La fiaba schiude le sue braccia fragili e scivola sui finali impavidi

di glendower
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Snowhite – di mele troncate dal marciume, principi che s’addormentano e finali doppiamente capovolti ***
Capitolo 2: *** Beauty and the Beast – di rose seccate nel sangue, bellezze vive in eterno ed amore come complimento ***
Capitolo 3: *** Pocahontas – di filastrocche infantili, tempesta di frecce e sacrifici per proteggere casa ***



Capitolo 1
*** Snowhite – di mele troncate dal marciume, principi che s’addormentano e finali doppiamente capovolti ***



1 # | Snowhite
di mele troncate dal marciume, principi che s’addormentano e finali doppiamente capovolti
(RanTaku) ; la prima fiaba



 

Mele.
    Mele rosse di sangue, piagate dai vermi e sbeccate dai morsi dei topi, frutti di peccato figli del ventre di un serpente; impurità succose da mangiare leccandosi le dita, candite di zucchero e cioccolata alla cannella. Mele come pomi dell'empireo mandate giù all'inferno, lucide d'inchiostro e ricavate dal veleno, piene di male ed incubi da mangiare a bocca chiusa. Buchi distorti, grandi quanto il polpastrello di un pollice, dai frutti vomitano miasmi violetti, rilasciando acido sul tappeto d'erba del sottobosco, bruciando fiori in cenere grigiastra che si sparpaglia in giro attraverso il vento.
    Mele: rotondi cerchi d'infinito rotolano vivi lungo tutta la radura, coprendo il terriccio ruvido con mattonelle marce, sporcando gli stivali del cavaliere al suo passaggio.
   Cesti di vimini intrecciati sono appesi alle fronde, dondolano inclementi lasciando cadere cascate di sfere rosse e leccornie che si sciolgono nell’odio.
     Alberi scheletrici gli strappano le vesti, allungano le braccia e spalancano le fauci, tessendo piaghe nelle carne e lividi sul viso, là dove i rovi di spine arrivano ad accarezzargli le guance con impudica riconoscenza. Nere mani senza forma brancolano nel buio, ritirandosi spaventate ai lati del sentiero quando un raggio di luna fa capolino dalle nuvole, nere tende di stoffa messe lì ed intiepidire la notte, fredda e spettrale nella sua porzione di fiaba.
    Qualcuno grida da qualche parte – qualcuno piange senza interruzioni, intona sottovoce nenie dolcemente e gratta le unghie sui tronchi; squittii e lamenti rimbalzano all’aperto, tempestano quel posto facendo compagnia al principe ed in lui si attaccano, non lo mollano e sulle gambe restano, impigliandosi alle cinghie del mantello per continuare a suonare vicine come una marcia, necrologio e previsione della sua fine prematura.
     La lanterna di Shindou cigola e gira come l’occhio di un faro, lanciando frecce dorate ad intermittenza per la foresta, richiamando spiriti guida con le sembianze di mostri, animali sventrati che fuggono dopo aver posato lo sguardo sulla spada d’argento al suo fianco – sull’armatura cinerea ed il cavallo scalpitante, nobile destriero purosangue creato da una fiamma.
    Spaventapasseri impalati lo accolgono piegando la testa calva in saluto, facendo vibrare le ossa mentre si piegano avanti, aprendogli la visuale sul grande spazio sotto la quercia, strappando i cespugli d’ortica con una falce fantasma.
    Sette nanetti, mangiati dal tempo e trasformati in sette scheletrici microscopici a bocca aperta, sorretti dalle loro alabarbe, tutti insieme fanno guardia immobile al sepolcro, un buco profondo poche dita dove hanno brutalmente gettato la principessa, un magro manichino livido in modo innaturale – un ferro vecchio ed inutilizzato, bello come una brama finita nel peggiore dei modi.
    Un’unica candela a metà getta spruzzi giallo/arancio sulle dita esangui della fanciulla, chiuse attorno ad un pomo dorato, punteggiato sul confine da un unico morso al centro da dove sgorga un pianto di nebbie; l’intruglio della strega in circolo vortica ed il magico unguento fa effetto per portare il sonno eterno a Kirino, un soffio violento a cui nemmeno un bacio potrà porre mai rimedio nella fiaba che va avanti a raccontarsi.
    La bara è divisa in pezzi, rotta in aghi d’ossidiana e vetro nero sparsi a pioggia sopra e sotto i sassi, distrutta e ricomposta sul pavimento di foglie per proteggere la dama bianca come la morte; un coperchio trasparente getta lacrime di umidità sul viso della bella, dandole l’umanità delle lacrime quando ha già tutti e due i piedi infilati nella fossa.
   Lei, la morta bambina, è riversa su di un letto di crisantemi sfioriti che puzzano di vecchio, un gradino di marmo le tiene il collo alzato in un sì statuario ed un cuscino di capelli rosa le incornicia le spalle; tra le ciocche girano larve grasse e cattive, scivolano nella chioma e macchiano il candore irreale della pelle, strisciandole sui polsi e lungo il collo fin dentro ai vestiti, stracci laceri che la polvere ha bucherellato e l’acqua ha ristretto, lasciando scoperte forme maschili e curve immaginarie che la purezza non ha mai troncato.
    Sembra dormire sogni che le vibrano tra le ciglia, vivendo vite doppie girovaghe sotto le sue palpebre; la bocca storta è tenuta piegata in un bacio che non si fa aspettare perché Shindou s’inchina al suo cospetto e posa un respiro tra le sue labbra, soffiando un incanto che ne impallidisce le membra, dimentiche del calore che fa brillare i vivi.
    «Kirino?» chiama l’eroe disperato, scuotendo un petto più vuoto di un ventre affamato – più inutile di qualcosa di rotto, oggetto da buttare e da posare in soffitta. «Kirino svegliati, sono io, Shindou!» Incapace di raggiungere l’amato, la voce canterina s’insinua nella sua mente, gioca nel suo orecchio e gli stringe le braccia, donandogli possibilità prima inesistenti – Mangiala – dice – ingoia quel pomo e sarete per sempre felici contenti.
    Ed allora ubbidisce, strappa la mela metallica che l’altro regge e le dà un morso, vorace si sporca il mento di nettare ed il suo corpo si fa pesante, tanto che cade appoggiandosi alla sua sposa e su di lei ci rimane finché non è la compagna stessa a svegliarsi, riconquistando d’un tratto i giorni ed i mesi persi ad aspettarlo; i colori tornano a splendere e la sua bellezza si rimette al suo posto, cancellando la crudeltà dell’incantesimo del maligno che l’ha trasformata in un mostro.
   Un colpo di tosse le fa sputare via una briciola, un torsolo incastrato in gola ma mai  ingoiato. «Shindou?» gli sussurra Biancaneve, accarezzandogli dolcemente la testa mentre cerca in tutti i modi di svegliarlo. «Shindou svegliati, io… io sono vivo e tu-tu…» nessun commento, nessun' altra voce.
   
