Il futuro è una terra straniera

di margheritanikolaevna
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo primo ***
Capitolo 3: *** Capitolo secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo terzo ***
Capitolo 5: *** Capitolo quarto (parte prima) ***
Capitolo 6: *** Capitolo quarto (parte seconda) ***
Capitolo 7: *** Capitolo quinto ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 “Il futuro è una terra straniera”
 

 
 
 
Esse coprirono tutto il paese, così che il paese ne fu oscurato, divorarono ogni erba della terra e ogni frutto d'albero che la grandine aveva risparmiato: nulla di verde rimase sugli alberi e delle erbe dei campi in tutto il paese d’Egitto. (1)
 
Esodo 10, 15.
 
 
Prologo
 
 
La notte tra il 9 e il 10 novembre 1938 si consumava in Germania uno dei più odiosi e ignobili attentati contro la comunità ebraica tedesca, passato alla storia e tuttora ricordato come la “notte dei cristalli”.
Lo spunto fu il gesto di un ebreo diciassettenne di nome Herschel Grynszpan il quale, per vendicare le sofferenze inflitte ai genitori durante il forzato esilio in Polonia, si recò presso l’ambasciata tedesca a Parigi ed esplose cinque colpi di pistola contro il diplomatico Ernst Eduard von Rath, ferendolo gravemente.
L’uomo, che a quanto sembra era stato scelto casualmente come bersaglio, morì il giorno successivo e la vendetta dei nazisti fu tremenda.
Cosa successe dopo lo dicono le cronache di allora.
Un’orgia di sangue e di violenza, magistralmente guidata, si abbatté sulla comunità ebraica tedesca: migliaia di vetrine di negozi ebrei infrante a colpi di mazze e bastoni, sessanta sinagoghe incendiate, trentamila ebrei tirati giù dai propri letti nel cuore della notte, in parte ammazzati a bastonate mentre altri “barbari” buttavano dalle finestre i mobili e in parte trattenuti in arresto per essere inviati a morire a Dachau e a Buchenwald.
Le piazze delle città si trasformarono in enormi bracieri, ove furono bruciati migliaia di libri non graditi ai nazisti.
Si avverava la profezia del poeta Heinrich Heine, che quasi un secolo prima aveva ammonito: “Ricordatevi che prima si bruciano i libri e poi si bruciano gli uomini”.
Quella notte cominciò il terrore; la brutalità, la violenza, la devastazione della “notte dei cristalli” furono il preludio della soluzione finale.
L’antisemitismo, fino ad allora rimasto seminascosto, esplose mostrando tutta la sua barbarie: da lì ad Auschwitz il passo fu breve.
 
Mac Taylor finì di leggere e richiuse la brochure che aveva trovato nella busta insieme all’invito; sospirò e spostò lo sguardo sulla facciata anteriore del cartoncino, ove campeggiava la riproduzione di una delle fotografie cui era dedicata la mostra alla quale aveva deciso di consacrare uno dei suoi rarissimi giorni di libertà dal lavoro.
Il plico gliel’aveva mandato Ben Lesnick, presidente della “Foundation for Remembrance”, l’associazione con cui era entrato in contatto l’anno prima, quando stava indagando su un traffico di reperti appartenuti alle vittime dell’Olocausto venduti all’asta sul web a collezionisti dell’orrore da un gruppuscolo di neonazisti fanatici, che intendevano così finanziare le loro attività di propaganda (2).
I suoi membri raccoglievano e catalogavano le testimonianze dei sopravvissuti allo sterminio e grazie a loro Mac aveva fatto una commovente scoperta su suo padre: forse era proprio in nome di ciò che aveva saputo allora che adesso si trovava lì, nel settantesimo anniversario di quella notte atroce, non sufficientemente graziata dal bellissimo nome di “Kristallnacht”.
Guardò in alto, laddove la mole finto-gotica della sinagoga di Eldridge Street si stagliava contro il cielo ancora terso: l’aria era tiepida per essere novembre e un venticello gentile spirava dall’oceano, spettinando i capelli e sollevando appena le foglie secche cadute sui marciapiedi.
Intorno all’edificio, un piccolo assedio silenzioso: qualche agente di polizia in uniforme blu e transenne a rimarcare l’atroce poesia di una cautela che rivelava tempi nuovi e, insieme, condizioni di rischio ancora attuali.
Settant’anni dopo quella notte di sangue, Mac Taylor faceva parte della modesta coda di visitatori che superava lentamente i metal detector e le perquisizioni all’ingresso della grande sinagoga; osservava i pochi turisti stranieri e i pochissimi newyorkesi alzare le braccia per lasciarsi esaminare e depositare gli oggetti personali in una vaschetta di plastica, proprio come in un aeroporto. Poi, un gruppetto di ragazzini accompagnati dagli  insegnanti che, tutti intenti a ridere e a scherzare tra loro, parevano i soli del tutto inconsapevoli della solennità del luogo e dell’occasione.
Sbuffò e distolse lo sguardo, chiedendosi se veramente l’orrore del passato potesse dirsi del tutto superato, oppure se in qualche modo l’umanità fosse sempre, pericolosamente, allo stesso punto.
In una sala del piano terra era stata allestita la mostra fotografica: immagini di allora, di quella notte, dei roghi di libri che accesero le piazze della Germania nazista, delle strade ricoperte dei frammenti delle vetrine infrante con violenza.
Non solo fuoco, cocci e macerie, tuttavia: anche uomini e donne, vivi ma trascinati per strada con la stella di David al collo dalle guardie naziste. Intorno, la gente che guardava e, a volte, rideva.
La dignità cancellata.
L’identità di un intero popolo violata e calpestata.
Mac si soffermò davanti all’immagine che già aveva visto sull’invito: il bianco e nero disegnava lo scorcio di una via elegante, fiancheggiata da giovani alberi ancora ornati da foglie, con in primo piano le vetrine dei negozi ebrei frantumate. Cocci aguzzi, schegge appuntite sparse al suolo, le intelaiature spoglie come le orbite vuote di un teschio.
Poi, la gente: uomini eleganti che passavano oltre senza degnare di uno sguardo quella devastazione, come se l’orrore non li avesse riguardati, come se la responsabilità non gravasse su ciascuno di loro anche solo per non aver reagito.
E, separati da quelli, coloro che cercavano nonostante tutto di rimettere ordine, rimuovendo i vetri infranti: un ragazzo ben vestito - capelli impomatati, cravatta e corti calzoni di foggia antiquata - che brandiva uno spazzolone.
Il gesto dimostra energica risoluzione - rifletté il poliziotto - ma il volto tradisce lo sbigottimento per ciò che ha visto e subito.
Forse ha già capito che la fine era iniziata quella notte?
Mac socchiuse le palpebre, avvicinandosi alla foto e lasciando scivolare lo sguardo sulla smorfia di angoscia che deformava quel viso, e non poté fare a meno di domandarsi chi fosse il giovane della fotografia e quale fosse stata la sua sorte.
Suo malgrado divenuto immortale, forse anche l’esistenza di questo ignoto testimone della storia si spense in una camera a gas, terminò nel gelo di una baracca o tra le fiamme di un crematorio?
 

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Seduto in una delle prime file, nell’auditorium dove era stata organizzata la conferenza di apertura della mostra, Mac Taylor si guardò ancora una volta intorno, osservando che le poltroncine ricoperte di velluto beige erano quasi tutte vuote, fatta eccezione per il settore occupato dalla scolaresca che aveva visto all’ingresso e che ancora rumoreggiava, incurante dei rimproveri degli insegnanti. Era evidente che i ragazzi si trovavano lì solo perché vi erano stati costretti e che avevano tutta l’intenzione di occupare allegramente quelle ore sottratte ai compiti, godendosi la possibilità di stare un po’ insieme al di fuori della scuola.
Probabilmente per molti di loro era la prima volta che sentivano parlare della “notte dei cristalli” e la parola “Olocausto” puzzava di muffa e di vecchio: si trattava di storie legate a un mondo che non avevano conosciuto e che doveva apparire terribilmente lontano dai loro problemi quotidiani, tanto da non poterlo nemmeno immaginare.
Tronfi paroloni scritti nei libri di storia e non già pagine vergate col sangue di esseri umani innocenti. 
Il detective si agitò sulla sedia, indeciso se intervenire o meno, considerando con rabbia strisciante che in quella stanza nessuno oltre a lui sembrava rendersi conto di quanto fosse importante coltivare il ricordo di un passato solo in apparenza remoto, per impedire che simili atrocità potessero ripetersi in futuro.
Le generazioni cresciute in un’epoca di pace non potevano capire quanto fossero fragili le conquiste dei moderni stati democratici e come ciò che veniva dato per scontato, quasi fosse un diritto acquisito, facilmente potesse essere spazzato via dal fanatismo e dall’odio.
Del resto, la storia l’aveva dimostrato incontrovertibilmente - e neppure tanti anni prima - proprio sulla loro sponda dell’Atlantico…
C’era stata un’epoca in cui libertà, democrazia e giustizia erano solo concetti astratti; c’erano state intere generazioni di persone che avevano sperimentato sulla propria pelle la disperazione, il disprezzo e il sadismo dell’uomo armato contro l’uomo.
Famiglie smembrate e sterminate, un popolo che aveva rischiato di scomparire per sempre dalla faccia della Terra in nome di ideali malati di superiorità razziale. Eppure adesso a nessuno sembrava importare più di tanto…
A un tratto le luci si abbassarono e Mac volse lo sguardo verso il centro della sala, dove era appena entrata una vecchietta canuta, accompagnata da quello che a giudicare dall’abbigliamento doveva essere un rabbino e da un signore di mezza età che il tenente riconobbe nello stesso Lesnick.
Dopo una breve presentazione, i due le cedettero la parola e Mac si rese conto che stava per avere il privilegio di ascoltare una testimonianza dalla viva voce di una persona che la “notte dei cristalli” l’aveva vissuta davvero.
 
