Due Lune

di Ely79
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** II ***
Capitolo 3: *** III ***



Capitolo 1
*** I ***


I
I

Nel giardino ogni cosa è immobile. Stanotte non c’è un alito di vento che faccia stormire le foglie della siepe o che sparga la nota intesa delle lavande nelle aiuole. Gli steli dell’erba stanno allineati in una muta parata. Un lampione occhieggia impaurito dietro le fronde d’inchiostro di un albero. Un'auto passa svelta, lontanissima, invisibile. Tutto è come cristallizzato in un fotogramma fatto di pezze di velluto scure drappeggiate sul mondo.
Mi siedo, levando il muso al cielo dove Lei brilla ancora. Inspiro profondamente, tentando di trovare il Suo odore nell’aria della periferia addormentata. La osservo per lunghi istanti, arrabbiandomi perché l’alba già rosicchia il cielo e ci divide un’altra volta. Guaisco piano un saluto, inchinandomi, allungando l’ingombrante mole del mio essere fino a terra.
Odio l’estate con le sue notti troppo brevi e piene di luce. Preferisco l’inverno, con il suo gelo penetrante che mi obbliga a cercare la Sua luce per potermi scaldare.
Camminando semieretto, abbandono l’alone argenteo per entrare in casa attraverso la portafinestra aperta. Avanzo lentamente verso il divano, illuminato da un piccolo disco di luce dorata. Là, raggomitolata nel suo angolo preferito, c’è una donna. La mia compagna umana. Selene. Legge un libro con indosso solo una canottiera e le mutandine coordinate per colpa dell’afa notturna. O almeno è così che diceva ieri, prima che uscissi. Ha l’aria di chi si è svegliato da un sonno agitato, i capelli biondi arruffati e le labbra imbronciate. Finge di non vedermi.
Mi accovaccio accanto a lei, la testa incassata fra le spalle gigantesche, le ginocchia alte, gli artigli anteriori che ticchettano impazienti.
Selene volta una pagina, assorta.
Emetto un lungo grugnito che termina con una specie di sbuffo.
Continua a leggere, imperterrita.
Comincio ad innervosirmi.
Stringo gli occhi in una smorfia impaziente e mi risistemo in quella scomoda posa, battendo con forza i polpastrelli sul pavimento.
Questi sono i momenti in cui l’assenza di una coda si fa sentire. Se l’avessi, potrei sbatterla furiosamente sulle piastrelle fino a farci un buco.
Alla fine, stufo di aspettare, allungo la testa verso la sua. In questo momento sono abbastanza grosso da obbligarla a reclinare indietro il capo e contemporaneamente ad allontanare le mani nella direzione opposta.
«Oh, andiamo! Almeno fammi finire il capitolo!» sbotta, fingendosi arrabbiata e tentando di recuperare quel dannatissimo affare.
Ringhio scoprendo le zanne a pochi centimetri dalla sua faccia e, per ribadire chi abbia il comando, comincio a salire sul divano, una zampa alla volta. Le imbottiture soffiano di disappunto e le cinghie all’interno si tendono con rabbia sotto il mio peso.
«E va bene, hai vinto, brutto lupo cattivo. Leggerò domani» sospira allungando le gambe.
Mi sistemo su di lei, tentando di trovare spazio tra i cuscini per infilare le zampe. Dannazione, sono enormi, me lo ricordo sempre nei momenti sbagliati. Avrei dovuto afferrarla e trascinarla giù di lì, ma ormai ci siamo, ho quasi trovato un incastro perfetto. Scrollo i posteriori, scoprendo di non potermi acquattare come avrei voluto: la zampa destra deve necessariamente rimanere a terra.
«Vacci piano o lo sfondi» suggerisce.
In risposta, agito i fianchi contro i suoi, gli occhi fissi nelle piccole iridi umane mentre mi lecco il muso con aria famelica. Un basso latrato fa vibrare il mio torace.
La luce della Luna si riflette sul tavolino di vetro lì vicino e rimbalza nei miei occhi. Sento nelle orecchie la voce della Sua benedizione:
È tua, ti appartiene. È il dono con cui contraccambio la tua devozione filiale.
L’allusione va a segno, lo capisco dalla sua faccia.
«Non ci pensare neanche» minaccia accarezzandomi, risalendo piano dalla punta del naso, passando fra i miei occhi, su, fino alle orecchie.
Mi strappa un guaito pizzicandone una con forza.
«Per ricordarti che certe cose te le puoi permettere solo da umano» mi ammonisce.
Un’altra voce le fa eco con una risata argentina, la Sua voce. Mi volto a guardare la portafinestra. Aloni iridescenti brillano sui vetri. Dall’interno non riesco a vederLa direttamente, c’è solo la Sua immagine imprigionata e deformata nel tavolino, la Sua voce nelle mie orecchie a punta che si agitano senza posa per captarla.
Selene comincia a grattarmi tra la gola e la parte molle sotto la mandibola. C’è un punto preciso da quelle parti, che ha scoperto e conosce solo lei; un punto che scatena un torrente di piacevolissimi brividi, tanto intensi da paralizzarmi. Gli artigli della posteriore destra ticchettano ad un ritmo convulso sulle piastrelle, sembrano nacchere.
Prendo fra i denti un lembo della canotta, la strattono un poco, solo per giocare, poi comincio a tirare delicatamente verso l’alto per sfilargliela. Delicatamente quanto può consentire questo corpo immenso e smisuratamente forte, contratto in una posizione scomoda e precaria.
