I Colori Dell'Amore

di Carmen Black
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Bianco - ***
Capitolo 2: *** Verde ***
Capitolo 3: *** Rosa ***
Capitolo 4: *** Giallo ***
Capitolo 5: *** Arancione ***
Capitolo 6: *** Grigio ***
Capitolo 7: *** Blu ***
Capitolo 8: *** Viola ***
Capitolo 9: *** Nero ***
Capitolo 10: *** Marrone ***
Capitolo 11: *** Azzurro ***
Capitolo 12: *** Ferie Ferie Ferie ***
Capitolo 13: *** Rosso ***
Capitolo 14: *** Beige ***
Capitolo 15: *** Lilla ***



Capitolo 1
*** Prologo - Bianco - ***


Bianco
 
Bianco come la luce brillante di quel giorno soleggiato.
Bianco come il nostro amore appena sbocciato.
E bianco come la speranza nel mio cuore
che un giorno avrei potuto riabbracciare il mio piccolo amore.

 

 
 
 

L’ampio portico della casa di Edward mi era sempre piaciuto. Era stato costruito in legno di quercia ed era interamente vetrato.
Al suo interno c’era un dondolo con la stoffa floreale, tre sedie di vimini con tavolino annesso e diverse piante ornavano gli angoli o penzolavano dal soffitto con delle eleganti catenine dorate.
Ci avevamo trascorso l’estate intera a mangiare gelato su quel dondolo o a fare i compiti per le vacanze seduti su quelle sedie e il pensiero che non l’avrei più fatto, mi faceva salire un magone in gola. Ma ciò di cui non riuscivo proprio a farmi una ragione era non vedere più lui, Edward.
Quella mattina il cielo era terso e il sole era più luminoso che mai. I colori erano attenuati dalla troppa luce, era tutto candido, morbido e bianco.
Avevo chiesto a mio fratello Emmett di accompagnarmi a fare un saluto a un amico, in realtà il mio ragazzo e lui mi aveva accontentato con riluttanza e adesso la sua impazienza si manifestava schiacciando il piede sull’acceleratore e facendo fuoriuscire dei grossi sbuffi neri dal tubo di scarico dell’auto.

Non riuscivo a concentrarmi su altro che allo stupido rumore fastidioso del suo motore; avevo qualcosa di molto più importante da fare per perdere la concentrazione. Dovevo dare un addio. E non dovevo piangere.
«Stai per andare via, vero?».
La voce di Edward mi arrivò con un sussurro triste che mi fece tremare le mani.
Eravamo sulle scale di casa sua, lui poggiato contro la ringhiera di ferro battuto, stringeva tra le mani il suo skate. Aveva una t-shirt bianca con un jeans logoro e un capellino di traverso.
«Sì», ammisi evitando il suo sguardo.
«Pensavo che saresti rimasta almeno fino alla fine del trimestre», mormorò grattandosi una guancia.
«Lo pensavo anche io, ma a quanto pare mio padre non può più rimandare il trasferimento».
La sua mano si posò sulla mia testa e mi accarezzò come se fossi un cucciolo spaventato. Aveva capito bene il mio stato d’animo e non mi meravigliai, lui mi capiva come nessun altro.
Il suo viso era tranquillo, non mostrava emozioni negative come facevo io. Solo che i suoi occhi tradivano un po’ di turbamento.
Notai che iniziava a crescergli della peluria sulle guancie e la sua mascella si stava allargando, il mento si evidenziava.
Aveva quindici anni e si preparava a crescere per diventare un uomo. Un uomo che io non avrei visto, purtroppo.
«Voglio darti questo», soffiò Edward d’un tratto, togliendosi una catenina dal collo alla quale era appeso un ciondolo.
Il suo riflesso brillò sotto i raggi del sole colpendo il suo petto e poi il mio. «Così non ti dimenticherai di me», aggiunse.
Continuava a sussurrare e non ne capivo il motivo. La sua assenza di voce mi faceva venire ancora più voglia di piangere.
Abbassai lo sguardo in terra a osservare le spirali nel legno delle scale e dopo essermi fatta forza guardai il ciondolo, era a forma di foglia.
Ridacchiai mascherando un singhiozzo. «Una foglia?».
Edward fece un sorriso di lato e si strinse nelle spalle. «Non ho altro, ti devi accontentare».
«Mi piace tanto».
Mio fratello suonò il clacson facendomi sussultare. Consapevole di essere arrivata alla fine del percorso più bello della mia vita da quindicenne, gli buttai le braccia al collo.
«Ti prometto…».
«Non promettere cose che non puoi mantenere, Bella».
Le sue braccia mi strinsero forte, sentii lo schianto del suo skate sulle scale e mi accorsi di vedere offuscato. Sbattei velocemente le palpebre per far asciugare i miei occhi, ma sembrava che quella tecnica non funzionasse.
Edward odorava di muschio, di biancheria pulita e di pelle scaldata al sole. Mi sarebbe mancato da morire.
Mi allontanò da lui lentamente e mi accarezzò le braccia. Una lacrima mi scivolò sulla guancia riscendendo sino al mento.
«Non piangere», bisbigliò avvicinandomi di nuovo a sé e dandomi un bacio a metà bocca. «Sarai sempre il mio piccolo amore».
Anche tu sarai sempre il mio piccolo amore.
Avrei tanto voluto dirle quelle poche e significative parole, ma non ci riuscii. Fui in grado solo di girarmi e correre verso l’auto rombante di mio fratello. Sprofondai nei sedili di pelle nascondendomi il viso all’interno del braccio… e piansi. Piansi finché le mie lacrime non si esaurirono.


Angolino Autrice

Credo di non essere molto originale, mi sono accorta che nel titolo di quasi tutte le mie storie c'è la parola 'amore'. Vabbè detto questo, spero che questo prologo vi incuriosisca e continuate a seguire la mia nuova storia. Avevo bisogno di qualcosa di nuovo visto che ho quasi terminato tutte le storie in corso. Grazie a Martina per l'immagine e il supporto e a Sara per le famose scalette.
Ringrazio tutti voi che leggerete e che mi darete il vostro parere. Grazie e a presto :)
-Carmen 



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Capitolo 2
*** Verde ***


Verde

 
Verde come la speranza, non sarei sopravvissuta senza.
Verde come i prati di primavera dove correvamo fino a sera.
Verde come la foglia intorno al mio collo, il ciondolo più bello del mondo.
 

 
 

 *12 anni dopo*

 
 
 
La commessa mi guardava con un sorriso di circostanza e le mani giunte dietro la schiena. Sembrava troppo giovane per dispensare dei consigli in quello speciale reparto d’abbigliamento.
Ignorai le sue occhiate di approvazione e mi trascinai fino a un grande specchio rettangolare che occupava un’intera parete della stanza. Ero a piedi nudi e la moquette grigia sotto i miei piedi era morbida e pulita.
C’erano diverse file di faretti incastonati nel soffitto e dei camerini grandi quasi quanto la mia camera da letto. Delle casse fissate in alto negli angoli dei muri, diffondevano delle canzoni soft e se proprio sembravi una cliente interessata all’acquisto di qualche abito, ti offrivano anche dei cioccolatini.
Io ne avevo mangiati già tre. Uno per ogni incontro.
«Bella, questo è incantevole», disse cauta la mia migliore amica Alice.
Mi strinsi appena nelle spalle e al riflesso dello specchio, notai il lungo strascico bianco abbellito con un ricamo fatto interamente a mano. E poi guardai il corpetto di tulle senza maniche che mi fasciava il mezzobusto e più giù, la gonna vaporosa a più strati che ricadeva pesante verso il basso. Mi sentivo una torta più che una sposa.
«Dalla tua faccia non sembri tanto convinta».
«Infatti», soffiai mettendomi i capelli dietro le orecchie.
Alice si addentrò di nuovo tra i tanti stand con caparbia determinazione. «Questo con delle paillettes? E questo? È carino, non ha nemmeno la gonna vaporosa!».
Gettai un’occhiata fugace alla commessa e anche se non lo dava a vedere, sapevo che mi stava maledicendo.
Era il terzo appuntamento quello e più vestiti nuziali misuravo e più avevo le idee confuse.
Eppure, quella era la boutique più importante della città, aveva centinaia di abiti in visione, più altrettanti da esaminare sui cataloghi.
«No Alice, non mi convincono… e si è fatto tardi».
Alle mie spalle, il traffico di New York scorreva rumoroso e indisturbato, riuscivo a vederne qualche traccia attraverso le tende bianche a soffietto che ricoprivano le vetrate.
«Forse è meglio prendere un altro appuntamento», continuai vagamente imbarazzata. Ovunque mi girassi vedevo abiti da cerimonia, veli, scarpe bianche ed io non riuscivo a trovarne uno adatto a me. Per fortuna mancavano ancora tre mesi al mio matrimonio.
Mi chiesi se Riley avesse già trovato il suo vestito da perfetto sposo e la risposta la sapevo già: sì. Anche se avevamo promesso di tenerci all’oscuro dei nostri progressi sui compiti che ci eravamo divisi, ero consapevole che lui avesse tutto sotto controllo, come sempre.
«Uff Bella, non resta che andare a cambiarti allora», affermò la mia amica scoraggiata. E così feci.
Mimai con la bocca, un mi dispiace alla commessa e poi scostai le tendine nere del camerino e con l’aiuto di Alice, mi tolsi quel coso di dosso. Mi chiesi se tutti quanti gli abiti da sposa fossero così pesanti, in tal caso come avrei dovuto sopportarlo per un giorno interno?
Soffocai un gemito al pensiero e poi indossai la mia divisa da lavoro: giacca e gonna nera, con camicetta bianca e scarpe col tacco.
Non erano proprio i miei abiti preferiti, ma dopo cinque anni di lavoro come addetta al reparto marketing di un’azienda pubblicitaria, ci avevo fatto l’abitudine. Forse però, visto che l’azienda in questione era andata ufficialmente in crisi, c’era la seria possibilità che dovessi cercarmi un altro lavoro. Beh, sarebbe stata una bella grana, visto l’imminente matrimonio con Riley, la casa da comprare e tutto il resto, ma il fatto di non indossare più quegli abiti da segretaria provocante, mi faceva piacere.
Afferrai la borsa e andai verso l’uscita, affiancata da Alice che trafficava col suo cellulare.
«Per giovedì prossimo, le va bene un altro appuntamento, signorina Swan?».
«Sì, sempre allo stesso orario», aggiunsi sconsolata. Le due ore di pausa che avevo per il pranzo le dovevo sprecare rinchiusa a scegliere l’abito per essere la sposa perfetta.
Io, Bella Swan, la sposa perfetta. Mi venne quasi da ridere. Io che inciampavo ogni dove, avevo gli occhi senza nessuna sfumatura, ero pure bassina. L’unica cosa perfetta di me era il ciondolo a forma di foglia che portavo al collo.
Una volta tornata in strada, mi sembrò di respirare meglio. I marciapiedi del centro erano affollati di gente che correva di qua e di là e il gradevole odore di hot dog arrivava da un carretto al margine della strada.
«Allora Bella, che ne dici di fare un riepilogo veloce delle cose che ci sono rimaste da fare?», mi chiese Alice, nascondendo un sorriso divertito con i capelli lunghi che danzavano con la corrente, provocata dalla velocità delle auto sulla strada vicina.
«Mi prendi in giro?».
«Sì», ammise mettendosi gli occhiali da sole.
Anche lei lavorava nella mia stessa azienda, si occupava del pacchetto clienti e di aggiornarli sulle nuove proposte pubblicitarie e sulle varie offerte. Ci conoscevamo dal liceo ed eravamo entrate subito in sintonia, era diversa dalle altre ragazze. E mentre chiunque vedeva in lei solo una persona fissata con lo shopping, io vedevo ben altro…
«Navigo in mezzo al mare… non trovo il vestito adatto, non trovo la torta adatta e neppure il fotografo, mentre Riley sicuramente ha già individuato il ristorante, ha abbozzato gli inviti e ha comprato il suo vestito».
Alice si strinse nelle spalle. «Non è successo niente di strano, tu non sei mai puntuale e non mi aspetto che lo diventi grazie al tuo matrimonio».
Grugnii e diedi un’occhiata al cellulare per vedere se qualcuno mi aveva cercato e non trovando nulla, lo riposi di nuovo. «A lavoro non faccio mai tardi».
«Solo quando sai che c’è il capo in giro».
Mi toccò il gomito ed io ridacchiai, quella piccola donnina mi conosceva più di quanto immaginassi.
«Comunque Bella, puoi contare su di me, per qualsiasi cosa ti serva», continuò con serietà. «Se vuoi, mi metto a fare anche qualche ricerca su internet sia per l’abito sia per la torta. Poi magari ne discutiamo davanti a una pizza».
«Ti ringrazio, ma non voglio portarti via del tempo che potresti passare in compagnia di Jasper. Ora state insieme, no?».
«Non proprio», mormorò nascondendo un po’ di tristezza. «Ancora non so bene che cosa siamo, lui non si pronuncia».
«Oh vedrai che lo farà, non si lascerà sfuggire una bellezza come te», ridacchiai per tirarla su di molare e a quanto pare ci riuscii.
Lei ci stava male per via del fatto che Jasper non si decideva a concretizzare il loro rapporto e aveva paura a fare il primo passo, temendo di rimanere delusa.
La sede dell’azienda per cui lavoravamo, si trovava in un grande edificio specchiato di trenta piani. Aveva un’ampia entrata girevole e gli interni erano sempre profumati di deodorante per gli ambienti. L’arredamento era minimalista, d’altronde era un’azienda giovane, non credo che superasse i quindici anni.
I colori dominanti erano il bianco e nero, superfici specchiate o laminate d’acciaio.
Kate, la segretaria, ci salutò strizzandoci un occhio mentre era impegnata a fare una sfilza di fotocopie dietro alla sua scrivania piena di scartoffie e moduli.
Schiacciai il bottone per richiamare l’ascensore, nel frattempo che altra gente si accalcava dietro di noi.
«Io per le cinque dovrei aver finito, tu Bella?».
«Lo spero, ho un po’ di lavoro arretrato e per il fine settimana dovrei mettermi in riga», dissi un po’ stanca. «Tra l’altro non so se Riley ha qualche programma per stasera».
«Ci sentiamo per sms in caso», terminò Alice, donandomi una pacca sul braccio e poi stanca di aspettare l’ascensore, sbuffò e salì per le scale.
Io, invece ero troppo pigra, inoltre il mio ufficio si trovava al dodicesimo piano; sarei arrivata senza fiato sin lassù e pure terribilmente sudata.
Le porte dell’ascensore si aprirono con un trillo, così mi affrettai a entrare. Era imbarazzante stare a così stretto contatto con tutti quegli sconosciuti e quella doveva essere una sensazione comune, perché tutti guardavano verso il basso, armeggiavano con cellulare o leggevano il giornale.
Quando arrivai al mio piano e le porte specchiate dell’ascensore si riaprirono, vidi subito la mia collega Leah intenta a importunare la macchinetta automatica del caffè.
«Che cosa ti ha fatto stavolta?», chiesi ridacchiando.
«Mi ha rubato i soldi, ci sta prendendo gusto!».
«Parlane col tecnico, dovrebbe venire in questi giorni».
Gli occhi dal taglio spigoloso della mia amica si illuminarono. «Quando Sam verrà, avrò altro da fare. Figurati se gli parlo di questo maledetto aggeggio!», esclamò tirandogli un calcio.
La macchinetta emise un brontolio sommesso e poi sbuffò dei rivoli di fumo denso da dove avrebbe dovuto scendere il caffè.
«A dopo Leah e cerca di non romperla del tutto».
Entrai nel mio ufficio e non appena vidi la pila di fogli che mi attendeva, mi venne l’angoscia. C’erano dei giorni in cui la mia mente si rifiutava di pensare, di ragionare e cercare strategie. Che peccato che nessuno potesse aiutarmi. Quasi quasi era meglio tornare da Leah e chiacchierare con lei. Purtroppo il mio senso del dovere mi impediva di tergiversare e trovare una via di fuga.
Mi sedetti sulla sedia girevole, armata di santa pazienza e salutai la fotografia dei miei genitori e quella di Riley che troneggiavano in un angolo della scrivania, poi mi misi a lavoro. Per fortuna non mi avevano fissato appuntamenti, almeno non avrei perso la concentrazione.
Il buio arrivò presto, così accesi la lampada e anche il riscaldamento. Legai i capelli in una coda e sorseggiai dell’acqua fresca a intervalli regolari, per evitare di cadere irrimediabilmente in un sonno profondo.
Quando finii e guardai l’orologio, sbarrai gli occhi, erano le cinque di sera, avevo finito prima del previsto! Forse avrei fatto ancora in tempo a raggiungere Alice. Afferrai il cellulare per mandarle un sms, ma qualcuno bussò alla porta.
«Avanti».
Leah si affacciò nel piccolo spiraglio aperto, i suoi capelli lisci come spaghetti precedettero il suo viso.
«C’è una riunione straordinaria, dobbiamo salire ai piani alti».
Espirai sonoramente, poggiandomi con la schiena contro la sedia girevole. «E io che pensavo di uscire prima stasera! Che cosa vorranno adesso?».
«Non chiederlo a me», grugnì. «Alza il tuo sederino e andiamo».
Indossai di nuovo la giacca del mio completo che avevo tolto per avere più libertà di movimento e raggiunsi la mia amica per niente contenta dell’imprevisto.
«Giustamente la riunione straordinaria non possono farla durante l’ora di lavoro, la fanno quando dobbiamo andare via. Maledetti sfondanti di soldi».
Trattenni una risata e agli specchi dell’ascensore mi diedi una sistemata ai capelli e al colletto della camicia. Avevo due occhiaie evidenti e le labbra un po’ screpolate, così me le leccai.
Quando arrivammo all’ultimo piano, il corridoio era affollato da dipendenti dell’azienda in attesa che le porte della sala riunioni si aprisse accogliendoli.
Vidi Alice da lontano che parlottava con Garrett, un suo collega, le feci un cenno con la mano per attirare la sua attenzione, ma non mi notò.
«Vieni, Bella».
Leah mi trascinò in mezzo alla gente incurante di qualche occhiataccia a cui rispondeva ammiccando seducente.
Le porte della sala si aprì durante il nostro tragittò e nonostante lo sgomitare di Leah, non riuscimmo ad accaparrarci gli ultimi posti, ritrovandoci in seconda fila.
«La sfortuna mi perseguita, dannazione», si lamentò.
Ci sedemmo mentre il vociare confuso pian piano si placava. C’era odore stantio lì dentro e anche di polvere. In totale la stanza contava duecento sedute, ma al momento dovevamo essere poco meno che cinquanta. Con i tagli che l’azienda aveva fatto, i tre quarti dei dipendenti avevano il contratto part-time quindi lavoravano solo al mattino, quando c’era più bisogno.
Di fronte a noi c’era un soppalco di legno scuro ricoperto da moquette verde. C’era anche un leggio che non veniva usato quasi mai e una fila di faretti lasciati spenti.
Cinque uomini vestiti elegantemente discutevano in un angolo, riconobbi subito il nostro capo dallo strano nome: Dimitri; gli altri invece erano sconosciuti, ma erano un team giovane, nessuno di loro doveva superare i trentacinque anni.
«Bella, c’è puzza di bruciato qui. Secondo me vogliono licenziarci tutti», sussurrò Leah guardando davanti a sé.
«Non essere sempre così pessimista, Leah».
Dimitri avanzò a passo sicuro verso il microfono, non aveva un solo capello fuoriposto, più volte avevo pensato che fossero incollati alla testa. I suoi piccoli occhi scuri vagarono fra di noi, prima di iniziare a parlare.
«Buonasera», iniziò toccandosi il doppiopetto della giacca. «Come ben sapete l’azienda non naviga in buone acque in questo periodo, d’altronde non siamo gli unici, il paese è in crisi. A proposito di questo volevo dirvi che ci sono dei grossi cambiamenti in atto per noi tutti…».
Dimitri continuò a parlare, ma nella mia testa la sua voce si affievolì riducendosi a un debole rumore di fondo.
La mia attenzione era stata catturata da un uomo, uno di quelli all’angolo del soppalco, che si passava le dita in modo distratto fra i capelli rosso rame. Aveva un qualcosa di familiare. Tanto familiare. Dove l’avevo visto?
Mi maledii per aver dimenticato gli occhiali a casa, a quella distanza non riuscivo a distinguere bene i tratti del suo viso, notavo solo che era alto e dalla postura disinvolta.
Mi mordicchiai le labbra e vidi più volte la sua testa girarsi e osservare la folla, ma non riuscivo a inquadrare la direzione del suo sguardo, poteva anche essere che stesse guardando me.
«Quindi non mi dilungo oltre, da domani in poi oltre a me ci saranno altre persone e insieme dirigeremo l’azienda. Per le presentazioni ufficiali abbiamo deciso di posticiparle a domani, visto che è già tardi. Questo è quanto, grazie a tutti per l’attenzione e arrivederci», concluse Dimitri.
Il ronzio del microfono si spense e noi dipendenti ci avviammo verso l’uscita scambiandoci pareri a bassa voce. Leah ne stava dicendo di tutti i colori e blaterava su sottomissione, schiavitù, diritti delle donne e roba simile. Non le diedi peso perché bastava un solo cenno d’assenso a farle prendere coraggio e metter su un comitato di guerriglia contro i capi.
«A domani Bella, che Dio ce la mandi buona!».
«Buona serata Leah», ricambiai con un sorriso.
Tornai nel mio ufficio a prendere borsa e cappotto e spensi le luci.
Il corridoio era deserto, sembrava che tutti fossero scappati via a gambe levate, in lontananza sentivo solo il rumore dell’aspirapolvere, evidentemente c’era già l’impresa delle pulizie all’opera.
Tornai all’ascensore richiamandolo e nel frattempo guardai i miei piedi stretti nelle scarpe, Dio come mi facevano male, non vedevo l’ora di buttarle in un angolo e infilare le ciabatte.
L’ascensore arrivò ed io entrai sollevata, per fortuna non ci fu neppure bisogno di nascondermi la faccia, c’era solo una persona.
«Piano terra?».
«Sì grazie», dissi guardando il mio riflesso alle porte scorrevoli.
Vidi i numeri dei piani che lampeggiavano man mano che riscendevo a terra e sentii il mio stomaco brontolare. Avevo mangiato solo un toast a pranzo.
«Bella…».
Corrucciai le sopracciglia e mi girai verso quell’uomo che mi aveva appena chiamato per nome.
«Bella, sei tu?», ripeté con gli occhi azzurri indagatori.
«E tu chi…». Quello era l’uomo della sala riunioni, riconoscevo i suoi capelli e la sua postura.
Il fiato mi si bloccò in gola ed ebbi l’impressione che qualcosa mi scoppiasse nello stomaco. Mi dovetti premere la mano sul petto per paura che il cuore me lo perforasse.
«Edward…», mi tremarono le ginocchia. «Edward…sei tu?».
«Sì…», sussurrò appena. «Sono proprio io».
 
 
 
Angolino Autrice

Eccomi qui con il secondo capitolo :) Sono contentissima per il gradimento che ha ricevuto il primo capitolo essenso solo il prologo. Spero che anche questo secondo vi piaccia, ci stiamo appena addentrando nella storia e ci sono tante dinamiche che devono ancora venire fuori.
Alla prossima <3 <3 <3 ciao! :)
 

 
 
 

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Capitolo 3
*** Rosa ***



 

Rosa
 
Rosa, come il colore che fa passare ogni dolore.
Rosa, come il ricordo del sorriso che affiorava sul tuo viso.
Rosa, il colore di cui si tinse il mio umore quando tu entrasti nel mio cuore.

 
 
 
 
 
Era… era lo stesso di sempre. Era il mio Edward, soltanto un po’ più cresciuto. Adesso era un uomo.
Ero travolta dall’emozione, la mia bocca si apriva e si chiudeva ma non ne fuoriusciva alcun suono. Le ginocchia mi tremavano… oh sì se mi tremavano.
«Bella, come stai?».
Increspò le labbra in un abbozzo di sorriso, quel sorriso che avevo amato sin dalla prima volta che lo avevo visto nei corridoi della scuola.
«Io credo… io credo bene. Tu?», deglutii, avevo la gola secca. Ogni parola che pronunciavo sembrava raschiare l’aria, era di troppo, era inopportuna.
Edward fece un passo avanti e si chinò su di me, avvolgendomi in uno stretto abbraccio. La valigetta che aveva nella mano destra cadde al suolo, proprio come anni prima era accaduto al suo skate. Se mi concentravo riuscivo ancora a sentire il rumore che produceva all’impatto con legno delle scale del suo portico.
Ma se allora era stato un addio, adesso era… un ritrovo. Non faceva male, non scaturiva lacrime, paura. Era pura felicità.
Mi sollevai sulle punte e lo abbracciai affondando col viso nell’incavo del suo collo.
Il suo odore mi riportò di nuovo al passato: muschio, biancheria pulita e pelle scaldata dal sole.
Il ciondolo che mi aveva regalato sembrò bruciarmi sul petto. Non lo avevo mai tolto, mai. Era un modo per non dimenticare Edward, per non dimenticare come mi faceva sentire ogni qual volta ero con lui.
Forse avevo sbagliato a non dare un taglio netto al passato. D’altronde ricordare costantemente qualcosa che non si può avere, non è positivo. È fonte costante di insoddisfazione. Ma per me era stato meglio ricordarmi di ciò che avrei voluto piuttosto che dimenticarlo.
«Mi sei mancata», mi sussurrò all’orecchio accarezzandomi i capelli.
«Anche tu. Tanto».
I miei occhi si riempirono di lacrime a una velocità inaudita. Ero un completo disastro, non potevo piangere davanti a lui come una sciocca ragazzina, neppure se era per la felicità di averlo rivisto.
Guardai dappertutto, ma le pareti specchiate dell’ascensore non mi aiutarono a calmarmi. C’eravamo io e lui abbracciati in ogni prospettiva possibile, anche riflessi dall’alto del soffitto.
Rivedevo noi del passato e purtroppo rivedevo anche ciò che saremmo potuti diventare e che non eravamo.
Lo strinsi più forte a me aggrappandomi alla sua giacca. Mi sarei arrampicata su di lui se non rischiassi di apparire come una pazza invasata.
Anche lui mi strinse più forte, il suo respiro mi solleticava il collo.
Il trillo dell’ascensore ci fece sobbalzare. Le porte si aprirono al piano terra quasi deserto. Ci allontanammo l’uno dall’altro per riprendere un po’ di contegno. Edward si sistemò la giacca e la cravatta evitando il mio sguardo poi recuperò la valigetta dal pavimento. Io invece non feci nulla, sapevo a priori di essere un disastro con la camicetta sgualcita da troppe ore di lavoro, i capelli legati e le occhiaie vistose.
«Vieni», disse piano accarezzandomi l’interno del gomito.
Per un attimo lo fissai spaesata, non capivo dove dovessimo andare, poi capii che intendeva fuori dall’ascensore.
Camminammo in silenzio sul tappeto nero che arrivava fino alle porte di vetro girevoli dell’uscita. La postazione di Kate era già vuota e qualcuno dell’impresa di pulizia dava un colpo di straccio ai pavimenti.
«Io sono… felicissimo», iniziò sorridendo. Era come se non credesse che ci fossimo rivisti e in effetti, io ero stupita quanto lui. «Vorrei trascorrere un po’ di tempo con te, Bella. Però ho un impegno che non posso revocare per nessun motivo», continuò dispiaciuto. «Però ti prometto che lo faremo presto, va bene?».
«Certo», annuii delusa ma sfoggiando il mio miglior sorriso.
Dio, non riuscivo a credere quanta voglia avessi di stare con lui e di ascoltare i racconti degli anni trascorsi in lontananza.
E la voglia che avessi di osservarlo, di scoprire i suoi nuovi tratti da uomo, i suoi sguardi sicuri e consapevoli, quel taglio di capelli che già adoravo, le sue mani grandi con una peluria castana rossiccia che ne adombrava lievemente l’estremità.
Cercò qualcosa nella tasca interna della sua giacca, poi si fermò all’improvviso stringendo lo sguardo sul mio petto.
«Ce l’hai ancora?».
Sollevai la mano e strinsi tra le dita il ciondolo a forma di foglia che mi aveva regalato anni addietro. Si era un po’ scolorito, adesso il verde era appena visibile, ma erano trascorsi ben… dodici anni.
«Sì, è un ricordo», mi affrettai a dire.
Espirò velocemente e tirò fuori il cellulare. «Lavori qui, non è vero?».
«Sì, marketing. Dodicesimo piano».
Mi diedi della stupida all’istante. Dovevo stare calma, non dovevo soffocarlo! Potevo evitare di dire anche il piano dove lavoravo, solo che volevo che lo sapesse, tutto qui. Poteva rintracciarmi, ecco.
«Ti dispiace darmi il tuo numero?».
Mi dispiaceva? «Umh… non me lo ricordo, però se mi dai il tuo, posso farti uno squillo».
E così facemmo: mi diede il suo numero e gli feci uno squillo. Salvai il numero sia sulla sim sia sul telefono, non sia mai uno dei due avesse voluto dare forfait e poi tornai a guardarlo negli occhi.
Il perché mi tremassero le ginocchia proprio non lo capivo.
«Allora, a presto».
«A presto», sussurrai.
Mi accarezzò il mento prima di andare via e il mio cuore sussultò e si strozzò da solo.
Rimasi a fissare il vuoto per qualche minuto, prima di ricordare che cosa dovessi fare.
Certo, dovevo tornare a casa, togliermi quelle scarpe che mi strozzavano i piedi, infilare le ciabatte, mangiare e telefonare Riley. Invece feci tutto l’opposto.
Digitai il numero della mia amica Alice.
“Pronto?”.
“Sono io”, dissi quasi con un tono disperato.
“Bella! È successo qualcosa?”.
Mugolai in preda all’ansia mentre scendevo a tutta velocità le scale che portavano alla metropolitana. “Qualcosa? Credo che sia un disastro”.
“Oh mio Dio! Ti è caduto il caffè sui documenti in ufficio? Sei rimasta chiusa a lavoro?”.
“No, peggio”.
“Bella, parla!”.
“Edward. Edward, l’ho visto è qui in città. Gli ho parlato, l’ho abbracciato. Dio! Mi è mancato…”.
Ci fu qualche istante di silenzio tra di noi. La folata intensa dell’arrivo del treno, m’investì facendomi svolazzare i capelli e il cappotto.
“Alice ci sei?”.
“Scusa, ma chi è Edward?”.
Mi sbattei una mano sulla fronte ed entrai in un vagone, mantenendo l’equilibrio tramite un corrimano sulla mia testa. Ci arrivavo a malapena, perché non ne facevano a misura anche delle persone basse?
“Posso venire a casa tua, Alice?”.
“Certo, tanto sono sola. Capirai…”.
“Jasper non si è fatto vivo?”.
“No…”.
“Ci sono io, amica mia! A tra poco!”.
“Ti aspetto”.
Riattaccai e il percorso fino a casa sua fu brevissimo. Non per la distanza, perché era a quasi un’ora da dove lavoravamo, ma per i miei pensieri, per la mia immaginazione che volava… per Edward.
Mi fermai a prendere delle ciambelline zuccherate all’angolo della strada e poi arrivai da Alice. Abitava al terzo piano di una palazzina piccola ed elegante con le inferriate dei balconi di ferro battuto. Non se ne vedevano di frequente edifici come quelli, erano un vero gioiellino, ma Alice l’aveva scovata senza problemi.
Aprì la porta non appena l’ascensore si fermò al suo piano.
«Ciao Bella».
«Ciao e scusa se ti sto disturbando».
«Non essere scema, entra!».
Lasciai il cartoncino delle ciambelle su un ripiano del piccolo salotto e mi sfilai il cappotto ripiegandolo su una sedia. La casa di Alice era piccola, accogliente e colorata, era come un tramonto: le tende gialle come i tappeti e i cuscini, i tessuti del divano arancioni, come i fiori dentro i vasi e l’orologio sulla parete.
Mi offrì un pezzo di pizza e poi sprofondò sul divano. Indossava una tuta rosa e i capelli – che si era lasciata crescere, ormai le arrivavano alle spalle – erano acconciati in una treccia. «Allora, chi è questo Edward?».
Mi lasciai cadere al suo fianco addentando l’orlo della pizza. Era una specie di mania, l’avevo sin da piccola, mangiavo la pizza al contrario, prima l’orlo e dopo il resto.
«Te ne ho parlato al liceo, ma evidentemente non te ne ricordi. Non so nemmeno come definirlo, eravamo solo due ragazzini. Forse sbaglio, ma è un mio ex fidanzatino. Ecco…».
Alice rise sbattendo i piedi sui cuscini del divano. «Fidanzatino? Andiamo Bella!».
«Cosa vuoi che ti dica? Stavamo insieme».
«Vi siete scambiati i lecca lecca?».
Mugolai sentendo il mio stomaco agitato e colmo d’ansia. «Avevamo quindici anni. È stata la mia prima volta con lui».
«Bella, ma sei stata precoce!».
«Perché tu a quanti anni hai avuto la tua prima volta?».
«Quindici e mezzo», rise per poi tornare subito seria. «Beh, comunque l’hai rivisto, ci hai parlato? Mi sa che ricordo qualche racconto che mi hai fatto su di lui… è quello che andava in skate?».
«Sì», dissi in un lamento. «E mi ha abbracciato, gli ho dato il numero. Avrei voluto stare con lui…».
«Piantala! È solo l’entusiasmo dell’incontro. Dopotutto avete trascorso dei momenti piacevoli insieme ed eravate ragazzini, è normale la tua reazione. Vedrai che domattina, avrei dimenticato tutto».
«Dici?».
«Devi aver dimenticato tutto, Bella. Stai per sposarti, per favore non scherzare».
Mi lasciai sprofondare fra i cuscini nascondendo il viso. Infatti, io stavo per sposarmi e Edward era un mio bel ricordo e basta. Era normale provare quelle sensazioni dopo dodici anni di lontananza, era normalissimo. Eppure una parte di me diceva che non era affatto normale percepire delle emozioni così forti dopo tutto quel tempo.
«Alice, trova un modo per evitare che io usi il suo numero».
«Cancellalo».
«No!», esclamai indignata. «Come puoi chiedermi questo?».
La mia amica sbatté le palpebre. «Me l’hai chiesto tu!».
«Sì, ma tu sei sempre così tragica».
«Non è vero», borbottò.
Mi alzai e m’infilai di nuovo il cappotto. «Ti lascio al tuo riposo. Grazie per aver ascoltato il mio sfogo».
«Breve ma intenso, direi».
«A domani, Alice».
«A domani, Bella».
Imbronciai le labbra e tornai verso casa mia a piedi. Per fortuna non faceva tanto freddo e alcuni negozi erano ancora aperti. Erano le nove e trenta di sera ed io volevo fare tutto tranne che tornare al silenzio del mio appartamento. Non quella sera… con Edward così vicino.
Ma nonostante la voglia pazza di sentirlo, sapevo già che non avrei avuto il coraggio di chiamarlo. Io ero una codarda.
Salutai Aro, il portiere del mio palazzo con un cenno della mano e non appena voltai l’angolo, mi tolsi le scarpe. Risalii a piedi fino al primo piano e quando fui abbastanza vicina alla porta di casa mia, notai diverse cianfrusaglie accatastate lungo la mia parete. Per un istante mi venne il panico, pensai che Riley mi stesse restituendo tutte le mie cose, per qualche arcano motivo… poi mi accorsi che non era roba mia.
Feci lo slalom tra i diversi scatoloni e aprii la porta. Lanciai il cappotto e la borsa sul divano e mi richiusi in bagno. Dovevo prepararmi per il giorno dopo!
Bagno caldo rigenerante con sali rassodanti, scrub, crema antiocchiaie, antipellesecca, antirughe e anticouperose.
«Ma io non ho la couperose…», dissi al mio riflesso allo specchio.
Feci spallucce e fino a tarda notte usufruii della piccola SPA organizzata nel mio minuscolo bagno, di un anonimo edificio, in un’anonima via di New York.
Dimenticai anche di telefonare Riley, a dire il vero dimenticai ogni cosa, anche me stessa.
I miei pensieri erano solo per Edward. Non riuscivo a toglierlo dalla mia mente in nessun modo, i suoi occhi non volevano lasciarmi in pace, la sua voce calda e suadente nemmeno. E immaginavo, immaginavo…
Alice sarebbe stata fiera di me, il cellulare era rimasto in borsa, lontano dalle mie dita pericolose.
Sperai che il giorno dopo arrivasse in fretta, non vedevo l’ora di rivederlo.
Sospirai sognante. Il mio piccolo amore.


