The Good Wife. di Haibara Stark (/viewuser.php?uid=55266)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** #01 ***
Capitolo 2: *** #02 ***
Capitolo 3: *** #03 ***
Capitolo 4: *** #04 ***
Capitolo 5: *** #05 ***
Capitolo 6: *** #06 ***
Capitolo 7: *** #07 ***
Capitolo 8: *** #08 ***
Capitolo 1 *** #01 ***
Anche
se il titolo rimanda a quello dell’omonima serie televisiva non ha
niente in comune.
Quando ho iniziato a scriverla, su Rai 2 mandavano costantemente in
onda la pubblicità di questa e di Castel, per cui,
quando mi sono trovata a dover decidere quale titolo dare alla storia,
la mia mente era completamente soggiogata da tali pubblicità e,
sinceramente, mi è parso il titolo più congeniale.
Buona lettura.
The Good Wife.
| Sherlock Holmes movieverse | Long | Slash, Het | Arancione | Conan Doyle, Guy
Ritchie © |
Londra
dormiva alla luce tiepida dei lampioni, leggermente offuscata dalla
tenue nebbia di Febbraio. Passi sordi e affrettati risuonavano nella
via ormai deserta. Il ragazzo correva a perdifiato, cercando di
seminare colui che da bambini chiamiamo l’Uomo Nero. Corse finché
poteva, finché fu certo di essere seguito soltanto dalla sua ombra;
respirava l’aria fredda della notte, guardando con circospezione
d’intorno da sotto la visiera del berretto. Ingoiò un sospiro di
sollievo quando si rese conto che ce l’aveva fatta, era riuscito a
sfuggire alla minaccia. Almeno per
stavolta. Tornò ad osservare la strada, questa volta per cercare
di capire dove la fuga lo aveva portato. Vide un uomo camminare in
senso opposto al suo, avvolto da volute di fumo create dalla sigaretta
che teneva tra le dita. Lo osservò per un po’ prima di schiarirsi la
voce.
“Scusi, sir. In che via ci troviamo?”
L’uomo si fermò, voltandosi verso di lui e soffermando lo sguardo sui
suoi abiti sgualciti e sporchi di fuliggine.
“Baker Street, ragazzo.” Rispose, per poi continuare per la sua strada.
“Baker Street.” Ripeté in un sussurro il ragazzo e sulle sue labbra
nacque un sorriso compiaciuto. Si avviò a passi lenti, con lo sguardo
che scorreva docilmente sulle porte dei palazzi. Ad un tratto si fermò,
osservando attentamente il numero civico 221B; alzò gli occhi verso la
finestra del primo piano e vide che la luce era ancora accesa oltre la
spessa coltre di tende. Si avvicinò alla porta ed alzò un pugno per
bussare, ma esitò. Abbassò nuovamente il braccio e, dando una veloce
occhiata intorno, infilò la mano nella tasca dei pantaloni e ne
estrasse una forcina. Forzò con cautela la serratura ed entrò,
chiudendosi la porta alle spalle, per poi avviarsi silenziosamente
verso le scale. Salì con le movenze di un gatto fino a raggiungere il
piano superiore. Quando si trovò davanti alla porta dell’appartamento
esitò di nuovo, ma una voce all’interno lo invitò ad entrare. Il
ragazzo sussultò leggermente, ma non tergiversò oltre. Afferrò la
maniglia ed entrò. Scorse con gli occhi il salotto in cui si ritrovò,
per soffermarli poi sulla figura in piedi accanto alla finestra.
“Entrare nelle case altrui in tal modo è un reato, sa?” Domandò l’uomo,
con lo sguardo sempre rivolto verso la strada.
“Lo so. E ne sono costernato.” Rispose il ragazzo. “Ma volevo evitare
di svegliare più gente di quanto non fosse necessaria.”
L’uomo si voltò a guardarlo. Scrutò con attenzione il suo aspetto, in
ogni minimo dettaglio. Ogni piega sui suoi abiti, ogni macchia di
fuliggine e di fango sulla suola delle scarpe. Ma più di ogni altra
cosa si soffermò sui lineamenti gentili del suo viso, semi nascosto
dall’ombra del cappello.
“Che cosa la porta qui a quest’ora della notte, Miss?”
Il ragazzo sorrise compiaciuto. “Non potevo aspettarmi di meglio da
lei, Mr. Holmes.”
“Scovare gli inganni è il mio mestiere. Anche se devo ammettere che ha
fatto un ottimo lavoro. Il silicone, poi, è un vero tocco di classe.”
“Ho avuto degli ottimi maestri.”
Sherlock Holmes si mosse ed andò a sedersi sulla sua poltrona,
accavallando le gambe e intrecciando le dita.
“Or dunque. Perché si trova qui?”
“E’ una storia piuttosto lunga.”
“Ho tutto il tempo del mondo.”
“Sono molto lieta di sentirglielo dire.”
Con un rapido gesto della mano si tolte il cappello e una cascata di
capelli scuri le ricaddero sulle spalle. Scosse leggermente la testa
per farli tornare in ordine e, mentre prendeva posto su una sedia
davanti al detective, rimosse dalla mandibola e dagli zigomi una
sostanza gommosa, mostrando il suo vero volto. Puntò gli occhi ambrati
in quelli del detective.
“Bene. Cominciamo.”
•••
Era
una tiepida giornata di sole ed un’ inusuale pace aleggiava negli
appartamenti del 221B di Baker Street. Mrs. Hudson, la padrona di casa,
tendeva sempre a godersi il più possibile quei momenti di assoluto
silenzio e tranquillità, prendendosi una pausa dalle stramberie di Mr.
Holmes. Erano le sei del pomeriggio e il bollitore del tè aveva appena
cominciato a fischiare quando la porta esterna si aprì lasciando
entrare uno degli affittuari, il dottor John Hamish Watson. Di ritorno
dal suo giro di visite, il dottore si avviò stancamente su per le
scale, aiutandosi col suo bastone da passeggio, e assaporando anche lui
quel tranquillo silenzio. Solitamente quell’assenza di suoni lo avrebbe
allarmato, ma il suo amico e coinquilino Sherlock Holmes era partito
per la Francia ormai da quasi più di una settimana, quindi non c’era
alcun motivo di preoccuparsi. Sarebbe voluto partire anche lui per
affiancarlo in quel caso che tanto lo esaltava, ma Holmes, per la prima
volta da quando si conoscevano, aveva insistito perché restasse a
Londra. Aveva giustificato il tutto dicendo che in questa occasione
avrebbe agito meglio da solo e che non voleva metterlo nuovamente in
pericolo. E lui gli credette. Per questo motivo ora Watson si trovava
seduto nella sua comoda poltrona in Baker Street e Holmes era in
qualche punto impreciso del territorio franco. Incolume, sperò il dottore. Sospirò
e si rilassò contro la spalliera della poltrona, chiudendo gli occhi.
Watson non seppe quantificare il tempo passato in quella posizione,
quando udì del trambusto provenire dal piano di sotto. Si rizzò a
sedere con le orecchie tese, riuscendo a cogliere tre voci distinte di
cui due, ne era certo, erano di Mrs. Hudson e Holmes. La porta
dell’appartamento si spalancò di scatto, facendo mostra di un Holmes
borbottante che stringeva in mano la valigia.
“Watson!” Esclamò con un sorriso quando alzò lo sguardo su di lui. “E’
un vero piacere rivederla!”
“Holmes” Disse l’altro. “Smetterà mai di tormentare la povera Mrs.
Hudson?”
“Povera, ah! E’ sempre lei la povera,
vero? Mai che si parli del povero
Holmes!”
“Non faccia il melodrammatico –”
Il dottore interruppe il discorso sul nascere, quando, sulla soglia,
vide comparire una giovane donna. Era piccola di statura e di
corporatura minuta, ma sotto le stoffe cerulee del vestito erano ben
riconoscibili le morbide curve dei seni e dei fianchi. Il viso sottile
era incorniciato dai lunghi capelli scuri, che le ricadevano sulle
spalle, e le labbra rosee erano piegate in leggero sorriso rivolto
all’uomo seduto in poltrona. Quest’ultimo si alzò, come ogni gentiluomo
che si rispetti, tenendo gli occhi color cielo in quelli nocciola e
screziati d’ambra di lei. Holmes passò lo sguardo da l’uno all’altra
per poi esclamare: “Oh, giusto!”
Prese la mano sinistra di lei e la fece avanzare nella stanza fino ad
averla al suo fianco.
“Watson, voglio presentarle Hope. Mia moglie.”
•••
|
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Capitolo 2 *** #02 ***
Se
fosse stato un po’ più attento, come era sempre solito fare,
probabilmente Sherlock Holmes avrebbe sentito il cuore del dottore
incrinarsi. Segretamente sperava di cogliere questo leggero suono, lo
stesso che aveva fatto il suo di cuore quando aveva capito che non
sarebbe riuscito a convincere il vecchio amico a restare, a non
sposarsi. Ma lui non sapeva niente di sentimenti, era risaputo, e non
si accorse di come esso ebbe invece prodotto un suono forte e sordo. Il
caro buon dottore, dal canto suo, si sforzò di sorridere, cercando di
dissimulare quel terribile mix di stupore, terrore e incredulità che
stava provando. Per non parlare del dolore che lo aveva colpito
infondo allo stomaco. Passò lo sguardo da lui a lei più volte, sperano
che il detective se ne uscisse che era tutto uno scherzo e che era
stato uno spasso vedere il suo volto sbigottito. Ma ciò non avvenne.
“Mio caro Holmes, questa è una notizia incredibile!” Forzò maggiormente
i muscoli facciali. “Deve avere delle splendide qualità per essere
riuscita ad accalappiare il mio amico.” Disse rivolgendosi a Hope, alla
quale strappò una risata cristallina.
“La ringrazio, dottor Watson, ma non mi ritengo una persona speciale.”
“Dovrebbe invece.” Spostò lo sguardo su Holmes, questa volta con
un’espressione tale da potergli trasmettere i suoi pensieri. La cosa
dovette dare i suoi frutti dato il repentino cambio di espressione del
detective, che si voltò verso la moglie per sfuggire a quegli occhi di
ghiaccio.
“Vieni cara, ti mostro le nostre stanze.”
Così dicendo la condusse nella sua camera da letto. Watson li osservò,
pietrificato, finché non scomparvero dalla sua visuale. Continuava a
ripetersi che non poteva essere vero, che Sherlock Holmes non era tipo
da matrimonio e che, se fosse accaduto, certamente non lo avrebbe fatto
a sua totale insaputa, con una donna che aveva conosciuto solo qualche
giorno innanzi. La sua incredulità era totale e al contempo si sentiva
offeso dal fatto che Holmes l’avesse tenuto all’oscuro di tutto e non
lo avesse coinvolto. Gli balzò anche alla mente l’idea che in realtà
non fosse partito per un caso, ma esclusivamente per sposare Miss.
Hope, che, parlando francamente, era fin troppo giovane per lui. In
quel momento provò un moto di rabbia verso di lui, ma anche verso sé
stesso perché aveva creduto a quelle fandonie che lo avevano tenuto a
Baker Street. Udì dei passi svelti e, tornando con lo sguardo sulla
porta della stanza, vide che Holmes gli si stava avvicinando.
“Si spieghi.” Disse con tono pungente.
“Prego?” Rispose l’altro, fintamente perplesso.
“Lo sa benissimo.”
“In fede mia Watson, non so di cosa stia –”
“Sposato!” Alzò le braccia e il tono con fare esasperato. “Sposato,
Holmes! Lei! E a mia insaputa!”
“Non sapevo di doverle rendere nota di tutto ciò che faccio.”
“Mi ritengo altamente offeso da questa affermazione!”
“Perché dovrebbe?”
“Perché dovrei! Sono suo coinquilino, collega e migliore amico da anni e non le è sovvenuto il dubbio
che avrei voluto sapere delle sue nozze o farne parte?!”
“E’ stata una cosa molto informale…”
“Lei come al solito non mi ascolta!”
“Questo non è vero! Io ascolto sempre ciò che dice.”
“Oh, ma davvero? Allora mi dica, che cosa ho appena detto?”
“Che è geloso.”
“COS –??”
“Sherlock?”
Entrambi si voltarono verso la porta, dove Hope stava in piedi ad
osservarli.
“Perdonatemi se vi interrompo, ma volevo chiederti se saresti
tanto gentile da venirmi a dare una mano.”
“Ma certamente!” Rispose prontamente il detective, sfoggiando uno dei
suoi sorrisi migliori, per poi raggiungerla a grandi falcate e
chiudersi la porta alle spalle. Watson rimase sbigottito. Non aveva mai
visto il suo amico comportarsi in tal modo e si chiese cosa avesse
quella donna di tanto speciale. Strinse i pugni convulsamente e
andò a sedersi sulla sua poltrona, prendendo con un gesto stizzito il
giornale dal tavolino. Lo aprì con fare deciso, stringendolo tra le
mani con più forza dovuta e rischiando quasi di strapparlo in due.
Cercò di concentrarsi sulla lettura, anche se si rivelò ardua cosa, e
notò come i giornalisti continuassero a parlare con fervore dei vari
furti avvenuti nel mese scorso. Non che la cosa lo stupisse. Erano
avvenuti nelle case di alcuni dei più alti esponenti della città di
Londra e nelle circostanze più misteriose. L’unica cosa certa era il
nome con cui il ladro si faceva chiamare: the Man. Ad esser del tutto
sinceri, il dottor Watson era rimasto stupito dal fatto che Holmes
avesse declinato la richiesta d’aiuto degli yard in tal merito, quando,
qualche giorno prima della sua partenza, avevano fatto visita al 221B.
Ma aveva anche ritenuto che il motivo stesse nell’implicazione di
Holmes in un caso di cui lui, invece, sapeva poco o niente. Provò una
fitta allo stomaco a quel pensiero, collegandolo immediatamente al
matrimonio. Come aveva potuto fargli un torto simile? Holmes era stato
il primo a venir a conoscenza del suo fidanzamento con la sua compianta
Mary e gli aveva fatto da testimone. Mentre lui, invece, non era stato
messo a conoscenza di nulla. Ma se lo avesse saputo, come avrebbe
reagito? Come si sarebbe sentito al riguardo? Ovviamente sarebbe stato
felice per Holmes, anche se giustamente stupito. Il dottore si fermò su
quel pensiero, fissando la pagina stampata senza batter ciglio. Quale
immensa menzogna aveva appena detto a sé stesso.
Bussarono leggermente alla porta, facendolo riscuotere dai suoi
pensieri.
“Avanti.”
Mrs. Hudson fece capolino nella stanza tenendo in mano un vassoio con
sopra una teiera e tre tazzine facenti parte del suo servizio buono,
insieme all’immancabile piatto coi biscotti. Si guardò intorno curiosa,
certamente cercando Mrs. Holmes.
“Avete visto dottore? Che cosa incredibile!” Disse tutta concitata,
mentre avanzava verso il tavolo. “Mr. Holmes sposato! Lei ne sapeva
qualcosa?”
“No, niente.” Rispose lui con tono infastidito, guardandola da sopra il
giornale.
“Non se la prenda a male. Lo conosce, sa com’è fatto.” Poggiò
accuratamente il vassoio e poi si diresse verso la camera di Holmes.
Bussò una volta. “Mr. Holmes? Volevo avvertire lei e la sua consorte
che vi ho portato il tè e alcuni biscotti.” Parlò con tono gentile, lo
stesso che solitamente riservava solo a Watson e mai al detective.
Pareva che a Mrs. Hudson, rifletté il dottore, fosse piaciuta molto
l’idea che Holmes si fosse finalmente sistemato. Ne ebbe la conferma
quando tornò verso di lui sussurrando: “E’ proprio una cara ragazza.
Molto gentile ed educata.” Sorrise ampiamente, per poi aggiungere,
inarcando le sopracciglia: “Mi domando cosa abbia trovato in lui, ma
certamente Mr. Holmes è stato molto fortunato.”
Mrs. Hudson non poteva certo immaginare che con quelle parole aveva
provocato nel dottore ancor più malessere di quanto già non provasse. E
se ne andò, borbottando qualcosa che somigliava molto a “Speriamo sia dotata di molta pazienza”.
I coniugi Holmes non si mostrarono per il tè e nemmeno per la cena,
portando la mente di Watson a vagare in vie che un gentiluomo non
dovrebbe percorrere.
Il povero dottore dormì poco o niente, tanto era preso dagli
avvenimenti che si erano verificati nel tardo pomeriggio, e, quando le
lancette dell’orologio da taschino si soffermarono sui numeri nove e
uno, decise che era inutile crogiolarsi ancora nelle calde coperte e
nell’angoscia e si alzò. Nell’entrare in salotto per la colazione,
rimase sorpreso nel vedere che Mrs. Holmes si trovava in piedi davanti
alla finestra. Osservava con attenzione al di là del vetro, tenendo le
mani giunte all’altezza del ventre. Aveva i capelli raccolti sulla nuca
ed indossava un vestito dal corpetto color crema e la gonna color
amaranto, che metteva in risalto la sottigliezza della sua vita. Si
voltò verso di lui e si sciolse in un sorriso.
“Buongiorno dottor Watson.”
“Buongiorno Mrs. Holmes.” Il dottore sentì un groppo alla gola nel
mentre pronunciava quelle ultime due parole.
“La prego, mi chiami Hope. Mrs.
Holmes è così formale.”
“Come desidera.” Fece qualche passo verso il tavolo apparecchiato.
“Holmes è in casa?”
“Oh no, è uscito molto presto stamane, ancor prima che io fossi scesa
dal letto. Ma suppongo sia cosa normale data la sua inusuale abitudine
al non dormire. E lei, dottore? Lei ha dormito?”
Si voltò a guardarla, accigliato, rimanendo sospeso nell’atto di
sedersi.
“Prego?”
“Mi perdoni, tendo sempre a parlar troppo. Non volevo mancarle di
rispetto o essere scortese. Ho solamente notato le leggere ombre sotto
i suoi occhi ed ho pensato che non avesse avuto un buon sonno. Magari è
dovuto al materasso. L’ho trovata anche un po’ rigida nei movimenti.”
Nel momento in cui l’ultima sillaba lasciò le sue rosee labbra, Watson
capì cosa Holmes avesse trovato in lei. Ella era decisamente un’ottima
osservatrice ed era riuscita a cogliere tutto alla perfezione. Questo,
però, il dottore si premurò di non dirglielo, contrariato com’era
ancora dalla sua presenza in quella casa, e si sedette, per poi
imburrarsi un toast.
“Come vi siete conosciuti lei ed Holmes?” Domandò, fingendo non
curanza, quando invece quella domanda gli premeva nelle tempie più di
ogni altra cosa.
