Atto
IV
Scena
I
Lui è giovane è
pieno di rabbia. Una rabbia antica che ha imparato a controllare e
nutrire, nell'ingenua convinzione che ciò basti ad imbrigliarla. Lui
è uno sparviero nelle vesti di un pettirosso. Deve imparare ad usare
quella rabbia, deve scavare una ferita nel pettirosso per far
dispiegare le ali allo sparviero.
Tu non dici queste
cose, le pensi e basta. Perché tu credi che lui non capirebbe.
Questo mondo che si vanta della sua immensa cultura, reclusa tra le
mura delle biblioteche e dei musei, questo mondo che ha bisogno di
dare premi agli uomini di nobili parole, non è fatto per le metafore,
ahimè, è fatto per le azioni. E voi ne siete la dimostrazione vivente.
Dunque non glielo
dici. Gli porgi una mano per aiutarlo a rialzarsi. L'hai battuto, hai
dimostrato un punto, non è necessario infierire. Ma lui è giovane,
lo abbiamo detto, ed è orgoglioso. Ti guarda, accigliato e
diffidente, scuro in volto come il cielo che minaccia il temporale.
–
Hai appena
dimostrato che avevo ragione. – ti dice alzandosi da solo,
scuotendo la polvere dai vestiti per non guardarti in faccia –
Non posso rinunciare alle armi. Sono troppo debole. –
Incroci
le braccia al petto: – Se la tua forza di volontà fosse pari alla
sua autocommiserazione, non avresti questi problemi. –
Sei
deluso, dal suo rifiuto e dal suo piangersi addosso, e non lo
nascondi. Lui stringe i pugni, ti volta le spalle, si allontana. E
poi ci ripensa.
–
Anche Batman
combatteva con le armi! – dice voltandosi e affrontandoti con aria
insolente.
È
nel torto e non gli piace.
– E
l'ho sconfitto. – rispondi.
È
nel torto e non può più arrampicarsi sugli specchi. Batte così in
ritirata, scornato come se tu l'avessi offeso. Forse è vero: hai
ferito il suo orgoglio, pure di proposito. Non è stato sadismo, a te
non è piaciuto. Speravi – ancora speri – che dalla
ferita sgorghi qualcosa di più che questo infantile astio.
–
Le armi e i trucchi
prima o poi finiscono, Robin. – gli dici mentre si allontana
– La sola arma senza limiti è il proprio corpo. Devi
imparare a sfruttarla. –
–
Perfetto! –
grida senza fermarsi – Devo solo trovare un corso serale per
apprendisti supereroi! –
Sorridi
appena. È solo il principio. Lui è giovane e deve trovare la sua
strada. Ma tu sei qui e la tua strada hai già compreso quale sarà.
Devi solo aspettare che lui arrivi alle tue stesse conclusioni.
~
Scena
II
Ogni
uomo porta delle maschere, nello sciocco sforzo di celarvi dietro le
proprie debolezze. Nessuno sa che una maschera altro non fa che
portarle sul palco queste debolezze, mostrare al mondo cosa ci
s'illude di nascondere.
Esattamente
come la tua maschera racconta a John come tu sia vulnerabile senza di
essa, le maschere di John raccontano a te tante cose di lui.
“Mi
incuriosisci”, dicono. “Ho paura di te”, dicono. E non ultimo,
per usare il suo slang: “Mi fai uscire matto”.
È
sicuro che quando è tornato da te, con l'orgoglio messo da parte e
una richiesta smozzicata, non si aspettava queste conseguenze.
–
Sei ore di
allenamento? Ogni giorno?! Bane, io devo lavorare. Ho dei
turni da rispettare e... –
–
Devi rivedere le tue
priorità. – lo ammonisci.
Lui
ride stupito: – La mia priorità è sopravvivere. Nel caso
non lo sapessi, l'affitto scade ogni mese e devo pure mangiare.
E anche tu devi mangiare, sai? –
Ah,
beata ingenuità.
–
Credi davvero che se
non mi rifornissi di cibo, io non sopravviverei? –
John
diventa paonazzo e stringe la mascella.