«Ehi… piano…» si lamenta lei, faticando a nascondere un sorriso.
Riesco ad infilare il naso sotto la stoffa e spingerla un po’ più in su, fino a raggiungere il suo seno. Il tepore della sua pelle nuda ed il profumo che emana sono un invito prepotente, elementi troppo concentrati nella sottile lama d’aria sotto al tessuto.
«Oh, ma che bella museruola ti sei messo. Ti dona il cotone blu col pizzo bianco» ridacchia, sfiorandomi la punta del naso con un bacio.
Sbuffo e grugnisco, agitandomi. La stoffa arricciata sul naso mi dà fastidio, sento il pelo incastrato fra le pieghe che m’impedisce di sgusciare via senza strappare tutto. Tuttavia, quest’inconveniente ha i suoi lati positivi: in questa posizione, ad esempio, lei non può riprendersi quel dannato libro, né trovare altre scuse per ignorarmi. E non voglio essere ignorato. Voglio che mi guardi, che mi tocchi, che mi parli. Io voglio lei.
Inspiro profondamente, la mia cassa toracica immensa e massiccia che preme contro Selene, la schiaccia fra i cuscini, la pelliccia le fa il solletico. Sporgo la lingua tra le zanne, implorante.
«Spiacente. Ora te ne resti lì buono buono finché non finisco il capitolo» dice, cercando di allungare la mano per recuperare il libro.
Il gioco mi ha stancato e il contatto con il suo corpo mi fa impazzire almeno quanto l’impossibilità di tastare la tonda superficie della Grande Madre Celeste. Ringhio irritato, piazzando una zampa aperta sulla spalliera del divano. Gli artigli affondano pericolosamente nel rivestimento, minacciando di lacerarlo. Selene s’immobilizza un istante e ritrae il braccio con molta cautela.
Scalcio ed il volume finisce sul pavimento con un fruscio di pagine sparse, ma ancora integro. Do un’altra spinta con la testa e nel frattempo ricomincio a muovere le zampe, strusciandole contro i suoi fianchi per sfilarle il resto. La Luna non ha bisogno di vesti per mostrare la sua bellezza, persino le nubi che la oscurano di tanto in tanto scivolano via, lasciandola sola, libera, lucente. Nuda. Voglio che anche lei si mostri come la Luna, la mia altra luna.
«Calmati. Faccio io» obbietta sottovoce, sfilando lentamente la canottiera.
Nell’aria si libera la fragranza per il corpo che usa dopo la doccia. Tè verde. Sa fare bene i compiti la mia ragazza: quella che ha addosso non è una di quelle orrende porcherie chimiche, fasulle e zeppe di componenti che mi feriscono il naso. L’olio che la riveste è una rugiada deliziosa e invitante, fresco e pungente, stuzzicante. Perfetto nella sua assoluta naturalezza.
Strofino muso e gola sul suo petto, faccio scorrere con attenzione le mie dita ibride su di lei, beandomi della sensazione di tenera intimità che riesce a filtrare attraverso la pelliccia stregata. Ascolto il suo respiro aumentare leggermente il ritmo, presagio di ciò che succederà a breve. Godo del contrapporsi dei pieni e dei vuoti delle sue forme, che sembrano disegnare uno di quei paesaggi collinari dove un licantropo può passare le notti intere a correre e cacciare senza sosta, ebbro di gioia e di Luna. Lascio che affondi le mani nella pelliccia, seguendo linee che la mente lupina non comprende ma il cui senso è intuito da quella umana. Il suo sguardo fruga il mantello stregato, in cerca dell’altro me, il Figlio della Luna nella sua forma incompleta.
Un artiglio aggancia lo slip, tirandolo. Gesto involontario: proprio non riesco a stare sul nostro divano quando sono trasformato. Acquisto un numero di taglie imprecisato ed ingestibile, mi sento legato, bloccato da pastoie invisibili.
«No, ti prego… l’ultimo me l’hai distrutto!» geme, cercando di calmare la frenesia che il fastidio di quel debole laccio mi procura. «Per favore! Questo completo mi piace così tanto!»
Guardo l’artiglio tendere la stoffa, le orecchie appiattite indietro. Muovo piano le dita, ascoltando la sua reazione di tesa impazienza. Basterebbe un nulla, uno scatto appena accennato, e la stoffa si strapperebbe, lasciandola finalmente nuda. Una dolce luna di carne nella luce della sua celeste omologa, bisognosa delle cure del suo devoto lupo mannaro, calda e consapevole vittima sacrificale del mondo antropico.
L’eccitazione mi confonde, mi agita, scaricando nel mio sangue desideri e fantasie.
Inizio a leccarle il collo, affettuoso, ma l’istinto predatorio avanza già verso i passi successivi: annusarla, addentarla piano sulla spalla, stringerla, leccarla di nuovo, voltarla, bloccarla sotto di me. Prenderla.
La Luna imprigionata nel piano di vetro ha un guizzo, il riverbero latteo mi ferisce con violenza gli occhi, richiamandomi all’ordine. I lupi mannari non si uniscono agli esseri umani mentre vivono la forma completa. Sarebbe improprio, indecente, contro natura, oltre che smisuratamente doloroso e rischioso. Li uccideremmo senza neppure accorgercene.
