God, help me say goodnight

di Glory Of Selene
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Presentimento ***
Capitolo 2: *** Sotto i mantelli ***
Capitolo 3: *** Ricordi ***
Capitolo 4: *** Un Gufo ***
Capitolo 5: *** Il sigillo ***
Capitolo 6: *** Seta color sangue ***
Capitolo 7: *** Lo Scorpione e la Dea Bendata ***
Capitolo 8: *** Acciaio ***
Capitolo 9: *** Lo Stelo Morente ***



Capitolo 1
*** Presentimento ***


Alza lo sguardo al cielo, e chiediti. Finirà mai tutto questo?
 
Così, quella era Konoha.
«Me ne hanno parlato tanto…» mormorò. E basta. Riprese il cammino, in silenzio, come in silenzio era stato il viaggio.
 
***
 
«Ehi, Kakashi.»
Il jonin alzò lo sguardo dal libro che stava leggendo e trovò a pochi centimetri dal proprio naso i denti splendenti del suo collega psicopatico preferito.
Sospirò sommessamente, e tornò al filo del discorso che aveva perso, manco a farlo apposta, esattamente nel punto più incalzante di tutta la vicenda.
«Hai saputo la notizia? Alcuni ninja stranieri a breve saranno in città!»
Stava giusto valutando se fingere o meno di non sentire le parole dell’amico come faceva la maggior parte delle volte – non l’avrebbe mai ammesso, ma vedere le sue reazioni isteriche quando lo faceva lo divertiva da matti –, quando s’accorse che la cosa suscitava seriamente il suo interesse.
«Ambasciatori?» domandò, prima di rinunciare definitivamente a leggere e far sparire il libro in una delle tasche del giubbotto.
«Non si sa ancora nulla, se non che vengono da un Villaggio remoto che finora nessuno ha mai sentito nominare. Comunque, l’Hokage non sembrava preoccupato.»
Kakashi non rispose, ma si prese del tempo per riflettere. Sperava non fossero spie, infiltrati o diavolerie simili, non avrebbe voluto che si interrompesse uno dei momenti di pace  del Villaggio, che ormai stavano diventando più unici che rari.
Ma di che mi preoccupo, si disse, mentre Gai accanto a lui sbraitava della possibilità di incontrare qualcuno di forte con cui confrontarsi. Konoha sta passando uno dei momenti di maggiore forza e stabilità in questo periodo. Nessuno sarà così pazzo da attaccarci.
Tentava di rincuorarsi, ma non ci riusciva. Il problema era quel presentimento, che di colpo aveva oscurato il sole ai suoi occhi, e gli aveva gettato un’inquietudine che non riusciva a scrollarsi di dosso.
Odiava i presentimenti. Lasciavano a briglie sciolte quelle poche emozioni alle quali poteva essere ancora soggetto, e rendevano difficile mantenere la lucidità e l’obbiettività.
«Forse dovrei parlare con l’Hokage.» rifletté ad alta voce, solo un soffio impercettibile e un inconscio increspamento di labbra.
«Allora, ci stai, Kakashi?!»
Ricordò solo in quel momento della presenza dell’amico. Lo osservò con aria assolutamente stralunata. «Cosa?»
Gai lanciò un urlo disumano. «No! Non ci credo! L’hai fatto un’altra volta! Un’altra volta
L’espressione del copia-ninja divenne ancora più perplessa.
«Ti prego, ti scongiuro, dimmi che l’hai fatto solo per prenderti gioco di me, dimmi che almeno qualcosina del mio discorso hai ascoltato!»
A quel punto Kakashi capì, e tentò di discolparsi con un sorrisetto. Al diavolo, erano più le volte che gli accadeva veramente che quelle in cui faceva apposta. «Mi dispiace, Gai, temo di non aver sentito bene.»
«Ho detto» ringhiò il collega sensei puntandogli ferocemente un dito contro «che questa volta la sfida sarà questa: chi per primo riuscirà a parlare con i fantomatici stranieri avrà vinto! E, per assicurarsi che l’abbia fatto veramente, dovrà conoscere i loro nomi.»
Il jonin sospirò e fece per obiettare, ma l’altro gli tappò la bocca con un: «Stavolta non puoi tirarti indietro, perché tocca a me scegliere!»
«E va bene, va bene, mi arrendo.»
Il suo collega accolse la sfida con uno dei suoi gesti esagerati, e cominciò il solito sproloquio sulla vera forza eccetera eccetera. Suo malgrado, Kakashi non riuscì ad impedirsi un piccolo sorriso divertito. Non avrebbe voluto essere nei panni di quei poveretti che sarebbero arrivati, costretti a subire la costante presenza del maestro Gai; era certo che li avrebbe perseguitati finché non fossero arrivati ad un punto di sfinimento tale da indurli a presentarsi.
«Devo proprio andare, adesso. Ci vediamo.» salutò alla fine, dopo essersi alzato dalla panchina e aver mosso i primi passi verso il centro del villaggio.
«A presto, Kakashi!» gli rispose l’amico.
 
***
 
Una nuvola di fumo. Volteggiava, preda di chissà quali invisibili correnti. Non riusciva a staccarle gli occhi di dosso.
Tre battiti sulla porta.
«Entra pure, Kakashi.» rispose l’Hokage, senza distogliere la propria attenzione dalle volute del suo fumo. Diventavano sempre più complicate, tratteggiate, man mano che si assottigliavano.
Il jonin attraversò l’uscio con la silenziosità e la discrezione del più esperto tra gli assassini, e s’inchinò rispettosamente all’uomo anziano seduto davanti a lui. Non chiese come avesse fatto a conoscere la sua identità ancor prima di vederlo entrare; Hiruzen sapeva, e basta. Dicevano fosse quello, lo scopo della vecchiaia.
«Terzo Hokage, Gai mi ha riferito dell’imminente arrivo di un gruppo di ninja stranieri.»
A quel punto Sarutobi fu costretto a lasciar perdere le acrobazie del fumo, per osservare il suo sottoposto con una lunga occhiata penetrante. Kakashi la sostenne senza battere ciglio, ma dentro di lui qualcosa vacillò.
«Sei preoccupato». Era un’affermazione.
Fu a quel punto che il jonin distolse l’occhio da quelli profondi e circondati di rughe del vecchio. Odiava essere letto tanto facilmente; gli ci volle qualche istante per mettere da parte il suo disagio e dire, col tono più formale che riuscì a trovare: «Sì, signore.»
Le labbra di Hiruzen Sarutobi si incresparono in un sorriso impercettibile, prima di portare entrambe le braccia alla scrivania che stava davanti a lui, poggiarvi i gomiti e congiungere le dita con fare pensoso ma rilassato, di chi conosce già esattamente ogni mossa da compiere ma prima di farlo desidera gustarne ancora un po’ l’intenzione. Così inspirò a fondo dalla sua pipa, se la tolse di bocca e la osservò con calma. Era cosa comune, nelle persone di una certa età, avere una certa propensione per i gesti lenti e curati – quasi volessero gustare ogni singolo istante della loro vita agli sgoccioli –; solitamente questo era in grado di spazientire qualsiasi interlocutore, ma non Kakashi. Anche lui sapeva apprezzare la sottile arte che stava nel curare nei dettagli ogni singola azione o parola.
Poi l’Hokage espirò, e la stanza si riempì di fumo.
«E’ tutto sotto controllo.» decretò infine.
Il jonin sapeva che l’Hokage, soprattutto quando diceva qualcosa che riguardava la sicurezza del villaggio, non mentiva mai, e sapeva anche che la disciplina gli imponeva risposte ben precise.
Chinò il capo, mentre quel presentimento gli si annidava nel cuore come una bestia feroce pronta ad assalirlo ad ogni momento, e il disagio ne prendeva le difese strisciando attraverso il suo stomaco. Ma non poteva obiettare.
«Certo».
«Tuttavia» aggiunse il vecchio «comprendo la tua preoccupazione e l’approvo. Per questo ho deciso che sarai tu ad occuparti di loro: non ci sarà un comitato di benvenuto, non ne hanno voluti, ma nulla mi impedisce di mandare un jonin alle porte del villaggio per monitorare la situazione. Senza contare che mi hanno fatto sapere che avranno bisogno di una guida per il primo giorno di visita. Per tre giorni monitorerai tutti i loro movimenti, e poi verrai da me per il rapporto.»
Dapprima Kakashi alzò lo sguardo, stupito, ma dopo pochi istanti capì, e dentro di sé qualcosa sorrise.
«Ti chiedo solo una cosa, Kakashi, ed è la discrezione. Non c’è bisogno che io ti spieghi come potrebbero degenerare le cose se loro si accorgessero che noi partiamo già con la supposizione che siano in malafede.»
«Sissignore.», rispose, sicuro. Capiva perfettamente.
«Bene.» mormorò l’anziano Hokage, sistemandosi più comodamente sulla sedia e tirando un’altra profonda boccata dalla pipa. «Puoi andare.»
Il copia-ninja rispose con un rispettoso cenno del capo, prima di voltargli le spalle e raggiungere la porta. Si fermò sull’uscio, un’ultima volta. «Grazie.», mormorò. Poi uscì, senza attendere una risposta.
Il Terzo Hokage sorrise, ed espirò il fumo.
 
***
 
«Non avevi mai visto il Villaggio della Foglia?»
«Me ne hanno parlato.»
«Pazzesco. È uno dei più potenti Villaggi ninja; e tu non l’hai mai visto.»
«Sei stato zitto per tutto il viaggio, non puoi stare zitto anche adesso?»
«Siamo suscettibili, vedo. La cosa mi diverte molto.»
«Non avevo dubbi.»
Silenzio, finalmente. L’unico suono nitido era quello dei loro passi.
Finché: «Sei proprio sicuro d…»
«Guarda un po’ le mura.»
Erano due, due figure incappucciate, camminavano fianco a fianco, quasi all’unisono. Una era più bassa dell’altra, ed era quella che era stata interrotta nel bel mezzo della frase.
Alzò lo sguardo in modo vagamente seccato, pregando per il compagno che ci fosse davvero qualcosa di tanto interessante sulla cinta del villaggio, che valesse almeno la pena di stroncare il proprio discorso. Osservò per qualche istante, poi tornò a guardare le porte di Konoha davanti a sé.
«Davvero incredibile.», commentò. Il suo tono era sinceramente stupito.
«Un jonin appollaiato là sopra a fare la ronda.»
«Non un jonin qualunque.»
«Abbiamo proprio attirato l’attenzione.»
«Oppure tu ti sei fatto sfuggire qualche parola di troppo.»
«Non ti preoccupare per questo, sono semplicemente sospettosi. Comunque, è una bella fortuna che sia stato mandato proprio lui.»
«Dipende.»
«Avresti preferito doverlo cercare in lungo e in largo?»
«In questo modo dovrò fare di tutto per non attirare la sua attenzione, e non sarà cosa facile poi passare inosservati. Ricordati che è conosciuto anche per la sua perspicacia e per la sua abilità di stratega. Cosa che non vale altrettanto per te.»
«Quanta acidità. Com’è stato il tuo risveglio, stamattina?»
«Se non ti cuci la bocca il tuo, di risveglio, sarà in un ospedale.»
Il più alto ridacchiò, ma non osò replicare più nulla.
«Chi va là?» domandò una delle guardie.
Entrambi notarono che il loro obbiettivo rimaneva in silenzio, a guardarli.
«Siamo ninja del Villaggio della Notte. Abbiamo avvisato l’Hokage che a breve ci saremmo presentati alle porte del villaggio.» disse subito la figura alta.
La guardia che li aveva interrogati scambiò qualche parola con il jonin dietro di lei, che rispose con un impercettibile cenno del capo e un paio di parole sommesse.
«I vostri nomi?»
L’altro, rimasto in disparte per tutto il tempo, si fece avanti. «Il mio è Reiko Iwakiyo, quello del mio compagno Daisuke Kitajima.»
Ancora qualche attimo di attesa. Poi: «Avete il permesso di entrare nel Villaggio.»
«Non avevi appena finito di blaterare roba riguardo al passare inosservati?» sussurrò quello che era stato indicato come Daisuke.
«Il modo migliore per farlo era presentarsi.» ribatté l’altro, senza neanche degnarlo d’uno sguardo.
Odio quando ostenta tutta quella superiorità, si disse Daisuke, ma preferì rimanere zitto e seguire il compagno che aveva già mosso i primi passi verso il Villaggio.
 
***
 
Kakashi osservava, e osservava. Tutto il giorno, tutta la notte, nella tensione più completa; poco facevano le chiacchiere dei compagni di ronda, ogni più piccola fibra del suo cervello era tesa a captare quanti più rumori possibili.
È uno dei jonin più famosi, si sussurravano gli altri, è ovvio che conosce alla perfezione come vigilare nella maniera migliore possibile.
Guardalo. Sa essere così immobile da non sembrare nemmeno umano.
E poi, legge sempre quel libro. Chissà cosa ci sarà scritto!
Forse tecniche segrete e impossibili da apprendere.
Sarà, ma la copertina mi pare un po’ strana.
E pensavano che lui non potesse sentirli! Non riusciva a decidere se la cosa lo divertisse o lo irritasse. Di sicuro, quello che di più lo tirava fuori da ogni grazia era che, dopo giorni di veglia, quei maledettissimi stranieri non si erano ancora degnati di presentarsi. E così lui aspettava. In silenzio. Ed era costretto a riflettere, molto, per ingannare il tempo.
Era pericoloso quando lui rifletteva troppo. Più che per gli altri, pericoloso  per sé stesso, per la propria eterna lucidità, così tanto ricercata.
Oltre che su di lui, le discussioni che gli arrivavano alle orecchie dagli altri ninja erano straordinariamente comuni. Parlavano di cibo, gusti musicali, famiglia.
Mogli. Figli. Anziani padri.
Segretamente, a Kakashi mancava tutto quello. Gli sarebbe piaciuto, dopotutto, tornare a casa e confidare in una sicurezza e in un calore tutti femminili. Gli sarebbe piaciuto sentire lo scalpiccio di piccoli piedini, ai quali insegnare tutto quello che era riuscito ad imparare dopo anni di difficile, terribile vita.
Ma questi desideri rimanevano negli angoli più reconditi del suo cuore, da parte, in silenzio, senza che neanche lui dovesse riprenderli per ricordare che quello era il posto che spettava loro. Lui stesso si era dimenticato della loro esistenza tanto erano discreti e sporadici nel manifestarsi. E allora si ritrovava ad invidiare, senza sapere il perché di quella gelosia.
«Ehi, guardate.»
La voce lo riscosse dal filo dei suoi pensieri, e lo riportò sulle mura del villaggio, davanti ad una strada buia e nebbiosa, e su quella strada due figure incappucciate.
Accidenti. Avrebbe dovuto stare più attento.
«Che siano loro?» mormorò un altro correndo ad affacciarsi.
«Chi va là?» domandò un terzo alla nebbia.
Silenzio.
Kakashi non osava muovere un muscolo, la tensione era palpabile. Proprio quando uno dei suoi sottoposti fece per mettere mano agli shuriken, e lui stava allungando un braccio per fermarlo, giunse dal basso una risposta.
«Siamo ninja del Villaggio della Notte. Abbiamo avvisato l’Hokage che a breve ci saremmo presentati alle porte del villaggio.»
Molti si sarebbero soffermati sul tono della frase, su quella nota di stanchezza malcelata mista a un nonsoché di divertito che la impregnava; ma non Kakashi.
Lui pensò: voce maschile. Né troppo alta, né troppo bassa. Timbro comune, difficile da riconoscere. Non l’ho sentita prima d’ora. È un ninja che non ho mai incontrato.
A quel punto il chunin al suo fianco gli gettò un’occhiata frenetica, tesa nella sua indecisione. «Li faccio passare?» sussurrò.
Il jonin ci pensò per poco meno di un istante, prima di accennare con la testa ad un assenso. «Prima, chiedi come si chiamano.»
Quello annuì. «I vostri nomi?»
Stavolta non dovettero aspettare molto prima della risposta.
«Il mio è Reiko Iwakiyo, quello del mio compagno Daisuke Kitajima.»
Una folata di vento lo investì nel momento esatto in cui il secondo, il più basso, aveva iniziato a parlare, coprendo gran parte dei suoni del suo timbro.
Il copia-ninja maledisse con tutto se stesso il clima ventoso di quella giornata, e decretò a fatica che anche la seconda voce fosse maschile, sebbene più alta della prima. Di sicuro, poteva affermare di non conoscere nemmeno quella.
«Sono loro.» disse intanto una delle guardie, che aveva confrontato i nomi con quelli che gli aveva dato il Terzo Hokage. «Avete il permesso di entrare nel Villaggio.»
Mentre aspettavano l’aprirsi delle porte, i due si scambiarono un breve scambio di parole, poi ripresero a camminare, quasi all’unisono; Kakashi li seguì con lo sguardo finché non furono scomparsi alla sua vista.
A quel punto si lasciò andare ad un lieve sospiro e si alzò, riponendo il libro nella solita tasca del giubbotto.
«Dove sta andando, signore?» gli venne domandato.
«A mostrar loro il Villaggio, mi sembra ovvio.»
Se ne andò, che ancora sentiva sulla nuca il calore dei loro sguardi sconcertati.
 
La coppia si era fermata al centro della piazzetta che era stata indicata come il luogo dove avrebbero incontrato la loro guida.
«Chi pensi verrà?»
«Qualcuno in grado di valutare le nostre intenzioni e la nostra pericolosità. Hatake Kakashi, sicuramente.»
Tutta quella sicurezza irritò Daisuke a tal punto che dovette controllarsi molto per non spaccare la faccia al mantello blu di fianco a lui. «E tu come fai a dirlo, si può sapere?»
«La nostra guida è in ritardo.»
«In rit… oh». Qualche attimo di silenzio, poi: «Quindi tu l’hai letto tutto, il fascicolo che ci hanno dato su di lui.»
La frase riuscì a strappare un sorriso anche al suo ombroso compagno di viaggio.
«E tu non l’hai fatto perché tanto sono io che devo occuparmi di lui.»
«Lo sai? Sei la persona più saccente che conosca.»
I due si guardarono in cagnesco per qualche momento, poi Reiko scoppiò a ridere. E l’altro subito, a ruota.
 
Quando Kakashi arrivò, li trovò a ridere. La cosa lo stupì non poco, considerata la glaciale impassibilità che avevano invece mostrato all’entrata di Konoha. Allora c’era stata una gran professionalità in tutti i loro gesti, come se fossero stati le abituali azioni di un mestiere, mentre adesso sembravano quasi intenti nel prendersi una pausa.
Il jonin si chiedeva cosa potesse significare tutto ciò, mentre entrava lentamente nella piazza esibendo il solito sorrisetto imbarazzato.
«Chiedo scusa, sono in ritardo?»
Venne fissato da due paia d’occhi che sembravano tutto tranne che ilari.
«Non c’è problema, mi creda.» si fece avanti il primo sorridendo formalmente.
Di nuovo, quella sensazione di trovarsi di fronte chi sta svolgendo un lavoro e nient’altro.
«Il mio nome è Kakashi, e sono stato incaricato di mostrarvi Konoha durante tutta la giornata di oggi.»
Entrambi chinarono il capo. Solo allora il jonin si accorse di quanto fosse strano il loro abbigliamento; non aveva mai visto mantelli di quel genere da quelle parti, lunghi fino ai piedi in modo da coprire tutto il corpo, e con strani cappucci all’altezza della testa sempre tirati sul viso. Non c’erano simboli d’appartenenza a nulla, né a clan, né a specifici Villaggi. Non riusciva a trovare nemmeno il loro coprifronte.
«Noi siamo Daisuke e Reiko.» continuò quello, indicando prima se stesso e poi il compagno.
Kakashi mostrò un ultimo sorriso. «Benvenuti a Konoha!»



 
Ciò che dice l’Autore
 
Ciao a tutti, e grazie per aver letto il primo capitolo della mia long ^^
Questa non era una storia pianificata, come la maggior parte delle storie che adesso mi stanno venendo in mente su Kakashi, e quando ho cominciato a scrivere il capitolo non avevo affatto intenzione di pubblicarlo subito dopo averlo finito. Ma, come al solito, quando decido di fare una cosa finisce che salta fuori il contrario. Anche perché ultimamente è un periodo un po’ così, e avevo un grandissimo bisogno di non sentirmi un essere brutto, cattivo e inutile, quindi ho pubblicato.
Quando ho detto a una mia amica “sto scrivendo una storia romantica su Kakashi” la sua reazione è stata “oddio no Anna torna in te, che si comincia sempre così e poi si va a finire nelle peggiori long romantiche e melense che neanche nei peggiori bar di Caracas”. Tanto per tirarmi su il morale degli ultimi tempi. Spero che non sia così anche la vostra, di reazione xD Comunque sia, sono più che aperta a recensioni di qualsiasi tipo. In realtà, era da tempo che speravo di scrivere una romantica decente su di lui, di togliermi questo sfizio, diciamo.
Un’ultima parola sul Villaggio che ho inventato, quello della Notte. Dato che quando si parla di un fumetto così articolato come Naruto è davvero molto rischioso inventare qualcosa, all’inizio volevo che i miei due “cappuccetti misteriosi” arrivassero da un Paese noto, e così mi sono messa a fare ricerche in lungo e in largo, ma adattare le mie idee alle trame che si erano svolte in ogni ognuno dei Paesi che mi erano venuti in mente era davvero difficile (senza contare che la maggior parte erano segnati come non ninja). Così mi sono presa qualche libertà, spero proprio di non fare qualche passo falso andando avanti nella storia.
Purtroppo, a causa del ritmo serrato di scuola, allenamenti, teatro e quant’altro, i miei aggiornamenti non saranno velocissimi, ma prometto che mi impegnerò al massimo.
Il titolo è una frase presa dalla canzone che ha ispirato la scena che poi ha dato il via a tutta questa storia, vi lascio il link nel caso vi interessasse: http://www.youtube.com/watch?v=nsaX-e-KuYU 
Ok ho finito ^^ Un bacio a tutti!
Glory.
 

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Capitolo 2
*** Sotto i mantelli ***


«...E questo è uno dei chioschi di ramen migliori del Villaggio. Avete fame?»
Entrambi gli stranieri gradirono molto il pensiero della propria guida, e presto si ritrovarono tutti e tre seduti al bancone, ad aspettare la loro ciotola.
«Lei non pranza, signor Kakashi?» domandò il più alto quando vide che le ciotole che erano state posate davanti a loro erano soltanto due.
«Temo di non potervi fare compagnia, questa mattina mi sono svegliato con un po’ di nausea e vorrei tenermi leggero.» si giustificò.
«Capisco.» disse quello con fare comprensivo, mentre tirava fuori dalla manica una bustina trasparente nella maniera più naturale possibile. «Sai, Reiko? La nostra guida era affascinata dal nostro abbigliamento». Aspettò con sapienza il momento in cui entrambi fossero stati al culmine della loro conversazione, poi versò velocemente la polverina bianca nella ciotola del compagno e fece scomparire la busta ormai vuota nelle pieghe del mantello blu.
Nessuno dei due si era accorto di niente.
 
«Buongiorno, giovine!»
Il ragazzetto che stava pulendo il bancone alzò uno sguardo tra lo stranito e l’inquietato sul personaggio che si era seduto sullo sgabello davanti al suo. La prima cosa che notò di lui furono le sopracciglia – nere, folte, gigantesche, straripanti –, che non aiutarono a tranquillizzarlo sulla sanità mentale del suo cliente.
«Mi… dica, signore.»
Non riusciva a distogliere lo sguardo da quelle cose enormi. Erano ipnotizzanti. Per fortuna il ninja pareva non accorgersene – o forse c’era semplicemente abituato. Si appoggiò al bancone invece, e lo scrutò con aria da cospiratore.
«Senti un po’, fanciullo, non è che hai visto passare dei ninja stranieri lungo la strada?» gli sussurrò, osservandolo con gli occhietti socchiusi.
Adesso sì che il poveretto poteva dire di essere terrorizzato.
«Non direi… signore.»
Quello ebbe uno scatto velocissimo e strinse il pugno davanti a sé, esclamando: «Accidenti! Mi avevano detto che sarebbero arrivati per oggi. Dove si saranno cacciati, dove, dov…» Il suo sguardo si spostò fuori dalla finestra, e quando lo fece lanciò un grido disumano.
Il garzone trasalì e corse a nascondersi, ma Gai non gli badò. Si fiondò alla finestra invece, e appiccicò persino una guancia al vetro per vedere meglio.
Quello era… Kakashi? Insieme ad un paio di loschi figuri imbacuccati in dei strani mantelli blu scuri?
«No, no, no, non può essere…» si disse, e schizzò subito fuori dalla tavola calda.
Il cameriere tirò un sospiro di sollievo e si disse che quello del muratore dopotutto non sarebbe stato un brutto mestiere.
«KAKASHI!»
Il rivale si girò verso di lui con uno sguardo interrogativo. «Oh, buona giornata, Gai.» lo salutò dopo averlo riconosciuto.
«Tu… tu… loro…» biascicò il sensei indicando il trio con aria sconvolta.
«Dimenticavo, ti presento Daisuke Kitajima e Reiko Iwakiyo.» continuò Kakashi esibendo l’aplomb più totale. Forse lui rimaneva l’unico essere vivente presente al mondo a non avere reazioni scomposte quando si trovava in compagnia di Maito.
I due si inchinarono freddamente mentre la Bestia Verde della Foglia si afflosciava a terra singhiozzando.
«Come hai potuto battermi in questo modo?»
«Batt… Ah, giusto, giusto, la sfida!»
«Te ne eri pure dimenticato!» urlò disperato il sensei crollando definitivamente al suolo.
Il copia-ninja sorrise con noncuranza. «Mi piacerebbe davvero molto continuare la chiacchierata, ma sto mostrando loro il villaggio per conto dell’Hokage. Arrivederci!». Lo salutò con un cenno della mano, poi si girò e continuò il cammino insieme agli altri due.
Il maestro non l’aveva ascoltato, ma aveva cominciato invece a pensare ad una punizione abbastanza dura da infliggersi per essersi lasciato giocare in maniera tanto beffarda.
«Chi era quel buffo tizio?» domandò Daisuke alla loro guida, senza riuscire a trattenere un sorriso.
«Che ci crediate o no, è uno dei jonin migliori del Villaggio.» fu la risposta che diede il sensei, e fu una risposta sincera. Lui ammirava per davvero le capacità da ninja del maestro Gai; peccato che sembrasse volersi rendere ridicolo in ogni maniera possibile. Le origini del suo comportamento rimanevano oscure agli occhi di Kakashi, e forse era per quello che era riuscito a diventare uno dei suoi migliori amici. Perché lo interessava.
«In questo Paese ci sono dei ninja davvero strani.» rifletté lo straniero. «Non trovi, Re…» si girò ma non vide nessuno.
Il compagno era rimasto indietro, si appoggiava ad una staccionata per non cadere a terra, le gambe gli tremavano vistosamente.
«Da… Daisuke…» mormorò quello a fatica.
Kakashi gli fu accanto in un attimo, ma non prima dello straniero, che afferrò l’amico un istante prima che cadesse a terra.
«Cosa gli è successo?!» chiese il jonin, allarmato. Non riusciva a spiegarsi un malore così improvviso; che fossero stati aggrediti? Ma da chi? Non aveva visto né sentito nessuno, e un dardo avvelenato con un sole come quello che splendeva su di loro avrebbe brillato sicuramente.
«Non deve preoccuparsi, Reiko non è abituata a questo clima, e il viaggio l’ha affaticata molto. Sa, nel Villaggio della Notte il sole sorge solo pochi mesi all’anno.»
In quel momento Kakashi capì di non aver colto un’informazione fondamentale. Il secondo viaggiatore, il più silenzioso, era una donna. La cosa lo stupì molto, senza neanche sapere di preciso il perché; di sicuro non se ne sarebbe accorto se il compagno non ne avesse parlato al femminile.
«Un po’ di riposo sarà sufficiente. Le dispiacerebbe accompagnarci all’albergo?» chiese intanto lo straniero prendendo il braccio il corpo inerme della ragazza, sempre con i consueti toni di formale cortesia e con i suoi sorrisi pacati.
Kakashi ricambiò lo sguardo con un’espressione esattamente identica, ed entrambi si allontanarono lungo la via, ognuno perso nelle proprie congetture.
 
***
 
Reiko aprì lentamente gli occhi.
«Quanto… tempo è passato?» fu la prima domanda che le venne in mente.
Daisuke, che aveva osservato il cielo scuro fino ad allora, le lanciò uno sguardo quasi annoiato, come per accertarsi di qualcosa che era scontato che sarebbe successo.
«Poco meno di un giorno. È notte fonda, stamattina siamo giunti al Villaggio.»
La ragazza scese dal letto con un’aria offesa. «Avresti potuto darmi qualcosa di meno forte, accidenti a te.»
«Che c’è? Non sei abbastanza dura per una droga leggera come questa?» ribatté quello con un sorriso di scherno.
«Ho un giorno in meno per compiere il mio lavoro, idiota.» replicò la straniera dal bagno. Il sorriso del compagno si allargò. Adorava farla arrabbiare, era più forte di lui.
«Quanto ti ci vorrà?» le chiese, quando la vide tornare nella stanza da letto.
«Quarantott’ore. E poi potremo passare all’ultima fase del piano.»
«Così poco tempo?»
Reiko non rispose subito, si prese del tempo, per stringersi i capelli in una coda tirata, e poi in uno chignon ancor più stretto, che fermò con qualche lunga forcina che stava tenendo in bocca.
«Più in fretta facciamo, prima finisce questo supplizio.» rispose con freddezza dopo essersi saggiata la pettinatura.
Daisuke annuì, e tornò ad osservare le stelle con un’espressione indecifrabile. «Tre giorni. Forse quattro, e tutto sarà finito.» mormorò.
La compagna non osò continuare a guardarlo in faccia, e uscì dalla stanza, per fare il suo dovere. Nei suoi occhi c’era una grande tristezza.
 
