Medui Estel - L'Ombra di Angmar di Anacarnil (/viewuser.php?uid=104752)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Segnali ***
Capitolo 2: *** Lotta per Nessuno ***
Capitolo 3: *** L'alba della guerra ***
Capitolo 4: *** Codreth del Lindon ***
Capitolo 5: *** Il Canto del Sorbo ***
Capitolo 6: *** Incontri (im)previsti ***
Capitolo 1 *** Segnali ***
Tra
gli strali del sottobosco scuro i due elfi si muovevano silenziosi, gli
occhi puntati avanti, i passi silenziosi che li portavano a costeggiare
le radure invase dagli arbusti, dai rovi e dalle spine intricate
tipiche della vegetazione rigogliosa e insana dell'interno del Bosco
Atro. Era una giornata calda, con pochi sprazzi di sole che filtravano
dalle chiome opprimenti e minacciose, torreggianti sui sentieri coperti
dal fogliame, nascosti, quasi totalmente cancellati. Al limitare delle
loro percezioni si accalcavano suoni grotteschi, spezzati, privi di
un'armonia di fondo o di un qualsivoglia ritmo. Lo zampettare sinistro
delle creature che popolavano quei luoghi reconditi avrebbe fatto
salire brividi freddi lungo la schiena di chiunque non vi fosse nato e
cresciuto, e i due che avanzavano erano tra quegli Eldar che
conoscevano la vita aspra a difesa della vita in quelle zone. Si
mossero sinuosi tra gli alberi, non più distanti di venti
metri l'uno dall'altro, ombre dal passo svelto che parevano danzare sul
soffice sottobosco evitando gli ostacoli con la grazia tipica dei
Primogeniti. Il primo reggeva un lungo arco di frassino,
tenuto basso, una freccia dal piumaggio candido già
incoccata, le spalle curve ed un ampio mantello del colore di quella
selva scura drappeggiato attorno al corpo elegante e affusolato, il
secondo teneva tra le dita di ogni mano tre pugnali dalla corta lama,
che emergevano dalle pieghe del mantello come aculei. Entrambi erano
incappuciati, e nascondevano alla vista le lunghe chiome di capelli
splendenti.Tra le tante aberrazioni sonore che sconfinavano prepotenti
nel loro margine percettivo, una in particolare li spinse a fermarsi
all'unisono, pronti a celarsi dietro la sagoma nodosa e storta degli
alberi-ombra che popolavano quelle terre dimenticate dai Vala. Le
orecchie puntute ebbero un fremito, mentre gli occhi degli Elda
saettavano avanti, spaziando oltre i tronchi abbattuti ed il
sottobosco. Qualcosa ringhiò, ed una risposta non
tardò ad arrivare poco distante.
Biascicò una voce raschiata, grottesca, profonda, senza
curarsi di abbassare il tono. L'altro individuo parve erompere in una
risata acuta, come una fredda stilettata tra le tenebre.
« Tu
avvicinati e ti sbudello, abbiamo degli ordini e la donna rimane viva
fino a quando lo dico io, te lo sei dimenticato?» Un altro
ringhio, cupo, profondo.
«Ho
bisogno di carne tenera!»
«Tra
un istante lo sarai per gli altri..»
Qualcosa
scintillò lì dove un piccolo fuoco da campo
crepitava.
«Tieni
a freno quella mano puzzolente, schifoso. Non andrò da
nessuna parte. Non ora...»
Un
sibilo raschiato, poi le due sagome si scostarono l'una dall'altra,
avvicinandosi lì dove altri orchetti stavano accalcandosi,
sbavando ed urlando la loro soddisfazione animalesca.
I
due Elfi avanzarono. L'accampamento nella foresta era niente
più che una serie di tende di pelle mal conciata radunate
attorno a fuochi da campo che scoppiettavano con riluttanza e che
rischiaravano timidamente l'ampia radura, e che scottavano la carne di
enormi ragni infilzati, le zampette chitinose radunate in uno
spettacolo raccapricciante sugli addomi rivoltati. Attorno brulicavano
orchetti del Morannon e goblin di piccola taglia tipici abitanti delle
Montagne Nebbiose, nervosi ed esagitati come sempre.
L'Elfo
con l'arco serrò la mascella, il volto tra le pieghe del
cappuccio non tradiva alcuna emozione. Rivolse un'occhiata al suo
compagno, sapendo senza guardare dove si trovava. La mutua intesa non
tardò a giungere. Entrambi si sporsero dagli alberi, ormai
prossimi alle luci dell'accampamento. Sollevarono una mano. Si
prepararono a lanciare.
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Capitolo 2 *** Lotta per Nessuno ***
L'Oscurità
era il più naturale tra gli ambienti in cui un orco avrebbe
vissuto con piacere. Eppure, nell'ombra che avanzava a divorare
rapidamente i pochi timidi raggi che si affacciavano tra i pertugi
delle chiome degli alberi, orchi e goblin non erano nelle loro tane.
