The (he)art of the streap. di thecarnival (/viewuser.php?uid=111714)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UNO. ***
Capitolo 2: *** DUE. ***
Capitolo 3: *** TRE ***
Capitolo 4: *** QUATTRO ***
Capitolo 5: *** CINQUE ***
Capitolo 6: *** SEI ***
Capitolo 7: *** SETTE ***
Capitolo 8: *** OTTO ***
Capitolo 9: *** NOVE. ***
Capitolo 10: *** DIECI ***
Capitolo 11: *** UNDICI ***
Capitolo 12: *** DODICI ***
Capitolo 13: *** TREDICI ***
Capitolo 1 *** UNO. ***
Grazie
a chi ha avuto il coraggio e
la
pazienza di betare questi capitoli: ElleSinclaire.
The
(he)art of the streap.
UNO.
Mi
guardava come se fossi un alieno, di quelli verdi con tre occhi e
settordici mani, come potevo parlare e confidare i miei più
intimi
segreti a questo tizio che continuava a fissarmi in questo modo?
-E
quindi perché ha scelto questo lavoro se ha una laurea?-
Fissò la
sua cartellina -In cosa ha detto di averla poi?
-Economia
e gestione delle imprese- Gli risposi poco convinta; avevo come
l'impressione che mi stesse giudicando e la cosa non mi piaceva per
niente. -Tra quanto scade il tempo?
-Ancora
dieci minuti. Vuole andare via prima?- Negai, in fondo quelle sedute
le pagavo profumatamente; non volevo buttare del tempo prezioso solo
perché quell'idiota pensava che avessi preso una laurea
inutilmente
e avessi un lavoro altrettanto inutile. -Vuole continuare signorina?
-Sì
sì certo- Odiavo i suoi occhiali tondi, sembrava Maurizio
Costanzo.
-Il punto è che mi piace il mio lavoro, davvero, ma credo mi
abbia
rovinato la vita e abbia deluso tutte le mie aspettative sull'amore.
Voglio dire, guardo tutte queste coppie che vogliono sposarsi e
stanno per farlo e mi chiedo-
-Tempo
scaduto.
-Ma
non ho finito.
-Me
lo dirà la prossima volta- Cercai di contenermi per non
picchiarlo
mentre mi alzavo dal lettino dove mi distendevo ogni qualvolta
parlavo con lui, e gli lasciai la modica cifra di 350 euro e me ne
andai.
Una
volta a settimana era sempre la stessa storia: da via Paolo Ferrari
dovevo arrivare in Piazza Euclide, quello che mi scocciava di
più
non era camminare a piedi, prendere la metro, arrivare a Piazzale
Flaminio, aspettare il trenino, prenderlo per dieci minuti e arrivare
finalmente a destinazione. Quel maledetto studio era in uno dei
quartieri che più odiavo, il famoso e prestigiosissimo
quartiere
Prati ed io ovviamente mi ero andata a trovare l'analista proprio in
quella zona. In realtà erano state quelle due pazze di
colleghe che
mi ritrovavo a consigliarmi quel tizio, ma aver accettato era solo
colpa mia.
Erano
appena le undici del mattino ed io ero già stanca e
stressata:
quell'uomo panzone, invece di calmarmi e sciogliere l'enorme matassa
che avevo al posto del cervello, peggiorava le cose. Lui
rappresentava la borsa e io le cuffiette dell' I-pod.
Realizzai
il concetto appena pensato fermandomi di botto in mezzo al
marciapiede; una signora mi venne addosso, imprecando e urlandomi di
stare più attenta, ma non l'ascoltai. Il mio unico pensiero
era di
essermi paragonata a un paio di cuffie: ero impazzita, non c'era
dubbio.
Mi
accorsi di essere arrivata e sospirai sollevata; per quanto il mio
lavoro mi stesse facendo impazzire e per quanto credessi mi stesse
rovinando la vita, in quel luogo mi sentivo a casa, mi sentivo
protetta. Accelerai quindi il passo, per non rischiare di perdere
l'ascensore che mi portasse fino al sesto piano e riuscii a entrare
senza rischiare di rimanere schiacciata e che il sangue
schizz…
-Buongiorno.
Eccolo.
Il mio stalker.
-A
te- Cercai di essere abbastanza cortese e allo stesso tempo
distaccata da fargli capire di lasciarmi in pace e non torturarmi
ogni mattina o nella pausa pranzo e ancora nel pomeriggio.
-Tutto
bene?
-Sì
grazie- Non riuscivo a capire il perché lui si trovasse
nell'ascensore ogni volta che entrassi io -Tu?
Mi
annuì, sorridendo -Benissimo. Hai da fare più
tardi? Intendo
durante la pausa pranzo
Dovetti
sbattere più volte le palpebre per non fulminarlo con lo
sguardo.
-In realtà sì, devo recuperare il lavoro di
questa
mattina.
-Capisco.
Non
esistevano ascensori più lenti di quello di quell'edificio.
-Mi
dispiace.
-Sarà
per un'altra volta.
Perché
gli uomini non capivano le frasi ironiche, quelle sarcastiche e
quelle di circostanza?
Per
fortuna le porte si aprirono al quinto piano e lui uscì
sorridente e
salutandomi con la mano. Sembrava un bambino tonto davanti alla sua
prima cotta alle elementari. Mi poggiai a una delle pareti,
colpendomi la fronte con una mano. Perché
tutte a me?
Il
mio ufficio, o meglio l'ufficio dove lavoravo, altro non era che un
enorme appartamento con quattro stanze. Una sala d'aspetto, una
stanza enorme con tavoli e manichini dove normalmente lavoravamo
tutte insieme, una stanza più piccola che ospitava 'l'angolo
personale' del nostro capo e il bagno.
Le
nostre scrivanie erano nella stanza più grande, dove regnava
il caos
più totale e dove, per fortuna, non dovevamo ricevere i
clienti, o
avremmo chiuso i battenti ancora prima di aprire.
-Alla
buon ora.
Era
il suo modo di salutarmi ogni venerdì mattina; non era un
rimprovero, solo un modo per ricordarmi che secondo lei stavo
sbagliando ad andare alle sedute del dottor Rossi e che lavorare per
lei era lo scopo della mia vita. -Le altre ti stanno
aspettando
Carla
Solari era una donna molto particolare, sia fisicamente sia di
carattere: taglio di capelli molto corto, occhiali da vista stile
anni '60, laccetto al collo e abiti stravaganti ma di classe allo
stesso tempo.
-Come
è andata?
-Perché
glielo chiedi, non lo noti dalla sua faccia? E' sconvolta.
Lanciai
la borsa sulla mia scrivania per abbandonarmi sulla sedia girevole di
tessuto blu. Non risposi a nessuna di quelle due pazze, che non
smettevano di parlottare sulla mia vita, ma sbuffai disperata.
-Tutto
bene gioia?
-Giù,
sei proprio testarda.
-E
tu sei una rompipalle. Guarda com'è ridotta, è
normale
chiederglielo.
Ero
sicura che il mio cervello sarebbe scoppiato da un momento all'altro
sentendole litigare, quindi mi decisi a parlare. -Sto bene, grazie
per avermelo chiesto Giulia- Mi sorrise felice -E tu, sei proprio
un'ingrata, sappi che ti ho appena messo sulla lista nera.
Si
finse indignata. -Oh che tragedia, dimmi che mi inviterai ugualmente
al tuo matrimonio con Henry-
-Certo
che no. Adesso chiamo il palazzo per dire di ritirare il tuo
invito.
Scoppiammo
a ridere evitando così i discorsi seri.
Giulia
e Mina erano le mie due uniche colleghe: le incontrai e conobbi il
primo giorno di lavoro e fu amore a prima vista. L'una totalmente
diversa dall'altra, forse fu proprio per questo motivo che andammo
subito d'accordo e instaurammo un solido legame d'amicizia.
Giulia
era l'unica nata a Roma delle tre, ma non aveva nulla del carattere
del tipico romano. Era molto timida, dolce e sensibile. Mina invece
era il suo opposto: nata a Milano, aveva vissuto nel suo paese natale
fino alla maggiore età per poi trasferirsi nella
città eterna per
seguire il suo vero amore, l'alcol. Voleva infatti aprire un bar
nella capitale, ma il suo sogno fu stroncato dal suo ex ragazzo, che
la lasciò per... un altro ragazzo. Spesso mi chiedevo cosa
l'avesse
spinta a lavorare in un'agenzia matrimoniale, ma chiederglielo era
troppo pericoloso.
-Abbiamo
dei clienti.
-Io
sono occupata, ho il matrimonio della Levi- Mina rispose senza
neanche voltarsi, continuando a sfogliare i cataloghi in cerca di un
qualcosa.
-Idem-
Carla guardò Giulia perplessa. -Non che mi stia occupando
dello
stesso matrimonio, ma sono impegnata.
Mi
alzai dalla mia amata sedia girevole di tessuto blu e raggiunsi il
mio capo, prima di uscire mimai un vaffanculo alle mie care amiche e
chiusi, gentilmente, la porta.
Nell'ufficio
di Carla c'erano sedute due figure alquanto bizzarre, ovviamente
erano due donne, talmente bionde da fare invidia al sole; ebbi il
timore di rimanere cieca di fronte a cotanto bagliore.
-Emily,
ti presento la signora Castelli.- Le strinsi la mano -Questa
è sua
figlia e ha bisogno del nostro aiuto per il suo
matrimonio.
-Chiamami
Virginia.
Ma
io non la volevo chiamare in nessun modo, avrei voluto rifiutare
l'incarico, ma sembravano ricchi e ciò significava
guadagnare il
doppio del solito.
-Avevate
in mente già qualcosa?- Chiesi ignorando gli urletti
isterici di
tale Virginia rivolti alla madre.
-Sinceramente
no. Mi hanno consigliato di venire qui perché siete le
migliori.
-Avete
fatto benissimo- Carla si intromise –E avete avuto la fortuna
di
avere Emily.
Odiavo
quando mi elogiava in quel modo solo per ottenere la fiducia dei
clienti.
Le
due strane scope bionde, intanto, mi guardavano adoranti e super
sorridenti; temevo per una paralisi facciale.
-Vado
a prendere qualche catalogo.- Mi dileguai in fretta con la scusa dei
dépliant, anche se avevo già in mente il
matrimonio adatto a quel
genere di ragazza: un’enorme Chiesa addobbata con fiori e
fiocchi
bianchi e color pesca, con qualche petalo di rosa rossa sparsi sul
pavimento, e veli lungo gli archi e le navate. Insomma, una cosa
molto pomposa.
Sfogliarono
i cataloghi scegliendo una Chiesa né troppo grande, ma
neanche
troppo piccola; quella che doveva essere maestosa era la sala per il
ricevimento; volevano un parco, meglio ancora se fosse stata una
villa antica.
-Hai
presente il matrimonio di Edward e Bella?
-Chi
scusa?- Avevo sentito quello di William e Kate e dei reali di Spagna,
ma non avevo idea di chi fossero questi due.
-Edward
e Bella. Il vampiro e l'umana.- Sbarrai gli occhi e trattenni
l'impulso di darle un pugno in pieno viso quando prese il suo I-phone
di ultima generazione per farmi vedere il video. -Ecco vorrei che il
parco fosse allestito così.
Non
sapevo se ridere, piangere o urlare. -Mi dispiace, ma temo sia
impossibile avere dei tronchi di albero come panchine, oltre a tutto
il resto.
-Avevo
immaginato.- Era abbastanza delusa.
-Però
potremmo fare qualcosa che gli si avvicini se proprio vuoi questo
genere.- Il sorriso che mi rivolse mi abbagliò, insieme ai
capelli
colpiti da un raggio di sole proprio in quel momento. Ero diventata
ufficialmente cieca.
Mina
e Giulia mi fissavano dalle loro scrivanie; lo sapevo perché
sentivo
i loro occhi puntati addosso e i loro bisbigli.
-D'accordo,
basta. Che volete?
-Chi,
cosa, dove?
-Come
e perché- Sembrava che Mina avesse il ciclo, era
così
acida.
-Tieni,
ingoia un po' di zucchero e smettila di mangiare yogurt al mattino.-
Giulia le rispose mentre si veniva a sedere sulla mia scrivania.
-Dunque, tesoro, cosa ti turba?
Scrollai
le spalle e tornai a guardare il computer: dovevo trovare una villa
disponibile per la data scelta dalla sposa e che rientrasse nei suoi
canoni.
-Ti
ricordo che so leggere nella mente.- Anche Mina era passata
all'attacco. Non mi avrebbero lasciata in pace fin quando non avessi
detto tutto.
-Quella
tizia vuole il matrimonio come quello di Edward e Bella.
-Figo.-
Giulia sembrava entusiasta.
-Li
conosci?
-Certo
che li conosciamo. Em, ma dove vivi? Quei libri e quei film hanno
infettato la mente delle ragazze di tutto il mondo.- Mina
addentò il
suo panino. -Una sera di queste potremmo fare la Twilight maratona,
così prendi appunti per il matrimonio.
-Uh
sì. Che ne dite di giovedì?- Giulia era
così entusiasta da farmi
paura.
-Quanti
film sono?
Per
poco non urlai nel sentire la loro risposta ma accettai, ero disposta
a tutto pur di una serata tranquilla tra amiche.
La
maratona era andata abbastanza bene: ero rimasta sconvolta nel vedere
Edward brillare, mi ero addormentata durante la visione del secondo
dvd, avevo preso in giro i capelli e i dialoghi finali del terzo e
avevo urlato di voler spaccare anche io il letto in quel modo
nell'ultimo. C'erano stati dei lati positivi in quella serata: avevo
mangiato tantissime schifezze insieme alle mie più care
amiche e
avevo le idee più chiare per il matrimonio Castelli.
-Ciao,
sei arrivata finalmente.
Avevo
detto a Virginia che avevamo bisogno di incontrarci per decidere le
ultime cose e poter prenotare e lei aveva deciso di vederci in un bar
al centro dove un caffè costava quasi quanto un kebab dal
tizio
sotto casa mia.
-Sì,
scusa il ritardo ma c'era traffico.
I
suoi sorrisi mi irritavano.
-Sai
Emily, c'è una cosa che non capisco. Di solito ci vuole un
anno
circa per organizzare un matrimonio, per prenotare la Chiesa e il
resto... com'è possibile che io mi sposi tra quasi due mesi?
Sorrisi
rassicurandola -Perché essendo un'agenzia matrimoniale
abbiamo la
precedenza.
-Capisco.
-Stai
tranquilla, riusciremo a fare tutto in tempo.
La
parte che preferivo di più nell'organizzare i matrimoni era
la
scelta dell'abito. Quel giorno la sposa era se stessa, nessuna
maschera, nessuna paura, ma solo la gioia di provare quegli abiti
maestosi e la consapevolezza di diventare donna.
Virginia
scelse l'abito più principesco che quel negozio potesse
avere,
pretese un lunghissimo velo, guanti e altri mille accessori per me
inutili.
Avevamo
organizzato e prenotato tutto, ero riuscita anche a trovare un
falegname che intagliasse in delle tavole di legno il menù
per il
pranzo, da mettere poi su ogni tavolo.
Gli
sposi si sarebbero seduti più in alto rispetto agli ospiti,
su delle
sedie di legno e totalmente immersi nella natura. Con il fioraio
avevamo infatti trovato il modo di far sembrare il tavolo degli sposi
una mini ricostruzione del matrimonio del vampiro, proprio come aveva
desiderato Virginia.
-Tu
sei un mito.
-Ti
ringrazio, ma è solo il mio lavoro.
-Non
posso crederci che domani mi sposerò.
Non
potevo crederci neanche io, ero davvero felice di concludere quel
matrimonio così estenuante. Aveva assorbito tutte le mie
forze e la
mia energia vitale, non che ne avessi già molta.
-Ho
avuto un'idea grandiosa.- Era tornata la Virginia di sempre, quella
che avevo visto il primo giorno nell'ufficio di Carla. -Devi
assolutamente venire questa sera.
-Venire
dove, scusa.
-Ti
sto invitando al mio addio al nubilato di questa sera per
ringraziarti di tutto quello che hai fatto per me in questi mesi.
-È
appunto per questo che esistono i soldi.
-No
no no. Non accetto nessun no.- Quella ragazza mi metteva davvero
paura. -Ci vediamo alle 22 al 'Ladies Night'.
-Al
cosa?
-Ragazza,
a volte mi sembra che tu viva in un altro pianeta. Viale dei Parioli
200, ore 22. Sii puntuale, e metti qualcosa di normale. Non
così
seria ma qualcosa di più...
-Normale.-
Conclusi al posto suo con tono ironico che sembrò non notare.
Mi
salutò ancora una volta e salì sulla sua auto;
avevo due ore di
tempo per prepararmi e andare alla festa di addio al nubilato.
Il
motivo per cui mi spostavo con i mezzi era perché la mia
auto non
era molto affidabile: era una vecchia FIAT Panda bianca, acquistata
di seconda mano non appena avevo compiuto la maggiore età
con i
soldi guadagnati dai vari lavori estivi. Quella sera però,
non
potevo permettermi di perdere tutto quel tempo nel cambiare trenini e
prendere la metro e soprattutto di camminare a piedi, sola e vestita
in quel modo. Mi feci coraggio e pregai la mia auto di fare la brava
bimba.
Parcheggiai
proprio di fronte al locale e mi diressi, dubbiosa, verso quei due
enormi uomini vestiti di nero accanto all'ingresso.
-Emh,
buonasera.- Non mi risposero. -Io, sarei stata invitata ad un addio
al nubilato...
-Senti
novellina, non ci importa. Se vuoi entrare prego... altrimenti risali
sul tuo catorcio e vattene.
Indignata,
li superai e aprii la porta nera.
Per
poco non inciampai nella tenda di velluto rosso, la scostai e...
scale, davanti a me c'erano delle scale che scendevano per un bel po'
e sui muri dei quadri con foto di uomini mezzi nudi.
Che
squallore.
Scesi
le scale di corsa, stando attenta a non cadere, e mi bloccai non
appena entrai nel locale vero e proprio. Mi guardai intorno: una
decina di tavoli riempivano quell'enorme sala, insieme al bancone e a
un palco.
-Emily!
Virginia
era ovviamente seduta al tavolo più vicino al palco e si
sbracciava
per farsi notare.
-Scusa
il ritardo.
-Non
ti preoccupare. Loro sono le mie cugine e lei la conosci già
Salutai
tutto il resto della combriccola e mi sedetti un po' in disparte; non
volevo assistere troppo da vicino allo spettacolo. Il momento
più
imbarazzante della serata arrivò quando, Sonia, la migliore
amica di
Virginia e sua testimone, tirò fuori dalla borsa dei
cerchietti
bizzarri che fummo costrette a indossare, cerchietti con dei mini
peni, adatti per gli addii al nubilato. La sposa ne indossò
uno con
mezzo velo, per farsi distinguere da noi altre.
Che
imbarazzo.
-Signore:
IT'S GETTING HOT, HERE. E' arrivato il momento più atteso
della
serata...
Le
urla delle donne di tutta la sala mi fecero sobbalzare e non riuscii
neanche più a sentire quello che aveva da dire il tizio al
microfono. Le luci si abbassarono e ne apparirono due di diverso
colore sul palco.
Il
fumo mi fece tossire e quelle maledette urla mi stavano facendo
venire il mal di testa.
Comparirono
due ragazzi, vestiti in divisa della marina militare, con tanto di
cappello ed io cercai di guardarli, ma le ragazze davanti a me erano
in piedi e non si vedeva nulla.
-Signore,
dovete sedervi per favore. E' contro il regolamento.
-Ci
scusi è l'addio al nubilato della mia amica e siamo
euforiche...
Il
resto del dialogo non riuscii a sentirlo, ma Sonia rideva con
quell'armadio e, alla fine, i due si strinsero la mano.
A
quei due ragazzi se ne aggiunse un terzo: anche lui indossava una
divisa della marina militare ma diversa rispetto alle altre.
-Loro
sono 'i tre dell'Ave Maria'.- Disse a un certo punto Sonia
rivolgendosi a tutte. -Giovanni, Riccardo e...
-Geremia?-
Chiesi io, proponendo l'unico nome che facesse rima.
-No.
MAMMA MIA!- Urlò una delle amiche di Virginia.
Iniziarono
a spogliarsi e ripresero le urla.
Non
era un brutto spettacolo, anzi, si muovevano abbastanza bene e
avevano un corpo da lasciare senza fiato, ma quel posto non era per
me.
-Ragazze
mi dispiace ma mi sento poco bene, vado a casa adesso prima di
peggiorare.
-Oh
sì sì... grazie ciao-
Per
fortuna erano troppo impegnate a guardare i tre caballeros sul palco
per prestarmi troppa attenzione.
-EHI
TU.- Continuai a camminare. -Biondina, dico a te.- Mi bloccai prima
di salire le scale che mi dividevano dall'uscita del locale e mi
voltai verso quella voce. Geremia, o come si chiamava realmente, mi
stava indicando. -Non lasci il locale mentre mi esibisco-
Incrociai
le braccia sotto il seno. -Si dia il caso che lo spettacolo non mi
abbia soddisfatta, ergo me ne vado.
Scese
dal palco per venirmi incontro, me lo ritrovai di fronte a petto nudo
e mezzo sudato. Deglutii per restare calma e non mostrarmi
nervosa.
-Non
ti ha soddisfatta?- Ripeté al microfono ed io negai con il
capo; lui
fece una strana smorfia con le labbra. -Bene. Vediamo se questo ti
soddisfa.
*****
Me
si nasconde dietro qualsiasi cosa perché si vergogna.
SALVE!
Sì,
ho un problema molto grave, non riesco a mantenere alcune promesse;
avevo detto, da qualche parte, che mi sarei presa una bella vacanza
da EFP e invece eccomi qua a “pubblicare” (non
trovo mai un verbo
adatto) questa COSA. La verità è che ero troppo
curiosa di sapere i
vostri pareri e volevo farvi conoscere i protagonisti (che amo e
adoro come la pasta col pomodoro) e quindi niente, eccola qua...
ZANZANZAN.
Prima di passare ai ringraziamenti, vorrei dire qualche
cosuccia:
se siete arrivati fino a qui, avete letto questo
capitolo e spero voi abbiate letto la trama nell'introduzione; ecco,
vorrei precisare che NON ho preso spunto da NESSUN libro né
film.
Molto tempo fa, quando sul mio gruppo facebook avevo accennato alla
bozza della trama, mi avevano fatto notare una somiglianza con il
film “Prima o poi mi sposo” con J. Lopez e un altro
(di cui non
so il titolo) con J. Aniston; bene, la mia storia è frutto
della mia
malsana e malata immaginazione, e non ha nulla a che vedere con il
primo film. Non so di che parla il secondo, non l'ho mai visto e non
ho intenzione di farlo perché Jennifer Aniston mi sta sulle
palle.
Prima che qualcuno mi accusi di aver “rubato” la
trama di un
film, me ne lavo le mani e tanti saluti.
BENE.
Ringrazio la
bellerrima Elle per l'immagine che avete visto su e per aver avuto la
pazienza e il coraggio di leggere questo capitolo in anteprima e
togliere gli o/errori. La ringrazio anche il bullismo/terrorismo
psicologico con cui mi ha obbligato a scrivere, MUAHAHAHA, ti lovvo
Ellina bellina.
Se siete arrivate fino a qui siete davvero
coraggiose; ringraziate, come me, Roberta, per avermi
“convinta”
a pubblicare questo primo capitolo.
Ho finalmente finito.
Alla
prossima.
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Capitolo 2 *** DUE. ***
A
chi ha sempre sognato di assistere a uno spogliarello.
Alla panna
e ai sogni erotici.
DUE.
Sbuffai infastidita, ero certa che
quella fosse una congiura nei miei confronti da parte di
tutti gli esseri mortali e immortali dell'universo.
Il Karma, per esempio, mi stava punendo;
sì, perché nella mia vita passata dovevo
essere stata un serial killer, o una vedova, o non so cos'altro per
fare infuriare in questo modo gli dei.
Frenai il mio flusso di pensieri: io non ero buddhista o induista, non
credevo nel Karma. La mia era solo sfiga.
- Ehi biondina, sei venuta per il bis? E quando dico venuta...
Solo tantissima sfiga.
Feci finta di nulla, dovevo solo continuare a camminare verso la mia
auto e ignorarlo; lui non esisteva era solo un terribile
scherzo della mia fervida immaginazione, come lo erano le sue mani, le
sue braccia...
NO.
Camminare, macchina.
- Sto parlando con te. Hai perso la lingua dopo ieri sera? Eppure mi
sembrava che...
- Senti un po', razza di coso oliato, smettila di parlare. Non hai
qualche spettacolo da fare?
Il suo sorrisetto mi fece innervosire ancora di
più: strinsi i pugni lungo i fianchi, mi morsi la
lingua per non dirgli altro e proseguii dritta per la mia strada. Avevo
di meglio da fare che perdere tempo con uno stupido spogliarellista da
quattro soldi: dovevo riuscire a mettere in moto quella dannata
Panda.
Al terzo tentativo ebbi l'istinto di incendiarla e ballare sulle sue
ceneri: mi aveva lasciata troppe volte a piedi ma quel giorno
era stato l'apice; non solo ero tornata di fronte quello stupido
locale, ma rischiavo anche di far tardi al matrimonio di
Virginia e non potevo permettermelo: ero la sua wedding
planner!
Chiamai Giulia prima di urlare e uccidere tutti i passanti che mi
guardavano curiosi e chiedevano se avessi bisogno di aiuto. Lei era
romana, conosceva sicuramente qualche meccanico - onesto - che avrebbe
riparato una volta per tutte quel rottame che mi ritrovavo per auto.
- In effetti sì.
- E dammi il numero, che aspetti?
- Oggi è sabato, apre solo nel pomeriggio.
- Allora vienimi a prendere. Non ho abbastanza soldi per un taxi e non
posso prendere i mezzi per arrivare a quello stupido parco.
Era solo mezzogiorno e io ero già stanca e stressata con i
piedi doloranti a causa dei tacchi: odiavo quei terribili affari
inventati solo per far sentire inferiori noi donne; sì,
perché doveva essere stato uno stupido uomo maschilista a
disegnarle e metterle sul mercato. Un uomo che non sapeva cosa
significasse stare ore e ore sulle punte con degli spilli conficcati
nei talloni. Una donna poteva essere bella ed elegante sempre e in
qualsiasi circostanza, non aveva bisogno di ricorrere a mezzi insulsi
quali scarpe, super trucco o intimo seducente.
La verità era che le mie stupide caviglie mi impedivano di
poter indossare scarpe come quelle per più di qualche ora e
il mio stupido fisico troppo formoso e tondeggiante mi obbligava ad
acquistare dell'intimo adatto a contenere la mia ciccia.
Un colpo di clacson mi fece ridestare dai miei pensieri; rimisi le
scarpe e scesi da quell'inutile auto. Avrei voluto lasciare un
cartellino con scritto “Rubatemi” almeno avrei
guadagnato qualcosa dall'assicurazione, ma chi era quel coraggioso o
pazzo che avrebbe anche solo sfiorato quella macchina?
- Sei la mia salvatrice.
- Lo so, lo so, ma rimandiamo i ringraziamenti a domani.
Piuttosto dimmi: che hai fatto ieri sera?
Deglutii a vuoto. - Io?
- No, lo stavo chiedendo al vecchietto in bici- Tirò
giù il finestrino dal mio lato e si rivolse al signore in
bicicletta fermo accanto a noi, al semaforo: – Salve,
potrebbe dirmi cos...- La bloccai prima che l'uomo potesse
sentirla. - Allora, ti decidi a parlare o no?
- Sono stata all'addio di Virginia, la mia cliente.
- Questo lo so, dato che è stata un'idea mia e di Mina. Io
voglio sapere quello che è successo.
- Intendi prima o dopo che me ne andassi?
- Qual è la parte più interessante?- Si
voltò a guardami speranzosa e avida di pettegolezzi.
- Se per te è interessante aver avuto un tizio mezzo nudo, o
tutto nudo, sulle proprie gambe allora la parte prima che me ne andassi.
Inchiodò all'improvviso, rischiando di farmi
strozzare con la cintura di sicurezza – Tu hai, lui ha...
voi? Credo di non aver capito.
Risi di gusto, tranquillizzandola – Forse è meglio
se ti racconto un'altra volta, non vorrei morire proprio oggi.
- Parla o ti uccido con le mie stesse mani.
Risi di nuovo e le raccontai, evitando alcuni dettagli davvero
scandalosi, quello che era successo la sera prima al Ladies Night,
quando quel ragazzo mi aveva trascinata sul palco, fatta sedere su una
sedia e si era spogliato davanti ai miei occhi.
- Ti ha messo della panna montata sul collo? - Ormai le sue erano delle
semplici domande retoriche, formulate con una nota un po'
isterica – E lui, la panna sulla pancia, e tu... Devo
cominciare a frequentare questi locali.
Affermò risoluta, mentre arrestava l'auto
nell'apposito parcheggio di fronte la villa dove si sarebbe tenuto il
ricevimento.
- E' stato molto imbarazzante. Volevo sotterrarmi.
- Sì ma intanto gli hai ficcato la lingua nell'ombelico!
La spinsi amichevolmente e scoppiammo a ridere, mentre
varcavamo la soglia di quell'immenso giardino: i tavoli erano
già disposti come avevo ordinato, insieme alle composizioni
floreali; il tavolo degli sposi si ergeva su uno stupendo palchetto di
legno abbellito con rose bianche e violette.
L'atmosfera era magica, veniva quasi voglia si sposarsi.
- Notizie dalla Chiesa? - Chiesi a un mio collega che era appena
tornato dalla celebrazione.
- Sono marito e moglie. Anche se la sposa ha avuto un attimo di
tentennamento, tutto nella norma.
- Fammi indovinare: paura di essere tradita?
- Peggio, paura di tradire.
Non capivo i matrimoni; se due persone arrivavano a decidere di
convolare a nozze era perché si fidavano l'uno dell'altra,
perché lo volevano davvero, perché si amavano:
allora perché farsi prendere dal panico? Il matrimonio era
un ennesimo pezzo di carta, come il diploma o una laurea, non bisognava
possederne uno per prendersi cura della persona che si
amava; si poteva fare a prescindere da quello.
Virginia era
bellissima; emozionata e bellissima. Stretta alle braccia del
suo sposo, salutava gli invitati sorridendo e scherzando; quella era la
parte più divertente del matrimonio, almeno per gli altri,
perché per me e i miei colleghi era quella più
stancante dato che dovevamo coordinare tutto.
- Vieni Emily, fai un brindisi con noi.
- Non posso, Virginia, sto lavorando.
- Dai ti prego, fallo per la sposa.
Mi avvicinai al tavolo degli sposi e brindai insieme a loro e ai
testimoni; ci fu più di un
brindisi, per colpa delle battutine velate sulla
panna e roba simile, di Virginia e Sonia; quelle due erano tremende,
però conoscendole avevo imparato ad apprezzarle: non erano
così terribili come avevo pensato all'inizio.
- Basta con i brindisi o non potrò più lavorare.
Liquidai Sonia e tornai alla mia postazione, dalla quale controllavo
che tutto filasse liscio come l'olio; mi rilassai solo quando gli sposi
aprirono le danze sulle note di “I will always love
you” suonata dall'orchestra d'archi ingaggiata per
l'occasione.
Un po' scontata come canzone, era la più gettonata insieme a
“Your song” di Elton John. Ero convinta che nessuno
facesse mai caso al testo: “I will always love you”
parlava di una triste e dolorosa separazione, non era per niente adatta
come colonna sonora di un matrimonio.
Tirai un sospiro di sollievo quando il ricevimento arrivò al
termine: non vedevo l'ora di poter togliermi quelle scarpe
troppo scomode e indossare le mie belle pantofole morbide. Mi ero,
però, dimenticata dell'auto ferma di fronte quel maledetto
locale; dovevo ancora telefonare il meccanico e sperai davvero che
avesse un attimo di tempo libero da dedicarmi. Aspettai che tutti gli
invitati andassero via, mentre davo le ultime indicazioni al catering :
era stato uno dei matrimoni più
difficili della mia vita lavorativa.
- Emily, grazie di tutto, sei davvero favolosa.
Virginia mi si era avvicinata con gli occhi lucidi dall'emozione, le
sorrisi perché ero felice per lei: era una brava e cara
ragazza, anche se all'apparenza sembrava tutto l'opposto; sperai
davvero che il suo matrimonio fosse uno di quelli perfetti che si
vedono nei film d'amore in bianco e nero, o in quelli troppo romantici.
- Mia madre passerà lunedì mattina per terminare
il pagamento.
- Non c'è nessuna fretta, puoi stare tranquilla.- Il suo
abbraccio mi lasciò di stucco e ricambiai dopo qualche
secondo – Divertiti.
- Senz'altro; tu invece, salutami Mr Panna.
Risi al pensiero e salutai gli sposi definitivamente; era strano che mi
affezionassi così tanto ad una coppia, di solito restavo
fredda e distaccata, come era giusto che fosse; ma Virginia mi aveva
stravolto la vita.
La macchina del mio collega si fermò proprio di fronte al
Ladies Night. Lo ringraziai troppo imbarazzata per il luogo in cui ci
trovavamo e aspettai che se ne andasse prima di andare verso la mia
auto e chiamare quel maledetto meccanico che lavorava solo il sabato
pomeriggio.
Per fortuna almeno era libero e mi avrebbe raggiunta dopo una mezz'ora
circa. Erano le diciotto e trenta, cosa diamine avrei fatto per tutto
quel tempo, da sola? Non avevo neanche il coraggio di guardare i miei
piedi, dovevano essere simili a delle pagnotte.
- Puoi dirlo che ormai non puoi più fare a meno di venire
qui.
Stavo iniziando ad odiare quella voce, oltre alla sua faccia da
schiaffi.
- Sì hai ragione: stavo pensando di cominciare a lavorarci
anche.
- Senza offesa, ma non hai il fisico adatto. Saresti una buona donna
delle pulizie, però.
- Quindi tu, ieri sera, eri solo in prova? Perché hai il
viso adatto per pulire i wc.
- WC?- Rise, facendomi innervosire. - Ma come parli? Si
chiamano cessi e no, non ero in prova. Io sono la star.
- Sì, la star dei cessi.- In realtà non volevo
dirlo ad alta voce, ma fu più forte di me; risi io stessa
per la battuta geniale.
- Sei simpatica come un cactus nel culo.
- Spero uno di quelli con le spine.
- Ovvio, e quelle sono anche velenose.
Scrollai le spalle, mica solo lui poteva farmi innervosire: io ero
un'esperta in quel settore.
Stava per ribattere, ma fu chiamato da un ragazzo, ne fui
davvero lieta; lo salutai con un sorrisetto impertinente sul viso, lui
invece mi rispose alzando il dito medio: soliti cafoni e burini romani.
Mi chiusi in macchina, accendendo la radio, in attesa del famigerato
meccanico. Chissà se fosse minimamente sexy come Tony di
'Iniezioni d'amore', un telefilm che trasmettevano sul digitale
terrestre il giovedì sera. Lo sperai davvero, almeno avrei
guadagnato qualcosa da quel disastro.
Erano le diciannove passate quando vidi arrivare un furgoncino rosso
con il nome del meccanico stampato sui fianchi; quando scese quello
strano individuo, per poco non scoppiai a ridere ricordando quello che
avevo pensato prima: altro che Tony il meccanico, quello era un misto
tra Tony Ciccione e il commissario Winchester dei Simpson.
- Allora signorina, vediamo che problema c'è con te.
Doveva anche essere un po' fuori di testa per parlare con le auto e non
degnare di uno sguardo le persone.
Il suo viso perplesso mi fece preoccupare. - E' qualcosa di grave?
- Un bel po' signora. Sia il motore che il motorino di avviamento sono
andati; potrei portarla in officina e sostituire i pezzi ma, detto tra
noi, le verrebbe a costare tantissimo. Meglio comprarne una nuova.
Quella giornata non poteva andare peggio.
Chiamai prima Giulia e poi anche Mina per chiedere se potevano darmi un
passaggio fino a casa, oppure alla fermata della metro più
vicina: non me la sentivo di cambiare tre autobus quella sera.
Per fortuna Mina era libera, ma solo dopo le ventuno; avevo freddo e
fame, mi veniva da piangere: possibile che fossi così tanto
sfigata? Non potevo neanche sedermi in auto, dato che il signor Ciccio
l'aveva portata via con quella specie di furgoncino / carro attrezzi.
Mi sedetti, quindi, su un gradino accanto l'ingresso del locale: era
l'unico posto disponibile e io avevo bisogno di stendere le gambe e far
affluire sangue ai piedi.
Dopo mezz'ora una moto di grossa cilindrata si spense
davanti a me; scese sicuramente un ragazzo, lo si capiva dalle
gambe muscolose e dalle spalle larghe. Non stavo sbavando, solo dando
un'occhiata.
Quando si tolse il casco integrale, il mio cuore perse un battito: era
di una bellezza disarmante.
Capelli castani, viso pulito con dei lineamenti dolci, forse
per la giovane età, e, infine, uno sguardo
così profondo da gelarti sul posto. Quel ragazzo spruzzava
sesso da tutti i pori.
- Ha bisogno di aiuto?
Mi guardai in giro per essere sicura che parlasse con me: molto idiota
come reazione, dato che là fuori c'eravamo solo io e
lui.
- Io, no. Aspetto che la mia amica mi passi a prendere, dovrebbe essere
qui tra po'.
- Non per farmi i fatti suoi, ma da dove viene la sua
amica?
- Zona Prati, perché?
- Allora aspetterà un bel po': c'è stato un
incidente ed è tutto bloccato.
Sbuffai disperata, era mica Venerdì diciassette? Oltre alla
fame e al freddo poi, dovevo anche fare la pipì: mi sentivo
sola ed abbandonata. La conferma del ritardo e della zona bloccata al
traffico me la diede la stessa Mina con un messaggio, ero
così nervosa che avrei potuto alimentare un'intera cittadina
solo con un urlo.
- Questa sera fa piuttosto freddo, perché non entra nel
locale? Almeno starà al caldo.
- Oh no no no. Non voglio più mettere piede lì
dentro, senza offesa.
Non sapevo se quello fosse il proprietario o uno dei dipendenti, era
meglio specificare.
- Non faccia la timida, ho un ricordo ben preciso di lei di ieri sera.-
Arrossii e mi alzai; peggio di quello che mi era successo in quelle
dodici ore, non poteva andare. - Io sono Riccardo.
- Emily.
Gli strinsi la mano mentre scendevamo quei gradini che mi separavano
dall'inferno: il locale era vuoto e luminoso, completamente diverso
dalla sera prima; anche la musica era di un altro genere, soft
e rilassante. Veniva quasi voglia di restare lì e ordinare
qualcosa da bere, peccato che sapessi cosa si nascondeva dietro i
sorrisi degli uomini e del dj, per non parlare della voce viscida del
proprietario.
Riccardo, quel caro ragazzo, mi fece accomodare su uno dei divanetti
accanto ai camerini; almeno lì stavo più comoda e
non c'era il rischio che qualcuno mi vedesse e mi scambiasse per
impiegata, spogliarellista o peggio, una ninfomane!
Distesi le gambe e sperai che Mina arrivasse il prima possibile: ero
davvero stanca e sentivo il mio letto chiamarmi ad alta voce.
Passò un'altra ora; ora in cui avevo visto passare
tantissimi ragazzi, vestiti in modo strano e poi mezzi nudi, andare a
fare le prove per lo spettacolo di quella sera, quello in cui ero
seduta era davvero un bel posto. Smisi di sghignazzare quando mi
accorsi che il cellulare non aveva campo in quella sottospecie di
sotterraneo porno; non sapevo se Mina fosse arrivata o mi avesse
chiamato. Imprecai mentalmente, soprattutto quando mi dovetti alzare e
andare verso l'uscita.
Il Karma però, voleva punirmi ancora: come se non fosse
bastato tutto quello che avevo già sopportato.
- Biondina. - Andai a sbattere contro una roccia, ma poi mi resi conto
si trattasse semplicemente di... Come si chiamava? - Che ci fai qui?
- Ti cercavo. Volevo chiederti che tipo di olio usi, vorrei avere la
pelle morbida e lucente come quella tua.
Rise e sperai mi lasciasse in pace, ma a quanto pare non aveva di
meglio da fare.
- Quindi?
- Un ragazzo molto carino e gentile mi ha fatta entrare e... EHI, non
devo dare spiegazioni a te.
- Domandare è lecito...
- Mandarti a fanculo è una goduria.
Salii di corsa le scale d'emergenza e mi ritrovai nel retro del locale,
improvvisamente il mio cellulare iniziò a squillare come un
matto: inutile leggere gli sms, chiamai quella pazza della mia amica.
- Co, cosa?
- Sto prendendo Giulia e veniamo lì. Voglio vedere lo
spettacolo.
- Mina, ti assicuro che non ti perdi nulla. Ti noleggio un film porno e
facciamo prima.
Rise – Un film porno? Ma tu chi sei. Comunque non cambio
idea: voglio vedere Mr Panna in azione.
Mi sembrò di sentire un urletto eccitato, doveva essere
sicuramente Giulia; quelle due stronze mi avevano incastrata.
Rientrai nel locale disperata. E io che avevo sperato di non metterci
più piede.
******
Me
si nasconde perché si vergogna.
Non so quale scusa accampare per
giustificarmi; quando ho avuto l'idea di una storia con degli
spogliarellisti non c'era caldo, non sapevo di Magic Mike e non
conoscevo il tizio che somiglia lontanamente a Geremia (e ha il suo
vero nome!) Quindi, sì, ero e sono una porcia; potete dirlo
perché
non mi offendo.
Sono fiera di questi bei tre uomini che
gironzolano nella mia mente quasi nudi e ogni tanto si spogliano per
me! =Q___
Ok, cosa posso dire di serio ma non noioso?
Ho
aggiornato oggi e non domani perché so della chiusura del
sito di
domani notte; avrei potuto aggiornare domani mattina o pomeriggio ma
tra lo studio e il mare non so se avrei avuto tempo.
E poi basta.
Una cosa molto noiosa che vorrei precisare:
la storia è
ambientata a Roma (dove sono stata solo una volta, quasi 10 anni fa,
e ho visto poco e niente!) per fortuna esiste internet e gente
disposta a darmi indicazioni :)
Il “Ladies Night” però, non
esiste; è solo il frutto della mia malata immaginazione.
Forse
esisterà un locale simile ma, questo, con loro tre bei
ragazzi, non
c'è (altrimenti mi sarei trasferita subito)
Grazie a chi ha letto
lo scorso capitolo e chi ha subito aggiunto questa pazzia tra i
preferiti e seguiti: riceverete un premio speciale. MUHAHAHA
Grazie,
ovviamente, a chi ha commentato.
Alla prossima.
Saluti pannosi.
AH!
Una cosa che avevo dimenticato e che DEBINA87 mi ha fatto ricordare:
il TONY meccanico di cui parlo in questo capitolo è un
personaggio
della storia (e non telefilm) di CHIARA FALLSOFARC "Iniezione
d'Amore" che trovate qui su EFP. Metterò il link diretto la
prossima volta perché adesso sto modificando il capitolo
dall'html e
non sono neanche sicura del risultato! XD P.S. Grazie mille
adEllinaBellina per
aver letto in anteprima e aver eliminato gli obbrobri.
|
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Capitolo 3 *** TRE ***
A
chi sogna di andare in un locale di stripper.
Agli
incontri nei supermercati.
Al
destino.
TRE.
La musica era assordante, ma non quanto le urla delle
donne presenti in sala; che poi mi chiedevo come facessero a
urlare per così tanto tempo: avevano tutto quel
fiato? Mina e Giulia erano rispettivamente alla mia destra e alla mia
sinistra e partecipavano anche loro allo spettacolo, soprattutto Mina
che fischiava al ballerino dalla folta chioma bionda. Giulia si
voltò verso me dicendomi qualcosa, ma io vedevo
solo le sue labbra muoversi. Parlò più
volte invano.
- Ho capito solo “panna”.
La musica si interruppe nel momento esatto in cui io urlai a
squarciagola quella maledetta parola. Il locale non era molto grande e
con la musica spenta tutti mi sentirono, anche quel Geremia dal
palco, che mi fissava divertito e incuriosito.
- Signore, per chi non la conoscesse quella è la donna che
ha avuto l'onore di assaggiarmi ieri.- Disse al microfono quello
stronzo, scatenando l'ira di tutte. - Non siate gelose, preferisco di
gran lunga voi.
Anche se avrei voluto ficcargli il microfono in bocca e la bomboletta
della panna spray su per il sedere, rimasi al mio posto con le braccia
conserte a guardare lo spettacolo, sbadigliando di tanto in tanto
quando sentivo, o più che altro vedevo, il suo sguardo
addosso. Non che mi stessi annoiando davvero, ma non volevo fargli
capire che in fondo mi piaceva. Lo spettacolo intendevo; non
si meritava questa soddisfazione.
- Lo stai mangiando con gli occhi.
- Ma chi? Tu sei ubriaca! - Mina storse la bocca in una strana smorfia
e si voltò per godersi la fine dello spogliarello.
Come previsto, e come già sapevo, rimase completamente nudo,
solo il suo aggeggio era coperto da un minuscolo pezzo di stoffa
colorata. Mina e Giulia, come tutte le donne là dentro,
urlavano come forsennate, alcune addirittura lanciavano banconote da
venti euro in su e rose rosse sul palco: mi vergognavo per loro.
- E' stato fantastico.
Giulia era la più entusiasta e non riusciva a smettere di
ridere e saltellare sul posto, il che mi sembrava strano dato la sua
indole seria e posata.
- Prima dello spettacolo successivo abbiamo il tempo di fumare una
sigaretta?
