Assassin's Creed - Genderswap

di Chambertin
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Memory 0.1 origins will out. ***
Capitolo 2: *** Memory 0.2 longed-for peace ***
Capitolo 3: *** Memory 0.3 strange coincidence ***
Capitolo 4: *** Memory 0.4 unbearable visions. ***
Capitolo 5: *** Memory 0.5 ghosts of one's past. ***
Capitolo 6: *** Memory 0.6 skeletons in the closet. ***
Capitolo 7: *** Memory 0.7 change of plans. ***
Capitolo 8: *** Memory 0.8 revelations. ***



Capitolo 1
*** Memory 0.1 origins will out. ***


ricordo 0.1 vecchie origini non mentono.

La strada è affollata come al solito. È una città universitaria dopotutto, cosa mi potrei mai aspettare? Se il mercoledì è il giorno libero per stare con gli amici, il sabato è quello adatto per ubriacarsi.
La musica pesante mi pompa nelle orecchie, nella testa, e un po’, devo essere sincera mi infastidisce anche. Faccio cenno alla barista, una sudamericana penso, e lei si avvicina con un largo sorriso. «Posso sapere come mai sei sempre sola?» mi chiede mentre mi riempie per la terza volta il bicchiere di quella squisita birra rossa.
«Non vengo considerata granché socievole…» è incredibile quanto in fretta io abbia imparato l’italiano.
“Le origini non mentono” mi dice la ragazza affianco a me, io sorrido appena e bevo un altro lungo sorso. C’è un botto, e dei ragazzi cominciano ad urlare esagitati, auguri, parole incomprensibili anche a me in dialetto, e si versano da bere. Italiani. Non si smentiscono mai.
Finalmente mettono una canzone decente. La canticchio e intanto, pagando alla cassa, mi avvio all’esterno del pub. In verità non ho molta voglia di tornare a casa, ho ancora da pulire tutti i mozziconi di sigarette sul davanzale – senza parlare delle merde di piccione – e per di più ho il frigo vuoto.
Le luci artificiali arancioni mi fanno girare la testa. Prendo fuori il pacchetto di Winston Blue e cercando di ripararmi da quel leggero venticello che si incanala come ogni sera in via, ne accendo una. Inspiro a pieni polmoni. Che bella sensazione. Davvero. Fino a qualche tempo fa non mi piaceva inspirare, ma ora è diverso. Ne sento la necessità.
“È cambiato tutto, vero? Sei cambiata anche tu” continuo a non rispondere alla ragazza.
Volto la testa leggermente e con la coda dell’occhio vedo un gruppo di ragazzi, vestiti di nero – o forse blu? – che camminano a schiena diritta, passo fermo.
“Muoviti. Ti aspetto a casa” svolto in una stradina buia, e avanzo fino alla fine. Butto a terra la sigaretta ancora a metà “che spreco” penso irritata. Aspetto qualche secondo, osservando la luce arancione della via principale riflessa sul muretto, cercando ombre sospette.
Ma non arrivano. Provo a rimanere nascosta nella penombra per un altro minuto. E un altro ancora.
Che strano. Solitamente il mio istinto non sbaglia. Inarco un sopracciglio, ma non mi muovo, solo rilasso un po’ le spalle. Non mi piace la situazione, li ho riconosciuti chi erano, riconosco il suono dei loro passi, dalla pressione, dagli stivali, ed è impossibile che non mi abbiano vista venire qua dietro. È impossibile.
Sorrido.
Come immaginavo.
Sono lì, tre, e mi sbarrano la via di fuga – come se fosse l’unica per me – la mano pronta sul manganello al fianco, usare la pistola attirerebbe troppo l’attenzione, soprattutto in una città italiana come quella.
Il primo ragazzo si avvicina a me, e cerca di colpirmi, il primo colpo va a segno, anche il secondo, riesce a buttarmi a terra, e lui ride. Ma che ti ridi? Mi rialzo e anche il secondo comincia a caricare il colpo, questa volta però schivo il primo e disarmo il secondo. Un calcio per aprire la guardia, un pugno sotto il mento per rialzarlo, e tenendo l’arma, un calcio allo stomaco per metterlo fuori uso; posizione di difesa, ricordati, sempre posizione di difesa, cammino indietro per contrattaccare al momento giusto. Ed ecco anche il terzo, mi avvento su di lui a manganellate e quando il primo uomo cerca di attaccarmi, uso il contrattacco letale e facendolo cadere a terra a faccia in giù gli fracasso il cranio.
«No ti prego! Non farmi del male!» mi implora l’ultimo sopravvissuto, in ginocchio, con le mani davanti al viso. Ridacchio. Che monotonia, non credevo che anche fuori dicessero le stesse cose…
«Oh, andiamo Derek. Non crederai davvero che io creda a queste cazzate!» scusate il gioco di parole – l’Agente continua a piagnucolare, parole sbiascicate, impastate dalla paura. Ma non ha paura. Sono addestrati per non averne.
«Te lo giuro! Non dirò a nessuno che sei qui, riferirò che sei riuscita a fuggire, ma ti prego… non farmi del male!» inclino la testa verso destra e abbasso la mano armata per far cadere il manganello a terra.
La strada è così buia che per le persone che passeggiano alla luce dei lampioni è quasi impossibile vedere cosa è successo qui. Speriamo che per domattina sia tutto pulito.
Torniamo a Derek. mi ha chiesto di lasciarlo vivere, cosa dovrei fare? Fidarmi di un ragazzo che una volta era mio compagno?
Mi avvicino a lui, mi abbasso. «La mia risposta è no.» è come una sigaretta, ti da dipendenza, ti inebria quando la senti. I capelli umidi di sudore freddo, la pelle che scotta, la sensazione di stringere con tutta la tua forza una persona ben più robusta di te, ed infine il rumore dell’osso del collo che si spezza. Il ragazzo si affloscia come un foglio di carta bagnato sul mio petto, lo stringo a me, carezzandolo, come farebbe una mamma col proprio figlio dopo che si è svegliato ansimando e urlando da un brutto incubo.
«Requiescat in pace, fratello»

 

  ~~

Cosa posso dire? Questa è la versione revisionata della scorsa ficcy. Non mi piaceva. Per niente.

L'avevo immaginata troppo come film, come web series, come videogioco, tutto tranne che come uno scritto. E quindi mettiamoci
d'impegno e rendiamola migliore! :D

So... spero che chi seguiva e leggeva la vecchia storia, faccia lo stesso con questa :)
Ricordate, fratelli, nulla è reale, tutto è lecito.
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Capitolo 2
*** Memory 0.2 longed-for peace ***


ricordo 0.2 serenità tanto agognata.

 
Come vorrebbe dirgli quello che provava. Ma come poteva farlo?
La luce affievolita della luna filtrava attraverso la finestra aperta e illuminava i profili dei due. Lei, seduta, col cuscino dietro la schiena e lui dormiva bellamente, con quel gatto obeso che avevano trovato un anno prima in Brasile.
Le lenzuola si alzavano e si abbassavano al ritmo del suo respiro, mentre lei lo guardava, incantata dalla sua bellezza, dalla sua dolcezza. E ogni notte si chiedeva se dopo tutto, non fosse stato il caso di ufficializzare il loro amore, ma sapeva fin troppo bene che a Desmond non piacevano quei discorsi, diceva che “fantasticava troppo”, ma l’amava più di ogni altra cosa, e allora di cos’aveva paura?
Sospirò nella notte, e sembrò fare più rumore di quanto si potesse aspettare, perché si portò una mano davanti alla bocca, spalancando gli occhi temendo che quello avesse potuto svegliare uno dei due e quando questo non accadde il cuore cominciò a rallentare il suo passo.
Poco dopo arrivò ad una conclusione semplice, ma efficace, alle le sue domande: Desmond era un uomo.
Sconsolata si rese conto che arrivava sempre a quella conclusione, e non capiva se era un bene o un male, perché sembrava più un tentativo di autoconvinzione piuttosto che una motivazione valida.
Si accoccolò fra le braccia del ragazzo, che rantolò qualcosa, mentre il gatto si spostò a fatica verso i piedi del letto, per poi sdraiarsi a pancia in su.
Prima di addormentarsi, si ricordò di aver dimenticato, per la terza notte consecutiva, di prendere le pillole per dormire, e questo non era certamente un bene.
 
 
Erano le undici passate, e se Desmond continuava a russare a bocca aperta insieme a Fatkin – nome uscito dall’unione di Fatty Pumpkin – Elena invece armeggiava con pentole e mestoli in cucina per preparare quel delizioso pranzo della Domenica che le veniva chiesto da mesi ormai.
Desmond le diceva «Tesoro, hai origini italiane, perché una Domenica di queste non mi prepari qualcosa di tipico?» e lei puntualmente rispondeva con un «Lo farò» e un sorriso dolcissimo. Ma aveva rimandato fin troppo quel giorno.
Con una mano cambiava le pagine sull’I-Pad della ricetta del Gateau di patate mentre con l’altra reggeva la teglia che avrebbe messo nel forno.
Il profumo del pasticcio di maccheroni – chissà perché lo chiamavano così, poi – saliva fino al piano di sopra, ma a parte il gatto, Desmond sembrava non voler scendere.
Elena appoggiò lo strofinaccio con il quale si era asciugata le mani sul tavolo e si tolse le ciabatte prima di salire al piano di sopra. Un’abitudine che aveva da quando era piccola, perché nella sua vecchia casa le scale erano in legno e suo padre la rimproverava sempre dicendole «Sai quanto costano? Vedi di portare rispetto oltre alle persone anche per gli oggetti!» uomo burbero, certo, ma con tanto amore da dare.
Era così leggera che quando camminava sembrava non sfiorare il pavimento e i capelli biondi legati alti le ricadevano in morbide onde dispettose dietro le orecchie.
L’unica luce che proveniva dall’esterno, si intrufolava nella stanza dalle fessure delle imposte blu scuro, creando sul muro opposto strisce chiare alternate da altre scure; alcune di queste andavano ad illuminare anche la figura che dormiva sotto il lenzuolo bianco, delineandone un profilo tonico e ben curato.
Elena si avvicinò al letto, salendoci sopra con le ginocchia.
“Fortuna che non scricchiola…” pensò sorridendo.
Cominciò ad accarezzargli i capelli, delicatamente, passando da dietro l’orecchio fino alla nuca, rubandogli un sorriso e un leggero rantolo.
«Amore, ti ho fatto una sorpresa…» gli sussurrò lei, quasi aveva paura di confonderlo con un tono troppo alto.
Desmond si girò verso di lei, stiracchiandosi neanche fosse stato un bambino, guardandola con un occhio solo, perché la luce gli arrivava addosso.
«Davvero? Sono curioso di scoprire cos’è allora!» lui si avvicinò ancora di più per baciarla, dicendole un «Ti amo» a fior di labbra.
Come dar torto ai loro amici? Dicevano che erano la coppia perfetta, così dolci l’un l’altro, così innamorati! Ogni volta che ce n’era la possibilità Desmond la portava fuori a cena, o Elena tornava a casa prima da lavoro per coccolarlo un po’.
«Wow! L’hai fatto tutto da sola?» esclamò Desmond alla vista del pranzo sul tavolo. Tovaglia bianca, tovagliolini di seta - «attento a non sporcarli troppo, altrimenti l’unto non va via» aveva detto Elena – bicchieri da vino e da acqua e posate di ogni forma e dimensione. Desmond si chiedeva ancora dove le avesse trovate tutte quelle cose!
Non si sedettero uno di fronte all’altro come solitamente si fa ad un pranzo romantico, anzi si misero vicini, per potersi stuzzicare a vicenda con quei piccoli dispetti che si fanno di solito i fidanzati.
«Elena, è stupendo, è delizioso! Davvero! Sublime!» il prosciutto, l’uovo, il pomodoro, la mozzarella, e il loro dolce incontro creava un vortice di sapore incontenibile.
Elena cominciò a ridere, prima trattenuta, poi sempre più forte, ma sempre con quella delicatezza che la caratterizzava così bene.
Il resto della giornata lo passarono così, a ridere, a scherzare, guardarono un film e fecero un giro al mercato.
Niente di più, niente di meno.
 
«Tesoro, posso farti una domanda?» chiese Elena cercando la chiave giusta nel mazzo, alla luce del lampioncino sopra la porta.
«Dimmi tutto» rispose lui mentre le teneva sette sporte di shopping – e meno male che era moderato! – cercando di rimanere in equilibrio.
Lei sembrava indecisa se parlare o no, quasi aveva timore. Ma in fondo sapeva già la risposta, come sempre.
«Sai, mi chiedevo se un giorno, potrei incontrare i tuoi genitori…» Elena non lo guardava, lo sentì appoggiare i vestiti sul tavolo, e poi un rumore di pelle stropicciata, segnale che interpretò come un “deve essersi seduto sul divano.”
Infatti era lì, con i gomiti poggiati sulle ginocchia e una mano sulla fronte, gli occhi chiusi, pensieroso. Scuoteva la testa, poi alzò lo sguardo su di lei, che ancora rimaneva di spalle, e si massacrava il lembo della camicetta rosa pesca, per tensione che si era venuta a creare.
«Elena…»
«Io… sì, lo so… tutto a suo tempo, è che ci tenevo a chiedertelo...»
«…ancora una volta, direi» finì la frase l’altro, grattandosi il mento leggermente barbuto, fino ad arrivare alla cicatrice sul labbro destro.
Rimasero in silenzio, gli unici suoni provenivano dal traffico. Dopo una giornata passata così bene, perché, si chiedeva Desmond, perché doveva rovinare tutto con una semplice domanda del cazzo?
«Perché ci tieni così tanto?» chiese infine, meravigliandosi da solo per quanto risultasse più pacato, di quanto si aspettasse.
«Mah, stiamo insieme da tre anni, tu hai conosciuto i miei, sei riuscito ad integrarti alla perfezione della mia cerchia di amici… E riflettendoci io non conosco né i tuoi parenti, né tanto meno i tuoi amici… mi chiedevo se ti vergognassi di me…» le guance lentigginose si colorirono di rosso, e gli occhi azzurri guizzavano da un punto imprecisato sul pavimento a quelli di Desmond, e di nuovo quando si incrociavano tornava a fissare le piastrelle chiare.
«Mi dispiace…»
Chi lo disse? Lo dissero entrambi, contemporaneamente.
Desmond si alzò dal divano e le andò incontro, abbracciandola, stringendola a sé, tenendola a sé, quasi avesse paura di vederla svanire da un momento all’altro.
«Lo so che ci tieni, ma ora non posso farteli conoscere…» gli accarezzò il viso diafano, asciugandole una lacrima col pollice «Ehi… per inciso, io non mi vergogno affatto di te, voglio che questo sia ben chiaro. Ti amo, sei una persona fantastica, e non potevo trovare di meglio, Elena, non dimenticarlo mai.» cominciò ad accarezzarle i capelli, facendo tanti piccoli boccoli sulle dita; si poggiò con la fronte sulla sua e le sorrise radioso, come per volerne rubare uno anche a lei – cosa che effettivamente accadde – poi si baciarono.
Ci si chiede ancora come fanno gli innamorati a cambiare umore così velocemente, da felici a depressi, ad arrabbiati col mondo, per tornare a sorridersi come prima, se non di più. Forse avevano ragione quelli che dicevano che le discussioni fortificano un rapporto. Forse non c’è una spiegazione logica, solo sono innamorati.
«Non dimenticarti le pillole stasera»

  ~~

Aaah! Che tortura! Che stanchezza, credo che scrivere questi prii capitoli sarà un disastro totale, per la miseria! Non riesco a concentrarmi e
scrivere un capitolo in un giorno, e se anche a scuola mi vengono idee e le appunto su un quaderno poi quando le rileggo a casa mi fanno cagare! D:
Beh... Anyway, mi piace vedere un Desmond che ha superato - ma ne siamo sicuri? - i suoi traumi, e mi piace tantissimo vederlo felice, finalmente :)

Salute e pace e che la Luce Divina ci guidi sempre!