     Lui non rispose.
   Lui era già morto e lei crebbe maledetta, ritardataria e piene di colpe
, gli occhi secchi di chi non ha più rubinetti da aprire. Insieme al suo amore visse il resto dei suoi giorni piangendo, incapace di uccidersi con le sue mani perché ancora attaccata al terreno, invecchiando lentamente fino a diventare sabbia – fino a spegnersi lentamente, stretta alle braccia di un nobile ormai da troppo diventato una ragnatela.



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note dell'autrice: questa raccolta nasce da una voglia tremenda di vedere (o uccidere? .cit) i film disney, corredandoli di quello che sicuramente non è un finale lieto come tutti pensano e anche dal fatto che avrei una serie di flash da continuare (sempre in tema inazuma) e che probabilmente, per un motivo chiamato ''pigrizia'', non continuerò anche per questioni di tempo. come volevasi dimostrare, le coppie qui presenri sono le mie, otps o meno non importa, saranno puramente giostrare dalla mia insana cattiveria che le farà sicuramente finire all'altro mondo (uno dei due, l'angst va dato in pillole).
Due note in merito su questo obbrobrio: toccherò i finali di tutte le fiabe che conoscete e i dialoghi saranno presenti in minima parte, per dare l'idea dalla fiaba ho preferito usare la magia delle immagini piuttosto che delle parole e spero vivamente che la cosa non vi dispiaccia. cercherò di non essere banana e di aggiornare una volta a settimana (un mese, se la pigrizia chiama) voi siate gentili, sono solo una povera fyccinare che dubita sulle sue capacità il più delle volte. ):
vi lascio alla lettura e mi vado a nascondere, qui lascio un cesto di pomodori nel caso voglia uccidermi a suon di cibo. nella speranza che commentiate vi lascio un bacino. 
 

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Capitolo 2
*** Beauty and the Beast – di rose seccate nel sangue, bellezze vive in eterno ed amore come complimento ***



2 # | Beauty and the Beast
di rose seccate nel sangue, bellezze vive in eterno ed amore come complimento
(Garsha/Vanfeny) ; la seconda fiaba



 


