Between hate and pain

di RubyChubb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Dude looks like a lady ***
Capitolo 2: *** Getting in touch... ouch!!! ***
Capitolo 3: *** Remember, you're anybody! ***
Capitolo 4: *** Gardening hour ***
Capitolo 5: *** Revealing the past ***
Capitolo 6: *** The Wizard of Oz ***
Capitolo 7: *** A lie is worther than the truth ***
Capitolo 8: *** Dead man talking ***
Capitolo 9: *** The Blower's Daughter ***
Capitolo 10: *** Keep holding on ***
Capitolo 11: *** Blood in my veins ***
Capitolo 12: *** Wake me up when december ends ***



Capitolo 1
*** Dude looks like a lady ***


DUDE LOOKS LIKE A LADY


Erin era una ragazza sorridente.
Aveva appena compiuto diciannove anni, un'età abbastanza difficile, a cavallo tra l'adolescenza e la maturità. Le piaceva stare all'aria aperta, le piaceva la natura. Le piaceva il sole, ma anche la pioggia; amava l'inverno, la neve, il freddo e la condensa sul vetro quando ci soffiava sopra, ma le piacevano anche il sole, l'erba verde, il caldo e il mare. Viveva ogni giorno ascoltando musica, canticchiando nella testa oppure mugolando le sue canzoni preferite. Di solito si affezionava a quelle più trasmesse alla radio e non riusciva proprio a togliersele dalla testa.
Le piaceva molto disegnare, dipingere e giocare con la creta. Era il suo passatempo preferito passare ore ed ore a ritrarre di tutto: dal soprammobile al gattino che passava, dal fiore appassito nel vaso ad uno sconosciuto che aspettava il tram. I suoi disegni stavano tutti raccolti in una cartellina che, mese dopo mese, diventava sempre più gonfia fino a scoppiare. I ninnoli che aveva sul comodino erano tutti stati fatti da lei: prendeva la creta o qualsiasi altra pasta malleabile e ne faceva un fiore, oppure una finta sveglia che segnava sempre le dodici esatte, versione notturna mezzanotte, la sua ora preferita.
Se le chiedevano che cosa le sarebbe piaciuto fare un giorno non avrebbe risposto 'l'artista', bensì avrebbe detto che le era sempre piaciuto diventare avvocato, combattere le ingiustizie e spedire in galera i criminali. Aveva un'idea molto romanticizzata di quella professione, forse le piaceva soprattutto perchè anche suo zio Otto era un avvocato ed aveva passato molto tempo delle sue vacanze dalla scuola, quando era piccola, nel suo ufficio, a guardarlo mentre lavorava.
Insomma, Erin sembrava una ragazza normale, con delle aspettative sul suo futuro del tutto plausibili, dei gusti non molto diversi da quelli dei suoi coetanei.
Eppure non lo era.
Erin, oramai, non faceva più caso ai giorni che passavano, abituata oramai ad una routine che non aveva niente di normale. Non era sempre stato così, c'erano stati giorni in cui non si era sforzata di vivere la propria vita, perchè niente era riuscita a tenerla ferma. C'erano stati giorni in cui aveva vissuto la sua vita.
Ora non più.
Erin non era nemmeno più la stessa.
Aveva sempre pensato che non ci sarebbe mai stata una medicina adatta per la sua malattia.
Le sue giornate trascorrevano passivamente, un giorno dopo l'altro, nella clinica di recupero dove l'avevano spedita i suoi genitori. La scusa ufficiale era che la ragazza aveva avuto bisogno di cure per una malattia particolare. Ma non era proprio così…



Quella mattina si svegliò di cattivo umore, proprio non voleva scendere dal letto. Aveva fatto un brutto sogno: si trovava in casa sua, nel corridoio, vestita del suo pigiama. Davanti a sé vedeva i suoi genitori, seduti sul divano, a guardare la tv imbambolati. Lei aveva iniziato a camminare per andare verso di loro, ma il pavimento le scivolava sotto i piedi e lei finiva stremata a terra, senza essersi mossa di un millimetro, mentre i suoi rimanevano sempre incollati alla tv.
Due sole le cose che avevano reso quel sogno un incubo: la televisione, oggetto da lei sempre odiato, e i suoi genitori, con i quali aveva un rapporto del tutto anormale. Accantonò il sogno in fondo alla mente e si alzò dal suo lettino, per andare in bagno a darsi una rinfrescata. Mentre si sciacquava la faccia, sentì la sveglia suonare, come sempre inutile perchè si era svegliata prima di lei.
Dopo aver rifatto il letto, si tolse il suo pigiama.
In maglietta extra large e pantaloni di una vecchia tuta, andò nella sala mensa, dove avrebbe raggiunto tutti i suoi compagni di disgrazie, come li chiamava lei. Erano lì per molti motivi, ma la prima cosa che si imparava in un posto del genere era non giudicare l'altro, perchè tutti erano sulla stessa barca, in pericolo di naufragio da un momento all'altro. Nella categorizzazione caustica di Erin, c’era un sessanta per cento di anoressiche e bulimiche, un dieci per cento di ex tossici, venuti da una struttura collegata a quella clinica, un altro dieci per cento di depressi e esauriti e un finale venti per cento di disgraziati misti, tra cui si contavano alcolisti, dipendenti da psicofarmaci e così via. Ma che bel posto per un adolescente! Per non parlare degli strani tipi che abitavano agli altri piani della clinica Sellers…
Si sedette al solito posto, vicino alla finestra, con il vassoio di fronte a sé. Attese che il latte bollente che aveva preso al bancone del self service si raffreddasse, poi vi versò il caffé, vi sbriciolò dentro alcuni biscotti e la pappa fu pronta. Fuori, il sole faceva fatica a respirare per colpa di grossi nuvoloni neri all'orizzonte, che minacciavano pioggia in arrivo.
"Giorno Erin.", disse svogliatamente la persona che le si sedette davanti.
"Giorno Gero.", gli rispose lei.
Gero era un suo coetaneo, conosciuto là dentro, che aveva avuto problemi di dipendenza da psicofarmaci, più precisamente abusava di tranquillanti, per colpa di un brutto trauma familiare, ma a lui non piaceva che se ne parlasse. Capelli a caschetto perennemente spettinato, un ciuffo impertinente sulla guancia destra, occhi chiari e sempre un sorriso sarcastico sulla faccia.
"Dov'è Bea?", le chiese lui, mentre versava dentro al latte una quantità industriale di cereali.
Aveva la fortuna di avere un conto in sospeso con la donna che riforniva il bancone della colazione: lui non avrebbe detto alla direttrice che fumava nei bagni, lei gli avrebbe dato doppia razione di quello che voleva.
"Non accanto a me.", disse lei.
"Ah, eccola, è al bancone."
Bea, invece era di qualche anno più grande di loro, e stava lì solo da circa sei mesi. Capelli rossicci, mossi, lentiggini su tutta la faccia e un’altezza sopra la media. Diagnosi: bulimia; tempo di guarigione stimato: molto. Arrivò al tavolo silenziosa, vassoio di contenuto simile a quello di Erin. Si sedette con loro e, sempre muta, iniziò a mangiare la sua colazione.
"Gero, hai visto Bea?", chiese Erin ironicamente al suo amico, facendo finta che lei non ci fosse.
"A dire il vero non l'ho neanche mai sentita.", fece lui, ignorandola a sua volta.
"Dai, piantatela.", rispose Bea, "Ho avuto una nottataccia."
"Cosa è successo?", le domandò Erin.
"Un'infermiera mi ha beccato mentre cercavo di corrompere quelli della cucina.", rispose lei, mentre spappolava un biscotto nel latte con il cucchiaio.
"Un'altra volta!", esclamò Gero, "Lo sai che se continui così ti cacciano via?"
"Lo so... ma avevo fame! Cosa ci potevo fare?", si giustificò lei.
“Ti chiudevi in camera e festa fatta!”, le disse Erin.
“Siete tutti santi quando sono io a combinare casini.”, si lamentò Bea.
“Certo che sì!”, fece Gero.
“Dai, facciamo come vuole la signorina Pound, stringiamoci in un bell’abbraccio fraterno!”, disse Erin.
“Vai a fanculo, insieme alla signorina Pound!”, disse Gero, facendo ridere Bea.
Purtroppo la volontà di quella ragazza era sempre messa a dura prova dalla sua malattia e i suoi due amici sapevano quanto era importante riuscire a farla ridere: così, nei momenti in cui era giù, tiravano fuori sempre la signorina Pound, quella che teneva le ore di psicologia di gruppo, e che forniva loro sempre buoni spunti comici. Era una signorina, benché avesse una cinquantina d’anni, bassa e grassoccia, che veniva spesso preso in giro.
“Lo sapete cosa ho sentito, mentre ero in fila per la colazione?”, disse Bea, dimenticandosi della sua disavventura notturna per riferire loro l’ultimo pettegolezzo che circolava. Non sembrava, ma i tre erano tra i più pettegoli di tutta la clinica e si divertivano a raccogliere tutte le dicerie in un quaderno, finito più volte sotto il sequestro della direttrice, altra figura molto amata dal trio.
“Perchè devi essere sempre tu ad avere l’orecchio più lungo di noi!”, protestò Gero, al quale non capitava mai di catturare le chiacchiere di passaggio.
“Tenetevi forte ragazzi! Questa è proprio bella!”, fece Bea, “Dice che al piano di sotto ci sia una celebrità!”
“E capirai!”, esclamò Erin, “Io pensavo che stessi per dirmi che quella smorfiosa di Ada fosse rimasta incinta di Gero.”
“Ah… ah… ah…”, rise sarcasticamente il ragazzo. Per qualche mese si era preso una cotta per questa stramaledetta Ada, un’altra delle ragazze del loro piano, e da quella volta Erin non faceva altro che rammentargliela per prenderlo in giro.
“Ragazzi, dico sul serio! Dice che sia arrivato qui circa due o tre settimane fa.”
“Allora è un uomo…”, disse Gero, guardando Erin come per dirle che aveva un pretesto per scherzare come faceva lei con lui.
“E quindi? Cosa ci farebbe qua un riccone quando potrebbe benissimo prendere il primo aereo e andare a curarsi in California?”, disse Erin, ponendo un quesito fondamentale. Di certo una clinica sperduta nelle zone del sud della Germania non era il posto ideale per quelli, abituati a vivere alla grande, “Qua non ci sono camere di lusso, nè camerieri personali e il cibo fa schifo. Secondo me è una balla.”
“Hai dipinto questo posto come una merda!”, disse Bea.
“Perchè? Che differenza c’è?”, fece Gero.


Prima di andare alla solita ora di terapia psicologica collettiva della signorina Pound, Erin fece un salto in camera sua, accompagnata da Gero. Bea rimase in sala colazione a ficcare il naso qua e là, non l’avrebbero poi più rivista fino al pranzo, aveva altri orari. Loro due, invece, erano entrati nella clinica più o meno nello stesso periodo e erano stati sistemati in camere una di fronte all’altra. Questo aveva aiutato la loro amicizia, cementata non solo una notevole affinità di carattere: entrambi molto strafottenti, si divertivano a prendere in giro i medici e gli psicologi, e pensavano che quel posto fosse l’inferno dipinto di santità. Tutto bianco, tutto lindo, fuori il giardino sembrava il posto più idilliaco della terra.
Tutto così falso, pensavano i due.
“Arriviamo tardi come sempre alla lezione di vita sociale della Pound?”, chiese Gero ad Erin
“Stavolta no o mi sorbirò di nuovo le sue prediche…”, fece lei, mentre apriva la porta della sua stanza.
“Ma guarda cosa ho qui…”, fece lui, tirando fuori due sigarette dalla tasca dei suoi pantaloni.
“Te le ha date Polpettone?”, disse lei, rimproverandolo con lo sguardo. Polpettone era il nome amichevole che Gero aveva dato alla vittima dei suoi ricatti a base di doppie porzioni di cibo, cioè l’impiegata della mensa.
“Certo che sì. Oramai è nelle mie mani.”, fece lui, con soddisfazione.
“Nascondile bene e non farmi passare guai. Ce le fumiamo dopo.”, disse Erin, entrando in camera.
Doveva fare la classica visitina al bagno, ma ci fu qualcosa nella sua camera che la distolse.
“Gero! Vieni a vedere… ci stanno provando di nuovo.”, disse Erin.
L’amico, sentendo quelle parole, entrò nella sua camera.
“Gesù… non sanno proprio arrendersi.”, disse lui, vedendo sull’altro letto una valigia aperta e mezza disfatta.
Erin, ogni volta che le veniva data una compagna di stanza, faceva di tutto per farla impazzire ed andare in lacrime dalla direttrice. La poverina implorava di farsi cambiare stanza e, di solito, la direttrice glielo concedeva, rammentando a Erin che prima o poi sarebbe stata punita per quello che stava facendo.
“Cosa le farai? Le metterai gli insetti nel letto oppure le infilerai nel cuscino i capelli che ti cadono?”, chiese Gero all’amica, andando a frugare nella valigia della nuova arrivata.
“No, lo scherzo dei capelli l’ho già utilizzato... però gli scarafaggi vanno sempre di moda!”, disse Erin.
Con la penultima ragazza, Erin aveva messo da parte i capelli che le rimanevano impigliati nella spazzola e non le ci volle molto prima di averne così tanti da farci una parrucca. La sua capigliatura era indomabile come lei: i suoi folti ricci neri però venivano sempre castigati da un bastoncino, che riusciva a tenerli raccolti sulla nuca.
“Deve essere una dalle taglie forti…”, disse Gero, prendendo un paio dei pantaloni che erano ripiegati nella valigia ed osservano la loro grandezza con una risatina sarcastica in faccia.
“Sicuramente un’anoressica che tenta di mascherare la sua malattia con gli abiti.”, scherzò Erin, che nel frattempo era andata in bagno.
“Adesso sarà meglio che vada, sei pestilenziale quando ti siedi sul vaso!”, fece l’altro, chiudendosi il naso con la mano.
Una volta ‘scaricato’ il suo bisogno, Erin uscì dalla stanza, non senza aver dato un’occhiata al contenuto della valigia. Eh sì, altro che anoressica, quelli erano vestiti per qualcuno dalla taglia molto forte, extra-extra-extra forte. I suoi occhi scorsero qualcosa che le fecero subito capire il motivo della sua presenza in clinica. Prese quell’oggetto, lo esaminò e se lo mise in tasca. Chiuse la stanza, recuperò Gero e andarono insieme all’ora di psicologia collettiva, presentandosi al gruppo con un grosso sorriso sulla faccia.
Altro che anoressia...


Mentre Kara, una ragazza da poco arrivata alla clinica, si asciugava gli occhi ricordando con quanta crudeltà sua madre le diceva sempre che se non avesse vinto la medaglia nella gara di nuoto sarebbe stata una fallita, inducendola così ad un esaurimento nervoso, Erin si controllava che le punte dei suoi capelli non si fossero sdoppiate. Era ovviamente molto interessata dalla storia di Kara e della sua prepotente mamma.
Gero, invece, mostrava tutto il suo falso coinvolgimento, versando lacrime di coccodrillo e attirandosi le occhiatacce della Pound.
Il gruppo, composto da una dozzina di ragazzi e ragazze, sembrava invece molto più attento dei due, che venivano spesso richiamati per il loro comportamento irrispettoso nei confronti degli altri.
“Bene Kara… per oggi può bastare.”, disse la donna, dandole un altro fazzoletto di carta, “Ragazzi e ragazze, ci vediamo dopo domani alla solita ora.”
I ragazzi si alzarono e si avviarono verso le porte.
“Erin, per cortesia, ti devo parlare.”, fece poi la donna, recuperandola mentre stava uscendo indisturbata insieme a Gero.
Lei, sentendosi richiamare, con un gesto semplice fece capire all’amico di aspettarla e tornò sui suoi passi.
“Devo parlarti di una cosa.”, fece la donna, picchiettando la mano sulla sedia accanto alla sua per dirle di sedersi lì.
“Ho fatto qualcosa di male?”, chiese Erin, che di solito era costretta trattenersi dopo quegli incontri per motivi del genere.
“Beh… sembra strano ma no, non è per questo. Come sai, ultimamente i problemi dei giovani stanno aumentando a livelli quasi esponenziali…”, disse la donna, con una vocina conciliante da nonnina con i ferri e la calza di lana in mano.
Erin stava per disconnettere il cervello e non ascoltarla, tanto era la sua solita predica.
“E negli ultimi tempi ci siamo trovati a respingere numerose richieste di aiuto, cosa che personalmente trovo inaccettabile bla bla bla bla bla…”, erano le parole che risuonavano nella testa della ragazza.
“Quindi abbiamo deciso in questo modo. Sei d’accordo con me Erin?”, disse la donna, concludendo il suo lungo discorso.
“Sì. D’accordissimo.”, rispose lei, automaticamente.
“Non è che ti dispiace?”
“Assolutamente no.”
“Molto bene, anzi, benissimo!”, disse la donna, tutta contenta, “Stai facendo dei progressi, stai migliorando il tuo carattere! Ne parlerò positivamente con la direttrice.”
“Oh, grazie mille, signorina Pound, gliene sarò molto riconoscente!”, disse Erin, alzandosi e uscendo dalla stanza.
Quando furono a distanza di sicurezza, Gero le chiese cosa le aveva detto.
“Boh, non lo so, sicuramente una stronzata.”, fece lei, mettendosi le mani in tasca.
Le prossime ore erano dedicate ai lavori manuali, quindi Erin andò verso la sala pittura e scultura, mentre Gero andò nella sala computer, dove stava da tempo curando il sito internet della clinica. Nella sua ‘vita precedente’ si era diplomato in informatica ed era capace di fare pressoché quello che voleva con un pc, soprattutto se collegato ad internet. Di recente era stato punito per aver sostituito un link contenuto nel sito della clinica per collegarlo con un sito pornografico: gli altri ragazzi lo avevano decretato eroe del mese, la direttrice gli aveva proibito di vedere la televisione per altrettanto tempo, ma con scarsi risultati disciplinari.



Passò il pranzo e Erin fu stupita nel sapere che Bea non era riuscita a sapere niente sul pettegolezzo che aveva riferito quella mattina.
“Visto? Era una cavolata!”, le ripetè.
“Mah… sarà… solo che la direttrice si sta dando un sacco da fare.”, fece lei.
“In che senso?”, domandò Gero, lasciando perdere le sue patatine fritte per dedicarsi alla chiacchiera.
“Dice che abbia provato a liberare delle camere, ma che non ci sia riuscita.”
“Liberare delle camere?!?”, disse Erin.
Se quell’arpia stava buttando fuori le sue pazienti per fare spazio a qualcuno di importante, avrebbe giurato su se stessa che avrebbe trovato il modo di annientarla. Come si poteva fare una cosa del genere? I malati erano sempre malati, indipendentemente dal loro status sociale!
“Sì, ma non prenderla sul serio perchè questa voce viene da Valium.”, fece Bea, riferendosi ad un loro compagno di disgrazie, uno che era stato beccato a dare il Valium ai gatti che giravano nel giardino della clinica, “E poi ho sentito che hanno trovato uno che si spacciava per malato, e che invece era un giornalista.”
“Ho sempre sognato essere immortalato dalla stampa mentre mi trovo qui dentro!”, disse Gero, con aria sognante.
“Ma sentite che voci girano… fino a l’altro ieri il pettegolezzo più quotato riguardava un’infermiera beccata in atteggiamenti biblici con un dottore sposato… ora mi tocca sentire queste cazzate. Non vale nemmeno la pena metterle sul quaderno.”, disse Erin.
“Già… certo che c’è gente che ha veramente poca immaginazione qua!”, fece Gero, “Queste storie sono a dir poco inventate.”


Seduta e dondolante sull’altalena, installata nel grande giardino che circondava l’eterno della clinica, Erin si era concessa il suo tipico momento di solitudine. Ne aveva sempre bisogno, almeno un’oretta al giorno, tanto per ritrovarsi con sé stessa, con i suoi problemi e i suoi fantasmi. Non capitava di rado di vederla con gli occhi lucidi, ma Erin era una che si vergognava di piangere e cercava sempre di far passare quelle lacrime per un’allergia passeggera alla natura.
“L’ora della depressione è finita! Gara di altalene!”, le gridò Gero, mentre correva verso di lei.
“Dai, lasciami un altro po’ in pace.”, fece lei, lasciando il luogo che preferiva di più per rimanere di nuovo da sola.
“Hey… che c’è? Di solito un’ora ti basta.”, disse l’altro, seguendola.
“Oggi no, quindi aria, ci vediamo stasera a cena.”, rispose Erin, con aria seccata.
“Erin...", la chiamò ancora Gergo. Poi osservò ii tratti tristi del suo viso, e comprese. "Sei stata richiamata dalla direttrice. E' così?”,le fece, incrociando le braccia.
“Vaffanculo Geronimo.”, disse lei, per farlo innervosire.
Non voleva essere chiamato mai con il suo vero nome, di solito funzionava a farlo allontanare, ma lui sembrava non arrendersi.
“Cosa hai combinato? Ma soprattutto perchè me lo hai tenuto nascosto?”, disse lui, andandole incontro.
Aveva capito in un istante cosa c’era che le faceva stare in pensiero.
“Niente, non ho fatto niente.”
“Hai offeso l’insegnante di pittura.”, continuò lui, nel tentativo di indovinare quale crimine avesse commesso la sua migliore amica.
“No…”, fece lei, continuando a camminare verso il laghetto, altro suo luogo preferito.
“Hai tagliato una ciocca di capelli ad Ada.”, ritentò il suo amico.
Da quando le aveva detto che si era preso una cotta passeggera per lei, quella povera Ada era diventata l’obiettivo preferito dei suoi scherzi.
“Magari… comunque no.”
“Hai dipinto una bara, facendo scoppiare a piangere Ada.”
“Per una volta che non le ho fatto niente!”, protestò Erin.
Quando faceva quello scherzo crudele a quella povera malcapitata, la faceva sempre correre fuori dall’aula in lacrime, perchè essere chiusa viva in una bara era un incubo ricorrente di quella poveretta. Ultimamente non funzionava più perchè Erin veniva mandata sempre in fondo alla classe di pittura, cosicché i suoi disegni non potevano essere visti altro che dalle pareti.
“Allora perchè ti preoccupi? Se non hai fatto niente vorrà dire che la direttrice non avrà da farti il culo come sempre.”
“Boh… non lo so, ma mi sento a disagio. Forse sto così proprio perchè non c’è un motivo per cui mi vuole nel suo ufficio…”, fece lei, sedendosi con l’amico su una delle panchine che circondavano il laghetto, popolato da un piccolo gruppo di anatre e anatroccoli, “Com’è andata con il sito?”, gli chiese poi, cambiando discorso.
“Benissimo… non so tra quanto se ne accorgeranno.”, disse lui, con un sorrisetto soddisfatto.
“Sei sicuro che funzionerà?”
“Certo che sì.”
“Ti beccheranno stavolta?”
“No… quella parte è tenuta da Vomito. Sono riuscito a craccare la password che ha messo per evitare che altri, in pratica solo io, possano entrare nella sua sezione e modificarla abusivamente. Così impara ad andare in giro a dire che sono un gay.”
Due come loro non potevano stare con le mani in mano e ne avevano combinata un’altra: l’idea era stata di Erin, Gero l’aveva attuata. Nella pagina dove c’erano le presentazioni di tutto il personale, molte parole erano state sostituite, facendo passare la direttrice come una squillo d’alto bordo e cose simili.
Altra occupazione preferita dai due: dare soprannomi agli altri pazienti, di solito sempre legati ad un segno particolare, che finivano poi per diventare caratteristici di quella persona. Vomito era chiamato in quel modo perchè una volta fece divertire tutta l’ora di psicologia collettiva vomitando in diretta sulla gonna a scacchi della signorina Pound.
“A proposito, mi stavo dimenticando della cosa più eccitante della giornata. Guarda cosa ho trovato nella valigia della mia nuova migliore amica.”, disse Erin, prendendo dalla sua tasca quello che aveva trovato tra i vestiti della sconosciuta che stava per disturbarle il suo sonno.
“Ohi! Ohi! Ohi! Già a rischio espulsione!”, disse Gero, prendendo la mini bottiglietta che gli stava porgendo di nascosto Erin, “Chissà cosa conterrà?”
“Mah, non saprei. Sarà anche incolore, ma non è di certo acqua.”, fece Erin sarcasticamente.
“Bottigliette del genere dovrebbero stare sui mobili, non nelle valige dei ricoverati…”, osservò Gero.
“Ecco, così ho un’arma in più per togliermela dai piedi. Ora vado dalla strega cattiva dell’est.”, fece Erin, alzandosi ed incamminandosi verso l’edificio.
“Ti aspetto qui!”, le disse l’amico.


“Avanti!”, disse svogliatamente la donna seduta dietro ad una pesante scrivania di mogano.
“Mi aveva fatto chiamare, signora direttrice?”, disse Erin, educatamente.
“Certo, siediti.”, fece lei, senza nemmeno alzare il naso dai fogli che stava esaminando.
Erin rimase silenziosamente in attesa che l’altra lasciasse la sua occupazione per darle considerazione.
“Non hai da dire niente a tua discolpa, signorina Geller?”, le disse la direttrice, alias la temuta signora Popper. Temuta da tutti, ma non da Erin.
“Non credo di aver fatto nulla di male.”, rispose Erin, con traquillità serafica.
La donna alzò finalmente gli occhi dalla carta, si tolse quegli antipatici occhialetti e li lasciò appesi al collo, tenuti da una catenina fatta di perline d’oro.
“La signorina Pound, sant’anima di questa clinica, è venuta tutta contenta a dirmi che finalmente stai cercando di fare qualcosa per il tuo brutto carattere. Per un momento ho voluto crederle, poi mi sono data della stupida. Le persone come te, Erin, non cambiano mai. Quindi cosa hai da dire a tua discolpa per aver preso in giro la nostra psicologa?”
“Beh… forse potrebbe anche crederle, in fondo non sono così cattiva come pensa.”, disse Erin.
“Stavo leggendo adesso le ultime valutazioni mensili che ti riguardano. A quanto pare non stai facendo molti progressi.”, traversò la direttrice.
Ahi ahi, pensò Erin, quando si entrava in tema di valutazioni mensili non si sapeva dove si andava a finire.
“Forse perchè sono guarita e posso uscire dalla clinica?”, azzardò.
“No, assolutamente. Il signor Bebel, il tuo psicologo, mi scrive che sei perseguitata da particolari sogni, che riguardano soprattutto i tuoi genitori, che ti senti frustrata e che sfoghi tutto questo nell’aggressività contro chi ti sta intorno. La stessa signorina Pound, dopo averti lodato, ha detto che continui ad ignorare le sue sedute, a distrarti, e a mostrarti asociale e incostante. Neanche gli altri dottori sembrano molto tuoi amici. Detto questo, devo darti la brutta notizia: avrai ancora molto tempo da passare qui, prima di guarire completamente.”
“E mi ha chiamato solo per dirmi che dovremo sopportarci ancora per molto?”, chiese Erin.
“La tua indisponenza nei confronti delle autorità è un altro grosso difetto che hai. Ma abbiamo pensato ad una cura che ti farà cambiare. Da così a così.”, disse la Popper, sottolineando l'ultima frase con la mossa tipica: la mano voltata dal palmo al dorso.
Erin rimase in silenzio, voleva sapere a cosa avevano pensato stavolta.
“Visto che ci siamo trovati un po’ a corto di spazio, avrai sicuramente notato che il letto di fronte al tuo verrà presto occupato da qualcuno.”
“Già… stavo quasi per dimenticarmene!”, disse Erin, dandosi una pacca sulla fronte, “Stavolta però faccia sparire tutti gli scarafaggi che abitano la cucina della mensa… altrimenti...”
“Non ce ne sarà bisogno. Scommetto che sarai tu a chiedere di essere trasferita. Ti do un mese di tempo.”
“Cosa? Venire qui ad implorarla di darmi un’altra stanza… è arrivata la fine del mondo?”, sbuffò Erin.
“Ci metto cento euro.”, disse la direttrice, tirando fuori da un cassetto della sua scrivania una banconota verde e appena stampata dalla zecca.
“Beh… cento euro sono tanti.”, fece Erin, sorridendo maliziosamente.
“Allora sia. Se tra un mese non ti vedrò nel mio ufficio, questi soldi saranno tuoi. Direttamente dal mio fondo pensione.”
“Accetto. Ma mi faccia capire il motivo per il quale dovrei voler fuggire.”
“Beh, il motivo è la tua stessa cura. Ma prima vorrei che tu facessi la conoscenza della persona che, in questo momento, sta occupando parte della tua stanza. Dovrebbe essere già lì da un pezzo. Quando l’avrai conosciuta, tornerai su da me e mi dirai cosa ne pensi.”


Uscì dall’ufficio della Popper, chiedendosi cosa poteva aver architettato quella mente diabolica. Si affacciò alla prima finestra che dava sul giardino, localizzò Gero e gli fischiò, mettendosi due dita in bocca. Lui la vide e, cinque minuti dopo, era da lei.
“Cosa ti ha detto?”, le domandò.
“Boh, è un mistero. Ha detto che la mia nuova coinquilina mi farà fuggire dalla mia stessa stanza. Ha pure scommesso cento euro che succederà tra un mese. Ma per piacere!”, disse Erin.
“Ce ne vorrebbe per far accadere una cosa del genere… e poi?”
“Ha detto che prima devo conoscerla, che è nella mia camera. Poi devo andare a finire di parlare con lei.”
“La grassona è già in stanza?!?”
“Sì, c’era da aspettarselo, la sua valigia era lì da stamattina. Dice che l’hanno piazzata lì perchè non c’era altro posto, nella clinica.”
“Domani metto il cartello ‘siamo al completo’ sulla homepage del sito.”, disse Gero.
“Sì, potrebbe essere utile.”, fece Erin, mentre premeva il pulsante dell’ascensore.
Una volta nell’abitacolo, premette il pulsante numero tre, che corrispondeva al piano immediatamente sotto a quello dove si trovavano fino a quel momento, cioè l’ultimo e quarto livello della clinica, dove tutti i dottori avevano i loro uffici, compresa la direttrice.
“Che ne dici del soprannome Krapfen per la tua nuova scocciatrice?”, le disse Gero.
“Uhm… puoi fare di meglio.”
“Guarda che sono il soprannomista ufficiale della clinica!”
“Allora che Krapfen sia.”, disse Erin, un attimo prima che il suono della campanellina avvertisse loro che avevano raggiunto il terzo piano.
L’ascensore stava alla parte opposta del corridoio, quindi i due dovettero camminare una ventina di metri prima di arrivare alla porta della camera di Erin.
“Entra e fai finta di aver sbagliato camera. Poi mi dice com’è.”, disse a Gero.
Il ragazzo, con molta disinvoltura, aprì la camera e vi entrò, richiudendo la porta dietro di sé. Erin stava con l’orecchio appiccicato al legno, per capire la reazione di Gero. Non sentì una parola, tranne i suoi passi che tornavano indietro. Si discostò e lo fece uscire.
“Allora? Che è quella faccia? E’ proprio grassa grassa?”, fece Erin, notando l'espressione enigmatica che era apparsa sul volto dell'amico.
“Beh…”, disse Gero, la cui faccia andava dal fantasticamente sorpreso al dannatamente sconvolto.
“Hey, non è che ti sei innamorato?”, fece Erin, dandogli una pacca sulla nuca.
“Entra e vedrai… non è proprio quello che ci si... aspetterebbe...”, esclamò Gero, riprendendosi dal parziale shock facciale.
“E che vorresti dire?”
“Innanzitutto, che Bea raccontava la verità.”
Erin lo squadrò un attimo, non comprendendo a cosa si stava riferendo l’amico. Poi fece un sospiro ed entrò nella sua stanza.


Il primo pensiero che le balzò in mente fu il seguente: ‘Quella puttana della Popper me l’ha proprio messo in quel posto, stavolta.’
La nuova scocciatrice non si prese nemmeno la briga di voltarsi quando lei era entrata. Se ne stava curva sulla sua valigia, sembrava in cerca di qualcosa che stava in quel momento nella tasca dei pantaloni di Erin, e che lei stringeva nella mano per tirarla fuori nel momento più opportuno. Notò con notevole disappunto che la sua nuova amica non aveva passato il controllo qualità: chi entrava nella clinica doveva abbandonare tante cattive abitudini, come gli tagli strani di capelli, tra cui rientravano anche i lunghi rasta della ragazza. No no no, pensò Erin, quelli dovevano proprio sparire, lo diceva il regolamento…
Dovette poi ricredersi: aveva vestiti extralarge, di dubbio gusto femminile, ma non le si addiceva più il soprannome Krapfen. Sembrava anzi abbastanza secca.
“Cercavi per caso questa?”, le disse, aspettando che si voltasse per degnarla di attenzione.
Quella non sembrò sentirla, così Erin fu costretta a ripetersi, a voce più alta.
“Stavi cercando questa, bellezza?”, le fece.
Lei si voltò.
O meglio, lui si voltò.
Erin, anche se non vedeva la tv né tanto meno leggeva i giornali, non potette non riconoscere comunque chi aveva di fronte a sé.
“Guarda, guarda, guarda…”, disse, sentendosi riempire da una valanga di soddisfazione, “Dalle stelle alle stalle, in tutti i sensi. E comunque belle occhiaie, si addicono proprio ad un alcolizzato come te.”
Chi lo avrebbe mai detto che, un giorno, chiusa in quella cazzo di clinica avrebbe avuto l’onore di conoscere uno dei componenti della boy band più famosa di tutta la Germania, alias Tokio Hotel, alias Tom Kaulitz?
Personalmente, ad Erin il suo gruppo rimaneva indifferente come la carne stantia della mensa, non si era mai interessata alla loro musica. Non conosceva niente di loro, non si sarebbe mai fatta ore di treno o bus per andare a vedere un loro concerto né avrebbe mai comprato i loro cd.
Per lei, Tom Kaulitz non era altro che un altro malato mentale, uno con una dipendenza distruttiva. Ma c’era sempre una certa soddisfazione nel vedere che anche i ricchi e famosi finivano nella merda fino al collo!
“Hai frugato nella mia borsa vero?”, sbottò lui.
“Nemmeno per idea! Questa bottiglietta stava proprio in bella vista.”, fece lei, maneggiandola.
“Ridammela.”, ringhiò il ragazzo.
“Cosa? Non ho sentito. Mi hai chiesto di ridartela?”, fece Erin, sarcasticamente, mentre la apriva, facendo scrocchiare la chiusura del tappo.
“Non ci provare o ti uccido.”, disse l’altro, comprendendo che la ragazza lo avrebbe versato a terra, o forse lo avrebbe bevuto.
“Uccidermi? Uccidere me? Non puoi, ho una squadra di guardie del corpo proprio come te, pronte a saltarti addosso e a frantumarti le costole.”
“Ridammelo!”, gridò l’altro cercando di strapparle la bottiglietta di mano, ma non fu abbastanza veloce perchè Erin se la portò alla bocca e ne bevve tutto il contenuto.
Dopo una breve lotta, il ragazzo riuscì a prenderla ma ci fu un’amara delusione generale quando scoprì che era stata completamente prosciugata.
“Maledetta puttana!”, fece l’altro, buttando la bottiglietta a terra e facendola andare in frantumi, “Che cazzo vuoi da me?”
“Innanzitutto, non ti azzardare più a chiamarmi in quel modo…”, disse Erin.
Gero prese a bussare insistentemente alla porta ed entrò, per vedere cosa erano stati quei rumori.
“E tu? Anche tu, che cazzo vuoi?”, ringhiò ancora Tom.
Ci fu uno scambio di sguardi, tra i due, a base di scintille, prima che Gero richiudesse la porta della stanza con un tonfo.
“Ascoltami,", gli ringhiò, "Non me ne importa un cazzo se sei famoso, per me suoni in un band di finocchi, ma non ti azzardare a fare stronzate. Qua non sei nessuno!”, fece l’altro, andandogli faccia a faccia per incutergli timore.
Tom, di risposta, gli dette una spinta che lo fece barcollare all’indietro. Gero fu ripreso da Erin appena un attimo prima che  potesse dargli un pugno nello stomaco.
“Gero! Calmati! Non vorrai metterti nei guai per lui!”, gli disse.
“Chi ti credi di essere? Sei solo un drogato!”, fece Tom, allontanandosi.
Erin fino a quel momento era riuscita a contenere l’amico, ma all’ennesima provocazione lui reagì, liberandosi della presa forte ma non decisa di Erin. I due si fronteggiavano, naso contro naso, senza però alzare le mani. Si guardavano e basta, attendendo che uno dei due rinunciasse alla sfida.
“Gero!”, disse ancora Erin, “Lascialo perdere.”
“E’ stato lui ad iniziare.”
“Gero… lascialo perdere…”
Gero, combattuto tra la voglia di spaccare il naso al suo avversario e la possibilità reale di essere espulso se lo avesse fatto, decise di abbassare le armi. Uscì dalla stanza sbattendo la porta e facendo sussultare Erin.
“Cosa aspetti a seguirlo?”, le disse Tom.
“Caro, questa è la mia stanza. Dico mia perchè sto qua da prima di te. Quindi tutto quello che vedi è mio, solo mio. Abbassa il tono.”, disse Erin.
“Ah si? Allora fatti cambiare stanza. Non voglio dividerla con nessuno, è un mio diritto.”
“Eh no, sarai tu a toglierti dai piedi.”, fece Erin, mentre usciva dalla stanza.
Che cosa gliene importava dei cento euro e della scommessa?
Cosa gliene importava del fatto che avrebbe perso la faccia con la direttrice?
Lei non lo voleva in camera sua, per niente al mondo.
Andò verso l’ascensore, sarebbe andata dalla direttrice e avrebbe spinto finchè lei non l’avesse accontentata.
“Vai a chiedere al capo di buttarmi fuori?”, le chiese Tom.
“Certo che sì, testa di cazzo.”
“Allora facciamo a chi arriva prima.”, fece lui.
Un novellino contro una veterana. Uno che non conosceva la clinica contro una che poteva camminarci ad occhi chiusi.
La sfida era troppo scontata.
Erin, invece di prendere l’ascensore, corse come un pazza verso le scale anti incendio, le salì a coppia e fu presto al piano superiore. Una volta rientrata, svoltò a destra, imboccando il corridoio che portava direttamente all’ufficio della Popper.
Il suo orgoglio fu notevolmente ferito quando vide che, più o meno, quell’altro deficiente era alla stessa distanza dall’ambita porta. Lo sprint finale ebbe come esito che entrambi furono troppo occupati nello sfidarsi a vicenda per riuscire a vedere che la direttrice stava uscendo dal suo ufficio proprio nello stesso momento in cui i due velocisti arrivarono alla sua porta. La donna vide la pila di cartelline che aveva in braccio fare un volo in aria e ricadere per terra, seminando tutto il suo contenuto per terra.
“Ma cosa…. Signorina Geller!”, gridò la donna., con tutta l’aria che aveva nei polmoni.

 


Ben ritrovati ragazzi!!! Da quanto tempo non mi trovate in questa bellissima sezione!!!!! Non ho aspettato molto e, nel mentre che avevo finito la mia ultima storia e la stavo pubblicando, mi sono spremuta le meningi e ne ho scritta una nuova!
Una piccola delucidazione sui personaggi: chi tra i 4 era più adatto per interpretare la parte di un alcolizzato e pure un pochino stronzo dentro? Beh, la risposta esatta è Tom! Con questo non voglio dire che lo sia davvero, però leggendo qua e là mi sono fatta un'idea un po' poco buona su di lui... bravo ragazzo di provincia... vabbè, potevo prendere anche Bill, Georg o Gustav, ma con lui rendeva meglio!
La protagonista, Erin Geller, non ha niente in comune con Mac, lo si capisce molto bene. Me la sono immaginata in questo modo: una Anne Hataway con i riccioli, non so se avete presente... quella che ha fatto 'Il diavolo veste Prada'. Personaggio molto problematico, non vi consiglio di averlo come alter ego come invece ce l'ho io... uno dei miei tanti...
Il suo amico, Gero Lang è anch'egli un personaggio che non è per niente facile da gestire. Se penso a lui mi viene in mente subito Peter Petrelli, uno dei protagonisti di Heroes, telefilm strafigo, non tanto quanto Lost, che fanno su italia uno. Sicuramente lo conoscete meglio come Milo Ventimiglia, ha fatto anche Jess in Una mamma per amica... insomma, è uno che mi ispira molti pensieri ad alto rating.

Ve lo dico subito: non ci saranno storie d'amore tra Erin e Tom ! Lo nego fin dall'inizio, non iniziate con 'ma i due stanno bene insieme' usw usw... Judeau sa cosa vuol dire usw, chiedetelo a lui... sarà una storia molto molto molto drammatica, venata di sarcasmo e di un po' di comicità.

Spero che entri nei vostri cuori così come le mie storie precedenti, perchè questa storia è un dramma epico, sia per i contenuti, sia per me che la sto scrivendo... ragazzi, io non fumo e dopo due bicchieri di vino sono stesa, non ho dipendenze, a parte le fanfic, quindi non so cosa realmente stanno passando i personaggi, anche se sono io stessa che li ho creati... che ragionamento contorto... comunque sto cercando di documentarmi, spero di riuscire ad essere almeno un po' realistica... Non so nemmeno se riuscirò a pubblicare con una certa periodicità come ho sempre fatto... spero non mi metterete alla gogna!!!!

Dimenticavo!!!! TITOLO: canzone degli Aerosmith, "Dude looks like a lady" si riferisce a quando Erin e Gero pensano che il nuovo coinquilino Tom K. sia una ragazza... beh, la confusione ci sta, di solito non c'è tutta questa promiscuità nelle cliniche... ma la storia  è la storia!!! La canzone è stata usata senza scopo di lucro.... E I PERSONAGGI REALMENTE ESISTENTI E CITATI IN QUESTA STORIA NON SONO DI MIA PROPRIETA' NE' INTENDO DARE UNA RAPPRESENTAZIONE REALE DELLA LORO VITA CON I FATTI CHE ANDRO' A DESCRIVERE!!!!

Detto questo... ENJOY THIS DRAMA!!!!

-RcB-

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Capitolo 2
*** Getting in touch... ouch!!! ***


GETTING IN TOUCH… OUCH!

“Dammi una spiegazione plausibile o ti sbatto fuori di qua!”, tuonò dall’alto della sua posizione gerarchica la direttrice Popper.
Erin, seduta davanti alla sua scrivania, non le rispondeva. Muoveva ritmicamente la sua gamba, si mangiava l’unghia del pollice e guardava da un’altra parte.
“Visto che la sua nuova coinquilina, signor Kauliz, ha un carattere così pessimo da non poter nemmeno rispettare la mia autorità le dispiacerebbe raccontarmi che cosa è successo?”, disse lei, rivolgendosi in toni più pacati al ragazzo.
“Niente, è entrata nella mia stanza…”, prese a spiegare lui.
“E’ la mia stanza.”, disse sottovoce Erin, ma abbastanza da farsi sentire.
“Stavo dicendo, è entrata nella mia stanza dicendo che voleva sbattermi fuori. Allora io le ho detto che potevamo parlarne con lei. Lei è partita a corsa e io le sono venuto dietro per capire cosa stava per fare.”
“Non è vero.”, disse Erin.
“Le dirò io quando poter dire la sua!”, fece la direttrice, zittendola.
“E’ solo un alcolista bugiardo!”, disse Erin, “E’ stato lui a dirmi che mi voleva fuori dalla mia stanza ed è stato lui a voler fare la gara!”
“Non è vero!”, le disse l’altro, “E’ colpa tua se sono qui!”
“Basta!”, gridò la direttrice, alla quale stava iniziando a mancare la voce.
“Se non mi crede vada in camera mia e vedrà dei pezzi di vetro in terra!", disse Erin, tirando fuori la carta vincente, "Aveva una bottiglietta nella valigia! E io l’ho trovata!”
“Signorina Geller, lei mi stupisce ogni volta che apre la bocca! Come si è permessa di frugare nelle cose altrui?”, fece la direttrice, aggiungendolo alla lista delle violazioni.
“E’ quello che le ho detto anche io. E comunque non c’era nessuna bottiglietta, se lo sta inventando lei per farmi punire al posto suo.”, fece Tom, con serenità.
Erin non riusciva più a contenersi, ma sapeva di non poter esplodere. Mentre la sua anima si ribellava alle diffamazioni, lei cercava di mantenere il controllo, benché fosse molto difficile.
“Allora, mettiamola così. Non sono riuscita a capire chi dei due abbia la colpa, quindi vi punisco entrambi.”, disse la direttrice, stremata dai due. “Signor Kaulitz, se la troveremo con altre bottiglie, verrà automaticamente espulso dalla clinica, senza diritto di replica, ed informeremo la stampa della sua permanenza qui. Adesso vada, non si azzardi ad entrare nella sala tv per tre mesi.”
Ma bene, pensò Erin, se l’era cavata con niente! Bella giustizia era quella!
La direttrice attese che il ragazzo se ne fosse andato, poi parlò ad Erin.
“Erin, non voglio sapere altro di quello che è successo.”
“Ma è un bugiardo e lei lo sa benissimo!”, disse lei in sua difesa.
“Non mi interessa. Ad ogni modo, la tua punizione è questa: fagli da tutore.”
“Cosa?!?”
“Hai capito benissimo: per i prossimi sei mesi sarai il suo tutore. Anche tu sarai responsabile della sua buona condotta. Comunque sarebbe stata questa la cura che avevo pensato per te: trovare qualcuno con il tuo stesso carattere da rieducare, per farti capire quanto sei spiacevole.”
“Ma grazie per il complimento!”, disse Erin, alzandosi e lasciando la stanza.
“E le cartelline? Devo rimetterle a posto io?”, fece la donna, inforcando i suoi occhiali.
Erin sbuffò. Erano le sei del pomeriggio. 
Avrebbe perso la cena. 

 

Quando ebbe pronte le cartelline, con lo stomaco in subbuglio, sperò nella buon anima di Gero: non vedendola arrivare forse avrebbe serbato un po’ della sua cena per lei, anche solo una mela. Posò le cartelline sulla scrivania della direttrice e andò verso la stanza del suo amico. La trovò vuota, sia della sua presenza che di quella del suo coinquilino, quindi poteva essere in sala tv. Desolata, non era nemmeno lì.
C’era solo un altro posto: l’altalena. Chiudendo la lampo della sua felpina, Erin andò verso il giardino, dove trovò Gero, a cavalcioni sull’altalena, che si dondolava a destra e a sinistra.
“Hey….”, gli disse, sedendosi di fronte a lui.
“Con te non ci parlo.”, fece lui, con voce infantile.
“Dai…”
“No.”
“Gero...”, lo supplicò Erin.
“Ti ho preso un’arancia e una mela.”, fece lui, tirandole fuori dalle tasche della sua larga felpa.
“Sei un tesoro!”, esclamò Erin, rubandogli in un soffio la mela e addentandola.
“Cosa è successo?”, le chiese.
“Quell’imbecille mi ha sfidato ad arrivare per prima dalla Popper per chiedere il trasferimento di stanza. Arrivati lì troviamo quell’arpia che esce dallo studio con le cartelline mediche e gliele facciamo volare a terra.”, gli spiegò lei, tra un rapido morso ed un altro.
“Cacchio…”
“Sì… e lui scarica tutta la colpa addosso a me, mentendo spudoratamente. E’ proprio un alcolizzato del cazzo.”
“Già… e quindi?”
“Lui se l’è cavata con una minaccia di espulsione e tre mesi senza tv.”
“Ma non è giusto!”, esclamò Gero.
“E non hai sentito l’ultima… io sarà la sua tutrice. Senti cosa ha fatto quella puttana: me l’ha messo in camera cosicché possa prendermi le sue colpe! Hai capito? Io sono la vittima di questa storia e mi tocca anche fargli da tutrice!”
“Merda!”, disse Gero, alzandosi e dando una pedata all’altalena.
“Dice che l’ha fatto perchè vuole farmi capire cosa vuol dire avere a che fare con una come me, con il mio carattere.”
“Cazzo, non bastava una predica, una pacca sulle spalle ed una pedata nel culo?”, disse Gero, arrabbiato tanto quanto la sua migliore amica.
“Evidentemente no… andiamo, sono le nove. Nessuno in giardino dopo le nove.”, disse Erin, ricordandogli una delle regole fondamentali della clinica.
Passarono un po’ di tempo nella sala tv, dove incontrarono Bea e le raccontarono tutte le disavventure che erano capitate loro. Lei, ovviamente, nel sapere che era vero ciò che aveva sentito dire, non potè fare altro che saltare dalla gioia.
“La passerà sempre liscia solo perchè è Tom Kaulitz e suona tra con quei finocchi.”, disse Gero.
“Te lo immagini! Domani arriverà a mensa e tutti lo assaliranno per chiedergli un autografo!”, disse Bea, che di sicuro si sarebbe unita alla folla con carta e penna.
In quel momento la direttrice entrò nella sala, facendo zittire tutte le chiacchiere.
“Ascoltate, ragazzi e ragazze: come saprete già, per i prossimi mesi avremmo un ospite nella nostra clinica. Un ospite fuori dal comune. Ha passato, come alcuni di voi, momenti molto difficili ed è qui per riprendersi. Abbiamo promesso che non una parola uscirà da questo istituto, nessuno di voi menzionerà la sua presenza. Altrimenti, se ci sarà la cosiddetta fuga di notizie, tutti verrete puniti. Nel modo più severo possibile. E quando dico tutti, lo dico davvero, dal primo all’ultimo. Sono sicura che non succederà, ditelo anche a coloro che non sono qui adesso.”, disse la donna e poi ripetè, per essere stata chiara, “Nel modo più severo possibile.”
Quel tipo di punizione significava l’espulsione a caso di alcuni pazienti, misura mai applicata e spesso sostituita dal pagamento del doppio del costo semestrale.
“Stessa punizione a chi di voi disturberà questo ospite con richieste varie, come gli autografi.”, disse, concludendo la sua paternale.
Un attimo prima di uscire, lanciò un’occhiata ad Erin che le fece gelare il sangue.
“Sarà meglio andare a letto.”, disse Gero.
“Già…”, fece Erin.
“Io rimango qua. Notte ragazzi!”, disse Bea, salutandoli con un cenno di mano ed un sorriso.
I due si dettero la buonanotte davanti alla porta delle loro stanze. Gero entrò subito nella sua camera, mentre Erin rimase ancora un po’ fuori, con la schiena appoggiata contro il muro, pensando a quanti problemi stava andando incontro. Anche lei aveva avuto una tutrice, quando era arrivata in clinica, e le aveva fatto vedere i sorci verdi. Chissà stava per succedere, pensò, mentre abbassava la maniglia della porta. Quando la spinse, la porta però non si aprì. Erin cercò di capire come mai, ma la risposta non fu difficile da trovare, sicuramente quell’imbecille ci aveva messo una sedia a contrasto.
“Fammi entrare!”, disse, mentre bussava insistentemente.
“Levati dalle palle!”, rispose l’altro.
“Ti giuro che se non mi fai entrare scateno il finimondo!”
“Fai con comodo.”
Erin ebbe la tentazione di prendere l’estintore che era appeso al muro e sfondare la porta, ma anche se ci fosse riuscita, i veri problemi sarebbero nati dopo.
“Senti, apri questa porta, entrambi abbiamo il diritto di vivere in questa stanza.”, disse Erin, sperando che parole meno minacciose potessero servire. Ma niente, nessuna risposta. Dette una spallata alla porta, ma il dolore la fece desistere. Provò con un calcio, ma il ragazzo aveva sistemato ad hoc la sedia sotto la maniglia.
“Vedrai che domani avrai da pentirtene!”, gli disse.
Si voltò ed iniziò a bussare alla porta di Gero. L’altro le aprì, dopo qualche attimo, doveva essersi già addormentato. A tempo di record!
“Che c’è…”, fece, con voce rauca.
“L’alcolista non mi fa entrare!”, disse Erin, alzando la voce per farsi sentire.
“Non sono un alcolista!”, gridò Tom, da dentro la stanza.
“Alcolista! Alcolista! Alcolista!”, prese a canzonarlo Erin, cercando di farlo stanare.
“Chiudi quella cazzo di bocca!”, fece Tom, aprendo la porta per non sentirsi più offendere in quel modo.
"Notte ancora.”, disse Gero, chiudendo scocciato la porta e tornandosene a letto.
Erin, braccia conserte, entrò nella sua stanza e prese il suo posto, senza dire nemmeno una parola. Non avendo più nemmeno la possibilità di vivere la sua intimità, fu costretta a chiudersi in bagno e a prepararsi per la notte lì dentro. Quando uscì, vide che l’unica barriera tra lei e lui era composta da una lunga tenda nera, montata per l’occasione quando lei era fuori dalla stanza, e che divideva la camera perfettamente in due.

  

Come sempre, si aspettava di mettere i piedi fuori dal letto prima che la sua sveglia le ricordasse che erano arrivate le otto, e le sue aspettative furono rispettate. Il motivo principale fu la mancanza totale di sonno, dovuta ad un pessimo incubo che aveva fatto pochi minuti dopo aver chiuso gli occhi: se ne stava in piedi, sull’orlo di un burrone di cui non vedeva il fondo. Dietro di lei, un uomo con un fucile che le puntava dritto dietro la nuca. Scegliere una morte o l’altra? Aveva aperto gli occhi, trasalendo, e si sentiva tutta sudata, le coperte penzolavano inerti dal letto. Andò in bagno a bere, si sciacquò la faccia e se ne tornò a letto, senza più chiudere un occhio. Dell’altro, nemmeno il respiro, niente, come se non ci fosse. Per quello che le interessava, poteva anche essere scappato.
Aprì gli occhi stanchi, guardò l’ora e spense la sveglia. Oramai la nottata era andata a puttane, non rimaneva altro che alzarsi ed iniziare una giornata che si sarebbe prospettata di merda, ne era sicura. Prese gli abiti che avrebbe indossato e se ne andò in bagno per cambiarsi, chiudendo la porta a chiave. Doveva fare la doccia, con tutto quello che aveva sudato era più appiccicosa della carta moschicida. Se si sbrigava, riusciva anche ad uscire di lì in una mezz’ora per lasciare il  bagno libero, ma non gliene importava un bel niente di farlo, così si prese tutto il tempo del mondo. 
Ogni volta che si lavava i capelli era un incubo ad occhi aperti: quella massa di nodi era così difficile da districare che una boccetta di balsamo e di lozione bastavano a fatica per due lavaggi. Con calma e pazienza, due doti che mancavano all’appello, si armò di pettine e, sotto il getto dell’acqua calda, iniziò la grande opera. Se il problema fosse stato solo quello, quando uscì fuori dalla doccia Erin poteva dirsi a posto, ma anche l’asciugatura era un impresa epica. Doveva stare attenta che tutta l’acqua fosse evaporata, altrimenti avrebbe passato la giornata con la testa mezza bagnata ed era a rischio malattia. Ci volle un’ora prima di uscire completamente pulita e linda dal  bagno.
Stava per uscire, quando ebbe la tentazione di vedere se l’altro era sul suo letto. Scostò solo un briciolo di tenda e lo vide lì, steso, pancia all’ingiù, non si era nemmeno tolto gli abiti. 
Aveva da fare tanta di quella strada, pensò Erin. 
Per iniziare, serviva una sveglia poderosa, ma non era una cosa che voleva fare. Lo avrebbe lasciato dormire, tanto le avrebbe causato solo fastidi.
Enormi fastidi. 
Uscita dalla sua stanza, bussò tre volte alla porta di Gero, segno che voleva dire che era pronta per la colazione.
“Giorno Erin.”, fece lui, uscendo dalla stanza con un paio di borse sotto gli occhi che toccavano terra.
“Ehy, cosa sono quegli occhi stanchi?”
“Non ho dormito niente.”, rispose lui, chiudendo la porta della sua stanza.
“Anche io… come mai?”
"Stavo in pensiero, ti ha dato fastidio?”
“Macchè… stecchito sul suo letto tutt’ora. E io ce lo lascio stare. Non l’ho mai sentito tutta la notte.”, rispose Erin, mentre si riscaldava le mani nella giacca della sua felpa.
“Meno male… e tu?”, le chiese Gero.
“Boh… forse non avevo sonno.”, rispose lei.
Di solito l’unica persona a cui riferiva dei suoi sogni era il dottor Bebel, l’unico che secondo lei era sano di mente da poter curare i malati come lei.
“Brutti sogni vero?”, la prese lui in contropiede.
“Cacchio non ti si può nascondere proprio niente… comunque sì, ma non ho voglia di parlarne.”, disse Erin. Tanto poi finiva che, dottor Bebel o no, lei gliene parlava comunque.
“Ok, andiamo a mangiare piuttosto, anche se non ho fame.”
“Manco io.”, disse Erin.
 

Al piano di sotto Bea aveva preso posti per entrambi e, con i vassoi mezzi vuoti per colpa dei loro stomaci chiusi, si misero al tavolo, con poca voglia di parlare. Anche Bea non sembrava essere dell’umore giusto, quindi rimasero per un po’ in silenzio, prima che venisse detta una parola.
“Il tuo compagno di stanza…”, fece Bea, armeggiando con i biscotti.
“Non lo nominare.”, disse Erin.
“Ok…”, disse l’altra, “Dormite bene insieme?”
“Allora!”, esclamò Erin.
“Era tanto per sapere!”, fece l’altra, offesa per la rispostaccia dell’amica.
“C’è una tenda nera che ci separa… ma basta, finiamola qui.”, disse Erin, sperando che l’amica le desse ascolto.
“Ancora non credo che lo sappia qualcuno chi è veramente questo ospite particolare della clinica…", continuò Bea, "A proposito, perchè non è venuto a colazione?”
“Bea… per piacere.”, disse Gero, implorandola con uno sguardo poco amichevole.
La ragazza si zittì, recependo la richiesta di silenzio da parte dei due. Ad ogni modo, la camminata decisa della direttrice creò ulteriore silenzio.
“Geller, può venire un attimo fuori, per cortesia?”, le chiese, con tono molto pacato, tanto da fare preoccupare la ragazza.
Posò il cucchiaio con cui stava giocherellando e andò dietro alla donna, chiedendosi cosa fosse successo. 
Nessuno fece caso alla situazione, erano tutti abituati alle stupidate di Erin.
“Dov’è il signor Kaulitz?”, le domandò, sottovoce, fuori dalla porta della mensa.
“Beh… non lo so. L’ho lasciato in camera che dormiva.”
“Ah, bene. Per stamattina passi, ma poi deve rispettare le regole come tutti voi. Intesi?”, le disse, con sguardo severo e deciso.
“Anche se vuol dire fare a pugni nell’atrio?”, fece Erin, incrociando le bracca in senso di sfida.
“Sarà meglio evitare una cosa del genere.”
“Allora sappi che ieri sera si era barricato in camera, non mi voleva fare entrare.”, disse Erin, sperando che la donna prendesse provvedimenti. Ma lei non disse niente, se ne andò e basta.
“Che stronza…”, disse tra i denti, mentre tornava verso i suoi amici.
“Che voleva?”, le chiese subito Gero.
“Niente, solo rompermi le palle.”, sibirò Erin.

 

Mani in tasca e umore nero, Erin camminava a testa bassa verso camera sua. Gero aveva provato a farle passare tutto, ma non c’era stato verso. Avrebbe saltato il programma giornaliero, sarebbe andata solo da Bebel nel pomeriggio. Voleva solo starsene sulla sua altalena, lettore mp3, canzoni a tutta palla nelle orecchie, e fottersene di tutti. Andò in camera, entrando dentro come se non ci fosse nessuno. Infatti, era vuota, l’altro letto disfatto. Da una parte avrebbe voluto prendere quello che le serviva e andarsene, ma da un’altra c’era sempre la Popper che incombeva.
Bussò nel bagno e chiese se c’era nessuno al suo interno.
“Chi vuoi che ci sia…”, rispose Yom.
“E’… è tutto a posto?”
“Cazzo di domanda...”, borbottò quell'altro.
“Hey, da oggi in poi sarò la tua tutor, ho delle responsabilità nei confronti di diverse persone. E soprattutto ho il diritto di sapere che stai bene.”
“Ok, sto bene, vattene.”
“Cosa stai facendo?”
“Niente, aria, sparisci.”
“Vuoi rimanere tutto il giorno lì dentro?", gli fece, "Bene, mi fa piacere, perchè io rimarrò qua davanti alla porta. Proprio così, seduta contro la porta, così potrai continuare a rovinarti la vita come stai facendo ancora adesso!”
“Non sto facendo niente di male. Non si può nemmeno pisciare in pace.”
“Sento odore di alcol, caro ragazzo. Si può sapere dove lo hai preso?”, gli chiese Erin. 
Sapeva chi, tra i ricoverati, aveva le mani in pasta e sapeva rifornire la clinica di certa roba. Ma ancora l’alcol non era tra le sostanze che circolavano. Sembrava strano,ma  era più facile riuscire a trovare un po’ di morfina, che non fosse di quella utilizzata dai dottori, che un litro di alcol. Era quasi un fenomeno paranormale!
“Fottiti, lasciami in pace.”
“Te lo ha portato un parente?”
Il ragazzo smise di rispondere alle sue domande, non aveva più voglia. Che se la prendesse con lui, quella ragazza, tanto ormai tutto il mondo sembrava odiarlo. Tutto il mondo, tutto, tutti.
“Allora io rimango qua. Mi metto ad ascoltare un po’ di musica. Vuoi che accenda lo stereo così la senti anche tu?”, chiese lei, ovviamente senza ricevere risposta.
Erin fece di testa sua, prese il suo piccolo stereo portatile ed accese la radio, in cerca di una stazione che trasmettesse qualcosa di suo gradimento. Nel frattempo, commentava ad alta voce le stazioni che incontrava.
“Pubblicità… pubblicità… questo qui ha troppi discorsi in bocca… ah! Senti questa, questa di piace! Vuoi che alzi il volume”, fece, piazzando la frequenza su una stazione che trasmetteva musica tradizionale tedesca, con quei cantanti dai grandi baffi che facevano strani gorgheggi.
“Chi tace acconsente!”, disse Erin, alzando a tutto volume lo stereo.
“Abbassa quella dannata musica!”, gridò l’altro, dando sonore pedate alla porta e facendo sobbalzare Erin, che vi stava con la schiena contro.
“Ah! Sei sempre vivo! Pensavo avessi tirato il calzino!”, disse Erin.
La porta si aprì e in un attimo la ragazza si trovò con la schiena a terra, mentre lui la scavalcava. Senza dire una parola se ne uscì dalla stanza.
Almeno il bagno era libero, pensò Erin. Vi entrò, cercando di trovare qualcosa che tradissero le parole del ragazzo. 
Chi aveva una dipendenza era un gran mentitore, lo sapeva benissimo, ma non sembrava averle detto una bugia. 
A meno che non avesse nascosto qualcosa dentro ai suoi enormi pantaloni, oppure dentro alla vaschetta dello sciacquone....
Niente, cassetta vuota. Guardò nei buchi dietro al lavandino, dove passavano i tubi, ma ancora nulla. Aveva visto un film, una volta, dove si diceva che per imparare a trovare bisogna saper nascondere. E lei aveva saputo nascondere benissimo, per molto tempo. 
Prese il suo lettore mp3 e andò nel giardino, a dondolarsi sulla sua altalena.

