A hard rain’s a-gonna fall

di rekichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** First missing moment: where have you been? ***
Capitolo 3: *** Oh, what did you see? ***
Capitolo 4: *** And what did you hear? ***
Capitolo 5: *** Who did you meet? ***
Capitolo 6: *** Missing moment V: What'll you do now? ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Oddio. La mia prima KakaSasu a capitoli.

Ragazze, io ci provo, ma non vi assicuro niente. Assolutamente n-i-e-n-t-e, specie per quanto riguarda l'OOC.

Comunque sia, partiamo con le dedicuzze:

A Linnie, per aver amato così rapidamente le KakashiSasuke.

A Bia-chan, per averle sempre adorate.

A Mika-mika, per essere l'Itachi migliore del mondo (se si staccasse dal telefono con Shisui non dispiacerebbe, però <.<)

A Ainsel, la mia gemellina.

A Ross, la mia fantastica mamma.

A tutte coloro che adorano Kakashi e Sasuke assieme.

Buona lettura.

La pioggia lava.

Purifica.

Ma ci sono cose impossibili da cancellare.

Cose irrimediabili che niente e nessuno possono pulire.

Neanche la pioggia può lavar via il rimpianto di non averlo mai sentito chiamarti:

«Sensei.»

Kakashi poteva tranquillamente affermare di aver seguito, indirettamente o meno, ogni tappa della sua crescita.

Lo aveva scorto gattonare per la vasta tenuta degli Uchiha, tentando di mettere nella piccola bocca, il cui labbro inferiore ricordava quello di un felino, qualsivoglia oggetto gli capitasse tra le mani, scatenando l’ira del fratello maggiore, incaricato della sua sorveglianza.

Di riflesso, aveva seguito perfino le sue malattie infantili – varicella, scarlattina, morbillo…- visto che Obito si lamentava sempre che “quel dannato moccioso”, come lo chiamava, aveva preso la cattiva abitudine di sgattaiolare da lui in mancanza della madre e del fratello.

Il tutto, contaminandolo con scarlattina, rosolia e varicella; soprattutto perché il secondogenito di Fugaku Uchiha sembrava avere tanta fretta di passare tutte le malattie, quanta ne aveva avuta di venire al mondo.

Tempo di nascita: 3 ore nette.

Alle 4.00 di mattina.

A Luglio.

Col caldo.

Probabilmente tutto il clan Uchiha aveva maledetto quella nottata estiva, visto che il bambino aveva deciso di annunciarsi in modo piuttosto doloroso per la povera Mikoto.

Non solo le acque si erano rotte improvvisamente, ma, quando ormai si erano alimentate le speranze che il supplizio avrebbe avuto termine in breve, il nascituro aveva deciso che, no!, l’uscita non era di suo gradimento e preferiva restare nell’utero ancora un po’, rigirandosi comodamente nel pancione della mamma.

Obito, che allora aveva appena compiuto i quattordici anni, quel 23 luglio si era presentato all’appuntamento col gruppo stranamente stanco e assonnato.

Per di più, solo l’anno successivo, l’amato frugoletto del capo famiglia aveva deciso che, in mancanza di Itachi, della mamma e di Shisui [del padre no], doveva essere Obito stesso a fargli le coccole giornaliere.

Pertanto, Kakashi non si stupì più di tanto quando Obito si riempì di bolle e fu costretto a letto insieme al piccolo.

La cosa che, invece, lo lasciò perplesso e deliziò Rin, fu trovare il baby-untore comodamente seduto tra le ginocchia di Obito, intento a leggergli una favola.

«Obito, sbaglio o eri tu quello che odiava i bambini?»

«Beh, è il figlio di Fugaku-san. Mica posso rifiutarmi di fargli da balia.»

«Tobi-chan! Tolia!»

Il bambino protestò, tirando la manica del pigiama del ragazzo.

Era prossimo ai due anni, ormai, e con l’avvento della parola la piccola peste era diventata, se possibile, ancora più assillante.

«Sì, Sasuke-chan. Un attimo…»

«Tobi?»

Kakashi alzò un sopracciglio, perplesso.

«È un bambino. Non parla bene. E poi è testardo; ha deciso che mi chiamo Tobi e non cambierà idea facilmente. Dovresti sentire il soprannome di suo fratello. Povero Itachi. Io crollerei con un moccioso che mi chiama “’niwe-chan” di continuo.» fissò i grandi occhi neri del bambino, crucciati per l’attesa. «Però è bravo.» aggiunse poi, con un moto d’orgoglio «Guarda. Sasuke-chan, dì Kakashi! Ka-ka-shi!»

Sillabò, prendendo le manine del piccolo e facendole battere tra loro ad ogni sillaba.

Sasuke storse il naso, poi decise che il gioco gli piaceva e rise di quella risata teneramente gutturale che si ha solo nell’infanzia.

«…Achi!»

Esclamò, battendo nuovamente le mani, trionfante.

«No, non Itachi! Kakashi!»

Sasuke corrugò le sopracciglia, concentrandosi.

«Ka…chi…»

«Meglio!» Obito ghignò, fissando l’amico che continuava ad osservare, impassibile, la scena. «Ora ripeti quello che ti ho insegnato ieri.»

«Kachi…baka!»

Rin rise, Kakashi sbuffò e Obito si piegò praticamente in due, prima di scompigliare i capelli al piccolo che, felice delle reazioni allegre suscitate dalla propria frase, continuava a ripetere: «Kachi bakabakabakabaka!»

«Sono fiero di te, marmocchio.»

Poi, Obito era morto e di lui era rimasto solo un nome inciso su una fredda lapide.

Kakashi continuava ad aggirarsi nei paraggi di casa Uchiha, illudendosi di risentire la voce dell’amico.

Ogni volta che si trovava di fronte a quel portone, si scopriva l’occhio.

L’occhio con cui Obito continuava a vivere e a vedere il mondo.

E pesava, quell’occhio; talmente tanto che la gravità del fardello non poteva essere alleviata dalle risate di un bambino troppo piccolo per capire come andava il mondo, unico suono che le mura di casa Uchiha lasciavano giungere alle sue orecchie di diciassettenne, troppo stanche per percepire distintamente i suoni, ma troppo allenate per non udirli.

Le risate, poi, si alternavano ai pianti di quello stesso moccioso che, lasciato solo dal fratello e dal cugino, troppo grandi per badare a lui, protestava di non trovare «Tobi-chan» a raccontargli le favole.

Poi, verso i cinque anni, non si udì più il frenetico richiamo, ma solo il fracasso dei cento abitanti e passa della tenuta degli Uchiha.

Quel giorno non aveva piovuto, però.

I saw a newborn baby with wild wolves all around it,
(...)

I saw guns and sharp swords in the hands of young children,

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Kakashi non aveva mai smesso di passare di fronte al quartiere – adesso abbandonato – degli Uchiha.

Luogo pieno di vita, con una storia alle spalle che si perdeva nelle nebbie antecedenti alla fondazione di Konoha.

Luogo, adesso, disabitato.

L’unico rumore che si poteva percepire, se si tendevano bene le orecchie, erano i passi timidi e impacciati di un bambino di otto anni che, ostinatamente, continuava a dimorare in quella casa di fantasmi.

Se vi passavi durante la notte, potevi sentirlo quasi parlare con gli spettri dei parenti defunti, o singhiozzare per la loro perdita.

Poi, come se avesse cambiato idea, o si fosse reso conto del proprio comportamento infantile, il pianto cessava ed ecco nuovamente i passettini incerti sul tatami dell’abitazione principale.

A quel punto della notte, il sibilo degli shuriken fendeva l’aria. Sbagliando bersaglio.

Le dita piccole del bambino non riuscivano né a imprimere la rotazione giusta, né ad adoperare la dovuta forza nel lancio.

Kakashi, a quel punto, scuoteva il capo e passava oltre.

Sasuke non si ricordava di Obito, o, se lo faceva, di sicuro lo mischiava alle anime degli altri morti.

E quel bambino non avrebbe più chiamato nessuno a raccontargli favole perché, il tempo del “…e vissero felici e contenti.”, era finito da tempo, ormai.

Quella notte non aveva piovuto, però.

I heard ten thousand whisperin’ and nobody listenin’,
Heard one person starve, I heard many people laughin’,


And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Era rimasto sorpreso, se non scocciato, di avere nuovamente in squadra un Uchiha.

Soprattutto quell’Uchiha.

Forse perché si aspettava di vederlo curvare gli angoli di quella bocca felina che si ritrovava, nell’infantile sorriso del bambino seduto in braccio ad Obito; forse perché aspirava all’aggrottarsi pensieroso delle sopracciglia scure prima che la vocina che aveva conosciuto se ne uscisse con il familiare: «Kashi…baka!».

Forse perché sperava che il tempo tornasse indietro, che la carica dell’orologio si fermasse, permettendogli di rivedere quegli anni trascorsi e mai vissuti.

Forse, ma non si rendeva contro che la sua vita si basava solo sui “forse”, ormai.

Forse, da quel ragazzo si aspettava un comportamento che, mai, sarebbe arrivato.

Non gli avrebbe mai rivolto la stessa devozione che Obito aveva verso il loro maestro.

Non avrebbe mai seguito appieno i suoi insegnamenti.

Non avrebbe riso, scherzato, giocato con i suoi compagni di squadra come faceva lui.

Non lo avrebbe mai – ma proprio mai – chiamato: “sensei”.

Forse, Kakashi, per il semplice fatto che Sasuke non è Obito.

Chissà cosa lo aveva spinto a credere che gli Uchiha fossero tutti uguali.

Lo avrebbe dovuto comprendere subito che Obito, col suo sorriso incancellabile, perfino nella morte, aveva costituito una tanto improbabile quanto meravigliosa eccezione.

