The Good Wife.

di Haibara Stark
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #01 ***
Capitolo 2: *** #02 ***
Capitolo 3: *** #03 ***
Capitolo 4: *** #04 ***
Capitolo 5: *** #05 ***
Capitolo 6: *** #06 ***
Capitolo 7: *** #07 ***
Capitolo 8: *** #08 ***



Capitolo 1
*** #01 ***


Anche se il titolo rimanda a quello dell’omonima serie televisiva non ha niente in comune.
Quando ho iniziato a scriverla, su Rai 2 mandavano costantemente in onda la pubblicità di questa e di Castel, per cui,
quando mi sono trovata a dover decidere quale titolo dare alla storia, la mia mente era completamente soggiogata da tali pubblicità e, sinceramente, mi è parso il titolo più congeniale.
Buona lettura.


The Good Wife.
| Sherlock Holmes movieverse | Long | Slash, Het | Arancione | Conan Doyle, Guy Ritchie © |


Londra dormiva alla luce tiepida dei lampioni, leggermente offuscata dalla tenue nebbia di Febbraio. Passi sordi e affrettati risuonavano nella via ormai deserta. Il ragazzo correva a perdifiato, cercando di seminare colui che da bambini chiamiamo l’Uomo Nero. Corse finché poteva, finché fu certo di essere seguito soltanto dalla sua ombra; respirava l’aria fredda della notte, guardando con circospezione d’intorno da sotto la visiera del berretto. Ingoiò un sospiro di sollievo quando si rese conto che ce l’aveva fatta, era riuscito a sfuggire alla minaccia. Almeno per stavolta. Tornò ad osservare la strada, questa volta per cercare di capire dove la fuga lo aveva portato. Vide un uomo camminare in senso opposto al suo, avvolto da volute di fumo create dalla sigaretta che teneva tra le dita. Lo osservò per un po’ prima di schiarirsi la voce.
“Scusi, sir. In che via ci troviamo?”
L’uomo si fermò, voltandosi verso di lui e soffermando lo sguardo sui suoi abiti sgualciti e sporchi di fuliggine.
“Baker Street, ragazzo.” Rispose, per poi continuare per la sua strada.
“Baker Street.” Ripeté in un sussurro il ragazzo e sulle sue labbra nacque un sorriso compiaciuto. Si avviò a passi lenti, con lo sguardo che scorreva docilmente sulle porte dei palazzi. Ad un tratto si fermò, osservando attentamente il numero civico 221B; alzò gli occhi verso la finestra del primo piano e vide che la luce era ancora accesa oltre la spessa coltre di tende. Si avvicinò alla porta ed alzò un pugno per bussare, ma esitò. Abbassò nuovamente il braccio e, dando una veloce occhiata intorno, infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne estrasse una forcina. Forzò con cautela la serratura ed entrò, chiudendosi la porta alle spalle, per poi avviarsi silenziosamente verso le scale. Salì con le movenze di un gatto fino a raggiungere il piano superiore. Quando si trovò davanti alla porta dell’appartamento esitò di nuovo, ma una voce all’interno lo invitò ad entrare. Il ragazzo sussultò leggermente, ma non tergiversò oltre. Afferrò la maniglia ed entrò. Scorse con gli occhi il salotto in cui si ritrovò, per soffermarli poi sulla figura in piedi accanto alla finestra.
“Entrare nelle case altrui in tal modo è un reato, sa?” Domandò l’uomo, con lo sguardo sempre rivolto verso la strada.
“Lo so. E ne sono costernato.” Rispose il ragazzo. “Ma volevo evitare di svegliare più gente di quanto non fosse necessaria.”
L’uomo si voltò a guardarlo. Scrutò con attenzione il suo aspetto, in ogni minimo dettaglio. Ogni piega sui suoi abiti, ogni macchia di fuliggine e di fango sulla suola delle scarpe. Ma più di ogni altra cosa si soffermò sui lineamenti gentili del suo viso, semi nascosto dall’ombra del cappello.
“Che cosa la porta qui a quest’ora della notte, Miss?”
Il ragazzo sorrise compiaciuto. “Non potevo aspettarmi di meglio da lei, Mr. Holmes.”
“Scovare gli inganni è il mio mestiere. Anche se devo ammettere che ha fatto un ottimo lavoro. Il silicone, poi, è un vero tocco di classe.”
“Ho avuto degli ottimi maestri.”
Sherlock Holmes si mosse ed andò a sedersi sulla sua poltrona, accavallando le gambe e intrecciando le dita.
“Or dunque. Perché si trova qui?”
“E’ una storia piuttosto lunga.”
“Ho tutto il tempo del mondo.”
“Sono molto lieta di sentirglielo dire.”
Con un rapido gesto della mano si tolte il cappello e una cascata di capelli scuri le ricaddero sulle spalle. Scosse leggermente la testa per farli tornare in ordine e, mentre prendeva posto su una sedia davanti al detective, rimosse dalla mandibola e dagli zigomi una sostanza gommosa, mostrando il suo vero volto. Puntò gli occhi ambrati in quelli del detective.
“Bene. Cominciamo.”

•••

Era una tiepida giornata di sole ed un’ inusuale pace aleggiava negli appartamenti del 221B di Baker Street. Mrs. Hudson, la padrona di casa, tendeva sempre a godersi il più possibile quei momenti di assoluto silenzio e tranquillità, prendendosi una pausa dalle stramberie di Mr. Holmes. Erano le sei del pomeriggio e il bollitore del tè aveva appena cominciato a fischiare quando la porta esterna si aprì lasciando entrare uno degli affittuari, il dottor John Hamish Watson. Di ritorno dal suo giro di visite, il dottore si avviò stancamente su per le scale, aiutandosi col suo bastone da passeggio, e assaporando anche lui quel tranquillo silenzio. Solitamente quell’assenza di suoni lo avrebbe allarmato, ma il suo amico e coinquilino Sherlock Holmes era partito per la Francia ormai da quasi più di una settimana, quindi non c’era alcun motivo di preoccuparsi. Sarebbe voluto partire anche lui per affiancarlo in quel caso che tanto lo esaltava, ma Holmes, per la prima volta da quando si conoscevano, aveva insistito perché restasse a Londra. Aveva giustificato il tutto dicendo che in questa occasione avrebbe agito meglio da solo e che non voleva metterlo nuovamente in pericolo. E lui gli credette. Per questo motivo ora Watson si trovava seduto nella sua comoda poltrona in Baker Street e Holmes era in qualche punto impreciso del territorio franco. Incolume, sperò il dottore. Sospirò e si rilassò contro la spalliera della poltrona, chiudendo gli occhi. Watson non seppe quantificare il tempo passato in quella posizione, quando udì del trambusto provenire dal piano di sotto. Si rizzò a sedere con le orecchie tese, riuscendo a cogliere tre voci distinte di cui due, ne era certo, erano di Mrs. Hudson e Holmes. La porta dell’appartamento si spalancò di scatto, facendo mostra di un Holmes borbottante che stringeva in mano la valigia.
“Watson!” Esclamò con un sorriso quando alzò lo sguardo su di lui. “E’ un vero piacere rivederla!”
“Holmes” Disse l’altro. “Smetterà mai di tormentare la povera Mrs. Hudson?”
“Povera, ah! E’ sempre lei la povera, vero? Mai che si parli del povero Holmes!”
“Non faccia il melodrammatico –”
Il dottore interruppe il discorso sul nascere, quando, sulla soglia, vide comparire una giovane donna. Era piccola di statura e di corporatura minuta, ma sotto le stoffe cerulee del vestito erano ben riconoscibili le morbide curve dei seni e dei fianchi. Il viso sottile era incorniciato dai lunghi capelli scuri, che le ricadevano sulle spalle, e le labbra rosee erano piegate in leggero sorriso rivolto all’uomo seduto in poltrona. Quest’ultimo si alzò, come ogni gentiluomo che si rispetti, tenendo gli occhi color cielo in quelli nocciola e screziati d’ambra di lei. Holmes passò lo sguardo da l’uno all’altra per poi esclamare: “Oh, giusto!”
Prese la mano sinistra di lei e la fece avanzare nella stanza fino ad averla al suo fianco.
“Watson, voglio presentarle Hope. Mia moglie.”

•••

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Capitolo 2
*** #02 ***


Se fosse stato un po’ più attento, come era sempre solito fare, probabilmente Sherlock Holmes avrebbe sentito il cuore del dottore incrinarsi. Segretamente sperava di cogliere questo leggero suono, lo stesso che aveva fatto il suo di cuore quando aveva capito che non sarebbe riuscito a convincere il vecchio amico a restare, a non sposarsi. Ma lui non sapeva niente di sentimenti, era risaputo, e non si accorse di come esso ebbe invece prodotto un suono forte e sordo. Il caro buon dottore, dal canto suo, si sforzò di sorridere, cercando di dissimulare quel terribile mix di stupore, terrore e incredulità che stava provando. Per non parlare del dolore che lo  aveva colpito infondo allo stomaco. Passò lo sguardo da lui a lei più volte, sperano che il detective se ne uscisse che era tutto uno scherzo e che era stato uno spasso vedere il suo volto sbigottito. Ma ciò non avvenne.
“Mio caro Holmes, questa è una notizia incredibile!” Forzò maggiormente i muscoli facciali. “Deve avere delle splendide qualità per essere riuscita ad accalappiare il mio amico.” Disse rivolgendosi a Hope, alla quale strappò una risata cristallina.
“La ringrazio, dottor Watson, ma non mi ritengo una persona speciale.”
“Dovrebbe invece.” Spostò lo sguardo su Holmes, questa volta con un’espressione tale da potergli trasmettere i suoi pensieri. La cosa dovette dare i suoi frutti dato il repentino cambio di espressione del detective, che si voltò verso la moglie per sfuggire a quegli occhi di ghiaccio.
“Vieni cara, ti mostro le nostre stanze.”
Così dicendo la condusse nella sua camera da letto. Watson li osservò, pietrificato, finché non scomparvero dalla sua visuale. Continuava a ripetersi che non poteva essere vero, che Sherlock Holmes non era tipo da matrimonio e che, se fosse accaduto, certamente non lo avrebbe fatto a sua totale insaputa, con una donna che aveva conosciuto solo qualche giorno innanzi. La sua incredulità era totale e al contempo si sentiva offeso dal fatto che Holmes l’avesse tenuto all’oscuro di tutto e non lo avesse coinvolto. Gli balzò anche alla mente l’idea che in realtà non fosse partito per un caso, ma esclusivamente per sposare Miss. Hope, che, parlando francamente, era fin troppo giovane per lui. In quel momento provò un moto di rabbia verso di lui, ma anche verso sé stesso perché aveva creduto a quelle fandonie che lo avevano tenuto a Baker Street. Udì dei passi svelti e, tornando con lo sguardo sulla porta della stanza, vide che Holmes gli si stava avvicinando.
“Si spieghi.” Disse con tono pungente.
“Prego?” Rispose l’altro, fintamente perplesso.
“Lo sa benissimo.”
“In fede mia Watson, non so di cosa stia –”
“Sposato!” Alzò le braccia e il tono con fare esasperato. “Sposato, Holmes! Lei! E a mia insaputa!”
“Non sapevo di doverle rendere nota di tutto ciò che faccio.”
“Mi ritengo altamente offeso da questa affermazione!”
“Perché dovrebbe?”
“Perché dovrei! Sono suo coinquilino, collega e migliore amico da anni e non le è sovvenuto il dubbio che avrei voluto sapere delle sue nozze o farne parte?!”
“E’ stata una cosa molto informale…”
“Lei come al solito non mi ascolta!”
“Questo non è vero! Io ascolto sempre ciò che dice.”
“Oh, ma davvero? Allora mi dica, che cosa ho appena detto?”
“Che è geloso.”
“COS –??”
“Sherlock?”
Entrambi si voltarono verso la porta, dove Hope stava in piedi ad osservarli.
“Perdonatemi se vi interrompo, ma volevo chiederti se saresti  tanto gentile da venirmi a dare una mano.”
“Ma certamente!” Rispose prontamente il detective, sfoggiando uno dei suoi sorrisi migliori, per poi raggiungerla a grandi falcate e chiudersi la porta alle spalle. Watson rimase sbigottito. Non aveva mai visto il suo amico comportarsi in tal modo e si chiese cosa avesse quella donna di tanto speciale. Strinse i pugni convulsamente  e andò a sedersi sulla sua poltrona, prendendo con un gesto stizzito il giornale dal tavolino. Lo aprì con fare deciso, stringendolo tra le mani con più forza dovuta e rischiando quasi di strapparlo in due. Cercò di concentrarsi sulla lettura, anche se si rivelò ardua cosa, e notò come i giornalisti continuassero a parlare con fervore dei vari furti avvenuti nel mese scorso. Non che la cosa lo stupisse. Erano avvenuti nelle case di alcuni dei più alti esponenti della città di Londra e nelle circostanze più misteriose. L’unica cosa certa era il nome con cui il ladro si faceva chiamare: the Man. Ad esser del tutto sinceri, il dottor Watson era rimasto stupito dal fatto che Holmes avesse declinato la richiesta d’aiuto degli yard in tal merito, quando, qualche giorno prima della sua partenza, avevano fatto visita al 221B. Ma aveva anche ritenuto che il motivo stesse nell’implicazione di Holmes in un caso di cui lui, invece, sapeva poco o niente. Provò una fitta allo stomaco a quel pensiero, collegandolo immediatamente al matrimonio. Come aveva potuto fargli un torto simile? Holmes era stato il primo a venir a conoscenza del suo fidanzamento con la sua compianta Mary e gli aveva fatto da testimone. Mentre lui, invece, non era stato messo a conoscenza di nulla. Ma se lo avesse saputo, come avrebbe reagito? Come si sarebbe sentito al riguardo? Ovviamente sarebbe stato felice per Holmes, anche se giustamente stupito. Il dottore si fermò su quel pensiero, fissando la pagina stampata senza batter ciglio. Quale immensa menzogna aveva appena detto a sé stesso.
Bussarono leggermente alla porta, facendolo riscuotere dai suoi pensieri.
“Avanti.”
Mrs. Hudson fece capolino nella stanza tenendo in mano un vassoio con sopra una teiera e tre tazzine facenti parte del suo servizio buono, insieme all’immancabile piatto coi biscotti. Si guardò intorno curiosa, certamente cercando Mrs. Holmes.
“Avete visto dottore? Che cosa incredibile!” Disse tutta concitata, mentre avanzava verso il tavolo. “Mr. Holmes sposato! Lei ne sapeva qualcosa?”
“No, niente.” Rispose lui con tono infastidito, guardandola da sopra il giornale.
“Non se la prenda a male. Lo conosce, sa com’è fatto.” Poggiò accuratamente il vassoio e poi si diresse verso la camera di Holmes. Bussò una volta. “Mr. Holmes? Volevo avvertire lei e la sua consorte che vi ho portato il tè e alcuni biscotti.” Parlò con tono gentile, lo stesso che solitamente riservava solo a Watson e mai al detective. Pareva che a Mrs. Hudson, rifletté il dottore, fosse piaciuta molto l’idea che Holmes si fosse finalmente sistemato. Ne ebbe la conferma quando tornò verso di lui sussurrando: “E’ proprio una cara ragazza. Molto gentile ed educata.” Sorrise ampiamente, per poi aggiungere, inarcando le sopracciglia: “Mi domando cosa abbia trovato in lui, ma certamente Mr. Holmes è stato molto fortunato.”
Mrs. Hudson non poteva certo immaginare che con quelle parole aveva provocato nel dottore ancor più malessere di quanto già non provasse. E se ne andò, borbottando qualcosa che somigliava molto a “Speriamo sia dotata di molta pazienza”. I coniugi Holmes non si mostrarono per il tè e nemmeno per la cena, portando la mente di Watson a vagare in vie che un gentiluomo non dovrebbe percorrere.
Il povero dottore dormì poco o niente, tanto era preso dagli avvenimenti che si erano verificati nel tardo pomeriggio, e, quando le lancette dell’orologio da taschino si soffermarono sui numeri nove e uno, decise che era inutile crogiolarsi ancora nelle calde coperte e nell’angoscia e si alzò. Nell’entrare in salotto per la colazione, rimase sorpreso nel vedere che Mrs. Holmes si trovava in piedi davanti alla finestra. Osservava con attenzione al di là del vetro, tenendo le mani giunte all’altezza del ventre. Aveva i capelli raccolti sulla nuca ed indossava un vestito dal corpetto color crema e la gonna color amaranto, che metteva in risalto la sottigliezza della sua vita. Si voltò verso di lui e si sciolse in un sorriso.
“Buongiorno dottor Watson.”
“Buongiorno Mrs. Holmes.” Il dottore sentì un groppo alla gola nel mentre pronunciava quelle ultime due parole.
“La prego, mi chiami Hope. Mrs. Holmes è così formale.”
“Come desidera.” Fece qualche passo verso il tavolo apparecchiato. “Holmes è in casa?”
“Oh no, è uscito molto presto stamane, ancor prima che io fossi scesa dal letto. Ma suppongo sia cosa normale data la sua inusuale abitudine al non dormire. E lei, dottore? Lei ha dormito?”
Si voltò a guardarla, accigliato, rimanendo sospeso nell’atto di sedersi.
“Prego?”
“Mi perdoni, tendo sempre a parlar troppo. Non volevo mancarle di rispetto o essere scortese. Ho solamente notato le leggere ombre sotto i suoi occhi ed ho pensato che non avesse avuto un buon sonno. Magari è dovuto al materasso. L’ho trovata anche un po’ rigida nei movimenti.”
Nel momento in cui l’ultima sillaba lasciò le sue rosee labbra, Watson capì cosa Holmes avesse trovato in lei. Ella era decisamente un’ottima osservatrice ed era riuscita a cogliere tutto alla perfezione. Questo, però, il dottore si premurò di non dirglielo, contrariato com’era ancora dalla sua presenza in quella casa, e si sedette, per poi imburrarsi un toast.
“Come vi siete conosciuti lei ed Holmes?” Domandò, fingendo non curanza, quando invece quella domanda gli premeva nelle tempie più di ogni altra cosa.
“Per un caso fortuito, oserei dire. Quante possibilità ci sono che due inglesi si incontrino in Francia durante le indagini di un caso?” Rise leggermente. Watson pensò che ce ne era una su un milione e che, sfortunatamente, proprio lei e il detective erano dovuti entrare in essa. Finì di stendere anche la marmellata e addentò il toast. Hope continuò: “Ci siamo conosciuti in albergo, durante una colazione come questa. Anche qui bisogna probabilmente parlare di fato, considerando le sue abitudini alimentari durante un caso.”
Più che di fato, bisognerebbe parlare di fatalità, pensò il dottore, che cercò di scacciare immediatamente quel pensiero.
“Una vera fortuna.” Disse, invece, alzando lo sguardo su di lei. Nel momento in cui i loro occhi si incrociarono, notò che c’era una strana lucentezza in quelli di lei. Erano, avrebbe potuto giurarlo, tinti di malizia e in quel momento mal si accostavano al suo perfetto sorriso di bambola. Poi un battito di ciglia e tutto svanì. Restarono solo i suoi splendidi occhi color nocciola.
“Sono d’accordo con lei.”
Watson pensò di essere semplicemente prevenuto nei suoi confronti e che fosse stato frutto della sua malcelata insofferenza verso di lei. Si rese conto di essere stato vistosamente troppo freddo e sperò che Hope giustificasse tale comportamento con un nervosismo provocato dalla mancanza di sonno.
“E’ stato un incontro molto romantico ed azzarderei quasi fiabesco.” Si affrettò a dire. “Dev’esser molto orgogliosa nel raccontarlo.”
“Ed infatti lo sono.” Si mosse dalla finestra, camminando sinuosamente verso la libreria e incominciò ad accarezzare i libri con lo sguardo, tenendo le braccia incrociate sotto il seno. Il dottore la guardò ancora un attimo, per poi rivolgere totalmente la sua attenzione alla colazione.
 