 

Con la schiena appoggiata alla catena di ferro ed i piedi ancorati in terra che la spingevano delicatamente a destra e a sinistra, Erin non vide che tutte le attenzioni delle persone della clinica erano concentrate su una panchina, al di là del laghetto. 
Lì si trovava l’ospite particolare, quello di cui non bisognava parlare a nessuno, che non andava disturbato. I pazienti di una certa età, quelli del primo piano, non sapevano chi fosse oppure ne avevano sentito parlare dai nipoti o dai figli. Quelli del secondo piano, che erano per lo più anziani, non lo avevano neppure mai visto. Quelli del terzo piano, che andavano da un’età minima di tredici anni ad una massima di trenta, invece, lo conoscevano benissimo.
Erano soprattutto loro che guardavano verso di lui, che lo indicavano, che facevano dei risolini e cercavano di attirare la sua attenzione passeggiando nelle sue vicinanze.
Eppure lui se ne stava seduto, con un piede sulla panchina ed il mento appoggiato sul ginocchio, a tirare sassolini dentro l’acqua del laghetto, anche se era vietato dal regolamento, ma nessuno glielo fece notare. Quando l’orologio sulla torre centrale suonò mezzogiorno, tutti interruppero le loro mansioni, le loro chiacchiere e le loro passeggiate per andare a pranzo. Erin fu scossa da un anziano signore che le era passato accanto.
“Grazie.”, disse lei, mentre avvolgeva le cuffie intorno al lettore.
“Con quei cosi voi ragazzi vi perforerete i timpani.”, disse lui.
Ecco, un altro rompipalle, pensò Erin, che invece sorrise all’uomo senza farsi accorgere del suo pensiero.
“Piuttosto, signorina, mi sa dire chi è quel ragazzo laggiù, quello che continua a tirare i sassi nel laghetto?”, le domandò.
Erin dovette aguzzare la vista per vederlo.
“Ah, grazie per avermi detto che è lì.”, fece, allontanandosi da lui senza rispondere alla sua domanda.
Mentre camminava, Erin realizzò che la Popper diceva sul serio: se quello non avesse messo la testa a posto ci avrebbe rimesso lei, in prima persona, perchè sua tutrice. Si ricordava di quante note disciplinari aveva fatto prendere alla sua, un tempo, perchè lei continuava a mettersi nei guai. Onde evitare di far allungare la sua fedina penale, Erin cercò di stabilire un contatto con lui, aspettandosi però di non essere accolta con mazzi di fiori.
“Ehy…  è l’ora di pranzo!”, disse, mentre si avvicinava a Tom. 
Di tutta risposta, quello si alzò e si spostò di tre metri più in là. 
Si comincia bene, pensò Erin.
“Beh, non credo che tu voglia far parte anche della categoria degli anoressici. Non ti basta quella degli alcolizzati?”, fece lei, cercando un approccio sarcastico, mentre gli si avvicinava ancora.
“Possibile che non riesci proprio a lasciarmi in pace? Sei un cozza!”, fece lui, spostandosi di nuovo più in là.
“Grazie per il complimento, Tom… comunque il mio nome non è cozza, è Erin. E il soprannomista ufficiale della clinica Sellers è Gero, il ragazzo con cui stavi per fare a botte ieri. Quindi non cercare di prendere il suo posto.”, disse Erin, continuando a seguirlo a pochi passi di distanza.
“Allora tanto piacere Cozza.”
“Se chiamarmi in quel modo ti fa sentire bene, fallo pure. Non ti obbligo certo a fare il contrario.”
“Lo sai che mi stai stancando?”, disse lui, interrompendo la sua lenta fuga e voltandosi di scatto verso di lei, “Cosa vuoi da me? Vuoi fare amicizia? Ecco, stringimi la mano, ora sei amica di Tom Kaulitz, sei contenta?”
“Non molto… la tua mano era sudaticcia…”, fece Erin, strusciandosela contro i pantaloni, “Ma adesso che conosco una celebrità posso dire che il mio status sociale si è ribaltato!”
“Molto divertente…”, disse l’altro, riprendendo la sua camminata verso il laghetto.
“Senti, lo so che saranno difficili questi primi giorni ma… cerchiamo di collaborare. Io non vado nei guai se non sei tu a mettertici e, visto che la direttrice non mi ama affatto, perchè non facciamo un patto di non belligeranza? Non ti dico che devo per forza starti simpatica, puoi odiarmi come stai odiando il resto del mondo, basta solo che cerchi di comportarti bene, sia per te stesso che per me. Ci stai?”
Lui si voltò, la guardò un attimo, poi le mostrò il suo dito migliore, quello medio.
“Beh… grazie per la risposta.”, fece Erin, “Sei proprio una testa di cazzo e fai bene ad attaccarti alla bottiglia.”
Lo lasciò al laghetto, fottendosene di lui. Avrebbe parlato con la Popper, era meglio troncare il tutoraggio, lui non aveva capito che c’era da sudare in quel posto e che non era nessuno, se non uno malato, come tutti gli altri. 
Ancora più in malumore di prima, Erin decise che non era proprio il caso di mangiare. Lo stomaco le si era chiuso un’altra volta. Si mise ad aspettare fuori dallo studio del dotte Bebel, il loro incontro era fissato per l’una ed un quarto, quindi bastava solo aspettare una mezz’oretta.

 

Gero aveva assistito a tutta la scena dalla mensa, affacciato alla finestra. Da solo, Bea si era seduta con altre persone, aspettava che Erin salisse e si mettesse davanti a lui. Le aveva già preparato il suo vassoio, oramai la conosceva bene da indovinare cosa avrebbe scelto da mangiare. Aveva visto lui voltarsi verso di lei, alzarle il dito medio e gli era presa un po’ di rabbia, ma soprattutto, gli era tornata la voglia di rompergli il naso. Erin se ne era andata via incavolata nera, era ovvio, e non sarebbe venuta a mangiare. Aveva l’appuntamento con il suo psicologo, quindi sicuramente stava ad aspettarlo davanti al suo ufficio. 
Se avesse trovato quell’idiota per i corridoi, gli avrebbe sicuramente fatto capire che non si trattano in quel modo le persone che volevano aiutarlo.

  

“In anticipo come sempre.”, disse il dottor Bebel, mentre apriva con la chiave il suo studio.
“Beh… non avevo niente da fare e mi sono messa qui ad aspettarla.”, rispose Erin.
“E non hai mangiato. Lo sai che così peggiori solo la tua salute.”, fece lo psicologo, con quel suo tono rilassato ed accondiscendente.
“No, dottore, ho mangiato, non si preoccupi.”, rispose lei.
“Anche mentire ti fa male.”
“Ecco, tutti a farmi la predica!”, disse Erin, mentre entrava nello studio.
Si sedette come sempre sul comodo divanetto, appoggiata sul bracciolo. Accanto, la poltrona del dottor Bebel e il solito taccuino per gli appunti.
“Allora Erin… da cosa vogliamo partire?”
“Beh... ho fatto un brutto sogno, tanto per cambiare.”, disse lei, abbuiandosi.
“I tuoi genitori alla tv?”
“No… questo non lo avevo mai fatto prima.", fece lei, "Ho sognato che un uomo mi puntava un fucile alla nuca e davanti a me c’era un burrone. Dovevo scegliere di quale morte morire…”
“E chi era l’uomo con il fucile?”, le domandò.
“Non lo so… stava con la faccia dietro l’arma… così.”, fece Erin, cercando di imitare la posizione dell’uomo, “E comunque non è di questo che voglio veramente parlare…”
“Mi ha detto la direttrice che ti ha affidato un ragazzo.”
“Proprio lui…”, disse Erin, sbuffando.
“E lo conoscevi anche prima?”
“Sì, insomma, lo avevo visto in tv o sulle riviste... Diciamo che sì, lo conoscevo, ma di vista. Del resto non sapevo niente. Ad ogni modo, credo che sia sbagliato affidarmelo.”
“Perchè?”
“Perchè… ancora ha molta strada da fare.”
“E’ gia stato in clinica per tre settimane, lo avevano ricoverato al primo piano. Ha già superato il primo mese.”, disse l’uomo.
“Insomma, non credo che lo abbia superato, perchè ho trovato una bottiglietta nella sua valigia e mi ha aggredito per averla. Ma me la sono bevuta io.”
“Questo la direttrice lo sa?”
“Certo che gliel’ho detto, ma mi ha ignorato. Anzi, invece di punire lui ha punito me!”
Il dottore represse un sorrisetto che gli era salito sulle labbra. Poi tornò serio e si grattò la fronte.
Ecco, si disse Erin, ecco il momento del predicozzo.
“Devo essere sincero con te Erin: quando la direttrice mi è venuta a parlare di questa ‘cura’ per te, come la chiama lei, non le ho certamente nascosto le mie preoccupazioni. Secondo me affidarti uno come lui, indipendentemente dalla sua identità, ma con i suoi problemi, è sbagliato.”
“E’ sbagliato sia perchè è lui, sia perchè ha quel particolare problema.”, fece Erin, felice perchè il dottore, per quel momento, aveva deciso di riporrere le sue solite parole da omelia per prendersela con la decisione della direttirice.
“Mettila come vuoi, ma è comunque troppo presto per te. Insomma, tutto questo non fa altro che farti rivivere il tuo rapporto con tuo…”
“No, dottore, non inizi con quelle baggianate!”, fece lei interrompendolo. Era finito il momento magico del 'non-prendetevela-con-Erin-ma-con-l'aguzzina-della-Popper'.
“Erin, non sono baggianate e finchè non ti metterai in testa che determinati tipi di amicizie non possono far altro che danneggiarti sarai condannata a soffrire del tuo male per tutta la vita. Ad esempio, lo sai che cosa penso del tuo rapporto con Gero…”
“La prego, dottore, parliamo di altro…”, lo implorò Erin, che non sopportava quando tirava in mezzo determinati discorsi come quello.
“Da qualche mese non stai facendo nessun progresso. E questo non va bene.”
“Ho capito dottore, alla prossima seduta.”, disse lei, alzandosi irrispettosamente e uscendo dallo studio.
Era stato inutile anche parlare con lui!
Corse diretta verso la sua camera, ignorando completamente tutti quelli che la salutarono. Prese il suo piccolo taccuino da schizzi e andò sull’altalena




Eccomi qua, di nuovo a scrivere i ringraziamenti!!! Lidiuz 93 mi ha fatto notare che non ho collocato temporalmente questa storia, in poche parole non si capisce quando accadrebbe, ch età ha Tom... mettiamola così, in questa storia ha sui 22/23 anni, quindi siamo un po' in là... facciamo gustare la parte amara del successo a sto ragazzo! 

CowgirlSara: grazie mille per i complimenti, anche se questa storia è proprio rognosa... sono ferma al quinto capitolo!!! Mi sa che mi toccherà cambiare qualcosa per sbloccare la situazione... non mi dilungo altro, ci sentiamo su msn!!!

Lidiuz93: sì, davvero, nessuno romanticismo in vista, ma tanti litigi! Hai ragione, non ho collocato i th in un contesto temporale! Non mi sembrava importante, ma forse è meglio dare una delucidazione... grazie mille per i complimenti!!!

Ruka88: no, stavolta l'amore sarà bandito... o meglio, forse comparirà, ma farà solo capolino e cmq non sarà certo tra i due, che invece faranno molte scintille. Davvero ti sei immaginato Gero come lui? Wow! Penso che sia veramente... sanguineo! Mi fa venire certi pensieri...

Carillon: i rasta? presto faranno un volo dalla finestra... scherzo! XD cmq penso di essere una delle poche che glieli taglierebbe di nascosto, odio i rasta! No, non è Bill perchè non mi dà l'impressione di essere uno con un carattere molto forte e deciso, mi sembra un po' più... non so come spiegartelo, ma mi sembrava più adatto Tom! E grazie per la recensione!

Dew94: grazie e dire che, fino a sei mesi fa, non avevo più l'ispirazione per niente! Sono stata un anno senza scrivere! Vabbè, spero che Erin ti piacerà tanto quanto Mac, anche se ha un caratterino con cui non si vorrebbe avere molto a che fare! Grazie per la recensione!

Sososisu: no, devo deludere anche te, basta con gli amori, sono finiti, adesso scriverò di dolore e di disperazone e basta! XD scherzo ma non più di tanto XD comunque grazie mille di tutto, sia per i complimenti che mi hai fatto, sono molto lusingata, sia anche per la recensione che hai lasciato al capitolo finale dell'altra storia.... *lacrimuccia* grazie mille davvero!!!

Judeau: come puoi mettere questa storia tra i preferiti e poi nemmeno lasciare una recensione???? guarda che ti butto il gattino in mezzo all'autostrada eh? lo torturo! XD no, povero gattino, lasciamolo fare... ma la prossima volta non ti perdono eh, intesi? Bacioni crucco!

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Capitolo 3
*** Remember, you're anybody! ***


REMEMBER, YOU’RE ANYBODY!



Quanto altro tempo doveva passare prima di uscire da quel posto? Sei mesi? Era troppo, troppo tempo.
Lì dentro si impazziva, era un posto di malati mentali, non era una clinica di recupero.
E poi cos’era che lo obbligava a rimanere lì? Niente.
Allora perchè non usciva? Perchè… di nuovo quella frase in testa: tutti lo odiavano. Tutti lo volevano morto.
Passò il pomeriggio seduto intorno al lago, a guardare l’acqua infranta dai sassolini che vi tirava dentro. La sua vita, prima di una certa età, era limpida e calma, come l’acqua di uno stagno, immobile. Poi un sasso, un altro, e un altro ancora, la superficie aveva iniziato ad incresparsi, i cerchi si scontravano tra loro in un tumulto continuo e inesorabile. Lo aveva sentito in un film, o forse da qualche altra parte.
Aveva avuto tutto: fama improvvisa, successo inaspettato, riconoscimenti. Aveva iniziato a viaggiare per l’Europa, la gente lo riconosceva per strada, le ragazzine gli si gettavano al collo. Poteva averne quante voleva, c’era sempre qualcuna pronta ad offrirglisi.
E poi i soldi, tantissimi soldi, una valanga di denaro. I primi acquisti erano semplici, piccoli sfizi che uno si toglieva di tanto in tanto. Ma in poco tempo iniziò a pensare che poteva permettersi tutto quello che voleva.
A quante feste aveva partecipato? Non se lo ricordava nemmeno più. Ogni sera era invitato da qualche parte! Poi gli after show, le discoteche… Insomma una vita da favola! Viveva alla grandissima! Era il re del mondo!
E ora… ora se ne doveva stare chiuso dentro quattro mura. Se il mondo lo odiava per quello che lui aveva fatto, allora era giusto che anche lui dovesse odiare il mondo, che lo costringeva a vivere tra quei pazzi.
Lui si voleva divertire, voleva spendere il suo tempo in quel modo, non gliene fregava un cazzo di come questo accadeva. Però gli altri erano sempre in giro, a giudicare, a dire ‘Tom non fare questo!’, ‘Tom non fare quell’altro’, ‘Tom te ne pentirai’. E lui non si era mai e poi mai pentito di quello che aveva fatto; se avesse potuto, sarebbe tornato indietro e avrebbe rifatto tutto da capo, prendendo le stesse scelte e vivendo la stessa vita.
Eppure gli altri non si volevano arrendere.
Tom non doveva divertirsi.
Tom non doveva andare alle feste.
Tom non doveva frequentare certa gente.
Tom non doveva bere.
Tom non doveva bere.
E Tom, infatti, non beveva mica poi così tanto! Solo un po’, per animare la serata e unirsi alla festa! E cosa poteva mai essere? Cosa poteva mai succedere? Niente! Non era mai successo niente di male! Ma per gli altri no, era successo tutto di male! Tom, per loro, era diventato uno che beveva troppo, che non si ricordava dove era stato la notte precendente… tutte stronzate!
Tom era sano, era sempre lucido.
E allora, se il  mondo lo aveva condannato per una colpa che non aveva, Tom era obbligato ad odiare il mondo.
Era lì da tre settimane e, anche se sembra pochissimo tempo, in tre settimane si poteva accumulare tanto di quel rancore e di quel risentimento da poter buttare giù un palazzo. Da tre settimane aveva tagliato i ponti, da tre settimane non riceveva nessuna visita, né una telefonata.
Abbandonato a se stesso come un cane randagio dai suoi amici, dal suo gruppo, dalla sua famiglia.
Da Bill...
Era stato lui a volerlo rinchiudere lì dentro.
Gli aveva detto che era per il suo bene… ma certamente!
Tom voleva spassarsela, lui era geloso e quindi come si poteva mettere un freno a tutto questo divertimento?
“E allora? Che si fottano. Lui più di tutti”, disse prendendo un sasso più grosso e gettandolo con forza nell’acqua.
“Ragazzo! Non si gettano le pietre nel lago!”, lo rimproverò una donna che passava di lì.
Senza chiedere scusa, né replicare in altro modo, Tom si addentrò nel boschetto che delimitava il giardino.
Se avesse camminato per un po’ avrebbe trovato un punto, un buco nella recinzione, da poter sfruttare come via di fuga.
Si sentiva come un topo in trappola.


Erin calmò il suo spirito giusto in tempo per la cena. Come se si fosse aperta una falla nella diga, la fame le prese lo stomaco, facendole dolere tutto l’addome. In fila alla mensa, preceduta da molti altri affamati come lei, cercava di reprimere i gorgoglii della pancia, per non far voltare Gero disgustato, in fila davanti a lei.
“Com’è andata oggi?”, le domandò.
“Bene… ma si muove questa fila o no?”, disse ad alta voce, “Abbiamo fame anche noi!”
“Erin, è colpa tua se siamo bloccati qua! La nostra ora di cena è alle sei e mezza, tu sei voluta venire alle sei e ci siamo trovati imbottigliati tra i vecchietti del secondo piano!”, la rimproverò Gero, “Oltretutto io non ho nemmeno fame!”
“Zitto e vai avanti, scorri!”, fece l’altra.
“A proposito, io glielo romprerei quel dito al tuo amico, se te lo mostrasse un’altra volta.”, le fece, ignorandola.
“Cosa?”
“Sì, hai capito bene. Oggi ho visto come ti ha risposto bene.”, fece Gero, alzandole il dito medio.
“Ah… ma che vada a quel paese.”, disse Erin. Poi, vedendo che sul bancone non c’erano le patatine fritte come si aspettava: “Hey, ma non ci dovevano essere le patate stasera?”
“Le abbiamo finite.”, rispose seccamente l’addetta la rifornimento del self service.
“Sono sicura che non è vero!”, fece Erin, “Scommetto che se torno qui tra un’ora saranno pronte per essere servite!”
“Signorina, doveva venire all’ora in cui serviamo la cena per quelli del suo piano se voleva le patatine.”, rispose la donna.
Stava mettendo sul bancone altri piatti con la porzione di verdure lesse e gliene porse uno, “E poi un po’ di vitamine le faranno bene.”
“Se le tenga lei le sue vitamine!”, esclamò Erin, rifiutando il piatto.
“Erin…”, fece Gero, cercando di attirare l’attenzione della sua amica.
Aveva visto la direttrice entrare nella sala mensa e guardarsi intorno, localizzarli e poi camminare con decisione verso di loro. I suoi tacchi risuonavano rumorosamente in tutta la grande sala, ma Erin era troppo impegnata a prendersela con le verdure lesse per sentirla.
“Le ho detto che non la voglio questa robaccia!”, esclamò Erin.
“Signorina Geller, ha problemi con il servizio mensa?”, le domandò la direttrice, mentre le picchiettava la mano sulla spalla.
“Ora non più.”, rispose Erin, mentre metteva il piatto nel vassoio della vecchiettina in fila dietro di lei.
“Dov’è il ragazzo che le ho affidato? Mi sembrava di essere stata chiara stamattina.”
“Non lo so dov’è! Non abbiamo i soliti programmi.”, ribattè lei, infastidita.
“Proprio per questo lei doveva seguirlo con più attenzione, controllare che lui si presentasse a tutte le sedute mediche e terapeutiche.”
“Pensavo bastasse un po’ di fiducia. Non è questo il vostro motto: ci fidiamo di voi!”, fece Erin.
“Geller, vuole partecipare ancora alle lezioni di pittura e di scultura? Perchè se continua così non le permetterò più di mettere piede nell’aula.”, la ricattò la direttrice.
Erin sospirò, reprimendo in fondo alla gola un urlo.
“Può stare tranquilla, glielo riporto vivo.”, sibilò.
La direttrice se ne andò e nel silenzio che era calato in sala tutti sentirono il rumore dei suoi tacchi per un bel pezzo.
“Se lo trovo, Gero, giurami che cercherai di evitare che gli metta le mani addosso. Perchè se ha la sfortuna di farsi trovare…”, disse Erin.
“Non te lo posso promettere.”, rispose Gero, con un sorrisetto malefico in faccia..
“Andiamo.”, fece lei, prendendolo per mano, lasciando i loro vassoi in fila.
Ispezionarono tutta la clinica, entrarono in tutti i bagni comuni, controllarono tutte le porte, ma non c’era.
Non poteva essere altro che fuori.
“Controllo il davanti, tu vai sul retro.”, disse Gero.
“Sarà meglio che tu mi stia vicino, stavolta gli spezzo il collo.”, disse Erin, sulla via buona per perdere il controllo di se stessa.
Gero sapeva che non c’era peggior punizione per Erin del tenerla lontana dalla lezione di pittura. Anche se non riusciva ad evitare di non combinare guai nemmeno mentre dipingeva, almeno in quei momenti una parte di lei che era sepolta da tempo riusciva a tornare fuori. Il disegno era sempre stato il suo hobby preferito, negarglielo era come toglierle l’aria.
“Sarà meglio comunque dividerci, il parco non è così piccolo come sembra.”, ripetè Gero.
“No, tu vieni insieme a me!”, si oppose Erin.
“Erin, lo sai di quanti metri quadri è questo cazzo di verde che ci circonda?”, continuò il ragazzo, fermandosi e prendendola per un braccio per farla ragionare.
“Wow! Non sapevo di essere a Central Park!”, disse Erin, sarcasticamente, “Sicuramente lui sta cercando di scappare, ci scommetto quello che vuoi.”
“Se io parto a cercarlo da laggiù, seguendo il muro, e tu dall’altra parte, ci troveremo a metà!”
“No, devi venire con me!”, si impuntò la ragazza.
“Mi spieghi perchè dobbiamo sempre fare come ti pare? Perchè per una volta nella vita non vuoi ascoltare anche gli altri?”, gridò arrabbiato Gero, che non sopportava più le continue imposizioni dell’amica.
“Perchè questa è la cosa giusta da fare. E se non sei d’accordo, faccio da sola!”
“Sì! Da sola!”, ripetè Gero, tornandosene verso la clinica.
“Va bene!”, disse Erin.
“Bene!”, gridò l’altro.
Ancora più arrabbiata di prima, la ragazza prese a correre verso il centro del boschetto. Se avesse continuato sempre dritto avrebbe trovato il muro che li separava dal resto del mondo. Sapeva che non c’era via di scampo da lì: a meno che quell’idiota non avesse una corda e delle scarpe chiodate. E comunque, dopo tre metri di muro c’era un bel rotolo di filo spinato. A descriverlo in questo modo, sembrava un bunker, una prigione. Anche lei, circa un anno prima, quando era entrata lì dentro, aveva a lungo esplorato quel muro inutilmente. L’unica uscita per il mondo reale era la porta principale e ci voleva molto tempo prima di poterla varcare. Soprattutto, bisognava essere guariti completamente.
Completamente.
“Tom! Tom!”, iniziò a chiamarlo, una volta che si fu inoltrata abbastanza tra gli alberi, “Mi stai mettendo nei guai… anzi, ci stiamo mettendo nei guai!”
Andò verso il muro, intonacato di bianco, cercando di decidere da che parte andare. Destra o sinistra? Si voltò, cercando con lo sguardo di trovarlo tra gli alberi. Gli sembrò di intravedere qualcosa, alla sua sinistra, ma non ne era certa. Andò in quella direzione e riconobbe una scarpa, una gamba, che venivano ritratte velocemente dietro il grande tronco di un albero centenario.
“Stiamo giocando a nascondino? Perchè adesso che ti ho visto devi uscire dalla tana.”, disse Erin, fermandosi a qualche metro dall’albero.
“Sei peggio di un segugio.”, sentì dire.
“E tu sei prevedibile, Tom.", gli rispose, "Adesso alzati e andiamo a mangiare. Forse siamo sempre in tempo per il dolce.”
“Non ti chiedo altro che lasciarmi in pace.”, disse lui.
Erin si spazientì ma sapeva che perdere la calma non avrebbe portato a nient’altro che ad un’altra litigata e a lui che scappava. Si appoggiò al tronco, sedendosi dalla parte opposta.
“Sai Tom perchè sono venuta qui?”, gli disse, cercando di attirare la sua attenzione.
“Non me ne frega niente.”, borbottò l'altro.
“Oh, invece dovrebbe.”
Ci fu una breve pausa, durante la quale Erin fece un gran respiro.
“Due anni e mezzo fa mi è capitato un incidente, un brutto incidente, dalla quale non mi sono più ripresa.", gli rivelò, "Da quel momento in poi diciamo che ho perso il controllo della mia vita e… insomma, i miei, per evitare che combinassi guai, mi hanno mandata qui. Scaricata come un barile di rifiuti tossici nel mare.”
“E quindi?”, fece l’altro, totalmente disinteressato.
“Anche tu hai perso il controllo sulla tua vita. Sei venuto qui come me per ritrovarlo. Ci vorrà tempo, sudore e fatica, non sarà un gioco da ragazzi. Qui non vieni giudicato per quello che sei o per quello che hai fatto in passato, perchè tutti siamo qui per un motivo solo. Guarire ed uscire, tornare nel mondo reale.”
“Le parole di una santa!”, fece l’altro sarcasticamente.
“Tom, non sto scherzando. Lo so come ti senti…”
“Lo sai come mi sento?!?”, esclamò improvvisamente lui, alzandosi e girando intorno all’albero per parlare faccia a faccia con la sua provocatrice, “Tu non sai un bel niente di me e di quello che mi hanno fatto!”
“E’ vero.”, rispose lei, con calma.
Non le incuteva paura essere seduta, mentre un alcolista con dei seri problemi di controllo della rabbia stava davanti a lei, in piedi, puntandole minacciosamente un dito contro.
“Perchè non mi fate passare questi quattro mesi in pace?”, urlò Tom, in preda all'ira.
“Perchè quando uscirai tornerai  a fare gli stessi errori.”, fece Erin con tranquillità.
“Errori? Io non ho mai fatto niente di male, a nessuno.”
Erin sorrise causticamente, poi scosse la testa.
“Sono sicura che è successo questo:", tentò di indovinare, "ti ha fermato la polizia che guidavi una macchina, a tutta velocità, con un tasso alcolico nel sangue che avrebbe ammazzato un cavallo. Poi ti hanno fatto stare qualche ora in cella, un mese dopo ti hanno condannato a tre mesi al fresco che il tuo avvocato ha sapientemente fatto cambiare in una promessa di uscire da una clinica pulito e sobrio. Se alla tua età riesci a sopportare tutto quello che bevi, vuol dire che hai dei seri problemi di alcolismo. So di cosa sto parlando.”
“Tutti sapete sempre di cosa state parlando.", disse Tom, incrociando le braccia, "Ma vi dimenticate sempre che sono io che vivo la mia vita e che prendo le mie decisioni…”
“Sbagliate.”, lo interruppe lei.
“Tu non sei una santa.", disse lui, rinnovando l'indice minaccioso contro di lei, che pareva non sortire alcun effetto, "E comunque non è successo come dici tu.”
Erin si alzò, lo guardò un attimo negli occhi, poi gli porse la mano in segno di temporanea tregua. Lui abbassò il dito, con lo sguardo fuggente, ma non accettò di stringergliela.
“Purtroppo non sempre nella vita si può fare solo ciò che ci piace,", gli disse Erin, rinunciando alla stretta di mano, "quindi adesso cerca di darti una calmata e andiamo dentro. Finiremo questa chiacchierata davanti ad un piatto di… di qualsiasi schifezza ci servirà la mensa.”
“Ogni volta che cammino c’è sempre qualcuno che mi guarda, mi indica e ride di me. Non voglio stare in mezzo alla gente. Sono tutti dei pazzi.”
“Manie di persecuzione…", sbuffò Erin, "Al massimo sono allupate che aspettano solo un tuo schiocco di dita per concedertisi senza pudori.”
Tom non le rispose, nè la guardò. Si inviò semplicemente verso la clinica, abbandonando ogni tentativo di fuga.
“Beh… almeno sono riuscita a farti schiodare di lì.”, disse Erin, camminando a pochi passi da lui.
“E’ possibile avere la cena in camera?”, domandò lui.
“Non sei al Grand Hotel Continental.", gli spierò Erin con falsa calma, "Colazione, pranzo e cena vengono serviti in sala mensa, c’è un lungo bancone self service. Otto e mezza del mattino, mezzogiorno e diciotto e trenta, questi sono gli orari del terzo piano. Mangerai dove ti pare, meglio se ti aggreghi con qualcuno. Ogni tanto la Pound, quella di psicologia collettiva, ci osserva mentre mangiamo e se ti vede solitario si mette a farti la predica su come sia importante consolidare i rapporti con gli altri pazienti.”
“Hai altri saggi consigli da darmi?”
“Certamente: dentro al comodino c’è il libretto con le regole della clinica. Stampatele bene in mente perchè ogni volta che le violi e vieni beccato ci andrò di mezzo anche io. Se prenderò una punizione per una tua stronzata, ti giuro che ti taglio i capelli.”, lo minacciò Erin, sapeva ti toccare un suo punto debole.
“Non ce la farai ad avvicinarti.”, disse lui, con presunzione.
“Hai il sonno molto pesante.”, contrattaccò Erin.
“Se mi sveglio e manca un rasta ti uccido.”
“Le mie forbici sono molto affilate.
“Sei una stronza.”
“Non mi stai per niente simpatico.”
“Cerchiamo di non parlarci troppo.”
“Diventerò muta come un pesce.”
Quando il caustico botta e risposta tra i due finì, Erin fu contenta di aver tagliato il primo traguardo, cioè l’aver stabilito un contatto con lui, anche se molto disturbato dalla sua cattiva abitudine. Durante le prime tre settimane l’astinenza l’aveva messo a dura prova ma, anche se ne era uscito vivo, i periodi peggiori stavano per arrivare. La dipendenza fisica finiva in tempi abbastanza ristretti, il corpo si ripuliva nel giro di un mese o due. Invece la dipendenza psicologica era dura a morire.
Entrarono nell’edificio in silenzio, era meglio parlare solo quando lui ne aveva voglia, o quando la comunicazione fosse strettamente necessaria.
“Da questa parte.”, gli fece, quando lui svoltò a destra invece che a sinistra, “La mensa è per di qua.”
“Ah.”, disse lui, seguendola a testa bassa, con le mani in tasca.
Quando entrarono nella sala, il silenzio tra i due sembrò contagiare tutti gli altri. Circa ottanta paia di occhi si spostarono su di lui e la quiete fu rotta dall’alzarsi di un brusio generale. Tom, sentendosi squadrato da capo a piedi, fece un passo indietro e inizò a rifiutarsi di entrare.
“Andiamo, fregatene di loro! Tra una settimana ci avranno fatto l’abitudine. Adesso sono un po’ eccitati…”, gli disse Erin.
“No, non ho fame.”, si punto Tom.
“Assolutamente no, tieni!”, fece Erin, prendendo il vassoio di plastica e mettendoglielo sulle mani.
“Erin!”, esclamò Gero, agitando la mano dal fondo della sala per farsi vedere.
“Arrivo subito!”, fece lei. Prima però doveva far rispettare le regole.
“No.”, ripetè lui, facendo cadere il vassoio a terra.
Mentre rimbalzava e si posava rumorosamente sul pavimento, le bocche bisbiglianti si chetarono di nuovo.
“Raccoglilo e mettiti in fila.”, disse lentamente Erin, sotto voce.
“No.”, disse Tom, infilandosi nel corridoio.
Lo raggiunse che stava quasi per prendere l’ascensore e tornarsene al terzo piano. Incavolata per la figuraccia che le aveva fatto fare davanti a tutti, afferrò una ciocca dei suoi tanto amati rasta ed iniziò a tirarlo con forza.
“Ahi! Mi strappi i capelli!”, gridava l’altro, mentre cercava di non perdere l’equilibrio, camminando all’indietro.
“Adesso vieni a mensa, ti prendi tutto quello che c’è da mangiare, ti siedi al mio tavolo e non ti azzardare a dire no.”, disse lei, continuando a camminare e a tirare.
“Lasciami! Sei una deficiente!”
“Ha parlato il signor intelligenza.”
Non lasciò la presa nemmeno quando, una volta tornata a mensa, tutti rimasero a bocca aperta a guardarla. Sapevano che Erin era capace di fare di tutto, ma quella mossa li aveva proprio tutti stupiti. Anche il personale della mensa si era fermato ad osservare la scena.
Erin che teneva Tom Kaulitz per i capelli.
“Le vedi tutte queste persone, Tom? Le vedi tutte queste persone?”, gli diceva, con voce molto alta e sicuramente poco amichevole, “Stanno tutte male come te. Ma non hanno la prepotenza di essere trattate come re o come regine. Ricordati queste parole: qua dentro non sei nessuno. Nessuno.”
Dette quelle amare parole lasciò la presa, lo aveva umiliato di fronte a tutti.
“Adesso prenditi un vassoio e riempilo.”, disse lei.
Per molto tempo non volò una mosca, tutti trattenevano il fiato. Una volta che entrambi avevano la loro cena sui vassoi, andarono in fondo alla sala, dove Gero li aspettava.
Tom, seduto accanto a Erin, ma ad una certa distanza, aveva lo stomaco chiuso dalla rabbia. Non gli era mai successo di essere trattato in quel modo, mai. Avrebbe voluto infilarle la forchetta nella mano, ma era di plastica e le avrebbe fatto solo un po’ di solletico.
Lui non era nessuno, era Tom Kaulitz.
E gliel’avrebbe fatta pagare cara.
“Scusa Erin… per oggi…”, disse Gero alla sua amica, rompendo il ghiaccio, ricordandole del bisticcio che avevano avuto qualche tempo prima che lei riacciuffasse Tom nel boschetto.
“No… dai, andiamo, hai ragione… si fa sempre quello che voglio io.”, disse lei, pentitasi del suo brutto carattere..
Umpf…”, fece Tom, sentendo quelle parole.
“Ti ho detto di parlare?”, sentenziò Erin.
Stringendo la forchetta di plastica, Tom non rispose e, anche se avrebbe voluto piantargliela nella gola, si limitò a farlo con la bistecchina che aveva nel piatto.
“Hai parlato con Bebel?”, le domandò poi Gero.
“Sì… sempre i soliti discorsi…”, rispose lui, facendo spallucce.
“Mi ha rammentato vero?”, disse Gero, con soddisfazione.
“Come no…”
“E cosa gli hai risposto?”, fece lui, sorridendo.
“Niente… non credo in quello che dice. Ma cambiamo discorso.”
“Chi è Bebel?”, chiese Tom, infrangendo il voto di silenzio a cui era stato costretto.
“E’ uno degli psicologi della clinica.”, rispose lei, dandogli poca importanza..
“E cosa ti ha trovato? Sindrome da schizofrenia acuta?”, fece Tom, irriverentemente.
“Stai zitto.”
“Perchè una sicura di sé come te deve andare dallo psicologo?”, chiese l’altro sarcasticamente.
“Qua tutti siamo seguiti costantemente da degli psicologi.”, disse Gero, guardandolo con tutto il disprezzo che provava nei suoi confronti, “Anche tu lo sarai.”
“Io? Io non ho problemi mentali!”, esclamò lui.
Erin e Gero si guardarono e sospirarono, pensando a quanto fosse gonfiato quel ragazzo. Quello sì che aveva dei veri fantasmi con cui lottare. Lo ignorarono e tornarono a chiacchierare tra loro.
“Hai disegnato qualcosa oggi?”, fece Gero.
“Certo, ti faccio vedere.”, disse Erin, prendendo il piccolo taccuino, contenuto dalla grossa tasca della sua felpa. Lo aprì alle ultime pagine.
“Mah… solo fiorellini? Non è che stai diventando Biancaneve? Dov’è finita la strega cattiva?”, fece lui, esaminando i disegni dell’amica e prendendola in giro.
“E dai! Siamo in primavera!”, si giustificò l'altra, imbarazzata.
“Cacchio Erin, mi stai facendo venire il diabete.”, disse Gero, mettendosi un dito in bocca per imitare il gesto di provocarsi il vomito.
“Posso vederli?”, domandò Tom.
“Mangia e stai zitto.”, disse Erin, tornando a chiacchierare con Gero.
Non si fece più sentire e toccò a malapena il suo cibo, tanto era arrabbiato.
Dopo la cena i due grandi amiconi si trattennero in sala tv, a scambiare parola con gli altri, mentre lui se ne tornò in camera. Sdraiato sul letto, imbracciò la sua chitarra e si mise a strimpellare, per trovare un po’ di pace.
Rimase solo per diverse ore, a rimuginare su se stesso e sulla sua vita, arrivando sempre alle solite conclusioni.
Erano gli altri a sbagliare, non lui.
Chiuso nella stanza, a luce spenta, con la tenda tirata, stava quasi per addormentarsi con la chitarra in mano quando Erin entrò nella stanza ridendo, insieme al suo simpatico compagno di giochi.
Sssshhh!”, fece lui, entrando, “Mi sa che sta dormendo…”
“Speriamo…”, rispose lei, sempre sottovoce.
Entrarono senza accendere la luce, ne entrava abbastanza dalla finestra da illuminare discretamente l’intera stanza.
Tom appoggiò con molta cautela la sua chitarra a terra, cercando in non fare nessun rumore e i due sembrarono non sentirlo. Li sentì mettersi sul letto, le molle fecero rumore; i due iniziarono a chiacchierare bisbigliando.
“Che ti ha detto poi Bebel? Voglio sapere se ha usato altri termini rispetto ai soliti.”, domandò di nuovo Gero alla ragazza.
“Mi sembra che abbia detto che ‘finchè non ti metterai in testa che determinati tipi di amicizie non possono far altro che danneggiarti sarai condannata a soffrire del tuo male per tutta la vita’… niente di nuovo quindi.”
“Non riesco proprio a capirlo… non mi sembra che ci stiamo danneggiando a vicenda.”, fece l’altro, “A me poi ha detto che in te sublimino la mancanza di mia madre… pensa un po’”
“No! Questa non la sapevo!”, fece lei, mettendosi a sghignazzare.
“Sì… non bastava che io, per te, fossi una proiezione mentale di tuo fratello! Ora tu per me saresti mia madre!”
“Già… che famiglia di merda.”, disse Erin, soffocando le risate.
“Proprio così!”
Tom pensò che i due fossero davvero proprio esauriti, ma non avrebbe voluto essere in altri posti che lì. Voleva riuscire a sentire qualcosa di utile, che poteva utilizzare magari per trarne dei favori…
Che strano rapporto che avevano, pensava.
Sperò di non sentirli mentre facevano sesso, altrimenti si sarebbe ribellato. Oppure si sarebbe premuto il cuscino contro la faccia per soffocare!
“Domattina vieni in palestra?”, chiese Erin al ragazzo.
C’era anche una palestra?, pensò Tom. Non lo sapeva!
“No, non ho voglia. Mi sa che farò un salto al corso di scrittura creativa.”, rispose Gero.
“Ma non erano esauriti i posti?”
Scrittura creativa… bleah!, pensò Tom.
“Vado a vedere se qualcuno si è dato per malato… altrimenti devo andare al secondo piano, tra gli zombie…”
“Per il cielo, meglio di no… senti, visto che l’altra volta ti sei rifiutato…”, sentì dire ad Erin, scandendo queste ultime parole con tono languido.
“No, Erin, non ci penso neanche!”, si oppose Gero.
“E dai…”, fece lei, implorandolo.
“No, va sempre a finire male.”
“Andiamo… Gero… ti faccio il solletico…”, disse Erin, facendo la vocina da bambina.
Ecco, era arrivato il momento di voler scomparire nel niente, si disse Tom. Si voltò su un fianco e si chiuse il cuscino sulla testa, non voleva sentire niente di quello che stavano per fare quei due.
“E va bene…”, fece lui.
Ci fu un certo periodo di silenzio, i due si mossero sul letto.
“Ecco… proprio lì…”, disse Erin.
“Così?”
“Sì… proprio così…”, fece lei, con voce abbastanza languida.
Oh cazzo, fece Tom, premendosi ancora di più il cuscino sulle orecchie.
“Gero… come lo fai te non lo fa nessuno…”
“Ma abbassa la voce o quello si sveglia…”
“Chissene… adesso un po’ più su… più forte…”
Non ne poteva più, non gli interessava se i due non avevano altro posto per scopare se non quella stanza. Almeno avessero avuto un po’ di ritegno! Bastava gli avessero chiesto di andarsene per un po’, di lasciarli soli, non bastava certo una tenda per fermare tutti i rumori!
“Ancora un altro po’?”, chiese lui.
“Certo che sì… continua ancora…”
Tom balzò sotto al letto e scostò improvvisamente la tenda, per coglierli sul fatto. Ma invece di trovarli uno sopra l’altra, oppure viceversa, vide Gero con in mano il piede destro di Erin. Rimase alquanto deluso nello scoprire che lui le stava semplicemente massaggiando la pianta del piede.
“Embè?”, fece Gero, “Ti abbiamo disturbato?”
“Sembrava quasi che voi…”, balbettò Tom, che era caduto in uno stato di imbarazzo molto evidente.
“Che noi cosa?”, fece Erin, “Ah! Aspetta, tu pensavi che noi…”
Lo disse, indicando alternativamente se stessa e il suo amico. I due si guardarono per un attimo e scoppiarono in una risata quasi isterica.
Tom, infastidito, si sdraiò sul lettino, senza ritirare la tenda, con le mani dietro la testa. Certo che quei due ragazzi erano proprio strani, sempre insieme… e poi erano talmente antipatici! Chi si credevano di essere? Erano solo due psicotici che volevano rovinargli totalmente la vita.
“Vorrei dormire, è possibile rimandare il momento del massaggio ai piedi ad un’altra sera?”, fece Tom, una volta che si furono calmati.
“Dai Erin, lasciamo che il poppante dorma le sue otto ore. Se si sveglia e piange è perchè vuole mangiare.”, disse Gero, alzandosi dal letto.
“Devo mettere il biberon a sterilizzare?”, chiese Erin, continuando sulla scia dell’amico.
“Buonanotte!”, disse seccamente Tom, alzandosi e tirando con forza la tenda.
“Notte Gero…”, fece Erin, ricevendo come risposta una mano alzata.
Entrambi, protetti dalla stoffa nera e pesante, si infilarono il pigiama alla luce della luna piena, in silenzio. Erin soffocò uno sbadiglio con la mano e si buttò sul letto. Era stata una giornata abbastanza movimentata e la stanchezza gli era calata improvvisamente addosso quando Gero aveva lasciato la stanza. Al calduccio del piumoncino, si voltò su di un fianco e rannicchiò le gambe al petto.
“Fammi capire una cosa…”, disse Tom, quando comprese che l’altra si era messa a letto.
“Che c’è…”, fece l’altra, con la voce ovattata dalle coperte che le coprivano la faccia.
“Ma tu e l’altro… insomma…”
“No.”, fece lei, secca.
“Ma allora perchè siete sempre insieme?”
“Conosci la parola amicizia o forse l’hai gettata nel cesso insieme alla tua vita?”, chiese l’altra, con tutta l’intenzione di ricevere una risposta positiva alla seconda domanda.
L’altro sbuffò, infastidito da tutto l’astio che gli era stato gettato addosso. Cavolo, lui sapeva seccare una persona con rispostacce, ma lei poteva vincere il nobel!
“Vabbè… lasciamo perdere. A domani.”, disse lui, rinvolgendosi con le coperte.
“A proposito, domani devi seguire scrupolosamente il tuo programma di cura.”, fece Erin, “E’ tutto scritto su un foglio, te lo hanno dato?”
“Quale foglio?”
“Gesu… un foglio con un grafico, sulle colonne ci sono scritti i giorni, sulle righe le ore. Dall’incrocio tra il giorno e l’ora puoi vedere…”
“Lo so cosa è un grafico e lo so cosa è un programma… solo che non so dove l’ho messo!”, fece l’altro, alzando innervosito il tono della voce.
“Benissimo… allora domattina tiralo fuori e lo guardi. Non ti azzardare a mancare un altro incontro.”
“No, mammina.”, fece lui, storpiando la voce.
Che antipatica e che bisbetica…
Dunque, dove lo aveva messo quel foglio? Forse era nel suo comodino. Accese la piccola lampadina che stava attaccata alla testata del letto e iniziò a frugare nel cassetto.
“Buonanotte!”, tuonò l’altra.
“Un momento, cerco il foglio…”
“Cercalo domattina!”


Aria fresca, aria leggera, aria. Le passava sulla faccia, le accarezzava delicatamente la pelle e le faceva il solletico sulle guance. Le venne di aprire le braccia, come per poter stringere forte a sé il vento. Poi si chiese dove poteva essere, l’aria sembrava profumare di lavanda.
Aprì gli occhi, ma non vide lo sterminato campo punteggiato dal violetto della lavanda, che le ricordava tanto un viaggio fatto nella Provenza francese quando aveva sei anni.
C’era solo una grande fossa, un precipizio infinito e nero.
Le dita dei suoi piedi già assaggiavano parte di quel vuoto e tanti piccoli sassolini già vi finivano inghiottiti.
Represse un urlo, non aveva nemmeno il coraggio di gridare aiuto. La voce non le usciva, si sentiva soffocare, ma ancora il profumo della lavanda le entrava nelle narici. Si portò le mani alla gola, cercò di liberarsi il petto da quella presa invisibile ma fortissima.
Poi il ghiaccio dietro la nuca, qualcosa che le veniva premuto contro la testa. Volle voltarsi ma già sapeva che avrebbe trovato l’uomo con il fucile, pronto a spararle in piena faccia se non si fosse gettata nel vuoto.
Ma le sue gambe erano diventate improvvisamente autonome e lei si voltò
Vide i due buchi, i due occhi del fucile, neri. Un vago odore di bruciato e di polvere da sparo, poi di nuovo la lavanda.
Ma perchè la lavanda? Che cosa c’entrava la lavanda? Quando aveva fatto questo sogno, l’altra notte, non c’era tutto questo profumo… Perchè?
Poi, all’improvviso, comprese: il suo sguardo andò al di là dei buchi della canna del fucile e l’uomo, di cui prima non conosceva l’identità, adesso non si nascondeva più dietro il calcio dell’arma. Ma stava lì, a guardarla.
Era suo fratello Ben.
“Ciao Erin.”, fece lui, in tono molto cattivo.
Sentì il cric del grilletto, poi il tonfo dello sparo. Erin si trovò seduta sul letto, occhi sbarrati, fronte bagnata.
E urlò.
“Cazzo!”, fece Tom, improvvisamente svegliato dal grido della sua compagna di stanza.
Balzò giù dal letto e scostò la tenda, preso dalla paura. Quell’urlo, in mezzo alla notte, gli aveva fatto gelare il sangue nelle vene.
“Ma qui non c’è nessuno!”, disse, vedendo la camera vuota.
Erin, sul letto, guardava fissa il pavimento, ansiamando.
“Va… tutto bene?”, le chiese Tom.
“Sì…”, disse lei, tra un respiro pesante ed un altro.
“Vuoi che ti prenda un bicchiere d’acqua?”
“No… no, faccio da sola…”
In stato semi catatonico, Erin scese dal letto e se ne andò in bagno, chiudendosi dentro. Tom, non comprendendo il perchè di quello che stava succedendo, non potè fare altro che cercare di dormire di nuovo, anche se doveva ammettere che si era preso una bella paura. Non gli fu facile riprendere sonno.
Erin, seduta con la schiena contro la porta, riviveva ogni istante di quel terribile sogno.
La lavanda… era il profumo preferito di suo fratello, ne metteva sempre un sacchettino nella sua stanza, per mascherare l’odore del fumo delle sue sigarette.
Un lacrima inseguì l’altra sulla sua faccia.
Rimase per un po’ lì, cercando di dare una spiegazione a quel sogno, a quel dannato sogno.
Suo fratello… Ben…
Sentì bussare alla porta, con un gesto rapido si asciugò le lacrime.
“Che c’è?”, fece, seccata.
“Niente… mi chiedevo solo se stavi bene…”, disse Tom.
“Sì, adesso torno a letto.”
“Senti, lo so che ci stiamo antipatici e ci odiamo, che abbiamo i nostri buoni motivi per farlo eccetera eccetera… ma, cavolo, se ogni notte mi sveglierai con queste  urla mi farai morire di infarto a ventidue anni!”, disse Tom.
“Sei uno stronzo egoista, vaffanculo.”, rispose Erin, “Non sai un cazzo di me, tornatene a letto e non mi rompere più le palle.”




Eccovi il terzo capitolo... mannaggia, sta storia mi fa vedere i sorci verdi!!!!! Mi raccomando ragazzi, recensite recensite recensite

CowgirlSara: infatti, come dici tu, la storia non è per niente nel vivo... non so nemmeno se ci entrerà davvero, te l'ho detto anche per msn... cacchio quanto è difficile! Speriamo di non fare un brutto lavoro! Ne chiacchieriamo su msn!... non ci crederai, ma stanotte ho sognato veramente Bill con il boa ed il sottofondo della Rettore... più che un sogno è stato un incubo....

sososisu: già, è vero, la speranza è sempre l'ultima a morire! Chi lo sa, ancora non ho le idee ben chiare sull'evoluzione della storia, ma non credo che succederà qualcosa tra i due... vabbè, vedremo cosa penserà la mia mente malata! Ci dovrei essere io in clinica! Per quanto riguarda la notte di fuoco non saprei se riuscirò a fare qualcosa, ma non sarebbe una cattiva idea! Comunque sarà di sicuro più divertente raccontare delle loro furiose litigate! Chi lo sa a cosa penserò quando finirò questa? Grazie per la recensione!

Carillon: ho già scritto di Tom senza i rasta nella storia 'Last night a rocker saved my life'! Sì, è vero, non sarebbe lo stesso, ma starebbe molto meglio, secondo il mio piccolo parere... spero che non partano coltelli nella mia direzione da parte delle altre sfegatate fans... grazie per la recensione!!!

Ruka88: altro che pane per i suoi denti! Pane duro soprattutto, pane di una settimana prima! No, Tom con Bea proprio no, tanto l'ho fatta uscire di scena, i protagonisti veri sono il terzetto cetra, Geller-Lang-Kaulitz. La tendina separatrice ci sta bene, anche perchè non credo che nelle cliniche ci sia tutta questa promiscuità, e servirà spesso ai due per suggellare la fine di una litigata! Grazie per la recensione e alla prossima!!!

Lidiuz93: chi furono Erin, Gero e Tom lo scoprirai più in qua, un po' di suspance ci sta bene! Ma non saranno rose e fiori, piuttosto spine e dolori! Vedremo verso il quinto capitolo cosa succederà... mi raccomando, stai in linea! Grazie mille!

Fly: che bella e lunga recensione! Mi mancavano di così lunghe! Grazie, mi ha fatto molto piacere quello che hai scritto! E' vero, io ho la fissa per cercare di scrivre qualcosa di diverso da tutti gli altri e, dato che le idee stanno incominciando ad essere sempre le stesse, ho cercato di isolarmi dal gruppetto degli 'amori felici' per scrivere qualcosa di epicamente tragico e drammatico... per adesso non ne sto cavando le gambe e la storia si sta protraendo con poche soprese e pochi avvenimenti importanti... spero solo di non scrivere una boiata, altrimenti non me lo perdonerei! No, hai ragione tu, Tom ed Erin sono due poli negativi di due calamite diverse, un paragone che utilizzerò anche nella storia, e non si toccheranno mai. Si avvicineranno, ma c'è sempre uan forza magnetica che li allontana... e questa forza si chiama brutto caratteraccio di entrambi! Eccoti il terzo capitolo, per adesso sto postando ogni tre giorni come ho sempre fatto perchè sono riuscita ad avvantaggiarmi... ma credimi che è un'impresa! Mi serve Hercules! La tredicesima fatica!!! Grazie mille per la recensione!!!!

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Capitolo 4
*** Gardening hour ***


GARDENING HOUR



Il programma di Erin comprendeva tanti tipi di attività, ulteriori a quelle mediche. La clinica si impegnava molto nel creare passioni per i suoi pazienti e per questo cercava di offrire una vasta gamma di ‘attività parallele’, citando le esatte parole che stavano scritte sul sito della clinica.
Di solito erano corsi di un’ora alla settimana, a numero chiuso, tenuti da un esterno, cioè da una persona che non aveva a niente a che fare con la clinica e che lo faceva spesso per volontariato. Dei corsi disponibili, o meglio, dei corsi rimasti liberi l’ultimo giorno disponibile per le iscrizioni, Erin aveva scelto per primo quello di pittura, non c’era da dubitare. Fu fortunata perchè era già esaurito, ma riuscì a corrompere un’altra paziente e a farla spostare da un’altra parte. Quello durava più di un’ora a settimana, infatti le occupava la mattinata del lunedì e il pomeriggio del mercoledì. Poi si era dovuta accontentare di un’ora di giardinaggio il venerdì, due ore di corso di computer al martedì mattina e al giovedì mattina un’altra ora di francese per turisti svogliati. In mezzo a questi impegni vari, ci stavano le ore di analisi psicologica e medica.
Quella mattina era venerdì e, come ogni venerdì da sei mesi a quella parte, doveva essere pronta, alle nove, per presentarsi alla tediosissima ora di giardinaggio, tenuta da una signora sulla settantina che a Erin ricordava tanto la signora Fletcher, la scrittrice detective più sfigata dell'universo televisivo.
Scese in sala mensa con Gero, ma senza la scorta, cioè senza il suo adorato compagno di stanza; gli aveva detto semplicemente ‘buongiorno e non fare cazzate.’ Tom le aveva risposto con un grugnito che sembrava voler dire ‘che palle’. Provava un certo imbarazzo dopo quello che era successo durante la notte e non voleva che lui iniziasse a disturbarla con migliaia di domande la poca quiete che aveva disturbato il suo sonno. Ricacciò in un angolo della mente il ricordo del sogno e cercò di sembrare il più normale possibile.
Gero notò la poca loquacità dell’amica e sperò che non fosse dovuta a quell’idiota, altrimenti gli avrebbe staccato tutti i dread in un colpo solo.
“Cos’hai che non va stamattina…”, le chiese, “Se è colpa di quel coso che hai in camera…”
“No, non c’entra nulla lui… sono io. Il mio problema sono io stessa, Gero.”, disse Erin, mentre infilzava il suo yogurt alle mele con il cucchiaino, senza però mangiarlo nemmeno un po’.
“Questo è uno dei motti della clinica, Erin, ma non giustifica quella faccia distrutta…”
“Grazie per l’interessamento Gero… ma ci devo ancora riflettere…”, rispose lei.
“Ci vediamo in palestra allora?”, le disse lui, ricordandole la chiacchierata della sera prima.
Un improvviso colpo di realtà si infranse contro Erin.
“Non posso... il venerdì ho lezioni di giardinaggio!”, disse lei, piombando nello sconforto, "Ieri sera me ne sono dimenticata...."
“Già… beh, allora ci vediamo a pranzo?”, fece lui, un po’ deluso.
“Mi sa di sì…”
“Allora buona lezione!”
“E tu buona palestra!”
Insomma… per chiamarla palestra ci voleva tanto coraggio: un salone con sei cyclette, due tapis roulant e un po’ di specchi. I due di solito ci andavano quando non avevano niente di meglio da fare, cioè quando proprio erano a corto di idee, altrimenti non ci avrebbero mai messo piede. Di solito veniva utilizzata dai vecchietti del secondo piano per la riabilitazione e quindi non era un posto divertente per due ragazzi.
Prima di andare alla lezione fece di nuovo un salto in camera, doveva prendere il materiale necessario. Notò con piacere che Tom non c’era più, ma notò con altrettanto dispiacere che la camera era un disastro a metà. La zona di Erin era perfettamente a posto, quella di Tom era un porcile e la tenda fungeva da separatore tra le due realtà. Sperò con tutto il cuore che quella bastarda della Berbel, un’infermiera che nessun malato voleva avere, non passasse per il controllo casuale dello stato delle camere…
Aprì la finestra per far entrare un po’ d’aria e prese dal suo armadio il lungo grembiule incerato a protezione delle macchie, le due ginocchiere per stare comodamente in posizione, le forbici da pota e il cappellino di paglia. Si sciolse i lunghi riccioli e si guardò allo specchio con il cappello in testa: sembrava una vera contadinotta!