(1)la citazione, dall’Ecclesiaste,è un richiamo al fantalibro “La cavalletta non si alzerà più”, di cui P.K. Dick scrive in “La svastica sul sole” e che descrive il futuro che conosciamo inteso come ucronia in una realtà, costruita invece nel romanzo, in cui effettivamente i nazisti hanno vinto la guerra e dominano il pianeta;   

(2)Il riferimento è tratto dall’episodio “Yahrzeit” (“Il ricordo”).
 

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Capitolo 2
*** Capitolo primo ***


 Amiche e amici lettori - pochi ma per questo ancora più preziosi - mi rendo conto che il prologo si è rivelato per quel che era: appunto, solo un’introduzione che mi è servita per cominciare a delineare alcuni temi.
 

Questo capitolo, invece, ci cala di più nell’atmosfera di quel periodo disgraziato e fa da ponte verso la storia vera e propria, che inizierà nel capitolo successivo.
Le parole di Hanne sono, nella parte finale, una parafrasi del testo della canzone “Vorbei” dei Panik (ex Nevada Tan), che era contenuta nel pacchetto da me scelto per il “Worldwide contest”.

 

Il pacchetto “Germania” prevedeva anche l’inserimento di un’immagine (quella descritta nel prologo) e di una ricetta (qui i Lebkuchen) scelte dal giudice.
Grazie infinite a chi avrà la pazienza di leggere e commentare!
 
 
Capitolo primo
 
 
Hanne Hirsch Liebmann era nata nel 1931 a Karlsruhe (3): sua madre era cattolica, mentre suo padre proveniva da una famiglia ebrea non praticante. Gestivano una panetteria ed erano conosciuti e benvoluti nel quartiere, almeno fino all’avvento dei nazisti al potere.
Piano piano le persone non ebree che prima frequentavano il negozio avevano iniziato a prendere le distanze, isolandoli sempre di più; non c’era stata ancora violenza, ma una diffidenza strisciante, un odio sotterraneo eppure distintamente avvertibile, quelli sì.
Poi, era arrivata la “notte dei critalli”.
“Avevo sette anni allora e ricordo che nel pomeriggio avevo aiutato mia madre a preparare l’impasto per i Lebkuchen, i tipici biscotti natalizi della tradizione tedesca, che avremmo cominciato a vendere la mattina seguente. In Germania le feste di Natale iniziano l’11 novembre, giorno di San Martino, quando è tradizione costruire lanterne di carta che poi i bambini portano in processione per illuminare la strada di San Nicola, che il 6 dicembre arriva nelle case e regala ai piccoli dolci e cioccolata. 
È strano come nella mia memoria i ricordi di quella notte siano associati ai profumi di frutta secca e spezie… ancora oggi non posso sentire l’odore della cannella o dei chiodi di garofano senza che un brivido mi attraversi da capo a piedi”.
La donna si bloccò un istante, quasi che il torrente dei ricordi che stava risvegliando fosse troppo impetuoso e rischiasse di travolgerla. Il vuoto lasciato dalla sua voce fragile - l’inglese perfetto, eppure ancora venato dalle tracce di accento tedesco - eppure autorevole fu subito riempito dalle risate soffocate provenienti dal gruppo di ragazzi che occupavano il fondo della sala, vanamente rimbrottati dai loro accompagnatori.
Quando, però, Hanne riprese tutti tacquero di nuovo.
 
“Era un mattino freddo e nebbioso il 10 novembre 1938; ero andata a scuola - in una scuola ebraica ovviamente - e il nostro maestro entrò di corsa in classe senza fiato… lui, che era sempre calmo e tanto gentile, aveva il viso tutto rosso per l’agitazione e con le mani tremanti fece segno verso la porta gridando: «Bambini, per l’amor del cielo, presto, correte a casa vostra!».
Non ricordo come uscii dalla scuola; tutti spingevano e tiravano affollandosi verso il portone e poi subito correvano via, ciascuno per la propria strada.
Io invece rimasi ferma lì, in mezzo alla via, ipnotizzata da quello che stavo vedendo: ragazzi della Hitlerjugend nelle loro divise assalivano con bastoni e sassi l’edificio, prima frantumando i vetri delle finestre e poi devastando tutto quello che trovavano nelle aule e negli uffici.
Piangevo per il terrore: la mia casa era lontana, non ero mai uscita da sola e non sapevo nemmeno come tornare. Tra l’altro, non riuscivo a capire cosa volessero quei giovani da noi e dalla nostra scuola.
Anche loro non erano altro che ragazzi… sì, più grandi di me, ma ragazzi come lo ero io: che cosa gli avevamo fatto di male?
Improvvisamente mi sentii afferrare per la mano.
A passi veloci - a me sembrava di correre - entrammo in un negozio.
Non conoscevo l’uomo che mi aveva trascinata con sé, ma il mio istinto mi disse che voleva aiutarmi, allontanandomi dai soldati impazziti e dalla folla di curiosi. Il negozio era una latteria e lo sconosciuto che mi aveva portato lì un signore di mezza età coi capelli già bianchi; con l’aiuto della moglie cercò di tranquillizzarmi, ma io, scossa dal gran piangere, non riuscii a tirar fuori una sola parola.
Allora, mentre tentavano di farmi dire il mio nome e dove abitassi, per blandirmi mi offrirono un biscotto ricoperto di cioccolata, proprio un Lebkuchen come quelli che vendevano i miei: non so come, ma mi riscossi e finalmente ripresi un po’ il controllo di me, riuscendo a spiegare come si chiamasse la mia famiglia.
Trascorso un tempo che a me parve infinitamente lungo, l’uomo tornò insieme a mia madre: mi calmai solamente fra le sue braccia.
Dopo aver ringraziato quelle brave persone, mamma mi prese per mano e mi condusse verso casa… ricordo il suo palmo caldo e liscio che si chiudeva intorno alla mia manina gelida e poi le strade che attraversammo, che parevano bruciare esse stesse a causa delle fiamme che uscivano dalle case e dai negozi ebrei, mentre i pompieri tentavano di salvare con i getti d’acqua dei loro idranti unicamente le proprietà appartenenti a cittadini tedeschi “ariani”!
Sembrava che le SS si divertissero: ridevano rumorosamente mentre spaccavano con pietre e bastoni le vetrine dei negozi e gettavano in strada dalle finestre mobili e quadri.
Precipitai in un vortice di orrore che la mia mente di bambina lesse con i soli strumenti che aveva: quelle persone conservavano l’apparenza di esseri umani, ma in realtà erano mostri, trasformati improvvisamente e resi spietati dal sortilegio di una strega cattiva.   
Come avrei potuto altrimenti spiegarmi che persone che fino a poco prima ci erano amiche adesso ci sfuggivano, ci odiavano senza un perché, godevano nel vedere la nostra sofferenza e la nostra umiliazione?
Quando arrivammo a casa, tutte le vetrine del negozio erano state spaccate e mio padre, con le lacrime agli occhi, stava togliendo i frammenti di vetro dalla strada. Accanto a noi c’era la bottega di un antiquario: anch’essa era stata devastata, ricordo che avevano addirittura versato inchiostro sui tappeti per renderli irrecuperabili…”
Hanne tremò appena, si interruppe per bere un sorso d’acqua e poi riprese.
“Nell’ottobre del 1940 fummo deportati a Gurs, nel sud della Francia; l’anno dopo una società per l’aiuto dell’infanzia mi aiutò a nascondermi in un istituto a le Chambon sur Lignon.
Non vidi mai più i miei genitori: mia madre morì ad Auschwitz, di mio padre non ho saputo nulla… nel 1949 sono emigrata qui negli Stati Uniti e da allora non ho più messo piede in Germania”.
La sua voce ruppe in un gemito: “Ricordo bene mia madre, anche se ero così piccola: era dolce e affettuosa e il pensiero di lei mi ha accompagnato nei momenti di tristezza, rincuorandomi. Era sorridente e gentile, nonostante il dolore, mentre il mondo intorno a noi non ci mostrava altro che crudeltà e odio.
L’ho desiderata con tutto il mio cuore, voi non potete nemmeno immaginare quanto!
Quando ci separammo, mi disse queste parole: “Fino a quando non mi dimenticherai, io sarò sempre con te”.
Affondai la testa tra le sue braccia, mi aggrappai a lei più forte che potei e quando la strapparono via sentii che mi gridava che ci saremmo ritrovate, che quello non era un addio, ma solo un temporaneo arrivederci.
La sua promessa ha riecheggiato nelle mie orecchie per anni, fino a che non ho saputo che era morta.
Ancora adesso, ci sono giorni in cui ho paura e non riesco più a ricordare tutto ciò che di bello ho diviso con lei… tutti i colori della nostra vita insieme sbiadiscono. Ci sono notti in cui giaccio sveglia fissando la parete bianca di fronte a me e penso alla nostra promessa che si consumava lentamente dietro al filo spinato di un campo di concentramento.
E l’immagine del suo volto sulla parete impallidisce, fino a che rimane solo il muro livido e vuoto.
La storia della nostra vita, il quadro che stavamo dipingendo insieme svanisce: il ricordo di lei dovrebbe rimanere intatto, ma il tempo cancella e discolora anche quando non vogliamo. 
Quando la mia ultima domanda ebbe risposta, compresi che i nostri giorni erano persi per sempre, finiti. Che avrei dovuto trovare nuovi scopi nella mia vita, liberarmi dal passato, cercare quanto di buono il mondo poteva ancora offrirmi.
Ricominciare.
Lasciai il mio paese, ma il passato ancora non tace…
E non deve tacere.
Immaginate - se potete - un essere umano al quale vengano tolti insieme alle persone amate anche la sua casa, le sue abitudini… tutto, infine, letteralmente tutto quanto possedeva: sarà un uomo vuoto, ridotto a sofferenza e bisogno, incapace di ricordare persino la propria dignità.
Perché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere anche se stesso(4)”.  
“Vedete, ragazzi” concluse, rivolgendosi agli studenti che l’ascoltavano adesso tutti concentrati e commossi “voi non immaginate nemmeno la fortuna che avete avuto a nascere in questo paese, in un momento in cui la guerra è solo un pensiero lontano.
La pace, la giustizia, il rispetto nei confronti di chi è diverso non sono valori scontati, che sono esistiti sempre e dovunque: milioni di persone sono morte in modo atroce affinché ciascuno di voi potesse essere libero e vivere serenamente.
Ve ne prego, non dimenticatelo mai.
Conservate nel vostro cuore la capacità di indignarvi, di spezzare il silenzio e di lottare per affermare questi stessi principi”.
 
