Eryn Lasgalen - Il Bosco delle Foglie d'Oro di Maiwe (/viewuser.php?uid=226162)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ada ***
Capitolo 2: *** Saldo come una quercia, forte come il mare ***
Capitolo 3: *** "Il Re è tornato" ***
Capitolo 4: *** Di bambini, ragni e scope. ***
Capitolo 5: *** La vedetta ***
Capitolo 6: *** I cancelli del Re ***
Capitolo 7: *** Il tesoro del Re Thranduil ***
Capitolo 8: *** Elfi, Uomini, Nani. ***
Capitolo 9: *** "Tornerò presto." ***
Capitolo 10: *** Solo un peso. ***
Capitolo 11: *** Resta saldo. ***
Capitolo 12: *** Suoni ***
Capitolo 13: *** Nero, rosso; verde. ***
Capitolo 14: *** Silenzio e luce. ***
Capitolo 15: *** Finalmente a casa ***
Capitolo 16: *** Radici e foglie al vento ***
Capitolo 17: *** Una mattina di prima estate ***
Capitolo 1 *** Ada ***
Salve a tutti! Ebbene sì, prima pubblicazione. Spero non mi toglierete il saluto.
Mi auguro vi piaccia, davvero, e non aggiungo altro, per non tediarvi oltre.
Questo capitolo è dedicato a Ida, dolcissima amica mia che se ne è volata via troppo, troppo presto. Non eravamo preparati.
Un bacio a chi vorrà leggere, due a chi vorrà anche commentare!
Siate pure cattivi, devo farmi le ossa!
Maiwe
L’universo si era paralizzato.
Persi il controllo del respiro, immobile, tutto il resto del mondo che mi vorticava intorno e addosso. Dentro.
La vidi cadere. La vidi colpita. Crollare inerme in ginocchio, un rivolo di sangue lungo le guance, e accasciarsi a terra. Mi parve di fluttuare, in quell’istante infinito, in cui la mia mente stava già rifiutando quanto appena visto, come se non fosse mai accaduto. I capelli castani, così scuri alla luce del giorno che moriva, le donavano un’aura di eleganza che l’aveva sempre resa meravigliosa, ai miei occhi.
I suoi occhi. Chiusi. Aveva gli occhi chiusi. Perché?
Mi mossi in avanti, stentai un passo, ma non riuscivo a reagire. Lei era a terra, un braccio verso di me.
In testa continuavo a sentire ancora e ancora il tonfo che aveva prodotto accasciandosi al suolo, nella polvere che sempre costellava il pavimento di quel chiostro.
La sua veste blu, con i ricami d’oro.
La sua bocca. Era sporca di sangue.
‘Ti amo, devi alzarti’, pensai. Non uscì un suono, dalla mia bocca, se non un gemito.
Perché le gambe non mi seguivano? Cos’era successo? Cosa mi stava trattenendo?
Me ne stavo ancora in piedi, fermo, immobile, come se, intorno a me, niente stesse succedendo. Niente di niente, tutto era congelato. Persino quello schifoso orco, quella feccia disgustosa che stava brandendo una spada in direzione della mia gola. Lo vidi arrivare, alzando lo sguardo, piano, lentamente, come se mi trovassi in un sogno. Una lama lo trafisse da parte a parte prima che mi raggiungesse, mentre io me ne restavo ancora lì.
Mi riscossi. Guardai lo schifoso essere crollare a terra, mentre qualcuno, che non seppi riconoscere, davanti a me e che mi aveva appena salvato la vita, mi lanciava uno sguardo vuoto, senza capire perché me ne stessi così immobile, io, Thranduil, figlio di Oropher. Esule nel Doriat, un re senza trono. Figlio di un re scomparso troppo presto. Non poteva capire, non poteva sapere, perché non aveva visto mia moglie cadere a terra, non l’aveva appena vista morire.
Finalmente le gambe mi risposero, e feci un passo in direzione di Rua. Forse aveva solo perso i sensi, forse potevo ancora salvarle la vita. Forse ero ancora in tempo. Forse…
Mentre l’ennesimo orco si faceva avanti, mirando a me, brandendo una spada mozza, una lama nera intrisa di sangue della mia gente, dei miei amici e probabilmente della mia stessa famiglia, abbassai gli occhi.
Un piccolo volto mi ricambiò lo sguardo. Un volto pallido, imbevuto nella paura, nel terrore, un bambino troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo, cosa fosse appena successo. Era abbracciato alle mie ginocchia, tenendomi stretto. Da quanto era lì? Aveva visto tutto? … Quanto tempo era passato? Una lacrima gli solcò le guance, mentre allungava una mano verso di me, emettendo solo un piccolo, debole suono strozzato.
“Ada.”
L’orco era talmente vicino che sentii il suo odore arrivare sulla mia pelle.
Strinsi la presa attorno all’elsa della spada e, premendo con una mano il volto di mio figlio contro le mie gambe perché non vedesse, trafissi quell’essere mostruoso da parte a parte, gridando, gli mozzai la testa. D’istinto, quindi, feci l’unica cosa che a quel punto mi parve possibile.
Raccolsi mio figlio, lo presi in braccio.
E scappai.
Corsi via. Dovevo metterlo al sicuro. Tenendolo con un braccio solo, una ferita alla mia gamba sinistra che non avevo notato e che emanava fitte che mi mozzavano il fiato, rinfoderai la spada, e corsi in direzione del giardino della reggia, verso l’esterno.
Mi voltai soltanto quando fui abbastanza lontano da aver raggiunto le mura della corte. Mi voltai e vidi il palazzo in fiamme. La reggia del mio amico e mentore, che in quegli anni mi aveva accolto come un padre, dato una nuova vita e una nuova famiglia, seppur momentanea, era in gran parte devastata, violata, distrutta, tradita. Avevamo perso tutto. Io e quel bambino che guardava le fiamme senza capire, le guance sporche di sangue, cenere e polvere, avevamo appena perso tutto.
Che cosa potevo fare?
“Rua”, piansi, guardando il palazzo bruciare. “Rua”.
“Nana?”
Coprii gli occhi a mio figlio. Non doveva ricordare quelle cose. Forse io stesso avrei fatto meglio a… come avevo anche solo potuto pensarlo.
Forse Rua era davvero ancora viva. Forse mia moglie non era morta, non poteva esser vero. Non poteva essere successo. Non avevo la forza di crederci.
Mio figlio, il mio bambino, quel bambino così bello, così intelligente e sveglio, mi passò una sua manina sul volto, nonostante la vista oscurata dalla mia mano, portandosi via una lacrima, e ripulendomi da un po’ di cenere, e sangue nero di orco. Gli sorrisi, non riuscendo a smettere di piangere.
Avevo un bambino piccolo in braccio, e quale era la mia alternativa? Entrare nella loggia in fiamme, cercare il cadavere di mia moglie… e poi? Dove avrei lasciato mio figlio? Non potevo nasconderlo, gli orchi erano ovunque.
Mi acquattai dietro uno degli ultimi alberi e attesi. Attesi la notte. Era il tramonto. Non avrebbero tardato a calare le prime stelle. Fortunatamente avevo la mia cappa, che, per quanto lacerata e sporca, lercia, ma la usai per avvolgere mio figlio, che, pian piano, era crollato addormentato.
E lì, nascosto nell’incavo di un albero, lontano dalla reggia, a un passo dalla foresta di Region, uno dei boschi più oscuri del Doriat, lo guardai dormire. Così beato. Così tranquillo. Non aveva idea di cosa fosse appena successo.
E forse, neanche io. Lo abbracciai, me lo portai vicino al volto e lo cullai, non potendo fare a meno di versare lacrime.
Cercai di ricostruire come potesse essere accaduto. Le avevo detto perentoriamente di non muoversi dal loro rifugio, di tenere il bambino con sé, era soltanto un attacco di orchi, l’avremmo respinto. E, se le cose si fossero messe male, di scappare con lui, e non aspettarmi. Non voltarsi indietro. Prendere la via a ovest lungo il fiume Sirion e raggiungere il mare, farsi portare via, tornare lontano, a casa nostra, finalmente. Era l’occasione buona per tornare. E non voltarsi per nessuna ragione al mondo.
E allora perché era venuta a cercarmi? Perché aveva portato il bambino con sé, esponendolo ad un pericolo immane, dal quale solo miracolosamente era scampato? Ringraziai i Valar di essermi trovato proprio accanto a lei, in quel momento, un istante prima che la ama nera la trafiggesse da parte a parte. Un istante prima di vederla cadere. Ringraziai, davvero, così il mio bambino aveva avuto il tempo di vedermi e venirmi subito incontro, percorrendo quella frazione di spazio che ci aveva separati in quell’ultimo istante.
Nel sonno, si agitava, il mio piccolino. Lo coprii meglio. E me lo strinsi ancora di più al petto, mentre mi alzavo e mi incamminavo verso l’interno della foresta di Region. L’oscurità ci avvolse immediatamente, ma conoscevo bene quelle terre, l’ambiente boschivo era il mio ambiente naturale, avrei sfruttato l’ombra a nostro favore.
Mi incamminai che già le prime scorribande ci stavano cercando. Volevano me, l’ultimo esponente di una casata potenzialmente molto pericolosa. Volevano il mio bambino. Era per me che erano venuti, anche per me, soprattutto per me. Non soltanto per saccheggiare la reggia e intimidire il suo sovrano, erano venuti per noi.
Cominciai a correre, un braccio impossibilitato dal peso di quel fagotto che dormiva tranquillo, l’altra ad afferrare rami bassi e pruni, in cerca del sentiero, della via, nell’oscurità. Il sole era calato davvero, ma quanto era passato da che mi ero nascosto? Pochi minuti, non di più. Il tempo di recuperare le forze e mi ero rimesso a correre verso ovest, stavolta senza guardarmi indietro. Non fu facile trovare la via, il sentiero, all’interno di quella boscaglia. Mi ripromisi che, quando sarei finalmente ritornato a casa, a casa mia, dove era mio diritto trovarmi, restare e regnare sulla mia gente, la strada sarebbe stata facilissima da trovare: ci sarebbe stato un sentiero netto e preciso, un camminamento da seguire per arrivare fino dall’altra parte della selva in tutta tranquillità.
Il mio piccolo amore si svegliò di soprassalto. Stavo ancora correndo nel bosco, lungo lo stretto e nascosto percorso che portava dritto fino al fiume Aros. Fu svegliato dalla grida degli orchi che ci erano alle calcagna.
“Non ti preoccupare, tesoro. Tuo padre sa come non farsi trovare. Vedrai che ce ne libereremo. Quel kaima. Dormi.”
In tutta risposta, mi giunse uno sguardo smarrito, ma fiducioso. Si morse il pugno, e chiuse di nuovo gli occhi, appoggiandosi alla mia spalla.
Il senso di vuoto che avevo dentro era indecifrabile, incolmabile. Stavo scappando. Stavo fuggendo. Ma non avevo alternativa, se volevo salvare quel che restava della nostra vita, quel che restava della mia famiglia. I miei ospiti avevano sicuramente già fatto rientrare l’attacco, nonostante alcune ali della reggia fossero devastate. Dovevo andarmene, e non mettere più in pericolo la vita di nessuno.
“Kwertet nana uma delm’en”, mi fede notare mio figlio, mezzo addormentato.
La mamma gli aveva detto di non preoccuparsi.
“Nurta min adar”
Gli aveva detto di andare a nascondersi dal papà.
“Uma dela!”
Di non preoccuparsi.
“Tira ten’ rashwe astar”
E di stare attento.
“Lle vesta Ada?”
Quell’ultima frase era tutta per me. Aveva riaperto gli occhi.
“Te lo prometto, piccolo.”
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Capitolo 2 *** Saldo come una quercia, forte come il mare ***
Buonsalve a tutti!
Eccoci qua con il secondo capitolo della storia. Si tratta, ancora, del punto di vista di Thranduil. Prometto che, prossimamente, varierò di più!
Chiedo scusissima per non aver aggiornato prima. Questo capitolo è stato un vero parto. L’ho scritto, cancellato e riscritto da capo almeno quattro volte, finché non ho azzerato tutto nuovamente, in uno scatto d’esasperazione, e ho creato questo un paio d’ore fa. Spero vi piaccia – e non mi odierete troppo: con l’altro capitolo c’è chi ha versato lacrime non previste, chiedo umilmente perdono! Preparatevi, dunque. ;)
Un grazie a chi leggerà, un bacio a chi recensirà. Pessima rima, ne sono consapevole.
Questo capitolo è dedicato a Charme, che mi crede matta e con la soglia del “Non troppo drammatico” piuttosto alta. Lei è una persona sana di mente, a differenza di me.
Baci e lembas a tutti,
Maiwe
Finalmente, mi sfuggì un sorriso. Sorrisi senza pensarci, istintivamente, dal profondo del cuore. Allungava le braccia come a volersi tuffare in acqua senza esitazione, tanto che dovetti stringere ancora di più la mia presa attorno al suo piccolo corpo, rendendomi conto che erano giorni, ormai, che lo tenevo in braccio, stretto a me con tutte le forze, saldo, le braccia sempre più stanche ma puntualmente ignorate.
Voleva avvicinarsi a tutti i costi ai veloci sbuffi di spuma che alcune piccole onde creavano sbattendo contro la chiglia della nave. Ed eravamo a un passo dalla superficie dell’acqua; le navi elfiche erano così basse e ben scavate che, a momenti, avevo paura saremmo sprofondati, appena un’onda si faceva leggermente più alta e minacciosa.
Sembrava così entusiasta, il mio bambino sembrava così felice, di vedere per la prima volta il mare. Non l’avevo mai visto ridere e agitarsi tanto.
Lo avvolsi ancora di più nel mio abbraccio stanco – e non esente da mal di mare - ma pieno di energia al tempo stesso, e gli schioccai un bacio sulla nuca, mentre cercava di sfuggire alla mia presa.
Riuscendoci.
Si proiettò in avanti, verso il centro del ponte della nave, mentre io perdevo qualche battito al cuore.
“Vieni immediatamente qui!”
In tutta risposta, mi giunse una risata di gusto, di chi sa di star facendo un dispetto e la cosa gli provoca un enorme, dannato piacere.
Allora risi anch’io, di sottecchi, mentre mi precipitavo a riprenderlo in braccio. Lui si protese per farsi sollevare, per poi ingannarmi svincolando velocemente tra le mie gambe e correndo in direzione opposta.
Stava crescendo. Nel notarlo, provai un grande orgoglio, una nuova forza, ma anche una fredda fitta al cuore, come uno spillo ficcato nell’esatto centro del petto.
Si era incantato nuovamente a guardare le onde, la vastità dell’acqua scura che ci circondava. Sembrava molto pensieroso e profondamente consapevole, i capelli scuri, ereditati dalla mamma, appena mossi dal vento; sembrava più grande e responsabile, per la sua minuscola età. Mi inginocchiai accanto a lui e lo abbracciai dalle spalle, guardando anch’io oltre il parapetto, ma non vedendo del tutto il mare, perdendomi, anzi, nei pensieri. Lui mi passò un braccio attorno al collo e sospirò. Era completamente assorto.
“A cosa stai pensando?” domandai, a voce bassa, non sicuro di volere sapere davvero la risposta.
Non rispose.
“D-dove siamo diretti, Ada?” domandò poi, in una lingua corrente un po’ strascicata e incerta.
“Te l’ho già detto, tesoro. Stiamo andando a casa.”
Non pareva per niente convinto. Tornò a guardare le onde, poi si sedette su un panchetto, alla poppa della nave, facendo dondolare i piedi.
“Cos’ hai, sei triste?” Mi si strinse il cuore in una morsa glaciale. Lottai per apparire forte. Dovevo esserlo a qualsiasi costo.
Gli sollevai il mento con una mano.
“Testa alta, tesoro. Testa alta.”
Fece come gli dissi.
“Guardami.”
Continuava a tenere gli occhi bassi.
“Guardami.”
“No.”
Respirai a fondo.
“Perché non vuoi guardarmi? Sei arrabbiato con me?”
“Io non sono arrabbiato con nessuno.”
“Però sei triste.”
“Però sì, sono triste.” Voltò lo sguardo.
Mi sedetti accanto a lui. Era stano: non mi ero mai sentito così forte in vita mia come in quel momento in cui, corpo, anima e cuore, avevo toccato il fondo.
“Senti”, gli dissi infine, tornando a inginocchiarmi davanti a lui e costringendolo a guardarmi negli occhi. “Hai paura. Lo vedo bene, sai. Ma la sai una cosa?”
“No.” Tornò a sorridere, ricacciando indietro le lacrime. Eccolo lì, il mio tesoro, saldo come una quercia, forte come il mare.
“Anche io ho paura. Ho tantissima paura, molta più di te.”
“Non è vero! Non è possibile.” Ormai rideva, ce l’avevo fatta.
“E’ la verità. E lo sai il perché?” Mi sforzavo di parlargli in lingua corrente, così che… si abituasse. La nostra vita era ormai stravolta, inesorabilmente ribaltata, e non sarebbe più bastato parlare in elfico sindarin. Doveva sforzarsi di appartenere al nuovo ambiente cui stavamo andando incontro. “Perché, vedi… una volta tornati alla nostra vera casa – te l’ho spiegato, no? Dove abitava il nonno, dove era re della nostra gente – una volta là, dovrò essere io, il re. Sai cosa significa?”
Mi fece cenno di no, ma mi stava ascoltando, un po’ timoroso.
“Significa che saremo finalmente nel posto giusto. Io sono il figlio di un re, un re importantissimo. E tu sei mio figlio. Abbiamo una responsabilità molto grande, che abbiamo rimandato per troppo tempo. Pensa te, doveva succedere tutto questo, perché io mi decidessi a tornare.”
Mi posò una mano sulla fronte. Lo faceva sempre. Lo faceva sentire sicuro. Era un modo per parlarci anche senza usare le parole. Ci ascoltavamo chiaramente. Io gli raccontavo la nostra storia, e lui si concentrava a tal punto che sembrava sperso, all’apparire davanti ai suoi occhi di tutte quelle immagini. Erano come un secondo mondo, di fantasia, quello in cui vedeva mio padre, Oropher, cavalcare e sedere sul trono.
Allontanò la mano di scatto.
“Non voglio andarci.”
“Cosa? E perché no? Guarda che è bellissimo!” Infiorettai, non certo convinto delle mie parole. “Sarà divertente! Sei un principe, tu! Chi non vorrebbe essere un principe? Tutti vorrebbero esserlo!”
Sorrise nuovamente.
“Sono… con… sono contetto che abbiamo visto il mare.”
Gli ricambiai il sorriso, sperando si fosse rinfrancato almeno un po’.
“Però ho fame.”
Il castello che, tassello dopo tassello, gli avevo creato intorno si sbriciolò come se fosse stato fatto di carte in una giornata ventosa, e ripiombai nella realtà.
Non avevo niente, con me. Niente. Una sensazione che un padre non vorrebbe mai provare. Aveva mangiato frutta, nel Region, che gli avevo colto, conoscendo la zona, ma raggiungendo il più in fretta possibile il porto di Capo Halar. Erano stati tre giorni di viaggio con provviste razionate e un cavallo stanco e bizzoso, che avevo ottenuto nel peggiore dei modi. I cavalieri guidati da mio figlio, il mio primogenito, ci erano venuti ad accogliere al valico tra le montagne, alle cascate del Sirion, con qualcosa da mangiare, qualche coperta, e un grande augurio. Erano venuti a dirci addio, avevano saputo.
Avevamo quell’appuntamento già da qualche tempo, da quando mi avevano riferito che avevo perso mio figlio maggiore. Volevano che li incontrassi per potermi consegnare il suo destriero, in un cerimoniale d’encomio.
Ci avevano salutati con un’immensa speranza, pieni di fiducia in me.
Era un ragazzo così forte e robusto che non avrei mai creduto sarebbe potuto cadere sotto la mano degli orchi. Ma non avevo creduto molte cose. Ed ero stato smentito nel peggiore dei modi.
Volli cogliere quel dono come un segno.
Avevo fatto correre il cavallo fino al porto, a perdifiato, con il figlio che mi restava infagottato e intento a mangiare pane biscottato col miele, un dono dei cavalieri.