Angolino Autrice

Sera a tutti! :) Pian piano ci addentriamo nella storia, che riserverà tante sorprese. Bella è euforica e non pensa ad altro che a Edward, ma col suo imminente matrimonio, non è proprio la cosa giusta da fare. Grazie infinite per le recensioni sn bellissime!
Al prossimo capy e spero che questo vi piaccia!
<3 <3 <3

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Capitolo 4
*** Giallo ***



 

Giallo
 
Giallo è il colore del biglietto che mi ha fatto tremare il petto.
Giallo è il cuore della margherita che mi ha lasciato stupita.
Giallo è il sole, che è calore e amore.

 
 

 

Avevo aperto gli occhi qualche minuto prima che la sveglia mi traumatizzasse, così la disattivai e feci un lungo sbadiglio.
Avevo immaginato di trascorrere la notte in bianco e invece avevo dormito benissimo, come non mi capitava da tanto; mi ero risvegliata persino nella stessa posizione in cui mi ero addormentata.
Aprii le tende gialle della mia camera e osservai il cielo terso di quella mattina: si preannunciava una giornata di sole.
I miei pensieri, per quanto cercassi di tenerli a bada, corsero subito al mio lavoro e a ciò che mi aspettava nel momento in cui avessi messo piede in ufficio.
Una scintilla si accese nel mio stomaco, preannunciando ciò che già sapevo e che dovevo togliermi dalla testa a tutti i costi.
Feci la doccia e una volta dinanzi allo specchio mi ritrovai a fare una smorfia. La scorsa sera avevo perso ore e ore con bagni purificanti e creme di bellezza, inutilmente. La mia pelle era la stessa di prima, le occhiaie c’erano sempre e le mani erano screpolate.
Scrissi un appunto e lo attaccai al frigorifero sotto una calamita a forma di fragola, nel caso il troppo stress mi avesse fatto perdere la memoria: “Non osare mai più perdere tempo con i cosmetici”.
Mi truccai e mi asciugai i capelli cercando di riuscire a fare una piega decente e poi indossai il mio solito completo nero con la camicetta bianca.
Mentre allacciavo i piccoli bottoni, nella mia mente apparve il volto di Edward, un Edward ragazzino che se la rideva sotto i baffi quando con la mia stupidità uscivo da casa sua con la camicetta a quadri abbottonata male, ero capace di saltare una o più asole senza rendermene conto.
Solo dopo parecchio tempo avevo capito per quale motivo sua madre mi guardava stranita quando andavo via.
Quel pensiero mi fece salire una vampata di calore al viso. Scossi la testa rimproverandomi a più non posso, che cosa diavolo ero andata a ripescare nella mia memoria?
No, i nostri momenti più intimi proprio no, meglio che rimanessero isolati dov’erano stati fino ad allora.
Misi un po’ di profumo e poi il capotto. Alle sette e trenta stavo già richiudendo a chiave la porta del mio appartamento ed ero pronta ad andare in guerra.
Oh sì, non c’era termine più esatto.
Il mio telefono squillò preannunciando un sms. Lo afferrai subito dal fondo della mia borsa, certa che fosse Riley che si scusava per non essersi fatto sentire per un’intera serata, a causa della stanchezza che aveva avuto il sopravvento, invece era Jacob, mio amico e collega di lavoro.
 
“Ti aspetto fra un quarto d’ora all’angolo della 39esima per la colazione. Non farti mettere sotto dalla metro”.
 
Sbuffai buttando gli occhi al cielo e riscesi fino al pian terreno, sentendo sin dalle scale, una strana musica che echeggiava nell’aria a basso volume.
Non mi stupii quando vidi Aro muoversi a passo di musica dietro alla sua postazione.
«Buongiorno Isabella, stamane sei splendida».
«Grazie Aro. Ti mantieni in forma?».
«Sì», fece scoccare le dita in aria. «In attesa che Marcus prenda il mio posto, recupero un po’ di tempo».
«A stasera!», lo salutai con una mano.
«Buon lavoro bocconcino!».
Uscii dall’edificio nel caos della città sveglia già da un pezzo e mi recai all’appuntamento con Jacob.
Il sole era ormai sorto e riscaldava appena con i suoi tiepidi raggi primaverili, era comunque piacevole.
Entrai nel bar, notando il mio amico intento nella lettura del quotidiano, seduto poco più in là, intorno a un tavolinetto che sembrava minuscolo per la sua stazza.
«Ehi Jake».
«Ciao Bells, ce l’hai fatta», ridacchiò bevendo un succo d’arancia. Fece un gesto con la mano alla cameriera che subito si affrettò a portarmi la colazione.
Jacob ormai sapeva che cosa prendevo, in cinque anni di lavoro insieme, ci conoscevamo abbastanza.
Jessica la cameriera mi portò un latte macchiato con una spolverata di cacao e qualche biscottino alla mandorla.
«Prima o poi i tuoi sms andranno a segno, vedrai. Mi lanci la sfiga addosso».
«Ma figurati», rispose allentandosi appena il nodo della cravatta. «La sfiga ti è già addosso, non serve anche il mio contributo. Pensa al tipo che stai per sposare e te ne renderai conto da sola».
Quasi mi affogai col mio latte! A Jacob non era mai andato a genio Riley, senza un motivo preciso, era una sensazione a pelle. A ogni modo, non perdeva occasione per farmi notare le nostre differenze abissali, dicendo anche che per aver trovato un tipo del genere la sfiga mi voleva proprio bene. A distanza di anni ci avevo fatto ormai l’abitudine, credevo anche che lo dicesse solo per scherzarci su.
«Leah mi ha detto che ci sono dei cambiamenti ai vertici, è vero?».
«Già», dissi con il viso di Edward che appariva davanti ai miei occhi e la sua voce piena da uomo riecheggiava nelle mie orecchie. E il suo tocco mi bruciava sotto i vestiti e…
«Bella ma mi stai ascoltando?».
«Certo!».
«Sì, come no».
Jacob si alzò ripiegando il giornale e s’infilò la giacca prima di andare alla cassa e pagare. Lo raggiunsi odiando le scarpe col tacco che portavo e che mi rallentavano parecchio, mettendomi anche in ulteriore pericolo di vita.
«Grazie per la colazione».
«Di niente Bells, tanto oggi mi offri il pranzo».
Mi pizzicò la guancia e poi andammo a lavoro. Man mano che mi avvicinavo l’ansia che mi agitava lo stomaco divenne sempre più pensante. Avrei rivisto Edward…
Ero ancora incredula e con la mia scemenza avevo temuto che fosse stato soltanto frutto della mia immaginazione.
Che vergogna, aveva anche visto il ciondolo che mi aveva regalato prima che partissi. Chissà quali erano stati i suoi pensieri, di sicuro mi aveva chiamato patetica.
«Dio, che gonna che indossa oggi Kate…», Jacob mi distolse dalle mie ipotesi. «Scusa Bella, ci vediamo di sopra, vediamo se riesco a guadagnarmi qualcosa».
Feci roteare gli occhi e prima di salire a quel maledetto dodicesimo piano, mi fermai alla bacheca degli annunci a ridosso di una delle tante pareti. Era un’azione che sia io sia Alice facevamo in automatico non appena entravamo.
Era in quel modo che avevamo trovato i nostri appartamenti e lei aveva preso lezioni di scherma; lì aveva incontrato Jasper. Che poi a che cosa le serviva? Nemmeno l’aveva una spada…
Mentre ero intenta a leggere di un tizio che dava lezioni di casalinghismo, sentii la sua voce. Era Edward…
Mi grattai una guancia e mi girai con fare disinvolto impaziente di vederlo. E lui era a qualche passo da me di fianco a Dimitri il mio capo e una ragazza dai capelli rossi ricci, molto bella.
Come se avesse percepito il mio sguardo incrociò subito i miei occhi. Vidi l’angolo destro della sua bocca sollevarsi e avrei voluto urlare dalla gioia, ma mi limitai a fargli un piccolo gesto del capo e correre via come una ladra.
Era bellissimo! Anche se indossava il solito completo da lavoro, ma lo era. Lo era sul serio.
Dovevo evitare che qualcuno si accorgesse della mia momentanea pazzia, mi dovevo controllare. Era già abbastanza che lo sapesse Alice, bastava pochissimo perché la voce si spargesse e io finissi nei guai.
Riley sarebbe andato su tutte le furie per quel pettegolezzo assolutamente infondato!
Quando entrai nel mio ufficio mi barricai all’interno quasi dovessi sventare un attacco terroristico. Dovevo ritrovare me stessa, che cavolo era solo Edward.
Hai detto niente!, disse una vocina all’interno della mia testa.
Andiamo Bella… eravate solo ragazzini, poppanti e sono passati dodici anni. Lui potrebbe avere già una moglie e dei figli.
Quel pensiero mi scosse il cuore, fu come essere colpita al petto da un martello. Lui non poteva avere già una famiglia.
Scossi la testa e lanciai il cappotto sul divano, mi serviva una tazza esagerata di camomilla e sperai che Leah non avesse distrutto completamente il distributore.
Prima di uscire dall’ufficio però era meglio che dessi un’occhiata al lavoro che mi attendeva, se era troppo, era meglio non perdere tempo altrimenti mi toccava rimanere in ufficio fino a tarda sera.
Per la prima volta in cinque anni quell’idea non mi dispiaceva. Aggrottai le sopracciglia.
Quando mi sedetti sulla sedia girevole di fronte alla scrivania, mi ritrovai a spalancare la bocca… sulla pila di fogli c’era una… una margherita. L’afferrai con mani tremanti accorgendomi subito che allo stelo era stato arrotolato un bigliettino giallo, un post-it precisamente.
Lo aprii deglutendo e il mio cuore diventò leggero come una nuvola.
 
 
Per essere scappato via ieri sera, invece di rimanere con te.

                                                                                                                                                         
                                                                                                                                       
Tuo Edward

 

 
 
Tuo Edward? Mio Edward?! Oh mio Dio!
Ci mancò poco che mi strozzassi perché la saliva mi andò di traverso e nel tossire lo spigolo della scrivania stava per colpirmi… o io stavo per colpire lui. Comunque i danni sarebbero stati solo i miei.
E adesso che cosa dovevo fare? Dovevo ringraziarlo per quel pensiero dolcissimo o dovevo fare finta di niente? Dovevo ricambiare? Ma no, che cavolo, ci mancava solo di diventare una patetica bambina.
Non potevo crederci che mi avesse mandato un fiorellino con un biglietto scritto a mano. Chi mai l’avrebbe fatto? Nessuno…
Chiunque si sarebbe limitato a mandare un sms o una telefonata, non di più.
Dovevo vederlo. Assolutamente. Sbagliavo, lo sapevo, ma se non l’avessi fatto non avrei combinato nulla per tutto il giorno. Mi bastavano due chiacchiere, la sua voce, il suo sorriso. Una sola cosa!
Poi il telefono del mio ufficio squillò ripetutamente.
Mi sporsi sull’aggeggio notando che sul piccolo display compariva io numero ventinove. Il 29° piano era uno di quelli che noi dipendenti chiamavamo piani alti, perché gli ultimi piani erano occupati dalla dirigenza.
Presi la cornetta più veloce di un protagonista dei fumetti e me lo portai all’orecchio.
“Bella Swan, marketing”.
“Buongiorno Bella, sono Edward”, disse con disinvoltura.
“Buongiorno a te”.
“Lo so che è presto, ma sto andando in riunione e non so se poi ce la faccio ad avvisarti… ma volevo chiederti se ti va di pranzare con me”.
La bocca mi si spalancò e tante stelline mi danzarono davanti agli occhi. Pensai che stessi per svenire!
“Credo di non avere impegni”, asserii con voce sorprendentemente ferma. Ah già dovevo pagare il pranzo a Jacob, ma figuriamoci se me ne importava. “Quindi… sì”.
Ci fu un attimo di silenzio dall’altra parte del cavo. “Bene, allora a dopo. Buon lavoro”.
 “Anche a te”.
Riattaccai la cornetta con l’impressione che potessi volare, con pura felicità che mi scorreva nelle vene. Quella sensazione era rigenerante per il corpo e per la mente, un qualcosa dalla quale si sarebbe potuto sviluppare un antidoto antidepressivo.
Poi però la realtà mi piombò addosso come un macigno. Il mio cellulare prese a squillare e le note della suoneria erano quelle che avevo impostato per la chiamata di Riley.
 
 
Angolino Autrice

Ciao ragazzi! Non ho parole per come sn felice dell'andamento di questa storia, veramente. Alcune recensiomi mi lasciano a bocca aperta, grazie di cuore.
Questo capitolo a me ha emozionato, spero che susciti le stesse emozioni in voi. Amo questa storia, dal primo rigo. 
PS scusate per le poesie all'inizio ma mi diverte un sacco scrverle ahahah.
Alla prossima! <3

 
 

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Capitolo 5
*** Arancione ***


Arancione

Arancione… era il colore del nostro pallone.
Arancione come il fiore sul tuo balcone.
Arancione come il fuoco della passione.

  


 
 
 

Il mio cellulare continuava a squillare ed io ero lì impalata al centro del mio ufficio, indecisa se rispondere o meno.
Quello era Riley il mio fidanzato, mio futuro marito, perché stavo esitando?
Il fatto era che la mia mente si trovava in un’altra dimensione in quel momento, bloccata in un vicolo cieco per cui senza via d’uscita. Di ragionare proprio non se ne parlava, quindi era escluso che riuscissi a formulare frasi di senso compiuto se non le più semplici come sì, no, forse.
Ero anche al lavoro… non potevo fare ciò che mi pareva.
Sbuffai esasperata, erano solo una marea di scuse improbabili elaborate dal mio senso di colpa.
“Pronto?”.
“Tesoro perdonami, ma ieri ero sfinito dal lavoro e mi sono addormentato sul divano”.
“Non preoccuparti Riley, ho fatto la tua stessa cosa anche io”.
“Stasera passo a prenderti al lavoro, va bene?”.
Esitai per un istante. Di solito mi piaceva ed era anche comodo che passasse a prendermi lui, ci impiegavo la metà del tempo ad arrivare a casa.
“Certo, è perfetto. Ora devo andare, se mi beccano col cellulare, sono guai”.
“A stasera tesoro”.
“A stasera”.
Riattaccai la telefonata e lanciai il cellulare sul piccolo divano di pelle nera a ridosso della parete, dove poco prima avevo lanciato anche la borsa e il cappotto.
Più il tempo passava e più dimenticavo che quello era un ufficio e non casa mia.
Mi affrettai a riordinare e poi mi sedetti dietro alla scrivania, determinata a portarmi avanti con il lavoro. Dovevo evitare di accumulare i mille compiti perché il pensiero mi avrebbe impedito persino di dormire la notte.
Senza dargli troppo peso, presi la margherita e il post-it giallo col messaggio di Edward e li infilai nell’ultimo cassetto della scrivania, lontano da occhi indiscreti – specie i miei – e poi presi matita e calcolatrice.
Essendo fine settimana dovevo stilare un piccolo bilancio delle mie attività lavorative riguardanti i quattro giorni precedenti, in modo che i capi avessero la situazione sotto controllo limitandosi a dare una controllata ai numeri piuttosto che andare a scovare direttamente nelle mie attività più svariate.
Peccato che i numeri avevano deciso di odiarmi quella mattina. Ogni qual volta mi accertavo che i risultati combaciassero, saltavano fuori cifre diverse.
Per evitare ulteriori distrazioni avevo anche abbassato le veneziane nere che ricoprivano le finestre che davano sul corridoio esterno, dove il via vai dei miei colleghi e le smorfie di Jacob sembravano implacabili.
Erano trascorse ben due ore e non avevo concluso nulla. Per di più mi ero morsa a sangue la bocca dal nervosismo.
Non potevo continuare a quel modo, rischiavo che la giornata trascorresse e io non adempiessi nemmeno a uno dei miei compiti.
Era meglio se dessi un colpo di defibrillatore al mio cervello morente, prima che fosse troppo tardi.
Mi alzai dalla sedia girevole e andai verso l’uscita del mio ufficio. Aprii la porta spalancandola e mi affacciai prima a destra e poi a sinistra. Evitai di guardare di fronte a me perché sapevo già che ci fosse Jacob stravaccato su una sedia ad armeggiare col computer.
Il dodicesimo piano era uno di quelli più belli per disposizione. L’ascensore si apriva direttamente sull’atrio centrale dando completa visuale di ogni singolo ufficio disposti orizzontalmente alle pareti. Mi piaceva paragonarlo a un piccolo gruppetto di case disposte a quadrato con il giardino comune.
Le porte degli uffici dei miei colleghi erano tutte aperte e le voci echeggiavano nell’atrio.
Vidi Emily che discuteva con alcuni clienti e Mike Newton che cercava inutilmente di rimorchiare Embry Call… ancora non si era dato per vinto, era più testardo di un mulo.
Leah era libera e trafficava con una stampante, così decisi di raggiungerla, per poi andare a bere una camomilla, sempre che il distributore automatico di bevande funzionasse.
Non mi spiegai il perché più Leah avesse dei seri problemi a interagire con le apparecchiature informatiche o qualunque cosa prevedesse l’uso di bottoni e numeri, più lei ci aveva a che fare.
«Leah, ti conviene farti aiutare da qualcuno prima che si rompa anche questa».
La mia amica grugnì e diede un calcio alla stampante.
«Non è possibile, ci dev’essere un virus nell’aria che colpisce questi aggeggi». Si mise i capelli dietro le orecchie e poi finalmente si accorse davvero di me. «Bella, che fai da queste parti?».
«Sto andando a prendere una camomilla», dissi vaga.
«Una camomilla? Vorrai dire un caffè».
«No, ho bisogno di calmarmi».
«Come mai? È successo qualcosa?».
«No, il fine settimana è sempre così», mentii.
Non potevo di certo dirle che un ex fidanzatino di dodici anni prima era riapparso nella mia vita dal nulla e mi aveva scombussolato. Me ne avrebbe detto di tutti i colori, per Leah certe cose erano inaccettabili.
Andai al distributore che per fortuna mi diede la camomilla tanto agognata e poi mi diressi di nuovo verso il mio ufficio, sorseggiandola lungo il percorso.
Mi poggiai con una spalla allo stipite della porta rivolgendo lo sguardo ai miei colleghi.
Avrei dovuto odiare quel lavoro, mi portava via del tempo che avrei potuto usare per girare il mondo, mi stressava, mi obbligava a indossare degli abiti scomodi; eppure stare lì, aver conosciuto i miei colleghi, aver stretto amicizia con alcuni di loro… quella normalità era ormai parte di me.
Anche se avevo pensato che fosse una cosa positiva se l’azienda mi avesse licenziato – così non sarei stata obbligata a indossare quella divisa – alla fine non lo pensavo davvero.
Sorseggiai un altro po’ di camomilla sentendone il gusto dolce sul palato.
Notai che Mike era uscito dall’ufficio del povero Embry – probabilmente era stato cacciato a calci – e adesso importunava qualcun altro, facendo dei sorrisi sexy che a detta di Jake, avrebbero fatto capitolare una trota.
L’uomo su cui si era concentrato però, era l’ennesimo a cui piacevano le donne. E meglio di me non lo sapeva nessuno.
Il cuore iniziò a torturarmi battendo a ritmi esagerati e per poco non rovesciai anche la camomilla.
C’era Edward a qualche passo da me. Era di spalle, ma per quanto mi riguardava avrei riconosciuto la sua postura anche con un mantello addosso. La sua riunione doveva essere già finita e adesso era venuto a fare visita ai piani bassi. Mi chiesi quale fosse il suo ruolo nell’azienda, ma lo avrei scoperto presto. Dimitri il giorno prima ci aveva annunciato che le presentazioni sarebbero avvenute durante la giornata successiva.
Deglutii a vuoto un paio di volte.
Edward aveva tolto la giacca e la camicia un po’ sgualcita era uscita dai pantaloni.
Il mio primo istinto fu di avvicinarmi a loro due e magari inserirmi nel discorso, sperando sul serio che Mike non ci stesse provando con lui.
Poi però decisi che non era il caso. Per quanto lo desiderassi con tutta me stessa. Per quanto non desiderassi altro da quando lo avevo rincontrato.
Come se non potessi fare altro, rimasi lì a osservarlo. Notai che teneva le mani in tasca e a volte si stringeva nelle spalle, un gesto che faceva sempre quando si sentiva a disagio, forse però adesso significata qualcos’altro.
Fece un passo indietro e lessi il labiale di Mike che diceva ci vediamo presto, poi Edward si voltò con la faccia un po’ sconcertata e avanzò a passo spedito fissando il pavimento. Mi sorpassò senza vedermi.
«Edward…», lo richiamai senza rendermene conto. Ora avevo la conferma definitiva che non sempre il nostro corpo obbedisce a ciò che la mente gli ordina.
Edward si girò di scatto, piegando il busto nella mia direzione. «Bella…».
Si avvicinò subito con un sorriso che man mano gli cancellava quell’espressione dubbiosa dal volto. «Come mai da queste parti?».
«Per dare un’occhiata in giro. Sono arrivato solo ieri e ho visto pressoché nulla».
Annuii deglutendo ancora e rassettando il mio cervello alla ricerca di qualcosa da dire, ma il suo profumo mi aveva già stordito. Dovevo darci un taglio, seriamente.
«Spero che il mio piccolo messaggio di stamattina non sia stato inopportuno», disse a mezza voce poggiandosi con una spalla allo stipite della porta, proprio a fianco a me.
Per fortuna la tazza della camomilla mi occupava le mani, altrimenti le avrei affondate entrambe nei suoi capelli e poi gli avrei accarezzato il viso, la bocca…
«Parli della margherita e del post-it?».
Lui annuì spensierato non perdendo quel suo sorriso tranquillo. Era evidente che pensava di aver fatto una cosa a me gradita, però voleva sentirselo dire.
«Magari fosse tutto inopportuno come la tua margherita».
«Hai ragione», ridacchiò. I suoi occhi si fermarono nei miei, erano così dolci. Di solito mi guardava in quel modo dopo aver fatto…
Oh no, no! Non dovevo pensare all’intimità che avevamo avuto.
«Emh… finisco i miei conti o il capo mi ucciderà», asserii in difficoltà facendo un passo indietro.
«Io credo che il tuo capo farebbe di tutto, tranne che ucciderti», mi salutò con una mano e andò via lasciandomi lì come un’allocca a pormi delle domande davvero cruciali per la mia sanità mentale.
Che cosa farebbe il mio capo con me?
Ma stiamo parlando di Dimitri?
E sono le stesse cose che faresti tu con me?
Si tratta di cose belle o brutte?
Sbuffai e battei con la fronte sulla pila di fogli che riempivano la mia scrivania. Di quel passo avrei rischiato di lavorare anche durante il week-end.
Quel pensiero accese una lampadina nella mia testa. Chissà perché l’idea di recarmi in ufficio invece di dormire fino all’ora di pranzo, mi piaceva così tanto.
Forse Edward sarebbe stato lì… i dipendenti sarebbero stati pochissimi e io e lui avremmo potuto…
No! No e no!
«Bella ti sei incantata?».
Sussultai sentendo la voce di Jacob e mi venne un colpo quando lo vidi seduto di fronte a me con una gamba sull’altra e un sopracciglio alzato.
«Stavo cercando… di risolvere questi calcoli, non vogliono proprio uscirmi stamattina».
«Dammi qui», asserì sporgendosi in avanti e prendendo qualche foglio. «Faccio io, tu vai a sciacquarti un po’ il viso, per non riuscire a svolgere queste quattro cretinate sei davvero in panne».
«Molto gentile», dissi sarcastica, spostando la mia sedia girevole all’indietro.
«So di essere gentile altrimenti non farei questo lavoraccio al tuo posto».
Feci una smorfia e mi recai in bagno prendendo il borsello con i trucchi dalla mia borsa. Era quasi ora di pranzo e dovevo darmi una rinfrescata, non volevo che Edward vedesse i miei mille difetti, quindi dovevo coprire il più possibile.
«Ti rifai il trucco per venire a pranzo con me? Comincio a pensare male…», Jacob mi sembrò ancora più sconcertato di poco prima.
«Scusa Jake, ma avevo dimenticato di avere già un appuntamento. Ti dispiace se rimandiamo a lunedì?»,
«Esci col bamboccio?», chiese riferendosi a Riley mentre armeggiava con la calcolatrice, ma feci in tempo a uscire senza rispondere. Non era il momento buono per inoltrarsi in una conversazione troppo spigolosa.
Una volta in bagno, quasi mi spaventai quando vidi il mio riflesso allo specchio. Ero orribile!
Iniziai con un po’ di copri occhiaie prima che qualcuno pensasse che mi avessero preso a pugni; un velo di fard e del mascara.
Jacob si affacciò all’improvviso aprendo la porta del bagno delle donne. «Ti sta mascherando? Andiamo Bella, a Riley piacerai così come sei! Pensa quando purtroppo lo sposerai e dovrai dormire con lui, come farai? Ti truccherai anche di notte?».
Chiusi la porta con un calcio e sentii il mio amico ridacchiare di gusto. «Dovresti usare la tua aggressività contro il tuo futuro sposo!», concluse andando via.
Non gli diedi retta e continuai il mio lavoraccio, pettinando anche i capelli e lavandomi i denti. Beh… per chi sta tutto il giorno fuori, spazzolino e dentifricio sono d’obbligo in borsa.
Ora che ci pensavo bene, dove avrei incontrato Edward? E a che ora di preciso?
Mi spruzzai del profumo e poi richiusi il borsello pronta a tornare a prendere il cappotto e a scendere della Hall dell’edificio. Non sapevo ancora che ruolo ricopriva nell’azienda, comunque era certo che fosse ai vertici e non credevo che volesse alimentare dei pettegolezzi sin da subito, quindi non si sarebbe esposto venendo a prendermi al mio piano. Mi avrebbe aspettato di sotto, appena fuori dall’entrata.
Sì, giusto. Uscii dal bagno e l’ultima parola che avevo pronunciato nella mia mente si trasformò, diventando sbagliato.
«Ah eccoti, Bella. Non riuscivo a trovarti».
«E- Edward che cosa ci fai qui?».
Fece un’espressione dubbiosa mentre cercavo in tutti i modi di nascondere il borsello con i trucchi. Dio, che vergogna!
«Dobbiamo andare a pranzo, lo hai dimenticato?».
«No… solo pensavo che… Niente lascia stare. Prendo il cappotto e sono da te, dammi un minuto».
Annuì e mi precipitai nel mio ufficio facendo finta di non vedere Leah, Emily e Jacob che mi facevano delle smorfie mentre si apprestavano ad andare via.
Misi il cappotto e presi la borsa per poi farmi il segno della croce: ti prego Dio non farmi fare cavolate oggi.
Raggiunsi Edward che aveva indossato la giacca e teneva il cappotto ripiegato su un braccio.
«Mi hanno detto che c’è un ristorante carino qui vicino. Hai problemi a prendere l’auto con me?».
Sbattei le ciglia. Io problemi ad andare con lui in un posto così angusto come un’auto? Casomai doveva averli lui i problemi.
«No che non ho problemi Edward».
«Bene, allora andiamo lì».
«Per me va bene».
Forse credeva davvero che potesse fare qualcosa che mi desse fastidio… Oppure non capivo proprio il motivo di tutta quella premura – se così potevo definirla – in quel momento non trovavo altro termine per definire il suo atteggiamento.
Scendemmo con l’ascensore fino al piano interrato dove c’era il parcheggio e ci avvicinammo a un’auto dal tettuccio basso, nera e lucente. Non conoscevo le automobili, nemmeno ne possedevo una, ero davvero imbranata alla guida, ma lessi il modello sul retro: Porsche S.
Quando mi aprì lo sportello, lo guardai con le palpebre socchiuse. «Wow… che ne è stato del… di Edward che conoscevo?». A momenti mi sarei mozzata la lingua da sola! Stavo per dire il mio Edward, maledetta me!
«Mi sono un po’… sgrezzato», disse con un sorriso.
Entrai nell’abitacolo e mi allacciai la cintura, lui mi seguì subito dopo. Mentre faceva manovra non riuscii a spostare lo sguardo da lui. Aveva le spalle larghe, il ventre piattissimo, le mano grandi che stringevano il volante… amavo le sue mani.
Durante il breve percorso verso il ristorante, nessuno dei due parlò. Stranamente non mi sentivo a disagio in quel silenzio, era come se in un certo senso mi serviva e forse serviva anche a lui.
Avevo un milione di emozioni che si agitavano nel mio stomaco e solo ad alcune riuscivo a dare un nome: aspettativa, terrore, piacere.
«Eccoci arrivati», disse parcheggiando lungo il marciapiede. Si affrettò a scendere e a venire ad aprire la mia portiera. L’uno a fianco all’altro camminammo fino al ristorante dove un giovane uomo a modo ci aprì la porta. «Buongiorno Signori e benvenuti».
«La ringrazio, ho prenotato un tavolo per due. Cullen».
«Prego, seguitemi».
Quel ristorante aveva l’aria di essere molto costoso, ma solo per i modi, il restante era accogliente e non molto lussuoso. I tavoli erano rotondi e il tovagliato rosso e dorato. Il pavimento di parquet scuro rifletteva le luci dei lampadari a forma di ampolla e diverse piante erano addossate contro le pareti color champagne.
Edward mi poggiò una mano contro la schiena e insieme a lui camminai seguendo il cameriere.
«Eccoci arrivati, prego Signori».
Mi aiutò a togliere il cappotto e nel frattempo con un gesto del tutto inconsapevole, mi gettai un’occhiata intorno per scorgere qualche viso che ci circondava. Riley non frequentava quei tipi di posti, poi lavorava dall’altra parte della città, però non potei fare a meno di chiedermi quale reazione avrebbe avuto se mi avesse visto a pranzo in compagnia di un altro uomo.  Sarebbe successo un putiferio.
«Bella, va tutto bene?». Edward era a fianco a me con le spalle protese in avanti.
«Sì, ero sovrappensiero, scusa».
«Non c’è bisogno di scusarsi», mi disse con un sorriso.
Mi sedetti e incrociai le braccia sul tavolo. Ragionai che non era il momento giusto per pensare a delle conseguenze improbabili. Anche se Riley mi avesse scoperto, avevo la giustificazione plausibile di essere a un pranzo di lavoro e poi che cosa stavo facendo di male? In pratica niente, con la mente invece…
Edward si allentò il nodo della cravatta e slacciò i bottoni dei polsi della camicia piegandoli fino al gomito.
«Odio questi vestiti formali», brontolò afferrando poi un menù.
«Non dirlo a me, pagherei per levarmeli di dosso».
Edward allargò un sorriso malizioso, ma si affrettò a spostare lo sguardo da me rivolgendolo altrove.
Oddio! Ero diventata un mostro. Gli facevo delle proposte indecenti velate. Era tipo una specie di pubblicità occulta, che vergogna!
Mi schiarii la voce e avvicinai un po’ di più la sedia al tavolo. «Tu che cosa prendi?», gli chiesi per scacciare l’imbarazzo.
«Secondo te?».
La mia mente fece un salto all’indietro, a moltissimi anni prima. Apparve un prato verde, una tovaglia da picnic, un pallone arancione bucato perché finito in un roseto e…
«Maccheroni al sugo».
«Hai una buona memoria, Bella».
Mi strinsi nelle spalle, capendo troppo tardi che forse era meglio fare finta di non ricordare i suoi gusti. Mi sembrava che più i secondi passavano e più il vortice nel quale ero entrata mi trascinava a fondo.
«Li prendo anche io».
Edward ordinò due piatti di maccheroni e il cameriere lo guardò un po’ perplesso, chissà perché. Quando andò via tra me e lui calò di nuovo il silenzio e in quel momento capii il motivo per cui succedeva. Ogni cosa di cui volevo parlare o che volevo chiedergli, ci avrebbe trascinato al passato. Al nostro passato. E non sapevo se fosse una cosa positiva rinvangare certe cose. Quando lo facevo da sola, non era un problema, anzi era un problema, ma riuscivo a sbrigarmela da me, ma se succedeva con lui che cosa sarebbe accaduto?
Avevo una paura matta, era questa la verità. Una volta avviati certi meccanismi non si può più tornare indietro e io non volevo innescarli.
«Allora Bella…».
«Sì?».
«Raccontami di te, di come hai trascorso questi anni».
«Non c’è un granché da dire», dissi un po’ irrequieta osservando i petali arancioni dei fiorellini del nostro centrotavola che mi ricordavano tanto quelli di una piantina che Edward aveva sul suo balcone.
Mi accorsi di pormi dei problemi che a quanto sembrava per lui erano inesistenti. «Mi sono diplomata, sono andata al college e poi ho trovato lavoro come addetta marketing».
«Sbrigativa», rise piano. «Come sempre».
Non aveva smesso di fare quella specie di smorfia quando rideva. Era adorabile e sexy. Ora sì che era sexy da morire.
«Invece tu che cosa mi racconti?».
«Più o meno la stessa cosa che hai detto tu».
Ecco, dovevo aspettarmelo. Se rimanevo sulle mie, lui avrebbe fatto lo stesso per dispetto. E io avevo una voglia disperata di conoscere il suo passato e di capire come fosse arrivato a diventare l’uomo che era. Era quasi necessario per me.  Ritenevo che tutti quegli anni trascorsi lontani fossero stati una vera e propria ingiustizia e adesso volevo la mia rivincita.
«Sono andata via di casa subito dopo il diploma», aggiunsi.
«Idem».
«Ho condiviso un appartamento con tre ragazze pagando le spese con i guadagni di un lavoretto part-time in una caffetteria».
«Ho girato mezza America, facendo campionati di Skateboard», disse vago giocherellando col suo tovagliolo.
«Dici sul serio?», chiesi sorpresa.
«Già».
«E come ti ritrovi nella mia stessa azienda? Voglio dire… sei saltato da un estremo all’altro».
«Una brutta caduta mi ha fatto dire addio a quello sport. Ora posso solo guardare i miei skate attaccati alla parete e ricordare ciò che facevo».
«Mi dispiace…».
«Anche a me», sospirò, ma si riprese subito. «E dimmi tuo fratello Emmett come sta?».
«Oh bene. A volte ti nomina ancora, sai?».
Edward scoppiò a ridere. Si poggiò con la schiena alla sedia, con gli occhi appena socchiusi e le dita fra i capelli. «Non mi sopportava. Mi odiava a dire il vero».
«Lo so bene».
«Adesso lo capisco. Ero il ragazzo della sua sorellina, era normale che reagisse in quel modo».
Ero il ragazzo della sua sorellina. Quelle parole mi fecero correre un brivido lungo la schiena. Era sublime il solo pensiero. Lui era stato il mio ragazzo. Come sarebbe stato se non ci fossimo mai separati? Forse a quell’ora eravamo già sposati con dei bambini.
«A che cosa stai pensando?».
«A niente», dissi grattandomi una tempia.
«Oh, andiamo Bella. Non sai mentire».
Oppure ci eravamo lasciati non appena preso il diploma perché i college scelti erano distanti.
«Pensavi a cosa sarebbe accaduto se non ti fossi trasferita, vero?», incalzò con tono leggero e fu proprio grazie a quello che mi rilassai. Perché la facevo così lunga? Era normale avere ricordi ed era bello discutere dei bei vecchi tempi andati. Era una stupidaggine che ne avessi paura.
«Sì», ammisi.
«Anche io me lo chiedo sempre».
«E a che conclusione arrivi?».
Avanti Bella, continua a tirarti la zappa sui piedi da sola.
«Che probabilmente ti avrei strozzato prima di finire il liceo».
Sbarrai gli occhi inorridita. «Perché mai?!».
«Sto scherzando», disse ridendo accarezzandomi una mano e stringendola tra le sue dita.
Il respiro mi si fermò a metà gola, ma niente mi impedì di ricambiare la sua stretta e di guardare le nostre mani unite. Sicuramente avevo la faccia da pesce lesso, ma avrei sopportato qualunque umiliazione… perché ciò che stavo provando e ricordando ne valeva la pena.
Era come se il mio corpo fino ad allora sopito, si stesse risvegliando. Avevo avuto altri ragazzi nel corso degli anni, mi avevano tenuto per mano, mi avevano baciato e abbracciato… ma con lui era diverso. Migliore. C’era una scintilla che si accendeva ogni qual volta mi sfiorava o mi guardava e non si accendeva solo nel corpo, succedeva anche nella mente. Era un piacere doppio. Un’emozione doppia e travolgente. Era come un fiume che scorre nel suo letto, costretto in quegli argini solidi, obbligato in quella direzione.
«Mi sei mancata Bella», disse piano per la seconda volta, proprio come aveva fatto quando ci eravamo incontrati in ascensore.
«Anche tu», dissi senza voce ingoiando un magone grande quanto una casa.
«E adesso che ti ho ritrovato non voglio più perderti».
«Non credo che succederà», dissi mordendomi il labbro inferiore. «Adesso lavoriamo pure nello stesso posto».
«E vivo qui a New York», aggiunse.
«A volte il destino… quante ne combina».
Edward si portò la mia mano alla bocca e la baciò. Rischiai un infarto. «A me stavolta il destino ha fatto un regalo. Mi ha riportato una delle persone più importanti della mia vita».
Stava per aggiungere altro, ma non fece in tempo perché gli saltai con le braccia al collo. Sentii il suo respiro caldo contro l’orecchio, le sua braccia strette intorno a me.
«Hmm… Bella, Bella. Hai perso il vizio di metterti i capelli dietro le orecchie», sussurrò piano. «Ma non hai perso il vizio di farmi impazzire…».



