Eryn Lasgalen - Il Bosco delle Foglie d'Oro

di Maiwe
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ada ***
Capitolo 2: *** Saldo come una quercia, forte come il mare ***
Capitolo 3: *** "Il Re è tornato" ***
Capitolo 4: *** Di bambini, ragni e scope. ***
Capitolo 5: *** La vedetta ***
Capitolo 6: *** I cancelli del Re ***
Capitolo 7: *** Il tesoro del Re Thranduil ***
Capitolo 8: *** Elfi, Uomini, Nani. ***
Capitolo 9: *** "Tornerò presto." ***
Capitolo 10: *** Solo un peso. ***
Capitolo 11: *** Resta saldo. ***
Capitolo 12: *** Suoni ***
Capitolo 13: *** Nero, rosso; verde. ***
Capitolo 14: *** Silenzio e luce. ***
Capitolo 15: *** Finalmente a casa ***
Capitolo 16: *** Radici e foglie al vento ***
Capitolo 17: *** Una mattina di prima estate ***



Capitolo 1
*** Ada ***



Salve a tutti! Ebbene sì, prima pubblicazione. Spero non mi toglierete il saluto.
Mi auguro vi piaccia, davvero, e non aggiungo altro, per non tediarvi oltre.
 
Questo capitolo è dedicato a Ida, dolcissima amica mia che se ne è volata via troppo, troppo presto. Non eravamo preparati.
 
Un bacio a chi vorrà leggere, due a chi vorrà anche commentare!
Siate pure cattivi, devo farmi le ossa!
Maiwe
 
 

 

 


L’universo si era paralizzato.
Persi il controllo del respiro, immobile, tutto il resto del mondo che mi vorticava intorno e addosso. Dentro.
La vidi cadere. La vidi colpita. Crollare inerme in ginocchio, un rivolo di sangue lungo le guance, e accasciarsi a terra. Mi parve di fluttuare, in quell’istante infinito, in cui la mia mente stava già rifiutando quanto appena visto, come se non fosse mai accaduto. I capelli castani, così scuri alla luce del giorno che moriva, le donavano un’aura di eleganza che l’aveva sempre resa meravigliosa, ai miei occhi.
I suoi occhi. Chiusi. Aveva gli occhi chiusi. Perché?
Mi mossi in avanti, stentai un passo, ma non riuscivo a reagire. Lei era a terra, un braccio verso di me.
In testa continuavo a sentire ancora e ancora il tonfo che aveva prodotto accasciandosi al suolo, nella polvere che sempre costellava il pavimento di quel chiostro.
La sua veste blu, con i ricami d’oro.
La sua bocca. Era sporca di sangue.
‘Ti amo, devi alzarti’, pensai. Non uscì un suono, dalla mia bocca, se non un gemito.
Perché le gambe non mi seguivano? Cos’era successo? Cosa mi stava trattenendo?
Me ne stavo ancora in piedi, fermo, immobile, come se, intorno a me, niente stesse succedendo. Niente di niente, tutto era congelato. Persino quello schifoso orco, quella feccia disgustosa che stava brandendo una spada in direzione della mia gola. Lo vidi arrivare, alzando lo sguardo, piano, lentamente, come se mi trovassi in un sogno. Una lama lo trafisse da parte a parte prima che mi raggiungesse, mentre io me ne restavo ancora lì.
Mi riscossi. Guardai lo schifoso essere crollare a terra, mentre qualcuno, che non seppi riconoscere, davanti a me e che mi aveva appena salvato la vita, mi lanciava uno sguardo vuoto, senza capire perché me ne stessi così immobile, io, Thranduil, figlio di Oropher. Esule nel Doriat, un re senza trono. Figlio di un re scomparso troppo presto. Non poteva capire, non poteva sapere, perché non aveva visto mia moglie cadere a terra, non l’aveva appena vista morire.
Finalmente le gambe mi risposero, e feci un passo in direzione di Rua. Forse aveva solo perso i sensi, forse potevo ancora salvarle la vita. Forse ero ancora in tempo. Forse…
Mentre l’ennesimo orco si faceva avanti, mirando a me, brandendo una spada mozza, una lama nera intrisa di sangue della mia gente, dei miei amici e probabilmente della mia stessa famiglia, abbassai gli occhi.
Un piccolo volto mi ricambiò lo sguardo. Un volto pallido, imbevuto nella paura, nel terrore, un bambino troppo piccolo per capire cosa stesse succedendo, cosa fosse appena successo. Era abbracciato alle mie ginocchia, tenendomi stretto. Da quanto era lì? Aveva visto tutto? … Quanto tempo era passato? Una lacrima gli solcò le guance, mentre allungava una mano verso di me, emettendo solo un piccolo, debole suono strozzato.
Ada.”
L’orco era talmente vicino che sentii il suo odore arrivare sulla mia pelle.
Strinsi la presa attorno all’elsa della spada e, premendo con una mano il volto di mio figlio contro le mie gambe perché non vedesse, trafissi quell’essere mostruoso da parte a parte, gridando, gli mozzai la testa. D’istinto, quindi, feci l’unica cosa che a quel punto mi parve possibile.
Raccolsi mio figlio, lo presi in braccio.
E scappai.
Corsi via. Dovevo metterlo al sicuro. Tenendolo con un braccio solo, una ferita alla mia gamba sinistra che non avevo notato e che emanava fitte che mi mozzavano il fiato, rinfoderai la spada, e corsi in direzione del giardino della reggia, verso l’esterno.
Mi voltai soltanto quando fui abbastanza lontano da aver raggiunto le mura della corte. Mi voltai e vidi il palazzo in fiamme. La reggia del mio amico e mentore, che in quegli anni mi aveva accolto come un padre, dato una nuova vita e una nuova famiglia, seppur momentanea, era in gran parte devastata, violata, distrutta, tradita. Avevamo perso tutto. Io e quel bambino che guardava le fiamme senza capire, le guance sporche di sangue, cenere e polvere, avevamo appena perso tutto.
Che cosa potevo fare?
“Rua”, piansi, guardando il palazzo bruciare. “Rua”.
Nana?”
Coprii gli occhi a mio figlio. Non doveva ricordare quelle cose. Forse io stesso avrei fatto meglio a… come avevo anche solo potuto pensarlo.
Forse Rua era davvero ancora viva. Forse mia moglie non era morta, non poteva esser vero. Non poteva essere successo. Non avevo la forza di crederci.
Mio figlio, il mio bambino, quel bambino così bello, così intelligente e sveglio, mi passò una sua manina sul volto, nonostante la vista oscurata dalla mia mano, portandosi via una lacrima, e ripulendomi da un po’ di cenere, e sangue nero di orco. Gli sorrisi, non riuscendo a smettere di piangere.
Avevo un bambino piccolo in braccio, e quale era la mia alternativa? Entrare nella loggia in fiamme, cercare il cadavere di mia moglie… e poi? Dove avrei lasciato mio figlio? Non potevo nasconderlo, gli orchi erano ovunque.
Mi acquattai dietro uno degli ultimi alberi e attesi. Attesi la notte. Era il tramonto. Non avrebbero tardato a calare le prime stelle. Fortunatamente avevo la mia cappa, che, per quanto lacerata e sporca, lercia, ma la usai per avvolgere mio figlio, che, pian piano, era crollato addormentato.
E lì, nascosto nell’incavo di un albero, lontano dalla reggia, a un passo dalla foresta di Region, uno dei boschi più oscuri del Doriat, lo guardai dormire. Così beato. Così tranquillo. Non aveva idea di cosa fosse appena successo.
E forse, neanche io. Lo abbracciai, me lo portai vicino al volto e lo cullai, non potendo fare a meno di versare lacrime.
Cercai di ricostruire come potesse essere accaduto. Le avevo detto perentoriamente di non muoversi dal loro rifugio, di tenere il bambino con sé, era soltanto un attacco di orchi, l’avremmo respinto. E, se le cose si fossero messe male, di scappare con lui, e non aspettarmi. Non voltarsi indietro. Prendere la via a ovest lungo il fiume Sirion e raggiungere il mare, farsi portare via, tornare lontano, a casa nostra, finalmente. Era l’occasione buona per tornare. E non voltarsi per nessuna ragione al mondo.
E allora perché era venuta a cercarmi? Perché aveva portato il bambino con sé, esponendolo ad un pericolo immane, dal quale solo miracolosamente era scampato? Ringraziai i Valar di essermi trovato proprio accanto a lei, in quel momento, un istante prima che la ama nera la trafiggesse da parte a parte. Un istante prima di vederla cadere. Ringraziai, davvero, così il mio bambino aveva avuto il tempo di vedermi e venirmi subito incontro, percorrendo quella frazione di spazio che ci aveva separati in quell’ultimo istante.
Nel sonno, si agitava, il mio piccolino. Lo coprii meglio. E me lo strinsi ancora di più al petto, mentre mi alzavo e mi incamminavo verso l’interno della foresta di Region. L’oscurità ci avvolse immediatamente, ma conoscevo bene quelle terre, l’ambiente boschivo era il mio ambiente naturale, avrei sfruttato l’ombra a nostro favore.
Mi incamminai che già le prime scorribande ci stavano cercando. Volevano me, l’ultimo esponente di una casata potenzialmente molto pericolosa. Volevano il mio bambino. Era per me che erano venuti, anche per me, soprattutto per me. Non soltanto per saccheggiare la reggia e intimidire il suo sovrano, erano venuti per noi.
Cominciai a correre, un braccio impossibilitato dal peso di quel fagotto che dormiva tranquillo, l’altra ad afferrare rami bassi e pruni, in cerca del sentiero, della via, nell’oscurità. Il sole era calato davvero, ma quanto era passato da che mi ero nascosto? Pochi minuti, non di più. Il tempo di recuperare le forze e mi ero rimesso a correre verso ovest, stavolta senza guardarmi indietro. Non fu facile trovare la via, il sentiero, all’interno di quella boscaglia. Mi ripromisi che, quando sarei finalmente ritornato a casa, a casa mia, dove era mio diritto trovarmi, restare e regnare sulla mia gente, la strada sarebbe stata facilissima da trovare: ci sarebbe stato un sentiero netto e preciso, un camminamento da seguire per arrivare fino dall’altra parte della selva in tutta tranquillità.
 
Il mio piccolo amore si svegliò di soprassalto. Stavo ancora correndo nel bosco, lungo lo stretto e nascosto percorso che portava dritto fino al fiume Aros. Fu svegliato dalla grida degli orchi che ci erano alle calcagna.
“Non ti preoccupare, tesoro. Tuo padre sa come non farsi trovare. Vedrai che ce ne libereremo. Quel kaima. Dormi.”
In tutta risposta, mi giunse uno sguardo smarrito, ma fiducioso. Si morse il pugno, e chiuse di nuovo gli occhi, appoggiandosi alla mia spalla.
Il senso di vuoto che avevo dentro era indecifrabile, incolmabile. Stavo scappando. Stavo fuggendo. Ma non avevo alternativa, se volevo salvare quel che restava della nostra vita, quel che restava della mia famiglia. I miei ospiti avevano sicuramente già fatto rientrare l’attacco, nonostante alcune ali della reggia fossero devastate. Dovevo andarmene, e non mettere più in pericolo la vita di nessuno.
Kwertet nana uma delm’en”, mi fede notare mio figlio, mezzo addormentato.
La mamma gli aveva detto di non preoccuparsi.
Nurta min adar
Gli aveva detto di andare a nascondersi dal papà.
Uma dela!”
Di non preoccuparsi.
Tira ten’ rashwe astar
E di stare attento.
Lle vesta Ada?
Quell’ultima frase era tutta per me. Aveva riaperto gli occhi.
“Te lo prometto, piccolo.”

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Capitolo 2
*** Saldo come una quercia, forte come il mare ***


Buonsalve a tutti!

Eccoci qua con il secondo capitolo della storia. Si tratta, ancora, del punto di vista di Thranduil. Prometto che, prossimamente, varierò di più!
Chiedo scusissima per non aver aggiornato prima. Questo capitolo è stato un vero parto. L’ho scritto, cancellato e riscritto da capo almeno quattro volte, finché non ho azzerato tutto nuovamente, in uno scatto d’esasperazione, e ho creato questo un paio d’ore fa. Spero vi piaccia – e non mi odierete troppo: con l’altro capitolo c’è chi ha versato lacrime non previste, chiedo umilmente perdono! Preparatevi, dunque. ;)

Un grazie a chi leggerà, un bacio a chi recensirà. Pessima rima, ne sono consapevole.
 
Questo capitolo è dedicato a Charme, che mi crede matta e con la soglia del “Non troppo drammatico” piuttosto alta. Lei è una persona sana di mente, a differenza di me.
 
Baci e lembas a tutti,
 
Maiwe


 




 
Finalmente, mi sfuggì un sorriso. Sorrisi senza pensarci, istintivamente, dal profondo del cuore. Allungava le braccia come a volersi tuffare in acqua senza esitazione, tanto che dovetti stringere ancora di più la mia presa attorno al suo piccolo corpo, rendendomi conto che erano giorni, ormai, che lo tenevo in braccio, stretto a me con tutte le forze, saldo, le braccia sempre più stanche ma puntualmente ignorate.
Voleva avvicinarsi a tutti i costi ai veloci sbuffi di spuma che alcune piccole onde creavano sbattendo contro la chiglia della nave. Ed eravamo a un passo dalla superficie dell’acqua; le navi elfiche erano così basse e ben scavate che, a momenti, avevo paura saremmo sprofondati, appena un’onda si faceva leggermente più alta e minacciosa.
Sembrava così entusiasta, il mio bambino sembrava così felice, di vedere per la prima volta il mare. Non l’avevo mai visto ridere e agitarsi tanto.
Lo avvolsi ancora di più nel mio abbraccio stanco – e non esente da mal di mare - ma pieno di energia al tempo stesso, e gli schioccai un bacio sulla nuca, mentre cercava di sfuggire alla mia presa.
Riuscendoci.
Si proiettò in avanti, verso il centro del ponte della nave, mentre io perdevo qualche battito al cuore.
“Vieni immediatamente qui!”
In tutta risposta, mi giunse una risata di gusto, di chi sa di star facendo un dispetto e la cosa gli provoca un enorme, dannato piacere.
Allora risi anch’io, di sottecchi, mentre mi precipitavo a riprenderlo in braccio. Lui si protese per farsi sollevare, per poi ingannarmi svincolando velocemente tra le mie gambe e correndo in direzione opposta.
Stava crescendo. Nel notarlo, provai un grande orgoglio, una nuova forza, ma anche una fredda fitta al cuore, come uno spillo ficcato nell’esatto centro del petto.
Si era incantato nuovamente a guardare le onde, la vastità dell’acqua scura che ci circondava. Sembrava molto pensieroso e profondamente consapevole, i capelli scuri, ereditati dalla mamma, appena mossi dal vento; sembrava più grande e responsabile, per la sua minuscola età. Mi inginocchiai accanto a lui e lo abbracciai dalle spalle, guardando anch’io oltre il parapetto, ma non vedendo del tutto il mare, perdendomi, anzi, nei pensieri. Lui mi passò un braccio attorno al collo e sospirò. Era completamente assorto.
“A cosa stai pensando?” domandai, a voce bassa, non sicuro di volere sapere davvero la risposta.
Non rispose.
“D-dove siamo diretti, Ada?” domandò poi, in una lingua corrente un po’ strascicata e incerta.
“Te l’ho già detto, tesoro. Stiamo andando a casa.”
Non pareva per niente convinto. Tornò a guardare le onde, poi si sedette su un panchetto, alla poppa della nave, facendo dondolare i piedi.
“Cos’ hai, sei triste?” Mi si strinse il cuore in una morsa glaciale. Lottai per apparire forte. Dovevo esserlo a qualsiasi costo.
Gli sollevai il mento con una mano.
“Testa alta, tesoro. Testa alta.”
Fece come gli dissi.
“Guardami.”
Continuava a tenere gli occhi bassi.
“Guardami.”
“No.”
Respirai a fondo.
“Perché non vuoi guardarmi? Sei arrabbiato con me?”
“Io non sono arrabbiato con nessuno.”
“Però sei triste.”
“Però sì, sono triste.” Voltò lo sguardo.
Mi sedetti accanto a lui. Era stano: non mi ero mai sentito così forte in vita mia come in quel momento in cui, corpo, anima e cuore, avevo toccato il fondo.
“Senti”, gli dissi infine, tornando a inginocchiarmi davanti a lui e costringendolo a guardarmi negli occhi. “Hai paura. Lo vedo bene, sai. Ma la sai una cosa?”
“No.” Tornò a sorridere, ricacciando indietro le lacrime. Eccolo lì, il mio tesoro, saldo come una quercia, forte come il mare.
“Anche io ho paura. Ho tantissima paura, molta più di te.”
“Non è vero! Non è possibile.” Ormai rideva, ce l’avevo fatta.
“E’ la verità. E lo sai il perché?” Mi sforzavo di parlargli in lingua corrente, così che… si abituasse. La nostra vita era ormai stravolta, inesorabilmente ribaltata, e non sarebbe più bastato parlare in elfico sindarin. Doveva sforzarsi di appartenere al nuovo ambiente cui stavamo andando incontro. “Perché, vedi… una volta tornati alla nostra vera casa – te l’ho spiegato, no? Dove abitava il nonno, dove era re della nostra gente – una volta là, dovrò essere io, il re. Sai cosa significa?”
Mi fece cenno di no, ma mi stava ascoltando, un po’ timoroso.
“Significa che saremo finalmente nel posto giusto. Io sono il figlio di un re, un re importantissimo. E tu sei mio figlio. Abbiamo una responsabilità molto grande, che abbiamo rimandato per troppo tempo. Pensa te, doveva succedere tutto questo, perché io mi decidessi a tornare.”
Mi posò una mano sulla fronte. Lo faceva sempre. Lo faceva sentire sicuro. Era un modo per parlarci anche senza usare le parole. Ci ascoltavamo chiaramente. Io gli raccontavo la nostra storia, e lui si concentrava a tal punto che sembrava sperso, all’apparire davanti ai suoi occhi di tutte quelle immagini. Erano come un secondo mondo, di fantasia, quello in cui vedeva mio padre, Oropher, cavalcare e sedere sul trono.
Allontanò la mano di scatto.
“Non voglio andarci.”
“Cosa? E perché no? Guarda che è bellissimo!” Infiorettai, non certo convinto delle mie parole. “Sarà divertente! Sei un principe, tu! Chi non vorrebbe essere un principe? Tutti vorrebbero esserlo!”
Sorrise nuovamente.
“Sono… con… sono contetto che abbiamo visto il mare.”
Gli ricambiai il sorriso, sperando si fosse rinfrancato almeno un po’.
“Però ho fame.”
Il castello che, tassello dopo tassello, gli avevo creato intorno si sbriciolò come se fosse stato fatto di carte in una giornata ventosa, e ripiombai nella realtà.
Non avevo niente, con me. Niente. Una sensazione che un padre non vorrebbe mai provare. Aveva mangiato frutta, nel Region, che gli avevo colto, conoscendo la zona, ma raggiungendo il più in fretta possibile il porto di Capo Halar. Erano stati tre giorni di viaggio con provviste razionate e un cavallo stanco e bizzoso, che avevo ottenuto nel peggiore dei modi. I cavalieri guidati da mio figlio, il mio primogenito, ci erano venuti ad accogliere al valico tra le montagne, alle cascate del Sirion, con qualcosa da mangiare, qualche coperta, e un grande augurio. Erano venuti a dirci addio, avevano saputo.
Avevamo quell’appuntamento già da qualche tempo, da quando mi avevano riferito che avevo perso mio figlio maggiore. Volevano che li incontrassi per potermi consegnare il suo destriero, in un cerimoniale d’encomio.
Ci avevano salutati con un’immensa speranza, pieni di fiducia in me.
Era un ragazzo così forte e robusto che non avrei mai creduto sarebbe potuto cadere sotto la mano degli orchi. Ma non avevo creduto molte cose. Ed ero stato smentito nel peggiore dei modi.
Volli cogliere quel dono come un segno.
Avevo fatto correre il cavallo fino al porto, a perdifiato, con il figlio che mi restava infagottato e intento a mangiare pane biscottato col miele, un dono dei cavalieri.
Ci eravamo imbarcati su quella piccola nave in partenza verso la Terra di Mezzo dando poche e sommarie spiegazioni. Il cavallo avevamo dovuto lasciarlo. Non c’era una stiva grande abbastanza da poterlo ospitare. L’avevo donato al timoniere, che sarebbe tornato a riprenderselo là, nel Beleriand, molto presto. Nel frattempo, sarebbe stato nella stalla della sua casa, e se ne sarebbero occupati i suoi figli. Avevo sussultato, a quella notizia, ma ero salito a bordo col mio bambino e non mi ero voltato indietro.
“Non…” provai a rispondere a mio figlio, dopo una lunga pausa. “Non so cosa darti. Tra pochissimo tempo sbarcheremo. E allora mangeremo quello che vuoi. Sei contento?”
“Insomma.”
“Lascia che mi occupi del bambino” si fece avanti una voce alle mie spalle. “Ho giusto qui delle belle pesche. Ti piacciono?”
“Moltissimo!” esultò lui.
Mi voltai verso l’Elfo che si era offerto di offrire cibo a mio figlio in mia vece, deciso a rifiutare. Ringraziando, certamente, ma non avrei mai potuto accettarlo.
Hannon-ste.” Ringraziò in tutta risposta la sua vocetta di bambino.
“Grazie.” Mi trovai a sussurrare a mia volta al nostro compagno di viaggio. “Non avresti dovuto.”
“I tempi difficili esistono e arrivano per chiunque. Non ce ne dobbiamo vergognare. Se non ci aiutiamo fra di noi, chi altro lo farà?”
Cacciai indietro le lacrime, serrando le labbra e annuendo.
“Chi siete? Dove siete diretti?” Erano domande poste con una voce greve, e bassa.
“Siamo due esuli forzati che si sono decisi a farsi avanti per riconquistare ciò che è loro di diritto.” Buttai fuori d’un fiato. “Arriveranno tempi migliori, e allora potrò ringraziarti a dovere.”
“Proprio così.” Biascicò contento mio figlio, dondolando le gambe, la faccia piena di succo di pesca. “Perché noi stiamo tornando a casa.”
 