Non conoscevano il posto, erano stranieri. La prima freccia ed il primo
coltello partirono silenziosi, e silenziosi puntarono le gole scoperte
di due vicini soldati orchetti, rimasti indietro a sorvegliare il resto
del piccolo accampamento. Quando una manciata di altri compagni
strabuzzò gli occhi, osservando un attimo perplessi la morte
silenziosa dei due compagni, altre frecce ed altri coltelli erano
già volati rapidi e precisi a mozzare nella gola di ognuno
di loro il grido d'allarme. I due elfi si avvicinarono circospetti,
spostandosi attorno alla radura, ancora in mezzo alla folta
vegetazione, indirizzando gli occhi sull'oggetto dell'interesse di
quegli orchi. La donna sembrava essere umana, a giudicare dalle
fattezze. Indossava nient'altro che uno straccio consunto e
sporco di sangue rappreso. Il volto era terreo oltre la massa
disordinata di lunghi capelli castani, raccolti in una coda di fortuna,
e negli occhi vitrei si poteva leggere tutto il suo terrore per quelle
creature mostruose che la avvicinavano, la annusavano, grugnivano e si
leccavano i denti affilati. Era imbavagliata e legata mani e piedi,
adagiata su uno scranno di legno troppo corto per la sua altezza, e
pareva non fare altro se non deglutire.
«Dov'è
che dovremmo portare la cagna?» esordì uno degli
orchetti in mezzo alla cacofonia di versi grotteschi che echeggiavano
nella radura.
«Oltre
le montagne, idiota. Ci aspettano là gli altri.»
«Uh.
» Ognuno di loro pareva avere impresso a fuoco sulla spalla
destra, scoperta, il simbolo di una saetta. Ne morirono altri, prima
che il gruppo più sostanzioso si accorgesse di aver subito
delle perdite lungo l'intero accampamento. La massa allora si disperse,
e le urla frustrate e terrorizzate giunsero all'intrico di rami sulle
loro teste.
«Prendete
le armi, ver...» L'orchetto che stava pronunciando quelle
parole portò le mani alla gola, lì dove era
apparsa una lunga frecci dall'impennatura candida. Cadde riverso in un
bagno di nero icore, gemendo e cercando di respirare invano. Colti
così, alla sprovvista, completamente terrorizzati e incapaci
di comprendere il numero dei nemici che avevano avanzato l'attacco,
molti fuggirono, cercando riparo tra gli alberi, inciampando,
impreando, muggendo per la disperazione di mettersi in salvo. Il
destino che li attendeva nei meandri del Bosco Atro non sarebbe stato
benevolo. Ma ce n'erano altri, più potenti ed ostinati, che
non persero tempo a latrare ed infilarono gli elmi e le placche
protettive, impugnando le enormi spade di ferro grezzo e posizionandosi
a schermare la donna.
«Venite
fuori, cani!» ruggirono.
«Venite
fuori!» Il cozzare delle armi sulle fredde armature
metalliche accompagnò la comparsa dei due elfi, entrambi
avevano in pugno le loro lame elfiche, entrambi rivolgevano agli
incursori uno sguardo freddo, glaciale, mentre si portavano avanti
lentamente. Quello che sembrava essere il più temerario tra
gli orchetti, distese le labbra a mostrare un ghigno perverso. Sul
volto sfigurato oltre l'elmo, scintillò la luce dei tizzoni
ardenti. La battaglia che ingaggiarono fu rapida ed inesorabile.
L'abilità degli elfi si rivelò superiore e non
ebbero difficoltà ad avere la meglio di ognuna di quelle
bestie. Quando l'ultimo fu caduto trafitto, i due elfi pulirono le lame
e si avvicinarono alla donna. Con sgomento, notarono che nel furore
della battaglia qualcuno dei goblin o degli orchi rimasti si era
appartato con l'unico intento di sgozzarla, prima di essere a sua volta
passato a fil di spada dal furore dei Sindar. Gli occhi spenti erano
ancora rivolti al tetto di rami in alto, lì dove
probabilmente qualche secondo addietro c'era stato il volto del
carnefice che aveva sottratto la vita alla donna. Mesti, esaminarono il
corpo, chiusero gli occhi del cadavere, mormorano qualche parola di
commiato.
«Andrò
da Thranduil.» fece Anacarnil.
«Il
viaggio per gli Ered Luin sarà lungo.»
«Ti
raggiungerò lì, amico mio. Dovrò
informare i silvani di questa nuova. Nubi scure si addensano su quei
luoghi.»
«Ahi,
Glorfindel. L'inverno sta arrivando.» E così come
era giunto alla radura, Anacarnil figlio di Anarindil di Bosco Atro
fece ritorno alle dimore del Re della Foresta Oscura.
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Capitolo 3 *** L'alba della guerra ***
«Quel
che tu affermi è grave.» Thranduil prese
una pausa per riflettere sulle parole di Anacarnil, lo sguardo che
ricadeva spesso oltre lo scranno, verso le luci delle abitazioni tra
gli alberi.