Angolino Autrice

Ciao a tutti!! Non dovrei dirlo, ma questa storia mi fa impazzire. Ho perso il conto delle volte che l'ho riletta prima di postarla, mi piace troppo.
Devo ringrazire tutti per le recensioni che mi lasciate e i complimenti che mi fate, davvero ne sono felicissima.
Spero che questo capitolo vi piaccia e che sia riuscita a descrivere bene le emozioni di Bella.
Non è la mia prima storia su Edward e Bella, perciò ho cercato di fare i caratteri dei personaggi principali diversi rispetto alle altre storie.
Un grazie a Sara per i suoi consigli e le immancabili scalette. <3
Al prossimo capitolo.
-Carmen

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Capitolo 6
*** Grigio ***



Grigio


Grigio come il mio umore di quel pomeriggio.
Grigio come l’apatia che non vuole andare via.
Grigio come la mia vita da quel giorno in cui sono partita.

 
 
 


Quello era il mio posto.
Niente era mai stato così rassicurante e appagante, così sublime… Solo le sue braccia.
Avevo stretto gli occhi talmente forte che mi facevano male le palpebre e probabilmente stavo stritolando anche lui, ma non sarebbe stata la fine del mondo. Non credevo che mi sarei lasciata andare in quel modo molte altre volte, per cui adesso che ci ero riuscita me lo godevo.
Edward mi stringeva a sua volta e dopo l’ultima frase non aveva aperto più bocca. A quanto sembrava il silenzio continuava a essere nostro amico.
Ero in una posizione scomodissima, chinata a metà sul tavolo per poter arrivare con le braccia al suo collo e chissà che pensieri avevamo scatenato nei clienti che ci stavano intorno.
Ricordai tanti anni prima, nella mensa della scuola, quando mi disse che era riuscito a trovare i biglietti del nostro gruppo preferito e io dalla felicità gli ero saltata addosso. In quell’occasione però, Edward mi aveva accarezzato la schiena e afferratami dai fianchi mi aveva fatto sedere sulle sue gambe.
Rimpiansi ancora una volta i tempi andati… non sarebbe più successo.
Lo schiarirsi della voce del cameriere mi fece tornare in me. Mi sentii il viso andare in fiamme e tornai composta sistemandomi il tovagliolo sulle gambe.
Sarei voluta morire in quell’istante. Morire!
«Ecco per lei Signora… e per lei Signore», disse il cameriere porgendoci le nostre pietanze. Che quei maccheroni avessero il mio stesso colore? Probabilmente sì!
«Buon appetito Bella», mi sorrise Edward.
«Buon appetito a te».
Mi versò dell’acqua, poi si fermò col braccio a mezz’altezza increspando appena le sopracciglia. «Sei ancora astemia, vero? Perché altrimenti prendiamo del vino».
Ci mancava solo l’alcol e allora sì che sarei stata capace di ogni cosa. Meglio limitare i danni finché ci riuscivo.
«Sì, sono ancora astemia, anche se nelle ricorrenze, tipo Capodanno, bevo un po’ di spumante». Mi sentii ridicola nel pronunciare quelle parole e mi chiedo perché diavolo lo feci, allora.
«Forse non hai assaggiato i vini giusti. Conosco qualche etichetta ottima, che sicuramente ti piacerà», mi fece l’occhiolino e il maccherone che avevo infilzato con la forchetta ricadde nel piatto. Era rimasto scioccato anche lui.
«Può essere. Non è che mi piaccia essere sempre quella sobria».
«Una sera o l’altra te li faccio provare. Ne ho una piccola collezione a casa».
«Certo, perché no», risposi come la più meschina delle donne esistenti sulla faccia della terra.
Come poteva essere che mi sentissi al settimo cielo e allo stesso modo negli inferi più bui?
Quello era il senso di colpa che mi scuoteva da dentro. Sì, il senso di colpa per le mie azioni e per i miei pensieri inopportuni.
Bevvi un sorso d’acqua osservando poi le bollicine che salivano in superficie.
Quando Edward era davanti ai miei occhi, era facile dimenticarsi di tutto il resto. Sin troppo facile. Ma la realtà non scompariva, era lì in attesa che tornassi ed era crudele.
Mi sfuggì un sospiro che Edward lo notò subito. Non mi chiese niente, ma sapevo che avrebbe voluto farlo, solo che non voleva risultare troppo invadente.
«Il lavoro è pesante?».
«Un po’», ammisi stiracchiando un sorriso. «Niente che non possa gestire».
All’improvviso mi venne un vuoto allo stomaco. Fu qualcosa di inaspettato che mi colpì quando vidi lo sguardo di Edward indugiare sul mio  anulare destro. Era dall’età di diciotto anni che portavo un piccolo anellino d’oro, lo stesso che aveva anche Alice; un dono che ci eravamo scambiate a Natale all’interno del quale avevamo fatto incidere le nostre iniziali.
Il panico non arrivò per il suo sguardo, adesso un po’ interdetto, ma al pensiero delle domande che ne potevano scaturire. Per lui che era appena rientrato nella mia vita, quel piccolo oggetto che simboleggiava l’amicizia con Alice, poteva essere un anello di fidanzamento!
Lo vidi aprire la bocca per chiedermi chissà cosa, ma lo anticipai col cuore in gola. «Scusami un attimo, vado in bagno».
Lui annuì un po’ spaesato e io camminai come uno zombie fino alle toilette in fondo al locale.
Mi tremavano le ginocchia, ero nello smarrimento più totale. Mi poggiai contro le mattonelle fredde a fianco ai lavandini, poi mi rinfrescai il viso con una salvietta.
Dovevo smetterla subito. Subito!
Respirai a fondo e quando sentii il battito decelerare, mi diedi della stupita.
Stavo facendo tutte quelle manfrine perché temevo che Edward mi facesse delle domande, anzi più precisamente la domanda.
Sì, ne ero più che certa, stava per pormi il quesito che me l’avrebbe fatto perdere di nuovo. Lo avrebbe fatto allontanare da me irrimediabilmente e i suoi occhi sarebbero cambiati, i suoi modi anche.
Ed io lo avevo aspettato e desiderato con tutta me stessa per troppo tempo per lasciare che accadesse. Non volevo perderlo di nuovo.
Ti vedi con qualcuno? Stai con qualcuno?
Beh caro Edward, fra tre mesi mi sposo…
Come avrei fatto a evitare quella domanda? Me l’avrebbe fatta e di sicuro non potevo mentire. Avevo già fatto la stronza menefreghista parecchie volte in pochissime ore, ma quello proprio non sarei stata in grado di farlo. Potevo mentire a me stessa, a Riley, ma non a Edward. Tuttavia mentire è diverso da omettere. Ero consapevole che non fosse una vera e propria soluzione, però era l’unica che avevo: omettere.
Finché sarei stata in grado avrei fatto finta di nulla. Era un’arma a doppio taglio quella.
Non avrei parlato del mio privato e allo stesso modo non avrei potuto chiedere nulla. Forse avrei potuto provare a capire qualcosa dalle sue telefonate, se ne avesse fatto in mia presenza o dai suoi modi.
Mi chiesi che cosa esattamente volesse dire con le parole che aveva pronunciato all’inizio del nostro pranzo. Non voglio più perderti.
Nella mia mente malata avevano un significato profondo che andavano oltre l’amicizia. Però poteva anche essere di no. E sicuramente era la seconda ipotesi; ero io che volevo andare oltre.
Ritornai al tavolo sfoggiando il mio sorriso migliore.
«Credo che dovremmo andare, o faremo tardi a lavoro».
«Sì, hai ragione».
Mi accorsi che Edward aveva già provveduto a pagare il conto e ora si apprestava ad aiutarmi a mettere il cappotto. Nel farlo mi sfiorò la nuca con le dita e ancora una volta dovetti sforzarmi per mantenere a bada i miei pensieri.
Era tutto così giusto e così sbagliato.
Legittimo in un certo senso, lui era il mio Edward. E illegittimo perché non ero più sua, ma di Riley e lui poteva avere una donna di cui io non ero a conoscenza.
Anche il ritorno fino alla Planet Industries fu silenzioso come non mai. Edward era impegnato alla guida e al cellulare e io pregavo Dio che non mi ponesse la fatidica domanda.
Quando parcheggiò nei garage sotto l’edificio si sganciò la cintura di sicurezza e si piegò verso di me.
Mi resi conto di spalancare appena gli occhi dalla sorpresa e da quell’improvvisa intimità.
Si chinò appena più vicino cercando il mio sguardo. Con la luce grigiastra e tenue dell’ambiente intorno a noi, l’azzurro dei suoi occhi era stato inghiottiti dal grigio.
«Sono stato bene», iniziò mettendomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
Senza volerlo stravo stritolando i manici della mia borsa causandomi un dolore pungente alle unghie. Lui aveva inclinato la testa un po’ di lato ed era dolcissimo. No, proprio quello non ci voleva.
«Anche io sono stata bene», ammisi senza ascoltarmi.
«Il tempo è passato in fretta, ne avrei voluto di più»,
Un sospiro mi morì in gola. «Già, è volato…».
Allungò una mano verso di me e mi prese il mento tra le dita e con un gesto spontaneo strinsi la sua mano con la mia.
«Spero che avremo altre occasioni», disse così piano che con la confusione del mio corpo in allarme, stentai a capirlo.
«Lo spero anche io».
Non appena finii di terminare la frase mi diede un piccolo e prolungato bacio sul lato destro della bocca. Bastava che facessi un lieve movimento del capo per cambiare la direzione del suo bacio, ma riuscii a evitarlo.
«Ci vediamo dopo, alla riunione che ha indetto Dimitri»,
Annuii e mi affrettai a scendere dall’auto perché i miei occhi si erano riempiti di lacrime e il mio cuore stava per esplodere.
Le nostre strade si divisero lì, per fortuna.
Feci un enorme sforzo per trattenermi dal piangere in ascensore e non appena arrivai al dodicesimo piano, mi richiusi in bagno e sfogai la mia… la mia nonsoché. Ero così abbattuta che sembrava che mi fosse capitata una tragedia in famiglia o che mi fosse stata diagnosticata una malattia incurabile. Avrei dovuto essere felice, ogni cosa era andata per il meglio e invece ero terribilmente triste. Triste e senza via di uscita.
Ero debole. Quello era il termine adatto a me. Debole da non potergli dire la verità, debole da non rifiutare il suo invito, debole perché non ero riuscita a dimenticarlo.
In sole poche ore dal suo ritorno ero ridotta in pessime condizioni e stavo buttando all’aria anni e anni di sacrifici.
Non poteva coinvolgermi fino a quel punto, era assurdo. Mi ero posta degli obiettivi nella vita e li avrei raggiunti. Non valeva la pena buttare tutto all’aria per una stupida cotta da adolescenti.
Quando rientrai nel mio ufficio dovevo avere un pessimo aspetto perché Jacob stava per entrare, ma gli era bastata un’occhiata fugace per sgranare gli occhi e allontanarsi a gambe levate.
Ne fui sollevata. Lui, Emily e Leah mi avevano visto uscire con Edward all’ora di pranzo e sicuramente avevano una marea di domande maliziose da pormi e ci mancava solo quello perché ricominciassi a piangere come una bambina.
Mi sedetti sulla sedia girevole e senza tergiversare ripresi il mio lavoro dando prima una breve occhiata alla fotografia dei miei genitori e quella di Riley poco distanti da me.
Lavorai bene e i calcoli che feci mi vennero tutti, non ci fu nemmeno bisogno di ripeterli una sola volta, nonostante la voce di Edward continuasse a vorticarmi in testa.
Da quel giorno in poi lo avrei evitato. Avrei mantenuto le distanze e avrei rifiutato i suoi appuntamenti, se mai me ne avesse dato egli altri. Avrei evitato ogni possibile equivoco sia per me che per lui… e avrei continuato la mia vita esattamente come prima.
Feci un sorriso di rammarico mentre alcune lacrime bagnavano il foglio a quadretti sulla scrivania.
Era stato bello rivivere le emozioni del passato, mi avevano fatto rinascere. Però era indecente il modo brusco con cui mi stessero scombussolando e io non me lo potevo permettere.
Eppure c’era una parte di me che pensava che quello con Edward fosse il mio percorso naturale e il matrimonio con Riley da mandare all’aria il prima possibile.
Com’era possibile provare delle emozioni così forti per un uomo che non era quello al mio fianco?
Afferrai l’interfono e chiamai l’interno 1, l’ufficio di Leah.
«Dimmi Swan».
«Mi potresti fare un favore?».
«Tipo mantenere il segreto su ciò che mi racconterai del tuo pranzo con un pezzo grosso?».
«No», sospirai. «Si tratta di altro».
«Ma me lo racconterai lo stesso, vero?».
«Non c’è niente da raccontare, Leah».
«Oh, come sei acida! E va bene, dimmi che cosa ti serve».
«Sai a che ora hanno indetto la riunione per oggi? Quella di Dimitri?».
«Fortunatamente in orario di lavoro, alle quattro».
«Io ora vado via, sto poco bene. Se qualcuno si accorge della mia assenza mi copri tu?».
«Certo, per così poco. Però mi racconterai del tuo pran…».
Senza lasciarle terminare la domanda che già avevo intuito, parlai velocemente. «Grazie!», e riattaccai.
Alle tre e quarantacinque lasciai la Planet Industries e tornai a casa sconsolata, anzi disperata. Mandai un sms a Riley dicendo che ero andata via in anticipo e che mi trovava a casa se aveva voglia di stare un po’ insieme a me.
Rimasi sotto la doccia finché la pelle delle dita non si raggrinzò e il bagno si riempì di vapore.
La decisione che avevo preso sembrava persino peggiore di quel giorno soleggiato in cui gli avevo detto addio la prima volta. Si dice che le seconde volte siano più facili, qui affermo con convinzione che è una grande fesseria, almeno per le cose negative.
Indossai il pigiama, nonostante fosse appena il tramonto e poi accesi il portatile. Dovevo trovare una torta nuziale per il mio matrimonio che mi piacesse e facesse rimanere tutti a bocca aperta, compresa la mia amica Alice che non si stupiva tanto facilmente.
Per più di un’ora scorsi le migliaia di immagini su Google e ne salvai a malapena due. Erano tutte banali o troppo vistose o ridicole.
Mandai anche un paio di mail con la richiesta di preventivo ad alcuni fotografi di New York, sperando di non dover fare un mutuo per pagare la loro parcella.
Richiusi il computer solo quando bussarono alla porta. Doveva essere Riley con una bella vaschetta di gelato alla stracciatella e un film in dvd nella tasca dei jeans, e infatti… quando aprii la porta mi ritrovai davanti a lui.
«Ciao tesoro», mi salutò dandomi un bacio sulle labbra. «Effettivamente hai una brutta cera, hai fatto bene a tornare prima dal lavoro», costatò poggiando la vaschetta di gelato sulla credenza della cucina. «Hai preso l’influenza?».
«Forse», dissi storcendo appena le labbra mentre appendevo il suo giaccone all’appendiabito. «Per fortuna, ho l’intero week end per riprendermi».
«Mi sei mancata, lo sai?», sorrise abbracciandomi. Ricambiai il suo abbraccio scompigliandogli i capelli e chiudendo gli occhi.
Mi chiesi che odore avesse il mio fidanzato. Ora che ci pensavo non ci avevo mai fatto caso; era buono sì, ma non mi ero mai fermata un attimo a distinguere i suoi profumi. Sicuramente non sentivo muschio… o biancheria pulita o pelle scaldata dal sole.
Piantala Bella.
«Che film hai portato stavolta?», chiesi sganciandomi dalle sue braccia e sedendomi in mezzo ai cuscini del divano.
«Never Back Dawn».
«Ancora combattimenti?», chiesi annoiata.
«Sì! Lo sai che li adoro!».
Avrei voluto replicare che anche lui sapeva benissimo che li odiavo, però me ne restai in silenzio nella mia piccola nicchia di divano.
Dopo aver inserito il dvd, prese il telecomando e mi raggiunse. Si sedette a fianco a me, ma ben presto poggiò la testa sulle mie gambe col viso rivolto al televisore. Era così tenero quando lo faceva, sembrava indifeso. Gli infilai le mani nei capelli e glieli accarezzai a lungo pensando che era una persona davvero importante per me. Aveva i suoi difetti come tutti, però l’avevo scelto.
Mi chiesi quale sarebbe stata la sua reazione se l’avessi lasciato.
Mi sussultò lo stomaco e mi morsi le labbra. Ne scrutai un attimo il profilo morbido, le lunghe ciglia, la bocca carnosa. Era completamente ignaro della mia battaglia interiore, del tutto fuori luogo per le mie circostanze. Il solo fatto che avessi pensato a lasciarlo, non era una cosa bella.
Sospirai frustrata e Riley cambiò posizione prendendomi fra le sue braccia.
Poggiai la testa sul suo petto e attesi che il sonno sopraggiungesse risparmiandomi tanti pensieri amari.
 