 

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Capitolo 3
*** "Il Re è tornato" ***


Buonasera!

Eccovi il nuovo capitolo. Spero vi piaccia, davvero. Secondo me non è il migliore, per adesso, ma è venuto fuori così, e così ho voluto pubblicarlo. Ha avuto quasi vita propria: ho provato a riscriverlo, a cambiare gli eventi, le battute, ma niente, così è nato e così voleva essere. Spero davvero possa piacervi tanto quanto vi sono piaciuti i precedenti capitoli – grazie ancora di cuore a tutti, siete stati meravigliosi! Non mi aspettavo tutto questo calore e affetto! ^_^

Questo capitolo è dedicato a mio nonno, che somiglia in modo pazzesco a Robert deNiro e che mi sta seguendo da lassù come mai prima d'ora.

Ti voglio bene, sei il mio Oropher.

Ed è dedicato a quel piccolo vuoto che ancora non sono riuscita a colmare. Chissà, guardando in alto, prima o poi, si riempirà.

Scusate la parentesi depressiva.

 

Maiwe



 

“Non andare, Ada”.

Mio padre prese un breve respiro, ma ben profondo. Sapevo cosa stava provando, perché avvertivo la stessa paura, le nostre paure: la mia e, di riflesso, la sua. Lo vedevo tremare. Aveva le mani fredde. Abbassò un momento lo sguardo, quando lo sfiorai, per poi tornare a puntare gli occhi sulla luce che penetrava dallo stipite della porta e che gli illuminava i tratti del volto con rigide, aspre pennellate d'oro.

Mio padre sembrò ancora più grande, più forte. Aveva paura di affondare le sue radici, ma i suoi rami, in quel momento, erano maestosi. Li potevo vedere. La quercia che era il suo spirito si stagliava sopra la tua testa con enorme orgoglio. La strana corona che gli cingeva le tempie aumentava quell'effetto di altezza e maestosità che mi spaventò un po': in fondo, avevo una gran paura di poterlo perdere.

Infine, il suo nome fu chiamato. Fu appena un sussurro, un bisbiglio, e lui fece un passo avanti.

Questo è il ricordo che ho di quel momento. Il momento in cui mio padre fu nominato Re. Legittimo re del Reame Boscoso, un grande regno rimasto per molti anni senza una guida.

Il titolo era sempre stato suo di diritto, me l'aveva spiegato. Conoscevo la storia.

Avrei voluto dirgli molte cose, in quel momento. Avrei voluto che mi prendesse in braccio. Ma non avrei voluto lasciarlo andare.

Invece, tutto ciò che mi uscì dalla bocca fu un semplice “Ada”, 'Papà', di nuovo, come a volerlo rimarcare, senza aggiungere nient'altro.

Lo dissi proprio mentre mio padre faceva quel passo avanti. E superò lo stipite della porta, entrando nella luce. Molte persone si erano radunate in quella grande sala, per l'occasione. Mio padre l'attraversò tutta con passo lento, finché non giunse davanti agli occhi delle prime file. Si voltò. Teneva lo sguardo basso. Poi alzò gli occhi, e un sorriso gli solcò le labbra. Ma avvertivo del dolore, in fondo al suo cuore. Un dolore gelido, che mi domandai come avrei mai potuto colmare. Non avrebbe voluto essere solo, in quel momento. Io lo osservavo dal fondo della sala, e mai come allora mi ero sentito solo.

Così, in piedi davanti ad un grande trono intagliato nel legno di faggio – un albero che mi piaceva molto, e che si trovava in abbondanza, nel Reame Boscoso -, che era posizionato più in alto, su qualche scalino, un Elfo dai capelli scuri, posandogli una mano su una spalla, parlò in elfico:

“Possano la tua forza e il tuo vigore non cedere mai, possa tu a lungo regnare in nome di tuo padre e in favore del tuo popolo. Possano i nostri confini non cedere, così come le radici degli alberi da sempre crescono e si fortificano.”

Era una vecchia formula. Mio padre ricevette dall'Elfo un grande scettro, un lungo scettro di quercia; lo rigirò tra le mani qualche istante, per poi sollevarlo sui palmi e parlare al suo popolo. Altri discorsi sulla durabilità del suo regno, bla bla bla, e io attendevo. Attendevo il momento in cui si sarebbe stancato di quella manfrina e io avrei potuto corrergli incontro.

Siccome non sembrava voler succedere, improvvisai, decisi che sarebbe successo in quel momento, subito. Attraversai a corsa la navata della grande sala, fino a gettarmi tra le sue braccia, senza dire una parola.

Lui si era chinato, interrompendo a metà il rito, e mi aveva abbracciato, forte, affondando il suo viso nei miei capelli.

Non credo di aver fatto un gran figura, quella sera, ma al momento non mi importò. Il risultato sembrò comunque essere positivo, perché alcune persone avevano sorriso, ma avevo interrotto un momento di grande importanza. Ma, di nuovo, non mi importò. Non avrei rischiato che mi fosse portato via mio padre, soprattutto per colpa di una misera corona. Che era pure brutta, andava in verticale, non circondava la testa come di solito le corone fanno. Papà sembrava avere le antenne.

L'avevo fatto perché in fondo sapevo che le persone lì presenti mi volevano bene. Da che eravamo arrivati, mesi prima, ero stato al centro di mille attenzioni, spesso e volentieri soffocanti. C'era chi aveva voluto separarmi da mio padre, farmi passare del tempo ad imparare strani riti e cerimonie in cui avrei dovuto farmi nominare principe, ricevere anch'io il mio scettro e dichiararmi al fianco di mio padre, ma ero riuscito a svincolarmi da quelle incombenze. Ed ero corso da un'anziana signora che Elfo non era, ma che aveva tutti i numeri per diventare una tata e una nonna perfette. Mi raccontò, un pomeriggio, mentre ci eravamo affacciati da una terrazza del grande palazzo grigio che adesso era la nostra famosa “Casa”, che era un Mezzelfo, ed era stata al fianco di mio nonno per molti anni. Le volli subito bene, la sentivo vicina.

Mio padre si alzò nuovamente in piedi e mi mise una mano sulla spalla, mentre fronteggiavo, occhi sbarrati, la moltitudine di gente che mi fissava. Un principe poteva gridare? Poteva scappare urlando? Forse avrei davvero dovuto dar retta a quelle persone così costrittive e impararmi a memoria la cerimonia.

“Bene, visto che sei già qui, possiamo procedere.”

Perché adesso l'Elfo coi capelli scuri parlava in lingua corrente?

Mi resi improvvisamente conto che non eravamo solo Elfi silvani, in quella grande sala. Percepii degli Uomini. Avevano della peluria sulla faccia, li vidi. E occhi scuri.

Mentre studiavo i presenti, soprattutto quelli a fondo sala che se ne stavano in disparte, mi fu consegnato uno scettro. Era la copia esatta di quello di mio padre, ma più piccolino. Guardai l'Elfo dai capelli scuri, che mio padre mi ricordò chiamarsi Galion, e che indietreggiò per lasciarci in balia degli sguardi, e lo ringraziai. Io che, però, volevo solo scomparire e non essere disturbato ero in cima ad una scalinata e tenevo in mano uno scettro. Avevo una gran voglia di correre fuori e arrampicarmi su un albero, e non pensare a niente, dimostrare a mio padre quanto ero diventato bravo in poco tempo a seguire le tracce dei caprioli.

“Che me ne faccio?”, domandai a mio padre, mostrandogli quel bastone pieno di foglie incise.

Lui, con la voce che percepii come rotta, rispose con un per me poco chiaro:

“E' tuo, adesso. E' sempre stato tuo, ma da oggi lo porterai per tutti coloro che non possono.”

Non capivo.

“Papà” domandai, poi, a voce normale, “Dovremmo festeggiare, comunque.”

“Cosa?”

Chiunque poteva sentirci.

“Dovremmo dare una festa.”

“La festa ci sarà. Vedrai che sarà anche molto bella.”

Annuii, poco convinto. Quando arrivava la parte in cui compariva qualcuno a dirmi che andava tutto bene e che la felicità di mio padre non dipendeva da me?

Fummo interrotti da Galion, l'Elfo bruno, che annunciava, con voce tonante:

“Il re è tornato.”

Ci furono grida di gioia, e le persone sembrarono davvero felici ed emozionate.

Sorrisi. Ci stavano acclamando davvero.

Mio padre si voltò e andò a sedersi sul grande trono. Io lo seguii e mi posizionai alla sua sinistra, come Galion mi indicò.

La cerimonia proseguì con canti e balli, e la musica era bellissima.

Mi ricordo che mi domandai cosa avrebbe pensato la mamma di una situazione così buffa. Cosa avrebbe pensato nel vedere papà così musone e serioso, cosa che a volte gli aveva rimproverato. Mi domandai se avrebbe indossato il suo vestito dorato o se si sarebbe messa quello blu che mi piaceva tanto.

Mi domandai perché mio fratello non avesse voluto partecipare, ma mi ripromisi di non domandare niente a mio padre, che mi sembrava già abbastanza preoccupato.

Avevo la responsabilità della sua felicità e la sua serenità dipendeva dalla mia presenza, come avrei realizzato meglio qualche anno più tardi.

Quando sentii che l'aria di festa dentro la grande sala si era fatta per me troppo calda, uscii sul terrazzo principale, che si apriva in due grandi scalinate ai lati che portavano direttamente nel bosco. Ammiravo gli alberi nel loro abito notturno.

“Lo sai cosa significa?”

“No, che cosa?”

“Il tuo nome.”

“Certo. E' elfico, lo capisco.”

Mio padre, anche lui uscito a prendere una boccata d'aria, mi venne accanto, lo sguardo perso in avanti, verso la distesa di alberi secolari.

“Significa 'Foglia verde'. E' un grande simbolo di rinascita e di speranza.”

Lo guardavo, ascoltandolo.

“Ma significa anche che avrai bisogno di guardare in alto, per trovare te stesso.”

“Va bene, questa non l'ho capita.”

“Hanno radici profonde, gli alberi, che non si vedono ma che li sostengono, e i loro rami salgono su fino alle stelle. Uniscono la terra con il cielo, tesoro mio. Tu tieni la testa alta e guarda sempre la cima, e troverai le foglie più verdi, quelle che vivono di luce. ”

Una forte brezza si alzò d'improvviso, come se qualcuno ci stesse ascoltando, e ci stesse dicendo “Rientrate, ché fa freddo.”

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Capitolo 4
*** Di bambini, ragni e scope. ***


Respirai a fondo, mentre, pian piano, mi andavo a nascondere dietro al grande schienale del grandissimo trono dove era seduto, un po' teso, mio padre.

"Legolas!" mi richiamò subito, senza neanche voltarsi. "Dove stai andando?"

La mia risposta avrebbe voluto essere un 'Ada, sto scivolando via, non voglio incontrare queste persone, mi sento un pesce fuor d'acqua, e se poi questi bambini sono antipatici? E se non mi piacessero? E se mi annoiassi a morte?', ma tutto ciò che dissi, mesto, fu qualcosa come “Mi stavo nascondendo.”

"Nasconderti? Oh, no." Si voltò, e mi prese il volto tra le mani. "Guardati: cos'hai da nascondere? Cos'hai che il resto del mondo non vorrebbe vedere?

"Non lo so."

Mi passò una mano tra i capelli, facendo così fuggire una ciocca dalla sottile treccia che mi cingeva le tempie e sorreggeva la corona. Adesso somigliavo a un porcospino. Mi sorrise come sempre, ma non avevamo tempo. Il cuore mi batteva a mille.

Si voltò e tornò nuovamente a guardare avanti, non appena il suono di un corno, unito allo spalancarsi delle porte del salone, annunciò l'arrivo dei nostri ospiti.

Galion pronunciò i loro nomi, inchinandosi profondamente, mentre questi varcavano la soglia e mio padre si alzava in piedi per andare loro incontro, secondo i cerimoniali elfici.

Io guardavo il grande, elegante incedere di quelle persone, tutte dai capelli scuri, anche i cavalieri che li accompagnavano. La sala era avvolta in un'aura di silenzio, ritmato dai passi dei cavalieri, che mi inquietò un po', mentre mi andavo a nascondere nuovamente dietro al trono, spiando quanto stava accadendo.

Erano molto alti. Quello che doveva essere il padre dei bambini aveva i capelli neri e grandi occhi scuri, un lungo abito cremisi e una corona argentea intrecciata sull'ampia fronte. Doveva essere il re della Valle di Imladris.

Accanto a lui, in uno straniante gioco di doppio, due ragazzi, certamente più grandi di me. Erano evidentemente gemelli, e avevano un'aria molto simpatica. Provai subito la voglia di farmeli amici. Mi sentivo molto solo, ultimamente. Anche correre nella foresta, scoprendo sentieri non più battuti e nuove tracce di branchi di cervi aveva perso il suo sapore. Mi sentivo sempre così solo, l'unico bambino dell'intera reggia, dove tutto, persino lo scettro di mio padre, era più grande e più alto di me.

Quando proprio mio padre, voltandosi e fulminandomi con lo sguardo, mi chiamò accanto a sé, decisi finalmente di sbucare dal mio nascondiglio. Ci misi un po', diciamo, dovette chiamarmi due volte. Ma alla fine, mi mostrai. I due ragazzi ridevano. Beh, non importava, non avevo bisogno di loro, potevo stare da solo. Il grande re dai capelli mori fece loro un segno perentorio, che per un attimo temetti fosse indirizzato a me.

Scesi la scalinata, un passetto dopo l'altro, e alla fine arrivai al fianco di mio padre. Mi sentivo schiacciato dalla loro altezza incredibile. Mi domandai quanto tempo sarebbe passato, prima che anch'io fossi cresciuto così tanto. E mi sentivo gli occhi addosso. Eppure, uno strano calore mi pervadeva. Mi sentivo fiero, or... orgo... orgoglioso.

Mio padre mi mise una mano sulla spalla, mentre sorridevo ai miei interlocutori.

"Mae govannen, Legolas Thranduillion."

'Benvenuto, Legolas, figlio di Thranduil'. Il re mi salutò, e io ricambiai con un gesto, a sua volta ricambiato.

Mi presentò i suoi tre figli: Elrohir e Elladan. E Arwen; ma io non l'avevo vista.

Re Elrond la chiamò nuovamente, finché lei non sbucò. Si era nascosta dietro l'ampio mantello del padre.

Rimasi abbagliato, perché una bambina così bella non l'avevo mai vista. Aveva lunghi capelli mori e occhi azzurri, e perline nei capelli. Sembrava simpatica, e aveva la mia stessa aria timorosa per il trovarsi in quella situazione. Però provai anche un moto di antipatia, perché una volta un bambino, nel Doriat, mi aveva detto che le bambine che si credono belle sono anche vanitose e insopportabili.

I cavalieri nella sala, sia quelli di mio padre che quelli dei nostri ospiti, con un rapido ordine si disposero ai lati della grande porta, che venne aperta. I due papà si incamminarono, parlando. Io mi ritrovai al centro del gruppetto, circondato dai due gemelli che presero a farmi domande a raffica. Va bene, ma dovevano parlare più piano, il loro accento era troppo strano, così arrotolato e pieno di aspirazioni! Poi mi strattonavano, ognuno dei due voleva parlare per primo.


"Insomma, vuoi risponderci o no?"

"Secondo me, è muto."

"Di' un po': sei muto?"

"Ma ti pare una domanda da fare?"

"Allora è sordo. Di' un po': sei per caso sordo?"

"Ma se è sordo come può risponderti?"

"Non sono sordo!" esordii ad alta voce. Mio padre trasalì e mi lanciò un'occhiata, sempre meno convinto che tutto sarebbe andato per il meglio.

Stavano uscendo in giardino. Arwen, silenziosissima, si allontanò da noi e raggiunse suo padre, dandogli la mano.

"Arwen, tesoro, resta con i tuoi fratelli."

Lei si voltò verso di me, e mi parve triste.

"Va bene."

Cosa avrei potuto dire a una bambina che non parlava mai?

"Che, ti piace nostra sorella?"

Non mi mollavano.

"Guarda che lei è troppo bella per te."

"E poi, questo farebbe di te uno della famiglia. Già non andiamo d'accordo tra di noi..."

"Sì, complicheresti le cose."

"Ma io non voglio complicarle!"

Avevo urlato di nuovo.

Aria, mi serviva aria.

"E comunque no, non mi piace... in quel senso."

"Lasciatelo in pace!"

Finalmente la voce di Arwen si fece sentire, e mi liberò dalla presa in cui mi tenevano i gemelli.

Si incamminò, indispettita, dietro ai grandi, e io la seguii. Mi voltai per guardare male i gemelli, che sembravano però tramare qualcosa. Uno stava parlando nell'orecchio dell'altro; entrambi mi stavano guardando e sogghignavano.

Una volta usciti sul terrazzo, e scesi fino giù al limitare dei primi alberi, lo spettacolo che si presentò ai due papà nonché Grandi Re degli Elfi fu qualcosa che, personalmente, ancora ricordo con un brivido: Arwen che mi inseguiva brandendo una scopa, come un furia, e i gemelli che ridevano assistendo alla scena.

