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di Eryca
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La dea danzante ***
Capitolo 3: *** Il mare di notte ***
Capitolo 4: *** La prima di una lunga serie ***
Capitolo 5: *** Oceano ***
Capitolo 6: *** Dove il sole batte più forte ***
Capitolo 7: *** Quel mare di giugno ***
Capitolo 8: *** Senza pensarci due volte ***
Capitolo 9: *** La prima notte in strada ***
Capitolo 10: *** Quando iniziai ad amarla ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


0.

Prologo –

 

 





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Ricordo che riuscivamo a vagare per notti intere, il tasso alcolico esageratamente sopra la media, la sigaretta girata sempre in bocca, senza una meta, senza una destinazione se non quella dell’infinito. E anche il tempo sembrava non avere alcuna importanza: scorreva veloce, eppure pareva scivolare lentamente, con la grazia tipica di uno di quei felini africani. Nulla aveva una particolare importanza, ma nello stesso tempo ogni cosa era essenziale e niente poteva essere trascurato. Vivevamo in un perenne stato di allerta dei sensi, ricettivi come non mai grazie agli stupefacenti. Sentivamo, toccavamo, osservavamo, assaporavamo, inalavamo. Era tutto un tocca e fuggi senza fine, che sembrava averci del tutto estraniati da quella che sembrava essere la società. Società che ci ripudiava, ma che, segretamente, ci idolatrava e ci invidiava. Perché noi eravamo folli, totalmente ed incondizionatamente folli. Ma eravamo liberi, liberi come solo i pazzi riescono ad esserlo, perché essi non si pongono alcun limite, non hanno restrizioni morali o legislative.

Eravamo dei veri animali allo stato brado, alla conquista del mondo con le borse in mano e i soldi per comprare un pacco di tabacco.

Eravamo il sogno proibito che ogni persona avrebbe voluto esaudire; gli uomini sposati che passavano le giornate tra lavoro e famiglia ci rivolgevano occhiate invidiose, ma noi non ci fermavamo. Mai. Sfrecciavamo sulla strade selvagge, trattando la città come una giungla, cercando di sconfiggerla e sopravvivere tra il serpente di asfalto.

Non avevamo alcuna meta, alcuna destinazione. Il nostro unico scopo era oltrepassare ogni limite, divenire gli eroi ripudiati, buttare giù tutti i muri dei pregiudizi.

Eravamo folli.

Folli senza limiti.

Passavamo le giornate tenendo nella mano sinistra Baudelaire e in quella destra una canna, mentre la mente iniziava a vagare per posti ignoti, inseguendo creature inesistenti eppure così estremamente reali da essere riviste il giorno dopo.

Ma il nostro reame era la notte, la notte e tutte le sue sfaccettature, perché era in quel lasso di tempo oscuro che la nostra luce esplodeva e abbagliava ogni cosa che venisse a contatto con noi. Danzavamo nel mare, mentre i suoi capelli dorati galleggiavano sull’acqua, formando un tappeto. Danzavamo e lei cantava, con quella sua voce surreale, che toccava note inesistenti e ti trascinava in universi paralleli… e allora io non esistevo più, no, ero solo suo, suo, suo. Suo e della sua voce irreale. Suo e del suo profumo di erba.

E ancora una volta venivamo accolti nei castelli dell’infinito, mentre il mondo ci ruotava intorno e la luna ci sorrideva silenziosa.

Mia madre mi guardava con disprezzo ma a me non importava, perché il tempo scorreva veloce e lento e lei non vedeva. Lei non capiva.

Non capiva che i limiti non erano nulla, se non barriere inventate dalle consuetudini.

E a noi, le consuetudini, non piacevano affatto.

Eravamo piccole lucciole e potevamo apparire innocui, ma in realtà risplendevamo di luce propria, senza aver bisogno di elettricità.

Liberi, così liberi…

Il mondo era nostro, pronto per essere conquistato da un gruppo di giovani anticonformisti, che cavalcavano un’utilitaria malconcia, dotata di una piccola radio sfruttata fino alla fine.

E noi urlavamo nella notte, mentre la voce di Jim Morrison faceva da sottofondo alla nostra pazzia, al nostro essere così dannatamente in vita.

Vivi erano i suoi occhi profondi quando ti guardava, quando ti scavava dentro l’anima e tu non potevi fare nulla se non lasciarti sondare, se non farti toccare da quelle piccole mani.

Darei qualsiasi cosa pur di sentire ancora una volta la sensazione dei suoi occhi nei miei.

Anche se il gruppo era fatto pressoché di ragazzi, lei era il nocciolo di esso, era la ciliegina sulla torta per la quale tutti smaniavamo. E anche quando la possedevo sapevo che era lei a possedere me.

Sto ancora cercando, dopo tutti questi anni, un termine che possa descriverla, ma non esiste, perché lei era… lei era oltre. Era il sale che dava condimento alla mia vita, era il mio essere vivo.

Come dimenticare le giornate trascorse a fare niente e a fare tutto? Guardavamo il cielo e ci rispecchiavamo nella sua ambiguità, nel suo non avere una fine, nel suo essere profondamente senza confini.

Lei si sedeva a cavalcioni sulle mie gambe, fissava i suoi occhi nei miei, e mormorava con la sua voce vellutata che non c’era niente che non avremmo potuto fare, che la vita era solo l’inizio, che bisognava imparare il significato del verbo vivere per poter dire di averlo fatto.

E noi lo abbiamo fatto.

Noi abbiamo vissuto.

 

 

Succede ancora, a volte, che esco in balcone, nelle notti in cui il caldo sembra voler sciogliere ogni cosa, e osservo l’orizzonte sopra il mare blu.

Ed è in quelle notti – le notti infinite, le chiamavamo – che chiudo gli occhi.

Chiudo gli occhi e le sue mani sono su di me.

Chiudo gli occhi e bevo una birra insieme a Tom.

Chiudo gli occhi e sfreccio, sfreccio per le strade asfaltate.

Chiudo gli occhi e sono senza limiti.

Chiudo gli occhi e vivo.

 

 

*

 

Angolo di Eryca

 

Grazie a per aver betato.

Sono tornata nella sezione Originali Romantiche per triturarvi i cosiddetti con una nuova storia, concepita dopo aver passato un’intera giornata a bombardarmi il cervello con i Doors.

Si tratterà di una storia ambientata durante i Sixties – i famosi e ribelli anni Sessanta – narrata dal protagonista, che ripercorrerà gli eventi della sua gioventù e della sua mistica relazione con la donna di cui si parla in questo prologo; la loro sarà una storia d’amore passionale, intesa e ricca di colpi di scena, ma anche di follie (perché è di questo che si parla).

Ci saranno pazzie, anticonformismi, spiritualità, droga e rock n’ roll. :D

La vicenda si svolgerà per le strade, durante un loro viaggio particolarissimo verso... un posto che scoprirete se andrete avanti a leggere! (Il sadismo di una fanwriter non ha limiti u.u)

 

Per dubbi, informazioni o per inutili chiacchiere, ecco il mio facebook: Eryca Efp

 

Fatevi sentire in tanti e datemi i vostri pareri, ragazzi :)

Vostra,
Eryca.

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Capitolo 2
*** La dea danzante ***


1.

La dea danzante

 

 


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Era il 1969.

Il movimento hippie aveva toccato il suo apice, mentre Jimy Hendrix faceva sognare l’America con la sua chitarra elettrica. I giovani patrioti che morivano in Vietnam venivano ricordati dal presidente Nixon con parole vuote lasciate alla stampa e, così facendo, continuava a mettersi contro i pacifisti.

Non era semplice vivere negli anni Sessanta.

Ma avrei scoperto presto che sarebbe stato orgasmico.

 

Quell’anno mi diplomai, in una torrida giornata di inizio estate. Mio padre non si presentò alla cerimonia di consegna dell’attestato – chiaro, non aspettavo il contrario. Stephen Williams si sarebbe fatto tagliare la testa pur di subirsi il Preside Gibson e i suoi eterni discorsi. Tra la folla, però, spiccava una testa castana: Mamma Lauren che si asciugava il naso con un fazzoletto in stoffa e applaudiva esageratamente.

Il professor K. – un dittatore in giacca e cravatta – ci aveva fatto una testa quadra con la storia che il giorno del diploma sarebbe stato il più bello della nostra vita – escludeva sempre la laurea, perché era sicuro che nessuno di noi l’avrebbe mai presa.

Invece, quel tanto agognato evento mi sembrava una semplice messinscena, un po’ come la pubblicità esagerata alle partite della squadra di Baseball.

Comunque, tutta quella cerimonia era passata con la stessa fretta con la quale era arrivata e io, fortunatamente, ero potuto tornare alle mie faccende, ovvero vagabondare per le strade di Los Angeles in compagnia del mio amico Tyler.

«Oggi Claire mi ha detto che stasera da una festa di addio a casa sua»

Il mio amico aveva un modo annoiato di parlare, come se odiasse utilizzare le corde vocali o, in alternativa, odiasse farlo con te. Eravamo saliti in collina, dove avevano le ville i personaggi famosi, e guardavamo la maestosa LA dall’alto. Ty se ne stava seduto sopra un masso grigiastro, mentre rollava una sigaretta fatta a mano.

Lasciai che i miei occhi vagassero e mi soffermai sul mare, il mare che sembrava fondersi con il cielo. Dio, ero nato e cresciuto nella città dei sogni, dove migliaia di persone migravano con la speranza di realizzare i loro desideri, le loro ambizioni.

E io mi ero appena diplomato.

Essere un diplomato a Los Angeles era dannatamente pericoloso: si poteva incappare in fantomatici Talent Scout che ti promettevano soldi e donne a volontà, se eri sfortunato poteva capitarti di cadere nel giro dell’eroina – che all’epoca non risparmiava nessuno – oppure l’alternativa era finire in una di quelle bande di delinquenti.

Los Angeles, negli anni Sessanta, era una sirena: tanto bella quanto letale.

«Ti ha invitato perché vuole che la scopi, Ty» risposi, mentre la mia sigaretta era ormai quasi vicina alla sua morte... e anche i miei polmoni.

Si sistemò il cappellino da baseball, Tyler, per poi rivolgermi un sorriso malizioso che mi indusse a ridere. «E io lo farò con piacere, mio caro!» Concluse sfoderando il suo finto accento british che, a mio avviso, lo rendeva estremamente ridicolo.

Per quanto io e il ragazzo che mi stava dinanzi avessimo condiviso donne, macchine e alcol durante tutti gli anni delle superiori, non avevamo mai avuto nulla in comune, se non appunto quelle cose. Tyler preferiva guardare le partite di Baseball alla televisione con una birra in mano, piuttosto che suonare la chitarra, come invece adoravo fare io.

Quello era il periodo in cui della mia vita non conoscevo assolutamente il senso: mi limitavo ad alzarmi la mattina, andare a scuola e fare sport.

Sentivo, dentro di me, la mancanza di qualcosa e passavo notti intere a riempire i miei onnipresenti taccuini con frasi angosciate, senza però trovare alcuna risposta al mio malessere.

Ero cieco.

Era il prima.

Ero ancora morto.

«Che cosa farai, ora?» Con una semplice domanda – una sola – Tyler acquistò punti in classifica e mi fece capire che, forse, non era l’idiota che avevo sempre pensato.

Ricordo che non ci guardavamo negli occhi, concentrati com’eravamo ad innamorarci ancora una volta – centinaia di volte – della città che appariva sotto di noi.
Los Angeles, la sirena.

In quegli istanti che sembravano essere infiniti, mentre il sole salutava la mia città e andava a nascondersi dietro le nuvole, pensai a tutto quello che avevo sempre avuto – casa, famiglia, amici – e a quello che desideravo disperatamente avere – libertà.

Ero sempre stato considerato uno di quei bravi ragazzi che passano a prendere la fidanzata a casa per stringere la mano a suo padre e, effettivamente, lo ero; ma il mio spirito era rimasto in silenzio per troppo tempo, accoccolato dentro di me aspettando la sua rivincita, e ora pretendeva di avere ciò che gli spettava, perché io, io non ero come loro.

Io non ero nato per essere uno di quei cadaveri ambulanti che timbravano il cartellino la mattina, passavano l’intero orario di lavoro seduto su una scrivania sfogliando giornaletti erotici per poi tornare a casa la sera e baciare la moglie come se nulla fosse. No.

Io ero nato per qualcosa di più.

Per andare oltre.

La mia anima vibrava. «Qualcosa.» E, anche se poteva sembrare la risposta di un perfetto deficiente, il mio qualcosa stava a significare che avrei dato libero sfogo al mio animo, che non sarei diventato uno di quei padri di famiglia dal cuore di ferro.

Avrei fatto qualcosa di puro.

«Che dici? Ci andiamo da Claire, stasera?» Con quell’uscita, tutta la stima che avevo acquisito nei confronti del mio amico crollò nuovamente, facendomi rendere conto che era veramente il perfetto idiota che avevo sempre pensato.

Ciao, sirena. Come sei bella, questa sera?

Fammi fare un’ultima cavalcata su di te, mia dolce bambina.

Ti prometto che la mia casa sarai sempre tu.

Annuii sicuro a Tyler, mentre dentro di me il cambiamento stava già prendendo piede.

Io ero nato per andare oltre e lei,

lei me lo avrebbe fatto scoprire.

 

*

 

La incontrai quella stessa sera, alla festa.

Quando accettai l’invito di Tyler e Claire, non avevo la minima idea di ciò che mi stava aspettando, alla grossa villa della mia compagna di classe.

Come potevo immaginare che, quella notte, la mia vita sarebbe stata sconvolta?

La prima cosa che vidi, non appena feci il mio ingresso nella villetta, fu una coppietta che, accanto alla porta, pomiciava. Alzai gli occhi al cielo per poi aprire il mio giubbotto in pelle di camoscio e addentrarmi nel corridoio. Mentre mi aggiravo per la grossa abitazione di Claire mi resi conto, notando i capelli laccati dei miei coetanei, di dover sembrare ridicolo agli occhi delle ragazze, a causa del cespuglio scompigliato che mi ritrovavo in testa.

La casa era colma di giovani diplomati con la voglia di festeggiare il loro primo traguardo, troppo presi dalla loro sensazione di liberazione per prendersi conto che erano dei surrogati di uomini, corpi senza anima. Facce vuote, cuori sporchi.

E io brancolavo in mezzo a quella marmaglia, il mio pullover in lana rossa stropicciato che, messo a confronto con l’abbigliamento dei presenti, sembrava essere comprato al mercatino delle pulci, nelle periferie.

Me ne stavo lì, con un bicchiere di punch scadente in mano, mentre una radio malconcia sparava She loves you dei Beatles. Il mondo intorno a me sembrava aver preso la decisione di escludermi definitivamente dal suo corso e ogni giovane sembrava divertirsi, ogni riso mi appariva così irritante.

Ero sempre stato l’esponente principale di quella che era la società, la classe media della popolazione, eppure non mi ero mai identificato in essa. Riuscivo ad essere la persona che non ero. E quella era la mia più grande qualità.

«Adam!»

Nell’udire il mio nome mi voltai e mi ritrovai di fronte ad una Claire impacchettata in uno striminzito vestito di paillettes rosa, secondo la moda. Mi abbracciò, non tanto per cortesia, ma perché cercava di portarmi a letto dal primo anno, quando mi avvicinò con la scusa di una gomma da masticare. Non era cambiata molto da allora, Claire: stessi occhi nocciola, stessi capelli cotonati, stesse gonne ampie e di colori improbabili. Stesso modo di fare da gattamorta.

Il discorso che intrattenni con la mia amica fu uno di quelli fatti per essere dimenticati: semplicemente, ci sono certe conversazioni che spariscono dalla tua mente, che le rimuove quasi a volerti dire “amico, non meritano spazio”. E, in effetti, il dialogo tra me e Claire era degno solo ed esclusivamente di quell’appellativo.

«Come stai?» Ricordo che mi pose questa domanda per il semplice fatto che, nello stesso istante in cui stavo rispondendole, prese a parlare del suo voto “scandalosamente” basso al diploma. La lasciai sproloquiare sulle ingiustizie scolastiche, sul fatto che era “chiaro” che il Preside Gibson fosse corrotto. Non la ascoltavo. Non ascoltavo nulla, se non la rabbia che ribolliva sempre più dentro me.

Pensavo al fatto che mi avesse chiesto come stavo solo perché era usuale farlo e non perché le interessasse. A chi interessa davvero la risposta alla domanda come va? Nessuno. Nessuno se ne cura. Tu stai lì, impalato come un pero, mentre le persone non capiscono, non capiscono, non capiscono. Tu stai lì.

Ed era esattamente quello che stavo facendo: stavo lì.

Sorridevo alle risate di Claire, annuivo serio quando la sua espressione mi intimava di farlo, strabuzzavo gli occhi all’innalzamento del suo tono di voce. Il gioco stava tutto lì, nel capire ciò che le persone desideravano sentirsi dire.

«Beh, è bello averti qui, Ad! Divertiti! Ci vediamo dopo!» Si sporse e mi baciò sulla guancia, gli occhi luminosi in cerca di un segnale da parte mia. Chiaramente non lo trovò e, delusa, andò a salutare un altro ragazzo. Sciacquetta.

Tirai fuori dalla giacca una sigaretta e me la accesi canticchiando insieme alla radio Brown Eyed Girl di uno dei miei cantanti preferiti, Van Morrison.

Mi feci spazio in salone, dove un tizio della sezione E stava vomitando in un vaso di fiori, per uscire finalmente nel giardino che ospitava una gigantesca piscina.

Quella villa, messa a confronto con il mio umile alloggio, sembrava una vera e propria reggia; ma d’altronde i genitori di Claire erano importanti direttori d’aziende, ergo non ci si poteva aspettare di meno da loro.

Stavo ridendo alla scena di un emerito imbranato che stava affogando, quando successe.

Successe che i miei occhi la videro.

La prima cosa a cui pensai fu che doveva essere un’allucinazione dovuta all’alcol, oppure una conseguenza della troppo erba che fumavo. Dovetti pensare ad ogni spiegazione logica ed illogica, prima di prendere per buona l’idea che fosse reale.

