La foto

di Cohava
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La foto ***
Capitolo 2: *** Primo contatto ***
Capitolo 3: *** Un supereroe allergico alle sedie ***
Capitolo 4: *** 02.35 a.m. ***



Capitolo 1
*** La foto ***


Ancora quella foto.
Lei con un sorriso innocente sulle labbra, lui alle sue spalle come un angelo nero, un angelo tentatore.
Chi avrebbe potuto indovinarne l’anima, in quello sguardo languido e dolce? Lei non sapeva chi fosse. Non era che un ragazzo bizzarro e bellissimo che l’aveva presa per mano, canticchiandole all’orecchio canzoni sconosciute.
E per lui, la bambina che lei era si celava nelle spoglie della donna sfrontata e accattivante che era l’altra metà di se stessa, la metà quella esterna.
Si sarebbe sentita meglio, pensava, se avesse potuto dare all’immagine un significato simbolico, di corruttori e di vittime?
No.
Meglio conservarla per ciò che era: un ricordo di respiro che sapeva di sigarette, di voce sensuale nel canto e nella parola, di pallide braccia intorno a lei.
  

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Capitolo 2
*** Primo contatto ***


Le serviva una sigaretta.
Era un’urgenza massima.
Una sola sigaretta, e il mondo sarebbe tornato al posto giusto. Il corpo attanagliato dal bisogno di fumare, percorse il marciapiede con lo sguardo, fermandolo su una figura. Ah! Trovato.
Era un ragazzo –un uomo- vestito di nero, con un taglio di capelli stravagante e l’aria di aver evidenziato ad arte quanto c’era di inquietante nella sua persona; una posa che tuttavia gli conferiva un certo fascino. Si appoggiava con un fianco a un orrendo muro scarabocchiato, studiandolo come se non avesse mai visto niente di più interessante in vita sua. E aveva tra le labbra una sigaretta.
Non riusciva a smettere di guardarla. La punta incandescente su cui si formava un grumo di cenere bianca, le sottili volute di fumo che sprigionava, inspira, espira, inspira… Una promessa di sollievo, di liberarsi di un po’ della frustrazione che aveva accumulato.
Il telefono ronzò nella borsa: l’ennesima chiamata di sua madre a cui non avrebbe risposto.
-Vaffanculo- Mormorò, spegnendolo definitivamente. Si diresse verso il tipo in nero.
Quando si voltò verso di lei si accorse che, pose o meno, era bello da togliere il fiato.
Era anche straniero ma, in un misto di inglese e francese, riuscì a fargli capire che voleva una sigaretta. Lui gliel’accese con un sorriso e tornò ad esaminare, con autentico interesse, i rozzi graffiti sul muro.
-Scusa- le chiese in quel bizzarro argot che avevano appena inventato –sai dirmi cosa significa quello?
Era una parolaccia come tante altre, uno sbaffo di spray già un po’ sbiadito.
-Come mai proprio quello?
-Guarda le linee.
Lei guardò
-Chi ha scritto questa cosa era agitato da un’emozione inespressa, qualcosa a cui magari neanche saprebbe dare un nome. Era uno sfogo, e in pochi segni ha intrappolato tutta l’agitazione, tutta la violenza che non poteva e non voleva reprimere.
-Se hai già capito tutto questo… Che bisogno c’è che io traduca?
Lui rise per un istante, agganciandole gli occhi con i suoi.
-Fallo lo stesso.

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Capitolo 3
*** Un supereroe allergico alle sedie ***