Briciole di stelle saltano sulle vetrate, mosaici d’ossidiana e diamanti al latte squarciati dai fulmini sulle travi del soffitto, barriere di una casa in cui l’eternità si è intessuta alle carni del padrone fino a renderlo fantasma ed insieme vampiro, desolato re a guardia di una bellezza oltreconfine e disumano peccatore di un amore che lo vede attore, parte ed antagonista in ogni ruolo; è un patto scarlatto – un accordo ed un pegno: mantenere comunque il suo aspetto perché la vera beltà ha sede nel cuore ed è lì che deve farsi accettare, in quell’organo marcio che pompa petrolio, acqua salata e filtro d’immoralità priva della visione esterna.
     Corde di capelli stringono alla gola donne cadaveriche, burattini in abito da sposa appese come ghirlande in giro per le sale, piangono schegge di sangue e cantano passioni, narrando agli avvoltoi sulle loro carni il sentimento che le ha sedotte – l’emozione e la fregatura in cui sono cadute quando si sono avventurate oltre il confine della foresta, nero sigillo per scendere all’inferno.
    Lame ricurve, velate di luce opaca, riposano senza forze in un mare dorato di assi divelte e piastrelle staccate - di teschi frantumati ed ossa masticate, cibo da belva e spuntino per topi. Nuvole di polvere allargano le crepe, arrampicandosi alle ragnatele grandi come bandiere per far ingrassare i ragni, uova nere con cinquecento gambe, suo esercito di donne tarantola per spaventare gli ospiti.
    Buchi nelle tende rovinate fanno intravedere i corvi, pizzi e merletti scuri sistemati sul bordo del balcone intatto, antico luogo di sussurri e di dichiarazioni ad un soffio di labbra; chiazze tonde di luna, strette mano nella mano, piroettano allungandosi e restringendosi lungo le pareti, ricordando i giorni prima che una fata gettasse il suo triste incantesimo, truccando il castello a lutto, concentrando la sua grandiosità solo sul principe, maledetto proprietario di solitudine e leggende, di canzoni e storie per spaventare i bambini disubbidienti.
    Un orologio di legno, segnato dalle tarme, brontola indecenze tra i tic-tac, urlando le sue preoccupazioni ad un niente che non lo ascolta, mentre il tempo calcolato lo avverte della morte pronta a saltargli addosso, lasciando affondare sempre più in profondità il pendolo fra le due lancette, cuore di vetro spaccato in mezzo al petto. Argenteria stridula dondola sulle travi ed una cascata d'argento di coltelli, cucchiai e forchette piove sul pavimento, ricordando le gioie di banchetti cannibali al chiaro di luna, dove anticamente servivano vino di sangue nei bicchieri e carne viva dentro ai piatti. Lumière, il vecchio candelabro senza braccia, cola densa crema di cera su di un vecchio servizio da the, porcellana di seta grezza lanciata più volte in terra.
    È
 una servitù disgraziata, suppellettili prima uomini - prima schiavi, padri mamme e figli, famiglie ora trasformate in cianfrusaglie buttate sui mobili ad invecchiare o seppellite sotto armadi e forzieri chiusi a vita.
    L'orchestra nella stanza di fianco suona da sola, i musicisti sono gli strumenti, un pianoforte senza denti ed un violino a metà, entrambi sollevati ancora in piedi provano a resuscitare le risate – i gemiti di amanti presi e poi ingoiati, cercando di tenere il ritmo di una cassapanca ed un paio di sedie che volteggiano per ricreare una magia vecchia di secoli.
    Lacrime di gemme sono mille pozzanghere - mille sguardi dove guardarsi, lapislazzuli del lampadario crollato su se stesso al centro esatto della sala da ballo; un arcobaleno di grigi luccica nel buio, vecchio cimelio anticamente incatenato al soffitto, prima fiaccola ed incendio, poi meteorite senza batteria che s’appiccica al giallo di un abito incantato, veste divina poco adatta ad una Bestia, fatta da trine sulle maniche ed arabeschi infiocchettati sul corsetto e sul mantello.
    L’ultimo amante è forse il migliore di tutti, respira in rantoli e condensa di nuvole, ha il fisico del guerriero, del canide e del cacciatore; l’incarnato di sabbia è coperto di pelliccia e la muscolatura è una mappa di simboli cicatrizzati in succo d’uva, versato ed espanso per renderlo pasto non indigesto durante il rituale che timbra morsi ed abissi sulla sua clavicola.
    È stato scelto perché non ha badato a niente, nella sua trappola c’è caduto facendo l’agnello e la sua forza, al cospetto del sentimento, si è addormentata rendendolo un gattino.
    Garsha se ne sta piegato in due sulle scalinate che portano alla pista, uno specchio rotto illuminato di ombre riverbera immagini sul suo sterno aperto a metà. Mani e piedi, come una croce, inchiodati al pavimento non gli permettono di muoversi. Vede e parla momentaneamente solo con gli occhi, sgranati sul suo aguzzino, inchinato al suo cospetto e seduto su uno scranno d’interiora vive.  
    «Dimmi che saremo insieme per sempre, mio prediletto» gli chioccia il nobile Vanfeny in un orecchio, accarezzandosi i boccoli turchini per togliere le polvere – per mettersi in mostra da brava bambola in vetrina.
    «Rispondimi promettendomi ogni giorno parole d’amore, ripetimi che non c’è nessuno come me e che starai sempre qui, al mio fianco» implora baciandolo, mordendogli le labbra per fargli un dispetto.
    «Giurami che ci sarai ed io ti darò tutto di me, spezza la mia maledizione e regna sui miei tormenti» la sua lingua scende sul collo e le sue mani arrivano a cingere punti sotto le vesti, toccano e stringono fino a fargli male.
    Solo così la favola si rigira, molesta, ancora una volta per spingere via il bel finale. Fa alzare il braccio del Lupo, senza più freni, che tra gli artigli regge una freccia di frassino – un ago appuntito, ceppo acuminato che scivola nel cuore della Belva, penetra con uno scatto ed un rumore secco, bruciandogli le vesti che si aprono sul petto da dove sgorga una cascata di sabbia fine, petrolio nero e i petali di quella rosa che avrebbe dovuto servigli come monito, seccati del sangue volano via.
    Il vampiro gli cade di sasso in grembo, il viso contratto in una smorfia che lo fa sembrare per un’ultima ancora più bello, immutato nel suo incubo infinito in un quadro di perfezione; duro come pietra, tra le pieghe delle pelle, inizia ad invecchiare, i capelli sbiancano ed i denti cadono finché al posto non rimane soltanto un teschio vuoto ed un pianto ad accompagnare la sua disfatta.
   