Il weekend passò molto lentamente, mi sembrava di impazzire. Il pranzo della domenica a casa dei genitori su Riley fu di una frustrazione unica. Suo padre non faceva che mettere bocca su qualsiasi cosa dicessi, per fortuna sua madre e lo stesso Riley erano dalla mia parte e mi toglievano dalle sue grinfie non appena potevano. Pur di andare via finsi di nuovo di stare poco bene.
Avevo sentito Alice per telefono, che mi aveva raccontato a grandi linee il succo della riunione a lavoro, dicendomi che Dimitri aveva ceduto l’azienda a una nuova società guidata da un team di giovani e mi aveva elencato anche i nomi: Edward compariva fra quei nomi, quindi a conti fatti era uno dei miei nuovi capi.
Io credo che il tuo capo farebbe di tutto, tranne che ucciderti.
Scossi la testa per allontanare quelle parole, presi il mio caffè da asporto sul bancone del bar e mi diressi verso l’ufficio.
Erano trascorse un paio di settimane ormai che contro ogni mia aspettativa, ero riuscita nell’intento di evitare Edward, sia a lavoro che fuori.
Tuttavia, ogni volta che facevo finta di non vederlo, o che non rispondevo ai suoi sms, o che troncavo qualsiasi discorso sul nascere, inventando banalissime scuse, creavo una nuova e profonda cicatrice sul mio cuore.
Non sapevo fino a quando avrei retto, dipendeva dalla grandezza e dalla forza di quell’organo vitale. Più ampio era, più ferite poteva subire ed io ero al sicuro.
Da quel giorno che avevo deciso di smetterla di fare la ragazzina, ogni cosa aveva perso il suo colore. Era diventato tutto grigio, insignificante.
Mi ero accorta di non avere un vero scopo, seppure ne vedessi tanti davanti a me.
Entrai nell’androne centrale della Planet Industries, affollato come sempre di prima mattina.
Kate era già al lavoro dietro la scrivania e dava dei moduli da compilare ad alcuni clienti. C’erano gruppetti di dipendenti che contemplavano le bacheche degli annunci. Una fila discreta in attesa dell’ascensore e gente che andava avanti e indietro.
Come succedeva sempre non ebbi il tempo di rendermi conto di niente e di nessuno, che il mio sguardo incontrò quello di Edward, quasi dal lato opposto al mio.
Era impossibile e invece succedeva sempre.
Come due calamite che si attraevano, come due fari nella notte che si vedevano a vicenda.
Non importava quanto fossimo distanti, quanta gente ci fosse in mezzo a noi… i nostri occhi si incontravano sempre. E quello non potevo evitarlo, accadeva senza il mio controllo.
Era frustrante e riduceva la mia tenacia. Un peso che prima o poi avrei dovuto togliermi dalle spalle, se non volevo rimanere schiacciata.
Abbassai lo sguardo sul pavimento non appena capii quanto mi facesse male vedere la luce triste nei suoi occhi e andai via, risalendo al mio piano usando le scale, questa volta.
Chissà quanto altro tempo gli sarebbe servito prima di venire a chiedermi spiegazioni. Sperai che non lo facesse mai. L’idea di fargli del male, mi faceva morire.
Anche quella giornata fu lenta ed estenuante. Riley era via per lavoro e sarebbe tornato l’indomani, quindi era escluso che mi distraessi con lui. Avevo provato con Alice, ma era troppo felice di uscire con Jasper perché le rovinassi la serata. Per cui optai per un giro in centro a fare un po’ di shopping e mangiare porcherie.
Non importava che fossi sola, per lo meno non avrei dato noia a nessuno con il mio musone.
Ai grandi magazzini comprai una sciarpa grigia, modello maschile e anche uno smalto dello stesso colore.
Diciamo pure che quando si dice che lo shopping migliora l’umore, è vero. Il mio era risalito all’1%, era già un inizio.
Uscii dai grandi magazzini quando una voce femminile attraverso le casse disposte agli angoli delle pareti, annunciò che era orario di chiusura.
Fuori l’aria era gelida e non mancai di mettermi al collo il mio nuovo acquisto.
La notte era arrivata da un pezzo, ma i marciapiedi continuavano a rimanere discretamente affollati. Le vetrine dei negozi e le insegne erano illuminate e molti taxi erano posteggiati lungo i marciapiedi in attesa di una nuova corsa.
Mentre proseguivo verso la metropolitana, non troppo distante da me, incrociai gli occhi di Edward. Edward.
Per un istante pensai di aver preso un abbaglio vedendo qualcuno che gli somigliava, però più si avvicinava e più i dubbi sparivano. Quello era lui. E mi stava guardando.
Sembrò che il mondo intorno a me rallentasse l’andatura. Sparirono il traffico, il gelo, i passanti.
Ci fermammo entrambi uno di fronte all’altro, senza dire una parola. Solo un passo ci separava ma la distanza fra di noi non era quella.
I suoi occhi mi scrutavano intensamente e non riuscire a decifrarli mi faceva venire l’ansia. Forse taceva perché ciò che doveva dirmi era orribile. E io invece, per quale motivo tacevo?
Era inutile… per quanto cercassi di evitarlo, lui era sempre lì, intorno a me, dentro di me.
I nostri destini si incrociavano troppo spesso, nonostante facessi di tutto per evitarlo.
Chinò appena il viso assottigliando le labbra.
Era mesto. Non trovavo altro termine per definirlo.
«Bella…».
Mi mordicchiai le labbra stringendomi nel cappotto. Avevo anche distolto lo sguardo dai suoi occhi, mi sentivo maledettamente in colpa e gli stavo facendo pagare errori che erano i miei.
«Sì?».
«Che ci fai da queste parti?», chiese riluttante. Ero certa che avesse deviato il suo discorso principale.
«Un giro e tu?».
«Sto tornando a casa».
«A piedi?», chiesi un po’ stupita.
«Avevo voglia di fare quattro passi», spostò la valigetta da una mano all’altra. «Visto come mi stai evitando da un bel po’ di tempo, non dovrei chiedertelo, ma lo faccio lo stesso, tanto ormai un altro no, non mi cambia la vita».
Mi venne un crampo allo stomaco ascoltando quelle parole pronunciate dal suo tono duro.
«Il mio appartamento è qui vicino, ti va di cenare con me? Almeno mi spieghi che cosa ho fatto di tanto grave».
Neppure valutai di dare un’altra risposta. Mi ero stancata di scappare da lui, quando in realtà volevo solo stargli vicino.
«Va bene, accetto».
Edward annuì, ma il suo viso rimase serio. Sollevò il mento indicando una via alle mie spalle. «Andiamo, arriveremo in qualche minuto».
 


Angolino Autrice

Buonasera a tutti :) Ecco un nuovo capitolo dove vediamo Bella molto confusa. Troviamo pure qualcosa della sua vita, di come si svolge e del suo rapporto con Riley. Alla fine ha accettato di non badare alle sue imposizioni e seguire Edward a casa sua, che cosa succedera?
Rigrazio Sara, Alessandra, Martina e Monica per il loro preziosi consigli <3
Al prossimo capitolo e grazie per le recensioni! :)

 
 

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Capitolo 7
*** Blu ***


Blu
Blu come il cielo di quella sera quando m’incontrasti per strada.
Blu come la profondità del mare in cui mi sembra di nuotare quando i tuoi occhi mi stanno a guardare.
E blu… perché sei tu.
 

 
 
 
 
Edward abitava in un attico all’ultimo piano di un edificio super moderno, composto solo da ferro e vetro.
L’ambiente era molto luminoso e aveva una vista favolosa, da qualsiasi parte mi girassi vedevo le luci e i grattacieli della città, insieme a un orizzonte blu stellato.
Certo, l’uomo che avevo accanto era molto più interessante di ciò che mi circondava, ma avevo paura di guardarlo. Come se nello stesso istante in cui l’avessi fatto, quella sorta di tranquillità in cui eravamo calati, si sarebbe interrotta bruscamente.
Mi mordicchiai le labbra mentre gli porgevo il mio cappotto e lui lo sistemava sull’appendiabito a fianco al suo.
Per tutto il percorso fino a casa era rimasto imperscrutabile e la mia angoscia saliva a dismisura.
«Mi scusi un attimo?», mi chiese mentre si sfilava la giacca. «Mi vado a mettere comodo, questi abiti non li sopporto più».
Annuii accennando un sorriso che non ricambiò. Del resto che cosa pretendevo? Per due settimane avevo fatto finta che non esisteva, ero fortunata che mi rivolgeva ancora la parola.
Edward sparì dietro a una porta nera a scomparsa e io curiosai un po’ in giro.
Avevo sempre desiderato vivere in un attico, ma erano troppo costosi per le mie tasche. Quello di Edward era a dir poco perfetto: disposto su due piani, con una scala a ridosso della parate che portava al piano superiore e le ringhiere vetrate. Per terra c’era del parquet nero e anche la pelle dei divani era dello stesso colore; le pareti invece erano bianche per dare ulteriore luminosità.
Si vedeva che si era trasferito da poco, alla casa mancava ancora un tocco personale, infatti era privo di fotografie, di piante, delle cose che fanno di una casa la propria casa insomma.
«Bella… amore, vieni».
Il cuore mi saltò nel petto all’improvviso. Mi portai una mano alla gola e mi voltai dalla parte in cui avevo sentito arrivare la voce di Edward.
Aveva richiamato me…
Deglutii a fatica e mossi un passo in avanti senza la mia volontà.
«Andiamo piccola…».
Quelle parole mi rimbombarono nella mente. Fino a poco prima mi aveva rivolto la parola a stento e ora mi richiamava dolcemente da una camera che poteva essere benissimo la sua camera da letto. E io seguendo i miei istinti più primordiali feci come mi chiedeva, come se non avessi possibilità di scelta.
Mossi un altro passo dandomi della stupida. Mi odiavo per quello che facevo. Il bello era che poi tornavo a casa e piangevo lacrime di coccodrillo.
Dio, dovevo darmi una regolata. Ero da rinchiudere per la marea di pensieri ed emozioni sconnesse che mi colpivano.
Il rumore dei miei tacchi sul parquet mi diede fastidio. Erano come i rintocchi di un orologio che scandivano il tempo che avrei impiegato a buttarmi nelle fiamme dell’inferno, così li levai, camminando a piedi nudi.
Edward apparve di nuovo alla mia vista quando nella mia mente avevo preso un’importante decisione, incurante delle conseguenze. Qualunque esse fossero state, se tragiche o vergognose, le avrei affrontate a testa alta perché non avrebbero retto il paragone neppure se messe a confronto di una sola emozione che Edward poteva darmi. Avrei fatto qualsiasi cosa mi avrebbe chiesto.
«Scusa l’attesa», mi disse.
Increspai le sopracciglia in un attimo di smarrimento. Edward richiuse la porta che aveva appena attraversato, ma non prima di fare uscire una piccola creatura nera come la pece: un gatto.
«Bella ti presento Bella, la mia gattina», disse prendendola fra le braccia.
La micia si strusciò sul suo collo e poi puntò i suoi occhi blu nei miei.
«Un gatto», sussurrai quasi senza voce. Quindi non aveva richiamato me poco prima, ma il suo gatto!
Mi diedi dell’imbecille cronica. Stupida e ancora stupida!
«Sì, ha sei anni», precisò guardandola con un sorriso.
So che la mia demenza non aveva fine, ma mi sentii gelosa di quell’animaletto adorabile. La teneva tra le braccia, le riservava degli sguardi amorevoli e lei lo coccolava a sua volta. Che fortuna sfacciata.
Quando fu di fronte a me accarezzai la testa morbida di Bella e sorrisi. Anche quello era un altro segno evidente della mia demenza, ma il fatto che l’avesse chiamata come me mi rendeva felice. Forse comprandola e dandole il mio nome, pensava di affievolire il senso di mancanza verso di me.
Bella per oggi hai pensato abbastanza idiozie, piantala.
«Perché l’hai chiamata come me?»
«Perché mi piace questo nome e poi le si addice».
Bella saltò via dalle braccia del suo padrone e si acciambellò su un grosso cuscino riverso sul pavimento e solo allora notai che cosa aveva indossato Edward: jeans scuri e una t-shirt bianca con lo scollo a V.
La mia mente fu risucchiata nel passato, durante un pomeriggio nel parco dietro casa, dove Edward faceva le sue solite gare con lo skateboard. Per assicurarsi che un gruppetto di ragazzi non mi desse più fastidio, si era voltato mentre sorpassava un ostacolo con un salto ed era caduto rovinosamente a terra, strappandosi i jeans scuri sulle ginocchia.
«Che cosa ti va per cena?».
Lo seguii stringendomi nelle spalle. «Cucini tu?».
«Sì, sono diventato un asso ai fornelli».
«Davvero?», chiesi fintamente sorpresa. «Sai fare altro, oltre a scaldare del latte?».
«Ah-Ah», scoccò la lingua sul palato nel frattempo che allungava una mano verso degli interruttori e accendeva le luci della cucina. «Mettimi alla prova».
Mi toccai il mento. «Lasagne».
«Sono un maestro, ma ci vuole del tempo e non so tu, ma io sto morendo di fame».
«Proponi tu allora».
«Una bistecca con dell’insalata. Leggera e veloce».
«Perfetto», acconsentii sedendomi sulla penisola che sorgeva al centro della cucina, guardandolo aprire il frigo e alcune credenze togliendo cibo e pentole.
Accese i fornelli, donandomi le schiena e osservai il modo in cui la maglia gli aderiva alle spalle, le scapole evidenziate. I jeans gli cadevano perfettamente sui fianchi.
Mi morsi le labbra fino a farmi male quando ricordai un suo particolare che mi piaceva da impazzire.
Edward aveva i fianchi segnati. Quando si spogliava – o quando lo spogliavo – mi soffermavo a guardare quelle due incanalature che scendevano verso il basso scolpendone il ventre. Mi piaceva toccarle e sentire la durezza delle ossa sotto le mie dita.
Mi schiarii la voce. «Mi dici dov’è il bagno?».
«In fondo a destra», rispose senza voltarsi.
Balzai giù dalla penisola e corsi in bagno a sciacquarmi il viso.
Mi sarei presa a schiaffi se non avessi rischiato che Edward sentisse il rumore.
Da lì a poco gli avrei detto di Riley e del matrimonio e molto probabilmente lo avrei perso per sempre e nonostante ciò continuavo a fare pensieri futili.
Il fatto era che provavo un’attrazione fisica non indifferente nei suoi confronti, quasi incontrollabile. Quando mi era vicino, dovevo trattenermi per non buttarmi fra le sue braccia e rivivere le emozioni del passato.
C’erano stati giorni che non pensavo ad altro e forse l’unico modo per togliermelo dalla testa era farlo… Probabilmente sarebbe successo come in certi film e dopo averlo stretto a me, sentito l’odore della sua pelle, quella mia forte infatuazione sarebbe svanita nel nulla. Peccato che lo avessi già abbracciato due volte, una nell’ascensore e una al ristorante e il desiderio di lui era aumentato a dismisura, come se mi servisse per andare avanti.
Mi tamponai il viso con un telo e poi guadai la mia immagine riflessa allo specchio e solo allora mi accorsi dell’irreparabile. Davanti a me c’era una piccola mensola con dei prodotti femminili, per lo più creme per il corpo e un profumo.
Vidi la mia espressione sformarsi dal fastidio, anzi dalla paura.
Mi voltai di scatto per cercare altre prove che mi avrebbero fatto sprofondare ulteriormente in un buco nero e ne trovai a bizzeffe, purtroppo. Un borsello con dei trucchi, una spazzola, dei bigodini.
Mi poggiai una mano sulla bocca con lo stomaco in subbuglio. Ero a dir poco inorridita.
Edward aveva una ragazza? No… non poteva essere.
Ero l’ultima persona a poter pensare una cosa del genere, ma ciò non mi fece rasserenare affatto.
All’improvviso sentii urlare. Una voce femminile.
Strabuzzai gli occhi e corsi a incollare l’orecchio contro la porta.
«Che cosa! E non me l’hai detto?».
«Senti…», provò a dire Edward subito interrotto.
«Dov’è lei?!».
Pensai che la soluzione migliore fosse barricarmi in bagno e aspettare che chiunque fosse quella ragazza andasse via risparmiandomi la vita, e invece, uscii a testa alta e con le spalle un po’ rigide dalla tensione.
Di solito ero una codarda e mai avrei affrontato la fidanzata di un ragazzo che avevo amato e che mi piaceva ancora, specie nel loro territorio. Ero un’intrusa.
Che situazione.
Però era stato lui a invitarmi, non ero io la responsabile visto che non sapevo nulla della sua vita privata. E dicendola tutta, volevo salvargli la pelle per quello che mi era possibile. Avrei detto a quella donna che eravamo solo amici o che avevo perso le chiavi di casa e Edward si era offerto gentilmente di sfamarmi prima che qualcuno venisse a recuperarmi.
Dio, ero patetica.
Non feci nemmeno in tempo a rendermi conto della situazione che venni assalita da una ragazza che mi strinse in un abbraccio a dir poco soffocatore.
«Bella!».
«Rosalie?», la strinsi a mia volta non trattenendo una risata di felicità. «Rose!», ripetei.
«Stavo per uccidere Edward!», mi gridò contro l’orecchio. «Non posso credere che non mi abbia detto di averti rincontrato».
Le sfregai la schiena e quando sciolse l’abbraccio incontrai i suoi occhi intensi di un castano scuro che non rivedevo da ben dodici anni. I capelli lunghissimi e biondi la incorniciavano perfettamente, le labbra rosse… sembrava un’attrice.
Quando ancora vivevamo nella stessa città era lei la mia migliore amica, ora il suo posto era occupato da Alice, ma i sentimenti e la stima per lei erano ancora molto forti.
«Wow sei cresciuta», mi fece l’occhiolino.
«Rose, ti ricordo che abbiamo la stessa età».
«Ah già! E dimmi come stai? Ti siamo mancati io e il mio fratellino?».
Sospirai appena. «Conosci la risposta».
«Ma io voglio sentirmelo dire!».
Alle sue spalle vidi Edward che scuoteva la testa divertito e continuava ad armeggiare con i fornelli.
«Sì, mi sei mancata», cantilenai.
Rosalie tornò ad abbracciarmi. «Sono felicissima! Ora potremmo tornare a uscire insieme e divertirci come matte!», sbatté le mani, poi corse verso il bagno e non capii come riuscisse a camminare con quei trampoli che portava ai piedi, figuriamoci a correre. Io mi sarei spezzata l’osso del collo.
«Ho dimenticato i trucchi, torno subito!».
Il mio cuore si alleggerì all’istante. Quindi i prodotti femminili sulla mensola appartenevano a Rose… non a un’ipotetica fidanzata di Edward.
Tornai a sedermi sulla penisola della cucina, pensando che da quando lo avevo rincontrato, non mi era passato nemmeno per l’anticamera del cervello di rivedere pure sua sorella gemella Rosalie. E forse era dipeso dal fatto che ero troppo presa da lui. A ogni modo ero felicissima.
«Scusa l’incursione», si giustificò Edward asciugandosi le mani a un canovaccio. «Non era prevista la visita di Rosalie, ma ultimamente è sempre fra i piedi visto che è in cerca di un appartamento nuovo. Avrei dovuto aspettarmelo…».
«Sono stata felice di vederla, nessun problema».
I tacchi di sua sorella echeggiarono nell’aria. «Rieccomi!», si avvicinò a noi sistemandosi la pochette con i trucchi nella sua ampia borsa. «Io ora devo scappare, ma Bella promettimi che ci rivedremo presto».
«Prometto», dissi alzando la mano in segno di giuramento.
Mi baciò una guancia e si avviò verso l’uscita. «Tuo fratello Emmett è in città?», mi chiese all’improvviso girandosi di scatto, come se avesse avuto un’illuminazione.
«Sì».
«Oh mio Dio!», esclamò. «Stavolta sarà mio, non riuscirà a sfuggirmi», concluse scomparendo.
Per poco non scoppiai a ridere, Rosalie era una ragazza bizzarra. Aveva una cotta per Emmett dall’età di quindici anni, solo che non era stata mai ricambiata per il semplice motivo che mio fratello era più grande di ben cinque anni e neppure la guardava. Quando si è adolescenti, cinque anni sembrano un abisso, invece adesso… probabilmente avrebbe fatto breccia su di lui con una sola occhiata.
Edward esalò un sospirò frustrato. «Quella è fuori di testa».
Ridacchiai. «Non offenderla, tu sei un po’ come lei. D’altronde siete gemelli».
«Purtroppo», scherzò.
Lanciò il canovaccio di fianco ai fornelli e poi mi puntò gli occhi addosso in un modo così intenso che mi sentii vacillare. D’istinto mi portai un mano al ciondolo a forma di foglia che portavo al collo.
«So di non avere il diritto di chiederti spiegazioni», iniziò all’improvviso avvicinandosi a me. Talmente era vicino che le sue gambe sfioravano le mie ginocchia. «Ma dimmi se ti ho fatto qualcosa, Bella».
Scossi la testa pietrificata sia per la sua vicinanza che dal discorso pericoloso in cui ci stavamo addentrando.
Avevo promesso a me stessa che gli avrei detto della mia relazione con Riley e del mio imminente matrimonio, però adesso che lo avevo davanti, con quegli occhi dolci, le labbra appena schiuse… la voglia mi era passata.
«Allora perché nelle ultime settimane mi hai evitato?».
«Perché sono una stupida», sussurrai.
«Dio… mi sembrava di impazzire», rivelò stropicciandosi le dita.
«Mi dispiace».
I suoi occhi continuavano a rimanere nei miei e seppur stessi per morire di infarto, i miei rimanevano nei suoi.
Avrei voluto baciarlo.
«Beh, dispiace anche a me», rispose.
«Il fatto è che ero…», mi bloccai quando mi poggiò una mano sulla coscia.
«Eri… confusa?», azzardò mentre Bella miagolava distesa sul suo cuscino.
«Sì, confusa».
«Idem. Però avrei preferito lo stesso che i nostri rapporti non si interrompessero».
Poggiò la mano destra sull’altra mia coscia e strinsi i denti sollevando il viso verso di lui.
«Perché confuso?», chiesi senza voce.
«Non pensavo di rivederti… è stato…», esitò e chinò il viso sul mio. La sua fronte sfiorò la mia bocca.
«Com’è stato?».
«…Devastante».
Gli accarezzai la fronte con le labbra e poi gliela baciai. Le sua mani scorsero sulle mie gambe fino a raggiungere i fianchi.
«Una cosa così brutta?», chiesi con le farfalle nello stomaco.
«Bellissima direi», replicò.
Portai le mani sul suo viso e lo accarezzai dandogli un altro bacio sulla fronte.
L’odore della sua pelle, il ruvido della barba appena accennata, il suo calore… mi fece pungere le lacrime dietro agli occhi.
Edward si infilò fra le mie gambe e le sue braccia si strinsero intorno a me quasi fino a farmi male. Infilai le dita nei suoi capelli mentre lui strofinava il naso sul mio collo.
«Rimani con me stanotte», mormorò piano.
Un brivido mi corse lungo la schiena e tutto ciò su cui era basata la mia vita crollò. Persino i miei principi morali già vacillanti.
Lo volevo con tutta me stessa. E prima la smettevo di convincermi che non ero ancora innamorata di lui, meglio era. Perché io lo amavo come il primo giorno in cui lo avevo visto, anzi lo amavo di più.
Ed era chiaro che Riley non avrebbe mai raggiunto il suo livello nel mio cuore e per questo dovevo parlargli subito, non potevo più mentirgli, non lo meritava.
Ovviamente dirgli che non lo amavo come credevo, non mi avrebbe dato la redenzione dal tradimento che stavo per fare ai suoi danni.
Ma nessuno è perfetto. Io meno degli altri.
Edward mi diede un bacio umido sul collo, forse per esortarmi ad accettare la sua richiesta, come se fosse necessario.
Stavo per acconsentire quando un rumore assordante scoppiò nell’aria e le valvole di acqua antincendio fecero cadere su di noi una fitta pioggerellina gelida.
«Merda…».
Quella fu l’unica parola che Edward pronunciò prima di voltarsi verso la cucina dove alcune piccole fiamme lambivano le bistecche che avremmo dovuto mangiare per cena.
Scoppiai a ridere come una forsennata. Che fosse un segno del destino? Probabile…
 
 
 
Angolino Autrice

Per questo capitolo devo ringraziare ancora una volta Sara, Martina, Alessandra e Michela per i loro prezioni consigli :)
E niente, spero che vi piaccia! Bella è molto confusa, ma a quanto pare sa bene quello che vuole.. un'altra contraddizione...
Se vi va aggiungetemi su face, lì do delle piccole anticipazioni sulle storie e chiacchieriamo un po' <3 a presto!

CARMEN BLACK


 
 
 
 

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Capitolo 8
*** Viola ***



Viola

Viola come una cattiva sensazione che non riesci a scacciare.
Viola come l’inquietudine che ti assale e non ti lascia riposare.
E Viola come le nuvole che preannunciano un temporale. Ora sai che non puoi più scappare.

 
 
 
 
Avevo sempre riservato parole pesanti ai traditori.
Per quello che mi riguardava è l’azione più ignobile che si può compiere ai danni della persona con cui si ha una relazione.
Se non si è più coinvolti dal nostro partner è meglio lasciarlo andare per la sua strada che infliggergli il doppio del dolore con il tradimento.
Tanto una scappatella non serve a niente, al contrario peggiora le cose in tutte le angolazioni in cui si vanno a guardare. Specie se la scappatella si fa con un ex fidanzato.
Perciò avevo preso la decisione giusta. Mi ero comportata da donna matura, con la testa ben piantata sulle spalle e i sani principi semi intatti: non avevo tradito Riley.
Ero riuscita a tornare a casa senza aver fatto il grosso sbaglio di finire a letto con Edward.
Eppure… continuavo a darmi della stupida, non ne potevo fare a meno.
Nel buio silenzioso del mio appartamento le mie contraddizioni lottavano di continuo e non mi davano pace.
Afferrai il ciondolo a forma di foglia che portavo al collo e me lo passai sulla labbra sentendone il metallo freddo.
Dopo che l’acqua gelida dell’antincendio ci aveva bagnato, era come se la magia in cui eravamo avvolti fosse stata lavata via. E non avevamo fatto niente per tornare alle condizioni di prima.
Edward stesso si era offerto di riportarmi a casa, facendo finta o – dimenticando – che solo pochi istanti prima mi aveva chiesto di trascorrere la notte con lui. Non gli avevo detto nemmeno della mia relazione con Riley, addio buoni propositi.
Si era scusato per la cena andata a male e mi aveva dato la buonanotte. Neppure un bacio sulla guancia.
Meglio così…
Certo, della serie: quando la volpe non arriva all’uva dice che è acerba. Tipico di me, me la sarei dovuta risparmiare.
Il cellulare squillò e sul display lampeggiò il nome di Riley. Erano le dieci e trenta della sera, aspettavo la sua telefonata.
“Pronto?”.
“Ciao tesoro, come stai?”.
“Bene. Tu? Stanco?”.
“Solo un po’, ma domani sarò di ritorno”.
“A che ora atterra l’aereo?”, chiesi mordicchiandomi le labbra.
“Alle undici del mattino”.
“Riley, dobbiamo parlare”, dissi tutt’un fiato con un tono di voce simile a quello che si usa durante un funerale.
“Oh Bella! Non sarai mica nei guai con la tua parte di lavoretti per il matrimonio, vero?”, mi prese in giro.
Mi salì un magone in gola. Dio mio… non si aspettava proprio quello che dovevo dirgli. “No”, risposi secca.
Per un attimo calò il silenzio, forse Riley stava assimilando le mie parole e il mio tono di voce e cercava di capire.
“È successo qualcosa di grave piccola?”.
“Non lo so”, risposi esasperata. “So solo che voglio parlarti”.
“Ma di che cosa si tratta?”, sbottò spazientito. “Mi stai facendo preoccupare”.
“Non c’è niente di cui ti debba preoccupare, davvero”, mentii spudoratamente per evitare che passasse la notte in bianco, per di più era anche lontano da casa. “Ti aspetto domani per cena?”.
“Vengo io da te per pranzo, tanto hai la solita pausa giusto?”.
“Sì”.
“Bene, allora ti aspetto domani nell’atrio centrale, così andiamo da qualche parte”.
“Perfetto”, concordai.
“Buonanotte”.
“Buonanotte”, dissi con voce spezzata prima di riattaccare.
Strisciai lungo la parete sedendomi sul pavimento e poggiando la testa contro le ginocchia. Non volevo piangere, ma l’impulso era troppo forte, le lacrime uscivano incontrollate dai miei occhi.
Riley era una persona molto importante per me e l’ultima cosa che avrei voluto era farlo soffrire. Lo giuro. Purtroppo però sembrava inevitabile o a soffrire per il resto della mia vita sarei stata io.
Quello che era un rapporto d’amore solido, in qualche settimana si era trasformato in una relazione instabile, basata su… basata sul niente. Non lo amavo. Gli volevo un bene dell’anima, ma non era sufficiente.
Feci anche il ragionamento inverso, come una prova con i calcoli matematici che ogni fine settimana facevo in ufficio.
Se Edward fosse comparso nella mia vita senza manifestare alcun interesse per me, avrei lasciato Riley?
La risposta continuava a essere sì.
Se Edward non fosse comparso nella mia vita, rimanendo lontano dalla vista e dal cuore?
A quel punto la mia risposta era no. Probabilmente se non lo avessi rivisto non mi sarei mai accorta di essere ancora innamorata di lui, proprio perché la sua assenza, mi impediva di rimuginarci troppo sopra; non serviva a niente se non a farmi intristire.
Ecco perché era giusto lasciare Riley. Mettendomi nei suoi panni avrei voluto essere lasciata anche io.  A chi è che piace essere la seconda scelta o solo un appiglio? A nessuno…
Andai a poggiarmi sul letto senza infilarmi sotto le coperte.
Sulla sedia nell’angolo c’erano alcuni vestiti di Rosalie che Edward mi aveva prestato per togliermi quelli zuppi di dosso.
Mi girai di fianco, osservando il cuscino dall’altro lato del letto. Immaginai che Edward fosse lì a guardarmi nel buio, con i suoi occhi chiari.
Lo stomaco mi si aggrovigliò.
E immaginai i suoi sussurri contro il mio orecchio, quando voleva convincermi a fare qualcosa di pazzo, come salire sul tetto a notte fonda.
E immaginai che sensazioni avrei provato ad averlo mio. Com’era stato tanti anni prima. Ad avere tutte le sue attenzioni per me e i suoi baci e i suoi abbracci.
Il mio piccolo amore.
Perché a ventotto anni ero ancora così patetica? Non ero mica in un cartone animato o in un libro. Cavolo quella era la vita vera!
Mugolai dalla disperazione e dopo un po’ finalmente mi addormentai.
 
Mi risvegliai all’alba del mattino dopo perché stavo morendo dal freddo. La sveglia segnava le sei e trenta ed era giovedì. Già il terzo giovedì in cui sicuramente avrei rimandato di nuovo l’appuntamento per la scelta dell’abito da sposta e stavolta sarebbe stata l’ultima.
M’infilai un maglione e andai in cucina a prepararmi qualcosa di caldo, un Tè per esempio.
Misi l’acqua nel bollitore e mi poggiai contro il lavello facendo un lungo sbadiglio.
Di fronte a me c’era un bigliettino sul frigorifero tenuto ben fermo da una calamita. “Non osare mai più perdere tempo con i cosmetici”.
Avevo scritto quella frase il giorno in cui avevo rincontrato Edward e avevo trascorso l’intera nottata in bagno a fare maschere di bellezza che avevano causato l’effetto contrario.
Quasi mi venne da ridere, ero così stupida. Come se una crema potesse cambiare il mio aspetto.
Quel breve momento di pensieri frivoli fu subito interrotto dalla preoccupazione di ciò che mi aspettava da lì a qualche ora. Riley sarebbe tornato dal viaggio di lavoro e mi avrebbe raggiunto alla Planet Industries per pranzare insieme e a quel punto gli avrei detto tutto. Lo avrei lasciato.
In qualche senso temevo la sua reazione, a dire il vero la temevo in ogni caso. Stavo interrompendo la nostra storia a due mesi e mezzo dal matrimonio, con i preparativi quasi ultimati e i nostri familiari coinvolti.
Era una situazione davvero difficile e chissà che cosa mi aspettava. Mi avrebbe urlato contro? Mi avrebbe trattato male? Si sarebbe rassegnato subito o avrebbe provato a ristabilire un contatto?
Immaginai che parole mi avrebbe indirizzato suo padre, non mi aveva mai sopportato. A ogni modo, meglio non pensarci, mi rovinavo soltanto lo stomaco.
Decisi che le poche ore che mi rimanevano da lì all’incontro le avrei trascorse nel modo più normale possibile. Almeno ci avrei provato.
Bevvi il mio Tè e feci una doccia calda per poi indossare la divisa lavorativa. Misi un po’ di trucco, lasciai i capelli sciolti e uscii di casa con largo anticipo.
Come se Jacob mi leggesse nella mente, mi mandò un sms.
 