Ci eravamo imbarcati su quella piccola nave in partenza verso la Terra di Mezzo dando poche e sommarie spiegazioni. Il cavallo avevamo dovuto lasciarlo. Non c’era una stiva grande abbastanza da poterlo ospitare. L’avevo donato al timoniere, che sarebbe tornato a riprenderselo là, nel Beleriand, molto presto. Nel frattempo, sarebbe stato nella stalla della sua casa, e se ne sarebbero occupati i suoi figli. Avevo sussultato, a quella notizia, ma ero salito a bordo col mio bambino e non mi ero voltato indietro.
“Non…” provai a rispondere a mio figlio, dopo una lunga pausa. “Non so cosa darti. Tra pochissimo tempo sbarcheremo. E allora mangeremo quello che vuoi. Sei contento?”
“Insomma.”
“Lascia che mi occupi del bambino” si fece avanti una voce alle mie spalle. “Ho giusto qui delle belle pesche. Ti piacciono?”
“Moltissimo!” esultò lui.
Mi voltai verso l’Elfo che si era offerto di offrire cibo a mio figlio in mia vece, deciso a rifiutare. Ringraziando, certamente, ma non avrei mai potuto accettarlo.
“Hannon-ste.” Ringraziò in tutta risposta la sua vocetta di bambino.
“Grazie.” Mi trovai a sussurrare a mia volta al nostro compagno di viaggio. “Non avresti dovuto.”
“I tempi difficili esistono e arrivano per chiunque. Non ce ne dobbiamo vergognare. Se non ci aiutiamo fra di noi, chi altro lo farà?”
Cacciai indietro le lacrime, serrando le labbra e annuendo.
“Chi siete? Dove siete diretti?” Erano domande poste con una voce greve, e bassa.
“Siamo due esuli forzati che si sono decisi a farsi avanti per riconquistare ciò che è loro di diritto.” Buttai fuori d’un fiato. “Arriveranno tempi migliori, e allora potrò ringraziarti a dovere.”
“Proprio così.” Biascicò contento mio figlio, dondolando le gambe, la faccia piena di succo di pesca. “Perché noi stiamo tornando a casa.”
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Capitolo 3 *** "Il Re è tornato" ***
Buonasera!
Eccovi il nuovo capitolo. Spero vi piaccia, davvero. Secondo me non è il migliore, per adesso, ma è venuto fuori così, e così ho voluto pubblicarlo. Ha avuto quasi vita propria: ho provato a riscriverlo, a cambiare gli eventi, le battute, ma niente, così è nato e così voleva essere. Spero davvero possa piacervi tanto quanto vi sono piaciuti i precedenti capitoli – grazie ancora di cuore a tutti, siete stati meravigliosi! Non mi aspettavo tutto questo calore e affetto! ^_^
Questo capitolo è dedicato a mio nonno, che somiglia in modo pazzesco a Robert deNiro e che mi sta seguendo da lassù come mai prima d'ora.
Ti voglio bene, sei il mio Oropher.
Ed è dedicato a quel piccolo vuoto che ancora non sono riuscita a colmare. Chissà, guardando in alto, prima o poi, si riempirà.
Scusate la parentesi depressiva.
Maiwe
“Non andare, Ada”.
Mio padre prese un breve respiro, ma ben profondo. Sapevo cosa stava provando, perché avvertivo la stessa paura, le nostre paure: la mia e, di riflesso, la sua. Lo vedevo tremare. Aveva le mani fredde. Abbassò un momento lo sguardo, quando lo sfiorai, per poi tornare a puntare gli occhi sulla luce che penetrava dallo stipite della porta e che gli illuminava i tratti del volto con rigide, aspre pennellate d'oro.
Mio padre sembrò ancora più grande, più forte. Aveva paura di affondare le sue radici, ma i suoi rami, in quel momento, erano maestosi. Li potevo vedere. La quercia che era il suo spirito si stagliava sopra la tua testa con enorme orgoglio. La strana corona che gli cingeva le tempie aumentava quell'effetto di altezza e maestosità che mi spaventò un po': in fondo, avevo una gran paura di poterlo perdere.
Infine, il suo nome fu chiamato. Fu appena un sussurro, un bisbiglio, e lui fece un passo avanti.
Questo è il ricordo che ho di quel momento. Il momento in cui mio padre fu nominato Re. Legittimo re del Reame Boscoso, un grande regno rimasto per molti anni senza una guida.
Il titolo era sempre stato suo di diritto, me l'aveva spiegato. Conoscevo la storia.
Avrei voluto dirgli molte cose, in quel momento. Avrei voluto che mi prendesse in braccio. Ma non avrei voluto lasciarlo andare.
Invece, tutto ciò che mi uscì dalla bocca fu un semplice “Ada”, 'Papà', di nuovo, come a volerlo rimarcare, senza aggiungere nient'altro.
Lo dissi proprio mentre mio padre faceva quel passo avanti. E superò lo stipite della porta, entrando nella luce. Molte persone si erano radunate in quella grande sala, per l'occasione. Mio padre l'attraversò tutta con passo lento, finché non giunse davanti agli occhi delle prime file. Si voltò. Teneva lo sguardo basso. Poi alzò gli occhi, e un sorriso gli solcò le labbra. Ma avvertivo del dolore, in fondo al suo cuore. Un dolore gelido, che mi domandai come avrei mai potuto colmare. Non avrebbe voluto essere solo, in quel momento. Io lo osservavo dal fondo della sala, e mai come allora mi ero sentito solo.
Così, in piedi davanti ad un grande trono intagliato nel legno di faggio – un albero che mi piaceva molto, e che si trovava in abbondanza, nel Reame Boscoso -, che era posizionato più in alto, su qualche scalino, un Elfo dai capelli scuri, posandogli una mano su una spalla, parlò in elfico:
“Possano la tua forza e il tuo vigore non cedere mai, possa tu a lungo regnare in nome di tuo padre e in favore del tuo popolo. Possano i nostri confini non cedere, così come le radici degli alberi da sempre crescono e si fortificano.”
Era una vecchia formula. Mio padre ricevette dall'Elfo un grande scettro, un lungo scettro di quercia; lo rigirò tra le mani qualche istante, per poi sollevarlo sui palmi e parlare al suo popolo. Altri discorsi sulla durabilità del suo regno, bla bla bla, e io attendevo. Attendevo il momento in cui si sarebbe stancato di quella manfrina e io avrei potuto corrergli incontro.
Siccome non sembrava voler succedere, improvvisai, decisi che sarebbe successo in quel momento, subito. Attraversai a corsa la navata della grande sala, fino a gettarmi tra le sue braccia, senza dire una parola.
Lui si era chinato, interrompendo a metà il rito, e mi aveva abbracciato, forte, affondando il suo viso nei miei capelli.
Non credo di aver fatto un gran figura, quella sera, ma al momento non mi importò. Il risultato sembrò comunque essere positivo, perché alcune persone avevano sorriso, ma avevo interrotto un momento di grande importanza. Ma, di nuovo, non mi importò. Non avrei rischiato che mi fosse portato via mio padre, soprattutto per colpa di una misera corona. Che era pure brutta, andava in verticale, non circondava la testa come di solito le corone fanno. Papà sembrava avere le antenne.
L'avevo fatto perché in fondo sapevo che le persone lì presenti mi volevano bene. Da che eravamo arrivati, mesi prima, ero stato al centro di mille attenzioni, spesso e volentieri soffocanti. C'era chi aveva voluto separarmi da mio padre, farmi passare del tempo ad imparare strani riti e cerimonie in cui avrei dovuto farmi nominare principe, ricevere anch'io il mio scettro e dichiararmi al fianco di mio padre, ma ero riuscito a svincolarmi da quelle incombenze. Ed ero corso da un'anziana signora che Elfo non era, ma che aveva tutti i numeri per diventare una tata e una nonna perfette. Mi raccontò, un pomeriggio, mentre ci eravamo affacciati da una terrazza del grande palazzo grigio che adesso era la nostra famosa “Casa”, che era un Mezzelfo, ed era stata al fianco di mio nonno per molti anni. Le volli subito bene, la sentivo vicina.
Mio padre si alzò nuovamente in piedi e mi mise una mano sulla spalla, mentre fronteggiavo, occhi sbarrati, la moltitudine di gente che mi fissava. Un principe poteva gridare? Poteva scappare urlando? Forse avrei davvero dovuto dar retta a quelle persone così costrittive e impararmi a memoria la cerimonia.
“Bene, visto che sei già qui, possiamo procedere.”
Perché adesso l'Elfo coi capelli scuri parlava in lingua corrente?
Mi resi improvvisamente conto che non eravamo solo Elfi silvani, in quella grande sala. Percepii degli Uomini. Avevano della peluria sulla faccia, li vidi. E occhi scuri.
Mentre studiavo i presenti, soprattutto quelli a fondo sala che se ne stavano in disparte, mi fu consegnato uno scettro. Era la copia esatta di quello di mio padre, ma più piccolino. Guardai l'Elfo dai capelli scuri, che mio padre mi ricordò chiamarsi Galion, e che indietreggiò per lasciarci in balia degli sguardi, e lo ringraziai. Io che, però, volevo solo scomparire e non essere disturbato ero in cima ad una scalinata e tenevo in mano uno scettro. Avevo una gran voglia di correre fuori e arrampicarmi su un albero, e non pensare a niente, dimostrare a mio padre quanto ero diventato bravo in poco tempo a seguire le tracce dei caprioli.
“Che me ne faccio?”, domandai a mio padre, mostrandogli quel bastone pieno di foglie incise.
Lui, con la voce che percepii come rotta, rispose con un per me poco chiaro:
“E' tuo, adesso. E' sempre stato tuo, ma da oggi lo porterai per tutti coloro che non possono.”
Non capivo.
“Papà” domandai, poi, a voce normale, “Dovremmo festeggiare, comunque.”
“Cosa?”
Chiunque poteva sentirci.
“Dovremmo dare una festa.”
“La festa ci sarà. Vedrai che sarà anche molto bella.”
Annuii, poco convinto. Quando arrivava la parte in cui compariva qualcuno a dirmi che andava tutto bene e che la felicità di mio padre non dipendeva da me?
Fummo interrotti da Galion, l'Elfo bruno, che annunciava, con voce tonante:
“Il re è tornato.”
Ci furono grida di gioia, e le persone sembrarono davvero felici ed emozionate.
Sorrisi. Ci stavano acclamando davvero.
Mio padre si voltò e andò a sedersi sul grande trono. Io lo seguii e mi posizionai alla sua sinistra, come Galion mi indicò.
La cerimonia proseguì con canti e balli, e la musica era bellissima.
Mi ricordo che mi domandai cosa avrebbe pensato la mamma di una situazione così buffa. Cosa avrebbe pensato nel vedere papà così musone e serioso, cosa che a volte gli aveva rimproverato. Mi domandai se avrebbe indossato il suo vestito dorato o se si sarebbe messa quello blu che mi piaceva tanto.
Mi domandai perché mio fratello non avesse voluto partecipare, ma mi ripromisi di non domandare niente a mio padre, che mi sembrava già abbastanza preoccupato.
Avevo la responsabilità della sua felicità e la sua serenità dipendeva dalla mia presenza, come avrei realizzato meglio qualche anno più tardi.
Quando sentii che l'aria di festa dentro la grande sala si era fatta per me troppo calda, uscii sul terrazzo principale, che si apriva in due grandi scalinate ai lati che portavano direttamente nel bosco. Ammiravo gli alberi nel loro abito notturno.
“Lo sai cosa significa?”
“No, che cosa?”
“Il tuo nome.”
“Certo. E' elfico, lo capisco.”
Mio padre, anche lui uscito a prendere una boccata d'aria, mi venne accanto, lo sguardo perso in avanti, verso la distesa di alberi secolari.
“Significa 'Foglia verde'. E' un grande simbolo di rinascita e di speranza.”
Lo guardavo, ascoltandolo.
“Ma significa anche che avrai bisogno di guardare in alto, per trovare te stesso.”
“Va bene, questa non l'ho capita.”
“Hanno radici profonde, gli alberi, che non si vedono ma che li sostengono, e i loro rami salgono su fino alle stelle. Uniscono la terra con il cielo, tesoro mio. Tu tieni la testa alta e guarda sempre la cima, e troverai le foglie più verdi, quelle che vivono di luce. ”
Una forte brezza si alzò d'improvviso, come se qualcuno ci stesse ascoltando, e ci stesse dicendo “Rientrate, ché fa freddo.”
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Capitolo 4 *** Di bambini, ragni e scope. ***
Respirai
a fondo, mentre,
pian piano, mi andavo a nascondere dietro al grande schienale del
grandissimo trono dove era seduto, un po' teso, mio padre.
"Legolas!"
mi richiamò subito, senza neanche voltarsi. "Dove stai
andando?"
La
mia risposta avrebbe
voluto essere un 'Ada, sto scivolando via, non voglio incontrare
queste persone, mi sento un pesce fuor d'acqua, e se poi questi
bambini sono antipatici? E se non mi piacessero? E se mi annoiassi a
morte?', ma tutto ciò che dissi, mesto, fu qualcosa come
“Mi stavo
nascondendo.”
"Nasconderti?
Oh, no." Si voltò, e mi prese il volto tra le mani.
"Guardati: cos'hai da nascondere? Cos'hai che il resto del mondo non
vorrebbe vedere?
"Non
lo so."
Mi
passò una mano tra i
capelli, facendo così fuggire una ciocca dalla sottile
treccia che
mi cingeva le tempie e sorreggeva la corona. Adesso somigliavo a un
porcospino. Mi sorrise come sempre, ma non avevamo tempo. Il cuore mi
batteva a mille.
Si
voltò e tornò
nuovamente a guardare avanti, non appena il suono di un corno, unito
allo spalancarsi delle porte del salone, annunciò l'arrivo
dei
nostri ospiti.
Galion
pronunciò i loro
nomi, inchinandosi profondamente, mentre questi varcavano la soglia e
mio padre si alzava in piedi per andare loro incontro, secondo i
cerimoniali elfici.
Io
guardavo il grande,
elegante incedere di quelle persone, tutte dai capelli scuri, anche i
cavalieri che li accompagnavano. La sala era avvolta in un'aura di
silenzio, ritmato dai passi dei cavalieri, che mi inquietò
un po',
mentre mi andavo a nascondere nuovamente dietro al trono, spiando
quanto stava accadendo.
Erano
molto alti. Quello
che doveva essere il padre dei bambini aveva i capelli neri e grandi
occhi scuri, un lungo abito cremisi e una corona argentea intrecciata
sull'ampia fronte. Doveva essere il re della Valle di Imladris.
Accanto
a lui, in uno
straniante gioco di doppio, due ragazzi, certamente più
grandi di
me. Erano evidentemente gemelli, e avevano un'aria molto simpatica.
Provai subito la voglia di farmeli amici. Mi sentivo molto solo,
ultimamente. Anche correre nella foresta, scoprendo sentieri non
più
battuti e nuove tracce di branchi di cervi aveva perso il suo sapore.
Mi sentivo sempre così solo, l'unico bambino dell'intera
reggia,
dove tutto, persino lo scettro di mio padre, era più grande
e più
alto di me.
Quando
proprio mio padre,
voltandosi e fulminandomi con lo sguardo, mi chiamò accanto
a sé,
decisi finalmente di sbucare dal mio nascondiglio. Ci misi un po',
diciamo, dovette chiamarmi due volte. Ma alla fine, mi mostrai. I due
ragazzi ridevano. Beh, non importava, non avevo bisogno di loro,
potevo stare da solo. Il grande re dai capelli mori fece loro un
segno perentorio, che per un attimo temetti fosse indirizzato a me.
Scesi
la scalinata, un
passetto dopo l'altro, e alla fine arrivai al fianco di mio padre. Mi
sentivo schiacciato dalla loro altezza incredibile. Mi domandai
quanto tempo sarebbe passato, prima che anch'io fossi cresciuto
così
tanto. E mi sentivo gli occhi addosso. Eppure, uno strano calore mi
pervadeva. Mi sentivo fiero, or... orgo... orgoglioso.
Mio
padre mi mise una
mano sulla spalla, mentre sorridevo ai miei interlocutori.
"Mae govannen, Legolas
Thranduillion."
'Benvenuto,
Legolas,
figlio di Thranduil'. Il re mi salutò, e io ricambiai con un
gesto,
a sua volta ricambiato.
Mi
presentò i suoi tre
figli: Elrohir e Elladan. E Arwen; ma io non l'avevo vista.
Re
Elrond la chiamò
nuovamente, finché lei non sbucò. Si era nascosta
dietro l'ampio
mantello del padre.
Rimasi
abbagliato, perché
una bambina così bella non l'avevo mai vista. Aveva lunghi
capelli
mori e occhi azzurri, e perline nei capelli. Sembrava simpatica, e
aveva la mia stessa aria timorosa per il trovarsi in quella
situazione. Però provai anche un moto di antipatia,
perché una
volta un bambino, nel Doriat, mi aveva detto che le bambine che si
credono belle sono anche vanitose e insopportabili.
I
cavalieri nella sala,
sia quelli di mio padre che quelli dei nostri ospiti, con un rapido
ordine si disposero ai lati della grande porta, che venne aperta. I
due papà si incamminarono, parlando. Io mi ritrovai al
centro del
gruppetto, circondato dai due gemelli che presero a farmi domande a
raffica. Va bene, ma dovevano parlare più piano, il loro
accento era
troppo strano, così arrotolato e pieno di aspirazioni! Poi
mi
strattonavano, ognuno dei due voleva parlare per primo.
"Insomma, vuoi risponderci o no?"
"Secondo
me, è muto."
"Di'
un po': sei muto?"
"Ma
ti pare una domanda da fare?"
"Allora
è sordo. Di' un po': sei per caso sordo?"
"Ma
se è sordo come può risponderti?"
"Non
sono sordo!" esordii ad alta voce. Mio padre trasalì e mi
lanciò un'occhiata, sempre meno convinto che tutto sarebbe
andato per il meglio.
Stavano
uscendo in
giardino. Arwen, silenziosissima, si allontanò da noi e
raggiunse
suo padre, dandogli la mano.
"Arwen,
tesoro, resta con i tuoi fratelli."
Lei
si voltò verso di
me, e mi parve triste.
"Va
bene."
Cosa
avrei potuto dire a
una bambina che non parlava mai?
"Che,
ti piace nostra sorella?"
Non
mi mollavano.
"Guarda
che lei è troppo bella per te."
"E
poi, questo farebbe di te uno della famiglia. Già non
andiamo d'accordo tra di noi..."
"Sì,
complicheresti le cose."
"Ma
io non voglio complicarle!"
Avevo
urlato di nuovo.
Aria,
mi serviva aria.
"E
comunque no, non mi piace... in quel senso."
"Lasciatelo
in pace!"
Finalmente
la voce di Arwen si fece sentire, e mi liberò dalla presa in
cui mi tenevano i gemelli.
Si
incamminò,
indispettita, dietro ai grandi, e io la seguii. Mi voltai per
guardare male i gemelli, che sembravano però tramare
qualcosa. Uno
stava parlando nell'orecchio dell'altro; entrambi mi stavano
guardando e sogghignavano.
Una
volta usciti sul
terrazzo, e scesi fino giù al limitare dei primi alberi, lo
spettacolo che si presentò ai due papà
nonché Grandi Re degli Elfi
fu qualcosa che, personalmente, ancora ricordo con un brivido: Arwen
che mi inseguiva brandendo una scopa, come un furia, e i gemelli che
ridevano assistendo alla scena.
"Ma
non sono stato io!"
"Sei
stato tu! L'hai fatto apposta!"
Capii
che Elrohir e
Elladan erano i reali artefici del misfatto, ma ormai era troppo
tardi.
"Legolas!"
"Arwen,
per la Grazia dei Valar!"
"Cos'è
successo?" - Mio padre aveva uno sguardo orribile.
"Io
non ho fatto niente!" mi giustificai, sulla soglia del pianto.
"Non
ti ho chiesto questo, ti ho chiesto cos'è successo."
"Arwen
si è ritrovata un ragno nella veste."
"E
come ha fatto?" - Elrond era divertito, sotto sotto.
"I
gemelli hanno detto che ero andato nella serra qui dietro –
dove c'era anche la scopa! - e lei mi ha cercato. E LORO le hanno messo
il ragno nella veste."
I
gemelli si stavano
dileguando.
"E
perché ti sei arrabbiata con Legolas?"
"Perché
mi ha teso una trappola."
Femmine....
I
due re si guardarono
per un attimo, sorridendo sotto i baffi. Ma avrei giurato che c'era
anche del sudore freddo, sulla fronte di mio padre.