Capelli biondi e lunghi che scuotevano a destra e sinistra, mentre il suo corpo sembrava splendere alla luce della luna, come se fosse una creatura venuta da chissà quale pianeta lontano.

Danzava, la mia dea – anche quando cammina si direbbe che danzi – sul trampolino che dava sulla piscina: qualunque altra persona sarebbe apparsa goffa a ballare sopra un elemento in bilico, invece lei, lei sembrava una sirena.

Il suo corpo formoso non era fasciato fa vestiti esagerati, come quello delle altre ragazze, ma libero di esprimersi, coperto solo con una gonna larga che le arrivava fino alle caviglie ed una maglietta che le lasciava scoperta la pancia. Si muoveva sinuosamente, tutti gli occhi puntati su di lei... lei che sembrava non curarsi di nulla se non del suo ballo, della sua risata spensierata.

 

Da dove vieni, O Musa?

È un paese di luci e di amore, il tuo

Sei la luna della mia notte, risplendi, risplendi

Danza sulle braci ardenti, O Musa

Danza e io sono tuo

Ridi, O Musa

Ridi e io potrò morire

 

La guardavo. La guardavo e non sapevo che quella dea avrebbe rivoluzionato il mio essere.

Ho sentito milioni di persone ripetere frasi come “con il senno di poi non rifarei mai quello sbaglio”, ma io non lo dirò mai.

 

Con il senno di poi ti guarderei danzare altre mille volte, O Musa

Con il senno di poi i miei occhi sarebbero ancora tuoi, per sempre

 

Non sono mai stato un tipo particolarmente romantico o melodrammatico, ma sono quasi certo che quella donna era la mia anima gemella, la mia compagna spirituale inviata per me. Solo per me.

Me ne stavo imbambolato, il punch ormai dimenticato, quando una voce mi riportò alla realtà, facendomi distogliere lo sguardo dalla mia dea. «Non è roba per te, ragazzo.»

Aveva le basette lunghe e folte, quest’uomo con la voce roca che si era appena rivolto al sottoscritto. Non appena posai lo sguardo sulla sua camicia a fiori e i pantaloni malconci, mi resi conto che era un fricchettone che mio padre avrebbe definito come “uno di quei cazzari che vanno in giro a predicare minchiate sull’amore”.

Non lo avevo mai visto prima, né a scuola né per il quartiere, quindi compresi che doveva essere un imbucato. «La conosci?» domandai indicando la mia dea danzante, intenta a dimenarsi sul trampolino, ancora ignara degli sguardi osceni dei ragazzi.

Aspirò dalla sua sigaretta girata, il basettone, guardando la Musa, proprio come stavo facendo io. Ripensando a quella notte, mi rendo conto che doveva essere un presagio: due uomini che, invece di interagire tra di loro, rivolgono tutta la loro attenzione a lei.

Una calamita – o calamità – per ogni uomo.

«Nessuno la conosce, amico.» Questa volta si girò verso di me e scandì bene le parole, quasi a volermi far capire alla perfezione ciò che mi stava dicendo. Ricordo bene la sensazione di confusione che la sua affermazione mi provocò. Che cosa poteva significare che nessuno la conosce, amico? «Ma è sicuro, però, che non è pane per i tuoi denti.»

Tornai a fissare la donna: si era appena tuffata in piscina – il salto degno di una sirena – e stava nuotando e schizzando tutto intorno a sé, mentre qualcuno rideva di fronte allo spettacolino.

 

Sei una Musa

Sei una dea

La tua pelle risplende sotto la luna – oh, come la vorrei toccare

Ma il Nemico ha ragione

Lo schiavo non è degno

Di amare la Regina

 

Sì. Pensai di mollare.

Pensai che, proprio come tutto il sentimento era arrivato – in un attimo, in un battito di ciglia -, sarebbe svanito: in fondo non sapevo nulla di lei, nemmeno il suo nome.

Sapevo solamente che era ferro e io una stupida calamita.

«Io, non... Stavo pensando di... Voglio dire, cioè... Sì, ecco... Beh, è stato un piacere.» Balbettai, proprio come facevano i ragazzini di fronte alla ragazza di cui erano infatuati, e fu un colpo terribile vedere come il basettone sogghignava divertito. La figura del completo idiota l’avevo fatta. Ora potevo anche squagliarmela.

Girai sui tacchi e, mentre rientravo nell’abitazione, cercai di riordinare i pensieri e gli eventi: avevo sentito la mia testa girare di fronte alla donna più sensuale che avessi mai visto e quello che doveva sicuramente essere un suo amico mi aveva colto sul fatto. Dieci punti a te, Adam.

Posai il bicchiere di punch su un mobiletto e vidi Tyler venire verso di me, quindi simulai un attacco di nausea e corsi verso la porta d’ingresso, ovvero la mia salvezza. Il mio orgoglio – ne avevo anche se può sembrare di no – pretendeva una fuga.

Stavo per posare la mano sulla maniglia quando sentì una voce – voce soave, voce di dea – mormorare al mio orecchio: «Te ne vai già, bambino

Il mio oltre ebbe inizio con quella domanda.

 

*

 

 

 

Angolo di Eryca

 

Ringrazio Vì per aver betato il capitolo.

Eccomi con l’effettivo primo capitolo, signori lettori!

Scopriamo che il protagonista si chiama Adam e iniziamo a conoscerlo. E, ovviamente, viene anche presentata la dea danzante, la nostra bellissima folle, che subito attira l’attenzione del giovane Adam. 

Le canzoni citate nel capitolo esistono realmente e sono bellissime: vi invito ad ascoltarle, se ne avete l’occasione. !!

Beh, spero vivamente che l’inizio vi sia piaciuto! Vi invito a dirmi cosa ne pensate, è sempre bellissimo per un autore leggere ciò che i lettori pensano. :3

 

Un abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 3
*** Il mare di notte ***


2.

Il mare di notte

 

 



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Per anni ho cercato voci come la sua.

Ho viaggiato attraverso paesi di lingue e culture diverse, sperando di poter finalmente sentire una tonalità calda come quella che lei aveva. Ma come ho potuto anche solamente considerare l’idea di una voce simile alla sua? Sciocco.

Ed è bizzarro pensare che la prima cosa di lei che venne a stretto contatto con me fu proprio quella sua voce che, avrei imparato presto, non era solo soave a sentirsi, ma diceva le parole più profonde e toccanti che avessi mai udito.

Quella sera, comunque, rimasi pietrificato; per una qualche strana ragione, il mio intero organismo stava urlando che quella voce apparteneva alla dea danzante. Mi piace pensare che fosse perché eravamo destinati. Mi piace pensare così, sì.

Ogni mio senso era all’erta, quando una mano – la sua mano – si posò dolcemente sulla mia spalla: potrebbe essere considerato un gesto di poca importanza, in fondo quanti di noi, ogni giorno, compiono quest’azione?

Eppure fu la sensazione di sapere che quella dea che avevo visto, pochi minuti prima, ballare sotto la luna come un’apparizione, era reale e non frutto della mia fervida immaginazione.
Era carne, era ossa.

E la sua pelle morbida stava toccando me.

 

O Mia Dea,

Toccami ancora,

Ancora una volta.

Toccami e io

Io morirò.

 

In quel momento, ero solo sensi: udivo il suo respiro regolare dietro di me, sentivo l’odore del profumo a basso costo che si era spruzzata, assaporavo l’averla così vicina.

D’un tratto, proprio come si era posata, La Mano svanì, anche se il panico dell’abbandono si dissolse velocemente quando notai che la Dea si era spostata di fronte a me.

Rimasi attonito nell’accorgermi che sorrideva.

Attenzione: non rideva, non ghignava, non esibiva uno dei quei risi maliziosi e piccanti della serie “Portami-A-Letto-E-Subito” e nemmeno una maschera di falsità.

Lei sorrideva e io ero sconcertato nel vedere una tale limpidezza sbattuta in faccia al mondo come se non ci fosse nulla di particolare.

Se ne stava davanti a me, quindi, con il suo sorriso trasparente, i capelli biondi che le ricadevano lunghi sulle spalle, senza dire una parola, ma limitandosi a guardami.

Ricordo di essermi sentito un perfetto idiota, un bambino, un immaturo.

«C-ciao...» tentai di dire abbozzando un sorriso impacciato, forse troppo forzato, perché lei si abbandonò alle risate e Dio! Il suono del suo riso! Così fresco...

Potreste pensare che il mio sia un elogio senza alcun senso, una prosa poetica portata all’esasperazione, parlando della donna amata come un essere angelicato, ma non è così. Dio, se solo l’aveste conosciuta! Voi potreste capire! Potreste rendervi conto che tutto ciò che sto dicendo è reale.

Lei era davvero luce.

Ricordo che smise di ridere, posò gli occhi su di me e, con fare paziente, si avvicinò – il mio respiro! Dannazione, il mio respiro! – e mi accarezzò una guancia – posso morire, posso morire.

«Vieni con me.»

Non me lo chiese. Lo disse e basta. Sapeva – lei sapeva – che l’avrei seguita, che ero già suo e avrei fatto qualsiasi cosa mi avesse domandato.

Non me lo chiese. Lo disse e basta.

E io andai con lei.

 

*

 

 

Mi prese per mano.

Lo fece davvero, lo ricordo come se fosse ieri. Sorrideva contenta e intrecciò le sue dita con le mie, in un gesto che non aveva nulla di malizioso o provocatorio ma conteneva in sé tutta la purezza della donna che mi stava scortando chissà dove.

Non sapevo nulla di lei: né il suo nome, né quanti anni aveva, nemmeno dove viveva o da dove veniva. Non sapevo nemmeno se fosse o meno americana! Era una perfetta sconosciuta, eppure era la mia dea.

Per questo mi lasciai guidare tra la folla della festa, fino a tre ragazzi che sembravano molto più grandi di me, seduti sul prato, di fronte alla piscina, con aria serena.

Uno di loro era il basettone che mi aveva intimato di lasciar perdere la dea e ora, infatti, mi fissava con sguardo perplesso, forse sorpreso di vedermi insieme a lei. Ricevetti l’onore di essere squadrato da quelli che dovevano essere i suoi amici: Basettone, in primis, poi c’era un tizio smilzo dagli occhi vacui ed infine, uno con i baffi e la bandana che sembrava essere un motociclista accanito.

La Musa sussurrò qualcosa all’orecchio del Motociclista, prima di farsi passare qualcosa in mano, che venne velocemente nascosto nel suo seno: ero infantile, ma non fino a quel punto; io e la marijuana, ad esempio, eravamo amici di vecchia data, quindi conoscevo abbastanza bene le metodologie degli scambi. E quello era stato sicuramente uno scambio.

Sorrise come una bambina, la mia dea, schioccò un bacio veloce sulle labbra del Motociclista – ti odio, ti odio già, per questo – per poi tornare felicemente da me e afferrarmi nuovamente la mano. Non capivo: il Motociclista baffuto era forse il suo uomo? No, impossibile, altrimenti non l’avrebbe lasciata andare via con me. E allora perché lo aveva baciato sulle labbra? Un gesto di affetto?

Mentre mi tormentavo di domande, la Musa mi aveva condotto fuori dalla casa, senza mai dire una parola, senza mai farmi una domanda o cercare di intrattenere una discussione.

Eravamo davanti alla casa, sul marciapiede che dava alla statale, quando la dea si fermò e mi guardò. «Kurt non è il mio fidanzato.»

Kurt doveva essere il Motociclista.

La sua mano era stretta nella mia, i suoi occhi ben puntati nei miei. E io capii di avere a che fare con una persona estremamente intelligente, che non si era lasciata scappare la mia perplessità.

 

Mia Musa,

portami lontano,

prenditi tutto,

prendi ciò che vuoi,

ma non lasciarmi mai.

 

«E chi è?»

«Un amico.»

Un amico. Bene. Non feci ulteriori domande, perché, dopotutto, non avevo il diritto di essere geloso o di conoscere la sua vita. Così tacqui e la Musa riprese a camminare per le vie di Los Angeles, mentre le macchine sfrecciavano veloci di fianco a noi.

I negozi erano aperti, i locali chiamavano a rapporto gli abitanti della notte – presto sarei stato uno di loro – e io e la mia dea camminavamo, ci perdevamo nella sensazione delle nostre mani intrecciate.

Quello era il nostro modo di conoscerci: lasciare che le nostre pelli fossero in contatto. Era totalmente fuori da ogni concezione, era folle, folle. Ed era così bello.

Le luci al neon dichiaravano a caratteri cubitali le loro proposte, invitando gente a comprare detersivi, hamburger, preservativi. Quella era Los Angeles: potevi comprare una scatola di condom nello stesso negozio in cui compravi la verdura.

«Dove stiamo andando?» domandai curioso vedendola così sicura sulla nostra destinazione, mentre girava a destra e poi a sinistra, senza mai titubare. Era ovvio che non stesse semplicemente passeggiando, ma avesse in mente una destinazione.

Mi rivolse un’occhiata divertita, prima di strattonarmi un poco la mano e prendere a correre.

Correre. Non lo facevo da quando io e Tyler, giovani undicenni, ci sfidavamo nei cento metri credendoci degli atleti professionisti. E ora, le mani legate a quella splendida ragazza, stavo veramente correndo per le strade di Los Angeles, ridendo a crepapelle agli sguardi interrogativi delle persone. I capelli della Dea sventolavano all’aria come una bandiera e lei sembrava un essere ancora più distante, ancora più intoccabile: lontana.

Lontana e tanto, tanto seducente.

 

Corri, O Musa

I tuoi capelli al vento

Le tue guance arrossate

Corri, O Musa

E portami con te

 

Mentre ci facevamo spazio tra i marciapiedi affollati di LA diedi una gomitata ad un ragazzone imponente, che mi rivolse parole non propriamente dolci: lo ricordo perché notai la sua stupefacente inventiva di insulti.

E la Musa rideva. Aveva la guance rosee, il sudore che le imperlava la fronte, la gonna morbida le intralciava la corsa, ma non si fermava. Andava avanti come se nulla al mondo potesse interrompere quel suo galoppo liberatorio.

E cosa potevo fare io, giovane adolescente, se non seguirla?

Mi lasciai trasportare dalla gioia sfrenata che sembrava essere in grado di contagiare chiunque e risi con lei, corsi con lei, senza mai lasciarle la mano. Senza mai separarmi da quella Dea.

 

Interrompemmo la nostra cavalcata solamente quando arrivammo sul lungomare. L’oceano stava davanti a noi, calmo e placido come non lo era da parecchio, le spiagge sabbiose vuote. Era buio e non si vedeva quasi nulla, vi erano solamente le deboli luci dei lampioni a rischiarare un po’ quell’oscurità. Il mare di notte era mistico. E lei lo sapeva.

Si tolse le ciabattine che portava ai piedi, le prese in mano e mi sorrise, conducendomi sulla spiaggia. Portavo le scarpe da tennis nuove e, con tutte le probabilità del caso, mia madre mi avrebbe uccisa se avesse scoperto che le stavo immergendo nella sabbia.

Mi lasciò la mano, la Musa, e prese a roteare su sé stessa, improvvisando un ballo etnico, come quelli che si fanno intorno al fuoco. Le mie labbra non resistettero all’impulso di sorridere, perché era proprio impossibile rimanere pacati di fronte ad una tale forza della natura. Ero completamente, totalmente folgorato dalla luce abbagliante della mia Dea.

 

Da dove arrivi, donna?

Ogni elemento di te sembra estraneo

Ad un mondo in cui non vi è più

Libertà

E tu

Tu sei libera

 

«Vieni!» mi chiamò, facendomi segno di raggiungerla con un dito, senza mai smettere di danzare, perché – lo avrei scoperto con il tempo – era ciò che più le piaceva fare, insieme a cantare. E sorridere. Sorridere era sicuramente uno dei suoi passatempi preferiti.

Mi tolsi finalmente le scarpe e mi avvicinai a lei, che mi prese per le mani catapultandomi nel suo ballo senza freni. Come prima cosa la feci roteare e lei sembrò approvare – un tuffo al cuore – poi, acquistata maggiore sicurezza, le misi le mani sui fianchi – oh, dio, i suoi fianchi morbidi, morbidissimi – e subito lei si strinse a me. Mi mise le mani al collo e io dovetti fare appello a tutto l’autocontrollo del mondo.

Quella splendida, splendida donna stava danzando con me.

Aveva abbandonato una festa ed i suoi amici per danzare con me.

Aveva scelto me.

Si allontanò un po’ – torna da me, Musa – e tirò fuori un piccolo pacchetto in plastica dal seno: il regalino che si era scambiata con Kurt, detto il Motociclista. Mi sorrise complice, prima di prendere in mano due microscopici pezzetti di cartone decorati con disegni.

Sapevo bene di cosa si trattava, me ne aveva parlato Mike, un tizio bocciato che ne aveva fatto uso: LSD. Mi disse che era un’esperienza ultraterrena.

La dea non disse nulla ma si mise il suo cartoncino sulla lingua, prima di sporgersi verso di me; prima di darmi la mia parte rimase in attesa di un mio rifiuto, in una muta richieste di permesso e, quando io non la fermai, mi mise in bocca il cartone.

Poi ridemmo.

Me lo ricordo perché ci fu un momento di imbarazzo in cui ci guardammo senza sapere precisamente cosa dire o fare e poi, come se nulla fosse, scoppiammo a ridere riprendendo a danzare.

Da questo momento in poi i fatti sono molto sfocati nelle mie memorie, come ogni volta in cui assunsi qualcosa di stupefacente; ci sono immagini vivide e vuoti temporali in cui non so assolutamente cosa successe. Ed è proprio quello il bello.

Ricordo che il nostro dolce ballo si trasformò in un rito passionale.

Le sue mani sul mio collo, il suo odore sulla mia pelle e i suoi capelli a incorniciare il tutto. La sabbia divenne un oceano e mi sembrava di danzare sull’orlo dell’acqua. Mi sentivo un Dio, un essere imbattibile, meglio di Achille o qualsiasi altro eroe mitologico.