AH! Elena non si legge con la pronuncia italiana ma si legge ELÉNA! :D 

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Capitolo 3
*** Memory 0.3 strange coincidence ***


ricordo 0.3 strane coincidenze.

Due Sabati al mese si era preso quell’impegno – non sa ancora se per Elena, o perché gli mancava qualcosa. Poteva correre, e si sfogava; poteva spintonare la gente, e far finta di niente; eppure se avesse voluto, avrebbe anche potuto vedere, ma da tempo ci aveva rinunciato. Poi non sarebbe stato corretto.
Corse fra due ragazzi, superandoli senza nessuna fatica, concentrato sul suo obiettivo; un terzo provò a farlo cadere, arrivandogli addosso da destra, ma lui incassò il colpo e accelerò il passo; mancavano solo pochi metri, gli unici ostacoli erano tre ragazzi che lo aspettavano in posizione di difesa. Non ci pensò due volte: con uno scatto verso sinistra li schivò e calciò il pallone che con una curva quasi perfetta centrò la porta nell’angolo in alto.
I compagni di squadra lo sopraffarono, c’era chi lo abbracciava, chi lo picchiava amichevolmente, complimentandosi per il goal appena fatto, mentre la piccola folla dei Columns Compilation esultava alzandosi sugli spalti.
In terza fila, Dean e Annabell applaudivano fino a farsi venir i palmi delle mani rossi, mentre Elena sorrideva contenta – ma era evidente che si tratteneva dall’urlare al mondo intero che quello era il suo fidanzato!
«Oh, Misericordia di Dio! Desmond è instancabile!» aveva detto Annabell, sedendosi nuovamente affianco a lei.
«Hai ragione! È un piacere vederlo così felice!» rispose l’altra mentre si portava una ciocca di capelli biondi dietro l’orecchio, arrossendo leggermente.
«È un piacere averlo in squadra, altroché!» puntualizzò Dean, dandole pacche amichevoli sulla gamba esile. Fosse stato un altro ragazzo, molto probabilmente Desmond gli avrebbe spezzato il polso, ma era risaputo che Dean fosse innamorato del portiere della squadra, Jean Mark, e da quel che si vociferava, era anche ricambiato!
Elena spostò il suo sguardo da Annabell che si accingeva ad aggiornare il risultato – 3 a 0 – su Twitter, a Dean, che lottava con quella leggera brezza per accendersi una sigaretta, a Desmond, in campo, che anche dopo due goal simili, continuava a correre, apparentemente, senza accusare nessuna fatica.
La partita finì appena prima che il sole tramontasse, con un risultato di ben cinque goal per i Columns e uno per gli sfidanti. Più soddisfatti che mai esultarono a centro campo, con il loro motto «Per Madlen!» - il significato rimarrà oscuro a tutti coloro che non fanno parte della squadra – per poi avviarsi verso le panchine ed infine negli spogliatoi.
Desmond rideva con i suoi compagni e poco prima di entrare, col borsone in spalla, nello spogliatoio venne richiamato da alcuni di loro.
«Ehi, Des! Torna qui!»
«Sì, dobbiamo dirti una cosa importante!» aggiunse un secondo.
A primo impatto, Desmond, pensò che volessero rimproverarlo per quel fallo che aveva fatto al ventitreesimo con il numero dodici.
«Senti, Des, ne abbiamo parlato, e siamo arrivati ad una conclusione unanime» dichiarò Jean Mark, mentre una parte della squadra batteva le mani sulla panchina per creare un sottofondo di rulli di tamburi e l’altra emanava “oh” di suspance. Desmond era sempre più confuso.
«Tu non ti vedi mentre corri, ma sembra che tu non abbia mai fatto altro nella vita!» all’improvviso immagini che pensava aver rimosso completamente, riaffiorarono una dopo l’altra, troppo velocemente per distinguerle l’una dall’altra. Immagini di città lontane, di sangue, di morte, e ancora di scalate e salvataggi, e di oggetti familiari, troppo familiari, tutto questo gli fece avere un capogiro, e si sorresse a Jean Mark, con una mano.
Il portiere gli tirò un pugno amichevole – e per inciso aveva ancora i guantoni – su una spalla, e gli porse la fascia rossa con la scritta a stampatello “CAPITANO” in caratteri neri.
«Ottimo lavoro, Capitano Chiabrera

La serata Desmond la passò stando a pensare ancora a quello che era successo poche ore prima. Quelle immagini che era convinto non avrebbe più rivisto – non aveva neanche più incubi! – gli tornavano alla mente come piccoli funghetti.
Le voci degli altri gli arrivavano alle orecchie ovattate, le risate attutite, mentre quasi automaticamente, si portava alle labbra i bocconi dal piatto, e fissava un punto non definito sulla tovaglia color panna.
«Sì, oggi Desmond se l’è proprio meritata quella fascia là!» esclamò Jean Mark bevendo un altro lungo sorso di vino rosso.
«Oh, davvero! Da quando c’è lui in squadra non perdiamo più una partita!» rispose a tono Dean imitando l’altro, anche se fra i due, era quello messo peggio.
«Suvvia, ragazzi, non esagerate!» fece Elena apprensiva, ma i due si misero a cantare – appassionatamente, aggiungerei – inni di vittoria quasi a squarciagola.
Elena scosse la testa fra lo sconsolato e il divertito, poi posò lo sguardo su Desmond che era stato tutto serio per tutta la serata.
«Des…?» fece lei la prima volta, ma non ricevette risposta.
«Desmond…?» alla seconda volta, lui reagì scuotendo leggermente la testa e spalancando gli occhi come per dire “cosa…?”
«Stai bene, tesoro?»
«Oh, sì, certo… io… pensavo alla partita» e sorrise, forse neanche tanto per convincere lei, ma più se stesso.
Elena annuì col capo, ma si vedeva lontano un miglio che non gli credeva. Cominciò a sfogliare il menù dei dessert con un sopracciglio inarcato.
«Ovvio, Capitano Chiabrera…» fece lei stizzita.
«Dai, Elena, perdonami, è che… sono stanco e ho mal di testa…»
«Ancora con l’emicrania? Era da un po’ che non ti veniva…»
«Hai ragione… non so, mi è cominciata appena finita la partita… dev’essere stato il sole…» cercò di giustificarsi Desmond, scegliendo un gelato al limone e fragola come dessert.
«Sì, può essere… abbassate la voce voi due!» richiamò lei, dopo che Dean e Jean Mark ebbero fatto un acuto più alto del dovuto, facendo girare buona parte delle persone nel ristorante.
 
Appena arrivati a casa Desmond lanciò la giacca sul divano, coprendo Fatkin, il quale miagolò e sbadiglio facendo capolino con la testa da sotto.
Avanzò verso la cucina, e accendendo solo la luce sopra i fornelli, cominciò a far bollire l’acqua in un pentolino, per farsi una tisana calda – e rilassante.
Elena lo guardava: «Perché stai così? È per la questione del Capitano?» chiese infine lei. Capire cos’aveva quel ragazzo era come giocare a mosca cieca in autostrada. Devastante. Letteralmente, devastante.
E Desmond non sapendo come rispondere, le diceva che aveva ragione. Anche se sappiamo tutti che non era così, che aveva un problema ben più profondo, e radicato dentro di sé, piuttosto che un semplice titolo in quello che non era altro che un passatempo.
Prese due tazze e ci versò la bevanda fumante, per poi darne una ad Elena, che non rifiutò.
Si era messa con un piede sotto la gamba, poggiata alla sedia, un po’ ricurva su se stessa.
Desmond osservava attentamente le figure che il fumo creava nell’aria, sollevando un angolo delle labbra e sospirò.
Bevvero entrambi un sorso.
«Ma, Des… se non vuoi farlo, non devi accettare per forza…»
«Non è quello, mi fa solo che piacere, poter essere il capitano dei Columns Compilation!» rispose lui, sconsolato. “andiamo, perché continui questo discorso?” continuava a pensare Desmond. Non era giusto, lei lo amava, e avrebbe continuato a farlo, anche se avesse saputo tutta la verità.
Sospirò nuovamente, buttando la testa all’indietro. Dalla finestra riusciva a vedere le stelle, luminose, e le fronde degli alberi si muovevano leggermente, al tocco di quella brezzolina così tipica della primavera.
«Va bene, quando vuoi, io sono su… ti lascio le pastiglie sul comodino» gli disse Elena alzandosi, lasciando buona parte della tisana nella tazza.
Desmond la fermò, afferrandola per un braccio, la tirò verso di sé e la bacio.
«Conosco io il rimedio migliore» e le sorrise, baciandola ancora.

  ~~

Wait... WHAT? Chiabrera? 
Sì. Chiabrera u.u

Ya-huu! Bon, bella gente! E' divertente vedere Desmond che corre dietro ad un pallone, mentre fa il gioco di squadra - certo come no! - e libero da ogni pensiero
(...la tua vita sarà! Chi vorrà vivrà, in libertà! Hakuna Matata!) 
Er... ok. Dicevamo? Ah, ok, si. Volevo premettere che non penso che questa Sequenza Genetica sarà lunghissima ok? Perchè essendo l'introduzione ho intenzione 
di mettere solo i ricordi più importanti ok? (E il calcetto è importante? ._.) sì lo è, perchè intanto sono venute fuori diverse cose! 
Ok, mentre il gatto ha deciso di suicidarsi, affacciandosi dalla finestra del secondo piano, vi saluto, sperando che anche questo capitolo vi sia piaciuto :)

Salute a pace, fratelli, e che la Luce Divina ci guidi sempre! <)

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Capitolo 4
*** Memory 0.4 unbearable visions. ***


ricordo 0.4 visioni indesiderate.