–
Cosa dovrei fare?
Licenziarmi? –
Non
sa che potrebbe anche farlo. Se la sua preoccupazione è
l'autosostentamento, tu hai ancora accesso a fondi segreti che sono
in grado di mantenere entrambi per decenni. Ma non è questo il
punto.
–
Devi trovare un
equilibrio. –
Il
suo sguardo, come gran parte delle volte che parla con te, è
confuso.
–
Non inizieremo alcun
allenamento fino ad allora. – concludi irremovibile.
Per
qualche giorno, John non ti parla e si fa vedere poco. E a te sta
bene. Tu non soffri la solitudine o il silenzio, che reputi invece
delle benedizioni. La Batcave è una piccola oasi immersa nella
cacofonia del mondo occidentale. Per certi versi, ti ricorda il
monastero della Setta delle Ombre. Il solo luogo al mondo che per te
è stato una casa.
Come
prima, ti occupi delle piccole incombenze che servono a mantenerla
funzionante e lentamente inizi a conoscerla. Quando non hai nulla da
fare, ti alleni o leggi. E quando il tempo ancora sembra non finire e
le ore si srotolano lente tra un giorno e l'altro, usi il passaggio
segreto per entrare nel maniero ed esplori le sue grandi stanze.
Cosa
mai se ne faceva Bruce Wayne di tutto quello spazio? Il fasto, la
ridondanza di quegli ambienti, ti avrebbero fatto stare male, una
volta. Ra's Al Ghul predicava di vivere semplicemente, rigettare la
vita agiata che la ricchezza materiale dona, in favore di una vita
spirituale e votata al miglioramento della condizione umana, che solo
la ricchezza interiore può dare. Una filosofia di vita che senza
fatica hai abbracciato, in tutti i suoi aspetti, anche quelli più
radicali.
Non
ti sei mai fermato a chiederti se vi fossero sfumature nel mezzo. La
speranza di redenzione e giustizia che ti dava Ra's Al Ghul e che in seguito
di avrebbe dato Talia, era un motore potente, che annullava ogni
tentativo di far emergere le tue idee, il tuo senso della vita. Te
stesso. Ora come allora, sei perso. Ora come allora, ti serve un
motivo, un obbiettivo, per poter dare un significato alla tua
esistenza. Tu sei nato per servire.
Osservi
senza toccarle le foto, scolorite dal tempo e ingrigite da un velo di
polvere, che ritraggono un Bruce Wayne bambino assieme ai suoi
defunti genitori. Lui era nato per essere servito, ma come te ha
finito col sentire di dover servire.
È
così che John ti sorprende, uno sguardo sospetto sul suo volto. Puoi
percepire una sorta di disprezzo: non ti considera degno di
introdurti nella vita di Bruce Wayne, il suo mentore, il suo modello. Colui che a causa tua ha dovuto sacrificare la propria vita per
salvare la loro preziosa città.
Non
gliene vuoi per questo. Lo capisci, anzi. Sarebbe come portare John
nel monastero e guardarlo muoversi tra le sue sacre pareti con la banale
curiosità di un turista, calpestare il suolo toccato da Ra's Al Ghul
e da Talia senza avvedersene nemmeno. Non lo sopporteresti.
– Mi
hanno concesso di coprire solo i turni del pranzo. –
ti annuncia poco dopo, mentre scendete nella Batcave.
– Lavorerò
anche il weekend, ma se non altro avrò sempre la sera libera. –
aggiunge – Per gli
allenamenti e le ronde. –
Siete
ora nella palestra. John si toglie la felpa e la getta in un angolo.
–
Vogliamo cominciare?
–
E
a te piace la sua aria di sfida, la sua impazienza –
ti piace anche troppo. Non puoi
permetterti di essere fiero di lui ancor prima di dare inizio al
progetto che hai in mente, prima di sapere se ne sarete in grado o se
fallirete miseramente.
È
per questo che lo attacchi. Senza preamboli, senza clemenza. Dosando
la tua forza il tanto giusto affinché l'unico danno sia il dolore.
