Rescue Me

di micRobs
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1- From my messes. ***
Capitolo 2: *** 2- From my colourless. ***
Capitolo 3: *** 3- From my ordinariness. ***
Capitolo 4: *** 4- From my weakness. ***
Capitolo 5: *** 5- From what I feel since you're here. ***
Capitolo 6: *** 6- From what... what was I saying? ***
Capitolo 7: *** 7- From his apprehension. ***
Capitolo 8: *** 8- From my lies. ***
Capitolo 9: *** 9- From myself. ***
Capitolo 10: *** 10- From my fears. ***



Capitolo 1
*** 1- From my messes. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale/Romantico/Commedia/Fluff/Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: 1/10 (più o meno, la storia non è ancora conclusa, quindi non saprei)
Introduzione: Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 

From my messes.

 
 
 
Per essere giugno inoltrato, la temperatura non era esattamente delle più estive. L’aria di quella sera era fresca e frizzante e il cielo minacciava pioggia da un momento all’altro. Nick premette il piede sull’acceleratore, desideroso di mettere quante più miglia possibili tra se stesso e quella strada desolata. Era partito da circa sei ore e quel viaggio, già di per sé infinito, stava prendendo una piega ancora peggiore a causa di quella deviazione che lo aveva costretto ad abbandonare la sicurezza della statale in favore di quel tratto sterrato e ignoto. Il suo navigatore sembrava conoscere la direzione, però, quindi Nick si era ciecamente affidato a lui nella speranza che lo avesse condotto sano e salvo a Chicago.

Con il senno di poi, non si era rivelata un’idea granché furba decidere di raggiungere Chicago in auto. Partendo da New York. Nick aveva considerato che, pur di non dare soddisfazioni a suo padre, avrebbe sopportato quelle dodici ore di auto e poi preso l’aereo da lì per raggiungere Los Angeles, la sua destinazione finale.

Sua madre la chiamava “ribellione adolescenziale”, sebbene Nick fosse ben oltre l’età adolescenziale. Era frustrante, però, avere ventiquattro anni ed essere costretti a sottostare alle decisioni dei propri genitori. Aveva perso il conto delle scelte che aveva fatto, influenzato dal volere di suo padre – non per l’ultima, l’università: Nick aveva sempre desiderato studiare economia e, segretamente, seguire le sue orme ma, quando suo padre gli aveva rivelato che era quello il futuro che aveva già pianificato per lui, prima ancora che lui decidesse di intraprendere quella strada, era stato tutto dolorosamente nauseante. Se non altro, aveva avuto libero arbitrio sulla scelta del luogo in cui studiare e non ci aveva messo molto a scegliere quello più lontano da casa: New York University, esattamente dalla parte opposta dello Stato.

Dalla scelta dell’Università, però, di tempo ne era passato parecchio e Nick si era convinto che suo padre avesse imparato a stare fuori da questioni non di sua competenza e deciso di lasciare a lui il controllo delle sue decisioni.

Quell’ultima nuova trovata, però, era stata parecchio di cattivo gusto; lui aveva provato a ribattere in ogni modo, per fare capire ai suoi genitori che non aveva la benché minima voglia di prestarsi anche a quello, ma suo padre era stato irremovibile e così lui si era ritrovato a fare i bagagli senza neanche avere il tempo di sistemare la sua vita, prima di abbracciare quella che i suoi genitori avevano in serbo per lui.

“È solo per quest’estate”gli avevano assicurato, ma lui sapeva che quando Patrick Duval si poneva un obiettivo non c’era niente che non fosse disposto a fare per raggiungerlo. Nick sapeva – e temeva – che alla fine avrebbe acconsentito anche a quell’ennesimo capriccio. Aveva lasciato l’appartamento che aveva in affitto – rassicurando la sua vicina che sarebbe tornato entro l’inizio di settembre e pregandola di ritirare la posta per lui, ma in realtà non ci credeva davvero e in cuor suo era profondamente dispiaciuto per quella bugia – e si era dimesso dal lavoro che aveva trovato dopo la laurea. Di nuovo, aveva permesso ai suoi di prendere le redini della sua vita e farne ciò che volevano.

Gettò uno sguardo al navigatore, spazientito dalla durata di quel tragitto che si stava rivelando più noioso che altro. Il panorama intorno a sé era monotono e banale: se non avesse saputo di star attraversando l’Ohio, avrebbe giurato di essere in Texas, per la quantità di giallo e arancione che coloravano il paesaggio circostante.

Canticchiò distrattamente il motivetto di una canzone che passava alla radio in quel momento e, senza rendersene conto, iniziò a tamburellare le dita sul volante come a voler scandire il tempo di quell’odissea. I nuvoloni neri che lo sovrastavano non promettevano nulla di buono e Nick considerò che avrebbe dovuto cercare una stazione di servizio in cui fermarsi perché, in caso di pioggia, sarebbe stato impossibile concentrarsi sulla guida.

Neanche a dirlo, che le prima gocce iniziarono a venir giù, pesanti e rumorose: in poco più di qualche minuto, il ragazzo fu costretto ad attivare i tergicristalli per riuscire a proseguire.

«Okay, papà» quasi imprecò, «stai mandando giù il cielo per punirmi, sì?»

Doveva essere quello, altrimenti non si spiegava la concomitanza di tutti quegli imprevisti. Suo padre aveva deciso di punirlo per avergli rimandato indietro il biglietto aereo che gli lui aveva gentilmente spedito – New York - Los Angeles, prima classe – e aver deciso invece di viaggiare secondo le modalità che riteneva più comode, anche se significava farsi dodici ore di macchina per raggiungere Chicago e prendere lì l’aereo: scomodo e oltremodo inutile, vero, ma almeno lo aveva stabilito lui.
Si sporse in avanti, strizzando gli occhi per mettere a fuoco più dettagli possibili del paesaggio ma, nel bel mezzo di una delle sue imprecazioni più colorite, la macchina sobbalzò e lui si ritrovò a sbattere contro il finestrino molto poco gentilmente. Un attimo dopo, il motore si spense, insieme alla voglia di vivere di Nick.

«No, no, no» piagnucolò, girando più volte la chiave nel quadro. «No, piccola, non abbandonarmi adesso, ti prego

Ma la macchina non ne voleva sapere di rimettersi in moto e Nick, gettato uno sguardo al temporale che imperversava, sospirò nel rendersi conto che l’unica cosa da fare era scendere e vedere quale fosse il problema. Sospirò, sbloccò l’apertura del cofano anteriore e si tirò su il cappuccio della giacca, dopodiché aprì lo sportello e affrontò la pioggia. Il tempo di raggiungere la parte anteriore dell’auto ed era già completamente zuppo. Non ne capiva granché di meccanica e motori, ma non vi era nulla che sembrasse fuori posto e l’assenza di fumo sospetto gli fece supporre che forse il problema non era lì. E davvero non aveva idea di cos’altro potesse essere. Mentre però ritornava all’interno dell’abitacolo, il suo sguardo – appannato a causa della pioggia – cadde su due dettagli di importanza vitale. Il primo, il sasso di dimensioni non esattamente modeste, che giaceva qualche metro dietro la sua auto, gli fece attorcigliare lo stomaco e temere il peggio; il secondo, la macchia scura che si allargava sotto le sue suole, lo fece piagnucolare di frustrazione e calciare violentemente una ruota. 

«Cazzo» si passò una mano tra i capelli che gli si erano incollati alla fronte e si guardò intorno, alla ricerca di un qualsiasi segno di vita. Maledetti sassi in mezzo alla strada e maledette le auto con l’assetto basso.

Okay, niente panico. Si trovava in mezzo al nulla, con la macchina in panne e il temporale estivo peggiore degli ultimi decenni: in un modo o nell’altro ne sarebbe venuto fuori.

Inveì contro il tempo, contro i suoi genitori, contro il suo desiderio di dimostrare che poteva cavarsela da solo e poi di nuovo contro suo padre. Tutto ciò, mentre spingeva l’auto verso il lato della strada e rimpiangeva il biglietto aereo che gli avrebbe risparmiato un numero notevole di quelle tragedie. Ovviamente, Nick non era l’Incredibile Hulk e, con i suoi sessanta chili di pelle e ossa, non riuscì a spostarla neanche di mezzo metro.

«Oh, ma andiamo!» Urlò contro il cielo. «Cosa altro deve ancora accadermi, uh?»

La risposta a quella domanda relativamente ironica, gli si presentò quando il suo cellulare lo informò che, in quella landa desolata, non c’era segnale.
Stava quasi per abbandonare le speranze e lasciarsi andare ad un lungo ringhio di frustrazione, quando una luce improvvisa alla sua destra lo fece sobbalzare. Strizzò gli occhi per mettere a fuoco e quasi baciò il suolo, nell’individuare il contorno sfuocato di un’auto. Forse non tutto era perduto.

Si piazzò in mezzo alla strada, agitando le braccia per attirare l’attenzione e, quando la macchina rallentò e gli si affiancò, tirò un sospiro di sollievo.
Attese che il nuovo venuto abbassasse il finestrino e poi si sporse appena, incontrando la figura di un ragazzo dai capelli biondi, i tratti gentili e l’espressione preoccupata.

«Problemi?» Esordì quello.

Nick annuì. «Sì, ho urtato un sasso e la coppa dell’olio è andata» spiegò con praticità. «Non ho idea di dove io mi trovi e il cellulare non ha campo.»

L’altro fece una smorfia e inarcò entrambe le sopracciglia, poi si guardò un attimo intorno e, infine, gettò uno sguardo alla cartina che giaceva abbandonata sul sedile del passeggero.

«Dovrebbe esserci una stazione di servizio a circa due miglia» lo informò, studiando la mappa che aveva preso tra le mani. «Magari hanno un carro attrezzi.»

Nick si passò una mano sulla fronte, guardando verso la strada quasi a voler capire quanti passi fossero due miglia. Miagolò frustato perché la risposta era solo una: tanti.

«Vuoi un passaggio?» Domandò il ragazzo. «Mi sembri piuttosto disperato.»

L’altro riportò lo sguardo su di lui e sbuffò. «Sono disperato perché sono lontano centinaia di chilometri da casa, devo arrivare alla benedetta Chicago e non ho idea di quanto ci vorrà con la macchina, né di cosa fare mentre questa non viene riparata.»

L’espressione dubbiosa del ragazzo, lo fece sospirare afflitto. «Scusa» riprese, un po’ più calmo rispetto a poco prima. «Non avrei do- è che… è andato tutto storto e questo viaggio è stato un susseguirsi di catastrofi che-»

«Posso darti un passaggio fino a Chicago, se vuoi» lo interruppe l’altro.

Nick lo fissò sconcertato. Di solito, non si stava alla larga dagli sconosciuti?

«Mi sembri animato dalle migliori intenzioni» diede voce ai suoi pensieri quello, «e ho uno spray al peperoncino sempre con me: saprei come difendermi» accompagnò quelle parole con un enorme sorriso sincero.

Lui non credeva nei miracoli o nelle botte di fortuna, ma qualcuno aveva messo quel ragazzo sulla sua strada e lui non aveva alcuna intenzione di rimanere lì – sotto la pioggia e in mezzo al nulla –quando finalmente qualcosa sembrava girare per il verso giusto.

«Mi faresti veramente una cortesia enorme» lo ringraziò, non riuscendo a trattenere un sorriso riconoscente.

Il ragazzo fece una smorfia e gli allungò una mano. «Io sono Jeff» si presentò. «E se posso aiutare, lo faccio volentieri.»

Nick la strinse, sebbene la sua fosse bagnata e scivolosa. «Io sono Nick e ti sarò eternamente debitore» assicurò.

«Perfetto» decise l’altro, animato da un entusiasmo genuino che Nick non aveva mai visto su nessuno. «Sistemiamo la tua auto e poi possiamo partire.»

Forse non tutto era perduto, forse sarebbe andato tutto bene. Forse, nella sfortuna, era stato fin troppo fortunato.
 
 




 


Ave atque vale (L’avevo detto che l’avrei fatto *coff*)

Dunque, ovvi deliri a parte, salve e bentrovati. Ormai ci avevo preso il vizio a infestarvi i mercoledì e quindi, considerato che oggi è non solo mercoledì ma anche 06/03, ho decido che era il giorno perfetto per iniziare a postare questa mia nuova cosina. Happy Niff Day to everyone <3

L’idea di scrivere una long dedicata solo a Nick e Jeff mi ronzava in testa da qualche tempo, ma non ho mai trovato un plot che mi soddisfacesse del tutto. Questo mi si è letteralmente materializzato davanti qualche mese fa e da allora è sempre stato un progetto satellite che ho tenuto da parte e su cui mi concentravo quando volevo rilassarmi o staccare la spina.

Per adesso ho pronto un altro capitolo e mezzo e sì, la cosa mi mette abbastanza ansia perché quando io inizio a postare qualcosa senza averla terminata, la suddetta cosa finisce nel dimenticatoio intorno al quarto aggiornamento, più o meno: giuro sull’Angelo *coff* che stavolta concluderò questa long. Non sparirò nel nulla, vedrete.

Un grazie immenso a Vals – che è sempre il mio meraviglioso tutto e senza la quale Rescue Me non sarebbe qui – e a Chiara – che ha letto questo capitolo in anteprima e mi è stata utilissima per definire alcuni dettagli di contorno. Siete speciali <3

Dovrei dire effettivamente qualcosa riguardo ciò che avete letto, quindi adesso cerco di mettere insieme due informazioni utili da fornirvi. Dunque, tanto per iniziare, Rescue Me sarà completamente Niff, nel senso che non ci saranno altre coppie che compariranno fisicamente nel durante. Volevo che i miei Niff avessero il loro spazio e sapevo che, se avessi inserito altri pairing in sottofondo, mi sarei allontanata da questa idea. Solo Niff, quindi, con qualche possibile accenno (cioè *solo nominati*) alla Thadastian che è comunque la mia ship.

Il rating per adesso è arancione e credo si manterrà tale: non si abbasserà di tonalità, questo è certo, ma potrebbe salire al rosso. Non lo so, dipende da come mi verrà da scrivere la scena che ho in mente.

Per essere il primo capitolo è breve, lo so, ma il prossimo è tre volte questo, quindi vi prometto che mi faccio perdonare adeguatamente. Non ho mai scritto così tanto su Nick e Jeff, ma ho deciso di approfittare di questa long per dipingere le loro personalità a mio piacimento – sempre nei limiti di quanto è previsto dagli *head canon* – e quindi spero che vi piacerà la caratterizzazione che ho deciso di dargli. Jeff compare poco qui, ma già dal prossimo si saprà molto di più su di lui.

A proposito del prossimo capitolo, poi: arriverà martedì e, da quel momento, ogni aggiornamento cadrà di martedì. Questo perché il mercoledì – per quanto mi faccia piacere infestarvi e tutto il resto – torno troppo tardi dall’università e rischio di postare o a notte fonda o di non avere neanche la forza per accendere il pc.

Altre notizie non credo ci siano; nel caso, comunicherò eventuali informazioni random sui social network su cui è più probabile trovarmi: FacebookTwitterAsk.fm

A martedì e grazie a chi è giunto fino a qui e a chi, eventualmente, si prenderà due minuti per farmi sapere cosa ne pensa,
 
Robs.

Tutti i *coff* erano per il mio parabatai che se li è meritati di diritto.
 
 
 

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Capitolo 2
*** 2- From my colourless. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: 2/10
Introduzione: Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 
 



From my colourless.

 
 

Aveva smesso di piovere nel momento esatto in cui avevano lasciato la stazione di servizio. Era stato un po’ problematico raggiungere il posto e poi ritornare a recuperare l’auto con il carro attrezzi ma, una volta compiuta l’opera, la situazione si era svolta in maniera relativamente veloce. Il proprietario di quella piccola struttura gli aveva fatto notare che imprevisti del genere non erano particolarmente frequenti da quelle parti – vista l’esigua quantità di automobilisti che decideva volontariamente di percorrere quella strada invece della statale – e che quindi non avevano mai ritenuto necessario essere forniti di un meccanico specializzato per quel genere di danni. Ci erano voluti tre quarti d’ora e un giro non indifferente di telefonate – oltre che la parlantina accelerata di Jeff e una buona dose delle imprecazioni colorite di Nick – per riuscire a contattare il centro città più vicino e farsi mandare qualcuno che potesse mettergli a posto la macchina. Quando aveva visto la sua vettura essere caricata dal carro attrezzi e allontanarsi verso un’ignota officina di Cleveland, Nick aveva sospirato a metà fra il sollievo di aver risolto la situazione e i sensi di colpa per il fastidio che aveva arrecato a tutte quelle persone a causa di un suo capriccio.

Elemosinare un passaggio da un perfetto sconosciuto e implorare – e pagare in anticipo e profumatamente – il responsabile dell’officina di Cleveland di andare a recuperare la sua macchina, facendosi assicurare di custodirla fino a data da destinarsi, erano concetti che non si amalgamavano granché bene con la sua idea di autosufficienza. Purtroppo, la situazione gli era inesorabilmente sfuggita di mano e, mentre si sfilava i vestiti fradici in favore di qualcosa di caldo e asciutto, aveva convenuto che fosse giunto il momento di mettere da parte quel comportamento immaturo e lamentoso – che comunque non gli si addiceva per nulla – e cercare almeno di essere riconoscente a Jeff per la sua gentilezza e provvidenza, senza fargli pesare la sua presenza.

Il ragazzo gli aveva fatto caricare le valigie nella sua auto, senza perdere quel sorriso luminoso ed entusiasta che Nick gli aveva visto sul viso sin dal primo momento in cui si erano incontrati, e poi lo aveva invitato a salire, come se si conoscessero da una vita e non da poco più di un paio d’ore.

«Sicuro che non ti crea problemi?» Domandò Nick, per quella che era almeno la quarta volta da quando erano partiti. Sebbene Jeff non avesse fatto nulla per mostrarsi infastidito da quell’imprevisto, Nick non riusciva a smettere di chiedergli conferma.

L’altro scosse la testa, continuando a guardare la strada dinanzi a sé. «Nick, ci vogliono almeno altre sette ore per arrivare a Chicago, hai intenzione di trascorrerle così?»

Il ragazzo sospirò e si abbandonò al sediolino, nonostante si sentisse abbastanza a disagio nel provare a mettersi comodo nell’auto sconosciuta di un ragazzo sconosciuto.

«Sì, hai ragione» si scusò comunque. «Questa era l’ultima.»

Jeff parve apprezzare quella concessione, tant’è che sorrise di più e accelerò leggermente, mentre Nick volgeva la sua attenzione al panorama che scorreva fuori dal finestrino. Stavano percorrendo una strada sterrata e secondaria e la vista alla sua destra era piuttosto monotona; qualche raro lampione illuminava fiocamente il tragitto e, complessivamente, non vi era granché attrattiva su cui concentrarsi, se si escludevano i radi alberi che costeggiavano la strada e il contorno sfuocato di edifici in lontananza. L’insieme tra il cielo compatto e scuro, la stanchezza accumulata e la monotonia del paesaggio, lo rendeva pericolosamente intorpidito, ma la sua mente, sebbene annebbiata e in procinto di addormentarsi, sembrava essere concorde con lui che non potesse assolutamente concedersi un lusso del genere.

Fortunatamente, ci pensò a Jeff a riempire l’abitacolo di chiacchiere e sorrisi e Nick gliene fu immediatamente grato perché non era certo di essere in grado di sopportare un viaggio così lungo all’insegna di ovattato e imbarazzante silenzio.

«Immagino tu abbia una motivazione piuttosto interessante per spiegare il tuo viaggio verso Chicago in auto, uh?» Domandò, all’improvviso.

L’altro fece una smorfia. «Suppongo che valga lo stesso anche per te.»

E Jeff rise. «È vero, ma la domanda l’ho fatta prima io.»

Nick non sapeva come disporsi nei suoi confronti. Jeff sembrava un ragazzo a posto, pieno di entusiasmo e voglia di fare conversazione, ma lui era sempre stato abituato a essere diffidente nei confronti degli estranei e con gli anni aveva imparato a non aprirsi al primo sorriso carino che incontrava – sebbene quel sorriso fosse particolarmente carino.

Alla fine, decise di mantenersi sul vago. «In realtà, Chicago è solo una tappa intermedia: da lì poi devo prendere un aereo per arrivare a Los Angeles.»

Jeff aggrottò la fronte e lo fissò con sguardo dubbioso, poi tornò a concentrarsi sulla guida. «Posso chiederti perché…»

«Non sono partito direttamente da New York, invece di impantanarmi in questo casino?»

Se possibile, l’espressione dell’altro ragazzo si fece maggiormente scettica ma, quando poi parlò, non vi era traccia di incertezza nella sua voce. «Sarebbe stato decisamente più furbo» convenne.

Nick scrollò le spalle e si morse l’interno della guancia, indeciso sul genere di informazioni da fornirgli. Optò per la via più semplice.

«Siccome dovrò stare a Los Angeles per tutta l’estate, avevo bisogno di imbarcare l’auto con me» mentì spudoratamente, «ma da New York non ho trovato voli che mi permettessero di farlo.»

Era un pessimo bugiardo, non ci voleva un genio a comprendere che quella era un’ipotesi altamente improbabile, se non addirittura impossibile, ma Jeff ebbe il buon cuore di non domandargli spiegazioni e Nick gliene fu profondamente grato.

«E quindi passerai le vacanze a Los Angeles» commentò distrattamente, mentre si immetteva nuovamente su una strada principale.

L’altro si sentì improvvisamente molto più a suo agio. «Sì, vado a» esitò un momento, «trovare i miei genitori.»

Non che non fosse la verità ma, se avesse potuto scegliere, avrebbe preferito trascorrere l’estate a New York e quindi non era esattamente quello il motivo per cui era partito. Di nuovo, decise di tenere Jeff al di fuori dei suoi affari e conservare quei dettagli per sé.

Il ragazzo annuì, perso nei propri pensieri; puntò un gomito sul finestrino aperto e si passò una mano tra i capelli biondissimi: Nick lo osservò di sottecchi, immaginando quale potesse essere la prossima mossa. Forse, pensò, aveva capito che gli stava propinando solo bugie e stava considerando l’eventualità di abbandonarlo sul ciglio della strada?

Fortunatamente, la sua fantasia correva più veloce dell’istinto di conservazione di Jeff, perché quest’ultimo riprese a parlare e sorridere con tranquillità.

«E cosa ci fai a New York?» Domandò, sinceramente incuriosito.

Nick sbatté un paio di volte le palpebre, preso in contropiede. Il fatto che Jeff, oltre ad averlo gentilmente salvato dalla strada, sembrasse davvero interessato a fare la sua conoscenza, aumentava di gran lunga i suoi sensi di colpa per le menzogne che gli stava rifilando.

Almeno, però, a quella domanda poteva rispondere con sincerità. «Mi sono da poco laureato alla NYU» spiegò, «e sono rimasto lì a cercare fortuna.»

«Hai studiato alla NYU?» Chiese conferma Jeff e sembrava realmente… sorpreso?

Nick annuì. «È quello che ho detto, sì» ripeté, aggrottando la fronte. «Mi sono laureato in economia lo scorso febbraio.»

Neanche finì di parlare, che Jeff si aprì in un sorriso incerto ma ugualmente luminoso. «Anche io ho studiato alla NYU» rivelò.

E quello era decisamente inaspettato e anche vagamente inquietante. Nick sgranò gli occhi: quante probabilità c’erano che l’unica persona che si fosse fermata a soccorrerlo, nel bel mezzo del nulla e a svariate miglia da casa, avesse studiato nella sua stessa città?

«Sei di New York?»

«Di Atlantic City, ma ho preso un appartamento a New York con un mio amico per l’università.»

Nick annuì, mentre nella sua testa quella strana situazione iniziava a prendere forma. Non aveva mai avuto problemi a credere nelle coincidenze, ma quello era oltremodo sconcertante.

«Questo è…»

«Strano, sì» completò per lui Jeff, voltandosi a rivolgergli un sorriso complice.

Per un po’ fu facile fare conversazione. Avevano trovato un punto di contatto tra le loro due vite e quindi, tra un “ma dov’è che hai casa di preciso?”, un paio di “ci sei mai stato in quel…?” e innumerevoli “ma non è che per caso conosci…?”, il tempo passò senza che i due ragazzi riuscissero a percepirlo come dimensione effettivamente importante.

Era piacevole avere a che fare con Jeff, notò Nick, piacevole e semplice. Semplice perché il ragazzo sembrava sinceramente entusiasta e interessato a qualsiasi argomento intavolavano e Nick si stupì più di una volta della sintonia che dimostrava di avere con lui dopo appena poche ore di conoscenza.

Quando si ricordò di guardare l’orologio, scoprì che erano da poco passate le due del mattino: quello significava che erano ripartiti da quasi quattro ore e che erano circa a metà strada. Fortunatamente, a quell’ora della notte, la carreggiata era sgombra e tranquilla e Jeff riusciva a viaggiare a velocità sostenuta senza eccessivi problemi.

«Vuoi che guidi un po’ io?» Domandò Nick, con apprensione; non voleva risultare invadente, ma Jeff era partito da New York e quindi era in viaggio pressappoco dal suo stesso tempo: magari lui stesso non era esattamente fresco e limpido come di prima mattina, ma sperava almeno di essere gentile e dimostrargli che desiderava sdebitarsi in qualsiasi modo.

Il ragazzo scosse la testa, continuando a fissare la strada davanti a sé. «Non dirlo neanche» rispose con sicurezza. «Quando ho incontrato te, ero ripartito da meno di un’ora: mi sono riposato abbastanza in motel.»

Nick annuì, non potendo impedire a un “oh” sorpreso di lasciargli le labbra. Beh, almeno uno dei due era in condizioni di portarli fino a Chicago sani e salvi.

«Tu piuttosto» proseguì Jeff, allungando un braccio alla cieca verso i sedili posteriori e facendo sbandare pericolosamente l’auto. Okay, forse non sarebbero comunque arrivati vivi a destinazione.

«Faccio io» propose Nick, sospirando quando il ragazzo riportò entrambe le mani sul volante.

«Vedi» lo indirizzò Jeff, «dietro il tuo sediolino, ci dovrebbe essere un sacchetto di plastica.»

Nick seguì le indicazioni, recuperando l’oggetto in questione, mentre Jeff aggiungeva un «Speriamo che il contenuto non si sia sparso ovunque» che lo fece ridere sommessamente.

Quando ritornò a sedersi composto, Jeff lo fissò con la coda dell’occhio e sorrise. «Ho comprato qualcosa da mangiare per il viaggio» spiegò, «ho dimenticato di dirtelo prima.»

Il ragazzo schiuse le labbra, sorpreso, e rimase – anche in maniera piuttosto comica – con il sacchetto tra le mani, senza che il suo cervello realizzasse che magari ci si aspettava che lo aprisse e ringraziasse Jeff per quella gentilezza.

L’altro dovette prendere il suo silenzio come un invito a fornirgli spiegazioni, però, tant’è che si affrettò a raccontargli del momento in cui si era trovato davanti al banco frigo della stazione di servizio e aveva pensato bene di fare scorta per il viaggio, mentre lui era intento a cambiarsi i vestiti bagnati.

«Ho preso un paio di focacce e qualche tramezzino» sorrise, continuando a guardare la strada. «Non sapevo quali fossero i tuoi gusti, così ho improvvisato. Io vado matto per i cheeseburger, non so se piacciono anche a te.»

Nella busta vi erano tre o quattro incarti giallastri, un paio di confezioni plastificate di quelle che a prima vista sembravano patatine fritte o qualcosa che vi somigliava vagamente. Nick rimase sconcertato a quel gesto assolutamente disinteressato, sentendosi immediatamente colpevole non solo per tutte le bugie che aveva rifilato a quel ragazzo dal sorriso solare e dall’animo nobile, ma anche e soprattutto per ciò che stava, purtroppo, per rivelargli.

«Jeff» iniziò con voce incerta ed evitando accuratamente di guardarlo negli occhi. «Sei stato veramente incredibile e ti garantisco che non era necessar-»

«Non dirlo neanche» lo interruppe l’altro, «sembrava non mangiassi decentemente da giorni e, qualsiasi cosa tu abbia ingerito prima del viaggio, l’hai sicuramente bruciata per inventare tutta quella serie di insulti coloriti che hai riversato su quel povero malcapitato» ridacchiò lievemente, poi tornò serio. «Dico davvero, hai passato una brutta giornata: mangia qualcosa, così provi almeno ad aggiustarla così. E poi, stai per salire su un aereo ed è risaputo che il cibo che viene servito durante il volo sia immangiabile.»

Nick si morse un labbro, rammaricato; Jeff rendeva tutto più difficile e lui già era stanco e faceva fatica a stargli dietro: se lui continuava a subissarlo di parole in quel modo, non sarebbe riuscito a trovare la forza di intervenire nel discorso e dirgli ciò che gli premeva.

Jeff continuò a parlare per qualche altro secondo e Nick ne approfittò, quando si fermò per riprendere fiato.

«Ti ringrazio davvero» assicurò, mettendo in quelle parole tutta la sincerità di cui era a disposizione. «Ma, non so neanche come dirtelo.»

«Non ti piacciono le focacce? Ne ho presa una di ogni tipo, così è più facile trovarn-»

«In realtà, sono vegano.»

Vi furono un paio di secondi di silenzio, il tempo in cui Nick sospirava per essere riuscito a parlare e in cui le labbra di Jeff si schiudevano in un muto “oh” di sorpresa.

«Quindi niente carne» considerò il ragazzo alla fine e Nick annuì. «E niente… un sacco di altre cose pure» aggiunse, grattandosi una guancia, mentre l’altro annuiva ancora.

«Ho apprezzato tanto la tua premura, credimi» provò a correre ai ripari Nick. Non sapeva il motivo esatto, ma si sentiva schiacciato dai sensi di colpa e dalla consapevolezza di essere il responsabile dell’espressione delusa di Jeff. «Ma davv-»

«No» saltò su il suo compagno di viaggio, ricominciando immediatamente a sorridere, «non azzardarti a scusarti di nuovo, Nick!» Tacque per un istante, poi ricominciò a chiacchierare con tranquillità. «Avrei dovuto immaginare un’eventualità del genere e mi dispiace non averla prevista, ma non sono solito pensare prima di agire – il mio coinquilino dice sempre che dovrei decisamente imparare a collegare il cervello alla bocca e alle mani prima di azzardarmi a fare alcunché – e nella gran parte dei casi, finisco con l’essere impulsivo e fare disastri e… vuoi sapere di quella volta che ho quasi dato fuoco alla cucina? Quella è una storia davvero divertente.»

E Nick non poté impedirsi di ridere di gusto, perché con Jeff era impossibile non farlo e perché – mentre il ragazzo iniziava a raccontare quell’aneddoto assurdo, con il suo sorriso enorme, gli occhi che brillavano e la notte che avvolgeva la strada come un guanto e rendeva tutto più intimo e surreale – quelle che sembravano patatine fritte alla fine si rivelarono esserlo davvero e l’espressione esultante che si dipinse sul volto di Jeff, nel realizzare che non lo avrebbe lasciato completamente digiuno e che non era poi un disastro così totale, lo accompagnò per la restante parte del tragitto, cullandolo nel torpore in cui cadde lentamente e rimanendogli davanti agli occhi, anche quando cedette definitivamente al sonno.
 


Si svegliò qualche ora più tardi, quando i muscoli atrofizzati divennero impossibili da sopportare oltre e le palpebre lasciarono trasparire i primi raggi di luce del mattino. Quando aprì gli occhi, in una sinfonia di mugolii e ossa che scricchiolavano, l’orologio sul cruscotto segnava quasi le sette del mattino e l’abitacolo della vettura era silenzioso e deserto.

Si passò una mano sul viso, sbadigliando e strizzando gli occhi, mentre si guardava intorno alla ricerca della chioma bionda di Jeff, che però non sembrava essere da nessuna parte. La prima cosa che notò fu che la sua valigia era ancora sul sedile posteriore, il che voleva dire che Jeff non era scappato con tutti i suoi averi, lasciandolo con un’auto che, probabilmente, non serviva più a nulla. Si diede mentalmente dell’idiota, non appena la sua mente finì di formulare quel pensiero. Alla luce del sole, oltretutto, poté concentrarsi meglio su tutta quella serie di dettagli che la sera prima non era riuscito a notare. Jeff non doveva essere una persona molto ordinata, pensò: l’interno della vettura era un caleidoscopio di fogli sparsi e appallottolati, scontrini vecchi di chissà quanto tempo, carte di caramelle, volantini colorati e post-it attaccati sul cruscotto con appuntate le cose più disparate – “fai benzina”; “ore 15.00 – Tisch” ; “42 – 08 – 36”; “Ho rubato il tuo CD degli Incubus, non credo lo riavrai” –; nel vano porta oggetti, faceva bella mostra di sé una serie non indifferente di quaderni di varie dimensioni, matite e penne senza tappo, CD gettati alla rinfusa e la custodia di un paio di occhiali. Il quadro era completato da quello che sembrava un peluche a forma di drago deforme, attorcigliato intorno allo specchietto retrovisore e con la coda che penzolava. Nick sorrise inconsciamente, pensando alle condizioni diametralmente opposte in cui versava la propria auto, e gettò uno sguardo più attento fuori dal finestrino.