"Vi
piacerebbe vedervi più spesso?" Mio padre si era
inginocchiato accanto a me. Come gli era potuta venire una domanda del
genere in un momento simile?
"No!"
La
risposta di Arwen fu perentoria, e abbracciò il manico della
scopa.
Io
non sapevo cosa
rispondere.
"A
me farebbe piacere, invece.", sussurrai.
"Bene,
perché da adesso potrai andare oltre confine, fino alla Casa
di Elrond, ogni volta che vorrai."
Mi
si riempì il cuore di
gioia, e salterellai.
"Davvero?"
"Certamente,
potrai stare da loro quando vorrai. Voglio che tu stia con i tuoi
coetanei."
Abbracciai
mio padre e
gli detti un bacio sulla guancia.
Elrond
aveva intanto
recuperato i gemelli, che tornarono verso di noi con lo sguardo
mesto, e accompagnati da due suoi soldati.
Sarebbe
stata una lunga
conoscenza, ne ero sicuro. Ma almeno, non mi sarei più
sentito così
solo.
Tutto
parve andare per il
meglio, fino a quando Elrohir non se ne uscì con qualcosa
come:
"Ma
quindi non gli avete ancora detto che sono fidanzati?"
|
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Capitolo 5 *** La vedetta ***
Hola!
Ecco qua un
nuovo capitolo. Spero davvero vi piaccia. E' un po' più
lungo del
solito, spero non me ne vorrete.
Questo
capitolo è
dedicato a tutte le mie amate Muse, grazie alle quali le giornate
scorrono in allegria, fandom, scleri e ormoni volanti. E Richard
Armitage. Buon Dio.
Un
grazie di cuore a
tutti i lettori che mi stanno seguendo appassionatamente, capitolo
dopo capitolo! Davvero, vi ringrazio dal più profondo del
cuore.
Trovare vostre recensioni è semplicemente bellissimo,
proprio come
le vostre parole coccolose!
Un
abbraccio, e al
prossimo capitolo!
Maiwe
“Legolas,
per favore,
apri questa porta!”
Ero
esasperato. Non
sapevo più cosa fare per farlo tornare sereno. Sapevo che ce
l'aveva
con me.
“Dai,
ti ho anche
portato il libro che volevi!”
La
chiave nella toppa
girò, la maniglia si abbassò e uno spiraglio,
piccolo, minuto e
ombroso, si aprì. Vidi il suo volto corrucciato, e mi
scappò un
sorriso.
“Posso
entrare?”
Lui
si spostò e andò
dritto a sedersi sul suo grande e alto letto, in confronto al quale
sembrava ancora di più un cucciolo.
“Legolas,
perché sei
arrabbiato con me? Perché non vuoi parlarmi?”
Non
rispondeva. Teneva lo
sguardo basso, si fissava i piedi, che faceva ciondolare, e manteneva
il broncio.
“Guardami,
Legolas.”
Mi inginocchiai davanti a lui, così da poterlo guardare
negli occhi.
“No.”
“Ti
ho detto:
guardami.” Ero davvero risentito per quel suo comportamento.
Alzò
finalmente gli
occhi: era proprio arrabbiato.
“Cosa
c'è che non va?”
Gli
scappò una lacrima.
Poi, con voce rotta, mi si buttò al collo.
“Oh,
su! Cosa c'è?”
Me lo tenni stretto finché non rotolammo entrambi a terra.
Restammo
così per un po', lui abbarbicato sul mio petto, io steso sul
tappeto.
“Smettila
di
singhiozzare, su. Non sta bene.”
“Non
me ne importa.”
“E
cosa ti importa,
allora?”
Non
rispose subito.
Passarono alcuni istanti, prima che si decidesse a parlare.
“Devo
per forza
fidanzarmi con Arwen, papà?”
“Oh,
ma allora è tutto
lì, il problema! Perché non me ne hai parlato
subito? E' da quando
sono andati via, che hai questo broncio.”
“Io
non ho il broncio.”
“Sì,
e io sono un
ratto peloso.”
“Perché
Elrohir ha
detto quella cosa?”
“L'ha
detto per farti
un dispetto. Ti sei arrabbiato, eh?”
“Sì.
Io sono ancora
troppo piccolo per fidanzarmi.”
“Certo
che lo sei. Io
volevo solo che tu trovassi degli amici, così come
è necessario che
li abbia io. Elrond lo conosco da molto tempo, è un bravo re
e un
bravissimo padre. I suoi bambini sono molto simpatici, no?”
“...
Sì.” Lo presi
in braccio e lo sollevai in alto, mentre lui rideva, finalmente.
“Ma
mi sono spaventato.”
“E
perché mai?”
“Perché
è una cosa da
grandi. E io non voglio diventare grande, dover fare tutte quelle
cose. A volte i grandi dimenticano, e io non voglio dimenticare. E
ricordati che mi hai promesso di portarmi di nuovo al mare, un
giorno.”
Mi
tirai su a sedere. Lui
scivolò sulle mie ginocchia, ciondolando la testa.
“Legolas,
io voglio
soltanto che tu sia felice. Non desidero altro. Potrei perdere tutto
ciò che ho, non me ne importerebbe, ma non voglio
più vederti in
questo stato, siamo intesi?”
Sapevo
che gli stavo
chiedendo molto. Faceva parte del suo carattere, essere così
introspettivo, quieto, sensibile. Non l'avrei guarito facilmente da
quella sua malinconia.
A
volte lo osservavo
mentre si isolava dal resto del mondo. Aveva alcuni posti preferiti,
per fantasticare, come il limitare di alberi davanti al portone
principale, o la sua camera. Una camera grande, spaziosa, troppo, che
gli avevo allora fatto riempire di libri. Amava i libri, follemente.
“A
proposito”, mi
riscossi, mettendolo a sedere sul letto. “Guarda cosa ti ho
portato.”
“Il
libro delle fiabe
degli animali!” esultò. “Posso leggerlo?
Posso? Herion aveva
detto che i bambini non possono leggere i libri della vecchia
biblioteca.”
“Herion
verrà preso di
peso e appeso per i pollici.”
Rise.
“In
piazza.”
Rise
di nuovo, poi si
riscosse.
“Ma
noi non abbiamo una
piazza.”
“Allora
vorrà dire che
ne farò fare una, e ce lo appenderemo.”
“Va
bene. Però non
fargli male.”
Afferrò
il vecchio libro
con avidità. Lo rigirò tra le mani e lo
osservò attentamente.
Passò un palmo sulla copertina ruvida e polverosa, poi,
finalmente,
l'aprì.
“Mi
leggi questa?”
“La
fiaba del leone?
Vuoi questa?”
“Per
favore, sì!”
E
leggemmo la fiaba del
leone. Il mio bambino era talmente attento, che, affacciato alla mia
spalla, spiava ciò che leggevo. In alcuni momenti, sbagliavo
volontariamente le parole, e lui prontamente, mi correggeva.
“C'è
scritto pelo, non
pelle.”
“Uh,
hai ragione, è
vero.”
“Stai
attento, è
diverso il pelo della pelle.”
Finita
la fiaba,
iniziarono le proteste.
“Non
voglio dormire!”
“Devi
dormire,
altrimenti, domattina, chi ci viene a fare un giro a cavallo con
me?”
“Posso
venire io?”
“Vedremo.
Adesso
dormi.”
Dirlo
e vederlo crollare
fu tutt'uno.
Eccolo
lì. Raggomitolato
nelle coperte, i capelli in disordine, la bocca aperta, il respiro
regolare.
Mi
sdraiai accanto a lui,
e lo abbracciai, mentre lui poggiava la testa sul mio braccio.
A
costo della mia vita,
l'avrei protetto da tutto, l'avrei tenuto stretto così per
tutto il
tempo che ci restava, sarei stato il suo scudo contro ogni lato
negativo del mondo.
Ma,
adesso che eravamo
tornati, eravamo così esposti. Era crudele, quanto, per
proteggerlo,
avessi dovuto metterlo in luce in quel modo. Già, verso sud,
qualcosa si stava muovendo. Scorribande di orchi, sicuramente in
cerca di una traccia. Sospettavano il nostro ritorno. Ci avrebbero
trovati, scoperti, e ci avrebbero eliminati. La foresta era un grosso
boccone, un grande spicchio di Terra di Mezzo, in posizione
più che
strategica, per chi avesse necessità di far dilagare il male
tra i
Popoli Liberi.
Io
avrei fatto scudo con
il mio corpo.
Improvvisamente,
mi venne
un'idea. Sfilai il braccio da sotto la testa di mio figlio, e scesi
dal letto, lentamente, per non svegliarlo. Appoggiato il libro per
terra, rimboccai per bene le coperte, finché non divenne un
fagotto.
Mi assicurai che le tende fossero tirate a dovere, alla grande
finestra della stanza, dalla quale si vedeva tutta la Via Silvana, e
uscii, chiudendo la porta.
Una
guardia, in
corridoio, scattò sull'attenti. Gli feci un cenno e
proseguii, lungo
i cunicoli della reggia.
Attraversai
i lunghi
corridoi in pietra grezza, a passo svelto, illuminati soltanto dalla
luce delle torce. Mi venne incontro Galion.
“Ti
stavo cercando.
Vieni con me.”
“Mio
signore?”
Traversammo
la grande
sala d'ingresso del palazzo, scendendo velocemente la scalinata. I
passi riecheggiavano nel salone, e il rumore di cardini della grande
porta fu quasi inquietante, mentre la luce della luna arrivava a
illuminarci. Uscimmo. Le guardie, dopo un rapido cenno, ci chiusero
il portone alle spalle.
Tirava
un forte vento
freddo. L'inverno era già in cammino.
“Mio
signore: dove
siamo diretti?”
“Alla
Via Silvana.”
“Alla
Via Silvana,
Maestà? Ma sono state avvistate scorribande di orchi, questa
mattina, Signore. Non credo sia saggio, recarvisi col buio.
Potrebbero essersi accampati”.
“Non
importa, devo
farlo adesso. Domani potrebbe essere troppo tardi. E poi, le guardie
hanno già fatto il loro dovere a tempo debito. Siamo
protetti.”
“Vi
faccio sellare il
cavallo.”
In
breve tempo, seguendo
un sentiero minore tra la boscaglia, raggiungemmo l'Antica Via.
Fermai
il cavallo e mi
guardai intorno.
“A
ovest, Galion”.
Ripartimmo al galoppo, per poi salire nuovamente verso nord di poche
miglia. Il rumore degli zoccoli su quel terreno stranamente brullo,
nonostante le abbondanti piogge dei giorni precedenti, mi intimoriva.
Qualcosa si stava risvegliando, nella terra, di malvagio. Lo sentivo.
L'aria era pregna di polvere, e gli alberi sembravano incupiti, i
rami appesantiti.
“Ci
siamo.”
Eccoli
là: i grandi
alberi di quercia. Un passaggio naturale che portava diretto verso i
Monti del bosco, cioè verso la reggia. Sembrava una
cattedrale
incustodita, un baluardo andato in rovina, e preda dell'edera e del
tempo.
Smontai
da cavallo e
osservai quella strana meraviglia, resa ancora più
inquietante dal
buio e dal cielo che solo a tratti rivelava la luce della luna,
quella sera.
“Questa
può diventare
una grande risorsa, Galion.”
Feci
qualche passo
avanti, verso i primi alberi. Erano disposti in modo esattamente
parallelo, come se fossero stati piantanti appositamente per
ombreggiare un futuro camminamento, e la loro altezza e
maestosità
li rendeva saldi e fieri alla vista. Dai rami più altri, le
vedette
avrebbero avvistato anche il minimo pericolo o movimento, in
qualsiasi direzione.
“Signore...”
“Farò
costruire qui la
vedetta. Che ogni ramo parallelo costituisca un piano d'appoggio.
Dovrebbero venirne fuori almeno tre, vista la precisione con cui sono
stati curati questi alberi. Sulle cime, verrà la tettoia, il
punto
d'osservazione più alto del regno. Che ogni palmo della
foresta sia
sorvegliato a dovere, che i confini resistano.”
“Vostro
padre fece
crescere queste querce, Signore. Il suo desiderio era quello di avere
un grande passaggio trionfale che conducesse, in armonia, al palazzo.
Volete trasformarlo in una torre d'avvistamento?”
“I tempi
stanno cambiando. Presto non ci pentiremo di questa scelta.
Più
saremo pronti, più saremo protetti. Quando ho visto per la
prima
volta questi alberi, qualche giorno fa durante una perlustrazione,
non ho percepito subito il valore della loro posizione. Sono una via
d'accesso privilegiata al palazzo. Gli orchi sono arrivati fino alla
Via Silvana. Non ci metteranno molto ad arrivare fino a noi, se non
saremo preparati. Il mio dovere è quello di proteggere il
mio
popolo.”
Rientrammo
verso la
reggia, il freddo cominciava a diventare gelo. Ci fu aperto il
portone, e, finalmente, date le ultime direttive a Galion, potei
incamminarmi verso la mia stanza. Superai la porta della camera di
Legolas, e feci per entrare, ma lasciai andare la maniglia. Non
volevo svegliarlo.
Mi
sedetti sul letto. Mi
sfilai gli stivali, appoggiai la corona sulla cassettiera, liberando
finalmente le tempie, e mi lasciai cadere fra i cuscini, freddi.
Avevo
chiuso gli occhi da
pochi secondi, quando una mano mi si spiaccicò sul naso.
“Ada!”
“Legolas!
Cosa c'è?
Stai bene?”
“Posso
dormire con te?”
Mi
rilassai, sospirando.
“Hai
fatto un brutto
sogno?”
“Sì.”
“Vieni
qui. Copriti
bene e dormi.”
Si
avvolticciolò nelle
coperte, sbuffando, e si coprì fino alle orecchie. Fu una
pace lunga
la bellezza di due secondi, poi, nuovamente, il dubbio.
“Papà?”
“Hm?”
“Posso
passare tutto il
giorno in biblioteca, domani?”
“Se
lo desideri...”
“Dovrai
parlare con
Herion.”
“Ci
parlerò.”
“Lo
appenderai per i
pollici nella piazza che non abbiamo?”
“Vedremo.”
“Ma
quando conoscerò
il mio istitutore? La tata ha detto che presto
arriverà.”
“Sì,
e vedrai che ti
piacerà. E poi, l'hai già conosciuto.”
“Devo
studiare per
forza?”
“Vuoi
essere appeso per
i pollici anche tu?”
“No!”
“E
adesso dormi.”
“Papà?”
“Hm?”
“Non
arrabbiarti con la
guardia in corridoio. Gli ho detto che venivo da te. Non è
colpa
sua.”
“Non
mi arrabbierò. Ma
adesso dormi.”
“Papà?”
“Hm.”
“Sarei
felice solo con
Arwen come tu lo eri con la mamma?
“Legolas,
sono stanco,
non dobbiamo parlarne adesso...”
Il
silenzio che mi giunse
in risposta mi fece sentire uno schifo. Sapevo che significava
dubbio, domande, insicurezza. Meglio cavargliele subito via,
così da
dormire serenamente.
“Va
bene. No, tesoro,
ti ripeto: era uno scherzo sciocco. Ammetto, però, che sarei
felice
se, da grandi, vorreste stare insieme.”
“Ci
penserò su.”
“Hai
tutto il tempo.
Arwen è molto carina, comunque .”
“E'
bellissima.”
Gli
passai una mano tra i
capelli, poi, finalmente, ci addormentammo.
|
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Capitolo 6 *** I cancelli del Re ***
Salve a tutti,
cari! Nuovo capitolo,
un bel balzo in avanti nella storia. Non odiatemi troppo.
Spero vi piaccia.
Il capitolo
è, nella sua seconda
parte, quella dedicata alla festa, basata sul primo incontro che
facciamo con Thranduil (e Legolas) ne 'Lo Hobbit'. Ho ripreso quanto
racconta Tolkien e l'ho adattato al punto di vista degli Elfi, in una
sorta di, secondo me dovuto, “dietro le quinte”.
Un abbraccio,
Maiwe.
P.S.: Il capitolo
è dedicato a mia
moglie Charme, onnipresente consulente, e a Lady Hawke, che, col suo
fluffare in stile mina vagante, uccide i miei poveri sentimenti, ma
almeno mi ha garantito una spalla su cui piangere
“always.” Bada
che ci conto.
Presi la mira. Anche 'sta
volta, centro
perfetto. Quell'arco era semplicemente fantastico. Flessibile,
maneggevole, leggero. Certo, non aveva una gran gittata. Ma grazie
alla sua sottigliezza potevo mettere perfettamente a fuoco il mio
obiettivo.
Mi trovavo ad ovest del
palazzo. Avevo
preso ad allenarmi intensamente, in quegli ultimi mesi. Mi era stato
detto che possedevo un incredibile dono, una mira micidiale, e la
voce si era sparsa. Mi sentivo forte, riuscendo a difendermi da solo.
Mi sentivo potente.
Respirai a fondo, e
allentai la presa.
Perché me la prendevo così tanto con la mia
posizione? Io amavo
vivere a Bosco Verde. Era ciò che più desideravo
nella vita. Ma, da
qualche tempo a quella parte, mi sentivo vuoto, deluso, apatico.
Avevo bisogno anche di altro.
Tesi nuovamente l'arco,
spingendo
all'estremo la potenza del mio diaframma. Il bersaglio era parecchio
lontano, ma scoccai ancora una volta.
La freccia
saettò, volò in una
leggera iperbole, frinì a contatto con l'aria.
Un tocco secco, nell'aria
ferma, nella
distanza.
Centro.
Decisi di fermarmi. La
catena di
pensieri che mi aveva avvinghiato non mi piaceva per niente.
Eppure, in fondo al cuore,
provavo
disagio. Ero felice lì, dico davvero, ma non potevo non
avvertire il
peso del cambiamento che stava sconvolgendo la nostra vita.
Ad Est, qualcosa stava
cambiando, ormai
già da tempo. Sul limitare sud della Foresta raramente
arrivavano a
battere i raggi del sole, e il cielo si intorpidiva giorno dopo
giorno. Cosa stava accadendo?
Scorribande di orchi
varcavano i
confini come non mai, e noi, e io, avevamo imparato a respingerli.
Non sarebbero mai arrivati a mio padre. Non avrebbero mai toccato
casa nostra, la dimora della mia gente.
Odiavo quegli scontri.
Avevo già perso
molti compagni. Ma erano l'unica via per sopravvivere, e le
incursioni di quegli esseri schifosi erano ormai all'ordine del
giorno.
Mio padre non voleva che io
impugnassi
quell'arco. O meglio, era stato lui stesso a insegnarmi, a mettermi
in allerta, a impostare il nuovo corpo di guardia del Regno. E avevo
voluto parteciparvi anch'io. Avevamo litigato, per questo. Ma ero
riuscito a impormi. Non potevo restarmene fermo, con le mani in mano,
mentre la mia gente moriva, e lui aveva capito. Certo, però,
non
l'aveva presa bene.
E poi, era arrivato davvero
il
cambiamento.
Il
palazzo, adesso, un tempo meravigliosamente libero, arioso e a
stretto contatto con la Foresta, era diventato una fortezza
invalicabile.
Il
Bosco aveva cominciato ad adombrarsi, e mio padre con lui.
Avvertivo,
conoscevo perfettamente il peso delle sue responsabilità di
re. Ma
odiavo quella fortezza che aveva fatto erigere a protezione, quelle
mura grige, orribili, scure, cupe.
Io
volevo respirare.
Io
volevo vivere senza barriere.
Ma non
era possibile. Eravamo sull'orlo di un'invasione vera e proprio ogni
giorno, e non c'era amico che potesse aiutarci, perché la
situazione
era la stessa ovunque.
Il
Bosco Verde, orgoglio e baluardo della Terra di Mezzo come Grande
Foresta degli Elfi silvani, era adesso additato come il Bosco Atro,
o Bosco Tetro, e o
morivo dentro ogni volta che giungevano simili notizie fino a noi. Il
potere di mio padre era grande. Ma poteva contare solamente sulle
proprie forze. Non aveva doni magici che lo aiutassero a gestire e
mantenere intatti i confini. Non eravamo stati fortunati come gli
altri. Nessuno ci aveva regalato mai niente, e questo cominciava a
gravare sulle spalle del nostro Re.
Ma non soltanto: vi era
più di una
voce che il Male stesse tornando. Lo percepivamo nell'aria, nella
terra e negli alberi stessi, che perdevano il loro vigore, e le
foglie non erano più verdi da molto tempo. Tutto si stava
incupendo.
