Per sempre tu

di adropintheocean_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** 13 ***
Capitolo 14: *** 14 ***
Capitolo 15: *** 15 ***
Capitolo 16: *** 16 ***
Capitolo 17: *** 17 ***
Capitolo 18: *** 18 ***
Capitolo 19: *** 19 ***
Capitolo 20: *** 20 ***
Capitolo 21: *** 21 ***
Capitolo 22: *** 22 ***
Capitolo 23: *** 23 ***
Capitolo 24: *** 24 ***
Capitolo 25: *** 25 ***
Capitolo 26: *** 26 ***
Capitolo 27: *** 27 ***
Capitolo 28: *** 28 ***
Capitolo 29: *** 29 ***
Capitolo 30: *** 30 ***
Capitolo 31: *** 31 ***
Capitolo 32: *** 32 ***
Capitolo 33: *** 33 ***
Capitolo 34: *** 34 ***
Capitolo 35: *** 35 ***
Capitolo 36: *** 36 ***
Capitolo 37: *** 37 ***
Capitolo 38: *** 38 ***
Capitolo 39: *** 39 ***
Capitolo 40: *** 40 ***
Capitolo 41: *** 41 ***
Capitolo 42: *** 42 ***
Capitolo 43: *** 43 ***
Capitolo 44: *** 44 ***
Capitolo 45: *** 45 ***
Capitolo 46: *** 46 ***
Capitolo 47: *** 47 ***
Capitolo 48: *** 48 ***
Capitolo 49: *** 49 ***
Capitolo 50: *** 50 ***
Capitolo 51: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Driiiiin!
Bene, ci siamo. I miei compagni gettano carte all’aria, matite, ridono a gran voce. Qualcuno mi spintona mentre raccatto le ultime cose da mettere in borsa. Rido sommessamente, infilo il cellulare dentro una bustina di plastica, la sigillo per bene. Non voglio che ci entri dell’acqua. O della farina. O, peggio, delle uova. O qualunque cosa tireranno là fuori.
Ammetto che ho un po’ d’ansia. Ma, parliamoci chiaro, io ho sempre l’ansia.                   
“Lou! Ti vuoi muovere?!” sento che mi strattonano il braccio.                                          
La manata di Christine mi lascia un impronta sbiadita sul braccio nudo. Oggi ho una canottiera nera slargata e dei jeans azzurri. Spero sinceramente di non rovinare niente di tutto ciò che indosso, comunque per sicurezza non ho messo cose alle quali tengo particolarmente.                       
“Non mettermi ansia, ti prego” rido, cerco di darmi un’aria frivola e leggera.
Cavoli, è l’ultimo giorno di scuola, fai un bel sorriso, Marylou.
Infilo la tracolla della borsa in spalla, Christine mi prende per mano e corre verso l’uscita della classe. Ci blocchiamo in mezzo a un fiume di gente. Tutti urlano, ridono, alcuni armeggiano con delle bottiglie già piene d’acqua. Altri mostrano ammiccando un pacco di farina a qualche ragazza. Ci muoviamo lenti e impacciati, come un branco di pecore senza un pastore a indicarci la strada. C’è chi torna indietro nei bagni, chi ne esce asciugandosi le mani sulla maglietta. Io non ho bottiglie d’acqua nella borsa, né tantomeno un pacco di uova o di farina. Sono la “vittima” in queste situazioni. Non bagno, piuttosto corro e scappo. Evito quello che posso.
Sempre con molta lentezza, scendiamo le scale, riesco a vedere la luce attraverso il portone aperto. Spalanco gli occhi: alcune classi sono già uscite e non hanno perso tempo.                    
“Mio Dio, sarà un miracolo se mi si vedrà la faccia quando tornerò a casa!” ride Christine. È elettrizzata. Letteralmente, giuro.
Il mio cuore pompa troppo sangue, sento uno strano formicolio nelle orecchie. Si può scomparire, per favore? Si può? Perché, se è possibile, vorrei che accadesse ora.
L’uomo si danna tanto per  costruire iphone, ipod, ipad … ancora non ha capito che l’invenzione fondamentale è il teletrasporto! Ma si, dai. Risparmia tempo, non inquina, riduce i ritardi al minimo.
“Ehi, ehi!” la mia amica mi tira via di lato, tra dieci passi usciamo.
Apre la borsa, ci infila la faccia, sembra un cane da caccia che cerca i funghi col muso immerso nelle buche. Poi mi guarda impettita.                                                                              
“Prepara la bottiglia, che fai lì impalata?”                                                   
“Veramente, non ne ho una”                                  
Christine strabuzza gli occhi, come se avessi appena trovato una cura funzionante per le rughe.
“Spero tu stia scherzan … ehi, vuoi stare attento?” si gira innervosita dietro di sé, c’è un ragazzo alto, ha i capelli biondi e le guance morbide. Sorride eccitato, sembra uno stupido.            
“Scusa, non t’avevo vista” poi continua a ridere col suo amico.
Sono fuori. Mi guardo intorno per una frazione di secondo e trattengo il respiro. Qualche metro più in là c’è una piccola fontana, un ragazzo ci sta buttando una ragazza, lei urla e strepita. C’entra a malapena e deve dare una bella botta al sedere, da quello che vedo.
Mi accorgo che Christine è sparita, o meglio, è quello che riesco appena a pensare. Chiudo gli occhi per proteggermi dai granelli di farina misti a schizzi d’acqua che mi piombano sulla testa gelandomi e farcendomi come un impasto per frappe.                                                                
“Beccata!” ride, ride, ride a gran voce.        
Con la mia stessa sorpresa, scoppio anche io in una risata divertita. Mi sento leggera e, stento a crederci, mi sto divertendo. Tempo cinque secondi, sono diventata il bersaglio centrale. Sto in mezzo e vengo colpita da ogni cosa volante nel raggio di due metri. Uova, farina, acqua, forse sugo, ketchup, forse anche della maionese. Corro, mi rifugio dietro una macchina. Christine mi segue, si nasconde insieme a me. Ci guardiamo e ridiamo divertite, lei ha il trucco colato fin sulle guance, i capelli impiastrati di farina e ketchup.                                                                 
“Possiamo anche non andare a pranzo, credo che abbiamo cibo sufficiente per una  settimana” scherza Christine.
Non so per quanto altro tempo andiamo avanti a scappare da tutti. L’atmosfera che c’è qua fuori è strana, è inverosimile. Non sembra una scuola, sembriamo tutti un grande gruppo di amici, un’unica comitiva, tutti che si conoscono, tutti che si divertono. La cosa strana è che io conoscerò si e no nemmeno un quarto delle persone che stanno qui. Ma non importa perché tutti se ne fregano.
Quando la situazione si calma, la folla si sfoltisce. I vari gruppetti ritornano chiusi come un tempo, la gente si divide e se ne va, chi al parco, chi in piazza, chi in cerca di una fontana più spaziosa dove sciacquarsi. Io e Christine raggiungiamo le nostre amiche, ci siamo perse di vista nel caos iniziale. Siamo tutte conciate parecchio male e appena ci vediamo scoppiamo a ridere.                    
“Sai che ti dico? Hai un odore appetitoso”                                                 
“Cazzo, hai ragione, profumi di panino!”
Ridiamo come pazze, Belle mi passa un dito sulla guancia, mi porta via un grumo di farina.
“Tu invece puzzi di uovo andato a male”                            
Continuiamo così per un po’, Eleanor interrompe il discorso alzando una mano in aria, come per chiedere il permesso.                                                                                                                      
“Stasera si esce, tutte insieme, non sento obiezioni!” propone, anzi, ordina.
Tutte si mostrano, ovviamente, più che d’accordo. Chi dice di andare in discoteca, chi al pub, Christine propone semplicemente di fare un giro per la città.
Il cuore mi batte forte. Non voglio rifiutare l’invito e chiudermi in casa come sempre, come tutti i venerdì e i sabato sera. Sono un’asociale. Ne sono fermamente convinta.
E se poi incontrano qualche ragazzo e io rimango sola?
E se mi escludono?
E se stai un po’ zitta e ti fai coraggio per una volta?
Forza, Marylou.                                                                                                                   
“Ma si, perché no, per stasera mi unisco a voi” ridacchio vedendo i loro gridolini di apprezzamento.
Ci diamo appuntamento alle otto e mezza alla fermata dell’autobus. Mi avvio a casa con la testa che già fuma per l’ansia.

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Capitolo 2
*** 2 ***


Esco dalla doccia dopo essermi insaponata tre volte i capelli e quattro il corpo. L’odore di uovo mi impregna il naso, più mi lavo e più mi sembra di sentirlo nelle narici. Mi piazzo davanti allo specchio del bagno e con una mano porto via l’alone che lo appanna. Di fronte a me, un viso incorniciato da capelli ramati, sfoggia un bel paio di occhiaie e un’espressione preoccupata.
Cavoli, datti una bella calmata, Lou.
Pettino i capelli, poi li asciugo alla bell’è meglio, cerco di stirarli con un po’ di piastra. Piazzo un dito di fondotinta sul mio viso, con la matita nera traccio il contorno dei miei occhi castani e li ravvivo con il mascara. Mi guardo fisso nelle pupille, faccio un sorriso, poi rilasso il viso.
Posso farcela.
Dall’armadio tiro fuori l’unico vestito da sera che ho, nero, stretto sul petto, ma largo e  liscio fino alle ginocchia. Ho un bel seno, ma mi vedo abbastanza pienotta nel resto del corpo. Mia madre dice sempre  “Accontentati di ciò che hai e valorizzalo”. E così, è quello che faccio stasera.
Mi infilo nel vestito, lo accarezzo con le mani sistemandolo. Tiro giù le scarpe dalla scarpiera, un plateau nero col tacco dieci. Salgo su quei trampoli e mentalmente prego di non cadere, scivolare, o fare qualsiasi altra figuraccia imbarazzante nel corso della serata.
Coraggio, Lou. Coraggio.
Qualche soldo in un piccolo porta monete, il cellulare, le chiavi di casa: il tutto compresso dentro una mini borsetta che, magicamente, ancora non esplode.
“Mà, allora ci vediamo più tardi”
“Ehi, vieni qui” mi dà un bacio sulla guancia e mi poggia un braccio sulla spalla. “Mi raccomando, eh?”
“Sta tranquilla. Per qualsiasi problema ti chiamo” ricambio il bacio sulla guancia, imbocco la porta di casa e mi avvio alla fermata del bus.
“E tu hai tenuto quelle tette nascoste per tutto l’anno? Devi essere bella pazza, ragazza!” Belle mi dà un pizzico sulla guancia e dopo ride insieme a Eleanor.
Christine, come al solito, deve farsi attendere. Arriva dieci minuti in ritardo, non si scusa, ci abbraccia tutte quante e batte le mani eccitata.
“Stasera voglio sballarmi, ma di brutto!”
Il mio cuore aumenta i battiti. Mi escluderanno, è sicuro. Anzi, mi sarò io ad escludermi. Mi sento piccola, una bambina. Loro fumano, hanno già avuto dei ragazzi, bevono e tutto il resto. E io … io ho paura  di tutto. Ho paura di lasciarmi andare, ho paura di mostrarmi agli altri.
Saliamo sull’autobus, dopo sei fermate scendiamo. Mi guardo intorno. I capelli mi coprono il viso, smossi da un caldo venticello leggero.
“Pub?” Eleanor indica un punto di fronte a sé con la mano. Belle e Christina annuiscono, io sorrido, un sorriso tirato, e le seguo.
Fin’ora la serata sembra andare bene. Io e le ragazze chiacchieriamo tranquille, ridiamo.
“Un cuba libre, grazie” Belle ammicca al cameriere, un ragazzo alto, con una barba incolta e due occhi neri.
“Si anche io” si aggiunge Eleanor.
“Una vodka liscia, grazie” Christine annuncia trionfante la sua scelta.
Mi sposto una ciocca di capelli dietro l’orecchio, mi inumidisco le labbra. Guardo e riguardo il menù, è pieno di nomi inglesi, qualche k qua e là, non ci capisco nulla.
“Un sex on the beach per lei” interviene Christine con charm. Mi guarda, sorride ammiccando, mi dà una spallata. “Dai, ti piacerà! Togliti quel muso!” ridacchia divertita.
Dopo qualche minuto i cocktail arrivano in bicchieri splendidi, ornati con ombrellini e cannucce rotonde di vari colori.
“A quest’estate … perché possa essere la migliore!” Belle ci fa l’occhiolino, alza il bicchiere in alto. Noi facciamo lo stesso, facciamo scoccare  i nostri bicchieri l’uno contro l’altro. Tutte si attaccano alla loro bevanda.
Prendo un lungo respiro, sorrido.
Dai Lou. Vai.
“Ehi, ehi fermati!” Christine mi abbassa il bicchiere. “Il primo dev’essere un lungo, lungo sorso” Christine mi guarda eccitata.
“E va bene, va bene. Che scocciatura che siete” scherzo per sdrammatizzare. Ho paura che dal mio viso trasparisca l’ansia che mi attanaglia lo stomaco. Sento che potrei vomitare e le mie labbra hanno a malapena sfiorato il vetro freddo del bicchiere.
Ingoio prima un piccolo sorso, il gusto è buono, dolciastro. Sembra quasi aranciata. Mi lascio abbindolare dagli sguardi divertiti delle mie amiche, mi guardano come se fossi l’ultimo dolcetto grondante di cioccolato appoggiato sul vassoio.
“Giù, giù, ingoia dai!” mi incitano.
Nel locale c’è chiasso, qualcuno ride, altri chiacchierano a proposito di una partita, la tv strilla qualche canzone stridula.
Butto giù un altro lungo sorso, la gola mi brucia  leggermente, un calore mi avvolge lo stomaco. Mi sento bene. La testa non mi gira, riesco a contare fino a dieci e a fare qualche veloce calcolo mentale.
“T’è piaciuto, vedo!” Belle ride insieme alle altre. Sorseggiano ancora i loro cocktail, i bicchieri mezzi pieni. Quello di Christine è più piccolo, ha bevuto pochissimo del liquido trasparente che c’è dentro, ma già ride un po’ troppo.
Guardo la mia bevanda.
Cazzo, Lou, il bicchiere è quasi vuoto.
In quel preciso istante mi rendo conto che, forse, ho esagerato un po’ troppo. Come prima bevuta, sono andata di corsa, avrei dovuto tenermi.
La testa mi gira un po’, sento caldo. Mi sventolo il vestito, mi faccio aria con le mani. Raccolgo i capelli in una coda, poi li faccio ricadere sulle spalle.
“Ma guardatela qua!” Christine mi indica, ride. Continua a ridere. Ride ancora.
Ma adesso rido anche io. Non so perché, non c’è nulla di particolarmente comico. È come se vedessi offuscato, tutto il mondo circostante mi si presenta coperto da una patina opaca.
“Sono dentro una …” pausa per ridere. “una bolla di sapone!” altre risate.
Mi tengo al tavolo con le mani, cavolo se dondola questo pavimento.
Mi guardo intorno ridendo, le mie amiche chiacchierano di un certo Michael del 5B, non so chi sia. Mi distraggo, strizzo gli occhi per scacciare quel velo opaco che mi offusca la vista.
Mi blocco, la testa smette improvvisamente di girare, il mio sguardo castano si blocca.
Sono un paio di fossette e un sorriso allegro che catturano la mia attenzione.
C’è un ragazzo, in fondo al locale, tiene in mano un vassoio con due bicchieri vuoti e un piatto con qualche briciola. Indossa un grembiule verde scuro, legato sui fianchi, sopra un paio di jeans sgarrati. Sorride cordiale a due ragazze sedute al tavolo, poi si gira per tornare indietro.
Volta lo sguardo, per un secondo questo si intreccia al mio.
Forse la quantità eccessiva di zucchero nel mio sangue, forse il mio cuore che accelera, forse il mio cervello che accoglie poco ossigeno, fatto sta che sfoggio un grande sorriso ammiccante al ragazzo che, dapprima confuso, ricambia imbarazzato.
Scompare dietro il bancone, io mi rilasso riprendendo fiato.
Che sto facendo?
Mi viene voglia di alzarmi dal tavolo, andare lì da lui, prenderlo e baciarlo. Quindi lo faccio. 

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Capitolo 3
*** 3 ***


Le mie gambe si muovono praticamente da sole. Cammino spedita verso il bancone, scorgo soltanto i ricci neri del ragazzo che mi ha stregato, è accucciato accanto alla lavastoviglie. Ci butta qualche bicchiere, la chiude, si rialza.
“Lou, dove vai?” una delle mie amiche, non capisco chi, mi urla da dietro.
Mi sento ovattata, non riesco a distinguere la realtà dalla mia immaginazione, per cui non so se sono veramente in piedi, di fronte a questi occhi verdi che mi osservano interrogativi, non so se le mie amiche mi urlano da dietro di tornarmene a posto, non so se …
“Che ti do, bella?” ha una voce limpida, un timbro chiaro e definito. Picchietta con la mano sul bancone, ma non sembra spazientito. Anzi, sembra come se quel gesto lo aiuti a rilassarsi.
“Ehm, io … vorrei te, in realtà” balbetto ridendo.
L’ho detto sul serio?
“Lou, che cazzo dici? Vieni a sederti” Belle, la meno ubriaca nel gruppo di amiche, mi prende per un braccio e mi strattona. “Scusala, ha bevuto un bicchiere di troppo” sorride al cameriere. Al mio cameriere.
Oh  no, Belle. Non mi lascerò fregare. Sono ubriaca, anche parecchio, posso fare qualsiasi cosa mi passi per la testa. I miei freni inibitori sono momentaneamente andati a prendere una bella boccata d’aria, sono libera. Libera, sì.
Mi scrollo di dosso Belle, le do una veloce occhiata per ammonirla, volto lo sguardo negli occhi del cameriere. Non sembra imbarazzato, anzi, la situazione pare lo stia divertendo.
Mi sorride paziente, sarà abituato a situazioni del genere. Mi soffermo sulle sue fossette, sono adorabili. Di rimando sorrido anche io, raggiante.
Il ragazzo si schiarisce la gola e si passa la mano tra i ricci neri scompigliandoseli. “Ti do un bicchiere d’acqua? Ti aiuta a schiarirti le idee” ridacchia divertito.
Rido anche io, forse esagerando un po’. “No, voglio te, ho detto” punto i gomiti sul bancone, poso il viso sulle mani e fisso gli occhi  nei suoi.
Mio Dio, devo avere un aspetto ridicolo.
Il ragazzo se la ride, arriva accanto a lui un suo collega, proprio il cameriere che ci ha servite poco prima.
“Adam, e questa bella ragazza chi è?” dà di gomito al suo amico mentre se la ride alla grande.
“Adam è proprio un bel nome” mormoro con voce frivola. Mi rialzo dal bancone, mi ravvivo i capelli scoprendo la scollatura del vestito.
La mia parte razionale è decisamente stata sopraffatta dalla pazza che alberga nella mia testa. C’è sempre stata, ma non è mai uscita fuori fino ad oggi. E forse avrei dovuto continuare a segregarla in luoghi nascosti al mondo esterno. E a me stessa.
Lo sguardo magnetico di Adam cade sul mio petto per qualche secondo. Non so con quale strano e magico autocontrollo riesco a non arrossire. L’alcool ha anche qualche lato positivo, noto con piacere.
“Beh, io ho da lavorare” interviene l’altro ragazzo. “Te la lascio a te, preparale un caffè” gli propone prendendo un vassoio pieno di bicchierini. “Oppure … dai, le ragazze ubriache sono davvero uno spettacolo. Foste sempre così …!”
Adam ride, mostrando fiero le fossette meravigliose.
Ci si può innamorare in un quarto d’ora? Credo di esserci appena riuscita.
Adesso è lui a poggiare i gomiti sul bancone, avvicina il viso al mio. “Te lo faccio questo caffè? Ti sentirai meglio” sussurra con voce suadente.  
I miei neuroni sbronzi devono incontrarsi per qualche secondo perché riesco a realizzare che il “sentirsi meglio” corrisponde al “tornare sobri”. Ovvero a me, Lou, la ragazza eternamente timida, silenziosa e sola. Perciò, so già qual è la risposta.
“No” scuoto la testa come un bambino. “Mi fa schifo il caffè”
Adam ride, si rialza e mi dà un buffetto sulla guancia. Quel contatto mi provoca una scia di brividi che mi scivolano giù lungo tutta la schiena. Sbatto gli occhi due volte.
“Sei proprio carina” mi confessa ammiccando, la sua mano si sofferma per pochi istanti (mi sembrano ore!) sulla mia guancia.
Mi sento bollente, la faccia mi brucia, il vestito sembra diventato pesante come piombo, vorrei toglierlo e lasciarlo a terra.
“Che stronzata” rispondo sicura.
Afferro la lampo dietro la mia schiena e comincio a tirarla giù con parecchie difficoltà. Mi prende un crampo alla spalla, mi fermo qualche secondo.
Adam mi osserva dubbioso, si affaccia dal bancone per capire cosa sto facendo. Ovviamente, colgo l’occasione al volto.
Mi giro di spalle e lo guardo con la coda dell’occhio. “Mi aiuti a tirarla giù? Sto soffocando”
Adam ridacchia divertito e scuote la testa, mette le mani sulla mia schiena, sono fresche e rabbrividisco al contatto. Sta tirando su la lampo ed io sto per controbattere quando il nostro magnifico momento viene maledettamente interrotto.
“Che cazzo fai, maniaco” Eleanor mi chiude il vestito prima di prendermi sottobraccio e allontanarmi dal bancone.
“Guarda che la stavo aiutando a …”
“Si, a spogliarla. Lasciamo perdere, eh? Con tutta questa gente davanti, poi! Senza ritegno” Eleanor se ne va sdegnata. Torniamo al tavolo, Belle posa due banconote da dieci euro accanto ad un piattino con uno scontrino posato sopra.
“Offro io, usciamo da qua”
Eleanor mi tiene sottobraccio, Christine, invece, che ride apertamente senza nemmeno riprendere fiato, si ancora al braccio di Belle come un sacco di iuta.
Le ragazze mi fanno bere un bicchiere d’acqua, due, tre, a un certo punto perdo il conto. Rimaniamo ferme di fronte ad una fontanella per una buona mezz’ora, mi rinfrescano la fronte e mi danno leggeri schiaffetti sulle guance. Christine è piegata dietro un albero, vomita da buoni cinque minuti, tra una risata e l’altra.
Così finisce la mia prima serata fuori. Mi infilo nel letto in punta di piedi per non fare rumore, chiudo gli occhi e provo a dormire, con un sordo mal di testa che fa da eco alla serata. 

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Capitolo 4
*** 4 ***


Oh, per favore, lasciatemi morire qui. Lasciatemi stare. Ve lo chiedo in ginocchio.
Oh, la  mia testa. La mia povera, povera testa.
“Insomma, ti vuoi svegliare o no? C’è il pranzo in tavola, i bucatini che ti piacciono tanto” è la voce di mia madre.
È la voce di mia madre?
Boh, possibile.
Qualche grugnito sconnesso e infastidito fuoriesce dalla mia bocca, mi giro dal lato opposto accucciandomi su un fianco.
“Marylou, santo cielo, si può sapere che hai fatto?” continua imperterrita mia madre.
“Mmh” ho la bocca secca e impastata. Mi muovo ancora, la pancia quasi mi scoppia, ho la vescica piena. Piena di alcool.
“Beh, quando vuoi omaggiarci della tua presenza, sai dove trovarci” mi scuote la spalla, poi si gira e se ne va.
Dopo qualche minuto decido di alzarmi dal letto. Rimango seduta a guardarmi intorno per qualche minuto. La lunga serata di ieri è per me un grande blackout. Nero, nero come l’onice. Ciabatto fino al bagno strascicando i piedi, mi guardo alla specchio. Mi spavento. Sono in uno stato a dir poco disperato.
I capelli sono un groviglio castano di nodi imbizzarriti, ogni capello va per fatti suoi. La maglietta che indosso è al contrario, me ne rendo conto solo adesso e i pantaloni appartengono ad un altro pigiama. Come io li abbia trovati è un mistero.
“Lou! La pasta si gela, muoviti!” stavolta è mio padre che sbraita dalla cucina.
Mi butto dell’acqua fresca sul viso e mi lego i capelli in un cipollotto improvvisato. Le mie occhiaie sembrano gridarmi in faccia “tu, maledetta! Ricorda che cosa hai combinato!”.
Sarebbe bello, si. Sarebbe bello ricordare.
O forse no. Forse è meglio così.
Tra un dubbio e l’altro mi avvio in cucina e mi siedo. Mia madre è in piedi di spalle, lava già qualche piatto nel lavandino.
“Ma guarda chi c’è, la bella addormentata!”
Mio padre sta sbucciando una pera, mi osserva interessato.
“Dove siete state ieri sera? Vi siete divertite?” segue ogni mio movimento, mi scruta mentre prendo posto e scoperchio il mio piatto di bucatini.
Ne addento uno, sono un po’ freddi, ma mi piacciono lo stesso. Certo, bucatini per colazione non sono proprio il massimo ma … ci si accontenta.
“Si, si, siamo state proprio bene” sorridendo facendo la vaga. Altro bucatino.
“Mh. Dove siete state?” ripete. Ah, mio padre è furbo, non si lascerà fregare da me.
Se solo potessi ricordarmelo … ricordo solo di un pub, pieno di gente. Ricordo che faceva caldo.
“Mah, in un pub, in giro. Ci siamo sedute e abbiamo preso qualcosa da bere, poi abbiamo fatto una passeggiata e siamo tornate a casa” spiego frettolosa gesticolando. Altro bucatino.
Mio padre annuisce più volte. “Hai la maglietta al contrario” mi indica.
Mi fingo sorpresa. “Uh” ridacchio, mi sposto un capello dagli occhi. “È che … beh, era tardi, non ho acceso la luce per non disturbarvi”.
Mastico di fretta gli ultimi bucatini rimasti nel piatto, gli do una sciacquata veloce e lo ripongo nella credenza.
Mia madre mi sorride incuriosita, le dovrò sembrare strana, non so. Entrambi i miei genitori mi scrutano come se fossi un animale selvaggio nel suo habitat naturale.  Studiano le mie mosse e i miei movimenti.
La suoneria del mio cellulare arriva debole dalla mia camera, fortunatamente riesco a sentirlo per miracolo.
“Il telefono, scusate!” schizzo via e rispondo senza nemmeno guardare chi è.
“Si?”
“Lou!” la voce è quella di Eleanor e, non capisco per quale motivo, il suo tono mi provoca un moto di fastidio.
“Lou sei viva? Come ti senti?”  questa è Belle.
“Si, sto bene. Cioè, ho un po’ di mal di testa. In realtà ne ho veramente tanto” pausa per le risatine che ascolto attraverso la cornetta. “No, dico sul serio, ho la testa che mi scoppia!”
Le ragazze ridono ancora divertite.
“Christine dov’è?” domando incuriosita. Non ho ancora sentito la sua voce, di solito riesce ad imporsi su tutte.
“Christine è collassata ieri sera sul letto di Belle” mi spiega Eleanor con la voce divertita. “Dorme ancora, credo che il suo obiettivo di sballarsi sia stato decisamente raggiunto”
Sento Belle che parla, ma non capisco cosa dice.
“Ti ricordi qualcosa di ieri sera?” eccola la domanda che temevo di più. Puntualissima.
“Sarebbe meglio che lo facessi?” pronuncio le parole lentamente.
Dall’altra parte solo il silenzio.
“Ragazze?” mormoro preoccupata.
“Beh, ecco …” comincia Belle.
“Davvero non ricordi niente?” attacca Eleanor.
“No, davvero” rispondo sicura. “Vi prego, ditemi che …” le parole mi muoiono in gola.
“Puoi venire a casa di Belle? Dobbiamo farti vedere una cosa”.
Dieci minuti dopo sono in strada.
“Belle? Belle sono io, mi apri?” spingo il citofono, il portone si apre con uno schiocco.
Mi fanno sedere sul divano, accanto a me una Christine un po’ rimbambita, tiene in mano una tazza di caffè e la sorseggia di tanto in tanto.
“Credo proprio che non mi avvicinerò all’alcool per un bel po’” mormora con la voce roca.
“Stessa frase, la dici ogni domenica mattina” la rimprovera Belle paziente.
Incrocio le ginocchia, sprofondo nel divano e chiudo gli occhi per qualche secondo.
“Vi prego, ditemi cosa ho fatto” le supplico. Perché non mi rispondono? Sono seriamente preoccupata.
Eleanor e Belle si danno un’occhiata, poi Belle tira fuori il suo cellulare dalla tasca. Smanetta con le dita, poi me lo piazza davanti gli occhi.
Parte un video, faccio un po’ di fatica a capirlo, c’è una gran confusione. Persone che passano davanti l’obiettivo, brusii e risate. Poi mi blocco, il respiro in gola. Eccomi lì, con i gomiti poggiati sul bancone, il sedere a pizzo e il viso posato sulle mani. Di fronte a me due fossette abbelliscono un viso divertito.
Adam.
La mia mente lavora come un bambino di tre anni alle prese con un puzzle, prendo varie immagini della serata, le monto, provo un pezzo con un altro, finché non riesco a comporlo tutto.
“Oh mio Dio” scandisco con lentezza estenuante ogni lettera di ogni parola. “Adam … che cosa ho combinato”
Christine è interessata al video, indica lo schermo ridacchiando. “Ma guardati!”
Nel video mi volto di spalle rispetto ad Adam, il quale dapprima ha uno sguardo sorpreso e interessato che si tramuta però in un’altra risata. La mia bocca si muove, devo avergli chiesto di aiutarmi a tirare giù la zip del vestito.
Sant’Iddio, maledetta me.
Lui scuote la testa e ride, poi  ritira su la zip che ho slacciato a metà. Dalla mia espressione si capisce molto bene che sono estremamente contrariata dal suo gesto ma … eccola, Eleanor arriva veloce come un treno. Mi prende per un braccio, sputa qualche parola al cameriere che tenta appena di controbattere e il video si interrompe.
Rimango per un buon minuto in silenzio. Le mie amiche mi danno il tempo di macinare le notizie. Il mio cervello elabora, riflette … ma cosa ho fatto? Cosa?
“Devo scusarmi con lui” me ne esco all’improvviso.
“E tutto questo coraggio?” comincia Belle. “E comunque che ti importa, probabilmente non lo rivedrai mai più”
“Oh beh, grazie dell’aiuto” le rispondo storcendo la bocca.
“Non so se te ne sei accorta ma è un maniaco” gesticola Eleanor con un’espressione disgustata. “Poteva portarti in un angolo e … che ne so, violentarti!”
Christine ingoia un sorso di caffè. “Se lei è d’accordo non è stupro” spiega ridendo.
“Ragazze, cazzo, devo trovarlo. Devo chiedergli scusa” cerco di attirare la loro attenzione.
In realtà, il motivo non è solo quello. Il motivo è anche che sto letteralmente morendo dalla voglia di rivederlo, di parlarci di nuovo. E chissà che quest’estate qualcosa possa cambiare.
“D’accordo, d’accordo. Fai come ti pare. Ma il modo lo trovi tu” spiega pragmatica Eleanor.
“Potremmo riandare al pub, innanzitutto” propone Belle con un’alzata di spalle.
“Io ho un’idea migliore …” interviene Christine, si alza dal divano e posa la tazza sul tavolo. Ci guarda sorridendo.
Christine è tornata tra noi. 

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Capitolo 5
*** 5 ***


Con un tonfo Christine ripone la tazza lavata dove poco prima aveva sorseggiato il suo caffè. Ci spostiamo in camera, deve vestirsi e farsi una doccia veloce. Nel frattempo che va dal bagno alla camera da letto ci illustra il suo piano.
“Ragazze, è semplice” ripete di nuovo. “Louis è un suo amico. Basterà chiamarlo e spiegargli la faccenda” si sfila il pigiama, una maglietta larga che la copriva fino alle ginocchia, e indossa un vestito blu con una corda stretta all’altezza dei fianchi.
Poco prima Christine ci spiega che Louis è il cameriere che ci ha servite l’altra sera e che, fortunatamente, è un amico di Adam. Poco dopo il mio bel teatrino, Christine è riuscita in poche parole a rimorchiare Louis, il quale non ci ha pensato due volte prima di dargli il suo numero di telefono.
“Spiegami ancora  come sei riuscita ad avere il numero di Louis” chiede Belle incuriosita. “Insomma, eri ubriaca fradicia!”
Christine ride e fa l’occhiolino ammiccando. “Beh, sono i trucchi del mestiere, non posso mica svelarvi tutto”
Ridiamo, io scuoto la testa divertita.
“Quindi, come procediamo?” interrompe le risate Eleanor.
“Lo chiamo verso le quattro, gli chiedo se domani sera Adam lavora lì e, se la risposta è si … si esce di nuovo” Christine sorride, si traccia una  spessa linea nera di eye-liner sugli occhi.
Avrei dovuto aspettare ancora prima di rivederlo? Avrei dovuto aspettare all’incirca trenta lunghissime ore? Il mio cuore, che poco prima all’idea di rivedere quelle fossette adorabili martellava impazzito, ora affievoliva i suoi battiti intristito.
“Che muso che hai, Lou! Sta tranquilla, riuscirai a scusarti. Ne stai facendo una questione di vita o di …” Eleanor si interrompe all’improvviso. Rimpicciolisce gli occhi scrutandomi, assume un’espressione che va dallo stupito al sorpreso e  poi … poi mi sembra proprio al disgustato.
Mi inumidisco le labbra, la osservo, pronta ad una sfuriata.
“Ti piace! Oh Dio, lo sapevo! Ti piace!” dapprima ride, Belle e Christine assistono alla scena con un vago sorrisetto compiaciuto disegnato sul viso.
“Ehi aspetta un attimo” Eleanor si interrompe di nuovo.
“La tua personalità schizofrenica è preoccupante” interviene Belle, si siede sul letto accanto a me e accavalla le gambe magre.
“Sta zitta” le rivolge una veloce occhiata. “No, Lou, no” mima col dito.
Fatico a seguirla, che le prende?
“Ma dai, è un maniaco del cazzo!” afferma convinta, come se fosse una cosa ovvia e tutte noi avremmo dovuto saperlo. Ha un’espressione corrucciata, non distoglie lo sguardo dal mio viso.
Mi alzo dal letto come una molla, improvvisamente l’adrenalina mi scorre nelle vene. Insomma, sono sempre io, Marylou, la ragazzina timida che arrossisce per un nonnulla, che si vergogna quando sta con un ragazzo, che parla poco e ha paura di prendere una posizione. Ma Adam … non so proprio per quale strano motivo questo ragazzo mia stia facendo questo effetto.
“La vuoi fare finita?” le sputo addosso le parole con cattiveria.
Eleanor rimane per qualche secondo in silenzio, spiazzata dalla mia reazione, così come tutte le altre. Perfino Christine, che mi conosce da otto anni, rimane interdetta.
“Scusa, come hai detto?” Eleanor stenta a crederci.
“Hai capito perfettamente, Eleanor. Smettila di trattarmi come una stupida. Smettila di metterti in mezzo. So scegliere da sola, so cos’è meglio per me” le parole mi escono dalla bocca come un fiume in piena, ho i battiti accelerati, stringo i pugni e le nocche mi sbiancano.
“Beh, scusa volevo solo darti una mano, ti ho soltanto detto di fare attenzione a quel maniaco del …”
“Smettila di ripeterlo! Smettila ok? Non mi ricordo granchè della serata di ieri, ma so per certo che non è un maniaco del cazzo” comincio a calmarmi, il mio tono è più pacato. Cerco di far capire ad Eleanor che va tutto bene. “Davvero, so cavarmela da sola”
Eleanor abbassa lo sguardo, si osserva le scarpe imbarazzata. Poi annuisce.
“La nostra Marylou sta crescendo!” ridacchia Christine. Belle, che era rimasta tesa come una corda di violino fino a quel momento, si rilassa e si concede un largo sorriso.  
“D’accordo” si vede lontano un miglio l’enorme sforzo che costa ad Eleanor pronunciare quelle parole. “Mi dispiace, fa come vuoi” addolcisce la frase con un sorriso. Poi per un attimo torna seria ed alza il dito. “Ma quando sarai nei guai, beh, io sarò lì” mi poggia una mano sulla spalla con fare consolante. “Sarò lì per dirti che te l’avevo detto!” conclude ridendo.
Scuoto la testa con un sorriso tirato. “Oh, in questo caso, beh, vaffanculo!” ridiamo tutte. Ci rilassiamo, Belle guarda l’orologio e mi fa l’occhiolino: sono le 15 e 48.
“Sono quasi le quattro … “canticchia con voce melodiosa.
Il mio cuore saltella imbizzarrito. Sorrido, sento le guance che avvampano, il sangue le colora velocemente.
“Direi che possiamo anche evitare di aspettare le quattro precise, su” Christine, impaziente, prende il cellulare in mano.
Mi affaccio ansiosa ad osservare i suoi movimenti. Scorre la rubrica con la punta del dito. Laurel, Layla, Lily, Lisa, Louis. Clicca il nome, sul display appaiono tre semplici parole: chiamata in corso. Christine mette il vivavoce.
Uno squillo.
Due.
Tre.
“Pronto?”  

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Capitolo 6
*** 6 ***


Guardo la sveglia che risplende di una tenue luce sul mio comodino. Segna le 03:18 e io me ne sto arrotolata nella coperte del mio letto come fossi un kebab. Ho gli occhi sbarrati, di dormire non se ne parla proprio, l’ansia mi fa gorgogliare lo stomaco. Non riesco a distinguere se ho fame o se sto per vomitare. E la cosa mi preoccupa non poco. Con un gesto secco mi levo le coperte di dosso, fa veramente caldo. Mi giro e rigiro in continuazione, non riesco a trovare una posizione comoda. Nella mente mi si propongono un paio di occhi verdi che mi guardano. Ci vedo dentro una foresta nascosta, ci vedo dentro dell’erba bagnata da una spruzzata di rugiada alle prime ore del mattino. Ci vedo dentro lui.
Mi costringo mentalmente a chiudere gli occhi, ripercorro la giornata di ieri: la mia corsa a casa di Belle, il video di sabato sera, la litigata con Eleanor e la telefonata di Christine …
***
“Ehi bella, pensavo non mi chiamassi più!” la voce di Louis è dura e vibrante, arriva forte e chiara dalla cornetta del telefono.
Christine alza gli occhi al cielo. “Non è passato nemmeno un giorno intero!” gli fa notare.
“Visto? Già mi manchi”
Le faccio cenno di sbrigarsi, non ha messo il vivavoce per renderci partecipi dei loro flirt. Annuisce.
“Louis, ti volevo chiedere una cosa” comincia Christine.
“Chrissy, usciamo quando vuoi” risponde con atteggiamento da spaccone.
“Punto uno, non chiamarmi in quel modo” la voce di Christine è ferma e irremovibile. Poi si addolcisce. “Punto due, beh, usciremo insieme, ok. Ma la domanda è un’altra e riguarda il tuo amico Adam”
Solo al sentir pronunciare il suo nome, posso captare l’accelerazione del mio battito cardiaco. So di star esagerando, so che il mio miglior talento è quello di riuscire a farmi aspettative su aspettative per poi rimanere delusa, ma è più forte di me.
“Adam?” ribatte Louis dubbioso.
“Si, non è per me è per …” Christine si schiarisce la gola e mi guarda con la coda dell’occhio. “Per quella mia amica ubriaca, Marylou” spiega brevemente.
“Ah, è così che si chiama? Simpatica, davvero, un po’, ecco …” sembra cercare la parola adatta. “Disinibita, se vogliamo chiamarla così” ride  tra sé e sé.
Mi viene voglia di rispondergli, ma sto zitta.
“Si, d’accordo” lo zittisce Christine. “Sai dirmi quando può rincontrarlo lì?”
Ho il cuore in gola mentre aspetto la risposta.
“Non so che dirti, io ho una settimana di ferie, tesoro, ma ieri sera abbiamo avuto una mezza discussione. Si incazza perché a fine serata mi ubriaco sempre. Dice che esagero” spiega, enfatizzando l’ultima parola.
Oh, quindi pure se lavora in un pub, non è uno di quegli alcolizzati che ogni sera si trovano una ragazza da portarsi al letto. Mi sento molto sollevata. Sorrido, ma poi torno improvvisamente seria. Se Louis non lo sente più, come lo ritroverò? Non posso passare ogni sera al pub!
“Beh, non sai dove possiamo trovarlo?” insiste Christine.
“So soltanto che tutte le mattine, più o meno alle otto va a correre al parco. La adora, adora stare all’aria aperta e in più dice che gli serve per rimanere in forma” ci aggiorna, poi tossisce e dalla cornetta proviene un suono gracchiante.
Christine sorride eccitata. “Ma è perfetto! Grazie Louis, sei stato un tesoro”. Oh, se solo avesse potuto vedere i suoi occhi dolci, Louis si sarebbe sicuramente sciolto.
***
Lo stomaco mi si aggroviglia ora che ripenso che  tra soltanto quattro ore – si, nel frattempo è passata un’ ora – potrò incontrare Adam. Certo, il parco è piuttosto grande, non sarà facile incontrarlo. Ma mi sento fortunata. E correrò anche venti kilometri di fila se questo può servire a trovarlo.
Mi volto di nuovo verso l’orologio, la sveglia è fissata per le sette. Credo di essere l’unica persona di diciassette anni che durante le vacanze estive si sveglia alle sette di mattina. Ma chi se ne frega! Per Adam questo ed altro.
La sveglia squilla, mi sbrigo a stopparla per non far svegliare i miei. Cinque secondi e sono già in piedi. Mi tuffo sotto la doccia e mi do una veloce sciacquata, dopodiché esco e mi lego i capelli in una coda. Indosso un paio di pantaloncini corti blu, sopra metto una maglietta bianca larga e comoda. Nella tasca posteriore infilo il cellulare e sono pronta.
Imbocco la porta di casa e la chiudo senza fare il minimo rumore.
Dopo quattro fermate di metro arrivo a destinazione: il parco si estende di fronte a me, sono le otto precise di un caldo lunedì mattina di giugno. Prendo un grande respiro e mi avvio, cominciando a correre lentamente.
I miei occhi sono vigili, si guardano intorno, scrutano e analizzano ogni metro quadrato della distesa erbosa che mi circonda. È deserto.
Comincio ben presto a sudare, ho già percorso buona parte della stradina sterrata che si articola tra gli alberi, di Adam nessuna traccia.
Proprio quando sto per perdere la speranza, scorgo dei ricci in lontananza. Ho il fiatone, accelero la corsa, cerco di darmi un tono.
Espira e inspira, Lou.
Espira e inspira.
Sono a qualche metro da lui. Corre al mio ritmo, ha una tuta nera e una maglietta grigia. I suoi capelli hanno un colore leggermente più chiaro di come me lo ricordavo.
Cerco di sembrare il più naturale possibile quando gli passo accanto. Con la coda dell’occhio lo osservo e … un paio di occhi castani mi osservano dubbiosi, poi tornano a guardare fissi davanti a sé.
Rallento la corsa delusa, lo sconosciuto mi sorpassa continuando il suo percorso.
Ma che pensavo, di venire qui, correre per qualche metro, e ritrovarmelo davanti? Che stupida. Che illusa.
Ho i polmoni che bruciano, ho bisogno d’aria. Non sono per niente abituata a correre. Lo sport più faticoso che ho mai fatto è stata al massimo un’ora, due di tapis roulant in una settimana. Triste, lo so. Ma che ci posso fare?
Qualche passo più in là vedo una fontanella, l’acqua sgorga rumorosamente, mi ci fiondo impiegando gli ultimi sprint che mi rimangono. Mi sciacquo le mani e mi tiro un po’ d’acqua fresca sul viso.
Che caldo.
Mi abbasso per bere, rimango sotto la fontanella a  sorseggiare l’acqua un po’ per volta. Poi, il caldo ha la meglio su di me. Immergo la testa sotto il getto fresco dell’acqua e ci rimango per un po’.
Finchè non sento qualcuno schiarirsi la voce proprio dietro di me …
Mi tiro fuori dal getto in fretta, tossendo di tanto in tanto. Ho i capelli zuppi, ma fortunatamente sono rimasti sigillati nella coda. Mi stropiccio gli occhi appannati, poi sorrido di fronte a me.
È in quel momento che mi blocco. Si, mi blocco. Rimango proprio immobile. Sento le ossa pietrificarsi, lo stomaco si fa pesante e le mani mi tremano. È Adam, ed è proprio di fronte ai miei occhi. 

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Capitolo 7
*** 7 ***


“Ma guarda chi si vede” Adam ride, sembra sorpreso quanto me ma riesce a trattenere le emozioni, diversamente da come faccio io.
Inghiotto un malloppo di saliva che mi tappa la gola, ma di formulare frasi di senso compiuto non se ne parla proprio. Così sorrido, o almeno ci provo. Devo avere un’espressione patetica. Tanto per continuare a fare una bella impressione.
Adam indica la fontanella, poi mi guarda. “Hai fatto?” mormora. “Voglio dire, ti sei fatta una bella doccia” ride.
Eccole lì, le fossette. Di rimando sorrido anche io, non riesco proprio a trattenermi.
Si china per bere un po’ d’acqua, si pulisce le labbra con il dorso della mano. “Che c’è, non parli più? Vivi solo la sera, la mattina sei in coma?” mi domanda incuriosito.
Qualche goccia di sudore gli imperla la fronte, ma i suoi occhi verdi attirano la mia attenzione. Stamattina con questa luce sembrano ancora più verdi, sono magnetici, non riesco a distogliere lo sguardo.
Lou, dovresti dire qualcosa.
“Oh, beh, è proprio di questo che volevo parlarti” la mia voce è leggermente tremolante, ma la tengo bassa, cercando di mascherarla. Parlo lentamente, non voglio che l’emozione mi tradisca.
“Cioè?”
“Dell’altra sera. Io … io non sono così in realtà. Sono normale. Un po’ di più. Non rido così tanto.  Davvero. E soprattutto non … non flirto spudoratamente in quel modo. Lo giuro. Oh mio Dio, sto straparlando, vero?” sto lentamente andando nel panico, così mi costringo a rimanere in silenzio per qualche istante.
Zitta, Lou, zitta!
Adam sfoggia un gran sorriso, sembra un ventenne che parla con una bambina di dieci anni innamorata di lui.
“Sta tranquilla, sono abituato a certi comportamenti” mi dice annuendo tra sé e sé. Si guarda intorno, ravvia i riccioli con la mano. Poi si sporge verso di me. “E comunque, non ho mai detto che mi ha dato fastidio” confessa ammiccando.
Oddio, mi tremano le ginocchia. Allungo una mano verso la fontanella e mi ci appoggio, cerco di ostentare disinvoltura.
Sento le mie guance colorarsi, ma immagino che sarò comunque rossa per via della corsa e ringrazio il cielo per questo. “Beh, ci tenevo lo stesso a scusarmi. Non mi capita spesso di cercare di spogliarmi in pubblico”
“In ogni caso, è un peccato che la tua amica ci abbia interrotti. Mi stavo davvero divertendo” Adam allarga il suo sorriso, le fossette sempre più evidenti mi fanno venir voglia di abbracciarlo. Stavolta però riesco a mantenere la mia posizione, sia mentale che fisica, stabile.
Mi schiarisco la gola devo distogliere lo sguardo dai suoi occhi, mi mettono in soggezione.  “Pensava fossi un maniaco” gli spiego vagamente mentre lui ride.
Si sposta verso di me e un po’ di terriccio gli sporca le scarpe. Mi osserva più da vicino e sorride. Involontariamente indietreggio, quella sensazione di panico che mi prende nella maggior parte delle situazioni della mia vita, fa capolino nel mio stomaco.
“Ti spavento?” Adam si blocca, ma continua a guardarmi.
“No, no. No, ti pare” balbetto. Guardo il display del cellulare, fingo una faccia sorpresa. “Ma è tardissimo! Tanto ti ho parlato, ti ho chiesto scusa e … si, tutto risolto” mi rivolgo più a me stessa  che a lui.
Improvvisamente è il panico che mi fa parlare, non sono più io. Ho rovinato tutto un’altra volta. Del resto, è ciò che mi riesce meglio.
“Aspetta, ti prego” mi prende per un braccio fermandomi. “Facciamoci una corsa insieme, no? Cos’avrai di così importante da fare? La scuola è finita, giusto?” mi fa notare, i suoi occhi ora sono verde speranza.
Mi guarda come un cucciolo affamato. E io, io che faccio? Che faccio adesso?
“Ma si, dai. Il mio impegno può aspettare” cedo infine.
Sorride raggiante. “Andiamo per di qua?” mi indica con la mano.
Annuisco e cominciamo a correre lentamente. Dopo qualche metro ho già il fiatone, un’altra volta. Impiego ogni fibra del mio corpo per non dare a vedere che sono stremata, mentre lui sembra totalmente a proprio agio. Ogni tanto si volta a guardarmi quando rispondo alle sue domande, io evito il suo sguardo, mi imbarazza. Fisso dritto davanti a me, quando lui non mi nota, però, lo sbircio con la coda dell’occhio.
Adam mi fa un effetto stranissimo. Mi sento bene con lui, mi dà  come l’impressione che ascoltarmi stamattina mentre corriamo sia tutto ciò che vuole fare. È come se ci conoscessimo da un bel po’, come se fossimo due vecchi amici che si incontrano per caso una mattina di giugno.
“E quindi sei figlia unica” conclude. Mi supera di qualche passo, lo vedo rallentare.
“Si. Ah, scusa è che non corro spesso” confesso.
In realtà non corro mai.
“Sei in forma lo stesso, tranquilla” mi assicura, con uno sguardo percorre il mio corpo. Il viso mi va in fiamme.
Mi fermo all’improvviso e mi abbasso, fingendo di allacciarmi una scarpa, per coprire la mia espressione imbarazzata.
“Sei molto timida, vero?” si inginocchia proprio di fronte a me, il suo viso è a una spanna dal mio. Riesco a sentire il suo fiato sulla punta del naso. Si inumidisce il labbro inferiore in attesa della risposta e continua a guardarmi. Ha un’espressione giocosa, sa di mettermi in imbarazzo e pare che questo lo diverta molto.
“Credi che io lo sia?” mi alzo velocemente e ricomincio a correre, lasciandomelo alle spalle.
Lo sento ridacchiare e rincorrermi, ma ancora non riesce ad affiancarsi a me.
“Credo a quello che vedo” dice criptico.
Se riesco ad evitare i suoi occhi, mi sento più tranquilla, quindi mantengo lo sguardo sulla strada, precisamente sui miei piedi. I polpacci sono molto doloranti e le mie cosce potrebbero cedere da un momento all’altro.
Decido di fare la misteriosa anche io. “E sentiamo, cos’è che vedi?”
“Una bambina timida che si vergogna di tutto” la sua voce mi giunge vicina, troppo vicina. Dopo aver pronunciato la frase nel mio orecchio con voce divertita e sensuale, mi dà una spinta da dietro.
Avendo le gambe parecchio affaticate, ovviamente, scivolo e cado rovinosamente a faccia avanti.
“Cazzo!” impreco allungando le vocali, mentre cerco di limitare i danni allungando le braccia per pararmi.
Adam mi viene dietro, si accuccia sull’erba accanto al mio corpo sdraiato. Mi tiro su, in ginocchio, cerco di darmi un tono.
“Scusa, davvero scusa Lou!” ripete in continuazione.
È la prima volta che mi chiama col mio nome abbreviato. Nonostante il dolore e l’imbarazzo, non riesco ad evitare di rabbrividire.
“Sono un vero idiota” mormora affranto. “Dai, ti aiuto ad alzarti” mi prende le mani, poi si alza. Rimango aggrappata a lui e vengo issata in piedi. I muscoli dei suoi avambracci guizzano ed io rimango per un istante intontita. Anche per via della botta, certo. Il mio corpo è poggiato contro il suo e soltanto ora mi rendo conto della sua altezza, che sovrasta di almeno dieci centimetri, se non di più, la mia.
“Gra … ahia!” una fitta di dolore mi prende al ginocchio sinistro non appena lo allungo. “Mio Dio che male” abbasso lo sguardo per controllarlo e con la mano lo tasto. È gonfio e di lato, verso l’interno, si espande una bella ferita sanguinante. Devo aver dato una bella botta!
“Merda. Senti, il minimo che posso fare è medicartela, adesso ti porto da me, ho la macchina appena qui fuori. Sta tranquilla. Ce la fai a camminare?” Adam parla veloce come una macchinetta.
Dal suo tono urgente sembra quasi che io mi sia completamente aperta un ginocchio e che il sangue stia imbrattando tutto il prato che ci circonda.  
“No, non preoccuparti, sono venuta con la metro, casa mia è a quattro fermate, sta tranquillo tu!” gli assicuro, muovo qualche passo zoppicante, cerco di addrizzare la schiena quanto posso, ma il bruciore insidioso della ferita mi costringe a  stare un po’ piegata.
“La ferita è sporca, non lo vedi? Va pulita. E comunque, la colpa è mia e io mi prenderò cura di te” afferma con tono deciso, dopodiché mi si avvicina pericolosamente. Una sua mano mi stringe saldamentei fianchi, l’altra si insedia sotto le cosce afferrandole. Con un gesto fluido mi tira su come fossi una bambola di pezza.
“Mettimi giù, ce la faccio!” mi lamento dimenandomi, ma non c’è verso di fargli cambiare idea. Ignora i miei tentativi di fuga, ma continua a guardare fisso di fronte a sé, un sorriso fiero stampato sulle labbra.

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Capitolo 8
*** 8 ***


  “Ahia”
“Stai ferma”
“Ahia!”
Ferma, abbiamo quasi fatto”
“AHIA!”
Adam getta nel cestino l’ennesimo batuffolo di ovatta, esibisce un’espressione parecchio scocciata, mi guarda con le palpebre abbassate in segno di disapprovazione.
“Un bambino dell’asilo con un palo infilato nello stomaco saprebbe mantenere la calma meglio di te” afferma, nel frattempo strappa un po’ d’ovatta e la bagna con qualche goccia di disinfettante.
“Un malato di Parkinson, invece, avrebbe la mano più ferma e delicata della tua” controbatto e indietreggio sulla tazza del water chiusa allontanandomi dalla sua mano.
“Non hai la minima idea di quanto possa essere delicata la mia mano in certe situazioni” mi guarda per un istante sorridendo sornione. Io arrossisco e distolgo lo sguardo dal suo viso divertito. Ci gode proprio a mettermi in imbarazzo.
“Disinfetta, forza” gli ordino per cambiare discorso.
“Ai suoi ordini” ridacchia. Avvicina il batuffolo impregnato di acqua ossigenata alla mia ferita ormai pulita, la tampona ripetutamente, rallenta e addolcisce il tocco della mano quando sente il mio respiro appesantirsi.
Con la mano libera mi tiene il ginocchio bloccato per impedirmi di muovermi. Poi comincia a spostarla lentamente, risalendo la mia coscia verso l’interno. I suoi occhi seguono i suoi movimenti, poi controllano il mio viso per decifrarne l’espressione, totalmente catturata dal panico. Sulle sue labbra si disegna un sorriso sghembo, mentre i miei occhi si riducono a due fessure. Facendo pressione sulle sue ginocchia si alza quel poco che serve per arrivare col viso alla mia altezza. I suoi occhi sembrano enormi visti da così vicino, si colorano di un verde talmente rigoglioso che per un attimo mi sembra davvero di stare in mezzo ad una foresta deserta. La sua mano continua a risalire la mia coscia fino a trovare il bordo dei pantaloncini, col quale comincia dolcemente a giocare. Si avvicina un altro po’, inserendo il suo busto tra le mie gambe tremanti. Il mio respiro si fa prima veloce e sento il mio cuore battere come quello di un cardellino spaventato. Quando la punta del suo naso sfiora la mia, l’ossigeno che cercavo di accumulare sparisce del tutto e io mi ritrovo in apnea. Trattengo il fiato, in attesa che le sue labbra tocchino le mie, indecisa se voglio davvero che lo facciano oppure no. Adam inclina il viso leggermente verso destra, la sua mano si infila con lentezza estenuante appena sotto il bordo dei miei pantaloncini. Mi lascio sfuggire quello che sembra un gemito, ma che voleva essere un tentativo di riprender fiato. Improvvisamente Adam si blocca, sento il suo fiato vibrare accanto alle mie labbra: sta ridendo. Poi velocemente mi stampa un bacio rumoroso su una guancia e si alza con un movimento fluido.
“Bisogna mettere un cerotto” afferma trattenendo a stento una risata.
Mi gira un po’ la testa, ancora mi sento confusa, spaventata e tremante per quello che è appena avvenuto. Per una qualsiasi persona non sarebbe significato niente, ma per me, che non ho nemmeno dato un minimo bacio a una persona di sesso maschile … beh, l’infarto che mi è quasi preso attesta il fatto che mi lascio trasportare troppo facilmente dalle emozioni.
Adam mi è di è spalle, fruga con la testa bassa in un piccolo cestino di corda beige. Mi porto le mani sul viso, approfittando della sua distrazione, prendo due lunghi e rilassanti respiri.
“Perfetto” mormora voltandosi di nuovo.
Con un movimento veloce ritorno nella mia posizione iniziale, le mani posate sul bordo della tazza.
Adam si abbassa di nuovo, toglie l’involucro di protezione al cerotto.
Con le mani gli faccio cenno di fermarsi. “Faccio io, ci riesco” lo blocco e mi allungo per prendere il cerotto.
Lui se lo nasconde dietro le spalle. “Non costringermi a versarti il disinfettante sulla ferita” mi minaccia.
Sospiro e desisto dalla mia impresa. Chissà per quale motivo, sono quasi sicura che non avrebbe nessuna paura di farlo sul serio.
“O a farti venire un altro arresto cardiaco” aggiunge dopo poco, trattenendo un risolino.
Sento le guance che avvampano, scuoto la testa e alzo gli occhi al cielo. “Sta zitto” gli intimo.
Fa ben aderire il cerotto alla mia ferita, dopodiché si alza. “Vieni ti offro qualcosa da bere. Magari una bella birra, così ti rilassi un po’” allude e mi dà un buffetto sulla guancia.
“Vaffanculo” mormoro con la voce imbarazzata. Mi alzo e faccio per seguirlo, ho il cuore in gola.
Lo seguo in cucina sempre zoppicando, la ferita mi tira ma va comunque meglio di prima. Il parquet scricchiola sotto ai miei piedi, è un rumore che adoro, ha un non so che di familiare e mi tranquillizza facendomi sentire a casa, 
“Siediti sul divano” mi indica un divano a due posti ricoperto da un telo blu scuro dietro di me. Faccio come mi dice, prendendovi posto. Accavallo le gambe e lo seguo con gli occhi mentre si dirige verso un bancone che fa da cucina. Apre il frigo e passa qualche minuto contemplandolo.
La cosa che più mi colpisce della sua casa è l’assenza di cornici. Non c’è nemmeno una sua foto, né di lui, né di nessun altro familiare.
“Vivi da solo?”gli domando.
Adam tira fuori una Carlsberg dal frigorifero, la stappa con un cavatappi nero. Prima di rispondermi ci appoggia le labbra sopra e ne sorseggia un po’.
“Si” dice soltanto. Prende un bicchiere dalla credenza e vi versa due dita di birra. Lo vedo venire verso di me, si siede sull’altro sedile del divano e mi porge il bicchiere. “Non stavo scherzando” afferma serio.
Spalanco gli occhi. “Ti ho cercato per scusarmi del mio comportamento di sabato sera per via dell’alcool e tu che fai? Me ne offri dell’altro?” gesticolo senza prendere il bicchiere.
“Mi hai cercato apposta per questo? Per chiedermi scusa? Davvero non c’è nessun altro motivo? Mi sembra strano che una ragazza faccia le poste ad uno sconosciuto solo per scusarsi di aver flirtato con lui” beve un altro po’ di birra, poi poggia il bicchiere sul tavolino di cristallo di fronte a noi.
Distolgo lo sguardo. “Parlami di te” cerco di distrarlo. Non voglio rispondergli.
“Rispondi alla mia domanda” non desiste, anzi, posa la sua birra accanto al mio bicchiere sul tavolino, il suo sguardo inchioda i miei occhi.
Adam è diverso da come me lo immaginavo. Ora mantiene quest’espressione seria, sembra che sapere cosa provo sia una cosa fondamentale per lui. Ma ci conosciamo da appena due giorni (più precisamente, da una sera e una mattina). Mi tratta come se fossimo compagni di scuola o colleghi di lavoro. Questo suo modo di prendere subito confidenza mi piace, è la spinta che mi serve per accantonare un po’ della timidezza che mi blocca sempre. Ma ora sembra che il silenzio sia l’unica cosa che mi esce dalla bocca.
Abbasso lo sguardo e apro le labbra per dire qualcosa. Si, ma cosa?
“Vivo da solo perché ho scelto di vivere da solo. Tutto qua. Ho ventitre anni, ho frequentato il liceo classico, sono uscito con ottantadue alla maturità. Pensavo che mi avrebbe aiutato a trovare un  bel lavoro, ma mi sono tenuto a distanza dall’università. Morale della favola: lavoro tutte le sere in un maledetto pub, mentre tre volte alla settimana faccio il commesso da decathlon. Riesco a malapena a pagare il mutuo della casa, fortunatamente alcune … persone amiche … mi danno una mano. E questa è la mia vita, tutto qua” parla velocemente, come se stesse riassumendo un’opera letteraria a degli alunni di terza media. Si inumidisce il labbro inferiore, poi mi sorride. “Non fa niente se non vuoi rispondermi” mi rassicura dopo poco.
Gli sorrido intimidita. Sto facendo fatica a restare al passo coi suoi pensieri. Corrono veloci come lui e io, come al solito, rimango indietro.
So che la sua vita non è tutta lì, lo capisco dal suo sguardo. Lo capisco dal modo in cui si guarda intorno, dal modo in cui osserva le pareti spoglie e i tavoli vuoti. C’è dell’altro sotto, ma io ancora non ho il permesso di accedere alla sua mente per scoprirlo.
Ha un’espressione vulnerabile mentre mi sorride mostrando le fossette, improvvisamente mi sembra tanto piccolo quanto solo. Gli sfioro il dorso della mano con le dita.
“Grazie del cerotto” gli dico. Vorrei aggiungere che io per lui ci sono, che anche se ci conosciamo da meno di un giorno mi sembra di capirlo meglio di chiunque altro. Vorrei dirgli che su di me può fare affidamento, che non lo giudicherò. Che mi piace più di ogni altro ragazzo sulla faccia della terra e che mi fa un effetto allo stomaco che mi spaventa e elettrizza allo stesso tempo.
Ma rimango zitta, quel lungo silenzio che ci avvolge parla per me e lui mi rivolge uno sguardo comprensivo, sembra quasi avermi letto nel pensiero.
“Oggi lavori da Decathlon?” gli chiedo, mantengo la voce bassa, ho quasi paura di rovinare quel momento. 
Storce la bocca contrariato. “Si” sospira. Vuol dire che non possiamo stare ancora insieme. “Ma puoi venire al locale, stasera” mi propone, gli occhi che si illuminano. “Se ti va” aggiunge.
“Mi piacerebbe, ma … devo … devo chiedere” butto lì la prima cosa che mi viene in mente. Ma perché uscire la sera mi manda nel panico? Mi si scollega il cervello ogni volta che ci penso.
Annuisce sconsolato. “Spero di vederti. Altrimenti domani verrò a casa tua” dice illuminandosi di un sorriso.
Come fa presto a riprendersi dalle brutte notizie!
“Non sai dove abito” gli faccio notare con un sorriso giocoso.
“Qualcuno dovrà pur riaccompagnarti a casa oggi, no?” mi fa l’occhiolino. Sa già di avermi completamente in pugno. 

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Capitolo 9
*** 9 ***


Come immaginavo, non sono riuscita a trovare il coraggio di uscire anche la sera. Christine mi ha tartassato di telefonate e sms per tutto il pomeriggio, ma non le ho risposto neanche una volta e alla fine ho spento il telefono. Non avevo voglia di parlarle, in realtà non avevo voglia di parlare con nessuno. Né tantomeno ora, la mattina dopo. Mi sveglio intorno alle nove e mezza, faccio colazione con una coppetta di gelato alla stracciatella avanzata. Fa caldo, accendo il ventilatore e mi ci siedo di fronte. Intanto le note della canzone Your Body di Christina Aguilera risuonano alla radio e io canto urlando. Quanto amo avere la casa vuota. Mi sento una strana vibrazione nelle vene. Mi sento bene, stamattina, l’ansia di ieri è sparita. Mi è servita una bella dormita, avevo bisogno di riflettere e anche se non sono arrivata a nessuna conclusione, sto meglio.
Il mio cellulare squilla  insistentemente. Leggo il display: Christine.
Sbuffo, ma decido di risponderle, almeno dopo non mi chiamerà più. Spero.
“Christ…”
“Brutta stronza! Ti ho chiamato almeno venti volte ieri!” mi rimprovera, la sua voce gracchia attraverso la cornetta.
“Ho … dormito” balbetto in fretta alla ricerca di una scusa.
Posso immaginarmi perfettamente Christine che alza gli occhi al cielo. “Ma smettila! Comunque, per stavolta sei perdonata Lou, ma che non succeda più” mi intima.
Annuisco. “D’accordo, d’accordo” le concedo con un lungo sospiro.
Rimane in silenzio per qualche secondo, come se si aspettasse qualcosa da me.
“Allora?!” gracchia infine.
“L’ho incontrato” ammetto.
“E …?”
“E ci ho parlato”
“Bene. E …?”
“E abbiamo corso insieme”
“Oh sant’Iddio, vuoi dirmi che avete fatto o devo continuare a estrarti le parole di bocca con la forza?” Christine sputa tutte le parole d’un fiato.
Mi viene da ridere, la sua curiosità mi diverte. “Ok. Beh, mi sono scusata, lui ha detto che è abituato a questo tipo di cose. Abbiamo corso un po’, poi mi ha spinto e io sono … sono volata per terra a faccia avanti. Mi ha portata da lui e mi ha medicato il ginocchio, che mi sono ferita alla grande” prendo una pausa per fare mente locale. “Ha cercato di baciarmi” sgancio la bomba e taccio.
Posso giurare di sentire il respiro di Christine che si tramuta in un urletto di gioia. “Che hai detto?” mi domanda allungando la vocale “e”.
“Che sono caduta?” faccio la vaga.
“No, dopo” pazientemente, Christine sta al mio gioco.
“Che mi ha medicato il ginocchio?”
“Giuro che adesso vengo da te e ti prendo a botte. Te lo rovino quel bel faccino innocente, Lou, stavolta te lo rovino!” ride a gran voce mentre mi minaccia scherzosamente.
“Dai, come sei suscettibile! Comunque, si, mi ha quasi baciato. Ma devo essergli sembrata veramente nel panico perché si è allontanato di scatto ridendo e dopo ripeteva di avermi quasi fatto prendere un arresto cardiaco” dico risolutiva.
Christine ride, la sento quasi soffocare nella cornetta. Va avanti per un bel po’.
“Che tenera!” mi parla con voce dolce.
“Smettila di prendermi in giro, mi fai sentire come una bambina deficiente” ridacchio assieme a lei.
Passiamo una buona ora al cellulare, chiacchierando del più e del meno. La “grande Christine” mi dà qualche consiglio su come devo comportarmi con Adam.
“Sbatti gli occhi, allunga le ciglia col mascara! Sfioragli il braccio con la mano, guardandolo negli occhi e morditi il labbro”
Tutti movimenti che solo a pensarli mi fanno colorare le guance di rosso.
Attacco il telefono, mi piazzo di nuovo di fronte al ventilatore. Non voglio proprio fare nulla oggi. Ieri mi sono sforzata per sembrare simpatica. Fare nuove amicizie mi stressa, mi porta via tutte le energie. Mi stupisco, fisicamente sarei pronta a saltare sul divano per ore, ma psicologicamente sono esausta.
Poi il campanello trilla facendomi sobbalzare. 
Mi alzo da terra, mi abbasso un po’ la maglietta larga e stropicciata che uso come pigiama. Apro la porta senza nemmeno pensare a chi è.
“Aaaaah!” tre pazze urlano insieme e mi saltano al collo a braccia aperte.
Christine, in prima fila come sempre, Belle ed Eleanor mi abbracciano forte soffocandomi tra i loro corpi profumati.
Le invito ad entrare, diversamente da come immaginavo, mi fa piacere averle qui.
Ci sediamo a terra sul tappeto, la radio urla una canzone techno sconosciuta. Soltanto Belle la conosce e comincia a muovere la testa a tempo.
Porto qualche bicchiere di carta e una bottiglia di coca cola e mi accovaccio a gambe incrociate accanto a loro.
“Siamo venute qui per i dettagli, sappilo” attacca Eleanor.
Dopo essermi fatta pregare e supplicare – giuro! – a sufficienza, mi dilungo nei dettagli. Parlo perfino della mano sul bordo dei pantaloncini. Mentre descrivo quel momento studio bene l’attenzione di Eleanor. Si morde il labbro, muore dalla voglia di rimproverarmi per qualcosa di sbagliato, ma forse un briciolo di buon senso che le rimane la fa tacere.
Quando termino il mio resoconto Christine per poco non si commuove. “Ti rendi conto che nel giro di pochi giorni potresti essere fidanzata?” mi domanda con gli occhi eccitati.
Annuisco con un sorriso.
In realtà no, non me ne rendo affatto conto. Innanzitutto perché so che, a dirle ad alta voce, le cose belle non accadono. E poi non riesco ad immaginarmi fidanzata. Non riesco ad immaginarmi mano nella mano con un ragazzo, oltretutto ventitreenne. L’ansia che mi scaturisce questa domanda di Christine mi riempie lo stomaco.
Tutti quando si innamorano hanno le farfalle nello stomaco, ma non è il mio caso. Io, l’eterna diversa, sono diversa anche in questo. Il mio stomaco si popola di ansia: tanti, infiniti, eterni atomi di ansia, che si tengono per mano e ridono beffandosi di me e del mio cuore che batte veloce.
Eleanor si alza improvvisamente e alza il volume della radio. Le note di Die Young di Kesha risuonano per tutta la casa. Noi ci alziamo tutte e in piedi e  sembriamo quattro pazze quando cominciamo a saltare in ogni angolo della stanza, Belle mi prende per mano e insieme giriamo in tondo per un po’. Christine si struscia al muro con fare provocante, poi scoppia a ridere.
Nell’intervallo tra una canzone e l’altra, nel quale tutte riprendiamo fiato, il campanello trilla due volte di seguito.
Testimoni di Geova o controllore del gas? Scocciata mi dirigo verso la porta, mentre le ragazze riprendono a ballare.
Apro la porta di scatto.
“C’è una festa e non mi inviti?” i ricci neri di Adam luccicano sotto questo sole caldo che ci cuoce. Sorride, le fossette formano delle ombre sul suo viso candido.
“Cazzo” balbetto silenziosamente.  

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Capitolo 10
*** 10 ***


“Ciao Adam, fa piacere anche a me rivederti. Come stai?” scherza Adam mimando malamente la mia voce.
Rimango intontita per qualche secondo, ferma a guardare la sua faccia.
“S-scusa è che non me l’aspettavo … cioè, non ti aspettavo” confesso mordendomi il labbro.
Mi viene da sorridere, sento i muscoli del viso contrarsi che lottano per aprirsi in un grande sorriso allegro. Sono felice che sia qui, dentro me non vedevo l’ora di rivedere il suo viso. Anche se l’imbarazzo mi blocca, anche se il cuore galoppa impazzito. Ora lui è qui e io sono felice.
“Eppure mi sembrava di averti avvertito, ieri” mi ricorda, poi allunga il collo per osservare la casa all’interno.
Oltre la musica, non sento nessuna chiacchiera proveniente dalle mie amiche. Devono aver capito che c’è qualcosa di strano.
“Non pensavo parlassi seriamente!” affermo convinta.
“Beh, vorrà dire che sarai preparata per il futuro” dice e mi fa l’occhiolino. “Si può?”
Gli faccio cenno di passare spostandomi. Adam entra guardandosi intorno incuriosito. Poi gira l’angolo, si dirige verso il salone.
“Ehm, ci sono le mie …” non faccio in tempo a finire la frase che vedo Adam sorridere raggiante.
Tre ragazze sono in piedi sul tappeto, sembrano stare sull’attenti, pronte ad un appello. È Christine la prima a parlare, ovviamente.
Allunga il braccio verso Adam e sorride. “Piacere, Christine”
Adam stringe la mano anche alle altre due, dopodiché si rivolge a me.
“Ma allora hai dato un festino, avevo ragione” sorride.
Mi avvicino alla radio e abbasso il volume, riesco a stento a sentire le sue parole.    
“Si si, certo. Con droga, alcool e quant’altro” scherzo alzando gli occhi al cielo. “Sedetevi eh” indico il divano con la mano, poi prendo qualche sedia dalla cucina e le porto in salone. Prendiamo tutti posto, io mi siedo su una sedia affiancata al bracciolo del divano e Adam prende posto sul sedile più vicino a me.
Accavallo le gambe, c’è un primo momento di imbarazzo, in cui tutti ci guardiamo negli occhi senza sapere cosa dire. L’atmosfera sembra essersi appesantita. Poi Eleanor comincia a parlare.
“Allora, come va al lavoro?” probabilmente dice la prima cosa che le passa per la testa, così, tanto per rompere il ghiaccio.
“Bene, grazie, a differenza di ciò che pensi, i maniaci del cazzo riescono tranquillamente a inserirsi nella società” Adam inclina la testa di lato con fare provocante, ammicca con un sorriso intimidatorio.
Le labbra di Eleanor si aprono come per dire qualcosa, ma non ne esce alcun suono.
“Ad Adam piace scherzare” spiego con una risatina tesa.
Adam mi guarda, uno sguardo che sottintende una miriade di parole che solo noi possiamo capire.
“Si, tranquilla, scherzavo. È tutto a posto” sorride cordiale ad Eleanor, la quale prende un bel respiro e si rilassa..
“Come procede con Louis? So che avete litigato” si intromette Christine. È seduta sul divano accanto ad Adam e incrocia le ginocchia osservandolo.
Adam spiega velocemente che non si parlano da un po’, quel sabato sera è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Si sono conosciuti al pub un anno fa, quando Adam era ancora inesperto di cocktail e spuntini serali. Louis lo ha aiutato fin dal principio ad inserirsi nell’ambiente, il capo è un “osso duro”, spiega battendo il pugno sul palmo aperto. La loro amicizia si è rafforzata quando la madre di Louis si è ammalata di cancro. Un mese soltanto le ha portato via il colore, la sua pelle bianca e pallida era contornata da pochi capelli di un biondo spento e sfibrato. “Louis è stato malissimo” spiega. “Non lo riconoscevo più. Hai presente com’è lui, no? Sempre allegro, ride e ci prova con tutte?” si rivolge a Christine. “Completamente l’opposto. Jack, il nostro capo, gli ha concesso delle ferie a tempo indeterminato. Diceva che allontanava i clienti. Tutta una questione di energia negativa. Ovviamente, il  suo voleva essere un gesto di gentilezza, non è un mostro. Ma i suoi modi di fare sono particolari” gesticola con le mani e storce la bocca.
Tutte lo ascoltiamo attentamente, Adam ha la capacità di rendere interessante qualsiasi cosa dica. Così, mentre parliamo, regna il silenzio nelle nostre bocche rilassate.
Christine è particolarmente rapita dal racconto del ragazzo che si sistema i ricci neri che gli ricadono sugli occhi di tanto in tanto. Scommetto che il suo comportamento con Louis cambierà radicalmente. Lei ha una corazza che la copre e la protegge da ogni urto. Si mostra forte, strafottente, una ragazza che non è di nessuno, che non si lascia comandare, né tantomeno abbindolare o affascinare. Ma in realtà, sotto sotto, non vede l’ora che un ragazzo la prenda per mano e le dica “Basta, ora a te ci penso io”. Ha un cuore dolce, nasconde lati di lei che tutti quanti adorerebbero. Un tempo era così, dolce e gentile, disponibile con tutti. Me lo ricordo come se fosse ieri. Andavamo alle elementari e il suo carattere era completamente l’opposto di ciò che è ora. Prestava penne e matite a destra e a manca, la merenda (un generoso pezzo di pizza bianca) veniva spartita equamente con ogni compagno di classe. Ma tutti si approfittavano di lei. Non c’era mai nessuno che le dicesse “grazie” o che le offrisse aiuto qualche volta. Poi arrivò il primo fidanzato, precisamente in seconda media. Mi ricordo quanto stetti male, seppure fossi felice per lei. Io avevo pochi amici, la mia natura timida e riservata me la porto dietro dal tempo dei pannolini e dei giocattoli. Lei invece era una specie di leader, un punto di riferimento e un modello da imitare. Si chiamava Rafael, era di origine argentina e si era trasferito da poco nella nostra città e nella nostra classe. Il fascino di Christine lo attirò subito e lei non ci pensò due volte: colse la palla al balzo, dopo un mese erano fidanzati. Bastò l’arrivo delle prime mestruazioni e un appuntamento con l’estetista, che Lucille, una nostra compagna con capelli biondi e rilucenti, sbocciò come fanno i fiori in primavera. Inutile dire che Rafael ne fu subito stregato e si dimenticò di Christine nel giro di una settimana. “Non mi sento più legato a te come eravamo un tempo” fu questa la frase teatrale con cui si scusò lasciando Christine via sms.
Pianse per più di una settimana, poi all’improvviso cambiò. Così, di punto in bianco. Un giorno sorrideva, il giorno dopo arrivò a scuola e cominciò a sputare sentenze e commenti sarcastici su ogni cosa. Non mi allontanò mai, anzi, mi prese sotto la sua ala protettiva. Gli stavano a cuore i miei comportamenti  buffi e timidi, i miei rossori sulle guance. Si vedeva come una mamma alle prese con sua figlia innamorata per la prima volta.
Spesso ho avuto la voglia di allontanarmi da lei, di andare a cercare una persona che combaciasse di più con me e le mie esigenze, ma non ebbi mai il coraggio di farlo. Le volevo bene, sapevo che in fondo era ancora lei, la mia amica gentile e dolce, e non la stronza fanatica che era diventata. La nostra era un’amicizia forte. Entrambe eravamo cresciute insieme, sia fisicamente che caratterialmente. Dentro, però, eravamo ancora le bambine che si tenevano per mano a ricreazione e che guardavano i cartoni sbragate sul divano alle quattro del pomeriggio. Seppure Christine fosse quella che veniva sempre notata per prima, e la cosa mi deprimeva, lei riusciva a non farmelo  pesare. Mi scuoteva, mi metteva in mezzo per farmi svegliare e dimenticare la mia timidezza, anche per un’ora. Con i suoi modi un po’ bruschi, voleva aiutarmi, e anche se non la avevo mai ringraziata direttamente, sapeva che le ero grata per essermi sempre rimasta accanto. Il mio ringraziamento stava nei sorrisi imbarazzati quando mi presentava ad un suo amico, nelle occhiate silenziose quando mi suggeriva i comportamenti da avere in determinate situazioni.
“Hai finito di fissarmi?” Christine indietreggia col collo guardandomi stralunata.
“Ero sovrappensiero, scusami” le sorrido affettuosa. Se solo sapesse che ho pensato a lei per tutto questo tempo …
Lo squillo del telefono di casa mi giunge alle orecchie pressante. Mi alzo dalla sedia e lo afferro dal comodino.
“Pronto?”
“Marylou, sono mamma” mia madre ha una voce funebre e, tra l’altro, quando mi chiama col mio nome per intero non è mai una cosa positiva.
“Che è successo, mà?” mi allarmo, mi volto di spalle rispetto al gruppo per non farli preoccupare.
“Niente di molto grave, Lou, io e papà stiamo tornando a casa, vogliamo parlarti”
Annuisco, mi propone di mettere a scaldare un po’ d’acqua per la pasta. Attacco e metto subito a preparare.
“Che succede?” mi domanda Belle quando faccio capolino nel soggiorno.
“Che faccia che hai, Lou” interviene Eleanor.
“Potete andarvene? Non vi sto cacciando, ma i miei mi devono parlare” faccio una pausa. “Non so di cosa, ma la voce di mia madre non era delle migliori” concludo.
Tutti annuiscono comprensivi.
“Uso il bagno un secondo ti dispiace?” mi chiede Adam. Poi saluta le ragazze con un gesto frettoloso della mano e un sorriso luminoso.
Mi avvio alla porta accompagnandole e le saluto con un abbraccio. Mi dicono di chiamarle tranquillamente se ho bisogno di qualcosa.
Vado sul divano e fisso il tappeto, in attesa che Adam esca dal bagno. Giunge alle mie spalle e mi schiocca un bacio rumoroso sulla guancia. Mi alzo di riflesso e gli sorrido, un sorriso tirato.
Lo accompagno alla porta.
“Mi ero immaginato una mattinata diversa, ma grazie lo stesso. Sono stato bene” inclina la testa di lato e socchiude gli occhi, illuminati da un raggio di sole.
È bellissimo, ha il viso quasi dorato sotto questa luce forte e calda.
Annuisco e mi protendo verso di lui. Gli stampo un timido bacio sulla guancia e mi stupisco di me stessa.
“Wow” sussurra, anche lui sorpreso. È la prima volta che mi lascio un minimo andare. Non sono nemmeno arrossita! Mi complimento mentalmente con me stessa e ridacchio.
“Allora, ci sentiamo Adam” mi congedo.
“Certamente, Lou” conclude, si volta di spalle e lo vedo andare via mentre socchiudo la porta.
Mi dirigo in bagno per darmi una rinfrescata, ho il viso bollente e sono stata al sole soltanto per pochi minuti!
Accanto al lavandino c’è un pezzo di carta igienica, su di essa vi è una scritta rossa irregolare, fatta con un rossetto di mia madre. Lo prendo in mano e lo leggo:
“Per qualunque cosa, io ci sono, tesoro”
Il biglietto non è firmato, ma non c’è bisogno che lo sia. So benissimo di chi è.   
Sorrido, anche se la preoccupazione mi attanaglia lo stomaco. 