Sfilo la zampa, cercando di fare più attenzione possibile. Selene mi aiuta e tira un sospiro di sollievo quando l’elastico torna incolume ad abbracciare il suo fianco. Mi passa le mani sul petto, sulle spalle, torna a sfiorare il punto segreto in segno di ringraziamento.
Uggiolo come un cucciolo festante.
«Dove ti sei rotolato? Sai di erba appena tagliata» chiede, nascondendo la faccia contro il mio collo prima di sgusciare via dal divano.
Sa che non le risponderò. Ora perché mi è impossibile e più tardi perché mi è proibito. I luoghi dei raduni sono segreti, anche per i nostri partner umani. Solo noi e la Grande Madre li conosciamo.
La seguo, dandole colpetti col naso sul sedere; schiocco le mascelle fingendo di volerlo addentare. Ride accondiscendente imboccando le scale che portano alla nostra stanza.
Odio i gradini, i loro spigoli innaturali, la pendenza costante altrettanto artificiosa, la ridicola balaustra che potrei sfondare con una spallata ben assestata, la parete fredda sull’altro lato. Odio questa forzatura, ma è necessario spostarsi di sopra. Non possiamo correre il rischio che qualcuno veda la metamorfosi. Già i minuti passati di sotto sono stati un rischio.
Mi impongo di concentrare l’attenzione su Selene che mi precede di due passi, lasciandosi dietro una traccia di calda, confusa emozione. Spalanco la bocca per raccogliere ogni voluta, ogni goccia che dalla sua pelle si disperde nell’aria. È un richiamo silenzioso e potente, che obbliga l’animale all’inseguimento, ad azzerare le distanze per potersi abbeverare a quella chiamata.
Fulmineo, infilo il naso in quel piccolo ritaglio tra il suo corpo e le gambe, un minuscolo vuoto all’interno della sua figura, che sembra fatto apposta per questo. Lei sobbalza, cacciando uno strilletto. Non la sento, né mi accorgo subito del tremito che la percorre: l’odore del suo corpo, della porta che conduce al suo interno umido e accogliente, la caverna pulsante di vita che mi attende… è un profumo che mi stordisce. Una scarica furiosa di adrenalina mi attraversa e devo dare fondo alla mia devozione per non cedere e ricominciare a giocare con lei.
«Ma sei matto? Vuoi farmi cadere?» protesta poco convinta.
Siamo lì, fermi sulla scala, un lupo gigantesco con la testa appiccicata, letteralmente infilata fra le sue gambe di donna che minacciano di cedere da un momento all’altro. Non so se sia l’eccitazione o il timore atavico verso il selvatico che ogni essere umano si porta dentro. Il problema è che, di riflesso, la mia indole di cacciatore davanti alla preda inerme dilaga. Sarebbe così facile spalancare la bocca ed affondare le zanne nella morbidezza invitante della sua carne.
Respiro con calma. Lei anche. Immobili. Un unico animale mostruoso e vibrante, donna-licantropo-coppia-amanti.
I secondi scorrono indolenti nella semioscurità che si affievolisce con l’avanzare dell’alba.
«Vogliamo star qui per molto?» riesce a dire finalmente.
Accenna a fare un passo, ma la blocco afferrandole la caviglia. Riporto il piede sul gradino, più in là di dov’era prima. Annuso la sua pelle, scaldandola, salendo e scendendo lungo la linea nascosta delle ossa.
Spingo avanti la testa, scivolando sotto di lei, superando l’arco delle sue ginocchia fino a farla sedere sulle mie spalle.
La guardo da sotto in su, aspettando la sua approvazione.
«Romanticone» sorride, grattandomi fra le orecchie.

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Capitolo 2
*** II ***


II
II

La camera sembra sempre così piccola quando il lupo abita il mio essere. Percepisco l’armadio incombere da un lato, il bordo del letto che stringe dall’altro. Li sfioro con le ginocchia, mentre sto accovacciato nell’ombra.
Selene è inginocchiata davanti a me, nuda, alla mercé di una creatura immensa e ferale che potrebbe sbranarla in pochi bocconi. Lei però non ha una briciola di timore addosso, posso sentirlo distintamente dal suo odore. Il suo sguardo trasuda fiducia incondizionata. Aspettative d’innamorata e d’amante si alternano sul suo viso. Proprio come la Luna non teme le mie zanne, così è per lei: se la prima si fa scudo di una distanza che la rende intangibile, la seconda si fa forte invece della nostra vicinanza.
Mi abbraccia, passando lentamente le mani nel collare di pelliccia per poi scendere sul petto, sulla schiena, e risalire verso le spalle, fino alle guance. Piano, con assoluta calma e delicatezza. Sono gesti studiati per ammansire il lupo, la parte animale del mio io che rifiuta di addormentarsi.
Non posso fare a meno di lei e lei non può fare a meno di me. È una reciproca dipendenza quella che si instaura tra l’essere umano e il licantropo. Qualcuno ha teorizzato scientificamente che dipenda da ormoni primer
1 che creano un circolo vizioso di domanda e risposta nei due esseri. Più uno ne riceve dall’altro, più ne produce, obbligando il secondo ad assorbirne per riprendere daccapo il ciclo.
Altri giocano sull’ancestrale dicotomia bene-male, giorno-notte, yin-yang. Dualità assoluta e inscindibile. Ho sentito persino rispolverare il vecchio Platone e lo stramaledettissimo Mito di Aristofane. Saremmo due parti scisse, destinate a cercare la metà perduta, senza tuttavia poter tornare ad essere l’unicum originario. Ridicolo.