- Un altro? Non vi è bastato? Vi
prego, ragazze, sono esausta, andiamo a casa.
Mi guardarono sconvolte, come se fossi un alieno atterrato per rapirle
e sezionare il loro cervello – Casa?
- Forse non hai capito,- Mina si alzò dalla sedia e mi
puntò il dito contro il viso. – Noi ce ne
andremo solo ed esclusivamente se ci cacceranno.
E poi, soddisfatta della sua minaccia, se ne
uscì a fumare la sua sigaretta lasciandomi con Giulia e i
suoi ormoni canterini.
Anche il ragazzo con i capelli biondi lunghi rimase nudo e io esultai
perché significava che potevamo andarcene a casa: lo
spettacolo era finito. Le luci si accesero improvvisamente e la voce
dello speaker ci invitava a uscire dal locale in modo ordinato e,
preferibilmente, silenzioso. Sulla seconda parte ero molto d'accordo
dato che quelle oche non avevano fatto altro che starnazzare per
quattro ore di fila. Era stato uno strazio per le mie
orecchie.
- Non ci credo che stiamo andando a casa, davvero, non posso crederci.
Sbottai quasi arrivata all'auto di Mina, con le lacrime agli
occhi per la felicità; quest'ultima però
scomparve non appena mi accorsi che mancava il mio cellulare
dalla borsa. Imprecai in tutte le lingue che conoscevo, e non era un
modo di dire, dissi le peggiori parolacce, prima in
inglese e poi in francese, almeno ero sicura che nessuno mi capisse.
Non era possibile che quel giorno fossi così sfigata da
perdere anche il telefono, cos'altro poteva succedermi? Una cacca di
uccello in testa? Essere messa sotto da un camion?
La porta principale del 'Ladies Night' era già stata
chiusa: mi veniva da piangere e mi sentivo la protagonista di
una stupida storia romantica dove alla fine la
“lei” si sarebbe riscattata di tutti i suoi guai
innamorandosi e sposando il più figo della città;
le solite storie dei romanzetti Harmony che leggeva mia nonna da
giovane in pratica.
Bussai svariate volte come una furia alla
porta sul retro, quella da cui ero uscita prima che
arrivassero le mie amiche e, finalmente, dopo qualche minuto, qualcuno
venne ad aprirmi.
- Grazie al cielo sei tu.
Riccardo, quel ragazzo gentile che avevo conosciuto in prima serata, mi
era apparso, ancora mezzo nudo e sorridente.
- E' successo qualcosa?
- Niente di grave, ma credo d'aver lasciato il cellulare qui e
mi serve, sai ci lavoro e...
- Entra pure, ti aiuto a cercarlo.
Sarebbe stato un po' difficile concentrarmi con lui in mutande davanti,
ma cercai di fare finta di nulla e andai spedita verso il divanetto
dove mi ero seduta per rilassarmi in attesa di quelle due traditrici:
controllai più di una volta e dovunque ma del telefono
nessuna traccia, neanche tra i cuscini.
Dovevo stare calma anche se sapevo già che non l'avrei
trovato, quella era la giornata della mia sfiga assoluta: come
avevo potuto pensare che almeno una cosa sarebbe andata per il verso
giusto?
- Forse è al tavolo.
- Lo spero, ho tutti i numeri delle mie clienti là dentro.
Il mio tono dovette risultare piuttosto patetico e disperato
perché Riccardo si avvicinò e poggiò
una mano sulla mia spalla, consolandomi; sussultai al suo tocco, ma mi
rilassai all'istante e gli sorrisi per ringraziarlo. Non so per quanto
restammo in quel modo, a guardarci negli occhi ma mi rassicurava, tutto
di lui mi dava l'impressione che il mondo fosse un posto
migliore e la vita qualcosa di incredibilmente meraviglioso: forse i
suoi occhi castani troppo giovani ed espressivi, forse il suo sorriso
contagioso o forse i suoi modi di fare dolci e irresistibili allo
stesso tempo.
- Che succede qui?
Interruppi il nostro dialogo visivo quando sentii quella voce. Ormai
avevo imparato a conoscerla e avrei saputo distinguerla anche tra altre
mille.
Quel tizio, di cui non ricordavo mai il nome, si era avvicinato a noi e
aveva stampato sul viso un sorriso insopportabile.
- Stavo aiutando Emily a trovare il suo telefono.
- Chi è Emily?- La sua aria strafottente mi faceva salire il
sangue al cervello più del previsto. - Oh, la biondina.
D'accordo ti aiuto io, tu vatti a vestire.
Mi lasciai scappare un lamento, non solo perché cercare il
cellulare con un Riccardo mezzo nudo era piuttosto piacevole, ma anche
perché stare sola con... Mr Panna era una vera e propria
tortura.
- Ho già cercato qui, dovrei tornare al tavolo, forse per
sbaglio è caduto.
- D'accordo.
Era semplice: dovevo solo comportarmi da persona seria e matura
così da poter instaurare un dialogo civile con lui.
Sul tavolo non c'era traccia del mio blackberry nero e neanche sugli
altri o per terra. Sbuffai rassegnata e
arrabbiata: ce l'avevo con me stessa, con la mia sbadataggine
e con quello stronzo del Karma.
- Tranquilla biondina, perso un cellulare se ne compra un altro.
Cosa avevo detto riguardo il dialogo civile? - Mi serve quello
perché lì ho i numeri delle mie clienti.
- Posso darti i numeri delle mie di clienti, se vuoi.
Lo ignorai e mi incamminai verso il retro del palco, da lì
sarei arrivata alle quinte e poi all'uscita di sicurezza e sinceramente
non vedevo l'ora di uscire dal locale e non metterci più
piede perché ero stufa di panna, ragazzi che si spogliavano
e donne assatanate che urlavano: rivolevo la mia vita, la mia
tranquillità, la mia routine e un paio di ciabatte comode.
- Dai aspetta non volevo offenderti. Milla, aspetta.
- Mi chiamo Emily, non sforzarti di ricordare il mio nome quando non
hai neanche un briciolo di cervello per distinguere la destra dalla
sinistra.
Fece una smorfia strana, ma poi scrollò le spalle e
mi rispose ugualmente: - E' che non capisco perché ti serva
proprio adesso il cellulare.
- Perché io ci lavoro con quello. Ho un lavoro serio, IO.
- Calma, calma non c'è bisogno di mordere. Non ho ancora
fatto l'antirabbica.
Questo era troppo, non solo mi dava inutili soprannomi, mi seguiva
dovunque e si divertiva a punzecchiarmi con battute idiote, ora si
metteva pure a offendermi dandomi del cane rabbioso?
Ebbi la sensazione di diventare verde come Hulk e di avere il fumo che
usciva dalle orecchie.
- Ma chi ti credi di essere? Solo perché quattro ninfomani
urlano il tuo nome ogni sera, questo non ti da il diritto di
sentirti un Dio sceso in terra. Ora togliti perché sono
stufa di vedere la tua faccia di plastica.
Lo superai ed aprii la porta, sorrisi felice e soddisfatta
perché mi ero finalmente sbarazzata di quel pallone
gonfiato. Avrei voluto fare la danza della vendetta o della goduria,
insomma qualche danza che mi permettesse di rivelare al mondo il mio
stato d'animo.
- Eppure prima non la pensavi così.
Non era possibile, quel ragazzo non si arrendeva mai! Mi voltai e lo
vidi uscire e raggiungermi; mi guardava, il suo sguardo mi aveva
immobilizzato, come se avesse qualche potere magico.
- Prima, durante lo spettacolo, mi stavi mangiando con gli occhi.
Risi – Assolutamente no, mi avrai confusa con qualcun'altra.
Scosse la testa. - Eri proprio tu, mi fissavi e
sbadigliavi, ma so benissimo che era tutta una messa in scena.
- Ammettendo che fosse vero, cosa ti cambierebbe? L'ho detto prima che
hai mille occhi puntati addosso ogni sera.
Le sue labbra formarono un ghigno divertito e seducente e solo in quel
momento mi soffermai più del dovuto a guardarle, erano
così carnose e lui era vicino, troppo vicino.
- Sì, ma nessuna di quelle ragazze riuscirebbe ad eguagliare
il tuo sguardo di questa sera.
Quel sussurro all'orecchio mi fece rabbrividire e quelle parole mi
sembrarono un sogno, come se me le fossi immaginate.
Lo vidi allontanarsi, con le mani nelle tasche dei jeans e fischiettare
una canzone sconosciuta. Mi risvegliai da quello strano limbo solo
quando scomparve dalla mia vista e finalmente salii in auto; Mina e
Giulia mi guardavano sconvolte. Molto probabilmente avevano assistito
alla scena di pochi istanti prima ma, non avevo proprio la voglia di
parlarne: ero davvero stanca e tutto quello di cui avevo
bisogno era mettermi a letto e dormire.
A Roma c'erano 2.761.477 abitanti: non
sapevo quante fossero le donne, ma era impossibile che proprio
quel giorno che avevo deciso di stare a casa a riposare e a permettere
ai miei piedi di ritornare ad avere una forma decente e naturale, una
decidesse di piombare in ufficio e scegliesse ME come sua wedding
planner; ME che tra le tante cose ero rimasta a casa a riposare.
Avevo tantissime cose da fare, come finire di leggere un libro
stupendo, “You Saved Me” , che
avevo iniziato mesi prima, ma che a causa dei mille
incarichi di lavoro non avevo mai avuto il tempo di finire; aveva avuto
un successo incredibile e tutti al mondo ne parlavano, solo io dovevo
tenermi lontana dalle notizie per evitare spoiler sul finale. Una cosa
era certa, non appena il film fosse uscito al cinema mi sarei
precipitata a vederlo, non potevo perdermi l'occasione di vedere Ryan
Gosling sul grande schermo.
Mi immersi nella lettura: risse, spari, film porno, lentiggini e
battute divertenti; amavo quel libro perché riusciva a
trasportarmi in un mondo a parte, ogni volta infatti perdevo la
cognizione del tempo, tanto che non mi accorsi che era già
l'ora di pranzo e io non avevo nulla da mangiare. L'ultima volta che
avevo fatto la spesa un dinosauro aveva divorato un bambino.
Per fortuna il supermercato più vicino era nell'isolato
accanto, perciò indossai una tuta e andai a piedi, un po' di
moto mi avrebbe solo fatto bene.
Non avevo molta voglia di cucinare, quindi presi qualche sugo pronto,
dei pacchi di pasta, piadine e degli insaccati; in realtà
non avevo neanche voglia di vivere in quel momento, sarei solo
rimasta distesa sul divano con i piedi a mollo, dato che erano ancora
gonfi.
Quando passai di fronte al reparto dolciumi e schifezze mi illuminai,
presi la tavoletta di cioccolato bianco e persi qualche minuto per
decidere tra quella con le nocciole e quella con gli smarties, ogni
volta era un proprio calvario.
- Guarda che il cioccolato fa ingrassare e tu dovresti solo dimagrire.
Mi innervosii e alla fine presi entrambe lanciandole nel cestino che
avevo in mano. Ovviamente ignorai quella voce, quello era il
mio giorno di riposo, quindi Mr Panna non esisteva, era solo il frutto
della mia mente malata.
Forse ero come Izzie di Grey's Anatomy, avevo qualche male incurabile e
lui era la proiezione del mio inconscio...
Mi voltai per guardarlo e toccarlo, quel pensiero mi
spaventò un bel po' perché sinceramente avrei
preferito vederlo ogni secondo e ogni istante che essere sul punto di
morte.
- Sei tu vero? Non ti sto immaginando.
- Se il cioccolato ti fa questo effetto, biondina, dovresti smettere.
Stupida io che avevo pensato, anche se per un istante, che non fosse
reale perché lui era lì, di fronte a me, con un
capellino con il simbolo di NYC in testa, un cardigan grigio con dei
bottoni neri sul petto e un paio di jeans scuri.
- Se non ti va bene come sono vestito posso cambiarmi o spogliarmi.
Arrossii e mi affrettai a rispondere, di certo non volevo che si
mettesse a dare spettacolo dentro quel supermercato. - No. Posso sapere
che ci fai qui, mi segui? Mia madre è un avvocato. Posso
richiedere un'ordinanza restrittiva e...
Mi interruppe scoppiando a ridere, odiavo quando lo faceva soprattutto
perché non trovavo nulla di divertente nelle mie parole
– Perché mai dovrei seguirti? Sono qui per fare la
spesa, questo è il supermercato più vicino a casa
mia.
Il mio cervello collegò le sue parole in pochissimo tempo:
lui abitava lì vicino. Per poco non mi venne un colpo! Non
era possibile, quella era davvero una congiura. Non appena arrivata a
casa avrei lanciato del sale alle mie spalle contro
il malocchio. Mi voltai verso lo scaffale e presi talmente tante
tavolette di cioccolato da riempire la metà del cestino,
avevo bisogno della mia dose di zuccheri e affetto; volevo godermi quel
lunedì di riposo in santa pace.
- Tua madre l'avvocato non ti ha insegnato che è cattiva
educazione non salutare le persone.
- Oddio, ma perché non mi lasci in pace? Sto cercando di
ignorarti, fallo anche tu.
- D'accordo t'ignorerò, ma in questo modo non riavrai il tuo
telefono indietro.
Presi anche una confezione di patatine, quel ragazzo mi avrebbe fatta
ingrassare per la disperazione. Lo guardai impaziente, volevo solo
andarmene e sperare di vederlo il meno possibile.
- Un mio amico è molto bravo con il computer, diciamo che
potrebbe farti riavere il tuo numero di telefono...
Lo guardai scettica – Quindi tu non hai il mio telefono.
- No. Quel coso sarà già in vendita in qualche
mercato.
- E come fa questo tuo amico a ridarmi il mio numero?
- Questo non posso dirtelo. Mi dovresti scrivere il numero telefonico e
comprare una scheda nuova.
Sbarrai gli occhi incredula quando capii – ODDIO! Volete
clonarmel... – Mi tappò la bocca prima che
concludessi la frase e mi fulminò con lo sguardo.
- Sei impazzita e vuoi farci arrestare per caso?- Negai con il capo e
lui continuò – Adesso toglierò la mano
e tu dovrai dirmi, senza urlare, se accetti o no. D'accordo biondina?-
Alzai un sopracciglio e annuii. Nonostante la
situazione, aveva usato quel soprannome insopportabile. -
Perfetto.
- Ti darò quello che ti serve, ho bisogno di quel numero.
- Sai, non capisco proprio perché sei così
fissata: potevi benissimo cambiarlo e darlo in giro.
- Tu non capisci e poi io sono una donna di mondo.
- Tu il mondo lo hai inglobato.- Disse squadrandomi dai piedi alla
testa.
- Guarda che non sono neanche in sovrappeso, quindi stai zitto.
- Credevo che solo una tua tetta pesasse quanto una donna normale.- Si
portò anche un dito sotto al mento per rendere il momento
ancora più catartico.
- Sei davvero un insolente.- Mi voltai, cercando di andarmene
e borbottai qualcosa in francese, sperando che lui non mi sentisse. -Il n'est pas possible, il est insupportable.
Une persécution. *
- E sei pure Francese! Ma in Francia non sono tutte bassine, magroline
e carine?
Mi bloccai per rispondergli: mi aveva stufata. - Oh, sì.
Infatti mia madre mi ha portato via prima che tutti mi esibissero come
fenomeno da circo.
- Come Dumbo.- Chiuse gli occhi per qualche istante come se stesse
pensando a qualcosa di troppo intelligente o... - Sei il Dumbo di
Parigi.- O troppo cretino.
- La smetti di darmi soprannomi?
- Devo pur trovare quello giusto, no?
Lo conoscevo da quanto, una settimana? Forse di più ma lo
odiavo come quel lontano cugino di campagna di mia madre, Louis, o come
diavolo si chiamava. Insomma, quel cugino, ogni Natale e
festività, veniva in casa nostra con il solito
regalo, gli scarti della sua mucca o del suo agnello appena
macellato, e camminava soddisfatto per casa vantandosi di come
aveva sventrato l'animale in meno di dieci secondi: un nuovo record
familiare. Mi chiedevo perché mia madre lo invitasse sempre.
Ecco, quello spogliarellista era come Louis, si vantava per le cose
sbagliate ed era una presenza di certo non gradita.
Per l'ennesima volta da quando l'avevo incontrato e conosciuto al
Ladies Night, cercai di ignorarlo e mi voltai, dirigendomi velocemente
alla cassa e facendo mente locale: non volevo dimenticare
nulla perché non volevo mettere piede in quel supermercato
di lì a un mese per evitare di incontrarlo ancora.
- Biondumbo non scappare, ci stavamo divertendo.
- Va au Diable. **
Ci provai davvero a ignorarlo, feci anche la fila con le altre persone
in attesa di pagare gli acquisti, ma quello mi stava dietro e non aveva
intenzione di mollarmi.
- “Ah, mama mia el Diablo
Ah, Ariba ariba el Diablo
Ah, mama mia el Diablo”
Risi scuotendo la testa arrendendomi alla sua tortura, si era messo a
cantare una canzone satanista al mio orecchio ed ero convinta che se
non gli avessi dato la giusta attenzione avrebbe istituito un concerto,
seguito da uno spogliarello, proprio dentro il supermercato, magari
sopra il rullo della cassa, e le clienti insieme alle commesse
avrebbero urlato e applaudito come facevano tutte le donne del locale
ogni sera.
Era abituato a dare spettacolo ed essere al centro dell'attenzione,
io invece preferivo restare anonima e in
disparte; ecco perché lo zittii prima che tutti ci
guardassero e iniziassero a commentare l'accaduto.
- Sono quarantasei euro e ventinove centesimi; grazie.
Contai i ventinove centesimi, quella commessa era così
tirchia e antipatica che mi avrebbe dato anche l'un centesimo di resto
e io non lo volevo.
- Sa, dovrebbe far pace con il suo ragazzo, io non me lo lascerei
scappare uno così.
Per poco non soffocai con la mia stessa saliva, quella non solo aveva
osato darmi un consiglio sulla mia vita privata, a me, che i matrimoni
e l'amore erano il mio pane quotidiano; ma poi si era messa a fare gli
occhi dolci e da cucciolo smarrito a... coso; perché
scordavo il suo nome?
- Hai ragione, Elisa. Ma sai com'è no... quando si litiga
poi il sesso è ancora più bello.
Le fece anche l'occhiolino e lo tirai per i due passanti posteriori dei
jeans, prima che dicesse altro di ancora più sconcio o si
inventasse la mia posizione sessuale preferita perché
sì, non lo conoscevo da molto, e ancora sì, non
ricordavo il suo nome, ma avrei scommesso qualsiasi cosa che
sarebbe stato in grado di farlo!
- Ma cosa ti è saltato in mente, qui la gente mi conosce e
ho una reputazione da mantenere. Io ho un lavoro serio e se mi faccio
coinvolgere in queste situazioni rischio di perdere le mie
clienti.
- Dio, sembravi mio padre. Mi è bastato mettere le tette al
posto della pancia ed eravate uguali, certo lui è un po'
pelato e somiglia a...
Non ero mai stata una persona permalosa, impulsiva e impaziente, ma,
accidenti! Quel tizio aveva la capacità di farmi diventare
un mostro; gli diedi una spinta mandandolo a quel paese e poi,
finalmente, mi incamminai verso casa, girandomi ogni tre per due per
controllare se mi stesse seguendo. Non volevo che scoprisse dove
abitavo o me lo sarei ritrovata in casa ogni giorno.
Iniziavo a pensare che davvero qualcosa o qualcuno me lo stesse facendo
di proposito a farmelo incontrare ovunque; una volta avevo visto un
film “I guardiani del Destino”, questi tizi, questi
guardiani, agivano in modo da mettere in ordine e sulla giusta strada
il destino degli uomini. Ecco, forse c'era un guardiano, o forse era
semplicemente il fato, che metteva sulla mia via quel ragazzo. Avrei
solo dovuto oppormi a quella forza e riuscire a scamparvi!
*****
Prima
che lo dimentichi: INIEZIONE
D'AMORE
è la storia di Chiara (Fallsofarc)
di cui ho parlato nel precedente capitolo; avevo dimenticato il
collegamento e il link. Vi consiglio di leggerla perché non
solo è
scritta bene e da Chiara, ma perché da un importante
messaggio...
non ve lo dico, ve lo faccio scoprire da sole! MUHAAHHA.
Seconda
cosa importante: YOU
SAVED ME
di Roberta (RobTwili)
Non è un libro, non è un film (non ancora almeno)
ma è sempre una
storia qui su EFP e che vi stra consiglio di leggere, perché
è figa
e perché i personaggi sono shipposi e bellerrimi; e poi
perché se
non lo fate, Ryan stesso viene a casa ad uccidervi.
Il
riferimento di Izzie di Grey's Anatomy è quando lei inizia a
vedere
Danny dovunque nonostante lui fosse morto anni prima. Riesce anche a
toccarlo e baciarlo. Poi si scopre che lei ha il cancro al cervello
ecco perché aveva quelle allucinazioni ed ecco
perché Emily dice
che preferirebbe incontrare Geremia piuttosto che essere in punto di
morte.
Non so se si può clonare una scheda telefonica, ma in
questa storia, nel mio mondo e nella mia fantasia si può;
quindi
l'amico di Geremia riuscirà a recuperare tutti i numeri di
Emily e
il suo vecchio numero utilizzando non so quale programma del pc e poi
Emily sarà in debito con Mr Panna per sempre xD
Non parlo
neanche una parola di francese, e sinceramente mi sta anche sul
cavolo come lingua ma ho stranamente ho voluto tentare questa strada.
Le frasi che leggete sono tradotte con google, quindi se trovate
errori è colpa sua.
* Non è possibile, è insopportabile. Una
persecuzione.
** Vai al diavolo.
Quella non è una canzone
satanista, ma un pezzo di canzone de “El diablo”
dei
Litfiba.
Infine, il film “I
guardiani del Destino”
esiste davvero, questa volta non è nessuna storia di EFP, vi
consiglio di vederlo perché è davvero carino,
anche se poi, per
qualche giorno, mi sono fatta dei flash assurdi!
Pff, le note
sono sempre lunghissime :O per fortuna questa volta non ho parlato a
vanvera.
Come sempre ringrazio i seguiti, preferiti e ricordati e
quelle meravigliose persone che dedicano 5 minuti del loro tempo per
lasciarmi qualche parola.
Grazie per aver letto; spero che la
visione del trio mezzo nudo sia stata di vostro gradimento.
Grazie
ad Elle.
<3
Saluti pannosi.
|
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Capitolo 4 *** QUATTRO ***
A
chi faceva sposare le proprie Barbie.
A mio papà.
QUATTRO.
Era
sicuro come lo scioglimento dei ghiacciai: il Karma si stava
vendicando e io dovevo prendere provvedimenti. Avrei dovuto chiedere
a Giulia se conoscesse qualche sciamano, mago,
tizio-fuori-di-testa, disposto a togliermi il malocchio, a
purificarmi dai miei mali, eliminare il karma negativo e,
soprattutto - perché era quella la parte
che più mi
interessava - rendermi una persona fortunata, in modo
da
non incontrare più Mr. Panna.
Da
quando avevo scoperto che abitava vicino casa mia mi
comportavo come una ladra; uscivo dal grande portone di legno con
occhiali scuri e cappellino per non essere riconosciuta da qualcuno
e, per evitare di incontrarlo agli incroci, sui mezzi e roba
varia, avevo cambiato tutto il mio itinerario stradale. Avrei
preferito spendere miliardi di euro in taxi pur di non parlare ancora
con lui.
Comportandomi
così, stavo quasi per impazzire, ma ero riuscita a
non
incontrarlo per ben tre giorni; la settimana era quasi giunta
al
termine, ero fiera di me. Arrivavo anche in orario a lavoro, Carla ne
era stupita. Era convinta che avessi manomesso tutti gli orologio
dell'ufficio perché era impossibile che io fossi puntuale.
-
Non conosco nessuno e, prima che me lo chiedi, non penso che
Mina possa aiutarti.
Avevo
chiesto a Giulia dello sciamano pazzo disposto a purificarmi, ma non
aveva conoscenze in quel campo; e io che credevo fosse un po' fuori
di testa anche lei, ogni tanto.
-
Potrei chiedere a Carla.
-
Potresti, invece, frequentare questo caro ragazzo, perché di
questo
passo finirai come Carla: sola ed esaurita.
-
Grazie Giù. Sei una vera amica, adesso sono così
piena di
entusiasmo che potrei conquistare il mondo a suon di
matrimoni.
-
Pensavo dicessi “a suon di spogliarelli”.
Le
feci una smorfia mentre lei se la rideva spaparanzata sulla poltrona;
si divertivano a prendermi in
giro poiché trovavano la
situazione con Geremia, anche detto Mr. Panna, molto
divertente.
Pensavano che il fato lo avesse messo sulla mia strada per una
ragione e che non potevo fare niente per sfuggirgli, perché
lui era
il mio destino.
Peccato
che io non credessi né al destino né alle
storielle sul vero
amore.
L'unico
vero
amore era quello tra Pacey e Joey e loro erano due personaggi di un
telefilm, non la realtà.
E
poi avevo già deciso cosa fare con Mr. “Muscolo
unto” : evitarlo
per il resto dei miei giorni, solo in questo modo la mia vita sarebbe
tornata come prima.
-
Noiosa e monotona.
-
No, Mina. Io volevo dire 'tranquilla'.
Fummo
interrotte da un urlo di Giulia, dopo lo shock iniziale ci alzammo
per controllare cosa l'avesse spaventata o scandalizzata a tal punto
da sfidare una soprano. Dovetti sedermi quando vidi la foto
ingrandita sullo schermo, mostrava il principe Henry, completamente
nudo, con la manina sul piccolo Harryno.
-
O santi reali. Quanta perfezione in una sola foto.
-
Maledetta Emmy. Perché sei nata tra gli snob francesi e non
tra
quelli inglesi?
Il
pugno di Giulia sul braccio mi fece male e con il broncio tornai a
lavoro, alla ricerca di un luogo che esaudisse le richieste
delle mie
ultime clienti. Per fortuna in quei giorni mi ero totalmente
concentrata sul lavoro dato che quel compito era
davvero
difficile: due amiche, diverse e opposte, avevano deciso di sposarsi
lo stesso giorno. Poteva essere bello, divertente e in un certo senso
anche romantico, se solo quelle due non avessero avuto i gusti
opposti!
A una
piaceva lo sfarzo, i merletti, i fiori, i colori sgargianti e tutto
ciò che di più tamarro esisteva, mentre all'altra
piaceva il
bianco, la semplicità e nient'altro: metterle d'accordo e
accontentare entrambe sarebbe stato impossibile.
Erano
diverse pure sulla scelta dello sposo: un americano e un inglese;
inutile dire chi delle due avesse scelto l'americano.
-
TROVATA!
Mi
accorsi
troppo tardi di aver parlato ad alta voce, ma ero felice
d'aver
risolto il primo problema: la location. Il matrimonio e il
ricevimento si sarebbero svolti nello stesso luogo, dato che le
coppie non volevano sposarsi in Chiesa poiché di
religione non
Cattolica: la Vigna
San Sebastiano era
il luogo ideale. Grande abbastanza per contenere gli ospiti di
entrambe le spose, elegante, con una vista mozzafiato
e, volendo, poteva essere resa un po' pacchiana, in
modo da
accontentare tutti.
Rimasi a lavorare fino a notte fonda,
sfogliando cataloghi, cercando su ogni sito internet esistente e
appuntando sul block notes qualunque cosa fosse utile; non capivo
perché ogni matrimonio difficile capitasse a me, erano loro
a
cercarmi o Carla che mi raccomandava senza neanche chiedermi un
parere?
Lavorare
tutta la notte era deleterio.
Quando
suonò la sveglia mi sentii il protagonista di un cartone
animato Hanna&Barbera tanto che avrei voluto
tirar fuori dal nulla un enorme martello e distruggere quel maledetto
aggeggio; anche se poi, come nei migliori episodi, avrebbe continuato a
strillare imperterrito.
Mi
alzai svogliata, inciampando quasi nel tappeto; per fortuna mi ripresi
giusto in tempo per sbattere il piede e la spalla contro lo stipite
della porta: si poteva essere più imbranate di me nella vita?
Divorai
una crostatina al cioccolato della Mulino Bianco, mentre
l'odore di caffè caldo si espandeva per tutta la cucina; ne
bevvi tre tazzine e solo grazie alla doccia mi ripresi definitivamente.
Non avevo voglia di stare scomoda, più che altro non ne
avevo le forze, perciò indossai i primi jeans con
maglioncino e camicia abbinati che presi dall'armadio e degli
stivaletti dal colore indefinito, rigorosamente bassi: non
volevo mica rompermi la schiena o una gamba, data la mia scarsa fortuna
in quel mese.
Strano
a dirsi uscii di casa in orario, ma avevo appuntamento con il mio
simpatico e amato analista. Non avevo molta voglia
d'andare e avrei potuto rimandare o far slittare
l'appuntamento o cancellare per sempre le sedute, ma in un certo senso
parlare con Maurizio Costanzo dei poveri mi faceva sentire
meglio: confessare le mie più intime paure ad uno
sconosciuto che per 45 minuti mi ignorava, mi faceva stare
bene.
Avrei
potuto parlare a un peluche e risparmiare tempo e denaro ma si sa,
l'essere umano è stupido e come tale fa cose molto
stupide.
-
Emily.
Mi
voltai curiosa di sapere chi mi avesse chiamata; il sorriso scomparve
non appena lo riconobbi.
L'ultima
volta che avevo visto mio
padre era una sera tempestosa di non so quale anno,
forse del 2002, io avrei
compiuto diciassette anni la mezzanotte
della stessa sera.
-
Em. Rallenta.
No
che non avrei rallentato, avevo fretta; non sarei arrivata in ritardo
all'appuntamento con il dottor Rossi. Percorsi via Paolo Ferrari di
corsa e scesi le scale della Metro: volevo mettere
più distanza possibile tra noi due Fu tutto inutile
perché me lo ritrovai alla fermata.
-
Possiamo parlare, per favore?
-
Non voglio parlare con te. Vattene o mi metto ad urlare.
-
Em non fare così, ti prego.
-
Non. Chiamarmi. Così.- Sibilai a denti stretti a pochi
centimetri dal suo viso. Avrei tanto voluto prenderlo a
schiaffi tanto ero arrabbiata e schifata. Respirai a
fondo, attendendo l'arrivo del treno: sentivo la sua presenza
alle mie spalle e per quanto mi desse fastidio ero curiosa di sapere
cosa ci facesse a Roma, cosa volesse e come mi aveva trovata. Fui sul
punto di chiederglielo ma lui fu più veloce di me, come
sempre.
-
Sei bella, tutta tua madre.
-
La mamma non è morta, se volevi vederla sapevi dove
andare.
-
Sto male Emily, me lo hanno detto i dottori.
-
E vuoi che ti spinga sotto il treno per porre fine alle tue sofferenze?
In
un tempo lontano avevo amato mio padre più di qualsiasi
altra cosa al mondo, adesso lui era il nemico e io dovevo
sconfiggerlo.
Lo
sentii sospirare e avvicinarsi ancora e il mio cuore perse un
battito; aveva ancora gli occhi castani e profondi che
ricordavo, le orecchie grandi e il naso a patata. Era sempre il mio
'papone' ma era colui che mi aveva abbandonata e
io questo non potevo dimenticarlo.
Trattenni
le lacrime traditrici e lo guardai dura, doveva andarsene e non farsi
più vedere; c'era riuscito per ben dieci anni e doveva
continuare a farlo.
-
Se solo tu provassi ad ascoltare...
Colpii
la sua mano che si era poggiata sulla mia spalla e la allontanai
bruscamente, quasi gli urlai contro, ma il nostro 'amorevole'
dialogo fu interrotto.
-
Ehi, tutto bene?- Non sapevo se disperarmi o esserne grata. Mr. Panna
era accanto a noi, con il suo solito cappellino in testa e il sorriso
strafottente stampato in viso. Mi guardava dall'alto del suo metro e
ottanta, alternando lo sguardo con mio padre. Mi feci più
vicina a lui, sperando che capisse che doveva salvarmi da quella
situazione. - Oh. Finalmente ti ho trovata... Andiamo?
Era
evidente che non ricordasse il mio nome, come io non sapevo il suo,
perciò non gli dissi nulla e annuì semplicemente.
-
Emily, aspetta. Parliamo e...
-
Signore, forse non ha capito che Emily non vuole parlare; quindi
farebbe meglio ad andarsene prima che chiami la polizia.
Non
so che faccia fece mio padre o se gli rispose qualcosa, il rumore del
treno in arrivo coprì tutto e ne fui grata; presi Geremia da
un lembo del giubbotto di pelle e lo trascinai sulla Metro, prima che
potesse combinare qualche casino.
-
Fai il principe azzurro come secondo lavoro?
Cercai
di sdrammatizzare per evitare domande imbarazzanti da parte sua su chi
fosse quello strano uomo vestito elegante che voleva parlarmi a tutti i
costi e che stavo per schiaffeggiare davanti a tutte quelle
persone, ma lui fu più furbo e non cascò
nella trappola del “cambio discorso perché non mi
va di parlare”.
-
Quindi... ti piacciono gli uomini tardi?
Risi
per la definizione e per la deduzione; era irrecuperabile.
-
Adesso che sei tranquilla. Chi era quello? Un maniaco? Uno stalker? Non
avevi detto che tua madre è un avvocato e...
-
EHI EHI EHI. Frena. Quello è... un tipo del passato, di
famiglia. Nessuno di importante.
-
Non sembri molto convinta.
Lo
fulminai con lo sguardo – Invece sì. Piuttosto,
hai ricominciato a seguirmi?
-
Quella è l'unica fermata all'angolo di casa mia, cara.
Prendo quella per spostarmi, non è colpa mia se ci siamo
incontrati, anzi dovresti ringraziarmi.
-
Ti sei avvicinato tu, non ti ho chiamato io.
Scosse
la testa e non riuscì a ribattere perché la Metro
si fermò; mi accorsi in tempo che dovevo scendere e lui fece
lo stesso. Lo guardai male e lui mi rispose
sorridendo strafottente. Poi, per fortuna, prese la
direzione opposta alla mia.
Aveva
sempre la stessa posa ed espressione in viso, a volte pensavo fosse
imbalsamato, poi però mi guardava o parlava, dandomi la
dimostrazione d'essere vivo. Mi sdraiai sulla poltroncina e aspettai
che mi desse il permesso per iniziare a parlare; avevo molto da dire
quel giorno.
-
Lui era il mio eroe; non esistevano i tipi come Spiderman, Batman,
Capitan America e altri, mio padre era il vero supereroe pronto a
salvare il mondo e me, la sua principessa, dai cattivi. Lui non mi
avrebbe mai fatto del male e mi avrebbe protetta per sempre da tutto e
tutti. Non la pensavo così solo perché avevo
sette o dieci anni; lui era il mio principe o eroe anche a sedici
anni, quando Pierre mi spezzò il cuore. Mio padre
era ciò che non era mia madre, o ciò che mia
madre avrebbe voluto essere. Poi una notte, se ne andò.
Crede che la mia mancanza di fiducia negli uomini sia dovuta
all'abbandono di mio padre?
-
Lei non si fida di nessun uomo?
Pensai
bene prima di rispondere. Non credevo fosse una questione di
fiducia, ma di paura; avevo pianto ore, giorni e mesi
perché lui non era più tornato, perché
mi aveva lasciata la notte del mio compleanno ed ero convinta l'avesse
fatto perché non mi amava. Mi ero data la colpa per anni.
Avevo capito, un giorno, che le persone sbagliano perché
è nella loro natura: colpevolizzare se stessi o biasimare
loro non ha senso.
-
Oh, io non saprei. C'è per esempio questo ragazzo, di cui
non ricordo mai il nome e che ho conosciuto per caso a un addio al
nubilato di una mia cliente che mi perseguita. Lui è...
-
Mi dispiace signorina Cutini ma il tempo è scaduto,
potrà continuare il discorso venerdì prossimo.
Possibile
che il tempo scadesse ogni qual volta io stessi per dire qualcosa di
importante? Gli diedi i suoi maledetti soldi e me ne andai: avevo un
lavoro a cui pensare, un matrimonio da organizzare. La mia vita e i
miei problemi potevano aspettare.
Durante
il tragitto in autobus e poi in metro riguardai gli appunti che avevo
preso la notte prima sul famoso matrimonio, ripensavo a tutti i
dettagli e immaginavo la cerimonia perfetta per quelle clienti tanto
difficili.
-
Ciao Carla.
Non
aspettai che mi rispondesse, mi precipitai in ufficio per riprendere
dove avevo sospeso la notte prima. Quando alzai lo sguardo
verso le scrivanie di Mina e Giulia le trovai vuote; mi
accorsi in seguito che erano in piedi di fronte la
mia e stavano parlando con qualcuno. Mi feci più vicina e
riconobbi quel cappello, quella voce e quel viso: Geremia aveva colpito
ancora.
-
Che diavolo ci fai tu qui, e come hai fatto a sapere dove lavoro?
-
Tu non saluti mai. Mi assali sempre con tutte queste domande e poi non
mi dai il tempo di rispondere.
Intanto
quelle due traditrici si erano allontanate lasciandomi da sola con lui;
si sbagliavano se pensavano d'essere salve, avrei ucciso anche
loro.
-
Allora?
-
Sessanta minuti.
La
risata di Giulia mi fece imbestialire: quel tizio aveva passato ogni
limite. Mi offendeva, mi perseguitava, si intrometteva nella mia vita
privata, mi seguiva pure a lavoro e adesso si metteva a scherzare con
le mie amiche. Gli lanciai il primo oggetto che avevo a portata di
mano, che era sulla scrivania, ma lui fu
più veloce e lo scansò, così la tazza
con tutte le penne e matite cadde a terra.
-
Tu sei fuori di testa.
Si
alzò dalla mia amata sedia girevole di tessuto blu
per avvicinarsi a me, furioso e forse spaventato; se non fossi stata
arrabbiata avrei riso per la sua espressione.
- Era di plastica, di che ti preoccupi.
La sua vicinanza mi infastidiva, non volevo succedesse quanto accaduto
fuori dal Ladies Night: doveva starmi
lontana, perciò mi chinai a raccogliere le penne e
la tazza.
- Ero venuto a portare il telefono con la sim nuova e a dirti che il
tuo problema è risolto; ma evidentemente hai problemi
più seri. Dovresti farti curare.
Mi sentii in colpa, perché era stato gentile e io l'avevo
aggredito. - Se tu fossi meno arrogante e più disponibile
allora...
- Sono disponibile a fare tutto ciò che vuoi. -
Ammiccò pure e roteai gli occhi a quel gesto, ignorandolo.
La colpa era mia perché usavo i termini sbagliati,
perché parlavo ancora con lui e perché non
riuscivo a comportarmi come un normale essere umano con le altre
persone.
Quel Geremia non aveva tutti i torti: avevo davvero un problema, e non
era certo il cellulare; non mi fidavo delle persone, avevo paura
d'essere ferita e abbandonata.
- Grazie per il telefono e scusa per prima, non è stata una
buona giornata.
Scrollò le spalle mentre indossava il suo cappellino
– Sì, ricordo il tuo stalker d'altri tempi.
- Non è uno stalker, non farmi pentire d'essermi scusata.
Rise e se ne andò dopo aver salutato cordialmente Mina e
Giulia; quelle due quasi non svennero quando si chiuse la porta alle
spalle.
- Che ci faceva qua? Di che stalker parlava? Ma quant'è
figo.
- Giù, calma, una domanda per volta. Avete già
scopato?
Scossi la testa e mi sedetti alla mia postazione, rispondendo alle loro
domande; se non lo avessi fatto mi avrebbero torturata per il resto dei
miei giorni.
Era stata Mina a dirgli dove lavoravo, lui l'aveva chiamata,
sicuramente prendendo il numero dalla mia scheda.
- Ma scusa, non avevi il software per recuperare da remoto i dati
presenti nel telefono?
Me lo feci spiegare più volte e poi capii che no, non avevo
quel programma e che sarebbe stato tutto più semplice se
anni prima lo avessi installato, almeno mi sarei risparmiata la fatica
di parlare e litigare, ancora una volta, con Mr. panna.
******
Questa
è la bellissima località di cui parlo: Vigna
San Sebastiano.
Ho cercato e ricercato milioni di posti all'aperto e vicino al centro
città dove si possono celebrare, non essendo di Roma non
sapevo dove
e cosa cercare, perciò quando ho trovato questo (che a parer
mio è
meraviglioso) l'ho scelto subito.
Nel capitolo, come avete visto,
non succede nulla di che. Emily incontra dopo dieci anni il padre e
cerca di evitarlo in tutti i modi ma ci riesce solo grazie a Geremia
(ovviamente! XD ) Scoprite un lato del suo passato e il motivo per
cui sta lontana dagli uomini e da Gerry soprattutto. Chissà
se
questo è anche il motivo per cui, dopo la laurea, ha
preferito
dedicarsi ai matrimoni piuttosto che continuare gli studi...
Vorrei
ringraziare ancora tutte voi che avete avuto il coraggio di inserire
questa storia tra i preferiti, seguiti e ricordati e grazie a tutte
coloro che si fermano a commentare: sapere di non essere l'unica
pervertita che fa strani pensieri sul fantastico trio pannoso mi
consola! XD
Grazie mille ad Elle per la pazienza di leggere in
anticipo ed eliminare gli orrori.
Per chi volesse esiste un GRUPPO
dove ogni tanto mi piace fare l'idiota più di quanto io non
lo sia
xD
Esiste anche una mia pagina
facebook
dove pubblicizzo il mio account YOUTUBE
e quello DAILYMOTION.
O
ancora, il mio account TUMBLR.
Se volete, cliccando sui nomi sottolineati, potete
“visitare”
ciascuno di loro.
Adesso mi ritiro in solitudine in attesa di uno
spogliarello di Geremia.
Saluti pannosi.
|
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Capitolo 5 *** CINQUE ***
Agli
incontri inaspettati.
Alle situazioni che ci creiamo da sole.
Ai
momenti che ci cambiano la vita.
CINQUE.
Aver
incontrato mio padre era stata la ciliegina sulla torta.
Continuavo
a pensare al motivo per cui fosse venuto a Roma a cercarmi
dopo
dieci lunghi anni di silenzio e non riuscivo a trovarlo: forse
stava davvero male e aveva bisogno d'aiuto. Per colpa sua avevo perso
tutta la concentrazione che mi serviva per organizzare quello stupido
matrimonio.
Stanca dell'ennesimo pensiero su mio padre, lanciai
l'agenda sul tavolo e mi accasciai sulla sedia, sbuffando
rumorosamente. Avevo voglia di una tazza di cioccolata
calda.
-
Puoi parlarne, se ti va. - Avevo dimenticato che ci fosse anche Mina
con me. - È per la
storia dell'uomo misterioso
di questa mattina?
Sospirai, stanca
di mentire a me stessa e di nascondere il mio passato agli altri
–
Era mio padre.
E
così le raccontai una parte della mia vita, quella che avevo
sempre
tenuto segreta un po' per paura e un po' per vergogna: essere
abbandonata non era cosa di cui vantarsi. Non volevo neanche che gli
altri mi tempestassero di domande su come avesse reagito mia madre
all'abbandono o su come avesse fatto a crescere due figlie da
sola, dato che aveva un lavoro a cui pensare o ancora:
-
Perché ti sei trasferita a Roma? Tua madre
è rimasta in
Francia e tua sorella è... dove hai detto che
è, scusa?
Ecco
appunto. Non era semplice spiegare il motivo
della partenza mia
e di mia sorella, soprattutto perché tutti poi pensavano che
anche
noi avessimo abbandonato nostra madre, quando era tutto il contrario;
lei non era la vittima, ma uno dei cattivi, più o
meno.
-
Perché non era facile vivere in quel piccolo paesino dove
tutti
sapevano la nostra storia. Essere additata come la “bimba
abbandonata” non mi faceva sentire a mio agio.
Perciò decisi di
venire qui in Italia dai miei nonni paterni, mia madre si
trasferì
definitivamente a Parigi e mia sorella ne approfittò per
coronare il
suo sogno: New York.
-
Quindi odi anche tua madre?
E
ovviamente mancava all'appello ancora quest'ultima domanda e la
risposta era sempre la stessa – Certo che no. E' mia madre,
come
potrei odiarla? Le voglio bene, come lei ne vuole a noi, a
modo
suo.
Parlarne
con Mina, però, mi aveva
fatto sentire meglio,
molto più che dopo aver parlato con il
dottor Rossi:
almeno con lei c'era dialogo. Sbrigai le ultime cose in modo da poter
restare a casa il giorno dopo, dato che era sabato ed era il
nostro giorno di riposo; uscii dall'ufficio quando era troppo tardi
per passare al supermercato e racimolare qualcosa per cucinare,
perciò mi fermai dal Dio del Kebab sotto casa mia.
Kamal
diceva che io ero la sua cliente preferita e non perché
avessi le
tette grandi o perché gli sorridessi sempre, ma
perché avevamo una
cosa in comune: eravamo stranieri, anche se lui lo era più
di me;
ecco perché mi faceva lo sconto famiglia.
-
Emily, non vedere te da tanto tempo.
-
Ciao anche a te, Kamal.
Oltre
ad avere il nome indiano più comune tra gli indiani e a
essere
gentile, faceva il Kebab più buono che avessi mai mangiato
in vita
mia; peccato che lo avessi mangiato solo lì. Non avevo
neanche
bisogno di ordinare perché sapeva già i miei
giusti: carne, senza
lattuga, con pomodoro e cipolla ma poco piccante; a volte facevo
aggiungere le patatine fritte, quando volevo farmi del male ed ero
tanto depressa, come quella sera per esempio.
