-A Bloodless Christmas Carol-

di Nikki Cvetik
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Lo spettro di Johnson ***
Capitolo 2: *** Il primo dei tre Spiriti ***
Capitolo 3: *** Il secondo dei tre Spiriti ***
Capitolo 4: *** L'ultimo degli Spiriti ***
Capitolo 5: *** Come Andò a Finire ***
Capitolo 6: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Lo spettro di Johnson ***



A/N: Tremate tremate, le Undercover sono tornate! Ebbenesì, dopo quasi 6 mesi di assenza, io e la mia dolcissima Lettie abbiamo deciso di tornare a postare. In primis (citando un mio vecchio compagno di classe), mi scuso per l'oltreggiosa assenza, ma se pensavo che dopo le superiori avrei avuto più tempo per scrivere, be', mi sbagliavo di grosso. Con l'Uni non ho quasi tempo di fare un pasto decente. Ma, come si suol dire, "fa parte del gioco" ed è un gioco abbastanza diffuso, a quanto pare. Non posso assolutamente lamentarmi. Questa storia è (era, magari) stata scritta per essere postata durante il periodo natalizio. Purtroppo, i doveri da brava universitaria in trasferta casalinga, per me come per la Lettie, hanno creato un sacco di problemi. Perciò ho finito di scrivere l'ultimo capitolo alla Befana e, a causa degli esami della sessione di febbraio, siamo un po' indietro con la revisione. Mi solleva il fatto che almeno i capitoli siano completi. Perciò, comincerò a postare quelli già revisionati e corretti. Ovviamente troverete degli errori perchè, soprattutto in storie così lunghe, è facile farsi prendere dalla propria idea, dalla vocina nel cervello che ti detta la storia e, magari, leggere fresche per frasche (non so se si dice così in tutta Italia, ma da noi è un detto che rende bene). Perciò, come al solito, siate clementi e pretetevela con noi (e con me, soprattutto) e non con la storia. Molti di voi storceranno il naso leggendo il solito "Christmas Carol". Verità è che ho dovuto leggere il vero "Christmas Carol" e ne sono rimasta completamente affascinata. E' estremamente più crudo e tagliente di quelle che potessi credere e la cosa mi ha stupito moltissimo. Perciò ho deciso di ambientare la storia del buon Charles al CBI. Non aspettatevi fluff e roba del genere prima dell'ultimo capitolo. Anzi, a detta della Lettie, ho fin troppo bistrattato Jane e (parole sue) "non gliene ho risparmiata neanche una". E' vero, forse ho girato più e più volte il coltello in piaghe ben conosciute, ma, come ben si sa, l'unico modo attraverso cui una ferita può guarire totalmente è dopo averla pulita fino in fondo. Troverete molte citazioni originali. Alcune però, sono cambiate, o non hanno le precise parole del libro, in modo da poterle unire meglio al resto della storia. Qualcuno potrebbe avere di che ridire per la scelta degli "Spiriti". Ma tutto a un senso e, alla fine, comprenderete come mai abbia scelto chi per per fare chi. Detto ciò, pochi altri avvisi. Come al solito, ogni capitolo è preceduto dalla citazione di una canzone. Non impegnatevici troppo, stavolta, fanno tutte parte dell'album "Battle Born" dei The Killers. Sono prese, però, per testo e non per atmosfera, quindi potrete trovare anche canzoni "allegre" in contesti che...be'...lo sono un po' meno. Ciò nonostante, ho voluto tenere duro su questa linea. I The Killers sono un gruppo spettacolare (che spero a giugno di poter andare a sentire a Roma) e, cosa più importante, nella mia mente sono strettamente legati a questa serie. Loro sono in grado di fare qualcosa di spettacolare. Ti portano tra i caldi e soffocanti deserti della California, tra le case di lamiere e le luci scintillanti di Las Vegas. Senti il calore del sole Californiano sulla pelle, quando ascolti le loro canzoni. Riescono a trasmettere la rassegnazione di quelle persone cresciute troppo in fretta, l'insicurezza e il timore del vagabondaggio, la gioia di quelle utopie che non potranno mai realizzarsi, e l'infinita sconfitta di quel Sogno Americano infranto. Ed è proprio questo il paesaggio che fa da sfondo a The Mentalist. Brandon e Bruno raccontano delle stesse storie, negli stessi luoghi. E questo è un dono, è un bellissimo regalo di cui non smetterò mai di stupirmi. Infine, dopo questa A/N che, come al solito, ha raggiunto il limite del sopportabile, vi faccio un invito. Alcune ragazze, su facebook, hanno deciso di creare un gruppo su TM "We Read Between The Lies". Siamo ancora molto pochine, e avremmo il grande desiderio di sapere anche i pensieri delle altre persone che seguono questa serie. Un avviso: siamo tutte un po' svalvolate, ma accettiamo compagni d'avventira di qualsiasi tipo. Perciò, se avete tempo libero e volte darci una mano, cliccate quassù -> https://www.facebook.com/groups/261118154010718/ e venite a farci un salutino, ok? :) Detto ciò, vi lascio alla nostra povera storiella. Mi raccomando, cliccate su "recensire". Anche solo poche parole possono fare felicissime me e Lettie.