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Capitolo 11
*** 11 ***


Metto in tavola tre piatti di pasta e prendo posto. L’atmosfera è pesante e silenziosa, direi silenziosamente pesante. Arrotolo gli spaghetti nella forchetta e mastico lentamente. I miei genitori si scambiano occhiate preoccupate e private, ogni tanto guardano me.
Dopo essersi pulito il sugo dagli angoli della bocca, è mio padre a prendere le redini del discorso.
“Oggi siamo usciti prima dal lavoro, ti sarai accorta”inizia titubante, mia madre posa rumorosamente la forchetta sul piatto, sorseggia un po’ d’acqua.
Annuisco e  aspetto che continui.
“Ho avuto una breve riunione al lavoro” riprende mio padre. “Mamma dopo mi ha accompagnato in un posto” poi si ferma.
Sembra cercare le parole adatte, ha gli occhi sofferenti, celano lo stesso dolore che ritrovo negli occhi di mamma. Che mi stanno nascondendo?
 “Papà che sta succedendo?” lo interrompo, adesso anche io smetto di mangiare.
Prende una lunga boccata d’aria, poi guarda mia madre, uno sguardo desideroso d’aiuto.
“Tuo padre, tesoro, ha ottenuto il trasferimento che voleva, su al nord. Parte tra due giorni. Ti ricordi?” mi informa mamma con voce esageratamente dolce. È come se stesse parlando ad un bambino piccolo.
“Beh, è una bella notizia se è quello che voleva, no? Cioè, mi dispiace, ma è comunque una cosa positiva” dico, pensando che la cosa sia ovvia.
“Si, tesoro, ma … io e tuo padre non …” si sforza per trovare una parola adatta.
“Non condividiamo le stesse idee, Marylou. Non vogliamo più le stesse cose” interviene mio padre.
Lentamente inizio a capire dove vogliono arrivare. E la cosa non mi piace.
Mi si secca la bocca all’istante. “State dicendo che …” la voce mi muore in gola.
Mia madre si alza dalla sedia e mi abbraccia da dietro. “Amore mio, succede molto spesso. Non è colpa tua, accade a volte che due persone che pensavano di amarsi molto … capiscono che il loro sentimento finisce”
“O comunque si indebolisce” la corregge mio padre.
Sono incapace di rispondere o di fare qualsiasi movimento. Gli spaghetti nel mio piatto diventano colla, freddi e pallidi non se li mangerebbe nemmeno un cane randagio.
Sento gli occhi inumidirsi, ma lotto per trattenere le lacrime.
“Continueremo a vederci. Durante i fine settimana verrò qui con il treno, magari non tutti, il lavoro mi porterà via parecchio tempo” attacca mio padre velocemente.
“Si amore. E noi ce la caveremo in due, sta tranquilla. La tua vita non ne risentirà” mormora mia madre accanto al mio orecchio.
Improvvisamente sento montare dentro di me la rabbia. Ma non un semplice nervoso, una furia vera e propria, che di secondo in secondo aumenta e cresce, come uno sciame di zanzare attirato da una luce.
Con uno scatto e un rumore fastidioso, struscio la sedia spostandola per alzarmi. Mia madre sobbalza allontanandosi da me.
“Forse” inizio, sono fuori controllo. Mi tremano le mani per il nervosismo. “Forse non vi state rendendo conto della gravità della cosa”
Mio padre e mia madre rimangono immobili nelle loro postazioni. Mio padre sembra un faraone seduto sul suo trono, lo sguardo impassibile e duro. L’unica cosa che lo distingue è l’assenza di fierezza negli occhi.
Mia madre è in piedi, poggiata al muro portante che divide il salone dalla cucina. Mi guarda spaesata e intristita.
Stanno in silenzio tutti e due, permettendomi di parlare.
“Qua non si tratta di ‘ti vengo a trovare’, né tantomeno di ‘non cambierà niente nella tua vita’. Volete rinsavire? Sono io la ragazzina in questa famiglia o voi? Ma vi rendete conto? State divorziando. Avete la minima idea di quanto possa farmi male questa cosa? Non mi ero accorta di niente. Di niente! E voi me lo dite così!  E tu!” indico mio padre col dito tremante. “Tu te ne vai tra due giorni, papà, due giorni! E chissà quando potrò rivederti. Sempre impegnato con queste cazzo di riunioni” mi blocco qualche istante per riprendere fiato.
Guardo il viso di mia madre che strabuzza gli occhi. Probabilmente non era a conoscenza del fatto che io utilizzassi questo linguaggio. Perfino il viso impassibile di mio padre si lascia sfuggire un’emozione. Mi sembra dolore.
“E tu, mamma, ci credevi davvero quando hai detto che nella mia non cambierà niente? Ne sei fermamente convinta? Rifletti un attimo: ho vissuto diciassette anni della mia vita con due genitori splendidi. Vi vedevo felici, e anche se non ricordo molto della mia infanzia le foto attestano che non dovevamo stare così male insieme, o sbaglio?” vedo mia madre abbassare lo sguardo a terra. Si tartassa il bracciale con una mano. Lo apre e lo chiude, lo apre e lo chiude. “E ora mi venite a dire che non condividete più le stesse idee? Che cazzo significa? Che frase è!” urlo, gesticolo all’impazzata, le mie mani tremano e non riesco a fermarle nemmeno per un secondo. Le lacrime hanno cominciato a solcarmi il viso, non provo più a fermarle, non servirebbe in ogni caso.
“Lou, ti prego, non dire così. Le cose cambiano” fa mia madre, la voce è scossa da qualche singhiozzo silenzioso.
Volto lo sguardo verso di lei, lentamente come farebbe un killer verso la sua vittima. “Non chiamarmi Lou” asserisco.
“Non rivolgerti con questo tono a tua madre. È una sua decisione, anzi, nostra. Tu non c’entri” interviene mio padre, lo sguardo duro e la voce irremovibile.
Se prima non le avevo perse, ora è il momento in cui perdo le staffe. Completamente.
Sbatto la mano sul tavolo, i singhiozzi mi scuotono il petto, parlo tra un singulto e l’altro cercando di farmi capire.
“Non c’entro niente?” urlo.
Mia madre si copre il viso con le mani.
“Papà non voglio mancarvi di rispetto, lo sapete come sono, sto sempre zitta, non dico mai niente e mi faccio sempre andare bene qualunque cosa decidiate. Ma stavolta siete voi” li guardo ad uno ad uno. “Voi mi state mancando di rispetto” piango e mi asciugo gli occhi col dorso della mano. “Non posso andare contro questa decisione, se non state più bene insieme” a queste parole un forte singhiozzo mi scuote il petto. “non posso costringervi ad andare avanti soltanto per me. Ma avrei avuto bisogno di più tempo per … per metabolizzare la notizia. Capite? Me lo dite adesso, così e papà tra due giorni se ne va dall’altro capo della nazione. Io non ce la faccio. Non ce la faccio” sospiro, mi lascio cadere sulla sedia e poggio i gomiti sul tavolo stringendo la testa fra le mani.
“Te l’avevo detto” scorgo papà che mima queste parole a mia madre. Lo fulmino con lo sguardo lucido. “Marylou, ci dispiace. Abbiamo sbagliato e lo riconosciamo. L’importante è che continueremo a rimanere uniti, nei limiti del possibile ovviamente” gesticola e allarga le braccia. “Prometto che mi impegnerò a venirti a trovare spessissimo” stringe gli occhi mentre dice l’ultima parola.
Dentro di me penso che siano tutte stronzate. Ma la sfuriata di poco fa mi ha portato via tutte le forze, mi sento esausta psicologicamente, vorrei soltanto chiudermi nella mia stanza, nascondermi sotto le coperte. Nascondermi da mia madre, da mio padre, dal mondo intero. L’unico viso che vorrei vedere è quello di Adam, il pensiero del suo sorriso caldo mi rassicura e mi fa sentire  protetta.
“Papà ha ragione, amore mio. Devi stare tranquilla. Magari questo primo periodo sarà un po’ duro, ma vedrai che col tempo ti abituerai. Insieme ce la faremo” mi rassicura mia madre. Vorrebbe mettermi una mano sulla spalla, ma ancora non si fida della mia calma superficiale.  
Tutte queste frasi con la parola “insieme” mi fanno venire il voltastomaco. So bene che l’unità in questa famiglia è morta e defunta. So bene che riuscirò a vedere mio padre si e no una volta al mese. E so anche che mia madre sarà depressa per un mese se non di più. Ma sono stremata e mi dà fastidio anche soltanto pensare. Quanto desidererei poter uscire dalla mia testa per qualche ora. Per qualche giorno.
Annuisco sconsolata. Le lacrime si sono calmate, ma so che non è ancora finita. Mi alzo dalla sedia. “Vado in camera, ho bisogno di stare sola” sussurro con un filo di voce e, a testa bassa, mi allontano dal salone.  

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Capitolo 12
*** 12 ***


Le due giornate seguenti le passo barricata nella mia camera. Esco soltanto per fare i pasti, i  miei genitori mi lanciano occhiate apprensive e preoccupate ma non mi costringono a parlare. Probabilmente hanno deciso di lasciarmi i miei spazi per rendermi conto della situazione e affrontarla al meglio. Dubito che riuscirò a farlo ma … non ho scelta, giusto?
Il cellulare l’ho tenuto spento per tutte le 48 ore, non ho nemmeno pensato parecchio ad Adam, ho soltanto dato libero sfogo alle mie lacrime, fino a finirle completamente tutte quante, spero. Temo che i liquidi del mio corpo stiano lentamente lasciando posto ad un arido deserto caldo e afoso.
Questa mattina mio padre è partito. Mi ha salutato tenendomi stretta tra le braccia e baciandomi la fronte. Io ho tenuto le braccia dritte lungo i fianchi e sono rimasta in silenzio. Ho esibito giusto l’ombra di un sorriso tirato, poi l’ho guardato uscire dalla porta, ho visto la sua sagoma sparire nella luce accecante della mattina.
Mia madre mi ha salutato con una carezza sulla testa. Mi ha detto che avrebbe fatto il turno di notte e che ci saremmo riviste la mattina successiva. Mi ha fatto piacere, volevo stare da sola, o meglio, senza di lei.
Mia madre è uscita insieme a lui, aveva appuntamento con alcune amiche. Lavora nell’ospedale più gettonato della città, è una cardiologa ben inserita nell’ambiente. Tutte le mattine prende l’autobus per una decina di fermate, con la sua valigetta nera rettangolare stretta nella mano. La osservo dalla finestra salutare mio padre con una stupida stretta di mano.
Vent’anni di matrimonio e si salutano con una stretta di mano. Rabbrividisco.
Chiudo la porta, mi giro e mi dirigo verso il mio cellulare ancora staccato, lasciato sul tavolino a marcire. Premo il tasto dell’accensione, la piccola mela argentata della Apple appare e rimane fissa per quindici secondi. Poi il telefono si accende. Accedo alla rubrica, scorro tra i numeri, mi fermo sulla A e cerco Adam. Sono indecisa se chiamarlo o inviargli un messaggio, ma alla fine opto per la telefonata.
Il telefono squilla a vuoto due volte, poi la sua voce mi giunge all’orecchio.
“Ma che fine hai fatto?” mi incalza senza darmi neanche il tempo di salutarlo.
Non ho voglia di controbattere con qualche battuta sarcastica, mi sento esausta, le mie pile sono completamente scariche, hanno bisogno di un caricatore. O meglio, di essere sostituite.
“Vai al lavoro oggi?” ignoro la sua domanda, la mia voce è monotona, ha sempre la stessa medesima tonalità, sembra una cantilena triste e dimenticata.
“Si, tra tre ore esco per andare. Vuoi dirmi che è successo? Hai una voce” va avanti con la sua raffica di domande.
“Ho bisogno di te” mormoro con la voce bassa. Chiudo gli occhi, trattengo le ennesime lacrime. Nonostante sia esausta, la forza di piangere sembra quasi inesauribile.
“Dammi dieci minuti” afferma e poi attacca senza aspettare nessun cenno di assenso.
Chiudo il telefono e  mi lascio cadere sul divano. Mi raggomitolo su me stessa, stringendomi le ginocchia al petto. Mi fanno male le ossa, mi fa male il cervello che fuma per il sovraccarico di pensieri. Non ce la posso fare. Mi sento rotta dentro, anche se le mie ossa sono tutte integre.
Quando il campanello suona mi precipito ad aprire. Appena apro la porta il viso di Adam mi provoca una scossa di singhiozzi che mi lacera il petto. Scoppio a piangere e mi butto tra le sue braccia che mi accolgono come se non stessero aspettando altro. Rimango ferma contro il suo petto inzuppandogli la maglietta bianca. Le sue mani grandi si sfregano contro la mia schiena cercando di consolarmi. Quando capisce che non mi schioderò di lì molto facilmente, mi alza da terra prendendomi in braccio e avanza. Chiude la porta col piede, continua a camminare mentre rimango aggrappata a lui come fossi un koala appeso ad un ramo. Si siede sul divano posando il mio corpo scosso dai tremiti sulle sue ginocchia. Mi stringe di più, sembriamo un’unica entità in questo momento.
“Dovevi chiamarmi prima, sarei venuto subito” mi sussurra, le sue labbra sfiorano il mio orecchio mentre si muovono per parlare.
“Non ci sono r-riuscita” singhiozzo. Non riesco a guardarlo, rimango nascosta col viso nel suo petto. “Scusami”
“Ma che scusami!” mi coccola, mi stringe, comincia a dondolare dolcemente, dandomi di tanto in tanto qualche bacio sui capelli.
Continuiamo a stare stretti, sta aspettando che mi calmi almeno un po’. Le lacrime lentamente iniziano a scemare, finché non scompaiono del tutto.
Adam mi afferra per i fianchi, a fatica riesce a slacciare le mie mani ancorate al suo collo. Mi sposta sul sedile accanto al suo e mi fa accomodare.
“Tra quanto vai a lavorare?” gli domando, intimorita dal momento in cui dovrà lasciarmi un’altra volta sola con me stessa.
“Non ci vado” l’ombra di un sorriso gli colora il viso.                  
Non provo a convincerlo ad andare, sono troppo egoista, troppo distrutta per  comportarmi bene. Annuisco, le labbra si curvano leggermente in cenno di assenso.
Poi il suo sguardo inchioda il mio.
“Allora, ti va di spiegarmi?” mi chiede dolcemente.
“I miei … divorziano” confesso. “Non ce la faccio, io … non ce la faccio. Ti giuro, c’ho provato. Ma non ci riesco. Avevo bisogno di loro, della famiglia, di … di una sicurezza” mormoro senza pause.
Lo sguardo di Adam è attento.
“La mia vita è un totale fallimento. Ho paura di tutto. Non esco. Ho pochi amici” elenco le mie varie tragedie di vita contandole sulle dita. Ho lo sguardo vacuo, perso nel vuoto. “Non ho un ragazzo, non ne ho mai avuto uno. E ora anche la famiglia. Era l’unica cosa che andava bene”
È incredibile, è come se stessi parlando da sola, o con uno psicologo. Mi sto completamente mettendo a nudo di fronte ad Adam, non mi riconosco. Non sono io a  parlare. È come se fossi ubriaca, tranne per quanto riguarda il giramento di testa e la ridarella, che sono completamente assenti.
Adam assiste in silenzio, non osa interrompermi. Mi guarda con i suoi occhi verdi, grandi e colmi di comprensione. Non fa battutine, non commenta niente di quello che sto dicendo. Sul suo viso passano una miriade di emozioni diverse, non riesco a decifrarne neanche una.
“Ti prego, dì qualcosa” lo supplico, ho gli occhi lucidi e il suo viso mi appare sfocato.
“Io ti capisco. So che può sembrarti strano. Ma ti capisco” ammette, i suoi occhi fissano le sue mani intrecciate che si muovono senza darsi pace.
Osservo i suoi occhi e improvvisamente ci vedo dentro lo stesso dolore che provo adesso.
“Ho bisogno di qualcuno che non mi lasci sola, Adam. Ho bisogno di una cazzo di sicurezza, perché non ne ho nemmeno una. Su chi posso contare, eh? Chi mi rimane?” il mio tono di voce si alza, la rabbia di due giorni fa torna a imperversarmi nel petto. Il cuore accelera i battiti e il tremolio che  conosco bene di nuovo si impossessa delle mie mani.
Adam si accorge del mio nervosismo visibile, con una sola mano accoglie le mie e le stringe.
“Tu hai me. Non ti lascerò sola. Di me puoi fidarti” mentre lo dice so che non sta mentendo, so davvero che posso fidarmi di lui. Le mani smettono di tremarmi e io annego nel verde cristallino del suo sguardo sincero. 

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Capitolo 13
*** 13 ***


Io e Adam rimaniamo sul divano fino all’ora di pranzo. Non ci alziamo nemmeno un secondo, manteniamo una posizione fissa, lui seduto con la schiena sbragata sullo schienale, io accanto a lui, con le gambe accovacciate sulle sue. Le sue mani mi accarezzano apprensive le ginocchia di tanto in tanto. Parliamo continuamente e se c’è qualche momento di silenzio, non è assolutamente imbarazzante. I suoi occhi fissano i miei senza perderli mai di vista. Quel contatto è più intimo di qualsiasi altro gesto che potremmo fare ora, qui, soli nella mia casa. Mi fa sentire sua, mi fa sentire capita, apprezzata. Per una volta nella vita, non mi sento inutile. Non ho quel peso insopportabile, quel masso che mi opprime il petto e che mi porto da tutta la vita.
Adam mi accarezza la guancia con il dorso della mano e si sofferma sull’angolo delle mie labbra. con l’indice percorre tutta la lunghezza del labbro inferiore, lascia una scia incandescente su ogni punto che tocca.
Quando allontana la mano mi mordo il labbro, sostenendo il suo sguardo serio.
“Quando torna tua madre?” mi chiede a bassa voce. Non abbiamo bisogno di alzare il tono, siamo noi, soli, vicini, dentro la nostra bolla personale. Isolati dai rumori della città, dai raggi bollenti del sole di giugno.
Abbasso lo sguardo, poi di nuovo lo rivolgo a lui. “Domattina, sul presto” rispondo. Il mio sguardo è carico di sottintesi e s’intende immediatamente con quello di Adam. Io non voglio stare senza di lui e lui non vuole lasciarmi sola.
Nessuna parola o proposta viene pronunciata, sono sufficienti i nostri sguardi che si accordano: Adam passerà la notte con me.
L’ombra di un sorriso silenzioso gli attraversa il viso, poi si alza dal divano con un salto agile. “Allora, si mangia o no?” batte le mani sfregandole.
“Non ho fame” storco la bocca. Mi alzo seguendolo in cucina. Si volta di scatto, mi afferra i fianchi con le mani e mi attira a sé.
“Sicura sicura?” punta la luce verde dei suoi occhi nei miei castani.
Il mio respiro si accorcia, sento il sangue pulsarmi sulla vena del collo. Non mi muovo, rimango fissa nella mia posizione, le mani bloccate  lungo il corpo.
Tutta la forza che avevo fino a poco fa si esaurisce in un secondo. Basta la sua vicinanza a mandare in tilt i miei neuroni, che schizzano impazziti da una parte all’altra della mia scatola cranica.
“S-s-si” balbetto, indietreggio di qualche centimetro, allontanando il viso dal suo.
Non posso mica sperare di cambiare nel giro di una mattinata, che illusa.
Sul viso di Adam compare di nuovo quel sorriso divertito e giocoso che esibisce sempre quando mi vede in imbarazzo. Ora ne ho la certezza: adora farlo.
Quando realizzo che mi sta prendendo in giro, sbuffo e lo spingo via fingendomi arrabbiata. “Idiota” mormoro e dopo continuo la mia camminata verso la cucina. Spalanco una credenza. “Vuoi un piatto di pasta?” gli chiedo. “O se vuoi ho della carne, lì nel freezer” indico un punto accanto a me.
Adam inclina la testa di lato, sembra incuriosito. Non risponde ma continua a guardarmi, non smette di sorridere.
“Che c’è? Cos’ho?” lo incalzo.
“Sei una creatura davvero strana” ridacchia e mi osserva, si appoggia al lavandino col palmo della mano.
“Beh, grazie per il creatura” ribatto stizzita. Tiro giù il pacco di pasta e sto per aprirlo, Adam mi blocca con la mano e fa cenno di no con la testa. La ripongo.
“Se tu fossi stata una persona normale ti saresti arrabbiata per lo strana e non per il creatura” confessa, le sue sopracciglia si arricciano dubbiose.
“Invece no. Io so di esserlo. So di essere strana” ammetto. “Insomma, guardami, ti sembro normale?” allargo le braccia con fare interrogativo.
“Non sei mica una pazza. E comunque, per quanto riguarda lo strana che ti ho detto, beh … era in senso positivo. Intendo dire che sei diversa dalle altre” mi spiega, adesso il sorriso giocoso si è dileguato, lasciando spazio ad un’espressione mite e tranquilla.
“La diversità è la maledizione della mia vita” abbasso lo sguardo.
“E perché mai? Solo perché non hai avuto un ragazzo come tutte le tue amiche? Solo perché ti piace studiare, perché non esci tutti i pomeriggi, perché non fumi?” Adam mentre parla sembra quasi arrabbiato, lo vedo infervorarsi di più a ogni parola che dice. “È questo che ti rende bella”
Arrossisco violentemente, mantengo lo sguardo basso, adesso ho paura di guardarlo. So che se lo guarderò scoppierò di nuovo a piangere, le mie emozioni sono tese come una corda di violino oggi.
“Il fatto che tu arrossisca a ogni complimento che ti faccio” comincia, un timido sorriso gli colora le labbra. “Il fatto che abbassi lo sguardo ogni volta che ti fisso. Oppure, il fatto che non mi sei saltata addosso quando ho cercato di baciarti poco fa, o quella volta a casa mia” il suo sorriso si allarga.  “È per questo che sei strana, ma strana in senso buono. Strana è per dire che sei speciale. E anche se non lo sei per tutti”  adesso mi prende il viso tra le mani, costringe i miei occhi a tuffarsi nel verde dei suoi. “Per me lo sei. Davvero, Lou”
Sento i miei occhi che si inumidiscono. Mi maledico mentalmente, vorrei trattenermi, non devo rovinare il momento.
Oh, Lou, Lou, Lou. Ti prego, tieni duro.
Ma le lacrime sono più forti di me. La prima che sgorga mi crolla sul labbro lasciando una scia umida sulla mia guancia. Adam la blocca con il pollice, tiene ancora stretto il mio viso tra le mani.
Il suo naso sfiora il mio, mentre si porta il dito inumidito sulle labbra. Mima un piccolo bacio con la bocca.
Tiro su col naso, infilo una mano per asciugarmi col dorso un’altra lacrima fuggitiva. Adam la afferra e la intreccia alle sue dita.
Il suo viso si fa mano a mano più vicino al mio, i nostri nasi finiscono per ritrovarsi a stretto contatto.
“Adam, io …” sussurro, ma le parole mi muoiono in gola.
Io cosa? Sono la prima a non sapere cosa voglio dire o cosa voglio fare.
“Shh” le labbra di Adam mi intimano di fare silenzio, poi si premono dolcemente sulle mie.
Rimaniamo incollati per pochi secondi, ma a me sembrano ore. Non c’è lingua, non ci sono carezze in questo breve bacio, ma solo dolcezza. Tanta dolcezza, così tanta che mi fa male il cuore. Ma è un dolore piacevole. Non è il solito masso polveroso, è un dolore che mi lascia un formicolio piacevole in tutto il corpo. A partire dalla testa, fino alla punta dei piedi. La mia schiena è percorsa da brividi caldi, eppure le ginocchia mi tremano debolmente.
Poi la magia si spezza e il momento finisce in  fretta, così com’era iniziato.
Una sirena di un allarme, probabilmente della macchina dei vicini, squilla forsennatamente. Io sobbalzo, Adam scioglie l’abbraccio e mi osserva.
“Sei bellissima. Ricordatelo” mormora, dopo mi sorride.
Sento il cuore che mi batte all’impazzata. È davvero capitato a me, questo ragazzo? È davvero qui, nella mia casa, questo viso angelico? Sembra un dono mandato dal cielo. Può esistere in un mondo tanto brutto una persona così bella?
Mentre mi interrogo su quanto sia stata fortunata, seguo con gli occhi il corpo del ragazzo che si aggira per casa mia. Tutto intorno a lui scompare, i mobili, la luce, i problemi, mia madre e mio padre, la loro sciocca stretta di mano. C’è solo lui. E ci sono io. Sono imperfetta, lo so. Sono strana, come dice lui. Ma non mi importa. Se per lui è una  cosa positiva, se per lui sono bellissima … mi sento completa.

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Capitolo 14
*** 14 ***


Adam torna a casa mia verso le dieci e mezza di sera, dopo esser stato fuori per una decina di minuti. Ha una cassa da quattro birre stretta nella mano e un sorriso soddisfatto sul viso. Me le sventola davanti alla faccia, poi si chiude la porta alle spalle.
“Se devo passare la notte qui, almeno avrò qualcosa da bere” dice mentre sistema le bottiglie nel frigorifero, incastrandole tra il latte e la passata di pomodoro.
“Nessuno ti costringe, sai” mi fingo arrabbiata. “Se vuoi andare ad ubriacarti coi tuoi amichetti fai con comodo” chiudo la porta del frigorifero e mi concedo un sorrisetto sarcastico.
Adam allunga il braccio per darmi un pizzico sul fianco.
“Smettila!” scappo ridendo.
“Sappi che il primo posto in cui ti cercherò per vendicarmi sarà il divano!” mi avverte dalla cucina alzando la voce. Sento il rumore del tappo della birra che salta.
Mi sposto dal divano trattenendo un risolino. Cammino raso al muro, corro accelerando e vado a nascondermi nella mia camera da letto. Mi siedo sul materasso morbido. Le serrande sono completamente abbassate e la luce è spenta. Rimango in silenzio, dopo aver accostato la porta. Prendo dei lunghi respiri calmanti per evitare di ridere e farmi scoprire. Tutti i miei problemi li ho chiusi fuori dalla porta di casa. Quando Adam uscirà di lì, potranno rientrare. Ma adesso siamo io e lui, nessun altro può darci fastidio.
“Dove sei, Lou?” la voce di Adam sembra una cantilena. Sento la porta del bagno, molto vicina alla mia stanza, aprirsi e dopo chiudersi. “Non aggravare la situazione” dice ridendo. È vicinissimo, riesco a sentire il rumore della sua gola che inghiotte un sorso di birra.
Ho il respiro pesante e il cuore mi batte talmente veloce che, quando sento la porta aprirsi, penso che Adam mi riesca a trovare grazie al rumore insopportabile che proviene dal mio petto. Non vedo l’ora che mi trovi. Sorrido nella penombra.
La luce lontana del soggiorno illumina fiaccamente la mia camera e il mio viso divertito,ma che mantiene pur sempre un contegno, compare per pochi istanti. Riesco soltanto a vedere il viso di Adam che sorride trovandomi, dopo richiude la porta con uno schiocco.
La stanza è immersa nel buio pesto, se allungo una mano davanti ai miei occhi non riesco a vedere nemmeno vagamente la forma delle mie dita. Sento il parquet scricchiolare debolmente sotto le converse stra-usate di Adam. Il vetro della bottiglia produce uno schiocco quando, immagino, viene poggiata sul comodino. Una mano che si allunga nel buio mi tocca la spalla, poi la afferra,  come se fosse un salvagente in mezzo al mare. Si ancora a me per farsi strada, poi mi lascia e mi si siede vicino. Avverto il calore del suo corpo e il mio cuore accelera quando la sua mano si intreccia alla mia.
Oh, benedetto sia il buio! Sento le guance avvampare violentemente, ho persino paura che potrei diventare fosforescente. Ma, ehi, ancora non ho ingerito del materiale nucleare, perciò mi tranquillizzo. O meglio, provo a farlo. Ma la mano di Adam continua a risalire su, su, fino ad arrivare all’incavo del mio collo. Mi paralizzo quando con un gesto secco sposta i miei capelli dall’altro lato. Capisco che Adam si sta muovendo perché l’aria calda intorno a me si muove appena e le molle del mio letto cigolano quasi impercettibilmente. Serro gli occhi quando sento le sue labbra posarsi lievi sul mio collo. Tracciano una linea umida di piccoli baci mentre arrivano fino al mento. Mi sfugge un sospiro dalle labbra, quel contatto mi provoca una miriade di brividi che corrono fino alla base della mia schiena.
Adam ripercorre di nuovo quel percorso invisibile con le labbra morbide e rilassate, mi scappa un altro sospiro. Posso giurare di sentirlo sorridere quando con la mano mi volta il viso verso il suo.
Stai calma, Lou, mantieni la calma. Mi aggrappo alla coperta con le mani, il cuore mi batte talmente forte che sono davvero spaventate dal fatto che lui possa sentirlo chiaramente.
Un silenzio quasi irreale ci circonda tutt’intorno. Stavolta non credo mi salverà l’allarme della macchina dei vicini.
Ho le labbra semi aperte, quel tanto che basta per sentire in bocca il sapore dolciastro della birra che proviene  dalla bocca di Adam, situata a pochi millimetri dalla mia.
Quando penso che ci siamo, quando mi immagino già le sue labbra che premono sulle mie, ma stavolta sul serio, la sua mano, che era rimasta poggiata sul letto, mi si aggrappa ad un fianco. Lentamente risale verso l’alto, non mette le mani in punti che mi farebbero arrossire fino alla radice dei capelli, percorre tutto il perimetro del fianco, poi, quando sente la mia spalla, si sposta lateralmente, sfiorando appena l’inizio del mio seno. Si sofferma al centro, proprio lì dove mi batte il cuore. Vi poggia la mano e la fa aderire bene alla mia pelle scoperta.
Rimaniamo immobili per qualche secondo, poi il silenzio irreale che ci faceva compagnia viene interrotto da un suo risolino.
“Ti verrà un infarto” lo sento allontanarsi e, sorprendendomi, mi dispiace.
“Mi capita spesso di avere il cuore che batte forte” balbetto la prima scusa che trovo frugando tra le mie idee.
“Ah-ah, questa non me la bevo” Adam si alza facendo cigolare il mio letto, sento che tasta il muro fino a trovare l’interruttore della luce che si accende accecandomi.
Mi copro gli occhi con una mano, dopo essermi abituata lo osservo venirmi incontro. Rimane di fronte a me in piedi, ora è anche più alto del solito, mi sento minuscola in confronto a lui. Lo guardo incuriosita. Come se fosse il gesto più normale del mondo, si sfila la maglietta e la butta sulla sedia accanto alla mia scrivania.
Esterrefatta spalanco gli occhi. Dapprima sorpresa per il gesto, mi lascio poi sopraffare per qualche secondo dal suo fisico perfetto. Tralasciando la leggera forma degli addominali che si intravede, il mio sguardo viene catturato dalla V che finisce per nascondersi nei pantaloni.
“Ti interessa qualcosa?” mi domanda quando vede che rimango a fissarlo per un po’ troppo.
Scuoto la testa riavendomi dalla trance e lo guardo in faccia. La mia preoccupazione si ripresenta un’altra volta bussandomi nella testa. Che cosa ha in mente? Tutta quella storia del “è  questo che ti rende bella” e le altre paroline smielate e ora si spoglia?
“Adam …” comincio titubante. “Che stai ...” ma lui mi interrompe tirandomi per un braccio, quasi mi sloga una spalla per farmi alzare.
“Domani tua madre arriva sul presto, no? È mezzanotte, ho bisogno di riposo” e detto questo, sfila le coperte aprendo il letto.
Mi tranquillizzo per un attimo, lo seguo con lo sguardo mentre si infila sotto le coperte coprendosi col lenzuolo solo a metà. Si accosta al muro dove il letto è poggiato, batte la mano sul materasso a mo’ di invito.
“Io veramente pensavo che tu potessi benissimo utilizzare il divano” sorrido sarcastica indicando dietro di me.
In realtà ero proprio convinta che non avremmo dormito e che avremmo passato la nottata a parlare. Ma a quanto pare, mi sono trovata un dormiglione.
Un dormiglione col quale non ho intenzione di condividere il letto.
“E io, veramente” mima la mia voce. “Pensavo che potessimo benissimo stringerci un po’ e risparmiarmi il mal di schiena” esibisce un sorriso convincente.
Incrocio le braccia rimanendo in piedi a guardarlo. “Pensi davvero che sia più comodo dormire in un letto singolo in due piuttosto che sul divano?” inclino la testa lateralmente.
Adam alza un sopracciglio. “Come preferisci, se vuoi ci spostiamo sul divano” dice, sottolineando il plurale.
Lo guardo scettica e mi avvicino al letto, poggiandovi le mani sopra e avvicinando il viso al suo. “Smettila di scherzare” asserisco seria.
Adam sostiene il mio sguardo, ha una faccia impettita, sembra un bambino al quale sono state negate le caramelle. “E tu smettila di fare l’ansiosa. Non tirerò fuori niente dai pantaloni e ti prometto che le mie mani staranno al loro posto” mi giura innocente poggiandosi una mano sul cuore.
Non mi fido per niente della sua faccia in questo momento, ma so che non cederà facilmente, e io sono sempre stata la prima ad arrendersi in tutto. Perciò sbuffo e mi infilo nel letto, il più lontana possibile da lui. Siamo divisi da uno spazio di almeno due spanne, io sto in pizzo, sento che potrei cadere da un momento all’altro.
Adam poggia la testa sul cuscino e mi guarda scettico. “Se soffio ti butto giù” scherza. Allunga le mani e mi afferra il bacino. Cerco di resistere ma senza alcuno sforzo mi fa rotolare accanto a lui, accogliendomi tra le sue braccia.
“Che dicevi riguardo le tue mani?” gli dico, sono girata di spalle, il suo corpo aderisce al mio centimetro per centimetro.
“Dai, non posso nemmeno abbracciarti?” ride divertito, le sue mani rimangono imperterrite strette ai miei fianchi.
Decido di lasciar perdere, finché stanno lì dove stanno non posso lamentarmi. Nonostante il caldo sia insopportabile e nonostante i miei muscoli siano tutti tesi e sull’attenti, non posso mentire a me stessa: rimarrei così per tutta la vita. Invece dovrò accontentarmi di una sola notte.
“E la luce?” si chiede Adam.
Allungo una mano al muro dietro di me spalmandomi sul corpo di Adam. C’è un interruttore secondario, lo premo e veniamo di nuovo avvolti dal buio.
Il silenzio si fa più pesante mano a mano che i secondi passano. L’unico rumore che avvertiamo è il rumore sincronizzato dei nostri respiri. Quello caldo di Adam mi soffia sul collo e sull’orecchio, provocandomi brividi bollenti.
Dopo qualche minuto, o forse una mezz’ora, o forse anche un’ora, il mio corpo si adatta al suo, siamo come due palline di pongo che, ammorbidite di nuovo dal calore di una mano che le abbraccia, si uniscono e diventano un tutt’uno.
Il respiro di Adam diventa più regolare e silenzioso e capisco che si è addormentato. Finalmente mi tranquillizzo anche io, chiudo gli occhi e in poco tempo già sto dormendo.
Non riesco a capire per quanto dormo, mi sembra pochissimo tempo, ma io sono sempre convinta di dormire poco anche quando dormo dieci ore. È il tremolio delle mani sulla mia pancia e il suono come di un lamento che mi sveglia di soprassalto. Mi volto veloce verso Adam strizzando gli occhi per cercare di scorgere il suo viso. Sento il suo respiro affannarsi sempre di più, sembra come se stia affogando, boccheggia in cerca di aria. Mi stendo per accendere la luce, il suo petto si alza e si abbassa velocemente contro il mio.
“Adam, che hai?”mormoro preoccupata, quando la luce si accende vedo il suo viso: è sudato, non so se per il caldo o se per la paura, ha gli occhi verdi sbarrati e inumiditi, le labbra secche sono socchiuse per permettere a quanta più aria possibile di entrare.”Adam!” alzo la voce. Sembra in trance, gli occhi rimangono a fissare un punto fisso nel vuoto. “Adam, per favore, rispondimi” gli schiaffeggio piano il viso. “Oh mio Dio, che faccio, che faccio” balbetto a me stessa, sono completamente nel panico.
“N-n-non respiro” sento le parole arrivare flebili dalla bocca di Adam.
Impreco nella mia mente, salto giù dal letto e scappo correndo in bagno. Afferro un asciugamano lo butto sotto l’acqua fredda che scorre impetuosa dal lavandino. Torno in camera e mi siedo di nuovo sul letto, tampono tutto il viso di Adam partendo dalla fronte.
“Sssh, stai tranquillo. Cerca di calmarti” gli metto una mano sul petto mentre con l’altra gli spingo la pezza bagnata sul viso. Il suo cuore sembra stia per sfondare la gabbia toracica, batte all’impazzata. “Adam, guardami” dico con voce ferma. Se sono la prima ad agitarmi, non riuscirò mai a farlo calmare. “Respira, fai come me” mimo un respiro gonfiando la pancia.
Adam segue i miei movimenti con lo sguardo, comincia lentamente a rilassarsi, la frequenza dei suoi respiri diminuisce, i suoi occhi si agitano di meno, ora guardano fiduciosamente i miei.
È un attacco di panico. Lo so perché una volta che ero andata a trovare mia madre all’ospedale e in sala d’aspetto avevo visto una ragazza con gli stessi sintomi: era  bianca in viso, quasi cerulea, sudava nonostante fosse febbraio inoltrato e il petto le si alzava e abbassava velocemente andando di pari passo col suo respiro accelerato. Avevo chiesto a mia madre incuriosita di cosa si trattasse e lei me lo spiegò, dicendo che sono cose che non capitano al momento stesso del trauma ma si presentano quando meno te lo aspetti. Mentre vai a scuola in autobus, mentre mangi un panino al bar con un amico. Qualche cosa scatta nel tuo cervello e, inconsciamente, il panico si impossessa di te e della tua mente, prendendo il pieno controllo dei tuoi sensi.
Adam chiude gli occhi per rilassarsi, poso una mano sul suo petto per controllare il battito, che è largamente diminuito. Mi concedo un lungo sospiro e mi rilasso anche io. Stendo i muscoli che avevo tenuto tesi per tutto questo tempo. Gli asciugo il sudore dalla fronte sempre con l’asciugamano umido.
Nessuno dei due dice niente, non mi sembra il caso di interrogare Adam su quanto succeda e lui, probabilmente, non si sente in dovere o in grado di spiegarmi. Spengo di nuovo la luce e mi accuccio tra le sue braccia che mi accolgono di nuovo, stavolta mi stringono più forte, come se avessero paura che potessi sparire da un momento all’altro.
Il suo fiato mi fa rabbrividire quando mi sussurra all’orecchio un “grazie” appena pronunciato. 

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Capitolo 15
*** 15 ***


Mia madre sbatte una mano sul tavolo. “È inammissibile Marylou, te ne rendi conto?” è rossa in viso, la vena aorta sul suo collo pulsa forsennatamente.
È una cardiologa, dovrebbe sapere che agitarsi in questo modo non fa affatto bene.
Mi impegno al massimo per esibire uno sguardo più scocciato che posso, ticchetto con la mano sul muro dove ho poggiato la schiena.
“Dopo una nottata di lavoro torno a casa e che mi ritrovo? Mia figlia a letto con uno sconosciuto nudo!” la voce di mia madre si alza di circa una ventina di ottave sull’ultima parola.
Ho voglia di tapparmi le orecchie e di chiudermi in camera. Ancora. E ancora. E ancora, ancora, ancora.  
 “Sant’Iddio, lo  vedi che ti ricordi quello che ti pare? L’unica cosa che non portava era la maglietta, mà!” mi giustifico urlando.
“Non alzare la voce con me, Marylou, oggi rischi” alza il dito inquisitorio e mi zittisce.
Oggi rischio. Sento la rabbia montarmi dentro. Parte con una sensazione sgradevole nello stomaco, come un insistente formicolio, per poi risalire su fino alla bocca. La  lingua quasi mi prude per tutta la voglia che ha di parlare e dire la sua. Ho bisogno di conficcarmi le unghie nella carne paffuta del mio palmo per riuscire a mantenere la calma.
Decido di rimanere in silenzio, ma sostengo il suo sguardo adirato.
“Hai diciassette anni, non puoi pensare che avvicinandoti alla maggiore età otterrai certe libertà” continua con la  sua manfrina infinita.
Mi viene da alzare gli occhi al cielo, mi trattengo perché so che è un gesto che mia madre detesta.
“E quali sarebbero queste libertà?” domando.
“Devo ripeterti cosa ho ritrovato in casa tornando dal lavoro o ti ricordi?” mi canzona con tono assillante mia madre.
Si, si che mi ricordo, cazzo, ed è stata la notte più bella della mia vita, le vorrei rispondere.
Dopo esserci riaddormentati, Adam stretto a me e io stretta a lui, la stanchezza ha avuto la meglio su di noi e ci siamo completamente abbandonati nel mondo dei sogni. Eravamo, purtroppo, talmente abbandonati da non sentire assolutamente il clic metallico del chiavistello che veniva sbloccato da fuori. Sono stata io a sentire il rumore della porta sbattere chiudendosi e mi sono svegliata  di soprassalto scuotendo la spalla di Adam …
***
“Cazzo” mormoro spalancando gli occhi all’improvviso. Dai piccoli buchi rimasti nella serranda filtra qualche raggio di sole. È mattina.
Adam farfuglia qualcosa, poi, disturbato dal mio movimento, si gira dall’altra parte del letto e continua a dormire. E meno male che doveva alzarsi presto.
“Adam” gli scuoto una spalla. “Adam” non mi risponde. “Adam, cazzo” scuoto di più la sua spalla.
“Mmh, che c’è” boccheggia, sbirciando vedo che tiene gli occhi serrati appesantiti dal sonno.
“Adam, mia madre” comincio.
Lui farfuglia, ancora non si rende conto.
“Mia madre è a casa, Adam!” stavolta alzo la voce e gli mollo uno schiaffo sulla schiena.
Con un salto alza la testa dal cuscino. Ha tutti i ricci arruffati e scompigliati, ogni capello si è ingarbugliato ad un altro e mi domando seriamente in che modo riuscirà a ridare un senso alla sua testa. Ha gli occhi gonfi di sonno e le labbra secche e gonfie anch’esse. È sempre bellissimo, anche così.
Rimaniamo per qualche secondo a fissarci indecisi. Farlo saltare giù dalla finestra è improponibile, abito al quarto piano. Non ho uscite segrete, né tantomeno collegamenti con l’esterno che non prevedano l’attraversamento dell’intero corridoio. Siamo in trappola, mia madre mi taglierà la gola.
“Si può, amore? Lou, sono la mamma” una voce dolce che sussurra giunge da fuori la mia porta. Questa si spalanca lentamente, la luce si fa avanti a tentoni, cercando i nostri visi stravolti in  questo buio  che fino a poco fa ci nascondeva al resto del mondo. “Lou, sei svegl …” sapevo che non avrebbe finito la frase.
Mia madre accende la luce, le sue dita rimangono sopra l’interruttore, la bocca semiaperta combacia con l’espressione esterrefatta che le si dipinge sul volto. Sono nei guai.
“Posso spiegare” parto in quarta, metto le mani avanti in segno di difesa.
Il viso di mia madre si fa paonazzo. “Esci dal letto di mia figlia” la sua voce è fredda, gelida, cerca di mantenere un tono basso, ma si sente un tremolio che non promette bene. “Ora”
Adam ha gli occhi bassi, annuisce. Si scosta il lenzuolo di dosso scoprendo il petto nudo. Oh, Dio. La mia fine giunge qui, oggi, in uno stupido giorno d’estate. Non potevano fare quattro gradi sotto zero? Avremmo dormito con dei maglioni addosso!
Scende giù dal letto, in silenzio. Sotto lo sguardo vigile di mia madre si infila la maglietta e si allaccia le scarpe.
Mia madre ha un’espressione adirata, anzi, adirata è dir poco. Si sposta quel tanto che basta  per permettere ad Adam di sgusciare via dalla stanza senza provocare ulteriori danni. Lo vedo uscire, poi si gira e mi guarda: la sua espressione sembra scusarsi con me, ma la preoccupazione che ne trabocca mi impedisce di decifrarla al meglio.
“Comunque sia, non è successo nulla. Glielo giuro, signora. Sua figlia aveva bisogno di parlare con qualcuno” spiega Adam intimorito.
Il volto di mia madre si gira a guardarlo con lentezza estenuante. “Vai a casa” scandisce le parole. “Per piacere, levati dalla mia vista”
Adam annuisce, mi guarda di nuovo, poi con un’aria sconsolata sgattaiola via.
E ora, a noi, mamma.
***
“No mamma, non mi sono dimenticata” riprendo. “Ma ti ripeto per l’ennesima volta, e giuro che ho perso il conto, che non è successo un bel niente. Davvero! Non mi ha mai dato nemmeno un bacio serio” le spiego.
“Marylou, lo sai che con me puoi parlare di tutto, eh? Perché non me ne hai parlato? Sei piccola per certe cose, non sai fare le scelte giuste. Potresti fare qualcosa di cui poi ti pentiresti” sembra si stia calmando. “Quanti anni avrà? Venticinque? Trenta? Te ne rendi conto, Marylou?!” no, mi sbagliavo. Non si sta calmando.
“Ne ha ventitré. È un normalissimo ragazzo, anzi, è diverso dagli altri. Mamma, ha ventitré cavolo di anni e non mi ha ancora baciato. Ti fa capire questo che tipo di ragazzo possa essere Adam?” gesticolo, voglio che lei mi capisca. Voglio che lei guardi Adam con i miei occhi.
“Tu non conosci la vita. Lo vedi? Ti fai abbindolare dai primi occhi dolci che vedi” dice sprezzante.
“Preferivi continuare a vedermi sola mentre tutte le mie amiche si fidanzano?” controbatto.
“Non mi interessa cosa fanno le tue amiche. È ovvio che mi sta a cuore la tua felicità, apposta per questo motivo se vedo che sbagli mi sento in dovere di fartelo notare” conclude allargando le braccia.
“Farmelo notare? Lo hai terrorizzato! Probabilmente se mai dovesse incontrarmi in giro, cambierà strada”
“Vorrà dire che non ti merita, tesoro” spiega con ovvietà. Va in cucina e infila il camice bianco in lavatrice assieme ad altri panni. Spinge start, il rumore del cestello mi riempie le orecchie.
“Tu non capisci. Lui per me è importante davvero. Lo conosco da poco, ok. Ma è come se lo conoscessi da sempre. È diverso, non è come gli altri. Vede in me cose che nemmeno sapevo esistessero. Mi vede bella, mamma” quando parlo metto tutta l’intensità che posso nella parole che uso, voglio davvero farle capire come mi sento quando sto con lui, qual è la magia che provo mentre mi guarda negli occhi.
Mia madre si gira ad osservarmi. “Sai, si capisce sempre quando dici le bugie. Ti si colorano leggermente le guance e, facendo attenzione, si vede che tendi a sbattere le palpebre molto spesso” mi informa, si gira di nuovo, mette l’acqua a bollire.
Scuoto la testa tra me e me. Non avrebbe capito. Eppure pensavo che avessimo un buon rapporto. Sarà stressata per il divorzio, in fondo questo è il primo giorno. Solo in questo momento noto che i suoi occhi sono un po’ gonfi, come se avesse passato del tempo a piangere.
“Mamma non sto mentendo, te lo giuro” mi concentro per non sbattere gli occhi nemmeno un istante.
“Infatti non ho detto che l’hai fatto” mi risponde e sembra quasi che sorrida.
Approfitto del momento di calma superficiale, allungo le braccia e la avvolgo in un abbraccio da dietro. Poggio la testa sulla sua schiena e chiudo gli occhi. Siamo rimaste in due, dobbiamo fare di tutto per non dividerci.
“Scusami, Lou. Sono stressata, forse ho reagito un po’ esageratamente. Ma cerca di capirmi, amore” sussurra, con una mano mi accarezza la schiena.
“Tu devi fidarti di quello che ti dico io, mà, non di quello che vedi” parlo a bassa voce.
“Si, Lou. D’accordo. Ci riusciremo, insieme. Non ci lasceremo abbattere da ‘sta situazione” tira su col naso. La stringo più forte.
Il resto della giornata la passiamo a chiacchierare. Parliamo tutto il pomeriggio sedute sul divano, la tv rimane perennemente spenta, così come anche la radio, cosa che in casa mia non succede quasi mai.
Le racconto di Adam, di come l’ho conosciuto, le confesso che le mie amiche mi hanno fatto ubriacare. Le parlo del parco e del nostro incontro, del fatto che non riesco a capire perché Adam non mi abbia ancora baciato seriamente, né tantomeno perché stia dietro proprio a una come me.
“Perché tu sei speciale, Marylou. Lo siamo un po’ tutti, ognuno a modo suo. Il difficile sta nel trovare chi ti vede più speciale degli altri. E Adam, forse, ha visto in te quella specialità che cercava” spiega pragmatica mia madre sorridendomi, mostra le piccole rughe ai lati degli occhi e mi accarezza la guancia con dolcezza.   


*spazio autrice :)*
volevo ringraziare tutti per le visualizzazioni, spero che stiate continuando a leggere la storia e che vi piaccia e incuriosisca. Mi ci sto impegnando un sacco, ma ho sempre paura che stia andando troppo di fretta e che la storia sembri banale. Ho pochissime recensioni (ma ringrazio davvero in TUTTE le lingue del mondo chi me le  scrive perchè per me siete tipo droga di autostima, non so se mi spiego :'3 siete f o n d a m e n t a l i !) perciò, se avete dei consigli da darmi, o anche delle critiche, o magari volete solo farmi sapere se la storia vi piace oppure no... fatelo tranquillamente con una piccola/breve/lunga/stupida recensione, accetto tutto, davvero. Grazie ancora di spendere il vostro tempo leggendo questa mia cosa, adoro farlo e spero di riuscire a trasmettere le stesse emozioni che provo io quando scrivo.. Un bacio e al prossimo capitolo :D 

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Capitolo 16
*** 16 ***


“Fidati di me, è meglio se per un po’ non ci vediamo” ripeto per l’ennesima volta al telefono.
“Io voglio vederti” risponde Adam col tono irremovibile che conosco ormai bene.
Da ben tre giorni mi assilla di telefonate, la mattina, all’ora di pranzo, il pomeriggio e anche la sera. Mia madre mi guarda con occhi divertiti ma anche scettici mentre alzo gli occhi al cielo quando ascolto la mia suoneria per l’ennesima volta.
“Adam, no. Non si può” 
“Si che si può”
“Ora ti attacco in faccia”
“Non è la prima volta che succede, non mi fai paura. Continuerò a richiamarti” mi risponde, riportandomi alla mente la telefonata del giorno prima: era finita talmente drasticamente che avevo deciso di chiudergli il telefono in faccia.
Anche io ho voglia di rivederlo, ne ho tantissima, davvero, ma in questo momento penso sia più importante la salute della mia famiglia. O meglio, ciò che ne rimane.
Mia madre esce presto di casa la mattina, se lavora il pomeriggio va a fare la spesa, se lavora la mattina torna in tarda serata e ci guardiamo un film alla tv. È stanca, ha delle occhiaie scure e mi sembra invecchiata di dieci anni rispetto a pochi giorni prima che papà se ne andasse.
Mio padre l’ho sentito un paio di volte, la prima poco dopo il suo arrivo. Mi ha salutato chiedendomi come andasse a scuola, ignorando il fatto che fossimo già a giugno inoltrato. Ma ho finto di non farci caso e ho cercato di rendere la mia voce più allegra e gentile che potessi, anche se penso di non esserci riuscita molto bene. Ci vorrà del tempo perché io riesca a costruirmi una corazza. Perché io riesca a parlare con mio padre e a guardare mia madre senza quella strana sensazione che mi chiude lo stomaco. Come se ci fosse qualcosa di rotto, come se sentissi che qualcosa nella mia vita è sbagliato, dannatamente sbagliato. Eppure continuo ad andare avanti.
La maggior parte del tempo lo passo a casa da sola e ogni volta che Adam mi telefona sento che la mia pazienza si avvicina sempre di più al limite. Finirò per uscirci di nuovo, mia madre ci beccherà e … e poi? Quale tragedia potrebbe succedere, Marylou?
Afferro il cellulare con foga, basta, mi sono rotta di aspettare. Apro la rubrica e mi schiarisco la gola.  Scorro i nomi che iniziano per “A” ma le mie dita si bloccano quando sento vibrare il telefono contro la mia mano.
Christine.
Stiamo una mezz’ora al telefono, io le racconto tutto, lei non sa proprio che consiglio darmi. Per una volta, la saggia Christine è a bocca asciutta di parole. Nel frattempo, pare che lei si sia fidanzata abbastanza seriamente con Louis. Si vedono quasi tutti i giorni, lui la va a prendere a casa con la moto e la porta a fare un giro al mare, una passeggiata al centro commerciale. È felice, lo sento dalla sua voce. Non credo sia il solito fidanzato di qualche mese, questa volta lei è diversa. Il suo tono ha una nota in più, sembra quasi mettere in piedi una canzone quando mi parla di lui e sento il sorriso che si dirada sulla sua bocca mentre pronuncia il suo nome. La vedo cambiata in così poco tempo e mi fa impressione, non nel senso cattivo, ma in quello buono. Louis troverà un modo per farla tornare la Christine che era un tempo. Sarà lui quello che la prenderà per mano. Ne sono quasi sicura. Beh, quasi perché la mano sul fuoco si mette solo per la morte, no?
Christine insiste per uscire, non ha bisogno di convincermi a lungo, accetto più o meno subito. Ho bisogno di allontanarmi da casa, di tenere il cellulare fuori dalla portata delle mie dita pericolose. Ne ho un assoluto bisogno.
In quattro e quattr’otto esco di casa e mi dirigo al solito posto, la fermata dell’autbus di fronte al bar di ritrovo. Le strade sono vuote, forse perché sono le tre del pomeriggio di un’ afosa giornata. Oggi il caldo è proprio soffocante.
Sposto il peso del mio corpo su una gamba, ho la schiena indolenzita, i piedi mi scivolano sudati nelle infradito e il cemento incomincia a lessarne la pianta. Guardo l’orologio e non mi sorprendo vedendo che Christine è in ritardo come sempre. Non ricordo, sinceramente, di un giorno in cui sia arrivata puntuale. È preoccupante.
Dopo altri cinque lunghi e caldi minuti mi avvicino ai tavoli del bar. Il proprietario sta lì fuori, sul ciglio della porta, appoggia la bocca su una sigaretta e fa un tiro, sputando fuori l’aria sbiadita dal fumo.
“Posso sedermi? Aspetto una persona” gli domando.
Lui sorride e fa cenno di sì con la testa. “Come no, fai con comodo”
La mia gamba trema innervosita, sto incominciando a spazientirmi. Voglio davvero sapere che scusa si inventerà stavolta, ha un quarto d’ora di ritardo! Posso capire cinque minuti, ma quindici sono decisamente troppi per i miei gusti.
Poi delle mani mi coprono gli occhi prendendomi alle spalle.
“Christine non sto ridendo. Un quarto d’ora di ritardo!” rimango ferma, solo la mia bocca si muove per parlare.
Quando la mano scende giù sul mio collo, tracciando con le unghie ghirigori che mi fanno rabbrividire, incomincio a capire che Christine non è ancora arrivata. E probabilmente non arriverà.
La uccido.
“Adam … ?” concludo la frase con un accento di dubbio.
“Din din din, indovinato!” ridacchia, poi mi salta davanti stampandomi un bacio dritto sulle labbra.
Rimango stralunata per qualche secondo con gli occhi spalancati a guardarlo. Ogni volta prima di baciarmi si concede tutte quelle premure, quella lentezza, quei gesti estenuanti … e ora? Mi coglie di sorpresa.
“La devi smettere con queste sorprese, tu” gli intimo.
Prende posto sulla sedia accanto alla mia, la sua mano mi dà un debole schiaffo sul ginocchio.
“Come stai?” mi rivolge uno sguardo serioso, la sua mano non si sposta di un millimetro.
“Non lo so” rispondo e mi rendo conto che davvero non ne ho idea. “Tu piuttosto?” azzardo a chiedergli.
Si gira subito sorridente. “Bene, tranquilla. Tutto passato” dice ostentando disinvoltura.
I suoi occhi si muovono frenetici per qualche secondo, gesto che mi fa capire che non mi sta dicendo la verità. Decido di insistere.
“Sul serio?” alzo un sopracciglio.
Lui cerca di fare il disinvolto, poggia il gomito allo schienale della mia sedia, si avvicina a me.
“Si” mi risponde soltanto. Scorgo dei piccoli riflessi azzurrastri nei suoi occhi invasi dalla luce del sole.
Il suo sguardo mi appare comunque velato, come se volesse nascondermi qualcosa, forse una punta di dolore per un motivo lontano e silenzioso, chiuso in uno dei compartimenti stagni della sua memoria.
Cerco di mostrarmi il più comprensiva possibile, sostengo il suo sguardo, poso la mia mano sulla sua che continua ad accarezzarmi il ginocchio. “Io di te mi sto fidando. Tu?”
“Io cosa?” domanda, pur avendo capito cosa intendo.
“Adam, puoi fidarti di me, lo sai, si?” mi mordo un labbro in attesa della risposta.
“Si certo, lo so” mormora, il suo viso si è impercettibilmente avvicinato al mio.
Il tono delle nostre voci si è abbassato di botto, sussurriamo, e l’autobus che fa la fermata, col suo sbuffo, quasi ne copre il suono.
Come mi era giù successo in passato, la realtà che ci circonda è come se sparisse. Ci siamo io, lui e i nostri occhi incatenati. Soltanto il suo sguardo è per me un qualcosa di così intimo e privato che vorrei incidervi sopra il mio nome per far sapere che mi appartiene.
Il braccio che aveva poggiato sulla mia sedia, si alza e mi posa la mano sull’incavo del collo.
“E allora” la mia voce è un debole sussurro. “Perché non me lo dimostri?”
Adama abbassa gli occhi, i quali contemplano ora i miei, ora le mie labbra. La sua bocca rimane socchiusa, come se stesse per appoggiarla sul bordo di un bicchiere. Lo vedo avvicinarsi, si passa la lingua sul labbro inferiore, che ha un aspetto pieno e morbido.
Di riflesso mi mordo l’interno della bocca per trattenermi dal prenderlo e baciarlo. Dentro di me si dividono due persone: una razionale, calma, timida, noiosa; l’altra estroversa, evasiva, pazza.
“Lasciati andare per una volta …” mormora, le sue labbra sfiorano lievemente la punta delle mie mentre formulano le parole e io rabbrividisco.
Lasciati andare per una volta, mi ripeto mentalmente. Ce la faccio?
Ce la fai, Lou?
Mi immagino nella testa la pazza che vi alberga che prende una mazza da baseball e colpisce alle spalle la mia parte noiosa, lasciandola a terra priva di sensi. Vai, bella pazza, hai la via libera, che aspetti?    
Afferro il collo di Adam, infilando le mani tra i suoi capelli, e premo le labbra contro le sue.
Non ho mai baciato nessuno in vita mia, perciò non ho idea di come muovere la bocca. Si, ho visto qualche film, ma una volta che ti trovi nella situazione reale è diverso, ovviamente.
Per un secondo rimango ferma con le labbra spinte sulle sue, morbide e umide. Poi fortunatamente è lui a condurre il ballo.
Apre la bocca, le sue labbra abbracciano le mie avvolgendole dolcemente e lentamente, mentre la sua lingua cerca la mia. Sono un po’ impacciata nei movimenti, ho paura di sbagliare, ma cerco di essere il più sciolta possibile.
Adam continua a baciarmi dolcemente, poi la sua bocca lascia la mia che rimane semiaperta e insoddisfatta.
Ce l’ho fatta, ci sono riuscita. Ho dato il mio primo bacio. Non riesco a trattenere un sorriso.
“Finalmente, eh. Ce n’è voluto per farti sciogliere un po’” sussurra Adam ancora contro le mie labbra. Mi stampa qualche piccolo bacio frettoloso, poi si scosta sul serio e si poggia sulla sedia guardandomi dal basso verso l’alto.
Arrossisco e sposto lo sguardo altrove, evitando i suoi occhi inquisitori.
Lo sento ridacchiare debolmente. “Ma la strada per farti sciogliere del tutto è ancora lunga, giusto?” mi chiede retoricamente. “Comunque, non mi dà fastidio. Mi piaci quando arrossisci. Sei dolcissima. Hai un non so che di innocente” afferma continuando a guardarmi.
Certo, innocente si, in confronto alle ragazze molto “sciolte” che avrà avuto lui.
“Mh … grazie?” la mia suona più come una domanda che come un’affermazione.
Adam ride divertito. “Non preoccuparti. Mi piaci così come sei, ok?”
Vorrei rispondergli, ma il mio cuore perde un battito e io mi ritrovo a combatterci per farlo riprendere per l’ennesima volta.  

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Capitolo 17
*** 17 ***


Più tardi mi rendo conto che Adam è riuscito a fregarmi ancora una volta e io non so ancora quale sia il suo problema.
Passeggiamo per le strade silenziose, sembra che quest’anno tutti siano già andati in vacanza. Camminiamo uno accanto all’altro, le nostre braccia penzolano giù lungo i nostri fianchi, sfiorandosi di tanto in tanto.
“Davvero non ti eri mai ubriacata?” mi domanda Adam per l’ennesima volta.
“Ti dico di si! L’hai capito anche tu che sono diversa, no?” ribadisco.
Annuisce, si volta per guardarmi per qualche secondo.
“Secondo me è stato il destino a farci incontrare, sai?” aggiunge dopo un istante di silenzio.
Il mio stomaco si contorce a quelle parole. Adam, pur non dicendomelo, mi fa capire che ci tiene a me, che la nostra non è una cosa da niente.
Nostra.
Come suona bene il plurale!
“Ah si?” faccio la vaga. Voglio sentirlo parlare, starei in silenzio ad ascoltarlo tutta la vita.
“Beh si. Io quella sera, in realtà, non avrei dovuto lavorare” mi indica una panchina un po’ più giù e ci andiamo a sedere.
“Come?” gli domando.
“Era il mio giorno libero, oltretutto avevo fatto l’orario lungo da Decathlon, ero distrutto. Giuro che sarei andato a dormire alle nove di sera!” ride, io incrocio le gambe mentre lo guardo rapita.
Il sole gli illumina gli occhi, creando giochi di luce dorati e verdi dai quali, affascinata, non posso distogliere lo sguardo.
“Poi mi ha chiamato il mio capo. Ti ricordi quello che ti detto di lui, no? È un po’ burbero, un po’ … così. Insomma, mi ha detto che Lara aveva la febbre e non sarebbe venuta al lavoro. Perciò, figurati se un ragazzo carino e disponibile come me non si è gentilmente e volontariamente offerto di prendere il suo posto?” si gira verso di me e inclina la testa, mostrando un sorrisetto compiaciuto da bambino angelico.
Gli faccio una carezza scherzosa sulla testa. “Oh, si che bravo bimbo” gongolo ridendo insieme a lui. “Immagino proprio quanto tu sia stato disponibile. Ti avrà puntato una pistola alla testa!”
Adam sostituisce il sorriso con un’espressione intristita. “Ma sei cattiva, dai! Comunque … ok, hai ragione tu, mi ha offerto qualche soldo in più, ho dovuto accettare” conclude.
Guarda le mie mani, poi con la sua ne prende una e intreccia le dita con le mie. Quel contatto mi provoca una crescita di calore nello stomaco che mi fa girare la testa.
“Poi …” scandisce con lentezza estenuante. Col pollice traccia dei disegni sul dorso della mia mano. “Una ragazza ubriaca mi ha cambiato la serata” continua a parlare lentamente.
“T-ti sono … piaciuta da subito?” balbetto, il suo corpo tende sempre di più verso il mio.
Alza lo sguardo verso di me. Scorgo le fossette che appaiono accompagnate da un sorriso compiaciuto. “Si” annuisce. “Certo, non così tanto come ora. Ma mi sei interessata da subito” afferma.
Non così tanto come ora. Mh, l’ho sentita sul serio? Ormai non faccio più caso al mio cuore che batte come un pazzo forsennato, il mio organismo si sta abituando ad avere il sangue che fluisce come una pompa fuori controllo.
“Io per te ho perso la testa subito”confesso di punto in bianco. Adam mi fa quest’effetto, ogni tanto il cervello mi si imbianca, i neuroni si allontanano impettiti e io comincio a fare e dire cose che normalmente non farei o direi. Mi fa sentire strana, ma è davvero la sensazione più bella che io abbia mai provato.
Sento la sua mano che stringe di più la mia, se la porta alle labbra e ne bacia ogni singolo dito. Poi se la porta dietro il collo, io rimango così nella posizione che sceglie lui, le dita che si intrecciano ai suoi ricci ribelli. Posa la mano sul mio fianco e avvicina il corpo al mio, finchè i nostri petti non si accostano. Sento il suo respiro sulla labbra, la sua mano alza leggermente la mia maglietta e con le unghie disegna ghirigori sulla mia schiena, facendomi rabbrividire.
“Cazzo” sussurro quando sento il mio cellulare vibrarmi nella tasca. “Scusa” dico, Adam si stacca di malavoglia dal mio corpo.
È mia madre. “Lou?”
“Si, mamma, dimmi” cerco di mostrarmi il più disinvolta possibile.
“Dove sei?”
“In giro. In giro con … Christine. Si, con Christine” sembra più che io stia tentando di convincere me stessa.  
“Ah” pare che se la sia bevuta. Poi riprende a parlare con tono più tranquillo. “Volevo dirti che stasera non torno a casa. Ricordi quel paziente di cui ti parlavo tempo fa?”
“Quello con quel tumore particolare e quasi incurabile?”
“Si, esatto. Beh, si è aggravato notevolmente” mi spiega in tono professionale. “Passo la notte a visionarlo, preferisco esserci di persona. Tornerò domattina sul presto” suona come un avvertimento, e so bene il perché.
“Ehm, d’accordo, non c’è problema”
Adam mi batte sulla mano come per chiamarmi. “Chiedile” mima con le labbra. “Se puoi andare a dormire da Christine”
“Mi beccherebbe!” copro il telefono con la mano.
Adam esibisce un’espressione sconsolata.
“Allora ci risentiamo, Lou. Mi raccomando” mi saluta mia madre.
“Si, tranquilla” le assicuro e attacco.
“Ti odio” mi dice Adam.
Spalanco la bocca e gli do una piccola spinta. “Ma dai!”
“Perché non vuoi dormire con me?” incrocia le braccia e mi osserva.
Mi soffermo per un po’ sulla parola “dormire”, rifletto scettica sul suo significato. Alzo lo sguardo per osservarlo. “Perché no” rispondo seria.
Non voglio dirgli che ho paura, che non voglio disobbedire di nuovo a mia madre, perché le ho detto che di me si può fidare e che d’ora in poi non le avrei più mentito. Non voglio dirglielo.
“Non è una risposta” ribatte.
“Per me lo è”
“Nemmeno questa è ua risposta!” alza la voce allargando le braccia.
“Oh è assurdo! Non parlarmi di risposte quando tu sei il primo che non le dà” sto per infuriarmi, sento una strana sensazione nello stomaco.
“Non voglio parlarne” la sua espressione si incupisce.
“Io con te mi sono aperta” controbatto, non stacco gli occhi dal suo viso scuro.
“Lo so” mormora, lo sguardo fisso a terra.
“E sai che puoi farlo anche tu?”
Si limita a fare di si con la testa, ma rimane in silenzio.
Poso la mano sulla sua. “Allora perché non lo fai?” domando, ho la voce bassa che si riduce ad un sussurro.
“Perché non voglio” la sua voce è ferma e dura come la roccia. Il suo tono è come se mi schiaffeggiasse.
Mi alzo dalla panchina lentamente, sento gli occhi bruciarmi.
“Beh, quando avrai voglia di farlo, se mai ne avrai … torna a cercarmi” offesa, sussurro per coprire la voce rotta dai primi singhiozzi.
Adam si stringe la testa tra le mani e dondola avanti e indietro, vittima di chissà quali ricordi. Quando mi allontano andandomene da lui, non alza nemmeno la testa. 

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Capitolo 18
*** 18 ***


Ho acceso il condizionatore al massimo, dentro la mia camera è in atto una sorta di bufera di aria gelida che mi costringe ad accoccolarmi sotto le coperte nonostante sia giugno inoltrato. Anzi, a dire la verità, domani è il prmo luglio. L’estate ci mette così tanto ad arrivare che una volta giunta non fai in tempo a godertela che è già sparita.
Dalle coperte spuntano i miei capelli arruffati e un paio di occhi cerchiati da occhiaie. L’orologio indica che sono le tre e un quarto del pomeriggio e io, usando la scusa del “mi sento male”, sono riuscita a rimanere rintanata qui sotto fino ad adesso. Sbadiglio rumorosamente, mi stiracchio, ma di srotolarmi dalle coperte non se ne parla proprio. Solo a sentire il fruscio dell’aria che fuoriesce dal condizionatore mi viene la pelle d’oca per il freddo.
La porta si apre lentamente, mia madre entra dapprima preoccupata, poi spalanca gli occhi. “Ma che hai combinato?!” velocemente attraversa la stanza per raggiungere il condizionatore. Con un bip, la bufera cessa. Già comincio a sentire l’aria appesantirsi.
“No mamma, ti prego” la supplico, la mia voce arriva ovattata da sotto le coperte. Queste, mi vengono tirate via di dosso con un unico scatto.
“Si può sapere che hai?” lo sguardo inquisitorio di mia madre mi si posa addosso.  “Sono cinque giorni che dici che ti senti male, che non hai fame e ti chiudi in camera e esci solo ai pasti, quando ne hai voglia” elenca mia madre, poi si siede sul bordo del materasso, mi poggia una mano sulla testa accarezzandomi.
Casualmente, ma proprio casualmente, sono cinque precisi giorni che Adam è sparito. Sparito in ogni senso. Sono andata al parco due giorni fa, a fare una passeggiata, di correre non se ne parla, ma lui non c’era. Di telefonarlo non ne ho il coraggio. O meglio, forse mi è rimasto un po’ d’orgoglio.
Ho pensato che non posso stare con una persona che non si fida di me. Insomma, quando io sono stata male la prima persona che ho chiamato è stata lui. Non sentivo il bisogno di parlare con nessun altro. E penso, nella mia poca esperienza, che questo significhi fidarsi davvero di una persona.
Ma se lui non lo fa …
“Non ho niente, mamma. Sono solo stanca” evito il contatto visivo, capirebbe di sicuro che sto mentendo. E, ripensando a quanto mi è stato detto tempo fa, cerco di sbattere le palpebre il meno possibile. Dicono che quando mento le sbatto ripetutamente.
“Marylou” pronuncia il mio nome lentamente. È evidente che non se la sia bevuta.
“Lui non mi parla più” confesso dopo aver preso un bel respiro.
Mia madre rimane in silenzio per un po’, guarda le coperte ammassate al fondo del letto, si sposta una ciocca di capelli scuri dietro l’orecchio. Poi mi guarda, esibisce un mezzo sorriso. “Amore mio, sono sicura che avrà le sue ragioni. Non si può non volerti bene” mormora. “E se non ti parla più per un motivo stupido … beh, vuol direi che non ti merita”
“Non mi importa se non mi merita. Io volevo lui. Questa frase la odio, non ha senso” mi alzo incrociando le ginocchia. “Può anche non meritarmi, ma che cambia se io soffro lo stesso?” spiego retoricamente.
Mia madre annuisce consapevole con la testa, si inumidisce le labbra prima di parlare. “Non posso farti stare meglio, Lou, col tempo sarai tu a riuscirci. Ma non devi abbatterti troppo. L’amore è così” alza le spalle. “In un attimo ti riesce a portare su in alto e l’attimo dopo ti lascia cadere giù da una rupe” mi spiega, dalle sue parole trabocca il dolore che si sta portando dentro nel petto da un bel po’.
All’improvviso mi tendo verso di lei e la stringo forte tra le braccia. “Ti voglio bene” sussurro con gli occhi umidi. Affondo il viso nella sua spalla per non farle vedere che sto piangendo.
“Anche io, Lou. Anche io” mi risponde lei accogliendomi e stringendomi al petto.
Durante gli anni scolastici non mi succede mai niente, la mia vita è piatta come l’elettrocardiogramma di un cadavere. Torno a casa dalle lezioni e non ho nulla da raccontare, niente a cui ripensare. Nessun ragazzo che mi faccia innamorare, magari un litigio con qualche amica. Niente di niente.
Ultimamente, invece, sembra essere scoppiato il festival delle emozioni nel mio cuore devastato. Un giorno piango, l’altro giorno tremo dalla felicità. Ansia, paura, gioia. Non sono abituata a tutte queste cose e probabilmente sto reagendo nel modo più sbagliato possibile: piango. Per qualsiasi cosa i miei occhi si riempiono di lacrime.  
E ci mancava soltanto che Adam sparisse. Perché ogni volta che qualcosa mi va bene, questa deve subito rovinarsi? Non faccio in tempo a toccarla, la felicità, che questa svanisce beffarda. Mi sento presa in giro, ma non solo dal mondo circostante, perfino da me stessa.
Mia madre scioglie l’abbraccio, mi fa una carezza sul viso. “Stasera vado a cena fuori” confessa a bruciapelo.
Cosa?
Noto che non mi guarda in faccia mentre lo dice, è come se avesse paura della mia reazione. E fa bene ad averne.
“Con chi?” tra tutte le domande che potevo scegliere, scelgo proprio questa.
“Un mio collega, lo hai conosciuto tanto tempo fa. Ricordi il padre di Jamie, quel ragazzo biondo un po’ grassottello con cui giocavi sempre ai pranzi di lavoro?” mi spiega.
Ricordo bene quelle giornate. Mi scocciavo sempre di andarci, i pranzi erano infiniti e i colleghi di mia madre non facevano altro che pizzicarmi le guance e dirmi quanto era cresciuta e che principessa ero diventata. L’unica cosa positiva è che giocavo con questo bambino, Jamie, il figlio di …
“Si chiama Jackson suo padre, dico bene?” rispondo sforzandomi di ricordare.
“Si, amore, brava è proprio lui. Abbiamo deciso di andare a cena insieme stasera” le sue guance si colorano lievemente mentre mi ripete i loro programmi.
Vedendola arrossire, mi sento in colpa per essermi quasi arrabbiata, di nuovo. Mi fa tenerezza, sembra così vulnerabile. Le persone innamorate sono sempre vulnerabili, basta poco per ferirle, basta poco per renderle felici. E così è ora mia madre.
In fondo, sono contenta che abbia trovato un uomo. Voglio dire, niente è ancora sicuro, ma il fatto che esca mi fa rilassare un po’. Sono preoccupata per lei, da quando papà se n’è andato è davvero cambiata. È come se si fosse spenta.
Chissà che questo Jackson non riesca a far ritornare mia madre nel mondo dei vivi.
“Sono contenta per te, mamma” affermo convincente.
Le labbra di mia madre mostrano un enorme sorriso che, istintivamente, fa sorridere anche me.
“Oh mio Dio, ero così preoccupata! Per me il tuo permesso è davvero importante, Marylou” il suo viso è radioso.
È una situazione quasi comica: la madre che chiede il permesso di uscire alla figlia. Deve essere impazzita. O forse è solo emozionata.
“Allora, dove andate? Solo ristorante o fate qualcosa anche dopo cena?” mi interesso, mi sembra di parlare con una delle mie amiche impegnata col suo primo appuntamento.
“In realtà, pensavamo che tu e Jamie sareste potuti venire con noi. Vi piacevate così tanto da piccolini! Ma ti ricordi quanto giocavate?”
“Si, mi ricordo ma … cosa c’entriamo?” domando. L’ultima cosa che mi manca è conoscere un’altra persona, un’altra probabile fonte di problemi.
“È per farvi conoscere, per … rendervi consapevoli della situazione” spiega con difficoltà.
“Non voglio essere partecipe” affermo facendomi indietro con le mani. “Non sono fatti miei, o di Jamie. Potete uscire, stare insieme, fate quello che volete. Mamma, per piacere, non mettermi in mezzo” la prego, ma il mio tono lo fa suonare più come un avvertimento.
“Lou, prima o poi tu e Jamie vi rincontrerete, lo sai?” azzarda mia madre.
So che intende che tra lei e Jackson potrebbe diventare una cosa seria, ma per ora non voglio pensarci. Preferisco pensare che sia una cosa così, uno svago per distrarsi.
“Ci penserò più in là, allora, quando il momento si presenterà” le concedo.
“Beh, comunque sia a me non va di lasciarti sempre a casa da sola, già lo faccio spesso per lavoro, non voglio che succeda anche per le cose personali. Quindi, ne ho approfittato e ho detto a Jackson di portare Jamie qui stasera. Vedrai, vi divertirete” dopo aver sganciato la bomba, si alza dal mio letto e imbocca la porta della stanza. La sento sgattaiolare fino al bagno, la porta si chiude con uno schiocco.
“Mamma!” mi lamento, ma è troppo tardi, non può sentirmi. Si è sigillata dentro al bagno, sa benissimo che non avrei risposto di me se la avessi ancora avuta di fronte.
E adesso? Passerò una lunga serata in compagnia di un ragazzo col quale, al massimo, giocavo per un’oretta, due, circa quindici anni fa. Mi immergo di nuovo sotto le coperte, lamentandomi, e l’ansia già mi chiude lo stomaco. 

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Capitolo 19
*** 19 ***


Il campanello suona una volta, rimango qualche secondo impietrita sul divano, poi mi alzo per andare ad aprire. Mia madre, correndo, mi sorpassa prendendomi alle spalle. Indossa un abito nero un po’ scollato, le clavicole bianche e ossute si mostrano candide. Gli occhi sono cerchiati da un leggero ombretto azzurro che brilla sotto la tenue luce del lampadario. Porta delle scarpe con dei tacchi di circa sette, otto centimetri, immagino. La guardo per un secondo. Lei si gira veloce verso di me, si sistema i capelli arricciati in boccoli perfetti e sorride timida.
“Sto bene?” sussurra.
“Sembri una ragazzina” ridacchio, poi la spingo verso la porta.
Dopo averla aperta, davanti a noi ci ritroviamo due uomini, uno sorridente, l’altro un po’ meno. Quello che sorride con tutti e trentadue i denti è Jackson, che sfoggia uno smoking per niente pacchiano. I capelli, un tempo ramati, ora risplendono di un tenue biondiccio scolorito, che si avvicina ad un brizzolato, quello che piace tanto alle donne. Ha gli occhi azzurri, sembrano pieni di ghiaccio disciolto. Allunga un braccio e prende mia madre per la vita, assestandole due baci sulle guance.
“Buonasera Allison” mormora educatamente.
Mia madre sorride radiosa, sembra quasi che risplenda di luce propria. “Ciao Jackson. Allora, eccoti qui Jamie. Come sei cresciuto!” mia madre si rivolge al ragazzo accanto a Jackson.
I due si somigliano parecchio, direi quasi che Jamie è una specie di Jackson in miniatura. Per questa volta devo dare ragione a mia madre, cavoli se è cresciuto! Non è più il bambinello paffuto e in carne che rincorrevo intorno al tavolo affollato di persone. Adesso è alto, mi supera di qualche spanna, non ha un fisico da palestrato, sotto la maglietta nera si intravede un po’ di pancia. Questa non stona col suo viso, che è incorniciato da un ciuffo biondo disordinato. Le labbra piene e il naso un po’ a patata sono le uniche cose che mi fanno ricordare il bambino che era. Non lo avrei mai riconosciuto, altrimenti!
“Salve Allison” saluta educatamente, poi mi rivolge uno sguardo imbarazzato.
Che maledettissima situazione.
“Ciao … Marylou, giusto?” mi tende la mano.
La afferro e la stringo, la sua è leggermente sudata. “Si, ti ricordi bene” sorrido cordiale.
Anche Jackson mi stringe la mano, ringrazia per l’ospitalità e dopo un veloce giro della casa e le solite raccomandazioni, prende mia madre per la vita e insieme imboccano la porta di casa.
Io e Jamie, dopo la loro uscita, rimaniamo fissi in piedi a guardarci imbarazzati. Io mi metto le mani sui fianchi e contemplo il pavimento. Lu si gratta la testa e osserva l’orologio.
“So che è  imbarazzante per me quanto lo è per te” comincia sorprendendomi. “E ho, ovviamente, cercato di evitare questa cosa. Ma mio padre me l’ha chiesto quasi in ginocchio. Dice che è importante, che lo fa sentire meglio con sé stesso” spiega con un’espressione scettica disegnata sul viso.
Rimane in silenzio, si aspetta che io aggiunga qualcosa. “Oh, si, si, lo stesso mi ha detto mia madre. Mi dispiaceva deluderla” spiego. “Vuoi qualcosa da bere, intanto? Andiamo sul divano” gli mostro la via.
Fa cenno di no con la testa, si siede stravaccato sul divano, sul posto occupato, qualche tempo fa, da Adam.
Faccio fatica a non prenderlo e scaraventarlo via, impiego tutta la mia forza mentale e fisica per mantenere il controllo.
Dio, quanto mi manca.
Mi siedo vicino a lui. “I tuoi sono divorziati?” domando per mantenere la conversazione.
“No” guarda fisso di fronte a sé. “Mia madre è morta cinque anni fa” confessa, lo sguardo vacuo perso nel vuoto.
Mi schiarisco la gola. Perché non riesco ad evitare di fare casini?
“Ehm, mi dispiace, scusa io … non lo sapevo” balbetto.
“Oh non preoccuparti. Anzi, ti dirò subito una cosa, senza tanti complimenti. Non devi compatirmi, non voglio fare pena alle persone e detesto questo sguardo che avete tutti quando sapete la mia storia” mi dice veloce puntandomi gli occhi in faccia.
Aggrotto le sopracciglia. “Non mi fai pena” sussurro spiazzata.
“Oh si invece, dovresti vedere la faccia che hai” mi indica con l’indice.
Mi rendo conto che è vero, mi sento in dovere di consolarlo. Ma la gente lo fa sempre, per scaricare i suoi sensi di colpa, per conquistarsi un posticino in paradiso. Le persone tendono sempre a fingersi dispiaciute per le disgrazie altrui, non riescono a rimanere impassibili, anche se appena girano la testa dalla parte opposta non fanno altro che sputare sentenze.
“Mi dispiace, non lo faccio di proposito” ammetto.
Jamie annuisce, sembra capirmi. “Ad ogni modo, ormai sono abituato. Ma dal momento che probabilmente, d’ora in poi, passeremo molto tempo insieme ho voluto mettere subito le cose in chiaro” mi spiega cercando di essere il più esaustivo possibile.
Annuisco comprensiva. “Tu pensi che la cosa tra mia madre e tuo padre sia seria?”
“Io so soltanto che mio padre non sorrideva così da cinque anni. È diverso, è cambiato da così a così” mima con la mano mettendola col palmo rivolto prima in su e poi in giù.
“La stessa cosa vale per mia madre. Mio padre se n’è andato circa un mese fa, per lei è stata piuttosto dura” spiego.
“Si, mio padre mi ha accennato la vostra storia” mi informa Jamie. “Hai un bel rapporto con lui?”
Ci metto un bel po’ prima di rispondere. La verità è che non ho mai pensato alla risposta per una domanda del genere. Prima che i miei divorziassero non mi sono mai trovata a pensare all’evenienza di scegliere uno dei due. Eravamo un’unica famiglia, un nucleo di un unico atomo. Improvvisamente l’atomo si è scisso e io, una povera particella sbalzata via dall’esplosione, sono stata costretta ad attaccarmi ad una parte di atomo. Quella di destra o quella di sinistra?
“Non lo so” mormoro alla fine.
Jamie esibisce un’espressione confusa. “Come fai a non saperlo?” mi chiede incuriosito.
Anche lui deve pensare che sono una “strana creatura”, proprio come …
Sta zitta, Lou. Smettila di pensare.
“Oh?” Jamie mi scuote la spalla con la mano vedendomi distratta.
“Si, scusa. Il fatto è che questa situazione per me è nuova, è stranissima e io non ci capisco niente. Non capisco mia madre, non capisco mio padre, non riesco a capire nemmeno me, per cui figurati!” ammetto concitata.
Jamie annuisce con un sorriso sghembo, scuote un po’ la testa. “Che periodo del cazzo”
“Oh, non avrei saputo dirlo meglio” affermo.
Dopo ci guardiamo con uno sguardo complice e scoppiamo a ridere.
Mi piace questo ragazzo, mi fa ripensare ai bei tempi in cui tutto andava per il verso giusto. Anche se, in realtà, i problemi ci sono sempre stati, è solo che essendo una bambina non me ne rendevo conto.
Io e Jamie continuiamo a chiacchierare delle nostre vite per il resto della serata, una domanda sulla scuola, un’altra ancora sulla famiglia … Lui fa il terzo anno dello scientifico e in matematica, dice, se la cava piuttosto bene, adora tutto ciò che ha a che fare con i numeri e il suo sogno è quello di diventare un geometra. Ha avuto una storia con una ragazza più grande di lui, Sally, che lo ha preso in giro e lo ha lasciato dopo averlo fatto innamorare. Jamie mi racconta che si sono lasciati da poco e la rottura ancora gli scotta.
Il suo discorso mi fa inevitabilmente ripensare ad Adam, al fatto che sia sparito da cinque giorni, al fatto che non si senta libero con me, che non riesca ad aprirsi e a fidarsi.
Curioso il fatto che io non riesca a lasciarmi andare fisicamente, mentre lui non riesce a farlo psicologicamente. Io sono disposta a provarci, a impegnarmi per renderlo felice. Ma lui? Lui è disposto a farlo? È disposto a mettersi in gioco, a rischiare di perdere qualcosa, e magari anche a guadagnare qualcosa? Chissà.
“Cristo, che sonno” Jamie, che si è sfilato le scarpe da ginnastica e le ha tirate in mezzo al salotto, si stiracchia allungandosi sul divano.
Io sbadiglio imitandolo, me ne sto stravaccata sul divano, poggiata al bracciolo con il peso del corpo.
“Hanno deciso di fare le ore piccole” aggiungo.
Proprio mentre ci lamentiamo, sento le chaivi di mia madre infilarsi nella serratura, che si apre con un tic.
“Buonasera” Jackson e mia madre parlano in coro, allungando la vocale “e”.
Noto che si tengono per mano, ma non appena si accorgono della nostra attenzione si allontanano.
Mia madre viene verso di me e mi stampa un bacio sulla testa, poi sorride a Jamie. “Allora, com’è andata la serata?” domanda apprensiva.
“Siete stati bene?” aggiunge Jackson.
“Oh si, ci siamo fatti una bella chiacchierata” spiego sorridendo, poi guardo Jamie, il quale sorride come me.
“Non c’era abbastanza spazio per giocare ad acchiaparella, quindi abbiamo deciso di parlare qui sul divano” ridacchia.
Jamie poi chiede com’è andata la loro, di serata. Sono sicura che mia madre arrossisce quando lo sguardo di Jackson si posa sul suo viso, di rimando sorrido. Sono davvero felice per lei.
Ci raccontano che sono andati a cena fuori in un posto lussuosissimo. Non appena sono entrati li hanno praticamente scortati al tavolo e spostato le sedie per permettergli di sedersi. Hanno cenato a lume di candela, con porzioni microscopiche di cibo super calorico e molto condito. Poi Jackson si è offerto di pagare il conto, immagino salato dall’espressione che colora il suo viso. Si sono fatti una lunga passeggiata al centro, rilassante, giusto per digerire. E infine eccoli qui, di nuovo a casa.
Jamie e io sbadigliamo per l’ennesima volta. Non vogliamo sembrare scortesi, ma siamo veramente stanchi. Evidentemente, neanche lui sarà molto abituato alla vita notturna, proprio come me.
Io e mia madre accompagnamo Jamie e il padre alla porta, li salutiamo cordiali, poi torniamo a sederci sul divano.
La guardo curiosa, lei non si toglie quel sorriso dalle labbra.
“E allora? T’ha baciata o no?” rido mentre lo dico, lei sa che morivo dalla voglia di chiederglielo.
Ride e arrossisce, arrossisce e ride. Sembra davvero me, dopo aver incontrato Adam.
Ma la smetti di ricordare, Lou?
Mi focalizzo su mia madre. Prende un lungo respiro, si sistema i capelli, poi si gira e mi guarda. Pronuncia un’unica parola che serve a convincermi a saltarle addosso abbracciandola: “Si”.  