E la causa era stata individuata nella vecchia Fortezza di
Dol-Guldur. Ma non avevamo prove. Eravamo soli e spaventati.
E poi, c'erano i Ragni.
Il sud del Bosco era
diventato ormai
invivibile, inutile negarlo.
La nostra terra era
sull'orlo della
sbaraglio, e non negavamo ai nostri sudditi e compagni di partire, se
lo desideravano. Il bosco era saturo di aria ferma, di putredine. E
questo ci stava lentamente avvelenando, sbiadendo, uccidendo. Il
Bosco si era ammalato.
Pochi, come me, erano
rimasti e
combattevano. Ero tra i più giovani, e non sapevo ancora
gestire la
mia rabbia, né le mie forze.
L'unica salvezza era
proprio la cinta
muraria che mio padre aveva fatto edificare a protezione della
Reggia, adesso casa di tutti noi silvani.
Mio padre era quel che si
sarebbe
definito un Grande Re, vicino al suo popolo nel momento del bisogno.
Ma odiavo quelle mura con
tutto me
stesso.
“E' ora di
rientrare.”
“Adesso
arrivo.”
“Tra poco
sarà il tramonto. E sai
cosa accade, dopo il tramonto.”
“Lo so bene.
Solo, non ho voglia di
rientrare.”
“Legolas, ti
prego. Fai come ti
dico.”
“Perché devi sempre dirmi cosa devo
fare?” sbottai,
esasperato. La sola idea di rientrare in quei cunicoli mi toglieva il
fiato.
“Sono tuo padre,
credo sia mio
diritto e mio dovere.” Calcò marcatamente il
“mio”. Sapevo che
si stava riferendo a me, con quella parola.
Mi voltai, guardandolo
negli occhi,
togliendo la presa dall'arco.
Il suo sguardo di ritorno
mi bloccò, e
non riuscii a dire proprio tutto ciò che avevo in mente.
“Padre,
non...”
“Rientriamo.”
Fu la sua risposta,
dopo qualche istante.
Lo seguii, e le guardie ci
fecero
strada.
Grida si levarono alle
nostre spalle.
Orchi, sicuramente. Si stavano muovendo, avanzavano verso la nostra
roccaforte, verso i Cancelli. Erano sicuramente poco lontano, lungo
la Via Elfica.
Varcammo la soglia, infine,
appena
superato il ponticello che sovrastava un tratto del fiume Selva.
Entrammo dentro, e il grande cancello che ci separava dal resto del
Mondo si chiuse alle nostre spalle. Provai una sensazione di
soffocamento, ma non dissi niente. Negli occhi di mio padre aleggiava
disperazione e rabbia, e lo capii. Ma non potevo aiutarlo.
Quella sera, comunque,
erano previsti
festeggiamenti.
Ma non volli prenderne
parte. Mi
ritirai in camera mia, deciso ad andare a letto presto, o quantomeno
a leggere; non riuscivo a dormire bene da molte notti, ormai.
“E va bene, hai
vinto tu.” Mio
padre si affacciò alla porta della stanza, in sottofondo i
rumori
della festa. “Il festeggiamento proseguirà fuori.
Ti va di
unirti?”
“Ma è una follia!” Protestai.
“Non possiamo
esporci così.” Quella che era certamente una bella
notizia mi
sconvolse più di quanto avrei creduto.
“Siamo sempre
esposti, noi due.”
Sorrise. “E poi, non erano orchi, quelli che abbiamo sentito
prima
e per tutto il resto del giorno, e sono già tre giorni che
non se
ne vedono. Credo che la nostra gente se la meriti, una boccata
d'aria.” Disse, citando le mie parole di qualche giorno prima.
Non risposi, mi pareva
un'idea balzana.
“La vedetta
è stata molto ottimista.
Te lo assicuro, possiamo uscire.” Sorrise di nuovo.
“Vengo
anch'io.”
Mollai il libro da una
parte e scesi in
mezzo alla mia gente.
Erano tutti molto felici di
vedermi lì,
tra di loro, giacché non capitava spesso, a dire il vero. E
mi fece
bene al cuore, dopotutto. Avevamo un gran bisogno di sfogarci, tutti
quanti. Cantammo e ballammo, e bevemmo vino. Sembrava di essere ai
vecchi tempi, quando ero piccolo e festeggiavamo in mezzo agli
alberi, con danze e musica, e ridevamo, leggeri.
Mi soffermai a guardare
alcune
fanciulle che danzavano spensierate, e la serata miglioro nettamente.
Amavo guardale ballare. Mi riempiva il cuore. Sarà che io
ero del
tutto negato, e per me rappresentava un mistero come fosse possibile
saper ballare.
La tavola era divinamente
imbandita, ed
erano state appese torce sugli alberi tutti intorno a quella piccola
radura in cui ci trovavamo, come nelle feste di mezza estate. La luce
rischiarava i volti di tutti i commensali, delle ragazze che
danzavano e dei musicisti, che avevano imbracciato le loro arpe
migliori e la musica che spandevano tutto attorno era come uscita da
un sogno.
Le grida che avevamo
sentito, però,
continuavano a ripresentarsi, e a farci sobbalzare. E,
improvvisamente, accadde l'impensabile.
Ci attaccarono.
Scattammo ai posti di
manovra in un
battito di ciglia, mentre le guardie spensero subito le torce e
gettarono acqua sul fuoco attorno al quale le tavole erano state
imbandite. In meno di un istante, mi arrampicai su uno degli alberi
al limitare della radura, un braccio attorno ad un ramo, i piedi
puntati sul tronco, pronto a scattare. E così, tutti i
commensali.
La musica era stata
interrotta con uno
stridulo accordo. Il buio regnava sovrano, e le figure, per la
verità
basse, tozze e poco rapide, quindi non certamente orchetti,
sbraitavano e correvano tutto intorno ai resti del braciere. Sembrava
che fossero incapaci di vedere al buio, e cozzavano tra di loro,
chiamandosi. Nani?
Rientrammo, lentamente e
silenziosamente, verso l'interno della foresta, scendemmo dalle
nostre postazioni sui rami. Eravamo tutti radunati e, sul frastuono
che quelle figure continuavano a provocare come se si fosse appena
scatenata l'apocalisse e la Tenebra Eterna, raggiunsi mio padre, per
avere direttive.
“Cosa
facciamo?”
“Ci spostiamo
leggermente verso la roccaforte. Saremo più al sicuro. Non
sembrano
volerci attaccare, si stanno accampando.”
“E li lasciamo
fare?”
“Aspettiamo.
Vediamo cosa succede
nelle prossime ore.”
Ci spostammo, decisi a
continuare il
nostro festeggiamento. Non trattandosi di orchi, ci sentivamo
più
tranquilli. Restava da chiarire cosa volessero dei Nani nelle nostre
terre, ma probabilmente non l'avremmo scoperto, quella notte.
Non fu così. Ci
corsero incontro,
armati, nuovamente. Ci eravamo appena sistemati attorno ad un nuovo
focolare, quando, gridando come ossessi, ci attaccarono. Spaventati,
ripetemmo la nostra difesa: luci spente, rintanarsi. Al buio, non ci
vedevano, erano davvero disorientati.
“Spostiamoci
nuovamente, adesso verso
la reggia. Devo capire costa sta succedendo. Allestiamo di
nuovo.”
Mio padre parlò ai molti presenti con la mente,
rassicurandoli.
Eravamo tutti incuriositi. “Credo proprio che stasera avremo
delle
sorprese.”
Ci muovemmo, ma non prima
di aver
invocato, per difesa, un incantesimo del sonno: il carisma elfico
poteva controllare le emozioni altrui, e spargemmo abbondante
sensazione di sonnolenza attorno al luogo che stavamo lasciando. Ma
solamente una figura parve caderne vittima, la più piccola
ed esile
di tutte, che adesso giaceva addormentata, nonostante i richiami
tonanti dei suoi compagni.
In poco tempo, avevamo
riallestito, e
le tavole nuovamente imbandite attorno ad un grande focolare. Per
alcuni momenti, non successe niente, se non musica e danze, le
più
belle della serata.
Poi, eccoli, finalmente: i
Nani si
affacciarono al limitare della nuova radura, scrutandoci, convinti di
non essere né visti né sentiti. Avvertivo la loro
bramosia, erano
esagitati, quasi follemente disperati. Mi domandai perché, e
in
quell'istante uno di loro, moro e con una barba non troppo lunga,
negli occhi la scintilla del leader naturale, si fece avanti,
maestoso, entrando nella luce della torce. La musica si
fermò, i
balli si arrestarono, i commensali si irrigidirono, e Thorin
Scudodiquercia fissò, accigliato, mio padre, brandendo una
grande
spada elfica. Re Thranduil posò il suo bicchiere di vino,
guardò
negli occhi il Nano: non vi lesse altro che pericolo, arroganza e
senso di superiorità. Dette l'ordine e il buio
calò di nuovo.
Catturammo il Nano e lo
portammo con
noi. Gli altri si congelarono nel loro nascondiglio.
A loro avremmo pensato poi.
Dovevamo sapere il
perché di
quell'attacco.
I nostri popoli non erano
più in buoni
rapporti da molto tempo, ormai, ma mai un Nano aveva osato tanto,
sfidare apertamente un nostro leader.
Superammo il fiume e lo
portammo
all'interno della roccaforte, superando i Cancelli del Re.
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Capitolo 7 *** Il tesoro del Re Thranduil ***
Bonsoir! Ecco,
finalmente, un nuovo
capitolo. Ancora una volta, si riferisce direttamente al libro
“Lo
Hobbit”, analizzando l'incontro-scontro tra Elfi e Nani dal
punto
di vista dei primi, cioè in modo inedito. Alcuni dialoghi
sono stati
estrapolati dal libro e riprodotti testualmente (lo dico anche a mo'
di disclaimer, non si sa mai.)
Spero di aver reso
in modo credibile
e coerente il punto di vista di Thranduil. Fatemi sapere che ne
pensate! No, le mazze chiodate vanno lasciate all'ingresso, grazie.
^^
Questo capitolo
è dedicato alle mie
amate “Lettrici accanite” che, settimana dopo
settimana, episodio
dopo episodio, mi seguono con un affetto che non avrei mai immaginato
e un amore per la storia per il quale non smetterò mai di
ringraziarle!
Un abbraccio
ciccioso,
Maiwe
“Perché
tu e i tuoi
avete attaccato per tre volte il mio popolo durante i loro
festeggiamenti?”
Lo
guardai severamente.
Quel Nano mi piaceva ogni istante di meno, e il suo sguardo era un
chiaro segnale di sfida e arroganza; ma non avrebbe prevalso, poco ma
certo. Non nel mio regno. Se si fosse mostrato disposto a
collaborare, tutto sarebbe sicuramente andato per il meglio, ma ero
più che certo che quella situazione di stallo tra i nostri
popoli si
sarebbe presto frantumata. I Nani stavano agendo alle nostre spalle,
e la loro meta era senza ombra di dubbio la Montagna Solitaria.
I
nostri confini
sarebbero andati distrutti, e con esso la Foresta, se avessero osato
risvegliare la Bestia.
Non
potevo permettere
tanto, non soprattutto se stavano agendo alle mie spalle.
Thorin
Scudodiquercia,
per qualche istante, non pronunciò una parola, ma
continuò a
guardarmi con aria arrogante. Infine, parlò, lo sguardo
infuocato,
la voce grave.
“Non
li abbiamo
attaccati. Venivamo a chiedere l'elemosina, perché morivamo
di
fame.”
Arrogante
e impertinente.
Osava forse prendermi in giro? Nessuno chiederebbe l'elemosina
facendo un simile baccano. Il pensiero di tutta la mia gente era
stato unanime: ci stanno attaccando. I Nani sono per natura
chiassosi, a partire dal loro stesso respiro, e passare inosservati
di notte nel folto della foresta non era loro riuscito. Un simile
caos ci aveva messi tutti in allarme. Oltretutto, ciò che
più mi
disturbò delle sue parole fu il riferirsi al mio popolo con
“non
li abbiamo attaccati”, come se, invece, la cosa non mi
riguardasse
in prima persona. Cosa voleva dunque significare, la sua frase? Non
misi tempo in mezzo. Girai la domanda, cercando di andargli incontro.
“Dove
sono i tuoi
amici, allora, e cosa stanno facendo?”
“Non
lo so”, rispose
immediatamente lui, “ma immagino siano rimasti nella foresta
a
morire di fame.” Continuava a calcare
quella fastidiosa
frase. Pensava forse di impietosirmi? Non era il momento per
convenevoli. Avrebbero avuto cibo e acqua in abbondanza, da noi, per
quanto non fossimo in buoni rapporti, se solamente si fossero decisi
a deporre le armi.
“Che
cosa facevate
nella foresta?” Insistetti. Ci stavamo studiando a vicenda, e
nessuno dei due avrebbe ceduto per primo, questo era certo. In una
partita a scacchi, saremmo stati ancora entrambi fermi a studiare la
prima mossa.
“Cercavamo
da mangiare
e da bere, perché stavamo morendo di fame.”
Non
accennava a cedere,
dunque. Gli riusciva molto bene, la provocazione.
“Ma
che ci siete venuti
a fare, nella foresta?” Sbottai.
Ne
seguì un lungo
silenzio, in cui Thorin Scudodiquercia serrò la bocca,
continuando a
guardarmi con le fiamme negli occhi, saldo, immobile nella sua
posizione.
“Benissimo!”
Conclusi. “Portatelo via e tenetelo al sicuro,
finché non si
sentirà più propenso a dirci la
verità, dovesse metterci
mille anni.”
Neanche
allora, sotto il
peso della minaccia di essere sbattuto in cella, il Nano
aprì bocca.
“Bene,
è deciso,
allora.”
Le
mie guardie fecero un
passo, afferrando Thorin.
Mi
alzai dal trono e
andai loro incontro. Neanche allora il Nano si mosse.
“Portatelo
via.”
Sibilai, al limite della sopportazione.
Non
mi interessava che
avessi di fronte un mancato Re dei Nani, un Principe senza patria,
quel che mi premeva era la totale e certa salute del mio popolo.
Thorin non avrebbe violato i miei confini per suoi scopi personali,
tanto meno se si trattava di andare a risvegliare un drago che
dormiva al limitare della mia foresta. Avevo il dovere di valutare il
pericolo in ogni sua forma e dimensione, se ciò implicava il
mio
popolo e la mia famiglia. La foresta sarebbe andata distrutta, se il
Drago fosse stato risvegliato.
“Andate
a prendere gli
altri.” Dissi, senza forze, buttandomi a sedere sul trono.
Vidi
mio figlio, in fondo
alla sala. Non feci in tempo a indirizzargli uno sguardo sincero, un
“Non ti preoccupare, so quello che sto facendo”,
che già si era
voltato, e stava conducendo i suoi uomini fuori dalle mura.
In
quel momento, mi
ritrovai solo.
La
sala, prima gremita di
guardie e confusione, quanto, allo stesso tempo, di silenzio e parole
pesanti come pietra, adesso giaceva in un assordante vuoto.
Ero
seduto sul mio trono
e non avevo nessuno accanto. Chinai la testa.
Era
l'unica cosa giusta
da fare, mi ripetei: non potevano certo pensare, quei Nani, che li
avrei lasciati fare. La loro avidità molte altre volte aveva
minacciato il mio popolo, con insinuazioni e provocazioni, dalle
quali, lo ammetto, ci eravamo lasciati coinvolgere. Da molto tempo,
ormai, non esistevano più rapporti di pace con Erebor.
Se,
però, adesso, anche
Legolas mi fraintendeva, era la fine.
Ma
non avrei ceduto.
Non
prima di aver
ottenuto parole utili dal Re dei Nani, parole di aiuto reciproco e
concordia.
'Posso
ricordarti che la
stai cercando, la concordia, mettendolo dietro le sbarre?' Mio figlio
mi parlò con la mente. Mi stava ascoltando, dunque, mentre
marciava
in direzione del “nascondiglio” dei Nani. 'Non
crederai che ci
diranno tutto, vero? Questi non cederanno.'
'Ne
sono consapevole. Li
avete trovati?'
'Stiamo
arrivando.'
Avevano
fatto presto. Mi
alzai e vagai per la sala, soppesando la situazione in cui mi
trovavo. Un altro re cosa avrebbe fatto? Un re saggio, un re
magnanimo, disposto a sacrificare tutto per la pace? Io potevo
solamente impedire la disfatta e la dispersione totali di quel che
restava del mio popolo. Nessuno doveva azzardarsi a vagare per il mio
regno con l'esplicito intento di pugnalarmi alle spalle, come se a
Eryn Galen, a Bosco Verde, non abitasse nessuno.
Certo,
per loro, adesso,
era solamente il 'Bosco Atro',
un luogo putrido e infetto.
'Padre,
siamo arrivati. Stiamo per entrare nella sala'.
Ciò
che mi si parò davanti agli occhi fu una sciatta combriccola
di Nani
bagnati fradici, sporchi e ricoperti di ragnatele. Nessun dubbio che
mi fecero pena. Ma sarei dovuto rimanere irremovibile.
Attraversarono
la sala, guardandosi intorno, in soggezione, furenti e stanchi allo
stesso tempo.
Mi
furono portati davanti. Mio figlio era di nuovo a fondo sala,
nell'ombra. Gli lanciai un'occhiata, ma lui abbassò la
testa. Mi
tremò il cuore.
“Che
aspettate? Slegateli. Non vedete come sono ridotti?”, dissi
alle
guardie. Erano veramente stanchi e laceri. “Inoltre, qui non
servono corde. Non c'è modo di sfuggire attraverso le mie
porte
magiche, una volta che
si è portati dentro.”
Calcai
il “magiche”, parola che, di solito, metteva i Nani
in ulteriore
soggezione.
Mi
avvicinai a loro, deciso a guardarli negli occhi, uno ad uno. I
più
giovani risposero a tono, alle mie domande, mentre gli anziani
aspettarono, prima di intervenire. Ma tutto ciò che ottenni
furono
risposte stentate e assolutamente irrisorie, tanto quanto quelle di
Thorin.
“Ma
cosa abbiamo fatto, o Re?” chiese infine quello che mi parve
il più
anziano della compagnia. “E' forse un crimine perdersi nella
foresta?”. E osò nominare i Ragni.
Mi
infuriai.
“E'
un crimine vagabondare per il mio reame senza permesso! Dimentichi
forse che eravate nel mio regno, e che vi servivate della strada
fatta dal mio popolo? Non avete forse cercato, per ben tre volte, di
attaccare e disturbare
il mio popolo nella foresta? E non avete forse eccitato i Ragni, col
vostro chiasso e il vostro clamore?”
Ripresi
fiato, cercando di calmarmi.
“Dopo
tutti i fastidi che avete dato, ho ben il diritto di sapere
perché
siete venuti qui.”
Il
silenzio, nella sala, era quasi sovrannaturale.
“E,
se non me lo volete dire adesso, vi terrò in prigione
finché non
avrete imparato un po' di buona educazione e di buon senso.”
Un
tremito, passò, allora, tra i Nani. Ma neanche allora
uscirono fuori
le loro intenzioni.
Ordinai,
duqnue, che venissero messi in cella, ciascuno separatamente.
Una
volta allontanati dalla sala, richiamai una guardia e disposi cibo e
acqua in abbondanza. Ma non avrebbero potuto oltrepassare la soglia
della loro cella, finché non si fossero decisi a parlare.
C'era,
inoltre, qualcosa che non quadrava. Non era soltanto una sensazione,
ma una certezza, quella che mi vorticava in testa. Questi Nani
nascondevano molto più di quanto non lasciassero trapelare.
Dove
era infatti finita la piccola figura, quasi certamente uno Hobbit,
che li accompagnava? Non si trovava tra i prigionieri, e certamente
ai miei uomini non era sfuggito. Cosa ancora più strana e
interessante, la sua presenza era percepibile ai sensi elfici in modo
molto chiaro, nella sala.
Ecco,
adesso era chiaramente spaventato, poiché stavo,
evidentemente,
guardando nella direzione del suo nascondiglio. Possibile che si
fosse celato alla vista?
Una
nuova paura si insinuò nei miei pensieri: un male antico, lo
stesso
che sentivo crescere, giorno dopo giorno, nella fortezza a sud.