Un grande bacio a tutti voi.

T.U.W.

 


-A Bloodless Christmas Carol-

 

STROFA PRIMA

 
 

Lo spettro di Johnson

Your soul was innocent.
You kissed him and she painted it black.
You should have seen your little face.
Burning for love, holding on for your life.

Miss Atomic Bomb – The Killers

 

Johnson era morto, tanto per cominciare, e su questo non c’è alcun dubbio. Il registro della sua sepoltura era stato firmato dal sacerdote, dal chierico, dall'impresario delle pompe funebri e da colui che conduceva il funerale. Jane lo aveva firmato, e nel mondo dei circensi il nome di Jane era buono per qualsiasi cosa che decidesse di firmare. Il vecchio Johnson era morto come il chiodo di una porta.
La notizia era arrivata durante un noioso pomeriggio di scartoffie. Jane era come di suo solito steso sul divano del bullpen, mentre il resto della squadra stava cercando di rimettersi in pari con i rapporti prima del giorno del Ringraziamento. Jane aveva preso alcuni giorni per viaggiare fino al Connecticut e assistere al funerale del vecchio amico. Appena il corpo era stato coperto da tre metri di terra, il mentalista aveva girato i tacchi ed era tornato alla sua Citroen turchese.
Nessuno aveva più pensato al vecchio Johnson nei giorni e nelle settimane successive.
Il piovoso novembre aveva lasciato spazio al freddo dicembre. Ma né il vento freddo né la pioggia potevano fermare Jane dal passare la maggior parte dei suo giorni nell’attico, girando e rigirando le consunte pagine del suo quadernino nero. Da qualche tempo, tutti i nomi scritti su quelle righe avevano cominciato a confondersi. Quella lista di persone, ridotte a poche funzionali parole, si stava dimostrando la più inutile tra le piste avute tra le sue mani. La consapevolezza dell’imminente nuovo fallimento, cominciava ad irradiarsi dentro la sua persona; l’idea di aver fatto un incredibile errore a lasciar libera Lorelai, un mostro sempre più vivo.
Nel mentre, il freddo della stagione sembrava contagiare anche i suoi rapporti con la squadra. I suoi interventi durante i casi si erano fatti sempre meno frequenti. Tutti percepivano l’avvento del nuovo disastro all’interno del quale Jane li avrebbe presto trascinati. Ma soltanto Lisbon stava cominciando a comprendere che questo sarebbe stato l’ultimo. O, in caso contrario, uno degli ultimi.
Nel suo seno serbava un segreto, tale solo perché troppo evidente e pauroso da prendere in considerazione. Prima o poi sarebbero arrivati tardi per mettere a posto le cose. Qualcuno non ce l’avrebbe fatta; e tutti sapevano chi sarebbe stato il primo a cadere.
Lisbon ogni tanto alzava gli occhi alla scala di fronte all’ascensore. Sperava di sbagliarsi. Di sentire dei passi veloci scendere da quelle scale. Ma l’unico rumore percepito dalle sue orecchie, era la voce di Cho che la stava informando sull’ultimo interrogatorio. Così abbassava gli occhi e tornava alla sua vita, al suo lavoro, consapevole di non poter fare nulla per cambiare le cose. Non più, ormai.
Due piani più sopra, Jane non stava neanche cercando di ripararsi dal freddo clima dell’attico. L’umido della stanza, lontano dall’abbraccio del chiassoso bullpen, gli entrava impietosamente nelle ossa. E un freddo ben più profondo della sola carne lo faceva scuotere nel profondo. Nessun calore poteva riscaldarlo e nessuna brezza invernale raffreddarlo. Il freddo che aveva dentro congelava i suoi vecchi lineamenti, gli pungeva il naso aguzzo, gli corrugava le guance, irrigidiva la sua andatura; gli faceva diventar rossi gli occhi e violacee le labbra sottili e si esprimeva tagliente nella sua voce gutturale. La pioggia più fitta, la neve, la grandine e il nevischio potevano vantare una sola superiorità nei suoi confronti, e cioè che spesso venivano giù non senza bellezza. Lui mai.