Tre
ore dopo, John si rialza una volta ancora da terra. Sono molte tre
ore come inizio, lo sarebbero anche per un membro della Setta. Ma
John ingoia il sangue, si asciuga il sudore e si rimette in piedi.
Ancora e ancora. Ogni volta.
Ammiri
il suo spirito, la sua resistenza. Ma per raggiungere lo scopo è
necessario innanzitutto trovare i propri limiti e sottomettersi ad
essi con umiltà.
–
Non mi stai
allenando. – John sputa un grumo di saliva sanguinolenta e
respira una boccata d'aria – Mi stai solo testando. –
–
Ci sei arrivato. –
La
tua risposta sembra irritarlo ulteriormente. È un ragazzo facilmente
irritabile, John. Dovrai lavorare anche su questo aspetto. La
pazienza è una virtù estremamente sottovalutata.
–
Devi raggiungere i
tuoi limiti e prenderne atto. Solo in questo modo potrai un giorno
varcarli. –
–
Molto saggio. –
sbuffa lui – E quanto ci vorrà? –
–
Hai degli impegni,
Robin? – lo apostrofi ironicamente.
–
No. –
sbotta – E non chiamarmi Robin, Cristo! –
–
Smetterò di
chiamarti Robin quando tu smetterai di bestemmiare. – lo ammonisci
– E adesso in piedi. –
~
Scena
III
Adattarsi
a quella nuova routine non è difficile per te. La tua vita da molti
anni ruota attorno alla disciplina, al lavoro fisico e contemplativo. È
come tornare alle vecchie e sane abitudini. E per quanto sia doloroso
ammetterlo, preferivi di gran lunga la vita ritirata del monastero
che non quella attiva del terrorista.
Quello
tra voi due che più fatica ad abituarsi alla situazione, è John.
Non tanto per il costante sforzo fisico a cui è costretto –
è pur sempre un ex agente di polizia addestrato in una delle
migliori accademie del mondo. No, ciò che ostacola John è
tutt'altro. È l'aspetto più sottile e bizzarro della situazione.
Farsi
allenare da te, naturalmente.
Non
ha fiducia nei tuoi confronti e glielo leggi in volto ogni minuto. È
ancora inciso a fuoco nel suo cuore il ricordo di ciò che hai fatto
alla sua città e niente lo cancellerà – non t'illudi certo
di questo. Ma ha accettato di farsi allenare e non ha calcolato le
conseguenze. Tra maestro e allievo deve esservi fiducia e stima. E il
rispetto che John nutre per le tue capacità non può né potrà mai bastare.
Per
questo John annaspa, cede, fa un passo avanti e poi due indietro,
frustrando sé stesso e infastidendo te, che già lo intravedi lo
sparviero dietro il pettirosso. E inizi a sentirti comodo in quei
nuovi panni.
Sì,
Bane, tu ci stai bene in questo nuovo ruolo. Per quanto ancora ti
chieda che ruolo sia esattamente.
Se
lo chiede anche John. Ma lui non tiene per sé i suoi pensieri. Lui,
da buon occidentale, dà sfogo alla cacofonia che ha interiorizzato e
ti ci coinvolge, tuo malgrado. Non bada alla stanchezza o alla
situazione, e ovviamente non pone mai le domande che davvero lo
assillano. Ci gira intorno, tentenna, riempie i silenzi tra di voi
con domande inopportune.
– Pensi
mai a lei? –
Ecco,
questa ad esempio è una domanda fortemente inopportuna. Fatta quasi
casualmente, durante una pausa dagli allenamenti, mentre sfoglia
pigramente le notizie dell'Ansa sul computer alla ricerca di nuove
prede da cacciare durante la ronda notturna.
– Sì.
–
Sì,
tu ci pensi a lei. Spesso. Non ci hai mai riflettuto veramente, ma è
così.
John
beve un altro sorso dalla bottiglietta d'acqua e torna a guardare la
foto di Talia che campeggia sullo schermo.