***
 
Kakashi ci si arrovellava, ci passava intere notti, ma non capiva. Non riusciva a capire.
Da giorni stava incollato a quel Daisuke, e lui si era comportato in maniera esemplare, aveva visitato il Villaggio, e l’aveva pure ringraziato calorosamente quando aveva dovuto dirgli che il suo compito come guida sarebbe terminato quel giorno stesso. Era andato a fare visita alla compagna, Reiko, ma l’aveva trovata a letto, mentre viveva una normale convalescenza.
Era andato a fare rapporto dall’Hokage, e aveva dovuto ammettere che non c’era assolutamente nulla di sospetto nel loro comportamento.
Ma allora perché, perché quel presentimento non voleva lasciarlo stare?
Si alzò dal letto, sapeva che non sarebbe riuscito a dormire.
Osservò la luna, il cielo stellato, e si chiese che cosa avessero da nascondere i ninja del Villaggio della Notte. Se lo ripeté in continuazione, fino alla nausea, finché non raggiunse uno stato di dormiveglia confusionario, nel quale gli parve di scorgere le ali di un gufo battere a rallentatore nella notte, e un paio di occhi bianchi come quelli delle stelle osservarlo fin dall’interno e dilaniargli l’animo senza pietà. Solo la luce calda dell’alba poté infrangere gli incubi ad occhi aperti che gli aveva inflitto un cervello stanco e provato, e quando vide che la strada sotto casa sua cominciava già a tingersi di un sottile velo aranciato, e che le mani adunche della morte che si erano protese verso di lui durante tutte le ore notturne altri non erano che i rami nodosi dell’albero che si affacciava alla sua finestra, Kakashi si allontanò barcollante dal vetro e si diresse verso il bagno, per chiarirsi un po’ le idee.
Gli occhi ciechi e spettrali che l’avevano divorato dall’interno, però, non scomparvero nemmeno quando si fu fatto la consueta doccia gelida mattutina.
 
Reiko sapeva come compiere appostamenti perfetti, da manuale, capaci di sorprendere anche i ninja più intelligenti e più preparati. Era la migliore, in quel genere di cose, per la sua capacità di capire le cose un attimo prima che le capissero gli altri; insieme alle sue considerevoli doti nel combattimento corpo a corpo, la rendeva un’avversaria temibile e un’alleata preziosa.
Per questo era sempre stata lei ad eseguire ogni missione.
Non era andato a dormire, quella notte. Era rimasto alla finestra, per dodici lunghe ore, stremato, ma incapace di chiudere gli occhi. Quando pensava di non essere visto da nessuno, quel jonin con un occhio solo tirava inconsciamente fuori una grande inquietudine, un gran tormento interiore, qualcosa di troppo profondo perché uno sconosciuto appostato da poche ore sotto casa sua potesse coglierlo nella sua interezza. Ma era abbastanza, per Reiko.
Una delle cose peggiori del suo lavoro era la necessità di appostamenti lunghi giorni e giorni, per conoscere la vittima, imparare a memoria i suoi comportamenti, i suoi gesti quotidiani, le sue manie, i suoi gusti. Un passaggio fondamentale, quando si trattava di eliminare ninja famosi e potenti, un vantaggio indispensabile per evitare la disfatta, contro avversari di quel calibro. Era necessario entrare nel cuore dell’obbiettivo, prima di strapparglielo via.
Per quel motivo Reiko aveva sempre odiato il suo compito. Perché la costringeva a eliminare la vittima subito dopo aver imparato a conoscerla nella maniera più profonda possibile. Non era possibile considerarla solo un animale da braccare, una preda, un obbiettivo da raggiungere. Davanti a suoi occhi diventavano tutte persone. Tutte.
Quella sera, l’assassina di Kakashi Hatake aveva imparato a riconoscerne i fantasmi.
Non si mosse, quando lo vide uscire di casa. Solo quando si fu allontanato di un bel po’ si permise di alzarsi, e scendere dall’albero con un agile salto.
Distese braccia e gambe con un’espressione di fastidio. Le conseguenze di tutta una notte passata sveglia e accovacciata su di un ramo si facevano sentire eccome.
«Tecnica della trasformazione.»
Una persona assolutamente normale uscì dalla nuvola di fumo che avvolse il suo corpo, e da lì cominciò la sua giornata.
 
Il suo obbiettivo aveva poche abitudini, ma ferree. Si ritrovò anche quella mattina nascosta tra i cespugli attorno a una delle tante lapidi scure che si trovavano lì vicino, e capì subito che si trattava di un gesto consueto, un saluto quasi commovente che non si sarebbe aspettata da una leggenda come il copia-ninja. Si sentì subito un’intrusa ad assistere ad un momento così sincero e profondo, e fu con vergogna che continuò a fissare l’occhio scuro di Kakashi diventare malinconico e le sue labbra muoversi in confessioni che non riusciva a capire o che, più semplicemente, non voleva capire.
Lo seguì tutto il giorno, troppo abile perché lui potesse accorgersi di qualcosa, e così finì a guardare il tramonto sullo stesso ramo che l’aveva ospitata la notte scorsa, e quella ancora prima.
Quella volta, vide Kakashi togliersi la divisa e coricarsi, addormentarsi finalmente, inquieto anche nel sonno.
Reiko sospirò e si portò una mano alla fronte. Un’altra notte di veglia… Tirò stancamente fuori da una tasca dei pantaloni una pallina di color marrone, se la mise in bocca e la masticò alla svelta. Era disgustosa, di un agrodolce portato all’inverosimile, ma l’avrebbe aiutata a superare le ore notturne senza cadere addormentata e rischiare di farsi scoprire.
Passarono i minuti.
Kakashi corrugava la fronte, a letto, e diceva parole prive di senso. A volte si copriva persino le orecchie con le mani, come se non volesse ascoltare qualcosa, e allora lei si chiese che cosa potesse tormentarlo così tanto da privarlo della serenità persino durante la notte.
Un fruscio, il rumore di un ramo spezzato.
«Daisuke, non dovresti venire qui. Non sei silenzioso e non sei bravo a non farti notare.» sussurrò al compagno che le era comparso di fianco.
«Sei proprio impossibile. Sono venuto a tenerti compagnia, ti fa tanto schifo? Se preferisci me ne vado a letto e tanti saluti.»
La frase dell’amico la stupì, ma molto meno di quanto si sarebbe aspettata. «Cos’è, hai deciso di diventare premuroso, adesso?»
Lui sorrise, e abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «Che ne dici di una tregua?»
Lei si girò a guardarlo. Un confronto di sguardi, ognuno dei quali poteva significare qualcosa di diverso.
A lei non facevano piacere quelle attenzioni. Non le facevano piacere perché non voleva affezionarsi troppo, non a Daisuke, accidenti, non a lui, che aveva il destino già orribilmente scritto e firmato.
Ma aveva anche un estremo bisogno di amicizia, e di confronto con chi fosse in grado di capirla pienamente.
«D’accordo. Ma solo per stanotte, sia chiaro.»
Sorrisero entrambi, insieme.
«Allora, come va con Hatake?»
La ragazza tornò con gli occhi alla finestra della sua camera.
«Sono a un ottimo punto, se mi stai chiedendo questo. È un uomo… molto inquieto». Dovette impegnarsi per mantenere la voce ferma. «Tutte le mattine va a vedere una lapide, e ci sta per più di mezz’ora, la osserva, si confida. È per questo che arriva in ritardo, lo sapevi?» Abbassò la testa. «Voglio andare a vedere cosa c’è scritto. Mi piacerebbe.»
Daisuke rimase in silenzio, non rispose nulla, ma osservò l’uomo addormentato nella stanza con un’espressione differente. Cominciava a comprendere la sua compagna di missione.
«E’ questo che provi ogni volta, Reiko?»
Toccò a lei non rispondere.
«Dev’essere dura.» mormorò, poggiandole una mano sulla spalla.
Ci fu silenzio, per parecchi minuti.
Fu un soffio impercettibile ad infrangerlo. «Mi hai interrotta apposta, non è vero?»
Lui la guardò interrogativo. «Di che parli?»
«Avrei notato lo stesso la presenza di Kakashi sulle mura, lo sapevi bene; e sapevi anche che cosa ti stavo per chiedere. Mi hai interrotta apposta.»
Il compagno si mise in una posizione comoda sul ramo, e incrociò le braccia al petto, ma non parlò.
La ragazza prese un respiro profondo, prima di porre la sua domanda. «Sei sicuro di quello che stai facendo?»
«Ti ho fermata perché le domande stupide non sono da te. Conosci già la risposta, quindi, è inutile che ti spieghi ciò che è ovvio.»
Reiko abbassò il capo; ovviamente aveva ragione. Come potrebbe un uomo desiderare la morte?
«Sai,» esordì il compagno. Il suo sguardo era perso chissà dove, oltre la casa della loro vittima, oltre Konoha, oltre il Paese del Fuoco. «non credo che mi sarebbe piaciuto diventare un ninja.»
Questo sì, che riuscì a stupirla.
«Lo sai cosa mi sarebbe piaciuto fare?»
Reiko aveva paura della sua espressione. Era l’espressione di un uomo che stava confidando i propri desideri più reconditi ad un’amica. Ad un’amica.
«Perché me lo chiedi?»
«Lo sai o no?»
«…No.»
Lui sorrise. «Mi sarebbe piaciuto imparare un mestiere. Essere un artigiano, un lavoratore d’argilla – sai, una di quelle persone in grado di prendere un pezzo di fango e tirarne fuori un capolavoro. Oppure un falegname, spendere una vita ad intagliare il legno, ad inchiodare sportelli; e poi, dopo aver trovato la donna giusta – hai presente no, quelle ragazze solari, con il sorriso contagioso e il senso dell’umorismo. Avrebbe avuto i capelli biondi, o castano chiaro… –, sfruttare le mie conoscenze per costruirci una casa con le mie mani, e avere magari un paio di pargoli a cui passare i ferri del mestiere.»
Reiko era riuscita a vedere tutta la scena, era riuscita ad avere davanti agli occhi quella piccola casetta fatta di legno, fatica e tanto amore, con quella donna ad aspettare sorridente sulla soglia, e decise che sarebbe stato per davvero il posto più adatto dove trovare uno come Daisuke.
«E’ una bella vita.» mormorò, controllando a stento la voce.
Se non la smette di raccontarmi queste baggianate, pensò, giuro che gli spacco la mascella.
«Però, sai una cosa? Io sono sereno.» concluse intanto lui appoggiandosi con la schiena al tronco dell’albero. «In fondo, mi stanno dando un modo per evadere da un’esistenza che non mi è mai piaciuta. E chissà, forse, lassù, le stelle avranno bisogno di una casa di legno costruita in mezzo a un bosco.»
«Piantala.» ringhiò lei a denti stretti.
Daisuke la osservò stupito, e quando vide i suoi occhi farsi più lucidi del normale, rise. Rise di gusto.
«Che cosa c’è adesso, non dirmi che ti sei affezionata!»
«Mi affeziono sempre a tutti, è questo il problema.»
La sua risata s’interruppe subito. Lei non lo guardava mentre parlava.
«Mi affeziono ai compagni, agli obbiettivi, a tutti. E tutti li vedo morire. Uno per uno. E rimango sempre e solo io. Attorno a me la gente muore, e io sopravvivo, sopravvivo ogni volta.» si coprì il volto con una mano. «Non ne posso più, Daisuke.»
All’improvviso, si sentì cingere le spalle da un abbraccio.
«Mi dispiace, Reiko. Mi dispiace davvero tanto.»
«Promettimi una cosa.» disse lei con il volto sprofondato nell’incavo tra la spalla e il collo di Daisuke.
«Cosa?»
«Promettimi che da domani torniamo a detestarci.»
Il compagno sorrise, e ne ebbe compassione.
«Promesso.»
 

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Capitolo 3
*** Ricordi ***


Voglio Kakashi Hatake. Portatemelo qui.
Vivo?
So che sarebbe impossibile. Il suo cadavere mi basta.

 
Kakashi si svegliò da solo quella mattina, aiutato dal cinguettio degli uccelli e nient’altro, e fu il primo risveglio sereno che ebbe dopo settimane di notti in bianco o levate frenetiche.
Poteva significare soltanto una cosa: la sua giornata di riposo era arrivata. Sorrise, pregustando la sensazione di potersi dedicare all’ozio più totale, e quella prospettiva riuscì per un secondo a fargli dimenticare tutte le preoccupazioni che nutriva riguardo agli stranieri.
Si alzò dal letto, indossò la maschera e si diresse a passo incerto verso la cucina. La ferita dello sharingan gli bruciava terribilmente, come ogni mattino, e fu strofinandosi la cicatrice che aprì il frigo e prese il cartoccio del latte per pura forza d’abitudine e d’inerzia. Lo appoggiò sul tavolo, andò a prendere una ciotola e a cercare il pacco dei biscotti, ma s’accorse con disappunto che non era rimasta neanche una briciola commestibile in casa. Solo pochi, tristissimi bicchieri di latte.
Sospirò quando vide che era pure scaduto, e con la nonchalance che lo caratterizzava rimise ordinatamente il tetrapak nel frigorifero vuoto.
Fece una breve capatina in bagno, tornò in camera da letto per indossare la consueta divisa della foglia. Prima cosa che avrebbe fatto nella sua giornata di riposo: la spesa.
Quando uscì il sole lo salutò con uno dei suoi raggi più luminosi, e senza neanche farlo apposta il copia-ninja andò con il pensiero alla ragazza, Iwakiyo, che si era sentita male solo perché non abituata ai raggi solari dodici ore al giorno. Mentre chiudeva la porta a due mandate si chiese che razza di posto potesse essere quel Villaggio della Notte, ma il pensiero gli scivolò via dalla testa con la stessa velocità e discrezione con la quale vi si era imposto, così Kakashi si allontanò con una mano in tasca e il solito passo rilassato, senza arrovellarsi più di tanto dietro alle sue domande placide e prive di reale importanza.
 
Il Villaggio della Notte si trovava talmente a nord rispetto a tutti gli altri che il cielo diventava azzurro soltanto poche volte l’anno, e quando accadeva si celebravano grandi festeggiamenti in tutta la regione settentrionale del Paese del Tempo.
Era un Villaggio ninja, ma privo di un capo vero e proprio, cosa che gli impediva di far parte dell’insieme dei Villaggi più potenti, non potendo vantare un kage a cui far riferimento. Da anni era debolmente retto da un consiglio di dieci anziani che, malgrado avesse provato più volte ad eleggere un capo villaggio, non era mai riuscito a imporre il sistema politico che vigeva negli altri Paesi, e aveva dovuto rinunciare.
O almeno, questa era la versione ufficiale.
Non era un Paese povero, quello del Tempo, e c’erano molte persone che potevano vantare di essersi costruite una piccola fortuna durante il corso della vita. Tra loro c’era gente di tutti i tipi. Attori, imprenditori, ingegneri. Scienziati.
La scienza era molto avanzata nel Villaggio della Notte; ma i membri del consiglio facevano di tutto per tenere nascosti alla popolazione i risultati dei loro esperimenti, per ragioni che nessuno conosceva, tranne le pedine delle quali il consiglio si serviva per portare avanti la propria ricerca.
Il consiglio aveva un ordine segreto, un insieme di ninja estremamente competitivi, alcuni dotati anche di abilità innate, che eseguivano un compito fondamentale: fornire la materia prima per gli esperimenti.
Pochi di loro diventavano ninja per scelta. La maggior parte aveva avuto il destino segnato fin dalla nascita, da contratti stipulati da anni e anni con le famiglie d’origine, che potevano avere contratto debiti d’ogni tipo con il governo del Paese, ed erano così costrette a pagare le loro mancanze con il giuramento che i loro discendenti sarebbero stati sempre a disposizione.
I membri del consiglio non sapevano quasi nulla di scienza, ma erano maestri in politica, e desideravano il potere. Ad occuparsi delle questioni tecniche era il capo del loro ordine segreto, detto semplicemente il Generale, e nient’altro.
Lui allenava le reclute, lui sceglieva gli obbiettivi, lui decretava chi se ne sarebbe occupato, infine lui era sempre presente nei laboratori per amministrare il lavoro degli scienziati e prendere atto dei progressi fatti.
Le sue cavie preferite erano sempre i ninja famosi.
 
«Buongiorno, Kakashi. Si è dimenticato un’altra volta di comprare da mangiare durante la settimana?»
La domanda gli era stata rivolta dal vecchietto che gestiva il negozietto di alimentari vicino a casa sua, quello in cui andava sempre, soprattutto quando si presentavano emergenze come quella che lo aveva appena colto. Cosa che, s’accorse con una punta d’imbarazzo, a quanto pareva doveva capitare piuttosto spesso.
«Temo che abbia indovinato, signor Maekawa. Non so proprio cosa ho per la testa, in questi ultimi giorni.»
In quel momento entrò un altro cliente nel negozio. Kakashi gli lanciò uno sguardo superficiale, ma non ci si soffermò più di tanto.
«Si occupi del cliente signore. Io mi posso servire da solo.» aggiunse il sensei con un sorriso. Non lo sapeva nemmeno lui, ma voleva molto bene a quel vecchietto, che chissà per quale strano motivo si era ficcato in testa che Kakashi dello sharingan avesse bisogno di una figura paterna nella sua vita.
Difatti, Maekawa non ascoltò minimamente il jonin. «Honami, vieni ad occuparti del signor Hatake, d’accordo?» sbraitò nel retrobottega. «La lascio nelle mani di mia nipote.» continuò, prima di andare quasi riluttante a chiedere cosa desiderasse all’uomo che era entrato.
Dalla porta dietro la cassa spuntò una ragazza sui diciannove anni, che non appena si accorse di essere salutata dal sensei con un sorriso sussultò e arrossì violentemente.
Kakashi pensava che fosse carina, ma non riusciva assolutamente a capirla. Sembrava che le facesse paura, anzi, che la terrorizzasse, e lui non si spiegava neppure impegnandosi le ragioni del suo comportamento così strano.
«Di che cosa… ehm, di che cosa ha bisogno, signore?» mormorò, fissandosi le mani.
«Latte e biscotti, prima di tutto.» rispose lui, tentando di non far troppo caso al nervosismo della sua inserviente.
 
Reiko ascoltava le parole del vecchio commesso, senza capirne nemmeno una. Era troppo impegnata ad osservare Kakashi dall’altra parte del negozio, occupato nel far venire un infarto ad una povera ragazza innocente.
Doveva ammetterlo, era divertente, molto divertente. Davvero l’abile stratega qual era il copia-ninja non riusciva ad accorgersi di quanto la poveretta fosse soggetta al suo fascino? O era così sadico da continuare a sfruttarlo pur conoscendo benissimo la propria arma?
A Reiko sarebbe piaciuto conoscere qualcosa di più sulla psicologia del suo obbiettivo, e questo non andava affatto bene.
 
Il Generale era una di quelle persone che incutevano timore al solo sguardo. Di solito la sensazione scompare dopo averne conosciuto il carattere; nel suo caso s’accentuava invece.
Allenava i giovani ninja fino allo sfinimento, finché le gambe non tremavano loro talmente tanto da non riuscire più a reggerli, e finché non cominciavano a sputare sangue. Allora si fermava, si dichiarava soddisfatto, e se ne andava senza un sorriso.
Nel suo ordine non c’era salvezza né per i migliori né per i mediocri.
Coloro che avevano il talento per primeggiare venivano sfruttati senza sosta, missioni su missioni su missioni, non potevano avere tregue e non potevano avere soddisfazioni personali. Tutti gli altri venivano uccisi, non prima che lui fosse riuscito a spremer via anche da loro qualsiasi cosa di utile avessero da offrire.
Era bravissimo nel ricavare il massimo guadagno possibile da chiunque gli capitasse tra le mani.
 
Il sensei tornava a casa reggendo le borse della spesa, e beandosi della pigra giornata di sole che gli si stava aprendo davanti agli occhi. Già pregustava le pagine del Paradiso della Pomiciata, una panchina in mezzo a un prato, tutto il giorno per leggere e finalmente scoprire come sarebbe andata a finire quella struggente storia d’amore…
Sospirò, beato, e infilò la chiave nella serratura.
Appoggiò le borse sul tavolo. Chissà come sta miss Iwakiyo, si chiese mentre metteva a posto la spesa. Non conosceva il motivo per il quale gli fosse venuta in mente proprio lei, forse non ce n’era uno specifico, ma si trovò a considerare che ormai erano passati già due giorni dal suo incidente, e non si era ancora scusato per l’inconveniente.
Beh, di solito queste cose le lasciava fare ad altri, non era mai stato amante di scuse inutili, ma in qualche modo gli dispiaceva che lei si fosse sentita male proprio mentre lui svolgeva il proprio dovere di guida.
Certo, avrebbe potuto dirglielo prima, così lui avrebbe scelto i viali alberati per le lunghe camminate, ma tant’era…
Growl.
Growl?
Grrrrrrrrrrrrowwl.
Ecco cosa succedeva quando si dimenticava di fare la colazione, la mattina. Era veramente snervante.
Si affrettò ad aprire il pacco dei biscotti, ne prese una manciata e lo lasciò sventrato e abbandonato sul tavolo. Il suo stomaco sapeva essere una vera e propria macchina da guerra, a volte.
Prese il libro, lo infilò in una tasca e uscì nuovamente di casa, masticando i biscotti. Prima sarebbe andato all’albergo di Reiko, e poi si sarebbe trovato una panchinetta tranquilla in mezzo al verde, dove sfogare per una volta tutto il suo bisogno di ozio. Ci sarebbe andato quella sera, a trovare Obito.
 
Tutti i ninja al servizio del consiglio erano molto forti. Alcuni avrebbero detto che sarebbe stato pericoloso costringere dei ninja forti a fare qualcosa contro la loro volontà. Il Generale avrebbe risposto di sì, se non si fosse trovato un modo per controllarli.
Una delle specialità dell’ordine del consiglio erano i sigilli. Era stato il Generale in persona, all’alba della sua carriera, a raccogliere quante più informazioni possibili dal Villaggio del Vortice appena prima e subito dopo la sua distruzione, appropriandosi della maggior parte delle sue tecniche, e aiutandosi con tali conoscenze per inventarne di nuove.
Il vero colpo da maestro era stato l’assassinio di quel membro del clan cadetto degli Hyuga, una morte di cui nessuno si era preoccupato, dato che era impossibile carpire il byakugan da qualcuno che non fosse della casata principale. Naturalmente a lui non interessava l’abilità oculare, ma il sigillo maledetto, quello che permetteva agli Hyuga di comandare su un intero ramo della famiglia. Era vero che scomparendo con la morte sigillava con sé l’abilità innata, ma era anche vero che lasciava segni indelebili sul corpo della persona, perfino da morta, segni dei quali nessuno si era mai preoccupato perché a nessuno era mai venuto in mente che il sigillo maledetto potesse diventare fonte di interesse accademico.
Il Generale si era ispirato a quello per creare il sigillo che teneva sotto scacco tutti i ninja dell’ordine, e ne andava estremamente orgoglioso.
 
Kakashi entrò nella hall dell’albergo. L’ambiente aveva un vago profumo di mughetto, forse perché il bancone ne era invaso; la proprietaria doveva essere una patita di decorazioni floreali. Si affacciò alla reception e aspettò che comparisse qualcuno. Dopo pochi minuti si fece vedere una signora con un’enorme cotonatura ai capelli neri, labbra ricoperte di uno spesso strato di rossetto rosso mezzo sbavato, che avrebbe forse dovuto addolcire i lineamenti distrutti e segnati dall’età avanzata, ma che invece li evidenziava. Indossava un kimono, con tanto di gigantesco fiocco all’altezza della schiena.
Fece per aprire la bocca, e Kakashi s’immaginò già il tipo, di quelle nonnette che non riescono a smettere di parlare nemmeno se fosse crollato il soffitto del locale; così si premunì, e la bloccò subito con: «Sa dirmi se Reiko Iwakiyo è in camera?»
In un primo momento la signora lo osservò, indecisa se sentirsi offesa o stupita, e optò per un’espressione a metà tra le due che risultò molto buffa sul suo viso paffuto ma rugoso.
«E’ uscita poco fa» riuscì a dire quando si fu ripresa. «Era insieme ad un uomo, vestito molto strano, come lei, un uomo alto, capelli b…» Kakashi la interruppe nuovamente. «Ho capito, la ringrazio infinitamente. Buon pomeriggio!» e scappò fuori dalla hall.
Felice per essere scampato da un’oretta e mezza di chiacchiere futili e aneddoti sciocchi, si avviò in direzione di un prato, conscio di aver ufficialmente esaurito le cose da fare e di avere quindi il resto della giornata tutto per sé.
 
Reiko si era allarmata quando aveva visto il sensei dirigersi verso l’albergo che lei e Daisuke avevano affittato. Non tanto perché temesse di vedersi scoperta – la copia che aveva lasciato nella camera era perfettamente autosufficiente, e avrebbe potuto contare anche sull’aiuto di Daisuke che si stava comportando nella maniera più impeccabile proprio per mantenere la sua copertura in caso di emergenza –, ma perché aveva paura che avessero cominciato a sorgergli dei sospetti.
Lo seguì, tesa, fino all’entrata dell’albergo, dove si fermò e si appostò sotto una delle finestre che davano sulla hall. Lo sentì chiedere di lei, ma poi si arrese alla prima risposta negativa che ricevette, e quando uscì cominciò a passeggiare tranquillamente diretto da tutt’altra parte.
Si mise in cammino anche Reiko, non senza la sua buona dose di perplessità. Non pensava male di lei, altrimenti era certa che un ninja come lui avrebbe fatto di tutto per scoprire quante più informazioni possibili sul suo conto. Ma allora, per quale motivo la stava cercando?
Per un attimo la ragazza si sentì ardere di curiosità, ma solo per un attimo, perché fu brava a riprendere subito le redini dei propri sentimenti e a tornare a giudicare la cosa in maniera imparziale. Tutto ciò a cui doveva pensare era non tradirsi e non mandare a monte la missione, nient’altro aveva importanza.
Lo pedinò fino ad un’enorme spazio verde, dove lui si sedette, all’ombra di un albero, aprì il libro che si portava sempre dietro e cominciò a leggere.
Anche lei si sedette, ben attenta alle distanze di sicurezza, e poté finalmente rilassarsi.
Lo osservò, con una punta d’affetto che nemmeno lei avrebbe mai ammesso. Sembrava divertirsi come un bambino quando aveva in mano quel libro, e le faceva quasi tenerezza. Certo, ricordava tutto ciò che aveva appreso su di lui, ricordava che la tecnica di sua invenzione consisteva nel trafiggere l’avversario con la propria mano, avrebbe saputo elencare a memoria i nomi di tutti i ninja che erano morti a causa sua.
Ma anche quello le faceva tenerezza, perché aveva visto le sue notti tormentate dagli incubi.
 
Reiko faceva parte di quelle persone che si distinguevano per le proprie capacità. Sembrava essere nata per fare l’assassino; il Generale ne era divertito, e aveva scommesso con se stesso su quando avrebbe ceduto, quando sarebbe impazzita, o si sarebbe suicidata.
Lei era sempre presente ad ogni missione. Una per una. E tutte avevano un solo obbiettivo: portare un corpo umano fino al laboratorio del Villaggio. A volte si trattava di corpi morti, e allora diventava l’assassino che volevano che fosse. A volte si trattava di corpi vivi, e allora il suo lavoro diventava dieci volte più straziante.
Ogni volta che il Generale la convocava, Reiko sperava con tutto il cuore di dover uccidere qualcuno, perché altrimenti sarebbe stata costretta a torturare per rendere la vittima inoffensiva e poterla portare al Villaggio, dove sempre viva sarebbe stata sezionata.
Solo due volte le era stato ordinato di rapire e non di uccidere, ed entrambe le erano rimaste marchiate a fuoco nella memoria, insieme alle urla degli uomini che personalmente aveva condotto ad una morte atroce.
«Voglio Kakashi Hatake. Portatemelo qui.» le aveva detto, quella volta.
Non era da sola. Insieme a lei erano stati convocati altri cinque ninja, un’altra ragazza e quattro uomini. Si chiese il perché, dato che il Generale permetteva loro di muoversi solo in squadre da due, raramente da tre, e solo per gli obbiettivi più ostici.
Di Kakashi Hatake aveva sentito parlare, lo conosceva di fama, ma non conosceva molto di lui, se non che era l’unico a possedere uno sharingan senza avere nelle vene il sangue del clan Uchiha.
«Vivo?» aveva osato chiedere. Non voleva che sentisse il suo terrore, ma era stato più forte di lei. Non avrebbe sopportato una terza missione di rapimento, avrebbe dovuto rifiutarsi. E sarebbe stata uccisa. Era pronta, a rigettare la vita, pur di non sentire un’altra volta quelle urla.
Il Generale aveva aspettato molto prima di rispondere. Amava tenerli sulle spine.
«So che sarebbe impossibile», era quello che aveva detto alla fine. «Il suo cadavere mi basta.»
Reiko ricordava di essersi sentita terribilmente sollevata. Un altro omicidio, ce l’avrebbe fatta. Ce l’avrebbe fatta.
«Reiko avrà il compito di ucciderlo. Ma dovrete agire con attenzione: Hatake è un jonin molto conosciuto nel Villaggio della Foglia, che ricordiamo essere uno dei più potenti Villaggi ninja. In questo momento è al culmine della sua forza, perciò l’attacco frontale è proibitivo. Bisogna isolare l’obbiettivo dal Villaggio e applicare su di lui il sigillo dell’esule. Perciò…» e a quel punto il Generale aveva sorriso. «…uno di voi morirà.»
E lei si era sentita ripiombare in un abisso di strazio, dal quale aveva sperato di poter sfuggire almeno per qualche attimo.
«Come sapete bene,» aveva intanto continuato il Generale, con quell’espressione soddisfatta in volto «il sigillo dell’esule impedisce alla persona sulla quale viene posto di avere qualsiasi contatto con la comunità e il territorio nei quali è nata. Ciò significa che Hatake non riuscirà a tornare al Villaggio, e che il Villaggio non riuscirà a trovare lui. Una volta solo, Reiko lo ucciderà, e porterà qui il suo corpo. Purtroppo» e qui il suo sorriso si era allargato «il sigillo dell’esule prosciuga totalmente il chakra a colui che lo imprime. Perciò il compagno di Reiko, che avrà il compito di sigillare il copia-ninja lontano da Konoha, dovrà morire.»
Dopo, aveva elencato uno per uno i nomi dei presenti che non avrebbero partecipato alla missione. Per primo salvò un ragazzino, sui quattordici anni, che uscì dalla stanza visibilmente pallido in volto. Poi un uomo, un trentenne pieno di muscoli e con una cicatrice sulla guancia sinistra; nei suoi occhi c’era spazio solo per la rabbia e per l’odio, un odio profondo, tenuti in gabbia dalla consapevolezza di non avere possibilità di scelta. Infine venne il nome della ragazza, che lasciò la stanza dopo aver lanciato uno sguardo di profonda compassione all’ultimo rimasto.
Chiaramente, il Generale aveva voluto dare un avvertimento ai primi tre che aveva convocato, e aveva voluto dire al poveretto che era rimasto che ormai, per lui, non esistevano più seconde possibilità.
Doveva essere un suo coetaneo, ma Reiko non ci aveva mai parlato.
«Daisuke Kitajima… Vieni avanti.»
Lui aveva fatto un passo, a testa alta. Aveva i capelli biondi che gli accarezzavano il collo ma non arrivavano fino alle spalle, e caldi occhi castani che esprimevano un grande orgoglio, ma anche una gran paura.
«Accetti la missione, Daisuke?»
Reiko aveva stretto i pugni di fronte a quella domanda, perché tutti sapevano perfettamente che qualsiasi cosa avesse scelto sarebbe morto comunque.
«Sì, signore.» aveva detto, e la sua voce non aveva tremato.
 