-Mi si sta gelando il culo.
D’accordo, avrebbe potuto essere più fine. Però stava davvero scomoda, seduta per terra, la schiena appoggiata al famoso muro e una spalla contro il braccio del tizio.
Lui rise, e si limitò ad accenderle l’ennesima sigaretta; ormai aveva perso il conto di quante ne avevano fumate, anche perché il vento ne aveva sparpagliato i mozziconi lungo il marciapiede.
Inspirò, vagamente seccata e vagamente sollevata dal fatto che non le avesse proposto di sedersi sulle sue gambe per scaldarsi.
Era davvero bello, diavolo. Davvero bello e davvero ancora più grande di quel che aveva pensato all’inizio, lo si intuiva solo guardandolo bene sotto il trucco che gli cerchiava gli occhi. Non un ragazzo, proprio un uomo fatto. E lei avvertiva questa puntura di entusiasmo misto ad inquietudine all’idea che lui non sapeva.
Ci sono persone così, che magari, non tanto nei lineamenti quanto nello sguardo e nel modo di muoversi, dimostrano più anni di quelli che realmente hanno. Lei era una.
Guardò di sottecchi tizio, che avrebbe anche potuto cominciare a chiamare con il suo nome, Brian. Certo, non aveva l’aspetto di un Brian… è un nome che tendi ad associare più a un robusto mascellone dalla folta criniera bionda, piuttosto che a un giovane uomo sottile dall’aspetto vagamente androgino, ma tant’è…
Si stiracchiò per cercare di dare sollievo ai muscoli indolenziti, perché va bene stare seduta per terra due ore solo perché si è trovata una persona bella, intrigante e dalla scorta di sigarette quasi inesauribile, però lì davvero si crepava dal freddo. Si mosse ancora un paio di volte, poi, seccata, si alzò in piedi.
-Te ne vai?- Domandò lui, riscuotendosi da una sorta di riflessione.
- No, ho una proposta. Ti offro una birra, hai voglia?- Rispose, indicando speranzosa un baretto in fondo alla strada, squallido che più squallido non si poteva. Eppure prometteva da bere, calore e qualcosa su cui sedersi senza rischiare la paralisi. Lui sorrise e le porse una mano come per farsi aiutare a rialzarsi, benché dopo averla afferrata non vi caricasse il peso. Si avviarono insieme, sempre mano nella mano. Era un gesto quasi grottesco, nel contesto, ma lei non si ritrasse: la mano di lui non era tiepida ma comunque confortevole da sentire contro il palmo.
-Senti, ma hai qualche problema?- Le uscì, fin troppo spontaneo. Parlare, parlare, era questo il segreto. Parlare fino a farsi seccare la lingua, parlare per non sentire il battito sordo della propria solitudine.
Brian inarcò un sopracciglio.
-Problema?
-Si beh, non è che conosca tanta gente in grado di rimanere incollata per ore a un muro freddo e scomodo. Sei un androide, è questo? O hai imparato una qualche segreta tecnica che ti permette di non sentire il dolore come in quel film…? Perché ti avviso, io ancora cinque minuti e collassavo.
- Oh, credo di essere allergico alle sedie- Ammise lui con naturalezza.
-Ah si?
- Già. Fin da piccolo. Le mie maestre me ne strillavano di tutti i colori perché non riuscivo a stare seduto dritto, mi muovevo in continuazione, mi dondolavo, mi ribaltavo. “Ma hai il ballo di San Vito?” “ Guarda che se ti rompi la testa e muori poi ci vado di mezzo io” “Stravaccato ci stai a casa tua, qui esigo un po’ di educazione!”, ma niente da fare. Ero incorreggibile. Poi ho passato l’adolescenza tra tetti e balconi, quindi al freddo posso dire di esserci abituato… Non so che dirti, so solo che l’idea di stare seduto in modo composto, convenzionale, mi fa rabbrividire. Oddio, posso, se devo, ma la cosa mi mette a disagio- Terminò il breve racconto con una smorfia terrorizzata, mentre lei si sbellicava dalle risate. Quell’uomo era troppo simpatico! Non era tanto la storiella, ma la sua mimica, il modo in cui aveva imitato le vecchie, acide insegnanti; sembrava sapere molto bene come catturare l’attenzione e come gestirla. Le aveva raccontato di aver seguito dei corsi di recitazione, dopo il liceo, ma lei non era riuscita a capire se avesse continuato su quella strada o meno… Però poteva benissimo essere, pensò fra se, a giudicare dal modo di porsi e da quella sua aria da artista maledetto.
- Bene, uomo dalla kryptonite in forma di sedia, ti toccherà sopportare per due minuti il caldo di una stanza e un posto a sedere confortevole- Lo avvisò, continuando a ridacchiare. Erano arrivati all’ingresso del bar.
- Oh, baby. Io sono un supereroe. Posso fare tutto- Ribattè lui con naturalezza, un genuino sorriso di trionfo in viso.
Per il modo in cui lo disse, c’era quasi da credergli.

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Capitolo 4
*** 02.35 a.m. ***


02.35 a.m.
 
-Oh, ragazzi, guardate che adesso io chiudo!
-Si, certo…
-No, mi dispiace ma non posso tenere aperto fino all’alba. Dai, andate a casa.
Si, potendo… Pensò lei, senza essere particolarmente addolorata o arrabbiata: era solo una constatazione. A casa non ci poteva tornare, punto. Non in quel momento.
Del resto, il barista era mezz’ora che cercava di cacciarli, ma senza troppa convinzione: vuoi perché gli stavano simpatici, vuoi perché avevano comprato parecchie birre e quel bar non sembrava, ecco, una florida attività, li aveva lasciati seduti a chiacchierare, servendo da bere di tanto in tanto; adesso, però, sembrava essersi stufato. Tornò alla carica.
-Dico sul serio, ragazzi, filate. Io devo tornare a casa.
-Va bene, non ti scaldare- Si decise a rispondergli Brian con un mezzo sorriso -Adesso ce ne andiamo. Ce le vendi un altro paio di birre? Offro io-  Proseguì, alzando una mano nella sua direzione. Lei lo ringraziò silenziosamente dentro di sé: stava per finire i soldi, cazzo… E dire che avrebbero dovuto servirle ancora per un paio di giorni.
Uscirono.
-Adesso che facciamo? E non ci provare, signor Io Sono Abituato Al Freddo: troviamo un posto dove stare, possibilmente non all’aperto, grazie.
-Ehi, d’accordo. Tanto per sapere, non è che hai una casa a cui puoi, vuoi o devi tornare, vero?
-Domanda di riserva!
Risero.
-E tu?
-Io una casa ce l’ho, non in questa città, però. Sto in un albergo.
-Oddio, davvero? Ma perché non l’hai detto prima! Mi stai dicendo che da qualche parte c’è una stanza bella calda che ti aspetta, con cose tipo… un letto morbido, la moquette sul pavimento eccetera? Ma io ti odio! E ti amo. Perché stiamo ancora qui?
-Uhm, se vuoi… E’ che non mi piacciono tanto gli alberghi, tutto qui. Troppo impersonali.
Poi vide la sua faccia, e scoppiò a ridere di nuovo.
-Scherzavo, dai! Se vuoi andiamo, non è troppo lontano, insomma… Da queste parti passano gli autobus notturni, vero?
Se gli sguardi potessero uccidere…

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