– Voi
eravate... amanti? –
Oh,
Robin...
– Esistono
diversi modi per declinare l'amore. La lussuria è solo il più
scontato. –
Non
hai mai finto di essere immune al fascino di Talia. L'amavi? Sì. In
un modo che nemmeno il sesso avrebbe potuto sublimare. Ma come
spiegarlo a John?
Robin
John Blake, nato e cresciuto nella meretrice Gotham, dove anche la
cosa più bella è volta ad oscenità e sfruttata fino a renderla
sterile.
– Ah,
certo. È più originale declinarsi
nella sua personale arma di distruzione di massa. –
Come
spiegarlo a qualcuno che non può né desidera comprendere?
– Se
preferisci pensarla in questo modo, non sarò io a distruggere i tuoi
confortanti stereotipi. –
– Chiamalo
pure stereotipo, ma è la verità. –
John spegne il computer, mette via l'acqua –
So come vanno certe cose. –
È
pronto per tornare ad allenarsi. Per lui, quella non era che una
delle tante discussioni di cui si serve di tanto in tanto per colmare
quel vuoto che altrimenti richiederebbe risposte. Sei sempre stato
paziente con lui e continuerai ad esserlo, ma anche tu hai dei
limiti. È bene che impari a riconoscerli e a non superarli.
– Sì,
Robin. Tu sai tante cose. –
gli rispondi freddamente.
Lui
si volta, ti guarda. Capisce.
– E
come tutti coloro che sanno molte cose, quando incontri qualcosa che
non comprendi, non sei capace di accettarlo. –
Deve
passare un giorno prima che John metta da parte l'orgoglio. Se non
altro, sta imparando ad accorciare i tempi, ti dici quando te lo
ritrovi davanti alla cella, a dondolare nervoso sui suoi piedi.
–
Senti, mi dispiace.
–
Blando
tentativo. Può fare di meglio. Giri la pagina del libro che stai
leggendo, ignorandolo.
Lui
sbuffa, tentenna ancora.
–
D'accordo, sono
stato un coglione... e... –
–
Hai la mia
attenzione. – lo interrompi.
Alzi
lo sguardo su di lui. Il libro giace chiuso in grembo, un dito fra le
pagine a tenere il segno.
John
gonfia il petto e dice tutto d'un fiato: – E ti chiedo scusa. –
Sembra
piuttosto imbarazzato. E tu devi trattenere una risata.
–
Scuse accettate. –
annuisci sforzandoti di mantenerti inflessibile.
–
Uh... okay. –
Torni
alla tua lettura, senza aspettarti molto di più.
–
Posso... fare
qualcosa per te? –
Te
lo dice piano, mangiandosi le parole, evitando ostentatamente il tuo
sguardo quando lo alzi con curiosità su di lui.
–
In verità, sì. –
Per
più di un anno la chiave è rimasta al sicuro appesa al tuo collo,
accanto alla croce di legno appartenuta a Padre Alvaro. È piccola e
all'apparenza insignificante, come devono essere tutte le cose
davvero importanti. Come lo è la cosa che custodisce.
La
sganci dalla catenina e la porgi a John.
–
Apre una cassetta di
sicurezza alla stazione centrale di Gotham. Prendi il pacco che vi
troverai e restituisci la chiave. –
John
prende la chiave e se la rigira tra le dita. Guarda lei, guarda te.
–
Non è che fa
partire una testata nucleare o roba simile? –
Tu
batti le ciglia e lo fissi severo. Lui arrossisce, come d'abitudine quando lo guardi così.
–
Va bene... la
smetto. – borbotta impacciato.
Le
sue mani girano a vuoto goffamente, finché non trovano una tasca e
vi infilano la chiave.
–
Ci vado domattina. –
arretra di un passo, andando a sbattere contro un mobile
– Anzi, stasera, eh? Ci vado stasera. –
E
veloce come una volpe si dilegua dal tuo campo visivo.
Ti
lasci andare ad un sospiro.