(3) Questo è il nome di una persona reale, veramente sopravvissuta all’Olocausto, la cui storia ho scovato su un sito che raccoglie testimonianze orali di superstiti allo sterminio e modificato in parte per adattarla al racconto.
(4) La frase è una citazione da “Se questo è un uomo” di Primo Levi.
 

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Capitolo 3
*** Capitolo secondo ***


 Dunque, amici lettori, con qualche giorno di ritardo ecco il nuovo capitolo: la prima parte segue il filo dei capitoli precedenti, mentre il finale si apre verso uno sviluppo della storia che spero vi sorprenderà.
 

I fans esauriti come me riconosceranno di sicuro la scena… fatemi sapere.
 
 
Capitolo secondo
 
 
Le parole toccanti di Hanne Liebmann risuonavano nella vasta sala, adesso immersa nel più perfetto silenzio: persino quelli tra i ragazzi che fino a poco prima non avevano perso occasione per lanciarsi strilli e sfottò ora ascoltavano muti, come rapiti, e Mac, osservandoli, notò persino baluginare in quegli occhi giovani il riflesso di una lacrima furtiva.
Certo, tutti loro erano stati fortunati: gli Alleati avevano vinto la guerra, sia pure pagando un prezzo altissimo, e il mondo era stato liberato dal flagello del Nazionalsocialismo ma… e se fosse andata diversamente?
L’uomo rabbrividì a quel pensiero e si strinse nella giacca, attraversato da un gelo improvviso.
Guardando quel volto avvizzito ma pieno di determinazione, ancora solcato dalla straziante tristezza del rimembrare, Mac a sua volta non poté fare a meno di ripensare a ciò che aveva scoperto su suo padre grazie al lavoro di Lesnick: c’era qualcosa nella storia della sua famiglia - e quindi, in un certo senso, anche nel proprio stesso destino - che la legava all’Olocausto.
Un velo umido gli passò davanti agli occhi e, senza distogliere lo sguardo, represse un sospiro.
In quell’istante, una mano si posò sulla sua spalla e il volto sorridente di Stella Bonasera spuntò dalla penombra della stanza.
In silenzio, ma senza smettere di sorridere, la collega si sedette accanto a lui proprio nell’istante in cui le luci si riaccendevano e un applauso intriso di autentica commozione salutava l’uscita della coraggiosa Hanne.
“Come hai fatto a trovarmi?” esclamò Mac, ricambiando il sorriso dell’amica.
“Dimentichi che ho doti da indovina! Non ti ricordi quando ti lessi i fondi di caffè greco?” scherzò lei (5).
Dopo un istante aggiunse, più seria: “Quando ho visto che non eri in ufficio come al solito - sebbene fosse il tuo giorno libero - ho pensato o che fosse successo qualcosa di grave oppure che avessi qualcosa di molto importante da fare… e quando ho letto dell’inaugurazione di questa mostra mi è venuto in mente che forse ti avrei trovato qui e che magari ti avrebbe fatto piacere un po’ di compagnia”.
“Insomma, o sono dannatamente prevedibile, oppure tu mi conosci dannatamente bene!” ribatté l’altro, sentendo per la prima volta in quel pomeriggio allentarsi la tensione. E il merito era di Stella, che sempre riusciva a leggergli nel cuore, rimanendogli accanto con dolcezza e insieme con forza incrollabile.  
“Mmm… propenderei per la seconda ipotesi” fece lei, appoggiandosi contro lo schienale della poltroncina e dando un’occhiata alla sala che via via si svuotava.
“Mi spiace essere arrivata in ritardo, è stato interessante?”.
Mac annuì lentamente.
“Sai perché sono voluto venire qui? La storia dell’Olocausto mi ha sempre toccato nel profondo, fin da quando la studiavo a scuola.
E adesso la sento ancora più vicina…
C’è una cosa che non ho mai raccontato a nessuno: ricordi quando indagavamo sull'omicidio del titolare di una casa d’aste e scoprimmo che era un neonazista coinvolto nel traffico di oggetti appartenuti alle vittime dello sterminio?”.
La tristezza oscurò per un momento lo sguardo terso di Stella, mentre ripensava a quanto fosse disgustosa la sola idea che qualcuno fosse disposto a pagare duemila dollari per un paio di scarpe da uomo prese a Treblinka, cinquemila per una bambola di porcellana disseppellita da una fossa comune a Dachau… o diecimila per un paralume rivestito in pelle umana.
Rabbrividì e guardò il collega.
“Il presidente della “Foundation for Remembrance” proseguì a quel punto Mac “mi inviò un video contenente l’intervista a un uomo sopravvissuto al campo di sterminio di Buchenwald.
Lui racconta che nel 1945, mentre dormiva sul pavimento di una baracca, era stato d’improvviso svegliato e aveva sussultato per il terrore pensando che fossero le guardie del campo o le SS che, avendo capito che la guerra era persa, stavano cercando di eliminare quanti più testimoni possibili delle loro efferatezze.
Però poi aveva guardato colui che aveva di fronte, squadrato la divisa che indossava e letto l’orrore nei suoi occhi, capendo quindi che si trattava di una persona mandata lì non a ucciderlo, bensì a liberarlo.
Il prigioniero era calvo, forse pesava sì e no quaranta chili e la sua pelle era grigia e fredda come quella un cadavere, ma nonostante ciò il militare americano lo aveva tirato su - vincendo la repulsione che quel contatto suo malgrado gli provocava - gli aveva offerto la propria giacca e poi lo aveva portato fuori dalla baracca piena di morti accatastati tenendolo tra le braccia perché non riusciva a camminare.
Una barretta di cioccolato era stato tutto ciò che aveva potuto dargli, tutto ciò che il suo stomaco vuoto sarebbe stato capace di tollerare, però lui gli aveva sussurrato tra le lacrime che nulla avrebbe avuto mai lo stesso sapore”(6).
“Stella” concluse dopo una breve pausa “quel soldato era mio padre…”
“Mio Dio” mormorò la donna, tornando a guardarlo in viso “deve avere visto cose orribili laggiù!”.
“Già” rispose Mac “evidentemente è per questo motivo che non ne parlava mai volentieri, tanto che per capirci qualcosa di più sono stato costretto ad andare in biblioteca appena ho avuto l’età per farlo”.
“Tenente Taylor!” la voce allarmata del rabbino fece quasi sussultare i due poliziotti.
“Il signor Lesnick mi ha detto che lei era qui… deve venire subito con me, nel palazzo qui accanto è successa una cosa gravissima!”.
 