•••

I giorni scorsero veloci e John Watson dovette riconoscere nella nuova coinquilina una piacevole compagnia. In quel periodo Holmes raramente si faceva trovare a Baker Street, portando i due a passare amabilmente le giornate insieme conversando degli argomenti più svariati, che finivano sempre, inevitabilmente, nello sfociare  in aneddoti riguardanti il detective.
Hope era una donna di larghe vedute e dalla buona cultura, di cui metteva sfoggio in ogni argomentazione senza mai vantare superiorità della sua conoscenza, come era solito fare, invece, il marito. Mrs. Hudson, come già premesso, l’aveva presa in simpatia, del tutto ricambiata da Mrs. Holmes, che si adoperava anche ad aiutare la padrona di casa in cucina e nelle faccende. Se si fosse dovuto darle un aggettivo, quello sarebbe stato perfetta. Ma nessuno lo è mai realmente. Ed era esattamente quello che stava pensando il dottore, quel pomeriggio di metà Febbraio, mentre osservava di tralice Hope, che leggeva stando compostamente seduta sul divano. C’era sempre qualcosa d’affettato nei suoi gesti, che li rendeva quasi inumani, e, quando si rivolgeva a lui in special modo, nelle sue parole una cadenza quasi divertita. A volte Watson si era ritrovato a immaginarla su un palcoscenico tanta era forte la sua impressione che stesse recitando una parte. Ma non sempre era così. Accadeva quando si sedevano insieme in quel salotto e chiacchieravano del più e del meno. I suoi gesti, le sue parole, i suoi sorrisi, divenivano morbidi e naturali e a lui tornavano alla mente le sue serate a Cavendish Place passate con Mary.
“C’è qualcosa che la turba, dottore?” Domandò, senza spostare gli occhi dal libro. Il dottore non si sorprese affatto. Era troppo abituato ai comportamenti di Sherlock Holmes e Hope in questo gli somigliava molto.
“No, alcunché, Hope.”
Passarono altri giorni, ma la strana sensazione di sospetto che provava nei confronti di lei non parevano essere intenzionati a lasciarlo e i suoi propositi di parlarne col vecchio amico cadevano sempre a vuoto, per via che passava la maggior parte del suo tempo fuori, evidentemente ad investigare su qualcosa, ed in compagnia della moglie, provocando sempre fastidio nel dottore. Fu in una sera di Marzo che le cose iniziarono ad avere finalmente delle risposte.

•••

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Capitolo 3
*** #03 ***


Quel giorno il buon dottore era stato costretto a fare un giro di visite a domicilio più lungo del solito ed aveva approfittato dei lunghi viaggi in carrozza per riflettere sul da farsi, arrivando alla conclusione che sarebbe rimasto ad aspettare Holmes anche fino a notte fonda, se necessario, pur di parlargli. Oltre ai suoi sospetti, Watson voleva ancora delle spiegazioni dal detective riguardo al suo affrettato matrimonio, di cui aveva avuto modo di discutere solo con la sua consorte, e Holmes certamente gliele doveva. Stava ancora rimuginando su questi fatti mentre svoltava in Baker Street. Il suo ultimo paziente abitava a solo un isolato di distanza e questo lo aveva portato a prediligere un ritorno a piedi. Probabilmente, però, se avesse preso una carrozza non si sarebbe trovato così lontano dal 221B quando vide un ragazzo entrare senza problemi scassinando la porta d’entrata. Il dottore aumentò il passo, pensando a Mrs. Hudson e Mrs. Hope, ed in poco tempo raggiunse l’edificio. Prima di entrare con cautela, notò che la porta non sembrava minimamente forzata e se non lo avesse visto coi propri occhi non si sarebbe accorto di nulla. Chiuse lievemente la porta, senza staccare gli occhi dalle scale e tenendo stretto il suo bastone tra le mani, maledicendosi per non avere con sé il revolver. Cercò di captare qualche rumore, ma ciò non avvenne ed iniziò a salire lentamente su per le scale. Aprì con cautela la porta del loro appartamento e guardò all’interno. Non vi era nessuno e tutto pareva al suo posto. Entrò, sempre facendo attenzione a non emettere alcun suono e guardandosi intorno con attenzione, per poi avviarsi verso il suo studio, la cui porta era socchiusa. Si appiattì contro il muro e con una mano iniziò ad aprire lentamente la porta, mentre con l’altra era già pronto ad estrarre la spada…
“Dottor Watson?”
Sussultò, voltandosi di scatto. Hope lo osservava con aria preoccupata, tenendo una mano appoggiata allo stipite della sua stanza e l’altra ancora sulla maniglia. Lui chiuse gli occhi e prese un respiro, per poi voltarsi nuovamente ed aprire completamente la porta. La stanza era vuota.
“Dottore che cosa succede?” Lo raggiunse.
“Ho visto un ragazzo introdursi in casa.” Tornò a guardarla.
“Un ragazzo?” Sgranò leggermente gli occhi.
Watson annuì. “Lo ha visto?”
“No. Santo Cielo, no.” Si portò una mano al petto, corrucciando le sopracciglia. “E crede che” La domanda le morì sulle labbra quando la porta del soggiorno si aprì facendo entrare Holmes. Capì che qualcosa non andava immediatamente, allarmato soprattutto dallo sguardo che la moglie gli stava rivolgendo.
“Che cosa è successo? Suvvia, parlate!”
“Il dottor Watson ha visto un uomo entrare in casa.”
“Beh, questa non è una cosa inusuale.” Sorrise sornione.
“Non era un uomo, era un ragazzo. E non l’ho visto entrare. L’ho visto scassinare la porta d’ingresso.” Precisò il dottore, provando un certo fastidio per la distorsione delle sue parole, e per una frazione di secondo credette di aver visto Holmes stringere i denti e scoccare un’occhiata gelida alla consorte.
“Mio caro amico, la porta che da sulla strada non ha nulla che non vada.” Disse.
“Ho avuto modo di notarlo anch’io, ma sono certo di quello che ho visto.”
Holmes esitò, sostenendo lo sguardo sicuro e ostinato del compagno.
“Se è veramente così – e non sto mettendo in dubbio le sue parole – dov’è?”
Il cuore di Watson balzò nel petto. Già, dov’era? Lui lo aveva visto entrare, ma non uscire. Non sapeva come rispondere e Holmes lo sapeva perfettamente, lo capiva dal suo sguardo. Questo lo fece innervosire ancor di più.
“Lei non mi crede, vero?” Domandò, prima di potersi trattenere.
“Certo che le credo, Watson! Ma converrà anche lei che la situazione è alquanto bizzarra!”
“Bizzarra?!” Il dottore non fu più in grado di sopportare oltre e, mentre l’amico aprì la bocca per controbattere, lui si voltò ed andò dritto nella sua stanza. Riflettendoci più avanti si rese conto di aver agito in modo molto infantile, ma al momento era troppo offeso per il comportamento di Holmes per ragionarci a mente lucida. L’unica cosa a cui riusciva a pensare era che il detective non sembrava più lui da quando era tornato dal viaggio in Francia. Da quando era tornato con quella. Prima di allora non avrebbe mai messo in dubbio la sua parola in quel modo e tanto meno non avrebbe esitato a cercare di scavare più affondo in quella ‘bizzarria’. Si sdraiò a pancia in giù sul letto, cercando di distendersi. Doveva stare calmo e cercare di sciogliere quel nodo che provava all’altezza del petto, che non faceva altro che distrarlo dalla verità. Su questo punto Holmes aveva ragione: i sentimenti sono fonte di deconcentrazione nei confronti di un’indagine.
Quando lasciò la stanza per la cena scoprì che Holmes era uscito nuovamente. Iniziò seriamente a pensare che non sarebbe più riuscito a parlare con lui o a passarci insieme anche solo un secondo del suo tempo e che forse avrebbe fatto meglio ad iniziare a cercar casa. Non sarebbe riuscito a sopportare una simile situazione ancora per lungo.
Lui e Hope cenarono silenziosamente insieme e in altrettanto modo lessero un libro ciascuno, mentre il fuoco scoppiettava nel camino riscaldando la stanza. Quando lei si ritirò nelle sue stanze, il dottore posò il libro sulle gambe sospirando. In verità aveva letto poco o niente, tanto rimbombavano forti nelle tempie le sue pene. Si decise a provar di dormire e si era appena alzato dalla sua poltrona quando sentì dei rumori al piano di sotto. Dapprima credette si trattasse di Holmes, ma ad un ascolto più attento si rese conto che quelli non erano i passi del suo amico, il quale avrebbe evitato quel famoso gradino scricchiolante, né tanto meno Mrs. Hudson, che si doveva essere coricata da un pezzo. Watson si mosse velocemente verso il suo studio ed estrasse dal cassetto della scrivania il revolver. Tornò nel soggiorno, appiattendosi contro il muro di fianco alla porta, in attesa. Dopo attimi che parvero interminabili passati col fiato sospeso, la maniglia si abbassò e la serratura scattò. Il dottore strinse con più fermezza il calcio della pistola, pronto ad agire, mentre la porta si apriva piano e la sagoma di un uomo iniziava a prendere forma. Con un gesto deciso e fulmineo Watson lo colpì alla testa, facendolo gemere dal dolore e arrancare verso il pavimento. Non aveva però tenuto conto della presenza di un secondo intruso dalla corporatura discutibile, che si avventò immediatamente su di lui. Il dottore si trovò improvvisamente ad annaspare contro il muro con le mani prive della pistola, mentre l’altro teneva le sue a metà strada tra le sue spalle e il suo collo in un goffo tentativo di soffocarlo. Reagì con la prontezza di un soldato afferrando i suoi avambracci e affondando il suo stomaco con una violenta ginocchiata. L’uomo mollò la presa, piegandosi in avanti, e Watson approfittò della sua debolezza per colpirlo ancora. Nel frattempo il primo estraneo si era ri-alzato e aveva individuato il revolver, che giaceva inerme sul pavimento. Si mosse rapidamente per appropriarsene, ma un forte colpo alla schiena lo fece vacillare, costringendolo ad arrestare i suoi intenti e a voltarsi.
“Sì, è vero. Questa non è la tua serata fortunata.” Lo schernì Hope con un sorriso sornione. Lui le si avventò contro, ma lei fu più veloce: si spostò dalla sua traiettoria con lestezza e lo colpì con forza con un bastone che aveva tenuto nascosto dietro la schiena, ripetendo l’azione svariate volte prima di mollare l’arma improvvisata ed andare a raccogliere la pistola. La puntò contro l’altro estraneo, che stava prendendo il sopravvento su Watson. “Credo che questa non sia nemmeno la tua serata fortunata.”
L’uomo si voltò a guardarla, un pugno ancora alzato a mezz’aria, decisamente preso alla sprovvista.
“Ti do cinque secondi per prendere il tuo compagno ed andartene.” Disse lei con calma. “Uno” Lui si allontanò con uno scatto da Watson, che vacillò all’indietro fino a colpire il tavolino e a cadere sul pavimento. “Due” Afferrò l’altro per le spalle e lo aiutò ad alzarsi sorreggendolo. “Tre” Entrambi si catapultarono fuori dalla porta, seguiti dallo sguardo vigile di Hope e dalla canna della pistola. [1] Lo scalpitio lungo le scale e lo sbattere della porta d’ingresso furono seguiti da un lungo silenzio intrinseco di tensione. Watson ansimava leggermente, mezzo sdraiato sul pavimento, lo sguardo fisso su di Hope. Se non l’avesse vista coi propri occhi far scappare quegli uomini, probabilmente non ci avrebbe creduto. Era una creatura così fragile e minuta. O almeno, così appariva. Lei rimase immobile, le orecchie tese pronte a captare il minimo rumore e i nervi a fior di pelle; quando fu certa che non vi è era più alcun pericolo lasciò ricadere il braccio lungo il fianco, sempre tenendo la pistola saldamente in mano. Chiuse gli occhi e sospirò leggermente, per poi voltarsi verso il dottore ed avvicinandosi velocemente.
“Sta bene?” Chiese allarmata inginocchiandosi accanto a lui e poggiando il revolver a terra.
“Sì, non si preoccupi.” Si puntò meglio su un braccio per mettersi seduto. “Me lo lasci dire, Hope: è stata splendida.”
Le sue labbra tese si sciolsero in un sorriso. “La ringrazio.”
“Dico davvero! Non so quante altre ladies avrebbero saputo intervenire in tal modo.” Un pensiero devastante lo percorse e gli sfuggì dai denti. “Ora capisco perché Holmes si è innamorato di lei.” Si morse la lingua, domandandosi per quale folle motivo aveva detto una cosa del genere proprio a lei e aspettandosi una reazione che non avvenne. Hope si limitò a guardarlo e a sorridere dolcemente con una nota malinconica nello sguardo. Il dottore credette di scorgervi addirittura della compassione. Udirono dei passi e ben presto Mrs. Hudson comparve trafelata sulla porta, indossando la vestaglia da notte.
“Buon Dio! Cosa è successo qui?”