-
Vuoi una birra, Emily?
-
Oh sì, per favore! E' stata una giornata
pesante.
-
Tu sposi sempre le persone, quand'è che ti sposi
tu?
Risi
per quella sua domanda, Kamal era simpatico, gentile, un bravo
cuoco, ma non si faceva mai i fatti suoi e chiedeva le cose
giuste al momento sbagliato o le cose sbagliate al momento giusto
o, forse per il fatto di essere indiano, aveva quello strano
potere di capire le persone e leggergli dentro.
-
Ma io non voglio sposarmi, sto bene come sto.
Mi
guardò stralunato, mentre poggiava il piatto con il
Kebab che
avevo ordinato davanti a me.
– E
perché tu non volere sposarti? Non credere in Dio?
Stavo
masticando quella bontà divina e non potevo rispondergli,
quindi
scossi la testa. Fu qualcuno dalla cucina a dire, al posto mio, che
magari non stavo con nessuno e che non ero innamorata. - Esatto.
L'amore non esiste e quindi non mi sposerò mai.
Per
poco non mi tolse il piatto da davanti e non mi cacciò dal
locale;
era come se avessi bestemmiato e avessi offeso tutte le
divinità in
cui credeva.
-
In India diciamo “Non amare è un lungo
morire”. Vuoi morire
vecchia e sola, Emily? Con tanti rimpianti e rimorsi?
Mi
resi conto che Kamal era molto di più che un semplice cuoco
indiano,
non era neanche il tizio straniero sotto casa mia che mi faceva lo
sconto quando mangiavo la sua specialità; lui era il grillo
parlante
versione indiana, mandato da non so chi per portarmi sulla
retta
via e farmi pentire delle scelte fatte fino ad allora.
Forse
era l'unico che poteva eliminare il mio Karma negativo; forse dovevo
convertirmi all'induismo.
Forse
dovevo andare a rinchiudermi in qualche ospedale psichiatrico.
-
Certo che no, solo che non credo nell'amore e a tutte quelle storie
sul destino che sceglie per te, all'uomo della vita o alla storia del
principe azzurro che riconosci solo perché il tuo cuore
batte forte
e senti le farfalle nello stomaco. Beh, le farfalle sono sfigate
perché vivono solo un giorno quindi io non voglio avercele
nello
stomaco.
Forse
un manicomio era quello che più mi si addiceva.
-
Scusa Kamal, non volevo aggredirti. Posso avere il conto
così vado a
casa e dimentico questa brutta giornata?
Mi
dispiaceva averlo trattato male ma le sue parole mi avevano colpita
dritto al cuore come una lama affilata. Quei discorsi sul vero amore
e i matrimoni erano troppo delicati per affrontarli con un estraneo
che non si faceva pagare trecentocinquanta euro.
-
A presto Emily e ricorda “Fa che sia il tuo cuore a scegliere
la
meta e la ragione a cercare la via.”
-
Anche questo lo dite in India?
Annuì
sorridendo e lo salutai per poi uscire dal locale abbastanza turbata
e stanca; avevo voglia e tanto bisogno di una doccia e di mettermi a
letto per non pensare più a ciò che avevo passato
nell'arco di
quelle ore. Ero distrutta e depressa, il mondo aveva ordito un
complotto contro di me, cos'altro poteva andare storto
ancora?
“Cara
El.”
-
No. Troppo formale.
“Ciao
Elle, tutto bene?”
- Ma
cazzo. Non la sento da quasi un anno, non posso mica dirle
“ciao”
“Eléonore, ho visto nostro padre.”
Cancellai
per l'ennesima volta l'inizio di quella email che vedeva mia sorella
Eléonore come destinataria: stavo impazzendo. Non avevo sue
notizie
da più o meno dieci mesi e non sapevo cosa
dirle e come
dirle che nostro padre si era fatto vivo ma stava morendo,
forse.
Misi su un po' di musica per rilassarmi e a piedi scalzi mi
alzai dalla scrivania per andare in cucina e versarmi del vino
bianco: amavo quei momenti serali in cui io, il vino, la musica e il
computer avevamo degli attimi di goduria e puro relax. Capitava, ogni
tanto, che bevessi qualche bicchiere di troppo e andassi a letto
ridendo come un'idiota e per
giunta accaldata, per alzarmi poi, il mattino seguente, con un
mal di testa sensazionale: la tipica sbornia da
vino, insopportabile e ingestibile.
Al
terzo sorso e mentre cantavo insieme ai Kasabian, mettendo
senza sosta una delle mie canzoni preferite, perché
ne
conoscevo solo due e mezza, scrissi quella maledetta email.
“Questa
email non ha inizio.
Ehi Elle, dove accidenti sei e perché non ho
tue notizie dalla notte dei tempi? La colpa è anche mia,
è vero,
quindi metti giù quel telefono e smettila di minacciarmi
telematicamente. Sto bene, non sono incinta e non sono fidanzata e
NO! non ho nessun trombamico. Sì, lo so,
ti ho delusa.
Spero che tu stia ridendo perché devo darti una spiacevole
notizia:
ho rivisto papà.
Devo dirti altre mille cose, quindi,
per favore, potresti farti sentire?
Un bacio.”
La
rilessi più volte prima di inviarla. Ripristinare i contatti
con mia
sorella mi metteva un po' d'ansia, in fondo se lei non si era fatta
sentire per tutto quel tempo c'era un motivo: forse non voleva farlo
perché mi odiava, forse le avevano rubato tutti i mezzi
tecnologici
utili a mettersi in contatto con me o ancora l'avevano rapita gli
alieni o forse, semplicemente, non aveva il tempo per farmi avere sue
notizie.
Eléonore
era sempre stata così fin da piccola, non si preoccupava mai
di dire
ai nostri genitori quando e con chi usciva, lei lo faceva e basta
perché lo voleva fare. Si definiva “uno spirito
libero in
catene” e non andava d'accordo con nostro
padre perché
erano uguali: entrambi si sentivano in gabbia, avevano gli occhi
tristi ed erano sempre in cerca di qualcosa; non si accontentavano
mai ed erano stanchi della propria vita e della Francia. Io invece
ero tutto l'opposto. Accettavo quello che avevo senza battere
ciglio, pentendomi in seguito di tutte le scelte
sbagliate
e di quelle imposte.
Quando
mio padre andò via quella fredda notte, mia sorella non
disse nulla,
non reagì o pianse, continuò la sua routine
quotidiana andando a
scuola, uscendo con i suoi amici e frequentando
Gian-come-si-chiamava; solo dopo un mese o poco più disse a
me e a
nostra madre che dovevamo reagire, che piangere non serviva a nulla e
che lei voleva andarsene.
Improvvisamente
mi ritrovai dai miei nonni a Roma e tutto il resto fu... vino bianco.
Amavo
il sabato mattina perché potevo dedicarmi a me, non alle
spose e ai
loro stupidi capricci: almeno per un giorno alla settimana c'eravamo
solo io, il bagno caldo e il libro che stavo leggendo; insieme ad
altri momenti di relax.
Stavo
giusto mettendo il cellulare in modalità silenzioso e
staccando il
cordless di casa per evitare che qualcuno mi disturbasse,
portando il libro in bagno e iniziando a riempire la vasca, mettendo
i sali giusti.
Dopo
neanche un minuto il flusso dell'acqua iniziò a diminuire
fino a
interrompersi del tutto e io imprecai come un
maschiaccio.
-
Hai il numero di un cazzo di idraulico?
Il
silenzio dall'altro capo del telefono mi innervosiva ancora di
più –
Non penso che i “cazzi” vivano di vita propria tale
da avere
anche i cellulari.
-
Giù,
sei davvero idiota. Non ho più acqua in casa e sto andando
in
panico.
Quella
brutta
strega iniziò a ridere, probabilmente fece anche cadere il
telefono
perché la sua risata sembrò distante –
Ok, ci sono. Em, hai rotto
qualche specchio di recente? E' incredibile la tua sfiga in questo
periodo.
-
Ti odio.
-
Prima la macchina, poi il cellulare e adesso l'acqua.- Riprese a
ridere, forse era meglio riagganciare e lasciarla sfogare in pace.
-
Ti sto odiando. Hai questo numero o no?
-
Sì sì, lo cerco subito.
-
Non è che per caso devi dirmi che lavorano solo il
pomeriggio dalle
sedici alle sedici e zero uno? Sai com'è, l'ultima volta il
meccanico...
-
No miss
“voglio tutto e subito” questi sono sempre a
disposizione e
quando ti decidi a prendere un elenco telefonico o un pagine
gialle?
-
Ma io ce l'ho
già, perché cercare quando ci sei tu? Grazie
Giuli. Bacino.
Composi
il numero che mi aveva dato la mia amica e che avevo scritto su un
post-it azzurro: ero fissata con quel colore. La voce di
quell'uomo mi fece rassegnare all'idea che, dopo una mezz'ora
abbondante, avrei avuto in casa un tizio sconosciuto sulla
cinquantina, probabilmente con la pancia da birra, la canottiera
bianca sporca di grasso e i jeans luridi e lacerati che mi avrebbero
fatto intravedere metà delle sue chiappe.
Indossai
una tuta e sconsolata mi stesi sul divano a guardare la televisione o
meglio, passai mezz'ora a scorrere tutti i canali del digitale
alla ricerca di qualcosa di interessante, ma quella stupida
scatola non trasmetteva nulla che potesse soddisfare la mia voglia di
omicidi.
Al
suono
del campanello scattai come una furia, non guardai neanche dallo
spioncino perché sapevo che a quell'ora poteva solo essere
l'idraulico.
Lo
fissai
imbambolata per due minuti quasi, circa, forse meno ma melius
abundare quam deficere.
-
Ho qualcosa in faccia o ho sbagliato appartamento?
- Oh, emh...
Non ha niente in faccia e credo non abbia sbagliato, è
l'idraulico?
- Così dicono. Dov'è il problema?
Indicai con il
dito la porta del bagno e quell'uomo, uno dei più sexy che
avessi
mai visto in divisa da lavoro, andò verso la fonte dei miei
problemi
per sistemarla, permettendomi di chiudere la porta d'ingresso. Andai
a spiarlo anche perché volevo sapere quanto grave fosse il
danno e
lo trovai disteso supino sotto il lavello, con le gambe piegate, la
canottiera nera leggermente alzata che lasciava intravedere gli
addominali obliqui; scivolai dallo stipite della porta e quasi
sbattei la testa.
- Dovrei controllare anche in cucina, se
non è un problema.
- No, no no.
I jeans non erano per niente
luridi o lacerati, anzi, erano stretti e risaltavano il suo bel
sedere tondo, sodo e da prendere a morsi. Deglutii e desiderai
dell'acqua fredda in testa per calmarmi: era solo un bell'uomo
attraente, con delle gran belle braccia muscolose e tatuate che
faceva il suo lavoro. Potevo ignorarlo, dovevo.
- Quindi?
Tornai
sulla terra e mi ricordai che dovevo mostrargli la cucina –
Ci
siamo già visti da qualche parte?
Era figo sì, ma mi
sembrava di conoscerlo; lui mi guardò meglio, mi
sembrò di vedere
qualcosa di diverso nel suo sguardo come se avesse trovato la
soluzione a una delle più terribili malattie del mondo, poi
però
scrollò le spalle, fece una smorfia e – No. Almeno
non nella
realtà ma, forse mi hai incontrato nei tuoi sogni.
- Come scusa?
- Incrociai le braccia sotto al seno. Mi aveva davvero risposto in
quel modo?
- Calma ragazza, stavo scherzando. E' una battuta di un
cartone animato, lo dice un principe,
volevo vedere se funzionava davvero.
Lo ignorai – Questa è la
cucina.
Si accucciò nella stessa posizione in cui l'avevo
trovato in bagno e trafficò con alcuni attrezzi. Rimase un
bel po'
lì sotto a lavorare in completo silenzio, tutto quello che
si
sentiva era solo il rumore di tubi e altri cosi maneggiati;
sapevo che non gli sarei stata d'aiuto perciò tornai sul
divano per
leggere qualche pagina in più di quel famoso libro.
-
Qui sotto c'è puzza di panna, l'hai gettata nel lavello per
caso?
Alzai
gli occhi dal
libro e fissai scettica lo schermo nero della televisione –
Scusa?
Mascherò
la
risata con un colpo di tosse – Niente, dicevo per dire.- Non
feci
in tempo a tornare a leggere che lui riprese a parlare – Che
fai
nella vita? Lavori, studi... la ballerina professionista in locali
notturni?
-
Puoi
limitarti a sistemare il problema e chiudere la tua bocca?
Grazie.
Lo
fissai
per qualche istante, in realtà fissavo le sue gambe
perché erano
l'unica cosa che riuscivo a vedere data la sua posizione e avevo
ancora l'impressione d'averlo visto da qualche parte,
benché non
sapessi dove; forse era stato l'ospite di qualche matrimonio
che
avevo organizzato ma ciò non spiegava quelle frasi e
domandine
idiote che non smetteva di farmi: era idiota per caso o la puzza di
fogna gli aveva atrofizzato i neuroni?
La
regola del 'biondo e cretino' a quanto pare valeva anche per i
maschi.
-
Finito, c'era
questo tubo rotto che ho cambiato e adesso dovrebbe funzionare tutto.
Controlla se non ti fidi.
Lui
stesso mi fece vedere che l'acqua scorreva limpida e abbondante dal
rubinetto della cucina e anche da quelli del bagno.
-
Grazie mille. - Gli diedi la cifra che mi aveva chiesto, per fortuna
non era caro. Sexy, maleducato, ma non caro.
-
E' stato un piacere. Se dovesse rompersi la lavatrice, qui
c'è il
mio biglietto da visita: sono bravo con la centrifuga.
Era
un doppio senso quello? E aveva davvero ammiccato mentre mi passava
il cartoncino bianco e rosso? Per fortuna uscì di casa
perché stavo
iniziando a pensare che quel tizio fosse un maniaco e ad avere un po'
paura di lui. - S.C.? Che diavolo è S.C.?
-
Il mio nome. E' stato un piacere ragazza, a presto.
Non
aspettai che andasse verso le scale, chiusi la porta e
andai in bagno
per concedermi, finalmente, quella mia ora di relax immersa nella mia
vasca.
Raccontai
a Giulia quanto era successo quella mattina, mi rispose che ero la
solita fortunata in fatto di uomini, perché ogni volta che
lei
chiamava quella ditta le mandavano un idraulico peggio dell'altro.
-
Ma non avevi detto che ero sfigata? E ti ricordo il meccanico.
-
Il signor Ciccio è gentile, non offenderlo.
-
Comunque, meglio un idraulico indecente che quello di oggi, Dio, era
insopportabile.
La
sentii
sbuffare – Sei tu quella poco tollerante Em. È pronta
la pasta, ci sentiamo domani, buona serata.
-
Sì, ciao ciao.
Anche
io
aspettavo che la mia cena si cucinasse, guardavo impaziente il pollo
ancora crudo dentro al forno e non sapevo che fare.
Un'idea
geniale illuminò la mia mente.
Accesi
la tv sintonizzandola sul canale trentasei del digitale, RTL era
quello che ci voleva per rianimare la serata e risollevare il mio
morale; presi la bottiglia di vino bianco dal frigo e mi versai un
bicchiere: adesso sì che il mio sabato sera poteva avere
inizio.
Avevo
già bevuto tre bicchieri di vino e stavo versando il
quarto; ero
accaldata, perciò avevo tolto la tuta restando in
intimo e
scalpitavo in attesa della canzone successiva. Non mi piaceva il
giornale orario o le informazioni sul traffico in autostrada: io
volevo cantare e ballare.
Strillai
felice quando il tizio salutò i video telespettatori e i
radio
ascoltatori e la VJ introdusse uno degli ultimi successi di
J.Lo.
Trangugiai
mezzo bicchiere e salii sul divano – I wanna dance and love
and
dance AGAIN.
Aumentai
il
volume quasi al massimo, rischiando che i vicini del mio stesso piano
venissero a suonare e protestare, ma era sabato sera, volevo
divertirmi, almeno per una volta.
-
UUUUUHHH I wanna dance. EEEE. Oooooh.
Il
campanello interruppe il mio acuto, proprio come avevo
previsto.
Spensi
la tv,
posai il bicchiere sul tavolo in cucina e indossai una vestaglia, non
potevo certo aprire in mutande e reggiseno: la signora Molinari si
sarebbe scandalizzata più del previsto.
Non
mi preoccupai, per la seconda volta, di guardare dallo spioncino; i
probabili scocciatori potevano essere solo tre: la signora Molinari,
appartamento adiacente al mio, terribile vecchiaccia rompi scatole
che si lamentava anche per il ronzio di una mosca; mi odiava dal
momento in cui aveva scoperto la mia nazionalità. Il signor
Cesari,
un signore mezzo sordo ma che, non si sapeva come, riusciva a sentire
ogni rumore, nonostante abitasse di fronte al mio appartamento.
Infine c'era lei, la signora Cuccia, cicciotta e bassina, siciliana
ma romana d'adozione, viveva di pettegolezzi; molte volte suonava
alla mia porta per chiedermi come stessi e perché nessun
ragazzo mi
facesse mai visita.
Non
sapevo chi fosse il peggiore tra i tre.
Aprii
la porta e spalancai occhi e bocca. - Mi prendi in giro?
-
Chiudi la bocca biondina o entrano le mosche.- Era uno scherzo?
Sentii una delle tre porte aprirsi e lo tirai dentro. -
Eh, calma
Dumbo, che irruenza!
-
Idiota, non voglio che i miei vicini ti vedano, non smetterebbero di
parlare. Che ci fai qui?
-
Aspettavi qualcuno? Carino il tuo appartamento.
Andai
in panico. La vestaglia mi copriva fino a metà coscia e
lasciava
intravedere il mio décolleté; me
l'avevano regalata Giulia e
Mina, dicevano che sarebbe stata utile, prima o poi. Cercai di
coprirmi il più possibile mentre quel deficiente si
intrufolava in
cucina e curiosava in giro.
- Tua madre non ti ha mai detto che è
maleducazione fare quello che stai facendo?
Mi guardò sorridendo,
aveva i denti bianchi e allineati in modo perfetto. - E cosa starei
facendo?
Non risposi perché le rotelline del mio cervello non
funzionavano bene come sempre, avevo bevuto troppo per reggere un
confronto verbale con lui: avrei perso la battaglia, mi
avrebbe
umiliata.
- Lascia perdere, non capiresti. Come hai fatto a
scoprire dove abito?
- Ho i miei informatori. Apri sempre in
questo modo la porta di casa? Perché potrei venire spesso, a
trovarti.
Perché ogni cosa che usciva dalla sua bocca era un
esplicito riferimento al sesso? Il trillo del forno mi
avvisò che il
pollo era pronto; ne fui grata, in quel modo l'avrei cacciato di casa
e mi sarei ripresa dalla quasi sbronza.
- La tua cena è pronta e
sembra essere invitante. Apparecchio per due, ho un certo
languorino...
- Ma tu non hai da lavorare questa sera? - Per colpa
sua quasi non mi bruciavo nel tirar fuori la teglia dal forno.
Maledetto idiota palestrato, oliato e deficiente.
Aspettai che il
pollo si freddasse un po' prima di tagliarlo e metterlo nei piatti,
intanto guardavo Geremia muoversi nella mia cucina alla ricerca
dell'occorrente per apparecchiare: quella scena mi fece
sorridere, era davvero raro che cenassi con qualcuno, soprattutto un
estraneo. Pensai a quanto dovesse essere bello vivere con qualcuno,
condividere con una persona la quotidianità di una giornata,
raccontarsi i momenti brutti e belli a cena e poi accoccolarsi
insieme sul divano a guardare la tv.
- S'è freddato abbastanza?-
Mi fu accanto e tornai con i piedi per terra – Se vuoi faccio
io.
-
No, sei un ospite, quindi siediti e stai zitto.- Gli misi il piatto
davanti e mi accomodai di fronte a lui.- Dov'è
l'acqua?
-
Credevo volessi bere solo vino e non l'ho messa.- Fece di nuovo quel
suo sorrisetto impertinente. Lo odiavo talmente tanto che avrei tanto
voluto farlo a pezzetti e infilarlo dentro il forno. - Se hai
problemi d'alcool conosco una clinica che può aiutarti.
- Senti,
mettiamo ben in chiaro una cosa: io non ti conosco e non voglio
farlo. Sei qui solo perché ti sei auto invitato e non ti
caccio
perché sono educata ma se continui ad offendermi ti sbatto
fuori a
calci, chiaro?
Annuì – Mangiamo?- Aspettò che tornassi
a
tavola con l'acqua. - Buona cena.
Gli feci una smorfia e
assaggiai il mio piccolo capolavoro.
Geremia o come si chiamava in
realtà, mangiava in silenzio, gustando il pollo e
lanciandomi, ogni
tanto, un'occhiata; sembrava volesse dirmi qualcosa ma non ne aveva
il coraggio. Nel silenzio di quel momento ne approfittai anch'io per
guardarlo, era così calmo e gestibile che colsi la palla al
balzo.
Era proprio un bel ragazzo, nessuno poteva affermare il contrario e i
suoi occhi avevano qualcosa di particolare, non era il colore,
azzurro, o la forma, piccola e un po' allungata; c'era qualcosa, nel
suo sguardo, che incuriosiva e affascinava, che spingeva a volerne
sapere sempre di più. Era ipnotico.
- Era mio padre.- I
suoi occhi curiosi si posarono su di me – Quello non era uno
stalker o uno dei miei amanti, era mio padre. - Il suo silenzio mi
diede il coraggio di continuare. – Non lo vedevo da dieci
anni, per
questo stavo scappando. Lui, se n'è andato e non l'abbiamo
più
rivisto e io non voglio più avere niente a che fare con lui,
perciò
ti ringrazio per quello che hai fatto e mi dispiace davvero per la
storia del porta penne.
Abbassai lo sguardo colpevole e
imbarazzata
– Tranquilla, mi hanno tirato di peggio addosso.-
Mi sorrise e ristabilii il contatto visivo. L'ho detto, era ipnotico.
- Anche io ho un padre difficile. Lui è uno di quelli stra
ricchi
dei quartieri alti che mi ha sempre imposto cosa fare e cosa non
fare. Voleva che andassi all'università e studiassi legge:
io,
giurisprudenza, ma ti immagini?
Risi, in effetti non ce lo
vedevo in toga, seduto di fronte a una corte a
difendere un
assassino; al massimo avrebbe fatto arrestare un innocente.
-
Così ho fatto di testa mia e sono partito, lui non ha visto
di buon
occhio questa mia scelta e mi ha buttato
fuori di casa,
definitivamente. Tutti abbiamo dei padri difficili o teste di cazzo,
l'importante è non fare i loro stessi errori. L'ha detto
anche
Olivia a Peter “Na ine kalitero antropo apo ton patera
toi”.
-
Cosa hai detto?
- Sii
un uomo migliore di tuo padre.
E' greco.
Gli sorrisi rassegnata: quel ragazzo era davvero
strano. Verso le ventuno e trenta scappò via
perché doveva andare a
lavorare ed era in ritardo; avevo cenato con lui, gli avevo
raccontato un pezzo del mio passato e lo stesso aveva fatto lui, ma
non sapevo ancora il suo nome: era normale?
La mia vita era
un gran casino, preferivo la solitudine alla vita di coppia,
rifiutavo l'amore per paura di star male, ma in questo modo soffrivo
ancora di più.
Quando sarebbe arrivata la grande svolta? O
meglio, sarebbe mai arrivata?
****
UAO
quanto ho scritto!
Il
capitolo è diviso in tre parti: il Venerdì
pomeriggio, Emily pensa al padre e racconta a Mina altri dettagli
sulla sua vita e si scopre la presenza di una sorella. TA TA TA
TAAAA. E la sera, impegnata a mandarle una email.
Sabato
mattina,
Emily vuole fare un bagno ma ha un problema con le tubature e
così
chiama l'idraulico. LOL Amo questa parte.
Terza
scena: Geremia va
a trovarla a casa.
Come
accidenti avrà fatto a sapere dove abita?
:O E cosa voleva da lei? Questo ragazzo è insopportabile,
vero?
(Mandatemelo a casa, vi prego! VI PREEEEGO!)
C'erano
molte cose
che volevo dirvi ma la mia memoria mi impedisce di farlo
perciò
accontentatevi di quello che ricordo.
Spero
che tutte conosciate i
Kasabian, io li ho scoperti troppo tardi e sto cercando di recuperare
o almeno ci provo. ( La canzone di cui parla Emily è Goodbye
Kiss.
)
* melius
abundare quam deficere è
un espressione latina che si traduce con: meglio abbondare che
scarseggiare. Si usa per affermare che per non rischiare di non
raggiungere la giusta misura, è preferibile superarla ed
eccedere.
(Wikipedia mi ha aiutata con la spiegazione)
La frase che dice
l'idraulico, detta da un principe
e che si riferisce ad un cartone animato altro non è che: La
bella addormentata nel bosco
e lui è il principe Filippo. (Questo cartone mi sta proprio
sulle
scatole)
Credo che tutti conosciate la canzone di J.Lo insieme a
Pitbull, Dance Again. Dovevo metterla per forza nel capitolo dopo
aver visto il primo episodio di Glee.
La frase in greco “Na
ine Kalitero, apo ton patera toy”
La dice Olivia Dunham in Fringe nell'episodio 2x01 e significa: Sii
un uomo migliore di tuo padre. E' greco antico la trascrizione
originale è questa: Γίνε
καλύτερος
άνθρωπος
από
τον
πατέρα
σου.
Credo di non avere altro da dire se
non :
Per chi volesse esiste un GRUPPO
dove ogni tanto mi piace fare l'idiota più di quanto io non
lo sia
xD
Esiste anche una mia pagina
facebook
dove pubblicizzo il mio account YOUTUBE
e quello DAILYMOTION.
O
ancora, il mio account TUMBLR.
Ringrazio chi ha letto e chi ha commentato lo scorso
capitolo, chi aggiunge questa storia tra i preferiti, seguiti e
ricordati: SIETE COSI' MERAVIGLIOSE CHE VI MANDEREI UNA BOMBOLETTA DI
PANNA SPRY A CASA.
Ringrazio, infinitamente, Ellina
Bellina per
quello che fa e per la sua pazienza.
Alla prossima e che la
panna sia con voi.
|
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Capitolo 6 *** SEI ***
Allo
stretto indispensabile.
Ai colpi di testa.
Ai colori.
SEI.
Avevo
paura. Ero seriamente preoccupata: da una settimana a questa parte
non avevo incontrato Geremia né mio padre aveva cercato di
contattarmi, le cose a lavoro andavano bene, nessun danno a
oggetti personali o a me stessa; cosa mi stava succedendo? Che fine
aveva fatto la mia amica sfiga?
- Dopo la cerimonia vi
sposterete qui, è abbastanza grande per contenere entrambe
le vostre
liste di invitati; è sul prato ma i vostri due tavoli
saranno in
posizione centrale e rialzata rispetto agli altri in modo che tutti
possano vedervi. L'orchestra sarà...
- La band vuoi dire!
Ecco
che ricominciavano i battibecchi tra le due spose, per fortuna erano
amiche, non osavo immaginare cosa avrebbero detto o fatto se non lo
fossero state.
- Ilaria, io non voglio la band, voglio
un'orchestra che suoi violini e altri strumenti a corda. Voglio una
musica soave al mio matrimonio.- I suoi occhi chiusi e super
truccati, l'aria sognante e le unghie ben curate mi fecero
rabbrividire. - Ci saranno anche i gazebo vero?- Si rivolse a me,
aprendo di scatto gli occhi castani e inviperiti.
- Veramente...
No.- Prima che scoppiasse provai a spiegarle che il matrimonio era di
entrambe e che stavo provando, insieme ai miei
collaboratori, ad accontentare tutte e due. - Avevo
pensato ad alcuni tavoli con sopra delle tovaglie di
lino
bianco e appuntati a esse dei piccoli fiorellini gialli e arancio che
richiamano le composizioni ai vostri tavoli.
- Io li voglio
viola e rossi.
Giada era la sposa più complicata tra le
due, quella che stava con l'americano e che voleva le cose
più
strane. Che razza di abbinamento era quello che aveva scelto?
Sospirai cercando una ragione per non strozzarla.
- Potremmo
dividere le composizioni in base ai vostri tavoli e agli
invitati.
-
L'importante è che io abbia i miei fiori viola.
Quando
tutti e quattro andarono via, mi rilassai sulla mia poltrona
maledicendo Carla e la sua mania di darmi i lavori più
difficili.
Perché non potevo mai occuparmi di matrimoni semplici o di
quelli
civili?
Mandai le ultime email per confermare la sala del
ricevimento, chiamai il fioraio e anche il pastore che avrebbe
celebrato il rito; stavo appunto parlando con quest'ultimo quando mi
arrivò un messaggio al cellulare, mi soffermai a leggerlo
più del
dovuto, perdendo la concentrazione.
“Ehi
biondina, non pensare che mi sia scordato di te, sono solo troppo
impegnato per passare a salutarti. Non disperare,
recupereremo.”
Primo:
non ero affatto disperata, anzi tutto il contrario: non aveva la
minima idea di quanto fossi felice di non averlo incontrato in quei
giorni.
Secondo: come diavolo aveva fatto ad avere il mio
numero?
La risposta lampeggiò nella mia mente come
un'enorme insegna luminosa: il suo stupido amico che mi aveva
duplicato la scheda! Un moto di rabbia mi assalì e fui
tentata di
rispondergli mandandolo, gentilmente, a quel paese; invece lo
ignorai, credendo che in quel modo lui si sarebbe convinto che
aveva sbagliato numero.
- Signorina
Emily, è ancora in linea?
Avevo
dimenticato di essere al telefono con il pastore Marzano –
Sì,
scusi, stavo appuntando tutto sull'agenda. Quindi confermiamo?
Quello
rispose e chiusi la chiamata afflitta, possibile che quel tizio, di
cui ancora non conoscevo il nome, doveva farsi sentire nei momenti
sbagliati e inopportuni?
Anche quella mattina arrivai in
orario a lavoro; Carla non era nel suo ufficio, aveva lasciato un
biglietto dicendo che era uscita per un sopralluogo. Mina e Giulia
invece, erano già sedute alle loro
scrivanie, ma invece di
lavorare parlavano della loro serata precedente.
- Tu che hai
fatto?
Si accorsero di me solo perché feci tutti i rumori
possibili, attirando l'attenzione – Oh, buongiorno
ragazze,
anche voi qui?
La loro risata mi contagiò, era strano
essere di buon umore di prima mattina. Ultimamente ero sempre
così
cupa e triste, un po' come Meredith Grey.
Stavo per
rispondere e raccontare loro della mia serata rilassante, passata sul
divano a guardare una commedia americana quando il mio cellulare
squillò: l'ennesimo messaggio.
“Buongiorno
Dumbo. Non puoi evitarmi per sempre.”
Lo
misi in modalità 'vibrazione' e lo posai sulla scrivania.
- Chi
era?- Mina e la sua morbosa curiosità.
- Non è che per caso hai
qualche ammiratore segreto e non vuoi dircelo? - Giulia, quando ci si
metteva, sapeva essere peggio di Mina, avrebbe potuto
iscriversi a
scienze investigative perché sarebbe stata un ottimo
detective rompi
scatole.
- Nessuno di importante. Volete sapere o no quello che ho
fatto ieri?
- No, perché fai la stessa cosa ogni sera: stai
a casa a guardare un film. Sei noiosa.
Volevo ribattere alle
parole di Mina, ma l'altra arpia si intromise, mettendo fango
su
fango:
- Potrai parlare solo quando uscirai con qualcuno che
merita e farete baldoria per tutta la notte. Fino ad allora, zitta e
lavora.
Scoppiarono a ridere e finsero di darsi un cinque a
distanza; le mandai a quel paese e mi misi a lavoro
ignorandole.
Quando andavo a scuola non facevo mai
colazione o, se mangiavo, mi limitavo a ingerire qualcosa di secco
come biscotti o simile evitando il latte e il caffè
perché sapevo
che a metà mattina sarei dovuta correre in bagno. Da grande
persi la
mia intelligenza e furbizia e iniziai a fare colazione bevendo latte
e caffè, i due ingredienti più lassativi
possibili messi insieme:
verso le undici corsi in bagno per un attacco di mal di pancia
incredibile.
Forse era stata colpa del cinese della sera
precedente, non ero mai stata male come in
quel momento in
vita mia; dovevo iniziare a mangiare in maniera decente e smettere di
ingozzarmi di schifezze.
Tornando in ufficio trovai le due
streghe sedute sulla mia scrivania a ridere come due idiote.
-
Oddio... “Dovresti
tornare al locale, potrei rifare il numero della panna solo per
te.”
Stavano
leggendo i messaggi del mio cellulare.
- Giù, senti questo: “Sto
mangiando del pollo con i miei coinquilini: preferirei avere te
davanti, con quella vestaglia nera e trasparente.” Era
quella che ti abbiamo regalato noi?
Mi avvicinai a loro,
arrabbiata, togliendo dalle mani di Mina l'oggetto delle loro risa
–
Cosa state facendo?
- Ha cominciato a tremare e... Abbiamo letto.
Scusaci.- Tra le due Giulia era quella con la testa sulle spalle e la
meno curiosa. – Però adesso spiegaci cosa sono
tutti questi
messaggini.
Mi sbagliavo. - E' il tizio del Ladies Night, quello
della panna.- Non mi fecero finire di parlare perché
iniziarono a
saltellare felici come delle antilopi nella foresta per tutta la
stanza ripetendo quanto fosse romantico che - testuale - 'quel figo
mi scrivesse ogni mattina, pomeriggio e sera'. A detta loro il
romanticismo stava nel fatto che la nostra sembrava la versione
rivisitata di “Pretty Woman”, lui era il prostituto
e io la tizia
ricca che cercava di migliorargli la vita; lui però non mi
sembrava
così infelice della vita che stava conducendo.
- E tu che gli
dici?
Risposi mentre raccoglievo le mie cose per tornarmene a
casa: nel pomeriggio avrei visitato la Vigna San Sebastiano
insieme alle spose. Alla notizia che lo ignoravo per fargli credere
che avesse sbagliato numero, Mina e Giulia iniziarono a
insultarmi; non mi interessava cosa pensassero loro, io volevo
solo che quell'idiota la smettesse di importunarmi.
- Io però
potrei avergli risposto per sbaglio, prima.
Era
ufficiale: odiavo Mina. - Cosa hai fatto?-
Sibilai, mentre
mi avvicinavo minacciosa e con l'ombrello in mano: l'avrei
usato
come arma se fosse stato necessario. - Cosa gli hai scritto?
-
Niente di grave, ho usato il tuo stile.
Mi bloccai – Ironica e
tagliente?
Negò con il capo e accennò una mezza risata
–
Isterico, quello di una zitella.
Mi finsi arrabbiata mentre
loro due morivano dalle troppe risate: Giulia cadde per terra
e
si teneva la pancia, dicendo che la mia espressione
era
troppo buffa; ancora una volta le mandai a quel paese e me ne uscii
dall'ufficio.
Non sapevo cosa avesse risposto Mina al
messaggio e in tutta onestà non mi interessava
affatto, ma mi
aveva infastidito il loro intromettersi nella mia vita. Se non gli
avevo raccontato nulla di tutta quella faccenda, c'era un
motivo: quello di tener fuori, il più lontano
possibile, Mr
Panna, perché quello portava solo guai e sfiga. Loro
due non erano cattive e quello che facevano lo facevano per il mio
bene, di questo ne ero a conoscenza, ma
il mio brutto carattere mi faceva reagire in quel modo, portandomi
a trattarle sempre
male.
-
Ciao Emily, come stai?
Non
potevo crederci, quel tizio era sempre in agguato e pronto ad
assalirmi quando poteva. Stavo iniziando a pensare di scendere con le
scale e abolire per sempre l'ascensore. Lo salutai per educazione
anche se avrei preferito ignorarlo; lui come al solito aveva voglia
di parlare perciò continuò a infastidirmi con la
sua vocetta
nasale.
-
Non pensi che
sia strano incontrarci sempre qui dentro?
Lo
aveva notato davvero? Allora era un genio! - No, figurati. Io ci vivo
qui dentro è normale incontrare qualcuno ogni
tanto.
Rise
come un idiota e mi venne voglia di prenderlo a pugni – Lo so
che è
assurdo, ma ti assicuro che è una
coincidenza: è la
mia pausa pranzo e se non mangio le sfogliatine della signora Maria
starò male per tutto il giorno.
Un
altro dei miei problemi era che giudicavo troppo in fretta le
persone; quel ragazzo era sempre stato gentile con me e aveva
ragione, ci incontravamo solo negli orari di entrata o uscita dal
lavoro; in effetti anche lui doveva andare a mangiare o a casa
a
dormire. Ero proprio stupida!
Le
porte dell'ascensore si aprirono e mi lasciò
uscire, sorridendomi
gentile; non ero abituata a tutta quella galanteria.
-
Cosa sono queste sfogliatine di cui parli?
La
mia bocca non era collegata al mio cervello oppure il mio cervello
aveva smesso di funzionare. Perché cavolo mi mettevo a
parlare di
cibo con quello che fino a qualche istante prima avevo creduto fosse
un maniaco sessuale?
-
Non le hai mai assaggiate? Dobbiamo rimediare.
Mi
sorrise ancora e, prendendomi per mano, mi
trascinò
fino al piccolo panificio di fronte al palazzo in cui
lavoravamo. Ci accolse una signora bassina e ciocciotta, ma
molto simpatica: lei doveva essere Maria.
-
Emily, ti presento la signora Marianna che tutti chiamano
Maria.
Le
strinsi la mano e lei mi riempì di cibo e complimenti. Quel
tipo
aveva ragione: le sfogliatine erano squisite, non ne avrei potuto
fare a meno per il resto dei miei giorni.
Uscimmo
dal panificio rotolando: mi sembrava di essere ingrassata di
altri dieci chili per tutto quello che avevo mangiato, sarei
scoppiata da un momento all'altro; come avevo potuto farmi trascinare
da un tizio e mangiare tutte quelle cose?
Dovevo
smetterla di farmi domande e iniziare ad agire: salutarlo e andarmene
erano le prime cose da fare.
-
Grazie mille per il pranzo. Sei stato davvero gentile.
Era
chiaro come l'acqua: il mio cervello era morto; se mi avessero fatto
in quel momento un elettroencefalogramma si sarebbe vista una lunga
linea piatta.
-
E'
stato un piacere, potremmo farlo un'altra volta se ti va.
Dovevo
solo negare, salutare e andare via. - Certo, puoi solo dirmi il tuo
nome? Io, beh sai, ho una pessima memoria.
-
Mario e qui c'è anche il mio numero.
Mi
diede il suo biglietto da visita e poi lo salutai sul
serio dato
che dovevo incontrare le mie due simpaticissime clienti alla
Vigna e non potevo perdere altro tempo.
Sull'autobus
presi il cellulare per memorizzare il numero e trovai un altro
messaggio il cui mittente era sempre “Non
Rispondere”, lo lessi
per curiosità:
“Ho
vinto: mi hai risposto. Biondina 0 - Pi...”
La
voce elettronica mi annunciò che quella era la mia fermata
perciò
lanciai il telefono nella borsa e scesi di corsa per non perdere la
coincidenza. Dopo dieci minuti arrivai a destinazione, stanca
e
sudata. Odiavo i mezzi pubblici ma fin quando non avrei trovato un
automobile a buon prezzo mi sarei dovuta arrangiare.
Dopo
tutto il pomeriggio trascorso ad ascoltare le lamentele di Giada e le
suppliche di Ilaria quando arrivai a casa presi due aspirine e mi
buttai esausta sul divano con le lacrime agli occhi a causa del
troppo mal di testa; quel lavoro mi stava uccidendo.
I
matrimoni erano belli quando erano semplici e intimi, quando ci si
sposava per amore e non per interesse; ammettendo che l'amore potesse
spingere due persone a legarsi per sempre con un contratto.
Mi
addormentai vestita, senza cenare; avevo mangiato abbastanza a pranzo
e troppo stanca per camminare fino in camera da letto. Pensai a
Mario, aveva un sorriso carino e gli occhi azzurri: mi piaceva quel
colore degli occhi, chissà di che colore erano quelli di
Geremia.
Ero
in ritardo e non avevo dei vestiti puliti perché la sera
prima non
avevo caricato la lavatrice; in più, essendomi
addormentata sul
divano, ero puzzolente e ancora vestita.
Maledii
il mio lavoro per tutto il tempo della doccia, soprattutto
quando dovetti indossare un abitino beige, l'unico indumento non
troppo elegante che mi era rimasto nell'armadio, insieme a delle
scarpe con il tacco rosse.
Presi
borsa e cappotto e uscii in fretta da casa: se fossi arrivata
troppo in ritardo il Dottor Rossi non mi avrebbe ricevuta e quella
corsa sarebbe stata inutile.
Il
traffico quella mattina fu dalla mia parte e riuscii anche a beccare
tutte le coincidenze; scesa dall'autobus iniziai a correre come se
stessi facendo la maratona di New York, nonostante
non
credessi di saper correre su quelle trappole mortali. In
realtà
avevo paura di cadere a ogni passo e di fare una figuraccia davanti a
tutti i passanti, ma la reputazione con l'analista era
più
importante di una figuraccia per strada.
Aprii
la porta dello studio con soli cinque minuti di ritardo e la
segretaria mi fece accomodare su una di quelle tante sedie scomode
verdi e arancioni che c'erano nella sala d'aspetto. “Il
dottore è
occupato al momento, desidera qualcosa nell'attesa?” Mi aveva
detto
la segretaria e avrei tanto voluto spaccarle l'enorme Mac che aveva
davanti in testa, perché avrebbe potuto chiamarmi e
avvertirmi,
almeno avrei fatto a meno di correre e sudare come un maiale in
calore.
Dopo
una lunga lotta interiore tra quale colore tra giallo e arancione
fosse più brutto e quindi in quale sedia avrei poggiato il
mio accomodante sedere,
scelsi l'arancione e mi rilassai aspettando che il dottore di sto
cavolo si liberasse; sfogliai qualche rivista, cancellai tutti i
messaggi ricevuti senza neanche leggerli per liberare la memoria e ne
mandai uno a Carla dicendo che avrei ritardo per colpa
dell'appuntamento con l'analista; stavo per perdere quella poca
pazienza che avevo quando delle urla attirarono la mia attenzione, mi
sporsi dalla sedia per ascoltare meglio.
Il
mio secondo nome era curiosità.
-
La mamma sta male e io non posso andare a vederla perché tu
lo hai
proibito, che razza di padre sei?
-
Pietro, abbassa la voce.
-
Non abbasso un cazzo. Mi hai tolto tutto, ma non ti
permetterò
di portarmi via la possibilità di vedere mia madre.
-
E' colpa tua se siamo arrivati a questo punto, avresti dovuto fare a
modo mio. Seguire i miei consigli invece di fare quello che fai...
Sei una profonda delusione.
A
qualche minuto di silenzio seguì un tonfo, il rumore di un
oggetto
lanciato per terra o contro il muro. Sentii dei passi verso la porta
e mi spostai verso la finestra per non farmi vedere e
scoprire: se
avessero saputo che avevo origliato non avrei fatto una bella
figura.
-
Non ti
preoccupare, Dottore, risolveremo la questione a modo mio. E' tutto
suo signora.
Mi
voltai quando il ragazzo aveva girato l'angolo, il Dottor Rossi era
in piedi accanto la porta e stringeva la maniglia come a volerla
rompere; aveva le nocche bianche e solo dopo qualche minuto si
voltò
verso di me.
-
Mi scusi
per lo spettacolo, si accomodi pure.
Non
dovevo piangere, in fondo non era poi tanto grave avere male ai piedi
per colpa delle scarpe; dovevo resistere fino in ufficio
perché lì
le avrei tolte ottenendo la pace dei sensi.
Non
erano poi così alte o così scomode, c'era il
platò ad attutire il
peso e il tacco non era spillo ma abbastanza grosso; il problema
stava nella punta che stringeva troppo le mie dita rendendole ancora
di più dei salsicciotti pressati e doloranti.
La
vibrazione della mia borsa mi distrasse dai miei pensieri
sulle
scarpe maledette; il numero era sconosciuto e per quanto odiassi
quelle tipologie di chiamate dovetti rispondere perché
poteva essere
qualche mia cliente.
- Emily,
devi venire subito qui.
-
Scusa, ma con chi parlo?
- Con
tuo fratello! Per favore ho bisogno del tuo aiuto. Ti mando per
messaggio il mio indirizzo, fai presto perché è
urgente.
Guardai
il telefono sbigottita per qualche istante, fino a che non mi
arrivò un messaggio da “Non rispondere”
con scritto una via e il
numero civico; sbuffai e scesi alla fermata
successiva, cambiando
del tutto il mio tragitto. Al telefono mi era sembrato
preoccupato e che avesse davvero bisogno del mio aiuto,
perciò
strinsi i denti e corsi verso casa sua.
Per
fortuna non ero così lontana e arrivai presto in via Treviso
numero
diciannove, il portone del palazzo era aperto e ne fui grata
perché
non avrei saputo a chi suonare; in realtà non
sapevo neanche il
piano in cui abitava quel cretino perciò gli mandai un
messaggio a
cui rispose qualche secondo dopo dicendomi anche che avrei trovato la
chiave nelle palle del toro.
Salii
le scale fino al sesto piano perché, ovviamente, in quel
palazzo non
c'era l'ascensore; arrivai mezza sfinita e in punto di morte, avevo
tolto le scarpe davanti al 3B sorridendo come una scema pensando ai
protagonisti di un libro che stavo leggendo e avevo continuato
la mia scalata verso l'idiota.