Così come doveva comprendere che quel ragazzino dagli occhi neri e il broncio sul volto non sarebbe mai stato come lui.

E non avrebbe più riso, perché le risate dei bambini, quelle che si rompono e si trasformano in etere fate, si erano perse per strada allo svoltare dei suoi sette anni.

No.

Decisamente, a Kakashi, quel Sasuke adolescente non piaceva.

Forse, perché erano troppo simili.

«Sasuke, non puoi continuare ad allenarti così. Il chidori stanca.»

«Non mi interessa.»

Testardo. Come solo pochi possono essere.

Con un sospiro, Kakashi si sedette su una roccia, attendendo che l’allievo fosse, effettivamente, distrutto dagli allenamenti.

Poco ma sicuro, quando il giorno dopo non ce l’avrebbe fatta a muoversi per via dell’acido lattico e dei muscoli indolenziti, Sasuke avrebbe imparato la lezione.

Ovvero: non strafare o ti farai male.

Rimase ad osservarlo mentre, ostinatamente, continuava ad impastare chakra, accumulandolo sul palmo della mano destra.

Sempre di meno, sempre con più difficoltà.

I movimenti nell’impastare i sigilli si facevano sempre più lenti e impacciati, man mano che la stanchezza aumentava.

Non ce l’avrebbe mai fatta. Non l vrebbe mai fatta. si facevano sempre più lenti e impacciati, man mano che la stanchezza aumentava.

a allo svoltare dei suoi sein giornata, almeno.

«Basta così.»

Gli fermò il polso, appena illuminato di chakra azzurrino, squadrandolo con l'unico occhio visibile.

«Sei esausto, Sasuke. Non riesci neanche più ad impastare decentemente il chakra. Se vuoi morire, questo è il modo giusto per farlo.»

Sasuke lo squadrò in malo modo, tirando via, bruscamente, il braccio e massaggiandosi il muscolo, effettivamente indolenzito.

«Ti dà così fastidio ascoltare gli adulti, ogni tanto?»

A giudicare dalla sua espressione irritata, sì.

Come tutti i ragazzini, mai avrebbe ammesso di aver torto di fronte a un "grande".

Come tutti gli Uchiha, mai avrebbe ammesso di aver torto. E basta.

I met a young child beside a dead pony,
(...)
I met one man who was wounded in love,
I met another man who was wounded in hatred,

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

Dio. Quante volte aveva visto il volto di quel ragazzino contrarsi in una smorfia di dolore per le ferite riportate durante l'allenamento.

Quante, ancora, aveva scorto quello sguardo orgoglioso [adulto?] scrutarlo con astio e disprezzo [ragazzo?], perchè verità troppo dolorose da accettare [bambino.] uscivano dalla sua bocca.

Quante altre erano state - e avrebbero continuato ad esserci - poi, le volte in cui aveva scorto, per qualche fugace attimo, il labbro inferiore tremare e quegli stessi occhi avvelenati dall'odio e dal rancore farsi lucidi, per poi essere strofinati bruscamente con un pugno che cancellava le lacrime, spacciate per polvere.

Quante. Quante. Quante volte aveva seguito con lo sguardo quel simbolo sulla sua schiena, fino alle porte del quartiere degli Uchiha, abitato, ormai, solo dai fantasmi, da un bambino che aveva smesso di essere tale troppo presto, da un ragazzino che aveva deciso di non essere tale e da un adulto che, ancora, non esisteva.

Tante. Tante. Tante volte.

E, ogni volta, Kakashi, non aveva saputo far altro che guardare, finché Sasuke, stufo di aspettare quel gesto [Paterno? Fraterno? O cos'altro?] che non arrivava, decise di seguire chi gli prometteva, non affetto, non amicizia, non amore, ma potere.

Perché, in fondo, era quello che cercava.

Perché, in fondo, è sempre meglio che niente.

E se ne era andato.

Anche lui, come Obito.

Il giorno in cui Sasuke era partito, pioveva, però.

«Be', direi che il tuo limite è di due colpi.»

soffiò, serafico, al dodicenne sudato e ansimante per lo sforzo.

Impassibile come sempre, ma c'era orgoglio nei suoi occhi.

«Con il chakra a tua disposizione è questo il massimo di colpi che puoi utilizzare in un giorno.»

«Cosa succederebbe se provassi ad usare più di due colpi?»

Orgoglio per le proprie capacità, orgoglio per essere riuscito.

Orgoglio che andava smorzato il prima possibile, per evitare gesti avventati.

«Il terzo colpo non si attiverebbe, ricordalo.»

«...»

«Alla peggio potresti morire, ma anche se dovessi sopravvivere, non ne varrebbe la pena...»

Fermarlo, prima che fosse troppo tardi. Prima che il potere andasse fuori controllo.

Prima che si facesse male.

«Specialmente nel tuo caso.»

Sasuke abbassò lo sguardo, mortificato.

«Va bene, Kakashi...»

Socchiuse le labbra, quasi fosse in procinto di aggiungere qualcos'altro.

Un appellativo che mai aveva utilizzato.

Kakashi attese, ma Sasuke parve ripensarci e chiuse la conversazione, lasciandosi morire in gola il "sensei".

Ora che se lo ricordava, aveva piovuto anche quel giorno.

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Capitolo 2
*** First missing moment: where have you been? ***


Eccomi col primo capitolo^^. Come al solito, scrivere KakaSasu è un travaglio XD!

Interamente dedicato alla piccola Linnie che suda sui libri.

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Oh, where have you been my blue-eyed son?

I’ve been out in front of a dozen dead oceans.

I passi erano leggeri e inudibili, come solo quelli di un ninja - o di un gatto - potevano essere.

Le pareti in carta di riso sembravano, tuttavia, frusciare al suo passaggio, staccandosi dall'impalcatura in legno che il passare del tempo aveva deteriorato.

Fuori, il sole, cocente e impietoso, causava l'essiccamento delle piante del grande giardino che circondava la tenuta.

Una volta, quel giardino era stato florido e curato, ora era solo un mucchio di sterpaglie incolte.

Foglie secche. Foglie morte.

Come i suoi abitanti.

Scostò una ragnatela - l'ennesima - incurante della fatica e della dedizione del ragno nel tesserla.

Di fronte a lui, solo polvere.

E sangue.

E ancora polvere, in un parodico sovrapporsi continuo dei due strati: uno visibile [polvere], l'altro celato [sangue].

Attraversò la casa. Immobile. Eccetto il fruscio dei suoi passi e il segno delle impronte lasciate dai propri sandali. Linee parallele, come quelle di qualsiasi altro ninja.

Perché, in fondo, essere ninja voleva dire essere tutti uguali.

Peccato che non ci fosse nulla di più falso.

Peccato.

Già.

Di fronte ai suoi occhi stanchi, infine, ecco il pontile. Quel pontile dove tutti gli Uchiha avevano eseguito per la prima volta la Palla di Fuoco; quello stesso pontile dove, adesso, sedeva un bambino.

Le gambe sporgevano dal bordo del ponte, ciondolando distrattamente e lo sguardo era fisso sull'acqua, incentrato sulla visione di un mondo che gli adulti non potevano vedere. Un mondo fatto di sangue, di vendetta, di rabbia e di amore represso.

Un mondo che, per gli adulti, non era visibile perché troppo abituati a viverci.

Lo guardò. Osservò quel piccolo fanciullo di fronte all'acqua.

La schiena esile appariva ancora più magra a causa della maglietta larga con lo stemma del suo clan; il capo chino e i corti capelli bruni scompigliati. Sporchi.

Gli si avvicinò. Era suo dovere portarlo via da lì.

Un bambino solo non poteva prendersi cura dell'intero quartiere Uchiha che, ad un anno di distanza dalla tragedia che aveva colpito il Clan, era caduto completamente in rovina.

Doveva portarlo via.

Dove, non lo sapeva: era compito dell'Hokage preoccuparsene.

Ora che ci pensava, neanche l'essere lì era affar suo. C'erano ninja specializzati nel trattare con mocciosi rimasti orfani.

Se li ricordava bene, quei ninja vestiti di bianco che arrivavano e ti portavano via, se non eri in grado di cavartela da solo. Dove, poi, era tutto da vedere.

In fondo un ninja, o un aspirante a diventarlo, dovrebbe cavarsela da solo sin dalla più tenera età.

Dovrebbe, ma come si può pretendere da un bambino di otto anni la piena autosufficienza?

Si può, se sei un ninja.

Scosse il capo; la maschera da gatto dell'uniforme ANBU gli coprì il viso.

Evitare. Il. Contatto. Diretto.

Non era necessario.

Non doveva essere necessario.

Quella creatura sul pontile, era solo un ninja.

Non un bambino rimasto orfano.

Gli si avvicinò.

«Uchiha Sasuke?»

Il bambino voltò lentamente il capo.

Gli occhi scuri erano gonfi per il pianto; arrossati dalle lacrime e lucidi per le stesse.

Ma tirò su col naso, e annuì.

«Non puoi restare qui da solo. Sei piccolo per prenderti cura della tenuta degli Uchiha.»

Era panico quello riflesso nello sguardo del bambino? Kakashi decise di non interpretarlo come tale, così come evitò di notare le guance rigate dal pianto, il musetto sfatto e le occhiaie.

«Non sono piccolo. Sono un ninja.»

La voce era infantile e timida, quasi il pronunciare quella frase servisse solo a celare una verità che Sasuke stesso voleva ignorare.

Troppo incerto, per essere ancora considerato un adulto.

«Sei un bambino. Studi all'accademia.»

Il paradosso.

Era abbastanza ninja per lasciare tutto senza fare una piega, era troppo bambino per far sentire le sue ragioni.

La vita, a volte, è ingiusta.