•••

“Uhm.”
Sherlock Holmes aveva fatto ritorno a Baker Street alle due del mattino e aveva trovato i tre seduti nella caotica sala da pranzo con in mano una tazza di tè ciascuno. Gli era bastato notare la luce accesa visibile dalla strada e le impronte sui gradini esterni per capire cosa era successo, ma lo sguardo di Hope gliene diede conferma. Si aspettava che sarebbe accaduto. In quel periodo gli eventi stavano fermentando e si diede dello sciocco per essere stato lontano dall’appartamento così a lungo. Ascoltò con attenzione il resoconto di tutti, stando seduto nella sua poltrona, e poi congedò Mrs. Hudson che continuava a farneticare sul fatto che dovevano chiamare la polizia. Il detective dovette trattenersi dal riderle in faccia svariate volte. Chiamare Scotland Yard? Quale immensa sciocchezza! Quando finalmente la padrona di casa lasciò i loro alloggi per tornare nei suoi, Holmes si voltò a guardare Hope, che, lo sapeva, intercettò immediatamente la linea dei suoi pensieri. Certo non gli sfuggì il peso dello sguardo di Watson su di sé, ma questo non fu altro che un incentivo a spingerlo a domandare alla sua consorte: “Stai bene? Mi pari un po’ scossa.”
Lei lo guardò con una punta di disappunto. “Sto bene. Il dottore invece è stato colpito numerose volte -”
“Oh, ma lui è un uomo di guerra!” Si voltò verso il compagno, sorridendo. “E’ un osso duro. Vero, amico mio?” Provò una sadica soddisfazione nel leggere la gelosia nei suoi occhi ancora una volta. Ed infatti Watson lo era. Si sentiva terribilmente messo in secondo piano, spodestato dal primo posto tra gli affetti di Holmes. Adesso c’era lei, che incarnava alcune delle qualità tra le più gradite dal suo amico e che sarebbe sempre stata al suo fianco. Non c’era più posto per lui. Questa consapevolezza lo stava schiacciando.
“Già. Così sembra.” Rispose semplicemente, ricambiando il suo sguardo. Rimasero a squadrarsi finché il silenzio non venne spezzato dalla voce di Hope.
“Devo porgerle le mie scuse, dottore.”
Watson spostò lo sguardo su di lei. “Per quale motivo?”
“Per averla turbata in quel modo quando è rientrato. Non credevo che ci saremmo incrociati.”
Lui era seriamente sbigottito e perplesso. “Non capisco a cosa si riferisca…”
“Quello che Hope sta cercando di dirle” Intervenne Holmes. “E’ che le spiace di essersi fatta vedere da lei in abiti maschili, nonostante le fosse stato espressamente proibito di usarli durante il giorno, e di averla fatta preoccupare.”
Hope sbuffò, alzandosi dal divano. “Come sei noioso.” Incrociò le braccia, guardandolo. “E poi non era giorno –”
“Sei uscita di giorno!”
“Ma sono rientrata che era già sera!”
Watson li guardava con tanto d’occhi. Il ragazzo che aveva visto introdursi in casa… era Mrs. Hope?
“Non importa quando rientri, ma quando lasci questo appartamento. Non ti credevo così sprovveduta.”
“Non lo sono. Infatti ho lasciato questa casa vestendo i miei panni e mi sono cambiata in seguito.”
“Potrebbero comunque averti visto.”
“Dubito del loro spirito di osservazione.”
“Scusate se vi interrompo” Intervenne d’un tratto Watson portando gli occhi dei presenti su di sé. “Posso sapere di cosa state parlando?” Cercò di mantenere un tono calmo e neutrale, ma in realtà dentro avrebbe voluto urlare.
“Stiamo lavorando a un caso.” Rispose velocemente Hope, evitando che il marito la bloccasse sul nascere.
“Un caso?”
“Esattamente. In realtà si tratta dello stesso che c’ha portato a conoscerci…”
Un caso. Quel caso. Il dottore non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nonostante fossero passati tutti quei mesi, Holmes aveva continuato a tenerlo all’oscuro di tutto e lontano dalle indagini. Era bastato veramente così poco, due occhi da cerbiatto e un sorriso grazioso, a fargli dimenticare di lui?
“E di che caso si tratterebbe?” Domandò, cercando di mantenere ancora un tono di voce adeguato.
“Direi che è arrivato il momento di far chiarezza sugli eventi.” Esordì Sherlock Holmes. “Ebbene, come ben sa, mio caro Watson, in questi ultimi mesi mi sono assentato parecchio per dedicarmi all’indagine di un caso molto importante. Naturalmente avrà sentito parlare di Timothy Carlton [2].”
“Naturalmente! Se non erro il suo nome compare anche tra i magnati che sono stati derubati dal celeberrimo the Man.”
“Esattamente. Vede, Carlton è un uomo molto in vista, conosciuto soprattutto per la sua grande generosità nei confronti del prossimo e per le ingenti somme dei suoi finanziamenti. Ma questo non è nient’altro che un metodo per insabbiare i suoi misfatti e di godere di una certa sicurezza. Egli è infatti un criminale di prim’ordine, un boss, che ho scoperto essere implicato in molti affari loschi, che vanno dal contrabbando di beni d’arte contraffatti all’omicidio.” Fece una pausa. “Capirà, vecchio mio, che è una questione molto delicata ed è per questo motivo che non ho voluto coinvolgerla. Hope era implicata, aimè, già prima che ci conoscessimo ed è per questo che le ho concesso di aiutarmi ancora nelle indagini, anche se in misura minore.”
“Sì, capisco benissimo. Sappia, però, che se dovesse aver bisogno può sempre contare sul mio aiuto.”
Holmes sorrise, provando un moto di orgoglio nei confronti di quell’ex soldato sempre pronto ad entrare in prima linea per aiutarlo.
“Lo so.”
Era vero. Watson capiva, capiva eccome. Ma non riusciva comunque a sopportarlo. Mai avrebbe creduto possibile che Holmes lo tenesse fuori da un caso, soprattutto di quella portata. Che volesse proteggerlo? Forse. Anche se la verità fosse stata quella, lui si sarebbe ugualmente sentito a quel modo: messo da parte. Hope si mosse leggermente.
“Vogliate perdonarmi, ma gli ultimi avvenimenti sono stati molto intensi e urge in me il bisogno di andare a coricarmi.”
“Ma certamente! Vada pure senza alcun remore.” Le rispose Watson che, tanto era preso dai suoi pensieri, non notò lo sguardo di silenziosa supplica che Holmes rivolse alla moglie, la quale fece un cenno d’incitazione con la testa prima di voltarsi e scomparire nella camera da notte. Per la prima volta, dopo quella prima breve discussione, Holmes si trovava da solo nella stanza con Watson e mai come allora aveva desiderato tanto di trovarsi altrove.
“Lo sa,” Esordì il dottore. “sono ancora in collera con lei.”
Holmes lo guardò con un cipiglio. “In collera con me?”
“Sì, con lei.” Marcò l’ultima parola con asprezza. “E’ partito tenendomi all’oscuro di tutto ciò che stava accadendo ed è tornato con una sposa come se fosse la cosa più normale del mondo. Sono a dir poco offeso dal suo comportamento.”
“Conosce i miei metodi.”
“Questo va ben oltre il metodo.” Sospirò. “Holmes non mi fraintenda; sono felice che sia riuscito finalmente a trovar una compagna, e quindi che abbia dimenticato Miss Adler. Ma non capisco la sua ostinazione a volermi tener fuori da tutto questo.”
“Le ho spiegato perché l’ho esclusa dal caso.”
“Non mi riferisco al caso.”
Calò il silenzio. La mente del detective lavorava insistentemente nella ricerca di una risposta adeguata che potesse porre fine a quella discussione. Era irrilevante il fatto che potesse essere troppo dura o provocare reazioni spiacevoli. L’importante era che riuscisse nell’intento.
“Come al solito è sempre troppo sentimentalista.” Esordì. “E’ stato solo un matrimonio, come ce ne sono sempre a migliaia ogni anno e in ogni luogo. Niente di più, niente di meno.”
“E’ stato il matrimonio dell’uomo meno avvezzo ad esso che sia mai esistito, che sfortunatamente è anche il mio migliore amico.” Replicò l’altro. “Sono due motivi più che validi per cui avrei voluto prenderne parte.” Dette queste parole, si diresse verso le scale e le salì il più velocemente che poté. Holmes lo guardò scomparire, per poi sospirare e ritirarsi nella sua stanza.


•••

“Non gliel’hai detto.”
Non era una domanda, bensì un’affermazione quella che fece Hope nel mentre Sherlock si chiudeva la porta alle spalle.
“Non è necessario che lo sappia.” Rispose lapidario, levandosi il giacchetto di dosso. “Anzi, meno sa di questa storia e meglio è.”
“La verità è che questa situazione ti compiace. E’ per questo che non gli vuoi dire la verità. Vederlo geloso in quel modo -”
“Si vede che non mi conosci abbastanza.” Le diede le spalle camminando verso la finestra. Lei si alzò dal letto su cui era seduta e fece qualche passo verso di lui.
“Credo di conoscere molte cose di te, invece.” Avanzò ancora. “Sai che ho ragione.”
Sì, Holmes lo sapeva. Ma non aveva mentito dicendole che meno Watson era coinvolto e più sarebbe stato al sicuro. Preferiva mentirgli spudoratamente a quel modo anziché metterlo in pericolo ancora una volta. Sentì le braccia di lei cingergli la vita e si irrigidì leggermente.
“Smettila di pensare.” Poggiò la guancia contro la sua schiena.
“E’ impossibile non pensare.”
“Non trattarmi da stupida cercando di sviar discorso.”
“Non lo faccio.”
“Sì, invece. E’ la tua specialità.”
Calò il silenzio.
“Non dormirò con te.” Disse ad un tratto. “Però resterò qui. Direi che per stanotte non è il caso che lasci l’appartamento e ti sarei molto grato se anche tu evitassi di uscire.”
Lei annuì leggermente e si allontanò da lui facendo scivolare le mani sui suoi fianchi, per poi andare a coricarsi.


[1]
Le scene di battaglia non sono proprio il mio forte ( lol ); spero non sia troppo terribile.

[2] Vi racconterò or dunque come ho scelto questo nome, asd. In quel periodo ero entrata in fissa per Benedict Cumberbatch, il quale all’anagrafe ha anche il nome di suo padre: Benedict Timothy Carlton Cumberbatch. Anche il padre era un attore e il suo nome d’arte era – ed è tuttora – Timothy Carlton. Per cui sappiate che per me questo personaggio ha le sue sembianze, più precisamente di quando era più giovane. Se vi interessa è codesto uomo qua u-u :
http://i436.photobucket.com/albums/qq85/cornershop15/TimothyCarlton1.jpg

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Capitolo 4
*** #04 ***


NDA:  Alla fine dello scorso capitolo mi sono dimenticata di dirvi
che nel corso della storia ci saranno salti temporali, iniziando da questo.

Grazie dell'attenzione, buona lettura ~

 
•••

Hope Castiel [3] aveva sempre saputo che un giorno sulla sua strada sarebbe comparso Sherlock Holmes, ma mai in tali vesti e circostanze. Anche se inizialmente era stata così presuntuosa dal tentare di ingannarlo, ora aveva la certezza che tal cosa  non fosse nemmeno minimamente plausibile. O almeno non del tutto.
Holmes era l’uomo più intrigante in cui si fosse mai imbattuta e Hope sfoggiava il suo nome su di sé con orgoglio e soddisfazione. Come avevano previsto, la notizia che il gran detective aveva preso moglie si era estesa a macchio d’olio ed erano entrambi soddisfatti di tal risultato. Però a Hope era evidente che a render Holmes così pago fosse in particolar modo la reazione del dottor Watson al riguardo. Dal momento esatto in cui aveva messo piede in quell’appartamento  era stata spettatrice di una gelosia quasi mal sana, soffocata malamente dietro le parole e che trapelava indisturbata dalla pelle. Le risultò facile inquadrare la situazione, ma non se ne preoccupò; provò anzi un cinico divertimento nell’inventar dettagli e aneddoti riguardanti Holmes solo per veder la reazione del buon dottore. Suo marito non si rendeva realmente conto di ciò che scatenava in lui e nemmeno di quanto fosse diventato un buon osservatore. Indubbiamente lei aveva marcato molto sulla recitazione, ma era sicura che lui avrebbe colto comunque che qualcosa non quadrava. Infondo lei era comparsa dal nulla nelle vesti della sposa del suo migliore amico, per cui era normale che nella sua mente serpeggiasse il dubbio che vi fosse qualcosa di losco dietro ai suoi sorrisi. Ma dopo gli ultimi avvenimenti, Hope si sentiva terribilmente in colpa. Il dottor Watson si era evidentemente convinto, infine, che non ci fosse alcun inganno. Lei era un’ottima osservatrice e se la cavava bene nella difesa personale, senza contare che non si faceva intimidire facilmente. La conclusione più ovvia era che Holmes se ne era innamorato per questi motivi. Indubbiamente il detective apprezzava queste doti in lei, ma mai l’avrebbe amata, sfortunatamente, e l’idea che anche il dottore si fosse convinto di tale menzogna l’angosciava. Eppure erano questi i piani…
“I tuoi pensieri sono chiassosi.”
Spostò leggermente lo sguardo fino a poter cogliere il suo profilo perfetto nell’ombra.
“Anche i tuoi.”
Non rispose. Hope sospirò e si voltò verso il lato opposto, ranicchiandosi sotto le coperte. Iniziò a simulare un respiro pesante, nonostante tenesse gli occhi aperti e fissi sulla buia parete. Aveva imparato presto a farlo, a fingere di dormire. Era il metodo migliore per evitare sfuriate alcoliche alquanto inutili e moleste. Ma, a parte queste spiacevoli e personali esperienze, chiunque crescesse in un circo sapeva perfettamente che recitare è l’unico modo per sopravvivere, perché mentire non è abbastanza. Ed era da sempre così che Hope aveva vissuto: su un enorme palcoscenico. Si mosse lievemente sotto le coperte, accoccolandosi nel loro torpore. E mentre le palpebre si arrendevano al peso della stanchezza, il suo pensiero tornò al dottor Watson e alle sue parole di quella sera. Sapeva per certo che Holmes non avrebbe mai chiarito veramente la situazione, per cui stava a lei farlo. Gli occhi si chiusero e Morfeo la prese tra le sue braccia, facendo svanire quella ragnatela di pensieri.

•••

L’indomani Watson fu molto colpito dal constatare che Hope non era intenta a ricamare seduta su quel lato del divano ormai di suo possesso, cosa che era solita fare tutte le mattine a quella data ora. Si accomodò al tavolo e fece colazione, anche se leggermente allarmato dalla sua assenza. Passò parecchio tempo prima che la porta che conduce agli alloggi si aprisse e facesse entrare Mrs. Holmes. L’apprensione di Watson crebbe quando piegò leggermente il giornale per guardarla; le sue guance erano pallide e le sue labbra spente.
“Vi sentite bene?” Le domandò, riponendo il giornale.
Lei camminò fino al divano prima di rispondere: “Sto bene, la ringrazio.”
Si sedette, ma si mosse presto nervosa, per poi poggiare le belle mani sulle ginocchia e rialzarsi.
“Ne siete certa? Spero di non sembrarle petulante e inopportuno, ma mi appare irrequieta. E’ dunque, forse, successo qualcosa?”
Sistemando le pieghe dell’abito, si mosse ancora raggirando il sofà.
“Siete molto gentile a preoccuparvi. Ma no, niente è accaduto. Sono costernata di averla fatta preoccupare.”
Il dottore non le credette. Quel comportamento era completamente insolito e stonava con le sue solite abitudini. La osservò spostarsi nuovamente con gesti poco fluidi fino alla finestra, dove si soffermò per un po’ a guardar fuori prima di ricominciar a vagare per la stanza. Non era certo necessario aver convissuto con Sherlock Holmes per intendere che qualcosa la turbava. Pareva quasi non sapere che fare, come se cercasse di mutare le sue consuetudini.
“Dottor Watson?” Disse ad un tratto, guardandolo seria. “Mi domandavo se le fosse congeniale l’idea di accompagnarmi in una passeggiata.”
Lui ricambiò il suo sguardo con leggera perplessità. “Non credo che sia una cosa opportuna.”
“E perché mai?”
“Lei è la moglie di Holmes e la gente potrebbe fraintendere e parlare.”
“E il fatto che la gente parli la preoccupa sempre molto?”
Watson soppesò le sue parole con cura prima di risponderle. Pareva quasi che non si riferisse soltanto a quel fatto specifico, ma non poteva essere altrimenti. Cosa poteva saperne lei delle motivazioni che l’avevano spinto al matrimonio?
“La reputazione di un gentiluomo o una gentildonna è molto importante.”
“La prenderò come una risposta affermativa.” Lo raggiunse, parandosi davanti alla sua poltrona. “Allora io la prego, dottore. Ho paura ad uscire da sola dopo gli avvenimenti della notte passata e mi sentirei più al sicuro se lei fosse al mio fianco.”
Quelle parole colpirono dritto al punto, Hope poteva vederlo dall’espressione leggermente mutata del suo interlocutore. Restò in attesa, sicura di esser riuscita nel suo scopo. Ed infatti Watson accettò, ligio alla sua morale e convinto che le parole di ella fossero sincere.
Il cielo era terso e l’aria conservava ancora un po’ del freddo pungente dell’inverno che di lì a poco sarebbe stato solo un ricordo; Watson procedeva attento, stringendo il suo bastone, mentre Hope passeggiava accanto a lui ad un passo di distanza, per evitar malizie. Camminarono per lo più in silenzio, fino a quando gli insistenti tentativi di conversazione di lei riuscirono a coinvolgere il dottore, il quale, però, restò sempre all’erta come ogni bravo soldato. Non poteva certo immaginare che la tempesta da cui era pronto a difendersi in realtà li stesse aspettando a Baker Street.
Quando rientrarono nel salotto del 221B, Holmes se ne stava seduto sulla sua poltrona, le gambe accavallate e le mani giunte, mentre con lo sguardo fisso inseguiva un pensiero. Watson intuì subito che qualcosa non andava e ne ebbe la conferma quando l’altro posò gli occhi su di loro.
“Dove siete stati?” Chiese in modo freddo. “No,” Si alzò. “non rispondete. So benissimo dove siete stati.” Avanzò nella stanza, sulle labbra un sorriso tutt’altro che cordiale.
“Holmes” Esordì il dottore, sinceramente allarmato dall’espressione sul volto del detective, ma venne zittito sul nascere da quest’ultimo, che si rivolse alla moglie.
“Credevo di averti detto che non dovevi uscire.”
“Hai detto che mi saresti stato grato se non lo avessi fatto.”
“Era un modo cortese per dirti che era una cosa categoricamente da non fare!”
“Non vedo dove stia il problema. Non ero da sola, c’era il dottore con me.”
Quando Hope terminò quella frase fu come se Holmes si fosse reso conto realmente solo in quel momento che anche Watson era presente nella stanza e lo guardò in un modo mai avvenuto dinanzi. Il dottore provò una fitta di ansia mista a preoccupazione.
“Perché lo ha fatto?”
“Sua moglie mi ha chiesto se potevo accompagnarla ed io l’ho accontentata.”
Rise, schernendolo. “Il solito gentiluomo, non è vero? Credevo avesse un po’ più di buon senso!”
“Prego?” Domandò risentito.
“Siete stati aggrediti solo un giorno fa! Qui, in queste stesse stanze! E lei acconsente ad accompagnarla in giro per la città mettendo a rischio entrambi!”
Watson gonfiò il petto, sulla difensiva. “Sono un soldato, so come si proteggono le persone!”
“Se le cose stessero veramente così, saprebbe quando sta esponendo qualcuno ad un rischio inutile!” Gli puntò contro il dito indice, furioso come non lo aveva mai visto.
Non poteva credere alle sue orecchie. “Dio Holmes, proprio lei mi parla di mettere le persone in rischi inutili!”
“Qui non stiamo parlando di me, ma di lei! E…”
“Forse se non stesse sempre in giro a bazzicare –”
“… Mi ha deluso molto.”
Watson si interruppe, sentendo la voce venirgli meno. Deluso. Lo aveva deluso. Per cosa poi? Per avere concesso protezione alla moglie del suo migliore amico, quando quest’ultimo si trovava chissà dove? Provò una morsa allo stomaco.
“Siete ingiusto.”
“Sherlock, ti prego. Non è sua la colpa.” La voce di Hope, che era rimasta ad osservare la scena in silenzio, parve perdersi nell’aria, mentre il detective proruppe in una nuova risata di scherno.
“E così sarei ingiusto? Allora mi dica, dottore, è forse cosa assennata portar allo scoperto mia moglie dopo l’aggressione da voi ricevuta?... No, vero?”
“So come comportarmi in tali circostanze.”
“Lo dimostrano appieno i fatti di ieri sera.” Lo sbeffeggiò.
“La cosa era ben diversa.”
“In cosa, di grazia?”
“Lei non c’era!” Sbottò Watson, incapace di trattenersi oltre. “Cosa vuole saperne di come sono andati veramente i fatti!”
“Dopo tutti questi anni sottovaluta ancora le mie abilità deduttive?”
“No, anzi, l’ho sopravvalutata credendo fosse in grado di prendersi cura di sua moglie proteggendola in prima persona. Ovviamente mi sbagliavo.”
“Crede forse che passi le mie giornate nel parco a giocare a scacchi?”
“Credo che stia affrontando la situazione in maniera errata.”
“Naturalmente lei sarebbe in grado di fare di meglio!”
“Non è ciò che ho detto!”
“Ma l’ha insinuato!”
“Vi prego, smettetela.” Hope alzò leggermente il tono di voce. “Sherlock -”
“Il fatto che lei sia da sempre un don Giovanni e sia stato sposato non le dà il diritto di farmi la morale!”
“Sta delirando!”
“Sherlock -”
“Non sono mai stato più lucido in vita mia!”
“Per l’amor di Dio, smettetela!”
“Mi permetta di dissentire!”
“Tutta questa situazione è ridicola – ”
“Se c’è qualcuno che delira qui dentro quello è lei!”
“Sta di gran lunga insultando la sua intelligenza in questo momento!”
“Dottore, almeno lei, la scongiuro – ”
“E lei sopravvaluta la sua!”
“Non accetto una tale insinuazione da lei!”
Hope schiuse le labbra, con il nuovo intento di farli ragionare, ma la consapevolezza che a nulla sarebbero valse le sue parole la fece desistere. Mai si sarebbe aspettata di essere spettatrice di una tale discussione, che man mano prendeva pieghe sempre più preoccupanti, ed anche la sua pazienza cominciò a scemare.
“Smettetela! Noi due non siamo sposati!”
Il silenzio calò greve intorno a loro e il tempo parve congelarsi in quell’istante. Il dottore rimase immobile, con le labbra leggermente dischiuse in un intento di controbattere ormai scemato e gli occhi leggermente sgranati a guardare Sherlock Holmes, anch’egli immobile, mentre nelle orecchie le parole della donna riecheggiavano come in una caverna buia. Noi due non siamo sposati. Cosa diamine stavano a significare quelle parole? Che assurdità era mai quella? Vide il volto dell’amico tramutarsi in pura pietra, un attimo prima che si voltasse verso Hope.
“Sarai soddisfatta.” Le disse con tono incolore, segno, Watson lo sapeva bene, di una rabbia fuori dall’ordinario. Lei strinse i pugni e sostenne il suo sguardo, senza lasciar trasparire alcun segno di cedimento, fino a che il detective lasciò la stanza, chiudendosi la porta della propria camera alle spalle.
La mente del dottore vorticava senza pace e il suo corpo fremeva sotto le carezze voraci di emozioni troppo contrastanti. Il suo cuore pompava sangue in maniera eccessiva e ben presto si vide costretto a sedersi, seguito da quella che fino a qualche minuto prima conosceva come la moglie del suo migliore amico. Chi era costei?
“Chi è lei?” Domandò prima di poterselo impedire, ritirando il braccio a un suo tentativo di tranquillizzarlo. “Che cosa ci fa in questa casa?” Alzò lo sguardo su di lei, trovando un sorriso amaro.
“Sono Hope.” Rispose. “Sempre e solo Hope.”

