non bastasse il fatto di dover fare da babysitter a quella lì. Poi di fianco a lui vide Niall alzare la mano ed attirare l’attenzione «io ed Harry, stiamo con Elena e Charlie» la faccia di Harry si colorò di rosso, mentre le due ragazze si voltarono confuse.
Il professore oscillò per un attimo lo sguardo tra i quattro «Va bene» assentì annuendo con approvazione.
«Che diavolo hai fatto?» borbottò il riccio guardandolo truce.
«Ti sto dando una mano, e ho rimorchiato» gli fece l’occhiolino e poi sorrise ad Elena. Harry rimase basito e per poco la sua mascella non atterrò sul pavimento: Niall e l’amica di Satana, insieme?

*capitolo scritto da Anna. 


~Note. 
Helloooo! Ci scusiamo per il ritardo nel postare, ma io (Carla) sono stata bloccata a letto con la febbre per tutta la settimana, e beh anche Anna era occupata, motivo per cui abbiamo tardato. Vorremmo ringraziarvi perché il numero di recensioni sembra essere tornato quello di una volta nello scorso capitolo, speriamo di non ritornare a poche recensioni in questo! Ci farebbe davvero piacere sapere quello che pensate, anche perché ci sono 171 che seguono questa fanfiction e poi a recensire sono sempre i soliti dieci, se tutto va bene... Ci piacerebbe vedere le opinioni di più persone (:
Comunque speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, al prossimo xx
I nostri twitter:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Le nostre fanfiction:

Anna: Teenage Dirtbag - Toys.

Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Castelli di carte ***




Castelli di carte.

«Sono a caaaasa!» trillò Charlie spingendo con enfasi la porta, il cui sbattito riecheggiò sonoramente nell'atrio solitario.
La bionda si guardò intorno alla ricerca di qualche anima viva. Non appena fece il suo ingresso nel salone fu bloccata da un movimento che aveva percepito proprio dietro di sé. Si voltò di scatto: aveva come la sensazione che ci fosse qualcun altro in quella sara, oltre lei; per cui avanzò con estrema cautela, voltandosi tre o quattro volte per ogni piccolo tratto percorso.
Si sentiva... osservata. Un po' stupidamente forse, si ridusse a controllare che non ci fosse qualche ladro nascosto dietro ai divani. Proprio mentre si chinava per fare ciò, avvertì un altro spostamento d'aria, e a quel punto scattò, rizzando di colpo il busto. Passò di nuovo in rassegna la stanza, che non era certo più affollata di quanto fosse prima.
«C'è qualcuno?» domandò con un filo di voce, in preda al panico. Probabilmente stava impazzendo.
«Charlotte? La cena è pronta, vieni o no in soggiorno?». La voce di sua madre la fece sussultare e fece sì che il suo cuore cominciasse a picchiarle fortissimo contro il petto.
«A-arrivo» balbettò incerta e a passo veloce si diresse verso il soggiorno, non prima di aver lanciato un'ultima occhiata confusa al salone.
Forse questa storia dei suoi la stava facendo diventare troppo paranoica, forse si era solo immaginata tutto. Doveva calmarsi. Si sentiva un po' come uno di quei criceti da esperimento che vengono rinchiusi in un mini-labirinto perché ne venga misurata l'intelligenza. Eppure da un lato ne era certa: c'era qualcun altro con lei nella stanza. La sua mente non poteva essersi inventata tutto di sana pianta, o ciò avrebbe voluto dire che era sull'orlo di un esaurimento nervoso.
«Papà! Come mai qui a cena? Niente lavoro oggi?» Charlie aggrottò le sopracciglia sorpresa non appena vide la figura di suo padre seduto a tavola che gustava delle verdure bollite in tutta tranquillità, come se per lui cenare in famiglia fosse una cosa all'ordine del giorno.
Robert le sorrise sereno e, quando la bionda prese posto accanto a lui, le lasciò un bacio sulla fronte, cosa che lasciò la ragazza completamente basita.
«Oggi sono andato via un po' prima... non è sicuro rimanere fuori fino a tardi» spiegò l'uomo mentre addentava un pezzo di pane. Alla sua ultima frase, la madre di Charlie tossì forte, per poi mandare un'occhiataccia all'uomo. 
«Non è sicuro?» ripetè la ragazza, la fronte aggrottata.
A quel punto Robert e sua moglie si scambiarono uno sguardo d'intesa, e Charlie non poté fare a meno di notare quanto il primo fosse in evidente difficoltà.
La voce dell'uomo in un primo momento non riuscì a produrre altro che qualche lamento indistinto, che di certo non rispondeva alla domanda della figlia. «Beh, ecco» cominciò, e a Charlie sembrò proprio di essere in procinto di ricercare una scusa decente per riparare allo strafalcione che aveva appena commesso. «È periodo di temporali, questo. E tu sai benissimo che non è mai giudizioso guidare di notte, tra lampi e tuoni».
«Ma se oggi c'era il so-»
«Com'è andata a scuola, tesoro?» la interroppe sua madre, brandendo una forchetta per indicarla.
Charlie scrollò le spalle, e fece un gesto con la mano, lasciando intendere che ciò non aveva una grande importanza. «Bene. Tutto a posto. Adesso mi fareste il piacere di dirmi cosa sta succedendo?» sbottò la ragazza, esasperata. Non riusciva più a sostenere quella situazione, un po' perché non aveva mai sopportato che qualcuno la tenesse all'oscuro di qualcosa, un po' perché a tutto ciò si sommava a quello stato confusionale senza precedenti nel quale si era ritrovata negli ultimi giorni. Tutto era stressante. Per di più ora si doveva vedere trattata come una bambina di due anni che non capisce le cose; si vedeva rinchiusa in una bolla di vetro e le toccava osservare il mondo da quella prospettiva, senza mai poter conoscere le cose per come stavano davvero.
Eloise Douglas inarcò le sopracciglio con il suo solito fare elegante e senza scomporsi troppo. «Di che parli tesoro?» domandò in un tono tanto falso quanto incuriosito.
«Parlo di voi due! Vi state separando o cosa? Avreste anche potuto tenermi aggiornata, considerato il fatto che faccio anch'io parte di questa famiglia» sbottò a sua volta Charlie, con un tono di voce forse un po' troppo alto, cosa che lasciò i due genitori a bocca aperta: non le capitava mai di alzare la voce, di perdere il controllo. Era sempre stata una ragazza pacata, sebbene talvolta acida, ma in ogni caso non si era mai ridotta ad assumere questo atteggiamento.
Non l'aveva fatto di proposito, non voleva essere irriverente o maleducata, ma era stato come se, alle parole di sua madre, una molla fosse scattata senza neanche darle il tempo di filtrare i pensieri in parole o atteggiamenti più consoni alla situazione.
«Potresti evitare di rivolgerti così ai tuoi genitori» replicò nuovamente sua madre, sostenuta.
«E voi potreste evitare di trattarmi così! Non sono una bambina, capisco le cose. E voi due... oh, voi due siete degli ipocriti. Pensate che non abbia le capacità mentali di capire certe cose? Pensate che soffrirei troppo? Giusto per la cronaca, peggio di così non mi può andare» ribatté quindi la bionda, in preda alla furia più totale.
Stavolta prese la parola Robert, con il suo solito tono calmo e diplomatico, che ricordava tanto quello di un presentatore di Talk Show.
«Charlie, cerca di capire...».
«Cosa, papà, cosa? Cosa posso cercare di capire se non sono al corrente di nulla?».
«Charlie, noi siamo una famiglia...».
«Ah, e quindi noi siamo una famiglia? È questo che pensi che siamo? In una famiglia si affrontano i problemi insieme e si cerca di risolverli. Saremmo una famiglia? O tre persone che si incrociano ogni tanto per casa?» continuò ancora Charlie, imbufalita. Non sapeva perché stava gridando quelle cose ai suoi, cose che tra l'altro non aveva mai pensato in vita sua. Aveva sviluppato questo pensiero negli ultimi dieci minuti e l'aveva detto, perché in quel momento non pensava ci fosse niente di più giusto. Di colpo le sembrava che niente avesse più senso, come se avesse vissuto in un'enorme bugia fino ad ora; come se la sua reggia da principessa non fosse  sempre stata nient'altro che un fragile castello di carte pronto a crollare al primo lieve soffio. E improvvisamente si accorse che il suo mondo, fatto di favole, corone, denaro e principi azzurri, non era che un triste sogno destinato a spezzarsi nell'inevitabile vortice della realtà.

Harry si morse un labbro mentre osservava il suo riflesso infrangersi sull'acqua della pozzanghera dentro alla quale aveva appena calciato un sassolino.
Se ne stava lì, di fronte al cancello di villa Douglas, a fischiettare e a sospirare, e ogni tanto lanciava qualche sguardo fugace all'abitazione. A vederlo da fuori, qualcuno avrebbe detto facilmente che stava aspettando qualcuno; e, in effetti, qualcosa stava aspettando davvero: la forza di volontà.
«Andiamo ragazzo, deciditi ad entrare» borbottò Paul, che se ne stava tranquillamente appoggiato al muro di cinta della villa, in tenuta casual. A vederlo, qualche passante avrebbe potuto pensare che si trattasse di uno di quei fissati di jogging che, per riposarsi, si era un attimo appoggiato alle mura della casa; nessuno certamente avrebbe mai immaginato che si trattasse di un agente della C.I.A., dal mandato di sorvegliare quel lato della dimora di Douglas per ventiquattr'ore al giorno.
Il ragazzo moro sollevò lo sguardo, rivolgendo un'occhiataccia assassina all'omaccione che aveva appena parlato. 
«Secondo me sei prevenuto, Harry. Non può mica essere così male, la ragazza. Ed è anche una gran figa».
Il riccio inarcò un sopracciglio. Paul era una decina d'anni più grande, eppure Harry era convinto fosse di gran lunga più immaturo di lui, che era diciottenne. Poche volte erano stati in missione insieme, ma Harry aveva comunque avuto occasione di conoscerlo a fondo, e di capire di non volerci mai avere niente a che fare. Non gli era mai andato a genio: pensava sempre alle donne ed era svogliato, senza poi menzionare la sua deficienza acuta. Ciononostante era abbastanza bravo nel lavoro che faceva, per questo si era posizionato secondo posto per bravura nella “Graduatoria degli agenti under 30” che la C.I.A. stilava ogni anno; appena sotto ad Harry, che si era guadagnato il primo posto grazie ad una missione suicida portata a termine alle Hawaii giusto l'anno prima. Comunque, non era mai scorso buon sangue tra Harry e Paul, e tale faida non aveva fatto che intensificarsi da quando quest'ultimo aveva visto un ragazzino soffiargli tutta la gloria da sotto il naso.
«È una stronza, caso chiuso» disse Harry con fare decisivo, scuotendo la testa.
«Beh, sei stato tu a ficcarti in questa situazione, no? Problema tuo».
Il riccio roteò gli occhi al cielo, reprimendo il desiderio opprimente di scagliargli un pugno in un occhio.
«Non è stata esattamente una mia decisione» sbuffò il ragazzo. Se in un primo momento aveva odiato con tutto se stesso Niall per averlo fatto finire in coppia con Miss Crudelia Douglas, si era poi ricreduto, dovendo riconoscere che l'idea del biondo l'avrebbe certamente aiutato a sorvegliare la ragazza.
Ma ora che si ritrovava di fronte a casa sua in veste di compagno di ricerca, e che gli si prospettava di fronte un intero pomeriggio da passare con quella barbie stronza, cominciava davvero a dubitare dell'efficacia del piano di Mr. Sarò-il-tuo-agente-in-seconda Horan. E l'idea di dover sopportare quella ragazza un'ora in più rispetto a quelle scolastiche lo mandava in paranoia.
«Ora basta fare la bella statuina, Styles. Al lavoro!» esordì Paul prima di suonare il campanello al posto suo, senza dargli neanche il tempo di riflettere.
Harry gli lanciò un'occhiataccia e si posizionò di fronte al citofono, per poi annunciarsi come “compagno di classe di Charlie”.
Che la tortura abbia inizio.