Eppure, il fatto che lo sia con tutti, permette agli uomini di godere di un malsano senso di giustizia quando al vicino accade disgrazia peggiore di quella successa a noi.

«Sta andando tutto in rovina, Sasuke. Non ce la puoi fare. Devi lasciare il quartiere Uchiha.»

Sasuke strinse i piccoli pugni, le nocche sbiancarono.

Piccoli tagli sulle dita infantili; qualche callo di troppo per la sua giovane età.

Kakashi osservò le ginocchia [sbucciate] e quelle mani [irritate].

Mani che avevano conosciuto la fatica.

Mani che, per giorni e per notti, avevano tentato di pulire, sistemare e restituire dignità al luogo dove, un tempo, era vissuto il clan più potente di Konoha.

«Io posso farcela. Non sono piccolo. Non lo sono. No.»

Quanta decisione, in così tenera età; o forse si sarebbe dovuto parlare di testardaggine.

«Non lo sono. Sono un ninja io.»

Ma se non hai saputo neanche aiutare i tuoi genitori?

«Sono forte.»

Ma se fino ad un momento fa, piangevi?

«Posso farcela.»

Ma se non riesci neanche a pulire tutta la tua casa?

«Non piango.»

Ma se hai ancora gli occhi rossi?

«Non sono più un bambino.»

Tragicamente vero.

Sasuke tirò su col naso, Kakashi sospirò di fronte a quel bambino che aveva cessato di essere tale.

«Itachi tornerà. E io...io lo ucciderò. Io posso ucciderlo. Lo ha detto lui che se mi alleno posso diventare più forte e lo potrò uccidere. Posso riuscirci. Se lo ha detto lui, posso riuscirci, perché Itachi...- deglutì a quel nome - Itachi non mi direbbe mai una bugia.»

Quanta fiducia, ancora, nelle parole del fratello maggiore.

Tanta, forse troppa.

Kakashi trattenne il gesto [superfluo] di scompigliare [patetico] i capelli del bambino [un adulto non ne avrebbe avuto bisogno], limitandosi ad annuire con un cenno del capo e andarsene.

Quella sera, Kakashi Hatake avrebbe annunciato che il piccolo Sasuke era perfettamente in grado di gestire la propria vita da solo, non per nulla era un Uchiha.

Quella sera, Sasuke Uchiha si svegliò per colpa di un brutto sogno: quello stesso incubo che lo tormentava da un anno, in cui Itachi uccideva tutti, ma proprio tutti-tutti, lasciando solo lui in vita.

Però, quando corse in camera del fratello per cercare conforto, la trovava vuota e immacolata.

Allora si ricordava che l'incubo era vero e si accucciava lì a piangere, sotto il futon del suo stesso obiettivo.

Kakashi lasciò il bambino nella casa dei fantasmi.

In fondo, non era altro che un fantasma lui stesso.

Si pentì di essere andato lì.

Non vi abitava nessuno, ormai.

Quella notte, non pioveva.

Kakashi tratteneva un sospiro e, forse, una risata, ogni volta che lo osservava spalancare, a fatica, quel bambino non riusciva ancora ad arrivare bene alla maniglia che separava la casa dal resto del villaggio.

Sì, perché il quartiere Uchiha non poteva mischiarsi col resto di Konoha.

Loro erano ninja d'elité, uno dei clan più antichi e prestigiosi della Foglia, nonché amministratori della giustizia all'interno del villaggio stesso.

Ironico che uno dei mukenin di classe S più ricercati e pericolosi provenisse proprio da quella famiglia che, ormai, non era più tale.

Perché il prestigio [distrutto] di un Clan [morto] ricadeva sulle spalle di un membro troppo giovane [debole] per portare quell'oneroso peso.

Però il bambino, dopo i primi, difficili tentativi, si alzava sulle punte dei piedi e riusciva finalmente ad afferrare la maniglia del portone.

Quando vi riusciva, sorrideva soddisfatto, ma era solo per un attimo.

Ritornato serio, si guardava attorno, timoroso che qualcuno lo avesse colto in fallo ad alzarsi sulle punte.

Perché quando mai si è sentito di un Uchiha che fatica ad aprire la porta di casa?

Prima non aveva mai avuto problemi, ma a quel tempo c'era la zia Uruchi che gli apriva il portone, quindi non si notava che era proprio così tanto basso.

Itachi non aveva mai avuto problemi. Neanche ad otto anni.

Lui era sempre stato alto [superiore].

Quando si rendeva conto di essere solo, ma proprio solo solo, allora si metteva il cuore in pace ed entrava.

Kakashi, a quel punto, scuoteva il capo e si allontanava da quell'abitazione dove abitava solo un bambino ostinato che faticava perfino ad aprire la porta di casa.

Oh, where have you been, my darling young one?

I’ve been ten thousand miles in the mouth of a graveyard.

Kakashi andava ogni giorno alla tomba di Obito.

Ogni giorno, costantemente, si piazzava in piedi di fronte alla lapide di marmo.
Accarezzava il nome con un dito, alzava il coprifronte e cominciava a parlargli, come se, in quel modo, con il roteante occhio carminio visibile, l'amico lo avesse potuto sentire.

Non si preoccupava di guardarsi attorno per verificare di essere da solo.

Nessuno sarebbe mai andato a quel monumento a piangere per Obito o per alcun altro morto.

Nessuno.

Kakashi [sapeva] era [di essere] solo [l'unico].

Come se gli altri non avessero morti.

Quella non era una casa.

Era un cimitero e Sasuke se ne rendeva conto ogni giorno di più.

Morti gli zii.Si

Morti i nonni.

Morti i genitori.

Morti. Tutti morti quelli che lo salutavano mentre percorreva, ostinatamente [per quanto ancora?], le vie del quartiere Uchiha.

E lui, rispondeva a quei saluti.

In fondo erano lì.

Gli parlavano.

Sussurravano al suo orecchio.

Invocavano vendetta.

Perché non avrebbe dovuto rispondergli, se erano così innaturalmente vivi?

Quel giorno non era solo, al cimitero.

C'era un'altra persona, di fronte alla lapide.

Kakashi storse il naso, quasi infastidito da quella presenza che andava ad interferire con la propria visita giornaliera.

Ciò nonostante, si avvicinò, sovrastando con la propria ombra la figura del bambino accucciato di fronte alla lapide; gli occhi neri fissi su di essa.

«Ehi, bimbo. Che ci fai qui?»

Il bambino alzò lo sguardo, degnandolo appena di un'occhiata vacua, per poi tornare a fissare gli eleganti [ma affollati] ideogrammi.

«Non è posto per i bambini, questo.»

Non è posto neanche per gli adulti.
«Sono morti tutti per il villaggio.»

Constatazione priva di qualsivoglia intonazione.

Era una semplice presa di coscienza dei fatti.

«Sì. Sono degli eroi.»

«Degli eroi morti di cui nessuno si ricorda. La gente si ricorda solo quello che le fa piacere.»

Kakashi schioccò irritato la lingua, poi spostò lo sguardo sul ventaglio che, bianco e rosso, svettava nel blu notturno della maglietta del piccolo.

«E i morti non fanno star bene. Per questo si dimenticano.»

Un simbolo pesante per quelle spalle fragili, dopo solo un anno.

Troppo.

Il bambino si alzò, scuotendo il capo.

«Che morte stupida.»

Quanta amarezza [e orgoglio] in quella frase.

«Morire e diventare solo un nome su una pietra. Non si ricordano i morti, solo gli assassini.»

Il nome di Itachi era ancora sulla bocca di tutti.

«Io non voglio morire come uno stupido.»

«Preferisci essere ricordato come un assassino?»

Kakashi non ottenne risposta, ma nel torcersi del labbro inferiore del bambino, gli parve di scorgere un muto diniego che, però, non giunse alla bocca infantile.

«Io lo ucciderò.»

Quella frase, pronunciata con una determinazione già raccapricciante per un adulto, diventava ancora più raggelante in quanto proveniente da un bambino.

Kakashi lo osservò lanciare un'ultima occhiata [sprezzante] alla lapide, prima di avviarsi lungo il sentiero di terra battuta che conduceva al villaggio.

I cimiteri, rifletté, non dovrebbero esserci, portano solo lacrime.

Anche il cielo, ora, stava piangendo.

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

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Angolino di risposta:

Ainsel: we, nee-chan! Le KakaSasu devono diventare universali*-*! Ovviamente XD! Kakashi...mah, è Kakashi! Comunque, come hai visto, riesco comunque ad aggiornare*O*! E ricordati che un giorno dobbiamo uscire assieme XD!

Kira 7: io Sasuke lo adoro ç_ç! E' il mio alter ego cartaceo, non potrei mai volergli male, anche se lo faccio stare di merda. Spero ti piaccia anche questo capitolo.

Ross: mamma*-*! Ricevere le tue recensioni fa sempre piacere! E, beh...Kakashi è Kakashi e mi dispiace non riuscire mai a trattarlo degnamente, a mio parere ç_ç, quindi mi ci impegno più che posso.

darkrin: oh, una convertita*-*! spero che tu continui a seguire le KakaSasu perchè meritano tutte, anche solo per la coppia! sì, la seconda parte del capitolo è, effettivamente, più pesante, ma l'effetto voluto era quello XD!

Evilinnie: Linnie, tesoro. Visto? Ho aggiornato ambo le fanfiction^^. Soddisfatta? Un bacione grande >*<

Kasumi_love: un'altra convertita*-*! Diffondete il verbo, ragazze, diffondete!

Rukia: Ho aggiornato un pò tardi, ma spero che il risultato sia di tuo gradimento ù_ù

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Capitolo 3
*** Oh, what did you see? ***


Oh, what did you see, my blue-eyed son?

I saw a newborn baby with wild wolves all around it

Kakashi vedeva solo da un occhio: il destro.