•••

Sherlock Holmes la guardava – o meglio, la scrutava – da dietro le mani intrecciate, con gli occhi colmi di curiosità. La ragazza si concesse un attimo per perdersi completamente in quel cioccolato striato di verde e giallo prima di accavallare le gambe a sua volta ed incominciare.
“Mi permetta, in primis, di scusarmi ancora con lei per questa intrusione notturna. Le assicuro che se non fosse strettamente necessario alla mia incolumità sarei venuta a farle visita domani mattina – o forse dovrei dire tra qualche ora.” Sorrise. “Il mio nome è Hope Castiel e sono una ladra professionista. Forse le apparirà sciocco che stia dicendo una cosa del genere proprio a lei, ma è a causa del mio mestiere che mi trovo qui a chiedere il suo aiuto. Deve sapere, Mr. Holmes, che ho malauguratamente… messo i bastoni tra le ruote a un pezzo grosso. Credo conoscerà il magnate Timothy Carlton, sì? Ebbene, ho effettuato una rapina a suo danno qualche settimana fa, venendo a conoscenza che la maggior parte degli oggetti d’arte che commercia sono dei falsi. Immagini il mio disappunto quando mi sono trovata con niente in mano! Ma ciò che mi ha condotto da lei stanotte è che l’uomo è venuto in qualche modo a conoscenza della mia identità e già più volte è stato attentato alla mia vita.”
Il detective scavallò le gambe e vi appoggiò i gomiti, protendendosi verso di lei. “Vuole che incastri Carlton per lei?”
“Sarebbe una cosa carina, sì.” Gli sorrise in modo sfacciato. “Ma soprattutto ho bisogno della sua protezione finché non sarà dietro le sbarre di Scotland Yard.”
“Questo implicherebbe un controllo ventiquattro ore su ventiquattro.”
“A questo proposito, ho una proposta per lei.”
“La ascolto.”
“Un matrimonio. Falso naturalmente, ma pur sempre un matrimonio.”
Sherlock Holmes ponderò le sue parole una ad una prima di rispondere: “Mio fratello Mycroft può fornirci dei falsi documenti matrimoniali. Dovremo prevenire qualsiasi possibile smentita esterna.”
Hope sorrise compiaciuta. “Devo prenderlo per un ?”
Gli occhi del detective tradivano una certa eccitazione mentre esponeva a Hope il piano che avrebbero messo in atto di lì a due giorni e la sua mente gioiva ogni qualvolta entrava in contatto con quella della ragazza, così deliziosamente scaltra e piena di quell’arguzia tanto tipica dei ladri. Per quanto lo desiderasse, però, non riusciva a scacciare quella malinconia, che gli afferrava quel muscolo cardiaco chiamato cuore, nel ricordare Irene Adler. Anch’ella era una ladra sveglia e brillante e si era trovata pedina di un gioco troppo grande per lei. Non avrebbe permesso che anche Hope facesse la stessa fine.
Quando Hope comparve sul marciapiede che accostava i binari, Holmes sorrise dell’accuratezza del suo travestimento:  indossava un abito nero tenuto in vita da un fiocco, mentre guanti color panna con dettagli neri vestivano le mani che reggevano una borsa da viaggio [4]; i capelli, raccolti in una crocchia, erano del colore della paglia e i suoi lineamenti erano stati imbruttiti e invecchiati dal trucco. La seguì con lo sguardo finché non salì sul treno e dopo poco tempo la porta dello scompartimento si aprì. Lei lo osservò qualche secondo prima di esclamare: “Un’istitutrice e un vecchio parroco. Direi che non è proprio niente male!” Il treno marciò, fino a condurli al cospetto del canale della Manica, dove presero un traghetto per la Francia. Giunti sul continente Europeo proseguirono nuovamente in treno, lasciandosi alle spalle quel gentile vecchietto e quella donna un po’ severa. Seduti l’uno di fronte all’altro, Holmes le mostrò le carte che era riuscito a procurarsi.
“Basterà solo qualche firma e per il mondo saremo ufficialmente sposati.”
“Essere la moglie di Sherlock Holmes,” Esordì, prendendo una boccetta di inchiostro color pece dalla borsa. “quale onore!” Firmò con mano ferma. “Dato quello che si legge su di lei, suppongo che nessun’altra avrà mai tale privilegio.”
“Non vedo quale privilegio possa mai esserci nell’essere mia consorte.”
“Avete ragione. Nessuna donna proverebbe orgoglio nei suoi confronti.”
Sorrise della sua ironia. “Provare orgoglio non è un privilegio.”
“Esso sta nell’essere l’unica a poter dire Mio marito nella sua carriera ha arrestato più persone di tutta Scotland Yard messa insieme.”
“Questo glielo concedo.”
“Sarà la prima cosa di cui mi vanterò apertamente.”
“Non conosco bene le convenzioni sociali in questo ambito, ma credo” Mise la mano destra in tasca. “che vorrà vantarsi prima di questi.” Ne estrasse una scatolina di velluto verde scuro e con un gesto dell’altra mano tolse il coperchio, mettendo in mostra due fedi d’oro bianco e un anello di fidanzamento con incastonato  al centro un piccolo solitario. Lo stupore della donna fu palpabile.
“Oh, io credo che le conosca bene invece!” Avvicinò il volto a quelle meraviglie così preziose. “La ringrazio, ma ciò non è necessario…”
“Dobbiamo rendere le cose più realistiche possibile, ricorda? Anche se mi rincresce dirle che, aimè, non posso fargliene dono a lungo termine. Alla fine delle indagini dovrò riaverli indietro.”
Alzò lo sguardo su di lui. “E li riavrà. Sono una donna di parola.”
Sorrise. “Bene.” Prese i due anelli e li fece scivolare uno alla volta all’anulare sinistro di lei, che fece altrettanto con la sua fede. “Ora siamo ufficialmente sposati.”

•••

“Deve capire, Watson” proseguì lei, giocando con la sua fede nuziale “che se non l’ha messa a parte di questo piano è stato solo per proteggerla. Meno gente fosse stata a conoscenza delle finte nozze e meglio il gioco sarebbe riuscito.”
Il dottore rimase in silenzio, guardando il vuoto davanti a sé. Nonostante provasse risentimento nei confronti di Holmes per averlo tenuto in disparte, non riusciva a impedirsi di provare una gioia estrema per aver appreso che essi non erano veramente coniugati.
“Sì, sì. Comprendo… Comprendo molto bene.” Si schiarì la voce, voltandosi a guardarla. “Mi rincresce che abbia dovuto assistere a un diverbio di tale genere. In fede mia -”
“Non deve preoccuparsi dottore.” Gli sorrise. “Lei conosce Sherlock indubbiamente da più tempo di me, e sa bene a che livelli può arrivare la sua testardaggine.”
Watson venne incredibilmente infastidito dall’uso improprio che la giovane donna aveva fatto del nome del suo amico, visto che non era legata a lui da alcun legame, ma tentò di non darlo a vedere. “Sì, credo di poter dire di conoscerlo molto bene.” Si rese conto che la voce l’aveva tradito, ma se Hope lo aveva notato non ne diede segno.
“Ritengo sia doveroso da parte mia raggiungere il mio consorte.” Marcò le ultime due parole con fare divertito. “L’aver svelato i nostri piani a bella posta non credo sia stata cosa a lui gradita.”
“Non posso contraddirla.”
“Bene.” Si alzò dal divano, su cui si era seduta durante il suo racconto, e sistemò le pieghe dell’abito. Mentre si accingeva verso la porta, il dottore la fermò:
“Era veramente preoccupata di venire attaccata stamane?”
Lei sorrise debolmente alla porta, dandogli le spalle. “Sì.” Rispose. Non aggiunse altro ed abbassò la maniglia.

•••

“Immagino che le tue gesta ti rendano fiera di te.”
Hope non aveva mai sentito un tono di voce più neutro di quanto non fosse quello di Sherlock Holmes in quel momento, ma sapeva benissimo che non era certo un buon segno. Il detective era indubbiamente in collera con lei. Aveva disubbidito a ben due sue richieste nell’arco di una manciata di ore. Un record quasi imbarazzante. La serratura schioccò alle sue spalle, mentre chiudeva la porta col peso della schiena.
“Ho fatto ciò che ritenevo giusto.” Disse, osservando la schiena di Holmes.
Lui sbuffò in una risata sarcastica. “Credevo avessimo la stessa idea di ciò che era giusto per questa impresa.” Si voltò a guardarla.
“Le cose stavano degenerando. Sai bene quanto me che il dottor Watson aveva intenzione di trasferirsi.” Fece una pausa. “Una volta che il caso sarà chiuso tutto ciò che ti resterà di me sono due anelli.”
“Potresti restare.”
“Non è ciò che vuoi.”
“Come fai a sapere ciò che voglio?” L’astio fece capolino dalle sue corde vocali. “Continui a sopravvalutare molto le tue capacità.”
“Forse hai ragione, gran detective, ma in questo caso credo di aver imboccato la strada giusta.”
“La tua convinzione quasi mi commuove.” Mosse qualche passo verso di lei, che fece altrettanto. “Sei brava, lo devo ammettere, però dovresti smetterla di giocare a questo gioco.”
Hope ignorò volutamente le sue parole e prese il coraggio a due mani. “Dovresti smetterla di punirlo per essere stato tanto assennato da fare l’unica cosa giusta.”
Holmes si irrigidì. “Non so di cosa tu stia parlando.”
“Menti.”
“Mi stai dando del bugiardo?”
“E’ esattamente ciò che sto facendo.”
Per un attimo, gli occhi del detective vennero attraversati da un lampo di pura rabbia e Hope si sentì vacillare sotto il peso di quello sguardo, dandosi della sciocca per aver osato così tanto. Ma Holmes riprese immediatamente il controllo di sé, resosi conto di essersi scoperto fin troppo.
“Le tue sono accuse molto pesanti.” E Miss Castiel sapeva bene che non si stava riferendo solo alla sua accusa di essere un menzognero.
“Non sono affatto accuse.”
Si guardarono negli occhi a lungo, finché Sherlock Holmes decise silenziosamente che, infondo, poteva in parte perdonarle una simile sconsideratezza e Hope Castiel decise silenziosamente che, infondo, poteva in parte dargliela vinta.
Holmes provava una certa attrazione verso quella strana donna. Forse era la sua impertinenza. Forse il suo farsi beffe delle regole – e di lui – con tale disinvoltura. O forse era quel fastidio che gli faceva provare quando metteva alla berlina con tale leggerezza quei sentimenti che nemmeno lui stesso riusciva a capire. Era ammirazione e insofferenza al tempo stesso. Il cervello di lei seduceva il suo e lo innervosiva in egual modo. Il detective non si capacitava di come fosse possibile, e tutta via non mentiva quando le disse che sarebbe potuta restare. Oh, certo, se così fosse stato, non sarebbero mancate almeno una decina di battibecchi al giorno. Ma non era forse già così la sua vita? Di battibecchi con Watson per ogni insulsa cosa? No, era diverso. L’approccio era diverso. Hope non era John, e niente nella sua persona avrebbe potuto anche solo lontanamente sostituire il suo boswell. Le dita di quel pensiero si strinsero intorno al suo stomaco. Mai e poi mai avrebbe ammesso che la ladra aveva ragione, ma lei questo già lo sapeva. Non era certo Sherlock Holmes, ma certe cose riusciva a vederle. Forse perché era un occhio estraneo. Forse perché provava una certa affinità con lui. La situazione le era parsa talmente ovvia fin da subito che si stupiva che nessuno se ne fosse accorto prima. Si era infiltrata nella trama di eventi senza alcun permesso e aveva sconvolto volutamente i fatti. Forse prima di andarsene sarebbe riuscita a portare a qualcosa di più concreto.
“Non è incredibile che in questa camera da letto si parli più del buon dottore che di noi? Trovo la cosa inammissibile! Dovrei forse chiedere il divorzio?”
Lo sguardo di rimprovero che Holmes le lanciò si perse subito in un cipiglio divertito e la donna lasciò la stanza prima di ottenere risposta.



[3] Ricorderete forse che vi avevo accennato al fatto che il titolo di questa storia è legato alla mia continua visione della pubblicità della serie The Good Wife che veniva mandata in onda con quella di Castel. Ebbene, inizialmente il cognome di Hope doveva essere appunto questo, Castel, ma con l’andare del tempo sono stata sottoposta ad una continua visione di immagini e video di Supernatural – che, per la cronaca, non seguo, asd - e quindi, quando pensavo al suo personaggio, invece di venirmi in mente Castel veniva Castiel. Per cui alla fine ha vinto lui (XD). Eccovi spiegata la nascita del suo cognome u.u
[4] Benché mi fossi già più o meno figurata il suo vestiario, mi sono ispirata a questo quadro:
http://www.culturaitalia.it/opencms/opencms/thumbs/800x800/images/Vittorio_Corcos__Le_istitutrici_ai_campi_Elisim.jpg
[•] So che Holmes possa apparire un po’ OOC nei momenti di dialogo che ha da solo con Hope – sperando che non lo sia troppo anche nel resto della storia! -, ma in queste situazioni lo vedo bene a perdere il controllo e a lasciar trasparire emozioni come non mai.

•••


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Capitolo 5
*** #05 ***


NDA:  Mi scuso per il ritardo.
Questo capitolo è stato arduo da scrivere e mi ha portato a fare qualche cambiamento nella struttura del racconto.
Spero non sia per voi una delusione colossale.

Buona lettura ~
 
•••

Watson aveva già sperimentato la difficoltà di riuscire a parlare da solo con Holmes nei giorni precedenti, ma mai avrebbe pensato che, dopo la rivelazione di Hope, sarebbe diventata un’impresa pressoché impossibile: quando rientrava – se rientrava – lo faceva a tarda notte per ripartire all’alba. Più volte il dottore tentò di incontrarlo e fallì sempre miseramente. Scoprire la verità era stato un colpo basso ben assestato; non era la prima volta che il detective gli teneva nascosti i suoi piani a bella posta ai fini dell’indagine, ma sentiva che c’era qualcosa di diverso. Il sollievo provato per la notizia cedette presto il posto al dispetto e ad un tormento interiore che non lo faceva dormire la notte: Holmes lo aveva volutamente provocato con quella storia del matrimonio? O era semplicemente frutto della sua mente troppo fantasiosa e tendente ai romanzetti d’appendice?
“Io ascolto sempre ciò che dice.” “Oh, ma davvero? Allora mi dica, che cosa ho appena detto?” “Che è geloso.”

Holmes, d’altro canto, dopo il loro litigio stava volutamente cercando evitare il dottore. Hope aveva ragione: nonostante quel caso - e - lo intrigasse molto, il motivo principale per cui aveva accettato di mettere in scena quel matrimonio era per far soffrire lui, per portarlo a capire cosa aveva passato quando era stato lui a sposarsi. Era forse la cosa più meschina che avesse mai fatto in vita sua, ma non si era pentito neanche un secondo di quella scelta, fino a quando non li aveva visti insieme e il dubbio si era insinuato in lui. La gelosia aveva iniziato a correre col sangue nelle vene fino a raggiungere il cervello, spegnendo completamente ogni sua capacità di ragionare lucidamente. E ora, quando ripensava a quei momenti, si scopriva a porsi una domanda che gli portava un certo sconforto: geloso di chi?
Poi una sera entrò trionfante nella sala da pranzo, lasciando fuori dalla porta tutti quegli inutili problemi.
“Siamo a una svolta!” Esultò, facendo sussultare i coinquilini sui loro cuscini. “Dopo intense ricerche e molti travestimenti, sono riuscito a scoprire dove si trova il deposito di merci rubate di Carlton!”
“Amico mio,” Intervenne Watson, che si era messo seduto sull’attenti. “come ci siete riuscito?”
“Sono entrato in contatto con vari sottoposti e tutti paiono convinti di ciò che affermano.”
“Non ritiene che si tratti di una trappola?”
“C’è questa eventualità –”
“Di che luogo si tratta?” Domandò Hope, interrompendolo.
“Secondo quegli uomini, la merce viene conservata in un vecchio magazzino situato poco fuori Londra finché non riescono a trovare un compratore.”
“E’ tuo intento agire stasera stessa?”
Lui sorrise sornione. “Naturale. Quale altro momento migliore?”
“Bene.” Hope si alzò e annunciò: “Vado a prepararmi.” Intenzionata a indossare abiti maschili.
“Non essere sciocca! Voi due resterete qui.”
“Come sarebbe a dire voi resterete qui?” Intervenne Watson. “Non crederà sul serio che ce ne staremo qui con le mani in mano!”
“Non lo credo, lo so per certo. Perché non ho intenzione di portarvi con me.”
“Certamente questo spiega tutto.” Ironizzò la giovane.
“Ho preso la mia decisione.”
“Suvvia, Holmes. Sai perfettamente che non ti lasceremo andare da solo – soprattutto il dottore. Quindi perché non la finiamo qui e ci prendiamo un tè nell’attesa?”