«Prima di tutto: io non studio biologia. Non l'ho mai fatto e non ho intenzione di cominciare adesso. Il professore mi promuove sempre per non perdere il posto – sai, mio padre-»
«...finanzia la scuola. Sì, sì, lo so» completò Harry la frase della bionda in un un tono piatto e annoiato, roteando gli occhi al cielo.
Lei sollevò un angolo della bocca in un'espressione soddisfatta, mentre entrambi salivano la gigantesca scalinata di marmo della casa, che portava al piano superiore. «Esatto, per cui sappi che non ho intenzione di fare nulla, né di collaborare con te al progetto. E se non ti dispiace la mia firma viene prima, è una questione di cavalleria, no?».
Harry scoppiò a ridere di gusto a quelle parole, tirando la testa all'indietro, tanto che Charlie fu costretta a bloccarsi di fronte alla porta della sua stanza. «Che c'è?» intimò, in attesa.
Lui scosse la testa e sorrise, quella traccia di ilarità che ancora gli aleggiava in volto. «Sei molto divertente, Charlie Douglas» esordì lui, al che la bionda rispose con un fare accigliato. «Mi dispiace per le tue fantasie, ma questo compito dovremo farlo entrambi. E non ho intenzione di farti inserire alcuna firma, a meno che tu non abbia lavorato tanto quanto me, come minimo».
La ragazza lo fissò per più di qualche secondo, e fu sorpresa nel vederlo così serio e deciso. «Non ci penso nemmeno» disse infine.
«Va benissimo». Styles scrollò le spalle prima di prendere nuovamente la direzione delle scale. «Farò sapere al professore che ti sei rifiutata di lavorare. Buona serata».
Charlie sospirò. Di norma non l'avrebbe mai fatto, se ne sarebbe fregata e basta, ma per quanto odiasse Styles sentiva che aveva bisogno di una distrazione al momento. Una distrazione dalla sua testa e dai quei pensieri che le annebbiavano la visione delle cose. Una distrazione che non fossero le telefonate di gossip con le amiche. Sbuffò.
«E va bene Styles, hai vinto. Lavorerò, ma non ho intenzione di sfiancarmi».
Il ragazzo, che ormai aveva raggiunto il primo gradino, si voltò sorridendole vittorioso, e la bionda non poté fare a meno di ridere di fronte alla sua faccia da ebete.
«Questa è la mia camera» proclamò Charlie spalancando la porta della sua stanza con fare quasi solenne. «Ogni cosa qui dentro è preziosa; non toccare, prendere o rubare nulla. Se possibile, evita anche di guardare troppo a lungo gli oggetti. Inoltre, se ci tieni alle tue mani non ti azzardare ad aprire i cassetti. La mia cabina-armadio è off-limits, pena una fine molto dolorosa».
Harry scoppiò a ridere di fronte al suo discorso che sembrava recitato quasi a memoria, e nel fare il suo ingresso nella stanza si guardò intorno incuriosito, come se quella fosse la prima volta che vi metteva piede.
«Posso almeno calpestare il tappeto o anche quello prevede una pena di morte?» scherzò il ragazzo, lasciando cadere per terra il suo zaino in un tonfo sordo.
Charlie roteò gli occhi, «Idiota» sibilò semplicemente, lasciandosi cadere sul letto a due piazze che sovrastava la camera. «Allora, che dovremmo fare esattamente?» chiese.
Harry scrollò le spalle: a dire il vero ne sapeva meno di lei, considerato che prima non aveva mai lavorato ad un progetto in coppia e cose simili – quelle erano cose che si facevano solo nelle scuole. Si guardò attorno mentre pensava a cosa fare e quando il suo sguardo colse il computer alla scrivania si ricordò che solitamente per fare una ricerca erano necessarie le informazioni. «Hai la connessione ad Internet, vero?» domandò a Charlie indicandole il portatile.
«Cos'è, credi che abiti nell'età della pietra? Quello casomai sarai tu» rispose prontamente la ragazza, prima di alzarsi ed andare ad accendere il computer.
Harry roteò gli occhi. «Stento a credere che tu sia sempre così acida con tutti. È umanamente possibile?».
«Io stento a credere che tu abbia un cervello».
Il riccio rise, mettendo in bella mostra le sue fossette da bambino, che si mostravano ogni qual volta ridesse. Charlie, voltandosi verso di lui, non riuscì a non notare che conferissero un che di innocente al suo volto, ma anche di affascinante. Harry non era un brutto ragazzo, anzi. Peccato per la sua deficienza. Ed Harry, nonostante la detestasse e la reputasse una stupida ragazza viziata, doveva ammettere che era divertente.
«Andiamo, sei una vipera! Vivi con il senso di colpa oppure la coscienza è un meccanismo che per te non funziona?» la prese in giro il riccio, in una risata.
Eppure si accorse che di fronte a quella battuta Charlie si era fatta improvvisamente seria e più rigida, come se stesse davvero riflettendo circa le parole di Harry. Quest'ultimo, vista l'espressione di lei, si affrettò a cambiare argomento.
«Allora: mitosi e meiosi, dobbiamo fare la ricerca su questo» proclamò.
«Sembrano i nomi di due partiti politici» osservò la bionda.
«È il processo di riproduzione della cellula per divisione» spiegò il ragazzo con nonchalance, mentre scorreva tra le immagini che Google aveva fornito sull'argomento.
La ragazza sollevò un sopracciglio. «Scommetto che nella tua vecchia scuola eri uno di quei secchioni che passavano il tempo a casa a studiare. Ecco perché adesso sei così sfigato».
Harry rise, divertito. Non si sentiva toccato né offeso dalle parole di Charlie. «Credimi se ti dico che non esiste niente di più lontano dalla verità» disse in un tono che la ragazza non poteva capire. Harry non aveva mai amato particolarmente lo studio, ma era stato costretto per motivi di forza maggiore. «E poi non sono sfigato» si lamentò con una smorfia.
«Secondo me sì. Poi il fatto che te la fai sempre con uno come Horan la dice lunga al riguardo».
Il ragazzo aggrottò le sopracciglia. «Niall è in gamba. Sicuramente meglio delle amichette cheerleader che porti a spasso tu» rimbeccò.
Lei rise, tirando la testa all'indietro. «Andiamo, Niall Horan è l'apoteosi dello sfigato. E tu non sei da meno... Cos'è, aspiri di poter arrivare ad un rango sociale superiore frequentandomi?».
Il riccio assunse un'espressione confusa. «Eh?».
La bionda, per tutta risposta, sorrise amabilmente. «Andiamo, non fare il finto tonto. È inutile che continui a far finta di odiarmi, Styles. L'abbiamo capito tutti che ti sei messo in coppia con me per il progetto perché vuoi provarci. Mi dispiace per te però, perché, per quanto tu abbia un bel faccino, sei terribilmente irritante. E, fondamentalmente, mi stai sulle palle». Charlie completò il suo discorso con estrema nonchalance, senza arrabbiarsi troppo – come di solito le capitava quando parlava con lui – o alterarsi minimamente. Era sorridente, e sembrava l'avesse appena invitato a prendere un tè.
Harry dal canto suo era divertito, perché sapeva che questa “interpretazione” dei fatti sarebbe avvenuta comunque, se non da parte di Charlie sicuramente da qualche altro loro compagno che aveva assistito alla scena avvenuta in classe. Perché solitamente i teen-ager non sapevano farsi i fatti loro, e inventavano storie che non esistevano né in cielo né in terra... chiamate “Gossip”. Tossicchiò, prima di parlare: «Non è esattamente come la pensi tu, principessina. A Niall in realtà piaceva la tua amichetta e, nel tentativo di rimorchiare, ha messo in mezzo anche me. Ecco com'è andata» spiegò con fare diplomatico.
Lei strinse le labbra, guardandolo. «Oh» fece semplicemente, scatenando la risata di Harry.
«Cos'è, ci sei rimasta male?», domandò. La bionda non riuscì a trattenere una smorfia: evidentemente non era una a cui piaceva che i suoi pronostici venissero smentiti con tanta semplicità. Le piaceva vincere. «Se può consolarti, se non fossi così stronza, viziata e piena di te – e soprattutto se io non fossi un agente della C.I.A. impegnato a proteggerti e tenuto a non avere rapporti di alcun tipo con te, aggiunse Harry mentalmente – allora, forse, uscirei con te».

*capitolo scritto da Carla. 


~Note. 
Salve a tutti! Chiediamo scusa se siamo in ritardo con il postare, ma maggio è, come tutti sanno del resto, il mese più orrendo del periodo scolastico; e purtroppo non risparmia neanche noi due! Anzi, probabilmente saremo un po' lentine a postare i prossimi capitoli per via degli impegni con la scuola. Tuttavia ci impegneremo al massimo (:
Dunque, questo è un capitolo più di passaggio che altro, ma vi garantiamo che i prossimi capitoli saranno densissimi e accadranno un sacco di cose che faranno prendere una nuova piega alla fanfiction :) Speriamo che il capitolo vi sia piaciuto.
Ci trovate qui:
 
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Le nostre fanfiction:

Anna: Teenage Dirtbag - Toys.

Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Inaspettato ***



Inaspettato.

Charlie aveva le braccia incrociate al petto mentre osservava le sue due amiche su due piedistalli diversi che si lisciavano i vestiti nuovi di zecca, non ancora acquistati. Erano forse al quinto o sesto vestito in quel negozio, Charlie ne aveva perso il conto e comunque sia era del tutto disinteressata alla faccenda “ballo e affini”.
«Allora?» chiese Caroline alzando un sopracciglio e facendo un giro su se stessa, indossava un vestito rosa porpora.
«Fantastico» commentò la ragazza, e la sua pseudo amica alzò gli occhi al cielo.
«Hai detto così di tutti i vestiti che ho provato»
«È perché ti stanno tutti bene» ribatté immediatamente Charlie pensando che un complimento, il primo apprezzamento autentico di tutta la sua vita tra l’altro, l’avrebbe messa a tacere.
E infatti funzionò, Caroline sorrise «Oh» arrossì addirittura, non era per niente abituata a ricevere complimenti da lei «allora provo l’ultimo e continuiamo il nostro giro» annunciò e sparì oltre i camerini.
«Ti stai annoiando?» commentò Elena rimasta in silenzio fino ad allora; lei indossava un magnifico vestito avorio, di tutti quelli che aveva provato, quello era il migliore.
«Non lo so» rispose sinceramente Charlie, ed era vero, di solito quello era il suo passatempo preferito e si divertiva un modo a giudicare - stroncare per la verità - le scelte altrui. Ma in quel momento non le sembrava così entusiasmante, continuava a pensare a troppe cose contemporaneamente; troppe cose di cui preoccuparsi.
«Comunque io prenderei questo, davvero» aggiunse infine indicando con la mano lo specchio che rifletteva la ragazza elegante, ed Elena sorrise anche se non aveva ancora intenzione di lasciar perdere il comportamento strano della sua amica, perché nonostante tutto le voleva bene e perché sembrava stranamente diversa. Che cosa le era capitato?
«Allora prenderò questo» rispose lisciandosi ancora una volta il vestito che le arrivava al ginocchio, ricordava un po’ quello di Marilyn Monroe nella famosa scena del tombino sbuffante.
«Perfetto» ribatté Charlie.
«E il tuo vestito?» chiese Caroline tornando in un abito blu scuro molto carino.
«Mia madre lo sta facendo realizzare su misura» rispose trattenendosi dal fare una smorfia; come se quello valesse come giustificazione al comportamento che lei e suo padre avevano assunto nelle ultime settimane. Forse Charlie era così perché la colpa era dei suoi genitori, ogni volta che c’era un problema da affrontare, l’avevano scavalcato regalandole qualcosa di costoso. Ma questa volta non avrebbe funzionato, lei voleva sentirsi parte della sua famiglia, che non era poi così tanto numerosa, e niente l’avrebbe distratta. Questa volta, avrebbe preso una posizione.
Quando? Questo ancora non lo sapeva. Ma aveva intenzione di mettere le cose in chiaro una volta per tutte, prima che tutti i pensieri che le affollavano la testa la portassero sull’orlo della pazzia.
«Bello» commentò Caroline anche se dentro di sé stava morendo d’invidia, perché i suoi genitori non erano come quelli di Charlie?
«Io prendo questo qua, ho deciso» aggiunse Elena indicandosi, l’altra annuì disattenta, tanto era poco importante quello che si mettevano addosso le altre, a lei interessava solo di se stessa.
«Ottima scelta» Charlie le fece l’occhiolino e le sorrise, prima di guardare l’altra che si stava specchiando in tutte le angolazioni, sbuffò «Caroline prendi questo, si intona alla tua carnagione» sparò a caso.
«Lo pensi sul serio?» chiese, poi si affettò ad aggiungere sospettosa «e il tuo che colore è?»
«Verde menta» si limitò a dire Charlie, anche se non sapeva esattamente se volesse partecipare a quel ballo o meno. E con chi poi?
Era sicura che se si fosse messa a cercare in due minuti avrebbe trovato un accompagnatore, ma non voleva. Era consapevole, come prima del resto, che le persone la frequentassero solo per il suo importante cognome e perché fosse molto popolare: che la usassero. Adesso però non percepiva più la cosa come un vanto, ma come una degradazione. Lei non sapeva ancora cosa avesse da offrire, ma magari qualcosa aveva, qualcosa al di fuori dei soldi.
Quando uscirono dal quel negozio dirigendosi alla gioielleria, Charlie si voltò indietro un paio di volte, si sentiva osservata. Il centro commerciale era un posto immenso, e lei si era sempre sentita a suo agio in quello spazio pieno di cose alla sua portata, ma in quel momento le sembrava minuscolo e soffocante. Quella sensazione di inquietudine l’accompagnava ormai da qualche giorno, erano emozioni che a poco a poco aveva assorbito dai suoi genitori, e lei lo sapeva bene. Strinse i pungi e aggrottò la fronte arrabbiata, lei meritava una spiegazione, lei aveva il diritto di sapere perché la sua famiglia e la sua vita si stessero via via sgretolando sotto i suoi occhi. Non riconosceva nemmeno più se stessa, anche se forse non si era mai conosciuta abbastanza.
Sobbalzò in prossimità delle vetrate che vibrarono appena quando un rumore forte si propagò nell’aria, alcune persone si voltarono in quella direzione, ma poi proseguirono come se non fosse successo niente.
«Avete sentito?» chiese Charlie richiamando le due ragazze che camminavano a qualche passo di distanza davanti a lei.
«Cosa?» chiese Elena voltandosi per prima.
«Mi è parso di sentire uno sparo».
«Non te ne sei mai accorta? Se ne sentono spesso di spari da queste parti, poco lontano da qua c’è il maneggio, fanno le corse dei cavalli» spiegò Caroline sentendosi chissà quanto intelligente di sapere qualcosa in più, anche se si trattava di una sciocchezza come quella.
«Ah» si limitò ad assentire lei non del tutto convinta, le era parso fin troppo vicino; ma non aggiunse altro affrettandosi a seguire le altre due.