«Mio
figlio Legolas è già in viaggio per Gran Burrone,
ha risposto alla chiamata di Elrond Mezzelfo per un consiglio delle
razze.» mormorò ancora, il volto adombrato da
riflessioni profonde e cupe. Si prese il mento delicato tra le dita
affusolate di una mano.
«Potrei
inviare degli esploratori sul cammino ed un messaggero fino a Duillond.
Tu sei un Signore degli Elfi, Anacarnil. Non sei costretto a portare tu
stesso questo fardello.»
«Il
mio cuore è pesante, maestà. Soffrirei la
permanenza in queste terre. E dopotutto mi conosci, non è
nella mia indole ricevere informazioni da altri che io non possa
raccogliere da solo.» Thranduil sospirò,
seguitando a rimuginare avvolto nel suo silenzio cogitabondo.
«Mi
chiedi di lasciarti andare via. Mi chiedi di sottrarre agli elfi di
Bosco Atro un'altra valida guida. E se me lo chiedi tu, anche
Glorfindel farà lo stesso. Ciò non posso
permetterlo.» Anacarnil, interdetto, rimase a fissare il suo
re con la mascella serrata. Il Re di quelle foreste oscure
sollevò lo sguardo, piantandolo in quello del suo
sottoposto, mantenendolo saldo in un silenzio carico di aspettative.
Un'altra pausa, un altro lungo silenzio.
«...
non farmi rimpiangere di aver preso questa decisione in tempi
bui.» L'altro elfo si produsse in un breve inchino.
«Hai
la mia parola, maestà.»
«Avrai
bisogno di una scorta, immagino.»
«Certo,
gradirei ardentemente la compagnia di Dwaeldor, Minuial ed Anduial nel
mio viaggio, e di nessun altro, mio signore.» un sorriso
lieve si dipinse sul volto delicato dell'elfo guerriero, un sorriso
contagioso, che affiorò anche sulle labbra del Re del Bosco
Atro.
Cavalcava
ormai da più di due giorni, i capelli raccolti all'interno
dell'ampio cappuccio del mantello verde selva che avviluppava le sue
membra, attento a tenere il profilo frastagliato dei Monti Azzurri
sulla sua destra, con l'intenzione di costeggiarli e tornare a voltare
per il passo più vicino. Attorno alla sua figura si
innalzavano dolci pendii e cime poco aspre, che formavano i territori
subito ad Ovest del Bosco Atro, e che si estendevano per miglia in
lungo ed in largo fino ad incontrare le prime asperità dei
monti ad Ovest, lì dove il paesaggio si induriva ed
abbandonava il verde delle ricche vallate per abbracciare i castano, il
grigio ed il bianco tipici degli ambienti montani. Era una giornata
ventosa, e ampie nuvole si addensavano a coprire i raggi solari,
tinteggiando di un pallido grigiore le terre aldiqua dei monti.
Dwaeldor nitrì il suo ardore al vento, seguitando a
galoppare ostinato tra i bassi crinali dell'ampia vallata che stavano
percorrendo. Alla loro sinistra, un fiume scorreva sinuoso tra gli
anfratti rocciosi, gorgogliando e raspando sull'ampio fondale, mentre
interi stormi di uccelli si libravano in un volo orchestrato in alto
sulla testa del destriero nero e del suo cavaliere. Chino sul garrese
dell'animale, l'elfo pareva non avere occhi se non per il sentiero che
stava percorrendo, la mente che viaggiava parimenti cercando dimora tra
le schegge di un pensiero incompiuto e l'altro. Negli ultimi istanti di
vita, la donna, tra gli attacchi di tosse sanguinolenta aveva infatti
pronunciato una parola, una sola, mozzata dalla fatica ed
incomprensibile a primo acchito. "Skar" era tutto ciò su cui
l'elfo guerriero doveva basarsi nel suo viaggio verso Duillond, per
cercare risposte a domande che in quel momento non gli erano del tutto
chiare. Che ruolo avrebbe giocato la donna se fosse rimasta in vita e
prigioniera degli orchi? Perché tutta questa preoccupazione
nell'uccidere lei e lei soltanto? Perché gli orchi dovevano
ora radunarsi in luoghi tanto lontani e pericolosi per la loro scura
specie? Le trame che andavano prendendo forma nella sua testa si
infransero improvvisamente. Un ululato grottesco scosse la placida
tranquillità di quei luoghi ed il Sinda si costrinse a
sollevare lo sguardo, spaziando sulla vallata con occhio vigile. Il suo
udito captò segnali lì dove gli occhi non
avrebbero potuto. Passi affrettati, pesanti, privi di una cadenza di
fondo. Il ringhio sommesso di belve feroci. E poi un altro ululato, a
cui si unirono altri due, tre, venti altri ululati, in un monito di
morte agghiacciante. Anacarnil lanciò il suo cavallo al
galoppo proprio mentre dai crinali vicini emergevano i profili ferini
dei warg di Dunland, cavalcati a pelo da orchetti fanatici armati di
lunghi falcioni. Il destriero nitrì, le narici che si
espandevano nel terrore di quella vista improvvisa. Il branco di
cacciatori ruggì nel vento, accostando il cavaliere elfo da
entrambi i lati mentre questo lasciava le redini, apriva il mantello e
sfoderava Minuial ed Anduial, le terribili lame elfiche.