•••

Il sole calava pigramente sulle loro teste, allungando le ombre, mentre la carrozza avanzava verso la campagna lasciandosi alle spalle Londra. Quando raggiunse la sua meta, la sera aveva ormai imbrunito ogni cosa, e i tre compagni d’avventura continuarono a piedi, percorrendo i campi accompagnati dal primo canto dei grilli. Mano a mano che avanzavano tra l’erba ormai umida, davanti a loro l’immensa figura dell’edificio cominciava a prendere forma, crescendo incombente ad ogni passo: era un edificio massiccio dalle pareti scrostate e del colore del fumo, su cui l’edera correva fino a raggiungere il tetto. D’intorno ad esso vi era un ampio spiazzo desolato, che i tre avventurieri attraversarono con discrezione, fino a raggiungere una finestra laterale semi aperta. Hope, essendo la più minuta, si issò sul davanzale ed entrò, lasciando gli altri in attesa. Intorno a lei tutto era buio, eccezion fatta per gli spazi vicino alle finestre, illuminati dai flebili raggi della luna ormai sorta. La ladra guardò intorno con circospezione e con le orecchie tese prima di aprire maggiormente la finestra e far entrare i suoi compagni. Il silenzio era così pesante da mettere in soggezione Hope, nonostante fosse avvezza a questo genere di cose. Probabilmente era dovuto al fatto che non era spavalda e sicura di sé come al solito e che sentiva il pericolo incombere su di lei come un avvoltoio che volteggia sulla preda. Quando anche l’ultimo piede di Watson ebbe raggiunto il pavimento, iniziarono ad avanzare con lentezza fino a che la loro ricerca li portò davanti ad una distesa di casse di legno. Hope vide l’ombra di un sorriso balenare sul volto di Holmes, mentre egli si avvicinava ancora di più con l’intento di esaminarle. La giovane donna si guardava intorno nervosa, tesa come la corda di un violino, totalmente incapace di togliersi di dosso quella sensazione di minaccia.
“E’ quasi troppo semplice.” Sentì sussurrare a Holmes, con tono in colore.
Fu in quel momento che la vide: era una cassa leggermente più piccola delle altre, due o tre passi distante da loro, con il coperchio singolarmente marchiato di nero. Lanciò uno sguardo agli altri prima di avvicinarsi con cautela e, quando fu abbastanza vicina da riconoscere il simbolo, trasalì: il disegno del gioiello che aveva rubato a Carlton risaltava con pennellate decise sulla superfice ruvida e legnosa. Non poteva trattarsi di una coincidenza. Si rese conto di star ansimando e scosse la testa, cercando di riprendere il controllo di sé. Con decisione scoperchiò la cassa, che scoprì non essere fissata con i chiodi, e vi guardò all’interno. Adagiato sulla paglia di imballaggio vi era un biglietto, scritto con una calligrafia sghemba: You should find an alternative.
[5]
Hope trattenne il respiro, le labbra socchiuse e gli occhi sgranati. Si voltò di scatto verso Watson e Holmes.
“E’ una trappola!”
Ed accadde. L’aria esplose incandescente al suono delle deflagrazioni, sbalzandoli nel vuoto, mentre una dopo l’altra le casse detonavano andando in mille pezzi.

•••

Tick. Tick.  Hope si mosse leggermente sotto le coperte. Tick. Tick. Quel suono fastidioso le riempì la mente fino a condurla fuori dal sogno; aprì gli occhi. Tick. Tick. Si mise seduta di scatto, allarmata. Tese le orecchie e capì che qualcosa stava colpendo la finestra della stanza a intervalli regolari. Si alzò con circospezione, cercando di passare il più lontano possibile da essa, fino a raggiungerne il lato destro in modo tale da poter sbirciare da dietro le tende. Vi erano due uomini giù in strada, uno grosso e robusto ed uno alto e dinoccolato, e poco dietro di loro una carrozza ad attenderli. Il cuore cominciò a batterle forte contro la cassa toracica e si allontanò velocemente dalla finestra, andando a sedersi sul letto. Tick. Un altro sassolino contro il vetro. Il panico iniziò a soffocarla. Sapeva che sarebbe giunto quel momento, era così ovvio. Erano passati quasi più di due mesi da quando era entrata in quella casa e non aveva portato nulla a conclusione. Chiuse gli occhi e prese un bel respiro, perché non poteva mostrarsi debole ai loro occhi, doveva apparire ferma e sicura di sé come sempre. Si cambiò d’abito lentamente, col ticchettio dei sassi che accompagnava i suoi gesti, e poi tirò le tende, dando segno della sua imminente discesa. Aprì la porta con discrezione e guardò fuori. Né Holmes né il dottor Watson si trovavano nella sala da pranzo e lei sperò con tutto il cuore che il detective non si fosse in realtà nascosto e che l’avrebbe poi seguita. O lo voleva? Probabilmente il lasciare gli appartamenti dopo l’ammonizione ricevuta la sera avanti era già un’ammissione di colpa. Uscì in strada e i due uomini la scortarono fino alla carrozza. Il viaggio fu breve, ma il silenzio nel cocchio lo rese di una lunghezza estenuante. Quando si fermarono, Hope dovette trattenersi dal lasciar trapelare dalle labbra un sospiro di sollievo, anche se in realtà stava andando dalla padella nella brace. L’uomo dalla corporatura massiccia, il più anziano dei due, la aiutò a scendere e l’affiancò, mentre il più giovane gli faceva strada. Davanti a loro si ergeva una villa sfarzosa, a cui era possibile arrivare attraverso un ciottolato costeggiato da cespugli di rose. Mentre saliva le scale esterne che portavano alla porta di ingresso, Hope prese la decisione che, se  fosse uscita viva da lì, avrebbe rivelato in qualche modo  a Watson la verità – o quasi – anche se fosse stata costretta ad andare contro il volere di Holmes. La situazione stava precipitando e non poteva permettere che il dottore rimanesse all’oscuro di tutto. Salirono su, per un’immensa scalinata, ed attraversarono lunghi corridoi che la giovane donna ricordava bene. Ad un tratto si fermarono e l’uomo più anziano ordinò all’altro: “Tu aspetta qui con lei.” E sparì in una stanza poco lontano da loro. Il giovane le si avvicinò e la scrutò con i suoi occhi del colore del cielo d’inverno. Rimase in silenzio per un po’, per poi affermare: “Dovrebbe trovare un’alternativa.” [6]
“Avete intenzione di darmela voi?” Rispose lei, alzando lo sguardo su di lui per la prima volta. L’uomo sogghignò e in quell’istante la porta si riaprì.
“Nicholas!” Esclamò l’altro. “Non perder tempo! Portala subito qui!”
Hope si domandò se non avesse dovuto recitare una preghiera mentre attraversava quell’ultima parte del corridoio. Ma quello avrebbe significato accettare la sconfitta. E lei non si dava ancora per vinta.




[5] Dovresti trovare un’alternativa” - Non c’è un vero perché per il fatto che sia in inglese. Ma dato che ho mantenuto i titoli (Miss, Mr, Mrs) e the Man, che viene lasciato per scritto, in inglese, ho pensato fosse giusto farlo anche per questa frase (che tra l’altro mi è venuta subito in mente così ancor prima di decidere xD).
[6] Ebbene sì, è la stessa frase che era scritta nel biglietto nella cassa. La cosa buffa è che per vari motivi ho scritto prima questa scena e non era in programma questo rimando misterioso a un “passato” che non vi avevo ancora mostrato; ma quando mi sono trovata a dover decidere che messaggio farle trovare nel magazzino quello mi è sembrato appropriato.

•••


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Capitolo 6
*** #06 ***


Holmes atterrò malamente sulla schiena, sbattendo con violenza contro una parete: la pelle bruciava per il forte calore ed alcune schegge di legno dovevano essersi conficcate negli arti. Sollevò le palpebre, trovandosi davanti il fumo denso e aranciato delle fiamme; le orecchie fischiavano terribilmente, ricordandogli con orrore il caso Blackwood. Barcollando si mise a sedere, poi a carponi ed infine in piedi. Un brivido lo percorse quando davanti a sé vide solo macerie: una parte del soffitto era crollata e grosse travi in fiamme bloccavano il passaggio.
Ad ogni suo respiro i polmoni si facevano sempre più ardenti e la testa pesava sotto l’effetto delle esalazioni, ma non poteva perdere tempo: doveva trovare gli altri e uscire di lì prima che fosse troppo tardi. Si coprì la bocca e il naso col risvolto della manica, avanzando a fatica tra i detriti in fiamme e la cenere che aleggiava intorno a lui chiamando i loro nomi. Ad ogni passo, ad ogni tentativo fallito di ritrovamento, sentiva il cuore battergli nelle tempie in maniera quasi dolorosa. Non era intenzionato ad arrendersi. No. Non se ne sarebbe andato da lì senza… Fermò di colpo la sua avanzata. Watson giaceva a terra inerte, il busto e le gambe intrappolati da due grosse travi. Gli occhi gli si riempirono di orrore. Corse verso di lui, evitando per un soffio di essere colpito dai resti del soffitto che vorticavano al suolo.
“Watson!” Urlò.
Il dottore tremò e si voltò verso la sua voce.
“Holmes-” Soffiò tra nuvole di vapore.
“Non si muova!” Il detective si accucciò fino a toccare i palmi in terra e a sdraiarsi completamente tra la polvere cinerea. “Andrà tutto bene! La tirerò fuori da lì!”
Watson gli rivolse uno sguardo greve e addolorato.
“Non pensi a me, vada a cercare Hope!”
Il detective fece un ghigno divertito. “Quella ragazza è molto più ingamba di quanto pensa. Certamente se la sta cavando meglio di lei.” Rispose spavaldo e ironico, mostrandosi del tutto convinto delle proprie parole nonostante non fosse così.
L’amico lo guardò in silenzio e allungò una mano verso di lui. Holmes la strinse prontamente.
“Vi porterò fuori di qui entrambi.”
Hope si svegliò di soprassalto, spalancando la bocca in un disperato tentativo di sopravvivenza quando l’aria incominciò a mancarle. Il fumo corse irrimediabilmente lungo le vie respiratorie, fino a riempirle i polmoni e irritando le parti sensibili della gola, e lei si raggomitolò su un fianco, tossendo, provando la terribile sensazione di venire bruciata dall’interno. Si coprì la bocca con le mani e cercò di regolare il respiro, stingendo forte gli occhi. Quando iniziò a respirare meglio li riaprì e provò una fitta di panico: le fiamme erano ovunque. Riuscì ad alzarsi, continuando a guardarsi intorno alla ricerca di una via d’uscita.
“Holmes?” Chiamò con poca convinzione con la voce rotta dal fumo e dalle lacrime che cercava di trattenere, ma che ben presto iniziarono a bagnarle il viso mischiandosi con la fuliggine. Un passo dopo l’altro cominciò ad avanzare alla cieca tra le macerie. Era forse questo un preludio di ciò che l’avrebbe attesa all’Inferno? La punizione per tutto ciò che aveva fatto in vita? Forse era meglio così. Forse sarebbe dovuta morire. Si fermò, scossa dal pianto e dal dolore provocato dalle bruciature. Non era riuscita nel suo scopo. Carlton avrebbe vinto su tutta la linea. Morire era una cosa così brutta infondo?
“Voglio la sua testa.”
“L’avrà.” [7]
“Holmes.” Si lasciò cadere sulle ginocchia.
“Dovrebbe trovare un’alternativa.”
“HOLMES!” Urlò, e lo fece ancora e ancora.
Il richiamo disperato di Hope raggiunse le orecchie del detective e quelle del dottore. Holmes si alzò sui gomiti voltandosi indietro, ma senza lasciare la presa sul compagno.
“Deve andare da lei.”
Si voltò nuovamente verso di lui. Il volto di Watson trasmetteva la risolutezza del soldato, ma i suoi occhi tradivano quella consapevolezza che avevano entrambi: se fosse andato da Hope lui sarebbe morto. Holmes boccheggiò. Non era intenzionato a lasciare Watson, ma non poteva abbandonare Hope. Si sentì schiacciare, sopraffatto da quei sentimenti che aveva sempre tenuto il più lontano possibile dalla sua persona, ma che sembravano tornare con prepotenza quando il suo Boswell era con lui. Che cosa doveva fare? Qual era la decisione giusta? Non esisteva. Per quanto avesse potuto sforzarsi, nemmeno lui sarebbe stato in grado di trovare una soluzione. Una soluzione per salvare entrambi. Quella conoscenza lo stava distruggendo dall’interno.
“Va bene, non preoccuparti.” Watson sorrise debolmente per rassicurarlo, come se potesse leggere nei suoi pensieri. Come se potesse leggere nella sua anima. “Davvero, sai?”
“Watson –”
“È una cosa che mi sta bene… morire per te.”
Il cuore di Holmes esplose in una miriade di frammenti. Morire per lui? Era una cosa che non poteva accettare. Chiuse un attimo gli occhi, per riprende il controllo di sé, e strinse forte la mano del compagno quando li puntò di nuovo dritti in quelli di lui.
“Tu non morirai.” Disse con tono duro. “Tornerò a prenderti e ritornerai a Baker Street con noi. Lo giuro, Watson, ed io mantengo sempre la parola.”
Il dottore sorrise nuovamente. “So che lo farai.”
Le labbra di Holmes tremarono impercettibilmente mentre annuiva piano. Fece per alzarsi, ma Watson lo trattenne, portandolo a posare lo sguardo di nuovo su di lui con aria confusa.
“Ti amo.”
Due semplici parole e, in mezzo a quell’Inferno di fuoco, su Holmes calò il gelo. Mai avrebbe creduto di poter udire tale frase uscire dalle labbra del suo amico. Mai. Nemmeno nei suoi desideri più reconditi. E rimase lì, immobile, a guardarlo con la sorpresa specchiata negli occhi e il cuore ormai inesistente. Mosse le labbra, ma non ne uscì alcun suono. Cosa mai avrebbe dovuto dire?
Quando Watson si rese conto che non avrebbe avuto parole dal vecchio compagno di avventure non riuscì a trattenere un sorriso amaro. Chiuse gli occhi.
“Corri!” Lasciò andare la presa. “Cosa stai aspettando?” Urlò con tono grave. Holmes indietreggiò continuando a guardarlo ed incespicando nei propri passi, per poi voltarsi ed incominciare a correre.
Hope aveva smesso di urlare. Si era seduta a gambe incrociate sui resti del pavimento, tenendo lo sguardo fisso sulle fiamme. Aveva lottato tutta la vita per la sopravvivenza ed ora si sentiva come una formica in mano ad un bambino che si diverte a giocare con una lente d’ingrandimento ed il sole. Non c’era più niente che potesse fare: respirava a malapena e camminare non era minimamente pensabile; la vista iniziava ad annebbiarsi così come i pensieri, sempre più nebulosi e tristi. Sperò con tutto il cuore che Holmes e il dottor Watson fossero riusciti a salvarsi o che fossero sulla via giusta per farlo. Loro non meritavano di morire come lei. La testa iniziò a farsi più pesante e le palpebre a chiudersi da sole.
“Hope.”
Erano sopraggiunte anche le allucinazioni…
“Hope! Hope svegliati! Guardami!”
Si sentì afferrare e scuotere per le spalle. Sbatté le palpebre cercando di mettere a fuoco il volto davanti al suo.
“Holmes-”
“Coraggio… Alzati!”
Tentò di alzarsi con l’aiuto del detective, ma con scarso successo: i muscoli erano intorpiditi e la mente troppo debole. Vide Holmes accucciarsi davanti a lei e si sentì caricare sulle sue spalle. Si accasciò mollemente contro la sua schiena, mentre sentiva le forze abbandonarla del tutto.
“… Coraggio… Un’uscita ho… Resta sveglia…”
Lo scontro con l’aria pulita della notte fu quasi doloroso. Sherlock Holmes si lasciò cadere in avanti sull’erba con ancora la ragazza sulle spalle, spalancando la bocca e respirando a pieni polmoni. Adagiò come meglio poté Hope sul terreno, sdraiandola a pancia in su, per poi trascinarla leggermente più lontano dall’edificio infuocato.
“Hope.” La chiamò, accarezzandole il viso. Portò due dita alla base del collo di lei per sentire il battito del suo cuore e avvicinò il viso al suo per sentirla respirare. Era molto debole ma viva. Il detective strinse gli occhi e sospirò di sollievo.
“Hope, riesci a sentirmi? Hope!” La ragazza non si mosse. Holmes si voltò nervosamente verso l’incendio e poi parlò di nuovo: “Tornerò presto.” Le lasciò un rapido bacio a fior di labbra e sparì di nuovo tra le braccia di Lucifero.