Al
6A sospirai vittoriosa e cercai le palle del toro; a sinistra su un
muretto con il ripiano in marmo, dietro una pianta grassa, c'era una
piccola statua in bronzo di un toro in una posizione strana, sembrava
stesse per fare la cacca; non potevo credere a quello che stavo
facendo: infilai la mano sotto le palle di quella statua e le
staccai, prendendo la chiave.
Disgustata, aprii
la porta e cercai l'idiota, non sapevo neanche come chiamarlo, ma
in qualche modo mi annunciai non ottenendo nessuna risposta: mi
preoccupai. Guardavo tanti film horror o fiction poliziesche, per un
attimo pensai che mi avesse chiamata a casa sua per uccidermi o per
incastrarmi in un omicidio, poi però sentii la sua voce.
-
Sono qui, ultima porta in fondo al corridoio.
Superai
l'unico ambiente del soggiorno-cucina e camminai per il lungo
corridoio nel quale c'erano diverse porte colorate: una rossa, una
verde scuro, una blu, una nera e infine in fondo, arancione; bussai e
aprii incerta.
-
Ma che
cazz! Ti sembra il modo? Non potevi vestirti?
-
Finalmente sei arrivata. Devi aprire la porta nera e prendermi la
carta igienica, per favore.
Avrei
pagato oro per vedere la mia espressione in quel preciso istante;
dovevo avere la bocca spalancata e gli occhi fuori dalle orbite oltre
all'istinto di sbattere la porta e tornarmene da dove ero venuta.
Geremia se ne stava seduto sul water, completamente nudo, con un
rotolo finito in mano e la faccia da schiaffi.
-
Stai scherzando?- Negò e chiusi la porta in maniera poco
delicata,
borbottando. All'interno della porta nera c'era uno sgabuzzino,
cercai per un po' e quando la trovai tornai da lui lanciandogliela in
faccia -Tieni, idiota.
-
Sei molto carina con questo vestito.
Nonostante
avessi chiuso la porta, riuscii a sentire quel complimento e non
potei fare a meno di sorridere; era strano che proprio lui mi dicesse
qualcosa di gentile dato che era sempre stato scortese e maleducato.
Ero in ritardo a lavoro per colpa sua e dovevo dirglielo,
perciò mi
sedetti sul divano di stoffa blu e bianca che c'era in cucina e
aspettai che mi raggiungesse; picchiettavo il piede sul pavimento per
lo stress, lo avrei ucciso, anzi prima lo avrei
torturato: strappato i peli del naso uno alla volta, legato da
qualche parte e fatto il solletico sotto i piedi e alle ascelle, gli
avrei fatto la ceretta nelle parti intime e poi, fatto a pezzetti.
Sì, era un piano perfetto.
-
Il tuo sorriso mi spaventa: vuoi rapinarmi? Perché se
è cosi non ho
un soldo qui...
Rapinarlo?
Era proprio idiota quel ragazzo. Alzai lo sguardo per rispondergli e
per l'ennesima volta rischiai di morire quel giorno: era nudo, con
solo una misera tovaglia a coprirgli l'amichetto in basso.
-
C'è qualcosa che vorresti chiedermi o vuoi che la
tolga?
Forse
era meglio alzarmi e guardarlo in faccia. - Senti, razza di idiota,
mi hai fatto venire fino a qui di corsa solo perché non
potevi
alzare il tuo culo dal cesso e prenderti da solo la carta
igienica?
La
sua
indifferenza mi faceva innervosire ancora di più. - Non
credi sia
disgustoso camminare per casa in quel modo? Non sapevo chi altro
chiamare: Riccardo è uscito per fare la spesa e Giovanni
è a
lavoro.
Quindi
Riccardo
viveva con lui, in quell'appartamento; chissà quale delle
tre porte
era la sua camera e chissà come faceva a vivere insieme a un
troglodita come l'idiota che avevo di fronte. Era meglio non
rispondergli e andarmene, avevo già perso l'intera mattinata
in
sciocchezze e se Carla avesse saputo che invece di tornare a lavoro
subito dopo l'appuntamento con l'analista ero andata a fare visite di
cortesia a degli spogliarellisti, mi avrebbe decapitata.
-
Devo andare, ma me la pagherai.
-
Come posso sdebitarmi?- Mi accompagnò fino alla porta,
aprendomela
come un perfetto gentiluomo.
-
Intanto cominciando a smettere di mandarmi messaggi.
Uscii
da quella casa prima che l'aria diventasse irrespirabile; stare
troppo vicina al suo corpo nudo non faceva bene ai miei ormoni
arrugginiti; se sorrideva, poi, mi mandava in confusione ancora di
più: non era normale avere quei denti così dritti
e bianchi, forse
era testimonial della Mentadent, dovevo provare a fargli mordere una
mela.
Il
mio
cervello era andato di nuovo.
-
Ti darò un biglietto omaggio per il mio spettacolo.
E
tutto, come al solito si riduceva al sesso – No grazie, ho
già
visto abbastanza.
-
Potrei fartene uno privato allora. -Rifiutai mentre scendevo le
scale, mettere più distanza possibile era la soluzione
migliore. -
Ti inviterò a pranzo, o a cena! Mi farò
perdonare, vedrai.
Scossi
la testa sorridendo, non avevo nessuna intenzione di uscire con lui
né tanto meno di vederlo ancora; il modo perfetto per
ripagarmi del
favore sarebbe stato sparire per sempre dalla mia vita, ma sapevo che
una richiesta del genere era impossibile. L'orso Balù
insegnava che
più si cerca qualcosa più non la si trova e
viceversa; avevo solo
bisogno di stare ferma ad aspettare che il destino facesse il suo
corso, sperando però, che fosse come lo volevo io.
*****
Ma
ciao belle donne, come state?
Sono
già iniziate le lezioni
universitarie? Come procede la scuola? PFF l'autunno è
arrivato ma
qui fa ancora caldo.
Non
perdiamoci in chiacchiere e passiamo al
capitolo.
Prima
di dimenticarlo, il libro di cui parla Emily
quando passa davanti al 3B non esiste ma è sempre un
riferimento
alla storia di Roberta: YOU
SAVED ME.
(Che vi obbligo a leggere)
A parte il fatto che lo trovo noioso da
moooooorire, non ho molto da dire:
anche questa volta il capitolo
si divide in due parti, più o meno.
- Emily a lavoro alle prese
con quelle due sceme di spose che personalmente vorrei strozzare
perché stanno facendo impazzire pure me.
- Emily a casa di
Geremia.
Ovviamente nella prima parte accadono un sacco di cose
interessanti.
CHI è Mario e che vuole?
Alzi la mano chi li ha
shippati per un momento. IO STO ALZANDO ANCHE I PIEDI!
I numerosi
messaggini che Mr Panna le manda: oddio ma questo tizio è
una
tortura... non ha altro da fare? Lavorare, dormire, cercarsi delle
amiche che non siano Emily? MAH!!!
La litigata strana che ha
sentito dall'analista. ZANZANZAN.
Sono proprio curiosa di sentire
le vostre supposizioni soprattutto sull'ultima parte del capitolo,
quando Geremia vuole invitarla ad uscire.
*
tante risate *
Credo
di non avere altro da dire se non :
Per chi volesse esiste un
GRUPPO
dove ogni tanto mi piace fare l'idiota più di quanto io non
lo sia
xD
Esiste anche una mia pagina
facebook
dove pubblicizzo il mio account YOUTUBE
e quello DAILYMOTION.
O
ancora, il mio account TUMBLR.
Voi che aggiungete la storia tra le varie categorie, che
leggete e recensite: siete fantastiche e vi ringrazio immensamente.
Prima o poi vi arriverà un Gerry mezzo nudo a casa.
Grazie a
Ellina
Bellina
per la pazienza che ha con me e per evidenziare alcune frasi in rosa.
|
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Capitolo 7 *** SETTE ***
- A
chi shippa
tutto insieme a ogni cosa.
The
(he)art of the streap VIDEO.
Sette.
Il
vuoto. Stavo cadendo nel vuoto e urlavo. Urlavo e nessuno mi sentiva.
Nell'impatto mi accorgevo di essere sopra qualcosa di morbido e bianco:
delle nuvole? Abiti da sposa?
C'era profumo di camomilla e quella era... Carta igienica.
- Inconscio del cazzo.
Sbottai, allontanando le coperte il più lontano
possibile per poter scendere dal letto. Per quale assurdo motivo avevo
fatto quel sogno? E cosa significava?
Volevo sbattere la testa contro lo spigolo della cucina. Non poteva
indicare il mio bisogno di andare in bagno perché non avevo
nessuno stimolo. Avevo sentito odore di camomilla: forse il mio
inconscio mi stava suggerendo di rilassarmi.
Prima o poi sarei diventata pazza o forse lo ero
già: c'era qualcosa di strano
nell'aria, me lo sentivo, qualcosa che avrebbe cambiato...
- Oddio il caffè!
Ero così stupida da non essermi accorta che quel qualcosa altro
non era che odore di caffè bruciato. Avevo sporcato il piano
cottura e non avevo tempo per pulirlo; quella giornata era iniziata
male e stava continuando peggio.
Prima di uscire di casa controllai la cartina appesa al frigo con il
percorso ideale che avevo disegnato e che avrei dovuto
intraprendere per evitare di incontrare Gerry; ormai sapevo
dov'era casa sua, quindi sfuggirgli sarebbe stato semplice,se
solo lui fosse stato così gentile da permettermelo.
Era
capitato di vederlo al supermercato o alla fermata della metro e
autobus e non volevo che accadesse di nuovo, anche perché
odiavo quel sorrisetto insopportabile che metteva su non appena mi
notava: gli avrei dato un cazzotto in pieno viso così da
fargli cadere quei denti perfetti. Non ero un tipo violento ma quello
tirava fuori il peggio di me.
Credevo
d'essere salva, un po' come quando giochi a mosca cieca o nascondino
durante l'intervallo alle scuole elementari: tu sei l'ultimo giocatore
e sei sul punto di liberare tutti, credi di essere invincibile, hai il
potere e l'illusione di aver fregato il tizio che ha fatto la conta;
sei lì, a un passo dalla libertà, quando lui ti
vede, tu lo vedi ed è una corsa a chi arriva primo
a gridare: UN DUE TRE LIBERA TUTTI, oppure:
-
Pensavi di sfuggirmi, vero?
Lui
era arrivato prima di me, perché io nella corsa ero sempre
stata una schiappa.
-
Ciao
“tizio-che-non-vorrei-incontrare-ma-che-non-faccio-altro-che-trovarmi-tra-i-piedi.”
Il
mio entusiasmo si tagliava con un grissino, avrei potuto fare
concorrenza a quella marca di tonno famosa; lui, dal canto suo, era
felice e sorridente come sempre. Evidentemente le cose gli andavano
bene o forse la botta in testa che aveva preso da piccolo gli aveva
causato più danni del previsto.
-
Dove vai di bello?
-
A fabbricare bombe di carta; è
martedì mattina dove vuoi che vada? Ho un lavoro a cui
pensare.
Io
lavoravo, io correvo a destra e a manca per evitarlo, io mi spaccavo la
schiena – metaforicamente parlando – per far
sposare la gente quando neanche credevo nell'amore e lui se ne stava
impalato al semaforo, a guardarmi come uno stoccafisso. Lavorava, se
quello poteva definirsi lavoro, la notte: perché la mattina
era in giro a rompere le scatole a me invece di dormire?
Mi
accorsi che stava parlando troppo tardi, non avevo neanche visto le sue
labbra muoversi; ero troppo intenta a offenderlo mentalmente. Qualsiasi
cosa mi avesse detto o chiesto non mi interessava, perciò
gli risposi con un secco “No”.
-
Ma la mia non era una domanda.
Il
suo sguardo confuso mi fece sorridere ma mi trattenni. - Beh. No: non
parlare, chiudi la bocca e sparisci.
-
Non mi stavi ascoltando!
-
Bravo Sherlock, vuoi la pipa e il cappello adesso?
Averlo
dietro mi metteva a disagio, sembrava fosse la mia ombra o il mio
mastino napoletano. Uh, avevo un cane e neanche lo sapevo.
-
Posso sapere cosa ho fatto di male per meritarmi il tuo
disprezzo?
Mi
fermai sentendo la sua domanda e lui mi venne addosso, poteva almeno
rispettare la distanza di sicurezza. Respirai lentamente,contando fino
a dieci. Non volevo sbranarlo, perché il cane era
lui e io non volevo apparire scortese, maleducata e pazza; quando fui
abbastanza calma da pensare di riuscire ad avere un dialogo decente con
lui mi voltai, trovando le sue labbra carnose appena dischiuse troppo
vicine e i suoi occhi azzurri e luminosi puntati nei miei.
Oltre
alla pazienza avevo bisogno di molto autocontrollo.
-
Da dove comincio? Mi hai umiliata davanti a persone che neanche
conoscevo facendomi salire su quel palco e mettendo le mie mani sul tuo
culo nudo, per non parlare della panna.
-
Ricordi anche tu? Quando mi hai strizzato la chiappa sinistra mentre
risucchiavi l'ombelico è stato il momento più
eccitante della serata e di solito non ricordo mai ciò che
accade nella “sedia bollente”.
-
Lo stai facendo di nuovo: mi stai mettendo in imbarazzo, mi stai
prendendo in giro. Lo hai sempre fatto. Io non ti conosco e ti odio;
perché mi perseguiti, mi mandi messaggi o mi chiami per la
carta igienica? Cosa vuoi, davvero, da me?
Aprì
la bocca e la richiuse più volte e mi sembrò un
pesce, forse stava pensando alla risposta più giusta da
darmi, anche se avrei preferito che andasse
via, lasciandomi in pace per sempre. Quando trovò
le parole secondo lui adatte, sorrise e parlò: - Voglio
conoscerti e poi devo farmi perdonare!
-
Tutto qui?
-
Se vuoi ti elenco qualche altro verbo che fa rima in 'are'.
Ogni
volta che lo ascoltavo parlare sapevo che un mio neurone tentava il
suicidio, quindi perché rischiare di diventare una demente
quando potevo scacciarlo come fosse una fastidiosissima mosca?
-
Io non voglio conoscerti, la mia vita era perfetta fino a prima che ti
incontrassi quindi, per favore, torna da dove sei venuto. Lasciami in
pace. - Aveva riaperto bocca per parlare, ma lo interruppi
prima di un altro suicidio – Shhhh, zitto. SHHH! Il tuo
blablabla mi fa venire il mal di testa; devi sparire! E se questo verbo
non ti è chiaro, cercherò tutti i
sinonimi esistenti per farti capire il concetto. Adesso io
andrò dritto e tu, ti farai mettere sotto da un autobus.
-
Dovrei morire perché non vuoi vedermi? Tu sei pazza e non
è colpa mia. Avevi la possibilità di divertirti
un po' con il sottoscritto senza preoccupazioni e l'hai sprecata:
stammi bene Acidella.
-
VAFFANCULO!
Forse
glielo urlai troppo tardi, ma lui mi sentì lo
stesso, insieme a una decina di persone che attraversavano l'incrocio
in quel momento.
Non
potevo credere di essermi liberata di lui: ce l'avevo fatta. Avevo
vinto. Arrivai a lavoro sorridente e felice dopo un mese circa di
depressione cronica; non vedevo l'ora di dirlo alle mie amiche, sapevo
che dopo un primo momento di isteria e parolacce mi avrebbero capita e
sarebbero state contente per me. Almeno lo speravo.
Li
guardavo da cinque minuti senza sapere cosa
dire e intanto sentivo le loro risatine alle mie
spalle; ero indecisa se strappare quei post-it fucsia con i cuori
disegnati e quelli azzurri con scritto 'Gerry
più Emily = Panna per sempre' oppure
strozzare le due streghe traditrici a mani nude e incollargli le dita
una per una.
-
Respira Em. Non farti venire un attacco isterico.
Avevo
capito che Giulia, tra le due, era la peggiore: combinava il guaio, ti
consolava e poi PEM ti
pugnalava di nuovo e ancora più a fondo; era
tremenda.
-
Cosa sono questi cosi? Cioè, so cosa sono ma cosa
significano?
Con
loro era meglio specificare sempre, in qualsiasi circostanza. Mina
cercò di rimanere seria mentre mi spiegava che, dopo il mio
resoconto sul piacevole incontro mattutino in cui avevo avuto quel
dolce scambio di battute con tizio-idiota, avevano iniziato a shipparci
insieme;
termine che sembrava appartenere al gergo di un delinquente, ma
poi capii il vero significato: “tifare” per una
coppia.
-
Oh dai, siete così carini insieme. Non fare quella faccia
Em, pensaci!- Mina si era avvicinata, porgendomi
il disegno di un cuore con dentro due iniziali.
-
Ci sto pensando e non vedo nessuna nave con stampata la sua faccia
pronta a entrare nel mio porto.
-
Questa cosa suona molto porno, ma
sono d'accordo con Mina; insomma lui ti manda messaggini, ti chiama, si
fa trovare nel tuo ufficio...
-
Cerca soprannomi carini con cui chiamarti, si auto invita a cena a casa
tua, ti prende in giro di continuo.
-
E, cosa molto importante, ti ha fatto assaggiare la sua pelle: se non
è amore questo.
Stavano
giocando a completa
la frase e
in più stavano rischiando di farmi innervosire. Ero
così stanca di ripetere sempre le stesse cose: "non ho tempo
da perdere", "non lo voglio vedere" ecc ecc; perciò le
lasciai parlare e sognare.
-
Pensatela come volete, costruite un modellino del Titanic, se
proprio non avete nulla da fare, ma se vedo altri post-it del
genere, vi mozzo le dita e ve le incollo alle orecchie.
Alzarono
le mani in segno di resa e mi sembrò di sentirle borbottare
un 'che c'entra il Titanic?'. Però ero troppo concentrata a
strappare in mille pezzi quei fogli e buttarli per prestare attenzione
a loro: quell'incubo era finalmente finito. Avevo vinto io, come sempre.
Niente
cappellino e occhiali per nascondermi, niente tragitto modificato:
tutto era tornato alla normalità, avevo riavuto la mia vita.
Quando il giorno dopo il litigio lo avevo visto alla fermata della
metro, avevo avuto paura che si avvicinasse e riprendesse a
parlarmi come era solito fare, ma no, mi aveva ignorata, si
era comportato come un perfetto estraneo e io avevo sentito i cori
dell'alleluia in lontananza.
Anche
il giorno dopo ancora lo avevo incontrato di sfuggita al supermercato,
era fermo al bancone surgelati a leggere le ultime offerte sui
prodotti; per un attimo avevo avuto l'istinto di chiedergli
perché mangiasse quelle schifezze invece di cucinare
qualcosa di buono e sano, ma, quando vidi una moretta tutta
tette e plastica avvicinarsi a lui con una bomboletta di panna spray e
strizzargli una natica, mi ero allontanata mordendomi la lingua. Ero
stata chiara con lui: doveva sparire dalla mia vita, quindi
perché avevo pensato di parlargli?
Come
una scema lo avevo detto a Giulia durante una delle nostre
chiacchierate a telefono e la sua risposta mi aveva lasciata basita,
credeva che fossi gelosa e che lui mi mancasse: stronzate. Tornare alla
mia vecchia vita era ciò di cui avevo più bisogno.
-
Emily, eccoti qui. Ho bisogno del tuo aiuto.
Carla
era entrata nel nostro ufficio con il suo solito savor faire, la coda
del suo coprispalle lungo arancione scuro svolazzava a destra e manca
mentre camminava e i suoi occhiali stile anni '60 penzolavano sul suo
collo. La guardai interrogativa e spaventata per quello che avrebbe
potuto chiedermi.
-
Questo è il nome della mia sposa e queste, – con
la penna scorse tutto il foglio che aveva poggiato sulla scrivania, -
sono le sue amiche che festeggeranno, insieme a lei, l'addio al
nubilato.
Diedi
un'occhiata alla lista, erano più o meno una ventina
– Vuoi che regali una bottiglia di vino alla sposa? Un
pene-cerchietto a ognuna delle invitate... Che devo farci?
Mi
piaceva Carla, era un buon capo; rispettava il nostro lavoro e ci
pagava bene al ventotto di ogni mese, ma una cosa che proprio
non sopportavo era la sua risata: grossa e un po' maligna.
-
No cara, devi portarle in quel locale dove vai spesso.
Mi
sembrava d'essere un enorme punto interrogativo, di che locale stava
parlando? - Emh, vuoi che le porti da Kamal a mangiare un
kebab?
Rise
di nuovo e immaginai la mia matita tra le sue labbra, come a
cucirgliele. - Il locale degli spogliarellisti! - Lo disse con una tale
ovvietà e naturalezza da farmi spalancare la bocca: io lo
frequentavo spesso?
IO?
QUEL
LOCALE?
Forse
stavo sognando o magari quello era un brutto scherzo organizzato da
Mina e Giulia.
-
Puoi... potresti spiegarti. Per favore?
All'improvviso
avevo perso la capacità della parola, la saliva mi si era
prosciugata e la lingua era come intorpidita; il mio cervello era
andato a farsi friggere come se tutto, in quell'istante, rifiutasse
quello che Carla mi stava dicendo: dovevo accompagnare quelle tizie al
Ladies Night.
-
Il locale è pieno zeppo, devi riuscire a farle entrare.-
Quella notizia era fantastica: se non c'erano tavoli
disponibili, non avrei avuto nessuna chance di procurarle i
biglietti di ingresso e quindi io non avrei messo più piede
là dentro, come avevo promesso a me stessa. - Tu conosci la
star del locale, me lo hanno detto Mina e Giulia, chiamalo e fatti fare
questo favore.
-
Ma io, cioè noi, lui. Non posso.
Il
suo sguardo mi incendiò: potevo piangere? Quella era la
vendetta del Karma, per un momento di felicità ne avevo
ventordici di tristezza; cosa avevo fatto di male nella mia vita
precedente?
Ucciso
o offeso qualcuno? Rubato, incendiato qualcosa; la mia vita era una
grossa grande palla di sterco puzzolente e io ero intrappolata
là dentro, morente per la puzza e per il peso sulle
spalle.
-
Vuoi che ti licenzi?- Negai senza aggiungere altro
e, afflitta, presi il cellulare per chiamare
l'idiota.
Riattaccai
più volte ancora prima che iniziasse a squillare. Non sapevo
che dire e come iniziare il discorso; cosa avrei detto non appena mi
avesse risposto. Soppressi un urlo tra le mani e strinsi i capelli
quasi fino a tirarmeli: stavo per avere un attacco di nervi. Respirai a
fondo e pigiai il tasto verde.
- Guarda
guarda chi sta chiamando. Che succede, Acidella, hai cambiato
idea e ne vuoi approfittare?
- Mi
serve un favore. È per il lavoro.
- E
perché dovrei farti un favore dopo il modo in cui mi hai
trattato?
Sarei
morta di ulcera perforata, ne ero convinta – Senti, non
è per me; è per il mio capo. - Volevo essere
convincente e nello stesso tempo non volevo che pensasse che avevo
bisogno di lui.
- Per
il tuo capo?-
La sua voce era strana e non riuscivo a capire bene tutte le parole;
sembrava stesse mangiando – Io
non lo conosco nemmeno, perché dovrei aiutarlo?
- E' una donna e per favore, non voglio essere licenziata.
Lo sentii sospirare – D'accordo,
dimmi.
Gli
feci un riassunto breve della situazione: avevo bisogno dei biglietti
di ingresso per una mia cliente; lui però non faceva che
ridere,rendendo il momento ancora più difficile da digerire.
Non capivo perché serviva la prenotazione o un biglietto per
entrare; io, quella volta, ero entrata senza problemi.
- Consideralo come il modo per sdebitarti. - Quella era la mia ultima
carta, poi sarei dovuta andare da Carla e ammettere la mia
sconfitta.
- Mi
devi dare il numero esatto, ti farò avere un pass e un
tavolo con tutti i posti a sedere accanto al palco; ogni invitata, se
arriverà in ritardo, dovrò dire ai buttafuori e
al botteghino che è lì per l'addio al
nubilato.
Sorrisi
soddisfatta – Le ragazze sono venti e grazie: mi hai salvato
la vita.
Sospirò di nuovo; forse avevo esagerato a chiamarlo, in
fondo non avevamo tutta quella confidenza anzi, non esisteva per
niente. - Il
pagamento sarà effettuato prima dell'ingresso, sempre al
botteghino. Il costo del biglietto sarebbe di venti euro più
cinque di prenotazione ma, solo perché è un
favore e perché sei tu, dì alla tua sposa di
portare quattrocento euro. Devo andare, ciao.
Riagganciai
sollevata e mi lasciai cadere sulla mia sedia girevole, il primo passo
era stato fatto e non era andata poi così tanto male, dovevo
avvertire Carla e poi mi sarei rilassata a casa, soddisfatta
per quell'estenuante giornata di lavoro.
-
Credi che io metterei mai piede in un locale del genere e poi, cara, io
non organizzo addii al nubilato.
Sentivo
la rabbia invadere il mio sangue, ribollirmi le vene ed ero a un passo
dal diventare l'incredibile Hulk: avrei voluto prenderla dai piedi e
sbatterla dovunque distruggendo il suo ufficio tanto perfetto quanto
pacchiano.
Lei
non voleva entrare in quel locale, per quale motivo avrei
dovuto farlo io? Era la sua sposa e neanche io mi occupavo di feste,
alcool e roba varia: il mio compito era quello di organizzare il giorno
perfetto di una donna e renderlo il più bello della sua vita.
-
Carla, io ti voglio bene, ma in questo momento ti odio. Non
voglio fare questa stupida festa in quel locale, ci sono entrata una
volta e mi è bastata; io mi occupo di
matrimoni, non di spogliarelli.
-
Per l'amor del cielo Emily, ti ho chiesto di
accompagnarle, non di salire su quel palco e ballare nuda
intorno a un palo.
Mi
arresi alla sua volontà e come un cucciolo abbandonato con
la coda tra le gambe tornai alla scrivania per raccattare le mie cose e
tornare a casa; altro che giornata lavorativa soddisfacente, quella
poteva aggiungersi alla lista : “ciò che mi
spingerà a suicidarmi”
Non
rivolsi parola a Carla per tutto il giorno perché ero
offesa, arrabbiata e ferita nell'orgoglio. In quei momenti mi sembrava
di tornare bambina, quando mia sorella Eléonore andava dai
miei genitori a dire che avevo finito il barattolo di marmellata;
smettevo di parlare con lei per giorni perché eravamo una
squadra e lei non poteva tradirmi in quel
modo, perché una squadra lavorava insieme e noi
dovevamo sconfiggere i cattivi e salvare il mondo.
Carla
mi aveva tradita e quindi non meritava la mia parola fino a quando non
avessi deciso io il contrario.
D'altro
canto però mi fece tornare a casa prima del previsto dato
che dovevo prepararmi per la festa e dovevo essere al locale prima del
tempo per avere il pass e pagare i biglietti.
Decisi
di indossare qualcosa di diverso rispetto ai soliti jeans o pantaloni
scuri che mettevo a lavoro. Contemplai il mio armadio per ben dieci
minuti, avevo ancora l'asciugamano in testa a tamponare i capelli
bagnati, e in meno di mezz'ora sarei dovuta essere al
Ladies Night: ancora ero in intimo a decidere cosa mettere. Prima che
il panico prendesse possesso di me, ebbi l'idea più geniale
della storia: andare a controllare il mini armadio che tenevo nel
ripostiglio e dove nascondevo gli abiti che Mina e Giulia mi
obbligavano a comprare; ne trovai uno rosa con dei disegni neri e un
fiocco di seta sotto il seno, lo abbinai con delle scarpe nere con il
tacco basso e una borsa rosa.
In
realtà non sapevo cosa stavo facendo: agghindarmi in quel
modo, truccarmi con cura e mettere il lucidalabbra non erano cose per
me; io andavo in jeans e scarpe da tennis anche agli appuntamenti in
banca perché non mi interessava apparire in un certo modo
agli occhi degli altri né il loro giudizio. Il fatto che,
quella sera, stessi dedicando più tempo del previsto alla
cura del mio corpo e ai dettagli insulsi come abbinare scarpe e borsa
al vestito, mi faceva pensare al peggio.
Arrivai
all'ora prevista nella mia tabella di marcia di fronte il Ladied Night
e, indecisa su come e quando entrare, chiamai Geremia per chiedergli
informazioni.
- Ho lasciato il pass per te al botteghino, quando
arriva la tua sposa ti fai dare il nome del tavolo e qualcuno vi
accompagnerà giù.
- Il pass è per me? Credevo servisse a
tutte per entrare. Che devo farci con il pass? Uh, sono una vip.
Lo sentii ridere e sorrisi anche io, tanto non poteva
vedermi - A dopo Emily e goditi lo spettacolo.
Sospirai rassegnata, scuotendo la testa, ritirai il
mio pass VIP mettendolo in borsa e poi aspettai che arrivasse la sposa
insieme alle sue care amiche.
Dopo un quarto d'ora in cui avevo maledetto me stessa per la mia
puntualità, il mio lavoro, il mio non saper dire no e
l'enorme idiozia nell'aver messo quelle scarpe che iniziavano a
tranciarmi le dita vidi arrivare una limousine rosa
shock che si fermò proprio
davanti alla porta nera d'ingresso. Sperai non fosse la
cliente di Carla perché dal colore di un'auto poteva capirsi
la personalità di una persona, ma le mie speranze
furono molto vane: dalla limo vennero fuori una quindicina di donne
urlanti e troppo colorate per i miei gusti.
- Tu devi essere – Non mi fece finire di parlare, quella cosa
agghindata come un lampadario dell'ottocento.
- Rachele ma puoi chiamarmi Rachi. Tu sei la sostituta di Carla, quella
che ci accompagna?
Io ero quella che le avrebbe spaccato il muso troppo rosso e rotto il
naso rifatto. Da quale fabbrica fallita della Mattel era uscita quella?
Di una cosa ero certa: Carla me l'avrebbe pagata di avermi assegnato il
compito di badare a Barbie, Teresa e le sue simpatiche amiche.
-
Oddio, sono emozionata: mi hanno detto che lo spettacolo di SpicyCock
è quello più entusiasmante.
-
Assolutamente no! Sono già venuta una volta qui –
Risero come tante galline starnazzanti e desiderai essere sorda
– Che scemotte! Stavo dicendo che mi ha subito colpita
Electric Fire, la star del locale.
-
ODDIO Sì. Ho saputo che molto spesso...
Mi
allontanai da loro con la scusa di bere – Un midori sour per
favore. - Poggiai i gomiti sul bancone in attesa che il barista mi
desse il mio cocktail e feci una rapida panoramica del locale: era
quasi pieno, le donne ai tavoli ordinavano champagne o spumante e
scalpitavano in attesa dell'inizio dello spettacolo; io invece speravo
finisse presto o che le ragazze si stancassero così da
andare a casa prima del previsto, ma loro non sembravano propense a
esaudire il mio desiderio nascosto.
Al
primo sorso del mio drink le luci si spensero e dovetti aspettare i
fari gialli che illuminavano il palco, per farmi strada e sedermi al
tavolo. Non ero psicologicamente pronta per sentire le urla di quelle
donne per minimo quattro ore, perciò decisi di bere per
attutire l'udito, dato che diventavo un po' sorda da brilla.
Finii
il mio midori e sette ragazzi circa, erano sul palco, vestiti in modo
elegante e aspettavano la base per iniziare a ballare e, ovviamente, a
spogliarsi.
Feci
cenno al barista di portarmi un altro drink e mi rilassai sulla sedia
per godermi lo spettacolo; alla prima nota di “Call me
maybe” rischiai di soffocare: si sarebbero esibiti su quella
canzone?
Era
un po' modificata rispetto all'originale, più veloce e
recitava più volte il ritornello mischiandosi alle strofe;
il risultato era abbastanza carino e azzeccato con il
momento, ma non avrei più cantato quella canzone
sotto la doccia o avrei pensato a quella roba lì che stavo
vedendo. A metà esibizione, quando indossavano solo i
pantaloni, scesero dal palco e ognuno di loro si avvicinò a
un tavolo a caso. Geremia mi sorrise malizioso e venne verso il nostro
tavolo: smisi di respirare per qualche attimo per timore di cosa
avrebbe fatto, ma si mise a cavalcioni sulle gambe della sposa
e ballò il ritornello in quel modo, lasciandosi toccare da
quella.
Salì
sul tavolo e sulle note finali della canzone, mentre ballava come un
idiota sexy e mimava “call me, maybe?” con la mano
destra si tolse i pantaloni neri, restando in mutande: un paio molto
corte e molto attillate con una cornetta del telefono stampata sul
davanti. Scoppiai a ridere mentre lui accettava, senza complimenti, i
soldi che le ragazze gli infilavano negli slip.
Quando
scese, prima di andare nelle quinte e cambiarsi, mi venne vicino tanto
che mi immobilizzai.
-
Quanto mi farai aspettare per un tuo apprezzamento?
Me
lo sussurrò, portando una ciocca dei miei capelli dietro
l'orecchio; tremai per un attimo ma gli risposi, almeno per mantenere
una certa facciata.
-
Vuoi che ti metta anche io una banconota nelle mutande?
Lo
provocai anche se sapevo di non essere capace di farlo, mi
voltai appena per vedere la sua espressione e mi ritrovai le sue labbra
non lontano dalle mie; erano così carnose e non riuscivo a
smettere di guardarle, dovevano essere morbide e belle da baciare.
Sgranai gli occhi per il pensiero appena fatto. Almeno non l'avevo
concretizzato. Il suo solito sorriso malizioso comparve sul volto e
tornai con i piedi per terra, guardandolo negli occhi.
-
Divertiti.
Mi
fece l'occhiolino e scomparve, mentre tutto nella sala tornava normale
e quelle arpie urlavano il bis a gran voce. Dovevo riprendermi prima di
continuare a guardare o sarei morta per overdose ormonale.
Ero
accaldata per i due drink che avevo bevuto, in più
la vicinanza di Geremia mi aveva destabilizzato e se non mi fossi
calmata, oltre che raffreddata, avrei combinato qualche mio solito
guaio. Lasciai scorrere dell'acqua fredda sui polsi e, guardandomi allo
specchio, feci dei lunghi e grandi respiri, mentre una nuova
canzone si sentiva in lontananza e io avevo paura a uscire.
-
Emily non fare la cagasotto e torna di là. Adesso.
Annuii
alla mia parte più coraggiosa e tornai al tavolo: le ragazze
erano in piedi a urlare e lanciare soldi sul palco a un ragazzo biondo
mezzo nudo. Lo guardai meglio perché mi sembrava di averlo
visto da qualche parte, oltre che in quel locale; aveva qualcosa di
familiare. Avrei chiesto il suo nome a Geremia.
Il
biondo ci diede le spalle e con un colpo secco tolse i pantaloni
restando nudo: il suo sedere, sodo e bello da guardare, era in bella
vista e ciò non fece che aumentare le urla di tutte in
quella sala; quando si voltò verso noi, teneva le mani
davanti ben attente a coprire i suoi gioielli di famiglia ma, per mia
sorpresa e piacere, tolse prima una e poi l'altra. Chiusi gli occhi
istintivamente: non volevo vederlo tutto, tutto nudo. Sentendo gli
applausi e le urla, mischiate alle risate, delle altre li riaprii e
sorrisi anche io: il biondo aveva una coppa, come quella che usavano i
ballerini, con disegnato uno smile: molto divertente.
Raccolse
tutti i soldi, mostrando il suo sedere dappertutto e poi scomparve
dietro le quinte.
-
SC è il mio preferito, ve l'avevo detto.
Uno
dei loro commenti attirò la mia attenzione: dove avevo
sentito quel nome? Mi sforzai di ricordare rischiando di farmi venire
il mal di testa e finalmente ebbi l'illuminazione: cercai nel
portafogli quel biglietto da visita e trovandolo, esultai.
L'idraulico!
Ecco dove avevo visto quel ragazzo biondo ed ecco come aveva fatto
Geremia a sapere dove abitassi; che stronzo e che bugiardo.
Non
ebbi il tempo di pensare ad altro, perché le luci
si abbassarono e una musica sensuale si sostituì a quella da
sottofondo, del fumo coprì tutta la visuale del palco e per
qualche secondo smisi di respirare per evitare di soffocare.
Geremia
era al centro del palco: il capo basso, le gambe incrociate, un braccio
in alto e l'altro in basso teneva in mano qualcosa; era vestito in modo
strano e non riuscivo a distinguere il colore perché quel
maledetto fumo mi annebbiava ancora la vista.
La
musica si fece più veloce e lui iniziò a ballare,
non l'avevo mai visto così concentrato e infervorato nel
fare qualcosa o forse ero io a guardarlo sotto una prospettiva diversa,
non sapevo quale però.
Delle
luci blu e gialle lo illuminarono meglio e solo allora mi accorsi
com'era vestito: indossava un completo da medico verde e sopra un
camice bianco, al collo aveva uno stetoscopio: quello che fino a poco
tempo prima aveva tenuto in mano. Si mosse verso i tavoli
posizionandosi al centro della passerella e tolse il camice bianco, le
ragazze del mio tavolo urlarono e si alzarono, intimai alla sposa di
sedersi prima che le rompessi la bottiglia di champagne in testa e
quella obbedì, abbastanza brilla da fare tutto quello che
volevo.
Geremia
continuava a ballare e la musica mi fece impazzire, era un mix troppo
eccitante da gestire; si tolse il pezzo di sopra del completo verde e
lo fece così lentamente da farmi desiderare di strapparlo
con le mie stesse mani. Era a petto nudo sulla passerella e tutte le
donne in sala erano in estasi, me compresa anche se cercavo di
mantenere una certa compostezza; fu quando le luci puntarono su di noi
che entrai nel panico.
-
Signore, credo che qualcuna di voi abbia bisogno di una visita.
Prima
che tutte lo assalissero si voltò verso il nostro tavolo ed
ebbi paura che mi chiamasse lassù un'altra volta. Per quanto
per un attimo avessi desiderato toccare i suoi pettorali e tracciare il
profilo di quei tatuaggi, non volevo essere al centro dell'attenzione
un'altra volta; con mia sorpresa fece cenno alla sposa di raggiungerlo
e quella quasi inciampò dalla fretta.
La
fece stendere su un lettino, uno di quelli ospedalieri e le
salì addosso, sedendosi a cavallo; mise lo stetoscopio alle
orecchie e poggiò l'altro capo sul cuore della sposa, non
smettendo di muoversi in modo compromettente: era una scena
imbarazzante e avrei voluto prendere per i capelli la tizia e
ricordarle che tra qualche giorno si sarebbe sposata e che quello non
era un comportamento consono a una futura moglie. La sala
scoppiò quando lui si alzò da quella posizione
tornando in passerella e si tolse i pantaloni, restando con un mini
perizoma a coprirgli il migliore amico in basso. Il suo sedere era
bello come ricordavo e la donna, intanto, non era più
distesa ma si era seduta su un trono; le ballò intorno e poi
le si posizionò davanti. La nostra visuale era migliore o
almeno così pensavo fin quando la finta Barbie gli
poggiò le mani sui fianchi e con due colpi secchi gli
slacciò il perizoma lasciandolo completamente nudo.
Credevo
che avesse anche lui uno smile come il biondo di prima, ma
quando lei tornò da noi aveva una faccia sconvolta, non
faceva altro che ripetere quanto fosse stato eccitante spogliarlo e
quanto fosse lungo il cobra di Eletric Fire.
-
Ecco perché lo chiamano così.
Non
riuscii a sopportare le loro risatine e i loro urletti isterici,
perciò mi alzai di nuovo. Volevo andare a casa: mi facevano
male i piedi, il vestito prudeva, mi bruciavano gli occhi e avevo
sonno.
Potevo
far scattare l'allarme antincendio o dire a Barbie, Teresa e company
che erano ricercate oppure che non erano più desiderate nel
locale. Potevo urlare che c'era un topo, qualsiasi altra scusa pur di
andarmene a casa e dormire.
Ordinai
una coca cola, poiché dopo lo spettacolino
appena visto non volevo ingerire alcol o avrei ceduto a ogni
tentazione, e mi sedetti su uno sgabello. Per fortuna ero lontana dai
tavoli e dal palco e grazie alla mia mezza cecità non vedevo
cosa succedeva là sopra.
-
Allora? - La sua voce mi fece sobbalzare, mi voltai a guardarlo: era
vestito in maniera normale, jeans e camicia azzurra che risaltava i
suoi occhi. - Non hai niente da dirmi?
-
Sai che vestito così sembri quasi un bravo ragazzo?
Si
sedette accanto a me, ordinando qualcosa di imbevibile – Lo
so che avresti voluto essere al posto della sposa di plastica.
-
Oh sì, mi hai proprio letto nel pensiero e questa notte non
dormirò perché l'invidia mi divorerà
l'animo.
Poggiai
il bicchiere vuoto, convinta d'aver vinto l'incontro, ma si
avvicinò ancora, la sua mano si posò su un mio
fianco e sussurrò al mio orecchio – Non dormirai
perché mi penserai nudo per tutta la notte e non
basterà neanche una doccia fredda per calmarti.
Lo
allontanai, scuotendo il capo con fare
rassegnato, e feci finta di nulla, non
rispondendo alla sua provocazione perché non volevo
che si montasse la testa e perché non sapevo che dirgli.
Bevve d'un sorso il suo drink e in quel momento arrivò
l'altro componente del famoso trio: il biondino, nonché
l'idraulico. La mia serata procedeva di bene in meglio.
-
Ehi Spicy, ti presento Emily.
Quello
mi guardò, mi sembrò fosse scocciato; si sedette
accanto a me e fece un segno al barista – Allora, per lo
spettacolo privato sono cinquanta, se vuoi toccare saliamo a cento se
vuoi il servizio completo devi sborsare...
-
Ehi, non sono qui per niente del genere, razza di maiale
pervertito.
Geremia
rise di gusto, si piegò addirittura in due ma lui non ci
fece caso e bevve un sorso di birra dalla bottiglia di Guinnes che il
barista gli aveva passato – Menomale, perché non
mi attizzi per nulla anzi questo coso rosa che hai addosso è
noioso.
Se
avevo pensato, per un secondo, che Mr Panna fosse il peggior maleducato
che avessi incontrato, quel tizio, Spicy, lo batteva in tutto e per
tutto. Era insolente, insopportabile, egocentrico e i suoi capelli
erano inguardabili.
-
Noioso è l'aggettivo che userei per il tuo spettacolino di
prima. Lo smile poi era fuori luogo, oltre che piccolo.
La
risata dell'idiota alla mia destra mi rimbombò nelle
orecchie: era bella, melodica e affascinante; non l'avevo mai visto e
sentito ridere, perché era sempre così
serio o impegnato a torturarmi e prendermi in giro da non avere il
tempo di scherzare. - Oddio, non posso farcela: Emily potrei farti una
statua.
-
Quando ho aggiustato le tubature di casa tua però hai
apprezzato tutto.
La
sua frase mi sorprese, ma io ero abituata a rispondere al suo
amico, perciò non ebbi paura – Perché
era tutto coperto, vuoi davvero continuare a stuzzicarmi? Non hai
capito che perderesti comunque?
La
buttai lì perché speravo che quel battibecco
finisse: ero davvero stanca e non volevo passare per la zitella acida
di turno. L'idiota alla mia destra si intromise, salvando il salvabile.
-
Ha ragione, è divertente litigare con lei ma non hai nessuna
speranza di vincere. - Lo ringraziai con lo sguardo e il suo sorriso mi
abbagliò. - Quindi, Emily ti presento Giovanni: mio collega,
mio coinquilino e mio amico. E' un bravo ragazzo, un po'
coglione, ma dopo averlo conosciuto bene lo si
apprezza.
-
Ciao Giovanni: suo collega, suo coinquilino e suo amico. Il fatto che
tu abbia messo l'amicizia all'ultimo posto dovrebbe suggerirmi
qualcosa? - Mi rivolsi direttamente a lui che scrollò le
spalle.
-
Solo che è un coglione. - Sorrisi a quello scambio
di effusioni e
guardai verso il palco: lo spettacolo era finito e sospirai sollevata
perché finalmente potevo andare a casa. - Vuoi qualcosa da
bere Emma?
- Mi chiamo Emily e no grazie, ho già bevuto abbastanza. -
Provai a sorridergli ma quel tipo non mi stava molto simpatico,
soprattutto se sbagliava il mio nome e mi stuzzicava in quel
modo.
I miei pensieri furono interrotti dall'arrivo di Riccardo, quel ragazzo
era così bello da farmi morire per autocombustione; mi
riconobbe subito tanto che mi salutò con un abbraccio.
Credevo che gli spogliarellisti avessero una memoria breve per le
ragazze, che queste frequentassero in troppe il loro letto e che non
avessero il tempo di memorizzare i loro volti; Riccardo invece mi
stupì ricordando anche il mio nome.
- E tu come la conosci? - Fu Giovanni a chiederglielo: lo sguardo fisso
davanti a sé, le mani strette alla bottiglia di birra e le
labbra tirate in una smorfia.
Lo sguardo che gli rivolse l'altro fu agghiacciante, tanto che mi
allontanai da entrambi avvicinandomi a Geremia – E
perché dovrei dirtelo?
Non sentii la risposta perché alla mia destra, Gerry,
richiamava la mia attenzione – Devi andare a casa?
- Io? Sì, solo quando quelle... - Guardai il tavolo della
sposa e mi accorsi che era vuoto: le avevo perse.
- Sono andate via qualche minuto fa – Mi
spiegò, guardandomi fisso negli occhi: erano
così azzurri da far concorrenza al cielo d'agosto. - Devi
andare a casa? - Ripeté ancora e io annuì
incapace di proferir parola; lui sorrise di nuovo. Perché
quella sera sembrava diverso dal solito? – Vuoi un
passaggio?