Io ho una versione personale che ritengo migliore. Le femmine vivono sotto il costante influsso della Grande Madre, è un dato di fatto. Noi maschi lo percepiamo dentro di loro, nella pelle, nei muscoli, nel sangue. Nel respiro. Nel cuore. Nell’intima fecondità che pervade ogni anfratto del mondo meraviglioso e misterioso che è il loro corpo. Viceversa, il dono che scorre dentro di noi le spinge ad avvicinarsi per impossessarsene, per ritrovare una completezza differente da quella del licantropo. L’integrità di un ciclo vitale antico e potente come la vita stessa, una totalità spirituale più pura e intoccabile, che sgorga da un atto la cui castità è legata al punto di vista con cui lo si giudica. Per questo non sappiamo fare a meno l’uno dell’altra: cerchiamo di completarci, rubandoci a vicenda quel po’ di Luna che manca per raggiugere l’unità primigenia, in un gioco infinito basato sul prendere e dare.
Selene tiene delicatamente la mia testa tra le mani, sollevandola. La pelle tira, frizza, punge mentre la belva comincia a ritrarsi dal corpo umano. La sensazione è quella di uno strappo violento, dell’espulsione forzata dal grembo materno. Il distacco non è mai indolore, ma neppure ti fa contorcere in preda al delirio come vorrebbe Hollywood. O forse sono due secoli di mutazioni a darmi quest’impressione, chissà.
Il muso si alza, staccandosi dalla mia faccia. Sento l’aria toccarmi la pelle con punte gelate. Niente spilli o aghi, questi sono chiodi. I chiodi di un’altra realtà fatta di altre regole, altre logiche, altre forme, in eterno contrasto con quelle naturali e sincere della Luna.
Non riesco a capire come Selene possa sentirsi attratta da me in questi attimi. So che il mio volto è diverso, stravolto dalle ore di trasformazione che l’hanno irrigidito, tirato, affilato, incupito. Lo stesso vale per il mio corpo, una massa legnosa e sudata di muscoli tesi e nervi ipereccitati, permeati di energie residue che reclamano sfogo.
Slaccia una ad una le fibbie che trattengono la pelliccia su di me, con cautela, usando tocchi lievi. Deve muoversi lentamente o potrebbe scatenare in me una reazione violenta: la mentalità animale che ancora prevale è all’erta, sa che sta per essere messa a tacere e vuole combattere per non andarsene. Vuole mantenere il controllo.
Il mantello stregato aderisce alla mia pelle con forza, sembra aver messo radici nella carne. Con calma e decisione, Selene lo scolla da me. L’intensità degli strappi che sento mi danno la misura della stanchezza e del potere che ancora la Luna esercita su di me. Vorrei continuare ad indossare quel manto, eppure una voce sta gridando che devo liberarmene. È un richiamo che ripete le mute suppliche che filtrano dalle dita amorevoli della mia Selene.
In questo momento non sono né il suo uomo né la creatura che l’ha raggiunta nel soggiorno. Sono un ibrido impreciso prodotto dal disgregarsi di un ibrido perfetto.
Nessuno può immaginare quale immenso gesto di fiducia sia permettere ad un essere umano di spogliarti del tuo io animale. È un momento di grande vulnerabilità per entrambi. Siamo vicini, troppo vicini.
Tremo. La testa oscilla. Conati strizzano rabbiosi lo stomaco. La camera si sdoppia, esplode in macchie sovrapposte di varie tonalità di oscurità fosforescente. Ansimo, tentando di spingere più aria possibile nei polmoni improvvisamente minuscoli, rattrappiti, rigidi. Gli organi interni vanno a riposizionarsi nella sede d’origine, scivolando faticosamente gli uni sugli altri, pesanti ammassi vischiosi e bollenti, sgonfiati della potenza che li aveva inondati.
È dannatamente difficile riallineare i miei due io, così complicato abbandonare una forma per riversarsi integralmente nell’altra, quando non hanno alcun punto in comune. Non c’è un contorno che combaci, nessuna analogia dimensionale, nessuna immediata somiglianza. Persino i colori che ci tratteggiano fanno parte di due tavolozze distinte.
Un brivido gelato scende dalla testa fino ai piedi contratti, facendomi chinare in avanti, fin quasi a sbattere la testa sul pavimento. Raddrizzo a fatica l’anatomia umana, lottando fra le contrazioni involontarie e le ultime ondate di crampi. Apro gli occhi su un mondo sfuocato che ondeggia da un lato all’altro, dove l’unico appiglio sicuro, l’unica certezza, è la figura chiara e trepidante che mi sta di fronte.
L’afferro con uno scatto inumano, stringendomela addosso, baciandola con foga, quasi volessi divorarla, nutrirmi dell’amore lunare che porta dentro. Selene contraccambia timidamente, in balia del mio assalto.
Sollevo entrambi senza alcuno sforzo, superando la breve distanza che ci divide dal letto. Rotoliamo fra le lenzuola, un groviglio di arti, labbra, carezze, baci, respiri, pelle accaldata, desiderio, che ci rende indistinguibili l’uno dall’altra. A stento mi rendo conto di essere già curvo sul suo dorso, sprofondato in lei. Al mio io selvatico non interessa tener conto di questi dettagli, vuole solo placare questa fame di carne palpitante che lo fa spingere e ansimare. Una fame che pur essendo organica è quasi onirica, spirituale; il reciproco divorarsi di anime che tentano nella loro battaglia di ricondursi ad un’identità tangibile.