Una folata di vento gelido la svegliò di soprassalto; e così Reiko fu strappata ai suoi sogni, e ai suoi ricordi peggiori.
Si guardò intorno con angoscia: Kakashi era scomparso. Per fortuna non poteva essersi accorto della sua presenza, nascosta com’era tra gli alberi, ma la ragazza si diede comunque della sciocca.
Osservò il cielo, e vide che il sole era appena tramontato. Kakashi doveva essere tornato a casa, non ricordava di impegni presi per quella sera.
Si passò una mano su viso e si rialzò, staccandosi dal tronco d’albero.
Il giorno dopo sarebbe cominciato il piano. Solo il giorno dopo. Il giorno dopo sarebbero morti Daisuke e Kakashi e sarebbe toccato a lei, come sempre, portarne via i cadaveri.
Sospirò, e mosse qualche passo lungo il prato. Il vento le accarezzava il viso, e giocava con i suoi capelli; a lei sarebbe piaciuto abbandonare tutto, e andare dove stava andando lui. Ma era vincolata.
Solo in quel momento, dopo aver pensato a quello che sarebbe a breve successo, le tornò in mente la lapide di Kakashi. Quella che lui guardava ogni mattina, prima di cominciare a vivere. Scoprì che desiderava ancora tanto conoscere il nome della persona che Kakashi Hatake aveva perso, e con la quale si confidava tutti i giorni; voleva vedere con chi si sarebbe ricongiunto, dopo essere stato ucciso da lei.
Reiko ebbe un sorriso malinconico, e s’incamminò lontano dal prato. Era la prima volta che, durante una missione, le capitava di fare qualcosa per se stessa e non per la riuscita del lavoro.




 
Ciò che dice l’Autore
 
Ciao gente, e tantissimi auguri a tutte le femminucce! <3 (Oggi mi sento tenera)
Prima di qualsiasi altra cosa, devo fare un ringraziamento ad Urdi che ha recensito i primi due capitoli, e a The Edge che riesce a sopportare il mio pedinamento su facebook che neanche i peggiori stalker incalliti. Un grazie anche a chi ha inserito la storia tra le seguite, spero che vi sia piaciuto anche il terzo chap :3 A proposito, devo avvertirvi che il venerdì è una giornata diabolica, ho teatro alle tre e una partita alle nove, perciò appena pubblicherò dovrò fiondarmi fuori di casa per evitare di subirmi il predicozzo, quindi perdonate eventuali errori che siano sfuggiti alla revisione approssimativa che ho fatto ora.
Un bacione a TUUUTTI quanti! (L’ho già detto che oggi mi sento tenera?)
Glory.

PS: Sono riuscita a mettere un ordine nella mia vita (no, non è vero, l’ho fatto solo per Efp T_T), e quindi sono in grado di avvisarvi più o meno con certezza che aggiornerò i capitoli ogni sei giorni. (Le ultime parole famose; vuoi vedere che adesso mi cade in testa un meteorite e aggiornerò fra cinquecentoventiquattro mesi…). Ergoperciò (?), ci vediamo il prossimo giovedì! Di nuovo un abbraccio ^^
 

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Capitolo 4
*** Un Gufo ***


Kakashi uscì di casa che era appena cominciata la notte. Era vestito semplicemente, aveva lasciato a casa il giubbotto verde ed era rimasto con la maglia nera a maniche lunghe. I suoi passi erano gli unici a riecheggiare nel viale.
La strada era la stessa. Quella di tutte le mattine, avrebbe potuto farla ad occhi chiusi. Avrebbe potuto chiamare per nome ogni cespuglio, riconoscere quali foglie erano cadute dagli alberi, accorgersi della carta di caramella abbandonata per terra da un bambino disattento, che il giorno prima non c’era. Era una strada gradevole sotto i morbidi raggi rosati del sole mattutino, ma quando si vestiva degli abiti notturni sapeva diventare quasi diabolica. La linea delle sue curve argentate sembrava sorridere a Kakashi, e chiedergli soavemente se la sua abitudine di andare a trovare Obito tutti i giorni fosse un modo per tentare di espiare una colpa che non avrebbe potuto essere dimenticata.
Il jonin ignorava quel sorriso, e tutte le sue implicite domande, e indossava come sempre la propria maschera di rilassamento e indifferenza, quando quella che gli copriva il volto non bastava a nascondere le sue ferite.
Il cielo era già scuro, e la luna era già piena. Brillava unica, indiscussa regina, cancellava i colori del dorato rivale e ne dipingeva di suoi, i suoi merletti d’argento avevano il dolce fascino e la tormentata ambiguità propri solo di esseri indiscutibilmente femminili. Nessun uomo sarebbe mai riuscito a risultare così inquietante con la stessa forza, grazia e bellezza.
Il prato attorno alla lapide pareva quasi azzurro.
Nell’animo di Kakashi vivevano molte contraddizioni, e una tra loro spiccava in particolare: quella che vedeva svolgersi un conflitto eterno tra la sua indole calcolatrice – profondamente calcolatrice, e razionale, l’indole del jonin e dello stratega, del soldato perfetto, l’indole di colui che è riuscito a sviluppare la capacità di controllare il proprio cuore, impedirgli di battere a comando, ricoprirlo di brina e aspettare con pazienza, anche per anni, il momento giusto per tirarlo fuori –, e la sua sensibilità – spiccata, da artista, nata dalle sue riflessioni, tante, troppe riflessioni, dalla sua bravura nel vedere dietro gli specchi, dovuta forse alla sua intelligenza; quella stessa intelligenza che sempre tentava di soffocare il suo lato introspettivo, e troppo spesso ci riusciva.
Il prato attorno alla lapide pareva quasi azzurro; mentre una parte di lui si soffermava a gustarne la bellezza – la stessa bellezza malinconica che si poteva leggere nello sguardo di una giovane donna che soffriva, troppo terribilmente adatta ad un luogo come quello –, l’altra si puntava sull’unica imperfezione del paesaggio, l’unica crepa, l’unico granello di sabbia che rovinava irrimediabilmente l’arte che poteva esserci in tutto quello. Un’ombra scura.
C’era qualcun altro davanti alla lastra di pietra. Era stato preceduto.
Kakashi si fece centinaia di domande in un milionesimo di secondo, ma il suo corpo continuò con la propria camminata rilassata e nessuno, osservando il suo atteggiamento, sarebbe riuscito a capire che qualcosa lo stesse turbando o avesse anche solo attirato la sua attenzione.
L’ombra profanatrice della notte stava ritta, perfettamente immobile. Avrebbe potuto sembrare una statua, ma Kakashi sapeva che non lo era, perché sentiva il suo respiro.
Era regolare. Chiunque fosse quella persona, non era legata da vincoli affettivi con i nomi incisi nel marmo. Altrimenti il ritmo del suo respiro avrebbe inevitabilmente subito delle alterazioni, e sarebbe stato un fenomeno del tutto inconsapevole.
…Come al solito la razione prevaricava del tutto la sensibilità. Il che, molto probabilmente, era un bene.
Si fermò a pochi passi dalla lapide, e a pochi passi dall’ombra silenziosa. Quella non aveva mosso un muscolo, ma di sicuro si era accorta della sua presenza.
Kakashi reggeva un piccolo mazzo di fiori; si chinò, raccolse quelli che aveva depositato il giorno prima, li sostituì con quelli che aveva portato. Si raddrizzò.
Silenzio.
«E’ l’unico luogo che non ci ha fatto vedere.» esordì a sorpresa l’ombra. «Ero curiosa.»
Kakashi la riconobbe allora, e si stupì quando capì di avere accanto l’introversa ragazza del Villaggio della Notte.
Ora che non indossava più quel lungo mantello, e la sua bocca non era coperta dall’alto collo blu scuro che portava di solito, la sua voce risuonava chiaramente femminile, acuta e cristallina nel religioso silenzio che li avvolgeva. Il jonin si scoprì a considerare che fosse un suono molto bello.
«Non credo che un luogo triste come questo rappresenti una delle mete ideali per degli stranieri che giungono a visitare Konoha.» rispose, impeccabile, esibendo un sorriso di circostanza.
Intanto la osservava. Non era mai riuscito a vederla bene in volto, e non ci riusciva nemmeno in quel momento, a pochi centimetri da lei, perché teneva la testa piegata verso le incisioni della lapide. Era riuscito solo a carpirne i capelli, neri e lunghi, legati in una treccia.
«Chi sono?» gli chiese, indicando le scritte.
Kakashi avrebbe voluto mantenere la sua espressione formale, ma non ci riuscì. Scorse con gli occhi tutti quei nomi, uno per uno, e sperò solo che il suo sguardo non si fosse incupito troppo.
«Ninja della Foglia morti in missione.» disse alla fine.
La donna accettò la risposta con compostezza, ma con la gravità e il rispetto adatti ad ognuno di quei deceduti. Non ci fu bisogno di parole, e il jonin l’apprezzò.
«Non riesce a dormire?» domandò lui dopo qualche minuto.
La vide sospirare, passarsi una mano sui ciuffi corvini che le attraversavano la fronte. C’era qualcosa di magnetico in quella ragazza. Piegò il capo in modo da poterlo vedere, e puntò il proprio sguardo su di lui.
I suoi occhi erano chiari, chiarissimi, di un azzurro quasi bianco.
Kakashi ebbe un brivido – gli era parso di ricordare occhi del genere, forse in un incubo –, ma rimase impassibile.
«Nemmeno lei.» fu la risposta della straniera.
Il sensei ebbe un tuffo al cuore, e si mise subito sulla difensiva. Dunque era vero, l’aveva spiato! «Come…?»
Ma lei sorrise. «Le sue occhiaie.» spiegò stancamente. Distolse gli occhi da quelli di lui, con una punta di delusione che il jonin non riuscì a motivare. «La maschera le rende ancora più evidenti. Mi perdoni se ho azzardato supposizioni su di lei.»
La prima reazione che ebbe Kakashi fu di vergogna. Si era fatto cogliere da un presentimento sciocco e privo di fondamenti, gli aveva dato troppo ascolto, non era da lui. Rabbia, con se stesso.
Subito dopo, considerò le capacità di deduzione della ragazza che aveva di fronte. Davvero notevoli. Non doveva essere una ninja dalle abilità comuni; questo lo allarmò e lo attirò allo stesso tempo.
«Non crede che sarebbe meglio darci del tu?»
Lei gli scoccò nuovamente uno dei sui sguardi, questa volta diffidente, quasi da animale braccato, da persona che è appena stata colpita nel proprio punto debole. Lo fissò in quel modo per chissà quanto tempo, e lui dovette impegnarsi per sostenere il suo sguardo senza continuare a venire scosso da quei brividi lungo la schiena. Poi sembrò riscuotersi, e gli rivolse un debole sorriso.
«Ma certo. Kakashi.» Aveva pronunciato il suo nome come per saggiarlo. Rimasero fermi così, a studiarsi reciprocamente, per qualche istante. Poi lei indicò i fiori appena posati ai piedi della lapide. «E’ un bel gesto.» disse.
Lui non rispose, mosse qualche passo verso il centro del prato, un invito che fu colto subito dall’altra che dopo un attimo fu al suo fianco. Nessuno dei due se ne accorse, ma avevano lo stesso modo di camminare, una mano in tasca e lo sguardo fermo davanti a sé.
«Tra di loro c’è un mio caro amico.»
Lei comprese, e abbassò gli occhi. «Mi dispiace. So bene come ci si sente.»
Kakashi le lanciò uno sguardo di sbieco, la osservò, e gli sembrò la cosa più sincera che avesse mai visto. Gli venne naturale chiedersi chi fosse in realtà.
«Com’è il Villaggio della Notte?» fu invece la domanda che gli salì alle labbra, una domanda sciocca, istintiva, di quelle domande a cui non era più abituato da tempo. Si stupì egli stesso nel sentire il suo sapore sulla lingua.
Per la prima volta, la sua interlocutrice ebbe un sorriso vero. Indicò il prato e gli alberi soffocati dalle ombre notturne. «Così, ventiquattr’ore al giorno.»
Il jonin si appoggiò ad un tronco con la schiena. «Dev’essere… affascinante.»
«Non molto allegro, ma sì, affascinante.» concordò lei sedendosi su un masso di fronte all’albero.
«E’ difficile vivere nel buio?»
«Sì, ma penso che ne valga la pena. La vista offusca molte cose.» La ninja alzò nuovamente lo sguardo su di lui, e lo fece con l’espressione di chi sa tante cose sul proprio interlocutore, molte più di quante non dovrebbe. «E’ per questo che porti la maschera?»
Di nuovo, la straniera riuscì a stupirlo. «La mia maschera?» domandò con finta inconsapevolezza, indicandosela quasi come se si fosse ricordato solo al momento di averla addosso.
Ancora quel sorrisetto deluso. «Una maschera serve a nascondere un volto,» spiegò, «ma la vista è il senso più infido e ingannevole tra tutti. Chissà, forse, in alcuni casi una maschera invece che impedire può rivelare.»
Kakashi si accorse di essere stato irrimediabilmente colpito dalle sue parole. Istintivamente, senza farci nemmeno caso, si portò una mano al volto, a sfiorare la stoffa che gli copriva i lineamenti.
Nessuna frase l’aveva mai toccato così profondamente come avevano fatto quelle di una ragazza sconosciuta.
«Ti chiedo scusa, continuo a fare supposizioni indiscrete sul tuo conto. Non intendevo offenderti.»
Solo allora si accorse della mano che era andata a toccarsi il viso – buffo, il suo tentativo di mascherare la maschera stessa –, che subito si affrettò a togliere con una fitta di disappunto.
«Ti capita spesso?» non riuscì ad impedirsi di dire.
Lei lo guardò interrogativa.
«Di fare supposizioni indiscrete.»
La donna sorrise. «Sì, mi capita piuttosto spesso.»
Silenzio, un’altra volta. E un’altra volta i loro occhi che si incrociavano senza vergogna, in un profondo studio reciproco.
Più la osservava, più scopriva quanto in realtà fosse simile a lui. E ne era attratto, ma anche spaventato. Per questo fu preso dall’irrefrenabile desiderio di capirla, di scavare a fondo nella sua psicologia, di conoscere anche i più remoti angoli della sua mente, per potersene difendere.
Era una strategia fondamentale, quella di raccogliere il maggior numero di informazioni possibili sul nemico, per poterlo combattere meglio.
 
Reiko sapeva che si stava facendo del male. Lo sapeva alla perfezione, lei, così stupida, così inadatta, inadatta a fare il proprio lavoro.
Conosceva il motivo per il quale l’uomo che stava davanti a lei era diventato uno dei ninja più famosi al mondo, la freddezza. Kakashi la guardava, e non c’erano emozioni nel suo unico occhio.
Lui sì che poteva dirsi l’assassino perfetto.
Quante volte si era ripetuta quella regola, a mezza voce, durante i suoi appostamenti, quante volte!
Un ninja non deve esprimere i propri sentimenti in nessuna circostanza. Un ninja deve dare priorità alla missione.
Era la venticinquesima, ma importante come fosse la prima.
Aveva sempre dovuto fare appello a tutto il proprio autocontrollo per rispettarla, ogni volta, ogni santa volta. Non poteva permettere che un'unica notte mandasse a monte tutti gli sforzi per sopravvivere compiuti sino a quel momento.
Fermarsi a parlare con lui era stato un errore.
«Si è fatto tardi, Daisuke sarà preoccupato.» tagliò corto, rialzandosi. «E’ stato un piacere.» aggiunse; si era come sentita in dovere di dirglielo, di farglielo sapere.
 
A Kakashi capitava raramente di essere curioso, ed erano ancora più rade le volte in cui la sua curiosità diventava talmente forte da non poter essere ignorata.
«Posso accompagnarti all’albergo, se vuoi.»
Aveva sorriso, con quel suo fare noncurante e rilassato, era un’espressione amichevole che, almeno in apparenza, non nascondeva nulla che andasse più in là di un normalissimo atto di gentilezza.
«No.» rispose lei, immediatamente, come se le avesse proposto una cosa spaventosa.
In un primo momento Kakashi si stupì, ma si ricompose subito e si staccò dal tronco. Probabilmente era solo diffidente nei confronti di un uomo che dopotutto lei non conosceva affatto. «Sarà per un’altra volta allora.» disse con semplicità.
 
Reiko sospirò. Stava combinando un disastro dietro l’altro, quella notte.
«Non volevo essere scortese.» mormorò, e il suo sguardo si addolcì un po’. «Ma sono davvero stanca, e credo che Daisuke sia molto in pensiero per me». ­Sì, come no, come minimo sarà andato alle terme o a far baldoria in qualche pessimo bordello da quattro soldi. «Preferisco andare da sola, l’albergo non è molto lontano da qui.»
«Certo» disse lui. Come al solito, la maschera coprì il suo sorriso. «Ti consiglio di prendere la terza via a destra, una volta imboccata la strada principale. È più breve.»
Era talmente bravo a nascondere anche la minima inflessione nel tono di voce o nelle espressioni del volto, che Reiko non riuscì a capire se glielo stesse dicendo per reale premura o per qualche suo strano scopo che non riusciva a immaginare.
Sorrise comunque, e ringraziò con un cenno del capo.
«Buonanotte, signor Kakashi.» disse alla fine, voltandogli le spalle. Doveva andarsene in fretta, e il più lontano possibile da lui. Già sarebbe stato impossibile, per lei, dimenticarsi quella conversazione, e impedirsi di farsela venire in mente quando avrebbe avuto il suo cadavere tra le mani.
Sentì gli occhi riempirsi di lacrime, di dolore, ma anche di rabbia e di impotenza, e maledisse la propria stupida debolezza.
Per fortuna lui non poteva vederla, non l’avrebbe sopportato.
«Buonanotte, miss Iwakiyo.» si sentì rispondere da dietro.
Ebbe l’impulso di mettersi a correre o scomparire all’istante, ma gli ordini erano stati perentori sul fatto del mostrare capacità ninja di bassissimo livello, e si costrinse a forza a mantenere una camminata normale finché non seppe di essere fuori dal campo visivo del jonin.
 
Il sensei si ritrovò da solo, bagnato dai raggi della luna, ad osservare il mazzo di fiori secchi che gli era rimasto in mano.
La conversazione l’aveva lasciato in una situazione snervante, in una confusione di sentimenti ai quali non riusciva a dare un nome nemmeno sforzandosi.
Sospirò, si lasciò cadere a terra, e ripensò a tutto ciò che si erano detti, parola per parola.
 
Le vie di Konoha erano buie, e quella in cui l’aveva mandata Kakashi lo era particolarmente, infossata tra il muro di una fabbrica e tante casupole una schiacciata contro l’altra.
Reiko non aveva paura del buio, né della solitudine, le facevano simpatia invece, perché erano stati i soli compagni con i quali era cresciuta.
I suoi passi riecheggiavano rimbalzando sulle pareti del vicolo, assordanti, ma la sua andatura non vacillava di un centimetro, camminava dritta e perfettamente sicura di sé. Chiunque si sarebbe trovato a disagio; qualcuno avrebbe cambiato strada, qualcun altro sarebbe andato in panico addirittura. Ma lei voleva vedere fino in fondo il posto in cui il suo obbiettivo le aveva detto di andare. Anche quello era un modo per conoscere la sua psicologia.
Mentre camminava si guardava intorno, e come sempre prendeva nota di ciò che vedeva. Da un lato, il muro liscio e bianco della fabbrica, dall’altro le finestre sbarrate delle villette addormentate nell’oscurità; non era una gran posto per fare un’imboscata. Il vicolo era troppo stretto, la parete del capannone industriale era troppo alta, chiara e liscia per poter consistere in un buon posto per appostarsi e le case, quasi sicuramente abitazioni famigliari, erano la garanzia che qualcuno si sarebbe accorto di un combattimento proprio sotto la propria finestra. Conclusione: non le aveva detto di recarsi lì perché aveva scoperto qualcosa di troppo su di lei, ma perché era davvero convinto della propria scorciatoia. Semplicemente, non era abituato ad avere a che fare con persone che non fossero abili a combattere, altrimenti non avrebbe mai mandato una ragazza sola di notte in una strada tanto inquietante.
Reiko non se ne accorse nemmeno – altrimenti si sarebbe presa a schiaffi –, ma sorrise.
Dal leggendario Kakashi dello Sharingan si sarebbe aspettata di tutto, ma non che potesse peccare di ingenuità.
Altri passi.
Altri passi, oltre ai suoi.
La ragazza sospirò, ma non fece nulla di particolare. Continuò ad andare dritta per la sua strada.
Venne raggiunta in fretta.
Era uno solo. Puzzava di vino. Sopra gli occhi piccoli scintillava il coprifronte d’acciaio della foglia.
«Ehi, tesoro. Ti sei persa?»
Reiko lo ignorò completamente.
«Esigo educazione!» esclamò quello, e l’afferrò con forza per un braccio.
Le sue mani erano ruvide e callose, e sapevano come stringere per fare male.
Nel giro di pochi secondi si ritrovò schiacciata contro il muro della fabbrica, quell’essere disgustoso premuto contro di lei, il braccio ancora torto dietro la schiena.
Avvertì le dita dell’uomo sfiorarle una guancia, scostarle un ciuffo di capelli sfuggito dalla treccia. «Così va già meglio.» le mormorò a pochi centimetri dall’orecchio.
Lei si sentì invadere da una rabbia furibonda, ma si impose autocontrollo.
«Ti consiglio di lasciarmi andare.» gli rispose. Non era stata una delle solite suppliche disperate, piuttosto una minaccia sibilata a fior di labbra.
Ma l’aggressore era abbastanza stupido e abbastanza ubriaco da non coglierla.
«Come, non ti va ti fare un po’ di giochini insieme a me?». Rise da solo, mentre la sua mano scendeva ad accarezzarle la pancia.
Di nuovo quel terribile impulso di veder scorrere il suo sangue, di ucciderlo, e per una volta non avrebbe provato dolore ma soddisfazione. Sarebbe stato così terribilmente facile!
«Credo davvero che ti convenga fare come ho detto.»
«Adesso mi hai stancato.»
Le afferrò con foga l’abito, e tentò di strapparglielo via. Reiko riuscì ad impedirlo con una mossa esperta, ma non riuscì a salvare le maniche che si strapparono subito e rimasero in mano all’uomo che, mezzo sorpreso e mezzo contrariato, non era riuscito nemmeno a seguire i movimenti della sua “vittima”.
Reiko ebbe un brivido di freddo, ma non era per il clima che si sentiva così arrabbiata. Odiava essere a braccia scoperte.
Il suo aggressore buttò via i pezzi di stoffa con un gesto stizzito e di nuovo le prese un polso per stringerlo ancor di più.
Lei per tutta risposta alzò la mano libera. Non avrebbe voluto usare subito la sua abilità, ma ormai non avrebbe più resistito alla tentazione di vedere il terrore negli occhi di quel verme schifoso.
«Toglile le mani di dosso. Ora.»
Si girarono entrambi. C’era un ninja, accucciato sul tetto di una casa.
Reiko ebbe un moto di frustrazione nel riconoscere Kakashi. Adesso avrebbe dovuto fingere di essere un’incapace, e quella non era esattamente la situazione migliore in cui portare avanti una commedia del genere. Senza contare che non avrebbe più potuto vedere il sangue del suo aggressore scorrerle tra le dita.
E poi non aveva la minima voglia di fare la parte della fanciulla indifesa, proprio davanti alla persona che le era stato detto di uccidere.
Intanto l’uomo la prese per i capelli e le torse di più il braccio.
Piegata a metà, costretta in una delle posizioni più scomode che avesse mai provato, Reiko si ritrovò ad imprecare in tutte le lingue conosciute fino ad allora.
Se proprio mi devi salvare, almeno sbrigati! pensava. E ancora: Giuro che se tra cinque secondi questo tizio non mi ha levato le mani dalla faccia me ne fotto degli ordini e lo uccido come dico io. E già che ci sono faccio fuori anche quel gran cretino di Hatake. Due piccioni con una fava.
Intanto i due erano impegnati a guardarsi in cagnesco, totalmente ignari dei progetti sanguinari della fanciulla in questione.
«Vattene a fanculo, questa è una festicciola privata». Ghignò. «Oppure vuoi venire a divertirti un po’ anche tu?»
«Divertirmi? Oh, ma certo.» rispose il jonin balzando nella via. S’avvicinò all’altro con tranquillità, ma quando gli fu vicino lo sorprese con un pugno fulmineo in viso, che lo fece cadere e rotolare per qualche metro. «Ecco, mi sto divertendo.»
Anche Reiko finì a terra.
«Sei pazzo?!» fu l’esclamazione che giunse dall’uomo quando si fu ripreso dal colpo.
Kakashi gli si materializzò di fianco in un secondo. Il suo occhio brillava di una rabbia che congelava, invece di bruciare.
«No, ma sono un tuo superiore. E devi mostrare rispetto.»
Lo afferrò per il giubbotto e gli sferrò un altro colpo sulla mascella, così forte da fargli schizzare un fiotto di sangue dalle narici e fargli ciondolare con violenza la testa all’indietro. Non ci furono risposte, ma solo un gemito di dolore.
Il jonin lo lasciò cadere a terra con disgusto. Gli afferrò il coprifronte, e glielo strappò via.
«Questo» gli strinse le guance in una morsa d’acciaio e lo costrinse ad osservare per bene il simbolo sulla targhetta di metallo. «è segno di maturità, rispetto e onore. Tu sei sprovvisto di tutte e tre le cose, quindi scordati di riaverlo indietro. Un verme come te non può essere chiamato ninja.»
Detto questo Kakashi si rialzò, e completò l’opera con un calcio nel ventre.
Reiko si era rimessa in piedi in quel momento, e si era ricomposta. Il sensei alzò lo sguardo su di lei, e le fece un cenno di saluto.
La ragazza ebbe un mezzo sorrisetto e scosse la testa. Si chiese, mentre lo raggiungeva, se avrebbe dovuto fingersi sconvolta, ma decise che far finta di non essere in grado di contrastare un incompetente come quello l’avesse già provata abbastanza, e accantonò la questione velocemente. Comunque fosse, sapeva che le parole giuste da dire erano: «Ti ringrazio.»
«Non devi, è colpa mia se sei finita qui.» le disse lui, facendole segno di seguirlo.
Entrambi scavalcarono l’uomo ancora a terra con la massima noncuranza, in un atteggiamento talmente simile che chiunque avrebbe notato qualcosa di strano guardandoli, tranne loro stessi.
«Ho ripensato all’informazione che ti ho dato e me ne sono pentito subito. Ero un po’ preoccupato, quindi ti ho raggiunta.»
«E’ stato un intervento provvidenziale (anche se sarei riuscita a farcela da sola).» buttò lì, come per caso. Ci teneva a puntualizzarlo, era una questione di orgoglio personale.
Kakashi annuì, ma non rispose niente. Non le era sembrato condiscendente, o derisorio, ma solo perso nei suoi pensieri.
Reiko non riuscì a non domandarsi a che cosa lui stesse pensando così intensamente, ma allo stesso tempo una parte di lei si accorse che il suo occhio, di un azzurro cupo e sporco, quando rifletteva si posava esattamente nello stesso punto in cui si posavano i suoi, senza volerlo. Lievemente spostato verso sinistra, si fissava un po’ più in basso rispetto a ciò che c’era davanti a sé, pur senza guardare il terreno.
Ma quella era un’informazione superflua, e quindi il suo cervello la eliminò.
Arrivarono in fretta alla fine della via, dove si apriva una piccola piazzetta sula quale si affacciava l’insegna sbilenca dell’albergo che si erano affittati lei e Daisuke.
Era davvero la strada più veloce.
Si fermarono esattamente al centro dello spiazzo; non c’era nessuno a parte loro.
«Ti ha… ehm.» si bloccò. Sembrava imbarazzato, come se non fosse abituato a fare certe domande. «Ti ha fatto del male?»
Istintivamente Reiko portò lo sguardo alle sue braccia. «No.»
Anche lui l’aveva fatto, così si affrettò a nasconderle, quasi con pudore.
«E’ un bel tatuaggio.» disse lui indicandole.
La ragazza si rabbuiò. Le figure geometriche che le solcavano le braccia avvolgendole i polsi fino a ghermirle gomiti non erano altro che i simboli del sigillo che la tenevano serva di un Paese che non era certa di voler servire.
«E’ un’eredità dei miei genitori.» gli rispose, ed era stata la verità, dopotutto. «Non li ho mai conosciuti.» aggiunse, in un soffio, ed erano state parole che non avrebbe mai detto se fosse stato per lei, le erano semplicemente sfuggite via dalle labbra, come animali tenuti in gabbia per troppo tempo che finalmente avevano trovato un’apertura tra le loro sbarre.
Silenzio. Nessuno dei due si guardava negli occhi.
«Ti capisco.» fu quello che disse lui, e nel suo caso sembrò più una confessione forzata strappatagli via dalla gola a fatica. «Mia madre è morta quando ero molto piccolo e mio padre…». Si concesse una pausa, una sola. «Mio padre mi lasciò quando ero all’Accademia.»
«E’ dura.» mormorò Reiko.
«E’ dura.» rispose Kakashi.
 
