Without You

di shadowsymphony
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Hello? Hello? ***
Capitolo 2: *** C-can you hear me? ***
Capitolo 3: *** Hope ***
Capitolo 4: *** Tug and war ***
Capitolo 5: *** Give a little... ***
Capitolo 6: *** ... get a lot ***
Capitolo 7: *** We give and take a little more ***
Capitolo 8: *** some human vulnerability ***
Capitolo 9: *** turned me inside out ***
Capitolo 10: *** What goes around comes around ***
Capitolo 11: *** this time i'm not leaving... ***



Capitolo 1
*** Hello? Hello? ***


Quanto tempo era passato? Ore, giorni, settimane, forse anche mesi? Il tempo sembrava essersi fermato, ogni orologio bloccato nell'istante in cui aveva risposto a quell'sms e poi più nulla. Non aveva avuto nemmeno il coraggio di ribattere, di telefonargli, di dirgli che non avrebbe mai e poi mai voluto rispondere "va bene". Non andava bene niente. Perchè lo aveva scritto, e inviato? Perchè qualcosa non si era mosso per fermarla? E perchè non aveva più risposto? Aprì gli occhi e si rotolò nel letto, allungò il braccio e prese il telefono sul comodino. Lo sbloccò: la foto del blocca schermo era rimasta la stessa da quel giorno. Sfiorò l'icona dei messaggi. Scrollò le conversazioni fino ad arrivare a quella col suo nome. La aprì per la milionesima volta e guardò quel "va bene". Sotto c'era scritto "letto" e la data. L'aveva letto. Non si era minimamente stupito al suo consenso, non aveva avuto neanche bisogno di rispondere. E da lì in poi tutto si era fermato . uscì dalla pagina dei messaggi e aprì l'orologio: new York 12.58 San Diego 9.58 Chicago 11.58. Mancavano due minuti a mezzanotte a Chicago. Fissò l’orologio del telefono. 11.59. Si sarebbe ricordato del suo compleanno? Anche solo un messaggio di cortesia, un semplice “buon compleanno”, e si sarebbe messa il cuore in pace. Lo schermo si spense e rimase a fissarlo, nel buio totale, finché non sapeva più se aveva gli occhi chiusi o aperti.

Mancavano due minuti a mezzanotte a Chicago. Fissò l’orologio del telefono. 11.59. a New York era già passata la mezzanotte. Guardò l’icona di messaggi. La sfiorò, cercò la conversazione con “my princess” la aprì per l’ennesima volta. Il suo ultimo messaggio era stato quel dannato “va bene”. Prese un respiro profondo e aprì un nuovo messaggio. Che cosa doveva scrivere? “buon compleanno”? Semplice, diretto, non avrebbe mai avuto modo di capire cosa c’era dietro a quelle due parole. Le digitò, ma le dita sembravano sfiorare le lettere senza controllo, scrivendo tutto quello che voleva tenere nascosto dal semplice messaggio. All’improvviso si accorse di aver scritto una decina di righe e, stupito, le rilesse. “no no no” sussurrò, e cancellò tutto. Sospirò. Scrisse di nuovo “buon compleanno” e si fermò. Doveva scrivere anche il nome? Era troppo personale? Lo scrisse comunque. “buon compleanno Stef”. Invio?

All’improvviso il cellulare squillò e lo schermo si accese illuminando la stanza buia. Si svegliò di soprassalto e vide il telefono acceso, stretto in mano. Il cuore iniziò a batterle all’impazzata e, cercando di mettere a fuoco, lo sbloccò e controllò i messaggi. “dimmi che è lui, dimmi che è lui!” la voce girava frenetica nella sua testa. “buon compleanno Stef”, ma il messaggio era della sua coreografa. “ma vaffanculo” sussurrò, troppo stanca per arrabbiarsi. Erano le 3 e mezza a Chicago. Lasciò cadere il telefono sul cuscino, accanto alla testa. Cercando di riaddormentarsi, immaginò cosa stesse facendo lui in quel momento. Stava dormendo? Era ancora in giro per bar con i suoi amici? Forse non era nemmeno a Chicago, forse era andato alle Hawaii? O a San Diego? O a New York? Sussultò al pensiero, e sorrise… forse era vicino a lei. Ma forse era in un posto dove non era ancora arrivata la mezzanotte. Forse le avrebbe inviato un sms più tardi quel giorno. Forse, forse, forse. Si riaddormentò.

La radiosveglia si accese alle 11.00, con un bip bip noioso sovrapposto al gracchiare di una radio locale. Sbuffò e allungò il braccio verso il comodino per spegnerla. Si rigirò nel letto e finì con la faccia sopra al telefono, rimasto tutta la notte acceso sul cuscino. C’era ancora il “buon compleanno Stef” scritto nei messaggi, ma non inviato. Non aveva ancora trovato il coraggio di contattarla, dopo tutto quello che era successo. Sbuffò e si alzò dal letto, portandosi dietro il telefono. Andò in cucina e accese la tv, intanto si preparò qualcosa da mangiare per la colazione. Verso le 11.30, all’improvviso, bussarono alla porta e andò ad aprire. “ciao Taylor, disturbo?” salutò la donna, la vicina di casa. “Hey Judy! No no assolutamente. Kit, monellaccio, ci sei anche tu!” disse il ragazzo, salutando il bambino che la donna teneva per mano. “ti ho portato la Mustang” sorrise il bambino, facendogli vedere la macchinina giocattolo che aveva con sé. “Stupenda, grazie! Dopo la aggiungiamo alle altre” disse, abbassandosi per prendere il giocattolo in mano. “oggi pomeriggio mi puoi tenere  Matthew per qualche ora come hai fatto l’altro giorno? Devo andare a portare Kit dal dentista” chiese la donna. “certo” rispose lui. “magari portalo in giro se puoi, è da un po’ che non esce… oggi non fa neanche tanto freddo”. “ci divertiamo, non ti preoccupare” sorrise. “perfetto. Te lo porto alle 2. Buona giornata!” disse la donna, prendendo in braccio il figlio “andiamo”. “ciao!” salutò il bambino. “Fai il bravo, Kit!” gli disse, poi i due se ne andarono e tornò in casa.

Verso l’una il telefono suonò e Gaga si svegliò di nuovo. Trovò il cellulare vicino a lei, sul cuscino, e lo prese. Sullo schermo c’era il nome del suo manager. Rifiutò la chiamata e controllò i messaggi: 31 nuovi messaggi, tutti con scritto “buon compleanno”, ma nessuno da parte di chi sperava. Sbuffò e si alzò dal letto, spense il telefono e lo buttò sulla coperta. Andò in bagno e poi si trascinò in cucina, ancora in pigiama. Sua mamma stava preparando il pranzo, e le disse sorridendo “buon compleanno tesoro! Ti sei svegliata tardi oggi”. “mmh, grazie” sospirò, e si sedette al tavolo. “andiamo al ristorante stasera, vuoi?”. “non lo so, non ho voglia. Devo… aspettare… una cosa…” disse, toccandosi i capelli nervosamente. La donna la guardò un po’ confusa “cosa?”. Aveva detto a sua madre che lei e il suo ragazzo si erano presi un “periodo di pausa”, ma la realtà non era così semplice. Non avrebbe capito, se le avesse detto tutto per filo e per segno. “bah, lascia stare” disse, e tornò in camera. Sentì sua madre lamentarsi mentre tornava nella sua stanza, poi chiuse la porta e si sedette sul letto. Prese il telefono. Controllò i messaggi: ancora niente. Si sdraiò sul letto e, fissando il soffitto, ripensò velocemente al suo compleanno dell’anno precedente: l’aveva passato con lui, a San Diego, solo loro due. La giornata in giro per la città, poi la cena al ristorante e la nottata sulla spiaggia. Sembrava passato un secolo.  Rivoleva una giornata come quella, ma sicuramente il compleanno di quell’anno sarebbe stato pieno di gente, regali, drink, balli in discoteca… e non ne aveva la minima voglia. Voleva solo andare da lui. Ma dove diavolo era? Non aveva il coraggio di telefonargli. Poteva essere dappertutto. E poi, anche se l’avesse trovato, forse non avrebbe avuto nessuna voglia di vederla. Andare in capo al mondo e poi sentirsi dire “non ti voglio” sarebbe stata la cosa più orribile. Pazienza, doveva vederlo. Doveva dirgli tutto. Aveva aspettato troppo. Prese il telefono e chiamò l’hangar del suo jet.

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Capitolo 2
*** C-can you hear me? ***


Alle 2 bussarono di nuovo alla porta. Taylor andò ad aprire, ed era Judy, con un passeggino e una culla trasportabile in mano. “eccomi di nuovo! Matty non vede l’ora di stare un po’ con te” sorrise, e il bimbo nella culla fece dei versi gioiosi. “hey piccola peste!” prese la culla per il manico e salutò il piccolo, che allungò le manine verso il suo viso. “te lo lascio fino alle 4, va bene? Ti ho portato anche il passeggino, se volete fare un giro. Sotto c’è la giacca e tutto quello che serve” disse la donna, dandogli anche il passeggino. “perfetto. Non ti preoccupare, ci divertiremo noi due!” sorrise lui. “fate i bravi però! Grazie ancora, ci vediamo dopo” disse, e dopo aver salutato il figlio, scese le scale e uscì dal condominio. Il ragazzo portò in casa la culla e il passeggino e chiuse la porta. “Allora, Matty, vuoi che usciamo subito?” chiese al piccolo, appoggiando la culla sul tavolo. Il bambino sorrise e fece dei versi. “benissimo” con delicatezza, tirò fuori Matthew dalla culla e lo fece sedere nel passeggino. Il bimbo rise. Controllò nello scomparto sotto il sedile e trovò la giacchetta e il berrettino, e li infilò al bambino. “va bene così? Allora andiamo” sorrise, si mise addosso la giacca imbottita e riaprì la porta.

Dopo aver fatto preparare l’aereo e l’autista in fretta e furia, Gaga si vestì velocemente. Ci avrebbero messo un’ora a raggiungere l’aereo, ma non ce la faceva ad aspettare. Indossò una felpa e dei pantaloni, le sue vecchie Converse nere piene di borchie, prese il suo giaccone, gli occhiali da sole e la borsa e uscì. Liquidò la madre con poche parole e andò a prendere la macchina in garage. Non era ancora bravissima a guidare, ma non avrebbe aspettato l’autista. Si diresse subito verso l’aeroporto.

Chicago era insolitamente tiepida, nonostante avesse nevicato fino a poche settimane prima. Con Matthew ben coperto e sicuro nel suo passeggino, Taylor lo portò di fuori; non era la prima volta che portava un bambino a fare un giro, ma gli sembrava sempre una cosa un po’ strana, non ci era ancora abituato. Scesero per strada e, spingendo il passeggino lentamente, andarono in centro. Il piccolo sembrava divertirsi, con tutte quelle luci e quei colori, e ogni tanto rideva e allungava le braccine. Intanto il ragazzo gli faceva vedere i negozi, gli oggetti nelle vetrine e gli diceva i nomi delle cose che vedeva. “guarda Matty, quello è un palloncino!” gli disse, quando si fermarono davanti a un negozio di giocattoli: c’erano alcuni palloncini appesi alla porta d’entrata. Il bambino guardò il palloncino colorato ondeggiare al vento, con un sorriso. “uuh guarda quanti animali!” gli indicò la vetrina del negozio, dove erano esposti tantissimi peluche. Matthew iniziò a fare dei versi eccitati e allora disse “ne vuoi uno? Andiamo”. Entrarono nel negozio e Taylor gli comprò un gattino bianco di peluche. Il bambino lo strinse nelle sue piccole mani ridendo felice, e i due continuarono la passeggiata. Passarono davanti a una gioielleria, e il bimbo sembrò interessato agli strani oggetti luccicanti nella vetrina. Il ragazzo si fermò per farglieli vedere un po’ più da vicino e notò un braccialetto d’oro con perle e pendenti pieni di pietruzze e cristalli: era identico a quello che aveva regalato alla sua ragazza per il compleanno, esattamente un anno prima. Rimase a fissarlo per una decina di secondi, poi senza pensarci entrò nel negozio con il passeggino. Con Matthew che rideva contento, circondato da tutte quelle cose brillanti che non aveva mai visto, Taylor si guardò attorno e si poi si fermò davanti alla vetrinetta degli anelli. “buongiorno signore, posso aiutarla?” chiese la commessa, da dietro il bancone. “ehm… sì… ehm… questi sono gli anelli da fidanzamento?” chiese lui, indicando la vetrinetta. “sì signore” disse la commessa, andando a mostrarglieli. C’erano 4 mensoline. “Questi qua sotto sono da fidanzamento, quelli sopra da matrimonio”. Il ragazzo lì guardò uno per uno. Erano tutti stupendi, d’oro o d’argento, semplici o arricchiti con cristalli e pietre colorate. Posò lo sguardo su un anello d’oro rosa, pieno di piccoli diamanti incastonati. “questo qui è da matrimonio?” chiese. “sì” rispose la commessa “oro rosa 18 carati con 25 diamanti”. Fissò il gioiello per un attimo, poi disse “prendo quello”. “perfetto” la donna sorrise “arrivo subito”. Mentre la commessa andava a prendere l’anello, Taylor spinse il passeggino vicino al bancone. “quell’anello è per una signora molto speciale, lo sai? Che si arrabbierà se scoprirà che non le abbiamo comprato un regalo di compleanno” sorrise, facendogli vedere i gioielli esposti nella vetrina del bancone. Il bimbo fece dei versi.  La commessa tornò poco dopo con una scatolina di velluto bianco. La aprì e gli mostrò l’anello che aveva scelto. “questo?”. “sì sì, perfetto” rispose, poi prese la scatolina e la fece vedere al bimbo “guarda come luccica, Matty! Alla signora piacerà di sicuro” lo ridiede alla commessa, che sorrise, pensando che fosse per la madre del bambino. “devo aggiungerci un messaggio?” chiese. “no, va bene così” disse il ragazzo, e la donna allora impacchettò il gioiello. Lo mise in una borsa e la consegnò al ragazzo “sono 3200 dollari, signore”.

Arrivata all’hangar del suo jet, Gaga parcheggiò quasi di fronte all’entrata. Fuori c’erano due dei suoi bodyguards. “cosa ci fate qui?” chiese lei, in malo modo, uscendo dall’auto “devo andare da sola. Andate via”. “dove devi andare?” chiese uno dei due. “non t’interessa, voglio andare da sola, voi rimanete qui” rispose, entrando nell’hangar aperto. Il jet era quasi pronto per partire, il pilota era già al comando. “ma non puoi andare da sola!” ribatté l’altro, seguendola. “non dirmi cosa devo o non devo fare, o ti licenzio! Vado da sola, punto e basta. Andate via”. Incontrò l’assistente di volo, che le aprì la porta del jet e lei entrò. I bodyguards rimasero di fuori. Appena entrata nel suo aereo, si rese improvvisamente conto che non sapeva dove andare. Aveva detto al pilota che voleva andare a Chicago, ma non era sicura che fosse lì. Forse era andato dai suoi genitori a Lancaster. Fu tentata di telefonargli, ma la paura di parlargli dopo tutto quel tempo la paralizzò all’istante. Ci sarebbe voluta solo mezz’ora per arrivare a Lancaster, non era un problema. Avvisò il pilota e poi si sedette in uno dei posti dell’aereo. Era completamente vuoto. Non aveva mai viaggiato nel suo aereo da sola, era una sensazione magnifica. Appoggiò la testa allo schienale e chiuse gli occhi mentre l’aereo decollava.

Usciti dalla gioielleria, Taylor e il piccolo Matthew continuarono la passeggiata. All’improvviso il cellulare squillò: era Judy. Rispose. “ciao Taylor. Abbiamo fatto in fretta, Kit è a posto. Arriviamo a casa fra mezz’ora, ok? Dove sei? Come va con Matthew?”. “qui tutto bene, ci stiamo divertendo da matti. Dopo ti racconto. Siamo in centro adesso, torniamo indietro allora. In meno di mezz’ora siamo a casa” rispose lui. “perfetto. A dopo, ciao!” e la donna riattaccò. “Cambio di programma, Matty. Mi dispiace ma dobbiamo tornare a casa, la mamma sta arrivando” disse al bambino, e girò il passeggino. Mentre tornavano indietro, Matthew vide i fiori colorati esposti fuori da un fiorista e il ragazzo glieli fece vedere. “ne prendiamo qualcuno per la mamma?” propose. Il bambino fece dei versi e si girò verso dei tulipani arancioni. “ti piacciono quelli? Allora li prendiamo”. Entrarono nel negozio e si fece preparare un mazzetto di tulipani. Mentre il commesso li sistemava, vide un bellissimo bouquet di rose bianche, rosa e rosse. Fu tentato di comprarlo, ma poi prese solo i tulipani e si avviò verso casa.