***
 
Il giovanotto in smoking è palesemente sconvolto: i capelli arruffati, il volto deformato dalla disperazione, ansima stringendo ancora nella mano destra un piccolo coltello insanguinato.
Corre con tutto il fiato che ha in corpo e non si ferma, nemmeno quando sente la voce del poliziotto che lo sta inseguendo.
Scende le scale a perdifiato, voltandosi ogni tanto per controllare che lo sbirro non abbia guadagnato terreno: non lo vede, perché quello ha usato l’ascensore per precederlo, e non sa che non lo ha mai perso di vista, nemmeno per un istante.
A un tratto, se lo vede sbucare davanti.
Cerca di reagire, si divincola, ma quello gli punta contro la pistola e grida: “Fermo, getta l’arma!”
Il ragazzo esita: è ancora sconvolto e non sa che fare.
“Non muoverti, fermo! Fai scivolare il coltello verso di me” ripete il detective, sempre tenendolo sotto tiro.
Masticando le proprie lacrime, il giovane urla: “Meritava di morire, si è presa tutto ciò per cui ho lavorato!”.
All’altro non importa sapere come e perché: in quel momento deve solo riuscire a disarmarlo.
Per un lunghissimo istante si fronteggiano; poi il giovane capisce che quel tipo non ci penserà su due volte a piantargli un proiettile in corpo… in fondo, ai suoi occhi non è altro che un pericoloso assassino.
Allora getta l’arma e si guarda intorno, cercando una possibile via di fuga.
“Fai scivolare il coltello verso di me. Ora!” grida ancora il poliziotto, senza abbassare la pistola.
Con un piede, tenta di coprire la lama per impedire al ragazzo di afferrarla di nuovo; per una frazione di secondo la sua attenzione non è più concentrata su di lui e quello ne approfitta.
Gli si lancia contro e, quasi sollevandolo di peso, lo getta oltre la balaustra, facendolo precipitare sul pavimento due piani più sotto.
Un breve grido, il suono metallico della pistola che tocca terra, la voce disperata di Don che urla il suo nome.
Poi, il buio (7).
 
(5)  Il riferimento è alla puntata “Fondi di caffè greco”.
(6)  La storia viene raccontata in “Yahrzeit”.
(7)  Il riferimento è alle prime scene dell’episodio “Punti di vista”.
 
 

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Capitolo 4
*** Capitolo terzo ***


  
 

Eccoci qua, amici, la storia entra finalmente nel vivo: dopo la caduta, Mac si risveglia in un luogo sconosciuto. Ma è davvero sveglio, oppure quello che vivrà sarà solo un sogno dannatamente realistico?
 
 
Capitolo terzo
  
Non fu un rumore, ma il silenzio più profondo a strappare Mac Taylor dall’incoscienza: disorientato e ancora intontito, sbatté le palpebre più volte e si guardò intorno senza riuscire a riaversi dallo sbalordimento.
Si tastò il capo, il petto, le braccia, meravigliandosi di non trovarvi alcuna traccia della caduta patita; non solo, ma ancor più sorpreso di non conservarne che qualche immagine sfocata, l’ombra confusa d’un frammentato ricordo.
Si trovava per terra, solo, nella tenebra di un luogo deserto e senza sapere a chi rivolgersi per capire cosa gli fosse accaduto e dove fosse capitato.
Cercò di tornare con la memoria agli ultimi avvenimenti e si rese conto con infinito sgomento di non ricordare quasi nulla… ma davvero era precipitato? Veramente stava inseguendo qualcuno, oppure quel ricordo non era altro che un inganno della sua mente sconvolta?
Nel vuoto di questa orribile incertezza, d’improvviso lo afferrò l’ansia di comprendere almeno dove si trovasse in quel momento: si levò in piedi e fece alcuni passi nell’oscurità, domandandosi in quale luogo a quell’ora di notte l’illuminazione stradale potesse essere spenta, tanto da gettare le strade e i palazzi nelle tenebre più cupe. Neanche un lume acceso, neppure alle finestre degli edifici che apparivano, anzi, come disabitati.
Si guardò le mani, le voltò in modo da scrutarne sia il dorso che il palmo, le serrò a pugno e poi le riaprì, quasi a sincerarsi in tal modo di essere egli stesso reale e non già solo un‘allucinazione o un sogno. 
Nessuno in giro, neppure un vagabondo, un ubriaco, una prostituta… nessuno.
Una città certamente a lui ignota: nel buio, scorse il baluginio della targa metallica che recava un’indicazione stradale, ma non riuscì a discernere cosa vi fosse scritto.
Levò gli occhi verso il cielo, dove grosse nuvole nere s’addensavano all’orizzonte tra i primi, squallidi, barlumi dell’alba; guardò l’orologio che aveva al polso, ma neppure questo poté aiutarlo a tranquillizzarsi, giacché le lancette si erano inopinatamente fermate.
La città dormiva d’un sonno profondo, spaventoso.
Sempre più inquieto, camminò ancora - in fretta, quasi di corsa - senza sapere dove andare, guardandosi angosciosamente intorno nella speranza di comprendere dove si trovasse quando a un tratto, nella vasta piazza livida che  si aprì davanti a lui, si accorse che vi era un fanale acceso.
Allora si fermò, come atterrito dall’eco dei propri passi affannosi nel silenzio.
Alla sua luce giallastra, Mac scorse i profili di alcuni edifici semidistrutti stagliarsi contro il cielo che si tingeva di rosa: le finestre erano vuote e buie e cumuli di macerie si allargavano spettrali agli angoli delle vie circostanti.
Ansante, si avvicinò al lampione, sul cui fusto metallico era appeso quello che sembrava un cartello: con meraviglia crescente, il poliziotto vi distinse i caratteri inequivocabilmente familiari dell’alfabeto latino, sia pure aggrumati a formare parole che gli erano del tutto incomprensibili.
Provò a leggerne qualcuna ad alta voce, rendendosi conto dalla loro struttura e dal suono che la scritta era in tedesco. Fu in grado di comprendere solo la parola “Berlin”, ma ciò che lo sconvolse maggiormente fu la data che era stampigliata sul fondo del manifesto: 18 maggio 1944. 
All’improvviso, sebbene fosse una notte tiepida, al tenente sembrò che facesse freddo, che l’aria si fosse ispessita e che l’oscurità trascolorante nell’alba gravasse sul suo cuore come un peso impossibile da sopportare.
Una cupola di nuvole, folte come l’immensità, aveva sommerso il cielo e sembrava abbassarsi sulla terra per annientarla.
La piazza era deserta, solo due persone in uniforme erano appena sbucate da una delle strade che su di essa di aprivano e si apprestavano ad attraversarla; istintivamente, Mac si accucciò dietro un muro semicrollato, nascondendosi così alla loro vista e trattenendo il fiato senza nemmeno comprendere esattamente il perché.
Quando gli passarono accanto, distinse più chiaramente le loro uniformi brune, solo in parte coperte da lunghi impermeabili grigi, e le canne dei fucili a tracolla, ma soprattutto le fasce sul braccio destro, che recavano impresso un simbolo che il poliziotto riconobbe immediatamente.
Guardarlo e comprendere fu un istante, perché nelle tenebre le svastiche bianche sul fondo scarlatto rilucevano come di un sinistro bagliore.
Col respiro che gli moriva in gola, il poliziotto attese che i due si fossero allontanati e dunque uscì dal suo nascondiglio improvvisato; si guardò ancora una volta intorno e poi rimase immobile, in piedi, solo in mezzo all’ampio spiazzo deserto.
Lontano nel tempo e nello spazio da tutto ciò che conosceva.
Un sogno.
Non poteva che essere un sogno.
Forse quando era caduto (ma poi era davvero caduto, oppure aveva immaginato anche questo?) considerò, passandosi una mano sul volto, il suo cervello aveva subito un trauma e adesso stava immaginando di trovarsi nella Berlino nazista. Già, solo immaginando.
Eppure, era tutto così dannatamente reale! Sentiva la durezza dei lastroni di pietra del selciato sotto i piedi, avvertiva l’aria pungente dell’alba sulla faccia, nelle narici il vago sentore di zolfo e fosforo che testimoniava la devastazione dei bombardamenti che la città aveva subito.
E poi le vie deserte, le macerie, l’oscurità, quel silenzio così innaturale: senza dubbio molti erano fuggiti e chi era rimasto doveva rassegnarsi a passare le notti nei rifugi e non osava certo sfidare il coprifuoco.
In quell’istante un grido soffocato risuonò, riecheggiando amplificato e distorto tra gli edifici vuoti e le vie disertate; abbastanza vicino perché il tenente sussultasse, portando la mano alla cintola per sincerarsi di avere ancora con sé la pistola di ordinanza, e subito facesse qualche passo verso il luogo dal quale l’urlo gli era parso provenire.
Poi vide sbucare da un vicoletto un giovane, vestito poveramente, che correva con tutte le sue forze guardandosi ogni tanto indietro con angoscia: i due che lo inseguivano erano armati e parevano assolutamente determinati a non lasciarselo scappare.
Senza riflettere, guidato solo dall’istinto, Mac prese a correre a sua volta nella medesima direzione, imboccando la stradina dove i tre erano scomparsi pochi istanti prima.
Gestoppt, du Bastard! Stop oder ich schieße!“(7) udì gridare uno dei due inseguitori, che nonostante fossero in borghese avevano tutta l’aria di essere dei militari.
Sotto la minaccia dell’arma puntata il ragazzo si bloccò, ansimante, il volto atteggiato alla più cupa disperazione.
A quel punto Mac tirò fuori a sua volta la pistola e, sbucando alle spalle del gruppetto, intimò ai due di abbassare le armi. Lo fece in inglese, istintivamente, senza rendersi conto che con ogni probabilità nessuno di quegli uomini lo avrebbe compreso. 
I due si guardarono un momento e poi si voltarono verso di lui, senza però abbassare le armi; quell’istante di incertezza fu sufficiente affinchè il ragazzo, senza pensarci su due volte, riprendesse a correre con quanto fiato aveva in gola, svanendo subito nell’oscurità di una viuzza secondaria.
Guardò Mac, colui che l’aveva salvato, solo per una frazione di secondo e il tenente - chissà perchè - fu attraversato dall’idea che non avrebbe dimenticato quel volto giovane, scialbo e pallido sotto l’unta zazzera bionda, per il resto della sua vita.
“Idiota!“ gli urlò uno dei due inseguitori, con una smorfia di puro panico dipinta sul viso abbronzato.
“Cos’hai fatto?!“.
Prima che il tenente riuscisse a rendersi conto che quel tipo si era rivolto a lui non già in tedesco, ma in inglese, un terzo uomo sopraggiunse alle sue spalle e lo colpì violentemente alla testa col calcio di una pistola.
Con un gemito, Mac Taylor si accasciò al suolo e l’ultima cosa che riuscì a distinguere prima di svenire furono le lastre di pietra della via, appena illuminate dal tenue riverbero del sole nascente.
 