“Ti aspetto all’angolo della 39esima da Stuffy, come al solito. Non tardare sono già qui tutto solo, qualcuno potrebbe rapirmi”.
 
Riposi il cellulare nella borsa accorgendomi di storcere le labbra. Chi diavolo avrebbe avuto il coraggio di rapire Jacob, anzi solo di pensarci. Ci sarebbe voluta un’intera squadra di marines per trascinarlo da qualche parte.
Il mio amico aveva il cervello super attivo già di prima mattina, gli invidiai quel particolare. A me per carburare mi servivano un paio di ore.
Presi la metro e raggiunsi Stuffy vedendone da lontano l’insegna bianca e blu. Quando entrai Jessica la cameriera, mi salutò con la mano, rimettendosi subito al lavoro.
Non ci fu bisogno di guardarmi intorno perché Jacob era sempre allo stesso tavolo, seduto sulla stessa sedia, col solito giornale tra le mani e il nodo della cravatta un po’ allentato.
«Ciao Jake», lo salutai dandogli un bacio sulla guancia e mi sedetti di fronte a lui.
«Ciao Bells», mi gettò un’occhiata furtiva e tornò al suo quotidiano. «Sei in largo anticipo stamattina, sono sorpreso».
«Capita anche a me di svegliarmi presto ogni tanto», risposi mentre Jessica poggiava di fronte a me la mia solita colazione.
«Non avrai mica qualche pensiero di troppo?», mi chiese con tono malizioso.
Sbattei le ciglia confusa. «No. E non farla troppo lunga».
«Quindi non c’entra il nostro capo, vero?».
«Shh!», gli intimai guardandomi intorno. «Vuoi che qualcuno ti senta?».
Jacob ripiegò il giornale lanciandolo sul tavolo vicino e strisciò con la sedia verso di me, finché i nostri gomiti non si toccarono. «Allora è vero ciò che si dice in ufficio!», sibilò mettendosi una mano davanti alla bocca, come se dovesse nascondere un segreto all’umanità.
«Perché, che cosa si dice in ufficio?», chiesi sentendomi mancare l’aria. Anche io lavoravo con loro al dodicesimo piano, eppure non mi ero accorta di nulla, manco fossi in un universo parallelo. Odiavo i pettegolezzi!
«Che te la fai col capo. E poi perché neghi Bells? Qualche tempo fa ti abbiamo visto uscire con lui in pausa pranzo».
«Non essere idiota!».
«Certo certo. Risposta classica. Comunque volevo solo dirti che hai la mia approvazione, il capo mi piace», si toccò il mento pensieroso rivolgendo lo sguardo al soffitto. «A dire proprio il vero approverei chiunque l’importante che non sia quello spilorcio di Riley».
Gli tirai una gomitata e Jacob ridacchiò per il mio sforzo. «Riley non è uno spilorcio».
«Ma certo che sì! E tu lo sai bene».
Sbuffai mettendomi i capelli dietro le orecchie e ignorai ogni battutina che il mio amico si ostinava a fare. Quando si metteva d’impegno era una vera seccatura, peccato che a volte non mi trattenevo e ridevo con lui.
Dopo qualche istante un’altra sedia al nostro tavolo fu occupata. Vidi lo sguardo di Jacob posarsi sul suo decolté e rimanere fisso lì, come se stesse contemplando il paradiso terrestre.
«Ciao Kate».
«Ciao Bella. E saluterei anche Jacob se non avesse la faccia da maniaco perverso in questo momento».
Lui scoccò la lingua sul palato con disappunto. «Io sarei un maniaco? E dimmi cara la mia bionda, perché te ne vai in giro con queste veline invece di indossare una maglia vera? A quel punto io non ti guarderei».
Kate lo liquidò con un gesto della mano e si chinò verso di me con gli occhi che le brillavano… erano molto simili a quelli che aveva Jacob poco prima. Mi sbattei una mano sulla fronte capendo al volo ciò che doveva dirmi.
«Non vado a letto col capo. Tra di noi non c’è nulla, è stato solo un pranzo fra colleghi», dissi come una poesia imparata a memoria.
«Ma figurati non ci crede nessuno! È vero che lo scorso weekend ti ha portato in gran segreto a Miami?».
La bocca mi si spalancò senza il mio volere. Lì ci avevano fatto un bel film sopra, era inaccettabile! Ecco qual’era la cosa più brutta di lavorare in un ufficio: i pettegolezzi.
«Assolutamente no. Come ogni weekend l’ho trascorso con Riley».
Jacob fece una smorfia schifata mentre Kate continuò a fremere. «Ed è vero che vi conoscete sin da ragazzini?».
«Sì, no!». Scostai la sedia all’indietro, non avevo più intenzione di ascoltare e rispondere alle loro domande perché rischiavo di aumentare i pettegolezzi e quello non poteva che andare a mio discapito.
«Bella! Hai la coda in mezzo alle gambe, sta attenta!», mi prese in giro Jacob mentre Kate sfoggiò un sorriso a trentadue denti e sollevò un pollice in su. «Ottima scelta».
M’incamminai verso la Planet Industries brontolando fra me e me e sperando che in ufficio quella stupida faccenda non sarebbe continuata.
In fin dei conti io e Edward eravamo usciti insieme una volta sola per pranzo e la scorsa volta per cena. In ufficio per due lunghe settimane avevo mantenuto le distanze e non c’erano stati comportamenti fuori luogo, quindi mi chiesi il perché di quei pettegolezzi. Non capivo. Oppure semplicemente doveva andare così, come succedeva nella soap-opera Beautiful.
Quando arrivai al dodicesimo piano mi sentii un tantino osservata, però forse si trattava soltanto di suggestione. Possibile che Mike Newton mi guardasse come se volesse fulminarmi? Certo, secondo gli ultimi gossip gli avevo portato via Edward, la sua ultima preda.
Leah mi aveva salutato con troppa enfasi e anche Emily aveva fatto un sorriso di troppo.
Bene, ero ufficialmente nei guai. Come avrei fatto a uscire da quella situazione? Come fargli capire che era tutta una grossa fesseria?
Non potevo ormai, anche perché di fesseria c’era ben poco. Certo, forse i miei colleghi avevano fantasticato un po’ troppo, io non me la facevo col capo, però stavo lasciando Riley per lui e molto presto ci avrebbero visto insieme più spesso, anche fuori dall’azienda.
Mi barricai nel mio ufficio richiudendo le veneziane nere, in modo che i miei colleghi capissero che non volevo essere disturbata. Se in caso fosse arrivato qualche cliente per me, Kate mi avrebbe avvisato e quindi avrei avuto tutto il tempo per rendere l’ufficio presentabile.
Passai qualche ora al telefono, poi dovetti sistemare delle cartelle per dei clienti che sarebbero passati a ritirarle l’indomani.
Nel frattempo riflettei sul fatto che era più sicuro se staccassi dal lavoro dieci minuti prima, in modo da anticipare Riley per strada. Dovevo evitare in tutti i modi che Edward ci vedesse insieme e arrivasse così alla conclusione che l’avessi preso in giro per tutto il tempo.
Tanto ormai eravamo agli sgoccioli e avrei interrotto la mia relazione, sarei stata libera di lasciarmi andare senza fare soffrire nessuno. Non potevo rovinare tutto proprio adesso.
Sospirai mordicchiandomi le labbra e mi chiesi se Edward mi stesse pensando.
Chissà se la sera precedente, dopo avermi riaccompagnato a casa, aveva immaginato la sua vita con me, come io l’avevo immaginata con lui…
«Posso?».
Sussultai quando sentii la voce di Edward e girai il capo verso la porta. Lui era lì, si vedeva solo la testa e mi sorrideva appena. «Ho bussato ma non hai risposto, così ho voluto controllare che fosse tutto apposto», mi spiegò.
Rivederlo dopo ciò che era successo – o meglio, ciò che non era successo – la sera precedente, mi scatenò una tempesta nello stomaco.
Il ricordo della sua vicinanza, del suo odore, del suo tocco e di quella confidenza che esisteva grazie ai nostri trascorsi, mi fecero avvampare all’istante.
«Oh, ero concentrata a sistemare queste cartelle in ordine alfabetico, non ho sentito bussare», mi giustificai accorgendomi solo in quel momento che ero in ginocchio sul pavimento con i capelli annodati sulla nuca con una matita. Oh mio Dio! Peggio di una zitella.
«Ti dispiace se entro?», mi chiese con voce dolce.
«No, vieni pure».
Edward entrò e richiuse la porta gettando un’occhiata alle veneziane chiuse. Quella mattina indossava un completo blu, ma aveva sempre qualcosa che lo rendeva imperfettamente perfetto. La volta scorsa quando parlava con Mike era la camicia stropicciata fuori dai pantaloni, adesso era l’assenza della giacca e la cravatta viola allentata, come usava fare Jacob.
Mi sollevai dal pavimento e il mio buon senso – wow l’avevo ancora? – mi impedì di sfilare la matita dai capelli per farmi più bella ai suoi occhi.
«Senti a proposito di ieri sera…», iniziò.
«Non fa niente per la cena andata a male», sorrisi avvicinandomi a lui. «Magari la prossima volta ci va meglio».
«A dire il vero non mi riferivo a questo», disse allungando una mano e togliendomi la matita dai capelli.
Non capii la sua espressione e ciò mi mandò in confusione più del dovuto. Poi la sua mano che indugiava fra i miei capelli, non mi aiutava di certo.
«E a che cosa ti riferivi?», chiesi piena di aspettativa.
«A ciò che ti ho chiesto».
Rimani con me stanotte. Ebbi un tuffo al cuore, uno dei tanti quando lui mi era vicino.
Trattenni uno strano fremito della labbra e sostenni il suo sguardo intenso finché non continuò. «Ci sto girando troppo intorno e non è da me. Voglio che tu sappia quello che desidero».
Il suo orologio nero iniziò ad emettere un suono, una specie di allarme. «Oh, devo andare è già ora di pranzo e inizia una riunione, però stasera voglio continuare questo discorso», disse velocemente. «Magari davanti a un bicchiere di quel buon vino che ho promesso di farti assaggiare».
Deglutii a vuoto con un po’ di confusione. Volevo gioire e saltargli al collo, ma il fatto che non mi fossi accorta che era già arrivata l’ora di pranzo, mi gettò nel panico.
«Cavolo, devo scappare anche io. Comunque per stasera… ci possiamo sentire più tardi?».
Presi le mie cose al volo mentre Edward annuiva e mi guardava con un sorrisino tranquillo e allo stesso tempo divertito. «Dove vai così di fretta?».
«A… fare shopping», mentii spudoratamente.
Era tardissimo! Se Kate avesse fatto salire Riley nel mio ufficio sarebbe stato una catastrofe.
Poi, come se i miei pensieri fossero un attira sfiga, qualcuno bussò.
Rimasi pietrificata col cappotto ripiegato sul braccio e la borsa fra le mani.
«Avanti», disse Edward guardandomi stranito notando che non rispondevo né mi accingevo ad aprire la porta.
Quando fu Riley ad affacciarsi, il mondo mi crollò addosso. Letteralmente.
«Oh, scusa tesoro. Kate mi ha detto che non avevi clienti».
«Infatti non sono un cliente», rispose tranquillo Edward prima di spalancare la porta. «Sono Edward Cullen, uno dei nuovi dirigenti», gli porse la mano che Riley afferrò.
«Piacere di conoscerti, io sono il fidanzato di Isabella».
Crack. Il mio cuore.
Il sorriso incerto che aleggiava sul volto di Edward scomparve in un batter d’occhio insieme a tutte le mie speranze. Era accaduto ciò che più temevo.
Mi rivolse un’occhiata gelida e imperscrutabile.
Crack, crack. Ancora il mio cuore.
«Adesso devo proprio andare», disse con un filo di voce. «Arrivederci», concluse senza degnarmi di un solo altro sguardo. Andò via a passo spedito con le mani lungo i fianchi e i pugni stretti.
Crack, crack, crack. Il mio cuore si era infranto.
 
 
 
 Angolino Autrice

Metto una mano sul petto in segno di pace, amen.
Come già qualcuno ha fatto leggendo in antemprima il capitolo, tentando di uccidermi.. (non faccio nomi ù.ù) spero che non abbiate le stesse loro reazioni hahaha
Inoltre spero che il capitolo non sia stato noioso, sono quasi 13 pagine e non è da me scrivere così tanto, ma questa storia mi viene così, solitamente scrivo 6\7 pagine al massimo.
Spero che vi piaccia  e ringrazio tutti voi lettori, specie quelli che mi fanno sapere che cosa pensano e mi lasciano due righe.
Alla prossima <3 <3 <3

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Capitolo 9
*** Nero ***



Nero

Nero come il buio che mi è intorno ogni volta che mi sei accanto.
Nero come la sconfitta personale,
un dolore banale se paragonato al lasciarti andare.

Nero come il destino sconosciuto, ma con la tua presenza, a priori mi sarebbe piaciuto.

 
 
 
 
 
 
Nero. Buio. Senza via d'uscita.
Ecco come mi sentivo e se proprio devo dirla tutta, me lo meritavo pure. Ero stata stupida per l'ennesima volta a credere di poterla farla franca, perché prima o poi tutti i nodi vengono al pettine, volente o nolente.
«Il tuo nuovo capo non è niente male», farfugliò Riley imboccando un bignè alla crema.
Annuii distrattamente mentre prendevo il tovagliolo che avevo poggiato sulle gambe e lo mettevo sul tavolo.
Ci trovavamo in un ristorante non molto lontano dalla Planet Industries, un posto tranquillo senza troppe pretese, frequentato anche da giovani studenti.
Per tutto il pranzo ero stata in un'altra dimensione e avevo risposto a ogni domanda di Riley solo con grugniti e mormorii.
Ero a pezzi e non riuscivo a levarmi dalla testa lo sguardo gelido e d'accusa che mi aveva rivolto Edward prima di andare via dal mio ufficio. E pensare che stava per dirmi qualcosa di molto importante riguardo alle sue intenzioni nei miei confronti… peccato che quel discorso sarebbe rimasto per sempre inconcluso.
«Sembra alla mano», continuò.
Storsi il naso e maltrattai il bignè nel mio piatto fino a farlo diventare una poltiglia disgustosa.
«Dimitri non passava mai per gli uffici... è normale che lui lo faccia?», chiese con tono incerto e anche un po’ sospettoso. Riley era un tipo geloso senza mezzi termini e nemmeno si risparmiava di nasconderlo né si vergognava di manifestarlo. Con gli anni però quel suo lato si era attenuato, aveva capito che con me non aveva niente da temere, ero una ragazza fedele e onesta. Correggo... ero stata.
«Certo che è normale, è appena subentrato a Dimitri e vuole conoscere i suoi dipendenti».
«Ah...», si mosse irrequieto sulla sedia, i suoi occhi scuri erano attenti nei miei. «C'erano le veneziane del tuo ufficio chiuse».
Strinsi la forchetta tra le dita, non era in vena per una scenata di gelosia. E sapevo pure che dopo il mio comportamento discutibile non mi potevo permettere di infastidirmi quando il mio quasi marito notava qualcosa di strano in ciò che mi circondava. È questo che fanno le persone innamorate, proteggono ciò che reputano loro.
«Quando non ho appuntamenti con dei clienti, lo faccio spesso. Il viavai nei corridoi mi distrae e in quel modo mi concentro meglio», mi giustificai.
«Il tuo capo non ci starà provando con te, vero?».
«Che ti salta in mente?».
«Me lo diresti, giusto?», chiese ancora con determinazione.
«Per favore Riley, non iniziare con le paranoie».
Si poggiò con la schiena contro la sedia e si guardò intorno con sufficienza e anche infastidito mentre i televisori posizionati in alto sulle pareti trasmettevano dei video musicali. «Mi sembra strano che fosse proprio nel tuo ufficio, l'azienda in cui lavori è grande, ci sono trenta piani, non è che sia un'impresa di dieci impiegati».
«E quindi? Che cosa c'è di male?».
«Questa è la mia impressione e te la volevo dire, tutto qua».
«Grazie», risposi stizzita.
«Comunque, ieri sera mi hai detto che volevi parlarmi. Di che cosa si tratta?», disse cambiando discorso in modo repentino.
Mi fermai un attimo con gli occhi sul suo viso familiare, sulla sua bocca tesa per il disappunto, la mascella serrata. Era Riley. Conoscevo ogni sua espressione e sapevo come prenderlo nella maggior parte dei casi, ma quella che stavo per imboccare era una strada sconosciuta che percorrevo per la prima volta.
Mi sentivo crudele e per un istante sin troppo lungo pensai alla possibilità di starmene in silenzio o inventare una fesseria.
Edward sicuramente non mi avrebbe più guardato in faccia, quindi qualsiasi cosa c’era di fondo, qualsiasi sentimento o desiderio, poteva andare a farsi benedire perché con lui avevo chiuso. Quindi perché lasciare Riley? Un porto sicuro. Ecco chi era Bella Swan, non mi meravigliai di me stessa per quei pensieri, fondamentalmente ero stata sempre un po’ codarda.
Però in quell’occasione non riuscivo a rifugiarmi nell’apparenza di una vita tranquilla accanto a quell’uomo che mi era di fronte. O con Edward o senza, io non amavo Riley. Non potevo tradirlo ancora, prendendolo in giro in quel modo meschino. No davvero, era troppo.
Le settimane a seguire sarebbero state un inferno, lo intuivo già sottopelle, come un mal di testa che inizia in fondo alla mente pian piano, con un sibilo quasi inudibile e poi invece fracassa le tempie. Ma dovevo farlo per me e per lui.
«Sì, ma dimmi… Il tuo viaggio di lavoro è andato bene?», improvvisai alla ricerca disperata delle parole giuste per iniziare il mio discorso.
«Sì, abbastanza. Visto la trasferta oggi sono a riposo», mi gettò un’occhiata indagatrice avvicinando poi la sedia alla mia. «Perché non prendi il resto del giorno libero?».
«Non posso», dissi evitando il suo sguardo sentendomi avvampare.
«Dai che sarà mai un giorno?», insistette. «Avrai qualcosa come tre mesi di ferie arretrate».
«Riley, non è questo il punto».
«Vabbé come vuoi. Ora smetti di tergiversare e sentiamo cos’hai da dirmi».
Mi strofinai il viso e a quel punto Riley tamburellò con le dita sulla tovaglia bianca in modo impaziente. Anche se di poco, la sua espressione era mutata, riuscivo a capirlo dalla piccola ruga in mezzo agli occhi. Il dubbio si era insinuato in lui.
«Io non so come dirtelo», asserii a mezza voce con un misto di emozioni che mi colpivano tra cui imbarazzo e paura.
«Non sai come dirmi che cosa?», chiese alzando un sopracciglio. Indossava una t-shirt verde che gli avevo regalato lo scorso natale e dei jeans usurati e sfilacciati sulle ginocchia. Sembrava più piccolo dell’età che aveva, non dimostrava i suoi ventinove anni.
«Io…».
«Aspetti un bambino?», chiese preoccupato.
«No! Che cosa dici?».
Fece spallucce. «Niente, ho pensato che potesse essere questo. Comunque non ci sarebbe niente di male».
«Non è questo», per poco non affogai. Dire la verità si stava rivelando più difficile di quello che credevo. Averlo davanti agli occhi, così vicino… ero sicura che avrei sofferto più io che lui. Ero pure presuntuosa.
Riley imbronciò le labbra e rimase in attesa fissandomi negli occhi.
«Ho bisogno di una pausa», sbottai tutt’un tratto.
Gli occhi di Riley si socchiusero e rimase in silenzio per tanto tempo. Non lo seppi quantificare, ma forse addirittura cinque minuti mentre intorno a noi le chiacchiere dei clienti e l’andirivieni dei camerieri continuava.
Mi fissava con le braccia incrociate sul petto e sinceramente non avevo la più pallida idea di che cosa aspettarmi.
«Una pausa?», chiese. «Una pausa di riflessione?».
Annuii stropicciandomi le mani. «Sono confusa e ho bisogno di capire».
«Fra due mesi e mezzo c’è il nostro matrimonio Bella», mi ricordò a denti stretti. «E che cos’è che dovresti capire?».
Incrociai le gambe sotto al tavolo, sentendomi una persona orribile.
«Devo capire se il matrimonio… se stare insieme a te, è ciò che voglio realmente».
«Addirittura? Come diavolo ci siamo arrivati a questo punto senza che me ne rendessi conto, eh?».
Scossi la testa e tornai a guardarlo. Riley era sconvolto, la mascella serrata, la schiena rigida.
«C’è qualcosa che non mi hai detto Bella?».
«No!».
«C’è un altro?».
«No!».
«Io non mi spiego tutto ciò!», disse allargando le braccia. «Com’è possibile che i tuoi sentimenti cambino da un giorno all’altro, fino a farti confondere le idee, tanto da volere una pausa?».
«Non lo so Riley è successo e basta», dissi con voce tremante.
«Io non credo nella pausa di riflessione. È solo una cretinata per addolcire il boccone amaro. Dico bene?».
E adesso? Sì, aveva ragione. Volevo lasciarlo, ma senza farlo soffrire troppo e quello di chiedere una pausa di riflessione mi era sembrata la cosa più giusta da fare rispetto al lasciarlo così su due piedi, da un giorno all’altro. Da quando era arrivato Edward le cose fra me e Riley avevano continuato a scorrere normalmente, apparentemente per lui non c’era nulla che non andava.
«No, dici male», lo contraddissi. «Siamo in una fase cruciale della nostra vita. Stiamo per compiere un passo importante e non mi puoi biasimare se sono entrata in confusione. Per me una piccola pausa è necessaria… spero che tu capisca».
«Quanto dovrà durare questa pausa?», chiese un po’ più calmo.
«Non ne ho idea e…»
«E no. Devi avercela l’idea, io non sono un burattino e non ho intenzione di aspettarti davanti all’altare, a fare la figura del babbeo». Si alzò facendo strisciare la sedia sul pavimento. «Stai attenta Bella. Non esagerare a prenderti i tuoi tempi, perché io non ci metto niente ad annullare i preparativi. E sai che sono uno che non torna indietro».
Si allontanò verso l’uscita a grandi passi, lasciandomi da sola con le mie paure e i miei sensi di colpa.
Sì, lo so che sei uno che non torna indietro.
La mia codardia era così tanta, che per un istante feci affidamento alle sue parole, per non avere l’ingrato compito di dover essere io a lasciarlo per sempre. Sperai che non tornasse più indietro.
E così la mia pausa pranzo durò meno del previsto. Da sola e sconsolata me ne ritornai alla Planet Industries camminando come uno zombie in mezzo alla folla.
Ero arrivata a due conclusioni molto importanti: la prima era che quello che credevo l’amore della mia vita, altro non era che un ragazzo a cui volevo bene e niente più. La seconda invece era che la grande storia d’amore che avevo in testa sin dall’adolescenza, sarebbe rimasta soltanto fantasia.
Quindi due conclusioni da schifo. Dovevo parlare con Alice il prima possibile o sarei impazzita sul serio.
Sentivo il cuore che mi batteva nelle orecchie, era deprimente quel suono accelerato e più mi avvicinavo al grande palazzone di vetro, più diventava insostenibile.
Mi chiedevo se dovevo almeno cercare di fare delle scuse a Edward, se dovevo tentare un approccio per dargli una spiegazione. Oppure dovevo rintanarmi nel mio ufficio e barricare il mondo fuori. Che cosa dovevo fare?
Avrei preferito il silenzio, piuttosto che qualche sua brutta parola o insinuazione.
Certo, conoscevo Edward da quando era un ragazzino, ma adesso era un uomo e non avevo la più pallida idea di come si fossero evoluti alcuni lati del suo carattere. A volte mi era sembrato di avere davanti il dolce quindicenne che avevo lasciato sulle scale del portico anni addietro, altre volte invece era totalmente diverso, un'altra persona.
Forse stavolta però… stavolta valeva la pena rischiare: soffrire per ciò che mi avrebbe detto piuttosto che non sapere. Lavoravamo anche nello stesso posto, il mio tormento sarebbe stato infinito.
Quando entrai nell’edificio e poi nell’ascensore, non mi fermai al dodicesimo piano, ma salii più su fino al ventinovesimo, quello da cui Edward mi aveva telefonato quando mi aveva dato il nostro primo appuntamento.
Avevo lo stomaco in subbuglio e mi sentivo terribilmente a disagio. Con che faccia tosta mi presentavo pure da lui?
Il ding dell’ascensore mi destò dalle mie riflessioni imbarazzanti. Misi un piede fuori, il suono dei miei tacchi attutiti da un tappeto nero che correva in mezzo a due piante verdeggianti dalle foglie larghe. Non c’era confusione, forse era dovuto anche all’orario, però si vedeva che quella era la zona dei capi. C’erano quadri dappertutto, poltrone di pelle in bellavista, odore di pulito.
«La segretaria non ci ha annunciato appuntamenti», esordì stranita, una ragazza dai lunghi capelli rossi spuntata dall’interno di un ufficio; l’avevo già vista con Edward qualche volta.
«Scusi, sono Bella Swan, del marketing. È una visita informale».
«Ah, dimmi pure allora Bella Swan».
«Cercavo Edward».
«Edward?».
«Edward Cullen», mi affrettai ad aggiungere il cognome.
«E perché lo cerchi?», mi chiese sospettosa.
In cinque anni in cui lavoravo alla Planet Industries ero salita ai piani alti solo per le riunioni. Non avevo mai ricevuto nessun richiamo o appuntamento specifico, quindi non sapevo come funzionavano certe cose, ma non credevo che fosse proibito che una dipendente cercasse il capo o uno dei capi.
«Devo… parlargli».
La ragazza rossa sembrò insospettirsi sempre di più e il suo sguardo intenso cominciava a mettermi in soggezione.
«Non c’è, è in pausa pranzo. Però puoi parlare con me… se si tratta di lavoro», rimarcò le ultime parole e a quel punto pensai che anche ai piani alti fossero arrivati i pettegolezzi che circolavano su noi due.
«A dire il vero... No, credo che proverò più tardi», dissi sull’attenti. «Grazie per la disponibilità».
«Devo dirgli qualcosa quando rientra?».
Scossi la testa facendo un sorriso tirato e poi richiamai l’ascensore. «No, grazie ancora».
Forse il fatto che Edward non ci fosse era un segno del destino che aveva voluto essere clemente con me, mi aveva voluto proteggere perché sapeva che non avrei mai sopportato le sue accuse pesanti. Oh, perché me ne avrebbe fatte, eccome! La stessa identica cosa che avrei fatto io nei suoi panni.
Visto che l’ascensore non arrivava e sicuramente stava facendo tappa a ogni piano, mi avviai verso le scale. Mancava ancora un po’ all’inizio del turno e tornare in ufficio significava una valanga di domande da parte dei miei colleghi. Avevo già deciso che gliene avrei parlato, non era la prima volta che mi confidavo con loro, ma non era quello il momento, mi sentivo uno schifo. Immaginai i salti di gioia di Jacob quando avrebbe saputo di me e Riley e l’esaltazione di Leah nel volerne sapere la motivazione, convincendosi così che ci fosse del marcio sotto. Quel marcio chiamato Edward.
Quindi per evitare tutto ciò invece di scendere per le scale, salii ancora fino alla terrazza. Mi ritrovai davanti a una porta di ferro in un piccolo corridoio ombroso. Girai la maniglia e uscii sul grande spiazzo piastrellato che faceva da base per l’atterraggio degli elicotteri dei pezzi grossi della nostra azienda.
L’aria era gelida e il cielo era così vicino che sembrava che potessi toccarlo con un dito. Lì si respirava decisamente meglio rispetto alle strade sottostanti piene di smog.
Lasciai la porta di ferro socchiusa e mi diressi verso uno dei cornicioni recintati da ringhiere di plexiglass trasparente. C’era una vista meravigliosa lassù, si riusciva a vedere tutta New York: il traffico che imperversava ogni dove, gli alberi di Central Park, lo skyline. Di fronte a me c’era un grattacielo grigio con delle ampie vetrate e in qualsiasi di quelle finestre guardassi c’era una scenetta diversa, proprio come si vedeva in certi film: una madre che allattava il proprio bimbo, un ragazzo che faceva delle flessioni, un anziano immobile davanti alla tv.
«Me l’avresti mai detto?».
Mi salì il cuore in gola non appena sentii la sua voce. Edward era lì. Mi girai verso di lui stringendomi nel cappotto, più per difesa che per il freddo e lo guardai, riflettendo che non avevo pensato a come avrei affrontato ogni giorno sapendo che mi era così vicino quanto lontano. Sapendo che non mi avrebbe rivolto più la parola e mi avrebbe condannato per le azioni sbagliate che avevo commesso.
Avevo fatto un grosso sbaglio, dovevo dirgli tutto sin dall’inizio e forse le cose sarebbero andate in modo diverso. Ma non si piange sul latte versato, almeno, non si dovrebbe.
Edward teneva le mani nelle tasche dei pantaloni, i capelli scompigliati dal vento e l’espressione indecifrabile. I suoi occhi avevano lo stesso colore del cielo di quel giorno: grigio ferro.
«Io…».
«Avanti, dimmi un’altra stupidaggine».
Corrucciai le sopracciglia mentre lui rimaneva fermo lontano da me. Il freddo e il vento e la delusione a dividerci.
«Mi dispiace», dissi con tono più fermo possibile.
«Certo, che altro puoi dire…».
Scossi le spalle. «Niente, non posso e non voglio aggiungere altro».
«Da te non me lo sarei mai aspettato, Bella. Mi hai preso in giro sin dal primo momento in cui ci siamo incontrati».
«Non è vero», replicai. «Non ti ho preso in giro, ti ho solo tenuto nascosto il fatto che stavo per sposarmi».
A Edward sembrò cadere la mascella per terra ed capii solo in quel momento di avergli detto finalmente tutta la verità. Io stavo per sposarmi, Dio santo. Adesso la situazione aveva assunto le sue proporzioni gigantesche, cosa che non riuscivo a vedere all’inizio.
«Stai per sposarti?», chiese con un filo di voce portandosi una mano sugli occhi incredulo.
Riley gli aveva detto che eravamo fidanzati, niente più. E se prima era arrabbiato, adesso doveva essere furioso.
«Non ci posso credere».
«Questa è tutta la verità», dissi prendendo a camminare per tornare all’interno. Tanto non c’era molto da dire, era evidente. L’avevo fatta grossa.
«Me l’hai tenuto nascosto di proposito. Sei stata… falsa».
Stavo per sorpassarlo, ma mi bloccai di colpo. L’istinto era quello di piangere fino a morire invece gli tirai uno schiaffo.
Falsa? No… nessuna delle mie azioni o delle parole che gli avevo rivolto era frutto di un comportamento studiato e men che meno falso. Non potevo biasimarlo per la sua affermazione, ma faceva male, era un qualcosa che mi distruggeva dal profondo perché io lo amavo. E l’amore è limpido non oscuro come le bugie.
«Niente di ciò che ho fatto era calcolato e mi dispiace che tu la veda così. Invece di accusarmi dovresti chiedermi il motivo per cui non ti ho detto della mia relazione sin dall’inizio».
Mi guardò truce ma nei suoi occhi c’era un velo di amarezza.
«Perché non mi hai detto nulla?», chiese dubito.
«Non credo che tu sia pronto a sentire la risposta».
Feci un passo indietro, con la mano che avevo usato per tirargli lo schiaffo che pulsava a più non posso.
Me lo lasciai alle spalle sentendo il mio respiro sempre più affannoso.
Forse, più che lui, ero io a non essere pronta a dire certe cose o ascoltarle uscire dalla mia bocca. E quando l’istinto non spinge a compiere certe azioni è meglio rimanere in attesa di tempi più propizi, invece che rovinare tutto, ancora di più di quanto non lo sia già.
 