 

Harry chiuse l’occhio sinistro prendendo la mira e sparando un paio di colpi all’uomo con gli occhiali scuri che gli stava di fonte, purtroppo entrambi andarono a vuoto in quanto l’altro si gettò dietro ad un’auto.
Il ragazzo si abbassò lentamente a sua volta dietro ad una di queste, il parcheggio del centro commerciale fortunatamente ne era pieno: un punto a favore e uno a sfavore per entrambi.
«Hai la patente, giusto?» chiese al suo amico che invece di essere spaventato a morte era tremendamente eccitato.
«Sì» assentì e lui tirò un sospiro di sollievo ficcandogli in mano le chiavi della sua preziosa Audi.
«Allora prendi la mia auto e vattene, parcheggiala ad un isolato da qui, ho altre chiavi. E non farti più vedere fino a domani, è chiaro?» lo avvertì Harry.
«Stai scherzando?! Io voglio restare!» il ragazzo gettò uno sguardo ansioso oltre la carrozzeria dietro la quale erano rifugiati, poi appoggiò le mani sulle spalle dell’altro e lo scosse bruscamente sbattendolo dolorosamente contro la portiera, l’amico fece una smorfia.
«Cristo Niall, questo non è un gioco!» sbottò «te ne devi andare! Hai idea di quello che mi farebbero se scoprissero che sei qui? Vuoi morire?» strinse la mascella guardandolo serio «vattene» gli lasciò la maglietta e l’altro si accasciò contro la fiancata dell’auto deglutendo appena.
«Hai ragione, scusa» disse senza fiato ancora spaventato da quella sfuriata, ora sapeva che era meglio non farlo arrabbiare. Harry sembrava sempre così pacato e gentile, ma evidentemente non aveva messo in conto gli altri aspetti del suo carattere. Per essere un agente della CIA doveva ovviamente possedere anche certe qualità che incutevano paura e intimidivano la gente, e lui l’aveva appena testate.
«Va’, ti copro io! Sbrigati, e fa come ti ho detto» l’avvisò senza alcuna traccia di ironia, sbucò fuori dall’alto e un proiettile per poco non lo colpì in pieno. Ma grazie ai suoi riflessi pronti si gettò a terra in tempo, facendo una smorfia quando la sua spalla urtò l’asfalto a malo modo.
Niall scappò nella direzione opposta mentre Harry rispondeva al colpo con una serie da cinque sfregiando un paio di macchine, il biondo salì nell’Audi come gli era stato ordinato, ancora tremante per l’adrenalina che gli scorreva in corpo e mise in moto sfrecciando via: era davvero un piacere guidare quell’auto, si sentiva figo e avrebbe voluto passarci ore girando l’intera città, ma i suoi ordini erano chiari e non aveva nessuna voglia di far infuriare il proprietario.
Harry saltò sul tetto di una delle auto agilmente prima di rifugiarsi dietro, si abbassò per scorgere le scarpe scure del suo avversario ma quello che vide fu solo una chiazza di sangue che si propagava sull’asfalto.
Uscì alla scoperto avvicinandosi, sospirò di sollievo quando si rese conto di non averlo ucciso: l’aveva solo colpito ad una gamba, mentre la sua pistola era volata a metri di distanza.
«Stupido bastardo!» sbottò contro Harry che non si fece impressionare più di tanto, lo prese per il colletto della camicia nera facendolo urlare di dolore quando la sua gamba venne strusciata per terra.
«Mi avete proprio stancato, che cosa volete? Dimmelo!» sbraitò Harry tenendolo per la gola e sbattendolo con poca grazia contro un furgoncino bianco.
L’altro gli rise sfacciatamente in faccia, il suo alito puzzava di alcol e tabacco «Lei. Ma è troppo tardi ragazzino, il mio compito era distrarti» Harry sbarrò gli occhi comprendendo il piano, lasciò andare l’uomo che sorpreso cadde in avanti sbattendo violentemente la faccia sull’asfalto.
Il ragazzo non si prese nemmeno la briga di vedere se fosse ancora vivo dato che non si muoveva più e prese a correre tra le auto precipitandosi all’entrata del centro commerciale, un paio di agenti della sicurezza lo fissarono diffidenti ma non gli prestarono troppa attenzione.
Mentre Harry si guardava intorno decidendo da che parte andare, senza nemmeno guardare il display compose un numero e si portò il cellulare all’orecchio riprendendo a correre in una direzione a caso.
«Harry?» chiese qualcuno dall’altro capo della cornetta.
«Randy, mi hanno teso una trappola. C’è un uomo ferito nel parcheggio del centro commerciale e un altro che sta dando la caccia a Charlie.» il ragazzo si guardò di nuovo intorno, lesse velocemente alcune indicazioni e si affrettò a seguire la freccia che indicava “Abbigliamento & Co.” sapendo che Charlie si trovava lì per il ballo.
«Ci occupiamo noi dell’uomo nel parcheggio» lo rassicurò l’altro «sono appena entrato nel database del centro commerciale» Harry mentre correva udì delle dita scorrere velocemente su una tastiera «dalle telecamere di sorveglianza non noto niente di anomalo, la ragazza si trova in una profumeria, a venti metri da te» lo informò.
«Bene, fammi sapere se noti qualcuno di sospetto» aggiunse prima di chiudere la chiamata ed entrare nel negozio indicatogli. Prese un profondo respiro tentando di riaversi dalla corsa, fece una smorfia e tossì quando un miscuglio di fragranze gli invase le narici, sbatté le palpebre cercando una giustificazione alla sua presenza lì dentro.
«Harry?» lui sobbalzò quando la voce di Charlie lo raggiunse alle sue spalle, così si voltò.
«Ciao Charlie, che sorpresa» disse ridendo nervoso per poi grattarsi la nuca, lei alzò un sopracciglio gettando uno sguardo alle sue amiche che stavano saccheggiando un banco dove molti trucchi erano esposti.
«Che diavolo ci fai qui?» chiese lei tra il confuso e l’infastidito.
«Stavo cercando un…» prese una pausa riflettendo velocemente «regalo per mia madre, sai com’è…lei adora tutte queste cose» deglutì appena indicando con una mano la prima cosa che gli era capitata a tiro.
La ragazza pareva molto scettica ma prima di aggiungere qualcosa si accigliò «che cos’hai lì?» chiese indicandogli la spalla sinistra, quando lui si voltò notò che la camicia a quadri era strappata e sporca di sangue. Sbarrò gli occhi indietreggiando di qualche passo, era stato così concentrato sul dolore dell’altra spalla -quella urtata contro l’asfalto- che non si era nemmeno accorto di essere stato sparato, anche se di striscio.
«Niente di preoccupante» si affrettò a ricomporsi lui comprendo lo squarcio con una mano, quando la spostò nuovamente il suo palmo era imbrattato di sangue.
«Non si direbbe» Charlie era spaventata, ma gettò nuovamente uno sguardo ad Elena e Caroline. Poi fece qualcosa d’inaspettato: lo prese per mano. «Vieni» disse solo, trascinandolo fuori dal quel negozio.
«Davvero, non è niente!» protestò Harry, ma lei era testarda e non parve nemmeno ascoltarlo. Si diresse verso i bagni, anche se non sapeva nemmeno lei perché si stesse comportando in quel modo o se volesse davvero allontanarsi dalle sue amiche per quello lì.
Probabilmente non voleva avere nessun conto in sospeso con lui; dato che una volta, mentre era in lacrime per quello stupido di Matt, lui l’aveva “consolata”. Forse quella era stata la prima, vera volta in cui Charlie aveva aperto gli occhi su quello che c’era intorno a lei, grazie ad Harry. Ora voleva fare qualcosa per sdebitarsi, anche perché quel ragazzo era l’unico ad essere schietto e sincero col mostro che era, e magari aveva anche ragione.
Prese alcuni strappi di carta e li mise sotto l’acqua che scorreva abbondante «non fare quella faccia, togliti la camicia e basta» borbottò lei senza troppe cerimonie. Lui dal canto suo era davvero scioccato, mai si sarebbe aspettato un gesto tanto premuroso da Satana.
Harry si tolse la camicia rimanendo a torso nudo ed esaminandosi da solo il graffio, era profondo ma non abbastanza da volerci dei punti, sicuramente in un paio di settimane si sarebbe rimarginato da solo.
Charlie alzò le sopracciglia guardandolo dallo specchio di fronte a lei e deglutì, il corpo di lui era molto muscoloso ed imponente e lei si stava chiedendo come aveva fatto a non notarlo prima. I muscoli delle sue braccia erano definiti e sodi, i pettorali e gli addominali erano ben visibili sotto la pelle chiara.
I loro sguardi di incrociarono e lei distolse immediatamente il suo voltandosi verso di lui, prese il suo braccio senza fiatare e lo sporse sotto la luce, c’era ancora del sangue che riempiva la ferita ma non sembrava poi tanto grave.
«Rimorsi di coscienza? Speri che una buona azione ti assicuri un posto in paradiso?» commentò Harry sarcastico prima di lasciare un sonoro gemito di dolore quando lei premette in modo indelicato la carta bagnata sul profondo graffio.
«Non potresti ringraziare e basta, idiota?» ribatté lei irritata, anche se probabilmente sotto sotto era divertita almeno quanto lui.
«Grazie», «Prego» dissero entrambi ironicamente. Ci fu un attimo di silenzio prima che cominciassero inspiegabilmente a ridere. Era così strano usare certe parole l’uno l’atro, dato che di solito si insultavano reciprocamente.
Dei rivoli di sangue misti ad acqua scivolarono lungo il braccio muscoloso di Harry finendo poi per terra. Entrambi, dopo l’attacco di ilarità, guardarono le chiazze rosso sbiadito sul pavimento; lui stava pensando ad una scusa plausibile per giustificare quanto era successo e lei rifletteva su cosa avesse mai potuto combinare uno che sembrava così innocuo per ferirsi così.
Ma i pensieri di entrambi furono interrotti presto dalla suoneria stridula che emanò il cellulare di Harry, lui riconobbe il numero sullo schermo e lanciò uno sguardo a Charlie prima di rispondere «Dimmi, mamma» disse disinvolto nonostante fosse una bugia, lei soffocò una risatina.
«Harry, ho intercettato un tizio sospetto nel parcheggio sotterraneo del centro commerciale. Era appostato di fianco alla macchina della ragazza, ma ce ne siamo già occupati noi. Via libera.» il ragazzo annuì.
«Nessuno dei due ha confessato?» aggiunse poi sottovoce approfittando del fatto che Charlie si era allontanata un po’ per prendere dell’altra carta.
«Non ce n’è stato il tempo, si sono uccisi quando hanno capito di essere in trappola» sbuffò Randy seguito da Harry, com’era possibile che un uomo si suicidi per una stupida banda di ladri?
«Certo mamma, capisco» si affrettò a dire quando Charlie tornò «ci vediamo dopo» e staccò la chiamata.
«La tua mammina ti ha detto di tornare a casa?» chiese lei impertinente, Harry fece un sorriso sarcastico.
«Purtroppo la mia mammina non è così permissiva come la tua» aggiunse anche se era praticamente il contrario, ma vide lo guardo di lei farsi più serio e cozzare col pavimento del bagno. Che aveva detto di sbagliato?
Charlie fece un sorriso storto «È meglio che torni dalle mie amiche, si chiederanno che fine ho fatto» disse alla svelta mollandogli in mano la carta umida. Perché mai aveva aiutato quello lì? Lei lo odiava!
Harry si sentiva in dovere di dire qualcosa, come se si dovesse scusare, ma invece disse: «d’accordo» relazionarsi con le persone non era proprio il suo forte, ed evidentemente nemmeno quello di lei.
Si guardarono per un attimo «dovresti stare più attento, comunque» aggiunse infine Charlie prima di sparire oltre la porta e lasciarlo lì confuso e in colpa.
Perché mai doveva sentirsi in colpa per quella lì? Lui la odiava!