Il primo amplesso è il peggiore per tutti e due. C’è troppa foga, troppa ansia, troppa fretta, troppo animale nelle mie vene perché uno di noi possa godere appieno di quei momenti. Somiglia più ad una rissa o a qualcosa di peggio; una violenza appassionata e sfrenata, istintiva al punto tale da essere incontrollabile.
È una forma di frenesia alimentare alla rovescia, che ottenebra la mente ed al tempo stesso le da respiro, morso dopo morso, man mano che gli orgasmi mi nutrono svuotandomi.
Torno a rendermi conto di quel che i miei muscoli indeboliti stanno facendo, ritrovo l’imperfezione del bisogno affettivo e spirituale dell’essere umano. Riscopro quanto adori sentire il corpo di Selene sotto di me, quanto sia piacevole affondare le dita nella sua pelle morbida e stringerla, imprigionarla nella gabbia del mio alter-ego diurno. E più ancora amo stare dentro di lei, nello spazio umido e accogliente che mi concede d’invadere. Sento il suo sangue pulsare forte, il suo respiro affannato mescolarsi ai gemiti, ascolto le labbra elargire sorrisi e grida. Il calore che nasconde ha il potere di ammansire il lupo, di dissolverne la ferocia un po’ alla volta, riconducendomi nuovamente all’umanità.
Selene dice che questo modo folle di fare l’amore ci fa diventare entrambi vittime e carnefici: lei è vittima nella misura in cui deve subire la mia libido fuori controllo, il mio bisogno furioso di sfogare l’aggressività repressa, la mia brama di possesso sul suo corpo. Vittima divengo io, quando al calare degli istinti animali il senso di colpa mi sopraffà, spingendomi ad assecondare il suo bisogno di tenerezza, quando lascio che sia lei a condurre la danza dei nostri corpi, quando i suoi sospiri mi mettono in catene.
Ha ragione. Maledettamente ragione.
Posa una mano sul mio fianco, allontanandomi. Lungo i contorni delle sue dita sento la pelle sobbalzare, ma non so distinguere il mio battito dal suo. In questo momento siamo fatti di sole pulsazioni, energia, spirito, Luna e vita mescolati insieme.
La sua voce è poco più di un sussurro, reso aspro dai gemiti.
«Aspetta».
Mi spinge ancora un po’, abbastanza da permetterle di stendersi – o meglio, crollare - fra le lenzuola. Si concede il prezioso lusso di alcuni profondi respiri, il volto seminascosto dal cuscino. Poi, lenta e intrigante, si gira, ricadendo sulla schiena. Seguo ipnotizzato l’arco che la sua caviglia disegna nell’aria, passando all’altezza delle mie spalle.
Quasi mi strozzo mentre trattengo il respiro. È il colpo di grazia, più mortale dell’argento.
La vista del suo dorso, delle reni e delle natiche scatenava l’ardore del lupo, lo faceva avvampare di desiderio. Nella penombra della stanza, la sua pelle chiara appariva come la Luna trasfigurata in lupa, che invitava la bestia a dare libero sfogo alle proprie brame. Si offriva in generoso pegno al suo servo e compagno. Ora, invece, di fronte a me c’è una Luna divenuta donna, che chiede devota sottomissione e venerazione. Vuole che ricambi il dono d’amore appena ricevuto con uno di pari valore, spalancandosi per accogliere il mio umile voto.
L’aria scende nella gola, graffiandola. Tutto d’un tratto, vengo investito da una sorta di lucidità che ridisegna i nostri contorni, rendendoci figure precise, nette, nuove. Due amanti. Noi.
Sorrido stendendomi tra quei lacci dolci e invitanti, lasciando che mi catturino.
«Femmina» ansimo, mordicchiandole l’orecchio. «Ecco la mia femmina».
Trovo non ci sia termine più bello da dire alla propria compagna in questi momenti. Donna, signora, moglie,  madre, sposa, fidanzata,… Tutte definizioni legate ad una concezione limitata alla civiltà umana, ai suoi dettami, ai suoi cliché. E ribadisco umana.
La parola femmina, invece, racchiude in sé il senso più grande e totalitario dell’altro sesso, una parola priva di preconcetti legati ad usi e costumi secolarizzati e, sempre più spesso, abusati. Dopo tutto, quando si parla di “femminino sacro”, “femminilità”, “femminile” si rimane affascinati dall’aura di sottile misticismo che emanano quelle sillabe. “Femmina” riassume infinite sfumature di vita, sentimento, fisicità, pensiero, sessualità, fede… è una parola ancestrale, arcaica, più antica di “donna” e, di conseguenza, molto più densa di significati. Prima del concetto di donna, di signora, prima della lupa, dell’animale, è nato il concetto di femmina.
Nella luce che dall’argenteo sfuma al rosa, sento la carezza della Grande Madre lasciarci soli, presi da un mutuo scambio di affettuose cure.
«Mi ucciderai, prima o poi» ridacchia, accarezzandomi la guancia con un dito.
Ha gli occhi socchiusi ed un sorriso beato sulle labbra gonfie di baci.
«Non ci penso neanche. Al massimo potrei assaggiarti qua e là».