 
(7) in tedesco: „Fermati, bastardo, o sparo!“
 
Le descrizioni iniziali sono ispirate alla sconvolgente novella „Una giornata“ di Luigi Pirandello.

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Capitolo 5
*** Capitolo quarto (parte prima) ***


 Capitolo quarto (parte prima)
 

 
 
Ragazzi, ormai ci siamo: chi ha resistito fino a qui troverà delle risposte. Ma solo alcune…
Grazie a tutti coloro che stanno leggendo e commentando e in particolare a Max_T per i suoi consigli e la sua attenzione riguardo ai dettagli storici del racconto; spero di non aver commesso errori. J
 
 
 
“Ehi amico, alzati!“.
La voce bonaria dell’uomo che, afferratolo per un braccio, lo scuoteva vigorosamente ridestò d’un colpo Mac Taylor.
“Tirati su“ ripeté il tipo dal viso grassoccio e rubizzo che spuntava da sotto il cappellino da baseball dei White Sox “Troppe birre ieri sera, eh? Guarda che se qualcuno del servizio d’ordine ti becca in questo stato non te la farà passare liscia!“.
Il detective, ancora stordito, si levò faticosamente in piedi, appoggiandosi con una mano alla parete contro la quale l’altro l’aveva sorpreso accasciato.
Si massaggiò la nuca dolorante e fece per aprire bocca e chiedere all’omone gentile in camicia di flanella a quadri dove si trovassero e, soprattutto, in che anno fossero, considerando confusamente che magari quello l’avrebbe preso per pazzo o creduto del tutto sbronzo, ma lui almeno avrebbe avuto modo di orientarsi. Tuttavia, anche questa speranza svanì perché il tipo venne trascinato via piuttosto bruscamente da una donna bassina di mezza età e con lei s’allontanò a passo svelto.
Almeno, però, era confortante che quel tale si fosse rivolto a lui in inglese - segno che quello di essersi ritrovato nella Berlino nazista era stato solo un brutto sogno che per fortuna era scomparso, dissolto dai raggi del tiepido sole estivo che splendeva sulla sua testa.
Mac allora si guardò intorno, constatando che - senza riuscire minimamente a immaginare come, né perchè - si trovava alle spalle di quello che aveva tutta l’aria di essere un palco di considerevole altezza; vi girò intorno e d’improvviso si ritrovò in mezzo a una moltitudine di persone, di tutte le età, che si spingevano rumoreggiando per avere una miglior visuale di ciò che accadeva sul palco stesso.
C’erano soprattutto giovani uomini, ma anche qualche ragazza e alcuni signori anziani che osservavano tutto e tutti con aria di solenne superiorità; nella confusa babele, riuscì a distinguere chiaramente l’italiano, il francese, l’inglese. Anche se la lingua predominante era sempre e comunque il tedesco.
In preda a una strana inquietudine, si mise a cercare tra la folla qualcuno le cui parole riuscisse a capire e, una volta trovate due ragazze bionde che chiacchieravano tra loro in inglese, si avvicinò e domandò con voce spezzata che giorno fosse.
Le due si guardarono con aria allibita, senza nascondere il disgusto che provocava loro avere davanti un uomo adulto già visibilmente alticcio a quell’ora del mattino… e in un’occasione del genere, poi! Era assolutamente disdicevole!
La più giovane mormorò confusamente qualcosa prima che l’altra la sospingesse via, lanciandogli al contempo uno sguardo carico di riprovazione, e Mac riuscì solo a intendere l’ultima parola: “2008“.
Il detective sospirò di sollievo, considerando che, anche se per qualche ragione incomprensibile era finito in un luogo che non conosceva, forse ancora in Germania,  per lo meno era tornato in un’epoca che gli era familiare.
Tuttavia il suo cuore subì una nuova, brusca, accelerazione allorché si accorse che la folla si spostava, avvicinandosi di più al palco, e subito dopo udì rompere dalla gola di ciascuno - uomini, donne, ragazzi, vecchi - in un unico grido rabbioso il saluto fascista, accompagnato dalla sincronica levata di migliaia di braccia tese verso l’alto.  
Nel silenzio totale che seguì, uno sconvolto Mac Taylor riuscì finalmente a scorgere il palco, sollevandosi sulle punte dei piedi e scostando chi aveva davanti: il suo orrore e il suo sbigottimento raggiunsero il culmine quando  vide che l’ampia pedana di assi di legno era addobbata con decine di stendardi rossi che garrivano nel vento leggero del mattino.
Su ciascuno di essi, splendeva - nera in un cerchio bianco – l’atroce svastica.
Al centro, tra due vessilli vermigli, vi era l’enorme ritratto di un uomo di circa ottanta anni: certo, era molto più vecchio di quando l’aveva visto per la prima e unica volta nella sua vita, ma quegli zigomi appuntiti, quel naso sporgente, quelle labbra sottili leggermente piegate all’ingiù risvegliarono nella sua mente un ricordo ben preciso, inequivocabile.
Se non fosse stato del tutto impossibile, il detective della Scientifica avrebbe giurato che si trattava della stessa persona che aveva aiutato a scappare, nel corso di quel sogno confuso che aveva vissuto in un tempo e in uno spazio di cui non aveva chiara memoria.
A un tratto, dalla folla si levò un mormorio di ammirazione, perchè sul palco era salita, accompagnata da quattro uomini in uniforme, una giovane donna che il tenente riconobbe immediatamente con un sussulto di ulteriore meraviglia.
Stella Bonasera, stretta in una divisa scura che assomigliava tragicamente a quelle che aveva visto nella Berlino del 1944, avanzò con passo marziale e si avvicinò al microfono, mentre i quattro le si schieravano ai due lati come per proteggerla.
Stella: non c’erano dubbi…
Lei, proprio lei, con i chiari occhi verdi adesso scintillanti di determinazione e i ricci bruni legati strettamente sulla nuca affinché neppure uno ne sfuggisse.
Con terrore, la vide sollevare il braccio a sua volta e ripetere al microfono con voce chiarissima il saluto nazista, cui la folla rispose ancora una volta con rinnovato entusiasmo.
“Sai chi è quella?“ chiese allora una giovane donna al ragazzino che aveva accanto. Dato che lui scosse la testa, ella spiegò, indicandogliela: “È una persona molto importante, tesoro, è il numero due del NSDAP (8) dall’altra parte dell’Atlantico, in quel paese che prima della guerra si chiamava America“.
Mac Taylor si sentì come se, a un tratto, una mano d’acciaio avesse stretto il suo cuore così, come si fa con una spugna, facendone schizzare fuori tutto il sangue in un solo momento.
Stella? Stella…
Dopo aver salutato in tedesco, la donna iniziò a parlare servendosi della sua lingua. La traduzione simultanea non impedì a Mac di comprendere il discorso che pronunciò, cogliendone l’immane orrore: l’uomo ritratto alle sue spalle si chiamava Wolf Schmidt ed era stato la spia più abile al servizio dell’Abwehr durante la seconda guerra mondiale (9).
Era diventato un eroe quando, nella primavera del 1944, era riuscito a far pervenire alla Cancelleria del Reich un’informazione che si era rivelata decisiva per le sorti del conflitto: sfuggendo miracolosamente agli agenti del controspionaggio inglese che l’avevano seguito a Berlino, aveva rivelato il luogo esatto in cui le truppe alleate sarebbero sbarcate.
Non già il Pas de Calais, come avevano creduto quasi tutti i gerarchi del Führer, bensì le spiagge della Normandia.
Schmidt aveva quindi sventato l’Operazione Fortitude, consentendo alle forze di terra tedesche incaricate della difesa della Francia settentrionale di prepararsi in tempo per resistere all’attacco angloamericano e, quando l’agente doppiogiochista Arabel aveva lanciato il suo messaggio radio fasullo, sperando di disorientare i nazisti, nessuno gli aveva creduto (10).
Così, lo sbarco era stato un massacro per i soldati alleati e un’immane vittoria per il Reich: l’inizio della fine, che nel giro di alcuni anni sanguinosi aveva condotto alla sconfitta le truppe di Churchill e Roosevelt.
La battaglia di Londra era stata persa dagli inglesi, la RAF spazzata via, le stazioni radio oltre Manica annientate e la svastica adesso disegnava la sua ombra spettrale su tutto il pianeta, fatta eccezione per i poveri e desolati territori australiani, ove ancora si dibatteva una timida resistenza.
E il merito era in primo luogo di Schmidt, che con il suo eroismo aveva salvato il Reich.
Per questo motivo, sudditi da ogni parte dell’Impero si erano radunati quel giorno nei dintorni di Berlino per onorarne la memoria, nel primo anniversario della sua scomparsa.
Mac deglutì a vuoto e represse un conato di vomito; se non fosse stato pigiato tra la gente forse sarebbe caduto a terra, giacché le gambe d’improvviso minacciavano di cedere.
"Noi siamo un unico, grande popolo!“ la voce secca e tagliente di Stella (quella stessa voce, una volta a lui così cara e familiare…) lo riscosse dal suo sbigottimento, richiamandolo con prepotenza alla realtà.
"Noi vogliamo essere un popolo di valorosi e voi, tutti voi, dovete essere quel popolo! Vogliamo un unico Reich nel mondo e voi dovete essere pronti a battervi perché i nostri ideali trionfino, schiacciando ogni miserevole nemico.
Uomini, donne, bambini… tutti dovremo abituarci ad accettare delle rinunce, a essere coraggiosi“.
Fece una pausa studiata, per consentire alla folla di gridare ancora una volta "Heil!“ e poi proseguì, con voce stentorea: "Bambini, ragazzi, quando noi non ci saremo più, la Germania continuerà a vivere dentro di voi e con essa il Reich: allora prenderete la bandiera che adesso noi solleviamo al cielo!“.
"Voi siete carne della nostra carne, sangue del nostro sangue e nei vostri giovani cervelli brucia lo stesso spirito che domina noi stessi.
In questo giorno solenne celebriamo un eroe del Reich, festeggiamo le vittorie della Germania in tutto il pianeta e non solo: lo stemma de Führer oggi sventola sulla Luna e domani sventolerà su Marte“.
"Davanti a noi c’è il Reich, dietro di noi viene il Reich, in noi marcia il Reich! (11)“ concluse, gli occhi dilatati dal furore, mentre l’applauso dell’assemblea soffocava l’ultimo eco delle sue parole.
A un tratto un uomo sulla cinquantina raggiunse Stella sul palco e le bisbigliò alcune parole all’orecchio; nel silenzio che d’improvviso era calato sull’assemblea, si distinse perfettamente l’espressione della donna mutare d’improvviso. Impallidi e si morse le labbra, portandosi poi una mano al petto in un gesto di palese sofferenza.
Ma fu solo un istante e subito l’oratrice riprese il pieno controllo di sè: annuì e, congedato l’uomo, riprese la parola con voce chiara, appena velata da un tremito quasi impercettibile.
"Mi è giunta adesso la notizia che purtroppo il Cancelliere del Reich, il nostro  Führer Herr Breuer è morto improvvisamente…“.
Mentre il mormorio di disperazione che era salito dalla folla a quella rivelazione pian piano si spegneva, Stella continuò: "Mi è stato comunicato che sono state dichiarate due settimane di lutto nazionale, tutte le emittenti del Reich hanno sospeso la programmazione prevista, molti negozi e aziende hanno già chiuso e più tardi inizierà una seduta straordinaria del Reichstag“.
"So che adesso nessuno di noi è nello spirito per festeggiare: quindi, dopo aver ascoltato insieme ancora una volta il nostro inno, scioglierò questa assemblea e ciascuno di noi sarà libero di vivere il proprio dolore, che è anche il dolore di tutta la Partei per la scomparsa di un grande uomo, di un soldato, di un patriota…“.
La voce si ruppe in un gemito, il primo e l’unico.
"… del nostro amato Reichsführer".
L’applauso scrosciò così forte e a lungo, seguito da ripetuti e urlati saluti fascisti, da coprire quasi completamente le note di "Das Reich“.
"Così, ce l’ha fatta a morire?!“ mormorò un uomo al suo vicino, nell’orecchio ma non a voce abbastanza bassa affinché Mac, che era stato trascinato accanto a loro dalla calca, non riuscisse a udirlo.
"Ssssshh!“ lo rimbrottò l’altro, visibilmente allarmato "Ma sei matto a dire queste cose qui?“.
"Comunque“ continuò, abbassando ancora il tono della voce "chi pensi che gli succederà? Io vorrei Martin von Schirach (12), è l’unico che sembri una persona normale… e poi suo padre fu tra i pochi a battersi per mitigare le politiche di sterminio etnico in terra slava; è lui che ha ottenuto che i sopravvissuti potessero continuare a esistere in speciali aree chiuse nel cuore dell’Europa. E suo figlio è stato il solo a chiedere, senza successo, la cessazione delle pratiche di eutanasia sui neonati Down e delle sperimentazioni mediche sui prigionieri politici“.
"Che ne dici, ha qualche possibilità secondo te?“.
 Il primo scosse il capo tristemente e rispose secco: "No“.
"No, temo che il nuovo Reichskanzler sarà il dottor Reiss, l’unico nipote vivente del primo Führer Herr Hitler“.
"Mio Dio!“ esalò l’altro, sconvolto "Quel pazzo ci farà uccidere tutti, ne sono sicuro… Ha il suo stesso fanatismo e si dice che sia stato l’istigatore di tutte le politiche repressive del Reich in danno dei popoli conquistati: ha lavorato a progetti come la sterilizzazione forzata dell’intera popolazione russa sopravvissuta alla guerra e ha posto le basi per l’olocausto del continente africano. Si dice anche che…“.
La massa di persone che si avviava verso le uscite portò via i due, allontanandoli da Mac e impedendogli di ascoltare ancora.
"Mi sembra di impazzire“ mormorò il tenente tra sè e sè, mentre la vista gli si annebbiava; sudava freddo e il suo corpo era scosso da un tremito violento, come se stesse cercando di esplellere, senza poterci riuscire, qualcosa che gli avvelenava il sangue.
"Sto male… anzi, forse sono davvero impazzito e tutto questo è solo delirio.
Devo andare via da qui“.
 