Decisi
di assecondare lo Hobbit, disponendo mentalmente alle guardie di
comportarsi come se non ci fosse. Ci sarebbe certamente tornato molto
utile, a tempo debito; sperando che le mie paure fossero infondate,
sull'origine della sua invisibilità.
Raggiunsi
mio figlio. Ma, non appena gli fui abbastanza vicino, si
scostò
nuovamente, e, voltandomi le spalle, se ne andò dalla sala.
Non
saprei descrivere a parole quello che provai in quel momento. Era
come se mi fosse appena stato tolto tutto, ogni cosa.
“Legolas!”
chiamai, e la mia voce riecheggiò nel corridoio vuoto.
Quella
sera, mi recai alla cella di Thorin Scudodiquercia. Ero deciso a
trattare, come lo ero stato fin dall'inizio, non appena avessi
ottenuto le conferme che mi necessitavano.
“Cosa
desideri, o re?” Il Nano anticipò ogni mio
discorso, parlando per
primo non appena arrivai vicino alle sue sbarre, ma non si
voltò
verso di me.
“Desidero,
o Nano, che sia rispettata la mia gente, e la mia autorità.
Cosa
volete, ai confini della Foresta?”
“Da quando gli Elfi si
interessano delle faccende dei Nani?”
“Da
quando rischiate di ucciderci tutti”, ringhiai,
avvicinandomi. “I
vostri tesori sono così importanti da mettere a repentaglio
la Terra
di Mezzo intera? Forse vi siete dimenticati la furia del
drago.”
“Non
parlare a me della
furia del drago. A differenza vostra, nessuno di noi ha potuto
dimenticare”. Mi voltai, sbuffando. “Quanto a
tesori, direi che
non sei nella posizione migliore per parlare di oro, Re
Thranduil.”
“A
cosa ti stai riferendo?”
“Si
parla persino fino alle Montagne ad Ovest, e fino alle Montagne
Azzurre, del tuo grande Tesoro. Un tesoro leggendario. Eppure,
l'avidità degli Elfi è tale da esigere quello di
un Nano, e del tuo
oro non sei sazio. Da quando il potere dei Re Elfici è
caduto così
in basso? Da quando la loro avidità e la loro bramosia
precedono di
gran lunga la loro fama, forse? So anche, inoltre, che, in
particolare, hai un debole per le gemme verdi...”
Basta, ne
avevo abbastanza. Mi voltai, e feci per andarmene, quando decisi,
invece, di rispondergli.
“Non
vi smentite mai. Per voi, i Tesori sono oro, oro, montagne di oro, e
pietre preziose, ricchezze inimmaginabili fin dove occhio
può
vedere. Di' alle tue leggende di ravvedersi, poiché non
rispecchiano
la realtà, o meglio, non nel senso che tu la intendi. Molte
sono le
voci sui Re Elfici, tra la tua gente, eppure nessuna di esse arriva
a scalfirmi.”
Uscii.
Mi diressi d'un fiato sulla terrazza superiore della fortezza, un
grande spazio circondato da alberi e roccia, di modo che paresse,
dall'esterno, soltanto una collina alberata. A spezzare l'illusione,
il grande cancello in pietra sottostante.
“Legolas”
lo salutai, affannato. “Tutto bene?”
“Certo”,
rispose lui, dopo qualche istante, “perché non
dovrebbe?”
Non
si era neanche voltato per parlarmi.
“No,
non ce n'è motivo, effettivamente.”
Il
silenzio era ormai entrato a far parte di noi, delle nostre
conversazioni. Ma non un silenzio fertile, una comunicazione senza
parole, bensì un silenzio grave, vuoto.
Avevo
perso mio figlio.
E non
sapevo come fare per riaverlo indietro.
“Volevo
soltanto sapere come stavi.”
Sembrava
non capirmi più. E lo vedevo, che soffriva, a restare dentro
le
mura, a eseguire gli ordini che, mio malgrado, ero costretto a dare.
Lui questo lo sapeva, lo sapeva che non ero un cattivo re, ma avevamo
soltanto la sfortuna di vivere dentro tempi malvagi, dove niente
andava per il verso giusto, con o senza la mia volontà. Ci
erano
mancate soltanto le schermaglie di un gruppo di Nani, a mettere
ulteriormente in pericolo i nostri confini.
“Stai
attento a non prendere freddo, tesoro.”
E
rientrai.
|
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Capitolo 8 *** Elfi, Uomini, Nani. ***
Attenzione! Contiene
spoiler sul finale
de 'Lo Hobbit.'
Hola! Nuovo
capitolo! Scusate se ho
tardato con la pubblicazione, si è trattato di una stesura
piuttosto
complessa di un argomento che, da una parte, nel libro dura dieci
pagine, ma dall'altra non abbonda certo in descrizioni e spiegazioni.
E' stato un lungo lavoro di ricostruzione, soprattutto legato al far
coincidere i tempi e i momenti dei tre eserciti. Spero di esserci
riuscita.
Come avrete
capito, esattamente,
siamo alla Battaglia dei Cinque Eserciti. Un momento del libro de 'Lo
Hobbit' che amo particolarmente per la sua drammaticità e
per quanto
porti a fantasticare, proprio in virtù del fatto che
Tolkien,
all'atto pratico, la sciala un po', non entra mai nei dettagli e nei
particolari.
Cooomunque, il
capitolo è piuttosto
lunghetto, effettivamente. Spero non mi odierete. E' che non volevo
spezzarlo sul più bello, lasciando il tutto a
metà.
Ringrazio, come
sempre, tutti i miei
“seguaci”, che non finirò mai di
ringraziare, e chiunque vorrà
leggere e commentare!
Un abbraccio,
Maiwe
Possano
la tua forza e il tuo vigore non cedere mai.
Una
nube nera aveva improvvisamente attraversato il cielo. E tuoni
avevano riecheggiavano da lontano, diretti verso la Montagna
Solitaria.
Possa
tu a lungo regnare in nome di tuo padre e in favore del tuo popolo.
L'aria
era densa, satura di pioggia, umida; eravamo in piedi, fermi, in
attesa dell'attacco.
Avremmo
risposto al fuoco. Non saremmo stati fermi ad attendere che i Nani di
Dain ci passassero sopra, dando libera man forte alla follia, alla
bramosia cieca di Thorin, serrato dentro la Montagna.
Possano
i nostri confini non cedere, così come le radici degli
alberi da
sempre crescono e si fortificano.
Le
parole di quando ero stato incoronato Re mi riecheggiavano nella
testa, in un vortice che mi asserragliava la bocca dello stomaco.
Le
mie schiere di fedeli soldati dipendevano da me, dalle mie parole e i
miei ordini - che stavano tardando ad arrivare, lo riconoscevo. Non
sapevo come leggere quella situazione: una guerra aperta contro i
Nani? Fuori discussione, ma ci stavano portando diretti in quella
direzione, le loro azioni belligeranti; una trattativa? La soluzione
migliore, per la quale eravamo giunti fino ai piedi della Montagna,
con Bard e l'esercito degli Uomini, ma che certamente sarebbe stata
male interpretata e calpestata, in nome del famigerato tesoro che,
per bocca dei Nani, era divenuto artefice e causa primaria delle
nostre incomprensioni. E l'esercito, mostruosamente ben assortito e
combattivo, di Dain delle Montagne Ferrose incalzava. Osavano
addirittura attaccarci alle spalle, incastrarci nella valle? I Nani
si erano spinti davvero ai limiti della loro folle bramosia. Ci
stavano attaccando come un filone d'oro in una delle loro miniere,
velocemente, avidamente, ciecamente.
Nel
nostro accampamento regnava la più grande eccitazione, come
se la
battaglia fosse ormai imminente.
“Pazzi!”
rise Bard, al mio fianco, riferendosi alla strategia d'attacco di
Dain, appena giunto e schieratosi ai piedi di Collecorvo, alle
pendici della Montagna. “Le armature naniche saranno anche
buone,
ma tra poco saranno messe duramente alla prova. Attacchiamoli da
entrambi i lati, adesso, prima che si siano riposati!”
“Aspetterò
a lungo, prima di cominciare una guerra per l'oro”, risposi,
seccamente. Stimavo e mi fidavo di Bard, ma in gioco c'era molto
più
di quanto lui non potesse comprendere. La salvezza dei nostri
eserciti e popoli era il motivo principale per cui non desideravo
cominciare una guerra, almeno finché non vi fossi costretto.
“Speriamo ancora che qualcosa porti alla riconciliazione. La
nostra
superiorità numerica sarà sufficiente, se alla
fine sarà proprio
necessario venire alle mani.”
Il
vento continuava ad alzarsi. E mentre esitavamo, decidendo il da
farsi, e saggiavamo l'aria e la tensione che crescevano, in piedi e
attenti sullo sperone di Collecorvo, i Nani ci attaccarono; mentre io
e Bard ancora stavamo discutendo, ecco che le loro linee avanzarono
correndo nella nostra direzione, pronti a serrarci e schiacciarci
contro le pendici della Montagna.
Nell'istante
in cui detti l'ordine ai miei arcieri di serrarsi nei loro ranghi,
prendendo bene la distanza di gittata, dal pendio della Montagna,
posizione d'attacco che forse i Nani non avevano ancora scoperto, il
temporale si ingrossò ancora, come un mare in tempesta.
Nuvole nere
oscurarono del tutto il cielo e l'orizzonte, e il rombo dei tuoni era
adesso molto vicino, e spaventoso.
Al
mio gesto e comando, gli arcieri, alle spalle dei Nani, sulle pendici
della Montagna, incoccarono le frecce, mirando e trattenendo il
respiro.
E
così, avremmo attaccato i Nani. E così, ecco che
stava per
consumarsi una delle guerre più crudeli e vili della Storia
della
Terra di Mezzo, una guerra che nasceva dall'antro più basso
dell'incomprensione, del non ascolto. Se solo Thorin Scudodiquercia
avesse voluto aprire quella maledetta porta...
“Dannata
sia la testardaggine dei Nani”, gridai, spostandomi verso le
pendici di Collecorvo e portandomi dietro le mie schiere di fanti,
pronti a rispondere al desiderio di battaglia. Bard era al mio
fianco, e scese dal colle, lentamente, insieme ai suoi uomini.
Aumentai la presa sull'elsa della spada, e strinsi forte a me lo
scudo. Non avremmo ceduto così facilmente.
Mentre
cominciavo a correre, arcieri e fanti che mi superavano in mia
difesa, la mia mente spaziò, mi abbandonò per un
istante,
chiudendosi, ignorando i rumori e le grida che andavano crescendo. Il
mondo attorno si ovattò, e mi ritrovai nel passato.
Rivissi
l'ultima volta che avevo combattuto, che avevo brandito una spada per
uccidere. Allora avevo perduto quanto di più caro avessi
avuto al
mondo. Erano stati gli orchi, però, a portarmi via un figlio
e mia
moglie, non esseri le cui qualità erano spesso decantate e
lodate,
come nel caso dei Nani che stavamo per affrontare adesso. Rividi gli
occhi di mia moglie nel momento della morte, e lo sguardo di mio
figlio piccolo che si nascondeva ai miei piedi. Capii che la ferita
che portavo dentro così silenziosamente non si era mai
rimarginata,
nonostante, per tutto quel tempo, avessi impugnato lo scettro del Re
e avessi agito da tale, in nome e valore soltanto della salute del
mio popolo.
La
mia corsa si era fatta più veloce, più feroce,
Bard sempre al mio
fianco.
La
rabbia mi fece sfuggire una lacrima, mentre gridavo.
Come
eravamo arrivati a questo?
Dov'era
mio figlio? Mi augurai che le pendici della Montagna fossero davvero
un buon posto strategico, per attaccare da distanza.
Il
cielo era, adesso, completamente nero, il sole non trapelava
più
dalle nubi. Si stava scatenando una vera e propria tempesta, un
preannunciarsi di quello che sarebbe stato un lungo e tragico inverno
– per chi fosse sopravvissuto a quella giornata, per chi
fossi
riuscito a mettere in salvo.
Un
fulmine colpì la vetta della Montagna, eppure neanche allora
rallentammo la nostra corsa. Tra le grida assordanti – ormai
eravamo arrivati a guardare i Nani in faccia –,
improvvisamente,
una voce superò di gran lunga le altre, un grido disperato,
una voce
familiare. Proprio in quell'istante, una nube si distaccò
dalle
altre: una nube di uccelli, parve. Si muoveva controvento, e di
volontà propria.
L'Oscurità,
la paura e il Male: non erano mai stati così palpabili, ai
miei
occhi.
“FERMI!”
La
voce di Gandalf ci bloccò. Era apparso, dal nulla, in mezzo
ai
nostri schieramenti, che erano a un passo dallo scontro.
“Fermi!”,
ripetè; dal suo bastone scaturì un bagliore, come
se fosse stato
lui il padrone dei fulmini che ci stavano minacciando.
“L'Oscurità
è calata su voi tutti!”. La sua voce era grave, e
mi rammaricai
una volta di più di trovarmi in quella situazione.
“E' arrivata
più in fretta di quanto immaginassi.”
S
voltò a guardarmi, a guardare me e Bard, e dalla sua bocca
uscirono
parole orribili.
“Gli
Orchi sono su di voi.”
Si
voltò verso i Nani.
“Sta
arrivando Bolg dal Nord, o Dain.”
Un
rumore ci sovrastò, un rumore stridulo, che, crescendo, si
stava
abbattendo su di noi con una violenza inaudita. Era come essere
inghiottiti vivi dall'Oscurità. Pipistrelli. Adesso potevamo
vederli
distintamente.
I
nostri due eserciti e i Nani erano in preda allo stupore e alla
confusione. Mentre Gandalf parlava, il buio cresceva, e le nubi nere
si addensavano, ancora e ancora. Tutti guardavano il cielo e le
volute che il volo dei pipistrelli stava creando sopra le nostre
teste, e, tra le mie fila, molte voci si levarono.
Gandalf
ci richiamò a consiglio, rapidamente. Avevamo poco tempo, ma
l'avevamo. Alle parole dello stregone, “Che Dain figlio di
Nain
venga subito da noi!”, sussultai. Forse c'era ancora speranza
di
porre fine a quella scempiaggine.
Il
tempo di un consulto rapido, strategico, ma non certo ben
pianificato, e una battaglia che nessuno si sarebbe mai aspettato
ebbe inizio.
Una
battaglia di cinque eserciti.
E
fu tremenda. Il suo ricordo è orrore.
Da
un lato, di fronte a noi, Orchi e Mannari, e le nubi
dell'Oscurità,
che, con i loro stridii, assordavano e rintontivano i soldati;
dall'altro, gli Elfi del Re del Bosco Atro - gli Elfi del 'Re freddo'
-, Bard e i suoi Uomini, e l'esercito di Dain figlio di Nain, delle
Montagne Ferrose.
Infine,
ci eravamo alleati. Tanto sangue inutile era stato risparmiato, con
quella ragionevole collaborazione, di fronte al nemico comune, ma
molto di più stava per essere versato, di tutti e tre gli
eserciti.
Sangue di Elfi, Uomini e Nani, insieme, sotto un cielo nero e i
rumori di un enorme temporale che aveva preso a scrosciare,
rendendoci bagnati fradici e il terreno vischioso e scivoloso, sotto
le pendici della Montagna Solitaria.
In
tutto questo, non avevo idea di dove fosse mio figlio. Mi augurai che
si trovasse davvero sulle pendici, in attesa di
attaccare con
i suoi arcieri, come gli avevo ordinato perentoriamente. Se voleva
usare l'arco, bene, che lo usasse nel modo più utile. Sperai
mi
avesse dato ascolto, per una volta.
Dopodiché,
tutto divenne confusionario. Ricordo distintamente soltanto il
sopraggiungere degli orchi, capitanati da Bolg e dai Mannari. Poi, ho
ricordi confusi.
Il
nostro piano, concordato con Gandalf, consisteva nello sperare che
cadessero nella nostra trappola, che sfruttava il loro attaccare
dalla valle e la distribuzione dei nostri arcieri sul costone della
Montagna. E così facemmo: lavorammo di mano, sangue, sudore
e spada,
per spingere quegli esseri immondi e dal sangue nero e denso come
inchiostro, dentro la valle, a tiro degli arcieri.
E
così riuscimmo a fare.
Ma
per poco.
Ricordo
che persi conoscenza, per un istante, quando vidi che gli orchi, dopo
un primo momento di smarrimento, reagirono all'attacco delle frecce e
presero ad arrampicarsi come cani affamati sulle pendici. E a
trucidare gli arcieri. I miei soldati.
Ricordo
che non respiravo più, e realizzai che non ci si abitua mai
a veder
morire qualcuno, nonostante io stesso stessi distribuendo morte, in
quella valle.
Bard
gridava, e mi spronava. Io davo altri ordini, e lui mi seguiva. Dain
contrattaccò dal lato meridionale della Montagna, e lo
seguimmo.
Il
mio cervello era separato dal mio corpo. Le mie braccia, le mie
gambe, i miei occhi, la mia bocca con i suoi gridi e i suoi ordini
inutili, erano sul campo di battaglia. Ma la mia mente non c'era. Il
mio cuore neanche. Il vantaggio fu che non provai pietà
alcuna
nell'elargire morte a quegli esseri immondi, partoriti da una terra
che non li voleva, figli del fango e del temporale.
Attaccavamo
ripetutamente, spingendo gli orchi con le spalle al pendio. Lance
brillavano nella penombra, con un gelido bagliore di fiamma, brandite
da mani piene d'ira. Le urla erano assordanti.
Il
panico si impadronì degli orchi, e io mi domandai chi mai
sceglierebbe di essere Re. Ricordai i suoni della festa che
celebrò
la mia incoronazione. Ricordai i tamburi che resero omaggio alla
morte di mio padre, prima che io venissi portato via e messo in
salvo, in esilio, in attesa di un futuro che avevo imparato ad
attendere ma che non ero stato in grado di cogliere mentre mi cadeva
addosso con tutta la sua carica.
Il
Re è morto.
Lunga
vita al Re!
Continuammo
a schiacciare gli orchi e i Mannari tra i nostri tre eserciti, e per
un istante parve che la vittoria fosse a portata di mano. Poi, tutte
le schiere degli orchi presero ad arrampicarsi sulla Montagna, e ogni
speranza di vittoria svanì, miseramente. Non solo si stavano
dirigendo verso la Porta, ma stavano anche sovrastando e massacrando
le nostre fila di arcieri. I pipistrelli continuavano a cadere in
picchiata sopra le nostre teste, mordendo e strappando, stridendo e
attaccando come vampiri sia i vivi che i morti.
Ero
a un passo dalla disperazione, mentre osservavo inerme, occhi
sbarrati, che più nessun arciere era rimasto in piedi.
Quando
ecco, che un nuovo grido squarciò l'aria. La Porta nascosta
della
Montagna si aprì e Thorin Scudodiquercia uscì
dalla sua fortezza,
gridando a squarciagola, circondato dai suoi compagni, che, seppur
pochi, sfavillavano nelle loro armature, sotto le gocce di pioggia.
Nella penombra del temporale, il grande Nano brillava come oro in un
fuoco morente.
Thorin
e i sui resistettero, e gli orchi furono ricacciati indietro. Il Nano
ci chiamò a raccolta:
“A
me! A me! Elfi e Uomini! A me! O miei consanguinei!”, e la
sua voce
risuonò come un corno nella vallata. Il temporale sembrava
che si
stesse finalmente diradando, e uno squarcio di luce spezzò
improvvisamente le nubi a metà.
I
soldati elfici si unirono nella carica, rinvigoriti.
Mentre
Elfi, Uomini e Nani combattevano fianco a fianco, sopraggiunsero le
Aquile in nostro soccorso. Ringraziai i Valar e Gandalf, e almeno i
morti furono così lasciati in pace dagli attacchi dei
pipistrelli.
Brandendo
la spada, facendomi largo con lo scudo, le grandi ali delle Aquile a
sfiorare la punta delle lance che ancora resistevano dritte e
serrate, assaporai un attimo di silenzio, non appena caddi in
ginocchio, stremato. Gli orchi erano stati fatti cadere di sotto dal
costone, e ciò che restava del loro esercito era
definitivamente
accerchiato, schiacciato e vinto. I Mannari fuggivano via, lasciando
il campo di battaglia.
Il
nemico era stato sconfitto.
Le
nuvole furono spazzate via dal vento, che non si era placato un
istante e scuoteva lance e stendardi, e un rosso tramonto
squarciò
finalmente il cielo. Mi trovavo nuovamente a Collecorvo, come se non
mi fossi mosso da lì per tutto il tempo.