 
Sapevo che questa città avesse la fama della nebbia più fitta d’Italia, ma non immaginavo fino a questo punto! Fuori dalla finestra si vedono a malapena i muri delle case dall’altra parte della via. E come se non bastasse ha cominciato anche a piovere, riducendo ancora di più la visibilità. Sembra di essere nel nulla più totale, le luci dei fari si disperdono nella nebbia e le persone sembrano solo ombre indistinte, come fantasmi di giorno.
Una folata di vento mi colpisce in piena schiena gelando le goccioline d’acqua che scendono dalle punte dei capelli lungo il collo per poi fermarsi sull’asciugamano bianco attorno alle spalle, facendomi rabbrividire.
Mi avvio verso il bagno, infilandomi una canotta presa a caso sul divano.
«Sei stata brava, Astrid» si poggia al muro affianco a me con una spalla, incrociando le braccia. Mi guarda con quel mezzo sorrisetto così normale sul suo volto, ma la ignoro. La devo ignorare.
«Anche se, devo ammetterlo, un po’ poco femminile» continua lei avvicinando il pollice e l’indice della mano destra, chiudendo un occhio, giusto per rendere l’idea di “poco”. Mi chiedo come mai gli italiani abbiano questa mania di gesticolare. A volte è alquanto irritante.
Finisco di lavarmi i denti, sciacquandomi la bocca al rubinetto. Mi volto dandole le spalle, serro i denti e… Signore, questo fischio nelle orecchie è davvero fastidioso!
«Oh, andiamo, hai intenzione di ignorarmi per il resto della tua vita?»
Sì. È proprio il mio obiettivo. Lasciami in pace, non vedi che non mi sento bene?
«Almeno ti faccio compagnia, non credi?»
Sono stata sola per anni riuscendo a cavarmela, perché ora dovrebbe essere diverso? Ti prego, vattene, non mi sento bene!
Mi siedo sul divano, e tenendomi le mani sulle orecchie, alzo lo sguardo sofferente su di lei, in piedi vicino alla parete. La sua figura è quella di sempre, nessun segno del tempo che passa, vestita sempre allo stesso modo – il mantello che le scende fino alla caviglia, annodato per evitare che strisci a terra, i pantaloni attillati che finiscono dentro gli stivali, la casacca, sotto lo smanicato legato in vita da una cintura con inciso sulla fibbia quel simbolo che ormai è diventato la mia ragione di vita – stesso taglio di capelli, stessa voce, stessa consistenza evanescente.
Abbasso nuovamente lo sguardo, passandomi le mani sul viso. Ho cominciato a sudare freddo.
Guardo l’orologio al polso destro. Sono le 9:50. È qui da venti minuti o poco meno.
“Finché non superano i dieci secondi, non c’è da preoccuparsi!” dicevano, “Non preoccuparti, vedrai che non ti succederà niente” dicevano! Cazzate, anche dieci secondi erano devastanti, figuriamoci ora!
Si avvicina, si siede di fronte a me, accavallando le gambe con fare molto femminile – molto diverso da me, effettivamente – io sobbalzo, mi fa una strana sensazione averla così vicina a me. Mi mette a disagio, o forse mi spaventa… o più semplicemente la mia parte razionale si rifiuta di condividere con il mio subconscio questo delirio.
«Astrid…»
Un rumore da fuori mi porta alla realtà, facendomi alzare di scatto, urtando il tavolino in legno fra i due divanetti rossi. Mi avvicino al vetro della finestra che da sul balcone – che per inciso sarebbe più opportuno chiamare porta-finestra, credo.
Sento un sibilo nell’aria, qualcosa di simile ad una freccia appena scoccata… ma chi giocherebbe mai a tiro con l’arco adesso? Poi un sasso mi manca per poco e d’istinto mi abbasso, osservando la sua traiettoria che si blocca dentro l’appartamento ai piedi di una lampada.
Piena di rabbia lo vado a raccogliere e gridando nella nebbia ogni tipo di imprecazione, lo lancio indietro.
«Oh, scusa Astrid, non credevo fossi lì fuori!»
Questa voce. La conosco. E impallidisco.
«Mi… mi scusi!» mi affretto ad aggiungere, mentre calo nel vicoletto a sinistra dell’abitazione, per evitare occhi indiscreti, una misera scaletta in legno. Non esiste una vera e propria entrata per la stanza al primo piano – non che a me servisse è chiaro – così per far salire quell’unica persona di cui mi fidi in questa città, mi sono arrangiata rubando questa scaletta da qualche parte.
«Figurati, Astrid. Comprendo la tua reazione» l’ombra si fa sempre più nitida fino a definirsi in un signore anziano, sulla sessantina, con un paio di occhiali rossi e tondi sul viso e una leggera barba brizzolata sul mento e sulle guance.
Il Dottor Barigozzi.
Il medico luminare della città. L’unico che abbia vinto premi importanti per l’invenzione di macchinari ospedalieri in simbiosi con tecnologie avanzate provenienti dall’est Europa.
C’è chi pensa sia un transumanista, ma è una sciocchezza. A parer mio è solo un vecchietto con tanto carisma e tanta ambizione.
«Si faccia aiutare, Dottore» allungo le braccia per cingergli le spalle, e nonostante la sua mole sia decisamente molto maggiore alla mia, sento che in parte cerca il mio appoggio.
«Oh, grazie, grazie!» fa lui sistemandosi il soprabito nero reso lucido dalla fine pioggerellina che cade incessante da questa mattina.
«Si figuri!» con un cenno della mano lo invito a varcare la soglia della porta-finestra, mentre con l’altro braccio continuo a sorreggerlo.
Lo faccio accomodare su uno dei due divanetti rossi sgualciti – e un po’ impolverati – e io mi siedo sul secondo, esattamente di fronte.
Segue un silenzio imbarazzante, mentre io mi strofino le mani e muovo freneticamente il piede, e il dottore si asciuga le lenti degli occhiali con un lembo del lupetto, dopo essersi tolto il soprabito e averlo piegato minuziosamente.
«Mi dica, Dottore... non l’aspettavo prima di tre settimane» decido di interrompere quel silenzio andando direttamente al punto, perché non nego di essere preoccupata nel vedere la sua presenza proprio qui, proprio ora, quando è solito farmi visita solo quando è strettamente necessario.
«Oh… capisco. Ma vedi sono venuto a conoscenza di alcuni fatti che potrebbero stravolgere i tuoi piani, e i tuoi tempi, temo…»
Rimango leggermente a bocca aperta tanto che sono incredula a quelle parole. Non mi aspettavo tanta franchezza!
«Ma ora passiamo alla tua visita» non mi da neanche il tempo di chiedergli qualcosa che dalla borsa tira fuori uno stetoscopio e un oggetto metallico, rettangolare di cui non ho mai saputo il nome.
«Mi scusi, Dottor Barigozzi… ma cosa intendeva dire con “stravolgere i tuoi tempi”?» non nego che la mia voce trema.
«Suvvia, Astrid, Credi che non sappia cosa è successo ieri sera?» domanda lui alzando lo sguardo dal mio polso destro alla felpa buttata a terra ancora macchiata di sangue.
Deglutisco.
Il dottore continua a tastarmi il polso mentre con lo stetoscopio passa da una parte all’altra del mio petto.
Mi guarda nuovamente negli occhi con un sopracciglio inarcato.
Come potrei riuscire a controllare il mio battito cardiaco dopo aver saputo una cosa del genere?
Una marea di pensieri mi pervade la mente. Che non mi possa più fidare di lui?
No, è impossibile! Avrebbe già portato gli Agenti qui. E invece non l’ha fatto.
Mi lascio sfuggire un sospiro di sollievo.
«Ottimo, sembra che il tuo fisico sia in perfetta forma!» afferma il dottore, poggiando con cura lo strumento sulla borsa alle sue spalle.
“Meno male”
«Astrid, come va con le visioni?» improvvisamente sento tutta la tensione del momento sulle spalle, sulle braccia, sento l’umidità proveniente da fuori appicciarsi ad ogni mio centimetro di pelle. Lo fisso negli occhi per un solo istante, poi sposto lo sguardo un po’ più a destra, verso l’angolo della stanza.
Non bene.
Non mi rendo conto se rispondo talmente piano da non rendermene conto o se non parlo affatto.
 «Circa quanti minuti?» non rispondo. Continuo a guardare oltre le spalle del dottore, al punto da farlo girare dalla curiosità.
Lei è lì appoggiata al muro, con le gambe incrociate che si fissa un po’ le unghie e un po’ le ciocche di capelli. Un brivido mi percorre la schiena e torno a fissare l’uomo di fronte a me.
«Solo oggi, compresi questi cinque minuti? Venticinque minuti.» cerco di fare un po’ d’ironia, anche se in realtà non sarebbe proprio il caso.
Il dottore muove le sopracciglia in così tante espressioni da non capire più cosa pensa. All’inizio le inarca, sorpreso, poi le aggrotta, preoccupato, poi ne inarca uno solo, pensieroso, portandosi una mano sul mento lisciandosi quel po’ di barba che ha in viso.
«Okay, allora ti ho già prescritto nei mesi scorsi delle pillole di clozapina, ma a questo punto, se quello che dici è vero, dovrai assumerne con un dosaggio più alto.»
Io lo ascolto, osservandolo mentre su un foglio scrive il nome del farmaco e la quantità che devo prenderne.
Rinfodera la penna nel taschino interno della giacca accanto a lui e si appoggia allo schienale del divano, accavallando le gambe.
Dopo un lungo sospiro si toglie gli occhiali rossi.
«Astrid, riguardo a quanto ho detto prima sul “stravolgere dei tuoi tempi”…» ecco sì, mi dica «…l’arrivo degli Agenti Abstergo ieri sera, non è stato puramente casuale. Ho motivo di credere che l’hack non abbia funzionato correttamente.»
Giro il polso sinistro per guardare inorridita il simbolo del mio declino. Stringo il pugno con forza tanto da sbiancarmi le nocche, da lasciarmi quattro piccole lunette sui palmi delle mani.
«Com’è possibile?» la voce esce roca, continuando a fissare il polso.
«Non lo so. Sta di fatto che, mi rincresce dirlo, devi andartene. Per questo sono venuto qui proprio oggi, in modo da farti un’ultima visita prima che tu parta.»
«E dove andrò?» anche la figura evanescente si avvicina incuriosita dalle parole del dottore, a passo fermo, ancheggiando sinuosamente, con le braccia incrociate sotto il seno.
La guardo per qualche istante negli occhi trasparenti, quasi senza accorgermene, come per cercare un supporto.
Digli qualcosa.
Ma cosa?
Qualunque cosa!
«Non posso andarmene. Appena entrata in un qualunque aeroporto non passerebbe un’ora che già mi rintraccerebbero!» dico portandomi le mani fra i capelli. Quel fischio assordante non è ancora passato, maledizione!
Ho bisogno di alcol, devo bere. Avverto la necessità nel mio corpo di farmi non so quanti cicchetti per riuscire a farmi una ragione di tutto quello che sta succedendo.
«Infatti non te ne andrai in aereo.»
«Come, prego?» rimango stupita dall’affermazione dell’uomo. Anche perché non capisco, l’aereo è il modo più veloce di viaggiare – e scappare!
«Come dici giustamente tu, Astrid, se prendessi l’aereo l’Abstergo non esiterebbe a farlo saltare mentre decolla ignorando completamente che sopra ci possano essere persone civili. Quindi…» comincia lui con un tono sicuro, di chi sa il fatto suo. «quindi, viaggerai in autobus, e in nave.»
Autobus? Nave? Sta scherzando spero…
«E dove dovrei arrivare
«Non dove, bensì da chi devi arrivare. E tu conosci bene la risposta»

  ~~

Ebbene sì. Dopo non so quanto tempo su questo dannato capitolo sono riuscita a completarlo, e devo dire che mi ritengo anche abbastanza soddisatta!
E' l'1:11 (porta fortuna?) e non ho molta voglia di scrivere tanto nell'angolo della castagna, quindi passiamo subito col ringraziare tantissimissimo quella
donnah chemi ha aiutato a far uscire questo capitolo: Relya Lestrange!
Grazie amica mia :') (CARRY OH-OH-OH-OH-ON!)
Poi ringrazio la Rastaban_ che da facebook è passata a commentare questa prima sequenza genetica (:
Comunque la verità è che non l'ho riletto, quindi potrebbero esserci molti errori di grammatica, anche perchè finire un capitolo a quest'ora per non perdere l'ispirazione è un colpo di genio (?)

Alla prossima, salute e pace!

~

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Capitolo 5
*** Memory 0.5 ghosts of one's past. ***



Mentore, ti considero.
Solo grazie a te
dal nulla, esce il tutto.

ricordo 0.5 fantasmi del passato.
 
Le dita di Desmond scivolavano delicatamente sul corpo di Elena, seguendone ogni lineamento; partivano dal polso, proseguendo lungo tutto il braccio, fino all’incavo del collo – gli pareva così dannatamente fragile – e mentre saliva ancora poteva sentirle il battito del cuore, più veloce rispetto al solito.
Gli venne da sorridere, posando appena le labbra su quelle di lei, sottili e morbide.
Elena strinse le lenzuola azzurre tra le mani affusolate, mentre Desmond le sussurrava parole affettuose vicino all’orecchio, provocandole fugaci brividi lungo tutto il corpo.
Quelle stesse lenzuola lasciavano trasparire alla luce della luna un fisico tonico e ben curato sovrapposto al suo, che incurvò leggermente per far si che il braccio di Desmond le scivolasse sotto la schiena nuda, che ancora una volta si stupì di come il corpo di Elena potesse essere così fresco, quando il suo si accendeva di più ogni minuto che passava.
Elena gli passò le dita sulle labbra appena socchiuse, mentre lui assaporava quel tocco fino in fondo, suscitandogli sul dorso sensazioni simili al gusto di frutti dal sapore agrodolce, e quando si soffermò delicatamente sul lembo di pelle più chiaro, sulla destra, che gli attraversava le labbra in verticale, lui d’istinto le prese la mano e chinando il capo baciandole il palmo, ad occhi chiusi.
Né l’uno né l’altra desiderava di più, bastava quella dolcezza per rendere tutto così bello. Ancora più bello.

 

 
«Ehi, guarda là!» lei prese sotto braccio il ragazzo, che più che starla ad ascoltare sembrava intento a fare il possibile per leggere la prima pagina del “El Paìs”.
«Va bene che sono poliglotta, ma se continui a tirarmi da una parte all’altra, come faccio a leggere le notizie importanti del mondo spagnolo?»
«Dai, dimmi qualcosa di questa chiesa!»
«Questa chiesa, oh, questa chiesa è solo la Cattedrale di Granada.» fece lui sistemandosi gli occhiali sul naso, rimettendo il giornale nella tracolla di cuoio. «Prima del 1492, Granada era parte integrante del Sultanato, e il suo sultano era il Boabdil – non ti sto a dire il nome intero perché tanto non lo capiresti - ventiduesimo della dinastia dei Nasrí, che però fu anche l’ultimo...»
Per la verità neanche lei lo stava ad ascoltare poi più di tanto; si guardava intorno, le case, i colori, teneva il mento in su e sorrideva come una bambina.
«Oh, guarda! Lì c’è qualcosa che potrebbe interessarti!» e indicò un bar, sulla cui tenda rossa spiccava un “Seite mil café” di un bianco accecante. Lui si fermò e osservò il piccolo locale: all’esterno sotto quella tenda c’erano cinque tavolini, abbinati a due sedie, in ferro battuto anch’essi di colore bianco, le tovaglie erano arancioni e gialle, di un tessuto a trama larga, quasi grezzo, decisamente in contrasto con la finezza di quel piccolo angolo di paradiso.
«Tu sei proprio sicura, eh? Forse ne sei più interessata te, non credi?»
«Beh dai, magari fanno anche del tè!»
«In un bar, che si chiama Settemila caffè, ovvio, fanno il tè»
Il ragazzo prese fuori dalla borsa il portafoglio in cuoio nero della Saint Laurent Paris e controllò quante monetine gli rimanevano; compiaciuto dal risultato entrò nel bar mentre la ragazza si sistemava seduta al tavolino subito a destra dell’entrata.
Il barista era un ragazzo giovane, alto dai capelli corti castani e un sorriso sempre sul volto, con uno strofinaccio puliva un bicchiere e guardava alla televisione la partita Valencia-Granada ridendo di come un calciatore si era lanciato a terra per avere un calcio di rigore.
«¿Cuánto cuesta un café en este bar?» la pronuncia del ragazzo era pressoché perfetta, tale da far credere al barista che fosse proprio spagnolo, ma quando abbassò lo sguardo dallo schermo al cliente che aveva appena parlato si ricredette. Perché? Perché uno vestito così bene poteva essere solo un inglese.
«Cuesta 1,19 euros como en todos los otros bares de Granada, señor. Es la ley.» gli rispose indicando il fast-menu affianco al battitore di cassa, dove erano elencati tutti i tipi di caffè disponibili in quel bar.
Non erano settemila, constatò lui.
«¡Cuál fortuna! Tengo basta dinero por un café solo... ¿Por ventura me puede preparar una taza de té?» Sapeva quali fossero i gusti dell’amica, e sapeva fin troppo bene che il caffè lei lo voleva rigorosamente amaro. Quindi quale prendergli se non un caffè nero corto, servito in una tazzina piccola? E lui? Beh, lui del caffè non ne coglieva l’essenza, ma il tè, oh il tè, quello era il suo tesoro, la sua ragione di vita, e quando il barista gli porse un altro cartoncino plastificato con sopra tutti i tipi di tè – cinque, per l’esattezza – scelse il più comune tè al limone.
«Pero el té costa 1,50 euros, ¿tiene basta dinero también por aquél?» scherzò il barista, dandogli le spalle per usare la macchinetta del caffè.
«¡Es importante que me prepare este benedetto tè!»
Il barista rise di gusto all’affermazione porgendogli il vassoio con sopra la tazzina di caffè, un contenitore di zuccheri dalle fragranze più stravaganti, una ciotolina con diversi stuzzicherie, una tazza grande con solo il filtro dentro, versando infine l’acqua calda in una caraffina coprendola con un piccolo coperchio per evitare che i vapori uscissero e la facessero raffreddare troppo in fretta. «¡Aquí, hasta luego!» il barista lo salutò, e lui fece altrettanto.
Quando uscì col vassoio in mano, la ragazza stava scrivendo velocemente sulla tastiera qwerty del suo BlackBarry chissà che cosa; ormai quel cellulare era diventato vecchio per molte persone, ma per lei no, era un telefono molto più maneggevole, i tasti erano tutti lì e anche se piccoli riuscivano a soddisfarla molto di più.
«Saresti perfetto come cameriere, sai?» lo prese in giro mentre si sporgeva dal suo posto per rubargli una nocciolina.
«Non sei simpatica»
«Oh, andiamo, sto imparando dal migliore!» gli rispose lei ammiccando, mentre cominciava a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia.
Nonostante fosse metà Novembre, la giornata era calda e quanto meno accettabile, infatti il ragazzo si tolse la sua giacca blu nuova e scoprì una camicia azzurra a maniche lunghe azzurra – che in realtà, aveva notato la ragazza, con il colore dei suoi capelli stonava in maniera esponenziale, ma non gliel’aveva mai detto, anche perché l’importante è “saperli portare i vestiti” e lui, oh, se lo sapeva fare.
«Il tè costa più del caffè qua» osservò lui, sorseggiando dalla tazza in maniera molto professionale, atteggiamento che fece sorridere l’altra, perché le ricordava momenti felici passati quando ancora erano tutti insieme, quando ancora potevano veramente definirsi squadra.
«Mi chiedo perché dobbiamo sconvolgergli la vita, ancora una volta» cominciò lei guardando il fondo della sua tazzina di caffè. C’era chi sapeva interpretarli, quei fondi, ma non ci aveva mai creduto fino in fondo; anni prima – molti anni prima – ci aveva provato, ma oltre a spillarle un fottio di soldi, quella signora le aveva detto che si sarebbe sposata, avrebbe avuto due bellissimi bambini e si sarebbe accomodata in una casa dove avrebbe vissuto di rendita per il resto della sua vita. Invece?
Lui rimase in silenzio, preferendo continuare a leggere il giornale.
Quando parlò, la sua voce era pacata, quasi distaccata, e non alzò gli occhi dalla pagina della borsa estera «non abbiamo altra scelta» aveva detto.
«Sì, ma sono passati cinque anni! Si è rifatto una vita, è felice ora! Cosa ti fa credere che ci ascolterà?» lei alzò la voce, togliendogli il giornale da sotto il naso e finalmente lui la guardò, si tolse gli occhiali e cominciò a pulire le lenti col tovagliolo di stoffa. Quello era il segnale che stava per attaccare con la sua predica intellettuale.
«Non abbiamo altra scelta» ripeté, prendendo dalla borsa in cuoio un I-Pad e un taccuino grigio «anche io non vorrei arrivare a tanto, ne ha passate tante, troppe, per i miei gusti»
lei sapeva che ci era affezionato, perché in fondo specialmente nell’ultimo periodo avevano legato parecchio, prima che tutto si rompesse.
«Ma abbiamo questa» continuò lui, accedendo alle sue mail per visualizzarne una in particolare: niente di che, una semplice mail di spam; poi aprì il taccuino e andò alla pagina segnata da un segnalibro colorato: era piena di segni a matita, parole cancellate, lettere, numeri, simboli, e ce n’erano un paio cerchiati in rosso e sottolineati un infinità di volte.
«Subject  »
Il simbolo che aveva cambiato la vita di tutti loro; ma in realtà cos’era? “Il logo di una casa farmaceutica importante” avrebbero risposto in tanti; ma, no, loro sapevano cos’era e cosa significava davvero, e di certo non era solo una casa farmaceutica.
«Però non sappiamo se si riferisce proprio a Desmond» esclamò la ragazza puntando il dito sulla parola cerchiata.
«È vero, infatti credo si riferisca a se stesso» col dito fece scivolare verso il basso la mail, alla fine, e girò pagina sul taccuino «qui in questo punto, cita l’Animus, e una città italiana – che ancora non ho identificato – ma che sono sicuro non sia né Firenze, né Roma, né altre città che abbiamo avuto occasione di conoscere in passato»
«Di conseguenza non si riferisce ad Ezio»
«Esatto»
«Allora di chi parla?»
«Questo non lo so ancora, e credo non lo dica neanche in verità» lui scosse la testa, sconsolato, poggiandosi allo schienale della sedia, a braccia conserte
«Ma se l’ha mandata proprio a noi ci sarà un motivo, o no?» chiese la ragazza, avvicinandosi il taccuino.
«Sicuro» fece lui puntando una parola scritta in rosso «ci sta chiedendo AIUTO»
 
