Dalle Sponde Opposte del Destino

di Sebastiano Theus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Essi Daven ***
Capitolo 2: *** Geralt e Ranuncolo ***
Capitolo 3: *** Gente di Paese ***
Capitolo 4: *** «Benvenuti a Passafiume» ***
Capitolo 5: *** la bestia tra noi ***
Capitolo 6: *** Rifiuto ***
Capitolo 7: *** Prima Serata in Paese ***
Capitolo 8: *** Un sogno e un cambio di programma ***
Capitolo 9: *** la bella e la strega ***
Capitolo 10: *** Essi Daven ***
Capitolo 11: *** indagine ***
Capitolo 12: *** Festa di paese ***
Capitolo 13: *** il guardiano del tempio ***
Capitolo 14: *** Voce di madre, dolore di padre ***
Capitolo 15: *** Fiume, lago, oceano ***



Capitolo 1
*** Essi Daven ***


Frinyf scrutò la strada che serpeggiava nel bosco, disseminata di massi e rami caduti. Imprecò e fece segno ai carri dietro di lui di fermarsi, quindi tirò le redini dei cavalli fino a bloccarli del tutto. Sentì voci e rumori mentre la gente approfittava della pausa per sgranchirsi le gambe.
Quasi subito, un giovanotto dai capelli chiari e l'armatura lucente mise la testa fuori dal telone e guardò verso di lui: «Nano! Perché ci siamo fermati?».
Frinyf aspettò qualche secondo a rispondere, giusto il tempo di sbollire la rabbia accarezzandosi la barba, quindi si girò verso il giovane con un'espressione affabile: «Signore, la strada si fa più difficile: rischiamo di azzoppare i cavalli a correre col buio. Dovremmo accamparci per la notte»
«Accamparci? Ma che diavolo stai dicendo! La strada è tutt'altro che difficile e il bosco finirà presto. Ci accamperemo solo allora!»
«Signore, i cavalli…»
«Re Demavend vuole che il carico giunga a destinazione in una settimana e noi arriveremo là senza un minuto di ritardo! Accelera, nano! E voi tornate subito dentro!».
La testa del giovane dai capelli chiari sparì dentro al carro e Frinyf fece schioccare le redini abbastanza forte da coprire la propria voce: «Re Demavend i miei coglioni».
I carri, tre in tutto, ripresero la marcia notturna in mezzo agli alberi. I cavalli si muovevano a disagio, costretti a indovinare la strada più che a vederla. D'un tratto la foresta aprì un poco i propri rami, rivelando sopra di loro il cielo stellato.
«Va tutto bene?».
Frinyf si voltò verso la voce, stavolta dolce e piacevole. Una giovane ragazza, di non più di vent'anni, spuntava fuori per metà dal telone del carro, restando coperta dalla vita in giù. Un minuto pendente a forma di margherita oscillava dalla delicata scollatura che lasciava intravedere il suo petto. Il piccolo viso simpatico, dai tratti assolutamente comuni, era illuminato da uno splendido occhio blu intenso, enorme, sfavillante, dal quale non si riusciva a staccare lo sguardo. L'altro era quasi sempre coperto da un ricciolo dei suoi capelli color dell'oro scuro, che cadeva immancabilmente sulla sua fronte a darle un'aria sbarazzina. Ogni tanto, la ragazza spostava il ricciolo con un movimento della mano o con un soffio leggero, dimostrando che anche l'altro occhio non era da meno. Essi Daven, detta Occhietto.
«Nobile signora Daven...».
Lei rise, serena: «Non sono nobile, ma mi piace il signora. Se vuoi, chiamami pure Essi.»
«Va bene, signo... Essi. Cosa vuoi?»
«Posso sedermi accanto a te? Il movimento del carro comincia a darmi la nausea».
Frinyf stava per protestare dicendo che era freddo e soprattutto rischioso stare allo scoperto, ma la ragazza si fece avanti senza attendere risposta e si sedette sulla cassetta di fianco a lui, aggiustandosi il semplice abito azzurro chiaro. Lui la guardò accarezzandosi lentamente la barba rossa che gli copriva il collo e l'inizio del petto.
«Non ci fermiamo ancora?», chiese lei.
«Il comandante di questa carovana vuole andare avanti, mai disobbedire al grande comandante della carovana!». Soffiò contro i cavalli dando un altro colpo con le redini.
«Vuoi dargliela vinta?»
Frinyf la guardò, domandandosi se doveva sentirsi divertito o offeso da una domanda così diretta. Spuntò un sorriso tra i peli della sua barba.
«Solo per un altro po'», rispose. «Conosco questa strada: tra non molto ci sarà una radura, un posto perfetto per fermarsi. Potrà farmi quello che vuole, ma io lì mi fermo!»
«Bene», disse lei soffiando sul ciuffo. «Siamo tutti stanchi, gli altri saranno d'accordo con te.»
«È un viaggio stancante per una femmina.»
«Per tua informazione, ho viaggiato più della maggior parte degli uomini.»
«Scusa, non volevo offenderti. La mia era solo una...», Frynif aggrottò la fronte per lo sforzo. «Cossatazione...»
«Constatazione», lo corresse lei. «Nessuna offesa. Noi bardi dobbiamo viaggiare di continuo per conoscere il mondo che descriviamo nelle nostre canzoni. E non ci sono molti bardi donne.»
Frynif, che considerava i bardi buoni giusto per far marciare gli eserciti più rapidamente e per accompagnare la birra nelle locande, non era molto colpito.
D’un tratto un sasso sollevò una delle ruote e il carro si scosse da cima a fondo. Con mosse rapide, Frynif strinse le redini e domò i cavalli impedendogli di scalciare in preda al panico. Dall’interno del tendone giunse una gran serie di imprecazioni.
Essi si teneva stretta all’asse dove stava seduta, l’occhietto spalancato per lo spavento.
Il nano ritrovò il controllo e si diede un colpo sulla coscia con una risata: «Non ti piace più tanto stare qui fuori, eh?».
Il giovane dai capelli chiari mise di nuovo fuori la testa: «Che succede, nano?»
«Nulla, signore! La strada è liscia e sicura!».
Essi cominciò a rilassarsi solo quando il comandante rientrò nella tenda. Si passò una mano sul ricciolo dorato, rimettendosi dritta accanto a Frynif.
«Quando arriveremo a Vergen?», chiese.
«Ci vorrà ancora un po’, con buona pace dei desideri del sovrano. Dobbiamo superare il Dyfne, e purtroppo il ponte è danneggiato... Non ci resta che dirigerci verso il villaggio di Passafiume.»
«Un nome eloquente.»
Frynif la guardò con aria interrogativa.
«Intendo... chiaro. Avranno un traghetto, immagino.»
«Sì, proprio così. Lo raggiungeremo alla fine di questa foresta.»
Essi guardò in alto, oltre le fronde in movimento di un pioppo, la notte diventò più luminosa nel suo occhietto sognante
«Vergen», disse piano, «gemma dei nani incastonata nelle montagne a nord dell’Aedirn, vedetta della Valle del Pontar, marmorea guardiana del confine tra Temeria e il Kaedwen. Dicono che sugli stipiti delle case ci siano scolpiti volti di pietra che fissano i viaggiatori con occhi di smeraldo e rubino»
«Mi prendi in giro? Se c’è mai stato qualche rubino o smeraldo, Re Demavend non se l’è certo fatto scappare! Ma quei volti ci sono... C’erano prima di voi umani e ci saranno anche dopo. Vergen è vecchia, più vecchia di Demavend».
Essi tacque per un po’, senza disturbare il brontolio sommesso del nano.
«Ora mi chiederai se sono d'accordo con gli Sco'iatel», disse lui col tono di chi afferma una cosa ovvia.
Essi scosse la testa, osservandolo coi suoi grandi occhi blu: «No. La politica non è un discorso adatto a piacevoli conversazioni.»
Frinyf ghignò: «Sì, lasciamo che ne parlino i signoroni nei loro castelli, sempre pronti a sorridere e pugnalarsi l'un l'altro. E gli Sco'iatel... Elfi e nani ancora bambini che credono di potersi sentire liberi vivendo nelle foreste e assalendo le carovane come banditi qualsiasi.»
Lui notò l'occhiata preoccupata che Essi lanciava agli alberi attorno a loro.
«Stai tranquilla, qui non ci sono Sco'iatel. In compenso abbiamo Ondine e pure qualche Driade.»
«Driadi?», il suo occhietto brillò d'entusiasmo.
«Driadi o Sco'iatel fa poca differenza: rischiamo in ogni caso di buscarci una freccia nella barba! Nel mio caso, almeno...»
«Sì, lo so... Ma vedere una Driade! E così lontani dal loro bosco! Ci pensi?»
«Già...». Frinyf cominciò a chiedersi se ai bardi mancasse un po' di buon senso in generale. Decise di cambiare discorso.
«Sai che cosa trasportiamo?»
«Pepe?»
«Pepe! Sì! Più altre cosa, ma soprattutto pepe!»
«A Vergen»
«Vedi, dopo le gemme e la birra, il grande amore dei nani è il pepe. Agli elfi fa schifo, ma loro sono femminucce. Riempici la tavola di pepe e noi siamo contenti! Demavend lo sa e cerca di non farlo mai mancare: metti che un giorno i buoni abitanti di Vergen rimangano senza pepe e decidano di andarlo a chiedere a Re Foltest o a Re Henselt!»
«Sarebbe un bel problema per Demavend! Ma stiamo già tornando a parlare di politica...»
«Difficile non parlarne in questi giorni.... Dannazione, ragazza! Mi hai fatto venire voglia di un filetto al pepe verde!»
«Devi ammettere allora che Re Demavend vi tratta con riguardo.»
Frinyf distorse la bocca nella parodia di un nobile contegno e si posò la mano sul cuore: «Io, Re Demavend, in onore dell'amicizia che lega le nostre genti e nel rispetto della vostra razza laboriosa, taglio i dazi commerciali verso la vostra splendida città: che le strade siano piene di pepe! Bah, tutte dùvvelsheyss!»
«Ehi! Attento a quello che dici, stai viaggiando con una signora!»
Frinyf sembrò diventare più piccolo: «Io... Chiedo scusa, signora...».
Lei lo guardo con aria offesa, poi scoppiò improvvisamente a ridere facendo brillare il suo occhietto sotto al ricciolo dorato: «Ci sei cascato! Sono stata convincente, vero?»
Il nano non aveva idea di cosa dire.
Essi lo guardò e cercò di soffocare un'altra risatina: «Sai, non mi piace neppure il signora: chiamami solo Essi»
«Ah, quindi... Conosci la Lingua Antica, Essi?»
«Abbastanza da sapere che a Demavend staranno fischiando le orecchie dopo quello che hai detto!»
«Sempre che non sia troppo ubriaco per accorgersene. Ci sono tanti bardi donne, Essi?»
«Poche, e di certo nessun’altra come me»
«Mi sei simpatica », disse lui ricambiando il suo sorriso, «quando arriviamo a Vergen vieni a cena dai miei parenti!»
«Volentieri!»
«Sai cucinare?»
«Poco, in realtà...»
«Avrai modo di imparare un bel po' di cose! Prima di tutto cominceremo con gamberoni di fiume bolliti e vino piccante!»
Frinyf cominciò con enfasi a descrivere le proprie fantasie culinarie, Essi lo ascoltava con un grazioso sorriso, chiedendosi se avrebbe potuto ricavare una ballata da tutto questo.
Finalmente superarono gli ultimi alberi ed entrarono nella radura, larga abbastanza da ospitare venti carri come i loro. Il nano tirò le redini mentre continuava a spiegare la propria personale ricetta dei canestri di carne di cervo in salsa pepata.
Accadde tutto in meno di un minuto. Frinyf avvertì un movimento nel buio con la coda dell'occhio, poi sentì un rumore assordante dietro di sé. Si girò appena in tempo per vedere il terzo e ultimo carro della fila rovesciarsi sul fianco, il telaio disintegrato come se fosse stato trapassato da un colpo di ballista. Il fragore venne soffocato dalle urla quando il conducente venne sbalzato in avanti finendo tra gli zoccoli dei cavalli imbizzarriti.
Un movimento ancora e il secondo carro venne colpito, attraversato da qualcosa che si muoveva come un fulmine nero.
Senza neppure pensare, Frinyf fece schioccare le redini e lanciò a tutta velocità i cavalli lungo la radura. Il giovane comandante spuntò fuori e gli urlò qualcosa, ma lui non sentì, il vento gridava più forte nelle sue orecchie.
Un masso appuntito colpì la ruota anteriore destra e la squarciò, spaccando anche il rivestimento interno di ferro.
Frinyf si alzò sulla cassetta, si gettò afferrando Essi con le braccia possenti e si lanciò fuori, proteggendola dalla caduta col proprio corpo.
Il mondo divenne confuso: alzò la testa dal petto di Essi, vide un ciuffo di capelli chiari e un’armatura scintillante lanciarsi all'attacco con la spada presa a due mani. Un ringhio e uno scoppio di sangue misero fine all'eroismo del giovane comandante della carovana.
«Per gli dei!»
«Che cosa...?»
«Alzati! In piedi, ragazza!».
Frinyf l'alzò di peso e la spinse tra gli alberi.
«Vai! Corri!»
«Il mio liuto! È nel carro!»
«Dùvvel hoàel, ragazza! Scappa!»
La scagliò tra i cespugli ed estrasse la mazza dalla cintura.
Essi cadde per terra, perse la scarpa e si scorticò il piede contro un masso tagliente. Si voltò gemendo per il dolore, la mano stretta attorno al piede già ricoperto di sangue e terriccio. Sentì lo schianto del metallo che colpisce qualcosa, poi un urlo e il rumore di una spina dorsale spezzata.
Lei rimase ferma, immobile, il respiro che correva come impazzito, la mente paralizzata. Qualcosa emerse dal buio. Una cosa nera, enorme. I rami si spezzarono al suo passaggio, il fetore era quello del sudore e del sangue. Due occhi troppo grandi si posarono su di lei.
Essi si voltò, fuggì terrorizzata con nelle orecchie il rumore di quelle ossa spezzate ogni volta che un legno cedeva sotto i suoi piedi. Strinse una mano al petto, cercando il piccolo medaglione che portava nascosto sotto i vestiti: sentì il suo rilievo tra i seni e trovò la forza per correre più veloce.
Non sentiva più nulla, né rumori, né le proprie gambe. Fece per voltarsi per vedere se la stavano ancora inseguendo, ma picchiò la testa contro un ramo basso. Spalancò entrambi gli occhietti, cercò inutilmente un appiglio nell'aria che le fuggiva via mentre cadeva all'indietro sulla roccia.
Si mosse lenta, strisciando come un verme, la voce ridotta a un rantolo, il mondo diventato una macchia di colore indistinta. Vide un'ultima cosa prima di piombare nel buio: un'ombra piegata su di lei, due piccoli occhi gialli. Sangue e sudore.

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Capitolo 2
*** Geralt e Ranuncolo ***


Ranuncolo si sollevò con entusiasmo sulla sella del cavallo:
“Geralt! Senti qui!

Dalle sponde opposte del destino,
dagli angoli opposti della vita,
due uomini su una sola strada,
la loro meta ai confini del mondo.

Che te ne pare?”
Geralt piegò le spalle con aria sfinita, senza dire una parola.
“Non ti piace, eh? Ma che ci parlo a fare con te? Hai la sensibilità poetica di un secchio di letame! Avevo anche in mente un titolo: Lo Strigo: un Viaggio Inaspettato. Mmm, no, hai ragione, mi ricorda qualcosa… Non parli? Tanto varrebbe conversare con una pianta!"
Stette zitto per un attimo, osservando la schiena di Geralt che procedeva davanti a lui in silenzio, conducendo il cavallo su un passo lento e regolare.
Ranuncolo tirò le redini, si fermò accanto a un albero e si tolse il cappello con la piuma d’airone in un teatrale segno di saluto: “Buongiorno, signor larice! Come sta? No, nessun disturbo, passavo di qua e ho pensato di fermarmi a salutare. Come dice? Si annoia a stare qui fermo tutto il giorno? Pensi a me, a viaggiare con un tipo allergico alle parole! Ma le sue foglie come stanno? Oh, sono lieto di sentirlo. E…”
“Ranuncolo…”
“Che c’è?”
“Mi stai facendo venire mal di testa…”
“Gli strighi possono avere mal di testa?”
“Con uno come te evidentemente sì!”
I loro cavalli nitrirono quasi contemporaneamente, scalciando il terreno.
“Sentito, Geralt? Anche i nostri cavalli fanno più conversazione di noi!”
Geralt sbuffò e riprese ad avanzare sulla strada. Ranuncolo gli si affiancò subito, facendo finta di guardare con aria indifferente il paesaggio, un fitto bosco che si sollevava man mano che le colline cedevano il passo alle montagne.
“Insomma, dato che ho voluto accompagnarti, potresti sforzarti di essere un compagno di viaggio migliore.”
Ranuncolo ricordò rapidamente il giorno in cui erano partiti da Vengerberg: Aveva trovato Geralt nella stalla della locanda, intento a preparare il cavallo.
“Che stai facendo?”, gli  chiese.
“Sello il cavallo: si parte.”
“Per dove? Pensavo restassi qui.”
“Ci sono rimasto abbastanza. Ricordi il tuo liuto? Ho convinto Yennefer ad aggiustarlo.”
“Cosa? Tu l’hai…? Non voglio sapere come! Ma davvero…?”
“Sì, davvero. E non ti dirò come.”
“Per gli dei, è meraviglioso!”. Aveva le lacrime agli occhi per la gioia. Afferrò il braccio di Geralt e lo strinse calorosamente. “Non lo dimenticherò mai, amico mio, mai!”
“Sì, certo…”
Geralt si liberò dalla sua presa con un certo imbarazzo e riprese ad occuparsi dei preparativi.
“E allora?”, chiese ancora Ranuncolo, “quando lo aggiusta?”
“Non è così semplice: è realizzato con un legno elfico, mi ha detto, e non può essere riparato senza un campione di quel legno, il Woed Aenye.”
“L’albero di fuoco? Dannazione… È praticamente estinto, e gli ultimi esemplari sono sorvegliati a vista dalle ondine e dalle driadi dei boschi!”
“Non preoccuparti, in qualche modo ha anche saputo dove trovarne uno meno sorvegliato: pare che il sindaco di Passafiume, un piccolo paese sul Dyfne, possieda un pezzo di corteccia dell’Albero di Fuoco. È sufficiente per riparare il tuo liuto.”
“E vai là? Sia benedetto il giorno in cui ti ho conosciuto! E io…”
“Oh, non io. Noi andiamo là”. Lo fissò con quei suoi occhi da gatto, le pupille dilatate come due pozzi neri. “Non ti lascio di certo qui da solo con Yennefer. Tu verrai con me.”
Ripensandoci in quel momento, mentre si liberava la faccia da una ragnatela che gli si era attaccata passando sotto un ramo, si sentì decisamente offeso.
“Non ti fidi ancora di me? Pensavi che avrei combinato qualcos’altro?”
Geralt impiegò un attimo a rispondere, lo sguardo fisso sul mantello scuro del proprio animale.
“In realtà l’ho fatto per te: credimi, Yennefer non ha nessuna voglia di rivederti. Non mi interessa sapere come sono andate le cose, scommetto che non lo sai di preciso neppure tu, ma ti assicuro che essere nella stessa città con lei in questo momento è pericoloso: ha minacciato più volte di ridurre in cenere me, pensi che avrebbe qualche problema a farlo sul serio con te?”
Ranuncolo sentì un brivido di paura lungo la schiena a pensare alle mani della maga tese verso di lui, pronta a scagliargli contro un fulmine globulare. Ma era davvero paura? Cercò di non pensarci.
"Non sono un bambino, Geralt! So badare a me stesso!"
"Zitto, adesso."
"Non ne ho alcuna intenzione, dobbiamo..."
"Sul serio, zitto!"
Geralt bloccò il cavallo di colpo. Scrutò guardingo tra le ombre degli alberi, mentre con la mano raggiungeva lentamente una delle else delle spade fissate alla sua schiena.
Ranuncolo si accorse solo in quel momento del silenzio pesante che era sceso su di loro. Si avvicinò a Geralt, rimpiangendo di non aver portato con sé neppure un pugnale. Rimasero immobili, fianco a fianco, cercando di distinguere un rumore qualsiasi attorno a loro. Non accadde nulla.
Lo strigo allontanò le dita dall'arma senza smettere di guardarsi attorno.
"Geralt, che succede?"
"Niente... Continuiamo, ma questa volta stai zitto e in guardia."
Proseguirono in silenzio per quasi mezzora, finché non si trovarono in vista di una radura, poi il bardo sbuffò. "Ammettilo, Geralt. L'hai fatto solo per spaventarmi e farmi stare zitto! Bella tattica, te lo concedo. Ma ora basta, dobbiamo... Madre mia!"
La radura era un brulicare di corvi neri. Gracchiavano e si muovevano l'uno sull'altro, sciamando sui resti di qualcosa senza forma. Non smisero di gridare neppure quando Geralt si lanciò in mezzo a loro agitando la spada; si sollevarono tutti assieme, volando via come uno spettro scuro.
Tra il verde sporco dell'erba e del guano, si vedevano i resti di carri rovesciati e sfondati, le ruote piegate, i telai squarciati dagli artigli degli uccelli.
Ranuncolo scese da cavallo e fece alcuni passi incerti, il cuore in gola e i polmoni stretti dal tanfo quasi insopportabile.
"Il tuo medaglione dice qualcosa?", chiese a voce bassa.
"No, tutto tranquillo", rispose Geralt afferrando l'amuleto che portava al collo, a forma di testa di lupo dalle fauci spalancate. Tutti gli strighi ne avevano uno simile: aveva la caratteristica di vibrare con forza quando si trovava vicino ad un mostro o a qualche magia.
Peccato che sia del tutto inutile contro comuni banditi, pensò Ranuncolo.
"Guarda quel carro"
"Sembra che qualcosa l'abbia trapassato da parte a parte..."
"Un incidente?"
"Non credo..."
"Una ballista? Non è possibile, non qui! Geralt, ancora niente dal tuo medaglione?"
"Niente, tranquillo."
"Non voglio trovarmi davanti alle cose che han fatto questo!"
"Pensi che siano più di una?"
"Stai scherzando? Hai visto che macello?".
Ranuncolo si spostò dall'altra parte del carro.
"Geralt, vieni a vedere."
"Che c'è?"
"Guarda quel simbolo, quello sull'asse anteriore."
"Due linee parallele, gialla e rossa, che si piegano ad angolo retto su uno sfondo nero. Lo stemma dell'Aedirn."
"Esatto! Questo era un carico importante, Geralt: re Demavend manderà qualcuno a investigare, vorrà sapere cos'è successo! Arriveranno un sacco di guai da queste parti..."
"Sei sicuro?"
"Così come son sicuro che il sole d'estate ti scotta le spalle! Siamo vicini a una zona di confine, sai quanto poco impiegano a montare un incidente diplomatico? Oppure non sarà che un altro pretesto per dare la caccia ai non umani!".
Geralt annuì, guardò ancora con attenzione i resti del carro e poi si piegò in avanti a raccogliere qualcosa.
"Cos'è?"
"Una boccetta di vetro. Ha ancora il tappo al suo posto."
Geralt la stappò e quasi subito si diffuse nell'aria un profumo delicato di verbena, immediatamente soffocato dalla puzza del guano. Era buona la verbena, ma di certo non come il lillà e l'uva spina.
"Profumo?"
"Già... Forse viaggiava anche una donna con loro."
Lui affidò la boccetta alle mani di Ranuncolo che la ripose in una tasca e poi cominciò a cercare per terra, tra la sporcizia. I segni lasciati dagli uccelli si sovrapponevano alla miriade di tracce che correvano ovunque lungo la radura, interrotte a volte dai solchi lasciati dalle ruote dei carri. Geralt disperò di poter trovare qualcosa di utile.
Ranuncolo si allontanò, trovò le carcasse dei cavalli, qualche arma spezzata, niente corpi. Si piegò per terra, passò una mano tra l'erba trovando degli strani granuli scuri. Ne prese uno tra le dita, lo spezzò e se lo avvicinò al naso. "Pepe?"
"Sì", rispose Geralt. "Ne è pieno, dai un'occhiata attorno."
"Pepe... Era questo il carico importante?"
"Chissà. I tuoi re sono pronti a tutto per scatenare un incidente diplomatico."
"Hai un'idea molto scarsa di loro. Purtroppo su alcune cose mi trovi d'accordo. Abbiamo trovato i carri, i cavalli, parte del carico... dove sono le persone?"
"Sono tutti qua."
Ranuncolo raggiunse rapidamente lo strigo che stava in piedi davanti a una piccola altura, la terra scavata da poco. In cima era stata posta una lastra di pietra in verticale a fare le funzioni di una lapide.
Il bardo guardò il suo compagno: aveva lo sguardo assente, quei suoi strani occhi sembravano lontani, come se stessero guardando un'altra altura, con altri morti. La collina di Sodden, forse, dove tredici maghi avevano perso la vita per difendere la libertà dei Regni Settentrionali? Lui sapeva che Geralt era andato su quelle tombe, a rendere i suoi omaggi, il suo ultimo saluto. Oppure un diverso tipo di collina, una costruita nella propria testa con ogni vita che aveva spezzato nella sua esistenza?
Durò solo un istante: Geralt si riscosse e tornò sul cavallo.
"Dove vai?"
"Monta su, Ranuncolo, andiamo a Passafiume."
"Ma questa gente, quello che è successo qui..."
"La nostra destinazione non cambia: qualcuno ha seppellito quei corpi, e non c'è altro paese nei dintorni se non quello a cui siamo già diretti. Andiamo a prendere informazioni."
"Perché tutta questa fretta?"
"Finalmente potrei trovare un lavoro come si deve." Lo disse senza sorridere, senza orgoglio nella propria voce.
Spronarono le cavalcature e si allontanarono rapidamente, mentre i corvi calavano di nuovo sui resti del disastro. Verso sera giunsero finalmente in vista di Passafiume: gli alberi si aprirono un poco davanti a loro rivelando una ripida discesa che scendeva fino al cancello della palizzata che proteggeva il paese. Le case sorgevano strette lungo il corso del fiume Dyfne, lasciando solo qualche spazio angusto tra una e l’altra. Geralt sentì nascere un vago senso di aspettativa nel vedere alcuni uomini fare la guardia sopra la palizzata, ben illuminata da una serie di torce. Allargò le pupille catturando ogni raggio di luce: contò quattro persone armate di forconi, due di archi. Tutte quante portavano un corno appeso al fianco.
Geralt fece un cenno a Ranuncolo ed entrambi si avviarono a passo lento lungo la discesa.