    «Sì, amore mio, per sempre. »



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note dell'autrice: dedicata a Cate, ed un grazie alla mia beta che sa aspettare una polentona come me e mi sopporta nonostante i miei strippamenti ed i lamenti sul ''so fare e non so fare', sono una banana... che ci vuoi fare. sono in ritardo di una settimana sulla tabella di marcia ma la mia pigrizia non mi ha permesso di aggiornare prima, benché le flash seguenti siano tutte ben scritte nel mio cervello, pardon, dalla prossima cercherò di essere puntuale per evitare di non finire mai. in realtà non ho niente da dire in merito e mi dispiace se entrambi risulteranno ooc (oh beh, è un'AU qui ic o ooc non dovrebbe centrare poi molto ewe) perché mi sono azzardata a trattare i personaggi senza conoscerli - li ho visti in una puntata, okkei, ma quel poco che dice la wiki non aiuta affatto. vorrei ringraziare chi ha messo nei seguiti, nelle preferite e nelle ricordate, ness vi vuole bene.... coff* anche se una recensione non mi fa sicuramente male, un parere rende più forti e consapevoli di ciò che si sta scrivendo. pubblico prestissimo e vi lascio altrettanto presto, dicendovi semplicemente ''a presto'' per un nuovo aggiornamento. Ness.

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Capitolo 3
*** Pocahontas – di filastrocche infantili, tempesta di frecce e sacrifici per proteggere casa ***



3 # | Pocahontas
di filastrocche infantili, tempesta di frecce e sacrifici per proteggere casa
(HakuShuu) ; la terza fiaba



 