Non
avevo pensieri, nella testa. Solo rabbia, e furore. Ma anche
liberazione: finalmente, Thorin era uscito dal suo nascondiglio, e
mai momento avrebbe potuto essere più propizio.
Ma,
mentre mi dirigevo verso Gandalf, che vedevo spuntare, grave, in
mezzo al campo di battaglia, ancora non avevo notizie di mio figlio.
Non avevo forze a sufficienza, eppure camminai a testa alta, in nome
della corona che indossavo.
Un
instante, e Gandalf mi fu vicino. Mi parlò con voce rotta,
eppure
decisa. Mi condusse, il passo cadenzato, al capezzale del mio rivale
eppure alleato, fonte di tante incomprensioni, caposaldo della
mentalità nanica: Thorin figlio di Thror, figlio di Thrain,
Re sotto
la Montagna, giaceva sul suo letto di morte. Un Re che si stava
già
spegnendo, prima ancora che il suo regno fosse potuto cominciare. Un
brivido mi percorse, e rimasi senza parole, quando i nostri sguardi
si incontrarono. Il silenzio era calato di piombo, nella stanza. Non
dissi niente, se non un “Grazie”, a quella creatura
morente. Lui
ricambiò con uno sguardo profondo, d'intesa, e un cenno del
capo.
Nei suoi occhi, la luce dell'orgoglio brillava ancora, non era
svanita, era rimasta immutata, ma non vi lessi angoscia e dolore.
Solo rimpianto.
Tutto
ciò che uscì dalle sue labbra fu che desiderava
parlare con Bilbo
Baggins. A me non disse altro, probabilmente perché non
c'era molto
altro da dire. Uscii, andando a cercare lo Hobbit per lui, facendomi
accompagnare da alcuni uomini.
Fu
mentre vagavo, in lacrime, ai piedi dell'accampamento di Collecorvo,
che mi apparve. Se ne stava lì, in piedi, sporco di sangue
nero e
sangue rosso. Il suo. Mio figlio mi guardava, lo sguardo smarrito,
eppure leggero. Il suo.
Ci
venimmo incontro, e restammo, seppure a una certa distanza, a
guardarci. Nessuno aprì bocca finché lui non mi si buttò al collo e
mi abbracciò. Io lasciai cadere la spada, lo scudo, le
braccia, e
ricambiai il suo abbraccio. Poi, schivo come sempre, si
staccò da me
immediatamente.
Ma
non importava. E, per un attimo, mi parve proprio che non fosse
passato un solo, singolo istante da quel giorno in cui ci eravamo
ritrovati soli in mezzo a un campo di battaglia, abbracciati, decisi
a ricominciare tutto da capo.
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Capitolo 9 *** "Tornerò presto." ***
Salve!
Chiedo scusa per l'attesa, colpa degli esami e del lavoro... no, colpa
anche mia, che me la son presa comoda!
Comunque,
ecco qua: nuovo capitolo!
Una
breve precisazione: questo capitolo è, chiaramente, un salto
avanti nel tempo, e mi scuso se magari qualcuno si aspettava momenti
più "intimi", legati cioè a qualche retroscena
non raccontato e più quotidiano. Ma sentivo il bisogno di
saltare direttamente a qui. Fino ad ora abbiamo visto i due
protagonisti fianco a fianco... credo sia arrivato il momento di
osservarli alle prese con altre questioni, sempre più
grandi, e sempre più grandi di loro.
Perciò,
scusate, soprattutto per il leggero filo rosso di angst che corre per
tutto il capitolo! XD
Fatemi
sapere cosa ne pensate, qualsiasi commento e recensione è
ben accetta!
Un bacio
Maiwe.
P.S.:
Questo capitolo concorre come songfiction nel
contest indetto dalle Muse e dal forum "Pseudopolis Yard", la
"Settimana tematica #1: songfictions".
____________________________________________________________________________
"Home"
Canzone scelta: Home
– Mumford and sons
Fandom scelto: LoR/Hobbit
Personaggi scelti: Legolas,
Thranduil.
____________________________________
Spirava una brezza lieve, adatta a un addio.
Non era uno di quei giorni particolarmente belli, quelli in cui
splende il sole a picco e fende le nuvole, né
particolarmente
brutto; non pioveva, quantomeno, ma non tirava neanche vento forte, e come
può uno partire, se non c'è vento forte che lo
possa sospingere
nella direzione giusta?
Ti affacciasti alla porta della grande terrazza che tanto amavo
quando ero bambino, e ti fermasti lì, in piedi,
appoggiandoti
leggermente allo stipite.
Avevo le spalle incurvate, e lo sguardo basso. Non volevo partire. Ma
sentivo di doverlo fare, ne avevo bisogno, in fondo. Avevo sempre
desiderato un distacco - credo fosse naturale – ma, allo
stesso
tempo, mi spaventava dovermene andare, mi spaventava come un bufera.
Tu abbassasti la testa e rimanesti in silenzio per un po', anche tu
sempre più curvo. Finalmente, parlasti, e non so cosa mi
immaginassi
che ci saremmo detti, ma le tue parole mi colsero di sorpresa:
"Ricordati di riferire il messaggio".
"Certamente", sussurrai, la voce ridotta a un filo:
probabilmente se ne era già andata, già aveva
superato le montagne,
ad ovest, e magari aveva anche visto, dall'alto, il mare. Non me lo
ricordavo, il mare.
Il silenzio ci avvolse, pareva che anche le foglie avessero smesso di
muoversi. Finché, eccolo: il vento si levò d'un
tratto. Spirava
nella direzione giusta. Eccolo, il vento dell'ovest. Forte, quasi
minaccioso.
Mi voltai nuovamente verso di te, e li vidi: i tuoi occhi lucidi. Non
ce la facevi a dirmi addio.
Non era detto, in fondo, che lo fosse, no?, cercai di dirti. Ma
niente mi uscì dalle labbra, e mi sentii scosso. Deciso a
voltarmi,
lo sguardo basso e sfuggente, sussurrai un "Tornerò presto,
vedrai. Sarò a casa presto. Non temere".
Ti limitasti a sorridere, in risposta, e facesti un leggero cenno del
capo.
"Vai."
Scesi in fretta le scale che, dalla terrazza, conducevano
direttamente verso la via elfica. Fuori.
Mi voltai per un istante quando fui a metà strada, e tu eri
ancora
lì, appoggiato allo stipite, il vento che soffiava
malinconico e
spingeva dentro casa vecchie foglie e polvere, polvere grigia; foglie
secche e umidità.
Ti avrei rivisto solamente tredici mesi dopo, e sarei tornato come
un'altra persona. Sarei tornato definitivamente adulto.
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Capitolo 10 *** Solo un peso. ***
“Ho un bisogno disperato di partire”.
Mia sorella mi guardò negli occhi, una mano sulla
mia spalla. Era
sconcertata, e mi prese il volto tra le mani.
“Che ti prende? Forse non stai bene?”
“No, non è questo,
è che... non lo so, in realtà.”
Sedute sulla spiaggia, osservavo distrattamente le grosse
nuvole
che pigramente si sospingevano sulla linea dell'orizzonte. Non c'era
sole, quel giorno, solo una densa cappa grigia al posto del cielo,
satura di aria di pioggia.
“Sta per piovere, meglio rientrare.” Lei
si alzò in piedi e
si incamminò. “Tu non vieni?”
“Grazie, credo che resterò
ancora un po' qui.”
Mi tenevo le ginocchia tra le braccia, e
pensavo. Pensavo e ripensavo. Cosa mi teneva ancorata a quella terra?
Quasi niente. Solo la mia famiglia, le mie radici, ma nient'altro.
Non c'era uno scopo, nel mio
vivere a Valinor.
Mi sentii una
sciagurata. Ero
probabilmente l'unico Elfo a volersene andare dalla Terra Immortale
per la Terra di Mezzo, quando al resto del mondo stava capitando
l'esatto contrario. Già molti altri Elfi, e Signori degli
Elfi,
erano arrivati da noi, alla reggia di mio padre, per vivere in
armonia, ritirarsi, lasciare
la Terra di Mezzo.
Ma io non l'avevo mai
vista. Avevo
sempre puntato gli occhi su quella linea al confine del mare, ma non
ero mai riuscita ad andare oltre, con lo sguardo. Chissà
come era.
Dicevano che un grande Male l'avesse per millenni avvelenata, e che
tutti i popoli liberi si stessero finalmente destando e unendo per
liberarla, e ottenere finalmente una pace duratura.
Mi sentivo inutile, ecco
cos'era.
Quante volte erano giunte alle nostre sponde eroi, e prodi cavalieri
elfici, che raccontavano le loro incredibili gesta. Era come trovarsi
in uno dei miei romanzi preferiti, nelle storie che da sempre amavo,
ma... non riuscivo a sentirmi protagonista, questa volta. Solo una
mera spettatrice. Di là dal mare si viaggiava, si correva,
si
vivevano incredibili avventure; si combatteva e si moriva. E io ero
lì, su quella spiaggia, abbracciata alle mie ginocchia,
incapace
persino di tornare a palazzo, dove mio padre mi stava certamente
attendendo: altri nuovi arrivi, tutti da accogliere, ognuno dei quali
avrebbe certamente rappresentato quel tanto da lui agognato partito
per finalmente togliermi di torno e farne qualcosa della mia vita.
Ecco perché non
avevo alcuna voglia di
tornare a palazzo, in sostanza.
La mia età era
avanzata, non ero più
una bambina. Ma non mi sentivo neanche adulta, nonostante molte mie
amiche, e anche una mia sorella, fossero addirittura già
madri.
Cosa avrei potuto farne,
della mia
vita? Non sapevo fare niente, ero solo un peso.
Sentii i passi di mia
sorella sui
ciottoli della spiaggia, alle mie spalle.
“Allora? Ti
decidi a venire? Nostro
padre è infuriato, e ha detto che vuole vederti
subito.”
“Arrivo,
arrivo.”
Mi alzai e mi incamminai
verso casa, i
piedi scalzi e bagnati, fradici di salsedine come l'orlo della mia
veste – se mi avesse vista mia madre! Pochi passi e mi voltai
di
nuovo, triste.
“Sono in
gabbia”, sussurrai.
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Capitolo 11 *** Resta saldo. ***
“Niente. Sono due mesi che è partito, e
neanche una lettera, un
messaggio, niente di niente.”
Mi aggiravo per la sala, immerso nei pensieri. Stavo crollando
sotto il peso dell'angoscia.
Quanto a lungo può resistere, la forza di un re?
“Cosa succede, mio signore?”
La cara, saggia balia si affacciò alla piccola porta del
salone, e mi
guardò con aria interrogativa, e preoccupata.
“Niente, sono...” Non riuscivo a dirlo, mi
moriva la voce in
gola. “Sono solo molto preoccupato. L'ultima notizia di mio
figlio
risale a più di due mesi fa, quando mi ha comunicato di
essere stato
scelto, e che sarebbe partito subito. E' partito in guerra,
capisci. Io non...”
La donna mi si
fece vicino, e mi
mise una mano sulla spalla.
“Non devi preoccuparti.”
“Come
potrei? Non ricevo più sue comunicazioni, e... e d'altro
canto come
potrebbe inviarmele?”
Arian continuava a
sorridere, standomi accanto.
Mi portai una
mano sugli occhi,
chiudendo le palpebre e respirando.
“Se
n'è andato, Arian.”
“Non
dirai sul serio?” Scattò
su lei, scostandosi da me. “Thranduil, mi meraviglio di te!
Dov'è
finito il tuo buon senso, la tua forza d'animo e di carattere che
sempre ti hanno contraddistinto? E' in momenti come queste che
dobbiamo essere forti e dimostrare ancora di più la nostra
resistenza. Sei sempre stato un buon re, e io ti sono fedele,
Thranduil, così come lo sarò sempre a tuo padre.
Ma non voglio
vedere quelle lacrime, sei re, ormai, e i re non possono permettersi
di perdersi d'animo. Hai un regno a cui pensare.”
Sorrisi, e
respirai a fondo. Per
Ilùvatar, quanto aveva ragione.
“Ti
chiedo scusa. Non volevo
essere invadente. Devo stare al mio posto.”
“Non hai niente
per cui scusarti. Hai ragione, Arian. Hai sempre ragione.”
“Mi
prendo cura di Legolas da quando siete arrivati. Da quando non era
più alto di un dito mignolo. Da quando l'ho visto per la
prima
volta, e per me è come un figlio, Thranduil.”
La guardai
negli occhi, e il
silenzio cadde tra di noi, per qualche istante.
“La
colpa è solo mia!”
Sussurrai. “Sono io che l'ho mandato a Imladris, alla Casa di
Elrond. Non avrei dovuto farlo... E' una persona d'onore, agisce in
prima persona. Avrei dovuto immaginarlo che, se se ne fosse
presentata l'occasione, non si sarebbe tirato indietro.”
“Siete entrambi persone d'onore. Perché l'hai mandato,
dunque?”
“Sono
suo padre, non la sua
catena. Lo conosci molto bene, Arian: corse, prati, caccia,
è
vitale, e ama agire, ma anche e soprattutto riflettere. Ha solo un
problema: non sa ancora quel che vuole. Non ho potuto trattenerlo
qui, non sarebbe stato giusto. Che gli serva: saprà sempre
che ha
una cosa dove tornare, se mai ne avrà voglia.”
“Ma
cosa stai dicendo?” Mi si
fece vicina e mi afferrò il braccio nuovamente.
“Lo sai che non ti
tradirebbe mai, che non se ne andrebbe mai, non per sempre. Non
vedere tutto nero, adesso che siamo sull'orlo di una
battaglia.”
Fece una lunga
pausa, durante la
quale nessuno dei due parlò.
“Lo
so che senti di non doverti
più fidare di nessuno, non dopo quello che è
successo, con la
storia di Thorin e tutto il resto. Ma devi, devi restare forte. Non
puoi fermarlo, Thranduil.” Mi guardò negli occhi,
che riabbassai.
“Puoi solo prepararlo.”
Padre,
Ancora vento, oggi. Più andiamo verso Est,
più l'ombra nel
cielo si infittisce. Le spie di Saruman seguono il nostro viaggio,
corvi neri si spostano rapidi come un soffio sopra la nostra testa.
Padre, questa lettera non la leggerai mai,
perché non te la
spedirò, e se mai tornerò non te ne
parlerò nemmeno. Sappi che
tornerò presto, e che, comunque sia, sarà
l'ultima che scriverò.
Non attardarti a pensare a me, rivolgi le tue energie a proteggere la
nostra gente, che ha bisogno di te adesso più che mai.
Mantienili
saldi, e mantienili uniti, è tutto ciò che conta.
Dimentica Galion, fatti aiutare da Arian.
Cercherò di riportare indietro, dentro di
me, quel bambino che
tanto tempo fa hai salvato, ma non garantisco che avrà lo
stesso
aspetto di allora. Garantisco, però, che tornerà
a casa.
Ti farò avere mie notizie non appena
toccheremo Lorien. Fino
ad allora, resta saldo: saldo come una quercia, e forte come il mare.
Greenleaf.
|
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Capitolo 12 *** Suoni ***
Ciao a tutti! Ebbene
sì, finalmente torno a pubblicare! Scusate l'assenza
prolungata: per farmi perdonare, doppio capitolo. <3
Prometto di aggiornare presto,
stavolta, e con un capitolo bello sostanzioso.
Vi ringrazio davvero di cuore
per avermi seguita fin qui, e vi abbraccio tutti!
Maiwe
_______________________________________
C'era qualcosa che non andava. Non
andava proprio.
Spirava un vento arido,
nella nostra
direzione. Un vento secco, che sapeva di fame e distruzione. Di
rabbia. Ad Est, nella Terra di Mezzo, qualcosa di grande
stava per accadere.
Osservavo il volo dei
gabbani: nervoso,
agitato. Giravano in grandi spirali sopra la mia testa e quella di mia
sorella, in piedi accanto a me a osservare il mare ingrossarsi;
volavano guardinghi, come a cercare qualcosa, e non si posarono
finché non
giunse, finalmente, l'alta marea. Il vento cambiò,
trovandomi
seduta sul bagnasciuga, e le onde un poco si acquietarono. Mi trovarono
lì, puntuale, come ogni sera, pronta ad ascoltare
vecchie canzoni e rumori che la notte portava da là,
dall'altra
parte del mare.
Chiusi gli occhi, e
intravidi qualcosa:
alberi con le foglie d'oro.
Poi, l'immagine
cambiò, repentinamente: divenne una grande, immensa foresta
buia,
macchiata di oscurità tra i suoi rami avvizziti. Ma, sotto
le ceneri
della rovina, la vita, come tizzoni ardenti. Farfalle azzurre che si
levavano in volo da foglie rosse come il sangue.
Un ambiente malato, ma
vivo. Pieno di
speranza. Credo rappresentasse la Terra di Mezzo intera, quella breve
ma vivida visione.
Mia sorella mi
ridestò, scuotendomi, e
invitandomi a rientrare.
“Si
può sapere cosa stai aspettando?
E' freddo, non vorrai passare la notte qui?”
“Si sta così
bene. Perché dovrei rinchiudermi tra le mura di casa, quando
sopra
la testa ho delle stelle così belle?” Accennai un
sorriso.
“...
Non cambierai mai. A volte mi domando...”
“Cosa?”
“Niente.
Vieni, Estel, rientriamo. E' ora. E' un ordine.”
In men che non
si dica, mi ritrovai dietro la finestra della mia stanza. Non chiusi
occhio, quella notte, ma mi sedetti lì, sul davanzale
interno,
accoccolata, ad osservare le onde inseguirsi e spegnersi sulla riva.
Canticchiai per tenermi compagnia.
No, non sarei mai cambiata;
e, un
giorno, avrei preso una nave, e sarei andata a vedere da cosa
tutti stessero scappando. Sarei andata a vedere quella terra
al di là del mare.
“Altre tracce,
Aragorn.”
“Siamo sulla
strada giusta. Non
perdiamole di vista. Stanno accelerando il passo.”
Il rumore dei passi degli Uruk era come un tamburo e faceva vibrare
tutta la terra intorno a noi, una vibrazione sorda, ma potente, calda
come fuoco, calda come roccia.
Correvamo ormai da giorni.
Ero
spossato, ma non mollavo, stringevo i denti.
Da che avevamo lasciato
Frodo e Samvise
partire dalle cascate del Raurs, viaggiavamo a piedi. Gravi, e
dolorose, le perdite che avevamo subito.
Gandalf. Nessuna luce
né voce saggia
che sapesse guidarci. Ci eravamo rimboccati le maniche: eravamo soli.
Faccia a faccia con il nemico.
Un nemico di fuoco, lampi e
lava si
era portato via lo Stregone, sotto i nostri occhi impotenti. Gandalf
aveva gridato, ricordo le sue parole, la magia che avevano emanato, e
per un attimo avevamo avuto speranza. Poi, era stato trascinato
giù, nell'abisso, con un gemito sordo. Avevamo
potuto solamente mettere al sicuro il Portatore, facendolo fuggire da
quelle miniere maledette, quelle miniere che il Nano aveva voluto
attraversassimo. Sapevo cosa stesse provando, quando ne uscimmo,
sporchi, feriti, e senza Gandalf: smarrimento. Un tempo, era stata casa
sua, della sua gente, e adesso era una tomba, un immenso tumulo senza
vita e attanagliato dal male. Credo che quella visione catastrofica ci
abbia avvicinato molto, e non me ne stupisco. Lui stesso si
è più volte dimostrato felice di aver conosciuto
la mia gente, a Lorien. Era stata una visione strana, un Nano tra gli
Elfi; ero stata una strana visione anche io, d'altro canto: eravamo due
anime spezzate, stanche, affratellate, che vagavano per i boschi in
silenzio.
Poi, Boromir. Un Uomo
saldo, ferreo,
deciso. Ma il potere dell'Anello lo era stato molto più di
lui, e la
sua giovane mente era stata troppo debole.
L'avevo visto morire. Era
caduto a terra con un tonfo sordo, e le sue palpebre erano calate
silenziosamente. Ultime parole, parole di addio, e di rimpianto.
E adesso, la Compagnia era
divisa. Cosa altro ci restava da fare, se non armarci di buona
volontà e liberare Merry e Pipino dagli Uruk?