John
resta un enigma per te. Nella tua vasta cultura, non hai una
conoscenza sufficiente dell'animo umano per comprendere certi
misteri. Le sfumature che caratterizzano le persone ti sono oscure e
contorte, non rispondono ad alcuna legge. Porti dei dubbi a riguardo
non ha mai portato a nulla, né con Talia, né ora con John.
La
fede è sempre stata più semplice ed immediata. Essa dà risposte
confortanti e ti guida nel buio dell'esistenza.
Ma
non regala alcuna domanda. Le persone, sì.
Avresti
potuto salvare Talia? Non parli del suo corpo, ma del suo spirito.
Avresti potuto salvare entrambi? Se non fossi stato sedotto
dall'idea delle vendetta da lei instillata, avreste potuto salvarvi?
John
si accorgerà mai di avere ormai già fiducia in te? Ma sopratutto,
lo accetterà?
La
risposta ti arriva poche ore dopo. Ed è sorprendente.
–
Non l'hai aperto. –
È
la prima cosa che gli dici appena te lo ritrovi davanti, con un
braccio teso a porgerti il pacco e l'aria di chi si aspetta veramente
che esploda da un momento all'altro. È solo una constatazione, ma John
impallidisce.
–
No. – si
affretta a dire, scotendo la testa e muovendo nervoso il polso a
rimarcare il concetto.
Lo
liberi del fardello e lo metti da parte. Lui osserva il pacco e poi
te e poi nuovamente il pacco. Si umetta le labbra.
–
Avrei dovuto? –
chiede con una punta di panico – Non mi hai detto... ho
pensato... –
–
No. –
tronchi lì.
È
una situazione seria, non è opportuno che ti venga da ridere.
Neppure se ritieni l'impaccio di John tremendamente delizioso.
–
Grazie. –
dici lentamente, imponendoti di modulare la voce nel tuo solito tono
asettico.
John
risponde con un borbottio confuso e si accomiata velocemente.
Ma
illudersi che sia finito tutto lì, sarebbe oltremodo sciocco.
La
curiosità uccise il gatto, recita il detto. E catturò un momento
che per te e John sarebbe stato una svolta. Per quanto vi prenderete
parecchio tempo per rendervi conto di questo – siete
piuttosto lenti sotto certi aspetti.
Di
certo non ti spettavi che non avrebbe indagato su quel misterioso
pacco. Ma nemmeno ti aspettavi che l'avrebbe fatto in questa maniera
inopportuna.
Impulsivo,
John. Sciocco, invadente, ingenuo, John.
Ha
il coraggio sfrontato della gioventù, quello che brucia violento e
breve, per poi svanire al primo soffio di timore. Alla presa ferrea
della tua mano attorno al suo polso.
Non
è fragile, John. Sei tu il mostro. Sei tu che potresti frantumargli
le ossa stringendo appena la mano, se solo volessi.
I
suoi occhi ti fissano sbarrati nella penombra della cella e tu sei
acutamente consapevole delle sue pulsazioni accelerate, del suo
respiro spezzato che cozza col silenzio scandito dal sibilo regolare
che proviene dalla tua maschera.
Hai
sviluppato negli anni l'abilità di non tradire emozione anche quando
dentro sei squarciato in due. Ti è sempre stata assai utile. Con i
nemici, per incutere loro timore e dunque castrarli. Con i seguaci,
per donare loro sicurezza e dunque rafforzarli. Con Talia, per
sostenervi a vicenda in quel mondo che vi ha precluso ogni contatto
con le debolezze dei sentimenti.
Ma
ora? Ora che sei morto e non hai più nemici o seguaci, ora che non
hai più Talia con cui condividere quella solitudine del cuore...
ora, a cosa serve?
Ad
impaurire un ragazzo troppo curioso.
La
tua presa si allenta gradualmente, come ad avvisarlo di non
commettere altre impudenze. “Ti perdono” gli dice la tua mano,
“All'alba farò finta di niente”.
C'è
da vedere se anche John sceglierà di fare finta di niente. I gatti,
dopotutto, hanno sette vite.