“Per un caso fortuito, oserei dire. Quante possibilità ci sono che due
inglesi si incontrino in Francia durante le indagini di un caso?” Rise
leggermente. Watson pensò che ce ne era una su un milione e che,
sfortunatamente, proprio lei e il detective erano dovuti entrare in
essa. Finì di stendere anche la marmellata e addentò il toast. Hope
continuò: “Ci siamo conosciuti in albergo, durante una colazione come
questa. Anche qui bisogna probabilmente parlare di fato, considerando
le sue abitudini alimentari durante un caso.”
Più che di fato, bisognerebbe parlare
di fatalità, pensò il dottore, che cercò di scacciare
immediatamente quel pensiero.
“Una vera fortuna.” Disse, invece, alzando lo sguardo su di lei. Nel
momento in cui i loro occhi si incrociarono, notò che c’era una strana
lucentezza in quelli di lei. Erano, avrebbe potuto giurarlo, tinti di
malizia e in quel momento mal si accostavano al suo perfetto sorriso di
bambola. Poi un battito di ciglia e tutto svanì. Restarono solo i suoi
splendidi occhi color nocciola.
“Sono d’accordo con lei.”
Watson pensò di essere semplicemente prevenuto nei suoi confronti e che
fosse stato frutto della sua malcelata insofferenza verso di lei. Si
rese conto di essere stato vistosamente troppo freddo e sperò che Hope
giustificasse tale comportamento con un nervosismo provocato dalla
mancanza di sonno.
“E’ stato un incontro molto romantico ed azzarderei quasi fiabesco.” Si
affrettò a dire. “Dev’esser molto orgogliosa nel raccontarlo.”
“Ed infatti lo sono.” Si mosse dalla finestra, camminando sinuosamente
verso la libreria e incominciò ad accarezzare i libri con lo sguardo,
tenendo le braccia incrociate sotto il seno. Il dottore la guardò
ancora un attimo, per poi rivolgere totalmente la sua attenzione alla
colazione.
•••
I giorni scorsero veloci e John Watson dovette riconoscere nella nuova
coinquilina una piacevole compagnia. In quel periodo Holmes raramente
si faceva trovare a Baker Street, portando i due a passare amabilmente
le giornate insieme conversando degli argomenti più svariati, che
finivano sempre, inevitabilmente, nello sfociare in aneddoti
riguardanti il detective.
Hope era una donna di larghe vedute e dalla buona cultura, di cui
metteva sfoggio in ogni argomentazione senza mai vantare superiorità
della sua conoscenza, come era solito fare, invece, il marito. Mrs.
Hudson, come già premesso, l’aveva presa in simpatia, del tutto
ricambiata da Mrs. Holmes, che si adoperava anche ad aiutare la padrona
di casa in cucina e nelle faccende. Se si fosse dovuto darle un
aggettivo, quello sarebbe stato perfetta.
Ma nessuno lo è mai realmente. Ed era esattamente quello che stava
pensando il dottore, quel pomeriggio di metà Febbraio, mentre osservava
di tralice Hope, che leggeva stando compostamente seduta sul divano.
C’era sempre qualcosa d’affettato nei suoi gesti, che li rendeva quasi
inumani, e, quando si rivolgeva a lui in special modo, nelle sue parole
una cadenza quasi divertita. A volte Watson si era ritrovato a
immaginarla su un palcoscenico tanta era forte la sua impressione che
stesse recitando una parte. Ma non sempre era così. Accadeva quando si
sedevano insieme in quel salotto e chiacchieravano del più e del meno.
I suoi gesti, le sue parole, i suoi sorrisi, divenivano morbidi e
naturali e a lui tornavano alla mente le sue serate a Cavendish Place
passate con Mary.
“C’è qualcosa che la turba, dottore?” Domandò, senza spostare gli occhi
dal libro. Il dottore non si sorprese affatto. Era troppo abituato ai
comportamenti di Sherlock Holmes e Hope in questo gli somigliava molto.
“No, alcunché, Hope.”
Passarono altri giorni, ma la strana sensazione di sospetto che provava
nei confronti di lei non parevano essere intenzionati a lasciarlo e i
suoi propositi di parlarne col vecchio amico cadevano sempre a vuoto,
per via che passava la maggior parte del suo tempo fuori, evidentemente
ad investigare su qualcosa, ed in compagnia della moglie, provocando
sempre fastidio nel dottore. Fu in una sera di Marzo che le cose
iniziarono ad avere finalmente delle risposte.
•••
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Capitolo 3 *** #03 ***
Quel
giorno il buon dottore era stato costretto a fare un giro di visite a
domicilio più lungo del solito ed aveva approfittato dei lunghi viaggi
in carrozza per riflettere sul da farsi, arrivando alla conclusione che
sarebbe rimasto ad aspettare Holmes anche fino a notte fonda, se
necessario, pur di parlargli. Oltre ai suoi sospetti, Watson voleva
ancora delle spiegazioni dal detective riguardo al suo affrettato
matrimonio, di cui aveva avuto modo di discutere solo con la sua
consorte, e Holmes certamente gliele doveva. Stava ancora rimuginando
su questi fatti mentre svoltava in Baker Street. Il suo ultimo paziente
abitava a solo un isolato di distanza e questo lo aveva portato a
prediligere un ritorno a piedi. Probabilmente, però, se avesse preso
una carrozza non si sarebbe trovato così lontano dal 221B quando vide
un ragazzo entrare senza problemi scassinando la porta d’entrata. Il
dottore aumentò il passo, pensando a Mrs. Hudson e Mrs. Hope, ed in
poco tempo raggiunse l’edificio. Prima di entrare con cautela, notò che
la porta non sembrava minimamente forzata e se non lo avesse visto coi
propri occhi non si sarebbe accorto di nulla. Chiuse lievemente la
porta, senza staccare gli occhi dalle scale e tenendo stretto il suo
bastone tra le mani, maledicendosi per non avere con sé il revolver.
Cercò di captare qualche rumore, ma ciò non avvenne ed iniziò a salire
lentamente su per le scale. Aprì con cautela la porta del loro
appartamento e guardò all’interno. Non vi era nessuno e tutto pareva al
suo posto. Entrò, sempre facendo attenzione a non emettere alcun suono
e guardandosi intorno con attenzione, per poi avviarsi verso il suo
studio, la cui porta era socchiusa. Si appiattì contro il muro e
con una mano iniziò ad aprire lentamente la porta, mentre con l’altra
era già pronto ad estrarre la spada…
“Dottor Watson?”
Sussultò, voltandosi di scatto. Hope lo osservava con aria preoccupata,
tenendo una mano appoggiata allo stipite della sua stanza e l’altra
ancora sulla maniglia. Lui chiuse gli occhi e prese un respiro, per poi
voltarsi nuovamente ed aprire completamente la porta. La stanza era
vuota.
“Dottore che cosa succede?” Lo raggiunse.
“Ho visto un ragazzo introdursi in casa.” Tornò a guardarla.
“Un ragazzo?” Sgranò leggermente gli occhi.
Watson annuì. “Lo ha visto?”
“No. Santo Cielo, no.” Si portò una mano al petto, corrucciando le
sopracciglia. “E crede che” La domanda le morì sulle labbra quando la
porta del soggiorno si aprì facendo entrare Holmes. Capì che qualcosa
non andava immediatamente, allarmato soprattutto dallo sguardo che la
moglie gli stava rivolgendo.
“Che cosa è successo? Suvvia, parlate!”
“Il dottor Watson ha visto un uomo entrare in casa.”
“Beh, questa non è una cosa inusuale.” Sorrise sornione.
“Non era un uomo, era un ragazzo. E non l’ho visto entrare. L’ho visto scassinare la
porta d’ingresso.” Precisò il dottore, provando un certo fastidio per
la distorsione delle sue parole, e per una frazione di secondo credette
di aver visto Holmes stringere i denti e scoccare un’occhiata gelida
alla consorte.
“Mio caro amico, la porta che da sulla strada non ha nulla che non
vada.” Disse.
“Ho avuto modo di notarlo anch’io, ma sono certo di quello che ho
visto.”
Holmes esitò, sostenendo lo sguardo sicuro e ostinato del compagno.
“Se è veramente così – e non sto mettendo in dubbio le sue parole –
dov’è?”
Il cuore di Watson balzò nel petto. Già, dov’era? Lui lo aveva visto
entrare, ma non uscire. Non sapeva come rispondere e Holmes lo sapeva
perfettamente, lo capiva dal suo sguardo. Questo lo fece innervosire
ancor di più.
“Lei non mi crede, vero?” Domandò, prima di potersi trattenere.
“Certo che le credo, Watson! Ma converrà anche lei che la situazione è
alquanto bizzarra!”
“Bizzarra?!” Il dottore non fu più in grado di sopportare oltre e,
mentre l’amico aprì la bocca per controbattere, lui si voltò ed andò
dritto nella sua stanza. Riflettendoci più avanti si rese conto di aver
agito in modo molto infantile, ma al momento era troppo offeso per il
comportamento di Holmes per ragionarci a mente lucida. L’unica cosa a
cui riusciva a pensare era che il detective non sembrava più lui da
quando era tornato dal viaggio in Francia. Da quando era tornato con quella. Prima di allora non avrebbe
mai messo in dubbio la sua parola in quel modo e tanto meno non avrebbe
esitato a cercare di scavare più affondo in quella ‘bizzarria’. Si sdraiò a pancia in
giù sul letto, cercando di distendersi. Doveva stare calmo e cercare di
sciogliere quel nodo che provava all’altezza del petto, che non faceva
altro che distrarlo dalla verità. Su questo punto Holmes aveva ragione:
i sentimenti sono fonte di deconcentrazione nei confronti di
un’indagine.
Quando lasciò la stanza per la cena scoprì che Holmes era uscito
nuovamente. Iniziò seriamente a pensare che non sarebbe più riuscito a
parlare con lui o a passarci insieme anche solo un secondo del suo
tempo e che forse avrebbe fatto meglio ad iniziare a cercar casa. Non
sarebbe riuscito a sopportare una simile situazione ancora per lungo.
Lui e Hope cenarono silenziosamente insieme e in altrettanto modo
lessero un libro ciascuno, mentre il fuoco scoppiettava nel camino
riscaldando la stanza. Quando lei si ritirò nelle sue stanze, il
dottore posò il libro sulle gambe sospirando. In verità aveva letto
poco o niente, tanto rimbombavano forti nelle tempie le sue pene. Si
decise a provar di dormire e si era appena alzato dalla sua poltrona
quando sentì dei rumori al piano di sotto. Dapprima credette si
trattasse di Holmes, ma ad un ascolto più attento si rese conto che
quelli non erano i passi del suo amico, il quale avrebbe evitato quel
famoso gradino scricchiolante, né tanto meno Mrs. Hudson, che si doveva
essere coricata da un pezzo. Watson si mosse velocemente verso il suo
studio ed estrasse dal cassetto della scrivania il revolver. Tornò nel
soggiorno, appiattendosi contro il muro di fianco alla porta, in
attesa. Dopo attimi che parvero interminabili passati col fiato
sospeso, la maniglia si abbassò e la serratura scattò. Il dottore
strinse con più fermezza il calcio della pistola, pronto ad agire,
mentre la porta si apriva piano e la sagoma di un uomo iniziava a
prendere forma. Con un gesto deciso e fulmineo Watson lo colpì alla
testa, facendolo gemere dal dolore e arrancare verso il pavimento. Non
aveva però tenuto conto della presenza di un secondo intruso dalla
corporatura discutibile, che si avventò immediatamente su di lui. Il
dottore si trovò improvvisamente ad annaspare contro il muro con le
mani prive della pistola, mentre l’altro teneva le sue a metà strada
tra le sue spalle e il suo collo in un goffo tentativo di soffocarlo.
Reagì con la prontezza di un soldato afferrando i suoi avambracci e
affondando il suo stomaco con una violenta ginocchiata. L’uomo mollò la
presa, piegandosi in avanti, e Watson approfittò della sua debolezza
per colpirlo ancora. Nel frattempo il primo estraneo si era ri-alzato e
aveva individuato il revolver, che giaceva inerme sul pavimento. Si
mosse rapidamente per appropriarsene, ma un forte colpo alla schiena lo
fece vacillare, costringendolo ad arrestare i suoi intenti e a voltarsi.
“Sì, è vero. Questa non è la tua serata fortunata.” Lo schernì Hope con
un sorriso sornione. Lui le si avventò contro, ma lei fu più veloce: si
spostò dalla sua traiettoria con lestezza e lo colpì con forza con un
bastone che aveva tenuto nascosto dietro la schiena, ripetendo l’azione
svariate volte prima di mollare l’arma improvvisata ed andare a
raccogliere la pistola. La puntò contro l’altro estraneo, che stava
prendendo il sopravvento su Watson. “Credo che questa non sia nemmeno
la tua serata fortunata.”
L’uomo si voltò a guardarla, un pugno ancora alzato a mezz’aria,
decisamente preso alla sprovvista.
“Ti do cinque secondi per prendere il tuo compagno ed andartene.” Disse
lei con calma. “Uno” Lui si allontanò con uno scatto da Watson, che
vacillò all’indietro fino a colpire il tavolino e a cadere sul
pavimento. “Due” Afferrò l’altro per le spalle e lo aiutò ad alzarsi
sorreggendolo. “Tre” Entrambi si catapultarono fuori dalla porta,
seguiti dallo sguardo vigile di Hope e dalla canna della pistola. [1]
Lo scalpitio lungo le scale e lo sbattere della porta d’ingresso furono
seguiti da un lungo silenzio intrinseco di tensione. Watson ansimava
leggermente, mezzo sdraiato sul pavimento, lo sguardo fisso su di Hope.
Se non l’avesse vista coi propri occhi far scappare quegli uomini,
probabilmente non ci avrebbe creduto. Era una creatura così fragile e
minuta. O almeno, così appariva. Lei rimase immobile, le orecchie tese
pronte a captare il minimo rumore e i nervi a fior di pelle; quando fu
certa che non vi è era più alcun pericolo lasciò ricadere il braccio
lungo il fianco, sempre tenendo la pistola saldamente in mano. Chiuse
gli occhi e sospirò leggermente, per poi voltarsi verso il dottore ed
avvicinandosi velocemente.
“Sta bene?” Chiese allarmata inginocchiandosi accanto a lui e poggiando
il revolver a terra.
“Sì, non si preoccupi.” Si puntò meglio su un braccio per mettersi
seduto. “Me lo lasci dire, Hope: è stata splendida.”
Le sue labbra tese si sciolsero in un sorriso. “La ringrazio.”
“Dico davvero! Non so quante altre ladies avrebbero saputo intervenire
in tal modo.” Un pensiero devastante lo percorse e gli sfuggì dai
denti. “Ora capisco perché Holmes si è innamorato di lei.” Si morse la
lingua, domandandosi per quale folle motivo aveva detto una cosa del
genere proprio a lei e aspettandosi una reazione che non avvenne. Hope
si limitò a guardarlo e a sorridere dolcemente con una nota malinconica
nello sguardo. Il dottore credette di scorgervi addirittura della
compassione. Udirono dei passi e ben presto Mrs. Hudson comparve
trafelata sulla porta, indossando la vestaglia da notte.
“Buon Dio! Cosa è successo qui?”
•••
“Uhm.”
Sherlock Holmes aveva fatto ritorno a Baker Street alle due del mattino
e aveva trovato i tre seduti nella caotica sala da pranzo con in mano
una tazza di tè ciascuno. Gli era bastato notare la luce accesa
visibile dalla strada e le impronte sui gradini esterni per capire cosa
era successo, ma lo sguardo di Hope gliene diede conferma. Si aspettava
che sarebbe accaduto. In quel periodo gli eventi stavano fermentando e
si diede dello sciocco per essere stato lontano dall’appartamento così
a lungo. Ascoltò con attenzione il resoconto di tutti, stando seduto
nella sua poltrona, e poi congedò Mrs. Hudson che continuava a
farneticare sul fatto che dovevano chiamare la polizia. Il detective
dovette trattenersi dal riderle in faccia svariate volte. Chiamare
Scotland Yard? Quale immensa sciocchezza! Quando finalmente la padrona
di casa lasciò i loro alloggi per tornare nei suoi, Holmes si voltò a
guardare Hope, che, lo sapeva, intercettò immediatamente la linea dei
suoi pensieri. Certo non gli sfuggì il peso dello sguardo di Watson su
di sé, ma questo non fu altro che un incentivo a spingerlo a domandare
alla sua consorte: “Stai bene? Mi pari un po’ scossa.”
Lei lo guardò con una punta di disappunto. “Sto bene. Il dottore invece
è stato colpito numerose volte -”
“Oh, ma lui è un uomo di guerra!” Si voltò verso il compagno,
sorridendo. “E’ un osso duro. Vero, amico mio?” Provò una sadica
soddisfazione nel leggere la gelosia nei suoi occhi ancora una volta.
Ed infatti Watson lo era. Si sentiva terribilmente messo in secondo
piano, spodestato dal primo posto tra gli affetti di Holmes.
Adesso c’era lei, che incarnava alcune delle qualità tra le più gradite
dal suo amico e che sarebbe sempre stata al suo fianco. Non c’era più
posto per lui. Questa consapevolezza lo stava schiacciando.
“Già. Così sembra.” Rispose semplicemente, ricambiando il suo sguardo.
Rimasero a squadrarsi finché il silenzio non venne spezzato dalla voce
di Hope.
“Devo porgerle le mie scuse, dottore.”
Watson spostò lo sguardo su di lei. “Per quale motivo?”
“Per averla turbata in quel modo quando è rientrato. Non credevo che ci
saremmo incrociati.”
Lui era seriamente sbigottito e perplesso. “Non capisco a cosa si
riferisca…”
“Quello che Hope sta cercando di dirle” Intervenne Holmes. “E’ che le
spiace di essersi fatta vedere da lei in abiti maschili, nonostante le fosse stato espressamente
proibito di usarli durante il giorno, e di averla fatta
preoccupare.”
Hope sbuffò, alzandosi dal divano. “Come sei noioso.” Incrociò le
braccia, guardandolo. “E poi non era giorno –”
“Sei uscita di giorno!”
“Ma sono rientrata che era già sera!”
Watson li guardava con tanto d’occhi. Il ragazzo che aveva visto
introdursi in casa… era Mrs. Hope?
“Non importa quando rientri, ma quando lasci questo appartamento. Non
ti credevo così sprovveduta.”
“Non lo sono. Infatti ho lasciato questa casa vestendo i miei panni e
mi sono cambiata in seguito.”
“Potrebbero comunque averti visto.”
“Dubito del loro spirito di osservazione.”
“Scusate se vi interrompo” Intervenne d’un tratto Watson portando gli
occhi dei presenti su di sé. “Posso sapere di cosa state parlando?”
Cercò di mantenere un tono calmo e neutrale, ma in realtà dentro
avrebbe voluto urlare.
“Stiamo lavorando a un caso.” Rispose velocemente Hope, evitando che il
marito la bloccasse sul nascere.
“Un caso?”