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Capitolo 3
*** Gente di Paese ***


Il topo saltò di lato evitando per un soffio la mano ossuta che cercava di afferrarlo. Squittì correndo lungo tutto il perimetro della scatola che lo teneva intrappolato, cercò inutilmente di arrampicarsi oltre il bordo unto di grasso. Le dita scheletriche si chiusero su di lui con unghie così lunghe da schioccare l’una contro l’altra. Lui si mosse di scatto e piantò violentemente i denti nella nocca dell’indice.
«Uh, sei proprio una peste, sì che lo sei!».
La mano si strinse, gli stritolò le zampe anteriori e gli spezzò le costole, poi lo appoggiò su un tavolo ingombro di radici e cocci di ceramica sporchi di terriccio. Le dita passarono delicatamente sul suo petto che ancora si muoveva, andando su e giù come per accarezzarlo.
«Ssh… buono, buono. Sei bello, tu…».
Penetrarono senza sforzo nella carne appena sotto lo sterno, divaricarono la pelle, tagliarono i muscoli sottili come veli, arrivarono allo stomaco.
«Guarda quanti bei semini che avevi mangiato!».
Tirarono fuori le interiora e cominciarono a disporle sul tavolo, fissandole con piccoli spilli. Seguirono le curve dell’intestino soffermandosi su ogni cambio di direzione, ogni tanto rimuovendo uno spillo e rimettendolo in un'altra posizione.
La mano salì ad intercettare un filo di saliva che scendeva da una bocca sdentata, le labbra increspate e rotte come fossero ricoperte di sale. Le rughe sul viso vennero evidenziate da un sorriso distorto mentre un foruncolo sulla guancia destra si fece prepotentemente avanti. Si passò la mano bagnata sui pochi capelli grigi che crescevano in ciuffi disordinati dal suo cranio, lasciando libere intere chiazze di pelle evidenziate da macchie rosse. Scrutò attentamente coi suoi piccoli occhi gialli tutto il macabro disegno disposto sul tavolo.
«Oh, ma che cosa ci dici? Sì, questo lo sappiamo già… Stanno per partire? Sono più di dieci anni che stanno per partire. Lunghi preparativi, non trovi?».
Cambiò disposizione degli spilli, formando nuove serie di curve.
«Sì, sì, la ragazza è qui. Cosa vogliamo farne? Di che ti impicci tu, chi ti credi di essere?».
Sputò con disprezzo sul muso del topo, quindi si alzò e iniziò a passeggiare nervosamente avanti e indietro, biascicando in modo incomprensibile. Tornò al tavolo, afferrò una bottiglia e ne versò il contenuto in una scodella. Subito si liberò un intenso odore di vino speziato. Sminuzzò alcune erbe e le lasciò nella scodella in infusione, quindi tornò ad osservare i resti dell’animale.
«Questo è interessante… Due cavalieri si avvicinano al cancello del paese? Uno sciocco e un poeta? Quale dei due, ci chiediamo? Perché pensare che siano due persone diverse? No, le guardie li lasceranno passare, non temere: non sono lì per tener fuori qualcuno, oh no! Non fuori!»
Sorseggiò un po’ del vino alle erbe, quindi spostò ancora gli spilli.
«Occhi come un gatto e capelli bianchi? Questo… questo è triste. A volte si aspetta per così tanto tempo che alla fine dispiace dover smettere di aspettare. No, non sono lacrime, è solo che noi… Taci! Taci, adesso. Scusa, non volevamo alzare la voce, a volte ci capita. Come? No sciocchino, non si sta avvicinando una tempesta: la tempesta è già qui. Non vedi al di là del tuo muso, per questo noi siamo quello che siamo e tu solo un topino squarciato.»
Rimosse gli spilli, arrotolò nuovamente gli intestini e avvolse il topo in un panno accarezzandolo con delicatezza. Lo ripose su una mensola, nascosto dietro due vasi dai quali spuntavano strani fiori scuri che scendevano stancamente fino a sfiorare il pavimento.
Si voltò sentendo un gemito venire da dietro una tenda sudicia che copriva una parte del muro. La attraversò con gli occhi che brillavano di aspettativa. Si fermò osservando la ragazza che cominciava ad agitarsi sul letto, avvolta dalle coperte, la testa appoggiata su un cuscino dall'aspetto stranamente pulito. I capelli color dell'oro erano disposti ordinatamente attorno a lei, pettinati e lavati con cura. La fronte era coperta da un panno umido, due occhi splendenti come stelle lontane facevano fatica a restare aperti nel pallore del suo viso.
Lei rimase ferma sulla soglia a guardarla con uno strano sorriso, quindi si avvicinò al letto canticchiando un motivetto stonato: «Raggio di sole, raggio di sole, splendi per noi, piccolo fiore.»
Scostò la tenda dalla finestra, lasciando filtrare un filo di luce dai rampicanti che crescevano all'esterno.
Per Essi fu come una pugnalata nelle pupille. Alzò la mano per impedire alla luce di ferirla, ma i suoi movimenti erano lenti, troppo lenti, come in un sogno.
Due mani ruvide le strinsero le guance senza troppe cerimonie.
«Vediamo un po'...»
Il mondo era confuso, le sue percezioni distorte: la pressione sulle guance si confondeva col puzzo di marcio, riverberandosi nelle sue orecchie con un suono basso e vibrante.
Due dita secche le tennero aperte le palpebre a forza.
Finalmente cominciò a distinguere qualcosa davanti a sé: un viso contorto, un orribile ghigno scavato in un volto da vecchia. Cercò di chiudere gli occhi per scacciare quell'immagine, ma le dita glielo impedirono.
Poi, d'un tratto, la pressione sulle palpebre sparì: la vecchia si fece indietro con un'espressione stupita.
«Setsy! È nostra ospite, non puoi trattarla così!»
«Eccola che rompe... Non avevamo un accordo?»
«Dovevi comportarti bene!»
«E cosa sto facendo?»
C'era un'altra persona? Essi cercò di muovere la testa per capire da dove venisse la seconda voce: era gentile, quasi dolce. L'altra era ruvida, schietta. Aprì gli occhi: la vecchia gesticolava davanti a lei guardando fisso davanti a sé, poi abbassò lo sguardo.
«Sorella, ci sta guardando», disse la voce ruvida.
«Setsy, guarda come si fa», disse quella dolce.
La vecchia avvicinò le mani al suo viso. Essi cercò di sottrarsi, ma era ancora troppo debole. Le accarezzò il volto con tenerezza, asciugò le lacrime che scendevano sulle sue guance.
«Ben svegliata, bambina. Come ti senti?»
«Non... Chi sei?»
«Siamo. Io sono Metsy, piccola.»
«Setsy», disse l'altra raschiando dal fondo della sua gola. La prese con durezza attorno alle tempie, salvo poi allentare la stretta passando a modi più dolci. Si protese su di lei a fissare il diametro delle sue pupille.
«Come ti chiami?»
«Essi... Essi Daven.» Sorvegliava una goccia di bava che si stava raccogliendo all'angolo della bocca della vecchia, si ingrossava pronta a cadere sulla sua fronte. Lei si tirò indietro asciugandosi le labbra.
«Il trauma si sta riassorbendo. Ricordi come sei arrivata qui?»
«Il carro... Ci hanno attaccati. Ricordo... Frinyf! Dov'è Frinyf?»
«Non lo so, piccola...»
«Morto. Inutile farsi illusioni.»
«Setsy!»
Essi fissò le radici che spuntavano dal soffitto cercando di riordinare le idee.
«Siamo a Vergen?»
«No. Sei a Passafiume.»
Essi cercò di dire altro, ma sentì le vertigini avvolgerla, allontanarla. Un attimo dopo non era più lì.
«Si è riaddormentata, Metsy.»
«Ha bisogno di riposo, sorella.»
«Perché ci hai interrotto? È pericoloso, lo sai.»
«Non mi piaceva, non sai più come comportarti!»
«Tu invece sei quella perfetta! Sempre pronta coi tuoi consigli!»
«Non litighiamo, non dobbiamo farlo. Cosa intendi fare con lei?»
«Che ne pensi? Sento energia in lei: possiamo usarla, ci basterebbe!»
«Solo per poco... Questa volta no, Setsy, non servirebbe. C'è altro che possiamo fare, ricordi? Come facevamo una volta...»
«È passato tanto tempo... Non so se ne sono ancora capace.»
«Solo questa volta, insieme. L'attesa è quasi finita.»
«Va bene, facciamo come vuoi. Solo per questa volta.»
La vecchia riprese a guardare Essi distesa sul letto. Prese un pettine d'osso, lo lavò in un catino e poi si sedette accanto alla sua testa, pettinando delicatamente ogni capello, totalmente assorta nel compito. Cominciò a fischiettare un motivetto quasi senza accorgersene, accompagnando il movimento delle mani. Quando ebbe finito si rialzò e si protese verso di lei, appoggiando delicatamente le labbra sulla sua fronte.
«Baci dolci, piccina.» Una voce ancora diversa.
Alzò lentamente lo sguardo verso la finestra, verso le foglie smosse dal vento. Sospirò.
«L'attesa è quasi finita.»

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Capitolo 4
*** «Benvenuti a Passafiume» ***


Geralt si slacciò con estrema lentezza le cinghie che tenevano i foderi delle spade sulla sua schiena, quindi si sporse in avanti e consegnò le armi alle sentinelle davanti al cancello.
«È un oltraggio! Una rapina!»
«Ranuncolo, per favore...»
I guardiani si diedero da fare per avvolgere le armi in un panno. Erano in tre, due molto giovani, probabilmente non ancora addestrati nei molti usi di un rasoio, figurarsi quelli di una spada, l'ultimo era più anziano, portava una vecchia divisa da soldato dell'Aedirn che copriva la pelle scura delle sue braccia. Gli occhi erano particolarmente piccoli e sembravano sparire dietro un naso enorme e d'un rosso vivace.
«C'è altro?», chiese quest'ultimo.
Lui e lo strigo rimasero immobili per un istante, lo sguardo fisso in una reciproca dichiarazione di autorità. Ranuncolo si agitava dietro di loro come un gallo infuriato, mettendo a dura prova la pazienza delle guardie più giovani.
Geralt si chinò ed estrasse uno stiletto dallo stivale.
«Ecco, è tutto.»
«No, occhibelli, ci sono anche quelli.»
Lui si guardò le mani. «Sono solo guanti.»
«Le borchie.»
Se li sfilò e consegnò anche quelli con un sospiro.
«E adesso?», sbottò Ranuncolo stringendo il cappello tra le mani per la rabbia. «Vuoi ficcare il naso anche nelle nostre mutande? Chissà che lame d'acciaio abbiamo là sotto!»
Geralt soffocò a fatica un sorrisetto beffardo: quella gente sembrava avere i nervi a fior di pelle.
«Ve l'ho già spiegato», disse la guardia agitando sconsolata il naso a destra e a sinistra, con la testa che sembrava seguire per inerzia i suoi movimenti. «È sera e i cancelli sono chiusi: non accettiamo stranieri armati in casa nostra, specie a quest'ora. Vi restituiremo le armi non appena avrete parlato con il mastro del paese e saremo certi che non...»
«Ma avete idea di chi sono? Che posto di ignoranti è questo, se non riconoscete neppure il più grande bardo dei Regni Settentrionali?»
«Adesso basta! Ma io ti...»
«Buono Rufus, calma», disse il capo frapponendo il naso tra Ranuncolo e una guardia più giovane, rossa per la rabbia e con una vistosa peluria scura sotto il mento.
«Sì, ragazzino, stai tranquillo», sibilò il bardo per nulla intimorito. «Cosa ti spunta lì, sotto le guance? Ho visto peli simili venir fuori tra le chiappe di un altro bambino che ho sculacciato in una locanda a Wyzima!»
«Ehi, ehi! Basta, Ranuncolo, stai...»
«Sì, basta, adesso mi segui!»
«Toglimi le mani di dosso! Questa te la dedico: "A Passafiume attenti alle piume, che c'è un gran nasone che fa rima con co..."».
Gli eventi successivi furono rapidi, caotici e non privi di una poesia brutale che Ranuncolo, se fosse stato ancora cosciente, non avrebbe certo mancato di immortalare in qualche poema sul dramma dell'aggressività umana quando la ragione lascia spazio alla violenza.
Rufus, il ragazzino con la barbetta scura, si massaggiava la mano dolorante con aria estremamente soddisfatta. Il nasone cercava di riportare l'ordine distribuendo qualche rimprovero a casaccio ai suoi uomini.
Geralt si trovò ammanettato con l'unico rimpianto di non essere riuscito a mollare una sberla lui stesso al più famoso bardo dei Regni Settentrionali, steso al suolo con un'espressione particolarmente idiota e particolarmente appropriata.

Geralt e Ranuncolo sedevano su semplici sedie di legno ai lati opposti di una piccola stanza con le pareti in pietra squadrata. Una finestrella sopra le loro teste lasciava entrare un filo di luce mentre il sole spariva oltre le sbarre. Ranuncolo teneva lo sguardo a terra mentre tormentava il cappello con la piuma di pavone tra le mani. Aveva smesso di controllarsi i denti dopo essersi assicurato di non averne perso nessuno. Il labbro gli faceva ancora un male d'inferno, ma lo tormentava di più il suo orgoglio.
Lo strigo stava a braccia incrociate, le gambe stese davanti a sé e gli occhi socchiusi in placida indifferenza. Una mosca percorreva incessantemente l'aria immobile tra loro due, evidentemente insoddisfatta della staticità della situazione.
D'un tratto, Ranuncolo tossicchiò. Geralt non si mosse.
Il bardo tossicchiò così forte che si sarebbe detto che stesse per sputare un rospo.
Lo strigo si grattò tranquillamente il naso.
«Geralt? Sei arrabbiato con me?»
«No.»
Geralt era furioso, ma non con Ranuncolo. Di certo era colpa sua se erano in quella situazione: in cella, senza armi e con poche possibilità di dormire su qualcosa di più comodo di una sedia sgangherata.
Ma Geralt non era arrabbiato con lui.
«Sicuro che non lo sei?»
«Sì, Ranuncolo, non preoccuparti.»
Era furioso per altre ragioni: tutta la situazione gli ricordava qualcosa, era tutto stranamente familiare. C'era un ricordo che si agitava al confine più remoto del suo cranio, facendosi beffe dei suoi tentativi di acchiapparlo e portarlo alla luce. Se avesse capito cos'era avrebbe potuto deriderlo, spogliarlo della minima importanza e togliergli ogni possibilità di tormentarlo. Ma così, in ombra, restava una cosa vaga, senza nome, capace di punzecchiarlo, togliergli la lucidità di cui aveva bisogno, forse in grado anche di metterlo in pericolo. Tutto questo lo irritava terribilmente. Aveva bisogno di qualcosa, una traccia che lo guidasse: una parola, un'immagine, un odore. Doveva riflettere, escludere il resto, doveva...
«Yennefer non si sarebbe fatta mettere sotto così facilmente.»
Geralt spalancò l'occhio sinistro e puntò la sua pupilla da gatto dritta sul bardo, che agitò la testa con aria sconsolata.
«Ecco, lo sapevo: sei arrabbiato con me.»
Dopo tutto quel tempo, Ranuncolo riusciva ancora a sbalordirlo.
«Sei arrabbiato con me e hai pienamente ragione: è tutta colpa mia, mi prendo io la responsabilità di tutto»
«Adesso sì che siamo a cavallo...»
«Però anche tu! Ti sei lasciato ammanettare senza neppure reagire!»
«E cosa avrei dovuto fare? Mettermi a combattere davanti al cancello? Bel modo di presentarsi!»
«Sì, ma almeno...»
«Sei tu che hai cominciato a fare l'idiota come al solito!»
«E allora dillo che sei arrabbiato con me!»
«Lo sono adesso, peste!»
Si sentirono dei passi da dietro la porta della stanza, un vociare agitato. Geralt ebbe l'impulso di sfondarla e riempire le guardie di schiaffi, ma si costrinse a ritrovare la calma.
Da fuori armeggiarono col chiavistello e scattò la serratura. La porta si aprì mentre una torcia delineava le figure sulla soglia.
«Benvenuti a Passafiume.»

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Capitolo 5
*** la bestia tra noi ***


Ranuncolo strizzò gli occhi per vedere meglio le figure ferme sulla soglia della cella. Geralt si limitò ad adattare l'apertura delle pupille alla poca luce disponibile.
Un uomo anziano ma ancora robusto stava in piedi davanti a loro, attorniato da quattro guardie armate di manganelli. Il vecchio indossava una giacca ricucita, aperta su una camicia ruvida che copriva un petto che sembrava aver mantenuto molto della propria potenza. I pantaloni in pelle di capra terminavano in basso con due stivali di pelliccia legati alla fine del polpaccio.
Solo il portamento distingueva quest'uomo da un qualsiasi abitante di paese: dritto come un fuso, autorevole, quasi altero.
«Benvenuti a Passafiume», ripeté aprendo la mano in gesto amichevole.
I due stettero zitti, immobili sulle loro sedie.
«Benvenuti. Vorrei davvero che le mie parole sembrassero più sincere, ma dovete capire che non ci avete lasciato altra scelta al cancello. E dovete scusarli - aggiunse aggrottando la fronte con espressione pentita - se non vi hanno riconosciuto, maestro Ranuncolo: purtroppo l'arte più elevata giunge raramente da queste parti.»
Ranuncolo abbozzò un sorriso, ma subito voltò la testa di lato con l'aria di chi riceve troppo poco e troppo tardi.
«Ma saremmo più che felici di indire una festa per voi, se vorrete essere il nostro ospite d'onore: vorrei che vedeste che sappiamo rendere ciò che è giusto a persone speciali come voi.»
«Be', forse... si potrebbe fare se diceste chi...»
«Siete il mastro di Passafiume?», chiese direttamente Geralt.
Quello sorrise. «Il mio nome è Vergalio. E questa gente si ostina a considerarmi una loro guida, sì.»
«Siamo vostri prigionieri, mastro Vergalio?»
«Per gli dei, no! È chiaro che siamo partiti col piede sbagliato... Ma vorrei che potessimo rimediare. E voi consideratevi nostri ospiti.»
Entrò nella cella e fece qualche passo verso Ranuncolo.
«Come sta il vostro labbro, maestro?»
«Oh! Non fa male, roba da niente.» Si toccò la bocca come per convincersi di quello che stava dicendo.
«Mi dispiace», continuò Vergalio. «Furus è giovane e impetuoso. Credo che ancora non si renda conto della forza che possiede.»
«No, fa lo stesso. Colpa mia, chiedetegli scusa da parte mia.»
Ranuncolo che chiede scusa? Geralt era stupefatto.
«Va bene, maestro, lo farò. Vi consiglio di rivolgervi comunque alla vecchia Mà, domani mattina: sa rimettere a posto qualsiasi ferita.»
«Chi è?», chiese Geralt.
«La nostra guaritrice. La conoscerete.»
«Vuol dire che possiamo uscire da qui?»
«Ma certo! Sono venuto qui proprio per invitarvi a casa mia: abbiamo sicuramente cose di cui parlare, e vorrei che fossimo tutti un po' più comodi. Prego, alzatevi.»
Fece loro un cenno e si avviò fuori dalla cella.
Geralt e Ranuncolo lo seguirono mentre le guardie si misero a coppie, una davanti e l'altra dietro di loro. Percorsero un corridoio breve e basso dove si aprivano altre due celle, vuote. Alcuni topi guizzarono tra le loro gambe per poi scomparire in alcuni buchi nel muro.
«Non vi avevo detto di mettere le trappole?», chiese Vergalio.
«Sì, signore, l'abbiamo fatto», rispose una delle guardie. «Sono furbe queste bestie.»
«Già... Scusate questo spettacolo, amici miei», disse il vecchio tenendo aperta la porta che dava all'esterno.
Fuori dal corpo di guardia che fungeva anche da prigione, il paese si sviluppava ai due lati di una strada polverosa che correva a destra fino alla riva del Dyfne, mentre a sinistra si perdeva in una curva che lo celava alla vista. Al di fuori di qualche guardia munita di torcia, la via era deserta. In alcune case si vedeva ancora la luce tremula di qualche candela, ma la maggior parte di loro erano buie e silenziose, gli abitanti già immersi nel sonno.
Il gruppo girò a sinistra e cominciarono a camminare in silenzio. Anche se non c'era nessuno in giro, lo spazio davanti alle case era ingombro di casse, sacchi di stoffa e bagagli chiusi, preparati come se i proprietari intendessero partire ad un momento all'altro.
«State facendo grossi preparativi, mi sembra», osservò Geralt.
«Sì», rispose Vergalio senza voltarsi. «Il nostro tempo qui è quasi finito. Ma anche di questo parleremo meglio tra poco. Seguitemi.»
Giunsero in uno slargo della strada circondato da costruzioni più grandi. Con l'intuito infallibile esercitato in anni di poesia, Ranuncolo riconobbe subito la locanda del paese, e fu intimamente deluso quando Vergalio la ignorò prendendo invece una delle vie secondarie.
Arrivarono poco dopo davanti a una casa con un semplice portico in legno, un po' più isolata rispetto alle altre abitazioni. Se qualcuno avesse avuto voglia di occuparsene, attorno ad essa sarebbe potuto crescere un bel giardino, invece lo spazio era occupato da qualche recinto per gli animali e attrezzature per i lavori manuali della vita di tutti i giorni.
Vergalio fece un gesto e le guardie si fermarono all'ingresso, mentre Geralt e Ranuncolo lo seguirono dentro la casa.
Si trovarono in una grande sala decorata da trofei di caccia, pelli e corna.
Vergalio li precedette superando una splendida pelliccia d'orso usata come tappeto e si fermò davanti al camino accesso dalla parte opposta della sala. Lui prese alcune sedie e le dispose vicino al fuoco, facendo cenno ai suoi ospiti di avvicinarsi.
Geralt si fece avanti continuando a trovare nuovi dettagli del luogo dove si trovavano: le travi del soffitto erano nascoste da una larga rete da pesca sulla quale erano posti pesci di legno dipinti con colori brillanti. Alcuni tavoli reggevano delle candele poste ai lati della sala. C'era addirittura uno scaffale pieno di libri, tra i quali Geralt, senza avvicinarsi, ne riconobbe subito uno, dalla costola scura e usurata. Pregò che Ranuncolo non lo notasse.
Stava per sedersi davanti al fuoco quando notò un pezzo di legno fissato sopra il camino: era ondulato, attraversato da pieghe e solchi. Il colore scuro della corteccia sembrava riflettere la luce in ogni direzione, sembrava quasi catturare le fiamme per poi liberarle a piacere attorno a sé.
«Bello, vero?», chiese Vergalio sedendosi vicino a lui.
«Splendido», ammise Geralt. Ora veniva la parte delicata del suo lavoro.
Cominciarono a parlare, Vergalio non fu avaro di sorrisi amichevoli, scuse e domande leggere.
«Ma basta girarci attorno», disse poi. «Voi non siete qui per caso e sono sicuro che abbiamo cose serie di cui parlare.»
Ranuncolo fece per aprire bocca, ma Geralt lo fece stare zitto con un cenno della mano.
«Ha ragione. Non siamo qui per caso. Ma ci siamo imbattuti in quel che resta di un convoglio, non molto lontano da qui. Un massacro.»
Vergalio fissava i giochi delle fiamme, la mano appoggiata sulla barba leggera sul mento.
«Qualcuno ha seppellito i corpi. Non c'è un altro paese vicino. Siete stati voi a seppellirli.»
Il mastro annuì leggermente.
«Non credo che un essere umano sarebbe riuscito a fare quello che ho visto. Non da solo, almeno, ma non ho visto nulla che mi abbia spinto a pensare che fosse più di uno.»
Ci fu una lunga pausa, interrotta solo dallo scoppiettare del legno nel camino.
«Avete un problema, vero?»
«E voi sareste qui per risolverlo?». Vergalio continuava a fissare il fuoco con aria assorta.
«Forse sì. Possiamo...»
«Ah! Ecco mio figlio.»
Da una porta uscì un uomo che sembrava la copia del mastro: alto, robusto, portamento altero sostenuto da uno sguardo intelligente e fermo, i capelli, invece che bianchi, scuri e corti.
«Mio figlio Astario. Figlio, questi sono maestro Geralt e maestro Ranuncolo, nostri ospiti.»
Il nuovo venuto non disse niente e si avvicinò lentamente, fermandosi però all'altezza dello scaffale dei libri. I suoi occhi erano fissi su Geralt.
«Stavo discutendo coi nostri ospiti, figlio mio. C'è qualcosa che vuoi dirmi?»
«No, padre... Vado via subito.»
«Bene. Stavamo dicendo... Maestro strigo, voi...»
«"Errano per le contrade, molesti e sfrontati, definendosi persecutori del male, terrore dei licantropi e sterminatori di spettri" - cominciò a recitare Astario con voce baritonale - "Ed estorcendo ricompense ai creduloni quindi, riscossi questi ignobili guadagni, vanno oltre, al fine di perpetrare un'uguale truffa nella città più vicina. L'accoglienza più calorosa la trovano nella casupola del contadino onesto, semplice e ignaro, incline ad ascrivere ogni disgrazia e ogni avversità a incantesimi, esseri contro natura e mostri, all'azione di un demone dell'aria o di uno spirito malvagio. Invece di pregare gli dei, invece di portare ricche ricompense al tempio, un simile sempliciotto è pronto a consegnare i suoi ultimi soldi al vile strigo, sicuro che egli, quell'empio mutante, sia in grado di modificare la sua sorte e di proteggerlo dalle disgrazie".
Geralt si limitò a chiudere gli occhi, mentre Ranuncolo si agitava con un'espressione di disgusto.
«Oh, dei...»
«Astario! Ma ti sembra...»
Quello prese il libro nero dallo scaffale e lo tenne dritto davanti a sé come un'arma.
«"Invero, non esistono esseri più disgustosi di questi mostri chiamati strighi, dal momento che sono il prodotto di una magia ripugnante e della stregoneria."»
«Dannazione, lo sa addirittura a memoria...»
«Astario! Adesso basta!».
Avanzò ancora, incurante dei richiami del padre, puntato verso lo strigo che stava seduto, immobile.
«"Essi sono tutti furfanti privi di coscienza, virtù e scrupoli, creature provenienti senza dubbio dall'inferno, capaci solo di uccidere".» Scagliò il libro per aria centrando Geralt alla spalla, senza ottenere reazioni.
«Come hai osato portare un individuo simile in casa nostra, padre?»
«Sei impazzito! Fuori di qui!»
Lui guardò ancora lo strigo e il padre con lo stesso disprezzo. «Non ci sarà proprio nulla che potrò ricordare con orgoglio quando non ci sarai più?». Poi se ne andò senza aspettare nessuna risposta, battendo i passi che risuonarono finché non fu lontano.
Il vecchio mastro di Passafiume sembrava paralizzato. Stava in piedi davanti alla propria sedia, la mente forse che correva dietro al figlio, il corpo incapace di seguirlo. Ranuncolo stava per dire qualcosa, ma ancora una volta Geralt lo fermò.
Alla fine, Vergalio si piegò vicino alla strigo e raccolse il libro da terra. Si voltò verso il fuoco ma all'ultimo momento parve indeciso, quindi si risedette lasciando semplicemente cadere di nuovo sul pavimento quelle pagine nere.
«Cosa aveva detto sul benvenuto?», chiese Geralt cercando di controllare il proprio tono di voce, perché non si accorgessero che gli tremava la gola.
«Io... sembra che vi debba chiedere di nuovo scusa. Ma sarei sorpreso nel sapere che non siete abituato a questo...spiacevole genere di cose.»
«No, tutt'altro...», ammise lui.
«Siamo gente semplice... Posso promettervi questo: forse non troverete un trattamento migliore di quello a cui siete abituato, ma farò di tutto perché non sia peggiore.»
«Finora non posso dire che sia andata benissimo...»
«No, certo che no... Stavamo parlando di un problema?»
«Sì. Che voi avete.»
«E che voi forse potete risolvere. Ma a che prezzo?»
«Ne parleremo, ma prima voglio sapere che tipo di problema mi trovo davanti.»
Vergalio spostò nuovamente lo sguardo verso il fuoco, sembrò di nuovo assentarsi. Quindi sospirò.
«C'è una bestia tra noi.»

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Capitolo 6
*** Rifiuto ***


«C’è una bestia tra noi.»
Questo è certo, pensò Ranuncolo osservando un piccolo topo dal pelo marrone scuro che stava fermo in un angolo del salone. Stava sollevato sulle zampe posteriori, così immobile che sembrava non muovere neppure i baffi. C’era qualcosa in lui che non riusciva ad afferrare…
Ma in realtà c’era ben altro in testa al più famoso bardo di tutti i Regni Settentrionali: fremeva sulla sedia, sbuffava e si agitava spostando il peso da un bracciolo all’altro. Immaginava mille frasi pungenti per zittire quel moccioso arrogante che Vergalio si ritrovava come figlio. Ranuncolo non era certo il tipo da farsi venire la risposta giusta in ritardo, ma ogni tanto accadeva anche a lui, e questo lo mandava su tutte le furie: era una macchia sulla sua reputazione di poeta. Che avrebbe detto Yennefer se avesse saputo che lui non era neppure in grado di rispondere a tono a un ragazzino?
Ranuncolo si paralizzò sulla sedia. Spostò lentamente lo sguardo su Geralt.
Gli strighi non sanno leggere nel pensiero, vero?
Aveva viaggiato un po’ di tempo con lui e non aveva mai avuto prove in contrario. Non era neppure particolarmente intuitivo o empatico, a dirla tutta a volte era anche un po’ ottuso.
Ma lui ha vissuto con Yennefer. Potrebbe avergli insegnato alcuni trucchi…
Assurdo! Son cose da maghe. Le maghe fanno cose strane…
Si sentì avvampare. Cercò con lo sguardo il topo per distrarsi dal turbinio che sentiva dentro di sé, ma quello era scomparso. Sentì Geralt sospirare e si rese conto, con una certa vergogna, di essersi perso l’intera conversazione.
«Riepiloghiamo», disse lui con un tono secco, nervoso. «Una bestia vi minaccia, ma non potete, o non volete, dirmi com’è fatta, dove vive, da quanto tempo è tra voi.»
Vergalio annuì.
«Bene. E volete che io la trovi e mi occupi di lei all’alba del terzo giorno a partire da adesso, non prima, non dopo.»
«Esatto.»
«Perché?»
«Non posso dirvi altro, mi dispiace. So che gli strighi sono persone rapide e pratiche e…»
«Non c’è nulla di rapido e pratico in tutto ciò.»
«… e io ho bisogno di una persona come voi.»
Geralt lo fissò con due occhi stretti come fessure, inespressivi.
«No, voi avete bisogno di un idiota o di un disperato, e io spero di non essere nessuno dei due.»
Si alzò e fece cenno a Ranuncolo di fare altrettanto.
«Ripartiremo domani mattina», continuò. «Dove possiamo dormire? A meno che non vogliate riportarci in cella…»
«Niente affatto». Vergalio si alzò restando assolutamente impassibile. «Andate alla locanda del Fiume Rosso, nello spiazzo che abbiamo superato venendo qui. Ho già pagato per voi, consideratevi nostri ospiti.»
Geralt ringraziò e si avviò verso la porta, seguito da Ranuncolo che lo fissava stupefatto. Il bardo si voltò un’ultima volta a guardare il pezzo di legno che sembrava lampeggiare sul muro sopra il camino, alle spalle di Vergalio. Poi si affrettò dietro a Geralt e si chiuse la porta dietro le spalle.
Quello era già in mezzo alla strada, a diverse decine di passi di distanza. Corse finché non si trovarono fianco a fianco. Lo strigo dai capelli bianchi procedeva spedito, in silenzio, guardando solo la strada davanti a sé.
Avrebbe dovuto stare zitto, aspettare e lasciare che si calmasse, ma così non si sarebbe chiamato “Ranuncolo”.
«Quello era l’Albero di Fuoco, vero?»
Non ottenne risposta.
«Che facciamo? Intendi… Rubarlo?»
Geralt gli lanciò uno sguardo così feroce che avrebbe messo in fuga anche un orso. Ranuncolo ingoiò le parole che gli stavano per uscire e procedette accanto a lui in silenzio.
Entrarono nella locanda e si ritrovarono in un largo salone rettangolare, ingombro di tavoli quasi tutti vuoti. Nel mezzo, un fuoco riscaldava l’ambiente e dall’altra parte della sala un uomo grasso e peloso li fissava con le grosse mani appoggiate pesantemente sul bancone.
«Finalmente! Non ne potevo più di aspettare! Vergalio ha pagato per voi, ma non sono mica costretto a restare sveglio tutta la notte, sapete?»
L’oste era decisamente più largo che alto, ricoperto da una peluria scura che faceva risaltare ancora di più il pallore della pelle e del doppio mento.
«C’è posto solo nella stanza comune. Niente discussioni!»
«Abbiamo fame», disse Geralt arrivando ad appoggiarsi al bancone a sua volta. «Cos’avete da darci?»
«Solo zuppa di lardo e fagioli.»
«Portacene due porzioni. E birra.»
Si sedettero a uno dei tavoli mentre l’oste, ciondolando e sbuffando, si ritirava in cucina.
 