In meno di mezz’ora il jet raggiunse l’aeroporto di Lancaster. Gaga era rimasta tutto il tempo a guardare fuori dal finestrino, e appena toccarono terra fu assalita dall’eccitazione. Non era sicura che lui fosse proprio in quella città, ma la paura di parlargli fu spazzata via dal pensiero che – forse – erano vicini dopo tanto tempo. Disse al pilota di rimanere lì, nel caso avesse avuto bisogno di andare in un altro posto, e uscì dall’aereo aiutata dallo steward. Un taxi era pronto ad aspettarla fuori dall’hangar. Era da moltissimo tempo che non prendeva il taxi da sola, e si sentiva molto vulnerabile, come una bambina che attraversa la strada per la prima volta senza la mano della mamma. Scacciò i brutti pensieri e salì, buttando la borsa sul sedile. Diede all’autista l’indirizzo della casa dei genitori di Taylor e partirono.

Taylor rientrò in casa un quarto d’ora prima di Judy. Diede da mangiare a Matthew e lo cambiò, con poche difficoltà; ormai ci aveva preso la mano. Il bambino, dopo aver bevuto del latte caldo, si era subito addormentato nella sua culla e, mentre aspettava l’arrivo della madre, il ragazzo tirò fuori dalla borsettina la scatola con l’anello e la aprì. Era un gioiello magnifico, niente a che vedere con il braccialetto che le aveva regalato l’anno precedente. E anche con l’anello di fidanzamento, un semplice solitario d’argento. Sicuramente le sarebbe piaciuto l’oro rosa, a lei che amava le cose un po’ “diverse dal normale”. Però all’improvviso gli venne l’idea che lei forse non aveva nessuna voglia di vederlo. L’aveva lasciata lui. Ma aveva anche accettato pacificamente, sembrava addirittura d’accordo. Non poteva andare da lei e dirle “non volevo, perdonami, ritorniamo insieme, ho anche l’anello”, lo avrebbe mandato affanculo e ne avrebbe avuto tutte le ragioni possibili. Era pure il suo compleanno, sicuramente in quel momento si stava preparando per una festa con tutti i suoi amici e non avrebbe minimamente pensato a lui. Non sarebbe mai riuscito a inviarle un messaggio o a telefonarle, non ne aveva il coraggio. Pazienza, doveva vederla. Aveva aspettato troppo. Prese il telefono e, dopo un attimo di esitazione, chiamò la compagnia aerea che usava sempre e prenotò un biglietto per New York.

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Capitolo 3
*** Hope ***


Un mese prima
“non è assolutamente colpa tua, credimi. Non preoccuparti”.
“come non è colpa mia? 10 minuti fa mi hai detto il contrario!” pensò, confusa e irritata. Scrisse “ok”, non voleva ribattere oltre. Messaggio inviato. Consegnato. Letto 8.37. aveva paura di quello che avrebbe potuto rispondere, ma voleva metterla finita a quella stupida conversazione una volta per tutte. Comparve la nuvoletta ‘digitazione’ e iniziò ad agitarsi. Poche decine di secondi dopo comparve il messaggio “non voglio continuare ancora con questa storia, spero che tu mi abbia capito. Non sentiamoci più, allora”. Il suo cuore quasi si fermò per un tempo che sembrava lunghissimo. Scrisse “va bene” senza neanche pensarci. Messaggio inviato. Consegnato. Letto 8.41.


Il primo volo disponibile per New York partiva fra un’ora e mezza. Appena Judy tornò a casa sua con Matthew, afferrò la giacca, il telefono e l’anello e uscì da nuovo. Prese la macchina e sfrecciò verso l’aeroporto.

Il taxi era lentissimo. Doveva andare dall’altra parte della città, ma non avrebbe dovuto metterci così tanto. Gaga prese il telefono e lo accese, ritrovandosi 15 messaggi e 6 chiamate senza risposta. Eliminò tutto. Mentre il taxi passava pere le strade trafficate del centro di Lancaster, provò ad ammazzare il tempo giocando a Ruzzle. C’erano ancora tutte le partite che aveva fatto contro di lui, quasi tutte vinte da lei. Sorrise, ricordando le serate passate a giocare, lei sul divano e lui sulla poltrona, a trovare più parole possibili sulla tabella, e urlandosi addosso quelle più strane quando uno o l’altra vinceva o perdeva. All’improvviso le venne un’idea. Uscì dal suo account e ne creò uno nuovo con un altro nome, poi cercò il suo nickname e gli inviò una richiesta di partita. Aspettò che accettasse, ma dopo 10 minuti non aveva ancora ricevuto nessuna notifica. Spense il telefono e lo mise nella borsa. Stavano raggiungendo la periferia est, con le sue stradine costeggiate da case in stile coloniale. Finalmente arrivarono alla casa dei genitori di Taylor. “può aspettare un attimo?” chiese a tassista, e scese da taxi.  Non era più così sicura che fosse lì, ma appena suonò il citofono iniziò a batterle forte il cuore. “rispondi, rispondi” mormorò, attaccandosi alle sbarre del cancello. Aspettò un minuto, ma non rispondeva nessuno. Suonò di nuovo. Il tassista incominciava a spazientirsi. All’improvviso vide una donna che arrivava dal giardino sul retro. “signora!” esclamò, cercando di farsi vedere. La donna la vide e la salutò con la mano. “oh ciao Stefani! Che cosa ci fai qui?” corse verso il cancello. “c’è Taylor?” chiese, senza rispondere alla sua domanda. “no, è a Chicago, mi dispiace” rispose. “merda” sbuffò, appoggiando la testa al cancello. “mi dispiace tanto. Vuoi entrare un attimo, così chiamiamo mio figlio e gli diciamo che sei qui?”. “no no, non si preoccupi. Vado a Chicago, non è un problema. Grazie ancora, scusi il disturbo” mormorò, e ritornò sul taxi. “lo sapevo, lo sapevo” borbottò, e telefonò al pilota per dirgli di prepararsi per Chicago.

Arrivò all’aeroporto alle 4 e mezza, mezz’ora prima della partenza. Non avendo bagagli, passò velocemente i controlli e il check in e salì subito sull’aereo. Ci avrebbe messo 3 ore e mezza ad arrivare a New York, sarebbe atterrato alle 8. Forse avrebbe fatto in tempo a vederla, prima che andasse a qualche festa o altro. Fra 4 ore l’avrebbe rivista, dopo tutto quel tempo. Non gli importava se l’avrebbe rifiutato, voleva solo vederla con i suoi occhi.

Ritornò all’aeroporto alle 4.45. salì velocemente sul suo jet e il pilota partì per Chicago. Ci avrebbe messo 2 ore ad arrivare, sarebbe atterrata alle 7. Forse l’avrebbe rivisto. Sicuramente in quel momento era a Chicago, e per un attimo si rilassò, dimenticandosi della sua paura. Per un po’ rimase con gli occhi chiusi ad ascoltare la musica. Qualche decina di minuti dopo, si ricordò della partita a Ruzzle e sussultò. Aprì il gioco e pregò che avesse accettato. Un attimo dopo comparve la notifica di partita accettata, e le balzò il cuore in gola. Era in contatto con lui. Ignorando il gioco, aprì la chat e pensò a cosa scrivere. Non gli scriveva da un mese. Ma non sapeva che era lei, poteva scrivere qualsiasi cosa. Prese un respiro profondo e scrisse “ciao”. Aspettò, ma non rispondeva. Tornò al gioco e fece la partita, vincendo il round. Prima di iniziare il secondo, notò che era arrivato un messaggio in chat. “ciao :)”. Sorrise e scrisse “dovresti esercitarti di più, ti ho battuto :P”. Pochi secondi dopo comparve il messaggio “dovevo ancora scaldarmi, vedremo chi vincerà il prossimo round ;)”. Ridacchiò: lo diceva sempre quando giocavano insieme. “vedremo” rispose, e giocò il secondo round. Vinse di nuovo. “visto? Fidati, la vinco io la partita u.u” scrisse. “questa volta ti batto” rispose lui; diceva sempre anche quello, ma non succedeva mai. Rise. Prese coraggio e scrisse una cosa che, sperava, avrebbe attirato la sua attenzione. Se era abbastanza furbo. Poi tornò alla partita.

“questa volta ti batto” scrisse, un po’ annoiato perché non aveva ancora vinto. Non era bravissimo a giocare a Ruzzle, nonostante la sua ragazza glielo avesse insegnato. Lo batteva sempre, o quasi. Aveva sperato che quell’utente che gli aveva richiesto la partita fosse un novellino, ma lui/lei l’aveva battuto senza problemi. Mancavano ancora più di due ore all’atterraggio, e aveva deciso di giocare a Ruzzle per passare il tempo e rilassarsi; si era stupito di quella richiesta di gioco: la persona doveva conoscere il suo nickname, ma non aveva mai giocato con lui/lei. All’improvviso apparve un nuovo messaggio in chat. “Sicuro?” e poi una frase che lo fece quasi sussultare. La rilesse più volte. A parte alcune parole cambiate per dargli un altro significato, era una frase della canzone Sex Dreams, che non era ancora stata pubblicata. Com’era possibile? Ci pensò su, poi rispose con il verso successivo della canzone, cambiando le parole allo stesso modo dell’avversario, e ritornò alla partita.

Aveva vinto anche l’ultimo round, e ovviamente anche la partita. Sospirò e controllò la chat. Sussultò nel vedere scritto il verso di Sex Dreams seguente a quello che aveva scritto lei nel messaggio precedente. Aveva capito. Forse aveva intuito che era lei. Il cuore iniziò a batterle forte e scrisse “te l’ho detto che vincevo io ;)”. Aspettò un minuto e arrivò la risposta “mi ero sbagliato. Complimenti, miss (o sir?). Disputiamo un’altra partita?”. Miss. La chiamava sempre così quando scherzavano. Doveva farsi avanti e confermare? “miss, esatto. E certo, continuiamo”.
Alle 7 il jet di Gaga atterrò a Chicago. Eccitata, uscì e prese subito un taxi. Aveva giocato a Ruzzle con Taylor per 3 quarti d’ora, e avevano chattato come due sconosciuti. Mandando messaggi con un account falso, comunque, la rendeva molto più tranquilla. Era come se fosse un’altra ragazza a parlargli. Poteva dirgli di tutto, senza preoccuparsi, convincendosi inconsciamente che lui pensava di parlare con un’altra persona. Ma sapeva che lui aveva intuito che era lei l’avversario. Ma non l’aveva detto. Doveva stare al gioco, dopotutto.
Ci volevano 45 minuti per arrivare a casa sua, e così ricominciò a giocare e chattare. Gli aveva chiesto come si chiamava, e lui le aveva detto il suo vero nome. Poi le aveva fatto la stessa domanda e lei aveva risposto “Hope, come il mio nickname”. Dopotutto, la speranza era il motivo del suo viaggio.
“dove abiti?”
“Chicago. Tu?”
“New York”.
Poi la batteria del telefono si era scaricata del tutto e si era spento. Non aveva portato con sé neanche il caricatore. Furiosa, lo buttò nella borsa e aspettò. Il taxi arrivò a destinazione e la lasciò davanti al condomino. Uscì e si precipitò a suonare al citofono, in preda all’eccitazione. Non aveva più paura. Nessuno rispose. Controllò l’orologio, 7.54. dov’era, a quell’ora? Suonò di nuovo.
 

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Capitolo 4
*** Tug and war ***


Pochi minuti prima delle 8, l’aereo atterò a New York. Aveva passato la maggior parte del volo a giocare a Ruzzle e a chattare con questa “Hope”, ma aveva capito quasi subito che era lei. Ecco perché sapeva il suo nickname. Aveva creato un altro account per parlare con lui; era nel suo stile. Ma, dato che non voleva farsi scoprire, aveva finto di non conoscerla e di stare al gioco. Era molto più semplice parlare, se inconsciamente si convinceva di farlo con un’altra ragazza. Verso le 7.20, però, dopo che gli aveva detto dove abitava, aveva pensato a lungo se dirle che stava arrivando a New York oppure no, e aveva poi scritto “davvero? Adoro New York”. Poi non aveva più risposto, allora aveva spento il telefono e aspettato che l’aereo atterrasse. Appena arrivato a New York, prese un taxi e si diresse verso la casa dei suoi genitori, sperando che non fossero ancora usciti a festeggiare.

Ancora nessuna risposta. Gaga iniziò a preoccuparsi. All’improvviso video una finestra aprirsi e una donna uscire in terrazza per ritirare i panni. “mi scusi!” gridò. La donna la vide e si sporse dal balcone “sì?”. “c’è il signor Kinney?” chiese. “no, è uscito oggi pomeriggio e non è ancora arrivato” rispose la donna “ha bisogno?”. “ha detto a che ora sarebbe tornato?” chiese. “no, mi dispiace”. Si appoggiò alla porta e si guardò i piedi, pensando a cosa fare. Doveva aspettarlo? Andare in un hotel? Erano le 8 di sera, si stava facendo buio. Inoltre stava morendo di fame. “c’è un hotel da queste parti?” domandò. “ce n’è uno a un paio d’isolati da qui, credo”. “si può raggiungere a piedi?” non aveva voglia di prendere un altro taxi. Si fece dare le indicazioni, ringraziò e si avviò a piedi. Passava in mezzo alla gente, senza curarsi di essere riconosciuta o no. Tanto, così vestita, sicuramente non l’avrebbe notata nessuno. In un quarto d’ora raggiunse l’hotel: era un 3 stelle, dall’ambiente semplice, ma le andava bene qualsiasi cosa. Prese una camera dando un nome falso e si chiuse subito in camera, chiedendo qualcosa da mangiare. Si buttò sul letto e rimase per un po’ a guardare fuori dalla finestra. “Taylor, dove cavolo sei?” mormorò. Vide che sul comodino c’era un telefono fisso e si chiese se avrebbe dovuto telefonargli. Aveva chattato con lui, probabilmente aveva capito che era lei, quindi era come se si fossero parlati. Non era più nel “non sentiamoci più”. Forse. Alzò la cornetta e compose il suo numero di cellulare. Suonava. Il cuore le batteva forte, non aveva idea di cosa dirgli, ma voleva soltanto sentire la sua voce. Pochi squilli dopo, “il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile”. Aveva il telefono spento.

New York era trafficata come al solito, ci era voluta un’ora solo per uscire dal centro. Era agitato, ma il bisogno di vederla superava ogni paura. In chat gli aveva risposto tranquillamente, non sembrava arrabbiata. Beh, in realtà lui non avrebbe dovuto sapere che era lei, quindi forse aveva cercato di essere più calma. Man mano che il taxi si avvicinava a casa sua, pensò a cosa dirle. Doveva subito scusarsi per tutto, dirle e ridirle che aveva fatto una cazzata, che non l’avrebbe mai lasciata, che…? No. Poteva creare tutti i discorsi possibili, ma appena l’avrebbe vista, gli sarebbero mancate le parole.
Il taxi arrivò a destinazione e scese dall’auto. Vide le luci accese in casa e pensò “oh, c’è ancora qualcuno”. Esitò un attimo, poi suonò il citofono. Pochi istanti dopo sentì “chi è?”. “salve signora, sono Taylor, c’è Stefani?” chiese, cercando di mantenere un tono calmo, nonostante fosse più che agitato. “no, è andata via oggi pomeriggio. Non sappiamo dove è andata. Non è venuta da te, magari?”. Per un attimo fissò il citofono, non sapendo a cosa pensare. Improvvisamente comprese che lei non era lì. Doveva vederla, ma non era lì. 5 ore di viaggio, ma non era lì. Non aveva sentito la domanda, così disse “ma… non vi ha detto proprio niente?”. “no, non risponde al telefono dalle due. Sei sicuro che non possa essere venuta da te, forse? A Chicago”. Questa volta sentì la domanda e sussultò. Forse era andata da lui mentre lui era andato da lei. E non l’avrebbe trovato in casa. “oh mio… grazie, vado subito!” e senza lasciarle il tempo di rispondere, prese il primo taxi e ritornò all’aeroporto.


Erano le 9 e mezza. Gaga non era ancora riuscita a trovare un caricatore per il telefono, e non aveva nessuna voglia di telefonare a casa per dire dov’era. Sicuramente erano preoccupati, ma non le importava. Voleva solo vedere lui. Aveva aspettato un po’, mangiando e guardando la tv, indecisa se uscire per andare a vedere se era tornato a casa o no. Era ormai buio, e non conosceva molto la zona. Per la terza volta, provò a chiamarlo con il telefono dell’hotel, ma aveva il cellulare spento.
Si sdraiò a pancia in giù sul letto. Quello doveva essere un giorno bellissimo per lei, ma era stato orribile. Il peggiore compleanno di sempre. Voleva solo vederlo, sentirlo; sarebbe stato il regalo più bello. Ma ora era lì, in una città enorme, da sola, senza neanche qualcosa per cambiarsi, senza telefono e senza di lui.