“Esattamente. In realtà si tratta dello stesso che c’ha portato a
conoscerci…”
Un caso. Quel caso. Il
dottore non riusciva a credere alle proprie orecchie. Nonostante
fossero passati tutti quei mesi, Holmes aveva continuato a tenerlo
all’oscuro di tutto e lontano dalle indagini. Era bastato veramente
così poco, due occhi da cerbiatto e un sorriso grazioso, a fargli
dimenticare di lui?
“E di che caso si tratterebbe?” Domandò, cercando di mantenere ancora
un tono di voce adeguato.
“Direi che è arrivato il momento di far chiarezza sugli eventi.” Esordì
Sherlock Holmes. “Ebbene, come ben sa, mio caro Watson, in questi
ultimi mesi mi sono assentato parecchio per dedicarmi all’indagine di
un caso molto importante. Naturalmente avrà sentito parlare di Timothy
Carlton [2].”
“Naturalmente! Se non erro il suo nome compare anche tra i magnati che
sono stati derubati dal celeberrimo the
Man.”
“Esattamente. Vede, Carlton è un uomo molto in vista, conosciuto
soprattutto per la sua grande generosità nei confronti del prossimo e
per le ingenti somme dei suoi finanziamenti. Ma questo non è
nient’altro che un metodo per insabbiare i suoi misfatti e di godere di
una certa sicurezza. Egli è infatti un criminale di prim’ordine, un
boss, che ho scoperto essere implicato in molti affari loschi, che
vanno dal contrabbando di beni d’arte contraffatti all’omicidio.” Fece
una pausa. “Capirà, vecchio mio, che è una questione molto delicata ed
è per questo motivo che non ho voluto coinvolgerla. Hope era
implicata, aimè, già prima che ci conoscessimo ed è per questo che le
ho concesso di aiutarmi ancora nelle indagini, anche se in misura
minore.”
“Sì, capisco benissimo. Sappia, però, che se dovesse aver bisogno può
sempre contare sul mio aiuto.”
Holmes sorrise, provando un moto di orgoglio nei confronti di quell’ex
soldato sempre pronto ad entrare in prima linea per aiutarlo.
“Lo so.”
Era vero. Watson capiva, capiva eccome. Ma non riusciva comunque a
sopportarlo. Mai avrebbe creduto possibile che Holmes lo tenesse fuori
da un caso, soprattutto di quella portata. Che volesse proteggerlo?
Forse. Anche se la verità fosse stata quella, lui si sarebbe ugualmente
sentito a quel modo: messo da parte. Hope si mosse leggermente.
“Vogliate perdonarmi, ma gli ultimi avvenimenti sono stati molto
intensi e urge in me il bisogno di andare a coricarmi.”
“Ma certamente! Vada pure senza alcun remore.” Le rispose Watson che,
tanto era preso dai suoi pensieri, non notò lo sguardo di
silenziosa supplica che Holmes rivolse alla moglie, la quale fece un
cenno d’incitazione con la testa prima di voltarsi e scomparire nella
camera da notte. Per la prima volta, dopo quella prima breve
discussione, Holmes si trovava da solo nella stanza con Watson e mai
come allora aveva desiderato tanto di trovarsi altrove.
“Lo sa,” Esordì il dottore. “sono ancora in collera con lei.”
Holmes lo guardò con un cipiglio. “In collera con me?”
“Sì, con lei.” Marcò l’ultima
parola con asprezza. “E’ partito tenendomi all’oscuro di tutto ciò che
stava accadendo ed è tornato con una sposa come se fosse la cosa più
normale del mondo. Sono a dir poco offeso dal suo comportamento.”
“Conosce i miei metodi.”
“Questo va ben oltre il metodo.” Sospirò. “Holmes non mi fraintenda;
sono felice che sia riuscito finalmente a trovar una compagna, e quindi
che abbia dimenticato Miss Adler. Ma non capisco la sua ostinazione a
volermi tener fuori da tutto questo.”
“Le ho spiegato perché l’ho esclusa dal caso.”
“Non mi riferisco al caso.”
Calò il silenzio. La mente del detective lavorava insistentemente nella
ricerca di una risposta adeguata che potesse porre fine a quella
discussione. Era irrilevante il fatto che potesse essere troppo dura o
provocare reazioni spiacevoli. L’importante era che riuscisse
nell’intento.
“Come al solito è sempre troppo sentimentalista.” Esordì. “E’ stato
solo un matrimonio, come ce ne sono sempre a migliaia ogni anno e in
ogni luogo. Niente di più, niente di meno.”
“E’ stato il matrimonio dell’uomo meno avvezzo ad esso che sia mai
esistito, che sfortunatamente
è anche il mio migliore amico.” Replicò l’altro. “Sono due motivi più
che validi per cui avrei voluto prenderne parte.” Dette queste parole,
si diresse verso le scale e le salì il più velocemente che poté. Holmes
lo guardò scomparire, per poi sospirare e ritirarsi nella sua stanza.
•••
“Non
gliel’hai detto.”
Non era una domanda, bensì un’affermazione quella che fece Hope nel
mentre Sherlock si chiudeva la porta alle spalle.
“Non è necessario che lo sappia.” Rispose lapidario, levandosi il
giacchetto di dosso. “Anzi, meno sa di questa storia e meglio è.”
“La verità è che questa situazione ti compiace. E’ per questo che non
gli vuoi dire la verità. Vederlo geloso in quel modo -”
“Si vede che non mi conosci abbastanza.” Le diede le spalle camminando
verso la finestra. Lei si alzò dal letto su cui era seduta e fece
qualche passo verso di lui.
“Credo di conoscere molte cose di te, invece.” Avanzò ancora. “Sai che
ho ragione.”
Sì, Holmes lo sapeva. Ma non aveva mentito dicendole che meno Watson
era coinvolto e più sarebbe stato al sicuro. Preferiva mentirgli
spudoratamente a quel modo anziché metterlo in pericolo ancora una
volta. Sentì le braccia di lei cingergli la vita e si irrigidì
leggermente.
“Smettila di pensare.” Poggiò la guancia contro la sua schiena.
“E’ impossibile non pensare.”
“Non trattarmi da stupida cercando di sviar discorso.”
“Non lo faccio.”
“Sì, invece. E’ la tua specialità.”
Calò il silenzio.
“Non dormirò con te.” Disse ad un tratto. “Però resterò qui. Direi che
per stanotte non è il caso che lasci l’appartamento e ti sarei molto
grato se anche tu evitassi di uscire.”
Lei annuì leggermente e si allontanò da lui facendo scivolare le mani
sui suoi fianchi, per poi andare a coricarsi.
[1] Le scene di battaglia non sono
proprio il mio forte ( lol ); spero non sia troppo terribile.
[2] Vi racconterò or dunque come ho
scelto questo nome, asd. In quel periodo ero entrata in fissa per
Benedict Cumberbatch, il quale all’anagrafe ha anche il nome di suo
padre: Benedict Timothy
Carlton
Cumberbatch. Anche il padre era un attore e il suo nome d’arte era – ed
è tuttora – Timothy Carlton. Per cui sappiate che per me questo
personaggio ha le sue sembianze, più precisamente di quando era
più giovane. Se vi interessa è codesto
uomo qua u-u :
http://i436.photobucket.com/albums/qq85/cornershop15/TimothyCarlton1.jpg
•••
|
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Capitolo 4 *** #04 ***
NDA: Alla fine dello scorso
capitolo mi sono dimenticata di dirvi
che nel corso della storia ci saranno salti temporali, iniziando da
questo.
Grazie dell'attenzione, buona lettura ~
•••
Hope Castiel [3] aveva sempre saputo che
un giorno sulla sua strada sarebbe comparso Sherlock Holmes, ma mai in
tali vesti e circostanze. Anche se inizialmente era stata così
presuntuosa dal tentare di ingannarlo, ora aveva la certezza che tal
cosa non fosse nemmeno minimamente plausibile. O almeno non del tutto.
Holmes era l’uomo più intrigante in cui si fosse mai imbattuta e Hope
sfoggiava il suo nome su di sé con orgoglio e soddisfazione. Come
avevano previsto, la notizia che il gran detective aveva preso moglie
si era estesa a macchio d’olio ed erano entrambi soddisfatti di tal
risultato. Però a Hope era evidente che a render Holmes così pago fosse
in particolar modo la reazione del dottor Watson al riguardo. Dal
momento esatto in cui aveva messo piede in quell’appartamento era
stata spettatrice di una gelosia quasi mal sana, soffocata malamente
dietro le parole e che trapelava indisturbata dalla pelle. Le risultò
facile inquadrare la situazione, ma non se ne preoccupò; provò anzi un
cinico divertimento nell’inventar dettagli e aneddoti riguardanti
Holmes solo per veder la reazione del buon dottore. Suo marito non si
rendeva realmente conto di ciò che scatenava in lui e nemmeno di quanto
fosse diventato un buon osservatore. Indubbiamente lei aveva marcato
molto sulla recitazione, ma era sicura che lui avrebbe colto comunque
che qualcosa non quadrava. Infondo lei era comparsa dal nulla nelle
vesti della sposa del suo migliore amico, per cui era normale che nella
sua mente serpeggiasse il dubbio che vi fosse qualcosa di losco dietro
ai suoi sorrisi. Ma dopo gli ultimi avvenimenti, Hope si sentiva
terribilmente in colpa. Il dottor Watson si era evidentemente convinto,
infine, che non ci fosse alcun inganno. Lei era un’ottima osservatrice
e se la cavava bene nella difesa personale, senza contare che non si
faceva intimidire facilmente. La conclusione più ovvia era che Holmes
se ne era innamorato per questi motivi. Indubbiamente il detective
apprezzava queste doti in lei, ma mai l’avrebbe amata, sfortunatamente, e l’idea che anche
il dottore si fosse convinto di tale menzogna l’angosciava. Eppure
erano questi i piani…
“I tuoi pensieri sono chiassosi.”
Spostò leggermente lo sguardo fino a poter cogliere il suo profilo
perfetto nell’ombra.
“Anche i tuoi.”
Non rispose. Hope sospirò e si voltò verso il lato opposto,
ranicchiandosi sotto le coperte. Iniziò a simulare un respiro pesante,
nonostante tenesse gli occhi aperti e fissi sulla buia parete. Aveva
imparato presto a farlo, a fingere di dormire. Era il metodo migliore
per evitare sfuriate alcoliche alquanto inutili e moleste. Ma, a parte
queste spiacevoli e personali esperienze, chiunque crescesse in un
circo sapeva perfettamente che recitare è l’unico modo per
sopravvivere, perché mentire non è abbastanza. Ed era da sempre così
che Hope aveva vissuto: su un enorme palcoscenico. Si mosse lievemente
sotto le coperte, accoccolandosi nel loro torpore. E mentre le palpebre
si arrendevano al peso della stanchezza, il suo pensiero tornò al
dottor Watson e alle sue parole di quella sera. Sapeva per certo che
Holmes non avrebbe mai chiarito veramente la situazione, per cui stava
a lei farlo. Gli occhi si chiusero e Morfeo la prese tra le sue
braccia, facendo svanire quella ragnatela di pensieri.
•••
L’indomani
Watson fu molto colpito dal constatare che Hope non era intenta a
ricamare seduta su quel lato del divano ormai di suo possesso, cosa che
era solita fare tutte le mattine a quella data ora. Si accomodò al
tavolo e fece colazione, anche se leggermente allarmato dalla sua
assenza. Passò parecchio tempo prima che la porta che conduce agli
alloggi si aprisse e facesse entrare Mrs. Holmes. L’apprensione di
Watson crebbe quando piegò leggermente il giornale per guardarla; le
sue guance erano pallide e le sue labbra spente.
“Vi sentite bene?” Le domandò, riponendo il giornale.
Lei camminò fino al divano prima di rispondere: “Sto bene, la
ringrazio.”
Si sedette, ma si mosse presto nervosa, per poi poggiare le belle mani
sulle ginocchia e rialzarsi.
“Ne siete certa? Spero di non sembrarle petulante e inopportuno, ma mi
appare irrequieta. E’ dunque, forse, successo qualcosa?”
Sistemando le pieghe dell’abito, si mosse ancora raggirando il sofà.
“Siete molto gentile a preoccuparvi. Ma no, niente è accaduto. Sono
costernata di averla fatta preoccupare.”
Il dottore non le credette. Quel comportamento era completamente
insolito e stonava con le sue solite abitudini. La osservò spostarsi
nuovamente con gesti poco fluidi fino alla finestra, dove si soffermò
per un po’ a guardar fuori prima di ricominciar a vagare per la stanza.
Non era certo necessario aver convissuto con Sherlock Holmes per
intendere che qualcosa la turbava. Pareva quasi non sapere che fare,
come se cercasse di mutare le sue consuetudini.
“Dottor Watson?” Disse ad un tratto, guardandolo seria. “Mi domandavo
se le fosse congeniale l’idea di accompagnarmi in una passeggiata.”
Lui ricambiò il suo sguardo con leggera perplessità. “Non credo che sia
una cosa opportuna.”
“E perché mai?”
“Lei è la moglie di Holmes e la gente potrebbe fraintendere e parlare.”
“E il fatto che la gente parli la preoccupa sempre molto?”
Watson soppesò le sue parole con cura prima di risponderle. Pareva
quasi che non si riferisse soltanto a quel fatto specifico, ma non
poteva essere altrimenti. Cosa poteva saperne lei delle motivazioni che
l’avevano spinto al matrimonio?
“La reputazione di un gentiluomo o una gentildonna è molto importante.”
“La prenderò come una risposta affermativa.” Lo raggiunse, parandosi
davanti alla sua poltrona. “Allora io la prego, dottore. Ho paura ad
uscire da sola dopo gli avvenimenti della notte passata e mi sentirei
più al sicuro se lei fosse al mio fianco.”
Quelle parole colpirono dritto al punto, Hope poteva vederlo
dall’espressione leggermente mutata del suo interlocutore. Restò in
attesa, sicura di esser riuscita nel suo scopo. Ed infatti Watson
accettò, ligio alla sua morale e convinto che le parole di ella fossero
sincere.
Il cielo era terso e l’aria conservava ancora un po’ del freddo
pungente dell’inverno che di lì a poco sarebbe stato solo un ricordo;
Watson procedeva attento, stringendo il suo bastone, mentre Hope
passeggiava accanto a lui ad un passo di distanza, per evitar malizie.
Camminarono per lo più in silenzio, fino a quando gli insistenti
tentativi di conversazione di lei riuscirono a coinvolgere il dottore,
il quale, però, restò sempre all’erta come ogni bravo soldato. Non
poteva certo immaginare che la tempesta da cui era pronto a difendersi
in realtà li stesse aspettando a Baker Street.
Quando rientrarono nel salotto del 221B, Holmes se ne stava seduto
sulla sua poltrona, le gambe accavallate e le mani giunte, mentre con
lo sguardo fisso inseguiva un pensiero. Watson intuì subito che
qualcosa non andava e ne ebbe la conferma quando l’altro posò gli occhi
su di loro.
“Dove siete stati?” Chiese in modo freddo. “No,” Si alzò. “non
rispondete. So benissimo dove siete stati.” Avanzò nella stanza, sulle
labbra un sorriso tutt’altro che cordiale.
“Holmes” Esordì il dottore, sinceramente allarmato dall’espressione sul
volto del detective, ma venne zittito sul nascere da quest’ultimo, che
si rivolse alla moglie.
“Credevo di averti detto che non dovevi uscire.”
“Hai detto che mi saresti stato
grato se non lo avessi fatto.”
“Era un modo cortese per dirti che era una cosa categoricamente da non
fare!”
“Non vedo dove stia il problema. Non ero da sola, c’era il dottore con
me.”
Quando Hope terminò quella frase fu come se Holmes si fosse reso conto
realmente solo in quel momento che anche Watson era presente nella
stanza e lo guardò in un modo mai avvenuto dinanzi. Il dottore provò
una fitta di ansia mista a preoccupazione.
“Perché lo ha fatto?”
“Sua moglie mi ha chiesto se potevo accompagnarla ed io l’ho
accontentata.”
Rise, schernendolo. “Il solito gentiluomo, non è vero? Credevo avesse
un po’ più di buon senso!”
“Prego?” Domandò risentito.
“Siete stati aggrediti solo un giorno fa! Qui, in queste stesse stanze!
E lei acconsente ad accompagnarla in giro per la città mettendo a
rischio entrambi!”
Watson gonfiò il petto, sulla difensiva. “Sono un soldato, so come si
proteggono le persone!”
“Se le cose stessero veramente così, saprebbe quando sta esponendo
qualcuno ad un rischio inutile!” Gli puntò contro il dito indice,
furioso come non lo aveva mai visto.
Non poteva credere alle sue orecchie. “Dio Holmes, proprio lei mi parla
di mettere le persone in rischi inutili!”
“Qui non stiamo parlando di me, ma di lei! E…”
“Forse se non stesse sempre in giro a bazzicare –”
“… Mi ha deluso molto.”
Watson si interruppe, sentendo la voce venirgli meno. Deluso. Lo aveva
deluso. Per cosa poi? Per avere concesso protezione alla moglie del suo
migliore amico, quando quest’ultimo si trovava chissà dove? Provò una
morsa allo stomaco.
“Siete ingiusto.”
“Sherlock, ti prego. Non è sua la colpa.” La voce di Hope, che era
rimasta ad osservare la scena in silenzio, parve perdersi nell’aria,
mentre il detective proruppe in una nuova risata di scherno.
“E così sarei ingiusto? Allora mi dica, dottore, è forse cosa assennata
portar allo scoperto mia moglie dopo l’aggressione da voi ricevuta?...
No, vero?”
“So come comportarmi in tali circostanze.”
“Lo dimostrano appieno i fatti di ieri sera.” Lo sbeffeggiò.
“La cosa era ben diversa.”
“In cosa, di grazia?”
“Lei non c’era!” Sbottò Watson, incapace di trattenersi oltre. “Cosa
vuole saperne di come sono andati veramente i fatti!”
“Dopo tutti questi anni sottovaluta ancora le mie abilità deduttive?”
“No, anzi, l’ho sopravvalutata credendo fosse in grado di prendersi
cura di sua moglie proteggendola in prima persona. Ovviamente mi
sbagliavo.”
“Crede forse che passi le mie giornate nel parco a giocare a scacchi?”
“Credo che stia affrontando la situazione in maniera errata.”
“Naturalmente lei sarebbe in grado di fare di meglio!”
“Non è ciò che ho detto!”
“Ma l’ha insinuato!”
“Vi prego, smettetela.” Hope alzò leggermente il tono di voce.
“Sherlock -”
“Il fatto che lei sia da sempre un don Giovanni e sia stato sposato non
le dà il diritto di farmi la morale!”
“Sta delirando!”
“Sherlock -”
“Non sono mai stato più lucido in vita mia!”
“Per l’amor di Dio, smettetela!”