Il paesaggio intorno a sé era caotico e variopinto: il ragazzo ci mise poco a comprendere di trovarsi in un centro abitato e ancor meno a realizzare che non si trattava di una zona residenziale ma del parcheggio dell’aeroporto. Dunque, erano arrivati a Chicago e Jeff era sparito.

Stava appunto per scendere dall’auto e sgranchirsi un po’ le ossa, nell’attesa che il ragazzo ricomparisse, quando un paio di colpi secchi risuonarono sul finestrino alla sua destra e lui sobbalzò per lo spavento, prima di voltarsi e trovarsi davanti all’espressione divertita e sghignazzante di Jeff.

Il ragazzo gli fece segno di raggiungerlo e, un attimo dopo, lui si ritrovò fuori al suo fianco.

«Ben svegliato» lo salutò, sorridendo, mentre si allungava e recuperava un bicchiere di carta dal tettuccio della macchina. «Caffè? Non puoi dire di no, stavolta! Sono stato attento.»

Come faceva a essere così pimpante ed entusiasta a quell’ora del mattino? Senza aver dormito e dopo aver guidato per tutta la notte, per giunta?

«Come fai a… ?» Sbadigliò, portandosi una mano davanti alla bocca e facendo ridacchiare l’altro.

«Ne ho già presi due» spiegò Jeff, «e i muffin alle gocce di cioccolato mi avviano la giornata come nient’altro al mondo.»

Nick si limitò ad annuire e a prendere il bicchiere che Jeff gli porgeva, non sicuro che la sua voce avesse carburato abbastanza da mettere insieme più di due parole di senso compiuto.

Lasciò che il caffè lo riscaldasse dall’interno, scuotendo via un po’ di quell’intorpidimento che ancora si portava dietro e risvegliando i suoi sensi sopiti; Jeff giocherellava con il cellulare, mentre Nick si svegliava e riprendeva i contatti con il mondo. Così come era avvenuto con l’interno dell’auto, la luce del sole illuminò i dettagli della persona che aveva di fronte e che non aveva avuto modo di notare la sera prima – vuoi per il buio, vuoi per lo stress, la preoccupazione, la fretta. Aveva già avuto modo di rendersi conto che Jeff fosse molto più alto di lui, ma in quel momento – mentre lui era ancora assonnato e un po’ ingobbito per la stanchezza e l’altro ridacchiava sotto i baffi, concentrato sul telefono – quella differenza sembrò molto più consistente. Jeff aveva un viso fine e tratti gentili e delicati, incorniciati dai capelli biondi e lisci che gli ricoprivano completamente la fronte. Nick si soffermò per qualche secondo di troppo sulle sue labbra piene e sugli zigomi rosei, prima di costringersi a distogliere l’attenzione e percorrere con lo sguardo la linea sottile del collo che terminava nella T-Shirt celeste che indossava. Era un bel ragazzo complessivamente, Nick non poté evitare di pensarlo; particolare nella sua semplicità, nella pelle chiara che contrastava con i punti arrossati in cui aveva preso il sole, nei ciondoli che gli pendevano dal collo e che sparivano oltre il bordo della maglia, nei polsi avvolti in una serie infinita di bracciali di cuoio e di fili colorati intrecciati, nella tracolla bianca – la cui superficie era quasi totalmente ricoperta da disegni e scritte fatte con un pennarello nero – che gli cadeva sul fianco, nelle Converse dello stesso colore della maglia. 

«A proposito» esordì quello, dopo qualche attimo di silenzio, sollevando lo sguardo su di lui. La sera prima, i suoi occhi gli erano sembrati profondi e scuri ma, alla luce del giorno, Nick fu costretto a ricredersi ancora: erano verdi, o castano chiaro, non riusciva a definirlo con esattezza, perché si muovevano veloci e lui non si sentiva particolarmente a suo agio a studiarlo con così tanto interesse. «Sono andato a prendere i caffè al bar dell’aeroporto e ne ho approfittato per vedere i voli, così non ti toccava andarci di nuovo.»

Nick sgranò gli occhi e boccheggiò, colto alla sprovvista per l’ennesima volta. Le cose erano due: o quel ragazzo era la quintessenza della bontà e del disinteresse, o non era abituato a sentirsi utile per gli altri. Nick sperò vivamente che non si trattasse della seconda ipotesi, perché aveva già troppe sensazioni contrastanti che gli si agitavano nel petto – tra sensi di colpa e gratitudine – e non ci teneva affatto ad aggiungere quell’ennesimo punto alla lista di motivi per cui si sentiva in debito con lui.

«Non era necessario» ripeté per quella che era almeno la terza o quarta volta da quando lo conosceva. «Ci sarei andato io dopo, non dovevi disturbarti.»

L’altro scosse la testa. «Nessun disturbo» assicurò. «Tanto ero già lì» si morse un labbro, poi proseguì. «Comunque, il volo per Los Angeles è partito circa trenta minuti fa, il prossimo è» gettò uno sguardo all’orologio che aveva sul polso e fece un’espressione buffa e pensierosa. «Tra circa… undici ore, più o meno.»

Nick schiuse le labbra e si passò una mano tra i capelli. Dieci ore erano un sacco di tempo, come lo avrebbe impiegato? Aveva una crescente necessità di farsi una doccia per rilassarsi un po’ e lavare via il disastro che era stata quella giornata e Jeff dovette leggergli nel pensiero, perché si aprì in un sorriso enorme e suggerì: «Magari possiamo trovare un ostello o un Bed & Breakfast in cui riprendere fiato e poi pensare con calma a come organizzarci.»

Annuì, considerando che quella era l’opzione migliore che avevano a disposizione e realizzando solo in quel momento di non avere idea né del perché Jeff fosse lì con lui, né dell’eventualità che avesse effettivamente qualcosa da sbrigare in quella città.

«Non voglio vincolarti a me, però» gli rese noto. «Magari avrai degli impegni che – cioè, sicuramente avrai qualcosa da fare qui e ti sei già messo troppo a disposizione per me, non mi va di farti perdere altro tempo.»

Jeff sorrise e inclinò leggermente la testa su di un lato. «Nessuna perdita di tempo, te lo garantisco. Avevo già intenzione di, uhm, fermarmi qui per un paio di giorni, prima di proseguire.»

Fu solo in quel momento che Nick si rese conto che aveva parlato con lui per ore, che si era più o meno esposto e confidato e che avevano conversato di argomenti di vario genere, ma che non aveva ancora idea di dove fosse diretto Jeff. Glielo aveva chiesto? No, aveva dato per scontato che la sua destinazione fosse quella e non si era preoccupato di indagare oltre.

«Non è la tua fermata definitiva questa?» Domandò, come a volersi scusare di non averlo fatto prima, mentre poggiava la schiena alla portiera dell’auto.

Jeff sollevò le spalle e si passò una mano tra le ciocche bionde con disinvoltura. «Io sono un viaggiatore» spiegò. «Non sono fatto per stare fermo troppo a lungo» poi ridacchiò divertito e scosse la testa. «No, in realtà sono in viaggio per, non lo so, “visitare luoghi nuovi” suona abbastanza all’avanguardia?»

Nick sorrise e annuì, domandandosi dove Jeff volesse arrivare con quel discorso. «Direi che sia il fine di ogni viaggio, no?»

L’altro fece una smorfia, soppesando le sue parole. «Sì, sono d’accordo, ma io intendevo proprio nel senso stretto del termine» fece schioccare la lingua. «Mi sono regalato questo viaggio per la laurea e per soddisfare il mio amore per l’arte e l’architettura.»

«Nel senso che farai un tour alla scoperta dei luoghi più belli che il nostro Paese ha da offrire?»

«Sembra la brochure di un’agenzia di viaggi» ridacchiò il ragazzo, «ma più o meno è così: ho preparato un itinerario, ho caricato l’auto e sono partito all’avventura.»

Nick inarcò entrambe le sopracciglia, ammirato. Jeff era il suo esatto opposto, considerò. Lui non sarebbe mai riuscito a salutare tutti e partire così, senza un programma dettagliato, un’organizzazione puntigliosa e precisa, un margine di tempo in cui muoversi, un progetto a lungo termine. Non erano esattamente il genere di situazioni in cui lui si sentiva a suo agio, lui preferiva gli schemi ben precisi e la calcolata prevedibilità dei numeri, perché lo facevano sentire al sicuro e perché riuscivano a infondergli tranquillità, nella loro organizzata disposizione.

«Ti senti rilassato nell’affrontare un viaggio così da solo?» Domandò, semplicemente.

Jeff scrollò le spalle con naturalezza e fece una smorfia. «Non è che corra tanti rischi» considerò. «Cioè, magari sì, ma ho lo spray al peperoncino e so cambiare una gomma e la macchina ha le sicure che funzionano e… e poi sono stato io a trarre in salvo te» gli ricordò, con un sorriso giocoso. «Direi che sono perfettamente in grado di badare a me stesso e non solo.»

L’altro si mise a ridere, subito imitato dal compagno, e gli diede ragione. «Touché.»

Osservò Jeff mordicchiarsi un labbro e ingaggiare una strenua lotta interiore contro le parole che evidentemente premevano per uscire dalla sua bocca; stava appunto per domandargli se ci fosse qualche problema, che il ragazzo parve decidersi e si aprì in un sorriso enorme e abbagliante.

«Senti» iniziò con un entusiasmo genuino e coinvolgente. «Tu hai la giornata da impegnare ed io ho la prima tappa del mio viaggio fissata qui a Chicago.»

Oh.

«Ti va di farmi compagnia per qualche ora?» Propose, poi aggiunse immediatamente. «Poi ti riaccompagno qui in tempo per prendere l’aereo, giuro.»

Nick si ritrovò ad accettare ancor prima che Jeff finisse di parlare.
 
 


 

 
Buon salve e ben trovati, come andiamo? A me sorprendentemente bene e, vi dirò, il merito è in gran parte vostro. Siete già tantissimi ed io credo di non avere parole per esprimervi tutta la mia gratitudine per l’accoglienza che avete riservato a me alla mia bimba :3

Dunque, parlando brevemente del capitolo: forse potete già iniziare a capire dove ci porterà questa storia, ma io sono stata abbastanza attenta da rimandare chiarimenti e dettagli importanti ai prossimi capitoli, così da lasciarvi crogiolare nel dubbio per un’altra settimana o due.

Come avevo promesso, in questo capitolo, la personalità di Jeff viene fuori in tutta la sua esplosività e nei suoi colori cangianti – da qui, il titolo del capitolo, dettaglio di cui parlerò da un paio di righe. Jeff è un personaggio fondamentalmente pieno di entusiasmo genuino e ottimismo contagioso: io mi sono semplicemente basata su queste due caratteristiche per gettare le fondamenta della sua caratterizzazione, caratterizzazione che verrà meglio delineata nei capitoli successivi, ma che qui inizia a prendere corpo. E Nick vegano era assolutamente necessario per ovvie ragioni.

Come dicevo, Robs ha deciso di provare a essere trasgressiva e fare questa cosa che si chiama “dare titoli decenti ai capitoli”. Mi sono consultata con la mia meravigliosa beta e alla fine ho deciso di cimentarmi in questa nuova ed esaltante novità. Fino ad ora – LOL – i titoli sono stati scelti tutti da Vals, quindi io ho fatto ben poco, lo ammetto. Ci tenevo solo a specificare che i titoli dei singoli capitoli altro non sono che il continuo naturale del titolo della storia. Incredibile, eh? Spiegazione inutile, lo immaginavo, ma vabbè.

Per la mia Jeff: hai notato qualche *dettaglio* familiare, uh? xD

Inoltre, ho un paio di comunicazioni di servizio da farvi: la prima è che sto seriamente prendendo in considerazione l’idea di cambiare nickname qui su Efp, vi avverto così, se la prossima volta doveste trovarvi davanti qualcosa di diverso da “Lady_Thalia”, saprete comunque che sono io; la seconda è che stavolta non linko il mio profilo di Facebook, perché sto pensando di creare una pagina autore apposita e quindi la cosa avrebbe relativamente poco senso.

In ultimo, ma non meno importante, un grazie enorme a quelle sessanta meravigliose – e folli – persone che mi hanno aggiunta tra gli autori preferiti, dandomi quindi prova della loro fiducia, che io spero di meritare e rispettare.

E niente, non posso fare altro che darvi la mia parola che il prossimo capitolo arriverà tra una settimana precisa.
 
Robs.
 
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Capitolo 3
*** 3- From my ordinariness. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: 3/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 
 
 
 



From my ordinariness.
 

 

 
«Quindi, una matrimoniale per quante notti?»

Jeff si passò una mano tra i capelli per quella che era almeno la terza volta, da quando erano entrati in quell’Hotel. Il ragazzo aveva provato a ribattere, ma Nick era stato irremovibile: «Tu sei stato gentile con me, permettimi di essere gentile con te» e alla fine lo aveva quasi obbligato a preferire di trascorrere la notte in un hotel vero e proprio, invece che in un Bed & Breakfast qualsiasi. A sue spese, ovviamente: non avrebbe permesso a Jeff di spendere neanche un centesimo di più. Per Nick i soldi non erano mai stati un vero e proprio problema, perché suo padre continuava a sovvenzionare buona parte delle sue spese, sopperendo alle sue mancanze nella vita del figlio con abbondanti e generosi acconti sul suo conto. Per questo motivo, non ci aveva pensato due volte, prima di proporre a Jeff di scegliere direttamente un Hotel nel centro di Chicago, in modo tale da non essere costretto ad andare avanti e indietro durante il suo giro turistico, ma da trovarsi comunque non eccessivamente lontano dall’aeroporto.  

L’Hotel per il quale avevano optato – l’Hotel Sax, come recitava un’elegante seppur minimale insegna scura – era ospitato da una struttura moderna e imponente, curata nel dettaglio e sufficientemente artistica da far brillare gli occhi di Jeff a prima vista. L’interno era ampio e raffinato e Nick si era subito sentito a suo agio, grazie all’ambiente luminoso e accogliente. Jeff si era guardato intorno come un bimbo in un negozio di giocattoli gratis e Nick aveva sorriso automaticamente, felice di aver fatto la cosa giusta.

«Nessuna matrimoniale» ripeté, con tono conciliante, «una singola per una notte, non mi sembra così difficile da comprendere.»

L’impiegato dietro al bancone della reception – un uomo sulla quarantina, con il viso allungato e un naso aquilino sulla cui punta posavano un paio di occhiali dalla montatura sottile e rossastra – lo fissò come se fosse un mal riuscito incrocio tra un insetto particolarmente brutto e la Stele di Rosetta.

«Ma siete in due» puntualizzò, spostando lo sguardo su Nick, che si produsse in un’espressione ammirata, fintamente colpito dalle straordinarie doti deduttive di quel tipo.

«Io non devo rimanere a dormire» chiarì, di nuovo, alzando poi le spalle in direzione di Jeff che sembrava sentirsi profondamente colpevole per quel siparietto.

L’uomo sospirò, spazientito, e iniziò a tamburellare con l’indice sul piano in vetro del bancone. «Quindi, matrimoniale o singola?»

«Singola» rispose contemporaneamente i due ragazzi, riportando l’attenzione su di lui e sperando che quella fosse la volta buona.

«D’accordo» roteò gli occhi, mentre estraeva da un cassetto un paio di fogli prestampati. «Ma lui non può salire» terminò, puntando un dito verso Nick.

Jeff inarcò entrambe le sopracciglia e schiuse le labbra. «Cosa? E perché mai?»

L’impiegato – Nathaniel, come riportava la targhetta appuntata sulla giacca rosso bordeaux – li fissò con espressione saputa e superiore. «Perché si dia il caso che io sia nato qualche annetto prima di te e che i furbetti come voi abbia imparato a prevederli e a farli rigare dritto.»

Il ragazzo sbuffò. «Non mi sembra tu abbia fatto un lavoro granché buono.»

Nick fu costretto a trattenere una risata, mentre osservava Jeff con interesse. Non sembrava il genere di ragazzo che si innervosiva e portava rancore ed era divertente vederlo perdere le staffe in quel modo, sebbene risultasse minaccioso quanto un cucciolo di panda o una ciambella glassata.

«Ascolta, biondino» iniziò Nathaniel e Nick dovette posare una mano sul braccio di Jeff, per impedirgli di scattare a causa di quell’appellativo. «Il mio turno finisce tra mezz’ora e non ci tengo particolarmente ad essere disturbato nel bel mezzo della maratona di Dr. House che mi aspetta a casa, perché voi due avete deciso di-»

«Abbi pietà» lo interruppe Nick, sollevando una mano per porre freno a quel fiume sconclusionato di parole. «Prendiamo una matrimoniale, contento?»

Jeff gli lanciò uno sguardo interrogativo e Nathaniel si aprì in un sorriso lezioso e soddisfatto. «Ottimo» approvò, prestando attenzione al computer e digitando svogliatamente sulla tastiera. «Abbiamo finito le matrimoniali.»

«Ci stai prendendo in giro?» Jeff sembrava sul punto di una crisi di nervi senza precedenti. «Ci sta prendendo in giro, vero?» Domandò, retoricamente, rivolgendosi a Nick che, come risposta, inarcò un sopracciglio e scosse la testa.

«A cosa sono serviti gli ultimi dieci minuti di teatrino?» Volle sapere, con pazienza e cercando di arginare la furia di Jeff, in procinto di esplodere in tutta la sua magnificenza. «Avevo capito andassi di fretta.»

L’uomo si aggiustò gli occhiali sul naso e Nick fu sul punto di giurare che sembrasse profondamente divertito da quella situazione. «Sono rimaste solo camere doppie» spiegò, con una parvenza di professionalità. «Ma non potete unire i letti» ridacchiò.

No, non sembrava divertito: lo era a tutti gli effetti.

«Sei una persona molto infelice, Nathaniel» sospirò Jeff, con voce solenne, mentre gli allungava i documenti, subito imitato da Nick.

Il receptionist scrollò le spalle. «Ne riparliamo quando avrai passato qualche mese a fare il turno di notte in un posto del genere» sollevò entrambe le sopracciglia e gli sorrise complice, mentre verificava i loro dati. «Alienante.»

Nick avrebbe voluto ribattere che anche quel siparietto era stato piuttosto alienante, ma non gli andava di perdersi in altri interminabili minuti di chiacchiere inutili, così preferì tacere e scambiare uno sguardo di intesa con Jeff che, dalla sua espressione, sembrava aver avuto esattamente lo stesso suo pensiero.

Mentre il ragazzo sorrideva e l’uomo al bancone riprendeva con la sua parlantina accelerata, Nick non ebbe quasi modo di riflettere sulla sorprendente facilità con cui gli riusciva la comunicazione non verbale con Jeff.
 

*°*°*°

 
«Nord o Sud?»

Così aveva esordito Jeff quando, neanche un’ora dopo, si erano ritrovati di nuovo fuori l’albergo. Nessuno dei due aveva ritenuto necessario riposarsi: Nick aveva liquidato Jeff con un pratico “dormirò in aereo” e Jeff aveva ribattuto con un altrettanto sensato “Ho tutta la notte per dormire”.

Non avevano un itinerario stabilito, perché Jeff aveva appuntato minuziosamente sulla sua piantina di Chicago tutti i luoghi che gli sarebbe piaciuto visitare, ma non aveva idea da quale iniziare. Nick fece schioccare la lingua a quell’interrogativo e sbirciò la cartina che il compagno reggeva tra le mani, studiando la dislocazione dei vari cerchietti rossi che evidenziavano i loro obiettivi principali: fondamentalmente, erano divisi tra le due rive del Fiume Chicago, quindi bisognava solo stabilire se iniziare dalla sponda Nord o da quella Sud.

«Mmmh» considerò. «Direi di iniziare da su, ci siamo già, dopotutto» puntò un dito su quella che era la rappresentazione stilizzata dell’hotel nel quale risiedevano.

Jeff annuì e piegò la cartina in modo tale da mantenere esposta la regione nella quale gli interessava orientarsi, dopodiché gli sorrise entusiasta. «Beh, direi di metterci in cammino, allora» propose con gli occhi che brillavano di eccitazione. Nick non riuscì a reprimere un sorriso e annuì, contagiato dal suo buon umore.

Iniziarono a camminare con tranquillità, i loro gomiti che si sfioravano di tanto in tanto e i nasi puntati immancabilmente verso l’alto. Fu chiaro a entrambi, dopo neanche dieci passi, che Chicago fosse interamente sviluppata in verticale. Quando Jeff gli aveva detto che i primi grattacieli erano stati costruiti proprio in quella città, Nick aveva immaginato che ci si fosse limitati ai primi grattacieli, appunto, non pure a tutti gli altri. Invece il centro della città era un’imponente e ammaliante rete di edifici alti centinaia e centinaia di metri e Nick si stupì di notare come ognuno di essi fosse diverso dagli altri. Per forma, colore, dimensioni, dettagli nella facciata, abbellimenti della natura più varia. Jeff sembrava sopraffatto da tutta la maestosità che lo circondava e continuava a guardarsi intorno, indicandogli questa o quella struttura per mettere l’accento su un particolare che Nick, da non intenditore, non aveva notato.

«Eccola» sospirò il ragazzo, fermandosi di fronte ad un grattacielo sorprendentemente alto e dall’intelaiatura di metallo scuro. «La John Hancock Tower» spiegò, schiudendo le labbra e continuando a tenere il mento in alto. Nick riconobbe quel nome come uno dei cerchietti sulla loro cartina ma, oltre quello, non gli diceva proprio nulla. Niente che giustificasse l’espressione di mistico stupore con cui Jeff lo stava contemplando, in ogni caso.

«Bella» commentò semplicemente e con sincerità, non sapendo cos’altro aggiungere. A essere bella, lo era parecchio – con le vetrate scure e quelle specie di X che ne decoravano tutta la lunghezza – ma era un palazzo come tanti. Uno molto alto, certo.

Jeff parve comprendere il suo scetticismo, tant’è che si voltò verso di lui e infilò le mani nelle tasche dei jeans. «All’università ho dovuto preparare e discutere una relazione solo su quest’unico edificio» sollevò leggermente le spalle come a volersi giustificare. «Trovarmelo davanti adesso è davvero… wow

Nick annuì, colpito da quelle poche parole. «Posso immaginare, ma io non ne capisco nulla, quindi non riesco a-»

«Vedi?» Lo interruppe Jeff, puntando nuovamente un dito verso la facciata della torre. «Quelle X non servono solo ad abbellire l’edificio» gli spiegò e Nick seguì il suo sguardo e schiuse le labbra in un muto “oh” di sorpresa, «grazie a quelle, si possono raggiungere altezze non indifferenti e pensa che questo grattacielo è capace di resistere a venti di più di 200 km/h, proprio grazie ad esse. E’ sorprendente.»

«Lo è davvero» gli fece eco Nick, sinceramente ammirato dalla passione e dalla professionalità che Jeff aveva inserito in quelle poche frasi di spiegazione. Non riuscì a impedirsi di voltare lo sguardo verso il ragazzo, abbandonando l’imponente spettacolo della John Hancock Tower in favore di quello altrettanto sorprendente del viso di Jeff che brillava di emozione e ammirazione, gli occhi ancora rivolti verso il grattacielo e le labbra schiuse in un sorriso senza fiato. Lo stomaco gli si attorcigliò in maniera inaspettatamente piacevole.

«D’accordo» decise, senza averlo premeditato. «Istruiscimi.»

Jeff aggrottò la fronte e abbassò gli occhi su di lui in un’espressione palesemente confusa che fece sorridere Nick.

«Io sono un profano in questo genere di cose» provò a spiegare, avvertendo le guance riscaldarsi inaspettatamente e sentendosi piuttosto ridicolo. «Quindi, non lo so, devo passare una giornata a Chicago e voglio approfittarne per, uhm, arricchire il mio bagaglio culturale?»

Sorrise al sorriso radioso che gli regalò Jeff e si sentì subito più tranquillo, quando il ragazzo batté le mani ed esultò festante: «Vedrai, te la farò amare e ti farò venire voglia di tornarci il prima possibile.»

Nick non lo metteva minimamente in dubbio. E così scoprì che quello era il terzo edificio più alto di Chicago e che quelle simpatiche X che lo decoravano erano tutto fuorché banali abbellimenti, ma che lo rendevano una vera e propria icona dell’architettura. Jeff sembrava davvero sapere ogni più piccola informazione riguardo quel palazzo e Nick se ne perse la metà, troppo intento a studiare la sua espressione, per prestare attenzione alle sue parole. Il viso di Jeff si illuminava in maniera incredibile, mentre gli raccontava del carissimo ristorante ospitato a Nick non ricordava quale piano – «Lassù, un drink lo paghi quasi quindici dollari, è assurdo ma ne vale decisamente la pena!» –, o della piscina e dell’osservatorio, e il ragazzo dovette sbattere più volte le palpebre per focalizzarsi nuovamente sulla spiegazione e smetterla di incantarsi a contemplare le fossette che gli si formavano all’angolo delle labbra o il modo in cui si spostava i capelli dalla fronte.

Camminarono tanto, forse più di quanto Nick avesse pensato di fare, perché Jeff sembrava aver preso in parola la sua richiesta di fargli da cicerone e non si risparmiò di mostrargli e indicargli ogni singolo edificio a suo parere degno di menzione. Ovvero, tutti.

Rimase un attimo interdetto, Nick, con le labbra schiuse e gli occhi fuori dalle orbite, quando si ritrovò davanti alla Trump Tower, un altissimo grattacielo costruito interamente con alluminio e vetro blu riflettente: quel giorno, con il cielo limpido e il sole che splendeva indisturbato, l’edificio era una macchia azzurra nel grigio dei palazzi circostanti e lasciava davvero senza fiato.

«A me non piace particolarmente» gli rivelò Jeff con un sorrisino, la testa inclinata di lato mentre studiava l’edificio. «Perché lo trovo un po’ troppo fuori luogo, ma ammetto che sia veramente uno spettacolo da non potersi perdere.»

Nick annuì, ovviamente d’accordo. «Riesci a immaginarlo con il cielo nuvoloso?» Doveva essere particolarmente inquietante vedere come le nuvole e il grigiore di una giornata di pioggia si riflettevano in quelle centinaia di metri di specchi.

Jeff si produsse in un fischio ammirato, inarcando entrambe le sopracciglia a quel pensiero. «Credo che in quel caso capirei cosa hanno provato gli Hobbit nel trovarsi di fronte Minas Tirith

L’altro ridacchiò per quel paragone apparentemente privo di senso ma calzante, nella sua semplicità e stranezza. «Paura e terrore?»

«Eccitazione e fibrillazione» lo corresse, con un sorriso da sadico. «Dio, non ci credo che nessuno di loro fosse elettrizzato all’idea di combattere quella battaglia! Deve essere stato epico!»

«È morta della gente, in quella battaglia, Jeff.»

«Anche in quella di Hogwarts, ma non puoi proprio negare che non sarebbe stato sensazionale prendervi parte.»

E continuarono così, a ridere e fare battute cretine come se si conoscessero da anni, invece che da poco meno di un giorno. Nick aveva smesso di stupirsi della naturalezza con gli riusciva chiacchierare con Jeff: se all’inizio l’aveva associata al carattere esuberante del ragazzo, poi non poté negare che la causa di quell’innata complicità che sembravano avere doveva essere ricercata nel fatto che, fondamentalmente, lui e Jeff erano davvero molto simili. Certo, a uno piacevano i numeri e all’altro i viaggi coast to coast, ma oltre a quello avevano un numero considerevole di interessi in comune.

Ammirarono da lontano la Lake Point Tower, un edificio relativamente isolato rispetto al centro di Chicago e non particolarmente alto, ma che fece squittire Jeff come una dodicenne innamorata, a causa della sua particolare forma concava con gli angoli bombati e anche perché “Dalla sua cima riesci a vedere tutta Chicago e deve essere un qualcosa di assolutamente emozionante”.

Jeff raccontò a Nick che, sebbene fosse un grande appassionato di architettura e storia dell’arte, non aveva mai avuto modo di viaggiare molto e quindi stava approfittando di quell’occasione per rifarsi di tutte le opportunità mancate nel corso della vita.

«Quindi perdonami se mi mostro un po’, uhm, sovraeccitato, sì» disse a Nick che, dal canto suo, inarcò un sopracciglio e si affrettò a spiegargli che non aveva alcuna ragione o bisogno di scusarsi per il suo entusiasmo così genuino e contagioso.

Quel ragazzo era una forza della natura: se avesse trovato qualcuno che gli avesse ingabbiato l’ottimismo e la positività, sarebbe stata una perdita inimmaginabile. Il mondo aveva bisogno di più persone come Jeff, stabilì Nick. 

Quest’ultimo, dal canto suo, non aveva mai avuto granché occasioni di mettere il naso fuori dal suo appartamento a New York o dalla villa dei suoi genitori a Los Angeles – sempre se si escludevano le vacanze di Natale a Vancouver, a cui suo padre obbligava l’intera famiglia a partecipare – per cui si sentiva sopraffatto dalle informazioni che Jeff gli forniva, da tutto il ben di Dio che c’era da vedere lì a Chicago, dalla quantità incalcolabile di storia che si nascondeva in quei palazzi, dagli aneddoti che abbellivano ogni edificio.

«Dopo Chicago» esordì Nick, mentre attraversavano le acque cristalline del Fiume Chicago, «qual è la prossima tappa?»

Jeff fece schioccare la lingua e aprì la tracolla che gli cadeva sul fianco, ci trafficò un po’ dentro e poi estrasse una cartina geografica che dispiegò davanti a sé, senza smettere di camminare. «Dunque» esclamò e Nick strizzò gli occhi per riuscire a vedere, nonostante il sole che gli dava fastidio agli occhi; vi erano rappresentati tutti gli Stati Uniti e Jeff aveva provveduto a disegnare delle X rosse sui punti di suo interesse: attraversavano tutto il continente in orizzontale, partendo da quella che sembrava New York e arrivano fino a… «Phoenix, poi Las Vegas, San Diego e infine Los Angeles.»

Nick ingoiò a vuoto. Oh.

«Poi immagino prenderò un aereo per tornare a casa» stava continuando a spiegare Jeff, ma Nick percepiva le sue parole come un mormorio ovattato e distante, troppo occupato a riflettere sull’ennesima coincidenza che caratterizzava il loro incontro. Stesso punto di partenza, stessa destinazione, stesso itinerario – almeno in parte. Seriamente, quante probabilità c’erano? Nick era bravo con i numeri, ma tutta la sua esperienza con la statistica e l’aritmetica non sarebbe bastata a rispondere a quell’interrogativo. Sfuggiva da ogni logica.

«O rifarò il viaggio al contrario ma cambiando itinerario» proseguì indisturbato Jeff, rimettendo la cartina nella tracolla. «Dipende da una serie non indifferente di fattori che poi-» si interruppe e inarcò un sopracciglio. «Mi stai ascoltando, uhm?»

L’altro si riscosse e si voltò a guardarlo, mentre giungevano alla riva opposta del fiume, annuì. «Sì, scusa» sorrise, sollevando leggermente le spalle. «Pensavo al fatto che siamo entrambi diretti a Los Angeles.»

Jeff tacque un attimo, poi annuì. «Sì, l’ho pensato anche io, quando mi hai detto che era quella la tua destinazione» non diede neanche a Nick il tempo di ribattere, che si aprì in un enorme sorriso radioso e che non prometteva nulla di buono. «Ehi, magari potresti venire con me» buttò lì, come se gli avesse appena rivelato il nome del suo gatto. «Arriveresti comunque a casa, ma almeno lo faresti seguendo il sentiero dorato.»

Nick inarcò un sopracciglio. Era serio? Non avrebbe saputo dirlo, perché Jeff aveva perennemente quell’espressione in viso e Nick non lo conosceva abbastanza da riconoscerne le varie sfumature. La sola prospettiva di fare l’intero viaggio con Jeff lo fece rabbrividire, ma non di ansia o preoccupazione. E Nick non sapeva se essere più spaventato dal fatto che Jeff gli avesse fatto quella proposta o dal fatto che, fondamentalmente, non ne era spaventato per nulla.

Ad ogni modo, il discorso cadde nell’esatto momento in cui entrarono al Millennium Park – che Jeff definì poeticamente come “il polmone verde di Chicago”. Di tutto ciò che aveva visto in quella mezza giornata, quella forse fu la cosa che gli piacque di più. Il parco era un’immensa macchia di verde, organizzata in padiglioni – in cui Jeff gli spiegò che spesso si tenevano concerti ed eventi mondani del genere – aree ristoro e divertimento. Non faceva fatica a credere che fosse una delle attrazioni maggiori di quella città, senza togliere che doveva essere molto amato anche dagli abitanti di Chicago stessi, visto che non si contavano le persone che facevano jogging o portavano a spasso il cane.