 
 
Angolino Autrice

Avrà fatto bene Bella a non lasciare definitivamente Riley e dargli la pausa? E che cosa succederà tra lei e Edward a questo punto?
Vedremo come si evolverà questa storia nei capitoli successivi e spero tanto che questo vi sia piaciuto.
Grazie ai lettori che mi lasciano belle parole per questa storia, mi fate felice <3
A presto.
-Carmen

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Capitolo 10
*** Marrone ***



Marrone

Marrone, come la terra bruciata che è diventato il mio povero cuore.
Marrone, a volte non sembra nemmeno un colore.
Marrone, è vuoto e paura, è come un errore.

 
 
 
 

Il mio turno era appena finito e a passo svelto stavo raggiungendo la metropolitana che mi avrebbe portato a casa di Alice.
La mia cara amica si era offerta ancora una volta di darmi il suo supporto e i suoi consigli, sperando che ci fosse qualcosa che ancora potessi fare per uscire dal casino in cui mi ero cacciata con le mie stesse mani.
A cose fatte, adesso, la situazione in cui mi trovavo sembrava incredibile e senza soluzione, o per lo meno le soluzioni che mi venivano in mente portavano a un allontanamento definitivo sia da Riley sia da Edward.
Per quelle lunghe settimane avevo pensato così tanto da distorcere la realtà vera dai fatti, facendomi una ragione che non avevo. Ero stata vittima di me stessa, delle mie paure e mi ero comportata malissimo, egoista come non mai, avevo pensato solo a me stessa.
E come al solito piangevo lacrime di coccodrillo.
Bussai alla porta della mia amica e quando ad aprire fu Jacob mi ritrovai a sollevare un sopracciglio.
«Che cosa ci fai tu qui?».
Lui allargò le braccia con fare teatrale sollevando gli occhi al cielo. «Per stasera mi sono trasformato in un uomo oggetto».
Alice spuntò alle sue spalle spingendolo via. «Non dargli retta è il solito idiota, gli ho chiesto solo un favore», continuò gettandogli un’occhiataccia torva a cui Jacob rispose con un ampio sorriso.
«Che tipo di favore?», chiesi curiosa sfilandomi la giacca e raggiungendo Jacob sul divano, ancora impostato nella solita divisa da lavoro uguale alla mia.
«Oh, niente», minimizzò Alice stringendosi nelle spalle. «Mi serve per fare ingelosire Jasper, niente di che».
Mi sbattei una mano sulla fronte mentre Jacob ridacchiava divertito e fiero del suo nuovo compito e la mia amica era arrossita incrociando le braccia sul petto.
E pensare che credevo di essere solo io quella incasinata.
«Comunque, lasciamo perdere me. Piuttosto dimmi che cosa ti succede, prima al telefono sembravi in lacrime, Bella».
Mi grattai una tempia cercando di raccontare i fatti seguendo un filo logico o i miei amici sarebbero impazziti.
«Vuoi che vada via?», chiese Jacob all’improvviso. «Ti vedo esitante».
«No, no», mi affrettai a dire toccando il ciondolo a forma di foglia penzolante sul mio petto. «Anzi è meglio se ascolti pure tu, un parere maschile mi sarebbe d’aiuto».
Iniziai a raccontare i miei misfatti, sin dall’inizio senza escludere nessun particolare, inserii anche i miei deliri interiori, le mie emozioni e i miei errori.
I miei amici ascoltarono in silenzio, rapiti, con le loro espressioni che mutavano di sconcerto o sorpresa a ogni mia aggiunta. Quando finii abbracciai un cuscino e chinai la testa aspettando che dicessero qualcosa, anche la più piccola, visto che era da almeno un quarto d’ora che se ne stavano in silenzio.
«Che cosa hai fatto?!», sbottarono all’unisono e mentre Jacob si piegò dalle risate, Alice si appoggiò una mano davanti alla bocca.
«Lo so, sono stata una stronza… per non dire altro».
«Macché, lasciare Riley è stata la decisione migliore della tua vita», si affrettò a dire Jacob. «E il fatto che c’era qualcosa tra te e il capo si sapeva già».
«Ecco perché non mi stavi più chiedendo di accompagnarti per la scelta dell’abito nuziale!», realizzò Alice.
«Però perché lo schiaffo, Bells?», chiese Jacob storcendo le labbra. «Io te lo avrei restituito sinceramente».
«Ma Jacob!», ribatté contrariata Alice.
«Scusami tanto nanerottola eh, ma alla fine Bella non è stata un esempio di trasparenza e lui l’ha offesa… se lo meritava tutto».
Lo guardai in cagnesco e lui alzò le mani verso l’alto. Beh, ora che ci pensavo bene, sotto a un certo punto di vista ero stata proprio come mi aveva definita: falsa. Non nei sentimenti o in ciò che avevo fatto quando eravamo insieme, ma nel fare finta che non avessi un ragazzo e un impegno grande verso di lui.
Sospirai stropicciandomi gli occhi. «Ora non so che fare».
«Guarda, puoi fare ciò che ti pare, basta che non ritorni con Riley braccio corto».
«Ma la smetti con questa storia? Riley non è tirchio! E comunque… io… non credo di amarlo più».
Alice mi venne vicino prendendomi le mani fra le sue. «Bella non essere affrettata nelle decisioni, ti ricordo che fino a poco tempo fa tu non avevi nessun dubbio su Riley. L’arrivo di Edward ti ha scombussolato e forse credi di provare dei sentimenti che in realtà non ci sono. Rifletti bene per favore».
Annuii mordicchiandomi le labbra e con la testa un po’ più leggera e vidi Jacob alzare la mano.
«Che c’è?», sbottai.
«Ho un’altra domanda per te».
«Spara».
Ridusse gli occhi a una piccola fessura. «Io sono un uomo, ovviamente non arriverei mai a capire con quali criteri voi donne prendete certe decisioni… ma mi dici perché diavolo non hai detto al capo che hai mollato faccia da pesce?».
«Ma Riley non ha la faccia da pesce!».
Sventolò una mano in aria. «E rispondi su».
Lo fissai per qualche istante, non trovando una risposta. Quella era la domanda del secolo, eppure era molto semplice. Perché non gli avevo detto che avevo dato una pausa a Riley a causa sua, a causa di quei sentimenti travolgenti che provavo?
Ecco la pecca di chi pensa troppo… inibisce persino l’istinto. Già, perché la prima cosa che avrebbe fatto una persona normale per attutire il rancore e per rimediare in parte agli errori fatti, era dire quella benedetta frase: ho preso una pausa. Io avevo persino peggiorato le cose tirandogli uno schiaffo che non meritava e solo perché avevo la coda di paglia e la guardia alta, come se fossi stata io quella a subire un grosso torto.
Non mi capirò mai…
Mi alzai dal divano pensando che è utile sentire le opinioni degli altri e molto di più vedere le loro reazioni. Sicuramente mentre gli raccontavo la storia si stavano chiedendo chi avessero davanti, se fosse Bella l’amica che conoscevano da sempre, oppure un clone impossessato.
«Ora vado», dissi afferrando il mio cappotto. «Jacob vieni con me?».
«Ma non hai capito niente? Dobbiamo compiere una missione io e Alice».
Guardai la mia amica con rimprovero. Guarda un po’, predicavo bene e razzolavo male, come sempre del resto.
«Anche tu dovresti riflettere meglio sulle tue azioni, sai?».
«Le ho provate tutte con Jasper e niente sembra funzionare. Ora provo con la gelosia», disse impettita.
«Le mie care amiche con problemi di cuore, come mi dispiace», ridacchiò Jacob raggiungendoci e poggiandoci le mani sulle spalle per conforto. «Quando lo capirete che sono io l’uomo perfetto».
«L’uomo perfetto che è single…», borbottò Alice.
«Tranquilla! Me ne sto lavorando un paio, non ho fretta io».
Scossi la testa riuscendo persino a sorridere. Ero felice che fossero diventati miei amici, mi ritenevo fortunata.
«Ci vediamo domani, ragazzi e non combinate guai».
«A domani», ricambiarono.
Una volta in strada mi strinsi nel cappotto dirigendomi verso il mio appartamento solitario.
Presi una grossa boccata d’aria, pensando che peggio di così non potesse andare e che tutto era destinato a risolversi nel bene o nel male. Sperai soltanto di non sbagliarmi.
 
Come ogni mattina, dopo aver fatto colazione con Jacob da Stuffy, raggiunsi la Planet Industries ed entrai.
Kate, la bionda segretaria mi salutò con un occhiolino e ricambiai con un sorriso avanzando nell’androne centrale.
Mi sforzai di non fare l’espressione da persona che ha appena assistito a un funerale, senza sapere se ci stessi riuscendo realmente e proseguii fino all’ascensore.
Non ebbi il coraggio di guardarmi intorno, perché non avevo la più pallida idea di che reazione avessi avuto se Edward fosse apparso nel suo solito angolino in tutta la sua bellezza.
Quella bellezza che io notavo anche nelle più piccole cose e che ora contribuiva solo a farmi stare sempre peggio.
Forse dovevo aspettare che passasse del tempo per far sì che mi perdonasse, che assimilasse ciò che avevo fatto… ma il non sapere a che conclusione sarebbe arrivato mi faceva stringere lo stomaco in una morsa.
Se avesse deciso di ignorarmi, di non riallacciare il rapporto che avevamo prima, che cosa avrei dovuto fare io?
Dio mio, che situazione.
Potevo fare qualcosa io, certo, e se poi degeneravo come il giorno prima sul tetto? Avrei solo aggravato la situazione e niente più.
Le porte specchiate dell’ascensore si aprirono al dodicesimo piano e come di consueto mi ritrovai davanti a tutti gli uffici con le porte aperte e i miei colleghi che andavano avanti e indietro a sistemare le prime cose.
Girai il viso verso sinistra e vidi Leah che mi veniva incontro con un sorriso.
«Buongiorno Bella!».
«Buongiorno a te, Leah».
«Pochi minuti fa un fattorino ti ha portato quelli», disse indicando la porta aperta del mio ufficio dove si intravedeva uno spicchio di scrivania con sopra un mazzo di fiori.
All’istante il cuore mi diventò leggero. «Rose rosse…», mormorai fra me e me.
«E già».
Imponendomi di stare calma e non saltare dalla gioia, andai nel mio ufficio, lanciando borsa e cappotto sul solito divanetto destinato ai clienti.
Tra quelle splendide rose rosse, c’era un biglietto bianco che afferrai con mani tremanti.
Quando lo scartai tutta l’euforia del momento scomparve all’istante: i fiori erano da parte di Riley.
Allo stesso tempo mi sentii meschina per aver avuto quella delusione, ma non potei farci niente.
 
Credo che i tuoi dubbi siano causa di alcuni dei miei atteggiamenti e se ultimamente sono stato un po’ distante mi dispiace.
Ti amo.
 
Non meritavo anche quello, no. Riley si stava prendendo la colpa di qualcosa che non dipendeva assolutamente da lui. E la mia paura più grande era che da quella convinzione potesse scaturire la speranza. La speranza di un nostro ritorno insieme.
Mi tirai un pugno mentalmente non appena fatti quei pensieri. Ero stata io stessa a dargli la falsa speranza chiedendo una pausa invece che interrompere la nostra relazione e adesso che cosa pretendevo? Ecco la prova che anche quella mia decisione di non essere spregevole si era rivelata l’esatto opposto. Ero un mostro e aggiunsi l’aggettivo orribile quando decisi di non mandare neppure uno stupido sms di ringraziamento a Riley per i fiori.
Sono un orribile mostro, ecco cosa sono.
La mattinata trascorse lentamente e Mike avvisò che presto ci sarebbe stata un’ispezione degli uffici, ma sinceramente non capii né che tipo di ispezione avessero in mente di fare né chi sarebbe stato a farla; forse era una prassi normale per una nuova società che subentra in un’azienda.
All’ora di pranzo, io Leah e Jacob scendemmo alla mensa della Planet Industries che si trovava al primo piano interrato. Non era male come posto, si mangiava anche discretamente bene, l’unico cruccio era l’affollamento e il vociare continuo che a fine pranzo ti rendevano un tantino confusa.
Facemmo la fila e prendemmo il nostro vassoio sedendoci al primo tavolo disponibile.
La mia minestra era marrone, non presagiva niente di buono. Era quel colore che avevo bandito dalla mia casa perché secondo me era una tonalità sbagliata, un qualcosa che non dovrebbe esistere. Immaginavo che qualsiasi cosa perdesse il suo colore, diventasse marrone, forse anche il mio cuore lo era.
Jacob con la sua parlantina e le sue continue battute m’impediva di perdermi troppo nelle mie tristezze, ma c’erano cose a cui nemmeno lui poteva rimediare.
«Quello non è il capo?», chiese Leah voltando appena il mento alla sua destra.
Deglutii il boccone a fatica e spaziai con gli occhi finché non lo vidi. Era a qualche tavolo dal nostro, insieme alla ragazza rossa con cui avevo parlato quando mi ero recata al ventinovesimo piano e un altro ragazzo dalla carnagione scura e il musone.
Era impegnato in una conversazione e ogni tanto le sue labbra si incurvavano all’insù. Sembrava di umore migliore rispetto al mio…
«Bella, sto ancora aspettando che mi racconti che succeda tra te e lui».
«Scusa?», chiesi stralunata a Leah.
«Ecco appunto».
A labbra strette mi voltai di nuovo per guardare Edward e lo vidi alzarsi e dirigersi verso il distributore delle bevande, posto alla parete a fianco alle porte di entrata.
Sentii un tonfo alla stomaco e poi scostai la sedia all’indietro. «Scusatemi, arrivo subito».
I miei amici dissero qualcosa che sinceramente non capii, ma la cosa non mi disturbò.
Non potevo continuare a fare finta di niente, ad aspettare che le cose cambiassero, ad aspettare lui. L’errore era stato mio ed ero io a dover rimediare.
Lì, in mezzo a tutta quella gente, i pettegolezzi sarebbero aumentati a dismisura, chissà quante me ne avrebbero detto dietro, specie chi era già a conoscenza della mia storia con Riley, però anche questa volta la cosa non mi disturbò, la preoccupazione svanì non appena comparve.
Schiacciò qualche pulsante del distributore e io mi fermai in attesa che finisse poi gli toccai un braccio. «Edward».
Lui sobbalzò versandomi il caffè sulla giacca. «Me… ma Bella, mi hai fatto prendere un colpo».
Mi guardai il completo rovinato e il caffè che gocciolava sul pavimento. «Guarda che disastro», disse afferrando alcuni fazzoletti stando bene attento a non guardarmi negli occhi.
Gli strappai i fazzoletti dalle mani. «Non mi importa niente del completo, voglio parlare con te».
«Senti Bella», disse allentandosi il nodo della cravatta. Teneva le labbra strette e le braccia tese lungo i fianchi.
«Per favore», insistei cercando il suo sguardo.
Lui volse gli occhi al cielo e poi scoccò la lingua sul palato. «E va bene, dammi due minuti».
Andò verso il suo tavolo, probabilmente per avvisare i suoi colleghi e io colsi l’occasione per fare la stessa cosa con i miei.
«Se non mi racconterai tutto, giuro che non ti parlerò più», ringhiò Leah tra i denti prima che andassi via.
Edward aprì le porte della mensa e mi lasciò passare per prima, poi mi seguì.
«Hai un ricambio?».
«No», dissi spaesata, stavo pensando ad altro.
«C’è qualche divisa negli uffici del ventottesimo piano, se vuoi puoi prenderne una».
«Non me ne importa un bel niente della divisa, Edward. Voglio solo un posto per parlare con te».
«Di che cosa dovremmo parlare? Credevo che ci fossimo detto tutto».
Rigirava il coltello nella piaga, come faceva da ragazzino. Bene, almeno su quello non era cambiato molto.
«Invece no. Sono tante le cose che devo dirti».
«Come preferisci», asserì con freddezza. «Andiamo nel mio ufficio».
Il ventinovesimo piano era semideserto a parte un ragazzo della linea telefonica che sistemava i modem delle connessioni a internet.
L’ufficio di Edward era l’ultimo di una fila di stanze arredate elegantemente. La mobilia era in legno scuro e imponente, molto differente dalla nostra che era più semplice e sicuramente poco costosa.
C’era una bellissima lampada di vetro soffiato nell’angolo, diverse piante ornamentali e fermacarte d’argento.
Quando Edward richiuse la porta alle nostre spalle, mi sentii compressa. Sì, compressa all’interno di una bolla che stava per scoppiare.
Mi conoscevo bene e sapevo che il mio carattere non mi permetteva di lasciarmi andare a particolari dimostrazioni d’affetto o a qualsiasi altra cosa che richiedeva l’uso di molte parole. Non ero brava a chiedere scusa o a giustificarmi.
Ma che cavolo, qualcosa sapevo farla senza avere problemi?
«Allora, dimmi pure», esordì Edward, poggiandosi al bordo anteriore della sua scrivania e incrociando le braccia sul petto.
«Si tratta di ieri».
«Si tratta delle tue bugie», precisò astioso guardandomi di traverso.
«Si tratta di quello che ho omesso da quando ti ho rincontrato».
«Ah davvero?», chiese sporgendo le labbra. «Pensavo che non fossi pronto a sentire certe cose».
«Edward, lasciami spiegare».
«Per favore Bella, risparmiamela».
«Edward, per favore!», esclamai stringendo i pugni. «Mi dispiace per tutto, per non averti detto subito la mia situazione, per averti dato quello schiaffo…».
«Tu credi che le tue scuse cancellino il tuo errore?».
Scossi la testa. E chissà perché più Edward si allontanava da me – sia a parole sia a fatti – più io lo volevo disperatamente.
«Voglio solo sapere perché l’hai fatto. Perché giuro che non ti capisco Bella, ci ho provato ma non ci sono riuscito e questa cosa mi fa girare le scatole più del dovuto. Hai uno strano modo di ragionare».
Lo guardai negli occhi seri velati appena da insofferenza e fu difficile trovare le parole giuste da dire visto che il mio cuore batteva come un tamburo.
«Ti avevo appena ritrovato…».
Le sopracciglia di Edward si abbassarono. «E?», incalzò.
Già lui si era scoperto molto rispetto a me, mi aveva fatto capire che c’era dell’interesse nei miei confronti, mi aveva chiesto di rimanere da lui la sera in cui avevo cenato a casa sua.
Quando aveva scoperto di Riley doveva essersi sentito uno schifo.
«E non volevo che mi tenessi alla larga».
«E che cosa volevi Bella?».
Volevo lui e tutto ciò che avevo lasciato a quindici anni, ogni cosa che per colpa della lontananza non avevo potuto vivere.
Volevo i suoi sorrisi la mattina appena sveglia e la sua mano che stringeva la mia mentre camminavamo per strada. E volevo i suoi baci, le sue attenzioni… lui. Solo lui.
«Comunque non ha senso», disse stringendosi nelle spalle, senza lasciarmi finire il discorso. «Tu sei impegnata seriamente e io non sono un vigliacco che frequenta la donna di un altro».
«Ascoltami».
«No, ascoltami tu adesso. L’amicizia fra me e te non finirà mai, Bella, non potrebbe. Ma per quanto riguarda altro… ciò che ho desiderato… e ciò che ho visto in te – probabilmente sbagliato – ci metteremo una pietra sopra».
«Lasciami parlare!», incalzai in preda al nervosismo.
Lui, forse pensando che volessi giustificarmi in qualche altro modo, non mi lasciò spazio, scuotendo la testa.
«No?», sorrisi amaramente voltandogli le spalle. «Peccato, davvero», dissi aprendo la porta. «Ho chiesto una pausa a Riley perché il tuo arrivo mi ha così scombussolato che non sono più sicura di amarlo… ma tu ormai mi hai etichettato».
Quando richiusi la porta aspettai qualche istante, convinta che mi avrebbe richiamata, che mi avrebbe preso per un polso e trascinata di nuovo nel suo ufficio e invece nulla di tutto ciò accadde.
Era proprio vero… vivevo ancora nel mondo delle favole.


Angolino Autrice

Ciao a tutti e bentrovati :)
Che cosa succederà adesso? E se Edward le andasse dietro proprio come lei vorrebbe?...
Beh non resta che aspettare il prossimo capitolo, sperando che questo vi sia piaciuto.
Un ringraziamento speciali ai recensori che spendono qualche minuto del loro tempo per darmi il loro parere.
Un bacio a tutti e alla prossima <3

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Capitolo 11
*** Azzurro ***



Azzurro

Azzurro che somiglia a uno spiraglio.
Azzurro come una mente spensierata leggera ed appagata.
Azzurro come un principe… patetico lo so e l’ho sempre saputo.
Eppure lui ugualmente è arrivato.

 
 
 
 

Come temevo Edward non mi aveva fermato una volta uscita dal suo ufficio.
Era rimasto lì dentro con la porta sbarrata, mentre io mi allontanavo a passo veloce sotto gli sguardi scettici dei suoi colleghi.
Quando entrai nell’ascensore non potei fare a meno di guardare la mia faccia pallida e distorta ai vetri specchiati delle porte. Il cuore batteva a più non posso e le mani mi tremavano dal nervosismo.
E ora che cosa avrei dovuto fare? Mi sentivo stordita e non riuscivo ad elaborare l’accaduto, sembrava una grossa tragedia vista con il mio stupido pessimismo. Mentre qualunque altra persona sulla faccia della terra avrebbe detto che si trattava solo di un litigio, probabilmente.
Non volevo avere ragione, lo sbaglio lo avevo fatto ed era pure bello grosso… volevo solo un’altra possibilità, volevo che mi perdonasse e che aprisse un piccolo foro nella sua corazza.
Dall’altra parte non capivo il motivo per cui aveva accettato di discutere se poi in pratica non mi aveva lasciato spiegare i fatti come si deve. Imbecille.
Subito dopo quella brutta considerazione verso Edward scossi la testa e decisi che in quelle condizioni era inutile provare a mettersi a lavoro, avrei rischiato di combinare più danni di quelli che facevo di solito, così mi affrettai a chiamare Kate in segreteria. Dopo aver guardato i registri delle mie presenze mi disse che talmente erano tante le ferie che avevo accumulato che nessuno avrebbe osato commentare la mia richiesta, perciò presi un’intera settimana libera e andai via subito.
Per una volta volevo pensare solo a me stessa e al mio benessere senza essere in costante apprensione verso il mio lavoro e gli orari da rispettare, altre commissioni private da fare e… incontrare Edward in azienda. Già, perché solo quel pensiero era fonte di costante stress.
Una volta all’aria aperta sollevai il viso verso il cielo grigio. dirigendomi verso Central Park camminando lungo il marciapiede che pullulava di gente. Con le mani in tasca per proteggerle dal freddo evitai anche di cercare il cellulare nella borsa per rispondere prontamente se qualcuno mi avesse cercato.
M’inoltrai su un sentiero fra gli alberi alti con l’intento di raggiungere una panchina e stare lì a rimuginare sulla mia vita, aspettando un’illuminazione divina. Oltrepassai prati verdeggianti sulla quale alcuni cani giocavano spensierati e poi mi sedetti di fronte a un laghetto dove nuotavano alcune paperelle.
Resettai il mio cervello per fare in modo di decidere al meglio quali azioni compiere da quel momento in poi. Era chiaro che agire spontaneamente mi faceva combinare grossi guai, ma pensandoci bene anche riflettere creava lo stesso risultato. Forse l’unica soluzione era cambiare cervello, peccato che non era possibile.
La prima cosa che dovevo fare era lasciare definitivamente Riley, basta temporeggiare, non aveva più senso. Sapevo ciò che volevo e rimanere sospesa in quella condizione mi faceva venire l’ansia. Conoscendolo ormai come le mie tasche mi sarei presa un sacco di insulti. Era trascorso pochissimo tempo dal pranzo in cui gli avevo chiesto una pausa di riflessione e ora mi presentavo di nuovo da lui dicendogli che volevo lasciarlo; anche un bambino avrebbe capito che si era trattato di una presa in giro e sarebbe stato inutile spiegargli che l’avevo fatto solo per lui, per dargli il modo di assimilare la notizia poco a poco, risparmiandogli la sorpresa di farlo all’improvviso visto anche il nostro imminente matrimonio. In poche parole comunque girassi quella faccenda non preannunciava nulla di buono.
Mentre per quanto riguardava Edward era tutto un grosso punto interrogativo. Avrei potuto insistere nonostante non fosse proprio nella mia indole, provando ancora a cercare un punto di incontro… ma se l’avesse rifiutato di nuovo, sarei sprofondata veramente nella tristezza, specie perché sapevo che non avrei avuto più il coraggio di guardarlo in faccia.
Tornai a casa quando le prime ombre della notte iniziarono a oscurare il cielo già grigio. Diciamo pure che gli obiettivi appena prefissati mi davano più stimolo per non rintanarmi sotto le coperte e dormire finché non sarebbe arrivato di nuovo il giorno di ritornare a lavoro.
Quando entrai nell’edificio salutai Aro che stava amabilmente annaffiando delle piantine di minuscoli fiorellini bianchi, fischiettando fra sé e sé e raggiunsi il mio appartamento.
Riempii la vasca d’acqua bollente e bagnoschiuma dall’odore fruttato e mi immersi dentro sospirando di beatitudine.
Mentre sonnecchiavo accarezzando l’acqua con le mani decisi di telefonare a Riley per chiedergli se l’indomani potevamo incontrarci da qualche parte o a casa sua, per parlare un po’. Era arrivato il momento. Avevo i crampi allo stomaco… ma non mi lasciai sopraffare dalla mia debolezza l’ennesima volta, quindi presi il cellulare dal vicino sgabello dove l’avevo poggiato e chiamai. Non ci fu nessuno squillo, ma direttamente la voce meccanica della segreteria che mi invitava a lasciare un messaggio; non me lo lasciai ripetere due volte e dopo il bip chiusi gli occhi e parlai.
 
Riley sono io, Bella. Domattina volevo parlare con te, se non hai impegni. Riguarda noi… la nostra storia. Fammi sapere se sei disponibile… Ciao.
 
Ciao… quando mai gli avevo rivolto un saluto così freddo e distaccato?
M’immersi un po’ di più nell’acqua soffiando sulla schiuma e creando un piccolo tunnel tra le bolle. E chi se lo immaginava che mi sarei ritrovata davanti a una tale situazione? A dirla proprio tutta avevo sempre creduto che sarei rimasta da sola, senza un uomo al mio fianco… quanti ragazzi mi avevano scaricato a causa del mio carattere chiuso e apparentemente freddo? Uh, avevo perso il conto.
Vagando nelle mie patetiche autocommiserazioni il telefonino iniziò a squillare. Mi drizzai all’improvviso smuovendo con forza l’acqua che traboccò bagnando il pavimento.
“Sì?”.
“Bella!”.
“Rosalie?”
“In persona!”.
“Ciao! Come stai?”, chiesi felice di sentirla.
“Bene, a parte il fatto di dover convivere con quello scorbutico di mio fratello”.
Mi accorsi che le mie labbra avevano formato improvvisamente una O di sbalordimento. Edward scorbutico? Ma quando mai! È proprio vero quando si dice che chi ha il pane non hai denti, anche se nel suo caso non era il detto giusto visto che era sua sorella.
“Una vera sfortuna…”.
“Non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico, credimi”.
Sbattei le ciglia con perplessità.  Stava esagerando di sicuro, non poteva essere così brutto vivere con lui.
“Comunque Bella, perché non mi dici un po’ di Emmett?”.
“Che cosa vuoi sapere?”.
“Tipo, dove abita?”, ridacchiò.
“Ah, avevo dimenticato che sei una che va subito al sodo”.
“Ma dopo dodici anni, vorrei ben vedere! Voglio che rimanga a bocca aperta!”.
“Ha un appartamento al 24 di Charles Street”.
“Hmm, troppo lontano… ma potrei farlo venire da me!”, esclamò subito al settimo cielo. “Edward stasera esce con degli amici e ho casa libera”.
“E dove va di bello?”, mi affrettai a chiedere con la lingua fuori controllo.
“All’Hurricane, un locale a Brooklyn, una birreria mi pare”.
Osservai le bolle di sapone che mi circondavano e presi una decisione all’istante, certa che quello era un segno del destino.
“Rose, ti devo lasciare ora, ho una cosa urgente da fare!”.
“Oh, okay. A presto. Domani ti farò sapere com’è andata la mia serata”.
“Va bene, ciao!”.
Uscii dalla vasca rischiando di scivolare gambe all’aria e avvolgendomi in un accappatoio raggiunsi il salotto, camminando avanti e indietro come se stessi trovando la soluzione all’enigma più difficile della mia vita. E questa arrivò da sola, si accese fra i miei pensieri alla stessa velocità di una lampadina.
Quello era il momento di fare qualcosa, di agire. Basta aspettare gli eventi, per una volta volevo essere padrona della mia vita.
 