Si alzò quando la porta della camera fu chiusa dalla psicolabile con cui divideva la stanza. Andò verso il bagno e si fece una doccia veloce, senza tenere conto che stava ritardando enormemente per la colazione. Una volta fuori si vestì, mise il suo inseparabile cappellino e, con tutta la tranquillità del mondo andò in sala colazione.
Alle nove e mezza, ora in cui lui mise piede dentro alla mensa, non trovò nessuno, tranne un’inserviente che dava lo straccio.
“Hey, ma qua non si serve la colazione?”, chiese alla donna.
“Certo, 45 minuti fa.”, rispose lei, lasciando la sua mansione e appoggiandosi al manico dello spazzolone per osservare quello strano ragazzo. Capelli lunghi, cappellino… prima o poi la direttrice lo avrebbe rimesso in riga, pensò la donna.
“Ah… non è che si può fare uno strappo alla regola?”, disse lui, avvicinandosi a lei.
“No, mi dispiace tanto, ma è troppo tardi… e stai camminando sul bagnato!”, ringhiò la donna, appena la punta della scarpa del ragazzo si appoggiò su una mattonella ancora umida.
“Ops…”, fece lui, indietreggiando, “Andiamo, sto morendo di fame…”
“No, adesso puoi andare.”, disse la donna, tornando a dare lo straccio.
Tom sbuffò, aveva un buco nero al posto dello stomaco e quella donnaccia schifosa con la retina sulla testa si sarebbe meritata un bel calcio in culo per la sua simpatia. Poteva provare a corrompere qualcuno, ma non gli sembrava il caso, ancora doveva conoscere l’ambiente del terzo piano per farlo. Al primo oramai sapeva chi era suscettibile a corruzione e chi no, lo aveva capito presto ed era in quel modo che era riuscito a farsi dare una bottiglietta di alcol… ma quella stronza di Erin gliel’aveva bevuta sotto il naso! Doveva ancora fargliela pagare per quello.
Si ricordò anche del monito della mattina: ‘Buongiorno e non combinare cazzate’, gli aveva detto. Che palle, ora doveva anche farsi sottomettere da lei.
“Signor Kaulitz… dove sta andando?”, gli chiese qualcuno alle sue spalle.
Si voltò, era la direttrice, con quei suoi occhialini da mostro sul naso.
“Beh… sto tornando in camera.”, disse lui, con serenità.
“In ritardo per la colazione?”
“No, a dire il vero no.”, rispose lui, facendo il finto tonto.
“Ad ogni modo si ricordi del suo programma. Le perdono di aver saltato un giorno, ma al prossimo sgarro ci sarà una bella punizione per lei.”
“Sì… mi scusi tanto…”, fece lui, con una certa riluttanza.
“Bene… qual è il suo prossimo impegno?”
Ecco la domanda fatidica, quella con cui si sarebbe sputtanato.
“Devo… controllare in camera… ho lasciato lì il programma e non mi ricordo bene.”
La direttrice lo guardò un attimo, senza dire niente, poi fece un lungo sospiro rassegnato, prese un foglio dalla cartellina che aveva in mano e glielo porse.
“Certo che non si può ricordare… non gliel’ho ancora dato. Adesso vada subito dal dottor Bebel, è già in ritardo di dieci minuti.”
“Ah… grazie mille…”
La direttrice riprese a camminare per il corridoio, il ticchettio dei suoi tacchi era assordante. Guardò il foglio, venerdì mattina, ore nove e venti, incontro con il dottor Bebel. Era scritto a caratteri cubitali. Dopo veniva il turno di un’attività a scelta, anche per il pomeriggio. Insomma, nemmeno un momento per stare in pace…
Andò al quarto piano, dove c’era lo studio del dottor Bebel.
“Buongiorno signor Kaulitz.”, gli disse l’uomo, quando lui vi fu entrato. Lo accolse con una stretta di mano e un sorriso sulla faccia.
“Buongiorno…”, rispose lui.
“Prego, si sieda sul divano e si metta comodo. Non importa se è arrivato in ritardo, ma cerchi di essere più puntuale la prossima volta.”
“Non lo dimenticherò.”
“Molto bene!”, disse l’uomo, sempre sorridente, “Allora, Tom… posso chiamarti così?”
“Oh, certamente.”
“Tom, parlami un po’ di te.”, gli disse l’uomo, mentre prendeva la sua stilografica e iniziava a sfogliare il taccuino.
Era già stato altre volte dagli psicologi, ma non aveva mai capito quali erano le parole giuste che doveva dire loro per farsi dire che era perfettamente sano.
“Beh… suono in un gruppo strafamoso, mi piace la mia vita e non ho niente da ridire su quello che faccio.”
“Suoni ancora nei Tokio Hotel?”
“Sì… beh, ora che sono qui non ci suono più, ma appena ne esco, e spero sarà presto, tornerò con loro, non ci sono dubbi.”
“E com’è il rapporto con gli altri membri della band?”
“Abbastanza buono. Siamo amici.”
“Potresti andare più sullo specifico? Tanto per farmi capire chi sono. Sai, non vi conosco bene, anche se non posso dire lo stesso di mia figlia.”, disse l’uomo, sorridendo ancora.
Tutti quei sorrisi amichevoli gli stavano facendo saltare l’umore...
“Beh, diciamo che ultimamente non siamo andati molto d’accordo… ma la colpa non è mia, sono loro che si vogliono intromettere sempre in quello che faccio.”
“Perchè dici che si intromettono?”
“Mi voglio divertire e loro dicono di no; voglio andare ad una festa e loro dicono di no; voglio scopare e loro dicono di no… non sapevo di avere tre mamme, una è già sufficiente!”
“Quindi mi stai dicendo che non ti trovi molto bene con loro.”
“Sì, diciamo che è così.”
“E i rapporti con i tuoi familiari?”
Tom sbuffò, infastidito da quelle domande troppo personali.
“Ma cosa gliene importa? Non le basta sapere cosa ho sognato stanotte e se ho mai visto i miei fare sesso?”, gli disse.
“Tom, con questo atteggiamento non credo che potremo andare molto d’accordo.", disse l'uomo, togliendosi gli occhialetti dal naso, "Devi cercare di farmi capire che cosa ti sta succedendo altrimenti…”
“Lo vuole sapere davvero cosa mi sta succedendo?”, fece lui, innervosito ancora di più, “Ecco, glielo dico subito, quello stronzo di mio fratello mi ha voltato le spalle e mi ha fatto rinchiudere in questo posto del cazzo perchè dice che sono un alcolizzato, quando invece non è vero! Voglio andarmene da qua e spaccargli la faccia, dirgli che è un pezzo di merda!”
Il dottor Bebel non si scompose davanti all’esplosione di rabbia del ragazzo, si limitò solo a segnare un paio di cose sul suo taccuino con la sua lucente penna stilografica. Il ragazzo aveva ancora tanti di quei nodi da sbrogliare, pensò, doveva impegnarsi molto per fargli capire che non erano gli altri ad aver sbagliato. Ancora era allo stadio in cui non riconosceva il suo problema, in cui pensava che fosse innocente e che non ci fosse niente di male in bere qualcosa… invece non era per niente così…
“Sei molto legato a tuo fratello, vero?”, gli domandò.
Tom non seppe rispondere a quella domanda, rimase semplicemente in silenzio, a guardare per terra.
“Se non sbaglio siete gemelli…”, disse il dottore.
“Sì… ma non ci parliamo più da almeno due mesi.”, disse lui, con un filo di voce.
“E come mai?”, gli chiese.
Sapeva che stava per causare un’altra vampata di rabbia, ma doveva andare a fondo.
“Perchè… mi odia. E lo odio anche io.”
“C’è un motivo a questo odio?”
“Senta, dottore, non le dispiace se la finiamo qui, per stavolta?”, gli chiese Tom.
Non aveva voglia di parlare di quella cosa, aveva bisogno di altro tempo per rifletterci e, soprattutto, lui era un estraneo.
“Va bene, non ci sono problemi, anche se abbiamo parlato solo per sette minuti… allora ci vediamo lunedì, alla solita ora.”, disse l’uomo, alzandosi e andando ad aprire la porta.
Il ragazzo non fece altro che andarsene, senza dire altro, né salutarlo. Aveva solo voglia di starsene da solo, in camera. Non voleva vedere nessuno tranne la sua faccia nello specchio. Chi se ne fregava del programma, era tutta una perdita di tempo.
Lui non aveva nessun problema.
Eppure gli venne una certa voglia… voglia di bere, voglia di stare bene, voglia di non pensare a nulla, voglia di svuotarsi la mente. Prese l’ascensore e andò al primo piano, doveva trovare quel signore che gli aveva procurato quella bottiglietta. Si ricordava che la sua stanza era poco distante dalla porta dell’ascensore, quindi, una volta al primo piano la cercò. Ma non dovette perdere tanto tempo, perché lo trovò che stava camminando nel corridoio.
“Hey…”, disse Tom, per attirare la sua attenzione.
“Ah, sei tu…”, fece l’uomo, “Mi hai portato un bel guaio.”
“Cosa?! Non ho fatto niente!”, disse Tom, cercando di capire cosa volesse dirgli l’uomo.
“Certamente… vattene, ho già avuto un richiamo disciplinare per quella bottiglia che ti ho dato.”, fece l’uomo, sussurrandoglielo con rabbia sulla sua faccia, “E non te ne darò altre, non sei capace nemmeno di nascondere le cose.”
Dette quelle semplici parole, l’uomo se ne tornò per la sua strada, aumentando il passo. Non voleva farsi vedere con lui.
Tom, pervaso da una rabbia incontenibile, dette un calcio al cestino dei rifiuti, facendolo cadere rumorosamente a terra, con una fitta sul fianco. A fanculo tutti, pensava, mordendosi il labbro inferiore, tanto da farselo quasi sanguinare. Riprese l’ascensore e se ne andò in camera. Adesso più di prima voleva fargliela pagare a quella deficiente, che avendo fatto la spia alla direttrice gli aveva escluso ogni possibilità di trovare una via di scampo a quell’agonia.
Chiuse la porta e vi mise a contrasto della maniglia una sedia, come aveva fatto qualche giorno prima, tanto per essere sicuro che non vi entrasse nessuno, cogliendolo sul fatto. Quelle cazzo di serrature non avevano una chiave e non potevano essere bloccate! Andò verso il comodino di Erin e, benché volesse buttare tutto a terra, non volendosi far scoprire, cercò di fare il più delicatamente possibile. Aprì il cassetto e vi dette una rapida occhiata, ma non gli sembrò di vedere niente di interessante: c’era un pacchetto di chewing gum, poi una scatoletta con dentro qualche smalto per le unghie, del nastro adesivo e il suo lettore mp3. Aprì anche lo sportellino sotto il cassetto ma, a parte un paio di pantofole e il suo pigiama, non c’era nient’altro.
Andò verso il suo armadio: poche paia di pantaloni, tante magliette, giacche e felpe. C’era qualche cassetto, colmo biancheria. Per curiosità, prese un reggiseno e controllò la taglia: beh, niente male, aveva una quarta, ma con tutte quelle t-shirt larghissime non sembrava affatto. Lo ripose, ripiegandolo con cura, e guardò gli altri tre cassetti. La sua attenzione fu catturata da uno di questi in particolare, perchè era tenuto chiuso da una striscia di nastro adesivo da pacchi marrone.
Bene bene, pensò Tom, non era proprio un sistema di sicurezza infallibile, ma c’era sempre il problema di come non farsi scoprire. Non dovette pensarci all’infinito perchè si ricordò che ce n’era un rotolo nel comodino. Riuscì a rompere il sigillo e ad aprire il cassetto senza molti sforzi e, una volta sedutosi davanti ad esso a gambe incrociate, ne controllò con molta cura il contenuto.
C’era un piccolo scrigno, con qualche intarsio sul coperchietto, che racchiudeva qualche gioiello: orecchini, un paio di anelli, due braccialetti e una collana di perle bianche. Che spirito retrò, pensò. Lo richiuse e lo appoggiò per terra.
Poi c’era una scatola da scarpe: conteneva una medaglietta di argento, vinta ad una corsa ad ostacoli organizzata per beneficenza da un’associazione; una coroncina tutta piena di brillanti di plastica, forse era un ricordo di una festa di carnevale; un’audiocassetta con una targhetta che diceva ‘le prime parole di Erin’. Sicuramente erano state ‘fottiti stronzo’, si disse Tom, ridendo tra sé e sé. E poi c’era anche un papillon, di cui non sapeva spiegarsi l’origine.
Ripose anche quella scatola e guardò ancora dentro al cassetto, per trovare qualcos’altro. C’era qualcosa, nascosto nel fondo, allungò la mano e lo afferrò. Era un album di fotografie.
Le cose si stavano facendo interessanti, pensò. Non sapeva che cosa vi avrebbe trovato, ma era abbastanza fiducioso.
La prima pagina conteneva la scritta: ‘This is Me’, poi iniziavano le fotografie, che ritraevano Erin nelle pose più strane: mentre mandava un bacio, mentre era a cavallo oppure durante il giorno del suo quindicesimo compleanno. Non sembrava nemmeno la persona che aveva conosciuto, era anche molto carina, sempre sorridente. Non c’era una foto in cui non spuntavano i suoi denti e la sua bocca non fosse completamente spalancata in una vera risata.
Poi, dopo una fotografia in cui la vedeva vestita da coniglietta di Playboy, e che gli fece venire a mente diversi pensieri molto poco puliti, ci fu un’altra pagina bianca, con la scritta ‘This is You’. Le fotografie seguenti erano state invece scattate ad un ragazzo, che lui non aveva mai visto prima. Il suo fidanzato, pensò. Anche lui era sempre sorridente, quasi gli pareva che somigliasse ad Erin. Aveva i capelli molto corti, quasi rasati, e spesso veniva ripreso mentre si toccava la testa, come se fosse un tic nervoso od una posa voluta.
Poi un’ultima pagina bianca, ‘Me and You’ e sotto una sola foto: Erin ed il misterioso ragazzo, lei che lo abbracciava dal dietro. Doveva essere molto innamorata di lui, pensò, per fare un album così smielato. Meno male che lui non aveva mai ricevuto regali inutili del genere. Non sapeva di cosa farsene di quello che aveva visto, ma forse gli sarebbe potuto tornare utile. Questo fu il suo ultimo pensiero, il bussare alla porta lo aveva interrotto.
“Chi è?”, domandò, un po’ scocciato.
“Ah, c’è qualcuno dentro?”, fece una voce, al di là della porta.
“Altrimenti per quale motivo avesti bussato?”
“Per educazione.”, disse la voce, poi la maniglia si abbassò.
Non potette entrare, c’era ancora la sedia a contrasto.
“Un momento…”, fece Tom, alzandosi per andare a toglierla.
Quando scostò la porta non si trovò davanti una vista molto piacevole: un’infermiera, sguardo poco amichevole, un centinaio di chili addosso.
“Desidera?”, le domandò Tom.
“A dire il vero non desidero niente.”, rispose la donna.
“Beh… allora qual è il motivo della sua visita…”, fece Tom, perplesso.
“Vedo che non ha letto nemmeno una pagina del regolamento.”, disse la donna, avanzando di un passo verso di lui per fargli capire di volere entrare.
Tom si spostò, non volendo essere schiacciato da quella donna immensa. Appena lei fu dentro la stanza, dette un’occhiata rapida e tirò fuori dalla tasca del suo camice un taccuino ed una penna.
“Ma quanto disordine che abbiamo qui…”, disse lei, “Questo sì che è un problema.”
“Disordine? E’ la mia stanza, la tengo come voglio.”
“Eh no, caro il mio Tom Kaulitz. Qua dentro ognuno deve impegnarsi a tenere in ordine le proprie cose o va contro il regolamento.”
Che palle questo cazzo di regolamento!, si disse Tom.
“Ok, adesso metto a posto.”, fece lui, andando verso il letto per riassettare le coperte, lasciate penzoloni per terra.
“Oramai il danno è fatto. Letto disfatto, vestiti in giro, scarsa pulizia…”, fece la donna, mentre continuava a scrivere sul taccuino. Cavolo, sembrava una poliziotta che multava un’auto in divieto di sosta!
“Anche la sua compagna di stanza non è stata molto ordinata ultimamente…”, fece poi lei, guardando verso l’armadio di Erin,  “E’ abbastanza strano… combina ogni genere di guai, ma non ho mai trovato nemmeno un granello di polvere sul suo comodino. Ma non le dirò niente, stavolta gliela perdono.”
“Beh… c’è una prima volta per tutto.”, disse Tom.
Meno male che la donna, in un gesto di magnanimità, aveva detto che non ne avrebbe fatto parola con Erin, altrimenti tutti gli sforzi fatti per non farsi scoprire sarebbero andati in fumo.
“Allora ragazzo, questi vestiti sporchi… non sai che c’è una lavanderia, in fondo al corridoio? Ogni volta che devi fare il bucato devi pensarci da solo… ”, disse la donna.
Lavare e stirare, non era mica una donna delle pulizie, pensò Tom. Che vita di merda che facevano in questa clinica…
“Perfetto, ispezione finita, riceverà notizie molto presto… ma non ha da fare nient’altro che stare in camera?”, gli chiese lei.
Tom, per paura che la donna si segnasse anche ogni minima parola che diceva, prese il foglio dell’orario che aveva in tasca e lo guardò.
“Veramente ho… attività parallela…”
“Mmm… e quindi?”, chiese la donna.
“Beh… sono arrivato l’altro ieri, dovrò pure avere del tempo per ambientarmi!”, disse Tom.
“Ragazzo, fallo in fretta o ti metterai nei guai…”, disse la donna, poi, tirando un lungo sospriro, prese a spiegargli cosa erano le attività parallele.
“E tra quali attività posso scegliere?”, domandò Tom.
“Ne sono rimaste poche, forse ti toccherà fare la solita cosa tutte le volte. Si scelgono a gennaio e a giugno… e siamo a maggio.... Comunque ti conviene andare dalla direttrice per sapere cosa c’è rimasto per te.”



“Adesso prendete la pianta e mettetela dentro il vaso… in questo modo…”, stava dicendo la signora Dunkel, mentre prendeva la sua calla e la travasava.
Erin pensò che non era poi male quell’ora di giardinaggio: era abbastanza rilassante, noiosa ma non troppo. Anche se la signora Dunkel sembrava stesse per tirare il calzino da un momento all’altro, le sue lezioni erano sempre così tranquille che le infondevano un po’ di pace.
Ma in un attimo, tutta la calma che aveva se ne andò in fumo.
Se ne stava con la testa china sul vaso, mentre faceva una buca sul terriccio del suo vaso che avrebbe ospitato la sua piantina, quando sentì dare il benvenuto ad un nuovo partecipante al corso. Non ci fu nemmeno bisogno di alzare gli occhi per capire.
Le due ragazze accanto a lei, Lorna e Anna, si misero a ridacchiare e a bisbigliare tra loro.
“Cavolo quanto è figo…”, disse Lorna, “L’altro giorno volevo provare ad attaccare bottone, ma c’è sempre quella stronza della Popper a tenerci il fiato sul collo.”
“Hai ragione… vorrei proprio sapere se è  vero quello che si dice in giro di lui…”, disse Anna.
“E cioè?”, fece l’altra, con sguardo malizioso.
Anna distanziò gli indici di circa una quindicina di centimetri e forse anche di più.
“Ah… sei sempre la solita troia.”, le disse Erin, che aveva dovuto sorbirsi l’insulsa conversazione tra le due.
“Ha parlato la stronza reale.”, rispose Lorna.
Nel mentre, la signora Dunkel si era avvicinata ad un Tom che avrebbe voluto essere in capo al mondo piuttosto che trovarsi bloccato in uno stupido corso di giardinaggio. Con le mani in tasca e lo sguardo annoiato, ricevette tutte le attenzioni della donnina.
“Buongiorno giovanotto. Come ti chiami?”, disse, una volta che gli fu accanto. Sembravano nonna e nipote; lei lo guardava dal basso, tanto era piccola di statura.
“Tom.”, rispose lui.
“Molto bene Tom, io sono la signora Dunkel e queste sono le mie ragazze. So che ti troverai un po’ a disagio, essendo l’unico ragazzo su quindici donne, ma non credo che ti dispiacerà alla tua età!”
Guardò le partecipanti del corso…
Qualcuno lassù gli stava portando sfiga, si disse Tom.
Quelle più giovani avevano sessant’anni per gamba, erano più decrepite della signora Funkenfanken. Poi c’erano un paio che potevano essere benissimo sua madre e tre ragazze di un’età accettabile. Meno male, pensò, almeno poteva svagarsi un po’.
Appena il suo sguardo si posò su due di loro, arrossirono e si contorsero in risolini. L’altra, invece, se ne stava ancora intenta a lavorare sul suo vaso, con i suoi riccioli che le offuscavano totalmente il volto. Che maleducata, si disse, nemmeno lo aveva salutato con un cenno della mano, come avevano fatto tutte le altre.
“Molto bene Tom, adesso scegliti una compagna, che ti insegnerà i trucchi basilari del giardinaggio mentre noi riprenderemo la nostra lezione. Va bene?”, disse la signora Dunkel.
“Mh.”, boborttò Tom, facendo spallucce.
Poi tornò con lo sguardo sulle due ragazze e scelse la mora, sembrava più carina dell’altra.
“Ha scelto me! Ha scelto me!”, disse Anna a Lorna, che non poteva negare di provare una certa invidia per l’amica.
Come un’oca eccitata, si mise a ridere e ad esultare
Qualcuno lassù le stava portando sfiga, si disse Erin.
“Molto bene Tom, hai scelto una ragazza molto brava in quello che fa.”, disse la signora Dunkel, “Adesso vai da lei.”
Sempre scoglionato ma un po’ contento dall’idea di poter giocherellare con una ragazza, Tom si avvicinò a lei. Anche se non era molto attraente con quel cappello di paglia in testa, il lungo grembiule verde e i guanti, sembrava accettabilmente carina.
Erin si calzò il cappello sulla testa e si spostò di lato, per fargli posto, sicura che lui non l'aveva nemmeno notata, oppure che la stesse totalmente ignorando.
“Ciao… io sono Anna…”, disse lei, con voce tremante, porgendogli la mano.
“Ciao…”, fece lui, stringendogliela.
Con la coda dell’occhio, Erin guardò lo stupido sorriso che la ragazza aveva in faccia e si chiese quanto altro potevano essere idiote quelle della sua età. Era sicura che Anna avrebbe fatto di tutto per togliersi quella curiosità centimetrica che aveva su di lui.
“Allora… Signora Dunkel? Da dove posso cominciare?”, chiese Anna.
“Con la semina.”, rispose lei, mentre girovagava tra le altre donne per controllare il loro lavoro.
“Bene… allora…”, fece Anna, “Vado a prendere i semi nella serra.”
Alle loro spalle c’era una piccola serra, che conteneva alcune piante anche tropicali. Lì dentro venivano riposti tutti gli arnesi del mestiere. Si trovava alla sinistra dell’edificio, vicino al confine con il boschetto: loro erano tutti intorno ad un grande tavolo di legno e, mentre attendeva l’inizio della sua prima lezione di giardinaggio, Tom fece l’errore di prendere una paletta a punta che giaceva inutilizzata sul tavolo.
“Posala immediatamente.”, rispose la ragazza, quella ricciola maleducata, che non lo aveva salutato.
Riconobbe subito il tono acido di Erin, in quelle parole.
“Gesù… sei sempre nel mezzo come il mercoledì.”, disse Tom.
“E’ il giovedì che è sempre in mezzo, scemo.”, disse lei, prendendogli di mano la paletta che le serviva per tamponare il terriccio.
“Con quella cesta di capelli e quel cappello in testa quasi non ti si riconosce…”, fece lui, “E da una parte è un  bene.”
“Tom!”, lo chiamò l’altra ragazza, l’amica di quella che stava nella serra e di cui non si ricordava già il nome.
Lui si voltò e le sorrise, facendole salire il cuore in gola.
“E tu sei?”, le chiese.
“Lorna… sono l’amica di Anna.”
“Molto piacere… dimmi una cosa, questa qua è sempre così acida?", le chiese, indicando Erin con un cenno della testa, "Non è che ha bisogno di un bel maschio che la faccia addomesticare?”, attirando qualche occhiataccia dalle altre signore e facendo invece sorridere la ragazza.
“Sì… non l’ho nemmeno mai vista sorridere. E’ sempre cattiva con tutti, a parte con quella piattola dei Gero, il suo amico…”, disse Lorna, posandosi con fare civettuolo una mano sulla bocca.
“Chiudi quella fogna Lorna.”, fece Erin, mentre con tutta la gentilezza del mondo infilava l’amorevole piantina di geranio dentro al vaso.
“Stai zitta tu invece!”, rispose l’altra.
“Signorine, vi prego, basta! Siete sempre a becchettarvi l’una con l’altra!”, disse la signora Dunkel, arrivata in quel momento proprio per frenare un possibile litigio, “E poi, Erin, questa povera piantina morirà di sicuro, guarda come l’hai travasata! Tutte le radici spuntano dalla terra…”
Erin sospirò, cercando di non utilizzare la sua paletta come arma impropria, né su Tom né su Lorna. Anche se entrambi se lo meritavano, raccolse tutta la calma e perfezionò il suo lavoro, seguendo i pazienti consigli della vecchietta rimbambinita.
“Ecco, ho i semi e…”, fece Anna, arrivando al tavolo quasi di corsa.
Si interruppe quando vide la sua carissima amica del cuore che flirtava con l’oggetto dei suoi desideri, facendole andare il sangue al cervello.
“Hey, Lorna, fatti più in là.”, le disse, seccamente, posando sul tavolo una bustina di semi ed un nuovo vaso pieno di terra.
“C’è qualcosa che non va Anna?”, le chiese lei, molto sarcasticamente.
“Sì, ci sei tu che non vai.”, rispose Anna.
“Ecco le due galline che si contendono il gallo!”, esclamò Erin, applaudendo, dopo aver concluso il suo travaso.
“Lui ha scelto me, quindi arrenditi all’evidenza!”, fece Anna, dando un colpetto all’amica sulla spalla e facendole perdere quasi l’equilibrio. Tutte le donne voltarono gli occhi sulle due e le guardarono, scandalizzate, chiedendosi il perchè di quella reazione spropositata.
“Ah sì? Non mi mettere le mani addosso!”, rispose l’altra, spingendola e facendola cadere a terra.
“Sangue! Sangue! Sangue! Sangue!”, diceva nel frattempo Erin, battendo le mani ritmicamente e ridendo.
“Anna! Lorna! Ma dove pensate di essere!”, gridò la signora Dunkel, con una voce talmente stridula che fece quasi rompere i timpani alle donne vicino a lei, “Avanti, entrambe dalla direttrice!”
Erin, interrompendo il suo coro da stadio un attimo prima che la Dunkel irrompesse nello scontro, si vergognò delle due, così tanto amiche e pronte a rinnegare tutto per uno come Tom. Che stupide, pensava, era fortunata ad avere un cervello funzionante. Le due, a capo basso e braccia conserte, andarono verso l’edificio, rosse in faccia per la vergogna.
“Ma sono tutte così le ragazze con cui hai a che fare?”, chiese Erin a Tom.
“Di certo sono meglio di te.”, rispose lui.
“Tom, scegliti un’altra compagna,”, disse la signora Dunkel, mentre si tamponava la fronte con un fazzoletto per via dello sforzo immane che aveva fatto nell’alzare la sua voce a quel tono, di solito sempre molto bassa e calma. "Questa volta che abbia un po’ di ritegno personale."
Dovendo scegliere tra la nonna con la dentiera e da una sua possibile mamma, Tom dovette buttarsi con riluttanza sulla sua peggior nemica.
“No.”, disse Erin, capendo la sua intenzione.
“Ti prego… come mi hai detto tu l’altro giorno, veniamoci incontro e tutto si risolverà.”, disse Tom, cercando di essere convincente.
“Non siamo in una favola di Walt Disney.”, rispose lei.
“Andiamo… poi la prossima volta scelgo di nuovo Amelia e non ti romperò più.”
“Anna.”, fece Erin, sottolineando la sua dimenticanza.
“O Lena.”
“Lorna… per caso sai che io non mi chiamo Erika?”
“Certo… Erin…”, disse Tom, pronunciando ogni lettera del suo nome con lentezza.
“Avanti! Insegnali a seminare i fiori!”, esortò la signora Dunkel, dall’altra parte del tavolo.



L’ora del pranzo arrivò così lentamente che Erin stava quasi per ingoiare una manciata di terra per togliersi da quell’impiccio. Cercando di essere seria in quello che faceva, spiegò a Tom come si faceva la semina, ma lui si distraeva ogni attimo. Guardava in giro, in alto, giocherellava con le dita, si toccava i capelli, si lamentava della terra che gli sporcava le mani ed i vestiti, sembrava farglielo apposta… Lei si trattenne ogni volta che le veniva in mente di prendere la paletta ed piantargliela nella mano, arrivando a grattare in fondo al piccolo contenitore della sua pazienza per trovare un briciolo di calma. Lo richiamò almeno una decina di volte, ma alla fine sembrò aver capito la differenza tra spargere i semi sulla terra come si vede fare nei film e infilarli ordinatamente nel terreno.
Quando la signora Dunkel disse che la lezione era finita, Erin tirò un sospiro di sollievo, non lo sopportava più. Sembrava ci prendesse gusto a fare l’idiota e a distrarsi e questo la faceva più incavolare del resto.
“Adesso c’è il pranzo, stammi almeno a cento metri di distanza.”, gli disse, mentre andavano verso l’edificio.
“Mi spieghi cosa ti ho fatto stavolta?”, fece lui.
“Prima hai fatto di tutto per farmi saltare i nervi e mettermi in ridicolo davanti alle altre donne… e stanotte non ti sei fatto gli affari tuoi!”, rispose Erin.
“Scusami se, nel cuore della notte, mi sono preoccupato per una stronza come te che sembrava avere dei problemi… non lo farò più, te lo posso giurare su quello che ho di più caro!”
“Il tuo pisello?”
“Certamente.”
“Allora sono sicura che manterrai la promessa.”
Lui non le rispose neanche, tanto non valeva nemmeno perderci tempo con una come lei. Mentre lui andava direttamente a mensa, lei fece un salto in camera a togliersi la divisa da ‘perfetta giardiniera’.


In fila al bancone, dette una rapida occhiata alla sala mensa per trovare Gero e Bea, ma vide solo lui, come sempre in fondo alla stanza, accanto alla finestra.
“Allora? Come è andata oggi?”, le domandò Gero, quando lei si fu seduta davanti a lui.
Erin lo guardò e lui comprese.
“Male.”, indovinò il ragazzo.
“Peggio.”, aumentò Erin.
“Male male.”, rincarò l'altro.
“Ancora di più.”, definì Erin, “Hai presente quello straccio da pavimento che ho la fortuna di avere in camera mia?”
“Purtroppo sì.”, sospirò Gero.
“E’ peggio di una zecca… me lo sono trovato alla lezione della Dunkel.”, disse Erin, mentre cercava di mangiare il riso al pomodoro che aveva sotto il naso.
Gli spiegò per filo e per segno tutto quello che le aveva fatto.
“Ah si? Avrei voluto essere una mosca per essere lì a vederti mentre cercavi di ucciderlo!”, disse Gero, ridendo.
“Sì, bravo, tu ridi, io nel frattempo me lo vedo spuntare ovunque… è peggio dell’erbaccia… Però devo dire che per un po’ è stato divertente vedere Lorna ed Anna che stavano per menarsi per lui!”
“No, Erin, questa proprio non me la dovevo perdere per niente al mondo!”, disse Gero, spalancando gli occhi e la bocca, “Insomma, quelle due stanno sempre insieme, vivono insieme, mangiano insieme, dormono insieme…”
“E ora guardale…”, disse Erin, indicandogliele con la forchetta.
“Cacchio… che sciupafemmine…”, fece Gero, guardando le due migliori ex amiche che stavano sedute agli opposti di un lungo tavolo, lanciandosi occhiate di odio e disprezzo.
“Eccolo, si parla del diavolo…”, disse Erin.
Tom stava venendo nella loro direzione, con il vassoio in mano. Oramai la sala mensa era quasi piena e gli unici posti liberi erano rimasti quelli del tavolo di Erin e Gero di quello dietro al loro. Di solito non vi si sedeva nessuno insieme a loro, a parte Bea... non erano molto simpatici agli altri ragazzi del terzo piano.
“Posso sedermi?”, chiese lui, sapendo che comunque la risposta sarebbe stata negativa. Forse avrebbe fatto meglio a non chiederlo e a farlo e basta, pensò, ma ormai lo aveva detto.
Gero scosse la testa, Erin gli indicò con un cenno il tavolo alle sue spalle, libero per metà ed occupato da un gruppetto di ragazzi, che prontamente si restrinsero per fare posto a Tom. Lui, anche se avrebbe voluto versarle addosso tutto il suo cibo, si sedette in silenzio. Aveva una certa fame e non voleva di certo sprecare il pranzo in quel modo; magari un’altra volta lo avrebbe fatto.
“Ma parliamo d’altro… com’è andata in palestra? E poi non dovevi andare al corso di scrittura creativa?”, domandò Erin, riprendendo la chiacchierata con Gero
“No, alla fine ho cambiato idea…”, disse lui, mentre intingeva una patatina nella maionese, “E tu? Come va… stanotte ti ho sentito sai…”
“Sentito cosa?”, fece Erin.
“Ti ho sentito…  quando hai gridato…”, disse Gero, sottovoce per non farsi sentire da orecchi indiscreti.
Eppure uno di questi, afferrando la parola ‘gridato’ si sintonizzò sulla loro conversazione.
“Ah…”, fece lei, non sapendo cosa rispondere.
Per tutta la mattina aveva cercato di tenere la mente sgombra dai suoi pensieri e ci era riuscita abbastanza bene, anche se doveva ammettere che era stato grazie a Tom e alle sue patetiche birbonate vivaistiche.
“Lo hai sognato ancora vero?”, disse lui, mangiucchiando la patatina.
Gero sapeva che, se Erin gridava in piena notte, era solo per un motivo…
“Sì… cazzo, non succedeva più da quanto? Quattro mesi?”, fece lei, lasciando perdere il suo riso e mettendosi la faccia tra le mani.
“Dai, Erin, è solo perchè questa faccenda del tutorato ti sta scombussolando l’equilibrio… vedrai che appena ti calmerai non succederà più.”
“No, Gero, stavolta sento che è diverso…”, fece Erin, spostando il vassoio verso il lato vuoto del tavolo, avendo ormai perso totalmente l’appetito.
“Perchè dici così?”
Lei si avvicinò a lui e gli parò del sogno.
“Prima sognavo una sola cosa… l’incidente… solo quello, lo rivivevo e basta. Adesso invece tutto è cambiato… lui ce l’ha con me, lo sento, per quello mi puntava quel coso addosso!”
“Andiamo… cosa vuoi che sia un sogno del genere!”, disse Gero, cercando di minimizzare la situazione.
“Ben sta tornando a perseguitarmi.... Se lo sogno anche stanotte divento pazza!”, fece Erin, agitandosi.
“Non dire così Erin!”, la rimproverò l’amico, “E’ solo un sogno, non è nient’altro!”
Erin mise le mani sul tavolo e vi appoggiò la testa sopra.
“Perchè mi sta facendo questo….”, disse.
“Chi? Intendi lui?”, le domandò Gero, riferendosi a Tom.
“No… lui in fondo c’entra ben poco…”
Tom era riuscito a catturare una parola qua ed una là, ma aveva compreso che stavano parlando del motivo per cui Erin si era svegliata, nel cuore della notte, ed aveva fatto quell’urlo agghiacciante. Poi si era chiesto a chi si riferissero, chi era il Ben di cui aveva parlato Erin. Forse era il ragazzo delle fotografie, il suo fidanzato… E l’incidente. Erin glielo aveva accennato quando erano nel boschetto. Nella sua mente si immaginò che ai due fosse successo qualcosa di grave e che, forse, lui poteva essere deceduto. Se ne era stata veramente innamorata, era per quel motivo che Erin aveva passato tutti quei guai. Poteva essere un’ipotesi…
“Dico della direttrice… cazzo, è così bastarda da voler farmi rivivere questo inferno!”, si lamentò Erin, sul punto di scoppiare a piangere.
“Erin… parlale, vedrai che ti capirà e ti toglierà da questa storia.”
“Parlale un cazzo, Gero! Non vale nemmeno la pena provarci… a lei non importa un bel niente della mia salute mentale, le importa solo di farmi comprendere una lezione del cazzo sull’educazione… e mi affibbia questo deficiente… ogni santa volta che lo vedo mi fa tornare in mente tutto…”
A quel punto l’orecchio di Tom si fece così fine che poteva anche sentire il volo di una mosca dall’altra parte della stanza. Lui le ricordava qualcosa? E cosa?  Forse era per quello che non poteva vederlo senza che si incazzasse per niente.
“Non parlare così forte… ti sente…”, disse Gero.
“E chi se ne frega…”
“Andiamo Erin… ti porto in camera?”, le fece lui, vedendola abbastanza sconvolta.
“Sì, grazie… ma tu non hai nemmeno finito le tue patatine.”, disse lei.
“E chi se ne frega!”, rispose lui, imitando la sua riposta.
Una volta nella stanza, i due continuarono a parlare più approfonditamente di quello che stava passando Erin, sdraiati sul letto, l’uno accant all’altro.
“Lo ha detto anche Bebel… secondo lui non è giusto affidarmelo.”, disse Erin.
“E allora perchè la Popper non lo ha ascoltato? In fondo lo sanno tutti che non prende mai una decisione se va contro quello che pensa il suo amato Bebel…”, rispose l’altro.
“Non lo so… sono convinta solo che lei voglia farmela pagare… non c’entra nulla quella ‘cura’ di cui parla, lui non serve per rieducarmi, serve per farmi star male e basta. Affidarmelo è come parlare di corde in casa dell’impiccato!”
“Già… proprio una bastarda…”
Sentirono bussare alla porta e la conversazione fu interrotta.
“Sì?”, chiese Erin.
“Posso entrare nella mia stanza?”, chiese Tom.
“No.”
Indipendente dalla risposta negativa, lui entrò lo stesso e andò a sdraiarsi sul suo letto, tirando la tenda nera per toglierseli dalla vista. I due, impossibilitati nel continuare la loro chiacchierata, rimasero in silenzio.
“Ho interrotto qualcosa?”, fece Tom
“Sì… non hai nient’altro da fare?”, disse Gero.
“Vediamo…”, fece lui, tirando fuori il suo programma, “No, spiacente, ho tutto il pomeriggio libero e penso proprio che me ne starò qui a dormire un po’…”
“Rompipalle…”, fece Gero, “Andiamo da un’altra parte Erin?”
“Vorrei… ma sono molto stanca… ho bisogno di dormire un po’, stanotte non ho chiuso occhio…”, disse lei.
“A chi lo dici…”, fece Tom.
Gero volle lanciargli un’occhiataccia, ma la tenda nera non glielo permise. Una volta che Erin si accoccolataa sul letto le prese il bastoncino che le teneva fermo i capelli e glielo sfilò.
“Questo lo prendo io… così non lo userai come arma contro qualcuno di nostra conoscenza!”, disse Gero, ridacchiando, con in mano il bastoncino
“Ok… ci vediamo tra un po’…”, fece Erin.
“Ciao rospo!”, disse Tom a Gero, un attimo prima che lui se ne andasse.


Il pomeriggio trascorse velocemente. Appena Erin chiuse gli occhi cadde in un sonno così pesante che non fu svegliata nemmeno dai rumori fatti da Tom, che cercava di dare un senso di ordine alla sua pozione di camera. Una volta rifatto il letto come meglio poteva, si mise a raccogliere gli abiti che lui considerava sporchi, cioè quelli messi per un solo giorno, già bastava per essere da gettare nella lavatrice e via. Li ammonticò sul letto e, seguendo il consiglio datogli sia da Erin che dalla donna cannone, prese il libretto del regolamento e se lo lesse. Visto che aveva il pomeriggio libero, poteva rendersi utile a se stesso e fare il bucato!
Saltò tutte le regole noiose sui comportamenti vietati e lesse che la lavanderia poteva essere utilizzata ad ogni ora del giorno, dalle otto del mattino fino alle nove di sera. La stanza si trovava dall’altra parte del corridoio: imbracciò i suoi panni e vi si recò, cercando di non investire nessuno mentre camminava, dato che la visuale era ostruita dai suoi pantaloni.
Una volta arrivato nella lavanderia, cercò una macchina libera, tra tutte quelle funzionanti. Vi appoggiò la montagna sporca sopra e cercò di comprendere a cosa servivano tutte quelle manopole e quei bottoncini.
“Ti serve una mano?”, disse una voce spuntata dal nulla, pensava di essere solo lì dentro. Apparteneva ad una ragazza, una biondina, carina… insomma, scopabile ma non troppo.
“Sì… sai, non sono abituato a questo genere di cose.”, disse Tom.
“Ti aiuto io… mi chiamo Ada.”, fece lei, porgendogli la mano e mostrando un sorriso malizioso a cinquanta denti.
“Molto piacere, Tom.”, rispose lui, stringendogliela e ricambiando il sorriso.
“Beh… lo so chi sei, ovviamente.”, fece lei.
“Non lo avevo capito.”, fece Tom, cercando di non essere troppo sarcastico.
“E’ vero che sei in camera con la pazza?”, disse lei, sedendosi sulla lavatrice accanto alla sua e facendo scattare una determinata molla in testa a Tom… e non solo in testa.
“Sì… purtroppo è la mia tutrice, o qualcosa del genere.”, comprendendo che la pazza era il simpatico nomignolo che la ragazza aveva affibbiato ad Erin.
“Simpatica eh?”
“Certamente, è la persona più gentile del mondo.”, disse lui, con ironia.
“E’ così con tutti, con me forse anche di più. Mi odia e non so perchè, non le ho fatto mai niente di male.”
“Potrei provare a chiederglielo, ma non siamo in buoni rapporti ultimamente…”, disse Tom, facendola ridere.
“Dai, smettiamo di parlare di lei, ti insegno come si usano questi aggeggi infernali.”, fece la ragazza.
Davanti alla lavatrice, gli spiegò che la manopola centrale era quella della temperatura dell’acqua e gli consigliava di tenerla sempre intorno ai 40 gradi, così non faceva troppi danni ad i colori dei vestiti. Poi gli disse che l’altra manopola era quella che programmava il lavaggio: la doveva sempre posizionare su ‘delicati’, e andava sul sicuro.
“Poi vai a quel distributore là in fondo, premi il bottoncino blu e ti darà una bustina di detersivo in polvere.”, disse lei, indicandoglielo con un dito.
“Questo pulsante qui?”, chiese lui, una volta di fronte alla macchinetta.
“Sì… lo metti dentro alla lavatrice, è fatto di una plastica che si scioglie con l’acqua e non lascia tracce… premi questo pulsante e fine, pronta la lavatrice.”
“Wow, facile!”, disse Tom.
In fondo non ci voleva la scienza infusa per lavare i vestiti… magari se fosse stato abile sarebbe anche riuscito a farlo fare a qualcun altro, anzi, a qualcun’altra così gentile e carina come questa Ada.
“Poi c’è l’asciugatrice, qui alle nostre spalle.”, disse lei, iniziando a complicare le cose.
Gli spiegò come si usava anche quella e Tom decise che era meglio riuscire a farsela amica, molto amica, questa Ada. Magari anche a farsela e basta…
“Quindi la lezione è finita?”, chiese lui, una volta finita la delucidazione sull’asciugatrice.
“Eh no, alla fine devi anche stirarteli. Quella porta laggiù, ci sono una decina di ferri da stiro che ti aspettano.”
Ecco, le ultime parole famose.
“Cacchio… io non ci sono davvero abituato a tutto questo!”, disse Tom, grattandosi la testa, o meglio, il cappellino.
“Dai, stavolta sono così gentile che lo farò io per te.”, fece lei.
Com’era facile avere a che fare con queste ragazze! Ma soprattutto, non si era nemmeno dovuto sforzare più di tanto per ottenere quello che voleva.
“Beh, però voglio una cosa in cambio.”, disse Ada, guardandolo molto maliziosamente.
In fondo, un bacio poteva anche essere una buona ricompensa per un’azione così cortese da parte sua, pensò Tom, così le prese il viso e le dette un piccolo bacio sulla bocca.
“Quando hai finito li porti direttamente in camera mia?”, le chiese dopo.



Quando Erin aprì gli occhi era pomeriggio inoltrato: si sentì rilassata ma ancora un po’ stanca, le ci sarebbe voluto del caffè per riprendersi da quella lunga dormita pomeridiana a cui non era abituata. Si stiracchiò un attimo prima di alzarsi e di ricomporre le coperte sul suo letto, si sentiva il collo e la schiena tutti indolenziti. Lanciò un’occhiata alla stanza e notò con piacere che era stato ristabilito un certo ordine. I motivi per cui era successo erano sicuramente due: o qualcuno lo aveva fatto per Tom, oppure era passata l’ispezione. Fu molto propensa per la seconda opzione, tipi come lui non erano di certo abituati ad arrangiarsi da soli e, se lo facevano, era perchè si trovavano con l’acqua al collo e qualcuno ce li aveva costretti. Che patetico, pensò Erin.
Mentre cercava il suo bastoncino sul comodino e si ricordava che lo aveva preso Gero, la porta della stanza si aprì. Si voltò per vedere chi fosse il suo visitatore: era Ada, preceduta da un carico non indifferente di vestiti.
“Cosa ci fai qua?”, le chiese la ragazza.
“Beh… è camera mia…”, rispose Erin, con tutta calma.
“Non sei ad architettare qualche scherzo stupido per farmi stare male?”, fece l’altra, acidamente.
“Cavolo! Hai anticipato i programmi che avevo per stasera... e adesso come farò?”, disse Erin, con la sua solita irriverenza, “Cosa sono quegli abiti?”
“Sono di Tom… glieli appoggio sul letto.”, rispose l'altra, seccamente.
“Non mi dire che ti sei presa la briga di fare il bucato per lui…”, disse Erin, comprendendo il perchè lei si trovasse lì.
“Beh… poverino, è appena arrivato, lui di certo non ha mai fatto una cosa del genere e ho pensato che era gentile da parte mia dargli una mano. Mica come te che stai sempre a incazzarti con lui!”, rispose l’altra, disturbata dalle parole di Erin.
Li mise sul letto con delicatezza e poi uscì dalla stanza, mentre Erin era rimasta ammutolita da quello che aveva sentito.
Una persona normale, in un posto del genere, deve farsi tutto da sola: pulire la stanza, lavarsi i panni e stirarseli… Lui, solo perchè aveva un nome conosciuto, scansava tutto questo?
Ma d’altronde, cosa poteva aspettarsi da uno come lui… sicuramente l’aveva abbindolata con qualche parolina dolce e lei, abboccata al suo amo, c’era rimasta stecchita. Questa proprio doveva raccontarla a Gero.
Nel mentre lo cercava nella clinica, ebbe la sfortuna di incontrare la direttrice.
“Oh! Signorina Geller, cercavo proprio lei!”, disse la donna, con un sorrisetto soddisfatto che si opponeva alla faccia annoiata di Erin, “Volevo parlarle un attimo, mi segue nel mio ufficio?”
Cacchio, pensò Erin, se non avesse avuto tra i piedi quella piattola di Ada sicuramente avrebbe evitato questo brutto incontro. Senza dire una parola seguì la donna dentro l’ascensore, fin dentro il suo studio.
“Allora, Erin, ti volevo convocare per chiederti come sono stati questi primi giorni di tutorato. Lo so che è ancora presto, che sono passati solo due o tre giorni, ma voglio le tue prime impressioni.”, disse la donna, una volta che si furono sedute, una di fronte all’altra, intorno ala scrivania.
Erin autocensurò le prime parole che le vennero in mente e cercò un tono molto più diplomatico e adatto a quella conversazione.
“Beh… direi che per adesso non vanno tanto bene. Diciamo che da parte di Tom non c’è molta collaborazione e si diverte a farmi scappare la pazienza.”, disse Erin.
“Mmh… e in altre parole?”, chiese la donna, che voleva andare al di là del primo scudo di ipocrisia per sapere la verità.
“Senta, direttrice, io glielo dico con il cuore in mano. Secondo me affidarmelo è stato un errore. Anzi, le dirò di più, farlo venire qui è stato un errore: qua dentro ognuno deve pensare alle proprie cose, mentre lui non riesce nemmeno a gestire se stesso! Vuole continuare a vivere come ha sempre vissuto, cioè come una star, ma ancora non ha capito un bel niente di come si sta qua dentro! Glielo ripeto, signora Popper, è un errore.”
“Hai provato ad entrare in contatto con lui? A cercare di parlare la sua lingua?”
“Come no, certo che ci ho provato, ma le parole gli entrano in questo orecchio e gli escono nell’altro. Se gli fa comodo, mi sta a sentire, altrimenti fa come gli pare. Oggi è venuto a dirmi che possiamo convivere in una sorta di tregua… le stesse parole che ho usato io qualche giorno prima, però nel frattempo fa di testa sua e mi fa mettere quasi nei guai.”
La donna la guardò intensamente dentro agli occhi, poi appoggiò la schiena alla sua poltrona di pelle e mise le mani sui braccioli. Poi fece una breve ma pungente risata.
“Cosa… cosa ho detto di divertente?”, chiese Erin.
“Tutto! Tutte le parole che hai usato sono divertenti, per me.”, disse la donna.
“Sono su candid camera? Dov’è la telecamera?”, fece Erin, con fredda ironia.
“Qui.”, fece la direttrice, passandole una cartellina di plastica, senza targhetta.
Erin la guardò un attimo, poi la aprì. Conteneva un mazzetto di fogli, scritti a macchina, erano relazioni fatte sugli incontri settimanali tra la direttrice e Lavina… che non era stata nient’altro che la sua tutrice, quando lei era entrata in clinica.
Afferma che la ragazza non la ascolta, che si comporta male e che pretende di essere trattata come una regina, sue testuali parole. Non si impegna in niente, è ostinata e si diverte a mettermi nei guai…’, lesse nelle prime righe del primo foglio. Avrebbe anche potuto continuare per tutta la sera con le restanti cinquanta pagine, ma capì per quale motivo la direttrice le stava mostrando tutto questo.
“Tu dici che lui non sa come si sta qui dentro,", le disse la direttrice, senza distogliere quel sorriso soddisfatto dalla bocca, "eppure anche tu eri come lui, hai fatto penare l’inferno alla povera Lavina e adesso ti arrabbi perchè tutto quello che hai fatto ti si sta ritorcendo contro? Tu e lui siete uguali… e scontrandovi capirete i vostri stessi errori.”, disse la direttrice.
Erin, disgustata da ciò che stava sentendo, richiuse la cartellina e la appoggiò sulla scrivania.
“Ho capito, signora Popper, ma non credo che il suo ragionamento sia molto razionale. Come sa, due poli dello stesso segno, mettiamo due più oppure due meno, non fanno altro che allontanarsi… quindi, per come la vede lei, se io e lui siamo uguali non potremo fare altro che scontrarci continuamente ed allontanarci sempre di più.”, disse sagacemente Erin,  che non sapeva molto di fisica tranne quei pochi concetti universali.
“Ed invece no… tu, come anche lui, alla fine arriverete ad aiutarvi a vicenda. Ne sono sicura.”, disse la direttrice, ripetendo la sua idea.
“Certamente… adesso posso andare?”, chiese Erin, che non pensava altro a quanto fosse stupida quella donna.
Non volle accennarle del fatto che aveva ricominciato a non dormire la notte per via dei sogni e che era colpa sua se stava succedendo. Sembrava così sicura che la sua teoria si sarebbe trasformata in pratica… E non voleva di certo smontare tutto il suo ego!
“Sì, puoi andare. Farai tardi per la cena.”




Allora, veniamo come sempre ai ringraziamenti!!!! In generale, mando a tutti un BBBBBACIO!!!!!!!!!

Ruka88: si, Erin sa essere fine come un elefante quando ci si mette... diciamo che non la vorrei come compagna di classe, sarebbe la bulla della situazione! Non so se azzeccherai sul passato di Erin, ma non penso, comunque dimmi cosa avevi pensato, magari mi sbaglio! xD grazie per la recensione!!!!

Sososisu: grazie grazie grazie, veramente lo ripeterò fino a che non mi direte 'dacci un tagli ruby!', questa storia è davvere complicata! Mi ci vuole abbastanza fantasia per parlare di cose del genere e una buona dose di canzoni deprimenti, tra cui annoverano rescue me, spring nicht... non importa che dica di chi sono vero? xD ci vuole anche lo stato d'animo giusto... non che sia depressa ultimamente xD anzi! Insomma, sta storia è un parto plurigemellare!

Starfi: ecco! Tu studiavi, leggevi la storia e ti sentivi meglio! Io, invece di studiare, scrivevo! Beh, noi universitari sembra che facciamo i disoccupati, invece... xD grazie mille per tutto, davvero! Scusa se sono breve, ma quello che volevo dirti è tutto scritto nella mail... grazie infinite per tutto quello che mi hai detto, mi fa veramente un mondo di piacere! Continua a seguire! Un bacio!

Lidiuz93: sì, sono d'accordo con te, Erin ha un caratteraccio che non sta simpatico nemmeno a me... e dire che Erin è una parte di me! Anche io so essere insopportabile, impertinente, maleducata e stronza come lei, ma non sempre! Oddio, detta così sembro un mostro! Ma la Silvia che scrive si ispira sempre a se stessa quando crea i suoi personaggi, altrimenti non sarebbero realistici! Non mi diverto a parlare di ragazze perfette, felici e simpatiche a tutti, anche perchè persone così me le mangio a colazione con i rigoli del mulino bianco! Se ti dicessi però come faccio ad avere queste idee... insomma, un  mago non rivela mai i suoi trucchi! Ma farò un eccezione: prima di dormire, appena sveglia  e sotto la doccia, questi sono i momenti in cui il mio cervellino pensa e ripensa! E ovviamente anche mentre scrivo! Un bacione!!!!

Fly: scrivi scrivi scrivi, parla parla parla, a me fa un casino di piacere vedere recensioni come la tua!  Allora, con calma: i due protagonisti, diciamolo, prima o poi riusciranno ad entrare in sintonia, ma già sintonia è una parola grossa. Non so come spiegarmi meglio, mi vengono in mente un milione di esempi ma sono tutti riduttivi... comunque vedrai nei prossimi capitoli! Attrazione? No, proprio no, ma il paragone tra la terra e la luna funziona, perchè si gravitano attorno ma non si incontreranno mai. Eccolo qua, l'esempio giusto, quello che hai usato tu! xD scoprirai presto cosa è successo ad Erin, ma Tom ci metterà un po' per capirlo... diciamo che è nel passato di Erin che si trova la chiave del legame che si instaurerà con Tom! Ecco, un'anticipazione che, per adesso, significa poco, ma quando leggerai, comprenderai! Come un indizio in un giallo, lì per lì lo scarti sembra inutile ma poi... Vabbè, ora ho parlato troppo! Mi aspetto che la tua prossima recensione sarà lunga come un tema! Scherzo xD scrivi quanto vuoi! Un bacione!!!

Billkaulitz85: ho letto la tua recensione un attimo prima che pubblicassi il capitolo! Odio e amore? Si, tra i due c'è proprio quello, ma non ci sarà amore, te lo posso assicurare! Grazie mille per la recensione!!!

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Capitolo 5
*** Revealing the past ***


REVEALING THE PAST




Così passò il primo dei sei mesi di clinica per Tom, il primo dei sei mesi di tutorato per Erin.
Ognuno poteva trarre un bilancio finale del tutto negativo da quella esperienza passata insieme: i loro rapporti erano sempre molto tesi, si parlavano solo se era strettamente necessario. L’uno non sopportava l’altro ed entrambi vivevano bene in quella situazione.
Tom era riuscito a cavarsela sempre in tutto, senza muovere un dito: erano in poche le ragazze, dotate di cervello autonomo e funzionante, che non avevano abbandonato la loro dignità ad un cenno della sua mano. La restante parte, invece, sembrava litigarsi il suo bucato e la pulizia della sua stanza. Ovviamente veniva tenuto tutto nascosto, se la direttrice lo avesse saputo le avrebbe punite tutte, compresa Erin, che non c’entrava niente ma che doveva fermare, in quanto sua tutrice, questo scempio all’onore femminile e alle regole della clinica. Sembrava incredibile a raccontarlo, ma c’era anche chi era venuta alle mani per lui…
Come in un pollaio, il gallo aveva formato il suo harem. Bastava essere a mensa per averne la prova: seduto, contornato da almeno quattro o cinque ragazze, mentre le altre, posizionatesi negli altri tavoli nelle vicinanze, aspettavano di poter prendere il loro posto. Anche gli altri ragazzi sembravano voler ad ogni costo accaparrarsi la sua simpatia: tra tentativi di emulazione, c’era chi cercava di mettersi in mostra, di farsi notare con un gesto o una bravata, che finiva quasi sempre punita a suon di proibizioni da parte della direttrice.
Tom, benché sembrasse spassarsela alla grande in quel posto, segretamente desiderava con ogni cellula del suo corpo di scappare da lì. Sapeva fingere magnificamente, eppure dentro di sé non voleva altro che fuggire e tornare alla sua vita. In tutto quel tempo non pensava altro che alle ingiustizie che stava passando e dentro di lui il rancore fermentava: si doveva sorbire noiose ore di cure psichiatriche, continui controlli medici, e poi doveva anche frequentare quello stupido corso di giardinaggio. Dato che le altre attività parallele erano tutte esaurite, la direttrice aveva avuto la magnifica idea di istituirne una fatta appositamente per lui. Appena circolò il foglio per le iscrizioni al corso di chitarra, tenuto appunto da Tom, in un totale di 3 nanosecondi tutti i posti erano già stati occupati. Almeno poteva fare ciò che gli piaceva, benché tutti quelli che partecipavano non ne capivano un cavolo di musica, secondo il suo autorevole pensiero. Insegnare la musica mattina e sera riusciva a calmare il suo spirito… e a distrarlo. Distrarlo da se stesso e dai suoi fantasmi, che continuavano a perseguitarlo.
A quanto tempo prima risaliva l’ultimo contatto con la sua famiglia? Due mesi, tre mesi fa?
Aveva avuto una conversazione molto sbrigativa con sua madre, lei gli aveva chiesto se si trovava bene, lui aveva risposto con ipocrisia che non aveva niente di cui lamentarsi e fine della chiamata. Era venuto a trovarlo, per portargli dei nuovi vestiti, qualche cd e dei libri, ma durante l’incontro Tom era stato molto schivo. Avrebbe voluto saltargli al collo e iniziare a piangere ma non lo avrebbe fatto per niente al mondo. La incolpava per aver appoggiato la decisione di Bill e per non aver fatto niente per capire che si stavano tutti sbagliando sul suo conto…
Per non parlare di lui… Bill, cazzo quanto gli mancava!
Gli mancava la sua presenza, gli mancava la sua risata, gli mancava la sua voce… ma non lo voleva ammettere nemmeno a se stesso. Cazzo, perchè gli aveva fatto questo? Perchè? Perchè lo aveva fatto rinchiudere lì?
Mai una telefonata da parte sua, mai niente. Nulla. Ogni sera andava nella saletta dove c’erano tutti i telefoni, cinque minuti, prendeva la cornetta, componeva il suo numero ma non aspettava nemmeno un attimo… e riagganciava.
E ogni volta che pensava a lui voleva bere… dimenticare… se solo avesse trovato qualcuno che poteva accontentare questo suo piccolo desiderio…


Erin, in quel mese, notò il declino morale del suo piano. Non che prima fosse stato al top del decoro… La sua salute psicofisica se ne’era andata quando lui aveva messo piede lì dentro: chiese più volte al dottore Bebel di premere affinché Tom venisse assegnato a qualcun altro, ma nemmeno lui poteva contrastare la ferrea volontà della direttrice. Ogni notte, ogni santa e fottuta notte, faceva quel cazzo di sogno, appena si addormentava. Così si svegliava, sempre, in preda al panico e alla paura, sudata, e non riprendeva più sonno. Tutto questo per colpa di Tom... Era aumentata la sua irascibilità e il suo cattivo umore, tanto che anche le litigate con Gero si prolungavano oltre i classici ‘stai zitto deficiente’ e ‘vaffanculo Erin’.
Bea si era allontanata da lei, dopo una brutta discussione che aveva avuto per protagonista, per l’appunto, il Tom della clinica. Lei aveva detto che le sarebbe molto piaciuto, in poche parole, portarselo in stanza e passare un bel pomeriggio a guardarsi platonicamente negli occhi. Erin le aveva risposto che, da quel momento in poi, poteva anche farsi fottere in tutte le posizioni del kamasutra, e non le aveva più rivolto la parola.
Gero, che aveva una pazienza infinita con lei, veniva spesso messo a dura prova dalla lunaticità della sua migliore amica. Bastava una piccola parola per farla saltare, una frase detta con il tono sbagliato e ‘pam!’ lei si incazzava come una belva e non gli parlava più per ore. Oramai era rimasto l’unico a starle accanto, tutti gli altri venivano spaventati dalla sua aggressività.
Il dottor Bebel notò un progressivo e quasi esponenziale declino della salute di Erin: controllava i suoi disegni, oramai del tutto neri, che si limitavano a semplici schizzi di oggetti insignificanti, fatti velocemente, con tratto molto pesante e rabbioso. Notò l’isolamento, già prima marcato, ma adesso evidente anche ad un cieco, che lei si era creata intorno. Una volta aveva provato a consigliarle di tornare a prendere alcuni farmaci che l’avevano aiutata, all’inizio della sua permanenza in clinica, e come risposta aveva ricevuto una porta sbattuta in faccia. Stava quasi per pensare di chiedere a Gero di fargliele assumere di nascosto, ma era molto poco professionale da parte sua. Comprese che, se non fosse intervenuto presto, sicuramente Erin avrebbe avuto una ricaduta…


“Erin, ti puzzano i piedi…”, disse Gero, davanti alla sua postazione informatica. Erin, seduta accanto a lui, con i piedi appoggiati sulle sue gambe, si limava distrattamente le unghie, facendo tutt’altri pensieri.
“Eh?”, chiese lei, accortasi che l’amico le stava parlando.
“Stavo dicendo che la clinica Sellers sta diventando peggio di un circo.”, disse lui, passandole velocemente un dito sulla pianta del piede per farle il solletico.
“Ah… sì…”, rispose lei, tornando a limarsi le unghie.
“Da quando in qua le tue unghie sono più importanti dei commentacci che facciamo su questo posto?”, fece lui, mentre digitava ancora sulla tastiera le ultime parole nella lettera cordialmente falsa che mandava ai suoi genitori a giorni alterni. Era così che manteneva i rapporti con loro, venivano a trovarlo raramente, erano così pieni di impegni che non trovavano mai tempo per loro figlio, in clinica forse anche per colpa loro. Erano due agenti di borsa, lavoravano a Berlino e l’andamento dei futures era molto più importante della salute del figlio. Per loro in quel posto era diventato come una colonia marina dove scaricare il proprio figlio per le vacanze estive…
“Boh… non lo so…”, rispose lei, distrattamente.
“Erin… dimmi cosa c’è che non va oggi…”, le chiese Gero, abbandonando il computer per voltarsi completamente verso la sua amica.
“Dai, lo sai cosa c’è che non va…”, rispose lei, stancamente.
“Vuoi che andiamo fuori?”
“No… sto bene anche qui.”
“Cosa ho detto che ti ha fatto saltare i nervi?”, le domandò.
“Niente.”
“E allora perchè te ne stai lì come una pianta grassa? Perchè non reagisci?”
“Hai voglia di litigare?”, chiese Erin, puntandogli contro la  lima.
Gero sospirò rassegnato.
“No, Erin, voglio che torniamo a parlare come facevamo prima. Voglio che tu torni quella di prima, voglio la strega cattiva, voglio vedere i tuoi canini appuntiti che spuntano fuori dalla bocca mentre ridi!”, disse lui, in un impeto di rabbia, “Non vedi come ti stai riducendo?”
Poi la guardò un attimo e, come per telepatia, comprese tutto.
“Cazzo… oggi verrà a trovarti tua madre…”, disse, leggendoglielo negli occhi.
“Meno male che lo hai capito.”, disse Erin, togliendogli i piedi dalle gambe e andandosene via dalla stanza.
Anche se fuori il calduccio di maggio entrava lentamente dalle finestre e scaldava l’aria, rendendola profumatamente primaverile, Erin sentiva freddo. Le penetrava dentro le ossa, la faceva tremare. Si chiuse dentro la felpa, zip tirata fino al collo, cappuccio in testa, in cerca di un temporaneo tepore. Andò verso la sala comune, al primo piano, quella in cui tutti i parenti venivano a trovare i ricoverati della clinica.
Era di un quarto d’ora in ritardo rispetto all’orario che aveva concordato sbrigativamente con sua madre, ma non gliene importava niente, sicuramente anche lei non si sarebbe presentata puntualmente.
Invece, la vista della donna, in disparte con lo sguardo pensieroso fuori dalla finestra, la costrinse a smentirsi. In un anno e mezzo era sempre arrivata prima di lei, stavolta invece era successo l’esatto contrario. Per il resto era sempre la solita, non era cambiata di un pelo: capelli perfettamente cotonati e fintamente neri, trucco troppo eccessivo, vestiti troppo scollati e tacchi estremamente alti. Non che fosse volgare, ma aveva la sua età ed Erin aveva sempre odiato le ragazzine di cinquant’anni.
Appena vide la figlia, si alzò e le fece un cenno con la mano.
“Ciao mamma…”, disse Erin, dandole un freddo abbraccio.
“Ma cosa ci fai dentro quella felpa… non senti che siamo in primavera?”, le disse, quando entrambe si furono sedute.
“Ho freddo.”, rispose Erin seccamente.
“Come vuoi… allora, come stai?”
“Mmhh… tutto ok.”
“Anche noi stiamo bene.”, disse la donna, sapendo che sua figlia non glielo avrebbe mai chiesto, nemmeno per cortesia, “Papà sta facendo le pratiche per passare lo studio al suo socio, vuole andare in pensione.”
“Ah si?”, chiese Erin, con poco interesse.
“Sì, oramai in suoi sessantasei anni si fanno pesare! Ha detto che, una volta in pensione, andrà tutti i giorni a pescare nel nostro laghetto perchè, secondo lui, ci sono troppi pesci. Poi vuole mettere su una specie di piccola azienda agricola… insomma, tante parole, poi vedremo cosa farà davvero…”, iniziò a raccontarle la donna, “L’altro giorno sono stata a trovare la zia e la nonna, entrambe stanno molto bene.”
“Salutamele.”, fece Erin.
“Certo… tu non hai da dirmi niente? Hai bisogno di qualcosa?”
Erin avrebbe tanto voluto urlarle che voleva farla sparire dalla faccia della terra, ma purtroppo non voleva rovinare la bella messa in piega di sua madre.
“No, mamma, sto bene così.”
“Giù nella macchina ti ho portato qualche vestito un po’ più estivo.”
“Lo sai che quello che mi compri tu non mi piace.”
“Ma ho cercato di essere più vicina ai tuoi gusti che ai miei, questa volta. Vedrai che ti piaceranno.”
“Oh, grazie mille allora…”
Le due rimasero un attimo in silenzio: Erin si guardava intorno, giocherellando con le maniche della sua felpa, mentre sua madre cercava un approccio, un tentativo di stare con la figlia che non fosse una semplice chiacchierata mensile di una decina di minuti scarsi.
“Sei… sei stata a trovare Ben?”, le domandò poi.
“No.”
“Perchè?”
“Mi sono giocata il permesso di uscire con uno scherzo.”, disse Erin. Anche se non era vero.
“Erin, ancora con queste bravate stupide! Perchè non la pianti e non prendi di petto la realtà?”, le disse sua madre, leggermente alterata per i continui comportamenti irrispettosi della figlia.
Erin, per un attimo, cercò di reprimere la rabbia che le stava fermentando dentro, poi esplose: si alzò, appoggiò le mani sul tavolo e vomitò tutto quello che si sentiva dentro in faccia alla madre.
“Io?! Io devo affrontare la realtà?! Sono io quella che cerca di mettersi in mostra a cinquant’anni perchè suo marito non la degna più di uno sguardo? Sono io quella che va in giro ad adocchiare i ragazzini perchè suo marito non la tocca più? Sono io quella che continua a pensare che suo figlio sia vivo quando invece è morto, schiantatosi contro un albero la notte del compleanno di sua figlia?”, gridò, attirando gli sguardi allibiti di tutti gli altri presenti in sala.
La donna, nel sentire le parole cariche di odio e di risentimento della figlia, sentì i suoi occhi riempirsi di lacrime, ma non una goccia le cadde sulla guancia. Prese la sua miniborsa e si alzò.
“Preparati a passare tutta la vita in questo cazzo di posto, non mi importa quanto costerà, ma puoi stare tranquilla che non ci metterò più piede. In momenti come questo vorrei tanto che ci fossi stata tu, al posto di Ben… tre metri sotto terra!”, le urlò lei, a sua volta. Poi prese e uscì dalla sala, con il rumore dei tacchi che assordava tutti i presenti.
Ecco, autocondannatasi per sempre a quell’inferno.
Dette una pedata alla sedia su cui si era seduta e, con le mani nelle tasche della felpa, se ne andò, sotto gli occhi delle altre persone, scioccate dalle parole taglienti che erano volate in quella stanza.
“Hey! Stai attenta a dove metti i piedi!”, disse il malcapitato sulla sua strada, che aveva ricevuto una notevole spallata da lei.
Per un attimo lo sguardo di Erin cadde su quella persona, oramai alle sue spalle: data la magrezza e la carnagione così bianca, poteva sembrare uno dei tanti suoi compagni del terzo piano. Sicuramente un nuovo arrivato, uno che si vergognava degli sguardi altrui, visto che indossava un grosso paio di occhiali da sole e un cappellino in testa, pensò Erin, e tornò sui suoi passi.
“Scusami!”, la richiamò poi lui.
“Che c’è…”, fece lei, scontenta.
“Senti… sto cercando una persona.”
“La dovevi incontrare? Sapeva che eri qui?”, gli chiese.
Era un visitatore, glielo leggeva nel tesserino che pendeva attaccato alla tasca dei suoi pantaloni.
“Beh.. a dire il vero no.”
“Allora non lo troverai di certo lì dentro.”, disse Erin, indicandogli la stanza delle visite.
“E… dove?”
“Vecchio, sui quaranta o della nostra età?”, chiese lei, supponendo che il ragazzo con cui stava parlando avesse forse solo qualche anno in più di lei.
“Nostra età… ma perchè me lo chiedi?”
“Beh… qui al primo piano ci sta la mezza età, al secondi gli anziani… al terzo noi.... Tanto per sapere dove localizzarlo. Quindi prendi l’ascensore e vai al terzo piano. E chiedi di lui.”, disse Erin, riprendendo la sua camminata.
“Senti… non è che potresti accompagnarmi tu? Non sono molto pratico di questo posto.”
Erin represse uno sbuffo scocciato, poi si voltò verso di lui e gli fece cenno con la testa di seguirlo. Non le pareva di averlo visto altre volte lì dentro, in visita a qualcuno, forse le era sfuggito, eppure la sua faccia non gli era nuova.
“Conosco tutti gli altri, se mi dici come si chiama ti potrei anche portare direttamente da lui… o lei, chiunque sia.”, gli disse, mentre viaggiavano tra i piani.
“Grazie, ma penso di farcela da solo. So il numero della sua stanza.”, disse lui, calcandosi il cappellino sulla testa e chiudendo al zip della sua felpa, abbastanza simile a quella di Erin.
Entrambe erano nere, con qualche scritta accennata qua e là, che inneggiava al rock e al punk.
“Bella la tua felpa.”, gli disse Erin.
“Anche la tua.”, le rispose lui.
Il din della campanellina segnò l’arrivo al piano destinato.
“Beh… allora ciao!”, fece il ragazzo, salutandola quando ebbe messo piede fuori dall’ascensore.
“Ciao…”, disse Erin, uscendo anch'essa.
Il ragazzo si incamminò nel corridoio di fronte a sé, esaminando i numeri delle porte. Erin non potè fare altro che seguirlo, andava dritta verso la sua stanza, voleva riposarsi un po’ dopo quel brusco incontro. Il ragazzo la notò e le sorrise imbarazzato.
“No, tranquillo, non ti sto seguendo, non sono una maniaca, è che la mia stanza è la in fondo.”, disse Erin, con un sorriso.
“Ah…”, fece lui, tornando alla sua ispezione.
Per evitare altri disguidi del genere, Erin accelerò il passo e andò oltre il ragazzo. Una volta in camera, salutò distrattamente il suo coinquilino forzato, disteso sul letto a leggersi un libro.
Prima di sedersi sul letto, tirò la tenda nera. Prese poi il suo i-pod, il taccuino, la matita e, a gambe incrociate, trascrisse i suoi sentimenti in disegno.