*capitolo scritto da Anna. 

~Note.
Okay... chiediamo scusa. Sappiamo di avervi fatto aspettare TANTO (ma davvero tanto), ma questi ultimi mesi sono stati un susseguirsi di avvenimenti e vacanze e partenze e blocchi dello scrittore da parte di entrambe quindi è stato praticamente impossibile! Ci dispiace tanto, speriamo comunque che il capitolo vi sia piaciuto, anche perché qui comincia ad intravedersi la nascita di una sorta di tregua tra Charlie e Harry... o no? Lo scoprirete nei prossimi capitoli - che arriveranno presto, promettiamo. O, per lo meno, non tardi come questo qui.
Grazie a tutti quelli che seguono la ff e che sono qui ancora a leggere e a recensire! <3 Passate delle buone vacanze (:

Ci trovate qui:
@charliebelieves (Carla) e @camseyes (Anna).
Le nostre fanfiction:
Anna: Teenage Dirtbag - Toys.
Carla: Prima della partenza - Lucky I'm in love with my best friend.
Un bacio - Carla&Anna.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Una buona scusa ***




Una buona scusa

«Allora, cos'è che stai combinando esattamente con la signorina Douglas?» esordì Bill, interrompendo il silenzio che fino a quel momento aveva regnato sovrano nel salotto di casa Douglas; rivolse ad Harry uno dei suoi soliti sorrisi apparentemente cordiali ma che, il ragazzo lo sapeva bene, nascondevano una nota di scherno. Oltre a questo, stavolta Harry distinse anche una sorta di rimprovero nella voce dell'anziano uomo.

Il ragazzo corrugò la fronte mentre osservava accigliato i suoi pezzi neri sulla scacchiera, in netto svantaggio rispetto a quelli del suo avversario. Bill lo batteva sempre a scacchi: era stato proprio lui ad insegnargli il gioco, anni prima, e da quel momento il riccio non aveva mai smesso di sfidare il maestro, nella speranza di poterlo battere un giorno. Era il loro passatempo preferito, si rilassavano facendo una chiacchierata e bevendo qualcosa di fronte ad una scacchiera ricolma di enigmi; e quella era una delle poche occasioni in cui Harry si sentiva a casa. Poco importava che fosse chilometri e chilometri distante dalla sua vera casa, perché a lui bastava fare qualcosa di familiare per stare bene: qualcosa che lo facesse sentire Harry e basta, non Harry Styles, agente della CIA del dipartimento di New York.
Solo Harry.
Il ragazzo mosse una delle sue pedine, un po' svogliatamente: ormai era certo di aver perso. «Cos'è che starei combinando?» domandò con fare curioso e innocente, anche se sapeva esattamente a cosa Bill si stesse riferendo.
Gli occhi celesti dell'uomo lo scrutarono con la massima gentilezza, e le sue labbra gli rivolsero un breve sorriso, prima che tornasse a donare la sua concentrazione alla partita. «Beh, quel progetto di... cos'è? Chimica? Biologia? Sei sicuro che sia solo un pretesto per sorvegliare meglio la ragazza? O c'è dell'altro?» incalzò.
Il riccio sollevò un sopracciglio. «Assolutamente no» disse e si accorse solo dopo di aver alzato la voce di un'ottava, perché si beccò un'occhiata assassina da parte di Andrew, il quale faceva zapping tra i canali della televisione, impostata sul muto. Ed Harry ancora stava a domandarsi che senso avesse.
Erano le tre di notte e fuori era buio. L'intera famiglia Douglas dormiva beata al piano superiore, mentre Harry faceva mentalmente il countdown per quelle che sarebbero state le sue due preziosissime ore di riposo notturno.
«Sto solo lavorando per proteggerla al meglio» aggiunse riducendo la voce ad un sussurro, senza però incrociare lo sguardo educato dell'uomo anziano, e concentrandosi piuttosto sui pezzi della scacchiera.
Bill sorrise, lasciandosi andare ad una risata leggera. «Scusa ragazzo mio, è che ti ho visto passare parecchio tempo con lei, ultimamente. E dato che sembrate andare d'accordo... e poi lei è una ragazza piuttosto piacente» disse con tranquillità, sollevando di poco le spalle.
Harry strinse le labbra, pensieroso. Era vero, ultimamente lui e Charlie avevano passato del tempo insieme, ma unicamente per il progetto di biologia. E, per qualche strana ragione, dopo l'episodio avvenuto in bagno al centro commerciale, sembravano anche essere giunti ad un tacito accordo di pace. Certo, Charlie era sempre la solita Charlie ed ogni tanto si punzecchiavano, ma avevano scoperto che, seppur attraverso numerosi sforzi e sacrifici vari, andare d'accordo era possibile. Per carità, Charlie era anche una bella ragazza. Molto. E sotto quella corazza da ragazzina stronza e viziata probabilmente da qualche parte si nascondeva un cuore, ma, nonostante questo, Harry sapeva bene quale fosse la sua missione. E conosceva le regole: i fatti personali dovevano sempre restare fuori.
«Andiamo Bill, per chi mi hai preso? Conosco bene le regole. Non mi sognerei mai di far saltare in aria la missione per un affare personale».
L'uomo corrugò le sopracciglia, e poi si distese in un sorriso rilassato. «Ah sì? E allora perché sei qui, Harry?».
Il ragazzo esitò, serrando la mandibola. Sapeva esattamente dove Bill voleva andare a parare. «Spencer mi ha offerto l'incarico» disse semplicemente, con una scrollata di spalle. In realtà Gregory Spencer per primo aveva sfruttato il suo desiderio di vendetta nei confronti del The Game per la morte di suo padre per fargli accettare la missione, e proprio per questo Sam si era opposto fino all'ultimo. Quello di certo non poteva essere considerato un affare “non-personale”.
«Suvvia Harry, avresti accettato se non si fosse trattato del The Game? Morivi dalla voglia di passare un po' di tempo con tua madre ed i tuoi fratelli quando sei tornato da Monte Carlo».
Il ragazzo sospirò. Era inutile mentire, perché Bill lo conosceva troppo bene. Fin da piccolo, Harry era stato la sua ombra al dipartimento, specialmente dopo la morte di suo padre. Gli aveva insegnato tutto lui: come tenere in mano una pistola, come centrare il bersaglio al primo colpo, come trovare dei nascondigli in situazioni estreme... Insieme a Sam, era per lui un secondo padre. Come poteva mentire proprio a lui? «Bill, cosa avrei dovuto fare? Sai benissimo quanto voglia vendicarmi e quanto odi quei pazzi maniaci, ma non per questo ho intenzione di rovinare il lavoro di tutti. Devo solo... Voglio solo esserci, quando li prenderemo. Voglio guardare in faccia l'artefice di tutto questo e vederlo mentre supplica per non essere sbattuto in prigione, con le manette ai polsi. Voglio vederlo marcire dietro alle sbarre, sapere che mio padre non è morto invano, capisci?».
Bill osservò il ragazzo parlare, i suoi espressivi occhi verdi accesi per l'intensità e la sincerità di quel discorso, le sue labbra che non si fermavano un attimo e le sue mani, dalle dita lunghe e affusolate, che gesticolavano animatamente. Poi si lasciò andare ad un lieve sospiro. «Sei testardo ragazzo, proprio come tuo padre». Harry sollevò un angolo delle labbra e scosse la testa. «Ma tuo padre comunque non è morto invano. Des era un bravissimo agente, un grand'uomo, ed un padre eccezionale. E sarebbe fiero di te in ogni caso. Non hai bisogno di vendicarti, Harry. La vendetta è per i deboli».
Il ragazzo abbassò lo sguardo, pensieroso. Pensò che Bill aveva ragione, in fondo. Che dopo tutto era la CIA ad avere un conto in sospeso con il The Game, e non lui con l'assassino di Des Styles. Per lui era difficile da accettare, e forse doveva ancora rimuginarci un po' su, perché gli faceva male, ma era inutile cercare vendetta in questo modo. Aveva promesso a Sam, a sua madre e a Bill di non farsi travolgere dagli eventi, di non essere sconsiderato. Non lo avrebbe fatto. La missione era più importante, e qualsiasi desiderio di vendetta non ne sarebbe valso la pena.
«Grazie, Bill» disse con sincerità, sollevando lo sguardo ed incrociando gli occhi celesti dell'uomo. Entrambi lo sapevano, quello era un grazie che significava tante cose: “ti voglio bene” prima di tutto; Harry però non era mai stato molto espansivo con le parole, specie quando si trattava di sentimenti. Ma andava bene così, perché l'uomo aveva già capito tutto.
Bill sorrise ad Harry di rimando, con fare paterno. «Scacco matto» disse infine muovendo un pezzo sulla scacchiera, con uno dei suoi sorrisi vittoriosi stampato sul volto.


Charlie era sola.
Era anche piuttosto nervosa, perché quella sera nessuno sembrava prestarle attenzione; o meglio, ogni tanto qualcuno le rivolgeva un'occhiata curiosa, probabilmente chiedendosi che diavolo ci facesse Charlie Douglas ferma in un angolo a rigirarsi i pollici durante il ballo scolastico, ma per il resto nessuno si era ancora avvicinato a più di mezzo metro da lei. Questo anche per colpa della sua espressione: sembrava parecchio infastidita, e a nessuno piaceva intrattenere una conversazione con Charlie Douglas quand'era arrabbiata.
La verità era che si stava annoiando. Se ne stava in un angolo, le braccia lungo i fianchi ed i tacchi vertiginosi delle sue Jimmy Choo che ogni tanto sbattevano l'uno contro l'altro, proprio come quelli di Dorothy ne “Il Mago di Oz”. In quale universo parallelo la reginetta indiscussa di tutte le feste e ricevimenti si annoiava?
Chiunque l'avesse vista, quella sera, non avrebbe potuto fare a meno di notare che era particolarmente bella. Più bella del solito. I boccoli biondi le ricadevano morbidi sulla schiena, lasciata leggermente scoperta dall'abito che Eloise le aveva fatto confezionare su misura, e che le donava parecchio; i suoi occhi grandi erano messi in risalto da una quantità industriale di mascara nero sulle ciglia, che rendeva il suo sguardo decisamente più penetrante.
Eppure era stato tutto inutile, pensò Charlie sconsolata. Per chi si era fatta bella, quella sera? Non aveva un accompagnatore: era stato uno scandalo per le altre cheerleaders, ma si trattava di una sua scelta personale. Aveva avuto alcune richieste da parte di ragazzi che, presi di coraggio dalla sua rottura con Matt, avevano provato ad invitarla al ballo, ma lei aveva rifiutato prontamente. Aveva pensato che sarebbe stato divertente passare una serata tra amiche, ma Caroline era sparita con un ragazzo bruno appena conosciuto ed Elena era finita a ballare con Niall Horan, lasciandola completamente sola al suo destino.
Di Harry Styles nemmeno l'ombra. Non che le importasse, certo. Immediatamente si diede uno schiaffo in fronte, come per punirsi di quel pensiero: che cosa avrebbe dovuto importarle di dove fosse Styles? Vero era che negli ultimi giorni le acque tra loro due si erano calmate, ma lui rimaneva sempre Harry Styles e lei Charlie Douglas. Incompatibili a vita. Giusto? Giusto.
Eppure, ogni dove Charlie andasse, lui saltava fuori. A scuola aveva l'armadietto accanto al suo, condivideva tutte le lezioni con lei, e come se non bastasse lo incrociava da ogni parte – perfino in profumeria. Forse per questo un po' si aspettava di vederlo sbucare all'improvviso anche lì. Scosse la testa velocemente, come a voler allontanare via quei pensieri.
Spostò lo sguardo verso la folla confusa che si scatenava in pista, riuscendo a distinguere qualche faccia familiare: Elena che ballava con Niall Horan, con fare forse un po' timido; Matt con le labbra attaccate a quelle di una moretta che non conosceva, e fu sorpresa di accorgersi che la cosa non le creava alcun fastidio; Caroline ballava con la sua nuova conoscenza, e poco lontano Zayn Malik ci provava con una del terzo anno.
Sembrava una festa proprio divertente, da fuori. Ma Charlie non era mai stata dalla parte opposta del divertimento.