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Capitolo 20
*** 20 ***


Christine tira fuori una sigaretta dalla borsa e con l’accendino laccato la accende portandosela alle labbra. Mi allontano di qualche centimetro mentre butta fuori il fumo formando una O con la bocca.
“Dai, Chri, lo sai che mi dà fastidio” sventolo con la mano di fronte al mio naso.
Christine ride e volta la testa, sputando il fumo dal lato opposto.
“E quindi è sparito?” riprende Belle interessata.
Annuisco sconsolata, gli occhi a terra.
Siamo sedute al solito bar vicino alla fermata. Questo posto mi incupisce un po’ adesso, oltretutto siamo sedute proprio allo stesso tavolo dove Adam mi ha baciata. Per la prima e ultima volta.
Decisamente non miglioro. Più passa il tempo e più mi deprimo. Come aveva detto mia madre? “Vedrai che col tempo sarai tu a stare meglio”. Mh, non ne sono poi così sicura. E meno male che tra noi non è successo nient’altro di molto serio. Non avrei retto, probabilmente.
“Ma chiamalo, scusa! Che ti frega? Ti manca e tu ci stai male, si vede lontano un miglio” mi sprona Christine.
“Si, la donna zerbino” interviene stizzita Eleanor. È particolarmente positiva questa ragazza, oggi.
“Eleanor, la smetti di fare la zitella acida?” Christine la zittisce con un’occhiataccia, poi torna a boccheggiare la sua sigaretta. “Quello che sto cercando di dirti, è che non hai nulla da perdere, Lou. Sono passati … otto giorni mi hai detto, giusto? Chi può dirlo se tornerà o no? A questo punto, visto che sei depressa in ogni caso, togliti il dubbio e chiamalo” conclude, come se fosse la cosa più semplice al mondo.
“Oh certo, e che gli dico?” parto in quarta alzando la voce. “Ciao Adam, ti ricordi di me? Si si, sono quell’idiota che ha pensato bene di innamorarsi di uno che l’ha presa in giro e se l’è già dimenticata. Sono proprio io, quella stupida ingenua” concludo portandomi la testa fra le mani.
Belle si allunga verso di me dall’altro lato del tavolo, mi rialza il viso cotringendomi a guardarla.
“Smettila di deprimerti, cazzo” scandisce con precisione. “Se questo maledetto Adam non tornerà da te di sua spontanea volontà lo faremo ritornare noi” mi assicura.
Mi viene da sorridere e da abbracciarla, ma mi limito a guardarla fisso negli occhi. “Grazie ragazze, davvero” mormoro.
Eleanor sembra si stia autoescludendo dal nostro gruppo, non ha fatto commenti sulla mia situazione, tranne una frotta di insulti e obiezioni sui consigli suggeriti da Christine. Non capisco cos’abbia, ma non spreco nemmeno il mio tempo a cercare di afferrare i suoi problemi. Ne ho già abbastanza per conto mio, direi.
“Forza e coraggio, eh. E poi sei una figa, se finisce male, una sera andiamo al pub e te ne trovi subito un altro” Christine mi fa l’occhiolino.
“Magari stavolta lo andiamo a cercare da un’altra parte, con i pub ho chiuso” ridacchio.
Christine e Belle ridono insieme a me. Christine spegne la cicca nel posacenere nero sul tavolino, getta il corpo arancione della sigaretta  in mezzo alla strada, poi si ravvia i capelli con la mano.  
“Io devo andare ragazze” Eleanor si alza dal tavolo di punto in bianco, la faccia senza espressione. Si china per dare un bacio sulla guancia a ognuna di noi, poi si dilegua in fretta.
“Che problema ha?” domando non appena siamo rimaste sole.
Sia io che Christine guardiamo Belle, la quale si stringe nelle spalle. Pur essendo un gruppo piuttosto piccolo, ci sono comunque degli altrettanto piccoli sottogruppi. Io e Christine ci conosciamo da una vita, così come Belle ed Eleanor, le cue madri frequentavano la stessa classe al liceo. In questo modo, ogni volta che una di noi è strana, ci rivolgiamo alla sua amica più stretta per saperne di più.
“Credetemi, sono un po’ di giorni che è stranissima. Tutti i venerdì sera ci vediamo per dormire a casa mia, ma da due settimane trova sempre delle scuse assurde. Non so che le prende e ogni volta che ho provato a chiederglielo ha decisamente fatto la vaga” mormora Belle con un’espressione perduta. “Ha cominciato a comportarsi in modo strano da quando … beh, si, da quando ha litigato con te per quella roba di Adam e del maniaco” conclude ricordandosi.
Si, in effetti mi ci mancavano soltanto le scenate di gelosia di un’amica, ora il mio quadro clinico è completo, sono pronta al ricovero.
“Cristo santo, non ci voglio credere. Non mi dire che sta così per Adam!” mi lamento.
Possibile che se per una maledettissima volta quella a cui succede qualcosa nella vita sono io, gli altri debbano sempre creare problemi?
Problemi, problemi, problemi. Sempre problemi.
“Non so proprio cosa dirvi. Davvero, non ho più parole. So solo che se il motivo è davvero questo, dovrebbe venire a dirmelo in faccia, guardandomi negli occhi” affermo e sbatto la mano sul tavolo enfatizzando le parole.
Belle e Christine, dapprima silenziose, si guardano e scoppiano in una sopresa risata.
“Hai capito, eh? Ma che ti succede? Dove l’hai lasciata quella Marylou timida che non alzava la mano nemmeno per chiedere di andare in bagno?” Christine mi dà di gomito.
“Spero che se ne sia andata a fare una lunga vacanza” affermo speranzosa, mentre lo dico capisco che lo spero sul serio. Veramente spero che la vecchia me se ne stia andando, lasciando il posto ad una Marylou più cresciuta, più matura e sicura di sé stessa.
Belle, che stava smanettando con il mio cellulare, me lo porge in fretta. La mia suoneria mi riempie le orecchie.
“Mamma?” rispondo.
“Dovresti tornare a casa, Marylou” mi intima. Uh, ha usato il mio nome per intero, brutto segno.
“Che cosa è successo?” mormoro con un tono quasi lamentoso. Ormai sono preparata a qualsiasi catastrofe. Divorzi, fidanzamenti, sparizioni improvvise … non mi spaventa più nulla.
“Torna a casa, amore” la sua voce si addolcisce. Altro brutto segno. “Io devo tornare al lavoro, cerca di sbrigarti”
Attacco dopo averla salutata. Io e le mie amiche ci guardiamo, so già che se avrò problemi potrò chiamarle senza farmi tante domande. Già da adesso, però, l’unica persona che vorrei avere accanto è lui.
Ma non si può avere tutto quello che si vuole, Marylou.
Mi avvio verso casa a passo svelto, vado dritta per la mia strada, la testa come ovattata è improvvisamente diventata pesantissima. Mi trascino per le vie vuote e assolate, l’asfalto mi brucia i piedi, coperti da delle sottili infradito.
Non prego, non penso a niente. Seppure pesante, la mia testa è sgombra da ogni parola. Preferisco non costruire castelli in aria, non voglio illudermi, né soffrire più del previsto.
Mi soffermo per un po’ di minuti di fronte alla porta di casa, poi infilo le chiavi nella serratura.
Tic.
Entro e mi chiudo la porta alle spalle, lasciandola sbattere.
“Mamma, allora?” urlo ancora prima di arrivare in salone.
Quando vi giungo, mi blocco istintivamente.
Scorgo soltanto dei ricci ribelli neri come l’onice, raggiunti da qualche raggio di sole che si intrufola dalla finestra. Adam è voltato di spalle, seduto sulla mia sedia, con le mani posate sul mio tavolo nel mio salone. Si volta lentamente verso di me, mi punta i grandi occhi verdi sulla faccia, la sua espressione è indecifrabile.
Lì per lì, la prima cosa che mi viene da fare è sorridere. I muscoli della mia faccia sembrano essere diventati involontari, si muovono a loro piacimenti, facendo ciò che vogliono. Ma riesco a redimerli molto velocemente. La mia espressione, da gioiosa che era, cambia all’istante, per divenire un misto tra il furioso e … no, credo di avere una faccia che esprime solo rabbia, tanta rabbia.
Vedo mia madre, già pronta con la sua valigetta nera stretta nella mano, corrermi incontro. Posa la mano sulla spalla di Adam e gli sorride.
Il nervoso mi trabocca dallo stomaco.
Poi viene verso di me, mi stampa un bacio sulla fronte senza ottenere una risposta. “Penso che possiate risolvere da soli, adesso. Io scappo al lavoro!” dice e si dilegua sbattendosi la porta di casa alle spalle.
“Cia-” comincia Adam, la sua mano si muove impercettibilmente dal tavolo come per sfiorarmi.
“Sta zitto e fermo” gli ordino. Mi stupisco della mia voce, che è dure e irreprensibile.
Brava Lou.
“Non mi toccare” il mio sguardo sembra quello di un killer. Lo capisco dall’espressione impaurita di Adam.
Ma come, un ventitreenne grande e grosso come lui ha paura di una ragazza di diciassette anni? Comico.
Come un alunno ripreso dalla sua professoressa, Adam rimane in silenzio, ma riesce a non distogliere lo sguardo dal mio viso. Attende una bella sfuriata.
“Pensi che io sia una di quelle ragazzine che si fanno comandare a bacchetta?” inizio, la mia voce trema un po’ per il nervosismo.
Adam spalanca la bocca per rispondere, ma lo blocco.
“Ho detto sta zitto” gli ordino. “Comunque, non lo sono. No, caro mio, mi dispiace deluderti. Non ho esperienza, ma non sono stupida, ok? Non puoi pensare di farmi gli occhi dolci, di dirmi quattro frasi per incantarmi e poi, quando capisci che non te la darò tanto facilmente, sparire nel nulla. No dico, ti sembra modo questo? Sei completamente scomparso per otto cazzo di giorni! Non puoi aspettarti di tornare con il tuo solito sorriso da cane bastonato e pensare di rimettere tutto a posto. Non te lo permetterò, Adam” faccio una pausa per riprendere fiato. Mi sta salendo il sangue al cervello. “Non voglio essere presa in giro. E magari starò anche esagerando, penserai che sono una pazza che si fa i film mentali, ma sai che ti dico? Che non me frega un bel niente di ciò che pensi tu. Io ho cercato di capirti, ho provato a farti aprire con me, ma sei stato tu ad impedirmelo. E in un rapporto, perlomeno il rapporto che mi immagino io, la fiducia ci dev’essere da entrambe le parti” mormoro gesticolando.
Adam mi segue con gli occhi, attento a non perdersi una parola. Ormai non prova più a controbattere, ascolta silenzioso, annuendo di tanto in tanto.
Mi concedo un minuto personale nel quale ammiro il suo viso, le sue iridi verdi nelle quali sembra essersi fatta primavera, le labbra piene lievemente socchiuse. Non vedo l’ora di vederlo sorridere, la cosa che mi è più mancata di lui sono le fossette.
Poi scuoto la testa. “Se non vuoi avere una storia seria, ti consiglio di girare al largo. Se ti spavento, se pensi che io sia una che ci spera troppo … beh, basta dirmelo. Si Adam, basta avvertirmi, sai? Non devi inventarti tragedie familiari, furti ad una banca o chissà cosa. Parla chiaramente per una volta, non andare avanti a battutine e prese per il culo. Mi sono rotta di essere trattata come l’ingenua di turno da tutti quanti. Il fatto che io non litighi quasi mai, o che non mi opponga alle decisioni degli altri, o che magari sia più silenziosa delle ragazze che girano al giorno d’oggi, non fa di me una perfetta idiota. Ho la vostra stessa capacità di intendere e di volere, soffro come tutti voi. Io non sono fatta di creta, non potete modellarmi a vostro piacimento” dico tutto d’un fiato. Il cuore mi batte talmente veloce che quasi non lo sento più, l’adrenalina mi scorre nelle vene come fosse veleno puro e io, per liberarmene, sputo fuori tutto ciò che mi passa per la mente.
Adam vedendomi rimanere zitta per qualche secondo, si alza dalla sedia e, appoggiandosi al bordo di quest’ultima, incrocia le braccia. Si inumidisce le labbra, sbatte gli occhi e pronuncia le parole con voce ferma e sicura: “Adesso è arrivato il mio turno”. 

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Capitolo 21
*** 21 ***


Mi poggio con la schiena al muro, cerco di calmarmi più che posso. Continuo a guardarlo, la mia lingua è ridotta ad un nodo agitato che vorrebbe vomitare altre parole. Impiego tutta la mia forza per starmi zitta e permettere ad Adam di parlare.
Lui prende un lungo respiro, chiude gli occhi per un secondo per fare mente locale.
“Innanzitutto, scusa per essere sparito” comincia gesticolando con le mani. “Non avrei dovuto comportarmi così, ma mi è andato in tilt il cervello” si prende la testa tra le mani schiacciando i riccioli neri.
Sento uno strano calore nello stomaco … è come se vedendolo così, mi sentissi io in colpa per averlo trattato male. Sono una stupida, è appurato.
“Io non voglio assolutamente prenderti in giro. So che non hai esperienza e so anche che non sei stupida. Sei solo inesperta e questo, giustamente, non corrisponde a stupida” fa una pausa, studia la mia espressione, che rimane indecifrabile e oscura. Poi riprende con voce ferma. “Non voglio comandarti a bacchetta, non è questo che cerco in una relazione, Lou. Anzi, cerco sempre di spronarti a lasciarti andare, a prendere una posizione … sei così timida!”
Mentre dice quelle parole, giusto per confermare ciò che dice, abbasso lo sguardo arrossendo lievemente.
Lo vedo sorridere, finalmente mi mostra le fossette che tanto mi erano mancate.
“Non ti faccio gli occhi dolci per portarti a letto, Lou, e se hai capito qualcosa di me di sicuro sai che non sono un tipo così. Cioè, dipende dal tipo di persona che ho davanti. Con te non mi comporterei mai in … in un modo del genere! Voglio dire, so che tipo sei, non potrei mai farti soffrire e non vorrei nemmeno farlo. Anzi, non voglio farlo. Devi credermi. Hai detto che ti fidi di me, no? Fallo sul serio” mi dice Adam, i suoi occhi sono due grandi pozzi profondi di sincerità.
Non posso impedirmi di rispondere. “Non posso farlo se non lo fai tu” rispondo glaciale.
“La verità è che … ho paura. Sì, sono spaventato” ammette con enormi difficoltà, addirittura fugge il mio sguardo mentre parla.
Mi ritrovo ad esibire un’espressione sorpresa e corrucciata “Tu paura? E di cosa, scusa?” domando realmente interessata. Sono proprio curiosa di sapere cosa dirà.
Adam si spettina i ricci con le dita, questi saltano da una parte all’altra della sua testa arricciandosi come molle. Tiene ancora gli occhi bassi, non riesco a decifrare la sua espressione, mi viene voglia di abbracciarlo, ma nei contatti siamo ancora un po’ freddi. Mi limito a muovere qualche passo verso di lui.
“Di rimanere solo. Di rimanere senza di te” sussurra con un filo di voce.
Il mio cuore perde un battito, di ossigeno presente nei polmoni non ce n’è più. Allungo con lentezza estenuante la mia mano verso la sua. Gli sfioro il dorso con la punta dell’indice.
Adam alza il viso, affogo nei suoi occhi grandi da bambino che mi guardano impauriti.
“Io non ti lascio” affermo, mi stupisco della mia voce che suona piuttosto decisa.
“Puoi darmi tutte le rassicurazioni che vuoi, Lou, ma non riuscirai a rendermi tranquillo” mi intima sconsolato. Nasconde il viso tra le mani.
“Basta Adam” mormoro tirandogli via dolcemente le mani dal viso. Incrocio le dita nelle sue. “Mi vuoi dire che hai?” cerco di scuoterlo, voglio fargli sentire che io ci sono e ci sarò sempre per lui.
Sospira rumorosamente, ha gli occhi un po’ lucidi, cerca di trattenere le lacrime e mi fa una tenerezza così assurda che mi fa male al cuore.
Lo prendo per mano e lo tiro via verso il divano. Mi siedo trascinandomelo dietro, facendolo accomodare accanto a me.
Adam si volta verso di me e mi punta lo sguardo in faccia. “Non ce la faccio” sussurra solamente.
Nei suoi occhi leggo il dolore che deve aver provato, vorrei toccargli la testa sulle tempie e  tirare fuori tutti i suoi brutti pensieri, buttarli via, lasciarli nel dimenticatoio, soli e ammuffiti. Ma non posso. Perlomeno, non posso se lui non me lo permette.
“Adam, ti prego” gli prendo il viso tra le mani, le mie dita tremano un po’.
Forse è la mia stretta sicura, forse è la fiducia che gli infonde il mio sguardo a farlo parlare, fatto sta che dopo gli ultimi secondi di indecisione, Adam finalmente decide di parlare.
*** ADAM’S POV***
Gli occhi castani di Marylou mi sembrano caldi e accoglienti, il profumo fresco e delicato della sua pelle mi riempie il naso, mi fa sentire a casa. Eppure non riesco a scacciare completamente fuori l’angoscia che mi chiude la gola. Ma, per lei, ci provo.
“Mia madre, quella naturale, era una donna completamente sola. Quando sono nato aveva soltanto diciotto anni, era una ragazzina, non fisicamente, ma mentalmente si, eccome. Mi raccontava che quando fece il test ebbe una sorta di crisi isterica, rideva e piangeva contemporaneamente. Io ero solo un bambino, avrò avuto tre anni e in lei vedevo una donna forte ma anche debole. Aveva spesso le occhiaie e i capelli neri le scendevano giù sulle spalle spenti e sfibrati. Mi lasciava spesso a casa da solo, mi salutava con un bacio sulla testa e mi lasciava i giochi buttati sul pavimento, visto che la mia camminata era ancora un po’ traballante. Diceva che aveva da fare, che andava di fretta. E io non potevo fare altro che annuire. Dipendevo da lei, le volevo bene, quell’amore incondizionato che solo un figlio piccolo può provare per la madre” faccio una pausa inghiottendo il groppo che mi sale in gola, combatto con me stesso per trattenere le lacrime.
Scruto il viso di Lou, non si perde una mia parola, è attenta a ciò che dico. La sua piccola mano candida traccia dei disegni scomposti sul dorso della mia, le labbra morbide sono socchiuse e rilassate.
“Ogni volta che tornava a casa mi ritrovava addormentato a terra, avvolto in una copertina di pile grigia piena di pelucchi. Mi prendeva in braccio e rideva, non capivo perché quel fatto la divertisse tanto. Solo qualche anno dopo ho realizzato: ogni sera, ogni sera della sua vita, tornava a casa completamente ubriaca. Mi buttava sul suo letto infilandomi sotto la trapunta. Non potevamo permetterci tanti lussi, nemmeno un maledetto letto per me. Dormivamo insieme, le sue braccia mi cullavano quasi soffocandomi. Mi ricordo che non facevo mai un’unica dormita la notte, mi svegliavano sempre i singhiozzi di mia madre. Non so perché piangesse e a dirti la verità, non lo capisco neanche ora. Forse perché era sola. Forse perché sapeva di sbagliare, di aver commesso errori su errori. Di non meritarmi affatto. Ma che altro potevo fare io, se non sottostare a lei?”
Lou ascolta in silenzio, non mi interrompe, né fa domande.
“Poi una sera, mentre gattonavo in giro per casa alla ricerca della mia coperta, sento sbattere la porta rumorosamente” abbasso lo sguardo, il dolore mi riempie gli occhi, sento le lacrime bruciarmi come se fossero acido nelle mie pupille. “Vidi mia madre cadere in avanti sbattendo le ginocchia sul pavimento duro. Dietro di lei, un uomo alto, con una barba folta e degli occhi verdi scuro. Attraversò lo spazio che lo separava da mia madre e, una volta raggiunta, le diede un calcio dritto nello stomaco. La prendeva a parolacce, le parole venivano pronunciato col sottosfondo dei miei singhiozzi impauriti. Mia madre gridava e scalciava, era sempre stata un peperino, non si arrendeva facilmente. Provò a rialzarsi, ma lui, schiaffeggiandola, la rispinse a terra. Poi mi vide” rimango in silenzio per qualche istante.
La mano di Lou fa pressione sulla mia stringendola, i suoi occhi annegano nei miei, i miei annegano nei suoi.
“Mi venne incontro ridendo, sembrava divertito. Tremavo come una foglia, me lo ricordo chiaramente. L’ossigeno nei polmoni mi bruciava come se fosse fuoco e io respiravo a fatica per buttarlo fuori. Dalla tasca tirò fuori un coltellino, piccolo, uno di quelli svizzeri multiuso. Gridavo e piangevo, pensavo di soffocare, non avevo abbastanza aria per fare entrambe le cose e contemporaneamente respirare. Avvicinò la lama al mio viso, ci asciugò le lacrime che scendevano impetuose, poi lo spostò dietro il mio orecchio. Voleva tagliarlo, voleva sfregiarmi, rovinare il mio viso che somigliava così tanto a quello di mia madre, i cui singhiozzi mi arrivavano chiari e forti, trapanandomi il cervello. Poi tutto avvenne così velocemente che ancora faccio fatica a ricordarlo. Mia madre, non chiedermi come, riuscì ad alzarsi da terra e spaccò un vaso, posato sul comodino vicino all’entrata, dritto sulla testa di quell’uomo. Questo cadde a terra, ma nel contraccolpo il coltellino si infilò dritto nell’incavo del mio collo, a pochi centimetri dal mio orecchio” detto questo, sposto la testa di lato e piego l’orecchio per mostrare a Lou una lunga e rosea cicatrice.
La vedo rabbrividire, stringe le labbra come se stesse trattenendo dei singhiozzi.
“Il mio sangue impregnava la mia maglietta, lo sguardo di mia madre era fisso sulle goccioline che mi coloravano il collo. Il mio, di sguardo, invece, contemplava silenziosamente la pozza rotonda e scura di sangue che si allargava sul pavimento, partendo dalla testa dell’uomo barbuto. Mio padre, Lou” la mia voce è rotta dai singhiozzi. “Quell’uomo era mio padre”.
Nascondo il viso tra le mani. Odio mostrarmi debole, odio fare la vittima, ma, più di tutto, odio il fatto che qualcun altro debba consolarmi.
Ma con Lou è diverso. Con nessuno ero mai riuscito ad ottenere un simile rapporto, ad aprirmi in questo modo. Le ho davvero raccontato tutto questo? Le ho mostrato la cicatrice e ora sto piangendo davanti a lei come fossi un bambino. Lou, da brava mamma, mi accosta al suo petto stringendomi tra le braccia. Il battito del suo cuore mi riempie le orecchie tranquillizzandomi, proprio come farebbe una mamma col suo cucciolo. Nella mia vita ne ho passate tante, è vero, ma ora, in questo momento, non vorrei nient’altro che lei. Lei che mi tiene stretto tra le braccia, che mi bacia la testa e mi sussura di stare tranquillo, di non preoccuparmi.
“Mi dispiace, se solo avessi saputo … Dio, mi sento così in colpa Adam. Mi dispiace così tanto, ho avuto anche il coraggio di arrabbiarmi” ripete questa sequenza un paio di volte, come se fosse un disco rotto.
Le mie braccia ora circondano i suoi fianchi, scosto il viso dal suo petto, i nostri nasi si sfiorano, il profumo del suo fiato mi riempie le narici.
“Tu non hai fatto niente, Lou. Tu … tu sei perfetta” balbetto con suoni sconnessi e rotti dal pianto che comincia a diminuire.
“Non voglio che continui se non ce la fai. Davvero. Se non te la senti, se ti fa troppo male io capirò” Lou scioglie l’abbraccio e mi pianta gli occhi dorati sul viso.
Scuoto la testa, posso farcela. Ormai sono partito, non posso tornare indietro.
“Due sere dopo dei signori in giacca e cravatta portarono via mia madre e poi anche me. Venni chiuso in un orfanotrofio, come puoi immaginare. Venni adottato soltanto tre anni dopo, a sei anni, da una famiglia che non riusciva ad avere figli. Lei era un avvocato, lui aveva una ferramenta. Divorziarono un anno dopo, forse il mio arrivo fu la goccia che fece traboccare il vaso dei loro problemi. Finii un’altra volta in orfanotrofio, stavolta per cinque anni. Una coppia di anziani ebbe la voglia di adottarmi, non so perché. Ero un ragazzo scuro, l’espressione perennemente arrabbiata, di fare sorrisi non se ne parlava. Ma loro due erano … due angeli venuti a salvarmi. Lei era una madre, una nonna … tutto ciò che non avevo mai avuto. Lui non era un padre, fin troppo dolce e giocoso, sembrava un fratello. Morì tre anni dopo avermi adottato, un infarto lo stroncò all’improvviso” mi concedo quache minuto, la mente si riempie di quelle vecchie immagini, di quelle ferite perennemente aperte e sanguinanti.
La mano di Lou stritola la mia, sembra che voglia trasmettermi tutta la forza che tiene nel suo piccolo corpo.
“E … e tua madre?” domanda intimidita a bassa voce.
“Lei si trova in una casa di cura fuori città. Dopo che ho compiuto i diciotto anni ho deciso di andarmene a vivere da solo. Mi ero rotto di … di tutto quanto. Tu non sai quanto è stato difficile per me … Io … è per questo che ho il terrore di rimanere da solo, Lou. Perché nessuno mi ha mai davvero voluto bene. Nessuno, Lou. Se è successo, è successo una volta e non è durato più d’un paio d’anni. Non mi sento giusto. Io non sono giusto, ho qualcosa che non va. Nessuno capirà mai cosa significa veder andare via tutti i ragazzini più piccoli di te, a volte anche quelli più grandi. E io, invece, rimanevo sempre lì, a Natale, a Pasqua, d’estate, d’inverno. Sempre. E il tempo non passava mai. È per questo che non volevo dirtelo, che non volevo dirti la verità. Perché so che prima o poi te ne andrai anche tu, come hanno fatto tutti gli altri” fisso gli occhi nei suoi, sembrano lucidi, ma con la forza di un titano resiste dallo scoppiare in lacrime.
Si butta a capofitto tra le mie braccia, mi si butta proprio addosso, le sue mani mi accarezzano ora il viso, ora la testa. Poi si scosta, mi guarda in faccia.
Io non me ne vado” sussurra con voce glaciale. “Rimango qui con te”
Poi le sue labbra si posano contro le mie, impetuose, irruente e aggressive. Si fondono in una danza che sembra una lotta, le sue mani mi tirano i ricci scomposti e le mie si intrecciano alla sua maglietta. Mi morde il labbro inferiore, io mi intrufolo sotto la sua maglietta graffiandole la schiena e strappandole un sospiro rumoroso. Si stende sul divano tirandomi verso di lei, continua a baciarmi senza riprendere fiato nemmeno per un secondo. Le sue braccia mi avvolgono stretto e quando la mia mano arriva al bordo del reggiseno, improvvisamente si blocca, l’ombra di un imbarazzato sorriso sulle labbra.
“Vedi di non approfittartene, è solo un caso” ridacchia e con l’indice mi carezza la guancia.
Grazie, Lou” sussurro, le stampo un piccolo bacio sulle labbra arrossate, poi la avvolgo in un abbraccio.
Non so per quanto rimaniamo attaccati l’una all’altra, forse un’ora, forse due … Pur sempre troppo poco tempo per quanto mi riguarda. 

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Capitolo 22
*** 22 ***


Stamattina, verso le sei e mezza, sono già in piedi a girare per casa. Ho una gran fame, rapino la credenza della cucina acchiappando tutto ciò che posso: biscotti, cereali, barrette energetiche … Poi prendo una tazza e ci verso dentro un po’ di latte scaldandolo nel microonde. Con un braccio tengo tutte le varie buste e scatole, con l’altra mano sorreggo la tazza dal piccolo manico in coccio. Mi intrufolo di nuovo nella mia stanza, cercando di fare il più piano possibile. Mia madre oggi ha il turno di mattina, mi sembra di ricordarmi, ma per sicurezza preferisco essere silenziosa per non svegliarla, nel caso in cui stesse ancora dormendo. Alzo la serranda, faccio entrare la luce brillante della mattina, lascio che inondi la mia stanza, illuminandola in ogni suo angolo più remoto. Oggi ho voglia di sorridere, di ballare e di cantare, trovo difficoltà a restarmene ferma e impalata tra le coperte. Non ho motivi per fare la musona, tutto va meravigliosamente bene. Un piccolo essere, abitante del mio stomaco, mi ricorda che “quanto piace al mondo è breve sogno”, citando Petrarca. Io lo zittisco mentalmente, che mi lasciasse godere questi pochi attimi di frivola leggerezza. Petrarca era un uomo triste e cupo, pesante, direi. Non c’è da meravigliarsi se Laura non gli si concesse mai, no? Erano altri tempi, ok, ma non vuol dire poi tanto.
Il latte fuma nella tazza bollente adagiata sul comò. Prendo una manciata di cereali al cioccolato e li verso dentro. La schiuma superficiale del latte svanisce e quest ultimo si colora di marrone, mentre il cioccolato si scioglie. Bevo un sorso e mastico qualche cereale, il cibo che mi scende nello stomaco è come nettare degli dei. Mi sembra di non mangiare da mesi, mentre alterno un morso di biscotto ad un sorso di latte caldo. Chissà perché.
Sento la porta schiudersi delicatamente, il viso di mia madre appare dal buio del corridoio. Quando mi vede sveglia, spalanca la porta velocemente.
“Che ci fai già in piedi? E … per caso avevi fame?” indica le scatole di biscotti sparse sul letto.
Annuisco colpevole con un sorrisetto imbarazzato. “Ho questa cosa allo stomaco che …” mi strizzo la pancia con la mano. “Non so, sono davvero affamata. Come se non mangiassi da mesi” spiego.
Mia madre sorride apprensiva e mi guarda con gli occhi enormi. “Oh, amore” mormora. “Ti sei innamorata!” afferma sicura. Viene verso di me e mi stampa un bacio sulla testa.
La mia espressione tenta di rimanere indecifrabile, o perlomeno stupita, ma quando sento il calore invadermi il viso so di aver fallito.
“Innamorata? Ma no, figurati. Lo conosco da talmente poco tempo che non so quasi niente di lui … come faccio ad amarlo?” la informo con voce ovvia, sbattendo qualche volta di troppo le palpebre.
Ti prego, Lou, anche se non sai mentire, cerca di controllarti per stavolta.
“A volte capita, sai, di innamorarsi anche senza sapere nulla di una persona” spiega mia madre esauriente. “Del colpo di fulmine che mi dici, eh? In certi casi ti basta vedere il sorriso di una persona per innamorartene, Lou. È la vita” fa spallucce.
Mi ricorda qualcosa. O meglio qualcuno. O meglio, me.  
“Oh beh, noi non possiamo di certo farci qualcosa” anche io allargo le braccia con fare interrogativo, poi rido insieme a mia madre.
Mi accarezza la testa, mi lancia uno sguardo carico di sottintesi, uno sguardo che solo una madre può lanciarti, poi mi saluta dicendo che va al lavoro e che tornerà in serata.
Il mio telefono emette un terribile rumore vibrando a contatto col legno del comodino e io, abituata a stare nel silenzio, sobbalzo ridendo di me stessa.
È un sms di Christine:
Adam ha fatto pace con Louis. Louis e Adam hanno un rapporto aperto, si dicono tutto. Louis sa di te e Adam. Louis sa di te e Adam e di ieri sera. Louis sa. Io no.
Con la speranza che tu abbia buone scuse che ti discolpino, fatti trovare al bar alle dieci e mezza.
Christine :) J
Le sue parole mi fanno sorridere, ma ad allargarmi le labbra in un davvero grosso sorriso che mi contagia anche gli occhi, è il suo nome. È Adam, come al solito.
Ripenso alla serata di ieri, alle sue lacrime, al dolore traboccante dai suoi occhi verdi, due grandi pozzi di solitudine e sincerità. Ripenso agli abbracci che ci siamo dati, so per certo che non avremmo potuto fare nient’altro di più intimo delle nostre braccia che stringevano i nostri corpi scossi dai singhiozzi. Le lacrime si mischiavano diventando un tutt’uno e il suo dolore era anche il mio. Prima di ieri, non mi sono mai sentita così vicina ad una persona, ho sempre cercato di costruirmi una sorta di schermo che mi proteggesse, una pellicola che, seppur trasparente, riusciva comunque a proteggermi dal mondo circostante. Adam è riuscito a spogliarmi di questa pellicola, l’ha sciolta col suo amore e con la sua tenerezza, con la sua solitudine e il suo bisogno di affetto.
Mi vesto in fretta e pulisco la mia camera e la cucina, riponendo biscotti e tazza nei loro rispettivi posti. In una borsetta infilo chiavi, portafoglio e cellulare ed esco di casa.
Quando arrivo al bar mi vedo costretta a bloccarmi improvvisamente: Christine è seduta ad un tavolo ed è, difficile a dirsi quanto a credersi, in anticipo!
“Ma allora è Natale!” la stringo in un abbraccio mentre lei ride. “Oppure no, aspetta, magari sta arrivando la fine del mondo?”
“Cretina” Christine mi dà un buffetto sulla guancia. “È soltanto un caso, tesoro. Giuro che non accadrà più” mi promette scherzando.
Ci sediamo al tavolo e ordiniamo due enormi gelati, al triplo cioccolato per me, alla fragola per lei. La mia fame vorace continua e sembra non avere fine. Dovrei preoccuparmi?
Mi infilo un cucchiaio troppo grosso di gelato in bocca e il cervello mi si congela. Stringo gli occhi un po’ dolorante, ma il fastidio cessa in qualche secondo.
“Lou, non costringermi a cavarti le parole di bocca, dai!” Christine prende una fragola e la addenta, un po’ di succo rosso le cola sul labbro.
Decido di dirle tutto, tranne i dettagli della vita di Adam. Mi ha detto delle cose in confidenza e oltretutto per lui è stato decisamente difficile. Perciò parto dal mio ritorno a casa, la mia seguente sfuriata, le mie lacrime, le sue lacrime, gli abbracci e i baci. Christine ha la bocca semi aperta quando finisco di raccontarle.
“Siete adorabili” gongola portandosi le mani strette a pungo accanto alle guance. “E tra poco vi vedrò insieme!” aggiunge un urletto finale alla frase.
Rido vedendola così, poi mi blocco di colpo. “No aspetta, cosa?” domando allarmata.
“Louis e Adam ci raggiungono tra …” guarda l’orologio swatch che porta al polso. “Una decina di minuti circa”
Sbianco. Rivedere Adam dopo ieri sera mi imbarazza da morire. Abbiamo avuto un momento intimo, davvero intimo, e ora mi fa strano rivederlo così, alla luce del sole. All’aria aperta. Di fronte a Christine. Di fronte a Louis.
Oh Dio. Calmiamoci, ok?
“Ma come?!” la mia agitazione è palese.
Christine allunga una mano e mi immobilizza un polso. “Sta calma, Lou. Qual è il problema?”
“Il problema è …” mi blocco, ritrovandomi a pensare. Già, qual è il problema?
 Il problema è il mio maledettessimo carattere, al quale non ho il tempo materiale di pensare perché un paio di mani affusolate mi coprono gli occhi.
Bu!” mi sussurra Adam all’orecchio, così piano che solo io posso sentirlo.
Poso le mani sopra le sue, spostandole delicatamente dai miei occhi. Mi volto verso di lui, sorride mostrando le fossette e mi dà un buffetto sulle guance.
“È molto facile farti le sorprese” mi dice Louis notando la mia espressione sorpresa. Si trova dall’altra parte del tavolo, ha accolto Christine tra le sue braccia abbronzate.
Adam si accomoda accanto a me e si rivolge al suo amico. “Te l’avevo detto!” ride. 
“Smettetela di prendermi in giro!” mi lamento scherzando.
Adam mi si avvicina e mi stampa un bacio sulla guancia. “Oh no, povero tesoro!” mi canzona come se parlasse ad un bambino che vuole lo zucchero filato.
Gli dò una botta sulla spalla. “Cretino”
Louis si accende una sigaretta, dalla quale Christine fa qualche tiro mischiato a qualche cucchiaio di gelato alla fragola. Chiacchieriamo del più e del meno, per la maggior parte le cose che diciamo sono cavolate. Io continuo a mangiare il mio gelato, che sembra davvero non finire mai. Sta cominciando a sciogliersi e noto che Adam lo osserva attirato.
Alzo il cucchiaino a mo’ di invito, lui sorride. “Gentilissima” mi ringrazia. Prende un cucchiaio di gelato e se lo infila in bocca deglutendo. Chiude gli occhi e sembra in estasi. “Mmh” gradisce. “Triplo cioccolato!”
Ridacchio divertita. Nel frattempo di fronte a noi la bocca di Christine è appiccicata a quella di Louis. Arrossisco e distolgo subito lo sguardo. Fanno come se fossero soli, come se io e Adam non esistessimo. Mi sento in imbarazzo per lei, così prendo il cucchiaio dalla mano di Adam e mi concentro sul gelato.
“Non devi strappare le cose dalle mani di altre persone per fare la vaga e non far notare che sei imbarazzata, Lou” mi intima facendomi l’occhiolino.
Che cavolo, mi legge nel pensiero, non c’è altra spiegazione.
“Veramente è perché ho fame” controbatto stizzita. Ma sento lo stomaco improvvisamente pieno, solo a guardarlo, il gelato mi provoca dei conati. “In realtà no” quindi abbandono il cucchiaino nella tazza e Adam mi sostituisce di nuovo.
In pochi secondi del gelato rimane solo un lontano ricordo, Adam lo finisce molto velocemente.
Christine sta ridendo insieme a Louis, gli sta facendo vedere un video rumoroso dal suo cellulare.
Adam approfitta del momento di distrazione, si volta palesemente verso di me e mi prende il viso tra le mani.
“Adam, dai” sussurro impettita, cercando di allontanarmi.
Ma le sue mani sono più forti e trattengono le mie guance. Posa le labbra sulle mie, le quali combaciano alla perfezione. Le apre delicatamente, il suo fiato dolce mi riempie la gola, ha le labbra fresche grazie al gelato che si è divorato poco fa. Muove le labbra morbide, mentre la sua lingua cerca e trova la mia. Continuiamo a baciarci come se fossimo soli, l’imbarazzo che sentivo poco prima si scioglie come se fosse ghiaccio al sole e in poco tempo mi sento leggera, fluttuante in un universo parallelo, abitato solo da me e Adam.
“Mmh, sai di cioccolato” mi sussurra sulle labbra.
Lo sbuffo dell’autobus che fa la fermata mi fa sobbalzare improvvisamente, Adam si allontana da me con un ghigno. Mi volto verso il mezzo pubblico, mi piace vedere le facce di quelli che scendono. Qualcuno sta al telefono, qualcun altro trascina una borsa pesante messa a tracolla. Alcuni ridono e altri chiacchierano con un amico. Poi vedo una testa familiare: un ciuffo biondo spettinato, degli occhi color ghiaccio.
“Jamie!” attiro la sua attenzione alzandomi dalla sedia e andandogli incontro. Sento gli occhi di Adam che mi seguono.
Jamie si guarda intorno confuso, quando mi vede sorride. Ci salutiamo con due baci sulla guancia. “Stavo venendo a trovarti, Lou!” mi informa.
“Ah si? Beh, perché non vieni a sederti? Sto al bar con degli amici” indico il tavolo. Adam ha un’espressione curiosa e … innervosita? Boh.
Jamie allunga lo sguardo e fa un mezzo cenno di saluto ai miei amici, poi si rivolge a me. “In realtà volevo parlarti di una cosa un po’ …” sembra cercare la parola adatta. “Privata, ecco”
Alzo le sopracciglia dubbiosa. “Ehm, ok. Cinque minuti che saluto. Vieni, te li presento” gli sorrido e mi incammino verso i miei amici, lui mi segue silenzioso.
Adam vedendolo arrivare assume una posa da spaccone, poggia un gomito allo schienale della sedia e l’altro sul tavolo. Tiene la gambe aperte in una posizione piuttosto rilassata, sorride, ma il suo sorriso è più un ghigno. Louis e Christine mi osservano incuriositi.
“Lui è Jamie” lo indico con la mano. “Il figlio del …” mi blocco e lo guardo.
Lui mi guarda di rimando, fa spallucce. “Compagno?” la sua suona come una domanda.
“Diciamo di si” annuisco. “È il figlio del compagno di mia madre”
Jamie saluta con la mano, è un po’ imbarazzato. “Ciao”
Adam allunga la mano dal suo posto, quel sorriso stampato in faccia mi incomincia a innervosire. “Molto piacere, io sono Adam” si stringono la mano.
“Io sono Louis e lei è Christine” quest’ultima sorride cordiale.
“Da quanto vi conoscete?” domanda Christine.
“Una settimana, due scarse” spiego.
“Mio padre frequenta sua madre da un po’, potrebbe diventare una cosa seria, quindi … cominciamo a frequentarci da subito” dice Jamie esaustivo.
“Uh, potresti avere un fratellastro” commenta eccitata Christine.
Louis e Adam sorridono, l’uno cordiale, l’altro un po’ meno. Louis gli domanda dove va a scuola, come va la sua vita in generale, lo invita a sedersi per qualche minuto. Adam rimane in silenzio, sembra un animale che studia la sua preda.
Jamie rifiuta educatamente e mi guarda per invitarmi a spiegare. “Vi sequestrerò Lou per qualche ora, se non vi dispiace” si scusa sorridendo.
“Andiamo a casa mia, dobbiamo parlare di … una cosa” mormoro.
Il viso di Adam si insospettisce. Possibile che debba avere paura di Jamie? Insomma, è il mio quasi-fratellastro!
Tutti si alzano per salutare, stringono la mano a Jamie. Christine mi abbraccia, Louis mi stampa un bacio sulla guancia. Vedo Adam stringere un po’ troppo la mano di Jamie, mi sembra di tornare nel medioevo, ogni donna appartiene ad un uomo, guai a chi la tocca o soltanto a chi la guarda. Guai seri, eh.
Il mio “ragazzo”, tanto per far capire meglio il suo ruolo nella mia vita, mi prende per i fianchi tirandomi verso di sé. I nostri petti rimangono attaccati, non ho più uno spazio vitale. Le sue labbra intraprendenti bloccano le parole lamentose che stanno per uscire dalla mia bocca. Con le mani mi stringe i fianchi un po’ rotondetti, tirando il mio bacino contro il suo. Io tengo le mani sul suo petto, devo ancora decidere se scostarlo o tirarlo verso di me.
È lui a staccarsi, ride e sembra essere molto divertito. Scuoto la testa rassegnata. Mormoro un ultimo saluto e mi allontano insieme a Jamie.
Una volta saliti a casa, ci sediamo sul divano. “Certo che il tuo ragazzo è un po’ … protettivo” asserisce alzando le sopracciglia.
“Beh, si, è esagerato” ammetto con una faccia che espone delle scuse.
“Oh non mi sono offeso, sai. È strano però che si sia comportato così. Insomma, più o meno sei una specie di sorella per me, no? Non penserei mai a te in quel senso” fa una faccia schifata.
A pensarci bene, vederlo in quel modo dà fastidio anche a me. Magari in altre circostanze avremmo potuto provare attrazione l’uno per l’altra, chissà.
“Hai ragione” gli concedo ridendo.
Dopo qualche chiacchiera, Jamie torna velocemente serio.
“Ieri sono tornato a casa verso mezzogiorno. Sono uscito un’ora prima, ci hanno dato il permesso perché mancava una professoressa” inizia a raccontare.
Annuisco attenta.
“Ho aperto la porta di casa piano, ma non esageratamente piano. Insomma, pensavo mi avessero sentito” la sua espressione si fa inorridita.
Lentamente inizio ad intuire dove vuole andare a parare. E la cosa mi preoccupa.
“Ho sentito dei … rumori? Mh, ecco, dei … dei versi, Lou. Quei versi” conclude mordendosi il labbro.
“Oh mamma. Che trauma!” esclamo impressionata.
Mi ritrovo a pensarci su. Scuoto la testa violentemente, come per scacciare certe immagini che mi affollano la testa. Mia madre si sta decisamente rifacendo una vita, oh si. Ma preferirei non saperne i dettagli, ecco tutto.
“Scusa e tu che hai fatto?” gli domando dopo essermi ripresa dallo shock.
Lui allarga le braccia. “Ero nel panico! Non sapevo se mettermi a piangere in un angolo, fuggire urlante dalla porta o avvertirli della mia presenza” mormora sconsolato.
“E …?” lo esorto a continuare.
“Mi sono messo sul divano e ho acceso la tv, ostentando tranquillità. Ho anche alzato il volume, ho cercato di farli accorgere della mia presenza. E ci sono riuscito. Mio padre è uscito abbottonandosi gli ultimi bottoni della camicia, era completamente rosso in viso. E tua madre aveva i capelli talmente scapigliati che sembrava avesse infilato un dito nella presa della corrente” ride. “Se avesse potuto sotterrarsi, credimi, non avrebbe perso tempo a farlo!”
“Penso proprio che ormai questa cosa sia piuttosto seria” asserisco dopo qualche momento di silenzio.
Jamie annuisce convinto. “Beh … allora, benvenuta … sorellastra?” mormora dubbioso Jamie sorridendo.
Rido insieme a lui e annuisco. Già, sembra proprio che ora abbia un fratellastro. 

Scusate se utlimamente ho cominciato ad aggiornare un po’ più sporadicamente, ma a scuola mi riempiono di compiti e io sono stressata, stressata, stressata. Davvero, s’è capito che sono stressata? Comunque sia, vi volevo ringraziare, per le visualizzazioni, per le recensioni, per avermi messo tra i preferiti o tra i seguiti … davvero, siete ciò che mi spinge a continuare questa storia. Non sono mai convinta di ogni capitolo che pubblico, ma basta una recensione per farmi impazzire (in senso buono, ovviamente!). Non finirò mai di ringraziarvi, quindi aspettatevi altri messaggi nei quali vi riempio di preghiere e offerte stile sacrifichiamo un agnello per il nostro dio. E un'ultima cosa, ho una mia domanda esistenziale da porvi: ma perchè ogni uomo che va a Las Vegas per ubriacarsi la mattina dopo si ritrova sposato con una qualche zoccola incontrata sul momento?
Siete dei tesori <3 

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Capitolo 23
*** 23 ***


  Dopo essermi fatta una bella chiacchierata con Jamie lo accompagno alla porta salutandolo calorosamente.
“Devo scappare. Mio padre torna a casa tra una mezz’ora e io gli ho detto che avrei fatto la spesa ma …” si interrompe stringendo le labbra.
Mi stampa un bacio sulla guancia e sgattaiola fuori.
Decido di raggiungere nuovamente Adam, Louis e Christine: li ritrovo ancora seduti al bar nelle stesse posizioni di quando li ho lasciati.
Christine mi saluta con la mano da lontano vedendomi arrivare, Louis mima un “ciao” con le labbra. Adam neanche si gira, fa il sostenuto rimanendo voltato verso la tazza vuota di gelato, giocando col cucchiaino.
Il suo atteggiamento infantile non mi fa infuriare, anzi a vederlo mi viene da ridere. Sembra proprio un bambino al quale la mamma non presta attenzione, completo di broncio e labbro curvato in giù.
Mi siedo sorridendo cordiale a tutti, poi dò un buffetto sulla guancia di Adam, cercando di suscitare una reazione. E ci riesco alla grande.
“Beh, il tuo nuovo amichetto dove l’hai lasciato? Potevate anche rimanere in casa tutto il pomeriggio” si lamenta con voce carica di disappunto.
Louis e Christine si fingono impegnati in una vivace chiacchierata, cercando di distogliere lo sguardo dai due neo-fidanzatini alle prese con la loro prima litigata. Uh, ma che romantico.
“In effetti ci ho pensato. Purtroppo mi ha dato buca, quindi, a malincuore, ho dovuto accontentarmi di te” lo prendo in giro assumendo la faccia più impotente che posso. Alzo le spalle con fare rassegnato.
Adam mi punta gli occhi in faccia, potrebbe lanciarmi una miriade di aghi, come una mitragliatrice, fatti apposta per cucirmi la bocca.
Rido divertita e mi stendo verso di lui, mettendogli un braccio intorno alle spalle e posando le labbra prima sulla sua guancia, poi accanto al suo orecchio.
“Mi piacciono i ragazzi gelosi” sfioro il suo lobo con la bocca.
Lo vedo mordersi il labbro inferiore e chiudere gli occhi per un istante. Posso confermare che le orecchie sono un suo punto debole. Molto debole.
Così, approfittandomene della mia intuizione, mordicchio la carne morbida del suo orecchio. Non mi frega di Christine, di Louis o di chiunque altro. È uno dei miei tipici momenti di pazzia, questo. Mi sento libera, libera di fare quello che mi pare, ma non so se sia una cosa positiva o meno.
Adam copre un piccolo gemito con un colpo di tosse ben piazzato, poi si volta velocemente verso di me, allontanando in fretta le mie labbra dal suo orecchio. Intreccio la mano alla sua e noto che i peli del suo braccio sono tutti dritti. Non posso fare a meno di sorridere e complimentarmi con me stessa: per essere davvero inesperta me la sto cavando egregiamente.
“Ok, ok. Basta che la fai finita” mi intima Adam tutto serio. “O sarò costretto a portarti nel bagno del bar. E so che è davvero squallido, ma non avrei scelta” il suo sguardo codifica la mia espressione dapprima divertita, poi un po’ preoccupata. So che dice la verità, sono consapevole che per quanto riguarda bagni pubblici e scappatelle lui potrebbe essere il primo della classe.
L’argomento “Jamie” termina così, senza nemmeno esser stato cominciato, ma a me sta bene. Spero che Adam si renda conto di che tipo sono. Non ho mai avuto un ragazzo e ora che ne ho uno figuriamoci se mi vado a trovare l’amante. Dai, sarebbe davvero il colmo!
Ripenso a come stavo un mese prima, quando ancora di Adam non immaginavo nemmeno l’esistenza. Speravo che in quest’estate qualcosa sarebbe cambiato, anche se in cuor mio sapevo che sarebbero stati i soliti tre lunghi mesi noiosi e caldi. Almeno non sarei dovuta andare tra i banchi di scuola ad ammazzarmi di pizzichi. Invece, ora sono qui, al bar, seduta accanto ad un ragazzo più grande di me, bello, dolce, simpatico e … al quale piaccio! Non voglio montarmi la testa (anche se l’ho già ampiamente fatto) e non voglio usare la parola innamorato. Del resto ci conosciamo da un mese e seppure io possa dire di esserlo di lui, per quanto riguarda Adam non so nulla di sicuro. Ad essere sincera … io non so come ci si sente quando si è innamorati. La cosa più vicina all’innamoramento che ho avuto è stato circa due anni fa. Tutte le mattine prendevo l’autobus assieme a mia madre per andare a scuola. Imbronciata e assonnata, prendevo posto nella fine del mezzo pubblico, dove ci sono tre sedili attaccati. Mi sedevo nel più esterno, mia madre rimaneva in piedi, appesa al palo verniciato in rosso. Lei scendeva dopo quattro fermate, io invece dovevo aspettarne altre cinque prima di uscire e recarmi a scuola. Alla terza fermata, mi pare di ricordarmi, saliva un ragazzo che avrà avuto pochi anni più di me. Stava sempre con un suo amico, basso e magrolino. Lui, invece, era alto e aveva gli occhi marroni scuro, uguali ai suoi capelli tagliati corti. Portava spesso una felpa bianca con lo stemma di Wimbledon stampato sopra. Il bianco risaltava i suoi occhi bui e io ogni volta che lo vedevo mi sistemavo vaga sul sedile incrociando le gambe e portandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. A volte il mio sguardo incrociava il suo ed io sentivo le mie guance colorarsi velocemente. Quando facevo tardi, o magari lui non c’era, cadevo in un breve stato di depressione che mi rattristava finché non attraversavo il portone della scuola. Durava per un breve lasso di tempo, ma era un dolore molto forte. Dentro me sapevo di non avere alcuna chance, eppure quel piccolo briciolo di speranza duro a morire campava vigoroso nel mio petto. Si, il mio petto contenente un cuore soggetto a capriole ogni volta che lo vedevo. Ah, quante gliene ho fatte passare.
Dopo qualche mese in cui continuavo a vederlo,mi convinsi che fosse merito del destino il fatto che ogni mattina, o quasi, ci incontrassimo. O che prendessimo lo stesso autobus, alla stessa ora. O che i nostri sguardi si incrociassero frequentemente. Perciò, decisa e sicura, una mattina decisi fermamente di parlargli. Il giorno prima feci shopping comprandomi una maglietta nuova e dei pantaloni attillati da abbinarci. Usai un trucco che mi dava almeno due anni più della mia reale età, presi un bel respiro e salii sull’autobus. Una fermata, due e tre. Mi sporsi dal sedile, scrutai i visi di ogni persona che saliva, mentre con la mente riflettevo sulle parole da rivolgergli. Insomma, sapevo che mi avrebbe preso per una folle, ma il destino stava cercando di comunicarmi qualcosa. Con grandissima delusione mi resi conto che della sua presenza non vi era traccia, né tantomeno del suo amico magrolino. Fu una giornata nera, nella quale inveii contro il destino che mi giocava brutti scherzi. Tutto ciò che mi era capitato sembrava comunicarmi di farmi avanti e di parlarci e ora che mi ero decisa che succedeva? Lui non c’era! Oh, il destino: diventò il mio peggior nemico, da quel giorno.
Mi persi d’animo, completamente. La mattina dopo, quando lo vidi salire, fui colta da una rabbia silenziosa che feci fatica a tenere a bada. C’era qualcuno che si divertiva a prendermi in giro! Portava la sua felpa bianca e aveva un sorriso particolarmente radioso. L’autobus era piuttosto pieno, così non riuscivo a vedere a chi sorridesse e rivolgesse la parola, ma immaginai sicura che fosse il suo amico. Qualche fermata dopo, l’autobus si svuotò abbastanza da permettermi di scorgere la chioma bionda e scintillante di una ragazza appoggiata con la schiena al palo rosso che rideva divertita guardando lui. Fu un brutto colpo. Ma il momento peggiore fu quando li vidi venire verso di me, lo sguardo che oscillava tra i due posti liberi e la mia faccia colma di panico. Lui mi sorrise, con la mano si portava dietro quella ragazza.
“È libero?” mi chiese indicando i sedili al mio fianco.
Non riuscii nemmeno a spiccicare una maledetta parola. Annuii in fretta e mi feci pure più piccola per dargli spazio. Si sedettero vicino a me, la sua felpa larga sfiorava la mia borsa piena di libri. Pomiciarono per le restanti tre fermate e da quel giorno decisi che non mi sarei più fidata del destino. Bastardo.
“Ho un’idea brillante!” se ne esce Louis dopo qualche secondo. Prima di parlare si accende l’ennesima sigaretta e il mio senso di vomito aumenta. La puzza di fumo mi appesantisce i polmoni e sono sicura che mia madre si insospettirà odorando i miei vestiti.
Adam sembra accorgersi della mia espressione scocciata, rivolge uno sguardo truce a Louis. “Cazzo, è la sesta che ti fumi oggi!” impreca.
Il ragazzo lo ignora, mentre la mano affusolata di Christine gli ruba la sigaretta facendo un tiro.
“È brillante davvero, dovete starmi a sentire” ci ordina.
Tutti ci mettiamo in suo ascolto, io incrocio le braccia al petto.
“Mia cugina Raven ha una casa al sud, due piani meravigliosi e un giardino kilometrico” mormora brevemente, poi apre i palmi delle mani e ci fa un gesto di attesa.
“Beh?” è Christine a rompere il silenzio.
“Come beh? Ci andiamo!” spiega Louis molto fomentato, mi pare che le sue pupille siano più grosse del normale.
“E tua cugina Raven la sbattiamo per strada?” intervengo dubbiosa. Non ho dubbi solo sull’ubicazione di questa cugina, ma anche per quanto riguarda mia madre. Mi darà il permesso?
“Lei parte per andare in Spagna col suo fidanzato, stanno fuori un mese. Mi ha proposto di andarmene una settimana o anche due lì da lei e, se voglio, di portarmi qualche amico. Insomma, fa caldo, c’è un tempo splendido, è quello è un posto bellissimo, completo di mare e praterie, stile paradiso, non so se mi spiego” batte periodicamente la mano sul tavolo, come per incitarci a seguirlo nella sua gioia momentanea. “Cazzo, siete una massa di morti!” si avvilisce vedendo le nostre reazioni sciape.
Adam poi lo indica con l’indice. “Mi piace” dice. “Per una volta hai davvero avuto una grande idea” annuisce convinto, si volta a guardare prima Christine, poi me. “Che ne dite?”
Christine, ovviamente, fa di sì con la testa. “Non dovrei avere problemi e poi non spendiamo neanche soldi, motivo in più per approfittarne” fa l’occhiolino.
“E siamo a tre. Lou?” Adam mi sorride speranzoso.
Ci risiamo.  Non voglio fare la solita parte della ragazzina che deve chiedere il permesso alla mamma, la quale, tra l’altro, penso proprio che non si troverà molto d’accordo con la decisione. Quindi esibisco un gran sorrisone, guardo i miei amici ad uno ad uno, per ultimo Adam.
“Ma certo. Devo solo chiederlo a mia madre, ma sono praticamente dei vostri” cerco di rendermi il più credibile che posso.
Ci salutiamo dopo qualche minuto, l’aria sta rinfrescando e la luce diminuisce gradualmente. Adam mi dà un piccolo bacio sulle labbra, poi mi dice di chiamarlo non appena ho l’ok per andare. Sorrido tranquilla e gli assicuro che lo farò. Ora non mi rimane che parlarne con mia madre. O meglio, di scongiurare mia madre. 

Dopo tre lunghi giorni sono tornaaaata! E, giusto perchè lo sappiate, io odio la matematica! 
Bbbbene, avrei pubblicato il capitolo oggi pomeriggio ma ho passato delle ore infernali perchè non sono riuscita ad entrare nel contatto di EFP. Mi era preso un infaaaarto! Poi, dopo lunghi e lacrimosi tentativi (ahahah!) mi sono ricordata di aver richiesto il cambio di nickname (che ora è adropintheocean_) e mi sono data dell'idiota più volte. 
Beh, spero che il capito vi guuusti e buona lettura :) 

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Capitolo 24
*** 24 ***


La sera a cena cucino io. Metto la pasta a cuocere nella pentola piena d’acqua bollente, nel frattempo in una padella larga metto a cuocere una manciata di funghi porcini surgelati. Il profumo che mi sale al naso è inebriante.
“Qual è l’occasione speciale?” mia madre, come ordinato da me, si mette seduta al tavolo ben apparecchiato e incrocia le gambe.
Giro la pasta staccandola dal fondo della pentola e aggiungo un pizzico di sale ai funghi. “Dev’essercene per forza una per mangiare bene?” controbatto.
Mia madre fa spallucce e piega il tovagliolo di carta rosso che ha sul tavolo. “No, no, per carità” si scusa allargando le braccia.
Mi viene quasi da ridere a pensare alla richiesta che le farò tra poco.
“Ok” sussurro tra me e me quando il tempo della pasta scade. La scolo facendo attenzione a non scottarmi poi velocemente passo dal lavandino ai fornelli e verso i fusilli nella padella coi funghi. Giro con una forchetta, facendo insaporire ogni fusillo. Spengo il fuoco quando il colore della pasta diventa leggermente più scuro di prima, vuol dire che è impregnata del sapore dei funghi. Ci verso sopra una spolverizzata di parmigiano e mischio un’altra volta. Poi preparo minuziosamente i piatti per mia madre e me.
“Uh, un applauso allo chef!” ridacchia mia madre dopo che le poso il piatto sotto al naso. “Ha un profumino …”
Sorrido e alzo l’indice. “Non l’hai ancora assaggiata, eh!”
Senza perdere tempo, si infila un fusillo in bocca e mastica. “Confermo l’applauso. È davvero buona, brava Lou” si complimenta, poi si infila in bocca una forchettata.
L’assaggio anche io e non posso che complimentarmi da sola: stavolta mi sono proprio superata. Cosa non si farebbe per una vacanza!
Non accendo la tv, diversamente dalle altre volte. Non passa giorno in cui durante i pasti la tv non sia accesa. O per vedere il telegiornale, o per controllare il meteo un pasto non è un vero pasto se non si guarda la tv. Può dare spunti per cominciare una conversazione, ma può anche essere un sottofondo piacevole che copre il pesante silenzio che di solito invade la nostra tavola.
Stavolta, però, credo proprio che di silenzio non ce ne sarà.
“Dov’è il telecomando? Il telegiornale sarà già iniziato da un po’” interviene mia madre allungando lo sguardo per guardarsi intorno.
“Veramente io … ecco, volevo parlarti. Parlarti di una cosa importante. Per me” inizio un po’ titubante.
Mia madre sorride saccente. “Vedi, immaginavo bene. Che ti serve, Lou?”
“Ma che donna di poca fede che sei!” la prendo sullo scherzoso, nel frattempo mi verso un bicchiere d’acqua. “È una cosa seria, mà” le intimo, il mio tono diventa più importante.
L’espressione di mia madre si fa subito seria, mentre addenta un’altra forchettata di fusilli e funghi. “Ti ascolto, dimmi” dice masticando.
“Con Adam va … molto bene” inizio con lentezza.
Si gira e mi fa una carezza sulla guancia. “Hai visto, che ti avevo detto? Lo sapevo che si sarebbe risolto tutto con il tempo”
Annuisco e le sorrido. “Si, infatti”
“Beh, tutto qui? E c’era bisogno di questa super cena per dirmi solo questo?” beve un bicchiere d’acqua e si asciuga i lati della bocca col tovagliolo.
“Beh, in realtà non è finita qui” mi gratto la testa con fare vago.
“Ok. Quindi …?” mi invita a continuare.
Mi schiarisco la gola e prendo coraggio. “Louis ha invitato me, Adam e Christine in vacanza con lui, nella casa di sua cugina, al sud” sparo tutto d’un fiato e, dopo aver finito di parlare, mi sento veramente sollevata.
Mia madre riesce a mantenere un’espressione impassibile, non muove nemmeno un muscolo del viso. “Chi sarebbe Louis?” chiede infine.
“Un amico di Adam” spiego esaustiva in fretta.
“Mh”
“Quindi? Posso?”
“Mmh”
“Mamma, una risposta non monosillabica me la potresti dare?”
“Mmmh”
“Mamma, dai!” la incito.
“Oh, Marylou, devo pensarci un attimo su. Questo Adam non è che mi ha fatto la migliore delle impressioni, lo sai bene” mi dice lanciandomi uno sguardo terribile.
La mia mente evoca le immagini di Adam seminudo e me insieme nel letto e la faccia sgomenta e infuriata di mia madre. Diciamo che tra tutti i modi che aveva per presentarsi, Adam ha scelto il peggiore.
“Ti ho già ripetuto un milione di volte che non era successo nulla. A malapena ci eravamo dati un bacio! Anzi, nemmeno quello. Te lo posso giurare” metto la mano sul cuore, proprio come fece Adam quella sera. Batte forte, come al solito.
Mia madre mi scruta con lo sguardo, dentro sé sa che sto dicendo la verità, eppure il suo dovere di madre le impedisce di credermi. “Lou, è un ragazzo di ventitré anni, cosa pretendi che voglia da te?”
Sbatto la forchetta sul tavolo e mi alzo di scatto dalla sedia. Gi occhi sorpresi e sgomenti di mia madre mi fanno risedere velocemente mentre ostento tranquillità. Quando parlo la mia voce è gelida. “Se lo sarebbe già preso se avesse voluto solo quello”
“Non devi sbattere le cose”
“D’accordo”
Inizia una breve tregua silenziosa, nella quale io e mia madre riprendiamo la nostra cena gustosa, spazzolando il contenuto dei piatti. Poi riprendo la guerra, insoddisfatta del risultato.
“Tu devi farmi andare, per favore” la supplico con la voce bassa.
“Io non devo fare proprio niente, Marylou. E comunque, chiederò anche a tuo padre” accampa la prima scusa che le viene in mente. So che non lo chiamerà, lo so per certo.
“Figuriamoci” mormoro alzandomi dalla tavola e prendendo i piatti sporchi da mettere nel lavandino. “Eppure sei stata proprio tu a spingerci a far pace. Avresti potuto sbatterlo fuori di casa quel giorno, se non volevi che succedesse niente tra noi.
“Tu pensi che io non voglia farvi stare insieme, non è vero?” mi intima mia madre, si alza con i bicchieri in mano e mi affianca sciacquandoli nel lavandino.
Evito il suo sguardo, strofino bene i piatti con la spugnetta verde e gialla. Non voglio risponderle affermativamente, ma la verità è che lo penso. Rimango in silenzio.
“Lo prenderò come un si” mormora sconsolata. “Non sei ancora madre, perciò non puoi capire come ci si senta a … a veder crescere un figlio. Specialmente una figlia, Lou. A vederla allontanarsi da te” spiega mentre ripone i bicchieri nella credenza.
“Io non mi sto allontanando da te, mamma” le rispondo sincera. “Lo sai che non lo sto facendo. Vorrei soltanto un po’ più di libertà, ora che finalmente ne ho bisogno. Non mi è mai successo un tubo nella vita, ora che ho la possibilità di fare qualcosa non voglio rovinare tutto” chiudo il rubinetto dell’acqua e la guardo.
Annuisce lievemente con la testa come se stesse riflettendo a proposito di una cosa molto importante.  Si mette una mano sulla pancia, la sua testa dondola avanti e indietro come se ascoltasse una cantilena ripetuta all’infinito. Ha lo sguardo vacuo, poi la sua espressione, da vuota che era, diventa disgustata. La bocca le si curva all’ingiù, la mano dalla pancia si sposta alla bocca e io la vedo sfrecciare via velocemente verso il bagno.
“Mamma?” mormoro dubbiosa. La seguo in bagno correndo anche io. Quando apro la porta la ritrovo piegata sulla tazza del gabinetto, intenta a vomitare tutta la mia meravigliosa e ipercalorica cena. “Mamma!” mi piego accanto a lei mettendole una mano sulla schiena.
Lei mi fa cenno di andarmene, un cenno silenzioso perché la sua bocca è troppo impegnata a rimettere anche la colazione del giorno prima.
“Mi dispiace” mi alzo da terra, bagno un asciugamano con l’acqua fredda e non appena vedo che i conati finiscono gliela poggio sulla fronte sudata.
Si asciuga le labbra con un pezzo di carta igienica, dopo la getta nel gabinetto. Tiro l’acqua e mi piego accanto a lei.
“Non cucinerò più, giuro” le prometto preoccupata.
È un medico, sicuramente saprà dirmi qual è il problema. Si tiene una mano sulla pancia e fa dei lunghi respiri. Poi mi sorride debolmente. “Non è stata colpa del cibo” mormora rauca.
Si alza da terra e butta l’asciugamano umido nella cesta dei panni sporchi. Nel lavandino si sciacqua viso, mani e bocca.
“Che … intendi … dire” mentre pronuncio quelle parole mi rendo conto da sola di conoscere già la risposta.
Il solito puzzle nella mia testa si ricompone in fretta: quello che mi ha detto Jamie qualche ora fa, Jackson, il vomito, il sorriso sul viso di mia madre. Tutto si ricollega perfettamente.
“Oh mio Dio” sussurro esterrefatta. “Oh mio Dio!” la mia voce si alza di qualche ottava.
Lo sguardo di mia madre, che sorride insieme alle labbra, non molla la mia espressione nemmeno per un secondo.
Le salto letteralmente al collo stringendola contro il mio corpo. “Oh mio Dio!” continuo a ripetere in preda all’eccitazione. “Sei incinta!” urlo stringendola di più. Poi mi scollo all’improvviso e la guardo preoccupata. “Scusa, ti ho stretto troppo” le sistemo i vestiti e la sento ridere divertita.
“Sta tranquilla, non sono mica di vetro!” ridacchia osservandomi compiaciuta. “Non pensavo l’avresti presa così bene …” ammette scrutandomi.
“Ma stai scherzando, è una notizia fantastica!” mi tremano ancora le mani per l’eccitazione.
Avrò un fratellino. O una sorellina. Oh mio Dio. Ancora non riesco a rendermene davvero conto e penso che non lo farò finché non avrò il neonato tra le braccia.
“Aspetta” ragiono facendomi due calcoli mentali. “Tu e Jackson da quanto vi frequentate mamma?” domando. Mia madre non è certo il tipo da andare a letto con uno dopo una settima di relazione. O no?
Capisco di aver toccato il tasto giusto quando la vedo abbassare lo sguardo. “Beh, ecco … da un bel po’”
“Mamma” la guardo fisso negli occhi, voglio sapere per una sacrosanta volta la verità. Tutta. “Hai mai tradito papà?”
I suoi occhi si fanno lucidi mentre annuisce appena con la testa. “Vedo Jackson da marzo inoltrato, più o meno”
La mia bocca si spalanca per l’incredulità. I miei hanno divorziato a giugno dicendomi di non “condividere più le stesse idee”. Mi sento presa in giro. Le uniche persone su cui potevo contare sempre si sono dimostrate delle bugiarde. “Per quale motivo vi siete lasciati, tu e papà?” domando infine.
“Senti Lou io te lo volevo dire e anche tuo padre ma non abbiamo avuto il coraggio. Non volevo che scoprissi che persona sono. È che con tuo padre già andava male da un po’ e Jackson mi dava così tante attenzioni che …” la sua voce si affievolisce perdendosi nel vuoto.
Le alzo la maglietta con un gesto brusco. La sua pancia è più rotonda del solito e parecchio più pronunciata. Non ho mai notato niente perché mia madre non è proprio una persona che definiresti magra. Non è grassa, ma adora vestirsi con cose larghe per nascondere i fianchi morbidi, come li chiama lei.
“Da quanto sei incinta, sant’Iddio?” le domando con un tono gelido.
Le labbra di mia madre tremolano mentre formano la frase, sembra abbia paura di rispondermi. Si abbassa la maglietta. “Q-quattro mesi da ieri” balbetta.
“E non mi hai mai detto nulla?!” urlo fuori di me. Sono stata così cieca che non mi sono mai accorta di nulla, è assurdo! Ero così presa dai miei film mentali, dai miei problemi inutili … mi sento un’idiota egoista, terribilmente egoista.
“Scusami Marylou. Ma … io non avevo il coraggio. Ti vedevo così triste per tutto, la tua vita, ci si è messo pure il divorzio e … non ce l’ho fatta. Non sai quante volte ci ho provato, Lou, davvero” si giustifica stringendomi in un abbraccio.
“Non mi sono accorta di niente” ripeto la frase qualche volta, incredula. “Non mi sono mai accorta di niente. Che stronza egoista” balbetto contro il suo petto.
“No Lou, l’ultima cosa che devi fare è sentirti in colpa. Non voglio e non ho mai voluto che questa maledetta situazione ti pesasse” mi spiega, le sue braccia mi accostano di più contro di lei.
Poi la stringo anche io. “Devi dirmi tutta la verità adesso, mamma, perché io non ce la faccio più” sussurro in preda ai tremiti dei singhiozzi.
“ È tutto qui, Lou. Avrai un fratellino” mi mormora all’orecchio, poi la sento ridere dolcemente.
“Un fratellino?” mi scosto da lei e la guardo col trucco colato e il sorriso sulle labbra.
“Si, tesoro” mi stampa un bacio sulla fronte.
  La abbraccio di nuovo, le mie braccia avvolgono lei e il mio futuro fratellino, eccitate e tremanti per ciò che accadrà in futuro. Per quanto felice delle miriadi di novità, mi sento davvero esausta mentalmente e spero di non venire a conoscenza di nuove e sconvolgenti rivelazioni, non credo potrei reggerle.
Poi mi rendo conto di una cosa che mi rende felice, sorprendendo perfino me stessa. Penso che molto presto la nostra casa non sarà più così vuota com’è ora, anzi  con Jackson e Jamie un po’ di allegria colorerà la noiosa quotidianità. Sorrido tra me e me, presto comincerò una nuova vita. 