Il taxi viaggiava più veloce che poteva nel traffico di New York. Doveva tornare subito a Chicago. Pregò che ci fosse un volo disponibile subito, perché non aveva alcuna intenzione di aspettare. Accese il telefono e trovò una telefonata di Judy e cinque di un numero fisso sconosciuto. Aprì Ruzzle, ma non c’era ancora nessun messaggio in chat. Inoltre la batteria si stava scaricando. Lo bloccò e lo mise in tasca, e guardò fuori dal finestrino le luci che sfrecciavano attorno a lui. Che stupido che era stato. Perché non era rimasto a Chicago? Lei, in persona, aveva preso l’iniziativa di venire da lui. Ma forse no, forse era andata in un altro posto, e non aveva pensato minimamente a lui? Come poteva aspettarsi che sarebbe tornata, dopo tutto quello che le aveva detto? Lei aveva un modo di fare diverso da lui, non era un tipo disposto a farsi mezzi Stati Uniti per vederlo. Figuriamoci se era andata a Chicago! Probabilmente a quell’ora era a Los Angeles a prepararsi per una festa in discoteca con gli amici.

Alle 10 e mezza, si risvegliò dal sonno leggero in cui era caduta. Ci mise un po’ a capire dov’era, poi realizzò e sbuffò, snervata. Per la sesta volta, provò a telefonargli. Sapeva che non avrebbe risposto, ma in fondo sperava di sì. Il telefono squillò una due, tre volte. Si aspettava il solito “il numero da lei chiamato non è al momento raggiungibile”, invece continuò a squillare. All’improvviso sentì “pronto?” e le balzò il cuore in gola. Era lui. Aveva risposto. Era la sua voce. La sua voce dolce e profonda. Era come se fossero passati secoli da quando l’aveva sentita l’ultima volta, e in quel momento era il suono più bello al mondo. Sentì le lacrime salirle agli occhi, e non riusciva a parlare, non sapeva cosa dirgli. “pronto? Chi è?” sentì di nuovo. Prese un respiro profondo e fece per dire qualcosa, ma non ci riuscì. “chi è?”. “ehm…” riuscì a dire. “chi è?”. “sono io” disse infine, come un sussurrò. “Ste… sei tu? Dove sei?” disse lui. Si accorse che stava per piangere e non riuscì più a dire altro.

Il taxi stava per raggiungere l’aeroporto, quando all’improvviso il telefono. Taylor lo tirò fuori dalla tasca e guardò chi era: era quel numero fisso che l’aveva chiamato 5 volte prima. Voleva sapere chi fosse, così rispose. “pronto?”. Dall’altra parte sentì un sospiro, poi silenzio. “pronto? Chi è?” chiese di nuovo. Silenzio. “ma che diavolo…?” pensò. Forse la persona all’altro capo del telefono non lo sentiva? “chi è?”. Sentì un suono, sembrava una voce femminile. Stupito, chiese ancora “chi è?” e sentì “sono io” e il mondo si fermò. Era lei. L’aveva chiamato. Era la sua voce. La sua bellissima voce. Era come se fossero passati secoli da quando l’aveva sentita l’ultima volta. Il cuore gli batteva forte, l’emozione quasi gli impediva di parlare. “Ste… sei tu? Dove sei?” riuscì a dire. La sentì singhiozzare lievemente. “dove sei?” chiese di nuovo, preoccupato. Non rispondeva, sentiva solo i suoi singhiozzi. Gli venne da piangere, ma cercò di calmarsi e disse “non importa, sto arrivando”. All’improvviso la telefonata finì. Aveva riattaccato.

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Capitolo 5
*** Give a little... ***


“cazzo” mormorò. Perché aveva riattaccato? Non gli aveva detto dov’era. Provò a richiamare quel numero, ma partì un messaggio preregistrato: quel telefono poteva solo fare chiamate, non riceverle. Probabilmente era il numero di un telefono di quelli che si trovano nelle stanze d’hotel. Era in un hotel. Ma dove? Perché non aveva usato il cellulare? Richiamò il suo cellulare, ma era ancora spento. “siamo arrivati” disse all’improvviso il tassista. Avevano raggiunto l’aeroporto. Ringraziò, pagò e si precipitò nell’edificio. Andò a controllare i voli sugli schermi all’entrata: l’aereo per Chicago era decollato 10 minuti prima, il prossimo era fra 40 minuti. Corse a prendere un biglietto e poi rimase nella sala d’aspetto, camminando avanti e indietro.

“ci sei? Perché non rispondi?”
“scusa, ora non ho tempo. È urgente?”
“sì”


Prese il telefono. Erano le 11 di sera; la batteria era al 10%. Lo spense e lo rimise in tasca. Dove poteva essere a quell’ora? Se era in un hotel, non poteva essere a Los Angeles, lì aveva una casa. Era a Chicago, allora. Non aveva nemmeno più le chiavi del suo appartamento, le aveva prese lui. Era da sola in un hotel… ma quale? Non poteva risalire a quello da cui aveva telefonato. Pazienza, l’avrebbe cercata in tutti gli hotel se necessario.

“sto arrivando. Sto arrivando. Sto arrivando” le risuonava in testa. Stava arrivando. Stava arrivando. Aveva sentito la sua voce, le aveva parlato, le aveva detto che stava arrivando. Aveva riattaccato troppo presto, in preda all’agitazione, ma l’aveva dimenticato. Come aveva dimenticato che non gli aveva detto dov’era, e neanche lui. Non si domandò minimamente come l’avrebbe trovata; sapeva che l’avrebbe fatto, e basta. Come in una fiaba. Il principe trova sempre la sua principessa, no? Quelle due parole erano state il regalo più bello. Voleva aspettarlo sveglia, come se fosse potuto entrare all’improvviso – magicamente – dalla finestra o dalla porta della sua stanza, come facevano sempre i principi, ma si riaddormentò poco dopo.

L’aereo atterrò a Chicago alle 2.45 di notte. Durante il volo aveva pensato a dove avrebbe potuto cercarla.  Se era andata a Chicago per lui, sicuramente doveva essere passata a casa sua. Poi? C’erano centinaia di hotel. Ce n’era uno vicino a casa sua, ma non era un granchè. Forse era andata in uno dei soliti 5 stelle, ma non poteva entrare e chiedere di lei, così, a quell’ora; l’avrebbero buttato fuori. Non sapeva cosa fare. Prese un taxi e si fece portare a casa.
Arrivò mezz’ora dopo. Le luci del condominio erano tutte spente, il silenzio insolito era preoccupante, spezzato solo dal motore rumoroso degli scooter e il rollio delle ruote di centinata di auto sulle strade notturne. Cercando di fare il più piano possibile, aprì il portone e salì al suo appartamento. Aprì la porta e accese le luci, poi entrò e chiuse. Controllò subito ogni stanza. “ma cosa stai facendo? Non è in casa! Non ha le chiavi, non può entrare!” gli diceva la sua testa, ma in fondo sperava – inutilmente- che fosse lì. “non c’è, vedi?”. Andò in cucina, mise in carica il telefono e poi, girandosi verso la porta, notò un biglietto sotto per terra. Lo raccolse: era di Judy. “alle 7 è passata la tua ragazza. Ha chiesto di te, le ho detto che non c’eri. Le ho indicato l’hotel Mirana, ma non so se è andata lì”. Senza pensarci due volte, corse giù per le scale e fuori di casa. Prese la macchina e, senza curarsi di far rumore, sgommò via e in 2 minuti raggiunse l’hotel. Parcheggiò davanti all’entrata, anche se non c’era posto, ed entrò. Al bancone della reception non c’era nessuno. Cosa doveva aspettarsi, in un posto del genere, a quell’ora? Nel salottino adiacente alla tv era accesa, ma non c’era nessuno nemmeno lì. Aspettò per una decina di minuti, poi vide scendere dalle scale un ragazzino di neanche 18 anni con la divisa dell’hotel. “oh… mi scusi! Desidera?” chiese. Sembrava più addormentato che sveglio. Taylor chiese della sua ragazza, dando il suo vero nome. “mi dispiace, signore, non abbiamo nessuno prenotato con quel nome” rispose il ragazzo, cercando sulla lista nelle prenotazioni. “ha dato un nome falso, giusto” pensò. “non è passato nessuno verso le 7 di ieri?” chiese. Il ragazzo controllò. “sì, sono state prese 3 singole”. “non mi può dire da chi?”. “mi dispiace, non posso dire i nomi, per la privacy” disse. Sbuffò, irritato. Che cosa doveva fare? Non poteva di certo forzare il ragazzino a dirgli chi aveva prenotato. Inoltre stava morendo di sonno. Se lei era lì, se lo stava cercando, sarebbe rimasta nell’hotel almeno fino al mattino e poi sarebbe passata a casa sua. Forse. “fa niente, grazie lo stesso” disse, e uscì, tornò a casa, si tolse la giacca e andò subito a letto. 24 ore prima era lì, nel letto, senza riuscire a dormire né a mandarle un messaggio. In quel momento era sempre lì, nel letto, stanco morto dopo aver viaggiato per 7 ore perché non era riuscito a mandare quel messaggio.


“cosa c’è? Non posso telefonare, dimmelo per messaggio”
“ok, però fai attenzione”
“ok. Cosa c’è?”
“ti sembrerà stupido, ma per me è veramente importante. Cerca di capirmi”


Ma lei era venuta lì, da lui. da sola. L’aveva cercato, come lui aveva fatto con lei. Forse quella mattina l’avrebbe rivista, le avrebbe detto tutto. Tutto. L’avrebbe capito? Non gli importava, voleva solo vederla e pregarla di perdonarlo. Se non l’avesse fatto, se lo sarebbe meritato. Ma almeno glielo avrebbe detto, di persona, e non per messaggio. Non riusciva più a tenerselo dentro. Si addormentò.

Gaga si svegliò alle 11, colpita in pieno viso da un raggio di sole che entrava dalla finestra parzialmente chiusa dalle odiose tendine bianche e sottili degli hotel economici. Aveva sognato che il suo principe era entrato dalla finestra della sua stanza, per venire a prenderla, e insieme erano scappati via. Ma purtroppo non era successo davvero. Non era lì. C’era solo lei nella stanza, sdraiata sulle coperte, in tuta e felpa, sudata e scapigliata. Si sedette sul bordo del letto e con i piedi cercò le scarpe lasciate per terra. Le infilò e poi andò in bagno, togliendosi la felpa che le dava caldo. Si lavò il viso senza guardarsi allo specchio; sapeva che era inguardabile, non aveva bisogno di una conferma. Fece cadere la saponetta mezza consumata nel lavandino e cercò una spazzola per i capelli, ma non c’era. “ma non hanno un cazzo in questo postaccio” mormorò, annoiata. Non aveva nessuna intenzione di avventurarsi nella doccia, le condizioni della tendina plastificata che la copriva erano abbastanza; si sistemò alla meglio i capelli aggrovigliati con le mani e li legò in una coda di cavallo con un elastico che aveva nella borsa. Si rimise la felpa e la giacca e uscì dall’hotel. Mentre camminava verso la casa di Taylor, cercando di ricordarsi la strada, fu invasa da una miriade di pensieri. Come poteva lui sapere dov’era, se non gliel’aveva detto? E se forse non era a Chicago quando l’aveva chiamato? Se non era in casa? Se era andata a cercarla dall’altra parte del mondo? Più si avvicinava a casa sua, più la speranza di trovarlo lì diminuiva. La gente le passava vicino, incurante del suo aspetto. Non si era nemmeno messa gli occhiali da sole, ma a cosa servivano? Non avrebbero potuto nascondere niente. Arrivò al condominio.

Taylor si svegliò al suonare del campanello di casa. Guardò la radiosveglia: 11.20. Chi è che lo voleva a quell’ora? Oh, già, era ancora Judy! Il pomeriggio precedente gli aveva chiesto se avrebbe avuto tempo di badare ancora a Matthew quella mattina, e lui aveva detto di sì senza pensarci, nella fretta di partire per l’aeroporto. Lei non sapeva che sarebbe dovuto essere a New York in quel momento. Si alzò dal letto, ancora mezzo addormentato. Suonarono di nuovo. “un attimo!” esclamò, e si mise le ciabatte, poi andò ad aprire, in maglietta e tuta. Aveva dormito vestito, non si era nemmeno messo il pigiama. “oh, scusa, ti ho svegliato?” chiese la donna, appena lo vide. “non preoccuparti, è colpa mia, non mi sono ricordato di puntare la sveglia” disse lui. “se vuoi passo dopo…”. “no no,  non c’è problema. Tanto Matty è più sveglio di me” e fece un gesto verso il bambino, che lo guardava sorridente nella sua culla trasportabile. “allora grazie. Tienimelo per qualche ora, faccio in fretta. Ah ieri è passata la tua…”. “porca puttana!” pensò lui. Doveva andare a vedere se era ancora in hotel. “si si ho visto il biglietto, grazie infinite” disse però, cercando di stare calmo. “era al Mirana?” chiese Judy. “sono andato a vedere, ma non potevano dirmi i nomi degli ospiti”. “vedrai che passerà fra poco” sorrise la donna, e fece per porgergli la culla. “ma… l’hai vista? Com’era? Era…?” chiese poi, ansioso. “mi ha chiesto dov’eri 3 o 4 volte, io le ho ripetuto che non lo sapevo, ma mi dispiaceva perchè sembrava così preoccupata…” disse, e gli diede la culla con Matthew. Il ragazzo la prese per il manico, fissando la donna con un’espressione incredula. “stai tranquillo, arriverà più tardi, ne sono sicura” disse ancora, sorridendogli “arrivo verso mezzogiorno e mezzo, ok?”. Salutò il figlio con un bacio e scese le scale. Taylor portò in casa il bimbo e lo portò sul divano. Ormai aveva la casa piena di omogeneizzati, biberon, pannolini e giocattoli, persino un seggiolone e un piccolo box; curava Matthew da quando aveva pochi mesi, e i due si erano subito affezionati l’uno dell’altro. Se mai avesse avuto un figlio suo, non si sarebbe fatto trovare impreparato. “buongiorno Matty” disse, sorridendogli. Il bimbo fece dei versi; lo tirò fuori dalla culla e, ancora un po’ impacciato, lo prese in braccio. “hai fame? Cosa vuoi mangiare?” lo portò con se verso il frigo. Lo aprì, e dentro c’erano dei vasetti di omogeneizzato. “vuoi la frutta? E frutta sia” con la mano libera prese il vasetto e poi fece sedere il bambino nel seggiolone che aveva attaccato al tavolo. Prese un cucchiaino di plastica, si sedette di fronte al bambino e aprì l’omogeneizzato. “mmh che buono!” esclamò, prendendo una cucchiaiata e facendogliela vedere. Il bimbo fissò la pappa arancione e poi fece dei versi. “apri la bocca, che arriva l’elicottero. vroom!” e lo imboccò. “gnam!” esclamò, finita la prima cucchiaiata. Ne prese un'altra ma all’improvviso, però, Matthew diede un colpo al cucchiaio, che volò sul tavolo schizzando omogeneizzato dappertutto. Si mise a ridere, divertito. Anche il ragazzo rise “ma guarda cosa hai fatto! L’elicottero è volato via” e recuperò il cucchiaio. A un tratto sentì suonare il citofono e sobbalzò.

Suonò il citofono. Silenzio. Si appoggiò al portone. “non c’è, cosa ti aspettavi? Non arriverà mai” si disse. Indecisa su cosa fare, si sedette sullo scalino dell’entrata, ma pochi secondi dopo sentì una voce uscire dal citofono. “chi è?”. Era lui. Era in casa. Il cuore le batteva all’impazzata, e disse subito “sono io” senza neanche pensarci. Silenzio. “non mi farà mai entrare” pensò, preoccupata. Ma qualche secondo dopo sentì il portone aprirsi automaticamente. “è aperto. Vieni su”. La sua voce era calda e gentile. Non era arrabbiato perché era andata da lui. Sospirando, spinse il portone. Due rampe di scale la separavano da lui. Non vedeva l’ora di rivederlo, ma allo stesso tempo aveva paura, quasi si fosse dimenticata di tutto il viaggio che aveva fatto per essere lì in quel momento. Salì uno scalino alla volta, lentamente, e raggiunse il pianerottolo. La porta era chiusa.

“non ne posso più. È difficile per me, capisci? Ci sei sempre e solo tu. Io cosa sono, invisibile?”

Per un attimo, la prese l’istinto di scappare via. Non voleva affrontarlo. Non ce l’avrebbe fatta.

“secondo te lo voglio? Lo faccio apposta? Non è colpa mia”
“ma succede lo stesso, e non fai niente per evitarlo. Ammettilo”
“smettila di dire cazzate, per favore”


Ma finalmente l’aveva trovato. Dopo essere andata via di casa, aver fatto mezzi Stati Uniti.

“cazzate? È vero. Lo sai anche tu, ma non vuoi ammetterlo”

Dopo aver fatto 4 ore di aereo, 2 di taxi. Dopo aver passato la notte da sola in un hotel schifoso in una città quasi sconosciuta.

“smettila”

Dopo aver aspettato per oltre un giorno.