"Ma non sono stato io!"

"Sei stato tu! L'hai fatto apposta!"

Capii che Elrohir e Elladan erano i reali artefici del misfatto, ma ormai era troppo tardi.

"Legolas!"

"Arwen, per la Grazia dei Valar!"

"Cos'è successo?" - Mio padre aveva uno sguardo orribile.

"Io non ho fatto niente!" mi giustificai, sulla soglia del pianto.

"Non ti ho chiesto questo, ti ho chiesto cos'è successo."

"Arwen si è ritrovata un ragno nella veste."

"E come ha fatto?" - Elrond era divertito, sotto sotto.

"I gemelli hanno detto che ero andato nella serra qui dietro – dove c'era anche la scopa! - e lei mi ha cercato. E LORO le hanno messo il ragno nella veste."

I gemelli si stavano dileguando.

"E perché ti sei arrabbiata con Legolas?"

"Perché mi ha teso una trappola."

Femmine....

I due re si guardarono per un attimo, sorridendo sotto i baffi. Ma avrei giurato che c'era anche del sudore freddo, sulla fronte di mio padre.

"Vi piacerebbe vedervi più spesso?" Mio padre si era inginocchiato accanto a me. Come gli era potuta venire una domanda del genere in un momento simile?

"No!" 

La risposta di Arwen fu perentoria, e abbracciò il manico della scopa.

Io non sapevo cosa rispondere.

"A me farebbe piacere, invece.", sussurrai.

"Bene, perché da adesso potrai andare oltre confine, fino alla Casa di Elrond, ogni volta che vorrai."

Mi si riempì il cuore di gioia, e salterellai.

"Davvero?"

"Certamente, potrai stare da loro quando vorrai. Voglio che tu stia con i tuoi coetanei."

Abbracciai mio padre e gli detti un bacio sulla guancia.

Elrond aveva intanto recuperato i gemelli, che tornarono verso di noi con lo sguardo mesto, e accompagnati da due suoi soldati.

Sarebbe stata una lunga conoscenza, ne ero sicuro. Ma almeno, non mi sarei più sentito così solo.

Tutto parve andare per il meglio, fino a quando Elrohir non se ne uscì con qualcosa come:

"Ma quindi non gli avete ancora detto che sono fidanzati?"

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Capitolo 5
*** La vedetta ***


Hola! Ecco qua un nuovo capitolo. Spero davvero vi piaccia. E' un po' più lungo del solito, spero non me ne vorrete.

Questo capitolo è dedicato a tutte le mie amate Muse, grazie alle quali le giornate scorrono in allegria, fandom, scleri e ormoni volanti. E Richard Armitage. Buon Dio.

Un grazie di cuore a tutti i lettori che mi stanno seguendo appassionatamente, capitolo dopo capitolo! Davvero, vi ringrazio dal più profondo del cuore. Trovare vostre recensioni è semplicemente bellissimo, proprio come le vostre parole coccolose!

Un abbraccio, e al prossimo capitolo!

Maiwe




“Legolas, per favore, apri questa porta!”

Ero esasperato. Non sapevo più cosa fare per farlo tornare sereno. Sapevo che ce l'aveva con me.

“Dai, ti ho anche portato il libro che volevi!”

La chiave nella toppa girò, la maniglia si abbassò e uno spiraglio, piccolo, minuto e ombroso, si aprì. Vidi il suo volto corrucciato, e mi scappò un sorriso.

“Posso entrare?”

Lui si spostò e andò dritto a sedersi sul suo grande e alto letto, in confronto al quale sembrava ancora di più un cucciolo.

“Legolas, perché sei arrabbiato con me? Perché non vuoi parlarmi?”

Non rispondeva. Teneva lo sguardo basso, si fissava i piedi, che faceva ciondolare, e manteneva il broncio.

“Guardami, Legolas.” Mi inginocchiai davanti a lui, così da poterlo guardare negli occhi.

“No.”

“Ti ho detto: guardami.” Ero davvero risentito per quel suo comportamento.

Alzò finalmente gli occhi: era proprio arrabbiato.

“Cosa c'è che non va?”

Gli scappò una lacrima. Poi, con voce rotta, mi si buttò al collo.

“Oh, su! Cosa c'è?” Me lo tenni stretto finché non rotolammo entrambi a terra. Restammo così per un po', lui abbarbicato sul mio petto, io steso sul tappeto.

“Smettila di singhiozzare, su. Non sta bene.”

“Non me ne importa.”

“E cosa ti importa, allora?”

Non rispose subito. Passarono alcuni istanti, prima che si decidesse a parlare.

“Devo per forza fidanzarmi con Arwen, papà?”

“Oh, ma allora è tutto lì, il problema! Perché non me ne hai parlato subito? E' da quando sono andati via, che hai questo broncio.”

“Io non ho il broncio.”

“Sì, e io sono un ratto peloso.”

“Perché Elrohir ha detto quella cosa?”

“L'ha detto per farti un dispetto. Ti sei arrabbiato, eh?”

“Sì. Io sono ancora troppo piccolo per fidanzarmi.”

“Certo che lo sei. Io volevo solo che tu trovassi degli amici, così come è necessario che li abbia io. Elrond lo conosco da molto tempo, è un bravo re e un bravissimo padre. I suoi bambini sono molto simpatici, no?”

“... Sì.” Lo presi in braccio e lo sollevai in alto, mentre lui rideva, finalmente. “Ma mi sono spaventato.”

“E perché mai?”

“Perché è una cosa da grandi. E io non voglio diventare grande, dover fare tutte quelle cose. A volte i grandi dimenticano, e io non voglio dimenticare. E ricordati che mi hai promesso di portarmi di nuovo al mare, un giorno.”

Mi tirai su a sedere. Lui scivolò sulle mie ginocchia, ciondolando la testa.

“Legolas, io voglio soltanto che tu sia felice. Non desidero altro. Potrei perdere tutto ciò che ho, non me ne importerebbe, ma non voglio più vederti in questo stato, siamo intesi?”

Sapevo che gli stavo chiedendo molto. Faceva parte del suo carattere, essere così introspettivo, quieto, sensibile. Non l'avrei guarito facilmente da quella sua malinconia.

A volte lo osservavo mentre si isolava dal resto del mondo. Aveva alcuni posti preferiti, per fantasticare, come il limitare di alberi davanti al portone principale, o la sua camera. Una camera grande, spaziosa, troppo, che gli avevo allora fatto riempire di libri. Amava i libri, follemente.

“A proposito”, mi riscossi, mettendolo a sedere sul letto. “Guarda cosa ti ho portato.”

“Il libro delle fiabe degli animali!” esultò. “Posso leggerlo? Posso? Herion aveva detto che i bambini non possono leggere i libri della vecchia biblioteca.”

“Herion verrà preso di peso e appeso per i pollici.”

Rise.

“In piazza.”

Rise di nuovo, poi si riscosse.

“Ma noi non abbiamo una piazza.”

“Allora vorrà dire che ne farò fare una, e ce lo appenderemo.”

“Va bene. Però non fargli male.”

Afferrò il vecchio libro con avidità. Lo rigirò tra le mani e lo osservò attentamente. Passò un palmo sulla copertina ruvida e polverosa, poi, finalmente, l'aprì.

“Mi leggi questa?”

La fiaba del leone? Vuoi questa?”

“Per favore, sì!”

E leggemmo la fiaba del leone. Il mio bambino era talmente attento, che, affacciato alla mia spalla, spiava ciò che leggevo. In alcuni momenti, sbagliavo volontariamente le parole, e lui prontamente, mi correggeva.

“C'è scritto pelo, non pelle.”

“Uh, hai ragione, è vero.”

“Stai attento, è diverso il pelo della pelle.”

Finita la fiaba, iniziarono le proteste.

“Non voglio dormire!”

Devi dormire, altrimenti, domattina, chi ci viene a fare un giro a cavallo con me?”

“Posso venire io?”

“Vedremo. Adesso dormi.”

Dirlo e vederlo crollare fu tutt'uno.

Eccolo lì. Raggomitolato nelle coperte, i capelli in disordine, la bocca aperta, il respiro regolare.

Mi sdraiai accanto a lui, e lo abbracciai, mentre lui poggiava la testa sul mio braccio.

A costo della mia vita, l'avrei protetto da tutto, l'avrei tenuto stretto così per tutto il tempo che ci restava, sarei stato il suo scudo contro ogni lato negativo del mondo.

Ma, adesso che eravamo tornati, eravamo così esposti. Era crudele, quanto, per proteggerlo, avessi dovuto metterlo in luce in quel modo. Già, verso sud, qualcosa si stava muovendo. Scorribande di orchi, sicuramente in cerca di una traccia. Sospettavano il nostro ritorno. Ci avrebbero trovati, scoperti, e ci avrebbero eliminati. La foresta era un grosso boccone, un grande spicchio di Terra di Mezzo, in posizione più che strategica, per chi avesse necessità di far dilagare il male tra i Popoli Liberi.

Io avrei fatto scudo con il mio corpo.

Improvvisamente, mi venne un'idea. Sfilai il braccio da sotto la testa di mio figlio, e scesi dal letto, lentamente, per non svegliarlo. Appoggiato il libro per terra, rimboccai per bene le coperte, finché non divenne un fagotto. Mi assicurai che le tende fossero tirate a dovere, alla grande finestra della stanza, dalla quale si vedeva tutta la Via Silvana, e uscii, chiudendo la porta.

Una guardia, in corridoio, scattò sull'attenti. Gli feci un cenno e proseguii, lungo i cunicoli della reggia.

Attraversai i lunghi corridoi in pietra grezza, a passo svelto, illuminati soltanto dalla luce delle torce. Mi venne incontro Galion.

“Ti stavo cercando. Vieni con me.”

“Mio signore?”

Traversammo la grande sala d'ingresso del palazzo, scendendo velocemente la scalinata. I passi riecheggiavano nel salone, e il rumore di cardini della grande porta fu quasi inquietante, mentre la luce della luna arrivava a illuminarci. Uscimmo. Le guardie, dopo un rapido cenno, ci chiusero il portone alle spalle.

Tirava un forte vento freddo. L'inverno era già in cammino.

“Mio signore: dove siamo diretti?”

“Alla Via Silvana.”

“Alla Via Silvana, Maestà? Ma sono state avvistate scorribande di orchi, questa mattina, Signore. Non credo sia saggio, recarvisi col buio. Potrebbero essersi accampati”.

“Non importa, devo farlo adesso. Domani potrebbe essere troppo tardi. E poi, le guardie hanno già fatto il loro dovere a tempo debito. Siamo protetti.”

“Vi faccio sellare il cavallo.”

In breve tempo, seguendo un sentiero minore tra la boscaglia, raggiungemmo l'Antica Via.

Fermai il cavallo e mi guardai intorno.

“A ovest, Galion”. Ripartimmo al galoppo, per poi salire nuovamente verso nord di poche miglia. Il rumore degli zoccoli su quel terreno stranamente brullo, nonostante le abbondanti piogge dei giorni precedenti, mi intimoriva. Qualcosa si stava risvegliando, nella terra, di malvagio. Lo sentivo. L'aria era pregna di polvere, e gli alberi sembravano incupiti, i rami appesantiti.

“Ci siamo.”

Eccoli là: i grandi alberi di quercia. Un passaggio naturale che portava diretto verso i Monti del bosco, cioè verso la reggia. Sembrava una cattedrale incustodita, un baluardo andato in rovina, e preda dell'edera e del tempo.

Smontai da cavallo e osservai quella strana meraviglia, resa ancora più inquietante dal buio e dal cielo che solo a tratti rivelava la luce della luna, quella sera.

“Questa può diventare una grande risorsa, Galion.”

Feci qualche passo avanti, verso i primi alberi. Erano disposti in modo esattamente parallelo, come se fossero stati piantanti appositamente per ombreggiare un futuro camminamento, e la loro altezza e maestosità li rendeva saldi e fieri alla vista. Dai rami più altri, le vedette avrebbero avvistato anche il minimo pericolo o movimento, in qualsiasi direzione.

“Signore...”

“Farò costruire qui la vedetta. Che ogni ramo parallelo costituisca un piano d'appoggio. Dovrebbero venirne fuori almeno tre, vista la precisione con cui sono stati curati questi alberi. Sulle cime, verrà la tettoia, il punto d'osservazione più alto del regno. Che ogni palmo della foresta sia sorvegliato a dovere, che i confini resistano.”

“Vostro padre fece crescere queste querce, Signore. Il suo desiderio era quello di avere un grande passaggio trionfale che conducesse, in armonia, al palazzo. Volete trasformarlo in una torre d'avvistamento?”
“I tempi stanno cambiando. Presto non ci pentiremo di questa scelta. Più saremo pronti, più saremo protetti. Quando ho visto per la prima volta questi alberi, qualche giorno fa durante una perlustrazione, non ho percepito subito il valore della loro posizione. Sono una via d'accesso privilegiata al palazzo. Gli orchi sono arrivati fino alla Via Silvana. Non ci metteranno molto ad arrivare fino a noi, se non saremo preparati. Il mio dovere è quello di proteggere il mio popolo.”

Rientrammo verso la reggia, il freddo cominciava a diventare gelo. Ci fu aperto il portone, e, finalmente, date le ultime direttive a Galion, potei incamminarmi verso la mia stanza. Superai la porta della camera di Legolas, e feci per entrare, ma lasciai andare la maniglia. Non volevo svegliarlo.

Mi sedetti sul letto. Mi sfilai gli stivali, appoggiai la corona sulla cassettiera, liberando finalmente le tempie, e mi lasciai cadere fra i cuscini, freddi.

Avevo chiuso gli occhi da pochi secondi, quando una mano mi si spiaccicò sul naso.

“Ada!”

“Legolas! Cosa c'è? Stai bene?”

“Posso dormire con te?”

Mi rilassai, sospirando.

“Hai fatto un brutto sogno?”

“Sì.”

“Vieni qui. Copriti bene e dormi.”

Si avvolticciolò nelle coperte, sbuffando, e si coprì fino alle orecchie. Fu una pace lunga la bellezza di due secondi, poi, nuovamente, il dubbio.

“Papà?”
“Hm?”

“Posso passare tutto il giorno in biblioteca, domani?”

“Se lo desideri...”

“Dovrai parlare con Herion.”

“Ci parlerò.”

“Lo appenderai per i pollici nella piazza che non abbiamo?”

“Vedremo.”

“Ma quando conoscerò il mio istitutore? La tata ha detto che presto arriverà.”

“Sì, e vedrai che ti piacerà. E poi, l'hai già conosciuto.”

“Devo studiare per forza?”

“Vuoi essere appeso per i pollici anche tu?”

“No!”

“E adesso dormi.”

“Papà?”
“Hm?”

“Non arrabbiarti con la guardia in corridoio. Gli ho detto che venivo da te. Non è colpa sua.”

“Non mi arrabbierò. Ma adesso dormi.”

“Papà?”

“Hm.”

“Sarei felice solo con Arwen come tu lo eri con la mamma?

“Legolas, sono stanco, non dobbiamo parlarne adesso...”

Il silenzio che mi giunse in risposta mi fece sentire uno schifo. Sapevo che significava dubbio, domande, insicurezza. Meglio cavargliele subito via, così da dormire serenamente.

“Va bene. No, tesoro, ti ripeto: era uno scherzo sciocco. Ammetto, però, che sarei felice se, da grandi, vorreste stare insieme.”

“Ci penserò su.”

“Hai tutto il tempo. Arwen è molto carina, comunque .”

“E' bellissima.”

Gli passai una mano tra i capelli, poi, finalmente, ci addormentammo.

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Capitolo 6
*** I cancelli del Re ***


Salve a tutti, cari! Nuovo capitolo, un bel balzo in avanti nella storia. Non odiatemi troppo.

Spero vi piaccia.

Il capitolo è, nella sua seconda parte, quella dedicata alla festa, basata sul primo incontro che facciamo con Thranduil (e Legolas) ne 'Lo Hobbit'. Ho ripreso quanto racconta Tolkien e l'ho adattato al punto di vista degli Elfi, in una sorta di, secondo me dovuto, “dietro le quinte”.

Un abbraccio,

Maiwe.


P.S.: Il capitolo è dedicato a mia moglie Charme, onnipresente consulente, e a Lady Hawke, che, col suo fluffare in stile mina vagante, uccide i miei poveri sentimenti, ma almeno mi ha garantito una spalla su cui piangere “always.” Bada che ci conto.



Presi la mira. Anche 'sta volta, centro perfetto. Quell'arco era semplicemente fantastico. Flessibile, maneggevole, leggero. Certo, non aveva una gran gittata. Ma grazie alla sua sottigliezza potevo mettere perfettamente a fuoco il mio obiettivo.

Mi trovavo ad ovest del palazzo. Avevo preso ad allenarmi intensamente, in quegli ultimi mesi. Mi era stato detto che possedevo un incredibile dono, una mira micidiale, e la voce si era sparsa. Mi sentivo forte, riuscendo a difendermi da solo. Mi sentivo potente.

Respirai a fondo, e allentai la presa. Perché me la prendevo così tanto con la mia posizione? Io amavo vivere a Bosco Verde. Era ciò che più desideravo nella vita. Ma, da qualche tempo a quella parte, mi sentivo vuoto, deluso, apatico. Avevo bisogno anche di altro.

Tesi nuovamente l'arco, spingendo all'estremo la potenza del mio diaframma. Il bersaglio era parecchio lontano, ma scoccai ancora una volta.

La freccia saettò, volò in una leggera iperbole, frinì a contatto con l'aria.

Un tocco secco, nell'aria ferma, nella distanza.

Centro.

Decisi di fermarmi. La catena di pensieri che mi aveva avvinghiato non mi piaceva per niente.

Eppure, in fondo al cuore, provavo disagio. Ero felice lì, dico davvero, ma non potevo non avvertire il peso del cambiamento che stava sconvolgendo la nostra vita.

Ad Est, qualcosa stava cambiando, ormai già da tempo. Sul limitare sud della Foresta raramente arrivavano a battere i raggi del sole, e il cielo si intorpidiva giorno dopo giorno. Cosa stava accadendo?

Scorribande di orchi varcavano i confini come non mai, e noi, e io, avevamo imparato a respingerli. Non sarebbero mai arrivati a mio padre. Non avrebbero mai toccato casa nostra, la dimora della mia gente.

Odiavo quegli scontri. Avevo già perso molti compagni. Ma erano l'unica via per sopravvivere, e le incursioni di quegli esseri schifosi erano ormai all'ordine del giorno.

Mio padre non voleva che io impugnassi quell'arco. O meglio, era stato lui stesso a insegnarmi, a mettermi in allerta, a impostare il nuovo corpo di guardia del Regno. E avevo voluto parteciparvi anch'io. Avevamo litigato, per questo. Ma ero riuscito a impormi. Non potevo restarmene fermo, con le mani in mano, mentre la mia gente moriva, e lui aveva capito. Certo, però, non l'aveva presa bene.

E poi, era arrivato davvero il cambiamento.

Il palazzo, adesso, un tempo meravigliosamente libero, arioso e a stretto contatto con la Foresta, era diventato una fortezza invalicabile.

Il Bosco aveva cominciato ad adombrarsi, e mio padre con lui.

Avvertivo, conoscevo perfettamente il peso delle sue responsabilità di re. Ma odiavo quella fortezza che aveva fatto erigere a protezione, quelle mura grige, orribili, scure, cupe.

Io volevo respirare.

Io volevo vivere senza barriere.