Avevo indossato un jeans a vita bassa e un maglioncino verde di lana sottile con la scollatura un po’ pronunciata. Con della schiuma avevo lavorato i miei capelli facendo quell’effetto un po’ disordinato e mi ero truccata.
Jacob era appena arrivato a bordo della sua Mini Cooper nera, accettando di buon grado il mio invito di uscire all’ultimo minuto, per fortuna. Aprii il portone dell’edificio e mi affrettai a raggiungerlo infilandomi nell’abitacolo.
«Ciao Jake».
«Ciao Bella», mi gettò un’occhiata stranita. «Sembra che tu debba andare a caccia di uomini stasera».
«Infatti devo farlo», risposi di getto lasciandolo perplesso. «Insomma…».
«Tu mi hai fatto uscire per andare a caccia di uomini? Ma Bella!».
«Jacob per favore, avevo bisogno di qualcuno che uscisse con me e Alice era impegnata con Jasper».
«E quale sarebbe il mio ruolo?».
Sollevai un sopracciglio. «Il tuo solito ruolo, quello dell’amico. Non stiamo andando mica in missione!».
Jacob scrollò le spalle e cambiò marcia. «E va bene».
«Beviamo una birra e… nel frattempo mi guardo intorno controllando se c’è Edward».
«Ancora il capo? Sì mi piace questa cosa», meditò fra sé e sé. «Se vuoi farlo ingelosire, hai un asso nella manica», ridacchiò. «Cioè io», disse puntandosi un dito sul petto. «Con Alice ha funzionato e quella specie di ragazzo pallido sempre col broncio, le ha fatto una scenata e poi l’ha invitata a cena».
«Non credo che la gelosia nel mio caso sia la soluzione migliore».
«Comunque devo dire una cosa, maledizione, la devo dire oppure crepo».
Mi girai verso di lui osservandolo bene. Vederlo con degli abiti comuni era strano e piacevole. La maggior parte del nostro tempo la trascorrevamo strizzati in quelle scomode divise a cui i nostri occhi avevano ormai fatto l’abitudine. E Jacob in abiti casual stava proprio bene e sembrava un ragazzino. Jeans e camicia scura con le maniche ripiegate fin sotto il gomito, gel nei capelli e profumo. Avrebbe rimorchiato parecchio quella sera.
«Parla pure, se crepi mentre sei alla guida crepo anche io e sono troppo giovane per morire», risposi.
«Non è possibile che le mie amiche debbano frequentare dei ragazzi così brutti e insulsi. Per fortuna tu hai ripreso la retta via col capo, ma Alice…».
«Dai, Jasper è un bel ragazzo e anche Riley».
Jacob strizzò le labbra sollevando le sopracciglia. «Tu e le tue considerazioni non fate testo, hai dei gusti orribili. Taci, è meglio».
Scoccai la lingua sul palato con disappunto e mi misi i capelli dietro l’orecchio. Che bella opinione che aveva di me il mio amico, davvero notevole devo dire. Stavo per rispondere male ma il mio telefono squillò e sul display apparve il nome di Rosalie, mi aveva appena inviato un sms.
 
Se non mi dai il numero di tuo fratello come diavolo faccio a invitarlo a casa!
 
Ridacchiai inviandole subito il numero del cellulare e scacciando la paura che volesse avvertirmi che Edward aveva cambiato idea e non uscendo, lei non avrebbe potuto organizzare la sua cenetta con Emmett.
«Ho invitato anche Embry, ci aspetta al locale, spero che non sia un problema».
«No, figurati».
Quando dal finestrino dell’auto vidi l’insegna gialla e nera dell’Hurricane mi venne il panico. Iniziai a grattarmi le mani e a mordicchiarmi le labbra, tutt’un tratto non sembrava una buona idea essere lì.
Che cosa avrebbe pensato Edward quando mi avrebbe visto?
Sbuffai scacciando le mie insicurezze e aprii la portiera aspettando che Jacob mi raggiungesse sul marciapiede. «Guarda che non mi chiamo Riley, se avessi aspettato ti avrei aperto lo sportello».
«Nominalo ancora e ti taglio la gola», lo minacciai puntandogli un dito contro.
«Wow, come sei aggressiva. Dov’è finita la Bella coniglietta che conoscevo?».
«Stasera deve sparire per forza se voglio concludere qualcosa», dissi affiancandomi a lui e abbassando le spalle non molto convinta di ciò che avevo appena detto. Era difficile smettere i panni di Bella Swan, veramente. Ma avevo un obiettivo e dovevo raggiungerlo a tutti i costi, anche a rischio di morire dall’imbarazzo. A ventotto anni, non ero più una ragazzina insulsa che si rintanava nella sua camera aspettando che qualche personaggio delle favole uscisse dalla tv e la portasse con sé. Anche se… forse il mio principe io l’avevo già trovato.
Mi aggrappai al braccio di Jacob che per poco non dovette trascinarmi di peso quando vidi la porta nera del locale.
«Bella, ma che diavolo! Non sono una gru».
Quando entrammo dentro, la musica piacevole mi fece rilassare i tratti del viso. C’era un discreto movimento di gente, le cameriere che si aggiravano fra i tavoli, qualcuno che stazionava al bancone e qualche improbabile coppia che ballava lentamente al centro della sala. L’Hurricane era una specie di vecchio locale anni 80’ con tanto di jukebox a ridosso di una parete di legno e tavolo da bigliardo affollato.
«Comunque Bella ti avverto…», iniziò Jacob facendo un cenno verso Embry che era seduto poco distante da noi a contemplare un menu. «Visto che ci troviamo in una via poco raccomandabile di Brooklyn, se la mia auto dovesse essere danneggiata o – Dio me la mandi buona – rubata, te la farò pagare cara e amara».
«Finiscila», sibilai camminando come se avessi i paraocchi per paura di vedere Edward. «Non è momento di pensare a questo».
Il mio amico borbottò qualcosa che non capii e poi mi sospinse delicatamente verso dei divanetti intorno a un tavolo ovale.
«Ciao Bella», mi salutò Embry con un sorriso mentre mi toglievo giacca e sciarpa.
«Ciao a te», ricambiai.
«Non puoi capire!», iniziò Jacob sfilandosi il giubbino di pelle e poggiandolo a fianco al mio. «Per colpa dei Lakers ho perso 500 dollari!».
«Ti avevo detto che avrebbero perso», gongolò Embry scostandosi il ciuffo nero dalla fronte.
«Maledizione, maledizione, maledizione!».
Mi sbattei una mano sulla fronte. Ecco che cosa significava uscire con due amici maschi. «Quindi trascorreremo la serata a parlare di queste cose?», chiesi un po’ schifata.
Due paia di occhi scuri mi fissarono come se avessi annunciato la fine del mondo, ma fu sempre il solito sfacciato a rispondere con le sue maniere… che non trovo il modo di definire.
«Oh, hai ragione Bellina. Perché non parliamo di pittura per le unghie?».
«Si chiama smalto», brontolai.
«Oh», sbatté le ciglia mettendosi le mani sotto al mento come facevano certe reginette di bellezza. «Hai messo i bigodini ieri sera? Wow, hai delle rotelline favolose ai capelli».
A quell’affermazione anche Embry storse le labbra. «Rotelline? Boccoli casomai».
«Non conosco questi termini», disse Jacob impettito. «Le cose da femmina non fanno per me».
Alzai entrambe le mani, ne avevo sentite abbastanza. Ora capivo perché era perennemente single ed entrava e usciva da decine di letti senza mai ritornarci. Era terribilmente insensibile e anche senza tatto. A quel punto decisi che era arrivata l’ora di guardarmi un po’ intorno per accertarmi se Edward fosse già lì o dovesse ancora arrivare. Mi mordicchiai un’unghia e girai il capo osservando di sfuggita i diversi tavoli che ci circondavano cercando di tenere a bada il mio cuore impazzito.
Edward, lo vidi quasi subito. Era a qualche tavolo più in là con gli occhi puntati nei miei. Sussultai sentendo la mia schiena irrigidirsi.
Mi aveva già visto… forse quando era entrata qualche minuto prima.
Indossava dei jeans scoloriti, delle scarpe sportive e una felpa col cappuccio nero. Così sembrava più normale… sembrava Edward che avevo conosciuto tanti anni prima. Insieme a lui c’era il ragazzone dalla pelle ambrata che avevo visto anche a mensa e al ventottesimo piano, un altro dei dirigenti.
Dovevo salutarlo o no? Beh, che sciocchezze, era ovvio che dovevo farlo.
Stavo per alzare la mano ma lui mi precedette e mi salutò mimando la parola ciao con le labbra.
Ciao, mimai anche io strofinandomi le mani sui jeans.
Una cameriera si fermò al suo tavolo per lasciare l’ordinazione, oscurandomi così la visuale e quello fu il momento cruciale in cui presi la mia decisione.
«Ditemi buona fortuna», chiesi ai miei due amici.
«Buona sfortuna».
«Embry!», lo rimproverai dandogli un colpetto sulla spalla.
«Eddai Bella, siamo in fase G.D.E. te ne vuoi andare?», mi disse Jacob impaziente guardando oltre le mie spalle.
«Ma che vuol dire?», chiesi ravvivandomi i capelli.
«Significa Getto D’Esca», spiegò tamburellando con le dita sul tavolo. «Come quando vai a pescare e butti l’esca per fare abboccare i pesci. Sto facendo la stessa cosa con quelle due belle signorine laggiù».
«Oh mio Dio…», sibilai scandalizzata. «Paragoni le ragazze a dei pesci?».
Jacob parve scendere dalle nuvole. «Posso paragonarle anche a dei cervi a cui poi tiro un colpo di fucile… che discorsi fai?». Io? Meglio sorvolare.
Mi alzai dalla poltroncina e aggirai una serie di tavoli sentendo le gambe inferme. Mi mancava solo di afflosciarmi a terra come se fossi di carta e la mia dignità sarebbe scesa sotto il picco massimo ancora una volta.
Quando Edward mi vide dirigermi nella sua direzione si infilò le dita nei capelli e assottigliò le labbra.
Deglutii per la centesima volta e mi schiarii la voce. «Ciao», salutai anche il suo amico.
«Ciao», dissero entrambi.
«Volevo…».
«Sì, un attimo solo», si affrettò a dire. «Paul dammi qualche minuto».
«No problem amico, vai pure».
Edward si alzò riservandomi un’occhiataccia e si diresse verso un angolo un po’ più appartato con le mani in tasca e l’espressione imperscrutabile. Lo seguii pensando a ciò che avrei dovuto dirgli… ma io non avevo proprio un bel niente da dirgli! E perché l’occhiataccia?
«Chi sono quei due?», chiese guardando verso il mio tavolo.
Aggrottai le sopracciglia e ci impiegai qualche istante prima di capire che si riferiva a Jacob ed Embry. «Sono degli amici e anche colleghi».
«Ah, ecco. Mi sembrava di avergli già visti da qualche parte».
Mi grattai una tempia imbarazzata. Non potevo pensare a qualcosa da dire prima di alzarmi da quella maledetta sedia?
«Ci esci spesso?», chiese ancora.
«Ma… perché queste domande? Che importa?», sbottai un po’ isterica.
Edward scrollò le spalle e poi l’intensità del suo sguardo cambiò quando finalmente si decise a guardarmi negli occhi. «Bella, per stamattina… Mi dispiace, non ti ho dato l’opportunità di spiegare. Ero arrabbiato, anzi lo sono ancora», precisò. «Però potevo agire in modo diverso».
«Anche io», dissi di rimando riferendomi all’intera faccenda. Niente di tutto ciò sarebbe accaduto se fossi stata sincera dal primo momento.
Feci un passo in avanti avvicinandomi a lui, non mi piaceva tutto quel distacco adatto solo a due estranei.
Edward mi guardò negli occhi, le folte ciglia ramate a contornargli le iridi chiare. «Quindi hai dato una pausa al tuo fidanzato», disse piano allungando una mano verso la mia, ma facendola ricadere di nuovo lungo il suo fianco, subito dopo.
«Sì».
Lui annuì espirando appena. «E come credi che finirà tra di voi?».
Sollevai le spalle e fui io a prendergli la mano rimanendo scioccata da me stessa. Incrociai le nostre dita strofinando poi il palmo sul suo e il cuore mi salì in gola.
«So già come finirà…», sussurrai con un groppo in gola causato da quelle sensazioni troppo forti e del tutto eccessive per un solo tocco.
«Come?», chiese baciandomi la fronte.
Quella dolcezza mi diede un’ulteriore spinta di coraggio e gli circondai la vita con le braccia, poggiando la guancia sul suo petto. Non mi sembrò vero di sentire il suo cuore battere a quella velocità, sembrava essere il mio.
«Tu lo sai come finirà».
«Io non so proprio niente», replicò abbracciandomi a sua volta.
Alzai il mento a cercare i suoi occhi perché non ce la facevo a parlare, odiavo la mia voce tremolante e volevo che capisse da solo ciò che volevo dire con le mie poche parole, anche se in fondo ero certa che lo sapesse già. Ma quell’intento fu subito spazzato via da un altro più prepotente e inaspettato in quel momento.
La sua bocca era così vicina alla mia…
Successe tutto molto velocemente ma ogni azione rimase incisa a fuoco dentro di me, così tanto che sono certa riuscirei a descriverla anche da qui a cento anni.
Mi alzai sulle punte e annullai la distanza che ci separava. Gli presi il viso fra le mani e nei brevissimi istanti del mio avvicinamento, i suoi occhi sprofondarono nei miei.
Ero senza respiro e nel mio stomaco si era aperta una voragine.
Il nostri nasi si sfiorarono e poi poggiai le labbra sulle sue, così lievemente rispetto alla voglia che avevo di baciarlo che rimasi spiazzata.
Vidi le sue pupille allargarsi appena, poi i suoi occhi si chiusero, la sua bocca premette sulla mia e…
Morii mille volte quando sentii l’odore del suo respiro e assaggiai il suo sapore. Era familiare, come se non avessi mai smesso di baciarlo in tutti quegli anni. Qualcosa che ricordi nelle retrovie del tuo cervello, un sentore conosciuto sulle papille gustative.
Mi accarezzò la schiena risalendo fino ai capelli. Quando intuii che stava per allontanarsi dalle mie labbra, capii quanto volevo che non lo facesse. Quanto desiderio di baciarlo avevo avuto fino a quel momento.
«Bella…», mormorò sulla mia bocca.
«Ti prego non dire niente», dissi con un filo di voce, le mani strette alla sua felpa.
«E va bene, ma non so quanto ti convenga», mormorò piano…e poi ritornò a baciarmi.
 
 
Angolino Autrice

Pare che finalmente abbiano fatto un passo avanti... fra litigi e incomprensioni ci sono riusciti! :3 Rimane comunque un grosso scoglio ancora da sorpassare.
Questo capitolo mi ha dato un po' di problemi, l'ho modificato un paio di volte prima di postarlo, quindi spero vi piaccia.
Grazie per le recensioni <3
Alla prossima <3

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Capitolo 12
*** Ferie Ferie Ferie ***


Ciao a tutti, volevo dirvi che vado per qualche settimana in vacanza e quindi non riuscirò ad aggiornare. Al mio ritorno riprenderò a scrivere con regolarità. Buona estate anche a voi e a prestissimo! <3

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Capitolo 13
*** Rosso ***



Rosso
 
Rosso come le pagine della vita che sfogliamo.
E’ rosso quando ci baciamo.
Ed è rosso anche il mio ti amo.
 
 
 
 
 
«Mi farai impazzire di questo passo».
Quanto tempo era trascorso da quando avevamo iniziato a baciarci, proprio non lo sapevo. E non mi importava.
Edward era l’unica cosa che vedevo, l’unica cosa che sentivo, come se fosse un pezzo di me, la metà del cuore che non puoi ignorare. La senti sempre.
«E la gente comincia a guardarci», continuò contro il mio orecchio.
Dei piacevoli brividi mi attraversarono la schiena e strofinai la guancia sulla sua. «Hai ragione, meglio se la smettiamo».
I suoi occhi azzurri erano lucidi e dolci, l’arrabbiatura dei giorni precedenti sembrava essersi dissolta nel nulla, assorbita dalla passione con cui ci eravamo stretti l’uno all’altra, in quell’angolo di locale.
«Oppure potremmo continuare altrove», sussurrò malizioso.
Uno sfarfallio intenso si propagò nel mio stomaco e mi ritrovai a deglutire, il respiro più corto che mai.
Che cosa mi prendeva lo sapevo. La mia mente e il mio corpo avevano già assaporato certe sensazioni. Avevano ascoltato i suoi sussurri nella notte, le sue proposte imbarazzanti, i suoi tocchi e tutto ciò che si può ricevere da qualcuno che è il tuo ragazzo. E considerando l’essere ragazzini e la scoperta insieme dei piaceri del corpo, quelle emozioni erano state travolgenti, tanto da ricordarle perfettamente anche a distanza di tutti quegli anni.
Non appena lo avevo rivisto era ciò che avevo desiderato di più: stare con lui altrove, da soli e riscoprirci a vicenda.
Una cosa però è immaginarlo e un’altra è farlo. Sarei morta di sicuro.
«Dove?».
«A casa mia», disse con ovvietà, poi sollevò l’angolo della bocca. «Se non fossi stato troppo un gentiluomo ti avrei proposto il bagno alle nostre spalle», ridacchiò e l’ilarità scomparve all’istante quando le sue labbra tornarono sulle mie come se volessero divorarmi. «Qualsiasi posto Bella… ma non chiedermi più di stare lontano da te».
Travolta da quelle parole, le mie ginocchia vacillarono. Come poteva pronunciare certe frasi con una tale semplicità? Io non sarei riuscita nemmeno a leggerla da un pezzo di carta, forse non sarei stata in grado neppure di pronunciarle nella mia mente.
Ero bloccata. Lo ero sempre stata quando si trattava di dimostrare il mio affetto indipendentemente dalla persona che mi trovavo davanti.
Ma non è bellissimo lasciarsi andare e offrire tutto alla persona amata? Non è favoloso farsi avvolgere da quelle sensazioni uniche che rendono il cuore leggero e la mente una poltiglia incapace di pensare?
Avvertivo l’impulso di dirgli qualcosa, di fare felice anche lui come lo ero io, di condividere tutto di quell’attimo.
Eppure c’era sempre quella paura di fondo di essere fuori luogo o esagerata. Di correre troppo, di non essere apprezzata, di apparire una totale idiota.
«Bella…», strofinò il naso sul mio collo. «Hai perso la parola».
«Scu… scusa».
Improvvisamente non avevo più ventotto anni, ero ritornata una liceale alle prime armi. Povera me.
«Ti va se beviamo qualcosa con i tuoi amici e poi vediamo il da farsi?».
Annuii leccandomi le labbra. Sì, era la cosa migliore da fare, così mi sarei tranquillizzata un po’, a momenti sarei caduta a terra colpita da un attacco di cuore.
Intrecciò le dita alle mie e ci dirigemmo verso il tavolo dov’erano Jacob ed Embry.
«Non cambi mai», mi disse con un sorrisetto. «Come devo fare con te?».
«Vorrei sapere anche io come fare con me stessa», borbottai abbattuta.
In tutti quegli anni solo lui e Riley erano stati in grado di sopportare il mio carattere chiuso e non capivo come avessero fatto, sinceramente.
Quella riflessione mi fece tornare in mente il mio quasi marito con cui mi ero comportata malissimo. Il fatto di avere l’intenzione di lasciarlo non faceva sì che la mia coscienza si sentisse più pulita. Non avevo giustificazioni, avrei dovuto agire in maniera differente.
Quando quella faccenda si sarebbe chiusa e mi sarei guardata allo specchio con le facoltà mentali tornate tutte al loro posto, probabilmente mi sarei data della poco di buono, dell’ingrata e anche bastarda.
L’onestà non era il mio forte. Ma se non ero onesta neppure con me stessa potevo pretendere di esserlo con gli altri?
Bella Swan è questo: un gran casino.
Mi toccai il ciondolo a forma di foglia che portavo intorno al collo, il sapore di Edward ancora sulle labbra.
In quell’errore madornale c’era la cosa più bella della mia vita, la persona a cui tenevo più che a me stessa. Il mio unico e vero amore in grado di farmi perdere il contatto con la realtà con un solo sguardo. Mi sarei presa insulti molto più pesanti, probabilmente avrei scambiato la mia vita con la morte… ma avrei rifatto ogni singola azione, dalla prima all’ultima.
Solo chi conosce davvero l’amore e la conseguenza delle sue perdite, può capire le mie parole.
«Guarda, Paul non ha perso tempo. Ha raggiunto i tuoi amici».
Jacob ed Embry non erano più soli, il socio di Edward li aveva raggiunti e a giudicare dalle loro espressioni si stavano divertendo parecchio.
«Eccoci», mormorai vagamente imbarazzata quando mi sedetti intorno al tavolo. Edward mi raggiunse affiancandomi.
«Bentornata», ammiccò la faccia tosta di Jacob. «Vi siete divertiti?».
Gli tirai un calcio nello stico per farlo zittire e lui sgranò gli occhi facendo un’espressione di puro orrore come se qualcuno gli avesse staccato via un arto.
Il mio intento di passare inosservata non andò a buon fine perché tutti scoppiarono a ridere.
«Che villana!».
«Io?», chiesi sentendomi andare il viso a fuoco. «Jacob sei uno dei peggiori…».
«Fermati!», mi tappò la bocca. «Prima che tu insulti il tuo migliore amico, devo dirti che ho chiacchierato un po’ con Paul e ci darà un aumento!», gongolò sfregandosi le mani. «Dopo cinque anni, era ora!».
«Duecento dollari in più sono utili», meditò Embry toccandosi il mento.
«Ovvio, gli strip club sono costosi», asserì Jacob con espressione corrucciata.
«La prossima volta che ci andrai, avvisami» s’intromise Paul con un ghigno divertito. «Sono nuovo di qui e ho bisogno di svago».
«Sicuramente!», esclamò Jacob alzando la mano e battendo il cinque su quella di Paul.
In così poco tempo erano diventati così affiatati? Mah…
«Capo, se ti piace lo strip ti puoi unire a noi?», asserì Embry rivolto a Edward, non prima di avermi gettato un’occhiata eloquente. Brutto disgraziato, anche lui! Si stavano prendendo gioco di me!
«Mi dispiace, io sono un tipo un po’ all’antica. Mi piace la tranquillità. E una donna sola».
Sfregò il palmo della sua mano sulla mia coscia con fare affettuoso e per poco non scoppiai a piangere. Io non meritavo un ragazzo così, proprio no!
Smisi di farmi le solite paranoie all’istante, a volte ero troppo masochista con me stessa.
«Sì, infatti», continuò Paul agitando una mano in aria. «Edward è il tipo che scrive ancora post-it smielati e regala fiorellini, lasciamo perdere».
Il riferimento non era puramente casuale… che vergogna!
«No capo, qui mi cade un mito», affermò Jacob sollevando il collo. «Non hai ancora sostituito i post-it con i messaggi sulla bacheca di Facebook e i fiorellini con i poke?».
Edward si grattò la tempia mentre io guardavo il mio amico con occhi assassini. Solo lui era in grado di dire certe cose.
«Non ho la più pallida idea di cosa stai parlando», disse a stento.
«Visto?», rise Paul sollevando le braccia. «Lui è così, prendere o lasciare».
Edward gli diede una gomitata amichevole. «A stento ho deciso di imparare a inviare degli sms. Amo i rapporti personali e i pensierini che possono essere conservati, come una margherita. Il mondo virtuale non è per me».
«Ma è molto utile», rimbeccò Embry.
Edward arricciò le labbra. «Che utilità ti può mai dare parlare con una donna o scrivere sulla sua bacheca, senza guardarla, senza poterla toccare. E un poke che cosa sarebbe? Una toccatina? Scusa eh, ma preferisco il faccia a faccia», divertito scoccò la lingua sul palato. «Ogni voglia che mi assale la posso spegnere direttamente senza dover aspettare».
«Sì, abbiamo visto», rise Jacob.
A quel punto sprofondai sulla sedia, quella era una vera e propria persecuzione ai miei danni.
 
M’infilai la giacca seguita da Edward e anche dagli altri. Era passata l’una di notte e il locale si era svuotato, insieme ai bicchieri di birra. Metà delle luci erano già chiuse e alcune sedie erano state sollevate per lavare i pavimenti.
«Sei venuta qui con la tua auto?», mi chiese Edward mentre si sollevava la zip del giubbotto.
«No».
«Bene, allora verrai con me».
«Va bene», acconsentii mentre Embry e Paul, con una strana conta, si contendevano il posto sui sedili anteriori dell’auto di Jacob.
«Allora buonanotte», li salutai prima di andare via.
«Buonanotte», ci salutarono e stavolta fui felice che nessuno di loro avesse in serbo per me una di quelle stupide battutine a doppio senso.
«Vieni, la mia auto è per di qui».
Mi circondò le spalle con un braccio, la sua mano penzolava a fianco al mio viso. Il primo impulso fu quello di accarezzargliela con le labbra e scoccarci sopra anche un bacio, però mi limitai a stringergliela con le dita.
Adesso che eravamo rimasti da soli, la grandezza del nostro rapporto e dei baci che ci eravamo scambiati poco prima, aveva assunto dimensioni gigantesche. Mi gravava sulle spalle, un peso impossibile da alleggerire che mi dava un’ulteriore conferma di quello che provavo per lui.
Arrivati alla sua auto Edward si appoggiò contro lo sportello e mi attirò a sé stringendomi contro il suo petto. Stava ricordando qualcosa, lo capivo dalla forma languida che avevano assunto i suoi occhi e da quel sorriso appena accennato.
Gli circondai il collo con le braccia avvicinando le labbra alle sue.
«Ti ricordi quando ho rubato la macchina a mio padre?», soffiò sulle mie labbra.
«Sì, non avevi ancora la patente».
«Già, credevo che la mia sarebbe stata una punizione senza fine». Sentii la sua lingua sfiorarmi il labbro inferiore e trasalii.
«Ti ricordi dove siamo andati?», gli chiesi accarezzandogli i capelli.
Lui sollevò un sopracciglio. «Più che altro mi ricordo che cosa abbiamo fatto… Sui sedili posteriori».
«Ci hai preso gusto a mettermi in imbarazzo?», brontolai abbassando lo sguardo.
«Non è possibile che ancora ti imbarazzi, Bella!».
«Invece sì».
«Oddio mio, sei un caso perso», mi baciò una guancia riscendendo verso il collo. Forse fu una mia stupida impressione ma lo sentii deglutire. «Allora, piccola, sono ai tuoi ordini. Dimmi come vuoi trascorrere questa serata, dimmi se vuoi stare con me. O dimmi se vuoi che vada via».
Le stelle brillavano nel cielo sopra di noi, un gatto randagio saltava da auto ad auto, in lontananza si sentiva la sirena dei vigili del fuoco.
E poi c’erano le sue mani familiari sui miei fianchi, la sua barba che mi solleticava le guance. Ogni mia più piccola particella era piena di lui e non voleva altro per tutto il tempo che mi era rimasto da vivere.
Quel suo sguardo deciso e… innamorato mi faceva comprendere il motivo per cui io ero venuta al mondo e il motivo era lui. Io gli appartenevo e sempre così sarebbe stato.
Prima che potessi capire ciò che stava per succedere avvertii le mie labbra schiudersi e il cervello che mi inviava messaggi contraddittori.
«Io ti amo», mimai le parole senza alcuna traccia di voce. Ero talmente presa che il mio corpo non rispondeva ai comandi. Tra l’altro non avevo deciso io di fargli quella rivelazione. «Ti amo».
Ci sono cose talmente importanti che riescono a prendere vita da sole. A volte la ragione sblocca il corpo da inutili e insensati limiti. Come a volte il corpo sblocca la ragione facendogli capire ciò che più conta. Perché non a tutto c’è una ragione, anzi al contrario, nel percorso della nostra vita la maggior parte delle azioni sono dettate dall’istinto.
Edward lesse il mio labiale e capì, e si sorprese. «Bella…».
«E voglio che stanotte la trascorri con me. A casa mia». Deglutii con le palpitazioni. «Rimani con me».
«Ogni tuo desiderio è un ordine», sussurrò sulla mia bocca prima di baciarmi.
Salimmo in auto e forse non mi sentivo così confusa e felice da quando Edward mi aveva chiesto di fare i compiti insieme per la prima volta più di dodici anni prima.
Mi sentivo leggera, come se niente potesse farmi cambiare umore. Avevo appena raggiunto un traguardo e il ragazzo al mio fianco che guidava con aria assorta, era il mio premio.
Non sapevo che cosa avesse in serbo per me il futuro e non volevo pensarci, volevo solo vivere il presente.
Tutti quegli anni di attesa inconsapevole, di ricordi accantonati per paura di soffrire su qualcosa che ormai non avevo più, non erano stati vani. Erano serviti a qualcosa. Avevano fatto in modo che il mio amore crescesse fino a diventare incontenibile. Fino a diventare abbastanza grande da farmi essere in grado di dimostrarlo.
Gli diedi le giuste indicazioni per arrivare al mio edificio e lui si fermò a qualche metro di distanza dal portone, lungo il marciapiede, dove c’era un posteggio libero. Spense il motore e tolse la chiave dall’accensione e proprio in quel momento qualcuno bussò al mio finestrino.
«Riley…», sussurrai sconvolta.
 
 
Angolino Autrice

Ciao a tutti, sono tornata! So di essere stata via a lungo, ma la mia mente aveva bisogno di nutrirsi per bene. Come avete passato le vacanze? Spero che vi siate divertiti!
Volevo postare giorno 1 settembre, però visto che il capitolo è pronto da almeno un mese, ho deciso di anticipare.
Ho fatto un sacco di cazzate in questi giorni, tra cui quella di iscrivermi all'università, poi ho vinto un concorso fantasy :3 e la mia story entrerà a far parte di un'antologia che verrà pubblicata su Amazon, poi nel prossimo capitolo vi darò il link così potrete scaricarla gratuitamente, sempre se vi va, ovvio!
Mi scuso con Veronica perchè mi sono dimenticata di inviarle il capitolo in anticipo, lo farò la prossima volta, promesso! E ringrazio Sara per aver dato l'ok definitivo! E ringrazio tutti voi che avete recensito e che mi avete augurato buone vacanze! Un bacione a tutti <3
Niente, ho parlato già troppo! Alla prossima <3 <3 <3
-Carmen
 
 
 
 
 

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Capitolo 14
*** Beige ***


Beige
 
Beige è sporco, come a volte si trasforma qualcosa che tocco.
Beige come lo sfondo della mente quando non riesci a scacciare una sensazione opprimente.
Beige come la luce che ti illuminava quella sera, un angelo accorso per salvarmi, sembravi.
 