Questo perchè, quando si scopriva il sinistro, era come aprire una finestra tra il mondo dei vivi e il mondo dei morti.

Ed Obito guardava attraverso quell'occhio.

Sempre. Sempre. Sempre.

Così, Kakashi aveva preso l'abitudine di portarlo coperto e di usarlo solo se strettamente necessario.

In fondo, era soltanto un modo più semplice per convincersi che Obito era morto.

Morto. Morto. Morto.

Come tutti gli Uchiha.

O quasi.

Ma, in fondo, quel bambino che arrancava per strada trascinando una busta della spesa troppo pesante per lui non si poteva definire un Uchiha, no?

In un modo o nell'altro, finiva sempre per incrociarlo.

Forse, perché aveva preso l'abitudine di passare di fronte al quartiere degli Uchiha.

Forse, perché chiunque, nel villaggio, avrebbe riconosciuto quello stemma sulla felpa blu del piccolo, e avrebbe scosso il capo in segno di compatimento.

Non si può essere Uchiha a soli nove anni.

A nove anni, sei solo un bambino cui dovrebbe essere permesso di frignare in braccio alla mamma.

Eppure, Kakashi, ogni volta che osservava quello che tra sé e sé continuava a chiamare "moccioso", si chiedeva se non fosse possibile essere già adulti a nove anni.

Allora guardava gli occhi del bambino.

Neri, come tutti gli Uchiha.

Incendiati, come tutti gli Uchiha.

Decisi, come tutti gli Uchiha.

Kakashi, guardava i suoi occhi, poi fissava i graffi sul viso, sulle mani troppo magre e troppo callose per essere solo quelle di un bambino.

Allora, Kakashi, doveva spostare lo sguardo sulla piccola schiena curva e sul suo lento ansimare per la fatica di trascinare le buste, per ricordarsi di avere di fronte solo un bambino.

Solo ed esclusivamente un bambino.

Nient'altro.

Perché, allora, gli prudeva l'occhio sinistro, mentre lo guardava?

Ogni volta che doveva andare a fare la spesa, era un dramma.

Ostinato com'era, non si sarebbe mai fatto aiutare da nessuno.

In fondo, lui, era un Uchiha.

Tuttavia, non aveva neanche il tempo di andare spesso a comprare gli alimenti, così, quando riusciva a ritagliarsi un'ora nel suo programma d'allenamento (e solo se la dispensa era completamente vuota, perché non poteva permettersi di perdere tempo.), faceva la spesa per tutto il mese.

Così, si ritrovava a trascinare buste su buste, perché non avrebbe mai permesso a nessuno di entrare nel quartiere Uchiha, neanche se era per aiutarlo a portare la spesa.

Sarebbe stato da deboli, e lui non lo era [debole].

Lui era un Uchiha [debole].

Avrebbe preferito trascinarsi, piuttosto che chiedere una mano.

Se non riusciva a svolgere neanche le mansioni più semplici come avrebbe fatto a uccidere [ritrovare] Itachi [suo fratello]?

Così camminava, cercando di mantenere la postura dritta e il viso alto; ignorando tutti gli sguardi pettegoli che si posavano sulla sua schiena [su di lui], dove troneggiava il simbolo del [decaduto] Clan.

In fondo, lui era un Uchiha.

Anche se aveva solo nove anni.

«Quel bambino torna sempre a casa da solo.»

«Già, povero piccolo… una così grande tragedia…»

«Bisognerebbe fare qualcosa.»

«Mi chiedo perché non lo abbiano affidato a qualcuno.»

«In fondo, tutti a Konoha sarebbe onorata di accogliere un Uchiha nella propria famiglia.»

«Un Uchiha? Andiamo, in fondo è solo un bambino. E non ha mai neanche dimostrato particolare talento rispetto ad Itac…»

«Ssssht! Così ti sente.»

Sasuke passò oltre, non dando segno di aver sentito alcunché e mantenendosi ben eretto, nonostante le mani gli dolessero per il peso della spesa.

Non avrebbe dato loro la soddisfazione di aver ragione.

In fondo, bastava ignorarli.

Bastava tirare avanti, con la schiena dritta e lo sguardo fiero di ogni Uchiha.

Bastava aspettare e sarebbe cresciuto, perché non sarebbe rimasto un bambino per sempre.

No. No. No. No.

Per il momento, doveva solo farsi vedere forte, come ogni Uchiha.

Bastava solo fingere di essere grande.

In fondo, le apparenze sono quelle che contano, e non il peso delle buste della spesa, che puoi posare appena svolti l’angolo e sei sicuro che nessuno ti guardi.

Oh, what did you see, my blue-eyed son?

I saw guns and sharp swords in the hands of young children

Ogni volta che si fermava a guardare quel giardino, rabbrividiva.

Il sangue se ne era andato, ormai, ma l'odore, l'odore!, era restato.

Impregnava l’aria e lui, incauto visitatore, non poteva fare a meno di inalarlo.

Si chiese perché fosse tornato lì [di nuovo].

Si domandò perché avesse varcato quella soglia [ancora una volta].

In fondo, non aveva più niente da fare al quartiere Uchiha, no?

Obito era morto.

Il Clan era morto.

Tutti erano morti.

Anche quel bambino che lanciava ostinatamente shuriken contro un albero, accanendosi contro il povero vecchio tronco che subiva la rabbia e l’insofferenza di un cucciolo d’uomo.

Ancora una volta, si era fermato a guardarlo.

Ancora, studiava il fisico minuto del bambino, reso ancora più magro e scarno dagli abiti larghi cui sembrava non volersi separare e che, comunque, gli impicciavano i movimenti, rendendo la presa sulle armi incerta e goffa.

Stupido moccioso che si allenava indossando la maglia troppo grande del fratello maggiore, illudendosi di poter diventare bravo come lui.

Allora, Kakashi scuoteva il capo e gli dava mentalmente dell’idiota.

Perché si impegnava, se ormai erano già tutti morti?

Per sentirsi vivo, no?

Sasuke aveva un programma giornaliero molto fitto.

La mattina, quando si alzava, faceva colazione, si lavava il viso, i denti e si vestiva, tentando poi di pettinarsi i capelli ribelli.

A Kaa-san sarebbe dispiaciuto, vederlo in disordine.

Andava all’Accademia, premunendosi di essere il primo della classe, perché era così che un Uchiha doveva essere: sempre il migliore. E lui lo era.

Anche perché così Tou-san sarebbe stato orgoglioso di lui.

Non si fermava a giocare con gli altri bambini, dopo la scuola: lui non aveva bisogno di giocare.

Non era più un moccioso, quindi se ne andava, fissando con disprezzo [invidia], i coetanei che fingevano di fare i ninja.

Lui era diverso: lui era un ninja.

Non aveva tempo per i giochi.

Quindi, tornava a casa, procedendo sempre con la schiena dritta e lo sguardo alto.

Proprio come avrebbe fatto Itachi: lui non abbassava mai lo sguardo di fronte a nessuno. Ma proprio a nessuno nessuno!

Lì, cominciava ad allenarsi, accarezzando il freddo metallo degli shuriken; acquistandovi familiarità.

Le piccole dita passavano sui bordi affilati, e quando fissava le sottili strisce bianche che l’acciaio lasciava sulla pelle, si sentiva soddisfatto di se stesso.

Allora sorrideva, con la sua bocca da gatto [cucciolo], e cominciava ad allenarsi.

Peccato che verso sera sentisse sempre freddo, anche se cercava di non farci caso.

Era un Uchiha, non poteva permettersi di badare alle temperature.

Solo quando il sole era ormai tramontato e il vento gelido del nord cominciava a soffiare, cominciava a pensare che, forse, ma proprio forse, si sarebbe potuto permettere una maglia in più.

Quindi, saliva in camera e tirava fuori la sua felpa pesante, lasciando però che lo sguardo cadesse su un altro pezzo di stoffa sgualcita tra le coperte.

Lo fissava, e fissava poi la propria felpa, pronta a farsi infilare e a scaldarlo.

La indossava, ma lo sguardo tornava sempre al pezzo di stoffa.

Usciva, ma poi indugiava e tornava in dietro, finché non si decideva a prenderla in mano, lasciandola cadere subito dopo, come ustionato dal contatto con la consistenza del tessuto.

Alla fine, si convinceva che quella felpa buttata sul letto era più comoda, più calda, e che non era importante che fosse appartenuta ad Itachi.

Si toglieva la propria e indossava quella dell’assassino [del fratello], rigirando più volte le maniche troppo lunghe per le sue braccia da bambino.

Dopo di che, usciva ad allenarsi di nuovo, ma era come se, con la felpa, Itachi fosse tornato lì con lui e giudicasse con aria critica i tiri sbilenchi che faceva, le posizioni sbagliate e il labbro inferiore che tremava infantilmente ogni volta che mancava un colpo.

Alla fine di quell’allenamento disastroso, Sasuke rientrava.

Quel giorno era stato il primo della classe e si era allenato duramente, proprio come il padre avrebbe voluto.

Cenava, sparecchiando e lavando i piatti; si lavava i denti come ogni bravo bambino e si metteva il pigiama, proprio come sua madre avrebbe voluto.

Infine, si coricava e allora, solo allora, sfogava tutta la sua rabbia e la sua frustrazione sull’indumento che, fino a poco prima, lo aveva scaldato, solo perché conservava, ancora!, l’odore velenoso di Itachi.

Dopo di che, si addormentava, stringendo quella stessa maglietta, proprio perché conservava ancora l’odore rassicurante di suo fratello.

Se ne stava tranquillamente a sfogliare le pagine di quel libro.

Come al solito, lo sguardo scorreva sulle parole, senza realmente vederle.

In fondo, leggere era solo un modo poco evidente di distogliere lo sguardo dal resto del mondo.