Ero libero, sconfinato e con la mia Musa.

C’è l’immagine della dea che si priva dei suoi indumenti – il suo corpo nudo – e si tuffa in acqua, ridendo, come sempre. E ci sono io che la seguo, come sempre.

Ma vi è un ricordo di quella notte sballata che non potrà mai svanire dalla mia mente, così vivido nonostante la mia psiche alterata.

Le labbra della Dea sulle mie.

C’è questa fotografia, nelle mie memorie, di me e lei immersi nell’oceano, nella nostra prima notte, a ridere e cantare a squarciagola: io stonato, lei no. E mi ricordo perfettamente che lei si avvicinò, mi cinse i fianchi con le sue gambe e posò le labbra sulle mie.

 

Le tue labbra sono di fragola, O Musa

Baciami ancora

Baciami sempre

E io morirò

 

Io non lo sapevo, ma quel bacio fu la promessa che la Dea mi fece.

La promessa che saremmo stati uniti per sempre.

 

*

 

 

 

Angolo Eryca

 

Ringrazio Vì per il beta reading.

Ma quest’oggi i ringraziamenti non terminano qui, no, perché devo urlare un enorme grazie anche ad aniasolary, senza la quale questa storia non esisterebbe: lei mi ha spronata a buttarla giù e mi ha sostenuta sempre, anche quando la scrittura sembrava essermi avversa; senza di lei Over non sarebbe nulla. Quindi le devo molto. (Vi consiglio di leggere la sua Until perché ve ne innamorerete al primo sguardo, esattamente come è successo a me *-*).

Un grazie va anche dato a postergirl84 che, come Ania e Vì, mi ha sempre aiutata e sostenuta, anche minacciandomi quand’era il caso! Grazie, Emi. (Mi permetto di consigliare, anche qui, la sua Benzina sul Fuoco, splendida storia di un amore travolgente).

 

Passando alla storia, come vedete qui iniziano a delinearsi un po’ i caratteri. La nostra Musa – che rimane ancora senza nome – è una vera folle, che non si preoccupa a fare uso di sostanze stupefacenti e catapulta Adam nel suo mondo. Non mi sono soffermata molto sul bacio appositamente, vedrete poi perché.

Lasciate il vostro parere, così che io possa sapere cosa ne pensate e magari modificare ciò che non vi piace troppo!

Grazie a chi ha inserito la storia tra le Seguite, le Preferite o le Ricordate.

Grazie a chi legge.

 

Un bacione,

la vostra Eryca.

 

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Capitolo 4
*** La prima di una lunga serie ***


3.

La prima di una lunga serie

 

 



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Se vi state immaginando un dolce risveglio, la mattina dopo, con lei tra le mie braccia, smettete di farlo.

La prima cosa che i miei sensi percepirono, quella mattina, fu una voce – dapprima lontana, poi forte – che mi impediva di dormire.

«Porca puttana! Ma che cazzo fate? Alzatevi, vagabondi inutili! Larve della società!»

E fu così che mi resi conto di essere completamente nudo in una spiaggia pubblica e, per aggiungere un'altra mela marcia al mio carico, un operatore ecologico mi stava imprecando addosso, dandomi del maiale nomade.

Ricordo di essermi appuntato un promemoria: prendere acidi solo in situazioni sicure.

Mi alzai velocemente, notando che l’operaio mi aveva appena lanciato in faccia i vestiti, che mi affrettai ad indossare, senza curarmi troppo del verso corretto della maglietta.

L’uomo mi stava ancora apostrofando con i termini peggiori del pianeta, ma io non ci facevo più caso perché un piccolo particolare venne ai miei occhi: lei non c’era.

Girai la testa a destra e a sinistra, cercando disperatamente la sua figura snella, ma trovai solamente un tronco marcio, qualche busta di plastica abbandonata sul bagnasciuga e il già noto spazzino – che, tra parentesi, continuava ad insultarmi.

Mi passai una mano tra i capelli spettinati, borbottando tra me e me. Non riuscivo a credere che la mia dea se ne fosse andata così, proprio com’era venuta. In un puff!

D’altronde non sapevo nulla di lei... Diamine! Non conoscevo nemmeno il suo nome! Come potevo pretendere di svegliarmi accanto a lei o pensare che sarebbe rimasta?

All’ennesimo richiamo da parte del mio amico mi decisi ad andarmene e, arrivato al tanto agognato asfalto, mi infilai le scarpe da ginnastica. Vicino a me sorgeva un grosso chiosco, uno di quelli che stanno sul bordo della spiaggia, tra sabbia e cemento, e fungono da bar per i turisti assettati e affamati.

Stavo per prendere la strada di casa, quando da dietro la struttura in legno saltò fuori una figura che urlò qualcosa come Buh!  Una paura indescrivibile si prese possesso del mio corpo – uno di quei terrori tipici dell’essere umano che viene sottoposto a stress – per poi, successivamente, cedere spazio alla confusione, che mi portò a cercare di scoprire che cos’era appena accaduto. Lo capii velocemente, non appena notai da dove proveniva il grido che mi aveva tanto spaventato.

La Dea mi stava dinanzi, la sua gonna di nuovo a coprirle le lunghe gambe.

Dovevo aver fatto un salto improvviso o, comunque, aver assunto un’espressione senza pari, perché la donna stava ridendo a crepapelle, tenendosi la pancia con le mani.

«Oh, sì, certo. Davvero divertente» dissi in tono brusco, dovuto alla rabbia di essere appena stato umiliato dalla ragazza più seducente che avessi mai conosciuto. Dopotutto, al tempo ero un ragazzo immaturo che non aveva idea di come comportarsi con il sesso opposto. Tutto quello che so ora, lo appresi grazie a lei.

«Sì, è stato divertente!» La Dea si avvicinò e mi depose un breve bacio sulla guancia – contatto che bastò a farmi arrossire. Mi guardava sorridente, con quei suoi grandi occhi blu e la sua aria spaesata, come se stesse fluttuando su una nuvola.

Era strano come risultasse estremamente bella nonostante avesse dormito su una spiaggia – completamente nuda –, non si fosse pettinata e nemmeno truccata; qualsiasi altra ragazza sarebbe stata più simile ad un leone che ad un essere umano, invece lei sembrava essere appena uscita da un salone di bellezza.

«Quando mi sono svegliato tu non eri...» Non feci in tempo a finire la frase che mi bloccò.

«Oh, sì! Sono andata a fare un giro.» Ricordo quella come una delle prime volte in cui pensai che doveva essere totalmente fuori di testa, perché solo un pazzo poteva rispondere ad una domanda del genere con una frase che moltiplicava i quesiti.

Faceva caldo, quella mattina, e le spiagge di Los Angeles erano affollate. Mi sarebbe piaciuto sapere che ora fosse, cosa che non sembrava preoccupare minimamente la mia Dea, tutta intenta a scrutare l’oceano. Rivolsi i pensieri a mia madre che, sicuramente, doveva essere – oltre che furiosa – in ansia, visto e considerato che non ero tornato a casa a dormire e non aveva alcuna notizia del sottoscritto. Merda!

Guardai la mia Musa.

Gli occhi rivolti verso il mare, pareva la creatura più candida che il pianeta Terra ospitasse; aveva l’aria di essere lontana, persa in chissà quale pensiero che io – comune essere mortale – non potevo neanche sfiorare.

Era splendida.

Splendida ed irraggiungibile.

 

Non importa quanto tempo spenderò con te

O Musa

Perché tu non sarai mai mia

Io non ti avrò mai

 

«Come ti chiami?» Fu quella l’unica domanda che la mia mente fu in grado di formulare, nonostante volessi chiederle a cosa stesse pensando, quali fossero le caratteristiche che la rendevano così, come poteva essere così.

Le chiesi il suo nome. Dopotutto, avevamo passato una notte selvaggia insieme, tra droga e danze, e ancora non conoscevo nulla di lei.

Si girò, la mia Dea, il sorriso appena accennato sulle labbra.

C’era attesa nell’aria, proprio come quando deve avvenire un fatto importante; quando tu aspetti, aspetti perché vuoi sapere disperatamente ciò che accadrà. Quell’attesa che aumenta il desiderio, logora le sinapsi cerebrali e alimenta l’animo.

E lei lo sapeva.

Aprì la bocca.

E parlò.

«May.»

 

May, la mia Musa.

 

«Il mio nome è May.»

 

 

*

 

Camminavamo per le strade di Los Angeles, io e May.

Disse che voleva farmi conoscere qualcuno, così la seguii, anche se l’unica persona della quale mi interessava sapere qualcosa a riguardo era lei. Aveva un modo strano di camminare, a volte lento e quasi perso, altre, invece, svelto e risoluto; saltellava tenendosi la gonna, in modo che non strascicasse per terra, e rideva. Rideva sempre con aria spensierata, come se il mondo fosse un posto magnifico e bisognasse solo guardare un po’ meglio per accorgersi del suo splendore. I capelli biondi, prima sciolti e annodati, erano stati raccolti in una lunga treccia che le cadeva morbida sul seno.

Presi dalla tasca posteriore dei jeans il mio porta tabacco e sfilai una sigaretta già girata, portandomela alla bocca.

«Ne hai una anche per me?»

Sorrise, la Musa, quando gliene porsi un’altra, accuratamente rollata dal sottoscritto. Si avvicinò a me per accendere. Nel vedere la sua bocca così vicina a me, ripensai ai baci scottanti che ci eravamo scambiati sotto l’effetto dell’acido e non potei fare a meno di pensare che ne avrei voluto ancora, ancora, ancora. Di più.

 

Languide bocche

Oceano infuocato

Io e te

Mia dolce Musa

 

«Dove stiamo andando, di preciso?» domandai, il tono divertito di una persona che sta prendendo come un gioco ciò che sta accadendo intorno a lui; era spassoso il modo in cui May sembrava affrontare la vita: tutto un passatempo, tutto un piacere.

Mi guardò sorridendo, il fumo che le usciva dalle labbra. «Devi conoscere la combriccola.»

La combriccola comprendeva sicuramente Kurt, il motociclista del bacio sulle labbra – non ero una persona che tendeva a dimenticare le cose –, Basettone, l’unico con cui avevo avuto uno scontro diretto, e lo Smilzo. Pensai che sarebbe stato migliore passare la giornata a far scorrere le mie mani sulle sue curve sinuose, ma non dissi nulla.

«Non siete di qui, vero?»

Ero ben intenzionato a scoprire tutto ciò che potevo sul suo conto, quindi le posi la domanda, ben conscio che l’idea di parlare non le sarebbe andata a genio: avevo compreso che non era una tizia che sprecava parole.

Rise sotto i baffi, la mia Musa, divertita dalla mia perseveranza. «No, infatti.»

Aveva compreso il mio scopo e, ovviamente, non aveva alcuna intenzione di darmi corda, anzi, sembrava essere intenta a mettermi il bastone tra le ruote. Mi stavo divertendo.

Sorrisi malizioso, assecondando i suoi occhi birichini. «E di dove siete, allora?»

Si portò la sigaretta alla bocca, lanciandomi un finto sguardo inceneritore che era, in realtà, allegro. Le strade erano colme di turisti in calzoncini con le borse da spiaggia in mano, pronti per passare un’intera giornata sulle spiagge cocenti della California.

Vicino a noi, un anziano stava tirando su la saracinesca del suo negozio di frutta e verdura. «Veniamo da posti diversi...» iniziò, ambigua «...Ci siamo incontrati per le strade degli immensi Stati Uniti d’America.»

C’era qualcosa, nei suoi occhi, come una luce... Era impossibile non notarla, era come se tutto il suo spirito confluisse in quel luccichio, che la rappresentava così bene. Non avevo mai visto occhi così.

Così vivi.

Continuammo a camminare per almeno un’altra mezz’ora e ci allontanammo molto dalla costa, per finire dentro il centro urbano, in uno di quei quartieri abitati da vecchi ubriaconi e giovani figli dei fiori, quelli che mio padre detestava tanto. Finimmo davvero in quella zona malfamata, dove si raccontava succedessero gli eventi meno raccomandabili di Los Angeles. Probabilmente avrei dovuto aspettarlo, vista la indole da fuori legge della mia Musa. Arrivammo in una specie di grosso parcheggio interrato, quelle costruzioni in cemento grigio che sono terribili da vedersi e sembrano urlare sono il prodotto del consumismo! Chiaramente, il cantiere di quell’enorme progetto non era stato portato a termine e il tutto era stato abbandonato; ora, infatti, esibiva numerosi graffiti o scritte varie, lattine di birra lasciate un po’ ovunque e schifezze varie.

Ma, al momento, la decorazione che più stava a cuore al parcheggio sotterraneo erano tre giovani uomini, seduti su un muretto.

Basettone. Motociclista. Smilzo.

I tre se ne stavano con le gambe a penzoloni, la lattina di birra in mano, mentre chiacchieravano a tono di voce basso, l’aria un po’ svampita. Come al solito, però, Kurt incuteva un timore non indifferente.

Non appena ci videro arrivare smisero di parlottare e presero a farci la radiografia. Anzi, mi correggo: a farmi la radiografia. Per quanto mi riguardava, stavo cercando di capire come mai passavano il tempo in un posto del genere, piuttosto che in spiaggia o ai giardini.

«Ciao, ragazzi!» Cantilenò la mia Dea, posando un bacio sulla guancia ad ognuno dei suoi amici. Lo Smilzo aveva un’aria amichevole, a differenza del Motociclista, e un sorriso sghembo che gli donava un ché di tonto.

«Vi ricordate di lui?» May, ovviamente, mi chiamò in causa, voltandosi verso di me con il sorriso più radioso del mondo. Alzai una mano in segno di saluto, cercando di sembrare il più fiero possibile, anziché intimorito dal ragazzo con il giubbotto di pelle.

« Ciao, amico» disse lo Smilzo offrendomi la mano, che accettai con piacere. «Io sono Tom.»

Tom, detto anche lo Smilzo, aveva dei capelli lunghi che gli toccavano le spalle, cosa che lo distingueva dal resto della gente. Teneva una sigaretta tra le labbra, mentre mi stringeva la mano, gli occhietti vispi.

«Abbiamo già avuto il piacere di parlare io e te, ricordi?» domandò divertito Basettone, dandomi una pacca sulla spalla. «Comunque, sono Dean» Risposi con sicurezza, presentandomi a mia volta, cercando di eliminare l’imbarazzante immagine del primo incontro tra me e Basettone, a casa di Claire.

Kurt mi lanciò un’occhiata disgustata, prima di tornare ad occuparsi della sua birra ed ignorarmi completamente, come se fossi un fantasma. May sembrava offesa, o forse un po’ delusa, ma non disse nulla.

«Non fare caso a Kurt» bisbigliò Tom al mio orecchio «È un asociale, un orso bruno.»

L’avevo capito anche da me, ma apprezzai il tentativo dello Smilzo di mettermi a mio agio, calmando un po’ la tensione. Sembrava uno a posto, quel Tom.

Mi resi conto solo ora che c’era una chitarra accanto ad una borsa colma di chissà quali cianfrusaglie. «Avete una chitarra!»

Gli occhi della mia Dea si illuminarono e si fece più vicina a me, provocandomi come sempre la strana sensazione di aspettativa: il mio corpo la bramava disperatamente.

«La sai suonare, amico?» Fu Dean a parlare, già seduto a terra, le gambe incrociate.

Annuii convinto e May afferrò la chitarra, per poi donarmela e guardarmi in attesa. Rimasi sconvolto da ciò, ancora me lo ricordo: La mia Musa mi stava fissando con occhi ammirati.

Mi guardava con quei grossi occhi blu, il sorriso sulle labbra.

In quel momento, avrei voluto baciarla più che mai.

Ma non lo feci. Formammo un cerchio a terra, mentre Kurt si ostinava a starsene sul muretto a bere birra, e presi a suonare una canzone qualsiasi, la prima che mi era venuta in mente. Alla fine, suonai dei brani che mi chiedevano i ragazzi e ci mettemmo a cantarli insieme, mentre la voce di May sovrastava le nostre, angelica, mistica.

Le mie mani si muovevano sicure sulle corde, intanto che la mia Musa danzava – come sempre – al cento del cerchio, ridendo a squarciagola. Era così... vera.

E ridevamo anche io, Tom e Dean, contagiati dall’allegria di May, che sembrava non poter trovare il suo epilogo. Musica e risate.

E io avevo occhi solo per lei.

«Dean, prendi la chitarra!» Intimò May. Il Basettone mi tolse lo strumento dalle ginocchia e la mia Musa si sporse e mi offrì le mani, tutta sorridente. Mi alzai e mi trovai catapultato in una danza sfrenata, al centro del cerchio. Sentivo Tom e Dean ridere.

Le sue mani sul mio collo.

Le mie mani sui suoi fianchi.

Occhi negli occhi.

 

 

Passarono le ore.

Rimanemmo tutta la giornata in quello schifo di posto, cantando, danzando, bevendo birra. Lo Smilzo, ad un certo punto, accese uno spinello e ce lo dividemmo.

E poi ballammo ancora.

E poi ridemmo ancora.

Quella fu la mia prima giornata con i ragazzi.

La prima di una lunga serie.

 

 

*

 

Angolo Eryca

 

Grazie a Vì per aver betato il capitolo.

Lettori,

spero vivamente che il capitolo vi sia piaciuto. Finalmente conosciamo il nome della nostra Musa – May. Volevo dare l’idea di spensieratezza, voglia di vivere e sballo, che caratterizzeranno questa storia per tutta la sua durata. Anche il rapporto May/Adam si sta delineando un poco e, nonostante siano ancora agli inizi, è già molto profondo. Inspiegabile?

Voglio che sia esattamente così.

Fatevi sentire ragazzi, Over necessita lettori e vi chiama scalpitando!

 

Un grosso abbraccio,

Eryca.

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Capitolo 5
*** Oceano ***


4.

Oceano

 

 




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La guardai.

Una volta.

Due volte.

Mille volte.