Scintille di noce stemperano in liquida acqua il rosso acceso della terra, bruciandosi durante il volo in uno sbattere d’ali e di zampe, tizzoni di carbonella ardente come ceri accesi in chiesa per pregare divinità onnipotenti, santi che ignorano e fingono di non esserci il più delle volte. Quelle sono lucciole, gambe d’insetto e pancia di luce, scorticano l’aria grattando e penetrano con le unghie, scavando tunnel sotto la pelle degli stranieri, pungendo vene e gonfiando organi per ferire – per combatterli e cacciarli da ciò che per loro non sarà mai luogo dove fermarsi ma solo buca e culla, tomba e casa su di un’isola che proprio non li vuole accettare. Intrecci di seta color vino vermiglio, morbide farfalle mascherate da pagliacci da circo, planano sulle rocce e sull’armatura di peli e penne degli animali: tigri dotate di sciabole piratesche, pantere nere carbone e condor bavosi ad affamati, fauna palustre di bestie giganti create dall’ombra del cuore pompante dell’arcipelago; schiocchi e versi inumani li annunciano – li fanno avvicinare al nemico tra sfrigolar di foglie e sbattere di sassi.
     Grigi zampilli dalle nuvole spargono cenere, pioggia perlata di sabbia e vetro che acceca gli occhi ed indurisce la mente; è petrolio misurato in gocce – è rabbia altamente infiammabile, spugna imbevuta d’alcool e detersivo di bolle e bile. Fuori, nell’aria c’è puzza di zolfo, effluvio di legna secca ed essenza naturale, sale nel naso in granelli e fa tossire, sporca i polmoni e piega le gambe, martellando a metà gli apparati avvelenati che costringono gli umani a tormentarsi per trovare una via pulita in cui respirare.
     Nel semibuio un incendio divampa e strappa il verde, mangiando la giungla senza digerirla dove uno smeraldo di fiamme la risparmia, divampando sui tronchi intatti e sulle chiome ardenti, stoppini di candela al chiaro di luna; tutto brucia e niente si ferisce, il rogo dà solo spettacolo e decoro alla notte.
     Questa è una natura bislacca, si accende di fiaccole e fa piovere fiammiferi, larghe macchie di benzina sulle navi affondate nel mare e capovolte sottosopra lungo il bagnasciuga, corpi di legno distesi ad asciugare sulla superficie nera del mare da cui fanno capolino vele bianche morse dal sale. Reti di telline legano le ancore sul fondo ai relitti e rachitiche mani d’alga distribuiscono corpi morti, cercando tra i vivi altro cibo da lanciare nelle fauci degli squali.
     Un diadema di falò corona il cielo, acceso in un crepuscolo animato a mezzanotte dove gabbiani dorati si librano in cerchio e strillano impazziti – e beccano gli occhi dei morti, cercando la luce di sguardi presi e poi rovesciati nei laghi, tra i prati e sulle facce contratte dei guardiani di ferro rinchiusi dentro alle statue disseminate per i punti cardinali dell’oasi; nessuno dorme ed il chiasso saltellante di passi in corsa rende muta la cascata, vortice e pioggia in schizzi, pungiglioni freddi sulle dita e sulle gambe.
     Dalla bocca granitica del vulcano s’alzano grida di tamburo, ed alte voci si mescolano nel gorgogliare ruvido della lava; qualcuno batte le mani e massi di diamante si frantumano nella spuma schiumosa vicino agli scogli – qualcuno muove i piedi e tutto trema con assurda violenza in un terremoto a scatti. Sono avvertimenti, altri segnali, avvisi che invitano ad allontanarsi e a spingersi oltreconfine, dove solo bare di cemento potrebbero proteggere il nemico.
     A creare tutto quello scompiglio sono i selvaggi, indiani dalla pelle di cartapesta e gli occhi color pece, sono piccoli e uguali agli invasori ma le loro ombre sono vive, falchi di tenebra e croci sanguinanti; insieme combattono con lance di stelle e dardi di nuvola, hanno armi rampicanti con fiori e spine, usano la natura imbastita per lanciarsi all’attacco, ferendo soldati dai pugni chiusi guidati da mangiatori d’oro e ricchezze.