«Crepa,
orecchie a punta!» esclamò il più
vicino, agitando la mannaia e scoprendo i denti sotto l'elmo di metallo.
Non
fece in tempo a ricordare di aver già udito la voce di
quell'orco tre notti addietro che questi era già balzato
dalla sua cavalcatura per cercare di disarcionare l'elfo e prendere il
controllo del suo cavallo. Anacarnil affondò rapido come il
vento che spirava da Nord, ed Anduial fu coperta di nero icore mentre
il cadavere dell'orco rotolava dietro le sue spalle e finiva tra le
fauci di un altro warg famelico. Mulinò ancora le lame e
queste scintillarono nella luce opaca del giorno, abbattendosi
terribili sui corpi di bestie e fantini senza distinzione. Due di loro
balzarono in avanti, virando sull'interno del percorso per tagliargli
la strada, ed egli spinse con una delle due gambe per comunicare alla
sua cavalcatura il cambio di percorso repentino. Solo grazie a
quell'intuito poté evitare le fauci fameliche delle bestie e
le spade affilate dei nemici.
«Lim
Dwaeldor, noro lim!» spronò Anacarnil, ormai
lanciato in un galoppo sfrenato, il cappuccio che si era ormai
sollevato aveva rivelato la chioma di biondi capelli scossi dal vento e
dalla frenesia di quella corsa. Lo scatto dell'animale permise all'elfo
di guadagnare per breve tempo un minuscolo vantaggio. Si
preparò quindi a radunare le forze per un nuovo duello, le
lame alte. Un'occhiata alle sue spalle rivelò un numero
intrattabile di orchi e warg pronti a fargli la pelle. Un altro
pensiero corse sinistro ai confini della sua mente. Non ce l'avrebbe
mai fatta.
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Capitolo 4 *** Codreth del Lindon ***
Quando si accorse che la lettera era stata vergata dallo stesso Mithrandir, quasi rischiò di gettarsi dalla sedia e correre a perdifiato ad avvisare il Signore di Duillond, Retheor. Si prese il tempo per sistemare il corevo messaggero che era giunto con il messaggio, rassettandosi nervosamente i lunghi capelli neri e le vesti da Studente del Passato, riacquisendo la sua tipica maschera severa e discente prima di guardarsi intorno e riflettere un secondo sulle parole che aveva letto poc'anzi.
"Scava nel passato Codreth del Lindon, porta alla luce la verità rimasta sepolta per tanti anni sulla Seconda Era di questo mondo, ché io me ne dovrò servire. Attendimi il terzo giorno dopo l'Equinozio, al tramonto, sul picco che affaccia sul fiume oltre Duillond. Dovrai portarmi dal tuo maestro."
Non sapeva dire a cosa potesse riferirsi il vecchio Istar, e nel feroce entusiasmo tipico dei giovani elfi egli stava già rimuginando sulle possibili dinamiche dell'incontro col Grigio Stregone. Dopotutto, dietro il pesante blocco di marmo che era usualmente il suo volto, esempio di severità ed attaccamento al lavoro, si nascondeva un cuore pulsante, forte ed inesperto.
Decise di non interpellare nessuno a riguardo di quel nuovo avvenimento. Con un fischio basso provò a richiamare Daw, il suo compagno falchetto, ma non vi fu la solita risposta gracchiante. Si sporse dalla finestra priva di vetri del complesso dell'Accademia elfica, scrutando il sole basso sull'orizzonte e le foreste aldilà del fiume, quasi aspettandosi di vedere una sagoma scura librarsi in volo nel cielo terso, ma si rese conto che il suo amico animale era partito per la caccia da troppo poco tempo per avere già necessità di tornare alla torre.
Tornò quindi nella stanza, impugnando la lampada ad olio e aprendo la porta per cominciare ad incamminarsi verso il basso, impegnando la rampa di scale a chiocciola. L'Accademia era un luogo illuminato e ampio, formato da numerose stanze e corridoi, con diversi torrioni a puntellare il perimetro interno ed esterno del complesso e tesi a semplificare il passaggio tra le stanze degli studenti e le varie sale comuni piene zeppe di libri e tomi più o meno recenti.