Ma non era possibile. Eravamo sull'orlo di un'invasione vera e proprio ogni giorno, e non c'era amico che potesse aiutarci, perché la situazione era la stessa ovunque.

Il Bosco Verde, orgoglio e baluardo della Terra di Mezzo come Grande Foresta degli Elfi silvani, era adesso additato come il Bosco Atro, o Bosco Tetro, e o morivo dentro ogni volta che giungevano simili notizie fino a noi. Il potere di mio padre era grande. Ma poteva contare solamente sulle proprie forze. Non aveva doni magici che lo aiutassero a gestire e mantenere intatti i confini. Non eravamo stati fortunati come gli altri. Nessuno ci aveva regalato mai niente, e questo cominciava a gravare sulle spalle del nostro Re.

Ma non soltanto: vi era più di una voce che il Male stesse tornando. Lo percepivamo nell'aria, nella terra e negli alberi stessi, che perdevano il loro vigore, e le foglie non erano più verdi da molto tempo. Tutto si stava incupendo. E la causa era stata individuata nella vecchia Fortezza di Dol-Guldur. Ma non avevamo prove. Eravamo soli e spaventati.

E poi, c'erano i Ragni.

Il sud del Bosco era diventato ormai invivibile, inutile negarlo.

La nostra terra era sull'orlo della sbaraglio, e non negavamo ai nostri sudditi e compagni di partire, se lo desideravano. Il bosco era saturo di aria ferma, di putredine. E questo ci stava lentamente avvelenando, sbiadendo, uccidendo. Il Bosco si era ammalato.

Pochi, come me, erano rimasti e combattevano. Ero tra i più giovani, e non sapevo ancora gestire la mia rabbia, né le mie forze.

L'unica salvezza era proprio la cinta muraria che mio padre aveva fatto edificare a protezione della Reggia, adesso casa di tutti noi silvani.

Mio padre era quel che si sarebbe definito un Grande Re, vicino al suo popolo nel momento del bisogno.

Ma odiavo quelle mura con tutto me stesso.

“E' ora di rientrare.”

“Adesso arrivo.”

“Tra poco sarà il tramonto. E sai cosa accade, dopo il tramonto.”

“Lo so bene. Solo, non ho voglia di rientrare.”

“Legolas, ti prego. Fai come ti dico.”
“Perché devi sempre dirmi cosa devo fare?” sbottai, esasperato. La sola idea di rientrare in quei cunicoli mi toglieva il fiato.

“Sono tuo padre, credo sia mio diritto e mio dovere.” Calcò marcatamente il “mio”. Sapevo che si stava riferendo a me, con quella parola.

Mi voltai, guardandolo negli occhi, togliendo la presa dall'arco.

Il suo sguardo di ritorno mi bloccò, e non riuscii a dire proprio tutto ciò che avevo in mente.

“Padre, non...”

“Rientriamo.” Fu la sua risposta, dopo qualche istante.

Lo seguii, e le guardie ci fecero strada.

Grida si levarono alle nostre spalle. Orchi, sicuramente. Si stavano muovendo, avanzavano verso la nostra roccaforte, verso i Cancelli. Erano sicuramente poco lontano, lungo la Via Elfica.

Varcammo la soglia, infine, appena superato il ponticello che sovrastava un tratto del fiume Selva. Entrammo dentro, e il grande cancello che ci separava dal resto del Mondo si chiuse alle nostre spalle. Provai una sensazione di soffocamento, ma non dissi niente. Negli occhi di mio padre aleggiava disperazione e rabbia, e lo capii. Ma non potevo aiutarlo.

Quella sera, comunque, erano previsti festeggiamenti.

Ma non volli prenderne parte. Mi ritirai in camera mia, deciso ad andare a letto presto, o quantomeno a leggere; non riuscivo a dormire bene da molte notti, ormai.

“E va bene, hai vinto tu.” Mio padre si affacciò alla porta della stanza, in sottofondo i rumori della festa. “Il festeggiamento proseguirà fuori. Ti va di unirti?”
“Ma è una follia!” Protestai. “Non possiamo esporci così.” Quella che era certamente una bella notizia mi sconvolse più di quanto avrei creduto.

“Siamo sempre esposti, noi due.” Sorrise. “E poi, non erano orchi, quelli che abbiamo sentito prima e per tutto il resto del giorno, e sono già tre giorni che non se ne vedono. Credo che la nostra gente se la meriti, una boccata d'aria.” Disse, citando le mie parole di qualche giorno prima.

Non risposi, mi pareva un'idea balzana.

“La vedetta è stata molto ottimista. Te lo assicuro, possiamo uscire.” Sorrise di nuovo.

“Vengo anch'io.”

Mollai il libro da una parte e scesi in mezzo alla mia gente.

Erano tutti molto felici di vedermi lì, tra di loro, giacché non capitava spesso, a dire il vero. E mi fece bene al cuore, dopotutto. Avevamo un gran bisogno di sfogarci, tutti quanti. Cantammo e ballammo, e bevemmo vino. Sembrava di essere ai vecchi tempi, quando ero piccolo e festeggiavamo in mezzo agli alberi, con danze e musica, e ridevamo, leggeri.

Mi soffermai a guardare alcune fanciulle che danzavano spensierate, e la serata miglioro nettamente. Amavo guardale ballare. Mi riempiva il cuore. Sarà che io ero del tutto negato, e per me rappresentava un mistero come fosse possibile saper ballare.

La tavola era divinamente imbandita, ed erano state appese torce sugli alberi tutti intorno a quella piccola radura in cui ci trovavamo, come nelle feste di mezza estate. La luce rischiarava i volti di tutti i commensali, delle ragazze che danzavano e dei musicisti, che avevano imbracciato le loro arpe migliori e la musica che spandevano tutto attorno era come uscita da un sogno.

Le grida che avevamo sentito, però, continuavano a ripresentarsi, e a farci sobbalzare. E, improvvisamente, accadde l'impensabile.

Ci attaccarono.

Scattammo ai posti di manovra in un battito di ciglia, mentre le guardie spensero subito le torce e gettarono acqua sul fuoco attorno al quale le tavole erano state imbandite. In meno di un istante, mi arrampicai su uno degli alberi al limitare della radura, un braccio attorno ad un ramo, i piedi puntati sul tronco, pronto a scattare. E così, tutti i commensali.

La musica era stata interrotta con uno stridulo accordo. Il buio regnava sovrano, e le figure, per la verità basse, tozze e poco rapide, quindi non certamente orchetti, sbraitavano e correvano tutto intorno ai resti del braciere. Sembrava che fossero incapaci di vedere al buio, e cozzavano tra di loro, chiamandosi. Nani?

Rientrammo, lentamente e silenziosamente, verso l'interno della foresta, scendemmo dalle nostre postazioni sui rami. Eravamo tutti radunati e, sul frastuono che quelle figure continuavano a provocare come se si fosse appena scatenata l'apocalisse e la Tenebra Eterna, raggiunsi mio padre, per avere direttive.

“Cosa facciamo?”
“Ci spostiamo leggermente verso la roccaforte. Saremo più al sicuro. Non sembrano volerci attaccare, si stanno accampando.”

“E li lasciamo fare?”

“Aspettiamo. Vediamo cosa succede nelle prossime ore.”

Ci spostammo, decisi a continuare il nostro festeggiamento. Non trattandosi di orchi, ci sentivamo più tranquilli. Restava da chiarire cosa volessero dei Nani nelle nostre terre, ma probabilmente non l'avremmo scoperto, quella notte.

Non fu così. Ci corsero incontro, armati, nuovamente. Ci eravamo appena sistemati attorno ad un nuovo focolare, quando, gridando come ossessi, ci attaccarono. Spaventati, ripetemmo la nostra difesa: luci spente, rintanarsi. Al buio, non ci vedevano, erano davvero disorientati.

“Spostiamoci nuovamente, adesso verso la reggia. Devo capire costa sta succedendo. Allestiamo di nuovo.” Mio padre parlò ai molti presenti con la mente, rassicurandoli. Eravamo tutti incuriositi. “Credo proprio che stasera avremo delle sorprese.”

Ci muovemmo, ma non prima di aver invocato, per difesa, un incantesimo del sonno: il carisma elfico poteva controllare le emozioni altrui, e spargemmo abbondante sensazione di sonnolenza attorno al luogo che stavamo lasciando. Ma solamente una figura parve caderne vittima, la più piccola ed esile di tutte, che adesso giaceva addormentata, nonostante i richiami tonanti dei suoi compagni.

In poco tempo, avevamo riallestito, e le tavole nuovamente imbandite attorno ad un grande focolare. Per alcuni momenti, non successe niente, se non musica e danze, le più belle della serata.

Poi, eccoli, finalmente: i Nani si affacciarono al limitare della nuova radura, scrutandoci, convinti di non essere né visti né sentiti. Avvertivo la loro bramosia, erano esagitati, quasi follemente disperati. Mi domandai perché, e in quell'istante uno di loro, moro e con una barba non troppo lunga, negli occhi la scintilla del leader naturale, si fece avanti, maestoso, entrando nella luce della torce. La musica si fermò, i balli si arrestarono, i commensali si irrigidirono, e Thorin Scudodiquercia fissò, accigliato, mio padre, brandendo una grande spada elfica. Re Thranduil posò il suo bicchiere di vino, guardò negli occhi il Nano: non vi lesse altro che pericolo, arroganza e senso di superiorità. Dette l'ordine e il buio calò di nuovo.

Catturammo il Nano e lo portammo con noi. Gli altri si congelarono nel loro nascondiglio.

A loro avremmo pensato poi.

Dovevamo sapere il perché di quell'attacco.

I nostri popoli non erano più in buoni rapporti da molto tempo, ormai, ma mai un Nano aveva osato tanto, sfidare apertamente un nostro leader.

Superammo il fiume e lo portammo all'interno della roccaforte, superando i Cancelli del Re.


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Capitolo 7
*** Il tesoro del Re Thranduil ***


Bonsoir! Ecco, finalmente, un nuovo capitolo. Ancora una volta, si riferisce direttamente al libro “Lo Hobbit”, analizzando l'incontro-scontro tra Elfi e Nani dal punto di vista dei primi, cioè in modo inedito. Alcuni dialoghi sono stati estrapolati dal libro e riprodotti testualmente (lo dico anche a mo' di disclaimer, non si sa mai.)

Spero di aver reso in modo credibile e coerente il punto di vista di Thranduil. Fatemi sapere che ne pensate! No, le mazze chiodate vanno lasciate all'ingresso, grazie. ^^


Questo capitolo è dedicato alle mie amate “Lettrici accanite” che, settimana dopo settimana, episodio dopo episodio, mi seguono con un affetto che non avrei mai immaginato e un amore per la storia per il quale non smetterò mai di ringraziarle!


Un abbraccio ciccioso,


Maiwe




“Perché tu e i tuoi avete attaccato per tre volte il mio popolo durante i loro festeggiamenti?”

Lo guardai severamente. Quel Nano mi piaceva ogni istante di meno, e il suo sguardo era un chiaro segnale di sfida e arroganza; ma non avrebbe prevalso, poco ma certo. Non nel mio regno. Se si fosse mostrato disposto a collaborare, tutto sarebbe sicuramente andato per il meglio, ma ero più che certo che quella situazione di stallo tra i nostri popoli si sarebbe presto frantumata. I Nani stavano agendo alle nostre spalle, e la loro meta era senza ombra di dubbio la Montagna Solitaria.

I nostri confini sarebbero andati distrutti, e con esso la Foresta, se avessero osato risvegliare la Bestia.

Non potevo permettere tanto, non soprattutto se stavano agendo alle mie spalle.

Thorin Scudodiquercia, per qualche istante, non pronunciò una parola, ma continuò a guardarmi con aria arrogante. Infine, parlò, lo sguardo infuocato, la voce grave.

“Non li abbiamo attaccati. Venivamo a chiedere l'elemosina, perché morivamo di fame.”

Arrogante e impertinente. Osava forse prendermi in giro? Nessuno chiederebbe l'elemosina facendo un simile baccano. Il pensiero di tutta la mia gente era stato unanime: ci stanno attaccando. I Nani sono per natura chiassosi, a partire dal loro stesso respiro, e passare inosservati di notte nel folto della foresta non era loro riuscito. Un simile caos ci aveva messi tutti in allarme. Oltretutto, ciò che più mi disturbò delle sue parole fu il riferirsi al mio popolo con “non li abbiamo attaccati”, come se, invece, la cosa non mi riguardasse in prima persona. Cosa voleva dunque significare, la sua frase? Non misi tempo in mezzo. Girai la domanda, cercando di andargli incontro.

“Dove sono i tuoi amici, allora, e cosa stanno facendo?”

“Non lo so”, rispose immediatamente lui, “ma immagino siano rimasti nella foresta a morire di fame.” Continuava a calcare quella fastidiosa frase. Pensava forse di impietosirmi? Non era il momento per convenevoli. Avrebbero avuto cibo e acqua in abbondanza, da noi, per quanto non fossimo in buoni rapporti, se solamente si fossero decisi a deporre le armi.

“Che cosa facevate nella foresta?” Insistetti. Ci stavamo studiando a vicenda, e nessuno dei due avrebbe ceduto per primo, questo era certo. In una partita a scacchi, saremmo stati ancora entrambi fermi a studiare la prima mossa.

“Cercavamo da mangiare e da bere, perché stavamo morendo di fame.”

Non accennava a cedere, dunque. Gli riusciva molto bene, la provocazione.

“Ma che ci siete venuti a fare, nella foresta?” Sbottai.

Ne seguì un lungo silenzio, in cui Thorin Scudodiquercia serrò la bocca, continuando a guardarmi con le fiamme negli occhi, saldo, immobile nella sua posizione.

“Benissimo!” Conclusi. “Portatelo via e tenetelo al sicuro, finché non si sentirà più propenso a dirci la verità, dovesse metterci mille anni.”

Neanche allora, sotto il peso della minaccia di essere sbattuto in cella, il Nano aprì bocca.

“Bene, è deciso, allora.”

Le mie guardie fecero un passo, afferrando Thorin.

Mi alzai dal trono e andai loro incontro. Neanche allora il Nano si mosse.

“Portatelo via.” Sibilai, al limite della sopportazione.

Non mi interessava che avessi di fronte un mancato Re dei Nani, un Principe senza patria, quel che mi premeva era la totale e certa salute del mio popolo. Thorin non avrebbe violato i miei confini per suoi scopi personali, tanto meno se si trattava di andare a risvegliare un drago che dormiva al limitare della mia foresta. Avevo il dovere di valutare il pericolo in ogni sua forma e dimensione, se ciò implicava il mio popolo e la mia famiglia. La foresta sarebbe andata distrutta, se il Drago fosse stato risvegliato.

“Andate a prendere gli altri.” Dissi, senza forze, buttandomi a sedere sul trono.

Vidi mio figlio, in fondo alla sala. Non feci in tempo a indirizzargli uno sguardo sincero, un “Non ti preoccupare, so quello che sto facendo”, che già si era voltato, e stava conducendo i suoi uomini fuori dalle mura.

In quel momento, mi ritrovai solo.

La sala, prima gremita di guardie e confusione, quanto, allo stesso tempo, di silenzio e parole pesanti come pietra, adesso giaceva in un assordante vuoto.

Ero seduto sul mio trono e non avevo nessuno accanto. Chinai la testa.

Era l'unica cosa giusta da fare, mi ripetei: non potevano certo pensare, quei Nani, che li avrei lasciati fare. La loro avidità molte altre volte aveva minacciato il mio popolo, con insinuazioni e provocazioni, dalle quali, lo ammetto, ci eravamo lasciati coinvolgere. Da molto tempo, ormai, non esistevano più rapporti di pace con Erebor.

Se, però, adesso, anche Legolas mi fraintendeva, era la fine.

Ma non avrei ceduto.

Non prima di aver ottenuto parole utili dal Re dei Nani, parole di aiuto reciproco e concordia.

'Posso ricordarti che la stai cercando, la concordia, mettendolo dietro le sbarre?' Mio figlio mi parlò con la mente. Mi stava ascoltando, dunque, mentre marciava in direzione del “nascondiglio” dei Nani. 'Non crederai che ci diranno tutto, vero? Questi non cederanno.'

'Ne sono consapevole. Li avete trovati?'

'Stiamo arrivando.'

Avevano fatto presto. Mi alzai e vagai per la sala, soppesando la situazione in cui mi trovavo. Un altro re cosa avrebbe fatto? Un re saggio, un re magnanimo, disposto a sacrificare tutto per la pace? Io potevo solamente impedire la disfatta e la dispersione totali di quel che restava del mio popolo. Nessuno doveva azzardarsi a vagare per il mio regno con l'esplicito intento di pugnalarmi alle spalle, come se a Eryn Galen, a Bosco Verde, non abitasse nessuno.

Certo, per loro, adesso, era solamente il 'Bosco Atro', un luogo putrido e infetto.

'Padre, siamo arrivati. Stiamo per entrare nella sala'.

Ciò che mi si parò davanti agli occhi fu una sciatta combriccola di Nani bagnati fradici, sporchi e ricoperti di ragnatele. Nessun dubbio che mi fecero pena. Ma sarei dovuto rimanere irremovibile.

Attraversarono la sala, guardandosi intorno, in soggezione, furenti e stanchi allo stesso tempo.

Mi furono portati davanti. Mio figlio era di nuovo a fondo sala, nell'ombra. Gli lanciai un'occhiata, ma lui abbassò la testa. Mi tremò il cuore.

Che aspettate? Slegateli. Non vedete come sono ridotti?”, dissi alle guardie. Erano veramente stanchi e laceri. “Inoltre, qui non servono corde. Non c'è modo di sfuggire attraverso le mie porte magiche, una volta che si è portati dentro.”

Calcai il “magiche”, parola che, di solito, metteva i Nani in ulteriore soggezione.

Mi avvicinai a loro, deciso a guardarli negli occhi, uno ad uno. I più giovani risposero a tono, alle mie domande, mentre gli anziani aspettarono, prima di intervenire. Ma tutto ciò che ottenni furono risposte stentate e assolutamente irrisorie, tanto quanto quelle di Thorin.

“Ma cosa abbiamo fatto, o Re?” chiese infine quello che mi parve il più anziano della compagnia. “E' forse un crimine perdersi nella foresta?”. E osò nominare i Ragni.

Mi infuriai.

E' un crimine vagabondare per il mio reame senza permesso! Dimentichi forse che eravate nel mio regno, e che vi servivate della strada fatta dal mio popolo? Non avete forse cercato, per ben tre volte, di attaccare e disturbare il mio popolo nella foresta? E non avete forse eccitato i Ragni, col vostro chiasso e il vostro clamore?”

Ripresi fiato, cercando di calmarmi.

“Dopo tutti i fastidi che avete dato, ho ben il diritto di sapere perché siete venuti qui.”

Il silenzio, nella sala, era quasi sovrannaturale.

“E, se non me lo volete dire adesso, vi terrò in prigione finché non avrete imparato un po' di buona educazione e di buon senso.”

Un tremito, passò, allora, tra i Nani. Ma neanche allora uscirono fuori le loro intenzioni.

Ordinai, duqnue, che venissero messi in cella, ciascuno separatamente.

Una volta allontanati dalla sala, richiamai una guardia e disposi cibo e acqua in abbondanza. Ma non avrebbero potuto oltrepassare la soglia della loro cella, finché non si fossero decisi a parlare.

C'era, inoltre, qualcosa che non quadrava. Non era soltanto una sensazione, ma una certezza, quella che mi vorticava in testa. Questi Nani nascondevano molto più di quanto non lasciassero trapelare.