 
Quando Elena aprì gli occhi, Desmond già non c’era. Era strano, ma quella notte proprio non l’aveva sentito né alzarsi, né uscire di casa, ed era strano perché ogni volta dopo il bacio sulla tempia che le dava, lei fingeva di continuare a dormire per poi alzarsi e guardarlo dalla finestra chiudersi il cancello alle spalle per poi sparire dalla sua visuale.
Rimase prona sul letto, con le braccia sotto il cuscino e la testa voltata verso destra, dalla parte di Desmond, dove adesso russava Fatkin muovendo le sue piccole orecchie ad ogni minimo rumore.
Si sedette a bordo del letto, e si infilò ai piedi scalzi un paio di calzetti per poi alzarsi e scendere in cucina. L’orologio a muro segnava le dieci e venti; l’aveva montato suo padre, che poi montato forse non era proprio la parola più adatta, perché il meccanismo era inglobato nel cartongesso e le lancette sembravano muoversi per magia puntando sui numeri dipinti direttamente sul muro con una grafia elegante e minuziosa, e ad Elena piaceva così tanto perché le ricordava i bei momenti passati con lui, di quando credeva che con un bastoncino regalatele a Natale potesse far spostare quelle lancette nel nulla. Sorrise mentre prendeva dalla lavastoviglie una tazza e la riempiva con dell’acqua calda e una bustina per una tisana alla rosa canina rigorosamente addolcita con due cucchiaini di miele.
Ogni tanto lanciava un’occhiata al cellulare sul bancone chiaro della cucina sperando di sentirlo suonare, sperando che le arrivasse un messaggino da parte di Desmond in cui le diceva semplicemente “ho finito, dieci minuti e sono a casa”; quello solitamente era il momento di andare in bagno, aprire il rubinetto della vasca da bagno, metterci dentro i sali minerali e aspettare, solo aspettare che Desmond arrivasse a casa.
Quando suonò il campanello, quasi non le andò il sorso di traverso, alzandosi in fretta; tossì un paio di volte e si avvicinò alla porta e l’aprì, non guardò neanche nello spioncino perchè convinta che fosse il suo compagno, ma fuori c’erano un ragazzo e una ragazza, completi sconosciuti. Lui alto, robusto, dai capelli corti e rossi; lei più minuta, magra e dai capelli neri, lunghi e sottili.
«Si?» fece Elena alla loro vista, decisamente sorpresa.
«Oh, salve!» esclamò la ragazza, alzando la mano destra per salutarla.
«Scusate, cercate qualcuno?» chiese ancora Elena, aggrottando le sopracciglia. Le parevano strani quei due individui, arrivare di Domenica mattina con un sorriso – fintissimo, si vedeva – che andava da orecchio a orecchio, potevano essere solo una cosa «Noi non pratichiamo, mi dispiace»
«Aspetta, cosa? No, no! Non siamo portatori delle voci di chissà quale dio!» rispose il ragazzo sulla difensiva, togliendosi gli occhiali per pulirli sul lembo della camicia azzurra che spuntava da sotto alla giacca blu scuro; aveva uno spiccato accento inglese, notò Elena, ancora più confusa.
«In realtà, staremmo cercando una persona, e crediamo abiti qui. Miles. Desmond Miles.» disse la ragazza, diventando seria. Il sorriso era sparito in meno di un secondo, e questo spaventò Elena che si affrettò a rispondere «No, avete sbagliato casa, qui abita un Desmond, ma non fa Miles di cognome…» per poi cercare di chiudere la porta di casa.
Ma chi erano quelle persone? E perché stavano cercando Desmond – ammettendo che stessero cercando proprio lui, il suo Desmond.
«Oh, certo, come ho fatto a dimenticarmene!» esordì sempre la ragazza, portandosi una mano sulla fronte «Noi lo conosciamo col cognome del padre, mentre lui adesso ha preso quello della madre…!»
«…Chiabrera!» finì il ragazzo, ma Elena si rese conto che l’aveva appena letto sul campanello affianco alla porta.
«Se volete scusarmi, io avrei da fare molte cose, mi piacerebbe conversare con voi, ma…»
«No, aspetta, noi conosciamo Desmond, sul serio! Eravamo…»
«…Compagni di università!»
«Si, esatto, l’università!»
«Facoltà di lingue, per la precisione!»
Elena sgranò gli occhi per la velocità con cui quei due ragazzi terminavano le frasi l’una dell’altra, e questo la inquietava ancora di più.
In tre anni che stavano insieme, Desmond non le aveva mai accennato ad un università, le aveva sempre detto – molto sinceramente – che aveva lavorato in vari pub, bar, discoteche come barman, quello che faceva anche adesso al T-Yub sostanzialmente.
«Ha lasciato subito, comunque!» si affrettò a dire la ragazza.
«In ogni caso, Desmond, non è in casa… gli dirò che siete passati, ok?» Per la seconda volta Elena fece per chiudere la porta, ma il ragazzo la fermò con la mano.
«No, dobbiamo vederlo, è importante.»
Cercò di spingere la porta ma la resistenza dall’altra era troppo forte. Che era robusto l’aveva visto, ma non immaginava minimamente che potesse avere tutta quella forza – anche se, diciamocelo, in confronto ad Elena anche un cagnolino di piccola taglia avrebbe potuto avere più forza. Le stava prendendo il panico, e si chiese ancora una volta chi fossero quelle persone, sentiva gli occhi inumidirsi, e diventare sempre più accaldata, voleva solo chiudere quella maledetta porta, inserire la sicura, chiudere le tende e allontanarsi da qualunque punto di accesso alla casa; sentiva il cuore in gola, la paura farsi sempre più concreta sul suo corpo: tremori alle mani, formicolii che la privavano di tutta l’energia che aveva nelle gambe, vista annebbiata.
«Abbiamo fatto molta strada, America-Spagna non è proprio una passeggiata, e non saremmo arrivati fin qui se non fosse stato veramente importante…»
«Si, immagino. Riferirò.» Rispose lapidaria e si stupì di come quelle parole le uscirono con un tono di voce così pacato, così freddo, non credeva di riuscire a gestire così le sue emozioni, o forse era stata sola fortuna? Molto probabilmente, anzi sicuramente era così, pensò lei. Alzò gli occhi e finalmente la porta si chiuse senza opposizioni da parte di nessuno.

«Non è andata particolarmente bene…»
«È tutta colpa tua, Shaun.»

  ~~

No, ma serio? E' da Maggio che non aggiorno? D: Beh ragazzi che dire allora a questo punto? Sono tornata proprio nel periodo di San Valentino uno dei giorni più inutili di tutto l'anno - insieme all'onomastico - però sotto un certo aspetto possiamo dire che questo capitolo sia il vostro regalo, perchè anche se pochi avete messo la storia fra le ricordate o le seguite o adirittura fra le preferite - tasto che oramai solo in pochi usano - e anche a quelle buone anime della Medea e della Colle, che da facebook sono venute qui a commentare, grazie infinite <3
Passando al capitolo: come avevo già preannunciato questa sequenza genetica non sarà lunga essendo quella introduttiva diciamo, quindi siamo più o meno a metà, e avendo già detto che Demond ha cambiato cognome, in questo capitolo ho voluto concentrare l'evento fondamentale della storia.
So che la lettura risulta un po' pesante con tutti questi "la ragazza", "il ragazzo", "lui", "lei", ma il mio obiettivo era di rivelare almeno uno dei nomi solo alla fine del capitolo - come effettivamente ho fatto - per cercare di creare suspence.
Sfatiamo subito il mito della Shaun/Rebecca perchè nel mio mondo immaginario sono come Harry e Hermione, troppo amici per essere innamorati, ok LOL.
Ah, e... un'altra cosa veramente importante: non ricordo se Shaun è per il tè o per il caffè. Ho cercato in giro, ho chiesto in giro, e alcuni mi dicono per il tè altri per il caffè; guardo delle illustrazioni e alcuni gli fanno la tazza di tè in mano, ed altri quella di caffè. Ottimo, davvero... quindi io ho optato per il tè - essendo anche inglese, insomma - ma nel caso non ci avessi minimamente azzeccato, comptatitemi e pensate che questa è una What if ahah
Ultima cosa: non ho mai studiato lo spagnolo. Ho usato un vocabolario e google translate spagnolo-italiano per tradurre quello che scrivevo e vedere se veniva fuori una frase di senso compiuto, e più o meno ci sono riuscita LOL se ci dovessero essere errori, fatemelo sapereche provvederò a correggere :)

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Capitolo 6
*** Memory 0.6 skeletons in the closet. ***



 

ricordo 0.6 scheletri nell'armadio.
 
 
Il locale sembrava immerso nel vuoto più assoluto. Le luci erano spente, e la maggior parte delle finestre erano chiuse dalle imposte scorrevoli, nere; quelle uniche due che erano rimaste aperte illuminavano il bancone lasciando nell’ombra più totale il resto della sala. Ed era proprio lì sul bancone che il ragazzo dormiva con la fronte poggiata sulle braccia: il respiro regolare significava che stava dormendo da un bel po’ e che lo stava facendo anche pesantemente.
La porta principale si aprì con il rumore di due mandate di chiave e ne entrò un uomo alto, robusto, dalle spalle larghe, che indossava gli stessi vestiti della sera precedente, eccezion fatta per la maglietta che ora era interamente nera senza il logo del locale di un verde fluorescente – quello si illuminava al buio; effettivamente poteva essere confuso con il buttafuori ma in realtà era il proprietario del pub.
«Ma che caz…?» imprecò nel momento in cui si accorse del ragazzo. Rimase qualche istante fermo con le sopracciglia alzate. Di certo non si aspettava di trovare nessuno, anche perché le porte erano state chiuse, ma osservando bene il locale era tutto pulito: la pista lavata, le sedie capovolte sui tavoli, il bancone lucidato… ma quell’atteggiamento proprio non lo poteva concepire.
Una volta arrivatogli di fronte prese lo strofinaccio blu da dentro il lavello; lo soppesò sul palmo della mano, spostò lo sguardo dall’oggetto al ragazzo come a prendere una buona mira e sogghignando glielo lanciò contro, colpendolo in piena faccia.
«EH? Cosa?!» urlò quello svegliandosi di colpo, e senza neanche accorgersene la sua mano afferrò un coltello cominciando a brandirlo sulla difensiva, incespicando qualche passo all’indietro. Sentiva le ginocchia formicolare e la vista gli si era annebbiata per lo scatto troppo veloce.
«Ma… Desmond! Piano con quella cosa! A meno che tu non voglia affettarti qualche arancia per una spremuta mattutina, ti conviene metterlo via!»
Desmond si portò la mano libera sulla fronte, poi sentì tutto un colpo la pesantezza dell’oggetto che teneva talmente tanto stretto da lasciarsi il segno delle unghie sul palmo. Nel momento in cui realizzò cosa stava facendo, la mano cominciò a tremare e lasciò la presa. Il coltello cadde all’interno dal lavello facendo un gran fracasso per le sue orecchie. Metallo contro metallo non è mai un suono piacevole. Si portò le mani sulle orecchie per non sentire più quel suono sgradevole.
«Cristo, scusa…» la vista continuava ad essere annebbiata, ma lentamente – molto lentamente – le due figure davanti a lui si riunirono nell’unica persona di Miguel Cerrito.
«Ci sei andato giù pesante ‘sta notte, eh?» Miguel sapeva parlare molto meglio l’inglese di quanto Desmond sapesse lo spagnolo.
Desmond si guardò intorno e riconobbe quel posto come il T-Yub, si portò le mani sugli occhi, strofinandoseli.
«Quanto ho bevuto?» si sentiva uno schifo, debole, senza forze per reggersi in piedi e per farlo si dovette appoggiare al bancone.
«Ieri sera c’è stato il pienone, e posso dirti con certezza che nel momento in cui si presentavano due belle chicas che ti chiedevano qualcosa “di buono”, tu prontamente ne facevi uno in più per te.» Miguel rispose incrociando le braccia al petto possente.
Desmond lo ascoltava incredulo. Solitamente, si è vero, beveva qualcosa durante la sera, ma perché glielo offrivano i clienti, non perché c’era una bella ragazza che gli diceva qualche parolina dolce!
Si passò una mano sul viso, soffermandosi sul setto nasale. Era come se qualcuno gli avesse tirato un possente pugno, ma sapeva fin troppo bene che era l’effetto dell’alcol.
Calò il silenzio per qualche minuto, aspettando uno la reazione dell’altro, perché entrambi sapevano cosa comportava quel comportamento.
«Desmond, le entrate sono già abbastanza poche senza che tu ti metta a bere come un cliente, quindi le opzioni sono due» Miguel cominciò a tenere il conto sulle dita tozze «o mi paghi quello che hai bevuto, e ti ripeto non è poco e non so come tu abbia fatto a resistere e non vomitar, oppure devo mandarti a casa…»
Desmond lo ascoltava, e lo guardò amareggiato nel momento in cui fecero i conti della serata. La cifra era spropositata, se si fosse reso conto di quello che stava facendo avrebbe fatto pagare tutti quei chupitos alle ragazze. Si grattava la nuca con fare quasi nevrotico «Io… Miguel, ascolta, in questo momento non ho la diponibilità per pagarti, ma ti prometto che li troverò… non posso perdere il lavoro, lo sai io ed Elena abbiamo da finire di pagare ancora la casa!»
Per un momento sentì una sorta di contrazione allo stomaco. Era incredibile come fino a cinque anni prima pensava solo a se stesso e fuggire da qualcosa più grande di lui, mentre ora era alle prese con i problemi comuni della gente comune.
Miguel sospirò «Ok, ti do due settimane di tempo per rimediare, se per allora non mi avrai pagato, non mi farò scrupoli a buttarti fuori, he sido lo suficientemente claro?»
Desmond guardò il dito rozzo del titolare sventolare davanti al suo viso e poi indicare la porta d’ingresso. «Como el cristal, me atreveria a decir…» rispose con il suo forte accento americano.
 