Il topino si allontanò dalla casa di Vergalio. Corse per le strade deserte, invisibile tra le ombre proiettate dalla luna. Zampettò tra l’erba davanti all’ingresso della strana abitazione costruita attorno al tronco di un vecchio frassino. Si arrampicò sulle foglie e arrivò fino alla finestra. Nonostante fosse abituato a tutto questo, aveva sempre un po’ di timore.
«Guarda chi è tornato!»
Una coppia di mani rugose e ossute lo presero e lo tirarono dentro. Il topino squittì impaurito mentre le dita si chiusero su di lui. Ma ricevette solo un’amorevole carezza sul muso.
La vecchia lo stuzzicò sorridendo. «Su, non aver paura, piccino: non facciamo come l’altra volta. Niente spilli, promesso.»
Il topino annuì, rassicurato.
«Vieni qui su e dicci tutto.»
Le mani lo sollevarono fino a portarlo accanto alla testa. Lui zampettò un po’ per allontanare qualche ciuffo di capelli grigi fino ad arrivare all’orecchio.
«Dicci, dicci! Come? … Saremo una fino a che ci pare e piace, stupido sorcio!»
Le mani si chiusero e picchiarono sul tavolo con la forza di un maglio, sollevando schegge di legno e scodelle che andarono a infrangersi per terra.
La vecchia si fermò ansimando, le mani ancora chiuse.
«L’hai rotto di nuovo, Setsy»
«E chi se ne importa?»
«Sorella, i patti…»
«E piantala con questi patti! Mi farai diventare matta! Ci ha mancato di rispetto! Io spacco le ossa a chi ci manca di rispetto!»
Ansimò ancora, tornando lentamente a un respiro normale.
«Ti sei calmata?»
«Sì… Scusa…»
«Non è successo nulla di grave. Ora mettilo sul tavolo, così… Però poi metti a posto tu, eh? Ora passami l’ago e il filo. No, non quello, quello più piccolo, che si vede meno. Vedi come si fa? Te l’ho fatto vedere tante volte: passi il filo qui, lo fai entrare in questo buco, lo tiri da quest’altra parte. Sì, butta via quell’osso, tanto non gli serve. Ecco fatto!»
«Metsy, non si muove…»
«Un attimo di pazienza!»
La vecchia si chinò sul tavolo e soffiò dolcemente sul muso dell’animale: i baffi tremarono, le zampe si stesero e il topolino si rimise barcollando in piedi.
«Eccolo! Come nuovo! Come ti senti?»
Quello squittì furiosamente, girando più volte su se stesso.
«Era un osso inutile, non ti serviva mica! E poi era tutto rotto. Inutile piangere sull’osso spezzato. Forza, ora, dimmi tutto!»
Il topino si avvicinò al bordo del tavolo mentre lei portava l’orecchio alla sua altezza. Squittì piano, con precisione, che nessuna parola andasse perduta.
La vecchia ascoltò, dapprima sorpresa, poi col volto contratto per la rabbia. Il topo saltò subito via non appena lei accennò a muoversi: si alzò in tutta la sua altezza, le mani contratte a pugno sul tavolo, la gobba scomparsa all’improvviso.
«Come osa? Come può farci questo?». La sua voce era una sola, un suono che mischiava le tonalità delle altre due. Entrambe furiose.
«Arriva e se ne va subito? È un insulto! Non abbiamo aspettato secoli per subire un’offesa del genere!»
Cominciò a percorrere la stanza a passi ampi, calciando le scodelle e le pentole sparse per terra.
«Ah, ma gliela facciamo vedere noi! Ah, sì!»
Accese il fuoco, ci mise su una pentola con un po’ d’acqua e poi raccolse alcuni ingredienti dalle mensole.
«Ah, vedrà! Vedranno entrambi! Uh, guarda: bolle, bolle già!»
Si inginocchiò con una risatina isterica e cominciò a dividere ordinatamente quello che aveva in mano.
«Vediamo… Sì! Giunco di pastore! Un po’ secco ma va più che bene. Un dente di iena femmina… aspetta che lo passiamo un po’ in un pestello… e succo di mandragora! C’è tutto, c’è tutto!»
Pestò il dente di iena fino a ricavarne una polvere sottile, poi mise tutto nella pentola e cominciò a soffiare sul fuoco. Fece bollire per mezzora e poi raccolse il liquido con un mestolo e lo versò in una boccetta di vetro. Era trasparente come acqua, del tutto inodore.
«Topo! Vieni qui!»
Lui si fece avanti, tremante.
«Tieni, prendi questa. E anche questo biglietto. Sai cosa farne, vero?»
In risposta, quello prese tutto tra le zampe anteriori e corse fuori dalla finestra con un sonoro squittio di sollievo.
 

L’oste del Fiume Rosso si dava da fare in cucina. I piatti erano pronti, c’era solo da prendere la birra. Un profumino speziato di carne e fagioli si era diffuso per la stanza. Sospirò e si diresse al tavolo dove i due piatti erano in attesa di essere portati.
Per poco non si morse la lingua per la sorpresa. Sul tavolo, tra i due piatti pieni di lardo e fagioli, c’era una piccola boccetta di vetro, con un pezzo di carta con scritto: “Per i nostri nuovi amici”.
L’oste si guardò attorno: come sempre in questi casi, non c’era nessuno.
Prese la boccetta cercando di non tremare e ne versò il contenuto nei piatti.

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Capitolo 7
*** Prima Serata in Paese ***


Tutto sommato, era una buona serata per Rufus.
Si faceva strada tra la gente, stringendo una piccola tavola su cui annotava dei numeri con un carboncino e facendo a tutti la stessa domanda: «Allora, amico, scommettiamo?»
Le persone erano disposte in cerchio attorno alla piazza, tutte rapite dal grande spettacolo serale.
Rufus teneva i conti spostando rapidamente gli occhi sulla tavola. A volte si passava la mano sotto il mento, ancora un po' irritato per l'uso del rasoio, ma non se ne curava: su quella tavoletta si stava creando una vera fortuna!
«Ehi Rufus! Vieni qui!»
Quello alzò lo sguardo dai suoi conti e vide un ragazzo che gli faceva segno con la mano.
«Su! Muoviti!»
«Ciao Astario», disse Rufus avvicinandosi a lui. «Ti godi lo spettacolo?»
«Certamente!», esclamò lui ridendo e lanciando un'occhiata verso il centro della piazza. «Come siamo messi a scommesse?»
«Un'infinità sullo strigo contro quasi nulla sull'altro.»
«Ci credo bene! Chi sarebbe così scemo da scommettere su quel mingherlino?»
«Be', una c'è...». Rufus controllò rapidamente sulla propria tavola. «Polanna ha scommesso su di lui. Quella ragazza che abita in riva al fiume...»
«Sì, ho presente... Scema come una capra, ma con gran belle tette. Tu cos'hai fatto alla faccia?», chiese Astario voltandosi verso di lui.
«Be', io...», balbettò lui passandosi la mano sulla guancia.
«Il trovatore ha colpito nel segno, eh?».
Rufus arrossì violentemente.
«Stai meglio così.»
«Davvero?»
«Sì, sì. Ora sembri un bel culo rasato!»
Astario tornò a guardare verso il centro della piazza con una sonora risata, mentre Rufus si concentrò sulla propria tavola, cercando di calmare il calore che provava al viso.
«Senti, Astario», disse lui quasi sospirando. «Vuoi scommettere? Altrimenti io...»
«Certo! Metti dieci a nome mio sullo strigo.»
«Va bene...»
«Ah, un'altra cosa...».
Astario lo cinse per le spalle e lo spinse qualche metro più lontano dal cerchio di gente.
«Fammi un favore, Rufus: fai in modo che nessuno cerchi di aiutare quei due o si faccia venire dei rimorsi di coscienza»
«E come dovrei fare?»
«Fai dei cambi vantaggiosi sulle scommesse. I migliori di sempre: vedrai che così nessuno alzerà un dito per loro.»
«Ma così io...»
«Non preoccuparti, ti pagherò io quello che ci perderai così. E ora vai!»
Astario lo spinse di nuovo in mezzo alla gente mentre lui tornò a godersi lo spettacolo.
Dalla folla si levò un grido eccitato. Nell'aria c'era odore di sangue e sudore.
Rufus lanciò uno sguardo in mezzo alla piazza, ma non stava guardando davvero. Si sentiva ancora avvampare, come se gli abiti gli bruciassero addosso.
Si riscosse quando un uomo gli diede una gomitata mentre cercava di alzare la figlioletta sulle spalle per farla vedere meglio. Si rese conto di stringere ancora la tavoletta e il carboncino sulle mani. Rilesse le cifre scarabocchiate e si convinse che, tutto sommato, era una buona serata.

Era cominciato tutto nella locanda dove Geralt e Ranuncolo erano andati dopo l'incontro con Vergalio. Avevano atteso per diverso tempo che l'oste portasse la sua zuppa con lardo e fagioli, ma ora che avevano il piatto davanti l'attesa sembrava ben ripagata.
Il trovatore chinò la testa sul piatto arricciando gli angoli della bocca in un sorriso soddisfatto mentre l'aroma si spargeva in mezzo a loro. Prese il cucchiaio e cominciò a divorare la zuppa con aria estremamente soddisfatta.
Lo strigo era meno entusiasta. Giocherellò diversi minuti col cucchiaio prima di portarsi un boccone sulla lingua. Il medaglione a forma di lupo sussultò violentemente nell'istante in cui le sue labbra si chiusero attorno al cucchiaio. Lui sobbalzò, la zuppa gli andò quasi di traverso, il medaglione continuò a vibrare mentre il cibo scivolava faticosamente lungo l'esofago. Geralt si piegò sul tavolo tossendo convulsamente.
«Ehi! Geralt, tutto bene?».
Fece un cenno a Ranuncolo mentre cercava di riprendere fiato. Il fatto che il cuoco avesse abbondato col pepe non lo aiutava affatto.
 «Sì... sì, tutto a posto... Diavolo...», ansimò lo strigo con gli occhi vistosamente arrossati nonostante il loro aspetto da gatto.
Ranuncolo lo teneva d'occhio continuando a mangiare la zuppa. Poi rise puntandogli contro il cucchiaio.
«Mai visto qualcuno fare tante scene per un boccone di traverso!»
Geralt fece una smorfia senza rispondere. Provò l'impulso improvviso di lanciargli contro il cucchiaio, ma si trattenne.
Il medaglione aveva già smesso di vibrare. Era stato un falso allarme? Lo strigo fece rapidamente il calcolo di quante volte in tutti quegli anni il suo medaglione avesse fatto cilecca. Non più di due o tre.
Geralt imprecò. Si guardò attorno, ma nella locanda non c'era nessun altro a parte loro due e l'oste dietro il suo bancone. Si piegò sul piatto e annusò attentamente, ma non sentì nulla di strano. D'altra parte gli odori erano stati coperti dalla dose abbondante di pepe che era stata messa nella zuppa.
Non capiva, e non gli piaceva non capire. Sentiva qualcosa stringergli le viscere, un nervosismo che cozzava contro i suoi muscoli senza riuscire a sfogarsi.
Ranuncolo continuava ad osservarlo.
«Sicuro che vada tutto bene, Geralt?»
«Sì, sì...»
Il trovatore guardò il piatto davanti allo strigo.
«Non mangi?»
«No, non ho fame... Lo vuoi?»
«Certo! È squisito, non sai che ti perdi!»
Geralt prese il piatto e lo allungò verso Ranuncolo. Poi successe. Geralt sentì il suo braccio muoversi da solo, come un serpente che scatta all'attacco: mosse di scatto il polso e lanciò il piatto dritto in faccia al bardo.
Ranuncolo lanciò uno strillo acuto mentre il grasso gli inondava il viso e colava sulla camicia, mentre i pezzi di trippa si posavano sui suoi capelli come grossi vermi biancastri.
«Ma che diavolo... Geralt!»
Lo strigo scoppiò in una fragorosa risata. Una striscia di carne cadde sul naso del trovatore come una larva matura e questo lo fece ridere ancora più forte.
«Oh dei, scusa, io..», non riuscì a continuare la frase a causa di un eccesso di risa.
«Incredibile...». Ranuncolo, rosso di rabbia, si chinò a controllare il proprio cappello con la piuma d'airone. Miracolosamente era stato risparmiato dalla zuppa.
«Ranuncolo, io...». Non riuscì di nuovo a finire.
«Cosa c'è, Geralt? Stai cercando di chiedermi scusa? Passi tre giorni lontano dalle cosce della tua maga e vai fuori di testa?»
Le risate gli si strozzarono in gola. Guardava il trovatore con occhi grandi e scuri. Sentiva le sue mani fremere di aspettativa. Tutti i suoi muscoli erano tesi ma immobili, e sapeva benissimo cosa sarebbe successo alla prima mossa.
Per loro fortuna, l'oste si precipitò in mezzo a loro.
«Che succede qui? Calmatevi o uscite!»
Geralt guardò l'oste e le sue pupille si restrinsero appena.
«Tutto a posto», disse con una voce ancora più metallica e sgradevole del solito. «Ora io e il mio amico andiamo a dormire. Dove sono le stanze?»
«Sopra le scale, quelle là», disse lui indicando dietro di sé i gradini che portavano al piano rialzato.
«Sopra le scale, magnifico...»
Geralt si alzò e si mosse, seguito da Ranuncolo. Salirono in silenzio, mentre Ranuncolo imprecava a bassa voce e cercava di togliersi la sporcizia dai vestiti.
Arrivato in cima, Geralt si voltò verso di lui.
«Cosa stavi dicendo di Yennefer?»
«Cosa? Guarda, nient...»
Il calcio che ricevette nello stomaco gli strappò il fiato dalla gola. Cadde lungo i gradini sfondandoli col proprio peso, trovando la forza di gridare solo quando arrivò in fondo.
Aprì gli occhi appena in tempo per vedere Geralt spiccare un salto e tuffarsi su di lui. Ranuncolo rotolò di lato un attimo prima che l'altro gli sfondasse il torace col ginocchio, andando invece a cozzare sul pavimento. Lo strigo crollò a terra urlando e tenendosi la rotula tra le mani.
Ranuncolo si rialzò a fatica, ignorando completamente l'oste che si sbracciava accanto a loro. Afferrò una sedia con due mani e la alzò sopra di Geralt. Ma un attimo prima che potesse colpire, lo strigo si gettò su di lui, lo afferrò per i fianchi e lo sollevò sopra la propria testa, lanciandolo di schiena contro un tavolo, che si sfondò sotto il colpo in un'esplosione di polvere e schegge.
Geralt si girò verso di lui. Il ginocchio lo reggeva bene, e il dolore era totalmente scomparso. Come una bestia completamente in preda al suo istinto, senza più alcuna sensazione, solo con una furia cieca che pompava nei suoi polmoni.
Afferrò Ranuncolo per i piedi. Quello si mosse di scatto e lo colpì in testa con un pezzo di legno, ma non se ne accorse neppure: gli strappò l'arma improvvisata dalle mani e poi lo scagliò attraverso la porta, fortunatamente aperta.
Il bardo rotolò sulla ghiaia e sul terriccio, mentre già la figura scura dello strigo copriva la luce che filtrava dalla locanda.
Ranuncolo si rialzò ignorando il dolore. Non si chiese cosa stava succedendo, non aveva importanza. Anche lui era scivolato in una rabbia cieca che non aveva bisogno di motivazioni per combattere diverse dall'eccitazione che dava il combattimento stesso.
Si gettarono l'uno contro l'altro gridando come animali.
Ranuncolo aveva la velocità: schivò un pugno dello strigo e lo colpì al fianco.
Geralt aveva la velocità e la forza: incassò e fece un mezzo mulinello colpendo il bardo dietro la nuca.
La gente si radunò nella piazza. Prima pochi curiosi, poi una folla sempre più numerosa, chiusa a cerchio attorno a loro. Qualcuno cominciò ad incitarli, qualcun altro organizzò le scommesse.
Ranuncolo era a terra. Geralt gli si gettò contro e rotolarono entrambi al suolo. Si colpivano con pugni e testate, senza fermarsi neppure quando il sangue gli colava sugli occhi e gli annebbiava la vista.
Geralt si immaginava avvinghiato a Yennefer, ma questo non faceva altro che spingerlo a colpire con più forza, creava altri strati di rabbia dai quali emergeva solo il suo istinto più feroce.
La voce di Ranuncolo lo insultava: nonostante avesse la bocca gonfia di sangue, le sue parole continuavano a canzonarlo con versi in rima che descrivevano perfettamente la scena di lui e Yennefer su quel balcone, di Yennefer con qualsiasi altro uomo, di lei con Istredd e i gheppi neri, di lei e...
Geralt si fermò, il suo istinto sorpreso da un risveglio improvviso della ragione. Ricordò Istredd, il tradimento, il duello al pozzo, il mago che decideva di combattere contro di lui con la spada invece che con la magia, il suicidio...
Bloccò il braccio in aria e guardò il trovatore sotto di lui.
«Come fai a sapere di Istredd? Dei gheppi? Non l'abbiamo detto a nessuno, non puoi...»
Ranuncolo afferrò una pietra e colpì lo strigo all'orecchio sinistro.
Geralt si afflosciò senza un grido, mentre Ranuncolo si spostò sopra di lui e lo colpì ancora con la pietra già rossa. Sollevò la mano per colpire ancora, ma si sentì mancare il respiro e le dita gli si aprirono lasciando cadere il sasso per terra. Si lasciò andare senza forza, appoggiando la testa sul petto di Geralt.
Gli ci volle qualche minuto per rendersi conto che non si muoveva.
«Oh dei...»
Ranuncolo ritrovò d'un tratto energie e gli strappò l'apertura della camicia. Appoggiò l'orecchio allo sterno, ma non riusciva a sentire altro se non un sordo ronzio dentro la propria testa.
«No, no, no.. Su, avanti!»
Gli prese le guance tra le dita sporche di sangue, ma il suo viso era inerte, non c'era un movimento o un'espressione. Ranuncolo si sentì raggelare. Lo smosse con forza sempre maggiore, fino a prenderlo a schiaffi.
«Muoviti! Muoviti! Non fare lo stronzo!»
Gli tirò un pugno sullo sterno e d'un tratto Geralt inspirò col rumore di chi inspira punte di ghiaccio invece di aria. Tossì sangue mentre il viso diventava scuro.
Ranuncolo lo girò sul fianco e alzò la testa verso la folla.
«Aiutatemi!»
Nessuno si mosse, sembravano inebetiti, immobili e contrariati come un fumatore d'oppio a cui abbiano strappato la canna all'improvviso.
«Aiutatemi, figli di puttana!»
Stavano in silenzio a guardarli. Geralt sputò qualcosa di scuro e grumoso sul terriccio davanti a sé.
D'un tratto, un uomo uscì dalla folla e arrivò fino a loro.
«Un guaritore... Dov'è un guaritore?»
«Di qua, vieni.»
L'uomo prese Geralt sotto un spalla e lo sollevò. Ranuncolo prese lo strigo dalla parte opposta e cercò di mantenere il passo, nonostante il dolore che gli trafiggeva le gambe e i visceri.
Osservò l'uomo che stava dall'altra parte. Aveva il cappuccio sollevato, ma lo riconobbe dal naso che spuntava con prepotenza da sotto la stoffa. Il trovatore si ripromise di non prenderlo mai più in giro per il suo naso. Forse una volta ancora, ma poi basta.
«Dove stiamo andando?»
«Dalla migliore guaritrice in città... Ma che vi è preso? Voglio dire, perché?»
«Non lo so...»
Ranuncolo provò a pensarci mentre camminavano. Non aveva senso, era stato tutto troppo improvviso. Geralt aveva tutte le ragioni per detestarlo, ma non così, non era da lui.
Il trovatore si piegò verso lo strigo, arrivando a sussurrargli nell'orecchio:
«Geralt, non sarò uno strigo, ma capisco anch'io quando qualcosa non va come dovrebbe. Quello che è successo è strano, ma forse capisco perché è successo. So che... l'errore che ho fatto non si cancellerà così all'improvviso, ma dobbiamo provarci. Sai che diceva mio nonno? Gli uomini per essere amici devono fare qualcosa assieme. Questo posto, qualsiasi cosa esso sia, credo sia l'occasione giusta per fare qualcosa assieme...»
Ranuncolo lo guardò, ma nulla lasciava intendere che avesse capito qualcosa di ciò che aveva detto: la testa era inerte, ciondolava sospinta dal ritmo del loro passo, gli occhi erano chiusi e ogni tanto sputava per terra un pezzo di sé.
Sperò che avesse capito qualcosa. Anche perché non aveva la forza per ripeterlo: la vista gli si annebbiò, improvvisamente sentì un freddo soffocante prendere ogni parte del suo corpo. Sospettò di stare per morire.
Si ritrovò a terra, senza più sentire alcunché, con gli occhi che si chiusero catturando solo un'ultima immagine: una casa costruita nel tronco di un antico frassino e una vecchia donna in attesa davanti alla porta.

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Capitolo 8
*** Un sogno e un cambio di programma ***


Essi Daven sognava. Le palpebre chiuse sul bianco dei suoi occhi, le pupille perse lontano, immerse in un prato di verbena umida. Fiori bianchi, rossi e blu le accarezzavano il viso lasciandole tracce sulle guance che erano acqua ed erano polline. D'un tratto sentì accanto alle labbra un tocco ruvido, di una dolcezza incerta.
Aprì gli occhi e si trovò in quelli di gatto di Geralt. Un volto ispido di barba bianca e un'espressione stupita.
Essi lasciò che lui ritirasse la mano lentamente, riportandola sulla propria coscia avvolta nei pantaloni di cuoio indurito, mentre fingeva di osservare un filo d'erba per nascondere l'imbarazzo.
Di come si accarezza dolcemente hai molto da imparare, pensò lei inseguendo il suo sguardo. E quando trovò i suoi occhi guardò sotto la maschera del guerriero, sotto la maschera dello strigo, oltre il mostro, oltre la leggenda, trovando solo un uomo imbarazzato per aver provato ad accarezzarla senza svegliarla.
Tenerezza e desiderio si mescolavano nel suo petto come un fuoco liquido e denso, che alimentava il suo respiro e assopiva i suoi pensieri. Non smetteva di fissare i suoi occhi, come se il loro sguardo potesse cancellare la distanza che li separava senza muoversi, come se fossero abbracciati da sempre.
Provò paura, la paura che svanisse tutto alla prima mossa, come nebbia grigia.
D'un tratto lei sentì strani rumori, come una porta che si apre con forza, passi rapidi, voci allarmate, forse qualcuno stava male...
No, non era vero. Vicino a loro il fiume scorreva placido. Ranuncolo si era procurato una canna da pesca e li aveva lasciati lì, da soli.
Essi sentì qualcos'altro unirsi al calore nel suo petto... Cos'era? Nostalgia? Perché?
Vide le labbra dello strigo smuoversi, senza avvicinarsi a lei. Da lì a poco lui avrebbe parlato, le avrebbe spiegato tutto, le avrebbe detto perché, forse una giustificazione...
No, pensò lei, voglio restare qui. Senza spade, senza maghe più interessanti ed eternamente giovani. Non voglio vergognarmi, non voglio restare sola...
Lo strigo aprì la bocca per parlare, ma Essi gli strinse la mano per fermarlo.
Questa volta no...
Si spostò lentamente sopra di lui, guidando le sue mani sui propri fianchi. Quella schiena che avrebbe retto anche la carica di un toro si piegò sotto il suo peso, sprofondando tra la verbena.
Da fuori i rumori continuavano, diventavano più forti.
No, pensò lei schiudendo le labbra sulle sue. Voglio dormire ancora un po'.

Quando Geralt cominciò a riaprire gli occhi, si ritrovò immerso in un'oscurità densa e carica di odori. Vicino a sé sentiva la voce di Ranuncolo e quella acuta e a tratti stridula di una vecchia.
«Povere noi! Povere noi! Quanto movimento, che confusione!»
«È tutta colpa mia...», si lamentava il bardo. «Morirà, vecchia? Morirà?»
«Non sei morto tu che sei uno stecchino, se morisse questo qua sarebbe una vera offesa! E noi siamo Mà!».
Invece di rispondere a tono, Ranuncolo continuò a piangere e a disperarsi. La situazione doveva essere davvero grave.
Geralt decise di restare immobile e tenere gli occhi chiusi ancora un po'.
Sentì sul proprio viso la presa decisa di due mani ossute e ruvide, piene di calli. Si sforzò di restare impassibile mentre la sua testa veniva girata a destra e a sinistra.
«Interessante, interessante…», biascicò la donna facendo con la bocca un rumore di risucchio ogni volta che un filo di saliva le usciva dalle labbra.
«Cosa? Che cosa?», chiese Ranuncolo arrivando di scatto davanti a lei.
«Testa robusta, ah sì!».
Una serie di risatine stridule accompagnarono i colpi leggeri che Geralt sentì sulla fronte, come se lei lo stesse picchiettando con le nocche.
«Ehi! Non fare così! Ha subito un trauma cranico!»
Le risa divennero ancora più acute, cambiando timbro a tratti, come se l’aria passasse attraverso due gole diverse nello stesso momento.
«Un trauma, proprio!». La vecchia afferrò il braccio di Ranuncolo e lo strinse tra le dita, come a saggiarne la consistenza.
«Ma cosa…? Molla!»
«Zitto! Che c’è? Non hai mangiato abbastanza pollo da piccolo? Ma guarda qui! Non ti vergogni?»
«Lasciami il braccio!».
Ranuncolo si divincolò e si allontanò da lei, andando a sbattere contro il tavolo ingombro di ciotole. Un topolino scappò tra le sue gambe squittendo impaurito.
«Un trauma cranico!», strillò lei continuando a ridere. «Certo! Osso temporale incrinato, danni all’orecchio medio, probabile interessamento del labirinto vestibolare. Forse anche una compressione del lobo temporale ed emorragia interna. E quante volte l’hai colpito con una pietra? Due? Tre?»
«Io…»
«La prossima volta che devi ammazzare qualcuno, chiedi che te lo portino già morto e frollato a dovere, che la carne è più tenera!».
Geralt riuscì a smettere di sogghignare un attimo prima che la vecchia si girasse e tornasse a concentrarsi su di lui.
Ranuncolo si sollevò la manica della camicia e osservò con stupore i lividi che le dita della donna gli avevano lasciato sul braccio.
«Ma non devi preoccuparti», disse lei strappandolo solo parzialmente dai suoi pensieri. «Questo qui è attaccato alla vita come una mosca alla ragnatela…».
Il tono delle sue parole si era fatto man mano più assente, come se si stesse perdendo nei propri ricordi. «È uno strigo e gli strighi sono robusti. Era molto tempo che volevamo vederne uno, ed eccolo qui…»
«E perché volevi vederne uno?».
Ranuncolo fece per avvicinarsi, ma sentì un’improvvisa repulsione per quella vecchia che si voltò verso di lui con un ghigno increspato, fissandolo coi suoi piccoli occhi ingialliti.
«Perché siamo curiose», rispose accentuando le “r” e le “s” con un sibilo della lingua in mezzo ai pochi denti rimasti.
Ranuncolo lasciò cadere la questione e si guardò attorno. Si trovavano in una piccola stanza circolare, il cui poco spazio era quasi del tutto occupato dal tavolo su cui stava ancora appoggiato e dalla branda dove avevano disteso Geralt. Un piccolo camino era scavato accanto alla branda e la luce filtrava dalla finestra che si trovava sopra il tavolo. Tutto era ingombro di ogni genere di scodella e vasi di cotto, alcuni posti per terra, altri vicino alle mani di Ranuncolo, altri ancora sulle mensole che correvano sui muri. Da questi ultimi scendevano radici, muschi e altre cose che lui non riusciva ad identificare.
Oltre alla porta da cui erano entrati, ce n’era un’altra che dava su un altro ambiente, ma era nascosto da una pesante tenda che scendeva dallo stipite.
«Di là che c’è?», chiese non riuscendo a contenere la curiosità.
«Casa nostra. Voi state qui.»
Il bardo desistette davanti al suo tono perentorio, mentre lei si chinava ad osservare il volto di Geralt. Lui poteva sentire il suo fiato nelle narici. Con sua sorpresa, lo trovò quasi profumato.
«Ah-ah!», esclamò lei alzandosi improvvisamente in piedi.
«Che c’è? Sta male?»
«Smettila di preoccuparti come una chioccia su un pulcino! Sei insopportabile!»
Si infilò un paio di guanti di cuoio senza la punta delle dita e poi cominciò a raccogliere alcuni ingredienti.
«Accendi un fuoco. Sei capace di accendere un fuoco?»
«Sì, certo…».
Geralt stava attento a non aprire gli occhi, ma catturava ogni rumore attorno a sé per capire cosa stessero facendo. Sentì Ranuncolo sistemare alcuni bastoni secchi vicino a lui e il rumore dell’acciarino mentre sprizzava scintille sul legno. Il bardo sembrava incredibilmente mansueto per il suo carattere. Forse era per l’età e il carattere impetuoso della vecchia? O forse perché era preoccupato per la vita dello strigo?
Quest’ultimo pensiero lo riempì d’orgoglio e soddisfazione.
Ben ti sta! Pensò Geralt cercando di assumere la posa più inerte e sofferente possibile.
«Acceso il fuoco? Bravo, ora scansati!»
«Sì, ecco, va bene così?»
«Oh sì! Che bravo!».
La vecchia cominciò a mettere qualcosa in un catino sul fuoco ridacchiando sommessamente, mentre nessun suono veniva da Ranuncolo. Dopo pochi minuti, cominciò a diffondersi un odore pungente e penetrante.
«Ecco! È pronto, è pronto! Dacci una mano!»
«Sì! Che devo fare?»
«Tieni questa ciotola mentre versiamo… Ecco, piano, così. Ora prendi il catino e rimettilo giù senza scottarti.»
Geralt sentì i passi della vecchia avvicinarsi mentre Ranuncolo riponeva il catino sul camino col fuoco ormai spento.
Poi il bardo notò il suo viso: «Guardalo! Sta male!»
«Ah sì, tantissimo… Ora vediamo…».
Geralt sentiva un odore sempre più pungente e acido mentre lei si sedeva accanto a lui e gli avvicinava la ciotola alle labbra.
«Cosa gli stai dando?»
«Guano di gallina e vermi di campo, bolliti in urina di cavallo vecchia di tre mesi.»
Geralt spalancò gli occhi di colpo.
«Eccolo qui, il malato!»
La vecchia gli pinzò il naso con le dita e gli infilò praticamente la ciotola in bocca. Lo strigo prese una sorsata prima di riuscire a scagliare l’orrenda brodaglia via con un colpo della mano.
La ciotola si infranse per terra, andando ad aggiungersi al resto del ciarpame che ingombrava il pavimento.
«Geralt! Stai bene!».
«Certo che sta bene, l’abbiamo curato noi».
Geralt ignorò Ranuncolo che quasi saltellava accanto alla sua branda e sputò cercando di allontanare il sapore rivoltante che sentiva sulla lingua.
«Vecchia, non mi avrai dato davvero…?»
Lei rise divertita: «Certo che no! Volevamo solo vedere se eri sveglio…», poi, cambiando improvvisamente tono, «e la prossima volta che sputi in casa nostra ti prendiamo a schiaffi fino a che non ti spunteranno i denti dalle guance.»
Si fissarono a lungo, in un silenzio così profondo che Geralt poteva sentire il proprio respiro, quello della vecchia, quello di Ranuncolo, quello di… Il suo sguardo si spostò sulla tenda che li separava dall’altra stanza. Aveva forse avuto l’impressione che…?
«Geralt?». Ranuncolo lo strinse delicatamente per la spalla. «Come ti senti?»
«Meglio… Ma cosa è successo?»
«Ci ha salvati, Geralt, davvero. Non so dove saremmo ora senza di lei»
«Al cimitero, di sicuro.», gracchiò lei fissando prima ora e poi l’altro.
Geralt si mise a sedere sul letto massaggiandosi la tempia. «Per quanto tempo siamo stati qui?»
«Vi hanno portato qui da noi ieri sera. Ricordi qualcosa?»
La bocca di Geralt si spalancò di vero stupore. Una notte? Ricordava la rissa, ricordava come aveva ridotto Ranuncolo… Lo osservò, ma il suo amico non sembrava presentare alcun segno, a parte qualche livido in viso. Eppure era sicuro d’averlo quasi ucciso. Ricordava perfino la pietra con cui lui l’aveva colpito, mandandolo al tappeto. Possibile che tutto questo fosse guarito in una notte? Né la sacerdotessa al tempio di Melitele, né le driadi di Brokilon potrebbero guarire tanto velocemente simili ferite. Geralt guardò la vecchia che sorrideva accanto a lui e sentì un brivido lungo la schiena. Paura, forse?
Lei ricambiò il suo sguardo e si concentrò sul lupo che portava al collo.
«Quel tuo medaglione fa il birichino…»
«Già… vibra così quando si utilizza la magia vicino a lui, come hai fatto tu…»
«Noi?», si indicò platealmente con la mano continuando a ridere. «Be’, sì», ammise, «ne conosciamo un po’. Abbiamo imparato molte cose da giovani.»
«Immagino di doverti ringraziare…»
«Oh, sì, dovreste…».
Si scrutarono di nuovo, in silenzio, arricciando debolmente le labbra in un sorriso, ognuno cercando di scavare più a fondo nella maschera dell’altro. Ranuncolo restava immobile senza sapere cosa fare.
Improvvisamente bussarono alla porta.
«Mà! Siete in casa?»
Quella voltò un attimo la testa senza staccare gli occhi da Geralt. «Sì, chi è?»
«Vergalio vuole sapere se i vostri ospiti si sono svegliati»
«Ma certo, son qui belli arzilli! Entrate pure!»
Un attimo di silenzio dall’esterno, un chiacchiericcio sommesso, poi la voce disse ancora: «Vergalio chiede se possono muoversi loro, purtroppo ha molto da fare stamattina ed è meglio che si sbrighino»
«Va bene, arrivano.»
La vecchia si alzò e si rivolse ai due: «Forza, avete sentito! Andate a giocare coi bambini grandi, siete guariti!»
Geralt provò ad alzarsi, stupendosi di sentirsi saldo sulle proprie gambe. Avvertì solo un vago fastidio quando mosse la testa mettendosi in piedi.
«Sì, forse dovresti fare attenzione a una cosa», lo avvisò lei con fare saccente. «I danni alla testa non sono così facili da guarire… In particolare, potrebbe essere rimasto danneggiato il labirinto vestibolare. Sai cos’è? No? Ci permette di stare in equilibrio, in parole povere. Per di più è particolarmente vicino all’orecchio medio, tanto che dei rumori molto forti potrebbero stimolarlo e avere effetti dannosi… Ma non preoccuparti, guarirà anche quello.»
«Ti ringrazio ancora per quello che hai fatto per noi.»
«È il nostro dovere.»
«Ti prego», disse Geralt estraendo un soldo d’argento dalla saccoccia. «Accetta questo in pagamento e come segno della nostra gratitudine.»
La vecchia osservò il soldo tra le dita dello strigo. Brillava sotto la luce che filtrava dalla finestra, e un raggio di luce arrivava fino a lei, illuminandole le labbra piegate in un ghigno che poteva essere un sorriso.
«Vi ringrazio», disse allungando la mano e accettando il denaro che le cadde sul palmo coperto dal guanto di cuoio. «Andate adesso, vi stanno aspettando.»
Geralt fece un cenno di saluto col capo e poi seguì Ranuncolo fuori dalla porta, lanciando un ultimo sguardo alla tenda che li separava dall’altra stanza.