Eccolo, era arrivato davanti alla porta della stanza 324, che non era il titolo di un loro fortunato album, ma invece era la camera in cui stava suo fratello. Gli ci era voluto tutto il coraggio che aveva per fare quella cosa, per prendere la sua macchina, abbandonare i suoi impegni e farsi più di un centinaio di chilometri per essere lì, alla clinica Sellers…
Erano esattamente due mesi e tre giorni che non vedeva suo fratello, né gli parlava. Sapeva benissimo cosa stava per affrontare: un muro di pietra, invalicabile. Oppure una diga rotta, una valanga di acqua e fango, odio e disprezzo che lo avrebbero travolto in pieno.
Si ricordava ogni singola parola, le ultime che si erano dette, prima che lui desse un pugno in piena faccia la fratello e lo facesse svenire.
“Tomi… dove sei stato stanotte!”, gli aveva detto, in preda alla rabbia, avendolo visto rientrare alle otto di mattina, sbronzo fradicio.
“Dove mi pare…”, aveva risposto lui, biascicando tutte le parole come se avesse avuto in bocca qualcosa che gli impediva di parlare come un cristiano.
Era da quasi un anno che, ogni volta che tornava dalle feste a cui andava, sembrava sempre più ubriaco… sempre di più, sempre di più… poi il bere non veniva più limitato alle ore notturne. Anche se Tom continuava a minimizzare il suo problema, affermando che un bicchierino ogni tanto poteva fargli bene all’ispirazione, Bill non era cascato nella sua trappola. Aveva iniziato a controllarlo, ad annotarsi mentalmente quanti di questi ‘bicchierini’ erano necessari per far partire la giornata. Aveva anche compreso che diventava ansioso se uno di questi ‘bicchierini’ non veniva ingerito al momento giusto.
Poi, una volta bevuti, iniziavano i problemi: scontrosità, rumorosità, continue dimenticanze, confusione e sbalzi di umore molto vistosi. Tanto che il loro rapporto si era molto deteriorato e, se si parlavano, la maggior parte delle volte finivano per litigare. Per colpa sua, il gruppo si stava sfasciando. Anche Georg e Gustav non sopportavano più quello che Tom stava facendo a se stesso e avevano minacciato di troncare la band se non avessero trovato un rimedio.
Non aveva avuto il coraggio di documentarsi sulla faccenda alcolismo, aveva paura che, leggendo, avrebbe compreso che suo fratello, il suo gemello, ne fosse affetto. Era andato da un medico, uno che gli aveva consigliato David, il loro manager, e gli aveva parlato di lui. Diagnosi che si aspettava.
“Tuo fratello ha bisogno di cure. Portalo in questa clinica, la gestisce una persona molto fidata. Puoi stare tranquillo che non uscirà una parola di lì. Sono molto severi.”, disse l’uomo, annotandogli su un foglio bianco il nome della clinica Sellers.
“Ma è troppo lontano da qua… non ce n’è una più vicina?”, aveva chiesto lui, leggendo che si trovava a circa duecento chilometri da dove abitavano.
“Beh, sì, ma fossi in te cercherei di fare di tutto per portarcelo. Anche se costerà tanti sacrifici…”, ribadì l’uomo, “Chiamo adesso la direttrice e la avviso del vostro arrivo.”
Una volta a casa, aveva preso suo fratello in disparte e gliene aveva parlato, mandandolo su tutte le furie.
“Tu cosa? Tu vuoi cercare di rinchiudermi in un posto di pazzi? Io non sono pazzo! Sono sano e sto benissimo”, gli aveva gridato lui.
“No! Tu non sai bene! Tu sei malato! Malato qui dentro!”, aveva risposto Bill, indicandosi la testa, “Hai bisogno di cure e non me ne frega se non vuoi! Ti ci porterò lo stesso!”
“Non lo farai mai!”
“Certo che sì!”
“Allora prima dovrai stendermi! Su, forza, un bel pugno in faccia, così sarò svenuto, mi caricherai in macchina e mi scaricherai lì come un barbone!”, gli diceva Tom, faccia a faccia, tanto che Bill poteva sentire che il suo alito sapeva di alcol.
Non aveva esistato molto, aveva alzato la mano e gli aveva sferrato prima un pugno sul naso e poi uno sullo stomaco. Accasciato a terra, lo lasciò lì. Andò in camera sua, fece sbrigativamente le sue valige e le caricò in macchina.
Non lo aveva picchiato molto forte, ma sicuramente abbastanza da stordirlo davvero. Forse tutto l’alcol che aveva in corpo lo aveva aiutato. Da solo, lo fece stendere sul lato posteriore del suo suv e, ingranate le marce, lo portò alla clinica Sellers. In due ore e qualcosa di più di viaggio, non si era mai risvegliato, tanto da farlo preoccupare un po’. Poco prima di arrivare in clinica, chiamò la direttrice, una certa signora Popper. Al suo arrivo trovò un paio di infermieri ad attenderlo. Caricarono suo fratello su una barella e lo portarono dentro.
Bill lo seguì con lo sguardo appannato dalle lacrime e dal dolore, poi ripartì per la via di casa, con la mente e il cuore svuotati. Tomi…
Bussò alla porta tre volte, sperando che ci fosse qualcuno al suo interno. Sentì delle parole, ma non comprese quali fossero, né gli parve di sentire la voce di Tom. Uno scalpiccio di piedi e la maniglia si mosse.
“Ah…”, disse la ragazza di prima, quello che lo aveva accompagnato fino a lì.
“Beh… cosa ci fai tu qui?”, le chiese, ma non fu lei a rispondergli.
“Cosa ci fai tu qui… piuttosto… vattene.”, sentì dire, dall’interno.
Quella frase, la sua voce, gli piovve addosso come una doccia gelata.
“Tomi… voglio solo parlarti.”, gli disse, ancora fuori dalla stanza.
“Aspetta, aspetta un attimo!”, disse la ragazza davanti a lui, “Ecco dove ho già visto la tua faccia…”
“Scusami, non è che potresti lasciarci da soli?”, gli chiese lui, senza mezzi termini e in tono poco amichevole.
La ragazza si spostò, lo fece entrare e poi uscì dalla stanza, richiudendo la porta dietro di sé.


Il family day, pensò Erin, quando comprese che il ragazzo che aveva aiutato a districarsi tra i corridoi della clinica era niente popò di meno che Bill Kaulitz, fratello nonché gemello del suo ‘migliore amico’ Tom Kaulitz.
Che bel giorno, si disse, quando chiuse la porta della sua stanza. Presa da una forte curiosità, appoggiò la schiena al muro accanto allo stipite e si lasciò scivolare fino a terra. Sicuramente i due non avrebbero parlato a bassa voce, visto il buon sangue che scorreva tra loro e dalle parole molto dolci che Tom aveva rivolto al suo caro fratello.
Non sentì molto, ma quello che comprese era che, in fondo, a pensarci molto bene, lei e Tom erano sulla stessa, identica, imbarcazione, piena di buchi e di falle, senza salvagente.


“Cosa sei venuto a fare? A vedere quanto sia felice tuo fratello?”, disse Tom, appena Erin ebbe lasciato la stanza.
“No, Tomi, voglio solo…”, disse Bill, togliendosi occhiali e cappellino.
“Non chiamarmi più in quel modo.”, ringhiò Tom, sedendosi sul letto.
“Ascoltami… cerca di capire perchè l’ho fatto…”, cercò di dire Bill.
“Non mi interessa un bel niente! Non voglio le tue spiegazioni!”, gridò l’altro, “Adesso vattene e non presentarti mai più qua. Una volta che sarò uscito dirò a tutti che i Tokio Hotel sono andati a puttane, tutto per colpa tua!”
“Adesso basta! Cerca di ragionare! Non è colpa mia se tutto è finito dritto nel cesso! E’ solo colpa tua e del tuo bere! Iniziavi la mattina e smettevi la sera, anzi, non smettevi mai! E te la prendevi con tutti, con me, con mamma, con gli altri! Non scaricare la tua responsabilità su di noi!”
“Io faccio quel che cazzo mi pare con la mia vita! Non siete voi a decidere per me! E io qui dentro sto male, voglio uscire cazzo, voglio vivere!”
“Non te ne andrai di qui prima di altri cinque mesi e spero con tutto il cuore che ti insegneranno a capire il tuo errore, altrimenti ti giuro che non ne uscirai mai più!”, gridò Bill, in un ultimo sfogo.
Entrambi rabbrividirono a quelle parole. Si guardarono intensamente negli occhi, poi Bill prese ed uscì dalla stanza, sbattendo rumorosamente la porta. Indossò di nuovo la sua copertura, occhiali e cappello, e se ne sbattè altamente degli altri pazienti che lo incrociavano per il corridoio e lo guardavano come se fosse stato un pazzo.
Arrivò alla macchina correndo e, come aveva fatto l’ultima volta, piangendo.


Quella conversazione fece tornare in mente ad Erin tantissimi ricordi, chiusi dentro ad un cassetto nascosto nella sua mente. In quei cinque minuti aveva rivissuto in incubo che aveva avuto come protagonista la sua famiglia.
Una storia così tanto simile a quella di Tom…
Si ricordava ancora, tre anni fa, quando suo fratello Ben era tornato, per la prima volta, a casa dopo una sbronza. Si ricordava quanto era stato divertente, per lei, vederlo soffrire, mentre vomitava di nascosto nel bagno di camera sua. Bene, aveva pensato lei, così imparava a andare in giro insieme a quei deficienti che la chiamavano ‘porcospino Erin’.
Dal felice secondo matrimonio di Hugo Geller, noto avvocato divorzista, con la sua segretaria Nadia, per la quale aveva lasciato una moglie dalla quale non aveva avuto figli ma solo dispiaceri e tante carte di credito consumate, era nato il primogenito Benjamin Geller, detto da tutti Ben. Era nato il due di gennaio e, per strano caso del destino, anche Erin era venuta alla luce nel suo stesso anno di nascita, il quindici di dicembre, dato che la seconda signora Geller era rimasta di nuovo incinta pochissimi mesi dopo aver partorito Ben.
Cresciuti sempre insieme, Ben ed Erin non riuscivano a fare altro che mettersi nei guai: a scuola, al dopo scuola, a casa, mentre dormivano, i due fratelli Geller erano l’incubo dei loro stessi genitori. Sembravano nati per combinare casini: il loro scherzo più memorabile fu sostituire una videocassetta, che conteneva una ripresa fatta da un investigatore privato e utile al fine di concludere positivamente una causa di suo padre, con un video pornografico. Lo scherzo visto più volte in tv, riprodotto nella realtà, causò un richiamo disciplinare al padre e due mesi di punizione ai figli.
I due fratelli avevano separarsi durante i primi anni delle scuole superiori, dato che Erin aveva scelto di frequentare una scuola privata artistica, mentre Ben si era buttato a capofitto nella meccanica automobilistica, da sempre la sua passione. Iniziarono a frequentare compagnie diverse e vissero normalmente la loro adolescenza, divisa tra scuola, divertimenti e famiglia.
Le cose iniziarono a complicarsi intorno ai quindici anni: Ben aveva iniziato ad uscire e a fare sempre più tardi. Erin, che aveva conosciuto gli amici di suo fratello, lo aveva messo in guardia.
“Quelli ti causeranno guai…”, gli aveva detto.
“Solo perchè ti prendono in giro non è detto che siano delle cattive persone!”, aveva risposto lui, seccato.
Poi il resto era venuto da sé: così come le ciliege, un bicchiere aveva iniziato a tirare l’altro e i super alcolici che loro padre teneva nel suo studio da offrire ai suoi clienti finivano sempre più presto. Nei primi tempi l’avvocato dette la colpa a se stesso, dicendo che era lui a berne e a non rendersene conto… poi, quando trovò il figlio con le mani nel sacco, comprese.
A forza di punizioni e di serrate in camera, Ben era riuscito a calmare il suo spirito alcolico e sembrava essere guarito dal vizio. I suoi genitori gli permisero lentamente di uscire di nuovo, al fianco di sua sorella. Tutto sembrava essere tornato alla normalità. Erin, da brava sorella, seppur minore, era riuscita a tenerlo a bada e soprattutto lontano dai guai.
Ma il problema non era risolto del tutto, Ben continuava a desiderare di bere, a volerlo fare, anche se non ci riusciva perchè era sempre sorvegliato costantemente.
L’attimo di distrazione arrivò per il sedicesimo compleanno di Erin: mentre tutti stavano festeggiando ed erano occupati, la coca cola di Ben diventava sempre più corretta da qualcos’altro, entrato furtivamente alla festa della sorella. Come ogni anno veniva organizzata nella villetta di famiglia, in campagna e i due fratelli potevano invitare tutti i loro amici.
Verso la fine della festa, quando gli ultimi invitati stavano lasciando la casa, Ben convinse Erin a montare sulla decappottabile della loro madre.
“Ci pensi che tra nemmeno un anno potremo guidare una macchina del genere?”, aveva detto ad Erin, mentre stringeva il volante della macchina.
“Sì, Ben, ma adesso è meglio se scendiamo… lo sai quanto ci tiene la mamma a questa macchina… se la sporchiamo anche solo un po’…”
“Ma dai! Cosa vuoi che succeda!”
“Ok… scendiamo.”, ripetè Erin.
“Eh no! Lo sai che io so già guidare?”, le rivelò Ben.
“Non ci credo nemmeno se me lo ridici.”
“Avanti, scommettiamo?”, le fece lui, porgendole la mano per suggellare l’intesa.
“Metti in moto, fai due metri e poi spegni tutto o la mamma ci toglie la vita con un cenno di mano!”, disse Erin, mettendosi la cintura di sicurezza.
“Pivella… la cintura…”, disse Ben, mentre girava la chiave nel cruscotto.
Il motore partì, facendo un rombo. Poi il ragazzo inserì la prima e la macchina iniziò a partire lentamente.
“Che tartaruga…”, disse Erin.
“Ah si?”, fece l’altro.
Premette l’acceleratore, facendo sgommare le ruote. La macchina prese sempre più velocità, percorrendo il vialetto sterrato e dritto che portava fuori dalla loro tenuta.
“Ben, fermati! Adesso basta!”, iniziò a dire Erin, mentre si appiattiva al sedile per la paura.
“Hai paura eh!”, disse Ben.
Da quel momento in poi i ricordi di Erin iniziavano a sbiadire… si ricorda di aver sentito come uno scoppio, poi la macchina aveva iniziato a sbandare ed era uscita fuori dal vialetto, fermandosi con uno schianto contro il tronco di un abete…
Ben, senza la cintura che lo proteggeva, era stato sbalzato fuori dall’abitacolo, mentre lei era rimasta dentro la macchina.
Ben era di nuovo ubriaco.
Questo era tutto ciò che le avevano raccontato. Non le era stato detto nient’altro, né lei aveva mai chiesto di sapere di più.
L’inferno che visse dopo non lo aveva mai voluto augurare a nessuno, nemmeno al suo peggior nemico.
Anche i ricordi dei giorni successivi all’incidente non erano molto chiari: non si ricordava bene del funerale, né di tutto il resto. Solo che si era risvegliata in un luogo tutto bianco, un ospedale, e vi era rimasta per pochi giorni, solo per accertamenti. La macchina era ridotta ad un batuffolo frantumato, lei era illesa, aveva solo dei graffi.
Suo fratello, il suo migliore amico, era morto.
Nell’anno e mezzo successivo, Erin aveva vissuto come dentro ad un pozzo. Intorno a lei l’oscurità e sopra l’irraggiungibile luce. A farle compagnia non c’era solo il suo dolore,  ma un’amica che riusciva a confortarla come nessun’altra…
Rimase per un attimo lì, cercando di reprimere quel vortice di emozioni che l’aveva improvvisamente investita. Cercò di alzarsi, asciugandosi le lacrime e corse verso Bill, raggiungendolo un attimo prima che l’ascensore si chiudesse.
Mise una mano sulla porta scorrevole e la fece riaprire, poi si rivolse a Bill.
“Non lasciarlo andare, lui ha bisogno di te… ha bisogno di qualcuno che gli stia accanto.”, gli disse.
“E tu che ne sai? Chi ti credi di essere?”, le domandò lui.
“Beh… non so cosa stai pensando di me, ma io sono solo la sua tutrice… e la sua compagna di stanza… non lo abbandonare, non lasciarlo solo.”
Lui la guardò, attraversò i suoi spessi occhiali neri, poi sbuffò e premette di nuovo il pulsante del piano terra. Mentre le porte si chiudevano di nuovo, Erin pregò che avesse capito le sue parole, ma non ci sperò più di tanto…
Lei era rimasta sola, abbandonata a se stessa… e non sarebbe mai più uscita di lì. Non avrebbe voluto che qualcun altro seguisse il suo stesso destino.
Andò verso la sua stanza, abbattuta per quella sconfitta. D’altra parte non poteva intromettersi improvvisamente nella vita degli altri, portare la soluzione ai loro problemi e tanta felicità. Non voleva che altri passassero quello che aveva vissuto lei e non le importava chi fossero questi altri… perchè nessuno al mondo si meritava la vita che aveva fatto lei in quegli ultimi anni.
Nemmeno se si trattava di una persona che non le stava per niente simpatica.
Parevano passati secoli da quei giorni...
Quando sua madre era entrata nella sua camera, dove viveva auto segregata da almeno tre giorni, si era trovata davanti uno spettacolo tutt’altro che invitante. Il cibo che la donna di servizio aveva portato ad Erin giaceva ancora intoccato.
Lei se ne stava a faccia in giù sul suo letto, quasi inerte.
“Erin… Erin…”, la chiamava la madre, scuotendola.
“Che… c’è…”, fece lei, con un filo di voce.
“Cosa… Ma cosa stai facendo qua dentro! E cos’è questa puzza?”
Era in quel modo che aveva scoperto che sua figlia aveva una montagna di problemi.
Mentre i genitori erano troppo impegnati a disimpegnare la loro mente, per non pensare al figlio scomparso, si erano distrattamente dimenticati dell’altra figlia, Erin. E lei aveva iniziato a vivere per conto suo, aveva lasciato la scuola, aveva iniziato a perdere la strada. Un paio di amiche, un giorno, le avevano presentato un rimedio momentaneo ma molto divertente alla sua vita.
Questo rimedio era chiamato spinello.
Già al primo tiro una valanga di pensieri uscì dalla sua testa, al secondo si sentiva leggera, al terzo iniziava a ridere e a quarto non pensava più a niente.
Anche per lei erano diventati come le ciliegie. E riusciva a fumarsene anche più di uno al giorno: negli ultimi tempi, prima che i suoi la spedissero nella clinica, era capace anche di fumarne cinque o sei. L’avvocato Geller, già distrutto dentro, quando seppe del brutto vizio che sua figlia, non commise lo stesso errore che aveva fatto con Ben. Le fece i bagagli e la mandò dritta nella clinica, sperando che in pochi mesi sua figlia riacquistasse il controllo della propria vita.
Lei, invece di essergli riconoscente, iniziò ad accusarlo di vergognarsi di lei, di essere imbarazzato dei suoi stessi figli e di non voler ammettere che era colpa sua se tutto quello era successo. Adirato per le dure parole dettegli dalla carne della sua carne, interruppe totalmente i rapporti con Erin. Solo Nadia, sua moglie e sua madre, continuava a visitarla regolarmente, una volta alla settimana ma, amareggiata dai continui rimproveri che si sentiva versare addosso da Erin, iniziò a diradare gli incontri.
Erin si era isolata dalla sua stessa famiglia. Ed era stata tutta colpa sua e dell’impossibilità di accettare il suo problema, così come stava succedendo a Tom. Quando però aveva compreso l’errore, era troppo tardi per tornare indietro e recuperare il rapporto con i genitori.
Era rimasta sola, senza nessuno al mondo.
Non aveva nessun altro posto in cui andare se non la clinica Sellers.
E purtroppo non era l’unica a soffrire di questa solitudine: anche Gero, il suo amico, viveva la stessa sua vita. Genitori lontani, quasi sempre assenti durante la sua infanzia, era cresciuto con la nonna materna. Alla sua morte, arrivata alla veneranda età di ottantotto anni, lui era rimasto da sé, aveva iniziato a soffrire di attacchi di panico e di ansia. I suoi lo portarono da un medico che gli prescrisse psicofarmaci appositi per il suo problema: finì per abusarne e per trovarsi alla Sellers. Arrivò quasi insieme ad Erin, ci correvano solo due giorni di distanza dal suo ricovero e quello di Gero.
Vite simili, problemi simili. Erano in due, lì dentro, a non avere altro che se stessi su cui poter fare affidamento. E da quel momento in poi sembravano stare per diventare in tre: anche Tom si stava inserendo nel loro piccolo gruppetto infelice.


Erin entrò nella stanza in silenzio e si sedette sul suo letto, cercando un approccio con Tom.
“Senti… non ho potuto fare a meno di sentire quello che vi siete detti.”, gli fece.
“Ecco, la prossima volta fatti i cazzi tuoi.”, gli rispose Tom, uscendo dalla camera e sbattendo la porta.





Di nuovo, eccomi qua con il quinto capitolo... pensavo di pubblicare una volta ogni tanto, invece mi sono avvantaggiata (cinque pausa straordinaria dalla vendemmia, l'uva non era matura) e torno come sempre a pubblicare ogni tre giorni!
Bene, ora si è rivelato il passato oscuro di Erin... e quello un po' meno oscuro di Tom... insomma, per adesso questa è la premessa di un nuovo inizio, se capite cosa intendo... vabbè, vi lascio i soliti ringraziamenti!!!!

CowgirlSara: beh, che altro devo dirti? grazie per la recensione, già ti ho dato tutte le spiegazioni del caso su msn! Non voglio essere ripetitiva e spero che questo capitolo ti sia piaciuto, è la chiave di volta della storia... incrocio le dita e aspetto un tuo parere!

Sososisu: i cuori spezzati si ricompongono con facilità, te lo dico io per esperienza! Tranquilla, la depressione post traumatica da rottura con i ragazzi può essere guarita semplicemente con una bella dose di nutella per endovenosa e una ventina di pillole di gelato al cioccolato... vedrai come ti sentirai meglio!!!! E i brufoli che verranno dopo serviranno a spaventare la fauna maschile per un po', il giusto tempo per riprendersi! Grazie per la recensione!!!

Ruka88: no no, Ada non apparirà molto spesso, era solo un personaggio passeggero, tranquilla, non ti scaldare ZD beh, non ti anticipo nulla, ma da questo capitolo in poi succederanno diverse cose, più o meno belle... ma nessun pairing in vista!

Starfi: mi fa molto piacere sapere che questa fic ti 'attiva la materia grigia', citando le tue testuali parole XD è una storia che fa riflettere anche me, che mi aiuta in parte a capire alcune cose che mi sono accadute... è un po' una sorta di auto cura che mi sono data XD vabbè, lasciando perdere i sentimentalismi, spero che continuando a leggere non faccia l'effetto contrario alla tua 'materie grigia'!!!! Grazie mille!!!

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Capitolo 6
*** The Wizard of Oz ***


THE WIZARD OF OZ

 
 

Verso le sei ed un quarto Erin bussò alla porta della camera di Gero, era l’ora di andare in sala mensa per la cena.
“Com’è andato l’incontro con tua madre?”, le chiese lui, come prima cosa, mentre si incamminavano.
“Molto bene… non credo che la rivedrò per molto tempo…”, rispose Erin.
“Perchè?”
“Insomma… l’ho trattata un po’ male e lei mi ha detto che mi farà rimanere qui per sempre.”
Gero si sentì morire dentro per la cocciutaggine sua amica.
“Erin…”, disse lui, “Dovevi proprio farlo?”
“Le ho detto la verità.”, fece lei, distrutta.
“Dai, vieni qua…”, fece lui, abbracciandola, “Vedrai che si sistemerà anche questo… non credo che intendesse davvero dirti quella cosa.”
“Boh, non lo so, ma era molto seria quando me l’ha detto…”, disse Erin, con la voce rotta, stava per piangere.
“Non piangere, andiamo… non essere triste, non ne vale la pena.”, disse Gero, accarezzandole la testa. Poi alzò gli occhi e vide Tom, “Guarda, c’è il tuo amico… ma dove è finito il corteo reale che lo segue sempre?”
A pochi passi da loro, Tom camminava da solo, nel corridoio, a testa bassa, con la faccia coperta dalla visiera del suo cappellino. Passò i due, senza nemmeno guardarli né lanciare loro una battuta irriverente.
“Ma cosa gli prende?”, chiese Gero.
“Lascialo fare, anche lui ha avuto una pessima giornata come me.”, disse Erin, asciugandosi le lacrime.
“E cosa gli è successo?”
“E’ venuto suo fratello prima.”, gli disse.
“Intendi quello che si chiama Bill?”
“Sì, lui… anche loro non vanno più tanto d’accordo… ma adesso andiamo o resteremo imbottigliati nella fila.”, disse Erin, lasciando l’abbraccio dell’amico.

Appena si sedette al tavolo a mensa qualche ragazza gli si sedette accanto, ma con male parole riuscì ad allontanarle tutte. Voleva stare solo, non voleva essere scocciato da nessuna di quelle galline senza cervello.
Non mangiò, non fece altro che martoriare la pasta e la carne con la forchetta, mise in bocca solo qualche cucchiaiata del gelato al limone che veniva dato come dessert, quella sera. Prima di arrivare a mensa aveva fatto un rapido salto al primo piano, aveva acciuffato quel deficiente che aveva le mani in pasta  e gli aveva chiesto se aveva niente per lui. Sua madre, nell’ultima visita, gli aveva portato un po’ di soldi e, anche se lui realmente non ne aveva bisogno, gli erano diventati molto utili per quel genere di cose. Gli passò di nascosto un qualcosa come cento o centocinquanta euro, non si ricordava bene, e l’altro, prima restio nei suoi confronti, gli aveva assicurato che avrebbe avuto qualcosa entro poche ore.
Bene, pensò, stasera mi posso divertire. Al pensiero di poter bere lo stomaco gli si era chiuso.
Ripensò a Bill, al suo gemello, e al suo sguardo arrabbiato. Gli aveva giurato che non lo avrebbe più fatto uscire di lì se non avesse imparato il suo errore… sante parole, dette proprio da quello che lo aveva menato per portarcelo, altrimenti non avrebbe saputo come farlo. Che c’era venuto a fare lì se non per scusarsi? Che senso aveva avuto quell’improvvisa visita? 
Nessuno, non aveva nessun senso.

“Deve essere proprio di malumore per starsene tutto solo…”, disse Gero, guardandolo dal tavolo dove era seduto con Erin, “Mi sarebbe piaciuto sentire cosa si sono detti i due gemelli Kaulitz! Per la serie, c’eravamo tanto amati…”
“Io li ho sentiti, mi hanno fatto venire i brividi.”, disse  Erin, incupendosi.
“Sono volati i piatti? C’era un arbitro a controllare il round?”, sghignazzò Gero, dimostrando tutta la sua soddisfazione.
“Dai, smettila… non scherzare su queste cose”, disse Erin, molto infastidita.
“Andiamo!”, fece Gero, risentito per le parole di Erin, “Non ho detto niente di male!”
Si chiese cosa passasse nella testa della sua amica, non poteva credere che all’improvviso lei stesse cambiando idea su di lui. Stavano diventando amici? No, era impossibile, se Erin si faceva un’idea su una persona, rimaneva quella per sempre.
Tra i due cadde un certo silenzio, quasi tombale, l’uno era stato infastidito dall’atteggiamento dell’altro. Gero guardò un attimo Erin, a testa bassa sulla sua porzione di sogliola fritta, che stava spezzettando svogliatamente con la forchetta. Cosa era successo? Da quando in qua lei non si apriva più con lui? La vide alzarsi e, senza dare una spiegazione andò da Tom.
Ecco… addio Gero, benvenuto Kaulitz!

“Posso sedermi qui un attimo?”, domandò al ragazzo.
“No.”, rispose lui.
“Guarda che sono Erin, non sono una di quelle galline senza cervello.”, disse lei.
Galline senza cervello, proprio come le aveva definite lui qualche secondo prima.
“No.”, le ripetè.
Erin, che non era abituata ad essere comandata, lo fece lo stesso. Spostò la sedia tanto quanto bastava per sedersi e lo fece. Mise una sopra l’altra le mani a pugno sul tavolo e vi appoggiò il mento sopra, mettendosi a guardarlo. Le altre ragazze, che spiavano la situazione, si chiesero che cosa aveva intenzione di fare Erin.
“Fai sempre come ti pare.”, disse Tom, dopo aver inghiottito un altro po’ di gelato.
“Sì, sempre e comunque. Ma non sono l’unica qua.”, rispose lei, non senza sorridere.
“Cosa vuoi da me…”, domandò lui, inespressivo, con lo sguardo fisso dentro alla ciotolina del gelato.
“Niente.”
“Allora vai a farti un giro.”
“Vorrei, ma non posso.”
“Nessuno ti trattiene.”
“Invece qualcuno sì.”
“E chi sarebbe questo dannato qualcuno?”
“Tu.”, rispose Erin. 
Tom la squadrò un attimo, con il cucchiaio in bocca, poi tornò sul suo gelato.
“Ti ho dato questa impressione? Non mi sembra.”, le disse, scorbuticamente.
“Io e te siamo più simili di quanto immagini.”, fece Erin.
“Ma per piacere!”, sbuffò lui.
“Non sto scherzando…”
“Questa barzelletta non mi fa ridere.”
“Infatti, non è una barzelletta. E’ la verità.”
Tom posò il cucchiaino e lasciò stare il gelato, per chiarirsi con Erin.
“Ascolta, non so dove tu voglia arrivare e non mi interessa. Adesso lasciami in pace, per favore. Non ti chiedo niente, non ti ho mai chiesto niente e mai lo farò. Quindi ora alzi quelle tue chiappe flaccide da quella sedia e torni dal tuo amico frocio con cui ti diverti così tanto a prendermi per il culo. Dimentichiamo questa spiacevole esperienza e torniamo ad ignorarci come abbiamo sempre fatto. Ok?”
“No, non sono d’accordo con te.”, insistette Erin, “Se solo tu mi lasciassi parlare capiresti subito cosa ti voglio dire.”
“Allora non mi sono spiegato bene… Erin, vattene via di qua.”, disse lui, scandendo perfettamente le parole.
“E invece no…”
“Ok! Lo farò io.”, disse Tom, alzandosi e lasciando la sala mensa.
Erin rimase al suo tavolo per un po’, chiedendosi se sarebbe mai venuto il momento in cui lui le avrebbe dato l’opportunità di spiegarsi. Voleva dirgli di stare attento, di capire, perchè se avesse perso ciò a cui più teneva al mondo, cioè suo fratello, non sarebbe mai e poi mai riuscito a guarire. 
Era lui la sua chiave per la salvezza
Voleva fargli aprire gli occhi, voleva toglierlo dalla brutta strada che aveva imboccato.
Voleva salvarlo.
Lei era la sua tutrice e doveva farlo.
Lavina, la tutrice di Erin, si era data per vinta e l’aveva abbandonata, così come sua madre Nadia, suo padre Hugo… e suo fratello Ben.
Voleva salvarlo.

Entrò in camera e trovò un bel pacchetto regalo sotto il suo cuscino: niente fiocchetti colorati, solo carta di giornale. Prese la bottiglia e si chiuse a chiave dentro il bagno. Tolse il tappo velocemente e prese il primo sorso. La bottiglia, liscia e senza etichette, conteneva forse un litro e mezzo, anche due, di birra. Non gli faceva molto effetto, ma era pur sempre meglio di niente.
L’alcol scese giù, lentamente, fin dentro al suo stomaco. Un senso di liberazione pervase tutto il suo corpo e si sentì finalmente al settimo cielo. Prese il secondo sorso e lo inghiottì così velocemente da togliersi il fiato. In quei due mesi non si era mai tolto dalla testa il sapore dolce e amaro del bere, a volte voleva farlo così intensamente che gli sembrava di sentirlo in bocca, e la sua stessa saliva sapeva di vino, oppure di birra o di vodka.
In un istante tutto sembrò evaporare e Tom si sentì libero di tutto… e da tutti.

Quando tornò al suo tavolo, Erin non trovò più Gero. Doveva essersene andato, lasciando il vassoio con la sua cena, senza riportarlo negli scaffali mobili come da regolamento. Di solito l’aspettava sempre, chissà dove se n’era andato. Prese entrambi i vassoi e li depositò dove doveva, per evitare noie.
Andò in sala tv e lo trovò lì. Stava seduto sulla stessa poltrona che lo accoglieva tutte le sere, tutti sapevano che era riservata a lui e che, quella accanto, era di proprietà di Erin.
“Perchè te ne sei andato senza dirmelo?”, gli chiese, accomodandosi accanto a lui.
Gero non rispose, se ne rimase sdraiato, con la testa e le gambe appoggiate sui braccioli, a giocare con una pallina fatta di carta.
“Hey… domandare è lecito… rispondere è cortesia.”, disse lei.
“Cos’è che ti ha fatto cambiare idea su Tom?”, domandò lui, interrompendo di lanciare in aria la pallina.
“Cambiare idea? Niente, penso sempre che sia un pallone gonfiato senza un briciolo di dignità personale.”, disse lei, non comprendendo.
“E allora perchè improvvisamente ti stai interessando a lui? Se non ricordo male ti sta causando una serie infinita di problemi, tra cui includo insonnia, brutti sogni, confusione e irritabilità.”
“Gero, ma cosa stai dicendo? Sei impazzito?”, fece Erin, stupita dalle parole taglienti dell’amico, “Io sto cercando solo di aiutarlo!”
“Aiutarlo? Aiutare uno che non merita nemmeno di essere trattato come una persona normale? Uno che si crede di essere quello che non è?”, disse. Si prese una breve pausa e poi continuò, “Uno che ti sta facendo del male?”
Erin non comprendeva cosa volesse dirle Gero. Perchè improvvisamente le stava facendo questo? Perchè non voleva capirla? Eppure lui sapeva per filo e per segno tutta la storia della sua vita… perchè non era arrivato anche lui alle sue solite conclusioni?
“Gero… mi stai veramente stupendo…”, disse Erin.
“Anche tu Erin.”, disse lui, e riprese a giocare con la pallina di carta. 
Quel segno era chiaro, fine della conversazione, non c’era nient’altro da dirsi. Erin, perplessa, lasciò il suo amico al suo stupido divertimento e se ne andò in camera, disgustata.
Chiuse la porta e si gettò sul letto. Sdraiata, si pose almeno un migliaio di domande, tutte senza una risposta plausibile. Forse era meglio dormire, la notte avrebbe portato serenità e consiglio. Ma purtroppo le sue notti erano sempre insonni e disturbate da quel maledetto sogno.
Tanto valeva mettersi le cuffie nelle orecchie e accendere l’i-pod. Selezionò la cartella chiamata ‘Ludwig Van’  e, appena nelle sue orecchie si diffuse la ‘Sonata al chiaro di luna’ di Beethoven, chiuse gli occhi in cerca di pace.
Quando le note del celeberrimo ‘Inno alla gioia’ furono cantate, la mente di Erin si risintonizzò alla frequenza della realtà. Si era addormentata con ‘Per Elisa’, e si era risvegliata nel bel mezzo della nona sinfonia. Erano passate almeno due ore, perchè la cartella ‘Ludwig Van’ conteneva molti capolavori del genio musicale tedesco.
Si tolse le cuffie dalle orecchie e le appoggiò sul comodino, mentre si stropicciava gli occhi. Accese un attimo la lucetta appesa al suo letto, per vedere che ore fossero. Erano solamente le dieci, ancora aveva tutta la notte davanti a sé, ma era contenta di essere riuscita a dormire senza svegliarsi in preda al panico. Forse la musica classica le faceva questo effetto ed ancora non lo sapeva.
Vista l’ora, era meglio fare un altro tentativo, ma prima doveva assolutamente andare in bagno. Afferrò la maniglia e la spinse giù, ma sembrava chiusa. La chiave stava dentro al bagno, quindi voleva dire che era occupato.
“Tom…”, disse Erin, bussando alla porta, “Ti dispiace restringere le tue tempistiche? Me la sto facendo addosso!”
Nessuna risposta, la porta era sempre chiusa. Provò a guardare dal buco, ma la chiave era infilata dentro la serratura, quindi non si vedeva nient’altro che quella.
“Hey… non è che ti sei addormentato?”, fece ancora, bussando più forte.
Ancora niente, eppure doveva essersi chiuso dentro...
Non le ci volle un cervello da premio nobel per capire che Tom stava combinando qualcosa di cui si sarebbe pentito. Erin aprì il cassetto del suo comodino e rovistò, in cerca di una forcina o di qualcosa di piccolo e appuntito. Aveva imparato a forzare le serrature da piccola, glielo aveva insegnato Ben. Trovò una specie di sottile bastoncino di ferro, non sapeva a cosa servisse in realtà ma in quel momento le era molto utile. Con delicatezza premette contro il fondo della chiave e, appena la sentì muovere, le dette un colpo, facendola cadere a terra. Poi, con la lingua tra i denti, in pochi secondi forzò la serratura e aprì la porta.
Eccolo, che bella visuale! 
Seduto a terra, schiena contro il cesso, occhi chiusi e bottiglia in mano.
Cos’altro poteva fare se non toglierlo di lì? Con un notevole sforzo, Erin lo trascinò fino al letto, prendendolo per le mani. Poi cercò di farlo alzare, prendendolo in  braccio. Lui un metro e ottanta, lei non arrivava nemmeno al metro e settanta.
“Se domani avrò mal di schiena me la pagherai, deficiente!”, disse Erin, una volta che il ragazzo ebbe toccato il materasso. Gli sfilò le scarpe e lo coprì con una coperta, presa dal suo armadio.
Domattina sarebbero iniziati una valanga di guai: doveva far sparire la bottiglia ma non sapeva dove nasconderla. Ma soprattutto, lui si sarebbe svegliato in uno stato pietoso e tutti avrebbero capito che cosa aveva fatto. In altre parole, sia Tom che Erin si erano cacciati in un guaio grosso, che veniva punito con l’espulsione. 
Tutto per colpa di Tom.
Erin si mise la mani nei capelli, domandandosi che cosa avrebbe fatto per rimediare al danno.
Ma prima, doveva fare una cosa…

Per la prima volta da tanto tempo, nessun incubo l’aveva fatta trasalire in piena notte, non si era svegliata mai. Aveva dormito magnificamente, senza problemi, con le dolci note classiche di Beethoven nelle orecchie. Cacchio se funzionava quel metodo! Perchè non ci aveva pensato prima?
Come aveva sempre fatto, i suoi occhi si aprirono cinque minuti prima del suono della sveglia. Fresca e sana, si dette una sciacquata veloce alla faccia e si preparò per fare colazione. Fuori dalla porta di camera sua, stette qualche secondo a pensare se faceva bene a chiamare Gero oppure no. 
Ancora le sue parole le bruciavano dentro…
Andò in sala mensa senza di lui e, quando lo vide al solito posto, in fondo alla stanza, non lo raggiunse. Si sedette da una parte, solitaria. Se lui non le chiedeva scusa per ciò che le aveva detto, lei non avrebbe mosso un dito.
Sbriciolò i biscotti dentro al latte, come faceva da una vita e attese che la poltiglia diventasse accettabilmente buona ai suoi occhi. Non notò l’inaspettato silenzio che era caduto nella mensa, e non si accorse nemmeno che qualcuno stava davanti a lei, con le mani sui fianchi.
Lei, a testa bassa sulla sua colazione, non potette mangiarla perchè quel qualcuno vi gettò dentro una manciata di capelli… biondi... e rasta.
“Sei una testa di cazzo!”, tuonò Tom, in piedi davanti a lei.
“Ma che schifo…”, fece Erin, togliendo disgustata uno dei sui tanto amati dread dalla sua tazza. 
Gli altri pazienti osservavano ammutoliti la scena.
“Che cosa ti è saltato in mente idiota? Perchè mi hai tagliato i capelli?”, gridò lui. 
Sulla sua testa non rimaneva altro che dei ciuffetti di capelli, le radici dei suoi rasta, che lo rendevano molto ridicolo.
“E voi? Cosa avete da guardare!”, disse poi Tom, accortosi che tutti gli occhi erano concentrati su di lui… e sulla sua testa. 
Al che, gli altri pazienti tornarono alle loro colazioni.
“Non mi conviene dirti perchè l'ho fatto... o ci metteremo entrambi nei guai… in guai molto seri,”, disse Erin, abbassando il tono della voce, “So cosa hai fatto ieri sera, soprattutto so cosa hai bevuto. Quindi ti conviene calmarti, altrimenti prendo la bottiglia e la porto dalla direttrice, ti sputtanerò e ti farò cacciare dalla clinica.”
Tom si sedette di fronte a lei.
“Avanti! Fallo! Lo sai che voglio uscire di qua! Non aspetto altro!”, la esortò.
“Allora lo farò… ma so che non ti lasceranno mai andare…", disse Erin, con una serietà che non aveva mai pensato di avere, "La direttrice sa tutto di te, sa che te ne vuoi andare... Sa che vuoi fuggire, e più che vuoi farlo, più che ti tiene chiuso qua dentro. Ci incontriamo una volta a settimana e io le faccio il punto della situazione. ”
“Fanculo!”, esclamò Tom, dando un pugno sul tavolo.
“Sei davanti ad un vicolo cieco Tom Kaulitz. Hai tutti contro. Ma ti dirò di più… ti dico che ti capisco, e quando senti queste parole, devi crederci. Veramente.”, gli disse Erin, guardandolo così profondamente da farlo quasi rabbrividire.
Non l’aveva mai guardata veramente negli occhi: la prima impressione che ebbe del suo sguardo fu di profonda tristezza e malinconia. Ma in quell’istante vedeva una decisione che lo spaventava. Si rese conto che non sapeva niente di lei, eppure condividevano da un mese la stessa stanza; che non si parlavano mai, eppure lei diceva che lo capiva… 
Ma chi era in fondo questa Erin? 
Una stronza di prima categoria come pensava… oppure una ragazza fragile?
Quella maschera impenetrabile che indossava ogni minuto della sua vita… se la stava togliendo per lui? Per aiutarlo?
“Hai mantenuto la parola.”, disse lui, sospirando e appoggiando la schiena alla sedia. 
Si passò una mano sulla testa e le fece comprendere a cosa si riferiva. 
“Sì, sono una che rispetta sempre le promesse che fa.”, rispose Erin, sorridendogli e facendo il gesto della forbice con l’indice ed il medio della mano destra, “Te l’avevo detto, se facevi una cazzata, io ti tagliavo i capelli.”
A Tom scappò una risatina, ma poi tornò subito serio.
“Fatti togliere quei cespuglietti con un rasoio elettrico… sembri un tossicodipendente. Ah, dimenticavo, lo sei!”, disse Erin, tornando ad essere la stronza che era. 
Però, stavolta, invece di infastidirsi, Tom trovò quelle parole irriverenti, sarcastiche, ma non offensive. 
Forse l’aver compreso, guardandola negli occhi, la natura di quella strana ragazza, gli aveva anche fatto afferrare il vero senso del suo comportamento con gli altri. 
Una dura fuori, fragile dentro… così come era lui. Erano veramente uguali? Forse sì.
“Ho fatto una cazzata grossa.”, disse Tom.
Erin si stupì di quello che aveva appena sentito. Non credeva che stesse davvero iniziando a redimersi, ne sarebbe passata molta di acqua sotto i ponti prima che lui aprisse la mente alla possibilità di avere sbagliato numerose scelte nella vita. Ma l’aver riconosciuto di aver compiuto un errore, ubriacandosi per rabbia, poteva essere un piccolo passo in avanti.
“Te ne stai rendendo conto? Hai buttato via due mesi di terapia… con una sola bottiglia.”
“Cazzo…”, fece lui, stringendosi la testa tra le mani.
“Hai voglia di bere… vero?”, gli chiese.
“Sì…”, disse lui.
Sentiva la disperazione nel suo tono di voce.
“Ecco… ora ti prendi un bel caffè extra lungo e largo, come i tuoi pantaloni. Vai in camera, ti fai una doccia, poi afferri la tua chitarra, vai alla lezione, e ti distrai un po’. Sarà una pessima giornata oggi…”
“Non ne ho voglia.”, si lamentò il ragazzo.
“Tom…”, lo rimproverò Erin.
“Certo mammina.”, fece lui, imitando la voce di un bambino scemo.
“E ho del fondotinta nella borsetta nera, accanto al lavandino. Copriti quelle occhiaie.”
“Giammai.”, rispose Tom. 
Quello poteva farlo solo… solo Bill…
“Senti…”, le disse Tom, “Devo riprendere le pubbliche relazioni o dovrò farmi tutto il bucato da solo… quindi vado laggiù.”
“Fai pure.”, gli rispose Erin.
Finalmente, pensò Erin, aveva aperto un varco nella diga Kaulitz…
Tolse dal suo vassoio la tazza di latte, biscotti e dreads, con una faccia molto impressionata dal particolare mix. Prese la banana, che riposava intoccata, e la sbucciò. Nel mentre masticava, con una certa soddisfazione, il primo morso del frutto, non potè fare a meno di cercare con gli occhi Gero, seduto dall’altra parte della stanza.
Anche lui, in quel momento, la stava guardando. Scosse la testa, prese il suo vassoio e lo portò allo scaffalino mobile. Erin voleva andargli incontro, chiedergli di spiegarsi, sapere perchè l’aveva guardata con così tanta cattiveria. Ma non lo fece. Era bloccata, in parte dal suo orgoglio, ferito dalla presunzione del suo amico.
Perchè sbagliava a voler aiutare Tom? 
C’era qualcosa di male nel cercare di risolvere i suoi problemi, per evitare che lui commettesse i suoi stessi errori? 
Era questo quello che la spingeva veramente a dargli una mano… non perchè stava iniziando a stargli simpatico o perchè stava aumentando la stima nei suoi confronti. Ai suoi occhi, Tom era sempre quello di prima, il tipico ‘pidocchio risalito’, che pensava di essere chissà quale celebrità e di poter ottenere tutto con uno schiocco delle dita.
Gero invece se l’era presa a male, ed Erin questo non lo accettava. 
Se fosse stato veramente suo amico, non le avrebbe mai e poi mai fatto quella scenata

Eccola, era arrivata in quel momento, aveva preso il suo vassoio e ci aveva messo sopra, come ogni santo giorno: latte, caffè, biscotti, succo di arancia. E la banana, new entry mattutina nella classica colazione di Erin. Eccola, si era voltata, aveva fatto i primi passi e aveva guardato verso di lui, fermandosi.
Erano rimasti almeno cinque secondi a fissarsi negli occhi, poi lei aveva svoltato a destra e si era seduta da sola, in cima alla sala colazione. C’era da aspettarselo, pensò Gero, che non volesse né parlargli né vederlo. Ma le avrebbe reso pan per focaccia, poteva esserne certo, a meno che lei non gli avesse dato spiegazioni. Aveva sempre pensato che Erin fosse stata una persona coerente, soprattutto con se stessa, quindi perchè doveva mostrare così tanto interesse verso l’essere più spregevole ed insignificante della clinica?
Ecco cosa aveva causato la convivenza forzata: lei si era innamorata di Tom
Bene, Gero, adesso poteva scordarsi di lei, della sua migliore amica, della sua sorella, dell’unica persona a cui pensava di importare veramente. Perchè era arrivato verme-Kaulitz a prendere il suo posto.
Fanculo, si disse, fanculo!
Poi vide, come tutti gli altri, Tom piombare nella stanza. Dove erano finiti i suoi rasta? Cosa gli era successo? Un sorriso spuntò sulla sua faccia… era stata Erin. Aveva preso un paio di forbici e glieli aveva tagliati. Cacchio, doveva averla fatta proprio incazzare di brutto! Lo vide andare davanti a lei, lo sentì chiederle perchè lo aveva fatto. 
Gero si domandò soprattutto come aveva fatto, senza incontrare nessuna resistenza da parte sua. Glieli aveva tagliati mentre dormiva?
Guardò gli altri presenti in sala: le ragazze del suo harem erano tutte a bocca aperta, scandalizzate e confabulavano tra loro. Chi non lo conosceva, invece, era attirato dal brutto tono da lui utilizzato contro Erin.
Ecco… adesso non ci capiva più niente… se Erin gli aveva fatto questo allora significava che si era sbagliato, che si era fatto un film su loro due. No, non si era sbagliato, Erin continuava a stupirlo: adesso parlava con Tom, a bassa voce.
La Erin che conosceva lo avrebbe deriso, lo avrebbe umiliato davanti a tutti come aveva fatto quando lo aveva preso per i capelli e lo aveva sgridato davanti a tutta la sala. Invece no, se ne stava lì, la vedeva, gli parlava. Poi Tom si era alzato e se ne era tornato in mezzo alle sue ragazze.
Prima di lasciare la sala mensa, Erin lo guardò. A Gero venne solo da scuotere la testa e andarsene.

Che giorno era, si chiese Erin. Ah, era mercoledì. La attendeva il dottor Bebel nel suo studio ed era in anticipo, come sempre quando si trattava di parlare con lui.
“Giorno…”, disse, entrando nella stanza.
“Oh! Buongiorno Erin! Prego, siediti!”, le disse l’uomo, che già stava pronto sulla sua poltrona, con taccuino e penna, “Mi sembra che stamattina tu sia di buon umore, Erin, o mi sbaglio?”, dandole una rapida occhiata quando lei si fu accomodata sul suo divano.
“Beh… sì e no.”, rispose lei.
“Parlami del sì.”
“Stanotte ho dormito come non facevo da almeno un mese. Quasi nove ore filate di sonno, senza interruzioni, senza sogni.”, disse Erin, senza nascondere un sorriso soddisfatto sulla faccia.
“E come mai hai dormito così bene?”, le chiese l'uomo, sorridendo anche lui.
“Ho scoperto che mi succede se mi addormento con la musica classica nelle orecchie.", spiegò Erin, "Ieri sera, dopo la cena, sono andata in camera e mi sono messa sul letto con l’ipod e mi sono risvegliata verso le dieci, dovevo andare  in bagno. Poi ho ripreso ad ascoltarla e… mi sono alzata alla solita ora, senza nessun problema.”
“Davvero? Che cosa stavi ascoltando di preciso?”, domandò l'uomo, con interesse.
“Beethoven.”
“Interessante…”, fece l’uomo, segnandosi qualcosa sul suo taccuino, “E quindi sei di buon umore perchè hai dormito?”
“Sì, proprio così.”
“E qual è il motivo per cui sei anche di cattivo umore?”
“Beh… ieri ho litigato con Gero.", disse Erin, incupendosi, "A dire il vero non è stata proprio una litigata… comunque mi ha fatto scappare la pazienza.”
“Lo hai trattato male?”, le fece.
“No… veramente è stato lui a prendersela con me. E sinceramente ancora non ho capito per quale motivo.”
“Permettimi di dire come la penso io su questo fatto. Tutto questo non può farti altro che bene, lo sai. Il distacco da Gero è una cosa positiva per te.”
“Dottore, senta, non torni di nuovo a parlare di quella cosa!”, protestò Erin.
“Invece lo faccio, eccome, e mi starai anche ad ascoltare. Gero è per te un sostituto di tuo fratello. Dopo la sua morte ti sei sentita spaesata perchè non avevi più nessuno che potesse prendere il posto di Ben. Quando sei arrivata qui e hai incontrato lui, hai iniziato a stabilizzarti, hai ritrovato il tuo equilibrio. Ma Gero non è Ben, non lo potrà mai essere e, quando te ne renderai conto, sarà un duro shock per te.”
“Lo so benissimo che Gero non è Ben! Non sono una bambina piccola!”, esclamò Erin.
“Lo sa il tuo conscio… ma non il tuo inconscio.", riprese speditamente il dottore, "Adesso ti senti di nuovo spaesata, senza una guida, senza nessuno che possa sostenerti... sei di malumore perchè sei senza Ben, e senza Gero. Approfitta di questa momentanea separazione da lui e falla diventare permanente. Devi trovare dentro te stessa le redini della tua vita, non in un’altra persona.”
“Non sono affatto d’accordo con lei.”, ripetè per l'ennesima volta  Erin.
“Ma so che se non sarà lui a chiederti scusa", puntualizzò Bebel, " e a venire, come si suol dire, in ginocchio da te, tu non lo perdonerai mai perchè sei troppo orgogliosa. Quindi c’è un altro punto a sostegno della mia teoria. Allontanati da Gero e comprendi realmente che Ben non c’è più.”
Erin roteò gli occhi annoiata, era un anno e mezzo che sentiva le solite parole uscire dalla sua bocca. Era un anno e mezzo che lei faceva sempre l’esatto contrario. Eppure non poteva smettere di pensare che il dottor Bebel fosse l’unica persona sana di mente tra tutti i dottori psicologi della clinica. Era strano, non sapeva spiegarselo, ma aveva molta stima nei suoi confronti.
“Ma spiegami adesso il motivo per cui avete litigato.”, le disse.
“Beh… parto dal prologo oppure vado diritta all’epilogo?”
“Se c’è anche l’introduzione e il titolo della storia, vorrei sapere anche quelli.”
Erin iniziò il suo racconto, partendo dal momento in cui aveva sentito i due fratelli Kaulitz litigare nella sua stanza. Gli disse che quel litigio le aveva ricordato una delle tante lotte tra suo fratello e suo padre, che erano volate le stesse parole e le stesse accuse tra i due gemelli. E che in quel momento aveva capito che non voleva assolutamente che Tom abbandonasse suo fratello e viceversa, come era successo a lei. I due fratelli Geller, separati prima dalla scuola e dalle amicizie, si erano trovati a combattere contro l’alcolismo di Ben… poi, la morte di lui, la seconda e più drastica separazione, aveva portato sulla via dell’inferno Erin. Due persone, così legate dentro, non potevano vivere l’una senza l’altra. 
I Geller come i Kaulitz, la stessa sorte, gli stessi guai
Ed Erin non voleva vedere questa storia ripetersi, anche se la stava vivendo un deficiente senza spina dorsale come Tom.
“Non credo di seguirti, Erin. Fino all’altro ieri volevi vedere Tom soffrire nel baratro più nero ed oscuro dell’inferno… cito le tue testuali parole, e adesso cerchi di aiutarlo?”
“Ha capito bene, dottore.”, disse lei, sospirando ed abbassando lo sguardo sconfitta.
“Beh… questo mi stupisce Erin. Davvero.”
“Pensava che la strega cattiva dell’est non potesse diventare buona come le sue sorelle del nord e del sud?”, disse lei, citando la sua favola preferita, ‘Il mago di Oz’.
“Me ne ero quasi convinto.”, disse l’uomo, sorridendole.
“Tutti possiamo cambiare. Adesso ho capito il vero senso di questo tutoraggio… la direttrice voleva farmi comprendere questo, che la solitudine uccide. Uccide dentro, e poi fuori. Io e mio fratello siamo rimasti soli, l’uno senza l’altro. Il primo a cedere è stato lui… poi io. E così sta per succedere a Tom. O gli è già successo...”
Il dottore la guardò, poi si segnò alcune cose sul taccuino.
“Quindi mi viene da ribadire che la sua tesi è sbagliata… se mi separa da Gero, mi uccide. Per la seconda volta. Lui è il mio migliore amico, è l’unica persona che ho al mondo.”