“Mi permetta di dissentire!”
“Tutta questa situazione è ridicola – ”
“Se c’è qualcuno che delira qui dentro quello è lei!”
“Sta di gran lunga insultando la sua intelligenza in questo momento!”
“Dottore, almeno lei, la scongiuro – ”
“E lei sopravvaluta la sua!”
“Non accetto una tale insinuazione da lei!”
Hope schiuse le labbra, con il nuovo intento di farli ragionare, ma la
consapevolezza che a nulla sarebbero valse le sue parole la fece
desistere. Mai si sarebbe aspettata di essere spettatrice di una tale
discussione, che man mano prendeva pieghe sempre più preoccupanti, ed
anche la sua pazienza cominciò a scemare.
“Smettetela! Noi due non siamo sposati!”
Il silenzio calò greve intorno a loro e il tempo parve congelarsi in
quell’istante. Il dottore rimase immobile, con le labbra leggermente
dischiuse in un intento di controbattere ormai scemato e gli occhi
leggermente sgranati a guardare Sherlock Holmes, anch’egli immobile,
mentre nelle orecchie le parole della donna riecheggiavano come in una
caverna buia. Noi due non siamo
sposati. Cosa diamine stavano a significare quelle parole? Che
assurdità era mai quella? Vide il volto dell’amico tramutarsi in pura
pietra, un attimo prima che si voltasse verso Hope.
“Sarai soddisfatta.” Le disse con tono incolore, segno, Watson lo
sapeva bene, di una rabbia fuori dall’ordinario. Lei strinse i pugni e
sostenne il suo sguardo, senza lasciar trasparire alcun segno di
cedimento, fino a che il detective lasciò la stanza, chiudendosi la
porta della propria camera alle spalle.
La mente del dottore vorticava senza pace e il suo corpo fremeva sotto
le carezze voraci di emozioni troppo contrastanti. Il suo cuore pompava
sangue in maniera eccessiva e ben presto si vide costretto a sedersi,
seguito da quella che fino a qualche minuto prima conosceva come la
moglie del suo migliore amico. Chi era costei?
“Chi è lei?” Domandò prima di poterselo impedire, ritirando il braccio
a un suo tentativo di tranquillizzarlo. “Che cosa ci fa in questa
casa?” Alzò lo sguardo su di lei, trovando un sorriso amaro.
“Sono Hope.” Rispose. “Sempre e solo Hope.”
•••
Sherlock
Holmes la guardava – o meglio, la scrutava
– da dietro le mani intrecciate, con gli occhi colmi di curiosità. La
ragazza si concesse un attimo per perdersi completamente in quel
cioccolato striato di verde e giallo prima di accavallare le gambe a
sua volta ed incominciare.
“Mi permetta, in primis, di
scusarmi ancora con lei per questa intrusione notturna. Le assicuro che
se non fosse strettamente necessario alla mia incolumità sarei venuta a
farle visita domani mattina – o forse dovrei dire tra qualche ora.”
Sorrise. “Il mio nome è Hope Castiel e sono una ladra professionista.
Forse le apparirà sciocco che stia dicendo una cosa del genere proprio
a lei, ma è a causa del mio mestiere che mi trovo qui a chiedere il suo
aiuto. Deve sapere, Mr. Holmes, che ho malauguratamente… messo i
bastoni tra le ruote a un pezzo grosso. Credo conoscerà il magnate
Timothy Carlton, sì? Ebbene, ho effettuato una rapina a suo danno
qualche settimana fa, venendo a conoscenza che la maggior parte degli
oggetti d’arte che commercia sono dei falsi. Immagini il mio disappunto
quando mi sono trovata con niente in mano! Ma ciò che mi ha condotto da
lei stanotte è che l’uomo è venuto in qualche modo a conoscenza della
mia identità e già più volte è stato attentato alla mia vita.”
Il detective scavallò le gambe e vi appoggiò i gomiti, protendendosi
verso di lei. “Vuole che incastri Carlton per lei?”
“Sarebbe una cosa carina, sì.” Gli sorrise in modo sfacciato. “Ma
soprattutto ho bisogno della sua protezione finché non sarà dietro le
sbarre di Scotland Yard.”
“Questo implicherebbe un controllo ventiquattro ore su ventiquattro.”
“A questo proposito, ho una proposta per lei.”
“La ascolto.”
“Un matrimonio. Falso naturalmente, ma pur sempre un matrimonio.”
Sherlock Holmes ponderò le sue parole una ad una prima di rispondere:
“Mio fratello Mycroft può fornirci dei falsi documenti matrimoniali.
Dovremo prevenire qualsiasi possibile smentita esterna.”
Hope sorrise compiaciuta. “Devo prenderlo per un sì?”
Gli occhi del detective tradivano una certa eccitazione mentre esponeva
a Hope il piano che avrebbero messo in atto di lì a due giorni e la sua
mente gioiva ogni qualvolta entrava in contatto con quella della
ragazza, così deliziosamente scaltra e piena di quell’arguzia tanto
tipica dei ladri. Per quanto lo desiderasse, però, non riusciva a
scacciare quella malinconia, che gli afferrava quel muscolo cardiaco
chiamato cuore, nel ricordare Irene Adler. Anch’ella era una ladra
sveglia e brillante e si era trovata pedina di un gioco troppo grande
per lei. Non avrebbe permesso che anche Hope facesse la stessa fine.
Quando Hope comparve sul marciapiede che accostava i binari, Holmes
sorrise dell’accuratezza del suo travestimento: indossava un
abito nero tenuto in vita da un fiocco, mentre guanti color panna con
dettagli neri vestivano le mani che reggevano una borsa da viaggio [4];
i capelli, raccolti in una crocchia, erano del colore della paglia e i
suoi lineamenti erano stati imbruttiti e invecchiati dal trucco. La
seguì con lo sguardo finché non salì sul treno e dopo poco tempo la
porta dello scompartimento si aprì. Lei lo osservò qualche secondo
prima di esclamare: “Un’istitutrice e un vecchio parroco. Direi che non
è proprio niente male!” Il treno marciò, fino a condurli al cospetto
del canale della Manica, dove presero un traghetto per la Francia.
Giunti sul continente Europeo proseguirono nuovamente in treno,
lasciandosi alle spalle quel gentile vecchietto e quella donna un po’
severa. Seduti l’uno di fronte all’altro, Holmes le mostrò le carte che
era riuscito a procurarsi.
“Basterà solo qualche firma e per il mondo saremo ufficialmente
sposati.”
“Essere la moglie di Sherlock Holmes,” Esordì, prendendo una boccetta
di inchiostro color pece dalla borsa. “quale onore!” Firmò con mano
ferma. “Dato quello che si legge su di lei, suppongo che nessun’altra
avrà mai tale privilegio.”
“Non vedo quale privilegio possa mai esserci nell’essere mia consorte.”
“Avete ragione. Nessuna donna proverebbe orgoglio nei suoi confronti.”
Sorrise della sua ironia. “Provare orgoglio non è un privilegio.”
“Esso sta nell’essere l’unica a poter dire Mio marito nella sua carriera ha arrestato
più persone di tutta Scotland Yard messa insieme.”
“Questo glielo concedo.”
“Sarà la prima cosa di cui mi vanterò apertamente.”
“Non conosco bene le convenzioni sociali in questo ambito, ma credo”
Mise la mano destra in tasca. “che vorrà vantarsi prima di questi.” Ne
estrasse una scatolina di velluto verde scuro e con un gesto dell’altra
mano tolse il coperchio, mettendo in mostra due fedi d’oro bianco e un
anello di fidanzamento con incastonato al centro un piccolo
solitario. Lo stupore della donna fu palpabile.
“Oh, io credo che le conosca bene invece!” Avvicinò il volto a quelle
meraviglie così preziose. “La ringrazio, ma ciò non è necessario…”
“Dobbiamo rendere le cose più realistiche possibile, ricorda? Anche se
mi rincresce dirle che, aimè, non posso fargliene dono a lungo termine.
Alla fine delle indagini dovrò riaverli indietro.”
Alzò lo sguardo su di lui. “E li riavrà. Sono una donna di parola.”
Sorrise. “Bene.” Prese i due anelli e li fece scivolare uno alla volta
all’anulare sinistro di lei, che fece altrettanto con la sua fede. “Ora
siamo ufficialmente sposati.”
•••
“Deve
capire, Watson” proseguì lei, giocando con la sua fede nuziale “che se
non l’ha messa a parte di questo piano è stato solo per proteggerla.
Meno gente fosse stata a conoscenza delle finte nozze e meglio il gioco
sarebbe riuscito.”
Il dottore rimase in silenzio, guardando il vuoto davanti a sé.
Nonostante provasse risentimento nei confronti di Holmes per averlo
tenuto in disparte, non riusciva a impedirsi di provare una gioia
estrema per aver appreso che essi non erano veramente coniugati.
“Sì, sì. Comprendo… Comprendo molto bene.” Si schiarì la voce,
voltandosi a guardarla. “Mi rincresce che abbia dovuto assistere a un
diverbio di tale genere. In fede mia -”
“Non deve preoccuparsi dottore.” Gli sorrise. “Lei conosce Sherlock
indubbiamente da più tempo di me, e sa bene a che livelli può arrivare
la sua testardaggine.”
Watson venne incredibilmente infastidito dall’uso improprio che la
giovane donna aveva fatto del nome del suo amico, visto che non era
legata a lui da alcun legame, ma tentò di non darlo a vedere. “Sì,
credo di poter dire di conoscerlo molto bene.” Si rese conto che la
voce l’aveva tradito, ma se Hope lo aveva notato non ne diede segno.
“Ritengo sia doveroso da parte mia raggiungere il mio consorte.” Marcò
le ultime due parole con fare divertito. “L’aver svelato i nostri piani
a bella posta non credo sia stata cosa a lui gradita.”
“Non posso contraddirla.”
“Bene.” Si alzò dal divano, su cui si era seduta durante il suo
racconto, e sistemò le pieghe dell’abito. Mentre si accingeva verso la
porta, il dottore la fermò:
“Era veramente preoccupata di venire attaccata stamane?”
Lei sorrise debolmente alla porta, dandogli le spalle. “Sì.” Rispose.
Non aggiunse altro ed abbassò la maniglia.
•••
“Immagino
che le tue gesta ti rendano fiera di te.”
Hope non aveva mai sentito un tono di voce più neutro di quanto non
fosse quello di Sherlock Holmes in quel momento, ma sapeva benissimo
che non era certo un buon segno. Il detective era indubbiamente in
collera con lei. Aveva disubbidito a ben due sue richieste nell’arco di
una manciata di ore. Un record quasi imbarazzante. La serratura
schioccò alle sue spalle, mentre chiudeva la porta col peso della
schiena.
“Ho fatto ciò che ritenevo giusto.” Disse, osservando la schiena di
Holmes.
Lui sbuffò in una risata sarcastica. “Credevo avessimo la stessa idea
di ciò che era giusto per questa impresa.” Si voltò a guardarla.
“Le cose stavano degenerando. Sai bene quanto me che il dottor Watson
aveva intenzione di trasferirsi.” Fece una pausa. “Una volta che il
caso sarà chiuso tutto ciò che ti resterà di me sono due anelli.”
“Potresti restare.”
“Non è ciò che vuoi.”
“Come fai a sapere ciò che voglio?” L’astio fece capolino dalle sue
corde vocali. “Continui a sopravvalutare molto le tue capacità.”
“Forse hai ragione, gran detective,
ma in questo caso credo di aver imboccato la strada giusta.”
“La tua convinzione quasi mi commuove.” Mosse qualche passo verso di
lei, che fece altrettanto. “Sei brava, lo devo ammettere, però dovresti
smetterla di giocare a questo gioco.”
Hope ignorò volutamente le sue parole e prese il coraggio a due mani.
“Dovresti smetterla di punirlo per essere stato tanto assennato da fare
l’unica cosa giusta.”
Holmes si irrigidì. “Non so di cosa tu stia parlando.”
“Menti.”
“Mi stai dando del bugiardo?”
“E’ esattamente ciò che sto facendo.”
Per un attimo, gli occhi del detective vennero attraversati da un lampo
di pura rabbia e Hope si sentì vacillare sotto il peso di quello
sguardo, dandosi della sciocca per aver osato così tanto. Ma Holmes
riprese immediatamente il controllo di sé, resosi conto di essersi
scoperto fin troppo.
“Le tue sono accuse molto pesanti.” E Miss Castiel sapeva bene che non
si stava riferendo solo alla sua accusa di essere un menzognero.
“Non sono affatto accuse.”
Si guardarono negli occhi a lungo, finché Sherlock Holmes decise
silenziosamente che, infondo, poteva in parte perdonarle una simile
sconsideratezza e Hope Castiel decise silenziosamente che, infondo,
poteva in parte dargliela vinta.
Holmes provava una certa attrazione verso quella strana donna. Forse
era la sua impertinenza. Forse il suo farsi beffe delle regole – e di lui – con tale disinvoltura. O
forse era quel fastidio che gli faceva provare quando metteva alla
berlina con tale leggerezza quei sentimenti che nemmeno lui stesso
riusciva a capire. Era ammirazione e insofferenza al tempo stesso. Il
cervello di lei seduceva il suo e lo innervosiva in egual modo. Il
detective non si capacitava di come fosse possibile, e tutta via non
mentiva quando le disse che sarebbe potuta restare. Oh, certo, se così
fosse stato, non sarebbero mancate almeno una decina di battibecchi al
giorno. Ma non era forse già così la sua vita? Di battibecchi con
Watson per ogni insulsa cosa? No, era diverso. L’approccio era diverso.
Hope non era John, e niente
nella sua persona avrebbe potuto anche solo lontanamente sostituire il
suo boswell. Le dita di quel pensiero si strinsero intorno al suo
stomaco. Mai e poi mai avrebbe ammesso che la ladra aveva ragione, ma
lei questo già lo sapeva. Non era certo Sherlock Holmes, ma certe cose
riusciva a vederle. Forse perché era un occhio estraneo. Forse perché
provava una certa affinità con lui. La situazione le era parsa talmente
ovvia fin da subito che si stupiva che nessuno se ne fosse accorto
prima. Si era infiltrata nella trama di eventi senza alcun permesso e
aveva sconvolto volutamente i fatti. Forse prima di andarsene sarebbe
riuscita a portare a qualcosa di più concreto.
“Non è incredibile che in questa camera da letto si parli più del buon
dottore che di noi? Trovo la cosa inammissibile! Dovrei forse chiedere
il divorzio?”
Lo sguardo di rimprovero che Holmes le lanciò si perse subito in un
cipiglio divertito e la donna lasciò la stanza prima di ottenere
risposta.
[3] Ricorderete forse che vi avevo
accennato al fatto che il titolo di
questa storia è legato alla mia continua visione della pubblicità della
serie The Good Wife che
veniva mandata in onda con quella di Castel.
Ebbene, inizialmente il cognome di Hope doveva essere appunto questo,
Castel, ma con l’andare del
tempo sono stata sottoposta ad una continua
visione di immagini e video di Supernatural
– che, per la cronaca, non
seguo, asd - e quindi, quando pensavo al suo personaggio, invece di
venirmi in mente Castel
veniva Castiel. Per cui alla
fine ha vinto lui
(XD). Eccovi spiegata la nascita del suo cognome u.u
[4] Benché mi fossi già più o meno
figurata il suo vestiario, mi sono ispirata a questo quadro:
http://www.culturaitalia.it/opencms/opencms/thumbs/800x800/images/Vittorio_Corcos__Le_istitutrici_ai_campi_Elisim.jpg
[•] So che Holmes possa apparire un po’
OOC nei momenti di dialogo che ha da solo con Hope – sperando che non
lo sia troppo anche nel resto della storia! -, ma in queste situazioni
lo vedo bene a perdere il controllo e a lasciar trasparire emozioni
come non mai.
•••
|
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Capitolo 5 *** #05 ***
NDA: Mi scuso per il
ritardo.
Questo capitolo è stato arduo da scrivere e mi ha portato a fare
qualche cambiamento nella struttura del racconto.
Spero non sia per voi una delusione colossale.
Buona lettura ~
•••
Watson aveva già sperimentato la difficoltà di riuscire a parlare da
solo con Holmes nei giorni precedenti, ma mai avrebbe pensato che, dopo
la rivelazione di Hope, sarebbe diventata un’impresa pressoché
impossibile: quando rientrava – se
rientrava – lo faceva a tarda notte per ripartire all’alba. Più
volte il dottore tentò di incontrarlo e fallì sempre miseramente.
Scoprire la verità era stato un colpo basso ben assestato; non era la
prima volta che il detective gli teneva nascosti i suoi piani a bella
posta ai fini dell’indagine, ma sentiva che c’era qualcosa di diverso.
Il sollievo provato per la notizia cedette presto il posto al dispetto
e ad un tormento interiore che non lo faceva dormire la notte: Holmes
lo aveva volutamente provocato con quella storia del matrimonio? O era
semplicemente frutto della sua mente troppo fantasiosa e tendente ai
romanzetti d’appendice?
“Io ascolto sempre ciò che dice.” “Oh, ma davvero? Allora mi dica, che
cosa ho appena detto?” “Che è geloso.”
Holmes, d’altro canto, dopo il loro litigio stava volutamente cercando
evitare il dottore. Hope aveva ragione: nonostante quel caso - e - lo intrigasse molto, il motivo
principale per cui aveva accettato di mettere in scena quel matrimonio
era per far soffrire lui, per portarlo a capire cosa aveva passato
quando era stato lui a sposarsi. Era forse la cosa più meschina che
avesse mai fatto in vita sua, ma non si era pentito neanche un secondo
di quella scelta, fino a quando non li aveva visti insieme e il dubbio
si era insinuato in lui. La gelosia aveva iniziato a correre col sangue
nelle vene fino a raggiungere il cervello, spegnendo completamente ogni
sua capacità di ragionare lucidamente. E ora, quando ripensava a quei
momenti, si scopriva a porsi una domanda che gli portava un certo
sconforto: geloso di chi?
Poi una sera entrò trionfante nella sala da pranzo, lasciando fuori
dalla porta tutti quegli inutili problemi.
“Siamo a una svolta!” Esultò, facendo sussultare i coinquilini sui loro
cuscini. “Dopo intense ricerche e molti travestimenti, sono riuscito a
scoprire dove si trova il deposito di merci rubate di Carlton!”
“Amico mio,” Intervenne Watson, che si era messo seduto sull’attenti.
“come ci siete riuscito?”
“Sono entrato in contatto con vari sottoposti e tutti paiono convinti
di ciò che affermano.”
“Non ritiene che si tratti di una trappola?”
“C’è questa eventualità –”
“Di che luogo si tratta?” Domandò Hope, interrompendolo.
“Secondo quegli uomini, la merce viene conservata in un vecchio
magazzino situato poco fuori Londra finché non riescono a trovare un
compratore.”