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Capitolo 25
*** 25 ***


“Prego, prego entrate pure” dalla mia camera sento mia madre fare gli onori di casa ai nostri nuovi coinquilini: Jackson e Jamie, che fanno il loro ingresso trascinandosi dietro delle valigie scoppiettanti di roba.
Ora che sia io che Jamie siamo venuti a conoscenza della lieta notizia, il piano di mia madre e di Jackson è stato portato a termine. Siamo di nuovo una grande e allegra famiglia, l’immagine che visualizziamo nelle nostre teste è simile ad una pubblicità del Mulino Bianco, con tanto di flauti alla marmellata e saccottini al cioccolato. La moglie, buona madre di famiglia, versa il latte ai bambini nelle loro tazze colorate e mette in tavola il bricco del caffè, fumante e bollente. I figli sorridono già di prima mattina, addentano le loro merendine ipercaloriche incuranti del fatto che tra qualche anno, non appena il loro metabolismo rallenterà e si assesterà, la ciccia scivolerà fuori dalle magliette come un soffice cuscino. Tutti si siedono a tavola insieme, ridono e mangiano, mangiano e ridono. La tv è rigorosamente spenta, la bella famigliola ha di certo un milione di argomenti più interessanti di cui disquisire durante il primo pasto della giornata.
Invece qui è tutto il contrario. La buona madre di famiglia è in realtà divorziata, ha tradito il marito e per di più non ha perso tempo a rimanere incinta di un altro uomo. Il misfatto è stato inoltre rigorosamente tenuto nascosto alla povera figlia, ignara dei rapporti distrutti tra i suoi genitori, ignara del fatto che di lì a poche settimane si sarebbe ritrovata in casa due semi-sconosciuti. il nuovo compagno della madre non è il padre, quello è andato a lavorare qualche centinaio di kilometri più su, lontano dalla casa, lontano dalla moglie, lontano dalla figlia. Il fratello è pressappoco uno sconosciuto, biondino, un po’ in carne, sicuramente era un divoratore di merendine da bambino. Non condivide particolari momenti di intimità fraterna con sua sorella, in quanto, beh, lei non è sua sorella.
Questa è la famiglia che mi ritrovo stamattina casa. Ma, ehi, non è questo il bello della realtà? Ciò che rende piccante la vita sono certamente questi imprevisti che ti sconvolgono la giornata, queste sorprese, volute o meno, che spuntano all’improvviso imponendosi davanti ai tuoi occhi. E tu non puoi aggirarle, non puoi far finta che loro non ci siano, perché stanno lì, preopotenti, ci sono eccome. E ti sbarrano il passaggio, ti bussano sulla spalla e richiamano la tua attenzione, se cerchi di ignorarle. Non puoi farlo, punto. Ti rendono piccante la vita, e pensano che sia una cosa buona e giusta. Solo che ognuno ha i suoi gusti e il piccante non sempre piace. Prendiamo mia madre, per esempio. Odia il salato. Quando la vedo cuocere la pasta devo sempre aggiungere un bel pugno di sale all’acqua che bolle, perché so che lei ne mette appena un pizzico. E poi prendiamo me. Io odio il piccante, lo detesto. È subdolo, il piccante, ti coglie impreparato. Tu lo prendi in mano e te lo metti in bocca, lo assapori tranquilla con la lingua, poi con un gesto secco lo mordi coi tuoi molari bianchi e forti. Ed è lì che la tua espressione cambia repentinamente. Oh si, il piccante è così subdolo che all’inizio si spaccia per normale. La tua lingua codifica il sapore del cibo dandolo per innocuo, quindi i tuoi denti procedono tranquilli. In quel momento, boom, il piccante esplode nella tua bocca e tu vai in fiamme. Si, vai a fuoco. La lingua, il palato, le labbra e perfino la gola. E che puoi fare, se non continuare a masticare in fretta e furia e trangugiare litri d’acqua per spegnere l’incendio? Dicano sia meglio il pane, ma secondo me non è vero. È l’acqua che spegne gli incendi, non delle molliche morbide e innocue, parliamoci chiaro.
La mia vita è sempre stata sciapa, forse è per questo che mangio molto salato. Aggiungo del sale laddove posso farlo per ovviare alle mancanze. Ma ultimamente qualcuno ha aggiunto una manciata di troppo di peperoncino e ora io vado a fuoco. Brucio fuori, brucio dentro, però nessuno sembra accorgersene. E io che altro posso fare, se non aspettare un bicchiere d’acqua?
“Lou, vieni a dare una mano!” mia madre si sgola dall’altro capo della casa per attirare la mia attenzione.
Più cerco la pace e più questa si allontana da me. Mi alzo dal letto sbuffando, percorro il corridoio con un muso lungo fino a terra, ma non appena giro l’angolo sorrido radiosa.
“Ehi, Jamie!” saluto il ragazzo che si è incollato una grossa valigia bordeaux sulla spalla. “Ciao Jackson” sorrido cordiale all’uomo che d’ora in poi dovrò cercare di vedere come un padre.
Allungo la mano verso Jamie per prendergli la valigia dalle mani, ma lui si allontana con un gesto brusco. Troppo brusco e per poco non perde l’equilibrio.
“Non mi lascerò aiutare da una ragazza. Dimmi solo dove metterla” imperterrito sostiene il mio sguardo.
“Un sessista dentro casa non ce lo voglio, perciò fatti andare bene i miei modi, ok?” gli intimo con un’espressione scocciata. Mi ci mancava il gentiluomo, effettivamente.
Mia madre e Jackson si spostano in camera da letto trascinandosi dietro qualche valigia che struscia sul tappeto arricciandolo. Io indico a Jamie la via e mi avvio verso la mia stanza.
“Siamo nervosette stamattina, eh?” si azzarda lasciando cadere ai piedi del letto la valigia, che sbatte con un tonfo.
“Ho scoperto da nemmeno ventiquattro ore che mia madre è incinta da quattro mesi e che da oggi in poi vivremo in quattro sotto questo tetto, non più in due. Tu come l’avresti presa?” improvvisamente mi sento lo stomaco in subbuglio, il nervosismo fa capolino nella mia pancia.
Penso seriamente di dover andare da uno psicologo, comincio a preoccuparmi delle mie reazioni. Mi arrabbio per cavolate, sorrido per delle cose gravi.
“Credimi, non l’ho presa molto bene neanche io. La mia casa mi piaceva. Ci vivevo da dieci anni, ma la presenza (cioè l’assenza) di mia madre stava diventando … opprimente” Jamie apre la valigia e tira fuori un pigiama nero slargato, lo butta sul suo letto, una ferraglia deprimente dall’aspetto scomodo e stra-usato. Jackson gli ha promesso che non appena si fossero sistemati, sarebbero andati alla ricerca di un materasso dignitoso.
Alla sua affermazione posso solo rispondere con un rispetto silenzioso, abbasso lo sguardo, poi mi avvicino alla sua valigia.
“Avete portato già tutto?” domando rovistando tra la sua roba. Ci sono vestiti e qualche videogioco.
“Ti rendi conto che avremo un fratello? Cioè, voglio dire, un ragazzino che gira per casa! Un ragazzino piccolo! Che piange e non dorme, che lagna ininterrottamente” si ammutolisce alla fine della frase.
“In realtà la notizia è arrivata talmente di sorpresa che non ho proprio avuto il tempo di metabolizzarla, Jamie” gli spiego stizzosa. “Mi sento la scema del villaggio, sai? Qui tutti sapevano tutto e io ero l’unica cretina con le fette di prosciutto sugli occhi. Ti rendi conto che mia madre è incinta da quattro mesi e io non mi sono mai accorta di nulla? Pensa se non mi avesse vomitato davanti agli occhi!”
“Lou, ti capisco” alza il lenzuolo e controlla non so cosa sotto le coperte. “Però è pur sempre tua madre. Secondo me è questo che ti impedisce di reagire molto male. Insomma, è tua madre, è la donna che ti ha tirato su, che ti ha accudito quando hai pianto, che ti ha curato quando stavi male, che ti ha perdonato quando hai sbagliato. Pur commettendo un enorme, lo ammetto, davvero enorme sbaglio lei ha sempre pensato di proteggerti, tenendoti all’oscuro di tutto”
Rimango zitta per un po’, a pensare alle parole di Jamie. Ha ragione, forse è questo che mi ha impedito di andarmene di casa. Lo sguardo che mia madre aveva mentre mi diceva che lei e papà avrebbero divorziato, il sorriso mentre mi parlava della sua serata con Jackson … sono tutte piccole cose, possono sembrare dettagli banali e insignificanti, ma nella mia testa conservo un grande murales di tutti questi momenti fondamentali della mia vita. È  mia madre ed è un essere umano, da tale commette degli errori. Anche io ne ho commessi, e chissà quanti altri ne commetterò. Lei voleva proteggermi, non voleva darmi troppi pensieri, non voleva che io soffrissi per lei. Se solo avesse voluto parlarmi della crisi tra lei e mio padre di certo non avrei retto lo stress e sarei senza dubbio crollata. Davanti, la facciata che do a vedere è quella della figlia incazzata, della ragazzina incompresa che si sente tradita da tutto e tutti, in primis dalle persone delle quali più si fidava al mondo. Ma dietro c’è tutt’altro. Dentro me so che sono da un certo lato veramente grata a mia madre per avermi tenuta all’oscuro dei problemi. Si, perché è più facile fare finta di niente, continuare a dire che tutto va bene, mentre niente va per il verso giusto e il tuo mondo sta lì lì per crollare. Mi tenevo in equilibrio su questo filo che non sapevo fosse diventato ormai così sottile, facevo la funambola senza guardare giù, perché, dicono, che una volta che guardi il baratro, sicuramente ci cadi dentro. Ignara di ciò che stava sotto di me, delle fauci aperte del buio che aspettavano solo la mia carne fresca, andavo avanti, un piede davanti all’altro, e poi l’altro davanti a quello di prima. Poi una folata di vento: il filo si muove, sfrega contro le suole delle mie scarpe e si consuma ancora di più. Trema, non riesce più a sostenere il mio peso come faceva una volta. Avverto che sta per spezzarsi e allora faccio l’unica cosa che non avrei mai dovuto fare: guardo giù. Nell’esatto momento in cui i miei occhi guizzano verso il basso, capitombolo giù dal filo, rotolo nell’aria che mano a mano che si scende diventa sempre più gelida. Mi rigiro su me stessa, sento mani che mi afferrano e mi lasciano, si litigano la mia pelle bianca e immatura, la mia chioma lunga e castana. Aspetto il dolore della caduta, l’impatto duro con il pavimento freddo e la mia pelle calda. Aspetto le ossa che si frantumano, il sangue rosso che cola e mi macchia i vestiti. Ma il fondo non arriva mai, forse perché questa caduta un fondo non ce l’ha.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?” Jamie mi schiocca le dita davanti agli occhi.
“Credo di avere dei problemi mentali” mormoro presa dai miei pensieri. Non riesco a distogliere lo sguardo da una tessera che compone il parquet. Ha un così bel colore e una forma così perfetta.
“Nessuno è normale in questo mondo. Anzi, forse lo siamo tutti o forse non lo è nessuno. In fondo, tu sai cos’è la normalità?” il ragazzo apre l’armadio e osserva i miei vestiti ammassati uno sopra l’altro, stretti e appiccicati, in preda ad un soffocamento angosciante, provocato loro apposta per far spazio ai nuovi arrivati.
“No, non lo so” rispondo e mi rendo conto che è vero. Non abbiamo un metodo di confronto, un qualcosa o un qualcuno da misurare. Nessuno sa qual è la normalità perché nessuno ha mai saputo descriverla davvero.
“Appunto” asserisce Jamie, annuisce e butta qualche maglietta nel cassetto in modo scomposto.
“Non fare il disordinato” gli intimo.
Storce la bocca contrariato, con la mano indica la mia stanza. “No dico, ti sei guardata intorno? È un disastro questa camera”
In quel momento noto il disordine che regna sovrano. Panni sulla sedia, jeans sulla scrivania, quaderni e libri semi aperti ammassati ai lati della libreria bianca. In effetti, l’ordine non è mai stata una mia caratteristica evidente. Ma si può sempre migliorare.
“Ci butteranno fuori di casa nel giro di un mese. Sono medici, sono persone precise, maniache dell’ordine” preoccupata mi appoggio al muro osservando Jamie che continua a gettare panni alla rinfusa.
“Vorrà dire che qualcuno ci ospiterà. Altrimenti, ci troveremo un ponte confortevole. Il rumore del fiume che scorre può essere di gran lunga più rilassante del ronzio del frigorifero” mi fa l’occhiolino, poi ridiamo insieme.
Mi fa strano vederlo riempire il mio armadio di cose sue, mi fa strano vedere quel letto sconquassato buttato in mezzo alla mia camera. È come se fosse una formina capitata nel buco sbagliato. La sua forma non si adatta al posto in cui è stata infilata, ma lei inerme rimane lì, in attesa che il suo padrone si accorga dello sbaglio commesso.
Scuoto la testa scacciando tutti i pensieri accampati nella mente, sento i miei neuroni tirare un sospiro di sollievo quando decido di rilassarmi e non ragionare più su nulla. A volte bisogna fregarsene un po’ di tutto per vivere meglio, no?

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Capitolo 26
*** 26 ***


All’ora di pranzo Jamie annusa la cucina come un cane da tartufo. Apre la credenza, la osserva un po’, poi la chiude. Accende il gas e poi lo spegne di nuovo.
Jackson e mia madre si siedono in salone a guardarsi in faccia, lei con un piatto di mozzarella e insalata, lui con un panino grondante di sottiletta sciolta e prosciutto crudo. Un pranzo speciale per una giornata speciale, constato ironicamente.
Si guardano negli occhi senza proferire parola, con un sorriso silenzioso ed eccitato appena accennato sulle labbra. Sembrano due adolescenti che hanno la casa libera per la prima volta e la cosa fa sorridere anche me.
“Hai bisogno di aiuto?” mi avvicino a Jamie che imperterrito annusa ogni fonte di cibo.
“Non avete quelle cotolette precotte da mettere in forno pronte in cinque, sei minuti?” mi domanda mentre apre il frigorifero per la tredicesima volta.
“Oh no, mia madre è un medico, ti pare che possiamo permetterci robe scadenti di quel genere?” rispondo sarcastica. “Solo cibo genuino” rido sotto i baffi.
“Sarà dura abituarsi. Di solito mangio almeno una volta a settimana da McDonald’s. È più forte di me, le crocchette di pollo mi chiamano come fossero figli affamati” gongola con un’espressione in estasi.
“Ma sei tu a mangiarle, povere crocchette di pollo!” ribatto fingendomi addolorata.
“Si, certo. Loro cercano la madre, peccato che io sia il lupo cattivo” fa una faccia aggressiva e mima un ringhio.
Gli do una spinta giocosa, poi il campanello trilla facendoci sobbalzare.
“Aspettiamo qualcuno?” domanda Jamie percorrendo il soggiorno seguendomi.
Mia madre mi guarda passare con un’espressione incuriosita, la stessa che colora il viso di Jackson.
Apro la porta senza nemmeno curarmi di  guardare dallo spioncino o perlomeno di chiedere chi è. La mia bocca si spalanca a metà.
Fuori dalla porta ci trovo mio padre, con un’espressione eccitata come quella di un ragazzino che gioca a pallone con gli amici. È vestito del suo solito completo nero, giacca e cravatta sobria, nonostante faccia un caldo da far girare la testa.
“Sorpre … sa” la parola si interrompe a metà mentre i suoi occhi fanno il giro di ricognizione della casa e vedono due intrusi: Jamie (intruso non molto sconvolgente) e Jackson, seduto al tavolo accanto a mia madre, sgomenta. Qualcosa nell’espressione di mio padre mi dice che i due già si sono conosciuti in passato e molto probabilmente non si sono trovati simpatici.
“Papà!” inizio e cerco di sorridere. “Che … che ci fai qui?” anche se non voglio sembrare acida,  la mia frase suona molto scorbutica.
“Allison, Jackson” mio padre fa un cenno col capo a mia madre e all’uomo seduto accanto a lei. Ha il viso tirato, esibisce il sorriso più falso e sconvolto che può. “L’idea era quella di farti una sorpresa. Ma a quanto pare me l’avete fatta voi a me …” si gratta la testa imbarazzato.
Ridacchio fingendomi divertita della situazione, ma non lo sono affatto. “Prego, entra” gli dico e la sensazione che provo quando lo invito ad entrare nella casa che una volta era sua mi scombussola lo stomaco.
S chiude la porta alle spalle, Jamie gli sbarra la strada. “Molto piacere, mi chiamo Jamie. Non so se si ricorda di me” sembra un bambino mentre gli offre cordiale la mano.
“Si, certo che mi ricordo. Ai pranzi di lavoro giocavi con mia figlia” i due si sorridono ancora educatamente, poi procedono fino ad arrivare al tavolo dove poco prima Jackson e mia madre consumavano il loro primo vero pasto insieme.
Improvvisamente mi rivengono in mente alcune immagini del passato: ci sono io che corro intorno  al tavolo, inseguita da questo bambino in carne con le guance rotonde come quelle di un criceto e nel frattempo ci sono i miei genitori, seduti uno vicino all’altra, che chiacchierano con un uomo alto e brizzolato, con due occhi azzurri come il ghiaccio e un’altra donna. Quest’ultima ha i capelli color cenere e gli occhi castani stanchi e cerchiati. È la madre di Jamie.
Mi blocco per qualche istante guardando la scena surreale che si svolge in casa mia: c’è mio padre, con la sua espressione tiratissima come un elastico allungato al massimo, che stringe (stringe sul serio!) la mano a Jackson, che tiene lo sguardo basso, come un bambino costretto a ridare il giocattolo rubato al suo peggior nemico. Mia madre saluta mio padre con la solita e insignificante stretta di mano, prova a sorridere ma negli occhi leggo una sorta di vergogna, di imbarazzo colpevole per aver fatto qualcosa che non andava fatto. Io e Jamie ce ne stiamo in disparte, silenziosi, con gli occhi puntati verso gli adulti che portano avanti la loro taciturna guerra fredda.
“Essendo domenica ho pensato di fare una sorpresa a Marylou e venirla a trovare” mio padre si volta verso di me. “Mi piacerebbe portarti al parco, oggi è una giornata stupenda. Ci si fa una bella passeggiata, eh, che ne dici?” mi propone, i suoi occhi traboccano di una tenera speranza che per poco non mi commuove.
Non ho alcuna voglia di andare al parco a passeggiare con mio padre dopo aver vissuto una situazione del genere. So che sta soffrendo, glielo leggo in faccia e non voglio arrivare a parlare di lui che è rimasto solo in una nuova città, senza né me e né mia madre. Solo. Ho paura del suo dolore, ho paura di pensare veramente a come sta, a quanto può piangere la sera prima di andare a dormire vedendo la casa vuota e isolata. La tv accesa che trasmette qualche sciocca telenovela sentimentale e lui che la spegne e tira il telecomando sul divano. Lui che arriva in bagno e che vede  il bicchiere di carta che contiene soltanto uno spazzolino per denti, invece di due. E anche se può sembrare una cosa stupida, il solo fatto di vedere due spazzolini adagiati nello stesso bicchiere, uno che pende da una parte e uno dall’altra, secondo me dà una grande sicurezza. Ti dà la forza di resistere al mondo odierno, alla quotidianità  e alla routine che ti distrugge. Ti fa sentire meno solo, anche se in fondo, per quanto una persona si danni alla ricerca dell’amore, siamo tutti soli.
Ma ora che ci penso, se mai dovessi scrivere un libro d’amore, la copertina sarà la foto di un bicchiere e due spazzolini dentro. Ora non riesco ad immaginare niente di più romantico di quest’immagine idilliaca. Il vero amore non è la spiaggia al tramonto vista mano nella mano, non è una scatola di cioccolatini e una rosa rossa; l’amore è una mozzarella tagliata in due perché mangiata da sola è troppo per una persona. L’amore è il dormire insieme e russare infastidendo l’altro. Tutte quelle immagini che ci propinano i film sono stronzate e forse è per questo che siamo tutti costantemente delusi dalle nostre storie sentimentali. Ci carichiamo di aspettative che puntualmente non si avverano e il nostro sogno di amore perfetto, con tanto di carrozza a forma di zucca e principe azzurro, si infrange in mille pezzi, come un specchio scivolato sul pavimento.
Mia madre chiede a mio padre come va il lavoro, se si trova bene nella nuova città, se si è fatto nuove amicizie tra i colleghi.
“Va alla grande. A volte faccio fatica a capire il dialetto, ma la città è pulita e le persone sono gentili” risponde mio padre che evita lo sguardo di mia madre.
Dopo qualche istante di silenzio imbarazzante, tappezzato da qualche falso sorriso di circostanza, giungo in salone e batto le mani a mo’ di incoraggiamento. “Allora, si va?”
Mio padre chiede a Jamie se vuole unirsi a noi, ma lui rifiuta dicendo che fuori “ci si scioglie dal caldo”, testuale. Perciò, io e mio padre, come due scolaretti amici, imbocchiamo la porta di casa e ci avviamo a passo lento, indeciso e imbarazzato verso la nostra meta. Sono rilassata perché so di non poter incontrare Adam: nonostante il parco sia il suo luogo preferito, ama frequentarlo solo la mattina presto e ora sono più o meno le due del pomeriggio. Perciò sono salva dall’ulteriore imbarazzo. Mi figuro la scena della testa, il sorrisetto spassoso di Adam che allunga la mano per stringerla a mio padre e fa: “Piacere, sono il ragazzo di sua figlia” e mio padre che sbianca. Sarebbe divertente, se solo io non fossi la figlia.
“Allora …” inizia mio padre grattandosi la testa, gesto che fa sempre quando è in imbarazzo.
Tranquillo papà, siamo in due.
“Che fai in questi giorni?” mi domanda e probabilmente è la prima cosa che gli passa per la testa.
Facciamo il nostro ingresso nel parco, Jamie aveva ragione: il caldo è soffocante e le strade sono quasi deserte, tranne qualche coraggioso sparso qua e là, tipo noi.
Alzo le spalle con nonchalance. “Esco con qualche amica, niente di che” sottolineo il femminile.
Mi indica una panchina poco più in là, si trova accanto alla fontanella davanti alla quale incontrai Adam. Mi sembra ieri quel giorno e invece è passato più di un mese. Le mie labbra si aprono inconsciamente in un sorriso mentre ci accomodiamo.
Mio padre si sfila la giacca e si arrotola le mani della camicia. “E …” sembra un po’ titubante, poi mi dà di gomito e mi fa l’occhiolino. “Il ragazzetto ce l’hai?”
Arrossisco e mi viene improvvisamente da ridere, non so nemmeno io il perché di questa reazione. Mi ravvio i capelli ostentando tranquillità. “Papà!” lo riprendo mentre rido. Dovrei calmarmi, ma non ci riesco.
Oddio, non ci riesco proprio.
Mio padre mi guarda come se fossi un creatura rara, con quello sguardo un po’ incuriosito e un po’ spaventato, mentre io mi dimeno col petto sconvolto da una crisi di ridarella acuta. Ora ne sono certa: ho un serio bisogno di uno psichiatra. Si, uno psichiatra, anche peggio dello psicologo.
Quando finalmente mi calmo, grazie a dei lunghi respiri rilassanti, lo osservo: lui continua a guardarmi con quello sguardo sgomento di fronte alla mia strana reazione.
“Toccato tasto dolente?” domanda dopo poco.
“No … no, no. Anzi” mormoro a bassa voce, non so se voglio che mi senta o meno.
“D’accordo, forse è meglio cambiare argomento, che dici?” mi sorride gentile.
Annuisco con foga. “Mi sa di si. Al lavoro va davvero bene?” gli domando accertandomi che dica la verità.
Stringe le labbra come se ci stesse riflettendo su. “È …” soppesa le parole da dire. “È diverso” conclude infine.
“Quindi va male” deduco abbassando lo sguardo.
Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace così tanto che debba soffrire. Che debbano tutti soffrire.
“No. Diverso non è male. Diverso è … diverso” per quanto si sforzi non riesce a spiegarsi a parole, ma il tono della sua voce e il suo sguardo parlano per lui.
“Ti manca mai la mamma?” non controllo io ciò che esce dalla mia bocca, la frase esce e basta, come fosse un fiotto di sangue grondante da una ferita aperta e non cicatrizzata.
Mio padre, dapprima stupito per la domanda, mi rivolge uno sguardo contrito. “Si. Ma, non fraintendermi, non mi sono pentito del divorzio” posa le mani sulle ginocchia e si sgranchisce la schiena. “Tornando indietro rifarei tutte le scelte che ho fatto. Però la mia vecchia vita mi manca. Non posso impedirmi di guardare al passato con un filo di nostalgia. Anzi, molto più di un filo. Non c’è niente di più difficile di guardare dietro di sé, Lou, e rendersi conto che ciò che si aveva prima non tornerà mai” abbassa lo sguardo, si scrocchia le dita.
Le sue parole mi fanno sentire un nodo allo stomaco. Mi rendo conto della fugacità della vita e della labilità delle cose. Di quanto la felicità duri davvero un solo istante per poi farti ripiombare nella solita noiosa routine che è la tua vita, la tua reale esistenza. È terribilmente frustrante, ma la verità è che noi non abbiamo il comando di niente, nemmeno di noi stessi. Nessuno controlla il proprio destino, quello c’è e accade. E basta, non ci si può fare nulla, non lo si può impedire.
“Mi dispiace per come sono andate a finire le cose. Ma io e la mamma non avremmo mai voluto finire come quelle famiglie che litigano dalla mattina alla sera. Abbiamo resistito fin quando abbiamo potuto, credimi” mi carezza la guancia con la mano un po’ tremante.
“Ci siete riusciti” mormoro sconsolata. “Intendo a resistere. Non avevo capito assolutamente niente. Né di te e la mamma, né del bambino” dire quella parola mi fa ancora parecchio strano.
“Ah, è un maschio …” sussurra mio padre annuendo tra sé e sé.
“Mi dispiace, papà” balbetto mordendomi il labbro inferiore.
“Oh, non preoccuparti. Tua madre se la  caverà, ora ha Jackson. E me la caverò anche io. Sono grande e vaccinato” mi fa un occhiolino per stemperare la situazione, ma il dolore che trabocca dai suoi occhi mi investe annegandomi.
Gli salto al collo e in quello stesso istante mi rendo conto che io adoro abbracciare le persone. Non faccio altro. Sorrido e lui mi batte una pacca sulla schiena.
“Tuo padre è un ragazzone, che ti credi” lo sento ridacchiare, mi stringe al petto e poi sciogliamo l’abbraccio.
Chiacchieriamo tranquillamente nel ritorno a casa, il treno di mio padre parte alle sette di sera e lui vuole essere puntuale. Saluta mia madre, Jackson e Jamie e siamo di nuovo tutti protagonisti di un lungo silenzio imbarazzante,
“Beh” io e mio padre rimaniamo soli alla porta per qualche minuto. “Mi ha fatto piacere” sorride sincero.
“Grazie di tutto papà. Anche a me ha fatto piacere, davvero” lo abbraccio di nuovo.
Mio padre è un po’ impacciato quando mi accoglie tra le braccia, mi batte ancora sulla schiena, è come se si sentisse in dovere di fare qualcosa. Di sicuro la mia timidezza cronica me l’ha trasmessa tutta lui. Beh, non c’è che dire, grazie papà.
Lo guardo andare via, allontanarsi dalla casa che una volta era sua e l’immagine non potrebbe sembrarmi più strana e irreale. Mi volto, chiudendomi la porta alle spalle. Ho soltanto voglia di chiudermi nella mia camera e piangere. Ho una fottuta voglia di piangere e impregnare completamente il cuscino delle mie lacrime. Non so neanche perché. Forse il problema è che stanno cambiando troppe cose e troppo in fretta. E io ho paura. Ho paura che ormai niente più durerà nella mia vita. Sento le persone a me care scivolarmi via dalle mani, come fossero una brocca d’acqua infranta a terra. Vorrei essere quel dannatissimo panno che assorbe l’acqua, che se la tiene dentro di sé. E forse lo sono, o meglio lo ero. Solo che qualcuno è arrivato e mi ha strizzato fino all’osso e tutto ciò che custodivo gelosamente mi è scivolato di dosso senza che io potessi fare niente.
E anche adesso me ne sto qui, impotente, a piangere le poche lacrime che mi sono rimaste.    


Mi prendo un mini-spazio per augurarvi a tutte/i una BUONISSIMA PASQUA! A tutti voi che leggete, recensite (e robe varie) la mia storia...un grosso, grossissimo e sincero grazie. Vi auguro di mangiare chilate di cioccolata e non ingrassare nemmeno di un etto (this is true love <3). No seriamente, io vi potrei anche amare, siete tutti fantastici, passate delle splendide vacanze e se vi avanza troppo cioccolato...scioglietelo e fateci il bagno! 
Un enorme bacio, spero che il capitolo sia di vostro gradimento :) 

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Capitolo 27
*** 27 ***


“Come ho fatto a non pensarci prima! È un’idea geniale, Jamie!” batto le mani come se fossi una foca con una palla, devo avere gli occhi che mi brillano.
Jamie rimane a fissarmi seduto sul letto di fronte a me, nella penombra della stanza, con un sorriso sorpreso e compiaciuto. “Abbassa la voce!”
Mi tappo la bocca cercando di soffocare i risolini. Sono le sette del mattino e, facendo molta attenzione e silenzio, si riescono a sentire i respiri assonnati e rilassati di mia madre e Jackson nella stanza accanto. Hanno il turno serale oggi e non vogliono essere disturbati per nessunissimo motivo.
“Saresti disposto a venire in vacanza con noi, quindi?” prendo la mano di Jamie nella mia, sembro una chirichetta con un parroco, l’immagine mi fa istantaneamente ridere di più.
“Per la centesima volta, si Lou, sono disposto a venire con voi. A patto che il tuo fidanzato non mi sbrani …” conclude la frase con un’espressione mista a dubbio e preoccupazione.
Uh, proprio non ci avevo pensato a questo.
Jamie, vedendomi annegata tra le mie lacrime la sera prima, mi ha chiesto cosa non andasse. Mai scelta fu più sbagliata! Mi sono lanciata in un’agguerrita descrizione del caos che colora i miei pensieri a partire da un’accurata descrizione ricca di dettagli dell’ultimo mese della mia esistenza. Il divorzio, Adam, mia madre, Adam, mio padre, Adam, lui e Jackson e poi ancora Adam. Se inizialmente non lo odiava, posso dire di essere riuscita a fargli cambiare idea. Jamie, da bravo ragazzo, è rimasto tutta l’intera notte seduto sul materasso-sardina del suo letto, ad ascoltarmi silenzioso e paziente. Forse anche un po’ spaventato dalla furia in cui mi ero trasformata improvvisamente. Quando mi innervosisco mi si gonfia l’aorta, la vena sul mio collo pulsa e sembra come se voglia strappare la pelle e inondare di sangue la mia stanza. È un’immagine raccapricciante, me ne rendo conto, ma la sensazione che provo è quella.
Tornando a Jamie, nel momento in cui gli ho parlato della vacanza nella casa della cugina di Louis si è dolcemente e meravigliosamente e, non lo ringrazierò mai abbastanza, offerto di venire con me, così da, innanzitutto, convincere mia madre a mandarmi e, inoltre, a farla stare più tranquilla. Non si fiderà di Adam, ma di Jamie deve farlo per forza. Figuriamoci, innamorata di Jackson com’è, vedrà suo figlio come una specie di piccolo angelo biondo disceso dal cielo assieme a suo padre. E poi, diciamocelo, le guance rotonde e morbide di Jamie convincerebbero anche il cuore più duro!
“Sta tranquillo, ad Adam ci penso io” gli assicuro, ma io per prima non ho la più pallida idea di come convincerlo ad accettare la presenza di Jamie.
“Te lo lascio volentieri” ridacchia divertito. “Ora dobbiamo solo aspettare che si sveglino e … dargli la bella notizia”
“In realtà è una richiesta, piuttosto che una notizia” lo correggo mostrandomi un po’ affranta.
Mi prende per le spalle e mi scuote. “Positività!” scandisce la parola.
E positività sia.
Per passare il tempo in attesa che mia madre si svegli, accendo il computer e controllo la posta con aria annoiata. Sento l’acqua del bagno scrosciare: Jamie si sta facendo la doccia. Tra le tante e-mail piene zeppe di pubblicità, pop-up e quant’altro, trovo finalmente una traccia di Adam, sparito da più o meno un giorno.
Lou! Devi scusarmi, stavolta non sono sparito per una qualche crisi d’abbandono o di panico. Il mio telefono è letteralmente collassato. Beh, non all’improvviso senza un motivo. Diciamo che stavo mettendo l’acqua per la pasta. E diciamo che avevo le mani bagnate mentre rispondevo ad un sms. E diciamo che mi è scivolato mentre l’acqua bolliva …
Ma non è un problema, perché sono riuscito a rintracciarti anche qui! Spero che leggerai questa mail al più presto, anche perché io oggi pomeriggio verso le sei ti aspetto al parco, alla solita panchina. Ti ricordo che non mi hai più fatto sapere niente a proposito del viaggio e lo sai che sono un tipo impaziente …
Fatti trovare lì, Lou, o ti vengo a prendere a casa.
Lo faccio. Lo sai che lo faccio.
Ciao bella
”.
A mano a mano che leggo l’e-mail le mie labbra si spalancano in un sempre più largo sorriso. Allora non si è dimenticato di me, mi pensa. Mi pensa almeno la metà di quanto io penso a lui. E al solo immaginare il mio nome sussurrato nella sua mente il mio cuore fa le capovolte.
Ho un sincero bisogno di toccare i suoi riccioli neri, di guardare le sue iridi veri baciate dalla luce del Sole. E, a proposito di baciare, ho un serio bisogno di baciare le sue labbra. Perciò, già da ora, inizio a fare il conto alla rovescia alle sei e, nel mentre, rispondo alla sua mail con due semplici parole:
“Ci sarò”.
La porta della stanza si apre delicatamente, Jackson mi sorride con gli occhi ancora gonfi di sonno e i capelli scompigliati. “Buongiorno Marylou”
“Ciao Jackson. E … chiamami pure Lou”
Mi sorride cordialmente. “Non ti dirò di chiamarmi papà” ride un po’ imbarazzato.
Credo che sia convinto che io lo odi. O che, comunque, non lo abbia in simpatia. Ma si, in tutti i film che si rispettino la figlia detesta sempre il nuovo compagno della madre. Il più delle volte è un vecchio bavoso o un giovane pervertito. Quando si parla di nuove compagne, invece, nella maggior parte dei casi si ha una bionda finta e ossigenata, col seno rifatto (una settima/ottava) , ricca sfondata che definisce i figli dei “piccoli marmocchi”.
Ma per me non è così. Vedere il viso di mia madre, che ora sta scaldando il latte nel microonde, vedere il suo sorriso radioso già di prima mattina … ha una nuova luce negli occhi. Ha trovato lo spazzolino che farà compagnia al suo per il resto della vita. Ed è finalmente felice. Non vorrei altro per lei, davvero.
Sorrido tra me e me, auguro il buongiorno a mia madre e mi siedo a tavola assieme a lei e Jackson.
“Mamma …” sorseggio il latte bollente e inizio a parlare con fare molto vago.
In quello stesso istante Jamie fa il suo ingresso in cucina vestito solo del suo accappatoio giallo pulcino e le ciabatte zuppe d’acqua. Con la mano si scompiglia i capelli gocciolanti e ci sorride raggiante.
“Che c’è per colazione?” si informa sbadigliando.
“Jamie, sant’Iddio, stai lasciando una scia d’acqua per tutta casa!” Jackson lo rimprovera alzandosi dal tavolo.
Mia madre, maniaca dell’ordine, deve fare un enorme, ma davvero enorme, sforzo per dire quello che dice. “Jackson non preoccuparti” lo prende per un braccio e lo invita a sedere di nuovo. “Pulirà non appena avrà fatto colazione, giusto Jamie?” aggiunge dopo un istante con voce diabolica.
Ah, mi sembrava strano.
 “Che volevi dirmi, Lou?” si rivolge a me con voce gentile.
Mentalmente supplico un qualche dio del cielo di venire in mio aiuto. Sperando di non farla arrabbiare, di non innervosirla, di non finire a tirarci addosso vasi di porcellana della dinastia Ming … azzardo la mia richiesta.
“Jamie mi ha … cioè, si è proposto per … ecco …” balbetto fuori controllo.
“Vado in vacanza con lei e i suoi amici” farfuglia masticando un biscotto.
Jackson gli rivolge per un attimo uno sguardo contrariato e Jamie non perde tempo a correggersi.
“Se posso, ovviamente” si gratta la testa e si siede, continuando a sbocconcellare il suo biscotto grondante di gocce di cioccolato.
Jackson annuisce soddisfatto. “Sta attento a te, ragazzo mio” gli fa l’occhiolino e i due si danno di gomito.
“Mi volete spiegare, gentilmente?” domanda mia madre confusa. Il biscotto che sta inzuppando nel latte si spezza e sparisce nella tazza.  
Esibisco i più commoventi occhi da cucciolo che posso. “Ti prego, ti prego. Se viene Jamie puoi darmi il permesso di andare in vacanza? Con i miei amici? Tanti amici?” la rassicuro per farle capire che non starò sola con Adam. Anche se … lo ammetto, non desidero altro. Beh, ho anche paura, ovviamente, ma la voglia di rimanere avvinghiata a lui, stretta tra le sue braccia, in santa pace nella casa interamente vuota … è il mio cuore quello che bussa violentemente al mio petto?
Mia madre tira un lungo, estenuante sospiro. Guarda ora Jackson, ora Jamie, ora me: tutti abbiamo un’espressione speranzosa, quello sguardo da cucciolo affamato al quale non si può resistere.
“Lou, se combini qualche guaio …” inizia ma il mio abbraccio stritolante la zittisce.
“Grazie, grazie infinite!” mi stacco da lei e faccio il giro del tavolo per raggiungere Jamie. Gli stampo un rumoroso bacio sulla guancia.
Jackson ridacchia vedendomi saltellare per la casa così euforica e mi mostra un bel pollice di incoraggiamento.
Adesso davvero inizio a contare anche i secondi che mi separano dalle sei, che mi separano da Adam, dai suoi riccioli ribelli e i suoi occhi verdi speranza. 

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Capitolo 28
*** 28 ***


Alle sei meno dieci esatte imbocco la porta di casa salutando Jamie. Mi dice che non sa se lo ritroverò in casa, in quanto stasera esce con qualche amico. Motivo in più per invitare Adam.
No. Non si fa, Lou.
Percorro le strade afose con piede svelto e sguardo fisso a terra. I piedi mi si attaccano al cemento sciolto e fanno un rumore simile ad un “ciac ciac”. Le mani mi dondolano lungo i fianchi, il cuore mi balla la samba, prepotentemente sbatte contro il mio petto. Percorro il parco con la stessa velocità, che forse è anche esagerata. Rendendomi conto del mio passo da carro armato mi costringo a rallentare, non voglio dare a quel vanitoso di Adam un motivo in più per pavoneggiarsi. Anche se i suoi occhi cristallini e le fossette adorabili sarebbero già un motivo abbastanza giustificato.
Osservo l’orologio, se giro l’angolo sono arrivata a destinazione. Mi fermo sotto l’ombra di un albero. Sono le sei e uno. Addirittura in ritardo di un minuto! Il tempo di complimentarmi con me stessa e riprendo la camminata.
Se strizzo gli occhi posso vedere qualche ricciolo ribelle che si sposta grazie a quest’alito di vento che tira. Adam è già lì, ancorato su quella panchina, col braccio sullo schienale e le gambe aperte e rilassate. Guarda un punto fisso nel vuoto, quindi non si accorge del mio arrivo finché non sono a pochi metri da lui. Si volta sorpreso e socchiude gli occhi per proteggerli dal sole, le cui iridi sembrano quasi cristalli liquidi sotto questa luce, mi sorride raggiante.
“Pensavo non arrivassi più!” si alza dalla panchina e mi accoglie tra le sue braccia. Il suo odore mi inonda il naso e mi impregna i vestiti. Migliore di qualsiasi dei profumi che si trovano sul mercato, e inoltre è pure gratis!
Anche se ho il viso schiacciato contro il suo petto, farfuglio sorridente una frase. “Ma se sono in ritardo di due minuti!” le mie braccia abbracciano il suo collo, con le dita gioco distratta coi suoi riccioli.
Le sue labbra mi sfiorano il lobo dell’orecchio, che mordicchia giocoso con i denti. “È che mi sei mancata proprio tanto …”
Sento dei brividi corrermi lungo tutto la spina dorsale, trattengo a stento un sospiro. “Ah si?” balbetto con un filo di voce.
Ancora non mi è ben chiaro il fatto che Adam riesca a comandarmi a bacchetta facendomi soltanto una o due moine. Dovrei seriamente seguire un qualche corso di autocontrollo, o qualcosa del genere perché non posso andare avanti in questo modo.
I riccioli di Adam mi solleticano la guancia quando lui mima un “si” con la testa. Le sue mani dai miei fianchi passano al mio viso, inchioda gli occhi ai miei, li incatena e non li lascia più. Imbarazzata abbasso lo sguardo cercando di divincolarmi da quella costrizione, senza, ovviamente, alcun successo. Fa pressione sul mio mento per costringermi a fissarlo, poi sorride soddisfatto una volta che capisce di avere il pieno controllo sulle mie facoltà mentali e fisiche. La distanza tra il mio viso e il suo diminuisce vertiginosamente finché non sento il suo respiro caldo mischiarsi col mio. Stanca della lunga e ansiosa attesa, prendo in mano le redini della situazione. Le mie braccia si avvinghiano di più al suo collo eliminando la poca distanza che separa i nostri corpi e le mie labbra si infrangono sulle sue come farebbero le onde di un mare arrabbiato in tempesta contro un muro di scogli. Le nostre bocche si muovono armoniose allo stesso ritmo, le lingue si incatenano, ogni tanto si perdono solo per provare il piacere di ritrovarsi. Ci lasciamo andare per pochi istanti, quel poco che serve per riprendere un po’ di fiato, poi ci riallacciamo come fossimo due lati di una collana, destinati a rimanere chiusi, l’uno appeso all’altro. Fa un risolino quando con i denti gli afferro il labbro inferiore tastando la sua morbidezza e per rimettermi al mio posto mi dà un pizzicotto su un fianco, scoprendolo dalla maglietta. Gli do una spinta giocosa e lo allontano. Ci ritroviamo a guardarci, gli sguardi ancora legati da un filo invisibile, i respiri un po’ accorciati e una lieve risata che ci colora i visi.
“Vedi di non fare tanto la preziosa, tesoro” dice a mo’ di scherno. Mi prende la mano tirandomi verso di sé, le sue dita si intrecciano alle mie.
Scuoto la testa ridacchiando. La mancanza che ho sentito in questi giorni è stata finalmente colmata, sento uno strano senso di soddisfazione che mi riempie lo stomaco, una sorta di sazietà genuina che non ingrassa, anche se non ho mangiato. Mi basta voltare la testa di qualche grado e la mia visuale si riempie del suo sorriso, delle sue fossette che, nonostante siano da bambino, non stonano col suo viso adulto. Quando Adam mi pianta gli occhi addosso in lui non vedo il bambino musone dall’infanzia disastrata. È come se fossero due persone diverse, come se lui avesse rubato una qualche storia strappalacrime da qualche presta volto depresso. Per questo sono convinta che Adam reciti una parte. E che la reciti anche piuttosto bene. Dietro un sorriso si cela una lacrima, dietro un abbraccio un bisogno d’affetto. Tutti recitiamo una parte in questa vita, chi più, chi meno. Perché si ha paura di non essere accettati, siamo tutti convinti che sia più importante essere ben visti dagli altri, piuttosto che da noi stessi. Per questo si fa più attenzione alla maschera che portiamo e si tende a perdere di vista il nostro vero “io”, la nostra vera essenza. Ogni giorno la mattina ci svegliamo assonnati e svogliati, andiamo in bagno e ci facciamo una bella doccia calda. Poi, dopo esserci vestiti e asciugati per bene, apriamo l’armadio e prendiamo la nostra maschera quotidiana, invisibile e trasparente che, pur calzandoci a pennello, ci sta un po’ scomoda. Sì, ci sta scomoda perché la vocazione naturale di ogni essere vivente è quella di mostrarsi per ciò che è. Nessuno penserebbe a mettersi una maschera, a coprirsi il viso, a nascondersi l’anima. È la vita che ci costringe a farlo.
“Hai sempre questo sguardo vuoto, tu. Si può sapere a che pensi?” la stretta di Adam sulla mia mano aumenta richiamando la mia attenzione. Abbiamo entrambi le mani un po’ sudate per via del caldo soffocante, ora è come se fossero incollate. Ma non provo disgusto, anzi.
Sospiro. “A un sacco di cose” sorrido criptica e stringo le labbra.
Mi tira a sé avvolgendomi le spalle con il braccio. Mi stampa un bacio sulla guancia.
“Dovresti pensare di meno. Spegni questo cervello ogni tanto, che poi ti fuma”
“Oh, se solo ci riuscissi”
“Puoi provarci”
“Già fatto”
“Non ci hai provato abbastanza” i suoi occhi mi scrutano curiosi e severi, come a rimproverarmi una dimenticanza.
Abbasso lo sguardo. “Non ti interessa sapere una certa cosa?” cerco di distrarlo dandogli un buffetto sul fianco.
“Non tenermi sulle spine, sai che mi vendico” mentre parla con voce minacciosa, il suo braccio aumenta la pressione stringendomi di più a sé. Il solo contatto dei nostri corpi mi manda in fibrillazione il cuore e in tilt il cervello.
“Mh …” faccio la misteriosa, esibendo un sorriso compiaciuto.
“Lou, ti spezzo le gambe” mormora, si ferma e mi incalza con lo sguardo.
Faccio spallucce disinteressata, riprendo a camminare.
Mi blocca per un braccio e con un unico gesto mi tira a sé con forza. Ancora prima che possa lamentarmi, fuggire o fare qualsiasi altra azione, lo vedo piegarsi sulle gambe e abbracciare le mie all’altezza delle ginocchia. Rimane fermo per un millesimo di secondo, poi, con un gesto fluido, mi solleva come fossi una bambola di pezza e mi sistema con la pancia poggiata sulla sua spalla. Con una mano mi tiene stretta per le gambe, l’altra, invece, rimane fissa sul mio sedere.
“Ripensandoci, questa è un’idea nettamente migliore dello spezzarti le gambe. Tu che dici, Lou?” nel pronunciare il mio nome mi dà una pacca sul sedere, dopo ride divertito.
A niente valgono gli schiaffi deboli che gli assesto sulla schiena larga, né tantomeno i numerosi insulti che escono dalle mie labbra crucciate.
“Sant’Iddio, se non mi metti giù, giuro che ti mordo il collo e ti strappo un lembo di pelle” uso la voce più minacciosa che posso e riesco quasi a spaventarmi da sola. Beh, ho detto quasi.
Adam ride di più. “Oh si, si. Mi piace violento!” mi assesta un’altra bella pacca.
“L’hai voluto te” mantengo fede alla mia promessa. Ancorandomi fermamente con le mani al suo corpo, abbasso il viso fino a sfiorare il suo collo. Cerco di non farmi confondere dal suo profumo inebriante che mi riempie le narici e con le labbra vi inizio dolcemente a tracciare dei disegni scomposti.
La sua risata si interrompe lasciando spazio a un silenziosissimo sospiro, appena pronunciato, sembra che gli sia proprio scappato dalle labbra. “Me li ricordavo un po’ diversi, i morsi …” sussurra con la voce roca.
Cogliendolo di sorpresa, direi molto di sorpresa, apro la bocca e, quando meno se lo aspetta, addento la sua pelle morbida e liscia.
“Cazzo!” urla rimanendo di stucco. La presa sul mio corpo, da stretta che era, si allenta repentinamente, ed io vengo gradualmente posata a terra.
Mi copro la bocca per trattenere le risate, che, sonore come sono, non passano per niente inosservate.
Adam si tiene una mano sul collo nascondendo il punto in cui l’ho morso. Si sforza di mantenere un’espressione seria, quasi arrabbiata e severa, ma le fossette rovinano tutti i suoi tentativi e capisco che anche lui sta trattenendo una risata.
“Toccami il culo un’altra volta e la pelle te la strappo sul serio” lo avviso additandolo con l’indice.
“Non si scherza col fuoco, ragazza” mi guarda severo, gli occhi verdi intensi come una foresta, le labbra curvate in un sorriso impettito. Scosta la mano dal collo e cerca inutilmente di guardare la mia bella opera.
Scorgo un grande segno rosso che, prorompente, sembra richiamare l’attenzione dei miei occhi urlando: “Guarda qui, che bel lavoro che hai fatto!”. Ridacchio tra me e me.
“Bella forma che hanno i miei denti, eh?” dico più a me stessa che a lui, con aria saccente.
Adam scuote la testa divertito, ricomincia a camminare al mio fianco. “Puoi dirmi questa benedetta cosa ora?”. Vedendomi in silenzio mi guarda straziato. “Non ti sembra che io abbia sofferto abbastanza?” esibisce due occhi da cucciolo al quale sa benissimo che non resisterò.
Come volevasi dimostrare, i miei intelligentissimi neuroni, rimasti in contatto fino a quel momento, vengono sbalzati da una forza ignobile ed estranea in tutti gli angoli del mio cervello. Si separano così, all’improvviso. E la pazza che alberga in me, parla.
“Ho il permesso”
Adam sorride.
“A patto che venga anche Jamie”
Adam non sorride più. 

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Capitolo 29
*** 29 ***


“Oh andiamo!” mi lamentai per l’ennesima volta. Discutevo con Adam da più di un’ora ormai. L’argomento? Sempre lo stesso: Jamie. Per un qualche assurdo motivo Adam continuava d essere geloso del ragazzo dalle guance morbide e piene, ovvero il mio fratellastro da poco acquisito.
Ora Adam rimane in silenzio, intorno alle sue labbra si forma qualche piccola ruga che gli disegna un tenero broncio da bambino, gli occhi verdi si sono scuriti per via del temporale che inzuppa la foresta che riempie le sue iridi rotonde, facendo scappare ai ripari ogni tipo di animale. Senza farsi notare si allontana di qualche centimetro da me, lo spazio che ci separa aumenta lasciando scoperto solo il legno sporco e consumato di una povera panchina che se ne sta lì, inerte e in silenzio. Chissà quante ne avrà viste … chissà cosa avrà provato a non poter parlare, a non poter dire la sua. In questo momento, potesse farlo, darebbe un bel calcio ad Adam scaraventandolo giù dalle sue aste dure e porose. “Devi essere proprio cieco per non capire quanto bene ti vuole questa ragazza!” gli griderebbe innervosita, per poi ritirarsi nuovamente nel suo silenzio centenario.
“Adam smettila di fare il ragazzino” gli intimo, ho lo sguardo serio e irritato, questo atteggiamento inizia a stancarmi. Pensavo di essere un tipo geloso, prima di avere una qualsiasi sorta di relazione con una persona, ma in confronto a lui io non sono niente.
“Tu non capisci, Lou” ripete ancora una volta. Questa frase mi suona alle orecchie come un ritornello, ripetuto venti volte nella stessa canzone. Me la sono imparata a memoria, questa canzone, mi sanguinano le orecchie per quante volte me l’ha ripetuta. Ce l’ho scolpita nella testa, la radio è inceppata sempre sullo stesso passaggio ed io sono sul punto di scaraventarla via.
“E allora spiegami! Visto che dici che non capisco, spiegami!” gli urlo contro gesticolando. Penso che se mi tagliassero le mani non riuscirei più a parlare per quanto sono abituata a gesticolare.
Adam scuote la testa, le labbra si muovono in un impeto di rabbia, ma non ne esce alcun suono.
Annuisco sconsolata e rabbiosa, prima di alzarmi dalla panchina sussurro un commento stizzoso. “Mi sa tanto che in vacanza non ci vengo” mi avvio verso l’uscita del parco.
Tengo le braccia giù lungo i fianchi, morbide, queste mi ciondolano in attesa che qualcun altro le afferri e le tiri verso di sé. Sento le dita che mi tremano, fremono dall’essere intrecciate da quelle di Adam. Per muovere le gambe in direzione opposta a quella del ragazzo seduto sulla panchina devo impiegare tutta la forza che ho, perché ogni cellula del mio corpo, se avesse potuto, avrebbe già fatto dietrofront.
Ma perché tu rimani lì seduto? Perché mi lasci andare via un’altra volta?
Poi delle dita mi stringono il polso con una pressione urgente, lasciando una scia di fuoco sulla mia pelle e una scintilla di elettricità che mi fa rabbrividire da capo a piedi. Adam mi tira costringendomi a girare, i nostri occhi si legano, in quelli di Adam leggo quella paura e quello sconforto di qualche settimana fa, quando mi parlò della sua vita. Nel cuore mi si scioglie improvvisamente qualcosa e l’unica azione che mi viene da fare è quella di abbracciarlo. Ma lui con le mani stringe entrambi i miei polsi, vi fa pressione fino a farmi male ed io non riesco a spiccicare nemmeno una parola tanto è forte il dolore che ha negli occhi.
“Mio padre non mi voleva” inizia, gli occhi lucidi mi sembrano enormi, occupano ogni lato della mia visuale, impedendomi di fuggirvi. “Mia madre non è mai venuta a cercarmi, Lou. Mi hanno tolto da lei quando ero ancora un ragazzino e non mi è mai venuta a cercare” ripete, la voce è lievemente tremate, scossa qua e là da un singhiozzo silenzioso. “I primi ad adottarmi mi hanno riportato indietro soltanto un anno dopo il mio arrivo, come fossi un giocattolo difettoso, un aspirapolvere al quale manca qualche pezzo. E lo sono, so di esserlo. Io non sono normale, ho qualcosa che non va. Non vado bene. Io … io …” non riesce a continuare, si porta la faccia tra le mani abbandonando i miei polsi.
Il sangue riprende a scorrermi impetuosamente, lo sento fluire nelle vene accartocciate. Non ho la forza di dire neanche una parola di fronte ai suoi occhi distrutti, nemmeno sfioro la sua pelle, tanto lo vedo fragile. Penso che con una folata di vento potrebbe farlo cadere a terra in mille pezzi e farlo trasformare in breve tempo in una matassa di polvere nera e solitaria che verrebbe dispersa tra gli steli d’erba di questo prato verde e assetato.   
“Tutte le storie, se così posso chiamarle, che ho avuto in vita mia … tu pensi che io sia una specie di Don Giovanni, non è vero?” mi offre qualche secondo per riflettere, senza aspettarsi realmente che io risponda.
Mi rendo conto che ha ragione, l’ho sempre visto come uno di quei ragazzi che ne hanno mille intorno e che ne cambiano una al mese, trattandole come sigarette fumate e sprecate in cenere. Il cimitero delle chiome bionde e dei rossetti sbavati dai baci è un posacenere nero di forma circolare, abbandonato sul tavolino appiccicoso di un bar disabitato, nascosto in uno di quei vicoli paesani, vuoti e silenziosi.
“La verità è che ho avuto tante ragazze, lo ammetto. Tante ragazze di tutti i tipi. Ma di queste non ne ho mai amata neanche una, nemmeno per un istante. Non ho mai provato un sentimento che quanto meno si avvicinasse a quello che è l’amore. Io non lo so cosa si prova ad essere innamorati, non ho mai avuto la fortuna di provarlo, Lou, quell’amore che ti consuma dentro. Quell’amore che ti fa battere il cuore e tremare le mani. Quell’amore che quando vedi lei improvvisamente ti dimentichi da che parte gira il mondo, ti dimentichi come si fa a respirare. Non l’ho mai provato” balbetta velocemente, le labbra si muovono frettolose, timorose di dimenticarsi qualche parola e di rovinare il discorso. Abbassa la testa, gli occhi mollano per un attimo i miei, liberandoli dalla morsa che poco  prima li soffocava.
Libera da quel peso riesco finalmente a comporre dei pensieri di senso compiuto. “Da come ne parli” inizio con la voce bassa. “Sembra che tu l’abbia provato, invece” sussurro, basandomi sui sentimenti che provo io.
Fa un sorriso amaro e sospira desolato. “Fortuna del principiante. È solo perché leggo tanti libri”. Lo vedo allontanarsi, si dirige di nuovo verso la panchina, ricurvo su sé stesso è come se nei suoi muscoli non ci fosse più forza, come se i tendini si fossero improvvisamente rilassati, abbandonando le ossa al loro destino, un bianco mucchietto informe di cartilagini.
Lo seguo, mi siedo accanto a lui, riducendo lo spazio in breve tempo. Prendo la sua mano senza forze nella mia che, vigorosa, la stringe, come per trasmettergli quell’energia smarrita.
“Io non sono tuo padre, né tua madre. Né tantomeno quella famiglia di pazzi che si è lasciata sfuggire un figlio come te. È questo che devi capire. Io non sono loro. Io sono Marylou e giuro sulla mia testa che non ti lascio. Prendila come una minaccia, prendila come vuoi, ma io non ti lascio più” ogni parola la rinforzo con una stretta di mano, fisso le sue labbra socchiuse e indecise.
“Cosa avrò fatto mai per meritarmi una come te? Una così diversa dalle altre …” sussurra quasi più a sé stesso che a me.
Non perdo tempo a chiederglielo, so già che lo sta dicendo intendendolo in senso positivo.
“Insomma” riprende, ora ricomincia a guardarmi in faccia. “Non ti dai mai per vinta, vero? Tutti avrebbero già gettato la spugna con me. Beh, lo hanno già fatto in realtà. Ma tu … tu no. Tu hai qualcosa dentro di te, una forza … millenaria. Non ti arrendi mai” leggo la gratitudine che trabocca dai suoi occhi come fosse un cristallo sciolto, le fossette che compaiono ai lati della sua bocca addolcendogli il viso e l’espressione adulta ma sempre un po’ infantile.
Se solo sapesse che ho paura di tutto, che paura anche di me stessa. Ho imparato bene a indossare la mia maschera.  
Gli stringo il viso tra le mani, prima di baciarlo gli faccio un ultimatum. “Per stavolta passi, signorino. Ma lamentati ancora di Jamie e ti ci lascio davvero da solo” assumo velocemente un espressione seria. So per certo che non troverò la forza di lasciare Adam, sono un tipo egoista, non mi priverei mai di qualcosa che mi piace così tanto. Ma preferisco comunque avvertirlo: uomo avvisato, mezzo salvato.
Adam annuisce e sembra quasi imbarazzato della scenata avvenuta nell’ora precedente. L’imbarazzo stona col suo viso presuntuoso, così cancello quell’espressione posando le mie labbra sulle sue, amalgamandole come fossero un unico impasto. Le sue braccia mi avvolgono i fianchi, stringendomi in un abbraccio piacevolmente soffocante.
Nel tornare verso casa le nostre mani rimangono l’una legata a quella dell’altro, temono il momento in cui dovranno sciogliersi, anche se sanno che si rivedranno presto.
“Io ti devo ringraziare” mormora interrompendo un discorso a proposito di una serata al pub. La sua voce trabocca sincerità.
“Non devi farlo. Non lo faccio per te. Lo faccio per me, perché senza di te sarei persa” guardo fisso davanti a me, il cuore mi batte a mille e cerco di prendere più fiato che posso perché l’ossigeno inizia decisamente a mancarmi.
Si porta la mia mano alla bocca e ne bacia le nocche con estrema attenzione. “Io … io credo di provare per te un … un sentimento …” non riesce a spiegarsi, si vede lontano un miglio lo sforzo che fa per pronunciare quelle parole.
Paziente come una maestra, attendo che trovi la forza e il coraggio di dire ciò che vuole. Nel frattempo attraversiamo la strada ignari di ciò che ci accade intorno.
Forse fin troppo ignari: ci accorgiamo troppo tardi dello strombazzare impazzito di un clacson, proveniente da una macchina anonimamente blu e veloce come un razzo lanciato a tutta velocità. La bocca di Adam non fa in tempo ad emettere alcun suono, perché non appena mi volto a vedere se ha trovato le parole giuste per comporre la frase, veniamo sbalzati lontani da un impatto veloce e improvviso. Tutto intorno a me si fa nero ed io non so più dove sono. 

***
Ta daaaan, colpo di scena! Spero che la storia vi stia continuando a piacere e spero anche di non ricevere minacce di morte dopo questo capitolo :') Ho voluto movimentare un po' e...questo è ciò che il mio cervellino ha prodotto. 
Al prossimo capitolo, fatemi sapere che ne pensate in qualche recensione, un bacione e grazie come sempre di seguirmi *^* ! <3 

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Capitolo 30
*** 30 ***


Bip, bip, bip, bip.
Questo maledetto ticchettio mi trapana le orecchie, manco fosse un picchio che becca insistentemente un tronco. Potessi farlo, mi sarei già alzata a scaraventare via l’oggetto dal quale proviene. Già, se potessi farlo. Sfortunatamente è da un po’ che non vedo la luce, intorno a me il colore predominante è il nero. Non vedo nemmeno tutte quelle figure psichedeliche che si vedono quando si strizzano gli occhi. Non un accenno di luce, non un accenno di colore. Il nero è talmente nero che non sono neanche sicura che sia un colore. È solo buio, buio pesto. È solo la frustrante sensazione di non vedere, di non riuscire ad aprire gli occhi. Sì, non riesco ad aprire gli occhi perché … beh, perché non li trovo. Stessa cosa per le orecchie: riesco a sentire i suoni che mi circondano, ma non identifico la posizione che li riceve. Per non parlare della bocca, poi! Nemmeno ricordo più che sensazione si provi a parlare. Mi sento come se fossi un’ignobile particella di polvere, invisibile all’occhio umano, impercettibile e silenziosa fluttuo nel vuoto senza una direzione, senza sapere che farmene della mia esistenza.
Poi delle voci catturano la mia attenzione. Sono lontane, molto lontane, sembra come se fossero trasmesse a intermittenza da un citofono mezzo rotto.
“Quando si risveglierà?”
“È già sveglia. Adesso può ascoltarci, guarda le pupille che si muovono sotto le palpebre chiuse” qualcosa mi sfiora … il viso? Non lo so, sento solo un contatto sul mio corpo, che sorprendentemente ricordo di avere.
“Lou , tesoro …” di nuovo quel contatto, stavolta deve toccarmi la mano perché improvvisamente sento come una scintilla d’elettricità partire dalla punta delle mie dita. La scintilla brucia dalle mie unghie, percorre tutto il mio braccio risalendolo come fosse una miccia che brucia. Poi scoppia, in corrispondenza dei miei occhi. Sento le iridi infiammarsi, mentre una forte luce divora il buio che lentamente  retrocede. La luce si espande a mano a mano che trovo tutte le componenti del mio corpo: ci sono le orecchie, il mio naso, la bocca, che è secca ed impastata e, finalmente, giungo agli occhi, i quali ancora fanno fatica ad abituarsi alla luce.
Il viso di mia madre occupa tutta la mia visuale. Sta chinata sul mio corpo, un sorriso tremante disteso sulle labbra e gli occhi cerchiati da scure occhiaie angosciose.
“Ma … mma” la mia voce è roca, quasi inudibile, si rompe a metà della parola per lo sforzo e si incrina crollando nuovamente nel silenzio.
“Lou, amore mio, non ti sforzare” la sua mano è  fredda, le sue dita percorrono il profilo della mia guancia sfiorandomi appena. È come se temesse di rompermi, come se io fossi una bambola di porcellana, quelle con la pelle diafana e gli occhi neri sbarrati. Le ho sempre odiate, quelle bambole lì. Sembrano dotate di vita propria, con quell’espressione bianca e arcigna, sembra che la notte possano svegliarsi e raggiungerti al letto con i loro vestitini spiegazzati e ottocenteschi e, con un colpo secco al collo, strapparti con le loro grinfie la vita. 
Ma io che ci faccio qui? E dov’è, precisamente, qui?
Nei miei occhi si diffonde il panico, lo sento sciogliersi nelle mie iridi e colorarle di preoccupazione. Un senso di smarrimento mi strizza il viso aggrottando le sopracciglia. Ancora prima di tentare di dire qualsiasi parola, un uomo alto precede ogni mia domanda.
“Ciao Marylou, mi chiamo Jeff e sono un collega di tua mamma” sorride cordiale, di quel sorriso un po’ tirato e di circostanza che ogni dottore esibisce in questo genere di situazione. Nella taschina del suo camice bianco vi sono infilate una penna e una graffetta. Tiene in mano un blocco, sul quale devono esserci scritte informazioni sul mio conto. Gli dà uno sguardo veloce e stringe le labbra prima di continuare a parlare. “Ti ricordi cosa ti è successo, Marylou?” mi domanda con pazienza.
Attivo i muscoli del collo che, sbuffando e faticando, mi costringono a fare “no” con la testa.
“Hai avuto un incidente. Una macchina ti ha messo sotto” spiega con lentezza, parafrasando ogni parola che dice. I suoi occhi sono attenti e vigili ad ogni mia reazione e corrono dal mio viso al monitor ticchettante che mi affianca.
È nel momento in cui mi spiega che tutto mi ritorna alla mente … il litigio con Adam al parco e la pace. E poi … poi stavamo tornando a casa, mano nella mano. Stavamo chiacchierando, quando ad un tratto lui ha cambiato discorso.
 Cosa voleva dirmi? Mi sfuggono le sue parole, ce le ho lì, sulla punta della lingua, ma ogni volta che provo ad acchiapparle loro mi scivolano via beffandosi di me. Sento la mia fronte corrucciarsi per lo sforzo, devo assolutamente ricordarmi cosa voleva dirmi. Ma non ci riesco. E dopo pochi secondi mi sento già debole come se avessi trascinato pietre dalla mattina alla sera.
Ritorno al ricordo, accantonando per un po’ le parole dimenticate di Adam, riprendo il flashback che avviene nella mia mente come fosse un cortometraggio. Vedo le righe pedonali di fronte ai miei occhi, i piedi miei e di Adam che si muovono in sincrono per attraversare. Rivedo il suo viso che riempie la mia testa, la sua bocca che balbetta parole che si nascondono ai miei occhi. Poi il clacson, quel rumore forte e irriverente che ci ha colti all’improvviso. Infine i miei ricordi sfociano nel nulla, nel nero assoluto, come un fiume che si getta nel mare, stanco della sua corsa contro il tempo.
I miei neuroni si connettono e ragionano. “Dov’è … Adam …?” gracchio dopo un po’.
Mia madre, che era ancora chinata su di me, si alza lasciandomi respirare liberamente. “Non preoccuparti di lui, ora. Pensa a te” mi intima con uno sguardo serio.
Capendo che da lei non riceverò alcuna informazione, volto gli occhi verso l’alta figura del dottore, che sovrasta quella di mia madre. Non riformulo la domanda, il mio sguardo parla per me.
“Adam era davanti a te, al momento dell’incidente. L’auto lo ha .. preso in pieno, diciamo” inizia titubante.
No. Non voglio più sentire altro.
I miei occhi si fanno velocemente più lucidi, lo sguardo mi si offusca, la figura del dottor Jeff si fa liquida e sfocata, i  contorni imprecisi si muovo con fare ondulatorio.
Non può essere vero. Tra poco mi risveglierò sudata, questo è solo un orribile incubo.
Allunga le mani avanti come per impedirmi di piangere. “Marylou, no, aspetta” si appresta ad aggiungere. “Adam è vivo” mormora facendo una pausa.
Il bip al mio fianco accelera notevolmente, va di pari passo col battito eccitato del mio cuore, che sento battere forsennato contro il mio petto. Adam è vivo. Sento le labbra distendersi in un sorriso.
“Ha riportato danni un po’ più gravi dei tuoi. Col suo corpo ti ha, come dire, fatto da scudo, limitandoti dai danni più pericolosi. E, effettivamente, oltre lo stato comprensibilissimo di shock e qualche ferita più o meno superficiale … sei in gran forma” mi sorride divertito dalle sue stesse parole. “Poteva andare molto peggio, cara”.
Sospiro. Adam deve essere il mio angelo custode, ne sono sempre più convinta.
“E lui?” domando rocamente. “Lui come sta?” lentamente sento il mio corpo che si invigorisce, ricomincia ad acquistare un po’ di forza.
“Adam, come ti dicevo, essendo stato colpito direttamente dalla vettura ha riportato dei danni maggiori dei tuoi” comincia, le sue parole sono sminuzzate dalla mia mente e tenute d’occhio dallo sguardo vigile di mia madre. “Per via del contraccolpo è stato sbalzato via assieme a te e, sfortunatamente, ha battuto la testa molto forte, riportandone una frattura a livello osseo e una momentanea commozione cerebrale” conclude e congiunge le mani studiando la mia espressione.
“Si è rotto la testa?” domando apprensiva.
Jeff annuisce.
“Si è solo rotto la testa?” ripeto nuovamente dettagliando la domanda.
Jeff abbassa lo sguardo, noto un ‘impercettibile movimento del suo capo: non sta annuendo.
Il bip alla mia destra ticchetta frenetico, riempiendo il silenzio tombale che cade all’improvviso nella stanza. Con le mani spingo sul materasso bianco del letto su cui sono poggiata, faccio forza cercando di tirarmi su, di sottofondo il mio respiro affaticato. Le mani di mia madre giungono forti a darmi un aiuto, issandomi a sedere e sistemandomi il cuscino dietro la schiena.
“La prego, lei …” inizio, il frastuono sempre più urgente del macchinario che monitora il mio cuore mi riempie le orecchie soffocandomi.
“Dammi del tu, Marylou” mi blocca il dottor Jeff.
“D’accordo, Jeff, ti prego devi dirmi se sta bene o no” lo supplico, gli occhi ridotti ad un pozzo di preoccupazione.
Mia madre mi posa una mano pesante sulla spalla. “Lou, calmati. Per piacere, altrimenti mando via il dottore” si tira su una manica del camice e mi punta lo sguardo intimidatorio in faccia.
Faccio dei lunghi respiri e strizzo gli occhi come per scacciare fuori dei pensieri troppo brutti da sostenere.
“Ha riportato appunto questa commozione cerebrale e assieme ad essa un’emorragia interna. Non abbiamo potuto operarlo immediatamente, dobbiamo innanzitutto attendere che la commozione termini. Di seguito, controlleremo tramite tac ed analisi la sua situazione generale e se l’emorragia si è rimarginata spontaneamente, tempo una settimana e potrà uscire. Altrimenti dovremo operarlo e controllare la situazione interna, se i suoi organi stanno bene o se sono stati danneggiati in qualche modo” spiega nel modo più semplice che gli riesce.
Mi sembra sincero, quindi decido di fidarmi di lui. La preoccupazione non mi abbandona neanche per un secondo. “Devo vederlo” mi muovo per scendere giù dal lettino, mia madre si tuffa a trattenermi, così come il dottore che mi afferra le caviglie nude e le ancora nuovamente al letto scomodo.
“Mi spiace, per oggi dovrai startene buona qui” sorride scusandosi. “Adam attualmente è in uno stato di incoscienza, Marylou, non riuscirebbe nemmeno a risponderti. È come se fosse addormentato, capisci? Tutto dipende da come passerà la notte” mi spiega paziente.
“In-incoscienza …” balbetto più a me stessa che agli altri, giusto per rendermene conto. Nella mia mente si ripetono le parole del dottore: “è come se fosse addormentato, capisci? Non riuscirebbe nemmeno a risponderti”. Di nuovo il bip rumoroso fa capolino nel silenzio della stanza d’ospedale.
“D’accordo, adesso basta. Jeff grazie per le informazioni, rimango io con lei” si intromette mia madre posando una mano sulla spalla del medico. Lui annuisce e si congeda con un semplice sorriso a mezza bocca, dopodiché si dilegua socchiudendo la porta.
A quel punto, i miei nervi si lasciano bruscamente e improvvisamente andare, tutta la tensione accumulata sino a quel momento viene rilasciata come fosse una bomba ad orologeria il cui tempo è scaduto.
00:00:00, comincio a piangere e mi porto le mani sul viso. La flebo infilata nel mio braccio mi pulsa nella vena ricordandomi la sua presenza e io singhiozzo un po’ per il dolore fisico, un po’ per quello mentale. Mia madre mi afferra i polsi e mi costringe a guardarla.
“Marylou” pronuncia solennemente il mio nome. “Adam non troverà sicuramente giovamento dalle tue lacrime, o sbaglio?”
I miei respiri spezzati riprendono lentamente una certa regolarità. Annuisco timidamente, un gesto appena pronunciato.
“Bene. Allora, ascoltami: se continuerai a piangere starai peggio. Quando lui si risveglierà e ti ritroverà in uno stato disastroso non credi che rimarrà male nel vederti conciata così? Non vorresti che lui, risvegliandosi, ti trovasse al suo fianco, già guarita e in salute?” sa di aver beccato il tasto giusto da premere, Adam è il mio punto debole. Tutto ciò che riguarda lui mi interessa quasi ossessivamente.
Annuisco di nuovo, stavolta con più vigore. “Dovete promettermi che domani potrò vederlo” la mia voce è glaciale e irremovibile.
Mia madre annuisce paziente sbattendo gli occhi. “E va bene, va bene” sbuffa sonoramente. “Ti deve piacere proprio tanto, eh” borbotta mentre si alza e va a sistemare la sua borsa.
“Promettimelo, mamma. Voglio sentire che me lo prometti” la costringo, con lo sguardo la seguo senza perderla d’occhio.
Mia madre si gira e mi punta gli occhi addosso. “Te lo prometto, Marylou. Te lo prometto”
Rilassata, con un peso più leggero di prima che mi grava sul petto, socchiudo gli occhi, esausta e indebolita dall’estenuante riflessione e piombo anche io in uno stato di incoscienza.

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Capitolo 31
*** 31 ***


Adam mi tiene per mano, le sue dita sono incollate alle mie, i suoi occhi incatenati ai miei ogni tanto mi lasciano per permettermi di respirare, dopo tornano a tuffarsi dentro la mia anima.
“Devo dirti una cosa importante” mormora mentre attraversiamo l’uscita del parco. D’improvviso la sua espressione si fa serissima, gli occhi sono due pozzi informi di cristallo liquido, a guardarli mi sembra quasi di caderci dentro. La sua mano si stringe di più attorno alla mia, come se avesse paura di sentirla scivolare via.
“Dimmi” ascolto attenta, i nostri piedi si muovono in sincrono e noi non abbiamo bisogno di guardare dove andiamo, assorti come siamo nel nostro intenso dialogo di sguardi.
“Io …” inizia e io giurerei di vedere le sue guance arrossire lievemente. Ma Adam che arrossisce è un paradosso, andiamo!
Ascolto, attenta ai suoi movimenti. Con la mano libera si tortura il passante dei jeans, lo gira, lo tira, lo rigira un’altra volta. Sembra nervoso, in effetti.
“Io credo di provare per te …” un pezzo per volta, lentamente, Adam formula brevi frasi in lunghi, interminabili e insopportabili secondi.
Alle sue parole il mio cuore salta qualche battito, si ferma e poi riprende a pompare sangue più velocemente per ovviare a quella minuscola mancanza d’ossigeno, avvenuta per una stupida distrazione. Le mie dita avvolgono più stretta la mano di Adam come per infondergli coraggio. Taccio in attesa che trovi le parole giuste.
La bocca di Adam è socchiusa, ma da essa non vi esce alcun suono. Richiude le labbra, sbatte le palpebre, guarda di fronte a sé, poi rivolge gli occhi verdi di nuovo verso di me. Mi sorride mostrando le fossette rotonde come a scusarsi della goffaggine improvvisa e immotivata. “Credo di provare per te un sentimento …”
Boom!
Quando Adam sembra finalmente aver trovato le parole, una forza estranea lo fa tacere, gelosa delle sue parole preziose lo scaraventa via, strappando violentemente la sua mano dalla mia che, vuota e inconsistente, sente freddo senza quel pezzo fondamentale che la completa. 
Mi sveglio sudata sentendo il calore del Sole che mi scalda il viso, la luce entra prepotente dalla finestra aperta e mi invita ad aprire gli occhi. Nella mia mente trovo qualche frammento del sogno fatto pochi istanti prima, vedo il viso di Adam e i suoi occhi, vedo la strada e le nostre mani unite. Sento finalmente le sue parole che fino a ieri trovavo irrimediabilmente dimenticate, le sue labbra che si muovono imbarazzate mi svelano il segreto tanto agognato. Poi, il buio intenso che si diffonde e di nuovo il silenzio che ha zittito la bocca di Adam. Ora mi ricordo.
 Dopo che le mie iridi si abituano a guardarsi intorno, scorgo la figura di un’infermiera minuta e magra come un chiodo, vestita d’un camice verde, quel verde ospedale. È accanto a me, digita qualche tasto sul macchinario che risponde accomodante coi suoi soliti bip. È voltata di spalle rispetto a me, quindi non si accorge che sono sveglia finché non mugolo stiracchiandomi. Ogni singolo muscolo del mio corpo grida vendetta al minimo movimento e il ginocchio destro lo sento bruciare come se qualcuno mi ci stesse versando sopra dell’acetone.
“Dio, che male …” mormoro infastidita curiosando sotto le lenzuola. Un grande cerotto bianco copre l’alone rosso del sangue fuoriuscito da una ferita sul mio ginocchio fasciato. Mi stupisco della mia voce: oggi è molto più chiara di com’era ieri, faccio progressi.
“Buongiorno signorina Marylou” mi saluta cordiale l’infermiera. Ha una voce tintinnante, simile a dei campanelli che sbattono uno contro l’altro. I capelli scuri e lucidi sono raccolti in un’alta cipolla, trattenuti insieme da un cappellino di tela verde legato alla base della testa. “Come stiamo oggi?” mi domanda, nel frattempo si avvicina al fondo del mio lettino, controlla il blocco attaccatovi sopra e annuisce fra sé e sé.
Stringo le labbra riflettendo. “Bene” deduco infine. “A parte qualche doloretto qua e là” aggiungo dopo poco.
L’infermiera sorride. “Ti chiamo il dottor Jeff, tesoro. Ti farà il controllo mattutino, poi deciderà quando dimetterti, d’accordo?”
Annuisco e le sorrido di rimando guardandola saltellare fuori dalla stanza.
Pochi istanti dopo mia madre, seguita da Jeff, fanno capolino nella mia stanza. Entrambi portano il camice bianco, le occhiaie di mia madre sembrano addirittura essere aumentate da ieri.
La domanda che mi interessa è solo una, ma ho paura di mostrarmi troppo interessata, potrebbe pensare che io sia ancora troppo debole per vedere Adam. Perciò cerco di mantenere un tono vago.
“Hai intenzione di dormire di nuovo prima o poi?” rimprovero mia madre che mi si siede accanto. Poggia entrambe le braccia sul mio letto e vi si abbandona con la testa.
“Promesso, da stasera ricomincerò a farlo” la sento mormorare con voce roca mentre si lascia andare accanto a me.
Sconsolata scuoto la testa. Osservo Jeff, il quale dà un veloce sguardo alla mia cartella clinica. Dopodichè mi si avvicina dal lato opposto di mia madre e, alzandomi il camice anonimo e azzurro mi tasta il ventre chiedendomi se sento dolore. Rispondo di no. Successivamente mi ausculta il petto, la faccia assorta e studiosa. “Penso che per oggi pomeriggio te ne puoi tornare a casa, Marylou” asserisce annuendo tra sé e sé. Posa di nuovo la cartella alla fine del mio letto.
Sorrido. “Ah, bene” rimango in silenzio ma i miei occhi non lo perdono di vista. Jeff sa cosa voglio sapere.
“Adam …” inizia, si gratta la testa.
Pendo letteralmente dalle sue labbra.
“Ha passato la notte” mormora infine e io sento ogni muscolo del mio corpo rilassarsi improvvisamente. Non mi ero resa conto di esser rimasta tesa fino a quel momento. Ora sento doloranti perfino le ossa. Le mie membra sono quelle che si rilassano di più, schizzano via come fossero degli elastici straziati al massimo.
“Oh Dio, grazie” sussurro strizzando gli occhi. Disegni psichedelici mi ballano di fronte allo sguardo, si spargono nel buio che mi abbraccia. Spariscono quando spalanco gli occhi. “Posso vederlo?” la mia bocca si apre in un sorriso non appena mi figuro l’immagine di me e Adam di nuovo insieme.
“Devi stare attenta, però. Non può sforzarsi, è ancora molto debole e sta dormendo profondamente. Deve recuperare tutte le forze perdute e se lo fai faticare rimarrà qui per molto tempo” mi intima come se fossi un bambino al quale si dettano le regole da seguire in scuola.
Annuisco diligente e mi poso la mano sul cuore. “Giuro che farò la brava” prometto.
Jeff sorride. “Metti il pigiama, lui si trova nella stanza qui accanto, la 247. Se senti la testa girare ritornatene subito a letto, non far preoccupare tua madre” nell’ultima parte di frase sussurra. Poi mi fa l’occhiolino.
Mi alzo lentamente dal lettino senza fare rumore. La testa di mia madre è abbandonata su un angolo del lettino, gli occhi serrati, la bocca dischiusa e l’espressione finalmente rilassata. È decisamente crollata e mi dispiacerebbe svegliarla. Perciò rovisto nella mia borsa silenziosamente e quando trovo il pigiama me lo infilo delicatamente, facendo il minimo rumore possibile, posando il camice azzurro aperto sulla schiena sul letto disfatto. Infilo le ciabatte ospedaliere e socchiudo la porta alle mie spalle facendo ticchettare la serratura. Alla mia destra, la stanza 247.
Poso la mano che mi trema leggermente sulla maniglia, tirandola giù con delicatezza. Prima di spingere prendo un lungo respiro.
“Coraggio!” l’infermiera di prima, passando, mi dà un buffetto su un fianco e mi sorride riprendendo la sua camminata.
Sorrido e spingo la porta aprendola. Il bip familiare mi riempie nuovamente le orecchie, assieme a questo odo anche il suono rassicurante di un lungo e rilassato respiro: quello di Adam. Il mio cuore batte all’impazzata ma si blocca non appena vede il corpo del ragazzo disteso sul lettino coperto da un pesante lenzuolo bianco candido. Ha la testa fasciata da una spessa garza bianca, la quale mostra una notevole macchia di sangue sulla sinistra. La garza gli schiaccia i riccioli neri rendendoli inermi e scoraggiati, ma qualche superstite ribelle ne salta fuori come una molla. Sul braccio posso distinguere l’ago della flebo che si mischia col suo sangue, il tubicino è appeso ad una sacca trasparente semivuota. Il petto di Adam si alza e si abbassa ritmicamente assieme al bip del macchinario, gli occhi sono serrati e tranquilli, forse catturati da un sogno. Le labbra morbide sono dischiuse, vi esce un lieve respiro che si espande nell’aria. Mi avvicino con lentezza per paura di disturbare, mi rendo conto di star trattenendo il respiro.
“Ciao …” sussurro debolmente. Mi siedo sulla sedia accanto al suo lettino, con la mano tremante mi azzardo a sfiorare il dorso della sua, che rimane morbida e rilassata. “L’abbiamo fatta grossa, eh?” ridacchio tra me e me. “Sempre a guardarci, sempre distratti … e questo è il risultato” la mia voce è appena un sussurro.
Il viso di Adam non dà cenni di risposta, rimane fermo nella sua espressione addormentata.
“E ce la stavamo facendo a dirci … beh, hai capito no? È stata dura per me ricordare, ma alla fine ci sono riuscita. Me lo ricordo, quello che mi hai detto, sai? O meglio, quello che stavi per dirmi” balbetto imbarazzata. Attendo per un po’, sono alla ricerca di una risposta che so che non arriverà.
Con una mano mi sposto i capelli dal viso nascondendoli dietro l’orecchio. Mi inumidisco le labbra, il mio battito aumenta impercettibilmente. “Riusciremo mai a …” la mia voce si spezza all’improvviso. “Anche io penso di provare per te un … un sentimento” balbetto a fatica. “È strano” spiego. “E fa anche un po’ paura. Non ho mai provato una sensazione simile e mi fa sentire vulnerabile. Scoperta. Non lo so, vedi tu l’aggettivo migliore. Pensaci mentre dormi”
Mi volto a guardarmi intorno, la luce del Sole che entra dalla finestra illumina i piccoli pulviscoli che fluttuano leggeri nell’aria. Di scatto guardo la mano di Adam dopo aver avvertito un minuscolo e impercettibile movimento. Ora è di nuovo immobile ed io mi maledico per essermi persa quel momento.
“Io ti amo, Adam” sussurro all’improvviso, quasi senza controllare le mie labbra. “Io ti amo” ripeto, sento gli occhi gonfiarsi di lacrime e non capisco nemmeno io perché. Stringo le sue dita nelle mie, dolcemente ne bacio ogni dito, mantenendo le labbra sul dorso della sua mano. “Ti amo, ti amo, ti amo” sussurro continuamente, le parole scivolano fuori dalla mia bocca come fossero acqua che cade giù da una cascata: è impossibile fermarle.
In quell’istante sento la porta aprirsi e il rumore che produce la serratura mi sembra così forte che mi fa sobbalzare all’improvviso. Mollo la mano di Adam e istintivamente mi alzo dalla sedia sistemandomi il pigiama. L’infermiera minuta è anticipata dalla figura torreggiante del dottor Jeff.  Quest ultimo si ticchetta col dito sull’orologio.
“Già? Quanto tempo è passato?” domando stupita.
“Una buona mezz’ora, signorina” interviene l’infermiera.
“Potrai tornare a trovarlo nel pomeriggio, Marylou. Ma ora lascialo riposare. E anche tu, stattene un po’ buona al letto” mi ordina Jeff con lo sguardo gentile.
Annuisco sconsolata e mi avvio all’uscita ad occhi bassi. Jeff e l’infermiera escono prima di me. Prima di chiudere la porta mi volto scattante a guardare il corpo di Adam dal quale mi sembra aver sentito provenire un suono.
“Adam?” mormoro ad alta voce allungando il collo a scrutare la sua espressione.
In risposta ottengo solo un sordo bip ripetuto all’infinito. 