“perché non lo vuoi ammettere? Sai che ti piace essere sempre l’unica, la più importante, e non te ne frega niente degli altri”

Era lì, dietro a quella porta. Prese coraggio e bussò. “è aperto” sentì, e poi delle risate infantili. Impugnò la maniglia e la abbassò, poi spinse lentamente la porta. La sentì tirare verso l’interno e poi lo vide, lì davanti a lei, con il suo magnifico sorriso.

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Capitolo 6
*** ... get a lot ***


Lo fissò nei suoi bellissimi occhi azzurri. Era lì. A pochi centimetri da lei. Finalmente. All’improvviso si ricordò che non era truccata, era vestita come un ragazzino, sudata, e in disordine. Si lisciò nervosamente i capelli scompigliati e spinse alcune ciocche uscite dalla coda dietro le orecchie. Sospirò.

“cosa?? Ma che cazzo stai dicendo?!”

“ciao” disse lui, sorridendo. “ciao” disse anche lei, cercando di calmarsi. Avrebbe voluto saltargli addosso e stringerlo e baciarlo e non lasciarlo più, ma non si mosse.

“oh, smettila, lo sai. Ti conosco, ormai”

“entra pure!” disse lui, e chiuse la porta. Lei si spostò di qualche passo, poi rimase ferma. Sentì la voce di un bambino. “oh, è Matthew. È il figlio dei miei vicini, gli faccio da babysitter ogni tanto. Accomodati”. Entrò in cucina e lei lo seguì. Seduto sul seggiolone, c’era un bel bambino biondo e paffuto. Rimase sulla porta e lo guardò. Taylor tirò fuori il bimbo dal seggiolone e lo prese in braccio. “Matty, questa è Stefani” disse, portandolo verso di lei. Il bambino la guardò con i suoi occhioni azzurri e un’espressione curiosa, poi allungò le braccine per toccarla, e afferrò la manica della sua giacca. Lei gli sorrise. “ciao Matthew” disse, accarezzandogli la testa. “gli stai simpatica” sorrise lui. “quanti mesi ha?”. “sette. Ma è già un casinista, basta guardare il tavolo”. La tovaglia, infatti, era tutta schizzata di omogeneizzato. “sei un pasticcione, Matty, guarda un po’! Che figure mi fai fare con la signora?” rise lui, e riportò il bambino nel seggiolone. Anche lei rise. Le era mancato il suo modo di fare così scherzoso. “togliti la giacca, accomodati pure. Allora… cosa… ci fai qui?” chiese il ragazzo, dandole la sedia. Lei lo guardò stupita. “e me lo chiedi anche?! Sono venuta per te!” voleva dirgli, ma non aprì bocca. Lui sembrava comportarsi come se non fosse successo niente, come se non fossero stati insieme per due anni e poi tutto era stato cancellato con un sms, come se non sapesse che aveva fatto mezzi Stati Uniti da sola per ritrovarlo. Ma è vero, non lo sapeva. Doveva dirglielo? Cercò di comportarsi come faceva lui, come se fosse semplicemente passata a casa di un amico che non vedeva da qualche giorno. Sbuffò, si tolse la giacca e si sedette.

“allora… cosa… ci fai qui?” chiese, dandole una sedia. Il cuore gli batteva forte, scoppiava di felicità. Era venuta da lui. dopo che l’aveva cercata dappertutto. Era emozionato, ma cercò di nasconderlo perché lei sembrava… come se non fosse successo niente.

“allora tu non mi conosci ancora.”
“so quello che dico”
“e cosa devo dirti?? Che mi dispiace? Non ci posso fare niente. Te ne devi fare una ragione. Io non posso cambiarlo”


Ma era venuta lì, da lui, dopo che non l’aveva né vista né sentita per un mese… finalmente. Voleva sentirsi dire “sono venuta per te. Non me ne andrò mai più”, e non avrebbe esitato a dirle quello che sentiva davvero. Ma dopotutto si erano… lasciati, o no? Forse era arrabbiata con lui, era lui che aveva fatto tutto quel casino, era lui che l’aveva lasciata. La cazzata più grande mai commessa. Avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo per essere arrabbiata. Ma perché non rispondeva. “ehm… perché sei venuta a Chicago?” chiese la stessa cosa, cambiando le parole. Si sedette vicino al seggiolone di Matthew. “beh… per lavoro” disse lei, seduta sul bordo della sedia e vagando con lo sguardo “poi… ho pensato… ‘è da un po’ che non vedo Tay’”. È da un po’ che non vedo Tay. Aveva pregato ogni giorno che gli telefonasse o mandasse anche solo un sms, era anche andato a New York… e ora lei veniva lì, dopo in mese, perché era “da un po’” che non lo vedeva? Era andata via di casa, senza dire niente, “per lavoro”? Non era molto brava a mentire. Ma doveva stare alla sceneggiata. “ah… beh, sono contento di vederti. Ehm… vuoi un caffè?”. “oh sì grazie, così mi sveglio un po’” rispose, allora lui si alzò a preparare la macchinetta. Matthew iniziò a fare dei versi. “mi sa che vuole il suo peluche di Tinky Winky” disse “glielo prendi, per favore? È sul divano”. Andò a riempire un bicchiere con l’acqua per la macchinetta. Mentre era verso il bancone della cucina a preparare il caffè, la sentì parlare con il bimbo. “ooh che bello. Guarda, s’illumina!” e Matty rise di gusto. Sorrise e fece partire la macchinetta. Si girò e la vide tutta sorridente mentre faceva giocare Matthew. Era sicuramente meglio di lui a badare ai bambini! Si avvicinò a lei, chinata sul seggiolone. Solo in quel momento notò che indossava la sua felpa, quella grigia con la scritta New York, che gli aveva “rubato” qualche tempo prima. “ti piace? Lo vuoi tu? Tieni” disse lei al bambino, e gli diede il peluche, poi si girò e vide il ragazzo dietro di lei. I due si guardarono, per un istante.

“ma io voglio essere soltanto ME, non essere sempre collegato a te per qualsiasi cosa. Tu non sei me”

“beh devi accettarlo, perché è così, è inevitabile”

“senti, non è che avresti un caricatore per il telefono? È scarico, dovrei fare una telefonata” disse poi lei all’improvviso, volgendo lo sguardo altrove. “certo. Vado a prenderlo” disse lui. Andò in camera e cercò il caricatore nel cassetto. Prima di tornare in cucina, si fermò un attimo sulla porta e cercò di calmarsi. Ma ogni parola che le aveva scritto quel giorno gli ritornava in mente non appena la guardava.

“non posso. Non lo sopporto più. Non puoi capire.”

Poco dopo ritornò in cucina, giusto in tempo per il caffè. Le diede il caricatore e poi andò a controllare la macchinetta, che stava facendo gocciolare il caffè nella tazzina sottostante. “tieni” disse poi, quando la tazzina fu riempita. La appoggiò sul tavolo. “grazie” sorrise lei, dopo aver attaccato il caricatore alla presa della corrente. Bevve il caffè tutto d’un fiato. Lui la guardò, quasi ipnotizzato. “grazie mille. Ehm… senti… non voglio disturbarti ma… ecco… potrei fare la doccia? La doccia dell’hotel faceva paura, non mi ci sono neanche avvicinata. Puzzo come un cavolfiore” chiese Gaga, dopo aver bevuto il caffè. Lui rise. “ma non è vero! Sei un fiore. Comunque… certo, il bagno è a posto” disse. “un fiore, ma va!” rise lei. da quanto non la sentiva ridere così. Era bellissima quando rideva, le si illuminavano gli occhi, e sembrava una bambina. “grazie. Faccio veloce” e andò in bagno.

Entrò nel bagno e chiuse la porta. Il calorifero era acceso, la stanza era magnificamente calda. Si appoggiò alla porta e sorrise. Che tenero che era stato! Quanto le erano mancati i suoi complimenti. Aprì l’acqua della doccia e, intanto che si scaldava, si spogliò e buttò tutto sulla lavatrice. Appeso sulla porta, c’era l’accappatoio di Taylor; era enorme, ma non importava. Lo appoggiò sul calorifero per scaldarlo e poi entrò nella doccia. Chiuse gli occhi e si godette la sensazione dell’acqua calda sulla pelle per qualche minuto, senza pensieri. Bagnò i capelli, e poi prese la spugna e la insaponò con il doccia schiuma da uomo. Non era un granchè, ma almeno avrebbe mandato via il suo magnifico “profumo di cavolfiore”. Le vennero all’improvviso in mente dei flash. Tutte le volte che avevano fatto l’amore in quella doccia. Lì, nell’angolo a sinistra, dove le piaceva appoggiarsi mentre lui le faceva il solletico sulle natiche nude e bagnate e poi… ci dava dentro. Sospirò e si lavò i capelli col doccia schiuma, siccome c’era solo quello. Quando ebbe finito, uscì dalla doccia e si mise addosso l’accappatoio: le arrivava alle caviglie e le maniche andavano almeno 10 cm oltre la sua mano. Le rimboccò alla meglio, allacciò la cintura e si asciugò. Si guardò allo specchio per la prima volta in due giorni: aveva il viso pallido, le guance arrossate e le occhiaie violacee. E lui l’aveva vista così? Si vergognò. Non aveva portato niente per truccarsi. E nemmeno niente per cambiarsi.

“Ehm... per favore, potresti portarmi qualcosa per vestirmi? Non ho qua niente” la sentì dal bagno. “subito” prese in braccio Matthew e lo portò in camera da letto, dove c’era un piccolo box con i giocattoli. Lo mise dentro e poi cercò dei vestiti per lei. Aveva solo abiti suoi, però, e le sarebbero stati tutti grandi. Prese un golfino nero che gli andava un po’ stretto, e una tuta grigia. Si fermò davanti alla porta del bagno, indeciso se entrare direttamente o no. “posso entrare?” chiese. “sì sì”. Aprì la porta. Se la ritrovò davanti, col suo accappatoio addosso, che le stava enorme, e rise. “eh scusa, c’era solo questo” rise anche lei. “ti ho portato questi, provali e vedi. La tuta ti starà lunga ma ha i lacci, puoi stringerla in vita, magari ti sta” disse, porgendole i vestiti. “grazie mille. Non avresti anche delle mutande e delle calze?” chiese lei, prendendoli. La guardò stupito. Era venuta lì da lui senza vestiti nuovi, caricatore del telefono, neanche qualcosa per cambiarsi… la sua scusa “per lavoro” non avrebbe retto ancora a lungo. Senza dire niente, tornò in camera. Aprì il cassetto e dentro ci trovò le sue mutandine di pizzo. Le aveva dimenticate a casa sua qualche mese prima. Doveva darle quelle? No, meglio di no. Prese un paio dei suoi slip e delle calze e ritornò in bagno. La porta era ancora aperta, e la vide con l’accappatoio slacciato e legato in vita mentre si metteva il reggiseno, i capelli bagnati appiccicati alla schiena nuda. Non sapeva cosa fare. “ehm… tieni” disse, e lei si girò di soprassalto. Non si coprì, però, rimanendo lì davanti a lui con le spalline del reggiseno non ancora infilate. “grazie” disse,  prendendo gli indumenti. “non so se ti vanno bene le mie mutande, però”. “non fa niente, mi sembrerà di essere un uomo” disse lei, e rise. Anche lui rise. Finalmente la vedeva illuminarsi in volto, la prima volta da quando era entrata. Era stupenda. “beh, io torno di là. Il phon, se ti serve, è sempre nell’armadietto. Fai con calma” sorrise e uscì.

Uscì dal bagno un quarto d’ora dopo, con i capelli ancora un po’ bagnati, il golfino enorme, i pantaloni rimboccati, e ridendo ancora prima di raggiungere la cucina per farsi vedere da lui. “oddio” rise Taylor, vedendola arrivare “beh, dai, non stai poi tanto male”. Era seduto sul divano, con Matthew appoggiato al cuscino, e stavano giocando con un cane di peluche. “sì, dai… almeno non puzzo più di cavolfiore” disse lei. “siediti qui con noi” e le fece posto sul piccolo divano. Un po’ esitante, si sedette tra lui e il bambino. Era così carino, con un sorriso dolce e dei magnifici occhi azzurri… della stessa sfumatura di Taylor. Il bimbo la guardò incuriosito, distogliendo lo sguardo dal peluche che cercava di stringere con le manine. Fece dei versi e rise. Lei si avvicinò con una mano e lui le prese il dito. “cosa c’è?” chiese, sorridendogli “vuoi un altro peluche?”. Sul divano c’erano tanti piccoli animali di peluche e prese un gatto. “ti piace il gatto?” glielo fece mise sulle gambe e il bimbo lo guardò, concentrato. Provò a ripetere la parola “gatto” ma riuscì a dire solo delle sillabe sconnesse. “ga-tto” gli disse ancora. “ga-ga” disse il bimbo. I due ragazzi scoppiarono a ridere. “aaaw ma sei un amore!!” esclamò lei, poi lo prese su e lo mise sulle ginocchia. Il bimbo ridacchiò felice. All’improvviso entrò il ragazzo avvicinare la testa alla sua. Riusciva a sentire il suo respiro sulla guancia. Iniziò ad agitarsi come una ragazzina vicino alla sua cotta per la prima volta, ma cercò di scacciare il pensiero e tornò a giocare con il bambino, che la stava guardando con i suoi occhioni. Sembrava interessato al suo braccialetto. “ti piace?” lo slacciò e lo tenne il pollice e l’indice, per farglielo toccare con le manine. I pendenti pieni di cristalli tintinnavano, toccandosi, e Matthew era affascinato dal suono. Improvvisamente il bimbo fece una faccia strana. Sentì caldo sulle cosce e le venne uno strano presentimento. “mi sa che ha fatto la pipì”. “oddio, ti ha bagnato?” esclamò il ragazzo, prendendo subito in braccio il bambino. “no no” disse, vedendo che i pantaloni erano asciutti. “vado subito a cambiarlo. Tu aspettami qui. Judy starà per arrivare a momenti” e lo guardò correre in camera col bimbo in braccio come se fosse successa una catastrofe, e si mise a ridere.


scusate, questo capitolo non è un granchè, ma mi serviva per collegare le vicende seguenti. non preoccupatevi, i prossimi saranno più interessanti e preparatevi al gran finale ;)

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Capitolo 7
*** We give and take a little more ***


Intanto che era di là a cambiare Matthew, Gaga si alzò dal divano e andò a controllare il telefono in carica, lo accese, e subito trovò trenta telefonate e altrettanti messaggi, tutti che chiedevano dove fosse. Scrisse alla madre “non vi preoccupate, sono a Chicago, torno domani”. Non era sicura che sarebbe riuscita a tornare il giorno dopo, però. Doveva dirgli ancora tante cose, ma appena lo vedeva, diventava incapace di parlare. La paura andava e veniva nei momenti sbagliati. Non aveva mai avuto paura di lui, e non avrebbe dovuto averne: era sempre stato un ragazzo gentile e… anche prima, non sembrava per niente arrabbiato. Ma l’aveva. O forse era lui ad avere paura di lei? Era sempre la stessa storia, non riusciva a tenersi stretto un uomo, tutti fuggivano per paura di lei. Ma quella volta doveva farsi valere. Era andata lì apposta, no? All’improvviso suonarono il campanello. Doveva andare ad aprire? “vado io!” e rieccolo comparire in cucina, con Matthew cambiato e ben vestito in braccio. “deve essere Judy” disse “me lo puoi tenere tu un attimo?” e, senza lasciarla rispondere, le mise il bimbo tra le braccia, poi corse ad aprire. Gaga lo guardò con un’espressione confusa mentre cercava le chiavi di casa, poi sentì il bimbo fare dei versi e si chinò su di lui. “sta arrivando la mamma” gli disse con un sorriso. Il bimbo la guardò con i suoi occhioni azzurri e rise. Taylor riuscì a trovare le chiavi e aprì la porta. “ciao!” salutò Judy, sulla porta “tutto bene?”. “benissimo. Matty è quasi pronto. Entra pure” disse Taylor, facendola entrare. La donna entrò in cucina e vide Gaga che stava mettendo il bambino nella sua culla trasportabile. “oh buongiorno!” disse all’improvviso, girandosi e vedendola “ehm… grazie ancora per ieri, per l’hotel… tutto. È stata molto gentile”. “si figuri. Spero che Matthew non le abbia dato fastidio…” disse Judy, andando a prendere il bambino, che appena la vide iniziò a fare dei versi eccitati. “no no assolutamente, è adorabile!” sorrise la ragazza. Judy prese la culla per il manico e andò alla porta. “grazie ancora di tutto. Ah, secondo me Taylor sarebbe un papà perfetto!” sorrise la donna, poi si salutarono e uscì. Taylor chiuse la porta. Gaga rimase lì vicino al divano a fissarlo, ripensando a quello che aveva detto la vicina. “sarebbe un papà perfetto… sì…”. Il ragazzo tornò in cucina e disse “allora… è mezzogiorno e mezzo, rimani qui a mangiare?”, il che interruppe il pensiero di Gaga. “oh… va bene, grazie” disse, ancora un po’ confusa. “che cosa vuoi? Non ho qua molto, non sapevo saresti venuta…” aprì la credenza “mmh… pasta va bene?”. “qualsiasi cosa, grazie” rispose lei, nervosa. Avrebbero pranzato insieme. Da soli. Seduti uno di fronte all’altra. Nel silenzio totale. E avrebbe dovuto parlargli, sennò avrebbe parlato lui e… “siediti pure. Se vuoi accendi la tv, io metto su l’acqua” disse il ragazzo, prendendo il telecomando sul comodino vicino alla porta-finestra, dove c’era la tv. Lo appoggiò sul tavolo e le indicò la sedia. Lei si sedette e accese la tv su un canale a caso, cercando di fingersi interessata al programma, mentre lanciava delle occhiate nervose a Taylor che preparava le pentole.