Il sole si era già levato sopra le rive del Dyfne, solo sull’erba dei prati restavano ancora tracce dell’umidità notturna. Geralt guardò a terra, dove la rugiada gli lasciava tracce sugli stivali.
«Buongiorno, signori».
Alzò lo sguardo sentendo la voce di Vergalio. La luce gli provocò una fitta dietro agli occhi e si schermò istintivamente con la mano. Il sindaco del paese li aspettava all’inizio del digradare della collina su cui sorgeva la casa della vecchia, accompagnato da altri due uomini robusti.
«Come state?»
«Davvero bene! Sul serio, dobbiamo ringraziare voi e…», cominciò Ranuncolo tentando di dar sfogo alla propria oratoria.
Vergalio lo guardò come se non esistesse, poi tornò a concentrarsi su Geralt.
«Avete dato spettacolo, ieri sera…»
Questa volta, entrambi stettero zitti.
«Non ho molto tempo. Devo andare a parlare con l’oste: pretende che qualcuno gli paghi i danni… Sono qui solo per sapere perché non dovrei cacciarvi da casa nostra.»
Geralt lanciò un’occhiata a Ranuncolo, poi fece un passo avanti.
«Accetto l’incarico. Troverò la bestia tra voi e me ne occuperò alla terza alba a partire da oggi, né prima, né dopo»
«La seconda», lo corresse Vergalio. «Avete già perso una notte. Immagino vogliate parlare del compenso…»
Geralt strinse i denti, le parole che stava per dire erano estremamente difficili da pronunciare: «Solo vitto e alloggio durante la nostra permanenza… E la corteccia dell’albero di fuoco che stava sopra il vostro camino ieri sera.»
«Quella corteccia è un ricordo importante…»
«Prendere o lasciare», tagliò corto lo strigo.
«Accetto.»
I due uomini si strinsero la mano lì, sul digradare della collina.
«Ovviamente le vostre armi resteranno in nostra custodia. Ve le daremo quando indagherete all’esterno del paese e all’alba del secondo giorno, quando farete il vostro dovere…»
Ranuncolo stava per ribattere qualcosa, ma Geralt lo fermò con un gesto.
«Certo, capisco…»
«Bene. Ah, stasera ci sarà una festa alla locanda, nonostante i danni che ha subito. Ci saranno cibo, canzoni e balli. Voi ci verrete. Non è un invito.»
«Sarà un vero piacere.»
«Ottimo. Devo salutarvi, ora. Ho molte cose da fare. A stasera.»
Detto questo, Vergalio si voltò e tornò in paese.

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Capitolo 9
*** la bella e la strega ***


«Soddisfatta, sorella?»
«Non so. Ammetto che non è andata come mi aspettavo.»
La vecchia stava seduta nell'ombra umida accanto alla finestra. Si dondolava avanti e indietro sullo sgabello, gesticolando nervosamente e in modo strano con le mani, che davano l'idea di scandire due linee di pensiero differenti.
«È stato quasi ammazzato da quella mammoletta di poeta, certo che non è andata come ti aspettavi!»
«E allora cosa me lo chiedi a fare?»
«Così, mi piace darti fastidio», rispose mentre una mano andava ad accarezzare i pochi capelli rimasti sul capo.
La vecchia sbuffò e si inclinò all'indietro, appoggiando la schiena contro il muro. «Parlare con te è esasperante!»
Stette zitta per un po', ridacchiando ogni tanto tra sé.
«La smetti?», sbuffò a un tratto.
«Va bene, va bene», sospirò. «Ricordi l'ultima volta che abbiamo usato quella pozione?»
«Oh, me lo ricordo... Quei baccanti che si erano messi a far festa per sei giorni di fila vicino a casa nostra, vero? Dove ora c'è la quercia...»
«Sì, ma era prima che diventasse grossa. Ricordi? Poche gocce nei loro barili di birra e cominciarono a massacrarsi a vicenda!»
«Orribile, la puzza di sangue non se n'è andata per settimane...»
«Già, il periodo migliore della nostra vita!».
Piegò la testa all'indietro e rise sguaiatamente. Si riprese solo qualche minuto dopo, riprendendo fiato in ampie boccate.
«Mia cara Setsy, vorrei che fosse ancora così semplice. E che ci fosse più tempo...», aggiunse dopo un attimo di silenzio, guardando una ciocca di capelli che le si era staccata dalla tempia.
«Non ci pensare, sorella. Che è successo questa volta?»
«Nonostante tutta la rabbia che aveva in corpo, lo strigo ha avuto la peggio.»
«Volevi che uccidesse il poeta?»
«Non era strettamente necessario, ma sarebbe stata una perdita irrilevante. Non so, forse non è abbastanza forte...»
«Tu dici? L'hai visto anche tu nudo: quegli addominali... Potresti lavarci i panni al fiume su addominali del genere!»
«Setsy!»
«Dovresti imparare a goderti di più la vita, sorella... Che cosa facciamo?»
Le due mani si congiunsero sulle gambe, le dita si intrecciarono facendo schioccare i nodi delle falangi.
«Lo mettiamo ancora alla prova, sorella. Una volta per tutte.»
I suoi occhi vagarono nella stanza fino a fermarsi sul piccolo topo che stava seduto sulle zampe posteriori dall'altra parte della stanza. Aveva seguito il dialogo della sua padrona stando a debita distanza. Non era riuscito a capire quale delle due mani seguisse i pensieri di Setsy e quale quelli di Metsy, e quindi da quale lato fosse più sicuro avvicinarla. Era arrivato alla conclusione che avvicinarsi non era davvero necessario, quindi era rimasto seduto in disparte, tutto preso a lisciarsi i baffi con le zampe.
«Topo!».
Le zampine si bloccarono e metà di un baffo mentre i suoi occhietti si fissarono sulla vecchia.
«Muoviti, vieni qui!»
La bestiola si avvicinò lentamente, mettendo un piccolo passo dopo l'altro.
«Svelto!»
Con due salti, il topo fu davanti alla sua padrona. La guardava dal basso, restando sul pavimento. La vecchia sorrideva, quasi con affetto.
«Mio caro, hai visto cos'è successo, vero? Quell'uomo dai capelli bianchi ci ha fatto un regalo.»
E così dicendo estrasse dal vestito la moneta d'argento che lo strigo le aveva lasciato. Se ci avesse badato, il topo avrebbe visto che teneva la moneta con un panno, in modo da non toccarla direttamente. Ma lui non era tipo da badare a queste cose.
«Ci ha fatto un regalo e noi dobbiamo ripagarlo in qualche modo, giusto? Quindi tu ora andrai nel bosco e ci porterai tutti i fiori che troverai, soprattutto campanule e gelsomini, capito?»
Scosse il muso in segno affermativo. Facile!
«Bene, ripeti: cos'è che ci devi portare?»
Lui si bloccò improvvisamente.
«Forza, ripeti. Come facciamo a sapere che hai capito, altrimenti?»
Lui mosse le zampine, fece un giro su se stesso, cominciò a farsi prendere dal panico.
Lei lo fissò con uno sguardo di ghiaccio, come se potesse trafiggerlo con i suoi soli occhi. Poi si mise a ridere: «Su, scherzavamo! Vai, piccolino, portaci quello che ti abbiamo chiesto.»
Il topo corse fuori dalla casa più in fretta che poté.
«Bah, è sempre sul chi vive...», commentò lei mettendosi in piedi.
Si mosse attorno al tavolo, raccolse qualche coccio per terra e ne fece un mucchio in un angolo, quindi aprì la porta e fece entrare un po' di luce.
«Dobbiamo proprio mettere un po' in ordine, qui, Setsy»
«Dobbiamo? A me piace così...»
«Quello strigo tornerà qui, sorella, meglio rendere questo posto presentabile.»
Prese la scopa e cominciò a spazzare per terra.
«Uff... È una fatica inutile, te lo dico io! Non ci baderà neppure.»
«Smettila di brontolare e aiutami una buona volta!»
L'aria sembrò vibrare per un attimo attorno alla testa della scopa, poi il terreno sul quale passava diventò bagnato come se ci avesse versato sopra un secchio d'acqua.  
«Contenta?»
«Grazie. Sai come faremmo prima? Cantando!»
«Non dirai sul serio...»
«Ma sì! Hai mai imparato a fischiettare?»
«E poi cosa vuoi fare? Richiamare qualche animale dal bosco per farti dare una mano?»
«Perché no?»
«Perché quello lo fanno solo le ragazzine in calore, sperando che arrivi un orso dotato come un...»
«Setsy! Ma che ti prende oggi?»
«Niente, lascia stare...»
Completò le pulizie in silenzio. Al passaggio della scopa, la sporcizia spariva come se non ci fosse mai stata e i cocci svanivano nel nulla. Un prodigio del genere avrebbe lasciato di stucco chiunque fosse entrato dalla porta in quel momento, ma solo i più eruditi stregoni, istruiti nelle leggi della magia e della conservazione della massa, si sarebbero chiesti dove fosse finita quella roba, ma ovviamente non c'era nessun individuo del genere nei paraggi.
Quasi contemporaneamente, ci fu un'improvvisa e inspiegabile moria di pesci nel fiume Dyfne.

Era ormai metà mattina quando Polanna portò le proprie grandi tette dal fiume alla collina dove sorgeva la casa della vecchia Ma'. Non si accorgeva neppure degli sguardi che seguivano, anzi precedevano il suo petto lungo la sua strada. In fondo, solo gli occhi di una persona le sarebbero interessati, e quella persona non si fece vedere.
Raggiunse la sommità della collina e si fermò un attimo a guardare la casa che sorgeva nel tronco del frassino. Le aveva sempre messo addosso una paura tremenda fin da bambina, anche se sua madre le aveva detto più volte che lei non sarebbe neppure lì se la vecchia non l'avesse guarita dalla polmonite.
Ora che era una donna, provava ancora la stessa paura.
Ma era davvero una donna? Rimase sorpresa davanti a questi strani pensieri, e fu con quella faccia stupita che la vecchia la colse uscendo improvvisamente dalla porta.
«E tu che vuoi?», le chiese bruscamente.
«Io sono...»
«Sappiamo chi sei. Ti abbiamo chiesto cosa vuoi.»
Perché parlava sempre al plurale? In molti se lo chiedevano, in paese, ma nessuno sapeva dare una risposta definitiva. Le avrebbe fatto meno paura se le avesse offerto di mangiare una mela rossa. Fece ricorso a tutto il proprio coraggio e la guardò negli occhi.
«Io voglio comprare...»
«Comprare? E con cosa?». La squadrò da capo a piedi e poi si soffermò sui seni, passandosi la punta della lingua sulle labbra secche.
«No. Sei troppo giovane per i nostri gusti», disse muovendosi per tornare in casa.
Polanna si sentì invadere dal panico.
«No! No... io intendevo... posso pagare, guardate.»
La ragazza aprì il borsello rivelando una notevole quantità di monete.
La vecchia le guardò. Erano quasi tutte di rame, alcune d'argento. Fece una smorfia e poi si mise i guanti di cuoio sulle mani.
«Forza, vieni dentro.»
Polanna la seguì all'interno e rimase stupita dall'ordine e dalla pulizia che regnavano nella stanza. Sembrava che una squadra di inservienti di corte fosse passata e si fosse dedicata anima e corpo a pulire ogni angolo.
«Allora, cos'è che vuoi?», chiese sedendosi sullo sgabello. «Felicità, amore, malocchio su qualche nemico, o...»
«Amore», disse lei con un filo di voce.
La vecchia fischiò sonoramente inarcando un sopracciglio. «Quella è roba complessa. Sicura?»
«Sì, io... Non so perché, ma non mi guarda neppure!»
«Forse dipende da cosa vuoi che guardi...».
Polanna non poté fare a meno di fissarla a bocca aperta. In lei partì un flusso di sentimenti diversi che partì dall'odio, seguita dalla rabbia che si mescolò in fretta con la paura che sgorgava dalla riverenza fino a sfociare nella più totale sottomissione.
«Chi è il fortunato?»
La domanda della vecchia ruppe il pesante silenzio che era sceso tra di loro. Lei rialzò la testa, rinfrancata.
«È il capitano delle guardie, lui...»
«Il nasone.»
«Be', un po', non così tanto... Ma si chiama...»
«È un nasone. Non ci importa il nome.»
Altro silenzio.
«Forza, giovane!», gridò improvvisamente. «Non guardarmi istupidita come un cerbiatto a cui hanno appena ammazzato la madre! Lo vuoi questo incantesimo d'amore o no?»
«Sì, lo voglio!»
«Brava. E la prossima volta che dirai questa frase, mettici un po' più di ardore: agli uomini piace. Aspetta qui.»
La vecchia si alzò e passò nella stanza oltre alla tenda. Passò accanto al letto in cui Essi dormiva senza degnarla di uno sguardo. Arrivò fino alla parete e puntellò alcune assi con un coltello finché non si sollevarono. Dietro di esse c'era un piccolo ambiente dominato da un enorme scudo ambrato sulla cui superficie era scolpito il muso di un leone inferocito. La vecchia non badò allo scudo e si chinò sullo scrigno che ci stava davanti. Aprì la serratura e sollevò il pesante coperchio di ferro, prese dal suo interno quello che sembrava un vecchio mantello sgualcito e poi richiuse lo scrigno.
«Finalmente ci torna utile...»
Tornò nella stanza dove Essi dormiva, richiuse le assi e poi attraversò di nuovo la tenda, dando il mantello in mano a Polanna.
La ragazza osservò meravigliata la stoffa invecchiata e bucherellata. Si riconosceva ancora il colore rosso del tessuto e uno strano simbolo cucito sul retro, ma non riusciva a capire cosa fosse.
«Questo? Non mi date una pozione, un filtro...?»
«Volevi una magia? Questo è magico.»
«Come devo...?»
«Regalaglielo, molto semplice.»
«Grazie! Grazie davvero! Quanto...?»
«Nulla. Te lo regaliamo.»
La vecchia osservò ancora l'espressione di stupore di Polanna e decise che ne aveva abbastanza: la cinse per i fianchi e la spinse poco delicatamente all'uscita.
«Forza, vai! Non ringraziare, tanto la nostra giornata resterà tale e quale!»
«Ma io...»
«Muoviti! Ah, un ultimo consiglio... sbrigati a farlo innamorare di te prima che a qualcuno venga l'idea di violentarti e rubarti tutto il tuo denaro. Incredibile che non ci abbia ancora pensato nessuno...»
Detto questo tornò dentro casa, lasciando Polanna a scendere a passi lenti la collina, incerta se essere stata benedetta da un angelo o aver fatto un patto col diavolo.

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Capitolo 10
*** Essi Daven ***


Essi Daven riaprì gli occhi per la seconda volta dalla sua fuga nel bosco nello stesso momento in cui la vecchia richiuse la porta alle spalle di Polanna.
Rimase distesa sul letto, passando lentamente dalla vaga confusione del sonno a quella pesante della realtà. I muri attorno a lei erano un’uniforme distesa di grigio interrotta da macchie di colori neutri là dove ancora non riusciva a distinguere i mobili e le finestre.
Sentì i muscoli intorpiditi. Cominciò a muoverli lentamente a partire dalle estremità degli arti. Piccoli movimenti quasi impercettibili che risalirono fino al busto. Si aspettava di venire fulminata dal dolore di qualche frattura o strappo muscolare, ma non accadde nulla del genere. Provò a piegare il braccio e scoprì di avere a mala pena la forza per sollevare la coperta.
«Oh, è sveglia?»
Essi non aveva neppure sentito i suoi passi.
«Il fiore apre i suoi petali?»
La donna accanto a lei era incredibilmente anziana, il suo volto era una maschera di rughe, quasi una mappa dei nervi che passavano sotto la pelle. Ma aveva qualcosa di maestoso e potente nel modo in cui si sedette sullo sgabello accanto a lei.
«Chi sei?», chiese Essi dopo un lungo silenzio.
«Ti abbiamo già detto chi siamo. Tu chi sei? Qual è il tuo nome?»
Stavolta non dovette pensare alla risposta: «Essi Daven. E tu… perché parli al plurale?»
«Perché noi siamo», rispose calcando a lungo le ultime due parole.
Essi si sentiva ancora stordita, ma sentiva qualcosa emergere dai propri pensieri come un ospite sgradito nella sua mente che invece che stare in disparte si poneva d’un tratto al centro della scena.
«Non siamo a Vergen, vero?»
«No»
«Mi sembra di ricordare… Noi abbiamo già avuto questa conversazione, vero?»
La vecchia annuì soddisfatta.
«Ma non mi ricordo il tuo…», si fermò, colta da un’intuizione improvvisa: «Il vostro nome.»
«Metsy»
«E Setsy»
Essi si scoprì troppo stanca per stupirsi dell’improvviso cambio di voce della donna, che le diede invece un’impressione quasi normale, familiare.
«Ricordi qualcosa d’altro, piccola?»
Essi ci pensò un po’. Un velo di tristezza le calò sugli occhi, ma tutto le sembrò stranamente distante: già accaduto, già passato.
«Il carro… Ricordo Frynif. Poi c’era questa cosa…»
«Sì? Te lo ricordi?»
Lei si concentrò, ma non riusciva a dare forma a quella creatura che l’aveva inseguita nel bosco. La sua mente la copriva con un velo d’ombra o con uno spazio vuoto la cui presenza era resa manifesta dai rami che spezzava al suo passaggio. E fu come essere di nuovo lì, di nuovo in fuga da un orrore che si fondeva con la notte stessa, il cui nome era noto solo agli alberi sradicati dalla sua forza. E fu quel vuoto a vincerla di nuovo, l’assenza che si identificava con la paura stessa: urlò e cercò di arrampicarsi verso la testa del letto con le braccia che cedevano sotto il suo peso, gli occhi che si lanciavano da una parte all’altra della stanza come se potessero scorgere il terrore in ogni angolo buio.
La presa della vecchia sulla sua spalla fu sicura ed incredibilmente forte: il dolore della clavicola presa tra le sue dita la riportò alla realtà e i suoi occhi chiari incontrarono quelli gialli di lei.
«Calmati ora», le disse con un tono di voce basso e raschiante: «è passato, stai tranquilla.»
Essi si lasciò cadere di nuovo sul letto: tremava ancora, le sue braccia non la sorreggevano più. Dopo un po’ riprese a respirare normalmente e si asciugò una lacrima che le era nata all’angolo dell’occhio.
«Scusatemi, io non so…»
«Non ti scusare, non c’è bisogno.»
«Non riesco a ricordare… Com’è possibile? Frynif è morto per difendermi e io non riesco neppure a ricordare…»
La vecchia sospirò spostando lo sguardo oltre la finestra.
«A volte la vostra mente funziona così… Si difende e si libera dei fardelli che non può sopportare.»
«”Vostra”?», chiese Essi.
«Sì, vostra», ripeté con un sorriso storto. «Noi siamo troppo vecchie.»
Essi continuò a guardarla con aria interrogativa, ma era chiaro che per lei quella risposta racchiudeva già tutte le spiegazioni necessarie.
«Da quanto tempo sono qui?», chiese invece.
«Quasi una settimana, piccola. Eri molto ferita.»
Essi stava ancora cercando nella propria testa i ricordi di quella notte, quando portò una mano al petto. I suoi occhi si spalancarono in un misto di sorpresa e panico quando non trovò nulla tra i propri seni.
«Ma dove…? Dei, non ditemi che l’ho persa…».
Cercò freneticamente risalendo con le dita fino alla gola, quando la vecchia aprì il pugno davanti ai suoi occhi, lasciando scorrere sul palmo avvolto nel guanto una catenella d’argento che si intrecciava a formare un fiore aperto attorno a una perla bianco latte.
«Cerchi questa?»
Essi scattò in avanti, ma era ancora troppo lenta: la vecchia sollevò la mano portando la collana fuori dalla sua portata, così come potrebbe allontanare un giocattolo da un bambino. Osservò con occhio clinico la ragazza che cercava di alzarsi tremando dal letto, sempre con la mano protesa verso la collana.
Poi la spinse con decisione e lei ricadde sul materasso senza poter opporre la minima resistenza. Le premeva la mano contro il petto, impedendole di rialzarsi e tenendo la collana alta sopra di loro, in modo che la vedesse bene.
Essi cercò di liberarsi, ma il braccio della vecchia sembrava d’acciaio. Le mancava l’aria, il campo visivo si strinse a un cunicolo buio dove in fondo brillava la perla appesa alla collana.
La vecchia la osservava impassibile, la testa reclinata di lato. Sembrava prendere mentalmente appunti degli sforzi che la ragazza stava facendo per liberarsi da lei. Fu solo quando sentì il suo respiro ridursi a un rantolo acuto che allentò la presa.
Essi inspirò rumorosamente. Il mondo aveva ripreso a girare attorno a lei: la perla e il volto della vecchia ruotavano davanti ai suoi occhi, a volte si sovrapponevano dando l’impressione di un buco che si apriva nella fronte della donna, un terzo occhio bianco e cieco che la scrutava. Essi non aveva più la forza neppure per sollevare il braccio.
«Per favore, è mia…»
Stava davvero implorando? Le parve di essere tornata bambina, quando pregava per un pezzo di pane.
«Tua?» La vecchia emise una serie di squittii acuti, quasi una risata. «E se ti dicessi che ora è nostra? Ti abbiamo curata! Saresti morta senza di noi. Come pagamento ci sembra il minimo.»
«No, per favore, no… Tutto ma non quella…»
«Aspetta, adesso è chiaro. Non è solo un pezzo d’argento, è davvero così importante?»
Si avvicinò a lei con un sorriso storto che le sollevava l’angolo del labbro rivelando un dente scuro e appuntito. «C’entra un uomo, vero?», chiese con uno strano tono di complicità.
Essi aveva gli occhi umidi, sentiva le lacrime che cominciavano a scendere sulle sue guance. Era il sentirsi così impotente a stringerle il cuore, l'essere vinta in quel modo, incapace di reagire. Essi annuì cercando di spostare lo sguardo da lei.
«E dov’è adesso quell’uomo?», le gridò in faccia così vicina che poteva sentire sulla sua pelle l’aria che inspirava. «Dov’era quando eri nella foresta? Dov’era quando doveva impedirti di metterti in viaggio da sola e metterti in pericolo? Rispondi!»
«Lui… lui non è così!», Essi sentì un’improvvisa energia animarla e ridarle le forze. «Non è come gli altri! Non sapete nulla! Lui è…»
«… uno strigo, vero?»
La vecchia stette ferma a godersi l’espressione di stupore e smarrimento della ragazza.
«Uno strigo», continuò lei. «Li conosciamo, gli strighi. Ha fatto zampillare qualche goccia dalla fonte che hai tra le gambe e poi se n’è andato, vero? Il tuo cuore per una piccola collana con in fondo una perla. Ah, mi sembra proprio uno scambio equo, certo!»
Essi sentiva un fuoco che cresceva dentro di lei, un’energia che neppure quella vecchia avrebbe potuto domare.
«Mi disgustate! Non è così! Lui…»
«Capelli bianchi? Se ne va in giro portandosi dietro un poeta?»
Rapido com'era nato, il fuoco si spense. Essi rimase paralizzata per la sorpresa.
«Come fate a saperlo? Lui è qui? Lo avete visto?»
Il sorriso della vecchia si fece ancora più largo, i denti spuntarono tra le rughe delle sue labbra.
«No, bambina», rispose. «Non ho idea di dove sia…»
«No… menti, come puoi sapere di lui?»
«Noi sappiamo! Hai parlato nel sonno per una settimana. Mmm, Geralt, Geralt…», mormorò facendole il verso.
Lei si sentì avvampare il viso. Cercò un modo di ribattere ma in quell'istante la vecchia si alzò e ripose la collana sopra una mensola sul muro opposto al letto.
«Questa resterà qui. E adesso è l'ora della medicina.»
Essi la osservò allarmata mentre tornava verso di lei con un bicchiere di terracotta. Cercò di muoversi, ma non poté far altro che muovere debolmente le braccia, incapaci di una difesa vera e propria.
La vecchia si sedette accanto a lei e le avvicinò il bicchiere alla bocca. Dal liquido arrivava un intenso odore amaro e muschiato.
«Basta pensare a degli inutili strighi. Bevi, ti farà bene.»
Cos'avrebbe potuto fare? E se avesse voluto farle del male, non aveva già avuto tutte le occasioni nella settimana in cui era rimasta priva di sensi?
Bevve e un senso di tepore le si diffuse dal collo al resto del corpo, passando improvvisamente dalla veglia ad un sonno profondo.
La vecchia sospirò appoggiando il bicchiere per terra accanto al letto, poi si alzò e rovesciò Essi sulla schiena e la massaggiò per evitarle le piaghe da decubito.
Pensò a come si era animata mentre parlavano di Geralt: evidentemente stava ritrovando le forze. Se non le avesse dato quella pozione da lì a poco avrebbe potuto anche provare ad alzarsi dal letto e uscire in paese.
«E questo non ci va, per niente! Non finché c'è quello strigo da queste parti!»
«Sorella, è inutile, lo sai?»
«Zitta, Setsy! Sono una guaritrice e la guarirò!»
«Lo eri tanto tempo fa.»
«Zitta!»
«Va bene... Guarda chi è tornato!»
Dalla finestra spuntò il topo appesantito da un carico di fiori di bosco che portava legati al corpo e tra le zampe.
«Bravo! Vieni sul tavolo, facci vedere.»
Lei si sedette e cominciò a svolgere i gambi e a disporre ordinatamente i fiori sull'asse.
«Sì, bravo, son proprio quelli che ci servivano!»
Il topo fremette di piacere mentre la padrona lo accarezzava dietro l'orecchio.
«Però non sono ancora abbastanza... portane ancora! Su, muoviti! Vedrai che bel premio che avrai, piccino.»
Il topo corse fuori di nuovo tutto elettrizzato: la sua padrona non gli aveva mai promesso un premio!

La vecchia stette ferma qualche minuto ad osservare i fiori davanti a sé. Tra i diversi fiori raccolti nel bosco, spiccava un gran numero di campanule e gelsomini. Cominciò a prendere i gambi con mano ferma e li intrecciò l'un l'altro, iniziando a dare forma a una lunga catena.
Sorrideva mentre li annodava l'uno all'altro, ogni tanto un risolino la scuoteva e le faceva sbagliare nodo, ma non si perdeva d'animo.
«Vedrai strigo, aspetta solo qualche giorno e vedrai...»