Passeggiò sovrappensiero tra le sale di legno, quasi dimentico di offrire il saluto ai suoi compagni studenti. E gli stessi compagni elfi di Codreth notarono un'ombra greve scivolare sul volto pallido del giovane di Mithlond, ma furono restii a chiedere spiegazioni, poiché sembrava assai determinato in ciò che si stava accingendo a compiere. Superò la grande sala rettangolare di ritrovo per imboccare la rampa che portava ai sotterranei un tempo appartenuti alla genie di Aule il Fabbro e abbandonati da centinaia di anni, solo per essere poi annessi alle costruzioni longilinee e affusolate degli elfi che lì si stanziarono agli albori della Seconda Era. Un ampio e spesso portone sigillato in rowan finemente lavorato pareva precludere l'accesso alle sale inferiori a chiunque non disponesse della dovuta autorizzazione, egli tuttavia aveva già superato da tempo il praticantato ed in qualità di apprendista aveva diritto a consultare gli Antichi Tomi due volte per mese lunare. Ed egli era assai accorto nello sfruttare quella possibilità, e si riservava di fare il suo ingresso nelle ataviche sale di Duillond negli ultimi giorni che scandivano il mese.
Sospinse la porta sussurrando un comando nella Prima Lingua degli Elfi, richiuse poi l'ampia superficie lignea dietro le sue esili spalle, e proseguì oltre. L'aria si faceva più stantia e pesante man mano che si procedeva verso il basso, una sensazione ormai familiare al giovane elfo che pareva non farci più caso. Sin dalla prima volta in cui aveva messo piede nelle stanze antiche, il cuore aveva cominciato a battere all'impazzata. Ogni volta che calcava quelle scale divorate dalla polvere sapeva di poter accrescere le sue conoscenze, e quella consapevolezza lo entusiasmava oltremodo. Questa volta era addirittura elettrizzato - ma non l'avrebbe mai dato a vedere -, poiché alla possibilità di acquisire conoscenze si univa la possibilità di condividerle con uno dei cinque leggendari stregoni che giunsero da Valinor stessa. Per motivi ancora ignoti, è vero, ma sapeva già che avrebbe cercato delle risposte alle migliaia di domande che da qualche decina di minuti addietro si stavano già affollando rumorosamente ai confini delle sue percezioni.
Terminò praticamente senza farci caso la rampa, adocchiando le due ampie sale congiunte con un pizzico di confusione. Vi erano così tanti scritti sulla Seconda Era lì dentro, e non sapeva nemmeno quale argomento in particolare avrebbe dovuto cercare...
Sistemò la lampada ad olio sul trinchetto di legno, poi cominciò diligente il suo lavoro. Pergamena dopo pergamena, tomo dopo tomo, la fretta dei mortali non apparteneva al suo cuore, ed egli fu felice di poter mettere mani su una serie interminabile di scritti. Con l'ordine mentale di cui era stato generosamente dispensato dai suoi genitori, fu abile nel ripartire gli argomenti e schedarli. Lesse di Battaglie feroci, rivolte, trattati di pace ed invasioni, di combattimenti, duelli, ed eroine ed eroi di tempi andati. Si sistemò quindi meglio sulla sedia di rovere, chino su un'ampia pergamena raffigurante le terre leggendarie del Beleriand, adocchiando i paesi e i regni del passato pervaso da un'estatica ammirazione, e passò poi senza indugiare ai tomi della sapienza dei nani, che avrebbe desiderato ardentemente tradurre, e si risolse per metterli da parte.
Dopo numerose ore di permanenza, le pergamene più delicate, alcune pericolosamente esfoliate sulle estremità, ed i tomi che aveva radunato formavano pile ordinate per argomenti tutti riguardanti la Seconda Era della Terra di Mezzo. Un lavoro di fino che solo un elfo, ed in particolare solo Codreth di Lindon tra gli elfi Sindar avrebbe potuto svolgere.
Sostò in quelle stanze quasi dimenticandosi di ravvivare il fuoco nella lampada per diverse altre ore, perdendo la cognizione del tempo, prima che una voce leggera e profonda attecchisse nella sua mente.
"Il risveglio dal torpore sarà più dolce di quel che tu possa immaginare..."
Aggrottò la fronte, sollevando il capo e osservando le pile ordinate di libri nelle mensole avanti a sé.
"Ho già udito questa voce... "
"Ti attende un compito ben più grande di quel che tu ti sei prefissato, Codreth dei Grigi Nidi. In te, ripongo la mia fiducia."
"I fili dei tuoi pensieri sono tanto meravigliosi quanto il suono delle tue parole. Ma te ne prego, mostrati a me ed appaga la fame di risposte che mi avvilisce. Non abbandonarmi."
Nella penombra, spostò gli occhi tutt'intorno, incapace di comprendere cosa aspettarsi. Quella vaga sensazione di familiarità con la voce che aveva penetrato i suoi pensieri era stata solo un lampo, ed egli era tanto più confuso di quanto sarebbe potuto essere nell'immediato passato.
Si voltò ancora, spalancando gli occhi.
Gli parve di essere sondato per un solo istante da uno sguardo gelido, azzurro e splendido, nient'altro. Nei giorni a venire, non avrebbe mai compreso se quello sguardo appartenesse ad una visione della sua mente, o ad una proiezione di quei luoghi magici.