“E’ tuo intento agire stasera stessa?”
Lui sorrise sornione. “Naturale. Quale altro momento migliore?”
“Bene.” Hope si alzò e annunciò: “Vado a prepararmi.” Intenzionata a
indossare abiti maschili.
“Non essere sciocca! Voi due resterete qui.”
“Come sarebbe a dire voi resterete qui?” Intervenne Watson. “Non
crederà sul serio che ce ne staremo qui con le mani in mano!”
“Non lo credo, lo so per certo. Perché non ho intenzione di portarvi
con me.”
“Certamente questo spiega tutto.” Ironizzò la giovane.
“Ho preso la mia decisione.”
“Suvvia, Holmes. Sai perfettamente che non ti lasceremo andare da solo
– soprattutto il dottore. Quindi perché non la finiamo qui e ci
prendiamo un tè nell’attesa?”
•••
Il sole calava pigramente sulle loro teste, allungando le ombre, mentre
la carrozza avanzava verso la campagna lasciandosi alle spalle Londra.
Quando raggiunse la sua meta, la sera aveva ormai imbrunito ogni cosa,
e i tre compagni d’avventura continuarono a piedi, percorrendo i campi
accompagnati dal primo canto dei grilli. Mano a mano che avanzavano tra
l’erba ormai umida, davanti a loro l’immensa figura dell’edificio
cominciava a prendere forma, crescendo incombente ad ogni passo: era un
edificio massiccio dalle pareti scrostate e del colore del fumo, su cui
l’edera correva fino a raggiungere il tetto. D’intorno ad esso vi era
un ampio spiazzo desolato, che i tre avventurieri attraversarono con
discrezione, fino a raggiungere una finestra laterale semi aperta.
Hope, essendo la più minuta, si issò sul davanzale ed entrò, lasciando
gli altri in attesa. Intorno a lei tutto era buio, eccezion fatta per
gli spazi vicino alle finestre, illuminati dai flebili raggi della luna
ormai sorta. La ladra guardò intorno con circospezione e con le
orecchie tese prima di aprire maggiormente la finestra e far entrare i
suoi compagni. Il silenzio era così pesante da mettere in soggezione
Hope, nonostante fosse avvezza a questo genere di cose. Probabilmente
era dovuto al fatto che non era spavalda e sicura di sé come al solito
e che sentiva il pericolo incombere su di lei come un avvoltoio che
volteggia sulla preda. Quando anche l’ultimo piede di Watson ebbe
raggiunto il pavimento, iniziarono ad avanzare con lentezza fino a che
la loro ricerca li portò davanti ad una distesa di casse di legno. Hope
vide l’ombra di un sorriso balenare sul volto di Holmes, mentre egli si
avvicinava ancora di più con l’intento di esaminarle. La giovane donna
si guardava intorno nervosa, tesa come la corda di un violino,
totalmente incapace di togliersi di dosso quella sensazione di minaccia.
“E’ quasi troppo semplice.” Sentì sussurrare a Holmes, con tono in
colore.
Fu in quel momento che la vide: era una cassa leggermente più piccola
delle altre, due o tre passi distante da loro, con il coperchio
singolarmente marchiato di nero. Lanciò uno sguardo agli altri prima di
avvicinarsi con cautela e, quando fu abbastanza vicina da riconoscere
il simbolo, trasalì: il disegno del gioiello che aveva rubato a Carlton
risaltava con pennellate decise sulla superfice ruvida e legnosa. Non poteva trattarsi di una coincidenza.
Si rese conto di star ansimando e scosse la testa, cercando di
riprendere il controllo di sé. Con decisione scoperchiò la cassa, che
scoprì non essere fissata con i chiodi, e vi guardò all’interno.
Adagiato sulla paglia di imballaggio vi era un biglietto, scritto con
una calligrafia sghemba: You should
find an alternative. [5]
Hope trattenne il respiro, le labbra socchiuse e gli occhi sgranati. Si
voltò di scatto verso Watson e Holmes.
“E’ una trappola!”
Ed accadde. L’aria esplose incandescente al suono delle deflagrazioni,
sbalzandoli nel vuoto, mentre una dopo l’altra le casse detonavano
andando in mille pezzi.
•••
Tick.
Tick. Hope si mosse leggermente sotto le coperte. Tick. Tick. Quel suono fastidioso
le riempì la mente fino a condurla fuori dal sogno; aprì gli occhi. Tick. Tick. Si mise seduta di
scatto, allarmata. Tese le orecchie e capì che qualcosa stava colpendo
la finestra della stanza a intervalli regolari. Si alzò con
circospezione, cercando di passare il più lontano possibile da essa,
fino a raggiungerne il lato destro in modo tale da poter sbirciare da
dietro le tende. Vi erano due uomini giù in strada, uno grosso e
robusto ed uno alto e dinoccolato, e poco dietro di loro una carrozza
ad attenderli. Il cuore cominciò a batterle forte contro la cassa
toracica e si allontanò velocemente dalla finestra, andando a sedersi
sul letto. Tick. Un altro
sassolino contro il vetro. Il panico iniziò a soffocarla. Sapeva che
sarebbe giunto quel momento, era così ovvio. Erano passati quasi più di
due mesi da quando era entrata in quella casa e non aveva portato nulla
a conclusione. Chiuse gli occhi e prese un bel respiro, perché non
poteva mostrarsi debole ai loro occhi, doveva apparire ferma e sicura
di sé come sempre. Si cambiò d’abito lentamente, col ticchettio dei
sassi che accompagnava i suoi gesti, e poi tirò le tende, dando segno
della sua imminente discesa. Aprì la porta con discrezione e guardò
fuori. Né Holmes né il dottor Watson si trovavano nella sala da pranzo
e lei sperò con tutto il cuore che il detective non si fosse in realtà
nascosto e che l’avrebbe poi seguita. O lo voleva? Probabilmente il
lasciare gli appartamenti dopo l’ammonizione ricevuta la sera avanti
era già un’ammissione di colpa. Uscì in strada e i due uomini la
scortarono fino alla carrozza. Il viaggio fu breve, ma il silenzio nel
cocchio lo rese di una lunghezza estenuante. Quando si fermarono, Hope
dovette trattenersi dal lasciar trapelare dalle labbra un sospiro di
sollievo, anche se in realtà stava andando dalla padella nella brace.
L’uomo dalla corporatura massiccia, il più anziano dei due, la aiutò a
scendere e l’affiancò, mentre il più giovane gli faceva strada. Davanti
a loro si ergeva una villa sfarzosa, a cui era possibile arrivare
attraverso un ciottolato costeggiato da cespugli di rose. Mentre saliva
le scale esterne che portavano alla porta di ingresso, Hope prese la
decisione che, se fosse uscita viva da lì, avrebbe rivelato in
qualche modo a Watson la verità – o quasi – anche se fosse stata
costretta ad andare contro il volere di Holmes. La situazione stava
precipitando e non poteva permettere che il dottore rimanesse
all’oscuro di tutto. Salirono su, per un’immensa scalinata, ed
attraversarono lunghi corridoi che la giovane donna ricordava bene. Ad
un tratto si fermarono e l’uomo più anziano ordinò all’altro: “Tu
aspetta qui con lei.” E sparì in una stanza poco lontano da loro. Il
giovane le si avvicinò e la scrutò con i suoi occhi del colore del
cielo d’inverno. Rimase in silenzio per un po’, per poi affermare:
“Dovrebbe trovare un’alternativa.” [6]
“Avete intenzione di darmela voi?” Rispose lei, alzando lo sguardo
su di lui per la prima volta. L’uomo sogghignò e in quell’istante la
porta si riaprì.
“Nicholas!” Esclamò l’altro. “Non perder tempo! Portala subito qui!”
Hope si domandò se non avesse dovuto recitare una preghiera mentre
attraversava quell’ultima parte del corridoio. Ma quello avrebbe
significato accettare la sconfitta. E lei non si dava ancora per vinta.
[5] “Dovresti
trovare un’alternativa” - Non c’è un vero perché per il fatto
che sia in inglese. Ma dato che ho mantenuto i titoli (Miss, Mr, Mrs) e
the Man, che viene lasciato per scritto, in inglese, ho pensato fosse
giusto farlo anche per questa frase (che tra l’altro mi è venuta subito
in mente così ancor prima di decidere xD).
[6] Ebbene sì, è la stessa frase che era scritta
nel biglietto nella cassa. La cosa buffa è che per vari motivi ho
scritto prima questa scena e non era in programma questo rimando
misterioso a un “passato” che non vi avevo ancora mostrato; ma quando
mi sono trovata a dover decidere che messaggio farle trovare nel
magazzino quello mi è sembrato appropriato.
•••
|
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Capitolo 6 *** #06 ***
Holmes atterrò
malamente sulla schiena, sbattendo con violenza contro una parete: la
pelle bruciava per il forte calore ed alcune schegge di legno dovevano
essersi conficcate negli arti. Sollevò le palpebre, trovandosi davanti
il fumo denso e aranciato delle fiamme; le orecchie fischiavano
terribilmente, ricordandogli con orrore il caso Blackwood. Barcollando
si mise a sedere, poi a carponi ed infine in piedi. Un brivido lo
percorse quando davanti a sé vide solo macerie: una parte del soffitto
era crollata e grosse travi in fiamme bloccavano il passaggio.
Ad ogni suo
respiro i polmoni si facevano sempre più ardenti e la testa
pesava sotto l’effetto delle esalazioni, ma non poteva perdere tempo:
doveva trovare gli altri e uscire di lì prima che fosse troppo tardi.
Si coprì la bocca e il naso col risvolto della manica, avanzando a
fatica tra i detriti in fiamme e la cenere che aleggiava intorno a lui
chiamando i loro nomi. Ad ogni passo, ad ogni tentativo fallito di
ritrovamento, sentiva il cuore battergli nelle tempie in maniera quasi
dolorosa. Non era intenzionato ad arrendersi. No. Non se ne sarebbe
andato da lì senza… Fermò di colpo la sua avanzata. Watson giaceva a
terra inerte, il busto e le gambe intrappolati da due grosse travi. Gli
occhi gli si riempirono di orrore. Corse verso di lui, evitando per un
soffio di essere colpito dai resti del soffitto che vorticavano al
suolo.
“Watson!” Urlò.
Il dottore tremò
e si voltò verso la sua voce.
“Holmes-” Soffiò
tra nuvole di vapore.
“Non si muova!”
Il detective si accucciò fino a toccare i palmi in
terra e a sdraiarsi completamente tra la polvere cinerea. “Andrà tutto
bene! La tirerò fuori da lì!”
Watson gli
rivolse uno sguardo greve e addolorato.
“Non pensi a me,
vada a cercare Hope!”
Il detective
fece un ghigno divertito. “Quella ragazza è molto più
ingamba di quanto pensa. Certamente se la sta cavando meglio di lei.”
Rispose spavaldo e ironico, mostrandosi del tutto convinto delle
proprie parole nonostante non fosse così.
L’amico lo
guardò in silenzio e allungò una mano verso di lui. Holmes
la strinse prontamente.
“Vi porterò
fuori di qui entrambi.”
Hope si svegliò
di soprassalto, spalancando la bocca in un disperato
tentativo di sopravvivenza quando l’aria incominciò a mancarle. Il fumo
corse irrimediabilmente lungo le vie respiratorie, fino a riempirle i
polmoni e irritando le parti sensibili della gola, e lei si raggomitolò
su un fianco, tossendo, provando la terribile sensazione di venire
bruciata dall’interno. Si coprì la bocca con le mani e cercò di
regolare il respiro, stingendo forte gli occhi. Quando iniziò a
respirare meglio li riaprì e provò una fitta di panico: le fiamme erano
ovunque. Riuscì ad alzarsi, continuando a guardarsi intorno alla
ricerca di una via d’uscita.
“Holmes?” Chiamò
con poca convinzione con la voce rotta dal fumo e
dalle lacrime che cercava di trattenere, ma che ben presto iniziarono a
bagnarle il viso mischiandosi con la fuliggine. Un passo dopo l’altro
cominciò ad avanzare alla cieca tra le macerie. Era forse questo un
preludio di ciò che l’avrebbe attesa all’Inferno? La punizione per
tutto ciò che aveva fatto in vita? Forse era meglio così. Forse sarebbe
dovuta morire. Si fermò, scossa dal pianto e dal dolore provocato dalle
bruciature. Non era riuscita nel suo scopo. Carlton avrebbe vinto su
tutta la linea. Morire era una cosa così brutta infondo?
“Voglio la sua testa.”
“L’avrà.” [7]
“Holmes.” Si
lasciò cadere sulle ginocchia.
“Dovrebbe trovare un’alternativa.”
“HOLMES!” Urlò,
e lo fece ancora e ancora.
Il richiamo
disperato di Hope raggiunse le orecchie del detective e
quelle del dottore. Holmes si alzò sui gomiti voltandosi indietro, ma
senza lasciare la presa sul compagno.
“Deve andare da
lei.”
Si voltò
nuovamente verso di lui. Il volto di Watson trasmetteva la
risolutezza del soldato, ma i suoi occhi tradivano quella
consapevolezza che avevano entrambi: se fosse andato da Hope lui
sarebbe morto. Holmes boccheggiò. Non era intenzionato a lasciare
Watson, ma non poteva abbandonare Hope. Si sentì schiacciare,
sopraffatto da quei sentimenti che aveva sempre tenuto il più lontano
possibile dalla sua persona, ma che sembravano tornare con prepotenza
quando il suo Boswell era con lui. Che cosa doveva fare? Qual era la
decisione giusta? Non esisteva. Per quanto avesse potuto sforzarsi,
nemmeno lui sarebbe stato in grado di trovare una soluzione. Una
soluzione per salvare entrambi. Quella conoscenza lo stava distruggendo
dall’interno.
“Va bene, non
preoccuparti.” Watson sorrise debolmente per
rassicurarlo, come se potesse leggere nei suoi pensieri. Come se
potesse leggere nella sua anima.
“Davvero, sai?”
“Watson –”
“È una cosa che
mi sta bene… morire per te.”
Il cuore di
Holmes esplose in una miriade di frammenti. Morire per lui?
Era una cosa che non poteva accettare. Chiuse un attimo gli occhi, per
riprende il controllo di sé, e strinse forte la mano del compagno
quando li puntò di nuovo dritti in quelli di lui.
“Tu non
morirai.” Disse con tono duro. “Tornerò a prenderti e
ritornerai a Baker Street con noi. Lo giuro, Watson, ed io mantengo
sempre la parola.”
Il dottore
sorrise nuovamente. “So che lo farai.”
Le labbra di
Holmes tremarono impercettibilmente mentre annuiva piano.
Fece per alzarsi, ma Watson lo trattenne, portandolo a posare lo
sguardo di nuovo su di lui con aria confusa.
“Ti amo.”
Due semplici
parole e, in mezzo a quell’Inferno di fuoco, su Holmes
calò il gelo. Mai avrebbe creduto di poter udire tale frase uscire
dalle labbra del suo amico. Mai. Nemmeno nei suoi desideri più
reconditi. E rimase lì, immobile, a guardarlo con la sorpresa
specchiata negli occhi e il cuore ormai inesistente. Mosse le labbra,
ma non ne uscì alcun suono. Cosa mai avrebbe dovuto dire?
Quando Watson si
rese conto che non avrebbe avuto parole dal vecchio
compagno di avventure non riuscì a trattenere un sorriso amaro. Chiuse
gli occhi.
“Corri!” Lasciò
andare la presa. “Cosa stai aspettando?” Urlò con tono
grave. Holmes indietreggiò continuando a guardarlo ed incespicando nei
propri passi, per poi voltarsi ed incominciare a correre.
Hope aveva
smesso di urlare. Si era seduta a gambe incrociate sui resti
del pavimento, tenendo lo sguardo fisso sulle fiamme. Aveva lottato
tutta la vita per la sopravvivenza ed ora si sentiva come una formica
in mano ad un bambino che si diverte a giocare con una lente
d’ingrandimento ed il sole. Non c’era più niente che potesse fare:
respirava a malapena e camminare non era minimamente pensabile; la
vista iniziava ad annebbiarsi così come i pensieri, sempre più nebulosi
e tristi. Sperò con tutto il cuore che Holmes e il dottor Watson
fossero riusciti a salvarsi o che fossero sulla via giusta per farlo.
Loro non meritavano di morire come lei. La testa iniziò a farsi più
pesante e le palpebre a chiudersi da sole.
“Hope.”
Erano
sopraggiunte anche le allucinazioni…
“Hope! Hope
svegliati! Guardami!”
Si sentì
afferrare e scuotere per le spalle. Sbatté le palpebre
cercando di mettere a fuoco il volto davanti al suo.
“Holmes-”
“Coraggio…
Alzati!”
Tentò di alzarsi
con l’aiuto del detective, ma con scarso successo: i
muscoli erano intorpiditi e la mente troppo debole. Vide Holmes
accucciarsi davanti a lei e si sentì caricare sulle sue spalle. Si
accasciò mollemente contro la sua schiena, mentre sentiva le forze
abbandonarla del tutto.
“… Coraggio…
Un’uscita ho… Resta sveglia…”
Lo scontro con
l’aria pulita della notte fu quasi doloroso. Sherlock
Holmes si lasciò cadere in avanti sull’erba con ancora la ragazza sulle
spalle, spalancando la bocca e respirando a pieni polmoni. Adagiò come
meglio poté Hope sul terreno, sdraiandola a pancia in su, per poi
trascinarla leggermente più lontano dall’edificio infuocato.
“Hope.” La
chiamò, accarezzandole il viso. Portò due dita alla base del
collo di lei per sentire il battito del suo cuore e avvicinò il viso al
suo per sentirla respirare. Era molto debole ma viva. Il detective
strinse gli occhi e sospirò di sollievo.
“Hope, riesci a
sentirmi? Hope!” La ragazza non si mosse. Holmes si
voltò nervosamente verso l’incendio e poi parlò di nuovo: “Tornerò
presto.” Le lasciò un rapido bacio a fior di labbra e sparì di nuovo
tra le braccia di Lucifero.
•••
Aprì debolmente gli
occhi e li fece vagare disorientati sulla
superficie bianca del soffitto. Socchiuse le labbra e sospirò piano,
godendo appieno del contatto dell’aria con i suoi polmoni. Gli arti
giacevano sul materasso pigri e intorpiditi, probabilmente da qualche
antidolorifico molto potente. Il suo cervello iniziò lentamente a
rimettersi in moto. L’esplosione, l’incendio, Holmes…
“Buongiorno.”
Voltò con
attenzione la testa alla sua sinistra: Sherlock Holmes sedeva
su una sedia infondo alla stanza, lontano dal suo capezzale.
“O forse dovrei
dire buon pomeriggio.”
Prese un respiro
più profondo. “Da quant’è che sono qui?”
“Due giorni e”
guardò l’orologio da taschino. “sedici ore.”