“è pronto!” esclamò Taylor, spegnendo la cappa. Scolò la pasta nel lavandino e poi la mise nei piatti già preparati sul tavolo. “ecco qua… scusa ma non ho il sugo, dovremo accontentarci del ketchup” sorrise, un po’ imbarazzato, sedendosi a tavola di fronte a lei. “non ti preoccupare… mi ricorda i bei vecchi tempi della mensa del liceo” rise lei, prendendo il suo piatto. La guardò ipnotizzato mentre spremeva, mezzo tubetto di ketchup sulla pasta, facendogli fare uno strano disegno circolare. Il suo sorriso diventava sempre più bello ogni minuto che passava. “buon appetito” disse lui, e prese il ketchup. Ricoprì la pasta con la salsa rimanente e iniziarono a mangiare. Gaga si avventò sul piatto, prendendo forchettate enormi, quasi più grandi della sua bocca. Sembrava che non avesse mangiato per giorni. Sorrise divertito, e lei lo notò. “oh scusa, è che ieri ho mangiato solo un sandwich… sto morendo di fame” disse, poi tornò al piatto. In pochi minuti il piatto era vuoto, mentre lui non era ancora a metà, e la guardò mentre prendeva dei giganteschi pezzi di pane, li ricopriva di ketchup e formaggio e li masticava come una belva. Non l’aveva mai vista mangiare così velocemente. Per poco non scoppiò a ridere, ma cercò di contenersi e continuò a mangiare.

“allora… come va il lavoro? È tutto pronto?” chiese Taylor all’improvviso, mentre lei stava ancora spalmando il formaggio su una fetta di pane. Rimase col coltello a mezz’aria, e iniziò ad agitarsi. Doveva mantenere la conversazione su cose neutre. Una sola parola sbagliata e sarebbe stata la fine. “bene. Abbiamo mixato quasi tutte le canzoni, fra qualche giorno vado a fare il servizio fotografico per l’album…” disse, cercando di mantenere un’aria tranquilla, spalmando il formaggio. “come lo farete?”. “non lo so, pensavamo a dei primi piani, da varie angolazioni… poi sarà tutto riempito di colori. Una cosa piuttosto appariscente…” rispose, dando un morso al pane “e tu? Avete finito di filmare?”. “ancora settimana prossima e poi abbiamo finito la stagione, finalmente” rispose lui. Alzò lo sguardo dal pane e se lo ritrovò davanti che la guardava con un sorriso.

Alle due, le campane di una chiesa vicina suonarono. Avevano conversato per un’ora, senza però toccare gli argomenti di cui dovevano veramente parlare. In quel momento stavano parlando della moto di Taylor. “sono riuscito a portarla fin qui da Lancaster, non vedo l’ora di farci un giro. Però fa un po’ schifo, dovrò lavarla...” disse. “oh davvero? Me la fai vedere? È da una vita che non la vedo!” esclamò Gaga. Lui la guardò, stupito: non era mai stata interessata ai motori, per lei la sua moto era solo un mezzo di trasposto scomodo che la costringeva a mettere il casco e rovinare l’acconciatura. Gli vennero subito  in mente tutte le ore passate su quella moto, nel vento, con il suo corpicino aggrappato al suo, tra le strade di periferia e su per le montagne. “certo. È in garage. Vuoi vederla adesso?”. La ragazza annuì, sembrava davvero impaziente. Si alzò e insieme scesero le scale e andarono in garage. C’erano alcune auto dei residenti del condominio, vecchie e nuove, due Vespe, un motorino, varie biciclette, e la Ford Mustang rossa e bianca del 76 che Taylor aveva comprato l’anno prima per spostarsi velocemente a Chicago. “è qui” disse, e la accompagnò vicino al muro dell’ingresso. Coperta da un telo, c’era il suo tesoro, la magnifica Yamaha nera. Tolse il telo e la guardò, emozionato come ogni volta che ci posava gli occhi. Era un peccato che Gaga non condividesse la sua passione per le moto, sarebbe stato bello parlare dei nuovi modelli con lei… ma ogni volta che ci provava, non riusciva a mantenere la sua attenzione per più di dieci secondi, e rimaneva da solo a parlare di motore, cilindri, manubrio, marmitta e quant’altro da solo, mentre lei annuiva e sbuffava. La moto era tutta coperta di terra, e il nero lucido della vernice era diventato marrone. “devo proprio lavarla” disse, passando una mano sul sellino.

Un quarto d’ora dopo, Gaga era seduta sulle scale che portavano al garage, guardando Taylor che strofinava meticolosamente con uno straccio insaponato ogni millimetro della sua moto, quasi in estasi. Si era messo a parlare di ogni caratteristica di quel veicolo, orgoglioso come una mamma che parla di suo figlio. “vernice nera con quattro strati di lucido”, “arriva a 200 km orari”, “romba come un tuono”, “la senti a kilometri di distanza”, “motore super potente”… sbadigliò e si accasciò sullo scalino. Era così noioso quando parlava di motori, sapeva che non le interessavano, ma continuava lo stesso a parlarne. Si alzò, sbuffò e disse “senti, io torno di sopra, devo chiamare mia mamma. Se vu…”. “vai pure, non ti preoccupare, cinque minuti e arrivo anch’io!” disse il ragazzo, intento a passare il lucido sul sellino. Sospirando, corse su per le scale e si chiuse in casa, finalmente  da sola. Gli era rimasta vicino per due ore, e nessuno dei due aveva accennato alla faccenda “quel messaggio che ti ho inviato un mese fa”, ma aveva sempre paura che potesse accadere da un momento all’altro. Staccò il telefono dalla carica e si sedette sul divano. Chiamò la madre e le disse bene dov’era, con chi era, e sembrava sollevata nel sapere che era con Taylor. Rispose a qualche messaggio e, controllando le note, trovò un messaggio che le aveva scritto lui un giorno che le aveva preso il telefono. Era un lunghissimo messaggio, un po’ scherzoso e un po’ romantico, che doveva essere una specie di canzone o poesia, date le rime. Aveva usato molti di quei versi nelle sue nuove canzoni. Adorava leggerlo quando era da sola, prima di andare a dormire, perché era come se lui fosse vicino a lei a dirle quelle parole nell’orecchio. Lo rilesse per l’ennesima volta, identificando ogni strofa con la canzone corrispondente. “potremmo essere catturati…” “oh Sex Dreams!” disse tra sé e sé, e sorrise. C’era almeno metà della canzone scritta in quella nota. Dopo aver letto il messaggio, controllò l’orologio. Erano le 3. Dove diavolo era finito Taylor? Non aveva ancora finito di lavare la moto? Sbadigliò e cercò un gioco da fare sul telefono.

“eccomi! Scusa se ci ho messo tanto…” disse Taylor, rientrando in casa. Si asciugò le mani ancora bagnate sui pantaloni e chiuse la porta. Andò in cucina, e la ritrovò addormentata sul divano, con il telefono in mano. “oh scusa…” ripete, ma Gaga era completamente nel mondo dei sogni e non lo sentiva. Era un po’ seduta e un po’ sdraiata, una posizione non molto comoda, così pensò di portarla nel letto. Prese il telefono che aveva in mano e lo mise sul tavolo, poi la prese in braccio cercando di fare il più delicatamente possibile. La portò in camera sua e con una mano libera riuscì a spostare la coperta dal letto per farla sdraiare sulle lenzuola. Sistemò il cuscino sotto la testa e poi tirò su la coperta. Era tenerissima quando dormiva, sembrava una bimba. Adorava guardarla dormire, quando si svegliava prima di lei. Senza neanche pensarci, si sdraiò vicino a lei, su un fianco. Il viso vicinissimo al suo. Fissò il piccolo neo che aveva vicino all’orecchio, perfettamente circolare. Era rimasto come l’aveva lasciato, un puntino scuro sulla sua pelle bianchissima. Vicino al naso, c’era una leggera spruzzata di lentiggini. Erano chiarissime, non si vedevano mai perché le copriva sempre col trucco, ma lui sapeva che erano sempre lì. E aveva ritrovato anche loro. Prestò attenzione a ogni particolare del suo viso, dalle lunghe ciglia scure ai sottili peli biondi, il foro nel lobo, le labbra socchiuse di un colore rosato. Era tutto lì. A pochi centimetri dalle sue dita. Iniziò a toccarle i capelli sparsi sul cuscino, morbidi e leggermente arricciati. Poi le toccò la testa, ma un dito gli s’incastrò nelle ciocche delle extensions e, cercando di tirarlo fuori, le tirò i capelli e lei si mosse. L’aveva svegliata? Gaga si mise su un fianco, ma dormiva ancora. Taylor allora la lasciò dormire da sola e tornò nella cucina silenziosa. Guardò l’orologio: 3.45. aprì il frigo e tirò fuori una birra, poi si sedette sul divano e la bevve in silenzio, guardando fuori dalla finestra. Non voleva accendere la tv per paura di svegliarla. Video il suo telefono sul tavolo e fu tentato di controllarlo. Voleva vedere se aveva davvero ricevuto quei suoi stupidi messaggi. Si alzò, lo prese e tornò a sedersi. Si stupì nel vedere la foto del blocca schermo: era una foto che si erano fatti qualche mese prima, di notte, in mezzo alla neve di Chicago, sul ponte del fiume omonimo. Dietro di loro, le luci della città e la luna. Anche lui aveva una foto simile come blocca schermo del suo telefono, fatta nella stessa occasione. Sbloccò lo schermo. C’erano ancora venticinque chiamate perse e altrettanti messaggi non letti. Sfiorò l’icona dei messaggi e cercò la conversazione, sperando che non l’avesse eliminata. Dove sei, dove sei, buon compleanno, buon compleanno, allora ci vediamo domani… va bene. Eccola. “va bene”, letto 8.41. non aveva più scritto altro. Rilesse tutta la conversazione, che era durata mezz’ora e almeno quaranta messaggi. Come diavolo aveva potuto scrivere quelle cazzate? Come aveva potuto lasciarla in quel modo? Anzi, come aveva potuto lasciarla? Perché l’aveva fatto? Uscì dai messaggi e notò il badge delle notifiche di Ruzzle. Gli tornò in mente la chat del giorno prima. Aprì Ruzzle e video che il nome utente era proprio quello, Hope. “lo sapevo!” sussurrò, felicissimo. C’era ancora la partita contro di lui in sospeso, e due messaggi in chat: “Davvero? Adoro New York!” e “ci sei?”. Controllò quella conversazione, e sembrava così diversa dall’altra! Era stata davvero contenta di parlare con lui, allora. Anche lei lo rivoleva. Ne era sicuro. Ma aveva paura a fare il primo passo… non poteva semplicemente scusarsi. Come poteva scusare il suo comportamento orribile? Una scusa non bastava. Non bastavano un milione di “mi dispiace”. Ma era venuta da lui, apposta per ascoltare le sue scuse. Forse. Era venuta da lui per rivederlo … forse il suo comportamento di quel giorno l’aveva confusa, sarebbe ritornata a casa il giorno dopo senza concludere niente, l’avrebbe persa di nuovo. Doveva dirle tutto. Aveva ancora qualche ora per preparare un discorso decente, poi si sarebbe svegliata. Tornò in camera. Il sole iniziava a filtrare dalle tapparelle, la stanza era troppo luminosa, avrebbe disturbato il sonno. Cercando di non far rumore, le abbassò, e la stanza tornò nella penombra. Si tolse le scarpe e si sdraiò di nuovo vicino a lei; si era girata sull’altro fianco, erano faccia a faccia. Aveva un’espressione strana, forse stava sognando. Sospirò e chiuse gli occhi.

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Capitolo 8
*** some human vulnerability ***


Gaga si svegliò all’improvviso, sentendo qualcosa sulla faccia. Si rigirò nel letto, aprì gli occhi e si ritrovò nella stanza buia. Non capiva dove fosse. Sentì qualcosa di caldo vicino alla mano sinistra e, girandosi di nuovo, vide Taylor addormentato vicino a lei. Subito si ricordò cos’era successo, e sorrise: si era addormentata sul divano, lui l’aveva portata a letto e poi si era sdraiato vicino a lei. E poi si era addormentato anche lui. Lo guardò nella penombra; riusciva a scorgere il suo profilo, il suo naso, le sue labbra socchiuse. Era così carino anche mentre dormiva. Si ricordò poi che doveva parlargli. Aveva pensato a cosa dirgli per quasi un’ora, poi si era addormentata e aveva dimenticato tutto. Che figura. Doveva alzarsi? Rimanere a letto? Non era casa sua, non poteva andare in giro come voleva. Però stava morendo di sete, così andò in cucina. C’era ancora un po’ di luce, erano le 6.10. prese un bicchiere sul lavello e lo riempì d’acqua. Lo bevve e poi vide il telefono di Taylor sul tavolo, vicino al suo. Fu tentata di controllarlo. Voleva sapere se aveva veramente ricevuto i suoi stupidi messaggi, e se magari non avesse scritto altro e non lei non l’avesse ricevuto. Si stupì nel vedere la foto del blocca schermo: era una foto che si erano fatti qualche mese prima, di notte, in mezzo alla neve di Chicago, sul ponte del fiume omonimo. Dietro di loro, le luci della città e la luna. Anche lei aveva una foto simile come blocca schermo del suo telefono, fatta nella stessa occasione. Sbloccò lo schermo e vide che c’era una foto che le aveva fatto qualche tempo fa come sfondo. Aveva tenuto le sue foto. Non l’aveva cancellata dalla sua vita… o almeno dal telefono. Controllò i messaggi e trovò la famigerata conversazione. Non l’aveva eliminata. La aprì e vide il suo “va bene”. Nella barra del testo, però, c’era scritto “buon compleanno, Stef” ma non era stato inviato. Aveva pensato a lei. Si era ricordato del suo compleanno. Mai una cosa così semplice e sciocca l’aveva resa tanto felice! Uscì dai messaggi, bloccò il telefono, lo appoggiò sul tavolo e si sedette sul divano.

Era rimasto sdraiato vicino a lei, a guardarla dormire, per quasi due ore. Era una tentazione continua, voleva solo svegliarla con un bacio e sperare che quello bastasse a farle dimenticare tutto. Ma quella non era una fiaba, non funzionava così. Così si era messo a elaborare un discorso decente da farle quando si fosse svegliata, non troppo lungo, diretto… ma anche solo pensare alle cazzate che aveva fatto e detto lo faceva sentire l’essere più orribile dell’intero universo. Tutto per colpa dell’ennesimo articolo di giornale dove l’avevano, come al solito, collegato a lei. Stavano parlando del SUO lavoro, ma la maggior parte dell’articolo era su di lei. Le prime volte non gli aveva dato fastidio, ma andando avanti col tempo la cosa aveva iniziato a irritarlo… fino al culmine, un mese prima. Non ce l’aveva più fatta a tenerlo dentro. L’aveva già avvisata di questa cosa prima di quell’occasione, ma lei non ci aveva dato importanza, pensava fosse una cosa stupida. Ma quella volta era stato veramente troppo, ed era esploso. Il suo intento era stato solo quello di metterla a faccia a faccia con la realtà una volta per tutte, ma la conversazione era degenerata. Qualcosa gli diceva “vuoi sistemare tutto? Lasciala. È colpa sua”. Ma era solo colpa del suo orgoglio. Se n’era pentito un secondo dopo quel “va bene”, ma non aveva più trovato la forza di replicare. E questo cos’aveva causato? Era rimasto un mese senza vederla, né sentirla, perché ovviamente era quello che le aveva detto di fare: “non sentiamoci più”. La sua codardia gli aveva impedito di rimediare. Ma dopo un mese lei ora era lì, a pochi centimetri da lui, e dopo aver dormito per settimane in un letto freddo e vuoto, finalmente aveva quel corpicino caldo vicino al suo. L’aveva ritrovata. No, lei l’aveva ritrovato. Anzi, LORO si erano ritrovati. Se ne rese effettivamente conto solo in quel momento, e si sentì così felice. Era lì, a pochi centimetri dal suo viso, sentiva il suo respiro e tutto il corpo rannicchiato sotto la coperta. Stava dormendo profondamente. Prese coraggio e le cinse il fianco con un braccio. Finalmente la sentiva di nuovo con le sue mani. Si strinse un po’ di più a lei. Sentiva il suo fiato caldo e delicato sul viso. Chiuse gli occhi e la baciò dolcemente sulla guancia. Subito, lei si mosse. L’aveva svegliata. Non avrebbe fatto in tempo a scendere dal letto, l’avrebbe visto. Finse di dormire, sperando che non lo scoprisse. La sentì rigirarsi nel letto, sbadigliare, e cercò di stare il più fermo possibile.  Chissà cosa stava pensando, ritrovandoselo vicino nel letto! Pochi istanti dopo la sentì scendere dal letto e uscire dalla stanza. Aprì un occhio per controllare: non c’era più nessuno. La scena era davvero tragicomica, e per poco non scoppiò a ridere. Subito dopo, però, si ricordò che era venuto il momento di parlarle e si agitò. Cercò di calmarsi, fece un respiro profondo. Sentì l’acqua del rubinetto in cucina scorrere per un istante. Si alzò dal letto e, lentamente, andò in cucina. La vide seduta sul divano e disse “hey”.