Durante l’ora di disegno, Erin non riuscì a concludere niente. Tutte le altre partecipanti avevano ripreso le loro pitture, lei invece non poteva smettere di guardare fuori. Pensava, pensava e pensava, con il pennello in mano, e non riusciva a dipingere. Faceva un tratto qua ed uno là, ma alla fine delle due ore nemmeno metà della sua natura morta era stata completata. Più volte fu richiamata dall’insegnante, ma oramai conosceva così bene Erin che sapeva che i rimproveri non lei non funzionavano, e la lasciò distrarsi quanto voleva.
Continuava a chiedersi che cosa aveva fatto saltare la molla a Gero. Alla fine della lezione sarebbe andato da lui, a domandargli spiegazioni.

“L’hai risolto quel problema?”, gli chiese Derek, alle sue spalle. 
Era il tecnico informatico, assunto per dirigere l’aula dei computer e per monitorare il sito internet.
“Sì, l’ho fatto.”, rispose Gero, massaggiandosi gli occhi.
“Appena ne ho parlato con la direttrice… era a diro poco su tutte le furie con Emil. Cosa gli è passato per la testa? Cambiare il curriculum dei medici! Farli passare per pornostar di fama internazionale!”, disse l’uomo, reprimendo la risata che al solo pensiero era nata sul suo viso.
Bene, pensò Gero, meglio tardi che mai! C’era voluto un mese prima che se ne accorgessero, oramai non ci sperava quasi più.
“Mi stupisco di lui… di solito sei tu a fare queste scemenze.”, disse Derek.
“Eh no! Stavolta io non c’entro niente!”, disse Gero, “Quella sezione è la sua, ha una sua password e io non la so.”
A dire il vero, Emil, alias Vomito, aveva stupito Gero con la sua password. All’inizio, quando aveva effettuato l’accesso, prima di mettere il programma per craccarla, si era spremuto le meningi e aveva provato ad indovinarla. Ma né la sua data di nascita, né il numero della sua stanza erano le parole giuste. Così aveva infilato il floppy ed aveva avviato il programma. Alla fine, quando lesse che la password era il suo nome Emil, Gero non potè altro che darsi dello stupido. Un cerebroleso come lui non poteva altro che scegliere una password così stupida…
Ciccò sul quadrettino ‘spegni computer’ e lasciò l’aula informatica, dove aveva lavorato per almeno tre ore a rimediare al suo stesso scherzo. Appena Derek gli aveva chiesto di reimpostare le pagine truccate, aveva avuto l’impulso di andare da Erin e dirle tutto, per vedere che faccia avrebbe fatto! Sicuramente avrebbe iniziato a ridere come una scema.
Andò verso il parco della clinica, voleva farsi un giro sull’altalena. Magari l’avrebbe trovata lì, le avrebbe fatto un po’ il muso. Ma lei non c’era, sicuramente era ancora al corso di pittura. Si mise a cavalcioni sull’altalena e iniziò a spingersi, avanti ed indietro, con la testa appoggiata sulla catena alle sue spalle. Non voleva pensare, voleva la mente sgombra da tutto.
Guardò il cielo, colorato di grigio: stava per mettersi a piovere, le nuvole sembravano abbastanza cariche di acqua e si sentiva una certa umidità entrare nelle ossa. Nemmeno la prima ventata fredda lo distolse dal suo dondolio. Con la testa volta verso l’alto, sentì le prime gocce cadergli sulla faccia, come lacrime, e solcargli le guance rosate. Era bella la pioggia, era bello sentirsela scorrere addosso, era bella la sensazione del gelido freddo sulla pelle. 
Il giorno del funerale di sua nonna pioveva così forte che per poco non si smottò la terra che contornava il bordo della fossa. Si ricordò come suo padre guardava continuamente l’orologio, chiedendosi quando sarebbe finito tutto e quando sua suocera sarebbe stata sepolta da almeno due metri di terra. Doveva proprio morire il giorno in cui stava per firmare uno dei contratti più importanti della sua carriera? Abbracciava il figlioletto, protetti da un grande ombrello nero. Gero era l’unico a piangere: nemmeno sua madre, cioè la figlia di sua nonna, stava versando una lacrima. Forse solo una o due, non poteva dirlo con certezza, un paio di spessi occhiali neri le coprivano gli occhi. Pochi altri parenti assistettero alla cerimonia, c’erano solo lui, i suoi genitori, sua zia, suo zio e i loro rispettivi figli, oramai tutti grandi e vaccinati.
Gero invece aveva solo undici anni. Tutto quel tempo lo aveva trascorso con lei, la nonna Gretel: viveva a una ventina di chilometri dal centro di Berlino, in una zona divisa tra le città e la campagna. I suoi genitori lo lasciavano da lei durante la settimana e venivano a prenderlo il venerdì.
Il suo primo attacco di panico avvenne quando fu il momento di lasciare il cimitero. Gero sentì i suoi polmoni chiudersi su se stessi, iniziò a soffocare, con la testa che scoppiava. Lo portarono all’ospedale e i dottori dissero che era solo un disturbo passeggero, legato al lutto, che non si sarebbe più ripresentato....
Certamente!
Il primo psicologo disse che lo faceva per attirare l’attenzione dei suoi; il secondo affermò che poteva essere legato ad una forma epilettica molto leggera; il terzo, l’ultimo, disse che Gero, oramai quindicenne, aveva bisogno di una dose di calmanti, ogni volta che stava per arrivare un attacco di ansia, o di panico, o di quello che era. 
Ancora le ciliegie, ancora la pillola che tira l’altra… un altro abbandono, un’altra dipendenza…
Due dita gli puntellarono alle spalle, facendolo emergere dai suoi pensieri.
“Ciao frocio.”, gli disse Emil.
“Che cazzo vuoi Vomito…”, rispose Gero, tornandosene a testa all’insù.
“Lo sai cosa mi devo sorbire per colpa tua?”, fece l’altro, “La direttrice mi ha negato di frequentare il corso di chitarra e mi ha proibito di toccare il computer per tutto il periodo di permanenza qua.”
“E a me? Dovrebbe interessarmi?”, fece Gero.
“Guarda stronzo che lo so che sei stato tu a fare quella cosa al sito internet.”
“Non è vero…”, disse Gero, guardandolo dritto negli occhi. 
Vide anche che non era solo, che si era portato dietro un paio di amiconi.
“Hai craccato la password, lo so.”
“Non ne hai le prove.”, disse Gero, con tranquillità.
“Sei tu l’hacker della clinica, ti conosco bene.”
“Ma che bel complimento. Non è che con la pioggia ti restringi?”, disse Gero.
Emil stava per tirargli un pugno in faccia, ma uno dei suoi compagni di giochi lo fermò.
“Andiamo Emil, ti metterai due volte nei guai e basta.”, lo avvertì.
“Cosa me ne frega, il prossimo mese me ne vado di qua. Se poi mi sbattono fuori prima, tanto meglio.”, disse il ragazzo, e poi mollò un pugno in piena faccia a Gero, che cadde dall’altalena nella fanghiglia. Si toccò il labbro inferiore, gli faceva un male cane, e vide che sulla mano c’era del sangue. Voleva rispondere, ma sapeva di non poterlo fare.
“Avanti! Reagisci! Aspetto solo te!”, disse Emil con rabbia, spostando l’altalena e chinandosi su di lui.
“Vattene…”, sibilò Gero. 
Sentì il fango impregnargli i vestiti.
“Colpiscimi! Colpiscimi qua!”, gridò l’altro, indicandosi il naso.
Gero fece per alzarsi e allontanarsi, ma un nuovo pugno di Emil lo colpì all’occhio, facendolo cadere con la faccia a terra, contro il fango.
“Emil! Basta!”, gli disse uno dei suoi amici, prendendolo per un bracco e portandolo via.
Seduto sul pantano, Gero cercò di pulirsi la faccia come meglio poteva. Emil aveva avuto quello che si meritava per aver continuato a chiamarlo frocio dal primo momento che era entrato in clinica. Non gli importava dei pugni, non lo avrebbe nemmeno accusato di fronte alla direttrice.
Se ne tornò in clinica, sporco e bagnato, fregandosene pure dei rimproveri che gli lanciavano gli infermieri e gli altri pazienti. Andò dritto in camera, si tolse gli abiti sporchi e li gettò nella spazzatura. 
Dall’acqua della pioggia a quella della doccia, lavò via tutto il fango che aveva accumulato sulla pelle. Si rivestì velocemente, la primavera di maggio sembrava essere stata sostituita con un brutto inverno di dicembre e in camera era entrato il freddo glaciale dell’acquazzone. Un paio di jeans, una maglietta, una felpa rossa e nera e le sneakers, poi dritto in sala tv, a leggere un giornale o a guardare qualche programma, in attesa della cena.
Appena uscì dalla stanza e si voltò, di trovò di fronte a Tom, il cavernicolo, oramai a testa rasata e pulita. Lo guardò con un certo rancore, avrebbe voluto stringergli al collo quella maglietta extralarge, gli aveva solo portato guai da quando era arrivato.
Tom lo squadrò, chiedendosi chi fosse stato a ridurlo con un occhio rosso, in tendenza al nero, ed un labbro rotto e ancora leggermente sanguinante.
“Signor Lang!”, si sentì chiamare dal fondo del corridoio.
Gerò vide che era la direttrice, e che stava venendo verso di lui.
“Ma… signor Lang! Cosa ha fatto alla faccia?”, gli domandò, mentre si avvicinava.
“E’… è stato lui!”, disse, indicando un innocente Tom, “Mi stava picchiando perchè… per niente! Senza motivo!”
La direttrice guardò Tom piena di rabbia e gli chiese spiegazioni.
“Sta mentendo! Non è vero niente!”, disse Tom, in sua discolpa.
“Signor Kaulitz, non è la prima volta che mi mente! Venga dritto nel mio ufficio!”, disse la donna, girando i tacchi e aspettando di essere seguita dal Tom.
“Me la pagherai cretino!”, disse Tom a Gero.
“Allora vogliamo continuare?”, disse la donna.
Ecco, adesso se la sarebbe vista  con lei, disse Gero, tra sé e sé.



Eccoci qua! Io, che sogno di nascosto Tom senza i rasta, lo faccio tornare rasato per la seconda volta! La prima, per chi non se lo ricordasse, era in 'Last night a rocker...'. Spero non vi dispiaccia e, se invece vi dispiacesse... sorry! La storia è mia XD scherzo, ovviamente, spero che per un particolare del genere non vi scandializzate troppo....

A proposito, Ben me lo sono immaginato con la faccia dell’attore che fa il contabile in Ugly Betty… ovviamente nella versione normale, non so se lo avete mai visto senza gli occhiali e i capelli appiccicati alla testa… o se avete mai visto Ugly Betty… comunque, si chiama Christopher Gorham e questo è il suo sito ufficiale, l’ho cercato apposta per farvi capire chi è.
http://www.christophergorham.com/  

E ovviamente non poteva mancare qualcuno che, da diverso tempo a questa parte, mi fa fare sangue… un modo molto volgare per dire che mi ispira sesso!... bonjour finesse!  http://www.milomania.net/itahome.htm   in altre parole nient’altro che la mia immagine ideale di Gero, il mio pg preferito di questa storia. Sapete, tifo per lui! Le immagini di lui in alto, quelle dell’intestazione del sito, sono una rappresentazione reale dell’uomo delle mie fantasie… e ovviamente di Gero!

TITOLO: 'Il mago di Oz', la favola preferita di Erin, scritta da L. Frank Baum. Libro bellissimo, film un po' meno... no scopo di lucro.

Prima dei ringraziamenti, volevo mandare un saluto speciale a Judeau, anche se l'ho fatto nel suo post, sperando che un giorno, prima o poi, riuscirà di nuovo a leggere questa e tutte le altre stupende storie che vengono pubblicate su questo sito. Non mancano anche a voi le sue recensioni? A me sì... comunque, speriamo che tutto il casino gli si risolva presto... Un bacio e un abbraccio a Judeau!

MissZombie: grazie grazie grazie per tutto quello che hai scritto (e per tutti i trip mentali che ci facciamo su msn!!! altra variante: occhiali da sole, sdraio, mojito, e maracaibo sparato dallo stereo a tutta palla, noi che balliamo con il boa di CowgirlSara... allucianzione poste vendemmia!). Realtà purtroppo, dici bene, perchè storie del genere, ma anche molto peggiori capitano davvero... Era estremamente necessario che arrivassero perfino ad odiarsi, altrimenti che gusto c'era sennò?.... muhahaha che sadica che sono! Grazie di tutto Martinetta XD ci sentiamo prossimamente su msn!!! Ah, ho visto poi un pezzo dello speciale sui Tokio, ieri sera (giovedì) e ti dico sinceramente che mi impaurirebbe stare nel mezzo a tutte quelle assatanate urlanti e piangenti... ho paura di tornare sorda....

CowgirlSara: fiumi di lacrime per te? No no no, siamo forti! XD comunque grazie per ciò che hai scritto! C'è chi si riduce così ed ha i miliardi, la porca (la porche...) e la merdeces (questa la lascio alla tua immaginazione) e proprio non li capisco (come il Tom della mia storia)... comunque, i miei personaggi troveranno davvero la forza per andare avanti, ma dovranno fare a testate contro il muro per diverse volte... e chissà se ce la faranno? Io sono per l'happy end, ma non ne sono poi così sicura... XD

Fly: Uè! La recensione in diretta con la lettura non me l'avevano mai fatta! Wow! Dopo un mese non si sono pestati a sangue, ma qualcuno ha perso i capelli e anche un po' di dignità.... XD cosa c'è che non ti quadra? Ecco, è importante che tu me lo dica, sinceramente, perchè ho sempre il terrore di creare qualche sbaglio, di dimenticarmi qualcosa... dimmelo così ho la possibilità di rimediare agli errori!!! Certo che era Bill! Era andato a trovarlo, ma le cose non sono andate poi così bene... insomma, la risposta alla recensione in diretta non sono proprio capace di farla! Comunque, davvero, dimmi cosa c'è che non ti torna, così rimedio! Grazie mille per il tuo fiume di parole, mi fa scompisciare dalle risate!!!!

Ruka88: dai, andiamo, sto pensando all'happy end, ma non è quello che ti immagini tu, niente Bill/Erin o Tom/Erin. No proprio no XD riusciranno a capirsi? Chi lo sa! Faccio sempre la vaga, ma già da questo capitolo ci saranno delle sonore testate, non solo tra i due... chi avrà le corna più forti?

Sososisu: bello il grazie a Budda! Originale! Potrebbe essere una battuta di Erin! Comunque lasciamo stare i brufoli che io ne ho due sul mento, a ventidue anni, e cerco di ucciderli in ogni modo ma sono peggio dell'erbaccia! Argh!!!!! Scrivere le loro emozioni non è facile, cerco sempre di farlo al meglio, e se ogni tanto qualcuno mi dice che sono palpabili, allora forse un buon lavoro l'ho fatto. Sono sempre così esigente da me stessa! Grazie mille quindi!!!!

Carillon: non è solo ghiaccio, è un permafrost quello che si è creato tra i due... d'altra parte anche io un po' ce l'avrei se mio fratello facesse cose del genere... magari non sarei stata così dura... ma la storia è la storia XD altrimenti se tra i due andava tutto bene che gusto c'era? Sadica fino in fondo! Grazie per la recensione!!!

Alanadepp: ciao macale! Grazie per la tua email e anche per la recensione! La fantasia la trovo prima di andare a letto, soffro un po' di insonnia ultimamente e penso penso penso penso! Non mi dire che speri che la mia insonnia duri altro... perchè ho due occhiaie che posso metterci la spesa dentro! Comunque grazie ancora! A presto!

Lidiuz93: meglio uno stress come il tuo che tanti altri tipi di stress! Fa sempre piacere essere stressati dalle recensioni positive! XD Prossimamente si diraderà tutto ancora... e chissà che verso prenderà la storia.... Grazie mille!!!!

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Capitolo 7
*** A lie is worther than the truth ***


 

A LIE IS WORTHER THAN THE TRUTH




Erin fece un salto in sala tv, magari avrebbe trovato lì Gero e gli avrebbe parlato a quattr’occhi. Infatti aveva avuto ragione, era seduto sulla sua poltrona, con un quotidiano aperto davanti a sé. Appoggiò un dito sulla piegatura centrale delle pagine e glielo fece abbassare, senza però riuscirci
“Ciao.”, disse lui, riassettando il giornale e riprendendo a leggerlo.
“Da quando in qua ti interessano le notizie estere?”, gli chiese lei, prendendo una sedia e mettendola di fronte a lui. Vi si sedette al contrario e appoggiò le braccia incrociate sulla spalliera.
“Da sempre.”, rispose l'altro, asettico.
“Stai mentendo.”
“Ultimamente mi piace farlo.”
“Togli questo giornale davanti. Oppure facci due buchi nel mezzo, come fanno i guardoni.”, disse Erin.
“No.”
“Andiamo Gero… voglio parlarti.”, gli fece, quasi in tono di supplica.
“Io no.”
Erin, senza muovere ciglio, prese il giornale e glielo strappò di mano, facendolo volare per terra.
“Oh mio dio… Gero, cosa ti è successo?”, fece lei, vedendo lo stato in cui era la sua faccia.
“Niente…”
“Ma come niente! Ti hanno preso a pugni!... e la ferita sul labbro sicuramente si infetterà. Andiamo in infermeria. Ti medicheranno.”
“No, tranquilla, sto bene così.”, rispose lui, divagando lo sguardo altrove.
“Dimmi chi è stato.”, gli impose di risponderle.
“No.”
“Ancora con questi no! Dimmi chi è stato!”, insistette lei.
“Indovina… il tuo nuovo super amico.”, disse lui, incrociando le braccia e abbassando la testa.
Erin era incredula.
“Tom? E’ stato... Tom?”, fece, perplessa.
“Sì…”
“E perchè lo avrebbe fatto?”, chiese lei, preoccupata.
“Perchè… non lo so, gli ho chiesto se quelle grosse occhiaie che aveva stamattina erano dovute ad un’intensa attività masturbatoria… e lui mi ha preso a pugni.”
“Tu... hai reagito?”
“No… non volevo essere espulso… ma mi sa che toccherà a lui.”
Erin scosse la testa.
“No, la direttrice gli farebbe solo un piacere se lo cacciasse fuori.”, disse poi.
“Cosa?!? Noi veniamo presi a calci in culo se ci bastoniamo a vicenda e lui no?”, disse Gero, arrabbiato.
“Parlo con la Popper di lui ogni settimana e le ho detto che ha già tentato di scappare una volta… e che vorrebbe farlo tutt’ora, anche se sembra molto a suo agio qui, più di tutti noi. E lo sai come reagisce la stronza di fronte a queste cose...”
Gerò sbuffò, toccandosi il labbro dolorante. Non sarebbe servito a nulla accusare lui di una cosa che non aveva fatto solo per farlo espellere, ma almeno poteva contribuire a farlo tornare sotto una cattiva luce agli occhi di Erin…
“Appena lo trovo gli farò passare quella sua cazzo di mano pesante…”, disse Erin.
“Non ti è bastato tagliargli i rasta?”, disse Gero, sorridendole, “Mi chiedo ancora come tu abbia fatto.”
Anche Erin sorrise...
Gli spiegò che lo aveva trovato ubriaco, in bagno, di notte. Non sapeva chi gliel’aveva passata quella bottiglia. Così, per punirlo in anticipo su tutti, si era vendicata sui suoi amati capelli.
“Una bottiglia? E adesso dov’è?”, le domandò. Forse se non l’aveva gettata via le sarebbe stata utile.
“E’ nel suo comodino…”, disse lei, confidandogli il segreto.
“Wow! Te lo immagini? Già verrà punito per quello che mi ha fatto e ora c’è anche quella bottiglia! La direttrice lo espellerà di sicuro!”, fece, entusiasta.
“No, ti ho già detto che non lo farà. Forse gli sequestrerà la chitarra, oppure gli vieterà di andare nel parco… boh, non so, ma non gli succederà niente.”
Un ticchettio conosciuto stava avanzando verso di loro. Era la direttrice.
“Signor Lang, nel mio ufficio.”, disse al ragazzo.


Cinque minuti dopo, Gero e Tom si trovavano di fronte alla direttrice.
“Signor Gero, può spiegarmi gentilmente cosa è successo tra voi due?”, gli chiese la direttrice.
“Certamente…”, disse Gero e, con un bel respiro, iniziò a raccontare la sua storia, “L’ho incontrato nel corridoio e gli ho domandato se le grosse occhiaie che aveva erano dovute a qualcosa di proibito che aveva ingerito… oppure bevuto. E lui mi ha picchiato.”
“Non è vero! Non è vero niente!”, disse Tom, ribadendo la sua innocenza, "Io ero in camera mia solo per posare la chitarra, sono uscito e me lo sono trovato davanti, con un occhio tumefatto e un labbro rotto. Lo ha picchiato qualcun altro, non io!"
“E cosa intendeva, signor Gero, quando ha detto che aveva delle occhiaie?”, chiese la direttrice al ragazzo pestato.
“Che stamattina era in uno stato pietoso…", si spiegò Gero, "Sembravano postumi di una sbornia. Scommetto che la bottiglia si trova ancora in camera sua. Magari nel suo comodino…”, senza però dire niente che poteva mettere Erin nei guai.
“Sbornia? E’ vero questo signor Tom?”
Lui si sentì gelare il sangue nelle vene, ma rimase comunque lucido e fermo.
“No, ho avuto solo una nottataccia… semmai erano sintomi di astinenza, ho avuto mal di stomaco e non ho mai dormito.”, disse lui, mentendo ma nascondendolo abilmente.
“E cosa le è successo ai capelli? Sono venuto a sapere che le sono stati tagliati direttamente dalla sua compagna di stanza, nonché sua tutrice. E che si è molto arrabbiato con lei stamattina, in mensa.”
“Sì… è vero, me li ha tagliati mentre dormivo… ma è una cosa tra me e lei, abbiamo litigato, lei si è arrabbiata con me e… insomma. Lo vede anche lei.”
“Beh… devo ammettere che era l’ora che desse una ritoccata al suo aspetto, ma non è di questo che stiamo parlando.", disse la direttrice. Si tolse gli occhialetti dal naso e sospirò, "Signor Kaulitz, adesso mando qualcuno a ispezionare la sua stanza. Se troveremo qualcosa che non dovrebbe esserci, prenderemo seri provvedimenti.”
“E… in altre parole?”, chiese Tom, con voce lievemente incerta.
“Mi vedrò costretta a chiamare un’altra clinica e a farla trasferire. Non vogliamo problemi qua dentro.”, disse la donna.
Bene, si disse Gero, così stava per levarselo dai piedi.
“Adesso potete andare.”, disse la donna.
I due ragazzi lasciarono la stanza e Tom fece di tutto per non cercare altro contatto con Gero, altrimenti gli avrebbe davvero messo le mani addosso e lo avrebbe riempito di ecchimosi e di fratture alla faccia. Aveva capito in un attimo il suo piano: era geloso di lui, perchè aveva capito che aveva messo in bilico la sua amicizia con Erin.
Non ci voleva un genio a capire che era diventato scemo per lei.
Magari si era fatto picchiare apposta per metterlo nei guai e farlo trasferire da qualche altra parte.
Che testa di cazzo… doveva trovare un modo per ribaltare la sorte.
Prese le scale e cercò di Erin, chiedendo in giro se qualcuno l’aveva vista. Un ragazzo, di cui non ricordava il  nome, gli disse che era in sala tv.
“Erin!”, la chiamò, distogliendola dalla lettura di un giornaletto.
“Eccoti!", disse lei, andandogli incontro arrabbiata come poche altre volte, "Ma cosa pensi di fare? Perchè hai picchiato Gero?”
“Stammi a sentire, ne parliamo dopo!”, le fecem prendendola per una mano e facendola alzare.
“Eh no! Ne parliamo ora brutto deficiente!", esclamò lei, liberandosi dalla presa, "Spero solo che la Popper ti tolga presto da questo posto altrimenti ti uccido con le mie stesse mani!”
"Gero ha mentito, io non gli ho fatto niente, mi ha incastrato.", le disse, "Non ho mosso un dito su di lui… e ha detto alla direttrice che stanotte ero ubriaco.”
"Piantala alcolista!", gli gridò contro, "Non ti azzardare mai e mai più ad infangare il nome degli altri!"
“Erin… io sono innocente!”, fece lui, che stava per scoppiare dal rancore che gli ribolliva dentro.
La ragazza lo fissò negli occhi, notò in lei l'indecisione...
La prese per una mano e la portò fuori dalla sala tv, avevano già dato troppo spettacolo.
“Dove l’hai messa la bottiglia? E’ nel mio comodino vero?”, le chiese, a bassa voce.
“Quale?... ah, quella bottiglia…”, disse lei, comprendendo subito quale fosse stata la vera paura di Tom.
Ne rimase alquanto disgustata.
“Stanno per fare un’ispezione… "
“Non me ne importa un cazzo.”, ringhiò Erin.
“Allora farò da solo... devo farla sparire!”, disse Tom, iniziando a correre.
Doveva sbrigarsi o lo avrebbero scoperto… correva per i piani, andò fino al terzo ma fu troppo tardi.
La donna cannone, quella che era venuta spesso a controllare l’ordine delle stanze, stava in quel momento aprendo il comodino. Ecco, chiuse gli occhi, trattenne il fiato e si aspettò che il mondo gli crollasse addosso.
“Non c’è niente qua dentro.”, disse la donna, “La tua camera è pulita, ragazzo.”
Tom riprese a respirare, affannando e tossendo. La bottiglia non c’era dove gli aveva detto Erin… e allora dov’era? Era impossibile che lei l’avesse recuperata prima dell’inizio dell’ispezione.
“Il bagno era pulito, la tua parte di stanza anche… o il tuo amico sta mentendo, oppure sai nascondere le cose troppo bene.”, disse la donna, uscendo dalla stanza.


Erin era entrata in sala mensa di soppiatto, senza farsi notare troppo. A quell’ora non era perfettamente disabitata, ma c’era sempre Polpettone su cui fare affidamento. Era quasi l’ora di pranzo per il terzo piano ed i vecchiettini, il cui turno era prima di loro, stavano per lasciarla e tornare alle loro attività di gruppo pomeridiane.  La donna la fece entrare dentro la cucina, in quel lasso di tempo erano tutti occupati nel preparare altre pietanze e non avrebbero fatto molto caso a lei.
Andò verso la zona della raccolta rifiuti: prese la bottiglia che aveva nascosto sotto la sua larghissima felpa e la gettò nel grosso contenitore del vetro. Se n’era sbarazzata prima che diventasse una patata bollente e che le sfuggisse di mano… e aveva fatto bene. Ringraziò con un gesto della testa Polpettone, alias Maria, che contraccambiò con una sigaretta del suo pacchetto appena aperto.


Tom cercò di trovare di nuovo Erin, voleva parlarle, spiegarle ancora che non era stato lui, che non c’entrava niente e che Gero era un bugiardo del cazzo.
Ma li trovò insieme, in giardino, mentre il sole sbucava di nuovo tra le nuvole, a dondolarsi con lui sull’altalena, non curanti del bagnato intorno a loro. Sembrava si stessero fumando una sigaretta e stessero chiacchierando.
“Spiegami per bene come è andata.”, chiese Erin al suo amico, mentre gli teneva la bustina del ghiaccio, prima che lui se la mettesse sull’occhio.
“Te l’ho detto… nel corridoio, davanti alle nostre stanze, gli ho detto ‘hey, cazzo, fai qualcosa per quelle occhiaie oppure smetti di finirti dalle seghe!’… lui, di risposta, mi ha colpito in un occhio e sulla bocca. Anzi, prima sulla bocca e poi sull’occhio, un bel messaggio subliminale: dovevo stare muto e non dovevo guardarlo più.”, le raccontò.
“E vi ha beccato la direttrice mentre vi azzuffavate?”
“No, è arrivata alla fine…”, disse Gero, “E il resto lo sai.”
“Hanno fatto un’ispezione in camera nostra… ma non troveranno mai niente.”, disse Erin.
“Come fai a saperlo?”, chiese Gero, “Non mi avevi detto che la bottiglia era nel suo comodino?”
“No, non era vero… l’ho buttata via oggi, prima del pranzo. Ho mentito.”, disse Erin, prendendo una boccata di fumo e facendola uscire lentamente dalle sua narici. Non fumavano molto spesso e per questo cercava di gustarsi tutta la sigaretta con calma.
“Ah…”, fece Gero.
“Perchè hai fatto la spia alla direttrice sulla bottiglia?”, domandò lei, facendosi seria.
“Mi sembrava giusto… e poi lo avevo anche capito da solo che aveva bevuto, stanotte, glielo si leggeva in faccia.”, si giustificò prontamente Gero.
“Fatto sta che sembra che tu abbia voluto farlo apposta… volevi farlo cacciare o sbaglio?”
“Io?!? No, non è così, credimi! Non è vero!”
Erin lo guardò dritto negli occhi, intensamente.
Cavolo... a volte spaventava essere scrutati in quel modo, pensò Gero.
“Ok… e poi perchè avresti dovuto farlo?”, continuò lei, “In fondo, io sono la sua tutrice, avresti messo nei guai anche me. Se avessero davvero trovato la bottiglia io sarei stata accusata di complicità. Come posso non accorgermi che lui si sta ubriacando nel mio bagno? Avrebbero cacciato anche me, non ti pare?”, disse Erin.
Piccolo particolare a cui Gero non aveva pensato. Anche se aveva parlato in modo che lei sembrasse del tutto estranea, Erin era la sua tutrice e parte delle responsabilità di Tom erano le sue…
“Meglio così, allora.”, disse Gero, “Ha detto la direttrice che lo trasferiranno.”
“Continuo a dirti che non succederà.”, ripetè Erin per l’ennesima volta.


Quando lo aveva guardato nel profondo degli occhi, Erin comprese che Gero non le stava dicendo tutta la verità. Ne era sicura, quando mentiva gli si inarcava sempre il sopracciglio destro, quasi involontariamente. Certamente lui nemmeno se ne accorgeva, però Erin lo conosceva come le sue tasche.
Gero le stava mentendo… e lo stava facendo per via di Tom. Però era inconcepibile.
Entrò nella stanza, stanca e con le spalle doloranti. Aveva preso tanto di quell’umido fuori, sull’altalena, che la mattina si sarebbe svegliata con un raffreddore da cavallo. Si sdraiò sul letto, emettendo un grugnito di soddisfazione nel sentire il morbido materasso afflosciarsi sotto il suo corpo.
“Hey…”, disse Tom, al di là della tenda nera chiusa.
“Ah… pensavo non ci fossi…”, disse Erin.
“Non so come tu abbia fatto… ma grazie per aver fatto sparire la  bottiglia... ti devo un favore enorme.”, le fece.
“Lascia stare.”, disse lei, che di quella storia non voleva più sentir parlare per qualche ora.
“Volevo… spiegarti cosa è successo veramente… e quando ti dico veramente devi credermi.”
“Senti, Tom, non so più cosa pensare…”
“Allora mettiamola così: tu ascoltami, poi pensa quello che vuoi.”, le disse, insistendo.
“Lo avrei fatto comunque.”, disse Erin, sbuffando, e si mise in attesa che l'altro iniziasse il suo racconto.
“Ecco… Gero dice che l’ho picchiato, ma non è vero. Io sono venuto in camera, forse erano le quattro e qualcosa, per posare la chitarra, dopo la lezione. Sono uscito e me lo sono trovato davanti già in quello stato. Guarda la sfiga, in quel momento arriva la direttrice. Lui mi punta il dito contro e festa fatta.”
“Sì… certamente…”, disse Erin, con tono irritato, “Raccontane una più credibile.”
“Secondo la sua falsa versione, io mi sarei incazzato perchè lui mi avrebbe chiesto se le mie occhiaie erano dovute a qualcosa che avevo bevuto. In pratica, volevo tappargli la bocca perchè aveva capito che mi ero ubriacato e io avevo paura che lui spifferasse tutto.”
Erin riflettè si quello che aveva sentito. Gero le aveva detto che aveva scherzato sulle sue occhiaie… ma non in quel modo, non si era riferito al bere.
“Sei sicuro che ti abbia detto in quel modo?”, gli chiese.
“Erin, lui non mi ha detto un bel niente! E’ il pretesto che ha raccontato alla direttrice…”, disse Tom.
“Va bene, senti, non mi interessa chi è colpevole e chi è innocente. Adesso voglio riposare un po’.”, disse Erin, mettendosi il cuscino sulla testa.
Cazzo, perchè non ci stava capendo niente in quella storia?
“Non lo so chi lo ha picchiato veramente… di certo non sono stato io.”, disse Tom, prima di uscire dalla loro stanza, “Ma posso capire perchè lo ha fatto.”
A fanculo, a fanculo tutti, si disse Erin, poco prima di addormentarsi


Fu svegliata dal bussare forte alla sua porta.
“Erin! Erin! Svegliati! E’ l’ora della cena!”, le diceva Gero.
“Arrivo… un attimo solo…”, borbottò lei, risvegliata improvvisamente dal sonnellino pomeridiano non del tutto previsto.
“Siamo in ritardo, sbrigati o finiranno tutto.”, disse lui.
Uscì dalla sua stanza che pareva un morto che camminava.
“Eccomi…”, fece Erin, con poco entusiasmo.
“Mmhh… che bella faccia che hai!”, disse Gero, mettendole un braccio intorno alla spalla.
“Evita.”, fece Erin, togliendoselo di dosso.
“Ho capito… ok, ti chiedo scusa per il brutto comportamento che ho avuto nei tuoi confronti negli ultimi giorni… e per le scenate…”, le disse, rendendosi conto dei suoi sbagli.
“Ecco le fatidiche parole… Erin, mi dispiace, è stata tutta colpa mia. Avanti dille!”, disse Erin, sorridendogli mentre pretendeva poco gentilmente le scuse.
“Erin… mi dispiace, è stata tutta colpa mia…”, ripetè Gero.
Erin sorrise all’amico ritrovato, rimise il suo braccio sulle sue spalle e si incamminò insieme a lui verso la mensa.
Era perplessa, ma non voleva assolutamente credere alla possibilità che lui stava mentendo. Era inconcepibile.
Ripresero il loro posto, davanti al riso con i piselli, tacchino alla griglia e le immancabili patatine fritte.
Gli altri li fissavano, soprattutto Gero, chiedendosi chi fosse stato a ridurre la sua faccia in quel modo.
“Posso darti un po’ di fondotinta su quell’occhio nero? Mi fai impressione!”, gli disse Erin, prendendolo in giro.
“Anche un po’ di rossetto per le labbra!”, le rispose Gero.
“Ma piantala… non si intonerebbe con le tue scarpe.”
“Ah… ah… ah…”, rise Gero, sarcasticamente.
Erin gli sorrise, facendogli una boccaccia, poi notò uno strano ed improvviso cambiamento sull’espressione dell’amico. Da sorridente, sembrò diventare tesa e preoccupata. Vide Emil, detto amichevolmente Vomito, avvicinarsi a lui, mettergli una mano sulla spalla e scuoterlo.
“Come ti va… panda?”, disse, scoppiando a ridergli in faccia.
Gero abbozzò una smorfia, più simile ad un ringhio che ad un sorriso. Erin non capì cosa voleva fare Emil, perchè si era avvicinato e, senza motivo, aveva salutato Gero, seppur con cattiveria. Non si sopportavano, quindi quel gesto era del tutto ingiustificato. Non gli dette peso, eppure le pareva di aver notato un particolare in Emil che la faceva pensare alla faccenda tra Tom e Gero.
“Cosa voleva?”, gli domandò Erin.
“Niente…”, rispose Gero.
“Voleva mandarti un messaggio, lo so… hanno scoperto del sito internet?”
“Sì… l’ho risistemato oggi, ma non mi hanno beccato. Hanno incolpato lui.”
“Allora voleva farti sapere che ha capito che sei stato tu.”, disse Erin.
“Forse sì… è stupido ma non più di tanto.”, disse Gero, “Ma cambiamo discorso… com’è andata oggi?”



Con Ludwig Van nelle orecchie, Erin si girava e si rigirava sotto le coperte. La sua testa continuava a fabbricare pensieri, uno dietro l’altro, anche senza senso e non riusciva ad addormentarsi. Si tolse le cuffie, spense l’ipod e sospirò sconfitta. Se non si fosse assopita con quella musica, avrebbe fatto di nuovo altri incubi. Guardò l’orologio, segnava mezzanotte in punto, la sua ora preferita.
“Non riesci a dormire nemmeno tu, vero?”, disse Tom, al di là della tenda.
“No… e mi girano molto le palle.”, rispose Erin.
“Dai, facciamoci una chiacchierata, così magari ci prende sonno.”, fece lui, al di là della tenda nera.
“Com’è che non sei in camera di qualcuna di quelle galline senza cervello?”, domandò lei per prima.
“Non è mica detto che debba sempre scopare prima di dormire.”, disse Tom, ridendo.
“Non volevo credere alle voci che mi giungevano alle orecchie… eppure sembra che più della metà delle femmine di questo piano abbiano avuto il piacere di conoscere il mini Tom.”, ironizzò Erin, con il suo solito torno di scherno.
“Io non lo definirei tanto mini. Non sono pochi trenta centimetri di dimensione artistica.”, si vantò Tom.
“Chi parla bene del suo pisello di solito ce l’ha piccolo…”, lo riprese lei.
“Lo dici per esperienza?”
“Sì, e non mi vergogno ad ammetterlo. Non sono una santa.”, confessò Erin.
“Chissà quante voci girano su di me, in questo piano.”, si chiese Tom, con poca modestia.
“Eh, troppe… e non fanno altro che gonfiare il tuo super ego… comunque non credo solo che alla metà di quello che sento. Anche quella rospa di Gabrielle dice di essere stata con te. Ma non credo che ti sia abbassato a cotanta bruttezza.”
“Eppure posso affermarti che ha una bocca che sembra un aspirapolvere.”, al informò Tom.
“Non essere troppo volgare!”, lo rimproverò Erin.
“Ok, alzerò il livello del mio linguaggio ad uno stadio superiore per non scandalizzarla, sua magnificenza reale.”
“Grazie… comunque, a parte le tue esperienze sessuali… volevo chiederti una cosa.”
“Sposto la tenda?”, domandò Tom.
“No, è più romantico se sta chiusa…”, consigliò Erin.
“Accendo due candele?”, riprese scherzosamente Tom.
“Perchè stai evitando le mie domande?”
“Cos’è che ti da questa impressione?”
“Tom!”, esclamò Erin, cercando di recuperare il filo della conversazione.
“Che c’è! Mica sono sordo! Avanti, chiedimi quello che vuoi.”
Erin prese un respiro, attendendosi un ringhio da parte del suo compagno di stanza.
“Hai… hai più sentito tuo fratello?”
Tom rimase in silenzio per qualche secondo.
“Non credo che ti riguardi.”
“Lo so, ma lasciami parlare… e soprattutto rispondimi.”
“No…”, disse Tom, sospirando.
Ecco, pensò Erin...
“Ti manca… vero?”, gli chiese.
“Basta, non mi va di toccare questo argomento.”
“Se ne parli, vedrai che ti sentirai molto meglio.”
“Non credo proprio, perchè basta pensarci per farmi passare la voglia di ridere.”
Erin cercò una domanda che non fosse così diretta, ma che lo costringesse a sforgarsi, almeno un po’… forse la tattica che aveva utilizzato tempo addietro, quando erano nel bosco, poteva servire di nuovo: iniziare a parlare di se stessa, sicuramente poi lui si sarebbe aperto a sua volta. Erin ci pensò bene, ancora non sapeva niente di cosa era successo a Tom…
“Vai nel mio armadio… c’è un cassetto con del nastro adesivo. Toglilo e aprilo.”, gli disse Erin.
Stava parlando di quel cassetto, quello in cui lui aveva già rovistato. Se n’era quasi dimenticato… Si alzò, andò nella sua parte di stanza e aprì l’armadio.
“Questo qua?”, le chiese, come se non ne sapesse niente.
“Sì, quello…”, fece lei, sedendosi sul letto e spostando le coperte.
Tom tolse via il nastro che aveva messo lui stesso e aprì il cassetto.
“Cosa devo prendere?”, le domandò.
“C’è un album fotografico, prendilo.”
Quando l’ebbe in mano, Erin gli fece cenno di sedersi di fronte a lei. A gambe incrociate, Tom aprì quell’album, che aveva già visto ma che non voleva rivelarlo. Lei accese la lucetta appesa al letto e si misero a guardare le fotografie.
“Beh… puoi saltare la prima parte, è abbastanza imbarazzante.”, disse Erin.
“No, dai… non mi metterò a ridere…”, fece Tom, che però lo stava già facendo sotto i baffi.
Era un po’ assurda quella situazione: lui e lei, acerrimi nemici, i Montecchi ed i Capuleti della clinica Sellers, seduti uno di fronte all’altra, pronti a rivelarsi le loro vite.
Non potette non soffermarsi di nuovo sull’ultima fotografia di Erin, quella in cui era vestita da coniglietta di playboy.
“Non guardare!”, esclamò lei, mettendoci prontamente le mani sopra.
“E perchè? Se ti avessi conosciuto in questo modo, sicuramente non mi saresti scappata con facilità.”
“Piantala… avevo quindici anni e tanti grilli per la testa… non sono nemmeno più quella della foto.”, disse lei, con una certa amarezza nella voce.
Vennero poi le fotografie del ragazzo, del suo fidanzato, pensava Tom.
“Chi è lui? Era il tuo ragazzo al tempo?”, le domandò.
“No, non ho mai avuto ragazzi.”
“E l’esperienza che ti sei fatta?”, fece lui.
“Beh… diciamo che per un periodo della mia vita sono stata una ragazza molto disinibita.”
“Insomma, ti piaceva darla via.”, sbuffò Tom, già pronto ad una drastica reazione di lei.
“Tua sorella!”, esclamò Erin, offesa ma allo stesso tempo divertita.
“No, non credo che sia una sorella, anche se molti lo pensano tutt’ora…”, disse Tom, ridendo, “Ma torniamo a questo bel personaggio sconosciuto… allora chi è?”
Erin prese l’album dalle sue mani e iniziò a sfogliarlo, toccando le fotografie delicatamente.
“Mio fratello Ben.”, disse.
“E quanti anni ha?”, le domandò.
“Sedici… quasi diciassette.”, rispose lei, continuando a guardare le fotografie.
“E vive con i tuoi?”
“No, non più.”, disse lei.
“Precoce il ragazzo! Vive già da solo!", disse Tom, poi riflettè, "Quindi tu saresti la sorella maggiore… anche io sarei il maggiore… di poco, solo dieci minuti.”
“No, non sono la sorella maggiore… il maggiore è lui.”, disse Erin, con voce molto bassa, quasi impercettibile.
Tom rimase perplesso.
“Scusami ma… non riesco a capire… tu hai quanto? Vent’anni?”, volle accertarsi.
Se suo fratello ne aveva quasi diciassette, allora lei doveva essere per forza nata prima di lui.
“Diciannove.”, lo corresse lei.
“Allora è impossibile che lui sia il fratello maggiore! Scusami, tu sei una diciannovenne! E lui è un diciassettenne!”
“Metti il verbo al passato.”, disse Erin.
“Cosa?…”, fece Tom, con faccia perplessa, “Lui è… lui era… diciassettenne.”
E comprese… Ben era il fratello maggiore di Erin.
Era.
“Mi… mi dispiace Erin, non lo sapevo.”
“Hai ragione, non te ne ho mai parlato.”, disse lei, asciugandosi una lacrima.
“E… insomma, se ti va di parlarne…”, disse Tom.
“E’ quasi incredibile, ma io e lui siamo nati nello stesso anno. Lui a gennaio… io a dicembre. Nostra madre è rimasta incinta di me solo due mesi dopo aver partorito lui. Dovevo nascere l’anno successivo, ma mi sono anticipata… e lui è morto il giorno del mio sedicesimo compleanno. Abbiamo voluto fare una pazzia… e lui ci ha rimesso la vita. Io nemmeno un graffio.”
Tom la ascoltava attentamente, ogni sua parola pesava su di lui come un macigno.
“Eravamo molto legati, l’uno all’altra. Non ci siamo mai separati fino alle scuole superiori… e lì è iniziato il problema… il problema di Ben. Che è il tuo stesso problema…. E dopo la sua morte è iniziato il mio.”
“Non… non mi sarei mai immaginato una storia del genere Erin.”, disse Tom, dopo qualche secondo di silenzio.
“Non ti preoccupare…”, disse lei, facendo spallucce.
“Stavate sempre insieme?”
“Sì… sempre, davvero sempre. Come te e Bill, solo che non siamo nati il solito giorno.”, disse Erin, sorridendo.
“Mi manca così tanto…”, disse Tom.
Con le braccia appoggiate alle gambe, si nascose la faccia nelle mani.
“Vuoi un consiglio? Anche se te lo da questa stronza di Erin, ascoltalo.”, gli disse, appoggiando una mano sulla sua spalla.
“Spara.”, disse lui, sospirando.
“Se mai Bill tornasse... buttati alle spalle tutti i rancori, tutti i risentimenti. Non lasciare che ti abbandoni per via della tua rabbia. Io e Ben ci siamo messi nei guai perchè nessuno aveva più il sostegno dell’altro, perchè le amicizie ci hanno diviso.... Perchè vuoi che questo succeda anche a te?”
“E’ stato lui a portarmi qua dentro, a rinchiudermi in questo posto!", disse Tom, sentendo tutto il suo rancore tornare a galla, "Io non ci volevo venire… lo so, lo ammetto… ho un problema di alcol, vorrei bere ogni secondo della mia vita! Ma non c’era bisogno di scaricarmi qui come un bidone della spazzatura...”
Erin poteva giurare che Tom stesse piangendo, ma sicuramente lui se ne vergognava e continuava a nascondersi la faccia nelle mani.
“Se perdi lui, non ne uscirai mai.”, gli disse.
“Posso farcela anche senza Bill.”, disse lui, alzando la faccia.
Era vero, stava piangendo. Si tolse le lacrime dagli occhi, imbarazzato per quel gesto da femminucce.
“No, Tom. Ora capisci perchè io e te siamo uguali? Entrambi abbiamo sempre vissuto con qualcuno al nostro fianco. I Geller come i Kaulitz. Non siamo abituati a vivere da soli. Io purtroppo lo sono e… guardami… andiamo, ti sembro sulla via della guarigione?”
“Qual è stato il tuo problema? A me sembri più che sana! Cosa hai avuto?”, fece lui.
Erin sospirò e poi lo disse.
“Dopo la sua morte sono caduta in depressione… e mi tiravo su con dosi stratosferiche di marijuana. Poi ci infilavo gli psicofarmaci che mi davano e anche qualche bicchiere di troppo.”
“Beh… sei pulita da un anno e mezzo. E questo basta per poter uscire di qui.”
“Ma non sono per niente uscita dalla depressione.”, disse Erin.
“Non è vero che sei sola. Hai la tua famiglia.”, fece Tom.
“Mio padre non ha nient’altro che il suo lavoro. Mia madre devo pensare al botulino per le sue rughe. E mio fratello non c’è più.”
“E il tuo fedele cagnolino Gero?”, le disse.
“Gero? Ha iniziato a mentirmi… non so più chi sia. Ma so benissimo che anche tu, come me, non sarai più nessuno senza Bill.”
“Non posso dimenticare da un momento all’altro quello che mi ha fatto.”
“Ma puoi sempre iniziare a provarci. Non lasciarti consumare dal rancore.”
Tom dovette ammettere che forse non aveva tutti i torti quel cespuglio di capelli.
Perchè non poteva semplicemente ammettere apertamente, davanti a Bill, i suoi sbagli? Magari anche lui avrebbe ammesso a sua volta i suoi errori. Forse avrebbero fatto pace…
“Allora, quando hai detto che Gero ti ha mentito, vuol dire che mi credi, che sono stato io a picchiarlo.”, disse Tom.
“Sì, ti credo.”, gli rivelò, sentendosi sprofondare dentro.
“E perchè lo fai? In fondo è la sua parola contro la mia…”, se ne stupì Tom.
Erin prese le sue mani e le girò, palmo verso il letto.
“Non hai lividi sulle nocche. Ma al posto tuo ce li ha Vomito, alias Emil, uno di quelli che stanno sempre a pendere dalle tue labbra. Gero gli ha fatto uno scherzo e l’ha messo nei guai. Ho visto che Emil aveva diverse nocche escoriate a mensa, quando gli ha appoggiato una mano sulla spalla per deriderlo. Lo ha picchiato per vendicarsi dello scherzo subito.”
“Che occhio fine che hai!”, disse Tom.
“Sono un appassionata di romanzi gialli, tutto qua.”, fece lei.
I due risero per un po’ insieme, poi sentirono che il sonno aveva iniziato a bussare alle loro porte.
“Sarà meglio dormire…”, disse Tom, alzandosi dal letto di Erin e stiracchiandosi.
“Va bene… allora buonanotte Tom.”
“Notte a te.”, fece lui, chiudendo la tenda nera.
I due si sistemarono sotto le loro rispettive coperte e chiusero gli occhi.
“Con questo non vuol dire che mi stai simpatica.”, disse Tom.
“Ti odio più di prima.”, gli rispose Erin.
“Se dici una parola su quanto è successo, ti taglio i riccioli.”
“Le forbici le tengo sotto il cuscino, non riuscirai a prenderle.”
“Hai un sonno troppo pesante.”
“Ma sono anche sonnambula, potrei colpirti mentre ti avvicini.”
“Quell’album fotografico lo avevo già visto da un pezzo.”
“Cosa hai fatto?!?”, esclamò furiosa Erin.
“Ho frugato nelle tue cose. Tu avevi rovistato nella mia valigia. Adesso siamo pari.”
Erin sbuffò, reprimendo la rabbia.
“Buonanotte insonne deficiente!”
“Notte stronza.”
Quando l’aspro dibattito finì e il sipario venne calato, entrambi si addormentarono.




Questo capitolo è molto chiacchierato, sembra una sceneggiatura... spero non vi dispiaccia.... La frase ‘trenta centimetri di dimensione artistica’ è una citazione, presa dalla canzone ‘John Holmes’ dei MITICI Elio e le Storie Tese, il gruppo migliore della scena musicale italiana… secondo me! La canzone parla del Rocco Siffredi americano, alias ovviamente John Holmes, che si dice abbia fatto sesso con più di tremila donne… mah, speriamo che il nostro Tom non batta questo ‘record’! No scopo di lucro.

CowgirlSara: beh... predisposizione per l'happy end o no, ho già scritto la fine di questa storia... e non ne sono molto convinta... vabbè, male che vada la cambierò prossimamente! Ecco il momento della comprensione tra i due e della svolta della storia! E il taglio dei capelli di Tom... quando lo vedrò senza rasta stapperò uno spumante, io odio i rasta!!!!

Carillon: no, non ha la testa lucida ha solo il capelli corti corti... ma tanto porta sempre il cappello sicchè lo stravolgimento è poco... no... Gero antipatico... ma con la faccia che gli ho dato ispira solo sesso non antipatia XDDD povero Gero! XD grazie per la recensione!!!

Ruka88: Gero non è certo da biasimare... lui poverino ha agito di impulso... che coccole che gli farei! XD tra Erin e Tom è una lotta senza fine, nessun vincitore nessun vinto! E due sono come arieti, fanno a cozzate finchè non cadono entrambi stremati a terra!!! E nessuno ammette i propri errori, purtroppo....

Alanadepp: quante domande!!! XD beh, sinceramente i rasta nel latte li lascio a qualcun altro... bleah! XD gran parte delle domande, per ora, sono senza risposta, altrimenti rovinerei la storia XD la fantasia è anche stimolata dal lavoro, dopo un po' che faccio le solite cose la mente si connette verso migliori lidi XD Bill ritornerà, tranquilla, ma solo tra diversi capitoli... mi dispiace XD

Starfi: grazie mille, qualità DOCG come alla Vernaccia, amica mia dalla nascita (è un vino... e io sono toscana dop X) oddio, troppo presuntuosa, meglio volare basso, mi accontento di essere un prodotto di nicchia XD Tom nei casini? Certo che sì, sta diventando il mio soggetto proferito delle fic, anche se non lo è nella realtà (a me piace Gusti Gustav XD)....

Sososisu: non  posso non negare l'esattezza di tutto quello che hai detto, a parte dove hai scritto dei cosiddetti pairing, dove non mi esprimo... faccio la mafiosa, non saccio niente!
 
Fly: dopo otto ore di lavoro, mi trovo la tua maxi recensione... che bella! non ho la forza di rispondere a tutto quello che hai detto, sono desolata... ma tu continua ad essere logorroica perchè così mi piaci!!!! Grazie ancora!

Dew94: grazie mille, la mia è una fissa... intendo lui senza rasta!!! li odio da morire!!!! XD

Martuccia: grazie mille, se non hai mai recensito e questa storia ti ha convinto a farlo mi fa ancora più piacere riceverla! Grazie per tutto quello che hai scritto! Spero recensirai ancora! A presto!

Lidiuz93: last but not the least! Scusa se ti metto per ultima ma ho fatto in ordine di apparizione! Gero è il mio mito, me lo sogno la notte, quando bacio il mio ragazzo penso che sia lui... oddio! sto a diventaì pazza!!!!!! XD

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Capitolo 8
*** Dead man talking ***


DEAD MAN TALKING



“Eh no!
Lo sai che io so già guidare?”, sentì dire, alla sua sinistra.
Aprì gli occhi e vide una certa oscurità, illuminata qua e là da un certo numero di fiaccole. Non riconobbe il posto in cui si trovava, eppure le era così familiare…
“Erin? Erin, ma che ti prende?”, fece di nuovo quella voce.
Quando la sua vita si fu messa a fuoco, Erin si voltò verso suo fratello.
“Che c’è?”, le chiese.
“Cosa hai detto?”, fece Erin.
“Perchè mi guardi con quegli occhi? Hai visto un fantasma per caso?”, le domandò Ben, sorridendole.
Aveva un sorriso così grande che sembrava abbracciasse tutto il mondo.
“E comunque ho detto che so già guidare!”
Erin sentì come se stesse avendo un dejà-vu. Aveva già vissuto quella scena? E quando? Non se lo ricordava.
“Non ci credo nemmeno se me lo ridici!”, disse, come in automatico.
“Avanti!”, fece lui, porgendole la mano, “Scommettiamo?”
“Metti in moto, fai due metri e poi spegni tutto o la mamma ci toglie la vita con un cenno di mano!”, disse Erin, mettendosi la cintura di sicurezza. Le veniva tutto spontaneo, eppure le pareva di essere come in un film. Le venne da guardarsi intorno: vedeva il cruscotto in cuoio della decappottabile argentea di sua madre, sentiva il profumo della lavanda, proveniva dal sacchettino che penzolava allo specchietto retrovisore. Ben ce lo metteva sempre perchè odiava l’odore del fumo, anche se era un fumatore abbastanza incallito per la sua giovane età e quella non era la sua macchina. A dire il vero non ne aveva nemmeno una, ancora aveva sedici anni, ma lui seminava quei pacchettini ovunque!
“Pivella… si è messa la cintura…”, disse lui, mentre girava la chiave nel cruscotto.
Sentì il motore entrare in funzione e la macchina tremò, in seguito alle vibrazioni trasmesse dall’accensione. Poi lentamente partirono, dopo che Ben ebbe inserito la prima marcia.
“Che tartaruga…”, disse Erin.
“Ah si?”, fece l’altro.
Velocemente, il motore iniziò ad andare su di giri e Ben passò dalla seconda fino alla quarta. Stavano percorrendo a tutta velocità il lungo vialetto rettilineo che conduceva alla loro casa in campagna. Erin si guardò addosso, indossava quella maglietta rossa che le aveva regalato suo fratello, tre giorni in anticipo rispetto al suo compleanno. Il suo compleanno…
“Ben, fermati! Adesso basta! Non voglio che tu muoia!”, gridò Erin con tutta l’aria che aveva nei polmoni.
“Hai paura eh!”, disse Ben.
Erin si voltò, vide solo una grossa nuvola di polvere dietro di sé. Poi sentì uno scoppio. Una ruota bucata, pensò, e la macchina iniziò a sbandare a destra e a sinistra.
“Erin! Erin!”, gridò Ben.
“Ben!”, urlò lei a sua volta.
Poi vide il tronco dell’abete vicino, sempre più vicino, ed in un attimo…
Aprì di nuovo gli occhi, le ci volle molto per mettere a fuoco. Non riusciva a spiegarsi perchè il cruscotto nero sembrava così vicino alla sua faccia. Le pareva quasi di sentire l’odore particolare della pelle. Girò lo sguardo, in cerca di Ben.
Ma lui non c’era, al suo posto solo un ammasso bianco, che spuntava fuori dal volante. L’airbag? Che cos’era?
Cos’era successo?
“E’ viva, ha gli occhi aperti! Muove la testa!”, sentì dire, una voce ovattata, lontana.
“Prendi le pinze idrauliche, devi tagliare qua!”, disse un’altra persona.
“Il tettino è troppo basso, è vicino alla sua testa, rischio di farle del male.”
“Dobbiamo tirarla fuori di lì!”, tuonò un’altra voce.
“Ma capitano! Non si rende conto della situazione! Non ci passa un capello tra il tettino e la sua testa!”
Capitano? Tettino? Pinze?
“Erin! Erin mi senti?”, le fu chiesto.
“Sì…”, rispose, con un filo di voce.
“Stai tranquilla, va tutto bene. Stiamo per tirarti fuori.”
“Chi siete? A cosa vi servono le pinze...”
“Siamo… siamo i vigili del fuoco… adesso cerca di stare calma. Taglieremo la macchina e ti faremo uscire sana e salva.”
“Dov’è Ben?”, domandò. Senza ricevere risposta.


“Ben!”, gridò, sedendosi di scatto sul letto, “Ben!”
Nessuna semi oscurità, nessuna fiaccola, nessuna macchina. Era nel buio totale della sua camera.
“Hey… cos’avrai da urlare…”, bofonchiò l’altro, dietro la tenda.
“Scusa…”, disse Erin, ansimando.
Cercò le sue coperte, improvvisamente stava sentendo un freddo pazzesco. Erano tutte a terra, come se le fossero state strappate via di dosso. Solo il lenzuolo era rimasto rincalzato in fondo al letto, il resto era tutto aggrovigliato per terra. Scese e cercò di ricomporre l’intricata matassa.
“Ma che fai!”, protestò Tom.
“Niente.”, rispose seccamente lei.
“Meno male che non gridi tanto spesso…”, disse lui, mentre si alzava e spostava la tenda per controllare la situazione.
“Brutto sogno?”, le chiese.
“Sì… ma sto bene.”
“Ti trema la voce.”
“Non è niente.”
“Dai, ti do una mano così finisci prima di fare casino.”, disse, andando dall’altro lato del letto per aiutarla. Mentre cercavano di srotolare la coperta, le sfregò la mano.
“Erin, o sei affetta da Parkinson precoce oppure le tue mani sono scosse da un sisma dell’ottavo grado...”, disse Tom.
“Sto bene! Ti ho detto che non è niente!”, esclamò lei, perdendo la pazienza.
“Hey, ma grazie! Io che mi preoccupo e tu ti incazzi!”, protestò l’altro.
“Non ti ho chiesto di farlo! Tornatene a letto!”, disse lei, chiudendosi in bagno.
Cavolo… fino a quel momento, Tom pensava di sapere tutto delle donne: come prenderle, come comportarsi con loro, quando era il momento di agire e quando no e così via. Insomma, si riteneva uno che ci sapeva fare. Tutta la conoscenza accumulata fino a quel momento sull’universo femminile gli aveva permesso di cavarsela sempre abbastanza bene. Eppure con Erin tutto quello che sapeva non funzionava. Non che avesse mai pensato di provarci con lei, assolutamente, avrebbe preferito infilarsi dentro ad una vasca di piranha in astinenza da carne umana.
Più che altro, era una questione di educazione. Se uno si preoccupava della salute di un amico, dopo che l’aveva vista stare male, questi avrebbe dovuto essergli riconoscente per la sua apprensione. Con Erin non succedeva: tremava come una foglia al vento, non riusciva a controllare le sue mani. Lui le chiedeva se andava tutto bene e lei si incazzava.
Che bel carattere di merda, pensò Tom.
“Che bel carattere di merda che hai!”, le disse poi, mentre finiva di farle il letto.
Erin, seduta per terra, con la testa appoggiata sul bordo del bidet, raccolse quell’offesa sapendo che se la meritava. Bene, si disse, questa era proprio dedicata a lei. Adesso era il momento di chiedere scusa, ma il suo muro d’orgoglio, costruito in solide pietre e solida malta, sarebbe stato impossibile da scalfire.
“Lasciami in pace.”, gli disse, invece del dovuto ‘scusami’.
“Sì, hai ragione, lasciamo perdere…”, fece l’altro, “E’ stato tutto un errore… cazzo! Non ti ho mica chiesto di spogliarti davanti a me! Ti ho fatto una semplice domanda: ‘come stai?’. Non è tanto difficile rispondere.”
Erin, inghiottì una serie di rispostacce quasi infinita, poi si alzò, aprì la porta del bagno e, vergognandosi di quello che stava per fare, alzò lo sguardo e disse la fatidica parola.
“Scusa…”
“Era il minimo!”, sbottò Tom.
Appoggiata allo stipite, giocava a aggrovigliarsi le dita della mano, come una scolaretta quando era imbarazzata perchè non sapeva la risposta alla domanda del professore.
“Hai intenzione di passare lì tutta la notte?”, le domandò Tom.
“Sì, se è necessario.”
“Fila a letto.”, fece lui, indicandole autoritariamente le sue coperte.
“Hey!”, disse Erin, tornando in se stessa a quell’imposizione autoritaria.
“Muoviti e non dire una parola!”
Una bambina viziata avrebbe sbuffato, avrebbe pestato il piede, strinto i pugni e sarebbe saltata sul letto, coprendosi in un attimo e scomparendo sotto le coperte imbronciata. Fu quello che Erin fece nella realtà.
“Se mai un giorno avrò una figlia come te, giuro che preferisco tagliarmelo adesso, così non corro rischi!”, disse Tom, tirando la tenda nera e tornandosene a letto.
“Ci sono sempre le forbici con cui ti ho tagliato i capelli…”, rispose Erin.