Dove era infatti finita la piccola figura, quasi certamente uno Hobbit, che li accompagnava? Non si trovava tra i prigionieri, e certamente ai miei uomini non era sfuggito. Cosa ancora più strana e interessante, la sua presenza era percepibile ai sensi elfici in modo molto chiaro, nella sala.

Ecco, adesso era chiaramente spaventato, poiché stavo, evidentemente, guardando nella direzione del suo nascondiglio. Possibile che si fosse celato alla vista?

Una nuova paura si insinuò nei miei pensieri: un male antico, lo stesso che sentivo crescere, giorno dopo giorno, nella fortezza a sud.

Decisi di assecondare lo Hobbit, disponendo mentalmente alle guardie di comportarsi come se non ci fosse. Ci sarebbe certamente tornato molto utile, a tempo debito; sperando che le mie paure fossero infondate, sull'origine della sua invisibilità.

Raggiunsi mio figlio. Ma, non appena gli fui abbastanza vicino, si scostò nuovamente, e, voltandomi le spalle, se ne andò dalla sala.

Non saprei descrivere a parole quello che provai in quel momento. Era come se mi fosse appena stato tolto tutto, ogni cosa.

“Legolas!” chiamai, e la mia voce riecheggiò nel corridoio vuoto.

Quella sera, mi recai alla cella di Thorin Scudodiquercia. Ero deciso a trattare, come lo ero stato fin dall'inizio, non appena avessi ottenuto le conferme che mi necessitavano.

“Cosa desideri, o re?” Il Nano anticipò ogni mio discorso, parlando per primo non appena arrivai vicino alle sue sbarre, ma non si voltò verso di me.

Desidero, o Nano, che sia rispettata la mia gente, e la mia autorità. Cosa volete, ai confini della Foresta?”
“Da quando gli Elfi si interessano delle faccende dei Nani?”

“Da quando rischiate di ucciderci tutti”, ringhiai, avvicinandomi. “I vostri tesori sono così importanti da mettere a repentaglio la Terra di Mezzo intera? Forse vi siete dimenticati la furia del drago.”

Non parlare a me della furia del drago. A differenza vostra, nessuno di noi ha potuto dimenticare”. Mi voltai, sbuffando. “Quanto a tesori, direi che non sei nella posizione migliore per parlare di oro, Re Thranduil.”

“A cosa ti stai riferendo?”

“Si parla persino fino alle Montagne ad Ovest, e fino alle Montagne Azzurre, del tuo grande Tesoro. Un tesoro leggendario. Eppure, l'avidità degli Elfi è tale da esigere quello di un Nano, e del tuo oro non sei sazio. Da quando il potere dei Re Elfici è caduto così in basso? Da quando la loro avidità e la loro bramosia precedono di gran lunga la loro fama, forse? So anche, inoltre, che, in particolare, hai un debole per le gemme verdi...”
Basta, ne avevo abbastanza. Mi voltai, e feci per andarmene, quando decisi, invece, di rispondergli.

“Non vi smentite mai. Per voi, i Tesori sono oro, oro, montagne di oro, e pietre preziose, ricchezze inimmaginabili fin dove occhio può vedere. Di' alle tue leggende di ravvedersi, poiché non rispecchiano la realtà, o meglio, non nel senso che tu la intendi. Molte sono le voci sui Re Elfici, tra la tua gente, eppure nessuna di esse arriva a scalfirmi.”

Uscii. Mi diressi d'un fiato sulla terrazza superiore della fortezza, un grande spazio circondato da alberi e roccia, di modo che paresse, dall'esterno, soltanto una collina alberata. A spezzare l'illusione, il grande cancello in pietra sottostante.

“Legolas” lo salutai, affannato. “Tutto bene?”

“Certo”, rispose lui, dopo qualche istante, “perché non dovrebbe?”

Non si era neanche voltato per parlarmi.

“No, non ce n'è motivo, effettivamente.”

Il silenzio era ormai entrato a far parte di noi, delle nostre conversazioni. Ma non un silenzio fertile, una comunicazione senza parole, bensì un silenzio grave, vuoto.

Avevo perso mio figlio.

E non sapevo come fare per riaverlo indietro.

“Volevo soltanto sapere come stavi.”

Sembrava non capirmi più. E lo vedevo, che soffriva, a restare dentro le mura, a eseguire gli ordini che, mio malgrado, ero costretto a dare. Lui questo lo sapeva, lo sapeva che non ero un cattivo re, ma avevamo soltanto la sfortuna di vivere dentro tempi malvagi, dove niente andava per il verso giusto, con o senza la mia volontà. Ci erano mancate soltanto le schermaglie di un gruppo di Nani, a mettere ulteriormente in pericolo i nostri confini.

“Stai attento a non prendere freddo, tesoro.”

E rientrai.


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Capitolo 8
*** Elfi, Uomini, Nani. ***


Attenzione! Contiene spoiler sul finale de 'Lo Hobbit.'


Hola! Nuovo capitolo! Scusate se ho tardato con la pubblicazione, si è trattato di una stesura piuttosto complessa di un argomento che, da una parte, nel libro dura dieci pagine, ma dall'altra non abbonda certo in descrizioni e spiegazioni. E' stato un lungo lavoro di ricostruzione, soprattutto legato al far coincidere i tempi e i momenti dei tre eserciti. Spero di esserci riuscita.

Come avrete capito, esattamente, siamo alla Battaglia dei Cinque Eserciti. Un momento del libro de 'Lo Hobbit' che amo particolarmente per la sua drammaticità e per quanto porti a fantasticare, proprio in virtù del fatto che Tolkien, all'atto pratico, la sciala un po', non entra mai nei dettagli e nei particolari.

Cooomunque, il capitolo è piuttosto lunghetto, effettivamente. Spero non mi odierete. E' che non volevo spezzarlo sul più bello, lasciando il tutto a metà.

Ringrazio, come sempre, tutti i miei “seguaci”, che non finirò mai di ringraziare, e chiunque vorrà leggere e commentare!


Un abbraccio,

Maiwe









Possano la tua forza e il tuo vigore non cedere mai.

Una nube nera aveva improvvisamente attraversato il cielo. E tuoni avevano riecheggiavano da lontano, diretti verso la Montagna Solitaria.

Possa tu a lungo regnare in nome di tuo padre e in favore del tuo popolo.

L'aria era densa, satura di pioggia, umida; eravamo in piedi, fermi, in attesa dell'attacco.

Avremmo risposto al fuoco. Non saremmo stati fermi ad attendere che i Nani di Dain ci passassero sopra, dando libera man forte alla follia, alla bramosia cieca di Thorin, serrato dentro la Montagna.

Possano i nostri confini non cedere, così come le radici degli alberi da sempre crescono e si fortificano.

Le parole di quando ero stato incoronato Re mi riecheggiavano nella testa, in un vortice che mi asserragliava la bocca dello stomaco.

Le mie schiere di fedeli soldati dipendevano da me, dalle mie parole e i miei ordini - che stavano tardando ad arrivare, lo riconoscevo. Non sapevo come leggere quella situazione: una guerra aperta contro i Nani? Fuori discussione, ma ci stavano portando diretti in quella direzione, le loro azioni belligeranti; una trattativa? La soluzione migliore, per la quale eravamo giunti fino ai piedi della Montagna, con Bard e l'esercito degli Uomini, ma che certamente sarebbe stata male interpretata e calpestata, in nome del famigerato tesoro che, per bocca dei Nani, era divenuto artefice e causa primaria delle nostre incomprensioni. E l'esercito, mostruosamente ben assortito e combattivo, di Dain delle Montagne Ferrose incalzava. Osavano addirittura attaccarci alle spalle, incastrarci nella valle? I Nani si erano spinti davvero ai limiti della loro folle bramosia. Ci stavano attaccando come un filone d'oro in una delle loro miniere, velocemente, avidamente, ciecamente.

Nel nostro accampamento regnava la più grande eccitazione, come se la battaglia fosse ormai imminente.

Pazzi!” rise Bard, al mio fianco, riferendosi alla strategia d'attacco di Dain, appena giunto e schieratosi ai piedi di Collecorvo, alle pendici della Montagna. “Le armature naniche saranno anche buone, ma tra poco saranno messe duramente alla prova. Attacchiamoli da entrambi i lati, adesso, prima che si siano riposati!”

Aspetterò a lungo, prima di cominciare una guerra per l'oro”, risposi, seccamente. Stimavo e mi fidavo di Bard, ma in gioco c'era molto più di quanto lui non potesse comprendere. La salvezza dei nostri eserciti e popoli era il motivo principale per cui non desideravo cominciare una guerra, almeno finché non vi fossi costretto. “Speriamo ancora che qualcosa porti alla riconciliazione. La nostra superiorità numerica sarà sufficiente, se alla fine sarà proprio necessario venire alle mani.”

Il vento continuava ad alzarsi. E mentre esitavamo, decidendo il da farsi, e saggiavamo l'aria e la tensione che crescevano, in piedi e attenti sullo sperone di Collecorvo, i Nani ci attaccarono; mentre io e Bard ancora stavamo discutendo, ecco che le loro linee avanzarono correndo nella nostra direzione, pronti a serrarci e schiacciarci contro le pendici della Montagna.

Nell'istante in cui detti l'ordine ai miei arcieri di serrarsi nei loro ranghi, prendendo bene la distanza di gittata, dal pendio della Montagna, posizione d'attacco che forse i Nani non avevano ancora scoperto, il temporale si ingrossò ancora, come un mare in tempesta. Nuvole nere oscurarono del tutto il cielo e l'orizzonte, e il rombo dei tuoni era adesso molto vicino, e spaventoso.

Al mio gesto e comando, gli arcieri, alle spalle dei Nani, sulle pendici della Montagna, incoccarono le frecce, mirando e trattenendo il respiro.

E così, avremmo attaccato i Nani. E così, ecco che stava per consumarsi una delle guerre più crudeli e vili della Storia della Terra di Mezzo, una guerra che nasceva dall'antro più basso dell'incomprensione, del non ascolto. Se solo Thorin Scudodiquercia avesse voluto aprire quella maledetta porta...

Dannata sia la testardaggine dei Nani”, gridai, spostandomi verso le pendici di Collecorvo e portandomi dietro le mie schiere di fanti, pronti a rispondere al desiderio di battaglia. Bard era al mio fianco, e scese dal colle, lentamente, insieme ai suoi uomini. Aumentai la presa sull'elsa della spada, e strinsi forte a me lo scudo. Non avremmo ceduto così facilmente.

Mentre cominciavo a correre, arcieri e fanti che mi superavano in mia difesa, la mia mente spaziò, mi abbandonò per un istante, chiudendosi, ignorando i rumori e le grida che andavano crescendo. Il mondo attorno si ovattò, e mi ritrovai nel passato.

Rivissi l'ultima volta che avevo combattuto, che avevo brandito una spada per uccidere. Allora avevo perduto quanto di più caro avessi avuto al mondo. Erano stati gli orchi, però, a portarmi via un figlio e mia moglie, non esseri le cui qualità erano spesso decantate e lodate, come nel caso dei Nani che stavamo per affrontare adesso. Rividi gli occhi di mia moglie nel momento della morte, e lo sguardo di mio figlio piccolo che si nascondeva ai miei piedi. Capii che la ferita che portavo dentro così silenziosamente non si era mai rimarginata, nonostante, per tutto quel tempo, avessi impugnato lo scettro del Re e avessi agito da tale, in nome e valore soltanto della salute del mio popolo.

La mia corsa si era fatta più veloce, più feroce, Bard sempre al mio fianco.

La rabbia mi fece sfuggire una lacrima, mentre gridavo.

Come eravamo arrivati a questo?

Dov'era mio figlio? Mi augurai che le pendici della Montagna fossero davvero un buon posto strategico, per attaccare da distanza.

Il cielo era, adesso, completamente nero, il sole non trapelava più dalle nubi. Si stava scatenando una vera e propria tempesta, un preannunciarsi di quello che sarebbe stato un lungo e tragico inverno – per chi fosse sopravvissuto a quella giornata, per chi fossi riuscito a mettere in salvo.

Un fulmine colpì la vetta della Montagna, eppure neanche allora rallentammo la nostra corsa. Tra le grida assordanti – ormai eravamo arrivati a guardare i Nani in faccia –, improvvisamente, una voce superò di gran lunga le altre, un grido disperato, una voce familiare. Proprio in quell'istante, una nube si distaccò dalle altre: una nube di uccelli, parve. Si muoveva controvento, e di volontà propria.

L'Oscurità, la paura e il Male: non erano mai stati così palpabili, ai miei occhi.

FERMI!”

La voce di Gandalf ci bloccò. Era apparso, dal nulla, in mezzo ai nostri schieramenti, che erano a un passo dallo scontro.

Fermi!”, ripetè; dal suo bastone scaturì un bagliore, come se fosse stato lui il padrone dei fulmini che ci stavano minacciando.

L'Oscurità è calata su voi tutti!”. La sua voce era grave, e mi rammaricai una volta di più di trovarmi in quella situazione. “E' arrivata più in fretta di quanto immaginassi.”

S voltò a guardarmi, a guardare me e Bard, e dalla sua bocca uscirono parole orribili.

Gli Orchi sono su di voi.”

Si voltò verso i Nani.

Sta arrivando Bolg dal Nord, o Dain.”

Un rumore ci sovrastò, un rumore stridulo, che, crescendo, si stava abbattendo su di noi con una violenza inaudita. Era come essere inghiottiti vivi dall'Oscurità. Pipistrelli. Adesso potevamo vederli distintamente.

I nostri due eserciti e i Nani erano in preda allo stupore e alla confusione. Mentre Gandalf parlava, il buio cresceva, e le nubi nere si addensavano, ancora e ancora. Tutti guardavano il cielo e le volute che il volo dei pipistrelli stava creando sopra le nostre teste, e, tra le mie fila, molte voci si levarono.

Gandalf ci richiamò a consiglio, rapidamente. Avevamo poco tempo, ma l'avevamo. Alle parole dello stregone, “Che Dain figlio di Nain venga subito da noi!”, sussultai. Forse c'era ancora speranza di porre fine a quella scempiaggine.

Il tempo di un consulto rapido, strategico, ma non certo ben pianificato, e una battaglia che nessuno si sarebbe mai aspettato ebbe inizio.

Una battaglia di cinque eserciti.

E fu tremenda. Il suo ricordo è orrore.

Da un lato, di fronte a noi, Orchi e Mannari, e le nubi dell'Oscurità, che, con i loro stridii, assordavano e rintontivano i soldati; dall'altro, gli Elfi del Re del Bosco Atro - gli Elfi del 'Re freddo' -, Bard e i suoi Uomini, e l'esercito di Dain figlio di Nain, delle Montagne Ferrose.

Infine, ci eravamo alleati. Tanto sangue inutile era stato risparmiato, con quella ragionevole collaborazione, di fronte al nemico comune, ma molto di più stava per essere versato, di tutti e tre gli eserciti. Sangue di Elfi, Uomini e Nani, insieme, sotto un cielo nero e i rumori di un enorme temporale che aveva preso a scrosciare, rendendoci bagnati fradici e il terreno vischioso e scivoloso, sotto le pendici della Montagna Solitaria.

In tutto questo, non avevo idea di dove fosse mio figlio. Mi augurai che si trovasse davvero sulle pendici, in attesa di attaccare con i suoi arcieri, come gli avevo ordinato perentoriamente. Se voleva usare l'arco, bene, che lo usasse nel modo più utile. Sperai mi avesse dato ascolto, per una volta.

Dopodiché, tutto divenne confusionario. Ricordo distintamente soltanto il sopraggiungere degli orchi, capitanati da Bolg e dai Mannari. Poi, ho ricordi confusi.

Il nostro piano, concordato con Gandalf, consisteva nello sperare che cadessero nella nostra trappola, che sfruttava il loro attaccare dalla valle e la distribuzione dei nostri arcieri sul costone della Montagna. E così facemmo: lavorammo di mano, sangue, sudore e spada, per spingere quegli esseri immondi e dal sangue nero e denso come inchiostro, dentro la valle, a tiro degli arcieri.

E così riuscimmo a fare.

Ma per poco.

Ricordo che persi conoscenza, per un istante, quando vidi che gli orchi, dopo un primo momento di smarrimento, reagirono all'attacco delle frecce e presero ad arrampicarsi come cani affamati sulle pendici. E a trucidare gli arcieri. I miei soldati.

Ricordo che non respiravo più, e realizzai che non ci si abitua mai a veder morire qualcuno, nonostante io stesso stessi distribuendo morte, in quella valle.

Bard gridava, e mi spronava. Io davo altri ordini, e lui mi seguiva. Dain contrattaccò dal lato meridionale della Montagna, e lo seguimmo.

Il mio cervello era separato dal mio corpo. Le mie braccia, le mie gambe, i miei occhi, la mia bocca con i suoi gridi e i suoi ordini inutili, erano sul campo di battaglia. Ma la mia mente non c'era. Il mio cuore neanche. Il vantaggio fu che non provai pietà alcuna nell'elargire morte a quegli esseri immondi, partoriti da una terra che non li voleva, figli del fango e del temporale.

Attaccavamo ripetutamente, spingendo gli orchi con le spalle al pendio. Lance brillavano nella penombra, con un gelido bagliore di fiamma, brandite da mani piene d'ira. Le urla erano assordanti.

Il panico si impadronì degli orchi, e io mi domandai chi mai sceglierebbe di essere Re. Ricordai i suoni della festa che celebrò la mia incoronazione. Ricordai i tamburi che resero omaggio alla morte di mio padre, prima che io venissi portato via e messo in salvo, in esilio, in attesa di un futuro che avevo imparato ad attendere ma che non ero stato in grado di cogliere mentre mi cadeva addosso con tutta la sua carica.

Il Re è morto.

Lunga vita al Re!

Continuammo a schiacciare gli orchi e i Mannari tra i nostri tre eserciti, e per un istante parve che la vittoria fosse a portata di mano. Poi, tutte le schiere degli orchi presero ad arrampicarsi sulla Montagna, e ogni speranza di vittoria svanì, miseramente. Non solo si stavano dirigendo verso la Porta, ma stavano anche sovrastando e massacrando le nostre fila di arcieri. I pipistrelli continuavano a cadere in picchiata sopra le nostre teste, mordendo e strappando, stridendo e attaccando come vampiri sia i vivi che i morti.

Ero a un passo dalla disperazione, mentre osservavo inerme, occhi sbarrati, che più nessun arciere era rimasto in piedi.

Quando ecco, che un nuovo grido squarciò l'aria. La Porta nascosta della Montagna si aprì e Thorin Scudodiquercia uscì dalla sua fortezza, gridando a squarciagola, circondato dai suoi compagni, che, seppur pochi, sfavillavano nelle loro armature, sotto le gocce di pioggia. Nella penombra del temporale, il grande Nano brillava come oro in un fuoco morente.

Thorin e i sui resistettero, e gli orchi furono ricacciati indietro. Il Nano ci chiamò a raccolta:

A me! A me! Elfi e Uomini! A me! O miei consanguinei!”, e la sua voce risuonò come un corno nella vallata. Il temporale sembrava che si stesse finalmente diradando, e uno squarcio di luce spezzò improvvisamente le nubi a metà.

I soldati elfici si unirono nella carica, rinvigoriti.

Mentre Elfi, Uomini e Nani combattevano fianco a fianco, sopraggiunsero le Aquile in nostro soccorso. Ringraziai i Valar e Gandalf, e almeno i morti furono così lasciati in pace dagli attacchi dei pipistrelli.