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Capitolo 32
*** 32 ***


ADAM’S POV
“Quindi … poteva andare peggio?” balbetto a fatica con la voce roca. Non riesco ancora ad alzarmi dal lettino, il massimo che riesco a fare è alzare il collo dal cuscino per una manciata di secondi.
Il dottore annuisce serio, tiene in mano la mia cartella clinica, vi scribacchia sopra con una penna bic nera. “Non ti sei rotto né braccia e né gambe, la commozione cerebrale e l’emorragia si sono fortunatamente risolte senza evidenti problemi o interventi chirurgici. Perciò, si, poteva andare decisamente molto peggio. La fascia sulla testa la devi tenere per un’altra settimana, ritornando qui in ospedale ogni giorno per cambiarla” continua informandomi sul da farsi. “Dopodiché lunedì prossimo potremo levare i punti e sarai libero” mi dà un’appena pronunciata pacca sulla spalla.
“Pensa che potrò partire per andare in vacanza?” domando dopo un istante di silenzio. Più della mia saluta, ora come ora, mi interessa il tempo che passerò con Lou. Volevo confessarle i miei sentimenti, volevo farle capire quanto mi piace, quanto lei è importante per me … e invece, ecco com’è finita.
“Certamente, Adam, certamente” mi rassicura il dottore sbattendo le palpebre tre volte. “Ovviamente bisognerà controllare lo stato della tua ferita ma penso che in una settimana, dieci giorni ti sarai rimesso completamente” sorride paziente. “Ora scusami, devo andare. Ripasserò nel pomeriggio e deciderò quando dimetterti” detto questo, imbocca la porta dileguandosi.
Rimango solo, la luce del Sole si infiltra curiosa tra le tende, mi inonda il viso e io sono costretto a socchiudere gli occhi.
Dov’è Lou?
La flebo sepolta nel mio braccio mi pizzica come se fosse un peperoncino infilato in gola. Faccio forza sul materasso cercando di tirarmi su e con grande sforzo riesco quasi a sedermi.
Ho bisogno di parlare con Lou. Le devo dire che …
“Buongiorno, mi scusi il disturbo” un’infermiera entra portandosi al seguito un grande cestino nero. Vi svuota il secchio della mia camera, dopo mi fa un cenno sorridendo. “L’orario delle visite è iniziato, qui fuori c’è una ragazza che dice di essere tua amica, posso farla entrare, Adam?”
La bocca, come se non lo fosse già abbastanza, mi si asciuga completamente e io non riesco ad emettere alcun suono. È il bip che monitora il mio cuore che parla per me, accelerando all’impazzata come se non ci fosse un domani.
L’infermiera ridacchia con l’espressione di chi la sa lunga. “Deduco sia un si” esce dalla porta e la sento direi: “Prego, vieni pure, cara”.
Prendo un lungo, lungo respiro tentando di limitare i danni: credo mi verrà un infarto. Andiamo, Adam, hai ventitré anni, sei grande e adulto. Ancora con le farfalle nello stomaco? Trova un contegno.
Mi aspetto di veder comparire dietro la porta che si apre il viso dolce di Marylou, le guance che arrossiscono e gli occhi che istantaneamente guardano verso il basso per evitare i miei; i capelli castani che le nascondono il viso quando si imbarazza e i denti che mordicchiano le labbra quando è indecisa.
“Adam!” urla una voce concitata allungando inutilmente e fastidiosamente le vocali del mio nome. Il tono stridulo mi rimbomba nelle orecchie fin troppo abituate al silenzio come fossero delle unghie su una lavagna.
Contro ogni mia aspettativa, il viso che vedo comparire nella mia stanza non è quello dolce e imbarazzato di Lou, bensì quello super truccato e sfacciato di Eleanor, che con un colpo di testa ondulatorio scuote i boccoli biondi facendoli ricadere sulla sua spalla.
Lì per lì rimango un secondo interdetto, la bocca spalancata a metà, l’aria calda che la secca ulteriormente. Poi la richiudo frettoloso e inghiotto un malloppo di saliva. “Eleanor!” mi fingo sorpreso, anche se in realtà sono solo deluso e scocciato. Perché Lou non è qui con me? Perché al suo posto c’è Eleanor? “Che … che ci fai qui?” mi costringo a mostrarmi cordiale, l’unica cosa che vorrei fare, però, è dirle di uscire dalla stanza quanto prima.
“Come che ci faccio, Adam?” mormora lei con l’espressione contrita. “Il mio amico è ricoverato in ospedale e io non lo vado a trovare? Che persona orrenda sarei?” gioca con un boccolo arricciandolo col dito, mi guarda sbattendo le ciglia zuppe di mascara.
Rifletto su quanto la mia amicizia con Eleanor possa essere ferrata: non mi pare di esserle mai stato particolarmente simpatico. Il nostro rapporto è iniziato con lei che mi dava del “maniaco del cazzo” e, obiettivamente, non penso che sia proprio il modo migliore per stringere amicizia con qualcuno. Mi sbaglierò, ma ne sono quasi certo.
Trascina una sedia e la posa accanto al mio lettino. Vi si siede incrociando le gambe coperte da un minuscolo pezzo di jeans, con la mano sfiora il dorso della mia. Quel contatto mi riporta alla mente Lou, ancora una volta penso dove diavolo si possa essere cacciata.
Cercando di non offenderla, sottraggo la mano dal contatto e le sorrido paziente. “Allora … Lou come sta?” le domando e in quel preciso istante mi rendo conto di una cosa: Lou potrebbe essere in ospedale, ferita chissà quanto gravemente. E io sono qui, a chiedermi perché lei non stia accanto a me. Egoista. Sono un’idiota. “Lou, Lou sta bene? Dimmi di si, Eleanor” non le do il tempo di rispondere, braccandola di domande.
Eleanor espone un’espressione leggermente contrariata e scocciata, alza gli occhi al cielo deviando il mio sguardo inquisitorio. “Si, si. Sta alla grande, l’hanno dimessa ieri pomeriggio”
Lascio andare un sospiro e mi rilasso. Grazie a Dio, la mia Lou sta bene. Ma allora, perché non è qui? Di nuovo la mia mente viene assalita dai dubbi.
“Ma sto bene anche io, grazie per l’interessamento” stizzita, Eleanor si alza dalla sedia e si affaccia alla finestra dandomi le spalle. La vedo chinare la testa verso il basso. “In fondo, non ho passato due giorni in preda alla preoccupazione … senza sapere se avresti passato o no la notte” sussurra così piano che a malapena la sento, la sua voce sembra rotta dal pianto. Come le chiamano alla tv? Ah si, lacrime di coccodrillo.
Sbuffo, ma senza farmi sentire. “Mi spiace” nella mia voce si nota molto il sarcasmo, eppure sto facendo del mio meglio per nasconderlo. “Come stai, allora?” le domando infine stizzito.
Lei si volta col viso in fiamme, l’espressione addolorata che farebbe invidia ad una qualsiasi telenovelas spagnola. Ho quasi paura che tiri fuori un paio d’occhiali alla Patty e mi cominci a gridare “Matias, Matias, perché non mi ami?!”
Di donne strane ne ho incontrate in vita, ma appiccicose e teatrali come Eleanor … mai.
“Non sto bene, Adam. Non lo sono stata, tesoro” mi accarezza il viso col dorso della mano.
Ecco qua, il primo passo per il rimorchio è la confidenza, sia vocale che gestuale. Chi meglio di me può saperlo? Ho avuto tante di quelle storie toccata e fuga nella mia vita che ora che i ruoli si sono invertiti provo una vaga sensazione di fastidio. Fastidio e disgusto.
“Saperti qui … in quelle condizioni …” si interrompe portandosi una mano sulla bocca.
“Eleanor, sto bene adesso. Non … non fare così” le intimo visibilmente a disagio. Non sono mai stato bravo a consolare le persone, anche perché il mio speciale talento è soffrire e far soffrire gli altri, grazie al mio stupido carattere. Figuriamoci come posso comportarmi con una persona che non mi va a genio.
Ma insomma, dove cavolo è Lou?!
Eleanor mi stringe forte la mano nella sua, direi più che me la stritola. “Adam … tu mi piaci sul serio” mi guarda con gli occhi lacrimosi.
“Mi … stai facendo male” cerco di liberare la mano dalla sua stretta titanica, mentre il bip agitato e incredulo mi riempie le orecchie. La testa mi pulsa forsennatamente, penso che i punti che saturano la mia ferita potrebbero saltare in aria da un momento all’altro.
Lo sguardo languido di Eleanor cresce sempre di più, la vedo cominciare a chinarsi sul mio corpo.
Oh sant’Iddio, sono solo un povero malato, volete lasciarmi in pace?
“Eleanor, dai …” provo a farmi scudo con una mano posandogliela erroneamente sul petto. Lei se la preme contro e nello stesso istante le sue labbra incontrano impetuosamente le mie.
Sento la sua lingua farsi spazio nella mia bocca, che tenta invano di rimanere serrata, di chiudersi come una vongola appena pescata dall’acqua salata.
“Ti prego!” farfuglio, mentre lei di lasciarmi andare proprio non ne vuole sapere.
In quel preciso istante sento un rumore alquanto preoccupante: più preoccupante di Eleanor che tiene stretta la mia mano, delle sue labbra che mordono voraci le mie, della mia mano premuta dalla sua contro il suo petto. Si, più preoccupante di tutta questa spiacevolissima situazione.
Riesco a malapena a spostare la testa di qualche millimetro, quel poco che basta ai miei occhi per indirizzare lo sguardo verso la porta che si apre di slancio. Dietro di essa c’è Marylou, la mia Marylou, che ha in mano un piccolo e grazioso mazzo di rose rosso sangue, quello in cui vorrei affogare adesso.
Raccolgo tutte le poche e deboli forze che mi rimangono in corpo e le concentro nelle mie mani che, premendo ancora contro il petto dell’arpia che mi sta risucchiando la lingua, la scaraventano via. L’espressione sgomenta di Eleanor, con il rossetto tutto sbafato intorno alle labbra, sarebbe decisamente comica se fossi un semplice spettatore. Peccato che per stavolta ho avuto la sfortuna di essere il protagonista.
“Lou non te ne andare e fammi spiegare!” le urlo contro, le fitte che sento alla testa sono come tante piccole frecce che mi si conficcano in profondità. “Ti prego”
“Io mi fidavo di te” mormora Lou, gli occhi rilucono delle sue lacrime che a goccioloni le bagnano le guance rosse, non per la timidezza ma per la rabbia e la delusione. La sua mano si apre scoraggiata, le rose cadono a terra sfaldandosi e perdendo i petali. In poco tempo la vedo voltarsi di schiena e correre via a passo di carica.
Il mio sguardo glaciale non si permette di riempirsi di lacrime, di mostrarsi scoraggiato, triste o quant’altro. No. Rimane fermo, immobile, di ghiaccio. Passa in rassegna tutta la stanza fino ad arrivare al corpo di Eleanor, rimasto rannicchiato e silenzioso in un angolo.
“Esci di qui” non ho bisogno di urlarglielo, la mia voce fa già abbastanza paura così com’è.
Eleanor in un primo momento rimane zitta e immobile. “Ma Adam, io …” prova a controbattere.
La precedo. “Esci da questa cazzo di stanza” ho le corde vocali tese come le corde di un violino. Mi verrebbe voglia di alzarmi, prendere l’esile corpo di Eleanor e buttarlo fuori a calci. So che lei è una ragazza e so anche che è un pensiero orribile. Ma voglio essere egoista consapevolmente, per una volta tanto.
La vedo avviarsi all’uscita, prima di chiudere la porta completamente, però, mi rivolge un’ultima sguardo contrito. Come nella migliore delle più scadenti telenovelas sentimentali, la guardo male, malissimo e pronuncio le ultime parole che metteranno la parola “fine” alla nostra stupida, insignificante e inesistente amicizia: “E non farti più vedere”. 

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Capitolo 33
*** 33 ***


 “Sono proprio fiera di te” Christine mi guarda e sorride, inclina la testa lateralmente.
Tengo gli occhi bassi puntati sulla coperta del mio letto, stropicciata dalle mie dita innervosite. Un giorno fa Adam è uscito dall’ospedale, Louis dice che la sua testa è perfettamente guarita. Ha detto che è tornato il solito Adam di prima, tranne qualche piccola cicatrice e qualche graffio qua e là. Il solito Adam di prima per quanto riguarda il fisico. Per quanto riguarda lo stato d’animo … Louis nella spiegazione non è stato affatto evasivo, anzi. Mi ha tracciato un lungo e dettagliato quadro generale riguardante l’espressione di Adam, la quale a detta sua è spenta, triste e irrimediabilmente inconsolabile. Anzi, ha aggiunto guardandomi con fare supplicante, un rimedio c’è e sarei io.
Peccato che la vecchia Lou imbarazzata, ingenua e piagnucolona se ne sia andata. E forse stavolta per sempre.
“Non mi negherò la mia prima vacanza con gli amici per colpa di un’idiota” asserisco rivolgendole uno sguardo agguerrito.
Già, dopo lunghe e ponderate riflessioni, sono giunta a questa conclusione: per quale motivo dovrei ricominciare ad essere l’asociale infinitamente triste e noiosa che ero prima? Per colpa di Adam? Per colpa di uno come Adam? Oh, assolutamente no. Non l’avrà vinta. E quando mi vedrà arrivare la mattina della partenza brucerà dentro. Non gli permetterò di farmi soffrire ancora. Si è giocato la carta dell’abbandono, la carta dell’orfanotrofio e del sentirsi continuamente abbandonato e nessuno può sapere quanto mi dispiaccia per la sua situazione. Io gli ho offerto aiuto, gli ho offerto amore, lo amavo (lo amo, anche se sto cercando di convincermi del contrario) ed ero disposta a tutto pur di averlo accanto. Evidentemente il mio aiuto non era abbastanza, dal momento in cui ne è andato a cercare altro tra le tette di Eleanor. Ma non l’avrà vinta, non mi stancherò di ripeterlo. Più lo ripeto e più me ne convinco. Provo una strana sensazione, questa rabbia incolta che mi porto dentro mi dà una scarica di adrenalina assurda, e la cosa mi piace. Avverto il potere che mi scorre nelle vene, tanti globuli rossi eccitati e agguerriti, armati di frusta e coltello stretti nelle loro mani affusolate.
Christine mi stringe in un abbraccio. “Brava, così ti voglio, Lou. Basta piangere!” getta all’aria dei fazzoletti stropicciati, i quali svolazzano giù dal letto, ammosciandosi in mezzo al pavimento.
Oh si, un’altra mia caratteristica frequente sono sicuramente gli sbalzi d’umore: cinque minuti fa mi sentivo affogare tra le lacrime, i fazzoletti inzuppati sembravano finire sempre troppo presto.
“Basta morire dietro a chi ci tratta male!” mi prende il mento tra le mani. “Mi hai sentita, Lou? Gliela farai pagare”
Christine è la fiamma e io sono la miccia che brucia. È soltanto una questione di secondi, l’esplosione è dietro l’angolo.
“Indifferenza: giocherò la carta dell’indifferenza, vedrai che tornerà da me non appena farò un fischio” mormoro guardando eroica la finestra aperta.
“No Lou. Adam ha ventitré anni, conosce l’animo femminile meglio di quanto noi crediamo. Devi avere un atteggiamento normale, ma stizzoso, amichevole, ma scostante. Mi segui?” Christine mi schiocca le dita davanti agli occhi.
“La verità? No” rispondo sincera.
“Devo proprio insegnarti tutto, eh?” sospira saccente la mia amica, si ravvia i capelli con una mano, poi mi guarda. “Devi comportarti come se fossi ancora amica di Adam. Ma non devi essere una vera amica. Voglio dire: niente abbracci o smancerie, sia chiaro. Devi essere … non so come dirlo … devi essere scontrosa, ma in modo simpatico. Battutine acide, frecciatine, questa roba qui. Lo farai sentire un verme, fidati di me. Soltanto poi, tornerà da te strisciando” conclude con aria soddisfatta. Poi alza l’indice e mi guarda confusa. “Ma noi non vogliamo che torni, non è vero Marylou?” mormora con tono ovvio.
Scuoto la testa cercando di essere convincente, ma l’unica cosa di cui convinco Christine è il fatto che sto soffrendo come un cane, che anche se davanti l’impressione che do è quella di una ragazza super incazzata e agguerrita, dietro sono solo una ragazzina raggomitolata in un angolo, che singhiozza sommessamente.
“N-no, certo che no” balbetto.
Christine si porta la testa fra le mani. “Come devo fare con te” allunga la vocale finale con fare lamentoso.
Ridacchio divertita, poi mi interrompo all’improvviso. “Mi faresti un favore immenso?”
“Oltre condividere i miei indispensabili consigli con te?” si lucida la spalla con fare vanitoso e dopo sorride. “Spara, su”
“Vorrei incontrare Eleanor” seppure la mia espressione rispecchia di molto quella di un killer folle, uno di quelli che vanno in giro con una motosega elettrica grondante di sangue fresco, Christine annuisce accomodante.
Venti minuti dopo siamo al solito bar, il Sole non è alto in cielo ma sta per andare a riposarsi, lasciando il posto libero alla Luna. È stanco e affaticato, gli sforzi del giorno gli pesano sulla schiena come fossero macigni.
Quando vedo Eleanor venire verso di noi in lontananza, mi sento catapultata in uno di quei film western, con tanto di cowboy, cappelli e lazzi stretti nelle mani. La pistola la tengo nascosta nel cavallo dei pantaloni, al collo una bustina col rifornimento di polvere da sparo. Ci sono addirittura le balle di fieno che rotolano, le persiane delle case che le madri di famiglia serrano per non far vedere ai bambini il sangue che macchierà la terra brulla. Socchiudo gli occhi da gatta e li punto in quelli di Eleanor, che evitano i miei accuratamente.
Paura, eh?
“Stai calma e prendi un bel respiro” Christine mi sussurra in un orecchio cercando di avere un effetto calmante. Peccato che non è una camomilla e il killer che è in me glielo fa ben notare.
“L’unica cosa che prenderò saranno i suoi capelli dopo che glieli avrò strappati dalla testa a uno a uno” glaciale, esibisco un agghiacciante sorriso che viene intercettato dallo sguardo di Eleanor. Noto un rallentamento nei suoi passi e devo impiegare tutta la mia forza per impedirmi di correrle addosso e gettarla a terra.
Christine, capendo che nulla mi farà cambiare aria, si allontana di qualche metro dal mio corpo fremente e rimane ad osservare la scena.
Eleanor si avvicina, ci dividono ormai solo pochi passi. Se allungo un braccio le sfioro il naso.
“Ciao Lou” mormora, i suoi occhi sfuggono ai miei, si poggia le mani sui fianchi e ticchetta col piede sull’asfalto squagliato.
Ha anche la faccia tosta di mostrarsi annoiata! I globuli rossi killer che mi scorrono nelle vene non ne possono più, saltellano da una parete all’altra, le vene mi tremano impazzite, ogni cellula del mio corpo vibra invitandomi ad attaccare, come fossi un ghepardo in attesa della sua preda. Solo il mio cervello, una minuscola e ignota parte del mio corpo, sembra invitarmi a mantenere un basso profilo, insomma, siamo umani, non animali. Gli umani si parlano, gli animali vanno avanti a ringhi e morsi.
Ad ogni modo, non bisogna sempre fare la cosa giusta, no?
Un istante dopo aver formulato quel minuscolo pensiero mi bastano pochi secondi per inviare un veloce messaggio a tutti i muscoli del mio corpo che obbediscono accomodanti. “Sei una troia!” mi avvento contro il visetto perfetto di Eleanor assestandole un bello schiaffo sonoro in pieno sulla guancia. La sensazione di soddisfazione e potere che provo in questo momento è immensa, immagino me, in piedi su una roccia scoscesa, il  vento che mi muove maestosamente i capelli. Di fronte alla mia figura eroica, un’enorme massa di fedeli che fanno il tifo e mi acclamano sbracciandosi ad alta voce. Magico.
Mi maledico per non essermi portata dietro una macchinetta fotografica, mi sarebbe sicuramente servita per immortalare la faccia di Eleanor, che è la cosa più bella e soddisfacente che io abbia mai visto fino ad ora. Si porta una mano sulla guancia colpita, la quale sfoggia cinque bellissime dita rossastre, le mie, impresse sul suo volto come fossero un tatuaggio permanente. La sua bocca è aperta a metà, gli occhi sbarrati mi guardano smarriti. Non se lo aspettava, è evidente. Tutti mi hanno sempre vista come la piccola Marylou, che non farebbe male nemmeno ad una mosca, figurarsi ad un essere umano. Ma i tempi cambiano, cari miei.
“Che cosa caz …” la voce stridula di Eleanor mi riempie le orecchie, ma non le permetto di parlare.
Le vado addosso con tutto il corpo, i nostri nasi quasi si toccano, le punto l’indice sulla spalla con fare minaccioso e più che un dito sembra un trapano ben appuntito. “Vedi chiudere questa maledetta boccaccia che ti ritrovi una volta per tutte, perché giuro che te la gonfierò così tanto che non parlerai per una settimana!” le urlo in faccia con un tono di voce decisamente smisurato.
Delle mani, che presumo siano di Christine, mi afferrano per le spalle allontanandomi dalla mia preda. Scalcio furiosa tentando  di liberarmi da questa presa che, ferrea, non dà cenno di voler cedere.  “Lasciami subito!” urlo più forte.
Una signora che tiene per mano un bambino ci passa accanto, tiene la testa bassa e accelera dopo avermi vista. Il bambino viene letteralmente trascinato dalla madre, è troppo assorto ad osservarmi per vedere dove va.
 Devo avere un aspetto terribile: terribile ma maestoso. Si, sono fiera di me.
“Sta calma!” mi mormora delicatamente una voce nell’orecchio. Mi blocco improvvisamente, ogni mio osso si pietrifica, installandosi nella stessa posizione che mantengo invariata da un po’. La voce che ho sentito non è quella di Christine.
“Adam levati di lì. Levati subito” questo è Louis, la sua voce è decisamente più lontana di quella dell’amico, che dev’essere sicuramente un folle.
Mi volto con lentezza estenuante, voglio assaporare con ogni mia papilla gustativa questo momento. Il viso di Adam mi è a pochi centimetri di distanza.
“O ti levi immediatamente dalla mia visuale, o giuro che ti spacco la testa un’altra volta. Se non sei morto nell’incidente, sta sicuro che ti ammazzo io” sto quasi per farmi paura da sola.
Vedo le pupille di Adam farsi enormi, spaventate e terrorizzate dalla mia reazione. Le sue mani lasciano in fretta le mie spalle, lasciandomi la maglietta appena stropicciata. Fa un passo indietro. sorrido glacialmente. “Bravo, così” lo incoraggio con fare teatrale.
Non mi piace menare le persone, cioè, non l’ho mai fatto prima d’ora. Ma la mano con cui ho schiaffeggiato Eleanor mi brucia, e non è una bella sensazione.
Mi volto nuovamente, stavolta verso Eleanor, la cui mano massaggia ancora la guancia indolenzita.
“Spiegami solo perché sei così troia” le ordino, la mia non è affatto una domanda.
“Io non sono una troia” arriccia le labbra e mi fissa scontrosa. “Tu devi essere pazza, tesoro mio, pazza davvero” aggiunge mentre fa qualche passo indietro. “Forse hai battuto la testa per l’incidente, non so” si guarda intorno come per cercare un’approvazione alle battute per niente divertenti che sta producendo la sua testolina bacata.
Sento il respiro crescermi nel petto, di nuovo le cellule del mio corpo vibrano infuriate. Gli schiaffi me li leva proprio dalle mani, non sono io a non avere pazienza. Andiamo, farebbe arrabbiare perfino un monaco!
“Ti consiglio vivamente di farti un esame di coscienza, non so se te l’hanno detto ma non sei affatto perfetta” la informo ironicamente, gli occhi infiammati di rabbia.
“Oh ma vaffanculo” mormora alzando gli occhi al cielo.
Perdo le staffe, di nuovo. Mi avvento contro di lei, di nuovo. Sto per darle uno schiaffo, di nuovo.
Peccato che un bicchiere d’acqua gelata mi venga versato in piena faccia, tarpando le mie ali e uccidendo la mia corsa. Non dico niente, rimango in silenzio a guardare i visi preoccupati e intimoriti di Adam e Christine, entrambi con un bicchiere in mano, le gocce d’acqua che scivolano sulle pareti di vetro.
“S-sei … impazzita. Non sapevamo … c-cosa fare” balbetta Christine apprestandosi a spiegare.
Ostentando una grande nonchalance, mi pulisco il viso dall’acqua e mi porto indietro i capelli zuppi. Mi rivolgo a Christine, concedendomi un ultimo rapido sguardo verso Adam e Eleanor. “Levameli dalla vista” sussurro e, voltandomi, faccio ritorno a casa. 

***
Bene, bene, beeene. In questo capitolo vediamo una Lou un po' diversa dal solito...anzi, direi parecchio diversa! Ma, poverina, capitela, le sta succedendo di tutto e di più ed Eleanor è una vera stronza, andiamo! 
Aaanyway, spero di non aver esagerato mostrando il lato killer di Lou (un lato che, alla fine, abbiamo tutti dentro di noi, no?) e, come sempre, vi chiedo di recensire per farmi sapere se la storia vi piace o meno, se posso migliorare (e si può SEMPRE migliorare) e ... niente, ringrazio tutti quelli che hanno messo la mia storia fra le seguite, le preferite o le ricordate... vi posso davvero amare, grazie *^* 

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Capitolo 34
*** 34 ***


D’accordo, lo ammetto: il mio atteggiamento non è stato proprio di indifferenza, né tantomeno di … come aveva detto Christine? Ah si, acida ma in modo simpatico. Ma quando il sangue mi sale al cervello e mi ribolle nelle vene mi diventa difficile ragionare consapevolmente. Insomma, tendo spesso a perdere il controllo in certe situazioni. Il problema di noi timidi e silenziosi è che ci teniamo sempre tutto dentro, diciamo sempre di “sì” a tutto e tutti, accettiamo ogni proposta al solo scopo di non creare battibecchi o problemi, cerchiamo sempre di accontentare l’altro, anche a discapito di noi stessi. E accumuliamo, accumuliamo, accumuliamo .. ma lo spazio non è infinito. Perciò, una volta riempiti fino all’orlo, anche dopo aver adagiato ogni problema e infelicità dentro noi stessi come fosse una partita di tetris, scoppiamo. Esplodiamo. Saltiamo in aria. Qualsiasi termina va bene, basta che renda bene il concetto simile ad un fiume in piena: dopo giorni e giorni di piogge e freddo, le precedenti secche e magre acque di un fiumiciattolo accolgono a braccia aperte le nuove secchiate d’acqua fresca che gli vengono lanciate dal cielo, una dietro l’altra. La nuova acqua viene accettata di buon grado dal fiume, che ha sete e vuole ingrandirsi. Lui dice: “Ben venga un po’ d’acqua, non posso lamentarmi”. Ma il cielo esagera, gli viene offerta una mano e lui si prende tutto il braccio, tanto il fiume non potrà di certo lamentarsi, buono e accomodante com’è. Peccato che il cielo faccia male i suoi conti. Il fiume, arrabbiato e infuriato, si sente preso in giro. Accomodante non corrisponde a sciocco, così come buono non corrisponde a stupido. Quindi rigetta fuori tutta l’acqua piovuta dal cielo, la butta via, la allontana da sé stizzito, buttandola sui campi, annegando le case, bloccando le auto nel bel mezzo delle strade. E così, da buono che era, il fiume diventa cattivo e tutti inizieranno a guardarlo con fare diffidente, con quegli occhi socchiusi che sottintendono un “Ma guarda, è proprio lui, quel perfido fiume”. Il cielo sarà visto con compassione e pena, la povera vittima della situazione. Ed è questo il destino dei troppo timidi, dei buoni, di quelli col carattere malleabile e imprevedibile.
Domani si parte. Sveglia alle sette del mattino, l’ho già regolata sul mio telefonino. Spalanco la valigia capiente sul mio letto, è ancora vuota. La guardo con un po’ d’apprensione, patendo già per lei il dolore e lo sforzo che la attendono. La prima cosa che vi butto dentro, piegandola e ammassandola alla bell’e meglio in un angolo, è il telo da mare. È in spugna e già da solo occupa circa un quarto della valigia. Accanto a questo ripongo delle comode borsette di vari colori che contengono i miei costumi: ce n’è una nera, una rossa, una blu e una trasparente. Le metto una accanto all’altra, come delle amiche che viaggiano assieme. Poi scelgo qualche maglietta: qualcuna a maniche corte, qualcuna meno bella da usare come sopracostume, qualche canottiera, in questo caso mi sbizzarrisco con i colori. Tre paia di pantaloncini, di cui due jeans e uno bianco: li piego e li infilo sotto le magliette. Nel frattempo che scorro i vestiti nel mio armadio la giornata trascorre scivolandomi addosso, sento il tempo corrermi vicino e poi superarmi e facendomi “ciao” con la mano, si beffa di me. Prendo due abiti, uno è molto scollato, azzurro chiaro, con qualche ricamo all’altezza del seno, proprio sulla scollatura. L’altro è quello nero, attillato e scollato, che ho indossato la sera in cui ho conosciuto Adam. Li metto e li infilo in qualche fenditura che si è aperta tra le magliette già piegate. Come pigiama, non avendo un briciolo di spazio, prendo una maglietta grigia e stinta, con qualche buco qua e là. È di mio padre e mi arriva più o meno a metà coscia, andrà benissimo per la notte. Tanto non deve vedermi nessuno. La metto sopra tutti i panni, accanto ci poso delle infradito rosse. Chiudo la valigia, come nei film provo a sedermi sopra di essa e abbandonando il peso riesco finalmente a tirare la lampo percorrendone tutto il perimetro.
“Dove cavolo sta?!” Jamie entra nella stanza chiudendosi la porta alle spalle. Nemmeno si accorge della mia presenza, mi passa accanto con velocità folle, gli occhi puntati verso l’armadio semi aperto, smuove l’aria intorno a sé col suo passaggio, sento i capelli sventolarmi addosso.
“Che ti sei perso?” domando rialzandomi dalla mia valigia. La trascino giù dal letto, è pesantissima, assumo un’espressione affaticata, lo sforzo è visibile sul mio viso.
Jamie lancia dietro di sé, prendendomi in piena faccia, le sue magliette. Una dietro l’altra mi volano tutte addosso, come fossero aeroplani di carta lanciati in aria a tutta velocità che, scattanti, si afflosciano a terra.
“Dov’è, dov’è, dov’è?” ripete forsennatamente, la sua ricerca ostentata continua senza fermarsi.
Provo ad avvicinarmi, schivo le magliette lanciate come fossi un soldato in trincea, sguardo concentrato e occhi da tigre, movimenti fluidi ma veloci. Quando gli sono vicina, provo posare una mano sulla spalla, scuotendola leggermente.
“Jamie, innanzitutto smettila di tirare la roba” con la mano guido il suo braccio verso il basso, cercando di farlo calmare. “Rilassati” mormoro, lo vedo prendere fiato, l’espressione rimane tirata e il broncio gli si disegna sul viso
“Ti ricordi quella maglietta blu, con la riga bianca sulla schiena?” mi domanda, con lo sguardo ancora rovista nel cassetto ormai quasi vuoto.
La nostra camera sembra un campo di battaglia saltato in aria. Le magliette sono sparse in ogni singolo angolo, un po’ ammucchiate in terra, altre ancora stravaccate sul letto … C’è una maglietta rossa proprio accanto alla porta, la mia mente la codifica come sangue di un soldato ferito, la guerra che ancora imperversa dentro la mia testa.
“Si” rispondo annuendo.
“Che fine ha fatto?!” mi chiede nel panico, si porta le mani tra i capelli.
“L’ho vista …” ragiono sforzandomi, mi mordo il labbro mentre rifletto. “Ah si, mamma l’ha lavata ieri sera. Sarà sul termosifone” lo informo con nonchalance.
Jamie mi avvolge in uno dei suoi abbracci stritolanti e mi schiocca un rumoroso bacio sulla guancia. “Ti adoro!”   
Rido divertita e un po’ sorpresa dai modi improvvisi di questo ragazzo, lo vedo sgattaiolare fuori dalla stanza zampettando sulle sue gambe tornite.
Mi guardo intorno, ravvio i capelli con una mano e sbuffo: devo mettere a posto questo disastro. Mi chino in terra e inizio a raccattare quante più magliette riesco, buttandole sul letto per poi dopo piegarle. Semi nascosta sotto il letto c’è una maglietta nera in microfibra, di quelle che i ragazzi usano come maglie per palestra, o come sottospecie di maglietta della salute. La prendo tra le mani e la osservo bene. È molto simile ad una maglietta indossata da Adam tempo fa …
Dovrei smetterla di pensare ad Adam, ma riesco a trovare un collegamento che lo unisca a qualsiasi cosa: a partire da una maglietta fino ad arrivare ad un pezzo di formaggio. È ciò che rende piccante la mia vita, o meglio ciò che la rendeva piccante.
Devo smetterla di prendermi in giro, utilizzare questo stupido tempo passato … Per quanto vorrei dimenticarlo, ora come ora per me Adam è il presente e in nessun modo riuscirò a gettarlo nel passato. C’è uno stanzino nella mia testa che tiene segregato ogni ricordo riguardante Adam, dalle sue fossette e i suoi occhi verdi, ai suoi abbracci e alle sue carezze. La porta di questo stanzino è sempre aperta e ne proviene una luce accecante, fortissima e bianca che mi illumina lo sguardo ogni volta che lo penso. E non riesco a chiuderla, questa porta, è troppo pesante, troppo grande per essere spostata da sola, non sono abbastanza forte. Così la lascio aperta, spalancata, ognuno può entrare ed uscire a suo piacimento, fruga tra le scatole dei ricordi, ruba qualche emozione pescata qua e là. Ed io, inerme, non posso far altro che fare spazio a tutti, nascondermi dietro la porta a testa bassa, vergognosa delle mie stesse sensazioni, dei miei stessi ricordi. Li guardo regalarmi qualche minuto del loro tempo, qualche momento fugace della loro vita nella quale i pensieri sono tutti dedicati a me. Poi se ne vanno, veloci com’erano arrivati. A tasche piene o a tasche vuote, soddisfatti o insoddisfatti, tornano da dov’erano venuti, la porta dello stanzino sempre aperta.  

****
Buonasera a tutti :D! Mi scuso tantissimo per il ritardo, di solito riesco a pubblicare abbastanza velocemente, solo che in questi giorni ero stanchissima (tipo che alle 21 dormivo sul divano :'D). Questo capitolo fa un po' schifo, lo so, e non succede praticamente nulla, so anche questo, ma è un capitolo di passaggio. Non voglio correre troppo e arrivare subito alla vacanza (anche se so che andando lenta vi faccio soffrire :3), comunque per quanto io mi sia impegnata, mi rendo conto che è proprio un capitolo scarno... Ma pazienza! Spero vi piaccia lo stesso e spero che continuerete a seguire la storia e a recensire.. Mi fa davverodavverodavvero piacere. Vi adoro. Anzi, vi amo. E, se potessi, vi abbraccerei tutti in un abbraccio stritolante stile Jamie, giuro. 
Buona serata  <3 

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Capitolo 35
*** 35 ***


In lontananza vedo la macchina di Louis, lo sportello aperto in attesa di qualcuno che entri. Non ci capisco nulla di automobili, quindi non saprei dire quale modello è. Guardandola da lontano già mi accorgo che dev’essere una di quelle belle macchine formato famiglie, con tanto di tre scomparti per sedili: due davanti, tre dietro e altri tre dietro ancora. Senza dimenticare ovviamente il portabagagli.
I miei piedi si muovono lenti sull’asfalto ancora fresco. Mi sembra già di stare sulla spiaggia, la sabbia granulosa che si infiltra tra le dita dei piedi che è ancora fresca perché il Sole non è arrivato a toccarla.
Con la mano mimo un “ciao” vedendo la testa di Louis voltarsi nella mia direzione, è seduto sul cofano e scribacchia qualche cosa sul suo cellulare. A prima vista mi sembra solo. Porta un paio di bermuda jeans e una maglietta anonimamente bianca. Mi risaluta con un cenno della mano e un sorriso raggiante. Poi si gira velocemente dalla parte opposta, come dovesse comunicare qualcosa di urgente a una persona lì di fianco. Sarà sicuramente Christine.
“Buongiorno Lou, ben svegliata!” Louis scende dal cofano della macchina con un agile salto, poi mi circonda le spalle con un braccio e mi saluta con un bacio sulla guancia. “Dormito male?” mi domanda scrutando la mia faccia. Deve aver notato le occhiaie.
Storco le labbra. “Un po ‘ e un po’” rispondo gesticolando con la mano. “Siamo solo noi?” domando osservandomi intorno.
Leggo un turbinio di emozioni sul viso di Louis, la sensazione finale che mi trasmette la sua espressione, però, è quella di un bambino che ha combinato qualche guaio.
Aggrotto le sopracciglia, poi mi affaccio oltre il corpo di Louis. Scorgo una faccia lievemente divertita ma anche imbarazzata che spunta da dietro il finestrino della macchina, incorniciata da qualche ricciolo nero ribelle.
Nonostante stia facendo di tutto per ostentare indifferenza, menefreghismo e chi ne ha più ne metta, non riesco ad impedire al mio cuore di capitombolare un paio di volte. Già immagino i miei neuroni impazziti sbattere da una parete all’altra senza controllo.
“Ah” mormoro, sento le guance avvampare violentemente quando degli occhi verdi incontrano i miei.
Le sue labbra morbide si colorano di un sorriso intimidatorio, come a dire “Guarda, sono qui e non ti darò tregua nemmeno per un attimo”.
Mi passo una mano tra i capelli, li trattengo tra le dita e poi li lascio pettinandoli. Sospiro e butto uno sguardo all’orologio. Louis rimane in silenzio, rimane tra me e Adam senza fare un movimento. Non è girato né verso l’uno, né verso l’altro, sembra essere neutrale in questo scontro. Come fosse la Svizzera, Louis se ne rimane al centro, senza prendere nessuna decisione, senza mettere le mani avanti. Se ne sta in seconda fila, si nasconde dietro uno alto e nel frattempo cerca il modo per diventare invisibile.
I minuti che trascorrono sono appesantiti dal silenzio che li avvolge, dopo un po’ diventano insostenibili da sopportare, così Louis si sposta dalla sua posizione centrale per riandarsi a sedere sul cofano. Adam, ancora dentro la vettura, fa pressione sulla maniglia aprendo lo sportello. Mi guarda, io guardo lui, entrambi abbiamo le labbra tese in una linea dritta.
“Avevo caldo” dice fissandomi, come per giustificarsi di aver mostrato la sua faccia. La sua faccia da traditore.
Faccio un cenno col capo, poi giro lo sguardo in un’altra direzione.
“Hai intenzione di ignorarmi per tutta la vacanza?” lo sento domandarmi dopo un’altra pesante manciata di secondi.
Il mio istinto è quello di urlargli in faccia, con tutto il fiato che ho, e dirgli “Si. Si, cazzo, ho intenzione di ignorarti per tutta la vita perché mi ci hai fatto credere e poi mi hai scaricato nel momento migliore, come fossi un giocattolo vecchio”. Ma sto zitta. Mi mordo la lingua e il sapore di sangue e ruggine mi si espande per tutta la bocca, così deglutisco e mi sforzo di non fare una faccia schifata. Riesco addirittura a non guardarlo, i miei occhi rimangono fissi verso il fondo del marciapiede, dal quale mi sembra di scorgere Jamie in lontananza.
“Marialucy!” cantilena Adam storpiando il mio nome per provocare in me una qualsiasi reazione.
È una cosa che detesto essere chiamata in quel modo, lui lo sa bene.
Pazienta, Lou, qualche minuto e potrai parlare con Jamie.
Jamie arriva trafelato e di corsa, mi si para davanti posando le mani sulle ginocchia e chinandosi verso terra per riprendere fiato. Sulla schiena porta uno zaino di notevoli dimensioni che sembra sia sul punto di esplodere. “Ho fatto …” pausa per riprendere fiato. “Prima che … potevo” si scusa.
L’idea iniziale era quella di venire all’appuntamento insieme, il che mi avrebbe risolto il momento decisamente imbarazzante di poco fa. Jamie doveva però sbrigare una piccola faccenda con Jackson, mi ha detto, uno di quei discorsetti padre-figlio, robe da maschi, ha specificato. Perciò, mi è toccato andare da sola e, a lui, arrivare di corsa.
Ha le guance chiazzate di rosso, posa lo zaino rumorosamente a terra, poi mi stampa un bacio sulla guancia. “Hai dormito male stanotte, t’ho sentita lamentarti” mi dice, nel frattempo stringe la mano a Louis e lo ringrazia per aver accettato il suo praticamente auto-invito senza problemi.
“Ma figurati, troverò il modo di farmi ripagare il favore!” scherza Louis, gli dà una pacca sulla spalle e Jamie ride a sua volta.
Adam sta appollaiato sul sedile della macchina e a guardarlo da qui mi sembra uno di quegli avvoltoi incastonati tra i rami degli alberi come fossero sassi incastrati in una roccia. Si abbraccia le ginocchia con le mani e osserva la scena con aria interessata e arcigna, gli occhi scattanti seguono ogni movimento del mio nuovo fratellino, codificano le sue mosse lo classificano come vittima o possibile rivale. Tremo quando Jamie fa all’avvoltoio uno dei suoi sorrisetti cordiali ma divertiti. Allunga la mano.
“Ciao Adam”.
Adam non allunga a sua volta la mano, ma si limita a fissare il ragazzo con un’espressione sconcertata, come a pensare “Questo stupido ragazzino è pazzo, non sa contro chi si sta mettendo”.
Jamie, il cui sorriso rimane scolpito e in bella vista sulle labbra, gli afferra la mano con forza per stringergliela. Il ginocchio di Adam scivola giù dal sedile, bloccato prima dalle sue braccia chiuse a cestino. I suoi occhi, da arcigni che erano, diventano adirati ed io penso che se gli sguardi potessero uccidere Jamie avrebbe già raggiunto il record di morti giovanili tutto da solo e in una sola manciata di minuti.
“Io spero vivamente che potremo mettere da parte i rancori (di cui fra l’altro non ne ho mai capito il senso) e passare questa settimana in santa pace. Che ne dici?” propone Jamie con gli occhi carichi di speranza.
Io e Louis ci passiamo uno sguardo preoccupato e titubante riguardo la possibile reazione di Adam. Come fossimo legati da un filo, ci muoviamo entrambi in sincrono nello stesso istante e ci avviciniamo ai due battaglieri.
“Io spero vivamente che tu ti faccia i cazzi tuoi e in questa settimana mi lasci in santa pace” risponde Adam, la faccia stizzita e il tono della voce scorbutico.
“Ma guarda che faccia tosta!” intervengo spostando Jamie con uno spintone. “Hai pure il coraggio di trattare male gli altri?”
“Certo. Fin quando sei per i fatti tuoi ti senti liberissima di ignorarmi come fossi l’ultimo dei deficienti, ma quando entra in ballo il tuo piccolo Jamie, oh, si salvi chi può dalla furia Marialucy” dalla sua voce trasparisce del pesante sarcasmo ed io devo impiegare tutto il mio autocontrollo per non spaccargli la faccia seduta stante.
“Non chiamarmi in quel modo” mormoro glaciale.
Si alza dal sedile, mi punta gli occhi verdi taglienti nei miei che resistono allo scontro. Spalma il suo corpo contro il mio, la fronte sfida la mia e i nostri nasi si sfiorano. “Sennò che fai?”
Mi prudono le mani, sento i globuli rossi killer metter mano alle pistole, corrono impazziti nelle mie vene che pulsano forsennatamente. È Louis a portare in salvo la situazione, prendendomi per un braccio e tirandomi via.
“Stammi lontano” i miei occhi rimangono fissi in quelli di Adam.
“Non capisci niente” mormora lui sconfortato, ritorna a sedersi nel suo sedile a testa bassa. Dal tono che usa si intende che non ha alcuna voglia, o forse non ha la forza, di spiegarmi ciò che non capisco.
Purtroppo c’è sempre qualcosa che non che capisco. Adesso sono io il problema, ovviamente.
“Musoni! Vedo che comincia bene ‘sta vacanza, no?” Christine si posa ironicamente le mani sui fianchi e ci guarda come fosse una maestra che ha colto in flagrante due alunni che si litigano il pezzo di pongo più grande. “Buongiorno a tutti, comunque” aggiunge dopo poco sorridendo.
Dietro di lei c’è Belle, che fa un cenno con la mano. Non frequenta il nostro gruppo da un po’ e, non essendosi tenuta al corrente delle novità, ora si trova un po’ spaesata.
Col dito mimo il gesto del “dopo ti spiegherò” e lei annuisce rassicurata. Poi nota Jamie e nel suo sguardo leggo quell’interesse primordiale presente negli occhi di tutte le ragazze, quell’occhio da felino che quando adocchia la preda sente sussurrarsi nella mente “è già mia”. Avanza di qualche metro e allunga la mano verso Jamie.
“Sono Belle” mormora ed esibisce un largo sorriso smagliante.
Jamie stringe la mano cordiale, sorride a sua volta. “Jamie, il fratellastro di Lou, ma penso lo saprai” spiega esaustivo.
“Più  o meno” storce le labbra Belle.
Christine batte le mani. “Ok, presentazioni fatte. Ora vediamo di comportarci da bravi bimbi, si?”
“Purtroppo alcune persone …”
“Adam sta zitto, su” lo fa tacere Christine con un gesto della mano. Attraversa gli ultimi metro di strada rivolgendomi uno sguardo ammonitore mascherato da un sorriso per poi raggiungere Louis.
“Amore” la abbraccia lui avvolgendola contro il suo petto.
Si scambiano un bacio lungo e appassionato incuranti delle quattro paia di occhi che assistono alla scena con aria imbarazzata. Tutti ci voltiamo da un altro lato per lasciargli un po’ di privacy. Adam si schiarisce la gola, so che sta cercando di far incontrare i miei occhi coi suoi, ma non voglio cedere. Non che io abbia paura di farlo. Certo. Non ho mica paura. Figuriamoci.
Oh, sono una frana.
“Avete sette lunghi giorni davanti a voi per sbaciucchiarvi e fare quello che vi pare ma ora, vi prego, possiamo partire? Mi sto squagliando sotto questo Sole!” è Belle a interrompere il pesante silenzio che si aggira attorno a noi.
Christine se la ride divertita quando scioglie l’abbraccio da Louis, il quale fa il giro della vettura e salta sul posto di guida. Spinge il clacson due volte. “Gruppo vacanze 2013 … si parte!” asserisce eccitato.
Apro l’ultimo sportello della grande automobile mentre Jamie mi segue. Belle lo supera, mi sussurra all’orecchio facendomi sobbalzare. “Fammi sedere accanto a lui, ti prego!”
Le mie spalle ricadono giù scocciate. Mi volto per lamentarmi ma i suoi occhi da cucciolo mi colpiscono dritti al cuore come fossero una freccia appuntita. Dovrei comprare un manuale che mi insegni a dire di no. Un sano “no” nella vita non fa mai male.
“E va bene” la faccio passare.
“Mettetevi due a due, nei terzi sedili ci mettiamo qualche valigia, altrimenti il bagagliaio scoppia” ci ordina Louis urlando dal posto di guida. Christine si siede accanto a lui, ha la sua borsetta dei trucchi sempre sotto mano, la guarda a vista come fosse un baule di diamanti.
Adam rimane sempre appollaiato nel suo sedile, situato nel settore intermedio della macchina. Al mio fianco, Jamie e Belle si siedono nell’ultimo scomparto e, dall’altro lato, affacciato al finestrino,  vi poggiano lo zaino pesante e nero di Jamie.
Lo sapevo. Lo sapevo, cavolo.
“Lou muoviti!” mi intima Christine voltandosi a vedere quale sia il problema.
La fulmino con lo sguardo, poi faccio il giro della vettura trascinandomi dietro la valigia, le cui rotelle strisciano rumorosamente sull’asfalto che incomincia a squagliarsi. Apro lo sportello, Adam si volta stupito a guardarmi. Apre la bocca come per dire qualcosa, l’ombra di un sorriso strafottente sul viso. Probabilmente è il mio sguardo omicida a farlo tacere, così richiude la bocca e se ne ritorna chiuso nel suo mondo personale. Sbatto la valigia sul sedile centrale, la metto in piedi, le rotelle schiacciate contro il tessuto nero, poi mi accomodo sul posto vicino al finestrino. Utilizzerò la valigia come divisorio, almeno non dovrò vedere la sua faccia irritantemente bella durante tutte le quattro ore di viaggio.
Louis mette in moto la macchina che si accende con un potente sbuffo, dà di gas, poi si volta abbracciando il poggiatesta di Christine per uscire dal parcheggio. “Non ci vedo niente, Lou, abbasseresti la valigia?”
Sono sicurissima che il suono che mi giunge alle orecchie è la risata divertita e scortese di Adam, che si copre la bocca per nascondersi e darsi un tono.
Idiota.
Abbasso la valigia con un gesto scortese, incrocio gambe e braccia, assumendo la posizione più chiusa che posso.  Adam invece, non appena l’auto parte e si immette in strada, si stravacca sul sedile, talmente tanto che il suo ginocchio quasi sfiora il mio. Mi ritraggo infastidita, anche se ogni cellula del mio corpo brama quel minuscolo contatto. Con la coda dell’occhio lo controllo, memorizzo ogni suo movimento: si scuote i riccioli, si mangia l’unghia dell’indice, poi si morde il labbro. Quando si volta verso di me ruoto velocemente gli occhi oltre il finestrino, ma il colorito rosso delle mie guance, infido com’è, mi tradisce senza ritegno. Ancora la sua risatina beffarda mi riempie le orecchie. Sarà un lungo viaggio, su questo non c’è dubbio.  

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Capitolo 36
*** 36 ***


Louis parcheggia in uno spiazzo cementato quasi del tutto vuoto. Si posizione in mezzo al piazzale in diagonale, poi spegne la macchina e i sedili smettono di tremare.
“Cristo santo!” sento Jamie sbuffare dietro di me, il rumore del suo sportello che si apre.
Mi volto a vedere cosa fa e faccio appena in tempo a vederlo piegato in due, la bocca aperta e lo sforzo disegnato sulla sua faccia.
“Sta vomitando anche gli occhi …” constata Belle grattandosi perplessa la testa.
Jamie prende una boccata d’aria pulendosi la bocca con un fazzoletto stropicciata ritrovato nella tasca.
Louis scende dall’auto, lo vedo scorrermi davanti al finestrino e posare una mano sulla spalla di Jamie. “Mi dispiace, non credevo di guidare così male” ammette desolato.
“No, non sei tu” Jamie prende un lungo respiro e si porta una mano allo stomaco. “Non avrei dovuto far colazione. A me dà fastidio anche andare in triciclo” ha un colorito giallastro.
Il tempo di voltarmi a prendere la valigia per uscire e raggiungere gli altri che ritrovo i due sedili accanto a me vuoti: non vi è traccia né della mia valigia, né di Adam. Mi affaccio sotto il sedile, magari è scivolata qui sotto. Nessuna traccia. Non è possibile, pochi secondi fa giurerei di averla vista accanto a me.
Proprio nel momento in cui sto per affacciarmi nei sedili dietro, sento un pugno bussarmi sul finestrino: Adam ride aldilà del vetro, indica in basso, proprio dove si trova la mia valigia.
Alzo gli occhi al cielo e apro lo sportello prendendo in pieno la testa di Adam, il cui sorriso abbandona in fretta il posto ad un’espressione di dolore.  “Oh Dio, mi dispiace così tanto!” porto le mani alla bocca, fingendomi addolorata. “Grazie per la valigia, comunque” affermo decisa e gli strappo di mano il manico, ancora chiuso tra le sue dita.
Cammino dirigendomi verso il mio fratellastro, il suo colorito sta lentamente ritornando ad essere il rosa salutare di una volta. Mentre mi allontano di qualche passo sento Louis ridere di gusto. “Bella botta, amico!” scherza rivolgendosi ad Adam, dal quale mi pare di sentir provenire un borbottio soffocato.
Christine mi squadra dapprima seria, dopo si concede un sorrisetto.
“Mi aspettavo qualche complimento in più” le sussurro chinandomi verso di lei, che si limita ad alzare gli occhi al cielo.
Belle si affaccia alle mie spalle, mi schiocca un bacio sulla guancia. “Credo che tu mi debba fare un enorme resoconto dell’ultimo mese, cara” mi si pianta di fronte e incrocia le braccia.
“Se le signore hanno finito di prendere il tè …” inizia Louis.
“E di spaccare la faccia alla povera gente …” sento farfugliare Adam, che si avvicina a testa bassa.
Lo fulmino con un’occhiataccia, alla quale lui risponde facendomi la linguaccia, le labbra a cuore e  il segno rosso della botta sul sopracciglio.
“Dicevo … se le signore hanno finito con le loro chiacchiere da salotto, vi posso mostrare la strada verso quella che sarà la nostra umile reggia per questi giorni” Louis si atteggia da maggiordomo, gli mancano solo lo smoking e il papillon nero stretto in collo. Detto fatto, Louis prende sotto braccio Christine, i due fanno da capo alla fila disordinata e rumorosa che formiamo alla bell’e meglio e cominciano a dirigersi in un vicolo costeggiato da alberi frondosi e alti.
Jamie mi ciondola accanto con aria assente, sembra uno zombie di un film horror di quelli scadenti, di quelli che i gruppi di amici si vedono tirandosi popcorn di tanto in tanto per ravvivare quel mortorio in cui si è trasformata la serata. Gli do una spallata, lo vedo traballare verso il marciapiede e faccio appena in tempo ad acchiapparlo, prima di vederlo sfracellarsi a terra.
“Sicuro di sentirti bene?”
“Bene no. Meglio, forse si” la sua voce è un sussurro e il colorito è più simile ad un lenzuolo piuttosto che a quello di un essere umano.
Non gli credo, così infilo il suo braccio sulla mia spalla e afferro la sua mano sorreggendolo. “Coraggio. Louis, quanto manca?” alzo la voce per raggiungere il ragazzo che ci fa da guida. Lui si gira e mi fa un cenno con la mano.
“Due minuti e ci siamo” svolta a sinistra in una strada più larga, sempre circondata dal verde.
Se si fa attenzione in lontananza si riesce a sentire il rumore del mare, le onde che allo stesso tempo capricciose e armoniose litigano tra loro per arrivare ad abbracciare la spiaggia per prime. È così rilassante che non vedo l’ora di stendermi sotto un ombrellone.
Louis si ferma con uno scatto, saltellando ci indica il palazzo di fronte a noi: è pitturato di un azzurro chiaro, quasi si confonde con il cielo. La facciata che ci si apre davanti gli occhi mostra fiera un bel po’ di balconi, la ringhiera è di un marrone cioccolato, alcune piante si affacciano sulla strada, sembrano sorriderci per darci il benvenuto. L’entrata del palazzo è coperta da un cancelletto, anch’esso marrone come i balconcini, che è aperto a metà, come ad invitarci a fare in fretta. Il giardino condominiale è grande e curato, qualche sprazzo di margherita dà colore al prato rendendolo vivo, sembra quasi in movimento nonostante non tiri neanche un filo di vento. Louis ci fa strada, ci mostra il citofono.
“Zambecchi, questo qui è il cognome di mia cugina” indica l’ultimo tastino in basso, una targhetta adesiva scritta in penna mostra un nome sbiadito dalle gocce di pioggia e dalla salsedine che si mischia all’aria marina. “Abita nell’attico, se andate un po’ indietro lo vedete”
Tutti facciamo come dice, indietreggiamo di una decina di passi, poi tiriamo su la faccia come fossimo cani che sniffano l’odore di pizza nell’aria, il collo piegato all’indietro, gli occhi che roteano cercando la famigerata umile reggia, così detta da Louis. Poi lo vediamo, o meglio, vediamo la ringhiera a rombi in legno color cioccolato, le foglie delle piante che si infiltrano e ci fanno cenno di salire su, di visitare la casa. Il Sole bacia ogni singola foglia, ogni singolo rombo della ringhiera. Sembra un piccolo paradiso in mezzo ad un deserto. Sembra il Purgatorio di Dante visto dal basso dell’Inferno, il monte della salvezza dal quale spuntano i raggi del Sole.
Louis ci fa strada, ci inoltriamo all’interno della palazzina, dai vetri delle finestre filtra la luce che ci illumina il cammino. Le scale sono a chiocciola, le percorriamo e quasi tutti ci lamentiamo della testa che gira.
“Un bell’ascensore no?” sbuffa Jamie.
“È una cittadina che non conterà  nemmeno trecento abitanti, non aspettatevi lussi come un ascensore” ci zittisce Louis.
Mi trascino la valigia a fatica, sbatte ad ogni scalino che salgo, avverto le rotelle che si spezzano passo dopo passo. Mi blocco per un istante, mi asciugo il sudore che mi imperla appena la fronte. Poi riprendo la mia ascesa titanica, il muscolo del braccio contratto, le dita chiuse che stringono la maniglia della valigia. Il peso diventa pochi secondi dopo leggero e facilmente sostenibile, così mi volto stupita dietro di me.
“Cammina, dai” mi incita Adam che sostiene la valigia tenendola in braccio come fosse un sacco di patate.  
“Posso fare da sola” ribatto, mi volto e riprendo la scalata, ma Adam non sembra voler rinunciare.
“Eccoci!” Louis batte le mani, lascia cadere la valigia a terra che si schianta con un tonfo. Rumoreggia con le chiavi, poi la porta si spalanca.
Uno dietro l’altro facciamo il nostro ingresso, i nasi per aria, le valigie trascinate appresso distrattamente. Il pavimento della casa è formato da piccole piastrelle bianche quadrate contornate da un bordo nero di pietra. I muri bianchi non sono affatto immacolati, qualche macchia nera e qualche graffio dimostrano che la casa è stata vissuta, eccome. Proprio di fronte all’entrata si staglia un breve corridoio che svolta sulla sinistra. Louis ci mostra fiero l’angolo cucina, i fornelli e il frigorifero addossati alla parete, un grosso orologio che torreggia sopra di essi scandisce il ritmo delle nostre vite. Dall’altro lato vi è, invece, un divano ad angolo rosso fuoco, una forte nota di colore in una stanza così spoglia. Non vi sono cornici, né tantomeno quadri. I muri sono spogli, lasciati liberi dal peso di chiodi e puntine. Di fronte al divano una tv di media grandezza, lo schermo nero è molto impolverato, la luce ne evidenzia la sporcizia arrampicatavi sopra. Lateralmente vi è invece una porta a vetri, la tenda è aperta, riusciamo quindi a scorgere l’ampia terrazza, le maioliche che costruiscono il pavimento e un piccolo chiosco, costituito da un largo tavolo in legno circondato da alcune sedie. Litighiamo qualche secondo tra di noi, prima di decidere di riprendere il giro della casa anziché stendere i nostri asciugamani in terrazza e rilassarci per qualche minuto. Louis ci fa strada, lo seguiamo e svoltiamo l’angolo. Ai lati di un altro piccolo corridoio si stagliano quattro porte in legno scolorito. Entriamo nella prima stanza, è abbastanza ariosa come camera, non molto ammobiliata vanta solo la presenza di un letto dall’aspetto comodo e morbido, due comodini da entrambi i lati con due abat-jour che sembrano d’epoca e un armadio che sembra ancora più vecchio delle lampade.
“Qui dormiranno due delle ragazze” ci informa Louis, ma prima di lasciarci parlare ci fa cenno di stare zitte e ci scorta nella stanza successiva.
È il bagno, abbastanza piccolo rispetto le altre stanze. Le pareti, come il pavimento sono di un giallo ocra spento e triste. L’unica nota di chiarezza e luminosità è la vasca che risplende di un bianco lievemente opaco: farà la stessa fine del triste giallo ocra. Un tappeto arancione spelato sta sdraiato a terra, molto impolverato anche quello. Il lavandino, il gabinetto e il bidet sono ricoperti dal cellofan. Usciamo nuovamente dalla stanza per essere condotti in un’altra camera, la penultima. Questa sembrerebbe la stanza dei bambini, due letti piccoli e separati da un comò in mogano, al di sopra di esso una lampadina a batteria, probabilmente scarica. La stanza è decisamente più piccola dell’altra, anche se a forza vi è stato infilato anche qui un armadio dal legno anziano e consumato.
“Qui potrebbero dormire il ragazzo e la ragazza che avanzeranno dalla distribuzione dei letti, direi” conclude Louis. A quelle parole i miei occhi corrono subito a quelli di Adam, che sono già voltati a fissarmi, come se conoscessero  i miei pensieri, come se prevedessero ogni mia mossa. Arrossisco violentemente maledicendomi per essermi tradita così stupidamente. Prima di abbassare lo sguardo, scorgo la fossetta che tanto amo sulla guancia di Adam, il quale sta certamente ridendo di me.
 Louis ci mostra l’ultima stanza, lo fa con enfasi da venditore di materassi, come se fosse l’ultima offerta della stagione. “La stanza dei ragazzi, signori miei” annuncia, indica un letto molto simile a quello del primo incontrato, con l’unica differenza che questo qui non è coperto nemmeno da un lenzuolo. Vi è soltanto il materasso spoglio, le coperte sono ammassate in un armadio che mostra un’anta semiaperta. “Possiamo smistarci nelle camere. Chi vuole stare dove? Ovviamente quello che ho detto io è soltanto un’idea buttata così” dicendo in questo modo, Louis avvolge Christine sotto la sua spalla. “Noi, ad esempio, vorremmo stare insieme …” mormora quasi intimidito.
“Prendete la stanza coi lettini?” interviene quindi Jamie gesticolando.
Tutti quanti ci concediamo un risolino divertito.
“Preferiremmo una delle due col letto matrimoniale, in realtà” specifica Christine ridendo.
Jamie arrossisce e asserisce con un grande “Ooooh”.
“D’accordo, basta che non fate troppo casino la notte” Adam dà di gomito a Louis, il quale gli fa l’occhiolino. Al tutto segue una sberla di Christine assestata sulla testa del suo ragazzo.
Stavolta evito accuratamente lo sguardo di Louis, soffermandomi sul bianco opaco dei muri.
“Allora aggiudicato, io e Christine ci prendiamo questa stanza. Voi fate come volete” Louis si getta sul letto rimbalzando sul materasso. Le doghe fanno rumori poco piacevoli e un po’ preoccupanti.
“Dai che schifo, ci sarà tanto così di polvere!” Christine mima la misura con le dita.
“Beh, sceglietevi una stanza e svuotate le valigie, così poi ci cuciniamo qualcosa e ce ne andiamo in terrazza, che ne dite?” propone Louis.
Tutti siamo d’accordo e annuiamo, usciamo dalla stanza in sincrono, uno dietro l’altro. Ci ritroviamo in corridoio con le mani in mano a guardarci di sottecchi. Decido di rompere il silenzio.
“Beh, credo sia ovvio che io e Belle dormiremo di là” indico la stanza col letto matrimoniale. “E tu e Jamie …” non concludo la frase, lo sguardo di Adam mi fa salire il nervoso. Sorride. Sorride sempre, quel sorriso beffardo che sembra perennemente prendermi in giro. “Problemi, caro?” lo incalzo. Con la coda dell’occhio scorgo Jamie e Belle guardarsi perplessi.
“Se io volessi dormire nel letto matrimoniale? Soffro di mal di schiena, non vorrei passare la vacanza piegato in due dal dolore, cara” mi sfotte.
“Non mi interessa, dal momento in cui anche io voglio dormire nel letto matrimoniale” ribatto infervorata.
“Dai, tanto alla fine dormiremo si e no due ore a notte, non credo che sia …” Belle prova a calmare le acque ma gli sguardi, il mio e di Adam, la fanno tacere e ritirare la sua timida proposta.
“Allora ho la soluzione” Adam batte le mani. “Metà letto è tuo, l’altra metà è mia” conclude, la fossetta è inghiottita dalla brillantezza dei denti bianchi. Allunga la sua mano affusolata verso di me, vorrei scostarmi ma rimango ferma. “Che dici?” il sorriso non sparisce dalle sue labbra.
Dico di no” la mia voce è ferma e irremovibile, un po’ più convincente della mia espressione speranzosa: non so perché, ma l’idea di condividere il letto con Adam non mi infastidisce poi così tanto.
Con mia enorme sopresa e, lo ammetto, dispiacere, Adam demorde velocemente, fa spallucce e trascina la sua valigia nella stanza dei bambini.
“Andiamo Jamie” mormora, la voce spenta e le spalle ricurve.
Jamie mi rivolge uno sguardo un po’ basito e un po’ spaventato, io gli faccio l’occhiolino per incoraggiarlo. Segue Adam e viene inghiottito nella stanza.
Mi addentro nella camera assieme a Belle e poso la valigia con fatica sul letto. La apro lentamente, ho timore che mi scoppi in faccia. Fortunatamente, non avviene nessuna esplosione e io incomincio a distribuire i panni nei cassettoni e sulle stampelle dell’armadio.
“Mh …” sospira Belle, piega un paio di pantaloncini neri microscopici, li mette in un cassetto.
Mi giro e la guardo, in attesa che parli. Niente, rimane in silenzio.
“Mmh …” sospira di più, al che io mi giro verso di lei e la fisso intensamente.
“Che succede?” le chiedo.
“Niente, è che …” lascia cadere la frase nel vuoto, la vedo ruzzolare giù e infrangersi a terra.
“Andiamo Belle” la incoraggio.
“Sarebbe stato bello stare in camera con Jamie …” mormora con l’espressione vaga, rotea gli occhi dalla parte opposta come per evitare una brutta reazione.
“Stai scherzando?” spalanco gli occhi.
“Non dirmi che sei gelosa del tuo fratellastro?” Belle allarga le braccia.
“Non è quello il problema e tu lo sai” la correggo.
“D’accordo,  ok. Cosa ti avrà fatto mai per beccarsi sportelli in faccia, occhiatacce e robe simili?” domanda infine esasperata.
“Siediti. Ti devo raccontare un bel po’ di cose” le ordino e la vedo coricarsi di fretta sul letto, incrocia le gambe e mi osserva con il viso inclinato lateralmente, in attesa del mio resoconto.

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Capitolo 37
*** 37 ***


Dopo aver spiegato le tristi vicende mie e di Adam, compreso il perché dell’assenza di Eleanor, completamente sparita in questi ultimi tempi, Belle non dà ancora segni di voler accettare il suo allontanamento da Jamie. Sostiene che questa sia una “cavolo di occasione perfetta” e che io le stia praticamente rovinando la festa. Ogni giorno che passa mi convinco sempre di più che quando stavo sola senza mai uscire stavo decisamente meglio di così. La solitudine aveva un sapore sciapo, insignificante, eppure ora come lo rimpiango. Quello stare tranquilli con sé stessi, nessun pensiero nella testa, nessun problema a cui far fronte. A volte la sicurezza di potersene stare soli a fare ciò che vogliamo, senza scadenze, senza orari … a volte si ha bisogno solo di questo.
Sta di fatto che le disposizioni dei letti rimangono quelle che sono ed io devo sorbirmi per tutto il pranzo il muso di Belle.
Ovviamente non basta solo Eleanor che fa la zoccola col mio (ex) ragazzo, ora anche Belle che fa l‘offesa perché ci deve provare con mio fratello. Perché tutte a me?
Dopo aver pranzato con un enorme piatto di pasta mischiato con non so che cosa trovata dentro la valigia di Louis, decidiamo non di starcene in terrazza, ma di andare direttamente in spiaggia: siamo qui, il pomeriggio sarà lungo e caldo e il mare ci scorre davanti, onda dopo onda ci invita a farci un bel bagno.
Mi infilo il costume in bagno insieme a Belle e Eleanor, che si spogliano e rimangono nude di fronte a me, sciacquandosi le ascelle, il viso, spalmandosi la crema spray su tutto il corpo. Io prima di  levarmi reggiseno e mutande mi accerto di avere già il costume nella mano, così da lasciare meno pelle scoperta possibile. Nonostante stia tra amiche non posso impedirmi di provare vergogna per le mie curve un po’ troppo accentuate. Nel frattempo Belle e Christine sono state molto più disinibite e veloci di me: essendo già pronte mi ordinano di sbrigarmi ed escono dal bagno. Quindi mi infilo il bikini e spalmo la crema gelata su ogni parte nuda del mio corpo, facendo attenzione a coprire bene ogni angolo: l’ultima cosa che voglio è un’abbronzatura a pois. Sopra infilo un abito che potrebbe essere una maglietta un po’ troppo lunga o un vestito un po’ troppo corto. È bianco e un po’ trasparente, quindi il costume nero spicca come se stesse lì a urlare richiamando l’attenzione di tutti. Desidererei essere un polpo in queste situazioni, avrei bisogno di quegli otto tentacoli per coprirmi tutta.
Esco dal bagno ostentando disinvoltura, guardinga osservo il corridoio trovandolo vuoto. Mi appresto ad andare in soggiorno a recuperare il borsone con l’asciugamano.
“Signori e signore … Habemus Lou!” Louis allarga le mani come se stesse, appunto, presentando il nuovo papa eletto da qualche secondo. Tutti gli altri ridono e si alzano dal sofà sul quale stavano stravaccati. Trovo Belle sdraiata per metà addosso a Jamie, il quale non mi sembra, però, molto a suo agio. Anzi, ha un’espressione un po’ tirata e imbarazzata, ha quel tipico sorriso di circostanza di chi sta pensando il contrario di ciò che fa.
Nell’alzarsi dal divano Adam mi passa accanto concedendosi uno sguardo, più una radiografia, direi, a tutto il mio corpo, partendo dai piedi fino ad arrivare alla punta del cipollotto improvviso che contiene i miei capelli già ingrassati da iodio e salsedine. Si morde il labbro inferiore mentre i suoi occhi puntano i miei, come se stesse trattenendo un sorriso.
Inutile dire che arrossisco violentemente. Lo supero maldestramente inciampando sull’angolo del divano. Avrei voluto fare un’uscita ad effetto, con la faccia arrabbiata e superiore, avrei voluto passare davanti ad Adam dandogli una spallata sprezzante, come a dire “Ma che maniaco”. E invece tutto ciò che ottengo è un’epocale figuraccia. Mentre sono impegnata a vedere il pavimento avvicinarsi alla mia faccia vertiginosamente, un braccio mi afferra con forza all’altezza dei fianchi e mi tira su come fossi un sacco di patate.
“Sta attenta a dove guardi” Adam mi fa l’occhiolino.
“Sta attento anche tu a dove guardi” ribatto esibendo un sorrisetto stizzito. Mentre sguscio dalle sue braccia allontanandomi sento Adam dietro di me ridere divertito.
Scendiamo le scale rumorosamente, sembriamo un branco di bufali appena liberato in una prateria, tutti talmente presi dalla libertà che si dimenticano di poter brucare tranquillamente l’erba che riveste il terreno brullo.
Zampetto vicino a Jamie e lo guardo incuriosita con un sorriso implorante.
“Sappi che ti ucciderò, non appena la vacanza sarà finita” mi rivolge uno sguardo assassino.
Ottimo! Quante minacce di morte sto accumulando in un solo giorno? Direi troppe.
“Andiamo Jamie! Che può farti di male?” lo spintono appendendomi alla manica della sua maglietta.
“Lou, magari con te sarà anche carino e tenero, ma è innamorato di te. Di me no, non lo è. Non lo è per niente” asserisce Jamie. Lo dice come se fosse un dato di fatto, lo dice con una semplicità che quasi non mi fa cogliere il senso della frase.
“Non è innamorato di me” rispondo all’unica parte della frase che mi è giunta alle orecchie.
Jamie rotea gli occhi al cielo. “Se ne accorgerebbe pure un cieco, Lou”
“Non sapevo che l’amore per una persona si esprimesse tradendola” sciolgo i capelli per fare un nuovo cipollotto più stretto.
“Non sei nemmeno sicura di come siano andate veramente le cose” inizia Jamie. “Per quanto io possa non avere simpatia per Adam … beh, io lo capisco quando una persona è innamorata. Lo si vede dagli occhi, sai? Lo capisci subito perché quando guarda la persona che ama sembra che non veda più nessun altro. E Adam ha quello sguardo quando guarda te “ si mette le mani nelle tasche del costume, Jamie si guarda i piedi mentre cammina.
Rimango in silenzio per un po’. Un po’ tanto, perché Jamie ad un certo punto si volta a guardarmi, come per controllare se ho recepito o no ciò che ha detto. Deve vedere il mio viso particolarmente assorto, perché non aggiunge nient’altro, semplicemente riprende ad osservarsi le scarpe.
“Eccola lì, la spiaggia!” Christine lo dice con un grido di ammirazione e gioia. Comincia a correre seguita da Louis che le acchiappa l’asciugamano appeso alla spalla facendola quasi cadere.
E se Jamie avesse ragione? Se davvero stessi esagerando, mi stessi costruendo cose che in realtà non esistono?
Butto l’asciugamano a terra e lo stendo accanto a quello di Jamie e di Christine, gli altri fanno lo stesso a seguire. Tutti tranne Belle, che si apposta accanto all’asciugamano di Jamie. Perlomeno Adam non ha provato ad avvicinarsi a me in qualche modo.
Christine si sfila il vestito rosso fragola e lo ripone nella sua borsa. Si stende sull’asciugamano di schiena, mettendo in mostra il corpo perfetto. Louis, che è già in costume, si china per darle un bacio sulla guancia. Le dice che si va a fare il bagno e che la aspetta in acqua, ma lei lo congeda con un gesto della mano dicendo di voler prendere un po’ di Sole.
“Muovi il culo Adam!” urla Louis all’amico che indossa ancora la maglietta.
“Un po’ di pazienza, eh?” ribatte Adam con molta flemma. Si sfila la maglietta con lentezza estenuante, sembra uno di quei modelli di Abercrombie. Il fisico ovviamente è molto meno gonfio e pompato, ma rimango lo stesso ammaliata per qualche secondo a fissare la pancia già inspiegabilmente abbronzata e scolpita.
Mi sento pizzicare la caviglia e mi abbasso istintivamente a grattarla. “Ahio!”
“Visto qualcosa che ti interessa, Marylou?” mi intima Christine beccandomi in flagrante.
“N-no, niente” balbetto imbarazzata.
“Levati ‘sta maglietta da barbona, fammi questo favore” ride e torna a smanettare col suo cellulare.
Le faccio una boccaccia, poi controllo che Adam corra verso la riva. I muscoli della sua schiena guizzano mentre sgambetta a fatica in mezzo all’acqua e poi si tuffa. Quindi, afferro i lembi della maglietta e la sfilo in un solo colpo. Come si dice, via il cerotto via il dolore. Vengo quasi accecata dal chiarore pallido e scintillante della mia pelle, sembra che l’ultimo posto da me visitato sia l’Alaska, o uno di quei luoghi con tanti pinguini e un sacco di ghiaccio. Mi stendo subito sull’asciugamano a pancia in su, schermandomi gli occhi con la mano per proteggerli dal Sole. Jamie e Belle stanno seduti sullo stesso asciugamano a gambe incrociate, chiacchierano a proposito del fisico di una ragazza poco distante da noi.
“Se hai un sedere del genere non ti metti un bikini stretto, andiamo” sindaca Belle disgustata.
“Beh, se lei ci si sente a sua agio …” la difende Jamie.
“Non è questione di sentirsi a proprio agio, è questione di decenza!” ribatte infervorata Belle, sempre più convinta della sua opinione.
Jamie abbandona la lotta con un sospiro e un’alzata di spalle. Vedo Belle sorridere segretamente per la sua vittoria.
Mi sdraio su un fianco e osservo Christine, che nel frattempo ha nascosto il viso tra le braccia e prende silenziosamente il Sole tanto agognato.
“Chris” la chiamo. “Ehi Chris” le do un pizzico sulla spalla.
Si alza osservandomi scocciata. “Che c’è, che hai?”
“Stavo pensando … E se Adam  fosse stato sincero quando mi ha detto che non ho capito?”
“Che non hai capito cosa?”
“Della storia di lui ed Eleanor!”
Christine si dondola la testa tra le mani, la sento sospirare rumorosamente.
“Lou, Adam è un maschio, è nella sua natura comportarsi così. Non sto dicendo che noi donne non tradiamo, ma ti posso dire dalla mia esperienza che i maschi vedono il tradimento come una cosa poco grave. Poco grave o addirittura normale in un rapporto. Come se io adesso stessi qui e nel frattempo Louis si stesse facendo una in acqua. Non sarebbe un tradimento per lui, la vedrebbe come una distrazione mentre io sono impegnata in altro. È nella loro natura, non sei tu che non capisci” spiega pragmatica Christine.
Rimango interdetta per un po’. “Ma … Adam non può essere così. Non avrebbe scelto me … Si sarebbe trovata una ragazza diversa con cui provarci” dico convinta, sento il petto gonfiarsi d’orgoglio mentre controbatto alle parole di Christine con una, secondo me, validissima giustificazione.
“Eri una sfida per lui, voleva averti ad ogni costo, voleva cambiare, aggiungere una coccarda al suo gilet, capisci? Ma non lo fa mica con cattiveria. Sicuramente gli sei piaciuta, ma niente di più” mormora duramente Christine senza guardarmi in faccia.
Rimango in silenzio, la bocca aperta a metà e le parole che vi muoiono dentro. Non c’è alcun modo di contrattaccare. Christine ha ragione e io sono una stupida illusa.
“Non fraintendermi, Lou, non voglio che tu ci stia male. Vederti così mi fa soffrire, davvero. Te lo sto dicendo per fartela passare, per renderti chiare le cose. Prima te lo dimentichi e meglio starai, fidati di me” mi posa una mano sulla spalla bollente. “Guardati intorno, è pieno di bei ragazzi qui”
“Si, ma non tutti hanno voglia di una sfida no?” stizzita e a testa bassa mi stendo sull’asciugamano serrando gli occhi. Non voglio più sentire niente su Adam, su me, sulla nostra storia, sull’amore. Su quel maledetto sentimento che sento crescere nel petto, che mi sta scoppiando nel cuore, che mi sta facendo a pezzi. Non voglio più sentire niente di niente.
“Andiamo Lou …” Christine mi scuote una spalla.
“Lasciami in pace, ti prego” la supplico con appena un filo di voce.
“D’accordo” mi concede, la sento stendersi di nuovo sul suo asciugamano. “Ragazzi, stasera si esce” ordina alzando la voce per farsi sentire dai pochi che stanno accanto a noi.
“Ovvio” Belle batte le mani e sono sicura, anche senza vederlo, che Jamie è d’accordo con la decisione.
Christine mi fa una promessa appena sussurrata, la sua mano stringe la mia. “Te lo troverai un altro ragazzo, dovessimo stare fuori tutta la serata” 

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Capitolo 38
*** 38 ***


“Quello non va bene!”
“Vuoi sembrare una suora?”
“Ho dei sentimenti, ragazze, smettetela di ucciderli” butto l’ennesimo vestito sul letto che ora vanta una straordinaria quantità di abiti ammassati uno sopra l’altro. Dopo avermi fatto indossare tutto il mio intero guardaroba da viaggiatrice inesperta e alle prime armi, Christine e Belle mi guardano ancora con quell’espressione a metà tra lo schifato e lo sconfitto.
“Dopo aver visto il sopracostume che portavi oggi, del resto, non potevamo aspettarci più di tanto” Christine si alza dal letto, la vedo uscire dalla stanza sculettando sui tacchi già infilati. Deve avere un qualche istinto suicida se già li indossa ancora prima di uscire. Non lo posso proprio concepire.
“Torna qui, ti prego!” piagnucolo disperata. Mi lascio andare sul mucchio di vestiti sdraiandomi sul materasso che scricchiola sotto il mio peso. Indosso l’ultimo dei miei vestiti, quello che misi quando incontrai Adam. Christine e Belle lo hanno bocciato a prescindere.
Dopo una manciata di secondi Christine torna in camera nostra, ha un abito tra le mani e si avvicina a me mostrandolo in tutta la sua brillantezza.
“Spogliati, dai” mi ordina, posa il vestito sulle mie ginocchia.
“Non metterò mai questo coso” lo prendo porgendolo di nuovo a Christine.
Lei mi ignora, va alla finestra e si accende una sigaretta rubata dal pacchetto trovato lì sul davanzale. “Dimmi quando hai fatto”
Belle le si avvicina e si volta di spalle, accendendosi a sua volta una sigaretta. Mi ignora anche lei, chiacchiera a bassa voce con Christine mentre io me ne rimango imbronciata sul ciglio del letto, le mani che torturano le paillettes grigie del vestito. Finalmente mi alzo e dopo essermi sfilata l’ultimo abito bocciato forsennatamente dalle mie amiche, infilo questo appena scoperto.
Mi piazzo di fronte allo specchio, l’immagine riflessa mi guarda con due occhi enormi spauriti e la faccia arrossata dal Sole, la sua espressione non si addice per niente al suo corpo. Il vestito che copre ben poco del mio corpo è un tubino grigio perla, contrasta con la poca abbronzatura appena presa in spiaggia. È senza spalline ed è completamente ricoperto di minuscole paillettes anche queste grigie che rilucono con mille sfaccettature. Mi arriva fino a metà coscia, lasciando scoperta la pelle chiara delle mie gambe leggermente tornite. Mi risalta un bel petto prorompente, guardandomi allo specchio sembra che lo riempia tutto.
“Non uscirò mai conciata così” mi volto verso le spalle di Belle e Christine.
Loro strabuzzano gli occhi, Belle si porta le mani sulla bocca e trattiene un gridolino strozzato.
“Hai ragione” mormora Christine glaciale. “Conciata così te ne trovi altri dieci di ragazzi, non uno soltanto!” ride e viene verso di me. Mi fa girare su me stessa, mi pettina i capelli e me li aggiusta lasciandoli ricadere sulle spalle.
Sbuffo e la guardo con un’espressione disperata e supplicante. Anche senza aprire bocca, Christine mi ammonisce con uno sguardo.
Ormai è deciso: stasera indosserò questo vestito.
Quando usciamo dalla stanza mi sento come se stessi camminando su dei trampoli. Zampetto raso muro, la mano appiccicata alla parete, onde evitare di scivolare e cadere rovinosamente sul pavimento. Quasi mi lancio sui cuscini morbidi e paffuti del divano, mi ci butto sopra ostentando femminilità e grazia ma riesco soltanto a sembrare una sorta di sirenetta obesa che rotola sulla riva come un pesce fuor d’acqua.
Wow” Louis formula la parola mettendo la bocca a forma di cerchio, mi mostra il pollice alzato. “È di Christine il vestito, vero?” mi domanda.
Annuisco. “Si capisce che non mi metterei mai una cosa simile, eh?” ridacchio imbarazzata. Accavallo le gambe, le scavallo di nuovo, mi sento completamente scoperta, se avessi strappato un lembo di lenzuolo e me lo fossi legato intorno a mo’ di arrosto sarebbe stata la stessa identica cosa.
“Beh, non ci stai assolutamente male, ma non sei tipo da vestiti di questo genere, ecco” spiega grattandosi la testa. Dopo sguscia via dalla conversazione andando a fumare in terrazza. Raggiunge Christine, li vedo prendersi per mano e ridere insieme di qualche battuta.
“Sei bellissima” il fiato caldo di Adam mi giunge sull’orecchio cogliendomi di spalle e di sorpresa. Rimango immobile con la schiena piantata nel divano, dei brividi bollenti mi percorrono tutto il collo. Sento l’unghia del ragazzo scorrermi accanto l’orecchio, socchiudo gli occhi e trattengo il respiro per qualche secondo.
“Allora, si va?” Jamie arriva saltellando accanto al divano, mi prende per le mani e con slancio mi tira su verso di lui. Mi fa fare una giravolta e per poco non cado spezzandomi un tacco.
“Cavolo!” rido divertita, ancora mi tremano le mani per ciò che è successo poco prima con Adam. Non ho il coraggio di voltarmi a guardare la sua faccia, mi basta sentire il suo sbuffo scocciato per immaginarmi lo sguardo omicida che sta regalando a Jamie. “Grazie” sussurro al mio fratellastro in un orecchio.
“Salvataggio in extremis, cara, quando vuoi” ridacchia lui. Mi prende sottobraccio, dopodiché usciamo.
Camminiamo per talmente tante piccole viuzze che dopo qualche minuto perdo l’orientamento. Se dovessi rimanere da sola, sono certa che a casa non ci tornerei, perlomeno non prima delle quattro ore di camminata dispersa nel nulla.
Poi ci sediamo in un pub all’aperto, lo troviamo seguendo le note di una canzone strillata dallo stereo, qualche sorta di rap cantata da un ragazzo parecchio arrabbiato e fomentato. Ci sediamo a un tavolo di legno, i tavoli sono quasi tutti pieni e a malapena riusciamo a trovare un buco per sederci tutti insieme. Adam è seduto di fronte a me, evito accuratamente i suoi occhi, ma mi sento i suoi addosso e inizio a sudare agitata. Devo avere un aspetto preoccupante, mi sento la faccia tirare e se sorrido immagino di assomigliare a una che sta avendo una colica, piuttosto che a una che si diverte.
“Andiamo a ordinare da bere” Christine mi prende per mano e mi trascina via. Sono costretta a tirarla per farla rallentare, le indico le scarpe ricordandole che io sono abituata ad un piccolo metro e sessanta di altezza, non al suo abituale un metro e settantadue.
Quando ci troviamo di fronte al bancone Christine mi spinge in avanti, urto contro la schiena di un ragazzo che si volta. Dapprima la sua espressione mi spaventa abbastanza, ha le sopracciglia che convergono verso l’interno, le lentiggini gli incorniciano l’espressione arcigna e infastidita. Poi i suoi occhi corrono lungo il mio corpo, mi danno uno di quegli sguardi che solo un uomo sa darti, così fastidiosi e irritanti che sono costretta a voltare lo sguardo da un’altra parte, tanto è l’imbarazzo che provo.
“Scusa” mi limito a dire con voce piatta e insonora.
Questo tizio mi sorride, i denti ingialliti dal fumo e un accenno di barba intorno alle labbra gonfie. “Figurati bella” ammicca con lo sguardo che guizza dal mio viso al mio seno in continuazione.
Perlomeno Adam riusciva a guardarmi in faccia per più di una decina di secondi quella sera al pub.
Annuisco con un sorriso di circostanza, poi gli do le spalle. Christine mi dà una spallata.
“Non dev’essere per forza Brad Pitt, ci serve per il piano”
Sbuffo e la guardo strabuzzando gli occhi.
“Non te lo devi mica sposare, andiamo” con un gesto secco mi volta, facendomi sbattere di nuovo contro il ragazzo, che stavolta però è già preparato all’impatto. La sua mano rotola dal mio fianco al mio fondoschiena.
Con le dita agguanto la sua mano e la tiro via.
“Quanti anni hai, splendore?” mi dondola accanto, il suo fiato è impregnato di alcool e fumo, si sentirebbe lontano un miglio.
“D-diciassette” balbetto.
“Complimenti, pensa quando cresci che diventi …” si passa la lingua sulle labbra, regala un altro sguardo peccaminoso al mio corpo.
Avvampo abbassando lo sguardo.
“Ti va di farci un giretto qua intorno?” il suo braccio già stringe il mio.
“No, grazie. Volevo bere qualcosa qui” con le mani mi ancoro al bancone con una stretta urgente e esagerata.
“Dai, ti offro qualcosa io, poi stiamo un po’ qua intorno” insiste, con la mano mi accarezza incoraggiante la schiena.
“Ti ho detto che non mi va, grazie” mi volto esasperata verso la mia sinistra e mi accorgo spaesata e preoccupata che Christine è ad almeno a dieci passi da me, accanto allo stereo: balla strusciandosi sul corpo di Louis. Grandioso. Meno male che le amiche si vedono al momento del bisogno.
“Fai la preziosa, ragazzina?” il ragazzo avvicina il viso al mio e mi piazza un bacio rumoroso e alcolizzato sull’orecchio stordendomi.
“Lasciami stare” sussurro, ho il cuore pietrificato. Intorno a noi c’è una marea di gente, il caos mi stringe nella sua grande mano forzuta, mi stritola, mi gira e mi rigira come vuole, sballottandomi da una parte all’altra senza darmi il tempo di riprendermi e di rendermi conto della situazione. Nessuno si accorgerebbe di una ragazzina importunata. Soprattutto perché, vestita in questo modo, do l’idea di tutt’altro che una ragazzina. Se sopravvivo alla serata dovrò ricordarmi di uccidere a mani nude Christine, che dice di darmi una mano e mi infila puntualmente nei casini.
Il tipo mi passa un braccio intorno alle spalle e mi tira a sé. “Che buon profumo che hai” sento le sue labbra sulla mia testa.
Lo spingo via senza riuscire a imporre la forza che vorrei. Probabilmente devo fargli il solletico, perché scoppia a ridere e mi prende il mento tra le mani. “Lasciami stare” ripeto con più vigore.
Con la mano mi prende il mento stringendo e facendomi male, sorride mostrandomi questa chiostra di denti ingiallita dalla nicotina, sembra uno squalo, io sono il povero pesciolino incappato nella sua trappola mortale.
Poi lo sento sbalzare via all’improvviso, mi lascia le spalle con uno strattone, lo vedo volare via dallo sgabello su cui era seduto, cade a terra sbattendo la testa. Un rivolo di sangue gli scende dal naso.
“Ti diverti a fare il cazzone con le ragazzine, eh?” Adam molla un calcio nei genitali del ragazzo che si contorce a terra.
Mi concedo qualche secondo per guardarlo: è lì accanto a me, maglietta bianca con scollo a v, i muscoli guizzano sotto il tessuto leggero. Sfoggia un’espressione da dio greco adirato per il tradimento del suo popolo, oppure potrebbe benissimo impersonare un Achille in versione mora, lo sguardo imperioso e arrabbiato. Gli basta una lancia, uno scudo e qualche pezzo di pelle in più scoperto. La schiava da proteggere già ce l’ha …
Ancora sballottata dall’accaduto, afferro Adam per un braccio. Lo vedo fuori di sé, continua ad assestare calci al poveraccio che giace a terra chiuso su sé stesso come fosse un feto. Nessuno o comunque ben pochi si accorgono di ciò che sta succedendo: la musica alta e l’alcool che entra in circolo fanno solo da scenario a questa stupida sceneggiata.
“Basta Adam” lo tiro verso di me, cerco di schiodarlo dalla sua posizione senza successo. “Basta!” lo scuoto di più, ma il suo sguardo rimane fisso a terra, il sangue del ragazzo che gli impregna la maglietta. “Adam basta, lo ammazzi!” gli urlo contro. Col mio corpo faccio da scudo al ragazzo a terra ponendomi di fronte ad Adam. Lui è costretto a fermarsi, gli occhi sfoggiano due pupille enormi e nere che hanno inghiottito il solito verde tranquillizzante. Gli metto le mani sulle spalle, gli accarezzo la guancia lentamente, un invisibile accenno di barba mi pizzica il palmo. “Basta, è finita … è tutto ok” ripeto in una nenia cantilenante. I nostri occhi si incatenano stretti. “Andiamocene di qua” lo tiro via senza voltarmi. L’unica persona che guardo andandomene è Jamie che mi fissa interrogativo coi suoi occhi grandi da bambino. Gli rivolgo uno sguardo tranquillizzante, poi sparisco nel buio di un vicolo.
Adam si lascia andare con la testa contro il muro, stringe gli occhi e poi scoppia a ridere senza nemmeno prendere fiato. “Era proprio uno … uno stronzo” infila le parole tra una risata e l’altra.
“Sei ubriaco, vero?” sussurro sconfortata più a me stessa che a lui.
“Lo avrei dovuto ammazzare, a quell’idiota … ti stava … ti stava mettendo le mani dappertutto …” si tiene la testa tra le mani, improvvisamente ritorna serio. “Se ci ripenso io …” la voce si blocca e termina in un grugnito rabbioso.
“Basta Adam. Ho detto basta, è finita adesso. Calmati” gli ripeto cercando di essere convincente, i suoi occhi adesso evitano i miei che invece lo cercano, desiderano un contatto che, purtroppo, non otterranno.
“Non posso vivere così. Non posso” mormora andandosene via dal vicoletto.
Lo seguo senza stargli troppo addosso, rimango in silenzio aspettando che sbollisca un po’. Quando torniamo al locale i nostri amici ci corrono incontro trafelati ricoprendoci di domande.
“Ma che è successo?”
“Chi era quel tizio?”
“Ti stava mettendo le mani addosso?”
“Adam sei ubriaco?”
Dopo aver risolto tutti i questionari da loro presentatici, finalmente decidiamo di fare ritorno a casa. La strada al ritorno sembra molto più lunga e buia di com’era all’andata, siamo tutti terribilmente silenziosi, nessuno si azzarda a dire una parola e se lo fa non accenna assolutamente alla serata. Quando arriviamo in casa, mi spoglio svogliatamente buttando il vestito in mezzo all’armadio, penserò domani a ridarlo a Christine. Mi infilo sotto le coperte, Belle già russa corposamente. Affondo la testa nel cuscino, mi raggomitolo su me stessa e nonostante faccia caldo la mia pelle è percorsa da brividi gelidi, non so se di ansia o di paura o … non lo so. Non so più niente.    