Mi guarda ironica, mettendomi una mano sulla bocca per evitare che porti a termine il proposito.
«Oh, ma tu intendevi… così. Ucciderti di piacere, facendoti godere per tutta la notte» sogghigno leccandole il palmo mentre allungo le dita fra le sue gambe.
Cerca di impedirmi di raggiungere l’obbiettivo stringendole.
«Esagerato. Sei arrivato alle cinque e sono appena le sette e un quarto» geme, rifilandomi un pizzicotto per difendersi.
Si dibatte, piagnucola che la smetta, intreccia le mani alle mie, ride cedendo le armi, sospira languida, si concede a quell’ultimo sprazzo di lussuria trattenendo la mia testa sul suo seno.
Quando la sento vibrare a questo modo il lupo dentro di me si agita, ringhia che non ne ha ancora abbastanza, fa i capricci ululando che la vuole un’ultima volta. Scalcia nelle mie gambe, graffia l’interno dei gomiti, strizza la pancia, impossibilitato ad uscire allo scoperto. Chiede l’accoppiamento della buona notte (o del buongiorno, vista l’aurora che fa capolino tra le tende). Il suo desiderio mi confonde le idee, ma a tenermi con i piedi per terra sono la fibra umana che fatica a tenere il passo di quella lupesca e l’inguine che duole in maniera insopportabile. Se lo facciamo di nuovo, mi si stacca con tutti i relativi annessi e connessi. Garantito.
«Esiste la settimana corta, no? Io faccio la notte corta» scherzo, specificando subito: «Corta e molto intensa».
«E a me piace così» ammicca, scostandomi i capelli dalla fronte sudata.
Sbadiglio soddisfatto ed esausto, sistemandomi meglio nel suo abbraccio.
«Buon riposo, Selene» le auguro.
«Buon riposo, amori miei».



1 Ormoni primer: detti anche feromoni innescanti o scatenanti. Inducono nel ricevente modifiche comportamentali e/o fisiologiche a lungo termine.

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Capitolo 3
*** III ***


III
III

Abbiamo dormito poco insieme, come sempre. Giusto un paio d’ore. Poi la routine ha cominciato ad insinuarsi tra noi insieme alla luce del giorno. È filtrata nelle pieghe delle lenzuola, in quelle della pelle, nei pensieri, staccandoci poco alla volta l’una dall’altro.
Mentre restavo a poltrire fra le lenzuola disfatte, Selene si è fatta la doccia, ha cominciato a preparare le cose per la colazione, ha sistemato il caos che ho sparpagliato in soggiorno stanotte quando sono entrato (credo di avere rovesciato pure un paio di vasi in giardino), mi ha preso dei vestiti puliti ed ha riposto sul comodino la mia pelliccia. Già che c’era, mi ha preparato anche un bagno caldo.
Lo so perché l’ho sentita alzarsi e aggirarsi per casa. Nelle ore successive la trasformazione i sensi rimangono acuiti a livelli esasperanti, inimmaginabili per un comune essere umano. La loro sensibilità è tale da impedirmi d’ignorare come vorrei suoni, odori, movimenti. Per quanto lei tenti di stare attenta, finisce sempre col produrre sollecitazioni che mi svegliano. Ovviamente non le attribuisco nessuna colpa: se volesse farmi un dispetto, le basterebbe parlare a voce normale. In queste condizioni equivarrebbe ad una sirena da stadio sparata dritta nelle orecchie. Poi però ne pagherebbe le conseguenze, visto che in questo stato posso diventare particolarmente suscettibile e il primo istinto sarebbe, con ogni probabilità, di ributtarla sul letto e tanti saluti al bel completino cui tiene tanto.
Solo l’idea di fare di nuovo l’amore risveglia fastidiose contrazioni al basso ventre, per cui obbligo le articolazioni a muoversi, trascinandomi fino al bagno.
Mi allungo piano nella vasca, sentendo i muscoli che si ribellano. A farli protestare è sia il naturale ritrarsi alle forme diurne, sia il timore verso l’acqua, che proprio non è il nostro elemento. Specialmente se è calda. Nel fondo della mia testa la vivo come un’entità innaturale, incomprensibile, nonostante sappia perfettamente cos’è e a cosa serve.
Impiego sempre un’eternità a convincere i piedi prima e il resto di me dopo, che non corriamo pericoli, che non affogheremo o finiremo lessati. La pelliccia stregata mi osserva sogghignando: con lei indosso mi basterebbe qualche leccata per sentirmi pulito mentre il mio guscio umano ha bisogno di ben altro.
Una volta mi è capitato d’essere così stanco e svuotato dalla mutazione, che Selene ha dovuto lavarmi lì dov’ero, rannicchiato tremebondo sul pavimento, gli occhi sbarrati sul vuoto e una stupida cantilena in bocca: l’acqua no, l’acqua no, ti prego, l’acqua no, è cattiva, mi porta via e mi mangia. Roba da manicomio. O da asilo infantile, a seconda del come la si guardi. Per fortuna è successo solo una volta o penso che lei avrebbe già provveduto a ridurmi ad uno scaldacollo. Una volta recuperate le forze, per nascondere la preoccupazione mi ha detto ridendo:
«Grande, grosso e adulto come sei, non ti si può vedere piangere avvinghiato a me perché hai paura di venti centimetri di acqua, ferma per giunta. Non vorrai per caso che t’infili il salvagente ogni volta?»