Nessuno dei due era abituato a sentire l’energia delle emozioni scorrere libera nelle loro vene. La ragazza della Notte era sempre stata abituata a rigettarle indietro, per evitare l’autodistruzione, non aveva mai avuto il coraggio di lasciarle a briglie sciolte perché le conosceva troppo bene, e sapeva che erano troppo inadeguate ad un destino come il suo; il jonin della Foglia, semplicemente, non ne aveva mai provate di abbastanza forti da sciogliere la freddezza dalla quale era costantemente dominato. Solo il dolore della perdita aveva avuto quel potere, una volta.
Quel giorno, invece, c’erano molte emozioni, ed erano le stesse per entrambi. C’era malinconia, c’era uno stupore soffuso, di chi riscopre cose che non riesce a capire se reali o meno, c’era una dolcezza di fondo della quale non riuscivano ad individuare l’origine.
C’era attrazione, e nemmeno a quello erano abituati.
Kakashi non notava mai la bellezza, ma la funzionalità. Lui valutava la potenza delle armi portate da un nemico, non si soffermava sull’armonia della loro forma o sul modo in cui la mano di quella persona era solita impugnarle. Si chiedeva come gli abiti dell’avversario sarebbero stati in grado di ostacolarlo o di aiutarlo nell’infliggergli le ferite, non si accorgeva di come gli ricadessero sul corpo.
Erano i pensieri del jonin perfetto.
Eppure, quella volta, senza sapere neanche il come o il perché, notò di più. Notò quanto la treccia di lei fosse stretta, e come nonostante quello la luna riuscisse a dipingere di riflessi quasi argentati i suoi capelli neri. Vide che la fascia grigia che interrompeva il blu della sua tunica si annodava morbida esattamente nel punto in cui la sua vita si faceva più sottile, e che i colori scuri che Reiko amava indossare risaltavano la sua carnagione pallida. Si accorse che i suoi occhi, così chiari, ad un primo sguardo potevano sembrare poco espressivi, ma diventavano molto profondi una volta conosciuti con più attenzione e avevano un grazioso taglio allungato.
Scoprì che la ragazza della Notte, oltre ad avere una bella voce, aveva anche un bel viso, intagliato in un corpo sottile e longilineo, ma non per questo poco femminile.
Reiko invece scappava dalla bellezza. Proprio perché era capace di riconoscerla e di apprezzarla la rifuggiva, non voleva permetterle di andare a toccare corde nel suo cuore che non poteva assolutamente vedere risvegliate.
Ma la bellezza di Kakashi era una bellezza pericolosa, che andava scoperta, ricercata, non era facile da trovare. Era qualcosa che attraeva, che spingeva a scoprire sempre più a fondo, e che poi imprigionava nella propria ragnatela chiunque fosse stato così sciocco da lasciarsi abbindolare dal suo richiamo.
Reiko c’era caduta in pieno, e come tutte le trappole che si rispettino, più tentava di sciogliersene e più ne rimaneva irrimediabilmente invischiata.
Entrambi erano colti alla sprovvista da tutto quello, entrambi ne erano paralizzati. Per la prima volta non seppero, veramente, che cosa fare o che cosa dire.
 
Il verso di un gufo infranse la notte in quell’istante.
Reiko si riscosse, si liberò finalmente dai fili della sua prigione mortale, riacquistò la lucidità che aveva perso senza neanche accorgersene. La prima domanda sensata che si fece fu il chiedersi se il viso di Kakashi era sempre stato così vicino al suo.
«Devo andare.»
La sua voce risultò più flebile di quanto avesse sperato.
Lo vide annuire, allontanarsi istintivamente di un passo, guardarsi in giro come alla ricerca di una spiegazione.
La ragazza non attese nessun saluto, si girò e corse fino all’albergo, dentro al quale finalmente scomparve lontano dall’incantesimo di quel jonin diabolico.
 



Ciò che dice l’Autore
 
Una delle cose belle di essere a casa malati è poter aggiornare a quest’ora ^^. Chiuso il siparietto sulla mia penosa condizione attuale, rinnovo tutti i ringraziamenti fatti l’altra volta e spero davvero che anche il quarto capitolo vi sia piaciuto. Diciamo che qui comincia ad arrivare la parte romantica della storia, mi auguro di essere riuscita a gestirla per il meglio e che sia piaciuta :3
Ho riletto il capitolo centocinquantasei volte, ma so già che avrò lasciato qualcosa che non va (perché mi capita sempre ç_ç) e mi scuso in anticipo.
Un bacio, a mercoledì!
Glory.
 

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Capitolo 5
*** Il sigillo ***


Reiko si sbatté la porta alle spalle.
Si prese la testa con le mani, e crollò a sedere appoggiata alla parete.
«Chi è?»
La ragazza non rispose.
Come aveva fatto? Come aveva fatto quel ninja a distruggere tutte le barriere che avevano tenuto imbrigliati i suoi sentimenti fino ad allora?
«Reiko!»
Non alzò lo sguardo, ma sentì che il compagno aveva la bocca piena. Stava mangiando.
«Come diavolo fai a farti venire fame a quest’ora di notte?»
Sì, le ci voleva un bel battibecco. Una cosa che sapeva di normalità, che l’avrebbe illusa del fatto che nulla era cambiato dentro di lei.
Ma lui era diventato bravo a ignorare le provocazioni.
«Non ti aspettavo, credevo stessi sorvegliando l’obbiettivo.»
L’obbiettivo… La ragazza fu scossa da un brivido, senza sapere nemmeno il perché.
«Domani si va in scena, te lo ricordi?»
«Sì, lo so!» esclamò con uno scatto rabbioso. Si alzò, superò il compagno senza alzare lo sguardo su di lui per andare a rifugiarsi in bagno. Accese la luce, si appoggiò al lavandino. Aveva paura di guardarsi allo specchio, non voleva vedere che espressione aveva in viso.
«Ehi, cos’è successo al tuo vestito?»
Daisuke l’aveva seguita e si appoggiava allo stipite della porta con una spalla.
«Un ubriaco in cerca di ragazze di cui approfittarsi.»
Lo sentì ridere. «Avrei voluto esserci!»
Anche lei, suo malgrado, sorrise. «Non farti venire strane idee.»
«Sogna quanto vuoi, mia cara, tanto non sei il mio tipo.»
Questa volta risero insieme.
«Non sono ancora pronta, Daisuke.» sussurrò dopo un attimo. Non ebbe il coraggio di guardarlo in faccia mentre lo diceva, ma il silenzio che seguì la sua ammissione fu esplicito di qualsiasi altra risposta.
Era una codarda, e lei lo sapeva. Una debole, e sapeva anche questo.
«“Più in fretta facciamo” e bla bla bla? Ha! Lo sapevo che non avresti completato gli appostamenti in soli due giorni, miss “sono bella, brava e impiegherò meno di una settimana a fare fuori uno dei ninja più conosciuti di Konoha”. Così impari a darti tutte quelle arie.»
Reiko alzò, stupita, lo sguardo su Daisuke. Ricevette un occhiolino. «Scemo io che non ho pensato a una scommessa. C’avrei proprio fatto un bel gruzzoletto a quest’ora, già…»
Se n’era andato, ma lei sentiva ancora vive le sue parole, che nascondevano qualcos’altro dietro le consuete frecciate. Un “grazie”, sussurrato a mezza voce alla propria immagine riflessa, fu d’obbligo.
Nessuno dei suoi compagni l’aveva mai capita, prima.
 
***
 
«…E queste sono tutte le missioni in programma per la prossima settimana, le ho appena smistate io stesso. Dateci un’occhiata.»
Arrivò Iruka a prendere i fogli dalle mani del Terzo Hokage e a distribuirli ai jonin presenti.
Kakashi prese i suoi e se li mise davanti con tutta la buona volontà del mondo, ma non riuscì a leggerne nemmeno una riga. Sospirò, e spostò lo sguardo sulla finestra dell’ufficio dell’Hokage.
Pioveva. Non succedeva spesso a Konoha.
 
Reiko aprì le imposte della stanza. Una delle tante cose che amava della pioggia era l’aria che si lasciava dietro. Faticava ad immaginare qualcosa di più puro.
Si sporse con la testa fuori, per sentire le gocce sulla pelle, chiuse gli occhi e sorrise impercettibilmente. Tutti loro avevano dovuto abituarsi ad accontentarsi di poco per essere felici, ma quando quel poco arrivava, la gioia non poteva essere paragonata con quella delle persone che invece la potevano gustare ogni singolo giorno della loro vita.
Ti capisco.
È dura.
Era stata veloce, quella voce, ad infrangere l’unico istante in cui aveva deciso di prendersi una tregua dal dolore. Ritirò la testa, il sorriso ormai scomparso. Perché le erano venute in mente quelle frasi?
Chiuse i vetri e tornò nella camera da letto.
Aveva compiuto uno degli errori più grossi della sua vita a voler parlare con lui. Maledetta la sua curiosità, che l’aveva indotta a conoscere sempre di più il suo obbiettivo, a comprenderlo, ad entrare nella sua vita. Si era ritrovata già abbastanza problemi con i sentimenti quando la sola cosa che conosceva della sua vittima erano le capacità, era perfettamente a conoscenza di che cosa sarebbe successo se avesse cercato di approfondire. Ma l’aveva fatto lo stesso, e sentiva quella volta c’era qualcosa di più, non semplice compassione.
Gli voleva bene.
Si rannicchiò nel letto e si nascose sotto le coperte, come a voler scappare da quella nuova e terribile consapevolezza.
Era arrivata a volergli bene, per come gli brillavano gli occhi quando poteva leggere quel suo dannato libro, per come spesso si estraniava dal ciò che lo circondava per inseguire la scia di pensieri e ragionamenti che potevano essere solo suoi, per come fosse letale e intelligente in battaglia, ma goffo e a disagio nei rapporti con le altre persone. Per la maschera che gli nascondeva perennemente i lineamenti, per il pudore che provava nei confronti del proprio volto e delle proprie emozioni.
Era un fenomeno sottile, ma perentorio; e lei non poteva fare nulla per combatterlo.
Si alzò nuovamente dal letto, aveva sperato di poter riprendere il sonno ma si era resa conto che non ci sarebbe più riuscita. Per un po’ di tempo vagò nella stanza, incapace di uscire, incapace di rimanere dentro un minuto di più, finché non si rifugiò in bagno nella speranza di farsi una doccia e darsi una calmata.
Tentò di concentrarsi al massimo su ogni minimo gesto, per evitare che i pensieri tornassero sull’argomento.
Cominciò con lo sfilarsi i pantaloni. Caddero a terra dolcemente, si afflosciarono con un rumore lieve, non si chinò a raccoglierli. Li lasciò dov’erano.
Se almeno avesse potuto fuggire, l’avrebbe fatto. Non chiedeva vendetta, non chiedeva potere, né soldi, né fama. Non chiedeva una brillante carriera, voleva solo vivere lontano. Lontano, da tutto, dai ninja, dal sangue, dai kage, dalle armi, dal chakra, dai sigilli, dalle tecniche.
Portò le mani dietro la schiena, tirò lentamente il nastro argenteo che le cingeva la vita, finché non finì al suolo anch’esso lasciando la casacca blu a drappeggiarle mollemente sulle spalle.
Ma non poteva.
Se la tolse con uno scatto, non c’era più traccia di dolcezza ora. Con la stessa foga si strappò il fermaglio dai capelli e si sciolse la treccia, e una cascata di capelli neri e arruffati andò a ricaderle sulla schiena e sui fianchi.
Guardò la propria immagine nello specchio con una smorfia di rabbia.
Il sigillo che le solcava gli avambracci era nero e adunco, sembrava un antico rampicante che una volta era stato magnifico, ma che era diventato morendo spettrale e spigoloso. Era perfettamente simmetrico, persino negli ultimi piccoli simboli all’estremità dei gomiti, dai quali partivano poi due linee diritte e sottilissime, che le delineavano le spalle, le percorrevano lo sterno e andavano infine a congiungersi in un punto preciso a metà strada tra il seno e l’ombelico. Lì si trovava il vero simbolo del sigillo, una sorta di sole stilizzato, che conteneva un paio di parole talmente piccole da essere impossibili da decifrare.
Per colpa di quella cosa non poteva fuggire.
Aveva preso tempo con Daisuke, ma sapeva fin troppo bene che non avrebbe potuto temporeggiare per sempre. I ritardi non erano mai stati ammessi, e non aveva possibilità di ribellione.
Ecco, una cosa che l’aveva sempre fatta impazzire di rabbia, l’impotenza.
Era sempre stata impotente su tutto. Sul suo destino, sulle tecniche che avrebbe dovuto imparare, sulle persone che avrebbe dovuto frequentare. Non poteva scegliere se rifiutare una missione, e si ritrovava a non poter scegliere nemmeno in quel momento, se voler bene o meno a quello schifosissimo Kakashi Hatake.
Perché il destino si ostinava a volerle negare qualsiasi scelta?
Sferrò un pugno al muro accanto allo specchio. Quando ritirò la mano vide che era rimasta l’impronta delle sue nocche, ed ebbe un sorriso feroce e amaro allo stesso tempo.
Sarebbe bastato eliminare il sigillo. Dicevano che solo chi l’aveva impresso avrebbe potuto scioglierlo…
Si chinò a raccogliere un kunai dai pantaloni.
 
«Dio santo, ma quanti cavolo di fogli ci vogliono per le missioni di una sola settimana? Vorrei tanto sapere poi perché li ha dati a me, ci mancava solo la burocrazia per darmi il colpo di grazia.»
«Ma stai zitto, che se non altro tu quando torni a casa ti ritrovi in dolce compagnia. Ad aspettare me invece c’è solo quel mostro orrendo della mia vicina di casa… Non capisco davvero come una donna possa essere così tanto brutta, sul serio, è al limite del paranormale! Secondo me non è umana.»
«Disse quello che aveva un’enorme cicatrice sulla faccia.»
«Almeno io mi sporco le manine, tesoro della mamma!»
«Quasi quasi li rifilo a Gai. Se gli dico che per diventare un ninja infallibile se li deve smazzare lui, scommetto che lo fa.»
«Oppure potresti darli a Kakashi, dato che questa settimana l’unica cosa che ha fatto è stata abbioccarsi sulle mura del Villaggio e girare insieme a due loschi figuri.»
Raido aveva volutamente marcato sul nome dell’amico, di certo per attirare la sua attenzione, ma il copia-ninja non sembrava per niente interessato alla conversazione, anzi, i due jonin che camminavano insieme a lui avevano il forte sospetto che si fosse perso ogni singola parola.
«Non è vero, Kakashi?» rincarò Asuma mollandogli una forte gomitata sul fianco.
Kakashi ebbe un’esclamazione di pura, ingenua sorpresa e per poco non franò addosso a un passante.
«Che cosa!?» esclamò, con la stessa espressione smarrita di chi viene risvegliato bruscamente da un sonno profondo.
«Animale!» lo apostrofò Asuma, sventolandogli davanti i fogli delle missioni. «Io e Raido stiamo lavorando,hai presente il significato di questa parola?»
Il jonin dello sharingan si rammentò solo allora di quello che stava facendo, della via in cui stava camminando, dei compagni con i quali stava passando la mattinata.
«Io potrei anche pensare di perdonarti, se tu mi dicessi come si chiama la straniera con la quale passeggiavi amabilmente qualche giorno fa.» s’aggiunse l’altro riprendendo a camminare.
A Kakashi si rizzarono le radici dei capelli, ma rimase impassibile.
«Devo proprio farti notare che quella di accompagnarla a visitare il Villaggio era una missione affidatami dal Terzo Hokage in persona?»
Raido allungò il collo verso il collega, che veniva loro dietro con la sigaretta in una mano e i documenti nell’altra. «Ti risulta che tuo padre assegni missioni del genere?»
«Diamine, no! Altrimenti sarei nel suo ufficio ogni giorno della settimana.»
Kakashi ebbe un ghigno. «Sì, eh? Credo proprio che questa andrò a raccontarla a Kurenai, vediamo cosa ne pensa lei delle missioni dell’Hokage.»
«Non mi piegherò a questi sporchi ricatti.» affermò Asuma, ma sudò segretamente freddo.
«Almeno, ci vuoi dire come si chiama?» insistette Raido.
«Sì, dicci come si chiama.»
«Taci, Asuma, queste sono informazioni riservate ai soli jonin single
Kakashi osservò la strada che stava percorrendo, le foglie cadute dagli alberi che vi si posavano dolcemente. Aveva smesso di piovere.
La vista offusca molte cose. È per questo che porti la maschera?
«Si chiama Reiko.»
«Reiko.» ripeté Raido, portando le mani dietro alla testa come per sorreggerla e osservando pensoso i nuvoloni neri sopra di sé. «E dimmi, è bella questa Reiko?»
Ma l’unica risposta che ricevette fu una sberla sulla nuca da parte di Asuma.
«Ma che ho fatto?!» protestò il jonin massaggiandosi la testa.
Per tutta risposta l’altro gli indicò il copia-ninja con un cenno della testa.
Raido spostò lo sguardo su Kakashi, e lo vide fare molta più attenzione alle foglie degli alberi in balia del vento che al terreno dove metteva i piedi.
«Cielo, è partito un’altra volta.»
Asuma ghignò. «Credo che tra un po’ di tempo non ci saremo solo io e Kurenai da prendere in giro.»
 
Il sangue le scorreva caldo lungo le braccia.
Non stava servendo a nulla massacrarsele con il kunai; il sigillo continuava anche sotto la pelle, non aveva senso scavare, e sopportare quel dolore illogico e folle, per rincorrere l’unica speranza fantasma di poter afferrare finalmente la libertà.
Il sangue le scorreva caldo lungo le braccia, e gocciolava sul pavimento, le sporcava i vestiti abbandonati sotto di lei, ma non le importava.
Ecco, forse aveva trovato!
Le tremavano le mani, le cedevano le gambe – forse stava perdendo troppo sangue? –, ma trovò lo stesso la forza per appoggiarsi la punta del kunai sull’unico simbolo in mezzo al ventre. Strinse l’arma con più forza, nonostante fosse bagnata e le scivolasse tra le mani.
Doveva solo premere di più…
«Che cazzo stai facendo?!»
Daisuke irruppe in bagno gridando imprecazioni. Le afferrò un polso, lei neanche si ribellò quando le strappò il kunai di mano e lo lanciò dall’altra parte della stanza.
«Tu sei fuori di testa.» mormorò portandola fuori e facendola sedere sul letto. «Ma che schifo.»
Corse di nuovo in bagno, e quando ne uscì portava con sé alcool e fasciature. Le si sedette accanto, e le prese le braccia. Doveva pulirle dal sangue, ma prima di ogni altra cosa doveva fermare l’emorragia.
«Questa me la devi spiegare. Ah sì, questa me la spieghi proprio.» borbottava mentre trafficava con le bende. «Rompere un sigillo con un kunai. Che idea geniale! Chissà perché non è venuta a me.»
Reiko chiuse gli occhi mentre l’altro si dava da fare per medicare le ferite che si era autoinflitta.
Non sapeva davvero che cosa le fosse preso. Le si era annebbiata la vista, aveva gettato all’aria qualsiasi traccia di lucidità e si era lasciata trascinare via dalla rabbia e dalla disperazione. Era stata una grandissima stupida, e quasi avrebbe meritato di morire in quel modo, così disonorevole, tanto le sembrava patetico il suo gesto a pensarci lucidamente.
«Non dovresti stare qua a medicarmi.» disse infatti.
«Guarda che non mi sto mica divertendo a pulire tutto questo sangue. Santo cielo, te l’hanno mai detto che non si muore tra atroci dolori a ringraziare qualcuno?»
«Non è per questo…». Non l’aveva mai guardato in faccia. «E’ stato un gesto debole. Sarebbe stato più giusto lasciarmi così.»
La risposta che le sue parole ottennero fu solo il silenzio, ma il moto esperto e veloce delle mani di Daisuke sulle sue braccia non accennò a volersi fermare nemmeno per un istante.
«…Grazie.» disse alla fine. Era la seconda volta che lo ringraziava, ma si sentiva come in dovere di dovergliene mille altre di quelle piccole inutili parole.
«Tu dai davvero uno strano significato al termine “giustizia”.» fu il suo “prego”.
Reiko ebbe un sorrisetto amaro. Lo sapeva bene, come sapeva anche che non era quello che il suo cuore condivideva, ma «E’ l’unico che mi abbiano insegnato.»
Lei era completamente nuda, lui si trovava a pochi centimetri dal suo corpo, eppure non c’era imbarazzo tra di loro, né alcuna forma di malizia. Semplicemente, nessuno dei due si sarebbe mai sognato di pensare all’altro come oggetto di desiderio sessuale o potenziale amante, o anche solo come esponente del sesso opposto.
«Vedi, è questo che mi preoccupa». Quando sentì le fasciature ben salde sulle braccia e il bruciore delle ferite farsi più ovattato, Reiko si accorse che Daisuke aveva finito e la stava guardando.
«Che cosa è successo?» le domandò.
«È stato un gesto folle, lo so, ero semplicemente stanca di tutto questo.»
«Reiko». La sua voce era troppo seria perché lei potesse continuare a evitare il suo sguardo. «Sono tanti anni che fai questo lavoro; se avessi fatto queste scene durante tutte le missioni che ti sono state affidate non saresti sopravvissuta così a lungo. Che cosa ti è successo?»
La ragazza voltò la testa di scatto e si alzò nervosamente dal letto. Le girava lievemente la testa – aveva davvero perso un bel po’ di sangue –, ma ignorò fermamente la propria debolezza per andare all’armadio e cercare qualcosa di pulito da potersi mettere addosso. «Non mi è successo niente.»
«Cosa non va con Hatake?» continuò invece lui, imperterrito.
Reiko preferì non rispondere per concentrarsi sugli indumenti che aveva davanti.
«Maledizione, ma perché non me ne vuoi parlare? Io ci morirò, per questa cavolo di missione, sarebbe carino se mi facessi sapere che problemi ci sono a portarla avanti!»
«Taci, per favore.» fu la dura risposta di lei. Afferrò la prima cosa che gli capitò sottomano e richiuse l’anta con rabbia.
Daisuke la osservò, la scrutò bene, prese atto di ogni suo minimo movimento, espressione del viso, inflessione della voce. Forse non era mai stato adatto a tutte quelle cose da ninja, poteva ammetterlo, forse non sapeva dedurre quanti nemici ci fossero, quante armi avessero addosso e in quanto tempo avrebbero attaccato. Forse non sarebbe mai riuscito a prevedere le mosse di un avversario, forse non aveva i riflessi abbastanza pronti da permettergli di schivare tutti i colpi; ma una cosa la sapeva fare, sapeva capire le persone.
«Allora è questo. Ti sei spinta troppo oltre.»
Reiko s’irrigidì. Si strinse il nodo della tunica talmente tanto stretto da mozzarsi il fiato, ma le ci volle qualche istante per richiamare il proprio autocontrollo e mollare la presa sulla stoffa.
«Non mi provocare.»
«D’accordo!» esclamò alla fine il compagno, alzando le mani in segno di resa. Raccolse le bende e rimise in piedi. «Ti lascio stare, se vuoi. Ma io mi chiedo, e farai bene a chiedertelo anche tu, se riuscirai ad ucciderlo quando sarà il momento di farlo. Sai, non mi piacerebbe che tu lo scoprissi una volta che io sono morto inutilmente.»
Dopodiché Daisuke sparì nella stanza accanto, mentre lei, sola, si ritrovava a dover fare i conti con l’incommensurabile peso delle sue parole, il peso di una verità che non voleva accettare e che ora gravava irrimediabilmente sulle sue spalle.
Il peso della sua debolezza.
«Non ci riuscirò.» si ritrovò a sussurrare. Rincorse il compagno, aprì con foga la porta, ora cercava un appiglio. «Daisuke. Io non…»
Il compagno prima le scoccò uno sguardo stupito, che subito si addolcì.
Non aveva avuto bisogno di tanto tempo per rompere la propria corazza, si ritrovò a considerare. Era proprio quello che sembrava, una ragazza con un gran cuore e troppi sentimenti, che tentava in ogni modo di fare la dura per soffocare la propria natura.
Le sorrise. «Adesso me lo vuoi dire che cosa è successo?»
 
A Kakashi succedeva spesso di puntare la propria attenzione su un particolare, un insignificante dettaglio, capace di catturare tutti i suoi pensieri – ma al tempo stesso liberarli. Poteva capitargli di passare ore intere a fissare o ascoltare l’inaspettato oggetto del suo interesse.
Quella volta era stato il lieve ma prepotente suono degli estremi del suo coprifronte che sbattevano, dietro la nuca, in balia del forte vento che si era alzato.
«E muoviti, Gai, restatene impalato lì ancora un po’ e vedrai come ti cadranno addosso tutti questi nuvoloni qua sopra!»
«Arrivooo!»
È un bel suono, pensava intanto il jonin. Era la colonna sonora più adatta per tutti i complicati giri di pensieri che lo appassionavano così tanto, e per un certo genere di ricordi.
«La prima cosa che farò quando raggiungeremo questo stramaledettissimo locale sarà ordinare una bella bottiglia di sakè.»
«Hai ragione, non c’è niente di meglio del sakè in una giornata piovosa come questa.»
«Tu berresti sakè ovunque, è inutile che usi la pioggia come scusa.»
Aveva passato tutto il giorno a pensare a lei. Tutto il giorno. E ancora non riusciva a smettere di farlo. In lei c’era qualcosa di ipnotico, un’ipnosi simile a quella che esercitavano i piccoli particolari, come il suono della stoffa che veniva frustata dal vento.
Una goccia di pioggia.
Proprio in mezzo agli occhi, una delle poche parti del suo viso che non fosse nascosta da qualcosa.
Kakashi sbatté le palpebre, e in un istante si ritrovò catapultato al centro di una strada, sotto un cielo grigio sempre più cupo, in compagnia di cinque o sei persone che si accorse di conoscere.
Era bastata solo una goccia di pioggia per rompere l’incantesimo. Una cosa così insignificante, eppure così potente. Come il verso di un gufo.
Magari con le arti illusorie fosse altrettanto facile., si disse con un mezzo sorriso, e immediatamente tutti i suoi pensieri si spostarono da tutt’altra parte.
Sospirò. Si conosceva bene, e le volte in cui la sua mente sembrava voler fuggire ad ogni costo da qualsiasi cosa ci fosse di reale non erano proprio i migliori in cui intrattenere relazioni sociali.
«Sta per venire giù un bel temporale, forse è meglio che vada a casa.» disse infatti.
Si girarono tutti a guardarlo.
«Dimmi, qual è esattamente il tuo problema con la pioggia?» Gai gli si era avvicinato e lo guardava di sbieco, occhi socchiusi e sospettosi.
«Sei sicuro?» domandò invece Kurenai; sembrava che a lei dispiacesse davvero del suo rifiuto.
«Davvero, non vi preoccupate. Preferisco riposarmi un po’.»
«Mh… come vuoi. Non sai cosa ti perdi.» concluse Anko riprendendo il cammino.
«…Sakè, lo sappiamo. Diamine, ma tu non pensi ad altro!» la punzecchiò Asuma cingendo Kurenai con un braccio per incamminarsi insieme a lei.
Il copia-ninja finì di salutare anche Genma e Raido, poi voltò le spalle al gruppo e mosse i primi passi verso casa.
Perché non riusciva a smettere di pensare a quella ragazza?
 
Non appena Daisuke mise piede fuori dall’albergo una folata di vento gelido lo investì in pieno, e stringendosi nel mantello si ritrovò a considerare che forse sarebbe stata un’idea migliore tornare in camera e tanti saluti. Si lasciò cullare dalla tentazione per qualche istante, ma alla fine si dovette far forza, costringendosi ad attraversare la piazza.
L’altro giorno aveva visto un negozio che vendeva dei dolcetti splendidi, ed era deciso a portarne qualcuno a Reiko. L’aveva vista così disperata, così stremata, forse qualcosa di dolce le avrebbe fatto bene.
D’altra parte la situazione non era affatto facile. Da come ne aveva parlato, Daisuke aveva capito che si trattava di una forte implicazione sentimentale. Ovviamente lei non l’avrebbe mai ammesso, probabilmente non aveva neanche voluto accorgersene, ma lui riusciva a vederlo bene.
Il ninja scosse la testa mentre camminava. Non sarebbero riusciti a completare la missione in quel modo, ne era certo; e se da un lato, vigliaccamente, quella consapevolezza lo sollevava, dall’altro si chiedeva che cosa avrebbero fatto. Avrebbero dovuto ribellarsi del tutto al crudele sistema della Notte che da sempre li aveva controllati? In tal caso sarebbe stata una ribellione suicida, ed entrambi lo sapevano molto bene.
Il vento si era alzato. Doveva tenersi il cappuccio con una mano per non vederlo trascinato giù, e l’aria gelida gli penetrava attraverso gli abiti per allungare le proprie dita fin dentro alle sue ossa. Meno male che gli avevano raccomandato il clima mite e piacevole del Paese del Fuoco…
Si bloccò nel bel mezzo della strada che stava percorrendo. Gli era sembrato di sentire qualcuno avvicinarsi.
Attese, ma il suonò non si ripeté; stava per convincersi di esserselo inventato, quando intravide davanti a sé la sagoma scura di un uomo andargli incontro.
Daisuke ebbe un brivido, senza neanche saperne il motivo; lo attribuì al freddo e riprese ad avanzare.
Il nuovo arrivato interruppe il proprio passo quando fu a pochi metri da lui. Il ninja avrebbe voluto ignorarlo e proseguire, ma fu costretto a fermarsi anche lui quando lo riconobbe quando lo riconobbe. Ora il suo brivido acquistò un senso, come anche il sudore freddo che d’un tratto aveva sentito scendergli lungo la colonna dorsale.
«Buonasera, Daisuke.»
Il volto dell’uomo era coperto da un mantello – era rosso scuro, non blu come il suo e quello di Reiko –, ma Daisuke riuscì lo stesso ad avvertire il suo sorriso.
Strinse i pugni. Regola numero uno: mai dare a vedere il minimo segno di disagio.
Si costrinse a sorridere, replicando una delle sue tante espressioni amichevoli.
«Buonasera a te, Akahito. Non mi aspettavo di vederti da queste parti.»
Il sorriso dell’altro si allargò. «Sono venuto a controllare che il lavoro venga svolto.»