 
La casa era sprofondata nel silenzio più totale. Si sentiva solo il ticchettio dell’orologio in cucina che scandiva ogni minuto in cui Desmond non arrivava a casa. In controluce si potevano vedere minuscole particelle di polvere fluttuare in aria come se non ci fosse gravità sulla terra. Peccato che ci fosse eccome invece, e sembrava che gravasse tutta su Elena, che stava rannicchiata cingendosi le gambe con le braccia, sotto le coperte, sul divano.
Ogni rintocco contribuiva a far aumentare in lei quel senso di disorientamento e di disagio che l’aveva pervasa subito dopo la visita dei due sconosciuti.
Il ricordo la fece quasi piangere dall’ansia, piegò la testa verso le proprie gambe e fece aderire gli incavi degli occhi alle ginocchia. Continuava a pensare “Desmond, torna presto” ma ogni volta che alzava lo sguardo per mettere a fuoco la porta, quella rimaneva chiusa, immobile.
Ognuno aveva un modo diverso per affrontare gli attacchi di panico, ma il fine era sempre il medesimo: trovare il proprio spazio sicuro; c’era chi con le braccia si creava una barriera davanti al petto, chi invece le braccia aveva bisogno di sentirle attorno al proprio corpo, chiuse in un abbraccio sicuro; lei si chiudeva – o meglio, barricava – in casa, era quello il suo spazio sicuro.
Eppure nonostante le finestre chiuse, il sole oltrepassava le imposte illuminando il salone di strisce chiare alternate a quelle scure, e il cinguettio di alcuni uccelli molesti imprimevano l’aria di una nota primaverile, quando ancora la primavera era ben lontana.
“Aggiungiamo pure la beffa al danno!” pensò Elena continuando a fissare quel punto imprecisato sul legno scuro della porta.
Però quel tepore, quella calma, quel suono, in un qualche modo inducevano le palpebre a chiudersi contro la sua stessa volontà, la testa era diventata tutto un tratto troppo pesante per essere sorretta solo dal collo.
Poi il rumore. Quel rumore.
Il rumore delle chiavi nella serratura.
All’improvviso tutto quel senso di stanchezza scomparve, lasciando il posto al senso di felicità, propagandosi in tutto il corpo come un formicolio caldo.
A primo acchito Desmond non si accorse di nulla, si girò per richiudere la porta sospirando e solo quando si rivolse verso la stanza sentì la sensazione di disagio.
«Ehi…» fece lui, una volta vista la ragazza, aggrottando le sopracciglia scure «che ci fai lì?» lo sguardo vagò per tutta la sala come se stesse cercando la personificazione trasparente del disagio per poterlo catturare e buttare fuori casa.
Aveva il presentimento che ci fosse qualcun altro in casa, pronto a tendergli un imboscata, chissà magari per metterlo fuori combattimento con un colpo in testa.
Elena alla domanda del compagno fece spallucce e si lasciò cadere di peso verso sinistra sul divano, mantenendo la posizione fetale sotto la coperta, neanche fosse stata colpita da un colpo di pistola al tiro a bersaglio.
«Ero preoccupata, non arrivavi.» rispose atona.
Desmond rilassò leggermente le spalle sedendosi vicino a lei, le poggiò una mano sul fianco cominciando a carezzarla da sopra la coperta.
«Ho avuto problemi a lavoro…» era stanco, quello che avrebbe voluto fare in quel momento era salire in camera e dormire, magari assieme ad Elena, ma comunque dormire.
«E non potevi avvisarmi?» Elena urlò rialzandosi di scatto facendo cadere la coperta a terra, rivelando il suo fisico asciutto e snello, e sembrò recuperare tutta l’energia che le serviva in quel momento.
«Io… scusa, il cellulare è morto» anche Desmond si alzò, e riprese a guardarsi intorno circospetto.
«Mi spieghi perché diavolo continui a cercare qualcuno quando in realtà non c’è nessuno?!» Sbottò Elena infastidita, sentiva le lacrime riempire i suoi occhi, ma per quanto faticoso fosse cercò di trattenerle il più possibile.
Se nel momento in cui era entrato in casa aveva avuto il presentimento che fosse successo qualcosa durante la sua assenza, ora ne aveva la certezza.
Desmond si mise di fronte a lei, le poggiò le mani sulle spalle esili e cercò di farsi guardare negli occhi.
«Elena, dimmi la verità, cos’è successo?»
Lei spostò lo sguardo dagli occhi di Desmond, mordendosi l’interno della guancia, le lacrime continuavano a spingere perché negli occhi non c’era più spazio per loro.
«Elena…» insisté Desmond sempre più preoccupato «è entrato in casa qualcuno? Ti hanno fatto del male?» Elena si scostò dalla presa dell’altro e si sedette di nuovo sul divano, sconfortata. «No… non è entrato nessuno, Desmond.» rispose secca, alla fine.
«Allora, parla, dimmi cos’hai…»
Calò un silenzio carico di tensione fra i due, e mentre Desmond con gli occhi cercava di spronare Elena a parlare, lei cominciò, così velocemente, come se fosse stata un fiume che esondava dagli argini.: «Oh, Des… Io non so cosa sia successo, ma due persone sono venute a chiedere di te, e io non sapevo chi fossero, e loro hanno parlato di cose che non conoscevo di te, di università, facoltà di lingue, dicevano di essere amici tuoi ma hanno sbagliato il tuo cognome…»
Desmond ebbe un sussulto «Aspetta… hanno sbagliato il mio cognome?»
«Si… ti hanno chiamato Desmond Miles… perché?»
 

 
La stanza non era particolarmente sofisticata: un armadio a due ante, una scrivania con sopra una tv da pochi pollici e un decoder digitale, due comodini con due abatjour ai lati dei due letti singoli, poi il bagno: specchio a parete con i due lavandini incastrati nel marmo, una vasca da bagno con la possibilità di chiudere il vetro e usarla come doccia, e ovviamente un water e un bidet. Era proprio dal bagno che usciva la ragazza portandosi dietro una nuvola di vapore come farebbe un cucciolo con la madre che ha una preda in bocca.
L’asciugamano bianco non impediva però a sottili ciocche di capelli scuri di ricaderle attorno al viso.
Una volta vista, Shaun tossicchiò mentre si rimetteva gli occhiali sul naso dopo averli puliti dal vapore, distogliendo lo sguardo dall’amica.
«Reb… capisco che tu non abbia il senso del pudore ma…» cominciò lui sempre più imbarazzato. L’accappatoio color latte le arrivava fino alle ginocchia lasciando scoperte le gambe magre e lucide, e la cintura in vita faceva notare che una trentotto, come taglia dei pantaloni, era anche larga. «potresti, come dire… vestirti?»
Rebecca gli si era piazzata davanti, in piedi di fronte a lui e lo ascoltava con un sopracciglio in su, mentre si lavava i denti; la sua espressione poteva essere un misto fra l’offesa e la sfida, tutto tranne che imbarazzo o disagio.
«Oh, Shaun… ci conosciamo da anni, abbiamo addirittura dormito insieme, siamo come fratelli in pratica… perché mai dovrei essere imbarazzata? A girare in accappatoio, poi!»
Shaun si arrese e si mise di nuovo a controllare fra mille foglietti e altrettante mille pagine aperte sulla schermata del computer, cosa gli fosse sfuggito di quella mail di spam, che tanto normale non era.
A partire dal file allegato che si presentava verso la metà del testo: conoscendo come verificare se quel file contenesse virus, Shaun, aveva constatato che nessuna delle estensioni usate solitamente per infettare un computer era compatibile con quel file: ABT.
Lo aveva aperto la prima volta e lo schermo era diventato immediatamente nero con vari disturbi e distorsioni, poi una serie di codici cadevano a cascata dalla sommità dello schermo.
Shaun era riuscito a decifrare una buona parte di quei codici, ma ancora gli mancava il lampo di genio e l’intuizione finale.
«Vogliamo parlare della pessima figura che abbiamo fatto oggi a casa di Desmond?» chiese sarcastica Rebecca infilandosi una maglietta a maniche corte color perla.
«È evidente che la sua ragazza non sa nulla del suo passato…» disse l’altro stendendosi sul letto.
«…e ora noi gli abbiamo messo una pulce nell’orecchio...» rimasero in silenzio, dispiaciuti dalla situazione. Fosse stato per loro avrebbero cercato di risolvere quel mistero da soli, ma il messaggio della mail era chiaro: “ho trovato il Soggetto 17”.
Ma quella frase aveva tutt’altro significato di quello che i due assassini credevano.
 
 
Desmond quasi si sentì cedere le gambe «cosa…?» chiese con un fil di voce, incredulo.
«Desmond, ti prego, dimmi cosa sta succedendo!» Elena era spaventata, non ci capiva più nulla, erano successe troppe cose strane quel giorno e la reazione del suo compagno non faceva eccezione.
Lui si girò, si passò le mani sul viso e cercò di fare mente locale della vita che si era inventato per non dire ad Elena la verità. Eppure più ripensava alle mille bugie dette, più non riusciva a venire a capo di quella situazione. Non aveva messo in conto che qualcuno di loro potesse tornare a cercarlo. Dopo cinque anni non si era fatto vivo nessuno né di una fazione né dell’altra perché molto probabilmente non era più importante come prima, perché molto probabilmente avevano trovato qualcuno con più risorse su cui investire il loro tempo, o molto semplicemente perché il suo ruolo era finito. Aveva salvato il mondo, dopotutto.
Proprio in quel momento flash di luoghi che non ricordava di aver mai visto gli si materializzarono negli occhi: acque cristalline con spiagge bianchissime e rovine maya, gocce di sangue cristallizzate, bunker sotterranei e macchinari ospedalieri.
Alla fine le sue gambe cedettero.
Cadde a terra inginocchiato, con la vista annebbiata e la testa che gli scoppiava, cercava di reprimere gli urli di dolore.
«Des!» urlò Elena chinandosi su di lui. Ma lui non rispondeva, continuava a vedere sprazzi di ricordi mai visti; ancora foreste, palafitte, animali selvatici, scale che conducevano a porte con accesso privato magnetizzato e riconoscimento vocale, barelle e bombole d’ossigeno. Giunone.
A quel punto Desmond urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.
Poi tutto tacque.
Il respiro di Desmond tornò regolare.
Elena sembrava non respirare più, invece.
«Des…?» lo chiamò sottovoce, aveva paura a toccarlo, nel caso potesse avere un’altra crisi.
Lo aveva visto in quelle condizioni una sola volta, all’ospedale dove faceva la volontaria, dove l’aveva conosciuto.
Dopo qualche minuto, che sembrarono ore, Desmond si rimise in piedi, a fatica, tenendosi ai braccioli del divano.
«Elena… non devi più aprire a quelle persone.» la voce, pur essendo bassa e roca, era estremamente fredda e quasi cattiva.
Lei non ce la faceva più, da troppo tempo quel giorno tratteneva le lacrime.
«Desmond, io mi sono stancata! Tu non vuoi dirmi niente del tuo passato, arrivano dei tizi che chiedono di te chiamandoti con un altro nome, te ne parlo e tu hai una crisi, con allucinazioni, molto probabilmente ricordi che affiorano alla tua mente passivamente!» ricordava quelle parole quando il medico curante all’ospedale gliene aveva parlato in seguito a quanto era successo. «Quindi le tue possibilità sono due: o mi dici la verità, TUTTA la verità, o esci da questa casa!»
Elena piangeva a dirotto, le guance paonazze e il collo tirato, non voleva che se ne andasse, voleva solo che la persona che amava fosse sincera con lei quanto lei lo era con lui.
Desmond la guardava, non sapeva se ribadire il concetto di non investigare sul suo passato oppure se scusarsi e… di certo non dirle la verità, ma quanto meno tranquillizzarla.
«Elena, io…»
«No, sono stanca.» lei si asciugò il viso con la manica della maglietta «Non voglio le tue scuse.» concluse con un altro singhiozzo, mentre si girava e si dirigeva al piano superiore.
Desmond rimase in sala, e li ci restò per il resto del giorno e della notte.
 
Improvvisamente la luce invase i suoi occhi. Per qualche strano motivo aveva il fiato corto e quando si portò una mano sul petto sentì la maglietta nera madida di sudore.
Deglutì e cercò di ricordare quello che era successo. Si trovava in salotto, sul divano e la coperta scozzese addosso. Odiava quella coperta, pizzicava, ma era l’unica che potesse tenerlo un po’ al caldo durante la notte.
Si mise a sedere. Si sentiva come se avesse avuto un delirio durante la febbre alta, sudato, disperato, più stanco di prima.
Dalla cucina provenivano dei rumori, Elena era già sveglia, evidentemente.
Cosa doveva fare a quel punto?
Rimase seduto, sospirò, poi la chiamò la prima volta. Poi anche la seconda, e la terza.
«Elena, ti prego. Vieni di qua…» lei sbucò dall’arco a tutto sesto che separava la cucina dalla sala, mentre si asciugava le mani.
La sua espressione oltre che arrabbiata – anzi furiosa – era delusa, e si sa, la delusione è la peggior nemica della vita di coppia.
«Cosa c’è?» chiese incrociando le braccia sotto il seno, facendo un cenno con le sopracciglia come per dire “ho da fare, io”.
«Elena, dai, siediti…» lui forse era ancora più deluso di lei, deluso di se stesso, però. «Ascolta, perdonami… se non ti ho detto nulla, era perché non volevo coinvolgerti in qualcosa da cui poi potrei non riuscire a tirarti fuori…»
Elena non aveva dormito per niente quella notte, continuava a girarsi e rigirarsi nel letto nella vana speranza di trovare una spiegazione plausibile a tutta quella storia – o solo per cercare una posizione comoda per addormentarsi. «Quelle persone… ti hanno chiamato in quel modo, perché prima avevi quel cognome, giusto?»
Desmond assentì silenziosamente col capo. Non riusciva a guardarla negli occhi. Le aveva mentito, e continuava a mentirle finché non le avesse detto tutta la verità.
«Des… ascolta, io… non lo so…» cominciò lei. Effettivamente aveva pensato a qualche risposta, ma per quanto ne fosse convinta la notte precedente, ora le sembrava solo una stupidaggine «non lo so se è giusto, se sto dicendo una cavolata, ma… se quelle persone ti hanno cercato perché in passato hai avuto problemi di droga, sai che…»
Desmond si voltò di scatto verso di lei. Droga? Tutto poteva pensare, e lei pensava alla droga? «sai che mio padre potrebbe aiutarti, e…» lei continuava a parlare senza guardarlo in faccia, si anche lei si sentiva una stupida per aver pensato a quello.
«Elena, ho avuto milioni di problemi, ma la droga non rientra nella lista…» prima che potesse continuare la frase, il campanello suonò.
Il cuore di entrambi cominciò a battere velocemente, sapevano entrambi che sarebbero tornati per quanto cercavano di eliminare quella eventualità.
«El, vai di là in cucina, ci penso io, va bene?» le diede un bacio sulle labbra, facendole capire quanto la amava, e lei obbedì.
Quando aprì alla porta, le due figure sotto l’ombrello blu scuro lo salutarono e senza lasciargli il tempo di controbattere dissero: «Abbiamo qualcosa da mostrati, qualcuno ci chiede aiuto, ti chiede aiuto.»

  ~~

Ebbene sì, finalmente proprio quando sono in vacanza, senza internet, senza campo, senza tv perchè la casa in cui sto sembra essere una baracca delle favelas, l'ispirazione torna al suo posto. 
Questo è il ricordo forse più importante di tutta la sequenza genetica, infatti è anche il più lungo. Ho stimato che ci saranno altri due capitoli poi riprenderò con una nuova sequenza e si entrerà nel vivo della storia.
Se vi state chiedendo che fine abbia fatto Astrid, sappiate che il prossimo capitolo sarà su di lei, niente paura (;

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Capitolo 7
*** Memory 0.7 change of plans. ***



 

ricordo 0.7 cambio di programma.
 