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Capitolo 11
*** indagine ***


Gli restituirono le spade all'uscita dal paese. Geralt se le fissò dietro la schiena e oltrepassò il cancello seguito da Ranuncolo. Montarono sui cavalli appena fuori e si inerpicarono lungo la salita dalla quale erano discesi arrivando il giorno prima.
Cavalcarono in silenzio contro il sole che si levava sopra gli alberi. I sassi restituivano loro il rumore degli zoccoli, mentre la luce filtrava tra le foglie e si rifletteva sui loro mantelli e sull'elsa delle spade.
Superarono una curva e si ritrovarono davanti alla radura dove si potevano ancora individuare i resti dei carri. Qualche uccello si levò da terra al loro passaggio e andò a posarsi sui rami, in attesa che i due scocciatori se ne andassero.
I due si portarono vicino a un tronco e smontarono. Il poeta rimase sorpreso nel sentire solo un leggero dolore alla gamba quando appoggiò il piede a terra. Geralt stesso si muoveva rapidamente come se la rissa tra di loro non avesse lasciato nessun segno. Fisicamente, almeno. I loro occhi si incontrarono quasi per caso mentre fissavano le briglie all'albero, ma spostarono subito lo sguardo.
Sistemati i cavalli, si spostarono in mezzo alla radura e si guardarono attorno, a volte piegandosi a terra, altre volte spostando un sasso con un piede.
«Che cosa sappiamo di tutto questo?», chiese Ranuncolo.
Geralt fece mente locale.
«Una carovana. Portavano un carico importante verso nord, apparentemente pepe», rispose.
«Potavano le insegne dell'Aedirn.»
«Per questo dico che il carico doveva essere importante.»
«E dov'è finito?»
Lo strigo alzò le spalle e continuò a cercare senza dire altro.
Ranuncolo cercò di concentrarsi a sua volta sulle tracce, ma dovette ammettere a se stesso che non aveva idea di cosa cercare. Quello non era un intrigo politico, non era spionaggio tra regni, era solo un massacro. Si sentì a disagio e scoprì di non riuscire a pensare a nessun verso per alleggerire la situazione.
Restarono lì per tutta la mattina, mangiarono le razioni che si erano portati dal villaggio per pranzo e poi continuarono l'ispezione.
D'un tratto, Geralt imprecò e diede un calcio a un pezzo di legno che rotolò lontano. Ranuncolo si fermò e lo osservò, incerto se avvicinarsi o no.
«Niente, non c'è niente!», esclamò lo strigo con la sua voce metallica.
«Niente?», domandò prudentemente il poeta.
«Quanto è passato? Una settimana? E noi dovremmo trovare qualcosa qui!»
Senza aspettare risposta, si alzò e andò verso i cavalli.
Ranuncolo cercò rapidamente una traccia, una frase che potesse fermarlo e spingerlo a continuare, ma non c'era proprio nulla. Alla fine si rialzò con un sospiro e si allontanò tra i cespugli. Registrò solo a livello incosciente quanto fosse stranamente facile farsi strada tra quei rami di pungitopo. Si allontanò ancora di qualche metro, si abbassò i pantaloni e si svuotò l'intestino con evidente soddisfazione. Si sollevò tenendo le ginocchia piegate e strappò una foglia morbida che usò per pulirsi il sedere. Una delle prime cose che aveva imparato quando aveva cominciato a mettersi in viaggio era stata quali foglie fossero adatte allo scopo e quali avessero il brutto effetto di irritare dolorosamente la pelle.
Alla fine si riallacciò i pantaloni con l'umore diventato d'un tratto più positivo. Si guardò un attimo attorno e finalmente notò i rami spezzati attorno a sé e i cespugli piegati. Rimase un attimo perplesso, realizzando poi che non poteva essere stato lui. Si girò a guardare verso la radura: a parte i primi cespugli che la delimitavano, gli altri erano aperti come a formare un sentiero, come se qualcuno ci fosse passato attraverso.
«Geralt!», urlò all'improvviso spalancando gli occhi. «Geralt! Vieni qui!»
Pochi secondi dopo lo strigo fu accanto a lui.
«Che succede? Cos'è questa puzza?»
«Lascia stare! Guardati attorno, è strano.»
Geralt cominciò a studiare i dintorni, ritrovando d'un tratto interesse. Sollevò eloquentemente il sopracciglio quando trovò quello che aveva lasciato Ranuncolo, ma lo zittì con un gesto della mano prima che potesse dire qualche scusa.
«Qualcuno è stato gettato qui sopra», disse indicando il primo cespuglio. «Qualcuno non molto pesante, direi...»
«Una donna?»
«Può darsi, oppure un ragazzino.»
Geralt si spostò avanti.
«Qualcosa l'ha inseguito. Guarda questi rami: sono troppo in alto perché possano essere stati spezzati da una donna o da un ragazzino in fuga.»
Ranuncolo gli veniva dietro annuendo alle sue osservazioni.
«E questo?»
Il poeta esaminò quello che Geralt stringeva in mano: un pezzo di tessuto strappato, rimasto incastrato su un ramo.
«Un vestito grigio? Azzurro? Non riesco a capire...»
Geralt mormorò qualcosa e poi si mise il pezzo di stoffa in tasca. Si concentrò sul suolo e finalmente il suo viso si illuminò.
«Guarda qui», disse a Ranuncolo.
Ai loro piedi c'erano alcune orme irregolari che potevano ricordare vagamente quelle di un lupo, ma più grandi, terribilmente più grandi. La distanza tra l'una e l'altra era sconcertante: a volte erano vicinissime, altre volte così distanti che a Geralt sarebbero servite due ampie falcate per spostarsi da una all'altra. Lo strigo non riusciva a capire se si muovesse a due o a quattro zampe. Tra le orme più distanti gli parve di distinguere altre tracce, forse lasciate da un oggetto lungo e sottile, come un bastone sul quale la creatura si appoggiava tra un passo e l'altro. O forse quelle altre tracce erano state lasciate da qualcuno completamente diverso.
Proseguirono avanti, poi le orme sparirono all'improvviso. Geralt studiò il terreno, trovandolo particolarmente duro: solo una creatura molto pesante poteva imprimerlo col proprio passaggio.
Alzò lo sguardo ad osservare i rami. Da lì in poi erano intatti, come se ciò che li aveva distrutti fosse scomparso all'improvviso.
«Questo è strano... Sono scomparsi tutti?», domandò Ranuncolo.
«Tutti?»
«Inseguito e inseguitore. Svaniti all'improvviso?»
Geralt dovette ammettere a se stesso che Ranuncolo era diventato bravo a seguire le tracce.
«Non lo so», gli rispose, «ma la pista si ferma qui.»
«Cosa può essere? Uno spirito? Un mutaforma?»
«Non parlare a caso, Ranuncolo. Non abbiamo ancora modo di saperlo.»
«Va bene, scusa...»
Forse il suo tono era stato troppo duro.
Ispezionarono ancora un po' i dintorni, ma non trovarono nient'altro di interessante.
D'un tratto Ranuncolo si fermò perplesso.
«Geralt?»
«Che c'è?»
«Là... Ci sono dei fiori che si stanno muovendo?»
Guardarono entrambi nella direzione indicata dal poeta. Da dietro uno degli alberi era comparso uno strano agglomerato di fiori, soprattutto campanule e gelsomini, che sembrava strisciare per terra.
«Che cosa...?»
Non appena si avvicinarono, i fiori parvero agitarsi: si immobilizzarono per una frazione di secondo, quindi cominciarono a muoversi a zigzag, in scatti rapidi e improvvisi.
Geralt partì in avanti. Ranuncolo non avrebbe saputo dire quando si era mosso, semplicemente d'un tratto lo vide proiettato in avanti come una freccia. Lo strigo si tuffò atterrando sopra i fiori che cominciarono a muoversi spasmodicamente tra le sue braccia. Il medaglione a forma di lupo vibrava come impazzito. Poi d'un tratto qualcosa di piccolo e morbido gli sfuggì tra le mani e scomparve nel sottobosco, lasciandolo solo con una manciata di campanule e gelsomini.
Geralt si rialzò con una smorfia perplessa.
«Ma cosa diavolo era?»
«Che sia dannato se ne ho la minima idea», rispose lo strigo.

Tornarono a Passafiume sul far della sera. Fermarono i cavalli sull'inizio della discesa che li avrebbe portati fino al cancello.
«Che facciamo ora?», domandò Ranuncolo.
Geralt scosse lentamente la testa. «È una storia strana», ammise. «Devo ancora farmene un'idea precisa, ma qualche ipotesi ce l'ho.»
«La vecchia?»
«Cosa?»
«Non lo so... Non sono riuscito a capirla, e ho visto come le hai dato quella moneta d'argento. Sospetti che abbia qualcosa a che fare con questa storia?»
«Se avesse voluto farci del male avrebbe potuto farlo mentre eravamo quasi morti a casa sua», concluse lo strigo senza rispondere allo sguardo interrogativo di Ranuncolo.
«Geralt... Perché lo fai? È davvero per riparare il mio liuto?»
«Lo faccio perché qualcuno mi ha detto che nulla scompare all'improvviso, ma gli uomini per essere amici devono fare qualcosa assieme.»
Non sorrise e non lo guardò mentre parlava. Fece schioccare le redini e guidò il cavallo lungo la discesa.

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Capitolo 12
*** Festa di paese ***


Geralt e Ranuncolo arrivarono a Passafiume a sera inoltrata. Dall'altra parte dei cancelli li accolse un'atmosfera festosa: lanterne di carta erano state appese a tutte le porte e la gente si riversava nella via maestra con cesti di fiori e abiti sgargianti. Dovettero smontare dai cavalli per farsi strada. Lasciarono gli animali nella stalla e si fecero avanti spinti dalla curiosità.
Geralt si sentiva a disagio, sentimento accentuato dall'assenza delle spade sulle sua schiena, dato che aveva dovuto lasciarle ai cancelli. Ranuncolo, invece, si sentiva benissimo e aveva già cominciato a scambiare qualche battuta con le persone che passavano affianco a loro e si era informato sulla destinazione della folla: davanti alla locanda c'era un banchetto aperto a tutti quelli che volevano partecipare. Ranuncolo sorrise alla prospettiva e fece per prendere il liuto che stava solitamente appeso alla sua schiena, ma dovette constatarne l'assenza, cosa che gli fece tornare alla mente il motivo per il quale erano lì e stemperò il suo buon umore.
Dopo qualche minuto si avvicinò a Geralt e parlò sussurrando, in modo che potesse sentirlo solo lui col suo udito sviluppato: «C'è qualcosa che non va...»
«Ovvio che c'è qualcosa che non va, è una festa. Mangiamo alla svelta e poi andiamo, d'accordo?»
«Non essere stupido, sto parlando sul serio!»
Ranuncolo gli indicò le case attorno a loro.
«Vedi? sono tutte illuminate all'esterno, ma dentro sono buie, tetre... l'ho visto da alcune finestre aperte, dentro sembrano quasi vuote. E poi ci sono scatole e bagagli, gli stessi che avevamo visto ieri sera, ma di più.»
«E con ciò?»
«Fidati di un poeta, noi vediamo più a fondo nell'animo della gente. Ho l'impressione che questa atmosfera allegra sia solo una facciata... Ma la mia è solo una sensazione.»
Geralt fece spallucce.
«Andiamo a questo banchetto, poeta, e vediamo che succede.»
Quando arrivarono nella piazza della locanda, Geralt fu costretto ad ammettere che se era una facciata, sicuramente era elaborata.
Tra gli angoli delle case erano tirati striscioni vivaci intervallati da lanterne colorate. Bambini e giovani ragazze gettavano fiori da cesti che stringevano tra le braccia e invitavano la gente a sedersi lungo le tre lunghe tavolate che occupavano l'intera piazza. Alcune delle ragazze ogni tanto scomparivano dietro le case in compagnia di qualche ragazzo che evidentemente non aveva la minima intenzione di star seduto. Lo spazio davanti alla locanda, dove Geralt e Ranuncolo avevano fatto a botte, era occupato dalla cucina all'aperto gestita dal locandiere e altri due cuochi che arrostivano abbondante carne di maiale sugli spiedi che giravano lasciando che il grasso colasse e ravvivasse le fiamme. Alcune donne preparavano i condimenti e ricoprivano di erbe le pietanze che venivano portate in tutta fretta ai tavoli, accolte tra l'ilarità generale.
Su un lato della piazza era stato ricavato un palco dove alcuni giovani suonavano liuti e fisarmoniche. Ranuncolo fece una smorfia quando uno di loro steccò orribilmente, ma nessun altro sembrò accorgersene.
«Geralt! Benvenuto!»
Vergalio si alzò dal tavolo e andò loro incontro levando la mano in segno di saluto.
«E benvenuto anche voi, mastro Ranuncolo. Sono contento che siate venuti alla festa.»
«Festeggiate qualcosa in particolare?», chiese il poeta.
«Solo una festa di paese», minimizzò Vergalio. «Nulla che valga la pena di ricordare nelle ballate. Venite, sedete vicino a me.»
I due si lanciarono uno sguardo e poi lo seguirono fino al capotavola, dove si sedette il vecchio. Loro si misero alla sua sinistra. Accanto a loro c'erano persone che non avevano mai visto prima, ma queste cominciarono subito a ridere e scherzare con loro come se si conoscessero da sempre.
«Mi dispiace per le vostre prime impressioni, ma anche noi sappiamo trattare gli ospiti», disse Vergalio invitandoli a servirsi dai piatti.
La tavola era imbandita in maniera spettacolare: c'erano piatti ricolmi di salsicce, pentole su pietre calde contenenti zuppe di carne e cavolo, braciole intrise di sugo aromatico, erbe amare e ravanelli, e poi pesce, gamberetti di fiume, rane arrostite e pasticci dove l'odore dello strutto e della pasta si mischiavano in un unico aroma fragrante.
Ranuncolo era davvero colpito, tanto che dimenticò alla svelta i dubbi che aveva avuto. Geralt si allungò sul tavolo e si riempì il piatto fino al limite. In fondo un pasto gratis valeva bene una festa.
Allungarono loro boccali pieni di birra e brindarono alla salute di tutti i presenti. Poi Geralt addentò una salsiccia. La prima reazione fu di sorpresa, la seconda fu di riempire di nuovo il boccale di birra e prendere due lunghe sorsate per attenuare il pizzicore che aveva in bocca.
Osservò Ranuncolo: il bardo stava scherzando con una donna che si era fermata alle sue spalle e non aveva ancora toccato cibo.
Lo strigo assaggiò un altro boccone con prudenza e ancora si sentì pizzicare la lingua. Rinunciò alla salsiccia e aggredì la braciola nel sugo: venne sorpreso dallo stesso sapore intenso e piccante. Passò in rassegna le zuppe, le erbe amare, i pesci di fiume e anche i pasticci, ma non cambiò nulla.
«Qualcosa non va, Geralt?», lo apostrofò Vergalio.
«No, no, sono piatti molto saporiti... Forse non sono abituato»
«Ho sentito dire che i sensi degli strighi sono più sviluppati di quelli di noi esseri umani, è così anche per il gusto?»
Lo sguardo di Vergalio era fisso su Geralt, il sorriso cortese delle labbra arrivava appena ai suoi occhi che sembravano notare ogni suo minimo movimento. Geralt assunse la sua tipica e immobile faccia di marmo, un'assenza di espressione raggiunta in anni di difficile allenamento.
«Così sembra», gli rispose con voce atona.
«Abbiamo una cucina molto aromatica», disse il vecchio rilassandosi sulla sedia e lanciandogli un sorriso caloroso. «Spero vi piaccia lo stesso.»
Geralt annuì e si alzò dal tavolo. Si sentiva addosso lo sguardo di Vergalio. Non gli piaceva.
Si allontanò tra i tavoli, a volte rispondendo con un cenno della mano ai saluti di persone sconosciute e altre volte assaggiando dai piatti, sempre con una crescente perplessità. La gente mangiava e beveva senza moderazione: Geralt non riusciva a capire se fosse il solo a percepire quel sapore o se fossero già troppo ubriachi per farci caso.
In quel momento vide Ranuncolo che si faceva strada tra la gente per raggiungerlo. Abbassò lo sguardo su un cane che si ingozzava degli avanzi caduti dal tavolo e fece finta di non aver notato il poeta.
Non sapeva più come comportarsi con lui. Aveva davvero creduto che una bevuta avrebbe sistemato quello che era successo? Non era certo la prima volta che Yennefer lo tradiva, così come lui non teneva il conto di tutte le donne con cui aveva fatto l'amore. Era probabilmente uno dei lati spiacevoli di due persone sfuggite agli ingranaggi del tempo, per le quali vent'anni e ottant'anni avevano lo stesso significato: solo un passare di ore e stagioni, granelli di sabbia su un sentiero così lungo da sembrare infinito. Yennefer avrebbe detto che nessuno sfugge al tempo, al massimo alcuni, fortunati secondo lei, avevano la possibilità di dilatarlo, di allontanarsi su ingranaggi più lenti, dove poter osservare quelli più veloci mentre si incrinano e si fermano allo scoccare della loro ora. Ma la morte arriva per tutti, maghe e strighi.
A volte Geralt pensava che tutto questo fosse solo una scusa, un metodo per sopportarsi l'un l'altra e tenere vivo quel loro legame che non poteva basarsi solo sulla forza del destino. Per di più la sua immunità alle malattie e alla vecchiaia non lo impressionavano più da tempo: uno strigo muore tra le fauci di una bestia, sul filo di una spada o tra le spire della magia, mai nel proprio letto.
Geralt fece qualche passo tra la folla allontanandosi intenzionalmente da Ranuncolo.
Si chiese perché ci soffrisse a quel modo, perché bruciasse così tanto che l'avesse tradito proprio con lui. Si vergognò nello scoprire di non essere in grado di andare così a fondo da potersi dare una risposta. Forse Yennefer ci sarebbe riuscita. Forse non riguardava più solo il loro rapporto, forse era stato violato un aspetto della sua persona a cui non aveva mai dato un nome, ma che aveva l'aspetto di un bardo dalla lingua lunga e con una piuma d'airone nel cappello.
Geralt non pensava a tutto questo. In realtà gli venne da pensare al momento in cui, per la prima volta, Ranuncolo non sarebbe riuscito a salire in sella con le proprie forze, oppure quando avrebbe avuto bisogno di aiuto per scendere dal letto, mentre lui avrebbe continuato a uccidere mostri per denaro come ci si aspetta da uno strigo.
Geralt pensò tutto questo, quindi si fermò.
Ranuncolo lo raggiunse con un sorriso incerto e lui decise che di colpa, se ce n'era in tutto questo, il poeta aveva la parte minore.
Gli parve però che avesse un'aria triste, delusa.
«Che c'è, Ranuncolo? Perché quella faccia?»
«Niente, niente...»
Geralt guardò la folla oltre lui e non notò più la ragazza con cui stava parlando prima. Sentì una punta di rabbia salirgli alla gola, ma decise di ignorarla.
«Ti è andata buca?»
«A volte capita...», affermò Ranuncolo prendendo una salsiccia dal tavolo.
«Magari non l'hai presa nel... Periodo giusto.»
Il poeta sollevò eloquentemente un sopracciglio: «Ah, Geralt, hai ancora molto da imparare sull'arte del sarcasmo. Potrei insegnarti parecchie cose.»
Lo strigo soffiò dal naso in un modo che non si capiva se fosse una risata soffocata o uno sbuffo spazientito.
«E comunque bel periodo giusto, vorrei dire!», esclamò Ranuncolo. «Guardati attorno, ti sembra che questa gente sia nel periodo giusto?»
«In che senso?»
«Da quello che ho sentito, la festa è appena cominciata, e quasi tutti sono già ubriachi! Tutta questa allegria, mi sembra sia solo data dal bere… Non so ancora spiegartelo bene, ma c’è quasi un senso di malinconia nell’aria.»
Geralt non fece finta di capire cosa intendesse dire. «Hai assaggiato qualcosa?», gli chiese.
«No, mi sono alzato per raggiungerti subito dopo che quella ragazza… be’, no, non ho ancora mangiato nulla.»
«Prova qualcosa, ti garantisco che ne vale la pena.»
Ranuncolo prese una salsiccia e la addentò. Spalancò gli occhi e prese subito un boccale di birra.
«Diavolo! È forte!»
«Già… prova qualcos’altro.»
Ranuncolo assaggiò con maggiore prudenza.
«Anche questo…»
«Ti dice qualcosa?», gli chiese Geralt avvicinandosi alle sue orecchie.
«Sì… Pepe…», rispose lui abbassando la voce.
Lo strigo si guardò attorno. Nessuno sembrava badare a loro.
«Ci chiedevamo dove fosse finito il carico della carovana.»
«Allora era davvero pepe… Ma, Geralt, non ha senso!»
«Cosa non ha senso? Che questa gente abbia rapinato la carovana? Che abbiano messo un mucchio di pepe nei piatti di questa sera? Perché poi? Per eliminare le prove?»
«Esatto! Tutto questo non funziona, non ha la minima logica!»
«Non posso darti torto…»
Ranuncolo cominciò a fissare le persone attorno a sé con ansia crescente. «Geralt, non mi piace, non mi piace proprio per niente! Tutto questo non è normale, questa gente ha qualcosa che non è normale… Andiamocene, prendiamo i cavalli e andiamo.»
«No.»
«Ma perché?»
«Ho accettato un lavoro, intendo portarlo a termine.»
«Tu credi davvero che ci sia un mostro, qui nel villaggio?»
«Non so se è esattamente qui nel villaggio, ma qualcuno ha distrutto quella carovana, e qualcosa mi dice che non è stata direttamente questa gente.»
Ranuncolo sospirò. «Va bene, facciamo come dici tu. Che si fa? E non dirmi che non lo sai…»
«Guardiamo i presenti, facciamoci un’idea di loro e vediamo se manca qualcuno che conosciamo.»
«Va bene, possiamo farlo…»
«Dividiamoci e ritroviamoci qui tra mezz’ora. E stai in mezzo alla folla ma evita di farti serrare la strada.»
«So come ci si muove in mezzo a una folla, sono nato per questo.»
Si salutarono con un cenno del capo e si allontanarono uno di schiena all’altro.
La gente mangiava e beveva sempre di più, alcuni si erano distesi per terra e continuavano a vuotare i boccali anche da lì.
Mezz’ora dopo, Geralt era tornato al punto di partenza. Ranuncolo non c’era.
Lo strigo aspettò. Si guardò attorno ma di lui non c’era traccia. Un quarto d’ora dopo il suo nervosismo si era tramutato in allarme. Cominciò a cercarlo tra i tavoli e in mezzo alla folla, ma sembrava svanito nel nulla.
In quel momento, la voce di Vergalio risuonò limpida e chiara.
«Amici! Prestatemi un po’ di attenzione. È con estremo piacere che ho offerto il cibo che stiamo mangiando e sono onorato di tutto quello che voi, di vostra volontà, avete aggiunto a queste tavole.»
Da più parti si levarono cori entusiasti. Vergalio alzò le mani issandosi sopra il palco dove i musicisti avevano lasciato gli strumenti.
«Lasciatemi continuare. Tutti siete i benvenuti a questa festa. Abbiamo due ragioni per festeggiare, non una sola! Come sapete, tra due giorni lasceremo questo posto… Saliremo sulle navi e attraverseremo il Dyfne, verso nord. So che può sembrare dura, ma non disperate! Abbiamo cibo in abbondanza e il nord ci accoglierà e ci sosterrà se saremo uniti, uniti come siamo adesso a questi tavoli! Bevete, amici miei, bevete!»
Geralt lo guardava esterrefatto.
«E adesso la seconda ragione. È con gioia infinita che vi annuncio il matrimonio di Bergàc e Polanna, che hanno deciso di festeggiare la loro unione in vista della nostra partenza. Questo viaggio non poteva cominciare con un auspicio migliore.»
La gente si sollevò da terra, la folla si aprì e tra loro comparvero i due sposi: lei vestita di un abito bianco che copriva il prosperoso seno, tra le braccia una cesto di fiori e una ghirlanda sul capo, a farle da corona.
Geralt guardò meravigliato lo sposo. «Il nasone del cancello?»
L’uomo, sorreggendo un naso notevole come le grazie della moglie, era rasato e indossava un abito elegante, quasi senza toppe. A Geralt parve che il suo passo nascondesse uno stato di leggera confusione e meraviglia. Lo strigo non riusciva a capire se lo invidiasse o meno.
Ma fu la persona dietro di loro a fargli spalancare gli occhi dalla sorpresa.
Ranuncolo avanzava alle spalle della coppia tenendo in mano un vecchio liuto. Muoveva le chiavi cercando di accordare lo strumento e intanto spronava lo sposo e inneggiava alla coppia. Lanciò uno sguardo imbarazzato a Geralt e poi seguì i due che erano saliti sul palco.
Vergalio li abbracciò e fece loro i migliori auguri.
«Mastro Ranuncolo», disse, indicando il poeta, «ha accettato di comporre una poesia come augurio per il matrimonio, ringraziamolo tutti quanti!»
«È solo una piccola cosa, un’improvvisazione…»
«Non sminuite le vostre capacità, maestro.»
Ranuncolo sorrise, suonò un accordo vibrante e cominciò.

Tutti avevano già fatto gli auguri alla coppia almeno una volta, molti gliene facevano ancora in una processione che sembrava non avere fine. Nessuno dimenticava poi di ringraziare Ranuncolo per la sua splendida esecuzione: alcuni si accontentavano di una parola e un piccolo segno di rispetto, ma ci fu anche chi gli diede qualche moneta, chi delle uova fresche, chi una fetta di formaggio.
«Geralt! Vieni qui!», gridò Ranuncolo cercando di non far cadere nulla della roba che aveva in mano.
«Tieni, aiutami un po’»
«Dovevamo trovarci là dopo mezz’ora…», disse lui prendendo in mano le uova.
«Sì, lo so… Ma mi sono imbattuto in loro due e hanno preteso che suonassi qualcosa per loro, come potevo rifiutare?»
«Già…»
«Su, complimentati anche tu con loro.»
Geralt si rivolse alla coppia che era lì accanto a loro.
«Felicitazioni»
«Grazie, mastro strigo», rispose Bergàc. «E grazie ancora a voi, poeta. Mi diletto anch’io di poesia, ma io sono soltanto un povero cadetto di provincia, voi siete davvero eccezionale.»
«È stato un piacere esibirmi in quest’occasione, davvero.»
Sorrise ancora verso di lui e poi si rivolse a Geralt: «Possiamo parlare un minuto?»
«Sì, certo. E tieni, Ranuncolo, riprenditi queste uova.»
«Ma come…?»
Geralt gliele lasciò tra le mani e poi si allontanò assieme a Bergàc, che si era appartato dopo aver avvisato la moglie.
«C’è qualcosa che volete dirmi?», chiese lo strigo.
«Effettivamente sì… Vergalio mi ha avvisato che state facendo un lavoro per noi, e voglio aiutarvi.»
«Come?»
«Vedete, non so se vi servirà… Ma c’è un luogo nel bosco, poco lontano da qui. È strano… C’è una lastra di pietra messa in orizzontale sostenuta da altre due lastre più piccole.»
«Un tavolo?»
«Qualcosa del genere… Sono anni che non ci vado, ma so che è ancora lì. La gente evita quel posto, gli animali stessi lo evitano. Io credo che dovreste andare a vederlo… Sempre che non abbiate tracce migliori.
«Forse… Cos’altro ha di particolare questo posto?»
«Non lo so… È un posto che fa accapponare la pelle. Ci si rende conto che c’è qualcosa d’altro lì, anche se non si vede cosa.»
Bergàc si fece pensieroso. Estrasse dalla tasca un pezzo di stoffa rossa, sembrava quel che restava di un vecchio mantello.
«È incredibile… L’ultima volta che sono andato là ero un ragazzino. Non mi ricordo perché ci andai, ma fuggii di corsa. Indossavo un mantello rosso… Oggi non ci avrei neppure pensato se Polanna, mia moglie, non mi avesse regalato questo…»
«Posso vederlo?»
«No! È mio!»
Bergàc urlò e tirò indietro le braccia, quindi rimise il pezzo di stoffa in tasca.
«Vi chiedo scusa, sono un po’ nervoso in questi giorni…»
«Vedo… Come posso arrivare a questo posto, allora?»
«È facile, ascoltate.»
Spiegò come arrivarci, quindi salutò e tornò da sua moglie.
Geralt raggiunse Ranuncolo, che nel frattempo si era liberato della coppia e degli ammiratori.
«Allora, che ti ha detto?»
«Mi ha dato qualche indicazione…», rispose Geralt. «Riguardo a quello che dovevamo fare noi, hai visto qualcuno?»
«Be’, all’inizio non trovavo Polanna e il marito, ma poi ho capito perché. C’è diversa gente che non ho visto: intanto la vecchia Mà…»
«Vero, ma vecchia com’è credo sia difficile che venga fin qui.»
«E non ho visto neanche il figlio di Vergalio, Astario…»

Astario salì la collina dove sorgeva la casa nel cipresso senza guardarsi indietro. I suoi passi erano sicuri, il suo proposito chiaro. Non avrebbe accettato nessun compromesso, nessun rifiuto.
Arrivò alla porta e bussò.
«Avanti!»
Il ragazzo entrò. Dentro, nella piccola stanza rotonda, la vecchia lo osservava seduta su uno sgabello.
«Oh, guardate chi c’è! Chi è venuto a farci visita!»
«Scusate la sorpresa, io…»
«Non è una sorpresa! Abbiamo smesso di sorprenderci molto prima che tu nascessi! E bada a quello che dici, altrimenti potrai pentirti di averci disturbate a quest’ora.»
Neppure Astario era sorpreso: era esattamente la reazione che si aspettava.
«Voi sapete chi c’è in città questi giorni, vero?»
«Ovvio. Tu lo sai?»
«Sì, io…»
La vecchia scoppiò a ridere.
«Lo sa! Lui lo sa!»
«E so anche cosa siete voi, e so che quindi arriverete a scontrarvi.»
Le risate della vecchia erano diventate convulsive, non riusciva più a stare sullo sgabello, rischiava di ribaltarsi ad ogni eccesso di risa.
«Incredibile! Incredibile!», strillò. «Sa tutto! Il più grande sapiente dei regni e si trova proprio in questo villaggio!»
Astario ne aveva abbastanza.
Si avvicinò a lei, gonfiò il petto e parlò nel modo più autoritario possibile.
«Voi vi prendete gioco di me, ma io sono l’unico qui disposto a fare quello che è giusto per voi! Io sono qui per proteggervi e giuro di difendervi anche a costo della mia stessa vita.»
Detto questo si inginocchiò davanti a lei.
La vecchia cercò di controllarsi e riuscì a ridurre le risate a striduli suoni soffocati che le scuotevano il petto.
«Bene, e cosa potremmo… Oh, guarda chi c’è!»
Astario sollevò il capo e la osservò andare alla finestra e prendere in mano un topo ricoperto di fiori.
«Bravo! Bravo piccolo! Proprio quello che ci serviva.»
Mise l’animale sul tavolo e gli diede una carezza dietro l’orecchio.
«Ci hai impiegato tanto, stavolta… Hai avuto un contrattempo?»
Il topo mosse su e giù la testa.
«Non preoccuparti, sei stato bravo. Son tutti quelli di cui avevamo bisogno. E si era parlato di un premio, giusto?»
Lui drizzò le orecchie.
La vecchia prese un involto di carta da un cassetto, lo mise sul tavolo e ne tirò fuori un grosso pezzo di formaggio. L’aroma pungente si sparse subito per la stanza. Astario annusò perplesso.
«Ma questo odore…»
«Sì!», strillò la vecchia. «È il formaggio della tua cantina. Siamo andate a prenderlo a casa tua. Ti abbiamo visto mentre dormivi… Sembravi proprio uno spiritello dei boschi!»
Astario cominciò a sudare. L’immagine della vecchia accanto al suo letto gli fece venire i brividi lungo la spina dorsale. Il topo intanto si era gettato sul formaggio e mangiava con estremo piacere.
«Allora… Vuoi ancora proteggerci?»
«Sì, lo voglio!»
La vecchia rise di nuovo.
«La seconda volta che ci sentiamo rivolgere questa frase da un bel giovane, dovremmo essere lusingate! Aspetta qui.»
Oltrepassò la tenda che nascondeva l’altra stanza. Astario sentì dei rumori metallici, poi lei tornò nella stanza trascinando un’enorme spada di metallo. L’elsa aveva la forma della testa di un leone ruggente, la lingua formava la lama, mentre l’impugnatura, là dove ci sarebbe stato il collo del leone, era formata dai peli della criniera che si avvolgevano l’un l’altro. No, a guardare meglio, sembravano delle zampe artigliate che si stringevano in un’unica spirale.
La vecchia teneva il manico verso l’alto e trascinava la spada che segnava il pavimento con la punta. La lasciò cadere ai piedi di Astario.
«Raccoglila.»
Lui si alzò, allungò cautamente la mano verso la spada e strinse l’impugnatura. Contrasse le braccia ma non riuscì a smuoverla. Si spinse con le gambe, tirò fino a tendersi tutti i muscoli del collo, fece forza fino a gridare, ma la spada rimase ferma a terra.
Lui lasciò la presa e cadde all’indietro, senza fiato.
«Così non va…»
La vecchia si avvicinò, superò la spada mentre Astario strisciava sulla schiena cercando di allontanarsi da lei.
«Io… Non posso! Non posso, mi sono sbagliato!»
«Sì, che puoi. Ma non così…»
Lei prese il topo nella mano destra. Quello stava ancora mangiando il formaggio. Osservò gli occhi della sua padrona mentre lo prendeva. Gli parvero molto tristi. Furono l’ultima cosa che vide.
Lei strinse la mano destra di Astario nella sua: le dita strette formavano una gabbia attorno al topo che cominciò a squittire.
Astario gridò, cercò di divincolarsi ma la presa della vecchia era d’acciaio. Cominciò a stringere ancora di più mentre catturava con lo sguardo i suoi occhi e li teneva avvinti a sé.
La mano divenne incredibilmente calda, sembrava di avere le dita in una fornace. Astario percepiva il topo gemere, muoversi nel suo palmo, e poi lo sentì. Il morso. E poi i graffi. I muscoli che venivano tagliati dall’animale che cercava una disperata via di fuga da quella prigione bollente.
Urlarono entrambi, il ragazzo e l’animale, mentre lei stringeva sempre di più. Poi il topo smise di mordere. Astario sentì qualcosa di caldo colargli tra le dita mentre i suoi occhi erano prigionieri di quelli della vecchia. Il calore aumentò, la carne bruciava, il grasso colava e qualcosa scricchiolava tra le sue ossa e sopra la sua pelle.
Poi cominciarono gli spasmi, contrazioni calde e improvvise che dall’avambraccio si trasmettevano alla spalla, le vene che portavano fuoco liquido ai suoi muscoli che si contraevano come se volessero sparire dall’esistenza.
Poi fu luce, una fiamma che salì dalla sua gola e gli fece scoppiare gli occhi, una luminosità che non usciva dalla sua bocca spalancata, dalle ordite vuote e dalle orecchie, ma sfumava da esse perdendosi sopra il soffitto, bruciando Astario nel suo cuore rovente e consumando quello che aveva di giovane e umano.
Quando tutto finì, la vecchia guardò quello che aveva fatto e sorrise.
«Vuoi essere il nostro campione?», chiese.
E la cosa rispose: «Sì.»