Avevo il cuore in frantumi,
le gambe a
pezzi, i muscoli tesi, gli occhi stanchi. Ma continuavamo a correre,
non avevamo alternativa.
Gimli era rimasto parecchio
indietro. Mi voltai, rallentati la corsa, e lo aspettai.
Ci mise un po', ma alla
fine eccolo: ci
raggiunse.
Non disse grazie,
non disse niente; anzi,
mi superò, mentre osservavo il suo elmo dondolargli sulla
testa. Due passi, e lo superai a mia volta.
Aragorn, la nostra guida e
grande
Speranza, il nostro grande amico, si voltò indietro a
guardarci. Gli
sfuggì un sorriso.
Credo fosse la cosa
più vicina
all'avere amici che avessi mai provato.
Le tracce continuavano,
davanti a noi, e il rumore dei passi pesanti degli Uruk-Hai vibrava
sotto i nostri piedi, e dentro i nostri petti.
Il sole stava calando, e grossi nuvoloni neri non promettevano niente
di
buono, sulle nostre teste.
Non ci saremmo fermati.
|
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Capitolo 13 *** Nero, rosso; verde. ***
Bonsoir!
Come promesso, ecco il nuovo capitolo!
Spero davvero vi piaccia, ci ho
messo l'anima, e non nego di aver provato diversi brividi, mentre lo
stendevo. Certo, ogni scarrafone è bello a mamma sua XD, ma
per adesso è il mio preferito, insieme a "Elfi, Uomini, Nani"
e al secondo capitolo. Spero possa davvero essere altrettanto per voi.
:3
Il momento è quello
dell'ultima battaglia dei signori elfici, in concomitanza con lo
scontro finale al Nero Cancello, tratto dai Racconti tolkeniani.
Ovviamente, dal punto di vista di Thranduil e Celeborn, è
sì un evento di enorme portata, ma sul momento percepito in
maniera più attutita, non trovandosi loro alle pendici del
Monte Fato.
Bene, adesso la smetto di
tediarvi con le mie sciocchezze e vi lascio alla "lettura". Grazie di
cuore per tutti i numeri vertiginosi di visualizzazioni e recensioni,
preferiti, seguiti e ricordati che questa fiction ha raggiunto, vi
abbraccio uno per uno! <3
Fatemi sapere cosa ne pensate e,
nel caso probabile e lecito che non vi piaccia, chiedo scusa in
anticipo.
Baci,
Maiwe
______________________________________________________
Arrivarono da sud. Scesero
lungo il
versante della montagna che si ergeva di fronte ai nostri occhi.
Sciamarono gridando e
brandendo spade,
lance, picche, armi arrugginite e macchiate da strati e strati di
sangue secco.
Le foglie degli alberi, e
gli alberi
stessi, frinivano, al loro passaggio. Potevo sentirli.
Era una giornata di sole, e
il cielo
era meravigliosamente limpido.
Le loro grida crescevano,
si
accumulavano, si accavallavano, crescevano moltiplicandosi a
dismisura, quasi quegli esser spregevoli fossero capaci di sdoppiarsi
a vista d'occhio.
Li stavamo attendendo, in
piedi, fermi
e saldi sulla cima di un lieve colle erboso.
Sarebbe stata la nostra
fine, forse, ma
sarebbe stata una fine degna di essere ricordata.
Ecco che, ancora una volta,
ero il re
di un popolo in guerra, un popolo decimato e ridotto allo stremo. Un
popolo dignitoso.
Non avremmo mai abbassato
la testa.
Ecco, infine, che quei
luridi esseri
sbucarono alla luce del sole, fuori dalla linea degli alberi, ai
piedi della montagna nera di abeti, le armature nere, portando con
loro orrore, e morte, terrore.
Raccolsi tutto il fiato che
avevo,
tutta la forza di cui fossi stato capace, serrai i denti, contrassi i
muscoli, impugnando la spada in entrambe le mani e mimando un leggero
movimento. Il grande elmo che portavo era estremamente pesante. Mi
rincuorò che
potesse essere visto da lontano, di modo che anche l'ultimo dei miei
soldati potesse seguirmi, mentre gridavo e mi lanciavo, sollevando la
polvere dalla terra erbosa, giù per il colle.
Non passò molto
tempo prima che il
verde dell'erba che calpestavamo si macchiasse di nero. E di rosso
vivo.
Gli arcieri, al mio
comando, mentre con
i miei pochi fanti scendevamo la collina, scagliarono la prima
raffica di frecce. Colpirono le prime file e godetti nel vedere
morire quegli esseri sotto i colpi della mia gente.
Lo scontro fu disastroso.
Tutto,
intorno a me, crollava: alberi, lance, persone. Persino il mio elmo
cadde. Mi lasciò libero il collo, le vertebre, i capelli,
che mi
ricadevano sul viso e mi impedivano una vista corretta. Sudavo e
imprecavo.
Pensai a Gil-Galad. Grandi
canzoni erano
state scritte sulla sua storia.
Pensai a mio padre, solo un
ricordo
fievole nella mente di molti.
Pensai.
Sussultai. Un colpo di
spada Uruk mi ferì al braccio destro. Con un grido, cacciai
la testa
all'indietro. Respinsi l'orco, lo trafissi da parte a parte.
Ero circondato. Ero solo.
Intorno a me
vidi solamente il nero delle loro rozze armature e dei loro denti
aguzzi. Feci un passo indietro, impugnando la spada con entrambe le
mani, ancora una volta. Affrontai i miei nemici uno ad uno, e
scaraventai i loro cadaveri più lontano che potevo.
Un suono
dolce e flebile, come per incanto, destò i miei pensieri,
come
risvegliandomi da un torpore. Un corno, e uno sciamare. Un gridare,
un rullare di tamburi.
Guardai verso ovest.
I Galadhrim discesero il
colle, fieri e
alti nelle loro armature d'oro, e i nostri eserciti si fusero come un
sol uomo. Raggiunsi Celeborn, signore di Lorien. Ci scambiammo una
rapida occhiata, e lo ringraziai. Semplicemente, serenamente,
circondati dalla devastazione, da terra resa ormai quasi brulla. Non
saprei dire quanto tempo fosse passato da quella mattina, quando
avevo radunato il mio esercito e marciato al limitare sud di Eryn Galen
in risposta ai sempre più numerosi attacchi subiti dal mio
regno. Un
insediamento orco, di vastissime dimensioni, ad accoglierci, armati e
pronti allo scontro.
“Infine ci
siamo”, mi ero detto.
“Tutto quanto affrontato finora ha portato a questo momento.
Si può solo
andare avanti, si può solo affrontare, si deve debellare.
Una volta
per tutte.”
“Non libereremo
la Terra di Mezzo, e
probabilmente moriremo”, mi ero detto. “Ma avremo
fatto la nostra
parte.”
I tamburi erano
riecheggiati nell'aria
anche allora, i tamburi da battaglia della mia gente, i tamburi che
mi avevano incoronato re, che mi avevano incoronato erede di mio
padre.
Celeborn mi fece un ampio
cenno col
capo, e lo stesso feci io.
“Grazie”,
sussurrai, in fin di
voce.
Un istante dopo, mi
ritrovai cieco.
Dapprima, vidi rosso. Rosso
fuoco.
Rosso di fiamma. Lampi di luce.
Poi, vidi nero.
Per un lungo istante, mi
ritrovai
curvato su me stesso, gridando, credo. La mia voce era sovrastata dai
rumori della battaglia, ed io con lei.
Mi accasciai in ginocchio.
Tolsi le mani dal volto. Le
ritrovai
bagnate di sangue, e provai, infine, il dolore. Acuto, penetrante,
lancinante, annebbiante.
Il mio occhio sinistro era
appannato, e
la testa mi vorticava.
Fui aiutato a rialzarmi, mi
tirai su,
ordinai che non pensassero a
me, che combattessero, che si difendessero, ma il mio occhio sinistro era
ferito.
Non trovavo la mia spada,
la cercai
attorno a me, a tentoni.
Il rosso mi circondava.
Avevano appiccato il fuoco.
Gli alberi bruciavano. Le
foglie, i
nidi, i fiori stavano bruciando. Gli alberi, scricchiolando,
crollavano al suolo. Bruciavano gli stendardi conficcati nel terreno,
e bruciavano i cadaveri.
Con le ultime forze,
sollevai la spada,
recuperata, e cacciai un grido. L'intera Eryn Galen mi rispose,
l'intera Lorien riecheggiò di una sola voce.
Ci radunammo, Celeborn al
mio fianco
e, saldi e fieri, ultima stirpe dei signori elfici, serrammo i
ranghi. E attaccammo nuovamente, caricammo le fila nuovamente serrate
degli schiavi di Mordor.
Uccidemmo e ferimmo,
sfiorammo e
sgozzammo, circondati da tizzoni e carcasse di alberi vecchi di
secoli, in una danza di ferro e fiamme.
Era ormai buio. Era calata
la notte.
L'incendio era dilagato, spostandosi ad est, illuminando come una
fornace la devastazione di quella battaglia interminabile.
Non sentivo più
neanche la stanchezza,
non sapevo neanche più chi fossi, che cosa fossi, uscii
dalla mia
mente, la faccia che pulsava dolore sotto l'occhio, e il braccio
destro, che impugnava la spada, trafitto, ma ormai aveva smesso di
sanguinare.
Quando finalmente sorse il
sole di
nuovo, ci trovò arrampicati in formazione sui rami degli
alberi,
pronti a colpire con raffiche di frecce, e la luce
ci tradì.
Non avevamo più
forze, ed eravamo più
che decimati, era un massacro immane.
Il cielo, così
come si era lievemente
illuminato, prese a rannuvolarsi, un enorme ammasso di nuvole
nere crebbe
da sud. Il cielo scomparve.
Tutti, Elfi e orchi,
attratti dal boato
che quello strano fenomeno aveva prodotto tingendo il cielo di nero
e rosso, alzarono lo sguardo. Le nuvole parevano correre, come
chiamate, verso Mordor, e di Mordor avevano i colori.
Poi, successe qualcosa che
ebbe
dell'incredibile.
Gli orchi presero a correre.
Corsero via, si dispersero.
Correvano a perdifiato nella direzione dalla quale erano venuti, e la
terra parve inghiottirli.
Sollevammo le spade e
urlammo.
Grida esplosero ovunque, di
gioia, e di
terrore. Cosa stava accadendo?
Non l'avremmo saputo
immediatamente, anche se, nei nostri cuori, la speranza era esplosa e
gridava a gran voce una sola cosa: l'Unico Anello era stato
distrutto.
Celeborn mi venne incontro.
Stemmo per
qualche istante uno di fronte all'altro. Un suo soldato aveva
raccolto il mio elmo, e me lo porse. Lo ringraziai, e andai ad
indossarlo, ma dovetti rinunciare, e non volli sapere in che
condizioni versasse il mio volto.
“Thranduil
Oropherion, possa la luce
delle stelle brillare sull'ora di questo nostro incontro. Quest'oggi,
il Mondo è cambiato. Possa la tua via essere d'ora in avanti
piena
di luce.”
“Salute Celeborn,
signore dei Galadhrim, signore di
Lothlorien. La luce splenderà adesso per gli Eldar, e per la
nostra
gente. Ricostruiremo questo mondo.”
Ci inchinammo.
“Devo trovare un
nuovo nome al mio
regno”, sussurrai. “Troppo a lungo è
stato affranto dal Male.”
“Non andrai ad
Eldamar?”
“Non
partirò, no, non potrei mai
lasciare queste sponde, questa è casa mia. So invece che tu
te ne
andrai.”
“Non in un breve
lasso di tempo, ma
sì, lascerò queste terre. Come desideri nominare
Eryn Galen, il
Reame Boscoso?”
Rimasi un istante in
silenzio, il gigantesco
elmo nelle mani. Evitai un sussulto al cuore, e dissi, con
convinzione e la voce ferma:
“Sarà
Eryn LasGalen, il
Bosco delle Foglie Verdi.”
Pensavo al futuro, pensavo
alle foglie
che sarebbero rinate dalla cenere. Pensavo alla ricostruzione del mio
reame segregato, alle foglie verdi che avrebbero di nuovo invaso il
mondo.
Pensai alle foglie che, un
giorno, sarebbero tornate a casa.
|
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Capitolo 14 *** Silenzio e luce. ***
Furono giorni di
incredibile silenzio:
niente, all'interno del Bosco, sembrava muoversi. Le foglie
respiravano piano, le radici scavavano sotto terra con premura,
temendo di far troppo rumore, e persino la pioggia, che era caduta
abbondante e ininterrottamente per due giorni, pareva voler sollevare
il minimo suono, cadendo in silenzio, temendo di essere scorta.
Bagnava le foglie, bagnava i prati, bagnava i capelli e le armature
dei miei pochi soldati rimasti in vita, ma senza prepotenza, quasi
fosse stata a riposo. Il vento spirava come un sussurro, sottovoce:
“Il Male non c'è più, il Male se
n'è andato”.
Ma non ci credevo.
Avevo visto troppe volte
crescere e
cadere, e crescere nuovamente, la mano malata di Melkor, nelle sue
varie forme, per poter assaporare a pieno quel momento, festeggiato da
tutti, da tutta la Terra di Mezzo, come la nascita di una nuova Era,
un'Era di pace.
Nel Regno era cominciata la
ricostruzione. Numerose le nostre vittime, il cui numero superava di
gran lunga quello dei vincitori, dei soldati tornati al sicuro,
all'interno delle mura. Cominciavo a domandarmi se mai sarei riuscito
ad abbatterle, quelle mura, ma il mio cuore non era ancora pronto,
probabilmente. Avevano difeso la mia gente così a lungo, che
sarebbe
stato estremamente difficile separarmene, separarmi dalla malsana,
folle idea che il Male potesse aver avuto bisogno ancora di qualche
tempo per eclissarsi davvero. Non credevo nel miracolo, come del
resto mi era sempre stato rimproverato da mio figlio.
Le mura avrebbero retto,
ancora per
qualche tempo. Nell'oscurità, avremmo atteso il momento in
cui le
avremmo finalmente potute abbattere e riportare la fortezza che era
la nostra casa al suo antico splendore.
Ricordo vividamente il
momento in cui
uscii, una mattina in cui il sole davvero
splendeva, libero, e
non percepii la fitta al cuore alla quale mi ero abituato da troppo
tempo: tutto taceva, e taceva in un silenzio sacro, pulito, come un
animale che si stesse leccando le ferite, al sicuro nella propria
tana. Vidi una volpe: lei ricambiò il mio sguardo, e corse
via. Un
branco di cervi, giovani come fili d'erba, passarono silenziosamente
nei paraggi. Passeggiai tra gli alberi, tra i miei protetti, secolari
sentinelle di un mondo che forse finalmente stava guarendo. Gli occhi
chiusi e i palmi rivolti l'alto, assaporai quel momento, quel loro
silenzio così forte. Il cambiamento stava pian piano
crescendo,
salendo dalla terra fino alle foglie degli alberi, che erano tornati
a respirare. Grossi cumuli di ragnatele cadevano al suolo, una
pioggia ovattata che pareva cotone filato, e in rami si alzavano
nuovamente verso il cielo, stanchi, ma forti, si sgranchivano come un
gatto al sole. La luce filtrava nuovamente tra le foglie, ne sentivo
il calore sulla pelle.
Graziosi festeggiamenti
avevano preso
vita nelle ali del mio palazzo, facendo vibrare l'aria di canti e
balli. La felicità che si respirava era la stessa che si
percepiva
tra gli alberi: sospettosa, ma vibrante, eccitata, ma ferita.
Il mio popolo stava
rialzando la testa,
come mai prima d'ora. Avevamo davvero qualcosa da festeggiare, dopo
tutto, e ne detti loro merito: giorni e giorni di festeggiamenti
ininterrotti, come solo dopo una guerra si sarebbe potuto fare.
Eppure, le stanze erano
silenziose. I
corridoi non emettano alcun suono, nessun passo leggero si muoveva
delicatamente al loro interno, nessuna porta sbattuta, niente. Era percepibile una forte assenza.
Vagavo
solo tra i miei corridoi.
Fu mentre camminavo, mani
dietro la
schiena, lungo uno di quei cunicoli in pietra che tanto amavo, che
accadde. Mi ero lasciato alle spalle la festa, stanco. Camminavo,
assorto, ripercorrendo con la mente quanto eseguito correttamente
quel giorno, quanto lavoro di ricostruzione e quanto di ordinaria
sopravvivenza fosse stato correttamente portato a termine, e mi reputavo abbastanza soddisfatto. Non mi ero mai mostrato
debole, non mi ero mai mostrato demoralizzato o scoraggiato, solo
molto pensieroso, dalla mia gente, ed ero stanco. Accadde in quel
momento.
“Mio
signore.”
Mi voltai, sovrappensiero.
Sapevo che
prima o poi sarebbe successo, ma in qualche modo riuscì a
prendermi
in contropiede.
Lo guardai, e gli feci
cenno di
parlare.
“Sono venuto a
scusarmi, mio
signore.”
Seguì una breve
pausa.
“Per che cosa,
Galion?”
La domanda lo
spiazzò. Tentennò un
attimo.
“Sappiamo molto
bene entrambi per
cosa, mio signore. Si tratta di un evento passato, ormai, ma sono
venuto finalmente a scusarmi. Non era mai accaduto prima, e mai
più
è accaduto. Sono costernato per quanto accaduto, e ho
passato gli
ultimi anni a dimostrarglielo, sire.”
Non risposi. Erano davvero
passati
anni, da quando Galion aveva messo in atto il suo scandaloso
tradimento – scandaloso tanto per l'esito quanto per la
dinamica –
e ormai avevo preso per certa la sua mancanza di pentimento. Era
sempre stato un ottimo maggiordomo – quella parola era
ridicola, ma
a lui pareva piacere molto – e il suo gesto di
sconsideratezza
aveva portato a galla un intero nugolo di azioni compiute alle mie
spalle. Non eravamo così uniti come sembravamo essere stati,
e certe
situazioni mi avevano aiutato a tenere gli occhi ancora più
aperti
di quanto non avessi mai fatto prima. Ero famoso per la mia poca
fiducia verso il mondo esterno, ma scoprire che avrei dovuto
guardarmi anche da quello interno era stato comunque un pensiero
doloroso. Ma, in quanto re, avevo abbastanza potere da poter superare
la questione, e nessuno ne aveva più parlato. Fino a quel
momento.
“Scuse accettate,
Galion”, dissi,
freddamente. “Adesso puoi recarti nuovamente alle tue
mansioni.”
Galion fece un piccolo
cenno del capo,
apparentemente deluso, e, girando sui tacchi, tornò da dove
era
venuto.
Ero a metà tra
l'imbarazzato e il
vivace desiderio di sguinzagliargli contro una flotta armata,
perciò
respirai a fondo e imboccai le scale che portavano alla terrazza
superiore, dalla quale si dominava gran parte della foresta,
postazione di difesa per le guardie.
Indipendentemente dagli
umori che
regnavano a ondate tra la mia corte, il mio regno stava davvero
rimettendo i tasselli a posto.
Una brezza lieve spirava
nella mia
direzione.
Ero certo che si trattasse
di un nuovo
principio di tempesta, ma per il momento il cielo era abbastanza
sereno. La via silvana era illuminata pienamente persino dalla luce
di quel sole fioco, cosa che non si vedeva da secoli. L'aria era
carica di rinascita, come un brontolio, un leggero terremoto che si
poteva percepire sotto i piedi, dentro la terra, persino dentro la
roccia delle pareti della fortezza.
Una presenza leggera si
unì a me,
nella mia contemplazione, restando però a distanza.
“Vieni avanti,
Arian. Che fai lì
impalata?”
Arian non rispose, e mi si fece vicino, alla
balaustra. Inspirò a pieni polmoni, e sorrise.
Non desiderai altro se non
la pace di
quel momento. La tranquillità e la serenità. Un
silenzio eloquente,
e calmo.
Prese a piovere. Le detti
il mio
mantello, non voleva rientrare.
“Aspetti, re
Thranduil? E cosa
aspetti?”
La domanda era scontata, ma
le risposi
lo stesso con quanta più serenità riuscissi a
dimostrare.
“Attendo di
vedere nuovamente
crescere l'erba laggiù, dove vedi che il fuoco ha divorato,
con le
sue fiamme, un'intera ala di foresta. Solo allora la pace
sarà
davvero tornata a Eryn Lasgalen.”