Ancora le ronzavano in testa tutte i singoli fotogrammi del suo sogno. Basta! Basta! Urlava quella parole dentro di sé ma niente, non servivano a nulla, la sua mente continuava a lavorare ininterrottamente. Si fermò solo al suono della sveglia, quando Erin decise che era meglio staccare la spina o sarebbe impazzita.
Pensava anche a Gero… come aveva potuto mentire? Mettere nei guai un’innocente solo perchè gli stava antipatico e non lo sopportava? Va bene, nemmeno lei era una santa, aveva fatto tanti scherzi ai suoi compagni… ma una cosa era uno scherzo, un’altra era la menzogna vera e propria!
E poi perchè? Il motivo? Sicuramente stupido e infondato. Gli avrebbe chiesto spiegazioni, ma sicuramente le ci sarebbe voluto molto tempo prima di perdonarlo. Bussò alla porta di camera sua tre volte, come era d’abitudine, e attese che Gero uscisse per andare insieme a colazione.
“Giorno Erin… dormito bene stanotte?”, le chiese.
“Sì, diciamo di sì.”, rispose lei.
“Diciamo di sì oppure sì? Che cosa c’è che non va?”, le fece.
“No, niente… quell’altro ha russato come un trombone tutta la notte e non ho chiuso occhio.”
“Scarpata in testa? Non ha funzionato?”, disse lui ridendo.
“No, dai, poi alla fine mi sono addormentata. Hai subito da fare dopo la colazione?”, gli domandò.
“Ho una mezz’oretta libera e poi devo andare da Bebel. Perchè me lo chiedi?”
“Niente, ti volevo parlare di una cosa. Ma stai tranquillo, non è niente di che.”, disse Erin, facendo finta che veramente fosse tutto a posto. La colazione fu consumata abbastanza in silenzio: Gero era preoccupato, sapeva che ogni volta che Erin diceva di non preoccuparsi bisognava stare in pensiero. Erin, invece, stava cercando le parole giuste per parlare con lui.
“Cosa mi vuoi dire?”, gli chiese, una volta che si furono seduti a cavalcioni sulle altalene.
“Sai che non mi piacciono le menzogne Gero… oppure non lo sai?”, fece Erin.
“Certo che lo so.”, rispose lui, apparentemente calmo ma con il cuore impazzito nel petto.
“Ecco… allora mi spieghi per quale motivo avresti dovuto mentire? Non solo a me ma anche alla direttrice…”
“Non capisco dove tu voglia arrivare! Non mi dirai mica che credi alle parole di Tom e non alle mie!”, disse lui, oramai sotto accusa.
“Certo che credo a Tom.”
“E’ un bastardo! Mi ha picchiato, ha picchiato il tuo migliore amico e tu credi a lui?”
“A dire la verità, più che credere alle parole, io ho creduto ai fatti. Sai che a uno, quando prende a pugni un altro, di solito e a meno che non abbia i calli da rissa sulle mani, gli vengono delle screpolature sulle nocche?”, gli disse.
“E quindi?”, fece Gero, che non capiva.
“Beh, chi riceve i pugni ha l’occhio nero, chi li dà si trova con le mani un po’ ferite qua.”, disse Erin, “Quello che ti voglio dire, Gero, è che Tom non ce le ha… quindi non è stato lui a picchiarti.”
“Non hai visto bene! Ce le ha eccome!”
“Gero…”, disse Erin, guardandolo dritto negli occhi, “Per quanto continuerà ancora questa bugia?”
Il ragazzo si fermò, non ribattè. Oramai si sentiva in trappola… ed era stata Erin a mettercelo.
“Perchè lo hai fatto?”, gli chiese.
Abbassò gli occhi. Prese un profondo respiro e strinse i denti.
“Perchè… da quando c’è lui non sei più te stessa. Volevo farlo togliere dai piedi così ti riprendevi…”, le rivelò le sue intenzioni.
“Ah…”, fece Erin.
“Sei innamorata di lui vero?”, le domandò.
All’improvviso, il semplice fare quella domanda gli fece comprendere quanto era stato stupido, egoista, presuntuoso e prepotente con lei. E anche quanto era stato assurdo tutto quello che aveva fatto.
Erin lo guardò, straniata. Poi scosse la testa e si alzò dall’altalena, in silenzio. Pensava di conoscere Gero, di sapere tutto di lui. Pensava che anche per lui fosse lo stesso. Pensava che la conoscesse, che sapesse di che pasta era fatta… invece si era sbagliata. Lui aveva frainteso tutto, si era fatto un’idea sbagliatissima dello strano rapporto che si era creato tra lei e Tom… innamorata? Col cazzo! E cosa se ne faceva dell’amore? Dell’amore che uccide?
Lei aveva amato una sola persona al mondo, e quella persona adesso non c’era più. In quel momento avrebbe voluto essere morta insieme a Ben, per non dover soffrire più tutte quelle ingiustizie davanti alle quali la metteva la vita.
Poi, mentre se ne andava impensierita, si voltò. Erin non se ne andava mai senza avere l’ultima parola…. L’ultima frase che lasciava di sasso.
“Lo vuoi proprio sapere perchè lo sto facendo? Lo vuoi sapere perchè lo sto aiutando?”, gli chiese, mentre si riavvicinava a lui.
“Sì…”, rispose Gero.
Se non era stata Tom a portargliela via, ci aveva pensato lui stesso. Aveva fatto tutto da solo, era tutta e solo colpa sua.
“Perchè non voglio che finisca il resto dei suoi giorni in questo cazzo di posto. Lui là fuori ha qualcuno che lo aspetta… Mentre noi no… avevamo l’un l’altro, ma tu hai mandato tutto al diavolo. Complimenti Gero, adesso puoi sentirti bene con te stesso.”
Dette quelle semplici parole, voltò i tacchi e se ne tornò nella clinica. Oggi non avrebbe partecipato a nessuna attività, si sarebbe data per malata. E se qualcuno l’aveva vista fuori con Gero, avrebbe detto che era stato proprio lì che si era ammalata.
Nascosta sotto le sue coperte, in solitario, si mise a piangere. Non singhiozzava, era un pianto silenzioso, ma faceva più male di una pugnalata dritta nel cuore.
Sola, sola di nuovo.
Sola per sempre.
“Hey.”, sentì dire, mentre si soffiava il naso. Scostò la coperta e mise la testa fuori, ma la stanza era vuota. Non c’era nessun altro che lei, nemmeno Tom. Pensò di essersi immaginata tutto e se ne tornò sotto le lenzuola, rannicchiata e abbracciata al suo cuscino.
“Allora!”, tornò a dire la voce.
Spaventata, Erin balzò giù dal letto.
“Sono qua…”, disse, dietro alle sue spalle.
Erin si voltò, lentamente. Aveva riconosciuto quella voce. Per un attimo si era sentita al settimo cielo, poi un terrore tremendo le aveva attanagliato lo stomaco.
Un sorriso perfetto, occhi nocciola, cappelli corti… e profumo di lavanda
“Lo zio Ozzy mi ha fatto uno sconto sulla pena e mi ha permesso di venire qua.”disse Ben.
Se ne stava tranquillamente seduto sulla sedia che Erin teneva vicino al letto, con le spalle appoggiate contro lo schienale, le mani dietro la testa ed i piedi incrociati sul letto.
“Ben… ma… tu….”, balbettava Erin.
 Si sentiva la gola chiusa, respirava a fatica e le sue parole uscivano dalla bocca con una difficoltà quasi estrema.
Un milione di domande le affollavano la mente.
Era un sogno?
Era solo la sua immaginazione?
“Sogno, immaginazione, vedila un po’ come vuoi tu.”, disse lui, come se le leggesse nel pensiero, “Fatto sta che sono qua.”
“Ben… tu sei morto! E questo è solo un sogno… adesso mi sveglio…”, diceva stupidamente Erin, mentre si toccava la testa, in preda al panico.
“Beh, se avessi saputo che avresti reagito in questo modo… me ne sarei rimasto a casa!”, disse lui, impermalito, “Cacchio, sono più di sei mesi che non vieni nemmeno a visitare la mia tomba! E se Maometto non va dalla montagna…”
Erin si sentì bloccata, in piedi, senza un alito di vita in corpo. Era assurdo vederlo lì, di fronte a sé, vivo… o morto… la sua mente stava iniziando a tirale brutti scherzi, pensò, era meglio farsi dare un tranquillante, qualcosa…. Ma non aveva la forza per allontanarsi.
“Lo zio Ozzy, lassù, ha una buona stima di me… lo sai?”, disse lui.
Lo zio Ozzy, si disse Erin. Si era sempre riferito a Dio in quel modo e in tanti altri, così irriverenti ed irrispettosi da far drizzare i capelli. Zio Ozzy, come Ozzy Osbourne, il suo cantante heavy metal preferito. C’era anche un altro soprannome che gli piaceva tanto e, spesso e volentieri, aveva costretto Erin a farsi chiamare in quel modo; lo utilizzava anche quando parlava di se, in terza persona: si voleva far chiamare Alice, come Alice Cooper, altro suo cantante heavy preferito…
“Basta, vattene! Sei solo nella mia testa!”, disse Erin, chiudendo gli occhi e stringendosi le mani intorno alle tempie, premendole forte da poter sentire le sue pulsazioni. Sentì il silenzio, nessun rumore. Se n’era andato da lì?
Aprì leggermente l’occhio destro…
“Voilà! Sono sempre qua!”, esclamò Ben.
Erin si sentì cadere a terra, senza peso, svenuta.


Meno male che la lezione era finita presto, pensò Tom. Era stanco, non aveva chiuso occhio per metà notte, da quando Erin si era svegliata in preda al panico. Che palle, ma non poteva prendersi un sonnifero? Mentre riponeva la chitarra dentro la sua custodia, gli venne da fare uno sbadiglio così grande che avrebbe potuto inghiottire la ragazza che stava di fronte a lui in un solo boccone.
“Wow… che sonno che hai…”, disse lei, sorridendogli.
“Ciao Petra.”, disse lui, distrattamente.
“Senti… non è che stasera…”, fece la ragazza, timidamente ma allo stesso tempo anche con molta malizia.
“Boh, si vedrà.”, rispose lui, “Sono stanco.”
“Io, Sissy e Melanie abbiamo organizzato qualcosa di particolare. Vuoi partecipare anche tu?”
“E cosa sarebbe?”
“La mamma di Melanie è una mezza pazza, anche molto più della sua stessa figlia… le ha portato una tavoletta ouija.”
“Quindi?”, chiese lui, poco interessato ai suoi discorsi.
“E’ una tavoletta di legno con tutte le lettere intorno…”, spiegò lei.
“Ah… ho capito…”
“Ti unisci? Sai… insomma, se ci capitasse qualcosa, ci saresti tu a proteggerci…”, fece lei, mordendosi il labbro inferiore.
Quel piccolo ma accentuato gesto gli fece dimenticare la metà dei pensieri che gli ronzavano in testa…
“Va bene…”
Non gliene fregava un cazzo di quella tavoleta vugigia, cugigia o come cacchio si chiamava. Magari la serata si sarebbe conclusa con del buon sesso, condito dalla giusta dose di paura, che lo avrebbe reso sicuramente più eccitante.
“Allora ci vediamo dopo cena in camera mia… a dopo!”, disse lei, lasciando la stanza.


Si riprese appena un attimo prima che Tom entrasse in camera. Con la testa ed il gomito indolenzito, Erin si sedette sul pavimento, ancora frastornata e rintontita. Che cavolo ci faceva per terra? Come c’era finita?
Si toccò la testa, che aveva iniziato a pulsarle per il dolore, quando la porta si aprì e Tom entrò dentro.
“Hey… che ci fai in terra? Cerchi fresco?”, le domandò, senza immaginarsi che fino a tre secondi prima Erin era rimasta svenuta sul pavimento.
“Sì… avevo un po’... il culo in fiamme…”, disse lei, alzandosi. Appena i suoi occhi andarono oltre il letto e si posarono la sedia, si ricordò di ciò che le era successo… di quello che aveva visto.
“Cos’hai fatto? Sei caduta?”, le domandò Tom, mentre si toglieva di dosso la sua chitarra.
“Sì…”
“Allora vai a farti medicare, ti sanguina il gomito.”, disse lui, indicando il suo per farle capire.
Erin se lo guardò, un po’ alienata.
“No, tranquillo, ci metto una fascetta ed è tutto a posto.”, disse Erin, entrando nel bagno.
Ok, aveva avuto un sogno ad occhi aperti. Magari era stata sonnambula, si era alzata dal letto, aveva chiacchierato un po’ da sola e poi era caduta, di nuovo addormentata. Sì, doveva essere accaduto proprio quello.
Aprì il mobiletto accanto allo specchio e prese la scatola del pronto soccorso. Tirò fuori un pezzo di carta assorbente, apposita per ferite del genere, se lo appoggiò al gomito e poi, con una fascia elasticizzata, se la fermò alla pelle.
Nel mentre riponeva la scatola, adocchiò il flacone di tranquillanti, abbandonato dietro ai flaconi degli shampoo e dei bagnoschiuma. Lo afferrò e ne ingerì una: per almeno qualche ora il suo cervello avrebbe messo di dare i numeri.
“Che fai? Non vieni a pranzo?”, le domandò Tom, vedendola uscire dal  bagno e infilarsi sotto le coperte.
“No… non mi sento per niente bene.”, rispose lei.
“Mmmh… ok.”, fece lui.
“Salutami il tuo pollaio.”, disse Erin, coprendosi la testa con il cuscino.


Anche la sera arrivò più presto del solito, forse perchè si era fatto dei determinati piani per la serata… forse perchè voleva andarsene direttamente a letto, senza fare nient’altro che dormire. A cena, intorno a lui si sedettero le ragazze con cui avrebbe passato la serata. Tra tutte quelle che c’erano, loro sembravano essere le più stupide. Avevano l’età di Erin, disturbi alimentari ed un cervello grande quanto una noce. Ma erano carine, non opponevano troppa resistenza e facevano quello che gli si diceva.
Eccitate per il loro programma segreto, le tre ragazze mangiarono in fretta la loro cena e attesero che anche Tom lo facesse, ma sembrava essere diventato un bradipo. Certamente, avrebbe saltato la parte della tavoleta obigia per andare direttamente al sesso… ma quelle sembravano essersi bevute il cervello.
“Dai, questo lo mangi in camera!”, disse Melanie, prendendogli il gelato alla fragola di mano.
“Hey! Lasciamelo mangiare in pace!”, protestò lui, ma la ragazza non lo ascoltò.
Seguita dalle altre due, si avviarono verso l’uscita. Innervosito, stava per mandare tutto a fanculo. Che deficienti, pensava, proprio delle bambine…
Si alzò, ma una strana sensazione alla nuca lo fece voltare indietro. Si sentiva osservato: infatti, in fondo alla sala, Gero lo stava pietrificando con lo sguardo. Che cazzo voleva da lui? Non gli bastava averlo già messo nei guai? Per adesso gli era andata bene, non era ancora stato convocato dalla direttrice e non aveva saputo più nulla sulla punizione che lo aspettava. Se lo avessero buttato fuori… oppure se la direttrice avesse chiamato i giornali e avesse detto ai quattro venti che si trovava lì, a disintossicarsi… giurò su quello che aveva di più caro che lo avrebbe pestato a dovere.
Infilò malamente la sedia sotto il tavolo, facendo rimbombare il rumore per tutta la stanza. Poi uscì dalla mensa, mani in tasca, incazzato. Ecco, cosa c’era di meglio di una bella scopata per calmarsi? Arrivò in poco tempo nella camera di Steffie e trovò le tre ragazze già in posizione.
Si erano sedute per terra, la tavoletta di legno stava in mezzo a loro e aspettavano solo l’arrivo di Tom. Fece per sedersi insieme a loro ma fu bloccato.
“No, così siamo in tre, numero perfetto. Tu siediti sul letto.”, disse Sissy, mentre tirava fuori una moneta dai suoi pantaloni, “Il tuo gelato è sul comodino.
Che si doveva fare per accontentare una donna, pensò Tom. Annoiato, si sistemò sul letto con il suo gelato in mano, a guardare le tre sceme e la tavoletta oblgia … o come cavolo si chiamava. Si presero per mano e chiusero gli occhi.
“C’è qualcuno con noi?”, chiese Steffie.
“Sì… c’è il fantasma di Jim Morrison…”, disse Tom, mettendosi le mani a tubo davanti alla bocca per amplificare il suono della sua voce.
“Dai! Facciamolo seriamente! Sicuramente contatteremo qualche spirito buono che ci dirà qualcosa sul nostro futuro!”, disse Melanie, rimproverando il ragazzo. Tom sbuffò, chiedendosi quanto tempo avrebbe dovuto sopportare quella messa in scena.
Poi le tre ragazze misero i loro indici destri sulla moneta, in mezzo alla tavoletta, in attesa che questo fantomatico spirito la muovesse per dare loro una risposta. Come previsto, la moneta si mosse  per formare la parola 'sì'.
“Ha detto si!”, esclamò Melanie.
“Altrimenti non avrebbe risposto nessuno… non credi?”, disse Tom, continuando a prenderle in giro.
“Avanti Tom, visto che sei così tanto scettico, fai una domanda e vedremo cosa risponderà lo spirito.”, continuò la ragazza.
“Va bene… come ti chiami, oh tu, magnifico spirito?”, disse Tom.
Le tre ragazze si guardarono e sorrisero tra loro, nell’attesa che la moneta si muovesse. Lentamente, scrissero la parola ‘no’.
“Ma che cazzo di risposta è no? Ti ho chiesto come ti chiami!”
“Meglio se fai domande a cui si può rispondere con un sì o con un no. Forse non stai troppo simpatico a questo spirito.”, disse Melanie, facendo ridere le sue amiche.
“Ok… stasera Petra me la darà o no?”, fece lui, scatenando un’altra ondata di ilarità, “Vediamo cosa risponde l’oracolo!”
“Con serietà!”, fece Petra, alla quale però non dispiaceva affatto aver sentito quella domanda.
“No, basta, ora fatele voi le domande. Mi sono stufato.”, disse Tom, sdraiandosi sul letto con le mani dietro alla testa, dopo che ebbe finito il suo gelato.
“Va bene, inizio io.”, disse Sissy, “Allora… ci sarà un evento tragico in questa clinica?”
Qualche secondo dopo la domanda, le dita furono guidate dalla moneta, come voleva il gioco della tavoletta ouija, sulle lettere s ed i.
“Sì… e in quale piano accadrà?”, domandò ancora.
“Sissy, lo sai che non è bene chiedere della morte delle persone…”, disse Melanie, “E se dicesse poi di te!”
“Ma piantala… insomma rispondi alla domanda.”, esortò lo spirito.
La parola scritta fu ‘terzo’.
“E’ il nostro piano…”, disse Steffie.
“Sì, sono io che morirò di noia!”, fece Tom, toccando il suo gioiello per augurarsi un po’ di fortuna, “Visto che ci siete, chiedetegli a chi toccherà… e anche se dobbiamo credere a tutte le sue cazzate! Lo so che lo fate apposta.”
“Dai, che gusto c’è…”, disse Sissy ridendo, “Questo non cade in uno scherzo nemmeno se ce lo buttiamo dentro!”
“Che palle Tom! Sei un bastardo, hai rovinato il gioco.”, disse Petra, alzandosi e andandosi a sedere sul letto, accanto a lui.
“Ok, abbiamo capito… vengo a dormire da te Sissy? Magari continuiamo io e te.”, disse Melanie all’altra ragazza. Era la compagna di stanza di Petra e, viste le intenzioni dei due, era meglio lasciarli soli per un po’.

Rilassato e calmato, Tom lasciò la stanza di Petra che era notte abbastanza fonda. Anche per quella volta non avrebbe dormito a sufficienza per riuscire a passare una giornata senza sbadigliare in faccia a tutti… bussò alla porta accanto, alla stanza di Sissy, per avvertire che Melanie poteva tornare a dormire nel suo letto.
Aveva iniziato ad allontanarsi, quando Melanie, appena uscita, lo chiamò.
“Tom!”, fece lei, sottovoce.
“Che c’è….”, rispose il ragazzo, di controvoglia.
“Abbiamo continuato a giocare con quella tavoletta… lo sai a chi toccherà fare una brutta fine?”, gli disse lei, sorridendo.
“Non mi interessa.”
“A Erin!”
“Non è divertente questo gioco.”, disse Tom, irritato.
Sapeva che era vista male, anzi, era odiata da tutte loro. La reputavano una stronza e anche una puttana, per via del suo strano rapporto con Gero… ma c’era una bella differenza tra odiare una persona e augurarne la morte, anche se solo per scherzo.
“Non era un gioco… non la spostavamo di proposito la monetina stavolta!”, protestò l’altra, “E abbiamo anche saputo altro…”
“Cioè?”
“Abbiamo chiesto che cosa le sarebbe successo. Ci ha risposto ‘me’. Chissà cosa voleva dirci… forse che le sarebbe successo qualcosa per colpa sua?”
“Ma che spirito deficiente che avete contattato! Non capisce nemmeno le vostre domande e ha manie omicide!”, disse Tom, riprendendo a camminare verso la sua stanza. Melanie lo raggiunse, prendendolo per un braccio.
“Gli abbiamo domandato anche come si chiamava. Era una ragazza… si chiamava Alice quella che ha parlato con noi.”
“Allora questa Alice ce la deve avere proprio con lei… adesso torna a letto e piantala con queste cazzate!”, disse Tom, liberandosi della sua presa. Quella Melanie sapeva essere appiccicosa come una cozza quando si metteva in testa una cosa.
Quando entrò in camera non si stupì di trovare Erin, insonne, che disegnava sul letto, con le cuffie dentro le orecchie.
“Chi ti sei scopato stasera? Sissy, Petra o Melanie?”, gli domandò, a bruciapelo, senza nemmeno staccare gli occhi dal suo blocco da disegno, appena lui ebbe messo il primo piede al di là della soglia della camera, “Io punto su Petra…”
“Sono necessarie queste spiegazioni? Siamo sposati? Credo di no.”, rispose lui, seccato.
Erin, intuendo il tono con cui era stata data la risposta, si tolse le cuffie dalle orecchie e si mise a guardare il suo compagno di stanza, divertita.
“Visto che dormiamo insieme fammi essere un po’ gelosa, sennò che gusto c’è…”, disse poi, tornandosene sul suo disegno.
“Perchè non dormi?”, le domandò, mentre tirava la tenda.
“Perchè… non lo so…”, rispose lei, mettendosi il lapis tra le labbra.
“Non sembri nemmeno la stronza che conosco.”
“Ho preso un tranquillante…”, rispose Erin, “Ma non mi fa dormire, sembrerà strano, mi fa questo effetto.”
“E perchè lo avresti preso? Non che mi interessi, ma non ci sono medicine in questa stanza e credo anche che sia vietato dal regolamento tenerne.”, disse Tom.
“Sì, hai ragione, ma l’armadio che viene a ispezionare le nostre camere ha un conto in sospeso con me… e quando vede quella boccetta nell’armadietto del bagno chiude gli occhi e si volta dall’altra parte.”, disse Erin.
“E di che conto si tratta?”, domandò l’altro, tra uno sbadiglio e l’altro.
“Qua dentro, se uno vuole sopravvivere, deve imparare a farsi anche i fatti degli altri. Una volta scoperti i punti deboli della clinica, li ricatti e ottieni quello che vuoi. Imparalo bene e arriverai lontano.”, gli disse Erin.
“Ah, interessante. Buonanotte.”, disse l’altro, una volta sotto le coperte.
“Notte.”, rispose Erin.
Nel mentre che cercava di prendere sonno, il continuo tratteggiare della matita di Erin gli entrava nelle orecchie come lo stridulo rumore di un giradischi rotto. Si accomodò più volte il cuscino sulla faccia, poi gli venne a mente quello che gli aveva detto Melanie. Sapeva che erano solo stronzate, ma cosa gli costava domandare.
“Erin, conosci o conoscevi una certa Alice?”, le chiese.
“No, non ho mai avuto nessuna amica che si chiamasse in quel modo.”, rispose lei, “Perchè me lo chiedi?”
“Uh, niente. Ma sei proprio sicura?”
“Certo che sì.”
“Ok… notte ancora.”
“Mah… sei proprio strano.”, fece Erin, tornando sul suo disegno.


Sì che la conosceva, questa Alice. Ma il nome della Alice che conosceva lei non si leggeva come si scriveva… si pronunciava all’inglese. Alice, come Alice Cooper.
Era tutto nella sua testa, era tutto nella sua testa, il giorno seguente ne avrebbe parlato con Bebel e si sarebbe fatta dare qualcosa. E quella domanda, quel conoscere una certa Alice, era solo una coincidenza. Una fottuta coincidenza.
Certo che non gli poteva rispondere di avere avuto le allucinazioni e di aver vedere suo fratello morto, seduto nella sedia accanto al letto, che la prendeva in giro come sempre!


“Ecco… gliel’ho detto… ora mi farà fare l’elettroshock?”, chiese Erin al dottor Bebel, dopo che gli ebbe raccontato sia del sogno che aveva avuto, sia della sua allucinazione.
“No, non è un trattamento curativo, a mio parere.”, rispose lui, “Cosa hai fatto quando questa tua allucinazione è terminata?”
“Beh… sono svenuta che lui c’era, mi sono svegliata e non c’era più…”
“Ne hai parlato con nessuno?”, le domandò.
“No, non voglio essere presa per pazza!”
“Erin, qua dentro nessuno è pazzo, quante volte te lo devo dire?”, fece l’uomo, sconsolato, togliendosi gli occhialini dalla punta del naso e massaggiandosi le tempie.
“Vallo a spiegare agli altri…”, disse lei.
“I tranquillanti hanno funzionato?”
“Sì… li ho finiti. Ne avevo solo un paio… ma non mi fanno dormire.”
“Io ci andrei piano con le pillole…”
“Dottore, vorrei vedere lei cosa farebbe davanti a sua madre, che le parla come se fosse viva!”, protestò Erin.
“Mia madre è viva…”, disse il dottore, sospirando rassegnato.
“Beh… cavolo, allora deve essere veramente vecchia!”, esclamò Erin, pentendosi poi di aver chiamato vecchia la madre del suo dottore. Stimava che Bebel avesse intorno ai sessantacinque anni, sua madre doveva averne almeno ottanta!
“Erin, recuperiamo la poca serietà che ci è rimasta… secondo me questa sorta di allucinazione è dovuta allo stress…”
“E’ una vita che sono stressata ma questa è la prima volta che vedo un morto…”, fece Erin.
“Un po’ più di rispetto per tuo fratello!”, la sgridò il dottore.
“Rispetto?!? Se Ben ne avesse per me non mi apparirebbe all’improvviso, facendomi venire un esaurimento nervoso!”, disse Erin, incrociando le braccia e mettendo il broncio come una bambina arrabbiata.


Seduta, davanti al cavalletto che sosteneva la sua tela, ancora dipinta a metà con una natura morta deprimente come l’autunno, guardava distrattamente fuori dalla finestra, in cerca di un segno di ispirazione. Guardava le nuvole che passavano, guardava la scia dell’aereo lassù in alto, guardava una coppia di uccellini che preparava il nido per il loro tenero ovetto.
“Erin! Il quadro, finiscilo! Deve essere pronto per l’esposizione! E’ tra una sola settimana e non hai concluso niente di buono!”, la richiamò l’insegnante.
Già, l’esposizione. Uno spaccato della vita non quotidiana della clinica, messo in bella visuale per tutti i parenti dei pazienti, allestito in grande stile nel parco. Già alcuni operai stavano montando tutti i gazebo, in cui sarebbero stati esposti tutti i lavorati usciti fuori dalle attività parallele. Il secondo piano sarebbe partito in pompa magna con una fitta esposizione di merletti, calze e calzini, abiti da sartoria per signora e tutta una serie di manifatture create dalle dolci manine delle anziane signore. Per i giovani era meglio saltare a piè pari quella zona del giardino: vi si vivevano scene che avrebbero battuto, se mai fossero state in concorrenza alla notte degli Oscar, gli spezzoni dei ‘Simpson’, girati dentro la vecchia casa di riposo, dove i soliti fratelli Bart e Lisa venivano assaliti da vecchiettini tremolanti in cerca di compagnia.
Ai ragazzi del terzo piano invece venivano invece dedicati la maggior parte dei piccoli stands che venivano montati in quei giorni: primo di tutti, in ordine di importanza per Erin, c’era il gazebo dell’ora di pittura, poi veniva quello del giardinaggio, dove venivano esposte le piante coltivate dalle partecipanti. Poi si contavano anche quello della cucina, del fai da te… insomma, per Erin tutto questo esporre e mettere in vista era solo un momento per essere ancora più incavolata con il mondo. Secondo lei non c’era per niente bisogno di mettere così tanta felicità in mostra, quando poi ognuno di loro combatteva quotidianamente contro il dolore e la disperazione… Che ipocrisia, pensava l’acida Erin, mentre tornava a dipingere la sua natura morta.
Chissà se tutto il suo astio verso l’esposizione semestrale era legata solo a quello… o se la rodeva dentro il fatto di vedere tutti felici e contenti, insieme a coloro a cui volevano bene, mentre lei di solito se ne rimaneva sola, accanto ai suoi quadri o alle sue piantine… Nelle ultime due esposizioni era accompagnata in solitudine da Gero, ma questa volta non ci sarebbe stato nemmeno lui.
“Mah…”, disse, mentre dava l’ultimo ritocco alla mela rossa. Avrebbe esposto almeno altre cinque o sei tele, poi aveva anche gli schizzi… ma tanto a cosa serviva? Nessuno veniva lì apposta per vedere lei. Capitava che qualcuno le chiedesse spiegazioni sui suoi quadri, ma erano sempre e comunque sconosciuti, genitori degli altri ragazzi. Alla sua prima esposizione i suoi non vennero, erano ancora scossi per la morte di Ben; alla seconda erano in crociera… dal dolore alle camice hawaiane, pensava Erin.
Grande novità di quest’anno, ovviamente non c’era da pensarci su troppo: il corso di chitarra di Tom. Chissà cosa avrebbe preparato…
“Sono le undici e mezza, fine della lezione… andate a pranzo!”, disse l’insegnante, svegliando Erin e congedando la classe.


“Cosa?!? Esibizione? E cosa dovrei esibire?”, esclamò, quando la direttrice lo convocò nel suo ufficio. Lì per lì aveva temuto il peggio, cioè che lo avesse chiamato per la punizione che si aspettava. Ma lo aveva subito rassicurato, dicendogli che aveva chiuso entrambi gli occhi, le mani e le orecchie sulla questione.
“La sua classe di chitarra!”
“Ma se non sanno nemmeno fare un accordo!”, disse lui.
“Questo è un problema suo!”, fece la direttrice.
“Guardi che abbiamo iniziato solo da pochissimo tempo!”
“Allora si arrangi, faccia qualcosa da solo. Allestisca uno spettacolo tutto suo se i suoi allievi non sono in grado di tenere in mano una chitarra!”, disse la donna, “Adesso vada, ho un impegno.”
Ecco, ‘messo incinto’ e scaricato. Aveva voluto il corso di chitarra, ora doveva fare anche il saggio, come a scuola.
Aveva voglia di fare una cosa del genere? No.
Voleva essere preso per il culo da tutti? No.
Cosa doveva fare? Boh.
Perchè si era fatto infinocchiare in quel modo? Non lo sapeva.
Con l’aria da cane bastonato ma incazzato, uscì fuori dall’ufficio, mani in tasca, cappellino calato sugli occhi. Ma che cazzo, disse, censurando il resto delle imprecazioni che gli erano saltate in mente, che doveva fare? Il circo delle pulci? Se avesse fatto esibire i suoi cosiddetti ‘alunni’ era quello il lavoro a cui sarebbe stato destinato in futuro.
E cosa doveva fare, solo sul palco? Lui non ci era abituato! Era sempre stato insieme ai Tokio Hotel, che cacchio avrebbe fatto solo come un lampione senza prostituta a fianco?
Vista l’ora era meglio andare ad affogarsi nel cibo, pensò Tom: avrebbe fatto come le ragazze, che si immergevano nel gelato e nelle schifezze dopo le delusioni d’amore, o almeno così lui pensava.
Davanti a lui, in fila, c’era Gero. Solo la reale possibilità di essere spedito fuori a calci nel culo lo distolse dal prendere un vassoio e schiacciargli la testa a colpi secchi. Il ragazzo si voltò, gli lanciò un’occhiata stanca e andò avanti nella fila.
Né ciao, né bao, solo sguardi cattivi per Tom Kaulitz, da parte di Gero con amore.
Poi di nuovo quella curiosità stupida, quel nome, quell’Alice.
“Senti…”, gli disse, superando lo scoglio delle vassoiate in testa, “Sai se Erin conosce una certa Alice?”
Gero lo guardò, chiedendosi che cosa significasse quella domanda.
“Tranne quella nel paese delle meraviglie? No, nessuna Alice in vista amico.”, gli rispose.
“Ah… niente, così sapere.”, fece Tom.
“Alice, così come l’hai detta tu, non rientra tra le amicizie di Erin…”, disse poi Gero, mentre prendeva il riso dal bancone, scottandosi un dito per l’eccessivo calore della pietanza.
“Che significa così come l’ho detta io?”
“Alice, così come lo sto dicendo anche io, scritta e letta… ma prova a pronunciarlo in inglese.”
“Non parlo inglese molto bene.”, disse Tom.
“Ma comunque vendete milioni di dischi in quella lingua… che si fa per dio denaro…”, disse Gero, ridendo sotto i baffi.
“Ascolta, non credo che questo ti riguardi!”, fece Tom, indispettito dalla battutaccia di Gero.
“Infatti, mi duole ammetterlo ma hai ragione… dicevo, se Alice lo pronunci in inglese…”, disse Gero, guardandolo come se si aspettasse una risposta, “Ah, vedo anche che sei ignorante in fatto di musica heavy metal…”
“E adesso cosa c’entra l’heavy metal…”, disse Tom, stufo oramai di aver preso quella conversazione inutile con uno a cui piace parlare a vanvera.
“Alice… Alice Cooper. Conosci?”, fece Gero.
“Ah… sì, l’ho già sentito nominare, ma non mi piace il suo genere di musica…”, disse Tom.
“Ecco, Erin conosce Alice all’inglese.”
“E chi sarebbe questa ‘Alice' all’inglese’?”, domandò Tom, sentendo che era arrivato alla fatidica risposta che desiderava.
“Era il soprannome di suo fratello. Mi raccontava che, ogni tanto, quando si metteva a fare lo scemo voleva essere chiamato Alice, come il cantante heavy, che altro non era che uno dei suoi preferiti.”
“Ah… ok grazie…”, disse, prendendo il suo vassoio e allontanandosi da lui.
Il mistero si infittiva, la trama si faceva intrigante…. Ma i film dell’orrore non erano mai stati i suoi preferiti, per niente.
Soprattutto quelli in cui si parlava di fantasmi.
Quindi avrebbe fatto meglio a risintonizzarsi sulle frequenze della realtà e a ragionare sul fatto.
Ecco cos’era quello che gli aveva detto Melanie: era una cazzata, una semplice coincidenza. I fantasmi non esistevano, Tom Kaulitz lo sapeva bene, era uno che guardava dritto nel buio e non aveva paura. Ma…. insomma… gran brutta coincidenza.
Secondo una spiegazione razionale, a cui aveva ragionato durante il tragitto bancone-tavolo, mentre i vapori profumati della pasta e della pizza che aveva preso gli annebbiavano il cervello, non c’era stato nessun contatto con una certa o qualsiasi identità che si spacciava per una certa Alice… con o senza Cooper come cognome. Le tre ragazze si erano divertite a spettegolare su Erin, magari avevano catturato qualche pettegolezzo volante su di lei e ci avevano tirato fuori una storia. Si, era plausibile, si disse, mentre prendeva la prima forchettata di penne al pomodoro.
Non ci fu tempo di pensare ad una spiegazione irrazionale, perchè subito l’incubo del palco tornò a bussare alla sua mente. Accantonata l’esperienza x-files, Tom si tuffò nel rosso del pomodoro, pensando a come poteva cavare le gambe dall’impiccio.
Scansò anche la compagnia delle tre deficienti della tavoletta ouija, ecco il suo vero nome non storpiato, balzato fuori improvvisamente dai suoi pensieri, doveva riflettere sul da farsi. Che poteva fare? Salire sul palco, suonare due o tre accordi delle canzoni dei Tokio o poi tirare fuori il cagnolino che balla sulle zampe anteriori a tempo di musica?
“Come siamo pensierosi…”, disse Erin, mentre gli passava accanto con il vassoio, per andare a sedersi qualche posto dietro al suo… e non accanto a Gero, notò Tom.
“Hey… vieni qua.”, le disse, cercando di non strozzarsi con le penne.
Erin lo guardò, interrogativamente.
“Cosa?!? Sono stata chiamata alla corte del magnifico Re Sole? Lui ha rifiutato la compagnia delle sue graziose damigelle per preferire quella della sguattera?”, disse, mettendosi le mani davanti alla bocca per simulare un finto stupore.
“Dai, vieni qua e poche storie.”, disse Tom.
“Chissà quanta gelosia mi sto attirando in questo momento…”, disse lei con soddisfazione, appoggiando il vassoio di fronte al suo.
“Come mai non vai dal barbon-Gero?”, le domandò.
“Dal barbon-cosa?”
“Dal barbon-Gero. Quella specie ibrida che abita quel tavolo laggiù, l’incrocio tra il barboncino fedele e il Gero che entrambi conosciamo…”, disse Tom.
“Secondo te per quale motivo non mi sono seduta con lui?”, disse Erin, inforchettando il primo boccone di penne, tali e quali a quelle già per metà mangiate dall’altro.
“Vediamo un po’… per caso i vostri rapporti si sono guastati dopo che tu gli hai fatto capire che sai qual è la verita?”, le domandò Tom.
“Bravo signor Kaulitz! Vuole comprare una vocale?”, disse Erin, che quella mattina sembrava molto in vena di battute ironiche e sarcastiche.
“E lui cosa ha detto?”, disse Tom, lanciando nel frattempo una rapida occhiata al ragazzo, che non si accorse di niente perchè stava tagliando la sua fettina di carne.
“Ha iniziato a farneticare… vuoi sapere l’assurdità? Il vero motivo perchè ti ha fatto questo?”, disse Erin.
“Aspetta aspetta! Non dirmelo, provo a leggerti nel pensiero…”, fece Tom, mettendosi la punta dei suoi indici sulle tempie, “Gero pensa che io e te stiamo scopando alle sue spalle ed è tremendamente geloso, così ha escogitato di farsi picchiare da qualcuno per dare la colpa a me…”
Erin rimase senza parole.
“Beh… diciamo che, in termini molto volgari, hai reso l’idea…”, disse Erin, sprofondando imbarazzata nel sugo di pomodoro.
“Erin… guarda che quel ragazzo non vede nessun altro che te, o meglio, nessun’altra. E’ innamorato di te, cotto, lesso, con patatine.”
“Guarda che non è vero.”, lo rassicurò lei.
“Senti, non sono Einstein, non ho elaborato io la teoria della relatività né so di cosa tratti… ma non sono uno stupido, non sono nato ieri, e per quello che posso capire… cazzo Erin, lo capirebbe anche un cieco sordomuto!”
“Poveretto… cieco e pure sordomuto… ed hai il coraggio di tirarlo pure in ballo...”, fece lei, deviando il discorso.
Non le piaceva quello che stava sentendo, per lei erano solo stupide parole, dette senza averne cognizione di causa. Come poteva essere che Gero fosse… innamorato di lei?
 Già a dire tra sé e sé quelle parole le venivano i brividi!
Erano come fratelli, lo erano sempre stati, si dicevano tutto quello che passava loro per la testa e a volte non ce n’era nemmeno bisogno perchè si comprendevano al volo… Tutto questo non era amore, era solo una profonda amicizia, pensava Erin.
Tom comprese che non era l’argomento adatto per quel momento: Erin sembrava spaventata, aveva capito che non ne voleva parlare e quindi era meglio troncare il discorso. Sicuramente la cosa la stava disturbando notevolmente: capire che la persona a cui era più legata, non di certo per amore, ma per un’amicizia profonda, non prova esattamente solo fratellanza nei suoi confronti… beh, era un notevole botta emotiva. Come se suo fratello, all’improvviso, lo baciasse in bocca e dichiarasse a tutto il mondo che voleva farselo perchè lo amava… va beh, era un’altra storia, loro erano fratelli, incesti, o meglio twincest, come aveva letto da qualche parte sul web, punibili per legge eccetera eccetera… ma comunque l’idea era quella. Insomma, c’era da stare male!
“Dai, parliamo d’altro.”, le disse.
“Sì, infatti…”, fece Erin, che per tutta la durata della conversazione non aveva fatto altro che fissare il suo piatto di pasta.
“Guarda che a mangiare con gli occhi non passa la fame, anzi…”, disse Tom, indicando con la sua forchetta il cibo di Erin, ancora quasi intoccato.
“Hai ragione… a proposito, ti hanno detto dell’esposizione, vero?”
“Ecco, era proprio quello di cui volevo parlarti!”, disse Tom, “La direttrice vuole che prepari qualcosa… con il corso di chitarra.!”
“Sai che bello spettacolo”, esclamò Erin, “Un gruppo di fanatiche galline da competizione che fanno a gara a chi rompe più corde e timpani! Wow, voglio sedermi in prima fila e godermi lo show!”
“Ma che galline e galline… ci vado da solo sul palco!”, disse Tom, già scocciato all’idea.
“Solo?”, fece Erin, storpiando gli occhi e la bocca.
“E poi mi dedicherò alla raccolta dei rifiuti per strada.”
“Questo cosa c’entrava con lo spettacolo?”, domandò lei.
“Pensi che dopo avrò il coraggio di tornare a suonare di nuovo? Dopo quella figura di merda?”
“Già… scusa, non avevo afferrato il senso della battuta. Però una soluzione ci può essere…”, disse lei.
“E quindi?”, le domandò a raffica Tom, che sperava in un aiuto come quello.
“Beh… fai  tre o quattro telefonate e chiami chi di dovere.”, disse lei, con molta non chalanche.
“Chi di dovere? Quelli della società della spazzatura?”
“No, idiota! Gli altri dei Tokio Hotel… non so come si chiamano.”
“Ma non ci penso neanche!”, esclamò lui, “Scordatelo!”
“E dai, potrebbe essere una buona cosa… soprattutto per riallacciare i rapporti… e per chiedere scusa.”
“No, no, no, no, no, e NO!”, ripetè l’altro, “Ecco, mi hai fatto passare l’appetito, sei contenta?”
“Sì, così mi mangio anche la tua pizza… ho una fame oggi…”, disse Erin, rubando lo spicchio dal suo vassoio…. Aveva già in mente un bel piano, con o senza lui lo avrebbe portato a termine.
“Eh no! La pizza me la mangio io!”, fece Tom, riprendendola dalle sue mani.
“Ok, facciamo a metà.”, disse Erin, dividendola in due parti non esattamente uguali e prendendosi ovviamente quella più grande.
“Ti odio!”, disse Tom, dopo aver dato il primo morso alla sua misera pizzetta.
“Ti detesto! Uno a zero per la mitica Erin!”, rispose lei, alzando il pugno in segno di vittoria.




Allora… spero che dopo questo capitolo non mi diciate in coro “Ma che ca**o te sei fumata?’…. Farle venire le allucinazioni? Ma che storia è questa? Nu film dell’orrore?”
 Beh, a dire il vero ho ponderato molto bene sulla scelta di far ‘impazzire’ Erin e alla fine ho preso la strada che ha portato a questo capitolo. Spero che non vi dispiacerà… Capirete nelle prossime pubblicazioni che cosa sta succedendo nella mente di Erin…


TITOLO: non so da dove provenga la frase ‘Dead Man Walking’, a cui mi sono ispirata per il titolo di questo capitolo. O meglio, non me lo ricordo e, per pigrizia, non ho fatto ricerca su goooogle. Ad ogni modo, non ci sono scopi di lucro.

E non voglio pensare che non sappiate come si legge Alice in inglese… via, ve lo dico, si legge 'Elis'… ecco, ora tiratemi, lo so che lo sapete che io lo so che voi non sapete… insomma, lo sapete l’inglese, o no? XD

Per i ringraziamenti facciamo la prossima volta, stamattina sono un pochino sfaticata... comunque grazie mille a tutte quelle che hanno postato un commentino per questa storia!!!

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Capitolo 9
*** The Blower's Daughter ***


THE BLOWER’S DAUGHTER


 

Cosa ci poteva essere di più deprimente dell’essere soli in una grande stanza piena di gente che chiacchierava, rideva e si tirava le pallette di pasta di pizza? Una cosa c’era: essere soli, in una grande stanza piena di gente che chiacchierava, rideva e si tirava le pallette di pasta di pizza, mentre la sua migliore amica se ne stava con il Dottor Male della situazione. Che partissero i fuochi d’artificio!
Mentre mangiava la sua pizza, si chiedeva se mai avrebbe fatto pace con Erin. Cazzo quanto era stato stupido, si sarebbe mangiato le mani se non fossero state poco gradite al suo palato. Ma cosa doveva fare se non aspettare un segno, un qualcosa, che gli facesse capire che Erin non ce l’aveva più con lui…
Voleva chiederle scusa, ma sarebbe stato del tutto inutile se lei non lo avesse ascoltato.
Cosa poteva fare? Autofustigarsi? No, la teatralità non era il suo forte, poteva sembrare un tipo abbastanza spigliato, ma era molto timido. Nella prima settimana di clinica non era riuscito a rivolgere la parola a nessuno, proprio non ne era stato capace. Stava semplicemente a testa bassa e evitava il contatto con gli altri….
Se lo ricordava bene, era un sabato pomeriggio quando la camera di fronte alla sua venne occupata.
“Cosa?!?”, aveva sentito dire, mentre era nella sua stanza, steso sul letto a leggere ‘Il gatto nero’ di Edgar Allan Poe, il suo racconto preferito di quell’autore.
“Dovrei condividere la stanza con qualcun’altra?”
“Sì, prima o poi si riempirà anche quel posto.”, disse un’altra voce, più profonda, ma sempre femminile.
“Bene!”, sentì dire dalla ragazza, “Spero che quel prima o poi sia più poi che prima.”
Gli venne da ridere, non si sentiva spesso usare quel tono in clinica. Tornò alle parole di Poe, senza dare altro peso alla faccenda, ma sentì bussare alla sua porta. Si trovò di fronte una ragazza che non aveva ancora mai visto, forse era la nuova arrivata della stanza di fronte.
“Senti…”, gli disse, “Sai dove posso trovare qualcuno sano di mente qua dentro?”
Gero la guardò un attimo e le sorrise. In una situazione normale avrebbe sicuramente iniziato a balbettare oppure ad evitare il suo sguardo, ma l’atteggiamento beffardo della ragazza lo faceva ridere.
“Cosa? Sano di mente? Qua dentro?”, le fece.
“L’ago nel pagliaio?”, disse lei.
“Altro che ago…”
“Altro che pagliaio.”, continuò lei, mettendosi le mani sui fianchi e abbozzando un broncio sulla faccia.
“Occupi la 342?”, le domandò.
“Mi piacerebbe dire di no.”
“Sono Gero.”, fece lui, porgendole la mano per conoscerla.
Lei lo guardò un attimo, poi si voltò su se stessa  e se ne tornò in camera. Non male come primo incontro, si disse, mentre ritraeva la mano. Al che, fece per ritornare sul suo letto, ma la porta di fronte si aprì di nuovo e lei tornò fuori.
“Se mi dici da chi posso trovare una sigaretta possiamo anche diventare amici.”, fece lei, sperando che quel ragazzo fosse interessato allo scambio.
“Primo cassetto, comodino alla tua destra.”, disse lui, indirizzandola verso la zona della stanza riservata al suo compagno. Lei fece poche storie, entrò dentro, frugò nel cassetto e tirò fuori il pacchetto intero delle sigarette.
“Grazie! Io mi chiamo Erin!”, fece, ritornandosene velocemente nella sua camera.
Beh… era patetico pensare al primo incontro, alle prime parole!
Doveva smetterla con i sentimentalismi e tornare con i piedi per terra: affrontare al realtà, prenderla di petto e cercare di rimediare.
 


Seduta sul suo letto, a gambe incrociate e con l’ipod nelle orecchie, Erin sfogliava il suo blocco da disegno, in cerca di bozze o schizzi da eliminare. Non li avrebbe gettati nel fuoco per due motivi: il primo era quello più essenziale, non aveva un caminetto dove poterlo fare; il secondo era molto semplice, i suoi disegni non andavano mai a finire nel cestino dopo essere stati terminati. Magari se li dimenticava da qualche parte in una cartellina, come quelle che teneva nel suo armadio e che erano stracolme di disegni.
Sentendosi in uno stato d’animo che stava provando ultimamente sempre più spesso, cioè il rilassamento chimico datole da una pillola di tranquillanti, si mise a selezionare i suoi elaborati, dividendoli tra ‘oh mio dio cosa avevo in testa quel giorno’, ‘questo dovrebbe essere esposto al M.o.m.a di New York’ e ‘avete bisogno di carta igienica?’. Solo quelli finiti nella pila della seconda specie avrebbero avuto, loro malgrado, l’onore di essere messi su un tavolino, inguardati, durante il giorno dell’esposizione.
Tutti sembravano eccitati dall’avvenimento, tranne lei. Tutti fervevano per i preparativi. Anche in questo caso, la divisione cinica di Erin calava tra due gruppi: le femmine, che non vedevano l’ora di mettersi un po’ in mostra. I ragazzi, che non vedevano l’ora che le femmine si mettessero in mostra. Insomma, vivevano ogni giorno in costante contatto tra loro, la maggior parte era sotto i venticinque anni, con gli ormoni che ballavano il tango della passione ogni minuto della loro vita.
Dovevano essere sinceri, per le ragazze della clinica Sellers il giorno dell’esposizione era solo un pretesto per potersi truccare, fare i capelli e agghindarsi, dato che tutti gli altri dì dell’anno non era permesso, o comunque c’erano delle restrizioni molto forti all’uso di cosmetici, che non fossero creme o profumi. Di solito, la sera della presentazione era quella in cui si consumavano più rapporti sessuali dell’anno. Non era improbabile che, nove mesi dopo, qualcuna delle ragazze si ritrovasse con un compagno per la vita chiamato comunemente figlio. Ed era anche per questo motivo che qualcuna, un mese o due dopo quella fatidica sera, lasciava la clinica senza altro motivo che questo, cioè che i suoi genitori non potevano più permettersela.
Nell’ultima ‘fiera delle vanità’ questo triste destino era successo ad una sola ragazza, Erika, che partorì un tenero pargoletto di padre ignoto, perchè nessuno riuscì a scoprire chi fosse stato l’inseminatore.
Erin, fortunatamente, non aveva mai aperto le sue ‘porte’ per nessuno dei ragazzi che erano in clinica, avrebbe preferito farsi sbranare viva al Colosseo da un branco di leoni anoressici. Non era sicura di Gero, pensava che ci fosse scappato un incontro proibito tra lui e Ada, la ragazza di cui era cotto al tempo di quella esposizione, ma lui aveva sempre negato tutto, mentre lei andava in giro a chiacchierare di quanto ce lo avesse piccolo…
Nel mentre che strappava l’ultimo foglio disegnato dal blocco per metterlo nella sezione ‘oh mio dio cosa avevo in testa quel giorno’, vide un paio dei suoi disegni cadere a terra, uno spiffero impertinente dalla finestra li aveva fatti volare via.
“Cazzo…”, esclamò, mentre si toglieva di dosso tutta la carta sistemata temporaneamente sulle sue gambe e in attesa di una classificazione. Scese dal letto e raccolse i disegni, cercando di ricordarsi a quale pila li aveva assegnati.
“Bello questo.”, sentì dire.
Erin sussultò, non si aspettava di sentire nessun’altra voce tranne quella di Dido che cantava nel suo ipod.
“Quando lo hai fatto?”, le domandò Ben, di nuovo seduto sulla sedia accanto al letto, con un suo disegno in mano e un sorriso sulla faccia.
“Sei solo nella mia mente! Sei solo nella mia mente!”, prese a borbottare Erin, mentre camminava intorno al letto, in preda al panico, fissando suo fratello e cercando un modo per andare in bagno, a prendere un tranquillante, senza per forza avvicinarsi a lui.
“Vuoi queste?”, fece lui, frugandosi in tasca e prendendo il flacone delle pillole che le aveva dato Bebel, dopo il loro ultimo incontro.
“Come… come fai ad averle tu…”, disse Erin, tra un respiro affannoso ed un altro.
“Le vuoi? Tieni!”, disse il ragazzo, lanciandole la boccetta che venne presa al volo da Erin.
Non poteva crederci… la sua allucinazione le aveva lanciato il flacone delle pillole e lei lo aveva afferrato…
Come poteva essere possibile?
“Hai due pupille che sembrano dei buchi neri… ti sei fatta di nuovo di spinelli oppure sei ancora scioccata per la mia seconda visita?”, le domandò Ben, con il tipico sarcasmo che contraddistingueva i fratelli Geller.
“Ben… tu sei solo qui dentro!”, disse Erin, colpendosi la testa.
“Erin…”, fece lui, alzandosi e andandole incontro.
Erin, nell’indietreggiare, spaventata a morte, inciampò nella tenda nera che divideva la sua stanza da quella di Tom. Un paio di anelli saltarono e caddero a terra rimbalzando intorno ad Erin.
Nel mentre cadeva, sperò di non rivedere più Ben, una volta riaperti gli occhi. Ma non fu così, lui era sempre lì, in piedi sopra di lei, con le mani in tasca. Si sentì di nuovo nel panico quando lui estrasse la destra e gliela porse, per aiutarla ad alzarsi.
“No… no… no!”, gridò con forza Erin, coprendosi la faccia con le braccia.
“Erin! Erin! Va tutto bene?”, disse la voce di Gero, al di là della porta.
“No! Vattene!”, continua a ripetere la ragazza, stesa a terra, rannicchiata su se stessa.
Gero aveva sentito le grida di Erin dalla sua stanza ed, impaurito, irruppe nella stanza e la trovò in quel modo, che scalciava e continuava a gridare, impaurita da qualcosa.
“Erin, sono io Gero!”, le disse, avvicinandosi a lei.
Ma non sembrò calmarla, così cercò di fermare la sua agitazione provando a farla alzare da terra.
“Erin! Calmati! Non voglio farti niente di male!”, le diceva, provando ad immobilizzarla stringendola a sé.
Niente, pareva avere una forza incredibile e Gero non riuscì a fermare le sue braccia, che si divincolavano ogni volta dalla sua presa e gli mollavano schiaffoni su tutto il corpo.
“Hey! Toglile le mani di dosso!”, esclamò Tom.
Mentre camminava nel corridoio, di ritorno dall’incontro di psicologia collettiva, aveva sentito la voce di Erin gridare più volte e si era avvicinato correndo alla sua stanza, sperando che non stesse succedendo niente di male. Aveva trovato Gero che cercava di immobilizzare Erin, quando lei invece provava a toglierselo di dosso.
Lo prese alle spalle e lo sorprese decisamente, dato che lasciò subito andare la ragazza. Erin, libera dal suo aggressore, respirava affannosamente ma non si scuoteva più. In piedi, tossiva e cercava di riprendere fiato.
“Lasciala stare!”, gli disse Tom, “Non ti permettere mai più di avvicinarti a lei!”
“Non le stavo facendo niente di male!”, cercò di spiegarsi Gero, “L’ho sentita gridare e sono venuta ad aiutarla!”
“Certamente…”, gli ringhiò Tom.
“Non mi accusare di qualcosa che non stavo facendo!”, si scaldò Gero.
“Beh… chi di spada ferisce di spada perisce!”
“Adesso sai anche gli scioglilingua… ho capito, prima di mettermi nei guai me ne vado.”, disse Gero, lasciando la stanza.
Erin, piegata in avanti, con le mani appoggiate ai piedi del letto, sembrava avesse un attacco di asma. Non respirava, rantolava.
“Cosa stava succedendo? Ti stava facendo del male?”, le chiese, avvicinandosi a lei e mettendole una mano sulla spalla.
Prontamente, Erin gliela afferrò e gliela contorse, facendogli fare una smorfia di dolore.
“Ma che cazzo fai!”, esclamò Tom, una volta che si fu liberato della stretta di Erin.
“Oh mio Dio… scusami!”, fece lei, che sembrava aver riacquistato l’uso della parola, non solo delle sue mani, "Non… non volevo farti del male!
“Me l’hai quasi rotta!”, protestò l’altro.
“Scusami… non ero… in me…”
“L’ho visto!”, disse Tom, incazzato non solo per il dolore ma anche per la cattiveria che aveva visto in Erin, quando gli aveva afferrato inaspettatamente la mano, “Ma cosa ti è preso!”
“Non posso…”, fece lei, mentre si dirigeva verso il bagno, tremante come una foglia al vento.
“E’ stato Gero, vero? Cosa ha provato a farti?”, le domandò.
Erin gli si rivoltò contro, inaspettatamente come prima.
“Cos’è tutto questo attaccamento nei miei confronti? Non te l’ho chiesto.”, rispose lei, seria come non mai.
Tom non poteva credere a quello che aveva sentito: era la seconda volta che cercava di aiutarla e lei si ribellava.
“Gero non voleva farmi niente del male…”, disse, chiudendo la porta del bagno dietro di sé, a chiave.
“Ah! Adesso lo difendi?”
“Vaffanculo Tom e non tornare prima di cena.”
Qualunque cosa fosse successa, qualunque cosa la stesse sconvolgendo, doveva essere molto grossa. Per un attimo, quasi non pensò che fosse legata a Gero… lei aveva detto che non era stata colpa sua, ma non le credeva. Sicuramente lui aveva provato ad avvicinarsi contro la volontà di Erin, l’aveva forzata e lei si era ribellata come poteva…. Che bastardo!