Harry era solo.
Si guardava intorno con aria annoiata, tenendo tra le mani un bicchiere di punch che non aveva neanche assaggiato. Se non fosse stato per Charlie, non si sarebbe mai sognato di andare a quella stupida festa. Non capiva che bisogno avesse un liceo, promotore dell'istruzione e del sapere, di organizzare un evento così grossolano e di cattivo gusto come il ballo scolastico. Non aveva alcuna utilità pratica, se non quella di mettere chiaramente in ridicolo quei teenagers che indossavano abiti eleganti e pomposi, e che a distanza di qualche anno si sarebbero tremendamente vergognati delle foto scattate quella sera. Harry sorrise, guardando l'accozzaglia di gente che saltava su e giù a ritmo – si fa per dire – di musica. Tra questi c'erano anche Zayn, Liam e Niall, che ballavano con delle ragazze che il riccio non si era preoccupato di identificare; così come loro tre non si erano preoccupati di abbandonarlo da solo in un angolo della palestra. Non che gli dispiacesse, in fondo.
Approfittando del momento di solitudine, recuperò il cellulare dalla tasca dei pantaloni e chiamò uno dei primi numeri nella lista dei Preferiti. «Randy?» esordì non appena udì l'interlocutore rispondere alla chiamata, «Tutto a posto lì fuori?».
«Harry, tutto regolare. Se ci dovesse essere qualcosa di strano ti avvertiamo immediatamente», rispose l'altro. I colleghi di Harry erano appostati nel cortile della scuola, in un finto camioncino di una lavanderia anonima, pronti a muoversi di fronte al minimo sospetto.
«Perfetto. Ci aggiorniamo più tardi» annuì lui.
«D'accordo, non perdere di vista la ragazza» fece Randy appena prima di interrompere la chiamata.
Il riccio si guardò intorno mentre riponeva il cellulare in tasca, e fu sollevato nel vedere che Charlie non si era mossa di un millimetro dal luogo in cui l'aveva vista l'ultima volta.
Sollevò un sopracciglio: questo era anche parecchio strano. Se ne stava in un angolo della palestra guardandosi intorno, quasi spaesata. Come se si sentisse a disagio.
Harry, dal canto suo, avrebbe anche potuto rimanere lì, o sedersi da qualche parte, sorseggiando finalmente quel suo benedetto punch, e restare a fissarla da lontano; eppure, quasi involontariamente, si rese conto di star avanzando verso di lei, con passo deciso ma disinvolto. E, quando si accorse della stupidaggine che aveva appena commesso, era ormai troppo tardi per tornare indietro.
«Non balli, stasera?» domandò attirando l'attenzione di lei, e subito dopo si maledisse perché, tra tutte le battute orribili con cui poter cominciare una conversazione, lui aveva scelto di gran lunga la peggiore.
Charlie lo guardò e fece una smorfia, per poi sorridere semplicemente. «Sarebbe un po' ridicolo ballare lì da sola, non credi?» fece la ragazza indicando la pista e, voltandosi, Harry si accorse che erano tutte coppiette.
«Oh» disse semplicemente, guardandosi intorno, un po' a disagio. Nel frattempo Charlie lo scrutava incuriosita. «Del punch?» disse infine, porgendole il bicchiedere di plastica che teneva in mano, ancora pieno di quel liquido arancione. La ragazza sollevò un sopracciglio, scettica. «Tranquilla, non ci ho sputato dentro, né niente di simile» rise lui, e la bionda non poté fare a meno di trattenere una risata, prima di prendere il bicchiere e mandarlo giù con qualche sorsata.
Quando tornò a guardare Harry rideva, per un motivo a lui ancora oscuro. Inclinò un po' la testa di lato, sollevando un sopracciglio. «Vuoi ballare?» chiese, e prima che lui potesse rispondere lo trascinò in pista, in mezzo alle altre coppie.
Perfetto meditò il ragazzo fra sé e sé: quella era proprio la volta buona in cui sarebbe riuscito a far saltare la propria copertura. Immaginava già le grasse risate che si sarebbero fatti Louis e Bill non appena avrebbero scoperto che aveva fatto fallire una missione intera perché non sapeva ballare. Avrebbe voluto opporsi, perché davvero non aveva idea di come e da dove cominciare, ma ormai Charlie l'aveva trascinato al centro della pista e non poteva tirarsi indietro.
Si guardò intorno esitante, e quando Charlie intrecciò le mani dietro al suo collo lui appoggiò le sue ai fianchi di lei, e cominciò ad ondeggiare un po', cercando di imitare le altre coppie, a ritmo di quel lento melenso in sottofondo. Davvero Charlie l'aveva trascinato in pista per ballare quella cosa?
Lei, in realtà, dal canto suo non sapeva perché gli avesse chiesto di ballare. Probabilmente perché si sentiva sola, e voleva scatenarsi e non pensare ad altro. O forse perché, doveva ammetterlo, Styles era particolarmente bello quella sera: aveva indosso dei pantaloni ed una giacca neri sopra ad una semplice camicia bianca, senza cravatta. Era diverso dagli altri, più essenziale. Si muoveva con una disinvoltura tale che in qualche modo sembrava quasi che ci fosse nato dentro, a quell'abbigliamento. E ciò lo rendeva quasi... sexy. La bionda si maledisse subito per quel pensiero.
«Sei una frana a ballare, Styles» lo schernì, sollevandosi per incrociare lo sguardo di lui.
Harry si lasciò andare ad una breve risata, anche se un po' nervosa. «Scusa tanto, è che solitamente a casa non mi alleno con il mio manichino personale. Sai, ho di meglio da fare... Ma me ne ricorderò per la prossima volta».
La bionda rise, sinceramente divertita. «In effetti non pensavo di vederti qui, stasera. Non sembri proprio il tipo a cui piace questo genere di feste...».
Il riccio annuì. «No, infatti. Sarei volentieri rimasto a casa a far nulla, eppure...».
«Eppure?».
«Eppure mi hanno costretto» confessò sincero.
«Sul serio? E chi?».
«Niall» mentì stavolta, «Non voleva venire da solo e così gli ho fatto compagnia».
«Oh» annuì Charlie, senza sapere esattamente cosa dire.
«Solo che adesso mi ha dato buca» osservò lui un po' accigliato, fingendosi offeso; in realtà non gli importava più di tanto.
«Sta ballando con Elena» affermò la bionda, con lieve sdegno. «Lei ha dato buca a me per lui!» disse, e poi scosse lievemente la testa.
«Non sia mai!» Harry rise, mentre si dondolavano stranamente tra quella mischia. «Per me sono una bella coppia» osservò pensieroso.
«Sai che cosa penso del tuo amichetto, Styles» commentò Charlie roteando gli occhi al cielo. «Ma nonostante sia un idiota patentato, sembra anche gentile. Penso che potrei accettarlo. Spero solo che non la faccia star male».
Il ragazzo sollevò un sopracciglio, scettico. «Oh, da quand'è che la signorina Charlie Douglas si preoccupa per qualcun altro che non sia se stessa?» scherzò, con fare divertito.
La bionda spalancò gli occhi, per poi slacciare le braccia dal suo collo e rifilargli un pugno sul braccio. «Stronzo» borbottò accigliata, prima di allontanarsi verso l'uscita, abbandonando Harry da solo in mezzo alla pista.
Sbuffò. Perché doveva sempre rovinare tutto?
E, mentre si dirigeva anche lui verso l'uscita per rincorrere Charlie, si diede dello stupido: rovinare cosa? Cosa c'era esattamente tra lui e Charlie? Aveva davvero ballato con lei per tenerla d'occhio meglio? Scosse la testa, scrollando via quei pensieri: non voleva darvi troppo peso, per ora. Si limitò a correre fuori, nel cortile, con addosso la terribile sensazione di starsi lasciando travolgere troppo dagli eventi, ancora una volta.
«Charlie!» la chiamò, avendola intercettata nell'oscurità del cortile della scuola, illuminato unicamente da qualche lampione qua e là e da alcune lanterne di carta appese per l'occasione. La ragazza, sentendosi chiamare, aumentò il passo, facendo ticchettare più rumorosamente i suoi tacchi contro l'asfalto.
Harry tuttavia non ci mise troppo a raggiungerla e ad afferrarla per un polso, costringendola così a voltarsi.
«Charlie mi dispiace, io stavo... Oh», le parole di Harry, ansimanti per la corsa e l'urgenza del momento, si affievolirono lentamente non appena il ragazzo notò l'espressione di lei: aveva gli occhi colmi di lacrime, e singhiozzava sommessamente, mentre queste scivolavano con lentezza lungo le sue guance arrossate per la corsa e per il freddo. «Scusami, io non volevo» borbottò infine, dispiaciuto.
Charlie distolse lo sguardo, liberando il polso dalla presa di lui. «Non importa. Tanto hai detto la verità».
«Scusa?» domandò lui, la voce più grave per la sorpresa.
«Pensi che non lo sappia, che sono una stronza egoista?» sbottò lei, facendo un passo indietro per fronteggiarlo meglio. «Oh, lo so bene. E tratto male la gente, so anche questo. E forse ce l'ho con te perché sei stato l'unico a dirmelo chiaramente in faccia. È che fino a poco fa pensavo che la vita fosse rosa e fiori, perché nessuno mi faceva notare tutto il marcio in cui vivo. Ma il mio ragazzo si faceva tutte le troie della scuola, rendendomi ridicola. Le mie cosiddette migliori amiche parlano male di me alle mie spalle. E i miei genitori mi tengono nascosto qualcosa, qualcosa di grave; come se fossi una bambina di cinque anni che non capisce le cose. E mi fa imbestialire, capisci? E tutto questo mi sembra una gran cazzata! E io ci sono dentro, e mi sento come in una campana di vetro. E, oh, è tutto così stupido, non è vero?».
Harry la fissò qualche istante, interdetto. Batté le palpebre più volte, mentre lei se ne stava a fissarlo con le lacrime agli occhi e il fiato corto, come se avesse appena compiuto uno sforzo immane. Il ragazzo poi scosse la testa e fece un passo verso di lei, intenerito da quella visione. Charlie lo guardò, in attesa, confusa e stremata dalla confessione che aveva appena fatto.
«Niente è stupido», mormorò semplicemente, in un tono più basso e dolce, posando una mano sul suo collo; lentamente le si avvicinò, per poi unire le sue labbra a quelle di lei.
Poco lontano, in un furgoncino bianco e malandato, due spie della CIA osservavano la scena stupite; questa volta Styles avrebbe dovuto trovare proprio una buona scusa.  


*capitolo scritto da Carla. 

 

~Note.
...
Non preoccupatevi, non siamo morte. Non siamo state risucchiate da un buco nero spazio-temporale che ci ha condotte in un'altra epoca (ndr, vedi 1800) né ci hanno rapite gli alieni e trascinate su un altro pianeta per esperimenti sugli umani. Siamo alive, solo che negli ultimi mesi io - Carla - sono stata presa da un forte blocco dello scrittore per quanto riguarda questa storia e ho rimandato anche troppo la scrittura - mi scuso immensamente. 
Abbiamo ricevuto moltissime sollecitazioni a postare negli ultimi mesi e lo sappiamo che è davvero tardi, però speriamo che ne sia valsa la pena aspettare (: Finalmente in questo capitolo Charlie e Harry si baciano! Da questo momento in poi gli eventi cambieranno radicalmente, quindi stay tuned. Cercheremo di essere più puntuali con il prossimo capitolo, scusate ancora.
Un bacio!
Questi sono i nostri account twitter: @leultimeparole - @secolidiparole
Le nostre altre storie:


Al prossimo capitolo!  
Carla e Anna xx

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Il gioco dell'oca ***




Il gioco dell'oca


Il gioco dell’oca.
Harry rise tra sé anche se non ci trovava niente di divertente, a dir la verità trovava la cosa inquietante. Come poteva in un momento come quello, riuscire a pensare ad un’attività così stupida come il gioco dell’oca? Dato che era in tema, probabilmente era stato influenzato a tal punto da riuscire a confrontare la sua intera esistenza con quel gioco, e trovarci anche delle forti similitudini. Sospettava che da qualche parte lassù qualcuno si stesse divertendo a manovrare la sua vita per puro divertimento.
Era tutta una questione di dadi e fortuna, di caselle e pedine, strategie inutili e meccanismi mentali sopravvalutati: lui non era più padrone di se stesso, anzi, non lo era mai stato. Tutto si riduceva al caso, la sua vita era un continuo susseguirsi di casi:
Era un caso che suo padre fosse morto in una partita che era diventata poi reale. Era un caso che lui avesse intrapreso la sua stessa carriera solo per vendetta. Era un caso che fosse un agente piuttosto dotato nonostante la sua età. Era un caso che gli avessero affidato quella missione, e sicuramente era un caso che la sera precedente avesse fatto la cosa più stupida della sua vita.
Doveva per forza essere così, non c’erano altre spiegazioni che motivassero un tale gesto, insulso tra l’alto. Che diavolo gli era saltato in mente?
«Che diavolo ti è saltato in mente?» Niall diede eco alla sua stessa domanda, questa vorticò per un po’ nell’aria ed Harry desiderò con tutto se stesso che venisse risucchiata dal finestrino aperto della sua Audi in corsa, così da non avere modo di rispondere. Anche perché, di risposte concrete non ne aveva nemmeno per le sue di domande.
«Non lo so» rispose appunto senza staccare gli occhi dall’autostrada.
«E cosa gli dirai adesso?» continuò il biondo contribuendo ad accrescere la frustrazione dell’amico che cominciava a perdere la pazienza.
Fece spallucce «magari non se ne sono accorti, o se lo sono dimenticati. O meglio ancora, decideranno di far finta di niente. Sarebbe fantastico, meraviglioso» blaterò Harry con convinzione, l’amico alzò le sopracciglia scettico e per quanto lui non volesse ammetterlo e cercasse di autoconvincersi del contrario, aveva ragione. Si stava solo prendendo in giro, certo che se ne erano accorti! Loro sapevano sempre tutto, vedevano sempre tutto.
«Ma perché l’hai baciata?» si azzardò Niall non sapendo se scoppiare a ridere o dispiacersi per lui, insomma: vipera Douglas? Per quanto possa essere bella, nessuno mai sano di mente si sognerebbe di baciarla.
Harry sbuffò «non lo so» ripeté scocciato «mi ha fatto pena, tutto qui. Era lì che piagnucolava su quanto il mondo sia crudele e a quanto lei ha contribuito a renderlo orribile che mi sentivo in dovere di fare qualcosa…» si giustificò.
«Ha detto così?» chiese Niall sgomento.
L’altro annuì «sì, una specie» borbottò in risposta.
«Ma resta il fatto che tu sei un agente in missione segreta, e che i tuoi colleghi hanno visto un bacio. Credi che si berranno la stessa storia?» domandò.
«Non lo so» disse per la terza volta Harry cercando di ragionare, in più si stavano allontanando troppo dalla città, dovevano tornare indietro prima della fine delle lezioni.
«Che diavolo significa che non lo sai? Andiamo Harry, devi prenderti la responsabilità delle tue azioni!» sbottò, non voleva di certo che lui perdesse il lavoro per quella lì.
Il diretto interessato strinse la mascella e le mani sul volante facendo scricchiolare il cuoio, nello stesso momento in cui Niall si aggrappò al sedile di pelle nera; Harry inchiodò il piede sul freno e sterzò bruscamente cambiando direzione. Col coro di molti clacson in protesta, si intrufolò in una strada sterrata che fiancheggiava l’autostrada e si allontanò a tutta velocità prendendo la direzione dei boschi e lasciandosi una nuvola di polvere alle spalle che rese opaca la vernice dell’auto nero brillante.
Quando furono abbastanza lontani dalla strada principale, Harry spense il motore e si voltò verso Niall che ancora guardava terrorizzato davanti a sé il percorso di tutta la sua vita fino a quel momento.
«Credi che non sappia che devo prendermi la responsabilità delle mie azioni?!» urlò riportandolo bruscamente accanto a sé «Credi davvero che io non sappia che quello che ho fatto non è certo passato inosservato? Credi che non sappia che sia una cosa del tutto priva di logica? Questa è una catastrofe! Mi sbatteranno fuori dalla CIA per un momento di pietà, io non dovrei nemmeno sapere che cos’è la pietà! Posseggo una pistola cristo santo, sono in grado di uccidere le persone! Eppure non riesco ad essere razionale con una stupidissima ragazza! Non verrò mai a capo di questa faccenda, non saprò mai com’è morto mio padre e questi diciotto anni saranno stati uno spreco di tempo!» sbottò drammatico Harry a gran voce infilandosi le mani tra i capelli e reclinando la testa in avanti nascondendo il viso contro il volante.
Niall lentamente tentò di riaversi dallo shock della corsa spericolata e sospirò sollevato tastandosi il petto rendendosi conto di essere ancora tutto intero. Poi si voltò verso il suo amico e gli diede una pacca affettuosa sulla schiena.
«Okay, mi dispiace di aver fatto tutte queste domande, cercavo solo di capire. Questa non è una catastrofe, ci faremo venire in mente qualcosa» tentò di rassicurarlo. Poi sobbalzò quando uno squillo penetrante si propagò nell’auto, Harry rialzò la testa di scatto e posò un dito sulle labbra di Niall.
«Non fiatare» disse sottovoce, premette un tasto alla destra del clacson: «Styles» rispose efficiente.
«Harry, dove sei?» fu la voce di Bill a parlare dall’altro capo della cornetta, sembrava calmo, forse anche troppo.
Lui deglutì, mai come in quel momento aveva avuto così tanta paura «in giro» disse dopo un’accurata selezione di parole.
«Perché non sei a scuola?» il suo tono non era per niente rassicurante, Harry ci avrebbe scommesso la sua Audi che era furioso.
«Non mi andava di andare a scuola oggi» si giustificò alzando le spalle nonostante lui non potesse vederlo, Niall accanto a lui gli lanciò un’occhiata del tipo: “attento a ciò che dici” come se lui da solo non lo sapesse già.
«Oh certo, è senz’altro un ottimo motivo per disubbidire agli ordini che ti vengono dati. Vorrà dire allora che oggi, me ne starò sdraiato sul divano mentre il mio protetto: VIENE RAPITO!» urlò facendo sobbalzare i due ragazzi, Niall sbatté addirittura la testa contro il soffitto dell’auto.
«Charlie è stata rapita!?» sbraitò Harry sbarrando gli occhi.
«No, fortunatamente. Ce ne siamo accorti in tempo, ma non grazie a te. Che diavolo ti sta succedendo Harry? Che cosa ti sei messo in testa? È diventato troppo per te questa missione?» continuò Bill alzando la voce.
«No, io…»
«Non voglio sentire alcuna giustificazione. Adesso torna a scuola, Charlie deve essere protetta. Dopo di che discuteremo del fatto se la tua missione dovrà continuare o finire qui» concluse severo riattaccando bruscamente.
«Non è stata affatto una buona idea marinare la scuola» aggiunse Niall ricevendo un’occhiataccia da Harry.


Charlie si fermò al centro del corridoio senza nemmeno fare caso alla gente che la spintonava a destra e a sinistra, si avvicinò con calma alla bacheca degli annunci e strappò con rabbia il manifesto che qualcuno ci aveva appiccicato su: ritraeva lei reginetta del ballo ancora una volta, con quell’insulsa corona di plastica. E con un’espressione diversa dalle altre, non sembrava nemmeno lei e questo non faceva che ricordarle lo stato delle cose.
La sera precedente, dopo che lui l’aveva baciata lasciandola impietrita e basita, il professore di studi sociali aveva annunciato alla platea la vincitrice con entusiasmo; e mentre lei continuava a guardare sconvolta il ragazzo che le stava di fronte, qualcuno l’aveva afferrata per un braccio e trascinata via, lontano da lui.
Per la verità non sapeva come sentirsi, tralasciando la misera soddisfazione di aver ottenuto l’ennesima corona, era confusa. Oscillava dal sollievo di essere stata liberata da quell’imbarazzante situazione, alla frustrazione di essere rimasta in sospeso. Che cosa significava quel gesto? Loro si odiavano, giusto? Giusto. E allora perché non ne era del tutto sicura? Perché quando le labbra di lui si erano scontrate con le sue il suo stomaco aveva fatto una mezza capriola, e quando l’aveva guardando negli occhi sbigottita le ginocchia le erano venute meno? Era una strana sensazione, tra la voglia di urlare e quella di vomitare.
Accartocciò il manifesto e lo gettò nel primo cestino, sospirò e si appoggiò contro il muro aspettando che l’ultima campanella di quella strana giornata suonasse. Aveva passato le ore con una terribile sensazione di irrequietezza, come se non fosse al sicuro. In più Harry non si era presentato a scuola, e anche se la cosa sembrava folle, quando lui era nei paraggi non si sentiva mai minacciata.
Dopo tutto però forse era stato meglio così, se l’avesse guardato in faccia non avrebbe saputo che dirgli o come comportarsi.
La campanella trillò e i ragazzi si affrettarono a sgombrare le aule, Charlie si rimise diritta ma una grande mano le afferrò un braccio. Si voltò incontrando un paio di occhi verdi, il ragazzo che come la sera precedente le stava di fronte, le imitò di stare zitta portandosi un dito sulle labbra e lei inconsapevolmente si ritrovò ad annuire.
«Devi venire con me» disse semplicemente lui.
La prese per mano andando nella direzione opposta, e mentre lei lo seguiva senza rendersene conto, la sua testa ronzava e si riempiva di domande.
«Cosa!? Aspetta, perché diavolo dovrei venire con te? Fermati!» sbottò piantando i piedi per terra, costringendolo ad arrestarsi e voltarsi verso di lei.
Ovviamente Harry se l’era aspettato, era troppo facile riuscire ad ottenere qualcosa da lei senza prima discuterci per ore. Ma al momento non aveva tempo, era già nei guai senza che Satana ci mettesse lo zampino.
«Potresti per una volta nella tua frivola vita fare qualcosa perché te lo dicono gli altri e non fare domande, per la miseria?!» sbraitò gettando uno sguardo alla finestra, il parcheggio sembrava tranquillo e si stava via via svuotando.
Senza aspettare che lei ribattesse riprese a camminare svelto, raggiunsero la palestra e spingendo la porta con i manicotti si ritrovarono direttamente nel parcheggio. Harry lo passò in rassegna prima di accorgersi che in fondo, sotto la quercia solitaria dove i bulli ci appendevano gli sfigati per le mutande, c’era accostato una specie di furgoncino blindato: molto sospetto.
«Ho diritto ad una spiegazione, non ti seguirò fino a quando non mi dirai che sta succedendo!» si infiammò lei battendogli un pugno su di una spalla, lui in tutta risposta l’afferrò per le braccia e con poca grazia l’accostò al muro esterno della palestra.
Non c’era più tempo per la discrezione «prova ad aprire le orecchie per una volta e ascolta qualcosa di serio invece delle solite cazzate che ti vengono dette: se vuoi salvarti la vita, seguimi e non fare domande» sputò tra i denti minaccioso, a volte la rabbia era capace di farlo andare fuori di testa.
Charlie annuì quasi impercettibilmente senza proferire alcuna parola e si lasciò trascinare fino all’Audi nera dove venne fatta accomodare da Harry senza le solite riverenze o buone maniere che comunque lei non meritava, poi sbatté la portiera facendola sobbalzare e salì dall’altro lato.
Probabilmente era ingiusto, la stava segretamente accusando di aver compromesso la missione e quindi stava scaricando la sua frustrazione su di lei. Ma non c’era tempo nemmeno per le scuse, perché quando mise in moto anche il furgone lo fece: un altro brutto segno.