- Hai un mezzo di trasporto?
Ero sinceramente stupita da quella scoperta; lui rise e quella risata
era meravigliosa e io dovevo essere drogata per trovarlo nei modi in
cui l'avevo descritto fino a quel momento – Ovvio, non posso
certo muovermi a piedi, la notte, quando i mezzi di trasporto sono
fuori servizio.- Aspettò che gli rispondessi, ma non vedendo
una mia reazione mi stuzzicò – Allora, lo vuoi o
no?
- Sì, grazie.
******
Se
volete vedere l'abito rosa/noioso di Emily : (Aprite in un'altra
finestra) QUI.
Oddio,
se siete arrivate fino a qui meritate un regalo, aprite la porta di
casa, sarà sul tappetino. Cosa posso dire di questo lungo
capitolo?
Mi piace tanto la prima parte perché Emily è
divertente e perché
la sua amica sfiga è tornata a farsi viva.
Per il resto è tutto
un BLABLABLABLA BLAAAAAAA BLAAAAAAAAAA che palle BLAAAA. Lo so, avete
ragione.
Ok, sono seria.
Due piccoli flashback dal primo
capitolo, quando Emily è sul palco con Gerry.
Emiluccia torna al
locale e, per la prima volta, vediamo da vicino qualche spogliarello:
avete visto come è intraprendete Electric Fire? Ma che
bravo, anche
io vorrei essere al posto di Barbie sposa e farmi visitare da lui.
(Per la cronaca, non guarderò mai più un medico
allo stesso modo!)
Le musiche a cui mi sono ispirata sono : CALL
ME MAYBE
e OMG
L'idraulico:
è stato scoperto il mistero? Era uno del locale ed era
Giovannuzzo,
l'avevamo quindi già incontrato anche se per qualche
istante. E'
anche un coinquilino di Gerrimio (nuovo soprannome) insieme a
Riccardo.
Oddio, oddio... Emily cosa pensa su Geremia? E accetta
un suo passaggio? Cosa succederà adesso?
E' stato un piacere
leggere le vostre recensioni e grazie enorme a chi inserisce la
storia tra le varie categorie.
Un grazie enorme a ELLE
perché è una santa e non solo legge e corregge
tutto in anteprima
ma si sorbe le mie pippe mentali!
Per
chi volesse mettersi in contatto con me, lo può fare tramite
il mio
gruppo facebook.
Che
la panna sia con voi.
Alla prossima.
|
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Capitolo 8 *** OTTO ***
Ai
film horror che ci segnano per sempre.
Agli inopportuni.
Ai
lucidalabbra.
The
(he)art of the streap VIDEO
Otto.
Le
gocce d'acqua dal rubinetto, il caffè pronto della moka, la
matita della studentessa nervosa, le lancette imperterrite di un
orologio, la sedia rotta della scrivania di Mina e la porta cigolante
dell'ufficio di Carla: qualsiasi rumore sarebbe stato
più piacevole rispetto a quel silenzio
imbarazzante.
Le
lunghe dita della sua mano sinistra tamburellavano sul cruscotto mentre
la mano destra era ben salda sul cambio, lo sguardo fisso sulla strada
e le labbra tese in un mezzo sorriso; era affascinante.
-
Vuoi un caffè? - Lo guardai confusa: un caffè a
quell'ora della notte? Non avrei dormito per il resto della mia vita.
Capì la mia perplessità perciò mi
spiegò la sua domanda – Mi sei sembrata un po' su
di giri al locale, quindi forse ti serve il caffè per
riprenderti. No?
-
No. Grazie.
Il
mezzo sorriso di prima si trasformò in uno vero e
proprio; non distolse, però, lo sguardo da davanti a
sé, come se avesse paura a guardami e non volesse farlo
perché lo imbarazzassi.
Mi
voltai verso il finestrino a guardare la strada, i palazzi, le macchine
posteggiate e i pali della luce lampeggianti e mezzi rotti; era tutto
così triste e desolante, non c'era un'anima viva a quell'ora
eppure Roma era conosciuta per i suoi schiamazzi notturni.
-
Sei cambiata. - Piegai la testa verso sinistra e lo guardai curiosa di
sapere cosa stesse per dire. - Sì insomma: mi ringrazi,
accetti un mio passaggio, mi chiami per un favore; adesso sei tu ad
avere bisogno di me, mi vuoi, ti piaccio e vuoi essere mia
amica.
Lo
guardai sbigottita e restai in silenzio per qualche
istante, poi scoppiai a ridere perché era stato
così divertente da farmi piegare in due. - Tu non stai bene.
Dovresti piacermi solo perché accetto un tuo passaggio o ti
ringrazio?
-
Ti piaccio perché mi trovi attraente.
Sbuffai
– Non faremo questo discorso: non ti dirò quanto
sei carino e non mi dirai che ti piacciono le mie tette. Tra di noi non
ci sarà niente perché non mi sembra il caso.
Per
la prima volta si voltò a guardarmi, solo perché
uno dei tanti semafori incontrati fino ad allora era rosso –
Ottima scusa.
-
Ottimissima, Mr Electric Fire. - Gli feci una smorfia infantile, anzi
era più un verso idiota al quale lui rispose con una
linguaccia prima di rimettersi a guidare. Sorrisi per quanto accaduto,
erano rari quei momenti di ilarità e spensieratezza. - Da
dove nasce?
-
Possiamo parlare di tutto, ma il parto è l'unica
cosa che mi fa un po' impressione, sai?
-
Mi riferivo al soprannome – Sussurrai
esasperata, perché effettivamente avere una
conversazione con lui era molto stancante – Perché
hai scelto proprio questo?
Scrollò
le spalle divenendo, d'un tratto, serio – Non saprei,
è nato per scherzo qualche settimana dopo i nostri
spettacoli; ha iniziato Giovanni a dire che il suo uccello era magico,
era di fuoco e Riccardo ha detto la sua...
-
Piccante. - Pensai ad alta voce e lui rise. - Qual è il
soprannome di Riccardo, non l'ho sentito.
Ero
curiosa: volevo sapere altri retroscena sul suo lavoro, dettagli sulla
sua vita e sul rapporto con gli altri due; avevo capito che non era un
cattivo ragazzo e che forse avrei potuto fidarmi di
lui.
-
Questo perché eri distratta a flirtare con
Giovanni.
Ammiccò
mentre svoltava a destra, dando la precedenza a un tram. - Io non stavo
flirtando con nessuno, stavo parlando animatamente. - Gli spiegai con
calma, guardandolo di sbieco; i suoi occhi riflettevano la luce
dei lampioni della strada ed erano lucidi, espressivi
e meravigliosi, di un azzurro diverso da quello che avevo visto di
solito: più intenso, sul blu, ma con qualche
sfumatura verde: erano magnetici.
Come
faceva a sorridere in quel modo, aveva qualche paralisi alle labbra?
Gli si muoveva o verso destra o a sinistra, aveva la mascella slogata?
Io non riuscivo a fare quelle cose lì; ci provai pure a
rivolgergli un sorriso mezzo decente o almeno provocante, ma
mi uscì uno sgorbio.
Ma
poi chi volevo prendere in giro: io provocare lui? Per quale
motivo? Questa era ancora più assurda di quello che
aveva detto prima su Giovanni e il mio flirtare; a parte che
non sapevo neanche come si facesse e poi quello neanche mi interessava,
aveva i capelli troppo lunghi e viscidi, neanche fosse quell'attrice
lì che tutti prendevano in giro, Cristina Stewart.
-
Emily, tutto bene? - Lo guardai interrogativa – Mi sembravi
assente, se stai male puoi dirlo, ti porto al pronto soccorso.
Ero
irritata per quella domanda, ma anche lusingata: era davvero
preoccupato o mi stava prendendo in giro? Perciò lo guardai
intensamente, cercando di scoprire qualcosa. - Non sono una ragazzina,
so bene quali sono i miei limiti e di certo bevendo qualche drink non
li ho superati. Perciò sì, sto bene.
Incrociai
le braccia sotto il seno voltandomi del tutto verso la mia destra e
dedicandomi a quello che vedevo; d'accordo era stato carino, a modo
suo, a chiedermi come stessi, ma a lui poi che importava? Mi
sembrava di essere tornata un'adolescente con sbalzi d'umore e d'ormone
incorporati.
Ero
una donna adulta con sani principi, un lavoro a cui pensare e lui
doveva sparire; invece era sempre lì a complicare tutto e a
incasinarmi la vita. Avevo pensato per un attimo che fosse un bravo
ragazzo e magari lo era davvero, ma non lo era per me, non lo era in
quel momento, quando cercavo di dare un senso a tutto:
passato e presente, non pensando al futuro.
Perché era piombato lui?
Sbuffai, appannando
il finestrino e lui se ne accorse.
-
Stiamo arrivando, questo lungo calvario è quasi finito.
Non
volevo pensasse che stare con lui fosse un supplizio, anzi a volte era
piacevole. - Ero sovrappensiero, figurati se mi preoccupo della tua
presenza.
Tentai
di stuzzicarlo, ma non ottenni nulla se non uno sguardo serio
e fisso sulla strada; in quel momento sì che desiderai di
arrivare in fretta, perché doveva esserci sempre traffico in
quella cavolo di città? Eravamo stati dieci minuti bloccati
in fila perdendo un sacco di tempo, per fortuna almeno in quella via
non c'erano macchine e andavamo veloci.
-
Scusa, ma com'è che ti... - Stavo per chiedergli come si
chiamasse, dato che avevo accettato un suo passaggio senza sapere
niente di lui, se non il suo lavoro e dove abitasse, quando
lampeggiò a una macchina con i fari spenti. - Sei
impazzito!?- Gli diedi una botta sul braccio, voltandomi a
guardare quella vettura.
-
Perché? Ho solo avvertito quel coglione, anche se immagino
fosse una donna, di accendere le luci.
Boccheggiai
– Tu, cioè, non sai... Oddio hai mai visto i film
horror? Non sai che non si abbaglia mai quando l'altra macchina ha i
fari spenti? Sto per svenire.
Mi
accasciai sul sedile mentre mi facevo aria con la mano e l'idiota rise
– Come sei esagerata.- Sbuffò e i suoi occhi si
posarono sullo specchietto retrovisore, allarmandomi: l'ansia mi stava
già uccidendo; maledetti film horror che avevo visto fin da
piccola, lo sapevo che prima o poi mi si sarebbero ritorti contro. -
Stai calma, andrà tutto bene.
-
Andrà bene un cazzo, quello ci sta seguendo e noi moriremo.
-
Ma no che non moriremo.
-
Sì che moriremo. – Mi voltai di nuovo verso
quell'auto che ci inseguiva con gli abbaglianti puntati verso noi, mi
veniva da piangere – Succede sempre così, il
ragazzo figo e la ragazza che gli sta accanto fanno una brutta fine.
-
Non moriremo Emily: anche se sono figo e tu mi sei vicina. - Le sue
dita sul mio mento voltarono il mio viso quel poco che bastava per
guardarlo negli occhi – Puoi fidarti di me, per
favore?
Quegli
occhi erano così belli da mozzare il fiato – Puoi
guidare, per favore? - Rifece di nuovo quella smorfia con le labbra
verso sinistra e si concentrò sulla strada: quarta, quinta,
quarta; scalava le marce come se non ci fosse nient'altro di
importante, svoltava in vie a me sconosciute, sorpassava auto troppo
lente lanciando un'occhiata all'auto dietro di tanto in tanto, che non
era più così vicina e io stavo iniziando a
rilassarmi.
-
E' quasi tutto finito, tranquilla.
Gli
sorrisi incerta e, quando vidi l'incrocio con il
semaforo, capii cosa aveva intenzione di fare:
rallentò un po' aspettando che la luce diventasse arancione
e poi accelerò di colpo, lasciando la macchina dietro ferma
per il rosso. Mi tranquillizzai, sospirando
rilassata:finalmente era finito quell'incubo e noi eravamo arrivati,
senza sapere come, in zona Colosseo. Fermò l'auto e
respirò anche lui: era stato teso per tutto il momento, in
effetti l'avevo fatto agitare io.
-
Visto? E' andato tutto bene.
Mi
sorrise e io ricambiai – Non volevo turbarti e di solito non
sono ansiosa neanche io, solo che i film horror mi mettono paura e
quella scena era maledettamente simile a...
-
Sì tranquilla. E' stato divertente però.
Scoppiò
a ridere, forse per la tensione o forse perché in fondo era
davvero stato divertente essere inseguiti per le strade isolate di
Roma, fatto sta che dopo un momento di stupore mi unii alla sua risata,
togliendo un peso dallo stomaco e rilassandomi del tutto; ridere era
una cura per tutto, mia nonna lo diceva sempre, o me l'aveva detto
Kamal una delle tante volte che avevo mangiato al suo locale.
Come
in un film, ovviamente, perché la mia vita cominciava a
essere il cliché dei cliché, smettemmo di ridere
nello stesso momento, dei colpi di tosse si sostituirono alle risa e un
silenzio imbarazzante piombò nell'abitacolo;
perché non aveva ancora messo in moto per portarmi a casa?
Era tardi e avevo sonno.
-
Emily... - Ero ripetitiva ma i suoi occhi sembravano volessero dirmi
qualcosa, si umettò le labbra pronto per parlare o per fare
qualcosa, il mio sguardo si posò sul labbro inferiore
più carnoso e più bagnato rispetto all'altro: era
così invitante. Sospirai affranta perché sapevo
quello che stava per succedere: ci saremmo baciati e i miei
piani di tenerlo fuori dalla mia vita sarebbero andati in fumo; eppure
non riuscivo a muovermi, a oppormi, perché una parte di me
voleva tastare quelle labbra e giocare con la sua lingua.
All'improvviso
ero regredita di dieci anni.
Il
suo respiro si infrangeva sul mio viso e lo maledii mentalmente
perché non aveva ancora annullato quella maledetta distanza
baciandomi. Il suo naso sfiorava il mio e potevo benissimo
vedere le sfumature verdi nei suoi occhi azzurri: non mi ero sbagliata,
quel colore era davvero particolare oltre che meraviglioso. Il mio
sguardo si posò di nuovo sulle sue labbra e senza pensarci
passai la lingua sulle mie, a quanto pare dovette piacergli il mio
gesto perché la sua mano finì tra i miei capelli
e mi tirò ancora più vicino a
sé: stava accadendo, quelle labbra tanto
peccaminose sarebbero state mie per un momento.
Un
ticchettio metallico mi fece sobbalzare: che fosse la macchina di
prima? Geremia si voltò alla sua sinistra scocciato e io,
quando mi accorsi di chi si trattasse, desiderai morire per la
vergogna.
-
Buonasera agenti.
-
Patente e libretto per favore. - Dopo un
“sì” di circostanza, l'idiota
si mise a cercare il libretto dell'auto per passarlo al vigile
– Anche il documento della signorina, grazie.
-
Noi non. - Tentai di parlare, ma quel cretino mi
bloccò poggiando una mano sulla gamba, sussultai a quel
tocco rude e inaspettato. L'agente prese quello che gli serviva e si
allontanò dalla nostra auto raggiungendo il suo
collega: era la prima volta che mi capitava una cosa del
genere, stavo iniziando a pensare che era quel Geremia a portarmi
sfiga. - Che vogliono da noi?
Sapevo
che il sorriso serviva a tranquillizzarmi, ma mi ero
innervosita di nuovo – Sarà solo un controllo di
routine, non preoccuparti.
Spostai
i miei capelli sul lato sinistro cercando di stare calma: non ne potevo
più di quella serata, di quella giornata in generale, stavo
iniziando ad avere un fastidio alla tempia destra, proprio sopra
l'orecchio a causa dello stress e di quello che avevo dovuto sopportare
quel giorno; era tanto difficile arrivare a casa senza che succedesse
qualcos'altro?
A
rendermi ancora più irrequieta ci si metteva anche lui con
il suo tamburellare nervoso sul cruscotto. Mi soffermai a guardarlo
mentre era intento a osservare i due vigili più lontano
rispetto a noi: aveva gli occhi ridotti a due
fessure, forse per cercare di capire cosa stessero facendo e
perché ci stessero mettendo così tanto tempo, le
labbra semi aperte e la mascella tesa come se stesse digrignando i
denti; evidentemente era nervoso anche lui, ma non
voleva darmelo a vedere. Quando i due si
avvicinarono, cercò di mostrarsi il più
cordiale possibile, rilassandosi.
-
Dunque signor Vivaldi e signorina Cutini, cosa ci fate qui a
quest'ora?
Lo
guardai meravigliata, avrei voluto dirgli che non erano affari suoi e
che non stavamo facendo nulla di male o sbagliato ma il cretino mi
anticipò – Ci siamo fermati un attimo
perché il mio telefono squillava e non avevo l'auricolare,
non mi sembrava il caso di rispondere per strada.
La
sua risposta mi stupì, così come le sue
doti recitative, il vigile ci diede i documenti e si
appoggiò al finestrino: cercava di
intimorirci, lo si capiva dallo sguardo serio –
Ragazzi, non dovreste essere qui, prima che io vi chieda di
scendere e che vi controlli sparite dalla mia vista.
-
Oh, ci scusi, non sapevamo fosse vietato fermarsi, andiamo subito via.
Geremia, o
meglio, il signor Vivaldi aspettò che quell'odioso
vigile si togliesse dal finestrino per rimettere in moto e portarmi,
finalmente, a casa.
Per
il resto del viaggio restai in silenzio ripensando a quello che stava
per succedere o sarebbe successo, se la polizia non ci avesse
interrotto; come avevo potuto desiderare di baciarlo? Mi ero talmente
incantata a guardare i suoi occhi e le sue labbra da volerle
assaggiare. Stupida me e stupidi ormoni che non se ne stavano buoni al
proprio posto. Preferivo di gran lunga litigare con lui, piuttosto che
fare pensieri sconci. Dato che il destino l'aveva messo sulla mia
strada e ogni cosa sembrava sempre riportarlo a me, tanto valeva
scegliere da che parte stare e io avevo scelto il litigio.
-
Emily... - Trattenni il respiro, sperando che non parlasse di quanto
accaduto prima. - Siamo arrivati.
Non
mi ero accorta che fossimo sotto casa mia talmente ero sovrappensiero;
mi voltai per ringraziarlo e lo trovai poggiato con la schiena al
finestrino e un sorriso impertinente stampato in faccia. Lo stronzo
rideva di me per un motivo ben preciso, ma sconosciuto.
-
Ti faccio ridere? Perché non condividi il tuo pensiero,
magari mi diverto anche io.
-
Ma io non sto ridendo, sto sorridendo.
Provai
a controbattere ma sapevo già che sarebbe stato tempo perso.
- Grazie per il passaggio.- Scesi dall'auto, ma mi richiamò.
Mi sporsi verso l'interno appoggiando i gomiti allo sportello
– Che vuoi?
-
Che vuoi? - Ripeté meravigliato e con un tono fin troppo
ironico – Prima mi chiedi un favore, poi accetti un passaggio
e scherzi con me, poi stai per baciarmi e adesso mi chiedi cosa voglio?
Pensai
molto alla risposta, perché sapevo che qualsiasi cosa avessi
detto lui l'avrebbe rigirata contro di me a suo piacimento: odiavo
quell'abilità, volevo avercela anche io.
-
Buonanotte – Come diavolo si chiamava? - Signor Vivaldi.
Una
risata gli illuminò il viso – Signore? Va beh, ma
non mi hai ringraziato.
-
Senti, mi piacerebbe tanto stare qui a discutere sui miei metodi di
ringraziamento ma ho dimenticato di dare da mangiare al gatto e non
vorrei che morisse di fame, perciò addio: spero di non
vederti mai più.
Rise
di nuovo e me ne andai, ero già davanti al portone quando lo
sentii urlare – Il tuo lucidalabbra è invitante,
voglio assaggiarlo.
Lo
ignorai e mi chiusi in casa prima che qualche vicina si affacciasse e
gettasse un secchio d'acqua colpendomi in pieno; ero arrivata al punto
di saturazione con lui, mi provocava, mi faceva innervosire, mi tentava
con il suo corpo, voleva baciarmi e poi tornava a farmi arrabbiare, la
domanda era una sola e semplice: perché?
Gettai
la sveglia per terra non appena la sentii suonare: non avevo
voglia di alzarmi dal letto e andare a lavoro, volevo stare sotto le
coperte e al calduccio. Il mondo esterno era cattivo e io sapevo che se
fossi uscita di casa avrei incontrato il cretino e la mia giornata
sarebbe peggiorata ancora prima di iniziare. Purtroppo per
me, dovetti alzarmi e affrontare quel giorno come
sempre, perché in ufficio mi aspettavano le due
spose tanto simpatiche che avevano deciso di cambiare e aggiungere
alcuni dettagli del ricevimento: le avrei strozzate entro la data del
matrimonio, ne ero certa.
Arrancai
fino in bagno e mi spaventai, guardandomi allo
specchio: neanche il super correttore speciale che aveva
consigliato Clio in una delle puntate su Real Time sarebbe servito a
compiere il miracolo, perciò feci una doccia bollente e mi
vestii coprendomi il più possibile, dato che stavo
morendo di freddo.
Quella
mattina Roma sembrava più rumorosa del solito e non appena
arrivai sospirai sollevata, almeno sarei stata chiusa in ufficio senza
sentire il rumore delle auto passare e ripassarmi accanto, i borbottii
dei pedoni, le urla dei commercianti e così via.
-
Buongiorno Emily.
Il
suo sorriso era irritante ma dovetti salutarlo per forza –
Ehi, ciao. Come va?
-
Sono Mario, ricordi? - Pigiò il numero cinque dell'ascensore
e poi, accanto a me, aspettò che le porte si richiudessero.
Per evitare di sprecare ancora fiato, gli annuì e
sperai che quel maledetto affare si muovesse a salire i cinque piani. -
Comunque va tutto alla grande, oggi è una bella giornata; tu
come stai? Come procedono i matrimoni?
-
I matrimoni procedono come sempre: spose, tulle, fiori, anelli e
divorzi. Fortunatamente non sono un avvocato.
Forse
ero stata un po' troppo brusca, ma il suo buon umore mi
urtava, così come la sua risata – Grazie a te e le
tue colleghe, noi lavoriamo di più.
-
Credo che Carla l'abbia fatto di proposito ad aprire l'ufficio proprio
sopra lo studio di un avvocato divorzista e associati.
L'ascensore
si fermò e le porte si aprirono – Mi ha fatto
piacere vederti, Emily. - Mario uscì e un suo collega lo
salutò con una pacca sulla spalla – Potremmo
riveder...
Per
fortuna non riuscì a completare la frase: l'ascensore mi
portò al mio piano togliendomi l'imbarazzo di rifiutare un
suo eventuale invito. Né Carla né Mina erano in
ufficio, Giulia invece era al telefono e stava urlando contro qualcuno,
continuava a dire che i gamberi erano crostacei e non
pesce e perciò dovevano essere messi sul
menù: era di sicuro il catering del matrimonio che stava
organizzando. Non sapevo il motivo ma stranamente erano sempre loro, i
cuochi, a dare più problemi, oltre alle spose.
-
Tutto bene? - Le chiesi quando riagganciò. - Stavi
per sbranare il tuo interlocutore.
-
Quello era un imbecille di prima categoria, lasciamo perdere. Tu come
stai? Sembri uscita da The
walking dead.
Mi
indicò
il viso e sospirai: non sapevo se il mio stato dipendesse
dalla strana serata precedente e dal fatto che fossi andata a letto
alle tre del mattino inoltrate o da altro, come i dolori muscolari, il
mal di testa e il naso che colava ogni dieci minuti.
-
Hai bevuto ieri sera?
-
No, cioè un po', ma non ho i postumi, ho solo fatto tardi e
sono stanca.
Mi
accasciai sulla sedia e iniziai a sbattere la testa contro la scrivania
quando il campanello
suonò: sapevo già chi
fosse perché avevo appuntamento con Giada e Ilaria, le spose
più indesiderate di Roma. Giulia aprì loro la
porta e le raggiunsi nell'altra sala, dove ricevevamo i
clienti: una cosa ero certa, avrei preferito stare con
Mr Oliato-è-meglio-che-sbarbato Geremia
Vivaldi piuttosto che con loro.
La
mia vita, se iniziavo a pensare quelle cose, era finita.
********
Mi
scuso per il ritardo e per la bruttezza di questo capitolo, addio.
No
scherzo, devo prima dirvi alcune cose. Intanto calma, vedo
già i
cuori e gli arcobaleni delle ship da qui; lo so Gerrimio è
adorabile
ed Emily è troppo noiosa, non posso farci nulla.
Dunque, non ci
sono momenti eclatanti, citazioni o altro quindi sarò breve.
La
scena della macchina a fari spenti è tipico di molti film
horror,
quello a cui mi sono "ispirata" in questo caso è Urban Legend
(trailer QUI
) ovviamente alla fine i due ragazzi vengono uccisi, quindi
è un po' diverso il momento e comunque è
risaputo:
mai abbagliare a un auto con i fari spenti.
The
walkind dead è un telefilm
sugli zombie e roba varia, ho visto solo la prima puntata,
m'hanno detto che è carino, sinceramente non lo so.
Clio di
ClioMakeUp è la tizia che è diventata famosa
grazie ai video
tutorial su YouTube
e che adesso conduce il programma su Real Time.
Per il resto non
avrei altro da dire: i due idioti stavano per baciarsi e poi sono
stati interrotti, Emily è imbarazzata e tratta male, di
nuovo,
Gerri; non si chiede, però, cosa succederà nel
momento in cui lui
la incontrerà di nuovo.
Vorrei ringraziare con il cuore
tutte voi, una ciascuna, per aver inserito questa storia tra i
seguiti, ricordati e preferiti: siete tante e ve ne sono davvero
grata, mi fate emozionare.
Vorrei fare qualcosa per farvi capire
quanto sono felice ma non saprei cosa, magari vi regalo un Gerri nudo
la prossima volta. XD
Ringrazio, come sempre, Elle
per la sua pazienza, per il rosa e per stalkerarmi.
Se volete
potete trovarmi nel mio gruppo facebook, esattamente QUI.
E'
stato un piacere e che la panna sia con voi.
|
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Capitolo 9 *** NOVE. ***
The
(he)art of the streap VIDEO.
Agli
sbalzi di temperatura.
A Ryan che ci prende in giro.
Alla
musica e cinema degli anni '60.
NOVE
Le ascoltavo,
le osservavo litigare mentre si dimenavano sui
divanetti, lanciandosi occhiate di fuoco e maledizioni sulle
famiglie reciproche, e non avevo la forza di fare nulla; i due
futuri mariti erano nella mia stessa situazione anche perché
capivano la metà dei discorsi. Fu nel momento in cui una
delle due
disse che avrebbe rinunciato a sposarsi che intervenni: non potevo
perdere una cliente.
- Ragazze, non capisco dove sia il problema.
Avrete entrambe la vostra parte del locale addobbata come preferite,
sarà tutto diverso tranne che la musica; quindi
perché
litigate?
Ilaria, la più pacifica delle due, abbassò lo
sguardo
imbarazzata. – Temo che Giada abbia paura che il mio
ricevimento possa essere migliore del suo.
- Questo non è vero,
io ti voglio bene e sono felice di festeggiare il giorno più
bello
della mia vita insieme a te.
- Allora smettila di cercare di
sabotarlo con le tue idee assurde. - Aveva le lacrime agli occhi e
forse potevo pure capirla: avrei voluto davvero fare qualcosa
per aiutare lei e zittire una volta e per tutte l'altra.
- Ci sono
due soluzioni: smettete di litigare, mantenendo quello che
avete
deciso fino ad adesso oppure… – Feci una
pausa per rendere
il momento più catartico
– … affidarvi a me e
lasciarmi organizzare tutto dall'inizio, ma avreste la stessa
cerimonia, stessi fiori, cibo, addobbi, colori: niente di diverso e
nessuna invidia.
Parlai lentamente in modo che anche i due futuri
sposi mi capissero; tutti e quattro si guardarono e io mi
rilassai contro lo schienale della poltroncina verde
pistacchio, aspettando una loro risposta che non
tardò ad
arrivare.
- Okey. - Disse la stessa Giada convinta. - Mi sembra la
cosa più giusta da fare, oltre al fatto di anticipare le
nozze, così
eviteremo di litigare e far impazzire te.
Anticipare cosa?
Forse non sapevano quanto fosse faticoso organizzare un matrimonio,
soprattutto il loro, e quanto sarebbe stato complicato ricominciare
tutto: il catering, il fioraio e compagnia bella mi avrebbero odiato,
o forse anche uccisa.
Spiegai loro che avrebbero dovuto lasciare
la data prevista in modo da darmi più tempo per preparare
tutto nel
migliore dei modi e per fortuna capirono: il matrimonio si sarebbe
celebrato un mese e mezzo dopo, loro non mi avrebbero assillato e io
sarei stata libera.
All'ennesimo
starnuto, Giulia mi tirò addosso una palla di
carta, colpendomi
in testa – Vuoi andartene a casa, per favore? Non voglio
ammalarmi
anche io.
- Non sono… – Dovetti fermarmi per
soffiare il
naso – … malata, è
solo un piccolo raffreddore.
Mina
mi guardò scettica e tolse la mascherina per parlare
– Piccolo?
Guarda il tuo naso com'è rosso e poi dimmi se è
solo
un piccolo raffreddore.
Non capivo perché avesse
quell'aggeggio a coprirle bocca e naso, neanche fosse Micheal Jackson
nei suoi ultimi giorni di vita; tuttavia ignorai lei e le
minacce di Giulia di denunciarmi a Carla. Stavo bene: qualche
starnuto non mi avrebbe certo mandato a casa e costretta a letto.
-
Non possiamo ammalarci pure noi, quindi vattene.- Mina era a un passo
dal trasformarsi in una belva assassina; mi
fece
ridere la sua finta espressione da dura. - Emily, sono seria.
-
Devo fare queste chiamate, ieri ho detto a quelle streghe che avrei
ristrutturato il matrimonio.
-
Ri-cosa? - La risata di Giulia risuonò cristallina nelle mie
orecchie e mi infastidì a tal punto che le lanciai la palla
di carta
di prima. Non misi troppa forza, tanto che cadde al centro
della
stanza facendole ridere ancora di più. - Non sai parlare
e, ripeto,
sembri uno zombie. Quindi adesso te ne vai a casa o ti faccio
licenziare.
Quando si mettevano in testa qualcosa era impossibile
fargli cambiare idea, perciò misi tutto ciò che
mi serviva nella
mia grande borsa beige e mi feci accompagnare a casa perché,
secondo
loro, nelle mie condizioni non ero in grado di prendere i mezzi.
Sarei potuta svenire tra tutta quella gente e qualcuno avrebbe potuto
approfittare di me. Avevo delle amiche con la mente piuttosto
contorta e non me ne ero mai resta conto.
-
Sicura che posso andare? - Giulia mi aveva accompagnato fin
davanti alla porta del mio appartamento contro la mia
volontà.
-
Sì, stai tranquilla. Io sto bene, hai insistito tu per farmi
da
scorta fino a qui.
Mi guardò male, ma non avevo la
forza di risponderle. La salutai con la mano prima di rintanarmi in
casa, dove lasciai cadere la borsa per terra e corsi, o
per meglio dire, mi
trascinai come un elefante in punto di morte sul
divano, accucciandomi
su me stessa per non sentire freddo. Mi svegliai di soprassalto
perché qualcosa nella mia testa rimbombava come le casse in
discoteca; non mi era mai successo di addormentarmi come una pera
cotta sul divano vestita e con il cappotto addosso.
Mi accorsi che quel rimbombo era la vibrazione del mio
cellulare dentro la tasca,quando quello riprese
a squillare: chi cavolo mi chiamava in quel modo disperato?
- Sai
quanto ci hai fatto preoccupare?
Sospirai all'urlo di Mina: perché
mi aveva chiamato, impedendomi
di dormire? - Ti serve qualcosa?
- No, volevamo sapere
come stavi.
Hai chiamato il medico?
- Perché dovrei… –
Mi fermai prima che ricominciasse a urlare quanto
fossi incosciente – Sì, prima. Posso tornare a
dormire adesso?
- Se hai bisogno di
noi, chiamaci.
La
rassicurai, riagganciando
subito il telefono.
Lo
spensi, lanciandolo
sul tavolino e, sempre con la leggerezza di un pachiderma incinta, mi
mossi verso la mia camera per indossare il mio pigiama grande e caldo
di pile e infilarmi nel letto, sotto le coperte, dove un mondo
migliore fatto di arcobaleni, unicorni, Paul Newman e Elvis Presley
mi stava aspettando.
L'ultima
cosa che ricordavo era di aver poggiato la testa sul cuscino e d'aver
programmato di chiamare il fioraio non appena mi fossi svegliata,
perciò perché ero su una giostra? Aprii gli occhi
lentamente, rendendomi conto di essere ancora sul letto, tutta
sudata e con le coperte attorcigliate ai piedi; il tetto non la
smetteva di girare e gli sbalzi di temperatura iniziavano a darmi sui
nervi. Mi misi a sedere, cercando la forza interiore che mi
aiutasse ad alzarmi del tutto e andare fino in cucina per bere, dato
che avevo la gola e le labbra secche, ma al primo passo un
capogiro più forte degli altri mi fece perdere l'equilibrio:
per
fortuna caddi sul letto, ma quel contatto morbido non
fermò il
conato di vomito stimolato dai dolori alla testa.
Arrivai in tempo
in bagno, ma non fui abbastanza brava a
trattenermi: per
fortuna il lavandino era molto vicino alla porta; sentivo bruciare la
gola mentre rigettavo del liquido verdognolo, gli occhi lacrimavano e
le tempie pulsavano a una velocità esorbitante. Scivolai
piano lungo
le mattonelle celesti e mi accasciai a terra, allungando le gambe per
sgranchirle. Non avevo forza in nessun muscolo neanche per togliere i
capelli incollati alla fronte sudata; probabilmente non mi sarei
più
mossa da lì, sarei morta di fame e sete perché
nessuno si sarebbe
premurato di venire a controllare le mie condizioni.
Dopo
aver constatato che se mi fossi alzata con molta probabilità
avrei
vomitato il nulla un'altra volta, strisciai, come un bravo soldato
durante il suo periodo d'addestramento, fino al divano in salotto e
mi ci buttai sopra, coprendomi con due coperte di pile. Accesi
la tv, sperando che il digitale trasmettesse qualcosa di
interessante, ma dovetti accontentarmi di Barbara e i suoi
attacchi di “mostruosità” di Paint
your life: quel
programma faceva venire la sonnolenza peggio di Maurizio Costanzo
Show ai tempi in cui andavo ancora a scuola. Non potevo continuare a
vegetare sul divano, dovevo trovare la forza di alzarmi e preparare
qualcosa da mangiare; anche se avevo lo stomaco chiuso e una
discoteca al posto del cervello, cucinai un po' di pasta con
il
brodino, anche perché erano gli unici ingredienti
disponibili
nella dispensa. Dovevo fare la spesa o, in quei giorni di reclusione
forzata, sarei morta di fame.
Riaccesi il telefono, mentre mi
obbligavo a inghiottire la seconda cucchiaiata di pasta e brodo: il
raffreddore aveva anestetizzato le mie papille gustative e la febbre
aveva ucciso il mio appetito perciò quella roba nel piatto
per me
era poltiglia nell'acqua. Trovai una decina di messaggi della
Vodafone che mi avvisava, molto cordialmente, che le mie care amiche
mi aveva cercato come delle disperate: mandai un messaggio a Giulia
per dirle che ero viva e vegeta e poi chiamai Mina per chiederle un
piccolissimo favore. In fondo lei mi aveva spedita a
casa, quindi
me lo doveva.
- Te lo scordi! Ho un
sacco di cose da fare domani,
non posso pensare a te.
Trattenni un conato di vomito, quando
finii di mangiare quella schifezza – Ma morirò di
fame. -
Piagnucolai come una bambina a cui rompono il giocattolo preferito
–
E tu non vuoi che succeda, vero?
- Certo che
no, ma...- La
sentii sbuffare e ghignai felice, mentre mi distendevo sul
divano esausta: ogni movimento mi costava molta fatica. -
D'accordo, ma mi devi un favore enorme.
Sorrisi e
chiusi la chiamata, mi veniva da piangere per il mal di testa e i
dolori muscolari, avevo bisogno di un massaggio e anche di un medico
che mi prescrivesse qualcosa per farmi guarire: non mi piaceva stare
male, mi sentivo impotente e inutile in quei momenti e in
più avevo
da fare tantissime cose non potevo permettermi il lusso di stare a
letto o sul divano sommersa da coperte e fazzolettini di carta.
Avendo
dormito per tutto il pomeriggio, la notte feci fatica a prendere sonno, nonostante
la debolezza e la stanchezza fisica mi avessero costretta a letto e
mi avessero
impedito di
fare ogni cosa.
Perciò mi svegliai alle sei del mattino, rigirandomi
più e più volte tra le coperte, per colpa degli
sbalzi di temperatura e delle smanie per il non fare nulla. Stavo
peggio rispetto a due giorni prima dato che Mina non mi aveva portato
la spesa e l'antibiotico che le avevo chiesto perché aveva
troppo da fare, ma
almeno, stando a letto, avevo recuperato un po' di forze, quelle
necessarie per lavorare e continuare a organizzare il matrimonio
dell'anno.
Con il portatile sulle gambe, il telefono accanto e dei fogli sparsi
sul resto del letto, cercai di sciogliere i nodi più
difficili di quella situazione; dovevo disdire le vecchie prenotazioni
e assicurarmi che non mi mandassero a quel paese mentre facevo quelle
nuove.
Il termometro, alle dieci del mattino, segnava la temperatura di
trentotto e due: avevo
i brividi di freddo e il mal di testa era tornato a farmi compagnia,
colpa anche di tutte quelle ore trascorse al pc, cercando
di distrarmi e impiegare al meglio il mio tempo.
Spensi il portatile e lo spinsi insieme alle altre
scartoffie ai piedi del letto e mi rifugiai sotto le coperte, sperando
che il piumone mi riscaldasse abbastanza.
Battevo i denti: stavo malissimo e sentivo troppo freddo: decisi
di chiamare Mina per chiederle aiuto, dato
che doveva ancora portarmi la spesa e le medicine.
- Lo so, lo so
– Rispose senza nemmeno salutarmi e ancora prima che potessi
dirle qualcosa –
Devo farti la spesa, solo che sono bloccata in mezzo al traffico e devo
ancora passare dalla Chiesa e parlare con il Parroco.
Sorrisi stanca, immaginandomela
alla guida della sua Ford Fiesta melanzana – Mina, ho bisogno
dell'antibiotico.
- Oddio, stai tanto
male vero? Sono una pessima persona. Maledetto traffico. -
Scostai il telefono dall'orecchio,perché
sentirla imprecare contro gli altri automobilisti contribuiva solo a
far aumentare il mio terribile mal di testa. - Prometto di portarti tutto
entro un'ora o delegherò qualcuno, non ti lascerò
morire da sola a casa.
- Lo spero, non voglio morire per una stupida influenza.
La sentii ridere, mentre
chiudevo la chiamata e lanciavo il telefono dall'altra parte del letto:
avevo sete, dovevo fare la pipì e forse avevo anche fame, ma
non riuscivo ad alzarmi da quel letto; puzzavo e mi sentivo una
stracciona. E se non avessi conosciuto Mina e Giulia? Se fossi stata
sola al mondo come avrei fatto? Sarei dovuta uscire e comprare le
medicine io stessa, quindi potevo e dovevo alzarmi e fare qualcosa, per
il mio bene e per l'igiene di tutto il mondo.
Come sempre mi trascinai fino in cucina: strisciavo
i piedi, perché
alzarli era troppo faticoso e in effetti mi divertivo, insomma,
perché sprecare energie nel camminare bene e alzare i piedi, se
strisciandoli si otteneva lo stesso risultato? È come:
perché rifare il letto se poi, la sera, lo si
riusa?
La febbre stava iniziando a farmi delirare, magari con una doccia mi
sarei ripresa o sarei tornata a ragionare come le persone normali;
sapevo che Mina non sarebbe arrivata prima di un'ora, perciò
feci tutto con calma, riscaldando pure le mie fragili ossa con l'acqua
calda e il vapore.
Uscii quando le mie mani si erano raggrinzite e quando le mie gambe
avevano iniziato a cedere, segno che la febbre stava salendo ancora:
maledetto freddo, maledetto tempaccio e stronza Mina che non mi aveva
portato l'antibiotico.
Profumavo di mandorle; i miei capelli mossi e ribelli e il mio pigiama,
sempre in pile, blu con le case disegnate mi davano un'aria sbarazzina
e liceale; quella doccia mi aveva rinvigorita e trovai addirittura la
forza di prepararmi una tazza di thè e sistemarmi sul
divano a mangiare, attendendo impaziente l'arrivo di Mina. Stavo
guardando Cucina
con Ale immaginando Alessandro Borghesi
nella mia cucina a preparare quel piatto di pasta succulento e
servirmelo a letto, quando
suonarono il campanello.
Non volevo alzarmi per aprire, sia perché
mi annoiava camminare sia perché
non volevo perdere, neanche per un secondo, quella bellissima visione,
ma, sapendo che fosse Mina con il mio cibo e la mia cura, avanzai fino
alla porta, avvolta in un coperta perché il freddo era
tornato a possedermi.
Aprii il portone del palazzo senza neanche rispondere e, con un gesto
meccanico, anche quella d'ingresso, lasciandola socchiusa, in modo da
poter tornare sul divano e godermi il mio Alessandro.
Dopo dieci minuti, sentii
un rumore familiare – Perché ci hai messo tanto?
- Non ricordavo il piano.
Una voce maschile.
Non era Mina, a meno che non fosse diventata un uomo nel giro di
qualche ora; ero in preda al panico perché con molta
stupidità avevo aperto la porta senza neanche chiedere chi
fosse: uno sconosciuto era dentro casa mia e mi avrebbe uccisa,
violentata e uccisa.
Avevo la febbre, magari se glielo avessi fatto presente sarebbe
scappato.
- Tua mamma, il grande avvocato, non ti ha insegnato che non si apre la
porta agli estranei?
Sospirai sollevata quando lo riconobbi e mi voltai a guardarlo
– Gerri! - Esclamai felice, mordendomi
la lingua un secondo dopo: quello non era il suo vero nome! –
Che… che
ci fai tu qui?
- Certo che sei messa davvero male eh?
Posò dei sacchetti sul tavolo e dopo qualche secondo
tirò fuori, da uno di quelli, uno scatolino della farmacia.
- La mia salvezza.
Mi alzai, ma
la fretta causò
un altro di quei terribili capogiri e cascai sul divano; fu
Geremia stesso a portarmi un bicchiere d'acqua e una capsula,
ma non riuscii a guardalo negli occhi e lo
ringraziai mentre prendevo la pillola dalla sua mano destra.
La ingoiai e mi distesi sul divano, aspettando
che facesse effetto.
- Che ci fai qui? - Gli chiesi mentre sistemava il latte in uno
sportello. - Voglio dire, perché mi hai portato la spesa?
- Ero al supermercato e ho incontrato la tua amica. Dove va questo? -
Mi mostrò una bottiglia di succo di frutta alla pera e gli
indicai il frigorifero. - Comunque quella è un po' fuori di
testa, voleva pagarmi per farmi venire. - Si bloccò e mi
sorrise malizioso. - Quello è gratis, oltre che naturale e
spontaneo.
- Idiota. - Mi rannicchiai su me stessa, coprendomi
meglio con il piumone; lo sentivo muoversi in cucina e sistemare il
resto della roba.
Non volevo che restasse un minuto di più
perché la sua presenza mi imbarazzava: era
pur sempre un estraneo e non mi andava farmi vedere in quello
stato.
- Ti serve qualcos'altro? - Negai e mi alzai per accompagnarlo alla
porta, non volevo cacciarlo, ma
se fosse rimasto un minuto in più si sarebbe ammalato anche
lui. - Se hai bisogno di qualcosa chiamami.
Lo guardai incerta. - Sì, certo. - Provai a ringraziarlo, ma
un altro conato di vomito ebbe la meglio: tappai
la bocca con le mani e corsi in bagno, cercando di non inciampare nel
tappeto del piccolo corridoio; questa volta arrivai in tempo e rigettai
il thé e i biscotti che avevo mangiato qualche ora prima
dentro il water.
Mi sentivo uno straccio. Quando provai ad alzarmi delle
mani mi aiutarono a farlo, Geremia era rimasto e aveva assistito allo
spettacolo.
- Oddio, che vergogna.- Mi sedetti sul bidet, nascondendo
il viso tra le mani.
Lo sentii ridere e lo guardai scettica, più o
meno. - Cosa ci trovi di così divertente?
Fece spallucce e, dopo
aver tirato lo sciacquone, buttò
un po' di candeggina dentro per eliminare il cattivo odore: era
un uomo di casa. - Tu che ti vergogni d'aver l'influenza. - Mi porse
una mano e mi sorrise: non
era il suo solito ghigno malizioso o strafottente, era diverso, quasi
preoccupato. - Forse è meglio se ti porto a letto.
- Vorresti approfittare di me in queste condizioni?- Mi finsi offesa e
la sua risata mi rilassò. - In realtà avrei un
po' di fame.
Mi sorrise di nuovo e mi scortò fino in cucina, aiutandomi a
sedere sullo sgabello. - Cosa desidera mangiare,signorina?
Lo guardai sbalordita e divertita, mentre
indossava un grembiule – Sai cucinare?
- Me la cavicchio.
Allora, cosa
vuoi che ti prepari: primo o secondo? – Chiese, non
smettendo di sorridere e guardandosi intorno, probabilmente
cercando di orientarsi.