~
Scena
IV
John
diventa ogni giorno più veloce e sicuro di sé. Somiglia a quello
sparviero che sai occultato dietro il pettirosso.
–
Mi ingiungi di non
chiamarti Robin, ma ancora ti nascondi tra le sue piume. (*) –
lo stuzzichi costantemente.
Le
sue risposte sono prevedibili scatti di rabbia che tu incanali
prontamente nella lotta. Lo guidi, nutri la furia e la indirizzi
verso il suo scopo.
Alla
fine della giornata, John non è il solo ad essere esausto. È un
faticoso compito quello del maestro. In particolare quando si ha a
che fare con un allievo così indisciplinato da scoppiare a ridere
nel bel mezzo di un allenamento.
Lo
lasci andare e ti rialzi: – Hai qualcosa da dirmi, Blake? –
Blake.
Il modo in cui lo chiami quando desideri mantenere le distanze.
–
Un orsetto di
peluche? Bane... – dice ansante, tra una risata e l'altra –
Seriamente? –
Non
vuoi credere che sia vero. Eppure lo è.
John
si rialza e continua in quel monologo umiliante: – Mi hai
dato la chiave con quell'aria tutta misteriosa e mi hai fatto
prendere quel pacco e... –
–
Lo trovi divertente.
– constati con gelida cortesia.
–
Sì! – ti
risponde con la voce ancora aperta dalla risata – Sei un
terrorista, tu... uccidi le persone! E la notte dormi con un orsetto!
Come fai a non vedere l'ironia? –
–
Si chiama Osito. –
E
John scoppia nuovamente a ridere.
–
Gli hai pure dato un
nome?! – ti chiede incredulo.
–
Non io. –
rispondi distaccato – L'uomo che me lo regalò. –
–
Regalo azzeccato per
un terrorista! –
Non
sta ascoltando, non gli interessa. Desidera solo prendersi gioco di
te e continuerà a farlo. John non ha alcuna fiducia o rispetto in te
e sei stato un patetico illuso a crederlo.
–
Per quanto sia
difficile da credere, a due anni ancora non ero ancora entrato nel
giro. –
L'ironia
svanisce in fretta nei modi di John. Ma non altrettanto in fretta
svanisce il dolore che essa ti ha causato. Come possa un
insignificante pettirosso fare tanto del male ad un mostro come te, è
uno di quei misteri che probabilmente non riuscirai mai a sciogliere.
–
È... era uno dei
tuoi giocattoli? – lo senti balbettare.
E
perché mai dovresti rispondergli? Per dargli modo di scavare ancora
in quella parte di te che non vuoi esposta alla sua ironia?
–
Era il mio unico
giocattolo. – ti senti dire, contro ogni buonsenso.
Puoi
vedere il senso di colpa crollargli addosso e schiacciarlo. Puoi
sentirtene parte, come se non lo meritasse.
–
In che razza di
posto sei cresciuto? Persino noi all'orfanotrofio avevamo qualcosa di
meglio. –
Ha
parlato con un filo di voce e qualcosa nell'espressione che non gli
hai mai visto.
–
La gente la chiamava
la Fossa. Invero era un buco nel terreno e ci finiva tutto il
marcio del mondo. –
John
abbassa lo sguardo e fissa accigliato il vuoto, impegnato a
metabolizzare quell'informazione.
–
Ma hai detto...
avevi due anni quando... –
–
Sì. –
La
pietà non la sopporti e quindi guardi altrove, cerchi un modo per
troncare quel dialogo, ignorando quella parte di te che senti
ribellarsi all'idea, aggrappandoti al ricordo di Talia e alla dignità
che ti istilla. Devi avere rispetto di te stesso, se vuoi che a sua
volta John abbia rispetto di te.
–
Cosa può avere di
marcio un bambino? –
È
una domanda talmente ingenua che per un attimo le tue convinzioni
vacillano. Per un attimo vorresti davvero mettere da parte tutto –
Bane, Talia, l'orgoglio, il matestro, l'allievo – e
prendere da parte John e parlargli, far parlare quella parte
di te che tanto tempo ha taciuto. Permettere a lui di
raccontargli ogni cosa.