«Dove stiamo andando?» chiese Charlie confusa dopo ore di silenzio, avevano ormai superato la città e si erano intrufolati in strade che probabilmente non erano nemmeno segnate sulle mappe, la cosa positiva però era che per ora avevano seminato il furgone.
«Non lo so» rispose lui evasivo continuando a fissare la strada con sguardo truce e il piede fiondato sull’acceleratore.
«Che significa che non lo sai?!» sbottò lei ritratta nel sedile a causa dell’eccessiva velocità.
«Devo tenerti al sicuro, questi sono gli ordini. Non discutere con me!» ribatté il ragazzo lanciandole un’occhiataccia.
«No, tu non discutere con me! Ti ho chiesto di dirmi dove…» lui tirò bruscamente il freno a mano: la macchina fece una mezza piroetta su se stessa e per poco non si ribaltò generando una nuvola di polvere dal terreno sterrato su cui stavano andando come minimo a 180 all’ora.
«Perché diavolo non vuoi capire Charlie, devo proteggerti porca puttana!» si passò una mano tra i capelli bruni fissandola di traverso «non ho mai conosciuto nessuno più esasperante di te!»
Lei incrociò le braccia al petto «beh, scusa tanto!» fece una breve pausa ma riprese in fretta «E se vuoi saperlo penso la stessa cosa di te! A maggior ragione voglio sapere cosa sta succedendo, adesso.»
«Non c’è tempo per le parole» il suo sguardo sguizzò sullo specchietto retrovisore «fidati di me e basta»
«Come posso fidarmi di qualcuno se nessuno si fida a dirmi quello che diavolo sta succedendo!» sbottò lei.
«E ti sei chiesta perché nessuno si fida di te?» chiese lui duro.
Gli occhi azzurri di lei si dilatarono lentamente e poi si abbassarono fino ad rimanere fissi sul cambio automatico dell’auto.
«Già…» disse lei semplicemente, ed Harry rimase a fissarla per interminabili istanti. Aveva esagerato, c’era qualcosa che riuscisse a fare senza rovinarla un attimo dopo?
Sospirò «Mi dispiace, io non volev…» lei lo interruppe.
«Perché mi hai baciato?» chiede di getto, ci fu un attimo di silenzio prima che uno squillo li distraesse entrambi «Styles» mormorò quest’ultimo guardando Charlie assumere un’espressione indecifrabile.
«Harry» la voce di Bill questa volta sembrava meno astiosa ma comunque agitata «dove sei?»
«A pochi chilometri di distanza da Seattle» comunicò formale.
«Siamo riusciti a catturare quegli uomini. Anche se hanno tentato più volte il suicidio, ma non è sicuro tornare indietro, portala da qualche parte lontano da qui, non perderla di vista» l’uomo sospirò e alla parola “suicidio” Charlie alzò di scatto lo sguardo incontrando quello verde del ragazzo «ah, Harry?» aggiunse Bill.
«Sì
«Penso che ormai la ragaz…Charlotte, possa sapere. Ci conosceremo presto, signorina Douglas» disse infine prima di riattaccare.
Lei rimase in silenzio, così lui sospirò «senti, mi dispiace. È tutto così complicato che non saprei nemmeno da dove cominciare…»
«Prova da chi sei davvero, magari» suggerì lei, non era stupida; aveva fatto due più due, e forse cominciava a capirci qualcosa.
Harry rimise in moto cercando di pensare rapidamente «Sono un agente della CIA incaricato di proteggerti. La tua famiglia è stata minacciata da una banda di malviventi che ricattano tuo padre ormai da mesi. Ora fanno sul serio, vogliono te» strinse le mani sul volante arrabbiato, e purtroppo lui lo sapeva bene: tutta quella rabbia che gli montava dentro non era la solita distaccata indignazione che provava per gli psicopatici che minacciavano la sicurezza delle nazioni, era qualcosa di più.
«Capisco» disse lei spostando lo sguardo fuori dal finestrino. Ora tutti i pezzi del puzzle si combaciavano perfettamente, e lei si sentiva più stupida che mai.
Come aveva fatto ad non intuirlo prima? Come avevano potuto i suoi genitori tenerle nascosto una cosa simile? Era finita in un film di spionaggio e nemmeno sapeva di essere in pericolo. Era così egocentrica e narcisista che se nessuno si sarebbe preso la briga di spiegarle cosa le stava succedendo, lei non se ne sarebbe mai accorta? Era per questo che lui l’aveva baciata? Perché doveva “proteggerla”, doveva avvicinarsi il più possibile a lei in modo che avrebbe sempre potuto tenerla d’occhio?
Più ci ragionava, più si avvicinava alla conclusione che la sua vita era stata un’enorme stronzata. E che alla fine, non era la protagonista di una bella favola dove vivono tutti per sempre felici e contenti, ma la vittima e contemporaneamente l’istigatrice di un maleficio.
«Dove andiamo adesso?» chiese semplicemente per curiosità, le era passata addirittura la voglia di opporsi. A che scopo? Tanto lui stava facendo solo il suo lavoro.
«All’aeroporto» rispose Harry accigliato mentre fissava la strada. Anche se aveva fatto di tutto per negare l’evidenza perfino a se stesso, negli ultimi cinque minuti, per quanto stupido, malsano, insensato e incomprensibile fosse: aveva realizzato di provare qualcosa. E dove mai avrebbe potuto portare la ragazza che gli piaceva?




*capitolo scritto da Anna. 
 

~Note.
Okay, probabilmente anche per questo capitolo vi abbiamo fatto aspettare un po' troppo. Scusate tanto. Speriamo ne sia valsa la pena - secondo me (Carla), ne è valsa la pena sicuramente: il capitolo di Anna è meraviglioso! Ad ogni modo ci stiamo adoperando con tutte le nostre forze fisiche e psichiche per portare verso la fine questa storia, che più va avanti e più risulta complessa per noi da scrivere! Quindi, per favore, abbiate pietà di noi ahaha (:
Vi ringraziamo per le recensioni sempre gentilissime, i commenti su twitter, ask e social network vari. Un bacio a tutti e al prossimo capitolo (che speriamo di postare entro le prossime due settimane!) xx
Questi sono i nostri account twitter: @leultimeparole - @secolidiparole
Le nostre altre storie:


Al prossimo capitolo!  
Carla e Anna xx

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Casa ***




Casa


Il viaggio in aereo era stato imbarazzante. E pure l'attesa per l'imbarco, e anche il tempo che avevano speso in macchina in seguito all'atterraggio a Manhattan. Né Harry né Charlie avevano spiccicato una parola, l'una troppo arrabbiata per degnarsi di rispondere a qualsiasi imput esterno, l'altro forse per l'imbarazzo causato da quella situazione così strana.
Anche perché il silenzio tra i due non era stato un silenzio calmo, di quelli che durano per tanto ma che non infastidiscono, perché in realtà nessuno ha niente di particolare da dire. No: il loro era stato un silenzio agitato, irritato, carico di tensione; il loro era il silenzio delle domande che ancora dovevano porsi l'un l'altra, il silenzio dei sensi di colpa, della delusione, ed anche un po' di paura. Eppure, nonostante ogni tanto uno squarcio di conversazione fiorisse nella mente di entrambi, questo non riusciva mai ad attraversare le corde vocali di uno dei due e raggiungere l'abitacolo della macchina, così che proseguirono in silenzio, perdendosi nei meandri dei loro pensieri durante il viaggio più noioso di tutti i tempi.
Era un silenzio imbarazzato, intercalato da vari colpi di tosse di Harry e da sbuffi esasperati di Charlie.
Lui era confuso. Charlie non aveva professato parola per l'intero viaggio e sospettava che la sua ira – che chiaramente era rivolta nei suoi confronti, prima di tutto – non si sarebbe acquietata tanto facilmente. Era confuso anche perché non si era mai sentito così impotente nei confronti di qualcuno; sentiva le braccia molli e una morsa allo stomaco... e tutto perché Charlie Douglas si rifiutava di rivolgergli la parola?
Lei era arrabbiata. Con i suoi genitori, per non averle detto nulla. Ma ancora di più con Harry, perché, oltre ad averla tenuta all'oscuro di tutto quanto, l'aveva anche baciata. E ora si sentiva così stupida, perché non solo aveva risposto al bacio, ma le era anche piaciuto; e per qualche istante aveva pensato che forse ad Harry poteva davvero importare qualcosa di lei, che forse esisteva qualcuno che la comprendeva e che sarebbe stato capace di perdonarla e passare sopra a tutte le cose brutte che aveva fatto. Qualcuno che ci teneva. E invece no, Harry lavorava e basta, veniva pagato per starle dietro. A Charlie veniva su il vomito solo a pensarci: a pensare a quelle sue vane speranze e a quel bacio così magico ormai sbiadito tra dolci ricordi e dure verità.
Era stato tutto inutile. Lei era cambiata a causa di Harry, sentiva di essere diventata una persona migliore; e tutto grazie a qualcuno a cui in realtà non importava nulla, qualcuno che stava soltanto svolgendo dei compiti assegnatigli da qualcun altro. Forse l'essere cambiata non era stato inutile, ecco, ma l'averlo fatto per lui la faceva sentire così vulnerabile, e se ne vergognava da morire. Si era davvero innamorata di Harry Styles?
Il groviglio di pensieri nella testa della ragazza si sciolse, o per lo meno si acquietò, nell'esatto momento in cui vide il ragazzo infilare delle chiavi nella toppa della porta che avevano di fronte.
Si trovavano in una piccola villetta in periferia della città, anche se non aveva fatto caso a controllare i nomi sul citofono per capire a chi appartenesse.
«Questa è...» cominciò, non appena la porta si aprì di fronte a lei, lasciandole la vista di un piccolo atrio molto luminoso.
«...Casa mia, sì» completò Harry mettendole una mano dietro la schiena e spingendola dolcemente all'interno dell'abitazione. A quel tocco la bionda sentì un brivido percorrerle la schiena ed in uno scatto repentino fece un passo avanti, evitando il contatto.
Lui aggrottò le sopracciglia, confuso. «Vieni» le intimò e le indicò una stanza vicina, che era il salotto.
Charlie vi entrò e si guardò intorno curiosa, intenta ad osservare ogni minimo dettaglio. Il salotto era ampio e spazioso, eppure aveva in sé qualcosa di estremamente caloroso e accogliente; c'erano numerosi quadri appesi alle mura della camera, ed il divano in pelle era pieno di cuscini coloratissimi. Accanto alla tv Charlie notò alcune Barbie sparpagliate per terra senza molto ordine. Aggrottò le sopracciglia: Harry non le aveva detto di avere una sorella più piccola. Sospirò, ricordandosi che, allo stato delle cose, effettivamente lei non sapeva proprio nulla di Harry, e quello che aveva conosciuto in realtà non era altro che una maschera, una copertura dell'agente segreto che l'aveva protetta nelle ultime settimane. Chissà chi era, il vero Harry Styles. Sempre che quello fosse il suo vero nome.
Scosse la testa e tornò ad osservare la stanza, ammaliata: non aveva mai visto niente del genere, ma le piaceva tantissimo. Sembrava proprio la casa di qualcuno che è pieno di soldi ma deve trattenersi per non destare troppi sospetti. Per non far saltare la copertura.
Eppure in certi punti della stanza si notava quanto chiunque avesse pensato all'arredamento si fosse un po' lasciato prendere la mano: e così il televisore al plasma, il modernissimo divano in pelle ed il tavolo e le sedie di design stonavano di gran lunga con i tappeti persiani vecchio stile ed il parquet un po' sgualcito per terra. Eppure, tutto sommato, Charlie trovava quella casa meravigliosa: possedeva tutte le comodità di cui si poteva avere bisogno e al contempo era accogliente e familiare; non come la sua, di casa, che era così grande e fredda da sembrare un ristorante o un gelido centro commerciale in stile Harrods.
«Mi piace» commentò cercando di non suonare troppo ammaliata, accarezzandosi un braccio.
«Vieni, ti porto dove starai tu» le intimò Harry indicandole le scale. La condusse in una stanza abbastanza spaziosa ma non esageratamente grande, dai colori freddi e con il parquet a terra. Il letto era rifatto e con un velo di polvere sopra di esso, segno che nessuno ci dormiva ormai da mesi.
«È la mia stanza» esordì il ragazzo appoggiandosi allo stipite, mentre lei si sedeva tranquillamente sul letto. «Puoi stare qui in questi giorni».
«E tu, dove dormirai?».
«Il divano è parecchio comodo» constatò lui con un lieve sorriso sulle labbra, andandosi a sedere accanto a lei.
Forse un po' troppo vicino.
Charlie si schiarì la voce, imbarazzata forse per la prima volta nella sua vita, poi parlò: «Non ho con me neanche un vestito».
«La tua domestica ha fatto la valigia, dovrebbe arrivare qui entro questa sera, al più tardi domani mattina» le spiegò il ragazzo.
«Oh, d'accordo» replicò lei in tono freddo, incrociando le braccia al petto e fissando il proprio sguardo sul parquet scuro della camera.
Harry la osservò per qualche istante, curioso: aveva indosso uno di quei bronci irritati che le aveva visto più volte in viso, anche se stavolta questa espressione era come un mix... tra l'irritazione e la tristezza. Il ragazzo poteva giurare di vedere le iridi azzurre di lei attraverso un sottile velo di lacrime, che stava per sgorgare dai suoi occhi come un fiume in piena
«Charlie... è tutto a posto?» domandò con cautela, inclinando di poco la testa per guardarla meglio.
Lei sorrise, ironica. «Meravigliosamente» borbottò con fare sarcastico. «C'è una banda di pazzi che vuole ammazzarmi e sono finita agli arresti domiciliari, da sola con te».
Harry rise. «È davvero un così grande problema essere finita “da sola con me”?».
La bionda sbuffò, le braccia ancora serrate al petto con fare protettivo. «Diciamo che ne avrei volentieri fatto a meno» sputò acida, sapendo di star mentendo spudoratamente. Fosse stato per lei avrebbe continuato a passare il suo tempo con Harry Styles, anche solo per parlare e battibeccarsi, e poi chissà... Ma non aveva assolutamente voglia di farsi vedere catturata nella sua trappola, perché lei non era e non voleva essere lo stupido insetto impigliato nella ragnatela del ragno di turno. Solitamente era lei la tarantola, e lo era sempre stata.
Harry, dal canto suo, rise, ma non poté fare a meno di avvertire una spiacevole morsa allo stomaco a quelle parole. «Pensavo che avessimo superato le nostre faide...» tentò, guardandola finalmente negli occhi. Erano azzurri, ed erano così vicini. Harry avrebbe dovuto sporgersi solo un po' di più per ricongiungere finalmente le loro labbra, proprio come la sera del ballo, e per poter provare nuovamente quelle strane sensazioni che gli avevano messo lo stomaco in subbuglio.
Ma fu bloccato a mezz'aria dalle parole di lei. «Beh, ti sbagliavi. Peccato. Ora ti dispiacerebbe lasciarmi sola per un po'? Sono molto stanca e ho bisogno di riposare».
Harry la guardò, eppure i suoi occhi sembrarono per un istante vuoti e delusi, quasi feriti da quelle poche parole della biondina.
Si alzò lentamente dal letto, dirigendosi verso la porta. «Se hai bisogno di qualcosa, chiama pure», borbottò insicuro e chiuse la porta alle sue spalle, appena prima di emettere uno sbuffo sonoro.