Ho ammesso che aveva ragione, che era stata una reazione esagerata, ma se voleva proporsi in veste di sostituta della paperella di gomma non avrei rifiutato l’offerta. Ho rimediato alcuni bagni in compagnia estremamente piacevoli.
Oggi sono stato meno fortunato, ma almeno ho evitato scenette ridicole o continui ripensamenti con un piede sospeso nel vuoto e le mani artigliate al bordo di ceramica. Forse è merito dell’olio essenziale di Petit Grain
1 che Selene ha messo nell’acqua.
Inspiro con calma il profumo mescolato al vapore, lasciando che gli effluvi benefici penetrino a fondo, inseguendo e scacciando le ultime tracce di spossatezza. Il muso scuro sul comodino sembra biasimare questi sotterfugi. La creatura notturna che sono stato non ha bisogno di oli essenziali per rilassarsi, le basta una buona preda.
Selene entra in punta di piedi nel bagno e siede sullo sgabello accanto alla vasca. Rimane a guardarmi in silenzio. Non so cosa stia pensando, anche se fiuto una nota di tensione nel suo odore.
Socchiudo gli occhi e abbozzo un sorriso. Lei replica alla stessa maniera, curvandosi su di me. Le sue mani iniziano a massaggiare le spalle, il collo, le braccia, il torace. È inutile che domandi dove sento male, la risposta è la stessa ogni volta: dappertutto. Nessuna fibra sfugge alla torsione cui è sottoposto il mio corpo. Eppure, non rinnegherei la mia scelta per nulla al mondo. Sono orgoglioso di quella che altri chiamerebbero diversità o, con disprezzo, mostruosità. Essere un lupo mannaro in questa realtà elettronica e multiforme è quasi un paradosso, è come dichiarare di essere un dinosauro o un antico romano. Siamo vestigia di un passato remoto, ricordi di un’epoca dove la natura governava sovrana ciascuna vita, dove le uniche leggi che contavano erano dettate dall’energia emanata dal cosmo. Leggi che valgono ancora oggi, per noi. Per questo facciamo paura: il nostro codice morale, il senso di giustizia, hanno ben poco a che vedere con l’ampolloso sistema dei pensieri umani.
Nonostante ciò, esercitiamo un fascino ed un timore reverenziale che poche altre specie possono vantare. La bellezza della bestia, delle sue zanne ferali, della potenza indomabile della natura.
Allungo un braccio sulle gambe di Selene per farla avvicinare, ma quando le accarezzo il ventre, lei s’irrigidisce. È un attimo, impercettibile, sfuggente, ma l’ho distinto benissimo.
Sento le sue dita accarezzare le mie, intrecciandole. Trema appena. Deglutisce a vuoto.
So dove sta correndo la sua mente, spinta da quel contatto. So quanta frustrazione si stia tenendo dentro, anche se dice che non le importa, anche se nega di pensarci, anche se non mostra gli occhi lucidi.
Figli.
Vuole avere dei figli.
Piccoli, teneri, pestiferi marmocchi a cui insegnare quanto è bella la Luna.
Sfortunatamente, licantropi ed esseri umano non vanno d’accordo su questo piano. Anche se veniamo al mondo alla stessa maniera, non siamo compatibili. Con me è persino più complicato: non solo sono diventato un lupo mannaro, accettando la mia natura interiore, ma sono anche nato in una famiglia di licantropi. Potremmo chiuderci in casa un anno intero, fare sesso selvaggio da mattina a sera e da sera a mattina, sfinendoci di coccole e orgasmi, e non accadrebbe nulla. Niente di niente.
Per qualche arcano motivo, la mutazione arriva a tale profondità nel nostro essere, nei mattoni di questa genetica ibrida, da non consentire la procreazione. Se vogliamo allargare la nostra famiglia, lei deve entrare a pieno titolo nel mio clan, diventare una di noi, deve trasformarsi.
Sono già sette anni che insisto con gli Anziani, ma queste cose vanno sempre per le lunghe. Gli Anziani sono capi proprio in virtù della veneranda età. Il che comporta che siano restii a dar retta alle richieste dei giovani, anche quando il proponente in questione ha superato i duecentodieci anni, l’età minima per avere voce in capitolo. Ci sono discussioni infinite che si perdono nei meandri delle antiche tradizioni, le quali si annodano all’ottusità e alla diffidenza di chi ha vissuto col proprio segreto chiuso nello stomaco e nella testa perché chi l’ha preceduto gli ha instillato la paura verso il comune essere umano e i suoi difetti. Convincere una iena digiuna a diventare vegana è molto più semplice.
Posta di fronte al rifiuto, al riaffiorare di quel desiderio negato, scivola nella malinconia, ogni volta un po’ più giù. Selene affoga inerme in un malessere silenzioso.
«Arriverà il momento» mormoro, accarezzando piano quella che lei vede come una culla vuota.
Non risponde. Abbassa la testa e annuisce in silenzio. Sospira a labbra chiuse.