La guardai e tutto il mondo sembrò svanire, perché non si poteva – non si doveva – avere occhi come i suoi: blu, blu come l’oceano, l’oceano immenso, l’oceano che si fonde con il cielo, l’oceano che sa essere impetuoso, pericoloso, ma anche accogliente e rilassante.

E... lei aveva occhi come l’oceano.

Lei era l’oceano: impetuosa e affascinante.

Camminava al mio fianco, ancora una volta, mentre il vento si faceva più forte e alzava la polvere delle strade, inducendomi a chiudere gli occhi. Il sole stava sbadigliando, segno che di lì a poco ci avrebbe dato il suo commiato per cedere il posto alla luna, che avrebbe timbrato il cartellino di inizio turno.

Avevo passato l’intera giornata cantando e ballando insieme ad un gruppo di strambi personaggi, della quale ancora non riuscivo a farmi un’idea: erano un’incognita per me, proprio come la mia dea; d’altronde non li conoscevo che da un giorno appena.

Guardai la mia Musa – Mille e una volta – lasciando che i miei occhi perdessero tempo ad osservare i suoi zigomi alti, le sue labbra così carnose, la sua pelle rosea. Mi chiedevo se fosse una strega, in realtà, perché non era possibile che pendessi dalle sue labbra in quel modo, dopo appena una notte e una giornata. Suonava stonato.

Come potevo guardare in quel modo una donna, quando avevo sempre usato le ragazze come un metodo piacevole per svuotarmi le palle? Suonava stonato.

La sua gonna rossa era impolverata al fondo per il troppo strascicare a terra e la sua maglietta larga era delle più squallide che avessi mai visto: una ragazza qualsiasi, in poche parole, con indosso quei vestiti, sarebbe sembrata una barbona, eppure lei pareva una sinuosa, incantevole sirena.

Forse era a causa della sua bellezza ultraterrena, oppure per colpa della sua tendenza ad essere sempre così spontanea, così libera, ma non riuscivo a smettere di guardarla, di starle vicino. Era la mia Terra e io la sua Luna, costretto ad orbitare intorno a lei.

Ricordo precisamente come, in quei primi giorni insieme a lei, mi domandavo incessantemente qual era il motivo per cui non riuscivo a starle lontano, nonostante non la conoscessi affatto. Ero sconcertato, sconvolto e pretendevo risposte.

«Suoni bene la chitarra» disse d’un tratto la Musa, interrompendo i miei pensieri filosofici. Non sorrideva, questa volta, ma i suoi occhi scintillavano, come sempre. Tirai un calcio ad un sassolino e lo vidi rotolare fino ad un idrante, che gli bloccò la via.

«In compenso sono stonato come una campana!» Sentì subito il suono della sua risata fare eco alla mia, mentre il crepuscolo si faceva avanti.

Avevo notato che May era una tizia di poche parole, così non mi stupì quando non cercò di prolungare la nostra conversazione; semplicemente, parlava quando aveva realmente qualcosa da dire, altrimenti stava zitta. È una cosa che le invidio tutt’ora.

In quei due giorni passati insieme alla mia Musa avevo dimenticato di essere un giovane giocatore di baseball appena diplomato, circondato da sempre da ragazze belle quanto spente, ben voluto dai genitori. Mi ero lasciato alle spalle, per quella notte e quella giornata, tutte le finzioni e le ipocrisie che la mia vita comprendeva, lo stress e il dover sempre essere ristretto in una serie di regole imposte dal potente.

Avevo lasciato sì che la vita andasse come doveva andare, divertendomi, abbandonandomi, facendomi trasportare dalla follia sensuale di una donna bellissima.

Una donna bellissima che canticchiava tra sé e sé, mentre camminava al mio fianco.

Arrivammo di fronte alla villetta, che era poi la mia casa dell’epoca, e l’ansia di dover affrontare i miei genitori si fece sentire, inducendomi a mangiucchiarmi le unghie.

«Nervoso?» Rimasi stupito, quella volta, dal fatto che May si fosse subito accorta del mio stato d’animo. Imparai, con il tempo, che la Musa sapeva leggere attentamente le altre persone, perché era una grande osservatrice.

«Mia madre sarà furiosa...» dissi, più a me stesso che a lei, guardando la villa. In effetti, l’idea di dover subire l’ira funesta di Lauren Williams non mi allettava.

Posai i miei occhi su di lei e la trovai intenta a fissare la mia casa con un’attenzione che non avrei potuto avere neanche durante le lezioni del professor K.

Sapevo che avremmo dovuto separarci, arrivato quel momento, ma non avevo alcuna intenzione di lasciarla andare. Ne volevo ancora, ancora, ne volevo di più.

 

Resta con me, O Musa

Cullami

Amami

Tienimi con te

 

«Me ne vado, allora. Questo non è posto per me» sentenziò infine, un sorriso amaro sulle sue labbra. Si voltò, la mano alzata in segno di saluto, e fece per prendere il viale per tornare dai suoi amici vagabondi.

Se se ne fosse andata in quel modo, sapevo che non l’avrei rivista mai più.

Se se ne fosse andata in quel modo, sapevo che non avrei più potuto danzare con lei.

Se se ne fosse andata in quel modo, sapevo che sarei morto.

«May!» urlai, rincorrendola. La vidi voltarsi, per nulla stupita, quando la raggiunsi e mi fermai davanti a lei.

Occhi come l’oceano.

Non disse nulla, sapeva bene che non era il suo momento di parlare, ma il mio. Rimase ferma, l’espressione seria, mentre rimase in attesa. Gli occhi fissi nei miei.

«Perché me?» domandai infine, non riuscendo più a resistere all’impulso di sapere.

 

Perché sei venuta da me, con tutti gli uomini attraenti che ti circondavano, O Musa?

Perché hai scelto di danzare nel mare con me, O Musa?

Perché hai camminato mano nella mano per le vie della Sirena con me, O Musa?

Perché?

 

Mi sorrise, la mia dea. Mi posò una mano sulla guancia e, quando sentii le sue piccole dita posarsi sulla mia pelle, chiusi gli occhi, godendomi la sensazione.

«Perché, l’altra sera, vidi molti occhi puntati su di me.» La sua voce era alito fresco sul mio viso. «Erano occhi bramosi, volevano il mio corpo, volevano scoparmi con passione, con rabbia, con foga.» L’immagine di un porco qualsiasi che faceva sesso con la mia dea mi provocò un senso di gelosia enorme, che dovetti reprimere a forza quando lei riprese a parlare. «Ma poi, ho visto due occhietti vispi che mi osservavano con vero interesse, stupore, confusione. Quegli occhi erano realmente attirati da me, non dall’idea di portarmi a letto.»

Aprii gli occhi ed incontrai il suo sguardo commosso. Il suo viso era così vicino al mio che se solo avessi voluto avrei potuto baciarla senza sporgermi troppo; le sue labbra erano lì, perfette, pronte ad essere succhiate e leccate da me.

Ma rimasi fermo, a fissare quell’oceano blu.

«Te, perché non sei passato dietro di me palpandomi il culo senza ritegno, ma mi hai ammirata da lontano.»

Vicini, vicini. Eravamo troppo vicini e le parole stavano diventando troppo per me. E le sue labbra erano lì, per me. E io mi stavo perdendo, perdendo il quel mare blu.

E allora non ce la feci più.

Mi sporsi – un millimetro solo.

E la baciai.

Sfiorai le sue labbra con le mie, senza pretese, in un lievissimo contatto, per poi staccarmi con lentezza. Quel suo oceano blu scintillò per un attimo, per poi essere lei a prendere nuovamente l’iniziativa e fare incontrare nuovamente le nostre labbra. Mi abbandonai a quel bacio, lasciando che i suoi denti mordessero dolcemente il labbro inferiore, in una dolcissima tortura. Le misi una mano sul fianco, facendola aderire di più al mio corpo, che bramava il suo calore, la sua pelle. Sentii le sue mani allacciarsi dietro al mio collo e, di fronte ad un simile coinvolgimento da parte sua, la passione scoppiò in me, inducendomi a baciarle il collo, le guance, la mandibola. Le morsi il lobo dell’orecchio e la sentii ridacchiare sul mio collo.

Di nuovo bocche, labbra, lingue.

E non mi importava se ero nel vialetto dove abitavo, se i miei vicini avrebbero spifferato tutto a mia madre o che, molto più probabilmente, era la mia stessa mamma che mi stava fissando dalle finestre di casa mia. Non mi importava, perché la mia Musa mi stava baciando il collo e il suo collo aderiva perfettamente al mio, come se fossimo due pezzi combacianti di un puzzle.

Quello, lo considerai il nostro primo bacio. La mia memoria lo ha rinchiuso in un cassetto ermetico, a differenza di quello dato sotto l’effetto dell’acido, che è solamente un ricordo sfumato.

Si allontanò, facendo sì che le nostre labbra si staccassero e io, per un istante solo – oh Dio, certe sensazioni non potranno mai essere dimenticate -, pensai che sarei potuto morire.

 

Baciami ancora, O Musa

Baciami ancora

E io morirò.

 

«Dimmi che non sparirai.» Dissi quelle esatte parole, incatenando i suoi occhi nei miei, pregandola disperatamente di non svanire nel nulla, di non dissolversi come un sogno, perché avevo la necessità di quell’oltre nella mia pacata esistenza.

Sorrise, la mia Musa, ed una tenera fossetta comparve nella sua guancia sinistra.

«Sarai tu a dovermi venire a cercare, bambino.»

Se qualsiasi altra persona mi avesse affibbiato un nomignolo come “bambino”, probabilmente sarei andato su tutte le furie, ma detto da lei aveva un suono dolcissimo e per niente canzonatorio. Ancora adesso, infatti, quell’appellativo mi rimanda a lei ed ogni volta che sento una persona usare il termine, il mio cuore fa un balzo.

La guardai e pensai che avrei potuto cercare per tutta la vita le sue guance rosee, i suoi capelli di seta, i suoi occhi d’oceano, la sua fossetta dolcissima.

L’avrei cercata, su questo non c’erano dubbi.

Si sporse nuovamente e mi posò un lieve bacio sulla guancia, poi prese ad indietreggiare senza mai staccare gli occhi dai miei, il sorriso appena accennato sulle labbra.

«A presto, piccolo Adam.»

 

A presto, mia dolcissima Musa.

 

*

 

 

 

Non appena misi piede in casa, venni investito da un tornado inferocito e senza pietà, che mi diede il benvenuto con un sonoro schiaffo in faccia.

«Dove sei stato, brutto fetente?» Lauren Williams aveva uno strano concetto di termini offensivi e brutto fetente deteneva uno dei posti più alti nella sua classifica degli insulti; l’unica volta che l’avevo sentita pronunciare una vera parolaccia era stato quando mio padre era tornato a casa ubriaco, dopo la festa dei coscritti.

Se c’era una cosa che mi faceva paura, quella era mia madre arrabbiata.

«Ti sembra normale, il tuo comportamento? Sparisci per due giorni! Non una chiamata, non un biglietto! Potevi inviare un piccione viaggiatore, sarebbe stato meglio di questo silenzio! Stavo quasi per andare alla polizia! Che cos’hai in quel tuo cervello da canarino?»

Dovetti trattenermi dal ridere, perché – ammettiamolo – vedere mia mamma rossa in viso, urlarmi contro che potevo inviare un piccione viaggiatore non era un evento quotidiano. Comunque, cercai di assumere un’espressione desolata e sottomessa, che potesse far credere ad Adolf Hitler – soprannome affibbiato a mia mamma da me e Tyler – di avere almeno un po’ di senso di colpa. Mi ricordo perfettamente come, mentre la donna continuasse con la sua ramanzina, la mia mente volasse all’immagine della bocca di May sulla mia.
Le sue labbra, il suo profumo...

«Adam Williams, mi stai ascoltando?» Non appena vide la mia espressione sognante, fece un gesto con la mano, come per scacciare una mosca. «Ma cosa perdo tempo a blaterare con te, che nemmeno mi stai ascoltando. Fila in camera tua, tacchino!»

Tacchino occupava il numero tre nella Hit Parade degli insulti coniati da mia madre ed era, in effetti, uno dei più insensati e idioti.

Senza degnarla di una scusa o una risposta, mi affrettai verso camera mia, dove aprii la porta con foga, solo per gettarmi sul letto e prendere a fissare il soffitto. Il poster dei Doors – il gruppo che dominava le classifiche dell’epoca – mi osservava a sua volta e io rimasi così per tutta la sera, senza fare nulla di concreto.

Rimasi sdraiato, le scarpe ancora addosso, pensando.

Pensando alla mia dea e al suo sguardo delizioso mentre mi intimava di andare a cercarla.

Sorrisi a Jim Morrison e mi dissi che avrei chiamato Tyler per rimandare la partita a basket che avevamo programmato con i ragazzi.

Dovevo cercare la mia Musa.

 

Ti cercherò, mia dolcissima Dea

Ti cercherò oltre il tempo

Oltre i confini dell’impossibile

 

Ed ero disposto a tutto pur di trovarla.

 

 

*

 

Angolo Eryca

 

Ta-dan! Ecco a voi un nuovo capitolo fresco di beta reading (grazie Vì, cara).

Come vedete i personaggi iniziano a comunicare ed è qui che devo fare due piccole puntualizzazioni: Adam e May avranno sempre un modo tutto loro, speciale, di interagire e rapportarsi; non sentirete mai i soliti discorsi perditempo che si fanno tra le persone comuni, perché loro non sono persone comuni. Sarà un po’ particolare :D

Ah, una cosa che (dio! com’è possibile?!) ho dimenticato di dirvi sin da subito ed è decisamente essenziale (perdonatemi, ma sono la persona più sbadata del mondo): il titolo della storia, Over, non è dato a caso, ma significa letteralmente “Oltre”, perché sarà proprio il succo dell’intero racconto, ciò che Adam imparerà a fare, ovvero andare oltre.

Ah, sì, il ragazzo che vedete nella foto è Alex Pettyfer (*-*) che impersoni fica il mio Adam. (La ragazza che avete visto nel primo capitolo invece è Rose Huntington-Whiteley ed è la mia May.

Direi che è tutto, mi sono dilungata abbastanza. xD

Questa storia è scritta con amore e necessita lettori e pareri, quindi se ci siete (Ehilà-aaa?) fatevi sentire :-*

 

Una cascata di baci,

la vostra Eryca.

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Capitolo 6
*** Dove il sole batte più forte ***


5.

Dove il sole batte più forte




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Quella fu la mattina del bigliettino.

Ero andato a dormire con il sottofondo della voce di Joni Mitchell, che mi aveva conciliato il sonno. Non avevo fatto baldoria, visto e considerato che mia madre avrebbe preferito impiccarmi, piuttosto di vedermi uscire da quella porta dopo due giorni di assenza.

Ricordo perfettamente che mi stiracchiai, aprii gli occhi – ancora appannati – e feci per scendere dal letto ed infilarmi le ciabatte, però.

Però vidi che sul mio comodino vi era un foglietto di carta piegato in due, che portava il mio nome. Adam, c’era scritto, con una calligrafia che non ricordava né quella di Lauren né quella di Stephen. Era un piccolo pezzo di carta riciclata, quella che è sporca eppure, allo stesso tempo, molto più pura di quei fogli bianchi e pulitissimi.

Mi sporsi e lo aprii.

 

Il sole di giugno

È così forte che sembra voler incendiare gli animi.

Forse il suo scopo era quello di infiammare

Me e te?

Ci è riuscito, questo sole birichino?

Hai promesso di cercarmi, piccolo Adam.

Trovami

Dove il sole batte più forte.

 

Rimasi così perplesso da quelle parole dal tono sognante che dovetti rileggerle più volte, cercando i significati in ogni singola lettera. Non era firmato, ma non ce n’era alcun bisogno, perché sapevo benissimo che era una sua idea.

May.

Mi domandai come diavolo avesse fatto ad entrare in casa mia e lasciarmi il messaggio, ma poi mi voltai e vidi che la finestra di camera mia non era del tutto chiusa: l’avevo lasciata aperta per far entrare un po’ d’aria, con tutto quel caldo infernale.

Non rimasi troppo stupito dal suo strano comportamento – non era da tutti intrufolarsi in casa di un semi sconosciuto e lasciargli un testo criptato – perché era da lei.

Nonostante avessi passato solamente due giorni insieme alla mia Musa, sentivo che c’era un legame così profondo tra di noi che non era nemmeno spiegabile a parole. Anche adesso, mi trovo in difficoltà nel cercare di dare un senso alla nostra storia, ma l’unica cosa certa è che quel suo biglietto mi fece comprendere che ormai eravamo uniti. Non era solamente una questione di folgorazione e non era nemmeno “amore a prima vista”.

Era di più.

Era oltre.

Rimasi a lungo seduto sul letto, rileggendo le parole poetiche della mia dea, che aveva appena dimostrato di avere una grande dote di scrittrice. Capii, dal suo biglietto, che mi stava dando un indizio. Stava giocando. E sapevo anche che si stava divertendo molto.

Sorrisi allegro perché, in fondo, quel suo essere così enigmatica incrementava la mia voglia di vederla, di tenerla fra le braccia, di baciarla.

Le sue labbra...

Quel giorno, ormai lo avevo deciso, lo avrei dedicato per mantenere la promessa fatta alla mia dea, che non avevo alcuna intenzione di deludere. All’epoca avevo l’abitudine di riempire dei piccoli quaderni con pensieri e parole, così afferrai quello del momento, dopo essermi infilato un paio di jeans e una maglietta a caso.

 

Dov’è che il sole batte più forte?

 

Scrissi questa domanda sul mio taccuino, lo stesso aperto davanti a me, ora, mentre vi racconto questa storia; dopo tanti anni, la calligrafia giovane è ancora visibile, forse un po’ sbiadita, ma si può leggere il quesito interiore di quel giorno.

Scesi in cucina e la trovai vuota, segno che i miei genitori dovevano già essere al lavoro; aprii il frigorifero e addentai una fetta di bacon, senza avere la voglia di preparami una colazione vera e propria. Avevo ben altro a cui pensare.