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Capitolo 5 *** Il Canto del Sorbo ***
Codreth abbassò lo sguardo, gli occhi che sondavano il folto sottobosco, il bastone saldo in un mano ed il cesto nell'altra. Si mosse, lasciando che la tunica finemente lavorata si agitasse appena nel refolo di zefiro, poi tornò a chinarsi. Abbandonò per un attimo il cesto su un piccolo spiazzo di terreno, scostando un cespuglio di more senza frutti e illuminandosi per un breve frangente. La pianticella di athelas era lì, impettita ed elegante nel suo abito di piccole foglie. Il giovane elfo mormorò una parola di ringraziamento, adocchiandola per qualche istante, poi staccò con garbo alcune delle foglie più grandi e le ripose nel cesto, lì dove le altre foglie di athelas giacevano, e ben lontano dalla belladonna e dal convolvolo, che come diceva il maestro erborista Falarin su a Duillond, "ampie e belle esse brillano per te, offrile in sposa a tutti tranne che al re", per via della loro azione nullificante sull'athelas, chiamata anche foglia di re, se lasciate nei paraggi.
Sorrise, tornando a seguire il corso del fogliame degli alberi e del loro orientamento per cercare tracce di altra athelas, o di luparia, o di muscaria. Raccolse ancora altre piante, vagando per la foresta che costeggiava Duillond con passo risoluto e mente gravida.
L'incontro con lo stregone era ormai alle porte, ed egli non conosceva ancora il motivo di quella richiesta urgente. Aveva inviato una risposta, informando Gandalf del lavoro che aveva svolto nelle sale e di alcune informazioni preliminari che avrebbero potuto far comodo in anticipo su ciò che aveva scoperto, ficcando il naso qui e lì tra gli scritti antichi.
Quando giunse in prossimità del ruscello, decise di prendersi una piccola pausa. Abbanonò bastone e cesto e si rassettò con calma le vesti, prima di abbandonarsi a giacere per un secondo spalle ad un salice dalla folta chioma, ed approfittandone per estrarre dall'ampia tasca della tunica da studente il tomo che aveva deciso di leggere in quei giorni. Sorrise tra sé e sé quando lesse delle imprese di Huor, l'astuto cane dei Valar, e del suo coraggio nel caricare i Warg del Beleriand a fianco di Beren. Era una giornata tranquilla, un vento asciutto scuoteva piano le chiome di querce, salici e frassini, mormorando tra le foglie ed i rami, sussurrando alle orecchie di chi sapeva ascoltarlo, ed un sole tiepido si insinuava timido a riscaldare il terreno invaso da cespugli ed erbe.
Rimase a leggere per due ore abbondanti, dimentico del tempo, conscio di aver già portato a termine il suo lavoro nelle ore precedenti e assai desideroso di poter riflettere sugli ultimi accadimenti dei giorni passati. Da giovane ed inesperto elfo qual era, viveva ogni novità degna di essere chiamata tale con quel misto di trepidazione ed ansia tipica delle menti libere dal fardello oneroso dell'esperienza, forza tanto intensa da scardinare a tratti anche il suo animo ligio e severo.
Fu proprio tra una riflessione e l'altra che si accorse che qualcosa era cambiato nella vegetazione attorno a sé. Il gorgogliare del ruscello si era fatto più quieto, e lo stormire delle fronde più cauto. Sollevò lo sguardo dal tomo, aggrottando la fronte e guardandosi attorno, la vista acuta che si posava su ogni particolare di quello scorcio che aveva dinanzi. Le foglie avevano cessato quasi completamente di muoversi, e così il vento, ridotto ad un refolo distratto nell'aere immoto. Tornò ad ergersi, vigile, ma era una sensazione intestina a metterlo sul chi vive, aldilà delle percezioni esterne che stava assorbendo, e questa si faceva spazio sinuosa tra le pieghe del suo animo, mettendolo in guardia non già da un pericolo, ma dal rischio di poter perdere quell'euforia galoppante che aveva provato fino a poco tempo addietro.
Decise di inoltrarsi nella foresta, lento, confuso, risalendo il ruscello e prendendo atto del terreno che si faceva man mano più ripido sul declivio montano che si apriva avanti alla sua figura.
Bastò solo qualche passo perché una nota attirasse la sua attenzione. E in quello stesso istante una tristezza profonda lo pervase, oscura ed ignota. Proseguì, e a quella singola nota seguirono altre, ed altre ancora, a formara una nenia dolce e malinconica, che vibrava nell'aria. Più andava avanti e meno le foglie stomrivano e meno il ruscello gorgogliava, come se anche questi si quietavano per ascoltare quella composizione di note pulsanti, oltre questo o quell'albero. Quando l'aria fu completamente immota, partì il canto.
Oh Orofarnë, Lassemista, Carnimírië!
Oh dolce sorbo, come splendeva bianco sul tuo capo il fiore!