Ciò che dice l'Autore 

Oggi sono un po' stanca e un po' scazzata, questo mix di cose mi rende alquanto nervosa e mi rendo conto che non è esattamente la condizione migliore con cui pubblicare un nuovo capitolo (che, tra l'altro, non mi piace per niente, ma sarà la giornata...). Spero comunque tantissimo che vi sia piaciuto, nonostante il mio pessimo umore attuale, e che questa storia continui ad appassionarvi (se mai l'ha fatto xD)
Un abbraccio a tutti, e un gran ringraziamento a quelli (pochi ma buoni ;D) che seguono questa storia.
Glory.


 

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Capitolo 6
*** Seta color sangue ***


Gli occhi di Akahito erano castani.
Erano di un castano scuro e profondo, un colore ai limiti del nero che avrebbe potuto nascondere qualsiasi cosa, qualsiasi cosa abbastanza crudele da sapersi confondere senza alcun problema tra le tenebre più dense.
Daisuke li osservava, era capace di smascherare quel loro inquietante nascondino, li vedeva stillare veleno, tingersi di una crudeltà imperiosa ma non per quello priva di una sorta di fascino peccaminoso.
«Un gesto davvero premuroso!» esclamò, mentre tentava di mantenere intatta la sua facciata affabile. «Mi dispiace solo che ti sia scomodato per questa sciocchezza, dato che la missione verrà portata a termine tra pochi giorni.»
Per Daisuke era vitale non dover essere costretto a scontrarsi con lui, perché sapeva di non avere alcuna possibilità di vittoria. Avrebbe dovuto sistemare ogni cosa con le parole.
Quegli occhi lo guardarono con una nota di sadico divertimento che non gli piacque affatto.
«Come sta Reiko?» domandò l’altro, cambiando repentinamente discorso, come se non gli fosse importato nulla della risposta appena ricevuta.
Daisuke si strinse nelle spalle. Una goccia di sudore gli attraversò in quel momento la nuca, per scendere fino al collo e percorrere infine tutta la colonna dorsale. Riusciva a sentire il suo gelo, vertebra dopo vertebra. «Sta come sta di solito.»
«Ritardare non è da lei.»
Daisuke rimase impassibile. «Kakashi Hatake non è un ninja come gli altri.»
«No di certo!» fu l’immediata risposta dell’altro, che ebbe uno strano guizzo ad illuminargli lo sguardo. «Non per Reiko, almeno.»
«Che cosa intendi?»
Ma ancora una volta il suo interlocutore preferì cambiare discorso. «Lo sai? Proprio ieri stavo riflettendo su noi shinobi». Il suo era uno dei più normali toni di conversazione che si potesse adottare. Si tolse il cappuccio, lasciando che gli ricadesse sulle spalle una morbida coda di lisci capelli castani, quasi come i suoi occhi, ma con diverse prepotenti sfumature di rosso ramato che li rendevano di un colore simile a quello del sangue rappreso. «Pensavo che, quando un ninja non è particolarmente portato per il combattimento, viene istruito o per la medicina o per lo spionaggio». Passeggiava avanti e indietro, le mani giunte dietro la schiena, come se non avesse alcuna preoccupazione al mondo. «E quando guardo te, vedo un sistema andato avanti per generazioni fallire miseramente». Smise di camminare, per fissarsi nuovamente sul suo viso. «Pessime attitudini in campo medico, ma soprattutto una totale, patetica incapacità nel bluffare.»
Daisuke provò mille diverse sensazioni nell’unico istante in cui il suo avversario ebbe soffiato le ultime parole. In testa a tutti c’era la paura, seguita a ruota da una rabbia irrazionale per la consapevolezza di essere costretto a farsi insultare senza poter replicare minimamente.
Strinse i pugni, ma il suo sorriso si allargò in una risata rilassata. «Non posso che darti ragione, Akahito. È per questo che ci siete voi, dico bene?»
Anche Akahito rise, e la sua risata fu tanto falsa quanto lo era stata quella del suo sottoposto.
«Vedo che sei accomodante stasera. Mi piaci.» Daisuke sentì una mano stringersi sulla propria spalla. «Che ne dici di fare due passi insieme, mentre mi racconti di quello che sta succedendo alla tua amica?»
Attimi di silenzio. Attimi di sguardi, e tensione, il risultato era uno solo ed era scontato, entrambi sapevano perfettamente chi tra loro due potesse permettersi di essere sicuro di sé.
Poi Daisuke si scostò con fermezza, e indietreggiò di un passo. «Ti assicuro che non c’è nulla che non vada, torna a casa tranquillo.» Girargli le spalle gli costò una considerevole forza di volontà, sentiva la sua pericolosità bruciargli dritta sulla nuca, come quello scuro sguardo velenoso che lo fissava. «Porterò a Reiko i tuoi saluti.»
Un passo.
Il suo cuore non voleva smettere di battere all’impazzata.
Un altro passo.
Davvero, ce l’aveva fatta? Era riuscito a convincerlo a lasciarlo andare?
«E’ davvero così importante per te quella Reiko, da volerla accompagnare anche nel più basso tradimento?»
Ogni fibra e ogni cellula nel corpo di Daisuke si congelò. Anche il suo cuore, per un istante, si fermò nel suo moto perpetuo.
Si voltò, lentamente, il terrore che aveva cominciato a corroderlo dall’interno, ora che le deboli sbarre della sua gabbia erano state definitivamente spalancate dalle parole dell’uomo che era venuto a prenderlo.
Era stato scoperto.
Gli occhi di Akahito sorridevano con lui, dell’espressione propria di un cacciatore che ha appena trovato una preda debole. «Ops! Ho detto qualcosa che non va?»
Daisuke si riscosse solo quando lo vide tirare fuori entrambe le mani dal mantello rosso scuro. Lo conosceva bene, e sapeva che di solito le mostrava soltanto quando era in procinto di un combattimento.
Si accorse in ritardo delle lame di due shuriken scagliarsi fulminee contro di lui, fu per un pelo che riuscì a balzare indietro e andare fuori dalla portata del lancio. Le armi si conficcarono nel terreno a pochi centimetri dai suoi piedi.
Datti una calmata, si disse ingoiando a fatica la tremenda paura che l’aveva assalito, altrimenti la prossima volta quei cosi te li ritrovi dritti in fronte.
«Oh, vogliamo giocare stasera?» sussurrò l’avversario senza mutare la propria espressione da predatore. Estrasse un fioretto da sotto il mantello.
Anche Daisuke estrasse il kunai, portandolo davanti a sé in posizione di difesa, e così rimasero, in stallo, ad osservarsi.
«Che cosa vuoi da noi, si può sapere?»
Stoccata. Il ninja la parò in una scarica di adrenalina, per ritornare com’era prima, esattamente quello che aveva fatto il suo avversario.
«Io niente, ma il Generale era preoccupato. Siamo partiti con voi.»
«“Siamo”…» mormorò Daisuke tra sé e sé.
Akahito faceva parte di quel gruppo ristretto di ninja che godevano del rarissimo favore del Generale. Un favore a suo parere effimero, ma che li teneva su un piedistallo rispetto a tutti gli altri, per quel poco tempo che durava. Quanti altri ce n’erano, del suo stesso rango, pronti ad ucciderli? Erano davvero venuti solo per loro? Solo per Reiko, semmai., si corresse.
Un’altra serie di stoccate, una dietro l’altra, il ritmo era aumentato, e Daisuke sapeva che faceva tutto parte del gioco. Lui non tentava neanche di attaccare, si limitava a difendersi e schivare, sapeva che non sarebbe mai riuscito a vincere contro un ninja del genere. Sperava nella fuga, nel raggiungere l’albergo in tempo, sparire con Reiko in qualche Villaggio sconosciuto. Cambiare colore dei capelli, nome, abitudini persino. Poter vivere. C’aveva rinunciato, ormai, ad una speranza del genere.
Una striscia infuocata sul braccio sinistro lo riscosse dalle sue fantasticherie; non erano passati neanche cinque minuti, e già il suo sangue cominciava a scorrere. Si fermarono. Lui ansimava, e si premeva la ferita con una mano.
«A quanto pare i timori del nostro Generale erano fondati. Lo ammetto, non mi aspettavo arrivaste a tanto.»
«Ti stai sbagliando.»
Ma l’altro rise. «Ancora neghi l’evidenza? Il terrore ti farebbe davvero dire qualunque cosa!»
Per l’ennesima volta Daisuke incassò l’insulto senza dire nulla. Non aveva più importanza ciò che Akahito poteva aver scoperto delle loro titubanze a proposito della missione, in quel momento la priorità stava nel salvarsi la pelle. Ringuainò il pugnale e unì le mani. Le sue dita si mossero velocemente a comporre i primi segni che gli passarono per la testa; e già sul terreno sotto i loro piedi cominciavano ad addensarsi neri grumi di pura oscurità.
Gli ammassi di tenebra si contorsero, fino a diventare dei bozzoli di pece, dai quali infine uscirono le creature più mostruose che potessero essere mai immaginate. Sembravano un distillato di buio, e parevano terribilmente affamate; i loro occhi erano vuoti, ma dalle loro bocche costantemente aperte provenivano urla mischiate a spettrali sussurri che facevano venire in mente solo luoghi divorati dalle fiamme e segnati da un destino di sofferenza.
Quando Akahito alzò lo sguardo vide che anche Daisuke, sciogliendosi, era diventato una di quelle cose, e gli si avvicinava famelico. La vista della sua trasformazione disumana ebbe il potere di infrangere per un attimo la sua freddezza, solo un terribile istante in cui dentro di lui ci fu spazio soltanto per un panico folle e incontrollato.
Poi fu sorpreso da un forte colpo alla nuca, e finì a terra.
Daisuke non perse tempo a verificare le condizioni dell’avversario né a compiacersi della riuscita della propria arte illusoria, ne approfittò per fuggire invece; si voltò, e cominciò a correre.
«Hai fatto uno sbaglio, Daisuke!»
L’urlo rabbioso di Akahito lo raggiunse dopo pochi istanti, ma neanche allora si fermò, aumentò il passo, il cuore impazzito più per la paura che per la corsa.
«Torna indietro, vigliacco!»
Non fermarti, non fermarti, non hai possibilità contro di lui…!
Un sibilo nell’aria, ma troppo veloce questa volta perché potesse essere schivato. Il kunai gli si andò a conficcare dietro il ginocchio, facendolo cadere rovinosamente sui ciottoli della strada con un gemito soffocato di dolore.
Intanto il suo avversario si era rialzato, la rabbia che gli ardeva nello sguardo, così alto e implacabile nel suo mantello color sangue sembrava un angelo portatore di morte pronto ad abbattersi su di lui. Realizzò alcuni sigilli con le mani, velocissimo, sempre con la spada in pugno, che poi strinse saldamente avvicinandosi alla propria preda.
Daisuke era stato pronto a morire per il proprio Villaggio, ma non lo era a lasciare la vita in quel modo, schiacciato a terra come un verme, senza aver combattuto, privo di onore, privo di compassione. Strinse i denti, puntò la gamba sana sul terreno e aggrappandosi ad un tronco tornò in piedi. Lo guardava negli occhi, l’uomo che mai avrebbe voluto incontrare in combattimento, ormai si era abituato alla scossa febbrile della paura che continuava a pervaderlo da capo a piedi.
«Ora osserva attentamente.» mormorò Akahito prima di menare un fendente all’aria davanti a sé. Tra i due, nel bel mezzo di una via di Konoha, si aprì un grande squarcio nero come solo il nulla poteva essere. «Osserva, e godi del Soffio della Futakuchi-Onna
Dal varco emerse una donna, vestita di un lungo abito dello stesso colore del mantello di Akahito. Le mani giunte in grembo sorreggevano un teschio appena spolpato, e la testa, dai capelli neri che fluttuavano intorno a lei in maniera innaturale, era posizionata al contrario sul collo, gli occhi inorriditi di Daisuke fissavano una nuca nella quale era incisa la smorfia di un’orribile bocca.
Non appena la creatura emise il suo verso disumano, fu come se quell’urlo gli provocasse un’esplosione interna: una fitta di insopportabile dolore, poi la vista che si annebbiava sempre di più, fino a lasciare il buio totale dietro di sé. Dopo gli occhi, cominciarono a scomparire anche gli arti, si portarono fuori dalla sua sensibilità lentamente, prima le gambe e poi le braccia, infine tutto il corpo, finché non fu rimasto solo con i propri pensieri concitati e il proprio panico.
Aveva, sì, sentito parlare della tecnica segreta di Akahito…
«Odio i vigliacchi.» sentì ringhiare a pochissimo da sé, e quando ricevette un forte pugno allo stomaco si accorse che poteva provare dolore, ed era la sensazione più sgradevole che avesse mai provato, soffrire senza avere nemmeno coscienza del proprio corpo. «Darei qualsiasi cosa per poterti uccidere, sì, proprio qui, ma gli ordini sono stati precisi, non si uccidono le pedine che vanno sacrificate per la missione. Un vero peccato, non trovi?»
Daisuke si stupì. Avevano intenzione di utilizzarlo per lo scopo nonostante il tradimento?
Ma certo, non possono sacrificare ninja come Reiko o Akahito. Solo io posso portare a termine il sigillo per evitare che tutta Konoha si rivolti contro di noi.
Quell’improvvisa consapevolezza gli donò la pazza e illogica sensazione di avere in mano un enorme potere.
«Illuso, sul serio credi che accetterò di farlo un’altra volta? Puoi andartene a fanculo.»
«Che noia… quanto sei prevedibile. Vuoi davvero costringermi a dirti quello che potrebbe succedere se ti rifiutassi?»
«Non otterresti alcun risultato con la tortura.»
«Certo che no.» Capì che Akahito gli si era avvicinato all’orecchio solo quando avvertì il suo sussurro a pochi centimetri da sé. «Ti dice nulla il nome Koichi Aosawa?»
Daisuke non aveva alcuna percezione del proprio corpo, ma seppe di essere sbiancato.
«O forse, dovrei dire Koichi Kitajima…» continuò l’altro, compiaciuto dalla reazione che aveva ottenuto.
 
«Daisuke!»
Non l’aveva mai vista sorridere così.
«Non indovinerai mai che cosa ti devo dire!»
Era bellissima quando sorrideva così.
«Daisuke, sono incinta!»
 
«Devi starmi lontana, Shiori.»
Ogni sorriso era scomparso. Rimaneva solo un’espressione orribile, nei suoi occhi pieni di panico, sul suo viso rigato dalle lacrime.
«No… ti prego, io…»
Si stringeva il ventre, ancora piatto, come se ci si volesse aggrappare.
«Mi dispiace. Addio.»
 
Il buio nero nel quale era immerso si era ora tinto di una rossa sfumatura di disperazione.
«Come…»
Akahito rideva. Si prendeva gioco del suo terrore. «Non si può nascondere nulla al Generale, credevo lo sapessi.»
Daisuke non aveva mai creduto alle voci superstiziose che attribuivano origini divine al capo dell’ordine, ma in quel momento non riuscì a sentirsi altrimenti che un povero mortale preso di mira da un dio crudele. L’invincibilità del suo signore gli pareva ovvia, come gli sembrava invece folle la speranza che solo un attimo prima aveva avuto, di sfuggirgli.
 
«Chi è il padre?»
Vedeva la sagoma della donna avvicinarsi sfocata, attraverso le lacrime che gli riempivano gli occhi.
«…Sono io.»
Così, da un istante all’altro, come se fosse stata una cosa di nulla importanza, si ritrovò tra le braccia una vita, proprio là dove quella della donna che aveva amato gli era stata strappata via.
«Si chiama Koichi. È stato appena abbandonato dalla madre, non gli è rimasto nessuno. A parte lei.»
Si ricordava di non essere riuscito a prendere un solo respiro, tanto era stata forte l’emozione che l’aveva colpito.
«Quanto…» La sua voce era debole e strozzata.
«Sette mesi.»
Il peso di tutto quel tempo passato lontano da Shiori e dal bambino che aveva portato in grembo gli crollò sulle spalle tutto in una volta, non riusciva a sopportarlo. La Shiori che conosceva non sarebbe mai stata capace di compiere un gesto del genere, lui sapeva di essere stato la causa del suo disperato cambiamento. Curvò visibilmente la schiena, ma allo stesso tempo strinse ancora di più a sé il piccolo. Dormiva.
Koichi era bellissimo. Aveva i capelli dorati del padre, anche se i lineamenti, ancora abbozzati è vero, ma inconfondibili, portavano a pensare al volto radioso della madre.
«Sarà lei ad occuparsene, d’ora in poi?»
Daisuke ci pensò, e lo vide, lo vide davvero. Se stesso, che teneva per mano un bimbo. Tutto ciò che gli era rimasto della persona che aveva amato, il dono più bello che avesse ricevuto, poterlo crescere, assistere passo dopo passo lungo il cammino difficile che lo avrebbe spettato. Sarebbe stata una vita bella. Sarebbe stata la vita che avrebbe desiderato.
Ma vide anche dell’altro. Vide il corpo di quel bambino deturpato dai viticci neri del sigillo, lo vide  allenarsi fino a rompersi le ossa, lo vide combattere contro la propria volontà, lo vide uccidere ed essere ucciso, un’infinità di volte – come un vecchio disco rotto –, perché quello sarebbe stato il suo destino.
Guardò il suo viso, così sereno nel sonno, e gli si strinse il cuore. Rammentò, una per una, tutte le ragioni per cui aveva abbandonato Shiori, perché lei e suo figlio vivessero sereni, e lontani dall’ordine, prima di tutto.
«No.»
«Co… come?»
«Affidatelo ad una famiglia adottiva. Non voglio riconoscerlo. Anzi,» l’aveva posato a lato come se fosse stato un pacco indesiderato, e si era alzato. «le sarei grato se tenesse nascosto il mio rapporto di parentela. Voglio che nessuno sappia che io sono il padre.»
«…Come desidera.»
 
… Ma non era servito a niente. Dover guardare il proprio figlio crescere da lontano, come un estraneo, come un ladro. Non era servito a niente.
Aveva sempre saputo di non essere portato per fare il ninja, ma aveva creduto di saper fare una cosa, ovvero di voler bene ai propri affetti. Ed era riuscito a fallire anche in quello.
Prese un respiro profondo.
«Se accetterò di eseguire gli ordini, Koichi non dovrà essere sfiorato minimamente dall’ordine. Tenetelo lontano da tutto questo… ti scongiuro, Akahito.»
Un forte calcio, dritto in ventre. Daisuke sopportò, senza un gemito.
«Non c’è limite alla tua mancanza d’orgoglio, vero? Guardati, sconfitto, mentre mi implori come un verme!» Un altro colpo, che venne incassato in silenzio come il precedente. «Patetico. Ma almeno riguardo a questo non hai ragione di preoccuparti: il Generale non cerca altri falliti come te.»
Fu come se un gran peso gli fosse stato levato dal petto. Si accorse che persino la paura che l’aveva dominato durante tutto lo scontro si era affievolita.
«D’accordo, allora. Farò quello che vuoi.»
 
***
 
Bianco.
Bianco, bianco, bianco. Una macchia. Bianco. Bianco. Una crepa. Bianco, bianco, bianco… Kakashi girò la testa con fastidio. Non gli piaceva tutto quel bianco. Si sistemò una mano dietro la testa, per sorreggerla, tastò la comodità della sua nuova posizione e si disse che sarebbe proprio stata ora di ridipingere il soffitto della camera.
Un comodino, ora, davanti ai suoi occhi. Una lampada, su quel comodino, insieme a varie cianfrusaglie abbandonate alla rinfusa. C’era un libro, un mazzo di chiavi, un kunai, uno shuriken rotto, un orrendo pupazzetto rosa che gli era stato donato dalla vicina di casa per il suo compleanno – stentava a ricordarselo lui, il giorno del suo compleanno, mentre la sua vicina sembrava non aspettasse altro –, qualche spicciolo, un piatto vuoto ma zeppo di briciole appoggiato molto precariamente tra la copertina del libro e la base della lampada, una pallina da ping pong e un paio di fogli spiegazzati. Il lavoro che avrebbe dovuto svolgere, teoricamente.
Aggrottò la fronte e tornò nuovamente ad osservare il soffitto. Almeno, il bianco non poteva ricordargli i doveri che stava trascurando. Afferrò la sveglia, appoggiata sul ripiano dietro la sua testa, e lesse stancamente l’ora. Due e mezza di notte.
Sospirò, e in quel sospiro c’era tutto il suo sfinimento. L’ultima volta che allungò la mano fu per spegnere l’interruttore della lampada sul comodino; qualcosa cadde, ma non sprecò un solo istante a preoccuparsi di che cosa potesse essere stato. Socchiuse gli occhi, mentre si abbassava la maschera, e l’aria che sentì sul viso fu al contempo liberatoria e spiacevole. Si mise su un fianco e si tirò le coperte fino al naso. Poco importava se fuori non faceva molto freddo, lui aveva sempre bisogno delle coperte per dormire, e questo era uno di quei fatti irrilevanti della propria psicologia che nessuno conosceva.
Quasinessuno.
Chiuse gli occhi; l’incoscienza arrivò con il suo mantello ovattato dopo pochi minuti.
 
“Kakashi si svegliò, di nuovo, ma non era stato un bel risveglio. Era stato un risveglio angosciato. Perché sentiva quell’odore.
Scese dal letto, congestionato, gli faceva male il cuore, ad ogni battito, avrebbe voluto strapparselo dal petto – conosceva quell’emozione. Non rammentava il suo nome, ma sapeva di averla già provata, una volta, di fronte ad uno degli ultimi deliri di suo padre.
I suoi piedi si sporcarono di sangue.
L’osservò inorridito imporporare i suoi piedi nudi, allargarsi in una pozza lungo tutto il pavimento, ecco, era del suo odore che stava parlando.
Ma c’era chi del sangue si vestiva. Era una dea, ed era pochi metri da sé. Il sangue davanti a lei si piegava, con la reverenza di un fedele vassallo, le si avviluppava intorno servile, la vestiva di seta, sì, seta rossa come il sangue era il suo vestito.
Eppure la sua pelle era immacolata.
A Kakashi cedettero quasi le gambe, perché non era abituato a percepire la bellezza, mentre allora, sì, allora venne accecato dallo splendore che si trovava davanti. Non aveva mai visto nulla di simile.
La dea solo allora aprì gli occhi, e puntò lo sguardo su di lui. I suoi occhi erano bianchi – ciechi –, ma tradivano la stessa angoscia che anche lui aveva provato prima, insieme ad una tristezza così profonda da risultare quasi struggente. Era un dolore che rovinava ma allo stesso tempo acuiva la bellezza disumana di quella donna.
Non è contenta, realizzò Kakashi. Non è contenta di poter vestire il sangue.
Mosse un passo verso di lei. Non poteva sopportare di vederla soffrire in quel modo, come se ogni centimetro di quell’abito meraviglioso fosse per lei uno spillo conficcato nella pelle, voleva aiutarla, doveva aiutarla, perché si accorse di provare il suo stesso dolore. Allungò una mano.
Tutto divenne improvvisamente sfocato.”
 
«…REIKO!» gridò nell’alzarsi di scatto a sedere, spingendo via tutte le coperte.
Ansimava.
La stanza era buia e immacolata. Non c’era traccia di sangue.
Si portò una mano al petto.
Ma il suo cuore batteva ancora come aveva fatto nel sogno, e lui ancora provava quelle emozioni, tutte, e ancora vedeva davanti agli occhi il volto commovente della dea.
Le aveva dato il nome di Reiko.
Se ne accorse solo allora, come si accorse di quanto il viso del sogno fosse simile a quello della ragazza straniera.
La cosa non poté che infastidirlo, e indurlo a soffocare tutti quei sentimenti in un angolo del suo cuore. Fu più complicato del solito, perché il suo cuore ancora batteva così forte, ma era diventato un maestro in quel genere di cose, e dopo qualche minuto fu in grado di dire di essere tornato com’era prima di addormentarsi.
Accese la luce – erano le sei del mattino, tanto valeva che si preparasse per uscire.
Prese dall’armadio i primi indumenti puliti che gli capitarono sottomano, e con quelli si diresse in bagno per la solita doccia mattutina. Si accorse, mentre era sotto l’acqua calda, di aver completamente perso l’appetito. Constatò che non sarebbe stato un gran problema mentre si vestiva davanti allo specchio appannato dal vapore.
Tornò in camera da letto solo per prendere le chiavi e i documenti dell’Hokage, provocando una preoccupante frana che coinvolse praticamente tutti gli oggetti che era riuscito a far stare sul comodino approfittando di un sistema di equilibri assai delicato. Decise di afferrare al volo solo il piatto, e riappoggiarlo poi delicatamente sul piano ormai vuoto, perché non aveva la minima voglia di mettersi a raccogliere dei cocci dopo una nottata come quella che aveva passato. Ignorò tutto il resto e uscì dalla stanza.
 
«Kakashi!»
L’esclamazione lo raggiunse qualche metro lontano dalla soglia di casa sua. Si fermò, e aspettò che la persona che l’aveva chiamato gli venisse incontro.
Si stupì quando riconobbe Daisuke. Era diverso da come se lo ricordava, era sudato, e aveva qualcosa di disperato negli occhi.
«La prego di scusarmi, sensei, ma non sapevo a chi altri rivolgermi.» riprese lo straniero quando terminò la propria corsa angosciata, tra un ansito e l’altro.
«Che cos’è successo?»
«Si tratta di Reiko.»
Quel nome scatenò in lui una pioggia di brividi, che gli bruciarono sulla pelle come tanti sottili aghi appuntiti. Rimase impassibile, anche se la sua fronte si corrugò di preoccupazione. «Sta male?»
Forse nel suo tono di voce c’era un più apprensione di quanto fosse lecito ad un jonin che stava compiendo il proprio lavoro.
«E’ stata rapita!» esclamò Daisuke, e allora Kakashi capì il motivo dell’angoscia che aveva intravisto nei suoi occhi castani, perché era quella che ora provava anche lui. «Li ho inseguiti finché ho potuto, ma le tracce scompaiono appena fuori dalle mura del villaggio.»
«Dove, esattamente?»
Per tutta risposta, Daisuke riprese a correre. «Mi segua!»
Kakashi non se lo fece ripetere due volte, schizzò anche lui dietro allo straniero, che faceva strada.
Davanti ai suoi occhi c’era solo l’immagine del volto addolorato della donna del sogno. Forse, nella realtà, sarebbe riuscito a salvarla.
 
 
 
Ciò che dice l’Autore
 
Ciao a tutti e buona domenica! ^^
Devo scusarmi perché ho aggiornato questo capitolo molto in ritardo, ho avuto un calo d’ispirazione davvero assurdo, tanto che non riuscivo a scrivere neanche una riga, per quanto avessi già in mente piuttosto bene quello che avrebbe dovuto accadere in questo sesto capitolo. Per fortuna ultimamente riprendendolo in mano sono riuscita a sbloccarmi e a combinare qualcosa di decente.
Da questo momento in poi credo proprio che ci saranno meno parole e più combattimenti, che so già che mi faranno dannare; spero che questo primo assaggio d’azione che ho dato all’inizio del capitolo sia piaciuto a tutti! Fatemi sapere cosa ne pensate, sono davvero importanti per me le vostre impressioni :D
Grazie a tutti quelli che hanno letto fin qui, ovviamente a The Edge e ad Urdi che recensiscono sempre, e a coloro che l’hanno inserita tra le seguite.
Un bacione,
Glory.
 
PS: Consiglio questa canzone, è quella che mi ha aiutato a scrivere il capitolo (io la trovo stupenda **). http://www.youtube.com/watch?v=bPfEntyxJTg
 

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Capitolo 7
*** Lo Scorpione e la Dea Bendata ***


Reiko sognava la neve.
Cadeva su di lei, le si posava sulle braccia, il sigillo le faceva male, ma il suo gelo leniva quel dolore. E lei era felice, circondata da un manto d’argento.
Reiko sognava neve argentata.
Toc, toc, toc.
Reiko aggrottò le sopracciglia. Da quando la neve faceva quel rumore?
Toc, toc, toc.
«Signor Kitajima? Signorina Iwakiyo?»
La ruga sulla fronte della kunoichi si accentuò, quando pian piano l’argento tornò ad essere nero, e quella vocina così fastidiosa che la sorprendeva sempre nei momenti meno opportuni le diceva di svegliarsi e andare ad aprire la porta.
E va bene, va bene, pensò tra sé socchiudendo gli occhi. La luce che entrava dalla finestra l’accecò per un attimo, ma dopo pochi minuti di smarrimento fu in grado di riconoscere la stanza dell’albergo in cui si trovava. Diede, d’istinto, uno sguardo all’altra brandina presente, ma la vide perfettamente rifatta. Daisuke non era tornato in camera, quella sera.
Se la sta proprio godendo, questa gita a Konoha., fu il suo commento, mentre muoveva, scalza, i primi passi incerti stropicciandosi gli occhi che ancora non vedevano bene.
«Eccomi.»
La sua voce, impastata dal sonno, sembrava ancora più infantile.
Ci mise più del necessario a capire da che parte si girasse la chiave, ma alla fine riuscì ad aprire la porta e ad osservare la cameriera che era rimasta ad aspettarla sulla soglia della camera.
«Che c’è?» domandò. Vide che lo sguardo della poveretta si fissava più del dovuto sulle bende incrostate di sangue che le fasciavano le braccia, ed ebbe un mezzo sorrisetto nell’immaginare che aspetto terribile dovesse avere agli occhi di quella donna.
«Chiedo scusa per l’inconveniente, ma questo è il giorno in cui mi è stato detto di chiedervi di liberare la stanza.»
Il sorriso di Reiko venne subito rimpiazzato da un’espressione stupita. Se l’era dimenticato, accidenti.
«Certo. Mi dia solo il tempo di finire di preparare i…» si guardò indietro, osservando i due stracci che erano gettati per terra nella stanza, incerta su come definirli. «…bagagli.»
«La ringrazio.» fu la risposta della cameriera, che si voltò indietro per scomparire lungo il corridoio.
Reiko sospirò e si richiuse la porta alle spalle. Non aveva soldi per pagarsi un’altra nottata, e Daisuke chissà che fine aveva fatto… Si stropicciò un’ultima volta gli occhi e tirò fuori da sotto il letto la sacca di stoffa malconcia che le faceva da valigia.
Pian piano, le nuvole che oscuravano perennemente la sua esistenza tornarono ad addensarsi sopra di lei. La mattina di solito erano rade, il sonno per qualche ora riusciva a tenerle lontane, ma poi tornavano sempre, e ormai lei c’aveva fatto l’abitudine.
Il primo pensiero che le portarono fu come quello sfratto fosse riuscito a rammentarle l’urgenza della scelta che aveva da compiere. Portare a termine o no la missione che le era stata affidata?
Si rabbuiò nel vedere le macchie di sangue sporcare gli abiti del giorno prima, quando li prese per metterli via insieme alle altre cose. La disperazione che aveva provato le tornò alla mente come gli avvenimenti di un incubo che aveva tentato di dimenticare, e fu talmente potente da indurla a posticipare ancora una volta il momento della sua decisione, per vigliaccheria forse, oppure più semplicemente per proteggersi da se stessa.
 