Mentre mi apprestavo ad uscire di casa continuavo a scervellarmi, cercando una risposta al quesito della mia Musa che, con tutte le probabilità del caso, stava aspettando divertita. Forse quello era il suo modo per mettermi alla prova, per vedere se meritavo la sua attenzione, ergo non potevo permettermi di non trovarla.

Io avevo promesso.

Ricordo che ero ossessionato dall’idea di deludere May e continuavo a rigirarmi tra le mani il mio taccuino, ogni tanto scrivendo una parola, un verbo.

 

Venere irriverente

Gioca con l’Uomo

Ma l’Uomo altro non è che un

Servo.

 

Stavo percorrendo la strada del vialetto di casa mia, quando capii.

Ricordo nitidamente che mi fermai – se fossi stato una macchina avrei utilizzato il verbo inchiodare, perché rende bene l’idea – e rimasi così per un attimo, gli occhi spalancati.

Poi.

Poi corsi.

Corsi come mi aveva insegnato lei, fregandomene della gente che mi guardava come se fossi un pazzo e dannazione! forse lo ero proprio un pazzo, ma non m’importava, non mi toccava, perché io avevo capito! Risi. Diavolo se risi! Correvo e gridavo, senza curarmi dell’occhiata interrogativa che il mio vicino di casa mi rivolse.

Credo che, con quell’illuminazione, capii davvero quanto mi importava della Musa, quanto avrei voluto renderla orgogliosa di me. Sono quasi certo che fu in quel momento che compresi la prima lezione di May: feci da solo quello che avevo fatto con lei, imparai a non dar peso alle restrizioni sociali e a fare ciò che mi rendeva libero.

Ormai il passo era stato compiuto, non potevo tornare indietro.

Per la prima volta nella mia vita, grazie alla mia dea danzante, ero andato oltre.

Libero come mai ero stato in tutta la mia vita, continuai il mio piccolo viaggio, salutando persone che non avevo mai visto, sorridendo a chiunque.

Ridendo, urlando, correndo.

Mi fermai solo quando arrivai di fronte al palazzo che mi interessava, concedendomi una breve pausa per riacquistare le forze.

Entrai nella biblioteca comunale che ero sudato marcio, i vestiti appiccicati al mio corpo e goccioline che mi cadevano sulla fronte a causa della lunga corsa. L’espressione sconvolta della bibliotecaria di fronte alla mia persona è ancora stampato nella mia mente, come se fosse successo solo ieri.

«Salve, Mrs. Cannon» salutai con il fiato corto.
Rebecca Cannon era una di quelle ragazze con cui non andresti mai a letto, nemmeno se fosse l’ultima persona rimasta al mondo; la sua immagine è sfumata nella mia memoria, ma ricordo vagamente i suoi grossi occhiali rossi, che la facevano somigliare ad una rana.

La ragazza mi fece un cenno con la testa in risposta, tornando a rivolgere la sua attenzione alle carte sulla scrivania.

Ma io avevo bisogno di lei per rendere la Musa fiera di me.

Così posi la fatidica domanda alla bibliotecaria.

«Posso prendere in prestito un libro?»

 

 

*

 

 

La trovai, allora.

La mia intuizione si era rivelata giusta, così la mia lunghissima camminata fino alla collina di Hollywood non era stata inutile. Oh sì, il posto dove “il sole batte più forte” era proprio quell’altura e io lo avevo capito, perché avevo passato diversi pomeriggi a vagabondare lì, con Tyler.

Se ne stava seduta sul prato erboso, le gambe incrociate, coperte da corti pantaloncini a vita alta, così scoloriti da sembrare orrendi. Guardava lontano, verso il mare o l’orizzonte: difficile a dirsi. I lunghi capelli color grano erano intrecciato alla bell’e meglio, proprio come l’ultima volta che l’avevo vista – e l’avevo baciata.

Ancora una volta, rimasi spiazzato di fronte alla sua genuina bellezza.

La vidi sorridere, senza però smettere di rivolgere la sua attenzione all’infinito, e capii che si era accorta della mia presenza. Con le gambe molli, mi trascinai fino a lei e mi sedetti al suo fianco, scrutando il suo viso, cercando le espressioni.

«Sei stato bravo, piccolo Adam.» I suoi occhi rimasero puntati nel vuoto, ma la sua mano si mosse e, proprio con la lentezza di un serpente, si posò sulla mia coscia, iniziando ad accarezzarla dolcemente.

«Mi sono divertito, sai?» Fu solo con quella frase che, finalmente, la mia Musa mi degnò di attenzione. E sorrise insieme a me. Dio, quegli occhi! Mi ritrovai a ridere ancora di più non appena notai le fossette sulle guance di May.

Poi, la mia dolce dea si avvicinò e posò la testa sulla mia spalla, lasciandosi abbracciare. Ricordo che ero invaso dalla sua persona, sentivo solamente il suo profumo, la sua presenza, il suo respiro regolare. C’è questa polaroid nella mia mente, dei suoi capelli vicino alla mia testa, della sua mano intrecciata alla mia e il sole, alto e maestoso, che splendeva così forte da far bruciare il mio cuore.

 

Accanto a te:

ecco dove il

sole batte più forte

 

«Lo sapevo che sei diverso.» Il suo tono era convinto, non ammetteva repliche. «Sì, lo sapevo.»

Rimanemmo così, i nostri corpi a stretto contatto nonostante il caldo fosse insopportabile, per un tempo che non saprei dire, perché persi totalmente la concezione di esso, come ogni volta che fui insieme a lei.

«Non è bello, qui?» Si sbilanciò e mi posò un lieve, lievissimo bacio sulla guancia, che mi provocò una sensazione di leggerezza inaspettata. Ogni cosa, quando lei era accanto a me, sembrava avere meno peso e il mondo pareva un posto mistico, incantevole e da scoprire.

 

Tu sei bella, mia Musa

 

«Sembra quasi di poter toccare il cielo!» esclamò alzando un dito verso l’alto, protendendosi con tutte le forze che aveva, cercando realmente di posare la mano sulla tavolozza del blu infinito. Scoppiammo a ridere per quell’azione forse un po’ infantile, forse un po’ stupida, ma così vera. Ci ritrovammo naso contro naso, occhi negli occhi e, ancora una volta, mi ritrovai a pensare che doveva essere proprio un’aliena, quella Musa, perché non si poteva essere così.

Poi, come se fosse la cosa più naturale del mondo, con la stessa spensieratezza di sempre, May si protese e mi toccò le labbra con le sue. Ciò che mi è rimasto impresso, dei suoi baci, è il fatto che non ci fossero grandi emozioni come la rabbia, il disperato bisogno di dimostrare qualcosa, ma neanche l’imbarazzo tipico delle coppie alle prime armi e nemmeno un qualcosa di solenne: lei mi baciava come se io e lei fossimo predestinati a farlo.

Le sue labbra mi dicevano è il nostro destino.

Mi stringeva la vita con le mani, mentre io scendevo a torturarle il collo. «Cos’hai qui?»

Si staccò da me, la Musa – non te ne andare, resta con me – e guardò la pagina ingiallita che teneva in mano, presa dalla tasca della mia maglia.

Parla, Adam, parla. «É... una cosa... per te...»

May alzò la testa di scatto e, sinceramente colpita e sorpresa da quella rivelazione, mi rivolse un’occhiata incredula. Aprì il foglio e la vidi immergersi completamente nella lettura, mentre il mio animo smaniava per sapere cosa ne pensava; forse ero stato troppo avventato, troppo immaturo.

Invece, quello che la mia Musa fece, mi lasciò nuovamente sconcertato.

Prese a leggere.

Ad alta voce.

 

«Dammi mille baci, poi cento

Poi altri mille, poi ancora cento

Poi altri mille, poi cento ancora.

Quindi, quando saremo stanchi di contarli,

continueremo a baciarci senza pensarci,

per non spaventarci e perché nessuno,

nessuno dei tanti che ci invidiano,

possa farci del male sapendo che si può,

coi baci, essere tanto felici.»

 

Per ogni parola pronunciata dalla sua voce, la poesia era divenuta ancora più giusta di quanto avevo pensato da solo, in biblioteca. La sua voce di fata le aveva reso onore, trasportandomi in un universo parallelo, dove solo lei era reale, reale, reale.

Poi, di nuovo la sua bocca sulla mia, le sue mani a cercare le mie, il suo corpo contro il mio.

«Catullo, piccolo Adam...» prese a mormorare sulla mia pelle, mentre il mio sistema nervoso aveva iniziato ad andare in cortocircuito, perché lei era così vicina.

La presi per i fianchi e la misi a cavalcioni sulle mia gambe e, prima di assalire di nuovo la sua bocca, vidi la sua espressione sempre più stupita, a causa del mio comportamento inaspettato. Ero riuscito a sorprendere la mia Musa.

«Dammi mille baci, bambino...»

E la sua voce sembrava provenire da chissà quanto lontano, mentre le sue dita si insinuavano sotto il bordo della mia maglietta e i palmi delle sue mani si posavano sulla mia pelle e io ne volevo di più, di più, ancora di più. Mi guardò per un solo istante – occhi come l’oceano – prima di sfilarmi la maglia dalla testa e prendere a baciarmi il petto, inducendomi a mandare la testa indietro, completamente in suo possesso.

Ma d’altronde era stato così fin da subito: suo possesso.

Feci in modo che anche lei rimanesse senza maglietta e rimasi a fissarle il busto, fasciato solamente da un semplice reggiseno nero. Ed era la perfezione. Ed era oltre.

Le baciai l’incavo tra i due seni e la sentii respirare più velocemente, mentre le sue unghie si piantavano feroci nella mia schiena – dolce, dolcissimo supplizio.
Le mie mani scesero più in basso, lentamente, languidamente, preannunciando un nuovo piano d’attacco, un nuovo gioco...e la Dea capii e rise, felice, spensierata, aprendo un poco di più le gambe, dandomi la sua benedizione. E ancora una volta, con un solo gesto, riuscì a farmi perdere il controllo.

Presi a aprirle i pantaloncini, guardandola negli occhi e sorridendole malizioso, inducendola nuovamente a ridere, così che mi si mozzava il fiato. Quando le accarezzai le mutandine, la Musa spinse il bacino verso l’alto, chiedendomi di più, chiedendomi l’oltre.

E allora l’accontentai, perché non sapevo fare altrimenti e non avrei mai saputo fare altrimenti; perché non sarei mai riuscito, in tutto il periodo in cui l’amai, a negare qualcosa. Così – dio, è un ricordo così nitido – lasciai che le mie dita scivolassero in lei, mentre il resto del mondo si sfocava e prendeva il posto che avrebbe dovuto avere, cioè il nulla. Perché il mondo non era niente, senza di lei.

 

Mille baci

Mille baci, O Musa

 

E alla vista di May con gli occhi chiusi, la bocca semi aperta, mentre toccava l’apice – bella, bella come non mai – ricordo di averla seguita, senza altri indugi. Non avevo avuto bisogno di niente, se non del suo piacere, che era divenuto anche il mio.

Allora non capii – come potevo? – ma quello fu uno dei segnali più allarmanti, che mi avrebbero dovuto far capire quanto io e lei avevamo scavato nel profondo dell’altro, quanto eravamo complementari.

Pensai che ero stato messo in vita solamente per poterla cercare.

E per trovarla.

L’avevo trovata.

Mi baciò il collo, mentre mi circondava con le sue braccia. «Oh, sì. Sei stato proprio bravo, piccolo Adam.»

La sentii ridere.

E, per la prima volta nella mia vita, non avrei voluto udire nient’altro al mondo.

 

 

*

 

 

Angolo Autrice

Come prima cosa mi devo scusare per il ritardo  con il quale posto questo capitolo ç__ç

Sono un’autrice brutta e cattiva che non ha nemmeno un po’ di riguardo per i suoi lettori, avete ragione. Chiedo venia!

Ehi, ehi, qui inizia la parte “letteraria” – come mi diverto a chiamarla, io – di questa storia: scritti, taccuini e Catullo (Adoro quella poesia *-*)! Che ne dite? La passione tra i due inizia a farsi sentire, eh? Ma questo è solo l'inizio, un piccolo assaggio... :P

Beh, tra due capitoli sappiate che inizia la VERA storia e finisce l’introduzione: Adam e May inizieranno a fare sul serio e le loro disavventure avranno inizio :D

Ringrazio immensamente ogni singolo lettore che presta un po’ del suo tempo alla mia Over, chi la Segue, la Preferisce o la Ricorda e chi recensisce… vi amo, grazie di cuore!

 

Una nevicata di bacioni :-*

La vostra Eryca.

 

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Capitolo 7
*** Quel mare di giugno ***


6.

Quel mare di giugno

 

 

 

 

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Ci sono eventi, nella vita, che ci insegnano.

Eventi che, a volte, stravolgono le nostre esistenze, magari portandoci dolore, tristezza, confusione. Quegli avvenimenti che perché a me, cazzo?

Eppure, quando il tempo passa, e ci ritroviamo a voltare la testa, guardando indietro, scorgiamo quegli episodi drastici salutarci con la manina. Ed è solo quando le rughe iniziano a segnarci il volto, i capelli divengono brizzolati e non riusciamo più a correre nel migliore dei modi, che capiamo a fondo quanto quegli eventi ci abbiano forgiato.

A quel punto, l’episodio drastico diviene un’esperienza.

E io credo – lo credo con tutto me stesso – che la mia prima vera esperienza di vita l’abbia fatta a causa – grazie, direi ora – sua, della mia Musa.

Successe nello stesso giorno in cui mi fece trovare il biglietto sul mio comodino, ma per arrivare al punto saliente, ho il dovere di raccontarvi i fatti che lo precedono.

Dopo averla trovata sulla collina, tornammo verso la città, la sua mano nella mia, ancora una volta, per sempre. Camminammo a lungo e, come ogni volta, non avevamo una meta prefissata, perché, molto semplicemente, non ci sarebbe stato divertimento se avessimo già saputo cos’avremmo fatto in quella giornata. Era così per May, la vita, una continua scoperta, una sfida contro l’impossibile.

Ricordo che Los Angeles bruciava, in quel periodo, e le strade asfaltate erano così calde che se per sbaglio vi appoggiavi la mano, finivi per scottarti e doverla ritirare bruscamente. La Sirena, in piena estate, toccava temperature esorbitanti ed era per quel motivo che le persone affollavano le spiagge, cercando conforto nell’acqua.

Ero abituato a quella calda tortura, dopotutto abitavo a LA da sempre, ma la mia Musa sembrava essere sul punto di uno svenimento, con tanto di occhi stanchi e sudore.

«Devi bere qualcosa, May.» Tirai fuori un’aria risoluta, il tono di una persona più anziana della mia età preoccupata per la sua compagna: un’accoppiata che poco si addiceva alla mia situazione del momento. Eppure avevo parlato a quel modo, ennesima prova del legame instaurato in così poco tempo con la splendida Dea danzante.

Vidi il suo sguardo divertito, dovuto probabilmente alla mia ansietà o forse alla mia aria da paparino. In ogni caso, May aveva davvero bisogno di dissetarsi, così non aspettai risposte e la scortai nel primo locale che trovammo, senza guardarmi intorno.

Quattro cose mi sono rimaste impresse di quel bar.

Uno, il suono del campanellino non appena aprii la porta, ad avvisare il proprietario dell’arrivo di un cliente.

Due, l’odore forte di tabacco, che sembrava essere un fedele compagno del locale, cosa che era confermata dalla nuvola di fumo.

Tre, il barista alto e muscoloso, i tatuaggi tribali sui bicipiti, la testa rasata e l’aria pericolosa di chi bisogna evitare di notte.

Quattro.

Feci sedere May al bancone, ordinando subito un bicchiere di acqua fresca e una bibita ghiacciata, sperando che le dessero una mano. Mi sedetti vicino a lei, che aveva la pelle dorata lucida di sudore, chiedendole se si sentiva meglio, lì.

«Sì, sto bene...» La sua voce suonò come un flebile sussurro, segnale del fatto che no, non stava affatto bene e che sì, aveva bisogno di rinfrescarsi ancora.

Quattro.

Quattro, i gomiti del barista si appoggiarono sul bancone, proprio dinanzi alla mia Musa che alzò la testa, fronteggiandolo.

«Ti senti male, bellezza?»

All’epoca pensai che il tono di voce usato dall’uomo fosse sfrontato, volgare, invadente, ma ora – con il famoso senno di poi – direi che utilizzò il modo di parlare di ogni maschio in calore che ha trovato una femmina di suo gradimento; probabilmente l’ho usato anche io, qualche volta, senza rendermene conto. Comunque, quel giorno – senza il famoso senno di poi – pensa che fosse un cafone che stava cercando di soffiarmi la ragazza mettendo in bella mostra il suo fisico esageratamente palestrato.

«Ha solo la pressione bassa a causa del caldo.» Ancora adesso mi chiedo dove trovai il coraggio di rispondere in quel modo indisponente ad un tale colosso.

Quattro, il colosso in questione mi lanciò un’occhiata furente e – ne sono sicuro – se ne fosse stato capace, avrebbe anche ringhiato.

Ma Quattro fu May che mi prese la mano e la intrecciò con la sua, per poi sporgersi e posare le sue labbra sulle mie, in bacio tanto casto quanto intimo.

Quattro fu la mia Musa che, con quel semplice gesto, zittì un uomo forte e pericoloso, mettendolo in un angolino, facendogli capire che non doveva disturbarci, che non doveva importunarla, perché lei non era interessa alla sua compagnia.

Quattro fu la sensazione di consapevolezza che gli occhi di May mi trasmisero e, il viso vicino al mio, mi resi conto che aveva appena resa pubblica la nostra stramba relazione, facendo capire ad un contendente che lei era mia.

Mia.

 

Quattro cose io ricordo, Musa

Ma solo una mi ha scavato l’anima

La quarta

La quarta per dirmi

Che eri mia

 

Le sue labbra ad un centimetro dalle mie.

Il suo respiro caldo che si mescolava con il mio.

Occhi negli occhi.

Quattro.

 

*

È strano come, a volte, nei ricordi vi siano impressi piccolissimi particolari che, mentre li stavi vivendo sembravano non contare nulla; ma eccoli lì, apparentemente insignificanti, eppure essenziali a tal punto da rimanere nelle tue memorie.