Taylor si era svegliato. Era lì, davanti a lei, illuminato dalla poca luce che entrava dalla finestra. “hey” disse. “hey” disse anche lei, nervosissima, cercando di apparire calma. Sorrise. Si fissarono per un attimo, poi lui si sedette vicino a lei sul divano. “hai dormito bene?” chiese lui.

“si si grazie. E scusa se mi sono addormentata, ma stavo morendo di sonno”. “accendo la luce?”. “no, no, non c’è bisogno…”. Parlava piano, quasi sussurrando. Non parlava mai così, lei era un tipo che voleva sempre farsi sentire. “cosa c’è?” chiese, e le mise un braccio attorno alla vita. Al suo tocco, sobbalzò e quasi si ritrasse. Non rispose. Allora appoggiò la testa sulla sua spalla. Sentiva il suo collo caldo vicino alle labbra, doveva baciarla lì come faceva sempre, ma allontanò il pensiero e sospirò. Doveva dirglielo. Ora.

“senti…” le arrivò nell’orecchio, un sussurro, dalla sua bocca a pochi millimetri dal suo collo. Sentì il cuore ricominciare a batterle forte. Le ritornò in mente, un flash, la sera di due anni prima in cui le aveva detto che era innamorato di lei. Gliel’aveva detto nell’orecchio, quasi timoroso, poi l’aveva baciata sul collo una, due, tre, infinite volte, poi era salito fino alla bocca e non l’aveva più lasciata andare. Ma poi l’aveva fatto. Con un messaggio. Per un attimo, fu invasa da tutta la rabbia che aveva accumulato nel mese in cui l’aveva lasciata andare, quell’egoista.  “mi dispiace” disse lui.

“mi dispiace, ma dovremo fare così. Non c’è altro modo”

Il cuore le batteva sempre più forte, riusciva a sentirlo attraverso il suo collo. Fece un respiro profondo. Aveva dimenticato tutti i discorsi che aveva preparato, così disse tutto quello che gli veniva in mente. “non so cosa mi era preso, in quel momento ero fuori di me… pensavo… solo a me stesso. Ero io quello egoista, non tu. Non tu…” e poi gli mancarono le parole.

“no”
“fidati, è meglio per tutti”
“non puoi”


“tu… tu…” poi non parlò più. Lo sentiva respirare pesantemente vicino all’orecchio. Voleva parlare, reagire, ma il suo cervello non capiva cosa stesse succedendo.

“per favore. Te l’ho detto, è meglio per tutti”

“tu… io…” non ci riusciva. Il momento di coraggio era svanito. Aveva troppe cose da dire, tutte insieme, non riusciva ad esprimerle.

“non possiamo parlarne con calma più tardi?” cercava una scusa per farlo smettere, sperando che cambiasse idea. Non stava succedendo veramente. Non lo stava facendo veramente. Non poteva farlo!

“è…” il suo respiro caldo e pesante raggiunse la sua guancia. Ancora non riusciva a capire cosa stesse succedendo. Aveva la mente piena di cose da dirgli, ma non riusciva a farle uscire dalla bocca.

“no”
“come no?! Mi vorresti scaricare così, senza un motivo valido? Perché quelle che mi hai detto sono tutte cazzate, caro”


“erano tutte cazzate” disse poi, tutto d’un fiato.

“non sono cazzate, quante volte te lo devo dire?”
“si che lo sono! Ma cazzo, ti rendi conto di quello che mi hai detto? È da mezz’ora che mi dici solo stronzate” cercò di scrivere il messaggio, ma le lacrime annebbiarono la vista. Lasciò cadere il telefono sul tavolo e si asciugò le lacrime, che continuavano a riempirle gli occhi.


“non mi rendevo conto di quello che dicevo. Ero così arrabbiato, volevo solo farti capire… le mie stronzate. Volevo scaricare tutto su di te. Ma non volevo. Non volevo” e all’improvviso si mise a piangere. Non l’aveva mai visto piangere. Non pensava che un uomo forte e determinato come lui ne fosse capace. Sentì le sue lacrime sul collo e si girò e lo abbracciò, come faceva sempre lui quando lei piangeva. Appoggiò la guancia alla sua e lo baciò. “lo so, lo so” sussurrò, come una mamma che calmava il suo bambino. Aveva pianto tanto per lui, e finalmente era arrivato anche il suo momento. Singhiozzava nelle sue braccia, cercando di dire qualcosa, ma lo zittì ancora. Anche lei stava per piangere, ma doveva essere quella forte quella volta. “shh, shh… lo so, lo so” ripeté. Gli accarezzò la testa e lo abbracciò forte. “va tutto bene, non piangere” gli disse. “ma sono…”. “ho capito. Ma lo sapevo già… secondo te perché sono venuta qui, per vedere la tua moto?” sorrise, e lui rise tra i singhiozzi. “no, beh, anche per quella” e gli diede un altro bacio sulla guancia.


“hey, ti sei dimenticato del mio compleanno” gli disse, poco dopo. Erano sdraiati l’una sull’altro, sul divano. Lei aveva messo il viso tra il suo collo e la sua spalla, sentiva le sue labbra calde e morbide sul collo. “no, non è vero. Ti ho anche comprato un regalo” disse, accarezzandole i capelli. “davvero? Cosa?” esclamò lei, alzando la testa per guardarlo in faccia. Si stava facendo buio, non riusciva a vederlo bene. “dopo vedrai”. “ma ieri è stato un compleanno orribile, non me lo puoi dare adesso?” lo pregò con la sua vocetta da ragazzina che usava sempre quando parlava con lui. Rise. “non ti preoccupare. Possiamo festeggiare oggi… un giorno dopo”. “come?”. “andiamo a cena fuori, se vuoi. Non voglio festeggiare con altra pasta e ketchup”. Anche lei rise. Era così bella quando rideva. “ci sto!”.
 


lo so che dopo 8 snervanti capitoli siete tutti stufi, ma la storia non è ancora finita! manca il gran finale... con qualcosa che non vi aspettate ;)
p.s.: se non si capisce, anche negli altri capitoli, le parti in corsivo sono quelle del famigerato messaggio e ambientate un mese prima del resto della vicenda.

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Capitolo 9
*** turned me inside out ***


“ci sto” disse Gaga, sorridendo, poi rimise la testa sulla sua spalla. Chiuse gli occhi. Rimase così per qualche momento, senza preoccupazioni, finalmente tranquilla dopo tutto quel tempo; aveva quasi dimenticato quant’era bello stare tra le sue braccia. Erano quasi le sette di sera, ma c’era un silenzio strano; riusciva a sentire il suo respiro, le auto in lontananza, il rumore delle stoviglie dei vicini, persino il ticchettio delle lancette dell’orologio che Taylor aveva al polso. Si strinse di più a lui e sentì le maniche del golfino srotolarsi, e all’improvviso si ricordò che aveva addosso quei vestiti da uomo enormi… e doveva andare al ristorante. Vestita in quel modo. Senza trucco. “ma… non ho niente da mettermi per la cena” disse. Di solito passava ore a decidere cosa mettersi, ogni volta che andava a cena fuori con lui, e curava ogni minimo particolare – dai capelli, alle scarpe, ai gioielli. “non importa” sussurrò lui, girando la testa verso il suo viso. “ma non mi faranno entrare vestita così”. “fanno entrare me vestito come un barbone, di cosa ti preoccupi?” ridacchiò lui. Anche lei rise “dai… è per il mio compleanno… voglio essere per lo meno guardabile”. “e allora cosa facciamo?”. Gaga ci pensò su un attimo. “mmh… non puoi andare a comprarmi un vestito e un paio di scarpe decenti?”. “io? Sei fuori? Non me ne intendo di queste cose” rise Taylor. “daaaaaaaaaaaaaiiiiiiiiiii!! Dovresti almeno sapere la mia taglia e il mio numero di scarpe” sorrise lei “non dirmi che non li sai”. “li so, li so” annuì lui, e la baciò improvvisamente sulla fronte, poi la spostò delicatamente per alzarsi dal divano “va bene, dai, vado. Mi devo far perdonare in qualche modo. Però non ti arrabbiare se prendo un vestito che non ti piace”. “ooh grazie mille!” disse lei, felicissima, alzandosi dal divano insieme a lui. Si sentiva eccitata come una ragazzina con la madre, che accettava di comprarle quel bel vestito che tanto desiderava. Guardò Taylor mentre accendeva la luce della cucina e frugava nel suo zaino per cercare il portafogli. “no no no lo pago io, ti do la mia..”. “ma va! Faccio io, tu stai qui tranquilla, vado nel negozio qua…” indicò a destra, fuori dalla finestra “spero abbiano qualche vestito elegante”. “ma va bene qualsiasi cosa, basta che non sia proprio brutto brutto… e prendi assolutamente delle scarpe col tacco. Più alto è, meglio è”. “sì, miss! Faccio veloce, arrivo subito” e in men che non si dica, lo sentì correre giù per le scale. Aveva persino dimenticato di chiudere la porta, le chiavi erano ancora nella serratura. Aveva bisogno anche di qualcosa per truccarsi. Dalla porta socchiusa, sentì la vocina di Matthew e quella di un altro bambino. Provenivano dall’appartamento di fronte, probabilmente Judy abitava lì. Forse aveva un qualsiasi cosmetico, bastava anche solo un fondotinta. Uscì, fece pochi passi fino alla porta dell’appartamento dei Nolan, e suonò il campanello.

Taylor si guardò in giro, nel negozio pieno di luci. Non gli piaceva fare shopping, per niente, e soprattutto in un reparto di abiti femminili senza una donna al fianco. Si sentiva un pesce fuor d’acqua, tra tutti quegli strani capi d’abbigliamento. Davanti a lui, una rastrelliera piena di vestitini estivi a fiori. “ma chi diavolo li mette con questo freddo?” pensò, guardandoli senza interesse. “posso aiutarla?” sentì all’improvviso dietro di sé. La commessa lo stava guardando incuriosita. “ehm… sì… mi serviva un vestito, è per la mia… ragazza…” che strano chiamarla così di nuovo “un po’ elegante, per una cena”. “certamente. Venga da questa parte” e la commessa lo portò poco più in là. Appesi al muro, c’erano degli attaccapanni con dei vestiti eleganti. Erano indubbiamente molto belli, ma non aveva la più pallida idea di quale prendere. Ce n’era uno nero, senza spalline, lungo, con lo strascico che dal nero degradava all’arancione. Uno simile, ma tutto blu e con le spalline a catenella dorate. Si girò un attimo e vide, nella rastrelliera dietro, un vestito bianco che gli sembrava familiare. San Diego, agosto 2011, sulla spiaggia, di notte. La notte più bella della sua vita racchiusa in quei pochi metri di stoffa. “questo?” andò a tirarlo giù dalla rastrelliera. Spalline sottili, corpetto aderente, lunga gonna fluttuante. Era identico. “non è proprio adatto per una cena, ma potrebbe andare” disse la commessa. “prendo questo” disse, continuando a fissarlo. “taglia?”. “42. E… che scarpe possono andare bene con questo vestito?”. La commessa cercò sulla rastrelliera il modello con la taglia 42 e lo tirò giù; “mmh… tutte queste” indicò le scarpe su una mensola appesa alla parete dei vestiti. Taylor le guardò un po’ confuso. Posò lo sguardo su tutte le paia appoggiate sulla mensola: decolleté beige, nero, turchese, rosa. Quelle beige avevano un tacco stranissimo, stretto sulla base e larghissimo in fondo. “più alto è, meglio è” si ricordò, e controllò meglio l’altezza dei tacchi. Quelle nere erano vertiginose. Prese una scarpa e la guardò: il tacco era lungo come la sua mano. Ma come cavolo facevano le donne a camminare su quei cosi? Va beh, ne aveva viste anche di più alte ai piedi della sua ragazza, quelle sarebbero andate benissimo. “prendo queste”. “numero?”. “37”. Andò a pagare e si precipitò subito fuori dal negozio, sentendosi un po’ strano con quella borsa in mano. Mentre camminava verso casa, la aprì e tirò fuori il vestito. Lo guardò alla luce giallastra dei lampioni: era identico a quello che aveva indossato quella magnifica nottata. Si sarebbe accorta della somiglianza? Lo rimise nella borsa e si affrettò a tornare a casa.
Spinse la maniglia, la porta era aperta. La luce in cucina accesa. “eccomi!” disse. “sono in bagno, arrivo!” sentì. “ti ho preso il vestito e le scarpe, vieni a vedere se vanno bene”. Appoggiò la borsa sul divano, e la vide arrivare dal bagno a piedi nudi, in reggiseno, con i capelli raccolti e con in mano un tubo di fondotinta. “me l’ha prestato Judy, le ho chiesto se aveva qualcosa per truccarmi…” disse, e appoggiò il tubetto sul tavolo “allora?”. Quasi emozionato, Taylor aprì la borsa e tirò fuori il vestito bianco. “wow! Che bello!” senza lasciargli il tempo di dire una parola, il vestito gli fu strappato di mano “stupendo, grazie mille!”. Lo guardava quasi a bocca aperta, come una bambina davanti al suo regalo di compleanno. Che non era quello, però. Sorrise: non si era accorta della somiglianza col suo altro vestito bianco. “e anche le scarpe… era il tacco più alto che c’era” le porse le scarpe. Gaga le guardò per un attimo e poi le provò. “ti vanno bene?” chiese lui. “perfette!” esclamò lei, reggendosi al tavolo e alzando una gamba per guardarle meglio “magnifiche, grazie mille. Finisco di truccarmi e arrivo!” si tolse le scarpe e si precipitò di nuovo in bagno con il vestito in mano.


Immerse il pennello nel vasetto della cipria e poi lo passò abbondantemente sul viso. Quel rossore sulle guance non voleva saperne di scomparire. Passò il pennello dappertutto, anche sul collo, mise il mascara e poi si controllò di nuovo nello specchio. Sì, poteva andare, anche senza eyeliner. Si tolse i pantaloni e poi prese il vestito. Era molto simile all’abito bianco che aveva comprato qualche anno prima… l’aveva indossato quella stupenda serata di agosto 2011, sulla spiaggia di San Diego. Indimenticabile. Sicuramente Taylor l’aveva comprato perché gli ricordava quel giorno. Sorrise e aprì la cerniera sulla schiena, poi lo infilò e provò a chiuderlo, ma non ci riusciva. “T, mi aiuti col vestito, per favore?” chiese, aprendo la porta del bagno. “arrivo” e in pochi secondi se lo ritrovò davanti. Aveva in mano una collana e degli orecchini. “metti anche questi?” chiese. “ma da dove li tiri fuori, sei un gioielliere di nascosto?” rise lei, prendendo i gioielli e girandosi per fargli allacciare il vestito. “ho svaligiato Tiffany” ridacchiò lui, e le tirò su la cerniera, con un po’ di difficoltà. “ma che caz…” lo sentì mormorare. Tirò violentemente la cerniera e alla fine riuscì a chiudere il vestito. Lo sentiva molto attillato. “non hai preso una taglia troppo piccola?” chiese lei, un po’ agitata. “no, è la 42”. “beh fa niente, mi pettino e arrivo”. “fai con calma” sorrise lui. con calma. Era agitatissima in realtà. Chiuse la porta del bagno e slegò i capelli, e li pettinò con la sua spazzola che aveva lasciato a casa di Taylor qualche mese prima. Aveva forse lasciato lì anche qualcos’altro? Lasciò cadere i capelli sulle spalle e appoggiò la spazzola sulla mensolina vicino allo specchio. Frugò nella trousse di Judy e trovò un bellissimo rossetto rosso scuro, e lo provò: era perfetto, anche se forse contrastava un po’ troppo con la pelle chiara. Ma c’era solo quello. Indossò la collana con un pendente a forma di ala, e gli orecchini con la perla. Erano proprio stupendi. Ma quanti gioielli aveva Taylor, oltre a quelli che le aveva regalato? Aveva a casa sua un cofanetto strapieno di collane, braccialetti, orecchini, anelli… “ho svaligiato Tiffany”. Poteva benissimo averlo fatto davvero. Sorrise e si diede un’ultima controllata allo specchio. Spinse i capelli davanti e guardò il vestito. La gonna era morbida, arricciata poco sopra la vita, e le arrivava alle caviglie. Il corpetto era davvero stretto, però, e cercò di sistemarlo. Lisciò la gonna, sospirò, e uscì dal bagno. “eccomi, sono pronta” entrò in cucina, ancora a piedi nudi. Lui la aspettava vicino alla porta, con il casco in mano, e la guardò quasi estasiato. “sei stupenda” sorrise. “grazie” arrossì. Adorava i suoi complimenti, e le erano mancati così tanto. Infilò le scarpe e fece qualche passo. “fa freddo di fuori?” chiese. “non tantissimo, ma metti la giacca. Andiamo in moto”. Lo guardò, stupita. “ma… vestita così, in moto? Mi si rovina tutto, non posso mettere i tacchi”. “su, dai, non muori mica”. “no, no, no, no, ti prego!”. “dai! Quante volte sei andata sulla mia moto e non ti sei lamentata. Metti le scarpe normali e portati dietro i tacchi, li metti al ristorante” ridacchiò Taylor, aprendo la porta di casa. Gaga indossò la sua giacca e prese la borsa. “che palle che sei” si tolse le scarpe col tacco e, sbuffando, infilò le sue Converse e mise i tacchi nella borsa. Mentre era chinata ad allacciare le scarpe, lo sentì ridere ancora. “piantala o te la tiro addosso” lo intimò, prendendo in mano l’altra scarpa e mostrandogliela. “quanto siete complicate voi donne”. “… dai, andiamo!” esclamò lei, prendendo la borsa. Lo seguì giù per le scale, fino al garage. La sua moto era pronta vicino alla claire, lustra come uno specchio. “ci ho messo due ore, ma ne è valsa la pena” disse lui, accarezzando il sellino “beh, tieni” prese un casco appoggiato su una mensola lì vicino e glielo passò. La ragazza lo ispezionò, riluttante. “quanto odio questi cosi…” commentò, poi se lo mise in testa e lo allacciò. Taylor aprì la claire e portò la moto di fuori, poi la richiuse e aiutò Gaga a salire. Salì anche lui. “tieniti” si aggrappò alla sua schiena e poi partirono.