L’area più battuta, però, era sicuramente quella intorno al Cloud Gate e Nick non aveva alcuna difficoltà a capirne il motivo. La scultura – «”Il Fagiolo”», come esordì Jeff appena gli si avvicinarono – aveva la particolare forma ellittica che, grazie anche al colore, ricordava una goccia di mercurio. E anche un fagiolo, sì, Nick non poté negarlo.

«Facciamoci una foto, dai» esclamò Jeff, elettrizzato come Nick non lo aveva mai visto. Si avvicinò al monumento quasi saltellando e Nick lo seguì sorridendo, momentaneamente dimentico del discorso di poco prima.

Il Fagiolo gli restituì le loro immagini distorte e un po’ bombate e Nick sospiro sereno alla sensazione di trovarsi lì con qualcuno di così entusiasta con cui poter condividere quell’esperienza. Jeff estrasse una macchina fotografica digitale dalla tracolla, mentre Nick si guardava intorno e notava molti altri turisti impegnati nella loro stessa attività.

«Sorridi» esordì, guardando nel metallo riflettente e aspettando che Nick facesse lo stesso. Fece un paio di passi indietro e posizionò la digitale in modo da riuscire a catturare entrambe le loro figure. Il ragazzo gli si affiancò e fece come gli era stato detto, senza doversi sforzare di sorridere, ma sereno e rilassato come non ricordava di esserlo da tempo.

«Questa finisce nel mio blog» esultò Jeff, guardandola dal display e permettendo a Nick di fare lo stesso. Era stranissima, ma particolare proprio per questo motivo, con il parco riflesso dietro di loro e l’azzurro della bella giornata ad incorniciare i loro visi sorridenti.

«Troverai il modo per farmela avere?» Si ritrovò a domandare, senza averlo premeditato e senza sollevare il viso dal display. La voleva. L’avrebbe fatta stampare e avrebbe trovato il suo posto sulla bacheca di sughero nella sua stanza. Un eterno memorandum di una delle disavventure più piacevoli di sempre.

Jeff annuì. «Certo» assicurò. «Magari mi lasci un tuo recapito e te la invio.»

Oppure, aggiunse la mente di Nick, ci vediamo a New York per un caffè e me la porti di persona.
 

*°*°*°

 
Sedersi, dopo aver girato per mezza Chicago, fu un’esperienza che trascese il divino. Nick avvertì ogni singolo muscolo ringraziarlo per quella gentile concessione che aveva deciso di fargli e, nel momento in cui presero finalmente posto ad uno dei tavolini del Daley Plaza, non poté impedire ad un sospiro di sollievo di lasciargli le labbra.

La piazza brulicava di cittadini, turisti, lavoratori in pausa pranzo. Jeff gli aveva spiegato che era praticamente il centro di Chicago, sia della vita mondana che di quella economica. Avevano trascorso qualche minuto a studiare le curiose opere d’arte che l’abbellivano – «Seriamente, io Picasso non lo capirò mai» aveva commentato Jeff – e successivamente avevano deciso di fermarsi a mangiare un boccone, prima di tornare in hotel a recuperare l’auto di Jeff per potersi recare all’aeroporto. Il “boccone”, alla fine, si era rivelato essere un frappè al cioccolato per Jeff e un tè alla menta per Nick.

Quest’ultimo si sentiva stanco e intorpidito, vuoi per il caldo, vuoi per la consistente mancanza di sonno, aveva bisogno di fermarsi per qualche attimo e riprendere fiato, magari chiudendo gli occhi e stando in silenzio. Jeff parve capire che il momento per le chiacchiere era stato temporaneamente messo da parte e così, mentre Nick sorseggiava il suo tè e si guardava intorno in quel posto così nuovo per lui, aveva estratto un quaderno e una matita dalla sua tracolla e aveva iniziato a scarabocchiare.

Disegnare, si corresse mentalmente Nick, quando notò che non solo quello non era un quaderno, ma un album da disegno, ma anche che Jeff aveva preso a tracciare delle linee morbide e precise sul foglio, gettando occhiate veloci alla scultura di Picasso che avevano di fronte.

E fu in quel momento, che gli tornarono in mente tutti i dettagli della sua auto, i quaderni, le penne e il post-it sul cruscotto, la tracolla piena di scritte e l’amore per l’architettura.

«Hai preso lezioni alla Tisch?» Domandò, osservando il disegno prendere vita.
Jeff annuì e sollevò appena lo sguardo su di lui per rivolgergli un sorriso luminoso, poi ritornò a prestare attenzione al suo capolavoro. Nick lo osservò affascinato.

«Il mio tutor all’università» spiegò il ragazzo, «mi ha suggerito di prendere qualche lezione per, uhm, ammorbidire la mano. Il mio tratto era troppo deciso e marcato, andava bene per il disegno tecnico e squadrato, ma non si sarebbe adattato al ritratto di un viso o di un paesaggio» sollevò leggermente le spalle, «ed io ho deciso che aveva ragione e gli ho dato retta.»

«Sei davvero bravissimo» si complimentò Nick, senza riuscire a fare nulla per impedirlo, ipnotizzato dalla sua mano che si muoveva sicura sulla carta e dalla sua espressione concentrata.

L’altro arrossì lievemente e gli rivolse uno sguardo imbarazzato ma lusingato. «Ti ringrazio, ho fatto un sacco di pratica con il mio coinquilino» ridacchiò. «È il mio modello preferito, anche se si è lamentato ogni singola volta.»

Nick si morse un labbro e immaginò che – visto il modo in cui ne parlava e visto che era già la terza o quarta volta che entrava in argomento – ci fosse del tenero tra lui e questo suo fantomatico amico. Annuì sovrappensiero e poi fece schioccare la lingua. «Beh, direi che hai fatto davvero un ottimo lavoro» commentò, con sincerità.
«Questo disegno è veramente perfetto.»

Di nuovo, Jeff sorrise e lo ringraziò, mordicchiandosi il labbro in imbarazzo e stringendo lo stomaco di Nick in una morsa delicata e piacevole.

Decisero con un tacito accordo di ritornare in hotel, così salutarono il Daley Plaza e ripercorsero la strada al contrario, godendosi quegli ultimi dieci minuti di caos cittadino, prima di prendere l’auto e recarsi all’aeroporto.

Jeff non aveva più menzionato l’eventualità di fare il viaggio insieme e Nick si convinse che il ragazzo stesse scherzando. Dopotutto, si conoscevano da neanche ventiquattro ore e sarebbe stato da incoscienti per lui proporre a un perfetto sconosciuto di accompagnarlo in quell’avventura. Certo, avevano sintonia e avevano trascorso una piacevole mezza giornata, Jeff era stato gentile e Nick gli era davvero riconoscente, ma da questo al prendere in considerazione l’idea di partire insieme ne doveva passare di tempo.

Fu un viaggio silenzioso e breve, perché Nick era stanco e intorpidito e Jeff sembrava aver perso tutta la voglia che aveva di chiacchierare e riempire l’abitacolo della vettura di sorrisi ed entusiasmo. Il ragazzo immaginò che anche lui dovesse essere stanco e quindi non diede eccessivo peso alla cosa.

Quando giunsero davanti all’aeroporto, Nick si rese conto che la voglia di partire non l’aveva per nulla e che avrebbe preferito di gran lunga camminare per tutta Chicago per altre dodici ore, piuttosto che prendere l’aereo. Sempre in compagnia di Jeff, ovviamente, sospettava che quello fosse un fattore di rilevanza non indifferente.

«Senti» esordì il ragazzo, mentre Nick si rimetteva lo zaino in spalla e si apprestava a uscire dall’auto. «Ti va di firmarmi la borsa?» Domandò quasi timidamente, ma di nuovo sorridendo.

Nick si rese conto di non aver alcuna ragione per rifiutare la proposta e così annuì, senza riuscire a impedire alla malinconia di assalirlo improvvisamente. Prese il pennarello che Jeff gli porgeva e vi tolse il tappo mentre pensava a qualcosa di intelligente da scrivere, una frase ad effetto, un breve aforisma, una battuta simpatica. Niente, il suo cervello non gli suggerì nulla di geniale, così scrisse l’unica cosa inequivocabilmente vera che gli venne in mente. Proprio sulla tracolla, forse l’unico posto libero rimasto.

“Grazie per avermi salvato. -Nick”

Restituì a Jeff il pennarello e gli dettò il proprio indirizzo email, così che il ragazzo potesse spedirgli la fotografia, dopodiché uscì dall’auto. Jeff lo seguì per aiutarlo con i bagagli, ma non aggiunse altro e Nick non aveva idea di cosa dire o fare per salutarlo, così si limitò a camminare fino all’ingresso dell’aeroporto con lo stomaco fastidiosamente annodato e le gambe pesanti.

«Quindi.»

Esordirono nello stesso istante, come nella più scontata delle commedie romantiche. Si sorrisero e poi Jeff gli fece cenno di parlare per primo.

Nick si morse un labbro e inclinò la testa di lato, osservando Jeff senza sapere cosa dire. «Beh, grazie, Jeff» si decise alla fine. «Se non fossi arrivato tu, sarei ancora su quella strada.»

L’altro scosse la testa e sollevò le spalle. «Mi sembrava il minimo» rispose. «Io ti ringrazio per avermi fatto compagnia oggi. È stato… bello, sì.»

E Nick annuì e sorrise di più, perché lo era stato, lo era stato davvero. «Magari possiamo» esitò, «non lo so, abitiamo entrambi a New York…»

«Ti scrivo, magari» propose Jeff, interrompendolo. «Ci accordiamo per un caffè.»

Dopo non vi furono altre parole, solo un paio di cenni del capo e una mano che si sollevava per salutare, un ultimo sorriso e poi Nick si voltò per entrare nell’edificio. Lasciandosi Jeff alle spalle insieme a Chicago.

Chiuse gli occhi e fece un passo, poi un altro. Poi smise di pensare e si girò di nuovo.

«Dicevi sul serio?»

«Dicevo sul serio.»

Ancora, nello stesso momento, senza bisogno di specificare, perché sapevano entrambi a cosa si stavano riferendo. E Nick non ebbe bisogno di sapere altro, mentre camminava di nuovo verso il sorriso luminoso di Jeff.
 

 
 


È stata dura, ma ce l’ho fatta! Questo capitolo è stato un parto, non tanto per la fase di scrittura, ma quanto per quella della ricerca/cernita dei vari luoghi da farvi visitare. Si ringrazia la Street view di Google Maps, che mi ha salvato da innumerevoli casini e grazia alla quale adesso so anche che a Daley Plaza ci sono effettivamente dei tavolini a cui sedersi.

No, seriamente, è stato atroce perché avevo una paura folle di annoiare e fare un casino assurdo e alla fine non sono esattamente certa del risultato, ma a me non dispiace, quindi spero che convinca anche voi. Dunque, prima di perderci in chiacchiere riguardanti il capitolo, vi lascio l’elenco dei posti che i nostri bimbi hanno visitato, così potete farci un salto anche voi.

1-      John Hancock Tower.
2-      Trump Tower (con Minas Tirith).
3-      Lake Point Tower.
4-      Chicago River.
5-      Millennium Park.
6-      Cloud Gate.
7-      Daley Plaza.
8-      L’opera di Picasso che Jeff stava disegnando.
9-      Qui invece trovate l’Hotel Sax.

Un grazie immenso a chiunque è giunto fin qui e un grazie ancora più immenso a chi ha recensito i capitoli scorsi e ha inserito la mia bimba nelle varie categorie di Efp: siete una botta di autostima e mi sono uccisa per riuscire ad essere puntuale, perché ve lo dovevo. Siete fantastici.

Un grazie e un bacio a Vals che mi ha regalato la locandina che vedete lì sopra e che non mi ha mandato a quel paese quando “Ho un’idea pazzissima e assurda e complicatissima”. Fino a che c’è lei che mi asseconda, Robs è una fanwriter felice.

A proposito, ho fatto finalmente richiesta di cambiare nick name: non so quando me la accorderanno, ma se vedete un nome strano *coff* quella sono comunque io.

E nulla, sul capitolo non ho molto da dire, perché questi due si scrivono da soli ed era dall’inizio che la storia doveva andare così e seguire questa direzione, quindi non ho nulla da commentare a riguardo. Rescue Me, potete notarlo adesso, è un po’ complessa, perché si tratta di fare un viaggio e trasmettere informazioni ed emozioni e io spero vivamente di esserne in grado e che voi decidiate di partire con me, Nick e Jeff, in questo coast to coast attraverso gli States.

Ah, Jeff vi piace? Io ce lo vedevo un sacco artista e mi sono permessa di disegnargli questa personalità, sperando che non vi risulti alieno o forzato.

Altro da dire non ce l’ho, ci vediamo martedì prossimo,

Robs.
 
 
 

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Capitolo 4
*** 4- From my weakness. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: 4/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 
 



From my weakness.

 

 
La telefonata ai suoi genitori fu quanto di più patetico Nick avesse in memoria. “Umiliante”, l’avrebbe definita una parte di sé, ma il ragazzo si era ben presto – e con grande sorpresa – reso conto che del parere di suo padre gliene importava ben poco.

Era stato, più o meno, nel momento in cui suo padre aveva provato ad accampare la scusa del “se avessi fatto come io ti avevo detto…”: la mente di Nick aveva smesso di acquisire informazioni e aveva completato quella frase con l’unica cosa che davvero sembrava degna di nota.

“Non avrei conosciuto Jeff.”

Aveva riattaccato il telefono, quando aveva realizzato di non aver ascoltato nessuna delle parole di suo padre o di sua madre che cercava di intercedere tra di loro. Si era assicurato che avessero compreso che sarebbe arrivato con qualche giorno di ritardo e poi aveva ritenuto superfluo metterli al corrente di dettagli aggiuntivi. Non era necessario sapessero le reali motivazioni che si celavano dietro quel posticipo.

Anche perché neanche lui era certo di averle ancora comprese.

Era sempre stata una persona organizzata e schematica, di quelle che si programmano la giornata al minuto, di quelle che ogni lunedì già sanno esattamente cosa faranno tutta la settimana, di quelle che vanno nel panico alle improvvisate, di quelle che non sono in grado di vivere bene senza avere sempre con sé un’agenda su cui segnare ogni appuntamento o impegno.

Noioso.

Quante volte si era definito così? Quante volte aveva provato a farne a meno? Ad essere meno fiscale e rigido? Aveva perso il conto, ormai: in troppe occasioni, si era rivelata essere una condizione limitante, piuttosto che un pregio di cui farsi vanto. Un tale cambio di rotta, quindi, equivaleva ad abbracciare l’ignoto e a scendere a patti con la sua paura di essere colto impreparato e Nick ancora non riusciva a trovare una sola ragione per cui quella situazione avrebbe dovuto mettergli ansia. Si sentiva elettrizzato, eccitato come con lo era mai stato e, nel modo più assoluto, lontano da qualsiasi genere di ripensamento. Si sentiva vivo ed erano bastati un sorriso sincero e una mezza giornata senza pensieri a fargli mettere in discussione ogni sua precedente convinzione.

Forse non erano così radicate, Nicholas, lo ammonì, nella sua testa, quella che sembrava la voce di sua madre.

Nick la mise a tacere immediatamente e, mentre apriva la porta a vetri del balcone e rientrava nella camera dell’hotel, pensò improvvisamente alla destinazione del suo viaggio. Al reale motivo del suo viaggio e a ciò che avrebbe, inevitabilmente, trovato una volta giunto a casa. Aveva desiderato partire con quel ragazzo conosciuto appena qualche ora prima, dopo averci scambiato poche parole e qualche sorriso complice: iniziava a temere che separarsi da lui, una volta giunti a Los Angeles, non sarebbe stato affatto semplice.

Jeff era seduto sul suo letto, la fronte aggrottata e una miriade di fogli dai colori più disparati sparsi davanti a lui: quando notò la tracolla abbandonata sullo scendiletto, Nick dedusse che il ragazzo ne avesse riversato il contenuto sul piumone.

«Pulizie di primavera?» Lo apostrofò, facendo schioccare il collo, intorpidito. Jeff sollevò lo sguardo su di lui, abbandonando per un attimo la cartina geografica che stava studiando, e sorrise.

«Pianifico il nostro viaggio» annunciò, seguendolo con lo sguardo, mentre si accomodava sul letto gemello al suo. Quei materassi erano sorprendentemente alti e comodi e Nick non vedeva l’ora di farci una lunga e ricostituente dormita.

Gettò uno sguardo alle carte topografiche che giacevano davanti alle gambe di Jeff e inclinò la testa di lato. «Avevo capito fossi partito “all’avventura”» inarcò un sopracciglio.

Jeff non rispose subito, ma si limitò a sollevare un po’ le spalle e a fare ordine dinanzi a lui. «Era così inizialmente» spiegò, recuperando la tracolla e infilandoci dentro un’agenda e qualche foglio. «Ma poi ho incontrato te e quindi ho deciso di fare le cose per bene.»

Aveva evitato di guardarlo negli occhi, mentre parlava, ma Nick non aveva fatto fatica a notare l’imbarazzo e il disagio che gli aveva causato dirgli quelle poche parole. E si sentì in colpa, perché aveva accettato di partire con lui, ma intendeva farlo alle condizioni di Jeff, non aveva neanche mai pensato di mettere bocca nelle sue decisioni. Quello era il viaggio della vita di Jeff e Nick non voleva essergli d’intralcio in alcun modo con la sua presenza.

Non si rese conto di essersi alzato, fino a che non si ritrovò seduto di fronte a Jeff, a fissarlo con sguardo deciso e anche un po’ severo. «Non essere idiota» stabilì, afferrando una cartina a caso e spiegandola davanti a lui. «Se cambi il viaggio a causa mia, giuro che vado a prendere l’aereo» terminò con un sorriso, guardando Jeff fare lo stesso.

«Ma non posso comportarmi più come se fossi solo» ribatté Jeff, con espressione colpevole. Era talmente tenero che Nick non poté impedire al proprio stomaco di annodarsi ripetutamente.

«D’accordo» decise: piegò un braccio verso di lui e gli mostrò il pugno chiuso. «Allora limitati a dirmi qual è la prossima tappa: per il resto, mi fido di te.»
Jeff lo studiò per qualche istante, passandosi la lingua sui denti e, probabilmente, prendendo in considerazione quella gentile concessione. «Ci sto» approvò poi e fece scontrare le proprie nocche contro quelle dell’altro. «Ma facciamo a metà con le spese.»

Trascorsero la serata nella più completa nullafacenza, al sicuro nell’intimità di quella camera d’albergo e con l’unica compagnia di loro stessi e delle brochure che Jeff continuava a tirare fuori dalla sua tracolla.

Il ragazzo gli raccontò brevemente dell’itinerario che aveva intenzione di fare, mentre Nick chiamava il servizio in camera e si faceva portare la cena – troppo stanchi entrambi per prendere in considerazione l’idea di scendere in sala o visitare uno dei ristoranti di Chicago – e faceva domande, tante domande, mentre la signorina all’altro capo del telefono gli chiedeva con chi stesse parlando e se magari voleva richiamare in un secondo momento.

E poi passarono a parlare del tempo – tra uno “speriamo che piova, io amo la pioggia” e un “abbiamo gli ombrelli? Ma poi, a chi importa?” – e arrivarono a conoscersi più a fondo, con Jeff che gli raccontò della sua famiglia numerosissima e Nick che si permise di ridere e sciogliersi come non gli era mai accaduto. E poi il discorso cambiò ancora, quando Jeff scavò nella sua tracolla, alla ricerca di neanche lui sapeva cosa, e ne tirò fuori una copia un po’ sdrucita e spiegazzata della “Guida galattica per autostoppisti” e finirono a recitarla a memoria e a ridere come due cretini, mentre la cena si raffreddava sul vassoio e la fame passava a entrambi.

«Che poi, perché proprio il Quarantadue?» Domandò Jeff, la testa che penzolava giù dal letto e le labbra piegate in un sorriso luminoso. «Non poteva essere, che ne so, il Trentasei

Nick fece una smorfia e ci pensò un po’ su. In effetti, si era posto anche lui quel quesito e, una volta, all’Università il suo professore aveva anche improvvisato una lezione su quel dilemma esistenziale. «Bisognerebbe sapere la domanda, per poter dare una risposta adeguata» rispose, saggiamente.

Jeff parve prendere in considerazione quella spiegazione e fece schioccare la lingua. «Beh, la domanda potrebbe essere “qual è il numero del pollo alle mandorle sul menu del ristorante cinese?”»

L’altro scoppiò a ridere e rotolò su un fianco per poterlo guardare meglio. «Non credo che al Pensiero Profondo piacesse mangiare al cinese» suppose, mettendosi a sedere e versandosi un bicchiere d’acqua.

Jeff lo imitò praticamente subito, continuando a sorridere sornione. «Allora forse era “quanti sono i tasti neri di un pianoforte?”»

«Oppure» ridacchiò Nick, mentre gli passava un bicchiere. «“Qual è il numero atomico del kripton?”»

Osservò Jeff inarcare le sopracciglia e rimanere con la mano a mezz’aria e ridacchiò. «Cosa?» Provò a difendersi. «È una domanda valida.»

«Preferisco la mia versione del cinese» stabilì il ragazzo e Nick non se la sentì proprio di aggiungere alcunché. Si limitò ad avvicinare il bicchiere al suo, in un brindisi improvvisato a “La Risposta alla Domanda Fondamentale sulla Vita l’Universo e Tutto quanto”.

Passarono il resto della serata a sfidarsi a chi riusciva a dirlo più volte di fila senza imbrogliarsi. Neanche a dirlo, Nick perse miseramente.
 

*°*°*°

 
La matita si muoveva sicura sulla carta. Tracciava linee sinuose e leggere, percorsi conosciuti solo a lei, avvallamenti nei quali si intratteneva più volentieri, colline che abbozzava appena. La mano che la guidava non se ne preoccupava: si fidava di lei e sapeva che bastava sentirla, per percepirla come naturale prolungamento del suo braccio. Bastava lasciarla fare, per traferire i pensieri, le immagini, direttamente dalla sua mente alla carta ruvida.

Le curve morbide che tracciava in quel momento, fluivano senza alcuna fatica dalla mina appuntita, si depositavano nella filigrana sottile del foglio e ne diventavano parte, un meraviglioso capolavoro indelebile e dal valore inestimabile.          

Jeff sapeva cosa stava disegnando. Lo sapeva perché la sua mano era direttamente collegata con la sua mente e, in quel momento, quell’ultima era occupata da un’unica e precisa immagine. Lo sapeva, anche se non lo aveva programmato, anche se non voleva. Lo sapeva anche se era consapevole di non essere in grado di farlo.

Seguì la curva del naso, accompagnando la matita in quel percorso così nuovo ma che sembrava così desiderosa di imparare; la aiutò a definire il contorno del viso, la linea decisa della mascella, la dolcezza delle sue labbra piene; litigò con la propria incapacità di donare profondità al suo sguardo, di non riuscire a racchiudere, in quel disegno, tutta la luce che sembrava emanare quando sorrideva; gli pettinò i capelli sulla fronte, accontentandosi di lasciare quel compito alla sua matita, senza osare farlo con le dita; disegnò il piccolo neo che aveva sotto l’occhio, la fossetta all’angolo della bocca e la curva elegante del suo collo.

Rimase a fissare l’opera compiuta, aggiungendo qualche ombra dove serviva, senza riuscire a esserne pienamente soddisfatto. Si prese un labbro tra i denti e usò la matita di taglio per colorargli i capelli, annerendo il disegno con chiaro-scuri che sperava gli donassero profondità, alla ricerca della perfezione del viso che desiderava ritrarre.

La perfezione non esiste, Jeff, si ammonì mentalmente, mentre la notte riversava su di lui un soffio di vento fresco che lo fece rabbrividire. Non aveva ritenuto necessario prendere una giacca, quando aveva deciso di prendere una boccata d’aria. L’insonnia non era mai stata un problema per lui, ma non era proprio riuscito ad addormentarsi. Aveva trascorso un tempo infinito a studiare il ragazzo addormentato al suo fianco, provando a capirne l’essenza e a memorizzare dettagli della sua persona che gli interessava scoprire più di ogni altra cosa, e poi aveva sospirato e si era alzato. Cercando di fare il meno rumore possibile, aveva recuperato il suo album da disegno e si era diretto sul balcone.

La vista era meravigliosa, dal quattordicesimo piano di quell’hotel. Chicago di notte prendeva vita, si illuminava di luci e lampioni, i profili dei grattacieli si stagliavano nel cielo scuro e la brezza leggera riempiva l’aria del profumo del Lago Michigan. Era uno spettacolo da togliere il fiato, ma Jeff non era riuscito a trovarlo interessante abbastanza da riprodurlo su carta. Le luci della città perdevano colore, se paragonate al sorriso di Nick; la rigidità dei palazzi stonava, a confronto con la dolcezza dei suoi lineamenti; i dettagli di quei grattacieli erano inconsistenti, accanto alle mille sfumature dei suoi occhi.

Osservò il ritratto con sguardo critico e inclinò la testa di lato, cercando di capire cosa mancasse a renderlo perfetto.

La perfezione non esiste, di nuovo, nella sua testa.

Eppure Nick era indubbiamente perfetto ed esisteva davvero, dormiva nel letto accanto al suo e si mordeva un labbro quando era nervoso, raccontata barzellette che non facevano ridere e gli faceva venire voglia di essere impeccabile a sua volta. Da quanto lo conosceva? Un giorno, un giorno e mezzo? Jeff non lo credeva possibile, perché si sentiva così inspiegabilmente coinvolto da lui, dalla sua storia piena di luci e ombre, dai suoi gesti cadenzati, dalla sicurezza che sembrava possedere, dal senso di responsabilità che gli ispirava, da ritenere impossibile averlo conosciuto solo qualche ora prima. Ci aveva provato, ma non era riuscito a lasciarlo andare. Aveva provato a fingere che fosse un’intersezione momentanea, quella delle loro strade, ma non era più riuscito a crederci nel momento in cui la loro complicità era saltata fuori in maniera talmente inaspettata quanto straordinaria. Non poteva essere un caso, non poteva essere una coincidenza. Si erano incontrati per un motivo e sarebbe stato da folli e incoscienti credere il contrario.
 

*°*°*°

 
Nick si svegliò riposato come non lo era da giorni. Quel letto era veramente comodo, pensò, mentre si metteva a sedere e si stropicciava gli occhi. Aveva recuperato la stanchezza accumulata nei due giorni precedenti e, eccezion fatta per un leggero dolore ai polpacci, si sentiva pronto ad affrontare la giornata. La stanza versava nella semioscurità, ma Nick non ci mise molto a scorgere il letto al suo fianco inequivocabilmente vuoto. Aggrottò la fronte e si guardò intorno, sbadigliando, alla ricerca di Jeff.

Perché al suo risveglio era sempre da solo?

Lo trovò, qualche minuto dopo, nel piccolo disimpegno che precedeva la camera da letto, appollaiato su una poltrona e intento a tracciare il profilo della Trump Tower sul suo album da disegno.

«Buongiorno» lo salutò, mentre si passava una mano sul viso ancora assonnato.

Jeff sollevò il viso su di lui e sorrise in risposta. «Salve, dormito bene?»

Nick annuì e si lasciò cadere sulla poltrona di fronte a lui. «Come mai già in piedi?»

L’altro non rispose, si limitò a scrollare le spalle e a rivolgergli uno dei suoi soliti sorrisi tutti denti e occhi luminosi. «Colazione?» Domandò invece, accennando al tavolo tra di loro su cui posava un vassoio colmo di ogni tipo di prelibatezza. «È appena arrivata» aggiunse, rispondendo all’occhiata interrogativa di Nick.

Lo stomaco di Nick brontolò in assenso, così il ragazzo si verso un bicchiere di succo di frutta e sgranocchiò una ciotola di cereali al muesli, mentre Jeff gli esponeva il programma della giornata.

Nick non seppe mai che Jeff aveva trascorso un’ora e mezza a discutere con il concierge per farsi portare una colazione che rispondesse alle esigenze del compagno.

Prima di lasciare Chicago, vi era un’ultima cosa che Jeff moriva dalla voglia di visitare. «Ci mettiamo poco» aveva assicurato, mentre si mettevano in viaggio, «ci passiamo solo davanti con la macchina.»

L’altro aveva annuito e si era mostrato d’accordo, concorde con quanto stabilito la sera precedente: la rotta non andava cambiata, non a causa sua; per cui, avrebbero viaggiato secondo le modalità stabilite da Jeff e visitato qualsiasi cosa lui desiderasse. Dopotutto, Nick non aveva alcun motivo o voglia di affrettarsi.

Oak Park era un sobborgo relativamente piccolo di Chicago, distante dal centro città appena quindici minuti. Il passaggio dal rigore dei grattacieli alla rusticità delle case di periferia, fu graduale e inatteso, Nick non era mai stato da quelle parti ma rimase incantato dal modo in cui una metropoli come quella potesse essere così versatile e piacevole da scoprire. Jeff proseguiva lentamente, prendendosi il tempo per studiare l’ambiente con occhi colmi di stupore e sorpresa e Nick non poté che imitarlo e considerare che non potesse esserci nome più calzante per quella cittadina. Sembrava di camminare in un enorme parco pubblico – la stessa sensazione provata a Millennium Park – solo che, invece di altalene e panchine, le strade alberate erano costeggiate da villette a schiera delle dimensioni più varie e dagli esterni variopinti e accoglienti. Era meraviglioso e la calma che quel luogo trasmetteva doveva essere terapeutica per qualsiasi malumore e nervosismo. Nick la immaginava come una di quelle città in cui tutti conoscono tutti, in cui cammini suoi marciapiedi e, ogni due passi, incontri qualcuno che ti offre un caffè, che ti chiede come precede la giornata e se può farti compagnia. La immaginava piena di vita e sorrisi genuini e cordiali, un bel posto in cui vivere, fondamentalmente.

Preso dai suoi pensieri, non si accorse che Jeff aveva accostato vicino a un marciapiede, le fronde delle querce che gettavano ombra sulla vettura. Lo fissò con un sopracciglio inarcato, non capendo cosa ci fosse da vedere in quella strada apparentemente identica alle precedenti. Jeff sollevò le spalle e si allungò a recuperare un paio di sgargianti occhiali da sole fucsia dal porta oggetti davanti a Nick, dopodiché si slacciò la cintura e sorrise.

«Scendiamo» annunciò, con tranquillità. Un attimo dopo, lui era già fuori e Nick lo stava già seguendo.

Il sole di mezzogiorno era caldo e scottava la pelle, ma i due ragazzi non se ne preoccuparono. Attraversarono la strada, a quell’ora praticamente deserta, e si ritrovarono di fronte una singolare quanto estesa villa borghese. Completamente in mattoni, immersa nel verde e su due livelli, Nick la osservò ammirato e con le labbra schiuse.

«Quando mi sposerò e metterò su famiglia» esordì Jeff, scattando qualche foto alla casa da diverse angolazioni. «Progetterò una villa come questa.»

Nick inarcò un sopracciglio e si voltò a guardarla nuovamente. «Cos’ha di, uhm, particolare?»

«È una Prairie House» spiegò Jeff, mentre si avvicinava di nuovo a Nick e gli indicava qualche dettaglio rilevante dell’abitazione. «È una delle massime espressioni dell’arte, l’unione del moderno e del tradizionale. Si adatta in maniera quasi terrificante al concetto che io ho di famiglia, sai» sollevò un po’ le spalle. «Spazi condivisi, focolare domestico, giardini immensi, privacy e intimità da ricercare» scattò un altro paio di foto, osservandole poi attraverso il display e sorridendo. «Sono sempre stato costretto a dividere gli spazi con i miei fratelli, per questo voglio che i miei figli abbiano ben chiaro il concetto di privacy e spazi condivisi, ma tenendo separate le due cose.»

Nick lo capiva, lo capiva fin troppo bene, anche se lui aveva solo due sorelle e non aveva mai avuto problemi di violazione della privacy, quando viveva a Los Angeles. Senza considerare che, siccome Emma si era sposata subito dopo il college e Susy aveva da poco compiuto otto anni, Nick aveva sempre vissuto nella condizione di figlio unico, più che altro.

«Dove la costruisci una cosa così a New York?» Domandò, sinceramente interessato e studiando le dimensioni non esattamente modeste dell’abitazione.

L’altro fece schioccare la lingua e gli rivolse un sorrisino entusiasta. «Chi ha detto che rimarrò a New York?» Ribatté, poi, all’espressione stranita e confusa di Nick, aggiunse. «Conto di ritornare ad Atlantic City: non posso stare troppo a lungo senza mare e surf.»

Ci mise un attimo, più o meno. Un attimo e l’immagine di Jeff con la tuta da surf, i capelli bagnati e la pelle scottata dal sole, gli si parò davanti agli occhi e lui si ritrovò a deglutire a vuoto per evitare di concentrarvisi troppo a lungo. Maledizione.

«Lasciami il tuo biglietto da visita» si schiarì la voce, mentre tornavano alla macchina e lui evitava di guardarlo per provare a cancellare quell’istantanea così vivida dalla sua testa. «Così saprò chi chiamare, quando la vorrò anche io.»
 