Quel mare di giugno, ad esempio.

Mi sembra di vedere di nuovo quella tavolozza azzurra davanti ai miei occhi, così placida da trasmettere serenità a chiunque, così limpida da poterci vedere dentro.

Quel mare di giugno, microscopico particolare di contorno, mi permette di rammentarmi alla perfezione quella giornata fondamentale; è questo elemento paesaggistico, che rende quei ricordi sfumati ancora reali.

 

Quel mare di giugno,

vetro cristallino

ritratto di amore

Quel mare di giugno

Per ricordarmi di te.

 

Me ne stavo sdraiato sulla spiaggia, il torso nudo, mentre May, accanto a me, si rollava una sigaretta, il viso concentrato e la fronte corrugata. Avevamo deciso di fare una capatina in riva al mare, dopo aver atteso che la mia Musa si fosse ripresa, così, in quel momento, mi stavo godendo il sole. Se la nostra fosse stata una normale relazione, tra due normali persone, in quel momento vi sarebbe stato imbarazzo, bisogno di conoscersi, di intraprendere una di quelle conversazioni da inizio frequentazione.

Ma noi non eravamo una coppia nella norma.

Ed è per questo motivo che ricordo il suo sorriso sereno ad illuminare il mio mondo, mentre il sole geloso batteva i piedi a terra, come un bambino capriccioso. Tra di noi vi era questo filo di ragnatela sottilissimo – un capo a lei, un capo a me – eppure così resistente che sembrava poter durare in eterno, battendo ogni confine, ogni restrizione, ogni limite spazio temporale... andando oltre, per sempre.

La guardai. Mille volte.

Se ne stava sdraiata sulla sabbia a pancia in su con una gamba piegata e un’altra allungata, gli occhi chiusi. Si portò la sigaretta alle labbra, senza aprire gli occhi, e lasciò che il fumo le uscisse dalla bocca in una nuvoletta compatta.

Avrei voluto avvicinarmi – lentamente – oscurare il sole, così da indurla a guardarmi e poi fissare quei suoi begli occhi nei miei, per un istante che sarebbe potuto durare in eterno, per quanto mi riguardava. E poi l’avrei baciata – lentamente.

Mi limitai a guardarla da lontano, come si fa con quei quadri bellissimi ed intoccabili, che si ha paura di rovinare anche solo con un dito. Una dea.

Assetato e preoccupato per il calo di pressione di May, decisi di andare a comprare una bottiglietta d’acqua al chiosco della spiaggia, così mi alzai e, senza disturbare la mia Musa, mi diressi verso il luogo prefissato. Prendere da bere in spiaggia, in piena stagione estiva, a Los Angeles, era una di quelle azioni che un uomo non dovrebbe mai compiere: una folla di bambini pestiferi e genitori esasperati attendevano il loro turno, sudando più di quanto non fosse già possibile a causa della vicinanza tra i corpi.

Dopo almeno una mezz’ora buona di coda, riuscii finalmente a farmi valere, così tornai dalla mia Musa con l’aria di vittoria e la bottiglia d’acqua in mano, quasi fosse un trofeo.

Ero quasi arrivato da lei – evitando di prendermi una pallonata in testa, lanciata da bambini non decisamente abili nel calcio – quando mi accorsi che in mano, la mia Musa teneva un quaderno.

Non ci volle molto a fare i conti e poi, si sa, due più due è uguale a quattro.

Il mio taccuino.

All’epoca, il mio taccuino di appunti era il mio Santo Graal, il mio piccolo tesoro prezioso che custodivo con tanta cura, nascondendolo dalle mani taccheggiatrici della gente, proteggendolo da occhi indiscreti, che avrebbero contaminato la purezza di quei versi.

Fu qualcosa di simile ad un trauma, quindi, vedere quel mio smeraldo in mano a May che, troppo presa a sfogliarlo ed esaminarlo, non si era resa conto del mio arrivo.

«Che cosa stai facendo?» Nonostante lo sforzo di mantenere un tono di voce calmo, quello suonò allarmato, inducendo la ragazza a rivolgermi la sua attenzione.

Mi ero aspettato un sobbalzo da parte sua, come quando si viene scoperti nel pieno di una bravata, ma – ancora una volta – tutte le mie aspettative vennero smontate da una persona che sembrava essere tutto meno che scontata.

La vidi esaminare il mio volto in cerca di rabbia e, quando non la trovò, mi regalò uno di quei suoi sorrisi raggianti.

 

Giorno e notte non hanno senso insieme a te, O Musa

Mi abbandono al destino, nelle tue mani

Il male e il bene non so cosa sono

Perché io e te andiamo oltre, mia Musa

Danziamo ancora una volta,

Danziamo ancora per sempre

E il tuo sorriso,

Lascialo bruciare ardente.

 

Con la mano, mi fece segno di sedermi vicino a lei, così obbedì, fedele cagnolino ai piedi della sua padrona. Mi mise una mano sulla guancia, senza mai smettere di sorridere, lasciandomi senza fiato dinanzi alla profondità del suo sguardo, che mi stava parlando di universi paralleli e sogni irrealizzabili già realizzati.

«Hai un dono, piccolo Adam.»

Il suono di una corda di violino leggermente pizzicata, la sua voce.

«Hai la capacità di pescare i sentimenti più profondi del tuo animo e portarli a galla, per renderli comprensibili a chiunque tramite le tue parole.»

Ricordo che rimasi per un periodo di tempo indefinito muto, in cerca di qualcosa di degno con cui risponderle, per poterle regalare le stesse parole toccanti che lei aveva rivolto a me. Me ne stavo lì, imbambolato come uno stupido, guardando dritto nell’oceano blu che erano i suoi occhi, incapace di fare uscire la mia voce per dirle ciò che sentivo in quel momento.

Ma certo, non a voce.

Le presi delicatamente dalle mani il mio taccuino e lo aprii in una pagina bianca. La vidi sorridere, mentre scrivevo:

 

Vorrei che potessi udire la canzone del mio cuore

Perché il mio animo sta componendo una ballata in tuo onore

 

Occhi negli occhi.

Ancora una volta.

Per sempre.

Così, la Musa mi rispose nel modo in cui era più brava: il corpo. Mi baciò dolcemente, le sue mani ad incorniciare il mio viso, mentre la spiaggia si dissolveva lentamente e il vecchio signore che si lamentava dei giovani di allora diveniva solo una sfumatura.

E le sue labbra mi dicevano ciò che la voce non era capace di proferire.

E la sua lingua mi trascinava in una danza lussuriosa.

May.

«Ehm, ehm!» Un colpo di tosse e uno schiarimento di voce mi indussero ad abbandonare – resta con me – le calde labbra della mia Musa.

Tom, Dean e Kurt si erano posizionati esattamente tra il caldo sole di giugno e noi due, oscurando così qualsiasi altra cosa che non fossero le loro persone. Tempismo perfetto.

Scocciato e un po’ deluso per l’arrivo dei tre, non risposi subito al sorriso di Tom, ma mi limitai a fargli un cenno con il capo. Mentre Dean si sdraiava vicino a May, offrendole una sigaretta, Kurt interruppe il silenzio: «Sono contento che tu abbia trovato un passatempo di tuo gradimento, May...» iniziò il Motociclista, accaparrandosi un’occhiata furibonda da parte mia. Era chiara la sua gelosia nei confronti della mia Musa e, con quelle parole, aveva appena dichiarato alla diretta interessata i suoi sentimenti. Per quanto riguardava me, ricordo che all’epoca mi infuriai per come Kurt mi aveva apostrofato, definendomi un passatempo, e mi trattenni dal tirargli un pugno sul muso solamente perché era un amico di May.

«... Ma non abbiamo tempo da perdere. Mentre tu cazzeggiavi come al solito, noi siamo andati a cercare un meccanico e abbiamo finalmente riparato la macchina. Questo significa che possiamo ripartire. Domani.»

Ci sono, nella vita, che ci insegnano: le esperienze.

E quella fu la mia prima.

Mi voltai verso May, gli occhi sgranati – non mi lasciare, non mi lasciare, non mi lasciare – e la vidi contenere un’espressione di dolore, mentre le scuse implicite di dipingevano sul suo viso. «Cosa vuol dire?»

Prese un respiro profondo, la mia Musa.

«Vuol dire che domani partiamo per Woodstock.»

Quel mare di giugno a trasmettere serenità a chiunque, mentre dentro di me un buco nero andava formandosi, inghiottendo tutta la mia anima.

 

*

 

 

 

Angolo Eryca

Come prima cosa devo chiedervi immensamente scusa per il ritardo con cui aggiorno la storia, ma Maggio è un mese terribile per noi studenti, si sa! xD

Finalmente entriamo nel vivo della storia, la parte introduttiva sta per concludersi (troverà il suo epilogo definitivamente nel prossimo capitolo) e avrà inizio la vera e propria storia, ovvero il viaggio verso Woodstock.

Over è scritta con anima e cuore, ma anche razionalità, quindi vi chiedo di lasciarmi un commento, se leggete, perché i vostri pareri spronano l’autore a scrivere, ad andare avanti e sono la gioia più grande.

 

Con affetto,

Eryca.

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Capitolo 8
*** Senza pensarci due volte ***


7.

Senza pensarci due volte

 

 

 


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Sono il tesoro, questi malinconici ricordi, ed io sono il pirata.

Il mare profondo ha custodito il forziere per anni, tenendolo lontano da mani indesiderate, in attesa del salvatore; ma il tempo l’ha cambiato, la muffa, come del soffice cotone, l’ha avvolto e le conchiglie si sono aggrappate ad esso. Ma forse, forse tutto questo l’ha reso più forte, perché ha affrontato la distanza temporale senza cedere, senza svanire.

Le monete d’oro non sono più luccicanti come ai tempi andati, ma basta una spolverata per poterle rivedere in tutto il loro splendore.

Basta una spolverata per ritrovare lo splendore di quei giorni spesi insieme alla Musa.

Anche se suonano un po’ scordate, a volte, le memorie di quell’estate del 1969 non potranno mai scomparire. Forti come il tesoro nelle acque oscure, loro resistono e sorvolano gli anni, rimanendo appigliate in me come le conchiglie sul forziere.

Ci sono ricordi però, che la mia mente quasi si rifiuta di farmi riesumare, così rimangono solo immagini sbiadite e malconce.

Come quelle del dopo.

Dopo la rivelazione di May.

C’è questa nube, nella mia testa, nella quale si possono intravedere alcuni elementi significativi di ciò che feci in occasione di quell’evento, ma nulla di più. Non vi sono fatti ben ordinati cronologicamente, nemmeno luoghi precisi o discorsi ben nitidi. No.

C’è il ricordo della consapevolezza, il mio sconcerto, questo dannato mondo che inizia a roteare intorno a me, i ragazzi che mi guardano, i suoi occhi, i suoi occhi, i suoi occhi...

Quello fu uno dei rari momenti in cui la realtà si intromise nella mia relazione con May, puntandomi il suo forcone appuntito nel fianco, insistente, malevole, dolorosa, sradicandomi dal sogno nel quale io e la mia Musa vivevamo.

Fu reale.

E fu penoso.

Ricordo che rimasi per un tempo non definito lì, ancora, ancora, ancora, un attimo di più, a guardare dentro gli occhi colore dell’oceano di May, mentre il suono delle onde che si infrangevano sulla spiaggia diveniva forte, sovrastando le grida dei bambini che giocavano a lanciarsi il pallone – “ahia! Mamma, quel bambino mi ha tirato la palla in testa!” -, sovrastando il silenzio, sovrastando il vuoto, il silenzio, il vuoto, il silenzio...

Perché è così che succede.

La consapevolezza pianta il suo drappo nero dentro il tuo animo, gridando vittoria, e il vuoto giunge insieme a lei, silenzioso – il vuoto, il silenzio – e tu non puoi farci nulla, assolutamente nulla, se non sbattere le palpebre in un attimo impercettibile e guardare negli occhi la persona che è davanti a te... e scivolare.

E io scivolai.

Gli occhi di May.

Gli occhi di May quando mi disse: «Vuol dire che domani partiamo per Woodstock.»

 

*

 

 

Me ne andai.

Così, senza pensarci due volte. Semplicemente, mi allontanai dalla mia dea danzante, che fissava i suoi occhi miei, in uno strano ultimo tentativo di trattenermi, nonostante sapesse che le nostre strade erano destinate a dividersi.

Era aria d’addio, quella.

L’aria di addio è : quando ogni singola azione, anche quella più banale come uno sguardo, un riso, diviene malinconica. Guardi il mondo con quest’occhio nostalgico, cercando di non farti sfuggire una sola parola, un solo particolare.

E mentre le parole mai dette e baci non dati pesavano dentro la mia anima, cercai di imprimermi il ricordo dei suoi capelli dorati, delle sue labbra a cuoricino e i suoi occhi, in cui avrei potuto annegare, annegare e non tornare più in superficie. La guardai, ancora una volta, l’ultima volta: dentro i suoi occhi, l’oceano blu era in tempesta.

Me ne andai.

Così, senza pensarci due volte. Semplicemente, mi allontanai dalla mia dea danzante con passo barcollante, la testa che sembrava essere appena stata colpita forte con un bastone.  Percorsi la spiaggia senza rendermi conto delle persone che mi stavano intorno, perché la mia mente si rifiutava di pensare qualcosa di diverso da “non la rivedrò mai più.” Passai accanto ad una donna sdraiata leggeva un giornale di gossip – non la rivedrò mai più- e ad un ragazzo che bighellonava senza meta, i piedi nella sabbia – non la rivedrò mai più; riconobbi da lontano un paio di cheerleader della mia scuola, uno delle quali mi ero portato a letto – non la rivedrò mai più. Un cane, una racchetta da tennis, il rumore del mare, non la rivedrò mai più, il sole cocente, una madre che sgridava suo figlio, non la rivedrò mai più, sabbia, mare, persone, persone, persone, non la rivedrò mai più, l’urlo lacerante di un’onda deceduta, non la rivedrò mai più, l’urlo dell’onda, l’urlo dell’onda...

Non la rivedrò mai più.

E poi, il frastuono dell’onda fu sovrastato da un altro grido disperato, questa volta umano, prodotto da una voce, la voce. La sentii. La. Sentii. La. Sua. Voce.

«Adam!»

Il mio nome, niente più.

La sua voce rotta ad implorare il mio ritorno, la sua voce rotta ad implorare, la sua voce rotta, la sua voce.

Non la rivedrò mai più.

Non risposi al suo richiamo, non quella volta. Non mi voltai, né cercai di salutarla in qualsiasi modo, non volevo che l’ultimo ricordo che serbasse di me fosse un misero abbraccio seguito da un saluto doloroso. Non volevo dirle addio.

Me ne andai.

Così, senza pensarci due volte.

 

*

 

 

 

Credo che il negozio di liquori mi sia ancora grato per tutti i soldi che gli feci guadagnare in quella giornata di fine giugno. Ricordo bene che il primo pensiero diverso da non la rivedrò mai più fu quello di andare a comprare degli alcolici. Così, appena tornato tra le strade della familiare città, mi diressi verso Liquor, dove acquistai una bottiglia di Jack Daniel’s ed un paio di birre. Il vecchio Jonathan, proprietario del negozio, mi rivolse un’occhiata investigativa, dovuta probabilmente al mio sguardo vacuo.

E passò così, il tempo, tra un sorso di alcol e un sigaretta fumata, proprio come me, che mi stavo consumando insieme a lei, divenendo cenere, cenere e null’altro. Me ne stavo seduto su una panchina mezza marcia, la bottiglia in mano, nascosta dal sacchetto di carta.

E tutto era così sfumato, così surreale – forse per colpa del bere, forse per colpa dell’addio – che mi domandai cosa stesse accadendo, perché mi sembrava impossibile, non poteva essere vero; pensavo a come la mia Musa era entrata nella mia vita, in quella maniera impetuosa e travolgente, prendendosi ogni cosa, prendendosi anche la mia anima e come, allo stesso tempo, se ne fosse andata.

Se ne andò.

Così, senza pensarci due volte.

I passanti storcevano il viso vedendo un giovane ragazzo ubriaco fradicio, stravaccato su una panchina, completamente solo e distrutto, ma a me non importava, perché l’unico mio pensiero fisso era: non la rivedrò mai più. Sudai a causa del sole cocente, vomitai a causa del liquore, ma rimasi lì, senza parlare. Nemmeno una lacrima rigò il mio giovane viso, eppure cascate impetuose inondavano la mia anima, allagando il mio cuore.

Arrivai persino a chiedermi se non ero definitivamente uscito di testa a distruggermi in quel modo per via di una donna conosciuta neanche una settimana prima. Non era normale che i miei sentimenti fossero così profondi, dopo solo qualche giorno.

Poi compresi.

Alzai la testa dalle ginocchia, guardai lontano, verso l’orizzonte, l’orizzonte che sembrava non avere fine, l’orizzonte infinito.

Non era normale.

Era oltre.

Tirai fuori il taccuino dalla tasca della mia maglia e, senza ulteriori indugi, scrissi le seguenti parole – che leggo ancora ora, sulle pagine sgualcite di quel quaderno, che ho conservato, perché è il tesoro del pirata:

 

L’ho capito

Quando i tuoi baci erano solo un lontano ricordo, O Musa

Che tu sei oltre.

 

Poi, senza eleganza, vomitai ancora, incapace di trattenere tutto quell’alcol, tutto quel dolore, tutta quella consapevolezza, consapevolezza di aver perso, di aver perso il pezzo del puzzle che combaciava perfettamente con il mio.

E poi, ancora quell’alone di mistero nei miei ricordi, probabilmente a causa di tutto il liquore che bevetti quel giorno. Ricordo solamente che venne la sera, in un modo o nell’altro, e io non tornai di nuovo a casa; pensandoci ora, provo pena per i miei genitori, per tutte le volte che sono stati preoccupati per me, per tutte le notti in cui non sono tornato a casa, per tutto ciò che dovettero sopportare. Pace all’anima loro.