Perché, ormai, questo non gli interessa più e la realtà fittizia delle pagine intrise di inchostro è molto più bella di quella esterna.

Però, a volte, non si può fare a meno di ignorare quel fruscio di passi lenti che, con cadenza impacciata e irregolare, calpestano l'erba.

Neanche il sordo rumore del metallo sul legno, a pochi metri di distanza.

Kakashi alzò, a malincuore, lo sguardo.

Di fronte a lui, soltanto il simbolo del clan Uchiha, indossato da spalle troppo fragili per sopportarne il peso.

Era lontano, quel ventaglio rosso e bianco, eppure spiccava così tanto nel verde del fogliame che, Kakashi rabbrividì al pensiero, avrebbe potuto distinguerlo in mezzo ai più intricati grovigli.

In fondo, gli Uchiha erano fatti per evidenziarsi tra le altre foglie.

Peccato che, di quel maestoso albero, ne fosse rimasta solo una che, lenta, cominciava a seccarsi.

Una decadenza che aumentava in diretta proporzione ai lanci che colpivano il bersaglio.

«Ragazzino, dovresti essere a casa, a quest'ora.»

Sibilò, diretto al bambino che, ostinatamente, continuava a lanciare shuriken contro i tronchi.

Il rumore lo disturbava, impedendogli di concentrarsi sulla lettura.

«Moccioso, si presta attenzione quando un adulto ti parla.»

Evidentemente, non lo aveva udito.

Perché i colpi continuavano a rimbombare, minacciosi, nella foresta.

«Mi ascolti?»

Allora, solo allora, il bambino si fermò.

Posò gli shuriken, voltandosi verso il disturbatore e squadrandolo da capo a piedi, come per valutare se quell'adulto fosse o meno degno del suo rispetto.

Lo studiò a lungo, soppesando con quegli occhi scuri e attenti - animaleschi, pensò Kakashi - ogni dettaglio che gli si presentava di fronte.

Per poi soffermarsi sull'unico occhio visibile del ventunenne.

«Non vedo motivo per farlo.»

Kakashi trattenne un ringhio, di fronte all'impertinenza.

Chissà perché, quella minuscola caricatura di un Uchiha finiva sempre lungo la sua strada.

Non sopportava quel bambino.

Forse, perché non era Obito: l'unico Uchiha che mai avesse tollerato.

Gli altri, per lui, erano invisibili.

«Dovresti essere a casa.»

Ripeté, come se quella verità sacrosanta potesse valere per chi, la casa, è diventata soltanto un freddo cimitero.

«Tanto non c'è più nessuno.»

Apatia raggelante, nella risposta.

Un disinteresse completo verso chi lo poteva attendere tra le mura domestiche e, allo stesso tempo, crudele dimostrazione che non era un illuso, non era un bambino.

Era soltanto drammaticamente consapevole.

«Ma se proprio ci tieni...»

Il bambino raccolse le armi taglienti, proprio come se fossero i giocattoli di cui era stato privato troppo presto.

Kakashi ebbe l'orribile sensazione che, quella del piccolo, non fosse una dimostrazione d'obbedienza di fronte ad un adulto, ma soltanto una concessione che gli faceva.

Così, fu con perplessità e attonimento che osservò allontanarsi l'ultimo degli Uchiha.

Membro silenzioso di un villaggio che, però, faceva pesare la sua piccola e innocua presenza.

Perché un Uchiha è sempre un Uchiha, a prescindere dall'età.

A poco, a poco, cominciò a piovere.

And it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard, it’s a hard,
It’s a hard rain’s a-gonna fall

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Chiedo scusa a tutti per i ritardi negli aggiornamenti, ma ho alcuni piccoli problemi di tempo con l'università e con internet.

Comunque, anche questo capitolo è andato.

Vi ringrazio tutte per la pazienza.

Ainsel: Eh, nee-chan. Purtroppo questi due riesco ad elaborarli solo al passato. Ma se noti c'è un sottile filo conduttore tra un capitolo e l'altro, parte la ripresa, ogni volta, di scene di vita quotidiana^^. A te trovarlo XD!

Darkrin: Non hai mai trovato un motivo per vederli assieme prima d'ora? O_O! Ma guardali! Sono nati l'uno per l'altro! Sia caratterialmente che fisicamente (immagini =ççç=)! Insomma, sono fantastici assieme ù_ù. Spero che, comunque, questo capitolo sia stato di tuo gradimento; come puoi vedere il nostro piccolo Sasuke continua a giocare all'adulto, purtroppo riuscendoci.

Rukia: dai, non sarai brava a recensire, ma fa sempre piacere trovare un tuo commento XD!

Sirius: purtroppo le KakaSasu sono più rare delle mosche bianche. Riguardo ai flash-back, semplicemente non riesco a pensare che, con la presenza di Obito, si siano incontrati solo quando Kakashi è diventato il sensei di Sasuke. Personalmente, credo che abbiano avuto parecchi incontri casuali, prima: semplicemente, Sasuke era troppo piccolo e troppo preso a fare altro per ricordarseli.

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Capitolo 4
*** And what did you hear? ***


And what did you hear, my blue-eyed son?

Heard ten thousand whisperin' and nobody listenin',

Dopo tre anni, aveva smesso di fermarsi a guardare la porta in legno del quartiere degli Uchiha.

C'era voluto molto tempo, perché l'occhio - quell'occhio che non voleva proprio smettere di prudere e che urlava la notte di non ignorarlo - smettesse di prudere.

Però, adesso non doveva più preoccuparsi di vedere alcunché.

I fantasmi sembravano spariti.

I morti erano stati sepolti.

Kakashi sembrava sereno.

Peccato che, al posto di vedere gli spiriti, adesso li sentiva.

E le orecchie non si possono mettere a tacere coprendole con un coprifronte.

Odiava la fastidiosa presenza di Obito che continuava a sussurrargli nell'orecchio.

Tuttavia, non riusciva a farne a meno e l'Uchiha continuava sempre ad accompagnarlo nel suo peregrinare.

Gli parlava, ma Kakashi fingeva di non sentirlo, se non quando erano da soli.

Solo allora concedeva la propria attenzione.

E ascoltava.

Gli spiriti non sono così silenziosi come vogliono farci credere.

Sasuke aveva compiuto dieci anni.

Era grande ormai e ne andava fiero.

Insomma, a dieci anni non sei più un bambino: devi usare ben due numeri per esprimere la tua età.

Sasuke aveva compiuto dieci anni.

Non c'era stato nessun bambino a festeggiare il suo compleanno e non aveva ricevuto alcun regalo, se non le fastidose letterine d'auguri da parte delle bambine della sua classe: un tripudio di rose e cuoricini che non si era degnato neanche di guardare.

A Sasuke non era mai piaciuto festeggiare il suo compleanno, prima.

Era solo un modo per rimarcare che era più piccolo [debole] del fratello maggiore.

Da qualche anno a quella parte, però, gli mancava la festa che i suoi genitori erano soliti organizzare.

Ogni volta che lui o Itachi compivano gli anni, il quartiere Uchiha si riempiva di luci, c'erano tante cose buone da mangiare e tutta la famiglia si riuniva a festeggiare.

Sasuke sentiva la mancanza dei rumori dei passi allegri lungo il viale, delle chiacchiere delle comari vestite a festa e la voce della madre che intonava la nota della prima canzone della serata.

Ma adesso Sasuke aveva dieci anni e non era più un bambino.

Era grande.

Tuttavia, quel ventitré luglio, fu contento di tornare a casa e di sentire i saluti dei fantasmi - che non se ne erano mai andati, purtroppo - che gli auguravano buon compleanno.

Quel giorno, Sasuke si sentì meno solo e decise che gli spiriti non erano poi così fastidiosi come pensava.

And what did you hear, my darling young one?

I heard the sound of a thunder, it roared out a warnin',

Kakashi era di cattivo umore, quel giorno.

Aveva bocciato l’ennesima squadra di genin falliti.

Non c’era collaborazione, tra loro.

«Chi non porta a termine la missione è feccia. Ma chi abbandona i suoi compagni è feccia della peggior specie.»

Obito l’aveva avuta vinta, su quello.

E, ogni volta che Kakashi tentava – ostinatamente – di ignorare quell’insegnamento, l’Uchiha era là, pronto a sussurrarglielo beffardamente all’orecchio.

Come monito, come avvertimento.

Alle volte, Kakashi trovava perfino piacevole parlare con il fantasma del suo migliore amico.

Alle volte, invece, non lo sopportava proprio.

Era fastidioso dover concentrarsi sempre su quello che dicevano gli altri per non prestare attenzione ad un noioso spirito che sembrava intento a perseguitarti.

«Ti mancherei, Kakashi.»

Sghignazzava Obito, ogni volta che Hatake gli intimava di andarsene.

Kakashi sbuffava e si rimetteva a leggere.

Quel giorno, in particolare, non aveva voglia di sentirlo.

Si allontanò, ignorando il suo vociferare continuo; ignorando i suoi richiami, i suoi lamenti.

«Kakashi! Kakashi aspettami! Aspettami!»

«Vattene! Tu sei morto, Obito! Morto! Lasciami vivere!»

Era la replica, nervosa e incessante come il pianto dell’Uchiha, ma che, a differenza di questo, sortì i suoi effetti, perché Obito non lo seguì nella foresta, lasciandolo correre.

E corse, Kakashi, corse fino a quando un altro pianto, più lacerante e opprimente del primo, non gli squarciò le orecchie.

Rallentò il passo, ponderando sul da farsi.

La curiosità lo spingeva a cercare la fonte del rumore; il desiderio di restare solo, gli intimava di andarsene.