(segue)
 
 (8) il NSDAP è il Partito Nazionalsocialista Tedesco dei Lavoratori o Partito Nazista.
(9) Wolf Schmidt è stato una spia nazista realmente operante in Inghilterra, ma per fortuna con molto minore successo.
(10) Com’è noto, i nazisti furono indotti, proprio grazie all’Operazione Fortitude e a un efficace controspionaggio che trasmise notizie false a Berlino, a credere che lo sbarco degli Alleati sarebbe avvenuto a Calais e non difesero adeguatamente le coste dove, invece, esso fu poi condotto davvero.
(11) le parole del discorso sono quelle pronunciate da Adolf Hitler alla HitlerJugend.
Questo è il link:  http://www.daemuk.ch/discorsi_adolf_hitler_italiano.html
(12) Baldur von Schirach fu uno dei leader nazisti a capo della Hitler-Jugend (Gioventù hitleriana) e, successivamente, Gauleiter e Reichsstatthalter di Vienna (fonte: wikipedia).
 
 

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Capitolo 6
*** Capitolo quarto (parte seconda) ***


Amici, mentre ci avviamo verso la conclusione del racconto, riuscite lontanamente a immaginare cosa stia vivendo il nostro eroe? Come reagireste, nell’ipotesi in cui vi trovaste al suo posto?
 
 
 
Capitolo quarto (parte seconda)
 
 
 
Mac Taylor si rialzò faticosamente e si fece strada attraverso la marea umana, che riusciva appena a distinguere dietro al velo che gli appannava lo sguardo; tentò di correre, ma la folla lo soverchiava e le sue gambe erano comunque troppo deboli…
Poi, d’un tratto, in mezzo alla gente che spingeva e rumoreggiava, scorse Stella che camminava da sola, la testa bassa e il volto ancora corrucciato, abbastanza vicina da poterla raggiungere in pochi secondi; si fece largo senza troppa cautela e ben presto la raggiunse, soprendendola accanto a un monumentale tiglio situato su una piccola altura dalla quale si scorgeva un ordinato tratto di campagna verdeggiante.
Evidentemente era andata lì per stare un po’ da sola e meditare su ciò che era appena accaduto, ma Mac non riuscì a resistere alla tentazione di parlare con lei, ignorando il rischio che avrebbe corso e quasi accecato dalla folle illusione che, in tal modo, avrebbe scoperto che era tutto uno scherzo architettato ai suoi danni dai colleghi della Scientifica.
Quando le posò una mano sulla spalla e la chiamò per nome, la donna sobbalzò, scattò di lato e istintivamente portò una mano alla fondina che le pendeva dalla cintola.
“Stella!” ripeté il poliziotto, fissandola sbalordito “Ma che ti prende? Sembra quasi che tu non mi riconosca…”.
“Signore” rispose lei con voce inaspettatamente dura e senza staccare la mano dall’arma “si allontani, io non so chi lei sia e comunque questo non è certo il momento per fare scherzi stupidi!”.
“Ma…” esalò il tenente, sgomento perché si era reso conto che la donna non lo aveva assolutamente riconosciuto e che la sua sorpresa era del tutto sincera.
“Non ti ricordi di me?” tentò di nuovo “Sono Mac, lavoriamo insieme alla Scientifica di New York”.
“New York?” ribatté lei, sul cui viso la rabbia stava prendendo il posto della meraviglia “Lei deve essere ammattito, quella città non esiste più da decenni: è stata rasa al suolo dopo la guerra. Adesso lì ci sono solo deserto e scorie nucleari”.
“No!” gridò a quel punto il poliziotto “No, non è possibile!”.
Senza riflettere sulle conseguenze, si avvicinò a Stella e prima che questa potesse reagire la afferrò per le spalle e le strappò la pistola, continuando a urlare con tutte le sue forze. Era talmente fuori di sé che per le due guardie che sopraggiunsero di corsa, richiamate dalle grida, immobilizzarlo e disarmarlo fu un gioco da ragazzi.
Costretto in ginocchio tra l’erba calpestata e il fango, il detective sollevò ancora una volta verso Stella il viso, adesso solcato da lacrime amare.
Ciò che vi lesse fu solo fredda indifferenza e fastidio.
 