Venne la sera e la mia panchina sembrava essere il letto più comodo dell’intero mondo, così mi accoccolai alla bell’e meglio, senza curarmi del fatto che sarebbero potuti arrivare dei poliziotti.

All’unico mio pensiero – non la rivedrò mai più – si era anche aggiunto: Lei è oltre. È strano pensare che lo compresi da ubriaco, ovvero quando la mia mente era alterata da una sostanza psicoattiva, perché gli stupefacenti avrebbero avuto un ruolo principale nella mia vita di giovane ragazzo; i pensieri più profondi e le illuminazioni più scioccanti, le avrei sempre avute da fatto o da sbronzo. Quelli erano gli anni Sessanta.

Continuavo a non alzarmi, stavo seduto sulla panchina, una birra – l’ennesima – in mano e la testa così dolorante che se mi avessero preso a botte non avrei sentito nulla.

Poi avvenne.

Due fari, luci accecanti.

Il suono di un clacson.

Una macchina, ferma davanti alla mia panchina.

Il suo viso, sporto dal finestrino.

Mi misi una mano di fronte agli occhi cercandomi di riparare dalla luce forte, mentre la mia mente tentava di elaborare cosa era cambiato dall’istante precedente. Una macchina si era fermata di fronte a me e dal finestrino posteriore era sporta una testa...una testa, quindi una persona, una testa implica una persona, testa uguale persona.

Ma, nonostante tutto l’alcol bevuto, avrei riconosciuto quella testa ovunque.

Due grandi occhi mi fissavano, penetranti.

Gli occhi di May.

L’ho rivista.

Non ci furono molti giri di parole, non era da lei sprecare voce, per cui, anche se doveva sicuramente aver notato la mia ubriachezza, disse soltanto cinque parole.

«Vieni via con me, Adam.»

La mia Musa aprì la portiera della macchina, facendomi segno con la mano di salire a bordo, invitandomi a scappare con lei, tentandomi, salvandomi.

Mi alzai dalla panchina e entrai nell’automobile, insieme alla mia dea danzante.

 

Oltre, insieme a te.

 

Me ne andai.

Così, senza pensarci due volte.

 

*

 

Angolo Eryca

 

Devo chiedervi scusa per il ritardo con cui aggiorno, ma purtroppo la mia correttrice ha la maturità, così ho dovuto cercarne un’altra momentanea e questo mi ha preso un po’ di tempo. forza e coraggio, puoi farcela con questa maturità. Aniasolary grazie infinite per il tuo aiuto e per esserti resa disponibile come correttrice di questo capitolo. Mi hai davvero salvata! <3

Come vedete, il viaggio inizia.

Si parte per Woodstock, gente. E qui ha inizio il divertimento.

Se leggete vi chiedo di lasciarmi un commentino, perché questa storia ha davvero bisogno di pareri. E poi, la gioia più grande di un autore è leggere le perle dei propri lettori. *-*

 

Con amore,

la vostra Eryca.

 

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Capitolo 9
*** La prima notte in strada ***


8.

La prima notte in strada

 

 

 

 

 

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Partimmo.

Come si è soliti partire, guardando verso l’orizzonte, guardando verso l’infinito. Sperando in tutto, sperando in niente, mentre l’adrenalina si impossessa di te e tu non puoi far nulla se non andare. Perché è così che succede a noi, noi che siamo nati per intraprendere un cammino, per vagabondare senza meta nel mondo: il viaggio ci chiama e noi non possiamo resistergli, la tentazione è troppo forte, ti scava dentro l’animo e mette radice, togliendoti anche il respiro, il sonno, la fame. E tu non hai in testa nulla, nulla se non il viaggio. Il viaggio che chiama.

Cinque giovani alla conquista dell’infinito, ecco cos’eravamo. 

Ricordo quel momento come il più romantico della mia esistenza, gli occhi puntati verso il sole alto nel cielo, il mio corpo a carezzare quello della dea danzante, la consapevolezza che qualcosa di grandioso, di estremamente grandioso, stava avvenendo.

E io ne ero parte.

Sfrecciammo veloci per le strade trafficate della città e quando arrivammo al suo confine, ancora un po’ ubriaco, aprii il finestrino e gridai: «Addio, Sirena, mia amata!»

Le mani di May sulla mia schiena, la sua risata sul mio collo. La sensazione di lei, lei ovunque accanto a me, lei oltre insieme a me.

Fu così, tra una bottiglia di birra, i canti stonati di Tom, le barzellette da quattro soldi, la mano della Musa nella mia, che partimmo.

Partimmo per il Festival che avrebbe cambiato la storia della musica.

Partimmo per Woodstock.

 

*

 

Ricordo che, ad un certo punto, mi svegliai dal sonno alcolico, la bocca impastata e il collo dolorante, probabilmente a causa della posizione scomoda in cui mi ero addormentato. Il sole non splendeva più e l’oscurità era tutto ciò che scorgevo dal finestrino della macchina.

Ancora un po’ intontito, sentii la voce familiare di May che mi riscaldò l’animo.

«Dormito bene?»

Sorrisi. Così.

Sorrisi per averla accanto, per udire la sua voce, per i suoi occhi, per le sue labbra, per essere fuggito insieme a lei e aver abbandonato tutto, per non avere un dollaro in tasca, per non avere nulla se non la voglia di vivere, vivere, vivere insieme alla mia Musa.

Lo ricordo quel sorriso.

Quel sorriso. Così.

«Cazzo, mi fa male la testa» sbiascicai tirandomi su, notando che Tom dormiva accanto a May, nel sedile posteriore. Non avevo idea dell’ora che fosse, né il luogo in cui ci trovavamo; per quanto mi riguardava potevamo anche essere alle Hawaii.

Vi era un’atmosfera di solennità nell’aria, come se fossimo partecipi di un’esperienza grandiosa e ne fossimo assolutamente consapevoli. E la Musa a guardarmi, in quel buio accogliente, in quello spazio ristretto in cui eravamo ammassati, mentre il russare di Tom fungeva da ninnananna.

«Dove siamo?» domandai a Kurt, che guidava senza spiccicare una parola, l’attenzione rivolta alla strada, racchiuso nel suo implacabile silenzio.

«Nel bel mezzo del nulla, in direzione Las Vegas» Risposta secca e voce dura, segno che il Motociclista continuava a non apprezzare la mia presenza ed era, con tutte le probabilità del caso, infastidito dal fatto che mi fossi aggiunto alla loro scapestrata compagnia. Dean, seduto nel sedile del passeggero, prese a fischiettare spensieratamente, rompendo la tensione che Kurt aveva abilmente creato.

«Ehi, ehi, ehi!» La voce di May, più alta di due toni, mi fece mettere sugli attenti e seguii il suo dito indice, che puntava verso il ciglio della strada. Sul lato sinistro del grosso serpente di asfalto, sorgeva una costruzione fatiscente, una di quelle da vecchio film Western, resa visibile da un’insegna al neon malconcia che si illuminava a ritmo alterno.

Si riusciva a leggere solamente parte del cartellone, perché una lettera metallica doveva essersi fulminata: “Il Coo”, annunciava il neon, dando così libero sfogo alla fantasia, già partita alla ricerca della lettera mancante. Così, Dean si mise ad ululare, come uno di quei lupi che stanno sulle cime delle montagne, aprendo il finestrino per far sentire all’intero mondo che, diamine, avevamo trovato la nostra meta, per quella notte.

«Fermati, Kurt!» gridò infine, quasi senza più voce, mentre io e May ridevamo perché Tom era stato svegliato dal fracasso e stava rivolgendo insulti coloriti a Dean.

Ma nessuno gli diede troppa retta, perché nell’aria c’era odore di eccitazione, quella che solo i vagabondi come noi sanno provare, l’adrenalina che ti riempie il corpo quando trovi un posto nuovo, tutto da scoprire, circondato dal nulla. Accostammo nel grosso piazzale davanti all’edificio, che si presentava ancora più malconcio, da vicino; si poteva leggere con facilità, ora, che la lettera fulminata nell’insegna era una “V”, quindi il locale doveva chiamarsi “Il Covo”. Entrammo dalla grossa porta a due ante, portandoci dietro un Tom decisamente irritato e un Dean che sembrava essere già ubriaco, per quanto era euforico.

L’odore di chiuso e il puzzo di sudore mi invasero le narici, facendomi arricciare il naso, ma dopo poco tempo mi abituai a quel tanfo. Il bancone, di fronte all’entrata, era il regno di un vecchio e grassoccio uomo baffuto, che sembrava essere uno di quei cowboy del Wild West. Il resto dello spazio era occupato da lunghi tavoloni in legno, bagnati di birra, e da uomini di mezza età, che parlottavano tra di loro con occhi annebbiati dall’alcol. Giovani cameriere in una divisa succinta, portavano le ordinazioni ai clienti che, nonostante l’ubicazione desolata del bar, erano numerosi e spendaccioni. Io e i miei compari ci guardammo e decidemmo in silenzio che quello era il posto giusto in cui passare la nottata, così ci avvicinammo al bancone e ordinammo una birra a testa. Dean si dissolse in fretta, tutto intento a molestare le cameriere, cercando di fare conversazione con loro, quando in realtà voleva solo portarsele a letto. Kurt si sedette su un tavolo isolato a bere la sua birra senza parlare con nessuno, segno che il suo malumore aumentava sempre più. Io, Tom e May, invece, continuammo ad ordinare alcol – prima Whiskey, poi Rum e ancora birra – determinati nella missione di andare su di giri, perché era l’unica cosa che eravamo capaci di fare.

Mi resi conto che gli uomini tozzi nel bar scrutavano la mia Musa con occhi famelici, come se riuscissero a vedere sotto i suoi vestiti, in un modo che non faceva presagire nulla di buono; così, le circondai la vita con il braccio e la portai più vicina a me, facendo aderire i nostri fianchi, in un tentativo di far allontanare gli sguardi languidi dei clienti.

«Grazie» sussurrò al mio orecchio May, che non si era persa il passaggio, anche se non aveva bisogno della mia protezione, anche se era in grado di difendersi da sola: mi ringraziò perché sapeva che io ne sarei stato felice, perché sapeva quanto il mio cuore desiderasse essere un eroe per lei. Era così, la mia Musa.

 

Amami, O Amazzone,

forte e sicura,

Ama questo povero naufrago,

Amami

O ne morirò.

 

 Tom si mise a parlare con alcuni ragazzi, facendo sfoggio di un lato socievole che lo faceva sentire a suo agio in qualsiasi situazione e con qualsiasi persona, riuscendo ad intrattenere conversazione con le persone più differenti. Gli ho sempre invidiato la sua estroversione, parte caratterizzante del suo carattere, che lo rendeva allegro e simpatico.

E passammo così la notte.

Bevemmo. Bevemmo così tanto che il mondo si allontanò lentamente dal mio spirito, il quale volava lontano, sulle ali di chissà quale uccello, mentre la mia May mi toccava il viso in una carezza lieve. Ricordo che, ad un certo punto, in tutto il locale risuonava forte Light My Fire dei Doors, mentre io e la mia Musa ballavamo, come ogni volta, in un groviglio di capelli e braccia, toccandoci, baciandoci, fregandocene dei camionisti che ci osservavano avidi.

Eravamo oltre, noi.

Eravamo io e lei, nel nostro mondo fatto di amore, passione, che esplodeva quando eravamo sotto l’effetto di sostanze psicoattive, facendoci saltare, gioire, danzare. Ed era nella notte, quando il resto del mondo dormiva, che noi usciva dalle tane e partivamo alla conquista dell’universo.

«Baciami, baciami, baciami, piccolo Adam...»

La sua bocca sul mio collo.

Le sue mani intorno ai miei fianchi.

Quella fu la mia prima notte di bravate, di balli sfrenati e spirito alla riscossa, senza darsi alcun limite, continuando a bere anche se si aveva già la nausea, dando spettacolo, fumando e gridando verso la luna, verso lo spazio, verso oltre.

Fu la mia prima notte passata in quel luogo che non ha spazio né tempo, casa per gente senza nome e senza destino, quello dei dimenticati, dei drogati, dei nomadi.

Fu la mia prima notte in strada.

 

*

 

 

La nottata passò lentamente, anche a causa dell’alcol che mi annebbiava la mente, facendo sì che i miei ricordi siano poco coerenti e piuttosto confusi.

Ma è chiara nella mia testa, l’immagine di me seduto sul marciapiede, fuori dal locale, intento a guardare le stelle luminose che riempivano l’intero cielo, come una tela dipinta egregiamente da un pittore fantasioso. Quando penso a quell’istante, una sensazione di quiete mi invade, riportandomi a quell’attimo di assoluta serenità interiore in cui nulla mi importava se non lo stare ad osservare gli astri, mentre il vento mi rinfrescava il corpo, accaldato per via del liquore. C’è pace, in questo ricordo.

Ci sono io che guardo verso l’infinito, senza paura dell’oppressione, di essere schiacciato da quell’immensità che è l’universo.

E poi, così, come quelle cose che spuntano all’improvviso, inaspettate e dolcissime, nei miei ricordi si aggiunge May, seduta accanto a me, intenta a tenermi la mano, accarezzandomi il palmo.

«Tenera è la notte...» Mi guardò, l’accenno di un sorriso sulle sue labbra, mentre citò Fitzgerald, rendendomi partecipe della sua immensa conoscenza letteraria.

Rimasi a fissare quei suoi occhi di oceano, perché ci si affogava lì dentro ed era impossibile non rimanere incantato da quel mare blu, blu, blu profondo. Ci sono volte in cui me li sogno, quei suoi occhi incantati, li vedo lì, dinanzi a me, e cerco di acciuffarli, li cerco, li cerco, ma come si fa a prenderli? Non si può. Non si poteva acciuffare May, non la si poteva possedere, no. Era lei, sempre e comunque, che possedeva te, con quei suoi occhi.

Mi avvicinai al suo viso – più a vicino all’oceano, più vicino all’affogare – e la baciai. La sua lingua prese a ruzzolare passionalmente insieme alla mia, che penetrava la sua bocca, sondandola. Assaggiai quelle sue labbra di rosa, mentre quella splendida Musa si metteva cavalcioni sulle mie gambe, le sue mani sotto la mia maglietta, a scaldarmi il petto. Pensai che sarei potuto morire, quando le sue mani scesero sul mio basso ventre, stuzzicandomi i peli dell’ombelico, per poi andare giù, più giù, sempre più – e io affogavo nei suoi occhi.

Mi sbottonò i jeans e, mentre le mie mani si stringevano possessivo sul suo sedere, mi leccò il lobo sinistro, facendomi desiderare ancora, ancora di più. E me lo diede, perché le piaceva avere in pugno la situazione, godeva nel vedendermi innocuo, completamente arreso alle sue mani, al suo profumo, alla sua carne. Infilò una mano sotto i pantaloni e, senza troppi indugi, mi afferrò il sesso, facendomi gemere contro il suo collo. Le sue carezze iniziarono lente, introducendomi in un mondo parallelo fatto solo di piacere, mentre la mia Musa mi sussurrava parole indecenti all’orecchio, che mi aiutavano ad innalzarmi, ad allontanarmi da quella dimensione terrena in cui ero intrappolato.

Sempre più sicure, le sue mani percorrevano il mio pene in tutta la sua lunghezza, togliendomi la capacità di pensiero, accompagnandomi in quell’oblio che non tardò ad arrivare. Appoggiai la testa sulla sua spalla, stremato e appagato, mentre May toglieva le mani sporche del mio seme, dalla mia patta.

«I bravi bambini fanno una volta a ciascuno» disse sfoderando un’espressione ingenua ed infantile che non si addiceva per niente alla situazione in cui eravamo. Risi, perché non si poteva non rimanere affascinati dal mistero che era May. Le leccai il collo, mettendo le mani dentro ai suoi pantaloni, palpandole il sedere in un modo che era tutto meno che gentile. Ridemmo a lungo, così, senza pensare a nulla se non al nostro personale piacere, ancora su di giri per l’alcol che avevamo ingerito.

La ricordo così, quella sera, come un tripudio di carne e spirito, tra stupefacenti e pelle contro pelle, mentre le canzoni passavano alla radio del Coo, scandendo il ritmo della notte, come un orologio che segna il tempo, il tempo che passa, il tempo di godere.

La ricordo così, quella sera, come la mia prima notte in strada.

 

*

 

 

Angolo Eryca

 

Ringrazio calorosamente HypnosBT per essersi proposta come betareader ed aver svolto la sua prima correzione di questa storia in modo egregio! <3

Inizio con lo scusarmi per il terribile ritardo con il quale posto questo capitolo, ma avrete già capito che non sono una persona troppo puntuale :P Ci tengo, inoltre, ad avvisarvi che quest’estate sarò ben poco a casa (Francia e Inghilterra mi aspettano, yep!) quindi il tempo a disposizione per la scrittura sarà davvero poco; cercherò, in ogni caso, di aggiornare almeno una volta al mese! Mi scuso già in anticipo e spero che continuerete a seguirmi.

Come vedete i ragazzi iniziano a scatenarsi, ma nel prossimo capitolo faranno una tappa tutta speciale, dove conoscerete nuovi personaggi bizzarri e i nostri due innamorati faranno scintille!
Non dirò nulla di più – autrice sadica mode on.

Anyway, ringrazio tutti coloro che leggono, hanno aggiunto la storia tra le Preferite, le Seguite e le Ricordate e quelli che recensiscono (fatelo in tanti, ragazzi! Adoro leggere i vostri commenti!).

 
Peace, love & Over,

la vostra Eryca (che potete su facebook, qui.)

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Capitolo 10
*** Quando iniziai ad amarla ***


9.

Quando iniziai ad amarla

 

 

 

 

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Non ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.

Forse avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della piscina, o è possibile che quella fosse solo infatuazione, mentre l’amore si impossessò del mio animo a poco a poco, lentamente, posizionando i suoi mattoncini con cura.

Non so quando, ma successe.