Brandendo la spada, facendomi largo con lo scudo, le grandi ali delle Aquile a sfiorare la punta delle lance che ancora resistevano dritte e serrate, assaporai un attimo di silenzio, non appena caddi in ginocchio, stremato. Gli orchi erano stati fatti cadere di sotto dal costone, e ciò che restava del loro esercito era definitivamente accerchiato, schiacciato e vinto. I Mannari fuggivano via, lasciando il campo di battaglia.

Il nemico era stato sconfitto.

Le nuvole furono spazzate via dal vento, che non si era placato un istante e scuoteva lance e stendardi, e un rosso tramonto squarciò finalmente il cielo. Mi trovavo nuovamente a Collecorvo, come se non mi fossi mosso da lì per tutto il tempo.

Non avevo pensieri, nella testa. Solo rabbia, e furore. Ma anche liberazione: finalmente, Thorin era uscito dal suo nascondiglio, e mai momento avrebbe potuto essere più propizio.

Ma, mentre mi dirigevo verso Gandalf, che vedevo spuntare, grave, in mezzo al campo di battaglia, ancora non avevo notizie di mio figlio. Non avevo forze a sufficienza, eppure camminai a testa alta, in nome della corona che indossavo.

Un instante, e Gandalf mi fu vicino. Mi parlò con voce rotta, eppure decisa. Mi condusse, il passo cadenzato, al capezzale del mio rivale eppure alleato, fonte di tante incomprensioni, caposaldo della mentalità nanica: Thorin figlio di Thror, figlio di Thrain, Re sotto la Montagna, giaceva sul suo letto di morte. Un Re che si stava già spegnendo, prima ancora che il suo regno fosse potuto cominciare. Un brivido mi percorse, e rimasi senza parole, quando i nostri sguardi si incontrarono. Il silenzio era calato di piombo, nella stanza. Non dissi niente, se non un “Grazie”, a quella creatura morente. Lui ricambiò con uno sguardo profondo, d'intesa, e un cenno del capo. Nei suoi occhi, la luce dell'orgoglio brillava ancora, non era svanita, era rimasta immutata, ma non vi lessi angoscia e dolore. Solo rimpianto.

Tutto ciò che uscì dalle sue labbra fu che desiderava parlare con Bilbo Baggins. A me non disse altro, probabilmente perché non c'era molto altro da dire. Uscii, andando a cercare lo Hobbit per lui, facendomi accompagnare da alcuni uomini.

Fu mentre vagavo, in lacrime, ai piedi dell'accampamento di Collecorvo, che mi apparve. Se ne stava lì, in piedi, sporco di sangue nero e sangue rosso. Il suo. Mio figlio mi guardava, lo sguardo smarrito, eppure leggero. Il suo.

Ci venimmo incontro, e restammo, seppure a una certa distanza, a guardarci. Nessuno aprì bocca finché lui non mi si buttò al collo e mi abbracciò. Io lasciai cadere la spada, lo scudo, le braccia, e ricambiai il suo abbraccio. Poi, schivo come sempre, si staccò da me immediatamente.

Ma non importava. E, per un attimo, mi parve proprio che non fosse passato un solo, singolo istante da quel giorno in cui ci eravamo ritrovati soli in mezzo a un campo di battaglia, abbracciati, decisi a ricominciare tutto da capo.



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Capitolo 9
*** "Tornerò presto." ***


Salve! Chiedo scusa per l'attesa, colpa degli esami e del lavoro... no, colpa anche mia, che me la son presa comoda!

Comunque, ecco qua: nuovo capitolo!

Una breve precisazione: questo capitolo è, chiaramente, un salto avanti nel tempo, e mi scuso se magari qualcuno si aspettava momenti più "intimi", legati cioè a qualche retroscena non raccontato e più quotidiano. Ma sentivo il bisogno di saltare direttamente a qui. Fino ad ora abbiamo visto i due protagonisti fianco a fianco... credo sia arrivato il momento di osservarli alle prese con altre questioni, sempre più grandi, e sempre più grandi di loro.

Perciò, scusate, soprattutto per il leggero filo rosso di angst che corre per tutto il capitolo! XD

Fatemi sapere cosa ne pensate, qualsiasi commento e recensione è ben accetta! 


Un bacio

Maiwe.

P.S.: Questo capitolo concorre come songfiction nel contest indetto dalle Muse e dal forum "Pseudopolis Yard", la "Settimana tematica #1: songfictions".



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"Home"


Canzone scelta: Home – Mumford and sons

Fandom scelto: LoR/Hobbit

Personaggi scelti: Legolas, Thranduil.

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Spirava una brezza lieve, adatta a un addio.

Non era uno di quei giorni particolarmente belli, quelli in cui splende il sole a picco e fende le nuvole, né particolarmente brutto; non pioveva, quantomeno, ma non tirava neanche vento forte, e come può uno partire, se non c'è vento forte che lo possa sospingere nella direzione giusta?

Ti affacciasti alla porta della grande terrazza che tanto amavo quando ero bambino, e ti fermasti lì, in piedi, appoggiandoti leggermente allo stipite.

Avevo le spalle incurvate, e lo sguardo basso. Non volevo partire. Ma sentivo di doverlo fare, ne avevo bisogno, in fondo. Avevo sempre desiderato un distacco - credo fosse naturale – ma, allo stesso tempo, mi spaventava dovermene andare, mi spaventava come un bufera.

Tu abbassasti la testa e rimanesti in silenzio per un po', anche tu sempre più curvo. Finalmente, parlasti, e non so cosa mi immaginassi che ci saremmo detti, ma le tue parole mi colsero di sorpresa:

"Ricordati di riferire il messaggio".

"Certamente", sussurrai, la voce ridotta a un filo: probabilmente se ne era già andata, già aveva superato le montagne, ad ovest, e magari aveva anche visto, dall'alto, il mare. Non me lo ricordavo, il mare.

Il silenzio ci avvolse, pareva che anche le foglie avessero smesso di muoversi. Finché, eccolo: il vento si levò d'un tratto. Spirava nella direzione giusta. Eccolo, il vento dell'ovest. Forte, quasi minaccioso.

Mi voltai nuovamente verso di te, e li vidi: i tuoi occhi lucidi. Non ce la facevi a dirmi addio.

Non era detto, in fondo, che lo fosse, no?, cercai di dirti. Ma niente mi uscì dalle labbra, e mi sentii scosso. Deciso a voltarmi, lo sguardo basso e sfuggente, sussurrai un "Tornerò presto, vedrai. Sarò a casa presto. Non temere".

Ti limitasti a sorridere, in risposta, e facesti un leggero cenno del capo.

"Vai."

Scesi in fretta le scale che, dalla terrazza, conducevano direttamente verso la via elfica. Fuori.

Mi voltai per un istante quando fui a metà strada, e tu eri ancora lì, appoggiato allo stipite, il vento che soffiava malinconico e spingeva dentro casa vecchie foglie e polvere, polvere grigia; foglie secche e umidità.

Ti avrei rivisto solamente tredici mesi dopo, e sarei tornato come un'altra persona. Sarei tornato definitivamente adulto.

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Capitolo 10
*** Solo un peso. ***


“Ho un bisogno disperato di partire”.

Mia sorella mi guardò negli occhi, una mano sulla mia spalla. Era sconcertata, e mi prese il volto tra le mani.

“Che ti prende? Forse non stai bene?”
“No, non è questo, è che... non lo so, in realtà.”

Sedute sulla spiaggia, osservavo distrattamente le grosse nuvole che pigramente si sospingevano sulla linea dell'orizzonte. Non c'era sole, quel giorno, solo una densa cappa grigia al posto del cielo, satura di aria di pioggia.

“Sta per piovere, meglio rientrare.” Lei si alzò in piedi e si incamminò. “Tu non vieni?”
“Grazie, credo che resterò ancora un po' qui.”
Mi tenevo le ginocchia tra le braccia, e pensavo. Pensavo e ripensavo. Cosa mi teneva ancorata a quella terra? Quasi niente. Solo la mia famiglia, le mie radici, ma nient'altro. Non c'era uno scopo, nel mio vivere a Valinor.

Mi sentii una sciagurata. Ero probabilmente l'unico Elfo a volersene andare dalla Terra Immortale per la Terra di Mezzo, quando al resto del mondo stava capitando l'esatto contrario. Già molti altri Elfi, e Signori degli Elfi, erano arrivati da noi, alla reggia di mio padre, per vivere in armonia, ritirarsi, lasciare la Terra di Mezzo.

Ma io non l'avevo mai vista. Avevo sempre puntato gli occhi su quella linea al confine del mare, ma non ero mai riuscita ad andare oltre, con lo sguardo. Chissà come era. Dicevano che un grande Male l'avesse per millenni avvelenata, e che tutti i popoli liberi si stessero finalmente destando e unendo per liberarla, e ottenere finalmente una pace duratura.

Mi sentivo inutile, ecco cos'era. Quante volte erano giunte alle nostre sponde eroi, e prodi cavalieri elfici, che raccontavano le loro incredibili gesta. Era come trovarsi in uno dei miei romanzi preferiti, nelle storie che da sempre amavo, ma... non riuscivo a sentirmi protagonista, questa volta. Solo una mera spettatrice. Di là dal mare si viaggiava, si correva, si vivevano incredibili avventure; si combatteva e si moriva. E io ero lì, su quella spiaggia, abbracciata alle mie ginocchia, incapace persino di tornare a palazzo, dove mio padre mi stava certamente attendendo: altri nuovi arrivi, tutti da accogliere, ognuno dei quali avrebbe certamente rappresentato quel tanto da lui agognato partito per finalmente togliermi di torno e farne qualcosa della mia vita.

Ecco perché non avevo alcuna voglia di tornare a palazzo, in sostanza.

La mia età era avanzata, non ero più una bambina. Ma non mi sentivo neanche adulta, nonostante molte mie amiche, e anche una mia sorella, fossero addirittura già madri.

Cosa avrei potuto farne, della mia vita? Non sapevo fare niente, ero solo un peso.

Sentii i passi di mia sorella sui ciottoli della spiaggia, alle mie spalle.

“Allora? Ti decidi a venire? Nostro padre è infuriato, e ha detto che vuole vederti subito.”

“Arrivo, arrivo.”

Mi alzai e mi incamminai verso casa, i piedi scalzi e bagnati, fradici di salsedine come l'orlo della mia veste – se mi avesse vista mia madre! Pochi passi e mi voltai di nuovo, triste.

“Sono in gabbia”, sussurrai.

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Capitolo 11
*** Resta saldo. ***


“Niente. Sono due mesi che è partito, e neanche una lettera, un messaggio, niente di niente.”

Mi aggiravo per la sala, immerso nei pensieri. Stavo crollando sotto il peso dell'angoscia.

Quanto a lungo può resistere, la forza di un re?

“Cosa succede, mio signore?”

La cara, saggia balia si affacciò alla piccola porta del salone, e mi guardò con aria interrogativa, e preoccupata.

“Niente, sono...” Non riuscivo a dirlo, mi moriva la voce in gola. “Sono solo molto preoccupato. L'ultima notizia di mio figlio risale a più di due mesi fa, quando mi ha comunicato di essere stato scelto, e che sarebbe partito subito. E' partito in guerra, capisci. Io non...”

La donna mi si fece vicino, e mi mise una mano sulla spalla.
“Non devi preoccuparti.”
“Come potrei? Non ricevo più sue comunicazioni, e... e d'altro canto come potrebbe inviarmele?”

Arian continuava a sorridere, standomi accanto.

Mi portai una mano sugli occhi, chiudendo le palpebre e respirando.

Se n'è andato, Arian.”

Non dirai sul serio?” Scattò su lei, scostandosi da me. “Thranduil, mi meraviglio di te! Dov'è finito il tuo buon senso, la tua forza d'animo e di carattere che sempre ti hanno contraddistinto? E' in momenti come queste che dobbiamo essere forti e dimostrare ancora di più la nostra resistenza. Sei sempre stato un buon re, e io ti sono fedele, Thranduil, così come lo sarò sempre a tuo padre. Ma non voglio vedere quelle lacrime, sei re, ormai, e i re non possono permettersi di perdersi d'animo. Hai un regno a cui pensare.”

Sorrisi, e respirai a fondo. Per Ilùvatar, quanto aveva ragione.

Ti chiedo scusa. Non volevo essere invadente. Devo stare al mio posto.”
“Non hai niente per cui scusarti. Hai ragione, Arian. Hai sempre ragione.”
“Mi prendo cura di Legolas da quando siete arrivati. Da quando non era più alto di un dito mignolo. Da quando l'ho visto per la prima volta, e per me è come un figlio, Thranduil.”

La guardai negli occhi, e il silenzio cadde tra di noi, per qualche istante.

La colpa è solo mia!” Sussurrai. “Sono io che l'ho mandato a Imladris, alla Casa di Elrond. Non avrei dovuto farlo... E' una persona d'onore, agisce in prima persona. Avrei dovuto immaginarlo che, se se ne fosse presentata l'occasione, non si sarebbe tirato indietro.”

Siete entrambi persone d'onore. Perché l'hai mandato, dunque?”

Sono suo padre, non la sua catena. Lo conosci molto bene, Arian: corse, prati, caccia, è vitale, e ama agire, ma anche e soprattutto riflettere. Ha solo un problema: non sa ancora quel che vuole. Non ho potuto trattenerlo qui, non sarebbe stato giusto. Che gli serva: saprà sempre che ha una cosa dove tornare, se mai ne avrà voglia.”

Ma cosa stai dicendo?” Mi si fece vicina e mi afferrò il braccio nuovamente. “Lo sai che non ti tradirebbe mai, che non se ne andrebbe mai, non per sempre. Non vedere tutto nero, adesso che siamo sull'orlo di una battaglia.”

Fece una lunga pausa, durante la quale nessuno dei due parlò.

Lo so che senti di non doverti più fidare di nessuno, non dopo quello che è successo, con la storia di Thorin e tutto il resto. Ma devi, devi restare forte. Non puoi fermarlo, Thranduil.” Mi guardò negli occhi, che riabbassai. “Puoi solo prepararlo.”




Padre,


Ancora vento, oggi. Più andiamo verso Est, più l'ombra nel cielo si infittisce. Le spie di Saruman seguono il nostro viaggio, corvi neri si spostano rapidi come un soffio sopra la nostra testa.


Padre, questa lettera non la leggerai mai, perché non te la spedirò, e se mai tornerò non te ne parlerò nemmeno. Sappi che tornerò presto, e che, comunque sia, sarà l'ultima che scriverò. Non attardarti a pensare a me, rivolgi le tue energie a proteggere la nostra gente, che ha bisogno di te adesso più che mai. Mantienili saldi, e mantienili uniti, è tutto ciò che conta.

Dimentica Galion, fatti aiutare da Arian.


Cercherò di riportare indietro, dentro di me, quel bambino che tanto tempo fa hai salvato, ma non garantisco che avrà lo stesso aspetto di allora. Garantisco, però, che tornerà a casa.


Ti farò avere mie notizie non appena toccheremo Lorien. Fino ad allora, resta saldo: saldo come una quercia, e forte come il mare.


Greenleaf.

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Capitolo 12
*** Suoni ***


Ciao a tutti! Ebbene sì, finalmente torno a pubblicare! Scusate l'assenza prolungata: per farmi perdonare, doppio capitolo. <3

Prometto di aggiornare presto, stavolta, e con un capitolo bello sostanzioso. 

Vi ringrazio davvero di cuore per avermi seguita fin qui, e vi abbraccio tutti!

Maiwe

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C'era qualcosa che non andava. Non andava proprio.

Spirava un vento arido, nella nostra direzione. Un vento secco, che sapeva di fame e distruzione. Di rabbia. Ad Est, nella Terra di Mezzo, qualcosa di grande stava per accadere.

Osservavo il volo dei gabbani: nervoso, agitato. Giravano in grandi spirali sopra la mia testa e quella di mia sorella, in piedi accanto a me a osservare il mare ingrossarsi; volavano guardinghi, come a cercare qualcosa, e non si posarono finché non giunse, finalmente, l'alta marea. Il vento cambiò, trovandomi seduta sul bagnasciuga, e le onde un poco si acquietarono. Mi trovarono lì, puntuale, come ogni sera, pronta ad ascoltare vecchie canzoni e rumori che la notte portava da là, dall'altra parte del mare.

Chiusi gli occhi, e intravidi qualcosa: alberi con le foglie d'oro.

Poi, l'immagine cambiò, repentinamente: divenne una grande, immensa foresta buia, macchiata di oscurità tra i suoi rami avvizziti. Ma, sotto le ceneri della rovina, la vita, come tizzoni ardenti. Farfalle azzurre che si levavano in volo da foglie rosse come il sangue.

Un ambiente malato, ma vivo. Pieno di speranza. Credo rappresentasse la Terra di Mezzo intera, quella breve ma vivida visione.

Mia sorella mi ridestò, scuotendomi, e invitandomi a rientrare.

“Si può sapere cosa stai aspettando? E' freddo, non vorrai passare la notte qui?”
“Si sta così bene. Perché dovrei rinchiudermi tra le mura di casa, quando sopra la testa ho delle stelle così belle?” Accennai un sorriso.
“... Non cambierai mai. A volte mi domando...”
“Cosa?”
“Niente. Vieni, Estel, rientriamo. E' ora. E' un ordine.”
In men che non si dica, mi ritrovai dietro la finestra della mia stanza. Non chiusi occhio, quella notte, ma mi sedetti lì, sul davanzale interno, accoccolata, ad osservare le onde inseguirsi e spegnersi sulla riva. Canticchiai per tenermi compagnia.

No, non sarei mai cambiata; e, un giorno, avrei preso una nave, e sarei andata a vedere da cosa tutti stessero scappando. Sarei andata a vedere quella terra al di là del mare.




“Altre tracce, Aragorn.”

“Siamo sulla strada giusta. Non perdiamole di vista. Stanno accelerando il passo.”

Il rumore dei passi degli Uruk era come un tamburo e faceva vibrare tutta la terra intorno a noi, una vibrazione sorda, ma potente, calda come fuoco, calda come roccia.

Correvamo ormai da giorni. Ero spossato, ma non mollavo, stringevo i denti.

Da che avevamo lasciato Frodo e Samvise partire dalle cascate del Raurs, viaggiavamo a piedi. Gravi, e dolorose, le perdite che avevamo subito.

Gandalf. Nessuna luce né voce saggia che sapesse guidarci. Ci eravamo rimboccati le maniche: eravamo soli. Faccia a faccia con il nemico. 

Un nemico di fuoco, lampi e lava si era portato via lo Stregone, sotto i nostri occhi impotenti. Gandalf aveva gridato, ricordo le sue parole, la magia che avevano emanato, e per un attimo avevamo avuto speranza. Poi, era stato trascinato giù, nell'abisso, con un gemito sordo. Avevamo potuto solamente mettere al sicuro il Portatore, facendolo fuggire da quelle miniere maledette, quelle miniere che il Nano aveva voluto attraversassimo. Sapevo cosa stesse provando, quando ne uscimmo, sporchi, feriti, e senza Gandalf: smarrimento. Un tempo, era stata casa sua, della sua gente, e adesso era una tomba, un immenso tumulo senza vita e attanagliato dal male. Credo che quella visione catastrofica ci abbia avvicinato molto, e non me ne stupisco. Lui stesso si è più volte dimostrato felice di aver conosciuto la mia gente, a Lorien. Era stata una visione strana, un Nano tra gli Elfi; ero stata una strana visione anche io, d'altro canto: eravamo due anime spezzate, stanche, affratellate, che vagavano per i boschi in silenzio. 

Poi, Boromir. Un Uomo saldo, ferreo, deciso. Ma il potere dell'Anello lo era stato molto più di lui, e la sua giovane mente era stata troppo debole. 