- Stupiscimi. - Per la seconda volta mi morsi la lingua: quella
febbre stava iniziando a farmi dire le cose peggiori.
Era peggio dell'alcol. - Voglio dire…
- Sì ho capito, non peggiorare la tua situazione.
Gli feci una smorfia e l'osservai lavorare: di
tanto in tanto mi chiedeva dove fossero le spezie o altri oggetti e gli
rispondevo con gesti e cenni del capo; era divertente stare a guardare
senza fare nulla, sentirmi ospite in
casa
mia e avere un uomo attraente in cucina a prepararmi il pranzo. Il
silenzio però era troppo imbarazzante: cercai,
quindi, di instaurare una conversazione per lo meno civile, senza
nessun litigio o doppio senso; rispondeva alle mie domande tranquillo, mentre
tagliava i pomodori e li metteva in padella.
Lui non chiedeva mai nulla, come se non gli importasse
nulla di me.
- E quindi è da molto che fai questo lavoro?
- Lo spogliarellista? Qualche anno.
Chiacchierare con lui era davvero difficile. - Perché, hai
qualche altro lavoro? - La sua risposta mi aveva indotto a pensare che
facesse qualcos'altro oltre a spogliarsi la notte e a farsi infilare
banconote da minimo venti euro nel perizoma.
Rabbrividii al ricordo di lui nudo.
- Hai freddo?
- No,
sto bene, grazie.
Non l'avevo mai visto così preoccupato, in realtà
non l'avevo mai visto in altri momenti o in altre vesti.
Si stava prendendo cura di me come se fossi una sua amica.
Piombò di nuovo il silenzio e ne approfittai
per guardalo ancora: mescolava la pasta dentro la pentola facendo
attenzione che l'acqua non schizzasse fuori, con un cucchiaino, poi,
aveva assaggiato il condimento e aveva aggiunto del sale e pepe, forse,
dopo aver fatto una smorfia schifata.
- È quasi pronto. - La sua voce mi colse in flagrante e
abbassai subito lo sguardo – Apparecchio qui o vuoi andare
sul divano?
- Va bene qui, grazie.
Se lo avessi ringraziato ancora, mi
sarei sparata alle ginocchia.
- Comunque – Continuò, mentre
scolava la pasta – in teoria non ho nessun altro lavoro.
Mi porse il piatto fumante e abbastanza invitante, lo odorai, ma
non sentii nulla: avevo naso e gola chiusi per colpa del raffreddore
– E in pratica? - Mandai giù il primo boccone e lo
guardai in attesa di una risposta.
I suoi occhi erano fissi nei miei, come se da un momento all'altro
aspettasse che dicessi qualcosa quando in realtà era lui a
dover parlare.
Masticai gli spaghetti con calma, cercando
anche di capire che sapore avessero.
- Ti piacciono?- Aveva preferito cambiare discorso e lo lasciai fare
perché, in effetti, non avevo tanta voglia di stare
lì a discutere sul suo lavoro o altro; non gli risposi
perché non sapevo che dirgli, per me erano insapore.
Allo
stesso tempo non volevo deluderlo, perciò annuii e continuai
a mangiare, alternando
dei sorrisi accennati ai bocconi.
Essere osservata mentre mangiavo, però,
era piuttosto inquietante e fastidioso, ma
non gli dissi nulla per non sembrare scortese: in
fondo mi aveva preparato un pranzo coi fiocchi senza che gli avessi
chiesto nulla.
Aspettò che finissi tutto prima di togliere il
piatto e riposarlo dentro il lavandino insieme alla forchetta e al
bicchiere.
- Che stai facendo?- Lo fermai prima che iniziasse a lavare le
stoviglie, un conto era cucinare e un conto era sfruttarlo come
domestica personale. - Ti prego, lascia stare, li farò
più tardi o domani.
- Ma stai male e... D'accordo, non insisto. - Gli sorrisi grata. -
Adesso devo andare, ti serve altro?
- Oh, no
no. Hai fatto troppo e ti devo un favore enorme.
- Non pensare che tutto quello che gli altri fanno per te sia questione
di dare e ricevere, magari è anche un piacere farlo, no?
Abbassai lo sguardo imbarazzata: mi aveva colpita nel segno; in
realtà mi comportavo in quel mondo, erigevo un muro
invisibile, perché non volevo soffrire, non volevo stabilire
nessun tipo di contatto o legame con gli altri.
Era più comodo pensare che qualcuno fosse
gentile con me per un tornaconto personale piuttosto che per vera e
propria gentilezza o perché volesse farlo.
Non credevo, comunque, che Geremia si comportasse in quel modo nei miei
confronti perché avesse qualche interesse o
perché, mosso da uno spirito di crocerossino, sentiva il
bisogno di prendersi cura di me; ero convinta che ci fosse sotto
qualcosa, ecco
perché mi tenevo a debita distanza, continuando
a mettere mattoni sempre più grossi su quel muro
invisibile.
- A presto e grazie di tutto … - Era frustrante non sapere
il suo nome.
- Pietro.
- Cosa?
- Mi chiamo Pietro e mi sembra assurdo che tu non lo sappia ancora. -
Scoppiai a ridere, colpa dell'imbarazzo e della febbre alta, sotto il
suo sguardo interrogativo. - Se hai bisogno di qualcosa, chiamami. - Mi
lasciò un bacio sulla guancia, ma
molto vicino alle labbra; indugiò
troppo sulla mia pelle tanto da farmi chiudere gli occhi, mentre
percepivo il contrasto freddo–caldo tra
la sua bocca e la mia guancia.
Sospirai quando si staccò. - A presto.
Mi chiusi la porta alle spalle e sfiorai il bacio con
la punta delle dita. - Pietro. Pietro. Torna indietro.
*******
Emily
ha la febbre, povera piccola.
Ciao a tutte e ben tornate! Come
è andata il 31 notte? Avete festeggiato o siete rimaste a
casa a
lavorare a maglia? Io sono andata a ballare e sto utilizzando questi
giorni di vacanza per riprendermi del tutto ma forse è
meglio
smettere di ciarlare inutilmente e concentrarci sul capitolo.
Emily,
finalmente si è sbarazzata di quelle due stupide spose,
cioè, le ha
messe d'accordo anche se dovrà lavorare il doppio ma almeno
le farà
stare zitte – speriamo.
Sì è però, beccata una brutta
influenza ed è costretta a stare a casa, ora, vorrei
precisare
qualcosa: non sono un medico né mai lo diventerò
perciò non so
quali sono i giusti sintomi della febbre ma avendola avuta spesso e
soffrendo di emicrania e cefalea tensiva so quanto ci si possa
sentire allo stremo delle forze e quanto sia possibile vomitare per
dei capogiri o fitte alla testa. Ovviamente è tutto
amplificato,
datemi un po' di licenza letteraria su. XD
Paint
your life è
un programma su RealTime, non saprei come spiegarvelo perché
l'ho
visto poche volte e ogni volta mi sono addormentata, perciò,
cliccate sul nome per saperne di più.
Cucina
con Ale
invece, è molto carino, sulla cucina e sempre su RealTime
condotto
da Alessandro Borghese ve lo consiglio se vi piace cucinare e se vi
piace lui.
IL NOME. Finalmente si è scoperto questo benedetto
nome di Gerri, in realtà si chiama Pietro, Pietro Vivaldi.
Alcune
di voi avevano indovinato, altre se lo ricordavano perché ne
avevo
parlato mesi fa nel gruppo dimenticando che non potevo.
Comunque
sia ormai il mistero è risolto ;)
Credo di non avere altro da
dire e lascio la parola a voi.
Ringrazio tutte coloro che hanno
recensito la scorsa volta e chi continua ad aggiungere la storia tra
le varie categorie: grazie millissime, mi riempite il cuore di gioia,
amore e pace. <3
Grazie, ovviamente, a Ellina
e al suo tocco rosa.
Vi ricordo, per chi volesse, l'esistenza del
gruppo facebook
e
del mio canale youtube.
Grazie ancora e che la panna sia con voi.
Alla prossima.
|
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Capitolo 10 *** DIECI ***
Ai
sogni infranti.
A mia sorella.
The
(he)art of the streap VIDEO.
Dieci.
Una
settimana, quattro chili, sei confezioni di fazzoletti dopo, ero
finalmente guarita e potevo tornare a lavoro; in realtà
avevo la tosse, quella brutta e grassa, ma almeno avevo smesso di
starnutire, vomitare e avere sbalzi di temperatura. Non potevo
rischiare, comunque, una ricaduta, perciò indossai degli
abiti pesanti e, dopo aver messo sciarpa e cappello di lana,
uscii dal mio appartamento: avevo disdetto l'appuntamento con
il dottor Rossi perché avevo perso troppi giorni di lavoro e
non potevo permettermi altre due ore di nullafacenza pensando a mio
padre, la mia famiglia, il mio passato e al mio grosso problema con gli
uomini.
Avevo
miliardi di cose da fare, una tra quelle mandare un'altra email a mia
sorella, dicendole quanto
fosse stata stronza a non
rispondermi: forse era morta in qualche disastro aereo o attentato
americano, ma in quel caso avrei sentito i
telegiornali parlarne, forse. Sull'autobus c'era molta
più gente del previsto a causa del blocco del
traffico e dovetti spiaccicarmi al finestrino tra un ventenne
con dei fantastici occhi chiari e un vecchietto che non smetteva di
fissarmi il sedere: se fosse stato più giovane gli
avrei mollato una sberla. Ci impiegai circa un minuto per scendere,
rischiando di perdere la coincidenza per arrivare in ufficio: odiavo i
mezzi pubblici, tutta quella gente che toccava e spingeva, quel
contatto fisico con degli estranei mi mandava fuori di testa, ma era
l'unico modo per spostarmi, dato che la mia auto mi aveva abbandonata e
non avevo i soldi per comprarne una nuova.
Arrivai
in ufficio già stanca, Mina e Giulia non c'erano ancora o
forse erano già uscite per degli appuntamenti o
sopralluoghi. Abbracciai la mia scrivania e mi lasciai cadere felice
sulla sedia girevole di tessuto blu: mi era mancato tanto quel
luogo così familiare e casalingo,
la verità era che trascorrevo più tempo tra
quelle quattro mura piuttosto che a casa quindi mi sentivo
più a mio agio lì e, dopo quella settimana a
letto o sul divano e a vomitare qualsiasi cosa,
volevo stare il più lontana possibile dal mio appartamento.
-
Ben tornata. - Carla aprì di scatto la
porta, facendomi sussultare. – Ho tanto da proporti.
- Rubò una sedia dall'angolo della stanza e si sedette
accanto a me, con una strana espressione sul viso e il suo
sorriso non prometteva niente di buono. In più indossava una
foulard rosa: lei odiava quel colore, doveva esserci sotto qualcosa.
-
Ciao anche a te, Carla, sto bene. Grazie per averlo chiesto.
Scherzai
e lei mi guardò perplessa per qualche secondo, poi riprese a
parlare. - Dunque, in questa settimana abbiamo avuto molto da fare e so
che, nonostante la tua malattia...
-
Febbre.- Non le piaceva essere interrotta, ma dovevo spiegarle
o comunque ricordarle che non avevo avuto una malattia grave, solo una
stupida febbre. - Non mi hanno ricoverato d'urgenza al Gemelli per un
caso strano o incurabile: avevo una brutta influenza, tutto qui.
-
Ciò non cambia che sei rimasta a casa e arrivi al mio
discorso. - Con Carla era inutile parlare, girava la frittata a modo
suo per avere ragione, perciò me ne stetti buona e zitta,
annuendo di tanto in tanto, ad ascoltare i dettagli dei matrimoni di
cui si stava occupando e – Degli addii al nubilato che
organizzeremo.
-
Interessante. - Lanciai un'occhiata all'orologio, sperando che qualche
cliente suonasse il campanello, salvandomi dalla
situazione: non riuscivo a stare del tutto attenta a causa
della sua parlantina veloce e del vizio che aveva di inserire, ogni tre
- quattro parole, la frase “perché voglio
dire” o ancora “capisci che”.
Perciò annuivo distratta e stufa di starla a sentire, fin
quando non disse qualcosa che attirò la mia attenzione,
completamente.
-
Come, scusa?
-
E' una buona idea, vero? Sapevo saresti stata d'accordo. -
Frugò nella sua Gucci in finta pelle di coccodrillo arancio
per qualche secondo e tirò fuori qualcosa: sorrideva peggio
di prima – Ho qui il biglietto da visita con il numero del
locale, dovresti chiamare e...
-
No, no no. Carla rallenta; mi sono distratta un attimo e ho capito
male, puoi ripetere, per favore?
-
Devi chiamare questo numero... - Lo disse con più calma, ma
le feci capire che avevo ben compreso quella parte, avevo bisogno che
mi ripetesse ciò che aveva detto prima ancora. - Ci
metteremo in affari con il Ladies Night, quel locale che conosci
bene; organizzeremo gli addii al nubilato delle nostre spose
lì quindi ho bisogno che tu li chiami e parli con il
proprietario per fissare un appuntamento. Dobbiamo stipulare questo
accordo e non vedo l'ora.
Si
alzò cinguettando e, sgambettando, tornò nel suo
ufficio. Improvvisamente desiderai tornare a casa, avere la febbre ed
essere disoccupata: non volevo chiamare quel tizio e cosa
più ovvia, non volevo che la nostra agenzia matrimoniale si
mettesse in affari con il Ladies Night, perché avrebbe
significato trascorrere tanto, molto, troppo, tempo con Geremia
cioè, Pietro.
Non
era proprio possibile che stesse succedendo a me, tra tanti locali del
genere che c'erano a Roma, perché proprio quello?
-
Ehi febbricitante: ben tornata. - Fissai lo sguardo su
Mina, ma non mi mossi dalla mia posizione. - Stai di nuovo
male? E' morto qualcuno? Ti hanno fatto una proposta di matrimonio?
Dimmi cosa è successo perché hai una faccia che
spaventa.
-
Quella ce l'ha sempre. - Giulia fece il suo ingresso trionfale. -
Buongiorno, belle donne. Oddio Emily, c'hai na faccia: t'è
morto l'uccello?
-
Diciamo che non le era mai nato.
Risero
dandosi il cinque, non mi preoccupai neanche di dire qualcosa o di
difendermi: ero ancora sconvolta dalla notizia di Carla; loro due se ne
accorsero e preoccupate mi furono vicino. Come al solito Giulia si
sedette sulla scrivania e Mina si appoggiò semplicemente,
incrociando le braccia sotto al seno aspettando che iniziassi a parlare.
-
Carla mi ha dato la peggior notizia della mia vita.
Mina
scattò in avanti, spaventandomi – Ti ha
licenziata?
-
Certo che no, ma che vai a pensare?
-
Beh – Si intromise la rossa, Giulia era tornata al suo colore
di capelli naturale, come quando l'avevo conosciuta e non me ne ero
neanche accorta. - Hai detto “peggior notizia” e ci
hai fatto prendere un colpo. Cosa può essere di
così grave da farti impallidire e schockare in questo modo?
Sospirai
poggiando la fronte sulla scrivania: l'avrei sbattuta
volentieri più volte se fosse servito a qualcosa. Sbuffai
irritata e ciondolai il capo verso le mie amiche, poi mi decisi a
parlare – Ci metteremo in affari con il Ladies Night.
Alla
mia frase seguirono alcuni secondi di silenzio: dal basso
della mia postazione fissavo Mina che a sua volta lanciava strane
occhiate a Giulia. Quando poi si decisero a parlare, mi rimisi
seduta composta con la schiena poggiata alla sedia e le braccia
incrociate: ero visibilmente scocciata.
-
E' una cosa fighissima, perché questo teatrino?
Mina
spinse l'altra con delicatezza, era una pacca amichevole –
Ogni tanto mi sembri più scema di lei. E' per Mr. Panna no?
Non vorrà vederlo, stare con lui, scambiarsi affettuosi
sguardi d'amore e tutta quella roba lì a cui lei non crede.
Feci
spallucce – Anche se in modo sgarbato e sbagliato, Mina ha
detto la verità. Non voglio stare con quello, stare vicina a
lui mi manda in...
-
Estasi?
Pietrificai
Giulia con lo sguardo – In paranoia! E devi smetterla di
completare le mie frasi, perché lo fai in modo sbagliato.
Mina
fece un cenno a Giulia e si sedette accanto a lei sulla scrivania.
Quest'ultima poi mi obbligò a guardarla e ascoltarla con
attenzione e ciò significava che stava per farmi uno dei
suoi discorsi seri e ispirati; mi faceva paura quando diventava
improvvisamente troppo seria e non avevo voglia di stare lì
ed essere accusata di qualcosa che non avevo fatto o essere additata
come quella senza cuore e senza sentimenti.
-
Ems, ascoltami bene perché non ripeterò
più quello che sto per dirti. - Sospirammo nello stesso
momento e sorrisi, ma questo scomparì dalle mie labbra non
appena incontrai il suo sguardo serio – Devi smettere di
avere paura, devi imparare a fidarti degli altri
perché, se continui a essere come
sei, finirai con il rimanere sola. Butta giù quel
muro che hai intorno al cuore e impara ad amare perché non
è con l'amore che si soffre ma senza.
Provai
a parlare ma le parole non vennero fuori, mi accorsi di avere un groppo
in gola e le guance bagnate: stavo piangendo. Asciugai con un gesto
veloce e arrabbiato le lacrime e mi sedetti composta.
-
Emily.
Fu
Mina a parlare, forse aveva capito che le parole di Giulia avevano
fatto centro, che mi avevano colpita dritta al cuore e fatto male; la
guardai negli occhi e non so cosa lesse nel mio sguardo, ma, dopo
qualche secondo, insieme alla rossa, si alzò e in silenzio
tornò alla sua scrivania, lasciandomi al mio lavoro. Cercavo
di non pensare a nulla, solo al matrimonio di Giada e Ilaria: al
catering da chiamare, al fioraio e alla nuove composizioni: il
discorso di Giulia era tabù.
-
Lo so che avevo detto ostriche per antipasto ma... - Mi massaggiai le
tempie mettendo da parte il cordless, evitando di stare a
sentire il responsabile del catering dall'altro capo del telefono che
non smetteva di urlare e ripetermi quanto fossi maleducata a disdire e
cambiare il menu dall'inizio alla fine. - Se per favore mi
ascoltasse... - Parlare non aveva senso, quindi lo lasciai sfogare
ancora un po' e poi, con voce ferma, lo interruppi e una volta
per tutte e gli spiegai la situazione, mettendolo a tacere e
dettandogli l'ipotetico nuovo menu: ci saremmo visti in settimana per
assaggiarlo e, nel caso, confermarlo.
Mi
stirai la schiena per stendere i muscoli, era una cosa che mi rilassava
fin da bambina, lo facevo anche appena sveglia come se, con quel gesto,
si svegliasse tutto il mio corpo; Carla entrò proprio quando
stavo scrocchiando le ossa del collo e del busto.
-
Novità?
Sbarrai
gli occhi: il Ladies Night! Lo avevo dimenticato.
-
Prima non ha risposto nessuno, quindi ho fatto altro e non ho ancora
richiamato.
-
Richiamali allora. - Si sedette come qualche ora prima, incrociando le
gambe e tamburellando, paziente, le dita sul legno della scrivania; per
fortuna mi aveva creduto o a quest'ora mi avrebbe urlato contro. -
Emily, cosa aspetti, che il locale fallisca?
Non
era una brutta idea – No, ovvio. E' che non capisco il
bisogno di metterci in affari con loro.
-
Stanno aprendo tante agenzie matrimoniali Ems, certo non offrono i
migliori servizi come i nostri, ma sono economiche ed
è a questo che la gente punta con la crisi di adesso, ma...
- Avvicinò la sedia di qualche centimetro, i suoi occhi si
fecero più intensi, tanto che potei vedere delle sfumature
grigie in quelle distese verdi – Cosa desiderano le donne
oltre al denaro, più di questo? - Ci pensai qualche secondo
e prima che potessi rispondere lei continuò – Il
sesso Emily, il sesso.
- Scandì bene ogni lettera, come se, in quel modo, volesse
rendermi chiaro un concetto. - E noi dobbiamo accontentarle, noi
dobbiamo essere le migliori e daremo loro tutto ciò che
vogliono: un matrimonio da favola e un addio al nubilato indimenticabile.
Carla
mi faceva davvero molta paura; composi il numero sotto il suo sguardo
attento, eccitato e non so cos'altro, non capivo perché non
potesse essere lei stessa a chiamare ma chiederlo mi sarebbe costato un
altro di quei discorsi strani sulle clienti e il loro essere ninfomani,
perciò evitai e mi misi d'accordo con qualcuno al telefono:
a volte mi sembrava d'essere una segretaria, non una wedding
planner.
-
Andiamo a mangiare qualcosa fuori? - Mina ce lo propose mentre tutte e
tre stavamo uscendo dall'ufficio dopo una lunga ed estenuante giornata
di lavoro. - Finalmente domani la mia coppia si sposa e ho bisogno di
una serata tra donne per rilassarmi.
-
Io ci sto, oggi ho lavorato troppo e mi farebbe bene la vostra
compagnia. - Giulia ci regalò uno dei suoi sorrisi e mi
guardò in attesa di una risposta. Io ero indecisa: da un
lato volevo andare con loro e lasciarmi quella brutta giornata alle
spalle, dall'altro ero così stanca da voler solo mettermi a
letto e dormire. - Dai Ems, sei stata tutta la settimana a casa e non
esci mai con noi.
Sospirai
facendo spallucce – D'accordo ma non facciamo troppo tardi,
ho la testa che mi scoppia.
-
Sì, nonnina.
Risi
insieme a loro e andammo al locale più vicino, quello dove
il barista ormai ci conosceva e ci faceva lo sconto sulle birre.
Uscire
con quelle due matte era sempre una buona cosa perché mi
mettevano di buon umore, perché erano le mie due migliori
amiche e grazie a loro mettevo da parte ogni brutto pensiero
divertendomi, perché con loro non dovevo nascondermi o
erigere un muro, potevo essere un po' più me stessa senza
soffrire.
Il sabato era il nostro giorno libero perciò potevo
prendermela comoda e fare ciò che volevo, come
finire il libro che avevo iniziato mesi e mesi prima e che non avevo
mai il tempo di leggere, pulire e sistemare casa che stava diventando
un immondezzaio e, sopratutto, prendermi cura di me stessa
perché ero quasi peggio di un uomo.
Misi a scaldare la cera mentre, sulle note del nuovo singolo dei
Negramaro, passavo l'aspirapolvere in cucina, salotto e nel piccolo
corridoio; avevo finito di spolverare i mobili in camera da letto e RTL
aveva appena trasmesso il giornale orario, quando mi ricordai della
cera che per fortuna era quella con il rullo
elettrico perciò non c'era il rischio di bruciarla o di
appiccare un incendio in casa.
Preparai l'occorrente e, armata di coraggio e buona volontà,
iniziai a fare la ceretta prima alle gambe e poi alle
cosce: per l'inguine avrei chiamato qualcuno o, al
limite, mi sarei ubriacata per non sentire dolore; per fortuna
c'era la musica a distrarmi e, di tanto in tanto, cantavo a voce alta.
Era un ottimo rimedio e anestetico.
Avevo appena posato la striscia sul lato destro
dell'inguine, quando il mio cellulare iniziò a
squillare: andai in panico, non sapevo cosa fare prima, se strappare la
striscia di colpo, abbassare il volume della
tv o rispondere; presi un respiro per riflettere,
risposi a telefono e con un gesto secco tolsi la striscia, mordendomi
il labbro per non imprecare. Non avevo neanche controllato il mittente
che se ne stava in silenzio in attesa di un cenno: eravamo zitti
entrambi, non sapevo chi fosse più cretino tra i due.
- Pronto? - Dissi infine. - C'è nessuno?
-
Oh, pensavo fosse caduta la linea.
- Ma chi parla?
-
Il fantasma formaggino: tua sorella, chi vuoi che parli.
Ero sicura di avere un'espressione sorpresa, imbambolata, sconvolta e
molto altro. - Elle?
La senti sghignazzare – Hai
altre sorelle e non ne sono a conoscenza? Sì sono io, Lilly.
Come stai?
Avrei
voluto riattaccare, urlare un po' e poi richiamarla ma ero troppo
contenta di sentire la sua voce dopo tutti quegli anni, – Io
sto bene, tu come stai? Dove sei e che stai facendo? Perché
non ti sei fatta sentire...
Rise
di nuovo e mi si scaldò il cuore.
La sua risata mi rilassò e mi fece sentire
al sicuro come quando eravamo bambine. Rispose a tutte le mie domande e
mi raccontò della sua nuova vita a New York, del suo
fidanzato famoso, del suo lavoro impegnativo ma sempre bello ed
emozionante, di come ogni tanto le
mancasse la Francia , ma che, sopra ogni cosa, le mancavo io:
la sua famiglia, la sua vera casa.
Parlare
con lei, sentire la sua voce, i suoi gridolini e le sue risa, pur se
distante mille miglia, mi aveva fatto tornare quella di un
tempo: lei mi faceva sentire protetta, come se niente e
nessuno potessero farmi del male.
-
Ti sei innamorata di uno spogliarellista. -
Me la immaginai piegata in due per le risate, con i lunghi capelli
castano scuro a coprirle il viso.-
Se lo sapesse la mamma ti ucciderebbe.
- Non mi sono innamorata, io quel tipo lo odio.
-
Lilly, te l'ho detto miliardi di volte: “Dall’amore
all’odio c'è solo un passo.” * Quindi
è inutile che ti ostini a tenerti lontana
dall'amore e a proteggerti da esso, tanto Amore è
più forte di noi, perché, come dice Shakespeare
“ciò che Amore vuole...” - Stette
in silenzio per qualche secondo perché si aspettava che io
terminassi la frase, poi parlò di nuovo - Continua
la frase Emily!
-
“Amore osa”- Feci come aveva detto o non
mi avrebbe lasciata in pace.
Eléonore
era molto determinata, testarda e innamorata della vita, dell'amore: da
piccola aveva tantissimi corteggiatori e un solo fidanzatino
perché diceva che bisognava amare solo uno per volta e in
modo assoluto, che lei era fatta così.
Donava tutta se stessa e poi, se stava male, non lo dava a
vedere, voltava pagina e ricominciava ad amare con più
intensità, cercando la persona giusta, quella che avrebbe
ricambiato il suo grande e folle affetto.
A
volte la invidiavo per questo, perché aveva il coraggio di
provare, perché aveva la forza di rialzarsi.
-
E' tornato Simone. – Mi
parve di vederla sorridere come quando, da piccole, i nostri genitori
ci portavano al Luna Park e ci lasciavano libere. -
Ti prometto di farmi sentire più spesso.
- Non fare promesse che non puoi mantenere Elle, lo so che sei
impegnata, non ti preoccupare.
Sentii dei bisbigli e forse dei baci e roteai gli occhi: era sempre la
stessa. -
D'accordo ma tu, cara la mia sorellina, devi smettere di fare la dura e
lasciarti andare: Amore è lì che ti aspetta ad
ali spiegate per farti volare con lui.
- Ma che cosa stai dicendo? - Se fosse stata con me le avrei tirato un
cuscino in faccia
-
E il tuo bel spogliarellista ti aspetta con la panna addosso per
leccargliela via.
Scoppiai a ridere e non potei risponderle perché era caduta
la linea, ma sentirla per quel breve istante mi aveva
rinvigorita: ero pronta per affrontare il resto del sabato e
per fare l'altro lato dell'inguine.
Il
lunedì, quando tornai a lavoro, ero emotivamente distrutta:
avevo trascorso il fine settimana a leggere il libro e, arrivata alla
fine, avevo pianto come mai in vita mia. Non riuscivo ancora a
riprendermi dallo shock e dalla depressione, camminavo in ufficio come
fossi un automa, pensando alla protagonista e al suo cuore rotto in
mille pezzi. Giulia se ne accorse e mi chiese, da buon amica, se mi
fosse successo qualcosa e, quando seppe la
verità, mi scoppiò a ridere in faccia,
confessandomi poi che anche lei aveva avuto più o meno
quella reazione.
-
Non vedo l'ora che esca al cinema. - Era l'ora di pranzo, tutte e tre
eravamo in mensa a mangiare qualcosa; anche Mina aveva letto il libro,
finendolo prima di tutte e trattenendosi dallo spoilerarlo e
ora aveva bisogno di commentarlo con noi. - Ho letto su
internet che il cast sarà stellare.
Ingoiai
la mia insalata. – Più che il cast è
sempre un film di Nolan e sono curiosa di vederlo.
-
Sei un po' fissata con lui. – Annuii a Giulia che intanto
mangiava la sua carne – Ma devo darti ragione, i suoi film
sono grandiosi.
-
Spero solo che non sia complicato come Inception.
Mina
si intromise, lei preferiva i libri ai film, diceva che al cinema, sul
grande schermo, si perdeva l'originalità, la purezza e
bellezza; leggendo ci si poteva immergere nelle situazioni e immaginare
ogni cosa. Guardando il film, invece, era tutto servito e spiattellato
così come voleva il regista.
-
Inception non è complicato. - Le risposi, rubandole l'ultimo
sorso di coca-cola. – Sei tu che non capisci i film.
Si
finse offesa e mi fece una linguaccia che ci fece ridere: mi
era mancato trascorrere del tempo con loro, ma la febbre, il
matrimonio delle grandi amiche e gli altri impegni mi avevano tenuta
troppo impegnata. Per fortuna stavo recuperando a poco a poco.
Il
divertimento durò poco, Carla mi chiamò sul
cellulare, obbligandomi a tornare in ufficio prima del
previsto. Dovevamo fare tantissime cose, parlare con il proprietario
del Ladies Night e Dio sapeva cos'altro voleva da me quella donna. La
trovai seduta di fronte alla mia scrivania, troppo
occupata a scrivere qualcosa per accorgersi che ero entrata nella
stanza. Poggiai una mano sulla sua spalla e
lei si spaventò, intimandomi di non farlo mai
più, che era bella ed
elegante, ma aveva pur sempre una certa età e non
poteva rischiare dei malori.
-
Cosa posso fare per te, Carla? - Ignorai i suoi discorsi e mi sedetti
al mio posto, pensando al caffè che non avevo bevuto e ai
cinque minuti di pausa pranzo che avevo saltato.
-
Dunque, dobbiamo chiamare il signor Maurizio e decidere per il pranzo.
-
E il signor Maurizio sarebbe?
-
Il proprietario del locale, Emily. Chiama e vedi se è
disponibile per domani.
-
E se parlassi direttamente tu, insomma, è qualcosa di
ufficiale tra proprietari e...
I
suoi grandi occhi verdi si ridussero a due fessure: di solito
faceva in quel modo quando stava pensando a qualcosa. - Hai ragione,
fai il numero e poi me lo passi.
Per
fortuna aveva deciso di fare a modo mio, non mi andava di essere la sua
segretaria, stare lì a telefono con quel Maurizio che
neanche conoscevo e prendere appuntamento per lei, avevo altro da fare
ed era già tanto che facessi quel numero al posto suo.
-
Ecco.
-
Cosa fai? - Rifiutò la cornetta. - Devi essere sicura che
risponda lui a telefono prima di passarmelo.
Quello
era il colmo! Tentai di dirle qualcosa ma dall'altro lato una voce mi
anticipò e mi affrettai a rispondere prima che
riattaccassero o di fare la figura dell'idiota.
-
Buongiorno, chiamo da parte dell'agenzia matrimoniale W&W ** di
Carla Solari, parlo con Maurizio?
-
No, Maurizio non è qui al momento, può dire a me
se vuole.
Non sapevo che fare, ecco perché non volevo occuparmene. -
Aspetti un momento. - Riferii a Carla quanto mi era stato detto e,
ovviamente, mi rispose che non voleva parlare con quel ragazzo; mi
trattenni dall'ucciderla. - Dunque il mio capo vorrebbe pranzare con il
signor Maurizio domani, se è possibile.
-
Io non so se è possibile, Maurizio è sempre in
giro per Roma e non lo si becca mai.
- Non potrebbe chiamarlo o scriverlo in agenda?
Lo sentii sghignazzare facendomi innervosire ancora di
più – Non
sono il suo segretario, richiami più tardi e se lo trova
buon per lei.
- Senta
– Respirai spazientita; avrei urlato anche contro
quell'idiota che mi ero ritrovata come interlocutore, se fosse
servito a risolvere la situazione. – E' un pranzo di
lavoro, non di piacere, rientra negli interessi delle nostre
attività.
-
D'accordo, cosa devo dirgli?
Per fortuna anche i cretini erano in grado di usare il cervello ogni
tanto. – Che l'agenzia matrimoniale ha chiamato e che
aspettiamo una conferma per domani.
-
Vedrò cosa posso fare. A presto, Madame.
Carla
mi guardava in attesa di una risposta che non tardai a
darle, aggiungendo che non ero la sua segretaria e che la
prossima volta avrebbe dovuto chiamare da sola perché io non
volevo avere niente a che fare con quel locale, proprietari e
dipendenti.
- E non vuoi neanche accompagnarmi domani al pranzo?
- Perché dovrei? - Digitai un messaggio a Mina, dicendole di
portarmi un caffè ristretto ,perché ne avevo
bisogno. - Sembra quasi che tu abbia paura di entrare in contatto con
quel mondo: non mangiano, stai tranquilla.
- Io non ho paura, Emily, ti sto solo osservando e istruendo. - La mia
curiosità la spinse a continuare – Prima o poi
dovrò ritirarmi dal mondo del lavoro e lasciare questa
agenzia nelle mani di qualcuno, non posso di certo farlo al primo che
passa, perché la W&W è mia figlia, l'ho
fatta nascere e l'ho cresciuta con le mie sole forze. Poi siete
arrivate voi ragazze che mi avete aiutata e non immagini neanche quanto
avevo bisogno di voi: siete fantastiche ma tu più di tutte.
- Davvero?
- Non sai quanto Ems. Hai una dedizione e una capacità
incredibile, riesci a mettere d'accordo tutti, a far combaciare gli
appuntamenti e nessuno è mai deluso del tuo lavoro. Le spose
sono sempre soddisfatte e tornano o chiamano per ringraziarti. Non so
se questo dipenda dai tuoi anni di studio o dal tuo non credere
nell'amore e nel matrimonio e, detto con sincerità, non mi
interessa perché ti fa essere la migliore.
- Non so che dire... Carla, grazie. - Le sue parole mi avevano stupita,
non credevo pensasse quelle cose di me.
- Ti ho chiesto di organizzare questo incontro non per farmi da
segretaria ma per renderti partecipe, come se fossi tu a capo di questa
baracca, perché vorrei lasciare a te le redini dell'agenzia
un giorno.
- UOU, cosa? Non pensi sia affrettato ed esagerato?
- Cos'è esagerato? - Le ragazze entrarono in quel momento
– Tieni il caffè Em, lo volevi anche tu Carla?
- No tesoro, grazie. - Le sorrise, mentre si alzava dalla
sedia e la rimetteva a posto. - Continueremo il discorso un'altra volta
Emily e se hai notizie di Maurizio fammi sapere, mi trovi nel mio
ufficio.
- E'
successo qualcosa?
- Mi è sembrata più strana del normale.
Negai e bevvi il caffè in pace, ripensando
però alle parole di Carla: mi reputava
così brava e in gamba da volermi lasciare la sua agenzia,
sua figlia,
come l'aveva chiamata lei stessa. Per quanto mi sentissi
onorata, non ero sicura di volere quel posto in futuro, in
fondo anni prima avevo accettato quel lavoro solo come occupazione
part-time fin quando non avrei capito cosa volevo fare davvero nella
mia vita. Che poi non lo avessi ancora capito era un altro
paio di maniche, ma certo non volevo ancora organizzare matrimoni alle
coppie felici per sentirgli dire che aveva paura di essere tradite o
altro.
Volevo trovare un altro lavoro che mi rendesse davvero contenta, volevo
andare a letto stanca la sera, ma felice di esserlo
perché avevo un lavoro che mi appagava, volevo svegliarmi al
mattino e sorridere allo specchio perché ero soddisfatta e
sapevo che tutto questo non l'avrei raggiunto continuando a organizzare
matrimoni, ma, purtroppo, non avrei mai trovato altro.
Carla mi aveva incastrato a quel pranzo di
lavoro, perciò ero obbligata a vestirmi maniera
adeguata per fare una figura decente agli occhi di Maurizio; mia madre
mi aveva sempre insegnato che nei momenti importanti l'abbigliamento
era molto decisivo e influenzava il giudizio degli altri, quindi decisi
di abbandonare jeans e scarpe comode e optai per un completo un po'
più elegante sul beige, giubbino e scarpe nere e, per un
tocco di classe, la mia inseparabile Chanel che mi aveva spedito mia
sorella da New York per Natale. Controllai d'aver preso tutto e uscii
di casa più nervosa che mai: sapevo
che Carla era in macchina ad aspettarmi, era passata a prendermi
perché non voleva arrivare da sola, aveva paura che
quell'uomo potesse farle qualcosa: “E' sempre qualcuno che ha
aperto un locale del genere”, aveva detto quando mi aveva
chiamata per dirmi che mi avrebbe dato un passaggio. Gliene ero molto
grata perché in quel modo mi aveva risparmiato quasi
mezz'ora di sbattimento sui mezzi pubblici, ma, in tutta
sincerità, avrei preferito non andare e stare a casa a
guardare una puntata di qualche telefilm.
Arrestò
la sua C3 cabrio nel posteggio riservato ai clienti del ristorante e,
dopo aver respirato più volte per darmi coraggio, scesi
dall'auto cercando di elencare dei buoni motivi per non uccidere Carla.
- Buongiorno signore. - Quello doveva essere Maurizio, non ricordavo il
suo viso, in fondo lo avevo visto una volta di sfuggita al locale. -
Siete splendide, accomodatevi.
Spostò la sedia del mio capo per farla sedere e, prima che
potesse fare lo stesso con me, provai a sedermi: non volevo
nessuna attenzione da parte di nessun uomo,
ma, proprio quando stavo per spostare la sedia, qualcuno da dietro la
avvicinò. Maurizio era ancora intento a parlare con Carla,
mi voltai per vedere chi potesse essere stato e sbarrai occhi e bocca
stupita.
- Eccoti qui Pietro, aspettavamo solo te.
I suoi occhi non lasciarono i miei. - Scusate il ritardo. -
Inclinò le labbra in un sorriso sbieco: non capivo
perché non riuscissi a dire nulla, non era la prima volta
che lo vedevo sorridere, eppure in quel momento era così
diverso e io così stupida. - Lei deve essere Carla,
è un piacere conoscerla.
Le si avvicinò fingendo un baciamano e scossi la testa
rassegnata: era il solito leccaculo. Quando si sedette accanto a me
andai in panico.
- Aspetta, tu pranzi con noi?
- Certo.
Sorrise di nuovo e, se prima ero imbambolata, in quel momento
mi venne voglia di prenderlo a cazzotti. Era tornato quello di sempre:
arrogante, impertinente, sgarbato e bello.
Mi morsi la lingua – E come mai?
- Pietro è un socio onorario, più o meno. Volevo
averlo al mio fianco.
Fu Maurizio a interrompere quel breve dibattito, come se qualcuno lo
avesse interpellato; mi salirono i nervi ancora di
più, Lo sapevo che dovevo rimanere a casa quel giorno. Carla
batté le mani estasiata spiegando che più o meno
era la stessa situazione con me e io la fulminai con
lo sguardo perché lei non doveva dare nessuna informazione
su di me davanti a quell'energumeno tutto muscoli
senza cervello, con quegli occhi tanto azzurri da fare concorrenza
all'orizzonte del mare, con la barba sexy e incolta e le labbra da
baciare.
Maledizione, cosa mi succedeva?
- Che ne dite se ordiniamo? - Ancora quel Maurizio a parlare. - Direi
di cominciare con degli antipasti e un ottimo vino...
- Ma io. - Tentai di dire che non volevo gli antipasti e che era un
gran maleducato a decidere per tutti, ma Carla mi
pestò un piede e dovetti rimangiare le mie parole. - Sono
d'accordissimo.
Il mio sorriso falso e di circostanza attirò l'attenzione di
Ger-Pietro che trattenne una risata e, quando il cameriere
portò la bottiglia di vino bianco che il gentile Maurizio
aveva ordinato, alzò un bicchiere
verso di me sorridendo ancora: complice, fastidioso e
sfacciato.
Quel pranzo sarebbe stato più difficile del previsto.
*****
*Entro
ballando e cantando sulle note di Some Nights*
Ieri
ho visto Glee
e sono ancora su di giri: MA CIAO BELLEZZE! Come state? Spero bene,
dato che io sono raffreddata e ho un po' d'influenza (che palle) Come
procede la vostra vita? Pff, io sono tornata da una brevissima
vacanza e adesso sto studiando come una pazza perché il 4 ho
un
esame, stupida università.
Bene,
bando alle ciance: SCUSATE IL
RITARDO, ma tra lo studio, la vacanza e la pigrizia non ho avuto
molto tempo per scrivere e devo anche dire che il capitolo non mi
ispirava molto... Avete notato anche voi che è noioso, vero?
Non
succede nulla di importante:
-
Emily e il suo lavoro.
-
Emily e
sua sorella
-
Emily e le sue amiche.
Che
fine ha fatto
Geremia/Pietro? Ohhh eccolo alla fine, che fa un'entrata
“trionfale”
da gentiluomo, MA VAH, NON FA PER TE CARO MIO! XD
Con
questo
capitolo volevo svelarvi qualche altro dettaglio della vita di Emily,
i rapporti che ha con Mina e Giulia e soprattutto con sua sorella
(che amo e adoro!)
Qualche
appunto noioso:
*Frase
originale:
Dall'amore
all'odio non c'è che un passo
di Giovanni
Soriano, Maldetti. Pensieri in soluzione acida, 2007
** W&W :
Ovviamente non esiste e ho immaginato che si dica “VU AND
VU” che
significa “White and Wedding”
Il libro di cui parla Emily,
come al solito, non esiste.
Inception,
invece, è un film bellissimo a parer mio di C.
Nolan che vi consiglio di vedere.
Per chi volesse vedere il
SET abiti di Emily, può farlo QUI
Infine,
ringrazio
tutte coloro che hanno recensito la scorsa volta e chi continua ad
aggiungere la storia tra le varie categorie: grazie millissime, mi
riempite il cuore di gioia, amore e pace. <3
Grazie,
ovviamente, a Ellina
e al suo tocco rosa.
Vi ricordo, per chi volesse, l'esistenza del
gruppo facebook
e
del mio canale youtube.
Grazie ancora e che la panna sia con voi.
Alla prossima.
|
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Capitolo 11 *** UNDICI ***
E'
più facile dare un bacio che dimenticarlo.
-
Anonimo.
The
(he)art of the streap VIDEO.
Undici.
-
Scusate, vado in bagno un attimo.
Poggiai il tovagliolo di
tessuto rosa molto pallido sul tavolo e mi alzai con gentilezza e
urgenza. Avevo bisogno di cambiare aria per qualche istante
perché,
in tutta sincerità, ero stufa di sentire Carla e Maurizio
parlare di
come la storia dei nostri locali sarebbe cambiata non appena avessero
firmato quel contratto, Pietro fare battute senza senso che
facevano ridere solo quei e,
ancora, ero stanca
di vedere quei due scambiarsi risate e occhiate d'intesa
mentre
l'idiota mi stuzzicava o cercava di attirare la mia
attenzione, rubando gli antipasti dal mio piatto.
Non
avevano ancora portato il primo e già
volevo scappare.
-
Dovevi davvero andare in bagno! – Me lo trovai seduto sul
marmo,
accanto al lavello. - Hai vomitato?
Non gli risposi, anche
perché la sua domanda non aveva senso, e mi avvicinai per
lavarmi le
mani.
- La tua maleducazione mi stupisce sempre di più.
- Sai
che questo è un bagno per donne?
- No, è unisex. - Rispose con
così tanta ovvietà da farmi imbestialire.
- Cavolo, non avevo
visto il cartello per disabili, se lo avessi saputo ti avrei lasciato
entrare per primo.
Mi fu talmente vicino da sovrastarmi con la sua
altezza – Ma che diavolo di problema hai? - Il suo petto
sbatté
contro il mio. - Se sono me stesso, sei una stronza, se provo
a
essere gentile, innalzi il tuo grande muro di cemento e sei
una
stronza lo stesso. Quindi, dimmi che devo fare con te!
Le sue
parole mi colpirono e la sua vicinanza mi stava facendo impazzire,
aveva un profumo talmente buono da farmi desiderare d'assaggiare la
sua pelle; il mio sguardo slittò dai suoi occhi azzurro mare
alle
sue labbra carnose. Deglutii e respirai a fondo per convincermi a non
baciarlo.
Con un po' di pressione sul suo petto lo allontanai dal
mio corpo e sussultai quando sentii il calore della
sua
mano sulla mia: la stava stringendo.
- Cosa. Stai. Facendo? - Lo
vidi avvicinarsi ancora di più e
mi spaventai. - Pietro!
Quello
che doveva essere un rimprovero uscì come una supplica e
senza
neanche rendermene conto chiusi gli occhi nel momento in cui sentii
il suo respiro infrangersi sulle mie labbra. Avevo la gola secca dal
desiderio di quel maledetto bacio: non poteva giocare sporco in quel
modo, era la seconda volta che accadeva.
- Per essere una
che mi odia, hai
la tendenza a baciarmi troppo spesso: è già la
seconda volta che
succede.
Quel sussurro mi fece rabbrividire, ma
spalancai gli occhi e, imbarazzata, lo allontanai;
evitai
di mandarlo a quel paese e di urlare, ma raccolsi quel
briciolo
di dignità femminile mista a orgoglio che mi era
rimasta e
uscii dal bagno.