Successe che l’amai così profondamente ed incondizionatamente che, a volte, fa male ripensare al modo in cui le donai me stesso. C’è questa emozione che si sprigiona in me ogni volta che ripenso a May e non posso fermarla, nemmeno dopo tutti questi anni. Ed è proprio il tempo che ha assassinato il mio sogno insieme  a lei, scorrendo silenzioso, in modo che io non mi rendessi conto di esso, per poi uccidermi, uccidermi quando mi sono accorto che non ce n’era più, di tempo.

Dolce è il ricordo dell’amore che le donai, forte e passionale. Dolce è il ricordo di lei e di quando mi svegliai, sdraiato su un marciapiede, la mattina dopo il nostro arrivo al Coo. Mi chiesi dove diavolo mi trovassi e perché mi fossi addormentato per terra, ma quando mi resi conto che accanto a me, la testa appoggiata alla mia spalla, riposava May, le mie preoccupazioni si dissolsero. Guardai il suo viso rilassato, priva della malizia che la caratterizzava, e mi sembrò più giovane di anni. Una bambina. Una bambina dolcissima.

Rimasi lì, sdraiato sulla ghiaia, per un lasso di tempo indefinito, lasciando che la mia mente si staccasse lentamente dal dormiveglia, senza metterle fretta. Poi, mi alzai con calma, spolverandomi i vestiti malridotti e cercando di domare il cespuglio del miei capelli.

La porta del Coo era chiusa e sulla vetrata principale era appeso un cartello che annunciava la chiusura del locale. Notai che la macchina era parcheggiata nello stesso posto in cui l’avevamo abbandonata la sera precedente, ma dentro, come elemento in più, stavano Tom, Kurt e Dean, stravaccati nello spazio angusto. In quel momento iniziai a sentire il disperato bisogno di una doccia e uno spazzolino, cose a cui non avevo minimamente pensato quando avevo deciso di partire con May. Accantonai quel desiderio, conscio che non si sarebbe avverato tanto in fretta, e guardai il mio aspetto nello specchietto dell’auto: i miei capelli erano sempre uguali, solamente molto più scompigliati, mentre invece le labbra erano un po’ screpolate, probabilmente a causa delle bravate della notte appena trascorsa. Ma fu quando guardai dentro ai miei occhi, che mi resi conto di avere davanti una persona così profondamente cambiata, da risultare quasi irriconoscibile: vi era una scintilla, in quel verde smeraldo, una scintilla così abbagliante da illuminare tutta la mia persona. Una scintilla di vita.

 

Morto vivente,

cuore spento,

occhi vuoti.

Poi

Sei arrivata tu, O Musa

E io ho iniziato a vivere.

 

Ricordo come rimasi scioccato nel vedere quanto ero mutato, quanto avessi preso consapevolezza di ciò che significava vivere, vivere per davvero, dando il massimo, abbandonandosi al piacere, perché non era vero che la vita era peccato e dolore, la vita era amore e gioia, gioia infinita. Gioia insieme alla mia Musa.

«Prima eri bello...» Sobbalzai, spaventato dall’improvviso arrivo di May, che mi aveva passato le braccia intorno al collo – dolce prigione – e mi parlava dolcemente, le labbra appoggiate al mio orecchio – brividi.

Mi fece voltare, in modo da poterla guardare in viso – bella, bella come era proibito, proibito il suo fascino. «...Adesso, lo vedi? Sei bellissimo.»

Mi baciò sulle labbra, senza lussuria, semplicemente trasmettendomi tutto il sentimento che sentiva nei miei confronti. E io lo percepii. Lo percepii così intensamente che venni scosso da mille tremiti, sentendo l’impulso di stringere quel suo corpo di sirena a me.

Prima eri bello, adesso sei bellissimo. Seppi con certezza che si riferiva al mio cambiamento interiore, al fatto che prima ero un bel ragazzo che sopravviveva facendo ciò la società gli imponeva, eseguendo gli ordini dei genitori e della madre, mentre ora ero bellissimo. Bellissimo e vivo.

«Inizio a capire il segreto della tua bellezza, allora.» Sorrisi, ammaliato dal suo riso, che già stava salutando un nuovo giorno, rendendo la mattinata migliore. È che non ce n’erano di risate come le sue, non era possibile trovare un'altra risata come la sua, così ridente che sembrava voler far fiorire ogni pianta, far crescere ogni frutto e far sbocciare la vita.

Lei era vita, ne sono sempre stato convinto e lo sarò sempre.

«Dovremmo fare colazione, non credi? Ho una certa fame.» Ero un giovane ragazzo che era abituato a mangiare dei pasti abbondati ed avevo bisogno di riempire lo stomaco.

«Perché non mi hai portato la colazione a letto, caro?» Sfoderò un accento british, imitando le coppie di sposati, tirando fuori un lato di sé buffo e divertente. Un altro lato di sé che non conoscevo. Dovevo scoprire ancora molto di May ed avevo tutta l’intenzione di farlo, aggiungendo ogni pezzo a quelli che già avevo, cercando di acquisire più informazioni possibili. Ridemmo un po’, prendendo in giro i nostri genitori, improvvisando balletti africani. Quando mi misi a fischiettare con le mani dietro la schiena, fingendo di essere uno di quei vecchietti che si vedono nel mio quartiere, la mia Musa scoppiò a ridere così fragorosamente che le vennero le lacrime agli occhi.

«Avete finito di fare casino? Cristo!» Kurt, però, sembrava non aver apprezzato il nostro spettacolino, al contrario di Tom e Dean che, appena svegli, ci osservavano divertiti. Comunque, visto che ormai eravamo tutti freschi di dormita e che il pub era chiuso, decidemmo di partire, in cerca di un posto dove mangiare qualcosa a basso prezzo. A causa della marijuana, l’automobile si riempì velocemente di fumo, così fummo costretti a continuare il viaggio con i finestrini aperti, mentre gli insulti del Motociclista facevano da sottofondo. Tom prese a suonare la chitarra e ci ritrovammo presto a cantare Can’t buy me love dei Beatles, condividendo le parole del gruppo: a noi non importava molto dei soldi, perché i soldi non potevano comprare l’amore.

Dopo qualche ora in strada, iniziammo ad intravedere una piccola cittadina, così ci immettemmo nelle vie principali, seguendo le indicazioni sui cartelli.

«Oh, ma certo! In questo buco di culo ci abita un mio amico!» esclamò Tom che, completamente stordito dalla cannabis, si era accorto solamente dopo una mezz’ora di ciò che stava succedendo. Così decidemmo di fare tappa da questo suo fantomatico amico, che nessuno sapeva conoscere e di cui tutti dubitavamo dell’esistenza. Ma, dopotutto, eravamo affamati e con pochi soldi in tasca, quindi ben disposti a mangiare a sbaffo.

A volte May abbandonava un momento il suo ossessivo guardar fuori dal finestrino e faceva aderire la sua coscia alla mia, per poi guardarmi teneramente e stamparmi un bacio fugace sulle labbra. Era così, tra di noi, non parlavamo anche per intere ore, semplicemente perché non avevamo nulla da dirci e non volevamo aprire la bocca solo per dire fesserie. Se interagivamo era perché lo volevamo.

«È questo palazzone, qua!» Tom indicò un edificio piuttosto malmesso, sviluppato in altezza piuttosto che in larghezza, con grondaie a vista e crepe lungo tutte le mura. Di certo non prometteva bene, ma d’altronde ci trovavamo in uno degli isolati più poveri della cittadina. Ancora non eravamo certi che Tom non stesse semplicemente delirando, per cui avanzammo con cautela, osservando scrupolosamente i campanelli.

«Non troverete il suo nome sul citofono.» Nel vedere i nostri sguardi interrogativi, Tom alzò gli occhi al cielo, prendendo a muovere le mani come se stesse scacciando via una mosca. «Ha problemi con la polizia.»

Non pronunciammo più parola, ma ci limitammo a seguire il nostro sballatissimo amico su per le scale del condominio, che sembravano essere infinite: continuavamo a salire, senza ma trovare una fine a quel supplizio. Ad un certo punto, Kurt sbraitò contro Tom, chiedendogli dove cazzo ci stesse portando. Comunque – strano, ma vero – arrivammo ad un pianerottolo nel quale vi era una sedia con sopra un vaso di fiori appassiti; sulla sinistra, invece, vi era una porta dipinta di un viola scuro, sulla quale era stato scritto con la vernice nera “Lo Sciamano”. Tom fece un inchino, come a dirci che il suo amico esisteva per davvero e non se lo era inventato, per poi prendere a bussare con forza alla porta.

Dopo alcuni minuti di attesa, l’imposta venne aperta e sentii una musica piuttosto rilassante arrivare dall’interno della casa, come una di quelle melodia indiane. Davanti a noi stava un uomo alto e dalla pelle abbronzata, che ci guardava con aria piuttosto scocciata.

«Juan!» Non appena l’uomo notò Tom sorrise calorosamente, aprendo le braccia invitando il ragazzo ad abbracciarlo, cosa che non si fece ripetere due volte. Era ormai evidente che, nonostante fosse completamente fatto, il nostro amico si ricordasse perfettamente l’indirizzo di quello strano tizio in camicione di lino ed infradito.

«Come mai sei tornato al nido, Tomito?» L’uomo parlò con estrema calma, come se dosasse le parole, mentre teneva le mani unite, quasi stesse pregando. I suoi occhi arrossati mi fecero rapidamente comprendere che l’odore forte che arrivava dall’interno dell’appartamento non era incenso.

«Io e i miei amici stiamo andando a Woodstock, sai, stanno organizzano qualcosa di grande lì, così abbiamo deciso di farci un salto.» Tom fece sembrare il nostro progetto come un’idea spuntata dal nulla ed in effetti era stato proprio qualcosa del genere per me, che mi ero fatto trascinare il quella folle esperienza all’improvviso. Per la prima volta in due giorni pensai ai miei genitori – mi ero completamente scordato di loro – e mi maledissi per non avergli ancora fatto ricevere mie notizie.  In ogni caso, le mie riflessioni vennero presto stroncato da Juan, che aprì di più la porta, invitandoci nella sua dimora.

Entrare in quella casa fu un’esperienza ultraterrena. Forse per via dei tappeti in stile orientale che fungevano da moquette, o magari a causa delle lampade a luce rossa che conferivano all’ambiente un aspetto illecito. L’odore di fumo era più forte che mai all’interno e, mentre seguivamo Juan tra i corridoi dell’appartamento, pensai di essere finito in un luogo magico e spirituale. C’era qualcosa di mistico, lì. Sulle pareti vi erano quadri pornografici di donne con le gambe aperte e la vagina alla mercé del pubblico, di uomini che facevano sesso con altri uomini e soggetti simili; i mobili sfoggiavano piccole statuette raffiguranti Buddha e l’incenso che mischiava andava a mischiarsi con il profumo di spinello, che le numerose persone presenti nell’alloggio stavano fumando.

L’idea di trovarmi nel fulcro di una sette indiana mi balenò nella mente, ma Tom si voltò e ci sorriso convinto ed eccitato, senza mai smettere di ascoltare rapito la voce di Juan, che ci aveva scortati fino ad un grosso salone dove gli ospiti consumavano chilom seduti su morbidi divanetti.

«Benvenuti nella mia umile dimora.» L’amico di Tom aprì le braccia in segno di accoglienza. Poi ci disse che, in quanto amici di Tom, dovevamo sentirci come a casa nostra e potevamo usufruire di tutto ciò che ci circondava.

Guardai May. May guardò Kurt. Kurt guardò Dean. Dean guardò Tom.

E da quel momento cominciò la festa.

Ripetemmo il nostro solito rituale fatto di alcol, droghe e musica ad alto volume. Ci lasciammo trasportare dall’odora dell’incenso, mentre il fumo della marijuana entrava nel cervello guidandoci verso luoghi mai esplorati. La musica sembrava volerti entrare dentro e, nonostante intorno vi fosse un caos incredibile, canticchiavo le canzoni che sentivo, barcollando per l’appartamento come un morto vivente. Nel corridoio, in un angolo semibuio, una coppia stava scopando senza preoccuparsi della gente che li osservava; ricordo che scoppiai a ridere di fronte a quella scena irreale, poi applaudii un po’ ed infine me ne andai, scocciato dal fatto che loro stessero facendo sesso ed io no.

Non saprei raccontarvi con precisione il resto della giornata, però è certo che intrattenni una conversazione filosofica insieme a Juan, mentre Dean mi intimava di lasciar perdere quelle stronzate e andare a provare il narghilè insieme a lui. Ad un certo punto, però, dovetti essermi ripreso, perché le memorie tornando piuttosto lucide e nitide: me ne stavo stordito su un divanetto, quando vidi la mia Musa alzarsi in piedi su un tavolino ed iniziare a danzare, donando uno spettacolo irripetibile all’intero alloggio. Muoveva quei fianchi in un modo maledettamente arrapante, mentre con la mano si accarezzava il corpo, senza mai smettere di guardare nei miei occhi.

 

Seducimi, o Musa

Seducimi ancora

E io ne morirò.

 

Allungò una mano verso di me e io la presi. Insieme. Salii su quel minuscolo tavolino che a stento riusciva a tenerci entrambi e presi a dimenarmi toccandole il corpo, fregandomene della gente che ci guardava eccitata, in attesa di altro. Io ero con lei. Con lei in quell’universo nostro, nostro e di nessun altro, in cui ci nascondevamo e ci proteggevamo dal mondo bastardo che non ci comprendeva.

«Vieni con me»

La sua voce un brivido nell’orecchio.

Scendemmo dal nostro palco improvvisato e, tenendomi per mano, mi portò nuovamente il quel labirinto di porte che era il corridoio. Non avevo ancora smaltito l’alcol e il fumo, percepivo solamente la mano della mia May e il suo profumo accanto al mio. Entrammo in una stanza vuota, arredata con un solo letto matrimoniale al centro e una lampada.
La mia Musa mi stregò con uno sguardo, prima di prendere a baciarmi dolcemente, come se il tempo non avesse alcuna importanza, come se l’unica cosa che avesse davvero un minimo di rilievo fosse la sua bocca sulla mia e che, quindi, meritasse cura. Mi levò la maglietta, sorridendomi, perché sapeva che avevo capito qual era il suo punto di arrivo, quella volta. Iniziavo a conoscerla abbastanza bene per poter sapere che ballare la eccitava da morire. Ed era per quel motivo che ci trovavamo soli in quella stanza.

La fermai un solo istante, mentre ormai eravamo già sdraiati sul grosso letto.

La fermai e la guardai.

Occhi negli occhi.

E ancora una volta lasciai che il mio animo annegasse in quel blu oceano, perché non aveva senso togliersi il piacere di scoprire cosa vi era dentro le sue iridi. Non mi sorrise, la mia Musa, ma scese a baciarmi il ventre, mentre il mio animo si era ormai risvegliato e il mio bisogno si faceva sentire. E io la sentivo. Così vicina.

E la baciai. Una volta, due volte, cento volte. La baciai in ogni parte del suo corpo, baciai le sue labbra, le sue spalle, i suoi seni, la sua pancia. Baciai la sua intimità e nel sentirla gemere sprofondai nell’oblio della passione, perché ero io, io e solo io ad averla fatta godere. Ero io che le stavo provocando piacere. E non ci fu più tempo per parlare, per pensare. Non c’era bisogno di parole inutili, sporche e corrette.

C’erano i suoi occhi.

C’erano i miei occhi.

E quello bastava.

Bastava per poter infine entrare dentro di lei e sentire le sue gambe stringermi la vita, mentre le sue mani mi infliggevano una dolce tortura, graffiandomi la schiena. E mi lasciai guidare da lei, muovendomi come un’onda del mare, inebriandomi del suo odore, del suo sapore. Godetti nel sentirmi finalmente dentro di lei, dentro il suo corpo, dentro la sua anima. Suo. Ero finalmente suo. Era lei ad aver penetrato me, non io. Mi accolse nel suo sesso con trasporto e io mi sentii a casa, come non lo ero stato mai, mai prima di allora, perché quello ero il mio posto, era lì dove io dovevo stare. Giusto.

Spinsi più forte, spinsi dentro di lei, spinsi con lei, spinsi per lei. Presi ad entrare ed uscire dal suo corpo freneticamente, sapendo che la fine era quasi giunta, non volendo che arrivasse, tentando di darle ancora, darle di più, darle tutto, tutto me stesso. E fu quando la sentii gemere rumorosamente, mentre toccava l’apice che compresi.

Compresi di amarla.

La seguii velocemente, abbandonandomi ad uno degli orgasmi migliori di tutta la mia vita.

Compresi di amarla.

Non ricordo di preciso quando iniziai ad amarla.

Forse avvenne subito, quella sera in cui la vidi danzare sul trampolino della piscina, o è possibile che quella fosse solo infatuazione, mentre l’amore si impossessò del mio animo a poco a poco, lentamente, posizionando i suoi mattoncini con cura.

Non so quando, ma successe.

 

 

*

 

Angolo Eryca

 

... I’m back!

In estremo ritardo, certo, ma sono tornata. Insomma, ormai avrete imparato a conoscermi e avrete capito che essere puntale non è proprio da me. Ma poi arrivo.

Tanto per iniziare: non uccidetemi per quella terribile scena rossa a cui vi ho dovuti sottoporre. Lo so che fa un po’ cacare i piccioni (?) però ci doveva essere e io ci ho messo del mio meglio. Spero comunque che un minimo di decenza io l’abbia mantenuta.

Anyway, se tutto va come previsto mancano due capitoli più l’Epilogo alla conclusione. Siamo quasi arrivati al capolinea, ragazzi.

Come sempre chiedo di lasciarmi un commentino se leggete, perché leggere i vostri pareri mi diverte, mi rilassa e mi da una gioia pazzesca. E ultimamente ho potuto leggerne pochi. Purtroppo.

Ah, sì! Che sbadata! Ci tengo a ringraziare di cuore tutte le 22 persone che hanno messo tra le seguite questa storia, le 12 che l’hanno inserita nelle preferite e le 5 che l’hanno messa tra le ricordate. Sarete anche in pochi, ma siete i miei amati lettori e io pubblico per voi.

Moi, je vous aime.

 

La vostra Eryca.

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