Quelle che io chiamo “tende” sono in realtà fogli di plastica sottilissima che solitamente si usano per ricoprire i mobili quando è il momento di imbiancare casa; e io le fisso, con la testa poggiata su un cuscino del divano. Si muovono lentamente al tocco di un leggero venticello mattutino.
La luce comincia a illuminare la stanza, ma perché si possa vedere il sole dalla finestra bisogna aspettare dopo mezzogiorno.
Quel suono mi fa rimanere in balia del sonno, posso benissimo sentire le palpebre che mi incitano dolcemente a lasciarmi andare, perché magari, nei sogni, ho una vita migliore di quella che sto vivendo ora…
Mi giro verso lo schienale del divano per ripararmi dalla luce e da tutto ciò che mi circonda, rannicchiandomi.
«È successo tutto così in fretta… non capisco più cos’è reale e cosa no, se sogno o se sono veramente sveglia…» dico quelle parole con il viso schiacciato sul cuscino, ma mi rendo conto che sono sveglia, eccome. L’aria che non arriva ai polmoni mi fa riprendere immediatamente, mettendomi a sedere.
Sembra quasi una bella e tranquilla giornata: la luce, niente nebbia, l’aria riscaldata dal primo calore del sole e silenzio, silenzio nella mia testa. Ambra non c’è.
Un mezzo sorriso compare sul mio viso e sospiro, come avessi la sensazione di non avere più un peso sulle spalle.
Mi alzo passandomi le mani fra i capelli; stanno crescendo e cominciano a darmi sempre più fastidio. Quella ragazzina che teneva i capelli lunghi e sciolti, liberi di ondeggiare come nei peggiori film d’amore, non esiste più.
Rimango in piedi, fissando il vuoto, oltre il muro di mattoni rossi dell’edificio di fronte. Ormai tante volte mi ritrovavo a pensare perché tutto questo stia succedendo a me, perché io non ho potuto avere qualcuno al mio fianco, quando invece lui si? Scuoto la testa per tornare in me, non è proprio il momento di commiserarmi, anche quella fase era passata da un pezzo.
Ripenso alle parole del Dottor Barigozzi e mi chiedo se poi possa essere fattibile un viaggio del genere: non ho mai amato gli autobus, quando ero più giovane e frequentavo il liceo, dovevo prendere ansiolitici prima di partire. Non sono mai stata capace di affidare la mia vita in mano degli altri... e il conducente di un autobus era anche una persona sconosciuta per giunta.
Come riuscirò ad affrontare un viaggio così lungo?
Scuoto la testa e mi avvio verso il bagno. Ormai è diventata routine quotidiana: entro, apro l'anta della doccia, giro e alzo il rubinetto al massimo del calore, mi svesto e aspetto che il vapore cominci a invadere la stanza.
Quando entro nella doccia, finalmente la sensazione dell'acqua che scorre sul mio corpo, mi da quel senso di rilassamento muscolare che altrimenti non riuscirei a sentire. L'ansia, lo stress, la tensione di stare sempre allerta appena metto un piede fuori casa, non mi lasciano il tempo di svuotare la testa e stare tranquilla, neanche per un minuto.
"Si, lo so... So che è proprio questo il momento in cui sono più vulnerabile..." Penso mentre mi lascio scivolare sulla base di marmo – più farlocco di così, non si può – bianco; alzo la testa per sentire lo scroscio d'acqua sul mio viso "Non è mai successo nulla..."
"Finora" credo sia Ambra, ma penso piuttosto che sia io stessa ad essermelo detta perché Lei non c’è da quando ho aperto gli occhi.
Un po' di pace...
Il calore cresce sempre di più e comincia ad appannare i vetri della finestra e dello specchio, e io intanto perdo la concezione del tempo, mentre comincio a farmi domande sul senso della mia vita, perché su perché, e alla fine le risposte che riesco a darmi sono talmente filosofiche da essere senza senso e quindi nulle.
Potrebbero essere passati due minuti o due ore, ma poco mi importa, l’importante è che io riesca a staccarmi da tutto quello che mi circonda almeno per un po’; l’acqua, pur essendo al massimo della temperatura, è facilmente sopportabile, e anche se dovesse risultare troppo calda, non me ne curerei.
 

Quando mi rendo conto che la temperatura cala, diventando sempre più fredda, capisco che è il momento di tornare alla realtà.
Metto una maglietta leggera e un paio di pantaloncini neri, e con l’asciugamano in testa torno a sedermi sul divano.
“Dottore, perché fa questo per me?” gli avevo chiesto la prima volta che entrai in quell’appartamento.
“Perché hai bisogno di aiuto, e io posso darti tutto quello di cui necessiti” mi aveva risposto, poggiandomi una mano sulla spalla, con un tocco quasi famigliare. Dopo qualche istante di silenzio riprese a parlare “Mi dispiace per…” non riusciva a pronunciare neanche il suo nome, per quanto ci stava male, anche se in realtà non sapevo quale fosse il legame fra loro. “Era un bravo ragazzo” aveva concluso, tristemente.
Col senno di poi, mi sono resa conto che in qualche modo glielo ricordavo e che mi ha aiutata così tanto, quasi volesse continuare ad aiutare lui.
Sento un rumore provenire dalla strada e tutti questi pensieri svaniscono in un soffio; mi avvicino alla porta-finestra e scorgo sotto al terrazzo una figura con un soprabito nero, ma non è solo: è accompagnato da due donne e un ragazzo. Il Dottore mi vede e mi fa cenno di farli salire… dovrei fidarmi? Chi sono quelle persone? Calo la scala, molto scettica; ma decido di fidarmi… per lo meno mi fido del Dottore, perché mai dovrebbe tradirmi?
«Buongiorno, cara» alzo la mano e faccio un piccolo cenno di saluto, continuando però a spostare lo sguardo sugli sconosciuti.
«Oh, certo, certo, adesso ti spiego brevemente» si siede sulla poltrona sgualcita per riprendere fiato «Astrid, questo è per te» il dottore tira fuori dal taschino della giacca scura, un biglietto giallo e blu «Questo è un biglietto per Granada, non puoi permetterti di mandare altre mail né tanto meno di tentare di spedire via posta oggetti di estremo valore e importanza, lo sai, vero?» sto ancora guardando il biglietto dove c’è scritto in caratteri esagerati “GRANADA”, poi alzo lo sguardo sull’uomo. Mi sorride. In qualche modo ero diventata quasi come una nipote per lui, e ripensando alle parole “io posso darti tutto quello di cui necessiti”: avevo bisogno di vitto e alloggio, di soldi, di essere invisibile agli occhi indiscreti; lui ce l’ha fatta.
Continua a sorridermi, poi fa cenno ai suoi accompagnatori di avvicinarsi. «Astrid, ti presento la mia famiglia: mia moglie Sandra, mia figlia Giulia, e mio nipote Riccardo, loro ti aiuteranno a passare inosservata nel tuo viaggio»
Alzo le sopracciglia sorpresa; guardando bene la donna bionda effettivamente noto una certa somiglianza col Dottore, ma non gli sarà mai simile quanto lo è con la madre: stessi capelli lisci biondo cenere e un taglio degli occhi cadente; il ragazzo invece ha un che di familiare con il nonno. Non posso di certo sapere se il Dottore da giovane abbia avuto i capelli scuri, ma la forma del viso è pressoché identica al nipote.
“È genetica”. Poso gli occhi nuovamente sul biglietto, poi mi rendo conto di un dettaglio piuttosto importante: «Ma, Dottore… qui c’è scritto…»
«”Aeroporto G. Marconi, Bologna”, sì, lo so» lui annuisce, sorridendo sotto i baffi; anche la sua famiglia mi sorride. Rimango zitta, non capendo cosa stia per accadere.
«So benissimo che ti avevo fortemente sconsigliato di viaggiare tramite mezzi “affollati”… ma, c’è stato un piccolo cambio di programma: devi trovare al più presto gli emissari del Soggetto Diciassette, è a loro che hai mandato la mail, è a loro che devi dare quella.» indica l’oggetto sul tavolo: una chiavetta USB bianca, con stampato sopra lo stesso simbolo che ho sul polso, tutto nero, “Abstergo Industries”. «Gli Agenti dell’Abstergo ti stanno già cercando, in qualche modo hanno intercettato la mail, e probabilmente cercano di decifrarla, e quando ci riusciranno, saranno qui a cercarti, e saranno là a cercare Desmond, quindi devi muoverti in fretta, e il pullman è un mezzo troppo lento…» quel vecchietto che a prima vista sembra un semplice pensionato che va a guardare i lavori in corso in Piazza Duomo, mi fa sperare che al mondo ci sia qualcuno che ancora crede negli Assassini, pur non facendone parte.
Lui parla, mi spiega che ruolo ha ogni membro della sua famiglia in quella circostanza. Rimango un po’ restia all’idea di farmi mettere mani addosso da persone sconosciute, ma se penso alla mia missione, devo farmi coraggio e superare questo blocco. Almeno per oggi.
 
 
Alla fine della giornata mi guardo allo specchio, e stento a riconoscermi: i miei capelli sono di nuovo corti, ma lisci e… biondi, il mio viso ha qualche modifica grazie alle protesi in silicone, e sembra tutto così realistico grazie al trucco. Mi avvicino al riflesso, toccandomi gli zigomi e il naso delicatamente, per paura che possano staccarsi da un momento all’altro, provo a guardare da diverse angolazioni. Sono un’altra persona.
«Bene, Astrid, manca l’ultima cosa, non meno importante del resto» a parlare è Riccardo. Esce dalla stanza e ne rientra con uno sgabello, un treppiedi e una macchinetta fotografica che – nella mia ignoranza – ha l’aria di essere costata veramente tanto. Mentre mi parla, Sandra e Giulia sistemano un telo bianco lungo la parete e ci posizionano lo sgabello davanti «ora, Astrid, siedi» titubante mi avvicino e faccio quello che mi dice. Il ragazzo si posiziona dietro lo strumento e mi punta il flash addosso «non preoccuparti, ti abituerai alla luce» poi comincia a scattare diverse foto.
«Scusate ma questo a che serve?» chiedo indicando con l’indice quello che mi sta intorno.
«Se cambi volto, dovrai cambiare anche identità! Ho avuto dei contatti, in passato, con altri Assassini i quali avevano bisogno di documenti falsi… così ho deciso che mi sarei potuto rendere utile anche con te!» il suo viso sbuca da dietro la macchinetta fotografica e mi sorride placidamente. Ricambio.
«Ecco, fatto. Ora dammi mezzora e torno con carta d’identità, codice fiscale e tutto il resto!» saluta la sua famiglia, saluta me e sparisce dietro la porta finestra.

 
Quando torna ormai si sta facendo buio, e mi porge soddisfatto i miei nuovi documenti; apro la carta d’identità: «”Veronica Pizzi”… mi avete fatta italiana?»
«La lingua la sai più che discretamente, mi pare, e così non ti servirà il passaporto per andare in Spagna» la domanda me la si legge in faccia «Esatto, la carta d’identità vale anche per l’espatrio in qualunque paese della Comunità Europea!» alzo le sopracciglia e annuisco.
Il Dottor Barigozzi si avvicina e mi abbraccia, prima ancora che me ne rendi conto. Un gesto inaspettato e pieno di affetto; in qualche modo voglio ricambiare, ma l’abbraccio che ne esce sembra più qualcosa di consolatorio con il classico “pat-pat” sulla schiena.
«Astrid, fa attenzione, l’Abstergo è dietro l’angolo e non si fermerà fino a quando tu non gli avrai dato ciò che cercano» sposto lo sguardo sul divano, dove Giulia mi ha sistemato dei vestiti. «Certo, Dottore, starò allerta»
Lo accompagno fuori, ma prima che andasse via mi da un portafoglio. «Qua ci sono dei soldi per il viaggio, e uno strumento che potrà disabilitare il localizzatore dell’Abstergo, mettici dentro tutti i documenti e il biglietto.» Fa una lunga pausa «Astrid, sono contento di averti potuta aiutare, sei una brava ragazza.» sento il mio stomaco contorcersi «Questo è un addio, Dottore, ma saprò cavarmela, grazie al suo aiuto.»
«Sii forte» mi incoraggia mentre scende.
Una volta spariti dietro l’angolo, faccio le valige in fretta e furia e mi dirigo verso il deposito di autobus dove poter prendere la corsa che va a Bologna, direttamente all’aeroporto.
Ci saranno Agenti sotto copertura, ma se tutto va bene non mi noteranno, anche sotto ai terminal, non risulterà nessun chip nel braccio, e io sarò invisibile.
«Finiamo questa storia una volta per tutte.»

  ~~

Buon. Dio.
Ho passato gli ultimi mesi a cercare di scrivere sto benedetto capitolo, e... non essendo ispirata, è stato molto difficile. Astrid è me, io sono Astrid, quindi se non riesco a immedesimarmi al meglio nel personaggio ne esce una schifezza. In realtà credo che questo capitolo non sia scritto al meglio, ho dovuto cambiare alcune cose perchè sennò non si sarebbero incastrate con gli avvenimenti del prossimo capitolo, che fortunatamente è già in fase di lavorazione, e sono molto più ispirata per quello - che, fra parentesi, sarà l'ultimo di questa "sequenza genetica" introduttiva.

Però voglio dire una cosa: voglio ringraziare mille volte Fluxx che mi ha aiutata a sbloccarmi, senza i tuoi consigli non avrei pubblicato niente, e quello di cui abbiamo parlato lo scriverò nel prossimo capitolo 


Alla prossima, salute e pace!

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Capitolo 8
*** Memory 0.8 revelations. ***


Attenzione¡
Il capitolo è decisamente molto lungo e benso di informazioni.
Non ho potuto dividerlo in due capitoli differenti!
Buona lettura 

 


 

ricordo 0.8 rivelazioni.

I.
 
Nel momento in cui qualcuno lo urtò, le valige che stava trascinando gli scivolarono dalle mani: «Ehi! Sta un po’ attenta!» gli aveva urlato, insieme a qualche imprecazione, ma lei era già lontana per sentirlo.
Stava raccogliendo quello che gli era caduto quando, nuovamente, due o tre persone lo spinsero, facendogli perdere l’equilibrio e così ritrovarsi con il naso attaccato alle mattonelle di marmo lucido dell’aeroporto.
«¡Maldición! Lo dirò a chi di dovere!»
La ragazza correva veloce, riusciva a schivare la maggior parte delle persone, ma a volte le si paravano davanti gruppi estremamente numerosi e l’unico modo per oltrepassarli era farsi strada spingendo i passanti, in questo modo avrebbe potuto rallentare anche i suoi inseguitori.
Si chiedeva cosa fosse andato storto, aveva seguito tutte le procedure alla lettera come gli era stato riferito, eppure si ritrovava a scappare ancora una volta da quelle persone.
Faceva il possibile perché il panico non le oscurasse la mente e si guardava intorno per cercare una via di fuga, ma quello che vedeva non erano altro che persone e valigie.
“persone e valigie…”. D’improvviso le si illuminarono gli occhi, perché non ci aveva pensato prima?
Girò bruscamente a sinistra verso i nastri trasportatori delle valigie, rallentando la sua corsa fino a camminare fra la gente. Prese un paio di occhiali dalla borsa e un cappellino nero dimenticato da chissà chi su un seggiolino in metallo e aspettò che la sua mimetizzazione avesse effetto.
Alcuni Agenti continuavano la loro folle corsa, mentre altri due si staccarono dal gruppo per controllare meglio la zona dove si era nascosta, ma loro non la vedevano. Era invisibile. Un sorriso le si disegnò sul volto quando questi persero le speranze e cominciarono ad allontanarsi, e automaticamente si portò la mano nella tasca dei pantaloni dove teneva quell’oggetto così importante da farle rischiare la vita, sospirando di sollievo, sentendolo ancora lì dove l’aveva lasciato.