L'avevo visto morire. Era caduto a terra con un tonfo sordo, e le sue palpebre erano calate silenziosamente. Ultime parole, parole di addio, e di rimpianto.

E adesso, la Compagnia era divisa. Cosa altro ci restava da fare, se non armarci di buona volontà e liberare Merry e Pipino dagli Uruk?

Avevo il cuore in frantumi, le gambe a pezzi, i muscoli tesi, gli occhi stanchi. Ma continuavamo a correre, non avevamo alternativa.

Gimli era rimasto parecchio indietro. Mi voltai, rallentati la corsa, e lo aspettai.

Ci mise un po', ma alla fine eccolo: ci raggiunse.

Non disse grazie, non disse niente; anzi, mi superò, mentre osservavo il suo elmo dondolargli sulla testa. Due passi, e lo superai a mia volta.

Aragorn, la nostra guida e grande Speranza, il nostro grande amico, si voltò indietro a guardarci. Gli sfuggì un sorriso.

Credo fosse la cosa più vicina all'avere amici che avessi mai provato.

Le tracce continuavano, davanti a noi, e il rumore dei passi pesanti degli Uruk-Hai vibrava sotto i nostri piedi, e dentro i nostri petti. Il sole stava calando, e grossi nuvoloni neri non promettevano niente di buono, sulle nostre teste.

Non ci saremmo fermati.

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Capitolo 13
*** Nero, rosso; verde. ***


Bonsoir! 


Come promesso, ecco il nuovo capitolo!

Spero davvero vi piaccia, ci ho messo l'anima, e non nego di aver provato diversi brividi, mentre lo stendevo. Certo, ogni scarrafone è bello a mamma sua XD, ma per adesso è il mio preferito, insieme a "Elfi, Uomini, Nani" e al secondo capitolo. Spero possa davvero essere altrettanto per voi. :3

Il momento è quello dell'ultima battaglia dei signori elfici, in concomitanza con lo scontro finale al Nero Cancello, tratto dai Racconti tolkeniani. Ovviamente, dal punto di vista di Thranduil e Celeborn, è sì un evento di enorme portata, ma sul momento percepito in maniera più attutita, non trovandosi loro alle pendici del Monte Fato.

Bene, adesso la smetto di tediarvi con le mie sciocchezze e vi lascio alla "lettura". Grazie di cuore per tutti i numeri vertiginosi di visualizzazioni e recensioni, preferiti, seguiti e ricordati che questa fiction ha raggiunto, vi abbraccio uno per uno! <3

Fatemi sapere cosa ne pensate e, nel caso probabile e lecito che non vi piaccia, chiedo scusa in anticipo.

Baci,

Maiwe

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Arrivarono da sud. Scesero lungo il versante della montagna che si ergeva di fronte ai nostri occhi.

Sciamarono gridando e brandendo spade, lance, picche, armi arrugginite e macchiate da strati e strati di sangue secco.

Le foglie degli alberi, e gli alberi stessi, frinivano, al loro passaggio. Potevo sentirli.

Era una giornata di sole, e il cielo era meravigliosamente limpido.

Le loro grida crescevano, si accumulavano, si accavallavano, crescevano moltiplicandosi a dismisura, quasi quegli esser spregevoli fossero capaci di sdoppiarsi a vista d'occhio.

Li stavamo attendendo, in piedi, fermi e saldi sulla cima di un lieve colle erboso.

Sarebbe stata la nostra fine, forse, ma sarebbe stata una fine degna di essere ricordata.

Ecco che, ancora una volta, ero il re di un popolo in guerra, un popolo decimato e ridotto allo stremo. Un popolo dignitoso.

Non avremmo mai abbassato la testa.

Ecco, infine, che quei luridi esseri sbucarono alla luce del sole, fuori dalla linea degli alberi, ai piedi della montagna nera di abeti, le armature nere, portando con loro orrore, e morte, terrore.

Raccolsi tutto il fiato che avevo, tutta la forza di cui fossi stato capace, serrai i denti, contrassi i muscoli, impugnando la spada in entrambe le mani e mimando un leggero movimento. Il grande elmo che portavo era estremamente pesante. Mi rincuorò che potesse essere visto da lontano, di modo che anche l'ultimo dei miei soldati potesse seguirmi, mentre gridavo e mi lanciavo, sollevando la polvere dalla terra erbosa, giù per il colle.

Non passò molto tempo prima che il verde dell'erba che calpestavamo si macchiasse di nero. E di rosso vivo.

Gli arcieri, al mio comando, mentre con i miei pochi fanti scendevamo la collina, scagliarono la prima raffica di frecce. Colpirono le prime file e godetti nel vedere morire quegli esseri sotto i colpi della mia gente.

Lo scontro fu disastroso. Tutto, intorno a me, crollava: alberi, lance, persone. Persino il mio elmo cadde. Mi lasciò libero il collo, le vertebre, i capelli, che mi ricadevano sul viso e mi impedivano una vista corretta. Sudavo e imprecavo.

Pensai a Gil-Galad. Grandi canzoni erano state scritte sulla sua storia. 

Pensai a mio padre, solo un ricordo fievole nella mente di molti. 

Pensai.

Sussultai. Un colpo di spada Uruk mi ferì al braccio destro. Con un grido, cacciai la testa all'indietro. Respinsi l'orco, lo trafissi da parte a parte.

Ero circondato. Ero solo. Intorno a me vidi solamente il nero delle loro rozze armature e dei loro denti aguzzi. Feci un passo indietro, impugnando la spada con entrambe le mani, ancora una volta. Affrontai i miei nemici uno ad uno, e scaraventai i loro cadaveri più lontano che potevo.

Un suono dolce e flebile, come per incanto, destò i miei pensieri, come risvegliandomi da un torpore. Un corno, e uno sciamare. Un gridare, un rullare di tamburi.

Guardai verso ovest.

I Galadhrim discesero il colle, fieri e alti nelle loro armature d'oro, e i nostri eserciti si fusero come un sol uomo. Raggiunsi Celeborn, signore di Lorien. Ci scambiammo una rapida occhiata, e lo ringraziai. Semplicemente, serenamente, circondati dalla devastazione, da terra resa ormai quasi brulla. Non saprei dire quanto tempo fosse passato da quella mattina, quando avevo radunato il mio esercito e marciato al limitare sud di Eryn Galen in risposta ai sempre più numerosi attacchi subiti dal mio regno. Un insediamento orco, di vastissime dimensioni, ad accoglierci, armati e pronti allo scontro.

“Infine ci siamo”, mi ero detto. “Tutto quanto affrontato finora ha portato a questo momento. Si può solo andare avanti, si può solo affrontare, si deve debellare. Una volta per tutte.”

“Non libereremo la Terra di Mezzo, e probabilmente moriremo”, mi ero detto. “Ma avremo fatto la nostra parte.”

I tamburi erano riecheggiati nell'aria anche allora, i tamburi da battaglia della mia gente, i tamburi che mi avevano incoronato re, che mi avevano incoronato erede di mio padre.

Celeborn mi fece un ampio cenno col capo, e lo stesso feci io.

“Grazie”, sussurrai, in fin di voce.

Un istante dopo, mi ritrovai cieco.

Dapprima, vidi rosso. Rosso fuoco. Rosso di fiamma. Lampi di luce.

Poi, vidi nero.

Per un lungo istante, mi ritrovai curvato su me stesso, gridando, credo. La mia voce era sovrastata dai rumori della battaglia, ed io con lei.

Mi accasciai in ginocchio.

Tolsi le mani dal volto. Le ritrovai bagnate di sangue, e provai, infine, il dolore. Acuto, penetrante, lancinante, annebbiante.

Il mio occhio sinistro era appannato, e la testa mi vorticava.

Fui aiutato a rialzarmi, mi tirai su, ordinai che non pensassero a me, che combattessero, che si difendessero, ma il mio occhio sinistro era ferito.

Non trovavo la mia spada, la cercai attorno a me, a tentoni.

Il rosso mi circondava.

Avevano appiccato il fuoco.

Gli alberi bruciavano. Le foglie, i nidi, i fiori stavano bruciando. Gli alberi, scricchiolando, crollavano al suolo. Bruciavano gli stendardi conficcati nel terreno, e bruciavano i cadaveri.

Con le ultime forze, sollevai la spada, recuperata, e cacciai un grido. L'intera Eryn Galen mi rispose, l'intera Lorien riecheggiò di una sola voce.

Ci radunammo, Celeborn al mio fianco e, saldi e fieri, ultima stirpe dei signori elfici, serrammo i ranghi. E attaccammo nuovamente, caricammo le fila nuovamente serrate degli schiavi di Mordor.

Uccidemmo e ferimmo, sfiorammo e sgozzammo, circondati da tizzoni e carcasse di alberi vecchi di secoli, in una danza di ferro e fiamme.

Era ormai buio. Era calata la notte. L'incendio era dilagato, spostandosi ad est, illuminando come una fornace la devastazione di quella battaglia interminabile.

Non sentivo più neanche la stanchezza, non sapevo neanche più chi fossi, che cosa fossi, uscii dalla mia mente, la faccia che pulsava dolore sotto l'occhio, e il braccio destro, che impugnava la spada, trafitto, ma ormai aveva smesso di sanguinare.

Quando finalmente sorse il sole di nuovo, ci trovò arrampicati in formazione sui rami degli alberi, pronti a colpire con raffiche di frecce, e la luce ci tradì.

Non avevamo più forze, ed eravamo più che decimati, era un massacro immane.

Il cielo, così come si era lievemente illuminato, prese a rannuvolarsi, un enorme ammasso di nuvole nere crebbe da sud. Il cielo scomparve.

Tutti, Elfi e orchi, attratti dal boato che quello strano fenomeno aveva prodotto tingendo il cielo di nero e rosso, alzarono lo sguardo. Le nuvole parevano correre, come chiamate, verso Mordor, e di Mordor avevano i colori.

Poi, successe qualcosa che ebbe dell'incredibile.

Gli orchi presero a correre.

Corsero via, si dispersero. Correvano a perdifiato nella direzione dalla quale erano venuti, e la terra parve inghiottirli.

Sollevammo le spade e urlammo.

Grida esplosero ovunque, di gioia, e di terrore. Cosa stava accadendo?
Non l'avremmo saputo immediatamente, anche se, nei nostri cuori, la speranza era esplosa e gridava a gran voce una sola cosa: l'Unico Anello era stato distrutto.

Celeborn mi venne incontro. Stemmo per qualche istante uno di fronte all'altro. Un suo soldato aveva raccolto il mio elmo, e me lo porse. Lo ringraziai, e andai ad indossarlo, ma dovetti rinunciare, e non volli sapere in che condizioni versasse il mio volto.

“Thranduil Oropherion, possa la luce delle stelle brillare sull'ora di questo nostro incontro. Quest'oggi, il Mondo è cambiato. Possa la tua via essere d'ora in avanti piena di luce.”

“Salute Celeborn, signore dei Galadhrim, signore di Lothlorien. La luce splenderà adesso per gli Eldar, e per la nostra gente. Ricostruiremo questo mondo.”

Ci inchinammo.

“Devo trovare un nuovo nome al mio regno”, sussurrai. “Troppo a lungo è stato affranto dal Male.”

“Non andrai ad Eldamar?”

“Non partirò, no, non potrei mai lasciare queste sponde, questa è casa mia. So invece che tu te ne andrai.”

“Non in un breve lasso di tempo, ma sì, lascerò queste terre. Come desideri nominare Eryn Galen, il Reame Boscoso?”

Rimasi un istante in silenzio, il gigantesco elmo nelle mani. Evitai un sussulto al cuore, e dissi, con convinzione e la voce ferma:

“Sarà Eryn LasGalen, il Bosco delle Foglie Verdi.”

Pensavo al futuro, pensavo alle foglie che sarebbero rinate dalla cenere. Pensavo alla ricostruzione del mio reame segregato, alle foglie verdi che avrebbero di nuovo invaso il mondo. 

Pensai alle foglie che, un giorno, sarebbero tornate a casa.

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Capitolo 14
*** Silenzio e luce. ***


Furono giorni di incredibile silenzio: niente, all'interno del Bosco, sembrava muoversi. Le foglie respiravano piano, le radici scavavano sotto terra con premura, temendo di far troppo rumore, e persino la pioggia, che era caduta abbondante e ininterrottamente per due giorni, pareva voler sollevare il minimo suono, cadendo in silenzio, temendo di essere scorta. Bagnava le foglie, bagnava i prati, bagnava i capelli e le armature dei miei pochi soldati rimasti in vita, ma senza prepotenza, quasi fosse stata a riposo. Il vento spirava come un sussurro, sottovoce: “Il Male non c'è più, il Male se n'è andato”.

Ma non ci credevo.

Avevo visto troppe volte crescere e cadere, e crescere nuovamente, la mano malata di Melkor, nelle sue varie forme, per poter assaporare a pieno quel momento, festeggiato da tutti, da tutta la Terra di Mezzo, come la nascita di una nuova Era, un'Era di pace.

Nel Regno era cominciata la ricostruzione. Numerose le nostre vittime, il cui numero superava di gran lunga quello dei vincitori, dei soldati tornati al sicuro, all'interno delle mura. Cominciavo a domandarmi se mai sarei riuscito ad abbatterle, quelle mura, ma il mio cuore non era ancora pronto, probabilmente. Avevano difeso la mia gente così a lungo, che sarebbe stato estremamente difficile separarmene, separarmi dalla malsana, folle idea che il Male potesse aver avuto bisogno ancora di qualche tempo per eclissarsi davvero. Non credevo nel miracolo, come del resto mi era sempre stato rimproverato da mio figlio.

Le mura avrebbero retto, ancora per qualche tempo. Nell'oscurità, avremmo atteso il momento in cui le avremmo finalmente potute abbattere e riportare la fortezza che era la nostra casa al suo antico splendore.

Ricordo vividamente il momento in cui uscii, una mattina in cui il sole davvero splendeva, libero, e non percepii la fitta al cuore alla quale mi ero abituato da troppo tempo: tutto taceva, e taceva in un silenzio sacro, pulito, come un animale che si stesse leccando le ferite, al sicuro nella propria tana. Vidi una volpe: lei ricambiò il mio sguardo, e corse via. Un branco di cervi, giovani come fili d'erba, passarono silenziosamente nei paraggi. Passeggiai tra gli alberi, tra i miei protetti, secolari sentinelle di un mondo che forse finalmente stava guarendo. Gli occhi chiusi e i palmi rivolti l'alto, assaporai quel momento, quel loro silenzio così forte. Il cambiamento stava pian piano crescendo, salendo dalla terra fino alle foglie degli alberi, che erano tornati a respirare. Grossi cumuli di ragnatele cadevano al suolo, una pioggia ovattata che pareva cotone filato, e in rami si alzavano nuovamente verso il cielo, stanchi, ma forti, si sgranchivano come un gatto al sole. La luce filtrava nuovamente tra le foglie, ne sentivo il calore sulla pelle.

Graziosi festeggiamenti avevano preso vita nelle ali del mio palazzo, facendo vibrare l'aria di canti e balli. La felicità che si respirava era la stessa che si percepiva tra gli alberi: sospettosa, ma vibrante, eccitata, ma ferita.

Il mio popolo stava rialzando la testa, come mai prima d'ora. Avevamo davvero qualcosa da festeggiare, dopo tutto, e ne detti loro merito: giorni e giorni di festeggiamenti ininterrotti, come solo dopo una guerra si sarebbe potuto fare.

Eppure, le stanze erano silenziose. I corridoi non emettano alcun suono, nessun passo leggero si muoveva delicatamente al loro interno, nessuna porta sbattuta, niente. Era percepibile una forte assenza. Vagavo solo tra i miei corridoi.

Fu mentre camminavo, mani dietro la schiena, lungo uno di quei cunicoli in pietra che tanto amavo, che accadde. Mi ero lasciato alle spalle la festa, stanco. Camminavo, assorto, ripercorrendo con la mente quanto eseguito correttamente quel giorno, quanto lavoro di ricostruzione e quanto di ordinaria sopravvivenza fosse stato correttamente portato a termine, e mi reputavo abbastanza soddisfatto. Non mi ero mai mostrato debole, non mi ero mai mostrato demoralizzato o scoraggiato, solo molto pensieroso, dalla mia gente, ed ero stanco. Accadde in quel momento.

“Mio signore.”

Mi voltai, sovrappensiero. Sapevo che prima o poi sarebbe successo, ma in qualche modo riuscì a prendermi in contropiede.

Lo guardai, e gli feci cenno di parlare.

“Sono venuto a scusarmi, mio signore.”

Seguì una breve pausa.

“Per che cosa, Galion?”

La domanda lo spiazzò. Tentennò un attimo.

“Sappiamo molto bene entrambi per cosa, mio signore. Si tratta di un evento passato, ormai, ma sono venuto finalmente a scusarmi. Non era mai accaduto prima, e mai più è accaduto. Sono costernato per quanto accaduto, e ho passato gli ultimi anni a dimostrarglielo, sire.”

Non risposi. Erano davvero passati anni, da quando Galion aveva messo in atto il suo scandaloso tradimento – scandaloso tanto per l'esito quanto per la dinamica – e ormai avevo preso per certa la sua mancanza di pentimento. Era sempre stato un ottimo maggiordomo – quella parola era ridicola, ma a lui pareva piacere molto – e il suo gesto di sconsideratezza aveva portato a galla un intero nugolo di azioni compiute alle mie spalle. Non eravamo così uniti come sembravamo essere stati, e certe situazioni mi avevano aiutato a tenere gli occhi ancora più aperti di quanto non avessi mai fatto prima. Ero famoso per la mia poca fiducia verso il mondo esterno, ma scoprire che avrei dovuto guardarmi anche da quello interno era stato comunque un pensiero doloroso. Ma, in quanto re, avevo abbastanza potere da poter superare la questione, e nessuno ne aveva più parlato. Fino a quel momento.

“Scuse accettate, Galion”, dissi, freddamente. “Adesso puoi recarti nuovamente alle tue mansioni.”

Galion fece un piccolo cenno del capo, apparentemente deluso, e, girando sui tacchi, tornò da dove era venuto.

Ero a metà tra l'imbarazzato e il vivace desiderio di sguinzagliargli contro una flotta armata, perciò respirai a fondo e imboccai le scale che portavano alla terrazza superiore, dalla quale si dominava gran parte della foresta, postazione di difesa per le guardie.

Indipendentemente dagli umori che regnavano a ondate tra la mia corte, il mio regno stava davvero rimettendo i tasselli a posto.

Una brezza lieve spirava nella mia direzione.

Ero certo che si trattasse di un nuovo principio di tempesta, ma per il momento il cielo era abbastanza sereno. La via silvana era illuminata pienamente persino dalla luce di quel sole fioco, cosa che non si vedeva da secoli. L'aria era carica di rinascita, come un brontolio, un leggero terremoto che si poteva percepire sotto i piedi, dentro la terra, persino dentro la roccia delle pareti della fortezza.

Una presenza leggera si unì a me, nella mia contemplazione, restando però a distanza.

“Vieni avanti, Arian. Che fai lì impalata?”
Arian non rispose, e mi si fece vicino, alla balaustra. Inspirò a pieni polmoni, e sorrise.

Non desiderai altro se non la pace di quel momento. La tranquillità e la serenità. Un silenzio eloquente, e calmo.

Prese a piovere. Le detti il mio mantello, non voleva rientrare.

“Aspetti, re Thranduil? E cosa aspetti?”

La domanda era scontata, ma le risposi lo stesso con quanta più serenità riuscissi a dimostrare.

“Attendo di vedere nuovamente crescere l'erba laggiù, dove vedi che il fuoco ha divorato, con le sue fiamme, un'intera ala di foresta. Solo allora la pace sarà davvero tornata a Eryn Lasgalen.”