***
 
Nella cella bianca e asettica della caserma dove l’avevano condotto, Mac Taylor non rispose a nessuna delle domande che gli furono rivolte, dapprima con condiscendenza e poi con manifesta irritazione; chiuso in un mutismo che rasentava la follia, si limitava a rimanere immobile, con gli occhi sgranati e sul volto un’espressione congelata di inesprimibile orrore.
I suoi carcerieri gli parlavano a volte in tedesco e a volte in inglese e il tenente riuscì a capire che alcuni di loro lo ritenevano solo un pazzo da internare, mentre altri lo consideravano una spia… il momento di confusione legato all’improvvisa morte del Führer e alla lotta per la successione che dilaniava la Partei rendeva la sua situazione ancor più complicata.
Per parte sua, il poliziotto era certo che l’avrebbero condannato a morte: chiuso nel suo mondo lontano da una realtà che lo disgustava, anestetizzato dal dolore il primo sentimento di panico che aveva provato all’idea di essere ucciso, si lasciò andare a immaginare la propria morte.
Pensò che non l’avrebbero terrorizzato la forca o il gas, ma che la fucilazione sarebbe stata per lui intollerabile; invano si ripeté che il vero orrore era morire, morire ancora giovane e sano per mano di suoi simili, e non le circostanze concrete della sua morte.
Esausto, non si stancava comunque d’immaginarle, tentando di esaurirne tutte le possibili varianti: rinchiuso, nella penombra della cella, morì centinaia di morti diverse.
Strappato in un istante al mondo che conosceva, alle persone care, privato di ogni punto di riferimento, affondava nel buio.
Poiché accade facilmente, a chi ha perso tutto, di perdere se stesso: e chi ha perso se stesso potrà decidere della sua vita o della sua morte al di fuori di ogni senso di affinità umana, quasi come se tale scelta non lo riguardasse più, ovvero riguardasse un estraneo.
Nel caso più fortunato, in base a un puro giudizio di utilità(13).
Affrontava con vera paura (forse con vero coraggio) queste esecuzioni immaginarie, di ognuna delle quali i pochi secondi si dilatavano fino a riempire le notti insonni e con esse l’intera sostanza fuggitiva del tempo che gli era stato concesso.
Talvolta giungeva a sperare che con la sua morte il nastro si sarebbe riavvolto come per magia, che la storia sarebbe tornata indietro a prima del gesto con il quale - inconsapevolmente - aveva segnato la fine di tutto ciò in cui credeva. Era solo un’illusione, ma la sua mente vi si aggrappava nella lenta discesa verso l’abisso.
Il senso di colpa lo schiacciava: con amarissima ironia, considerò che ciò che aveva guidato da sempre le sue scelte, ciò di cui era andato maggiormente fiero, lo aveva condotto a salvare una spia, consentendo a quel verme di ribaltare le sorti di un’intera guerra e condannando il mondo al disastro.
Il battito d’ali di una farfalla può provocare un uragano dell’altra parte del pianeta… il suo gesto di un istante aveva sovvertito il passato e cambiato il futuro (14).
Stava scivolando in un incubo e non sapeva nemmeno come: se la realtà era quella che aveva sentito descrivere fugacemente, allora meglio sarebbero state la pazzia e la morte!
Poi considerò che il reale di solito non coincide con le previsioni e ne dedusse che immaginare qualcosa è il modo migliore per impedire che accada: si torturò, quindi, inventando dettagli atroci affinché non si verificassero.
Il gradino successivo verso l’Inferno fu, com’era ovvio, temere che ciò che aveva immaginato avrebbe finito con l’essere, viceversa, profetico…
A volte l’afferrava l’impazienza della fine, della morte che lo liberasse finalmente dal vano tormento di immaginare; altre invece il sonno lo sommergeva come l’acqua di una vasca profonda e oscura, regalandogli il momentaneo sollievo dell’oblio.
Fu in uno di questi rari momenti che ricevette la visita di Stella: nei giorni trascorsi dopo il suo arresto non l’aveva più visto, eppure - nonostante l’impegno frenetico per organizzare i funerali solenni del Cancelliere e un vago senso di timore per il futuro che le cagionava l’incertezza su chi gli sarebbe succeduto - lei non era riuscita a scacciare dalla sua mente l’immagine del volto di quell’uomo, deformato da una disperazione senza nome.
Non lo conosceva, di questo era certa… non l’aveva mai incontrato, eppure c’era in lui qualcosa di stranamente familiare, qualcosa che non avrebbe saputo spiegare, ma che era lì davanti ai suoi occhi, con impressionante chiarezza, e non se ne andava per quanto lei tentasse di scacciarla.
 
Quando arrivò presso la caserma, le fu detto che il prigioniero era stato considerato un pazzo innocuo dal capitano che l’aveva interrogato e che tra qualche giorno sarebbe stato trasferito nel campo di internamento di Chelmno, dove venivano condotti coloro la cui vita si considerava “indegna di essere vissuta”. Malati di mente, handicappati: persone che costituivano non solo una minaccia per l’economia del Reich, ma - cosa ancor più grave - un terribile pericolo di degenerazione per la razza ariana nel suo complesso.
Stella deglutì in silenzio, serrando le mascelle, mentre un brivido gelido le correva lungo la spina dorsale: Chelmno(15) era circondato da un’aura di mistero, quasi che nemmeno chi l’aveva ideato riuscisse a sopportare il pensiero di ciò che quotidianamente vi accadeva. Era un non-luogo, un posto fuori dal loro mondo ordinato, dove non esisteva altra legge che quella dello sterminio.
Considerò che la maggior parte della popolazione del Reich nemmeno sapeva dell’esistenza di campi come quello… era come per il genocidio degli ebrei, qualcosa di cui si sussurrava di nascosto, che non si sapeva nemmeno se fosse avvenuto per davvero o se si trattasse solo di menzogne orribili propagandate dagli oppositori del regime.
Lei per prima, che pure conosceva molti dettagli a causa del suo ruolo nel NSDAP, si era sforzata di non pensare a quelle cose, concentrandosi unicamente su ciò che doveva fare e sugli ordini da eseguire.
Era una persona normale, non più intelligente degli altri, né particolarmente cattiva; fino a quel momento aveva vissuto lasciandosi trascinare dagli ideali di uomini che giudicava infinitamente migliori di lei, ma senza davvero rendersi conto delle conseguenze delle proprie azioni.
Il suo orizzonte era la Partei: lavorare, obbedire, cercare una promozione, riordinare numeri nelle statistiche senza pensare a cosa ci fosse dietro quei segni tracciati sulla carta.  
Si riteneva una donna di saldi principi, coraggiosa, dura persino; eppure era bastato incrociare per pochi secondi lo sguardo disperato di quell’uomo sconosciuto perché la sua “durezza” si sciogliesse come ghiaccio al sole, permettendo il riaffiorare, sia pur timido, di dubbi e timori.
Più volte in quei giorni le era balenato in mente che forse il loro ideale di forza incrollabile fosse soltanto un mito creato apposta per autoingannarsi, un mito che nascondeva uno sfrenato desiderio di irregimentarsi a qualunque prezzo per impedirsi di pensare sul serio a ciò che facevano giorno dopo giorno.
Lei non era responsabile, era solo un ingranaggio nel sistema: com’era possibile che il ricordo di uno sconosciuto visto per pochi istanti provocasse in lei un simile terremoto emotivo? Che le facesse sorgere scrupoli che aveva fino a quel momento soffocato senza fatica?
In fondo si limitava a eseguire ordini superiori, era solo il braccio - intenzionalmente inconsapevole - di qualcun altro.
Era una persona comune che faceva cose banali (16).
Eppure in quel momento qualcosa si agitava dentro di lei, stringendole forte il cuore in una morsa gelata.
 