- Ma dove eravate finiti? - Il sorriso di
Carla mi fece arrossire vergognosamente e avrei voluto prendere a
pugni la faccia da coglione che mi sedeva accanto.
- Ero andato a
controllare che Emily stesse bene; con l'influenza che s'è
presa di
recente, bisogna stare attenti a una ricaduta.
Assottigliai
lo sguardo. - E ce l'avrei avuta in bagno?
- Magari ti serviva una
mano per vomitare o un appoggio per lavare le mani.
Quell'ultima
parte, per fortuna, la sussurrò, perché
se l'avessero sentita
anche gli altri due l'avrei sul serio eliminato dalla faccia del
pianeta. Avevo provato a giudicarlo in modo diverso, a farmelo
piacere caratterialmente, perché era chiaro che mi attraesse
in un
altro senso, ma era più forte di me: quel ragazzo era troppo
insopportabile per poterci andare d'accordo.
Il resto del
pranzo trascorse come mi ero immaginata, con Pietro che continuava a
stuzzicarmi con battute velate sui nostri due baci non dati, con
Carla e Maurizio che non la smettevano di parlare delle spose e del
trio che le avrebbe soddisfatte: avevano in mente tante cose per il
locale e l'agenzia. Ogni tanto l'idiota si intrometteva proponendo
qualcosa o dichiarandosi in disaccordo, io mi limitavo ad annuire,
chiedendomi quando sarebbe finito quello strazio.
-
E' stato davvero piacevole trascorrere queste ore in vostra
compagnia. - Maurizio baciò la mano destra di Carla e fece
un mezzo
sorriso a me che rabbrividii a quel gesto: non mi
piaceva
quell'uomo, mi sapeva di viscido e subdolo.
L'odore di mare
mi investì non appena raggiungemmo il parcheggio,
così come la voce
di Pietro.
- Stai già andando via?
- No, pensavo di rubare una
macchina e giocare agli autoscontri qui dentro.
Rise, sbilanciando
il busto e la testa all'indietro – Sei davvero
divertente, oggi.
- Si appoggiò allo sportello dell'auto ignorando il mio
invito a
sparire e incrociò le braccia al petto – Avevo una
proposta da
farti.
- Oh, anche io. - Sorrisi sarcastica e continuai –
Perché
non vai a...
- Shh, finiresti per essere monotona e ripetitiva. Io
invece voglio proporti un armistizio.
Tolsi l'indice che
aveva posato sulle mie labbra per zittirmi e lo guardai con odio
–
Per favore, te lo chiedo ancora una volta da quando ci conosciamo:
puoi lasciarmi in pace?
- No che non posso Emily. - Sputò quella
frase come se gli costasse fatica. Fece un passo, avvicinandosi
ancora di più. - Puoi tu, invece, ascoltarmi e venire con me?
-
Venire dove?
- Biondina curiosa. – Mi fece
l'occhiolino e sospirai rassegnata. - Signora Carla, mi scuso per
averla fatta aspettare, ma può andarsene.
- Posso andare?
-
Può andare?
Io e Carla lo chiedemmo nello stesso momento e con lo
stesso tono sorpreso, perché se lei fosse andata
via, io come
sarei tornata a casa?
- Certo, accompagnerò io Emily. Scusi
ancora.
Non ebbi il tempo di ribattere o parlare con
Carla, perché
Pietro legò la sua mano alla mia e mi trascinò
lontano dall'auto.
Era caldo e sicuro, arrossii quando mi resi conto che neanche dopo
cinque minuti aveva lasciato la mia mano, anzi, ne lisciava il dorso
con il pollice come se fossimo una coppia innamorata. Avrei dovuto
spostarmi, dirgli di lasciarmi andare in quel momento e per
sempre, ma non ci riuscivo; perciò restai
lì dov'ero in
silenzio, a bearmi del suo tocco e dell'odore del mare che pian piano
si faceva sempre più intenso.
- E' il bello di essere a Ostia:
puoi decidere di passeggiare in spiaggia dopo un pranzo di lavoro
con...
Il vento mi scompigliò i capelli e liberai la mano dalla
sua per sistemarli dietro l'orecchio; si era interrotto mentre
compivo quel gesto, perciò lo esortai a continuare quando
finii, ma
lui non rispose, o meglio, fece il vago e riprese a camminare.
-
Aspetta, questi cosi mi danno fastidio.
Mi fermai per
togliere le scarpe visto che i tacchi affondavano nella sabbia e mi
impedivano di camminare e in pochi secondi Pietro mi
fu
accanto e mi fece da appoggio. Lo ringraziai con lo sguardo e, quando
mi sorrise sincero per poco non caddi per mancanza d'equilibrio:
doveva smetterla di giocare sporco.
- Portavi l'apparecchio per i
denti da piccolo?
- Questa domanda fa tanto “Porti le lenti a
contatto?” di quel film con i vampiri turchini.
- Vampiri
turchini? - Il mio tono stupito lo fece ridere e non potei fare a
meno di notare che, quando rideva di gusto, comparivano due fossette
agli angoli della bocca.
- Quelli che brillano come le fate.
Come si chiama il film? - Schioccò le dita più
volte, come se quel
gesto potesse fargli venire in mente il titolo.
Avevo capito e
aveva ragione. Io avevo visto tutti i film per un matrimonio che
avevo dovuto organizzare, quello che mi aveva portato dritta da lui:
sorrisi al ricordo. - Non so il titolo, però ho capito di
cosa
parli.
Mi sorrise ancora e questa volta fui più furba
e non
lo guardai, tornando a concentrarmi sul mare che, stranamente,
nonostante quel po' di vento, era piuttosto calmo. Amavo il mare e il
potere che aveva di calmarmi: quand'ero piccola i miei
genitori
mi portavano sempre in montagna, perciò non avevo la
possibilità di
tuffarmi e giocare in acqua; ecco perché da quando vivevo a
Roma,
tutte le volte che potevo, mi rifugiavo in spiaggia a osservare le
onde, ad ascoltarne il suono e a meditare.
- A che pensi?
Mi
ero scordata di lui. – A niente.
- Bugia! Avevi uno sguardo
malinconico e assorto: stavi cercando di immaginarmi nudo, come
l'ultima volta?
Risi e lo spinsi con la spalla – Sei un'idiota,
te l'ha mai detto nessuno?
- Tutti, almeno una volta al giorno.
Prova a essere più originale.
Se avesse continuato a farmi quei
mezzi sorrisi che mostravano i denti perfetti e il suo sguardo
malizioso e troppo azzurro, gli sarei saltata addosso, gli
avrei morso le labbra e strappato i capelli, in senso
positivo.
- Ogni volta che ti faccio una domanda, tu non mi
rispondi.
- Perché mi chiedi le cose sbagliate.
- Oppure sono
argomenti scomodi.
Sbuffò – Era un apparecchietto insulso, di
quelli mobili che serviva per correggere la posizione della lingua
mentre parlavo, non i denti. Quelli li ho sempre avuti dritti e
perfetti. - Guardai davanti a me, cercando di nascondere il mio
sguardo. - Soddisfatta?
- Abbastanza.
- Continuo a
pensare che sia una domanda cretina, ma se ti interessava
saperlo...
- Perché è impossibile avere dei denti
così perfetti
e bianchi.
- Ha parlato quella con le tette enormi: ognuno ha i
propri pregi, io ne ho molti. Troppi. Ok, sono un pregio in
persona.
Le sue parole erano state un'allucinazione perché nessun
essere sano di mente avrebbe detto quello che avevo sentito; era
così
vanitoso da mettere i brividi. Nonostante tutto non riuscii a
trattenere una risata, perché quella situazione era davvero
comica e
anche lui, dopo qualche secondo, si unì a me: mi piaceva
quel
momento, così rilassato e tranquillo; parlavamo e
camminavamo senza
litigare e cercavamo un confronto da persone civili. Ma il problema
era: quanto sarebbe durato?
Mi strinsi nel cappottino e
continuammo a camminare, ascoltando il silenzio che ci avvolgeva.
-
Come mai hai deciso di accoppiare le persone? - Mi
chiese, spezzando
quella strana atmosfera. Mi fece sorridere però,
perché io non
“accoppiavo”. Come al solito non aveva capito.
- Non sei la
persona adatta per fare questa domanda.
- Vuoi sapere perché
faccio lo spogliarellista? - I suoi occhi si
illuminarono, divenendo
maliziosi; si voltò,camminando all'indietro come i
gamberi e
non smettendo di guardami. - Sei curiosa! - Mi stuzzicò
ancora e
dovetti cedere.
- Tu non lo saresti?
Il suo sguardo mi
imbarazzò. - In realtà no, ma ne approfitterei.
Vuoi sapere come?
-
No, lo immagino.
- Posso mostrartelo se vuoi.
Mi
bloccai, sbuffando – Non volevi un armistizio? Stava
andando
tutto bene quindi non stuzzicarmi. - Ripresi a camminare, sperando
che capisse e che soddisfacesse la mia richiesta.
- Mi
dispiace per quello che è successo in bagno prima. - Mi fu
di nuovo
accanto, con le mani in tasca e lo sguardo basso. - Per quello che ho
fatto, intendo.
- O non hai fatto. - Mi scappò prima che potessi
accorgermene e mi tappai la bocca; dalla sua risata capii che mi
aveva sentito.
- Lo so che avresti voluto baciarmi. - Lo fulminai.
– Anche io volevo farlo.
Accantonai la sorpresa dovuta a quella
rivelazione e gli risposi – Smettila di prendermi in giro, lo
fai
fin troppo spesso.
- Ero serio. Volevo baciarti in macchina
quella sera e a casa tua, quando stavi male.
Stava
sicuramente scherzando e quella era una trappola per sedurmi e
abbandonarmi: io non volevo essere un pezzo di una sua collezione,
una delle tante che lui si portava a letto, perché per lui
era
facile sceglierne una e TAN scrivere il nome sulla lista; ero
convinta che si stesse comportando in quel modo perché lo
incuriosivo, perché lo respingevo, perché non ero
come le
altre.
Lo spinsi – Smettila. - Un'altra volta. - Smettila
di prendermi in giro. – Ancora una. – E
confondermi.
Quando
lo feci di nuovo mi bloccò le mani e, nell'impatto, perse
l'equilibrio cadendo all'indietro e trascinando me su di lui: era una
situazione imbarazzante ma piacevole. Lo guardai negli occhi, sempre
maliziosi e divertiti e sospirai, dandogli del cretino,
perché
la colpa era sua se eravamo caduti e se c'eravamo sporcati;
ma lui non si scompose, anzi rise,
affondando la testa
nella sabbia. Quando provai ad alzarmi, facendo peso sul suo petto
troppo muscoloso, mi trattenne portando un braccio dietro la mia
schiena e tenendo ben saldi i miei polsi nell'altra sua mano: ero in
trappola.
- Sta' buona.
- Lasciami andare.
-
Assolutamente no. – Strinse la presa ancora di più
– Ascoltami
bene: tu hai un problema di fiducia, l'ho capito ma, ti assicuro che
non voglio farti del male, che vantaggio ne avrei?
Smisi di
ribellarmi – Sii sincero. - Se eravamo in ballo, tanto valeva
ballare. – Cosa vuoi, davvero, da me?
Non mi rispose, ma
lessi nel suo sguardo qualcosa di nuovo, l'ironia e la malizia erano
scomparse, il solito azzurro era diventato più intenso; non
so
quando accadde di preciso, ma mi accorsi troppo tardi che mi
aveva baciata, quando sentii le sue labbra premere sulle mie e il mio
cuore andare giù fino allo stomaco.
Chiusi gli occhi e,
sperando non fosse uno scherzo come quello di prima, mi lasciai
andare approfondendo quel bacio: dischiusi la bocca il giusto per
sentire la sua lingua tracciare il profilo del mio labbro
superiore.
Mi accesi come una miccia.
Liberai le mia mani dalla
sua stretta e le poggiai sul suo viso, sfiorando le sue guance e
giocando con le sue orecchie; la sua mano sinistra poggiava sulla mia
schiena e mi spingeva sempre più verso lui. Il mio stomaco
si era
svuotato e il mio cervello aveva smesso di funzionare: in quel
momento esisteva solo il suo corpo caldo sotto di me, le sue labbra
morbide e carnose, la sua lingua danzante e le sue mani
curiose e, se
tutto il resto fosse sparito, non me ne sarei accorta e forse non mi
sarebbe fregato nulla, avevo lui e mi bastava.
Appoggiò la fronte
al mio mento quando ci staccammo per riprendere fiato, solo allora
riaprii gli occhi, con molta calma,
e mi accorsi che
non ero più sdraiata su di lui, ma seduta e con le gambe
incrociate
al suo bacino: quando avevamo cambiato posizione?
Mi venne da
ridere: com'era possibile che avessi dato il bacio migliore della mia
vita alla persona che più odiavo in quel periodo?
Un brivido di
freddo mi scosse, stavamo lì, fermi e ancora
appiccicati a
cercare di calmare i nostri battiti e regolarizzare il respiro;
personalmente avevo paura di muovermi e parlare, non volevo tornare
alla realtà o affrontarla perché mi imbarazzava e
mi spaventava
sapere come avrebbe reagito lui; come mi avrebbe trattata mi
paralizzava a tal punto da farmi rimanere lì ferma e
immobile.
-
Forse è meglio andare, comincia a fare freddo.
Non gli risposi e,
senza neanche guardarlo, mi staccai da lui, alzandomi e
pulendo
dai vestiti la sabbia che vi si era attaccata, mentre si metteva in
piedi anche lui; quel silenzio era troppo imbarazzante, prima o poi
uno dei due avrebbe dovuto dire o fare qualcosa per migliorare il
momento.
Il tragitto del ritorno, per fortuna, fu più
breve, ma il meglio doveva
ancora venire visto
che doveva accompagnarmi a casa ed eravamo molto lontani: avrei
affrontato il viaggio in macchina più imbarazzante,
silenzioso,
brutto, inopportuno e chi ne ha più ne metta, della mia vita.
-
Che fai? - Si voltò, notando che non ero accanto a
lui, ma
mi ero seduta su una panchina per scrollare la sabbia dai piedi e
mettere le scarpe. Le avrei rovinate all'interno ma non potevo certo
camminare sul cemento a piedi nudi. - Aspetta.
- Ma che…
Si
avvicinò e, con un braccio sotto le ginocchia e l'altro
dietro la
schiena, mi sollevò dalla panchina portandomi fino alla sua
auto non
molto distante.
– Prego Madame. – Disse, facendomi
l'occhiolino. - La carrozza la sta aspettando.
Mi fece ridere –
Sei proprio un cretino.
Mise in moto e partì in prima – Oh, la
signorina Emily ha ricominciato a parlare; credevo avesse perso la
lingua su quella spiaggia anzi, credevo d'averla mangiata io. Stavo
iniziando a sentirmi in colpa...
Lo colpii al braccio, cercando
di nascondere il mio imbarazzo – Chi sei tu e che cosa ne hai
fatto
di Ger... Pietro? Non dovevi baciarmi, non dovevi prendermi in
braccio. Tu non dovresti trattarmi così.
- Gesticolai
per sottolineare meglio quell'ultimo concetto. - Noi due, insieme,
non funzioniamo quindi non dovremmo neanche provarci.
- Puoi
calmarti e mettere la cintura di sicurezza? Non vorrei prendere una
multa.
Lo colpii di nuovo. - Mi stai ascoltando?
- Sì Emily e
tu non sei la mia ragazza. E' stato un bacio come un altro, smettila
di farne un dramma. Neanche t'avessi messo incinta.
Lo sapevo che
sarebbe finita così.
Mi sedetti composta, osservando la
strada dal finestrino com'ero solita fare; non lo guardai
più né
gli rivolsi parola, fin quando fu lui stesso a
parlarmi, quando
riconobbi i quartieri vicino casa: stavamo arrivando, per fortuna.
-
Mi dispiace. - Indifferenza. - Non volevo risponderti in quel modo.
-
Puoi anche accostare qui.
- Ma manca un bel po' prima di
arrivare.
- La faccio a piedi.
- Emily ascolta...
- No
ascoltami tu – Lo fulminai con lo sguardo, puntandogli
l'indice
contro – Mi hai detto di fidarmi, che non mi avresti fatto
del
male, solo per baciarmi? Complimenti, sei come tutti gli altri. -
Respirai per calmarmi, perché se avessi perso la
concentrazione
avrei iniziato a piangere davanti a lui e non volevo. - Hai ragione:
ho grandi problemi di fiducia e non mi aspetto di certo che sia tu a
risolvermeli, che lo pago a fare il Dottor Rossi altrimenti?
-
Chi?
– Sta' zitto. - Forse era meglio restare sul punto e non
dilungarmi - Adesso hai ottenuto quello che volevi, ma sappi che
è
finita qui: scordati il mio nome, se non per fini puramente
lavorativi. Adesso ferma la macchina perché non ho
intenzione di
respirare la tua stessa schifosa aria.
Provò a parlarmi e farmi
ragionare, ma, prima che quella diventasse una tipica scena da
tragedia napoletana, riuscii a convincerlo e accostò a due
incroci
da casa mia. Per fortuna era ancora giorno e arrivai a casa
sana
e salva senza che nessuno avesse cercato di rapirmi o fare del male
viste le mie condizioni: ero vestita fin troppo bene,ma avevo
camminato a piedi nudi.
Che schifo; quel verme me l'avrebbe
pagata.
- Vi siete baciati?
Annuii.
- Non ti ha lasciata a casa?
Negai. Ormai quelle due facevano le stesse domande, insieme: mi
preoccupavano.
- Non vi siete più sentiti?
Parlò solo Giulia, guadagnandosi le occhiatacce da
parte mia e di Mina. Quest'ultima poi decise che doveva dire la
sua.
- Lei ha tutte le buone ragioni per non farlo e, a parer mio, hai fatto
bene a comportarti in quel modo: è stato un grandissimo
stronzo.
- Ma non ha fatto nulla.
- Giulia dicci la verità: ti ha pagata per difenderlo?
Forse avrei fatto meglio a non dire nulla alle mie amiche, dato
che iniziarono a battibeccare su quella situazione, su chi
avesse ragione, su chi avesse esagerato, su lui che era stronzo e io
pazza e, poi scoppiai.
- Ragazze basta, mi è venuto il mal di testa. - Mi accasciai
sulla scrivania – La colpa è solo mia
perché mi sono fidata per quell'istante, lui ha ragione e in
fondo non ha fatto nulla: non mi ha promesso le stelle, non ha detto di
amarmi e mi ha tradita con la prima che passava. E' stato un bacio come
gli altri, devo andare avanti.
Un bacio che non riuscivo a dimenticare, un bacio che aveva lasciato il
segno e mi aveva stravolto completamente. Sentivo ancora bruciare le
labbra e avevo lo stomaco in subbuglio al sol pensiero; com'era
possibile che fossi stata solo io a provare quelle emozioni? Avevo
ancora ben impresse le sue parole ma non riuscivo a farmene una
ragione: non ero pazza, non potevo essere l'unica ad aver avuto la
sensazione di sentire il cuore scoppiare durante quel bacio.
Era lui il bugiardo.
- Maledizione. – Sbottai, lanciando i fogli sulla
scrivania. Non riuscivo a lavorare con tutti quei pensieri per la
testa; neanche dopo due giorni riuscivo a smettere di togliermi
quell'immagine dalla mente, quei discorsi, quel suo sorriso e quello
sguardo mentre mi liquidava in pochi secondi.
- Emily, sei pronta?
Carla entrò nell'ufficio con il cappotto sul braccio e la
borsa nell'altra mano, non ricordavo avessi un appuntamento.
- Per fare cosa, esattamente?
- Dobbiamo andare in quel locale, il Night qualcosa...
Quante probabilità c'erano, in quell'istante, di essere
colpita in testa da un incudine? Probabilmente erano maggiori rispetto
a quelle di non incontrare
Vermetro* al locale. Mi alzai controvoglia e la seguii, testa bassa e
sguardo funereo, salii sulla sua auto, quella che mi avrebbe condotto
al patibolo.
Lo capii solo dopo: io non avevo nulla da temere, era lui ad aver
sbagliato ed era lui che avrebbe pagato. Presi coraggio e, non appena
Carla parcheggiò, scesi a testa alta, pronta ad affrontare
quello che sarebbe stato un incontro di lavoro coi fiocchi e i botti.
******
*
Vermetro: Verme + Pietro. Devo dire che mi diverto tantissimo a
inventare soprannomi per lui. Questo è quello più
riuscito.
LOL
Sventolo bandiere bianche e multicolor; quelle bianche
perché so che dopo questa lite/discussione mi vorrete
uccidere ma
ABBIATE FIDUCIA, Vermetro si farà perdonare (lo spero per
lui).
Quelle multicolor perché durante il bacio e prima li
shippavo che
era una meraviglia e non dovrei. *me si frustra *
Eravate tutte
curiose di sapere cosa succedeva durante questo fatidico pranzo e TA
DAN non è successo nulla di particolare, cioè
sì, Pietro ha fatto
lo stronzo facendo credere a Emily, in bagno, di stare per baciarla;
non so perché l'ha fatto, credo fosse un test ma forse
neanche
quello. Io non capisco questo ragazzo/personaggio perché sta
prendendo una piega tutta sua, sta andando per i fatti suoi e si sta
scrivendo da solo. Io avevo altri progetti per lui e per questo
capitolo ma nessuno dei due me l'ha permesso, erano lì che
urlavano:
BACIO, BACIO. VOGLIAMO BACIARCI. Ed è dovuto succedere. XD
La
scena successiva, quando hanno quella piccola discussione (che mi sa
tanto di tragedia napoletana) non so a cosa sia dovuta, non credo che
Emily se ne sia pentita – perché lo si capisce che
ci pensa ancora
– credo invece abbia paura e che sia arrabbiata con se stessa
per
essersi fidata o forse per aver giudicato male Pietro o ancora per
non aver capito come è fatto questo ragazzo. E' confusa e
arrabbiata.
Mentre lui non è contento di sentirsi accusare di
continuo – penso – perché non credo sia
così stronzo da fare il
carino con lei solo per un misero bacetto.
Sì, penso che entrambi
ci stiano nascondendo qualcosa.
Ringrazio
tutte coloro che hanno recensito la scorsa volta e chi continua ad
aggiungere la storia tra le varie categorie: grazie tanterrimo, mi
fate gongolare tanto. <3 :3
Grazie, ovviamente, a Ellina
e al suo tocco rosa.
Vi ricordo, per chi volesse, l'esistenza del
gruppo facebook
e
del mio canale youtube.
Grazie ancora e che la panna sia con voi.
Alla prossima.
|
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Capitolo 12 *** DODICI ***
NEL
CAPITOLO PRECEDENTE:
Emily
scopre che la sua agenzia ha
stretto un accordo con il Ladies Night e si reca a pranzo, insieme a
Carla, per incontrare Maurizio, il proprietario del locale e
discutere di alcuni punti del contratto. Lì incontra anche
Pietro e,
dopo i primi momenti come al solito molto disastrosi, i due vanno a
passeggiare in spiaggia, riuscendo a parlare in modo tranquillo,
senza litigare; a quel punto si baciano in modo molto
passionale.
Quel
bacio manda in confusione Emily e, in macchina,
aggredisce Pietro accusandolo di cose assurde.
Da
adesso in poi i
due dovranno collaborare a stretto contatto ed Emily si sente
imbarazzata per quello che è successo anche se spera e crede
di
riuscire a mettere una pietra sopra a quello che è successo
a
Ostia.
The
(he)art of the streap VIDEO.
Dodici.
-
Questo mettetelo qui. STATE ATTENTI.
Due settimane e stavo
sul serio rischiando di impazzire; non era facile mantenere la
facciata del “ti ignoro, sono superiore e non mi interessa
nulla di
quello che è successo al mare”, soprattutto
se trascorrevo
ore e ore con lui, quasi ogni giorno.
Al mattino, in
ufficio, controllavo i preparativi dei matrimoni; nel
pomeriggio
mi destreggiavo tra i vari sopralluoghi o appuntamenti con le
spose; la sera avevo le riunioni con lo staff del Ladies Night
oppure accompagnavo le spose degli addii al nubilato. Ero
così
stanca che avrei pagato oro per un giorno di riposo.
Stavo
preparando un matrimonio dell'ultimo momento: una coppia aveva deciso
di sposarsi perché lei era in dolce attesa e non aveva il
tempo o le
idee per organizzarlo, perciò mi ero trovata a chiamare
milioni di
chiese e ristoranti alla ricerca di quelli disponibili nel giorno
stabilito e convincere il prete a fare un corso
pre-matrimoniale molto accelerato. Sarei morta d'infarto alla fine
del ricevimento.
Non mettevo piede in casa da diciotto ore circa,
non avevo fatto la lavatrice e non pulivo da non sapevo neanche io
quanto tempo: avevo bisogno di una vacanza.
- Dove cavolo è il
tuo cellulare?
Ecco come la mia giornata, su una scala da uno a
infinito, era peggiorata infinito al quadrato.
- Che ci fai qui?
-
Ti stavo cercando e, visto che non mi rispondevi a telefono, sono
venuto a parlarti di persona.
Lo sorpassai, raggiungendo il
fioraio che era appena arrivato. - Sto lavorando e tu mi disturbi.
-
Sarò breve.
- Buongiorno signor Manfredi.
- Ciao Emily, è un
piacere vederti. - Il sorriso di quell'uomo mi rilassò per
qualche
istante: avevo sempre visto in lui una figura paterna, quasi
fosse il nonno che era venuto a mancare quand'ero piccola. - Dove
devo mettere questi vasi?
- I vasi grandi vanno vicino alle
colonne, quelli medi ai lati del tavolo degli sposi e una
composizione su ogni tavolo.
Gli operai del signor Manfredi
seguirono le istruzioni sotto il suo sguardo vigile, mentre io
mi occupavo della mia piaga personale; era appoggiato al muro, con la
gamba piegata e le braccia incrociate al petto.
- Sei brava. –
Disse, mentre mi avvicinai. - Hai quell'atteggiamento da
“fai
quello che ti dico perché sono migliore di te”
che, non so, ti fa
brillare gli occhi.
Mi trattenni dal sbattergli la cartelletta in
testa – Vorresti dire che ho la tendenza a comandare gli
altri?
-
L'hai detto tu. - Mi sorrise strafottente.
- Dimmi perché sei qui
e facciamo la finita, così te ne vai. - Si rimise in piedi
composto.
- E comunque io non penso di essere migliore degli altri.
Mi diede
una pacca sulla spalla – Certo. Maurizio mi ha detto di dirti
che
per questa settimana le riunioni sono annullate.
- Perché? È
successo qualcosa? - Non lo conoscevo da molto, ma ormai avevo
imparato alcune sue espressioni – Cosa mi stai nascondendo?
-
Niente. Abbiamo dei problemi interni e quindi dobbiamo rallentare.
-
Vuol dire che sono sospesi anche gli incontri con le spose? - Mi
prese il panico.
- No. O almeno credo.
Mi mancò il
respiro per qualche istante: come lo avrei detto a Carla? In
quelle settimane avevamo puntato tutto sulla novità degli
addii al
nubilato e in effetti gli affari erano migliorati tantissimo; cercai
di calmarmi per non perdere il controllo, ero pur sempre a lavoro e
la futura sposa sarebbe arrivata da un momento all'altro per
controllare che tutto fosse a posto.
- Emily rilassati,
andrà tutto bene.
- Risolvete questi problemi il più
presto possibile, perché se tu e i tuoi cari amici
mandate in
rovina la mia società, ti faccio pentire di avermi rivolto
parola,
quel giorno, al locale.
Minacciarlo mi metteva sempre di buon
umore.
Borbottò qualcosa, ma non lo capii visto che mi ero
allontanata per raggiungere il signor Manfredi e ringraziarlo per il
lavoro ben svolto; un urlo, proprio nel momento in cui guardavo il
risultato fino a quel momento raggiunto, mi fece sobbalzare. Era
arrivata la sposa e stava parlando con Gerem... Pietro.
Quell'idiota
avrebbe rovinato tutto.
Li vidi avvicinarsi a me in fretta e lei
aveva un sorriso strano stampato in viso.
- Grazie, grazie,
grazie.
Quando mi abbracciò, capii che era fuori di testa.
-
Di cosa? - Le risposi, allontanandola come se avesse il
tifo.
-
Per questa sorpresa, non sapevo fosse compreso nel pacchetto.
-
Non capisco. - GerPietro ricambiava il mio sguardo confuso e solo
allora mi accorsi che Lucia, la sposa, lo teneva per il polso.
-
Lui. Electric Fire è il mio regalo. Grazie.
- Oh. - Lei aveva
capito minchie per lanterne.* - No, guarda che...
- Non
dovevi scoprirlo così, doveva essere una sorpresa. -
L'idiota si
intromise, facendo credere a quella donna che in serata
avrebbe
avuto uno spettacolo molto privato con Mr. Electric Fire. - Adesso
dovresti lasciarmi, così vado a prepararmi.
Lucia urlò di nuovo
e, quando mi abbracciò, ringraziandomi
ancora, fulminai
con lo sguardo il cretino che mi aveva messo in quel casino: come
avrei fatto?
- Aspetta. – Gli corsi dietro. – Dimmi un
po', grande genio, come faccio adesso?
- A fare cosa?
- Quella
pensa che questa sera ti metterà le mani addosso. - Sputai
la frase
con rabbia, non lo sopportavo più.
- Lo so. Ti serve un passaggio
a casa?
- Non cambiare discorso.
Richiuse lo sportello con un
gesto deciso e si voltò a guardarmi un po' arrabbiato
– Devi
smetterla di farti prendere dal panico e di aggredirmi: questa sera
avrete il vostro spettacolo.
Lo bloccai prima che potesse salire
in macchina – Sì ma lei non lo ha chiesto, nessuno
lo ha pagato.
Come...
- Emily: rilassati, cazzo.
Questa volta l'istinto
riuscì a prevalere, lo spinsi così forte da
fargli sbattere la
schiena contro l'auto, ero fuori di me. - Non dirmi cosa devo o non
devo fare. Mi hai stufata con le tue battutine o sorrisini e non
permetterti più a rispondermi male.
Con un passo indietro mi
allontanai, ristabilendo la giusta distanza.
- Sei violenta
ultimamente, è successo qualcosa in particolare?
-
Vaffanculo.
Perché perdevo tempo con lui quando avevo ben altro a
cui pensare? Vidi Lucia vicina al tavolo degli sposi muoversi con
fare sospetto e accelerai il passo per avvicinarmi e chiederle cosa
avesse intenzione di fare; l'avrei raggiunta se solo
lamiapiaga,
perché sapevo fosse lui, non mi avesse
fermata, prendendomi per
il polso e facendomi girare bruscamente verso lui.
-
Violenta e maleducata.
- Non costringermi a farti la stessa solita
domanda. Ormai mi sembra di vivere in un film: la smetti di
assillarmi? Lasciami in pace, ti prego. Ho bisogno di vivere la mia
vita senza che tu mi stia intorno, puoi farmi questo favore?
Ero
patetica, lo ero stata più volte, ma lui non ne voleva
sapere e più
gli supplicavo di lasciarmi in pace più mi ronzava intorno
come una
mosca fastidiosa: avrei voluto avere un grosso insetticida.
-
No. - Scrollò le spalle – Più che altro
vorrei baciarti in questo
momento.
- Oh ma per favore... - Cercai di liberarmi dalla sua
stretta – Vorresti baciarmi per poi trattarmi di nuovo male?
Che
razza di cervello hai.
- Ti tratto male? Se non mi avessi
aggredito in quel modo sarebbe andato tutto bene.
- Bene in che
senso? - Litigare era diventato così normale per noi
– Nel senso
che mi avresti portata a letto e avresti tagliato il mio nome dalla
tua lista? Certo, ho scombinato il tuo piano... oh come mi
dispiace.
- Piano? Lista? Guardi troppi film Emily e stai sempre
sulla difensiva: non volevo dirti quelle cose in macchina, avrei
voluto accompagnarti a casa e baciarti ancora, fine della storia; ma
tu non me l'hai permesso.
La stretta sul mio polso si fece più
forte e una smorfia di dolore si dipinse sul mio viso; mi
lasciò
andare quando se ne accorse. Lo massaggiai per cercare di non
pensarci e per non guardare i suoi occhi di un azzurro troppo intenso
e arrabbiato per sostenerlo.
- Scusa. - Scrollai le spalle –
Perché mi hai detto quelle cose? Perché pensi che
io non possa
baciarti o essere gentile con te?
- Ho da fare Pietro, non è
tempo e luogo per parlarne.
Sembrava la quiete dopo la tempesta,
avevamo quasi urlato per circa cinque minuti, ci eravamo fatti del
male perché eravamo troppo stupidi per guardarci negli occhi
e dirci
la verità e adesso stavamo in silenzio a guardare per terra.
Quel
silenzio mi faceva paura.
- Se non ne parliamo adesso, non ne
parleremo mai più.
Ebbi il coraggio di guardarlo negli
occhi. – Vuol dire che non c'è nulla di
cui parlare.
-
D'accordo come vuoi. Ti faccio sapere per questa sera.
Sapevo
di aver fatto la più grossa cazzata di tutta la mia
vita, ma
non ero pronta per affrontare quel discorso,soprattutto
perché non
sapevo cosa avrei dovuto dire.
Avevo
raggiunto le mie amiche all'ora di pranzo, non appena finito di
lavorare.
- Io ho un'idea, ma
so già che me la boccerai. - Giulia posò il
menù sul tavolo e mi
guardò seria.
- Dimmi pure Giù. –
Le risposi, leggendo
ancora tra i piatti di pasta che offriva il ristorante.
- Dovresti
dargli una possibilità, dirgli che baciarlo ti è
piaciuto. Provare
a parlargli, dicendogli
che potete provare a stare insieme o avere una specie di storia.
La
guardai scettica dal menu. –
Se è uno scherzo, non
mi diverte.
- Non è una brutta idea. Magari lui ti sta così
addosso perché vuole essere il tuo amico speciale.
- Già, il tuo
amico di letto.
Odiavo il loro modo
di scherzare, quando
il soggetto delle loro risa ero io.
- Mettiamo in chiaro una
cosa: non. voglio. stare. con. lui.
- Ma perché? - Giulia
mi sembrò disperata – Che ti ha fatto questo
povero ragazzo per
meritarsi il tuo disprezzo?
- Lui... - Ci pensai e mi accorsi che
non lo sapevo – In realtà ho paura di molte cose.
Non voglio che
mi prenda in giro, che mi porti a letto e mi scarichi un'ora dopo o
che mi usi per qualche divertimento personale.
- Fallo tu. -
Mina si sbracciò per chiamare il cameriere –
Approfitta di lui e
del suo bel corpicino succulento.
- Ma non hai mai visto i film
romantici? Poi va a finire male: lui lo scopre e sono guai per la
lei.
- Sì ma poi, dopo aver litigato, si mettono insieme. Mal che
vada ti innamori.
Rabbrividii alle parole di Mina – Ma
anche
no. Ragazze siate serie, non ho tempo e voglia di stare dietro a un
ragazzo, soprattutto lui.
Giulia mi guardò maliziosa – Io dico
che una sana scopata ti farebbe bene. Solo una e se non ti piace non
ti fai più vedere.
- Giulia ha ragione, ne avete bisogno
entrambi:
vi mangiate
con lo sguardo!
Una
volta sola e, tolto lo sfizio, ognuno se ne va per la propria
strada.
Le guardavo allibite. - Io non le faccio queste cose, non
vado a letto con uno solo per togliermi lo sfizio o per
accontentarlo.
Fummo interrotte dall'arrivo delle nostre
ordinazioni: il cameriere era stato stranamente veloce o forse
eravamo noi a essere troppo prese dal discorso. Mina cercò
di
cacciarlo per continuare a parlare.
- Senti, qui non si tratta di
ciò che è giusto o sbagliato o quello che di
solito si fa ma: ne
hai bisogno Ems.
Giulia annuì, mentre
gustava la sua carne. –
Esatto. Non saresti una poco di buono, vai tranquilla.
Non era una
questione d'essere giudicata come una poco di buono, io non volevo
andare con lui per qualche blocco mentale-personale; se avessi
ceduto, gli avrei dato quello che voleva fin dal primo momento e poi
cosa mi sarebbe rimasto? Solo il ricordo di una notte e, per quanto
mi allettasse l'idea di divertirmi con lui, avevo sempre una
dignità
femminile che mi impediva di lasciarmi andare per paura d'essere
abbandonata ancora una volta.
- Potrei uscire con Mario.
- Chi
cavolo è Mario?! - Mina mi guardò male.
- L'avvocato del piano
di sotto. –
Le spiegò Giulia.
– È carino, ma
di un noioso da far arrivare il latte alle ginocchia.
Mina mi tirò
un pezzo di pane in faccia – Niente Mario. Scoperai con
GerPietro,
il caso è chiuso.
Amavo stare con loro e apprezzavo il loro dare
consigli, ma
a volte perdevano il senso della realtà; non
avrei fatto una cosa del genere, non mi sarei mai abbassata a quel
livello, avevo bisogno di altro, certezze e stabilità. Pietro
mi ispirava tutto tranne che fiducia, ma,
come aveva detto Giulia una volta, avrei potuto lasciarmi andare con
il tempo:forse
e se ne avessi avuto voglia e coraggio, l'avrei fatto.
Neanche un'ora e già mi dolevano i piedi: maledette scarpe.
Odiavo il mio lavoro soprattutto perché, durante le
cerimonie, mi toccava indossare abiti eleganti e di conseguenza tacchi,
accessori, orecchini e roba che non faceva per me; io
preferivo di gran lunga un paio di jeans o una tuta.
Da lontano osservavo il risultato del duro lavoro di quella settimana e
ne ero soddisfatta: era tutto perfetto, esattamente come avevo chiesto.
- È così che ti vesti quando
lavori?
Era, avevo pensato benissimo. Mi voltai e
lo vidi in tutto il suo splendore. Indossava uno smoking nero con
camicia bianca e tanto di papillon e mi chiesi se
fosse la sua divisa o se si fosse vestito in quel modo per il
matrimonio; feci, comunque, finta di nulla e lo ignorai, dandogli le
spalle e parlando con la mia collega attraverso l'auricolare.
- Melania, cosa sta succedendo lì? - Vidi qualcosa di strano
in lontananza, ma fui subito
tranquillizzata, perciò mi dedicai alla
mia palla al piede. - Dimmi tutto.
– Dovrei venire a trovarti più spesso. - La sua
radiografia mi indispose – Dove lo facciamo?
Lo guardai stralunata. – Ma di che parli?
- Dello spogliarello. È già arrivata la sposa? -
Mi passò avanti sorridendo malizioso. –
Stai sempre a pensare male, che ragazzaccia!
Idiota. – La sposa è
dentro, con le damigelle; la voce si è sparsa
subito.
Il suo sguardo felice ed eccitato mi fece innervosire ancora di
più: per quale assurdo motivo trovava divertente spogliarsi
e farsi toccare da estranee? Era contento di sapere che altre donne,
oltre a Lucia, lo attendessero in quella stanza affamate e vogliose di
spogliarlo con le loro stesse mani.
Dovevo smetterla di pensare o avrei ucciso tutti quel giorno.
- Non mi accompagni? - Me lo chiese prima di entrare nell'enorme hall
della villa e mi sorrise
complice, strizzandomi l'occhio. Non seppi resistere: sbuffai
e dopo qualche passo fui accanto a lui.
- Rimarrai durante lo spettacolo?
Negai. – Ho da lavorare.
Si fermò prima di abbassare la maniglia e lanciarsi in pasto
alle belve feroci. – Mi devi presentare e non puoi
lasciarmi da solo: ho bisogno che qualcuno le tenga calme.
- Dovrei farti da guardia del corpo?
Sorrise malefico e, prendendomi per il polso, aprì la
porta, coinvolgendomi in quella che sarebbe stata la fine
della mia vita o l'inizio della mia rovina.
Le ragazze erano sedute. Più o meno, perché si
muovevano irrequiete su loro stesse continuando a borbottare eccitate;
Pietro si sarebbe esibito di fronte e vicino a loro, su nessun palco,
facendosi toccare e infilare i soldi dovunque fosse stato possibile. Mi
prese in disparte, prima di entrare in scena, e in quel momento mi
accorsi del suo cambio d'abito: indossava una divisa da vigile del
fuoco. Cliché. Anche se, dovendo essere sincera, era molto
sexy e non riuscivo a togliergli gli occhi da dosso neanche quando
iniziò a parlare nervoso. Non capivo cosa lo innervosisse
così tanto al punto da torturarsi i capelli in quel modo o
volermi dentro con lui, non era mica il suo primo spettacolo.
- Hai capito quello che devi dire? - Lo guardai allarmata e
sbuffò – Ascolta bene: Per favore non...
- Non vi è permesso toccare più del dovuto. - Mi
sentivo una scema nel dire quelle cose ma Pietro era stato abbastanza
categorico. - Non potete saltargli addosso né spogliarlo con
le vostre mani o lo spettacolo verrà interrotto e sarete voi
stesse a risarcirlo. - Questa era stata una mia idea, dell'ultimo
momento. - Buon divertimento.
Urlarono felici e mi sedetti in un angolino, appiccicata al muro in
modo da non partecipare a quello scempio; le luci si spensero
e restarono accese solo le lampade da terra che
davano un'atmosfera più intima. Pietro
apparve dopo le prime note di una canzone da discoteca mai sentita fino
a quel momento.
Batteva il piede a tempo, muovendo i fianchi
ritmicamente e tenendo la testa bassa; solo quando
iniziarono le parole della canzone alzò il
viso, puntando i suoi occhi verso la piccola folla urlante e
sorridendo malizioso, giocando con la cerniera della divisa e con il
casco giallo, che tolse del tutto e mise in testa alla sposa.
Fece un balzo indietro giusto in tempo per non essere sequestrato dalle
mani abili della donna.
Continuò a muoversi sensuale per il resto della canzone,
togliendo lentamente la tuta, passando tra le sedie e strusciandosi su
quelle ragazze che stavano perdendo, a poco a poco, la loro
voce.
Rimase a petto nudo con addosso solo i pantaloni della
divisa; la canzone stava per finire perciò
velocizzò tutto,avvicinandosi alla sposa e mettendosi a
cavalcioni su di lei. Mi aveva detto che non ci sarebbero stati momenti
troppo ravvicinati, che loro non potevano toccarlo o
spogliarlo, eppure era lui stesso a cercarseli; un moto di
rabbia mi travolse e, per un attimo, ebbi l'istinto di accendere la
luce e interrompere tutto, ma quando le mani di Pietro tolsero
dal proprio sedere quelle di Lucia e tornò in piedi, ripresi
a respirare e mi calmai.
Non ero gelosa, mi attenevo alle regole.
Con un gesto secco tolse i pantaloni proprio nel momento in cui la
canzone terminò, restando con un misero paio di parigamba*
neri, troppo aderenti. Si inchinò come se fosse stato
chissà quale attore o ballerino e sparì,
lasciando la sposa, testimoni e amiche soddisfatte, urlanti e ancora
eccitate.
Andarono tutte via e non potei fare almeno di ascoltare i loro commenti
maliziosi su quello che avrebbero fatto a “l'uomo dagli
addominali invitanti e dal culo d'oro”. Roteai gli occhi
disperata perché quasi tutte erano fidanzate, sposate o
giù di lì ma avrebbero volentieri tradito le loro
metà con Pietro: ecco perché non aveva senso
sposarsi o stare insieme a qualcuno.
Sospirai: sarei rimasta sola per sempre.
Sobbalzai quando mi sentii sfiorare la spalla e mi voltai –
Ci hai messo un secolo, sei peggio di una femmina.
Assottigliò lo sguardo, abbassandosi alla mia
altezza – E tu sei come quei bambini che offendono per
difendersi. - Si rimise composto e mi regalò un sorriso
– Andiamo?
Dove saremmo dovuti andare, noi due, insieme? Io dovevo lavorare, lui,
per quanto mi riguardava, poteva andarsene a casa o a farsi
ammazzare.
Mi alzai e lo seguii senza aggiungere mezza parola perché
sapevo che se le avessi fatto avremmo litigato e dovevo impiegare
tempo, forze ed energie nelle ore successive a dirigere e tenere sotto
controllo la situazione.
Lucia stava finendo di prepararsi insieme alle amiche, mentre lo sposo
si trovava dall'altro lato della villa a bere e festeggiare con i
testimoni e non sapevo chi altro.
- Dove stiamo andando?
Dovetti rispondergli per forza visto che me lo chiese quasi una decina
di volte. - Faccio un giro per vedere se va tutto bene, tu puoi andare
dove vuoi.
- No. - Si bloccò, facendo fermare anche me. - Io
sono stato invitato e starò con te.
Era uno scherzo?
- Io devo lavorare.
- Ti aiuterò, te lo devo.
Non bastarono gli sguardi d'odio, le battute acide, il mio ignorarlo
per farlo andare via o smettere di seguirmi e starmi tra i piedi.
Continuava a parlare, sorridere alle mie colleghe perché, di
sicuro, voleva portarsele a letto, e cercare di aiutarmi nel
lavoro, non sapendo che in quel modo peggiorava la situazione;
se dicevo a Melania di far servire poco vino al tavolo dei testimoni,
lui portava dei bicchieri per brindare, dicendo che doveva risollevare
il morale a tutti e di conseguenza, la situazione.
Lo avrei strozzato con le mie stesse mani.
Al ballo padre-figlia mi rilassai, sedendomi sulla prima sedia libera e
cercando di muovere le dita all'interno di quelle maledette
scarpe; le indossavo da così
tanto tempo da temere che i piedi avessero
preso la loro forma.
- Ecco a te. - La sua mano con un bicchiere di champagne
spuntò dal nulla e io alzai lo sguardo,
trovando il suo divertito. - Potrebbe farti stare meglio.