     In fila sulla pianura, la popolazione intona maledizioni, urla e sbraita sulla civiltà inquietante che vuole portarsi via lo Spirito Madre per farci l’amore e per sporcarlo dentro, piantando nella fertilità del suo grembo il seme della lussuria e della gola, segreti da popolo moderno e peccati da inferno. Tutti sanno che la sua scomparsa può portare la fine e perciò resistono, li cacciano, togliendo di mezzo  imbarcazioni e luridi gruppetti.
     Il custode Shuu è sulla vetta, i muscoli tesi come corde di violino sotto la carne – i tessuti tiepidi e tracciati da tatuaggi, formule e desideri dipinti su tele d’epidermide rame per utilizzarli al momento giusto; cigola tra i rami della quercia su cui è seduto e silenzioso prende la mira, emette fischi misurando la distanza, tende l’arco di spago ed infine centra con lo sguardo il petto di Hakuryuu. Manti, pelli di belva, piume colorate e pitture rupestri sulla fronte lo rendono creatura mitica, barbaro dai capelli scuri e i piedi di fumo, inesistenti sotto gambe d’osso e cartilagine viva da cui escono nebulose verdi, gioielli alle caviglie e bracciali attorno ai polsi. Presto colpirà, centrerà il bersaglio ed anche l’ultima pedina verrà abbattuta: il suo mondo nel cervello lo immagina di nuovo salvo, re in quella tranquillità di cui lui stesso possiede la chiave governativa.
     L’altro uomo, l’ultimo tra quelli rimasti vivi, in bilico sulle radici della pianta tiene gli occhi chiusi, non sa come piangere ma con le mani giunte prega, cerca la compassione di un amore cresciuto nei colori del vento e nelle spiegazioni di un popolo che precedentemente lo ha accolto ed acclamato come un figlio.
     «Tu mi hai mostrato l’isola, tu mi hai dato tutto di te e adesso?» fa il forestiero, ricordando qualcosa di cui nessuno vuole parlare, falsità indistinte che gli aleggiano sopra la testa. Sono le lampiridi, contenitori di sole infiammate di disperazione.
     «Hai usato la forza uomo e  nostra legge dice… dice: o tuo popolo in sacrificio, o noi » non ci sono sentimenti nelle sue parole – non esistono emozioni, solo la calma piatta del vento dopo l’uragano, spolverata di freddo sul dorso deserto «e noi scegliamo noi, voi rovinate nostro equilibrio creato con secoli di fatica»-
     «Non puoi aver dimenticato quello che c’è stato! »
     «Io ho memoria di anni e anni in mia testa, nostro incontro è solo un giorno alle centinaia che già mi porto dentro, non ha significato. Piccolo   uomo conosce indifferenza? »
     «Ti donerò monete, avrai tutti i tesori dei miei uomini ma vieni con me, parti e lascia questo posto!» attraverso una spinta dei reni, si getta per terra, sbatte le nocche sull’erba e si strappa i capelli, invoca il suo dio ma quello risponde con solo la voce dello Spirito Madre, del capo.
«Ora taci e vai, uomo, gli spiriti, miei fratelli, vogliono vendetta ed io devo agire in fretta» e quando l’altro si rialza, parte il colpo.
     La freccia del suo amante ne colpisce la fronte, apre un foro e trapassa dall’altra parte. A risposta di quell’attacco, altre saette spuntano da ogni spazio aperto senza origine, cozzano contro l’inglese e lo costringono ad arretrare, a morire lentamente mentre ancora sulle labbra c’è il suo vecchio bacio – il suo respiro, il gusto palliativo dell’amplesso.
     Un tonfo di peso caduto e intanto i canti si alzano un’ultima volta, funeree le parole vengono intonate da una bimba, il fantasma gemello di un Shuu che piange lacrime di gemme. Agitando la veste bianca, lei danza scalza sopra un piedistallo di girasoli gialli e pian piano, intorno tutto sparisce, il sangue si asciuga e i defunti mutano in entità del cosmo.
 