•••

Aprì debolmente gli occhi e li fece vagare disorientati sulla superficie bianca del soffitto. Socchiuse le labbra e sospirò piano, godendo appieno del contatto dell’aria con i suoi polmoni. Gli arti giacevano sul materasso pigri e intorpiditi, probabilmente da qualche antidolorifico molto potente. Il suo cervello iniziò lentamente a rimettersi in moto. L’esplosione, l’incendio, Holmes…
“Buongiorno.”
Voltò con attenzione la testa alla sua sinistra: Sherlock Holmes sedeva su una sedia infondo alla stanza, lontano dal suo capezzale.
“O forse dovrei dire buon pomeriggio.”
Prese un respiro più profondo. “Da quant’è che sono qui?”
“Due giorni e” guardò l’orologio da taschino. “sedici ore.”
Chiuse gli occhi. “Suppongo di doverti ringraziare.” Li riaprì. “Mi hai portato fuori da quel posto... Grazie.”
“Sì. Sì, l’ho fatto. Ma più che i ringraziamenti” Si alzò. “gradirei giocare a carte scoperte. Non credi sia arrivato il momento?”
“Non so di cosa tu stia parlando.” Fu la risposta incolore che ricevette.
“Suvvia, Hope.” Il detective si avvicinò al letto. “Questo è un insulto alla tua intelligenza.”
La ragazza strinse i denti, mettendosi sulla difensiva. “Ti ho già detto tutto ciò che c’è da sapere.”
Lui sorrise sornione. “E’ buffo, perché i giornali dicono il contrario.”
“Da quando credi ai giornali?” Lo schernì.
“Da quando non è più stato scritto un articolo su l’Uomo [8] da quando hai messo piede in questa casa.”
Hope trasalì leggermente, cercando in tutti i modi di non tradirsi. Abbassò gli occhi e sbuffò divertita.
“Quali grandi accuse.” Rialzò lo sguardo su di lui. “Ma prima di intraprendere questa piacevole conversazione, mi permetta una domanda.” Cercò di mettersi seduta con scarso successo. “Dov’è il buon dottore?”


[7] Tranquilli non vi siete persi niente. Sono io che sono malvagia e contorta, asd.

[8] Mettere the Man suonava veramente troppo male >.>

•••


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Capitolo 7
*** #07 ***


Non sarebbe tornato in tempo. Le fiamme bruciavano ancora vive nutrendosi di ossigeno e di tutto ciò che rimaneva del magazzino. John Watson aveva nascosto naso e bocca nel colletto della giacca e riparato la testa sotto le braccia. Respirava a bocca aperta, provando un senso di nausea alla bocca dello stomaco e un calore intenso per tutto il corpo. Per quanto avesse potuto sforzarsi Holmes non ce l’avrebbe fatta. Non sarebbe tornato in tempo e Watson lo sapeva bene. Come medico era perfettamente a conoscenza di quanto tempo gli restava da vivere, e non sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da poter vedere il volto del compagno un’altra volta. Provò una fitta al petto, la stessa che lo aveva trafitto senza pietà sulle cascate di Reichenbach, e pensò di aver fatto la scelta giusta. Non poteva permettere che Hope morisse al posto suo. Era così giovane e con tutta la vita davanti, mentre lui aveva già offerto tutto ciò che poteva. Andava bene così. Non aveva rimpianti. Non dopo aver confessato a Holmes di amarlo. I suoi occhi si fecero umidi e la gola si chiuse provocandogli un attacco di tosse spasmodica. Con la mente si aggrappò a tutti i suoi ricordi felici, e non fu sorpreso che in ogni singola memoria ci fosse Holmes. Sherlock Holmes. Sorrise debolmente, mentre il corpo si faceva sempre più pesante e il respiro più debole.
“Holmes-” Sussurrò.
Poi il nulla.

•••

La stanza era fredda e immobile proprio come la ricordava. La libreria che copriva la parete laterale destra era composta da intere file di libri perfettamente allineati e disposti in modo metodico e studiato. Negli angoli della stanza belle statue in pietra di medie dimensioni abbellivano il luogo, mentre l’imponente quadro, che accoglieva gli ospiti dalla parete opposta alla porta, li accompagnava nell’impressione di trovarsi nella sala di un museo. Il bel tappeto persiano che nascondeva il pavimento in marmo accompagnò i passi di Hope fino al centro della stanza, dove si fermò. Strinse i pugni, mentre la porta si chiudeva con un leggero schiocco, e lasciò che la sua attenzione venisse completamente attratta dall’uomo che le dava le spalle oltre la scrivania in mogano davanti a lei.
“Credevo che i patti fossero chiari.” Esordì l’uomo, senza voltarsi. La sua voce era piatta e incolore, ma la ladra rabbrividì ugualmente e attese che continuasse. “Non era forse così? Eppure il piano è così semplice e lineare…”
“Ed io ero convinta che lei potesse comprendere appieno che una missione del genere non può essere svolta in un giorno.” Ribatté lei con una punta di sfida nella voce, cercando di mostrarsi ancora una volta sicura di sé e per niente intimorita. Lui si voltò a guardarla, inchiodandola con i suoi occhi di ghiaccio. Timothy Carlton era un uomo alto e slanciato, dallo sguardo severo e penetrante. I suoi movimenti erano eleganti e pericolosi come quelli di una fiera pronta ad attaccare, ma quando parlò lo fece con estrema calma.
“È di questo avviso?”
“Per un soggetto come Sherlock Holmes, si intende.”
“Sono passati mesi,” Mosse alcuni passi camminando affianco alla scrivania carezzandone la superfice liscia e lucida. “vorrebbe lasciarmi credere che non ne ha mai avuto l’occasione?”
“Mi sto conquistando la sua fiducia…”
Questo è irrilevante.” Carlton quasi sibilò nel pronunciare quelle parole e Hope provò un brivido intenso lungo la schiena mentre lui avanzava lentamente verso di lei.
“Non è ciò che le è stato chiesto. Il suo compito è di tutt’altra natura.”
“Ne sono ben consapevole.”
“Ne è sicura?” L’uomo la fronteggiava adesso e Hope fu costretta ad inarcare il collo all’indietro per poterlo osservare negli occhi. Si sentiva come una bambola in mano a un bambino. “Perché vede, Mr. Holmes ha continuato indisturbato ad infilare il naso in situazioni che non lo riguardano come se nulla fosse cambiato.”
La giovane donna ingoiò a vuoto, mantenendo lo sguardo fisso nel suo. “Io-”
Hope non ebbe il tempo di provare a difendersi quando Carlton l’afferrò con impeto per la gola e la sollevò leggermente da terra. Annaspò aggrappandosi alle braccia di lui e cercando disperatamente di toccare con le punte dei piedi il pavimento. Spalancò la bocca reclamando aria, mentre guardava con terrore e supplica il suo aggressore. Il volto dell’uomo era contratto dalla rabbia, non era rimasto niente della calma e dell’eleganza che ostentava prima, e Hope sentiva distintamente le sue dita stringersi con avidità intorno alla sua gola.
“La- La prego—” Disse con tono strozzato.
Inaspettatamente, Carlton lasciò la presa e la ragazza cadde malamente e in modo scomposto sul tappeto. Si portò una mano tremante alla gola e prese respiri profondi, nonostante l’aria le desse la stessa sensazione ardente del fuoco. Il magnate era tornato a guardarla dall’alto, con la schiena eretta e lo sguardo impassibile.
“Voglio la sua testa.”
Hope sbatté le ciglia e una lacrima fuggì lungo il suo zigomo, prima di parlare:
“L’avrà.”
[9]

•••

Quando John Watson si era svegliato aveva impiegato qualche minuto per ricordare. Il magazzino, il fuoco, la terra incredibilmente fredda sotto il suo corpo e il peso delle travi su di lui, tutto era riaffiorato come un sogno che minacciava ormai di svanire. Ma il dottore aveva già sperimentato quella sensazione quando avevano affrontato Blackwood e sapeva che era tutto perfettamente reale. Lo scoprirsi ancora vivo e sdraiato nel suo letto a Baker Street lo aveva lasciato molto più sgomento ed incredulo di quanto non lo fosse stato il ricordare l’accaduto. Cosa era successo dopo che aveva perso conoscenza? Holmes era tornato a prenderlo? Ad un giorno dal suo risveglio Watson non aveva ancora ricevuto risposte al riguardo. Sherlock Holmes non si era mai presentato davanti a lui. Mai. Neanche una volta. Aveva trascorso tutte le ore dal suo risveglio nella propria stanza a vegliare su di Hope. Anche adesso, mentre il dottore se ne stava seduto sulla sua poltrona, Holmes si trovava con lei. Nessuna delle ferite che aveva sul suo corpo era dolorosa quanto quella che provava nel petto in quel momento. Le parole che aveva pronunciato mentre si credeva prossimo alla morte erano vivide nella sua mente e non riusciva ad impedirsi di credere che il detective lo stesse evitando a causa della sua confessione.
Il suo cuore perse un battito quando la porta della stanza di Holmes si schiuse con un leggero schiocco della serratura. Watson chiuse un attimo gli occhi e prese un bel respiro, per poi piegare il giornale che stava inutilmente tentando di leggere e voltarsi verso l’entrata della camera. Sherlock Holmes pareva quasi sorpreso della sua presenza, ma quando iniziò a parlare la sua voce trapelava stanchezza e un sincero pentimento:
“In fede mia, Watson, sono costernato di non esserle venuto a far visita da quando si è risvegliato. Spero non me ne dolga.”  
Il dottore si mosse rigidamente sulla poltrona.
“Sono certo che lo ha fatto per il bene del caso.” Non lo pensava, e la durezza nella sua voce ne era la prova. Holmes si passò una mano sul volto e poi mosse lo sguardo altrove.
“In verità i fatti sono proprio questi.” Fece qualche passo verso il caminetto. “Ma mi dica, come si sente? Sto iniziando a credere che le piaccia giocare col fuoco.” Ironizzò.
“Mi sta nettamente confondendo con lei.”
“Non so a cosa si riferisca.”
Il dottore non era in grado di affrontare il suo umorismo in quel momento. Era tutto così difficile. Perché gli aveva confessato quello che provava? Se avesse minimamente immaginato che sarebbe riuscito a salvarsi non avrebbe mai detto niente di così sconveniente. Sorrise fra sé, pensando che sconveniente fosse un termine troppo riduttivo.
Holmes si appoggiò con le spalle al camino e il silenzio calò fra di loro. Gli occhi del detective vagavano per la stanza, quasi alla ricerca di qualcosa, senza mai posarsi sull’amico e collega di una vita. Alla fine chiuse gli occhi e sospirò.
“Watson…”
“È tornato a prendermi.”
Riaprì gli occhi e li puntò dritti in quelli dell’altro, che erano duri come il diamante.
“Aveva qualche dubbio al riguardo?”
“Date le mie condizioni sono rimasto sinceramente impressionato dalla sua impresa.”
“Ero pronto a morire nell’impresa.”
Watson deglutì e il suo sguardo vacillò. Si sentiva così debole davanti ai suoi occhi. Così sciocco e stupido mentre il suo cuore batteva all’impazzata nel terrore dell’aspettativa e della più crudele verità. Avrebbe dato la vita pur di salvarlo, ma questo non significava niente. O sì? No, indubbiamente no. Sherlock Holmes era già morto per lui. Le loro anime erano intrecciate da un legame inscindibile da sempre, due fratelli nello spirito.
[10]  Le sue parole non dimostravano niente. Il dottore respirò ed espirò profondamente.
“Holmes, per quanto è successo… Per quanto riguarda ciò che ho detto nel magazzino…”
Ogni colore defluì dal volto del detective, che lo guardò con gli occhi sgranati.
“Oh… Non si preoccupi, mio caro Watson. È tutto…” Si schiarì la voce. “perfettamente apposto. Non c’è motivo di discuterne oltre.”
 In quel momento John Watson desiderò che il pavimento si aprisse sotto i suoi piedi e lo ingoiasse per sempre, portandolo nelle profondità più oscure della terra. Avrebbe voluto urlare, strapparsi il cuore dal petto e piangere, piangere come non accadeva dal tempo della guerra. Sapeva che sarebbe finita così. Lo aveva sempre saputo. Da Holmes non poteva aspettarsi qualcosa oltre la più sincera amicizia. Allora perché faceva così male?
Gli sorrise.
“Naturalmente.”
Il detective lo ricambiò con un mezzo sorriso. “Ora vorrà scusarmi, ma devo proprio occuparmi di una faccenda piuttosto urgente.” Indossò cappotto e cappello.
Aveva già una mano sulla maniglia quando si voltò nuovamente verso di lui. “Si riguardi, dottore.” Disse, per poi sparire dietro alla porta.
Watson chiuse gli occhi e strinse forte i pugni, fino ad infilare le corte unghie nei palmi. Udì una serratura scattare nuovamente e si voltò verso la fonte del rumore. Aggrappata alla maniglia e allo stipite della porta, Hope stava in piedi sulla soglia della stanza da letto di Holmes. Indossava un abito da camera che lasciava intravedere le bende che fasciavano le sue braccia, mentre i lunghi capelli le ricadevano lungo le spalle nascondendo quelle del collo. Il suo bel volto era sciupato dalle escoriazioni e dalle lievi occhiaie causate dal lungo sonno.
“Sono felice di vederla.” Sorrise leggermente, mentre il suo volto tradiva uno spasmo di dolore causato probabilmente dallo sforzo. “Sta bene?”
E mentre erano lì, a guardarsi l’un l’altra, entrambi bendati e contusi, Watson comprese che la sua opportunità l’aveva persa nel momento esatto in cui Hope aveva messo piede in quella casa.
“Sì.” Accennò un sorriso. “Non sono mai stato meglio.”



[9] Ve l’avevo detto che non vi eravate persi niente e che sono contorta! Eh eh, spero che nello scorso capitolo vi fosse venuta un po’ di curiosità quando ho inserito queste battute.
[10] Ricordate la predizione di Dora in Sherlock Holmes?

•••

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Capitolo 8
*** #08 ***


•••

Londra vide l’alba sei volte prima che il destino bussasse alla porta di Baker Street. Hope si levò di buonora quella mattina e non fu sorpresa di non trovare Sherlock Holmes nella stanza da letto. Si vestì con cura, lisciando ogni piega del vestito color edera, e acconciò i capelli in una treccia. Rimase a mirarsi nella specchiera. Sul volto erano sempre visibili i segni della recente sventura, che ancora accompagnava i suoi incubi. Nessuno di loro aveva riportato ustioni importanti, ma le pelli non avevano ripreso del tutto il loro colore naturale nelle zone offese ed escoriazioni di varia natura si stavano ancora rimarginando. Hope accarezzò con l’indice mancino un livido sotto lo zigomo e il suo sguardo cadde sul riflesso dell’anulare. Osservò gli anelli con cura, prima nello specchio e poi nella realtà, come se li vedesse per la prima volta. Sospirò, per poi sfilarli lentamente e poggiarli entrambi sulla superficie del mobile. Il giorno era arrivato. Si incamminò fuori dalla stanza fino ad entrare nella sala, dove trovò Watson seduto a fare colazione.
“Buongiorno.” Lo salutò, con un breve sorriso di circostanza che venne ricambiato.
“Buongiorno anche a lei.”
Hope non sapeva cosa fosse successo prima del suo risveglio, ma certamente il buon dottore non aveva lo stesso comportamento cui l’aveva abituata: non sarebbe stata spesa altra parola, infatti, per lei nel resto della giornata, almeno che non si trattasse di un saluto cordiale o di una breve risposta a una sua domanda. La situazione la infastidiva più di quanto avrebbe mai ammesso, perché non riusciva a intendere cosa fosse accaduto – che la incolpasse per quello che era successo, forse? – e non aveva materialmente il tempo per dare risposta ai suoi dubbi.
Non si sedette con lui e raggiunse la finestra, dove scostò leggermente la tenda con due dita per guardare fuori e lasciarla aperta.
“Non si unisce a me per la colazione?”
Hope si voltò, guardandolo con genuino stupore e curiosità.
“Non ho appetito.” Rispose.
“La vedo piuttosto pallida. È sicura di non voler mangiare qualcosa?”
Lei sorrise brevemente. “È molto gentile a preoccuparsi.”
“Non ha risposto alla mia domanda.”
“Ha ragione. Sì, sono sicura. Ma prenderò posto insieme a lei.”
Watson la seguì con lo sguardo mentre copriva la distanza dalla finestra alla sedia all’altro capo del tavolo. Era ben conscio di aver mantenuto un comportamento scorretto nei suoi confronti; ne aveva meditato tutta la notte e aveva deciso che non era giusto punirla – per così dire – per una cosa di cui non aveva direttamente colpa. Non era colpa sua se era stato così sciocco da innamorarsi del suo migliore amico e a dare per scontato che l’altro sarebbe stato accanto a lui per sempre. Era stato sciocco ed egoista, per non parlare della sua ipocrisia: lui era stato il primo ad allontanarsi per stare affianco ad un’altra persona, anche se lo aveva fatto per mantenere le apparenze.
Hope era davvero molto pallida. Vagava con occhi stanchi lungo la superficie del tavolo, tenendo le mani intrecciate in grembo e senza mai incrociare il suo sguardo.
“Qualcosa la turba?”
Lei sorrise brevemente ed alzò gli occhi su di lui. “No.”
Watson attese, ma la risposta non proseguì. Finì la sua colazione nel silenzio più totale, osservando di tanto in tanto il comportamento dell’altra. Non era intenzionato a porle altre domande cui sicuramente non avrebbe risposto, ma non poté fare a meno di iniziare a preoccuparsi. A distoglierli dai loro pensieri fu l’arrivo di Mrs. Hudson, che li coinvolse in una sorridente conversazione fatta di leggerezze mentre raggruppava le stoviglie da portare al piano di sotto. Qualche istante dopo che la padrona di casa ebbe lasciato la stanza Holmes fece il suo ingresso: aveva un sorriso furbo e gli occhi accesi di soddisfazione.
“Sono felice di trovarvi qui riuniti.” Camminò a passo svelto nel mezzo della stanza. “È giunto il momento che condivida con voi tutto ciò cui le mie indagini hanno portato. Ma vi prego, mettetevi comodi! Non c’è alcun motivo per cui dobbiate rimanere all’impiedi!” Il detective gesticolò verso le poltrone e il divano ed attese che i due compagni prendessero posto prima di ricominciare a parlare:
“Il giro di affari di Timothy Carlton ha da sempre squisitamente attirato la mia attenzione. Un magnate che lavora di sotterfugi e inganni, con capacità intellettive e criminose inferiori solo a quelle del Professore. Il dottore può confermare quanto queste qualità solletichino il mio genio. Ed è per questo motivo che anche l’attuale più famoso ladro di Inghilterra ha attirato la mia attenzione.”
“The Man?” Chiese Watson.
“Esattamente.”
“Questo cosa ha a che fare con Carlton?”
“Mio caro amico, è legato a questo caso molto più di quanto possiate immaginare.” Guardò rapidamente Hope prima di tornare a parlare. “Abbiamo a che fare con un ladro molto astuto, dalle indiscutibili capacità atletiche e dalle tempistiche ammirevoli. In media è riuscito a svaligiare due ville a settimana nell’arco di un mese, tra cui quella del nostro Carlton che è stata l’ultima.”
“Una concentrazione altissima di furti conclusasi repentinamente.”
“E ricorda quanto tempo è trascorso?”
Watson si mise a riflettere. “Più o meno da quando siete partito per la Francia.”
“Non lo trova curioso?”
“Si tratta sicuramente di una coincidenza.”
“Le coincidenze non esistono, raramente l’universo è così pigro.” [11]
“Con i vari bottini potrebbe essersi sistemato per tutta la vita. Oppure potrebbe-” Il dottore si bloccò.