 
 
«Desmond, per piacere, almeno ascolta quello che abbiamo da dirti!»
«Ho detto no.» il ragazzo stava già per chiudere la porta, anche se gli altri due cercavano ancora di parlare.
«Ti capiamo, ma-»
«Ecco, allora se mi capite giratevi e tornatevene da dove siete venuti!»
Il ragazzo inglese prese fuori dalla tasca una chiavetta USB bianca, Desmond aggrottò la fronte non capendo – o non volendo capire – cosa fosse, poi con un movimento di dita, l’altro, fece girare l’oggetto sul quale spiccava un simbolo triangolare interamente nero e il nome di quella società che sarebbe dovuta sparire dalla faccia della terra, per il bene di tutti.
«Chi ci ha dato questa ha bisogno del tuo aiuto, per favore, non fare l’egoista» Shaun con l’anulare si sistemò gli occhiali, aspettando la risposta.
Quella parola fece andare su tutte le furie Desmond, che senza preavviso chiuse la porta con tanta rabbia quanta frustrazione.
Rebecca rimase scioccata, non per la reazione di Desmond, ma quanto per l’uscita di Shaun. Ci fu qualche istante di silenzio, per cercare di capire quanto appena successo.
«Ma tu, sei cretino o cosa?» gli aveva chiesto spingendolo – in realtà aveva anche l’intenzione di fargli del male fisico, ma non ci sarebbe riuscita molto.
«L’ho solo provocato, vedrai, verrà da noi» Shaun era decisamente sicuro di sé, ma il rumore che proveniva da dentro casa sembrava non essere compatibile col suo pensiero.
 
Il tavolino vicino al divano ora era riverso a terra, così come quello che ci era appoggiato sopra.
Elena cercava di avvicinarsi al compagno, per farlo calmare, quantomeno, ma lui la allontanava ogni volta. “Forse – pensava – ha paura di farmi del male
«Des… ti prego…» diceva, ma poi scuoteva la testa, mesta, perché tutti i suoi tentativi non andavano a buon fine.
Rimase lì, ferma a guardarlo mentre si struggeva di rabbia, faceva avanti e indietro per il salotto, sembrava addirittura che ringhiasse e si portava le mani fra i capelli, come a voler contenere un dolore troppo grande; finalmente si sedette sul divano, coprendosi il viso. Solo a quel punto Elena gli si poté avvicinare, per sederglisi accanto. Desmond si lasciò coccolare da quelle braccia esili, e quasi gli venne da piangere per quello che era successo.
«Non avrei mai voluto coinvolgerti… ti prego, perdonami!» aveva la voce spezzata, ma non piangeva; Elena continuava a carezzargli i capelli, a stringerlo al suo petto, e quel profumo di fiori di ciliegio che emanava, riusciva a calmarlo un po’.
«Des… non so cosa sia successo in passato con quelle persone, e non so il perché tu abbia cambiato cognome, ma sicuramente l’hai fatto per una buona ragione, e se dici che quelle persone ti hanno fatto del male… beh, io ti credo.» Desmond alzò il volto per guardarla, lei posò le sue mani delicate sotto il suo mento e gli sorrise «Sei il mio compagno, io mi fido di te»
Adorava quella ragazza, come poteva non farlo? Dopo quelle parole poi! Le si avvicinò per baciarla, ma lei lo scostò. «Riposati…» gli aveva detto, alzandosi, camminando sinuosamente verso la cucina.
Là dentro, una volta chiusa la porta, Elena cominciò a piangere silenziosamente. Le parole che aveva detto a Desmond erano più che sincere, ma il dolore che le spezzava il cuore nel vederlo così sofferente era eccessivo. Avesse avuto un carattere più aggressivo, avrebbe cacciato quei due “presunti amici” a calci nel sedere – e l’immagine che gli venne in mente, la fece quasi sorridere – fino a farli scomparire dietro la collina oltre la strada.
Si era alzata per mettere a bollire un po’ d’acqua per farsi una tisana, sicuramente si sarebbe calmata: non poteva passare a Desmond anche la sua inquietudine, lui aveva già troppo a cui pensare.
Poi le vennero in mente tutti i litigi avvenuti a causa della sua insistenza per conoscere genitori e amici, e capiva perché avesse reagito sempre così male, e si sentiva ancora più in colpa.
Nascose il viso fra le braccia, e cominciò a singhiozzare in silenzio. Le sue spalle si alzavano e abbassavano in maniera irregolare, come irregolare era anche il suo respiro, trattenendosi, per paura che Desmond la potesse sentire, e questo non voleva assolutamente che accadesse.
La luce che entrava dalla finestra si era affievolita di colpo: delle nubi non troppo simpatiche avevano deciso che il sole dovesse sparire, ingrigendo la città, e gli animi dei due compagni.
Una volta scaricata l’intera frustrazione, Elena, preparò una seconda tazza per Desmond. Si asciugò i segni delle lacrime e preparò il suo sorriso più dolce, per uscire dalla cucina.
Desmond stava sdraiato sul divano, lo sguardo fisso verso la tv spenta, che guardava il proprio riflesso sullo schermo nero.
«Ti… ho portato questa, ti farà dormire» lui annuì, seguendola con lo sguardo «Vai a dormire, Elena, arrivo presto.»
 
 
La stanza dell’hotel era stata ripulita la mattina e appariva come se non ci fosse stato nessuno prima di quel momento.
Rebecca si lasciò cadere sul suo letto a peso morto, rimbalzando leggermente sul materasso. Il viaggio le aveva dato la possibilità di pensare a tutti gli insulti possibili e immaginabili da riferire a Shaun, ma nessuno di questi era minimamente all’altezza della situazione.
Si mordeva l’interno delle guance dal nervoso e lo sguardo passava da un punto all’altro del soffitto senza una ragione apparente.
«Dai, Rebecca… sappiamo entrambi com’è fatto Desmond!» le aveva detto Shaun dal microfono nel casco nero «ha bisogno di una motivazione per fare qualcosa!»
«Quindi offenderlo in quel modo ti è sembrato giusto?» gli aveva risposto, freddamente. Era estremamente arrabbiata, e ripensare a quella conversazione le fece rivoltare lo stomaco. Si girò verso la finestra, prendendo il cuscino per abbracciarlo. «Se non fosse stato per lui, nessuno di noi esisterebbe più. La Terra stessa non esisterebbe più!» aveva urlato troppo forte e nelle sue orecchie sentì ancora il riverbero del microfono «Rebecca, più piano! Ti ricordo che comunichiamo tramite microfono e cuffie, non c’è bisogno che urli in questo modo!» A quel punto Rebecca rimase in silenzio fino all’hotel.
Dal bagno si sentì il rumore dello sciacquone e subito dopo quello della chiave che scattava, ne uscì uno Shaun evidentemente soddisfatto, col giornale sotto braccio.
«Hai intenzione di rimanere offesa per il resto della tua vita?» chiese sedendosi sul suo letto, accendendo il tablet.
Rebecca si girò di scatto, alzandosi a sedere «Se la tua “strategia” non funziona e va tutto a rotoli, giuro che ti ammazzo» gli disse puntandogli il dito contro.
«Stai tranquilla, vedrai che funzionerà…»
La ragazza si alzò dal letto e si avvicinò alla grande finestra: aveva cominciato a piovere particolarmente forte, e le nuvole erano talmente scure e compatte da far sembrare il cielo notturno vuoto e senza stelle, come se non esistesse.
«Come farà a trovarci?» chiese Rebecca tornando a sedersi sul bordo del letto.
Proprio in quel momento una figura incappucciata e fradicia di pioggia entrò nella hall dell’albergo. Nonostante fosse una figura alquanto imponente, nessuno sembrò notarlo. Mosse qualche passo lento verso il centro della sala, spostandosi cautamente, ogni tanto sedendosi fra due persone che chiacchieravano allegramente su un divanetto; quando la receptionist si girò verso la parete delle chiavi, la figura si alzò e si diresse verso le scale, completamente inosservato.
Sul biglietto che aveva nella tasca della felpa, c’era scritto con una grafia elegante – che conosceva assai bene – l’indirizzo dell’hotel, il piano e la stanza verso la quale si stava dirigendo.
Camminava silenziosamente – qualcosa che credeva non saper più fare – sperando di non incontrare qualche signora addetta alle pulizie.
Si fermò davanti alla porta con inciso sopra lo stesso numero che c’era sul pezzo di carta. Stritolò quel bigliettino nel palmo fino a farlo diventare una pallina accartocciata, che lasciò cadere a terra quando portò in alto il pugno per bussare alla porta. Quando questa si aprì, il ragazzo dall’altra parte sorrideva compiaciuto.
«Che cosa sapete? Che cosa volete
Shaun si scostò dalla porta per farlo entrare, e appena la porta si richiuse automaticamente, il ragazzo si calò il cappuccio blu e prese per il colletto l’altro, sbattendolo contro l’anta dell’armadio.
«Puoi chiamarmi in qualunque modo, ma non egoista!» il fiato freddo di Desmond andava ad appannare le lenti rettangolari di Shaun, che però non sembrava sorpreso dalla reazione, a differenza di Rebecca che si avventò contro il ragazzo per fargli allentare la presa «Desmond, smettila!»
«Non hai il diritto di chiamarmi in quel modo! Ho sacrificato me stesso per salvare il mondo!»
«Hai fatto la tua scelta, dopotutto-» il pugno che lo colpì lo fece cadere verso sinistra, Rebecca quasi non urlò, ma ebbe la lucidità mentale di frapporsi tra i due per evitare qualcosa di peggio.
Rebecca aiutò Shaun a rialzarsi da terra, raccogliendo anche i suoi occhiali. Aveva il naso sanguinante e un labbro rotto.
Quando uscirono dal bagno, Shaun disse pacatamente «direi che ho afferrato il concetto».
Desmond si sedette sulla poltroncina all’angolo della stanza, vicino alla finestra, dopo essersi tolto la felpa bagnata.
Shaun aveva cominciato a raccattare, con l’aiuto di Rebecca, tutti i fogli pieni di codici e traduzioni, mettendoli vicino al computer portatile e il tablet sulla scrivania.
«Sapete qual è la cosa che non vi perdonerò mai?» cominciò a parlare Desmond dopo un periodo infinito di silenzio «non è tanto il fatto che per qualche ragione che conoscete solo voi, mi abbiate rimesso in mezzo a questa merda, no. È che lo avete fatto in presenza di Elena, e lei non sapeva nulla di tutto questo, e doveva continuare a non saperne nulla.» aveva tanta rabbia nella voce, che riusciva a soffocare a malapena.
«Certo, Desmond, lo sappiamo…» rispose Rebecca dispiaciuta «ma non avevamo altra scelta…»
«Spiegatemi, allora.»
Rebecca si sedette sul bordo del letto, mentre Shaun restava in silenzio aspettando il momento giusto per cominciare a parlare come un fiume in piena.
«Non avevamo la minima intenzione di ritirarti in mezzo a questa merda. Ma qualcuno ci ha costretti a farlo» porse a Desmond il tablet con aperta sullo schermo la mail di spam da dove era partito tutto «vedi, Desmond, quella non è una semplice mail, ha un allegato, un file .ABT, che io ho scoperto essere un file abstergo. E al suo interno? Codici, codici e ancora codici. E ancora una volta, siamo riusciti a decifrare il suo contenuto: è un Soggetto, come te, Desmond, ma molto più importante per il suo ruolo all’interno della società, e sai perché? Questo Soggetto Ignoto – non ci viene detto il suo nome, né tanto meno il suo numero – ti ha trovato
Desmond aggrottò le sopracciglia sorpreso «Aspetta… in che senso?»
«Oh, Desmond, il senso è molto semplice: quando sei stato preso dagli Agenti dell’Abstergo nel 2012, è stato grazie a questo Soggetto.»
«Quindi, mi stai dicendo che sono stato controllato da questa persona e che al momento giusto ha dato l’ordine per farmi rapire?»
«Immagino di sì, o comunque qualcosa di simile… in ogni caso, questo Soggetto Ignoto ha anche aggiunto la parola “AIUTO” nel file, di conseguenza ci viene da pensare che non l’abbia fatto di sua spontanea volontà…»
«Okay, ma continuo a chiedermi cosa c’entro io con questa storia? Anche se questa persona mi ha rintracciato, cosa c’entro con lei?»
A quel punto Shaun avvicinò la chiavetta USB bianca a Desmond «Perché probabilmente si sente vicina a te in qualche modo… Questa chiavetta ce l’ha fatta avere lei. È venuta qui a Granada, solo per noi, solo per te. E le risposte stanno tutte qui dentro.»
Desmond prese la chiavetta fra le mani, se la rigirò fra le dita, contemplando il bianco candore di quell’oggetto. Troppi ricordi gli annebbiarono la mente, quando quello stesso colore lo circondava interamente, insieme a sprazzi di rosso sangue sulle pareti.
«E perché non lo avete aperto?» chiese infine tornando a guardare Shaun.
«Devi farlo tu, Desmond, e se vuoi scoprire il perché dovrai venire con noi.»
Il ragazzo sospirò, lasciandosi cadere sullo schienale della poltroncina damascata «Io non lascio Elena per tornare ad avere quella vita…» non guardava negli occhi nessuno dei due, forse era più un pensiero detto ad alta voce più che un’affermazione rivolta ai due.
«Desmond, torna a casa, pensaci, dormici su, poi appena prenderai una decisione, ci farai sapere, va bene?» disse Rebecca che fino a quel momento aveva preferito restare in silenzio, senza interromperli. Posò una mano sulla spalla di Desmond.
Il ragazzo annuì, alzandosi e si diresse verso la porta, ancora frastornato da tutte quelle informazioni.

 
II.
 