- Sto lavorando, non posso bere.
Me lo avvicinò ancora di più – Solo un
sorso. Hai quasi finito.
Il più grande errore fu quello di guardarlo negli
occhi, perché mi lasciai convincere da quello
sguardo malizioso e sicuro di sé, da quell'azzurro
così intenso da far invidia al mare di inverno.
Presi il calice dalle sue mani e bevvi.
- Mi piace il tuo lavoro. - Si mise a cavalcioni su una sedia di fronte
a me, continuando a bere il contenuto del suo flûte.
- Perché ti piace?
Ero davvero curiosa dato che io stessa lo odiavo,
ogni tanto.
- Non so, è interessante. Guarda come sorridono tutti, sono
felici, non come quando vengono da me, qui lo sono davvero. Hanno una
luce diversa negli occhi; forse la speranza che questo possa durare per
sempre e che domani non sia un giorno come un altro
e… – Tornò a guardarmi,
facendomi rabbrividire. - E sei tu che realizzi tutto questo, senza
neanche rendertene conto.
Per un momento, solo quello, avrei voluto baciarlo: i miei occhi erano
incollati ai suoi che, come impazziti, si muovevano veloci prima a
destra e poi a sinistra; c'era qualcosa che mi attirava a lui, una
sorta di calamita che mi impediva di spostarmi o allontanarmi, come se
il mio posto fosse quello.
Una voce stridula nel mio orecchio mi distolse dalla trance,
sbattei le palpebre più volte per riprendermi e risposi a
Melania che urlava disperata.
- Sto arrivando, aspettami lì.
- Hai bisogno di...
Lo interruppi prima che continuasse – No, stai pure qui
è una sciocchezza. Non muoverti ok?
Non sapevo se quell'ordine derivasse dalla mia paura che lui potesse
combinare qualche guaio o dalla voglia di trovarlo lì seduto
ad aspettarmi e poter continuare quello che era stato interrotto ma,
quando mi sorrise e annuì, mi rilassai e raggiunsi la mia
collega.
- Grazie, è stato tutto perfetto.
Lucia, stretta a suo marito, mi guardava e ringraziava con gli occhi
lucidi di chi aveva trascorso il giorno più bello della sua
vita.
- Grazie a te per aver scelto noi e per avermi resa partecipe di tutto
questo.
Carla diceva che dovevo mettere più enfasi in quella frase
che ormai ripetevo da troppi anni, ma ormai la forza
dell'abitudine e la mia poca stima
nei confronti matrimoni mi facevano apparire
annoiata.
La guardai andare via ed esultai mentalmente: anche quella era fatta,
adesso potevo andare a casa, togliermi le scarpe e farmi una bella
dormita.
Pietro non era più dove lo avevo lasciato e, dopo un primo
momento di dispiacere, realizzai che fosse assolutamente normale: non
mi avrebbe mai aspettata, era nella sua natura, non sarebbe mai rimasto
lì seduto a riflettere sulle sue stesse parole o su quello
che sarebbe potuto succedere, perché era Pietro e
perché forse, era anche colpa mia, l'avevo trattato
così tanto male da meritarmi quel comportamento.
Ero più bipolare di lui: prima lo allontanavo, poi lo
cercavo, poi lo rifiutavo e poi lo desideravo ancora.
Che diavolo potevo aspettarmi?
Di certo non mi sarei mai immaginata di trovarmelo seduto sul divano
della sala interna della villa, con il mio cappotto e borsa in mano e
un sorriso da far sciogliere i ghiacciai stampato in volto.
- Che ci fai qui?
- Ho visto che avevi finito perciò sono venuto a prendere le
tue cose. Tieni.
Mi aiutò a indossare il cappotto e non riuscii a dire
nulla: tutto quello che facevo era guardarlo sconvolta. Chi
era quel tipo così gentile e che ne aveva fatto del rude
ragazzo che avevo conosciuto al Ladies?
- Ti serve un passaggio?
- Pietro. - Mi stupii di come suonasse strano chiamarlo con il suo vero
nome eppure non era la prima volta che lo chiamavo, forse. - Ho
seriamente paura di quello che potrebbe succedere.
- Non succederà niente che tu non voglia.
Con un cenno della testa indicò il posteggio e lo seguii.
- Il problema è questo: e se io lo volessi? Le cose si
complicherebbero ancora di più: io non ti conosco, non
facciamo altro che litigare e...
Lo vidi, vidi l'esatto momento in cui la sua pazienza
vacillò, vidi il momento in cui avrebbe voluto mandarmi a
quel paese e odiarmi per tutta la vita; tuttavia si trattene,
abbassandosi alla mia altezza e guardandomi negli occhi.
- Non farlo di nuovo: non rovinare qualcosa ancora prima che
accada.
E io la sentii, sentii la stessa sensazione di prima e la seguii: con
un passo mi avvicinai a lui e lo baciai. La mia mano si posò
sulla sua giacca nera e la strinse talmente forte che ebbi paura di
sgualcirla; non si aspettava quel mio gesto, lo capii dalla sua
reazione: aveva le braccia lungo il corpo e gli occhi spalancati, non
avrei dovuto farlo, rovinavo sempre tutto.
Nel momento in cui stavo per allontanarmi e scusarmi, la sua mano si
posò sulla mia schiena facendomi aderire al suo corpo
statuario e mi scappò, senza volerlo, un
mugolio di piacere per quel contatto così irruento e
inaspettato tanto che lui sorrise sulle mie stesse labbra; approfittai
di quel momento per stuzzicarlo e, come una vera maestra di seduzione,
tracciai il contorno del suo labbro inferiore con la mia
lingua, invitandolo ad approfondire il bacio, a risucchiarmi
l'anima e non lasciarla andare mai più.
La sua mano sinistra si insinuò tra i miei
capelli, stringendoli forte, come se avesse desiderato quel
momento da troppo tempo; le nostre lingue stavano combattendo una
guerra senza vincitori né vinti e le nostre labbra ballavano
una danza nuova, ma comunque conosciuta.
Quando ci staccammo, riaprii lentamente gli occhi, per paura che quel
breve momento di pace e paradiso diventasse un lungo calvario verso
l'inferno; il suo sguardo infuocato, azzurro, malizioso, troppo bello
per essere reale, era puntato su di me, come un faro nella notte che
aiuta le barche a tornare a casa.
Non disse niente, non ce ne fu bisogno, e io lo
seguii lo stesso perché avevo bisogno di trovare la mia via.
*******
EMILY
SET ABITI: QUI.
(Aprire in un'altra scheda)
* il parigamba è un tipo di slip.
*
Minchia per lanterne, significa: fischi per fiaschi.
Ciao,
sono Alessia e se siete arrivate fino a qui, se mi avete aspettata
allora VI MERITATE UN BACIO, UN ABBRACCIO EUN GERRI NUDO.
Come
avete trascorso le vacanze? Avete mangiato, bevuto, ballato e tutto
quello che c'era da fare? Oddio, io sì e adesso non so come
tornare
alla vita normale. PLEASE, SOMEONE HELP ME, PLEASE!
Ok, torno
seria.
Ricordavate ancora cosa era successo nel capitolo
precedente, spero di sì: per fortuna ho fatto un mini veloce
riassunto prima di questo, per rinfrescarvi la memoria.
Ecco qui
che i due, come al solito, dopo aver litigato... si avvicinano e...
ZANZANZAN si baciano. Per la verità è Emily che
bacia Pietro:
PERCHE'? Me lo chiedo anche io, visto che non era programmato!
La
ragazza è confusa ma si lascia influenzare, facilmente,
dagli occhi
azzurri del bel omaccione che si ritrova davanti, beh, lo farei anche
io...
Non so che altro dirvi, è un capitolo molto importante
questo perché si capiscono molte cose ed Emily, anche se non
le dice
apertamente, lascia dei segnali abbastanza chiari. Chi vuol capire,
capisca. ;)
La vera domanda è: dove stanno andando e cosa
succederà dopo?
Grazie infinite a tutte per avermi seguita fino
ad adesso, per aver inserito la storia tra le varie categorie, per
avermi recensita e sostenuta.
Grazie a Ellina
per lo splendido lavoro che fa con me, per la pazienza e per il suo
bullizzarmi.
Grazie a Buba perché mi su/opporta.
Grazie a voi,
ancora.
Vi ricordo, per chi volesse, l'esistenza del gruppo
facebook
e
del mio canale youtube.
E, per chi se la fosse persa:
LA ONE SHOT NATALIZIA.
UN
SOGNO DI NATALE.
One
Shot Natalizia tratta dalla long: The (he)art of the streap.
Pietro
ed Emily si trovano in una situazione del tutto nuova per loro, quasi
surreale e con loro c'è un nuovo, piccolo, personaggio.
|
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Capitolo 13 *** TREDICI ***
The
(he)art of the streap VIDEO.
Tredici.
Il
tetto era molto interessante, sì, molto. Ed
era l'unica cosa che potevo guardare da quella
posizione: avrei
potuto chiudere gli occhi e dormire, ma
non riuscivo a smettere di pensare a quello che era successo nelle
ore precedenti. Avevo bisogno di
uscire dalla stanza, bere e calmarmi.
Spostai la sua mano
grande e calda dalla mia pancia e lentamente scivolai lungo il
materasso, cercando di fare meno
rumore possibile. Quando misi i piedi a
terra, esultai in silenzio e cercai
qualcosa da mettere addosso per evitare di girare per casa in
intimo: sulla poltrona riuscii a
trovare una felpa, così la indossai mentre mi richiudevo la
porta
alle spalle.
- Lo sapevo che sarebbe successo prima o poi.
Mi
morsi il labbro per non urlare e mi voltai spaventata: il coinquilino
di Gerry, quello biondo che faceva l'idraulico con cui avevo litigato
al locale e di cui, ovviamente, non ricordavo il nome, se ne stava in
piedi di fronte a me, in mutande e tutto sorridente.
Chiusi
immediatamente la lampo della felpa nascondendo il mio corpo al
suo sguardo troppo curioso.
- Dov'è la cucina?
Cercai
di guardare ovunque tranne che il suo corpo scolpito e pieno di
tatuaggi che, stranamente, risplendeva nella penombra neanche fosse
un vampiro fasullo; cercavo di non fargli capire quanto fossi
imbarazzata in quel momento:tra lo stare
nudi e l'avermi scoperta fuori dalla
camera del suo coinquilino, avrei voluto sotterrarmi.
Senza
rispondere, mi lasciò come una
cretina lì dov'ero e andò verso la porta
d'ingresso.
Voltando a destra, lo seguii e trovai la cucina.
- Dove
sono i bicchieri?
La sua occhiata mi gelò tanto che mi sedetti
sullo sgabello e smisi di parlare, guardandolo
mentre versava l'acqua e mi passava il bicchiere.
- Quindi, siete
già arrivati a questo punto? - Lo ignorai, perché
forse sarebbe
stata la mossa più giusta, ma lui
continuò, sedendosi accanto a me e sottoponendomi a un
imbarazzante
terzo grado. - Sei diversa dalle altre, quelle di solito urlano come
pazze possedute e questa volta non ho sentito nulla o forse ero
concentrato a fare altro.
Finì la frase quasi sussurrando e
guardando verso il corridoio: si
stava riferendo a qualcuno e a qualcosa perciò era meglio
non
rispondere o sarebbe stato in grado di raccontarmi i dettagli.
-
Mi sono sempre chiesto come sia Pietro a letto, insomma, è
anormale
e impossibile che quelle tipe urlino ogni volta, no? - Sputai l'acqua
dentro il bicchiere: cosa aveva detto? - Ti ho fatto ricordare
qualche dettaglio hot?
Quando mi decisi a parlare, qualcuno
arrivò alle mie spalle, salvandomi da quella brutta e strana
situazione; mi voltai verso destra, guardandolo, non appena mi
sfiorò
il collo e accennai un timido sorriso. Molto
timido.
- Oh, come siete carini.
- Coglione! - Gli diede un
forte pugno sul braccio, facendolo
sbilanciare all'indietro. Mi chiesi se
gli avesse fatto male, ma con tutti
quei muscoli che si ritrovava a malapena aveva sentito il tocco. -
Che t'ha detto?
Scrollai le spalle: non avevo voglia di stare lì a
riferire tutto, anche perché era imbarazzante.
- Ho chiesto cosa hai di speciale per farle urlare tutte.
Mi nascosi tra le mani e desiderai, per la seconda volta, sparire. L'altro
idiota, e lì capii perché erano amici e vivano
insieme, scoppiò a ridere fortissimo: perché non
ero a casa mia, a dormire nel mio caldo e comodo letto?
- Sei invidioso? - Non smetteva di ridere.
- Di te? Se sapessi le magie che faccio a letto, vorresti...
- EH NO! - Li interruppi prima ancora che continuassero e
diventassero volgari – Non starò qui a sentire i
vostri discorsi da primadonna.
Pietro mi spostò i capelli su un lato e si chinò
a baciarmi la porzione di pelle dietro l'orecchio: rabbrividii.
- Andate in camera, mi viene da vomitare.
Fui io a ridere questa volta e lo salutai felice mentre lo guardavo
andare via e il mio sguardo cadde più volte sul suo
sedere fasciato da un paio di boxer: non era colpa mia se
quella casa abbondava di perfezione.
Qualcun altro attirò la mia attenzione, sedendosi di fronte
a me e lasciandomi baci su tutto il viso, baci che divoravano.
- Fa sempre così? - Non volevo essere assalita, non in quel
momento e in quel luogo. - Assalta tutte le tue conquiste?
- No perché di solito non sgattaiolano via dal letto,
anzi...
La sua mano provò a tirare giù la cerniera della
felpa e lo fermai.
- Avevo sete. Dobbiamo parlare.
- Ecco, ci siamo: lo sapevo, mi chiedevo dove fosse finita la vera
Emily.
Mi irrigidii – Tu non sai niente di me.
Le sue mani si strinsero in due pugni ed ebbi paura che mi colpisse o
distruggesse qualcosa, ma, dopo un respiro profondo, mi
guardò negli occhi e parlò. –
So che ogni volta che facciamo un passo avanti, TU ne fai
cinque indietro perché hai paura di qualcosa,
perché non ti fidi di me e perché sei una stupida.
- Io, invece, mi chiedevo dove fosse finito il Pietro stronzo!
Mi alzai, andando verso la sua camera, lasciandolo come
un'idiota. Forse non dovevo reagire in quel modo, forse sarebbe stato
meglio continuare a parlare e arrivare a un punto d'incontro, ma
che senso aveva parlare con lui quando l'unica cosa che voleva da me
era portarmi a letto?
Accesi la luce e iniziai a raccogliere i miei vestiti sparsi per la
camera.
- Che stai facendo?
Se ne stava poggiato allo stipite, in mutande, con le braccia
incrociate e le sopracciglia corrucciate: gli avrei voluto tirare la
scarpa in faccia e sfigurarlo per sempre, almeno sarebbe stato meno
attraente.
- Mi sembra ovvio.
Entrò, chiudendo la porta con un rumore secco,
facendomi sussultare: era davvero arrabbiato; con due passi mi fu vicino.
Riuscivo a vedere le sfumature dei suoi occhi.
- Voglio che me lo spieghi, visto che io non leggo i tuoi cazzo di
pensieri.
- Infatti qui devi solo osservare: raccolgo i miei vestiti.
Era fumo quello che usciva dalle sue orecchie?
- Il motivo? - Lo guardai fisso, sperando che capisse, ma la
sua reazione mi stupì: fece un altro passo, costringendomi a
indietreggiare e afferrò al volo un mio polso, stringendolo.
- Ti ho detto che non leggo nella mente, perciò dimmelo.
Se avesse continuato in quel modo avremmo finito per urlare, svegliando
tutto il palazzo.
- Perché me ne vado, pazzo.
Si poteva leggere nel suo sguardo quanto mi stesse odiando in quel
momento, tuttavia mi lasciò andare e si rimise a letto
ignorandomi.
- Fa' quel che cazzo vuoi, sono le quattro del mattino: se trovi un
modo per tornare a casa buon per te.
Immaginai tutto: il momento in cui prendevo la lampada dal suo comodino
e gliela sbattevo più e più volte in testa,
ridendo beatamente di quel gesto e sentendomi, poi, soddisfatta nel
non dover ascoltare più le sue battute
fastidiose. Tuttavia feci come aveva fatto lui prima con me e, dopo
aver preso la scarpa che stava sotto un mobile, uscii dalla
sua camera, sbattendo la porta.
Ero talmente nervosa che avrei potuto piangere, ma non potevo
lasciarmi abbattere e d'altro canto non potevo farlo vincere
rientrando in camera e stendendomi accanto a
lui per fare finta di nulla dandogli in
questo modo tutte le ragioni del mondo: io ero più
forte.
Mi sdraiai sul divano, coprendomi con i miei stessi vestiti e aspettai
che il mio cuore decelerasse, chiusi gli occhi e solo dopo un'oretta mi
addormentai, stanca e ancora nervosa.
- Mi fai male, coglione.
Una risata e delle sedie che si spostavano.
- Adesso fa male?
Rumori di sportelli chiusi troppo forte e voci indistinte: dove diavolo
ero?
Aprii gli occhi, notando un’enorme tv al plasma,
un tappeto bruttissimo, un tavolino in vetro e una poltrona troppo
vecchia che stonava con l'arredamento; un'altra risata mi
riportò alla mente ciò che era successo la notte
prima e, come un automa mi alzai, scoprendo come indossassi ancora la
felpa dello stronzo, mentre la metà dei miei
vestiti era sparsa per terra.
Il tizio biondo e Riccardo erano in cucina a fare colazione. Forse, se
avessi fatto piano, non si sarebbero accorti di me e sarei
potuta uscire di nascosto.
- Problemi in Paradiso, madame?
Piano fallito.
Anche Riccardo si voltò e mi sorrise non appena
incontrò il mio sguardo assonnato e imbarazzato.
- Emily? - Anche lui era molto sorpreso di trovarmi lì. –
Cavolo, mi hai fatto perdere la scommessa.
O forse no.
Avevo bisogno di una doccia, di un caffè e di vestiti puliti.
- Potreste dirmi dov'è il bagno?
- Non vuoi fare colazione con noi? - Riccardo non smetteva di sorridere
e, dopo qualche secondo di seria riflessione, accettai, anche
perché stavo morendo di fame. - Il caffè
è ancora caldo.
- Oh sì, ti prego.
- Non hai risposto alla domanda di prima. –
L'idraulico anonimo iniziava a darmi sui nervi. - Problemi in Paradiso?
Fu Riccardo a intervenire, dicendogli di lasciarmi in pace e farmi
godere la mia colazione; gliene fui grata visto che era dalla
notte che non faceva altro che stuzzicarmi e, in tutta
sincerità, volevo mangiare e bere il mio caffè
prima che quell'altro cretino arrivasse e rompesse il clima
sereno.
Il bagno era la porta in fondo al corridoio, quella arancione, come
avevo potuto dimenticarlo visto che, mesi prima, era stata la prima che
avevo aperto?
Sorrisi al pensiero di quel momento assurdo ed entrai nella stanza non
rendendomi conto, però, che ci fosse qualcun altro dentro.
- Se volevi vedermi nudo...
Mi tappai gli occhi. – Oddio, scusa, non sapevo
fossi qui, io... - Rise, interrompendomi: era sempre così
antipatico! Sbirciai dalle mani mezze aperte: aveva
indossato un asciugamano che gli copriva
ciò che doveva, per fortuna.
- Devi dirmi qualcosa?
- No, mi serve il bagno.
- Appena finisco sarà tutto tuo.
Se questa notte gli avrei sbattuto la lampada in
testa più volte, adesso gli avrei tirato addosso il
contenitore d'acciaio del sapone liquido, almeno se lo sarebbe
ricordato per sempre.
Non avevo tempo da perdere e mi urtava vederlo muoversi con lentezza
solo per infastidirmi; lo spinsi via da di fronte lo specchio
guadagnandomi un'occhiataccia.
- Ti dispiace?
- Sì. Puoi finire di impiastricciarti i capelli in camera
tua, ho bisogno di sciacquare il viso.
Aveva il suo solito ghigno stampato in quella faccia da schiaffi, ma
dovevo comportarmi da donna matura quale ero e ignorarlo.
- Emily, sei a casa mia. Ricordi? - Il suo sguardo si
illuminò, come se in quel momento avesse ricordato qualcosa
di molto importante che avrebbe risolto il peggior male del mondo. -
Non dovevi andare via questa notte?
Per la prima volta mi ritrovai senza parole e, come sempre,
scoppiò a ridere; quando capì poi, che avevo
dormito sul divano, si piegò in due: se mi guardava rideva
ancora di più. Era un cerchio senza fine.
- Quando hai finito me lo dici, così esci e mi lavo.
Per un attimo tornò serio. – No, biondina
acidella, io devo fare la doccia perciò sei pregata di
aspettare fuori, a meno che...
- Un corno! Devo andare a lavoro e ho bisogno di lavarmi.
Lo capii troppo tardi, quando ormai non avevo più scampo: un
getto d'acqua fredda mi colpì in pieno viso e poi alle
spalle, stronzo di un Vermetro!
Era guerra.
Lasciai cadere i vestiti a terra perché
avevo bisogno delle mani per difendermi e, allo stesso tempo,
attaccare; cercai di schizzarlo dal rubinetto del lavandino, ma
era impossibile visto che il soffione della doccia era puntato contro
la mia faccia e rischiavo di morire soffocata o di annegare. Mi voltai
per respirare e per trovare un'arma tutta mia e fu allora che vidi
ciò che mi avrebbe fatto vincere: afferrai la bomboletta e,
dopo averla agitata per qualche secondo, gliela spruzzai addosso
sperando di averlo colpito visto che avevo gli occhi chiusi per colpa
dell'acqua.
- Questo non vale. - Aveva smesso di bagnarmi e quando aprii gli occhi
per guardarlo scoppiai a ridere: era completamente sporco. - Lo trovi
divertente?
- Abbastanza.
Gli spalmai come fosse crema abbronzante, tutta la schiuma da barba sul
petto, in faccia e poi tra i capelli, sotto il suo sguardo allibito. Poi,
con un abile gesto, mi appropriai del soffione e fu il mio turno di
bagnarlo e rischiare di annegarlo.
- Non vincerai mai.
Risi ancora più forte nel vederlo con gli occhi chiusi,
sporco e bagnato di schiuma da barba e confuso perché non
riusciva a trovarmi e disarmarmi.
- Se ammetti che ho vinto e che sono più intelligente e
furba di te, ti lascerò in pace.
- MAI.
Aprì gli occhi di scatto e si avventò su di me,
facendomi urlare dalla paura, e mi
trascinò fin dentro la doccia dove
completò la sua opera, mettendo il soffione dentro la sua
stessa felpa per bagnarmi l'intimo e sporcarmi di schiuma da barba viso
e capelli.
- Ma così non vale, tu sei grande e grosso e io non posso
difendermi.
Tentai di dissuaderlo con le buone, ma ottenni solo una sua
grossa risata, perciò passai al piano B, quello che
sapevo l'avrebbe fatto impazzire: tirai giù la cerniera
della felpa, sfilandola e gettandola sul pavimento. Mi
guardò come un uomo perso nel deserto: assetato e confuso.
Feci spallucce - Ormai era inutile e pesante.
Volevo che cascasse nella mia trappola, ma quando rimise il
soffione al suo posto e mi spinse contro le mattonelle fui io a cadere
nel baratro: ero, come sempre, incantata dai suoi occhi azzurri e
luminosi e di certo l'acqua non aiutava a calmare i miei ormoni.
Avrei dovuto allontanarlo, mettere fino a quella tortura, smettere di
guardarlo e immaginare le sue labbra contro le mie o le sue mani sul
mio...
- Emily. - Tornai sulla terra, più o meno. - Non sono un
tipo da discorsi, ma tu sei abbastanza, non mi fraintendere,
diversa e credo che sia il caso di farne uno. - Quelle gocce d'acqua
che cadevano lungo il suo naso e finivano sul labbro inferiore erano
troppo pericolose... - Sto per baciarti e vorrei che dopo tu non ti
comportassi da pazza perché mi piaci e mi piacerebbe che,
insomma, ci fosse qualcosa tra noi. Non qualcosa di serio né
solo sesso ma, non so...
- Pietro – Uh, come mi sentivo figa nell'interrompere i
discorsi. - Mi baci o stiamo qui a sprecare acqua?
Come avevo potuto resistere, come avevo potuto dormire sul divano
quando potevo approfittare di tutto questo ben di Dio?
Mi aggrappai alle sue spalle muscolose, allacciando le gambe al bacino
visto che i suoi baci sul collo mi avevano tolto la forza e la ragione.
Gli morsi il labbro famelica mentre mi slacciava il reggiseno con un
colpo da maestro: era stato così veloce da farmi
pensare al numero delle donne con cui era stato. Cercai di cacciare via
il pensiero e concentrarmi su di lui, noi e
l'asciugamano in procinto di essere tolto.
- Pietro! - Dei colpi alla porta ci fecero sussultare - So che sei
lì dentro.
- Cazzo vuoi?
Il suo sguardo incazzato era decisamente migliore del mio confuso: chi
osava disturbarci e per quale motivo?
- Abbiamo da fare, ricordi? Perciò VIENI!
Da quella squallida battuta si capiva che fosse il biondo; mi trattenni
dall'urlargli quanto fosse cretino, inopportuno, stronzo eccetera
perché al momento non avevo termini abbastanza offensivi
per la mente visto che la visione di Pietro mezzo nudo e altro che
si allontanavano mi avevano annebbiato il cervello.
- Arrivo, scassacazzo. - Si asciugò alla bene e meglio e
prima di uscire tornò da me – Ti trovo qui al mio
ritorno?
Negai, ancora scossa – N-no. Sono già in ritardo.
Il suo sorriso mi uccise – Ci vediamo più tardi al
Ladies allora. – Annuii, rendendomi conto troppo
tardi e grazie alla sua radiografia della mia quasi nudità
– Conserverò un ottimo ricordo.
- Cretino.
Il mio tentativo di colpirlo con la spugna fu vano, visto che
fu più veloce nell'avvicinarsi e pizzicarmi il sedere.
Quando andò via ragionai su quello che era successo e su
quello che mi aveva detto: forse dovevo smetterla di pensare e
iniziare a prendere tutto quello che mi veniva
offerto, compreso il suo corpo, lavarmi in santa pace, essere una
normale donna di gnegne* anni che si gode la vita e basta con le
paranoie.
- E tu che ci fai qui?
Dopo quello che era quasi-successo in doccia, trovarmi Riccardo a petto
nudo con addosso dei pantaloni della tuta grigi e larghi mi
destabilizzava; mi guardò come se fossi impazzita, ma comunque mi
sorrise.
- Ci abito, tu perché indossi l'accappatoio di Pietro?
Diventai rossa quanto la porta della camera da letto che avevo accanto
e mi nascosi ancora di più nella spugna accorgendomi che
profumava di uomo, muschio selvatico e mare. Si chiuse nella sua stanza
dalla porta verde scuro prima che potessi rispondergli, lasciandomi
da sola con un grande dubbio: cosa avrei indossato sotto i vestiti,
dato che la biancheria era completamente zuppa?
- Se hai usato il suo accappatoio, siete
già intimi.
- Non puoi fare come ti ho chiesto e tacere?
- Em, sono dall'altra parte di Roma, è
impossibile. - Avevo chiamato Mina per chiederle di
passare da casa mia e portarmi del cambio, ma non poteva,
così come Giulia: ero nei guai. - Avete
dormito insieme, fatto la doccia, hai usato la sua asciugamano: metti
le sue mutande!
Rabbrividii. – Oh certo, così mi becco
qualche malattia.
La sentii sbuffare. – Cazzo Em!
Quando stava per entrare in galleria senza cintura non hai pensato a
nessuna malattia però! - Boccheggiai
senza aggiungere nulla. – E scusami
ma, quando ce vò ce vò.
Chiusi la chiamata prima che questa diventasse troppo volgare
e accettai il mio destino: presi dei boxer dal cassetto di
Pietro e dopo averli odorati ed esaminati con attenzione li indossai,
sperando di sopravvivere al resto della giornata.
- Sei in
ritardo. – Neanche il tempo di arrivare, che
Carla mi rimproverava. – E sei vestita come ieri,
cosa ti è successo?
Si tolse gli occhiali e mi lanciò uno sguardo che la diceva
lunga che io ignorai, entrando in ufficio:
non volevo rispondere a domande scomode e, soprattutto, non volevo che
là dentro iniziassero a circolare voci strane e sbagliate.
Sbuffai, scrocchiando la schiena e il collo: avevo
dormito malissimo su quel divano e avere addosso l'odore di Pietro mi
infastidiva; era duro ammetterlo, ma avrei preferito essere
insieme a lui piuttosto che rivivere quello che non era
successo qualche ora prima.
Passai una mano tra i capelli, pettinandoli. Non mi ero neanche
truccata perché non avevo ciò che mi serviva con
me: ero un mostro, pieno di problemi.
- Uh, ecco la piccola fuori testa, ben arrivata. - Giulia
entrò in ufficio sorridente, come il suo solito, e con in
mano un enorme scatolone – Dammi una mano, va.
- Che è sta roba? - Guardai dentro, mentre lo
posavamo sulla sua scrivania e inorridii – Perché
hai questi cosi?
Rise forte, togliendosi il cappotto. – Devi
portarli al locale, sono per questa sera, per le ragazze.
La guardai male mentre mi sedevo sulla scrivania di fronte la sua.
– Non capisco perché debba essere
sempre io ad andare là! Insomma, è la tua cliente!
- No, è di Mina. – Ridacchiò, mentre
mi lanciava un cerchietto hot. – Perché
tu hai un buon rapporto con i dipendenti e quando dico buon rapporto e
dipendenti, intendo...
- Sì, sì, sì! Ho capito, sei peggio di
una comare. Come faccio a portarlo, comunque, visto che devo andare in
metro?
- Ti do un passaggio io. Forza andiamo.
Strabuzzai gli occhi: non potevo andare al Ladies in quel momento,
vestita ancora in quella maniera e con addosso le mutande di Pietro.
Dovevo
prima passare a casa a cambiarmi, togliermi il suo
odore dal corpo ed essere abbastanza lucida da riuscire
a resistergli. Ovviamente le mie lamentela furono
vane: mi ritrovai in macchina di Giulia, immersa nel traffico
mattutino di Roma, verso il patibolo.
- Devo passarti a prendere? - Non potei alzarle il dito medio
perché tenevo in mano quell'enorme scatola, ma le
risposi, in modo molto gentile ed educato, mandandola a quel paese e
facendola ridere a crepapelle.
Mi sarei vendicata.
La porta d'ingresso del locale era chiusa perciò dovetti
fare il giro fino a quella d'emergenza, ma per mia
sfortuna come se non bastasse quello che avevo già passato
da quando ero sveglia, anche quella era chiusa. Dovetti
chiamare al telefono Pietro implorandolo più volte,
visto che aveva voglia di scherzare e gli piaceva l'idea di lasciarmi
fuori, in piedi, ad aspettare e congelare.
- Ciao Emily.
Fu Maurizio ad aprirmi, sorridente e viscido come sempre; neanche lo
salutai: gli mollai la scatola enorme e scesi le scale di fretta,
trovandomi dietro le quinte.
Una musica assordante rimbombò nelle mie orecchie:
i ragazzi erano sul palco a provare; avanzando, vidi prima
Riccardo con gambe e braccia incrociate che guardava di fronte a
lui, mentre Giovanni e Pietro stavano facendo dei
passi. Anzi, l'idiota numero uno li stava spiegando all'idiota numero
due.
Per poco non mi mancò il respiro quando fui di fronte al
palco e vidi ogni cosa, soprattutto Pietro e il suo abbigliamento: i
pantaloni di tuta blu larghi risaltavano, inspiegabilmente, il
suo sedere bello, sodo e da mordere, la felpa bianca modellava le sue
spalle e i suoi muscoli.
Avevo bisogno di una sedia e di tanto ossigeno.
- Oh, abbiamo un ospite. - Idiota numero due si accorse di me e fece
cenno al dj di staccare la musica. Con un salto scese dal
palco e si avvicinò a me – Hai
bisogno di qualcosa o qualcuno?
- Lasciala in pace, Van.
Riccardo si intromise, come sempre, facendomi un saluto da lontano al
quale ricambiai con un sorriso. La mia attenzione fu catturata
però da Pietro che beveva dell'acqua in un modo
tutto suo e così sexy da farmi desiderare d'essere quella
bottiglietta.
Stavo perdendo la testa o forse l'avevo persa tempo prima e me ne stavo
rendendo conto lentamente.
- Ehi. - Perché mi sorrideva così? Non doveva
farlo! - Come mai sei qui?
- Ho portato delle cose per questa sera, ma sto andando via
Dove stavo andando? Da quando il solo guardarlo negli occhi mi faceva
dire scemenze?
- È venuta per vedere te, come una ragazzetta innamorata.
L'avrei ucciso. Se solo poi non avessi dovuto pagarne le conseguenze,
lo avrei ucciso con le mie stesse mani. Ma che diavolo voleva da me
quello...
- Stupido coglione? - Mi accorsi troppo tardi di aver
parlato ad alta voce e mi tappai la bocca con entrambe le mani,
guadagnandomi un'occhiataccia dall'oggetto dell'offesa in questione e
uno sguardo molto divertito dagli altri due. –
Scusa, non volevo dire quello che ho detto. – Ci
pensai su. - In realtà sì! Non capisco quale sia
il tuo problema nei miei confronti e perché parli tanto a
sproposito.
Mi avvicinai di qualche passo a lui, lasciando alle mie spalle
un Pietro sorridente e incuriosito dal mio atteggiamento,
perché in effetti non mi aveva mai visto reagire in quel
modo, per un'accusa sciocca e infondata.
- Se ti infastidisce avermi tra i piedi o vedermi con lui puoi girarti
o andare via, questo è il mio lavoro e purtroppo sono
costretta a condividere la tua stessa aria. Adesso ti conviene andare a
provare il tuo spettacolino perché facevi pena.
Probabilmente mi avrebbe risposto o picchiato, se la risata di
Riccardo non lo avesse distratto e richiamato la sua attenzione. Non
capivo sul serio perché si comportasse in quel modo con me: non
avevo mai fatto niente di male, al nostro primo incontro era stato lui
stesso ad aggredirmi e io mi ero difesa, giustamente; quel ragazzo
aveva dei seri problemi nel socializzare e io non potevo farci nulla.
- Dai Van, ha ragione. Vieni su e continuiamo a provare.
Riccardo lo chiamò più volte, prima di
convincerlo. Fino ad allora non abbassai mai lo sguardo, non
volevo mostrarmi intimorita o altro: volevo che capisse quanto mi
avesse infastidita con il suo comportamento e quanto fossi stufa del
suo atteggiamento da idiota. Quando si voltò verso il
moretto sorridente tornai a respirare, calmandomi e mi accorsi della
presenza di Pietro accanto a me.
- Dunque, come mai sei qui?
- Te l'ho detto, ho portato la roba per questa sera.
- E stavi andando davvero via? - Con un passo fu a pochi centimetri da
me. Mi guardava negli occhi sorridendo furbo e io ero consapevole di
stare affogando nel mare dei suoi occhi e speravo, con tutto il cuore,
che qualcuno mi venisse a salvare prima che fosse troppo tardi. -
Potresti restare qui fino al termine delle prove e poi potremmo andare
a casa a finire quello che abbiamo interrotto oggi... - Quello era il
momento adatto per rifiutare, andare via e sopravvivere, ma,
stupida, accettai, sentendo l'acqua bagnarmi ogni parte del corpo, fino
a quasi soffocarmi. Il suo sorriso si trasformò in
uno più sincero e forse dolce, come se la
mia risposta gli avesse fatto davvero piacere e mi baciò,
cogliendomi di sorpresa. Un bacio veloce, ma lento, un bacio
che tornò a farmi respirare, facendo sparire tutta
l'acqua.
Quando finirono le prove, era già ora di pranzo e
io avevo cercato di concentrarmi non
tanto sui loro movimenti sensuali e sul mio stomaco
brontolante, quanto sulle carte da lavoro che avevo in borsa e
fare delle chiamate importanti.
- Sto morendo di fame, ti dispiace se prima di andare a casa ci
fermiamo a mangiare qualcosa?
Riflettei su quella frase: dovevamo andare a casa insieme, mangiare
insieme, muoverci insieme; neanche fossimo stati una coppia vera e
propria. Ci eravamo solo scambiati qualche bacio e visti mezzi nudi,
stop, non era successo altro e già lui parlava di andare
a casa insieme.
Gli risposi prima di farmi prendere da un attacco di panico.
- Non posso. Cioè, devo tornare a lavoro
- Ti accompagno allora
Lo avevo fatto di nuovo, lo avevo allontanato quando avevo promesso a
me stessa e, soprattutto a lui, di non farlo: dovevo rimediare, fargli
capire che mi piaceva trascorrere del tempo insieme e che mi piaceva
sul serio.
Mi bloccai di fronte all'auto prima di aprire lo sportello: mi
piaceva? Quando lo avevo capito?
- Tutto bene?
Lo guardai, sperando non si accorgesse di nulla –
Sai, ho fame anche io e conosco un posto di fronte all'ufficio
molto carino, potremmo mangiare lì insieme.
Sorrise di nuovo. – Sali, prima che ti mangi.
Il viaggio fu piacevole e veloce, diverso dai precedenti, visto che
riuscimmo a parlare senza litigare, a canticchiare le canzoni che
trasmettevano in radio. Risi addirittura alle sue battute senza pensare
alle paranoie che mi ero fatta qualche minuto prima: non era male stare
con lui, bastava solo lasciarsi andare.
- Posteggia qui, non passano mai i vigili a quest'ora. - Mi
guardò male. – Dai, fidati!
Spense il motore e, dopo aver rubato le chiavi, scesi
dall'auto chiudendo lo sportello con forza.
- Ehi, trattala bene. - Gli risposi con una smorfia e infilai le chiavi
in tasca. - Dov'è questo posto dove si mangia bene? -
Indicai il marciapiede opposto con la mano e lui si voltò a
guardare, curioso. - Bene andiamo. Hai chiuso?
Pigiai il tasto rosso del telecomando e insieme attraversammo la strada
per entrare nel panificio; la signora Maria ci accolse con il suo
solito sorriso e venne via dal bancone per abbracciarmi e salutarmi a
dovere; dovetti abbassarmi per ricambiare il suo abbraccio, era
così tenera e cortese da farmi sperare ancora
nell'umanità.
- Cosa volete ragazzi? Ho appena sfornato la pizza.
Il mio stomaco brontolò a un volume troppo
alto, tanto che anche Pietro lo sentì e
scoppiò a ridere, dandomi una leggera spallata e facendomi
perdere l'equilibrio. Era un cretino.
- Io vorrei quel pezzo con i funghi, salsicce e olive.
Spalmò il dito sul vetro, come un bambino e
aspettò che Maria gliela passasse: la guardava come se fosse
un pezzo raro e prezioso d'antiquariato; al primo morso si
leccò le labbra e alzò gli occhi al cielo,
sembrava in paradiso.
- Tu non mangi? - Ingoiò l'ultimo boccone della pizza e mi
guardò curioso.
- Sì, ho preso questa. – Indicai la
sfogliatina al prosciutto, funghi e mozzarella che Maria mi aveva
appena passato. – Dovresti assaggiarla, è
buonissima.
Mi prese la mano e, fissandomi, diede un morso al mio
pranzo, leccandosi poi le labbra come aveva fatto prima, senza
togliere gli occhi dai miei.
- Hai ragione. Posso averne una anche io? - Scossi la testa e cercai di
ignorare i suoi chiari segnali maliziosi, gustandomi la mia sfogliata.
- Se volevi assaggiare la mia pizza potevi dirmelo, t'avrei fatto dare
un morso.
Il boccone mi andò di traverso e iniziai a tossire: di che
stavamo parlando? Possibile che ogni cosa venisse fuori dalla sua bocca
aveva uno sfondo sessuale?
Mi aiutò, dandomi delle pacche alla schiena e
porgendomi dell'acqua.
- Se vuoi uccidermi...
- Oh fidati, sceglierei un altro modo.
Lo guardai male – Senti…
Non riuscii a finire o quantomeno a iniziare il mio
discorso, perché qualcuno ci interruppe, qualcuno
che non vedevo da molto e che avrei preferito non incontrare in quel
momento: Mario mi si era avvicinato sorridente e con la sua aria da
perfetto gentiluomo.
- Emily, che piacere incontranti qui. –
Arrossii, imbarazzata – Allora hai davvero
apprezzato le meraviglie di Maria.
- Sì, io non scherzo mai sul cibo.
Sentivo lo sguardo di Pietro addosso e potevo vedere un sorriso
impertinente sulle sue labbra: sentivo odore di guai.
- Se me lo avessi detto prima, t'avrei raggiunto.
Sgranai gli occhi – Oh beh... io... Lui è Pietro.
Pietro ti presento Mario, lavora nell'ufficio al piano di sotto.
Si strinsero la mano, ma non riuscivo a capire lo sguardo di
Pietro, sembrava lo stesse incendiando o gli stesse comunicando di
scappare prima che alzasse le mani contro di lui.
- Hai preso anche tu la sfogliatina? - Pietro la guardò e
rispose con una smorfia. – Brava Em, diffondi il
verbo.
Avrei voluto sotterrarmi, anzi no! Avrei voluto sotterrare lui: ma
sapeva stare zitto sto scemo?
Per fortuna Maria richiamò la sua attenzione e, dopo aver
salutato Pietro e aver dato un bacio a me sulla guancia, un po' troppo
lungo, andò a ritirare la sua ordinazione.
Uscii dalla panetteria sconvolta, soprattutto per quel
“Quando ti va di pranzare insieme dimmelo, conosco altri
posti carini”. Non aveva smesso di guardarmi e provarci per
tutto il tempo: e se l'idiota al mio fianco, che era rimasto in
silenzio, fosse stato il mio fidanzato?
Vidi Pietro gettare quel che rimaneva del suo pranzo nell'immondizia e
dirigersi a passo svelto verso l'auto, lo raggiunsi appena prima che
attraversasse la strada, fermandolo e notando il suo sguardo di fuoco.
I suoi occhi azzurro scuro che mettevano paura.
- Vai via senza salutarmi?
Si diede una pacca in fronte: che teatrale. - E' vero, scusa. Dammi le
chiavi.
- Qual è il tuo problema? Fino a due minuti stavamo ridendo
ed era tutto normale, cosa è successo?
Mi scoppiò a ridere in faccia, una risata falsa
e sin troppo ironica. – Devo
andare, salutami l'amico tuo.
Feci due più due. – Siamo arrivati
già a questo punto? Tu, geloso, che ti
arrabbi perché parlo con un collega e te ne vai senza dire
nulla?
- Non sono geloso, puoi andare a mangiare ogni cazzo di sua sfogliatina!
Risi, piegandomi in due: come poteva essere così stupido da
pensare e dire cose del genere? Mi guardò male e mi
avvicinai a lui, posando entrambi le mani sul
petto, costringendolo ad abbassarsi alla mia altezza: avevo le
sue labbra a pochissimi centimetri dalle mie, i suoi occhi fissi nei
miei confusi e ancora un po' arrabbiati.
- Preferisco rimanere a digiuno, se l'alternativa è
mangiare la sua sfogliatina.
Forse era troppo esplicita e sotto sotto, molto sotto, romantica ma
volevo che gli fosse chiaro il concetto di quella mattina in doccia:
volevo davvero provarci, non avrei dato di matto e mi sarei comportata
meglio, almeno fino a quando sarebbe stato possibile.
- Bene.
Sorrise e non riuscii più a resistere.
- Ora baciami, pazzo.
*******
*Gnegne
anni: Emily non ha voluto dire la sua età.
L'ultima
volta era il 16/01 e adesso io non so cosa dire per scusarmi di
questo immenso ritardo. Forse aiuterebbe se dicessi che la sessione
d'esami mi ha, in pratica, rapita e costretta sui libri senza neanche
darmi il tempo di respirare?
Non posso neanche promettere di
essere più costante la prossima volta perché,
purtroppo, tra
qualche giorno ricomincio a studiare per la sessione straordinaria di
Aprile e ho minimo tre esami da fare; mi dispiace tantissimo, spero
mi capiate e seguiate ugualmente.
Passiamo al capitolo: un
parto!
Mi scuso per la lunghezza, dieci pagine in cui non si dice
nulla, in pratica ma, in sostanza, capiamo che Emily ha FINALMENTE
(sento il suono delle campane) messo la testa a posto, cioè,
si è
arresa all'evidenza e ha deciso di lasciarsi andare con Pietro.
NON
SENTITE I CORI DELL'ALLELUIA?
Ovviamente ha sempre alcuni scatti
da pazza e fa ragionamenti assurdi ma ci siamo, siamo arrivati al
punto cruciale: è iniziato qualcosa.
Non mi soffermo su Mario,
so che voi lo odierete e direte abbastanza, perciò chiudo
qui le
note e vi ringrazio per l'attesa, per esserci sempre e per tutte le
recensioni.
Un immenso grazie.
Ringrazio anche Elle
per il suo splendido lavoro.
Alla prossima, spero presto.
Che
la panna sia con voi
Vi
ricordo, per chi volesse, l'esistenza del gruppo facebook
e
del mio canale youtube.
E, per chi se la fosse persa: LA ONE SHOT NATALIZIA.
UN
SOGNO DI NATALE.
One Shot Natalizia tratta dalla long:
The (he)art of the streap.
Pietro ed Emily si trovano in una
situazione del tutto nuova per loro, quasi surreale e con loro
c'è
un nuovo, piccolo, personaggio.
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