“Non deve essere facile, essere re”, scherzò poi lei, dopo una pausa. “Come puoi startene così calmo? Personalmente, soffro di più nell'attesa che non nel danno. Il danno, il male, si può affrontare, l'attesa... è sospensione. E' vuoto, un vuoto pieno di ansie.”

“Essere re è l'unica cosa che so davvero fare, in realtà.”
“Sempre modesti, ai piani alti.”
“Non sarei re, altrimenti.”

Rise.

Ma, anche lei, teneva gli occhi sulla strada davanti a noi. Silenziosa e vuota.

La musica della festa arrivava fino alle nostre orecchie. Sorridendo, le cinsi i fianchi con un braccio, e con l'altro la invitai a ballare. Le presi la mano e accennai un passo. Lei sgranò gli occhi, ma mi seguì in quella sciocchezza, e sorrise, sorrise così meravigliosamente che il tempo parve fermarsi, e, per un attimo, tutto sembrò scivolare via, come gocce d'acqua alla luce del sole.


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Capitolo 15
*** Finalmente a casa ***


Buonasera!

Nuovo capitolo. ;) Ho cercato di renderlo al meglio, spero davvero che vi piaccia e non vi invogli troppo a dar fuoco all'intera stratosfera.
A parlare - meglio specificare, trattandosi di un OC - è Arian, personaggio da me creato e inserito in qualche capitolo, della corte di Thranduil, confidente del re e tutrice di Legolas sin dall'infanzia. Credo il suo punto di vista fosse utile per osservare lo scorrere degli eventi anche da un altro occhio, quasi del tutto nuovo e, finalmente, anche femminile!

Specifico questo: so che, nelle appendici del 'Signore degli Anelli', si dice che Legolas sia rimasto a Minas Tirith fino alla morte di Aragorn, per poi partire con Gimli in viaggio per la Terra di Mezzo, ma, secondo me, a casa è anche tornato. Per breve tempo, sicuramente, ma... sentivo il bisogno di immaginare una scena del genere. Perdonatemi.

Fatemi sapere cosa ne pensate, insulti inclusi (ma spero di no).

Un abbraccio,

Maiwe



Per settimane, regnò il silenzio. Un silenzio fatto di radici che tornavano a crescere, di foglie al vento, bagnate da una pioggia quasi sacra, che scrosciava in gocce grandi quanto una gemma. Un silenzio fatto di parole, canti e feste. Un silenzio fatto di infinito cordoglio in onore di tutti coloro che non avrebbero potuto mai più festeggiare.

Un silenzio fatto, per la prima volta in un'infinità di tempo, da contatti col mondo esterno.

Un silenzio fatto di luce.

Ricordo perfettamente quando uscii dal cancello esterno, quando uscii dalle mura. Avevo rimirato la luce del sole dalle finestre, impaurita ad uscire, protetta dal baluardo che il nostro re ci aveva costruito attorno, come un guscio, una conchiglia fatta di pietre solide, e buie.

Ricordo il suono delle risate, con una nuova eco nell'aria.

Non ero una guardia, e stavo uscendo alla luce del sole.

Non che vi fossi stata obbligata, certo, ero rimasta volontariamente all'interno della fortezza. Avevo paura, devo ammetterlo. Il mondo era diventato talmente grande e oscuro che tutto il mio popolo aveva preferito rintanarsi, o addirittura lasciare le sponde della Terra di mezzo. Partire.

Non avevamo più luce, e non solo perché avevamo chiuso i cancelli al resto del mondo.

Il fatto che proprio il nostro principe, il giovane figlio del re, si trovasse, invece, fuori, nel mondo che tutti avevamo imparato ad evitare o combattere, e che soltanto adesso stavamo imparando ad abbracciare di nuovo, era un dolore e una speranza insieme, per tutti noi.

Eravamo infinitamente orgogliosi di lui. Era ormai adulto, che ci piacesse o no, e anche da tempo, e l'avevamo lasciato andare, così, come aveva sempre desiderato.

Rappresentate del Popolo Elfico nella Compagnia dell'Anello, ci avevano detto da Imladris.

Potevamo solo star fermi, e aspettare.

Proprio come in quel momento.

L'antica via silvana era vuota, deserta, ormai da settimane.

Legolas non tornava.

Suo padre, come sempre, non dava cenni di cedimento – ad occhi esterni. Mi era addirittura capitato di vederlo scoraggiato, una volta, temendo, da padre, di averlo mandato alla morte.

Scacciai quel pensiero. Io stessa non ne parlavo con Thranduil, sapevo la profonda pena che certamente albergava nel suo cuore.

Ma il re del Reame Boscoso andava avanti, come sempre; e, come sempre, teneva la testa alta, seppure con lo sguardo ancorato al passato.

Le sue ferite di battaglia stavano guarendo. Ricordo l'enorme spavento che provai quando tornò, seppure vincitore, dall'ultima battaglia. Mi si presentò con il volto tumefatto, e temetti avesse perso l'occhio sinistro. Mi prese un colpo al cuore.

Credo che per molto tempo non abbia visto bene, da quell'occhio. Ma non l'ha mai ammesso.

Ricordo che, con un panno freddo, gli pulii la ferita, in silenzio, lui che mi guardava, e io che cercavo di fare del mio meglio per aiutarlo, come sempre avevo fatto.

E da allora, a parte qualche sporadica chiacchierata, il silenzio aveva continuato a regnare.

Ricordo che trassi un profondo sospiro, andando ad affacciarmi alla grande terrazza principale, dalla quale si dominava l'antica via silvana.

Ricordo che sentivo il cuore tamburellarmi nel petto, e che, nonostante avessi anche io i miei anni e avessi già vissuto a lungo, quel momento mi pareva interminabile.

Niente si muoveva. Solo le nuvole sopra di noi, cicliche, continue, limpide.

Thranduil si affacciò alla terrazza, fece qualche passo deciso in avanti e si fermò al parapetto. Non lo vedevo da un po', indaffarato com'era, e, dopo un rapido cenno, mi spostai dalla mia posizione e lo lasciai passare.

Erano passati mesi dalla fine della guerra.

E fu meraviglioso osservare un padre, statuario e fiero, osservare il proprio figlio tornare a casa, percorrere tutta la via elfica diventando sempre più visibile, in spalla un grande arco e un enorme scudo a ingigantirne ancora di più la silhouette robusta.

Legolas camminava con passo fiero, adulto, e sorrideva. Thranduil lo vedeva, e sul suo volto si spalancò un enorme, immenso sorriso, felice come non l'avevo mai visto.

Fu meraviglioso, e finalmente potevo anch'io, nel mio piccolo, credere che davvero la guerra fosse finita e sentirmi finalmente a casa.

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Capitolo 16
*** Radici e foglie al vento ***


Ciao! 


Eccomi finalmente qua con un nuovo capitolo. Come sempre, spero vi piaccia. Devo dire che mi è risultato un po' ostico stenderlo, avevo continuamente paura di star andando OOC, soprattutto nel caso di Thranduil, che tutti vedono come una sorta di iceberg insensibile, freddo e calcolatore. Può darsi che sì, io stia davvero andando un po' OOC, ma spero si legga la differenza tra ciò che questo personaggio sta facendo trasparire, ossia un'immagine rigida e chiusa, quasi oscura, e ciò che invece ha dentro e non esterna, perché né il suo ruolo né tantomeno il suo carattere glielo consentono. 

Spero davvero, comunque, non vi faccia venir voglia di spararvi un colpo, ma anzi, vi faccia amare questo personaggio quanto lo amo io.

Vi abbraccio tutti forte, e vi ringrazio per l'affetto che mi dimostrate sempre!

Maiwe





______________________________









Legolas entrò nella stanza e mi trovò di spalle.

“Ti devo parlare.”

Non sussultai, non reagii troppo vistosamente, in fondo lo sapevo. L'avevo intuito.

“Ti ascolto.”
Mi voltai. Feci un passo avanti, e mi sedetti al grande tavolo delle conferenze, una sala così grande che improvvisamente mi parve stringermisi intorno.

Calò il silenzio, e nessuno dei due parlò per qualche minuto.

“Stai bene?” Mi chiese improvvisamente, un filo di voce, preoccupato.

“Sì, certamente. Ma allontanati dalla finestra.” Non sapevo come chiedergli di spostarsi un po' più sulla destra, di modo che potessi vederlo meglio.

Lui parve non voler far caso alla mia richiesta – la eseguì, ma non certo con lo spirito di un tempo. Il passo che mosse in avanti fu lento e sicuro, calibrato. Un passo silenzioso, importante. Un passo maturo.

“Ho deciso di partire.”
“Per quale motivo?”... Eppure, riuscì a prendermi alla sprovvista. Sapevo che me lo avrebbe chiesto. Ma, per certi versi, reagii come se non fossi stato pronto.

“Non c'è un perché.”
“Un perché c'è sempre”, risposi con voce grave.

Mi guardò dritto negli occhi, e fu una pugnalata.

Prese qualche istante, poi parlò con voce ferma e pacata.

“Voglio andarmene.”

“Se è ciò che desideri...”

“Lo è.”

“E dove pensi di andare?”

“Vorrei poter visitare quegli angoli di mondo che ancora mi mancano da vedere. Li visiterò con Gimli, figlio di Glòin, mio fedele amico. Dopo l'incoronazione di Aragorn, abbiamo concordato che gireremo insieme, a lungo. Voglio vedere il mare, padre. Non l'ho mai visto.”

Mi alzai e mi diressi verso la brocca d'acqua appoggiata su un mobile alle mie spalle, con passo lento, e per poco non infilai un piede in una sedia del grande tavolo, spiccando un piccolo balzo, incerto. Mi ricomposi, e proseguii.



Mi sentivo un verme a chiedere a mio padre di andarmene. Proprio adesso che ero appena tornato, e lo avevo trovato in quello stato.

Era inutile che facesse finta di niente, come suo solito, lo vedevo bene: aveva perso l'occhio sinistro. Poteva ingannare gli altri, ma non poteva ingannare me.

Inciampava, non camminava più sicuro come un tempo.

Ma andai avanti con la mia richiesta.

Dopo aver girato mezzo mondo, tornare alle vecchie, chiuse, murate abitudini era, per me, per quello che ero diventato, un vero tradimento. Sentivo il bisogno di continuare a vivere, là fuori.

Dovevo farlo.

Per me stesso.



“Abbiamo aperto le porte, ormai. Non siamo – non siete, più costretti a vivere all'interno di queste mura.”

Per qualche strano motivo, pensai che avesse visto troppo, in battaglia. Troppo. Quel troppo che avevo cercato di impedirgli di vedere, con tutti i mezzi. Con mura alte, con baluardi, vedette e oscurità. Lo intuivo dalle sue parole, dalle sue espressioni, dai suoi gesti. Probabilmente, in battaglia era addirittura stato ferito, ferito in modo grave, probabilmente a un braccio, e stava cercando di non farmene accorgere.

Mio figlio era cambiato, e non lo vidi cambiato in meglio.

Era cresciuto allontanandosi sempre di più da ciò che era un tempo: non dico che avrebbe dovuto ricordare in eterno che l'avevo salvato da morte certa nascondendolo nel mio mantello in un albero cavo; ma il modo in cui cercava risposte, lontano da me, lontano da casa sua, era sbagliato. Cosa avrebbe trovato, là fuori?

Era ora che si fermasse a casa, e pensasse infine al futuro. Aveva finalmente l'opportunità di farlo.

Ebbi un brivido a pensare che potesse davvero essersi ritrovato l'anima lacerata dall'orrore del mondo, così come l'avevo io da che avevo memoria. E mi veniva a chiedere di tornare in quel mondo?




“Padre”, provai a dire, con dolore. “So che mi vuoi qui. Ma non c'è posto, per me, qui. Non adesso. Un giorno, forse, quando sarò tornato, mi fermerò per sempre. Ma non è questo il momento. Ho visto così tanto...” Sorrisi.
“Hai visto troppo.” Mi lanciò un'occhiata tale che mi paralizzò. “Cosa credi, che abbia aspettato tutti questi anni, nel buio, perché tu poi te ne potessi andare? Sei figlio di re, e questo ti graverà sulla spalle per tutta la vita. Devi accettarlo. E' ora che ti curi del tuo popolo, così come ho sempre fatto io.”

Mi voltò le spalle.

“Tu hai paura”, dissi, a bassa voce, “che io dimentichi.”

“Tu hai già dimenticato. Tu non sai, non vuoi sapere. Tu non ricordi ciò che ricordo io. Io ho visto mia moglie, tua madre, morirti a un passo, tra le mie braccia. E tu mi chiedi di andartene. Tu mi chiedi di andare a vedere il mare.

Dove voleva arrivare, con quel discorso?

“Legolas”, cercò di calmarsi, trattenendosi, e riflettendo, dosando le parole, “hai ragione. Va' pure dove vuoi. Ma ricordati questo: non potrai fuggire in eterno dai tuoi doveri. Io ne so qualcosa. Non fare l'errore che io ho commesso.”

Sapevo cosa significava: era tempo che io, per il mio popolo, tornassi ad essere il principe.

“Sei sinonimo di eterna giovinezza, tra la tue gente, sei lo spirito libero, l'audacia, la scoperta, l'emozione. Sei la bellezza, e sei la bontà, la leggerezza. Sei la speranza. Ma cerca di non essere un'eterna foglia al vento, figlio mio. Le radici, nella vita, sono tutto ciò che abbiamo.”

“Lo so. E' questo il motivo della mia richiesta. Ho bisogno di trovarle, le mie radici. Per troppo tempo ho avuto rimpianti. Non sono ancora pronto, padre.”

“Non sei pronto per cosa?”

“Per essere re. Per essere te.”

Arian entrò, leggera, nella grande stanza. La porta, alta e pesante, cigolò prepotentemente, e lei parve scomparire, dietro quel cigolio. Si fece piccola-piccola e poi parlò. Chiese direttive su qualche procedura di non ricordo neanche cosa, ma la sua presenza fu una ventata di aria fresca, balsamo.

Sopratutto per mio padre, che la guardava, una squillante luce negli occhi, tenuta nascosta sotto spessi strati di negazione.

“Forse anche tu dovresti ricordarti delle radici, padre. Sono tutto ciò che abbiamo.”

Gli posai una mano sulla spalla e uscii dalla stanza.



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Capitolo 17
*** Una mattina di prima estate ***


Il tempo si era fermato.

Palpitava, il tempo, pulsava nelle mie tempie, sotto le mie palpebre chiuse, e in tutto il mio corpo; ogni muscolo era teso, lo sentivo, sorpreso, sopraffatto, tremante.

Il mare, intorno a noi e alle nostre spalle, lasciava vibrare solamente qualche nota, a tratti, proprio come un'onda. Ne percepivo i rumori tra un respiro e l'altro, completamente avvolto.

Il tempo aveva iniziato a fermarsi non appena avevo lasciato casa mia, la mia gente. Il tempo si era dilatato, ed era un tempo che profumava di una libertà mai provata prima: via, lontano, viaggiare, e nei tempi di pace ancora tutti da scoprire era una sensazione inedita.

Avevo attraversato Rohan e la grande foresta di Barbalbero, Fangorn, con Gimli. Avevamo viaggiato per mezzo mondo conosciuto, io e lui, due fratelli. Semplicemente fratelli. Oltre l'amicizia, oltre rancori che non ci appartenevano e che avevamo capito non esserci mai appartenuti, rancori figli di un'epoca buia. Un amico leale, Gimli, come lo era Aragorn.

Avevamo soggiornato anche a Gondor, per lungo tempo, ospiti del re, suoi bracci destri, legati in eterno da amicizia profonda. E l'amicizia che mi legava a quelle due creature così diverse, con le quali avevo affrontato vita e morte, era diventata, se possibile, ancora più salda, un voto: non avremmo lasciato Gondor finché il suo re fosse stato in vita.

Fu con dolore, e perdita, quindi, che una mattina di prima estate, una mattina colorata di rosso da un sole che si andava levando pigro, io e Gimli salpammo dai Porti Grigi, lasciando la Terra di Mezzo.

Avevo costruito con le mie mani una barca. L'avevo ricavata da un piccolo albero che avevo conosciuto là, ai Porti Grigi, un albero che stava lentamente avviandosi alla morte. Una piccola quercia molto simile a quelle che erano solite crescere a Eryn Galen, non molto differente da esse. Ritenni che quel legno sarebbe stato perfetto per il mio addio a quell'immensa parte di mondo.

Iniziai a lavorarlo quando, ormai, riconobbi sul volto di Elessar i primi segni di una resa: stava scegliendo il momento adatto per morire, il re di Gondor, e io scavavo, pulivo e lavoravo, raffinavo, quel legno grigio tanto bello e nodoso. La morte era una sensazione di freddo, di gelo, in fondo al mio cuore, e mi sentivo stanco. La mia sete di scoperta e di vita non si sarebbe esaurita lì.

Salpammo dai Porti Grigi una mattina di prima estate, dunque, e l'aria era fredda. Lasciavamo su quella banchina di pietra, e lo sapevamo, un'Era intera. Cambiamenti e conquiste, ormai ricordi.

Ricordo la lettera che giunse dal di là del Mare: Dama Galadriel concedeva a Gimli il Nano di raggiungere Valinor. Era destino che, ovunque andassimo, io e quel mio imprevisto amico – eravamo davvero una strana visione, agli occhi di molti – portassimo il cambiamento.

Ricordo lo sguardo di mio padre, e il dolore che difficilmente riuscivo ad ammettere nel separarmi da lui. Ricordo i nostri occhi incrociarsi a malapena, nel momento dell'addio. Un addio formale, di un re esperto e con la vocazione per essere una vera guida per il suo popolo a un eterno principe, che non aveva una corona con sé, perché non gli spettava. I secondogeniti hanno uno strano destino, di eterna sudditanza, di non appartenenza alle linee gerarchiche; non era mia quella corona che mio padre voleva indossassi.

Quando ci salutammo, quando lasciai casa, pensando “questa volta è per sempre”, mi disse solamente “Fai attenzione”. Mi sarebbe mancata la sua posatezza, e la sua severità. I suoi silenzi che raccontavano sempre tutto come un libro aperto.

Un libro. Fu proprio un libro l'unico regalo di Arian, un libro che ero solito amare, da giovane. Lo presi dalle sue mani e la abbracciai forte, sicura che si sarebbe presa cura di mio padre e della mia casa come sempre aveva fatto. C'era un foglio, all'interno del libro, una pagina strappata da un'altra storia: non so quale libro fosse, ma riguardava una piazza, una piazza di un paese, affollata a festa.

Capii la referenza solamente quando ormai mi trovavo in alto mare, lontano.

Tutto mi tornava alla mente, in quel momento. Tutto quanto mi ero lasciato alle spalle, dolorosamente ma con decisione. Persino la mano salda di Gimli che afferrava, fiduciosa, la mia, quando si decise finalmente a salire a bordo. Persino il suo comico mal di mare che era durato tutta la traversata e si era intensificato con l'avvistamento di grossi nuvoloni neri sopra la nostra testa.

La testa mi vorticava, e non riuscivo a smettere di godermi l'attimo, non avendone mai abbastanza, abbracciando quella veste blu con delicatezza, un lungo abito blu intenso, intenso come i capelli di lei, scuri come la notte, voluminosi, in cui affondare le mani.

Respirai a fondo, serrando improvvisamente le labbra. La guardai negli occhi e mi resi conto di essermi completamente, profondamente e irrimediabilmente innamorato di lei, di quella donna che tenevo tra le braccia e che mi sorrideva con gli occhi lucidi e le guance rosse.




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