Una lacrima sgorgò solitaria a solcare il suo viso pallido. Si fermò, abbassando il capo, limitandosi ad ascoltare quel canto straziante, intessuto nella melodia e nel sussurrò del vento, che pareva essere stato imbrigliato per seguire quelle note o, più probabilmente, aveva deciso spontaneamente di abbracciare quel canto ed inebriarlo.
Oh sorbo mio, in un giorno d'estate io scorsi il tuo bagliore!
Corteccia lucente, voce limpida e dolce, fogliame fresco e leggero;
Tornò a sollevarsi, scorgendo due figure immobili a diversi metri di distanza. Erano elfi, uno vestiva i colori smeraldini della selva, ed i capelli biondi tenuti sulle spalle rilucevano nel sole, l'atro vestiva le tonalità più spente del cielo d'inverno, il volto era oscurato da una nutrita chioma castana. L'ultimo pareva tenere tra le mani un liuto snello, e le mani abili pizzicavano le corde con maestria. Su di loro, la foresta pareva stringersi e raccogliersi ad ascoltare placida.
Era rosso-oro la grande corona che in capo portavi altero!
Oh sorbo mio addio! La tua chioma morta grigia e secca è ormai;
Si accorse di conoscere le parole. Si rifiutò di farsi domande a riguardo, si limitò a prendere parte al canto assieme ai due riuniti davanti al fuoco di campo, raggiungendoli e sostando al margine della radura, osservandoli ed osservando poi l'albero di sorbo a cui erano rivolti, dandogli la trequarti. Ai piedi dell'albero, un unico, bianco giglio sostava su una fresca zolla di terra. Gli elfi avevano chiuso gli occhi, e lacrime cristalline scendevano lente sui loro volti tesi nel cordoglio.
La corona è caduta, la tua voce è perduta e per noi più non canterai.
Oh Orofarnë, Lassemista, Carnimírië!
Il canto si spense in una nota bassa, vibrata, e così fecero le melodie del liuto, sostando tenui su un'ultimo arpeggio carico di malinconia. I tre radunati ai piedi del sorbo si chiusero in un silenzio istintivo, immersi nelle loro elucubrazioni.
La foresta tornò a distendersi, l'afflato delle piante che si spandeva nuovamente nell'aria, mentre il menestrello schiudeva gli occhi verdi ad osservare la natura, perso nelle sfaccettature e nei colori.
Codreth posò la cesta ed il bastone dell'apprendista, fece un passo avanti.
- Erano parole di addio. -
- Lo erano. - rispose il silvano biondo.
- Avaro fu il tempo tiranno, ahimé. Ahimé! - proseguì il menestrello.
Codreth fu incapace di continuare. Chinò il capo, andò a sedersi accanto ai due, in silenzio.
- Grazie. -
Lo studente scosse il capo.
- Chi riposa ora sotto il sorbo ed il giglio? -
- Maenlin Baenlion detto Il Sorbo fu il suo nome, indomito condottiero tra gli elfi di Lòrien la Bella. - esordì in un soffio malinconico il menestrello.
- Perché cadde... signori? -
- Sanjick Biancavolpe erano soliti chiamarmi. Da oggi sarò Sanjick Grigiavolpe. Ed egli è il mio compagno Uragol delle Candide Sponde. -
- Ed io sono Codreth del Lindon - si affrettò a rispondere l'elfo dai lunghi capelli neri, attendendo la loro risposta.
- Maenlin fu preda della guerra. Lo abbiamo trascinato dalle colline di Evendim fino qui, braccati da orchi e Warg di Dunland, nella speranza di vederlo di nuovo alto e fiero a mulinare la sua bianca spada. E la nostra speranza è ora sepolta al suo fianco. -
Codreth parve inorridire a quella notizia.
- Ma perché così tanta strada? Evendim, lì potevano... -
I due elfi volsero lo sguardo carico di tristezza sullo studente, all'unisono.
Codreth scosse il capo, sentì le parole morire prima ancora di aver fiato per pronunciarle.
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Capitolo 6 *** Incontri (im)previsti ***
Non
poteva fare altro se non spronare il cavallo ad un galoppo sfrenato,
andando a costeggiare ampi affioramenti rocciosi per cercare di
rallentare i suoi inseguitori pressandoli contro le pareti, ma ad ogni
scambio di colpi Anacarnil doveva rallentare e dalla schiera di
cavalcature Warg ne emergeva sempre una in più pronta a
scattare e pronta ad incalzarlo.
Seguitando
a viaggiare nella vallata, giunsero ad una spiana polverosa, dove il
paesaggio si faceva più arido e la vegetazione diradava fino
a presentare sparuti ciuffi di erba che facevano capolino dalla terra a
stento, orgogliosamente eretti contro le intemperie. Si stava
sollevando un vento sferzante, che scuoteva le vesti ed infastidiva la
sua cavalcatura, ormai con la lingua a penzoloni e schiuma di sudore
lungo il basso ventre scuro. Dwaeldor agitò il crine,
nitrendo sfinito, e ad ogni falcata la velocità e l'ampiezza
del passo si riducevano, risucchiando così cavallo e
cavaleire in quel gorgo di lame e fauci affilate e schiamazzi
feroci.