Ma l’istinto prevale sempre, specie nelle persone solitarie che non perdono occasione per scoprire qualcosa di nuovo in modo da tingere di qualche esotico colore la propria vita grigia.

Fu così che Kakashi si trovò di fronte a un bambino.

Un cucciolo d’uomo rannicchiato su se stesso come un animale selvatico, urlante e furente proprio come questo.

Gli occhi neri arrossati per il pianto e sulle labbra un unico, solitario gemito.

«Perché? Perché, aniki? Perché?»

L’ultimo interrogativo esplose in un urlo di rabbia tale da rimbombare in tutta la foresta, quasi gli alberi, partecipi del dolore del bambino, volessero amplificare la sua voce per far arrivare la questione al diretto interessato.

«Aiutalo, Kakashi. Se non vuoi ascoltare me, almeno ascolta lui.»

Obito lo aveva raggiunto – se ne era mai andato? – e adesso lo pregava di aiutare quel bambino.

Un bambino che aveva cullato e a cui aveva raccontato le favole all’urlo imperioso di: «Tobi-chan! Tolia!».

«Rispondigli.»

Nulla.

«Perché?»

«Kakashi…»

«Sei morto, Obito. I morti non parlano.»

Tragica e drammatica verità.

L’ennesimo “perché” rimbombò nella foresta.

Obito lanciò un’occhiataccia a Kakashi, prima di superarlo e raggiungere Sasuke.

Il jonin non poteva vederlo, ma sentiva che la presenza del fantasma era scomparsa e si era, invece, avvicinata al bambino.

Poteva quasi sentirlo mentre gli sussurrava parole di conforto all’orecchio; unico spirito tra tanti che non lo incitava alla vendetta, alimentando il suo pianto.

Le sue urla, a poco, a poco, si smorzarono, fino a mutare in un solitario singhiozzo.

Kakashi si allontanò.

Non aveva risposte da dare al piccolo, nessuno le aveva.

Neanche Obito che, sospirando, tornò da Kakashi, lasciando Sasuke con i suoi morti.

Non si può scappare dai propri morti.

Né loro possono scappare da noi.

Sasuke aveva preso l’abitudine di guardarsi allo specchio ogni volta che rientrava a casa.

Studiava il proprio viso in cerca di qualcuno di quei cambiamenti che avrebbero segnato il suo passaggio nell’età adulta.

Che so… un accenno di barba, un cambiamento nella voce o nel fisico.

Sasuke riusciva solo a scorgere l’immagine grottesca di un bambino appena entrato nell’adolescenza; il piccolo Uchiha era, allora, all’inizio di quel percorso che porta all’alzarsi in maniera spropositata dopo essere ingrassati.

Si guardava il viso e lo vedeva morbido e rotondo, come quello dei bambini.

Si guardava il corpo e si scopriva un po’ in carne, come il bambino che doveva essere.

Allora scostava lo sguardo, irritato. Si rivestiva e andava in giardino ad allenarsi, perché nei suoi ricordi era proprio così che era Itachi alla sua età.

E li non voleva essere come suo fratello neanche nelle normali fasi della crescita.

Sasuke lanciava gli shuriken, correva, faceva ginnastica e studiava a lungo sui vecchi e logori rotoli di famiglia, cercando di ignorare gli spiriti che gli urlavano nelle orecchie.

«Sasuke, è normale.»

«Sasuke non prendertela.»

«Sasuke sei un Uchiha, non puoi star dietro a certe cose.»

«Comportati da uomo, Sasuke.»

«Uccidilo, Sasuke.»

«Vendicaci, Sasuke.»

«Sasuke.»

«Sasuke.»

«Sasuke.»

«Basta! – urlò, tappandosi le orecchie con le mani. – Basta! State zitti! Tutti quanti!»

Gli spiriti tacquero per qualche secondo; Sasuke sospirò, sollevato.

Silenzio.

Riprese a studiare, con creanza.

Quella sera si misurò allo stipite della porta dove erano segnate le altezze sue e di Itachi nel corso degli anni.

Sorrise, vedendo che era cresciuto di qualche centimetro e si rabbuiò, quando si accorse che non raggiungeva l’altezza di Itachi alla sua età.

«Certo che potevate farmi più alto.»

Bofonchiò, rivolto agli spiriti che, ormai, gli facevano compagnia nelle lunghe serate.

Nessuna risposta.

Solo il sibilo del vento tra le fronte.

«Vi siete offesi?»

Il bambino si fissò attorno, circospetto.

Non bisognava far arrabbiare gli spiriti. Era una cosa cattiva. Molto cattiva.

«Ehi…dove…dove siete tutti?»

Panico nella voce.

«Mi…mi dispiace. Non volevo mandarvi via. Io… io volevo solo studiare…»

Si giustificò.

«Tornate… zio… zia… kaa-san! Tou-san!»

Tornate…

[Non lasciatemi solo.]

Non di nuovo.

Sasuke faticò a dormire la notte in cui gli spiriti smisero di parlargli e la loro presenza si faceva sentire solo come gelido fiato sul suo collo.

Forse si erano resi conto di essere d’intralcio ai suoi allenamenti, forse si erano semplicemente offesi.

Sasuke non lo sapeva, né l’avrebbe mai saputo.

Adesso, era cosciente soltanto di una terribile verità che, fino a quel momento, era riuscito ad ignorare.

Gli era rimasto solo Itachi.

«Kakashi! Kakashi mi senti? Mi senti?»

Kakashi lo sentiva, Obito, ma preferiva non ascoltarlo.

Non quando passava di fronte al quartiere degli Uchiha, perlomeno.

Il loro luogo d'incontro era la tomba.

L'unico posto dove Kakashi si sentiva in vena - e in dovere - di conversare con lui.

«Kakashi ascoltami! Ascoltami!»

«Sta zitto.»

Sibilò a denti stretti dietro la maschera.

Solo allora notò lo sguardo scuro di un bambino che, adesso, non faticava più a portare le buste della spesa e il cui sopracciglio era perplessamente sollevato al sentire un adulto parlare da solo.

«Beh, che hai da guardare?»

Sbottò Kakashi, punto nell'orgoglio dall'essere scoperto in un atteggiamento imbarazzante.

Da quel moccioso, per di più.

«Nulla.»

Rispose, senza però distogliere lo sguardo.

Kakashi lo studiò.

Si era alzato in quegli anni, sebbene i lineamenti fossero ancora quelli dolci dell'infanzia; perfino la voce era cambiata, passando dall'acuto tono dei bambini a quello baritonale dell'adolescenza, sebbene ancora oscillante.

Il jonin passò oltre, sorpassando quel bambino fastidioso di cui continuava, tuttavia, a sentire lo sguardo.

«Che vuoi, moccioso?»

«Hai uno spirito che ti segue, vero?»

Kakashi si ammutolì.

Per qualche minuto, si udì solo l'alternarsi dei loro respiri.

«E tu che ne sai?»

Sasuke fece spallucce.

«Continua a chiamarti.»

«Non dire sciocchezze, bambino. I fantasmi non esistono.»

«Sì, invece. - Replicò deciso. - Io ci vivo assieme.»

«Vedi, Kakashi? Lui non mi ignora! Non mi ignora!»

«Stai zitto, Obito.»

«Già... - lo spirito ghignò, amareggiato - E' sempre più facile fingere di non sentire, vero Kakashi?»

Kakashi non rispose.

«Vero?»

Ignorò ancora una volta quella domanda e chiuse il libro.

Stava cominciando a piovere.

And it's a hard, and it's a hard, it's a hard, it's a hard,
And it's a hard rain's a-gonna fall.

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L'idea degli spiriti me l'ha ispirata Kodamy con la sua fanfiction: Their Will ( on his shoulders )

Consiglio a tutti di leggerla.

A presto >*<

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Capitolo 5
*** Who did you meet? ***


Nuova pagina 1

Missing moment IV: Who did you meet?

Oh, who did you meet, my blue-eyed son?

I met a young child beside a dead pony

Kakashi non passava più davanti al quartiere Uchiha.

Aveva deciso di evitarlo completamente, in modo da non incontrare mai più quel ragazzino.

Né sentire il fantasma di Obito, naturalmente.

Aveva perfino smesso di andare alla sua tomba.

Se non vedeva la lapide, non poteva incontrarlo, no?

Eppure, aveva la strana sensazione di essere seguito costantemente.

Era Obito che gli soffiava sul collo, cercando di attirare la sua attenzione, o erano il fantasma di Rin e quello del suo maestro a tentare - invano - di incontrarlo?

Non lo sapeva, né voleva divenirne consapevole.

Kakashi aveva deciso di lasciare i morti nelle tombe e concentrarsi sui vivi.

Eppure, la sua attenzione verso questi era nulla.

Kakashi incontrava gente, senza realmente interessarsi ad essa.

Kakashi conosceva persone, di cui si dimenticava subito il nome.

Kakashi era un morto che camminava per le strade di un villaggio costruito sul sangue di cadaveri che, sebbene tali, erano più vivi di lui.

Eppure i morti ritornano sempre.

Per tutti.

Una maledizione, forse.

O, per alcuni, una benedizione.

In fondo, c'è chi non aspetta altro che incontrarli.

Purtroppo.

Il sogno segreto di Sasuke era, tutt'ora, rivedere i genitori.

Sperava che un giorno sarebbero tornati; lo avrebbero preso per mano e lo avrebbero portato con loro.

Se questo, avesse significato la morte, poco importava.

Anche perché, con loro, ci sarebbe stato anche Itachi.

In fondo, lui non poteva morire prima di averlo ucciso, no?

Una volta morto il fratello, anche lui sarebbe stato libero di rincontrare i suoi genitori, e allora sarebbero stati di nuovo tutti insieme, proprio come deve essere una famiglia.

Sasuke sorrideva e si crogiolava in quel sogno infantile. Quindi, si addormentava, con la speranza che quel giorno arrivasse presto.