***
 
Il sole colse Daisuke e Kakashi a metà strada, brillava già beffardo in cielo quando i due ninja terminarono la loro corsa congestionata poco lontano dalle porte di Konoha.
Kakashi era rimasto all’erta durante tutto il viaggio, ma non aveva notato nulla di strano, e si chiedeva se sarebbe stato necessario richiamare la muta di cani per trovarla.
Perché diavolo qualcuno avrebbe dovuto rapirla?si domandò. Mai come in quel momento gli pareva prepotente il dato di fatto che gli avesse nascosto qualcosa, e ancora più forte era il desiderio di capire che cosa mai potesse essere.
«Sensei, qui! Ecco, proprio in questo punto.»
Il copia-ninja fu subito da lui. Si chinò ad esaminare il terreno.
In effetti, qualcosa di visibile c’era, al di sotto delle foglie, che s’impegnò a spostare, erano tante, e quando finì le sue mani erano completamente sporche di terra. Non era un’impronta, ma un simbolo nero tracciato sul suolo, come se si fosse trattato di inchiostro e foglio bianco.
Tutti i campanelli d’allarme che il ninja aveva sviluppato in anni di lavoro si accesero in un solo istante; aveva riconosciuto l’inizio di un sigillo.
«Daisuke, si sposti!» gridò al proprio compagno, ma quando si voltò verso dove l’aveva visto l’ultima volta scoprì che non c’era nessuno.
Solo allora capì di essere caduto in una trappola, e maledisse se stesso e la propria fatale stupidità.
Daisuke stava in equilibrio sul ramo di un albero e formulava simboli su simboli con le mani, quasi all’infinito.
Kakashi si diede la spinta per balzare lontano dal segno nero inciso sul terreno, ma scoprì di avere i piedi irrimediabilmente inchiodati al suolo.
 
***
 
Reiko camminava da molto tempo ormai, ma il fatto di non avere una meta precisa era sufficiente per evitare che il cammino risultasse faticoso. Non aveva speso un solo istante ad osservare le vie di Konoha durante il viaggio turistico che le era stato concesso da Kakashi, concentrata com’era sul proprio compito, e così stava scoprendo da sola quanto in realtà fosse delizioso il Villaggio della Foglia.
Quasi, mentre declinava le offerte di un venditore di strada con un sorriso gentile ma deciso, si sentiva una persona come tutte le altre.
Alla fine giunse in una piazza, nella quale spuntava un bell’albero su cui era appesa un’altalena. Reiko la trovò stupenda, e così andò ad osservarla da vicino.
L’Accademia…lesse sull’insegna dell’edificio che sorgeva proprio lì vicino. Dunque in quel posto venivano allenate le giovani reclute di Konoha?
I ricordi degli allenamenti della propria infanzia le tornarono alla mente con una fitta di dolore, e fu con un’ombra negli occhi che si staccò dall’albero per vedere meglio l’Accademia. Girò intorno al complesso, così da scoprire un campo d’allenamento all’aperto, circondato da una staccionata, nel quale una classe di bimbi si stava allenando.
Reiko sorrise nel vederli, senza neanche rendersene conto, e sempre contro la propria volontà le sue gambe la portarono ad appoggiarsi a quella staccionata, per poter assistere meglio.
Erano tutti così piccoli, ma c’era una tale determinazione a brillare nei loro occhi! Non aveva mai visto una passione del genere infuocare lo sguardo di nessuno dei suoi compagni. Nemmeno il suo.
«Buongiorno, signorina!»
I suoi occhi si spostarono sul ninja che le stava venendo incontro. Doveva essere il loro sensei.
«Mi scusi tanto, sto disturbando gli allenamenti. Adesso vado.» disse lei, staccandosi già da dove si era appoggiata.
«Oh no, si figuri, può anche restare se le fa piacere!» esclamò invece lui, esibendo un gran sorriso.
Venne colta alla sprovvista da tanta gentilezza, e solo in quel momento notò quanto il volto di quel ninja ispirasse una naturale simpatia. Teneva i capelli castani legati in una coda, e un segno più scuro andava a solcargli naso e zigomi come se qualcuno avesse provato a sottolineare i suoi occhi con una penna, il che rendeva ogni sua espressione terribilmente buffa agli occhi di Reiko. Notò anche che aveva le guance molto rosse, cosa che non poté che divertirla.
Sorrise anche lei. «La ringrazio.»
«Mi dica» esordì lui appoggiandosi anch’esso alla staccionata. «Lei non si trova a Konoha da molto, vero?»
«Si vede tanto, eh?»
«Beh, solo che credo che a nessuno del Villaggio verrebbe in mente di venire a trovare queste pesti qua.» rispose il sensei indicando con il pollice i bambini intenti nel loro allenamento, senza perdere un solo istante il suo sorriso.
Uno di loro se ne accorse e, sentendosi chiamato in causa, trotterellò fino a lì con la faccia tutta imbronciata.
«Maestro Iruka, la smetta di guardare questa ragazza con quell’espressione da imbecille, è davvero disgustoso! Pensi ad allenarci, piuttosto!» gli gridò in faccia.
«Che cosa?!» sbraitò Iruka, arrossendo ancora di più di quanto non lo fosse già. «Naruto! Impara a portare rispetto!»
Per tutta risposta il bambino gli fece una boccaccia e scappò via.
«Naruto!» urlò il sensei, andandogli dietro. «Se ti prendo ti ammazzo, lo giuro!»
Reiko dovette dar fondo a tutte le proprie capacità di autocontrollo per non ridere.
«Iruka.»
Era stata una voce maschile a parlare, e il suo tono era il tono inconfondibile di qualcuno che non ha buone notizie da portare, ma che ormai è abituato al proprio ingrato compito.
Comparve un uomo nel bel mezzo dello spiazzo d’allenamento, tra gli sguardi ammirati dei bambini. I suoi occhi osservavano seri il compagno, da sopra la cicatrice che deturpava metà del suo volto.
«Che cosa c’è?» domandò il maestro. Ora il suo viso tradiva preoccupazione.
«Quand’è l’ultima volta che hai visto Kakashi Hatake?»
«Perché me lo chiedi?»
Le loro parole erano meno di sussurri, ma Reiko le sentiva tutte perfettamente.
«Perché è sparito.»
 
***
 
Daisuke continuava a realizzare i suoi segni, e intanto i simboli neri che Kakashi aveva visto sul suolo sotto di sé provavano a risalirgli lungo le gambe, come i rami adunchi di alberi morti che anelavano febbrilmente a qualche sorta di malato nutrimento.
«Sono sempre stato io l’obbiettivo.» realizzò mentre il suo cervello attivava la consueta freddezza da combattimento, che s’allargò come una chiazza d’olio soffocando qualunque altra cosa potesse provare, l’adrenalina che avrebbe reso le sue azioni confuse e casuali, lo stupore per la vista dell’allegro e scanzonato Daisuke agire per ucciderlo, e quella grande quanto spinosa domanda, quella che aveva cominciato a tormentarlo e che mai avrebbe dovuto porsi. C’entra Reiko in tutto questo?
L’altro non rispose, ma non riusciva a mascherare la tristezza che portava disegnata in volto. Anche questo era singolare, e il jonin se ne chiese il motivo.
Incrociò le braccia davanti al petto senza neanche tentare un’altra mossa, le gambe già non gli rispondevano più e sapeva che ben presto i viticci del sigillo sarebbero arrivati a prendere il controllo di tutto il suo corpo, che lui provasse a fermarli o meno.
«Perché? A cosa vi servo?»
Le sue parole raggiungevano una ad una il petto di Daisuke e lo colpivano come armi affilate. Quando cominciavano a farsi un’idea del perché sarebbero morti, gli obbiettivi diventavano sempre più strazianti. Presto però sarebbe finito tutto anche per lui, e si ritrovò a considerare che fosse una fortuna, dopotutto.
Scese dall’albero con un balzo per portarsi davanti al jonin.
Come riusciva quell’occhio scuro come l’inchiostro a risultare così distaccato e freddo, pur trovandosi in una situazione di tale svantaggio? Quanto doveva sembrare meschino il suo sguardo castano a confronto, che non riusciva a fare a meno di tradire ogni minima emozione arrivasse a dilaniargli il petto!
«Mi dispiace, Kakashi.» fu il suo sussurro addolorato.
Non poteva fare a meno, il sensei, di chiedersi quale fosse il suo gioco. Per quale motivo un assassino dovrebbe provare tutto quel dispiacere nel dare la morte alla propria vittima? Per quale motivo un uomo che, evidentemente, non era portato ad uccidere si trovava nella situazione di dover fare l’assassino?
Beh, l’avrebbe scoperto presto.
Un secondo Kakashi spuntò in quell’istante dal terreno e sferrò all’avversario un potente calcio dritto in mezzo alle scapole. Daisuke cadde in avanti con un urlo strozzato di stupore e dolore, attraversando la nuvola di fumo generata dalla scomparsa della copia del sensei e rovinando a terra.
«L’Arte della Terra…» disse tra sé mentre si rialzava il più in fretta possibile, ma non fu sufficiente, perché il jonin era già alle sue spalle. Meno di un secondo, e sentì il freddo della lama di un kunai posarsi sulla sua gola.
Sorrise tra sé. Il combattimento tra lui e uno dei ninja più forti e conosciuti al mondo era durato esattamente due minuti e mezzo. Avrebbe detto di meno.
«Voglio sapere ogni cosa.» La voce di Kakashi gli giunse a pochi centimetri dalla nuca.
Il suo sorriso assunse un’espressione amara. «Va bene.»
Afferrò la lama del kunai e se l’allontanò dalla gola, incurante del sangue che aveva già cominciato a colargli lungo il braccio e attraverso le dita, per portarsi di fronte al jonin e poterlo guardare negli occhi.
«Adesso ti imprimerò un sigillo. Si chiama sigillo dell’esule.»
Aveva preso un altro kunai con la mano libera, e lo utilizzò per incidersi il petto. Il sangue che ne uscì iniziò a prendere vita, così come quello della ferita alla mano aveva preso ad avvilupparsi attorno al braccio del sensei, e si protese verso il copia ninja. I simboli impressi nel terreno erano stati un bluff, e Kakashi se ne accorse troppo tardi.
Il volto di Daisuke si distese di una malinconica serenità mentre la tecnica procedeva.
«E io morirò dissanguato.» concluse, in un soffio.
 
***
Reiko sbiancò dopo aver udito le parole del ninja messaggero. Ci poteva essere un’unica spiegazione per l’improvvisa scomparsa del jonin, e lei la conosceva fin troppo bene.
S’aggrappò alla recinzione, mentre mille consapevolezze e pensieri diversi arrivavano a colpirla, uno dopo l’altro. Si diede della stupida per aver riposto la propria fiducia in Daisuke, che poi l’aveva tradita.
Eppure doveva esserci qualcuno con lui, perché serviva chi potesse uccidere l’obbiettivo al suo posto.
La scia di considerazioni impazzite che aveva fino ad allora dominato il suo cervello s’interruppe quando si accorse della spina affilata che le aveva trafitto il petto al solo pensiero di qualcuno che uccidesse Kakashi.
Abbassò la testa e chiuse gli occhi. Maledizione, pensava. Non posso provare dolore per la sua morte. Non posso permettermelo. Continuava a ripetersi queste parole, che però non riuscivano a sortire l’effetto desiderato. Lo immaginava, lo immaginava bene. Il suo corpo freddo e morto su un tavolo di laboratorio, nudo, privato di qualsiasi dignità, mentre i suoi occhi spalancati si fissavano sul vuoto. Li vedeva, perché li aveva già visti molte volte, gli scienziati nei loro orribili camici bianchi. Gli si affollavano intorno come mosche, prima di farlo a pezzi, aprirlo, squartarlo, analizzare ogni singolo brandello di pelle ancora rimasto intatto. Non più un uomo, solo un pezzo di carne, nelle loro mani.
La sua macabra immaginazione s’interruppe soltanto perché si era accorta di tremare violentemente. E di avere un desiderio, uno solo, irrazionale e cento volte stupido, ma più potente di qualsiasi altro fosse mai stato scritto nei suoi pensieri.
Che Kakashi vivesse.
Aprì gli occhi, e una diversa determinazione brillava nel suo sguardo. La determinazione dei disperati e dei folli. Si staccò dalla staccionata, si girò e cominciò a correre.
Avrebbe dovuto essere più veloce del vento se avesse voluto arrivare in tempo. Il suo piano era facile: affrontare e sconfiggere chiunque puntasse alla vita del sensei. Molte falle, scarsissime possibilità di riuscita; non avrebbe di certo potuto contare su una grande strategia, se ne rendeva conto, ma nella situazione in cui si trovava non avrebbe nemmeno potuto permettersi tante sottigliezze.
Correva come non aveva mai corso nella vita, i passi che si muovevano sicuri lungo le vie di Konoha, perché sapeva dove Daisuke sarebbe andato a imprimere il sigillo a Kakashi. Era un luogo che avevano concordato insieme, prima di presentarsi alle porte della città, ed era anche l’unico che avrebbe permesso la riuscita di un piano senza che il compagno si esponesse troppo; per questo era certa che non l’avrebbe cambiato, nemmeno adesso che lei era il nemico da fronteggiare.
Si chiedeva intanto chi potesse essere la persona scelta per uccidere un ninja forte come Kakashi. Reiko pensava di essere l’unica in grado di farlo senza correre seri rischi.
«Che bello vederti, Reiko.»
Quattro semplici parole, che eppure la costrinsero a fermarsi.
Si raddrizzò dalla posizione in avanti che aveva assunto per essere più aerodinamica, mentre scrutava il viale alberato che stava percorrendo alla ricerca dell’uomo che aveva avuto il coraggio di mettersi sul suo cammino.
Fu un mantello rosso quello che spuntò dai lati della strada. Un volto spuntava da quel mantello, un volto che sorrideva di una pacata cordialità, così falsa da dare il voltastomaco. Le si parò davanti, lasciando che lo riconoscesse senza il minimo timore. Una lunga coda di lisci capelli castani dai riflessi ramati era tirata mollemente all’indietro, e incastonato in una carnagione così pallida che avrebbe potuto provenire soltanto  dal Villaggio della Notte c’era uno sguardo castano, mellifluo come quello di qualcuno già pronto a pugnalarti dopo averti abbracciato.
Akahito Numaka. Lo Scorpione, così lo chiamavano. Un uomo temuto da molti, che da lei non sarebbe mai riuscito ad avere altro che disprezzo.
«Trovi?» rispose, e per una volta non dovette sforzarsi per risultare glaciale.
«Non sembri molto sorpresa.» notò Akahito. Il suo tono era molto simile a quello usato dagli ammaestratori di belve feroci, e Reiko considerò che non sarebbe stato del tutto sbagliato, come paragone.
«Il Generale non mi è mai sembrato tipo da essere ignaro di qualcosa.» replicò lei, senza muovere un passo, dritta come un fuso in mezzo alla strada. «E dove c’è l’attenzione del Generale ci siete voi, giusto?»
Akahito rise; ogni suono che usciva dalle sue labbra stillava veleno.
Lui e Reiko si conoscevano piuttosto bene; erano stati persino nello stesso gruppo di allenamento, da bambini. Lei sapeva perfettamente quanto lui la odiasse. Perché era ambizioso e arrogante, e non poteva sopportare che potesse esserci qualcuno in grado di batterlo in ogni singolo combattimento.
Poi a lei era stato offerto il mantello rosso sangue del corpo speciale, di quelli che appoggiavano il punto di vista del Generale, di quelli che consideravano le missioni come un divertimento, di quelli che erano visti come collaboratori e non come carne da macello – almeno in teoria, perché lei non ne era mai stata convinta. Aveva rifiutato, infatti; e quel mantello era andato ad Akahito, che per una volta nella sua vita aveva assaporato il gusto di superarla, fosse pure per sua scelta.
Da allora si erano incontrati soltanto di rado.
«Devi sapere, Reiko, che da quando è cominciata questa storia mi sono tormentato giorno e notte a chiedermi per quale motivo una persona intelligente come te avesse deciso di buttare via la propria vita in maniera tanto sciocca.»
«Sei venuto a uccidermi, allora?» domandò la kunoichi, incrociando le braccia al petto. Non si sentiva per nulla obbligata a replicare a tutti quegli irritanti sproloqui.
Akahito scosse la testa, sorridendo, anche se la sua mano andò a posarsi sull’impugnatura del fioretto. «A negoziare». Sul suo volto passò un’ombra minacciosa. «Porta a termine la missione.»
«Altrimenti?» fu la sua immediata risposta. Il suo sguardo, puntato in quello castano dello Scorpione, sfavillava in un’espressione di sfida.
«Altrimenti sì, ad ucciderti». Era un odio vecchio anni e anni quello che venne a galla mentre lui sguainava la sua arma e ricambiava lo sguardo di lei con un’occhiata feroce.
L’unica reazione che ebbe Reiko fu di alzare un sopracciglio.
«Tu lo sai cosa succederà?» disse. «L’hai previsto, Akahito?»
Lui non rispose.
«Succederà che il Generale attiverà questo,» alzò le braccia per rammentargli ciò che c’era sotto le bende, ciò che anche a lui era stato impresso, ciò che era stato impresso a tutti «e lo farà appena io tenterò di avvicinarmi a te. Verrò colta dal dolore e dagli spasmi, e tu potrai portare a termine il tuo compito con facilità». Ebbe un sorrisetto amaro nel pronunciare le ultime parole. «Oppure non lo farà.» aggiunse.
Akahito ebbe un tremito, di rabbia probabilmente, e Reiko seppe di dar voce alle sue stesse preoccupazioni. Così andò imperterrita avanti, seria e inesorabile.
«Lascerà che lo scontro inizi, lascerà che noi combattiamo – lascerà che io ti massacri. Allora sarai tu a morire. E sai perché sarai morto? Perché lui l’aveva deciso, l’aveva stabilito sin dall’inizio. Ti chiedo questo, allora, Scorpione». Solo allora decise di sciogliere la propria rigida posizione, per avvicinarsi a lui, incurante del filo della lama teso verso il suo cuore. Voleva porre la sua domanda guardandolo negli occhi. «Sei pronto a scoprire chi di noi due valga di più sulla bilancia del Generale? Sei davvero pronto per questo?»
Aveva toccato il suo punto debole, questo lo sapevano entrambi. Con un urlo di rabbia Akahito portò in avanti il suo affondo, ma Reiko fu veloce a balzare all’indietro, schivando facilmente un attacco debole e impreciso.
«Bastarda. Sei brava con le parole, eh? Ma hai sbagliato i tuoi calcoli, perché giuro sulla mia stessa vita che oggi avrò la tua testa, sigillo o non sigillo!»
Akahito aveva completamente perso il controllo, la maschera d’ipocrisia che era solito disegnarsi sulla faccia era in frantumi, mostrando tutto il suo odio e la sua cattiveria.
Reiko sorrise, chiuse gli occhi e lasciò che il chakra fluisse dentro di sé.
 
***
 
Quando il corpo di Daisuke crollò esanime al suolo, Kakashi scoprì di riuscire a muoversi come non aveva potuto fare mentre il sangue dello shinobi gli si imprimeva nella pelle.
Era stato stupido, si era comportato come un genin durante la sua prima missione; e adesso aveva addosso un sigillo di cui non conosceva il potere. Non gli restava che tornare al Villaggio, ora, per spiegare la situazione all’Hokage e farsi dare direttive. Evidentemente l’obbiettivo dell’attacco era soltanto lui – altrimenti non si sarebbero disturbati ad attirarlo fuori dalle mura –, ma avrebbero potuto essercene altri e di maggior entità.
Si chinò sul corpo dello shinobi – respirava ancora, ma sarebbe morto presto – e allungò un braccio. Forse avrebbe potuto fornire indicazioni preziose riguardo ai suoi aggressori.
«Io lo lascerei lì, se fossi in te.»
La voce lo colse di sorpresa dal folto degli alberi. Kakashi scattò in piedi, all’erta, guardandosi intorno.
In pochi erano in grado di nascondersi a lui, ingannando i suoi sensi acuti e allenati.
Dal ramo di un albero cadde con delicatezza una figura femminile.
«Davvero vorresti portarti dietro un cadavere? Un po’ macabra come compagnia.» continuò la donna, avvicinandosi tranquillamente.
La bocca piccola ma carnosa, tinta di un rosso scurissimo, era tesa in un sorrisetto sarcastico, che si apriva come una ferita su un volto dal singolare pallore. Il suo corpo, pur essendo tonico e scattante, era morbido e provocante, e la sensazione era persino accentuata dai lunghi capelli biondo platino e dal mantello rosso sangue portato aperto, a drappeggiarle mollemente sulle spalle.
Portava gli occhi bendati, ma si comportava come se avesse una vista molto acuta.
«Strano, detto da un assassino.» fu la replica di lui. La sua voce era quella di sempre, distaccata, priva di qualsiasi inflessione che non fosse una lievissima nota di ghiaccio.
La donna gettò la testa all’indietro e rise.
«Ah, Kakashi Hatake… ucciderti sarà un piacere immenso.» mormorò, scoprendo nel suo sorriso una fila di denti bianchissimi e perfettamente allineati.
Rapido come suo solito, Kakashi allargò le gambe per avere una posizione più stabile sul terreno e decise di aprire lui stesso le ostilità. Prese un paio di shuriken dai pantaloni e li scagliò contro di lei, precisi e fulminei; uno diretto al cuore, l’altro alla fronte. Voleva testare i suoi riflessi e le sue capacità difensive, soprattutto con quella benda davanti agli occhi.
L’apparente mancanza della vista però non sembrò essere un fattore che la potesse penalizzare, anzi, sembrò accorgersi dell’offensiva con particolare anticipo, perciò non ebbe bisogno di sfoderare doti atletiche eccellenti per saltare di lato e scansare le armi. Aveva cominciato a formare dei segni con le mani, intanto.
È pericolosa, fu la sua prima considerazione. Quello di alzare il coprifronte e spalancare l’occhio dello sharingan fu più un istinto che un’azione premeditata.
Sentiva tutta la parte sinistra del volto bruciargli terribilmente; era sempre così quando scopriva lo sharingan per la prima volta. Man mano che lo teneva aperto la situazione si stabilizzava, anche se il chakra che aveva a disposizione non era sufficiente per mantenerlo tanto a lungo da lenire completamente il dolore. Aveva dovuto abituarcisi.
C’era da dire che le cose viste con quell’occhio erano totalmente diverse. Avrebbe potuto seguire senza fatica i movimenti delle ali di un colibrì: che difficoltà potevano mai dargli, quindi, i segni con le mani che la donna stava realizzando in quel momento?
Seguì attentamente ogni suo movimento, ma le combinazioni che andavano a formarsi man mano erano sempre nuove e sorprendenti. Doveva essere una tecnica del tutto nuova, o peggio, un’abilità innata.
La memorizzò nel momento esatto in cui l’intero corpo della sua nemica cominciò a risplendere di un chakra verdognolo, talmente concentrato da addensarsi in un’aura luminosa attorno a lei e da sollevarla da terra di qualche centimetro.
«Tecnica della Dea Bendata.» mormorò lei in un soffio. Dal bozzolo di luce verde in cui si era avvolta uscì una figura umanoide, formata interamente di chakra, che rivolse tutta la sua attenzione a Kakashi.
Il jonin cominciava a capire la tecnica alla quale stava assistendo. Un po’ come la Tecnica del Burattinaio, solo senza fili. Lei entrava in trance per controllare un pupazzo di chakra che avrebbe combattuto al suo posto. Gli sarebbe bastato puntare a lei, dunque, per mettere fine al suo gioco.
Le sue mani si mossero veloci.
«Tecnica Superiore della Moltiplicazione del Corpo!»
Le sue copie si disposero lungo tutto il perimetro della radura, accerchiando la donna che combatteva esattamente al centro.
Kakashi voleva vedere se sarebbe stata in grado anche lei di moltiplicare il suo pupazzo o se il suo chakra non era sufficiente per crearne altri. In tal caso avrebbe potuto fronteggiare uno solo dei kunai che le avrebbe lanciato, e il suo giochetto sarebbe finito molto prima di quanto avesse creduto.
L’omuncolo verde però non degnò neppure uno dei ninja che si erano affollati attorno a loro: tuffò una mano sottoterra, invece, per afferrare il vero Kakashi e lanciarlo contro un albero, dove ricadde pesantemente con un gemito strozzato. Le sue copie avevano intanto scagliato le loro armi, che però la donna evitò con salti e piroette aggraziate, prima di rispondere con altrettanti shuriken, che raggiunsero i bersagli. Tutti i jonin fittizi scomparvero in una nuvola di fumo.
«Sei prevedibile, Kakashi!» disse lei, sempre sorridendo. Tornò con la sua attenzione alla radura, ma non lo trovò più lì.
Il jonin infatti intanto era andato a nascondersi tra la vegetazione, su un albero, e da lì prendeva fiato e osservava la situazione.
Aveva scoperto che lei non era in trance, anzi, era perfettamente in grado di combattere e difendersi; inoltre il suo pupazzo sapeva vanificare le Arti terrestri, probabilmente perché il terreno era dove poggiava i piedi e lui era formato di solo chakra. Anche lo sharingan sarebbe stata un’offensiva praticamente inutile, con quella benda tra lui e gli occhi dell’avversaria.
La rivelazione lo raggiunse come un fulmine. Tornò a guardare la propria nemica e la sua strana tecnica con una luce diversa, perché aveva capito, lei era stata mandata apposta perché ogni sua abilità e peculiarità era costruita per annullare quelle del jonin.
Al sicuro tra le fronde, Kakashi si concesse qualche attimo in più per pensare. Scartò una per una le frecce che aveva al suo arco secondo quello che aveva capito – non avrebbe avuto senso sprecare energie in una moltitudine di attacchi inutili –, per giungere alla strategia più logica da tenere.
Il motivo per il quale aveva avuto tutto quel tempo per pensare, innanzitutto, era che il pupazzo non era in grado di percepire la sua presenza  se si nascondeva tra gli alberi: nessun ninja con l’intenzione di ucciderlo, e che quindi doveva aver ricevuto informazioni su di lui, gli avrebbe mai permesso volontariamente di elaborare una strategia.
Gli alberi dunque erano un nascondiglio sicuro; non gli restava che testare più accuratamente i riflessi e le capacità difensive di quella donna mentre teneva attiva la tecnica. Poi avrebbe proceduto con la sua offensiva.
Si riempì le mani di shuriken e si mise accovacciato sul ramo, facendo pressione sulle punte dei piedi, pronto a scattare il più veloce e il più silenzioso possibile. Ne lanciò uno, diretto in mezzo alle sue scapole, e schizzò via.
Era abbastanza veloce da attaccare senza rivelare la propria posizione per più di pochi secondi, dando l’impressione che ci fossero delle copie nascoste nel folto della vegetazione, ma l’avversaria non aveva tempo per tentare di localizzarle, impegnata com’era a non farsi trafiggere dalle armi che le venivano
scagliate addosso.
Più il giochetto andava avanti, più Kakashi riusciva a vedere le falle e i punti di forza della difesa avversaria, più si rendeva conto che il suo progetto avrebbe conosciuto il successo.
Solo un ultimo shuriken, si disse. Poi attaccherò.
Alzò il braccio e caricò per il lancio, ma in quell’esatto momento un pupazzo di chakra saltò giù dalle cime dell’albero sul quale Kakashi era nascosto ed atterrò sul suo stesso ramo. Prima che potesse fare qualcosa, il jonin fu afferrato un’altra volta e rigettato al centro della radura.
La sua avversaria aveva lasciato appositamente che lui la credesse incapace di realizzare più di un pupazzo per volta.
Si rialzò all’istante, ma l’altro era già su di lui. Gli si attaccò al corpo, fondendosi con la sua figura, e quando Kakashi capì che cosa stava succedendo era troppo tardi. Il chakra cominciava già a scarseggiare, risucchiato dalla tecnica della donna, tanto da renderlo terribilmente debole, e da far moltiplicare il bruciore che l’uso dello sharingan comportava. La vista cominciò ad annebbiarsi, i muscoli a non rispondere ai comandi, fu costretto ad abbassare la palpebra sullo sharingan, altrimenti sarebbe morto cento volte più in fretta.
Il supplizio finì nell’esatto momento in cui pensò di essere spacciato. Il pupazzo scomparve, portandosi via quasi tutta la sua energia, lasciandolo al suolo, scosso da tremori incontrollati dovuti alla mancanza di chakra. Lo sorprese un calcio in pieno ventre, che lo fece rotolare per qualche metro.
«Kakashi dello sharingan, eh?» Sentì dire da sopra di sé. «Che delusione.»
Lei arrivò a schiacciare la sua gamba destra talmente forte che lui sentì uno schiocco per nulla incoraggiante, e un dolore da mozzare il fiato.
Non urlò mai.
Vide arrivare un altro calcio, che però si fermò a pochi centimetri da lui.
«Meglio che mi dia una controllata», sospirò la donna. «Sai, mi hanno detto di portarti al Villaggio in buone condizioni, ma è difficile…»
Il jonin puntò i gomiti a terra e tentò di mettersi seduto, combattendo contro il dolore, la debolezza e la sensazione di poter svenire da un momento all’altro. La donna sorrideva.
«Facciamo così» disse. «Io ti ucciderò rapidamente. Ma prima…» Si tolse la benda, scoprendo due occhi verdi, ma di un verde talmente pallido e sbiadito da sembrare bianco.
Kakashi aveva visto uno sguardo come quello soltanto una volta in tutta la sua vita, e la rivelazione lo colpì più forte di quanto avessero potuto fare i colpi ricevuti. Possibile che Reiko…?
«…Prima voglio vedere una cosa.» mormorò infine la donna, allungando un braccio verso la sua maschera.
Quando capì, Kakashi le afferrò con forza il polso. Ansimava, anche per un gesto così semplice.
«Va’ al diavolo.» disse.
La luce negli occhi di lei divenne fredda e spietata, e la linea rossa delle sue labbra si tese in una smorfia di rabbia.
«Davvero?» replicò.
Il colpo che ricevette gli si abbatté al centro della cassa toracica, svuotandogli i polmoni di tutta l’aria che erano riusciti faticosamente a racimolare e sbattendolo contro un albero.
La kunoichi prese un kunai dai pantaloni e glielo puntò contro.
«Credo che in laboratorio non se ne faranno molto delle tue mani. Che ne dici?» sibilò lei, mirando al suo palmo destro.
Laboratorio?, si chiese lui. Avevano intenzione di usare il suo cadavere come cavia per qualche folle esperimento scientifico?
«Cominciamo.» aveva detto intanto la donna. Nel momento esatto in cui l’arma lasciò la sua mano per dirigersi verso di lui, Kakashi seppe di non poterla evitare.
Il suo sguardo non vacillò un istante, in attesa del dolore.