Credo conoscerà il magnate Timothy Carlton, sì? Ebbene, ho effettuato una rapina a suo danno qualche settimana fa, venendo a conoscenza che la maggior parte degli oggetti d’arte che commercia sono dei falsi. [12]

Si voltò leggermente verso Hope; la donna era immobile, la schiena ritta e rigida, con le mani incrociate tenute in grembo.
“Oppure potrebbe aver scoperto qualcosa che lo ha portato alla necessità di sparire.” Concluse la frase e Holmes lo guardò provando una punta di orgoglio per quello che il compagno era riuscito ad imparare nel corso di quegli anni.
“Un’altra cosa che aveva attirato la mia attenzione era la necessità di marcare il fatto che si trattasse di un individuo maschio a compiere questi furti. L’ottusità degli Yarder non li avrebbe mai portati su una strada diversa, ma il ladro ha avuto l’accortezza di plagiare la mente di ogni singolo cittadino. Chi mai potrebbe credere che il colpevole sia una donna se sulla scena del delitto viene espressamente detto che si tratta di un uomo.”
“Nessuno, a parte Sherlock Holmes.” Hope uscì dal suo silenzio, ma non rilassò le spalle.
“Mi hai dato tutti gli indizi giusti. Durante il nostro primo colloquio mi hai esplicitamente detto da chi stavi cercando di fuggire e perché.”
“Le cose stavano così.”
“Una persona così accorta come te non si sarebbe lasciata sfuggire un dettaglio così rilevante. Hai lavorato attentamente per restare completamente nell’ombra, avresti potuto inventare qualsiasi cosa per far sì che ti dessi il mio aiuto.”
“Sono certa lo avresti scoperto.”
“E allo stesso tempo” continuò, “saresti potuta sparire nel nulla nel momento stesso in cui hai scoperto che Carlton conosceva la tua vera identità. Certo, lui è un uomo molto influente e avrebbe potuto darti la caccia, ma nessuno ha tentato di seguirci quando ci siamo ritirati in Francia.”
“Devi averci riflettuto molto. A che conclusione sei giunto?”
“Carlton voleva che venissi da me.”
“Cosa?” Watson passò lo sguardo dall’uno all’altra con le sopracciglia corrugate. “Quale motivo avrebbe avuto?”
“L’unico problema più grosso di una ladra con grandissime doti che ha scoperto il tuo segreto è un detective che sta cercando di incastrarti e distruggere tutto ciò che hai creato. Quale modo migliore di liberarsi di entrambi in un colpo solo. Ho ragione?”
Hope non rispose. Si limitò a sostenere il suo sguardo con espressione neutra, così in contrasto con la sua postura.
“Sta dicendo che Carlton vuole uccidervi entrambi?”
“Sto dicendo che Carlton ha mandato Hope ad uccidermi.”
Il silenzio cadde su di loro.
“Tutto questo è assurdo!” Watson si mosse a disagio e si rivolse alla ragazza: “È vero ciò che dice? Si è infiltrata qui con l’intento di uccidere?”
La giovane donna mantenne lo sguardo su Holmes, ignorando la domanda del dottore. Poi parlò:
“Quando lo hai capito?”
“Ne ho sempre avuto il sospetto e ne ho avuta la conferma con l’irruzione in questa casa. Non erano venuti con l’intento di perpetrare un omicidio, ma come avvertimento. Il tempo scorreva e tu non gli stavi dando ciò che voleva.”
“Quegli sciocchi omuncoli non conoscono il concetto di piano a lungo termine come noi. È stato un vero tedio tentare di fargli capire come stavo agendo…” Si alzò in piedi. Watson si mise sulla difensiva, pronto ad agire nel caso ce ne fosse stato bisogno. Aveva visto Hope in azione e non era più sicuro di sapere cosa o non cosa sarebbe stata in grado di fare ora che Holmes aveva scoperto il suo gioco.
 “In particolar modo perché quello non era il tuo piano. Sono rimasto davvero colpito dal tuo scaltro e il tuo ingegno. Per non parlare della capacità di tirare i fili di un teatrino del genere. Ammetto di aver impiegato più del dovuto a capire come stavano realmente le cose. Far credere a Carlton di stare al suo gioco, di acconsentire alle sue richieste, montando uno scenario che ai suoi occhi doveva essere a danno del sottoscritto e a suo beneficio. Ma l’unica persona che può trarre beneficio da questa storia non è nessun’altra se non te.”
Hope sorrise tristemente. “La cosa è opinabile.”
Ed accadde.

•••

“Non ricordo con piacere la mia infanzia. Sono nata e cresciuta in un circo, sempre errando di città in città. Mio padre era una brava persona, ma dopo la morte di mia madre l'alcol lo rese manesco e molto irritabile. Ben presto mio fratello ed io iniziammo a sfruttare tutto ciò che avevamo imparato dal circo per guadagnarci da vivere da soli; eravamo due piccoli acrobati con una grande propensione alla recitazione e una buona memoria visiva: non usare queste qualità ci sembrò un sacrilegio, un'opportunità sprecata. E crescendo non abbiamo abbandonato il mestiere. È stato Nicholas[13]  ad avere l'idea.”
“Infiltrarsi all'interno per poter fare il colpo del secolo.”
“Sapevamo che non sarebbe stato facile e che avrebbe richiesto una lunga attesa, ma eravamo pronti a tutto.”
“Tranne che a trovarvi tra le mani della refurtiva composta da falsi. Per quanto tempo Nicholas è stato un sottoposto di Carlton?”
“Tredici mesi, e lo è ancora adesso. Siamo venuti a sapere troppo tardi che tutte le opere d'arte nella villa di Londra sono tutti dei falsi.”
“A tue spese.”
Sorrise amaramente. “Non so come fecero a trovarmi quella sera. So solo che ero certa non avrei più rivisto la luce del sole.”
“Ma Carlton aveva altri piani.”
“Ho fatto molte cattive azioni nella mia vita: ho truffato, mentito, rubato, ma non ho mai ucciso nessuno. Non sarei mai riuscita a toglierti… a toglierle la vita.”
“Quella notte, quando sei venuta da me, non hai mentito, volevi realmente essere protetta. Hai portato avanti la messa in scena perché ti osservavano. E questo era ciò che lui si aspettava da te.”
“Speravo con tutto il cuore che la situazione si risolvesse da sola. Che riuscisse ad incastrare Carlton-”
“Sei tornata a darmi del lei.”
Hope lo guardò in silenzio per qualche secondo, non aspettandosi un’affermazione del genere. “È vero.”
“Non è cambiato niente.” Iniziò Holmes.
“Come può affermare una cosa del genere?” Domandò lei, lasciando trasparire il rimorso dagli occhi e dalla voce. “Le ho mentito a bella posta, con l’egoistico intento di salvare la mia pelle e la mia anima! Ho rischiato di farvi uccidere entrambi dentro quel magazzino!” Spostò lo sguardo, ormai lucido, sulla parete. “Non merito il vostro aiuto. Non merito di stare qui…”
“In fede mia, sarei la più crudele delle persone se ti lasciassi al tuo destino precludendoti il mio aiuto!”
Holmes le sorrise, cercando di rassicurarla.
“Puoi esserti nascosta dietro tanti volti,” la interruppe “ma c’è stato un momento, da quando tu e John siete stati attaccati in casa, in cui hai smesso di mentire. O quasi del tutto.”
Si sporse verso di lei.
“Qual è il tuo nome?”
La ragazza esitò, stringendo le lenzuola tra le dita.
“Charlie.” [14]

•••

Era successo tutto troppo in fretta. Troppo in fretta. John Watson non sapeva con certezza, in vita sua, quante persone aveva visto morire davanti ai suoi occhi. Troppe morti. Ma quella sensazione di nausea mista a rabbia e senso di colpa era una cosa a cui non si era mai abituato, e in quel momento era forte e prepotente in lui, tanto che avrebbe voluto urlare.
La finestra era esplosa in mille pezzi quando il proiettile vi aveva impattato contro, per poi concludere la sua corsa nel corpo di Hope, che si era accasciata sul tappeto di pelle di tigre. Non c’era stato nulla da fare.
“Watson.”
Il dottore non si mosse. Rimase con la schiena appoggiata al muro esterno dell’obitorio, lo sguardo perso in un punto imprecisato. Holmes entrò nel suo campo visivo, fermandosi dritto in piedi davanti a lui. Lo osservò: niente in lui dava l’idea di un possibile cedimento, della possibilità che si lasciasse emotivamente struggere come stava facendo lui. Non era un comportamento da Sherlock Holmes.
“Watson…”
“È sempre così difficile.”
“A cosa si riferisce?”
“Al convivere col senso di colpa.”
“Non si dia colpe che non ha, dottore. Non poteva fare niente per salvarla.”
“Questo non mi fa sentire meglio.” Chiuse gli occhi per un istante. “Ha cercato aiuto in noi, ed è morta nell’unico posto in cui pensava di essere al sicuro. E dopo il giorno dell’esplosione io…”
Holmes lo interruppe afferrandolo fermamente per le spalle.
“Non hai niente da rimproverarti, John. Devi credermi.”
Si guardarono negli occhi per un tempo che parve eterno, fino a quando Watson non si costrinse ad abbassare lo sguardo, perché il desiderio di far sua la bocca del detective stava diventando irrefrenabile.
Holmes distolse lo sguardo a sua volta, schiarendosi la voce, e fece scivolare le mani via dalle sue spalle con una carezza leggera. “È ora di rientrare, dottore. Mrs. Hudson sarà in pena per ciò che è successo.”
In risposta ottenne solo un lieve cenno del capo, ed insieme si avviarono verso Baker Street.

•••

“È una cosa che mi sta bene… morire per te.”

Che cosa stupida e sentimentale. Holmes sbuffò vistosamente mentre scioglieva il bendaggio che gli era stato fatto all’avambraccio. Il dottore che si era occupato di Watson e di Hope aveva insistito per medicare anche lui e a niente erano valse le sue proteste. Per cui, ora si trovava lì, a  eliminare quelle fastidiose bende. Se John avesse saputo che si era tolto le fasce appena messe gli avrebbe fatto una ramanzina lunga secoli. Sorrise all’idea, ma il pensiero di quello che era successo lo colpì come uno schiaffo. Si voltò: Watson giaceva tranquillo nel suo letto, con le braccia adagiate sulla coperta, come era stato lasciato dal medico.
Nella mente del detective era ancora viva l’immagine del suo Boswell immobile ed inerme sotto quella trave in fiamme. Chiuse gli occhi e prese un respiro profondo, per poi andare a sedersi sul bordo del letto. Aveva rischiato di perderlo per sempre. Sarebbe bastato che fosse tornato in dietro con qualche minuto di ritardo e Watson non ce l’avrebbe fatta. Non avrebbe mai potuto perdonarselo.
Dopo qualche istante di esitazione poggiò la mano su quella dell’amico.
“Te lo avevo detto: io mantengo sempre la parola.” [15]
In risposta ottenne solo il silenzio assordante della stanza.
Rimase in quella posizione a lungo, osservando l’amico inerte, finché il suo corpo non reclamò a gran voce l’attenzione su di sé. Le pareti della gola erano ancora irritate dal fumo inalato e le ferite pizzicavano la pelle in maniera fastidiosa. Fece una smorfia. Non aveva nessuna intenzione di costringersi in quelle bende quando aveva così tante cose di cui occuparsi. Decise però che poteva concedersi un sorso d’acqua e si alzò per prendere la caraffa che Mrs. Hudson aveva lasciato sul canterale del dottore. Quando ne afferrò il manico la vide tremare. I suoi nervi stavano venendo messi duramente alla prova. Si morse il labbro inferiore con rabbia. Come aveva potuto essere così sprovveduto? Come aveva potuto permettere che accadesse? Versò con impeto il liquido nel bicchiere, facendone cadere un po’ sul pavimento, e bevve. Doveva assolutamente mettere in chiaro le cose con Hope – sempre se quello era il suo vero nome – e renderla partecipe del fatto che lui sapeva. Questo probabilmente avrebbe facilitato le cose. Li avrebbe aiutati a concludere il caso.
Si voltò nuovamente verso di Watson. Lasciarlo da solo in quello stato non era una cosa che lo rendeva tranquillo, avrebbe preferito vegliarlo fino a che non avrebbe aperto gli occhi, ma la situazione stava precipitando di minuto in minuto e non poteva permettersi di restare. Rimise il bicchiere al suo posto e uscì.

•••

“Holmes!”
Il dottor Watson era entrato nella sala da pranzo con l’aspetto e l’agitazione di chi aveva appena appreso qualcosa di estremamente importante: gli abiti erano leggermente scomposti e il respiro affannato, segno evidente che aveva camminato e salito le scale con passo svelto, ed i suoi occhi erano sgranati, colmi di sorpresa e incredulità. Si tolse il cappello con una mano, mentre con l’altra sventolava il giornale del mattino.
“Avete letto la notizia in prima pagina? È davvero incredibile!”
Il detective, dal canto suo, rimase impassibile nella sua poltrona, continuando a fumare una sigaretta.
“In nome del Cielo, Watson! Sì, ho letto l’articolo. Ora si ricomponga e venga a sedersi.”
Watson lo guardò incredulo. “Se lo ha letto come può essere così calmo?”
“Perché mai non dovrei esserlo?”
Il dottore poggiò il giornale sul tavolo e si tolse il cappotto, prima di prendere posto di fianco al suo amico.
“Carlton è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa e questo non la fa scomporre minimamente?”
“Watson,” piegò la testa di lato per guardarlo meglio. “parla come se non mi conoscesse.”
L’altro aprì la bocca per ribattere, ma esitò quando notò che lo sguardo del detective si era spostato in quel punto del pavimento in cui un tempo vi era stata la pelle di tigre. Erano passati cinque giorni.
“Era un caso che ti stava molto a cuore.” Disse infine.
Holmes strinse gli occhi, per poi lanciare la sigaretta contro la grata del camino.
“Mio caro amico.” Si voltò interamente verso il coinquilino, con espressione seria sul volto. “Nel corso di questi mesi non sono stato del tutto sincero con voi. Ritengo sia arrivato il momento di metterla al corrente di tutti i fatti.”

•••

“Facciamo un riepilogo della situazione, vuoi? Carlton ti ha mandato qui con l’intento di eliminarmi in cambio della tua libertà, ma sappiamo entrambi che c’è un’alta probabilità che non mantenga la parola data. Tuo fratello Nicholas è sempre un suo sottoposto fidato, sì? Bene, questo potrebbe tornarci molto utile. La domanda ora è: come?”
“In realtà la mia domanda è: di cosa stai parlando?”
Holmes rise genuinamente. “Come facciamo a far credere a Carlton che tu sia morta.”
“Oh.” Hope lo guardò accigliata. “Devo supporre che ti piaccia simulare morti nel tempo libero?”
“Vedo con piacere che ti è tornata la voglia di essere ironica con me.”
Le guance di lei si colorirono vistosamente. “Mi dispiace.”
“Non devi.”
“La tua genialità mi ha confuso.”
“Ne sarei lusingato se fosse la verità.”
“Lo è.”
“Bene allora.”
Gli occhi di Holmes brillarono improvvisamente. “Il miele pazzo. Blackwood si finse morto in questo modo. Potrebbe funzionare.”
“Ammetto che sto realmente faticando a starti dietro questa volta.”
Il detective si mosse sulla sedia, visibilmente esaltato per ciò che la sua mente stava elaborando. “Quante probabilità ci sono che tuo fratello riesca a convincere Carlton a permettergli di ucciderti?”
Il volto di Hope si incupì. “Vuoi che… Nick finga di uccidermi?”
“È l’unico uomo che abbiamo all’interno.”
La ragazza masticò leggermente il labbro inferiore con gli incisivi, ragionando su quello che aveva appena appreso.
“Sì. Sì, potrebbe funzionare.”
Holmes sorrise sornione. “È un mio piano: funzionerà senz’altro.”