Al mattino dopo, quando si risvegliava, la vista del quartiere vuoto gli rammentava che, prima di morire, c'erano tante cose da fare.

Sasuke non doveva solo uccidere Itachi: doveva riportare il clan Uchiha in vita.

Però, per quanto avesse tentato di interessarsi a qualcuna di quelle ragazzine petulanti che gli correvano dietro, si era reso conto che a lui non interessava nessuna. Ma proprio nessuna nessuna.

Allora, aveva deciso che ci avrebbe pensato dopo aver ucciso Itachi.

In fondo, era ancora troppo piccolo per incontrare la persona della sua vita.

In realtà, non era neanche convinto che questa esistesse.

In realtà, non gliene importava davvero niente.


Who did you meet, my darling young one?
I met another man who was wounded with hatred,

Kakashi si era ormai rassegnato alla solitudine.

A dire il vero, vi si crogiolava.

Con quel senso di compiaciuto vittimismo che attanaglia chiunque è testimone e vittima di una grande tragedia, si lasciava semplicemente vivere.

Aveva le donne, quando ne aveva bisogno; aveva cibo e lavoro in abbondanza.

Però, Kakashi, era solo.

E, in questa solitudine, sguazzava.

In fondo, non aveva bisogno d’altri che di se stesso.

Era molto più facile, vivere così.

Davvero molto, molto più facile.

Eppure, a volte si rammaricava di quella sua situazione.

Allora usciva e camminava senza meta per il villaggio.

Chissà perché, se era soprappensiero, finiva sempre di fronte al quartiere Uchiha.

E, chissà perché, incontrava sempre quel ragazzino ossuto e truce che lo sorpassava senza degnarlo di uno sguardo.

Si era alzato. Il bambino che era stato non c’era quasi più e Kakashi poteva intuire che, tra non molto, il moccioso che non riusciva a fare centro con gli shuriken, si sarebbe diplomato.

La cosa lo infastidiva.

Razionalmente, pensava che, per essere un Uchiha, ci stesse mettendo troppo a finire l’accademia.

Inconsciamente, pensava che, per essere un bambino, ci stesse riuscendo troppo in fretta.

Peccato. Si disse, osservandolo mentre correva verso casa, avvolto in vestiti troppo larghi.

Un’altra infanzia bruciata.

Come quella di tutti i ninja, del resto.

Come la propria.

Quando Kakashi incontrava Sasuke per strada, solitamente, la cambiava per non incontrarlo.

Non per antipatia, né per snobismo.

Semplicemente, gli faceva male vederlo.

Il perché, non riusciva a spiegarselo.

D’altronde, la piccola figura piegata sotto il peso degli allenamenti, gli ricordava tanto [troppo] Obito, perché potesse avvicinarcisi.

D’altro canto, quel bambino non era Obito, quindi non avrebbe avuto motivo di incontrarlo.

Ne sei davvero sicuro, Kakashi?

Sasuke ricordava con esattezza i giorni in cui, da piccolo, i genitori lo portavano alle feste di Konoha.

C’erano tante luci, giochi e colori e lui correva estasiato tra le varie bancarelle tradizionali, avvolto nel suo piccolo e ingombrante kimono blu scuro.

Era orgoglioso di quel kimono. Lo aveva cucito personalmente sua madre e vi aveva ricamato sopra lo stemma degli Uchiha.

Adesso che lo aveva ritrovato, constatò con orgoglio che era davvero cresciuto, perché non gli stava più.

Allo stesso tempo, però, se ne dispiacque.

La mamma cuciva sempre personalmente i kimono per le feste.

Sasuke ricordava che, ogni anno, prendeva le misure a lui e ad Itachi, in modo da poterli adattare alla loro crescita.

Quel kimono risaliva a quattro anni prima. I suoi sette anni, per l’esattezza.

L’ultima festa che avrebbero festeggiato assieme.

Sasuke ricordava che la madre aveva riunito tutto il clan e tutti avevano indossato il kimono.

Le donne del clan avevano cucinato tanti dolci e tante altre cose buone e lui aveva ricevuto il permesso di restare alzato tutto il tempo che voleva.

Era il suo compleanno, e ricordava di essere stato felice, quel giorno.

Anche ora era il suo compleanno, ma non c’erano luci, né dolci, né aveva voglia di restare alzato fino a tardi.

Tanto, anche volendo, non aveva il kimono fatto da sua madre per festeggiare i suoi undici anni e quello vecchio non gli entrava più.

Sasuke osservò gli altri kimono e vide che, nella scatola che conteneva i vecchi abiti di Itachi, c’era quello che il fratello aveva indossato il giorno dei propri undici anni.

Allora si arrabbiò.

Con Itachi, perché aveva avuto il suo kimono degli undici anni.

Con se stesso, perché era ancora così stupido e infantile da preoccuparsi di una sciocchezza del genere.

Però, tutti i suoi tentativi di mostrarsi superiore, non servirono a non fargli lasciare il kimono di Itachi fuori dalla scatola, a riempirsi di polvere.

Who did you meet, my darling young one?
I met one man who was wounded in love,

Kakashi camminava stanco verso casa.

Era buio, pioveva ed era ormai ora di cena; il suo stomaco brontolava affamato.

Un borbottio sommesso, unito al proprio inveire contro l’Hokage e le sue stupide missioni dell’ultimo minuto.

Il suo unico desiderio, adesso, era rientrare alla propria abitazione; mangiare qualcosa, farsi una doccia e buttarsi sul letto a leggere un buon libro.

Sasuke correva verso casa.

Era buio, pioveva ed era ormai ora di cena; il suo stomaco brontolava affamato.

Un borbottio sommesso, unito al proprio inveire contro il tempo e le proprie stupide idee dell’ultimo minuto.

Il suo unico desiderio, adesso, era rientrare alla propria abitazione; farsi una doccia, andare al tempio e passare la serata in compagnia di mamma e papà, proprio come doveva essere.

In fondo, era per loro che era uscito ed era per loro che aveva acquistato quegli incensi.

I ravioli di pesce, invece, erano per lui.

Avrebbe preferito i pomodori, ma al negozio erano finiti, quindi non li aveva potuti comprare.

Era la sera del suo undicesimo compleanno.

Scioccamente, aveva deciso di festeggiarlo.

Scioccamente, aveva pensato di invitare anche gli altri bambini dell’accademia, ma poi si era accorto di non conoscere neppure i loro nomi, eccetto quello di qualche mocciosa particolarmente fastidiosa e di quel ragazzino biondo che non faceva altro che provocarlo.

Così, si era detto che il compleanno andava festeggiato in famiglia, come aveva sempre fatto.

Però non poteva andare al tempio senza un’offerta e aveva finito l’incenso.

Quindi, era corso a comprarlo. Poi aveva sentito l’odore dei ravioli e si era ricordato di quelli che faceva la zia. Erano buoni i ravioli della zia.

Così, ne aveva comprati un po’.

«Stasera festeggeremo tutti assieme.»

Si era detto, ed era stato un po’ contento.

Però poi aveva cominciato a piovere e l’incenso si era bagnato. I ravioli anche.

Sasuke correva, senza accorgersi che anche i suoi occhi erano bagnati e non solo di pioggia.

Kakashi vide una piccola figura correre verso di lui, tra la fitta pioggia.

La scorse, però, troppo tardi perché potesse evitare lo scontro e il bambino cadde a terra, rovesciando i pacchetti che teneva in mano.

«Ehi, piccolo. Ti sei fatto male?»

Domandò Kakashi, porgendo la mano al bambino.

Un’altra seccatura, ma non gli andava di sopportare i piagnistei di un moccioso.

E poi, non aveva nient’altro da fare, no?

«Non sono piccolo.»

Il bambino lo fissò storto.

Si rialzò, senza afferrare la mano che l’uomo tendeva e raccolse i pacchetti.

Lo sguardo triste e rammaricato di fronte al fatto che, ormai, erano zuppi, non sfuggì a Kakashi.

Così come non gli sfuggì lo stemma del clan Uchiha sulla schiena.

Con un sospiro, si chinò ad aiutarlo, raccogliendo l’incenso sparso in giro.

«Grazie.»

Bofonchiò Sasuke, quando ebbero finito.

«Che ci fai in giro a quest’ora, ragazzino?»

«La spesa.»

«Un po’ tardi per andare a trovare i morti, non trovi?»

Sasuke si morse il labbro e distolse lo sguardo.

«Ci vado quando voglio.»

Sbottò.

Kakashi sospirò.

La mano tentennò un attimo sul capo del bambino, indecisa se dargli un’energica scompigliata o meno, poi si ritrasse.

«Andiamo, ti accompagno a casa.»

«So andare da solo.»

«Ti bagnerai.»

«Lo sono già.»

Un altro sospiro; Kakashi scosse il capo e sollevò di peso quel ragazzino indisponente.

In breve, erano arrivati al quartiere Uchiha.

Fu con imbarazzo che Sasuke, dopo aver protestato un attimo sul fatto che sapeva arrivare a casa da solo e che non aveva chiesto il suo aiuto, lo ringraziò.

Indugiò, però, un attimo di troppo nel chiedergli se voleva entrare e, quando si decise, se ne era già andato.

Sasuke rientrò in casa; asciugò l’incenso e i ravioli e andò al tempio.

Quella sera festeggiò il suo compleanno con un po’ più di calore nel piccolo cuore di bambino.

«Auguri, Sasuke.»

«Auguri.»

Fuori, continuava a piovere.

And it's a hard, it's a hard, it's a hard, it's a hard,
It's a hard rain's a-gonna fall.