Ciò che dice l'Autore

C'ho messo tanto, ma alla fine ce l'ho fatta xD E sono proprio contenta di aver ripreso in mano questa storia, Kakashi e Reiko ormai riempiono le mie nuvolette rosa nei pochi attimi romanticosi che decido di concedermi,e finire la storia che ha dato inizio a loro amore mi sembra il minimo :3
Per quanto mi sia divertita a scriverlo, devo ammettere che questo capitolo mi ha dato non pochi problemi. Soprattutto ho dovuto inventare una Tecnica e una nemica in grado di dare dei grossi problemi al nostro jonin preferito, e non è mica cosa facile! Adesso comincio a capire le difficoltà di Kishimoto nel concepire combattimenti avvincenti e credibili - almeno per me è così. E' difficile trovare il modo di ridurre in fin di vita Kakashi senza ridurre la sua bravura o farlo sembrare un bimbetto appena entrato in Accademia; spero davvero di esserci riuscita. D'altra parte (e questa è la giustificazione che ho usato con me stessa ogni volta che mi trovavo insoddisfatta rileggendo del combattimento) si sta parlando del Kakashi che non ha ancora conosciuto Naruto e gli altri, che non ha ancora sviluppato lo sharingan ipnotico, che se non fosse stato per l'intervento del Sas'ke e di Naruto non sarebbe mai riuscito a battere Zabuza (mi vengono i brividi al solo ricordo di lui intrappolato nella gabbia acquatico che grida agli altri di scappare O.O)
....Sto divagando. Spero che questo capitolo vi sia piaciuto, l'altro arriverà tra non poco, perchè ho quasi finito di scriverlo :3
Un grosso bacio a tutti, e come al solito un ringraziamento a chi mi segue e a chi mi recensisce, che ho davvero bisogno dei vostri pareri ^^
Glory.

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Capitolo 8
*** Acciaio ***


Il corpo di Akahito si accasciò a terra, e lì rimase.
Reiko restò ad osservarlo con un’ombra di malinconia negli occhi, mentre il sangue di quello che una volta era stato il suo rivale le colava lungo il braccio.
Non era riuscito neanche a sfiorarla, ed era morto subito: quello era l’unico riguardo che lei aveva potuto fargli.
Si chinò e si pulì nel suo mantello. Aveva conosciuto perfettamente il carattere di quell’uomo, e lo odiava, certo, ma la sua morte non poteva che gettarle addosso una patina di tristezza che sapeva non sarebbe riuscita a togliersi dosso. Aveva avuto ancora una volta prova della crudeltà del Generale, e questo non poteva che riempirla di rabbia e indignazione, oltre che rendere ancora più evidente ai suoi occhi quanto fosse giusta la solitaria ribellione che stava portando avanti.
Akahito si fidava del proprio Generale. Perché l’aveva sempre servito con tutto se stesso, aveva eseguito ogni sua imposizione senza battere ciglio, aveva progettato e concordato con lui molte delle missioni che poi lei stessa aveva avuto il compito di eseguire. E per lui era morto.
Reiko aveva visto lo smarrimento, la delusione, il panico negli occhi del rivale quando lei era stata in procinto di colpirlo e lui aveva capito che il sigillo non si sarebbe mai attivato per salvarlo, e che sarebbe morto perché l’aveva voluto l’uomo al quale aveva dedicato tutta la propria vita.
«Maledetto.» sputò lei tra i denti. «Prima o poi arriverò a te, maledetto. E lo farò anche per Akahito.»
Si costrinse a scavalcarlo, perché doveva arrivare in tempo, doveva salvare Daisuke, doveva salvare Kakashi.
La corsa riprese, più veloce e congestionata di prima. Aveva perso del tempo e delle energie, e pregava davvero che le sue gambe non l’abbandonassero a metà tragitto, che la portassero il prima possibile alla radura scelta qualche giorno prima. Sperava che tutto andasse per il meglio.
Quando il viale finì girò a sinistra e percorse la nuova strada fino a trovare un vicolo un po’ più stretto, che imboccò congestionata per trovarsi davanti lo spiazzo che ospitava le porte della città.
Solo allora si permise una pausa, si fermò, riprese fiato, notò che a quell’ora del giorno e in pieno periodo di pace le porte erano aperte, per cui non sarebbe stato difficile per lei uscire senza destare sospetto nelle guardie che facevano la ronda sulle torrette.
Le raggiunse velocemente per poi superarle ostentando quella che secondo lei era una camminata rilassata. Probabilmente rilassata non lo era stata per niente, ma per fortuna i ninja di ronda non ebbero nulla da ridire riguardo alla naturalezza del suo modo di camminare e lei poté tornare a correre, inoltrandosi subito nella macchia degli alberi che costeggiava la strada di terra battuta che si snodava fuori da Konoha.
Per fortuna il luogo concordato non era molto lontano da lì.
Giunse allo spiazzo con l’angoscia negli occhi, che non poté che accentuarsi quando lo vide vuoto. Soltanto un corpo, a terra.
«No…» gemette quando riconobbe il biondo dorato dei capelli di Daisuke.
Corse fino a lui e si inginocchiò al suo fianco, ma le sue labbra erano già diventate bluastre, e se anche respirava ancora era un respiro troppo debole e spezzato perché potesse essere recuperato.
Appoggiò delicatamente una mano dietro la sua testa e la posò sulle proprie ginocchia, cingendolo con un braccio. Stava succedendo di nuovo. Di nuovo tutti intorno a lei morivano, mentre lei viveva, sempre e comunque.
«R… Reiko» tossì lui, aprendo a fatica gli occhi.
Lei si sorprese e si asciugò in fretta le lacrime che avevano preso a caderle sulle guance, ma non poté fare nulla contro i singhiozzi che le scuotevano il corpo.
Lui sorrise debolmente. «Che c’è… adesso, non dirmi… che ti sei a… affezionata.» mormorò, ripetendo le parole che le aveva detto davanti alla casa di Kakashi.
Lei abbassò la testa.
«Oh, ma sta’ zitto.» lo rimbrottò tra le lacrime.
«Ascolta» disse, osservandola con gli occhi castani resi spiritati dalla morte e accesi dalla preoccupazione. «Kakashi sta… combattendo… contro Eri.»
Alzò un dito per indicare la direzione che aveva preso lo scontro.
Reiko sentì la paura divorarle vorace il cuore. Certo, come aveva fatto a non pensarci? Eri Kamitake , uno dei cinque capi del corpo speciale, un ninja che avrebbe potuto dare dei problemi persino a lei.
Annuì.
«Grazie. Sei… sei un buon amico.» gli disse, con tutto l’affetto di cui fu capace. Non le capitava spesso di poter lasciare che le emozioni le passassero liberamente sul viso.
Daisuke sorrise debolmente e chiuse gli occhi.
«Proteggilo…» fu il suo ultimo sussurro a fior di labbra, prima di spirare.
Per un attimo Reiko pensò che si riferisse a Kakashi, ma uno sguardo a dov’era caduta la sua mano la contraddisse subito. Aveva stretto tra le dita una fotografia, fino all’ultimo.
Gliela sfilò di mano con delicatezza e le diede uno sguardo. C’era un bambino, sorrideva spensierato, mostrando con orgoglio il buco che avrebbe dovuto ospitare i due incisivi. Aveva una zazzera spettinata di capelli biondi, identici in tutto e per tutto a quelli del padre.
A lei si strinse il cuore, mentre guardava il cadavere dell’amico con occhi diversi.
«Daisuke…» le mancarono le parole, per un attimo, anche se sapeva che sarebbero state gettate al vento, ormai. «Certo che lo proteggerò. Te lo prometto.»
Prese un respiro profondo e si asciugò le lacrime prima di rimettersi in piedi.
Si alzò, con la consapevolezza di andare ad affrontare la morte. Se anche il Generale aveva deciso di sacrificare Akahito, ninja bravo ma non eccellente, non avrebbe fatto la stessa scelta con Eri. Avrebbe attivato il sigillo, Reiko lo sapeva bene; sapeva bene che sarebbe morta. L’importante era morire dopo aver messo in salvo Kakashi.
 
Il dolore che il sensei si era aspettato non arrivò mai.
Velocemente, sotto il suo sguardo sconcertato, arrivò una figura a mettersi in mezzo tra lui e la lama.
Riconobbe solo una treccia nera.
Ebbe uno scatto quando capì, ma la mancanza di chakra lo inchiodò al suolo, e lui non poté far nulla, mentre vedeva il kunai raggiungerla, inesorabile. L’avrebbe colpita in pieno.
E infatti la colpì.
Ma Reiko non sanguinò, e la lama cadde a terra con un clangore metallico, finalmente innocua.
Lei alzò la testa, ansimante; per lo sforzo della corsa, ma soprattutto per il terrore che aveva avuto di non arrivare in tempo.
«Reiko Iwakiyo.» sillabò Eri, incrociando le braccia al petto e lanciandole uno sguardo penetrante. «Mi stavo giusto chiedendo quanto c’avresti messo ad uccidere uno come lo Scorpione.»
Lei fremette di rabbia, mentre una smorfia di disgusto le nasceva sul viso. Quella donna era identica al Generale.
«Akahito aveva fiducia nell’ordine.» fu tutto quello che replicò, a denti stretti, controllando a stento la rabbia.
«Certo, certo.» la donna liquidò la questione con un gesto della mano, prima di tornare a squadrarla con quello sguardo così simile al suo, eppure anche terribilmente diverso. «Ma guarda un po’!» esclamò quando i suoi occhi si posarono sulle bende incrostate di sangue che fasciavano le braccia dell’avversaria. «Interessante… Che cos’è successo al tuo sigillo, Reiko?»
Per tutta risposta lei alzò il mento con fare provocatorio e si strappò le medicazioni di dosso. Mostrò le braccia, presentavano decine e decine di profonde ferite da arma da taglio in via di guarigione. E, sul sangue e sulle croste, campeggiavano i segni neri da loro conosciuti tanto bene, precisi e perfetti, neanche sfiorati da quell’accanimento spaventoso.
Kakashi ascoltava tutto, parola per parola, e dalle nebbie della sua semi incoscienza emersero lentamente i tasselli di quel puzzle fatto di domande prive di risposta che l’aveva tormentato da quando i due stranieri si erano presentati davanti alle mura di Konoha fino ad allora. Era dunque un sigillo quello che lui aveva scambiato per un tatuaggio… un sigillo che non doveva avere delle belle conseguenze, data la ferocia con la quale Reiko sembrava essersi accanita contro le proprie braccia.
Eri rise.
«Ah, la disperazione!» esclamò. «Cosa ti spingerà ancora a fare, la disperazione? Ad uccidermi?». Il suo sorriso sfavillò d’ironia.
Entrambe sapevano perfettamente quale tra le due sarebbe stata destinata a morire, e non dipendeva dalle loro abilità ninja.
Reiko non si lasciò spaventare dalla sua sicurezza: era qualcosa che aveva messo in conto dall’istante stesso in cui aveva scelto Kakashi e non il Villaggio.
«Sì, se non rinuncerai alla missione Hatake». La sua espressione era seria e irremovibile.
La rivelazione di ciò che quella ragazza stava facendo, per lui, lo colpì più forte di quanto avessero fatto i calci ricevuti.
Perché?, l’unica sbigottita, dolorosa domanda che si fece.
«Giusto… Kakashi Hatake.» la donna si picchiettò il mento con un dito con aria pensosa, come se stesse considerando qualcosa che non le era mai neanche passato per la testa. «Chissà cosa possono averti mai fatto la sua maschera e la sua chioma argentea per indurti al suicidio…»
«Lui non c’entra!» si affrettò a dire, colta per un attimo dalla sorpresa e dall’imbarazzo. «Ho semplicemente deciso di liberarmi una volta per tutte dei fili con cui il Generale pretende di controllarmi.»
La donna si tolse il mantello rosso e lo lanciò via, sorridendo di un sorriso sarcastico ma letale. «E allora vieni, marionetta. Sono proprio curiosa di assistere all’abilità innata di cui si parla tanto.»
«Non me lo faccio ripetere due volte.» mormorò con rabbia Reiko, mentre per la seconda volta nella giornata lasciava il chakra scorrere libero dentro di sé. Non sapeva quando il Generale avrebbe attivato il potere del sigillo, e fino ad allora intendeva prendersi una ad una tutte le sue soddisfazioni.
Se per Akahito aveva provato tristezza, sapeva che per Eri non ci sarebbe stato null’altro che un profondo appagamento.
Sotto i propri occhi, Kakashi vide la ragazza che aveva conosciuto dietro il suo mantello blu, quella che era svenuta per via dei raggi del sole, quella che aveva dovuto salvare da un violento ubriaco, trasformarsi in una vera e propria arma vivente.
Ogni centimetro della sua carne divenne lucido acciaio; la mutazione partì dalla punta delle dita e si estese alle braccia – cancellando le ferite ma mantenendo intatto il sigillo –, alle spalle, al busto, alle gambe, al collo. Il suo viso divenne una maschera d’acciaio nella quale erano intagliati i più sottili lineamenti, e i suoi capelli si sciolsero da soli dalla treccia, prendendo la forma di tanti fini cavi metallici.
«Allora è proprio spettacolare come dicono.» sussurrò la sua avversaria con un largo sorriso. Prese la benda da una tasca dell’abito e se la legò attorno agli occhi, prima di unire le mani e formare il primo simbolo della sua tecnica.
Reiko aprì le mani e le sue dita s’allungarono diventando degli artigli affilati.
«Tecnica della Dea B…» La donna non riuscì a terminare la frase che l’avversaria le era già addosso, fulminea, combatteva con grazia, agilità e una precisione invidiabile.
Eri sapeva che qualsiasi contatto con il corpo di Reiko sarebbe stato mortale, perché in quella forma lei era un’arma umana ed era in grado di modellare il proprio acciaio in modo da generare una quantità infinità di lame, in qualsiasi parte del corpo.
Come a ribadire il suo pensiero, in quell’istante miriadi di spine le spuntarono dal corpo, trafiggendo gli abiti e rendendo ancor più letali i suoi colpi. Eri dovette dar fondo a tutte le proprie capacità atletiche per non rimanere infilzata o non perdere un braccio.
Fece uno scarto di lato per evitare un affondo e poi spiccò un balzo in aria, dove poté terminare l’invocazione della propria tecnica.
«Tecnica della Dea Bendata!» ripeté. Subito il chakra arrivò ad avvolgerla e a formare un pupazzo che sbarrò la strada a Reiko.
La ragazza si fermò. Aveva sentito parlare di quella tecnica, che la Kamitake aveva preso dalla tradizione delle Arti Magiche del Villaggio, ma da quello che ne aveva capito non sarebbe stata un problema per lei, in quella forma. Si lanciò in avanti senza pensarci un attimo.
Il pupazzo si era messo in mezzo, ma lei gli passò attraverso senza batter ciglio: la capacità di risucchiare il chakra non avrebbe mai attecchito su una materia inorganica.
Il suo attacco colse di sorpresa Eri, che non riuscì ad essere abbastanza veloce nello spostarsi e subì una profonda ferita al fianco destro. Sorrise, anche se era pallida di rabbia, sciolse la tecnica e fece un paio di balzi all’indietro per portarsi a distanza di sicurezza da Reiko.
Si fermarono entrambe, adesso, a riprendere fiato. Sul bellissimo viso d’acciaio di Reiko si era dipinto un sorrisetto appena accennato.
«Stanca?» domandò ironica alla propria avversaria. La sua voce aveva una sfumatura metallica, chiusa in quel nuovo corpo.
Eri rispose con un’espressione feroce. «Ti sto aspettando.»
Le spine sul suo corpo si ritrassero, mentre il suo acciaio si modellava, come fosse liquido, ad assumere una forma più levigata e aerodinamica. Eri capì che avrebbe attaccato sfruttando la massima velocità possibile.
Kakashi osservava tutto il combattimento, lottando contro la debolezza per non svenire. Non aveva mai visto un’abilità innata pericolosa come quella a cui stava assistendo; forse soltanto il clan Hyuga avrebbe potuto eguagliarla.
Reiko schizzò contro Eri ad una velocità triplicata rispetto a quella di prima, sferrando un attacco dopo l’altro. La sua avversaria arrancava nell’evitarli tutti, la ferita che le era stata inferta sanguinava e bruciava terribilmente, ma non poteva smettere di muovere le mani nel formare le figure che avrebbero dato origine all’unica tecnica che avrebbe potuto permetterle di vincere.
Saltò su un albero per sfuggire ai colpi fulminei e distruttivi dell’avversaria, si spinse via e con una piroetta in aria atterrò alle spalle della ragazza.
Reiko si voltò.
Eri aveva piantato una mano nel terreno. «Tecnica dello Specchio della Discordia», invocò.
Dal suolo sotto di loro sorse un grande blocco di onice squadrata, nera e riflettente, che interruppe la sua crescita solo dopo essersi innalzato di cinque metri da terra.
I capelli di Reiko ebbero un fremito e si tesero verso la sua direzione, ma mentre lei era impegnata ad analizzare lo specchio la sua immagine si rifletteva perfettamente nel nero del suo materiale che apparve d’un tratto fin troppo liquido. Dalle sue profondità sorse una figura umanoide, che si modellò e si delineò man mano che usciva in superficie diventando una copia perfetta del corpo d’acciaio della ragazza.
Reiko capì in un istante. Eri combatteva i ninja utilizzando loro stessi.
Lo specchio tornò a inabissarsi nel terreno in una manciata di secondi, mentre l’altra Reiko fletteva le gambe in perfetto assetto da combattimento.
«Ho sempre desiderato manovrare la tua abilità, lo sapevi?» disse Eri dietro il proprio pupazzo, che si coprì di aculei in un attimo proprio come le aveva visto fare poco prima.
Reiko storse la bocca. «Davvero di pessimo gusto.» commentò.
Eri rise e la copia di Reiko scattò in avanti, facendo del proprio braccio un’unica lama. La ragazza si abbassò e fece un paio di capriole all’indietro, altrimenti era certa che le avrebbe falciato la testa. La trovata di Eri non era sbagliata: quello della sua trasformazione non era acciaio normale, e avrebbe potuto essere tagliato soltanto da un materiale della stessa natura.
Gli artigli delle sue mani divennero ancora più lunghi e più affilati. Avrebbe dovuto mettere fine in fretta al gioco dell’avversaria, e aveva già bene in mente come fare.
 
Il Generale aprì gli occhi e sorrise.
Come al solito Reiko non l’aveva deluso. Sarebbe stata in grado, ne era sicuro, di uccidere anche Eri senza procurarsi altro che un graffio.
E per questo era un pericolo.
Sospirò.
Sarebbe stata una grande perdita…
«Che peccato.» mormorò tra sé, prima di congiungere le mani.
Gallo. Serpente. Cavallo.
 
Reiko stava per aggredire la propria avversaria, ma non riuscì a portare a termine i propri propositi. I simboli del sigillo s’illuminarono d’un tratto di una luce bianca; lei non fece nemmeno in tempo a considerare che era arrivato il momento di fare i conti con il Generale, che il dolore giunse come un fiume in piena, inesorabile, disumano.
Tutto il suo corpo fu scosso da tremiti convulsi. Avrebbe voluto gridare, ma la voce le era rimasta in gola, bloccata dagli spasmi che avevano preso possesso del suo corpo, rendendole impossibile anche il semplice atto di stare in piedi.
Crollò a terra infatti, il sigillo che brillava come non mai, il corpo scosso dalle convulsioni, un dolore indescrivibile in testa. Lentamente, a chiazze, il suo corpo tornò ad essere quello di sempre: carne dove c’era stato acciaio, una chioma di capelli neri al suolo, occhi di un azzurro chiarissimo talmente spalancati da dar l’impressione che sarebbero schizzati via.
Eri si era tolta la benda dagli occhi e si godeva tutta la scena con un sorrisetto compiaciuto. Avrebbe potuto finirla subito, in quelle condizioni non avrebbe mai potuto difendersi, ma la risparmiava. Voleva osservare fino il fondo il potere del sigillo.
Dopo arrivarono le urla. Il groppo che ostruiva la sua gola si sciolse e tutte le grida che vi si erano incastrate senza trovare via d’uscita schizzarono fuori, più acute, più forti, più strazianti che mai. Solo allora la sua avversaria si riscosse.
«Ho deciso!» disse in un tono orribilmente frivolo e soddisfatto. «Per primo ucciderò Kakashi.» Si chinò sul corpo di Reiko scosso dagli spasmi, guardandola in faccia con una luce crudele negli occhi e un sorriso sadico e mellifluo al contempo. «C’è qualcosa che vorresti dirgli, prima, zuccherino?»
Reiko le rivolse uno sguardo pieno d’odio e di sofferenza, ma non riuscì a sputarle addosso tutti gli insulti che avevano preso corpo nella sua mente.
«Benissimo!» trillò quella, girandosi verso il jonin.
«A… aspetta.» fu il mormorio strozzato che giunse dalla ragazza dietro di lei.
Eri si voltò indietro e le gettò uno sguardo di fuoco. «Come hai detto?»
Il sigillo brillava e le ruggiva in corpo tutto il suo bruciante dolore, eppure lei riuscì a mettersi sulle ginocchia.
Si era fatta una promessa. Si era detta che non sarebbe morta prima di mettere in salvo Kakashi.
Sapeva di avere uno scarto di pochi minuti prima che il sigillo bloccasse definitivamente la sua capacità di impastare il chakra. Era un vantaggio che avrebbe dovuto sfruttare fino all’ultimo istante.
Congiunse le mani, ma fu come se cercasse di aggrapparsi a se stessa per non cedere. Ogni simbolo sembrò costarle preziose gocce del suo sangue.
«Tecnica Superiore della Moltiplicazione del Corpo» sussurrò.
Ci fu una nuvola di fumo, dalla quale emerse una Reiko agonizzante e distrutta come l’originale.
«Ammirevole. Due Reiko contro il mondo.» commentò la sua avversaria, zeppa di sarcasmo.
Ma la ragazza non aveva certo tempo per pensare a frecciatine e provocazioni. Nuovi simboli vennero evocati ora dai suoi gesti, una seconda tecnica, l’ultima, fu quella che uscì dalle sue labbra.
«Arte dell’Acciaio: Tecnica dell’Obelisco Imperiale».
La terra attorno a loro tremò, mentre lei si lasciava prendere dal dolore e dalle convulsioni, ansimante. Aveva fatto tutto quello che era in suo potere.
Prima ancora che Eri potesse rendersene conto, otto pareti di durissimo acciaio erano sorte attorno a lei e attorno al riflesso di Reiko creato dalla sua tecnica, innalzandosi fino a dieci metri da terra e intrappolandole.
Reiko torse la bocca quando vide  il pessimo risultato che aveva ottenuto. Il suo Obelisco, di solito, arrivava a toccare più di mille metri, e aveva una funzione completamente diversa da quella di una mera prigione; ma come rallentamento e diversivo sarebbe stato perfetto.
«Va’.» mormorò alla sua copia.
Quella si caricò Kakashi sulla schiena e corse via, debole e barcollante, ma straordinariamente determinata.
Reiko sorrise, chiuse gli occhi e accolse il dolore del sigillo con l’idea di aver davvero fatto ogni cosa che si era messa in testa di fare. Eri non c’avrebbe messo molto a liberarsi della sua tecnica incompleta, ma alla ragazza non importava quello che sarebbe successo dopo. Aveva paura della morte soltanto quando il suo volere a toccare i propri cari; lei aveva vissuto anche troppo, per i suoi gusti. Aveva visto troppa gente morire. Non sarebbe stato giusto che arrivasse il suo turno?
Per un unico motivo le sarebbe dispiaciuto lasciare questo mondo, ed era il figlio di Daisuke.
 
Mai come in quel momento il conflitto sempre presente in ogni decisione di Kakashi era aspro e combattuto.
Il jonin, gelido e senza sentimenti, era compiaciuto da tutto ciò che stava succedendo. Compiaciuto.
D’altra parte, sapeva bene che se fosse finito nelle mani di qualche potenza quella avrebbe avuto uno sharingan da studiare. Evitare che questo succedesse era un suo dovere. E non avrebbe potuto quindi servirsi dell’inatteso tradimento di uno dei sicari per portare a termine il suo compito, quando lui non era stato in grado di farcela da solo?
Queste considerazioni, che sarebbero venute a chiunque, non facevano altro che disgustarlo. C’era una ragazza – Reiko; e chissà perché quel nome la rendeva diversa da tutte le altre – che aveva messo a repentaglio la propria vita per la sua. Che stava combattendo priva di chakra,  contro una kunoichi di livello e un sigillo che la corrodeva dall’interno, per lui. E tutto ciò che lui era capace di pensare era la fortuna che aveva avuto a non aver messo in pericolo la Foglia.
Non riusciva a smettere di provare sollievo, un sollievo intimo e profondo, che continuava però a suscitargli un ribrezzo insopportabile.
Forse avrebbe meritato di dare la vita per la propria inadeguatezza, invece che giocarsi vigliaccamente quella di un’altra persona.
In quel momento le gambe della copia cedettero, e quella franò a terra con un gemito di rabbia e sorpresa. Kakashi, che nelle condizioni in cui si trovava sarebbe svenuto a compiere anche solo il più piccolo movimento, non poté far altro che cadere sopra di lei, tentando almeno di farlo nella maniera meno dolorosa possibile.
Lei rimase a terra, ansimante, sfinita; tremolava, a volte, come se fosse sul punto di scomparire da un momento all’altro, ma si teneva aggrappata all’esistenza con la sola forza di volontà, evidentemente perché aveva ancora una cosa da fare.
Alzò con fatica un braccio, e con un dito tremante indicò a Kakashi un punto del bosco.
Lui seguì quella traiettoria con lo sguardo e vi trovò un tronco cavo, che aveva una rientranza protetta da qualche cespuglio che sembrava essere stata messa lì apposta per fornire un nascondiglio sicuro.
Annuì.
Reiko sorrise, di un sorriso debolissimo, prima di chiudere gli occhi e svanire in una nuvola di fumo.
 
Il pupazzo d’acciaio finì di sbrindellare ferocemente la prigione che era stata costruita attorno a lui, portandosi dietro un’Eri schiumante di rabbia.
«Tu.» ringhiò puntando un dito contro Reiko, che altro non avrebbe potuto fare che aspettarla, inerte, con la schiena appoggiata al tronco di un albero. «Te ne pentirai amaramente.»
La ragazza le rivolse un sorriso strafottente. «Ne dubito.»
Eri si strappò la benda dal volto e si fermò a pochi centimetri da lei. Le prese il mento tra le dita e la costrinse a guardarla negli occhi, gli sguardi quasi bianchi del Villaggio della Notte in un confronto tra vinto e vincitore.
«Mi prenderò la mia rivincita, lo sai. Ti vedrò sgozzata dalle tue stesse mani.» si sentì sussurrare Reiko in faccia.
Lei girò di scatto la testa senza rispondere nulla. Stringeva un kunai nella mano destra, ma la sua avversaria ancora non se n’era accorta.
Velocissimo, il pupazzo le raggiunse, mettendosi in mezzo a loro e alzando i propri artigli letali. Puntava a Reiko.
La ragazza, ansimante, fissò senza paura gli occhi vacui e inespressivi che si disegnavano sull’acciaio del suo stesso viso, e considerò di essere davvero spaventosa durante la trasformazione. Tutti i suoi organi diventavano d’acciaio, persino i suoi occhi, che perdevano del tutto la capacità di vedere, fatto che per lei era divenuto un vantaggio, non un punto debole.
Quello che Eri non sapeva, però, e che avrebbe invece dovuto tenere bene a mente, è che qualunque tecnica aveva una debolezza.
Li uccido adesso, o muoio qui., si disse la ragazza, un attimo prima che la creatura le trafiggesse un fianco con il suo braccio affilato; Reiko non sarebbe mai riuscita a schivarlo, veloce com’era.
Sentì un grumo di sangue farsi spazio lungo la sua gola, e lo tossì via. Strinse i denti, e un attimo prima che il pupazzo estraesse la propria mano per colpire di nuovo, alzò il kunai che aveva tenuto nascosto e tagliò di netto i fili che formavano i capelli della creatura.
Grazie a quei sensori Reiko era tanto letale in battaglia, e sopperiva alla mancanza dei cinque sensi che giungeva irrimediabile con la trasformazione delle cellule del suo corpo. Ed erano l’unica cosa vulnerabile nella sua armatura.
Il pupazzo lanciò un grido acuto, che parlava di un dolore lancinante, e sempre gridando balzò all’indietro per contorcersi su se stesso. Doveva essere una tortura inimmaginabile.
«Credo che le mie mani sgozzeranno qualcun altro.» mormorò Reiko. Con le ultime forze che le rimanevano si gettò contro la propria nemica, rimasta paralizzata dallo stupore, e senza che ci fosse tempo neanche per la più breve colluttazione la kunoichi andò ad affondare la propria lama nella gola dell’avversaria, precisa e implacabile.
Eri emise un gorgoglio strozzato, soffocata nel proprio stesso sangue, la osservò piena d’ira e di sgomento, e spirò con una maschera di ferocia in volto.
Reiko si accasciò sul suo corpo, senza neanche avere l’energia di spostarsi di un millimetro. Ansimava; il suo sangue si mischiava con quello della donna appena morta, e aveva un odore che le dava il disgusto.
Eppure sorrise.
Il Generale non aveva ancora vinto.
 