Era tarda sera. Harry aveva passato l'intero pomeriggio al telefono con agenti vari, tra cui Bill, il quale l'aveva informato sulla situazione a Seattle. I tipi del The Game avevano perso le tracce di lui e Charlie, quindi era fortemente improbabile che la ragazza si trovasse in pericolo: per fortuna, pensò Harry, almeno avrebbe potuto stare tranquillo per un po'. Andrew e Jacob erano riusciti a catturare un uomo sospetto che vagava intorno alla villa dei Douglas, e che poi si era rivelato un altro dei Giocatori: l'avevano chiuso nello studio del signor Douglas, impedendogli di suicidarsi in alcun modo, e nel frattempo cercavano di estorcergli informazioni importanti. Per ora non aveva confessato una sillaba. Il signor e la signora Douglas nel frattempo erano stati trasferiti in un posto più sicuro dall'altra parte del paese e presto, l'aveva rassicurato Bill, la CIA avrebbe mandato rinforzi anche ad Harry, per poter tenere meglio d'occhio Charlie. Harry stavolta aveva replicato che non era necessario e che sarebbe riuscito a cavarsela benissimo da solo, ma il suo vecchio non aveva voluto sentire ragioni, specie dopo l'incidente accaduto quella mattina; e di certo Harry non poteva biasimarlo, era stato così stupido e incosciente.
Il resto del pomeriggio l'aveva passato a fare zapping sul televisore, come ai bei vecchi tempi, fino a quando la porta di casa non si era aperta e dall'atrio erano giunte quattro voci a lui ben conosciute.
Si era alzato di scatto dal divano, spegnendo la televisione, e si era precipitato nella stanza accanto con urgenza quasi febbrile. «Sorpresa!» esclamò allegramente parandosi di fronte a quelle due figure esili che a stento gli arrivavano ai fianchi, e mise su uno di quei sorrisi a trentadue denti che gli mettevano sempre bene in mostra le fossette a lato della bocca.
Trevor e Becky spalancarono la bocca sorpresi e rimasero impassibili per qualche istante: Harry non fece in tempo ad accovacciarsi che già quelle due piccole pesti gli erano saltate addosso, stritolandolo completamente.
«Hally! Mi sei mancato tanto» cantilenò contenta la più piccola aggrappandosi al suo collo, mentre il maschio trovava uno spazio per sé abbracciando i fianchi del ragazzo.
Il riccio diede un tenero bacio sulla testa di Becky e poi scompigliò i capelli di Trevor. «Anche voi mi siete mancati tantissimo, mostriciattoli» rise.
«Harry!» il ragazzo udì la voce di sua madre, ancora ferma sulla soglia, sovrastare quelle deboli dei suoi due figli.
«Ciao, mamma» fece lui sorridente riuscendo a liberarsi dalla morsa dei suoi fratelli e raggiungendola, per poi stringerla in un caloroso abbraccio nel quale la donna si perse, stringendo il figlio ancora più a sé.
Quando riuscì a liberarsi anche dalla morsa della madre raggiunse il suo patrigno e riservò anche a lui un abbraccio caloroso.
«Che ci fai qui? Non mi avevi detto che saresti tornato!» fece sua madre con tono emozionato mentre tutti e cinque si dirigevano in salotto.
Il ragazzo scrollò le spalle. «Ci sono stati dei problemi...».
«Problemi? Che problemi? Tu stai bene?».
Harry rise leggermente. «È tutto a posto, mamma. Solo che la ragazza che sto proteggendo stava per essere rapita, e Seattle non era più un posto sicuro per lei. Portarla alla centrale era rischioso, ma non volevo allontanarmi troppo da Manhattan. Così ho pensato di portarla qui» spiegò.
«Quindi... la ragazza è qui?» domandò Anne, confusa.
Harry annuì. «È di sopra che dorme».
La donna sembrava parecchio sorpresa. «Oh, d'accordo. Vedrò di preparare una buona cena allora» cantilenò contenta dirigendosi verso la cucina, e Harry roteò gli occhi al cielo. Da un lato era sollevato che sua madre l'avesse presa così.
«Harry, Harry, Harry, dopo giochi all'Xbox con noi?» una vocetta esile richiamò l'attenzione del ragazzo, che sorrise amabilmente al piccolo Trevor.
«Certo! Io e te non facciamo una partita come si deve da una vita, campione» disse scompigliandogli i capelli.
In quell'esatto istante il campanello suonò.
«Harry, ti dispiace andare tu? Devo far infilare queste pesti nel pigiama, e tua madre sembra decisamente indaffarata in cucina» fece Robin in un tono divertito trascinando i due bimbi verso le scale.
Harry sorrise sollevando un pollice. «Non c'è problema» disse semplicemente, prima di dirigersi verso la porta.
Quando aprì, rimase più di qualche istante a bocca aperta a fissare la figura che gli stava davanti, sorridente e beffarda al contempo. Gli occhi azzurri dell'altra persona incontrarono i suoi, verde acqua, e si distesero in un'espressione tranquilla e eccitata.
«Brutto stronzo! Quando avevi intenzione di dirmi che eri tornato a Manhattan?» gracchiò la voce di Louis, il quale gli si era appena parato di fronte, stritolandolo in un abbraccio caloroso.
«Diciamo che ho saputo poche ore fa che sarei tornato in sede» spiegò un Harry ancora sorpreso dalla visita inaspettata, seppur piacevole. Chiuse la porta di casa dietro di sé e si diresse con l'amico verso il salotto, per poi abbandonarsi sul divano in pelle.
«Problemi con la missione?» Louis gli sorrise, amabile. Aveva sempre avuto quella strana capacità di mostrarsi tranquillo ed entusiasta di qualsiasi cosa; probabilmente anche di fronte alla prospettiva di camminare a piedi nudi su dei rovi di spine lui avrebbe sorriso come sempre, con il suo volto sempre così pulito e gentile. Per certi versi ad Harry ricordava un po' una versione giovane di Bill, il quale aveva in comune con lui quest'abitudine di sorridere di fronte a tutto: pure ad una pistola puntata contro la sua tempia, ed Harry lo sapeva per esperienza. «Abbiamo avuto un'imboscata all'improvviso, e non era più sicuro trattenere Charlie a Seattle... così ho pensato di portarla qui» spiegò il ragazzo, arruffandosi un po' i capelli castani. «Piuttosto, che ci fai tu qua?» domandò poi, perplesso. Non che la visita di Louis non gli facesse piacere: anzi. Gli era mancato da morire, ed erano trascorsi praticamente due mesi di fila dal loro ultimo incontro. Eppure Harry non aveva accennato con lui di stare per tornare o altro, quindi non c'era motivo per cui avrebbe dovuto saperlo. A meno che...
«Lavoro» si scrollò le spalle il moro, mettendo su un sorrisetto stavolta poco sincero.
A meno che non fosse lui i rinforzi di cui Bill gli aveva parlato al telefono. Harry sbattè le palpebre per qualche secondo. Ecco, lo sapeva. «Aspetta, vuoi dire che...»
Il suo amico annuì, stringendo le labbra. «Sì, è stato Sam a dirmi di darti un'occhiata. A quanto pare Bill l'ha informato di un certo tuo comportamento ambiguo» rise e gli fece l'occhiolino con fare quasi complice, mentre si accomodava sul divano assieme a lui.
«Comportamento ambiguo?» domandò il riccio tentennante, sedendosi meglio sul divano in pelle della casa.
«Andiamo, hai o non hai pomiciato con la biondina stronza che ti avevano affidato?».
Harry sbuffò. Sapeva che prima o poi la voce si sarebbe sparsa, ma non pensava che sarebbe accaduto tanto in fretta; sudava freddo solo al pensiero di tutti i punti di merito che gli avrebbero tolto alla CIA per via di quella svista. «Ecco... Non proprio» cominciò, schiarendosi per bene la voce. «Diciamo che è stato solo un momento di distrazione, un bacio, niente di che...» tentò di discolparsi.
Louis annuì accarezzandosi il mento, con fare comprensivo. «Con o senza lingua?».
Harry strabuzzò gli occhi. «Scusa?».
«Andiamo non mi dire che le hai dato un bacetto da prima elementare, mi aspetto almeno che tu l'abbia baciata come si deve!».
«E da quando ti interessa?».
«Da quando noi poveri sfigati agenti segreti non rimorchiamo mai. Poi se si parla di te è davvero l'apocalisse!»
«Non mi piace mischiare il lavoro con le faccende private» si discolpò il più giovane, mettendo su una sorta di broncio e incrociando le braccia al petto.
«E quindi hai baciato la biondina per puri scopi lavorativi?» lo prese in giro l'altro.
Harry sbuffò. «No... non c'entra! Ecco, io non lo so perché l'ho baciata. Mi andava di farlo e l'ho fatto. Sei contento?».
Louis sorrise, chiaramente soddisfatto delle parole dell'amico. Lo conosceva troppo bene per credere alle sue menzogne, ed anche Harry lo sapeva benissimo: per questo evitava di mentire con lui, sarebbe stato del tutto inutile, malgrado le sue incredibili abilità da dissimulatore.
«Allora, con la lingua vero?» riprese Louis estasiato, mettendo su uno di quei suoi sorrisetti maliziosi.
Harry si limitò a sbuffare, sorridere ed annuire leggermente, mentre l'altro scoppiava in una clamorosa risata e batteva le mani.
«Lo sapevo, bravo il nostro Styles!» proclamò, scompigliandogli i ricci. «Dunque dimmi, ti è piaciuto?».
Harry si grattò la nuca cercando di prendere tempo, un po' in imbarazzo. Non era abituato a parlare di queste cose con Louis, o meglio, lui non parlava di queste cose e basta. Con nessuno. «Certo! Cioè, sì che mi è piaciuto. È stato... wow» balbettò, non sapendo esattamente come poter descrivere quel bacio. Wow era l'aggettivo che in quel momento gli sembrava più indicato, perché era stata anche l'unica parola che era riuscito a pensare dopo che Charlie era sparita di nuovo nella pista da ballo, senza più dirgli nulla; e lui era rimasto come un deficiente in mezzo al parcheggio della scuola, lo sguardo sorpreso per quel gesto avventato ed il sapore di lei ancora sulle labbra.
«Hai pensato che potresti provare qualcosa per lei?» azzardò il moro.
Harry annuì. «Sì, penso che lei mi piaccia. Non che questo migliori le cose; devo dimenticarmela e basta, o saranno guai... seri».
«Sinceramente non ti capisco, Harry. È una cosa che non capita tutti i giorni, specialmente alla gente come noi. Fossi stato in te avrei mandato a puttane tutto quanto per lei».
Il ragazzo scosse sistematicamente la testa mentre lo ascoltava. «Non se ne parla. Sono dieci anni che inseguo questo delitto, e adesso che sono a tanto così dal venirne a capo, dallo scoprire finalmente chi c'è dietro l'assassinio di mio padre, non posso e non voglio tirarmi indietro».
Louis sbuffò e scosse la testa. «Io dico che stai sbagliando, amico. È troppo tempo che ti scervelli dietro a questa cosa, scoprire chi è stato non ti riporterà indietro tuo padre. Vuoi giustizia? La giustizia non serve a niente, non ti dà l'amore di qualcuno che manca. A forza d'inseguire la scomparsa di tuo padre finirai per perdere qualcun altro a cui tieni davvero. E non provare a dirmi che sono cazzate perché ti conosco, Harry, e si vede da un miglio di distanza che ti beccheresti una pallottola in pieno petto per lei» si arrestò un attimo, accarezzandosi la lieve barbetta sul mento «e sì, anche fuori servizio».


*capitolo scritto da Carla. 
 

~Note.
Ci scusiamo immensamente per il ritardo. E' tutta colpa mia (Carla), e me ne prendo la responsabilità. A questo punto non promettiamo nulla, per non deludervi, piuttosto speriamo di non tardare con il prossimo aggiornamento... non uccideteci ç__ç
Detto questo, speriamo che il capitolo vi sia piaciuto, e grazie mille a tutti voi che seguite, preferite, e recensite soprattutto. Siete tanti zuccherini <33
Queste sono le nostre altre storie:


 

Al prossimo capitolo!  
Carla e Anna xx

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1632556