–
Le sue radici. –
dici, e in quelle tre parole è racchiuso l'accesso a lui.
–
Non capisco... –
–
Ed è una fortuna
per te. – sibili.
Il
contraccolpo di quella chiusura inaspettata lo spaventa. John
ammutolisce e fa un passo indietro, per una volta intimidito a buon
ragione.
Maledizione.
Finirà mai di farti sentire in colpa dopo che lui stesso ti ha
umiliato?
~
Scena
V
Osito
è al sicuro, nascosto dietro il cuscino, quando John entra
timidamente nella tua cella.
–
Non ho bisogno della
tua pietà. –
Lui
sospira impaziente, dondola sui piedi – un modo di fare che
ormai riconosci in lui. Infine prende il coraggio a due mani e si
avvicina, seguito dal tuo sguardo indagatore.
–
Non è pietà, è
solo... un the. –
È
quello che ti porta, in effetti. Posa la tazza sul comodino accanto
alla tua branda e resta lì un attimo, lo sguardo che vaga ovunque
senza mai soffermarsi su di te. Se vuole dei ringraziamenti, non li
avrà.
–
Be', buonanotte. –
ti augura infine.
La
delusione traspare in ogni suo gesto e ti chiedi come sia possibile
che quel ragazzo sia lo stesso che ti ha stordito con una scarica di
teaser, addormentato con un sedativo e tenuto recluso là dentro per
settimane.
–
Buonanotte, Robin. –
Robin.
Il modo in cui lo chiami quando non desideri mantenere le
distanze. E lui ne è ben consapevole: glielo leggi nel sorrisetto
che a stento nasconde mentre se ne va via svelto, lasciandoti al tuo
sonno.
Ma
il sonno sai già che non arriverà questa notte.
Attendi
che le luci del corridoio si spengano, attendi che i rumori che
riecheggiano nella Batcave si affievoliscano. Respiri a fondo una,
due volte nell'aria impregnata di analgesico. E con due dita slacci
le cinghie della maschera, tenendola premuta ancora un momento sulla
faccia. Respiri a fondo un'ultima volta prima di levarla.
L'aria
è fredda e ti colpiscono come al solito gli odori. Anche se ormai
non ti sono più sconosciuti e anzi li saluti come familiari, è
sempre una lieve sorpresa ritrovarli. Il sapone con cui sono state
lavate le lenzuola, l'umidità delle pareti, il tuo stesso odore, il
the che spande il suo profumo caldo, l'odore di John che ancora
aleggia nell'aria ferma della stanza.
Berrai
quel the, più tardi. Forse domani mattina. Ora è troppo caldo per
la tua bocca martoriata. Ma va bene il suo profumo che ti arriva
intenso. Va bene il significato che porta con sé.
Respiri
un paio di boccate, ignorando il dolore, concentrandoti sul suo
odore.
Se
John non ti confondesse con i suoi gesti spontanei – siano
essi di rabbia o di stupidità o di gentilezza – per te sarebbe più
semplice. Se fosse solo il tuo allievo, se questa vostra strana vita
avesse regole, se voi foste al monastero... ma non siete lì, non
avete regole, non è solo il tuo allievo. Non puoi vedere questa
situazione sotto quella comoda luce, non puoi assimilarla a quel
rapporto che tante volte hai visto instaurarsi tra un novizio e il suo
mentore. E dunque non puoi impunemente ripensare al suo sangue che
pulsa rapito e vivo sotto le tue dita, al sudore che gli imperla la
nuca sottile e gli inzuppa la maglietta quando vi allenate, al suo
odore che ancora è sospeso lì e che puoi rubare, alla sua ingenua paura
che ti fa sentire vile, al profilo di un naso fratturato, al taglio
malinconico delle sue labbra.
Non
puoi e non vuoi, ma lo fai. E i tuoi cargo pants ti fanno stretti di
lussuria e il tuo cuore si fa pesante di senso di colpa.
(*)
“Robin” in inglese significa appunto “pettirosso”.
|