Vorrei essere capace di scuoterla, di convincerla che le cose si sistemeranno e otterremo ciò che vogliamo, che quello di tenere a bada il suo orologio biologico di donna è solo un problema relativo: una volta accettato l’altro io, non appena l’animale viene alla luce della Luna, lo scorrere delle lancette rallenta fin quasi ad azzerarsi. Avremo decenni interi, secoli forse, per riempire queste mura di decine di fagottini sgambettanti che tenteranno di mordicchiare l’imbottitura del divano anche senza le zanne. Recupereremo il tempo perso: noi licantropi siamo fertili come la storica Mezzaluna, prolifici al punto tale da dover imporre una regolazione delle nascite nei clan: solo le coppie stabili hanno il diritto di avere discendenti. Coppie come noi.
Ma ogni volta che vedo Selene raccogliere i frammenti di quel sogno spezzato tra le mani, impastandoli con le lacrime che non versa, per dar loro nuovamente la forma delle speranze e del desiderio che racchiudono, non posso che provare quel po’ d’amaro lasciato in bocca dal fallimento. E non c’è preda abbastanza succulenta o bacio abbastanza appassionato, da cancellare quel sapore. Né dentro di me né, soprattutto, dentro di lei.
Qualcosa tamburella insistente sulla mia testa. Volto lo sguardo. Sta aspettando che dica qualcosa, ma non ho ascoltato la sua domanda. Che mostro, non mi sono nemmeno accorto che stava parlando. E sono stato così bravo che se n’è accorta.
«Crema o marmellata?»
«Per cosa?» domando, aggrottando la fronte.
Mi scompiglia i capelli con entrambe le mani, sbuffando. Rispondo con un latrato d’avvertimento. Non sono ancora in uno stato di tale quiescenza da lasciar correre certi atteggiamenti. Prontamente, Selene trasforma lo scherzo in una coccola, in un massaggio alle tempie che riduce la belva ringhiante ad un cucciolo goffo e sonnacchioso.
«Ho detto: vado a comprare le brioches dal fornaio. La tua la vuoi con la crema o con la marmellata?»
Ci penso un attimo, stiracchiando le gambe.
«Vuota» rispondo, lasciandomi scivolare verso il fondo della vasca.
«Vuota? Tesoro, sei ancora debole, devi mangiare qualcosa con un po’ di zuccheri per tirarti su, lo sai» tenta di convincermi.
Scuoto la testa solenne.
«La voglio vuota» confermo. «Così la apro, ci metto te nel mezzo» mimo, prendendole una mano tra le mie, «e ti mangio. Brioche alla Selene, la perfetta colazione del lupo mannaro».
Le mordicchio leggero le nocche, per poi posarvi un bacio. Risponde facendomi un nocchino sul naso.
«Esci di qui, l’acqua ti sta entrando nel cervello. Senti che stupidaggini dici? Tra un po’ ti verranno anche le branchie. E il pesce lupo è uno degli animali più brutti che esistano, non mi piace nemmeno un po’» scherza a sua volta, allontanandosi.
Con calma emergo dalla vasca per infilarmi nell’accappatoio, sgocciolando sul pavimento al pari di un temporale estivo.
Mi affaccio alla finestra, scostando le tenda. Il mattino ha preso fiato, s’incammina allegro verso mezzogiorno.
Davanti alla casa, sul lato opposto al giardino, c’è una via che sembra uscita da quelle commedie romantiche, con bassi alberi e lampioncini liberty a scandire gli spazi dei parcheggi. Le persone camminano tranquille, ognuna nel solco della propria esistenza. La cartolina di una vita che sembra fatta di zucchero filato, dove anche i drammi peggiori sembrano solo buffetti di un destino scherzoso.
Zucchero filato.
Che orrore.
Una bistecca al sangue, ecco come andrebbe rappresentata la vita. Non a tutti piace trovarsela nel piatto, il suo gusto va interpretato, capito, a prescindere dalla strana succosità che lascia sul palato, ma a chi sa apprezzarla da grandi soddisfazioni.
Sento la voce della mia femmina darmi appuntamento di lì a breve, un attimo prima che la porta si chiuda. In una manciata di secondi la vedo comparire sul marciapiede. Indossa un vestito arancione che mi aiuta a scordare quanto la sua carnagione chiara sia simile quella della Grande Madre Celeste. Controlla la strada e attraversa di corsa, dirigendosi dal fornaio, un paio di isolati più in giù. Sembra quasi che stia ballando sulle note di una colonna sonora che solo lei può sentire.
Sopra il tetto della palazzina di fronte si affaccia un angolo di Luna, come se tentasse di resistere alla presenza dell’astro invadente che l’allontana da noi. Quasi stesse chiedendo scusa per ciò che dovrà fare a breve. Stanotte era all’ultimo quarto. Tra una settimana la sua assenza in cielo ci farà dare di matto tutti quanti. Le notti di novilunio solo le peggiori per noi: la trasformazione è più lenta, faticosa, i sensi rimangono ovattati, ci lascia in pegno dolori lancinanti e cattivo umore per tutto il giorno successivo. Sono notti pericolose, durante le quali evitiamo di radunarci per non scatenare zuffe furibonde.
Prendo un profondo respiro, scuotendo la testa per allontanare quei pensieri.
Selene sta già tornando, il sacchetto stretto al petto. Mi vede. Mi saluta e preme l’indice sulla guancia, allettante.
Le sorrido.
Alzo lo sguardo.
Sorrido anche a Lei.
Una Luna nel cielo, un’altra luna nel mio cuore.
Le mie due Lune.


1 Olio essenziale di Petit Grain: si estrae dalla pianta dell’arancio, ha proprietà rilassanti per il corpo e riequilibranti del sistema nervoso.

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