Raggiunsero il ristorante in dieci minuti. Parcheggiarono la moto davanti all’entrata. La aiutò a scendere e poi entrarono nel ristorante. “senti… io vado in bagno a mettermi le scarpe, tu chiedi un tavolo per due” disse lei appena entrati, e sgattaiolò via in fretta e furia. Taylor allora chiese un tavolo appartato per due e il cameriere lo portò in una saletta divisa dalla sala centrale. C’era un bel tavolo circondato da vasi di fiori, era tutto molto raffinato; non era mai stato in quel ristorante, ma ne aveva sentito parlare bene. Si sedette al tavolo, mentre il cameriere accendeva le candele e appoggiava i menù. Il ragazzo buttò un occhio verso la porta del bagno, dall’altra parte della sala, e poco dopo la vide uscire. Fece un segno con la mano per farsi vedere, ed eccola in men che non si dica seduta di fronte a lui. “scusa se ci ho messo tanto…” mormorò lei, prendendo il menù. “non ti preoccupare” disse lui. Lesse il menù e, ogni tanto, lanciò qualche occhiata verso di lei. Era stupenda. Sembrava passato un secolo dall’ultima volta che erano andati al ristorante insieme. Era quasi un’abitudine radicata, andavano almeno quattro sere a settimana a cena fuori. E lei era sempre così contenta di poter stare al tavolo da sola con lui, a parlare del più e del meno mentre aspettavano le portate. Ma quella serata era diversa, era la serata della riconquista. L’aveva appena ritrovata, non doveva lasciarla andare di nuovo. E l’anello in oro rosa aspettava di essere infilato al suo dito, chiuso nella sua scatolina di velluto, nascosta nella tasca intera della giacca. Era la serata giusta. Doveva essere tutto perfetto. Poco dopo arrivò il cameriere, chiedendo cosa volevano ordinare. “per me una pizza ai quattro formaggi” disse lui, dando il menù al cameriere. “benissimo, e lei signora?”. “lasagne, grazie” disse lei, e gli passò il menù. “arrivano subito” e il cameriere se ne andò. I due rimasero soli, nella saletta, divisi da un paio di candele rosse. La fiamma ondeggiava leggermente. Il parlottare della gente a tavola, il rumore delle stoviglie in cucina, i clacson delle auto di fuori… ma lì c’era un insolito silenzio. Gaga guardava verso la sala grande, immersa nei suoi pensieri. Perché era diventata improvvisamente così silenziosa? “cosa c’è?” le chiese. Lei sussultò e si giro verso di lui. “no no niente…” e abbozzò un sorriso. Aveva una mano sul tavolo, e gliela strinse.  

“allora, il mio regalo?” chiese Gaga, mandando giù l’ultimo boccone di torta. Era il dolce più buono che avesse mai mangiato, c’era dentro tanto di quel cioccolato! Ne aveva mangiate quattro fette. Leccò il cucchiaio, lo appoggiò sul piattino e poi alzò la testa verso Taylor, che la stava guardando con un sorriso enorme. “hai finito? Non ne vuoi un’altra fetta?” lui ne aveva mangiata solo una ed era rimasto a guardarla ingurgitare cucchiaiate su cucchiaiate di quella delizia ricoperta di panna. “sono piena. Allora, questo regalo!” lo incalzò. Era eccitatissima, nonostante fosse abituata ai suoi regali, che le arrivavano quasi ogni settimana. Ogni piccola sorpresa la faceva impazzire. Ma quello era il suo compleanno, e sperava le avesse comprato qualcosa di diverso dal solito gioiellino. “non qui. Voglio portarti nel posto giusto” disse lui, misterioso. “ma lo voglio adesso!”. “non fare la bambina capricciosa! Aspetta un attimo. Paghiamo, usciamo, e ti porto là non è lontano” e si alzò dalla sedia. Lei lo guardò, un po’ imbronciata. “beh, tu paga, io vado a cambiare le scarpe” e andò in bagno. Si chiuse in una toilette e cambiò le scarpe il più in fretta possibile. Dove diavolo la voleva portare? Erano le dieci di sera, con quel buio e quel freddo… il vestito era troppo leggero. Infilò i tacchi nella borsa, indossò le sue scarpe e uscì dal bagno. Lo trovò sulla porta d’entrata. “andiamo” e la accompagnò di fuori. Si era alzato il vento. Le passò il casco. “ma dove andiamo?” chiese. “non ti preoccupare. È un posto speciale” la aiutò a salire sulla moto e subito sfrecciarono via.

In pochi minuti, grazie al poco traffico, raggiunsero il ponte sul fiume Chicago. Taylor parcheggiò la moto dentro la zona pedonale su un lato del ponte. Aiutò Gaga a scendere. Il ponte era completamente vuoto, non ci passava sopra neanche una macchina. I lampioni lanciavano una luce biancastra su di esso, illuminandolo a sprazzi; non c’era la luna quella sera. L’ultima volta che erano andati lì insieme era stato qualche mese prima, quando il ponte era circondato da turbinii di neve e illuminato dalla luna. L’aveva portata lì per fargli vedere la città da una “diversa prospettiva”, e si era subito innamorata di quel posto. Il fiume che gorgogliava leggermente sotto di loro la affascinava. Erano così vicini all’acqua, li separavano soltanto una ringhiera e una ventina di metri. Era una strana sensazione.

“è qui?” chiese, stringendosi al suo braccio. Il vento freddo la fece rabbrividire e si strinse ancora di più a lui. “si sì. Non è proprio la nottata adatta ma… va beh” e le prese la mano “vieni”. La portò poco più in là, proprio sotto a un lampione. Una macchina sfrecciò a pochi metri da loro.

“ok, basta. Ho capito che per te sono stronzate, ma non cambio idea”

La guardò alla luce quasi spettrale del lampione. Sentiva le sue mani tremare, chiuse nelle sue, sudate. Il cuore gli batteva forte; doveva dirle solo due parole.

“e allora d’accordo, facciamola finita”



scusate il tremendo ritardo, ma per 2 settimane non ho avuto la più pallida idea di cosa scrivere. lo potete notare dalla ECCEZIONALE credibilità di questo capitolo, che ho scritto in 5 ore tutto d'un colpo, dal nulla. mi scuso ancora. comunque preparatevi per il prossimo e per l'altro, avrete due sorprese (beh una forse l'avete già capita) :)

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Capitolo 10
*** What goes around comes around ***


Sospirò, guardando verso il fiume. Doveva dirglielo subito? Si sarebbe insospettita, se avesse iniziato a fare discorsi strani. Ma quali discorsi, poi, non sapeva cosa dire. Di nuovo.

"Chiudi gli occhi". Emozionata, chiuse gli occhi. "Non mi vorrai buttare giù dal ponte?" chiese, sorridendo. Lo sentì ridere e spingerla più indietro. Sentì il palo del lampione contro la schiena. “stai ferma qui, tre secondi…”

La lasciò, aprì la giacca e cercò la scatolina nella tasca interna. Era ancora lì. La tirò fuori, e la aprì per controllare l’anello. Era lucido, perfetto, i diamanti scintillavano anche alla luce orribile del lampione. Richiuse la scatola e poi ritornò da lei, lì, appoggiata al lampione, con gli occhi chiusi e il sorriso di una bimba che aspetta impaziente il suo regalo. Doveva darle l’anello ancora nella scatola? L’aveva già fatto decine di volte. Inginocchiarsi come facevano sempre nei film? Troppo banale per lei. Infilarglielo direttamente al dito? di solito gli anelli che le regalava se li metteva lei da sola, non l’aveva mai fatto lui. Anzi, sì, l’aveva fatto… una volta. Aveva preso la sua minuscola mano nella sua, enorme, e aveva infilato l’anello con la pietra verde al suo dito. Poi aveva alzato lo sguardo, e lei era lì che lo guardava estasiata, con uno dei sorrisi più belli che avesse mai visto. Anche lui aveva sorriso. E così tutto era iniziato…

“ci sei?” chiese, sempre tenendo gli occhi chiusi. Si sentì stringere la mano. Era tutta sudata. “tieni ancora gli occhi chiusi”. Sentì il suo braccio sulla schiena. Ma cosa stava facendo? “allora… il mio regalo ti sembrerà un po’ banale, non è niente di enorme, di strano, è una cosa che hai già… ma prima di dartelo, fammi dire due cose”. “ok” rispose, confusa e incuriosita. Ritornò quel batticuore.

“renderà tutto più facile a entrambi, credimi. Vita, lavoro, tutto.”

Prese un respiro profondo e disse tutto quello che gli passava per la testa, senza pensarci, sennò non sarebbe riuscito a spiccare parola. “mi dici sempre che sono uno stronzo, un pazzo, egoista, noioso, palloso, impedito, idiota, codardo, un “quel bastardone che ha perso di nuovo le chiavi di casa”…”. Lei rise, e stava per dire qualcosa, ma continuò prima che potesse aprire bocca. “… anche se stavi scherzando, io sono tutto questo davvero. E non merito di essere perdonato da nessuno. Ma tu sopporti ogni cazzata che faccio a colpa del mio essere tutte quelle cose che ho detto prima, e mi perdoni sempre”

“ok”
“perdonami per tutto il casino di prima, ma dovevo spiegartelo bene”
“non ti preoccupare”


Lo sentì avvicinarsi al suo viso. Sentiva le sue labbra e il suo respiro. Voleva dirgli qualcosa, ma fu subito fermata. “perdo le chiavi, e mi perdoni. Arrivo in ritardo, e mi perdoni. Ti pesto un piede mentre ti sto baciando davanti alle telecamere, e mi perdoni”. Le venne in mente la scena e per poco non scoppiò a ridere. Era strano come lo avesse odiato profondamente, in quel momento, solo perché le aveva pestato il piede… ma poi se n’era innamorata un istante dopo.
Gli aveva urlato “idiota! Stai attento”, lui aveva detto “oh scusa… non volevo” e l’aveva guardata con una faccia tenerissima. Era poi scoppiata a ridere dicendo “non fa niente, non ti preoccupare”, e subito dopo anche lui aveva sorriso. Il sorriso più bello che avesse mai visto.
Lui continuò “ti lascio, e mi perdoni.  Così, per essere sicuro che non succeda di nuovo…” e improvvisamente le prese la mano, le spinse il braccio dietro la schiena, colpendo il palo del lampione con una nocca. Poi gliela aprì, e sentì qualcosa di freddo scivolarle sul dito. Per un attimo non capì, ma poi le venne uno strano presentimento, e il cuore ricominciò a battere forte.

Avvicinò la bocca al suo orecchio e disse, in un sussurro “vuoi sposarmi?”. Era stato talmente semplice che quasi si stupì. Ma non sapeva come avrebbe reagito lei. Le baciò il collo e poi lasciò andare la mano. Lei aprì gli occhi e lo guardò. Ci furono degli istanti di silenzio, ancora irreale, si sentiva solo il soffiare del vento freddo, che fece ondeggiare la sua gonna scoprendo le cosce nude. Improvvisamente appoggiò la testa sul suo petto, lo abbracciò e iniziò a piangere. Ma perché piangeva? Forse non era ancora pronta per quello. Un’auto passò veloce dietro di loro, impercettibilmente. Le accarezzò la testa, infilando le dita nei morbidi capelli scuri, e con l’altro braccio la cinse in vita.

“non è assolutamente colpa tua, non preoccuparti”
“ok”
“non voglio continuare ancora con questa storia, spero che tu mi abbia capito. Non sentiamoci più, allora”


Tutto fu spazzato via da quelle due parole. Aveva aspettato impazientemente quella domanda per mesi e mesi, ma in quel momento non era pronta. Non in quel modo. Non lì. Non sapeva come rispondere, era una decisione difficile. “ma quale decisione difficile, devi solo dire sì o no!”. In un istante, rivisse tutti i momenti passati insieme a quell’uomo stronzo, pazzo, egoista, noioso, palloso, idiota, gentile, tenero, divertente, generoso, ma soprattutto SUO. Era suo. E lei era sua. Dal primo momento in cui l’aveva visto, aveva voluto essere sua e di nessun altro, aveva voluto abbracciarlo e non lasciarlo più andare. “devi solo dire sì o no, dai!”. Cercò di smettere di piangere, e poi alzò la testa. Lui la stava guardando con il suo bellissimo sorriso. “va bene” disse.

“ ‘va bene’ ?” ridacchiò lui. Non poteva aver scelto risposta migliore… o peggiore. “va bene, sì” sorrise anche lei, asciugandosi gli occhi. Si tolse dal suo abbraccio e le prese la mano con l’anello, per mostrarglielo “right after he proposed with a 16-carat stone wrapped in rose gold…” disse. Lei lo guardò a bocca aperta, come se non avesse mai visto dei diamanti in vita sua. All’improvviso qualcosa di bagnato cadde sulla mano. “che cos’è? Piove?” chiese lei, alzando lo sguardo verso il cielo scuro. Anche lui guardò: stavano lentamente cadendo dei piccoli fiocchi di neve. “no, nevica” rispose “sarà meglio andare a casa”. “sì, dai, sto congelando…” disse lei, sistemando la gonna che si era alzata, scoprendo le gambe “però prima, ti prego, facciamoci una foto”. “come?” domandò, stupito. Una foto, lì, in quel momento? “ma sì, come l’altra volta” la vide correre verso la moto parcheggiata, aprire il bagagliaio e tirare fuori la sua borsa. Poco dopo tornò con il telefono in mano. “vieni” gli prese la mano e lo portò vicino alla ringhiera del ponte, sotto a un altro lampione più luminoso. Accese il telefono. “come la facciamo?” chiese lui. Era sempre un po’ nervoso ogni volta che lei gli faceva una foto, non sapeva mai come mettersi. Preferiva farle lui delle foto, anche se non era molto bravo, soprattutto con quel diavolo di iPhone che le aveva regalato: era praticamente impossibile da usare. “un bacio e via” disse lei. Mise il telefono davanti ai loro volti, poi si mise in punta di piedi, si appoggiò a lui e lo baciò sulla bocca. La foto fu scattata proprio un momento prima che lei perse l’equilibrio e per poco non cadde per terra. Lui immediatamente la sostenne, e subito dopo i due si misero a ridere. “allora, com’è venuta?” chiese. “è un po’ buia ma non è male. La metto subito come sfondo” disse lei, facendogli vedere la foto. Era venuta bene, c’erano anche alcuni fiocchi di neve attorno a loro. “ma adesso andiamo, che mi sto congelando”.