Elena aprì gli occhi lentamente, indecisa se lasciarsi cullare dal suono della pioggia e tornare fra i suoi sogni, o restare nel mondo reale e caricarsi sulle spalle le responsabilità della giornata.
Il braccio di Desmond sui suoi fianchi la fece girare verso di lui: dormiva. E sembrava essere anche abbastanza tranquillo. Pensò a quando potesse essere salito in camera da letto, ma non le venne in mente nulla; probabilmente era così stanca e spossata da non essersene neanche accorta.
Richiuse gli occhi, rilassando le spalle, stringendosi nelle braccia di Desmond che mugugnò qualcosa nel dormiveglia.
Elena lo guardava. Ama perdersi in lui, ad osservare le sue ciglia nere e folte, contare ogni neo sulla sua pelle e sorridere quando ne trovava uno nuovo, sentire il suo cuore battere tranquillo nel suo petto, toccare la pelle delle sue mani, così ruvide ma così delicate, quando intrecciavano le dita.
Il bagliore nel cielo durò pochi istanti, ma Elena lo notò come se fosse durato minuti. Chiuse gli occhi e cominciò a contare a bassa voce. “Uno, due, tre, quattro, cinque…” Desmond sentendo quel bisbiglio, aprì gli occhi, e quando vide la compagna rannicchiata quasi sotto le coperte, d’istinto, la cinse in un abbraccio sicuro. “undici, dodi-” il tuono rimbombò cupo nella stanza, con un’eco sorda e grave.
«È lontano, Elena… non può farti del male» una volta che il riverbero scomparve del tutto, lo scroscio della pioggia riprese ad essere il rumore dominante… cick.
Un tintinnio però non familiare fece scattare Desmond, tirando su la testa, rizzando le orecchie.
Cick.
«Amore, che c’è?» cercò di chiedere Elena, ma Desmond le fece cenno di stare in silenzio, aggrottando la fronte per concentrarsi ancora di più. Cick.
Desmond si alzò dal letto in fretta, dirigendosi verso le scale, in silenzio e gradino dopo gradino si ritrovò nel salotto. Vuoto.
Cick cick.
Si voltò di scatto, verso la finestra dietro il divano: Fatkin giocava con la cordicella della zanzariera rimasta incastrata fra le imposte chiuse, e ogni volta che il gatto le toccava con le zampette ciccione sbatteva contro il muro.
Elena – che intanto non si sa come – era scesa senza fare nessun tipo di rumore, ridendo soavemente prese in braccio l’animale che protestò sonoramente.
Si erano rilassati entrambi, quando qualcuno rovesciò la porta di casa. Il rumore del legno massiccio contro il pavimento sovrastò per un momento l’urlo di Elena, Desmond contrasse ogni muscolo del proprio corpo mentre la nube di polvere si abbassava.
«Nasconditi!» urlò alla compagna, facendogli segno di andare dietro uno dei divani; lui invece si preparava a combattere.
Almeno cinque persone, vestite di nero, erano entrate in casa sua sfondando la porta e spaventando a morte la sua fidanzata: «Avanti, fatevi sotto!»
Gli sconosciuti si pararono di fronte al ragazzo e provarono a colpirlo. Uno caricò un pugno che lo colpì su un fianco, ma Desmond ebbe comunque la prontezza di parare i due colpi successivi che non andarono a buon fine, a differenza dei tre pugni ben assestati uno dopo l’altro che fecero barcollare lo sconosciuto indietro fino a farlo inciampare nei suoi stessi passi; il secondo e il terzo tentarono una serie di colpi combinati, ma ancora una volta Desmond si scostò lateralmente per evitare che lo colpissero, infine essendo i due molto vicini, mise le mani dietro la loro nuca e li spinse uno contro l’altro: entrambi si accasciarono a terra inermi.
Stava riprendendo fiato, pensando a cosa diavolo stesse succedendo, a chi fossero quelle persone, quando la voce strozzata di Elena lo riportò alla realtà: gli altri due sconosciuti – un uomo e una donna – stavano tentando di immobilizzarla, ma Desmond con uno scatto arrivò dietro la donna prendendola da dietro al colletto e sbattendole la fronte contro il muro, poi si abbassò e con un calcio fece cadere a terra l’ultimo uomo.
Desmond abbracciò forte Elena che piangeva a dirotto, più spaventata che mai; le prese il volto fra le mani e le baciò le tempie, cercava di dire qualcosa ma il terrore le annodava la gola impedendole di parlare.
L’uomo a terra rantolò qualcosa, Desmond gli si avvicinò, pestandogli il torace per evitare che trovasse la forza di rialzarsi.
«Chi diav-» stava per chiedergli chi fossero e cosa volessero, ma prima di finire la frase intravide tatuato sul polso il logo dell’Abstergo Industries.
Desmond arretrò convulsamente, cercando il braccio di Elena per poterla prendere e scappare via di lì, il più in fretta possibile.
«Demsond! Desmond!» la voce di Rebecca si fece sempre più vicina fino a quando non si fermò sul ciglio della porta scardinata. Rimase immobile, incredula a quello che vedeva: cinque Agenti agonizzanti riversi sul pavimento fra sangue e urina.
«Oh mio Dio, Desmond… state bene?!» chiese decidendosi ad entrare per aiutare Desmond a sorreggere Elena.
«Io sì, ma…»
«Non ti preoccupare, venite e andremo via!» Desmond non sapeva se dargli retta, troppe coincidenze da quando erano spuntati fuori di nuovo nella sua vita; Elena strinse la mano del compagno e fece un leggero cenno di assenso. A quel gesto, non ci pensò due volte: prese Elena in braccio di peso e la portò fuori in giardino, mentre Rebecca raccattava qualche vestito dal salotto rovesciato completamente sotto sopra; aveva preso un cappotto e un paio di pantaloni per Desmond quando vide il gatto dentro il suo trasportino, con gli occhi colmi di paura, come la sua padrona.
«Oh, signore…» Rebecca roteò gli occhi e prese anche quel gatto ciccione che non sarebbe sopravvissuto due giorni senza di loro.
Dall’alta parte della strada c’erano Shaun e le due moto che li aspettavano.
«Siamo arrivati tardi, ma Desmond li ha fatti fuori!» cominciò Rebecca, agganciando il trasportino al retro della sua moto «Tu prendi la ragazza, Desmond viene con me» parlava in fretta, e sembrava sapesse il fatto suo, e ancora più in fretta aiutò Elena a salire al posto del passeggero dietro Shaun e Desmond dietro di lei.
«Perfetto, tenetevi forte!» avvertì infine mettendosi il casco e porgendone altri ai due passeggeri.
 
Il viaggio durò qualche ora, inizialmente fu una corsa sfrenata fra curve e gallerie, poi man mano che si allontanavano dalla grande città di Granada, avevano rallentato fino a tenere una velocità moderata.
Desmond aveva lo stomaco contorto dalla frustrazione, dall’impotenza nel vedere Elena in quella tale condizione di shock… strinse i denti per evitare di stringere ancora più forte la giacca di pelle nera di Rebecca davanti a sé.
Quando svoltarono in direzione di un casello autostradale non fece neanche caso verso quale città stessero andando.
Erano in una cittadina rurale, piena di grano ai lati della strada e piccoli canaletti che scivolavano lungo le banchine dei sentieri. Rebecca faceva strada in un sentiero particolarmente stretto, fino a quando in lontananza, alla fine della strada, non si cominciò ad intravedere un capannone, che sembrava proprio la meta degli Assassini.
Una volta arrivati, Desmond scese in fretta incurante dei formicolii alle gambe, per fiondarsi da Elena, che però era già tata aiutata da Shaun.
Desmond l’abbracciò senza dire nulla, e lei ricambiò inspirando il suo odore, quel buon profumo che però adesso era macchiato dall’odore acre del sudore del viaggio.
«Perché siamo qui?» chiese infine, seguendo gli altri due verso la porta in lamiera dell’edificio.
«Perché qui è sicuro.» aveva risposto in tutta franchezza Shaun, che cercava di aprire un grosso lucchetto.
Una volta riuscito nel suo intento, la prima ad entrare fu Rebecca, la quale nel buio riuscì però a trovare il generatore che si accese con un rumore di ingranaggi poco rassicurante; le luci artificiali pendevano dal soffitto come campane e i fili lasciati esposti erano scuri di polvere. Desmond ed Elena si guardavano intorno come bambini in una casa nuova; si stringevano forte l’un l’altra, per sostenersi a vicenda, per sentire che erano lì, insieme, ed era la cosa più confortante del momento.
«Benvenuti, ragazzi, nel nostro nuovo Covo.»
Quel posto da fuori sembrava essere un edificio pericolante, un fienile – o una stalla - quasi da tirare giù a terra, ma dentro era sistemato in modo da usare i soppalchi come camere da letto e il piano terra come…
«Ehi, un momento, quello è…?» Desmond arretrò inquieto, indicando un visore in plastica rossa.
«Sì, Desmond: è l’Animus Pro 5, test Gamma.» rispose Rebecca compiaciuta della sensazione che quel suono le lasciava in bocca, posando la gabbietta del gatto su un tavolino di legno grezzo vicino a un paio di divanetti sgualciti.
«Nessuno qui mi aveva parlato di rientrare là dentro!» il ragazzo aveva cominciato ad alterarsi, il battito cardiaco accelerato.
Shaun gli si piazzò davanti a pochi centimetri dal viso, con aria minacciosa: «Sei qui, e avevamo detto che saresti stato tu a scoprire cosa vuole il Soggetto Ignoto, ricordi?»
Desmond non si lasciò intimidire dagli occhi gelidi dell’altro, ma anzi gli si avvicinò ancora di più, gonfiando il petto, senza dire niente però, perché in fondo non sapeva con cosa ribattere.
Elena era andata vicino al gatto che miagolava irrequieto, “povera bestia…” pensava Rebecca, vicino a lei, sorridendole amichevolmente.
Per l’ennesima volta Shaun indicò la chiavetta USB attaccata ad uno dei tre server. «Devi farlo, Desmond…» il tono del ragazzo si era ammorbidito, quasi rassegnato al fatto che Desmond avrebbe opposto resistenza fino allo strenuo.
Rebecca posò una mano sulla spalla di Elena, spronandola ad alzarsi, facendole cenno di allontanarsi, e lei – seppur a malincuore – accettò la silenziosa richiesta.
Desmond aveva tutto il corpo contratto, pronto a difendersi da qualunque cosa sarebbe successa di lì a poco.
Shaun gli si avventò contro, stringendolo, immobilizzandogli le braccia contro il corpo, spingendolo verso il divanetto e facendolo cadere all’indietro sul morbido. Desmond si divincolava, cercava di liberarsi dalla stretta, ma in un qualche modo strano non riusciva a farlo, e vedeva Elena di sottecchi con le braccia al petto, le mani davanti alla bocca per evitare di urlare. Non voleva farsi vedere in quelle condizioni, non l’aveva mai voluto…
Rebecca tentava di infilargli un ago nel braccio, ma la vena era difficile da trovare, e ogni volta sentiva una fitta di dolore, fino a quando – forse per fortuna – cominciò a sentire il liquido anestetizzante scorrergli lungo il braccio fino alle tempie.
«Vi prego… non… fatelo» aveva già gli occhi pesanti e i rumori gli arrivavano ovattati.
«Tranquilla Elena, vedrai, sembrerà addormentato»
Elena… no, Elena…
 
 
Quando ci vide di nuovo, era tutto bianco, o forse nero? Perché non entrambi? Distorsioni gli apparivano davanti allo sguardo e per istanti sembrava potesse zoomare la sua vista come un obiettivo di una macchina fotografica. Non sentiva più il suo corpo, perché non aveva più un corpo, era solo essenza in quel momento. La sua anima rinchiusa di nuovo dentro quella macchina infernale. Eppure c’era qualcosa che ancora sentiva del mondo esterno, parole forse? Voci? O magari il suo corpo che tremava in preda a convulsioni violente? Immaginava fosse esattamente tutto quello messo insieme. Le onde si macchiavano di blu e verde, e rosso, tutto cominciò a tremare, e in qualche modo sentiva una voce che urlava, un corpo che si contorceva. Il suo.
 
 
Rebecca cercava di capire come poter stabilizzare la macchina, ma quello che stava succedendo a Desmond non l’avevano messo in conto: l’Animus lo stava rigettando.
Il ragazzo urlava in preda agli spasmi, Shaun gli teneva due dita sotto al mento in modo tale da evitare che involontariamente si mordesse la lingua, mentre Elena cercava di tenerlo fermo, con una mano sulla spalla, l’altra sulla tempia.
Quando Desmond aprì gli occhi improvvisamente, stringeva i denti talmente forte da sentire dolore, e i muscoli erano così duri da non riuscire a muoversi, eppure tremava incontrollabilmente. Elena lo guardava, pronunciava piano il suo nome perché non sapeva che cosa poteva fare per aiutarlo a tornare da lei.
Il ragazzo teneva gli occhi fissi in quelli di Elena sopra di lui, ma non riusciva a parlare e la frustrazione saliva secondo dopo secondo.
Ti prego, perdonami…
Desmond sembrò sbloccarsi, ma fu solo la reazione del proprio corpo per evitare di morire soffocato dal proprio vomito; si sporse dal divanetto in preda ai conati, tossendo nel sentire il gusto acido che gli bruciava la gola e il palato.
Shaun e Rebecca restavano in silenzio, sentendosi in colpa per quanto accaduto; Elena invece aveva nascosto il viso fra le mani, poggiata sul bracciolo del divanetto, in ginocchio, per piangere.
Desmond sembrava riprendere fiato, respirando a bocca aperta cercando quanta più aria possibile. Se ne avesse avuto la forza avrebbe spaccato il mondo in quella stanza, comprese le teste dei due Assassini, ma la forza gli sarebbe servita a poco se non riusciva a vedere niente. Lì per lì non se ne era reso conto, preso com’era dall’evitare di morire, e aveva creduto di tenere ancora gli occhi chiusi, ma una volta fermato il tutto aveva capito che gli occhi ce li aveva ben aperti, ma l’unico colore che vedeva intorno a sé era il nero, e gli oggetti, le persone gli apparivano come ombre altrettante scure.
Si guardava intorno e cercava il perché di quella reazione, perché l’Occhio dell’Aquila si sarebbe dovuto attivare senza esserne consapevole e specialmente perché nessuno dei presenti fosse evidenziato in un qualche modo. Gli prese nuovamente il panico, alzandosi a sedere sul divano.
«Desmond? Ti senti bene?» chiese piano Rebecca, preoccupata.
«Per un cazzo che sto bene!» aveva risposto l'altro a denti stretti, fissando dritto avanti a sé, facendo il possibile per comandare al proprio cervello di disattivare l’abilità. Sentiva la testa scoppiare, sembrava che una marea di voci gli sussurrassero all’orecchio contemporaneamente, non capendo cosa gli dicevano; aveva ripreso a tremare, e l’unica cosa a cui riusciva a pensare era Elena, tanto da allungare la mano alla cieca per poter trovare la sua.
Quando Elena sentì il tocco del compagno sul suo polso alzò di scatto la testa, con gli occhi gonfi di lacrime e si spostò di fronte a lui, fiondandosi per abbracciarlo in preda ai singhiozzi.
Desmond notò che ogni volta che Elena lo richiamava, sembrava cambiare qualcosa in quel buio assoluto che aveva intorno; la prese per le spalle e immaginò di guardarla negli occhi: la sentiva piangere, le spalle che si muovevano irregolarmente, voleva poterla calmare, ma non sarebbero bastate tutte le parole confortanti di quel mondo per riuscire nell’intento.
La avvicinò a sé e la baciò con dolcezza, anche se dentro di lui il cuore gli scoppiava per la paura.
A quel punto capì cosa cambiava. L’unica persona che veramente poteva definirsi alleata in quella stanza era Elena, e lei acquisiva un colore con l’abilità: era blu.

 
Fine Sequenza Genetica >
 

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Ragzzuoli, ci siamo. Ho aspettato un mese prima di pubblicare questo capitolo ed è forse il capitolo che preferisco fra tutti quelli che ho scritto ora! La Sequenza Genetica Introduttiva è finita! Un po' lunghina lo so, ma non volevo separarla in due capitoli differenti, doveva stare tutto insieme, altrimenti non si sarebbe capito nulla, così ho deciso piuttosto di fare la divisione all'interno del capitolo stesso.
Finalmente si sono scoperte tutte le cose fondamentali per poter andare avanti nella lettura. 
So che la maga del computer è Rebecca, ma sono passati cinque anni da quando Demsond si è separato da loro, quindi Shaun può aver imparato da Rebecca come sfruttare internet e i suoi circuiti - e se ci pensate è Shaun che lascia il messaggio agli Iniziati sul loro sito, non Rebecca.
A proposito di Iniziati, molto probabilmente ci infilerò dentro anche loro, quindi se non conoscete gli eventi successi in Assassin's Creed Initiates, vi consiglio di andare sulla loro pagina wikipedia e leggere il database: "Sorveglianza". Lì ci sono tutte le informazioni necessarie per capire gli eventi delle pressime sequenze gentiche ambientate nel presente! 

Alla fine, riflettendoci, mi sono resa conto che solitamente le scene nel presente vengono classificate con le date dell'evento, ma pazienza... ormai ho cominciato così, non starò a cambiare tutti i titoli, magari dalle prossime sequenze per differenziare il presente dal passato, userò il metodo del videogioco, ma qui, amen, teniamocelo così :)
Vi aspetto a breve alla prissima sequenza genetica! 


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Alla prossima, salute e pace!

 

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