 
Seduta tra il gabinetto e il bidet, Erin iniziò a singhiozzare così forte che Tom dovette uscire dalla stanza per non sentirla.
La testa stava appoggiata contro il muro e le lacrime cadevano, un fiume in piena che macchiava la sua t-shirt nera.
“Non piangere dai…”, disse Ben, apparso all’altro lato del bidet.
“Vattene Ben… ti prego…”, disse Erin, prendendo a singhiozzare.
“No… non posso andarmene…”
“Vattene…”, ripetè Erin.
“No… dai, cerca di tornare in te stessa… non sono qui per farti del male.”
“I fantasmi non esistono e tu sei solo un’allucinazione.”
“Ok, è vero, sono solo un’allucinazione partorita dalla tua mente instabile… adesso va meglio?”, disse Ben, soffiando.
“Per niente… non è sano parlare con una persona che non esiste.”
“Certo che esisto io! Ma sono tre metri sotto terra… e laggiù non si sta tanto comodi.”, disse Ben, passandosi una mano dietro al collo..
Erin non potè non reprimere uno sbuffo di risata. Anche se era solo nella sua mente, suo fratello era sempre il solito scemo.
“Non ti conviene reagire in questo modo Erin… in fondo, se ti incazzi con me ti incazzi con il tuo cervello… è da li che vengo.”, disse Ben.
“Tutto questo è assurdo…”
“No, invece un fondo di realtà ce l’ha… non stai bene, hai dovuto sopportare tante di quelle cose in questi mesi… io sono solo il risultato di un esaurimento nervoso al primo stadio.”
“Beh… è strano sentire parlare un’allucinazione in questi termini.”, disse Erin, “Dovresti convincermi a fare qualcosa… tipo a tornare quella che ero… o a suicidarmi per farci tornare insieme…”
“No, mi piaci anche così.”, disse Ben, “Questo stile sciatto, un po’ tossico anni novanta, ti dona. E poi un morto tragico in famiglia basta e avanza!”
Sentiva il suo profumo, la lavanda, che aveva impregnato il piccolo bagno. Vedeva la piccola ruga a lato della sua bocca, a destra, che si formava quando abbozzava anche minimamente un sorriso
“Sei così reale….”, disse Erin, guardando suo fratello dritto negli occhi.
“Hey, mi stai guardando come un maniaco… sono sempre un minorenne, saresti perseguibile penalmente… e poi sei mia sorella!”, disse lui, facendola ridere, “Piangi e ridi… ridi e piangi… Sembri pazza.”
“Lo sono davvero. Ti vedo. E ti parlo”, disse Erin.
“Tu non sei pazza Erin… hai sono bisogno un po’ di aiuto.”
“Prometti di non venirmi più a trovare?”, gli domandò lei.
“No, non posso farlo.”
“Ben… io non ti voglio più vedere… sei morto.”, disse lei.
All’improvviso, il sorriso sulla faccia di Ben scomparve. Rimase inespressivo, bloccato. Al battito successivo delle ciglia di Erin scomparve, volatilizzato.
Si alzò da terra e si specchiò: erano incredibili le due enormi occhiaie che aveva, sembravano due fosse delle marianne. Si dette una lavata veloce al viso per togliersi via il sapore amaro delle lacrime disperate che aveva pianto.
Non sapeva se si sarebbe presentato ancora…

 

Seduto sulla sua poltrona in sala tv, semivuota, picchiettava nervosamente il piede in terra.
Cosa le era successo per farla reagire in quel modo? Non l’aveva mai vista così spaventata, per terra, che scalciava a gridava… mai avrebbe pensato di poter assistere a quella scena. Aveva cercato di aiutarla, di farla calmare, ma era arrivato quel pezzo di idiota, aveva iniziato a sbraitare e ad accusarlo di una cosa che non aveva fatto… non gli importava di esseresi comportato in quello stesso modo con lui, in quel momento si trattava di Erin. 
Si aspettava di vederselo spuntare ancora alle spalle, per chiedere spiegazioni, oppure per rompergli il naso. Era destinato a vedere rinnovato il suo occhio nero. Gli avrebbe chiesto di picchiare quello già malandato, visto che c’era.
Non dovette aspettare molto, lo vide apparire dopo una decina di minuti e sembrava cercare nessun’altro tranne lui.
“Cosa le hai fatto…”, gli chiese, prima di avvicinarsi minacciosamente a lui e appoggiare entrambe le mani sui braccioli.
Con i loro nasi così vicini da toccarsi, Tom sovrastava Gero, cercando di incutergli timore.
“Niente.”, sibilò Gero, immobile ma per niente spaventato da lui.
“Stai dicendo troppe bugie… è per questo che lei non ti vuole più parlare o sbaglio?”, gli disse.
Lui non rispose, rimase a guardarlo con odio senza proferire parola.
“Dimmi cosa le hai fatto… dimmi perchè adesso Erin sta chiusa in bagno a piangere."
“Te lo ripeto. Niente.”
“Perchè continui a mentire!”, esclamò Gero, picchiando forte sul bracciolo.
I pochi presenti in sala tv erano un quartetto di vecchietti che giocavano a carte al sole di fine maggio.
“Stavolta non sto mentendo… mi sembrava di avertelo già spiegato. L’ho sentita gridare, sono entrato in camera pensando che ci fosse qualcuno che le stava facendo del male. Non c’era nessuno, tranne lei che si dimenava sul pavimento.”
“Ma che bella storia… dove l’hai letta? Sul giornale?”
“E’ la verità.”
“Non mi sono mai fidato di te… né lo farò adesso. Vado dalla direttrice e le dirò cosa stavi facendo ad Erin.”
“Fai pure… sono innocente, non ho paura di te.”, disse Gero.
“Bene… un’altra menzogna…", esplose Tom, "Tu hai paura di me, eccome! Hai paura che mi intrometta, che ti rubi il posto. Ecco, da ora in poi puoi stare tranquillo. Chiederò di cambiare camera e non le rivolgerò più la parola, così potrai tornare ad opprimerla come ha sempre fatto!”, disse Tom.


Uscì dalla stanza delle tv, risoluto. Lì dentro non si guariva, si poteva solo peggiorare la propria salute mentale. Se si andava con lo zoppo si imparava a zoppicare, a stare a contatto con disturbati mentali come Gero non si poteva altro che diventare come lui… o come tutti gli altri… quella era la cosa giusta da fare.
Prese l’ascensore, dritto per il quarto piano. Lentamente, la cabina scorse tutti i livelli, facendo solo una breve sosta al terzo. Si aprirono le porte: al di là stava Erin, chiusa nella sua felpa, con il cappuccio in testa. I loro sguardi si incrociarono.
Tom vide la faccia di Erin come pietrificarsi, diventare bianca come il marmo.
“Erin... cosa… cosa ti prende?”, le fece, prima che lei iniziasse ad indietreggiare e poi a correre verso la parte opposta del corridoio. Tom si guardò intorno, pareva che lei avesse visto un fantasma, accanto a lui. Gli venne di correre, di andarle dietro, di fermarla e di farla ragionare.
Cosa le passava per la testa? Cosa aveva pensato? Cosa aveva visto per farla correre via terrorizzata?
“Erin! Fermati!”, le diceva appena riusciva a trovare un attimo di tregua. Lei sembrava instancabile, prese le scale e scese giù fino all’ultimo piano. Lui dietro, ansiamante e affaticato, ma ostinato nel raggiungerla.
Prima o poi anche lei avrebbe perso le forze e si sarebbe fermata!
Si diresse verso il parco, tutti guardavano i due ragazzi in corsa, chiedendosi cosa stesse accadendo.
“Erin! Erin!”, continuava a chiamarla Tom, ma niente, lei andava dritta verso il bosco. Cercò di metterci tutto l’impegno che aveva, non era un velocista, forse non aveva mai corso così tanto in vita sua. E di certo il suo abbigliamento non lo aiutava per niente.
La vide fermarsi, repentinamente, tra due piante di abete.
“Erin!”, gridò ancora, “Fermati! Ti prego!”
Lei si voltò. Tom era ancora lontano, ma potè vedere che ancora sembrava in preda al panico. Fece diversi giri su se stessa, si guardava intorno, come se stesse cercando qualcuno… o scappando da qualcuno.
Forse da lui? E perchè da lui?
Eccola, riprendeva a correre. Tom, che era rimasto completamente senza fiato e forze, cercò di recuperare lo svantaggio, ma poteva solo camminare, ed anche malamente.
Poi sentì in grido, come uno squarcio. E di nuovo il silenzio. Proveniva da qualche parte alla sua destra, lo aveva sentito chiaramente.
“Erin!”
Ma niente, solo il rumore dei suoi passi pesanti sulle vecchie foglie appassite a terra. Fece almeno un centinaio di metri, prima di vederla, stesa a terra, supina.
“Cazzo!”, esclamò, avvicinandosi.
Svenuta, i capelli che le coprivano la faccia, il piede sinistro sotto la gamba destra. Cercò di farla alzare passandole un braccio sulle spalle.
“Svegliati… svegliati…”, le diceva, dandole dei leggeri colpetti sulla faccia.
Un colpo di tosse, poi un altro. Con lentezza quasi infinita aprì gli occhi.
“Erin! Va tutto bene… va tutto bene…”, le diceva.
Lei lo guardò un attimo, poi senti il suo corpo irrigidirsi improvvisamente.
“Ben…”, disse, impercettibilmente.
“No… sono io… sono Tom…”, rispose lui.
Gli occhi di Erin si chiusero di nuovo e perse i sensi, afflosciandosi su Tom. La prese tra le braccia e, appena sbucò fuori dal boschetto, chiamò qualcuno che lo aiutasse. In pochi minuti, arrivarono un paio di infermieri e di dottori, la presero ancora svenuta e la misero su una barella. Una folla di domande nella testa.
La più importante: cosa le era successo?

 

La notizia di Erin si sparse presto in clinica. Le ragazze iniziarono a dire che era impazzita, che aveva perso la testa e che aveva iniziato a farneticare. Che cosa ci si poteva aspettare da una come lei? Una fine tragica, diceva Melanie, glielo aveva detto quel cazzo di spirito che avevano contattato con quella cazzo di tavoletta di legno. La zittì dicendole che poteva ficcarsela in un determinato buco del suo corpo.
Si stupì di se stesso, dell’attaccamento che si era creato con quella ragazza.... Non si reputava capace di potersi legare così tanto ad una persona dell’altro sesso senza provare nient’altro che amicizia. Era vero, doveva ammetterlo, donne uguale sesso per lui. Ma non quella volta…
Lei lo aveva capito, aveva compreso il suo problema. E non gli aveva chiesto niente in cambio. Non lo aveva giudicato, non gli aveva imposto niente. Le loro esperienze si somigliavano molto, forse anche per questo si sentiva così vicino a lei. Come gli aveva detto quella sera?
‘I Geller come i Kaulitz'
Erano persone che non sapevano vivere da sole, senza nessuno a cui potersi appoggiare.
Lui li era solo, era stato solo, e aveva trovato in lei un nuovo punto di riferimento….
Così come lei lo aveva avuto in Gero…
Che questo suo star male improvviso fosse legato a lui? Se ci pensava bene, era diventata strana solo negli ultimi giorni… cioè da quando Gero aveva fatto la sua cazzata. No, non poteva essere, la causa del problema non poteva anche esserne la soluzione! Erin non poteva altro che stare meglio senza di lui, senza quel pazzo, senza quel manipolatore… eppure, pareva che senza di lui non riuscisse a trovare il suo equilibrio.
Tali e quali a lui e a Bill…

 

Sotto le sue palpebre, una luce bianca, asettica, pulita. Luce di ospedale. I suoi occhi iniziarono a muoversi velocemente, ma ancora non si aprirono.
“Si sta svegliando…”, sentì, lontanissimo da lei, la voce di Gero.
“Vado a chiamare il dottore.”, fece un’altra persona, una donna, forse un’infermiera.
“Erin… Erin…”, rimbombò il suo nome nelle sue orecchie.
Poi una sensazione di calore, sulla sua mano. Lui che gliela stringeva, delicatamente.
“Gero… sei tu vero?”, chiese lei.
“Sì… sono io… pensavi fossi qualcun altro?”
Dovette coprirsi il viso con una mano, ancora non sopportava la luce del giorno.
“Purtroppo sì… ma non chi pensi tu…”, disse lei, intuendo subito che il suo amico stava riferendo a Tom.
“Ah… e chi…”
“Ne parliamo in un altro momento…”, disse Erin.
“Ok… adesso vado… è arrivato il dottore per visitarti.”, disse lui, lasciandole la mano.
Sentì i passi veloci di Gero allontanarsi, mentre altri che si avvicinavano a lei, più pesanti.
“Che cosa mi è successo?”, fece, con un fil di voce.
“Ha avuto un crollo,”, disse l’uomo, “forse dovuto ad uno shock, questo dovrebbe spiegarcelo lei. Ha anche una caviglia slogata, per diversi giorni sicuramente non potrà poggiare il piede in terra.”
“Ma da quanto sono qui?”, chiese ancora Erin.
“Da un giorno… l’abbiamo portata qui ieri, verso quattro del pomeriggio… ora sono le diciotto e qualcosa… non male per una dormita.”, disse l’uomo, mentre si indaffarata con i macchinari intorno al letto e con il flacone della flebo.
Lo vide annotare qualcosa su una cartellina di metallo, poi tornò al bordo del letto.
"Allora, Erin… mi vuoi parlare del motivo per cui in questi giorni ha avuto questo crollo nervoso?”, le domandò il dottore, una volta che la porta della stanza in cui si trovava fu chiusa. Era sempre nella clinica, sicuramente al primo o al secondo piano.
“Vedo…”, disse lei, mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime e la sua voce si rompeva per il dolore, “Vedo cose che… che non ci sono…”
“Ad esempio?”
“Vedo… mio fratello… che è morto tre anni fa…”, disse lei.
“Capisco… vuoi che chiami il suo psicologo?”
“No… lui lo sa già… non lo so, all’inizio pensavo di aver sognato ad occhi aperti… poi l’ho visto ancora… e ancora…”
“Non ti agitare Erin… o peggiorerai la situazione.”
“Sto male dottore… non è vero?”, chiese Erin, asciugandosi le lacrime.
“Non troppo… ti ci vorrà un po’ per riprenderti, ma non stai così male come pensi.”, disse lui, sorridendole, “Ho letto parte della tua anamnesi e capisco che questo tuo vedere cose che non ci sono è legato ad un forte stress. Causato soprattutto dall’avere quel ragazzo da seguire, che sicuramente ti ha fatto rivivere inconsciamente la morte di suo fratello… poi in questo giorno in cui eri incosciente ho avuto modo di parlare con questa persona, con il tuo psicologo e con quel tuo amico, quello che era qui poco fa.”
“Gero.”, disse Erin, ricordandogli il suo nome.
“Sì, esatto… insomma, ho capito che sembra che il destino abbia voluto metterti contro tante di quelle difficoltà in così poco tempo…”, disse l’uomo, annotandosi alcune cose sulla cartellina medica che aveva sotto il braccio.
“Lo rivedrò ancora?”, domandò Erin.
“Chi?”
“Mio fratello.”
Il dottore sospirò.
“Non te lo posso dire con certezza, ma penso proprio di no… sei crollata, adesso sarà come ripartire da zero… con calma e tranquillità, ritornerai a fare tutto quello che facevi prima.”, disse l’uomo, poi le sorrise ancora e lasciò la stanza.
Attese.
Attese di sentire la sua voce.
Attese di vederlo comparire ai piedi del suo letto.
Attese per ore.
Ma niente.
Lui non parlò.
Lui non comparve.
Le venne quasi da ridere, dopo essere stata per due ore con lo sguardo fisso davanti a sé e le orecchie pronte a recepire ogni piccolo rumore. Annoiata, senza televisione né un passatempo, non potè fare altro che addormentarsi.
Quando si svegliò, la mattina seguente, di buon ora, si sentiva già meglio. Ancora debole, ancora scossa, ancora stanca dentro, si mise a sedere sul letto. Poi, un oggetto giallo sul comodino attirò la sua attenzione. Lì c’erano il suo blocco da disegno, un paio di matite appuntite, un carboncino, una gomma e il suo ipod. Prese per primo il suo lettore mp3, indossò le cuffie e lo fece partire. Si aspettava di sentire, come prima canzone della lista, ‘Angel’ degli Aerosmith, che avrebbe implicitamente dedicato all’angelo che le aveva portato i suoi svaghi preferiti…
Ma invece, partirono le note di ‘Glorious’ di Andreas Johnson. E comprese chi aveva fatto questo per lei, non poteva altro che essere Gero… quella era la sua canzone preferita. Aprì il blocco, ispirata nel riprodurre solo un brutto scarabocchio.
Ma invece di trovarci un suo disegno oppure una pagina bianca…

 
Con il suo adorato blocco da disegno appoggiato sulle gambe, Gero cercava di raccogliere i suoi pensieri, scriverle qualcosa. Aveva contravvenuto ad un importante regola, mai toccarle il blocco, a meno che non era lei a porglielo, ma tanto lei non c’era, era al primo piano… quindi poteva fare quello che voleva, cioè prenderlo, toccarlo quanto voleva a scriverci quello che gli passava per la testa.
Non aveva mai scritto niente che non gli fosse stato imposto da un professore, quindi ebbe molte difficoltà nel cercare di tradurre il suo stato d’animo in parole. Dopo diversi tentativi, due matite spuntate e diversi vaffanculo, fu contento di quello che ebbe scritto.

So che ho fatto una cazzata, so che non mi merito niente, tranne uno schiaffo, anzi due. Facciamo direttamente un calcio nelle palle, ok? Non so perchè l’ho fatto… cioè, lo so, ma mi vergogno a dirtelo. Mi sento una merda, mi sento meno di niente… senza di te.
Ho cercato di controllarmi, ho cercato di non ammetterlo, ma non riesco a stare senza di te. Sei la mia amica, sei la mia sorella, sei una parte di me a cui non posso rinunciare. A cui non voglio rinunciare.
So benissimo che dopo queste parole non vorrai più vedermi. Non mi importa, non voglio più fingere, non mi interessa più fare buon viso a cattivo gioco.
 Ti chiedo scusa.

Tuo Gero
.’

 
Una lacrima cadde sulla ‘o’ di Gero, facendola deformare e scolorire. Un’altra colpì la parola ‘scusa’. Prima che tutta la lettera venisse macchiata dalle sue lacrime, Erin chiuse il blocco e lo strinse al petto. In quel momento, un’altra canzone…
La sua canzone…

 

And so it is
Just like you said it would be
Life goes easy on me
Most of the time
And so it is
The shorter story
No love, no glory
No hero in her sky
I can't take my eyes off of you


Gliel’aveva fatta sentire Gero una volta, una notte, che lei non riusciva a dormire perchè era tormentata da brutti sogni. Gli aveva bussato alla porta e lui, insonnolito e di cattivo umore, gli aveva passato il suo ipod, dicendole di ascoltare la canzone intitolata ‘The Blower's Daughter’, di farsi un piantino e di tornarsene a letto. Lei aveva seguito il suo consiglio, aveva ascoltato la canzone… ed aveva pianto, distrutta dalle dolci parole cantate da un certo Damien Rice, di cui lei non aveva mai sentito prima il nome. Le dolci note della chitarra, suonate nella canzone, le erano entrate dritte dentro al cuore… e non se ne era più liberata.

And so it is
Just like you said it should be
We'll both forget the breeze
Most of the time
And so it is
The colder water
The blower's daughter
The pupil in denial


Di nuovo, come la prima volta che l’aveva sentita, la voce vellutata e triste di Damien Brice le divise il cuore in due, lo lacerò poi in altri migliaia di pezzetti. La sua anima se n’era andata, fuggita, per non subire lo stesso tragico destino.

I can't take my eyes off of you
I can't take my eyes off you
I can't take my eyes...


Continuava a ripetere il cantante… ‘Non posso togliere i miei occhi da te…Non posso togliere gli occhi da te…

 

I can't take my mind off you
I can't take my mind...
My mind...my mind...
'Til I find somebody new


 

Non posso distogliere i miei pensieri da te…
Non poteva distogliere i suoi pensieri da lei…
Non poteva distogliere i suoi pensieri da lui…
Prima di piangere ancora, cambiò canzone… ma non ce n’erano altre. Solo quelle due che aveva ascoltato…

 




TITOLO E CANZONE DEL CAPITOLO: ‘The blower’s daughter’ di Damien Brice, fa parte della colonna sonora di ‘Closer’, film con Julia Roberts e Jude Law (strafigo… scusate il commento ma è veramente un bel pezzo di…). E’ una canzone bellissima, l’ho sentita per caso. Ascoltando le parole, l’ho trovata estremamente perfetta per le mie intenzioni fantasiose… Non trovate? No scopo di lucro.

Ringrazio, come prima cosa, tutte le persone che hanno recensito l'altro capitolo, con tutto il cuore, per non avermi tirato pomodori marci in faccia! Sì, ho provato a fare un salto nel vuoto tirando fuori il fratello di Erin, ma a quanto leggo nelle vostre parole non sembra che vi sia dispiaciuto molto... speriamo bene! Scusate se non sono molto loquace nei ringraziamenti, ma tra un po' diventano più lunghi i grazie di tutta la storia! E sono molto contenta per questo!!!!

MissZombie: eh! Tre capitoli! La prossima volta ti bacchetto le mani! Zac zac zac! XD no scherzo, non lo faccio solo perchè ci sono diverse centinaia di chilomentri tra noi e non ho un bastone così lungo! Comunque: la vaga idea sicuramente è quella giusta, anche perchè non c'è da spaziare tanto con la fantasia, in questo caso! Gero... povero Gero, tutti lo odiano, sono tutti delusi tranne me... beh, io che ho sofferto abbastanza per amore lo capisco benissimo, si fanno pazzie per chi non ci guarda.... povero cucciolo! Non dico altro, tanto già straparliamo su msn! CiaoCiao!

CowgirlSara: beh... che ti devo dire! Grazie come sempre, anche per la recensione live che mi hai fatto su msn l'altra sera! Quindi non mi rimane altro che attenderti di nuovo in linea per ciabattare un po', non credi? Ciauz!

Martuccia: no, non voglio drogati che potrebbero finite in questa clinica! Oramai basto io! XD E il mio spacciatore purtroppo è un tipo losco che viaggia sempre con i documenti falsi... quindi non può esserti utile XD comunque grazie per tutto quello che mi hai scritto, davvero, mi fa molto piacere! Alla prossima!

Dark_Irina: grazie grazie grazie infinite... spero che la storia non si infittisca troppo sennò non ci capirete niente XD scherzo, se sarà utile vi manderò una maestra di sostegno XD magari con le sembianze di bill o tom o di chi altro sia il vostro TH preferito! I botta e risposta piacciono tanto anche a me, li uso spesso per fare la scenetta comica... mi fa piacere sapere che piacciono! Grazie mille ancora!

Alanadepp: sei comparsa anche sul blog! Ora chiamo la polizia! XD E Gero si legge ghero perchè in deustchlandia la g non è mai gi, tanto per fartelo sapere XD il Tom-babbà non mi piace molto, preferisco Tom-krapfen, va bene? comunque grazie per tutto ciò che hai scritto, veramente mi fa molto piacere leggere recensioni come la tua! Top of the tops XD che ganzo!

Ruka88: vedrai presto che le galline verranno spennate molto presto XD comunque no, te lo dico subito, Ben non è cattivo... e povero Bill, se ti sente penserà che sei una pazza psicopatica XDDD scherzo ovviamente! alla prossima!

Alice94: no Erin non muore ma all'inizio della storia, quando scrivevo i primi capitoli, ci stavo pensando molto! E le storie dei fantasmi mi attirano sempre, ne ho scritta anche una one shot! Ma poi Ben sarà davvero un fantasma?

SweetPissy: grazie mille per aver lasciato una recensione! Mi ha fatto molto piacere! Eh! Allucinazioni o non allucinazioni? Starà a voi capirlo! Io non dico niente! Grazie ancora!

Lidiuz93: inquietante sì... attenta! Un coltello dietro di te!!!!!!!!!!!!!!! XDD mi piacciono le scene alla Psyco! Grazie per la recensione!

Carillon: grazie per la delucidazione sulla malattia, fortunatamente non ne sono molto esperta! vedrò di ricordarmelo in futuro, ma per ora non correggerò, tanto l'importante è capirsi no? XD I due amici-nemici avranno modo di capirso molto e sempre meglio nei prox capitoli... eh, anche se litigano sempre, in fondo in fondo si vogliono bene!

Sososisu: ecco la Giuls! Altro che quattro salti in padella findus! Quello proprio non vede altro che lei! Povero Tom, lui si trova in mezzo a tutte queste galline senza cervello e cosa fa... ci va a letto e festa fatta! Al di là delle stupidate, grazie come sempre! E anche io ti amo..., come amo tutte quelle che recensiscono e mi fanno riempire di modestia XDDD che deficiente che sono... rinchiudetemi please.

Fucking_princess
: grazie, mi fa sempre molto piacere sapere che per voi questa storia è diversa dalle altre, perchè cerco sempre di distinguermi, per non cadere in mezzo alla massa. Quindi grazie mille, la tua recensione è speciale! Spero di leggerti ancora!

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Capitolo 10
*** Keep holding on ***


KEEP HOLDING ON




Andò al primo piano a chiedere di poter vedere Erin, voleva sapere come stava. L’infermiera gli disse che poteva visitarla tranquillamente, ma che forse stava dormendo. Tom bussò prima di entrare e, quando sentì dire ‘avanti’, abbassò la maniglia.
“Ciao…”, disse Erin, vedendolo, sorridendogli. Se ne stava seduta sul letto, a le gambe distese, e disegnava… lei non gli aveva mai fatto vedere i suoi schizzi, li aveva solo intravisti quando era entrato nella loro camera e lei sembrava nel pieno di una crisi isterica. Ma non aveva avuto il tempo di vederli, né gli erano interessati in quel momento, ma gli sarebbe davvero piaciuto poterli osservare.
“Hey… come va?”, le chiese lui, mettendosi le mani in tasca e stringendosi la testa tra le spalle. Notò che il suo piede sinistro era fasciato, forse si era fatta male…
“Insomma…”, disse lei, facendo spallucce.
“Certo… che domanda stupida.”, disse l’altro.
“Meno male che non ho dovuto dirlo io.”, disse lei, sorridendogli.
Era strana, non sembrava la solita Erin, l’iperattiva-Erin, la battuta-pronta-Erin… era apparentemente calma e rilassata, parlava lentamente e il suo sguardo sembrava quasi perso… Tranquillanti, pensò Tom.
“Già…”
“Non mi ricordo molto dell’altro giorno… a parte che mi hai rincorso per tutto il parco.”, disse Erin.
“Tranquilla, ho perso otto delle mie nove vite per correrti dietro, ma adesso sto bene.”, disse lui, ridendo.
“Senti… vorrei parlarti di alcune cose.”, disse lei, con calma risolutezza.
“No, ti prego, non sentirti obbligata a darmi alcuna spiegazione. Adesso devi solo rilassarti e non pensare a niente.”
“Dai, vai a chiamare l’infermiera, fatti dare una sedia a rotelle e portami fuori di qui, prima che mi vengano le rughe e inizi a perdere i denti!”, esclamò lei.
“Va bene!”, fece Tom, contento di quella manifestazione di ironia che la contraddistingueva da tutte le altre ragazze della clinica.
Tornò dopo qualche minuto e, dopo averla aiutata a sedersi sulla sedia a rotelle, stando attendo che non si facesse male al piede, la portò fuori, in giardino, a godersi un po’ del sole mattutino.
“Cosa hai fatto al piede?”, le domandò.
“Mi sono slogata la caviglia e per adesso mi fa un male cane.”, rispose lei, e prese un grosso respiro,  “Ah! Senti che bel venticello fresco… là dentro tutto sapeva di candeggina e di disinfettante, bleah! Andiamo là, al laghetto.”
Percorsero il piccolo tragitto quasi in silenzio. Sia Tom che Erin notarono le strane occhiate che venivano indirizzate loro dai pazienti che passeggiavano per il parco. Quelle più insistenti appartenevano ai ragazzi del terzo piano, soprattutto alle ragazze. Alcune di queste iniziarono a confabulare tra di loro e a indicarli, facendo venire in mente ad Erin almeno un migliaio di motivi per alzarsi dalla sedia a rotelle, andare lì e rompere loro il naso.
La trattenevano solo la caviglia dolorante e i tranquillanti che aveva preso…
Tom accostò la sedia al bracciolo di una delle panchine affacciate sul laghetto e si sedette accanto a lei. Dopo un momento di imbarazzo, Erin gli parlò.
“Beh… non so nemmeno da dove iniziare.”, fece, grattandosi la fronte.
“Tranquilla… non mi devi niente, nessuna spiegazione.”
“No, ti sbagli… è solo che è così difficile parlarne.”, disse lei, “Non penserai che sono pazza vero?”
Tom sentì la sua voce rompersi, non voleva farla piangere, non ce n’era bisogno.
“Beh… mi verrebbe da dire che lo sei sempre stata… ma nel senso buono del termine!”
Erin sbuffò in una piccola risata e si asciugò la prima lacrima che si era affacciata sui suoi occhi.
“E’ vero, hai ragione… comunque… avrai notato sicuramente che negli ultimi giorni sembravo un po’… strana…”
“Sì… su di giri direi. E poi ti prendevi i tranquillanti, insomma, non era un buon segno.”
“Ecco…”, disse lei, reprimendo un singhiozzo.
“Perchè li prendevi? Cosa ti faceva agitare?”
“Io… io… credevo di stare impazzendo.”
Tom rimase in silenzio, attese che Erin parlasse, senza forzarla con domande che l’avrebbero solo fatta innervosire ancora di più.
“Ho visto… ho visto Ben.”, disse poi, con uno sforzo che doveva esserle costato tantissimo.
“Ben?”, fece poi, sperando di aver compreso male.
“Sì, lui… l’ho visto una volta, poi un’altra ed un’altra ancora… stava davanti a me, mi parlava, come se fosse stato vivo.”, disse lei, tra un singhiozzo ed una lacrima. Tirò fuori un pacchetto di fazzoletti di carta dalla tasca della sua felpa e si soffiò il naso.
Tom non riusciva a credere a ciò che aveva sentito.
“Quindi tu… lo hai visto, gli hai parlato…”
“Sì… non sono pazza vero? E’ tutto nella mia mente… lui non c’era, ero solo io che me lo immaginavo lì…”
Tom non sapeva cosa rispondere. Non perchè pensasse davvero che lei fosse folle a vedere il fratello morto… ma perchè all’improvviso gli era tornata in mente la sera in cui aveva giocato alla tavoletta ouija…
“No… non lo sei, credimi. Ma devo anche io raccontarti una cosa.”, le disse.
“Dimmi…”, fece Erin, mentre si asciugava le lacrime sulle sue guance.
“Quando ti ho chiesto se conoscevi Alice… o meglio Alice…”, disse Tom, pronunciandola all’inglese
Gl occhi di Erin si pietrificarono.
“Perchè quella domanda?”, gli domandò.
“Quella sera… con Petra e le altre…", le raccontò Tom, cercando di trovare il modo più semplice per spiegarle quella cosa così assurda, "Hanno giocato a quella tavoletta con le lettere e la moneta. Non so se sia vero, non so se sia possibile, ma… insomma, questa Alice ci ha parlato e ci ha detto che stava per succederti qualcosa di male.”
Erin lo guardò, come se quello che avesse detto non avesse un benché minimo senso.
“Ma Ben era nella mia testa! I fantasmi non esistono!”, disse Erin, che stava di nuovo per scoppiare in singhiozzi.
“Lo so, Erin, credimi lo so! Ma è tutto così strano… Sicuramente quelle tre si sono inventate tutto, è solo una coincidenza.”, cercò di dire Tom, per frenare il pianto di Erin, “Forse… forse tutto questo non è collegato con quello che hai visto. Anzi, è così, ne sono sicuro. Tu lo hai visto perchè eri stressata, un po’ anche per colpa mia… un po’ anche per la storia con Gero…”
Erin disse di sì con la testa, frenando i singhiozzi che le salivano in gola.
“Supponendo che quelle tre deficienti abbiano detto la verità, anche se mi sembra molto improbabile….”
“Tom! I fantasmi non esistono!”
“Ma prova a pensare solo un attimo a questa possibilità… Ben è e sarà sempre al suo fianco…”, disse Tom, comprendendo che quelle erano le parole giuste da dirle, in un momento del genere, “E’ come… il tuo angelo custode.”
“Io non credo in queste cose… sono tutte baggianate per bambini, impauriti dalle suore e dai preti.”, disse lei.
Meglio non continuare oltre, si disse Tom, avrebbe metabolizzato la cosa solo con il tempo.
“Senti, Erin… sto per chiederti una cosa che sconvolge il mio equilibrio psicofisico, mi sa che poi ci porteranno insieme al reparto neurologia per l’elettroshock…”, disse lui, facendola sorridere.
“E sarebbe?”
“Posso abbracciarti?”
Erin lo guardò, sorpresa e stupita.
“Ecco, lo so, è una cosa da femminucce, facciamo finta che non te lo abbia mai detto…”, disse lui, abbassando la testa e calandosi il berretto sugli occhi. Poi Erin lo stupì a sua volta, aprendo le braccia e aspettando che lui lo abbracciasse.  In quel momento, gli sembrò per un attimo che al suo posto ci fosse Bill. Gli parve di sentire il profumo della sua pelle… ma era solo Erin. Non che fosse deluso, Erin per lui era diventata molto importante… In quel momento si rese davvero conto che senza suo fratello non ce l’avrebbe mai fatta. Gli venne quasi da piangere, ma cercò di recuperare il controllo.
“Hai parlato… hai parlato con Gero?”, le domandò, mentre la stringeva a sé.
“No… ancora no…”
“Beh… io l’ho fatto… ci siamo chiariti. Ci siamo chiesti scusa a vicenda.”, disse Tom.
Erin, nel sentire quelle parole, si scostò da lui e lo guardò interrogativamente.
“Che c’è?”, fece Tom.
“Vi siete chiesti scusa? Ne sei proprio sicuro?”, domand.ò lei, per accertarsene definitivamente.
“Sì… sembra strano ma lo abbiamo fatto.”, disse Tom.
“Allora dobbiamo festeggiare!”, esclamò Erin, levando le braccia in alto, in segno di vittoria, “Portami dentro, andiamo alla lezione di cucina e vediamo se hanno fatto qualche dolce!”
Erin non volle tornare nella stanza in cui l’avevano ricoverata, anche se i medici avrebbero voluto tenerla ancora sotto osservazione. Insieme a Tom andarono nella stanza in cui si teneva la lezione di cucina. Chiese molto sfacciatamente se avevano dei dolci da farle mangiare e, quando l’insegnante le disse che doveva aspettare il pranzo per potere assaggiare quelli che stavano preparando, Erin le rispose apertamente:
“Senta, ho avuto un crollo nervoso, non vorrà mica avermi sulla coscienza per avermene fatto venire un altro?”
Tom, appoggiato allo stipite della porta, nascose un sorriso con la mano. Erin uscì dalla stanza con una torta alle mele e un sacchetto di biscotti al cioccolato.
“I malati mentali fanno sempre tenerezza.”, disse, mentre ne addentava uno con soddisfazione.
“Andiamo a cercare Gero?”, le domandò.
“No… no, solo io e te, una festa privata.”, disse Erin.
“Ok…”, disse lui, ancora un po’ perplesso.
Una volta nella loro camera, seduti a terra su una coperta, finirono in poco tempo tutto quello che erano riusciti a razziare dalla lezione di cucina. Con la pancia piena già prima del pranzo, i due si stesero a terra, come dei bambini piccoli.
“Ah, dovrei fare una chiamata… me lo presteresti il tuo cellulare?”, gli chiese Erin.
“Sì…”, fece lui, andandolo a prendere nel comodino. Stava spento forse da due settimane, lo aveva abbandonato lì. Glielo accese e glielo porse.
“Grazie…”
Erin prese il telefono, compose un numero e attese che prendesse la linea.
“Ciao mamma! Come va?... sì, tutto ok… bene, sono contenta. Ascoltami, avrei bisogno del numero della zia Heidi… me lo potresti dare?”
Tom si fece i fatti suoi per educazione e non ascoltò la conversazione. Si alzò ed a sedersi sul letto, per lasciarle un po’ di spazio. Erin gli fece segno di aver bisogno di una penna e di un foglio, così lui aveva frugato nel suo comodino e gliene aveva lanciata una. “Oh, sì, grazie, ci sentiamo nei prossimi giorni….”, chiuse la chiamata e gli restituì il telefono.
“Potevi anche starci di più, potevi dirle di quello che ti è successo.”, le disse, sorpreso in parte per il fatto che Erin avesse omesso a sua madre la sua brutta esperienza.
“No, gliene parlerò la prossima volta, per non farla preoccupare troppo.”, disse lei.
Provò ad alzarsi e a sedersi sulla sedia a rotelle senza aiuto da parte di Tom, anche se lui rimase sugli attenti per andare a soccorrerla, se mai avesse perso l’equilibrio e fosse caduta.
“Vado a chiamare la zia Heidi.”, disse lei, uscendo dalla stanza, spingendo da sola la sedia a rotelle.


Meno male che Tom aveva distolto lo sguardo per qualche attimo, altrimenti la finta telefonata non sarebbe servita a niente...
nvece di digitare il numero di casa sua, aveva scorso la rubrica fino a che non aveva selezionato il numero giusto. Poi aveva iniziato a fingere di chiacchierare. Nel mentre lui si era alzato, lei aveva guardato il numero, cercando di stamparselo in mente. Poi lo aveva segnato sul foglietto che lui le aveva dato, ricontrollò che il numero fosse giusto mentre gli dava ad intendere di voler chiudere la chiamata e gli restituì il telefono, dopo essere uscita dalla rubrica.
Con il numero di Bill segnato sul foglio, Erin andò nella sala telefoni, decisa a chiamarlo al posto di Tom, che era troppo testardo e orgoglioso per farlo. Andò in fondo alla stanza dei telefoni, vuota in quel momento della giornata, e lo digitò.
Ci volle un po’ prima che Bill le rispondesse.
“Pronto?”, disse lui. In sottofondo, della musica e abbastanza confusione, che si fermò dopo che lui ebbe pronunciato quella prima parola.
“Pronto? Parlo con Bill? Bill Kaulitz?”, chiese Erin.
“Sì… ma chi è?”, chiese lui.
“Senti, sicuramente non ti ricordi di me, ci siamo visti una volta sola…”
“Te l’ho dato io questo numero?”, domandò lui bruscamente, interrompendola.
“No, a dire il vero l’ho preso in questo momento da Tom.”, disse Erin.
Dall’altra parte, improvvisamente non venne proferita altra parola.
“Chi sei tu?”, le fece, in tono tutt’altro che amichevole.
“Sono la sua compagna di stanza. Mi chiamo Erin… sono la ragazza che hai incontrato quando sei venuto qui, a trovarlo, la prima volta.”
“E perchè sto parlando con te invece che con lui? E’ lì con te?”
“No… veramente gliel’ho preso di nascosto, non sa che ti sto chiamando.”
“Allora sarà meglio che questa conversazione finisca qui.”, disse Bill.
“No! Aspetta, fammi spiegare!", lo riprese Erin, "Ti sto chiamando perchè voglio spiegarti alcune cose…”
Sentì Bill sbuffare, poi le chiese di controvoglia cosa aveva da dirgli.
“Sabato… cioè tra tre giorni, qui alla clinica c’è il giorno dell’esposizione. Per fartela breve, vorrei che tu venissi. Fallo per lui.”
“No… in quel giorno sono molto impegnato.”, controbattè l'altro, stufato.
“Ah… capisco… comunque tanto per fartelo sapere, tuo fratello tiene un corso di chitarra qua dentro e sabato dovrà esibirsi davanti a tutti noi e ai nostri parenti compresi. Sarebbe molto bello se tu venissi a vederlo.”
“Perchè mi stai dicendo tutto questo?”, le chiese lui, dopo qualche secondo di silenzio.
“Perchè… ho conosciuto tuo fratello, molto bene…”
“Sì, certo, ci sei andata a letto e pretendi di conoscerlo.”, sbottò l’altro.
“No…”, disse Erin, reprimendo il ‘vaffanculo imbecille che non sei altro’ che le era venuto a gola, “A dire il vero sono solo la sua compagna di stanza. Sono la sua tutrice, lo sto seguendo nel percorso di guarigione… ti stavo dicendo che ho imparato a conoscerlo e, credimi, non vuole dirtelo, ma gli manchi più di ogni altra cosa al mondo. Non lasciarlo solo, ti prego, non ce la farà mai a venirne fuori senza di te.”
L’altro continuò il suo silenzio, Erin sentiva solo il suo respiro.
“Doveva pensarci, prima di trattarmi male.”, disse Bill, poi la chiamata venne chiusa bruscamente e Erin rimase bloccata, con la cornetta sull’orecchio, che ripeteva il suo tu-tu-tu di linea assente. La riappese, triste. Muro contro muro. Solo che la parete di Tom si stava sgretolando sotto il suo stesso peso…
Saltò il pranzo. Non aveva fame… né voleva incontrare nessuno. Andò dritta nell’aula di disegno, a finire le sue tele. Nella stanza vuota, fu colta da un briciolo di ispirazione. Prese il suo pennello, i suoi colori, abbassò il cavalletto e dipinse per tutto il pomeriggio. L’insegnante arrivò solo un’ora dopo e si stupì di averla trovata lì. Le augurò di finire in tempo i suoi quadri e la lasciò sempre in pace. Non l’aveva mai vista così concentrata sulla tela…


Nei due giorni successivi non rispettò il suo programma. Dato quello che era successo, passò le mattinate a parlare con il dottor Bebel, che cancellò i suoi impegni con gli altri ragazzi per seguirla attentamente. Erin parlò, spiegò tutti i suoi sentimenti, tutti i suoi stati d’animo, quasi interrottamente. Era diventata un fiume in piena che rompeva gli argini per invadere tutto quello che le stava intorno. Prima si rifiutava spesso di rispondere alle domande, oppure era evasiva, si distraeva e le sedute erano quasi sempre una perdita di tempo.
Erin sembrava voler parlare, voler tradurre la sua psiche in parole, sembrava essersi decisa a trovare la via giusta da seguire. Sarebbe ancora stata in salita, piena di ostacoli e di pericoli, ma l’aveva imboccata… ed in cima c’era la guarigione,  c’era la pace interiore che lei aveva perso quasi tre anni fa. Il giorno del suo sedicesimo compleanno, il quindici di dicembre.
“Non lo so…”, disse, rispondendo ad una domanda del dottore, “Non lo so se vorrò tornare a parlargli…”
“Perchè? Una settimana fa mi dicevi che distaccarti da lui era come farti rivivere la separazione tra te e Ben… e ora non vuoi più nemmeno parlargli.”
“Mi ha mentito… ha mentito a tutti. E lo ha fatto per un motivo stupido, sbagliato.”, disse Erin, anche se le faceva un male pazzesco dire quelle parole.
“E sarebbe?”
“Lui… dice di essersi innamorato di me…”, disse Erin, sentendosi le guance avvampare per l’imbarazzo.
Il dottor Bebel rimase zitto, mordendosi le labbra per non ridere. Sarebbe stato molto poco professionale. Cavolo, pensò, adesso c’era arrivata… e le ci era voluta una crisi nervosa per capirlo? Oppure lui glielo aveva confessato… Lo aveva compreso già da tanto tempo, cioè almeno da quando l’amicizia tra i due si era fatta sempre più profonda. Aveva provato a sentirlo dire direttamente dalla bocca di Gero, gli aveva fatto anche diverse domande dirette sull’argomento, ma lui continuava a negarlo.
“Dottore… perchè sta ridendo di me?”, chiese Erin, seccata per averlo scoperto.
“Non ti sto deridendo… è solo che alla fine sono riuscito a sentire quelle maledette parole. Gero è innamorato di te da sempre Erin… non lo avevi capito?”, le disse.
Erin, che da paonazza sembrava essere passata al viola e al blu cobalto, abbassò lo sguardo, imbarazzatissima.
“No… e non avrei mai voluto capirlo. Io… io non provo niente di tutto questo per lui. Per me lui è un amico. Nient’altro.”, disse, decisa e risoluta.
“Sì… beh, i sentimenti sono sentimenti e non sempre vengono ricambiati.”, disse il dottore, recuperando la sua professione.
Non era un cupido, era uno psicologo.
“Ecco perchè non voglio più vederlo… e ora capisco anche perchè mi diceva che la nostra amicizia era dannosa per me. Perchè aveva già capito che io, prima o poi, mi sarei accorta di tutto… e ci sarei stata male.”
Il dottore annuì con la testa, contento che finalmente Erin avesse afferrato le sue intenzioni.
“Però ho ragionato anche su quello che tu mi dicesti l’altro giorno… Non posso non ammettere che Gero è molto importante per te, per diversi motivi. Sta a te decidere quanto sia importante, quanto peso dargli nella tua vita.”
“Capisco…”
“Qualsiasi decisione prenderai sarà quella giusta.”, disse lui, sorridendole.
“Ok… sarà meglio andare a pranzo adesso.”, disse lei, montando di nuovo sulla sua sedia a rotelle.
“Non ti fai dare un paio di stampelle?”, le domandò Bebel.
“Certo, sarebbe meglio… ma così è più comodo!”, esclamò Erin, andando verso la porta. Poi, un attimo prima di afferrare la maniglia, si alzò dalla sedia, andò zoppicante verso il dottore e gli dette un bacio sulla sua pelata, facendolo sussultare per la sorpresa.
“Grazie per avermi ascoltato in tutto questo tempo.”, gli disse.
“Beh… è il mio lavoro, e lo faccio molto volentieri.”, rispose lui, arrossendo vistosamente.
Prima di andare in sala mensa passò dalla sua camera, per recuperare Tom. Era arrivato appena un attimo prima di lei e, spingendole la sedia a rotelle, andarono dritti in sala mensa.


Da due giorni la situazione sembrava ribaltata: se prima Tom era sempre circondato dalle solite galline senza cervello, adesso al suo tavolo c’era solo lei. Chiacchieravano e ridevano, mentre le altre rimanevano ai loro posti, chiedendosi quando Tom l’avrebbe scaricata, come aveva fatto con tutte loro. Erin era la stronza per eccellenza, quella che guardava e sputava in faccia a chiunque… che cosa aveva lei che le altre non avevano? Non era bella, non era simpatica. Ma doveva essere molto brava, a modo suo, per aver monopolizzato le attenzioni di Tom.
E poi era altrettanto strano il fatto che non la si vedesse più insieme al suo amico finocchio, dicevano tra loro. Era stato abbandonato per Tom? Certo che sì. Gero arrivava sempre tardi a pranzo e a cena, quando i due nuovi grandi amici se ne erano già andati, e se ne stava da solo, in disparte.
“E’ dura da dire, ragazze, ma a quella stronza l’impazzire ha dato un po’ più di cervello.”, disse Ada, durante il pranzo.
“Già…”, rispose Bea, che per diverso tempo era stata molto amica di Erin. Per vendicarsi di lei, dei brutti toni che le aveva rivolto quando le aveva detto ingenuamente che aveva delle fantasie su Tom, aveva raccontato in giro gran parte dei segreti di Erin. Prima di quella fuga di notizie, nessuno aveva mai saputo che cosa le era successo. Si rifiutava di parlarne apertamente durante la seduta di psicologia collettiva e lo aveva confidato solo a Gero e a lei… aveva raccontato alle sue nuove amiche dell’incidente che aveva avuto, della perdita del fratello… dello strano soprannome con cui voleva essere chiamato… cioè Alice, come Alice Cooper…
“Mi chiedo che cosa riesca a fare meglio di tutte noi…”, disse Ada, “Se sa baciare meglio…”
“Se sa scopare meglio…”, disse Petra, raccogliendo le annuizioni Sissy, Melanie e Bea, sedute insieme a loro.
“Secondo me non sa fare niente di queste cose meglio di voi, grandissime puttane della clinica Sellers.”, disse Gero, che era passato involontariamente vicino a loro ed aveva sentito la conversazione, senza che se ne accorgessero, “Ma una cosa la sa fare bene: invece di scopare, sa ascoltare, cosa che a voi non riuscirebbe nemmeno se aveste le orecchie di Dumbo.”
“Gelosia… gelosia… gelosia….”, iniziò a canzonarlo Ada, non per niente scossa dalle sue taglienti parole.
Gero preferì non rispondere a quella derisione e le lasciò perdere: davanti allo scaffalino mobile, cercò un posto per il suo vassoio, ma era tutto pieno. Preso da un fremito di rabbia, scaraventò a terra il vassoio, facendo ammutolire tutta la sala mensa.


La sveglia suonò, cogliendo Erin nel bel mezzo del suo sonno. Per la prima volta quell’aggeggio infernale l’aveva fregata! Allungò una mano e la cercò sul comodino, ma la fece solo cadere a terra. La botta la fece zittire, forse le pile erano uscite dal loro scompartimento.
“Già mattina…”, borbottò Tom.
“Sì…”, sbuffò Erin, “Te l’avevo detto che se facevamo tardi non ci saremmo svegliati in buone condizioni…”
Avevano passato quasi tutta la notte davanti ai suoi disegni, ai suoi milioni di disegni e Tom l’aveva aiutata a riclassificarli, scegliendo quelli che secondo lui davvero meritavano di essere visti.
“Dai… scendi dal letto.”, disse Tom, spostando la tenda nera.
“Sì… un attimo… vai in bagno, mi alzo quando hai finito.”
“Ok, tanto ti riaddormenterai.”, fece lui, entrando dentro la stanza.
Infatti, dovette scuoterla diverse volte prima di farla risvegliare, quando ebbe finito.
“Oggi è il grande giorno….”, le disse, vedendola uscire dal bagno con in suoi soliti vestiti, “Non vorrai mica presentarti come sempre, in maglietta sgualcita e pantaloni di jeans?”
“Certo che sì.”, fece Erin, “E’ un giorno come gli altri.”
“Ma dai! Verranno i tuoi genitori, i tuoi parenti!”, fece lui.
“Non credo proprio… sai, non siamo molto in buoni rapporti. E non sono l’unica qua dentro.” , disse lei, imbronciandosi.
“Ok, tasto dolente, cambiamo discorso.”, disse Tom, scansando la ‘palla’.
“Comunque hai ragione… mettiamoci in bella mostra, non vorremo mica stonare davanti a tutta l’eleganza che sfilerà davanti ai nostri occhi?”
“Eh certo… un momento…", si bloccò poi Tom sconcertato, "Mi sembra di essere gay a fare tutti questi discorsi da donna.”
“Chissà… forse lo sei!”, disse Erin, “Ma se mi faccio bella io… allora anche tu ti farai bello.”
“Eh no, Tom non si tocca!”, si scansò l'altro.
“Questa frase mi risulta poco veritiera… forse sono l’unica in questa clinica che non ti ha messo le mani addosso!”, rispose lei, mentre andava verso il suo armadio.
“Ok, hai ragione… l’unica no, ma quasi.”
Erin sorrise, mentre sceglieva qualcosa di più adeguato per la giornata. In piedi, in equilibrio sul piede destro, scartava tutti i vestiti che non le sembravano sufficientemente adatti.
“Perchè non ti metti questo?”, fece Tom, sbucandole alle spalle e prendendo una stampella  che sembrava volontariamente del tutto nascosta dagli altri abiti appesi. Sosteneva una maglietta rossa, a righe nere, con un disegno strano sul davanti, come quelli che piacevano a suo fratello Bill. E c’era anche una gonna… una minigonna, che non avrebbe mai e poi mai pensato potesse appartenere ad Erin.
“No! Fermo… quello lascialo dov’era…”, fece lei, riprendendoglielo di mano, quasi arrabbiata.
“Beh… sembrava carino… scusami, non volevo toccare le tue cose!”, disse lui, alzando le mani in aria.
Erin, prontamente, lo rimise al suo posto.
“Adesso penso da me al mio vestiario… ok?”, disse lei, seccata.
“Sì, hai ragione, dimenticavo che ogni cosa per te è sacra e non deve essere toccata da mani altrui…”, fece l’altro, un pochino scocciato dall’improvvisa e non giustificata risposta di Erin. Si allontanò e andò a rifare il suo letto.
“Dici che… dici che mi starà bene?”, disse Erin, continuando a fissare i suoi abiti appesi.
“Cosa?”
“Quello che avevi preso…”, fece lei.
“Beh… almeno così sembrerai una donna!”, rispose lui.
Erin, decisa ad affrontare se stessa ed i suoi fantasmi, prese quella stampella e andò dritta in  bagno. Erano i vestiti che aveva quella sera… la sera dell’incidente… Ma ora doveva decidere: o vivere continuamente nel passato, commettere i soliti errori, oppure cercare di imparare ad andare avanti, per non ricadere di nuovo nel baratro più profondo. Se aveva imparato una cosa dalla crisi che aveva avuto era quella: l’importante era andare avanti, per quanto potesse essere doloroso e faticoso.
La sua vita non era finita insieme a quella di Ben…
Indossò la maglietta che lui le aveva regalato, la gonna che aveva comprato appositamente per la festa del suo compleanno ed uscì dal bagno, coprendosi le gambe con un asciugamano. Cavolo, era proprio una minigonna… e lei non ci era più abituata. Uscì dal bagno, tutta piegata, zoppicante mentre cercava di tapparsi le gambe con la salvietta.
“Te la sei fatta addosso?”, le domandò Tom.
“Simpatico…”, disse Erin.
Lui le si avvicinò e le sfilò di mano la sua temporanea protezione.
“Oh! Eccole, le tue gambe!”, esclamò, mentre lei cercava di abbassare il più possibile l’orlo della sua gonna, “Sei perfetta.”
“Dici sul serio? Guarda che ti prendo a schiaffi…”, lo minacciò lei.
“Sì, sul serio… ma raditi le gambe…”, disse Tom, ridendo e ricevendo lo schiaffo che lei le aveva promesso.
“Hey!”, protestò il ragazzo, “Mi fai male!”
“Non è che mi presteresti il tuo rasoio? Per piacere?”, gli domandò Erin.
“Certo che no!”
“Ok, grazie per la gentilezza!”, esclamò, correndo come meglio poteva verso il bagno e chiudendosi dentro.
“Non lo userai…”, disse Tom, che aveva provato a raggiungerla e a bloccarla, ma anche se lei aveva una caviglia mezza rotta, era sempre più agile di lui.
“Oh, sì che la userò.”
“No! E se hai l’aids?”
“Non ce l’ho, deficiente! E poi cambio lametta, non sono così stupida!”


“Allora… vuoi uscire di lì o no!”, esclamò Tom, bussandole alla porta, dopo una decina di minuti.
“Ho molto da fare. Almeno per un’ora o due.”
“E che cos’hai sulle gambe? La foresta amazzonica?”
“Ci sono altri bagni in questa clinica.”
“Ma io voglio questo.”
“Non esiste, adesso tocca a me.”
“Anche no! Esci da lì. Forza!”
La mancata risposta da parte di Erin lo fece ancora di più incavolare. Non gli rimase altro che andarsene ai bagni comuni. Gli sembrò di aver vissuto un deja-vu, ma poi riflettè.
La stessa identica cosa succedeva anche con Bill: lui si chiudeva in bagno e c’era da aspettare per ore prima di vederlo uscire, tutto sistemato…


Sulla sedia a rotelle, Erin si muoveva verso l’ascensore. Lasciò perdere tutte le strane occhiate che aveva incrociato, durante il tragitto. Non poteva anche lei essere un po’ carina, almeno un giorno o due l’anno?, pensava.
Scese al primo piano: poco prima un’inserviente era venuta ad avvisarla che c’era una chiamata per lei e che poteva riceverla nella sala telefoni. Erin, che ancora non era pronta, aveva detto di farsi segnare il numero e che avrebbe richiamato lei appena aveva un attimo di tempo.
Andò verso il telefono più vicino alla porta, chiedendosi chi l’avesse chiamata. Poi lesse il numero segnato su un post-it giallo. Ebbe un sussulto al cuore. Lo compose e attese.
“Pronto?”, fece la voce all’altro capo della linea.
“Bill? Mi avevi chiamato tu?”
“Beh… sì. Sono stato io….”, fece l'altro, riconoscendola.
“Cosa volevi dirmi?”, chiese lei, mentre incrociava le dita.
“Che… che oggi pomeriggio penso di venire da voi.”
Sì!, esclamò dentro di se Erin.
“Stai facendo la cosa giusta…”, gli disse.
“Non lo so.”
“Fidati di me. Ho in mente qualcosa… stammi a sentire.”, gli disse.


Riprese l’ascensore verso il terzo piano: non riusciva a nascondere un certo sorriso sulla sua faccia, era contenta che Bill venisse a trovare suo fratello. Era emozionata, anche se non aveva la benché minima idea sulla reazione che avrebbe avuto Tom. In vena di un ottimismo quasi del tutto a lei ignoto, sperò che si sarebbero abbracciati, davanti a tutti, mentre il pubblico li applaudiva, come si vedeva fare nei film…
Lanciò un rapido sguardo fuori dalla finestra e vide il giardino brulicare di persone, intente nei preparativi. La festa sarebbe iniziata dall’una del pomeriggio in poi. Erano le dieci e lei era abbastanza in anticipo sul programma. Aveva già dato istruzioni su quali tele avrebbe esposto e, visto che era impossibilitata, le altre ragazze della classe di pittura si erano offerte di appendere i suoi quadri al posto suo. Non le rimaneva altro che andare su in camera e prendere gli schizzi.
Scese al suo piano e spinse la carrozzina fino alla sua porta. Davanti ad essa, con la mano già pronta sulla maniglia, sentì aprirsi la porta alle sue spalle. Il suo sangue gelò… in due giorni, non lo aveva mai visto. Mai.
“Erin…”, sussurrò Gero, “Come stai?”
Lei, senza rispondere né voltarsi, abbassò la maniglia ed entrò in camera, chiudendo la porta appena fu dentro, con uno slancio del braccio.
In quei due giorni aveva finto che lui non ci fosse. Aveva finto di non averlo mai conosciuto. E lui sembrava quasi sparito.
Stava vivendo tutto quello come un inganno: lui l’aveva imbrogliata, le aveva fatto credere di essere suo amico e lei si era aperta con lui. Avevano fatto cose da amici, si erano sempre parlati come amici. Lei gli aveva confessato tutti i suoi pensieri più intimi, cose che non pensava nemmeno di avere dentro di sé.
Perchè lui era un amico per lei.
Ma non era vero il contrario… lei non era solo un amica, per lui. E tutto questo le creava un imbarazzo, una confusione dentro che non voleva provare. Che non voleva sentire.
Eppure, al di là di questa sua volontà, al di là di questi suoi pensieri… Erin sapeva che gli mancava. Sapeva che tutta questa momentanea tranquillità era solo un’ipocrisia… perchè non c’era Gero accanto a lei. Non c’erano i suoi consigli, non c’erano le sue parole velenose, né i suoi commenti sarcastici. Non c’era e basta.
Non doveva piangere, no, non doveva piangere… Prese i suoi schizzi, attese che passassero almeno una decina di minuti e poi uscì, per andare verso il parco.




TITOLO: l’ho preso da una canzone del nuovo album di Avril Lavigne, che non ho ma che ho sentito alla radio. Non mi ricordo se è esattamente il titolo della canzone oppure no… Comunque no scopo di lucro… si riferisce soprattutto ad Erin, che deve continuare ad andare avanti, continuare a tenere duro, come dice il titolo.

Scusate ragazze se non faccio i rigraziamenti, ma sono tornata dieci minuti fa dall'università, da Siena, alcuni dei miei amici si sono laureati (beati loro... sigh sigh) e sono stanchissima! Troppe emozioni e domani sera ci scateniamo in Piazza del Campo a Siena, a fare il palio con venti bottiglie di vino sotto braccio.... Sono un catorcio!
Spero di tornare tutta intera dalla festa che faremo! Un bacione!!!!!

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Capitolo 11
*** Blood in my veins ***


BLOOD IN MY VEINS




I primi parenti arrivarono già verso mezzogiorno, mentre Erin si stava preparando per tornarsene in sala mensa. Da quando era scesa si era sentita sempre osservata, soprattutto dai suoi compagni di piano. Per la prima volta, si sentiva fragile di fronte a tutti. Lei, che aveva sempre camminato a testa alta, per la prima volta dovette abbassarla. Dette una rapida occhiata ai suoi quadri, erano stati appesi un po’ male, un po’ storti… 
Appoggiò i suoi schizzi su un tavolino sgombro, vicino alle sue tele. Si osservò intorno e notò diverse ragazze che la guardavano e la indicavano, confabulando tra loro. Cosa c’era? Non poteva truccarsi anche lei ogni tanto? Era strano vederla con una gonna ed una maglietta carina? Anche loro si erano tirate a lucido, eppure non erano così osservate quanto lei.
Che si fottessero, pensava Erin, mentre se ne tornava verso la clinica. Aveva fame, non aveva fatto colazione per prepararsi. Aveva dovuto ridarsi la matita sugli occhi più di una volta, non era facile avere la mano ferma e stare in equilibrio su un piede solo. Tornata nell’aspetto ad essere quella che non era più, Erin si era sentita un po’ stupida, prima di uscire dalla sua camera. Un tempo, era una a cui piacevano i pantaloni strappati, le magliette strane, il trucco e le unghie nere e le cinture di ferro… Chissà se sarebbe stata ridicola, adesso, in quel modo! Aveva recuperato la sua cintura preferita, abbandonata da un anno e mezzo in fondo al cassetto con il nastro adesivo. Si era pitturata le unghie, un velo di nero sugli occhi, i suoi capelli ricci sempre castigati dal bastoncino di legno scuro. Non avendo scarpe eleganti, aveva indossato le sue, quelle di sempre. Nere con le stringhe fucsia, le era sempre piaciuto l’accostamento di questi due colori.
Tutto sommato, non le pareva di essere una pecora nera: se guardava Ada, con la sua camicetta a fiori, i pantaloni attillatissimi ed i tacchi alti, le pareva più una squillo che una paziente della clinica Sellers.
A mensa, con il vassoio appoggiato sui braccioli della sedia a rotelle, si faceva gentilmente servire dal ragazzo di fronte a lei, il famigerato Vomito-Emil. Odiava le occhiatine che le dava sotto al vassoio.
“Hey, se guardi un’altra volta le mie gambe ti mollo un pugno nello stomaco!”, esclamò lei.
“Allora cosa te la metti a fare la minigonna?”, sbottò lui.
Tre secondi dopo si ritrovò a boccheggiare per il dolore, mentre Polpettone, l’inserviente della mensa e amica di Erin, le faceva l’occhiolino di approvazione, passandole la sua porzione di minestra di verdure. Con lentezza, per evitare che le si versasse tutto addosso, raggiunse il tavolo dove Tom di solito si sedeva. Ma lui non c’era, arrivò quando lei stava quasi finendo la sua mela.
“Hey, cosa hai fatto tutto questo tempo?”, gli domandò.
“Ho dovuto accordare la chitarra.”, fece lui.
“Ah… operazione lunga e faticosa.”, disse Erin, ironicamente, “Cosa hai preparato per lo spettacolino di oggi?”
“Boh, ancora niente… penso che farò un po’ di improvvisazione.”
“Bel programma… e i tuoi allievi?”
“Nessuno vuole esibirsi.”
“Li hai minacciati tu vero?”, disse lei, sorridendo con complicità.
“In parte sì, ma il resto no, si sono quasi ammutinati quando ho detto loro che la direttrice voleva che si esibissero. Poi ho ristabilito l’ordine dicendo che lo avrei fatto io. Da solo….", disse, sbuffando, poi le dette una rapida occhiata con un sorriso di approvazione sulle labbra, "Comunque stai bene, davvero, sei carina.”
“Oh, grazie per il misero complimento.”, fece Erin, tirandogli una palletta di pane.
“No, davvero, stai bene. Sembri un’altra persona.”
Erin sorrise, arrossendo un po’.
“Beh… insomma, ero così molto tempo fa. Non sono sempre stata la sciatta che conosci.”, disse, abbassando lo sguardo per l'imbarazzo.
“Sembreresti quasi una delle nostre fan. Sai, quelle replicanti, che si vestono uguali a noi, soprattutto a Bill.”
“Così mi offendi! Lo stile di Erin è unico, te lo posso garantire!”
“Sì, sì, ma non ti scaldare… e smettila con queste palline di pane!”, protestò lui, coprendosi la faccia dalla raffica di  palline che gli stava tirando Erin.
Attese che lui finisse il suo pasto, poi andarono insieme fuori. Per Tom avevano allestito un piccolo palco, dove si sarebbero anche esibiti i ragazzi che seguivano il corso di recitazione. Nel mentre che Erin si godeva il solicello pomeridiano, lui aiutava gli inservienti della clinica a far funzionare l’impianto audio che era stato noleggiato per l’occasione.
“Belli i tuoi quadri Erin…”, disse qualcuno alle sue spalle.
Lei si voltò, riconobbe Bea, la sua amica… ex amica. Per un momento, le parve di sentire un tono poco amichevole nelle sue parole e lanciò uno sguardo verso le sue tele.
Ecco, avrebbe dovuto aspettarselo...
Si avvicinò al suo spazio espositivo: le tele migliori erano state completamente ricoperte di nero, oppure con un taglierino erano state incise e sfregiate. I suoi schizzi erano spariti.
Le venne solo da scuotere la testa e andarsene, non voleva dare a quelle puttane la soddisfazione di vederla piangere oppure arrabbiata. Se era quello il prezzo da pagare per essere se stessi, allora era contenta di tirare fuori tutti i soldi. Se, come era certa di pensare, tutto questo odio nei suoi confronti fosse dovuto in parte anche alla sua amicizia con Tom, allora era contenta di andarsene in quel modo, senza dare loro il minimo pretesto per festeggiare.
Andò verso il laghetto, lontana dalla festa.