“Non deve essere
facile, essere re”,
scherzò poi lei, dopo una pausa. “Come puoi
startene così calmo?
Personalmente, soffro di più nell'attesa che non nel danno.
Il
danno, il male, si può affrontare, l'attesa... è
sospensione. E'
vuoto, un vuoto pieno di ansie.”
“Essere re
è l'unica cosa che so
davvero fare, in realtà.”
“Sempre modesti, ai piani
alti.”
“Non sarei re, altrimenti.”
Rise.
Ma, anche lei, teneva gli
occhi sulla
strada davanti a noi. Silenziosa e vuota.
La musica della festa
arrivava fino
alle nostre orecchie. Sorridendo, le cinsi i fianchi con un braccio,
e con l'altro la invitai a ballare. Le presi la mano e accennai un
passo. Lei sgranò gli occhi, ma mi seguì in
quella sciocchezza, e
sorrise, sorrise così meravigliosamente che il tempo parve
fermarsi,
e, per un attimo, tutto sembrò scivolare via, come gocce
d'acqua
alla luce del sole.
|
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Capitolo 15 *** Finalmente a casa ***
Buonasera!
Nuovo capitolo. ;) Ho cercato di renderlo al meglio, spero davvero che
vi piaccia e non vi invogli troppo a dar fuoco all'intera stratosfera.
A parlare - meglio specificare, trattandosi di un OC - è
Arian, personaggio da me creato e inserito in qualche capitolo, della
corte di Thranduil, confidente del re e tutrice di Legolas sin
dall'infanzia. Credo il suo punto di vista fosse utile per osservare lo
scorrere degli eventi anche da un altro occhio, quasi del tutto nuovo
e, finalmente, anche femminile!
Specifico questo: so che, nelle appendici del 'Signore degli Anelli',
si dice che Legolas sia rimasto a Minas Tirith fino alla morte di
Aragorn, per poi partire con Gimli in viaggio per la Terra di Mezzo,
ma, secondo me, a casa è anche tornato. Per breve tempo,
sicuramente, ma... sentivo il bisogno di immaginare una scena del
genere. Perdonatemi.
Fatemi sapere cosa ne pensate, insulti inclusi (ma spero di no).
Un abbraccio,
Maiwe
Per settimane,
regnò il silenzio. Un
silenzio fatto di radici che tornavano a crescere, di foglie al
vento, bagnate da una pioggia quasi sacra, che scrosciava in gocce
grandi quanto una gemma. Un silenzio fatto di parole, canti e feste.
Un silenzio fatto di infinito cordoglio in onore di tutti coloro che
non avrebbero potuto mai più festeggiare.
Un silenzio fatto, per la
prima volta
in un'infinità di tempo, da contatti col mondo esterno.
Un silenzio fatto di luce.
Ricordo perfettamente
quando uscii dal
cancello esterno, quando uscii dalle mura. Avevo rimirato la luce del
sole dalle finestre, impaurita ad uscire, protetta dal baluardo che
il nostro re ci aveva costruito attorno, come un guscio, una
conchiglia fatta di pietre solide, e buie.
Ricordo il suono delle
risate, con una
nuova eco nell'aria.
Non ero una guardia, e
stavo uscendo
alla luce del sole.
Non che vi fossi stata
obbligata,
certo, ero rimasta volontariamente all'interno della fortezza. Avevo
paura, devo ammetterlo. Il mondo era diventato talmente grande e
oscuro che tutto il mio popolo aveva preferito rintanarsi, o
addirittura lasciare le sponde della Terra di mezzo. Partire.
Non avevamo più
luce, e non solo
perché avevamo chiuso i cancelli al resto del mondo.
Il fatto che proprio il
nostro
principe, il giovane figlio del re, si trovasse, invece, fuori, nel
mondo che tutti avevamo imparato ad evitare o combattere, e che
soltanto adesso stavamo imparando ad abbracciare di nuovo, era un
dolore e una speranza insieme, per tutti noi.
Eravamo infinitamente
orgogliosi di
lui. Era ormai adulto, che ci piacesse o no, e anche da tempo, e
l'avevamo lasciato andare, così, come aveva sempre
desiderato.
Rappresentate del Popolo
Elfico nella
Compagnia dell'Anello, ci avevano detto da Imladris.
Potevamo solo star fermi, e
aspettare.
Proprio come in quel
momento.
L'antica via silvana era
vuota,
deserta, ormai da settimane.
Legolas non tornava.
Suo padre, come sempre, non
dava cenni
di cedimento – ad occhi esterni. Mi era addirittura capitato
di
vederlo scoraggiato, una volta, temendo, da padre, di averlo mandato
alla morte.
Scacciai quel pensiero. Io
stessa non
ne parlavo con Thranduil, sapevo la profonda pena che certamente
albergava nel suo cuore.
Ma il re del Reame Boscoso
andava
avanti, come sempre; e, come sempre, teneva la testa alta, seppure
con lo sguardo ancorato al passato.
Le sue ferite di battaglia
stavano
guarendo. Ricordo l'enorme spavento che provai quando tornò,
seppure
vincitore, dall'ultima battaglia. Mi si presentò con il
volto
tumefatto, e temetti avesse perso l'occhio sinistro. Mi prese un colpo
al cuore.
Credo che per molto tempo
non abbia
visto bene, da quell'occhio. Ma non l'ha mai ammesso.
Ricordo che, con un panno
freddo, gli
pulii la ferita, in silenzio, lui che mi guardava, e io che cercavo
di fare del mio meglio per aiutarlo, come sempre avevo fatto.
E da allora, a parte
qualche sporadica
chiacchierata, il silenzio aveva continuato a regnare.
Ricordo che trassi un
profondo sospiro,
andando ad affacciarmi alla grande terrazza principale, dalla quale
si dominava l'antica via silvana.
Ricordo che sentivo il
cuore
tamburellarmi nel petto, e che, nonostante avessi anche io i miei
anni e avessi già vissuto a lungo, quel momento mi pareva
interminabile.
Niente si muoveva. Solo le
nuvole sopra
di noi, cicliche, continue, limpide.
Thranduil si
affacciò alla terrazza,
fece qualche passo deciso in avanti e si fermò al parapetto.
Non lo
vedevo da un po', indaffarato com'era, e, dopo un rapido cenno, mi
spostai dalla mia posizione e lo lasciai passare.
Erano passati mesi dalla
fine della
guerra.
E fu meraviglioso osservare
un padre,
statuario e fiero, osservare il proprio figlio tornare a casa,
percorrere tutta la via elfica diventando sempre più
visibile, in
spalla un grande arco e un enorme scudo a ingigantirne ancora di
più
la silhouette robusta.
Legolas camminava con passo
fiero,
adulto, e sorrideva. Thranduil lo vedeva, e sul suo volto si
spalancò
un enorme, immenso sorriso, felice come non l'avevo mai visto.
Fu meraviglioso, e
finalmente potevo
anch'io, nel mio piccolo, credere che davvero la guerra fosse finita
e sentirmi finalmente a casa.
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Capitolo 16 *** Radici e foglie al vento ***
Ciao!
Eccomi finalmente qua con un nuovo capitolo. Come sempre, spero vi
piaccia. Devo dire che mi è risultato un po' ostico
stenderlo, avevo continuamente paura di star andando OOC, soprattutto
nel caso di Thranduil, che tutti vedono come una sorta di
iceberg insensibile, freddo e calcolatore. Può darsi che
sì, io stia davvero andando un po' OOC, ma spero si legga la
differenza tra ciò che questo personaggio sta facendo
trasparire, ossia un'immagine rigida e chiusa, quasi oscura, e
ciò che invece ha dentro e non esterna, perché
né il suo ruolo né tantomeno il suo carattere
glielo consentono.
Spero davvero, comunque,
non vi faccia venir voglia di spararvi un colpo, ma anzi, vi faccia
amare questo personaggio quanto lo amo io.
Vi abbraccio tutti forte, e
vi ringrazio per l'affetto che mi dimostrate sempre!
Maiwe
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Legolas entrò nella stanza e mi trovò
di spalle.
“Ti devo
parlare.”
Non sussultai, non reagii
troppo
vistosamente, in fondo lo sapevo. L'avevo intuito.
“Ti
ascolto.”
Mi voltai. Feci un
passo avanti, e mi sedetti al grande tavolo delle conferenze, una
sala così grande che improvvisamente mi parve stringermisi
intorno.
Calò il
silenzio, e nessuno dei due
parlò per qualche minuto.
“Stai
bene?” Mi chiese
improvvisamente, un filo di voce, preoccupato.
“Sì,
certamente. Ma allontanati
dalla finestra.” Non sapevo come chiedergli di spostarsi un
po' più
sulla destra, di modo che potessi vederlo meglio.
Lui parve non voler far
caso alla mia
richiesta – la eseguì, ma non certo con lo spirito
di un tempo. Il
passo che mosse in avanti fu lento e sicuro, calibrato. Un passo
silenzioso, importante. Un passo maturo.
“Ho deciso di
partire.”
“Per
quale motivo?”... Eppure, riuscì a prendermi alla
sprovvista.
Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Ma, per certi versi, reagii come se
non fossi stato pronto.
“Non
c'è un perché.”
“Un
perché c'è sempre”, risposi con voce
grave.
Mi guardò dritto
negli occhi, e fu una
pugnalata.
Prese qualche istante, poi
parlò con
voce ferma e pacata.
“Voglio
andarmene.”
“Se è
ciò che desideri...”
“Lo
è.”
“E dove pensi di
andare?”
“Vorrei poter
visitare quegli angoli
di mondo che ancora mi mancano da vedere. Li visiterò con
Gimli,
figlio di Glòin, mio fedele amico. Dopo l'incoronazione di
Aragorn,
abbiamo concordato che gireremo insieme, a lungo. Voglio vedere il
mare, padre. Non l'ho mai visto.”
Mi alzai e mi diressi verso
la brocca
d'acqua appoggiata su un mobile alle mie spalle, con passo lento, e
per poco non infilai un piede in una sedia del grande tavolo,
spiccando un piccolo balzo, incerto. Mi ricomposi, e proseguii.
Mi sentivo un verme a
chiedere a mio
padre di andarmene. Proprio adesso che ero appena tornato, e lo avevo
trovato in quello stato.
Era inutile che facesse
finta di
niente, come suo solito, lo vedevo bene: aveva perso l'occhio
sinistro. Poteva ingannare gli altri, ma non poteva ingannare me.
Inciampava, non camminava
più sicuro
come un tempo.
Ma andai avanti con la mia
richiesta.
Dopo aver girato mezzo
mondo, tornare
alle vecchie, chiuse, murate abitudini era, per me, per quello che
ero diventato, un vero tradimento. Sentivo il bisogno di continuare a
vivere, là fuori.
Dovevo farlo.
Per me stesso.
“Abbiamo aperto
le porte, ormai. Non
siamo – non siete, più costretti a vivere
all'interno di queste
mura.”
Per qualche strano motivo,
pensai che
avesse visto troppo, in battaglia. Troppo. Quel troppo che avevo
cercato di impedirgli di vedere, con tutti i mezzi. Con mura alte,
con baluardi, vedette e oscurità. Lo intuivo dalle sue
parole, dalle
sue espressioni, dai suoi gesti. Probabilmente, in battaglia era
addirittura stato ferito, ferito in modo grave,
probabilmente
a un braccio, e stava cercando di non farmene accorgere.
Mio figlio era cambiato, e
non lo vidi
cambiato in meglio.
Era cresciuto
allontanandosi sempre di
più da ciò che era un tempo: non dico che avrebbe
dovuto ricordare
in eterno che l'avevo salvato da morte certa nascondendolo nel mio
mantello in un albero cavo; ma il modo in cui cercava risposte,
lontano da me, lontano da casa sua, era sbagliato.
Cosa
avrebbe trovato, là fuori?
Era ora che si fermasse a
casa, e
pensasse infine al futuro. Aveva finalmente l'opportunità di
farlo.
Ebbi un brivido a pensare
che potesse
davvero essersi ritrovato l'anima lacerata dall'orrore del mondo,
così come l'avevo io da che avevo memoria. E mi veniva a
chiedere
di tornare in quel mondo?
“Padre”,
provai a dire, con dolore.
“So che mi vuoi qui. Ma non c'è posto, per me, qui.
Non
adesso. Un giorno, forse, quando sarò tornato, mi
fermerò per
sempre. Ma non è questo il momento. Ho visto così
tanto...”
Sorrisi.
“Hai visto troppo.” Mi
lanciò un'occhiata
tale che mi paralizzò. “Cosa credi, che abbia
aspettato tutti
questi anni, nel buio, perché tu poi te ne potessi andare?
Sei
figlio di re, e questo ti graverà sulla spalle per tutta la
vita.
Devi accettarlo. E' ora che ti curi del tuo popolo, così
come ho
sempre fatto io.”
Mi voltò le
spalle.
“Tu hai
paura”, dissi, a bassa
voce, “che io dimentichi.”
“Tu hai
già dimenticato. Tu non sai,
non vuoi sapere. Tu non ricordi ciò che ricordo io. Io ho
visto mia
moglie, tua madre, morirti a un passo, tra le mie braccia. E tu mi
chiedi di andartene. Tu mi chiedi di andare a vedere il mare.”
Dove voleva arrivare, con
quel
discorso?
“Legolas”,
cercò di calmarsi,
trattenendosi, e riflettendo, dosando le parole, “hai
ragione. Va'
pure dove vuoi. Ma ricordati questo: non potrai fuggire in eterno dai
tuoi doveri. Io ne so qualcosa. Non fare l'errore che io ho
commesso.”
Sapevo cosa significava:
era tempo che
io, per il mio popolo, tornassi ad essere il principe.
“Sei sinonimo di
eterna giovinezza,
tra la tue gente, sei lo spirito libero, l'audacia, la scoperta,
l'emozione. Sei la bellezza, e sei la bontà, la leggerezza.
Sei la
speranza. Ma cerca di non essere un'eterna foglia al vento, figlio
mio. Le radici, nella vita, sono tutto ciò che
abbiamo.”
“Lo so. E' questo
il motivo della mia
richiesta. Ho bisogno di trovarle, le mie radici. Per troppo tempo ho
avuto rimpianti. Non sono ancora pronto, padre.”
“Non sei pronto
per cosa?”
“Per essere re.
Per essere te.”
Arian entrò,
leggera, nella grande
stanza. La porta, alta e pesante, cigolò prepotentemente, e
lei
parve scomparire, dietro quel cigolio. Si fece piccola-piccola e poi
parlò. Chiese direttive su qualche procedura di non ricordo
neanche
cosa, ma la sua presenza fu una ventata di aria fresca, balsamo.
Sopratutto per mio padre,
che la
guardava, una squillante luce negli occhi, tenuta nascosta sotto
spessi strati di negazione.
“Forse anche tu
dovresti ricordarti
delle radici, padre. Sono tutto ciò che abbiamo.”
Gli posai una mano sulla
spalla e uscii
dalla stanza.
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Capitolo 17 *** Una mattina di prima estate ***
Il tempo si era fermato.
Palpitava, il tempo,
pulsava nelle mie
tempie, sotto le mie palpebre chiuse, e in tutto il mio corpo; ogni
muscolo era teso, lo sentivo, sorpreso, sopraffatto, tremante.
Il mare, intorno a noi e
alle nostre
spalle, lasciava vibrare solamente qualche nota, a tratti, proprio
come un'onda. Ne percepivo i rumori tra un
respiro e l'altro, completamente avvolto.
Il tempo aveva iniziato a
fermarsi non
appena avevo lasciato casa mia, la mia gente. Il tempo si era
dilatato, ed era un tempo che profumava di una libertà mai
provata
prima: via, lontano, viaggiare, e nei tempi di pace ancora tutti da
scoprire era una sensazione inedita.
Avevo attraversato Rohan e
la grande
foresta di Barbalbero, Fangorn, con Gimli. Avevamo viaggiato per
mezzo mondo conosciuto, io e lui, due fratelli. Semplicemente
fratelli. Oltre l'amicizia, oltre rancori che non ci appartenevano e
che avevamo capito non esserci mai appartenuti, rancori figli di
un'epoca buia. Un amico leale, Gimli, come lo era Aragorn.
Avevamo soggiornato anche a
Gondor, per
lungo tempo, ospiti del re, suoi bracci destri, legati in eterno da
amicizia profonda. E l'amicizia che mi legava a quelle due creature
così diverse, con le quali avevo affrontato vita e morte,
era
diventata, se possibile, ancora più salda, un voto: non
avremmo
lasciato Gondor finché il suo re fosse stato in vita.
Fu con dolore, e perdita,
quindi, che
una mattina di prima estate, una mattina colorata di rosso da un sole
che si andava levando pigro, io e Gimli salpammo dai Porti Grigi,
lasciando la Terra di Mezzo.
Avevo costruito con le mie
mani una
barca. L'avevo ricavata da un piccolo albero che avevo conosciuto
là,
ai Porti Grigi, un albero che stava lentamente avviandosi alla morte.
Una piccola quercia molto simile a quelle che erano solite crescere a
Eryn Galen, non molto differente da esse. Ritenni che quel legno
sarebbe stato perfetto per il mio addio a quell'immensa parte di
mondo.
Iniziai a lavorarlo quando,
ormai,
riconobbi sul volto di Elessar i primi segni di una resa: stava
scegliendo il momento adatto per morire, il re di Gondor, e io
scavavo, pulivo e lavoravo, raffinavo, quel legno grigio tanto bello
e nodoso. La morte era una sensazione di freddo, di gelo, in fondo al
mio cuore, e mi sentivo stanco. La mia sete di scoperta e di vita non
si sarebbe esaurita lì.
Salpammo dai Porti Grigi
una mattina di
prima estate, dunque, e l'aria era fredda. Lasciavamo su quella
banchina di pietra, e lo sapevamo, un'Era intera. Cambiamenti e
conquiste, ormai ricordi.
Ricordo la lettera che
giunse dal di là
del Mare: Dama Galadriel concedeva a Gimli il Nano di raggiungere
Valinor. Era destino che, ovunque andassimo, io e quel mio imprevisto
amico – eravamo davvero una strana visione, agli occhi di
molti –
portassimo il cambiamento.
Ricordo lo sguardo di mio
padre, e il
dolore che difficilmente riuscivo ad ammettere nel separarmi da lui.
Ricordo i nostri occhi incrociarsi a malapena, nel momento
dell'addio. Un addio formale, di un re esperto e con la vocazione per
essere una vera guida per il suo popolo a un eterno principe, che non
aveva una corona con sé, perché non gli spettava.
I secondogeniti
hanno uno strano destino, di eterna sudditanza, di non appartenenza
alle linee gerarchiche; non era mia quella corona che mio padre
voleva indossassi.
Quando ci salutammo, quando
lasciai
casa, pensando “questa volta è
per sempre”, mi disse
solamente “Fai attenzione”. Mi sarebbe mancata la
sua posatezza,
e la sua severità. I suoi silenzi che raccontavano sempre
tutto come
un libro aperto.
Un libro. Fu proprio un
libro l'unico
regalo di Arian, un libro che ero solito amare, da giovane. Lo presi
dalle sue mani e la abbracciai forte, sicura che si sarebbe presa
cura di mio padre e della mia casa come sempre aveva fatto. C'era un
foglio, all'interno del libro, una pagina strappata da un'altra
storia: non so quale libro fosse, ma riguardava una piazza, una
piazza di un paese, affollata a festa.
Capii la referenza
solamente quando
ormai mi trovavo in alto mare, lontano.
Tutto mi tornava alla
mente, in quel
momento. Tutto quanto mi ero lasciato alle spalle, dolorosamente ma
con decisione. Persino la mano salda di Gimli che afferrava,
fiduciosa, la mia, quando si decise finalmente a salire a bordo.
Persino il suo comico mal di mare che era durato tutta la traversata
e si era intensificato con l'avvistamento di grossi nuvoloni neri
sopra la nostra testa.
La testa mi vorticava, e
non riuscivo a
smettere di godermi l'attimo, non avendone mai abbastanza,
abbracciando quella veste blu con delicatezza, un lungo abito blu
intenso, intenso come i capelli di lei, scuri come la notte,
voluminosi, in cui affondare le mani.
Respirai a fondo, serrando
improvvisamente le labbra. La guardai negli occhi e mi resi conto di
essermi completamente, profondamente e irrimediabilmente innamorato
di lei, di quella donna che tenevo tra le braccia e che mi sorrideva
con gli occhi lucidi e le guance rosse.
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