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Capitolo 39
*** 39 ***


Infilo gli occhiali da sole strizzando gli occhi, i raggi mi bruciano la pelle e sono costretta ad alzarmi dall’asciugamano posato a terra: le maioliche rossicce della terrazza sono ormai bollenti essendo già mezzogiorno. Fino a poco fa me ne stavo in un angolo silenzioso della terrazza, sdraiata sul mio asciugamano di spugna, i raggi solari aggrovigliati alla mia pelle.
“Lou, è pronto, dacci una mano a portare in tavola!” Jamie si affaccia dal salone, ha una parannanza rossa con delle piccole margherite disegnate sopra. Vi si asciuga le mani e io scoppio a ridere scuotendo la testa mentre mi infilo la maglietta sbrindellata.
Sgambetto in cucina, mi vengono date in mano delle posate e qualche tovagliolo. Un po’ a fatica trasporto l’occorrente sulla tavola in terrazza, l’unico punto che si trova all’ombra. Apparecchio sei coperti e vengo raggiunta dal resto della combriccola, tranne Adam che arriva dopo un po’ con una grossa ciotola piena di pasta fumante. Con l’aiuto di un mestolo ognuno mette la propria razione nel piatto ancora prima di scegliersi il posto e sedersi. Sembriamo una mensa dei poveri, con tanto di cuoca sudata e vestita di un grembiulino imbarazzante. Jamie ancora la indossa. Poi prendiamo posto. Alla mia destra vengo affiancata da Jamie, Belle lo segue come fosse la sua ombra. Il ragazzo mi guarda con un’espressione bisognosa d’aiuto, io gli do una spallata.
“Certi farebbero follie per lei!” gli sussurro all’orecchio e dopo rido vedendo la sua espressione contrariata.
Stamattina siamo tutti particolarmente silenziosi e assonnati, alcuni si stropicciano gli occhi, altri si coprono gli innumerevoli sbadigli intrattenibili. Addento un fusillo al sugo e lo mando giù bruciandomi la lingua.
Adam si siede accanto a me, ma credo che nemmeno se ne renda conto. Lo vedo camminare con fare dondolante, indossa le ciabatte infradito ancora sporche di sabbia, dei pantaloncini neri esageratamente larghi ed è a petto nudo. Dopo aver ricevuto la sua razione di cibo si avvicina al posto accanto a me, con una mano sorregge il piatto fumante, con l’altra si stropiccia l’occhio. Si siede con un tonfo, un fusillo rotola giù dal piatto piombando sul tovagliolo bianco. Impugna la forchetta e si siede comodo sulla sedia allargando le gambe, il suo ginocchio si poggia tranquillamente contro il mio. Impugna la forchetta e, prima di addentare il primo boccone, sbadiglia. Mentre mastica si guarda intorno annoiato, osserva l’orizzonte oltre  il cornicione della terrazza, squadra il suo piatto pieno di pasta, poi si volta verso di me. Strabuzza gli occhi ed io capisco che dev’essere quello il momento in cui si rende conto di dove si è seduto. Chiude immediatamente le gambe, il contatto tra noi si spegne, così come i suoi occhi mentre si girano altrove.
Mi ritrovo a fissarlo intensamente, cercando di capire il senso del suo atteggiamento. Insomma, e ieri sera? Non è significato proprio niente per lui? Eppure mi pareva di aver capito che stesse morendo dalla voglia di riappacificarsi. Ma forse mi sbaglio, forse non capisco. Oh, ci risiamo, come al solito.
 Jamie, dandomi un colpetto sul fianco, mi fa riavere dalla mia trance.
“Beh, nonostante tutto la prima serata non è andata poi così male” Louis spezza il silenzio, parla mentre mastica offrendoci la disgustosa vista di tutto il cibo maciullato dai suoi denti.
“Stai scherzando?” interviene Belle.
Christine mi lancia uno sguardo a mo’ di scusa, non sa ancora se la perdonerò o no. Jamie non si pronuncia, ancora non si è particolarmente integrato nel gruppo, perciò preferisce non contraddire le opinioni altrui, tenendosi per sé la propria. Mi volto verso Adam, ora dirà qualcosa per forza, indirettamente Louis gli ha lanciato una corda, una possibilità di parlare e spiegare. Spero solo che la accetti.
“Si cambia pub, non è tutta questa tragedia. Poteva andare peggio, no?” Jamie ci offre una delle sue perennemente positive risoluzioni.
Belle annuisce vigorosamente e gli sorride ammiccante.
“Scusate …” la voce di Adam è ancora un po’ roca per il sonno. “Ma che è successo?” domanda aggrottando le sopracciglia.
“Quando?” domanda a sua volta Louis.   
“Ieri sera” Adam addenta un altro boccone formato da quattro, cinque fusilli, mastica con le guance piene e mi ricorda un criceto.
Mi blocco con la forchetta a mezz’aria, giro lentamente la testa per guardarlo. Tutti gli altri fanno la stessa cosa, solo Louis non si scompone, lui degli effetti dell’alcool ne capisce qualcosa.
“Allora eri parecchio ubriaco” asserisce.
“Non mi ricordo niente …” Adam si porta una mano alla testa, come se servisse a riportargli in mente ciò che è successo la sera prima.
Deve esserci qualcuno che mi odia lassù, penso guardando in alto, non c’è altra spiegazione. Possibile che vada sempre tutto male? Quando le cose sembrano cominciare ad andare per il verso giusto, ecco là che tutto si rompe un’altra volta, che tutti i piani vanno di nuovo in frantumi, lasciandomi seduta a terra col niente nelle mani.
“Non è possibile, cazzo” mi alzo dalla sedia e sbatto la forchetta sul tavolo. “Ma che diavolo ho fatto di male?!”
Adam mi osserva stralunato.
Gli schiocco le dita davanti gli occhi, lo prendo per le spalle e lo scuoto. “Vuoi svegliarti, tu? Sveglia!” gli urlo in faccia.
Tutti mi fissano esterrefatti, ancora una volta la ragazzina educata e silenziosa dà in escandescenza. Ultimamente succede un po’ troppo spesso, me ne rendo conto, ma dopo un po’ non rimane più altro da fare. La calma e la pazienza non sono di questo mondo, proprio come la giustizia.
“Lou, che cosa …” cerca di calmarmi Adam, allunga le mani verso di me, ma io mi allontano fino ad affacciarmi alla ringhiera del terrazzo. Stringo le sbarre, piccole schegge del legno affondano nella mia carne.
Ammetto con un po’ di vergogna che per un secondo il pensiero di me che mi lancio giù nel vuoto e ruzzolo nell’aria fino a schiantarmi contro l’asfalto rovente … beh, non mi dispiace per niente. Ma delle mani affusolate e calde mi si posano sulle spalle e mi voltano. Il verde degli occhi di Adam mi abbraccia totalmente, tutto intorno a me è verde: le mattonelle della terrazza, il cielo, la ringhiera, io stessa divento verde ora che Adam mi guarda. Mi afferra il viso e lo tiene forte tra le mani, impedendomi di scampare al suo sguardo.
“Tregua?” sussurra, il suo naso è maledettamente vicino al mio.
Alzo dubbiosa le sopracciglia.
“Tra di noi. Smettiamola di litigare, almeno per la vacanza. Che ne dici?”
Annuisco e mi scappa un piccolo sorriso che subito dopo sparisce. Stupida, stupida, stupida. È una tregua di amicizia, non ti credere che le cose torneranno a posto così facilmente.
Adam mi dà un buffetto sulla guancia, proprio come si fa coi bambini, poi mi sorride, la fossetta spunta timida sul suo viso. Si volta verso gli altri e alza i pollici. “Tutto a posto, possiamo riprendere il pranzo” ridacchia ostentando disinvoltura, si siede e riprende a mangiare sotto lo sguardo sbalordito e confuso di tutti.
Il pranzo continua normalmente, se qualcuno ci stesse osservando di nascosto direbbe senza dubbio che noi siamo un normalissimo gruppo di amici, riunitosi per stare insieme in totale relax e tranquillità. E invece …
Nel pomeriggio ci rechiamo di nuovo in spiaggia. Abbiamo perso la mattinata dormendo, perciò recuperiamo quello che si può recuperare.
“Vieni in acqua?” Adam si china sul mio asciugamano, inclina la testa come farebbe un cagnolino interessato ad un bocconcino di carne.
Mi alzo velocemente e mi sfilo gli occhiali da Sole che tenevo in testa per togliermi i capelli da davanti. Intorno a noi tutti o quasi dormono tranquilli, spalmati sull’asciugamano, la bocca semi aperta. Belle ascolta la musica e legge un giornale ignorando il resto del mondo. Ha un’aria un po’ delusa, forse perché Jamie è sparito da più di mezz’ora e nessuno sa che fine abbia fatto. Aveva detto che andava al bar, forse vi avrà trovato qualcosa di interessante, chissà.
Siamo solo noi, Adam lo sta chiedendo a me. Proprio a me.
“Ok” sorrido e mi alzo dall’asciugamano.
Il ragazzo mi sorride mostrando le fossette, i ricci sono più scompigliati del solito per via della salsedine che vi si appiccica come una maledizione. Mi posa una mano sulla schiena indicandomi la strada. Non ce n’è bisogno, ovviamente, il mare si apre maestoso di fronte a noi, è calmo e sembra assonnato e annoiato anche lui. Le onde non litigano capricciose per arrivare prime, bensì si rotolano l’una sopra l’altra, sembra siano impegnate in un rilassante massaggio.
Involontariamente mi scosto dalla mano di Adam, ancora mi fa strano il contatto fra noi due.
“Scusa” Adam si ritrae.
“No scusa tu, è che …” la mia voce muore abbandonando le parole.
Adam ride sotto i baffi, si volta dall’altra parte. Non perdo nemmeno tempo a chiedergli cosa lo faccia ridere, mi sono abituata ai suoi divertimenti improvvisi e insensati.
Non appena il mio piede sfiora l’acqua lo ritraggo in fretta. “Dio, ma è gelata!”
“Ma no, è che sei stata a cuocerti sotto il Sole per un’ora. L’acqua è calda, fidati di me” mi tende la mano, lui è già dentro fino alle ginocchia. “Coraggio!” mi incita.
Lentamente e rabbrividendo zampetto nell’acqua per raggiungerlo, afferro la sua mano stringendola. Sento già il respiro che mi accelera vertiginosamente, di pari passo col battito del mio cuore. Cerco di non darlo a vedere, lo spaccio per l’acqua che mi sembra troppo fredda, anche se ora inizio a sentire che si scalda lasciando abituare il mio corpo alla temperatura.
Adam lascia la mia mano e sparisce sotto il pelo dell’acqua per qualche secondo. Me ne approfitto per prendere un lungo respiro calmante. Riemerge schizzandomi.
“Adam!” lo apostrofo. Dopo un primo momento di imbarazzo, inizio a schizzarlo anche io e insieme ridiamo divertiti, lanciandoci contro enormi goccioloni di acqua.
Essere amica di Adam mi sta bene, rifletto mentre lo guardo nascondersi sott’acqua e darmi dei pizzichi sui polpacci. Mi sta bene, ma non mi basta. Solo che non ho il coraggio di parlargli. Mi sembra tutto così stupido, mi sembro io così stupida. Io, esatto, io che ho alzato un polverone enorme senza nemmeno essere sicura di ciò che era successo. E ora non ce la faccio nemmeno a toccarlo senza sentirmi un po’ in colpa.
Adam mi schizza l’ennesimo litro di acqua in faccia, io mi sposto sguazzando e strizzandomi il sale dagli occhi. Mi si avvicina dandomi un pizzico sul fianco.
“Che c’è, non reagisci più?” ride e mi guarda. Continua a darmi piccoli pizzichi sulla pancia, io cerco di allontanarmi. Tento di ridere insieme a lui, ma sono riuscita ancora una volta a farmi venie l’ansia per motivi assurdi e infondati. Non riesco più ad essere naturale, tutto ciò che faccio mi esce sforzato.
“No, è che … devo andare in bagno. Devo fare pipì” gli spiego improvvisamente seria.
Adam ritira le mani, il sorriso gli si spegne deluso sulle labbra mentre annuisce. “D’accordo … ti accompagno ai bagni, stanno vicino al bar”.
Usciamo dall’acqua in silenzio, Adam accanto a me a testa bassa. Rimugina forse sulle sue azioni, sicuramente penserà di aver fatto qualcosa di sbagliato, qualcosa che mi ha infastidita. Passiamo alla nostra postazione per darci una veloce asciugata. I ragazzi si sono svegliati ma Belle è ancora intenta ad ascoltare musica in religioso silenzio. Louis e Christine spalancano gli occhi interdetti quando ci vedono tornare zuppi, l’uno affianco all’altro.  
“Ma guarda un po’ chi si sono rimessi insi …” inizia Louis, con la mano ci indica sorridente.
“Sta zitto, Louis” lo apostrofa Adam, gli lancia uno sguardo inceneritore e Louis tace in un istante.
Arrossisco mentre mi avvolgo come una salsiccia dentro l’asciugamano e infilo le infradito bagnandole e riempiendole di sabbia.
Io e Adam ci dirigiamo verso i bagni, delle cabine blu in legno a forma di piccole casette. Sono poco lontane, affondiamo nella sabbia calda e rimaniamo entrambi in silenzio. Le prime che incontriamo sono occupate, così continuiamo a camminare.
“Ehi, stanno tutti al bagno” ridacchia Adam, l’imbarazzo nella sua voce è tangibile.
Lo guardo e sorrido educatamente anche io. “Si è ve …” mi blocco perdendo la voce, le parole mi rimangono sulla punta della lingua, pronte ad uscire ma bloccate da un vetro invisibile e infrangibile.
L’asciugamano che mi avvolge cade a terra insabbiandosi mentre assisto esterrefatta alla scena che mi si para davanti: poggiati addosso ad una cabina ci sono due ragazzi, l’uno avvinghiato all’altro, che si scambiano un bacio passionale. Il problema non è il fatto che a baciarsi siano due ragazzi, ma è il fatto che uno di loro sia Jamie.  


***
Alloooora, grande novità, eh? Che ne dite? Deluse, sorprese, avete già preparato un coltello per uccidermi? Spero di non avervi deluso, a parte gli scherzi! 
Non ho molto da dire, se non ringraziarvi come sempre di seguire la mia insulsa storiella u_u Vi amo tutte quante. E tanto. Grazie a quelle che recensiscono, siete tutte adorabili e dolci e carine e gentili e mi riempite di complimenti esageratisssimi!
Grazie e al prossimo capitolo :D <3 

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Capitolo 40
*** 40 ***


“Vi prego, non ditelo a nessuno. Vi prego! Voi non capite, la mia vita è finita. Io … per favore … Lou, te lo chiedo in ginocchio. Adam, anche tu, te ne prego …” Jamie non riesce a tenere la bocca a freno, parla a vanvera, si ritrova a dire cose senza senso, ripete sempre le stesse parole in ordine sparso. Il ragazzo con cui si stava baciando assiste alla scena a testa bassa, non osa dire neanche una parola e con la coda dell’occhio osserva Jamie parlare concitato.
“Ehi, sta calmo” gli intimo mettendogli una mano sulla spalla.
Adam si china a raccogliermi l’asciugamano caduto. Lo prende e lo piega tenendolo appeso al suo braccio. “Pensavo ti fidassi di tua sorella. Magari non di me, ma almeno di lei …” l’ostilità del ragazzo nei confronti del mio povero fratellastro nel panico è tangibile, aleggia nell’aria intorno a noi.
Do un’occhiataccia ad Adam ammonendolo. “Non devi preoccuparti, Jamie. E poi non hai da vergognarti. Siamo nel ventunesimo secolo, andiamo” cerco di stemperare la situazione buttandola sul rilassato.
Subito dopo aver aperto bocca mi rendo conto della stupidaggine che ho detto. Oggigiorno se ne sentono talmente tante su questi famigerati gay che l’omosessualità sembra ormai diventata un problema di stato. Si ritiene più importante impicciarsi degli interessi sentimentali altrui piuttosto del fatto che agli angoli delle strade brulicano i poveracci senza scarpe e ogni giorno che passa il numero dei morti sul lavoro aumentano vertiginosamente. La società odierna non ha perso solo i valori, ha perso tutto quanto: la dignità, la normalità, la giustizia, tutto. Niente ha più valore o importanza al giorno d’oggi, se non la ricchezza. La ricchezza, l’essere sotto gli occhi di tutti quanti. Per questo la maggior parte degli omosessuali tende a nascondersi, a celare la propria identità. La paura di essere ritenuti diversi è maggiore della paura di essere infelici. Le persone si preoccupano di ciò che gli altri pensano di loro, piuttosto di sentirsi importanti, di sentirsi unici. Ed è proprio qui che si sbaglia. Essere diversi non è sbagliato, non è male, come vogliono farci credere. Essere diversi è essere speciali.
Jamie scuote la testa agitandosi ancora di più. “Tu non ti rendi conto di quello che la gente potrebbe pensare di me se scoprisse …” le parole gli muoiono in gola. “Lascia perdere. Solo, fammi, anzi, fatemi questo favore: acqua in bocca”
Scuoto la testa incredula. “Puoi fidarti di me, Jamie” mormoro guardandolo confusa. “Mi dispiace che hai paura di ciò che potrei dire … mi sembra di essere sempre stata leale con te”
“Ehm, scusate se mi intrometto …” il ragazzo di Jamie alza l’indice quasi a chiedere il permesso di intervenire. Tutti gli rivolgiamo lo sguardo. “Per me se volete dire qualcosa va bene. Non mi importa” dice convinto.
Jamie si volta verso di lui, lo fulmina con lo sguardo. “Alo, ne abbiamo già parlato”
“Non mi risulta che siamo arrivati ad una conclusione. O sbaglio?”
“No, non sbagli” Jamie china la testa affranto.
“Ecco” Alo incrocia le braccia.
“Beh, ad ogni modo, io sono Marylou, ma puoi chiamarmi Lou” tendo la mano cercando di cambiare discorso.
Alo stringe la mia mano sorridente. Ha i capelli rossicci e gli occhi leggermente a mandorla color nocciola, delle lentiggini rotondeggianti gli disegnano una tenera maschera proprio sotto gli occhi, punteggiandogli il naso. Ha il petto ricoperto di tatuaggi di forme a me ignote, pochi centimetri di pelle sono visibili. È più alto di Jamie di una bella manciata di centimetri e, di conseguenza, sovrasta anche me. Per quanto il suo aspetto in un primo momento possa essere spaventoso e incutere timore, il suo sorriso ha un non so che di tranquillizzante.
“Adam, piacere” anche Adam, con mia enorme sorpresa sorride. Alo ricambia nuovamente la stretta.
“Lou, Adam …” Jamie ci guarda con due occhi enormi. “Vi prego”
“La vuoi smettere di assillarli? Basta, Jamie, sono io a pregarti di farla finita con questa storia. Che ti frega se gli altri ti prendono in giro? Tu sei felice? Sei felice con me?” Alo a ogni parola che dice picchietta con la mano sulla spalla di Jamie, il quale si ritrae, non lo guarda neanche in faccia.
Io e Adam ci guardiamo per un istante, entrambi ci sentiamo di troppo e in imbarazzo, perciò con una scusa accampata lì per lì, ci dileguiamo in fretta. Mentre scavalchiamo i bagni e ritorniamo ad affondare i piedi nella sabbia calda ci sembra ancora di sentire le voci dei due ragazzi intenti a litigare.
“Non l’avrei mai detto” inizia Adam superando l’imbarazzo. “Davvero. Non lo dà per niente a vedere” ammette sinceramente.
“Figurati se me l’aspettavo io. Insomma, vivendoci me ne sarei accorta” gli do ragione guardando davanti a me, la scena del mio fratellastro avvinghiato ad Alo mi si ripropone come fosse un cortometraggio. “E pensare che tu eri geloso di lui …” sussurro, non avrei voluto dirlo, ma le parole rotolano via dalla mia bocca scappando come fuggitive. Troppo tardi per tornare indietro, non si può lanciare il sasso e nascondere la mano.
Adam si schiarisce la gola, sento i suoi occhi addosso ma non trovo il coraggio per guardarlo. “Capita di sbagliare” mormora accentuando le parole col tono della voce.
“Già” annuisco. “Capita” rivedo la bocca di Eleanor spalmata su quella di Adam, un moto di nervosismo mi sale in gola, ma riesco a mantenere la calma.
“Posso offrirti qualcosa da bere?” Adam si blocca e mi prende per un braccio intimandomi di fermarmi.
“No, non ho sete, grazie” evito accuratamente il suo sguardo, ma lui insiste, fa pressione sul mio polso con la mano affusolata.
“Qualcosa da mangiare?” non si arrende, il ragazzo è un osso duro.
“Non ho nemmeno fame” imbarazzata mi scosto i capelli ancora zuppi d’acqua dalla faccia, la salsedine mi brucia sulle guance.
“E dai, non farti pregare! Io ho sete, non mi va di bere da solo” intreccia la mano alla mia e mi trascina in direzione del bar.
Sbuffo ma dentro di me sto gioendo per quel piccolo e insignificante contatto. Adam mi fa sedere al tavolo, posa l’asciugamano sulla sedia di paglia dicendomi che altrimenti mi verrà il sedere a righe. Si allontana per pochi secondi rivolgendosi al ragazzo dietro al bancone. Chiacchierano qualche secondo, vedo il barista ridere e annuire alle battute di Adam mentre apre il piccolo frigorifero e ne tira fuori una birra gelata. Adam posa degli spicci sul bancone, fa un cenno di saluto al ragazzo e dopo mi raggiunge.
“Goccetto?” mi allunga la birra appoggiandomela davanti gli occhi.
“Oh, io direi che è meglio di no” metto le mani avanti e scuoto ardentemente la testa.
Adam ride a gran voce, poi in un sorso solo si scola già mezza birra. “Che ti farà mai un sorsetto di birra …” mormora guardando altrove, forse più a sé stesso che a me.
La prima cosa che mi torna in mente è lo sguardo che mi rivolgeva Adam quella sera al pub. Il sorriso divertito, simile a quello che hanno i bambini quando vanno allo zoo e guardano la gabbia dei leoni, un po’ affascinati, un po’ catturati da quell’immagine, ma nello sguardo del ragazzo vi era un pizzico in più di malizia. Mi osservava rapito, come se una ragazza ubriaca fosse una delle cose più affascinanti che avesse mai visto. Si poggiava al bancone coi gomiti e stava lì a guardarmi, gli occhi fissi nei miei, le fossette disegnate sulle guance soffici e lisce. Ciò che ho rimosso è stato, invece, il mio comportamento. L’ho fatto per evitare di provare quella sgradevole sensazione di vergogna che attanaglia lo stomaco quando si ripensa ai momenti imbarazzanti della propria vita. Quella sensazione che ti fa dire “Ma quella ero proprio io?”, e poi risponderti “Si, purtroppo eri proprio tu”.
Mi allungo sul tavolo e strappo ad Adam la bottiglia di birra. Mi ci attacco avidamente, la sento scivolarmi giù in gola, non appena inghiotto sento un calore immenso che mi solletica la gola. Poi gliela poggio di nuovo davanti, mi godo il suo sguardo esterrefatto e il suo silenzio asciutto di parole.
“Problemi?” mormoro leccandomi le labbra.
“Assolutamente no” Adam sorseggia la birra senza staccarmi gli occhi di dosso.
La testa già comincia a girarmi ed io inizio a pensare di essere astemia. Insomma, va bene che non ci sono abituata, ma non è possibile! Sulle labbra mi si allarga quel sorriso ebete tipico di chi non ha il totale controllo di sé stesso. Continuo a fissare Adam, mi sento improvvisamente più sicura di me, quel calore che prima mi scaldava la gola inizia ad espandersi in tutto il mio corpo. Non sono ubriaca, riesco ancora a rendermi conto di cosa è giusto fare e cosa no. Sono solo un po’ … un po’ meno me stessa e, chissà perché, la cosa non mi disturba affatto. Voglio scappare da me stessa, voglio chiuderla in uno stanzino per un po’, tanto è abituata a stare da sola e sicuramente non starà male. La mando via, quella me stessa timida e noiosa, voglio rimanere con Adam, solo io e lui.
“Possiamo sederci con voi?” Jamie si avvicina timidamente al nostro tavolo. È affiancato da Alo, sorride educatamente e si morde indeciso un labbro.
Vedo il mio piano andare in frantumi. Adam alza gli occhi al cielo ancora prima di dire una parola.
“Certo, sedetevi pure” mormoro con un po’ troppo entusiasmo. Mi alzo dal mio posto e mi accomodo sulla sedia accanto ad Adam, per lasciare Alo e Jamie vicini.
I due si scambiano qualche parola veloce, poi vedo Alo allungare a Jamie una banconota da cinque euro. Il mio fratellastro si avvicina al bancone per ordinare.
“Avete risolto?” mi azzardo a chiedere ad Alo, spero di non sembrare invadente.
“Siamo sempre un po’ in trincea, con Jamie non si può mai sapere” si gratta la spalla destra, intravedo un tatuaggio che riesco a decifrare: c’è scritto svoboda, le lettere sono abbellite da ricami simili a piante rampicanti, piccole spirali ingarbugliate su se stesse, le zampe delle lettere si arrotolano con le altre.
“Che vuol dire svoboda?” indico la sua spalla. Adam aguzza lo sguardo per leggere anche lui.
Alo china il viso per osservarsi il punto indicato, poi annuisce come a ricordarsi di una vecchia cosa. “Significa libertà, è scritto in ceco” volta lo sguardo verso il mare, improvvisamente i suoi occhi sembrano così profondi che devo avvicinarmi di più per guardarci dentro.
Jamie ritorna con un pacchetto grande di patatine, quelle della San Carlo, alla paprika e una bottiglietta di coca-cola. “Buon appetito” si siede al tavolo e apre il pacco con un sorriso da bambino. Vede Alo assorto, gli dà una piccola botta sul braccio richiamando la sua attenzione. “Tutto ok?”
Alo annuisce, si volta verso di me e si inumidisce le labbra. “Mia madre era ceca” mi spiega. “Ho vissuto nel suo paese d’origine fino ai diciotto anni. Poi me ne sono andato, l’ho lasciata lì da sola” abbassa la testa, si strappa una pellicina dal dito. Rialza lo sguardo, stavolta lo vedo concitato, quasi arrabbiato, ma non con sé stesso. “Ma lì non si può vivere, se si punta ad una vita migliore!” sbatte una mano sul tavolo. Jamie gliela afferra con la sua, la stringe.
Annuisco comprensiva, poi mi distraggo perché le dita di Adam iniziano a disegnare degli scarabocchi concentrici sulla mia coscia attraversata da brividi. Trattengo il respiro e ostento disinvoltura. I pensieri di Adam sono talmente forti che sembra me li stia urlando contro. Col dorso della mano lo scanso via, ma lui, imperterrito, non si lascia buttare giù e ricomincia.
“Voi siete tutti e due di qui?” domanda Alo, sembra essersi ripreso, ma sicuramente non gli domanderò più spiegazioni dei suoi tatuaggi.
Io e Adam annuiamo. “Non capisco cosa ci trovi nella vita di qui. La politica fa schifo, al potere c’è una massa di ladri che neanche in prigione, il lavoro non c’è e se c’è non è ripagato come dovrebbe. La gente è stupida, è cieca e non vede niente. O forse, non vuole vedere. Comunque è stupida e superficiale. Me ne andrei anche ora” interviene Adam gesticolando, nel frattempo le sue dita non mollano la mia gamba.  
 L’idea di Adam che se ne va lontano di qui per un secondo mi terrorizza. Significherebbe perderlo per sempre. Per sempre. E so per certo che non sopporterei il dolore che mi provocherebbe la sua assenza.
“Solo che, se prima avevo qualche incertezza, ora sono certo che non lo farò” aggiunge qualche secondo dopo, la sua mano smette di disegnare sulla mia coscia, ora la stringe con una certa urgenza mentre mi rivolge uno sguardo contrito.
Sospiro rassicurata e gli sorrido abbassando gli occhi.
“Sei stato fortunato ad aver trovato un motivo per rimanere. E comunque, la gente stupida e superficiale sta dappertutto, credimi. Sfortunatamente il mondo ne è pieno. Poi ci sono i casi eccezionali, persone che incontrano altre persone che ritengono speciali e … è come se si sentissero complete. No?” Alo annuisce rinforzando il concetto.
Jamie intreccia la mano alla sua e non trattiene un largo sorriso mentre mastica rumorosamente una patatina.
“Voi dovreste capirmi, sembrate molto in sintonia. Da quant’è che state insieme?” domanda Alo, mangiucchia anche lui una patatina sbriciolando il tavolo.
Mi schiarisco rumorosamente la gola, forse  con troppo vigore visto che ora mi sembra sia passata una ruspa lungo tutte le mie corde vocali. Adam si scuote i riccioli imbarazzato.
 La vista di Adam che si vergogna mi fa sempre uno strano effetto. Lui dà sempre un’immagine così piena e sicura di sé che non ci si immaginerebbe mai il suo viso tinteggiarsi di rosso.
“Toccato tasto dolente?” Alo trattiene a stento un sorriso.
“Si, Alo, perché non ti fai mai i cavoli tuoi” lo prende in giro Jamie, poi gli stampa un bacio sulla guancia.
Alo si scosta ridendo, poi rivolge di nuovo il suo sguardo inquisitore sulla coppietta distrutta. “Scusate, ma anche un cieco vedrebbe che c’è dell’interesse tra di voi” sgranocchia l’ennesima patatina e parla con nonchalance.
A quelle parole la mano di Adam si contrae sulla mia coscia, io sono costretta a fare un movimento strano -e per niente vago- per trattenermi dallo scoppiare in una risata isterica. L’emozione gioca brutti scherzi.
“Cambiamo discorso, vi va?” ostento disinvoltura.
Adam ride di gusto al mio fianco, si rivolge ad Alo quando parla, i due si passano uno di quegli sguardi carichi di intesa maschile. “È un po’ timida” sussurra divertito, la sua frase sottintende altri mille significati.
Gli assesto un calcetto sul polpaccio.
“E pure violenta” si volta verso di me. “Ma tranquilla, te l’ho già detto che è un lato di te che adoro”
Dopo risatine isteriche e imbarazzate, riesco finalmente a dirottare il discorso su altre cose banali, il colore dell’acqua, il sapore del sale, l’erba verde e il Sole che inizia a calare. In lontananza si estende un enorme tramonto di un rosso vibrante, il Sole è ridotto ad una palla infuocata e il cielo si colora di un rosa che assume diverse gradazioni a seconda della lontananza più o meno ridotta dal Sole. Assistiamo alla sua scomparsa con dei sospiri silenziosi e un’espressione assorta. Il mare lo accoglie benevolo a braccia aperte, lo culla nel suo letto profondo e rinfrescante, lo fa rilassare, gli offre un posto in cui sonnecchiare in attesa del giorno successivo. In silenzio guardiamo lo spettacolo della natura compiersi davanti ai nostri occhi, spettatori senza un biglietto, entrati di straforo nel grande teatro del mondo. Le onde che, spumeggianti, vengono assorbite dalla sabbia fumante, sono il sottofondo musicale di questo scenario mozzafiato. Guardare il Sole così grande e maestoso che sparisce in quella landa infinita e desolata che è il mare mi fa sentire così piccola e insignificante che mi sento una formica. In fondo, noi non siamo altro che minuscole, insensate particelle che gravitano in mezzo all’universo. Piazzate nel vuoto all’improvviso, saltiamo da una parte all’altra indecise sul da farsi. Chi siamo e cosa vogliamo non lo sappiamo di certo. Ci limitiamo a seguire le onde, come fa un surfista. Saliamo sulla nostra tavola levigata e aspettiamo l’onda giusta, quella che ci fa volare, quella che ci fa sentire dei re e delle regine. Quell’onda ci fa sentire infiniti ed eterni, invincibili e indistruttibili. Pensiamo che niente possa buttarci giù mentre cavalchiamo il mare, noi lo teniamo a bada con i nostri piedi perché crediamo di poterlo sovrastare. Poi l’onda finisce, si calma e torna a cuccia in mezzo all’acqua salata, rimproverata dalla forza invisibile che la comanda. E noi torniamo ad essere le insignificanti particelle che eravamo prima. 

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Capitolo 41
*** 41 ***


Stasera decidiamo di non uscire, onde evitare stupri e scazzottate varie. Optiamo per una bella serata in terrazza, la luce della luna un po’ offuscata dal lucernario che illumina l’intero terrazzino. A mio parere, l’unica funzione di questa enorme lampada è attirare zanzare, moscerini e quant’altro a ronzarvi intorno. Ci mettiamo seduti in cerchio a terra, il tavolo è troppo convenzionale, seduti su un enorme letto di asciugamani da mare ammassati l’uno sull’altro. Al centro del cerchio svariate buste di biscotti, patatine e schifezze varie troneggiano aperte e derubate dalle nostre mani affamate. Anche Alo per stasera si unisce a noi. È in incognito, lui e Jamie si impegnano al massimo per non scambiarsi smancerie e tenerezze. Anzi, ogni tanto si danno di gomito proprio come farebbero due gangster americani. Non posso non ridere quando li guardo. Belle, in cambio, mi osserva stralunata quando mi vede tossicchiare per mascherare le risa, il suo sguardo curioso mi identifica come possibile obiettivo a cui estorcere informazioni, così mi limito a mostrarle un grande sorriso innocente sperando di scagionarmi. Christine si fuma la sua immancabile sigaretta e sta seduta in mezzo alle gambe di Louis, che chiacchiera con Adam a proposito di una partita di pallone. Non ci capisco nulla, perciò nemmeno provo ad inserirmi nel discorso. Me ne sto accovacciata a terra accanto ad Alo, il quale è osservato da tutti di tanto in tanto. È il nuovo arrivato e per di più è n individuo parecchio strano, considerando i tatuaggi che lo ricoprono più o meno completamente e la carnagione chiara incorniciata da quei capelli rosso fuoco. Louis gli domanda di dov’è e lo sguardo del ragazzo si fa di nuovo vacuo e perso chissà in quale lontana epoca, come oggi pomeriggio al bar. Il discorso cade di nuovo, lo vedo ruzzolare giù a terra, Alo lo nasconde dietro la schiena sospirando. Dopo qualche quarto d’ora, vedo una bottiglia iniziare a fare il giro, tutti se la passano di mano in mano, abbeverandosi come se fosse un’oasi nel deserto quasi del tutto prosciugato. Quando arriva il mio turno tutti gli occhi si puntano su di me.
Eccola qui, la ragazzina di turno che inizia lo spettacolino serale. Vengo guardata come se fossi la cosa più divertente sul pianeta in quel momento. Per non rovinare i loro piani, sorseggio la vodka, quando stacco la bocca dalla bottiglia la mia espressione deve essere particolarmente spassosa, perché vedo tutti ridere a gran voce. Solo Alo sorride un po’ imbarazzato, non sa ancora che tipo di persona io sia. Non sa che spesso e volentieri divento lo zimbello del gruppo per le mie abitudini “sane”.
Sane perché al giorno d’oggi se non ti ubriachi ogni volta che esci la sera non sei alla moda. Sei un ragazzino, un bambino. La maggior parte degli adolescenti la pensa in questo modo, è per questo che, sempre la maggior parte degli adolescenti, ogni sabato sera torna puntualmente a casa ubriaco come uno straccio. Ed è sempre per questo che alla non veneranda età dei trenta, quaranta anni, molto probabilmente, un gran numero di loro si ritroverà alle prese con un fegato massacrato e spappolato e una pancia rotondeggiante e gonfia.
Non voglio essere estremista, né tantomeno esagerata, ma lo sguardo che hanno i tuoi amici quando fai una di quelle cose targate come proibite da mamma e papà è quanto di più odioso e fastidioso ci possa essere al mondo. Ti mettono al centro dell’attenzione e li vedi colorarsi di quel sorriso intrattenibile che gli impegna ogni sacrosanto muscolo della faccia, ti fissano e si sentono soddisfatti del loro lavoro: un’altra anima pulita trascinata nel tranello dell’alcool. C’è da andare fieri, signori miei, c’è proprio da andarne fieri.
“Io bevo, ma voi smettetela di guardarmi in questo modo. Mi viene voglia di spaccarvi la faccia” la butto sullo scherzoso, loro, però, non sanno che desidererei farlo sul serio. Mi sento alquanto diabolica e la cosa mi piace parecchio.
Mando giù qualche altro sorso di vodka, un retrogusto di pesca sciroppata mi riempie la bocca, stuzzicandomi le papille gustative. Di nuovo strizzo la faccia, il gusto forte dell’alcool mi brucia tutta la gola.
Alo prende la bottiglia dalla mia mano, il giro continua.
“Guarda il lato positivo: anche se ti ubriachi, stasera dormirai come un ghiro” si affaccia Jamie. Belle sta accanto a lui e afferra a due mani la bottiglia da lui passatagli. Si attacca a quest’ultima come se fossero mesi che non beve. Un po’ esagerata, direi.
“A meno che non sia una di quelle che si sognano i ragni. In quel caso, puoi contare su di me, verrei sicuramente a salvarti” Adam mi fa l’occhiolino esibendo un sorriso ammiccante.
Arrossisco. “So cavarmela anche da sola”
“Non ho dubbi” mi guarda di sottecchi.
“Perché non balliamo un po’?” Christine si sfila agile dalle gambe di Louis, si alza e sparisce in salone per qualche secondo. La vedo rientrare in terrazza saltellando, ha il cellulare nella mano e delle piccole casse grigie nell’altra. Collega i due dispositivi e in poco tempo le note di una canzone strombazzano dal piccolo stereo. Incredibile che da una cosa così piccola possa uscire tutto questo rumore.
Mi tappo le orecchie, Belle si alza e già inizia a muovere i fianchi con fare ondulatorio e provocante. Inizia a saltellare assieme a Christine, le due ragazze ridono divertite muovendosi in perfetto sincrono con le note della canzone.
Anche Louis si alza da terra e le raggiunge, si muove a ritmo e mi fa un po’ ridere, sembra abbia preso una bella scossa. Alo sorseggia un altro po’ di vodka, lo vedo voltarsi verso Jamie che si pettina la frangia bionda.
“Ci stai?”
“Proprio no” Jamie scuote violentemente la testa.
“Andiamo, che noia che sei” Alo lo provoca.
“E tu sei insopportabile” lo apostrofa Jamie.
Poi il ragazzo dai capelli rossicci lo prende per una mano e lo tira su, Jamie lo segue e, prima di buttarsi nella mischia, ingurgita un bel sorso di vodka. Strizza la faccia come se avesse morso un limone, poi mi porge la bottiglia con un’espressione ancora infastidita.
“Ne avrai bisogno” mi urla, trascinato via da Alo. I due si mischiano agli altri ballerini, muovono i corpi e mi sembrano sardine appena pescate dall’acqua.
Rimango sola, tranne per Adam che mi osserva inclinando la testa lateralmente. Mi alzo, non mi perde di vista, mi affaccio e guardo giù in strada, i lampioni sono accesi e illuminano sporadicamente delle piccole porzioni di strada. Il resto del marciapiede è buio e nero. Riesco a scorgere un uomo in ciabatte, il pigiama probabilmente è a righe, cammina lentamente lungo la strada e porta al guinzaglio un cane, mi sembra un labrador.
“Tu non balli?” Adam alza la voce per sovrastare la musica e mi raggiunge prendendomi alle spalle. Mi affianca e poggia le mani sul balcone, guarda giù, guarda me.
Scuoto la testa convinta. “Non mi piace ballare”
“Non è possibile”
“Ah no?”
“No”
Lo guardo confusa, aggrotto le sopracciglia. È sempre così sicuro di quello che dice, mi fa venire voglia di prenderlo a schiaffi qualche volta, quell’espressione saccente e impertinente mi sembra quella di un bambino impettito che litiga con la sorella minore.
“È perché sei timida. Non esiste una ragazza a cui non piace ballare, andiamo. Esistono ragazze che non sanno ballare, ma voi adorate la danza. È una cosa prettamente femminile” un ricciolo gli cade davanti gli occhi, lo sposta col dorso della mano. L’intensità dei suoi occhi verdi mi colpisce come una frustata.
La cosa che mi dà ancora più fastidio del suo fare saccente è senza dubbio il fatto che so che lui ha ragione. A me piace ballare, spesso a casa da sola mi esibisco in veri e propri saggi di danza, con tanto di musica e colonna sonora, perfino applausi e mazzolino di fiori finale. Al contrario, non entrerei mai in una discoteca, lo trovo un luogo soffocante in cui adolescenti con gli ormoni in subbuglio si strusciano l’uno contro l’altro, sudano mischiando i propri liquidi, alcuni se ne vanno in bagno a consumare pacchi su pacchi di preservativi con sconosciute incontrate lì per lì, altri semplicemente preferiscono infilare pasticche bianche nei bicchieri altrui. Per non parlare di quelle che potrebbero direttamente andare nude, il piccolo pezzo di stoffa crea un effetto sui loro corpi formosi ben distante dal “vedo, non vedo”: si potrebbe dire che l’effetto è, piuttosto, un “vedo tutto, forse anche troppo”.
“Semplicemente, non mi va di ballare” spiego un po’ stizzita, un alito di vento caldo mi solletica il viso.
“Ah, non ci credo” mi dà una piccola spinta sulla spalla. “Beh, se vuoi rimanere qui da sola, fa pure” detto ciò, si allontana da me e si butta anche lui nella mischia. Muove il bacino con fare provocante, mi guarda mentre mi manda dei baci con la bocca.
Scoppio a ridere guardandolo, mi porto la testa fra le mani.
“Coraggio, principessa” mi invita Adam, mi indica con l’indice facendomi segno di avvicinarmi.
E ora, sono ad un bivio: di fronte a me ci sono due strade, le vedo chiaramente e sono ben distinte. Mi fermo un attimo a pensare, vedo il mio corpo adagiarsi pensoso su una roccia. La strada di destra è quella del divertimento, ha una forma serpeggiante, ed è luminosa, mi pare invitante, eppure tutte quelle luci mi trasmettono un po’ di angoscia. La strada di sinistra, invece, è dritta e spigolosa, di luci non se ne vedono affatto. È la strada della pura e semplice normalità, un po’ noiosa a dire la verità. Nessuno la sceglierebbe, nessuno tranne me, che ho la fobia di tutto, forse anche la fobia di avere fobie.
Ma stavolta prendo un gran respiro, i miei polmoni accolgono tutta l’aria possibile e ancora prima di buttare fuori tutta l’anidride carbonica in eccesso, mi chino a raccogliere la bottiglia di vodka. Ne butto giù un lungo sorso. Non mi piace affatto l’alcool, la sensazione di calore sulla gola, però, mi trasmette una certa serenità.
“Allora coraggio” zampetto fino ad arrivare accanto ai miei amici, tutti si muovono con foga, alcuni, tipo Louis, saltano fomentati e cantano sovrastando le parole della canzone. Io inizio a muovere i fianchi, dapprima lentamente, poi aumento l’intensità dei miei movimenti a mano a mano che sento il calore dell’alcool attraversarmi tutte le vene. Porto le braccia in alto e poi percorro tutto il mio corpo con le mani con fare provocante. Adam, che prima ballava disinibito, a poco a poco rallenta il ritmo, un sorriso si spalanca sul suo volto, mentre i suoi occhi mi mangiano a morsi.
Sono sempre stata convinta di essere una frana a ballare, ma a quanto pare mi sbagliavo.
Faccio un giro su me stessa, continuo sempre a muovermi lentamente, i movimenti dolci e fluidi vengono intrapresi dal mio bacino e dalle mia braccia. Socchiudo gli occhi mentre dondolo la testa, mi muovo ad un ritmo tutto mio. Di scatto riapro gli occhi quando le mani di Adam mi prendono per i fianchi e mi fanno fare un altro giro su me stessa. Ci ritroviamo faccia a faccia, i nostri nasi si sfiorano mentre le mie braccia avvolgono il suo collo avvicinandolo di più a me. Ondeggiamo allo stesso ritmo, ogni tanto riceviamo qualche botta da parte di Alo, o di Louis, o di Christine, o di qualcun altro che si muove con troppa foga. Non ci distraiamo più di tanto, gli occhi rimangono incatenati gli uni agli altri.
“Hai visto che non è così male?” mi sussurra all’orecchio, di nuovo mi fa piroettare.
Non rispondo, mi limito a sorridere, incomincio a sentire un po’ di indolenzimento ai fianchi.
“Lou che balla?!” Christine mi strappa ad Adam e mi tira a sé. Scoppiamo a ridere mentre, abbracciate, giriamo su noi stesse. Sento una vena di allegria percorrere il nostro gruppo, anche Belle si unisce a me e Christine. Ci muoviamo tutte e tre insieme e in quel momento sembriamo veramente una di quelle confraternite di ragazze amiche per la pelle, di quelle che fanno i patti col sangue e si scambiano settimanalmente paia di jeans e scarpe firmate.
Adam smette di ballare, lui e Louis si poggiano con la schiena alla ringhiera e ci osservano. Stranamente non mi vergogno e probabilmente è per colpa - merito – dell’alcool, che, glielo concedo, devo ringraziare per questa volta. Lo sguardo malizioso di Adam continua a percorrere le mie curve rotonde, non molla un attimo la mia figura.
Alo verso l’una e mezza di notte ci saluta congedandosi, dice che è tardi e mentre lo dice ride a gran voce. Solo allora ci rendiamo conto che delle due bottiglie di vodka che avevamo tirato fuori dal frigo ne rimane poco e niente. Jamie si offre di accompagnarlo a casa, si giustifica dicendo che è suo amico, non vuole lasciarlo andare in giro in questo stato, soprattutto a quest’ora della notte. Ci informa che si fermerà a dormire da lui, abita abbastanza lontano da qui, non ha voglia di rifarsi tutta la strada da solo. Si mette il braccio di Alo intorno alla spalla e, con un cenno della mano e un sorriso carico di sottintesi che solo io e Adam afferriamo, sparisce dietro la porta.
Vedo Belle piuttosto delusa. Si accovaccia sul divano e sbadiglia coprendosi la bocca con la mano. Si stropiccia l’occhio. Mi sento triste per lei e, di conseguenza, avverto un terribile senso di colpa.
“Belle” mi avvicino accomodandomi accanto a lei. “Jamie non …” cerco un modo carino per dirlo, ma mi rendo conto che non c’è. Quindi dico tutto d’un fiato, come lo strappo di un cerotto. “Jamie non è interessato a te”
Belle mi rivolge uno sguardo stupito e contrito, sembra un cucciolo appena abbandonato. Ha sempre visto il suo padrone come un fedele compagno di vita e ora è rimasto solo sul ciglio di una strada, le insidie del mondo pronte a chiuderlo in un angolo. “C-come?” balbetta incredula. Si vede che non è abituata ad un rifiuto. Il suo bel corpo e gli occhi espressivi sono ben apprezzati dal genere maschile. Peccato che Jamie abbia altri interessi.
 “Ne abbiamo parlato e … mi ha detto …” mi arrampico sugli specchi. “Belle, lui ha un’altra. Un’altra ragazza che gli piace, che lo aspetta in città. Stanno insieme da poco, è una cosa nuova. Però lo vedo molto preso” a ogni parola che dico la vedo sempre più affranta. “Non voglio vederti così per lui. Andiamo, ne puoi avere quanti ti pare” la scuoto un po’. “O no?”
Belle annuisce, ma non sembra molto convinta. “Oh, Lou … che fatica l’amore” sussurra, si alza dal divano e si guarda intorno, sembra un po’ spaesata.
Già, che fatica l’amore.
“Vado a dormire, cerca di fare piano quando mi raggiungi” mi intima, a testa bassa si allontana.
Questa vacanza comincia a sembrarmi una sorta di tragedia greca. Ci sono le dee, ci sono gli eroi, c’è l’amore e la tristezza. Non manca niente.
A quel punto mi alzo anche io dal divano e mi dirigo in bagno per infilarmi il pigiama e andare a dormire. Prima di attraversare la porta del bagno vengo bloccata da Adam, mette una mano sulla maniglia placcandomi.
“Buonanotte, Lou” sussurra, la sua voce ha un suono più dolce del solito, come fosse una dolce melodia mi riempie le orecchie e mi rimbomba nella testa. Sento la quantità di zucchero nel mio sangue aumentare vertiginosamente. Adam si china verso di me, i suoi occhi sono fissi nei miei e riducono mano a mano la distanza tra noi. Chiudo le palpebre e le stringo forte trattenendo il respiro. Avverto le labbra di Adam sul mio viso ma, con mia sorpresa, le localizzo sulla mia guancia, non sulla mia bocca. Il ragazzo mi sta facendo penare e non poco.
“B-buonanotte” balbetto sconnessamente.
Ridendo si allontana, l’ultimo rumore che ascolto sono le molle del letto che scricchiolano sotto il suo peso. 

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Capitolo 42
*** 42 ***


Mi giro e mi rigiro nel letto continuamente, il lenzuolo ormai è ridotto ad un unico cordone attorcigliato su sé stesso. Osservo Belle che dorme serenamente al mio fianco, ha gli occhi chiusi e la bocca rilassata, il respiro tranquillo le fa alzare ritmicamente il petto. Fossi stata in lei, mi sarei già svegliata da molto: questa notte mi sto muovendo come un toro imbizzarrito. Sblocco la tastiera del cellulare in continuazione per vedere l’orario, le due e mezza, le due e quaranta. Ora sono le due e cinquanta e io me ne sto qui, gli occhi sbarrati e le mani sudate che si torturano a vicenda. Sapere Adam a pochi metri da me mi manda in fibrillazione, ogni cellula del mio corpo avverte la sua presenza e quest’ultima è troppo vicina per essere ignorata. Così mi ostino a mordermi le labbra per costringermi ad ancorarmi a questo letto stropicciato dai miei movimenti sconnessi. Cerco di mantenere la calma, anche se sento ogni muscolo tirato e teso, pronto a scattare alla minima evenienza. Non si sente nemmeno un rumore, tutta la casa è sprofondata in un pesante silenzio catatonico. Tutti staranno sicuramente dormendo, recuperano le forze per il giorno dopo, per essere attivi e vogliosi. Io, al contrario, domattina sarò in una sorta di stato comatoso per tutta la giornata. Ne sono quasi certa, quindi serro gli occhi con violenza e mi costringo ad addormentarmi. Il mio cervello non vuole saperne di riposarsi, continua a produrre pensieri su pensieri, mi sembra di avere un omino logorroico impiantato nel cranio. Questo parla, parla, non tace neanche per riprendere fiato.
Insomma, sta un po’ zitta!
La testa mi scoppia e sento le tempie che mi pulsano. Vorrei tanto dormire, davvero, mi piacerebbe. Ma non ci riesco, è più forte di me. Mi sembra di andare in tilt, di perdere il controllo su me stessa.
Con un sonoro sbuffo mi metto a sedere alzando il cuscino contro il muro e posandovi la schiena. Mi stropiccio gli occhi nell’intento di strizzare via tutta quell’energia improvvisa. Più che energia la si potrebbe chiamare insoddisfazione. Sento una strana sensazione che mi percorre la pelle, mi dà fastidio e mi indolenzisce addirittura le ossa.
Poso l’orecchio sul muro per rinfrescarmi, provo immediatamente una sensazione di refrigeramento che mi si espande in tutto il corpo e sospiro rilassata. L’unico rumore che avverto, se tendo bene le orecchie, è lo sciabordio lontano delle onde. Se aumento l’attenzione, però, questo suono mi sembra sporco, coperto da un sospiro strozzato.
Un sospiro strozzato?
Accosto di più l’orecchio al muro, una leggera frescura mi penetra nelle ossa. Mi giunge alle orecchie un rumore che sembra un respiro appesantito e soffocato, spezzato qua e là da  qualche singhiozzo.
Adam!
Scatto giù dal letto con un agile salto, i miei muscoli accompagnano le mie decisioni, non aspettavano altro. Spalanco la porta con quanta più delicatezza posso e  in punta di piedi mi dirigo nella camera accanto. Faccio pressione sulla maniglia e mi infiltro nella stanza lasciando la porta accostata alle mie spalle. Anche se è molto buio, riesco a intravedere la figura di Adam nel piccolo letto addossato al muro. Si muove quasi contorcendosi, il suo petto nudo si alza e si abbassa molto velocemente, segno che i respiri strozzati che sentivo provengono proprio da lui.
“Adam …” sussurro indugiando sui miei stessi passi, il dolore delle persone mi ha sempre reso un po’ più debole, così ora mi ritrovo ad avvicinarmi molto lentamente e un po’ spaventata.
Il ragazzo sembra non sentirmi, il suo petto non vuole saperne di rilassarsi. Mi faccio coraggio e, raccogliendo tutte le forze che ho, percorro gli ultimi metri che mi separano da Adam.
Mi siedo sul bordo del letto e mi chino sul comodino in legno, accendo l’abat-jour che vi è adagiata sopra. Un piccolo cerchio di luce abbraccia me e Adam, io finalmente riesco a vedere il suo volto. Gli occhi sono rigorosamente serrati e strizzati, la fronte è imperlata di sudore e le guance sono inumidite da piccoli cristalli di lacrime che continuano a scivolargli giù dagli occhi. La bocca è mossa da brevi fremiti simili a parole sconnesse, anche se dalla sua gola non vi esce alcun suono di senso compiuto, se non singhiozzi appena soffocati.
Con le mani gli accarezzo il viso, asciugandogli le lacrime con i pollici.
“Ehi, ehi” sussurro avvicinandomi un po’ di più. “Adam, ascoltami” stringo di più il suo viso cercando di svegliarlo. Non voglio urlare o scuoterlo, servirebbe soltanto a fargli prendere un colpo e a traumatizzarlo. Punto sulla dolcezza e sulla delicatezza, come se fossi una madre che consola il figlio svegliato da un terribile incubo.
Adam continua a muoversi imbizzarrito, sposta il sottile lenzuolo con una manata, indossa soltanto i boxer e ha il petto lucido di sudore.
“Adam, ascoltami” la mia voce è più intensa, si alza di qualche ottava, quel tanto che basta per farmi sentire dalle sue orecchie indaffarate.
Apre gli occhi di botto, il verde viene illuminato dalla fioca luce dell’abat-jour ed io vedo le sue pupille cambiare dimensione velocemente, farsi da cupe ed enormi a piccole e indifese. “N-non riesco a r-respirare” balbetta sconnessamente, le parole sono inframmezzate da tentativi inutili di riprender fiato. Lo vedo combattere contro l’anidride carbonica che gli riempie i polmoni, questi ultimi si dilatano per accogliere quanta più aria riescono ma nel processo c’è qualcosa che non va, qualcosa che non torna.
“Sta calmo e cerca di respirare” mimo dei lunghi respiri posandogli le mani sulle spalle. Lo aiuto ad alzarsi vedendolo in difficoltà. Poggia la testa al muro, strizza gli occhi e poi li riapre. Si porta una mano al petto mentre dalla bocca escono sbuffi di respiro insostenibili.
“Non ci r-riesco” mormora, il panico straborda dalla sua voce come fosse un fiume in piena. Posso quasi riuscire a toccarlo per quanto lo sento presente.
“Guardami, fai come faccio io” alzo le spalle a ritmo assieme al respiro cercando di mostrargli come fare.
Il mio intento ha poco successo, in quanto Adam non dà segni di ripresa. Il suo viso è stravolto, pallido e stropicciato come uno straccio, mi sembra che non dorma da mesi. Le occhiaie sono così intense che i suoi occhi appaiono scavati.
“Lou, non ce la faccio” la sua voce è appena un sussurro, un’altra lacrima sgorga impetuosa e gli scorre fino all’incavo del collo.
“Si, invece” con un braccio sposto il suo corpo un po’ più in là, verso il muro, ricavando un angoletto per infilarmi nel letto accanto a lui. Mi accovaccio incrociando le gambe quasi in una posizione yoga. Sto un po’ scomoda, ma pazienza.
“N-non lasciarmi” Adam serra gli occhi e posa rumorosamente la testa contro il muro, i respiri sono più lunghi ma lo sforzo che fa per riprendere fiato è tangibile.
Stringo la sua mano nella mia, vedo le sue nocche sbiancare e il sangue smettere di scorrere. “Guardami, per favore. Devi fidarti di me” i miei occhi annegano nei suoi. Con la mano percorro il suo viso, fino ad arrivare al suo petto. Sento battere il suo cuore come un martello contro il mio palmo aperto. “Respira” la mia fa più pressione sul suo petto, come se volesse ricacciare dentro quel cuore impazzito.
Adam inizia a collaborare, tiene gli occhi inchiodati nei miei senza spostarli d’un millimetro dalla loro posizione. Il suo corpo comincia molto lentamente a rilassarsi, gradualmente il battito folle del suo cuore rallenta a mano a mano che il suo respiro diminuisce.
Che vacanza sarebbe stata senza un attacco di panico? Sarebbe stata una normale vacanza. Ma da quando in qua la normalità fa parte della mia vita?
Ora è la mano di Adam a chiudersi ossessivamente attorno alla mia, la tiene stretta come se avesse paura di vedermi dissolvere da un momento all’altro, come se non fosse sicuro della mia reale esistenza.
Quando lo vedo calmarsi, i respiri tornati finalmente ad un ritmo più naturale, mantengo lo sguardo nei suoi occhi e parlo con molta cautela, attenta a ciò che dico. “Che ti è successo?”
“Ho sognato …” mormora Adam senza aggiungere altro, sembra faticare per trovare le parole. 
“Cosa, Adam? Che hai sognato?” lo incoraggio con una mano sulla spalla.
“Ho sognato te” confessa deciso.
Ora è il mio di cuore che inizia a battere ad un ritmo esagerato. Non riesco a vedere positivamente questo fatto, dal momento che il solo sognare la mia faccia gli abbia provocato un attacco di panico coi fiocchi.
“E …”  balbetto sconnessamente. “E che facevo?” sussurro.
A dir la verità, non sono molto sicura di volerlo sapere, eppure mi ritrovo da tutt’altra parte ad essere terribilmente curiosa. Che avrò fatto mai nel suo sogno per ridurlo ad uno straccio del genere?
Adam abbassa gli occhi, si guarda le mani che torturano un lembo del lenzuolo coprendosi i boxer. Le lunghe ciglia gli nascondono lo sguardo e io inclino la testa per cercare di leggere qualche pensiero fugace che gli si disegna sul viso.
“Mi dicevi che …” sospira, prende coraggio. “Mi dicevi che mi ami”
Beccata. E adesso?
Mi schiarisco violentemente la gola e d’istinto mi tocco i capelli tirandomeli dietro l’orecchio. I soliti segni d’imbarazzo che non riesco a tenere a freno. Le mie guance arrossite sotto questa luce scolorita avranno un aspetto molto malaticcio che, al solo pensiero, mi fanno rabbrividire.
“All’ospedale, me lo dicevi. Mentre dovevo ancora svegliarmi” aggiunge. “O perlomeno, secondo la tua prospettiva dovevo ancora svegliarmi” inclina la testa decifrando la mia espressione che a poco a poco lascia trasparire il panico.
“Stai dicendo che … mi hai sentito?” deglutisco rumorosamente, avverto un tremolio preoccupante che dalle mani comincia ad espandersi anche nelle gambe.
“Si, ti ho sentito” mormora con voce decisa.
“Ehm, io …” volgo lo sguardo altrove.
Siamo alla resa dei conti: adesso non si scappa più. Chiunque abbia paura non può chiamarsi fuori, siamo arrivati in un vicolo stretto, un pertugio ricavato tra una strada e l’altra. I lampioni sono spenti e le vie sono buie, non si può più tornare indietro, si può solo guardare avanti e affrontare ciò che ci si troverà di fronte.
“Perché non mi guardi?” mi strattona il braccio. “Perché scappi sempre?”
“Non sto scappando”
“Si, invece. Anche adesso lo stai facendo”
Rimango in silenzio, punta nel vivo. Adam sta infilando il coltello nella piaga, è lui che tiene il manico e io sono rimasta bloccata e disarmata.
“Scusami” mormoro imbarazzata.
“Spiegami. Stavolta sono io che non capisco” un piccolo sorriso si disegna sul suo volto
“Non c’è niente da spiegare” mento nascondendo il viso dietro una folta ciocca di capelli.
Adam la sposta con la mano e mi inchioda con uno sguardo inquisitore.
Sospiro con vigore. “Ho paura, ancora non si è capito?” ammetto disarmandomi completamente. Mi sento nuda, spogliata di ogni dignità, di ogni segreto. Spogliata di tutto. “Ho paura di essere una stupida ragazzina che si innamora a vuoto. Ho paura di non essere abbastanza per te, di non essere alla tua altezza. Ho paura di te, ho paura di me stessa” dico tutto d’un fiato. Provo una sensazione di vuoto, mi sento nuovamente pronta ad accogliere altre ansie e problemi, ora che mi sono liberata di questo peso ho così spazio in eccesso che quasi mi spaventa.
Io ho paura di perderti. Io ho paura di non essere abbastanza per te. Sono uno stupido, ho degli stupidi attacchi di panico per delle stupide cose e …” tace e il suo sguardo mi sembra più perso che mai. I suoi occhi si smarriscono chissà dove, in posti a me sconosciuti e irraggiungibili.
“Non ci credo, non riesco proprio ad immaginarti a soffrire per me, davvero” ammetto guardandolo confusa.
“Questo perché la tua autostima è pari a zero” spiega pragmatico. “Quando invece dovrebbe essere a mille. Tu non ti rendi conto delle tue potenzialità, e non parlo solo del tuo fisico” specifica alzando un sopracciglio.
“Ma quali potenzialità! Finché non sei arrivato tu, la mia vita era vuota e insipida” ammetto a testa bassa. “Tu non sai com’ero, non puoi immaginare che tipo di persona io sia in realtà. Nemmeno lontanamente! Tu non …” parlo in modo concitato, sento la vena sul collo gonfiarsi vertiginosamente.
Prima che riesca a continuare, Adam mi interrompe tirandomi a sé. “Sta zitta”
Le sue labbra incontrano impetuose le mie avvolgendole in un urgente bacio e, in poco tempo, mi ritrovo legata al suo corpo, le gambe allacciate al suo bacino, le braccia strette attorno al suo collo. Siamo costretti a fermarci per qualche istante, quel poco che serve per riprendere un minimo di fiato. Gli sguardi rimangono rigorosamente l’uno nell’altro, il resto del mondo non esiste più.   
Le sue labbra iniziano a percorrere l’incavo del mio collo facendomi rabbrividire. Dalla mia bocca escono dei sospiri strozzati, appena udibili.
Adam si blocca all’improvviso, sento il suo respiro arrivarmi dolce e caldo sulla pelle. “E comunque, in caso ti interessasse …” inizia, la voce è ridotta ad un sussurro appena pronunciato. “Anche io ti amo” le parole escono fluide dalla sua bocca, suonano così naturali ed è come se le avesse provate e riprovate davanti ad uno specchio. Come se le avesse tenute sulla punta della lingua per tutto questo tempo e avesse trovato la forza di tirarle fuori soltanto adesso.
Rimango in silenzio, spiazzata da quella verità che, nella mia testa, era sempre sembrata una totale assurdità. Cado in una sorta di trance, gli occhi rimangono ipnotizzati dai ricci neri di Adam ed io resto congelata nella stessa posizione per degli interminabili secondi.
Sentendomi così assente, Adam alza gli occhi per decifrare la mia espressione, ma prima che possa dire qualsiasi parola, lo anticipo esplodendo in una risata cristallina. Riempio il suo viso di baci, tenendomi per ultima la bocca.
“Ma non era una tregua di amicizia la nostra?” sussurro contro il suo collo mentre i suoi denti afferrano il lobo del mio orecchio. Lo sento ridere contro la mia pelle, il suo fiato vibra nell’aria.
Adam mi risponde col fiatone, continua a percorrere l’incavo del mio collo con le labbra. “Facciamo finta di essere altre persone. Questi non siamo noi” sussurra, il suo alito caldo mi fa rabbrividire.
Ci blocchiamo per un istante, annego nei suoi occhi, poi riprendo a baciarlo, le mie labbra testano la morbidezza delle sue mentre le sue mani mi sfilano la maglietta di dosso, tirandola sul pavimento. Con le mani esplora ogni centimetro della mia pelle, dei brividi bollenti nascono alla base della mia schiena espandendosi velocemente su tutto il mio corpo, gioca col bordo degli slip tirando l’elastico e solleticandomi il fianco. Percorro il suo petto caldo con le mani aperte, esplorando la sue pelle morbida, le sue labbra non mollano le mie neanche per riprendere fiato. Ogni centimetro della mia carne sembra prendere fuoco, le mani di Adam vi lasciano sopra delle scintille che fanno esplodere continuamente degli incendi estesi e bollenti.
“Non siamo noi” sussurro come a dargli una conferma.
Mantiene gli occhi fissi nei miei mentre si alza all’improvviso lasciandomi sola nel letto. Indosso solo gli slip, ma non sento il bisogno di coprirmi. Questa non sono io.
Adam chiude la porta sempre senza distogliere lo sguardo dal mio corpo, per poi tornare accanto a me e infilarsi nel letto. I nostri corpi di nuovo si riallacciano, sembrano due pezzi di una costruzione dei lego, combaciano alla perfezione, si chiudono e si adattano l’uno all’altro senza sforzi. Come se fossero stati destinati da sempre a rimanere insieme.  
La bocca di Adam lascia la mia dandomi tempo di accogliere altro ossigeno nei polmoni, si allunga fino ad arrivare all’abat-jour per spegnerla cliccando il piccolo interruttore nero.
L’ultima cosa che vedo sono i suoi occhi grandi, risplendono di un verde rigoglioso che mi intrappola nella sua luce iridescente. Poi, veniamo entrambi divorati dal buio.