*°*°*°


Il Sole tramontava sempre più tardi. Viaggiare in macchina, con i finestrini abbassati e la brezza che rinfrescava l’abitacolo della vettura, era rilassante ogni oltre immaginazione. Parlare di tutto e di niente, con il gomito poggiato al finestrino e il paesaggio che scorreva veloce intorno a loro, la musica che diffondeva dallo stereo e incredibili voli pindarici che li portavano a spaziare da un argomento all’altro come se fosse la cosa più naturale del mondo. Phoenix distava quasi ventiquattro ore da Chicago e, sebbene sapessero che si sarebbero dovuti fermare per la notte, Jeff aveva giustamente proposto di approfittare delle ore di luce per viaggiare. Nick si era riscoperto incantato dal modo in cui il ragazzo guidava l’auto, dall’angolo che formava il suo ginocchio quando si allungava a premere l’acceleratore, dalla sua mano che si posava sicura sul cambio e dalle dita che tamburellavano sul volante, mentre lui gli raccontava questo o quell’altro aneddoto. Aveva dovuto costringere se stesso a distogliere lo sguardo da lui per non mostrarsi troppo invadente e aveva catalizzato la sua attenzione sul panorama alla sua destra. Certo, Jeff era un gran bel ragazzo e quello era innegabile, ma Nick non ci teneva proprio a compromettere la serenità del loro viaggio perché lui non riusciva a staccargli gli occhi di dosso.

Quando il sole tramontò, tingendo il cielo di tinte pastello e sfumando i contorni del paesaggio, Nick convinse Jeff a farlo guidare al suo posto. Il ragazzo era visibilmente stanco – lo si capiva dalla graduale diminuzione di chiacchiere e sorrisi e l’altrettanto graduale aumento di sbadigli e sbattimenti di palpebre – e Nick si sentiva piuttosto riposato, quindi aveva aggiunto una nuova clausola al loro accordo di viaggio: alla seconda volta che l’auto sbandava a causa della stanchezza del conducente, l’altro avrebbe potuto prendere il suo posto.

Jeff non aveva fatto eccessive obiezioni, forse perché agognava qualche ora di meritato riposo, e Nick si era messo alla guida in tutta tranquillità, procedendo adagio e distraendosi con la musica dello stereo, mentre il ragazzo al suo fianco si addormentava poco a poco.

Era una situazione stranissima, perché Jeff dormiva al suo fianco, con la testa abbandonata sulla spalla e le mani nascoste nella manica della felpa che aveva indossato, il cielo sopra di loro era limpido e spruzzato di stelle e le note di una delle hits di Phil Collins rendevano l’atmosfera ancora più magica e surreale. Nick non riusciva a trovare un solo motivo per cui non dovesse sentirsi sereno e rilassato come mai prima d’allora.

Gettò uno sguardo al ragazzo addormentato alla sua destra e sorrise automaticamente: Jeff era così tranquillo e beato nel sonno che era quasi naturale credere che da sveglio fosse esattamente l’opposto. Eppure, trasmetteva dolcezza e positività anche così, anche stretto nella sua felpa bianca, con i capelli spettinati e le guance arrossate e accarezzate dalle ciglia lunghe e scure.

Ci pensò giusto trenta secondi, mentre si ritrovava ad alternare per l’ennesima volta lo sguardo tra lui e la strada, alla prospettiva di poter trascorrere la notte sveglio a guardarlo dormire, a spiare il suo sonno e poter fare sua un po’ della sua vitalità, di potersi portare via qualcuno dei suoi sospiri, in segreto. L’idea di cullare il suo riposo e proteggere i suoi sogni, solo per un attimo, gli sembrò un modo meraviglioso per trascorrere la notte. Per trascorrere tutte le notti.

Fu con questo pensiero ben impresso nella mente, che fermò la macchina nel parcheggio del primo Motel che incontrò sulla strada.

 

 

 

 
(Indovinate chi è che ha cambiato nick su Efp?? *si indica* ma quanto mi piace questo nuovo nome?? :3)

Ci sono, giuro che ci sono, anche se sono in un tremendo ritardo. Abbiate pietà di me, ma è stata una settimana assurda. Questo capitolo è stato un parto, ma io ne vado complessivamente molto soddisfatta. Doveva essere un capitolo di transizione, un fillerino un po’ scemo e in cui non accadeva nulla, invece mi rendo conto che l’introspezione a palla che ci ho messo lo ha reso tutto tranne che scemo e leggero.

Cose importanti di questo capitolo, dunque: il POV di Jeff era assolutamente necessario, era dall’inizio che sapevo che quella testolina bionda avrebbe avuto il suo spazio e vi garantisco che nei prossimi capitoli tornerà ancora, perché è  stato un vero piacere scrivere di lui e della cotta clamorosa che ha per Nick.

L’EdwardCullen!Nick della fine si è scritto praticamente da solo ed io non ho potuto fare nulla per impedirlo. Sperando che Bella!Jeff non si svegli mentre lui lo fissa, altrimenti sarebbe difficilotto da spiegare. No, scherzi a parte, il prossimo capitolo riprende esattamente dalla fine di questo, quindi saprete tutto, tutto, e morirete con me.  

Altro punticino importante, il Quarantadue, il Pensiero Profondo, la Risposta alla Domanda Fondamentale, sono tutti elementi del libro/film “Guida Galattica per autostoppisti” (che io vi consiglio vivamente di vedere/leggere, se non lo avete ancora fatto).

Emma, una delle sorelle di Nick, è stata gentilmente presa in prestito dagli head canon di Silvia: non te l’ho detto, lo so, perdonami, ma per me è stato inevitabile pensare a lei.

La Prairie House (letteralmente “casa prateria”) non l’ho inventata io, ma è un progetto dell’architetto Frank Lloyd Wright.

Il banner è opera di quella meraviglia della mia metà che stavolta ha superato se stessa, inserendoci anche un suo stesso disegno. Amatelo e amatela, perché è veramente bravissima e i Niff sono adorabilissimi :3

Il prossimo capitolo arriverà, con ogni probabilità, giovedì 11, questo perché la settimana prossima Robs partecipa alla Thadastian!Week e quindi ha deciso di saltare l’aggiornamento settimanale: non odiatela tanto, è carina e coccolosa e sta scrivendo una long Thadastian per la week <3

Un bacio grande,

Robs.
 
 

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Capitolo 5
*** 5- From what I feel since you're here. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: ~5/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 



From what I feel since you’re here.


 

 
Dodici gradini.

Nick li aveva contati cinque volte.

La prima, quando era salito al Motel per chiedere se avessero stanze libere.

La seconda, quando era sceso a recuperare i documenti di un Jeff profondamente addormentato – vergognandosi come un ladro per la necessità di dover frugare nella sua tracolla.

La terza, quando era ritornato su a confermare la prenotazione dell’ultima matrimoniale disponibile.

La quarta, quando era andato a cercare di svegliare il suo compagno di viaggio per accompagnarlo a dormire in un posto più comodo.

La quinta, quando si era arreso all’evidenza e se lo era praticamente trascinato dietro in stato semicomatoso.

Jeff era notevolmente più alto di lui, per cui non era stato affatto semplice condurlo in camera, specialmente perché il ragazzo non sembrava intenzionato a collaborare. Si era poggiato alla spalla di Nick, un braccio dietro la sua schiena e il viso che minacciava di scivolare da un momento all’altro, e aveva lasciato che fosse lui a condurlo. Fortunatamente, la camera che aveva preso era al pian terreno e quindi, oltre quei dodici gradini, il percorso era stato tutto in orizzontale.

Nick si era dovuto scontrare, però, con la sua incapacità di fare più di due cose contemporaneamente. Camminare e respirare, camminare e guardare dove andava, camminare e mantenere salda la stretta su Jeff, camminare e fare qualsiasi cosa che non fosse ammirare il viso addormentato del ragazzo al suo fianco, visto che quest’ultima azione sembrava impossibile da evitare. Veniva continuamente distratto dai suoi capelli che gli solleticavano il collo e a quel punto era impensabile non abbassare lo sguardo e contemplare le sue labbra schiuse e gli occhi che faticavano a rimanere aperti.

Quando erano giunti in camera, aveva tirato un sospiro di sollievo, non tanto per i suoi muscoli che iniziavano a risentirne, quanto per la certezza che, ancora qualche minuto di vicinanza, avrebbe fatto qualche sciocchezza di cui si sarebbe inevitabilmente pentito.

Neanche a farlo apposta, Jeff si era svegliato dal suo torpore nell’esatto istante in cui Nick lo aveva fatto stendere sul letto – unico e matrimoniale – che avrebbero dovuto condividere. Si era scusato per il disturbo, era pudicamente arrossito per essersi comportato come un bambino e poi lo aveva accompagnato in macchina a prendere il pigiama e un cambio d’abiti.

Altri dodici scalini, quindi, per altre due volte, ma Nick era stato troppo impegnato a seguire il movimento della mano di Jeff che affondava tra i suoi capelli per spostarli dal viso, per contarli di nuovo.

Una volta ritornati nella stanza, aveva ritenuto strettamente necessario chiudersi in bagno e farsi una doccia, quanto meno per sciogliere i muscoli dalla rigidità della postura dovuta alla guida. E anche per schiarirsi le idee, soprattutto per schiarirsi le idee. Aveva lasciato che l’acqua sciacquasse via la spossatezza del viaggio e rinfrescasse ogni sua terminazione nervosa surriscaldata, il pensiero che inevitabilmente correva al ragazzo che lo aspettava dall’altro lato della porta chiusa.

Stava vivendo in maniera così frenetica che aveva perso la cognizione del tempo, come quando gli capitava di rimanere sveglio tutta la notte e andare a dormire al mattino: al risveglio, era sempre intontito e non sapeva mai se riferirsi alla notte appena trascorsa come “ieri” o come “oggi”. Nick stava provando esattamente la medesima sensazione di confusione e frastornamento. Tra l’altro, mentre cercava di quantificare a livello di giorni il tempo trascorso da quando era partito, gli sembrava impossibile che fosse così poco, che conoscesse Jeff da così poche ore. Perché, alla fine, era sempre quello l’orizzonte ultimo dei suoi pensieri.

Jeff gli piaceva ed era innegabile. Non vi era nulla di male, era un bel ragazzo e possedeva un’incredibile gamma di belle qualità e pregi ammirevoli, ma la velocità con cui lo aveva coinvolto e affascinato sfuggiva da ogni raziocinio e Nick non riusciva a evitare di arrovellarsi il cervello per trovare un senso a un qualcosa che, evidentemente, non ne aveva.

Ritornato in camera – dopo essersi opportunamente asciugato e aver indossato la T-shirt slabbrata e il pantaloncino scolorito che utilizzava come pigiama – trovò Jeff ad aspettarlo sul letto. Sul loro letto, quello che avrebbero condiviso e che presupponeva dormissero vicini, spalla a spalla, sotto lo stesso lenzuolo. Il solo pensiero gli azzerava la salivazione.

«Tutto tuo» annunciò, avvicinandosi a lui.

Jeff sollevò lo sguardo su di lui e sorrise stancamente, dopodiché annuì e si diresse in bagno, nel momento esatto in cui Nick si lasciava cadere sul letto. Aspettò di sentire l’acqua scrosciare, poi chiuse gli occhi e sospirò, domandandosi come avrebbe fatto ad affrontare quella notte, con i pensieri confusi che gli vorticavano in testa.

È un viaggio destinato a finire, ripeté a se stesso, quando arriverai a Los Angeles, non avrai più tempo e modo di pensare a lui.

E poi, ancora, la fastidiosa voce di sua madre che lo ammoniva mentalmente. Non puoi legarti, Nicholas.

Si lasciò andare a un lamento frustrato e si passò una mano tra i capelli ancora umidi, cercando di allontanarla, mentre il suo sguardo scorreva sul letto su cui Jeff doveva aver rovesciato il contenuto della sua borsa. Di nuovo. Sorrise, pensando a quanto fosse distorto il concetto di ordine di quel ragazzo, sembrava avesse proprio il bisogno fisico di riempire ogni ambiente con la sua presenza, di renderlo più simile a lui e adattarlo alle sue esigenze. Di colorarlo con la sua spontaneità e la sua vitalità.

Non doveva, lo sapeva ma, nel momento in cui il suo occhio cadde sull’album da disegno, che giaceva aperto poco più in là, gli fu impossibile trattenere l’istinto di allungare il collo e sbirciare. Non avrebbe prelevato o danneggiato nulla, voleva solo dare uno sguardo e godere del talento di Jeff, lui non lo avrebbe mai saputo e Nick avrebbe conservato il segreto per sempre. Fece il giro nel letto, con il cuore che batteva un po’ più velocemente, a causa dell’ansia di essere scoperto e dell’emozione di vivere uno dei disegni del suo compagno. Si assicurò che l’acqua scorresse ancora nella doccia e tenne quello come eventuale campanello d’allarme per evitare di farsi cogliere sul fatto. Afferrò l’album con mani tremanti e, ingoiando a vuoto, iniziò a scorrere le pagine, dalla prima all’ultima.

Jeff aveva un talento straordinario, constatò nuovamente, mano a mano che i disegni si susseguivano sui fogli e le immagini gli si imprimevano nelle retine. Ritraeva qualsiasi cosa si trovava davanti o gli passasse per la mente, immaginò Nick. Nature morte, il paesaggio al di là di una finestra, la prua di una nave, lo scorcio di una spiaggia, un banale portapenne. Schiuse le labbra, perdendosi tra le pieghe della carta e tracciando con lo sguardo le linee sottili che definivano i vari soggetti. Non aveva mai studiato arte, ma non ci voleva un esperto per comprendere che quei disegni fossero meravigliosi, proprio perché trasmettevano emozioni di un’intensità sconvolgente. Come se Jeff avesse voluto affidare a quei fogli i suoi pensieri, le sue sensazioni e i suoi stati d’animo, in modo che fossero poi loro a trasmetterli a chi lui non aveva, forse, voglia o coraggio di comunicarli.

Aggrottò la fronte quando, voltata l’ennesima pagina, si ritrovò faccia a faccia con il ritratto di un viso dal sorriso provocante e lo sguardo intenso. Fece scorrere le dita sulla carta, seguendo i contorni di quel volto e mordendosi un labbro nell’immaginare il momento in cui Jeff si era posizionato davanti a quel ragazzo dal torso nudo per ritrarlo.

È il mio modello preferito.

Doveva essere lui e Nick non faticava a crederlo, perché i successivi disegni ritraevano tutti lo stesso volto. Di profilo, sorridente, annerito con il carboncino, a colori. Sembrava si divertisse a mettersi in posa per farsi riprendere e, dalla qualità e varietà dei disegni, anche Jeff doveva avere una vera passione per quel soggetto.

«Wow» non poté impedirsi di sussurrare, a un ritratto particolarmente accurato e definito di quel ragazzo. Riusciva a distinguere addirittura ogni vena sulla sua mano, le pieghe della pelle, la morbidezza dei capelli, di ogni singola ciocca di capelli.

«Ti piace, uh?»

Sgranò gli occhi e il cuore perse un battito. Il suo campanello d’allarme non aveva funzionato o, meglio, aveva funzionato e lui non lo aveva sentito. Ingoiò a vuoto e si voltò lentamente verso la porta del bagno, su cui Jeff lo fissava con espressione indecifrabile.

«Io… scusa, non volevo» provò a correre ai ripari, lasciando andare il blocco e alzandosi prontamente in piedi. «È stato più forte di me e… mi dispiace, Jeff.»

Il ragazzo non si scompose minimamente, ma si avvicinò lentamente al letto, iniziando a raccattare le cose sparse sopra. «Non ti stavo incolpando» chiarì e Nick trattenne il respiro. «Ti ho solo chiesto se ti piace.»

L’altro si permise di tornare a respirare con regolarità, quando Jeff si voltò e gli sorrise, sebbene si sentisse profondamente in colpa per essersi lasciato scoprire in modo così ridicolo. La consapevolezza che Jeff non se la fosse presa, però, bastò a farlo sentire immediatamente meglio.    

«Oh, sì, moltissimo» assicurò, prendendo nuovamente posto e osservando l’altro fare lo stesso. «Hai un talento naturale.»

Quello sollevò le spalle e sorrise imbarazzato, rigirandosi l’album tra le mani. «È una passione, cerco semplicemente di dare il meglio di me.»

«E ti riesce benissimo» Nick, abbassò lo sguardo sul ritratto ancora visibile sulla pagina aperta e poi non poté impedirsi di porgli quella domanda che premeva per lasciargli le labbra. «È lui…? Il tuo coinquilino, insomma.»

Jeff sollevò lo sguardo su di lui e annuì. «Sebastian» sorrise e poi scosse la testa. «Un metro e settanta di boria e arroganza, ma non è così male, se capisci come prenderlo.»

Sorrideva dolcemente, mentre ne parlava, l’affetto che lo legava a lui era evidente. Si evinceva dal modo in cui accarezzava la carta e dalla sua espressione improvvisamente più rilassata e serena. Quindi ci aveva visto giusto, c’era del tenero tra i due. Sospirò, rendendosi conto di non aver motivo di provare delusione a quella consapevolezza.

«È di una vanità disarmante» continuò Jeff, riponendo l’album sul comodino e sdraiandosi. «Non potevo trovare qualcuno di più adatto per fare pratica.»

Nick annuì e indugiò un attimo, non sapendo cosa fare, poi si passò una mano tra i capelli e si sdraiò a sua volta. Quel letto era maledettamente piccolo, gli sarebbe bastato allungare di pochissimo la mano per toccare Jeff.

Quando si voltò sul fianco, quasi inconsciamente, trovò Jeff nella medesima posizione, una mano sotto il cuscino e l’altra sotto la guancia, che lo osservava in silenzio. Boccheggiò, colto alla sprovvista, e cercò di ricordare di cosa stessero parlando. Si sentiva il cervello completamente congelato.

Sebastian, giusto.

«Beh» si costrinse a considerare. «È comunque un bel soggetto, direi.»

Fastidio, una morsa allo stomaco che gli faceva perdere la ragione e lo faceva straparlare. Cercò di studiare l’espressione di Jeff, con l’intenzione di provare a scorgere qualsiasi tipo di emozione che lo indirizzasse verso la giusta conclusione. Il ragazzo aveva la fronte leggermente aggrottata e si mordicchiava il labbro in un modo che fece rabbrividire Nick fin dentro le ossa.

«Ahà» commentò, sistemandosi meglio sul cuscino e rivolgendogli uno sguardo stranamente divertito. «Attento che potrei riferirlo al suo ragazzo.»

Nick inarcò un sopracciglio e spostò una mano sotto la guancia. «Mi limitavo a un parere oggettivo» garantì. Quindi non era il suo ragazzo? O Jeff si stava bonariamente prendendo gioco di lui? Nick non avrebbe saputo dirlo, perché l’espressione sul viso di Jeff era la medesima di qualche minuto prima e non dava l’impressione di essersela presa per quel commento.

«Lo so» gli assicurò, mentre si stropicciava gli occhi con il dorso di una mano. «Ma stavo scherzando: non ho neanche capito se abbia o meno un ragazzo, non potrei andare a riferirglielo neanche volendo.»

Sollievo. Nick lo sentiva scivolargli lungo la schiena, caldo e agognato.

Non poté impedirsi di sorridere più tranquillo. «Beh, chiunque esso sia, immagino possa vivere anche senza sapere che trovo che il suo ragazzo sia bello» Jeff annuì e sbadigliò di nuovo, così Nick sorrise intenerito e si affrettò ad aggiungere: «Sei esausto, dai, cerca di dormire.»

Il ragazzo sorrise stancamente, ma non obiettò; si limitò ad allungarsi all’indietro per spegnere l’abat-jour sul suo comodino e fu allora che Nick lo vide. Quando la sua T-shirt si sollevò a causa di quel movimento e lasciò scoperta una parte di bacino. Aggrottò la fronte e sbatté le palpebre, cercando di mettere a fuoco le linee scure che si intrecciavano sulla pelle chiara di Jeff.

«Cos’ hai lì?» Si ritrovò a domandare, prima di poter fare qualcosa di concreto per impedirlo.
Jeff si voltò di scatto e si affrettò ad abbassare la maglia, le guance notevolmente più rosse rispetto a prima e lo sguardo che fuggiva quello di Nick. «Niente» balbettò. «Nulla di-»

«Posso vederlo?»

Di nuovo, le parole lasciarono le sue labbra senza preavviso, ma Nick non se ne preoccupò: in quel momento, mentre Jeff si rimetteva sdraiato e teneva gli occhi bassi e il labbro tra i denti, gli interessava solo riportargli il sorriso e farlo sentire nuovamente a suo agio.

Con un coraggio e un’audacia che non credeva di possedere, allungò una mano sul suo fianco e aspettò che Jeff gli desse il permesso di proseguire oltre. Non c’era tempo per imbarazzarsi e ripensarci, lo sapeva, per cui, quando il ragazzo spostò la mano e chiuse gli occhi, Nick si limitò a prendere un respiro profondo e sollevare di nuovo quell’indumento. Le mani gli tremavano leggermente e il cuore faceva male, tanto che batteva forte, mentre la pelle del ragazzo veniva allo scoperto e lui poteva godere nuovamente della vista dei segni scuri che la ornavano.

Una circonferenza scura, dalle dimensioni del fondo di un bicchiere, spiccava esattamente sopra l’osso del bacino. Nick ingoiò a vuoto e si sollevò inconsciamente su un gomito, per poterla osservare con più attenzione, mentre Jeff tratteneva il respiro. Era di un’eleganza disarmante, semplice e artistico, eppure estremamente intrigante e curioso. Non aveva idea di cosa volessero dire quei cerchi che si incrociavano e quelle linee definite, racchiuse all’interno della circonferenza esterna, ma gli piacque e gli piacque perché era il tatuaggio perfetto per un ragazzo come Jeff.

«Che cos’è?» Domandò, assorto, passando l’indice sulla pelle di Jeff e sentendolo rabbrividire, mentre ritracciava il percorso di quel disegno.

L’altro non rispose subito; aprì gli occhi e, lentamente, si sdraiò sulla schiena. «È una frase» rivelò, dopo qualche attimo. «Scritta nell’alfabeto di un telefilm che mi piace.»

Nick sorrise: quella era una cosa ancora più da Jeff. Si prese un labbro tra i denti e proseguì nel suo percorso, fatto di linee curve e armoniose. La pelle di Jeff era così calda. «Cosa significa?»

Il silenzio che seguì quella domanda fu più lungo del precedente e, se possibile, il ragazzo arrossì anche di più. «Significa “Credi in te stesso”» mormorò, la voce più bassa e incerta.

Perché una persona così piena di vitalità ed entusiasmo aveva bisogno di tatuarsi una frase del genere? Jeff non sembrava insicuro e poco fiducioso nelle sue capacità, quindi Nick non riusciva a spiegarsi il perché di quella scelta. Così glielo domandò.

«Sono cresciuto in una famiglia numerosa, lo sai» spiegò, sempre con un filo di voce, mentre le dita di Nick continuavano a esplorare quella porzione di pelle morbida e delicata. «Ho sempre dovuto condividere tutto. Giocattoli, spazi, tempi. Sogni» tacque un attimo e Nick non si permise di intervenire. «Mi sono sempre sentito come se i miei sogni e le mie aspirazioni fossero troppo per la mia famiglia, come se… non lo so, non ci fosse spazio per i miei progetti e dovessi ridimensionarli per amalgamarli a quelli dei miei fratelli.»

Nick sollevò lo sguardo su di lui, incontrando i suoi occhi lucidi e profondi, ma non smise di accarezzare le linee del suo tatuaggio. «Non è vero» quasi lo rimproverò, mantenendo comunque la voce dolce e sussurrata. «I tuoi sogni sono all’altezza della persona che sei, Jeff.»

Il ragazzo sorrise e inclinò leggermente il viso di lato. «Ci ho messo un po’ per rendermene conto» si spostò leggermente sul fianco e posò nuovamente la mano sotto la guancia. Nick lo osservò incantato e lui aggiunse: «Ma volevo essere certo di ricordarmelo sempre, di non mettermi più in discussione.»

Nick annuì e coprì il disegno con il palmo della mano. «Sono disposto a ricordartelo ogni volta che te lo dimenticherai» garantì, l’espressione seria e la certezza che quel ragazzo meritasse solo il meglio dalla vita. L’improvviso e irrefrenabile desiderio di fare parte di quella vita.
 

 
Nove ore dopo.

Dopo essersi guardati in silenzio senza sapere cosa aggiungere.

Dopo essersi sorrisi in imbarazzo e soggezione.

Dopo essersi augurati una silenziosa buonanotte, per la paura di rompere quel momento così magico e surreale.

Dopo che Nick l’aveva trascorsa per la gran parte a rigirarsi tra le coperte, incapace di prendere realmente sonno.

Dopo che Jeff aveva sognato le dita di Nick ancora sulla pelle.

Nove ore dopo, la luce del giorno li sorprese così come il buio li aveva vegliati. Addormentati e vicini.

L’unica differenza, il braccio di Jeff che, in un movimento naturale come il semplice respirare, aveva cercato il busto di Nick, avvolgendolo.
 
 
 


 

 
Sono in ritardo, lo so e chiedo perdono. Ma il capitolo è qui ed è breve, perché sapevo che doveva esserci solo quella scena e volevo avesse un capitolo a sé stante.

Non ho molto da dire, perché parla da sé e davvero, da parte mia c’è poco da commentare. Però lo amo e mi piace come è venuto fuori, spero piaccia anche a voi.

Due cose sole: la prima, amo Sebastian e Jeff insieme, una parte di me li shippa anche pesantemente, ma in questa long volevo esplorare qualcosa di nuovo e quindi mi sono buttata su questa friendship che troverà il modo di ritornare ed essere approfondita; la seconda, l’idea del tatuaggio mi è venuta in mente in maniera del tutto casuale ma, dal momento in cui ho iniziato ad immaginarla, non c’è stato più verso di allontanarla. Il tatuaggio in questione è raffigurato nel banner, dietro la scritta, e significa davvero “Believe in yourself” in Gallifreyan (l’alfabeto di Doctor Who): Jeff è un po’ nerd, per questo l’idea mi è piaciuta ancora di più e trovo che un tatuaggio di quel genere – linee e cerchi e armonia – si adatti bene alla mia idea di lui in questa storia.

Il prossimo capitolo cerco di farlo arrivare per sabato, parola di lupetto. Per qualsiasi informazionie rompetemi le scatole su Facebook e su Ask.fm (amo chiacchierare con voi <3 )
 

Robs.
 

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Capitolo 6
*** 6- From what... what was I saying? ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: ~6/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 

 


6. From what... what was I saying?

 



 
 
«Mancano tre ore» disse Jeff e Nick ricominciò a respirare.

Doveva essere quasi l’alba, il cielo fuori dai finestrini era scuro e compatto, ma all’orizzonte iniziava a schiarirsi e colorarsi con tinte pastello, delicate e luminose: Nick aveva perso il conto di quanto tempo avesse trascorso a sperare che Jeff dicesse qualcosa, che non si era preoccupato di verificare che ora si fosse fatta.

Spostò lo sguardo sul suo viso e si limitò ad annuire più volte, quasi maledicendosi per la sua scarsa loquacità proprio in quel frangente. Non era possibile: Jeff apriva bocca spontaneamente, per la prima volta dopo quasi dieci ore, e lui non aveva niente di sensato e concreto con cui rispondere.

La situazione si era fatta tesa e asfissiante da quando si era svegliato quella mattina e se lo era ritrovato addosso. Lui si era riscoperto a osservarlo quasi incantato, ma Jeff, una volta aperti gli occhi e resosi conto della posizione compromettente in cui si trovava, si era fatto scostante e freddo e aveva sabotato tutti i tentativi di Nick di fare conversazione.

Era stato imbarazzante, certo, ma non spiacevole. Affatto.

Svegliarsi e trovare la testa di Jeff abbandonata sulla sua spalla, l’espressione rilassata e le labbra schiuse, era stato naturale come respirare. Come se fosse un gesto che i loro corpi fossero soliti compiere, un’abitudine irrinunciabile e radicata dentro il loro essere.

Il tempo si era immediatamente dilatato e lui aveva trascorso interminabili minuti a contemplare il suo viso, senza avere il coraggio di muoversi o emettere un fiato, per paura di svegliarlo e rompere l’incantesimo.

Solo che poi l’incantesimo si era rotto lo stesso, quando Jeff si era destato e lo aveva sorpreso a osservarlo, traendo le conclusioni sbagliate.

Nick non le aveva volute le sue scuse e non aveva compreso il motivo della reazione esagerata di Jeff perché, a dispetto di qualsiasi appassionato consiglio fornitogli dalla voce di sua madre che abitava le retrovie del suo cervello, a lui era piaciuto e sarebbe stato ipocrita asserire di non desiderare che accadesse ancora.

«Cosa» si schiarì la voce, improvvisamente a disagio. «Cosa andiamo a vedere a Phoenix?» Domandò, con il principale scopo di farlo parlare ancora e dissipare l’innaturale tensione che si portavano dietro da quando erano ripartiti dal Motel che li aveva ospitati per la notte.

Jeff non rispose subito, ma continuò a guardare la strada con quell’espressione inoppugnabile che Nick non sapeva come interpretare e decifrare, perché non gli aveva mai visto in viso.

«Mmh, niente a che fare con i grattacieli di Chicago» rivelò, le labbra increspate in un sorrisino tirato. «Pare che il Grand Canyon sia sulla lista dei dieci luoghi da vistare almeno una volta nella vita e quindi…»

Lasciò in sospeso, ma Nick annuì lo stesso, perché il concetto era inequivocabilmente chiaro. Si permise di sospirare e rilassarsi di più sul sedile, abbandonando in parte quella postura rigida e composta che aveva assunto da quando aveva iniziato a sentirsi quasi indesiderato in quella macchina.

«Vuoi che guidi un po’ io?» Chiese ancora, stavolta più sicuro e con la voce più ferma. C’era qualcosa tra lui e Jeff, era certo di non averlo immaginato. Rabbrividì, quando il ricordo della sua pelle calda sotto le dita gli si affacciò alla memoria inaspettatamente.

Jeff scosse lievemente la testa e sorrise di più. «Hai guidato prima, adesso tocca a me» assicurò, poi lo guardò di sottecchi e aggiunse: «Sono riposato, non ci manderò contro il guard rail, tranquillo.»

«Non ho paura di quello» ridacchiò l’altro, immediatamente più sereno e a suo agio. «Ma, sai, non vorrei che a pagare per la tua stanchezza sia un… cervo o qualsiasi cosa passi per queste strade.»

Un sopracciglio di Jeff schizzò prontamente verso l’alto, mentre il ragazzo si voltava a guardare il compagno come se avesse parlato in una lingua che lui non comprendeva. «Cervi? In Arizona?»

«Uhm, no? Li hanno mangiati tutti i lupi?» Ridacchiò Nick, provando a correre ai ripari. Che animali abitavano l’Arizona?

«O i puma» osservò saggiamente Jeff. «Sempre che non si siano estinti per la mancanza di cervi.»

Nick rise e ciondolò un po’ il capo. «E fu così che il circolo si chiuse» sentenziò con un tono esageratamente solenne che fece ridere Jeff di gusto.

No, non l’aveva immaginato: c’era qualcosa tra loro e, ne era piuttosto certo, anche Jeff doveva averlo capito.
 

 
Nick aveva visto il Grand Canyon solo in foto e nei documentari di National Geographic ma, per quanto potesse essere preparato allo spettacolo che gli si sarebbe presentato davanti, la vista dell’immensa gola scavata dal fiume Colorado lo immobilizzò sul posto per un numero considerevole di minuti.

Erano giunti a destinazione quando il sole era ormai alto nei cieli dell’Arizona; Jeff aveva parcheggiato la macchina in una delle strade del Grand Canyon Village, sul versante sud della gola – fidandosi della guida cartacea che li informava che quello era il luogo migliore per godere pienamente di quella meraviglia della natura – e poi lui e Nick non avevano esitato un attimo, prima di affacciarsi al cratere e rimanere a bocca aperta.

Erano rimasti in silenzio per quelle che erano parse ore, le labbra schiuse e lo sguardo che, ingordo, correva ad abbracciare ogni livello di quella voragine così profonda, mentre intorno a loro il paesaggio sfumava e tutto ciò che restava era il senso di impotenza e smarrimento di fronte a quella vista.

«Io credo» mormorò Nick, assorto, senza staccare lo sguardo dai giochi di luce che il Sole creava nelle pieghe della gola. «Credo di capire il motivo per cui questo posto è in quella lista.»

Jeff annuì. «Senza alcuna fatica» esalò, quasi senza fiato. «E credo di aver appena visto un puma, da qualche parte laggiù» sollevò una mano mollemente, indicando un punto a caso, molti metri più giù rispetto a dove si trovavano loro.

«Vogliamo avventurarci?» Domandò Nick, dopo un paio di istanti di silenziosa contemplazione.