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Capitolo 13
*** il guardiano del tempio ***


Arrivarono alla radura a metà mattina. Sembrò apparire improvvisamente davanti a loro dopo l'ultima fila di alberi. Ranuncolo stette fermo qualche minuto cercando le parole per descriverla.
Il frinire delle cicale era assordante, un grido continuo che arrivava dai faggi, dai carpini e dai cespugli di rosmarino. Non c'erano uccelli a interrompere questo grido, tra le radici e il sottobosco non si distingueva nessun movimento di animali. Il sole era coperto da nuvole scure e veloci che lasciavano filtrare qualche raggio che andava a perdersi tra le spine dei rovi, dandogli un aspetto ancora più acuminato.
Antica, severa, fiera della propria solitudine, solcata da radici come rughe su una fronte accigliata. Ranuncolo la trovò ostile e aliena.
«Geralt, sicuro che sia questo il posto?»
«Hai visto anche tu la mappa, no?».
Il bardo annuì. Bergàc gli aveva dato indicazioni estremamente chiare.
Capì subito di non voler essere lì. Controllò da capo a fondo la mappa cercando una scusa qualsiasi per dire a Geralt che in realtà avrebbero dovuto girare dalla parte opposta diverse centinaia di metri prima. Inutile, la mappa era inattaccabile.
Sospirò mentre Geralt estraeva un lungo coltello e cominciava a farsi strada tra i rovi.
Le cicale si zittirono nel momento stesso in cui misero un piede avanti. Nel silenzio improvviso, Ranuncolo si rese conto che non era lui a non voler esser lì, era la radura stessa a non volerli.
Geralt portò la mano sul medaglione a forma di lupo, ma quello era perfettamente immobile.
«Andiamo, Ranuncolo. Non restare indietro.»
Geralt comprendeva lo stato d'animo dell'amico: lui stesso si sentiva oppresso da qualcosa di indefinibile, gli era quasi difficile respirare. Ignorò questa sensazione e continuò ad avanzare deciso verso il centro della radura, mentre le cicale riprendevano gradualmente volume.
Lo strigo si fermò solo quando vide una massiccia tavolata di pietra completamente avvolta da rampicanti. Il muschio filtrava tra i pori mentre le radici la chiudevano come in una gabbia e si insinuavano tra le crepe. Tra tutta la vegetazione che copriva la pietra, spiccava una serie di fiori tra il blu e il viola dalla vaga forma ad elmo, sorretti da un fusto lungo e dritto.
«Non è la radice del diavolo, quella?», chiese Ranuncolo.
«Aconito napello», precisò Geralt, «strozzalupo».
Gli strighi vantavano una conoscenza delle erbe estremamente precisa: per loro era indispensabile conoscere quali piante crescevano negli habitat delle creature che andavano a cacciare, così come era necessario conoscere i loro effetti qualora le si volesse utilizzare per preparare pozioni e infusi.
Chi la chiamava strozzalupo la conosceva soprattutto per i suoi presunti effetti contro i licantropi, oppure per la loro efficacia nel preparare trappole per volpi e lupi, mentre col nome di radice del diavolo si ricordava il suo effetto mortale in generale e per l'uomo in particolare. La pietra ne era praticamente ricoperta.
Tagliando i fusti col coltello, Geralt prese alcuni fiori, li avvolse stretti in un panno e poi ripose il tutto nella saccoccia.
«Ti serviranno?», chiese Ranuncolo.
«Non si sa mai».
Il bardo si chinò osservando il fianco della tavolata, poi attirò l'attenzione dell'amico.
«Cosa c'è?»
«Guarda! Ci sono delle iscrizioni.»
Dove la vegetazione non ricopriva la pietra, si vedeva una serie di scanalature geometriche evidentemente incise sulla superficie.
«Significano qualcosa?»
«Non so... Non ricordo di aver visto cose simili sui libri»
Cominciarono a rimuovere la vegetazione col coltello, notando che le incisioni, dai quattro angoli del tavolo, convergevano verso il centro diramandosi nel frattempo a formare un'intricata ragnatela. Geralt rimase perplesso quando si rese conto che i rampicanti nascondevano qualcosa al centro della tavolata: salivano arrampicandosi su qualcosa che si alzava verso il cielo di circa un braccio.
Geralt ripose il coltello e scostò lentamente con la mano i fiori, sentendo sotto di essi delle forme dure e in rilievo. Poi vide cosa c'era sotto e fece un salto indietro. Ranuncolo urlò ma venne coperto dal grido delle cicale che si fece sempre più forte, quasi una risata che saliva di tono raschiando le note più acute.
Sopra il tavolo li fissava il muso di un leone ruggente inciso nella pietra. Il tempo non aveva scalfito i lineamenti, li aveva resi più duri. Gli occhi, solo due buchi scuri su quel volto feroce, sembravano fissarli sfidandoli ad avvicinarsi. Dietro la criniera spuntavano otto zampe artigliate da ragno che si piegavano ad uncino verso di loro.
«Il Ragno Leonino...»
Lo strigo era immobile, sembrava paralizzato.
«Geralt, andiamocene! Adesso!»
Lui mosse la mano verso Ranuncolo senza voltarsi, facendogli segno di stare fermo.
«Sul serio! Non ha senso, non ne vale la pena solo per un liuto!».
La voce di Ranuncolo era veramente terrorizzata. Cercava in tutti i modi di non guardare quell'idolo che mostrava le zanne contro di loro. Il frinire delle cicale sembrava una sega intenta ad aprirgli il cranio. Sentiva il sudore scendergli dal collo e attaccargli la camicia alla pelle.
«Io me ne vado... Sul serio, ora mi volto e torno ai cavalli.»
Geralt si girò di scatto.
«Non muoverti da lì!»
Ranuncolo si paralizzò. Non riusciva a capire se a ringhiare così era il suo amico o quel leone che li fissava. Non riusciva a guardarlo: gli sembrava che quelle zampe da ragno si muovessero piano allungandosi verso di loro. Spostò gli occhi a terra cercando di smettere di tremare, ma non si mosse.
Il cervello dello strigo lavorava velocemente. Non aveva messo in conto di poter finire in quello che aveva tutta l'aria di essere un santuario dedicato a una delle divinità più antiche e malvagie che fossero mai state adorate da uomini, elfi o nani. C'era chi ipotizzava che esistesse anche prima della Congiunzione delle Sfere, quando la barriera tra i mondi si era indebolita lasciando che la magia e le creature che popolano i sogni e gli incubi delle persone filtrassero dai mondi esterni al loro. Per questo il medaglione degli strighi reagiva allo stesso modo contro mostri e magia: entrambi provenivano dall'esterno e questo faceva vibrare il muso di lupo che Geralt portava al collo.
Ma in quel momento, il medaglione era immobile. Geralt avanzò cautamente. Sentì il gemito soffocato di Ranuncolo alle sue spalle, ma lo ignorò. Sapeva che non avrebbe tentato nulla di stupido.
C'erano molte volte in cui Geralt odiava essere quello a cui la gente si rivolgeva per risolvere situazioni dalle quali pochi sarebbero usciti vivi e ancora meno quelli che se la sarebbero cavata senza conseguenze. Ricordava un uomo trasformato in una creatura orribile per aver insultato una sacerdotessa del Ragno Leonino. Sapeva di villaggi distrutti dall'improvvisa invasione di ragni velenosi, di uomini morti in maniera atroce dopo essere stati morsi da creature più letali di un cobra. Ma il medaglione non reagiva e quell'idolo non era altro che un sasso scolpito.
Si fece avanti, raccolse tutto il proprio coraggio e appoggiò la mano sul muso del leone. Non avvertì nulla, nessuna magia, nessuna presenza. Tutto era fermo e quell'altare era solo pietra inerte.
Si voltò e vide Ranuncolo inginocchiato con le mani sopra la testa, tremante come chi si aspetta che il cielo gli crolli addosso schiacciandolo con tutto il suo peso.
«Tirati su, non c'è nulla.»
Lui non lo ascoltò.
«Avanti, questo posto è abbandonato da un sacco di tempo. Qualunque cosa ci fosse, non c'è più.»
«Sicuro?»
«Forza, vieni qui anche tu».
Ranuncolo si alzò e si avvicinò con evidente incertezza. Aspettò. Non accadde nulla. Sotto i suoi occhi da gatto, Geralt sorrideva. D'un tratto, l'atmosfera parve alleggerirsi.
«Mi son fatto prendere dal panico»
«Chiunque avrebbe reagito così»
«E ci credo! La prossima volta avvisami prima di tirar fuori una sorpresa del genere. Ci sono quasi rimasto secco per lo spavento»
«Non me lo aspettavo neanch'io...».
Rimasero in silenzio a riflettere su quello che avevano scoperto.
«Possibile che la gente di Passafiume adori una divinità simile?»
Geralt scosse la testa. «Non credo. Questo posto è vecchio, lasciato alle erbacce. Nessuno viene qui da molto tempo. E dubito che Bergàc, il comandante delle guardie, ci avrebbe indirizzato qui se fossero coinvolti in qualche modo.»
Ranuncolo provò a ribattere qualcosa, ma senza molta convinzione. Poi gli cadde l'occhio alla base dell'altare, e si chinò ad esaminarla.
«Guarda, sembra ci sia qualcosa...»
Geralt si abbassò a sua volta e studiò il punto che gli indicava l'altro. Alcune radici erano entrate in una crepa allargandola fino a poterci passare una mano. Un filo d'aria filtrava dalla crepa.
Lo strigo allargò le pupille fino a catturare ogni raggio di luce e guardò nella fessura: c'era evidentemente uno spazio abbastanza largo che andava verso il basso.
Si rialzò e disse a Ranuncolo di andare a prendere le pale legate alle selle. Quando il bardo tornò con gli attrezzi cominciarono a scavare, rivelando in poco tempo una scalinata che scendeva scomparendo sotto l'altare.
«Siamo davanti all'ingresso di un tempio?»
«Così sembra...»
«Sei sicuro che non c'è più nulla, Geralt?»
«Sicuro. Accendi la torcia e scendiamo.»
Ranuncolo non ebbe il tempo di chiedere perché, non ebbe tempo di maledire il cielo o il fato: Geralt scese quasi subito, esplorando l'oscurità coi suoi occhi da gatto. Lui si affrettò ad accendere la torcia e ad andargli dietro.

Le scale non scendevano tantissimo, ma abbastanza perché entrambi potessero stare con la schiena dritta senza toccare il soffitto. Le pareti erano ricoperte di muschi e sgretolate dall'umidità. Ogni tanto la torcia faceva scoprire incavi scavati a distanze regolari, nei quali si riusciva ancora a distinguere uno stucco di colore rosso che forse un tempo aveva decorato l'intera scala. Continuarono a scendere senza parlare finché non arrivarono in un'ampia stanza circolare, al centro della quale stavano un altro altare e un largo braciere di bronzo ormai ossidato, appoggiati sulla nuda roccia. Una serie di ragnatele correva lungo il soffitto, arrivando da un lato all'altro della stanza.
Ranuncolo la guardò impressionato.
Geralt sollevò la mano e le toccò. Si sfibrarono subito sotto il suo tocco, riducendosi in polvere.
«Non sono ragnatele... Sembra un tessuto di qualche tipo...»
Ranuncolo osservò meglio. Vide i lembi fissati al soffitto con dei chiodi. Era evidentemente un drappo stracciato al punto da dar l'idea di una ragnatela. Se fosse un'impressione voluta o un effetto del tempo, Ranuncolo non avrebbe saputo dirlo.
Osservarono l'altare e il braciere. Entrambi erano solcati da decorazioni che ricordavano la tela di un ragno, ma non trovarono altro di interessante. Sulla parete dietro all'altare, dalla parte opposta a quella da cui erano entrati, si aprivano due porte ad arco, una di fianco all'altra.
«Destra o sinistra?»
Ranuncolo alzò le spalle. «Decidi tu.»
Geralt andò alla porta di sinistra. I bordi dell'arco erano  decorati di rosso. Aspettò che Ranuncolo facesse luce con la torcia e poi passò dall'altra parte.
Si ritrovarono in una stanza più piccola, quasi intima. Un'occhiata a destra gli confermò che anche l'altra porta si apriva sullo stesso ambiente. Oltre a quelle c'erano altre due porte sui lati opposti e quello che sembrava un pozzo al centro del pavimento. C'era perfino una carrucola con una corda che scendeva giù fino a perdersi nel buio. Ranuncolo trattenne il respiro mentre Geralt prendeva la corda e cominciava a tirare. Pochi secondi dopo, dal pozzo salì un piccolo secchio. Era pieno di melma maleodorante. Lo strigo calò di nuovo il secchio e poi si guardò attorno.
La stanza sembrava mantenere parte della decorazione originale: la parte a sinistra era dipinta di rosso, anche se ormai quasi del tutto scrostato. Di che colore fosse la parte destra non si riusciva a capire. Ranuncolo ipotizzò che fosse un colore poco resistente, come quello del azzurrite. Sulle pareti erano anche dipinte alcune figure, ma erano così sbiadite che non si riusciva a dar loro un senso. Sia a destra che a sinistra le figure principali erano femminili, coperte da un mantello con un cappuccio, con un bastone in mano e una folla di uomini inginocchiati davanti a loro. Nonostante non si riuscisse a comprendere il significato, il tono delle figure era decisamente diverso da una parte all'altra della stanza: da una parte, il rosso era dato dalle fiamme che si riuscivano a distinguere mentre divoravano la carne di uomini e donne e bruciavano i villaggi. La donna col mantello e il bastone stava in mezzo a queste fiamme con le mani alzate, trionfante. Dall'altra parte, la stessa donna toccava con la punta del bastone alcuni uomini distesi a terra, e quelli si rialzavano.
«Queste donne sembrano uguali...», osservò Ranuncolo.
«Che siano la stessa persona?»
«Chissà... Ma sembra tutto così vecchio...»
Geralt sapeva cosa intendeva dire Ranuncolo. Ma lui stesso aveva smesso di contare gli anni della propria esistenza, e i maghi riuscivano ad interrompere l'invecchiamento e vivere per tutto il tempo che volevano.
Osservarono le due porte che si aprivano nella stanza. Erano una a destra e una a sinistra.
Stavolta decisero di andare a destra.
La stanza era larga quasi quanto la precedente. Un tavolo di legno la occupava nel mezzo. Era coperto di muschio e funghi al punto di avere un colore tra il verde e il grigio. Il resto dello spazio era occupato da un letto, quello che sembrava un caminetto, un catino, alcune mensole con vasi di diverse forme e dimensioni. I vasi erano pieni di terra secca. Osservando il caminetto, Geralt trovò un'apertura nel soffitto occupata da terra e radici. Trovò altre aperture simili sul soffitto e ipotizzò che fossero passaggi per l'aria. Ranuncolo stava esaminando il letto. Sopra vi era disteso un vecchio mantello con cappuccio. Ranuncolo provò a prenderlo in mano, ma quello si sfaldò in polvere.
«Per gli dei... Solo il tempo potrebbe ridurre un tessuto in queste condizioni.»
Geralt si spostò di fianco al tavolo. Gli bastò una leggera pressione per staccarne un pezzo consistente. Alcuni vermi cominciarono a spostarsi rapidamente tra il legno e la sua mano. Geralt aprì le dita e lasciò cadere il tutto senza curarsene più.
Tornarono indietro e superarono l'altra porta. La stanza era quasi speculare: un tavolo le cui gambe avevano però già ceduto da tempo, un letto, un caminetto, alcune mensole. Geralt notò qualcosa di diverso sulla parete davanti a loro. Si avvicinò riconoscendo senza nessuna difficoltà una rastrelliera per spade. Non si stupì affatto di trovarla completamente vuota.
«Sembrerebbe che dormissero in queste stanze...»
«Due persone?»
«Perché no? Nonostante tutto il simbolismo, scavare questi ambienti deve essere stato molto faticoso, dubito l'avrebbero fatto per una persona sola.»
Geralt annuì soddisfatto del ragionamento di Ranuncolo.
Il resto accadde molto velocemente.
Il medaglione si mise a vibrare come impazzito. Geralt sentì dietro di sé la voce strozzata di Ranuncolo.
Gli sembrò di voltarsi lentamente, troppo lentamente. La prima cosa che vide fu il pelo: una pelliccia scura e ispida che occupava tutta la porta da dove erano entrati. Poi il muso gigantesco rivolto verso di lui, la bava che scendeva dalle labbra aperte su una poderosa fila di denti, gli incisivi robusti come quelli di un topo. Impugnava una spada enorme alla propria destra, mentre a sinistra aveva uno scudo alto quanto lui e decorato a ragnatela. Ranuncolo gli era proprio accanto, lo osservava tremando con gli occhi sgranati.
Mosse un braccio quasi con noncuranza scagliando il bardo contro un muro. Ranuncolo si accasciò a terra inerte.
Poi la cosa si mosse. Si scagliò contro lo strigo mulinando la spada con una velocità impressionante.
Geralt si proiettò in avanti, si abbassò in scivolata sentendo il filo dell'arma che passava sopra la sua testa. Si rialzò con uno scatto delle cosce, estrasse la spada e parò un fendente dall'alto. Fece una mezza piroetta con un taglio diretto al braccio, ma andò a sbattere contro lo scudo della creatura. Il colpo risuonò come un gong. Improvvisamente, Geralt si sentì come se avesse ricevuto un pugno in testa. Arretrò di colpo mettendosi sulla difensiva.
Studiò il suo avversario. Era veloce, troppo veloce per la sua taglia. Non aveva mai visto nulla di simile. Il medaglione continuava a vibrare. Il suo muso sembrava quello di un topo. I baffi saettavano mentre anche lui lo fissava.
Poi Geralt rimase stupito. Quella cosa stava sorridendo?
La creatura si mise a colpire violentemente lo scudo con la propria spada. L'aria si riempì di un rumore assordante.
Geralt non sentì il proprio urlo mentre si tappava le orecchie con le mani. Il terreno gli mancò sotto i piedi, si ritrovò in ginocchio senza neppure rendersene conto, registrò solo superficialmente di aver lasciato cadere la spada. Capì d'un tratto cosa aveva voluto dire la vecchia quando lo aveva messo in guardia contro i rumori forti.
La cosa si avvicinava continuando a battere contro lo scudo. Ogni colpo era un'ondata che gli attraversava il cranio, gli afferrava il cervello e glielo scagliava contro il muro. Non riusciva a muovere un muscolo. Le sue gambe erano gelatina, il terreno una melma informe che non poteva sostenerlo. Quella creatura si avvicinava, un attimo ancora e avrebbe sentito il sibilo della spada sul suo collo.
Ma il colpo non arrivò. I battiti si interruppero all'improvviso mentre Ranuncolo balzava sulla schiena del mostro pugnalandolo alla gola. Si sentì un ringhio rabbioso mentre quello lasciava andare la spada, afferrava il piede del bardo e lo scagliava di schiena contro il tavolo.
Geralt sollevò lo sguardo giusto in tempo per vedere Ranuncolo passare attraverso il tavolo, arrivare a terra e spalancare la bocca come se dovesse sputare i polmoni dalla gola. Non riusciva ancora ad alzarsi. Il mostro riprese la spada e la sollevò per abbatterla contro il poeta.
Geralt chiuse le dita nel Segno Aard e gliele puntò contro. Ma quello era troppo grosso, e lui si sentiva ancora troppo debole.
All'ultimo momento, Geralt cambiò bersaglio e puntò le dita verso il basso: l'energia magica scagliò lontano Ranuncolo nel momento stesso in cui la spada calò su di lui. Schegge e pezzi di pietra schizzarono in aria mentre l'arma si conficcava nel pavimento.
Lo strigo si rialzò ancora traballante. Vide il suo avversario sforzarsi di estrarre la spada da terra: si era conficcata per quasi metà della lama. Geralt cercò di avanzare ma il corpo non gli obbedì. Dovette appoggiarsi contro il muro per non cadere di nuovo.
Di nuovo, quella cosa si mosse troppo velocemente: lasciò perdere la spada e si lanciò con tutto il proprio peso contro lo strigo. Lui non provò neanche ad evitare l'impatto. Sentì il pelo avvolgerlo, si sentì sollevato verso il soffitto, percepì un dolore lancinante quando si trovò tra le sue ossa e il muro, poi qualcosa che cedeva dietro di lui, aria, pietrisco, radici.
Caddero a terra entrambi. Il mostro cercava di chiudere le fauci attorno al suo cranio, ricoprendo la sua fronte e i suoi occhi della saliva che colava dai suoi denti. Con uno scatto improvviso, Geralt gli afferrò la gola e poi lo colpì sul muso con le borchie d'argento che aveva sui guanti. Quello lo lasciò andare immediatamente e ringhiò furioso mentre si massaggiava il volto con la zampa destra.
Lo strigo si rialzò e si prese una frazione di secondo per guardarsi attorno. Erano all'aperto, nella radura. Erano passati attraverso un'intera parete di roccia? Evidentemente doveva essere più friabile di quanto avesse pensato. Si chiese comunque come facesse a stare ancora in piedi.
Poi sentì un liquido vischioso colargli lungo il petto.  
Temette il peggio, poi capì. Le pozioni che portava sul cinturino sotto il farsetto. Ovviamente non potevano resistere a un impatto del genere.
La creatura si stava ancora riprendendo dal suo colpo, ma non era nulla che potesse fermarla davvero. C'era una sola possibilità: Geralt cercò sotto il farsetto, trovò la pozione che voleva, ringraziò il cielo che fosse ancora intera e ne bevve il contenuto con una sola sorsata.
Ora doveva solo aspettare che facesse effetto.
Il mostro si riprese in quel momento. Fissò Geralt con una rabbia e un odio che non avevano misura. Si scagliò contro di lui cercando di squarciarlo con gli artigli. Geralt fece una capriola di lato ritrovando finalmente la propria agilità. Estrasse la seconda spada che portava sulla schiena, quella d'acciaio, e colpì il suo avversario schivando un'altro dei suoi attacchi.
Osservò il filo dell'arma: non c'era la minima traccia di sangue. Evidentemente il colpo era rimbalzato sulla sua pelle senza fare danni, proprio come temeva. Geralt lanciò la spada lontano, a quel punto gli era solo d'impiccio. Si piegò in avanti chiudendo le mani a pugno, le borchie d'argento ben esposte sulle sue nocche.
Danzarono per un tempo che parve infinito. Ogni respiro si dilatava scandendo il ritmo dei colpi e delle schivate. La creatura incassava i pugni, Geralt schivava con una piroetta, non gli dava pace. Ma troppe volte era stato quasi colpito e gli attacchi di quel mostro si facevano sempre più precisi. Il tempo stava per scadere.
Poi quello colpì Geralt con lo scudo. Una spallata improvvisa. Lo spinse e lo schiacciò contro un albero. Il suono che usciva dalla sua gola sembrava una risata mentre usava sempre più energie per abbattere il suo avversario contro il tronco.
Poi smise di spingere. La sua risata si strozzò mentre sentiva qualcos'altro far forza dall'altra parte dello scudo. Si oppose, ma la spinta diventò sempre più potente. Le sue zampe raschiavano il terreno mentre indietreggiava in modo inesorabile. Due mani ricoperte di sangue afferrarono i bordi dello scudo, continuarono a spingere e intanto cominciarono a ruotarlo di lato. Cercò di opporsi, ma lo scudo continuava a girare, gli torceva il braccio, tirava tendini che sembravano infrangibili, ossa che sembravano fatte d'acciaio. Quando si spezzò, sembrò che una quercia si fosse spaccata in due. L'urlo coprì ogni altro suono, lo scudo continuava a ruotare senza quasi trovare più ostacoli. Poi vide il volto del suo avversario: la ferocia che vide nei suoi occhi schiacciò ogni sua resistenza, il suo ghigno proiettava una malvagità tale da bruciargli il cuore.
Lo vide solo per un istante, poi Geralt lo colpì con una testata. Indietreggiò riuscendo a sfilare il braccio spezzato dallo scudo. Lo strigo continuava ad attaccarlo senza dargli tregua, ogni colpo raggiungeva il volto, il braccio, lo stomaco. La sua difesa era stata completamente annientata.
«Geralt!»
Si vide solo un lampo argenteo nell'aria. Geralt afferrò la spada al volo e tagliò penetrando nel petto della creatura, raggiungendo i polmoni, l'aorta. Fece una piroetta di slancio alle sue spalle colpendola dall'alto al basso sul collo, tranciando la carotide e la trachea. Era morta prima ancora di cadere al suolo.
Ranuncolo pensò di non aver mai sentito un silenzio simile. Geralt era immobile, l'arma alzata e pronta a colpire di nuovo. Lui si era arrampicato dal buco lasciato dai due nel soffitto portando la spada d'argento con sé. Si era salvato solo perché il tavolo marcio aveva attutito la caduta Lo aveva visto spezzare il braccio del mostro e poi prendere la spada che lui gli aveva lanciato e porre fine al combattimento. Non aveva mai visto nulla di simile.
Poi Geralt si voltò verso di lui e il sangue gli si gelò nelle vene. Il suo volto era contratto in un ghigno feroce, i suoi occhi da gatto erano iniettati di sangue. Si girò del tutto mostrandogli il filo della spada. Pensò di fuggire. Sapeva che sarebbe stato inutile.
Poi Geralt inspirò profondamente e abbassò l'arma. Prese una foglia e pulì la lama dal sangue come poteva. Si sentiva mancare, ma decise che era un pessimo momento per svenire. Fece cenno a Ranuncolo di raggiungerlo, senza trovare le forze per dire alcunché.
Poi accadde ancora qualcosa.
La creatura cominciò a fremere e a ronzare, sembrava piena di insetti. Il medaglione riprese a vibrare come se volesse forare il petto di Geralt. La creatura si contorse, il pelo cadde a terra e si ridusse in polvere mentre le ossa si rimpicciolivano schioccando come se si stessero rompendo una a una.
Quando il medaglione dello strigo tornò immobile, davanti a loro c'era un essere umano riverso sulla pancia. Lo girarono e impietrirono entrambi riconoscendo il figlio del sindaco del paese, Astario, ricoperto del proprio sangue. Rimasero lì ad esaminarlo senza riuscire a dire una parola. Il ragazzo aveva una mano chiusa a pugno. Ci volle uno sforzo notevole per aprirgli le dita e scoprire cosa stringeva.
Geralt e Ranuncolo rimasero un po' a domandarsi cosa potesse essere, poi conclusero che non era altro che un topino schiacciato.