***
Ooolè, eccoci al grande capitolo! Finalmente, per la gioia di tutte voi, Adam e Lou hanno ... come si può dire in modo carino? Sono passati in seconda base, mi spiego? 
Insomma, non ho descritto la scena nei minimi particolari perchè 1. non saprei descriverla in modo .. esatto (?) e 2. la mia è una storia a rating arancione, e mi sta benissimo così. 
Spero, come sempre di non avervi deluso, ma OVVIAMENTE se avete una qualsiasi critica da farmi, FATELA, perchè può soltanto aiutarmi a migliorare. Giuro che non mi offendo v.v Un'altra cosa che vi chiedo è di dirmi se sono stata banale e troppo sdolcinata. Tendo sempre ad esagerare quando descrivo 'sti momenti qua. Speriamo bene t_t
Poooi, devo ringraziarvi, costruirvi statue d'oro a destra e a manca perchè ... ho superato le 100 recensioni! CENTO! So che ci sono storie che ne hanno tipo mille, ma per me è un ENORME RISULTATO e non potrò mai ringraziarvi abbastanza per esserci sempre e sostenermi, manco foste mia madre :') Siete tutte delle ragazze dolcissime e meravigliose e come al solito vi amo tutte. Mi fa tanto piacere anche il fatto che molte di voi mi hanno detto che si riconoscono nel personaggio di Lou, sia per il lato coraggio che per quello super timido. Non sapete quanto significa per me. TROPPO. 
Ok, concludo e vi ricordo che se sparisco per qualche giorno è tutta colpa del carcere (scuola), ma teniamo duro, siamo quasi alla fine!
Un bacione enorme, vi adoro tessssori! <3 

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Capitolo 43
*** 43 ***


Di nuovo mi ritrovo al buio, attorcigliata dalle coperte sudate e appiccicate al mio corpo, gli occhi gonfi sbarrati a contemplare i giochi di ombra e luce che creano le persiane appena spalancate. Il cuore mi pompa nel petto, indaffarato a battere forte contro le mie costole. Mi stringo le braccia attorno al corpo. La sensazione di benessere che fino a poco prima mi avvolgeva nelle sue braccia lunghe, sembra essere completamente sparita. Dissolta nel nulla più totale, provo a ricercarla nel vuoto, perdendomi nel buio della mia ansia, nei meandri dell’angoscia che, insidiosi, mi afferrano  con le loro lunghe mani privandomi della spensieratezza.
Il mio corpo è incollato a quello di Adam. Mi offre appoggio sul suo braccio intorpidito schiacciato dalla mia testa, mentre con l’altro braccio mi avvolge tenendomi stretta a lui. Sento il suo petto alzarsi e abbassarsi ritmicamente, il suo respiro caldo e rilassato mi solletica l’orecchio provocandomi dei piccoli brividi sulla schiena. Ogni tanto si muove, sembra stiracchiarsi contro il mio corpo per poi risistemarsi più comodamente. Una buona metà del letto è vuota e fresca, i nostri corpi ammassati si concentrano entrambi sul lato destro.
Con molta cautela tento di sfilare via il suo braccio pesante, sostituisco il mio corpo con un cuscino, lo faccio con movimenti attenti e quasi immobili per quanto lenti. In seguito, scivolo fuori dalla sua stretta e mi sento immediatamente vuota e infreddolita. Mi stringo le mani intorno al corpo ancora nudo e mi guardo intorno stringendo gli occhi alla ricerca degli slip e del pigiama. Dove saranno finiti? In punta di piedi percorro la stanza perlustrando ogni centimetro del pavimento. Il mio piede incontra della stoffa a terra che, chinandomi, scopro essere il mio malconcio pigiama. Intanto ho trovato un pezzo, è già qualcosa. Lo infilo facendolo aderire al mio corpo ancora sudaticcio. Stamattina l’aria sembra mancare in questa stanza. Continuo a gravitare intorno ai mobili, la testa bassa e il cervello concentrato come fossi un cane da caccia alla ricerca di un tartufo pregiato.
“Beccati!” sussurro tra me e me quando il mio piede incontra l’ennesimo pezzo di stoffa. Raccolgo gli slip e li indosso velocemente. Poi, sempre col massimo silenzio, zampetto verso la porta ed esco richiudendola alle mie spalle.
Il resto della casa è ben illuminata dalla forte luce mattutina che irrompe nel salone dalla grande porta-finestra che conduce alla terrazza. Tutte le altre porte della casa sono chiuse, il silenzio regna sovrano ed io mi sento serena in quella pace assoluta.
Nel lavabo della cucina vi sono ancora dei piatti sporchi, aspettano di essere lavati, così, in mancanza d’altro, inizio a sciacquarli con un filo d’acqua e uno spruzzo di detersivo. Faccio forza con la spugnetta scrostandoli e detergendoli per bene, poi, quando li vedo puliti, li ripongo nella credenza. Ne estraggo la mia tazza, quella blu e larga, e la riempio con un po’ di latte freddo trovato nel frigorifero. Sperando che il microonde funzioni, ve la infilo e premo il pulsante start. L’aggeggio elettronico si accende con un rombo abbastanza preoccupante, ma non esplode né fuma, perciò continuo a preparare tranquilla la mia colazione. Prendo un pacco di biscotti chiuso alla bell’è meglio con una molletta rubata dallo stendi-panni e mi dirigo in terrazza per posarli sul tavolo in legno riscaldato dai raggi solari rilucenti. Il bip del microonde mi richiama in cucina, correndo raggiungo l’elettrodomestico bloccando la sua corsa con un pulsante. Estraggo il latte fumante, il suo profumo forte e umido mi riempie il naso. L’orologio appeso al muro mi avverte che sono le sette e un quarto della mattina e che sono in vacanza, di conseguenza a quest’ora dovrei essere svenuta in una sorta di sonno profondo e rifocillante. Invece no, sono già in piedi e questa notte avrò dormito sì e no una decina di minuti. O per l’ansia di star lontano da Adam, o per l’angoscia di averlo troppo vicino, oppure per i sentimenti estremi e assolutamente nuovi provati mentre …
Quasi scivolo uscendo dal salone, il piccolo scalino che lo divide dal terrazzo è un attentato alla vita umana. Sembra messo lì apposta per buttare a terra qualcuno, come se un architetto per ripicca a qualcuno si fosse inventato questo piccolo tranello capace di diventare grande.
Una grossa goccia di latte troneggia di fronte ai miei piedi. La scavalco con attenzione e poso la tazza sul tavolo, accanto alla busta dei biscotti. Ritorno in cucina sbuffando, chissà se stamattina riuscirò a fare colazione, e strappo un lembo di scottex per asciugare il latte caduto. La carta assorbe in fretta non lasciando alcuna traccia sul marmo candido del pavimento. La butto nel cestino e, finalmente, mi accomodo con un lungo e pesante sospiro.
Intingo il biscotto nel latte e il mio sguardo si perde altrove, al di là del terrazzo, al di là degli alti palazzi che torreggiano di fronte alla mia vista, mi perdo laggiù fin nel mare, le onde che, placide, rilucono d’una luce particolare, un po’ verdognola e un po’ azzurrina, baciate dai raggi solari.
E se Adam non fosse la persona giusta? Se avessi gettato all’aria uno dei momenti più emozionanti della mia vita? Se non ci avessi riflettuto abbastanza?
Stanotte è successo tutto così velocemente ed io non sono più così sicura di aver fatto la scelta esatta. Insomma, io amo Adam, lo amo davvero e so di non poter stare senza di lui. E, a sentir la sua, anche per lui è così, prova gli stessi sentimenti nei miei confronti. Me lo ha dimostrato ultimamente, non posso che credergli. Ma se avessimo dovuto aspettare più tempo, invece di fare tutto subito? Abbiamo bruciato molte tappe, siamo giunti subito al dunque senza concederci del tempo per riflettere, per pensarci un po’ su. Mi sento buttata via, usata, oserei dire. Eppure, starmene lì, stretta tra le sue braccia … vi sarei rimasta per sempre.
Addento il biscotto floscio, inzuppato di latte, lo mastico svogliatamente con lo sguardo sempre rivolto altrove. L’odore dei ginepri che albergano i marciapiedi qui sotto è molto forte stamattina, il loro profumo mi riempie il naso.
Ho diciassette anni, sono pochi, davvero pochi. La mentalità odierna, mentalità che si basa sul “fare tutto e farlo subito”, è decisamente diversa dalla mia. Anzi, direi quasi che è l’opposto. Anche io ho voglia di fare certe cose, è ovvio, come tutte le ragazze della mia età ho voglia di sperimentare, di divertirmi, di vivere la mia vita come devo, ma anche come vorrei. È la paura a bloccarmi. Una paura che non è una vera e propria paura. Risiede nella mia coscienza e mi domanda in continuazione “È proprio questo ciò che vuoi fare?”. Agisco in base alla risposta che do, non mi faccio influenzare dalla società, composta per la maggior parte da troie e, in gran numero, da poco di buono. Non voglio essere estremista, né vedere tutto o bianco o nero, ma non posso fare a meno di allontanarmi dalla gioventù odierna, di chiamarmi fuori alzando le braccia al cielo in segno di resa. Esatto, mi arrendo di fronte a tutti quei ragazzi che il sabato sera escono con il solo scopo di ubriacarsi. Di tutte quelle ragazze che la danno al vento come se non fosse loro, che trattano la verginità come se fosse un cartone di latte che può essere ricomprato al supermercato in qualsiasi momento. Mi arrendo davanti a questa gioventù senza valori, dove lo sforzo, lo studio, le ambizioni e la dedizione sono ormai cose dimenticate e sepolte. Troppo impegnative per meritarsi delle attenzioni. Vivo in un mondo in cui uno studente deve vergognarsi di dire che ha passato il pomeriggio a studiare, mentre quello che non apre libro se ne vanta, acclamato da tutti gli altri. Vivo in un mondo in cui si va fieri del numero di birre bevute senza ubriacarsi, non del numero di buoni voti che si riporta a casa. Vivo in un mondo nel quale non vorrei vivere, in un mondo contro il quale combatto ogni giorno disarmata, circondata da serpi dalle mille mani, armate fino ai denti. Pronte a distruggermi.
“Buongiorno, Lou” la voce soave e delicata mi giunge alle orecchie facendomi sobbalzare nonostante il timbro basso e appena pronunciato. È la stessa voce che stanotte sussurrava il suo nome, sussurrava di amarmi e al solo pensiero dei brividi roventi mi percorrono la schiena.
Sento improvvisamente la gola ardermi, ingoio un lungo sorso del latte che ormai è diventato un brodino freddo e disgustoso. “Ciao” guardo Adam rimanendo seduta al mio posto. Incrocio le gambe e mi gratto un braccio. Subito dopo afferro un biscotto e lo intingo nel latte, però non lo mangio, lo lascio lì a fluttuare nel mare bianco e opaco racchiuso nella tazza.
“Mi sono ritrovato ad abbracciare un cuscino. Ne sai niente?” l’ombra di un sorriso gli attraversa il volto. Si pettina maldestramente i ricci, lo vedo strappare via la mano con difficoltà da quel groviglio arruffato che sono i suoi capelli.
Mi schiarisco la gola imbarazzata, scosto i capelli dal viso e osservo il biscotto nella tazza che lentamente si sbriciola disperdendosi. “Non volevo svegliarti”
“Non volevo che ti svegliassi”
Mi volto a guardarlo, ha un’espressione impettita e un po’ preoccupata. La mia espressione deve sembrargli angosciata, al contrario delle sue aspettative.
Sparisce dalla mia visuale senza aggiungere nulla, rimane nascosto in cucina per una manciata di minuti interminabile. Nel frattempo io rimango nella medesima posizione, come se il tempo si fosse fermato. Lo sguardo perso chissà dove, le mani afflosciate sulle mie ginocchia nude, il latte che si fredda sempre più, il biscotto che sparisce sotto il mio sguardo.
Poi ritorna trionfante, anche lui con una tazza di latte fumante nella mano, due cucchiaini chiusi nell’altra. Si siede vicino a me, posa un cucchiaino accanto alla mia tazza.
“Ho visto che non l’avevi preso” spiega, fruga nella busta dei biscotti tirandone fuori uno e lo addenta ancora prima di immergerlo nel latte. Mastica guardando un punto fisso di fronte a sé, eppure non leggo niente nei suoi occhi.
Solo io provo uno sconfinato imbarazzo a guardarlo in faccia? Solo io ogni volta che la sua pelle sfiora la mia ripenso a cosa è successo qualche ora fa? Possibile che lui sia sempre così tranquillo?
“Non hai dormito molto stasera, vero?” mi domanda con un tono disinvolto.
Per poco non mi strozzo con un boccone di biscotto masticato. “N-no” balbetto. “Non direi” aggiungo dopo un istante.
Adam annuisce silenzioso, poi sorride divertito da qualcosa a me nascosto.
Lo guardo inclinando la testa curiosa. “Beh?” cerco di mostrarmi disinvolta, ma l’imbarazzo che percorre il mio sguardo è tangibile.
“Sei tenera” mormora, il suo sguardo si scioglie guardandomi. “Sei maledettamente tenera quando ti imbarazzi”
Come a dar conferma delle sue parole, le mie guance ardono colorandosi d’un tenue rosato, mentre i miei occhi guardano altrove.
“Sono felice, Lou” il suo sguardo, in effetti, è spensierato e leggero mentre osserva il mio viso teso. “Tu non lo sei?”
Improvvisamente mi sento il cuore stretto in una morsa, il magone mi ottura la gola e quasi non riesco a respirare. Una sensazione di panico mi attanaglia lo stomaco. Il panico deriva dal senso di colpa, dal pentimento di aver fatto tutto troppo presto, così in fretta da non essere riuscita a godermelo fino in fondo. Sento le lacrime pizzicarmi gli occhi.
Spero che questi preoccupanti sbalzi d’umore derivino dall’imminente arrivo delle mie mestruazioni. Altrimenti, l’unica spiegazione plausibile sarà il fatto di essermi completamente impazzita. Non sono schizofrenica. Cioè, non voglio esserlo.
Tiro su col naso, forse un po’ troppo rumorosamente perché noto le orecchie di Adam tendersi insieme ai suoi sensi. Affondo la testa tra le mani coprendomi il viso, le spalle scosse dai piccoli singulti che pervadono il mio petto.
“Che hai?” il suo tono è allarmato, evidentemente sorpreso dalle mie bizzarre reazioni. “Lou?” richiama la mia attenzione.
“Lasciami … lasciami sola”
“No”
“Si! Ti prego”
Adam afferra le mie mani, le tira via dalla faccia e i miei occhi rossi e lucidi si mostrano in tutta la loro stupidità. Quando parla ha un tono quasi disperato. “Perché piangi adesso?” è palese il fatto che non riesca a stare al passo coi miei sbalzi d’umore. Starà pensando “Ma chi me lo avrà fatto fare di infognarmi in una situazione simile?”
Attenta a te Lou, prima o poi si stancherà di una lunatica cronica.
“Non lo so!” gli urlo contro. “Non lo so” ripeto ridimensionando il tono della mia voce ad uno più normale.
“Lou, io non so più cosa fare con te” mi stringe il viso tra le mani. “Devi darmi una mano”
Lo abbraccio improvvisamente sedendomi sopra di lui, attorciglio il corpo al suo, la nostra pelle sprigiona un calore immenso che ci avvolge come fosse una fiammata.
Ora che lo sento vicino, tutte le preoccupazioni che prima mi affliggevano sembrano essersi dissolte, si ridimensionano nella mia testa ritornando ad occupare un posto minuscolo e ininfluente. Mi sembrano piccole e stupide e mi domando incredula come sia possibile che mi abbiano così tanto influenzata, a tal punto da convincermi ad allontanarmi da Adam. Io stessa mi sento stupida, incompresa perfino dalla mia mente.
“Non so cosa mi sia preso” farfuglio con la bocca schiacciata contro la sua maglietta. La sua mano fa su è giù sulla mia schiena, mi trasmette sicurezza e mi dà il coraggio di parlare. “Ho paura di aver corso troppo” confesso, le mie guance avvampano. “Di aver sprecato una delle poche cose belle della vita”
Sento Adam rimanere in silenzio mentre le sue mani, indaffarate, continuano ad accarezzarmi e a stringermi a sé. Lo sento così vicino che il suo cuore batte contro il mio.
“Perché non dici niente?” lo interrogo, il suo silenzio mi pesa addosso come un macigno di piombo.
“Mi dispiace sentirti dire queste cose. È questa la verità. Sto in silenzio perché … perché pensavo che lo volessi anche tu. Perché non ti ho costretta a fare niente e avrei preferito un rifiuto ieri notte piuttosto che le tue lacrime stamattina” ammette, la voce è roca e monotona.
Mi scosto dal suo petto, i singhiozzi cessano all’istante lasciando posto ad un dolore soffocante che m preme sulla cassa toracica levandomi il fiato. “No” sussurro scuotendo la testa. “No, no, no, non hai capito” continuo a dimenare la testa, dovrò sembrare una pazza.
“Mi sei sembrata molto chiara, invece”
“Adam, non ricominciamo col fatto del mi ami, non mi ami” chiarisco immediatamente. “Questa parte, ormai, speravo l’avessimo superata”
“Per quanto mi riguarda lo abbiamo fatto” annuisce convinto.
Sospiro e abbasso lo sguardo, le mani di Adam giacciono senza forza sulle mie cosce. Le stringo nelle mie. Prima che possa parlare, il ragazzo mi interrompe parlando serenamente, con mia sorpresa.
“L’ho capito come sei, sai? E mi sta bene. La timidezza, la paura, l’insicurezza cronica … mi sta bene. Lo sopporterò. Voglio stare con te, Lou, farai bene a mettertelo in testa. Voglio che questa notte sia la notte più bella della tua vita, almeno per ora. Voglio che tu non ti senta in colpa, che non scoppi in lacrime perché pensi di aver corso troppo. Voglio che tu ti senta sicura per una maledettissima volta, sicura perché ci sono io accanto a te. È questo che voglio” sposta di nuovo le mani sul mio viso stringendolo urgentemente.
Sorrido energicamente, le mani mi tremano un po’, ma non potrei stare meglio di così. Mi rendo conto di tutta l’inutilità delle mie ansie, mi focalizzo, invece, sulla fortuna che ho avuto a trovare Adam.
“Grazie di esserci” i miei occhi annegano nei suoi. “Sempre”
Le nostre labbra si fondono in un urgente bacio, le mani si cercano ansiose e i nostri corpi si connettono facilmente, come se si conoscessero da molto tempo.
Ancora una volta mi ritrovo stretta ad Adam, i nostri respiri incatenati l’uno all’altro, uno stesso ritmo che fa da sottofondo alla musica creata dalle fronde degli alberi mosse dalla leggera brezza.
Siamo costretti ad interromperci dopo aver sentito il rumore dell’apertura della porta di casa.
Jamie ci osserva da lontano, ha gli occhi arrossati, un po’ lucidi, sembra non aver chiuso occhio tutta la notte.
Beh, non sono l’unica, allora.
Ci saluta da lontano alzando leggermente la mano, a testa bassa si dirige sul divano, vi si butta sopra. Poi si chiude a riccio su sé stesso, dondola la testa tra le ginocchia. Io e Adam rimaniamo a fissarlo esterrefatti, una ruga di preoccupazione mi si forma sulla fronte, la sento pesarmi come se qualcuno mi ci avesse infilato un coltello.
Avremo mai un attimo di tranquillità? 

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Capitolo 44
*** 44 ***


Jamie è sprofondato in un lungo silenzio, è in stato catatonico da circa un’ora, nessuno di noi è riuscito a farlo parlare. Le sue labbra rimangono chiuse, una appesa all’altra, il suono della sua voce è ormai un ricordo lontano. Gli offriamo biscotti, una tazza di latte caldo, addirittura delle patatine avanzate dalla sera prima, ma neanche il cibo riesce a farlo smuovere. Stiamo tutti seduti attorno a lui, chi sul divano occupa i posti liberi, chi invece se ne sta accovacciato a terra. Jamie sprofonda nei cuscini del sofà, un braccio sta rilassato sul bracciolo moscio.
Louis interrompe il silenzio, tutti gli altri lo seguono. “Jamie, se non parli non possiamo aiutarti”
“Dai, che qualcuno ti ha mangiato la lingua?”
“Per favore, Jamie. Mi stai facendo preoccupare”
“Jamie … sei sotto shock, per caso?”
“Si può sapere che t’è preso?”
Il ragazzo non si muove, fissa un punto nel vuoto con lo sguardo smorto,  non si direbbe che sia vivo, se non fosse per il respiro che gli fa sollevare il petto ritmicamente.
“È successo qualcosa con Alo?” sussurro a bassa voce avvicinandomi al suo orecchio. A quel nome le sue orecchi si drizzano e le pupille si muovono quasi impercettibilmente. Ho centrato il punto giusto. “Parlami Jamie” lo incoraggio.
Sospira pesantemente, un sospiro più simile ad uno sbuffo di resa. “Non ce la faccio a sopportarlo. È troppo per me”
Insisto sotto gli occhi confusi di tutti. La mano di Adam posata sulla mia schiena mi offre coraggio per continuare. “Ti va di parlarmene?”
“Alo …” Jamie cerca di formulare una frase, poi lo vedo, però, rannicchiarsi ancora di più su sé stesso. Chiude i battenti della sua mente, impedendomi di entrarvi a curiosare.
“Alo cosa?”
“Si droga, Alo si droga” le sue parole sono interrotte da un singhiozzo intrattenibile. Jamie mi fa molta compassione in questo stato, si porta le mani al viso e si nasconde mentre le lacrime sgorgano disperate.
“Potete andare via?” mi rivolgo alle quattro paia di occhi che non si scollano da noi. Queste annuiscono comprensive, Adam mi stringe la mano prima di andarsene. “Spiegati meglio, Jamie” lo incoraggio una volta rimasti soli.
“Ieri notte … io pensavo che potessimo … Io e Alo ci conosciamo da un po’” decide di iniziare dal principio. “Ci siamo conosciuti una sera in discoteca, è il cugino alla lontana di un mio compagno di classe. Quando me l’ha presentato ho sentito subito una strana sensazione dentro di me. Come … come una scossa, non so. Per me era tutto nuovo, come puoi immaginare, quindi non avrei mai pensato di poter provare dei sentimenti per un ragazzo” noto la fatica con cui Jamie parla, riesce a far trasparire tutta l’angoscia che quella situazione gli fa nascere nel petto. “Anche Alo deve aver sentito qualcosa non appena ci siamo conosciuti, gliel’ho letto in faccia. Aveva quella scintilla negli occhi … Quella sera abbiamo ballato uno vicino all’altro. Di fronte a me avevo una ragazza, Leyla, una mia compagna di classe. Mi piaceva, sai, era una di quelle ragazze che fanno perdere la testa a noi maschi. Alta, due gambe chilometriche, la chioma nera come l’onice e gli occhi azzurri ghiaccio. E ultimamente mi lanciava certi sguardi, Lou …”
Mi concedo un istante per trovare mentalmente le differenze tra me e questa ragazza paradisiaca descritta da Jamie. Le differenze … beh, l’unica cosa che ci accomuna, direi, è il fatto di essere entrambe ragazze. Triste, a pensarci bene.
“Così quella sera ero sicuro, sicurissimo, che ci avrei provato con lei. Ma non mi sarei aspettato di incontrare Alo. Mi ha mandato in tilt il cervello. In un primo momento non ho di certo pensato immediatamente al fatto che io potessi essere gay. Anzi, diciamo che l’ho pensato, però non volevo crederci. Sai che c’è, tutto il rifiuto e il disgusto che c’è oggigiorno verso gli omosessuali ci fa sperare di non diventarlo assolutamente, come se fosse una malattia o una cosa molto brutta. La verità è che non si va all’inferno perché si è omosessuali, ci si va per ben altre cose. Comunque, circa una settimana dopo, mi sono ritrovato ad uscire ogni sera con i soliti amici, tra cui Leyla. Alo non faceva parte della nostra comitiva, chiamiamola così, ma ci raggiungeva al locale quando ne aveva voglia. Ho capito di provare qualcosa per lui quando ogni sera mi sono ritrovato a sperare ossessivamente di vedere i suoi capelli rossicci tra la folla. Mi guardavo intorno con un’ansia maniacale, perfino Leyla si è insospettita. Mi ha chiesto se avessi un’altra per la testa, le ho risposto con una risata isterica. Poi dopo circa un’ora in cui mi sono bevuto non so quante birre per cercare di rilassarmi, guardo verso l’entrata del locale e chi ci vedo? Un paio di occhi a mandorla e quei capelli rosso fuoco che tanto mi erano mancati. Il mio cuore batteva così forte che mi è quasi preso un infarto, giuro” Jamie si concede qualche secondo, sulla sua bocca si disegna un sorriso amareggiato e un po’ sognante. “Quella sera ci siamo baciati per la prima volta. È stato semplice, facile, con mia enorme sorpresa mi è venuto naturale, come se lo facessi da sempre. Avevo a malapena baciato due volte una ragazza ed erano state esperienze a dir poco deprimenti. Invece con Alo è venuto tutto da solo, senza sforzi o aiuti esterni” sospira pesantemente, i suoi occhi sono persi a qualche mese prima, lontani da me e da questo posto.
Non dico nulla, mi limito a sorridere comprensiva. So che ora arriverà la parte brutta, perché in queste storie ce n’è sempre una, perciò do a Jamie la possibilità di prendersi tutto il tempo che vuole.
“Le prime settimane tra noi non è stato molto semplice. Sempre a vedersi di nascosto, non sapevamo come comportarci con gli altri, mentre tra di noi eravamo sempre in sintonia. Non so se mi spiego, ti è mai capitato di trovarti sulla stessa lunghezza d’onda con un’altra persona? Capirsi sempre al volo, esserci sempre l’uno per l’altro e aiutarsi a vicenda. Un amore giovanile, così lo chiamerebbe chiunque. Io invece sento che Alo è molto più importante di così. Qualche settimana fa è venuto a trovarmi a casa. Ricordi quando eri in ospedale?” mi dà il tempo di annuire. “È stato n periodaccio per te, lo so. Ma, credimi, per altri motivi lo è stato anche per me. Vedevo Alo distante miglia e miglia. Gli occhi assenti erano solo uno dei tanti segni che si stava allontanando da me. Ho provato a farlo parlare in tutti i modi, ma reagiva sempre con scatti di rabbia e insulti pesanti. Non sembrava più lui. Ogni volta che provavo a capire cosa ci fosse che non andava tra di noi, lui mi sbarrava tutte le porte e io, imperterrito, sbattevo contro muri di cemento. Poi, però, ho ragionato un po’ da solo. Non ho visto Alo per una settimana intera, finché non ho capito: il problema non ero io, né tantomeno lui. Il problema era la sua famiglia. Ricordi che ha dovuto lasciare sua madre nel suo paese da sola?”
Annuisco attenta al racconto, non dico una parola.
“In quello stesso periodo sua madre si è trasferita da lui. Quando sono riuscito a farlo parlare, è scoppiato a piangere come un bambino. Non l’avevo mai visto così, neanche una volta. Mi sono quasi spaventato dalla sua reazione. Ma era comprensibile: sua madre era tornata da lui perché … era malata. E non era tornata sola. Era tornata col suo vecchio marito, il padre di Alo, ed era giunta da suo figlio chiedendo un alloggio per morire in pace con la sua famiglia. Ti lascio immaginare la sua reazione” Jamie abbassa gli occhi scuotendo la testa. “Non so se conoscerò mai una donna più pazza della madre di Alo. È seriamente malata, ha un cancro ai polmoni, ma quando l’ho vista sembrava … non lo so, se ne fregava totalmente della malattia. Se ne stava tranquilla sul divano a continuare a fumare. Alo e il marito di Lula, la madre di Alo, hanno fatto di tutto per impedirle di aggravare le sue condizioni. Ma la donna continuava imperterrita a fare come le pareva. Di qualcosa bisogna pur morire, una volta lo ha detto perfino davanti a me. Alo la guardava rabbioso … Quando ha cominciato a stare male, ma male sul serio, e l’hanno portata in ospedale …” gli occhi di Jamie si fanno più scuri. “In quel momento Alo ha iniziato a drogarsi. Non ho potuto fare niente per fermarlo, eppure ci ho provato in ogni modo e maniera. Era diventato strano, scattava per ogni cosa. Quando gli ho proposto di venire in vacanza qui, ovviamente sempre di nascosto da tutti, per staccare un po’ la spina, pensavo che mi avrebbe accoltellato. Invece ha sorriso, ha annuito e poi mi ha abbracciato. Mi ha detto Grazie di non mandarmi affanculo come tutti gli altri e mi ha baciato. Lo amo e l’ho sempre amato, Lou, chiunque lo avrebbe lasciato solo. Perché alle persone il dolore non piace, figuriamoci la pazzia. Io ho resistito perché ci tengo a lui. È venuto a stare qui da una sua amica, si è offerta di alloggiarlo. Lei sa di noi, ma quando l’ho incontrata mi ha trattato come se fossi uno che conosceva da tempo. Come se fossi uno normale” Jamie china il viso, vedo i suoi occhi rilucere di qualche lacrima incastonata tra le sue ciglia.
“Tu sei uno normale, Jamie” gli scuoto la spalla posandovi la mano.  
Il ragazzo scuote la testa amareggiato. “Non entriamo nei dettagli di questo argomento, credo sia meglio così”
Annuisco dandogli ragione silenziosamente. Non trovo nessuna frase che riesca ad argomentare ciò che penso. Anche perché la penso come Jamie, il mondo fa schifo sotto questo punto di vista. Anzi, direi sotto molti punti di vista.
Il mio fratellastro riprende il racconto. “Mentre eravamo qui sembrava andare tutto alla grande. Lui era allegro, spensierato … pensavo avesse smesso. Non mi sono azzardato a chiedergli nulla, ovviamente. Non ama parlare di sua madre, anzi direi piuttosto che lo detesta. Vuoi per l’effetto della droga, vuoi per qualunque altra ragione, ho comunque sempre cercato di evitare l’argomento. Di rado me ne ha parlato lui, giusto per informarmi sulle condizioni della madre, in costante peggioramento, tra l’altro. Beh, l’unica volta che abbiamo litigato è stata quando ci avete beccato tu e Adam” arrossisce ripensando a quell’episodio. “Niente di particolarmente grave. È una discussione aperta dai primi tempi in cui ci frequentavamo, questa storia dell’uscire allo scoperto o no. Problemi di coppia, niente di più. Tutto è cominciato, o meglio, ricominciato ieri notte” sospira, rimane in silenzio con lo sguardo vacuo.
Inizio a sentirmi davvero preoccupata per Jamie, vederlo così mi fa stare male e, soprattutto, mi fa sentire tremendamente impotente. Sono minuscola e di fronte a me vedo un enorme masso pesante da spostare. Ma non posso farlo, sono sola e il peso è troppo per essere sopportato dalle mie ossa gracili.
“Alo si è ubriacato parecchio ieri sera, come avrai potuto notare. Ho dovuto accompagnarlo a casa, non era in sé. Già per strada ha cominciato a farfugliare parole sconnesse e senza senso. Parlava dell’odio che prova per il mondo, per i razzisti e … e per sua madre. Quando ha nominato sua madre ho incominciato a preoccuparmi. Non sono riuscito a tranquillizzarlo, avevo la lingua paralizzata mentre dalla sua bocca uscivano certe cattiverie da far accapponare la pelle. Non ce l’ho fatta, Lou, è stata colpa mia. Quando siamo entrati in casa, la sua amica non c’era. Probabilmente stava fuori con qualche amico, è una tipa strana, molto sfuggente. Comunque, Alo mi ha scostato maldestramente, l’ho visto barcollare fino alla sua camera da letto. Rideva, continuava a ridere mentre insultava tutto e tutti. Anche me. Mi ha detto Vaffanculo, levati dalle palle quando l’ho seguito per vedere cosa faceva. Gli ho detto che volevo aiutarlo e lui mi ha detto che nessuno poteva aiutarlo, tantomeno io che sono una delle innumerevoli cause dei suoi problemi. Capito, Lou? Io, che gli sono sempre rimasto accanto!” alza la voce, alcune lacrime scendono giù dai suoi occhi.
“Era ubriaco, sono certa che non intendesse dire così” cerco di consolarlo, la mia mano stringe forte la sua, come a trasmettergli la forza necessaria a riprendersi.
“Se è vero che in vino veritas sono spacciato, non credi?” ride, ma la sua è una risata carica di amarezza mista a dolore, così forte da colpirmi come fosse uno schiaffo. “Ha aperto un cassetto continuando a ridere, io mi sono avvicinato. Avrei voluto mollargli un cazzotto sul naso per il male che mi stava facendo, però me ne sono stato zitto e buono, come sempre del resto. Ha tirato fuori una piccola siringa e se l’è infilata nel braccio con un gesto secco. Ha sospirato a bocca aperta non appena quella merda gli era entrata in circolo. Rideva, stavolta d’un sorriso rilassato. Mi ha guardato e mi ha detto che ora potevo andare, che lui stava bene e ce la faceva da solo. Sono rimasto lì impietrito a guardarlo con una faccia da deficiente totale. Non ho detto una parola. Non ho provato a fermarlo, a capire perché lo stava facendo. Non ho fatto niente. Ho semplicemente girato sui tacchi e sono uscito da casa sua. Sono rimasto sul pianerottolo tutta la notte” si sfrega via una lacrima sulla guancia. “Mi ha svegliato la sua amica la mattina alle sei. Mi ha toccato con un piede facendomi sobbalzare. M’ha detto Pensavo fossi morto, poi è entrata in casa e mi ha salutato. Ci si vede, ha aggiunto. Non le interessava sapere perché stessi dormendo sul tappetino per pulire i piedi, non le interessava sapere perché il mio ragazzo mi tenesse fuori casa come un cane che ha fatto la pipì sul divano. Mi ha semplicemente guardato con un misto di compassione e superiorità. E basta” Jamie rimane immobile, perfino le lacrime non scendono più dai suoi occhi. Il tempo si ferma, noi siamo catturati in quell’immagine deprimente che sembra non volersi più scollare dai nostri corpi.
Sobbalzo agitata quando il campanello trilla insistente. Jamie non dà segni di vita, lo abbandono sul divano come fosse in stato vegetativo. Apro la porta senza nemmeno chiedere chi è. Dall’altra parte, un uomo sulla quarantina con dei capelli rossi come il fuoco, identici a quelli di Alo. Rabbrividisco lì per lì, balbetto sconnessamente. “D-desidera?”
L’uomo prende un breve respiro e si schiarisce la gola. Ha una voce gutturale e profonda quando parla, i suoi occhi mi fissano e capisco che nascondono qualcosa nella loro cupa profondità. “Sono il marito di Lula, la madre di Adam” 


***
Calme, calme, calme. So che non si cpaisce niente da questo capitolo...ma, rullo di tamburi, tutto verrà spiegato nel prossimo capitolo, promesso. Per ora posso solo dirvi che Alo e Adam sono in qualche modo collegati..... L'unico spoiler che vi concederò è questo, perchè sono molto crudele :3 
Allora, ho poco tempo, quindi mi sbrigherò. Vi ringrazio per la trecentomillesima volta per tutte le recensioni. Le adoro, e adoro voi che siete meravigliose e dolcissime. Un ringraziamento speciale (non sto facendo favoritismi, vi prego di non offendervi ç_ç) va a Floribanda, che mi ha suggerita per essere inserita tra le storie scelte. Grazie, hai fatto una cosa bellissima. 
I ringraziamenti vanno anche a tutte quelle che mi recensiscono OGNI SANTA VOLTA, non so come fate ad avere voglia di scrivermi quelle recensioni chilometriche, so solo che mi fate così TANTO piacere che mi scioglo *^* Siete stupende, TUTTE.
 

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Capitolo 45
*** 45 ***


Ripeto mentalmente e continuamente i nomi delle persone presenti nella stanza, osservandoli con sguardo un po’ spaesato. Petr, il suddetto padre di Alo, troneggia in tutta la sua altezza di fronte al piccolo Jamie, che se ne sta lì ad osservarlo con gli occhi ancora gonfi e rossi di pianto. L’uomo sulla quarantina ha un mento spigoloso ricoperto di una barba folta di un colorito scolorito, a metà tra il beige e un rossastro appena accennato. Le parole sgorgano fuori dalla sua bocca con fatica, sembrano anch’esse spigolose e ruvide, grattano contro la sua gola prima di uscirne fuori avvolte in una voce innaturale e sforzata. Mastica appena la lingua italiana, sbaglia i tempi verbali e le desinenze finali delle parole. Ha un qualcosa che mi inquieta, non saprei spiegare cosa. È una sensazione che mi infastidisce la bocca dello stomaco, che mi costringe a guardarmi attorno con fare guardingo. Sembro quasi una ladra in casa d’altri.
Petr offre la mano a tutto il gruppo, che nel frattempo ci raggiunge spaesato dalla terrazza, le orecchie basse e tirate indietro come un cane spaventato. Dice il suo nome con fierezza, mastica quella r finale con i suoi denti consumati. È un omaccione robusto, ha un petto ampio e spazioso, le gambe ricoperte di peli sporgono muscolose dal bermuda strappato all’altezza del ginocchio. Si veste in maniera molto giovanile, simile ai miei coetanei, comunque sia in modo diverso da come un quarantenne dovrebbe andare in giro. I suoi indumenti stonano con la sua corporatura adulta e la sua voce gutturale, così, ogni volta che lo osservo, aggrotto le sopracciglia confusa da quel contrasto visibile.
“Mi chiamo Petr” arrota la r con la lingua, mi stringe energicamente la mano.
Il suo gesto mi fa rivalutare la sua figura criptica. Detesto le persone che, quando si tratta di stringere la mano, te la porgono moscia e senza forza. La poggiano appena contro la tua, senza stringerti ti offrono quel contatto smorto e morbido che ti fa pensare di tenere nel palmo il corpo esanime di un povero volatile ancora caldo del suo sangue. La prima impressione che si ha di una persona proviene dallo sguardo. La vedi da lontano è già inizi a giudicare: è bella, è brutta, è grassa, è magra, sorride, ha il broncio, è vestita bene, indossa pantaloni orrendi. Inutile pensare che “un libro non si giudica dalla copertina”. È vero, certo, ma è raro trovare qualcuno che riesca a non giudicare al primo sguardo. In questa società superficiale che si ferma alle apparenze, la “copertina” è la parte più importante di una persona. Nessuno ha più voglia di mettersi ad analizzare l’animo umano. Chi è timido è uno sfigato che ce l’ha col mondo intero, di conseguenza si ritira nel suo eremo privato ricolmo di pensieri, lontano da tutto e tutti, lontano dalla civiltà. Chi, al contrario, è estroverso, esce, si droga, fuma, si omologa alla massa, insomma, è colui che avrà la meglio nella vita, colui che otterrà ciò che vuole.
Una seconda impressione, invece, la si ha dalla famigerata stretta di mano. Se questa è ben salda e ti stringe bene ogni osso di ogni dito, vuol dire che la persona che hai di fronte è una persona di carattere, a cui fa piacere fare la tua conoscenza. Certo, tutto dipende anche dall’espressione. Una forte stretta di mano può anche significare un odio represso, un avvertimento, o meglio, una sorta di minaccia silenziosa. Una stretta di mano moscia, al contrario, è l’incarnazione di una persona ordinaria e triste, un po’ monotona oserei dire. Non vuole esagerare nelle emozioni, teme di infastidire il prossimo con ogni suo eccesso.
Per questo Petr, dopo una prima impressione non molto buona, riguadagna qualche punto stringendomi saldamente la mano. Lo fa anche con tutti gli altri. Ogni ragazzo viene guardato fisso negli occhi dall’uomo alto e misterioso. Quest ultimo li squadra tutti dalla testa ai piedi, alla ricerca spasmodica del famoso Adam. I ragazzi, in tutta risposta, rispondono con uno sguardo più o meno sfacciato ricambiando la stretta di mano.
“Chi di voi è Adam?” Petr si schiarisce rumorosamente la gola. Pronuncia le parole con un forte accento ceco, il nome di Adam è quasi diviso in sillabe per quanta durezza viene infilata in quelle timide lettere.
Il riccio fa un mezzo passo in avanti, il suo viso mostra un’espressione confusa e imbarazzata mentre infila le mani nelle tasche con fare disinvolto. “Io” pronuncia chiaramente.
Gli occhi di Petr si illuminano un po’, osservano Adam dalla testa ai piedi radiografando il suo aspetto. “Ma certo, hai i suoi capelli …” sussurra più a sé stesso che agli altri. Sorride amaro, un sorriso storto che gli deforma le labbra.
“Scusa?” Adam aggrotta le sopracciglia.
“Posso avere un bicchiere d’acqua?” Petr ignora la domanda del ragazzo che lo segue con lo sguardo non mollandolo d’un centimetro. Si avvicina al sofà, vi si lascia cadere sopra e si mette comodo allargando le gambe. Ci osserva tutti a turno con un sorriso complice. “Dov’è Alo?”
Jamie, impegnato a sciacquare e, successivamente, riempire d’acqua il bicchiere per Petr, si lascia sfuggire il piccolo calice in vetro che ricade nel lavabo con un tonfo sordo e tintinnante. Tutti sobbalziamo, l’agitazione che quest uomo si è portato con sé aleggia nell’aria come fosse il fumo d’una ciminiera. “In casa dalla sua amica, che io sappia” risponde con la voce tremante dopo aver recuperato il bicchiere. È ancora scosso e sono certa che Petr non si lascia sfuggire questo dettaglio.
“Oh, bene” asserisce annuendo.
“Le dispiacerebbe spiegarmi cosa ci fa qui?” Adam interviene incrociando le braccia sul petto, seziona con lo sguardo i gesti controllati del ceco rossiccio.
“Senza dubbio, ragazzo. Possono uscire?” con l’indice fa il giro di tutta la stanza.
Adam sostiene il suo sguardo. “No. Non vedo perché dovrebbero”
Petr ride sommessamente, guarda Adam di sottecchi. “Hai lo stesso temperamento, anche. Ah, ragazzo, sapessi …” criptico, lo sguardo dell’uomo si perde altrove. “Si tratta di una questione privata” spiega sbocconcellando il bicchiere d’acqua portatogli da Jamie.
Poso la mano sulla spalla di Adam. Non vorrei allontanarmi da lui, soprattutto perché so la sconvolgente rivelazione della quale verrà a conoscenza a breve. Non sarà affatto facile per lui. Come prima reazione all’accaduto, mi verrebbe da prendere Petr per un braccio e trascinarlo fuori, intimandogli di non tornare più. Solo che non posso farlo, è bene che Adam guardi in faccia la realtà, anche se quest’ultima gli è stata sottratta furbescamente dalla vita. “Lascia fare, ci vediamo tra poco” accosto le labbra alla sua guancia, vi piazzo un bacio morbido e delicato. Mi dirigo in terrazza, stavolta tocca anche a me fare l’esclusa.
Il resto della comitiva mi segue con sbuffi inframmezzati da domande incuriosite. La voce di Louis mi giunge al di sopra delle altre. “Bella giornata questa, mi sembra di vivere in terrazza da una vita”
ADAM’S POV
L’uomo sconosciuto siede ancora comodamente sul divano scassato, i suoi occhi non mi perdono di vista mentre con la mano si massaggia la barba folta e bitorzoluta. Lo osservo anche io, chiedendomi chi diamine sia e che cosa diavolo voglia da me.
“Come va la vita?” è la prima cosa che mi chiede non appena rimaniamo soli.
“Dobbiamo parlare di quanto splende il Sole e di come fluttui il mare? O sotto a queste banalità c’è anche una vera ragione per cui lei è qui?” cerco di evitare di mostrarmi molto stizzito, ma l’acidità che sprizza dal mio tono mi avverte di aver fallito.
Petr, comunque, non la prende male, anzi, lo vedo ridere divertito dal mio atteggiamento. Cosa che mi fa innervosire ulteriormente, per di più.
“Che caratteraccio, ragazzo” dalla barba spunta qualche dente consumato e scurito dal tempo. Se si osserva solo la bocca, sembra avere sessant’anni, ma l’espressione senza rughe degli occhi smentisce ogni previsione. “Dammi del tu” mi intima, poi mi invita a sedere con un cenno della mano.
Mi avvicino guardingo e mi siedo il più distante possibile da lui. “Preferisco di no”
Ride, viene colto da un attacco di tosse, le vene sul collo si ingrossano. “Devo parlarti di una cosa seria. Molto seria” tace immediatamente, come ad avvertirmi dell’importanza del momento, quasi a renderlo solenne.
“Vada, allora, me ne parli” lo incoraggio annoiato, inizio a pensare che quest uomo sia solo un pazzo ubriaco capitato qui per caso.
“Conosco tua madre” le parole escono spigolose dalla sua bocca, le dice con semplice solennità. “Lula, te la ricordi?”
Conosco il significato dell’ apnea notturna, è una malattia molto frequente oggigiorno. Forse lo era pure nel Medioevo, o magari nel Rinascimento, non lo so. Ad ogni modo, l’apnea notturna è notturna perché, appunto, consiste nel trattenere involontariamente il respiro durante il sonno. Dapprima può essere un problema irrilevante, a lungo andare può, però, peggiorare, fino a diventare un problema di notevole entità.
Non ho mai sofferto di queste apnee notturne. Ho attacchi di panico abbastanza sovente, d’accordo, ma di apnee notturne me ne intendo solo grazie a wikipedia. Fatto sta che ora, in questo preciso istante, sento il respiro mozzarsi nella gola. I polmoni, come se si fossero dimenticati di essere organi composti da muscolatura involontaria, si bloccano impettiti, smettono di fare il loro lavoro quotidiano e l’anidride carbonica e l’ossigeno rimangono sospesi nel mezzo del mio corpo, l’una di fronte all’altro. Si guardano dubbiosi come a chiedersi a cosa sia dovuto questo improvviso inceppamento del sistema. La risposta non c’è, perché l’unica cosa di cui sono certo è che questa è un’apnea vera e propria, solo che io non sto dormendo.
“Mi sta chiedendo se …” non riesco a comporre la frase in un primo momento. Inghiotto un malloppo colloso e pesante di saliva, poi ci riprovo. “Mi sta chiedendo se ricordo mia madre?” il mio tono sfiora l’esterrefatto.
“Eri molto piccolo quando lei se ne andò” spiega pratico Petr, le sopracciglia folte gli nascondono gli occhi.
Mi dà fastidio non vedere gli occhi delle persone. Si dice che gli occhi siano lo specchio dell’anima, e, anche se sembra una frase fatta, io la condivido in pieno.
“Lo so”
Petr annuisce, si passa una mano sulla barba, se la accarezza pensoso. “È difficile fare questa parte”
“Che parte?”
“La mia parte”
Aggrotto anche io le sopracciglia guardando confuso quell’uomo misterioso. Dove vuole arrivare? Perché conosce mia madre? Ma soprattutto, perché mi sta parlando  di mia madre?
“Che cosa vuole da me?” la domanda mi esce soffocata dalle labbra, ha un non so che di esasperato e impaurito dalla probabile risposta.
“Io non voglio niente da te. Tu da me che cosa vuoi?” fruga nella tasca, ne tira fuori un cartoncino bianco.
Dev’essere una fotografia, ma non riesco a vederne il soggetto. Forse non voglio vederlo. Non rispondo alla domanda, deglutisco a fatica mentre sento il respiro appesantirsi.
“Lula è qui” mormora puntandomi gli occhi addosso.
Provo a sostenere il suo sguardo, ma sento le pupille pizzicarmi come se fossero state invase da innumerevoli spilli aguzzi. “Che cosa vuole da me?!” ripeto alzando la voce di qualche ottava, mantenendo pur sempre un tono glaciale.
Petr viene di nuovo impegnato da un attacco di tosse ricolma di catarro, si volta dalla parte opposta per poi coprirsi la bocca col palmo della mano. “Io non voglio niente” ribadisce. “Sarai tu a volere qualcosa da me” mentre dice queste parole noto che le sua mani si stringono urgentemente intorno alla foto stropicciandone i contorni già consumati dal tempo.
“Signor Petr, la prego, non renda la situazione più complessa di quanto già è” lo supplico, i miei occhi sono ridotti a due pozzi d’un verde speranzoso e scintillante.
“Oh, ragazzo, non fare così” m intima contrito. Mi molla una pacca sul ginocchio. “Pensavo fossi forte e resistente, com’era lei”
“Come era?”
“Si, come era. Ora non lo è più”
Rimango un po’ in silenzio concedendomi il beneficio del dubbio. Sono stato abbandonato da una donna che diceva ogni giorno di amarmi, ma che puntualmente mi lasciava sdraiato sul pavimento di una casa sporca e angusta, abbandonata a sé stessa. Come posso provare ancora questa preoccupazione che mi stringe lo stomaco a distanza di più di vent’anni?
“Che intende, Petr?”
“Ah ragazzo, intendo che le cose cambiano. Niente rimane com’era. I fiumi scorrono e le acque cambiano. Non avrai mai sopra la testa la stessa nuvola che vedevi ieri, Adam” cantilena misteriosamente Petr.
Lo guardo fisso negli occhi cercando di carpire qualche informazione nascosta, un dettaglio che mi sfugge, un segreto non rivelato. Qualcosa che possa offrirmi una spiegazione, qualcosa che possa tranquillizzare il mio animo offeso dal terrore. “Per favore …”
“Lula sta male, ragazzo mio” mi scaraventa le parole addosso, me le lancia in piena faccia una dietro l’altra. Ruvida, ogni lettera mi gratta addosso, scartavetrandomi l’anima.
“Che cosa significa?” più che una domanda, è una pretesa.
Petr sembra aver improvvisamente perso il suo charm, ora che il discorso si fa serio. Lo vedo titubante, indeciso sulla frase da dire, indeciso sul tono da usare. “Lula è malata di cancro, ragazzo”
Quella parola mi colpisce in faccia come fosse uno schiaffo. Sento l’impatto avvolgermi, però, non soltanto la faccia, ma tutto quanto il corpo. Come se qualcuno stesse strappando il mio corpo parte a parte, lentamente ogni mia membra viene lacerata. Io rimango a terra sanguinante, incapace di pronunciare parole di pietà.
“Ragazzo?” Petr mi scuote.
Non appena la sua mano entra a contatto con la mia pelle, mi ritraggo come se fossi stato toccato con dell’acido. Salto via dal divano, in poco tempo mi ritrovo dalla parte opposta della stanza, a una decina di passi da quell’uomo spettrale. “Se ne vada!” gli strillo in faccia.
Petr si alza , allarga le braccia confuso. Si chiede perché io stia reagendo in questo modo, dove ha sbagliato, che ha detto di male.
Esca da questa maledettissima casa!” grido con quanto fiato ho in gola.
Petr mi sfila accanto con lo sguardo da cane bastonato e gli occhi bassi, perde all’improvviso tutta la sua spavalderia. Mi sorpassa silenzioso, io attendo lo scattare della serratura che però tarda ad arrivare. Mi volto a vedere che fine abbia fatto e lo vedo voltato verso di me, ancora quell’espressione patetica disegnata sul viso.
“Se ne vuoi sapere di più, contatta Alo, ragazzo mio. Ma cerca di sbrigarti” come un medico che fa la sua sentenza di morte, Petr imbocca la porta di casa e si dilegua con l’espressione appesantita da un fardello importante.
Sento lo stomaco sottosopra, la gola e gli occhi mi bruciano furiosi e il respiro inizia di nuovo a mancarmi. Boccheggio in cerca di un po’ d’aria, ma anche quella sembra bruciare come fuoco vivo.
Ma che mi succede?
Vomito la colazione e la cena precedenti sul tappeto persiano antico e impolverato, la mia capacità di respirare peggiora a mano a mano che i secondi passano. Corro verso il lavabo per sciacquarmi la bocca, il vociare agitato dei mie amici mi giunge alle orecchie come fosse un suono lontano e ovattato, perciò lo ignoro. Ignoro anche le braccia di Lou che cercano di afferrarmi, sfuggo alle sue mani calde e familiari.
L’ultima cosa che vedo è la foto che teneva tra le mani Petr: è sbiadita e consumata, non proprio in bianco e nero, ha comunque un colore scolorito e tendente al beige. Ritrae una donna, i capelli scuri avvolti in una crocchia improvvisata dalla quale scivolano alcuni boccoli qua e là, che tiene in braccio un bambino. Questo ride mostrandomi una piccola fossetta sulla guancia. Anche lui è riccio come la madre e i loro capelli sono entrambi neri come l’onice.
Rabbrividisco mentre realizzo il tutto: quel bambino sono io e quella donna è mia madre, Lula. Con un calcio sposto via la foto e vomito di nuovo. 

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Capitolo 46
*** 46 ***


L’immagine che mi si propone è sempre la stessa: gli occhi di tutti mi stanno puntati addosso, Louis mi siede accanto stravaccato sul sofà. Perfino lui non fa una delle sue solite battute demenziali, si limita a stare in silenzio, le labbra tese come una linea dritta. Lou fa avanti e indietro, come una crocerossina zampetta dal lavabo a me, da me al lavabo trasportando un piccolo straccio inumidito. Me lo preme sulla fronte e sulle guance chinandosi su di me, il suo profumo mi riempie le narici e, lentamente, mi aiuta a riprendermi. A farmi stare meglio direi che è più il suo viso angelico distorto dalla preoccupazione, piuttosto che tutti gli impacchi che mi sta propinando da più di mezz’ora. In bocca ho il sapore acido del vomito, non riesco a scacciarlo via nonostante mi siano stati offerti innumerevoli bicchieri d’acqua. Mi è stato imposto di bere a piccole sorsate, altrimenti potrei  vomitare un’altra volta. Jamie è ancora impegnato a detergere con strani detersivi, borotalchi e altri aggeggi, che io catalogo come pozioni magiche, il tappeto persiano. Una grossa patacca opaca ne offusca un intero angolo.
“Come ti senti?” la voce di Lou mi arriva chiara alle orecchie mentre fa spostare Belle per prenderne il posto. Quest’ultima si fa da parte silenziosa, affianca Christine appoggiata al muro della parete dietro di me, così la vedo sparire.
Sospiro pesantemente, ancora non ho voglia di parlare. Mi spaventerei del tono della mia voce, ne sono certo. L’unica cosa che vorrei fare è spegnere il mio cervello, mettere a tacere ogni pensiero, ogni immagine che mi scorre nella mente: la risata amara di Petr, il nome di mia madre, la fotografia sbiadita ma pur sempre vivida nella mia mente.
Lula. Il nome riecheggia nella mia testa, ha la stessa fastidiosa intensità di un clacson ripetitivo premuto dalla macchina parcheggiata sotto casa. Non si può ignorare, ci si può imparare a convivere, il rumore viene inglobato nel proprio organismo e registrato come abitudine.
“Adam?” Lou infila le dita della sua mano tra le mie. Sono fresche e delicate, stringono le mie, smorte e senza vita.
“Sono stanco” finalmente parlo, ma strabuzzo gli occhi sorprendendomi di me stesso. Come previsto, la mia voce ha un suono completamente diverso dal solito. È gutturale, profonda e spenta: nasconde un dolore sordo e rimbombante, riecheggia in ogni vocale. In ogni consonante, invece, strilla la rabbia muta che dimena le braccia per sfogarsi.
Lou sospira al mio fianco, quasi sollevata dal fatto che io parli di nuovo. “Vuoi andare in camera?” propone sotto lo sguardo dei miei amici ancora un po’ scossi.
Tutti, io per primo, abbiamo sempre pensato che Lou fosse quella da proteggere, la fragile del gruppo. Vederla così debole, arrossire per un nonnulla, tirarsi indietro di fronte ad ogni proposta appena fuori dagli schemi ci ha convinti dell’idea che tutti noi fossimo, in qualche modo, più adulti di lei. Più coraggiosi e, in un certo senso, più maturi.
La verità è che ci siamo sbagliati tutti. Nel momento in cui dei problemi sono venuti a galla nessuno di noi ha saputo reagire con prontezza: né io, che mi atteggio a grande e vissuto, né Louis, che ha sempre la risposta pronta per tutto, né tantomeno Christine, vista da ognuno di noi come la leader del gruppo. Contro ogni aspettativa, Lou è stata quella che si è dimostrata più forte. Ha resistito, ha combattuto con le sue forze contro cose molto più grandi di lei. Ha allungato braccia per aiutare a risalire chi era caduto, ha offerto orecchie a chi aveva bisogno di ascolto, ha donato abbracci a chi si sentiva un po’ solo.
Come uno scrigno custodisce al suo interno la sua grande ricchezza, la sua anima che, se la immagino, ha un colore bianco e candido e scintilla come una perla appena pescata dal mare.
“Si, scusatemi. Uscite se vi va” mi alzo dal divano, dapprima barcollo un po’ e vengo afferrato dal braccio pronto di Lou.
A Jamie si accendono gli occhi, hanno una strana luce mentre si rivolgono a quelli di Lou, ma non riflettono di certo allegria. Probabilmente non sono l’unico ad avere problemi. 
Tutti annuiscono comprensivi anche se io non li degno di uno sguardo. L’unica cosa che avverto è il calore del corpo di Lou che mi accompagna lentamente nella mia stanza.
Quando siamo dentro la vedo accostare la porta con delicatezza, se la chiude alle spalle. Io rimango in piedi impalato a fissarla, ad osservare ogni gradazione di colore che assumono i suoi capelli, che alla radice sono più scuri e mano a mano si fanno più lucenti. Ha gli occhi spalancati, due pozzi di sincerità che riescono sempre a mettermi in soggezione. Ha un’espressione agguerrita, sembra arrabbiata al posto mio. Laddove io non riesco a reagire, c’è lei che lo fa per me.
La amo davvero, e mi fa paura. Queste nuove sensazioni mi spaventano, mi stringono al muro e non mi lasciano scampo. Sono da sempre abituato a storielle buttate al vento, tutte storie di sesso e nient’altro. Nessun sentimento, nessun coinvolgimento, nessun “ti richiamo io domani, son stato bene con te”. Non solo per colpa delle altre, lo ammetto, sono stato anche io molto particolare. Più che particolare, anzi, direi stupido. Stupido, irriverente, menefreghista: qualsiasi aggettivo di questo tipo mi si addice piuttosto bene.
Ora sento che sto cambiando. Pensavo che Lou fosse una delle tante, una delle mie conquiste, preparavo già l’ennesima coccarda da ricamare sul gilet. Sarebbe stato semplice per me quella sera al pub, mi bastava offrirle un altro bicchiere, forse nemmeno quello, e sarebbe incappata nella mia rete. Era bella, allegra e pure ubriaca, combinazione che non guasta mai. Ne avrei approfittato tranquillamente, come mio solito non facevo mica problemi. L’unica cosa che devo riconoscere a Eleanor è il fatto di averla allontanata da me, quella sera. Non sarei qui adesso, se non fosse stato per lei. 
Tutto è cambiato quando l’ho incontrata al parco. Nonostante insistesse sul fatto che l’incontro fosse casuale, i suoi occhi mi dicevano tutt’altro. Lou ha lo sguardo tipico dei bambini: se mente lo si capisce immediatamente. Arrossisce, inizia a balbettare e distoglie lo sguardo dai miei occhi. Quando l’ho medicata a casa, nel mio bagno, e ho provato a baciarla mi è quasi sembrato di sentire il suo battito che accelerava. Un momento prima avvertivo il suo fiato contro la mia pelle, il momento dopo questo era completamente sparito, mozzato nella sua gola. Quando mai mi capitavano cose del genere? Con le ragazze che frequentavo un tempo era tutto un “non mi interessa come ti chiami, concludiamo e basta”. Mentre con Lou ci vuole tutt’altro. È tutto un lavoro complesso di sguardi e carezze, di silenzi imbarazzati e di baci sussurrati.
“Se vuoi parlare lo sai che io ci sono, non è vero?” mi informa con lo sguardo languido.
Entrambi rimaniamo in piedi a scrutarci, l’ombra immancabile di imbarazzo le aleggia nello sguardo.
Abbasso gli occhi, annuisco, li rialzo e la guardo con una luce strana in questi ultimi. Sento il battito del mio cuore che accelera di qualche battito, di pari passo anche il respiro inizia ad appesantirsi.
Lou mi osserva e la sua espressione non muta di una virgola neanche quando mi avvicino e le infilo una mano dietro la nuca. Le stringo i capelli mentre il ritmo del mio respiro aumenta. Sento le mani che mi tremano, sostengo lo sguardo fisso di Lou. Mi guarda e in quel momento sembra capirmi davvero, più di chiunque altro. Anche più di me stesso.
Le mie labbra intrappolano le sue in un bacio urgente, lasciandoci entrambi senza fiato. Avvinghiati l’uno all’altro, non riusciamo nemmeno più a capire a chi appartenga quella mano, quel fianco, quell’ indumento. Scivoliamo sul letto, la mia figura schiaccia quella di Lou che si dimena per stringersi di più attorno al mio corpo. Sento le sue mani che si infilano tra i miei ricci scompigliati, dei brividi roventi partono dal collo e corrono fino alla base della mia schiena.
Mentre mordo il collo di Lou la sento gemere dentro l’orecchio. Sento l’ossigeno che mano a mano si esaurisce nei miei polmoni, dentro di essi sento soltanto dell’aria pesante e calda, fastidiosa. Ma nonostante tutto non riesco a fermarmi, stringo Lou contro il mio corpo accaldato e le alzo la maglietta fin sopra il reggiseno. Le sue mani affusolate si scontrano col mio petto, le sento stringere la mia pelle ossessivamente e urgentemente. Un sospiro pesante mi scappa dalle labbra.
“A-adam” Lou farfuglia il mio nome contro il tessuto della mia maglietta.
La tolgo velocemente tirandola via, credo sia caduta sul pavimento. Faccio la stessa cosa con la sua, il suo corpo formoso e pieno di curve che mi fanno perdere la testa si dimena agitato sotto al mio. Mi sembra decisamente più a suo agio di com’era ieri sera.
Ieri sera … sembrano passati anni.
“Adam!” Lou alza la voce, sento il suo fiato caldo contro la pelle.
Sento un calore irradiarsi nello stomaco e iniziarmi a scorrere nelle vene, non posso fare a meno di baciare ogni centimetro del corpo di Lou, non posso fare a meno di sentire la sua pelle sfregare contro la mia, non posso fare a meno di sentire le sue labbra lontane dalle mie.
Le sue mani mi graffiano la schiena facendomi sospirare un’altra volta, il suo corpo si distende sotto al mio. Di  nuovo mi stringe la pelle del petto, vi infilza le unghie dentro mentre i miei denti affondano nel suo collo.
“F-fermati” applica maggiore pressione sui miei pettorali.
La ignoro, sono come in trance, intrappolato in una buia stanza della mia mente. Nel mio corpo c’è il pilota automatico ed io non posso fermarlo.
Fermati, Adam ti prego” Lou alza la voce cercando di imporsi tra un sospiro e l’altro. La fatica che impiega per convincersi a dire quelle parole è così tangibile che mi blocco.
Ci guardiamo entrambi con gli occhi spalancati. I capelli scompigliati e crespi circondano le guance morbide. Ha le labbra dischiuse dalle quali escono degli sbuffi di fatica, il suo fiato si mischia col mio.
Posa la bocca sulla mia per pochi istanti. Sento le sue labbra morbide e delicate avvolgere le mie umide. Mi bacia con così tanta dolcezza che dentro di me sento spezzarsi qualcosa. Forse è il mio cuore o forse è la mia anima, ma il rumore dei cocci mi giunge forte e chiaro nelle orecchie, la sua eco rimbomba fastidiosa fino a diventare quasi una nenia.
Nessuno era mai stato così dolce con me. Nessuno si era mai preoccupato di farmi sentire meglio, né tantomeno di capire perché avrebbe dovuto farlo. Nessuno mi aveva mai amato come mi ama Lou. Nessuno.
Quando Marylou allontana le labbra dalle mie e posa la testa sul cuscino, vedo la sua immagine offuscarsi e in un primo momento non riesco a capire perché. I contorni del suo viso angelico si fanno mano a mano più confusi, i dettagli dei suoi occhi si sfocano ed io non posso più vederli. Quando sento un singhiozzo scatenarsi nel mio petto capisco che ciò che mi impedisce la visione di Lou sono le mie lacrime. Le mie maledettissime lacrime!
“Cazzo, scusa” un altro singhiozzo mi squarcia la gola.
“Ancora che ti scusi perché piangi?” Lou scosta la coperta e si infila nel letto. Fa posto anche a me, ci stringiamo tutti e due in quel piccolo letto ad una piazza sola. Stiamo stretti, i nostri nasi si sfiorano e i fiati si mischiano l’un l’altro.
Piango come un ragazzino, mi sento talmente stupido da riuscire ad odiarmi da solo. Ma Lou mi guarda comprensiva, condivide il mio dolore, se ne prende una parte e se la nasconde nel cuore appesantendolo e alleggerendo il mio.
Mi accarezza la pelle con la punta delle dita, mi guarda in attesa che io faccia qualcosa di diverso dal singhiozzare agitato.
Mi asciugo le lacrime col dorso della mano, inspiro ed espiro e cerco di ritrovare una sorta di calma superficiale. Quando parlo penso di esser riuscito a riguadagnare un pizzico di dignità. “Voglio vederla
Lou mi fissa attenta, aspetta qualche istante permettendomi di aggiungere parole che non arriveranno. “D’accordo” mormora, e so già che rimarrà sempre al mio fianco. 

***
Bonne soir! 
Allora, come va ragazze? Che ne dite del capitolo? 
Non avevo molto tempo stasera, ma l'ispirazione c'era, quindi ho voluto scribacchiare qualche cosina e...penso sia venuta abbastanza bene. Sì, per una volta mi sto facendo uno pseudo autocomplimento! 
Che ne dite dei capitoli visti dal punto di vista di Adam (scusate il gioco di parole)? Vi piacciono? A me sembrano una buona idea, anche perchè non c'è altro modo di sviluppare la sua storia dal punto di vista di Lou, diventerebbe difficile e limitante. 
Spero che vi piaccia e che non vi abbia deluso, qualcisasi critica/consiglio è comunque apprezzata, come sempre. 
L'ennesimo enorme grazie per le vostre recensioni, siete amorevolmente belle, tutte quante. Grazie e al prossimo capitolo, torno a studiare encefalo e midollo spinale -_- 
<3 

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Capitolo 47
*** 47 ***


Mi risveglio intontito circa quattro ore dopo. Ho la bocca secca e impastata, gli occhi gonfi e tutte le articolazioni indolenzite. In particolare, sento un fastidioso formicolio che mi paralizza il braccio destro. Dormire il pomeriggio mi stronca. Sono poggiato su un fianco, e mi rendo conto che, sopra al mio braccio bloccato, c’è il corpo di Lou. È sdraiata a pancia all’aria, ma col viso se ne sta accucciata sotto la mia spalla. Sulla sua guancia intravedo qualche piega, colpa della sua maglietta che le si è accartocciata addosso lasciando in bella vista gli slip. Le labbra sono dischiuse, gli occhi chiusi e addormentati. Il suo petto si alza e si abbassa ritmicamente. Il lenzuolo, che prima copriva entrambi, è attorcigliato alle sue cosce, ne lascia una nuda e copre l’altra.
Rotolo sull’altro fianco e con delicatezza sfilo il braccio dal collo di Lou, che con un grugnito si risistema dandomi le spalle. Sono le dieci e mezza di sera, abbiamo dormito parecchio, dovremo trovare un’altra occupazione per passare la notte.
Non avverto alcun rumore dal resto della casa, probabilmente gli altri saranno usciti a divertirsi. Non li biasimo, da eccitante che era questa vacanza sta velocemente degenerando nella tragedia.
Il mio stomaco brontola rumorosamente, quel suono per poco non mi stordisce. Sguscio fuori dal letto, sono diretto in cucina, precisamente alla ricerca di qualcosa da mettere sotto ai denti. La porta la accosto delicatamente, non voglio svegliare Lou, mi sembra così tranquilla e pacifica.
Sul tavolo in soggiorno c’è un biglietto scritto a matita:
“Siamo usciti e credo andremo in un pub, se volete raggiungerci chiamate sul cellulare di Christine.
Ciao belli!”
Sorrido tra me e me, almeno qualcuno si sta godendo la vacanza. Rovisto negli sportelli della cucina, do uno sguardo anche nel frigorifero. La casa è piuttosto vuota, a dire la verità. Non c’è molta scelta e, soprattutto, non c’è cibo particolarmente salutare. Solo biscotti, le solite patatine, merendine e varie cose che prevedono la presenza di cioccolata e altri ingredienti poco dimagranti. In frigo trovo una mozzarella bella grossa, così la tiro fuori e la annuso. L’odore sembra essere buono, decido di mangiarne una metà, spezzandola in due con un coltello.
“Stavolta sei stato tu a lasciarmi sola” Lou fa il suo ingresso stropicciandosi un occhio, zampetta a piedi nudi verso di me mentre le parole le escono spiegazzate in uno sbadiglio. “Non si fa” storce la bocca ancora gonfia per il sonno mentre mi si avvicina.
Mi lascio abbracciare rimanendo di spalle, solo con la coda dell’occhio riesco a incrociare il suo sguardo dolce e assonnato. Le accarezzo il dorso delle mani, poi mi volto stringendola contro di me, senza lasciarle il tempo di spostarsi.
“Temevo che il mio stomaco potesse svegliarti …”
“Oh, ecco cos’era quel brontolio”
Ridiamo guardandoci negli occhi, poi mi chino all’altezza del suo viso posando le labbra sulle sue. Lou ricambia il bacio schiudendole appena.
“Hai dormito bene?” mi domanda, le mani mi sfiorano il viso.
“Si, anche troppo forse” sorrido e sciolgo l’abbraccio. Trasporto il piatto con la mozzarella sul tavolo, poi prendo un’altra forchetta per Lou. “Buon appetito” mi accomodo osservando il latticino pallido.
“Grazie” Lou si siede di fronte a me, le sue ginocchia toccano le mie mentre addenta un morso di quella mozzarella.
Il silenzio aleggia intorno a noi, è condito dal rumore dei nostri denti che maciullano il cibo morbido e soffocato dall’intensità dei nostri sguardi che si urlano contro. Devo ancorarmi alla sedia con una mano per non saltarle addosso all’istante, Lou stasera mi fa uno strano effetto. Come se avessi in mente soltanto una cosa, tutto il resto viene improvvisamente accantonato in un buio angolino della mia testa.
La sento che sospira pesantemente, uno di quei sospiri accompagnati anche dalla voce. Emette questo lungo “Aaaah”, e mi sembra che abbia così tante cose da dirmi che inizio a preoccuparmi.
“Si, Lou?” mi rivolgo a lei con uno sguardo confuso.
“Ho fatto una cosa …” abbassa lo sguardo, sento il suo ginocchio scostarsi dal mio e la perdita di contatto non mi piace affatto.
“Cosa?”
“Una cosa … che non credo apprezzerai”
“Dimmi cosa, dai, giuro che non mi arrabbio” la incoraggio.
“Ho paura di si, invece”
“Andiamo Lou!” deglutisco l’ultimo morso di mozzarella, il fresco mi scivola giù per la gola e per poco mi fa rabbrividire.
“Ho chiamato Jamie, mentre ero a letto. Stava con Alo” i suoi occhi evitano accuratamente i miei, soffermandosi piuttosto sul piatto vuoto, sul mio petto nudo, sulle mie labbra socchiuse.
“Hanno risolto, quindi?” domando interessato.
“Più o meno” fa una pausa, sembra annaspare in cerca delle parole. “Ma non è questo il problema”
“E allora falla finita con questa storia e dimmi qual è” dico, forse un po’ troppo burbero perché la vedo deglutire a fatica. “Amore, dai” addolcisco il tono.
“Beh, ho detto a Jamie di portare qui Alo” sputa le parole quasi tirandole via, si vede che voleva separarsene al più presto. Mi guarda strizzando gli occhi, come un cane in attesa di una botta. Come un colpevole in attesa di una sentenza.
Eppure, continuo a non capire quale sia il problema.
“Lou, non ti sto seguendo. Perché dovrei arrabbiarmi? Se volevi fare qualcosa di … quel genere … beh, possiamo chiuderci in camera, nessuno ci sentirà” una vena di malizia mi attraversa il volto. La vedo arrossire e di conseguenza sorrido raggiante.
“No, stupido, che hai capito!” ridacchia imbarazzata e si scosta i capelli dal viso, gesto che fa sempre quando si vergogna. “Io penso che tu e Alo abbiate bisogno di parlare un po’”
“Ma di cosa? Io e Alo non …” sto per concludere la frase, ma congiungo i tasselli tra loro.
Ripercorro gli avvenimenti degli ultimi giorni. Cosa abbiamo in comune io e Alo? A detta di Petr, Lula, ovvero mia madre, si è sposata con lui. E fin qui, tutto chiaro. La situazione, però, si fa più complessa. Alo è il figlio naturale di Petr, ciò vuol dire che Petr è suo padre. Ma, attenzione, Petr è sposato con Lula, mia madre. Perciò … perciò io e Alo siamo, più o meno, fratellastri. Fratellastri un po’ alla lontana, ma pur sempre fratellastri.
Ok, mi fuma il cervello.
“Non ci voglio parlare” mi alzo dal tavolo, butto il piatto nel lavandino e apro l’acqua. Il suo rumore scrosciante mi rilassa perché sovrasta le parole di Lou. Queste purtroppo riescono comunque ad arrivarmi nelle orecchie.
“Ci parlerai, invece. Non fare il ragazzino” la sento avvicinarsi alle mie spalle. Mi sfila il piatto dalle mani tremanti di nervosismo, lo infila sotto il getto d’acqua ma ritira la mano bruciandosi. “Ahia” balbetta, ruota la manopola dalla parte opposta e riprende a sciacquare.
“Non faccio il ragazzino, Cristo santo!” urlo. “Non ci parlerò, non ho nulla da dirgli. Non so che problemi abbia o che cosa voglia da me”
“Nessuno vuole niente da te Adam” la sua voce si addolcisce, cerca di farmi calmare e la cosa mi fa infuriare ulteriormente. “Ho pensato che fosse necessario portarlo qui. Ci sono molte cose su Alo che tu non sai”
“Tu invece le sai, fammi indovinare” la fisso con lo sguardo inquisitorio e duro.
Evita i miei occhi mentre ripone il piatto nella credenza. “Non posso dirtele. Non è compito mio” ammette voltandosi di spalle.
“Cazzo” sbatto le forchette dentro al lavandino. “Ho bisogno di andarmene da qua” mi appoggio al lavabo e sento il respiro che inizia a mancarmi.
La figura di Lou rimane per un momento impietrita nella sua posizione statica. Non ho tempo di contare fino a cinque che la vedo venire verso di me con foga e, successivamente, assestarmi un ceffone ben piazzato sulla guancia destra. L’intensità con cui mi colpisce mi fa pizzicare la pelle, so già che mi rimarrà un segno rossastro e sbiadito. Lo collezionerò assieme agli altri schiaffi che ho preso in tutta la mia vita. E ne ho presi tanti.
Rimango immobile, nemmeno mi porto la mano a proteggermi la parte offesa, mi limito ad osservarla con gli occhi sbarrati e interrogativi. Diversi dai suoi, che mi guardano con un dolore misto a inquietudine, sconvolta dal suo medesimo gesto.
“Possibile che non apprezzi mai niente? Mi sto facendo in quattro per te. Sto cercando di aiutarti a capire qualcosa della tua vita. Si, io, che in primis non capisco niente della mia. Figuriamoci quanta voglia ho di andarmi ad infognare nelle vite altrui. Ma lo sto facendo lo stesso perché ci tengo a te, e il fatto che tu ancora non l’abbia capito mi stupisce non poco. Sto iniziando a pensare che forse non siamo fatti l’uno per l’altra” si allontana dalla mia visuale, la vedo sparire nel buio della terrazza, illuminata solo da un piccolo faretto debole e flebile.
La seguo imperterrito, non la perderò un’altra volta. “Lo so che non lo dici sul serio” sul mio viso sento allargarsi un piccolo sorriso incosciente. Incosciente perché so di rischiare un altro schiaffo, ma lo faccio lo stesso. Sorrido perché so di aver ragione. Lou mente e tutto il suo corpo sembra gridarmi in faccia di non crederle, di non cadere nel suo inganno.
Mi guarda, il suo sguardo è teso, pronto a scattare sulla preda come è un gatto nascosto tra l’erba pronto ad acchiappare un pettirosso. Sta zitta, in attesa di un mio fallo.
“No, non lo dici sul serio. È inutile che mi guardi così. Non sei brava a mentire” mi appoggio al davanzale affacciandomi. La strada è vuota.
“Non mento” la sua voce è un flebile sussurro, devo sforzarmi per riuscire a sentirla.
Rido sommessamente, il suono dei miei singulti strozzati mi riempie le orecchie. “Menti, invece. E io lo so, te lo leggo negli occhi, nel viso, nel corpo”
“E perché starei mentendo? Sentiamo, grande studioso del linguaggio del corpo” mi canzona, il suo sguardo mi inchioda mentre mi affianca.
“Menti perché mi ami. Menti perché vuoi spronarmi a reagire, perché … mi sto buttando giù, lo ammetto” la mia mano sfiora la sua, che con mia sorpresa, in un primo momento, si ritrae. “Menti perché sai che se perdo te perdo tutto”
Senza degnarmi di uno sguardo, Lou riavvicina la mano alla mia.
“Mi dispiace comportarmi così. So solo scappare. So solo criticare tutto e tutti. Non so fare altro ma …” dire queste cose mi costa uno sforzo enorme, ho quasi il fiatone per la fatica che implica parlare di certi argomenti. “Ho paura
“Lo so”
Fisso la ragazza accanto a me, solo ora mi sembra di vederla davvero. Il viso assume tutta un’altra espressione, matura, sincera, bella, così diversa dalla precedente.
A volte capita di avere una persona davanti gli occhi per tantissimo tempo ma non riuscire mai a vederne davvero la vera faccia, l’espressione, ogni piccola parte che compone il viso. Quando ti accorgi di averla sempre guardata con superficialità ti prende un vuoto allo stomaco, una strana sensazione, come se tutti gli organi si spostassero improvvisamente dalla loro ubicazione e occupassero un altro posto. Una sorta di gioco delle sedie viscerale, ecco. Ti senti strano, quasi spaventato dalla presenza di quella che, improvvisamente, ti sembra una sconosciuta, non più la persona con cui sei uscito per un’estate intera.
Lou mi osserva inclinando la testa lateralmente. “Lo so” ripete di nuovo, mi abbraccia.
Il campanello suona insistentemente. Trilla una, due , tre volte, fino a diventare fastidiosamente assillante. Lou corre ad aprire la porta, mi lascia solo in terrazza.
Dei capelli rossicci fanno il loro ingresso, si stagliano in tutta la loro focosità ed io riesco a vederli già da lontano. Aguzza lo sguardo, con gli occhi a mandorla mi cerca nella casa e quando mi trova alza un braccio in cenno di saluto. Rispondo al gesto con un evasivo movimento della testa. I miei piedi sono restii a muoversi, fosse per me rimarrei ancorato lì e mi barricherei lontano da tutti. Ma devo farmi coraggio, affrontare la verità, la realtà. Chi sono veramente io?
“Alo” mormoro quando lo vedo. Mi stringe la mano amichevolmente.
“Lo so che è un orario del cazzo, ma ho bisogno di parlare con te” si giustifica, forse vedendo il mio sguardo irritato.
“Allora parliamo” dico soltanto. Ci accomodiamo fuori, un’altra volta sotto la tenue luce lunare che ci illumina facendoci sembrare più pallidi di ciò che siamo.
Alo guarda fisso davanti a sé, si gratta il braccio allargando e strizzando un tatuaggio. Un’altra scritta, che però non riesco bene a leggere.
Alle mie spalle sento provenire qualche chiacchiera sommessa, distinguo la voce di Lou che mi appare tesa e preoccupata. Cerco di ignorarla, non devo concentrarmi su di lei ora, ma su di me.
Alo è restio ad iniziare a parlare e la cosa mi fa infuriare: è venuto a cercarmi fin qui, almeno si degnasse di iniziare il discorso.
Scontrandosi con le mie aspettative, Alo attacca a parlare con voce concitata. “È una situazione del cazzo, lo so” ammette. “Ma non possiamo tirarcene fuori in alcun modo. Siamo … costretti, credo. Per via del legame familiare, ‘sta roba qua” gesticola molto quando cerca di spiegarsi.
“Stai trovando una giustificazione per … che cosa?” gli domando, ho la testa che mi fuma per la confusione.
“No, non cerco di giustificarmi. Affatto” fa una pausa. “In realtà non lo so che cosa sto cercando di dire o di fare. Non lo so”
Tutto sommato Alo mi fa crescere nel petto quella compassione che cerco di ignorare. Ha uno sguardo innocuo che proprio non riesco ad ignorare.
“Dillo più semplicemente che puoi, non ce la faccio più a cercare di decifrare strani discorsi” dico esasperato ripensando al discorso tenuto poco prima con Lou. “Hai parlato di legami familiari, no?” lo invito gettando le basi della discussione.
Il ragazzo si passa una mano tra i capelli. Questa pallida luce gli illumina il viso facendolo sembrare grigiastro, quasi come uno strappo di carta stagnola. “Si, esatto e il problema, se così vogliamo chiamarlo, sta tutto lì”.
Rimango in silenzio e annuisco criptico. Fingo di aver capito, anche se in realtà non ho capito proprio un bel niente.
“Il fatto è che di per sé non è complicato dirlo, questo problema. Più che altro, a preoccuparmi è la tua possibile reazione”
“Perché tutti si preoccupano della mia reazione? Parlate e basta!” cerco di far capire la mia frustrazione nell’essere trattato come un ragazzino da proteggere ad ogni costo. Le cose brutte succedono a tutti nella vita, anche a me e, sinceramente, non conosco nessuno che vi sia mai riuscito a sfuggirne.
“Non è che sto cercando di proteggerti, Adam. È che è complicato! È complicato e basta!” Alo si sbraccia innervosito.
Le mie suppliche sono totalmente inutili, inutili come la scritta “Il fumo uccide” sui pacchetti di sigarette. Perché, diciamocelo, che diamine di senso hanno quei messaggi intimidatori? I produttori di suddetti capolavori pensano forse che aiuteranno a vendere di più il prodotto perché l’uomo è alla costante ricerca di sfide? O forse, il produttore è un uomo dai forti sensi di colpa che quindi cerca di salvare la vita a coloro che sono caduti nella trappola da lui stesso ideata? Qualunque sia la ragione, non la concepisco e credo che mai riuscirò a farlo.
Guardo Alo con un’espressione a metà tra l’annoiato e l’infuriato. Forse il mio sguardo riesce a colpire nel segno, o forse è merito delle mie mani che si stringono a pugno facendo sbiancare le nocche.
“D’accordo, d’accordo. Visto che tengo al mio setto nasale, ti dirò tutto d’un fiato. Come un cerotto, ok?” Alo si sfiora il naso con l’indice, poi mi inchioda con lo sguardo.
Annuisco deciso. “Ok”.
“Lula è mia madre” i suoi occhi non mollano i miei.
Se prima mi tremavano le mani, ora giurerei di avere un attacco di epilessia. Tremo, tremo dalla testa ai piedi e non riesco a fermarmi. Non riesco a pensare, a parlare, a dire qualcosa, qualunque cosa. Non posso far altro che tremare e fissare il ragazzo di fronte.
“Oh!” Alo mi schiocca un dito di fronte agli occhi. “Stai bene?” i suoi occhi traboccano di incredulità. Magari si aspettava una reazione ben diversa dalle convulsioni che mi hanno appena intrappolato.
Metto una mano avanti, intimandogli di stare un attimo zitto e fermo. Devo ritrovare … che cosa? Che cosa devo ritrovare? La calma, la tranquillità? Me stesso?
Perfetto, anche l’unica delle mie certezze è andata in frantumi. La vedo sgretolarsi a terra, diventare polvere, cenere, niente. Non posso andare avanti così, finirò per crollare e non so se riuscirò mai a riprendermi.
“N-ne sei … sicuro? Quanti anni hai?” domando incredulo. Non potendo fare altro, mi getto nella ricerca di particolari che smentiscano le supposizioni di Alo, incapace di farmene una ragione.  Non può essere possibile.
“Tu ne hai ventitré, giusto? Io ne ho diciannove. Lula ha conosciuto mio padre, Petr, in un locale nel mio paese. Da quel che mi diceva lei, si sono subito innamorati. Eppure mio padre ci ha abbandonati per più di dieci anni. Ancora non ha trovato una scusa per giustificarsi, o forse nessuno me l’ha comunicata” Alo si perde lontano anni e anni, lo vedo allontanarsi da me, sparire in una spirale di ricordi vecchi e rinsecchiti che allungano le loro mani adunche e ossute verso di lui per trascinarlo via.
“Non è possibile, Alo” ripeto, stavolta però lo dico ad alta voce. “Non è possibile” ripeto, guardo una formica che attraversa candida la mattonella. Scivola sotto al mio piede, lo sposto per lasciarla passare ma questa scappa da tutt’altra direzione, accelera e mette il turbo. In pochi secondi la mia vista affaticata la perde. “Perché avrebbe lasciato me da solo, allora, se poi ha fatto un altro figlio? Avrebbe dovuto abbandonare anche te” spiego convinto della mia tesi.
Nemmeno io credo a quello che sto dicendo, ma cerco di essere il più convincente possibile per mentire a me stesso. Non sopporterei il fatto di esser stato abbandonato per colpa mia. Ero io a … non piacerle? Mi ha voluto riportare indietro, come si fa con i giocattoli difettosi, e cambiarmi con qualcosa di più nuovo e funzionante? Se fosse stata solo colpa di mia madre, anche Alo si sarebbe ritrovato in un dannato orfanotrofio. Invece lui una madre ce l’ha avuta. E addirittura un padre, seppure poco presente.
Tuttavia, penso guardingo, mia madre non era una persona che stava a posto col cervello. Perciò non ci sarebbe da stupirsi …
Scuoto la testa scacciando quell’eventualità. Non voglio crederci e sicuramente sto costruendo castelli in aria, ingrandendo la cosa più di quanto già non si sia ingrandita.
“Questo devi chiederlo a lei, Adam. Io so solo che le voglio bene, tanto. E anche se mi ha deluso quando è tornata con papà, beh, è stata una grande madre per me” china lo sguardo. Mi sembra di scorgere un luccichio alla base dei suoi occhi molto simile ad una lacrima, ma non faccio in tempo ad analizzarla perché lui se la tira via col dorso della mano.
“Sta morendo, non è vero?” la mia voce è appena udibile, coperta dall’aria pesante di questa notte afosa.
Ma che ore saranno? Le due, le tre? Questa giornata sembra non finire più. Sento le forze venirmi meno e mi appoggio con un gomito al davanzale cercandovi sostegno.
Alo in tutta risposta annuisce, probabilmente per coprire la voce rotta da quelli che sono certo siano singhiozzi.
“Perciò tu … tu sei mio fratello” balbetto. Subito dopo averlo detto mi sento un’idiota. La frase suona talmente surreale che sembra di stare dentro una commedia americana. Le commedie però hanno sempre un lieto-fine, non sarebbero tali altrimenti. La mia vita, invece, credo proprio sia, al contrario, una tragedia.
“Si” Alo si tortura le mani, scrocchiandosi le articolazioni. Il crac che fanno ripetutamente le sue dita mi infastidisce arrivandomi alle orecchie. “Di certo non credo diventeremo fratelli inseparabili e amici per la pelle, tranquillo” mi assicura dopo esser rimasto in silenzio per un po’, d’un tratto nei suoi occhi vedo riapparire quella scintilla giovanile che s’era spenta.
“No, no. Certo che no” asserisco d’accordo con lui.
Rimaniamo in silenzio per una lunga manciata di secondi, il silenzio coperto solo dal rumore dei nostri respiri.
“Hai bisogno di risposte, lo so. Ti consiglio di sbrigarti, però, non le rimane più molto tempo” confessa, negli un dolore talmente forte che sembra quasi proclamarsi con le trombe.  
Cerco di fare il punto della situazione mentalmente, però mi perdo sempre. Inizio dalle cose più semplici: mi chiamo Adam, ho ventitré anni e sono stato allevato in un orfanotrofio. Ora mia madre sta male, mia madre quella naturale, la stessa che mi ha abbandonato come fossi un cane buttato sull’autostrada all’età di soli quattro anni. Ora lei sta male e suo figlio, cioè mio fratello, è venuto da me a dirmi di andare a trovarla. Dice che ho bisogno di risposte e che non ho molto tempo.
La situazione sfiora l’assurdo, anzi, direi che naviga nell’assurdo. Ma che altro posso fare se non crederci? Devo arrendermi all’evidenza, devo alzare le mani e buttare a terra le armi perché la vita è riuscita a farmela un’altra volta sotto al naso. Beffarda, la vedo ridere di me, sento la sua risata rauca riempirmi le orecchie, il suono della sua voce gratta sulle corde vocali ed esce strozzato, fastidioso, soffocante. Non posso più ignorarla, ormai.
“Rimani qui stanotte” la mia voce è sicura e ferma. “Domattina mi accompagni all’ospedale” 