«Dici che è una buona idea?» Jeff gettò uno sguardo piuttosto preoccupato alla profondità del cratere.

L’altro inarcò un sopracciglio e piegò le labbra all’interno, prima di chiedere, cautamente e con tutto il tatto di cui disponeva: «Soffri di vertigini?»

Jeff arrossì lievemente – in un modo che la mente di Nick non faticò a definire “delizioso” – e scosse la testa. «Temo che il mio senso dell’equilibrio non sia particolarmente sviluppato» spiegò, le labbra piegate in un sorrisino colpevole.

Nick non poté impedirsi di sorridere a sua volta e fare una smorfia. «Tranquillo» assicurò, facendogli l’occhiolino. «Ti tengo io, se cadi.»

«Potrei trascinarti giù con me» osservò saggiamente il ragazzo, ma ormai si era convinto e aveva già abbandonato il panorama del Canyon per seguire Nick alla volta della struttura al limitare della gola che avrebbe fornito loro le attrezzature per l’escursione.

«Sarebbe divertente» ridacchiò quello, rallentando il passo per permettere al compagno di affiancarlo. «Potremmo accertarci della presenza dei tuoi amici puma.»

«Sono piuttosto certo che questo posto pulluli di puma» si imbronciò Jeff, prima di riprendersi ed esclamare pimpante: «Adesso chiediamo conferma al signore che lavora lì.»

E, detto ciò, superò Nick e si diresse velocemente verso l’edificio giallo e beige che rappresentava la loro meta. Nick lo osservò, osservò lui e il suo entusiasmo e, come ogni volta che aveva a che fare con Jeff e la sua vitalità, sorrise.
 

 
Tre ore e quattro bottiglie d’acqua dopo, Nick non era più convinto che quell’escursione fosse stata una delle sue idee più gloriose. Il sentiero che gli era stato indicato era prevalentemente pianeggiante – a discapito di quanto ci si potesse aspettare da un luogo caratterizzato da pareti scoscese e percorsi impervi – ma il ragazzo non immaginava che fosse così lungo ed impegnativo. Inoltre, sebbene si fossero rifocillati a dovere prima di affrontarlo, l’ora di pranzo era ormai passata e lui iniziava ad avere fame.

Jeff, al suo fianco, non sembrava versare in condizioni migliori delle sue, anche se il sorriso che immancabilmente gli illuminava il viso avrebbe potuto trarre in inganno. Nick lo aveva visto respirare affannosamente e fermarsi più di una volta per sgranchirsi le ossa e riprendere fiato, aveva bevuto tanto e, nonostante il berretto che si era calato sulla fronte, aveva le guance arrossate e i capelli umidi di sudore.

«Possiamo anche» quasi ansimò Nick, mentre il sole gli scottava la pelle scoperta delle braccia. «Sventolare la bandiera bianca e tornare indietro. Non dobbiamo arrivare alla fine per forza.»

Jeff sgranò comicamente gli occhi e poi si piegò a posare le mani sulle ginocchia per riprendere le forze. «Avevo capito che» sorrise senza fiato, sollevando il viso verso Nick. «Ci fosse qualcuno pagato per venire a rimuovere le carcasse degli escursionisti caduti.»

L’altro non poté impedirsi di ridacchiare. «Immagino che» provò a schiarirsi la bocca impastata e secca, «il servizio sia riservato a coloro che dichiarano di aver intenzione di morire tra queste lande.»

«Tutto ciò è… maledettamente ingiusto» articolò Jeff, un po’ a fatica.

Nick annuì concorde, poi si sporse a recuperare la borraccia dalla tasca laterale del suo zaino. «Pausa?» Propose, quasi implorandolo con lo sguardo. «Cinque minuti.»
Bevve un lungo sorso, percependo la gola ringraziarlo al passaggio del liquido fresco.

«Anche dieci» contrattò Jeff, imitandolo.
 

 
Alla fine, erano sopravvissuti.

Sorreggendosi a vicenda e dando fondo a tutta la riserva d’acqua di cui disponevano, erano coraggiosamente arrivati fino alla fine del percorso. E poi erano tornati indietro. Il responsabile delle escursioni aveva fatto loro i complimenti e, come se fosse cosa rara che due ragazzi così giovani arrivassero al termine del sentiero in una giornata così afosa, aveva offerto loro da bere. Jeff aveva esultato estasiato e aveva accettato di buon grado, non prima di essersi scambiato il cinque con Nick che, se non fosse stato saldamente appoggiato al muro, sarebbe rovinato a terra senza dubbio. Tutto sommato, era stato divertente. Stancante oltre ogni immaginazione, ma divertente. Jeff era una buona compagnia e, anche in mezzo al nulla, sotto il sole di giugno e con le scorte d’acqua che minacciavano di lasciarli a secco, non si era mai trattenuto dal provare a distrarre Nick dalle difficoltà del tragitto. Lui sospettava che il ragazzo si sentisse in colpa per il suo comportamento di quella mattina e così, tra uno scherzo e l’altro – “Inizio ad avere le allucinazioni, mi sembra di vedere un puma, Jeff” – era riuscito a fargli capire che non aveva motivo di scusarsi e che, da parte sua, la situazione poteva considerarsi archiviata.

Approfittarono entrambi del servizio-doccia messo a disposizione degli escursionisti e, una volta puliti e rinfrescati, si scontrarono con i muscoli stanchi e la mancata voglia di mettersi in macchina e andare a cercare un altro posto in cui mangiare. Era pomeriggio inoltrato, in teoria, c’era ancora tempo per pensare a rifocillarsi, ma la passeggiata aveva stancato entrambi e avevano assoluto bisogno di riacquistare le forze.

Nick propose di comprare qualcosa al Grand Canyon Village o di cenare in uno dei ristoranti che l’area attrezzata metteva a disposizione, ma Jeff aveva un’altra idea e, senza prendersi il disturbo di esporgliela, garantì che gli sarebbe piaciuta.

Neanche a dirlo, Nick si fidò ciecamente di lui e, quando poi scoprì cosa Jeff aveva in mente, non poté che darsi ragione.

«…e che i puma c’erano davvero e lui una volta ne ha pure visto uno, anche era buio e forse poteva esse scambiato per un gatto molto grosso» stava dicendo Jeff, con la sua solita parlantina accelerata. «Ma era sicuro che fosse un puma perché faceva versi da puma e non da gatto.»

Nick annuì, provando ad afferrare una foglia di insalata con le bacchette cinesi che Jeff lo aveva costretto a prendere. «Beh, se lo dice lui che ci lavora qui, allora mi fido» approvò e aggrottò la fronte, quando la sua vittima gli scappò ancora.

Jeff rise e si morse un labbro, poi posò la sua confezione di pollo ai funghi e si allungò verso di lui. «Aspetta» lo ammonì, mentre gli afferrava la mano destra e gli mostrava il modo corretto di tenere le bacchette. «Devi mettere il pollice così e usare l’indice per muovere questa» si allontanò appena, leggermente rosso in viso e si inumidì le labbra. «Prova adesso.»

L’altro fu sul punto di rispondergli che la sua vicinanza lo aveva completamente paralizzato e che, oltre al prendere una foglia di lattuga con le bacchette, aveva altre impellenze da provare a sbrigare. Tornare a respirare normalmente, ad esempio. Ma Jeff lo fissava con gli occhi speranzosi e attenti e il labbro inferiore tra i denti e, sebbene avvertisse le dita rigide e i brividi a fior di pelle, Nick non se la sentì di deluderlo. Così provò e riuscì e, quando l’altro si aprì in un sorriso enorme e soddisfatto, tornò tutto di nuovo a posto.

«Io e Sebastian ordiniamo spessissimo al cinese» spiegò, recuperando la sua cena e afferrando nuovamente le sue bacchette. «Quindi ho avuto modo di fare pratica, anche se all’inizio le usavo come un’arma impropria» rise.

Se ne stavano entrambi seduti sul cofano anteriore della macchina di Jeff. Nick si era mostrato scettico inizialmente, ma Jeff grondava entusiasmo e sembrava davvero desideroso di arrampicarsi sull’auto e consumare lì la loro cena, così lui non se l’era sentita di contraddirlo. Oltretutto, il sole stava calando al di là del canyon e, da quella posizione privilegiata, era veramente uno spettacolo sensazionale.

«Ma le posate sono così pratiche» osservò saggiamente, anche se ormai aveva capito come funzionava e quindi mangiare stava risultando molto più semplice. «Perché complicarsi la vita in questo modo?»

Jeff scrollò le spalle e masticò piano un pezzo di pollo. «Per cambiare» addusse poi. «Per fare nuove esperienze. Perché l’ordinario non ci piace, perché l’erba del vicino è sempre più verde e gli usi delle altre culture ci sembrano tremendamente più interessanti dei nostri.»

Nick non se la sentì proprio di dargli torto. «In effetti…» considerò. «Non è anche il motivo per cui viaggiamo? Insomma, il bisogno di evadere e lasciarsi alle spalle la propria quotidianità? La necessità di stilare elenchi di “L’ho fatto/Mi manca” e vedere le voci spuntate che aumentano?»

«Mh, forse il problema è che difficilmente ci accontentiamo e… cerchiamo sempre modi nuovi per sentirci intraprendenti e all’avanguardia.»

L’altro annuì, ma non aggiunse nulla, si limitò a mangiare in silenzio, mentre la sera calava sull’Arizona e il cielo iniziava a puntellarsi di timide stelle. La temperatura era notevolmente calata, rispetto all’afa che li aveva accompagnati per tutta la giornata, rendendo l’aria tiepida e piacevole, una carezza leggera sulla pelle arsa dal sole.

«Che poi» proruppe Jeff, dopo qualche attimo. «Io manco l’ho mai fatta una lista di “Ce l’ho/Mi manca”, adesso mi sento quasi fuori dal mondo!»

Nick rise all’espressione imbronciata che aveva messo su Jeff e prese un sorso d’acqua dalla bottiglietta al suo fianco. «Beh» propose. «Puoi farla adesso, così non ti sentirai più un emarginato sociale.»

Il ragazzo schiuse le labbra e si voltò a guardarlo, confuso ma, neanche poi tanto, velatamente entusiasta di quell’idea. «E da dove si inizia?»

«Mhhh» Nick fece schioccare la lingua e si guardò intorno. «Da qui. Hai visto il Grand Canyon, immagino che abbia il diritto di stare in cima alla lista.»

«Ma è facile, allora!» Si animò il ragazzo, poi si batté un paio di volte una delle sue bacchette cinesi vicino alle labbra. «Dunque, ho… ho fatto un viaggio in macchina attraverso gli Stati Uniti» lo fissò come in attesa di un’approvazione che Nick non tardò a concedergli. «E ho fatto surf nell’Oceano, quando abitavo ad Atlantic City.»

«Direi che questa merita assolutamente il posto nella lista» concordò Nick, raccogliendo una fettina di carota. «Uhm, io non so molto della tua vita, quindi mi sa che non posso aiutarti tanto.»

Jeff annuì, ma non si scompose. Bevve un sorso di coca cola e poi fece schioccare la lingua. «Ho soccorso un’automobilista in panne» gli gettò un’occhiata divertita e poi continuò. «Ho preso lezioni alla Tisch e… sono andato ad un concerto di un gruppo di cui non sapevo neanche una canzone, solo per accompagnare un amico. Ho sciato a Vancouver, ho fatto un tatuaggio, ho pranzato in un ristorante a mezzo chilometro da terra.»

Nick lo osservò affascinato, mentre apprendeva dettagli nuovi sulla vita di Jeff e arricchiva con nuovi colori il ritratto mentale che aveva di lui. Adesso aveva spessore e profondità ed era ancora più bello di quanto non fosse precedentemente.

«La tua lista è più corposa della mia» osservò, puntò un gomito sul ginocchio e posò la guancia al pugno chiuso. «La mia vita è stata piuttosto piatta in confronto.»

«Non dire scemenze» lo ammonì Jeff, sorridendogli rassicurante. «Hai mangiato l’insalata con le bacchette cinesi, ti sfido a trovare qualcuno che abbia fatto un’esperienza del genere.»

L’altro ridacchiò. «Se è per questo» si inumidì le labbra. «Ho anche accettato un passaggio da un perfetto sconosciuto.»

Jeff schiuse le labbra e lo osservò in silenzio per qualche attimo. «È grazie a quello sconosciuto, se hai mangiato l’insalata con le bacchette cinesi.»

«È anche grazie a quello sconosciuto che ho passeggiato per Millennium Park e ho visto Chicago di notte» si sollevò lentamente, senza però perdere di vista gli occhi di Jeff. «Ed è sempre grazie a lui, che ho visitato il Grand Canyon e alcuni dei grattacieli più alti al mondo» tacque un attimo, poi mormorò: «Anche se ormai non è più uno sconosciuto.»

Osservò le guance di Jeff tingersi di rosso e la sua bocca schiudersi alla ricerca di qualcosa da dire, così gli posò una mano sulla gamba in un movimento delicato e accorto di cui sentiva la necessità. L’altro trattenne il respiro a quel gesto e Nick lo vide deglutire, forse a disagio, ma non per quello si scostò.

«E cosa» Jeff si schiarì la voce, ma comunque il suo tono rimase basso e roco. «Cos’è… se non è più uno sconosciuto?»

Il cofano della macchina fece un movimento sinistro, quando Nick si mosse per scivolare più vicino a Jeff, ma lui non ci badò. Si inumidì le labbra e si beò dello sguardo intenso e lucido che gli stava rivolgendo il ragazzo. «È una persona… speciale» mormorò, ostentando una sicurezza che in realtà non provava e cercando di calarsi nella parte di quello che sapeva quel che faceva, quando la sola idea di stare così vicino a Jeff gli mandava in cortocircuito i neuroni. 

Fece risalire le dita lungo il braccio scoperto di Jeff, in una carezza appena accennata che lo fece rabbrividire: la sua pelle calda gli era mancata incredibilmente. Jeff schiuse le labbra e Nick spense il cervello, perché bramava un contatto del genere da troppo tempo e il batticuore e il respiro corto altro non erano che evidenti conferme a tale riguardo.

«O che sta diventando speciale» sussurrò, la voce ridotta a un mormorio appena udibile e le dita che raggiungevano la pelle tenera del collo di Jeff e si fermavano lì. Lì dove le sue pulsazioni accelerate lo confondevano, lì dove il suo profumo era più intenso, lì dove Nick prese tutto il coraggio che possedeva e, chinandosi leggermente in avanti, catturò le sue labbra con le proprie.

Jeff non si ritrasse ma, anzi, dopo un attimo di genuina sorpresa, spostò una mano sulla spalla di Nick e sospirò, rilassandosi immediatamente.

Non vi era spazio per i pensieri, né per i rimpianti o le preoccupazioni, Nick fece scivolare le dita tra i suoi capelli con naturalezza e partecipazione e lo avvicinò un po’ al suo viso. La bocca di Jeff era morbida e zuccherata e assecondava la sua come se fosse stata modellata per adattarcisi e completarla, come se in un'altra vita avessero passato ore intere a far quello. Nick non si chiese come avrebbe fatto a impedirsi di baciarlo ancora perché, mentre si sporgeva di più su di lui e Jeff si lasciava stendere sul parabrezza, la risposta era solo una: non lo avrebbe fatto.

 

 

 

 

 
Toccata e fuga, perdonatemi per il ritardo immane, vi prego ç_____ç

Spero di essermi fatta perdonare con il capitolo, però!

Alla prossima,

Robs.

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Capitolo 7
*** 7- From his apprehension. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: ~7/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 
 



7. From my his apprehension.

 

 
 
 
Se c’era una sensazione che Jeff adorava vergognosamente, era il delirio di onnipotenza che faceva seguito allo svegliarsi in piena notte con la convinzione che fosse mattina e poi scoprire che le ore per dormire erano ancora tante. Quel sollievo misto ad eccitazione era una delle cose che lo esaltava di più ed era capace di rimanergli cucito addosso per tutta la giornata, mettendolo di buon umore come solo i colori ad acquerello, una ciotola di panna montata e una maratona di Doctor Who erano capaci di fare.

Quando aprì gli occhi, nonostante i muscoli doloranti per la posizione scomoda a cui li aveva costretti, si sentì esattamente come in una di quelle rare e sporadiche occasioni.

L’unica differenza era il sole che svettava alto nel cielo, oltre alla consapevolezza che quella sensazione di calore e rilassatezza non fosse dovuta ad un imprevisto risveglio notturno, ma alla presenza del braccio che gli avvolgeva la vita e del respiro lento e regolare che gli si infrangeva sul collo.

Un piccolo sorriso emozionato gli si aprì sul viso, quando realizzò che Nick era davvero lì e che lo aveva tenuto stretto tutta la notte. “Non voglio che ti allontani di nuovo”, aveva detto lui, ma Jeff non credeva che intendesse proprio quello. E non in senso così fisico e concreto, soprattutto.

Invece Nick era lì e dormiva tranquillo e pacifico e Jeff non voleva pensare a cosa sarebbe accaduto una volta che si sarebbe svegliato, perché era stato il ragazzo stesso a fargli promettere di non farlo. E lui, in maniera tanto naturale quanto inevitabile, si fidava della sua sicurezza.

Non faceva alcuna fatica a sentirsi ancora le sue dita sul viso o le sue labbra baciarlo, e non doveva neanche chiudere gli occhi e concentrarsi per farlo: era un ricordo talmente vivido e luminoso che sembrava reale in quel momento.

Un dipinto a tempere che risaltava dal centro di una tela bianca.

Si sentì improvvisamente accaldato, come ogni volta che si ritrovava a pensare a Nick e che immaginava di lasciarsi andare come aveva fatto la sera precedente. Solo che quella volta era diverso, quella volta lo aveva fatto davvero. Era stato reale e tangibile, non astratto e insoddisfacente come in uno dei suoi sogni ad occhi aperti.
Percorse con lo sguardo la linea della sua mascella, tracciando con gli occhi le curve del suo viso che sembravano impossibili da ritrarre decentemente. Ci aveva provato decine di volte, ogni volta che Nick dormiva o che era impegnato a fare altro e non poteva vederlo. Credeva di conoscerlo, di aver memorizzato i dettagli della sua persona e di essere in grado di trasferirli su carta, ma vi era sempre qualcosa che gli sfuggiva e che lui non riusciva ad ignorare. Un disegno mediocre non poteva adattarsi alla perfezione e, se era vero che la perfezione assoluta non esisteva, Jeff sperava almeno di riuscire a trasmettere, con un suo ritratto, ciò che Nick trasmetteva a lui.

Fiducia, senso di protezione, sicurezza.

Non aveva idea di come sarebbe andato quel viaggio, se non avesse incontrato lui, ma era assolutamente certo che sarebbe stato emozionante la metà di quanto lo era diventato da quanto Nick si era unito a lui. Non voleva pensare a quello che li avrebbe aspettati una volta giunti a Los Angeles, innanzitutto perché l’eventualità di doversi separare da lui lo atterriva e gli stringeva lo stomaco, ma anche perché non aveva la forza e il coraggio di fare i conti con se stesso e scendere a patti con la velocità con cui era diventato dipendente da quel ragazzo conosciuto per caso. Schiuse le labbra, nel rendersi improvvisamente conto della pura casualità di quell’incontro: se fosse partito appena mezz’ora prima, o se non vi fossero stati i lavori sulla statale, non avrebbe mai avuto modo di soccorrerlo e niente di tutto quello che aveva fatto seguito a quella gentilezza si sarebbe verificato.

Provò per un attimo a ripercorrere mentalmente le tappe di quel viaggio, questa volta però immaginandole senza Nick in sua compagnia, e si rese conto che gli risultava difficile cancellare il ragazzo dai suoi ricordi di quell’avventura. Certo, l’idea era di fare un viaggio da solo, perché sapeva essere un’esperienza da fare almeno una volta nella vita, ma non poté impedire a se stesso di considerare che in due fosse molto meglio.

Perso com’era in questi pensieri, quasi sobbalzò per lo spavento, quando l’inopportuna suoneria del suo cellulare riempì l’abitacolo della macchina. Imprecò a mezza voce, non tanto per l’impossibilità di raggiungere la fonte di quel rumore – che giaceva ancora nella tracolla abbandonata sul sedile del guidatore – ma quanto per il fastidioso risveglio che avrebbe sorpreso Nick. Il ragazzo, infatti, iniziò ad agitarsi stancamente, segno evidente che il tempo del suo sonno fosse ufficialmente finito, e poi mugugnò qualcosa di indistinto e confuso che Jeff non riuscì a comprendere.

«Aspetta» propose, facendo forza su un gomito per sollevarsi. «Mi sposto, così puoi stiracchiarti.»

Ed era indubbio che ne avesse bisogno, visto che aveva dormito sui sedili posteriori della sua auto, in un intricato intreccio di braccia e gambe. Il cuore di Jeff fece una capriola, ricordando quello che era accaduto prima che il fresco della notte del Gran Canyon li convincesse a rifugiarsi all’interno dell’abitacolo della vettura.

Non essere idiota, si ammonì mentalmente, ti ha solo baciato. Più di una volta, a dire il vero, ma non è questo il punto, il punto è che…

Ma Jeff non poté sapere quale fosse il punto che il suo cervello stava cercando di portare alla sua attenzione, perché Nick aprì gli occhi e lo guardò. E tutto perse immediatamente di importanza.

«No» biascicò il ragazzo. «Sto comodo» mentì palesemente e si passò una mano sugli occhi assonnati. «Non rispondi?»

Oh, il cellulare!

Jeff sgranò gli occhi, ricordandosi improvvisamente della musichetta che continuava a risuonare indolente, e provò a rimettersi seduto, in modo da riuscire a raggiungere i sedili anteriori.  Quando riuscì a recuperare il cellulare, aggrottò la fronte nel leggere il nome che lampeggiava sul display.

«Scusami un attimo.»

Nick annuì e si mise seduto a sua volta, passandosi una mano tra i capelli neri, così Jeff accettò la chiamata e si portò il telefono all’orecchio. «Ciao, Sebast-»

«Oh, siamo ancora vivi, quindi. Dormivi? Ti ho svegliato? Vaffanculo, Sterling.»

Ma che diavolo…?

Il ragazzo schiuse le labbra, ma non ebbe modo di ribattere alcunché: la linea era già caduta e lui si ritrovò a fissare il display del cellulare con sguardo allibito e il sospetto di essersi perso qualche passaggio di importanza fondamentale in tutta quella situazione.

«Problemi?»

La cauta voce di Nick lo risvegliò dal torpore nel quale era caduto, ma lui non era certo di cosa rispondergli, perché non aveva la più pallida idea di cosa fosse accaduto.

«Non lo so ancora» ovviò quindi, mentre digitava il numero e aspettava che il suo, evidentemente problematico, coinquilino rispondesse. «Posso sapere qual è il tuo problema?» Esordì, non appena Sebastian prese la chiamata, dopo cinque o sei squilli.

«Il mio problema?» Domandò quello, grondando sarcasmo. «Il mio problema è che sei un idiota e ancora mi stupisco di come faccia a non essere anche un tuo problema.»

Jeff sbuffò e si massaggiò la radice del naso con due dita, mentre Nick al suo fianco si scioglieva i muscoli come meglio poteva a causa dello spazio ristretto.

«Di certo io non la faccio lunga quanto te» commentò, facendosi scivolare una mano tra i capelli per scostarli dalla fronte. «Ma se tu magari facessi capire anche a me, potrei provare a difendermi dalle tue accuse infondate. A meno che la ragione non sia che hai finito le gallette di mais, in quel caso la colpa è tua perché io più di tante non potevo comprarne prima di partire.»

«Ma che cazz-?» Jeff non faceva nessuna fatica ad immaginare l’espressione di Sebastian, la fronte aggrottata e le labbra schiuse in disappunto. «Quanto sole hai preso in questi due giorni, Sterling? Tu non sei in grado di cucinare un uovo al tegamino senza bruciare le presine e sei stato capace di far quasi esplodere l’aspirapolvere perché volevi aspirare pezzi carta grandi quanto la tua testa: quale di queste premesse non avrebbe dovuto portarmi a pensare che ti fossi schiantato contro un guard rail, perché eri troppo impegnato a decidere se quella nuvola somigliasse più a un dinosauro con una tartaruga in testa o a una cabina d’emergenza della polizia inglese?»

Sebastian aveva parlato in maniera talmente veloce che Jeff aveva faticato a stargli dietro, mentre continuava a figurarselo con le narici dilatate e gli occhi fuori dalle orbite, magari percorrendo a grandi falcate il loro appartamento. «No, aspetta, sei arrabbiato perché sono un po’ distratto?» Provò a domandare, con cautela, sorridendo quasi incredulo all’indirizzo di Nick che lo osservava leggermente confuso.

«A volte mi domando quale missione umanitaria io abbia abbracciato, per continuare a sopportarti così stoicamente.»

«Non esageriamo» lo corresse Jeff e, in un gesto naturale e necessario, andò a cercare la mano di Nick per stringerla con la sua. «Tu sei l’ultima persona al mondo che può essere definita stoica.»

Sorrise, quando Nick si avvicinò e posò la guancia alla sua spalla e lui si perse la risposta stizzita di Sebastian, preso com’era a guardarlo adorante.

«Il problema è che non ti ho chiamato?» Chiese, sperando di aver fatto centro. Sebastian non era una persona particolarmente espansiva e, anche se Jeff aveva imparato a conoscerlo tanto da capire cosa provasse anche se non apriva bocca, sapeva che non era nel suo stile esternare sentimenti e stati d’animo. Certo, lui provava comunque a farlo parlare ad ogni costo – la maggior parte delle volte, alimentando il suo malumore o beccandosi una scarpa tra le scapole – ma era raro che il ragazzo si aprisse così.

«Tu che dici?» Lo riscosse quello e Jeff si morse un labbro, compiaciuto dalla preoccupazione del suo tono di voce. «Lo sai che non volevo che facessi questo viaggio da solo, non sai neanche cambiare una gomma, insomma! Ma almeno credevo avessi il buon senso di farmi sapere che fossi ancora vivo.»

Jeff sorrise intenerito alla premura nascosta dietro le argomentazioni di Sebastian, posò la guancia alla testa di Nick e sospirò. «Te lo avrei detto, avrei trovato il tempo di chiamarti e avvertirti e…» esitò un attimo, non sapendo se e come mettere Sebastian al corrente di Nick. Ci ragionò giusto un attimo, poi decise che, se avesse saputo che era in compagnia, magari non sarebbe stato così preoccupato e in ansia. «In realtà, il viaggio era iniziato come avventura in solitaria… poi ho, uhm, incontrato un automobilista in panne e…»

«Ti sei caricato un trovatello?» Lo interruppe Sebastian e Jeff riuscì a leggere il disappunto in ogni sfumatura della sua voce. «Dimmi che sono io a sottovalutare il tuo buon senso, ti prego.»

Come se avesse percepito la sua difficoltà, Nick gli fece passare un braccio dietro la schiena e lo strinse con delicatezza: Jeff socchiuse gli occhi e si rifugiò con piacere nel suo abbraccio.

«No, cioè, sì» provò a spiegare a Sebastian. «La sua auto era in panne e a lui serviva un passaggio, così alla fine abbiamo deciso di fare il viaggio insieme perché siamo entrambi diretti a Los Angeles.»

Sebastian sospirò e Jeff immaginò che la ramanzina fosse proprio dietro l’angolo. Certo, lui e Sebastian discutevano spesso ed erano una coppia di coinquilini molto anomala, visto che erano praticamente in disappunto su tutto e non perdevano occasione per stuzzicarsi e battibeccare, ma avevano comunque raggiunto un livello di complicità tale da sapere quando la situazione richiedeva un approccio più maturo e serio. Jeff sapeva di poter contare su Sebastian, così come sapeva che, dietro la facciata di arroganza e presunzione, il ragazzo nascondeva un carattere nobile e comprensivo: il fatto che il tutto fosse così ben mascherato scoraggiava la maggior parte delle persone dal provare a scoprirlo.

«Jeff, cosa sai di questo ragazzo? Te lo dico io: niente. Potrebbe essere chiunque, potrebbe avere cattive intenzioni e tu sei stato troppo ingenuo a metterti a disposizione così.»

Aveva ragione, ovviamente, ma come faceva a spiegargli che di Nick si fidava e che le sensazioni che provava quando era con lui erano tra le più positive esistenti? E, soprattutto, come faceva a spiegarglielo proprio mentre lui lo stringeva ed era in ascolto?

«Bas, ascolta, adesso-»

«Lo so» lo interruppe nuovamente. «Adesso sei con lui e non ti va che lui senta mentre mi spieghi quanto assolutamente incredibile sia e mi esponi tutte le ragioni per cui posso stare tranquillo a saperti con lui. Ma non sono tranquillo, okay? E lo sai quanto mi costa dirlo, ma non mi piace questa situazione.»

Jeff sorrise, sebbene si sentisse lievemente in colpa di averlo fatto preoccupare. «Sì, lo so» assicurò. «E grazie.»

Sebastian ghignò ed emise una risata simile a uno sbuffo. «Non ringraziarmi, almeno fino a che non avrò saputo di più su questa faccenda e ti avrò esposto ciò che penso davvero. E sai che non sarà piacevole.»

L’altro rise e annuì, ben consapevole che Sebastian non potesse vederlo. Nick, al suo fianco, sorrideva tranquillo – probabilmente più sicuro nel sentire Jeff sereno – e prese ad accarezzargli lentamente il fianco, facendolo rabbrividire.

«Chiamami» ordinò Sebastian, sebbene il suo tono di voce fosse più rilassato e, perché no, dolce. «Appena sei da solo, prendi questo maledetto affare e chiamami, Sterling, o vengo a cercarti in capo al mondo e ti riporto a casa trascinandoti per il ciuffo»

«Non oseresti» si risentì il ragazzo, quasi oltraggiato. «Te la farei pagare a vita.»

«Non mi sfidare, lo sai che non ci metto nulla.»

Jeff roteò gli occhi, ma sorrise sereno e felice che Sebastian fosse più bendisposto. Non lo avrebbe mai ammesso a nessuno, ma la sua approvazione e il suo supporto gli erano stati fondamentali in molte occasioni. Era stato Sebastian a convincerlo a non lasciare le lezioni alla Tisch, era stato lui ad accompagnarlo a fare il tatuaggio ed era stato sempre lui a spingerlo a partire per quel viaggio, anche se non lo condivideva e la cosa lo preoccupava.

«Lo so, figurati» garantì, cercando di trasmettergli tutta la sua gratitudine. «Ci sentiamo più tardi allora? Tu stai bene?»

Un fruscio e un rumore sordo furono l’unica risposta che arrivò dall’altro lato del telefono, Jeff aggrottò la fronte ma, proprio quando stava per domandare se ci fossero problemi, Sebastian parlò di nuovo.

«Sì, tutto bene, ma devo vedermi con Thad e sono in ritardo» tacque un attimo, poi aggiunse: «Per colpa tua, tra l’altro.»

Jeff si morse un labbro a quell’informazione: non aveva ancora compreso quanto fosse coinvolto Sebastian da quella storia, ma i suoi precedenti in quel campo non erano dei più rosei, per cui lui sperava davvero di non aver fatto la conoscenza dell’ennesimo ragazzo simpatico che poi il suo coinquilino avrebbe mollato senza decenza dopo due notti. Anche se quella volta sembrava differente. «Potevi anche chiamare prima» si schiarì la voce per nascondere i tuoi turbamenti. «E Thad è abituato alla tua mancanza di puntualità, vedrai che non se la prenderà.»

«Me lo auguro» ghignò l’altro. «A proposito, mi ha detto di salutarti e di riferirti che sta aspettando te per mettersi in pari con non-ho-capito-cosa.»

Appunto, l’ennesimo ragazzo simpatico e con cui aveva stretto amicizia. «Ahà, salutamelo, digli che ci vediamo quando torno!»

«Sarà fatto» Assicurò Sebastian. «Adesso scappo davvero, tu tieni gli occhi aperti e fammi sapere.»

Jeff annuì e si premurò di ripetergli per l’ennesima volta che lo avrebbe fatto, poi lo salutò e chiuse la chiamata, sospirando. Non era andata così male, dopotutto. Certo, immaginava che non se la sarebbe cavata con così poco ma, per gli standard delle sue conversazioni con Sebastian, era andata sorprendentemente bene.

«Tutto bene?» La voce di Nick lo raggiunse e gli infuse calma e sicurezza, come ogni volta, così Jeff annuì e si voltò a sorridergli.

«Sebastian» disse semplicemente, a mo’ di spiegazione. «Non è un grande estimatore di questo genere di esperienze»

«Si preoccupa, immagino sia normale» suppose Nick, avvolgendolo meglio con il braccio e permettendogli di posare la testa alla sua spalla.