Vide con la coda dell’occhio Bea avvicinarsi ad Erin, che se ne stava tranquilla, con il naso all’insù e la mano sugli occhi a vedere il cielo ombreggiato dalle nuvole. Non le dette peso, magari era un tentativo di riappacificazione. Quindi tornò su quella marea di pulsanti e manopole che comandavano l’impianto audio, chiedendosi come facevano i tecnici del suono a capirci qualcosa.
Poi, una volta che ebbe compreso quel dedalo di bottoni e il volume dei microfoni e del suo strumento fu regolato alla giusta misura, le venne di cercarla, non vedendola intorno a lui. Era al laghetto, solitaria, con la testa appoggiata sulla mano.
“Che ci fai qua? Non sei dalle tue tele?”, le domandò.
“Le mie tele sono state vittima di un vandalismo idiota. Ma del tutto motivato.”, disse Erin, con voce quasi inespressiva.
“Cosa? Cosa è successo?”, chiese lui, pensando che fosse uno scherzo.
“Vai a vedere tu stesso.”, fece Erin, indicando lo stand con la testa.
Quando tornò qualche minuto dopo, sembrava abbastanza incavolato.
“Sono state quelle stupide, non è vero?”, disse.
“Sì… ma non mi interessa per i quadri… sono gli schizzi, quelli li rivoglio indietro.”
Tom sospirò, rassegnato, chiedendosi che cosa era passato nella mente di quelle idiote. Poi, il suo sguardo fu attirato da qualcosa che galleggiava nell’acqua.
“Sono lì…”, disse lui, indicandogli il lato sinistro del laghetto, in una zona un po’ nascosta alla sua vista, ma soprattutto a quella di Erin, che era seduta.
“Ecco…", sbottò Erin, "Io sono sempre stata me stessa, franca con tutti, non ho nascosto le mie simpatie e le mie antipatie… lo so, sono una stronza e lo sarò per sempre. Ma io non ho mai fatto loro nulla di questo genere, non ho mai distrutto qualcosa che apparteneva loro.”
“Secondo me è stata Ada…”, insinuò Tom.
“Può essere anche stata un’altra ragazza, non mi interessa. E’ stato fatto e basta, è questo quello che conta… sarà meglio tornare alla festa e fare finta di niente...”, disse Erin, spingendo le ruote della sua sedia.


Seduto a cavalcioni sull’altalena, con il suo vestito buono, si dondolava come aveva fatto migliaia di altre volte. Camicia bianca, jeans scuri, e giacchetta. Dava le spalle alla festa, non gli interessava.
In quei due giorni aveva fatto il fantasma: aveva saltato le attività, non era andato in sala computer, né si era fatto vedere altrove, tranne che dal dottor Bebel. Non aveva preso l’ascensore, dove sicuramente avrebbe potuto incontrarla, si faceva sempre le scale, a piedi. Andava a mangiare il più tardi possibile, non metteva il naso fuori dalla sua stanza.
Da quando aveva portato il blocco e l’ipod ad Erin si era completamente volatilizzato, lasciandola vivere e prendere la sua scelta. Qualsiasi cosa decideva, a lui andava bene, sia se voleva rimanere sua amica oppure se non lo voleva più vedere.
Quando, due notti precedenti, era entrato nella sua stanza, lei dormiva profondamente, scossa da tutti gli avvenimenti della giornata. Aveva cercato di non fare rumore, aveva appoggiato le sue cose sul comodino e stava per andarsene. Ma si era voltato, si era chinato su di lei e le aveva dato un piccolo bacio sulla fronte. Lei si scosse lievemente, borbottò qualcosa di incomprensibile e si era voltata dall’altra parte.
Il giorno seguente, messo faccia a faccia con Tom, durante una specie di terzo grado fatto loro da Bebel e dal dottore che stava seguendo Erin, si era chiarito con lui. Gli aveva chiesto scusa per quello che gli aveva fatto e lui aveva accettato, chiedendo perdono a sua volta per aver frainteso il suo tentativo di far calmare Erin. Si strinsero la mano, ma ancora ci sarebbe voluto molto tempo prima di potersi riavvicinare ancora. Non erano fatti per essere amici, era chiaro, l’unica cosa che avevano in comune era Erin, entrambi vicini a lei per motivi totalmente diversi.
Nel mentre che parlava con Bebel, aveva compreso che Erin, negli ultimi giorni, era stata scossa da qualcosa. Non poteva rivelargli cosa, era un segreto professionale, ma gli venne subito da pensare a Ben. Non sapeva spiegarselo, ma era sicuro che fosse tutto ricondotto a lui… forse aveva iniziato a sentire improvvisamente e più forte di prima la sua mancanza. Ma anche lui, con il suo assurdo comportamento, aveva fatto la sua parte, ne era sicuro.
Si sentiva terribilmente in colpa, era anche per questo che scappava da lei. E aveva paura, terribilmente paura, di un suo rifiuto. Lo terrorizzava solo l’idea. Era quasi certo che era questo quello che sarebbe successo, a vedere la reazione che aveva avuto Erin, quando si erano incrociati, anche solo per un attimo, davanti alle porte delle loro stanze…
In quel momento era l’ora di pranzo, tutti erano in mensa, ma lui non aveva fame. Aveva mangiucchiato qualcosa a colazione, ma il suo stomaco sembrava essersi chiuso. Stava bene su quell'altalena.
La sua attenzione, per quel momento monopolizzata solo dai suoi pensieri, fu catturata da un gruppetto di ragazze. Sotto il trucco e gli abiti colorati riconobbe Ada, Bea e Sissy. Andavano risolute verso gli stands, Bea teneva in mano una grossa borsa.
Sotto uno dei gazebo, in particolare il gazebo di Erin, sembravano intente a combinare qualcosa. Si alzò, andando verso di loro. Aumentò il passo fino a correre e le trovò con in mano pennelli di tinta nera e dei taglierini.
“Che cazzo state facendo?”, disse lui.
“Quello che ci pare!”, esclamò Bea, rompendo in due una delle tele di Erin.
“No!”, esclamò Gero, avvicinandosi, ma Ada, che si era accorto di lui gia da un po’, gli versò prontamente un po’ di tinta nera sulla camicia e sui pantaloni.
“Ma sei deficiente?”, fece lui, guardando il suo completo, oramai da buttare nel cesso.
“Tieni, in uno slancio di simpatia.”, fece Sissy, dandogli una delle tele di Erin, salvandola così dallo scempio.
Ricoperto di nero, con la tela sotto braccio, Gero si allontanò dalle tre ragazze, che oramai avevano completamente distrutto i lavori di Erin. La portò al sicuro, in camera sua, e la appoggiò sopra il suo letto. Era la riproduzione di una coppia di girasoli, i fiori preferiti di Erin, che a lui ricordava tanto un quadro famosissimo di Van Gogh… ovviamente tra i due c’era un abisso in mezzo, ma glielo faceva venire in mente. Glielo avrebbe restituito appena poteva, al più presto possibile…
Si guardò allo specchio: era una macchia quasi unica, che andava dalla sua faccia fino alla cintola dei pantaloni. Si svestì e si infilò sotto la doccia, non ne uscì finchè l’acqua che finiva nello scarico non tornò ad essere incolore.
Meno male che quelli non erano gli unici vestiti buoni che aveva: prese un’altra camicia,  un’altra giacca, un altro paio di jeans e fu pronto per uscire di nuovo. Passando davanti alla finestra, vide che il giardino si era ripopolato, la festa stava per iniziare.
Prese un lungo respiro, si sistemò i capelli e uscì fuori dall’edificio.


La classe di recitazione era in scena con una serie di monologhi, tratti da alcune poesie di autori vissuti durante la seconda guerra mondiale. Lo spettacolo, profondo e doloroso, era di una noia mortale per Erin. Seduta accanto a Tom, che invece sembrava gustare la rappresentazione quanto bastava per non addormentarsi, tamburellava le sue dita sulla gamba, canticchiando tra sé e sé una canzoncina che era in fase di composizione nella sua mente.
Si risvegliò quando tutti iniziarono ad applaudire, segnando così la fine dell’emozionante spettacolo. Erin vide mamme e nonne commosse, catturare dalla magnifica empatia che si era creata tra attori e pubblico.
“Gesù… pensavo di addormentarmi…”, disse Tom, che si stava stiracchiando senza dare troppo nell’occhio.
“Vai a prepararti… adesso è il tuo turno…”, gli fece Erin, dandogli una pacca sulla spalla.
“Prega per me.”, le rispose lui, calandosi il cappellino sugli occhi.
La direttrice, presentatrice ufficiale della giornata, salì sul palco e lo presentò.
“Beh… il prossimo ragazzo è il nostro ospite speciale della giornata, anzi, è l’ospite della clinica. Forse alcuni di voi lo hanno già visto, forse lo conosceranno grazie ai loro figli. Ad ogni modo, vi pregherei gentilmente di mantenere il riserbo sulla sua identità, una volta che sarete usciti da qui. Mi dispiace dirvi una cosa del genere, ma gli abbiamo promesso di non far proliferare la notizia della sua permanenza nella clinica. Dette queste poche cose, facciamo un bell’applauso per Tom Kaulitz!”, disse la donna, spostandosi di lato per accogliere il ragazzo.
“Vai Tom!”, esclamò Erin, applaudendo più forte degli altri.


“Vai Tom!”, sentì dire da una voce sopra a tutte le altre, la voce di Erin.
In fondo al pubblico seduto, composto da circa duecento persone tra pazienti e parenti, Gero se ne stava comodo, sugli scalini che portavano al parco. Con i gomiti appoggiati indietro e una sigaretta tra le dita, si gustò come tutti gli altri le prime note suonate da Tom… gi ricordavano tanto ‘Coffee and TV’ dei Blur, ma forse si sbagliava. Un tipo come lui, che sembrava doversi portare dietro un arsenale di armi atomiche con quei vestiti circensi, non era uno che ascoltava del brit-pop.
Una figura gli si parò davanti e cercò di richiamare la sua attenzione per farlo spostare.
“Hey… non sei il figlio del vetraio…”, gli disse.
Era talmente di umore nero che non avrebbe sopportato nemmeno il minimo sgarbo nei suoi confronti.
“Ah… scusami…”, fece quello, spostandosi di lato. Poi lo guardò un attimo e gli chiese se poteva sedersi accanto a lui.
“Certo.”, rispose Gero, atono.
Pentitosi per il malo modo con cui si era rivolto allo sconosciuto con cappellino in testa e grandi occhiali neri, tirò fuori il pacchetto di sigarette, gentilmente offerto dalla sua complice Polpettone, dalla tasca della sua giacchetta nera.
“Scusa per prima… ne vuoi una?”, gli disse, porgendoglielo.
“Oh… grazie mille.”, fece lo sconosciuto, prendendone.
Gerò non potè non notare le sue unghie nere... Gli passò anche il suo accendino.
“Grazie ancora.”
“Non c’è di che, figurati…”, rispose Gero, riprendendoselo.
“Da quanto è che ha… oh cazzo!”, esclamò quello strano ragazzo, alzandosi dal suo scalino per guardare ancora meglio davanti a sé, verso il palco.
“Hai visto un fantasma?”, fece Gero, aspirando distrattamente la sigaretta.
“Ma cosa gli avete fatto! Perchè gli avete tagliato i rasta!”, esclamò l’altro, attirando l’attenzione delle ultime file, non vedendoli spuntare dal retro del suo cappello come sempre.
Se due più due faceva quattro, tutto questo interesse per gli ex rasta di Tom e la presenza di quell’altrettanto strano ragazzo lì stava solo a significare che quello era suo fratello, Bill.
“Ma guarda un po’ chi si vede.”, fece Gero, “Tu sei Bill vero?”
“Sì…”, rispose lui, alterato, “Siete tutti pazzi qui dentro vero?”
“Beh… parlando sinceramente, è stata la sua compagna di stanza Erin a tagliarglieli.”, disse Gero, senza nascondere un sorriso di divertimento e soddisfazione, “Si era preso una sbronza pazzesca e, per fargli capire che certe cazzate non si fanno, glieli ha tagliati di notte, mentre dormiva… avresti dovuto vedere la faccia di Tom, era incazzato come una biscia, ma gli è servito di lezione, credimi.”
Bill non sembrava molto contento di quello che aveva sentito e si risedette abbastanza irritato… 
“Io sono Gero.”, disse lui, porgendogli la mano.
“Piacere…”, fece Bill, stringendogliela senza interesse.
“Ti ha fatto venire qui Erin, vero?”
“Sì…”
“Già, c’era da aspettarselo.”, disse Gero.
“Prima ti volevo chiedere da quanto aveva iniziato a suonare…”, chiese Bill, dopo qualche secondo di silenzio.
“Mah, saranno dieci minuti.”, fece Gero. Poi, notando una certa impazienza nel suo interlocutore, gli disse: “Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, fallo presto, perchè lo spettacolo sta per finire.”
Non ebbe però tempo di continuare oltre la sua frase che Bill si era alzato. Camminava dritto, lungo il piccolo corridoio centrale tra le due grandi file di sedie, tutti gli sguardi dei presenti si focalizzarono su di lui e si levano diversi mormorii.
Erin, a lato, ringraziò il cielo per aver convinto veramente Bill, ancora incerto dopo la telefonata di quella mattina, a venire lì. Non sapeva cosa stava per accadere e si tenne pronta per scattare in piedi e correre dietro zoppicante al primo dei due che se la dava a gambe.


Non si accorse di lui subito, continuò ancora a suonare, ad improvvisare, mettendoci un po’ di accordi delle canzoni dei Tokio e un po’ di inventati sul momento. Non si sentiva molto in forma, suonava solo perchè voleva scendere al più presto dal palco. Non dette nemmeno uno sguardo al pubblico, non gli interessava che quello suonasse piacesse loro, né di ricevere qualche applauso alla fine della sua esibizione.
Voleva solo tornarsene in camera a pensare. Aveva provato, qualche minuto prima di uscire dall’edificio, a chiamarlo, per sapere come stava… ma niente, lui non aveva risposto e, al terzo tentativo di chiamata, Bill aveva spento il telefono. Deluso profondamente, non gli era rimasto altro che andarsene fuori. Sapeva che era colpa sua se erano arrivati a quel punto e, proprio per questo, voleva cercare di rimettere le cose in sesto. Non voleva che lui venisse a vederlo, non era per quello che lo aveva chiamato.Voleva solo parlargli, spiegarli che aveva compreso i suoi sbagli, che era pronto a tornare sui suoi passi e a chiedere perdono.
Perdono per tutte le azioni, perdono per tutte le parole, perdono per tutti i silenzi.
Perdono per riaverlo.
Per tornare ad essere una famiglia.
Per tornare ad essere Tom e Bill.
Stava cercando di unire il suo tentativo di improvvisazione con il refrain di ‘Rette mich’, una canzone che in quel momento avrebbe voluto con tutto il cuore spedire dritta verso suo fratello.
Poi gli parve come se il pubblico stesse borbottando, forse si stava annoiando. Aprì un attimo gli occhi e li avrebbe richiusi subito, se non avesse visto che Bill, il suo Bill, stava di fronte a lui, a qualche metro dal palco. Mani in tasca, cappellino, capelli legati… si mordeva il labbro inferiore. Si tolse gli occhiali.
Non ebbe più la forza di suonare, la musica si fermò, facendo aumentare il parlottio del pubblico.
I due si guardavano a vicenda, come fossero fermi nel tempo.
Tu sei tutto quello che sono io e tutto quello che scorre nelle mie vene.”, disse Tom, interrompendo la piccola confusione e tramutandola in silenzio totale.
Aveva citato un verso di una canzone… della loro canzone… una parafrasi, un giro di parole, un tentativo…
Bill sembrava impassibile, duro di pietra, fermo tra il pubblico. Tom vide una sua lacrima scendergli lungo la guancia, velandola del nero del suo trucco. Non potè fare altro che buttare la chitarra a terra, facendo tremare le orecchie del pubblico per il gracchiare dei suoni che uscivano dalle casse, scendere con un salto dal palco e buttarglisi alle braccia, stringendolo così forte che Bill dovette chiedergli di allentare la presa o lo avrebbe soffocato.

Appena vide Tom gettare via la chitarra, Erin si tenne pronta per scattare, anche se la sua caviglia non era per niente d’accordo con il resto del corpo. Ma quando poi vide che le intenzioni del suo amico non erano quelle di scappare via, si rilassò, sorridendo, mentre tutto il pubblico vicino a lei si chiedeva cosa diavolo stesse succedendo.
Allora si alzò e, con una certa difficoltà, raggiunse il palco, vi montò sopra, superando le milioni di domande che gli stava ponendo la direttrice sulla situazione poco piacevole che si era creata.
Rubò il microfono dalla sua mano e, con scarso equilibrio, andò fino al centro del palco, dove si appoggiò ad una delle aste che erano state lasciate inutilizzate dopo lo spettacolo di recitazione.
“Ehm… si sente?”, disse lei, facendo fischiare il microfono e rintronare per la seconda volta le orecchie di tutti.
I due fratelli Kaulitz si voltarono per sentire le sue parole.
“Ok, scusate per questa interruzione… Ehm…”, disse Erin, alla quale non riuscivano bene i discorsi in pubblico, soprattutto quelli del tutto inventati sul momento, "Insomma, non è bello vedere due fratelli riappacificarsi? Per me è una cosa bellissima. Mi dispiace non averti avvertito del suo arrivo, Tom, ho voluto farti questa sorpresa, un po’ per ricompensarti di tutto l’aiuto che mi hai dato, un po’ perchè sono anche io buona dentro… solo un pochino…”
Tom le abbozzò un sorriso.
“Voi siete fortunati ad avere l’un l’altro… davvero fortunati…”, continuò poi.
Le si ruppe la voce e, dopo averla rischiarata diverse volte, ricacciando dentro le lacrime che le erano salite in superficie, tornò a parlare.
“Dai, andiamo, salite sul palco e allietateci con una bella canzone…. Forza! Muovetevi!”, esclamò, vedendo soprattutto la reticenza di Bill. Tom lo prese per la mano, la strinse forte e lo fece salire sul palco.
“Beh… non credete che ci stia proprio bene un bell’appaluso qui?”, fece Erin, cercando di invitare il pubblico a farlo.
Mentre la gente applaudiva, scese dal palco.
“Appena l’ho visto l’ho subito saputo che eri stata tu…”, disse Tom, quando si incrociarono.
“Sono diventata così prevedibile? Mio dio, no!”, fece lei, sorridendogli. Dette un abbraccio veloce ad entrambi e se ne tornò verso la sua sedia a rotelle, dato che la sua caviglia sinistra aveva iniziato a reclamare pietà a gran voce.
“Ehm… questa è ‘In die Nacht’.”, disse Bill, prendendo il microfono che Tom gli aveva dato. Di nuovo un piccolo applauso, qualche urletto proveniente dalle solite galline scervellate, e Tom partì con la canzone, seguito qualche attimo dopo da Bill.


Erin mosse la sua carrozzina, allontanandosi dal pubblico. Oramai il suo compito era stato assolto… e un po’ le dispiaceva, ora non aveva più obiettivi da perseguire, non aveva più nessun Tom da guarire. Andò verso il gazebo dove erano esposti le due tele e trovò qualcosa che la scioccò.
Sissy, Petra e Ada stavano chinate sul pavimento plastificato, con spunge e acqua, a pulire le macchie di vernice che erano colate durante la loro opera di imbrattamento. Si accomodò sulla sedia a rotelle, a guardarle. Parlò solo quando la sua presenza fu notata.
“In caserma di solito danno gli spazzolini per pulire per terra… ritenetevi fortunate.”, disse loro, “Mi piacerebbe sapere chi ha fatto la spia.”
“Indovina un po’…”, fece Ada, che aveva interrotto la sua attività cenerentoliana solo per lanciarle una brutta occhiata, invece della spugna sporca come avrebbe voluto.
“Vabbè… ad ogni modo pulite per bene… qui c’è una macchia.”, disse Erin, indicando loro una piccola goccia di vernice scampata alla loro vista.
Chi rompeva pagava, era giusto così, pensò Erin, mentre usciva dal gazebo per tornare all’aria aperta.
Du bist alles was ich bin und alles was durch meine Adern fließt . Immer werden wir uns tragen . Egal wohin wir fahr'n. Egal wie tief .” *, stava cantando Bill, quando lei tornò a godersi il duo Kaulitz che si esibiva in una canzone che a lei, personalmente, non piaceva molto, ma le cui parole sembravano descrivere perfettamente il rapporto speciale ed unico che c’era tra loro due. Era molto distante da tutti, in disparte, e sorrideva, pensando a quante cose sarebbero cambiate da quel momento in poi…
“Secondo te sono stato troppo cattivo a fare la spia su quelle tre alla preside?”, disse Gero, cogliendola di sorpresa alle spalle.
“Sì… cioè, volevo dire no…”, fece Erin, imbarazzata. Anche se lui era alle sue spalle, lei non riusciva ad alzare il suo sguardo, fissatosi sull’orlo della sua gonna.
“Sono riuscito a recuperare solo questo.”, disse lui, porgendole la piccola tela dei girasoli.
“Ah… grazie mille…”, disse Erin, mettendosi il quadretto sulle gambe.
“Hai fatto un buon lavoro con quei due… perchè da grande non diventi una psicologa?”, chiese lui.
“Non voglio avere a che fare con tipacci come me.”, rispose lei.
“Allora lo farò io lo psicologo.”, fece Gero, sorridendo.
“E perchè?”
Lui le girò intorno, si fermò di fronte a lei e si accucciò sulle gambe, per mettersi al suo stesso livello.
“Perchè io voglio avere a che fare con tipacce come te…”, le disse, guardandola dritta nei suoi occhi sfuggenti.
Erin, bocca socchiusa, si sentì avvampare le guance. Mise le mani sulle ruote della sua sedia e fece qualche centimetro indietro, volgendogli le spalle. Ecco, lei che doveva acciuffare il fuggitivo Bill o Tom della situazione, stava scappando…
Ich will da nicht allein sein, lass uns gemeinsam in die Nacht . Irgendwann wird es Zeit sein, lass uns gemeinsam in die Nacht.”**, canto Bill, in quell’istante.
Erin si fermò, colpita dalle parole della canzone
Halt mich. sonst treib ich alleine in die Nacht . Nimm mich mit und halt mich sonst treib ich alleine in die Nacht .” ***
Noi ci supporteremo l’uno con l’altro… non importa dove andremo.”, disse lei, citando alcune delle parole della canzone
Non importa quanto in profondità.”, rispose Gero.
“Ma tu sei… tu sei… un mio amico…”, fece Erin, con voce quasi rotta dal piangere.
Tu sei tutto quello che sono io e tutto quello che scorre nelle mie vene…”, disse Gero, che a fatica tratteneva le sue lacrime, “Per me non sei solo un’amica, sei di più, molto di più… e se questo ti sconvolge, non fa niente. Se non vorrai più vedermi, lo accetto. Io voglio la tua felicità e non mi interessa in che modo lo avrai.”
Quelle parole, che Gero aveva sentito spesso durante quegli improponibili film d’amore, in quel momento non suonavano più retoriche, né stupide. Gli salirono alle labbra, perfette per esprimere il suo stato d’animo ed i suoi sentimenti. La sua eterna amica Erin gli dava le spalle, seduta sulla sua sedia, a meno di tre passi da lui, eppure gli sembrava così lontana ed irraggiungibile.
Gli era mancato quasi il fiato quando l’aveva vista sul palco, con il microfono, mentre improvvisava un discorso… Gli sarebbe sempre piaciuta in tutti i modi, vestita come sempre ed in quel modo, con un aria così impertinente che metteva ancora di più in evidenza il suo carattere ribelle, indipendente ed anticonformista. Stonava rispetto all’eleganza dei parenti seduti. Contrastava con le ragazze del terzo piano, tutte colorate ed ingioiellate, così come lui non si accordava per niente con le giacchette ed i pantaloni di stoffa dei ragazzi. Beh, anche lui aveva la sua giacca, ma la sua camicia spuntava fuori dai pantaloni di jeans e non era agganciata fino al collo.
Entrambi così diversi dagli altri, ma simili l’un con l’altro. Con lei aveva trovato il suo vero io, aveva imparato a deviare dal resto della mandria e a non uniformarsi, perchè il diverso, anche se emarginato, spiccava sempre, prima o poi.
Si voltò, per tornare verso la clinica. Oramai era il momento di eclissarsi e lasciare che Erin andasse avanti, senza lui accanto. Rimanere amici, dopo quello che le aveva detto, non avrebbe avuto più senso…
Sentì la sua mano afferrata da qualcosa… qualcosa di caldo… dalla mano di Erin.
“Ma… come hai fatto… non ti ho sentito avvicinarti…”, gli disse lui, a pochi metri dalla porta dell’edificio.
“Forse eri troppo impegnato dai tuoi pensieri.”, fece lei, abbracciandolo più forte che poteva. Lui contraccambiò, felice e sorpreso, e non gli parve averle dato un abbraccio più significativo di quello, tra tutti quelli che c’erano stati prima.
“Non mi importa cosa siamo e cosa diventeremo. L’importante è che tu non mi lasci da sola…”, gli disse, un attimo prima di scoppiare a piangere.


Erin, stretta tra le braccia di Gero, non riusciva a pensare a momento più felice di tutta la sua vita da un anno a quella parte… Aprì gli occhi; erano annebbiati dalle lacrime che le stavano scendendo lentamente ma che la stavano solcando dentro.
Un’immagine distorta, per niente nitida, si staccava dal verde alla sua destra. Ben, mani in tasca, un sorriso sul suo viso. Si avvicinò un dito alla  bocca, come per dirle di fare silenzio. Poi si inchinò, facendo uno svolazzo con la mano, mandò un bacio alla sorella e le fece ciao con la mano… E si dissolse in un battito di ciglia.
Da quel momento, non lo avrebbe mai più visto, in tutta la sua vita, se non nei suoi ricordi o nelle fotografie…




Ho messo le traduzioni della canzone ‘In die Nacht’, (troppo scontata?) che mi è servita per scrivere questo intenso capitolo… mi ci sono voluti tre giorni per buttarlo giù, per cercare le parole giuste e le scene giuste… spero di aver fatto un buon lavoro. E spero anche che le traduzioni siano giuste, ho studiato tedesco anche io per lunghi anni, ma non sono fatte da me perchè mi sarei bloccata alla prima strofa… Se ci sono delle imprecisioni fatemele notare, così le correggo! No scopo di lucro, neanche per la citazione di ‘Rette mich’.

* Tu sei tutto quello che sono io e tutto quello che scorre nelle mie vene. Noi ci supporteremo l'uno con l'altro. Non importa dove andremo. Non importa quanto in profondità.

** Non voglio essere li da solo, lasciateci insieme nella notte. Qualche volta sarà il tempo, lasciaci insieme nella notte.

*** Tienimi altrimenti sarò solo nella notte. Prendimi con te e tienimi altrimenti sarò solo nella notte.

Benchè questo capitolo sia stato postato stamattina, cioè domenica mattina, i ringraziamenti sono stati scritti ieri notte, sabato notte, all'una e mezza... scusate, ma non avevo voglia di andare a letto, anche se avevo molto sonno... quindi è molto probabile che i miei discorsi saranno molto più disconnessi del solito!!!

MissZombie: E l'email che dicevi? Dov'è? Il postino ha fatto sciopero per caso? XD scherzo! Comunque non sono riuscita ad ubriacarmi, sigh, il prosecco non fa niente, a parte stimolare la produzione di aria intestinale... ma lasciamo perdere... sì, anche io penso come te che Tom abbia due facce, come del resto tutti noi. Da un lato quella pubblica, dall'altro quella privata. Entrambe con le loro sfaccettature particolari. Per me è bello cercare di parlare di personaggi che, durante la storia, si evolvono e mettono in luce tutto il loro carattere, o per lo meno gran parte di esso. Non amo le Mary Sue, adoro i personaggi che rappresentano i due opposti: forte-fragile, cattivo-buono. Tutti noi siamo un grande miscuglio di peculiarità... anche i nostri personaggi!!! Ci sentiamo su msn! Un bacione!

CowgirlSara: sono contentissima di sapere che la storia di abbia coinvolto, davvero! E che palle però, avevi già capito da un pezzo che cosa sarebbe successo tra Bill e Tom! O forse sono stata un po' troppo scontata io a tirare fuori quella canzone... il dubbio mi sta perseguitando... Eppure mi sembrava una canzone perfetta, ora piango... sigh sigh... XDDD ci sentiamo su msn!!! ps: se ti va di disegnare Erin, visto che la recensitrice di cui sotto (alanadepp) mi ha chiesto di poter vedere come l'ho immaginata... tanto so che la ritrarrai come l'ho in mente io, ne sono sicura! Se hai tempo, e soprattutto se ne hai voglia... mi raccomando!

Alanadepp: se la tua amica fa un salto sul sito e legge capità chi sono! XD E non sono morta mille anni fa, anche se ogni tanto sono talmente antiquata nelle idee che mi vorrei mettere da sola in esposizione al mercato dell'antiquariato... comunque grazie sempre di tutto!!!

Martuccia: le idee le tiro fuori dal cilindro magico! No, purtroppo non è così, ma come ho detto sempre mi vengono prima di addormentarmi, dopo sveglia o sotto la doccia! Oppure anche semplicemente in un momento di relazzze... tranquilla se non hai recensito, talvolta anche il mio pc decide di andare in vacanza. Ne ha tutti i diritti, con le brutte parole con cui lo prendo quando si incricca!!! Un bacione!!!

Momentito di pausa: su mtv stanno passando i TH..... per chi avesse visto il video di ubers ende der welt (scusate per l'assenza dell'umlaut): non avete notato che quello di ready set go è fatto dei ritagli di quel video e che, in certi punti, le labbra di bill non cantano le parole della canzone in inglese??? cioè è fuori sincro, in termini di doppiaggio??? mah, che pessimo lavoro... intendo il video di ready set go, non quello di ubers ende der welt... almeno che si impegnassero a rigirare completamente le scene cantate in inglese!!! Meno male che Martina, alias MissZombie, mi ha informato dell'uscita del nuovo video 'An deiner Seite'... ancora non l'ho visto, ma lo farò presto! E spero che, se uscirà un altro video dei TH su una canzone di Scream, si impegneranno a fare un taglia e cuci migliore....

Sososisu: se la tua recensione dell'altra volta non ti è piaciuta, allora sappi che mi faccio schifo quando scrivo questi ringraziamenti... perchè mi sembra di non ringraziarvi mai abbastanza per il sostegno che mi date, veramente, non sto scherzando! E pensare che sono partita circa sei o sette mesi fa con la prima storiella sui TH e l'hanno recensita solo in 14... e ora ne ricevo almeno nove o dieci solo per un capitolo!

Lidiuz93: Poarin? Di dove sei? Del nord vero? Poarin lo dice sempre un mio amico di Verona!!!

Claudia9 + Alice94: Eccovi accontentate! Speriamo vi sia piaciuto! Grazie mille!!!

SweetPissy: in quante mi hanno chiesto di essere ricoverate alla clinica Sellers... ma ormai non c'è più posto, è full, no vacancies, tutti si sono presi una dipendenza o sono diventati bulimici... che deprimenza! Beh, la scena dell'abbraccio ci stava proprio bene, come i cani ed i gatti quando stanno un pomeriggio a battagliare e poi li trovi a dormire l'uno accanto all'altro... che teneri! Visto? Bill e Tom non hanno litigato e Erin e Gero si sono riappacificati... Va bene così? XD grazie mille!!!

Dark_irina: come ho detto a SweetPissy purtroppo la clinica non ha nemmeno un posticino libero! Tutti malati in Tedeschia appena hanno saputo di Tom!! XD comunque grazie mille per quello che hai scritto, mi ha fatto molto piacere!

Carillon: ma quanto siete curiose tra tutte! La prossima storia che faccio la farò pallosa a mille, per vedere se mi stressate la vita lo stesso!!! XDDD ovviamente scherzo!!! Bill Bill Bill... povero Bill, forse l'ho fatto comparire troppo poco... ma non me ne pento, avevo voglia di giocare con Tom! Grazie mille!!!!

Ruka88: ecco, hai sollevato una cosa che stavo quasi per dimenticare mentre scrivevo questo capitolo... mi ero dimenticata che Bill non aveva visto Tom senza rasta, perchè era venuto a trovarlo quando lui ancora non era stato vittima dell'atto vandalico ma giustificatissimo di Erin... e meno male che, prima di buttare giù questo chap, ho dato una rilettura veloce alla storia e mi è tornato a mente questo fatto! Altrimenti sarebbe stato troppo strano che lui non ci facesse proprio caso! Bea non ci sarà più, è andata all'ikea... scusa la pessima rima e battuta, ma sono le due di notte... grazie mille comunque!!!

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Capitolo 12
*** Wake me up when december ends ***


WAKE ME UP WHEN DECEMBER ENDS

 

“Certo che sei proprio un deficiente… anzi, siete due deficienti!”, esclamò Erin, “Ma che vi è saltato in mente?”
“Beh… una pazzia alla Kaulitz!”, disse Tom, con una voce tremendamente nasale.
“L’ultima pazzia che hai fatto ti è costata la testa!”, rispose lei, facendogli il gesto delle forbici con la mano.
“A proposito… ma che ti è saltato in mente? Non sembra più nemmeno lui!”, fece Bill.
“Ma smettila, li ho sempre odiati i suoi rasta… e poi un Kaulitz mi basta, quindi cerca di ridurre le tue espressioni ad un sì e ad un no!”, disse Erin, facendo ridere il ragazzo.
“Dire a lui di stare zitto è come dire a me di non guardare il culo di una ragazza”, fece Tom.
Andando contro una mezza dozzina di regole della clinica, Tom aveva permesso a suo fratello di trattenersi oltre le ore diurne, cioè quelle consentite per la visita ai parenti; lo aveva fatto cenare alla mensa, creando una certa confusione perchè prima di toccare cibo i due poveri ragazzi furono costretti a firmare un intero block notes di autografi, prima che Erin guastasse la festa delle sue buone amiche ricordando loro la punizione che le poteva aspettare; aveva deciso di farlo dormire nella sua stanza, beccandosi un ‘ma sei scemo?’ da Erin, che non riusciva a capire come potevano starci in due in un letto ad una piazza, quando Tom a fatica riusciva a dormirci da solo. E ultimo ma non meno importante, erano rimasti per diverse ore fuori, nel parco, di notte, mentre veniva giù il diluvio universale, che si era scatenato circa una mezz’ora dopo la loro esibizione, acclamata sia dalle loro fan che dai loro genitori.
Tornati in camera, passati attraverso una finestra del piano terra lasciata aperta apposta per i due da Erin, erano entrati in camera zuppi fradici. La mattina seguente, Bill si era risvegliato con un notevole mal di gola, mentre Tom aveva la febbre a trentotto e mezzo e una tosse da lupi.
“Spargi i tuoi germi da un’altra parte!”, gli disse Erin, dopo il suo ennesimo colpo di tosse.
“Ma è sempre così pallosa?”, fece Bill al fratello, seduto in fondo al suo letto, mentre lui se ne stava sotto le coperte.
“Anche di più… sembra una suocera…”, rispose Tom.
“Cosa?!? Io non sono pallosa… e non sono una suocera!”, ribattè lei, che invece era sul suo letto, disimpegnata perchè semplicemente era domenica.
“Come no…”, fece Gero, a gambe incrociate sulla sedia accanto al letto di Erin.
“Certamente…”, fece Tom, ironicamente, “Ma sei una brava ragazza e lo so che, in fondo… proprio in fondo, ma davvero in fondo, hai un cuore d’oro.”
Erin arrossì leggermente, poco abituata ai complimenti, soprattutto da parte sua.
“Grazie Erin… per quello che hai fatto per noi.”, disse Bill, “Tom mi ha spiegato… insomma, quello che ti è successo e mi dispiace davvero.”
“Oh no, tranquillo, non devi dispiacerti.”, disse Erin.
“Beh… non riesco proprio ad immaginarmi una cosa del genere… su di noi.”, disse Bill, lanciando un’occhiata affettuosa a Tom, “Ci pensi Tom? Io e te… separati per sempre…”
“Dai toni che hai usato l’ultima volta che ci siamo visti sembrava proprio che stesse per accaderci!”, disse Tom, beccandosi una cuscinata dal fratello.
“E basta! Vi siete fatti la guerra già per troppo tempo… non credete che sia il momento di darci un taglio?”, disse Erin, riprendendo la sua veste di eterna rompipalle.
“Già… credo anche che sia l’ora di andare.”, disse Bill, scendendo dal letto e iniziando a sbaciucchiare e ad abbracciare il fratello, che faceva una smorfia divertente ad ogni manifestazione di affetto del fratello.
“Prendo l’ombrello e ti accompagno.”, disse Gero, andando verso la sua stanza, “Fuori sembra che non abbia proprio intenzione di smettere.”
“E’ stato un piacere conoscerti, Bill. Verrai più spesso a trovare tuo fratello vero?”, gli disse, dopo avergli dato un abbraccio d’amicizia ed una stretta di mano.
“Certamente… ma lui può uscire ogni tanto da qua?”, le chiese.
“Sì, ci sono circa dieci ore di permessi per uscite al mese. Non è tanto e diventa ancora meno se lui fa il bambino cattivo.”, disse Erin.
“Ma io sarà un bambino buono… vero mammina?”, la canzonò Tom, pronto a coprirsi con le coperte nel caso in cui gli venisse rifilata una cuscinata.
“Comunque….”, fece Erin, ignorando il suo scherzo, “Quando vieni basta che tu lo avverta, così lui può avvisare della sua uscita. Che non sembrerà una fuga, come ha già provato a fare qualche tempo fa.”
Bill strabuzzò gli occhi verso il fratello, che si nascose definitivamente sotto le coperte.
“Io ci sono.”, disse Gero, affacciandosi nella camera con il suo ombrello verde.
“Bene… allora ciao Bill!”, disse Erin.
“Ci vediamo presto… e tu fai il bravo, intesi?”, disse Bill.
“Ok!”, rispose Tom.
“Ti voglio bene, lo sai?”
“Certo che lo so, ma me ne ero dimenticato ultimamente!”, rispose l'altro, con ironia.
“Sempre il solito scemo!”, fece Bill, uscendo dalla camera.
Erin si ributtò sul suo letto, prendendo l’ipod sul suo comodino.
“Spiegami un attimo cosa è successo tra te e barbon-Gero, voglio i particolari.”, fece Tom.
“Solo le donne vogliono i particolari, gli uomini si accontentano della storia a grandi linee.”, gli rispose Erin, mentre selezionava la canzone che voleva ascoltare.
“Ok, allora raccontamelo a grandi linee. Fammi una sintesi.”
“Abbiamo fatto pace.”, disse Erin.
“Bacini bacetti?”, chiese lui, dando il via alla solita serie di botta e risposta.
“No.”
“Nemmeno uno?”
“No.”
“Neanche sulla guancia?”
“No.”
“E allora?”
“E allora che?”
“E allora che pace è?”
“E allora è una pace come tutte le altre.”
“Ma non c’è gusto…”
“Madonna santa! Ci vuoi stare zitto?”, fece Erin, esasperata dalla sua insistenza., "Meno male che la petulanza non è una caratteristica permanente del tuo carattere!"
“Dai… sono malato, qua dentro non ho niente da fare se non torturarti!”, si lamentò l'altro, annoiato.
“Vorrà dire che me ne vado altrove!”, esclamò Erin, balzando giù dal suo letto.
“Visto che vai fuori mi porteresti del tè?”
“No.”
“Dai…”
“No…”
“Poi non ti rompo più le scatole.”
“No.”
“Ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego ti prego….”, ripetè mille volte Tom, mettendo le mani in preghiera come i bambini in chiesa.
“Guarisci presto o ti taglio la lingua!”, fece Erin.
“Allora me lo porti il tè?”
“Sì... ma chiudi quella dannata boccaccia!”, gridò lei, un attimo prima di sbattere la porta.
Scese giù in mensa, dove trovò la solita Polpettone a dare lo straccio dopo il turno delle colazioni. Stava per chiederle di farle del tè, se era possibile, poi un grillo le saltò in testa.
Correndo, andò verso l’uscita. Quasi stava per scivolare sul pavimento bagnato, si salvò in corner aggrappandosi alla porta a vetro dell’entrata, dopo aver facco scricchiolare le scarpe contro le mattonelle.
“Non si corre per i corridoi!”, esclamò la tizia antipatica che stava alla reception della clinica.
“E allora perchè si chiamano corridoi…”, chiese Erin, in uno slancio di freddure di mezza primavera che non le piacque ma che oramai aveva detto.
Aprì la porta e, sotto la pioggia, corse verso il parcheggio, cercando l’ombrello verde. Ne scartò un paio rossi ed uno a fiori gialli, poi, vicino al cancello, vide quello che cercava. Mentre si avvicinava a corsa, la macchina nera di Bill lasciò il piazzale e l’ombrello si allontanò da essa. Erin aumentò la sua velocità.
“Erin! Bill si è scordato qualcosa?”, le domandò Gero, appena la vide, quando lei era ancora a diversi metri di distanza. Stava quasi per voltarsi e fare cenno alla macchina di fermarsi.
“Cosa mi hai detto?”, le domandò lei, una volta che gli fu vicino e lui l’ebbe coperta dalla pioggia con il suo ombrello.
“Se Bill si era dimenticato di qualcosa…”, le fece Gero.
“No… non si è scordato proprio di niente.”, disse lei.
“Allora cosa sei venuta a fare! Ti prenderai un malanno come Tom!”, al rimproverò Gero.
“E chi se ne frega!”, fece lei, prendendogli velocemente il viso tra le mani e baciandolo.
“Erin…”, fece Gero, scioccato per il gesto.
“Lo so come mi chiamo.”, rispose lei,  baciandolo ancora.
L’ombrello, che gli impediva di poterla abbracciare e baciare come voleva, fu gettato rapidamente a terra. Non c’era pioggia, né, vento, né grandine, né ombrelli che avrebbero potuto rovinare quel momento.
 

La porta si aprì lentamente, fece solo un leggero scricchiolio. La luce era spenta e fuori pesanti nuvole coprivano ogni raggio di sole pomeridiano. Dei passi furtivi calpestarono il fascio di barlume che stava entrando dentro la stanza dal corridoio.
Si avvicinarono al primo letto e lo oltrepassarono, diretti verso il bagno. Improvvisamente la luce si accese, cogliendo il ladro sul fatto.
Tom, seduto sul letto, a braccia incrociate e sguardo serio guardava Erin, con le scarpe in mano ed i vestiti semi umidi, presa in flagrante.
“Ah! Finalmente avete scopato, voi due!.... E il mio tè dov’è?”

 

***


 

“Devo svoltare qua?”
“Sì…”, rispose Erin alla domanda di Bill.
La macchina nera prese la strada a sinistra, chiusa all’imbocco da due case apparentemente simmetriche.
“Vai fino in fondo.”, continuò Erin. Si sistemò sul suo sedile, lanciando un’occhiata rapida ai due abitanti della zona posteriore. Tom guardava fuori, spaparanzato nella macchina del fratello, e giocherellava con il suo cappellino, facendolo girare su se stesso in equilibrio sulla punta del suo indici sinistro. Gero, seduto dietro di lei, le tirò delicatamente una ciocca di capelli.
“E’ tutto ok?”, le chiese, facendole un piccolissimo sorriso rassicurante.
“Certamente… fa un po’ freddo, possiamo alzare il riscaldamento?”, fece lei, abbracciandosi per darsi un po’ di calore.
“Come desidera madame.”, disse Bill, girando la manopola della temperatura e della velocità della ventola, sparandole in faccia una nuvola di caldo tropicale.
“Sì… c’è il cammello che sta implorando pietà.”, disse Tom, che da dietro aveva sentito la ventata cocente arrivargli dritta addosso.
“Solo un attimo.”, fece Erin, regolando le bocchette dell’aria verso di lei, per togliere il calore a tutti gli altri.
“Devo entrare dento al cancello?”, domandò Bill.
“Sì, c’è il parcheggio.”, fece Erin.
Una volta che la macchina fu posteggiata, i ragazzi scesero, coprendosi dietro a folti piumini, spesse sciarpe e guanti lanosi. Un sapiente spazzaneve aveva ripulito tutto il piazzale e non fecero molta difficoltà nel camminare verso l’altro cancello.
“Vuoi che venga con te?”, domandò Gero ad Erin, mentre lei esitava a varcare l’altra soglia.
“No… faccio da sola.”, disse lei, dandogli un piccolo bacio sulla guancia, “Vi dispiace rimanere qua?”
“Oh no… tranquilla.”, disse Tom, che stava improvvisando un balletto tra pozzanghere per evitare che i suoi lunghi pantaloni si impregnassero di acqua.
“Dai… tornate in macchina o vi congelerete!”
Al che, i ragazzi, visto il consiglio dato loro da Erin, ripiombarono all’interno dell’abitacolo ancora caldo del suv di Bill.
I vialetti erano stati tutti ripuliti, solo qualche grumo di neve qua e là. Ancora le vere nevicate dovevano arrivare, ma intanto l’inverno aveva dato il suo primo assaggio. Ad Erin piaceva la neve, era capace di stare ore ed ore a guardare mentre cadeva giù, lenta, e ricopriva tutto il mondo di una coltre spessa, candida, sofficie. Le dava la sensazione come di un velo, che nascondeva tutti i guai, tutti i problemi, tutte le brutte cose, ma che era destinato ad essere tolto, una volta che la primavera iniziava ad affacciarsi. L’inverno era una stagione statica, in cui tutto sembrava fermarsi…
Percorse tutte le stradine, mentre le sue mani cercavano calore all’interno delle tasche del suo piumino verde oliva e mentre il suo naso affondava nella sua sciarpa nera, con velature bianche qua e là. Solo qualche visitatore, qualche anziana vedova che cambiava i fiori appassiti alla tomba del marito, poi nessun altro.
Ecco, il terzo settore, era arrivata.
La vide subito, marmo grigio con screziature nere, a terra. Vi si avvicinò lentamente, le ci volle un’infinità prima di trovarvisi davanti. Si accucciò, con una mano tolse la neve che si era accumulata sulla lapide di Ben. Pulì delicatamente la sua fotografia, un nuovo sorriso spuntò fuori, illuminando la tristezza di Erin.
Seduta sul bordo della lastra orizzontale di marmo, su cui erano stati scritti il nome di suo fratello, le date di nascita e di morte, Erin stette lì, per qualche minuto, ad abbracciarsi le ginocchia, con la testa chinata.
“Qual buon vento?”, disse una voce, appartenente ad un paio di gambe che si erano spostate di fronte a lei. Quando Erin alzò lo sguardo, queste si piegarono.
“Ciao Ben… alla fine sono venuta.”, gli disse, guardandolo dritta nei suoi occhi. Lui, accucciato davanti a lei, le sorrideva, con la testa appoggiata sulle braccia conserte, che stringevano le sue gambe. La stessa posizione di Erin.
“Devo mettermi a fare la danza?”, disse lui, sorridendole.
“No… ti prego… la danza no…”
“Sì… la danza sì…”, rispose l’altra, iniziando a scuotere la testa e le spalle a tempo, schioccando le dita e dicendo ‘uh uh’ e ‘ah ah’.
“Perchè ti ho fatto vedere quel dannato film!”, esclamò Erin, ridendo dell’eterna stupidità del fratello.
“Dai… smettiamola con queste scemenze.”, fece lui, “Piuttosto… bella combriccola di amici.”
“Grazie…”, fece Erin, arrossendo.
“Insomma… mi stanno simpatici. So che ti vogliono tutti bene, ognuno a suo modo… E mia sorella che è contesa tra tre avidi uomini!”
“Ma piantala!”, esclamò lei, tirandogli una palla di neve che lo colpì direttamente in faccia. Togliendosi lentamente tutti i residui che non erano subito caduti a terra, Ben le disse:
“Vedrai che ti daranno tante soddisfazioni, quelli là. E soprattutto… dì a Tom che suo fratello ha bevuto nella sua tazza di latte.”
“Cosa vuol dire?”, chiese Erin.
“Beh… si capiranno, vedrai.”, disse Ben, “Piuttosto… ora devo proprio andare, lo zio Ozzy mi ha revocato il permesso di soggiorno. Per adesso sono un clandestino!”
“Sì… e lo zio Ozzy sarebbe il mio cervello vero?”, fece Erin, toccandosi la tempia con il dito indice.
“Vedila come vuoi!”, disse l’altro.
“Tornerai a farmi visita ogni tanto?”, le domandò lei.
“Non lo so proprio… insomma, a meno che non ti prenda un’altra crisi, non ti metta a sbavare come un cane con la rabbia… ma farebbe un po’ schifo anche a me. Quindi penso proprio di no! E poi, se pensi che io sia dentro al tuo cervellino fumato, con tutte le cure psicologiche che stai facendo…”
“Ma come sei cattivo!”, lo riprese Erin.
“No… sei tu che faresti orrore.”
“Addio definitivo?”, disse Erin, con le lacrime agli occhi.
Ben annuì con la testa, mostrandole un sorriso del tutto triste.
“Ti ricordi quella canzone?”, chiese Erin al fratello.
“Quale?”, chiese lui.
“Quella che ti piaceva così tanto…”
“Sì.”
“Ti ricordi come dicevano le parole?”, domandò lei.
“Certo che me le ricordo.”, fece lui, accennando ad un piccolo sorriso, “Mi piacerebbe che, ogni volta che tu mi penserai…. Mi immaginerai con quella lì in sottofondo… sarebbe come in un film, di quelli strappalacrime, che ti hanno fatto sempre piagnere e vergognarti, perchè tu non ti dovevi mai commuovere ma ti succedeva lo stesso…”
“E tu ti vergognavi a dire che quella era la tua canzone preferita!”, ribattè lei, ridendo e ricordando di quante volte lo aveva beccato ad ascoltarla di nascosto.
“Posso… abbracciarti o andrei contro ad uno dei comandamenti?”, gli disse poi.
“Al dodicesimo… o undicesimo… insomma, quello dopo l’ultimo comandamento ufficiale: non abbracciare i morti, altrimenti cadrai in una voragine scura di melma e di… quello che ti pare a te.”, disse l’altro.
“Beh… allora addio Ben.”, disse Erin, salutandolo con la mano.
“Addio Sorellina… è stato un piacere rivederti di nuovo.”, fece lui. Le rise un’ultima volta ed Erin, che non voleva chiudere nemmeno gli occhi un istante per paura che lui scomparisse, rimase a fissarlo. Ma forse il freddo, forse le lacrime, la costrinsero a battere le ciglia e, quando le riaprì… lui non c’era più.

 

Scosse la testa, improvvisamente si era fatta pesante. Da quanto tempo era lì? Non lo sapeva, eppure il freddo era diventato così pungente da stritolarle le ossa. Stava per nevicare di nuovo.
Si alzò, dette un’ultimo sguardo alla fotografia di suo fratello e si incamminò verso l’uscita. Appena entrò in macchina, subito le fu chiesto se c’era qualcosa che non andava e perchè ci aveva messo così tanto. Erano stati mezz’ora ad aspettarla e, per non congelare a loro volta, avevano dovuto accendere più volte il motore per far riavviare il riscaldamento.
“Oh no, tutto a posto. Scusate, ma ho trovato una vecchia signora che conoscevo… e mi sono messa a parlare.”, disse Erin.
Gli altri, per non disturbarla di nuovo, si zittirono, dandole ancora tempo per riprendersi ed assimilare tutto i dolore che era riaffiorato nella superficie del suo cuore. Gero ed Erin dovevano tornare in clinica mentre Tom, che era arrivato all’ultimo giorno di permanenza alla Sellers, aveva già posizionato i suoi bagagli nel retro della macchina del fratello. Silenziosamente, l’auto entrò per l’ultima volta nel parcheggio della clinica.
“Promettimi che non vedrò mai più la tua brutta faccia qui dentro!”, disse Erin, abbracciando il suo oramai ex compagno di stanza.
“Puoi stare tranquilla, l’unica cosa che berrò da ora in poi è l’acqua!”, rispose l’altro.
“Anche perchè, se farà un’altra scemenza, lo strozzo con le mie stesse mani!”, fece Bill, riproducendo l’atto dello strozzamento per incutere timore nel fratello.
“Mi prometti che ogni tanto mi chiamerai?”, le domandò Tom.
“Tanto non risponderai”, fece Erin.
“Certo che lo farò!”, disse l’altro, liberandosi dal suo abbraccio, un po’ stizzito.
“Mi confonderai tra altre mille ragazze!”, esclamò Erin, mettendosi le mani sui fianchi.
“Le altre mille saranno sempre meglio di te.”
“Certo! Loro hanno la mutanda larga.”
“E tu hai la bocca larga.”
“Per mangiarti meglio.”
“No, per rompermi i coglioni meglio.”
“Vuoi che te li tagli? Così non avrai più di che lamentarti.”
“Ti ho sequestrato le forbici.”
“Non correre con quelle in mano o te li taglierai da solo.”
“Ma cos’hai contro le mie palle?”
“C’è la remota possibilità di un mini-Kaulitz a giro per il mondo.”
“Giammai!”
“E chi lo sa?”
“Ma la finite di becchettarvi?”, esclamò Bill, un po’ geloso per quel rapporto speciale che si era creato tra i due.
Ma sapeva che era del tutto immotivato quello che provava, perchè grazie a quella strana amicizia suo fratello aveva tovato la forza per cacciare via tutti i suoi fantasmi quando lui gli aveva voltato le spalle. Si era pentito amaramente di quello che aveva fatto e, dato che i Tokio Hotel, ufficialmente da molti mesi a quella parte, si erano presi una ‘pausa di riflessione’, aveva molto tempo per recuperare tutti gli sbagli che aveva commesso…
I quattro si salutarono con strette di mano ed abbracci ed Erin, che odiava gli addi con tutto il suo cuore, cercò di non farsi prendere di nuovo dal pianto. Mentre i due salivano in macchina, Gero la abbracciò, sussurrandole in un orecchio che le voleva bene più di ogni altra cosa al mondo.
“Un momento!”, esclamò Erin, “Mi sono dimenticata di dire loro una cosa!”
Si avvicinò ancora alla macchina, che era appena stata messa in moto. Tom, sentendola bussare al finestrino, lo abbassò.
“Mi stavo scordando di dirti una cosa Tom….”, gli disse, "Tuo fratello ha bevuto nella tua tazza di latte.
L’altro la guardò un attimo con aria interrogativa poi i suoi occhi si aprirono, la bocca si piegò in una smorfia e la testa si voltò rabbiosa verso suo fratello.
“Cosa hai fatto?!?!”, esclamò Tom.
“E dai! Quanto la fai lunga!.... piuttosto… a te Erin chi te l’ha detto che mi sono scopato la sua ex mentre lui era in clinica?”
Erin, comprendendo cosa volesse significare quella emblematica frase, fece spallucce e rise, mentre Tom stava accartocciandosi su se stesso per la rabbia.
“Siamo un pochino in ritardo… è meglio andare!”, esclamò lui, affondando nel suo piumino per mascherare l’arrabbiatura.

 
Salì in camera lentamente, prendendo le scale, insieme a Gero. Non una parola, né un sospiro più marcato. Gero le chiese se aveva  bisogno di lui, ma Erin disse di no, voleva stare sola, passare tempo con se stessa.
“Va bene.”, rispose lui, dandole un piccolo bacio sulla bocca, davanti alla porta della sua camera.
“Ci vediamo più tardi.”, disse Erin, chiudendola lievemente.
Si buttò sul letto, districò le cuffie del suo i-pod e se le infilò dentro le orecchie. Premette velocemente play, poi il pulsante menù, per selezionare quella canzone. Quella...

I'm so tired of being here
Suppressed by all my childish fears
And if you have to leave
I wish that you would just leave
'Cause your presence still lingers here
And it won't leave me alone

Non aveva mai ascoltato veramente le parole di quella canzone... dopo quegli anni, quei giorni, le parvero così reali, così sue. 
Quasi profetiche...

Your face it haunts
My once pleasant dreams
Your voice it chased away
All the sanity in me


Per un attimo aveva creduto di impazzire, la sua voce l'aveva terrorizzata, l'aveva fatta morire dentro un'altra volta.... Ma era risorta, come una fenice, dalle sue stesse ceneri.

I've tried so hard to tell myself that you're gone
But though you're still with me   
I've been alone all along

Spense l'apparecchio.
Lo ripose....
Chiuse gli occhi.
"Il ricordo di te mi farà vivere per sempre... Ben, you're my immortal... Sei la mia immortalità.", disse Erin, flebilmente.
E si addormentò.

FINE

 




Ecco la fine anche di questa storia… E non vi avevo avvertito che l'altro era il penultimo capitolo!!! Insomma, pensavo di fare una boiata, invece mi è piaciuta… spero che altrettanto sia per voi, altrimenti la cancello subito e festa fatta! XD non ho fatto un ‘e poi’ come nell’altra storia, anche se mi sarebbe piaciuto, ma vi posso dire che nella mia mente ci sta l’happy end e tutti vissero felici e contenti per tutta la vita… insomma, dopo tutte ‘ste tribolazioni dantesche cosa ci poteva stare meglio del lieto fine??? XD non sarete mica più sadiche di me? Spero di no! Poveri i mie personaggi, basto io a maltrattarli!

E se qualcuno si chiede: ma com’è possibile che la stampa non abbia mai saputo della permanenza di Tom nella clinica? Io rispondo: già avevo da pensare a come potevo sbarcare la storia non avendo una benchè minima idea di come si sentono le persone che vivono in queste cliniche di riabilitazione… suvvia, un po’ di clemenza! XDDD

Il dannato film, citato poco sopra, è ‘Un impresa da Dio’. Se l’avete visto, il protagonista quando è contento si mette a fare la ‘danza’… insomma, il film era così cosìcosì, ma la danza era fantastica… E se non l’avete visto meglio, vi siete risparmiati 7 euri. No scopo di lucro.

Il titolo del capitolo è preso da ‘Wake me up when september ends’ dei Green Day.  E la canzone sicuramente l'avete riconosciuta, è 'My Immortal' degli Evanescence... No scopo di lucro.

Siccome sono tremendamente pigra di prima mattina, non farò il solito walzer dei ringraziamenti perchè mi sono stancata di dire che SIETE TUTTE SPECIALI PER ME!!!! Grazie mille a tutte voi che avete recensito numerosissime questa storia!!!! Senza il vostro sostegno, senza le vostre parole, non avrei motivo di scrivere... vi lascio il mio contatto msn, se vi va: sil.stellina@hotmail.it

Un ringraziamento speciale va dritto dritto a  Martina (la 'piccola' MissZombie) e a Sara (la 'zietta' CowgirlSara) che su msn hanno sempre ascoltato le mie peripezie scrittorie (???che parola è....) e viceversa, anche io mi sono fatta carico delle loro noiosaggini fantasiose... scherzo, ovviamente *baci baci per farmi perdonare*... Prossimamente tornerò con un lavoro molto particolare, scritto in coppia con Martinetta, (grazie per ascoltare sempre le mie idee stupide senza pensare male di me) e poi forse con una nuova mia storia, che sto cercando di scrivere ma che ancora non riesce ad uscire dalla mia mente malata.... Spero di ritrovarvi presto quindi!!!!

Non mi ricordo chi tra voi belle fanciulle me lo ha chiesto, ma qualcuna mi ha domandato di poter vedere un disegno di Erin: beh, se Sara avrà tempo me lo farà, ma per adesso ancora non è disponibile. Se vi interessa, scrivetelo nella recensione così ve lo mando per email quando lo avrà fatto, ok?


Voglio ringraziare anche tutti quelli che hanno messo la loro storia nei preferiti, tra cui troviamo:

alanadepp 
Carillon 
Claudia9
CowgirlSara
dark_irina
dEw94
Fly
Goddes of Water
Judeau
kagome84
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Mikela_Th
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sara88
sososisu
starfi
which_one

 

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