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Capitolo 48
*** 48 ***


La notte, o almeno quelle poche ore che ne rimangono, trascorre con una velocità esorbitante, la sento scivolarmi addosso mentre vedo le stelle spegnersi ad una ad una nel cielo scuro. Cerco inutilmente di dormire, mi rigiro in continuazione tra le lenzuola sudate del mio letto disfatto. Non ho neanche Lou a farmi compagnia, è rimasta in cucina a chiacchierare con Jamie. Le loro voci mi arrivano ovattate al di là della porta, non riesco a distinguere cosa dicono. Alo diceva di essere distrutto, così si è chiuso nella prima stanza a portata di mano, si è tuffato nel letto e vi è rimasto immobile finché non ho deciso di andare a svegliarlo.
Ciabatto per casa strusciando i piedi sul pavimento, con un cenno della mano do il buongiorno a Jamie che sta stravaccato sul divano con la testa di Lou in grembo. Dorme la ragazza, ha proprio il sonno pesante.
“Sono tornati gli altri?” domando a Jamie mentre riscaldo il latte nel microonde.
“Fermo! È scaduto ieri” si sistema la chioma bionda spostandola con la mano.
Tiro fuori il latte e lo svuoto nel lavandino. Sarebbe stato bello poter fare colazione. “Che c’è nel frigo?” lo apro e passo al setaccio tutti i ripiani. Passata di pomodoro, un piccolo quadrato di mozzarella avanzata, del formaggio, del parmigiano grattugiato e qualche foglia di insalata. Piuttosto triste come frigorifero.
Jamie mi segue con lo sguardo. “Comunque si, sono tornati verso le cinque del mattino. Erano tutti più o meno ubriachi. Dicono che Belle abbia rimorchiato uno straniero, per poco non se lo faceva nei bagni del locale” scuote la testa.
“Wow” la mia voce suona annoiata. “Vado a svegliare Alo, voglio partire entro le dieci, non so quanto sia distante l’ospedale”
Busso alla porta di Alo, ma non ne sento provenire alcun suono. “Alo …?” sussurro piegando la maniglia. Nel letto vi trovo, rannicchiata su sé stessa, soltanto Belle. Russa leggermente, il rumore del respiro che gratta contro la gola. Richiudo la porta e, silenzioso come sono entrato, esco.
“Bu!” la voce priva di vitalità di Alo mi giunge alle orecchie.
Mi volto, per niente spaventato o sorpreso, lo guardo senza espressione. “Ciao”
“Partiamo? Chiamo il taxi” è già lavato e profumato, indossa una maglietta verde militare e dei bermuda jeans.
“Un minuto, devo vestirmi”
Velocemente infilo le prime cose che trovo nell’armadio, non mi guardo neanche allo specchio. Lavo i denti con uno spruzzo di dentifricio e provo una strana sensazione non avendoli sporchi. Il mio stomaco brontola protestando, ma cerco di ignorarlo. La fame mattutina è veramente dura da combattere.
Quando esco dal bagno Lou si è finalmente svegliata. La vedo che si stiracchia sul divano allungando ogni muscolo. Si volta e mi sorride.
“Ciao Adam”
“’giorno Lou”
Mi avvicino a lei e le stampo un bacio a fior di labbra.
“Mh, sai di menta” gradisce ridacchiando sommessamente.
Ricambio il sorriso, poi mi guardo intorno alla ricerca di Alo. Lo vedo pronto, accanto alla porta, sembra stare sull’attenti. Posa la mano sulla maniglia della porta, mi fissa in attesa.
Ecco, ci siamo.
Mi sembra di essere un condannato, un maledettissimo furfante che attraversa il patibolo, che raggiunge la corda di impiccagione. Perché lo sto facendo?
Prima di lasciarmi andare, Lou mi stringe forte la mano. Non aggiunge nient’altro oltre al suo sguardo prorompente. Non una parola, non un sorriso: niente, e ciò mi basta.
Io e Alo rimaniamo sul ciglio della strada una decina di minuti, il taxi tarda ad arrivare. Peggio per noi, più soldi da sborsare. Rimaniamo in silenzio, io sono a disagio ma cerco di non darlo a vedere. Stringo le braccia al petto e mi appoggio al muro. Alo fuma una sigaretta, tossicchia dopo il primo tiro, ma sembra riprendersi in fretta. Non ci degniamo di uno sguardo, sembriamo quasi due sconosciuti, capitati lì per caso. Poi il taxi arriva, Alo vi entra prima di me e, con parole fluide e veloci, indica la via al tassista.
Il viaggio, anch’esso taciturno e imbarazzante, impiega circa una ventina di minuti. La macchina sfreccia accanto a cartelloni pubblicitari, negozi di vestiario, pizzerie profumate e panetterie chiuse. La città sembra essere dotata di vita propria, ci sono ragazzini che giocano a pallavolo negli angoli delle strade, altri ancora pattinano sui marciapiedi tenendosi barcollanti per la mano. Poi gruppi di ragazzi e ragazze che vagano senza una meta precisa.
Mi sembra come di essere staccato dal mondo reale in questo momento. Questa macchina è una navicella spaziale e io sono un alieno, diverso da tutti quelli che stanno all’esterno, viaggio ad una velocità supersonica e nessuno si accorge del mio passaggio. Tuttavia, io vedo ogni singolo volto, ogni minima espressione di quegli sconosciuti. Gli sfreccio accanto e i loro visi mi rimangono impressi nella mente per qualche istante come fossero fotografie. La foto di una bambina bionda con gli occhi azzurri come il cielo viene rimpiazzata da quella di un anziano signore che legge il giornale sbiadito su una panchina. Il signore che si asciuga la fronte dal sudore è sostituito dal bambino che lecca avido il gelato sciolto.
Quando stiamo per arrivare alla clinica me ne accorgo. Si trova in una zona malfamata, le strade sono vuote e l’asfalto distrutto è puntellato da una miriade di buche. L’uomo alla guida rallenta svicolando nelle viuzze strette e curve. Le macchine che sono parcheggiate ai lati della strada hanno anch’esse un non so che di abbandonato e lascivo, mi trasmettono tristezza e desolazione. Ma forse sono un po’ influenzato dal mio stato d’animo, conferisce uno strano aspetto a tutto ciò che mi circonda e renderebbe triste anche un clown colorato.
“Eccoci qui, sono ventitré euro e ottanta centesimi, grazie” il tassista si volta parzialmente verso di noi.
Faccio per infilare le mani della tasca, dovrei avere qualche banconota a portata di mano, ma Alo mi ferma con un gesto perentorio. Allunga due banconote all’uomo, una da venti e l’altra da cinque e dice “Tenga il resto” con aria seria e monotona. Scende dall’auto senza neanche salutare.
“Grazie”
“Arrivederci”
Scendo anche io, scivolo su una pianta di ortica sradicata dal suolo, giace per metà sotto la ruota dell’automobile, spiaccicata e ingrigita dal grasso attecchito alle ruote.
Alo mi passa davanti, non mi degna di uno sguardo mentre si incammina verso l’entrata della clinica. Lo seguo a testa bassa e senza guardarmi intorno. Quando arriviamo di fronte alla porta a vetri scorrevole mi blocco istintivamente. Sento come un vuoto allo stomaco, una strana sensazione di … paura, direi. Paura? Ma paura di cosa?
Cerco di respirare, ma sento il sangue diventare sempre più pesante, come se mi bruciasse nelle vene, come se fosse piombo liquido e stesse cercando di farmi accasciare a terra.
“Aspetta Alo” la mia voce è flebile, Alo si volta con uno sguardo un po’ preoccupato, mi osserva con la testa inclinata.
Mi porto una mano sul petto, il battito del mio cuore mi sembra debolissimo, riesco a malapena ad avvertirlo. Guardo in alto, le nuvole si muovono ad una velocità esagerata e i palazzi dondolano l’uno verso l’altro, sembra stiano per scontrarsi, poi riprendono nuovamente le loro forme, come fossero plastilina maneggiata dalle dita di un bimbo.
“Tutto ok?” Alo ha sempre quello sguardo annoiato, distante, mi si avvicina ma non mi tocca. Eppure mi era sempre sembrato un ragazzo … beh, si lo ammetto, un po’ strano. Però credevo fosse un tipo forte, resistente, coraggioso. Invece ora lo vedo ritrarsi nella sua corazza protettiva, lontano da tutto e tutti, lontano da me, che sono stato sbalzato in una vita che non ritenevo più mia. Se ne sta lì dietro al muro di cemento armato che lui stesso ha eretto, distante da ciò che accade. Cammina una spanna sopra a tutti, nessuna delle cose umane lo tocca minimamente.
Mi rendo conto che sto cominciando a non respirare, sento il fiato venirmi meno, ma stavolta non è un attacco di panico. Quando ne ho uno me ne accorgo perché sento il cuore battermi all’impazzata, quasi come avessi un infarto, e il respiro va talmente veloce che mi sembra di stare in apnea. Invece ora è tutto al contrario: ogni mia funzione vitale sembra rallentata e sento le forze venirmi meno.
Alo improvvisamente mi prende per le spalle e mi scuote. “Ti devi fare coraggio, cazzo!” la sua voce è ferma, glaciale, gelida, mi penetra nelle ossa.
Come se mi avesse detto le parole giuste, sento uno scossa elettrica rinvigorirmi. Con un sospiro secco, alzo le spalle e allungo il collo riassumendo una posizione umanamente eretta. “D’accordo”
“Come lo strappo di un cerotto, ok?” mormora Alo guardandomi di sottecchi.
Mi viene da sorridere sentendolo ripetere la frase di stanotte. Annuisco deciso mentre infilo le mani ancora tremanti nelle tasche.
La hall dell’ospedale è un luogo semplice e ben arredato. Sembra di venir catapultati in un universo parallelo. Il mondo esterno è quello fuori, quello con le strade sterrate e il silenzio lugubre. Qui invece è tutto così pulito ed elegante …
Alla nostra destra troviamo una piccola saletta d’aspetto, le pareti hanno un colore anonimo, un panna sbiadito. Le poltrone beige contrastano con quel chiarore. Di fronte alla fila di poltrone vi è un tavolino in cristallo, sopra di esso stanno adagiate parecchie riviste. Sono sparse sulla superficie liscia del tavolo, alcune sono aperte, altre hanno la copertina piegata. Una poltrona è occupata dal corpo di una signora piuttosto alta. Pur stando seduta, si notano le sue gambe lunghe e adunche, così come le braccia. È molto magra, le caviglie le sguazzano nelle scarpe sportive che le scivolano dal tallone. In testa porta un foulard colorato e vispo.
Anche senza domandarglielo, capisco che è malata di cancro ed è qui per la chemioterapia. Rabbrividisco.
Lula, mia madre, mi correggo mentalmente, è ricoverata, ciò significa che le sue condizioni saranno anche peggiori di quelle di questa signora accomodata sulla poltrona. Legge la rivista con uno sguardo vago, i suoi occhi scorrono le parole stupide di quel giornale scandalistico, parole sprecate per persone ritenute famose. Parole sprecate a sparlare della vita altrui, ad inventarsi falsità ed esagerazioni inutili. I suoi occhi le scorrono tutte quante veloci, ma non le leggono davvero. È un modo per ingannare il tempo, per non dargli soddisfazione. Lui, che corre sempre, che non fa mai favori né eccezioni, viene preso in giro dalla signora che di tempo ne ha talmente poco che ormai lo spreca in cose futili, come leggere un giornale scandalistico.
Quell’immagine mi provoca un dolore tanto sordo quanto potente e mi ritrovo distratto a fissare la donna che alza lo sguardo e accenna un timido sorriso educato. Distolgo lo sguardo all’istante.
“Stanza duecentododici, caro” la signora alla reception, una tipa in carne col viso abbronzato – o forse molto truccato – ci indica la strada allungando il braccio al di là della scrivania.
Alo mi tira per un braccio intimandogli di seguirlo, forse mi avrà visto nel mio attimo di trance. “Mi raccomando, eh” mi avverte quando ci troviamo di fronte alla stanza. La porta è chiusa e in fondo al corridoio c’è un’altra sala d’aspetto, completa di sedie, riviste e stavolta anche un piccolo televisore appeso al muro. Alo si muove in quella direzione.
“No aspetta, che fai?” lo blocco terrorizzato, già sento il sangue affluirmi troppo velocemente al cervello.
“Come che faccio? Io non entro” mi risponde con voce naturale, anche un po’ scocciata, come se fosse una cosa ovvia.
“No, tu entri invece” mi innervosisco. “Sei … sei mio fratello” mormoro un po’ confuso, dire quelle parole aumenta lo stato d’insicurezza che imperversa nel mio petto.
La frase fa lo stesso effetto anche ad Alo, che strabuzza gli occhi e aggrotta le sopracciglia rossicce. “Non giocarti la carta della famiglia, ti prego” i suoi occhi traboccano sincerità e dolore. “Tocca a te, adesso. Io la mia parte l’ho fatta” detto questo, si volta e si allontana senza neanche attendere la mia risposta.
Quindi eccomi qua, la mano tremante sepolta nella tasca, una maniglia fredda che aspetta di essere spinta e una porta che freme di essere aperta per mostrarmi cosa nasconde all’interno. Pensare che, quando e se troverò il coraggio, troverò mia madre in questo anonimo letto d’ospedale mi sconvolge totalmente.
Insomma, mia madre! La cosa è talmente surreale che anche a ripetermela nella testa suona assurda e incredibile. Non me ne renderò conto finché non me la ritroverò davanti, immagino. Perciò rimane solo una cosa da fare.
Prendo il coraggio con tutta la forza possibile che ho, spingo velocemente sulla maniglia e spalanco la porta con un gesto secco. Mi rendo conto di tenere gli occhi serrati perché intorno a me tutto è nero e buio, senza forme né contorni.
Adam?” la voce è rauca e intontita, è un miracolo che riesca a sentirla.
Apro gli occhi di scatto, il respiro mi si mozza in gola.
La stanza è abbastanza spaziosa, le pareti candide gli conferiscono una certa ariosità. È ordinata, non c’è una sedia fuori posto. Sotto la scrivania giace una valigia sdraiata sul pavimento. È aperta, il lembo di una maglietta è sfuggita alla lampo e giace a terra insozzandosi. C’è una piccola televisione appesa al muro, come quella nella sala d’aspetto. Il telecomando si trova proprio sulla scrivania sottostante, mossa stupida perché mi chiedo come sia possibile che il malato in questione riesca a raggiungerlo con facilità. Infatti, il letto in cui giace mia madre è situato all’esatto capo opposto della stanza. È un semplice letto d’ospedale, lenzuola bianche e coperta azzurrina. C’è un plaid accartocciato ai piedi del letto, mi fa caldo solo a vederlo. Il Sole filtra attraverso la tenda socchiusa, riporta un po’ di vita e di colore in quella stanza già morta. Sul davanzale della finestra c’è un grosso vaso e una composizione molto vispa di fiori mi risalta agli occhi. Sembrano freschi, appena comprati. Probabilmente Petr dev’essere passato poco tempo fa. Nella stanza c’è anche il bagno, è nascosto dietro una porta accanto al letto, dopo il comodino. Sopra di esso vi sono poggiati un telefonino nokia, di quelli vecchi con il gioco snake e una bottiglia d’acqua con qualche bicchiere capovolto sopra. Accanto al letto c’è il macchinario che vigila il ritmo del cuore di mia madre, un sordo bip ne proviene regolarmente interrompendo il silenzio pesante.  Poi una sacca piena di un liquido trasparente appesa ad un paletto argentato. Percorro il filo attaccato alla sacca con lo sguardo fino ad arrivare alla flebo infilata nel braccio di mia madre. E mi concedo, finalmente, di guardarla.
Mi ero immaginato un corpo smagrito, un polso magro e pochi capelli in testa. Mi ero preparato al peggio eppure questo è niente in confronto a ciò che la mia mente aveva prodotto.
La donna che viveva nei miei ricordi era  alta e bella, con un corpo snello ma formoso, tonico ma slanciato. I capelli erano ricci, si componevano di lunghi e voluttuosi boccoli neri come l’onice. Gli occhi erano verdi come lo smeraldo, non come un semplice stelo d’erba, sarebbe stato fin troppo banale. La voce era limpida e forte, arrivava sempre chiaramente alle orecchie e si imprimeva nella mente di chiunque la ascoltasse. Così cristallina e piacevole che era impossibile dimenticarsela. La cosa che più mi ricordavo era, però, il suo sorriso. Il sorriso che celava un “mi dispiace” quando tornava tardi a casa dai suoi appuntamenti. Il sorriso che, nonostante tutti i comportamenti assurdamente sbagliati, mi sussurrava sempre che mi voleva bene. Quella era mia madre.
La donna che invece giace qui, su questo letto disfatto, è una strana proiezione di mia madre, grottesca e turbante. Il corpo sembra quello di una ragazzina, piccola com’è quasi sparisce sotto le lenzuola. Ne scorgo solo le braccia bianche, punte dai vari aghi e flebo, i polsi sono così magri che potrei stringerli in una mano. Il collo è alto e lungo, magrissimo e d’un bianco così trasparente che riesco a scorgere il pulsare debole delle vene al di sotto della pelle. I boccoli neri non hanno più quel colore forte e sicuro che avevano un tempo, ora sono d’un grigio scuro sfibrato. Se ne stanno smorti sulle spalle di mia madre, non hanno più una forma, sembrano lunghi spaghetti scotti. Non è comunque tutto questo a turbarmi. È, bensì, il suo viso e la sua espressione. Indicibile a parole, mi provoca un senso di desolazione, senso di colpa, dolore profondo. Uno squarcio mi irrompe nel petto e sono costretto a piegarmi su me stesso per difendermi dai fitti di aghi che mi trafiggono il cuore. Gli occhi di mia madre sono bui, il verde che illuminava le iridi un tempo è soltanto un vago ricordo. Ora sono scoloriti, avvolti in un colore velato, spento, morto. Sembra siano già trapassati, volti all’indietro a guardare un’altra vita che non è quella terrena. Le labbra, che ricordavo piene e morbide quando mi si posavano sulle guance, ora sono screpolate e pallide, secche e aride come il letto vuoto d’un fiumiciattolo prosciugato nel bel mezzo del deserto. Le guance sono scavate all’interno, attaccate allo scheletro che le buca cercando di uscire. Il suo viso è pallido e smorto, la sua espressione è assente, buia. I suoi occhi guardano fisso un punto invisibile, ma quando sentono lo schiocco della porta si voltano con lentezza estenuante verso di me. Vedo le sue labbra sforzarsi di tirarsi su, un piccolo sorriso le alza gli angoli della bocca. La fronte le si imperla di sudore mentre pronuncia il mio nome.
“Adam?” mi domanda di nuovo. Lo dice come se fosse una domanda, non è sicura che io sia davvero quell’Adam, che io sia suo figlio. Beh, come biasimarla, sono passati nove lunghi anni.
“Lula” sussurro, anche io ho un filo di voce. Chiudo la porta alle mie spalle, vorrei accostarla per lasciarmi una via di fuga, ma alla fine la chiudo cercando di non pensarci.
Un’espressione amara si disegna sul suo viso distorto. Mi guarda di sottecchi, alza le sopracciglia sfoltite e opache. “Adam, Adam, Adam” ripete in continuazione. La sua voce è quasi irriconoscibile. Di quel cristallino che ricordavo non vi è nemmeno una vaghissima traccia. Ora è la tipica voce arrochita dal fumo, mi immagino le corde vocali ricoperte da catrame, nicotina e chissà quale altro schifo che soffoca il suono delle sue parole. “Ne è passato di tempo, eh”
Muovo qualche passo verso di lei, incerto, guardingo.
Alza con estrema lentezza una mano dal materasso, la allunga in mia direzione, vorrebbe stringere la mia. Non so se ce la faccio, così rimango immobile a soppesare il suo viso, le sue dita magre tese verso di me. Un silenzio pesante scende su di noi, ad interromperlo soltanto il bip costante del macchinario.
Mi avvicino ancora un po’. Con riluttanza le sfioro la mano, lei immediatamente ne approfitta e con la forza di un cardellino impaurito la intreccia alla mia. È gelida come il ghiaccio, lo stesso ghiaccio che sento trafiggermi lo stomaco.
“Figlio mio” adesso sorride di più, i muscoli facciali riprendono dimestichezza con quei gesti così umani e naturali che però stonano coi suoi occhi cerchiati da fatica e sofferenza. “Mi sei mancato così tanto”
L’istinto di urlarle contro è forte, ero partito con grosse aspettative. Pensavo che sarei giunto qui, le avrei detto chiaro e tondo quanto mi aveva fatto soffrire, quanto mi aveva reso la vita un inferno. Le avrei gridato in faccia tutte le mie sacrosante ragioni, il fatto che mi avesse abbandonato per poi rifarsi una vita altrove era inaccettabile. Così inaccettabile per me da arrivare a convincermi che sarei riuscito a sputare sentenze su sentenze non appena la avessi vista. Ma ora che ce l’ho davanti, il corpo smagrito e divorato dalla malattia, gli occhi vitrei e opachi, le labbra secche e tremanti … tutta la forza che avevo in corpo scema velocemente. Mi scivola addosso come fosse olio.
Non sapendo cosa risponderle, rimango in un silenzio taciturno. Solo il mio respiro pesante mi riempie le orecchie assordandomi. Ogni minuscolo rumore sembra trapanarmi il cervello.
“Adam, tesoro mio, parlami” la sua voce è sempre più bassa e rauca. La guardo fisso in viso, ha gli occhi un po’ lucidi.
Quando parlo, il suono delle mie parole è così aspro e duro che mi sorprende. “Cosa vuoi che ti dica, mamma? Se così posso chiamarti”
Lula affila lo sguardo, mi osserva intontita. Si sistema sul lettino con un gemito di dolore, si massaggia le costole con la mano e mi guarda mentre una smorfia di sofferenza le si cancella dal viso. “Mi dispiace. Mi dispiace davvero, figlio mio”
“Che me ne faccio del tuo dispiacere, Lula? Dopo che ho passato metà della mia vita in un orfanotrofio e l’altra metà in una famiglia adottiva … Credi che mi importi del tuo dispiacere?”
La donna stesa sul lettino mi fissa inerte, ascolta le mie parole con attenzione meticolosa e attarda a rispondere.
“Credi che un semplice mi dispiace e uno sguardo addolorato servano a cancellare tutto il male che mi hai fatto?” dalla mia bocca esce veleno.
China lo sguardo, la sua mano lascia la mia, il freddo diminuisce e sento il sangue riprendere a scorrermi nelle vene. Lula stringe le dita a pugno, un pugno debole e socchiuso. È così fragile che sembra sia sul punto di sgretolarsi.   “No, no. No, non lo credevo”
“Almeno su una cosa siamo d’accordo”.
Lula riprende a fissare un punto visibile di fronte a sé, gli occhi vuoti e persi nel nulla. Sembra quasi finire in uno stato di trance. Ad intervalli regolari cessa di parlare e guarda altrove, assente. Poi si riprende, improvvisamente si volta di nuovo verso di me e ricomincia a parlare. “Ma mi dispiace lo stesso. Sono contenta che tu sia venuto qui, volevo rivederti da tempo”
Sento la rabbia montarmi dentro, il nervoso mi ribolle nel sangue bruciando ogni pensiero pacato. Vedo rosso, ovunque c’è rosso. Sulla tenda, sul lenzuolo, perfino il viso di Lula lo è. “Non dirmi queste cose. Non devi dirmele. Se avessi voluto davvero rivedermi, come dici, saresti venuta a cercarmi molto prima. Invece cosa hai fatto, eh? Non hai perso tempo a rifarti una vita. Io non ti piacevo, ti sei trovata un altro uomo e ci hai fatto un figlio. Immagino che Alo sia migliore di me, non è vero?”
“Adam, ti prego, non dire queste cose. Lasciami spiegare”.
“Ma certo. Hai sempre una scusa, non è vero? Non è mai colpa tua, non è mai stata colpa tua. Pensi ancora di essere una madre perfetta? Di non aver sbagliato nulla con me?”.
“No, Adam, certo che no. Ma lasciami spiegare, per piacere” mi supplica con occhi vitrei.
Rimango in silenzio, mi mordo la lingua per tacere e sento immediatamente il sapore metallico del sangue che mi invade la bocca. La guardo a braccia conserte.
“Mi passi un bicchiere d’acqua?” mi domanda voltandosi verso il comodino.
Verso un po’ d’acqua in un bicchiere di carta, poi glielo porgo evitando il contatto con la sua mano.
Trangugia il liquido con avidità, come se fosse nettare in grado di guarirla dalla malattia che le sta mangiando gli organi ad uno ad uno. Tuttavia, deglutisce con evidente fatica, l’acqua le scivola giù per la gola raspando e grattando, ne avverto il fastidio solo a guardarla. Tossicchia un po’ mentre mi porge nuovamente il bicchiere. Lo poso sul comodino e attendo fiducioso che inizi a spiegare.
“Tuo padre era … un completo idiota. Hai il suo stesso naso, lo sai? Identico” guarda in basso, poi mi osserva di nuovo. “L’ho incontrato ad una festa, si chiamava Jonathan. Hai presente quei tipi un po’ misteriosi, quelli che vanno di moda tra le ragazzine che guardano i film adolescenziali. Come si chiama quello dei vampiri … Twilight?” la sua voce suona come una domanda, nonostante ciò non le rispondo. Riprende a parlare con amarezza. “La prima notte che ci siamo conosciuti la abbiamo passata … insieme. Penso sia stato in quella sera che ti abbiamo concepito, tesoro” mi sorride e attende qualche secondo permettendomi di commentare, inutilmente. “Quel bastardo mi ha … Lui non appena ha saputo di te … Se n’è andato a mani basse. Nemmeno un pacco di banconote mi ha lasciato. Diceva di amarmi, di non aver mai incontrato nessuna come me. Diceva … diceva …” il suo dito graffia il tessuto del lenzuolo in continuazione mentre il suo tono si affievolisce. “Ragiona, Adam. Lo so che non ho scusanti, ma avevo diciannove anni, ero una ragazzina, non sapevo come fare a tirare su un bambino. Era una cosa seria, mica uno scherzo. Non sai cosa significa ritrovarsi madri a diciannove anni. Soprattutto in una situazione come la mia. Lo sai, non sono mai stata una di quelle che definirebbero brave ragazze. Direi piuttosto il contrario. È stato proprio questo mio lato a mettermi nei guai” rabbrividisce, i peli pallidi sulle sue braccia si drizzano spaventati.
Il ricordo di quell’uomo alto e scuro, la sua risata rauca e sbeffeggiante, la lama fredda del coltello che mi sfiorava il collo bramosa di sangue … istintivamente mi ritraggo da mia madre e porto una mano sulla cicatrice che sfoggio dietro l’orecchio.
Lula si accorge della mia reazione, anche lei si ricorda. “Quello stronzo …” mormora, gli occhi pieni di rabbia fissi nei miei. Per quanto possa sembrare debole, la sua rabbia e il suo risentimento sembrano ridare vita al suo sguardo spento. “Ho dovuto trasferirmi, avevo problemi con la legge. L’unico motivo per cui non ero ancora fuggita dall’Italia eri tu”
“Me ne stai anche facendo una colpa?”
“No, Adam, no!” ha il fiatone mentre parla, è già molto affaticata. Si ferma qualche secondo per riprendere fiato. “Non eri un peso, non volevo liberarmi di te. Mi sono espressa male. Ti amavo, Adam, sono sincera quando lo dico. Eri mio figlio e ti amavo come qualsiasi madre ama il proprio bambino”
Stento a crederci, infatti assumo un’espressione piuttosto scettica e confusa.
“Ma te l’ho detto, ero troppo giovane, troppo immatura. Non ero pronta per te. Tornassi indietro mi farei uccidere piuttosto di farti portare via da me, ma purtroppo non si può”
Tornassi indietro, supplicherei mia madre di non abbandonarmi per terra in una casa vuota, ma purtroppo non si può, penso acidamente.
“Quando ti hanno portato in orfanotrofio ho capito di essere rimasta sola. Non potevo fare nient’altro per riaverti con me, nessuno ti avrebbe riconsegnato nelle mie braccia, neanche con un miracolo. Non riuscivo a vivere in quella casa piena dei tuo giochi, dei tuoi vestitini … rischiavo di impazzire. Così ho deciso di partire, di andarmene lontano, lontano e sono arrivata in Repubblica Ceca. È stata una località casuale. Avevo scommesso con me stessa: ero andata in una libreria e avevo aperto un atlante su una pagina a caso. Ho puntato il dito nel bel mezzo della pagina e quella era la destinazione. Così, sono uscita senza comprare nulla e sono andata a fare subito il biglietto aereo. Sono partita, tesoro, mi sono lasciata tutta la mia vecchia vita alle spalle per ricominciare” tira su col naso, si porta una mano al petto e la schiaccia sul cuore, come ad impedire ad un dolore troppo grande di straripare fuori dai suoi polmoni anneriti dal fumo.
“Anche me … ti sei dimenticata anche di me” sussurro, non riesco più a guardarla in faccia, farlo mi richiede uno sforzo troppo grande.
“Non mi sono dimenticata. Non è mai passato giorno senza che il mio pensiero corresse fino a te, in Italia, in quell’orfanotrofio buio. Ero sicura che ti saresti trovato una famiglia alla svelta, eri un ragazzino fenomenale” sorride gentile.
“Mi spiace contraddirti, ma sono stato addirittura riportato indietro. Non erano soddisfatti di me, non gli piacevo. Troppo esuberante, troppo calmo, vai a capire il motivo. Mi hanno cambiato, proprio come hai fatto tu. Soddisfatti o rimborsati, giusto?”
Lula ignora il veleno che sprizza da ogni mio poro. Riprende a spiegare ignara dei miei occhi focosi. “Petr l’ho conosciuto al lavoro. Uno di questi omaccioni alla mano, simpatici ma un po’ burberi, non conoscono le buone maniere e fanno tutto come gli viene. Mi piaceva e io piacevo a lui. Quando mi sono accorta di essere incinta di Alo sono rimasta paralizzata. Non so se dalla paura o dal senso di colpa, ma sono stata sul punto di abortire” la sua voce diventa a mano a mano più flebile. So che dovrebbe riposare, probabilmente, e non stancarsi in questo modo. Ma le sue parole, per quanto mi costi ammetterlo, mi attirano come fossero un magnete. “Per fortuna non l’ho fatto e ho resistito. Ad Alo ho dato tutto quanto l’amore che non avevo dato a te. Tutto quanto. L’ho amato il doppio, gli ho offerto le cure che avrei dovuto dare a te, ho rimpianto di non averti accanto, di privare Alo di un fratellino. Sono stata così male, tesoro, così male …”
“Non chiamarmi tesoro” sussurro glaciale. I miei occhi continuano ad evitare i suoi. Provo una fitta di gelosia sorda per quel ragazzo dai capelli rossicci seduto qua fuori. L’invidia mi pervade l’anima e mi sfocia nel cuore intontendolo. “Non … non chiamarmi tesoro” ripeto, la voce colma di pianto. Sto per scoppiare, tuttavia mi costringo a resistere.
“Scusa” si scosta a fatica un capello sfibrato dal viso. “Ho sempre voluto tornare a trovarti. Ma, lo ammetto, non ho mai trovato il coraggio. Mi mancavi, volevo vedere com’eri cresciuto, com’eri diventato bello e forte. Invece non l’ho mai fatto perché ero spaventata. Avevo paura. Una paura assurda. Finché non mi sono ammalata e sono peggiorata. Pochi giorni fa ho espresso il desiderio di rivederti. Sapevo che eri qui, Alo mi aveva parlato del suo fidanzato e dei suoi amici. Quando ho sentito il tuo nome … sapevo che eri tu. In qualche modo, io sapevo che ti avrei rivisto. Prima di morire non avrei lasciato nessun conto in sospeso” sorride leggermente, quasi fiera delle sue gesta. Ora tace, aspetta che sia io a dire qualcosa.
“Lula …” rimango zitto.
“Puoi chiamarmi mamma?” la sua è una domanda straziante che apre ulteriormente lo squarcio che ho nel petto.
Sospiro seccamente, da conserte che erano, le mie braccia mi cadono distrutte lungo i fianchi. “Mamma. Io … non … Vorrei, ma non posso, non posso perdonarti. Non ci riesco! Non ce la faccio!” le prime lacrime che mi scendono dagli occhi mi arrivano alle labbra, sono tiepide e salate.
Mia madre allunga il braccio tremante, si sforza per arrivare a raccoglierne una. Si porta l’indice umido alla bocca, ne bacia la superficie, mi guarda. “Scusa, ti ho voluto bene e sempre te ne vorrò” mormora come fosse un addio. Sbatte gli occhi pesanti con fatica.
Forse sarebbe meglio lasciarla riposare. Forse tornerò domani. O forse non tornerò e basta. Forse …
“Credimi, Adam” la sua mano cattura la mia e la stringe con un’intensità urgente e disperata.
Non so che dire, ho la bocca secca e impastata e la lingua è attorcigliata su sé stessa. Riesco solamente a guardarla, i capelli smorti e le labbra socchiuse. Gli occhi scuri sono fissi nei miei, non li mollano neanche per un secondo.
Poi il bip costante del macchinario si trasforma in un istante, senza che io riesca a rendermene conto. Diventa un lunghissimo e ininterrotto bip e la riga che prima sembrava una catena montuosa irregolare, ora è una vasta pianura piatta e insignificante. Nello stesso momento, la mano di mia madre che stringeva la mia diventa inerme e esausta. Si sfila dalla mia, cade sul lenzuolo con un tonfo sordo. Incredulo, sposto gli occhi sul corpo di Lula. La bocca è ancora socchiusa, ma non vi esce neanche un filo di fiato. Gli occhi aperti fissano ancora il mio viso sgomento, ma non hanno più quella minuscola scintilla che li rendeva ancora, in qualche modo, vivi. Ora sono spenti, bui, vitrei e inespressivi … ora sono morti.

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Capitolo 49
*** 49 ***


Tutto deve finire. Qualunque cosa inizi ha sempre una fine. È inevitabile, non si può cambiare. Alla nascita segue la morte così come all’inizio segue la fine. Tutti lo sanno ma nessuno ci fa mai tanto caso. Non ci si bada, perché non è indispensabile sentirsi il fiato sul collo per tutta la vita. Quel fiato gelido che ti ghiaccia l’anima e ti ricorda che prima o poi non esisterai più. Sarai il niente più totale, neanche cenere, un grumo di polvere, no. Niente, il nulla più assoluto. È difficile persino pensarlo, figuriamoci dirlo. Credere alla propria inesistenza è così assurdo e surreale, è per questo che nessuno ci pensa mai. Passiamo la vita a guardarci intorno, ad osservare le cose futili, i negozi, i vestiti, il cibo. Tutte cose dannatamente stupide messe a confronto con la morte. La morte. C’è chi la immagina come una figura incappucciata, ossuta e scura, con una falce in mano. C’è chi la immagina come una luce bianca e folgorante, che ti avvolge nella sua luminosità e ti mangia vivo.
Io, invece, quando penso alla morte non vedo niente. Mi sforzo, rifletto e rifletto ancora, spazio con l’’immaginazione … ma l’unica cosa che vedo è, puntualmente, il niente. Non vedo il paradiso con le nuvole né tantomeno  l’inferno con il fuoco. Il niente che vedo io non ha un colore definito. Non è bianco, non è nero. È … opaco. È un colore nullo, perché dentro di sé ha tutti i colori del mondo, eppure al contempo non ne ha nessuno. Il rosso sul giallo, il verde sul blu, il nero sul bianco, il grigio sull’azzurro. Il niente più totale. La morte che mi immagino si può definire con una sensazione, piuttosto che con un colore o con un’immagine. La morte che ho nella testa è fredda, gelida. La senti arrivare perché la sua risata malinconica e beffarda ti riempie le orecchie fino a fartele esplodere. La sua voce arrochita è come un ritornello sbiadito di una vecchia canzone sgraziata. Ti si ghiacciano le ossa e il cervello, poi non riesci più a pensare. E se non pensi non reagisci, quindi per lei, per la morte, è facile prenderti e portarti via. Non ci vuole nulla ad immobilizzarti, col suo gelo perenne ti avvolge in fretta per rapirti e portarti con sé. La morte è egoista. È irriverente. È insistente.
Così mia madre è morta. E l’ultima cosa che ha sentito pronunciare dalla mia bocca è stata: “Non ce la faccio”.
Così è finita. Con un maledetto non ce la faccio che s’è portato via ogni speranza. Si è rubato tutto il calore del mio corpo e, insoddisfatto, ha rapito anche quello di mia madre. E se dicono che la speranza è l’ultima a morire … beh, adesso è morta anche lei. Assieme a lei, mia madre e una piccola parte di me. Quel ragazzino di quattro anni che non sopportava di rimanere da solo schiaffato sul pavimento, di ascoltare quei ti voglio bene così assurdi e insensati che gli facevano ribollire la rabbia nello stomaco. Quello stesso ragazzino che era stanco, dannatamente stanco della sua insignificante vita ma che quando si è reso conto che la stava perdendo ha allungato le braccia in avanti per riaverla di nuovo. Ma la vita non ti dà nuove occasioni. Ne hai una sola, devi giocarla al meglio perché non è uno shampoo, non c’è il soddisfatti o rimborsati. Peccato.
“Adam …” Lou continua a ripetere il mio nome a intervalli di tempo regolari, la voce è sempre la stessa: petulante, desolata, impotente.
Non rispondo. Non rispondo perché, anche ora, non ho niente da dire. In fondo, che altro c’è da dire? C’è forse una parola adatta a descrivere quello che sento dentro? Non riesco a dire quanto mi dispiaccia essermi comportato in quel modo, anche se non avevo colpe, anche se ero solo una povera vittima. Non mi perdonerò mai il fatto di non averle detto neanche una volta di volerle bene. Perché in fondo, in fondo io sento di amarla. È mia madre e per quanto male possa avermi fatto non posso impedirmi di amarla. Avrei voluto perdonarla, avrei voluto dirle che mi aveva fatto soffrire come un cane, eppure avevo deciso di tornare, di essere lì per lei e di non lasciarla nel momento più difficile della sua vita.
O almeno così si pensa. Morire non è difficile. Che bisogna fare? Lasciarsi andare e basta. Combattere per non morire, invece, è difficile. Quando stai per morire non devi più preoccuparti di niente, è finita ormai. A cos’altro dovresti pensare?
“Per favore, dimmi qualcosa” Lou mi assilla.
Vorrei stare da solo, possibile che non lo capisca? Voglio stare da solo, voglio stare in pace, annegare nel mio silenzio, nel mio dolore. Non riesco più nemmeno a piangere, è mai possibile?
Nella testa mi scorre il viso di mia madre, i suoi occhi aperti che sembravano vivi, ma che invece non si sarebbero mossi più. Nella testa mi rimbomba ancora la voce dell’infermiera che, spalancando la porta trafelata, mi si è accostata e ha spinto le dita sul collo di mia madre.
“Ora del decesso: undici e cinquantasette” poi mi ha posato la mano sulla spalla. “Mi dispiace, caro” mi ha detto a bassa voce.
Non aveva saputo aspettare neanche mezzogiorno, mia madre. Ha sempre lasciato le cose a metà, si è sempre dovuta distinguere da tutto e tutti. È stato così anche nella morte, infatti. Alle undici e cinquantasette.  Un orario stupido, un orario impreciso, quadrato, spigoloso. Le undici e cinquantasette.
“Vabbè, lasciamolo stare” è Louis a parlare.
Grazie Louis, esprimo la mia gratitudine silenziosamente.
Nonostante Louis spinga per allontanarsi, tutti gli altri rimangono impalati a fissarmi. Tutti tranne Jamie, che è sparito dalla mia visuale da un po’. Impercettibilmente, sposto gli occhi per osservare la terrazza e lo vedo lì, abbracciato ad Alo.
Lui sarà riuscito a dirle ciò che voleva? Sarà riuscito a perdonarla? Ad amarla di nuovo?  
“Voglio tornare a casa. Voglio andare via da questo posto” le parole scappano fuori dalla mia bocca senza il mio controllo. Non sono più io a comandare il mio corpo, ma una forza estranea che si impossessa delle mie terminazione nervose. Ci gioca, le manipola, le usa come vuole.
“D’accordo” è Lou a parlare. “D’accordo”
Alzo lo sguardo, dal mio collo proviene un crac preoccupante. L’osso scrocchia dopo esser rimasto nella stessa posizione per così tanto tempo.
“E …” Louis è timoroso, ha paura della mia reazione. “Il funerale?” mi ricorda.
Giusto. È vero. Non ci avevo assolutamente pensato. La mia sofferenza non è ancora finita. È inziata, si, e sembra prolungarsi all’infinito. “Devo parlare con Petr”
Mi alzo dal divano e scavalco Belle e Christine che mi seguono con lo sguardo. Tiro Alo per un braccio, questo si asciuga le lacrime col dorso della mano e mi guarda. Il suo viso è una maschera di ferro senza espressione, se non fosse per gli occhi gonfi e rossi. Mi fissa intensamente, nelle sue iridi due grossi interrogativi che mi chiedono : “E ora che si fa?”
Ora non si fa niente, Alo, non si fa proprio niente. Si continua a vivere, si sta in lutto uno, due giorni. Ma poi la vita riprende. Non siamo noi ad essere morti, fratello mio. Noi siamo qui, vivi e vegeti, forse un po’ meno reattivi del solito, ma il cuore ci pompa il sangue dentro al petto e il cervello vigila le nostre funzioni vitali. Siamo qui a spartirci un dolore troppo grande per essere sopportato da solo. Un po’ a me e un po’ a te, piangiamo entrambi delle lacrime che nessuno ci restituirà. Perciò basta. Sanciamo questo patto con la morte e mandiamola a casa.
Alo mi porge il cellulare senza proferire parola. La pagina degli sms è aperta, il messaggio che leggo è di Petr.
“Il funerale è domattina alle 11:00 alla chiesa sul lungomare. A lei piaceva tanto il mare.
Puntuali voi due, mi raccomando.”
Punto, nemmeno la firma. Punto.
Gli ridò il cellulare, quel messaggio mi sembra la firma di una condanna a morte. La mia, non quella di mia madre.
Annuisco, i suoi occhi continuano a guardare i miei in cerca di risposte che non ho. Poi Alo fa una cosa che non mi sarei mai aspettato: mi abbraccia. Chiude Jamie al di fuori del nostro universo disastrato e mi abbraccia. Sento le sue mani grandi e umide di lacrime che mi stringono la schiena dandomi ogni tanto qualche pacca. Anche io faccio come lui, non mi sento a disagio. Questo è l’abbraccio che non ho mai potuto ricevere da mia madre. Me lo sta dando Alo, mi sta dando quell’amore ricevuto da Lula, tutto quell’amore che lei non è riuscita a darmi. Me lo rende con gli interessi, lo condisce con qualche lacrima e un pizzico di dolore, che non fa mai male.
Io lo accetto, a braccia spalancate lo accolgo dentro me e lo conservo nelle viscere. E quel gelo che sentivo prima, lentamente, inizia a sciogliersi. Dovrà pur finire, prima o poi, no?
Per il resto della giornata nessuno mi rivolge la parola. Né Lou, né Louis, né Christine, neanche Alo. Io me ne sto nella mia stanza, i piedi a rinfrescarsi fuori dal letto. Fisso il soffitto così intensamente che riesco a crearvi dei disegni astratti e rotondeggianti. Poi dormo, credo. O forse svengo, non lo so. So solo che quando Lou mi risveglia scuotendomi la spalla, mi sento come sbalzato in un altro mondo. Come quando in uno spettacolo teatrale l’attore timido si nasconde dietro le quinte perché è impaurito e il direttore d’orchestra lo coglie alle spalle e, con un bel calcio nel sedere, lo spinge sul palco. Mi sento così quando spalanco gli occhi, senza protezione di fronte a un pubblico enorme.
Ma Lou mi consola paziente, mi prende per mano e mi aiuta ad alzarmi dal letto lasciandomi stiracchiare. Poi mi avvolge i fianchi e, con fatica, mi tira su e mi mette in piedi.
“Coraggio. Fammi vedere il ragazzo che sorride sempre” mi accarezza il viso con la mano, scorre il dito sulle mie labbra curvate in giù. “Ti ricordi com’ero poco tempo dopo esserci conosciuti? Ti ricordi che ero timida e noiosa …” storce le labbra in una smorfia. “Ero proprio una palla. Lo sono anche ora, eh, però troppo sono cambiata. Non credi, Adam? Eh?”
Guardo gli occhi speranzosi di quella ragazzina, che mi osserva con quell’aria un po’ delusa e un po’ coraggiosa, che cerca di tirarmi su quando neanche una gru riuscirebbe a farlo. “Non eri noiosa” la mia voce non ha espressione, ma parlare è già un buon inizio.
“Oh, non fare il buon samaritano, sai” mi rimprovera scherzosamente.
Afferra il lembo dei miei pantaloncini e li tira giù. “Forza, dai” mi incita a sgusciarne fuori, così alzo i piedi e la assecondo. Poi si allontana, apre l’armadio e ci fruga dentro. Ritorna con una maglietta nera e un paio di jeans lunghi.  Mi infila la maglietta, io metto le braccia nei punti giusti e la lascio aderire al mio petto. Fa lo stesso con i pantaloni, mi sorreggo sulla sua spalla mentre mi dà una mano ad indossarli.
“Ecco fatto” scorre le mani sul mio petto, mi sistema la maglietta per poi soffermarsi sulle mie spalle. “Lo sai che ti amo?” sussurra. “Ti amo davvero, Adam”
Sento lo squarcio che mi si era aperto nel petto  iniziare a rimarginarsi. La ferita brucia, i lembi pizzicano mentre si rincontrano e si uniscono cucendosi tra loro. Ma è un bruciore piacevole, rifocillante, come una specie di rinascere.
Stringo quel corpo caldo e piccolo tra le braccia. Più che stringerlo lo stritolo, cerco di inglobarlo dentro di me. “Grazie. Grazie, grazie, grazie” ripeto in continuazione.
Si allontana da me per guardarmi negli occhi. “Te lo devo” dice soltanto, poi esce dalla stanza trascinandosi il mio corpo dietro.
La chiesa è piuttosto vicina alla nostra casa e, anche senza sapere la strada precisa, riusciamo ad arrivarci facilmente. Nonostante il poco preavviso, un numeroso gruppo di persone si trova già in attesa dell’arrivo della bara. Il nero è il colore che prevale e le fronti sono imperlate di sudore per via del caldo soffocante. Tutti i miei amici stanno vicino a me e ad Alo, Lou mi stringe forte la mano mentre mi fermo improvvisamente. Lo scialacquio delle onde mi riempie le orecchie e mi culla dolcemente.
“Coraggio” la voce della ragazza al mio fianco è appena un sussurro.
In lontananza scorgo Petr, si gratta la barba mentre si affaccia al muretto che dà sulla sabbia bianca. Guarda il mare, fa un tiro di sigaretta. Io e Alo ci guardiamo, come a infonderci coraggio. Ci muoviamo insieme per incamminarci verso quell’uomo.
“Oh, ragazzi!” sobbalza sentendoci arrivare alle spalle. Porta degli scuri occhiali da sole, indovinare il colore degli occhi è impossibile. Allarga le braccia e Alo ci si tuffa dentro. “Forza, forza, su …” dà ripetutamente delle pacche sulla schiena del figlio. Io rimango con le mani in mano, guardo ora i due uomini abbracciati, ora il mare. Poi il braccio di Petr mi acchiappa e mi trascina nell’abbraccio. L’odore forte del dopobarba misto al fumo mi riempie le narici e mi pizzica la gola.
La macchina funebre troneggia nella strada vuota. Arriva con lentezza estenuante, tutti la guardano con sguardi spenti e desolati.  Stiamo tutti passeggeri della stessa barca, oggi, sconosciuti provenienti da ogni parte del mondo che si ritrovano assieme in una circostanza piuttosto spiacevole. Si parcheggia di fronte alla chiesa, le ruote stridono silenziosamente sull’asfalto consumato. Un uomo alto e smagrito apre la portiera. È vestito interamente di nero e porta degli scuri occhiali da sole che gli celano il viso. Un altro uomo, la sua fotocopia si direbbe, soltanto un po’ più bassa e tarchiata, lo segue e apre il portabagagli. La bara viene estratta a fatica dai due tipi, che vengono ben presto aiutati da due uomini nella folla. Anche loro sono vestiti scuri, si distinguono solo per le maniche della camicia arrotolate fino al gomito e le fronte sudate. I due becchini sembrano due messaggeri della morte, esseri surreali e inumani giunti qui per fare il loro dovere, ovvero suggellare questo patto con la morte.
Con un cenno della testa salutano gli “invitati” a questa lugubre festa, e si incammino per la navata della chiesa seguiti da tutti. Lou mi affianca e il dorso della sua mano sfiora il mio. Un gesto silenzioso e piccolo, eppure mi riempie completamente. La bara viene posizionata sotto l’altare, un prete grassoccio e anziano vi si posiziona accanto e inizia la messa. Nella chiesa vige un silenzio impressionante, e le uniche cose che danno colore a quest’atmosfera spenta sono gli occhi rossi di tutti i presenti.
Lula doveva essere molto amata, a dispetto di ciò che ho sempre creduto.
La cerimonia me la lascio scorrere addosso, parole su parole, canti religiosi e melodici che mi riempiono le orecchie.  Tutto mi scivola sulla pelle, non mi lascio toccare da nulla. Ho occhi solo per quella bara laggiù, che sembra urlare così forte il mio nome che non posso ignorarla.
Credimi, Adam. Le parole di mia madre mi riecheggiano nella mente intontendomi. Eppure non mi sento male. Guardo la bara di Lula, sento la mano di Lou stringere la mia e … non sto male. Il senso di vuoto, l’aver perso un pezzo di me, ovviamente è impossibile cancellarlo. Ma Lou è una piccola sostituzione, un piccolo rattoppo che, delicato e sottile, copre il foro enorme che nascondo dentro al petto.
Il funerale termina con una sorta di saluto silenzioso. A turno, ogni presente si avvicina alla bara e la accarezza con la punta delle dita. Alcune signore si stropicciano gli occhi con un fazzoletto, altri uomini tirano su col naso ma camminano ben eretti e stizziti per non darlo a vedere. Io mi avvicino per ultimo, dopo Alo e Petr che sfiorano la bara con una delicatezza d’altri tempi, che non si addice alle loro forme corpulente. Io mi avvicino, la chiesa è ormai vuota e tutti si raccolgono all’esterno per salutarsi e congedarsi dicendo “condoglianze” a destra e a manca. Sto in silenzio, fisso il legno scuro ma, se dall’esterno sembra che io sia calmo e tranquillo, all’interno imperversa una guerra.
E così sei riuscita un’altra volta a lasciarmi. Mi hai abbandonato, di nuovo. Possibile che non riesci a fare altro? Mi sento solo e adesso è anche peggio di com’era prima. Ma stavolta non mi lascio ingannare da te, sai? Ora lo so, lo so che mi vuoi bene. Hai sbagliato tutto con me, non ne hai fatta una giusta. Ma sul gran finale ti sei ripresa. Ti sei decisa a chiamarmi perché ti dava fastidio lasciare le cose in sospeso. Beh, lo apprezzo sai?
Io non so se riesci a sentirmi, ma il tuo sguardo sulla schiena lo sento chiaramente, quindi ti dico tutto. Ti dico che ti voglio bene. Che te ne ho sempre voluto. Te ne volevo anche quando ti odiavo. E, credimi, l’ho fatto. Ti ho odiato davvero mamma, ho desiderato che tu non fossi mai esistita, che io non fossi mai stato tuo figlio. Eppure al contempo desideravo riaverti accanto, starmene stretto tra le tue braccia, al caldo. Per quanto le ho desiderate, però, nessuna delle due cose è avvenuta.
Credo che sia giusto dirci addio adesso, un addio vero. Ormai è finita e quel senso d’insoddisfazione che sentivo dentro ora non c’è più. Ci siamo chiariti, vero mamma? Ora è finita.
Fisso la bara, poi guardo l’orologio al mio polso: le undici e cinquantasette. Non sono un tipo che lascia le cose a metà, io, perciò conto i minuti e poi, quando so che è il momento giusto, i miei occhi guizzano di nuovo a guardare mia madre.
Ti voglio bene, mamma.  
“Allora, andiamo?” Lou mi stringe la mano raggiungendomi alle spalle.
Annuisco convinto, intreccio le dita alle sue. “Andiamo” mormoro e so che me ne andrò senza rimpianti. 

*** 
Allora, innanzitutto buonasera! Come state? 
Io ...sempre più stressata. Tutti stanno sempre a ripetere che alla fine della scuola manca poco più di un mese, ma a me le vacanze sembrano un lontano miraggio. Diciamo che le miriadi di verifiche non aiutano ad abbellire la situazione, ma che ci si può fare? Nulla, temo. D:
Ok, giuro che i capitoli deprimenti sono finiti, giuro giuro giuro! Non vi sono piaciuti, vero? Ho notato che il numero delle recensioni (che, si lo so, era già basso da prima) si è ulteriormente abbassato. Però vi prego di dirmelo se sbaglio qualcosa perchè mi aiuterebbe davvero tanto a migliorare. 
Detto questo vi lascio e vi auguro una buona serata e un buon inizio settimana (FACCIAMOCI FORZA, DONNE! e uomini, se ce n'è qualcuno :3) 
<3 

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Capitolo 50
*** 50 ***


LOU’S POV
È l’ultimo giorno di vacanza questo, eppure mi sento terribilmente stanca. È come se in vacanza non ci fossi andata mai. Non c’è stato un giorno tranquillo. Quella che mi sento addosso non è la stanchezza piacevole di fine vacanza, quella che, non appena poggi la testa sul cuscino, vai in un coma profondo perché le ultime notti le hai passate in bianco a ridere coi tuoi amici. Questa è diversa. Le notti le abbiamo passate in bianco per piangere, per sotterrarci nel dolore, per tartassarci le pellicine delle dita in attesa di una risposta, in attesa di una domanda, in attesa di qualcosa di bello che non sarebbe arrivato.
Ma anche questa è finita, noi ci godiamo le ultime ore facendo finta che tutto vada bene, anche se dentro ci sentiamo rotti, spezzati, vuoti.
Guardo Adam sdraiato sull’asciugamano, con la mano traccia dei disegni sulla sabbia calda. Si accorge che lo sto osservando da un po’ e mi sorride. Intravedo la sua piccola fossetta sulla guancia, ma quel sorriso non riesce a scaldarmi. Non è il suo solito sorriso. Adam sorride con la bocca e basta, gli occhi rimangono quei due pozzi verdi di malinconia che ormai ho imparato a riconoscere bene. Non sa quanto mi fa male vederlo così e quanto mi sento impotente, incapace di aiutarlo o di renderlo felice. L’unica cosa di cui sono certa è che avrà bisogno di un bel po’ di tempo per riprendersi, per far fronte alla sua nuova vita. Ed anche se ora sorride, ride e fa di tutto per sembrare un normalissimo adolescente in vacanza, so che di verità quel sorriso ne ha ben poca.
Si gira su un fianco e posa la testa su una mano. A pancia all’aria, io lo osservo incuriosita mentre socchiude le labbra come per dire qualcosa.
“Non ti fa strano startene qui in spiaggia a goderti il mare, il Sole … Non è strano?” si lecca le labbra pensoso.
“Perché strano?” domando ingenuamente.
Le sue sopracciglia saltano sugli occhi abbagliati dalla luce. Si copre il viso con una mano. “Dopo tutto quello che è successo, intendo. Non ti senti … fuori posto? È strano, non so come spiegarlo”
Dei bambini rincorrono un pallone sporco di sabbia fino al mio asciugamano. Ridendo acchiappano la palla lanciandosi con foga e corrono di nuovo sulla riva.
“Si, è strano” gli concedo.
“Però non sto male, non fraintendermi. Cioè, non voglio dire che mi è passata la malinconia e tutto il resto … dico solo che se non avessi te, probabilmente, a quest’ora me ne starei chiuso in uno squallidissimo bagno di servizio a piangere in silenzio. Anzi, ne sono sicuro” il suo pugno si apre lasciando cadere la sabbia liscia e chiara che si rimescola con gli infiniti granelli a terra.
Con la mano percorro il profilo della sua guancia: è ruvida e quel poco di barba che inizia a ricrescere mi gratta sul palmo. “Tu mi ringrazi troppo, non ho fatto niente di incredibile. Chiunque ti sarebbe rimasto accanto. Siamo già passati su questo argomento, lo vuoi capire che sei speciale?”
Scuote la testa deciso e tende le labbra in una linea seriosa. “Oh, non credo proprio” rimane in silenzio per una manciata di secondi.
“Possibile che voi stiate sempre a chiacchierare? Mi sembra una seduta dallo psicologo. Venite a farvi un bagno, dai! Il mare lo rivedrete minimo tra un anno” Louis arriva trafelato dalla riva. È completamente bagnato e le gocce d’acqua fredde mi scivolano avide sulla schiena calda facendomi rabbrividire.
Adam fulmina il suo amico con uno sguardo talmente intimidatorio che lo convince ad indietreggiare. “Ci siamo capiti” sussurra con fare minaccioso.
“Dico solo che tuo fratello è mille volte meglio di te!” urla già di spalle, corre verso l’acqua e, quando la raggiunge, si tuffa tirando sotto Alo e Jamie.
Louis riesce a trattare ogni argomento, dal più serio al più semplice, con un’immensa disinvoltura che rende il tutto normale e sopportabile.  
Alo sembra essersi ripreso, o comunque ha più talento di Adam a mascherare le sue emozioni. Ma di questo ce ne eravamo già accorti tutti. Il suo viso non tradisce le sensazioni, le conserva avidamente e gelosamente in un buio pertugio della sua mente.
“Ho passato quasi tutta la vita da solo e non pensavo di poter incontrare una persona come te. E non esagero quando dico così, devi fartene una ragione, sei tu che devi capire che sei speciale. Credimi se ti dico che senza di te non ce l’avrei mai fatta” mi confessa con fare concitato.
“Non devi più preoccuparti di rimanere da solo” gli dico di punto in bianco. “No, perché … io continuerò ad esserci” non lo guardo negli occhi ma sento comunque le guance avvampare. Sono tornata la Lou di sempre, quella che non regge uno sguardo, quella che arrossisce quando parla dei suoi sentimenti.
Adam sfiora con l’indice il rossore sui miei zigomi, lo sento ridere sommessamente. La sua mano si sposta, successivamente, dietro la mia nuca per poi tirarmi verso di me e baciarmi. Chiudo gli occhi ma ciò che vedo non è il solito buio anonimo e spettrale: è tutto rosso. Forse è la luce del Sole, forse è il caldo che brucia la mia pelle, o forse è soltanto il contatto con quel corpo bollente che ora si infrange al mio a tingere tutto il mondo di un rosso fuoco, fiammeggiante. Rosso come la forma più pura e potente di passione. Mi avvinghio al ragazzo che mi abbraccia e l’imbarazzo di poco prima si scioglie con tutto quel calore che ci avvolge.
“Voglio farti un regalo!” come un flash nella mia testa, l’idea mi esce fuori dalla bocca a spintoni e mi fa staccare dalle labbra di Adam.
Mi guarda perplesso mentre si mordicchia la bocca. “Che?”
“Uno spazzolino”
“Uno spazzolino?”
“Uno spazzolino!” sento i muscoli della mia faccia mettersi al lavoro per formare uno smagliante sorriso.
“Ti ho detto mille volte che quando ti fai una canna vorrei che me ne offrissi un tiro!” scherza Adam cercando di darsi un tono serio, senza riuscirci, ovviamente.
Lo spintono facendo pressione sulla sua spalla. “Ma smettila, dai. Sono seria!”
“Perché mai dovresti regalarmi uno spazzolino, allora, spiegami” pretende, il suo sguardo curioso mi inchioda.
“Perché … ti amo” spiego non molto convinta. Non riesco a trovare le parole per farmi capire e a dirlo a voce, il pensiero che mi gira in testa sembra davvero stupido ora che ci faccio caso.
“Anche io ti amo” fa una pausa, si lecca il labbro inferiore. “Però non sento il bisogno di regalarti uno spazzolino. Te lo spieghi questo?”
“Ti regalerei uno spazzolino e poi ti direi di metterlo in un bicchiere, accanto al dentifricio. E ti direi di lasciare un po’ di spazio per il mio spazzolino, perché due spazzolini nello stesso bicchiere mi fanno pensare al vero amore. Mi fanno pensare che i proprietari degli spazzolini si amino davvero e che rimarranno insieme, l’uno vicino all’altro, proprio come quegli spazzolini” mormoro sentendomi una completa idiota. Forse la mia teoria non ha senso, forse somiglia più a una barzelletta o a un farfuglio confuso di un ragazzino, ma Adam, sorprendendomi, non scoppia a ridere. Anzi, mi osserva con un paio di occhi seri e attenti.
“E se il tubetto del dentifricio a un certo punto si mette in mezzo e li divide?” domanda zittendomi.
“Lo leviamo e lo chiudiamo in un cassetto, così non potrà più dividerli” sorrido risolutiva.
“C’è un super-market qua vicino. Ti va di andarli a comprare adesso? Non voglio aspettare di ritornare in città” già si alza dall’asciugamano incrociando le gambe, in attesa.
“Cosa, gli spazzolini?”
“Si. E il dentifricio. E anche un bel bicchiere dove infilarli. Che ne dici?”
“Li useremo come pegno d’amore?” rido delle mie stesse parole.
“Certo, diventeranno il nostro simbolo, il simbolo del vero amore” mi sorride allegro e divertito, sincero. Le fossette gli formano delle piccole ombre sulle guance, sembrano dei cuori, ma forse è il mio sguardo che è leggermente influenzato dai miei pensieri rumorosi e colorati. Questi mi rotolano nella mente formando vortici e spirali brillanti che con la loro luminosità mi abbagliano lo sguardo.
“Andiamo, allora” sorrido e mi alzo dall’asciugamano. In pochi secondi mi ritrovo in piedi, con una maglietta bianca sgualcita indosso e vedo Adam tornare dalla riva.
“Gli ho detto che andiamo a comprare qualche provvista per il viaggio e ne sono stati più che contenti. Figurati, quando si parla di cibo con quelli sfondi una porta aperta” si china a raccogliere il suo zaino e vi infila l’asciugamano dopo averlo scosso per togliere la sabbia. Mi tende la mano che io afferro con decisione.
Cammino a fatica sulla sabbia calda, le mie infradito vi sprofondano dentro come se stessi camminando sulle sabbie mobili. Adam mi tira su ogni volta che scivolo, mi sorregge con un sorrisetto divertito disegnato sulle labbra. Quando ci ritroviamo sull’asfalto mi sento sollevata, finalmente conscia del mio equilibrio riesco a camminare in linea retta. Il super-market si trova a pochi metri dalla spiaggia. Lo raggiungiamo facilmente perché le strade sono deserte e silenziose. Camminiamo lenti, il rumore delle suole che si infrangono sull’asfalto squagliato e le onde del mare in lontananza.
“Ho sempre saputo che fossi una tipa particolare, però hai una mente che mi affascina. Davvero, te ne esci con certe cose che io non penserei mai”
“Sono una strana creatura, no?” ridacchio ricordando le parole da lui stesso dette tempo fa. Sembrano passati secoli …
“In senso buono, come sempre” ride anche lui, precisando. “Eccolo lì” indica di fronte a sé.
“Per questo mi sento sempre fuori posto. Chi si farebbe mai i film mentali che mi faccio io? Sono strana, penso cose assurde” lo interrompo riprendendo il discorso.
“Non assurde, particolari” mi corregge mentre entriamo nel super-market, vuoto anch’esso.
Giriamo per i corridoi curiosando tra gli scaffali. Adam infila in un piccolo cestino verde un pacco di biscotti, gli “Abbracci” del Mulino Bianco, e un pacco di patatine formato famiglia. Poi procede continuando a stringermi la mano. Passiamo davanti allo stand degli affettati, i surgelati, la carne e i formaggi vari. Poi finalmente arriviamo agli scaffali dedicati a scottex, carta igienica, dentifrici e spazzolini. Questi ultimi occupano una colonnina infilata tra la carta igienica e una vasta scelta di dentifrici. Ce ne sono di vari tipi: quelli con le spatole dure, quelli con le spatole medie e quelli con le spatole morbide. Poi quelli colorati, quelli con il tappino, quelli senza il tappino, quelli elettrici, quelli con i rinforzi che grattano via il tartaro, quelli con la testina intercambiabile e ancora quelli da viaggio.
“Mio Dio, non mi sono mai trovata così in difficoltà prima d’ora” la mia voce è divertita ma nella frase c’è un fondo di verità.
“A chi lo dici!” asserisce Adam.  
“Elettrico no, lo detesto” comincio sfiorando una scatolina blu e argento sul basso. “E in ogni caso costa troppo”
“Concordo. Questo per ragazzini lo escluderei a priori” continua curiosando tra le scatoline e toccandone una con un cappuccio a forma di gatto.
“Guarda, c’è una promozione: due al prezzo di uno!” rido per la comicità della situazione: sembriamo una coppia di anziani risparmiatori che perlustrano gli scaffali di un supermercato di seconda mano alla ricerca di offerte e sconti vari.
Adam batte le mani fingendosi eccitato. “Ma è il nostro girono fortunato allora!” ride a gran voce e prende la scatolina con due spazzolini all’interno: uno blu e uno rosso. Semplici e anonimi, hanno addirittura il cappuccio per proteggerli dalla polvere. “Signori, solo per oggi potrete trovare questa splendida offerta. Nessuno potrà rifiutare l’acquisto di due spazzolini … pagandone uno solo! Insomma, che si può volere di più dalla vita?”
Paghiamo alla cassa cercando di trattenere le risate, la signora ci vede sorridenti ed emozionati, come se stessimo firmando un documento di matrimonio e ci dà il resto osservandoci perplessa. Adam prende la busta con i biscotti, le patatine e gli spazzolini e se la infila nell’avambraccio, l’altra mano non molla la mia neanche per un secondo.
“Pronto?” rispondo al cellulare che mi vibra fastidioso nella tasca.
“Noi siamo andati via dalla spiaggia, ci vediamo al parcheggio sotto casa. Le valigie le stiamo già caricando” gracchia la voce di Christine.
“Ok, a tra poco”
Ci dirigiamo in silenzio verso l’appartamento, la malinconia che si presenta sempre a fine vacanza inizia ad avvolgerci nel suo freddo abbraccio.
Ma io non sono triste. Certo, qui si sta bene, c’è il mare, c’è il Sole, c’è tutto quello che posso desiderare. Ma l’unica cosa che voglio è Adam e lui lo posso avere anche lontano da qui. Perciò me ne vado con un filo di tristezza nel petto, ma tutto sommato non posso lamentarmi, non posso dire di non essere soddisfatta. Finalmente con Adam va tutto bene ed io non potrei desiderare di meglio. Il solo fatto di potermi davvero fidare di lui, di sapere che non mi lascerà, che mi resterà accanto perché mi ama è una garanzia che non mi sarei mai sognata di ottenere. Non sento più quell’insicurezza, quel non sapere se lui sta bene con me o no. Ormai abbiamo raggiunto una complicità tutta nostra, una complicità che si vede dagli sguardi segreti che ci regaliamo, dalle strette di mano sotto al tavolo, dai baci silenziosi e gli abbracci calorosi.
Ed io sto bene, sto bene davvero.
Quando arriviamo, troviamo tutti seduti già in macchina. Alo e Louis stanno, invece, appoggiati al cofano dell’automobile con le braccia conserte. Chiacchierano sommessamente, ci salutano vedendoci arrivare da lontano.
Alo verrà con noi, non sa ancora dove andrà a stare, chiederà alloggio a qualcuna delle sue numerose amiche. Dice che in qualche modo se la caverà. Tra lui e Adam l’imbarazzo se n’è andato da parecchio, ora i due si scambiano occhiate silenziose, consce di un dolore che i due ragazzi condividono tra loro.
Quando saliamo in macchina  l’atmosfera che ci circonda è pesante e malinconica e tutti se ne stanno in silenzio con lo sguardo rivolto al di fuori del finestrino a guardare il Sole che cala a picco e si tuffa dentro il mare. Continuo a non sentirmi triste perchè Adam mi stringe a sé avvolgendomi con le sue braccia. Non guardo fuori dal finestrino, mi basta contemplare gli occhi verdi e profondi del ragazzo che mi affianca silenzioso. Con la mano sfioro la busta di plastica che trovo vicino alle gambe, le mie dita riconoscono la forma di due spazzolini ed io non riesco a non sorridere. 

***
Bonne soir! 
Ritorno or'ora dal mondo dei morti .... Mh, no, non è vero. Allora, sorvolando il fatto che la sera sono talmente stanca che mi addormento sul divano circa alle ore 21:00 e che la mattina mi trascino fino alla mia scuola come fossi uno zombie nel cast di The Walking Dead ...beh, sorvolando tutto questo, sono stata vittima di un terrificante blocco/perdita di ispirazione/panico per non riuscire a continuare... Chiamatelo come vi pare, il succo della questione è che non sapevo più cosa cavolo inventarmi per far continuare "Per sempre tu". Questo capitolo, in effetti, non è assolutamente leggibile, però mi sto avviando alla conclusione della storia e sto cercando, sforzandomi come una pazza, di non rendere il tutto troppo banale e sdolcinato. Sono terrorizzata da questo fatto! Perciò vi prego, vi scongiuro, se avete consigli, critiche o qualunque altra cosa da farmi sapere scrivetemi una recensione! 
Spero vi piaccia il capitolo, ma se non lo apprezzate sono la prima a capirvi perchè non soddisfa neanche me. Ma più di così non sono riuscita a fare t_t
Teniamo duro che manca solo un mese all'estate! 
Scappo, buona serata a tutte voi <3 

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Capitolo 51
*** Epilogo ***


Ho sempre pensato che non sarei mai riuscita a trovare un posto nel mondo, che sarei rimasta ai margini da sola, dimenticata da tutto e tutti. Credevo che sarei rimasta invisibile agli occhi di ogni persona, che nessuno mi avrebbe mai notata e avrebbe mai scoperto veramente come sono fatta dentro. Non avrei mai immaginato di riuscire a guardarmi allo specchio e di vedermi finalmente bella, non più quella ragazzina sfiorita con la faccia spenta e annoiata che ero prima. Ero certa che nessuno avrebbe mai fatto caso a me, perché in fondo credevo di non avere niente di speciale, niente con cui valesse la pena perdere tempo. Ne ero sicurissima e, decisa a non cambiare idea, ho portato avanti queste credenze perseverando per anni e anni.
A scuola guardavo i miei compagni che durante le lezioni smanettavano coi cellulari e chiacchieravano tra loro e mi vedevo come uno stranissimo individuo che amava ascoltare le lezioni o che, comunque, era interessata a farsi uno straccio di cultura. Li vedevo fregarsene di tutto e tutti e venire a chiedermi un aiuto durante il compito in classe, uno straccio di suggerimento che riuscisse a salvarli dal 5 assicurato. E io li aiutavo. Scioccamente, li aiutavo anche più del dovuto, inghiottivo l’amaro insieme al nervoso e suggerivo la risposta esatta senza tante manfrine. Loro mi ringraziavano, sul viso un sorriso smagliante mentre dietro ridevano di me. Ridevano di me, del mio atteggiamento studioso, del mio amore per la letteratura, della mia timidezza e delle mie guance rosse. Ridevano alle mie spalle quando di fronte ai miei occhi mostravano un sorriso sommesso, come un “grazie” mormorato a fior d labbra. E io ci cascavo sempre, ingenuamente credevo ai loro sorrisi ipocriti pensando che, sì, finalmente qualcuno era riuscito a capire il mio valore. Qualcuno era riuscito ad apprezzarmi per quello che ero.
Ma no, era soltanto un’illusione, una grandissima illusione. E allora di nuovo giù, affogavo in quelle acque dense e fredde della delusione, sconfinavo nell’odio per me stessa, nel ribrezzo verso le stesse cose che fino a poco prima ero convinta di amare. Mi chiudevo in me stessa pur avendo voglia di scappare via dalla mia testa. E non ci riuscivo, mi sentivo intrappolata in una gabbia d’oro: tanto bella quanto terribile. Per quanto io cercassi di sfuggire al dolore, quello ritornava impetuoso ad avvinghiarsi alle mie ossa esili. Le stringeva, le stritolava, le sbriciolava riducendole a polvere, e di me non rimaneva che un gruzzoletto di cenere.
Il buio non è un colore, è uno stato d’animo. È un modo d’essere, un modo di fare. Chi ha paura fa le cose al buio. Chi si vergogna usa il buio per nascondersi. Chi non sopporta la luce vive nel buio e a forza di viverci si dimentica com’era avere il calore del Sole sulla pelle. Si dimentica com’era stringere gli occhi perché la luce era troppo forte e dava quel fastidio pur sempre piacevole. Io vivevo nel buio. Intorno a me c’era questa perenne coltre di buio, come dei nuvoloni neri, addensati sulla mia testa, il segno che un temporale stava per scoppiare ed io rimanevo sotto la pioggia senza ombrello, i vestiti zuppi e i capelli umidicci.
Aspettavo solo che qualcuno mi offrisse un ombrello con cui proteggermi e qualche vestito nuovo con cui cambiarmi. Ma la strada era vuota, i pochi passanti che incontravo mi davano uno sguardo compassionevole e sfilavano via e, veloci com’erano comparsi, sparivano.
Poi il verde. C’era verde dappertutto. Il cielo, l’asfalto, gli alberi e i tronchi, i rami e le foglie, le nuvole e le gocce d’acqua che diminuivano la loro intensità. Un sorriso e un paio di fossette, un abbraccio e un bacio sulla guancia.
La luce non è un colore, è uno stato d’animo. La luce si chiama Adam ed è  arrivata ad illuminare la mia strada quando meno me lo aspettavo. Il freddo non c’era più, la pioggia era evaporata insieme al buio che, timido e vergognoso, era retrocesso a testa bassa. Sfrontato ed improvviso, il suo viso aveva riempito il mio sguardo come un forte raggio di luce spuntato da una nuvola. Sapevo che dopo un temporale esce sempre il Sole, ma non credevo che valesse anche per me.
Invece, contro ogni aspettativa, è arrivato anche per me quel raggio di Sole. Ancora mi fa strano questa situazione: per una sempre abituata a fare l’emarginata provare questo turbinio di emozioni nuove tutte insieme è parecchio dura da smaltire.
Il bambino di mia madre - beh, mio fratello- è nato settimino, ha passato un bel po’ di tempo all’ospedale, incubato in un contenitore pieno di tubi e aghi. Si chiama Luke. Quando l’ho visto mi ha fatto molta impressione: le dita minuscole sembravano dei piccoli rigatoni, gli occhi erano serrati e la bocca piccola e rosa riusciva a malapena a superare il diametro di un anello. Ora che è a casa passo la maggior parte del tempo a gravitargli intorno. Ha aperto gli occhi, sono di un blu cobalto che mette in soggezione. Quando è sveglio e non piange, e devo aggiungere che accade molto raramente, si guarda intorno con questi lapislazzuli enormi e curiosi e allunga le bracca grassottelle cercando di afferrare chissà cosa. Mia madre dice che è difficile che gli rimangano così azzurri, anche se una piccola probabilità c’è, in quanto Jackson ha gli occhi chiari. L’ho tenuto in braccio per la prima volta, pochi giorni fa. È … estremamente piccolo e fragile, avevo paura perfino di respirare, timorosa che mi scivolasse dalle mani. Ma mia madre sembrava piuttosto tranquilla, quindi mi sono fidata, sia di me che di lei.
Anche Jamie è su di giri per il nuovo arrivato, passa le mattinate a fargli boccacce e sorrisini. Così come Alo che, con mia enorme sorpresa, ci ha mostrato un lato dolce e tenero che mai avrei immaginato di scoprire.
A proposito di Alo, lui è andato a vivere da Adam. La soluzione era così semplice e banale che continuava a sfuggirci dagli occhi. È stato Adam a proporlo, forse la morte della madre e il fatto di non aver fatto in tempo a dirle ciò che veramente sentiva dentro, gli ha fatto riscaldare il cuore. Ha deciso di recuperare i momenti perduti con suo fratello e casa sua è libera … meglio di così! Tra loro le cose vanno bene, si capiscono al volo e io inizio addirittura a vedere qualche somiglianza negli atteggiamenti di entrambi.
Di Eleanor non vi è più nessuna traccia, se non un incontro avuto con lei pochi giorni fa. Stavo passeggiando insieme ad Adam e la abbiamo vista attraversare di corsa la strada ad occhi bassi. Probabilmente stava desiderando ardentemente di poter essere invisibile, peccato non ci sia riuscita. Credo di non essermi mai sentita così onnipotente in tutta la mia vita. Vederla sgattaiolare via, con le guance in fiamme e gli occhi spaventati mi ha fatto battere il cuore di soddisfazione. Una sincera e dovuta soddisfazione.  
Perciò la mia vita ora sembra procedere per il verso giusto. La scuola ricomincerà tra due giorni ed io non ho nessuna voglia di tornare sui libri, ma perlomeno il fatto che potrò vedere Adam quando voglio mi consola parecchio. È una sicurezza per me il poter contare su di lui ogni volta che ne sentirò il bisogno. La timidezza sembra essersi dileguata, anche se le guance rosse occasionalmente fanno capolino sul mio viso. La vecchia me è ancora presente, ovviamente. Fa qualche sporadica apparizione, un po’ di ansia prima di dormire, le mani che tremano quando Adam mi sfiora … Anche se sono cambiata non posso pretendere di diventare una persona nuova. Ma sono contenta di essere come sono, non voglio più cambiarmi ormai. Sono io, sono Marylou e mi sta bene così.
Louis e Christine sembrano decisamente essersi trovati, stanno insieme da parecchio ormai, e, sorvolando qualche banale litigio settimanale, sembrano una coppietta fatta e finita. Louis si è licenziato, non lavora più al pub. È andato a fare un corso per diventare maestro di tennis. Sembrava essersi svegliato tutto d’un colpo: ci ha mostrato la sua passione per il tennis, che c’era sempre stata, tutta insieme all’improvviso. Quattro volte alla settimana va in un circolo a prendere lezioni, si allena ripetutamente fino allo strenuo, mostrando una forza e una tenacia che mai avrei immaginato potesse avere.
Belle, invece, non sembra passarsela molto bene. È stata operata per appendicite e durante la convalescenza in ospedale il suo fidanzato – nuovo di zecca, tra l’altro – l’ha lasciata senza alcuna spiegazione e per di più via sms. È convinta che tutto ciò che le è successo sia frutto della sua immaginazione. “Sarà sicuramente un qualche effetto dell’anestesia. Eric non l’avrebbe mai fatto, figuriamoci”. A preoccuparmi è stata la tranquillità assoluta con cui lo ha detto. Ho paura di come potrà stare quando si riprenderà.
Ho iniziato a scrivere un diario, ho scoperto che mi aiuta a calmarmi. Qualunque problema io abbia, dal più banale al più personale e segreto, posso liberarmene scrivendolo su quel piccolo quaderno con una penna indelebile. È come se le parole si staccassero a forza dalla mia anima e venissero impresse su un pezzo di carta, destinate a rimanervi inalterate per sempre. Ogni lettera si lega ad un’altra andando a formare piccole parole che creano delle frasi, delle idee, delle sensazioni e delle ansie. E tutto quanto rimarrà invariato per sempre, scritto e fissato da una penna blu. Chi può mettere la mano sul fuoco per verificare la veridicità di un’idea? O magari il ricordo di un momento passato? Se questo non viene scritto da qualche parte, col passare del tempo sparisce, muta, vi vengono aggiunti particolari inesistenti e si affievoliscono, invece, i dettagli importanti. Si dissolve nel nulla e perfino la mente più brillante e allenata finirà per dimenticarselo. Sono poche le sensazioni che si ricordano per tutta la vita e la loro vivacità, per quanto forte, diminuirà.
Per questo ho iniziato a scrivere. Per non dimenticare, per permettermi di rivivere la mia storia mille e mille volte. Ogni volta che avrò voglia di piangere o di sorridere potrò rileggermi quelle pagine e provare un’altra volta quelle vecchie emozioni ormai dimenticate.
“Lou, ti sbrighi? È mezz’ora che ti aspetto!” Adam mi bussa alla porta insistentemente ma la apre senza comunque aspettare un mio cenno. “Datti una mossa” mi intima severo. Poi però mi sorride scuotendo la testa e le fossette fanno capolino sul suo viso.
“Sta calmo, tesoro, o ti salirà la pressione” lo sbeffeggio ridacchiando. Con la penna scribacchio l’ultima frase sul mio diario, coprendo le parole con il mio braccio.
“Lui mi fa … sentire viva … ?” Adam si poggia pesantemente sulla mia schiena e si affaccia oltre il mio braccio per sbirciare sul quaderno. “Chi è che ti fa sentire viva?” mi domanda incuriosito, la voce divertita.
Chiudo di scatto il diario e me lo infilo nella maglietta nascondendolo. “Smettila, non leggere!” mi alzo stizzita dalla sedia e scappo in direzione della porta. Ogni tentativo di fuga è inutile e Adam riesce ad afferrarmi per i fianchi.
“Guarda che sono geloso! Che combini con quel quaderno?”
“Ma niente, che vuoi che combino?”
Mi stampa un bacio a fior di labbra, poi mi accarezza la guancia col dorso della mano. “Un giorno mi farai leggere. Promesso?”
Alzo gli occhi al cielo e sospiro mentre mormoro un giuramento appena sussurrato: “Promesso”.
 
**
Okay, okay, okay. Questo capitolo è stato un vero è proprio parto. Non sono completamente soddisfatta, ma è più di una settimana che ci sto sopra e non riesco a fare di meglio. Io con i finali non vado affatto d’accordo e, come potrete giustamente notare, tendo sempre ad essere molto banale.
Bene, nonostante le solite critiche che mi rivolgo che altro c’è da dire … Mi sono iscritta su EFP il lontano 3 marzo 2013 e ho iniziato a scriverci la sera stessa. Mi sembra sia passato pochissimo tempo e invece due mesi e mezzo sono tanti. Non si direbbe, ma per me è così. Mi sento … vuota, terribilmente vuota. Però sono felice di esser riuscita a finire “Per sempre tu”. È un po’ una liberazione perché adesso potrò andare a dormire tutte le sere alle 21 yeeee (si scherza!) però è come se una parte di me morisse. Voglio dire … non ero mai riuscita a scrivere una cosa così lunga e ora che ce l’ho fatta mi fa stranissimo.
Inutile dire che se sono riuscita a fare tutto questo è solo merito vostro. E, a proposito, vorrei fare dei ringraziamenti. Il primo va senza dubbio alla mia amichetta genia sweethearthutcher. Tu, donna, sei un genio. Senza di te che mi hai rotto le palle (in senso buono) fino alla fine per farmi continuare, che mi hai sempre consigliato e rimesso in moto il cervello nei momenti di panico … che dire, grazie di esserci.
Poi, poi, poi … direi che l’ennesimo ringraziamento va a Floribanda (ancora grazie per avermi segnalato tra le storie scelte… piango!) e poi grazie a Change_Your_Life_ e LovingHimWasRed. Voi tre, ragazze, siete quanto di più adorabile e smielato che io abbia mai visto in tutta la mia vita. Mi avete seguito costantemente e siete sempre riuscite a farmi commuovere con la vostra estrema dolcezza. Grazie.
Poi un altro grazie a Rosaria_8. Yo sorella, tu sei spuntata all’improvviso e poi mi sei rimasta accanto fiiiino alla fine e per questo non posso che ringraziarti. Sono stra-felice di aver “approfondito”, per quanto ci è stato possibile, la nostra amicizia. Ancora grazie, grazie, grazie.
Grazie anche a Alice Serva ME Servabo TE e Mary Write Me. Siete dolcissime e mi avete sempre fatto mille complimenti. Dei veri e propri splendori di ragazze *-*.
Senza ombra di dubbio mi sarò dimenticata un bel po’ di persone, quindi in ogni caso dico grazie anche a voi, ci siete nella mia testolina, ma è tardi e mi fuma il cervello!
Infine … un enorme grazie a tutte quelle che mi hanno seguito fino alla fine, dai capitoli più brutti a quelli più belli e che non mi hanno mai abbandonato per uno sbaglio o un qualcosa di troppo deprimente (credetemi, mi è successo). Veramente, non riesco ad esprimere quanto vi voglio bene.
Ok, concludo perché i ringraziamenti si stanno dilungando più di tutta l’intera storia. Grazie ancora e alla prossima, ora vado alla ricerca di una chilata di fazzoletti per asciugarmi le lacrime. Buonanotte! <3 

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