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Capitolo 14
*** Voce di madre, dolore di padre ***


Il vento giunse da nord, scendendo dalle montagne e passando sopra le colline di Passafiume. Nella piazza davanti alla locanda, l’ultima lanterna di carta ondeggiò violentemente, si strappò e cadde sui tavoli ormai vuoti. Rotolò sul legno finendo sull’erba, poi venne spinta di nuovo in alto contro le case. Rufus la guardò affascinato. La seguì con lo sguardo fin quando non scomparve dietro un angolo.
Stava seduto su una panca, i gomiti appoggiati sopra il tavolo. Era lì da circa un’ora, incerto sul da farsi. Aveva visto Astario per l’ultima volta alla festa della sera prima, prima che si allontanasse senza farsi notare e senza dire niente a nessuno.
Rufus era preoccupato. Nella tarda mattinata era anche andato da Vergalio, il padre del suo amico, a chiedere dove fosse finito. Il vecchio non sapeva nulla, ma non gli era sembrato né sorpreso, né preoccupato. Astario era adulto e forte, e capitava che restasse fuori casa a dormire. Vergalio era invece arrabbiato col figlio, visto che lo aveva lasciato da solo a portare fuori le scatole imballate per la partenza. Rufus aveva quindi perso il resto della mattina ad aiutarlo. D’altronde, casa sua era anche il posto più probabile dove ritrovarlo, tanto che si aspettava di veder comparire l’amico da un momento all’altro.
Invece aveva finito i lavori e di Astario non c’era ancora traccia. Provò a cercarlo di nuovo nel paese, ma sembrava svanito nel nulla. Gli venne in mente lo strigo e tutta la confusione che il suo arrivo aveva portato e si sentì prendere dal panico. Si obbligò a calmarsi e a non perdere la testa. Non aveva motivo di pensare che gli fosse successo qualcosa, era inutile farsi prendere da certi pensieri. Ma perché i pensieri peggiori a volte sono così allettanti?
Rufus si rese conto di aver vissuto gli ultimi giorni tra attimi di lucidità e attacchi di panico. Era stato il panico quando Vergalio aveva radunato tutto il paese e aveva spiegato cos’era successo a quella carovana che attraversava il bosco. Da anni vivevano con il terrore che qualcosa del genere potesse accadere. Ne avevano già discusso e tutti erano d’accordo nel lasciare il paese, anche i più vecchi. Avrebbero attraversato il fiume Dyfne assieme, poi alcuni avrebbero preso strade diverse. Nessuno voleva essere ancora lì quando i soldati del re sarebbero arrivati a investigare.
Rufus aveva imparato a convivere con la paura fin da bambino, non ci faceva quasi più caso. Ma tutti i segreti, i discorsi e i piani fatti in quegli anni erano diventati realtà. Si sentiva spaventato a morte.
Fu il panico quando venne mandato con una squadra a seppellire i morti della carovana. Davanti ai quei corpi smembrati si promise di non dubitare più, di fuggire con gli altri senza guardarsi indietro. Ma non riuscì ad evitare i conati e il vomito, le sue mani non smisero mai di tremare mentre gettava terra sui cadaveri.
Perse di nuovo lucidità quando lo strigo e il poeta arrivarono in paese. Pensò che i soldati fossero arrivati prima del tempo. Poi quei due cominciarono a indagare e a fare domande.
Non riusciva a capire perché Vergalio li avesse assoldati. Il vecchio aveva radunato alcuni uomini, Rufus compreso, e aveva detto loro di fidarsi di lui, di lasciar lavorare lo strigo senza ostacolarlo ma anche senza aiutarlo direttamente. L’unico a non essere d’accordo era stato Astario. Ed ora era sparito.
Rufus si sentì girare la testa. Si sedette sulla panca nella piazza della locanda e rimase fermo. Si voleva mettere in viaggio con Astario: dove lui fosse andato, gli sarebbe stato vicino. Un’idea semplice. Ancora non si curava di quello che sarebbe accaduto dopo, non aveva alcuna importanza.
Ma lui era scomparso e la partenza si faceva sempre più vicina.
Le barche erano attraccate al porto. La gente si riversava in strada portando casse di provviste e vettovaglie. Scendevano verso il fiume opponendosi al vento che li tirava indietro, caricavano nelle stive i frammenti della propria esistenza. Tornavano indietro verso le case a passo rapido, spinti dalla voglia e dall’aria, per poi andare lenti verso le barche carichi di altre casse.
Polanna e Bergac, Vergalio e il suo seguito, altri uomini e altre storie si staccavano dalla terra conosciuta, dalle pagine che narravano il loro paese. Nascondevano la tristezza in qualche parola allegra, in qualche favore scambiato col vicino, si mescolavano alla corrente.
Rufus stava lì, immobile, aspettando un amico che non tornava.
 

*

 

Essi Daven si alzò dal letto tremando appena un po’. Non si sentiva ancora del tutto in forze, ma scoprì di non aver grosse difficoltà a fare qualche passo per la stanza. La testa aveva smesso di pulsare, e non le faceva quasi più male.
Avanzò fino alla finestra e scostò la tenda. I raggi del sole arrivarono troppo diretti sul suo viso e sentì una fitta dietro la fronte mentre chiudeva gli occhi davanti alla luce. Richiuse la tenda e si allontanò dalla finestra.
Si mosse ispezionando il tavolo, gli scaffali, i vasi di terracotta. Ogni tanto ne annusava il contenuto, senza mai riuscire a capire cosa fosse. D’un tratto, un vaso le cadde di mano e andò a infrangersi sul pavimento.
Si immobilizzò e guardò con una punta di panico la porta che dava sull’altra stanza. Non c’era una vera porta, era solo un telo che nascondeva l’apertura nel muro. Le parve di sentire qualcosa, ma non accadde nulla.
Si risedette sul letto, incerta se rimettersi sotto le coperte e far finta che non fosse successo niente.
Alla fine si decise e andò nell’altra stanza.
Trovò la vecchia seduta sullo sgabello davanti al tavolo, intenta a legare tra loro una lunga serie di fiori. Le parve triste, estremamente stanca, ancora più vecchia. Lei si voltò e la guardò con un sorriso stanco.
«Ti sei svegliata. Ci era sembrato di sentire dei rumori.»
Essi non rispose. Continuava ad osservarla senza capire come comportarsi.
«Non è bello rompere le cose altrui», continuò lei. «Ma non preoccuparti stavolta, abbiamo altri vasi.»
La ragazza rimase ferma sulla soglia, studiava le sue mani ossute che annodavano i gambi allungando la catena.
«Io me ne vado», disse rompendo il silenzio che era calato tra loro. «Ormai sto bene.»
La vecchia la fissò e notò il modo in cui si reggeva al bordo della porta per non cadere, come cercava di mascherare il tremore alle gambe.
«Siamo contente che tu stia meglio», disse soltanto.
«Dov’è la mia collana?»
«Lì sopra», rispose indicando uno scaffale vicino al tavolo.
Essi si mosse e allungò la mano per prendere ciò che le apparteneva. Ma proprio mentre passava accanto alla vecchia il mondo cominciò a girare, le gambe smisero di sorreggerla, si sentì come se il suo corpo finisse all’altezza del bacino, senza che ci fosse più nulla ad allontanarla dal pavimento. Riuscì ad appoggiarsi al tavolo tenendosi miracolosamente in piedi mentre continuava a boccheggiare.
La vecchia si limitò ad osservarla senza smettere di lavorare.

 

*

 

Geralt sentì un brivido lungo la schiena. La pozione cominciava a perdere effetto. Prima di tutto sarebbe svanito l’effetto analgesico, restituendogli tutto il dolore che gli aveva risparmiato durante il combattimento. Poi la tensione muscolare si sarebbe allentata, e lui avrebbe rischiato di stramazzare al suolo se non stava attento. Era un veleno, se ne rendeva conto. Se un uomo qualsiasi provasse a bere una delle sue pozioni, morirebbe sul colpo. In quanto strigo, lui era addestrato ad assumerle, a valutarne i rischi, i benefici, e a sopportarne l’astinenza.
Ma il brivido che sentiva lungo la schiena forse era anche qualcosa d’altro. Lui e Ranuncolo erano inginocchiati accanto al corpo di Astario. L’avevano visto combattere in quella forma mostruosa e l’avevano visto trasformarsi una volta abbattuto. Geralt si rendeva conto che questo avrebbe messo il suo incarico sotto una luce completamente diversa.

 

*

 

Lei prese uno sgabello e lo mise dietro alle gambe di Essi Daven.
«Siediti qui, piano»
La ragazza obbedì mentre il senso di mancamento cominciava a passare.
«Non crediamo tu possa ancora andare via», disse la vecchia.
Essi scosse la testa, cercò di rialzarsi ma di nuovo le gambe non la ressero. Ricadde sullo sgabello faticando a tenere il busto in equilibrio.
«Domani potrai andartene. Non ti tratterremo, non tratterremo nessuno.»
Essi la guardò senza capire del tutto cosa intendesse. La vecchia aveva lo sguardo perso sul muro, sembrava distante.
Poi tornò di nuovo a fissarla.
«Resta ancora un po’…»
Sembrava quasi una supplica.
Rimasero sedute entrambe davanti al tavolo, senza dire più una parola.
La vecchia riprese in mano i fiori, rimase ferma a guardarli un attimo, poi ne passò alcuni ad Essi.
«Ci daresti una mano?»
«Cosa ci devo fare?»
«Guarda», rispose lei. «Li devi legare così, uno in fila all’altro.»
Essi prese le campanule e i gelsomini e cominciò il lavoro. Non riusciva a capire perché la vecchia le desse un’impressione così strana. Le sembrava debole, fragile, come se tutti gli anni che gravavano sulla sua schiena l’avessero schiacciata fino a renderla irriconoscibile.
Si rese conto che non avrebbe parlato, sarebbe toccato a lei rompere il silenzio, se proprio voleva.
«Quanto lunga bisogna farla?», chiese sollevando la propria fila di fiori.
«Molto di più, molto di più! Dopo leghiamo assieme le nostre per farne una sola»
«E per cosa vi serve, così lunga?»
«Questa è una sorpresa. Ma non per te», rispose lei senza nessuna allegria.
Continuarono a lavorare in silenzio.
«Hai mai perso un amico?»
Essi sollevò la testa e studiò un attimo la vecchia dopo quella domanda improvvisa.
«A chi non è mai capitato?», rispose.
«Noi abbiamo appena perso il nostro amico».
Nonostante i suoi anni da bardo e la sua esperienza in poesia, Essi si rese conto di non saper cosa dire.
«Mi dispiace… Avete provato a parlare? Magari è un’incomprensione…»
«Lui non era il tipo da parlare. Oh, lo faceva se lo forzavamo un po’, e allora ci sussurrava tante cose nelle orecchie, ma a lui non piaceva»
«Cos’è successo?», chiese Essi mentre decideva di legare assieme un ciclamino e due gelsomini.
«Noi… Dovevamo mettere alla prova qualcuno! Era necessario! Tu ti fideresti di qualcuno senza metterlo alla prova? Per una cosa così delicata, poi? Rispondi di sì e sarai la più giuliva delle oche, pronta ad essere messa nel forno!».
Così gridando indicò con la mano la grossa pentola appesa nel camino. Per un attimo, ad Essi non sembrò una minaccia a vuoto.

 

 

 

*

 

Geralt e Ranuncolo prepararono una lettiga e la fissarono dietro a Rutilia, la cavalla dello strigo. Poi presero il corpo di Astario e ce lo adagiarono sopra, assicurandolo in maniera che non scivolasse durante il trasporto.
Non scambiarono neanche una parola.
Ranuncolo si chiese cosa avrebbero potuto fare a quel punto. Forse avrebbero fatto meglio ad andarsene, fuggire e dimenticare tutto. Ma sapeva che quello non era lo stile di Geralt. E neanche il suo.
Aveva il cuore gonfio e pesante quando si allontanarono dalla radura portando il corpo di Astario con loro.

 

*

 

«Vi conoscevate da molto?», chiese Essi dopo qualche minuto di silenzio.
«Da decenni», rispose la vecchia.
«Ma quanti anni avete?», si arrischiò a chiedere.
Per la prima volta, la vecchia rise.
«Molti, bambina, forse troppi.»
«E siete sempre state due?».
Essi aveva l’impressione che la donna le si stesse aprendo per qualche motivo, sembrava avesse bisogno di parlare.
«Sì, sempre. Essere così ha dei vantaggi.»
«Ma anche svantaggi!», disse improvvisamente un’altra voce. «Un corpo solo per soddisfare le esigenze di due persone! Da quel punto di vista, un vero disastro!»
«Setsy! Che ci possiamo fare? Indietro non si torna.»
«Lo so. Volevo solo dire che non è stato sempre piacevole, sorella.»
Essi si era fatta indietro nel sentire improvvisamente quella voce così diversa, raschiante. La vecchia si voltò verso di lei. Negli occhi aveva una luce feroce, una rabbia tenuta faticosamente sotto controllo.
«Che c’è, piccola? Hai paura di Setsy, della sorella cattiva?». Continuava ad avvicinarsi piegando il busto verso di lei, ma stavolta Essi rimase ferma, sostenendo il suo sguardo.
«Dovresti… Tutti hanno paura di me, la guerriera, la custode! Sono così terrorizzati che si dimenticano di Metsy, la sorellina gentile, quella che cura le persone. Dimenticano che curare le persone ti insegna un’infinità di modi per ucciderle.»

 

*

 

Chi per fuoco, chi per acqua. Chi nella luce del mattino, chi sotto un raggio di luna. Chi per veleno, chi per spada. C’era qualche differenza?
Geralt cavalcava lentamente in direzione di Passafiume. Sentiva il peso che Rutilia trasportava dietro di sé, sentiva lo strascico della lettiga. Ogni movimento della sella risvegliava un nuovo dolore in qualche parte del suo corpo. La pozione stava esaurendo il suo effetto, sarebbe stato costretto a prendere qualche altro analgesico se voleva stare in piedi.
Stare in piedi per far cosa, poi? Per evitare di essere linciati una volta arrivati in paese? Per estrarre la spada e difendersi un’altra volta? In fondo era tutto quello che sapeva fare.
La nebbia si diffondeva lentamente attorno a loro. Geralt l’aveva notata già prima: usciva dagli occhi e dalla bocca di Astario, diffondendosi come una striscia di fumo. In mezzo alla nebbia camminava una figura esile, dai fianchi sottili, coi capelli che sfumavano dietro alle sue spalle bianche come latte.
Avrebbe voluto che quella figura allungasse la mano e prendesse la sua, che fosse sua volontà accompagnarlo là dove stare in silenzio, com’era prima e come sarà per sempre. Sarebbe stato un buon momento per andarsene. Ma non era lì per lui: camminava al fianco di Astario, accompagnandolo dolcemente.
Geralt scosse la testa e si costrinse a guardare avanti. Le pozioni potevano causare allucinazioni molto vivide, anche peggiori di quella. Si affidò agli occhi del proprio cavallo e lo spinse avanti con un’andatura moderata.
Improvvisamente il medaglione vibrò.

 

*

 

Essi scrutò negli occhi feroci della vecchia. Il suo ghigno era tagliente come una lama seghettata, la sua pelle grigia sembrava incendiarsi con un fuoco nascosto. Eppure, sotto la rabbia, Essi scorse una tristezza tale da stringerle il cuore.
Rimase ferma, sostenendo quella prova di sguardi. Le sembrò di entrare in quegli occhi, di poter scostare un velo dopo l’altro, sempre più a fondo.
La vecchia si bloccò, improvvisamente sorpresa. Poi sorrise, rimanendo immobile e accogliendo lo sguardo della ragazza.
«Cos’hai visto, bambina?», chiese con una voce che nascondeva la tensione dietro un velo di dolcezza.
Essi si era improvvisamente raddrizzata, confusa e vagamente spaventata. Osservando i suoi occhi le era sembrato improvvisamente di trovarsi davanti a due strade diverse, un bivio che si allontanava in due direzioni, una divisione così netta da essere quasi fisica. Era perplessa.

 

*

 

Ranuncolo gridò. Geralt si voltò giusto in tempo per vedere Astario mentre sputava a fatica un grumo di sangue. Bloccò di scatto il cavallo e scese a terra con un salto, poi si chinò ad osservare il ragazzo.
Il petto si sollevava a tratti cercando di riempirsi d’aria, gli occhi vagavano confusi senza dar l’idea veder davvero qualcosa.
Ranuncolo era pallido come un morto.
«Ma è vivo?»
Geralt non rispose alla domanda, la risposta era troppo ovvia. Si sentì pervadere da una rabbia feroce: sentiva il bisogno di aver davanti un volto da spaccare a pugni. E sapeva benissimo a chi stava pensando.
«Resta in sella, Ranuncolo. Andiamo in paese, acceleriamo.»
Il bardo guardò in faccio lo strigo. Il suo sguardo non gli piacque per nulla.

 

*

 

La vecchia rise di gusto.
«Ci piaci, ragazza! Ha ragione chi dice di non sottovalutare un poeta.»
«Parla per te, sorella. A me non piace.»
«E perché non ti piaccio, Setsy?»
Essi aveva colto al volo l’opportunità di inserirsi in una discussione tra le due “sorelle”.
I suoi occhi si ridussero a due fessure penetranti.
«L’ultima persona che mi ha fatto una domanda del genere è finito a dipingere i muri della mia stanza con il proprio sangue…»
«Che esagerata!»
La vecchia aveva appena levato le braccia al cielo, come a indicare una panzana colossale.
«Metsy! Mi ha chiesto perché non mi piace! Così carina, fragile, innamorata… Mi fa schifo!»
«Io non sono fragile!»
«Ti abbiamo curata quando eri moribonda, sappiamo esattamente quanto sei fragile.»
Essi dovette concederle un punto. Aveva notato che la vecchia parlava al plurale quando le due personalità erano d’accordo, ma passava al singolare interpretando entrambe quando invece non lo erano. Ma fino a che punto potevano separarsi?
«E il resto non ti riguarda», aggiunse sfregando i denti in un moto di rabbia repressa.
La ragazza percepiva l’odio che scaturiva dalla vecchia, come se ai suoi occhi fosse davvero diventata l’essere più spregevole della terra. Ma nonostante la debolezza, Essi ne aveva abbastanza.
«Perché mi avete curata se provate un tale disprezzo per me?»
«È Setsy ad avere qualche problema con te, non io», rispose Metsy.
«Disprezzarti? Disprezzo il tuo legame con un uomo che ti ha presa e abbandonata senza farsi nessun problema. Mi basta sentire il tuo odore per capire che non lo vedi da anni!»
«E allora? Non sono affari che ti riguardano!»
«Lo sai cosa facevamo, bambina?»
La vecchia staccava ogni frase con un profondo respiro, come se dalle narici sentisse le emozioni che esplodevano dentro la ragazza e godesse di ogni aroma che percepiva.
«Sai perché mi chiamavano “la custode”? Sai perché le donne venivano da noi con offerte di cibo e gioielli? Io punivo i loro uomini infedeli. Li raggiungevo ovunque… Che indimenticabili battute di caccia… Ovviamente prima ci assicuravamo di persona che fossero davvero infedeli»,  concluse con una serie di risatine soffocate.
Essi si tirò indietro istintivamente. Il ghigno sulla bocca della vecchia sembrava la smorfia di un cane pronto a mordere. Lei esitò a chiedere: «Cosa facevi? Li uccidevi?»
«Ti piacerebbe scoprirlo, bambina? Potresti farci un’offerta… La tua collana andrebbe più che bene. Ma prima, verificherei di persona che sia davvero infedele…»

 

*

 

Astario si agitò e si lamentò per tutto il viaggio. Non disse una parola, continuò invece ad emettere degli strilli acuti, quasi degli squittii. Ogni tanto si parava il volto con le mani, come a difendersi da un colpo.
Per quel che riguardava Geralt, il ragazza poteva anche mettersi a cantare, non gliene sarebbe importato nulla. Aveva visto la nebbia dileguarsi e la figura esile svanire, probabilmente andati ad accompagnare altre persone in fin di vita.
Geralt imprecò, aumentò ancora l’andatura del cavallo e poi ingurgitò un antidolorifico in un sorso solo.
«Geralt! Ehi! Così veloci rischiamo di lasciare il ragazzo per strada.»
Lo strigo non si voltò: sapeva che la pozione che aveva appena bevuto rendeva il suo viso simile a quello di un cadavere. Preferì risparmiare a Ranuncolo questa vista.
«Non preoccuparti, è ben assicurato. E tieni il passo!»
«Ma gli scossoni potrebbero peggiorare le ferite…»
«Che il diavolo mi prenda se me ne importa qualcosa!»
Geralt si lanciò avanti pregustando l’incontro con Vergalio.

 

*

 

Essi stette in silenzio così a lungo da far credere a Setsy di star veramente prendendo in considerazione la proposta.
Poi scosse la testa. «No, mai. È mostruoso».
«Rifiutano quasi tutte, la prima volta. Poi ci ripensano.»
«No».
La vecchia sospirò e tornò a concentrarsi unicamente sui fiori.
«No», ribadì ancora Essi. «Però non avete risposto alla mia domanda. Perché mi avete curata?»
Fu Metsy a rispondere: «Perché ti ho trovata ferita in quel bosco. Era mio dovere curarti.»
«Mi hai trovata tu? E se mi avesse trovata Setsy?»
«In tal caso ti avrei lasciata lì a morire».
Essi cercò di immaginare due moralità costrette in un corpo solo. Rabbrividì. Le sembrò impossibile, un’unione destinata ad esplodere. Sempre che non fossero poi così diverse.
Osservò le sue mani, agile nonostante i nodi che l’età aveva imposto loro. Anche se impegnate nello stesso compito di legare i fiori, sembravano del tutto indipendenti l’una dall’altra, una perfetta ambidestria.
«Avanti, ragazza, aiutaci ancora. Non abbiamo più molto tempo.»
«State aspettando qualcosa?»
«Sì, da molto tempo. Ormai manca poco.»

 

*

 

Geralt, Ranuncolo e Astario arrivarono in paese molto dopo il calare del sole. Non rallentarono neppure davanti ai cancelli: le sentinelle ebbero appena il tempo di aprirli prima che ci si schiantassero contro.
I pochi che videro il ragazzo steso sulla lettiga dietro il cavallo dello strigo cominciarono a urlare e richiamare l’attenzione degli altri.
«È la volta che ci linciano», sussurrò Ranuncolo.
Geralt non se ne curava. La rabbia che aveva trattenuto da quando era arrivato in paese era sul punto di esplodere, gli antidolorifici lo stordivano e la folla si stava radunando attorno a loro troppo velocemente.
Con la poca lucidità che gli era rimasta, prese una decisione.
Cavalcarono a perdifiato fin davanti all’abitazione di Vergalio. Il vecchio era già fuori, appena oltre la soglia di casa. Le torce illuminavano i suoi occhi e le spade delle guardie al suo seguito. Avanzarono fino al cortile mentre lo strigo fermava il cavallo con uno strattone delle redini.
Vergalio non fece neppure in tempo a superare la sorpresa di vedere il figlio ricoperto di sangue sulla lettiga: Geralt scese da cavallo, sollevò Astario senza la minima delicatezza e poi lo lasciò cadere violentemente davanti a suo padre.
Il volto di Astario esprimeva un dolore muto che attraversava ogni suo osso, strappandolo e facendolo a pezzi.
Le guardie impugnarono le spade, ma furono troppo lente: Geralt sfilò la propria dal fodero e la puntò al petto di Astario con l’espressione neutra di chi la punta a una roccia.
Vergalio impietrì. Le guardie si arrestarono sgomente, incerte. La folla tacque. Ranuncolo pensò se estrarre il pugnale e tagliarsi la gola direttamente.
«Mostro!».
L’urlo di Vergalio sembrava una spina di vetro nelle orecchie.
«Cos’hai fatto a mio figlio? Che gli stai facendo? Bestia!»
Geralt non si scompose.
«Dica al suo uomo lì nell’angolo di lasciare a terra la balestra. Vi assicuro che non vuole davvero provare a colpirmi, non vuole vedere cosa potrebbe succedere.»
Alcuni si voltarono verso l’angolo della casa di Vergalio. Si sentì del trambusto e Geralt seppe che l’uomo aveva lasciato cadere l’arma.
«Ora vi dico come stanno le cose», continuò lo strigo. «Vostro figlio sta sanguinando come un maiale sgozzato. Sta morendo. Non c’è tempo per portarlo da un guaritore. Ci sono solo io. Posso salvarlo, oppure…». Con un movimento del polso fece fare un rapido mulinello alla spada aprendo la camicia del giovane. «Decidete voi, Vergalio… Cosa devo fare?».
Il vecchio deglutì a vuoto cercando un modo qualsiasi per riprendere in mano la situazione. Non poteva,
«Cosa vuoi, mostro?»
«Risposte. Avete messo a dura prova la mia pazienza fino dal momento in cui siamo arrivati qui. Basta giochi adesso. Voglio la verità.».
Vergalio osservava il figlio, il dolore sul suo volto, la punta della spada che si avvicinava al suo petto, così affilata da poter affondare nella carne col minimo sforzo.
La folla si era radunata attorno a loro. Sembrava un animale in attesa, si sentiva solo il suo respiro, a volte profondo, a volte spezzato.
«È quella vecchia?», chiese Geralt.
«Sì…»
«Pensavate fosse così difficile da capire?»
«No…»
«Perché?»
«Cosa?»
«In questa storia non c’è mai stato nessun mistero, tranne dover aspettare l’alba del terzo giorno, la vostra partenza. Perché?»
«Perché la gente fosse troppo impegnata a partire per badare a voi…», disse quasi in un sussurro, osservando la folla attorno a sé. «E perché non volevo che lei si sentisse sola.»
Geralt stette zitto qualche secondo, cercando di comprendere quest’ultima affermazione.
«Perché non me lo avete detto subito? Perché lasciarmi indagare così?»
Vergalio fissò lo strigo negli occhi, poi fece un passo avanti con decisione.
«In gioventù mi ammalai di colera. Lei mi curò. Mio figlio si ammalò di polmonite, e lei lo curò. Quell’uomo alla tua sinistra ha avuto le gambe schiacciate da un carro, lei lo rimise in piedi. Polanna, lì dietro, cadde nel fiume da piccola. Quando la tirammo fuori la demmo già per morta. Lei la fece respirare ancora. E altri, chi in punto di morte per il fuoco, per la malattia, chi avvelenato, chi ferito con un coltello, chi per incidente, sfortuna o intenzione, che fosse di notte o di giorno, tutti andarono da lei e guarirono. Per noi è vita, per noi è una madre.»
«Allora perché volete che la uccida?»
«L’assalto alla carovana… Lei ne è responsabile. Abbiamo visto le insegne, sappiamo che verranno a indagare. E chi verrà a indagare non sarà gentile con lei o con noi… Se saremo ancora qui spargeranno sangue a fiumi per raggiungere la verità. E quando troveranno lei la tortureranno, perché lei è straordinaria. Non voglio questo… Nessuno di noi lo vuole. Ma lei non può venire con noi. Vogliamo solo che finisca alla svelta, senza sofferenze inutili.»
«Ancora non capisco… Perché non dirmelo subito, perché non puntarmi nella sua direzione e lasciarmi invece indagare fino ad arrivare a questo punto?»
«Avrei dovuto dirti di andare da lei e ucciderla? Quale uomo sarebbe in grado di guardare il boia negli occhi e condannare a morte la propria madre? Ma dimenticavo che voi strighi non siete veramente uomini…».
Geralt non rispose alla provocazione. Invece si piegò sul ragazzo, estrasse una pastella di erbe da un taschino, la bagnò con la saliva e poi la applicò sulle ferite.
Poi si alzò e disse: «Il ragazzo se la caverà. Tenetelo al caldo per stanotte e riguardato per alcuni giorni, ma potrà partire con voi senza problemi. Domani farò quello per cui sono venuto, e mi aspetto il pagamento pattuito.»
Osservò la folla silenziosa, quasi sospesa nel vuoto di quella notte fredda.
«Io e il mio compagno andremo a dormire nella nostra stanza alla locanda. Non disturbateci per nessun motivo. Buonanotte.»
Detto questo, recuperò le redini del cavallo e lo portò al passo verso la locanda.
Quando furono lontani dalla folla, Ranuncolo smontò da cavallo e si avvicinò allo strigo.
«Geralt, credi davvero che Astario se la caverà?»
«Di sicuro», la sua voce era un sospiro stanco. «Aveva solo qualche ferita superficiale»
«Cosa? Com’è possibile?»
«Quell’incantesimo, Ranuncolo… Era qualcosa di incredibile. Non solo l’ha trasformato al punto da renderlo un pericolo anche per me, ma lo proteggeva, faceva in modo che non potesse succedergli nulla.»
«Geralt… Hai paura?»
«Sì.»
Camminarono in silenzio davanti ai cavalli. Se c’erano persone oltre le finestre delle case, non si fecero vedere. Sembrava che fossero gli unici abitanti di quel paese abbandonato, ancora in bilico tra la vita e la morte. Ed ogni loro passo era freddo, pesante come quello di chi va ad affrontare il destino.
«Perché siamo ancora qui, allora?», chiese Ranuncolo.
«Perché Vergalio ha ragione. Quando i soldati arriveranno qui, sarà una carneficina. E se la cattureranno viva potrebbe dire loro dove sono scappati. E pensi poi che i maghi accetterebbero una creatura del genere al di fuori del loro controllo? Se la storia di questo paese dovesse uscire dai suoi confini, questa terra verrebbe bruciata, annientata. Dobbiamo pensarci noi…»
Il bardo annuì: «Hai un piano?»
Geralt prese tra le dita le foglie di strozzalupo prese nella radura.
«Torniamo alla locanda», disse. «Prepariamoci alla fine.»

 

*

 

Quando Essi si addormentò, la vecchia tirò la coperta fino al suo mento e le sistemò il cuscino. Poi pulì i piatti dove avevano mangiato una zuppa. Per sicurezza aveva messo un sedativo nel piatto della ragazza, giusto per assicurarsi che non si svegliasse durante la notte e provasse a scappare.
Aveva ancora bisogno di lei, almeno fino al mattino.
Dopo aver lavato i piatti, si avvicinò al tavolo dove era posata la lunga ghirlanda di fiori. La prese tra le dita ossute e accarezzò i petali delicati. Nessuno di essi si staccò sotto il suo tocco.
Lei sollevò le braccia sopra la testa e si lasciò calare la ghirlanda attorno alla vita. Poi la prese ai margini e cominciò ad avvolgersi il petto, il collo, la testa, le braccia e poi la vita e le gambe fino ai piedi. I gambi verdi si tendevano fino al limite, così fragili eppure così saldi l’uno all’altro. Nessuno di essi si ruppe.
Poi lei aprì la finestra, aprì le braccia e si lasciò accarezzare dall’aria notturna.