Tutto torna ad essere solo calma.
 

 
 

A Gea non ci puoi arrivare
se prima vita e morte non fai incontrare.
Le creature sono misteriose,
le persone di certo non tra le più gioiose.
Nelle sue acque trovi sirene e, per i prati, fate e falene.
Corri, schiamazza, gioca su quelle altalene
che per i posti dell'Isola ti posson portare,
tanto sappiamo tutti che non puoi aspettare.
Quando l'astro nascente del sole fiammante
riuscirà a trovare il suo muto amante,
la nostra Terra rischierà di scomparire
e  gli invasori, dopo di Lui, dovranno morire.

 



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note dell'autrice: sono in ritardissimo ma ho avuto il mio bel d'affare con questioni in cui mi dilungherò, troppo pallose. Sono però di nuovo qui, adesso, a bazzicare nel fandom, benché sia passato più di un mese dall'ultimo aggiornamento. Cercherò di essere più puntuale, lo prometto, anche se la lista di pairing/fiabe inizia ad accorciarsi ed io devo inventarmi qualcosa il prima possibile. Per quest'ultima fiaba, ho faticato non poco per adattare la coppia  e alla fine il risultato è che ho... stravolto completamente tutto. Mi dispiace per Pocahontas ma per come vanno a finire le cose non mi piace neanche un po', come cartone Disney, quindi non stupitevi se il risultato è una fic basata sull'animazione ma totalmente diversa da come va sviluppandosi nel film e tra le righe. Mi dispiace, puzzo e non so se il risultato si adegua o supera le aspettative di chi mi segue, quindi incrocio le dita e vi ringrazio per il passaggio. Le note dell'autore sono pallose ed io non so scriverle, figuriamoci. Ness bacia tutti, abbraccia i brutti. Ps: probabilmente pubblicherò prestissimo con una sorpresa per le fans di Zanark e blablablablaSPOILERblabla.
 

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