 
(13) Queste parole sono ancora una parafrasi del testo di Primo Levi in “Se questo è un uomo”.
(14) “Effetto farfalla”è una locuzione che racchiude in sé la nozione maggiormente tecnica di dipendenza sensibile alle condizioni iniziali, presente nella teoria del caos: l'idea è che piccole variazioni nelle condizioni iniziali producano grandi variazioni nel comportamento a lungo termine di un sistema. L'espressione "Effetto farfalla" si ritiene in genere sia stata ispirata da uno dei più celebri racconti fantascientifici di Ray Bradbury, Rumore di tuono, del 1952, in cui si immagina che nel futuro, grazie ad una macchina del tempo, vengano organizzati dei safari temporali per turisti. In una remota epoca preistorica un escursionista del futuro calpesta una farfalla e questo fatto provoca una catena di allucinanti conseguenze per la storia umana (fonte:wikipedia).
(15) Il campo di sterminio di Chełmno(in tedesco: Vernichtungslager Kulmhof) fu costruito durante la seconda guerra mondiale nei pressi della cittadina polacca di Chełmno nad Nerem (in tedesco: Kulmhof an der Nehr), situata circa a 100 chilometri a est di Poznan (fonte:wikipedia).
 
(16) I pensieri di Stella sono un riferimento al saggio “La banalità del male” di Hannah Arendt.
 
 
 

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Capitolo 7
*** Capitolo quinto ***


Amici, eccoci qui alla fine di questa storia: il vostro seguito mi ha sinceramente sorpresa, perché non può dirsi certo un racconto leggero, e mi ha resa davvero felice.
Spero di riuscire a trasmettervi l’entusiasmo e la gratitudine che le vostre recensioni, i vostri consigli e le vostre riflessioni mi hanno suscitato.
 
 
 
Capitolo quinto
 
 
“Mi hanno detto che non vuoi parlare con nessuno” disse Stella Bonasera a voce alta, facendo sussultare l’uomo steso sulla branda, che fu l’unica a rispondere con un esausto cigolio metallico.
“Non avevi documenti con te e nessuno sembra conoscerti… pare quasi che tu venga da un altro pianeta” continuò, sperando che lo scherno aizzasse il prigioniero a risponderle.
“Invece credo che ti convenga farlo” proseguì “o altrimenti il posto dove ti manderanno ti farà rimpiangere che non ti abbiano ucciso subito”.
Mac si levò in piedi e la osservò, ancora muto.
Scosse il capo con energia e stese appena un braccio verso di lei, facendo così tintinnare le catene che gli serravano i polsi e le caviglie.
Sebbene il suo gesto le facesse intendere che aveva capito le sue parole, il suo sguardo spento errava lontano, lontano dal mondo reale.
“Dimmi chi sei” insisté Stella “E cosa volevi da me quel giorno al raduno”.
“Io… onestamente non so nemmeno perché sono venuta fin qui. So solo che avevo bisogno di parlare con te.
Rispondimi.
Ti prego”.
Stella Bonasera non aveva mai pregato nessuno in vita sua, nemmeno da bambina, neppure la direttrice dell’orfanotrofio dove aveva vissuto fino al momento di entrare nella Hitlerjugend; ma in quel momento la voce le era uscita dal petto in tumulto senza che nulla riuscisse a fermarla.
Mac Taylor la guardò ancora, sospirò e in silenzio si volse verso la parete, dandole le spalle. Gli occhi pieni di lacrime, non riuscì a fare altro che abbandonarsi ai ricordi.
 
Stella, il momento della mia fine è vicino.
Le nostre ombre si riflettono sui binari bagnati.
Durante tutta la nostra vita abbiamo lottato e sperato (e ora?).
Il tempo ci ha reso adulti, ma… ma!
Penso a quella mostra, a New York, e mi chiedo se è mai esistita o se l’ho solo sognata.
La mia mente vacilla, eppure so che non c’è nulla di più importante del nostro ultimo giorno insieme.
E ora penso a prima, penso a te.
Penso alla Stella che conoscevo.
Penso alla nostra vita e mi chiedo dove sei ora,
come sei ora
come ridi
come piangi
come dormi
come gridi
Se ovunque tu sia, perduta negli abissi del tempo e del sogno, pensi ogni tanto ai nostri giorni insieme.
Ma… adesso capisco, tutto diventa così chiaro.
Il nostro tempo è finito.
Anche se fu il migliore.
E il vento porta già l’inverno che sta arrivando.
Ti conservo nella memoria così com’eri.
Come il più bel giorno d’estate(17)
 
Stella attese ancora qualche minuto, immobile, e poi senza aggiungere altro uscì dalla cella.
 
***
 
Convincere il capitano Julius Rothe (18) che il prigioniero non era un povero demente, bensì un pericoloso sovversivo, non fu facile per Stella Bonasera.
Dovette insistere e fare appello al suo grado, riferendogli passaggi inventati di un dialogo inesistente che, disse, l’aveva sconvolta; solo dopo due ore di fitta conversazione riuscì a ottenere per l’uomo senza nome un’esecuzione rapida.
Una condanna esemplare, di valore dimostrativo per chiunque si azzardasse a
incoraggiare il dissenso - così la definì Stella - impiegando le sole parole che sapeva avrebbero convinto una volta per tutte quell’oscuro soldato di provincia.
Il detenuto accolse la notizia con indifferenza.
La mattina successiva, all’alba, si vestì e senza un fiato seguì i due militari che entrarono nella cella per portarlo via.
Oltre la porta di metallo, Mac aveva immaginato un labirinto di gallerie, scale e anditi bui. La realtà fu, invece, come sempre molto più povera: percorsero un breve vialetto fiancheggiato da stenti alberelli e, dopo aver sceso alcuni gradini, si trovarono in un umido cortile dove alcuni soldati fumavano e chiacchieravano.
Al suo arrivo, abbassarono improvvisamente la voce per una sorta di strano rispetto, come se fosse già morto, e guardandoli il poliziotto si accorse che i loro occhi sfuggivano i suoi.
Il plotone s’inquadrò.
Il condannato, in piedi contro il muro della caserma, levò lo sguardo verso l’alto e scorse alla finestra del secondo piano il viso familiare di Stella; era pallida nella luce grigiastra dell’alba e non riusciva a staccare gli occhi dal cortile.
La fissò per un istante, poi abbassò la faccia e attese.
Il sergente vociferò il comando finale.
Mac Taylor non indietreggiò, gridò il principio di un grido, mosse appena il capo.
La quadruplice scarica lo fulminò.
 
 
Epilogo
 
La prima cosa che trascinò Mac Taylor dal gorgo oscuro in cui era precipitato fu un lieve dolore al braccio sinistro; ancora confuso, cercò di muoversi ottenendo solo che una nuova e ben più lancinante fitta al costato lo convincesse dell’inopportunità del suo tentativo.
Allora provò ad aprire gli occhi e quando vi riuscì constatò che si trovava in un piccola camera in penombra; era sdraiato su un letto dal quale esalava un tenue odore di disinfettante e, guardandosi il braccio, si accorse che il fastidio che aveva provato era dovuto all’ago di una flebo infilato in vena.
Si tirò su senza riuscire a soffocare un gemito e aprì la bocca per parlare, ma non fu in grado di articolare nulla.
Tese le orecchie: nessun rumore, nessun indizio che gli consentisse di capire dove si trovava.
A un tratto una voce familiare lo fece sussultare.
Stella Bonasera entrò nella stanza e gli si avvicinò, sorridendo.
Mac Taylor istintivamente le rivolse uno sguardo carico di terrore e cercò di sottrarsi al contatto.
Lei, invece, gli posò una mano sulla spalla e disse: “Ma allora avevo sentito bene! Ti sei risvegliato finalmente”.
Poi si sedette sul bordo del letto e continuò, con voce più dolce: “Come ti senti?”.
Lui per tutta risposta continuò a fissarla con orrore e sbigottimento e si agitò, tentando di allontanarsi da lei.
 “C-cosa mi è successo?” riuscì infine ad articolare con difficoltà.
Stella sorrise di nuovo e il poliziotto si sorprese a fissare il suo viso, atteggiato in quel modo gentile, con aperto terrore.
“Non lo ricordi?” rispose lei, distogliendo lo sguardo “Beh, è normale, dopo quello che ti è accaduto.
Non preoccuparti, mi prenderò cura di te” aggiunse, levandosi in piedi.
“Adesso cerca solo di riposare”.
Fece alcuni passi verso la porta, ma prima che scomparisse Mac tentò di seguirla. Le gambe non gli ressero e sarebbe caduto sul pavimento, se Stella non fosse stata lesta a sorreggerlo.
“Aspetta!” implorò lui, la voce spezzata dall’angoscia.
“Dimmi solo una cosa, ti prego: chi ha vinto la guerra?”.
 
FINE
 
(17) Le parole sono una, lieve, parafrasi del testo della canzone „Vorbei“, che costituiva uno dei prompt che il contest richiedeva di inserire nel racconto.
(18) Il nome è un omaggio all’omonimo personaggio del racconto “Il miracolo segreto” di Jorge Luis Borges.
 
 
Sopresi? Non vi aspettavate un finale così aperto? Vi sarebbe piaciuta una storia più lunga, con una trama più articolata o una conclusione differente?
Fatemi sapere cosa ne pensate, le vostre impressioni sono sempre preziose.
Comunque non temete, la prossima storia sarà completamente diversa e… di certo più divertente!
 

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