Chiuse gli
occhi. “Suppongo di doverti ringraziare.” Li riaprì. “Mi hai
portato fuori da quel posto... Grazie.”
“Sì. Sì, l’ho
fatto. Ma più che i ringraziamenti” Si alzò. “gradirei
giocare a carte scoperte. Non credi sia arrivato il momento?”
“Non so di cosa
tu stia parlando.” Fu la risposta incolore che
ricevette.
“Suvvia, Hope.”
Il detective si avvicinò al letto. “Questo è un insulto
alla tua intelligenza.”
La ragazza
strinse i denti, mettendosi sulla difensiva. “Ti ho già
detto tutto ciò che c’è da sapere.”
Lui sorrise
sornione. “E’ buffo, perché i giornali dicono il contrario.”
“Da quando credi
ai giornali?” Lo schernì.
“Da quando non è
più stato scritto un articolo su l’Uomo [8]
da quando
hai messo piede in questa casa.”
Hope trasalì
leggermente, cercando in tutti i modi di non tradirsi.
Abbassò gli occhi e sbuffò divertita.
“Quali grandi
accuse.” Rialzò lo sguardo su di lui. “Ma prima di
intraprendere questa piacevole
conversazione, mi permetta una domanda.” Cercò di mettersi seduta con
scarso successo. “Dov’è il buon dottore?”
[7]
Tranquilli non vi siete persi niente. Sono io che sono malvagia e
contorta, asd.
[8]
Mettere the Man suonava veramente troppo male >.>
•••
|
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Capitolo 7 *** #07 ***
Non
sarebbe tornato in tempo. Le fiamme bruciavano ancora vive nutrendosi
di ossigeno e di tutto ciò che rimaneva del magazzino. John Watson
aveva nascosto naso e bocca nel colletto della giacca e riparato la
testa sotto le braccia. Respirava a bocca aperta, provando un senso di
nausea alla bocca dello stomaco e un calore intenso per tutto il corpo.
Per quanto avesse potuto sforzarsi Holmes non ce l’avrebbe fatta. Non
sarebbe tornato in tempo e Watson lo sapeva bene. Come medico era
perfettamente a conoscenza di quanto tempo gli restava da vivere, e non
sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo da poter vedere il volto del
compagno un’altra volta. Provò una fitta al petto, la stessa che lo
aveva trafitto senza pietà sulle cascate di Reichenbach, e pensò di
aver fatto la scelta giusta. Non poteva permettere che Hope morisse al
posto suo. Era così giovane e con tutta la vita davanti, mentre lui
aveva già offerto tutto ciò che poteva. Andava bene così. Non aveva
rimpianti. Non dopo aver confessato a Holmes di amarlo. I suoi occhi si
fecero umidi e la gola si chiuse provocandogli un attacco di tosse
spasmodica. Con la mente si aggrappò a tutti i suoi ricordi felici, e
non fu sorpreso che in ogni singola memoria ci fosse Holmes. Sherlock
Holmes. Sorrise debolmente, mentre il corpo si faceva sempre più
pesante e il respiro più debole.
“Holmes-” Sussurrò.
Poi il nulla.
•••
La
stanza era fredda e immobile proprio come la ricordava. La libreria che
copriva la parete laterale destra era composta da intere file di libri
perfettamente allineati e disposti in modo metodico e studiato. Negli
angoli della stanza belle statue in pietra di medie dimensioni
abbellivano il luogo, mentre l’imponente quadro, che accoglieva gli
ospiti dalla parete opposta alla porta, li accompagnava
nell’impressione di trovarsi nella sala di un museo. Il bel tappeto
persiano che nascondeva il pavimento in marmo accompagnò i passi di
Hope fino al centro della stanza, dove si fermò. Strinse i pugni,
mentre la porta si chiudeva con un leggero schiocco, e lasciò che la
sua attenzione venisse completamente attratta dall’uomo che le dava le
spalle oltre la scrivania in mogano davanti a lei.
“Credevo che i patti fossero chiari.” Esordì l’uomo, senza voltarsi. La
sua voce era piatta e incolore, ma la ladra rabbrividì ugualmente e
attese che continuasse. “Non era forse così? Eppure il piano è così
semplice e lineare…”
“Ed io ero convinta che lei potesse comprendere appieno che una
missione del genere non può essere svolta in un giorno.” Ribatté lei
con una punta di sfida nella voce, cercando di mostrarsi ancora una
volta sicura di sé e per niente intimorita. Lui si voltò a guardarla,
inchiodandola con i suoi occhi di ghiaccio. Timothy Carlton era un uomo
alto e slanciato, dallo sguardo severo e penetrante. I suoi movimenti
erano eleganti e pericolosi come quelli di una fiera pronta ad
attaccare, ma quando parlò lo fece con estrema calma.
“È di questo avviso?”
“Per un soggetto come Sherlock Holmes, si intende.”
“Sono passati mesi,” Mosse alcuni passi camminando affianco alla
scrivania carezzandone la superfice liscia e lucida. “vorrebbe
lasciarmi credere che non ne ha mai avuto l’occasione?”
“Mi sto conquistando la sua fiducia…”
“Questo è irrilevante.”
Carlton quasi sibilò nel pronunciare quelle parole e Hope provò un
brivido intenso lungo la schiena mentre lui avanzava lentamente verso
di lei.
“Non è ciò che le è stato chiesto.
Il suo compito è di tutt’altra natura.”
“Ne sono ben consapevole.”
“Ne è sicura?” L’uomo la fronteggiava adesso e Hope fu costretta ad
inarcare il collo all’indietro per poterlo osservare negli occhi. Si
sentiva come una bambola in mano a un bambino. “Perché vede, Mr. Holmes
ha continuato indisturbato ad infilare il naso in situazioni che non lo
riguardano come se nulla fosse cambiato.”
La giovane donna ingoiò a vuoto, mantenendo lo sguardo fisso nel suo.
“Io-”
Hope non ebbe il tempo di provare a difendersi quando Carlton l’afferrò
con impeto per la gola e la sollevò leggermente da terra. Annaspò
aggrappandosi alle braccia di lui e cercando disperatamente di toccare
con le punte dei piedi il pavimento. Spalancò la bocca reclamando aria,
mentre guardava con terrore e supplica il suo aggressore. Il volto
dell’uomo era contratto dalla rabbia, non era rimasto niente della
calma e dell’eleganza che ostentava prima, e Hope sentiva distintamente
le sue dita stringersi con avidità intorno alla sua gola.
“La- La prego—” Disse con tono strozzato.
Inaspettatamente, Carlton lasciò la presa e la ragazza cadde malamente
e in modo scomposto sul tappeto. Si portò una mano tremante alla gola e
prese respiri profondi, nonostante l’aria le desse la stessa sensazione
ardente del fuoco. Il magnate era tornato a guardarla dall’alto, con la
schiena eretta e lo sguardo impassibile.
“Voglio la sua testa.”
Hope sbatté le ciglia e una lacrima fuggì lungo il suo zigomo, prima di
parlare:
“L’avrà.” [9]
•••
Quando
John Watson si era svegliato aveva impiegato qualche minuto per
ricordare. Il magazzino, il fuoco, la terra incredibilmente fredda
sotto il suo corpo e il peso delle travi su di lui, tutto era
riaffiorato come un sogno che minacciava ormai di svanire. Ma il
dottore aveva già sperimentato quella sensazione quando avevano
affrontato Blackwood e sapeva che era tutto perfettamente reale. Lo
scoprirsi ancora vivo e sdraiato nel suo letto a Baker Street lo aveva
lasciato molto più sgomento ed incredulo di quanto non lo fosse stato
il ricordare l’accaduto. Cosa era successo dopo che aveva perso
conoscenza? Holmes era tornato a prenderlo? Ad un giorno dal suo
risveglio Watson non aveva ancora ricevuto risposte al riguardo.
Sherlock Holmes non si era mai presentato davanti a lui. Mai. Neanche
una volta. Aveva trascorso tutte le ore dal suo risveglio nella propria
stanza a vegliare su di Hope. Anche adesso, mentre il dottore se ne
stava seduto sulla sua poltrona, Holmes si trovava con lei. Nessuna
delle ferite che aveva sul suo corpo era dolorosa quanto quella che
provava nel petto in quel momento. Le parole che aveva pronunciato
mentre si credeva prossimo alla morte erano vivide nella sua mente e
non riusciva ad impedirsi di credere che il detective lo stesse
evitando a causa della sua confessione.
Il suo cuore perse un battito quando la porta della stanza di Holmes si
schiuse con un leggero schiocco della serratura. Watson chiuse un
attimo gli occhi e prese un bel respiro, per poi piegare il giornale
che stava inutilmente tentando di leggere e voltarsi verso l’entrata
della camera. Sherlock Holmes pareva quasi sorpreso della sua presenza,
ma quando iniziò a parlare la sua voce trapelava stanchezza e un
sincero pentimento:
“In fede mia, Watson, sono costernato di non esserle venuto a far
visita da quando si è risvegliato. Spero non me ne dolga.”
Il dottore si mosse rigidamente sulla poltrona.
“Sono certo che lo ha fatto per il bene del caso.” Non lo pensava, e la
durezza nella sua voce ne era la prova. Holmes si passò una mano sul
volto e poi mosse lo sguardo altrove.
“In verità i fatti sono proprio questi.” Fece qualche passo verso il
caminetto. “Ma mi dica, come si sente? Sto iniziando a credere che le
piaccia giocare col fuoco.” Ironizzò.
“Mi sta nettamente confondendo con lei.”
“Non so a cosa si riferisca.”
Il dottore non era in grado di affrontare il suo umorismo in quel
momento. Era tutto così difficile. Perché gli aveva confessato quello
che provava? Se avesse minimamente immaginato che sarebbe riuscito a
salvarsi non avrebbe mai detto niente di così sconveniente. Sorrise fra
sé, pensando che sconveniente fosse
un termine troppo riduttivo.
Holmes si appoggiò con le spalle al camino e il silenzio calò fra di
loro. Gli occhi del detective vagavano per la stanza, quasi alla
ricerca di qualcosa, senza mai posarsi sull’amico e collega di una
vita. Alla fine chiuse gli occhi e sospirò.
“Watson…”
“È tornato a prendermi.”
Riaprì gli occhi e li puntò dritti in quelli dell’altro, che erano duri
come il diamante.
“Aveva qualche dubbio al riguardo?”
“Date le mie condizioni sono rimasto sinceramente impressionato dalla
sua impresa.”
“Ero pronto a morire nell’impresa.”
Watson deglutì e il suo sguardo vacillò. Si sentiva così debole davanti
ai suoi occhi. Così sciocco e stupido mentre il suo cuore batteva
all’impazzata nel terrore dell’aspettativa e della più crudele verità.
Avrebbe dato la vita pur di salvarlo, ma questo non significava niente.
O sì? No, indubbiamente no. Sherlock Holmes era già morto per lui. Le loro anime
erano intrecciate da un legame inscindibile da sempre, due fratelli
nello spirito.[10] Le sue parole non
dimostravano niente. Il dottore respirò ed espirò profondamente.
“Holmes, per quanto è successo… Per quanto riguarda ciò che ho detto
nel magazzino…”
Ogni colore defluì dal volto del detective, che lo guardò con gli occhi
sgranati.
“Oh… Non si preoccupi, mio caro Watson. È tutto…” Si schiarì la voce.
“perfettamente apposto. Non c’è motivo di discuterne oltre.”
In quel momento John Watson desiderò che il pavimento si aprisse
sotto i suoi piedi e lo ingoiasse per sempre, portandolo nelle
profondità più oscure della terra. Avrebbe voluto urlare, strapparsi il
cuore dal petto e piangere, piangere come non accadeva dal tempo della
guerra. Sapeva che sarebbe finita così. Lo aveva sempre saputo. Da
Holmes non poteva aspettarsi qualcosa oltre la più sincera amicizia.
Allora perché faceva così male?
Gli sorrise.
“Naturalmente.”
Il detective lo ricambiò con un mezzo sorriso. “Ora vorrà scusarmi, ma
devo proprio occuparmi di una faccenda piuttosto urgente.” Indossò
cappotto e cappello.
Aveva già una mano sulla maniglia quando si voltò nuovamente verso di
lui. “Si riguardi, dottore.” Disse, per poi sparire dietro alla porta.
Watson chiuse gli occhi e strinse forte i pugni, fino ad infilare le
corte unghie nei palmi. Udì una serratura scattare nuovamente e si
voltò verso la fonte del rumore. Aggrappata alla maniglia e allo
stipite della porta, Hope stava in piedi sulla soglia della stanza da
letto di Holmes. Indossava un abito da camera che lasciava intravedere
le bende che fasciavano le sue braccia, mentre i lunghi capelli le
ricadevano lungo le spalle nascondendo quelle del collo. Il suo bel
volto era sciupato dalle escoriazioni e dalle lievi occhiaie causate
dal lungo sonno.
“Sono felice di vederla.” Sorrise leggermente, mentre il suo volto
tradiva uno spasmo di dolore causato probabilmente dallo sforzo. “Sta
bene?”
E mentre erano lì, a guardarsi l’un l’altra, entrambi bendati e
contusi, Watson comprese che la sua opportunità l’aveva persa nel
momento esatto in cui Hope aveva messo piede in quella casa.
“Sì.” Accennò un sorriso. “Non sono mai stato meglio.”
[9] Ve l’avevo
detto che non vi eravate persi niente e che sono contorta! Eh eh, spero
che nello scorso capitolo vi fosse venuta un po’ di curiosità quando ho
inserito queste battute.
[10] Ricordate la
predizione di Dora in Sherlock Holmes?
•••
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Capitolo 8 *** #08 ***
•••
Londra vide l’alba sei volte prima che il destino bussasse alla porta
di Baker Street. Hope si levò di buonora quella mattina e non fu
sorpresa di non trovare Sherlock Holmes nella stanza da letto. Si vestì
con cura, lisciando ogni piega del vestito color edera, e acconciò i
capelli in una treccia. Rimase a mirarsi nella specchiera. Sul volto
erano sempre visibili i segni della recente sventura, che ancora
accompagnava i suoi incubi. Nessuno di loro aveva riportato ustioni
importanti, ma le pelli non avevano ripreso del tutto il loro colore
naturale nelle zone offese ed escoriazioni di varia natura si stavano
ancora rimarginando. Hope accarezzò con l’indice mancino un livido
sotto lo zigomo e il suo sguardo cadde sul riflesso dell’anulare.
Osservò gli anelli con cura, prima nello specchio e poi nella realtà,
come se li vedesse per la prima volta. Sospirò, per poi sfilarli
lentamente e poggiarli entrambi sulla superficie del mobile. Il giorno
era arrivato. Si incamminò fuori dalla stanza fino ad entrare nella
sala, dove trovò Watson seduto a fare colazione.
“Buongiorno.”
Lo salutò, con un breve sorriso di circostanza che venne ricambiato.
“Buongiorno anche a lei.”
Hope non sapeva cosa fosse successo prima del suo risveglio, ma
certamente il buon dottore non aveva lo stesso comportamento cui
l’aveva abituata: non sarebbe stata spesa altra parola, infatti, per
lei nel resto della giornata, almeno che non si trattasse di un saluto
cordiale o di una breve risposta a una sua domanda. La situazione la
infastidiva più di quanto avrebbe mai ammesso, perché non riusciva a
intendere cosa fosse accaduto – che la incolpasse per quello che era
successo, forse? – e non aveva materialmente il tempo per dare risposta
ai suoi dubbi.
Non si sedette con lui e raggiunse la finestra, dove scostò
leggermente la tenda con due dita per guardare fuori e lasciarla aperta.
“Non si unisce a me per la colazione?”
Hope si voltò, guardandolo con genuino stupore e curiosità.
“Non ho appetito.” Rispose.
“La vedo piuttosto pallida. È sicura di non voler mangiare
qualcosa?”
Lei sorrise brevemente. “È molto gentile a preoccuparsi.”
“Non ha risposto alla mia domanda.”
“Ha ragione. Sì, sono sicura. Ma prenderò posto insieme a lei.”
Watson la seguì con lo sguardo mentre copriva la distanza dalla
finestra alla sedia all’altro capo del tavolo. Era ben conscio di aver
mantenuto un comportamento scorretto nei suoi confronti; ne aveva
meditato tutta la notte e aveva deciso che non era giusto punirla – per
così dire – per una cosa di cui non aveva direttamente colpa. Non era
colpa sua se era stato così sciocco da innamorarsi del suo migliore
amico e a dare per scontato che l’altro sarebbe stato accanto a lui per
sempre. Era stato sciocco ed egoista, per non parlare della sua
ipocrisia: lui era stato il primo ad allontanarsi per stare affianco ad
un’altra persona, anche se lo aveva fatto per mantenere le apparenze.
Hope era davvero molto pallida. Vagava con occhi stanchi lungo la
superficie del tavolo, tenendo le mani intrecciate in grembo e senza
mai incrociare il suo sguardo.
“Qualcosa la turba?”
Lei sorrise brevemente ed alzò gli occhi su di lui. “No.”
Watson attese, ma la risposta non proseguì. Finì la sua colazione
nel silenzio più totale, osservando di tanto in tanto il comportamento
dell’altra. Non era intenzionato a porle altre domande cui sicuramente
non avrebbe risposto, ma non poté fare a meno di iniziare a
preoccuparsi. A distoglierli dai loro pensieri fu l’arrivo di Mrs.
Hudson, che li coinvolse in una sorridente conversazione fatta di
leggerezze mentre raggruppava le stoviglie da portare al piano di
sotto. Qualche istante dopo che la padrona di casa ebbe lasciato la
stanza Holmes fece il suo ingresso: aveva un sorriso furbo e gli occhi
accesi di soddisfazione.
“Sono felice di trovarvi qui riuniti.” Camminò a passo svelto nel
mezzo della stanza. “È giunto il momento che condivida con voi tutto
ciò cui le mie indagini hanno portato. Ma vi prego, mettetevi comodi!
Non c’è alcun motivo per cui dobbiate rimanere all’impiedi!” Il
detective gesticolò verso le poltrone e il divano ed attese che i due
compagni prendessero posto prima di ricominciare a parlare:
“Il giro di affari di Timothy Carlton ha da sempre squisitamente
attirato la mia attenzione. Un magnate che lavora di sotterfugi e
inganni, con capacità intellettive e criminose inferiori solo a quelle
del Professore. Il dottore può confermare quanto queste qualità
solletichino il mio genio. Ed è per questo motivo che anche l’attuale
più famoso ladro di Inghilterra ha attirato la mia attenzione.”
“The Man?” Chiese Watson.
“Esattamente.”
“Questo cosa ha a che fare con Carlton?”
“Mio caro amico, è legato a questo caso molto più di quanto
possiate immaginare.” Guardò rapidamente Hope prima di tornare a
parlare. “Abbiamo a che fare con un ladro molto astuto, dalle
indiscutibili capacità atletiche e dalle tempistiche ammirevoli. In
media è riuscito a svaligiare due ville a settimana nell’arco di un
mese, tra cui quella del nostro Carlton che è stata l’ultima.”