Jeff chiuse gli occhi e sospirò, il cuore che batteva più veloce al calore dell’abbraccio di Nick. Per un attimo, stupidamente, pensò che ci avrebbe trascorso volentieri la vita così: al sicuro nell’abitacolo della sua auto, circondato dalla sua presenza e senza bisogno di nulla che non fosse fisicamente lì con lui. Gli fece passare una mano dietro la schiena e lui sorrise, sistemandosi di nuovo contro lo schienale e premendoselo di più addosso. Jeff non voleva pensare a quello che stavano facendo e a quello che avrebbero dovuto o non dovuto fare, così come non voleva pensare alle eventuali conseguenze di quegli atteggiamenti: Nick gli piaceva ed era inutile negarlo, dov’era il problema, se decideva di viverlo fino a che poteva?

«Stai bene?» Domandò il ragazzo, dopo qualche istante di silenzio. «Sei silenzioso.»

L’altro rise lievemente e annuì, strofinando il naso contro il suo collo. «Sì, tutto bene» garantì, sollevando un po’ le spalle. «Stavo solo pensando, niente di irreparabile, insomma.»

Nick non rispose subito, ma si limitò a continuare ad accarezzargli ritmicamente il braccio. «Vuoi parlarne?» Mormorò, dopo qualche attimo. Dal suo tono di voce, Jeff immaginò che neanche lui sapesse come comportarsi a causa di quell’evoluzione del loro rapporto.

«In realtà è una scemenza» minimizzò, sistemandosi meglio sul suo petto e cercando di trasmettergli sicurezza e tranquillità. Se non ci pensava lui stesso, neanche Nick doveva pensarci.  

Quest’ultimo sorrise e posò la guancia ai suoi capelli e Jeff non poté impedire a se stesso di esultare internamente per la naturalezza dei suoi gesti. «Non deve essere poi così scema, se è riuscita a portarti via le parole.»

Era una sensazione stranissima, perché Jeff si rendeva solo lontanamente conto di essere tra le braccia di Nick e di aver desiderato che quella situazione si verificasse sin dal primo momento che lo aveva visto, da quando avevano vagato per Chicago o dalla disquisizione sulla Guida Galattica Per Autostoppisti. Il punto era che Nick gli era entrato dentro come nessuno aveva mai fatto e ci era riuscito senza alcuna fatica, limitandosi a sorridere e scherzare con lui. La consapevolezza che il ragazzo provasse lo stesso e che avesse addirittura preso il coraggio a due braccia per dimostrarglielo chiaramente, lo spiazzava e confondeva. Si presupponeva che adesso la situazione si fosse stabilizzata e che avessero trovato una sorta di equilibrio definitivo, invece Jeff avvertiva quel lieve formicolio sottopelle che gli ricordava che niente tra loro era, appunto, definitivo.

«Jeff» la voce di Nick lo sorprese ancora, accompagnata da una carezza sul braccio. «Lo stai facendo ancora. Qual è il problema? È successo qualcosa con Sebastian, o…?»

Il ragazzo boccheggiò, indeciso sulla direzione da dare a quella conversazione: tutto stava nello stabilire se metterlo o meno al corrente delle sue preoccupazioni riguardo quanto accaduto tra di loro. Non voleva che Nick pensasse che fosse impacciato e a disagio con quel genere di situazioni, così come voleva evitare di trascinare anche lui giù nell’abisso dei pensieri molesti e ronzanti, così prese la sua decisione riproponendosi di rimandare i chiarimenti a quando anche il suo compagno avesse voluto parlarne.

«Sì, più o meno» mentì, anche se era una bugia solo parziale, perché quella era un’altra gatta da pelare che Jeff non sapeva come gestire e se dovesse effettivamente farlo. «In realtà è il suo pseudo-ragazzo il problema.»

Non si preoccupò di cosa potesse pensare Nick a quelle parole, non pensò che potesse fraintenderle o, eventualmente, essere geloso: erano i fatti e, magari, parlarne con lui lo avrebbe aiutato a sbrogliare la matassa e a tranquillizzarsi almeno per quanto riguardava quella questione.

«O no, non lo so» proseguì quindi, rincorrendo le sue dita sul proprio braccio. «Non è neanche un problema, ma…» sbuffò, «il fatto è che è simpatico, questo è il problema. E spero davvero che Sebastian non faccia cazzate stavolta, perché sembra davvero un ragazzo in gamba e abbiamo guardato insieme American Horror Story, capisci? Cioè, è improbabile che ne trovi un altro così, quindi è bene che eviti di mandare tutto al diavolo come suo solito.»

Nick non rispose subito, ma si limitò ad annuire e ad accarezzargli il braccio con naturalezza. «Sebastian è il tipo che non prende le relazioni sul serio, uh?»

Jeff emise una risata simile a uno sbuffo. «Così lo fai sembrare meglio di quello che è. Il punto è che lui esce il venerdì sera e si porta a casa un ragazzo, uno diverso a settimana. A volte, il suddetto ragazzo ritorna anche la sera dopo, ma è un evento più unico che raro, quindi io sono solito considerare le sue relazioni come di una notte e basta» si prese un labbro tra i denti e si voltò leggermente nel suo abbraccio, per riuscire a stringerlo a sua volta. «È capitato che io la mattina mi svegliassi presto e li incontrassi in cucina, sai, Sebastian dorme tanto nel week end e quindi io e la sua, uhm, conquista rimanevamo a chiacchierare fino a che lui non si svegliava e alcuni erano anche dei ragazzi simpatici, sai.»

L’altro scosse lievemente la testa e poi annuì. «E immagino che tu ci rimanessi male, ogni volta che Sebastian li liquidava e loro non tornavano più, uhm?» Non aspettò la risposta di Jeff e quest’ultimo gliene fu grato, perché l’affezionarsi agli amanti del suo coinquilino, neanche fossero cuccioli da dare in adozione, aveva già avuto modo di farlo sentire patetico oltre ogni immaginazione. «Se avete guardato insieme American Horror Story, vuol dire che lo hai incontrato ben più di una mattina a colazione, quindi ha già superato la fase dell’amante occasionale, no?»

Jeff ci pensò un attimo su, poi fece schioccare la lingua. «In realtà, non l’ho mai incontrato a colazione» rivelò, grattandosi una guancia. «E credo che non sia mai rimasto a dormire a casa, quindi magari hai ragione» approvò, ragionandoci per la prima vera volta. «Ma ciò non toglie che non debba fare cazzate. Sebastian è una versione più slanciata di Tyrion Lannister: non sai mai cosa aspettarti da lui, perché è capace di sorprenderti in ogni momento, sia in positivo, che in negativo.»

Sorrise quando l’altro ragazzo ridacchiò e strofinò la guancia tra i suoi capelli. «Sembra un tipo interessante questo Sebastian» commentò semplicemente, ma senza lasciare andare la presa su Jeff.

«Lo è» garantì l’altro. «Magari, quando tornerai a New York, te lo farò conoscere» buttò lì, come se gli avesse appena riferito che l’indomani sarebbe stato nuvoloso. Jeff sapeva di volere Nick nella sua vita e desiderava mantenere i contatti con lui, una volta giunti a Los Angeles, perché quello che sentiva quando era con lui, le sensazioni che lo scuotevano quando Nick lo guardava erano vere e autentiche e Jeff non era solito pensare prima di agire, ma in quel caso era assolutamente consapevole che non potesse permettersi di perderlo.

«Sarebbe divertente» approvò Nick e Jeff si voltò a guardarlo, sorridendogli radioso e sorpreso. «Io sono più uno Stark, con un Lannister credo che mi divertirei parecchio.»

Grandioso: se non era Nick il ragazzo perfetto, non lo sarebbe stato nessuno.

«In effetti, sì» Jeff fece schioccare la lingua, fingendo di studiarlo. «Somigli un po’ a Robb Stark, leale e giusto, più incline ai legami sentimentali che all’onore e agli affari dello Stato insomma.»

Nick parve irrigidirsi a quella descrizione, così Jeff immaginò di averci preso in pieno. Fece scivolare le dita sul suo braccio e raggiunse senza fretta la sua mano, sperando di fargli riacquistare tranquillità. «Quindi, Robb Stark, con me che sono piuttosto Targaryen come hai intenzione di comportarti?»

Seppe di esserci riuscito, quando Nick sorrise e gliela strinse a sua volta. «Fino a che non mi sguinzagli contro i tuoi draghi, immagino di potermi attenere agli accordi di pace» Gli fece notare, il suo tono di voce era tranquillo e spensierato.

«Gli accordi di pace comprendono la colazione?» Indagò Jeff, nascondendo un sorriso divertito dietro una smorfia furba e fintamente sospettosa.

«Mhh» l’altro finse di pensarci su e posò le labbra sulla sua guancia. «Possiamo lavorarci su, immagino.»

Era ufficiale: non poteva esserlo nessun altro, era già Nick.
 





 
Se vi state domandando che cos’è, la risposta è: “un delirio”.

Seriamente, mi sono dovuta obbligare a concludere questo capitolo, perché altrimenti sarei andata avanti all’infinito ed avevo già raggiunto quota 4000 parole e non era accaduto assolutamente nulla di concreto. Non so come io abbia fatto a scrivere così tanto e a non dire nulla, ma mi sono divertita da morire con questo capitolo, quindi spero che sia riuscito a strappare un sorriso anche a voi.

Cose importanti da dire, sì, ce ne sono un paio. Innanzitutto, il POV di Jeff era assolutamente necessario e sapevo che sarebbe tornato prima o poi. A me, tra l’altro, era mancato da morire, così ho deciso di dedicargli tutto il capitolo e sì, è stato anche quello ad alimentare il delirio che poi ne è risultato.

Così come il POV di Jeff, anche la Smyling friendship doveva ritornare. Io li amo, seriamente, adoro la loro bromance e adoro farli battibeccare: hanno due caratteri diametralmente opposti, quindi alla fine era quasi naturale che diventassero amici. Vi convince? Fatemelo sapere, magari, io ho cercato di fare del mio meglio per a) mostrare la loro complicità e b) tenere Sebastian IC in una situazione del genere.

La Thadastian era d’obbligo, non ditemi nulla, un accennino avevo detto che ci sarebbe stato e ho cercato di essere più sintetica possibile, perché nella mia testa hanno una story line talmente definita e piena di feelings e amore e tutto, che ho deciso che scriverò una shot a parte dedicata solo a loro due. Vi farò sapere, magari.

E nulla, come avevo annunciato, questo capitolo è stato la fiera delle citazioni/riferimenti cinematografici/telefilmici: li avete trovati? Io ne conto e considero 5, ma non ve li dico ancora, perché sono davvero curiosa di vedere se li riconoscete. Un premio a chi ne trova di più ♥

Altro non mi viene in mente, un grazie sentito a tutti colori che seguono questa storia: io mi sono resa conto di amarla più di quanto credessi, per cui sono davvero felicissima che vi stia piacendo e non posso fare altro che ringraziarvi per l’entusiasmo che mi dimostrate tramite le recensioni e gli scleri su Facebook e ask ♥

A presto, lo prometto,
 

Robs

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Capitolo 8
*** 8- From my lies. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: ~8/10
Introduzione:Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.
 
  



8. From my lies.

 



 

Quando Nick e Jeff giunsero a Las Vegas, le eccentriche e variopinte luci della città si stagliavano già contro il manto scuro del cielo.

Nick aveva ormai perso la cognizione del tempo, ma la verità era che non aveva avuto né modo e né motivo di desiderare che quel viaggio finisse. L’abitacolo della macchina di Jeff, con i finestrini abbassati e lo stereo sintonizzato su una frequenza a caso, era un ottimo posto in cui passare la vita – in cui passare tutte le vite – e il ragazzo si era goduto l’aria fresca che gli sferzava il viso e le chiacchiere concitate di Jeff, senza il bisogno di preoccuparsi di nient’altro che non fosse fisicamente lì con lui.

Qualsiasi imbarazzo tra loro sembrava essersi dissipato come un’inconsistente nuvola di fumo e quella rinnovata intimità che li legava rendeva le conversazioni molto più semplici e naturali. Oltre che interessanti e stimolanti. Jeff parlava con la sua solita parlantina entusiasta e di tanto in tanto distoglieva lo sguardo dalla strada per voltarsi a sorridergli, con quella complicità e sintonia che erano schizzate alle stelle in seguito agli avvenimenti delle precedenti ventiquattro ore.

Aveva smesso di farsi domande e aveva smesso di prestare ascolto alla voce di sua madre nelle retrovie della sua testa. Per una volta, per un’unica e meravigliosa volta, voleva solo smettere di pensare, smettere di fare calcoli e pianificare ogni cosa, smetterla di essere lungimirante e iniziare a vivere nel presente. Con Jeff al suo fianco – che canticchiava motivetti di canzoni a caso e si allungava a sfioragli la mano che lui teneva posata sulla gamba – farlo era sorprendentemente più semplice che dirlo. 

«Quindi qual è il piano?» Domandò Nick, approfittando di un attimo di silenzio da parte di Jeff. «Ci accampiamo in macchina e poi domani visitiamo la città?»

L’altro non rispose subito, ma continuò a tamburellare le dita sul volante, le labbra strette come se stesse riflettendo su questioni talmente pesanti da opprimergli le tempie. Nick lo osservò affascinato, non riuscendo a trattenere un sorriso all’espressione concentrata di Jeff e alla sua fronte leggermente aggrottata. Credeva di essersi abituato alla sua presenza, alle sue stranezze, alle sue T-shirt con le stampe, alle sue piccole manie e fissazioni, invece quel ragazzo continuava a sorprenderlo in maniera inaspettata e piacevole. Proprio quando Nick credeva di essere riuscito ad ottenere un quadro completo della sua personalità, ecco che Jeff gli dimostrava quanto si fosse sbagliato, donandogli l’ennesima chiave di lettura.

«In realtà» esordì il ragazzo, la sua espressione nuovamente rilassata ed entusiasta. «Las Vegas la si vive di notte, quindi io direi di trovare un hotel in cui sistemarci e poi andarci a fare un giro» e, detto ciò, gli rivolse un sorriso esaltato e radioso a cui Nick non avrebbe mai potuto negare nulla.

«Mi piace» fece una smorfia e annuì concorde, anche perché non aveva alcun motivo per non esserlo. «Ma l’hotel lo pago io.»

Jeff provò a opporsi strenuamente a quella decisione e Nick dovette richiamare a sé ogni briciolo di forza di volontà che possedesse, per non lasciarsi convincere dal suo broncio contrariato; alla fine, riuscì a spuntarla solo promettendo solennemente che il prossimo hotel lo avrebbe lasciato pagare a Jeff.

Non fu una promessa così difficile da fare, dopotutto. A Nick bastava sapere che ci sarebbe stata una prossima volta: al resto ci avrebbe pensato poi.
 

 

*°*°*°


 
 
Trovare un hotel in cui pernottare non si rivelò un’impresa così semplice, come Nick aveva scioccamente creduto. L’errore basilare era stato quello di non aver tenuto conto della quantità indecente di hotel che si trovavano in quella città e tra i quali, ovviamente, i due ragazzi non sapevano quale scegliere.

“Mmmh, ma quello è il Castello di Re Artù?”

“Quello con la piramide nera. Assolutamente. No, ma l’hai vista?”

“Nick, quello ha dei leoni. Vivi. Nelle gabbie.”

“Sbaglio, o quello è un vulcano? Attivo.”

Nick non aveva visto Jeff così entusiasta neanche a Chicago, neanche in presenza dei suoi grattacieli e dei secoli di storia celati in quelle torri impressionanti. I suoi occhi brillavano come mai prima e, forse era anche merito delle luci dei casinò e delle attrazioni di quella città che lo illuminavano di colori sgargianti e psichedelici, ma sembrava davvero fremere per fare suo ogni singolo particolare che si nascondeva dentro quelle strutture bizzarre e affascinanti. Continuava a guardarsi intorno, le labbra schiuse e l’espressione impaziente ed eccitata, indicando uno o l’altro edificio e voltandosi poi a cercare l’approvazione e l’entusiasmo sul viso di Nick; quest’ultimo non avrebbe mai potuto mostrarsi in altro modo, dato che la sola vista della felicità dipinta sul viso di Jeff bastava a farlo emozionare e a coinvolgerlo.

Come se non bastasse, lui non era mai stato a Las Vegas e, sebbene sapesse più o meno a cosa stava andando incontro, mai avrebbe potuto essere preparato a tutto quello. A tutti quei colori, a tutte quelle luci, a tutta quella vita. L’ora di cena era passata da un pezzo, ma le strade brulicavano di persone festanti, di auto lussuose – “Quella era davvero una limousine? Assurdo, sembra di essere finiti in un episodio di C.S.I.” – e di rumore. Rumore di fuochi d’artificio, degli spettacoli acquatici offerti dalle fontane di numerosi hotel, di messaggi pubblicitari che scorrevano su enormi schermi luminosi, di musica all’aperto, di risate.

«Io proporrei di fermarci un attimo e fare il punto della situazione» proruppe Jeff dopo qualche attimo di silenzioso e mistico stupore. Nick non poté non dargli ragione, così i due ragazzi accostarono la macchina all’angolo di una strada relativamente poco trafficata e decisero di affidarsi alle infallibili guide cartacee di Jeff per stabilire dove sistemarsi. Era incredibile quanta roba fosse contenuta in quella tracolla, Nick aveva perso il conto di quante cose aveva visto Jeff estrarvi; in un momento di pura irrazionalità, si domandò quanto dovesse pesargli sulle spalle.

«Dunque» esordì il ragazzo, dispiegando una cartina tra loro e poi sollevando lo sguardo per accertarsi che fossero nel posto giusto. «Noi siamo qui» e, così dicendo, puntò il dito su un punto imprecisato della mappa.

Il “qui” in questione, scoprì Nick, era la Las Vegas Strip, ovvero la strada con la più alta concentrazione di hotel e casinò di tutta la città. Lui non faceva alcuna fatica a crederlo, visto la varietà e la quantità assurda di edifici che li circondava. I numeri, poi, erano decisamente esorbitanti: ebbene, li informò la guida, su quella strada erano posizionati la bellezza di diciannove hotel. Considerando che ogni hotel era un paese a sé, Nick non era certo di voler sapere quanti turisti fosse in grado di ospitare quell’unica strada.

«Come lo scegliamo?» Domandò Jeff, la sua voce suonava vagamente afflitta. «Andiamo a caso? Quello che ci ispira di più? Quello più economico o quello con il nome più intrigante?»

Nick fece schioccare la lingua e gettò uno sguardo un po’ allarmato alla riproduzione stilizzata della Las Vegas Strip, con la disposizione precisa di tutti gli hotel. «La prima mi piaceva» fece una smorfia e cercò l’approvazione nello sguardo di Jeff. «Chiudiamo gli occhi e puntiamo il dito, lasciamo scegliere alla sorte.»

E forse era il sorriso radioso e coinvolgente in cui si era aperto, ma Jeff si lasciò convincere praticamente subito. «Beh, se non altro, riduciamo la scelta a due sole alternative» concordò, poi prese un respiro profondo e chiuse gli occhi. «Pronto?»

Nick annuì, anche se l’altro non poteva vederlo, e lo imitò. «Al tre?» Domandò e puntò il dito orientativamente dalle parti della cartina.

«Al tre» la voce di Jeff lo raggiunse puntuale e pimpante, alla sua destra. «Uno.»

«Due.»

«Tre.»

Pronunciarono insieme quell’ultima parola. E poi sorrisero, ancora con gli occhi chiusi, quando le loro dita si scontrarono sulla carta.
 

 

*°*°*°


 
 
L’hotel The Mirage si trovava esattamente al centro della Las Vegas Strip e non molto distante dal posto in cui i due ragazzi avevano parcheggiato la macchina. Raggiungerlo non fu affatto difficile, dal momento che vi erano già passati davanti poco prima e – seguendo le indicazioni della guida di Jeff – nessun altro hotel aveva al suo esterno una cascata e un vulcano attivi. Nick aveva aperto gli occhi e si era voltato verso Jeff che lo osservava sorpreso e con la testa lievemente inclinata di lato, le loro dita che ancora si sfioravano in corrispondenza dell’hotel Mirage.

«Siamo stati fortunati» aveva esordito il ragazzo, ma Nick non gli aveva lasciato il tempo di aggiungere altro, perché si era sporto verso di lui e aveva catturato le sue labbra con le proprie, la mano al sicuro tra i capelli biondi di Jeff e il cuore che palpitava veloce.

Erano stati molto più che fortunati.

L’interno dell’hotel era diametralmente opposto a quello dell’Hotel Sax di Chicago, ma non per quello li lasciò diversamente a bocca aperta. Approssimativamente, era grande forse il doppio dell’appartamento a New York di Nick e ugualmente il doppio luminoso e arioso. Il rumore prodotto delle loro scarpe sul pavimento di marmo li accompagnò mentre si dirigevano verso il bancone della reception, entrambi con le labbra schiuse e lo sguardo che saettava veloce da una parte all’altra dell’immensa hall.

«Pensi che abbiano una camera libera?» Mormorò Jeff e, anche se aveva parlato a voce bassissima, l’eco delle sue parole risuonò chiaramente nell’ambiente. «Come non detto, sto zitto.»  

Nick scosse la testa e piegò le labbra in un sorriso divertito e sereno. Sebbene avesse trascorso gran parte della giornata seduto in macchina, si sentiva carico come al risveglio di un lungo sonno ristoratore. Sospettava cha la causa fosse da ricercare nell’intrinseco e contagioso buon umore di Jeff.

«Sarebbe il colmo, andiamo!» Lo rassicurò, passandosi una mano tra i capelli. «Questo posto avrà tipo… non lo so, duemila stanze!»

Mezz’ora – e diversi centimetri di opuscoli di ogni genere di attrattiva offerto da quell’albergo – più tardi, Nick e Jeff scoprirono che le camere erano più di tremila, che ce n’era ben più d’una libera e che potevano scegliere tra una doppia o due singole, come preferivano.

Mentre Jeff infilava la chiave nella serratura ed entrambi si affacciavano su quella che sarebbe stato un po’ la loro alcova per i prossimi due giorni, Nick stava ancora cercando di capire dove avesse trovato il coraggio di proporgli di dividere una matrimoniale.

 
 

*°*°*°


 
 
Se avesse dovuto utilizzare una sola parola per descrivere Las Vegas, Nick avrebbe scelto “diversa”. Diversa da qualsiasi cosa avesse visto in precedenza, diversa da qualsiasi esperienza avesse mai fatto, diversa da qualsiasi stile di vita avesse mai osservato. Sembrava di stare su un altro pianeta, come se fossero finiti in una dimensione parallela, una volta entrati nella città. L’universo in cui si trovavano era diametralmente opposto dalla vita quotidiana a cui Nick era abituato, ma non avrebbe saputo dire se fosse migliore o peggiore. Certo, Las Vegas era considerata la patria della trasgressione e della libertà e, lui era pronto a giurarlo, figurava sulla lista dei luoghi da visitare di qualsiasi essere umano di età compresa tra i diciassette anni e la pensione. Il punto però era proprio quello: Las Vegas era bella per un paio di giorni, per una settimana anche, ma Nick sospettava che dopo un po’ diventasse stancante ed alienante. Lui e Jeff stavano camminando da circa quaranta minuti e già avevano assistito a tre spettacoli di fontane e all’eruzione di un vulcano: dopo un po’ si cadeva sempre negli stessi schemi e nella stessa routine e annoiarsi diventava facile.

La compagnia di Jeff, comunque, rendeva quel viaggio molto più interessante e quella semplice passeggiata per la Las Vegas Strip diventava un’occasione per arricchire maggiormente il suo bagaglio di aneddoti e informazioni più o meno utili – almeno a suo parere. Tra la cultura personale del compagno e l’immancabile guida turistica cartacea, Nick scoprì più cose di quante credeva di poterne memorizzare.

Siccome l’hotel Mirage si trovava praticamente al centro della strada principale, i due ragazzi avevano tirato a sorte per decidere da che parte dirigersi per iniziare il loro giro di esplorazione; la monetina a cui avevano affidato la scelta li aveva indirizzati verso Sud e così era quella la direzione verso cui i due ragazzi stavano camminando.

Poco dopo essere passati accanto alla fedele replica della Tour Eiffel, che abbelliva l’esterno del Paris Las Vegas e che fece venire ad entrambi una gran voglia di volare in Francia – “Sebastian adorerebbe questo posto, credo che non gli rivelerò mai la sua esistenza” –, i due ragazzi si fermarono davanti a quello che era indubbiamente l’hotel più grande che avessero visto fino a quel momento.

“MGM Grand Las Vegas” li informò la guida, ma era una precisazione pressoché inutile, visto che il nome dell’hotel era riprodotto in enormi e squadrate lettere luminose, direttamente sulla facciata dell’edificio che, a causa delle luci che lo illuminavano, appariva color verde smeraldo.
«
E noi che pensavamo che il nostro avesse un numero astronomico di stanze» la voce di Jeff, stupefatta e incredula, portò Nick a spostare lo sguardo su di lui; il ragazzo stava scorrendo le pagine della sua guida dedicate a quell’hotel. «Qui pare ce ne siano qualcosa come… non lo so, più di cinquemila. Ma dici che riescono a riempirle? Te li immagini quei poveri inservienti, quando c’è il pienone?»

Nick sollevò entrambe le sopracciglia e sgranò lievemente gli occhi al solo pensiero dell’enorme via vai di persone, causato dalla bellezza di cinquemila camere occupate. «Dio, deve essere allucinante, davvero da perderci la testa.»

«Anche se dubito che raggiungano mai il numero massimo» continuò Jeff, facendo schioccare la lingua. «La guida dice che solo su questa strada ci sono un totale di» voltò velocemente qualche pagina per cercare l’informazione che gli serviva. «Sessantacinquemila stanze. Insomma, si parla di più di un milione di persone! Tutta questa gente perché mai dovrebbe venire a Las Vegas contemporaneamente

Nick fece una smorfia, non potendo non dargli ragione, erano delle cifre davvero esorbitanti. «Mmmh, se mai dovessero evacuare Manhattan a causa di un improvviso attacco alieno, potrebbero portare tutti gli abitanti qui senza alcun problema.»

«Come? Ti immagini le code in autostrada? Saremmo tutti morti prima di uscire da New York.»

Scoppiarono entrambi a ridere e tornarono a dedicare la loro attenzione alla facciata dell’hotel che avevano di fronte, al cui ingresso sostava un’enorme statua di un leone dorato. La guida di Jeff li informò che quella era la più grande statua di bronzo presente negli Stati Uniti – Nick accantonò quel dettaglio tra le cose che non era necessario sapere.

«Qui dice che, una volta, l’ingresso principale sulla strada consisteva in una gigantesca bocca di leone e che la si doveva attraversare per accedere al casinò.»

«Inquietante, direi io.»

«E non solo tu, aggiungerei io» proseguì Jeff, mentre entrambi si avvicinavano maggiormente alla statua. «Sembra che abbiano avuto problemi legali perché, indovina un po’?, per alcune culture popolari pare porti sfortuna farsi mangiare da enormi leoni dalle zanne acuminate per entrare in locali in cui sperperare tutto il proprio patrimonio, giocando d’azzardo.»

Nick non riuscì a trattenere una risata. «Forse davano la colpa alla bocca di leone se perdevano tutti i loro averi» suppose, con una lieve scrollata di spalle. «Quella del casinò è stata solo una strategia difensiva.»

L’altro ragazzo parve pensarci su per qualche attimo, alternando lo sguardo da Nick alla statua che aveva sostituito l’ingresso originale. «Ha una sua logica» approvò, dopo qualche attimo.

Non si preoccuparono di avvicinarsi di più, perché a quell’ora della sera le strade erano davvero affollatissime e loro erano particolarmente ansiosi di andare a visitare altro. Quegli edifici erano uno diverso dall’altro e loro morivano dalla voglia di vederli tutti. Passarono davanti alla riproduzione del castello di Camelot che avevano visto anche al loro arrivo – si trovava al centro dei quattro palazzi che costituivano l’Excalibur Hotel and Casinò – e rimasero per un momento incantati ad osservare il personale all’ingresso vestito in abiti medioevali per accogliere i visitatori.

«Lo sai che, circa dieci anni fa, in questo casinò è stato vinto il più alto jackpot della storia di Las Vegas?»

«Oso chiedere a quanto ammontava?»

«Non sono neanche certo di saperlo leggere.»

Ma ciò che li lasciò davvero senza fiato, comunque, si trovava accanto all’Excalibur ed aveva la forma di una piramide. Enorme e rivestita di vetro nero riflettente, il Luxor Hotel era uno degli edifici più belli e particolari che Nick avesse mai visto.

Ogni hotel era ispirato ad un tema portante e Nick non aveva fatto alcuna fatica a capirlo, anche senza l’aiuto della guida, ma l’ideatore e il costruttore di quel preciso albergo meritavano infinita gloria e ammirazione, perché ciò che avevano realizzato era davvero spettacolare.

«Mi è capitato di incontrarlo qualche volta nel corso degli studi» rivelò Jeff, il mento all’insù mentre osservava l’hotel quasi senza fiato. «A proposito di edifici moderni con forme e strutture non appartenenti al nostro concetto di praticità.»

Nick aggrottò la fronte in un’espressione confusa e si voltò a guardarlo; gli occhi di Jeff brillavano delle mille luci della città notturna, ma non solo: al loro interno, riusciva a vedere la passione che il ragazzo aveva per ciò di cui stava parlando e quello era uno spettacolo che gli bloccava puntualmente il respiro. «Ti riferisci all’interno della piramide?» Domandò, studiandolo assorto.

Jeff annuì e allungò una mano verso la piramide, tracciandone i contorni con l’indice. «Siccome ha questa forma così particolare, è l’unico hotel al mondo ad essere provvisto di speciali tipi di ascensori che salgono e scendono in senso obliquo» spiegò a un Nick completamente affascinato dalle sue parole. «Circa di quaranta gradi, se non ricordo male; sarebbe bellissimo andarci, ma mi pare siano riservati ai soli ospiti dell’hotel e al personale che vi lavora.»

Grattacieli, l’abitacolo di una macchina, hotel dalle strutture più stravaganti, il Gran Canyon, ascensori obliqui: Nick iniziava a sospettare che qualsiasi posto sarebbe stato bellissimo da visitare, se Jeff fosse stato in sua compagnia.

 
 

*°*°*°


 
 
Quando tornarono in camera, erano quasi le tre del mattino e gli occhi faticavano a stare aperti. Con il senno di poi, non era stata un’idea granché furba parcheggiare la macchina e camminare a piedi per il tratto inferiore della Las Vegas Strip; Nick non aveva idea di quanti chilometri avessero fatto né di come avessero fatto a farli, ma sentiva ogni muscolo implorare pietà e l’unica cosa che desiderava era stendersi e dormire per le successive diciotto ore.

Quando uscì dal bagno dopo una doccia velocissima, Jeff era già a letto e, dalla sua espressione distesa, Nick immaginò che stesse anche dormendo. Rimase per qualche attimo sull’uscio della porta, incantato ad osservarlo come gli capitava ormai di fare fin troppo spesso; era girato sul fianco, i capelli biondi sparsi sul cuscino e le mani strette a pugno accanto al viso, il lenzuolo che gli copriva la metà inferiore del corpo. Provò un’inaspettata fitta dalle parti del torace, pensando a quanto fosse bello e delicato. Inaspettata, ma assolutamente non spiacevole.

Cercando di fare meno rumore possibile, scivolò accanto a lui sotto le lenzuola e spense la luce sul comodino, poi si girò sul fianco con tutta l’intenzione di dedicare a lui gli ultimi sguardi della giornata. Forse era la stanchezza, ma non gli faceva neanche più così tanta paura essere steso al suo fianco, in un letto matrimoniale. Era solo strano, ma era una stranezza talmente intima che Nick non sapeva cosa dovesse provare e cosa no.

«Hai spento la luce?»

La voce bassa e assonnata di Jeff lo fece sorridere dolcemente. «Sì, tranquillo» assicurò ed esitò un attimo, poi gli scostò con delicatezza i capelli dal viso. «Dormi, dai.»

Quello scosse lievemente la testa, gli occhi ancora chiusi: era chiaramente in dormiveglia. «No, ti devo… dire una cosa» biascicò confusamente.                                                                                            
Tipico di Jeff, pensò, non smetteva di parlare neanche quando era ora di dormire. «Me la dirai domani, non ti preoccupare.»

Ma Jeff sembrava essere di altro avviso, si passò una mano sugli occhi ma rimase comunque in stato semicomatoso. «Nick... non ti volevo dire una bugia» sbadigliò e Nick aggrottò la fronte, cercando di capire a cosa si stesse riferendo. «Ma non potevo…»

Stava delirando, quello era ormai ovvio, così gli fece passare nuovamente le dita tra i capelli, con l’intenzione di calmarlo e cercare di tranquillizzarlo. «Non è nulla, Jeff» mormorò, cercando di suonare convincente, «ne parliamo domani.»

«L’aereo» di nuovo, la mano di Jeff corse a stropicciarsi gli occhi. «A Chicago… non ti volevo dire una bugia.»