•••

“Io non riesco a crederci!”
“Watson ha intenzione di farsi sentire da tutto il vicinato?!”
Il dottore era diventato paonazzo. Il racconto di Holmes lo aveva sconvolto, non riusciva a credere che gli avesse mentito così spudoratamente di nuovo. Ora erano entrambi in piedi, fronteggiandosi. “Avevo bisogno che anche lei credesse a ciò che era successo.”
“In questi ultimi cinque giorni mi sono lasciato logorare dai sensi di colpa!”
“Le avevo detto che non ce ne era motivo.”
“Sì, già, perché se lei mi dice una cosa del genere omettendo il fatto che Hope è viva io automaticamente non mi sentirò in colpa!”
“Uh…”
“Senza contare il come mi sono sentito per lei.” Gesticolò verso di lui.
“Me?”
“Sì, per te! Dio…” Si passò una mano sul volto.
Holmes lo fissò in silenzio per qualche istante, poi parve capire: “Crede ancora che io avessi un vero interesse amoroso nei confronti di Hope?”
Watson si sentì arrossire leggermente. “Miss Hope è una bella donna e ha una mente perfettamente in sintonia con la sua.”
Il detective rise, indispettendo l’altro. “Non mi derida in questo modo!”
John.” Il tono con cui il suo nome uscì dalle labbra di Holmes lo fece fremere. “Non ricorda niente di quando sono tornato a prenderla?”
Il dottore lo guardò confuso. “No, io ero svenuto, non se lo ricorda?”
In quel momento, se non lo avesse conosciuto bene, Watson avrebbe giurato che Holmes stesse provando dell’imbarazzo. Il detective si passò una mano tra i capelli, spostando lo sguardo al camino.
“Non importa.” Tornò a guardarlo. “Io però ricordo perfettamente le parole che tu mi hai detto.”
Il cuore di Watson perse un battito. “Holmes, credevo che non ne avremmo-”
Il detective percorse la distanza che si era creata tra di loro e prese le sue mani.
“Mi dispiace di averle causato tutto questo dolore, John.”
Il dottore rimase immobile, pietrificato, con il cuore che batteva ridicolmente forte. E quando la speranza crebbe di nuovo dentro di lui si sentì uno stolto. Holmes non aveva smesso di guardarlo nemmeno un istante, tenendo quello sguardo profondo intrecciato al suo.
“Ammetto che all’inizio volevo prendermi una specie di rivalsa. Ripagarla con la stessa moneta per farle capire cosa avevo provato quando lei si è sposato. Col senno di poi, credo sia stata una delle cose più puerili che abbia mai fatto. In ogni caso era importante che anche lei lo credesse vero: se riuscivo a convincere lei che Hope era mia moglie potevo convincere chiunque. E, allo stesso modo, se avesse saputo che avevamo architettato una farsa per ingannare Carlton non ne sarebbe uscita una recita perfetta. Aimè, visti i recenti fatti, sono abbastanza sicuro che il fratello di Hope abbia preferito la salvezza di sua sorella alla sua anima, ma confido che siano già in viaggio per le Americhe e che non verranno accusati di alcun omicidio.”
Watson ingoiò un paio di volte prima di commentare: “Deve esserle costato uno sforzo enorme parlarmi così apertamente.”
Sorrise. “Tremendamente.”
“Ma perché uccidere Carlton, dopo tutto quello che avete fatto?”
“Posso solo supporre che Nicholas abbia voluto vendicare la sorella e assicurarsi di non avere spiacevoli sorprese in futuro.”
“Ha avuto gran coraggio e sangue freddo.”
Holmes aumentò leggermente la presa sulle sue mani. “Non si può mai sapere come reagirà una persona pur di salvare i propri cari.”
“Questo è indubbiamente vero.”
Si creò un silenzio pieno di domande e aspettative, fatto di pensieri rumorosi e sguardi ansiosi.
“Se devo essere del tutto onesto.” Esordì Holmes d’improvviso. “Ritengo che Hope abbia realmente una bella mente in sintonia con la mia. È davvero affascinante.” Sentì le mani di Watson irrigidirsi nelle sue. “Ma c’era un piccolo e non facilmente trascurabile dettaglio che non mi avrebbe mai permesso di accompagnarmi realmente a lei.”
“E quale sarebbe?”
“Lei non è te, John.”
Fece appena in tempo a finire di pronunciare quell’ultima sillaba  che Watson lo aveva già tratto di più a sé e si era appropriato delle sue labbra in un bacio carico di frustrazione e attesa mal celata. I denti cozzarono e le lingue si intrecciarono, danzando in una passione che infiammò i petti dei due uomini. Le loro mani scivolarono via le une dalle altre per concedersi finalmente il lusso di andare ad esplorare il corpo della persona tanto bramata. Le dita di Holmes si mossero veloci e discrete sui bottoni del gilet del dottore, senza mai smettere di carezzare con la lingua la sua, ed iniziò a spogliarlo, passando alla camicia. Il dottore emise un suono strozzato quando il detective spostò l’attenzione alla sua cintura.
Sherlock–”
“Uhm?” Gli morse la mandibola.
“Non staremo correndo un po’ troppo?”
Holmes si fermò ed indietreggiò di un passo. “Al contrario, ritengo che abbiamo atteso fin troppo.”
Gli regalò un sorriso sporco, mentre continuava ad indietreggiare ed iniziava a spogliarsi della camicia a sua volta. “E poi, dopo un caso del genere, ci meritiamo di festeggiare, non credi anche tu?”
Aveva ragione. Quanto tempo avevano perso cercando di fuggire da un sentimento considerato impuro e malato. Quanto tempo sprecato nel cercare di salvare le apparenze, e vissuto nella paura che l’altro non ricambiasse ciò che in realtà entrambi provavano. Watson ricambiò il sorriso.
“Se la metti in questi termini.”
Holmes gli porse una mano e lui lo raggiunse in pochi passi, per poi lasciarsi condurre nelle sue stanze. I respiri iniziarono a farsi più pesanti, le pupille dilatate e i corpi frementi, mentre finirono di togliersi i vestiti a vicenda e si lasciarono crollare sul letto uno sopra l’altro. Si muovevano con movimenti impacciati, travolti da un’emozione troppo forte da contenere, fatta di desiderio e timore. Watson sovrastò il compagno, reggendo il peso del corpo sulle braccia, e si concesse il lusso di osservare quelle splendide labbra gonfie di baci e morsi e quegli occhi scuriti dalla passione: non credeva che si sarebbe mai trovato davanti a spettacolo così bello. Holmes ricambiò il suo sguardo, respirando velocemente, e gli accarezzo le labbra con le dita.
“Sei spaventato.” Non era una domanda, ma una constatazione.
Watson sorrise lievemente. “Anche tu.” Si azzardò a rispondere.
Holmes non replicò in alcun modo, continuando a scrutarlo con attenzione.
“Oh, John Watson.” Esordì a un tratto. “Nessun’altra persona al mondo avrebbe mai potuto stravolgere il mio essere in tal modo come hai fatto tu.”
Neanche la più accorata delle dichiarazioni sarebbe potuta essere più esplicita di quelle semplici parole dette da lui, e questo Watson lo sapeva bene. Si sporse verso di lui per lasciargli un bacio a fior di labbra. “Lo so.”
E poi i muscoli si contrassero, le schiene si arcarono e i gemiti lievi e mal repressi riempirono l’aria, mentre le lenzuola si inumidivano.

•••

Sherlock Holmes non era il tipo di persona facile alla resa e in quell’occasione non fu da meno. Mentre l’edificio collassava lentamente su se stesso, il detective non aveva pensato nemmeno una volta di tornare indietro: avrebbe continuato la sua avanzata anche a costo di morire, non avrebbe lasciato nulla d’intentato. Ma, nonostante tutto, vacillò quando si trovò nuovamente davanti a un muro di fuoco. Aveva perso il conto di quante volte aveva già dovuto cambiare direzione sebbene ricordasse perfettamente la strada percorsa in precedenza. Chiuse gli occhi per un istante. La vista si stava annebbiando e l’ossigeno cominciava a mancare. Doveva resistere. Ricominciò a correre, ignorando le fiamme che si aggrappavano al suo cappotto.
Passò quello che parve un tempo lunghissimo prima che lo scorgesse: Watson aveva nascosto la testa sotto le braccia nel tentativo di ripararsi dal fumo, ma non era certo che fosse ancora vigile. Si lanciò verso di lui.
“Watson!” Gridò, come quando lo aveva trovato la prima volta, ma il dottore non si mosse.
Le travi che lo avevano intrappolato erano andate in buona parte distrutte, e Holmes non ci mise molto a liberarsene, sebbene lo sforzo fu ugualmente notevole.
Si inginocchiò accanto a lui e cercò di voltarlo. “Watson!... Watson!... John!”
Il dottore contrasse i muscoli facciali e aprì debolmente gli occhi. Holmes si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
“Grazie al Cielo è vivo!” Si tolse rapidamente il cappotto e lo usò per coprire la testa e le spalle del compagno. “Coraggio amico mio, si appoggi a me!”
Lo caricò sulla schiena, benché il dottore fosse più alto di lui, e ricominciò la traversata dell’Inferno. Si trovava a metà strada quando una gamba cedette sotto il peso dello sforzo, facendoli rovinare a terra. Holmes fece leva sugli avambracci, ansimando leggermente. Respirava a malapena.
“Io non-” Digrignò i denti per la rabbia e la frustrazione. “Non ti lascerò morire qui!” Colpì il terreno con il pugno. Iniziò a tremare. Non doveva arrendersi. Non poteva arrendersi. Con tutta forza che riuscì a trovare si issò nuovamente sulle gambe. Doveva portare John fuori da quel posto. Arrancò diversi minuti prima di riuscire a scorgere uno spiraglio di cielo.
“Ci siamo John.” Rantolò.
Impiegò tutto quello che era rimasto delle sue forze per percorrere quell’ultimo metro di agonia e quando finalmente fu fuori all’aria aperta crollò su se stesso, stremato. Cercò di nutrire i polmoni con ossigeno il più possibile prima di scivolare da sotto il corpo del dottore e trascinarlo lontano dal rogo come aveva fatto con Hope, per poi lasciarsi nuovamente cadere accanto a lui.
“John!” Gli sbottonò i primi bottoni della camicia e si affrettò ad accertarsi che stesse respirando. Ma non accadde niente. Il volto di Holmes divenne di pietra.
“No no no no,” un sorriso folle gli salì alle labbra “non può lasciarmi così adesso!” Si mise in ginocchio, cercando di tenersi in equilibrio ponendo i palmi sul petto del dottore. “E poi sarei io l’egoista bastardo!?”
Si mise in posizione, una mano intrecciata sull’altra, ed iniziò con la compressione del torace. La testa gli girava, non aveva ancora immagazzinato abbastanza ossigeno, ma questo non lo trattenne un solo istante dal poggiare disperatamente le labbra su quelle dell’altro nel tentativo di aiutarlo a respirare. Ripeté quelle azioni più volte. “Non… Ti prego…”
 Sherlock Holmes non ricordava di essersi mai sentito così in tutta la sua vita. Il dolore acuto che provava nel petto era atroce, superava il limite di qualsiasi sopportazione. Tempo addietro aveva preso la solenne decisione di nascondere le emozioni in una stanza remota del suo essere; stavano lì, discrete, nascoste dietro una maschera di indifferenza. Poi John Watson aveva aperto la porta.
Premette ancora una volta sullo sterno e soffiò altra aria nei polmoni con disperazione. Fu in quell’istante che il corpo sotto di lui ebbe uno spasmo e Watson tornò a respirare. Iniziò a tossire convulsamente, tanto che Holmes dovette afferrarlo per le spalle.
“Va tutto bene! Tutto bene…”
Il dottore sgranò gli occhi, mentre l’istinto di sopravvivenza lo spingeva a cercare l’aria con la bocca.
“È tutto finito. Tutto finito.” Gli sussurrò rassicurante il detective, che non poté fare a meno di chiedersi se non lo stesse ripetendo a se stesso. Si mosse di lato per far sì che il capo di Watson potesse adagiarsi sulle sue gambe, mentre lui teneva le mani poggiate ai lati del suo viso aspettando che il respiro dell’amico tornasse regolare. Passò qualche istante prima che si sporgesse fino a permettere alle loro fronti di sfiorarsi.
“Non puoi concederti il lusso di lasciarmi dopo quello che mi hai detto.” Gli confessò a mezza voce.
Quando tornò con lo sguardo su di lui, John Watson aveva perso nuovamente conoscenza, ma il suo petto si alzava e abbassava in maniera cadenzata. Holmes non era certo che lo avesse sentito. Tuttavia l’unica cosa che gli importava in quel momento era che lui fosse lì, vivo, e il resto non contava.


•••

Le ombre ballavano distrattamente sul soffitto, creando strane figure fantastiche e al contempo lievemente ipnotiche secondo l’opinione del dottor Watson, che le osservava mutare sopra di sé mentre carezzava pigramente i capelli del compagno sdraiato sul suo petto. Il silenzio che li avvolgeva era quasi surreale, dopo che i loro nomi si erano rincorsi e fusi così tante volte, accompagnati da ansiti spezzati e promesse a mezze voci.
“Un penny per i tuoi pensieri.”
Watson sorrise. Il silenzio non l’aveva mai vinta con Sherlock Holmes.
“Sono solo felice.”
Il detective alzò la testa per guardarlo in volto.
“Nessuna domanda esistenziale riguardo a cosa sarà del nostro rapporto d’ora in avanti?”
“Dovevo immaginare che saresti stato così fastidioso anche in questo frangente.” Rispose con un sorriso.
L’altro alzò le spalle con fare noncurante. “Conoscendoti, vecchio mio.”
Il dottore gli diede un leggero pizzicotto su una guancia ispida, guadagnandosi uno sguardo di disappunto che gli diede un moto di ilarità.
“Non vedo cosa ci sia di così divertente.”
“Hai ragione. Non c’è nulla di divertente. Ma come ricorderai sono felice, e quindi mi sono lasciato trasportare.”
“Suppongo che ormai dovrei arrendermi al non comprendere le tue stranezze.”
“Ah! Questa è proprio bella! Sarei io quello strano dei due?”
“Senza alcun dubbio, dottore!” Holmes lo guardò con fare serio. “Nessuno sano di mente si sarebbe mai innamorato del sottoscritto. Ma infondo nel corso della nostra lunga amicizia hai ribadito più volte il tuo essere psicologicamente disturbato. Contrariamente, invece-” Si zittì, resosi conto di star parlando troppo.
Watson si sistemò per riuscire a guardarlo meglio. “Continua, Holmes.”
“Niente. Il mio discorso è finito.”
“Questa è una menzogna che non cerca minimamente di sembrare la verità.”
“E invece è così ti dico!”
Il dottore rise lievemente e lasciò che il discorso cadesse come desiderava il compagno.
Tornò il silenzio per un lungo periodo di tempo, prima che Holmes decidesse che poteva valere la pena lasciare uno spiraglio aperto alla stanza delle emozioni.
“Suppongo che ciò che volessi dire fosse” si schiarì la voce, vagando con lo sguardo sulla stanza, “che è assolutamente folle pensare che qualcuno possa anche solo pensare di potersi innamorare di un tipo come il sottoscritto. Ma è altrettanto folle pensare che qualcuno non possa innamorarsi di una persona come te.” Tentennò un attimo. “Sempre che esista un altro uomo come te.” Concluse, posando gli occhi sui suoi, con un sorriso quasi timido sulle labbra.
Dopo un attimo di genuina sorpresa, il dottore gli sorrise apertamente e si sporse a cercare le sue labbra, col cuore colmo di gioia. Holmes allungò il collo verso di lui a sua volta, trovandolo a metà strada per un bacio pieno di parole.
“Sai, dovresti smetterla con queste criptiche dichiarazioni d’affetto. Potrei farci l’abitudine.” Ironizzò il dottore, sapendo che per Holmes risultava arduo da affrontare l’argomento in cui si erano addentrati.
“Quali dichiarazioni?” Rispose prontamente lui, con un sorriso di scherno.
“Nessuna.” Si chinò a baciarlo nuovamente. “Ovviamente nessuna.”


•••

Al di fuori dell’intima stanza, Londra urlava e viveva con tutte le sue forze. Tra i passanti chioccianti di Baker Street, un ragazzo dagli abiti sgualciti e sporchi osservava con calcolata noncuranza le finestre del 221B da sotto la corta visiera del berretto. Accanto a lui un giovane uomo alto e dinoccolato, dai vestiti molto simili ai suoi, si guardava intorno cercando di non dare nell’occhio.
“Odio metterti fretta, ma è esattamente ciò che farò”. Esordì l’uomo. “È davvero ora di andare, Charlie.”
Hope Castiel sorrise, sentendo la pelle sotto al silicone tirare leggermente.
“Precedimi di qualche passo.” Rispose al fratello, che si avviò lungo la strada con le mani in tasca e l’aria annoiata. La ragazza diede un ultimo lungo sguardo all’edificio che era stato il palcoscenico di quegli ultimi difficili mesi e poi si incamminò a sua volta.
Tutto finì come era iniziato: una ragazza in fuga, Baker Street e un segreto da celare. Ma nell’appartamento di Sherlock Holmes e John Watson le cose non sarebbero più state le stesse.



[11] Scambio di battute tra Sherlock e Mycroft nella 3x02 della serie tv Sherlock.
[12] Dal capitolo #04. Anche se la frase è estrapolata dal discorso avvenuto tra Hope e Holmes, quel passaggio sostituisce nell’arco temporale della storia il momento in cui la ragazza racconta a Watson come stanno realmente le cose tra lei e il detective. Per questo motivo ho ripreso quella citazione nonostante non sia un ricordo diretto del dottore.
[13] Per chi non ricordasse o si fosse perso quello che la mia mente contorta ha fatto: Nicholas compare nel capitolo #05, è uno degli uomini che scorta Hope
[14] Charlie è un nome usato sia al maschile che al femminile. L’ho scelto per mantenere il binomio uomo-donna che ha accompagnato la ragazza per tutta la storia.
[15] “Tornerò a prenderti e ritornerai a Baker Street con noi. Lo giuro, Watson, ed io mantengo sempre la parola.”


••End••




Haibara Stark ~ Tre anni. Sono quasi passati tre anni dall’ultimo aggiornamento di questa storia. Non so sinceramente come sia potuto accadere, visto che sapevo fin dall’inizio che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo e mi ero ripromessa di pubblicarlo al più presto. Per quanto si possa credere, ho iniziato a scriverlo ancor prima di aver pubblicato il settimo. Ero partita bene, convinta, ma poi mi sono bloccata, non riuscivo a scrivere quello che avevo in mente. Questa cosa mi è successa due o tre volte nel corso dei due anni passati. Poi qualche tempo fa ero a letto e ho pensato “Hey! Ma perché mi sono arenata in quel punto? Potevo risolverlo così!”. Imbarazzante. Davvero imbarazzante, credetemi. Sono stata ferma per due anni e dieci mesi su un punto che sono riuscita a districare in un secondo nel dormiveglia. Ribadisco: imbarazzante.

Avrete notato che non mi sono ancora scusata con voi per questa lunghissima attesa. Ritengo non ci siano parole di scuse valide, in realtà. Quell’Ottobre del 2013 ha portato una svolta nella mia vita che mi ha allontanato dal mondo delle fanfiction. Arriva sempre quel momento in cui la tua vita sociale reclama a gran voce la tua attenzione e non puoi fare a meno di concedergliela. Questo non significa che non sia costernata per essere riuscita ad aggiornare solo adesso, tutt’altro. Mi prostro ai vostri piedi e vi chiedo perdono!

Ad essere del tutto onesti, la cosa che mi terrorizza di più è che questo capitolo vi abbia deluso. Sia per come è scritto sia per come si è svolto. Ho una predilezione per le storie un po’ contorte, però non so se il mio intento sia andato a buon fine. Spero di esserci riuscita almeno in parte.

Non mi resta che salutarvi e ringraziarvi di cuore per aver letto e/o recensito questa long, e di aver avuto la pazienza di aspettare.

Un abbraccio!

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