“Una concentrazione altissima di furti conclusasi repentinamente.”
“E ricorda quanto tempo è trascorso?”
Watson si mise a riflettere. “Più o meno da quando siete partito
per la Francia.”
“Non lo trova curioso?”
“Si tratta sicuramente di una coincidenza.”
“Le coincidenze non esistono, raramente l’universo è così pigro.” [11]
“Con i vari bottini potrebbe essersi sistemato per tutta la vita.
Oppure potrebbe-” Il dottore si bloccò.
Credo conoscerà il magnate
Timothy Carlton, sì? Ebbene, ho effettuato una rapina a suo danno
qualche settimana fa, venendo a conoscenza che la maggior parte degli
oggetti d’arte che commercia sono dei falsi. [12]
Si voltò leggermente verso Hope; la donna era immobile, la schiena
ritta e rigida, con le mani incrociate tenute in grembo.
“Oppure potrebbe aver scoperto qualcosa che lo ha portato alla
necessità di sparire.” Concluse la frase e Holmes lo guardò provando
una punta di orgoglio per quello che il compagno era riuscito ad
imparare nel corso di quegli anni.
“Un’altra cosa che aveva attirato la mia attenzione era la
necessità di marcare il fatto che si trattasse di un individuo maschio
a compiere questi furti. L’ottusità degli Yarder non li avrebbe mai
portati su una strada diversa, ma il ladro ha avuto l’accortezza di
plagiare la mente di ogni singolo cittadino. Chi mai potrebbe credere
che il colpevole sia una donna se sulla scena del delitto viene
espressamente detto che si tratta di un uomo.”
“Nessuno, a parte Sherlock Holmes.” Hope uscì dal suo silenzio, ma
non rilassò le spalle.
“Mi hai dato tutti gli indizi giusti. Durante il nostro primo
colloquio mi hai esplicitamente detto da chi stavi cercando di fuggire
e perché.”
“Le cose stavano così.”
“Una persona così accorta come te non si sarebbe lasciata sfuggire
un dettaglio così rilevante. Hai lavorato attentamente per restare
completamente nell’ombra, avresti potuto inventare qualsiasi cosa per
far sì che ti dessi il mio aiuto.”
“Sono certa lo avresti scoperto.”
“E allo stesso tempo” continuò, “saresti potuta sparire nel nulla
nel momento stesso in cui hai scoperto che Carlton conosceva la tua
vera identità. Certo, lui è un uomo molto influente e avrebbe potuto
darti la caccia, ma nessuno ha tentato di seguirci quando ci siamo
ritirati in Francia.”
“Devi averci riflettuto molto. A che conclusione sei giunto?”
“Carlton voleva che venissi da me.”
“Cosa?” Watson passò lo sguardo dall’uno all’altra con le
sopracciglia corrugate. “Quale motivo avrebbe avuto?”
“L’unico problema più grosso di una ladra con grandissime doti che
ha scoperto il tuo segreto è un detective che sta cercando di
incastrarti e distruggere tutto ciò che hai creato. Quale modo migliore
di liberarsi di entrambi in un colpo solo. Ho ragione?”
Hope non rispose. Si limitò a sostenere il suo sguardo con
espressione neutra, così in contrasto con la sua postura.
“Sta dicendo che Carlton vuole uccidervi entrambi?”
“Sto dicendo che Carlton ha mandato Hope ad uccidermi.”
Il silenzio cadde su di loro.
“Tutto questo è assurdo!” Watson si mosse a disagio e si rivolse
alla ragazza: “È vero ciò che dice? Si è infiltrata qui con l’intento
di uccidere?”
La giovane donna mantenne lo sguardo su Holmes, ignorando la
domanda del dottore. Poi parlò:
“Quando lo hai capito?”
“Ne ho sempre avuto il sospetto e ne ho avuta la conferma con
l’irruzione in questa casa. Non erano venuti con l’intento di
perpetrare un omicidio, ma come avvertimento. Il tempo scorreva e tu
non gli stavi dando ciò che voleva.”
“Quegli sciocchi omuncoli non conoscono il concetto di piano a
lungo termine come noi. È stato un vero tedio tentare di fargli capire
come stavo agendo…” Si alzò in piedi. Watson si mise sulla difensiva,
pronto ad agire nel caso ce ne fosse stato bisogno. Aveva visto Hope in
azione e non era più sicuro di sapere cosa o non cosa sarebbe stata in
grado di fare ora che Holmes aveva scoperto il suo gioco.
“In particolar modo perché quello non era il tuo piano. Sono
rimasto davvero colpito dal tuo scaltro e il tuo ingegno. Per non
parlare della capacità di tirare i fili di un teatrino del genere.
Ammetto di aver impiegato più del dovuto a capire come stavano
realmente le cose. Far credere a Carlton di stare al suo gioco, di
acconsentire alle sue richieste, montando uno scenario che ai suoi
occhi doveva essere a danno del sottoscritto e a suo beneficio. Ma
l’unica persona che può trarre beneficio da questa storia non è
nessun’altra se non te.”
Hope sorrise tristemente. “La cosa è opinabile.”
Ed accadde.
•••
“Non
ricordo con piacere la mia infanzia. Sono nata e cresciuta in un circo,
sempre errando di città in città. Mio padre era una brava persona, ma
dopo la morte di mia madre l'alcol lo rese manesco e molto irritabile.
Ben presto mio fratello ed io iniziammo a sfruttare tutto ciò che
avevamo imparato dal circo per guadagnarci da vivere da soli; eravamo
due piccoli acrobati con una grande propensione alla recitazione e una
buona memoria visiva: non usare queste qualità ci sembrò un sacrilegio,
un'opportunità sprecata. E crescendo non abbiamo abbandonato il
mestiere. È stato Nicholas[13] ad
avere l'idea.”
“Infiltrarsi all'interno per poter fare il colpo del secolo.”
“Sapevamo che non sarebbe stato facile e che avrebbe richiesto una
lunga attesa, ma eravamo pronti a tutto.”
“Tranne che a trovarvi tra le mani della refurtiva composta da
falsi. Per quanto tempo Nicholas è stato un sottoposto di Carlton?”
“Tredici mesi, e lo è ancora adesso. Siamo venuti a sapere troppo
tardi che tutte le opere d'arte nella villa di Londra sono tutti dei
falsi.”
“A tue spese.”
Sorrise amaramente. “Non so come fecero a trovarmi quella sera. So
solo che ero certa non avrei più rivisto la luce del sole.”
“Ma Carlton aveva altri piani.”
“Ho fatto molte cattive azioni nella mia vita: ho truffato,
mentito, rubato, ma non ho mai ucciso nessuno. Non sarei mai riuscita a
toglierti… a toglierle la vita.”
“Quella notte, quando sei venuta da me, non hai mentito, volevi
realmente essere protetta. Hai portato avanti la messa in scena perché
ti osservavano. E questo era ciò che lui si aspettava da te.”
“Speravo con tutto il cuore che la situazione si risolvesse da
sola. Che riuscisse ad incastrare Carlton-”
“Sei tornata a darmi del lei.”
Hope lo guardò in silenzio per qualche secondo, non aspettandosi
un’affermazione del genere. “È vero.”
“Non è cambiato niente.” Iniziò Holmes.
“Come può affermare una cosa del genere?” Domandò lei, lasciando
trasparire il rimorso dagli occhi e dalla voce. “Le ho mentito a bella
posta, con l’egoistico intento di salvare la mia pelle e la mia anima!
Ho rischiato di farvi uccidere entrambi dentro quel magazzino!” Spostò
lo sguardo, ormai lucido, sulla parete. “Non merito il vostro aiuto.
Non merito di stare qui…”
“In fede mia, sarei la più crudele delle persone se ti lasciassi
al tuo destino precludendoti il mio aiuto!”
Holmes le sorrise, cercando di rassicurarla.
“Puoi esserti nascosta dietro tanti volti,” la interruppe “ma c’è
stato un momento, da quando tu e John siete stati attaccati in casa, in
cui hai smesso di mentire. O quasi del tutto.”
Si sporse verso di lei.
“Qual è il tuo nome?”
La ragazza esitò, stringendo le lenzuola tra le dita.
“Charlie.” [14]
•••
Era
successo tutto troppo in fretta. Troppo
in fretta. John Watson non sapeva con certezza, in vita sua,
quante persone aveva visto morire davanti ai suoi occhi. Troppe morti. Ma quella sensazione
di nausea mista a rabbia e senso di colpa era una cosa a cui non si era
mai abituato, e in quel momento era forte e prepotente in lui, tanto
che avrebbe voluto urlare.
La finestra era esplosa in mille pezzi quando il proiettile vi
aveva impattato contro, per poi concludere la sua corsa nel corpo di
Hope, che si era accasciata sul tappeto di pelle di tigre. Non c’era
stato nulla da fare.
“Watson.”
Il dottore non si mosse. Rimase con la schiena appoggiata al muro
esterno dell’obitorio, lo sguardo perso in un punto imprecisato. Holmes
entrò nel suo campo visivo, fermandosi dritto in piedi davanti a lui.
Lo osservò: niente in lui dava l’idea di un possibile cedimento, della
possibilità che si lasciasse emotivamente struggere come stava facendo
lui. Non era un comportamento da Sherlock Holmes.
“Watson…”
“È sempre così difficile.”
“A cosa si riferisce?”
“Al convivere col senso di colpa.”
“Non si dia colpe che non ha, dottore. Non poteva fare niente per
salvarla.”
“Questo non mi fa sentire meglio.” Chiuse gli occhi per un
istante. “Ha cercato aiuto in noi, ed è morta nell’unico posto in cui
pensava di essere al sicuro. E dopo il giorno dell’esplosione io…”
Holmes lo interruppe afferrandolo fermamente per le spalle.
“Non hai niente da rimproverarti, John. Devi credermi.”
Si guardarono negli occhi per un tempo che parve eterno, fino a
quando Watson non si costrinse ad abbassare lo sguardo, perché il
desiderio di far sua la bocca del detective stava diventando
irrefrenabile.
Holmes distolse lo sguardo a sua volta, schiarendosi la voce, e
fece scivolare le mani via dalle sue spalle con una carezza leggera. “È
ora di rientrare, dottore. Mrs. Hudson sarà in pena per ciò che è
successo.”
In risposta ottenne solo un lieve cenno del capo, ed insieme si
avviarono verso Baker Street.
•••
“È una cosa che mi sta bene… morire per
te.”
Che cosa stupida e sentimentale. Holmes sbuffò vistosamente mentre
scioglieva il bendaggio che gli era stato fatto all’avambraccio. Il
dottore che si era occupato di Watson e di Hope aveva insistito per
medicare anche lui e a niente erano valse le sue proteste. Per cui, ora
si trovava lì, a eliminare quelle fastidiose bende. Se John
avesse saputo che si era tolto le fasce appena messe gli avrebbe fatto
una ramanzina lunga secoli. Sorrise all’idea, ma il pensiero di quello
che era successo lo colpì come uno schiaffo. Si voltò: Watson giaceva
tranquillo nel suo letto, con le braccia adagiate sulla coperta, come
era stato lasciato dal medico.
Nella mente del detective era ancora viva l’immagine del suo
Boswell immobile ed inerme sotto quella trave in fiamme. Chiuse gli
occhi e prese un respiro profondo, per poi andare a sedersi sul bordo
del letto. Aveva rischiato di perderlo per sempre. Sarebbe bastato che
fosse tornato in dietro con qualche minuto di ritardo e Watson non ce
l’avrebbe fatta. Non avrebbe mai
potuto perdonarselo.
Dopo qualche istante di esitazione poggiò la mano su quella
dell’amico.
“Te lo avevo detto: io mantengo sempre la parola.” [15]
In risposta ottenne solo il silenzio assordante della stanza.
Rimase in quella posizione a lungo, osservando l’amico inerte,
finché il suo corpo non reclamò a gran voce l’attenzione su di sé. Le
pareti della gola erano ancora irritate dal fumo inalato e le ferite
pizzicavano la pelle in maniera fastidiosa. Fece una smorfia. Non aveva
nessuna intenzione di costringersi in quelle bende quando aveva così
tante cose di cui occuparsi. Decise però che poteva concedersi un sorso
d’acqua e si alzò per prendere la caraffa che Mrs. Hudson aveva
lasciato sul canterale del dottore. Quando ne afferrò il manico la vide
tremare. I suoi nervi stavano venendo messi duramente alla prova. Si
morse il labbro inferiore con rabbia. Come
aveva potuto essere così sprovveduto? Come aveva potuto permettere che
accadesse? Versò con impeto il liquido nel bicchiere, facendone
cadere un po’ sul pavimento, e bevve. Doveva assolutamente mettere in
chiaro le cose con Hope – sempre se quello era il suo vero nome – e
renderla partecipe del fatto che lui sapeva. Questo probabilmente
avrebbe facilitato le cose. Li avrebbe aiutati a concludere il caso.
Si voltò nuovamente verso di Watson. Lasciarlo da solo in quello
stato non era una cosa che lo rendeva tranquillo, avrebbe preferito
vegliarlo fino a che non avrebbe aperto gli occhi, ma la situazione
stava precipitando di minuto in minuto e non poteva permettersi di
restare. Rimise il bicchiere al suo posto e uscì.
•••
“Holmes!”
Il dottor Watson era entrato nella sala da pranzo con l’aspetto e
l’agitazione di chi aveva appena appreso qualcosa di estremamente
importante: gli abiti erano leggermente scomposti e il respiro
affannato, segno evidente che aveva camminato e salito le scale con
passo svelto, ed i suoi occhi erano sgranati, colmi di sorpresa e
incredulità. Si tolse il cappello con una mano, mentre con l’altra
sventolava il giornale del mattino.
“Avete letto la notizia in prima pagina? È davvero incredibile!”
Il detective, dal canto suo, rimase impassibile nella sua
poltrona, continuando a fumare una sigaretta.
“In nome del Cielo, Watson! Sì, ho letto l’articolo. Ora si
ricomponga e venga a sedersi.”
Watson lo guardò incredulo. “Se lo ha letto come può essere così
calmo?”
“Perché mai non dovrei esserlo?”
Il dottore poggiò il giornale sul tavolo e si tolse il cappotto,
prima di prendere posto di fianco al suo amico.
“Carlton è stato ucciso con un colpo di pistola alla testa e
questo non la fa scomporre minimamente?”
“Watson,” piegò la testa di lato per guardarlo meglio. “parla come
se non mi conoscesse.”
L’altro aprì la bocca per ribattere, ma esitò quando notò che lo
sguardo del detective si era spostato in quel punto del pavimento in
cui un tempo vi era stata la pelle di tigre. Erano passati cinque giorni.
“Era un caso che ti stava molto a cuore.” Disse infine.
Holmes strinse gli occhi, per poi lanciare la sigaretta contro la
grata del camino.
“Mio caro amico.” Si voltò interamente verso il coinquilino, con
espressione seria sul volto. “Nel corso di questi mesi non sono stato
del tutto sincero con voi. Ritengo sia arrivato il momento di metterla
al corrente di tutti i fatti.”
•••
“Facciamo
un riepilogo della situazione, vuoi? Carlton ti ha mandato qui con
l’intento di eliminarmi in cambio della tua libertà, ma sappiamo
entrambi che c’è un’alta probabilità che non mantenga la parola data.
Tuo fratello Nicholas è sempre un suo sottoposto fidato, sì? Bene,
questo potrebbe tornarci molto utile. La domanda ora è: come?”
“In realtà la mia domanda è: di cosa stai parlando?”
Holmes rise genuinamente. “Come facciamo a far credere a Carlton
che tu sia morta.”
“Oh.” Hope lo guardò accigliata. “Devo supporre che ti piaccia
simulare morti nel tempo libero?”
“Vedo con piacere che ti è tornata la voglia di essere ironica con
me.”
Le guance di lei si colorirono vistosamente. “Mi dispiace.”
“Non devi.”
“La tua genialità mi ha confuso.”
“Ne sarei lusingato se fosse la verità.”
“Lo è.”
“Bene allora.”
Gli occhi di Holmes brillarono improvvisamente. “Il miele pazzo.
Blackwood si finse morto in questo modo. Potrebbe funzionare.”
“Ammetto che sto realmente faticando a starti dietro questa volta.”
Il detective si mosse sulla sedia, visibilmente esaltato per ciò
che la sua mente stava elaborando. “Quante probabilità ci sono che tuo
fratello riesca a convincere Carlton a permettergli di ucciderti?”
Il volto di Hope si incupì. “Vuoi che… Nick finga di uccidermi?”
“È l’unico uomo che abbiamo all’interno.”
La ragazza masticò leggermente il labbro inferiore con gli
incisivi, ragionando su quello che aveva appena appreso.
“Sì. Sì, potrebbe funzionare.”
Holmes sorrise sornione. “È un mio piano: funzionerà senz’altro.”
•••
“Io
non riesco a crederci!”
“Watson ha intenzione di farsi sentire da tutto il vicinato?!”
Il dottore era diventato paonazzo. Il racconto di Holmes lo aveva
sconvolto, non riusciva a credere che gli avesse mentito così
spudoratamente di nuovo. Ora
erano entrambi in piedi, fronteggiandosi. “Avevo bisogno che anche lei
credesse a ciò che era successo.”
“In questi ultimi cinque giorni mi sono lasciato logorare dai
sensi di colpa!”
“Le avevo detto che non ce ne era motivo.”
“Sì, già, perché se lei mi dice una cosa del genere omettendo il
fatto che Hope è viva io
automaticamente non mi sentirò in colpa!”
“Uh…”
“Senza contare il come mi sono sentito per lei.” Gesticolò verso di lui.
“Me?”
“Sì, per te! Dio…” Si
passò una mano sul volto.
Holmes lo fissò in silenzio per qualche istante, poi parve capire:
“Crede ancora che io avessi un vero interesse amoroso nei confronti di
Hope?”
Watson si sentì arrossire leggermente. “Miss Hope è una bella
donna e ha una mente perfettamente in sintonia con la sua.”
Il detective rise, indispettendo l’altro. “Non mi derida in questo
modo!”
“John.” Il tono con cui
il suo nome uscì dalle labbra di Holmes lo fece fremere. “Non ricorda
niente di quando sono tornato a prenderla?”
Il dottore lo guardò confuso. “No, io ero svenuto, non se lo
ricorda?”
In quel momento, se non lo avesse conosciuto bene, Watson avrebbe
giurato che Holmes stesse provando dell’imbarazzo. Il detective si
passò una mano tra i capelli, spostando lo sguardo al camino.
“Non importa.” Tornò a guardarlo. “Io però ricordo perfettamente
le parole che tu mi hai detto.”