Il ragazzo sbatté un paio di volte le palpebre a quella nuova informazione. Di che accidenti sta parlando? Aveva uno strano presentimento, uno che gli chiudeva la bocca dello stomaco e gli accelerava i battiti cardiaci, così fermò il movimento della mano e aggrottò lievemente la fronte. «Quale aereo, Jeff?» Domandò, cautamente, quasi timoroso della sua risposta.

E fu in quel momento che Jeff aprì gli occhi e che gli rivolse uno sguardo lucido e appannato, ma inequivocabilmente sveglio. «Quello che ti avevo detto… che era appena partito.»

Nick trattenne il respiro per quelli che parvero anni, il rumore assordante del proprio cuore a rimbombargli nelle orecchie, prima che Jeff continuasse.

«Non era vero, volevo solo trascorrere la giornata con te.»                      


 
 
 
 

 

 
Sono in un ritardo vergognoso che non so neanche come provare a giustificare, quindi vi prego solo di provare ad essere clementi con me e con la mia disorganizzazione. Vi giuro che non farò passare tutto questo tempo per il prossimo aggiornamento, avete la mia parola.

Ad ogni modo, questo capitolo è stato assurdamente difficile da scrivere, perché Nick e Jeff proprio non ne volevano sapere di collaborare ed io ammetto che arrivata a metà volevo cancellare tutto e mandare tutto al diavolo. Spero che il risultato sia stato comunque di vostro gradimento e che lo sviluppo del loro rapporto vi sembri plausibile; so che in questo capitolo hanno parlato relativamente poco, ma vi anticipo già da adesso che il prossimo sarà incentrato maggiormente su loro due e sulla loro – lo dico così, perché non so dirlo in altro modo – intimità.

Comunque, anche se sono passati tre mesi dall’ultimo aggiornamento, io le cose non me le dimentico, quindi passo subito a svelare il mistero delle citazioni di cui vi avevo parlato nello scorso capitolo. In ordine erano:

-          “L’idea era di fare un viaggio da solo, perché sapeva essere un’esperienza da fare almeno una volta nella vita”, direttamente da Elizabethtown.
-          “Ma non è questo il punto, il punto è che... Jeff non poté sapere quale fosse il punto", Alec e Magnus, Shadowhunters – Città di Vetro. *coff* pagina 122 *coff* ♥
-          “Cabina d’emergenza della polizia inglese”, chiaro riferimento al Tardis, di Doctor Who.
-          “American Horror Story”, questa è quella più esplicita, ma io l’ho considerata comunque.
-          “Lannister, Stark e Targaryen” sono tre delle casate di Game of Thrones.

Ebbene, il toto citazioni è stato vinto da whateverhappend e quindi, come promesso, avrà diritto al suo premio (che posterò sulla mia pagina in questi giorni).

Adesso mi dileguo e vi do appuntamento al prossimo capitolo che, ripeto, cercherò di far arrivare quanto prima. Per lamentele, informazioni sugli aggiornamenti, fangirling gratuito, deliri random, spoiler sulle mie storie e quant’altro, mi trovate qui

 
Robs.

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Capitolo 9
*** 9- From myself. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: ~8/10
Introduzione: Rescue me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals. 
 
 


9. From myself.
 
 
 


«Non era vero, volevo solo trascorrere la giornata con te.»

Era stato difficile addormentarsi dopo, dopo quella confessione sussurrata, dopo lo sguardo colpevole e incerto di Jeff. Nick aveva aggrottato la fronte e aveva cercato di dare un nome al nodo che sentiva allo stomaco, al formicolio sottopelle che lo rendeva irrequieto, ma non era riuscito a trovarvi un senso o, quantomeno, una ragion d’essere. La verità era che non aveva alcun motivo di sentirsi disorientato e confuso, perché quella piccola macchinazione di Jeff si era poi rivelata provvidenziale per il proseguimento del loro viaggio, del loro viaggio insieme.

Si erano trovati, in un modo che Nick faceva ancora fatica a comprendere e razionalizzare, ma era davvero così importante che non fosse stato un avvenimento completamente casuale?

«Sentivo come se» aveva continuato Jeff e Nick aveva ripreso a passargli le dita tra i capelli, in un gesto naturale e quasi necessario. «Non lo so… come se non potessi lasciarti andare così. Per te ha senso?»

E Nick aveva semplicemente annuito, perché non aveva alcun motivo di riflettere sul concreto senso di quella domanda, quando aveva passato giorni a scendere a patti con la sensazione che lui e Jeff fossero in qualche modo legati. La connessione che sentiva con lui, la loro sintonia, era tutto lì ed era più che evidente. Se bastava a Jeff, bastava anche a lui.

«Adesso dormi, però, ne riparliamo domani» aveva proposto, ed era stato il turno di Jeff di annuire, un attimo prima che gli augurasse la buonanotte e chiudesse gli occhi. Nick era rimasto ad osservarlo per un’altra manciata di secondi, poi si era messo supino e aveva provato ad imitarlo, ma il sonno lo aveva raggiunto solo dopo parecchie ore. Nonostante la stanchezza, i muscoli doloranti e il viaggio in macchina stancante, non era riuscito a smettere di pensare a quella piccola ma significativa rivelazione.

Quando riaprì gli occhi, ci mise un po’ a rendersi conto che ormai era giorno inoltrato, perché le tende ai balconi erano ancora tirate e la stanza versava nella semioscurità. Jeff non era al suo fianco, ma Nick non ebbe alcun motivo di preoccuparsi circa la sua assenza, visto che – come il suo cervello e i suoi sensi iniziarono a carburare simultaneamente – non gli fu difficile riconoscere lo scrosciare continuo dell’acqua nella doccia.

I successivi minuti furono una sequela di azioni meccaniche comandate puramente dall’inerzia con cui si teneva in piedi. Aprire le finestre, sbadigliare, continuare a camminare, andare a cercare la colazione; avvertiva i muscoli degli arti inferiori pesanti e poco collaborativi, tant’è che si ritrovò a trascinarsi da una parte all’altra della camera per non sforzarli eccessivamente.

«Ehi, ben svegliato.»

La voce di Jeff lo sorprese alle spalle nello stesso momento in cui lui individuò il carrello con il servizio in camera e vi si diresse senza ulteriori indugi. Aveva il cervello talmente sottosopra da non ricordare con esattezza l’ultima volta che aveva mangiato fino a riempirsi lo stomaco. Forse sul cofano della macchina di Jeff, ma non avrebbe saputo quantificare il tempo passato da quel momento. Avvicinatosi al carrello, però, si ritrovò ad aggrottare la fronte in un’espressione confusa e sorpresa, perché quello che vi trovò non era affatto quello che si aspettava.

«Perché ci hanno portato… pollo fritto e… piselli per colazione?» Storse il naso all’intenso odore di condimenti che gli aggredì i sensi.

«Beh, forse perché quello è il nostro pranzo. La colazione l’abbiamo mancata di… uhm… circa sei ore.»

Nick si voltò ad osservarlo con un sopracciglio inarcato e la sensazione di essersi perso qualche dettaglio di importanza fondamentale in tutta quella faccenda. «Ma quanto abbiamo dormito?»

Jeff era seduto sul letto, completamente vestito e intento ad allacciarsi le scarpe, i capelli ancora umidi di doccia che gocciolavano sull’asciugamano che teneva intorno alle spalle. «Quanto ci meritavamo» dichiarò, alzandosi in piedi e camminando verso di lui.

«Ho bisogno di un caffè» si lamentò l’altro, scrutando con disappunto i vassoi contenenti le varie pietanze. «E zuccheri. Tanti zuccheri.»

Il suo compagno tacque un attimo, come se stesse pensando a qualcosa di davvero serio, poi annuì solenne e «In tal caso, ho un piano B, ci stai?»

Nick aggrottò la fronte. «A scatola chiusa?»

«A scatola chiusa.»

Cosa mai poteva esservi di rischioso nel fidarsi di Jeff e delle sue idee strampalate? L’ultima volta che lo aveva fatto, aveva mangiato un’insalata con le bacchette giapponesi, seduto sul cofano della sua macchina; a ben pensarci, gli era andata davvero di lusso.

«Ci sto» fece schioccare la lingua e si passò una mano tra i capelli, un gesto involontario che neanche si rendeva conto di compiere piuttosto frequentemente quando era nervoso. «Dammi qualche minuto.»

«Tutti i minuti di cui hai bisogno» concesse l’altro, le labbra piegate morbidamente all’insù.

 
              *°*°*°
                     
 
Quando Jeff gli aveva detto “Ti porto a fare colazione a Venezia”, Nick aveva aggrottato la fronte in un’espressione profondamente scettica e titubante. Certo, l’idea di improvvisare una traversata atlantica, solo per mangiare un cornetto e un cappuccino in Italia, sapeva molto di commedia romantica, ma lui dubitava fortemente che il suo compagno avesse intenzione di saltare sul primo volo per l’Europa e partire all’avventura come l’eroina di un romanzo rosa. Eppure…

Eppure Nick stava passeggiando all’ombra del Ponte di Rialto, mentre osservava due Gondole incrociarsi nel canale che lui e Jeff stavano costeggiando.

«Manca solo il cappuccino» riferì a quest’ultimo, mentre prendeva un sorso di caffè dal bicchiere di plastica, «poi sembra davvero di essere lì.»

Jeff annuì e gli rivolse un sorriso sereno e soddisfatto. «Credo sia esattamente questo il concetto di “riproduzione fedele”, sai?» Gli fece notare, calciando un sassolino con la punta della scarpa. Se lo stava portando dietro da almeno cento metri, Nick si domandava quanto ancora ci sarebbe voluto prima che si stancasse.

Continuarono a camminare in silenzio, le braccia che si sfioravano casualmente più spesso di quanto loro volessero dare a vedere, osservando la città che si svegliava fiaccamente dalla sua notte di eccessi. Nick si sentiva intorpidito e un po’ stonato, ma immaginava che quella condizione fosse dovuta agli orari sballati che stava facendo e dello stress fisico a cui si stava sottoponendo, così non si preoccupò di provare a dare un senso al nodo che gli stringeva lo stomaco e a quella sensazione di ansia che si trascinava dietro da quando aveva aperto gli occhi.

«Senti» esordì Jeff, a un tratto. Si fermò ai piedi del campanile di San Marco e gli prese un braccio per indurlo a fare lo stesso.

Non gli piacevano i discorsi che iniziavano con “senti”, non portavano mai a nulla di buono e la serietà del viso di Jeff gli fece intuire che quella volta non avrebbe fatto eccezione. Non ebbe però tempo di aprire bocca e provare a rimandare quel momento che sembrava inevitabile, che il ragazzo lo interruppe e lui fu costretto a tacere e ascoltare.

«Lo so che potrei- ho fatto un casino, dicendoti quella cosa ieri… stanotte, cioè. Ma- non riuscivo più a tenermela dentro e… pensavo che avremmo potuto- parlarne, sai. Parlarne davvero» prese fiato per un attimo, ma tenne lo sguardo ben puntato davanti a sé, verso un punto oltre le spalle di Nick che lui non poteva vedere. «Invece tu… tu non lo fai e- non mi parli e… ho rovinato tutto, mh?»

La prima cosa a cui Nick pensò, per un immediato collegamento logico, fu: “Sono un idiota”. La seconda, per la stessa dinamica di causa-effetto, fu: “Anche tu sei un idiota”. La terza, su cui decise di sorvolare e approfondire poi in un secondo momento, fu: “Sarebbe così facile innamorarsi di te, adesso”.

Il punto era che, in quel viaggio voluto dal caso e non solo, di cose taciute ce ne erano state fin troppe, a cominciare dal loro primo incontro. Nick la ricordava bene, anche se non avrebbe saputo quantificare il tempo trascorso, lui quella bugia la ricordava alla perfezione e continuava a conviverci ogni giorno, a sopportare il senso di colpa che aumentava mano a mano che lui si legava a Jeff. Sapeva di essere un pessimo bugiardo, così come sapeva che Jeff non aveva mai creduto alla storia della macchina da imbarcare per Los Angeles, ma lui rimaneva comunque l’ultima persona a poter giudicare il comportamento dell’altro, dal momento che vi era quella cosa che continuava a portarsi dietro sin da quando Jeff lo aveva soccorso.

«No, non hai rovinato nulla, Jeff» gli rispose con assoluta sincerità, cercando di mantenere la voce morbida e rassicurante, per soffiare via le ombre che gli scurivano il viso. «Ha solo reso le cose più… chiare e facili, ecco. Mi hai colto alla sprovvista, ma- io sono sempre stato abituato a programmare e organizzare e- gli imprevisti così mi scombussolano un po’, ma» tacque un attimo e cercò di dare un senso alle parole che gli si accavallavano alle labbra e che si stavano rivelando più disordinate di quanto fossero nella sua mente. «Mi dispiace di averti dato l’impressione di… non aver gradito» sospirò infine.

L’espressione sul viso del ragazzo si rilassò lentamente, riprendendo i colori che Nick era abituato a vedervi, prima di colorarsi tenuamente di rosso. «Volevo- stavo solo cercando un modo per dirti che mi piaci e che- no, mi piaci, solo questo.»

Nick sorrise istintivamente, soffocando appena a causa della piccola morsa in cui si era stretto il suo cuore. «Anche tu mi piaci e… era un bel modo per dirlo. Il tuo, insomma.»

I suoi occhi nascondevano paure e promesse, un mondo che Nick avrebbe volentieri voluto conoscere, di cui avrebbe con piacere desiderato di essere degno.

«Pensi che- uhm, passerà mai questa sorta di… scompenso cardiaco che» il ragazzo si passò una mano tra i capelli e accompagnò quel gesto con un sospiro rassegnato, le labbra piegate inequivocabilmente all’insù. «Il batticuore, insomma.»

«Oh. No, dubito che andrà via. Penso faccia parte del pacchetto.»

Jeff rise e scosse lievemente la testa, contagiando immediatamente Nick che, dal canto suo, stava cercando la forza di non avventarsi sulle sue labbra e baciarlo a perdifiato. «Che culo» fu il suo singolare commento.

Lui non poté che dargli ragione; gettò il bicchiere del caffè in un cestino e poi allungò una mano per cercare una delle sue, Jeff la strinse prontamente e Nick considerò che, dopotutto, il cuore in gola e lo stomaco annodato non erano sensazioni così spiacevoli da sopportare.
 

Trascorsero il resto del pomeriggio ad esplorare la zona nord della Las Vegas Strip, si lasciarono alle spalle il The Venetian e proseguirono alla scoperta degli altri luoghi d’interesse di quella città così confusionaria e variopinta. A quell’ora del pomeriggio, le strade erano perlopiù silenziose e sgombre di persone, quindi passeggiare era doppiamente piacevole e rilassante. Vi era una sorta di consapevole complicità tra di loro, ora che avevano messo le cose in chiaro anche a parole. Era confortante il modo in cui la mano di Jeff non lasciasse mai quella di Nick, come continuasse a cercare il contatto fisico e visivo con lui, come se avessero fatto un altro passo l’uno verso l’altro, ma in maniera più sicura e fiduciosa. Parlare non era mai risultato così semplice, raccontarsi e indicare questo o quel dettaglio gli veniva quasi naturale, perché era giusto così e lo sapevano entrambi.

Nonostante ciò, però, Nick continuava a sentire un leggero prurito, proprio alla base dello stomaco. Era quello che gli ricordava che Jeff era stato coraggioso abbastanza da confessargli la sua bugia, mentre lui non aveva ancora trovato la forza di metterlo al corrente di tutta la verità. Riusciva a scorgere la serenità sul suo viso, il sollievo per essersi liberato da quel peso opprimente e la libertà di potersi esporre senza forzature o ulteriori inganni. Sembrava una sensazione talmente piacevole che Nick sentì il respiro incastrarsi in gola e le parole lottare per lasciare le sue labbra. Le fermò appena in tempo, un attimo prima che fluissero libere e spegnessero il bel sorriso di Jeff. Perché ne era sicuro: sarebbe accaduto esattamente quello, una volta trovato il momento giusto per dirgli tutto.
 
*°*°*°
 

«Pensavo di partire dopo colazione, così da arrivare a San Diego per… uhm- ci vogliono circa… circa cinque ore, quindi arriveremo nel primo pomeriggio, che ne dici?»

Nick annuì e rotolò sul fianco, per studiare la cartina che Jeff teneva dispiegata sul letto su cui stavano sdraiati. «Che andiamo a vedere?»

«Sarà meglio di una vacanza» sorrise il ragazzo, prendendo una manciata di noccioline dalla ciotola posata tra i cuscini. «Musei d’arte, parchi acquatici e, se abbiamo tempo, possiamo anche andare al mare.»

«Avevo capito che fossimo alla scoperta delle meraviglie architettoniche dell’America.»

«Lo siamo, ma al SeaWorld ci sono i globicefali e io so che tu muori dalla voglia di andare a vederli, insieme a» si prese un labbro tra i denti, mentre sfogliava freneticamente l’immancabile piccola guida dedicata alla città a cui stavano per approdare. «Ferdinand!» Esultò infine, mettendogli davanti agli occhi la foto di un grosso cetaceo imbronciato. In un primo momento, Nick pensò che Jeff fosse completamente impazzito, ma poi si prese qualche secondo per far scorrere lo sguardo sulla didascalia dell’immagine e dovette ricredersi. Si chiamava proprio Ferdinand.

«È un po’ bruttino» constatò, con tutta la sincerità di cui disponeva.

«È un beluga, non deve essere bello, deve mettere paura ai predatori e indurli a fuggire.»

«Non fa una piega.»

Risero insieme con naturalezza e confidenza e, quando poi le risate scemarono, il silenzio che si venne a creare tra loro non aveva nulla di teso o imbarazzato. Jeff continuava a mangiare le sue noccioline, alternando lo sguardo dalla cartina alla guida che stava consultando, mentre Nick si era lasciato cadere sulla schiena e fissava il soffitto. Fuori, la sera era ormai calata su Las Vegas e la città si iniziava a riempire delle sue luci caratteristiche e scintillanti.

«Pensavo» esordì Jeff, dopo qualche attimo, e Nick voltò solo la testa per rivolgergli la sua attenzione. «Di restare a San Diego per… un paio di giorni, più o meno.»

L’altro annuì, ma l’espressione sul viso del ragazzo gli fece intuire che vi era dell’altro, altro che non sarebbe stato così piacevole da ascoltare.

«Da lì poi ci vogliono circa due ore per arrivare a Los Angeles.»

Oh. Oh. Ecco spiegato il mistero della sua espressione triste. Nick avvertì qualcosa incastrarsi e fare male, da qualche parte nella gabbia toracica. Era una sensazione fastidiosa e logorante, perché sapeva quello che Jeff stava per dire, così come sapeva che non voleva che lo dicesse. Non voleva sentirlo, era già tanto riuscire a sopportare la consapevolezza che quel viaggio stesse per finire: dirlo lo avrebbe solo reso più reale e doloroso.

«Non pensarci, ti va?» Propose infine, addolcendo quella richiesta con un sorriso che sperava essere convincente e incoraggiante. «Non voglio rovinare questi ultimi due giorni, non me lo perdonerei mai» così dicendo, posò una mano sulla sua e la strinse teneramente. Quello annuì e si aprì in un piccolo sorriso incerto, così lui si permise di lasciargli qualche carezza sul dorso, per provare a tranquillizzarlo del tutto.

«E poi non sarà un addio, no?» Provò a sorridere Jeff. «Insomma, stiamo entrambi a New York e- vederci non dovrebbe essere un problema. Vero?» Chiese conferma dopo un attimo.

Avrebbe tanto voluto dirgli di sì, rassicurarlo che avrebbero continuato a vedersi e frequentarsi, sporgersi e poi baciarlo per dissolvere ogni suo dubbio, ma non poteva. Non poteva, perché avrebbe significato mentire e distorcere ancora la realtà, e lui aveva già troppi segreti con Jeff. Così chiuse per un attimo gli occhi e prese un respiro profondo, prima di riaprirli e rivolgergli uno sguardo rammaricato e dispiaciuto.

«Non lo so, Jeff. Io- c’è la possibilità che... rimanga a Los Angeles. E non solo per quest’estate.»

Scorse distintamente il viso di Jeff rabbuiarsi, le sue labbra schiudersi per la sorpresa, la fronte aggrottarsi per la confusione. «Nel senso che hai intenzione di trasferirti lì? Perché?»

«Perché» si schiarì la voce che gli era uscita leggermente incerta e arrochita, al pensiero di dar voce a quella storia. «Perché c’è una cosa che non ti ho detto e che- il motivo per cui stavo andando a Los Angeles in auto. Anche io ti ho mentito e-»

«Okay, però non ti agitare» lo interruppe Jeff, strinse un po’ più forte la sua mano e poi si tirò a sedere, facendogli un cenno con la testa per indurlo a fare lo stesso. Nick lo imitò all’istante e Jeff sorrise, incoraggiante. «Lo avevo capito da un pezzo che nascondevi qualcosa, sei un pessimo bugiardo.»

«Non voglio dirtela, perché non mi va di rovinarti la vacanza e lasciartene un ricordo spiacevole.»

Jeff scosse la testa e raggiunse anche l’altra sua mano, stringendola con la propria. «Penso che qualsiasi cosa mi dirai, non potrà cambiare il ricordo che avrò di questa vacanza.»

Stava sorridendo, sebbene Nick riuscisse a scorgere l’incertezza nel suo sguardo, nascosta tra le iridi più opache del solito. Era evidente che stesse cercando di infondergli sicurezza, di essere una roccia e sostenerlo in quel momento così delicato e precario, nonostante sapesse che ne sarebbe uscito ferito. Nick gliene era profondamente grato, ma quel comportamento non faceva altro che acuire il suo senso di colpa.

«Ti ho detto che avrei trascorso l’estate dalla mia famiglia, ma la realtà è che non lo avrei mai fatto volontariamente. Ho un rapporto molto conflittuale con loro, specialmente con mio padre.»

«Quindi ti hanno chiesto loro di andare?»

Nick annuì e lasciò che le lievi carezze di Jeff gli distendessero maggiormente i nervi tesi e stanchi. «Mio padre ha sempre preteso di avere il controllo sulla mia vita, sai. Sulle mie scelte, sulle mie decisioni, la strada da seguire, gli studi da intraprendere. Non sono mai stato particolarmente bravo a farmi ascoltare, perché- non lo so, forse perché non mi andava di deludere lui e mia madre e quindi ho sempre finto che mi andasse bene fare come dicevano loro.»

«Non volevi trascorrere le vacanze da loro?» Domandò allora Jeff, stringendo un po’ l’intreccio delle sue gambe e avvicinandosi a Nick, seduto specularmente a lui. «Volevi rimanere a New York?»

«In realtà non mi sarebbe dispiaciuto trascorrere un po’ di tempo con loro, ma» sospirò e scrollò appena le spalle, «non era solo quello.»

La stretta delle mani di Jeff aumentò, come se il ragazzo avesse compreso che quel momento era importante e che Nick aveva bisogno di tutta la sua presenza, per riuscire a dire quello che doveva. Così lui, semplicemente, lo fece. Sollevò lo sguardo su di lui e gli rivolse un sorriso triste e spento.

«Mio padre possiede una piccola catena di alberghi e case per le vacanze, a Los Angeles. È in affari con suo fratello e, insomma, insieme stanno cercando di allargare un po’ le loro proprietà ed espandersi anche oltre i confini della città» aspettò che Jeff annuisse lentamente, poi proseguì. «E ha pensato di coinvolgere anche me in questo progetto, perché sono l’unico figlio maschio e, a quanto pare, l’idea che io prenda le redini della mia vita e mi trasferisca in pianta stabile a New York non è di suo gradimento.»

«Dunque rimarrai lì e lavorerai per lui?»

«La sua intenzione» gli spiegò, non senza provare un leggero fastidio dalle parti della bocca dello stomaco. «È che io sposi la figlia di un suo socio, proprietario di una catena di ristorazione privata, per unire le due società con un… matrimonio di interessi e non solo.»

L’espressione sul viso di Jeff mutò nel giro di una frazione di secondo. «Oh» boccheggiò e allentò la presa sulle mani di Nick, presa che Nick si premurò di serrare di nuovo. «Direi che… ha un senso. Cioè, sono certo che lo abbia, devo solo… trovarlo, ecco.»

«Sto andando lì per… cercare di contrattare, almeno per quanto riguarda il matrimonio.»

Jeff annuì e distolse lo sguardo, mordendosi un labbro. Nick avrebbe voluto sporgersi e stringerlo e dirgli che sarebbe andato tutto bene, perché era con lui che si era reso conto di voler stare, ma aspettò che il ragazzo metabolizzasse quella notizia per fare alcunché.

«Quindi. Quindi nella migliore delle ipotesi rimarrai lì, mentre male che vada… dovrai anche prestarti a questa storia del matrimonio. Ho capito bene?»

«Sto cercando di pensare ad un’alternativa efficace, ma… non mi è ancora venuto in mente nulla.»

Osservò l’altro distogliere lo sguardo e stringere le labbra in disappunto: quell’espressione così rammaricata e quasi severa, lo portò ad ingoiare a vuoto e a stringere maggiormente le sue mani, per la paura che lui scivolasse via.

«Che fine ha fatto il… il credere in te stesso? I tuoi sogni sono all’altezza della persona che sei, ricordi?» Sorrise tristemente e Nick si odiò quando lo vide aggrottare la fronte in una smorfia contrariata e delusa. «Vuoi davvero mettere tutto da parte per… per non deludere loro? Sei disposto a deludere te stesso per…?»

«No. No, Jeff, non lo sono e non voglio, ma- è mio padre» sospirò, come se quello bastasse a giustificare ogni cosa. Ogni sua debolezza, ogni suo “sì” espresso e ogni suo “no” mancato. «Io ho altri progetti, altre aspirazioni e- voglio restare a New York, voglio tornare a New York. Con te. E voglio rivederti e chiederti di uscire ufficialmente e portarti a cena in un ristorante di lusso e conoscere Sebastian e regalarti fiori e cioccolatini e-»

…e le labbra di Jeff si impossessarono delle sue prima che lui potesse continuare, prima che lui potesse confessargli quanto lo aveva sconvolto, quanto era felice di averlo incontrato, quanto desiderava viverlo e quanto, soprattutto, si sarebbe impegnato per far sì che ciò accadesse. Ma Jeff lo sapeva, Jeff capiva ciò che lui voleva comunicargli con lo sguardo, perché era un tipo di tante parole, ma a conti fatti gliene servivano davvero poche per prendere le sue di decisioni. Lasciò andare le sue mani e si mise in ginocchio sul letto, senza però allontanarsi dalla sua bocca che continuò a baciare con dolcezza e frenesia, come se ne andasse della sua vita e quella fosse davvero l’ultima notte che avevano per stare insieme.

«Sei davvero» bisbigliò, tra un bacio l’altro, mentre Nick spostava le mani tra i suoi capelli per impedirgli di interrompere quel contatto. «Come Robb Stark, allora.»

«Posso essere davvero come Robb Stark» rabbrividì quando Jeff infilò una mano sotto la sua T-shirt e si premette maggiormente sulle sue labbra. «Posso scegliere te… e mandare al diavolo lui.»

A quelle parole, il ragazzo strinse improvvisamente la presa sulla pelle del suo fianco e Nick distinse l’esatto istante in cui il suo sguardo cambiò, le pupille che si dilatavano e inghiottivano le iridi chiare. «Fallo, allora» mormorò, la sua voce bassa e strascicata celava una leggera nota di preghiera mista a disperazione; Nick sentì il sangue pompargli più velocemente nelle vene e impedirgli di pensare lucidamente. «Scegli me

E Nick lo fece, perché era Jeff ed era quello che voleva sin da quando lo aveva incontrato accanto alla sua auto in panne. Scelse lui, spegnendo il cervello e limitandosi a vivere quell’attimo con assoluta libertà; scelse lui, facendolo stendere sul letto e continuando a baciarlo con passione e delicatezza; scelse lui quando gli sfilò la maglia e scelse ancora lui quando si chinò a baciargli la pelle chiara e liscia del torace.

Era talmente facile scegliere lui, che Nick si domandò come avesse potuto anche solo pensare di farne a meno, di lasciarlo da parte e proseguire oltre. Di rinunciare a lui volontariamente, di privarsi delle sue dita sottili, delle sue labbra morbide e del suo calore che riscaldava anche lui. Se lo chiese più volte e poi smise di farlo, perché la risposta a quel quesito era talmente semplice e banale che non vi era necessità di soffermarvici.

Lasciò che il corpo di Jeff si formasse intorno al suo, che si abituasse al suo tocco e adattasse alla sua presenza; lasciò che le sue mani lo accarezzassero e che le sue labbra lo baciassero, che i loro cuori battessero all’unisono. Si prese ciò che Jeff era disposto a concedergli, a piccole dosi, senza il bisogno o la voglia di affrettare i tempi e bruciare le tappe, con calma e complicità. Piccoli tocchi e fruscii di lenzuola, le cartine spostate alla cieca e le noccioline rovesciate tra i cuscini; i “Nick” chiamati sottovoce e i “Jeff” sussurrati tra pieghe accoglienti di pelle chiara.

Strinse la mano di Jeff come aggrappandosi ad essa, senza mai abbandonare il suo sguardo o il porto sicuro che era il suo corpo. Jeff intrecciò le dita alle sue e condusse le loro mani lungo il proprio torace, tra brevi sospiri e brividi caldi, raggiunse l’anca sinistra e lì si fermò.

Fu allora che Nick capì, abbassando lo sguardo sulla pelle a contatto con le sue dita, dove le linee scure del tatuaggio di Jeff si armonizzavano.

Credi in te stesso.

Jeff lo stava salvando di nuovo.
 
 

 
 

 
 
 
Lo so che scusarmi per il ritardo servirebbe a ben poco, visto che sono passati altri tre mesi, ma spero che almeno il capitolo sia stato di vostro gradimento e che sia valso l’attesa estenuante. Ho avuto un po’ di problemi con i Niff, in questo periodo, sentivo di non riuscire più a scriverli bene e di non essere più capace di tenerli IC rispetto ai personaggi che io stessa avevo presentato; così me la sono presa un po’ più comoda e ho aspettato che la voglia di scrivere di loro mi tornasse da sola, senza che fossi io a costringermi a farlo. Alla fine, spero che il risultato sia stato di vostro gradimento, perché io ammetto di esserne molto soddisfatta.

Anzi, vi dirò: ho in mente quest’ultima scena sin dal primo capitolo e ci ho fantasticato su talmente tanto e talmente a lungo, che più la rileggo e più sono soddisfatta di notare che è venuta esattamente come volevo scriverla io. Di nuovo, spero sia piaciuta anche a voi; non avete idea di quanto sia stato difficile mantenermi sul rating arancione, anche perché per i Niff non mi sono mai spinta oltre il giallo pallido xD

Non mi perdo in molte chiacchiere, anche perché non ho molto altro da dire riguardo questo capitolo. L’unica cosa che ci tenevo a precisare è che ho finalmente trovato il tempo per plottare tutta Rescue Me e che quindi posso annunciarci con sicurezza che saranno 15 capitoli tondi tondi (14 + epilogo) e che, da ora in poi, mi impegnerò solennemente a garantirvi aggiornamenti più regolari.

Per il resto, potete tranquillamente venirmi a trovare in pagina, per informazioni circa le mie storie, spoiler e aggiornamenti, deliri fangirlici o, semplicemente, per fare quattro chiacchiere ♥

Un grazie a chi è ancora qui dopo tutto questo tempo e a chi, eventualmente, si prenderà qualche minuto per farmi sapere cosa pensa di questo ennesimo capitolo chilometrico ♥
 

Robs ♥

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Capitolo 10
*** 10- From my fears. ***


Pairing: Nick/Jeff
Genere: Sentimentale / Romantico / Commedia / Fluff / Angst accennato.
Avvertimenti: Slash, AU, Lime.
Rating: Arancione.
Capitoli: 10/15 ~
Introduzione: Rescue Me è la storia di un salvataggio. È la storia di un viaggio inaspettato e di due vite che si intrecciano.
Rescue Me è la storia di due storie ma, soprattutto, Rescue Me è la storia di chi ha compreso che esistono molteplici modi per trarre in salvo qualcuno e che, spesso, la meta prefissata non è così lontana come sembrava alla partenza.
Note d’autore: As usual, tante e alla fine.
Note di Betaggio: Un nome, una garanzia. Un milione di volte, grazie. Vals.

 
 Rescue Me
10. From my fears.
 
 

 

Riprese lentamente il contatto con la realtà. Un senso alla volta. Prima con il rimbombargli sordo del silenzio nelle orecchie, poi con gli arti che riacquistavano piano la consueta sensibilità. Braccia, gambe, dita, si presero il loro tempo per abbandonare il torpore in cui erano caduti e tornarono ad essere operativi.

Jeff non aveva alcuna fretta. Lasciò che il suo corpo si svegliasse, che il suo cervello carburasse quel tanto che bastava da permettergli di contestualizzarsi, di ricordare chi fosse, dove fosse e cosa stesse facendo; solo dopo essersi ricordato tutto, proprio tutto, si concesse di aprire gli occhi.