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Capitolo 6
*** Missing moment V: What'll you do now? ***


Oh, what'll you do now, my blue-eyed son

 

Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
I'm a-goin' back out 'fore the rain starts a-fallin',

I'll walk to the depths of the deepest black forest,

 

Kakashi aveva smesso di aver paura dei fantasmi.

Kakashi continuava, però, a crogiolarsi nel rimpianto.

In fondo, è più facile rassegnarsi alla sofferenza che combatterla.

Aveva ventisei anni e una vita sprecata.

Logorata dalla quotidianità.

Aveva ventisei anni e lo sguardo antico.

Invecchiato da troppe colpe mai perdonate.

Non udiva la voce del suo sensei affermare bonariamente: «Hai fatto del tuo meglio.»

Era sempre stato gentile con tutti, in fondo. Perché lui avrebbe dovuto costituire l'eccezione?

Non sentiva la voce di Rin mormorare con quel suo tono dolce e comprensivo: «Ti voglio ancora bene.»

Era sempre stata una ragazza pronta all'amore, in fondo. Come avrebbe potuto non voler bene a qualcuno?

Non ascoltava la voce di Obito, che gli sussurrava all'orecchio la propria comprensione e un amichevole: «Non è colpa tua.»

Era sempre stato un ragazzo facile al perdono. Perché non avrebbe dovuto fare lo stesso con lui?

Semplicemente, Kakashi aveva chiuso le orecchie al mondo.

Non ascoltava neanche i vivi, perché avrebbe dovuto prestare orecchio ai morti?

 

 

Eppure le orecchie sono fatte per ascoltare.

Ed essere sordi troppo a lungo, può impedirci di ascoltare perfino noi stessi.

 

 

Sasuke aveva compiuto dodici anni.

Il bambino non c'era più; la sua tacca sulla porta aveva raggiunto, ormai, quella di Itachi.

Non sbagliava più un colpo con gli shuriken, né faticava a portare le buste della spesa.

Era il più bravo della classe.

Proprio come suo padre e sua madre avevano desiderato.

Tra poco si sarebbe diplomato.

Tra poco sarebbe diventato un genin.

Tra poco avrebbe ucciso Itachi.

Tra poco.

Forse.

 

Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
Where the executioner's face is always well hidden,

 

Non era felice della scelta del terzo Hokage ma, come al solito, non aveva diritto di veto sulle scelte del “grande capo”.

Poteva solo sperare che quel gruppo non gli desse molti problemi.

In fondo, erano solo tre ragazzini fastidiosi.

Sospirò, scorrendo i nomi dei tre membri della sua squadra.

Passò rapidamente sopra a quello della ragazza – era una brava studentessa all’accademia. Tranquilla e diligente. – dirigendosi su quelli che, col tempo, avrebbe definito: “casi problematici”.

Naruto Uzumaki, il jinchuuriki del Kyuubi e Sasuke.

Sasuke Uchiha.

Ancora un Uchiha.

Di nuovo.

Merda.

 

 

Sasuke era fiero di sé per aver superato l’esame.

Non che la sua promozione fosse in dubbio, naturalmente.

Tuttavia, le mani avevano tremato per un attimo nel posizionarsi per eseguire la tecnica e le ginocchia lo reggevano a stento in piedi, mentre si avvicinava ad Iruka-sensei per ritirare il coprifronte.

Quella sera, a casa, ripassò più volte le dita sul simbolo della foglia inciso sul freddo metallo.

Sorrise, pensando a quanto aveva atteso quel giorno.

Se il clan Uchiha fosse stato ancora in vita, i suoi genitori sarebbero andati a prenderlo all’accademia; si sarebbero congratulati con lui e sua madre gli avrebbe preparato il suo piatto preferito (non che fosse difficile, bastava affettargli i pomodori. Ma erano ottimi quando li tagliava la mamma, proprio perché era lei a farlo.); tutto il clan avrebbe festeggiato il suo diploma e Itachi… Itachi sarebbe stato fiero di suo fratello minore.

Il pensiero di Itachi fece un po’ male proprio in quello strano muscolo che aveva dentro al petto; quello fastidioso che continuava a battere ancora. E ancora. E…

Fissò il coprifronte ancora una volta. Ricordò che anche Itachi ne aveva uno uguale. Corrugò le sopracciglia e lo gettò alla base del letto.

In fondo, era solo uno stupido, inutile pezzo di stoffa e di metallo.

 

Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?
Where hunger is ugly, where souls are forgotten,

 

 

Il gruppo sette era nato, ormai.

Kakashi si era dovuto adattare a quei ragazzi fastidiosi e irritanti, fino ad affezionarcisi.

Aveva conquistato, col tempo, la fiducia di Sakura e il rispetto di Naruto.

Soltanto Sasuke lo trattava sempre con la stessa algida indifferenza.

Quel bambino continuava a non piacergli.

Non sorrideva mai.

Non parlava mai con i suoi compagni, se non per offendere Naruto.

No, decisamente non gli piaceva.

Non era Obito.

E Kakashi continuava a dimenticarsi che, nel clan Uchiha, Obito aveva costituito un’improbabile e magnifica eccezione.

Tuttavia, quel dodicenne dal volto imbronciato e le labbra da gatto continuava ad imporre la sua presenza e a sostituire il viso tondo e sorridente del suo migliore amico.

E quando il passato ritorna, è difficile cacciarlo.

Anche se sotto altre spoglie.

Il ventaglio sulla schiena, in fondo, era lo stesso.

 

 

Kakashi continuava a fare piccoli passi verso Sasuke, ma ogni qualvolta gli si avvicinava, il ragazzo si allontanava di altrettanti.

Sembrava timoroso di avvicinarsi a lui, a quel ninja che aveva – bene o male – sempre incrociato in quei lunghi e difficili anni.

Nella mente, conservava il vago ricordo di una testa argentata, collegata a favole raccontate da una voce amica e parole appena balbettate.

Ma Sasuke non si ricordava di “Tobi-chan”, né del suo: «Kachi baka!» diligentemente strillato con l’euforia dei bambini quel giorno lontano di undici anni prima.

Adesso che era un ninja ed il tempo delle favole era finito per sempre, il suo obiettivo era sempre più vicino.

Itachi era un’ombra in lontananza che si faceva via, via più nitida.

E le sue spalle, ancora troppo grandi e irraggiungibili, non sembravano più così grandi.

 

 

Kakashi tentò in tutti i modi di trattenere Sasuke, in modo da non perdere il suo ultimo legame col passato.

Ma Sasuke non era allegro.

Sasuke non era esuberante.

Sasuke non sorrideva.

Sasuke non era un bambino, perchè la sua infanzia era stata annegata nel sangue.

Sasuke non era Obito.

Però, Kakashi continuava a sperarci.

Stupidamente, testardamente, incessantemente sperava.

Ma neanche lui poteva fare molto per un bambino troppo adulto che insegue, ancora, le spalle del fratello.

E, i bambini, si sa, sono molto creduloni.

Specie quelli che hanno perso i sogni.

Kakashi non capiva che i ventagli non sono tutti uguali, specie quelli di antica famiglia e fatti a mano.

Inoltre, sono anche molto facili da perdere.

Terribilmente facili.

 

 

Oh, what'll you do now, my blue-eyed son?

Where black is the color, where none is the number,

 

 

Kakashi aveva ripreso a svolgere le proprie missioni.

Kakashi aveva ripreso a fermarsi di fronte alla tomba di Obito. Ogni mattina.

Kakashi, di fronte a quella lapide, piangeva ogni giorno il suo amico perduto.

Dopo di che, si recava di fronte al quartiere Uchiha, aspettandosi di sentire i lievi colpi di shuriken contro l’albero, o lo sbadiglio di un bambino che abitava da solo.

Guardava la strada, cercando con lo sguardo un ragazzino non ancora uomo che arrancava, trascinando le buste della spesa.

Si apprestava a tornare a casa e aspettava sempre di andare a sbattere contro un undicenne carico di incenso e ravioli al vapore che correva sotto la pioggia.

Ogni mattina, andava al luogo del ritrovo del suo primo gruppo genin e aspettava il rimprovero seccato del dodicenne indisponente a cui aveva insegnato il chidori.

Ma nulla di tutto questo accadeva e l’unico pensiero di Kakashi, allora, andava al piccolo uomo cui non era riuscito ad insegnare veramente nulla, ma da cui aveva imparato molte cose.

In primis, che i ventagli non sono tutti uguali, né uno è migliore di un altro: sono semplicemente frutto dell’artigiano che li ha intagliati e dipinti.

A seconda della bravura dell’artigiano, possono essere più pregiati o meno, ma ciò non sminuisce il loro valore.

È l’uso che se ne fa, a logorarli.

Se un ventaglio viene usato e apprezzato, se “sente” l’amore di chi lo maneggia, allora non si romperà mai.

Se viene lasciato a se stesso, i disegni sbiadiscono, fino a diventare tracce cineree di quello che erano; la carta di riso si strappa e il legno del manico marcisce.

Kakashi aveva avuto due ventagli e li aveva persi entrambi.

Uno era stato già seppellito, l’altro aveva cominciato a marcire.

L’unica cosa che poteva fare, era sperare di ritrovarlo e imparare a ripararlo.

Anche solo per sentire quel: «Sensei.» che non gli aveva mai concesso.

 

And I'll tell it and think it and speak it and breathe it,
And reflect it from the mountain so all souls can see it,
Then I'll stand on the ocean until I start sinkin',
But I'll know my song well before I start singin',

 

«Kakashi-sen...»

«Sì, Sasuke?»

«Niente.»

 

Il giorno in cui Sasuke aveva abbandonato il villaggio...

 

…pioveva.

 

 

And it's a hard, it's a hard, it's a hard, it's a hard,
It's a hard rain's a-gonna fall.

 

 

E anche questa è fatta.

Grazie a tutte voi per averla seguita.

A presto.

 

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