Venti minuti dopo erano di nuovo a casa, al caldo. La neve aveva iniziato subito a cadere più abbondante. Gaga si tolse la giacca e le scarpe. Erano quasi le undici di sera. Solamente un giorno prima era in quell’orribile hotel, incapace di parlare al telefono con Taylor… e ora lui era lì, davanti a lei, che parlava… e poco prima le aveva chiesto di sposarlo. Era una cosa surreale. “vieni qui” disse lui all’improvviso, prendendola in braccio mentre si stava togliendo gli orecchini e appoggiandoli sul tavolo. “ma cosa fai?!” esclamò, ridendo, e si aggrappò al suo collo. La portò in camera, cercando di non urtare il box e il fasciatoio di Matthew in mezzo alla piccola stanza. La fece sedere sul letto sfatto. “scusa il caos, sono diventato una balia ormai” rise lui. “oh già…” pensò lei, incupendosi di colpo, guardandolo mentre spostava il box in un angolo. Si sdraiò sul letto e sospirò. Doveva dirglielo subito? Si sarebbe insospettito, se avesse iniziato a fare discorsi strani. Ma quali discorsi poi, non sapeva cosa dirgli. Forse quello non era il momento adatto.

Dopo aver spostato il box, Taylor si sdraiò sul letto vicino a lei. Doveva rivivere la notte più bella della sua vita su un letto scomodo, in una camera piena di giocattoli e roba per bambini. Non era San Diego, ma… doveva accontentarsi. Sembrava passato un secolo dall’ultima volta che aveva fatto l’amore con lei, e in quel momento era nervoso come la prima volta. Quand’era stata l’ultima volta? Forse due mesi prima, sì, poi lei era tornata a New York e non si erano più visti fino a quel giorno. Troppo tempo. Si sdraiò di lato, accanto a lei, e iniziò a baciarla. Slacciò la zip del suo vestito, liberando la sua schiena calda e liscia, e la accarezzò. Continuò a baciarla sulla bocca e sul collo, mise una mano sotto la gonna e sentì più stoffa del solito. Oh, già, indossava i suoi slip! Se n’era completamente dimenticato. Infilò la mano negli slip e le accarezzò i fianchi, ma improvvisamente la sentì sussurrare “aspetta”. Aprì gli occhi e tolse la mano da sotto la sua gonna. Lei si girò e allungò il braccio verso il comodino, su cui c’erano alcuni vestini di Matthew. Prese una scarpina e gliela fece vedere. “cosa c’è?” chiese, perplesso. “indovina un po’…”.

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Capitolo 11
*** this time i'm not leaving... ***


“indovina un po’…”. Fece dondolare la scarpina davanti ai suoi occhi. E lui la guardava strano, come se avesse parlato arabo. “non ci arriverà mai” pensò tra sé e sé. Doveva dirglielo direttamente. Erano solo due parole. Ma come poteva dirglielo? Non sapeva come avrebbe potuto reagire. Lui non se lo aspettava minimamente, e nessuno dei due era pronto per affrontarlo. Doveva dirglielo assolutamente, ma non aveva preparato un discorso, una frase, niente di niente. “ehm… hai… presente, oggi, quando Judy mi ha detto che saresti un papà perfetto?”.

“… saresti un papà perfetto?”. Sentì solo quelle parole. La guardò negli occhi e poi si ricordò che quel giorno aveva mangiato più del solito, che era stanca, gli sbalzi di umore, che non si era chiuso bene il vestito, e la scarpina… e in un millesimo di secondo collego tutto a un solo pensiero.

“sei…?” chiese, ma non riuscì a finire la domanda. Non importava, aveva capito, non aveva nemmeno dovuto dirglielo direttamente. Tirò quasi un sospiro di sollievo, e poi annuì, cercando di fare un sorriso convincente per nascondere la sua agitazione.

“e…e… da quando?” chiese lui. “circa nove settimane”. Lanciò un’occhiata alla pancia attraverso la gonna del vestito, e iniziò a innervosirsi. “ma perché non me l’hai detto?” domandò. “ma mi avevi detto di non telefonarti, ed io…”. “ma queste cose me le devi dire! Cazzo!” adirato, si alzò improvvisamente dal letto e uscì dalla stanza. Chiuse la porta sbattendola e ci si appoggiò. Non gliel’aveva detto. Una cosa così importante. Le aveva detto di non telefonare più, di non sentirsi più, sembrava tutto finito… ma un figlio superava anche quello. Era mille volte più importante delle sue stupide richieste di “lasciamoci”, “non sentiamoci più”, “tu vivi la tua vita e io la mia”. Non avrebbero potuto più farlo, se c’era un’altra vita oltre alla loro. Avrebbe dovuto dirglielo. Che cosa avrebbe fatto, se non si fossero rimessi insieme? Avrebbe cresciuto il frutto di un amore finito? Improvvisamente si accorse che era stata di nuovo colpa sua. Era stato lui a ordinarle di non chiamarlo più. Lei non avrebbe potuto fare altrimenti. Sembrava una donna così forte, ma non riusciva mai a tenergli testa. Le poche volte che avevano litigato in quegli anni, era sempre stato lui a cominciare, e lei non aveva mai ribattuto alle sue sfuriate. Non aveva mai preso posizione; aveva sempre ascoltato tutte le sue ragioni – le solite cazzate – e non aveva mai detto niente, anche se aveva torto. Lui usciva sempre dalla stanza o di casa, lasciandola da sola e, quando tornava dentro, la ritrovava a piangere. Non riusciva mai a confrontarsi direttamente, come aveva fatto in quel momento. Perché era uscito dalla camera? Perché non era stato capace di rimanere dentro e parlare con lei? E, tornando alla questione di prima, perché le aveva detto di non telefonargli più? Era troppo semplice evitare di affrontare qualcuno, andandosene via così. Riaprì la porta, e la vide sdraiata sul letto a piangere con il viso sul cuscino. Si sentì subito in colpa. Non riusciva mai a trattenere i suoi scatti d’ira, ma odiava vederla piangere per colpa sua. di solito per calmarla bastavano un abbraccio e una scusa… ma quante volte si era scusato quella sera? Si sedette sul letto vicino a lei e le accarezzò la testa, come lei aveva fatto con lui poche ore prima, finché si calmò. “allora cosa facciamo?” chiese.

Si alzò a sedere e lo guardò in faccia. Non sembrava più arrabbiato. Poteva parlargli. “e… tu cosa vuoi fare?”. Non si sentiva ancora pronta per un figlio, specialmente in quei mesi dove il lavoro incombeva. Ma… forse lui lo era. L’avrebbe aiutata. Ce l’avrebbero fatta. Aspettava solo una sua risposta.

Non riusciva ancora a rendersi conto di quello stava succedendo. Avevano parlato di mettere su famiglia alcune volte, qualche mese prima, ma non erano mai arrivati a una conclusione. E poi all’improvviso, senza che nessuno dei due se lo aspettasse… la famiglia era arrivata da sola. Non aveva idea di come fosse successo, forse lei aveva dimenticato di prendere la pillola un giorno, ma non gli importava. Non si sentiva pronto al 100%, ma… ce l’aveva fatta sua mamma con sette figli, potevano benissimo farcela loro con uno. Poi si sarebbero anche sposati, era tutto a posto. Un sogno che si stava realizzando. E al diavolo il lavoro. Aveva causato anche troppi guai tra di loro. “vieni qui” sussurrò, e la abbracciò.

Si strinse al suo collo e appoggiò la testa sulla sua spalla, per la milionesima volta in quel giorno. Non ne aveva mai abbastanza dei suoi abbracci; era anche un idiota, impedito, codardo, egoista, pazzo… ma lo amava più di qualsiasi cosa. Era così perfetto. Quell’abbraccio era la sua risposta, era un sì. Non un “va bene”, un sì.

La baciò sulla guancia e poi abbassò di nuovo lo guardo verso la sua gonna “non…”. “oh ma non si vede ancora niente, è troppo presto!” disse subito lei “però mi sono cresciute un po’ le tette, credo, ecco perché non si chiudeva il vestito”. Il vestito era ancora aperto sulla schiena, e sfilò le braccia dalle spalline. Abbassò il corpetto e si guardò la scollatura “si vede?”. in men che non si dica, lui le tolse il vestito e lo buttò dall’altra parte del letto. Era quasi intrigante, con i suoi enormi slip blu addosso. “ti stanno bene le mie mutande” ridacchiò, e le baciò la scollatura. Adorava baciarla lì, la sua barba le faceva il solletico e si metteva a ridere come una bambina. Le baciò il seno e poi scese fino all’ombelico, dove le arrivavano le sue mutande. Le abbassò, e notò una piccola rotondità del basso ventre. Era quasi invisibile, ma c’era. Si emozionò come non gli era mai successo prima d’allora. “e diamo un bacino a Hope” e le baciò la pancia.

“Hope?” rise lei. Lui alzò la testa e la guardò con il suo bellissimo sorriso. “ma sì, Hope di New York… non te la ricordi?” e, senza lasciarla rispondere, la baciò di nuovo sulla bocca.

La sveglia suonò alle undici in punto, diversamente dal giorno prima, e il bip-bip noioso si confuse di nuovo nel gracchiare della radio. Taylor si svegliò e allungò il braccio per spegnere la sveglia, ma sentì solo qualcosa di caldo. Aprì gli occhi e si vide che stava toccando il braccio di Gaga, che si era addormentata sul lato del letto dove di solito dormiva lui, e la sveglia era sul comodino dall’altra parte. Il rumore non sembrava infastidirla, dormiva tranquillamente. S’inginocchiò sul letto e, allungando il braccio al di sopra di lei, riuscì a spegnere la sveglia. Si stiracchiò e scese dal letto. Alzò piano le tapparelle e guardò di fuori: tutto era imbiancato di neve, le strade, i tetti, le terrazze, le auto, e stava ancora nevicando. Andando in bagno, raccolse da terra la sua camicia, la canottiera, le calze e il vestito bianco, e li appoggiò sul letto. Entrò in bagno e alzò un po’ le tapparelle anche lì per far entrare la luce. Era tutto così surreale, ricoperto di bianco, dentro e fuori. Si spogliò ed entrò nella doccia. Mentre si lavava, sentì la porta di camera aprirsi e subito dopo quella del bagno.

Bussò alla porta a vetri della doccia e poi la aprì. “cucù! Buongiorno” esclamò, infilando dentro la testa. “hey!” la salutò lui, chiudendo l’acqua “aspetta che esco”. “no no stai pure dentro, io ti aspetto” disse, lanciando un’occhiata maliziosa al suo corpo nudo e bagnato, poi richiuse la porta. Notò che sul calorifero c’erano i vestiti e la biancheria che aveva indossato il giorno prima, sembravano asciutti. Finalmente poteva togliersi quegli slip enormi. Mentre si stava rivestendo, lo sentì dire qualcosa, ma non riuscì a capire perché la sua voce era coperta dallo scrosciare dell’acqua. “cosa?” chiese, infilando i suoi pantaloni. L’acqua smise di scorrere per un momento “come stai?”. “ah… sì, abbastanza bene”. Avevano passato una nottata magnifica. Di certo non era stata come quella volta a San Diego, ma i racconti di Taylor su com’era andato di qua e di là per ritrovarla due giorni prima – nello stesso momento in cui lo aveva fatto lei – l’avevano affascinata nello stesso modo. Era incredibile come, nel momento in cui lei era arrivata a casa sua a Chicago, lui era arrivato a casa sua a New York. Si erano cercati contemporaneamente. Era qualcosa di magico. Indossò la sua felpa grigia – che in realtà era di Taylor, ma non gliela aveva ancora chiesta indietro – e poi andò a lavarsi il viso. Aprì il rubinetto, e poi vide l’anello di diamanti al dito. Lo tolse delicatamente e lo appoggiò sulla mensola vicino allo specchio. Ancora non ci credeva.

Verso mezzogiorno, il telefono di Gaga squillò. “devo andare a casa” esclamò all’improvviso, alzandosi dal divano. “ma… adesso?” chiese lui. L’aveva appena ritrovata, e aveva paura di lasciarla andare via di nuovo. Lei appoggiò la tazza di caffè che aveva in mano sul tavolo “non riesco a mandarlo giù…”. “adesso devi andare?” ripeté, inquieto. “sì, l’avevo detto a mia mamma, ho un milione di cose da fare, mi dispiace”. Ma non poteva andare via così. Si erano potuti vedere per poco più di ventiquattro ore, dopo due mesi… “non puoi restare ancora un po’?” chiese, mentre lei prendeva la sua borsa. “no, ho un appuntamento per oggi pomeriggio, non posso”. Ancora il lavoro. Aveva causato la più orribile serie di cazzate mai successa, e ora lei voleva andarsene via così per lavoro? “per favore…”. “non ti preoccupare. Ti chiamo appena arrivo a New York, stai tranquillo”. La guardò mentre si metteva la giacca, e pregò che ci mettesse un’eternità per farlo. Non voleva vederla uscire dalla sua porta così presto. Ma in una decina di secondi fu pronta. “vuoi accompagnarmi tu all’aeroporto? Non ho voglia di prendere un taxi” gli chiese, controllando la borsa. Non poteva più fermarla.

Arrivarono all’aeroporto in tre quarti d’ora. Le strade erano ricoperte di neve, c’erano almeno 10cm. Come avrebbe fatto, con le sue Converse di tela, a camminare? Pregò che non stesse nevicando a New York. Taylor parcheggiò la sua auto davanti all’hangar, dove c’era il suo jet. Per tutto il viaggio, era sembrato molto agitato. Non voleva lasciarla andare. Neanche lei voleva. Gaga sospirò e aprì la portiera; per fortuna la pista dell’aeroporto era stata pulita dalla neve. Prese con sé la borsa e chiuse la portiera. “vieni?” chiese, e anche il ragazzo uscì dall’auto. Entrarono nell’hangar, dove il suo jet era pronto, con lo steward sulla scala davanti al portellone. “sicura che non vuoi restare ancora un po’?” le chiese lui, per la milionesima volta. “non posso. Ma appena ho un momento libero, vengo subito da te” rispose, andandogli vicino. Era così alto che per guardarlo in faccia doveva alzare la testa. Lo abbracciò. “però chiamami prima, sennò può darsi che, mentre stai venendo tu da me, sto andando io da te, e non ci troviamo più” sorrise, ricambiando l’abbraccio. Lei rise. “va bene”. “cosa?” esclamò lui, guardandola negli occhi. "Che c’è, adesso mi odierai ogni volta che ti dirò 'va bene'?" chiese lei, sorridendo, appoggiando la testa al suo petto. "Potrei farlo" rispose lui, ridendo. "Ti odio" rise anche lei. "Capisco. Sfoga pure la tua rabbia su di me". "Allora preparati alla tortura" ridacchiò, e si alzò in punta di piedi per baciarlo. Poi lo lasciò e salì sull’aereo.
 
 
 
E finalmente questa storia è finita. Ringrazio innanzitutto Csilla e Mariana per i grandissimi suggerimenti che mi hanno dato, senza di loro sarei rimasta bloccata dopo dieci righe del primo capitolo. Questa storia mi ha rubato due mesi di vita, e scriverla è stata la cosa più difficile che abbia mai fatto. Potrà non sembrarvi così, ma io sono una che si emoziona appena legge una riga delle altre fanfiction dedicate a loro (Raydor ne sa qualcosa, la faccio disperare ogni volta che pubblica un nuovo capitolo), la coppia più bella del mondo, e il solo pensare alle cose che ho scritto… che si lasciano, si cercano, si ritrovano, e la proposta di matrimonio, e il figlio… è stata una tortura per il mio povero cuoricino che balza per un nonnulla! Scrivere una storia così “irreale” su di loro (beh, le altre non sono poi così realistiche XD) è stata una sfida, ma sono contenta di com’è venuta. Ammetto che, per evitare che il mio cervello bastardo incominciasse a farsi i filmini (li ha fatti lo stesso, comunque) sulle cose che stavo scrivendo, ho dovuto scrivere la storia prima cambiando i nomi (grazie al “sostituisci” di Word, dopo li cambiavo); come potete notare, non li nomino spesso, ho usato sempre “lei” e “lui”. È una pazzia, lo so, ma mi emoziono troppo e non posso farci niente. Ho sempre paura che i veri protagonisti delle mie storie possano leggerle per caso e, beh, si farebbero quattro risate – o Gaga verrebbe a casa mia a prendermi a schiaffi.

Sono felicissima che la storia vi sia piaciuta, e spero che il finale sia adeguato. Mi dispiace per l’ansia che vi ho procurato capitolo dopo capitolo, ma fidatevi, io ne ho avuta di più a scrivere :D
Ringrazio tutti quelli che hanno letto, cosa farei senza di voi? Vi adoro <3 (e mi dovete dieci scatole di ansiolitici + altrettante tisane)

E, alla fine della storia, vi rivelo che tutto questo casino è partito da un sogno che ho fatto durante un pisolino pomeridiano di due mesi fa. Ho sognato Gaga che entrava a casa di Taylor a Chicago, e lui era lì a curare Matthew, e lei gli diceva “ti sei dimenticato del mio compleanno!”. And that’s how it all began.
spero di non fare più altri sogni del genere, perché per scrivere tutta la storia che c’era dietro mi sono serviti 2 mesi e un block notes intero.
Mi piacerebbe molto, però, scrivere un romanzo ispirato a questa storia (cambio i soggetti, l’ambiente, ma tengo le vicende). Ditemi voi cosa ne pensate ;)
 

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