L'elfo
si preparò ad assorbire un nuovo assalto, sul volto una
determinazione che era furia, mentre sollevava le lame, rallentava
usando le ginocchia e rispondeva ignaro della stanchezza ai colpi
inferti dai goblin che gli si erano avvicinati. Due caddero, le loro
cavalcature uggiolarono per un solo lungo istante prima di rotolare
nella polvere. Altri due goblin vennero disarcionati, ma altri due si
avvicinarono, questa volta all'unisono, in ampi balzi, emergendo dal
turbine di lame dietro il Grigio, le grezze spade ritte, pronte a
colpire all'unisono, le bocche spalancata e sbavanti, gli occhi
iniettati di rabbia e frustrazione per non aver ancora tolto la vita
all'ostinato elfo.
Anacarnil
si chinò sul garrese, guardando avanti. Non sarebbe mai
riuscito a contenerli entrambi, pensò in una frazione di
secondo. Lontano, sulla sua sinistra, le torri abbandonate della caduta
Fornost svettarono nel cielo plumbeo. Provò ad accelerare,
sentì il cavallo mancare un passo, quasi cedere alla
stanchezza. Non lo fece, ma non riuscì nemmeno ad avanzare
di un solo infinitesimo più rapidamente. Sentiva
già le urla di gioia bestiale degli orchi che gli stavano
alle calcagna, digrginò quindi i denti, si raccolse sul suo
destriero e si preparò ad un'ultima strenuta resistenza.
Le
lame calarono in un tripudio di esclamazioni irate, mirando al suo
corpo stretto nel manto dei boschi.
Sollevò
le due spade gemelle.
Chiuse
gli occhi.
Ancora
urla concitate, questa volta di pura rabbia e sgomento.
I
due orchi ai fianchi erano spariti, inglobati da quella massa di feroci
lottatori. Altri due morirono prima ancora di avere la
possibilità di avvicinarsi. Il gruppo, dall'iniziale
coesione, si disgregò. E fu in quel momento che oltre il
polverone che si stava sollevando nella piana, scorse due sagome, ritte
sui loro cavalli, gli archi in pugno. Avanzarono oltre la cortina
insieme, esattamente alla stessa velocità, incoccando e
scagliando frecce praticamente all'unisono, eliminando orchi con
precisione letale. Si portarono dietro Anacarnil, mietendo vittime nel
vento che infuriava, i cappucci scuri ancora calati sui volti. Uno dei
due ripose veloce l'arco, impugnò una lama corta, attese che
il Warg si avvicinasse, lo eliminò in un paio di scambi
sulle selle. In pochi istanti, molti dei nemici erano caduti, morti
sotto il peso delle loro cavalcature ribaltate senza vita, trapassati
oppure in fuga precipitosa.
Ma
non tutti erano ovviamente ancora paghi di quella dura lezione
impartita allo squadrone di ricognitori. Stavano infatti passando tra
due piccoli rialzamenti del terreno, quando sulle creste di quelle
minuscole collinette apparvero altri due cavalieri dei Mannari.
I
due salvatori si gettarono ai lati di Anacarnil in un galoppo fresco,
le due cavalcature non ebbero problemi a superare Dwaeldor, ormai
prossimo al cedimento. Alla sinistra dell'elfo avanzava chi, dei due,
aveva precedentemente impugnato la spada, sull'altro lato invece
cavalcava il fantino con l'arco ancora in pugno. Un'occhiata tra loro,
prima che il cavaliere al centro sbarrasse gli occhi.
-
Aylantas! - esclamò nel vento osservando la figlia oltre le
pieghe del cappuccio, sulla sua sinistra.
-
Glòredhel! - fece ancora, incredulo, al tizio sulla sua
destra.
I
due non risposero, accelerarono un secondo, annuirono nel vento, si
lanciarono le armi che impugnavano fino a qualche secondo addietro, poi
l'elfa di nome Aylantas fu lesta ad incoccare e a trafiggere l'orco
distante sullo stesso lato, ed il suo compagno si sbarazzò
dell'altro che si era avvicinato troppo in due stoccate eleganti ed
efficaci.
-
Aaye, padre - esordirono insieme, adeguandosi alla velocità
del destriero del Signore degli Elfi. Su entrambi i volti scintillavano
sorrisi divertiti, di sfida ed entusiasmo.
-
Non avrai davvero creduto che ti lasciassimo tutto il divertimento,
vero? - continuò l'elfo dai biondi capelli mossi, lunghi
alla nuca, cominciando a ridere.
-
Largo ai giovani! - e l'elfa dai lunghissimi capelli castani, ondulati,
si unì alla risata del fratello.
-
Non posso crederci... - Anacarnil scosse il capo, guardando avanti a
sé. L'avevano trovato comunque, nonostante tutto.
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