 
 
Ciò che dice l’Autore
 
Finalmente riesco a pubblicare questo capitolo! Ci tenevo molto a farlo perché dopodomani parto, per una settimana non potrò scrivere assolutamente nulla – probabilmente morirò –, e quindi dovrà passare del tempo prima che io possa pubblicare di nuovo; volevo almeno lasciarvi con questo nuovo capitolo, che aspettate da fin troppo tempo.
Allora! Qui la pucciosità (pucciosaggine? <.<’) della mia coppietta cresce, altrochè. Almeno, secondo il mio perverso punto di vista, perché non è che sia molto romantica una lotta all’ultimo sangue dove due persone si massacrano di botte finché uno dei due non muore O.O
Ok, sto delirando. Ultimamente non sto per niente bene, e credo che questo sia palese ormai xD Ho dovuto impegnarmi per inventare un’abilità innata abbastanza fiqua per la nostra Reiko, e credo che mi sia venuta piuttosto bene… insomma, la adoro quand’è trasformata. Non fosse stato per quel bastardo del Generale…
Basta, mi fermo qui. In realtà, non è che sia soddisfattissima del risultato finale (avrei voluto rendere meglio le emozioni di Kakashi, ma non ci sono riuscita e questo è un po’ frustrante), ma spero che vi sia piaciuto lo stesso.
Un enorme ringraziamento a tutti quelli che mi sostengono, che seguono la storia, che recensiscono, perché i vostri pareri mi aiutano un sacco :33
Un bacione,
Glory.
 

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Capitolo 9
*** Lo Stelo Morente ***


Allora, hai intenzione di arrenderti?
 
Probabilmente era il buio a parlare.
 
Rispondimi.
 
Sovrastava qualunque altra cosa, sia il suono assordante del suo cuore che batteva, lento e fiacco, sia il suo respiro debole, che non desiderava altro che cessare di esistere.
Sono stanca.
Lo era davvero, nel significato più intimo e profondo della parola.
 
Quindi è vero, hai intenzione di arrenderti.
 
Chissà perché quella frase, detta con sufficienza, come se fosse stata l’ovvia conferma di supposizioni fatte molto tempo prima, ebbe il potere di far ribollire il suo orgoglio.
Ho fatto tutto quello che dovevo fare!
 
Morire sarebbe facile, vero?
 
Non sapeva che cosa ribattere, adesso.
Perché era vero, morire in quel momento le appariva terribilmente facile. L’unica cosa facile che ci sarebbe stata nella sua vita.
Lasciami in pace. Sto già morendo.
 
Può darsi. Ma sei sicura di voler lasciare il mondo in questo modo?
 
Lei non avrebbe voluto dargli ascolto. Avrebbe voluto che l’incoscienza le tappasse le orecchie in fretta, gli annacquasse i pensieri il prima possibile.
Non aveva mai avuto, prima, il privilegio di poter essere vigliacca, e avrebbe voluto assaporare la sensazione della codardia, per una volta.
 
Hai fatto una promessa.
 
D’un tratto, l’immagine della foto di un bambino frantumò il buio e andò ad incastrarsi nel suo cuore, sempre più lento.
Quello era davvero un colpo basso.
 
Il respiro di Reiko riprese vigore, e i suoi occhi tornarono ad aprirsi sugli abbaglianti raggi del sole che inondavano la pianura.
 
***
 
Kakashi strinse i denti, dietro la maschera, e piantò nuovamente i gomiti nel terreno per raggiungere il nascondiglio che era stato preparato apposta per lui.
Il suo occhio era puntato fisso sull’apertura in mezzo al tronco, non poteva permettersi di distogliere lo sguardo, mentre centinaia di pagliuzze rosse e blu gli danzavano attorno alla testa annebbiandogli la vista e annunciando uno svenimento che non avrebbe dovuto coglierlo prima che si fosse messo al riparo. Eppure continuava, lottando contro la debolezza, centimetro dopo centimetro, a strisciare sul terreno spingendosi con le braccia e con il ginocchio sinistro, portandosi dietro la gamba rotta come una zavorra.
Ci fu un momento in cui temette di non farcela, in cui si vide crollare poco lontano dal tronco, allo scoperto, preda di chiunque, ma quelle visioni gli diedero la forza necessaria per contraddirle, e in qualche modo riuscì a raggiungere la propria tana, ansimando.
Si accucciò all’interno del tronco, sistemò la vegetazione davanti all’apertura e appoggiò la testa all’indietro, tentando di controllare i giramenti e i conati di vomito. Tremava. La mancanza di chakra era davvero fatale, per lui.
Si portò una mano al volto, pulendosi il sudore che gli aveva imperlato la fronte. Non voleva pensare a Reiko. Non voleva pensare  al combattimento che stava affrontando, anzi, che probabilmente aveva già affrontato, nelle condizioni in cui si trovava.
Non voleva pensare alla propria ributtante inutilità, mentre lei si comportava con la stessa forza e dignità di un ninja leggendario.
Non si meritava la propria fama.
Arrivò un fruscio a salvarlo dall’autodistruzione che di certo i propri sensi di colpa gli avrebbero inflitto. Il jonin tornò a prendere il sopravvento, così si ritrovò a trattenere il respiro per attirare l’attenzione il meno possibile, cospargersi viso e capelli di fango con le dita tremanti per confondersi meglio con l’interno della corteccia, osservare tra le foglie l’esterno per capire quale potesse essere la fonte di quel rumore.
C’era una figura che avanzava tra il sottobosco, ma i suoi passi non erano quelli di qualcuno che non volesse farsi notare, erano passi pesanti, sfiniti, strascicati.
Il cuore gli balzò in petto.
«K… Kakashi…» mormorò la flebile voce di Reiko quando fece capolino tra le fronde, scarmigliata e insanguinata. I suoi occhi bianchi, attraversati dalla fatica e dalla sofferenza, spaziarono per la radura alla ricerca del copia-ninja.
«Reiko.» la chiamò lui, in un sussurro circospetto.
Lei chiuse per un attimo gli occhi e le sue labbra si contrassero in un impercettibile sorriso, tradendo un gran sollievo.
Giunse ai piedi dell’albero barcollando, e si permise di rovinare a terra solo dopo essersi infilata nel buco insieme al jonin.
Lui la prese per le spalle e la mise seduta con la schiena contro la parete, mentre dietro la maschera un vago rossore si faceva strada sulle sue guance. I gesti, concisi e pratici, erano gli stessi che avrebbe effettuato se si fosse trovato di fianco un compagno di missione, ma chissà perché avrebbe voluto che fossero più dolci, meno metodici, anche se non aveva la minima idea di come realizzare qualcosa di simile.
Le scostò il braccio sinistro, premuto contro il fianco, per scoprire uno squarcio profondo. Il suo sguardo si fece più freddo e affilato, come sempre quando analizzava ogni elemento per uscire da una situazione di estremo svantaggio, mentre intanto qualcosa, dentro di sé, si accartocciò dolorosamente alla vista di tutto quel sangue.
«Riusciresti a…» cominciò, ma s’interruppe subito. Era svenuta.
Le sue labbra si tesero, mentre si chiedeva come avrebbe potuto tenerla in vita nelle penose condizioni in cui anch’egli versava.
Per prima cosa gli venne in mente di fermare l’emorragia. Si strappò una gamba dei pantaloni fino al ginocchio, ricavandone alcune strisce di tessuto da usare come bende, per poi avvolgergliele attorno al busto con la pratica che aveva  acquisito sui campi di battaglia. Altro non avrebbe potuto fare.
Ebbe un sospiro e tornò ad appoggiarsi al tronco. Sarebbe venuto qualcun altro a cercarli? Reiko aveva pensato di sì, altrimenti non gli avrebbe indicato un nascondiglio tanto sicuro. Oppure aveva messo in conto di non sopravvivere al duello contro Eri…
La portata del sacrificio che la ragazza che in quel momento giaceva svenuta accanto a lui aveva compiuto lo aggredì con ferocia, e lui chiuse gli occhi, lasciando che divorasse ciò che del suo corpo distrutto era rimasto. Il buio, però, non gli dava il sollievo che cercava. Continuava a rivedere immagini che avrebbe voluto soltanto nascondere tra le pieghe più nere della sua maschera.
Un attimo prima una pioggia di massi ruggiva sopra di lui, pronta a schiacciarlo, un attimo dopo suo padre s’inginocchiava di fronte a lui piangendo. Vide il proprio sguardo perdersi in quello disperato di Rin, la sentì chiamare il suo nome, lasciò che cadesse ai suoi piedi, orrendamente morta; e il suo cadavere si tramutava in quello di Reiko, perso in un lago di sangue, che mormorava, nel bel mezzo dell’agonia della morte, E’ stato Kakashi Hatake.
È stato Kakashi Hatake.
Lo diceva Obito, da sotto le macerie che schiacciavano il suo corpo, gli offriva il proprio occhio, ma lo diceva,
È stato Kakashi Hatake.
Lo ripeteva suo padre, tra le lacrime e i singhiozzi, perso nelle proprie bottiglie di sakè, i capelli arruffati e sporchi, le mani tremanti,
È stato Kakashi Hatake.
Lo balbettava Rin, aggrappandosi al suo braccio – quello stesso braccio che le affondava nel petto –, cercando la vita che lui le aveva rubato, gli occhi castani, così limpidi e buoni, spalancati su di lui per trovare una spiegazione,
È stato Kakashi Hatake.
Lo sussurrava Reiko, infine, vestita di sangue come l’aveva sognata la prima volta, zeppa di quella tristezza struggente, eppure sorrideva, mentre gli mostrava lo squarcio che portava nel busto – solo allora si accorse, con orrore, che era da quello che usciva il sangue che indossava –, malinconica ma serena, puntandogli un dito contro,
È stato Kakashi Hatake.
 
Riaprì l’occhio, ansimando, tastandosi lo stomaco per accertarsi che non ci fosse il vuoto che invece percepiva.
Una lacrima gli cadde sulla guancia, ma s’affrettò ad asciugarla.
Si guardò intorno, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarlo a calmarsi, ma fuori dal loro buco la notte cominciava già a nascere dalle ceneri ardenti del tramonto e le ombre s’allungavano sempre di più.
Si girò verso Reiko allora, una sagoma abbozzata nell’oscurità nella quale si trovavano, e pensò stancamente che lei, se fosse stata sveglia, forse si sarebbe trovata a proprio agio nel buio. La vista offusca molte cose, gli aveva detto questo, quando si erano incontrati davanti alla tomba di Obito.
Era di certo vero. Per questo odiava così tanto il buio, perché si divertiva a mettere a nudo le sue paure, a sbattergli davanti agli occhi cose che non avrebbe mai voluto rivivere.
La guardò, perché lei era l’unica cosa reale che ci fosse all’interno di quella maledetta tana, l’unica solida, l’unica alla quale aggrapparsi.
Continuò a tenere l’occhio fisso su di lei, come un bambino che si rifiuta di distogliere lo sguardo da una piccola lucina per timore di trovare i mostri ad aspettarlo nell’ombra, finché le sue palpebre non si fecero fin troppo pesanti e caddero, da sole, trasportandolo nuovamente nel proprio limbo, dove avrebbe trovato soltanto dolore.
 
Reiko riprese coscienza poche ore dopo.
La nebbia ovattata che aveva annacquato i suoi pensieri, rendendoli lenti e goffi, si diradò pian piano, lasciando dietro di sé due sensazioni discordanti di struggente sollievo e imminente pericolo.
Sbatté le palpebre nel tentativo di aprire gli occhi, ma quando lo fece vide solo oscurità intorno a sé. Distese le gambe, saggiando i muscoli, e li ritrovò intorpiditi e doloranti. Almeno il sigillo aveva smesso con i suoi dolori lancinanti, ma sapeva di non doversene rallegrare, perché significava soltanto avere completamente tappata ognuna delle aperture per il chakra.
Si portò una mano al volto, se lo strofinò, mentre cercava di fare il punto della situazione.
Sicuramente quello era l’interno del rifugio che aveva scelto per Kakashi. Guardò la notte fuori dall’entrata con senso d’inquietudine. Erano passate parecchie ore, nessuno era venuto a cercarli? In quanto agli abitanti della Foglia non si stupiva – il sigillo dell’esule era una garanzia –, ma era certa che ci fosse qualcun altro, della squadra di Eri, sulle loro tracce.
Che cosa stava aspettando?
D’un tratto Kakashi, di fianco a lei, mandò un gemito e alzò di scatto le braccia, per coprirsi le orecchie con le mani.
Biascicava qualcosa.
Reiko puntò lo sguardo su di lui, con una tenerezza della quale non s’accorse. Ormai era diventato normale, per lei, assistere ai suoi incubi.
«Perdono… Perdono…»
Continuava a ripetere quell’unica parola, dimenandosi, senza pace, le sopracciglia aggrottate, la fronte sudata.
Così da vicino era ancora peggio che accovacciata sul ramo di un albero.
«…Perdono…»
Lei abbassò la testa, per guardare le proprie mani, ancora sporche di sangue.
«Kakashi…» sussurrò. «Smettila»
Sapeva benissimo che lui non poteva comprendere ciò che stava dicendo, e vigliaccamente si disse che sarebbe stato meglio così.
«Anche io ho chiesto tante volte perdono per il sangue ho versato. Che mi sono permessa di versare, solo perché le mie capacità mi rendevano in grado di farlo.» continuava a guardare le proprie mani, perché più che altro stava facendo una confessione a se stessa. «L’ho chiesto al buio, l’ho chiesto alla luna, l’ho chiesto a me stessa. Ma non serve a niente. Odiarsi non serve a niente. Datti pace.»
Solo allora si permise di alzare gli occhi su di lui, che dormiva, per fortuna.
«Datti pace, Kakashi.» ripeté, dolcemente.
Poi un forte tuono ruggì tutta la propria rabbia, e la prima goccia di pioggia cadde su una foglia a pochi centimetri dal tronco.
 
Kakashi si svegliò di soprassalto. Portò una mano ai pantaloni per estrarre un kunai, ma l’inconscia velocità che aveva adottato era troppo elevata per il suo corpo distrutto, e così fu costretto a interrompersi a metà del gesto, stringendosi il braccio colto da un crampo lancinante.
«Sono frequenti temporali di questo genere, qui da voi?»
Il jonin girò allora la testa, per scoprire una Reiko accucciata in un angolo, con le ginocchia tenute strette al petto e le braccia allacciate ad avvolgerle, che guardava fuori.
Avrebbe voluto dirle tante cose. Avrebbe voluto porgerle tutte le domande che lo assillavano, avrebbe voluto continuare a cercare di capirla, avrebbe voluto spendere tutto il tempo che avevano a disposizione in quel buco per conoscerla, come nessuno aveva mai fatto, ma non ne era in grado.
Era forse l’unica cosa che Kakashi Hatake non era in grado di fare.
«No.» rispose, infatti. «No, sono molto rari a dire il vero.»
Il scroscio della pioggia si fece più forte.
La ragazza non replicò nulla, ma continuò ad osservare il muro d’acqua che, fuori, stava scuotendo tutta la foresta nei pressi di Konoha.
Il suo volto era ancora più pallido di quanto non fosse normalmente, i suoi occhi cerchiati e segnati dalla stanchezza, tutto il corpo macchiato di sangue, suo o degli avversari che aveva combattuto. Le braccia martoriate esibivano beffarde i segni neri di un sigillo che lui non conosceva, ma di cui aveva già imparato la crudeltà.
«Come stai?» domandò.
La sua voce non tradiva nulla più che un interessamento professionale.
Lei abbassò gli occhi su di sé, in un riflesso istintivo.
«Il sigillo ha smesso di mandar dolore, ma non so quanto questo sia un bene. Credo voglia dire che ormai non posso più sentire il chakra. Le ferite…» si portò una mano al fianco, ma sussultò quando vi trovò le sue bende, molto raffazzonate. Solo allora lo guardò, con un’espressione di meravigliata gratitudine. «…Grazie.»
Tutta quella sorpresa ebbe il potere di imbarazzare molto il copia-ninja. Non aveva fatto nulla di particolare, anzi, era un dovere preservare i compagni di missione.
I compagni di missione…
Un lampo giunse a illuminare prepotentemente l’interno del tronco.
Lei sospirò.
«Dovremo attendere tutta la notte…»
Kakashi non disse nulla, guardò fuori invece, dove le ombre notturne si mescolavano con il fitto delle gocce di pioggia, rendendo opalescente il manto nero nel quale la luna amava avvolgersi.
«Reiko…» cominciò, e si pentì subito dopo di aver detto il suo nome. Soprattutto perché, ormai, non poteva più tirarsi indietro. «Tu chi sei?»
La sentì, per un attimo, irrigidirsi. Poi però tornò rilassata; la vide sorridere, quasi divertita, eppure con una punta di amarezza.
«Sono l’assassino al quale era stato affidato il compito di ucciderti.»
Alzò gli occhi su di lui, incontrando il suo sguardo, con coraggio, e lui vide che era pronta a qualsiasi reazione.
Quell’ammissione rendeva ancora più acuta la disarmante consapevolezza di a cosa lei avesse rinunciato. Per un ninja il conseguimento della missione era tutto; lui lo sapeva meglio di chiunque altro. Che cosa mai l’aveva indotta a ribellarsi contro i propri stessi compagni?
«Faccio parte di un corpo speciale e segreto tra i ninja del mio Villaggio. Preleviamo corpi di persone dalle capacità fuori dal comune e le portiamo ai laboratori perché vengano esaminati dai nostri scienziati.»
Kakashi ebbe un moto di stupore mentre capiva.
«Io ero il nuovo esperimento.»
Lei annuì e abbassò gli occhi.
«Sia io che… Daisuke avremmo voluto chiederti scusa. Il sigillo…» s’interruppe.
Il jonin non aveva bisogno di ulteriori spiegazioni, avendo assistito in prima persona al potere dei simboli che la ragazza esibiva sulle braccia.
Tornò ad osservarla, ma il suo sguardo non sarebbe mai più stato quello di prima. Come avrebbe potuto sovrapporre quell’immagine, una ragazza ferita e addolorata per tutto il male che aveva sparso, con quella della macchina da guerra, del suo corpo d’acciaio, degli artigli lunghi e affilati che le spuntavano dalle mani?
Avrebbe avuto anche lui quello stesso aspetto, si chiese d’un tratto, agli occhi di una persona che avesse visto i suoi incubi?
La pioggia continuava a scrosciare, incurante di tutto e di tutti.
«Perché l’hai sfidato, allora?» non riuscì ad impedirsi di mormorare. Sarebbe riuscita ad ucciderlo, sfruttando tutta la potenza della sua abilità innata? Kakashi era convinto di sì. «Perché hai voluto salvarmi?»
Lei si rabbuiò e puntò lo sguardo su un sassolino a pochi centimetri da sé. Non disse nulla.
Ma il suo silenzio scottava più di mille parole, perché lui aveva bisogno di una spiegazione. Aveva bisogno di qualcosa che potesse motivare le sue azioni, altrimenti era certo che sarebbe impazzito.
 
Reiko voleva continuare ad ignorare la domanda del copia ninja, lo voleva con tutta se stessa. Eppure lui continuava a fissarla, a puntare su di lei l’intensità del suo sguardo, e lei sapeva che non sarebbe riuscita ancora per molto ad evadere da quelle sue domande così dirette.
Non lo guardava.
Perché lui era stato creato per essere un ninja perfetto. Freddo, disciplinato, il migliore dei comandanti. Non avrebbe potuto far altro che disprezzarla, se avesse conosciuto cosa l’aveva spinta a tradire il proprio Villaggio.
«Perché?» sentì ripetere, e allora quello sguardo puntato fisso su di lei divenne semplicemente troppo bruciante perché potesse far finta di niente.
«Ho visto troppa gente morire, Kakashi!» sbottò, guardandolo finalmente. «Troppa, te lo assicuro, troppa. E non avrei…» strinse i pugni. «Non avrei mai sopportato di assistere anche a…» alla tua morte, concluse, ma non riuscì a dirlo.
 
Il gelo e l’indifferenza che coprivano perennemente la sua figura come un velo di brina s’infransero così, di botto, mentre lei parlava, e lui spalancava l’occhio, e il suo stomaco si contraeva in spasmi a volte aspri – e allora seppe di provare terrore –, a volte dolci – e non riuscì a dar loro un nome, neanche impegnandosi.
La guardava, senza avere neanche il coraggio di respirare, perché all’improvviso non c’erano più le scure pareti di un tronco attorno a loro, ma quelle bianche e immacolate di una casa; e lui non era più il copia ninja, ma un bimbo che osservava i lividi del padre e non capiva.
 
«Perché?! Perché ti fanno questo?!» gridava il bimbo, con le lacrime agli occhi, dovute soltanto a una rabbia bruciante.
«Non devi arrabbiarti.» mormorava il padre. Il suo tono, come il suo sguardo segnato dalle occhiaie, era apatico e stanco. «Loro hanno ragione.»
Kakashi si fermò, osservando spaventato l’uomo nel quale a stento riconosceva suo padre. Non voleva capire le sue parole.
«Come?»
Sakumo annuiva.
«Loro hanno ragione, Kakashi. L’intero Villaggio è in pericolo, e la colpa è mia. Ho fallito, e chi fallisce merita tutto questo.»
Il bambino si portò una mano alla bocca, le cui labbra tremavano vistosamente pur essendo coperte dalla maschera, e scosse la testa con veemenza.
«N…o…»
«Mi dispiace tanto, figliolo.»
Il dolore che provava aveva il potere di rendere ancora più acuta la sua rabbia. La sua vista divenne distorta e annacquata, mentre urlava con tutto il fiato che aveva in corpo.
«Non dovevi salvarli! Non dovevi! Perché l’hai fatto? Dimmelo! Perché?»
Sembrava impazzito; era strana, la calma di Sakumo, a confronto, che sorrideva di un sorriso vuoto.
«La verità» sospirò, prima di andare stancamente a sedersi al tavolo, «E’ che ho visto troppa gente morire». Prese la bottiglia di sakè, ancora aperta, e ne versò il contenuto in un bicchiere già mezzo pieno. La mano gli tremava leggermente. «Non sarei mai riuscito a sopportare di assistere anche alla loro morte.»
Poi bevve, d’un fiato, e si dimenticò della presenza del figlio nella stanza.
 
Tornò bruscamente alla realtà, perché non voleva ricordare oltre.
Ma era già stato abbastanza. Perché lei, se ne accorse solo allora, lei era identica a suo padre.
Scosse la testa.
«No…»
«Kakashi, ma…»
«No!» esclamò.
Sembrava impazzito.
«No, non farlo, non devi!» Nel suo sguardo brillava il panico. «Te ne pentirai, non farlo! Sei… sei ancora in tempo…! Puoi ancora portare a termine la missione!»
«Calmati!»
Anche lei aveva alzato la voce.
Solo allora il terrore che l’aveva dominato si bloccò, come congelato, e lui rimase a guardarla con il cuore in gola.
Chissà cosa avrebbe pensato, adesso. Che era uno squilibrato. Un folle. E probabilmente non avrebbe neanche avuto torto.
Eppure i suoi occhi non erano intimoriti né inorriditi. Erano fermi e determinati.
«Non potrò mai pentirmi di aver salvato qualcuno.»
Quella sua frase, detta senza neanche un briciolo di esitazione, fu un forte schiaffo alla frenesia e al panico che l’avevano divorato. Continuò ad osservarla, attonito.
«In tutta la mia vita tutto ciò che ho fatto è stato uccidere. Non mi hanno mai dato il privilegio di salvare, nemmeno le persone alle quali ero più affezionata. Adesso, però, me lo sono preso da sola e non potrei pentirmene, mai, nemmeno con cento vite a disposizione. Nemmeno se per questo mi uccideranno, nemmeno se per questo verrò etichettata per sempre come una traditrice del mio paese.»
Il grumo di terrore che gli era rimasto ancorato dolorosamente in gola si sciolse in quel momento, e lui recuperò la lucidità, l’autocontrollo, e una consapevolezza.
In quella donna c’era tutta la bontà, tutto il tormento incompreso di suo padre, e allo stesso tempo quella forza d’animo che a lui era mancata per sopravvivere a se stesso.
Comprese di amarla, amarla per davvero, amarla nel senso più recondito e controverso della parola, amarla come pochissime persone aveva amato, prima. Amarla come non amava da troppo tempo.
Si protese verso di lei, afferrandola per un braccio e attirandola a sé. Lei gli lanciò uno sguardo confuso e stupito.
«Reiko…» cominciò, ma il resto gli si attorcigliò goffamente in bocca, e non seppe dire altro.
Ma lei capì lo stesso, e sul suo volto si aprì un sorriso dolce. Non l’aveva mai vista sorridere così.
Gli portò le braccia al collo, e con delicata lentezza lo cinse in un abbraccio, affondando il viso nella sua spalla.
All’inizio Kakashi ne fu stupito, ma poi decise di lasciar perdere la razionalità, almeno in quel momento, e la strinse a sé.
«Sono una stupida. Credo di essermi innamorata dell’uomo che devo uccidere.» sussurrò.
Il jonin sorrise.
Si portò una mano dietro al collo e prese quella di lei. La condusse lentamente fino al suo viso, dove cominciava la maschera, e insieme a lei ne afferrò il bordo.
D’un tratto, il timore e la vergogna presero il sopravvento. L’avrebbe guardato a lungo? Avrebbe detto qualcosa?
Ma, quando lei ebbe sollevato la testa, vide che aveva gli occhi chiusi e un lieve sorriso in volto.
Tutti i dubbi che gli erano sorti si sciolsero come neve al sole, quando capì che lei aveva compreso la sua decisione di coprirsi il viso, e che voleva rispettarla.
Continuò a guidare la mano di lei, finché finalmente non lo smascherarono. Insieme. Nel momento in cui la maschera cadde, anch’egli abbassò le palpebre, e allungò il collo verso di lei.
Quando le loro labbra s’incontrarono, furono soltanto sensazioni.
Entrambi i loro volti erano caldi, provati da tutto quello che erano stati portati ad affrontare, si trasmettevano in quell’unico contatto passione, angoscia, sollievo, commozione, e un amore che nessuno dei due aveva mai provato, talmente forte da stordire i sensi.
Le loro labbra si schiusero all’unisono, si cercarono, mentre lui sentiva le mani di Reiko affondate tra i capelli, e intanto teneva stretto il suo corpo minuto, come se non avesse avuto altro scoglio al quale aggrapparsi – e forse era proprio così.
Si lasciarono andare che ansimavano appena.
«Non merito l’amore di una donna come te.» mormorò.
«Kakashi, tu meriti molto più di quanto non ti conceda.»
Le accarezzò i capelli, mentre lei tornava a sollevargli la maschera, a sistemargliela con cura, prima di poter aprire di nuovo gli occhi ed incontrare il suo sguardo.
«Grazie.» disse il jonin. Aveva sperato che quell’unica parola fosse sufficiente per esprimere tutta la gratitudine che provava nei suoi confronti, ma non ne era che la pallida imitazione. «Grazie, davvero, Reiko… grazie.»
La kunoichi stava per rispondere, quando un tuono scosse l’oscurità che li avvolgeva, molto più profondo e fragoroso di quelli che l’avevano preceduto.
Lei alzò di scatto la testa e scrutò vigile l’entrata, come se presagisse già guai in arrivo.
Non mi ha detto qualcosa, capì allora il jonin, e un campanello d’allarme cominciò a trillare nella sua testa.
 
«Reiko Iwakiyo.»
 
La voce riecheggiò lungo tutta la foresta, e sembrò essere nata dal tuono stesso.
 
«Il Generale è molto arrabbiato con te.»
 
 
 
 
Ciò che dice l’Autore
 
…Cosa mai potrei aggiungere dopo un capitolo come questo?
Ammetto, sarò ingrassata di quindici chili tanto è lo zucchero che c’ho messo; adesso avete scoperto come sono in versione romantica – ne siete spaventati anche voi, vero? xD.
È che, in effetti, prima d’ora in questa fic di romanticoso non c’è stato nulla, ci si chiedeva a che cosa fosse dovuto il secondo genere messo nella presentazione…
No, dai, scherzi a parte, adoro questo capitolo con tutta quanta la mia pucciosaggine *w* Finalmente ho potuto descrivere un bel bacio di Kakashi (ho sempre voluto farlo :3), finalmente si sono dichiarati, finalmente KakxReiko esiste! (nella mia testa, ma esiste.)
Mi sono divertita a mettere, qua e là, qualche riferimento a una raccolta di flash che ho pubblicato qualche tempo fa in questo fandom riguardo alla maschera di Kakashi: la parte in cui lui chiede “perdono nel sonno” è spiegata in quella fic, e sempre in quella fic ci sono altri due flashback con Sakumo.
Adoro scrivere di Sakumo. Si vede forse? Non riesco a far nulla che trac! ce lo infilo. Tanto per rendere un pochetto meno zuccheroso tutto l’insieme.
Per quanto riguarda dubbi&paure – che ci sono sempre, costantemente, ogni volta che pubblico qualcosa –, rendere plausibile il lato tenero e innamorato di Kakashi è stato davvero un lavoraccio. Ho rivisto alcune puntate dell’anime, ho spulciato la collezione di manga per capire bene come sia il suo modo di fare nei momenti in cui bisogna tirar fuori l’emozioni – mooolto pochi, se si tratta di lui – , mi sono impegnata per renderlo il più IC possibile, e spero di esserci riuscita.
Naturalmente, a voi la parola… devo ringraziare un sacco chi segue e recensisce questa storia, mi date davvero lo sprone a continuare a scriverla, senza contare poi che mi aiutate molto nel farlo. Grazie :D
Un bacio, al prossimo!
Glory.
 

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