 

 

 

 

NOTE: la conclusione del racconto nel prossimo capitolo

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Capitolo 15
*** Fiume, lago, oceano ***


«Licantropo, Loup Garou, oppure, con un termine più folcloristico che elegante, Lupo Mannaro.
Intendiamo, con queste denominazioni, un essere umano in grado di cambiare il proprio aspetto e corporatura, arrivando a presentare una fisionomia che mescola tratti umanoidi a tratti bestiali che ricordano quelli di un lupo.
Alcuni dati sembrano suggerire che certi soggetti siano in grado di assumere forme diverse da quelle di un lupo, ma, in assenza di evidenze sperimentali, non possiamo che considerare tutto ciò come semplice credenza popolare.
D’altronde, si ritiene in genere che i licantropi non possano controllare il proprio stato, dando così a questa condizione dignità di patologia. Per quanto questo sia a volte vero, ci sono diversi casi documentati di soggetti in grado di cambiare fisionomia a piacimento, con una trasformazione che impiega appena qualche secondo. Per questa ragione, respingiamo la tesi riportata sopra.
La comunità intellettuale è ancora incerta se attribuire l’esistenza dei Licantropi ad agenti naturali, magici o divini, ma è concorde nel considerare queste creature estremamente pericolose. La letteratura riporta numerosi casi di soggetti affetti da evidenti disturbi psichiatrici, il più delle volte attribuibili a uno sforzo mentale del soggetto per giustificare la propria condizione. Frequenti sono i casi di schizofrenia, dove il soggetto costruisce un’identità alternativa per la propria forma bestiale. Riportiamo alcuni esempi di personalità doppia, sia perché particolarmente comuni o perché vagamente comici e adatti ad alleggerire la mole di questo saggio: “io e la bestia”, “io e l’assassino di notte”, “io e il cane affettuoso”, “io e il cacciatore di criminali”.
Rimandiamo ai volumi appositi per una lettura più approfondita e concludiamo con un avvertimento: se vi imbattete in questi soggetti, non provate a fare gli eroi. Per quanto la belladonna e l’aconito, volgarmente detto strozza lupo, contengano sostanze tossiche per queste creature, non avventuratevi in cacce improvvisate. Avvertite subito le autorità in maniera che possa essere organizzata una trappola efficace e si possa eliminare la creatura senza inutili spargimenti di sangue.»
Vilgefortz di Roggeveen, Licantropi, Vampiri, Strighi e altre bestie



Quella notte Ranuncolo non dormì. Durante il turno di guardia rimase in piedi, la schiena appoggiata alla parete e lo sguardo sulla porta della camera. Si aspettava di vedere la folla da un momento all’altro, si immaginava una lotta disperata, magari una fuga attraverso la finestra e poi la cattura e il linciaggio. Ma tutto era calmo e silenzioso. Sembrava quasi che tutti fossero già partiti lasciandoli soli prima del tempo.
Il bardo era scosso da dolori continui. Avrebbe dovuto morire in quel tempio sotto la radura, ma gli dei o il caso gli avevano concesso una seconda possibilità. Ovviamente questo non gli impediva di sentirsi a pezzi.
Quando toccò a Geralt il turno di guardia, Ranuncolo stette sveglio, disteso sul letto. Osservava la schiena dell’amico, che non sembrava minimamente preoccupato da un possibile attacco.
Lo strigo stava seduto davanti al fuoco del caminetto. Le fiamme rendevano gialli i suoi capelli     ed evidenziavano gli ematomi sul suo viso.
Per terra davanti a sé aveva un pestello, un pentolino, le foglie di strozza lupo, lardo di maiale e altri ingredienti noti solo agli strighi.
Geralt pestò le foglie e le bagnò fino a farne una pasta omogenea. Fece sciogliere il lardo sul fuoco unendovi poi gli ingredienti che Ranuncolo non conosceva. Dosando il movimento, fece cadere nel pentolino il contenuto del pestello, mescolando di tanto in tanto con un cucchiaio di legno. A volte si piegava sul fuoco e soffiava dolcemente, dando vita a una miriade di scintille che si arrampicavano sul muro. Ranuncolo sentiva il gorgogliare del pentolino, simile al sordo borbottio di un vecchio.
Alla fine tolse tutto dal fuoco e lasciò raffreddare. L’intera operazione prese quarantadue minuti. Sollevò il cucchiaio valutando la consistenza di quello che aveva ottenuto. Era una sostanza oleosa, più liquida del lardo, che colava nel pentolino disegnando una colonna continua.
Geralt prese la spada d’argento e la unse dalla punta all’elsa. Ripeté la stessa operazione con l’interno del fodero, poi vi infilò la spada e testò l’estrazione. La lama scivolava rendendola più veloce e aumentando il rischio che potesse sfuggirgli di mano. Era un dettaglio da considerare.
Terminò i preparativi che albeggiava, ma rimase in attesa ancora un po’, finché non fu sicuro di udire rumori di gente nella strada.
Fissò le spade sulla schiena, sistemò i guanti con le borchie, mise alcune pozioni nel cinturino e poi uscì.
Ranuncolo rimase fermo ad osservare la porta chiusa, a rimuginare sull’ultima immagine dello strigo sulla soglia.

Quando Essi Daven si svegliò, la mattina era ancora buia e silenziosa. Si alzò lentamente dal letto, finalmente in grado di stare sulle proprie gambe in sicurezza.
Lanciò un'occhiata fuori dalla finestra: un filo di luce cominciava a mostrarsi all’orizzonte.
Si vestì e passò furtivamente nell'altra stanza. Tutto era immobile. All’esterno, le cicale cominciavano a svegliarsi. Lei si mise in punta di piedi e raggiunse la credenza dov'era tenuta la sua collana. Sentì la forma della perla e i delicati petali d'argento tra le dita, si sentì scaldare la pelle e le ossa da un fuoco improvviso. Se la strinse al collo, trattenendo una lacrima che le bagnava l’angolo dell’occhio.
Diede un ultimo sguardo attorno e poi raggiunse l'uscita. Si bloccò di colpo con la mano sull'asse della porta e voltò la testa indietro.
La vecchia era lì, nel centro della stanza.
Per un attimo, Essi si chiese da dove fosse arrivata, ma rimase più sorpresa nel vedere il suo aspetto: piccola, fragile, avvolta nella ghirlanda di fiori che avevano realizzato assieme.
«Vai via?»
«Sì», rispose Essi. «Ormai sto bene. Volete trattenermi ancora?»
«Abbiamo detto che non avremmo trattenuto nessuno...»
Si mosse e si avvicinò al tavolo. I fiori ondeggiavano ai suoi passi. Prese la moneta d'argento che le aveva dato lo strigo la prima volta che si erano visti tenendola con un panno, quindi tornò verso di lei.
«Tieni, potrebbe servirti. Vai al porto, troverai una nave. Con questa ti faranno sicuramente salire.»
La ragazza annuì. La guardò ancora per qualche secondo, poi si voltò verso la porta.
«Abbiamo cercato di farti stare meglio...»
Quel tono di voce sospeso, urgente, la fece fermare di nuovo. Strinse forte la collana sul suo petto prima di girarsi ancora una volta.
«Solo una persona potrebbe riuscirci», rispose. «Ad ogni modo, grazie. Abbi cura di te.»
Uscì e fece qualche passo avanti. Poi aggiunse: «Entrambe. Abbiate cura di voi.»
La vecchia rimase lì, sulla soglia, osservando la ragazza allontanarsi. Era salda sulle sue gambe e scendeva sicura verso il paese. L’ultima trappola, l’ultimo gioco. Finalmente tutto era pronto.
Non le serviva altro.

Geralt arrivò alla casa nel cipresso solo molto tempo dopo. La gente del paese lo aveva lasciato passare, scansandolo al suo passaggio. Ma sembravano incerti, ambigui, come se non avessero chiaro se stessero evitando una vittima o un carnefice.
Si fermò davanti alla porta chiusa. Le pareti erano solcate da rampicanti che stringevano senza distinzione i mattoni e i rami dell'albero. Alcune lucertole si mostravano tra le crepe, esplorando l'aria a colpi di lingua.
Lo strigo percepì il calore del mattino tra i capelli bianchi. Saggiò ancora il movimento della spada nel fodero, poi prese una boccetta dalla cintura e ne bevve il contenuto.
Il suo cuore accelerò all'improvviso, il battito divenne irregolare. Lui controllò il respiro a occhi chiusi, attese qualche secondo. Il cuore rallentò. Ogni colpo divenne una martellata di tamburo in una stanza vuota, potente e preciso.
Riaprì gli occhi. Percepiva il lento passare dell'acqua nelle foglie del rampicante, le lucertole buttavano fuori la lingua lentamente, con pigrizia, così prevedibili che Geralt avrebbe potuto afferrarne l'estremità tra le dita. Il vento che passava tra le assi emetteva un canto lungo, interminabile, un lamento quasi impercettibile.
Geralt inspirò a fondo e varcò la soglia.

L'interno era buio, rischiarato appena dalle finestre socchiuse. Il pulviscolo viaggiava leggero tra un raggio di luce e l'altro, vorticando attorno ai movimenti di Geralt.
La casa odorava di muschio e sudore. Le erbe appassite nei vasi emanavano un aroma aspro e dolciastro. E tra questi, nascosto e inatteso, un vago profumo di verbena.
Geralt si mosse con cautela. Lanciò un'occhiata al camino e alla tenda che nascondeva il passaggio per l'altra stanza. Evitò i due sgabelli e si appoggiò al tavolo. Polvere, fili d'erba, spago. Non c'era altro sopra di esso. Lo strigo avvicinò il viso al piano del tavolo: odorava di fiori selvatici, ma non di verbena.
Geralt si raddrizzò di colpo: una fitta di dolore gli aveva attraversato la spina dorsale. Sperò che gli antidolorifici bastassero per ignorare le ferite che aveva subito durante il combattimento nella radura, non poteva permettersi di assumere altre droghe. Aveva bisogno di tutta la sua concentrazione.
E in quel momento lo sentì. Fu un vorticare diverso della polvere, una variazione impercettibile nell'ambiente. La vibrazione del medaglione arrivò in ritardo. Non era solo.
Si voltò e i loro sguardi si incrociarono come un lampo improvviso. La vecchia era lì, immobile a pochi passi da lui, accanto alla porta sulla quale la tenda cadeva senza muoversi, senza neppure ondeggiare.
Cominciarono a studiarsi. Ogni guizzo dello sguardo volava tra di loro come la lama di una spada, ogni movimento del capo era una forza che studiava il valore dell'avversario.
Nonostante l'aspetto decrepito, lei stava dritta, sicura, più alta di quanto Geralt avesse mai sospettato. Lui notò la ghirlanda di campanule e gelsomini che avvolgeva il suo corpo. I fiori si aprivano come fontane di vita e colore attorno a lei.
«Che significa?»
Lei rise. Un suono gracchiante, una sega dai denti spezzati.
«Vuoi rimproverarci per esserci fatte belle per l'appuntamento? Volevamo farti una sorpresa.»
Lui non rispose. Teneva le mani rilassate lungo i fianchi, lontane dalle spade.
Loro due erano immobili, eppure a Geralt sembrava che si stessero spostando, come a disegnare un cerchio tra loro, stringendo e allontanando le distanze, valutando le reazioni e i riflessi.
«Da quanto tempo l'hai capito?», chiese lei.
«Dal primo momento che ti ho vista, quando hai preso la moneta d'argento con il guanto. Pensavi che non me ne sarei accorto?»
«No, niente affatto. Volevamo che capissi.»
Ogni domanda era una finta con stoccata e una parata con affondo la risposta.
«Se l'hai capito subito, perché sei venuto qui solo ora?», domandò ancora lei spezzando il ritmo del dialogo.
«Perché erano gli accordi, perché non avevo ancora capito cosa volessi.»
Lei stette zitta per un attimo, accarezzando una corolla adagiata sul suo polso.
«Continui a parlare al singolare, strigo...»
«Ti dà fastidio?»
«Pensavamo che fossi più sveglio.»
Geralt si sentì confuso. Si concentrò sui rumori, percepì l'aria che entrava e usciva dal petto della donna che aveva davanti e per un attimo la sorpresa lo bloccò: il ritmo di quel respiro non aveva senso, era tutto sbagliato. Era come se due persone stessero usando gli stessi polmoni.
Lo strigo si riscosse. Erano ancora immobili, eppure sembravano più vicini, come se la stanza si fosse fatta più piccola. Si costrinse a tenere le mani lungo i fianchi, rilassate.
La vecchia sorrideva, si prendeva il suo tempo. Lui sentiva lo stimolante che aveva assunto fargli effetto, accelerargli i movimenti e rendergli i pensieri così rapidi da essere quasi indistinti.
«Quel mostro nella radura, Astario, era opera tua?», le domandò Geralt cercando di riprendere le distanze.
«Sì». Nella sua risposta c'era orgoglio misto a una profonda tristezza.
Lui pensò di aver trovato una breccia nella sua guardia.
«Perché? Hai cercato di uccidermi?»
«Testardo...», disse lei scuotendo la testa. «Non abbiamo semplicemente cercato di ucciderti. Ti abbiamo messo alla prova. È normale mettere alla prova un assassino prima di assoldarlo, soprattutto per un compito così delicato.»
Lei fissò il volto immobile di Geralt, privo della minima espressione, poi rise ancora sfregando i pochi denti tra loro.
«Fai sempre quella faccia quando qualcuno dice qualcosa che non ti piace? Ma tu sei un assassino, no?»
«Non ti riguarda»
«No? Dal momento che sei qui, ci riguarda tantissimo...»
Geralt si sentiva a disagio. Gli sembrava di scivolare lungo quella discussione come sulla lama di un coltello.
«Se fosse bastata la nostra creatura ad abbatterti, che speranze avresti potuto avere contro di noi?»
«E perché ti preoccupi di questo?»
«Perché abbiamo assoldato un assassino, evidentemente abbastanza capace...»
«È stato Vergalio ad assoldarmi.»
«Quell'uomo è sempre così preoccupato... Ma sei qui solo perché noi abbiamo voluto. Non ci avresti mai trovate, altrimenti, Lupo Bianco.»
Geralt sentì un'ondata di energia nel proprio sangue mentre la droga raggiungeva ogni sua cellula e intensificava ulteriormente le sue percezioni. L'immagine della vecchia divenne d'un tratto sfocata, come se fosse composta da due ombre sovrapposte, costrette a seguire gli stessi movimenti ma leggermente in ritardo l'una sull'altra.
«Voi siete…»
Non riuscì a completare la frase. Il medaglione sussultò con energia spaventosa mentre le pareti sembravano piegarsi verso l’interno, distorcendo l’ambiente come attraverso l’occhio ovale di un pesce. Fu un battito di ciglia, una frazione di secondo. La ghirlanda di fiori si spezzò mentre le corolle caddero a terra, secche e senza linfa. I vestiti si stracciarono, rinunciando a contenere le forme che esplosero d’un tratto dal corpo della vecchia.
Geralt indietreggiò istintivamente sbarrando gli occhi davanti all’essere che aveva davanti. La schiena saliva alta piegandosi appena sotto il soffitto della stanza, mentre le zampe anteriori scendevano fino al pavimento scavandovi dei solchi con artigli micidiali. Un muso di leone fissava lo strigo digrignando i denti in una smorfia verdastra, mentre una bava acida bruciava il pelo attorno alle labbra. La criniera scura sembrava muoversi di vita propria mentre otto zampe da ragno spuntavano là dove doveva esserci il collo, fendendo l’aria con movimenti scattanti e nervosi.
La cosa sorrise.
«Che cosa siamo, strigo? Illuminaci…»
Geralt si rese conto che l’unguento di strozza lupo  con cui aveva unto la spada non sarebbe servito a nulla. Aveva sbagliato.
«Non parli?»
Gli artigli sfregarono gli uni contro gli altri, come lame di coltello.
Lo strigo non rispose. Osservava la creatura studiandone ogni dettaglio. La pelle sul suo corpo si mostrava a chiazze rossastre là dove il pelo era caduto. Bubboni enormi si aprivano ai lati del collo e sotto le ascelle, sporcando la criniera di un liquido giallastro e puzzolente. Sulle zampe posteriori si aprivano piaghe da cui usciva sangue vivo.
«Abbiamo aspettato così a lungo la tua venuta e ora vuoi stare zitto? Qualcun altro sarebbe già morto per un’offesa del genere, ma a te concederemo di ascoltare»
Inspirò a fondo, producendo un suono come di aria attraverso un cesto di vimini impolverato. La sua voce cambiava tonalità senza nessun preavviso, diventando più acuta o più bassa tra una parola e l’altra, anche in mezzo alla stessa lettera.
«Potremmo essere più vecchie di te, assassino. Ricordiamo un tempo quando la foresta era più folta, i suoi alberi più oscuri, orgogliosi. Ricordiamo quando uomini piccoli e spaventati venivano al nostro tempio a domandare grazia e perdono. Hai trovato il nostro tempio, vero? Certo che sì, volevamo che vedessi la nostra vecchia casa.»
Geralt la lasciava parlare. Lentamente spostava il peso del corpo sul piede sinistro, preparava i muscoli a flettersi e la mano a salire verso l’elsa della spada.
«Non ricordiamo neppure più com’era essere due e potersi guardare negli occhi. Era un giorno come tutti gli altri, nulla di diverso. Diventammo questo, e ancora non sappiamo se fu una benedizione o una maledizione.»
Un filo di bava scese dal muso di leone piegato in un ghigno animalesco. Le assi del pavimento sfrigolarono.
«Ricordiamo l’eccitazione, il piacere, la paura… Pensavamo che il Ragno Leonino ci avesse trasformato nella sua incarnazione su questo mondo. Eravamo simili a lui, ma ancora non pensavamo come lui. Agimmo come credevamo avrebbe fatto lui: per i primi secoli distruggemmo e portammo morte in ogni dove.»
La creatura sospirò, come a ricordare tempi felici.
«Poi ci stancammo. Ci rendemmo conto che non cambiava nulla, che il nostro dio non ci dava segni di apprezzamento, e così ci sedemmo a riflettere. Capimmo di non essere l’incarnazione di nessuno… Ci aspettavamo qualcosa, istruzioni di qualche tipo, fossero un presagio o una profezia…»
«Non siete certo le sole, credete forse che ad altri abbiano dato delle istruzioni prima di mandarli per il mondo?»
«Ah, ma parli di te, strigo? Ma tu sei solo il risultato di un esperimento! Solo il caso ti ha permesso di sopravvivere ai vostri addestramenti e alle vostre erbe e diventare quello che sei. Ma quando c’è di mezzo un dio non è più un caso, è destino.»
I due si fronteggiarono ancora, senza accorciare le distanze. Poi lei continuò a parlare.
«Per altri secoli non facemmo proprio nulla. Pensammo e basta. Poi ci stancammo anche di questo. Se non avevamo ricevuto nessuna risposta portando il terrore, forse avremmo ricevuto qualcosa comportandoci in maniera completamente opposta: tornammo al nostro tempio per vedere com’era cambiato e poi ci stabilimmo qui, curando le persone che ne avevano bisogno e facendo del bene.»
«L’ho notato…»
«Sarcasmo? Speri di colpirci così facilmente?»
Geralt alzò le spalle.
«E poi cosa intendete fare?», chiese.
«Non lo sappiamo. Forse passeremo qualche secolo a sentirci in colpa per la tua morte…»
Geralt sentì un brivido lungo il braccio destro, si preparò a scattare al minimo movimento.
«In realtà, una profezia l’abbiamo ricevuta… Una notte giunse da noi un vecchio. Potevamo percepire la sua energia, il potere che scorreva in lui. Pensavamo di aver trovato una compagnia piacevole, ma non passò molto prima di rivelarsi un borioso egocentrico come la maggior parte degli uomini. Prima di essere fatto a pezzi, ci disse che avremmo incontrato un lupo dagli occhi da gatto, e quella sarebbe stata l’ultima occasione per chiedere, per sapere…»
«Chiedere cosa?»
«Che cosa siamo?»
Geralt si bloccò. La sua mente cercò di afferrare il senso di quella domanda mentre un freddo crescente si insinuava nel suo corpo.
«Come?»
La creatura si sollevò in tutta la sua possanza. La criniera si appiattì contro il soffitto mentre le zampe di ragno si protesero in avanti come punte di lancia. La bava schiumò ai lati delle zanne mentre un ringhio sordo e continuo emerse dalla sua gola.
«Sei un cacciatore di mostri, sei stato addestrato apposta, hai viaggiato per secoli. Hai visto di cosa siamo capaci, hai visto la nostra forma. Quindi, strigo, che cosa siamo?»
La sorpresa si diffuse nel suo cervello annebbiato dalla droga come melma densa. La memoria tornò ai giorni dell’addestramento, agli studi, poi vagò per i regni che aveva visitato nei suoi viaggi, alle volte che aveva rischiato la vita, alle creature che aveva affrontato.
«Che cosa siamo?»
La domanda era un ruggito feroce che riempiva la stanza, le orecchie e il petto di Geralt.
«Non siamo l’incarnazione di un dio, non siamo uno di quei miseri licantropi che infestano le foreste. Perché darci tutto questo potere se non sappiamo neppure cosa siamo?»
Il silenzio tra loro era peggio di una punta di lancia. Ed era Geralt a sentirne il gelo contro il proprio cuore.
«Rispondi!»
«Io non lo so…».
Nel tono dello strigo c’era un’amarezza che andava oltre la semplice resa.
La creatura si piegò in avanti. Le zampe posteriori sembrarono perdere ogni forza e diventare incapaci di reggere la mole di quel muso leonino. Si appoggiò al muro, scivolando lentamente in ginocchio. Le zampe da ragno dalla criniera pendevano inerti sul suo petto.
«È così? Neppure tu sai darci una risposta… Come possiamo decidere cosa fare senza sapere neppure cosa siamo diventate?».
Non guardava verso di lui, il suo sguardo era lontano, oltre le mura della casa. Ad ogni suo movimento si apriva un’altra piaga nella sua carne.
Poi si riscosse. Vomitò la propria rabbia in un ruggito che fece tremare le radici stesse del cipresso.
«Inutile! Inutile assassino! Bestia! Perché ti ostini a vivere? Sai fare altro che agitare la spada? Inutile pezzente…».
Si rimise in piedi. Tremava dalla criniera alla coda con un’eccitazione che non aveva nulla a che fare con la debolezza.
Lei si guardò gli artigli tra le zampe anteriori. Un pus viscoso colava tra un dito e l’altro.
«Siamo malate… Non sappiamo da quando, ma lo siamo. E non è solo quello che vedi. Ci svegliamo di notte e corriamo nella foresta senza nessun controllo, in preda a una rabbia che non riusciamo a comprendere, che nessuna di noi due riesce a domare.»
«Quella carovana nella foresta…»
«Semplicemente nel posto sbagliato al momento sbagliato. L’abbiamo distrutta noi, ma non sappiamo dirti perché. Deluso? Nessun piano malvagio, solo noi… Speravamo che con una risposta alla nostra domanda avremmo potuto capire, decidere come comportarci. E invece eccoci qua, davanti a un uomo inutile.»
Lei si avvicinò. Appena un passo.
«E ora ci hai trovate… Ti abbiamo assoldato perché non sopportiamo di non poter decidere cosa fare di noi, assassino. Ma lascia che ti dica un’ultima cosa.»
Lo guardò negli occhi e Geralt poté distinguere la follia lucida in quello sguardo, poté sentire le sue parole come pugnali che raggiungevano precise il loro bersaglio.
«Non sappiamo se ti farà felice o se ti distruggerà, ma di certo non ti renderà l’esistenza più facile. Vai al porto. Lei è là. Ti aspetta.»
La creatura ruggì, un tuono che si abbatte nella foresta. Geralt estrasse l’arma con un gesto più silenzioso di una freccia. Nessuna parola, solo istinto. Le zanne e l'acciaio brillarono nello stesso modo.

Quando la porta si aprì, il sangue colò sull’erba davanti al cipresso. Geralt si appoggiò al tronco inspirando rumorosamente. Il suo viso era cadaverico, sembrava un morto con in mano una spada.
Osservò l’arma sollevando a fatica il braccio. La lama era sporca di unguento e sangue. Nella sua spalla era aperto uno squarcio profondo. Sentiva freddo nel corpo e nell’anima.
Stracciò la camicia e fabbricò alcune bende di fortuna. Aprì una boccetta e versò il contenuto sulla ferita, rallentando l’emorragia. Forse questo lo avrebbe tenuto in piedi ancora per un po’.
Si chinò a fatica per terra e pulì la spada con erbe e foglie, poi la ripose nel fodero.
Quindi cominciò, barcollando, a scendere la collina.

Non avrebbe saputo dire come arrivò a trovarsi davanti a Ranuncolo. Il bardo stava parlando con qualcuno, probabilmente Bergàc, il capitano delle guardie. Geralt registrò solo superficialmente questa informazione. L’amico gli si fece incontro, evidentemente preoccupato per le sue condizioni. Lo strigo non riusciva a capire una parola. Si slacciò i foderi dalla schiena e affidò le armi a Ranuncolo, poi prese un mantello e ci si avvolse attorno, coprendo la ferita e calandosi il cappuccio sul capo. Poi scese verso il porto.

Il fiume Dyfne scorreva largo e impetuoso davanti al porto di Passafiume, segnando il confine tra una vita vecchia e una nuova. Erano attraccate due navi alla banchina, più un paio di traghetti tenuti da corde che correvano da una parte all'altra del fiume. Gli ultimi a lasciare il paese avrebbero tagliato le corde impedendo a chiunque di seguirli lungo il loro percorso.
Geralt stava fermo sulle assi sporche di fango, le narici piene dell'aria muscosa dell'acqua di fiume. Dall'altra parte vedeva gli alberi che si stendevano da una parte all'altra sulla stessa riva, rendendo incerta la lettura dell'orizzonte.  
Il via vai di gente lo respingeva, lo faceva sentire un estraneo. Il sangue che ancora colava dalla ferita appannava i suoi sensi, tanto da dargli a volte l'impressione che la folla fosse una massa indistinta, non diversa dalla corrente che gli scorreva davanti.
Per questo impiegò un po' a rendersi conto della voce che lo chiamava da dietro. Rimase fermo, senza voltarsi, aspettando finché qualcuno non lo tirò per il mantello. Solo allora si girò, trovandosi faccia a faccia con Vergalio.
«Mastro Geralt. Posso supporre che abbiate portato a termine il compito che vi avevo affidato?»
Lui rispose. Non riconobbe la propria voce.
«Molto bene... Non posso dire che sia stato un piacere, strigo, ma ecco la ricompensa che avevamo pattuito.»
Vergalio gli passò un involto di panni. Geralt lo svolse in parte, riconoscendo subito la corteccia dell'Albero di Fuoco che aveva visto sopra il camino.
«Come sta vostro figlio?», volle chiedergli.
Il vecchio fece una smorfia spostando lo sguardo da lui.
«Sta bene, credo... Sembra quello di prima. Però l'ho trovato a ingozzarsi di formaggio in cantina, e quando crede di non essere visto si passa le mani sul naso in maniera strana. Non so...»

Fu in quel momento che Essi Daven arrivò al porto. Non poteva riconoscerli, ma scendendo incrociò Astario e Rufus. Quest'ultimo aveva in mano un odoroso pezzo di formaggio che passò all'amico con evidente felicità.
Essi aveva passato un po' di tempo tra la gente del paese, ma senza riuscire a scambiare altro che qualche parola di cortesia. L'avrebbero accettata sulla nave senza problemi: il suo aspetto e il soldo d'argento convinsero tutti a darle una mano. Il suo abito azzurro, macchiato e rovinato, era coperto da un manto leggero che le avevano donato alla locanda.
Avanzava incerta lungo la banchina.
Vide Vergalio. Lo riconobbe come il capo del paese dalle descrizioni che le avevano fatto. Stava parlando con un uomo interamente avvolto in un mantello da viaggio. L'uomo stava piegato in avanti, come se portasse un peso sulle spalle o come se le sue ginocchia fossero sul punto di cedere.
Le stimolò un ricordo negli angoli della mente, ma era troppo stanca per capire quale. Strinse la collana e avanzò verso la nave.
Vergalio e lo sconosciuto erano esattamente sulla strada che doveva percorrere. Si avvicinò, scansò la folla che le scorreva attorno, coprì i pochi passi che la separavano da loro.
Rallentò impercettibilmente alle spalle dello sconosciuto. I lembi dei loro mantelli ondeggiarono per un attimo, si sfiorarono e poi si allontanarono. Essi Daven lasciò dietro di sé i due uomini e salì
sulla nave che l'avrebbe portata lontana, a nord.

Geralt e Vergalio continuarono a parlare, disturbati solo da una brezza passeggera. Quando si separarono non si strinsero la mano. Il vecchio raggiunse alcuni compaesani e li seguì sulla nave. Lo strigo rimase lì, fermo, mentre la folla si diradava lasciando la banchina a seccarsi sotto il sole.
Aspettò a lungo, la sua percezione del tempo distorta dalla perdita di sangue e dalla droga che veniva eliminata dal suo corpo. Se ne andò solo quando vide le navi allontanarsi dal porto, farsi prendere dalla corrente e allontanarsi da lui, verso una riva diversa.
Risalì la strada verso il centro del paese deserto. Trovò Ranuncolo con i cavalli, in attesa.
Geralt prese le redini e riuscì a montare sulla sella.
«Come stai?», chiese il bardo.
Lo strigo gli fece solo un cenno con la mano, avviando il cavallo a passo lento verso l'uscita.
Non parlarono fino a quando non si furono lasciati il paese alle spalle.
«Ce l'hai fatta? È morta?»
«Sì, Ranuncolo, è finita...»
Il bardo si agitava sulla sella, sembrava fare ogni sforzo per trattenere qualcosa che lottava per venir fuori.
«Ranuncolo, cosa c'è?»
«Geralt, io... Non so se dovrei dirtelo...»
«Lo farai lo stesso.»
«Ho saputo una cosa, prima, parlando con la gente che stava partendo... Mi spiace, non sapevo dove trovarti, non ho potuto avvertirti! Lì, sulla nave, c'era...»
«Essi Daven, Occhietto?»
Per la sorpresa, Ranuncolo tirò tanto le redini da bloccare il cavallo.
«Tu lo sapevi?»
«È passata alle mie spalle. L'ho riconosciuta dal profumo...»
«E non l'hai...»
Ranuncolo si sentì furioso. Avrebbe voluto prendere lo strigo a pugni, dirgli tutto quello che perfino lui si tratteneva dal dire, sputargli in faccia la verità, senza maschere o eroismi da cacciatore di mostri.
Ma vide l'amico piegarsi sulla sella, vinto dalla fatica, dal dolore.
E si ritrovò a pensare all'esistenza, alle storie che compongono il letto del fiume dove scorre la vita di ognuno, ai suoi affluenti, ai suoi ristagni, alle sue corse impetuose. Viste dall'alto, se le immaginò come infinite linee azzurre che corrono sovrapposte, a volte vicine, a volte lontane, a volte pronte a tuffarsi le une nelle altre formando laghi e mari da cui partono altre vite e altre storie. Si perse nei propri pensieri, troppo distratto per rendersi conto che Geralt era svenuto sul dorso del cavallo. Si avventurò tra le proprie parole, cavalcando un'idea di destino: ciò che fa incontrare e unire le persone, che le divide e le fa scontrare, non è un fiume, non è un lago.
È un oceano.


DEDICHE

Grazie a tutti per avermi seguito fin qui. È stato un racconto travagliato, il progetto più complicato che son riuscito a completare sinora. Chiedo scusa per i ritardi cronici che questo lavoro ha subito, ma spero davvero che a voi sia piaciuto leggerlo quanto a me scriverlo.
Ma ho da fare alcune dediche particolari:

A Meiousetsuna, che per un'oscura e misteriosa associazione di idee mi ha ispirato il personaggio di Mà/Metsy/Setsy.

A Mamie, che ha recensito ogni capitolo e non ha perdonato imprecisioni, errori e sviste e si merita tutti i miei ringraziamenti per la costanza e l'attenzione. So già a chi rivolgermi quando mi servirà un editor.

A Melanto, Albornoz, Billrussel, dei quali ho letto sempre con grande piacere le opinioni.

Ai ragazzi di CD Red Project e ad Andrzej Sapkowski, che hanno complottato ai miei danni per farmi conoscere questo mondo.

A te che te ne sei andata. Se leggerai queste pagine, sappi che non ho cambiato il finale, mi sembrava perfetto per l'occasione. Ma anche questo è un addio, l'ultimo che riceverai.

A tutti, grazie.

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