 
 
 

Non riuscivo a credere ai miei occhi.
Il respiro mi si era congelato nel petto e la bocca si stava spalancando sempre di più.
Ed ecco che la punizione per il mio orribile comportamento era arrivata cogliendomi impreparata, nonostante la stessi aspettando ormai da parecchio.
L’abitacolo dell’auto di Edward era diventato soffocante, le mie dita poggiate mollemente sulla maniglia della portiera erano paralizzate.
Riley era al di là del finestrino, con le occhiaie vistose e la giacca abbottonata malamente, come se lo avesse fatto di tutta fretta.
Solo poche ore prima gli avevo lasciato un messaggio in segreteria avvisandolo di volergli parlare. Sì, ero immersa nella vasca da bagno quando lo avevo fatto e subito dopo ero corsa da Edward all’Hurricane, dimenticandomi completamente di lui. Nemmeno avevo considerato la possibilità che venisse a cercarmi in anticipo rispetto all’appuntamento che gli avevo dato per l’indomani.
In qualche modo riuscivo a percepire la rigidità di Edward al mio fianco, ma ero troppo agitata per accertarmi di che espressione avesse davvero.
«Bella?», Riley mi richiamò. Sembrava confuso. Batté due dita sul finestrino arricciando le labbra. «Bella, scendi da quest’auto».
Deglutii e annuii mordicchiandomi l’interno di una guancia. Sperai con tutto il cuore che non scoppiasse un putiferio per via della presenza di Edward, perché a quel punto non sarei stato in grado di perdonarmelo.
Aprii la portiera facendomi coraggio. «Ciao Riley», dissi più tranquillamente possibile, evitando di fare trasparire il mio nervosismo.
«Che cosa ci fai in giro a quest’ora?».
«Sono andata a bere qualcosa con dei colleghi».
«E quello chi diavolo è?», ringhiò indicando Edward con il mento, strizzando leggermente gli occhi. Aveva la fronte imperlata di sudore nonostante il freddo pungente e strascicava le parole.
«Lo hai già conosciuto nel mio ufficio, non ricordi?», abbozzai un sorriso ma se avessi potuto avrei inghiottito il mio stesso cuore. Stavo per morire d’infarto.
Avevo sperato di uscire da quella storia  senza sporcarla più del dovuto, purtroppo però avevo la netta sensazione di essermi giocata quella possibilità.
Riley mi ignorò e barcollò appoggiandosi al bordo superiore della portiera. «Ehi tu, che cosa vuoi dalla mia ragazza?».
«Le ho solo dato un passaggio», replicò Edward inespressivo, ma notai che stringeva il volante, le sue nocche erano sbiancate.
«Solo un passaggio? E perché non te ne vai?».
«Riley…», feci per prendergli il gomito e lui si divincolò cadendo quasi per terra. Si riprese subito e mi afferrò le braccia strattonandomi. «Vai a letto con quel tipo, eh! Dovevo immaginarlo!».
Era ubriaco. Ubriaco perso. Il sentore dell’alcol nel suo alito era inequivocabile insieme al suo aspetto trasandato e al suo atteggiamento inusuale.
«Le ho solo dato un passaggio», ripeté Edward apparso al mio fianco dal nulla. «E le stai facendo male», continuò con tono piatto indicando le sue mani strette intorno alle mie braccia.
«Vattene via! Perché sei ancora qui!», sbraitò con occhi iniettati di rabbia.
«Perché sei ubriaco».
«Io non sono ubriaco, vattene!».
Conoscevo bene Riley e sapevo che se Edward avesse continuato a stare lì, sarebbe esploso più di quanto non stesse già facendo. Dovevo fare in modo di evitarlo. Di evitare almeno quello.
«Edward è tutto okay, davvero», cercai di dire.
Lui in risposta mi gettò un’occhiataccia che mi fulminò all’istante.
«Hai sentito che cosa ha detto la mia ragazza? Leva le tende, amico. E levati dalla testa anche tutte le idee che ti sei fatto su di lei».
«Riley, basta», gli toccai una spalla e lui si passò il dorso della mano sulla bocca, drizzando la schiena. «Adesso andiamo in casa e chiudiamo qui questa sceneggiata», conclusi.
Mi attirò a sé con uno strattone facendomi rischiare di cadere su quei tacchi che avevo indossato. «Bene, andiamo».
Cercai le chiavi nella borsa e gliele passai. «Ti raggiungo subito, dammi un minuto per salutare Edward».
Riley gettò un’occhiata furtiva prima a lui e dopo a me, poi si voltò di spalle. «Sto già contando i secondi, muoviti», bofonchiò a stento.
Nel momento in cui si voltò di spalle per raggiungere il portone dell’edificio, i miei occhi e quelli di Edward si incontrarono subito. Avevo immaginato di leggerci rabbia, gelosia e disappunto e invece no, non c’era niente di tutto ciò. Era solo preoccupato.
Avrei voluto tanto abbracciarlo forte, stringerlo a me e non allontanarmi mai più da lui.
Teneva le mani nelle tasche posteriori dei jeans e anche se faceva un freddo cane ed era senza giacca, non sembrava avvertire freddo.
«Edward, mi spiace. Non doveva andare a finire così».
«No, di sicuro».
«Ora devo andare», dissi gettando un’occhiata furtiva verso Riley e vedendolo fermo, poggiato contro il muro a fissarci.
«Bella, è ubriaco».
«Lo so…».
«E lo stai portando nel tuo appartamento in quelle condizioni?».
«Non preoccuparti, lo conosco, non mi farà del male».
«Be’ per come ti ha stretto poco fa, non si direbbe affatto…».
«Edward fidati di me», sussurrai impaziente stringendomi le braccia al petto.
«Io di te mi fido. Di lui no».
«Gli parlerò, gli dirò che voglio concludere la nostra storia. Dovevo incontrarlo domani, ma adesso che è qui, non rimanderò ancora».
«Tu non farai un bel niente», ringhiò. «Non sai come reagirebbe in quelle condizioni e non voglio che ti faccia del male», strinse i denti. «Maledizione, stammi a sentire».
«Va bene», cedetti per non farlo preoccupare. «Farò come mi chiedi e aspetterò che gli sia passata la sbronza. Hai ragione tu».
Edward annuì un po’ sollevato e si accinse a tornare in auto. «E digli di tenere le mani a posto se non vuole che gli spezzi le dita una a una».
Espirai forte con un senso di vertigine che mi fece spostare il peso da un piede all’altro.
Mise in moto e andò via lasciandomi un gran vuoto dentro. Nonostante Riley fosse a qualche passo da me e avevo rischiato per un pelo un casino di quelli epici, non riuscivo a smettere di pensare a Edward e a come già mi mancava. E a come mi sentivo stranamente inutile e vuota senza averlo al mio fianco.
Io e Riley entrammo nell’edificio in silenzio, passando dalla reception dove Aro sonnecchiava su una poltrona. Senza svegliarlo salimmo in ascensore fino al mio appartamento.
Mentre camminavamo sulla moquette che conduceva al mio appartamento sentivo un peso che mi schiacciava lo stomaco. Come avrei fatto a resistere fino al giorno dopo, rimandando il discorso che dovevo fargli? Il discorso con cui lo avrei lasciato definitivamente?
Girai la chiave nella serratura ed entrai in casa, accendendo la luce. All’interno era tutto in ordine fatta eccezione di un paio di pantofole lasciate di fronte al divano. Le tende erano tirate e i libri impilati negli scaffali in ordine di grandezza.
Lasciai la borsa e il cappotto all’appendiabiti e poi mi girai verso Riley che si passava distrattamente una mano fra i capelli e si lasciava ricadere sul divano con un tonfo.
 «Quando esci con me non indossi mai quelle scarpe», asserì indicando malamente i tacchi che indossavo.
Mi strinsi nelle spalle. «Stasera mia andava. Senti Riley perché non vai in bagno a fare una doccia, eh? Sei ubriaco e ti farà bene».
Mi gettò un’occhiata in tralice allargando le braccia sulla spalliera.
Le luci dorate del lampadario accentuavano il suo incarnato pallido, le sue occhiate e le pupille dilatate.
«Dio, ma quanto hai bevuto?», non riuscii a trattenermi dall’esclamare.
«Un po’», disse divertito. «E tu quanto ti sei divertita con quello lì? È per quello che mi vuoi lasciare, eh? Non sono stupido, Bella».
«Riley, sei ubriaco…», mi voltai di spalle aprendo una credenza della cucina e afferrando un bicchiere. «Ascoltami, vai a fare una doccia e riposa».
«Non dirmi quello che devo fare», ruggì fra i denti.
Mi versai dell’acqua e ne bevvi un paio di sorsi. Per quanto mi sentissi agitata, in un modo che non capivo stavo mantenendo la calma.
«E va bene, come vuoi».
«Ho sentito il tuo messaggio in segreteria», disse stropicciandosi il viso. «Non voglio più rimandare questa faccenda, mi sta logorando. Ora dimmi ciò che devi».
«Non mi sembra…».
«Parla!», mi ammonì alzandosi di scatto dal divano. Barcollò per un attimo e non appena ritrovò l’assetto giusto si cacciò il giubbino sbattendolo su una sedia vicina. «Mi sono stufato. Stufato! Stufato di te e della tua dannata insicurezza. Stufato di me che ti vengo dietro da anni. Parla!».
Lo guardai col battito del cuore accelerato e quelle parole che ormai conoscevo a memoria, le parole per lasciarlo, bloccate sotto la lingua.
«Come vuoi».
«Dannazione! Finalmente!», si mise le mani sui fianchi. «Anzi, prima voglio sapere che cosa c’è tra te e quello che ti ha riaccompagnato. Non ho intenzione di passare per l’imbecille della situazione, intesi?».
«Mi ha solo riaccompagnato, te lo ha detto anche lui», mentii.
«Mi lasci in un limbo a disperarmi per capire il perché di questa cazzo di crisi improvvisa e poi esci con i tuoi amici e ti fai riaccompagnare da uno sconosciuto che si permette anche il lusso di mettere bocca su come ti tocco!».
Strinsi la foglia che portavo intorno al collo con un gesto involontario. Più trascorrevano i secondi e più Riley si infuriava e si avvicinava. Barcollante o no, lo stava facendo.
Non trovai nulla da dire e arretrai di un passo incontrando l’acquaio dove mi appoggiai.
«Proprio a poche settimane dal matrimonio, perché!? Perché questo cambiamento!? Perché dopo aver quasi ultimato i preparativi del matrimonio!?».
«Perché ho capito di non amarti», sussurrai reprimendo le lacrime.
Anche se lo stavo lasciando, volevo bene a Riley e mi detestavo per le pene che gli stavo infliggendo. Ma aspettare ancora significava altre menzogne e altre sofferenze. Era ora di dire definitivamente basta.
Riley socchiuse gli occhi, le labbra storte in una smorfia disgustata e incredula. «Non mi ami», soffiò piatto. «E da quando?», scoppiò in una fragorosa risata prima di azzerare la distanza che ci separava e stringermi le braccia come aveva fatto poco prima in strada.
«E da quando lo sai?», mi urlò contro strattonandomi. «Da quando non mi ami? Lo sapevi prima di illudermi, prima di accettare di sposarmi? Eh, lo sapevi?».
«Mi stai facendo male! Riley, lasciami!».
«Mi fai schifo!», mi urlò in faccia con gli occhi scuri iniettati di rabbia e i lineamenti deformati da quel sentimento tanto forte. Poi mi tirò uno schiaffo colpendomi la guancia e parte delle labbra.
Sgranammo gli occhi all’unisono, increduli.
Me lo meritavo… ne ero più che consapevole, come ogni persona che sa guardare bene dentro di sé e sa che cosa è bene che gli accada. Nonostante ciò era l’ultima azione che avrei mai immaginato di vedere Riley compiere. L’ultima.
«Scusami Bella, io non…».
Sentii le lacrime bagnarmi le ciglia e poi scendere giù, roventi sulle guance. Mi divincolai dalla sua presa ancora salda e andai verso l’entrata afferrando velocemente il cappotto e la borsa.
«Dove stai andando, Bella? Aspetta! Scusa!».
Con un groppo in gola uscii di casa incespicando più volte sui gradini, viste le lacrime che mi offuscavano gli occhi.
Uscii nella notte, il freddo mi colpì il viso come una lama, le narici invase dall’odore tipico di New York, smog e umidità.
Camminai a passo frettoloso sul marciapiede desolato, costeggiato da decine di  auto in fila. Al primo angolo svoltai poggiando la schiena contro il muro.
La guancia mi pulsava e sulle labbra avevo il sapore del sangue. La gola mi si era rinsecchita e lo stomaco era in tumulto come se una mano gigante lo stesse rivoltando dall’interno.
Mi portai le mani sul viso e iniziai a piangere sommessamente nel bel mezzo della notte, sotto a un cono di luce emanata da un lampione, a ridosso di un muro sporco. Sembrava la scena di uno stupido film di infimo ordine.
Il mio pianto ininterrotto non era a causa solo del ceffone, però. Era scaturito da giorni e giorni di tensioni accumulate, di desideri repressi, di bugie su bugie. Quel pianto sapeva di tristezza e liberazione, di pentimento per le azioni commesse e di amore.
«Bella…».
«Ti prego vai via», singhiozzai coprendomi ulteriormente il viso. Dovevo avere un aspetto orribile, il trucco sbavato, il naso rosso e un taglietto sulle labbra.
«Bella sono io…».
«Lo so, Edward».
Mi toccò la spalla. «Guardami».
«Perché non sei andato via? Perché sei qui? Non voglio che tu mi veda così».
Edward mi prese entrambe le mani e me le scostò dagli occhi portandosele vicino al petto ed io immersi subito il viso nel bavero del cappotto, strizzando gli occhi.
«Che cosa è successo?», chiese piano sfregandomi le mani nelle sue.
«Quello che doveva succedere…».
«E perché sei corsa via in quel modo?».
Scossi la testa tirando su col naso. Il fatto che Edward non fosse andato via, che fosse rimasto lì, come un angelo custode a vegliare su di me, mi faceva sentire il cuore leggero. La donna più felice del mondo. Ma come potevo essere felice se stavo facendo soffrire un uomo? Alla mia meschinità non c’era fine.
«Bella, guardami».
Presi un profondo respiro sentendo la lingua incollata al palato e le labbra secche. Alzai il viso e incontrai i suoi occhi.
Con la luce del lampione che si irradiava dall’alto, Edward sembrava avere un alone intorno, un misto tra il bianco e il dorato, beige. Forse era davvero un angelo.
Ma no, che sciocca, ovvio che non lo era. Perché se fosse stata una di quelle creature i suoi occhi non si sarebbero incupiti a quel modo e la sua bocca dalle forme morbide appena accentuate non si sarebbe storta in una smorfia d’ira. «Che cosa ti ha fatto?».
«Niente Edward, per favore…».
«Ti ha colpito?», trattenne a stento un urlo ispezionandomi il labbro spaccato. «Ti avevo chiesto di non parlargli in quelle condizioni, Bella!».
«Non ne ho potuto fare a meno, ha insistito».
«Ora gli faccio vedere io», ringhiò lasciando ricadere le mie mani nel vuoto.
«No, per favore!», lo implorai riafferrando bloccandolo. «Portami via di qui. Adesso».
Strinse i denti trattenendosi a stento. L’eco delle nostre voci si disperdeva per la strada desolata, gli unici spettatori inconsapevoli erano i palazzi circostanti, alti e bui e un gatto maculato che si leccava pigramente una zampa dall’alto di una scala antincendio.
Mi guardò a lungo pensando chissà cosa, con gli occhi azzurri e intensi che si perdevano nei miei come a volermi leggere dentro. Mi strinse forte a sé, baciandomi forte la fronte. «Come vuoi tu amore mio. Andiamo via».



Angolino Autrice

Ciao a tutti e buona domenica! Vi annuncio che il prossimo capitolo sarà l'ultimo della prima parte della storia, poi inizierò a postare la seconda parte con una gamma di colori differenti ^_^
Spero che questo capitolo vi sia piaciuto e ringrazio tutti coloro che mi hanno fatto i complimenti e mi supportano sempre <3
Come vi ho detto la scorsa volta, vi lascio il link per scaricare l'antologia in ebook, dove c'è una mia shot che ha vinto il concorso. Non è niente di eccezionale, ma sono felice che sia stata scelta :D. La mia storia si chiama Un Occhio Per La Vita THE JOURNEY
Poi visto che mi sono fissata con Teen Wolf, vi lascio il link di un'altra shot su Derek, se vi piace il genere fateci un salto!LUCE 
Alla prossima, un bacione!

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Capitolo 15
*** Lilla ***



Lilla

 
Lilla è come una meraviglia.
La stessa che vedo nei tuoi occhi e che mi scompiglia.
Quello che mi sostiene quando tutto crolla.
 
 
 
 
 
 
Edward guidava in silenzio con le sopracciglia appena corrucciate. Lo sguardo imperscrutabile era rivolto alla strada e da quando eravamo entrati in auto non aveva aperto bocca.
Nel frattempo il mio telefono squillava senza sosta e il nome di Riley lampeggiava sul display. Non avevo nessuna intenzione di rispondere e non per lo schiaffo che avevo ricevuto. Se proprio devo dirla tutta, anche se ero rimasta quasi scioccata da quel gesto, mi sentivo talmente in colpa che gliel’avevo già perdonato, pensando di meritare molto di peggio. Lo so, alla mia stupidità non c’è limite.
Rifiutai per l’ennesima volta la chiamata e poi mandai un sms sbrigativo a Riley dicendogli che non avevo voglia di litigare e che ci saremmo sentiti quanto prima e poi spensi il cellulare, lasciandolo ricadere sul fondo della borsa.
Aprii il parasole, guardandomi nel piccolo specchietto rettangolare. Il labbro era un po’ gonfio e il trucco si era sciolto sotto le mie lacrime, facendo risaltare le occhiaie già vistose.
La città era addormentata, i semafori lampeggiavano spenti e i camion dell’immondizia con la sirena arancione lampeggiante, svuotavano i cassonetti ricolmi.
Edward allungò una mano verso la mia e me l’afferrò portandosela sulla gamba e stringendola forte fra le dita.
Ricambiai la sua stretta osservando il suo profilo netto, la mascella larga, la bocca appena schiusa.
«Mi dispiace, Bella. Sul serio, non riesco a fare a meno di pensare che se fossi stato…».
«Per favore, Edward, non ti accollare responsabilità che non ti appartengono. Tu non c’entri niente, la colpa è solo mia», espirai, stringendo il lembo di un cappotto con la mano libera. «Quando… quando ti ho rivisto, il mio cervello è andato in blackout. È stato come se la mia vita ripartisse da allora e quello che c’era fino a un istante prima è scomparso nel nulla. Avrei dovuto starmene al mio posto, smettere di pensarti come ti pensavo a quindici anni, come se avessi occhi, cuore e cervello pieni di te, tanto da offuscare ogni cosa che mi circondava. Ho tradito Riley e me ne pento, e anche se è una cosa orribile, non me ne pento abbastanza perché se avessi la possibilità di tornare indietro, io… io rifarei le stesse identiche cose».
Edward sfregò il palmo della mano sul mio. «Ho dato per scontato che fossi single, Bella. Ho insistito e insistito, quando invece avrei dovuto cercare di vagliare ogni possibilità, avrei dovuto darti tempo».
«Edward non dire scemenze!», mi arrabbiai. «Avrei dovuto dirti io della mia relazione! Ma avevo troppa paura che ti allontanassi di nuovo da me…».
Esausto appoggiò la nuca contro il poggiatesta del sedile e prese un lungo respiro. «Non riesco a digerire il fatto che Riley ti abbia colpito».
«Basta pensarci, è passato ormai», dissi sporgendomi verso di lui e baciandolo su una guancia.
Lui annuì e scalò di marcia svoltando in un sottopassaggio che dava accesso a un parcheggio privato. Non mi ero resa conto che eravamo già arrivati a casa sua, evidentemente aveva imboccato una strada differente.
Scendemmo dall’auto e Edward mi avvolse le spalle con un braccio guidandomi verso l’uscita, tra le basse colonne di cemento e le file di auto parcheggiate.
Poggiai la testa sul suo petto, avvolgendogli la vita in uno stretto abbraccio.
Il suo odore così familiare mi fece quasi venire le vertigini. Era così sbagliato pensare a quanto lo amassi, mentre Riley stava soffrendo le pene dell’inferno dopo la mia dura confessione. Eppure non ce la facevo a riscuotermi e a liberarmi da quegli argini in cui ero felicemente costretta. Quelle sensazioni ed emozioni vive ed elettrizzanti che mi avevano svegliato da un lungo torpore di cui non ero nemmeno a conoscenza. Come Biancaneve che si sveglia dal sonno dopo il bacio del principe, solo che il mio sonno prolungato era stato ad occhi aperti e non rinchiusa in una teca di vetro.
«Ci sono dei vestiti di Rosalie in casa, potrai prendere i più comodi per la notte».
Annuii mentre lui pigiava il pulsante dell’ascensore e ci dirigevamo verso l’ultimo piano.
«Spero che Bella non si ingelosisca se ti lascio dormire nel mio letto», ridacchiò, lasciando sciogliere un poco la tensione che gli induriva i lineamenti.
Sorrisi anche io al ricordo della sua gattina nera.   «Come mai le hai dato il mio nome?».
Edward assottigliò le labbra, il suo viso si avvicinò al mio e mi accarezzò il naso col suo. «Perché è come te. Bellissima, silenziosa, diffidente da morire».
«Hmm», mormorai non del tutto convinta, sollevandomi sulle punte e dandogli un piccolo bacio. Edward premette le labbra sulle mie, umide e calde schiudendole appena. Di riflesso lo feci anche io, ma il taglio al lato della bocca pulsò e sussultai. Per fortuna il trillo dell’ascensore impedì che Edward capisse il motivo reale del mio allontanamento. Non volevo rincarare la dose.
Dalla tasca dei pantaloni sfilò un mazzo di chiavi e sbuffò quando capì che la porta era già aperta. «Mi ero quasi dimenticato di mia sorella», mugugnò infastidito.
Spalancò la porta e fece un primo passo prima di bloccarsi come una statua e sgranare gli occhi. Visto il motivo della sua immobilità mi sbattei una mano sulla fronte. Adesso sarebbe successo davvero il putiferio ed io avevo anche la mia dose di colpe.
«Ma che cosa ci fate voi due qui?», sbottò Rosalie con voce stridula cercando di sistemarsi i vestiti.
«Che diavolo ci fai qui?», sbottò Emmett verso di me per poi rivolgersi a Rosalie di nuovo. «E lui? Perché è qui? Non sarà mica il suo appartamento, vero?».
Nella sala piombò il silenzio. Attraverso le vetrate, il panorama di New York era incantevole, mozzafiato. Le luci in casa erano spente tranne una lampada posta in un angolo distante. A ogni modo ciò che stava accadendo tra mio fratello e Rosalie… bè, era palese.
La sorella di Edward si strinse nelle spalle. «Sì, questa è casa di Edward», disse con noncuranza.
«Bella, allora?», mio fratello si alzò dal divano e mi venne in contro con la camicia mezza sbottonata, i riccioli arruffati e l’espressione adirata e sconfitta allo stesso tempo, poi lanciò uno sguardo di traverso a Edward che era ancora di stucco con la bocca semi spalancata .
«Emmett, tu che cosa ci fai qui?», gli chiesi di rimando.
«Sono cose da uomini!».
«Non sono più una bambina, sai? Quindi piantala!», sbuffai facendo roteare gli occhi.
«E perché con lui?».
Emmett odiava Edward sin da quando era ragazzino. Pur non vedendolo da svariati anni quell’intolleranza non si era attutita nemmeno un po’. Non che mi importasse, ovviamente.
Edward si svegliò dal suo torpore all’improvviso e fronteggiò Emmett. «Tu stavi mettendo le mani addosso a mia sorella!».
«E tu è da quando sei uno schifoso moccioso che metti addosso le mani alla mia di sorella!», rimbeccò Emmett furioso.
Io e Rosalie ci scambiammo uno sguardo perplesso e poi scuotemmo all’unisono la testa. Quei due stavano facendo una scenata di gelosia, per caso? Alla nostra età poi?
«Bene», iniziai determinata come poche volte ero stata nella mia vita, rivolgendomi a Emmett. «Ora io prendo Edward», dissi prendendolo da un braccio. «E lo porto con me, perché abbiamo delle cose di cui discutere», continuai attraversando il salone e dirigendomi verso la sua camera da letto. «Voi fate pure quello che vi pare e tu», minacciai mio fratello puntandogli un dito contro. «Se osi pronunciare un’altra sola parola, ti strozzo!».
«Lo dirò a mamma e papà! E anche a quel rincoglion…».
Sbattei la porta e l’ultima parola di Emmett venne inghiottita dal rumore sordo del legno e dalla risata a squarciagola di Rosalie.
«Non posso lasciarli di nuovo da soli», sibilò Edward.
«Dici sul serio? Perché se torni di là, sarò costretta ad andare via con Emmett. Se tu reclami tua sorella, lui reclamerà la sua», dissi indicandomi il petto.
«Questa Rose me la paga! Ha superato il limite! Persino in casa mia, sul mio divano e con quel…».
«Quel?», inarcai un sopracciglio.
Edward gettò gli occhi al soffitto e si accasciò sul letto esausto. «Ci mancava solo questa, stasera».
Sorrisi appena avvicinandomi a lui. Mi infilai tra le sue gambe intrecciando le dita nei suoi capelli e baciandogli la fronte. «Mi piaci quando fai il geloso».
«A me no».
Mi strinse a sé in un abbraccio. Il suo volto era poggiato sul mio petto, gli occhi fissi sulla parete.
Aspettai che si calmasse continuando ad accarezzargli la nuca. Sotto di lui le lenzuola blu scuro del letto si erano stropicciate e inaspettatamente un’immagine maliziosa apparve nella mia mente: quelle lenzuola avvolte intorno ai nostri corpi nudi e…
«Bella, che ne dici se ci mettiamo a letto?».
«Emh… sì».
Edward mi guardò con quella solita luce rassegnata, dovuta alla mia risposta titubante e poi si chinò a guardare sotto il letto. «Bella vieni qui, non essere timida. Abbiamo un’ospite».
Nell’aria si sollevò un miagolio annoiato e poi un batuffolo nero sbucò strusciandosi alle gambe del suo padrone. I suoi occhi gialli mi scrutarono a lungo, prima di trotterellare verso una poltrona e acciambellarsi lì.
«Non le sto simpatica».
«No, è solo diffidente, te l’avevo detto. Col tempo si abituerà a te e ti verrà vicino a farsi accarezzare».
Col tempo. Quella parola mi fece tremare il cuore. Presupponeva una frequentazione fissa, uno stare insieme continuo. Ed io non volevo altro che trascorrere tutto il mio tempo con lui, non importava che cosa facessimo. E se i nostri impegni a volte ci avessero tenuto lontano, mi sarebbe bastato anche solo guardarlo a lavoro mentre discuteva al telefono, o vederlo di sfuggita quando si recava al mio piano.
Edward aprì l’armadio cercando qualcosa all’interno, mentre io toglievo il cappotto e le scarpe.
«Dovevo darti dei vestiti di Rosalie, ma non mi azzardo a mettere piedi di là, qualora tuo fratello non fosse ancora andato via», mi passò una t-shirt nera che mi avrebbe fatto da vestito. «Se non basta, posso cercare un pantaloncino, o una tuta», disse con un po’ di incertezza, senza guardarmi.
«No, va bene così, grazie».
Andai in bagno per cambiarmi e quando tornai in camera trovai Edward già sdraiato con un braccio dietro la testa a guardare la tv. Non indossava il pigiama, ma t-shirt e pantaloncini. Mi sorrise appena, un sorriso teso, forse riflesso del mio.
Senza indugiare oltre mi infilai sotto le lenzuola girandomi verso di lui. I suoi occhi chiari incontrarono subito i miei.
Senza guardare pigiò il tasto del telecomando chiudendo la televisione e si voltò verso di me giungendo le mani sotto al viso.
Quel silenzio pesava. Era di aspettativa e non so… di verità forse.
«Che c’è?», gli chiesi in un sussurro.
«È che… non mi sembra vero che tu sia qui con me».
Il mio stomaco iniziò ad agitarsi. «Nemmeno a me».
Allungò una mano e le sue dita calde scorsero sulla mia guancia. «Non voglio più lasciarti andare via». I suoi occhi erano così sinceri da disarmarmi, da farmi venire voglia di piangere dalla felicità. «Non voglio più perdere un solo istante con te».
Si avvicinò stringendomi forte a lui. I nostri corpi si incastrarono alla perfezione, i nostri cuori battevano all’unisono.
«E voglio svegliarmi ogni mattina con te», mi sussurrò all’orecchio.
Mi vennero i brividi. Ma erano caldi, come la sua voce, come i suoi desideri.
«E voglio assaggiarti ogni qual volta ne ho bisogno», continuò scorrendo le sue labbra sulle mie.
Stavo per svenire dall’emozione. Avevo il fiato corto, il corpo in tumulto.
È quello che ci rende vivi. L’amore.
«E voglio sentire i tuoi ti amo», la voce gli tremò.
«E io i tuoi».
Edward mormorò sollevando l’angolo della bocca. La sua mano scorreva lenta sul mio fianco, i suoi capelli mi solleticavano la fronte e il suo respiro si fondeva al mio.
«Domani…».
«Domani cosa?», gli chiesi arricciando le labbra.
«Sarò completamente tuo e tu sarai completamente mia. Ogni singolo istante sarà nostro».
«Adesso non lo è?».
Scosse appena la testa. «Solo un po’. Ci siamo incontrati davvero solo ore poche fa, Bella. E questa non è stata la migliore delle serate. Ma da domani ti prometto che niente e nessuno si frapporrà più fra me e te. Se lo vorrai».
Deglutii. «E se dovesse succedere indipendentemente dal nostro volere?».
«Sarà tutto meno grave. Perché tu ti sarai svegliata al mio fianco. Mi avrai baciato. Mi avrai detto ti amo».
«Edward ti conosco sin troppo bene», bisbigliai piano dandogli un bacio. «Mi stai solo dando tempo. Ti stai solo dando tempo, precisamente».
Fece uno sguardo infastidito ed io ridacchiai. Il mio piccolo amore aveva paura che non fossi sicura della mia scelta. Come se io avessi altra scelta. E per timore di soffrire, prima di lasciarsi completamente andare ai sentimenti, voleva che ci dormissi su.
«Buonanotte, Bella».
«Buona prima notte, Edward. Perché ne sono già sicura da adesso… ce ne saranno tante, tante, altre».
Chiuse la luce e mi accoccolai sul suo petto. Il battito del suo cuore mi fece da ninna nanna accompagnandomi verso il sonno.
Quante vite può avere una persona?
La risposta non è per niente ovvia come sembra. Non si tratta solo di vivere e morire.
La mia prima vita era iniziata con lui e si era conclusa anni addietro. A fatica ne avevo iniziato una seconda. Ed ecco che adesso mi preparavo ad affrontare la terza.
Ero tornata finalmente dove ero nata. Ero tornata al mio posto giusto nel mondo. Ero ritornata alle origini.
Cenere alla cenere. Polvere alla polvere.
Non si dice forse così?
 
 
Fine 
Prima Parte
 

Angolino Autrice

Chiedo perdono!! Sono imperdonabile per aver fatto trascorrere tutto questo tempo prima di postare l'ultima parte di questa storia! Giuro che mi dispiace da morire, ma l'università mi ha rubato tutto il tempo. (Se pensavo che fosse stata così dura, non mi sarei iscritta con un certo entusiasmo -.-)
In queste vacanze di Natale risponderò a tutte le recensioni, prometto!
Vi ringrazione come sempre per la presenza e i complimenti che mi fate, tutti voi che mi scrivete su facebook e anche nelle mail in privato <3
Questa storia non è ancora terminata, è la fine solo della prima parte. Nella seconda che scriverò dalla prossima settimana in poi, avrà un'altra gamma di colori :)
Ringrazio chi mi ha seguito in questo altro piccolo percorso, Sara per le sue scalette e Veronica per l'entusiasmo e Martina per la saggezza!
A presto, un bacione <3

 
 
 
 
 
 

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