La luce filtrava tenue attraverso le tende tirate e lui rimase qualche attimo a studiare le forme astratte che si ricorrevano sulle lenzuola che ancora lo coprivano per metà. Giochi di luce e ombre che definivano e davano ulteriore spessore alle sagome celate al di sotto del tessuto bianco; decise di concentrarsi su di esse, in modo tale da consentire alle sue sinapsi di connettersi correttamente e dare un senso a quella matassa di pensieri e sensazioni che sentiva premergli sulle tempie e stordirlo. Ripercorse mentalmente gli avvenimenti della sera precedente e neanche ci provò ad impedire al suo stomaco di annodarsi perché, nonostante avessero un fastidioso retrogusto dolceamaro che sottolineava l’inutilità di riporvi troppe speranze, il ricordo delle mani di Nick che lo toccavano con delicatezza era ancora troppo vivido, sulla sua pelle e nella sua mente.

Con una decisione che non credeva di possedere, fece forza sul gomito e si voltò completamente sul fianco, incontrando il profilo ancora addormentato di Nick. Sembrava sereno, constatò, la sua fronte era distesa e dalle sue labbra schiuse fluiva il respiro leggero e regolare; stupidamente, Jeff si ritrovò ad invidiare la sua pace dei sensi e quel velo di beata inconsapevolezza che ancora gli copriva i pensieri. Sorrise malinconico, scivolando con lo sguardo lungo il suo collo scoperto, la linea delle spalle, la clavicola esposta e il torace nudo che spariva oltre il lenzuolo, mentre nella sua mente si accavallavano immagini definite e concrete di loro due insieme, appena poche ore prima. Dio, quand’è che avere una cotta per qualcuno era diventato così complicato?

Sebastian ha ragione, si ritrovò a considerare, non solo i sentimenti rendono tutto più difficile, ma inquinano anche quel po’ di serenità che uno si guadagna faticosamente.

Si odiò per aver ceduto a quell’unico pensiero prima ancora di averne terminato la formulazione. La verità era che di prima mattina, e con il ragazzo per cui aveva potenzialmente perso la testa steso al suo fianco, era del tutto impossibile giungere a conclusioni logiche o ragionare con cognizione di causa.

Per questo esatto motivo, l’idea che gli soggiunse alla mente non lo sorprese più di tanto, ma addirittura gli sembrò l’unica soluzione sensata ai suoi problemi. Domandandosi perché non ci avesse pensato prima e facendo attenzione a non compiere movimenti troppo bruschi, scostò le lenzuola e si tirò in piedi. Cedette alla tentazione di gettare un unico sguardo alle sue spalle e si morse un labbro a quella vista, perché Nick era davvero bellissimo, anche con i capelli spettinati e il viso sfatto e arrossato. Come avrebbe fatto a lasciarlo andare, una volta arrivati a Los Angeles? Si era addormentato con quel quesito e, di nuovo, se lo ritrovava affacciato alla mente.

Non ci avrebbe pensato, però, non ancora. Non avrebbe permesso a quell’unica macchia di compromettere il viaggio dei suoi sogni, né di rovinare il rapporto tra lui e Nick, né di cancellargli il buonumore: avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco e avrebbe fatto tesoro di qualsiasi briciola Nick o chi per lui fosse stato disposto a concedergli. Poi, solo poi, avrebbe pensato al suo cuore spezzato, alla delusione di un epilogo dolceamaro e ad eventuali rimpianti inutili.

Forte di questa convinzione, recuperò velocemente il cellulare e la T-shirt che giaceva abbandonata ai piedi del letto, poi si diresse verso il piccolo balconcino della camera, uscendovi senza far rumore.

L’aria era tiepida e piacevole e le strade di Las Vegas erano ancora pressoché deserte, quindi lui immaginò che non dovesse essere molto tardi; ebbe la conferma ai suoi sospetti quando sbloccò il display del telefono e quello lo informò che mancavano solo pochi minuti alle otto. Fece un breve calcolo mentale: aveva dormito poco più di sei ore, considerando che il sonno aveva tardato a raggiungerlo, forse per questo si sentiva tutto intontito e scombussolato.

A quel punto, gli venne anche il dubbio che fosse addirittura troppo presto per telefonare a qualcuno, ma non ebbe comunque voglia di ragionarci più di tanto, così compose quel numero che ormai conosceva a memoria e pregò che nessuna furia divina si abbattesse su di lui.

Sebastian rispose dopo appena quattro squilli. La sua voce non era infastidita o assonnata, quindi Jeff dedusse di non averlo svegliato. A scanso di equivoci, comunque, pensò bene di domandarglielo.

«Ti ricordo che qui è quasi ora di pranzo» sbuffò quello e Jeff sorrise automaticamente. «Tu in quale parte del mondo sei volata, fatina?»

«Sono… sono a Las Vegas» lo informò cautamente e poi tacque, lasciandosi scivolare con la schiena contro il muro, fino a toccare terra. 


«Las Vegas» ripeté l’altro, come assaporando il suono di quelle parole, ma ignorando del tutto la sua domanda. «Ascolta, se ti sei svegliato e hai scoperto di esserti sposato il mendicante che ti sei caricato dietro, non ho problemi a procurarti un avvocato, ma sappi che nessuno mi impedirà comunque di a) pretendere una foto del matrimonio da rendere pubblica quanto prima e b) invitare a casa ogni tuo futuro spasimante e raccontare questa storiella fino a che smetterà di essere divertente, cosa che dubito fortemente accadrà. Intesi?»

Jeff schiuse la bocca all’ammontare ignobile di sciocchezze che Sebastian aveva detto, ma il “Che diavolo vai blaterando?” che voleva rifilargli gli rimase impigliato sulle labbra, soffocato sul nascere da una risata spontanea e rigenerante. Sarebbe stato ipocrita se avesse detto di non sentire la mancanza del suo coinquilino.

«Ma che stronzo che sei. E non ho sposato nessuno, se la cosa può rassicurarti» scosse lievemente la testa, ancora sorridendo, poi aggiunse: «E non ho intenzione di farlo, quindi puoi anche evitare di scomodare l’olimpo delle tue conoscenze.»

Sebastian sbuffò annoiato, prima di rispondere: «Mh, peccato. Speravo quasi fossi diventato una persona interessante.»

«Non si tratta di non essere interessante, Bas» commentò e si passò stancamente una mano sugli occhi, perché tutto quel parlare di matrimoni gli aveva di nuovo stretto lo stomaco. «Si tratta solo di conservare un minimo di buon senso.»

«Quello lo hai perso quando hai deciso di caricarti in macchina il- a proposto, almeno ce l’ha un nome?»

Jeff annuì, per poi ricordarsi che Sebastian non poteva vederlo. «Sì, si chiama Nick e ti ho già detto che la situazione è molto più complessa di così.»

E il suo tono di voce doveva sembrare davvero abbattuto e spossato, perché quello di Sebastian si regolò di conseguenza, diventando più serio e accorto. Nonostante lo conoscesse da diversi anni e nonostante fosse abituato a dividere i propri spazi con lui, vi era sempre qualcosa che lo coglieva di sorpresa e lo stordiva, quando Sebastian si mostrava più maturo e partecipe. Sapeva che il ragazzo fosse capace di innata premura e senso di protezione, ma il modo in cui capiva sempre quando fosse il momento di smettere di giocare e iniziare a parlare seriamente riusciva sempre a spiazzarlo. Dubitava si sarebbe mai abituato a questo lato del suo carattere, anche perché Sebastian si impegnava strenuamente per tenerlo ben nascosto.

«In realtà mi hai raccontato solo la versione censurata. Sto aspettando quella integrale, Barbie

Come ogni volta, la variopinta selezione dei soprannomi che gli riservava Sebastian gli fece storcere la bocca, ma non per questo si tirò indietro, anzi: prese un respiro profondo e poi iniziò a raccontargli tutto, dal principio.

Raccontò dell’incontro con Nick, della sua macchina in panne e del temporale. Raccontò della sorpresa di scoprire che abitavano vicini e dell’improvvisa voglia di trascorrere la giornata con lui. Raccontò della sua piccola bugia e del giro per Chicago, la proposta di viaggiare insieme e la nottata trascorsa in hotel, tra risate e piccole scoperte. E gli raccontò di come Nick lo aveva toccato, la sera in motel, lasciando che Sebastian gli desse doppiamente dell’idiota: una volta per il modo in cui si era imbarazzato alle sue carezze e un’altra per il suo patetico tentativo di allontanarsi da lui. E poi gli raccontò del Grand Canyon, della cena sul cofano della macchina, del bacio e di tutto ciò che ad esso era seguito. Lo mise al corrente di ogni cosa e solo in quel momento si rese conto di quanto bisogno avesse di fare un po’ di ordine mentale e catalogare con tranquillità tutti gli avvenimenti che si erano susseguiti da quando si era messo in auto a New York. Arrivò fino a Las Vegas, fino alla sua confessione e a quella di Nick, fino al momento in cui, Jeff ne era sicuro, avevano fatto l’amore.

Poi si fermò, si fermò e attese che fosse Sebastian a parlare e, quando poi lo fece, quello disse un’unica frase: «Quindi avete scopato?»

Jeff posò la testa al muro e sospirò; davvero, cosa si aspettava da lui? «Bas, io ho parlato per mezz’ora, possibile che hai capito solo questo?»

«No, scusa, mi spieghi perché hai deciso di diventare una persona vagamente interessante, proprio quando io ho trovato un ragazzo fisso?»

«Cos- è… tipo una proposta indecente?» Volle accertarsi l’altro, poi, come colto da improvvisa folgorazione, aggiunse: «E hai appena ammesso di esserti impegnato seriamente?»

Sebastian sbuffò una risata, prima di schiarirsi la voce e rimproverarlo. «Non cambiare discorso. Stiamo ancora parlando di te» poi, prima che Jeff potesse anche solo aprire bocca per ribattere, continuò. «E comunque non sono certo di aver capito quale sia il problema.»

«Mi prendi in giro?» Domandò quello, retoricamente. «Che ho parlato a fare?»

«Sterling, seriamente, posso capire tutta la storia della sintonia, l’anima gemella e cazzi vari, ma non ti pare un tantino esagerato deprimerti perché non potrai sposare questo tipo? Lo conosci da quanto? Una settimana o due?»

Ed era vero, aveva ragione. Jeff non aveva niente da ribattere a quel proposito, perché sapeva che, ad un occhio esterno, poteva sembrare affrettato il modo in cui le cose tra lui e Nick si erano evolute, così come poteva apparire falsato il corso che avevano fatto i suoi sentimenti. Dopotutto, aveva vissuto con lui giorno e notte per quasi due settimane: era altamente probabile che ciò che provava fosse stato influenzato dalla perenne vicinanza di Nick. Si mordicchiò un labbro, non sapendo come difendersi da quell’obiezione.

«Non mi sto deprimendo perché non posso sposarlo» decise di rispondere infine. «Sto solo considerando le scarse possibilità di poter anche solo prendere in considerazione l’ipotesi, se lui rimane a Los Angeles ed io torno a New York e- ma, seriamente, perché diavolo ho deciso di parlarne con te?»

L’altro ghignò, nello stesso momento in cui Jeff sospirava afflitto. «Ottima domanda. Se avessi saputo che ti portavi dietro tutti questi drammi, non ti avrei chiesto la versione integrale della storia.»

«La tua empatia è veramente toccante, Sebastian» fece una smorfia e abbracciò con lo sguardo l’orizzonte, mentre la città si svegliava pian piano, parecchi piani più sotto. «Tu pensi che sia stupido?» Domandò, dopo qualche attimo di silenzio.

Il ragazzo all’altro lato del telefono sospirò e Jeff immaginò che neanche per lui fosse semplice affrontare un discorso così delicato e complesso. «No» rispose comunque. «Penso che sia inutile e penso anche che se continui a masturbarti il cervello in questo modo, prima o poi, diventerai cieco davvero.»

«Non puoi farmene una colpa. Non tutti sono sconsiderati e irrazionali come te, Smythe.»

«Ma intanto io vivo la mia vita senza crisi esistenziali, mentre tu ti ritrovi a disperarti perché il tuo Romeo è destinato a sposare un’altra. Mi pare di ricordare che la loro storia sia finita piuttosto male, sai?»

«Non ho intenzione di suicidarmi» assicurò Jeff, mal celando un sorrisino divertito. «Vorrei solo capire come comportarmi adesso, sai, fino a che non arriveremo a Los Angeles.»

Senza che nessuno lo chiedesse, e fraintendendo alla grande, Sebastian tradusse immediatamente. «Sì, Jeff, potete scopare ancora, basta che poi non ti fiondi in chiesa urlando “Io mi oppongo”.»

D’accordo, fine della conversazione seria con Sebastian. Jeff scosse la testa e sbuffò una risata sarcastica. «Okay, ho capito. Vai a mangiare, Smythe, io me la caverò» detto ciò, si alzò in piedi e fece schioccare il collo, mentre il suo interlocutore ribatteva.

«Cretino, stai solo attento a non farti coinvolgere troppo da questa cosa. Io ti conosco» lo ammonì, ma la sua voce nascondeva una morbida nota di preoccupazione che fece sorridere Jeff.

«Ci provo» promise, sebbene fosse consapevole che fosse ormai tardi per quello. «Ma cercherò comunque di non lasciarmi influenzare e rovinare il viaggio. Grazie, Smythe, sei stato stranamente utile.»

«Vuol dire che mi devi un favore, buono a sapersi» ghignò l’altro. «Ciao, ciao, fatina, ricordati di usare il preservativo!»

La telefonata si interruppe prima che Jeff potesse dar completamente voce all’”idiota” aveva tra le labbra.

 
Quando rientrò in camera, chiudendosi il balcone alle spalle, notò immediatamente due cose: la prima fu il letto vuoto, ma solo perché il suo sguardo si era diretto subito lì; la seconda fu Nick che, gloriosamente a torso nudo, usciva dal bagno. Nel momento in cui anche il ragazzo si accorse di lui, si immobilizzarono entrambi, stupidamente uno di fronte all’altro, ai due lati del letto: Jeff con la salivazione azzerata e Nick impegnato a reggersi l’asciugamano intorno ai fianchi.

«Ho dimenticato i vestiti» esordì quello, piegando le labbra in un sorriso storto. «E- ho visto che eri al telefono, quindi ho usato il bagno per primo. Spero non ti dispiaccia.»

Jeff scosse la testa e distolse lo sguardo da lui per posare il cellulare sul comodino. «No, figurati. Hai fatto bene ad… ottimizzare i tempi, sì» Che diavolo stai blaterando, imbecille? «Comunque adesso vado io, senza problemi.»

Nick annuì, un attimo prima di spostarsi verso la sua valigia per recuperare un cambio d’abiti. «Dammi solo due minuti per vestirmi e poi-» lasciò che la frase cadesse nel vuoto, probabilmente, considerò Jeff, per non prolungare ancora quella fiera delle banalità.

«Certo tutto il tempo che ti serve» concesse e rimase immobile ad osservare Nick che prendeva ciò di cui aveva bisogno, per poi ritornare svelto in bagno.

Prima di sparire oltre la porta, il ragazzo si voltò verso di lui e piegò le labbra all’interno, esitando solo un momento, prima di domandare: «Tu stai bene?»

L’altro annuì, colto alla sprovvista. «Assolutamente» rispose, accompagnando quell’unica parola con un sorriso che sperava fosse convincente; Nick parve farselo bastare e, sorridendo a sua volta, si congedò definitivamente.

Il lamento frustrato in cui si produsse Jeff venne soffocato dal materasso su cui lui si era pesantemente lasciato cadere.
 

*°*°*°
 

I viaggi in macchina lo rilassavano più di quanto avesse mai immaginato. Essendo una persona perennemente attiva e in movimento, Jeff aveva sempre ritenuto noioso e alienante rimanere tante ore fermo in un posto, specialmente in uno spazio così stretto e limitato: lo annoiava, lo innervosiva e, soprattutto, era scomodo, quindi gli intorpidiva anche tutti i muscoli e lo stancava come neanche correre una maratona avrebbe fatto. Eppure, durante quel viaggio si era dovuto ricredere, con sua enorme sorpresa. Non era tanto la presenza di Nick a rendere piacevole il tempo trascorso in auto, quanto l’atmosfera di libertà e spensieratezza che lo accompagnava da quando era partito da New York. L’abitacolo della vettura, con i finestrini abbassati e l’aria fresca che lo attraversava, non era più una scatola di metallo opprimente e asfissiante, ma un piacevole intermezzo tra le città dei suoi sogni. Ed era perfetto.

Alla sua sinistra, Nick guidava a velocità sostenuta, gli occhiali da sole a schermargli gli occhi e un sorriso spensierato sulle labbra. Jeff aveva provato a mettersi al volante, ma il ragazzo era stato irremovibile e, complice uno di quei sorrisi da capogiro a cui Jeff aveva venduto l’anima, era riuscito a convincerlo a sedersi al posto del passeggero.

“Avevi detto che avremmo fatto a turno” aveva convenientemente ricordato e Jeff non aveva potuto ribattere alcunché, così si era limitato a godersi il viaggio che, a discapito di ogni previsione, era stato anche piuttosto piacevole. Certo, lui e Nick avevano parlato poco, ma non avevano comunque perso la confidenza maturata in quei giorni: era capitato spesso che Nick spostasse la mano sulla sua gamba o che si voltasse a sorridergli e Jeff si era più volte dato dell’idiota, per aver anche solo pensato di poter compromettere e inquinare quell’equilibrio che sembravano aver raggiunto.
«Dovrebbe mancare poco, ormai» considerò il ragazzo, a un tratto, mentre la città si avvicinava all’orizzonte. «Hai già qualche idea precisa per la notte? O facciamo come a Chicago?»

Jeff arricciò le labbra, riflettendo seriamente sul problema esposto da Nick. Ci avevano messo poco meno di sei ore per arrivare a San Diego e il sole era ancora piuttosto lontano dal tramontare, quindi non sarebbe stato un problema cercare un hotel presso cui fermarsi, visto che non avevano particolare fretta.

«In realtà, no» rispose quindi, con una leggera scrollata di spalle. «Se avessi avuto idee precise, non sarebbe stato un viaggio all’avventura, ti pare?»

L’altro annuì concorde, mentre svoltava allo svincolo per entrare in città. «Giusta osservazione. Direi che sia giunto il momento di tirare fuori la tua infallibile guida e vedere cosa ci consiglia lei.»

Jeff non se lo fece ripetere due volte, anche perché, in una città così grande, quella era la cosa più ovvia da fare: una manciata di minuti dopo, stava già sfogliando febbrilmente il libriccino alla ricerca di un posto in cui pernottare. «Dunque, siccome la metà dei posti che voglio visitare sono al Balboa Park, direi di cercare qualcosa da quelle parti, mh?»

«Mi fido di te» fu l’unico commento di Nick, al che Jeff annuì e, facendo scorrere un’ultima volta lo sguardo sulle pagine, fece schioccare la lingua.

«Okay, trovato» esclamò, alternando un paio di volte lo sguardo dalla carta ai cartelli stradali. «Prendi la prima a sinistra, ti guido io.»
 

*°*°*°
 

Il Balboa Park Inn era un Bed & Breakfast dall’aspetto molto singolare, che aveva incuriosito Jeff nel momento esatto in cui ne aveva visto la facciata stampata sulla carta plastificata della sua guida. Tralasciando la posizione centralissima e i vari confort che la struttura metteva a disposizione, l’edificio era completamente costruito in stile coloniale spagnolo e, siccome lui aveva in programma una visita all’Old Town, ovvero il luogo del primo insediamento europeo in California, era stato impossibile concentrarsi su un’altra opzione. Non si era neanche preoccupato di verificare l’accessibilità del prezzo, visto che era ben intenzionato a pagare lui il pernottamento, ma vi aveva subito indirizzato Nick, che aveva schiuso le labbra in un ammirato “Wow”, quando se lo era trovato davanti.

Solo nel momento in cui, sorridendo caramellosa, la receptionist aveva domandato loro che suite desideravano, Jeff si era reso conto di aver forse commesso qualche errore di calcolo. Forse, perché, da che erano partiti, Nick gli aveva permesso talmente poco di pagare, che lui si ritrovava quasi alla fine del viaggio con la possibilità concreta di trascorrere le ultime notti con Nick in un posto davvero degno di lui.

Per questo motivo, con tutta la sicurezza che possedeva, posò un gomito sul bancone e dichiarò: «La tua preferita. Cioè, sempre che sia disponibile» aggiunse, un attimo dopo.

Avvertì subito la mano di Nick cercare la sua e non si fece alcun problema a stringerla, mentre la signorina si alzava per accompagnarli verso la “Courtyard Suite”, perché «È davvero molto sobria e trovo sia assolutamente perfetta per voi.» 

Jeff non aveva idea di cosa volesse dire: si limitò a seguirla, senza lasciare andare la mano di Nick e guardandosi intorno affascinato, il cuore che batteva forte sia per la prospettiva di passare la notte in quel posto e sia per la consapevolezza di aver finalmente dato a Nick ciò che meritava.

Fu solo quando la ragazza aprì la porta e si fece da parte, che capì fino a che punto fossero concreti quei pensieri, solo quando oltrepassò l’uscio e si ritrovò catapultato in un altro mondo. Uno celeste, dorato e maledettamente elegante ed intimo.

«Porca miseria» esalò, allentando la presa sul borsone, fino a che quello non cadde a terra. Avvertì vagamente la voce di Nick che faceva da eco alla sua, perché tutti i suoi sensi erano proiettati ad immagazzinare ogni dettaglio di quell’ambiente, partendo dall’angolo cucina e arrivando ai divani, i quadri, la moquette color cobalto, le piante e la vasca idromassaggio contornata da spesse tende di velluto rosso.

Oh, cazzo.
 

*°*°*°
 

«Sei sicuro che ti faccia bene continuare a nutrirti di insalata?»

Lo scampanellio della porta della tavola calda, a cui Nick e Jeff si erano recati per cenare, accompagnò quella domanda e la loro uscita dal locale, mentre la sera californiana riversava su di loro uno sbuffo di aria calda piuttosto spiacevole, se paragonato all’interno climatizzato della locanda.

«La dieta vegana non prevede solo insalata, Jeff» rispose Nick, la voce morbida e serena e le mani infilate nelle tasche posteriori del jeans. «Ma, lontano da casa, sono la cosa più sicura e facile da mangiare.»

L’altro ragazzo annuì e continuò a passeggiare al suo fianco, in direzione della macchina parcheggiata poco lontano. «Lo sei da sempre?» Chiese dopo qualche attimo. «Vegano, voglio dire.»

Nick scosse lievemente la testa. «Cinque o sei anni, credo. Mia madre è sempre stata vegetariana» spiegò, «e, sebbene non ci abbia mai imposto la sua dieta, io non ho mai avuto problemi a seguirla. Quando mi sono trasferito a New York, ho conosciuto una ragazza vegana e da lì il passo è stato breve.»

«Io non riuscirei mai a rinunciare ai cheeseburger» commentò Jeff, prendendo posto al volante, visto che intanto avevano raggiunto l’auto. «Ma ammiro tanto la tua forza di volontà.»

Una leggera risata colorò la voce di Nick, quando rispose: «Nessuno ti obbliga a rinunciare al tuo cheeseburger, Jeff. Se io e te dovessimo uscire insieme, non avrei alcun problema a vederti mangiare carne.»

Jeff avvertì il cuore tremare a quelle parole, alla prospettiva concreta di poterlo frequentare e vivere nella sua interezza, ma aveva giurato a se stesso che non avrebbe permesso a quello che provava di rovinargli il viaggio, così prese un respiro profondo e poi replicò: «Se io e te dovessimo uscire insieme, non ti porterei mai in una tavola calda a mangiare panini e patatine fritte.»

Si rese conto solo in quell’attimo di aver parlato senza pensare, senza considerare che magari Nick non si riferiva per forza al risvolto romantico di un’eventualità del genere, di aver lasciato che le parole prendessero vita così come le aveva pensate, così voltò il viso verso il suo compagno, per accertarsi della sua reazione e, non senza un iniziale momento di sorpresa, lo scoprì ad osservarlo. Rimasero a guardarsi per quelle che parvero ore, con la consapevolezza che tra di loro ci fossero talmente tante parole non dette e sottili e prematuri rimpianti, da rendere l’aria densa e vibrante.

Poi, con voce bassa e leggermente arrochita, Nick domandò: «E dove mi porteresti, allora?»

In capo al mondo, fu il primo pensiero che attraversò la mente di Jeff, per poi rendersi conto di starlo già facendo. Almeno in parte. Non ebbe motivo di riflettere sulla risposta da dargli, perché aveva recentemente intuito che con Nick non aveva bisogno di essere razionale e studiato, ma doveva semplicemente essere se stesso.

«Non lo so» rispose quindi. «Cercherei di trovare qualcosa di originale e memorabile. E probabilmente finirei per portarti al cinema.»

Osservò le labbra di Nick piegarsi in un sorriso dolce e malinconico e lo stomaco gli si strinse, nel realizzare improvvisamente che anche lui aveva già nostalgia di quelle emozioni mai provate e di quelle esperienze, purtroppo, mai vissute.

«Il cinema sarebbe perfetto» mormorò infine, allungando una mano per stringere quella di Jeff, ancora posata sul volante.

Qualsiasi posto sarebbe perfetto, con te.

Non disse niente, però: si limitò ad annuire e, ricambiata brevemente la stretta alla sua mano, a mettere in moto l’auto. Percepì il sospiro lieve di Nick e non poté impedirsi di stringere le dita intorno al volante, perché stava facendo esattamente ciò che si era promesso di non fare e non aveva idea di come fare per impedirlo. Perché la vita era così ingiusta e complicata? Non trovò risposta a quella domanda, perché d’un tratto accaddero più cose contemporaneamente e lui fu costretto ad interrompere il corso dei propri pensieri.

«Svolta qui!» Esclamò Nick e l’auto per poco non sbandò, quando lui sterzò per eseguire quel comando. Senza manco sapere cosa Nick avesse in mente.

«Cosa…?» Domandò, riprendendo il controllo del mezzo e guardandosi intorno per capire dove si stessero dirigendo. «Perché mi hai fatto girare?»

Nick non rispose subito, perché era troppo impegnato a scrutare fuori dal finestrino, come se anche lui stesse cercando di orientarsi. «Ho visto un manifesto alla tavola calda e- c’era scritto che era a meno di un chilometro, quindi- dovrebbe essere da queste parti.»

Jeff inarcò un sopracciglio, confuso. «Okay… ma cosa?»

«Praticamente, è un» iniziò il ragazzo, ma poi dovette essere distratto da altro, perché sporse un braccio fuori dal finestrino ed indicò. «Eccone un altro! Duecento metri sulla destra, vai!»

Stavolta, Jeff ebbe modo di prendere la curva per tempo, così da poterla imboccare dolcemente e senza mandare l’auto fuori strada. Quella situazione lo fece sorridere e vedere Nick così preso ed entusiasta gli scaldò il cuore, così quasi si ritrovò a boccheggiare senza fiato, quando si rese conto di dove erano diretti. Lo striscione appeso al cancello del parcheggio era piuttosto indicativo a riguardo, dopotutto.

«È un drive-in?» Volle accertarsi, seppur inutilmente.

Nick annuì. «Improvvisato, credo» tacque per qualche attimo e poi aggiunse: «Così abbiamo il nostro appuntamento al cinema. Anche se forse non è proprio il massimo.»

Non è proprio il massimo? Sei completamente impazzito?

«È perfetto, Nick.»

 
Scoprirono che l’evento era stato organizzato da un’associazione culturale di giovani di San Diego e che si sarebbe protratto tutta l’estate, tre sere a settimana. Ovviamente, si resero conto di essere stati anche piuttosto fortunati a beccare la sera giusta e, sebbene lo spettacolo fosse già iniziato da una ventina di minuti, l’auto di Jeff trovò comunque un posticino in cui sistemarsi. Poco importava che fosse l’ultima fila, la visibilità era comunque ottima e il film – “50 volte il primo bacio” – lo avevano già visto entrambi.

«Beh, magari non ti porterei a vedere un film romantico» commentò Jeff, mentre Adam Sandler si inventava nuovi modi per conoscere Drew Barrymore. «Forse sceglierei qualcosa di un po’ più… veloce, dal punto di vista della trama, ecco.»

Nick emise una bassa risata a labbra strette e si voltò a guardarlo. «Azione, spionaggio e supereroi?» Domandò e Jeff annuì, con una leggera scrollata di spalle.

«Qualcosa più nel mio stile, sì. Certo, se poi a te piacciono i film romantici, non ti sto criticando, eh! Possiamo andare anche a vedere uno di quelli, cioè, tanto alla fine-» e tacque, perché Nick gli prese la mano e tutta la sua foga evaporò all’istante.

«Tanto alla fine ciò che conta è la compagnia, no?» Completò per lui e poi si spostò un po’ di lato sul sediolino, senza però lasciarlo andare. «Vieni qui, dai.»

Jeff inarcò un sopracciglio, studiando la sua postura. «Lì dove, esattamente?»

Il “” in questione, scoprì qualche minuto dopo, corrispondeva ad un intricato intreccio di gambe e braccia per far sì che entrambi entrassero sullo stesso sedile. Quando Jeff chiese se non sarebbe stato più comodo spostarsi dietro, Nick rispose che non sarebbe stato altrettanto divertente e lui non poté non concordare con lui. Si ritrovò quindi premuto contro il suo petto, seduto in mezzo alle sue gambe e tenendo le proprie oltre la leva del cambio, per l’impossibilità di farle entrare altrove. Non era esattamente una posizione scomoda, specialmente perché le mani di Nick intrecciate sul suo torace e il suo mento posato alla sua spalla cancellavano qualsiasi intorpidimento o muscolo addormentato.

«Stai comodo?» Gli sussurrò il ragazzo all’orecchio, facendolo rabbrividire. Jeff annuì e portò entrambe le mani sopra quelle di Nick; il ragazzo le prese immediatamente tra le sue, intrecciando le loro dita con una naturalezza ed una confidenza che stordivano ancora Jeff.

«Tu sei comodo?» Domandò quest’ultimo, perché lui era incastrato tra il sedile e il finestrino e aveva una gamba stesa sul sedile del guidatore e Jeff non era sicuro che la sua posizione fosse più confortevole della propria.

Il ragazzo però annuì e rafforzò la presa su di lui, posando la guancia ai suoi capelli. «Chiedimelo domani, magari» sorrise.

«Posso ritornare di là, se preferisci. Non è un problema.»

«Lo è per me. Voglio approfittare di ogni momento» sussurrò, la sua voce che si abbassava ad ogni parola, e lo stomaco di Jeff si contrasse dolorosamente.

«Hai detto a me di non pensarci» tentò di confortalo, quindi, perché se anche Nick iniziava a farsi problemi era la fine. «Prova a non pensarci neanche tu.»

Nick non rispose subito e, per qualche attimo, gli unici rumori a riempire l’ambiente furono le voci che provenivano dalle casse dell’impianto stereo del cinema improvvisato. Quando poi lo fece, quando finalmente diede voce ai suoi pensieri, non prima di essersi spostato quel tanto che gli bastava per poterlo guardare negli occhi, disse le parole più giuste e insieme più sbagliate che potesse scegliere.

«Jeff, sono a tanto così dall’innamorarmi di te. Come faccio a non pensarci?»

E per Jeff fu come se qualcuno avesse rotto una diga, permettendo a tutti i pensieri e ai sentimenti, che lui tanto disperatamente stava cercando di arginare, di prendere il largo e aggredirlo da ogni direzione. Ingoiò a vuoto, mentre la fronte di Nick si posava sulla sua e il suo respiro caldo e un po’ veloce gli solleticava le labbra.

«Anche io» rispose quindi, perché era la verità inequivocabile, per quanto schifo facesse la realtà dei fatti.

Quando Nick lo baciò, con la forza e la disperazione di chi sa di avere le ore contate, Jeff seppe che ormai era troppo tardi anche per quello.

 





 
 
Fingiamo che io non sia in ritardo di sei mesi, per favore? Lo so, lo so, lo so, sono pessima e mi scuso profondamente, ma tra esami, problemi di salute e un maledetto blocco dello scrittore, sono stata costretta a rimandare la scrittura per diversi mesi. Proverò a non tardare con il prossimo aggiornamento, parola mia.

Il capitolo in questione non doveva essere così lungo, assolutamente. La scena finale, quella al drive-in, doveva essere tagliata, ma la mia beta mi ha categoricamente impedito di farlo, quindi prendetevela con lei se vi siete trovati a leggere quest’enorme ammontare di parole xD

Un grazie speciale a chi è ancora qui a leggermi dopo tutto questo tempo e a chi eventualmente si prenderà i soliti due minuti per lasciarmi un parere: vorrei meritarmi dei lettori come voi, giuro che non vi farò aspettare più così tanto ç___ç ♥

E, per inciso, questo è il Balboa Park Inn e questa è la Courtyard Suite 

 
Robs, che litiga con gli inutili aggiornamenti di Mark Zucchina qui.

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