Il cuore di Watson perse un battito. “Holmes, credevo che non ne
avremmo-”
Il detective percorse la distanza che si era creata tra di loro e
prese le sue mani.
“Mi dispiace di averle causato tutto questo dolore, John.”
Il dottore rimase immobile, pietrificato, con il cuore che batteva
ridicolmente forte. E quando la speranza crebbe di nuovo dentro di lui
si sentì uno stolto. Holmes non aveva smesso di guardarlo nemmeno un
istante, tenendo quello sguardo profondo intrecciato al suo.
“Ammetto che all’inizio volevo prendermi una specie di rivalsa.
Ripagarla con la stessa moneta per farle capire cosa avevo provato
quando lei si è sposato. Col senno di poi, credo sia stata una delle
cose più puerili che abbia mai fatto. In ogni caso era importante che
anche lei lo credesse vero: se riuscivo a convincere lei che Hope era
mia moglie potevo convincere chiunque. E, allo stesso modo, se avesse
saputo che avevamo architettato una farsa per ingannare Carlton non ne
sarebbe uscita una recita perfetta. Aimè, visti i recenti fatti, sono
abbastanza sicuro che il fratello di Hope abbia preferito la salvezza
di sua sorella alla sua anima, ma confido che siano già in viaggio per
le Americhe e che non verranno accusati di alcun omicidio.”
Watson ingoiò un paio di volte prima di commentare: “Deve esserle
costato uno sforzo enorme parlarmi così apertamente.”
Sorrise. “Tremendamente.”
“Ma perché uccidere Carlton, dopo tutto quello che avete fatto?”
“Posso solo supporre che Nicholas abbia voluto vendicare la
sorella e assicurarsi di non avere spiacevoli sorprese in futuro.”
“Ha avuto gran coraggio e sangue freddo.”
Holmes aumentò leggermente la presa sulle sue mani. “Non si può
mai sapere come reagirà una persona pur di salvare i propri cari.”
“Questo è indubbiamente vero.”
Si creò un silenzio pieno di domande e aspettative, fatto di
pensieri rumorosi e sguardi ansiosi.
“Se devo essere del tutto onesto.” Esordì Holmes d’improvviso.
“Ritengo che Hope abbia realmente una bella mente in sintonia con la
mia. È davvero affascinante.” Sentì le mani di Watson irrigidirsi nelle
sue. “Ma c’era un piccolo e
non facilmente trascurabile dettaglio che non mi avrebbe mai permesso
di accompagnarmi realmente a lei.”
“E quale sarebbe?”
“Lei non è te, John.”
Fece appena in tempo a finire di pronunciare quell’ultima
sillaba che Watson lo aveva già tratto di più a sé e si era
appropriato delle sue labbra in un bacio carico di frustrazione e
attesa mal celata. I denti cozzarono e le lingue si intrecciarono,
danzando in una passione che infiammò i petti dei due uomini. Le loro
mani scivolarono via le une dalle altre per concedersi finalmente il
lusso di andare ad esplorare il corpo della persona tanto bramata. Le
dita di Holmes si mossero veloci e discrete sui bottoni del gilet del
dottore, senza mai smettere di carezzare con la lingua la sua, ed
iniziò a spogliarlo, passando alla camicia. Il dottore emise un suono
strozzato quando il detective spostò l’attenzione alla sua cintura.
“Sherlock–”
“Uhm?” Gli morse la mandibola.
“Non staremo correndo un po’ troppo?”
Holmes si fermò ed indietreggiò di un passo. “Al contrario,
ritengo che abbiamo atteso fin troppo.”
Gli regalò un sorriso sporco, mentre continuava ad indietreggiare
ed iniziava a spogliarsi della camicia a sua volta. “E poi, dopo un
caso del genere, ci meritiamo di festeggiare,
non credi anche tu?”
Aveva ragione. Quanto tempo avevano perso cercando di fuggire da
un sentimento considerato impuro e malato. Quanto tempo sprecato nel
cercare di salvare le apparenze, e vissuto nella paura che l’altro non
ricambiasse ciò che in realtà entrambi provavano. Watson ricambiò il
sorriso.
“Se la metti in questi termini.”
Holmes gli porse una mano e lui lo raggiunse in pochi passi, per
poi lasciarsi condurre nelle sue stanze. I respiri iniziarono a farsi
più pesanti, le pupille dilatate e i corpi frementi, mentre finirono di
togliersi i vestiti a vicenda e si lasciarono crollare sul letto uno
sopra l’altro. Si muovevano con movimenti impacciati, travolti da
un’emozione troppo forte da contenere, fatta di desiderio e timore.
Watson sovrastò il compagno, reggendo il peso del corpo sulle braccia,
e si concesse il lusso di osservare quelle splendide labbra gonfie di
baci e morsi e quegli occhi scuriti dalla passione: non credeva che si
sarebbe mai trovato davanti a spettacolo così bello. Holmes ricambiò il
suo sguardo, respirando velocemente, e gli accarezzo le labbra con le
dita.
“Sei spaventato.” Non era una domanda, ma una constatazione.
Watson sorrise lievemente. “Anche tu.” Si azzardò a rispondere.
Holmes non replicò in alcun modo, continuando a scrutarlo con
attenzione.
“Oh, John Watson.” Esordì a un tratto. “Nessun’altra persona al
mondo avrebbe mai potuto stravolgere il mio essere in tal modo come hai
fatto tu.”
Neanche la più accorata delle dichiarazioni sarebbe potuta essere
più esplicita di quelle semplici parole dette da lui, e questo Watson
lo sapeva bene. Si sporse verso di lui per lasciargli un bacio a fior
di labbra. “Lo so.”
E poi i muscoli si contrassero, le schiene si arcarono e i gemiti
lievi e mal repressi riempirono l’aria, mentre le lenzuola si
inumidivano.
•••
Sherlock
Holmes non era il tipo di persona facile alla resa e in quell’occasione
non fu da meno. Mentre l’edificio collassava lentamente su se stesso,
il detective non aveva pensato nemmeno una volta di tornare indietro:
avrebbe continuato la sua avanzata anche a costo di morire, non avrebbe
lasciato nulla d’intentato. Ma, nonostante tutto, vacillò quando si
trovò nuovamente davanti a un muro di fuoco. Aveva perso il conto di
quante volte aveva già dovuto cambiare direzione sebbene ricordasse
perfettamente la strada percorsa in precedenza. Chiuse gli occhi per un
istante. La vista si stava annebbiando e l’ossigeno cominciava a
mancare. Doveva resistere. Ricominciò a correre, ignorando le fiamme
che si aggrappavano al suo cappotto.
Passò quello che parve un tempo lunghissimo prima che lo
scorgesse: Watson aveva nascosto la testa sotto le braccia nel
tentativo di ripararsi dal fumo, ma non era certo che fosse ancora
vigile. Si lanciò verso di lui.
“Watson!” Gridò, come quando lo aveva trovato la prima volta, ma
il dottore non si mosse.
Le travi che lo avevano intrappolato erano andate in buona parte
distrutte, e Holmes non ci mise molto a liberarsene, sebbene lo sforzo
fu ugualmente notevole.
Si inginocchiò accanto a lui e cercò di voltarlo. “Watson!...
Watson!... John!”
Il dottore contrasse i muscoli facciali e aprì debolmente gli
occhi. Holmes si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.
“Grazie al Cielo è vivo!” Si tolse rapidamente il cappotto e lo
usò per coprire la testa e le spalle del compagno. “Coraggio amico mio,
si appoggi a me!”
Lo caricò sulla schiena, benché il dottore fosse più alto di lui,
e ricominciò la traversata dell’Inferno. Si trovava a metà strada
quando una gamba cedette sotto il peso dello sforzo, facendoli rovinare
a terra. Holmes fece leva sugli avambracci, ansimando leggermente.
Respirava a malapena.
“Io non-” Digrignò i denti per la rabbia e la frustrazione. “Non
ti lascerò morire qui!” Colpì il terreno con il pugno. Iniziò a
tremare. Non doveva arrendersi. Non
poteva arrendersi. Con tutta forza che riuscì a trovare si issò
nuovamente sulle gambe. Doveva portare John fuori da quel posto. Arrancò
diversi minuti prima di riuscire a scorgere uno spiraglio di cielo.
“Ci siamo John.” Rantolò.
Impiegò tutto quello che era rimasto delle sue forze per
percorrere quell’ultimo metro di agonia e quando finalmente fu fuori
all’aria aperta crollò su se stesso, stremato. Cercò di nutrire i
polmoni con ossigeno il più possibile prima di scivolare da sotto il
corpo del dottore e trascinarlo lontano dal rogo come aveva fatto con
Hope, per poi lasciarsi nuovamente cadere accanto a lui.
“John!” Gli sbottonò i primi bottoni della camicia e si affrettò
ad accertarsi che stesse respirando. Ma
non accadde niente. Il volto di Holmes divenne di pietra.
“No no no no,” un sorriso folle gli salì alle labbra “non può
lasciarmi così adesso!” Si
mise in ginocchio, cercando di tenersi in equilibrio ponendo i palmi
sul petto del dottore. “E poi sarei io l’egoista bastardo!?”
Si mise in posizione, una mano intrecciata sull’altra, ed iniziò
con la compressione del torace. La testa gli girava, non aveva ancora
immagazzinato abbastanza ossigeno, ma questo non lo trattenne un solo
istante dal poggiare disperatamente le labbra su quelle dell’altro nel
tentativo di aiutarlo a respirare. Ripeté quelle azioni più volte.
“Non… Ti prego…”
Sherlock Holmes non ricordava di essersi mai sentito così in
tutta la sua vita. Il dolore acuto che provava nel petto era atroce,
superava il limite di qualsiasi sopportazione. Tempo addietro aveva
preso la solenne decisione di nascondere le emozioni in una stanza
remota del suo essere; stavano lì, discrete, nascoste dietro una
maschera di indifferenza. Poi John Watson aveva aperto la porta.
Premette ancora una volta sullo sterno e soffiò altra aria nei
polmoni con disperazione. Fu in quell’istante che il corpo sotto di lui
ebbe uno spasmo e Watson tornò a respirare. Iniziò a tossire
convulsamente, tanto che Holmes dovette afferrarlo per le spalle.
“Va tutto bene! Tutto bene…”
Il dottore sgranò gli occhi, mentre l’istinto di sopravvivenza lo
spingeva a cercare l’aria con la bocca.
“È tutto finito. Tutto finito.” Gli sussurrò rassicurante il
detective, che non poté fare a meno di chiedersi se non lo stesse
ripetendo a se stesso. Si mosse di lato per far sì che il capo di
Watson potesse adagiarsi sulle sue gambe, mentre lui teneva le mani
poggiate ai lati del suo viso aspettando che il respiro dell’amico
tornasse regolare. Passò qualche istante prima che si sporgesse fino a
permettere alle loro fronti di sfiorarsi.
“Non puoi concederti il lusso di lasciarmi dopo quello che mi hai
detto.” Gli confessò a mezza voce.
Quando tornò con lo sguardo su di lui, John Watson aveva perso
nuovamente conoscenza, ma il suo petto si alzava e abbassava in maniera
cadenzata. Holmes non era certo che lo avesse sentito. Tuttavia l’unica
cosa che gli importava in quel momento era che lui fosse lì, vivo, e il
resto non contava.
•••
Le
ombre ballavano distrattamente sul soffitto, creando strane figure
fantastiche e al contempo lievemente ipnotiche secondo l’opinione del
dottor Watson, che le osservava mutare sopra di sé mentre carezzava
pigramente i capelli del compagno sdraiato sul suo petto. Il silenzio
che li avvolgeva era quasi surreale, dopo che i loro nomi si erano
rincorsi e fusi così tante volte, accompagnati da ansiti spezzati e
promesse a mezze voci.
“Un penny per i tuoi pensieri.”
Watson sorrise. Il silenzio non l’aveva mai vinta con Sherlock
Holmes.
“Sono solo felice.”
Il detective alzò la testa per guardarlo in volto.
“Nessuna domanda esistenziale riguardo a cosa sarà del nostro
rapporto d’ora in avanti?”
“Dovevo immaginare che saresti stato così fastidioso anche in
questo frangente.” Rispose con un sorriso.
L’altro alzò le spalle con fare noncurante. “Conoscendoti, vecchio
mio.”
Il dottore gli diede un leggero pizzicotto su una guancia ispida,
guadagnandosi uno sguardo di disappunto che gli diede un moto di
ilarità.
“Non vedo cosa ci sia di così divertente.”
“Hai ragione. Non c’è nulla di divertente. Ma come ricorderai sono
felice, e quindi mi sono lasciato trasportare.”
“Suppongo che ormai dovrei arrendermi al non comprendere le tue
stranezze.”
“Ah! Questa è proprio bella! Sarei io quello strano dei due?”
“Senza alcun dubbio, dottore!” Holmes lo guardò con fare serio.
“Nessuno sano di mente si sarebbe mai innamorato del sottoscritto. Ma
infondo nel corso della nostra lunga amicizia hai ribadito più volte il
tuo essere psicologicamente disturbato. Contrariamente, invece-” Si
zittì, resosi conto di star parlando troppo.
Watson si sistemò per riuscire a guardarlo meglio. “Continua,
Holmes.”
“Niente. Il mio discorso è finito.”
“Questa è una menzogna che non cerca minimamente di sembrare la
verità.”
“E invece è così ti dico!”
Il dottore rise lievemente e lasciò che il discorso cadesse come
desiderava il compagno.
Tornò il silenzio per un lungo periodo di tempo, prima che Holmes
decidesse che poteva valere la pena lasciare uno spiraglio aperto alla
stanza delle emozioni.
“Suppongo che ciò che volessi dire fosse” si schiarì la voce,
vagando con lo sguardo sulla stanza, “che è assolutamente folle pensare
che qualcuno possa anche solo pensare di potersi innamorare di un tipo
come il sottoscritto. Ma è altrettanto folle pensare che qualcuno non
possa innamorarsi di una persona come te.” Tentennò un attimo. “Sempre
che esista un altro uomo come te.” Concluse, posando gli occhi sui
suoi, con un sorriso quasi timido sulle labbra.
Dopo un attimo di genuina sorpresa, il dottore gli sorrise
apertamente e si sporse a cercare le sue labbra, col cuore colmo di
gioia. Holmes allungò il collo verso di lui a sua volta, trovandolo a
metà strada per un bacio pieno di parole.
“Sai, dovresti smetterla con queste criptiche dichiarazioni
d’affetto. Potrei farci l’abitudine.” Ironizzò il dottore, sapendo che
per Holmes risultava arduo da affrontare l’argomento in cui si erano
addentrati.
“Quali dichiarazioni?” Rispose prontamente lui, con un sorriso di
scherno.
“Nessuna.” Si chinò a baciarlo nuovamente. “Ovviamente nessuna.”
•••
Al
di fuori dell’intima stanza, Londra urlava e viveva con tutte le sue
forze. Tra i passanti chioccianti di Baker Street, un ragazzo dagli
abiti sgualciti e sporchi osservava con calcolata noncuranza le
finestre del 221B da sotto la corta visiera del berretto. Accanto a lui
un giovane uomo alto e dinoccolato, dai vestiti molto simili ai suoi,
si guardava intorno cercando di non dare nell’occhio.
“Odio metterti fretta, ma è esattamente ciò che farò”. Esordì
l’uomo. “È davvero ora di andare, Charlie.”
Hope Castiel sorrise, sentendo la pelle sotto al silicone tirare
leggermente.
“Precedimi di qualche passo.” Rispose al fratello, che si avviò
lungo la strada con le mani in tasca e l’aria annoiata. La ragazza
diede un ultimo lungo sguardo all’edificio che era stato il
palcoscenico di quegli ultimi difficili mesi e poi si incamminò a sua
volta.
Tutto finì come era iniziato: una ragazza in fuga, Baker Street e
un segreto da celare. Ma nell’appartamento di Sherlock Holmes e John
Watson le cose non sarebbero più state le stesse.
[11] Scambio di battute tra Sherlock
e Mycroft nella 3x02 della serie tv Sherlock.
[12] Dal capitolo #04. Anche se la
frase è estrapolata dal discorso avvenuto tra Hope e Holmes, quel
passaggio sostituisce nell’arco temporale della storia il momento in
cui la ragazza racconta a Watson come stanno realmente le cose tra lei
e il detective. Per questo motivo ho ripreso quella citazione
nonostante non sia un ricordo diretto del dottore.
[13] Per chi non ricordasse o si
fosse perso quello che la mia mente contorta ha fatto: Nicholas compare
nel capitolo #05, è uno degli uomini che scorta Hope
[14] Charlie è un nome usato sia al
maschile che al femminile. L’ho scelto per mantenere il binomio
uomo-donna che ha accompagnato la ragazza per tutta la storia.
[15] “Tornerò a prenderti e ritornerai a Baker
Street con noi. Lo giuro, Watson, ed io mantengo sempre la parola.”
••End••
Haibara Stark
~ Tre anni. Sono quasi passati tre anni dall’ultimo aggiornamento di
questa storia. Non so sinceramente come sia potuto accadere, visto che
sapevo fin dall’inizio che questo sarebbe stato l’ultimo capitolo e mi
ero ripromessa di pubblicarlo al più presto. Per quanto si possa
credere, ho iniziato a scriverlo ancor prima di aver pubblicato il
settimo. Ero partita bene, convinta, ma poi mi sono bloccata, non
riuscivo a scrivere quello che avevo in mente. Questa cosa mi è
successa due o tre volte nel corso dei due anni passati. Poi qualche
tempo fa ero a letto e ho pensato “Hey! Ma perché mi sono arenata in
quel punto? Potevo risolverlo così!”. Imbarazzante. Davvero
imbarazzante, credetemi. Sono stata ferma per due anni e dieci mesi su
un punto che sono riuscita a districare in un secondo nel dormiveglia.
Ribadisco: imbarazzante.
Avrete notato che non mi sono ancora scusata con voi per questa
lunghissima attesa. Ritengo non ci siano parole di scuse valide, in
realtà. Quell’Ottobre del 2013 ha portato una svolta nella mia vita che
mi ha allontanato dal mondo delle fanfiction. Arriva sempre quel
momento in cui la tua vita sociale reclama a gran voce la tua
attenzione e non puoi fare a meno di concedergliela. Questo non
significa che non sia costernata per essere riuscita ad aggiornare solo
adesso, tutt’altro. Mi prostro ai vostri piedi e vi chiedo perdono!
Ad essere del tutto onesti, la cosa che mi terrorizza di più è che
questo capitolo vi abbia deluso. Sia per come è scritto sia per come si
è svolto. Ho una predilezione per le storie un po’ contorte, però non
so se il mio intento sia andato a buon fine. Spero di esserci riuscita
almeno in parte.
Non mi resta che salutarvi e ringraziarvi di cuore per aver letto e/o
recensito questa long, e di aver avuto la pazienza di aspettare.
Un
abbraccio!
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