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-Pensi che Sarah ti farà tenere Ben quest’anno a Natale?
-Abbiamo trovato un accordo. Natale da me, Pasqua da lei. Non posso certo lamentarmi, anche se mi avrebbe fatto piacere raccogliere le uova con lui.
Disse l’agente facendo rimbalzare una pallina da tennis sulla scrivania di fronte.
-Avanti, vorrà dire che scarterai i regali con lui. E’ comunque un momento speciale per lui. E per te.
-Ora che mi ci fai pensare…in effetti sono piuttosto contento che passi le feste natalizie con me. In fondo Pasqua è un giorno solo. Sopravvivrò. Soprattutto pensando alla mega mini-moto che ho incartata in garage!
-Ma ha appena tre anni, è troppo piccolo per una mini-moto.
-Aspetta di vederlo correre giù per il viale. A proposito, ti andrebbe di passare le feste con me e Ben?
Il caffè andò quasi di traverso alla rossa del gruppo, finendo spruzzato sui rapporti delle intercettazioni che aveva davanti.
-Io…oh, mio Dio…Wayne mi dispiace, ma ho già organizzato un viaggio dai miei parenti. Mi piacerebbe tanto stare con te e Ben ma…davvero sono…
Rigsby non poté nascondere il suo disappunto, ma comprendeva la risposta della collega. Certo, non poteva chiedere a Grace di cambiare i suoi piani per le vacanze la vigilia di Natele.
-Non preoccuparti. Io e il mio campione ci divertiremo lo stesso.
Rispose a malincuore, con un sorriso leggermente tirato.
-Sicuramente con il mio regalo.
-Il tuo regalo?
Grace continuò a battere sulla tastiera del computer, fingendo indifferenza. Anche lei aveva in serbo qualcosa di speciale per il piccolo Rigsby.
-Non dirò niente prima di stasera.
-Cosa?!
-E’ la mia sorpresa per Ben. E per te, ovviamente. Non vorrai mica fare il solito guastafeste?
-Potreste smetterla, voi due, di cinguettare come vecchie cornacchie?
La voce di Jane riempì la stanza, portando con sé una ventata polare. Subito i due agenti tornarono ai propri compiti con i volti più scuri di prima e l’umore decisamente più teso. Jane non parve importarsene della cosa. Semplicemente prese il libro che stava cercando e si voltò di nuovo verso le scale che conducevano all’attico.
Lungo il corridoio, la sua strada si incrociò con quella di Lisbon, appena tornata dall’arresto dell’ennesimo caso risolto senza il suo aiuto. Ma l’uomo non alzò neanche lo sguardo, né rallentò. Continuando a camminare come se fosse l’unica persona nella stanza, l’unica persona nell’intero mondo.
Lisbon, però, non poté non fermarsi un attimo e voltarsi verso Jane, o quello che restava del vecchio Jane. La vista le faceva tremare il cuore. Gli occhi bassi e stanchi, rossi per la troppa lettura e neri per il poco riposo. Un tempo era stata in grado di aiutarlo, di alleviare almeno per qualche tempo il suo dolore. Ora aveva anche smesso di provarci. Per la prima volta nella sua vita, Lisbon aveva gettato la spugna.
-Le cose non miglioreranno. Lo sai, vero?
La voce di Cho parve risvegliarla da quel momento di torpore. Negli ultimi mesi, era stato lui il suo confidente, l’unica persona con cui riuscisse a scambiare più di poche parole. Certo, non poteva biasimare Grace e Rigsby per il loro riavvicinamento, ma nulla poteva fermare il pensiero che ormai la SCU stesse morendo.
La squadra, ormai, era sull’orlo della rottura definitiva. Forse la colpa non era stata solamente di Jane, ma di certo il suo comportamento aveva dato il colpo di grazia. L’unico sollievo per Lisbon, era che gli altri membri del suo team sarebbero stati bene, nonostante tutto. Grave aveva Rigsby. Cho la nuova squadra di Risposta Rapida. Tutto sarebbe andato per il meglio. Sarebbero stati meglio.
Ma lei? No, non c’era nulla per lei ad aspettarla fuori. Lei era il capo. Suo era il fallimento. La SCU sarebbe affondata, presto. E lei l’avrebbe seguita.
-Credo che anche tu abbia capito come stanno le cose.
-L’ho sempre saputo, a dirla tutta. Solo…avevo fiducia di sbagliarmi.
-Tu sei troppo intelligente per sbagliarti su cose simili, Cho.
-Lo so. E vorrei che non fosse così.
Entrambi guardarono in direzione del bullpen, dove un’atmosfera pacata era tornata dopo l’attacco del mentalista.
-Avrei tanto voluto che questa squadra fosse passata a te, un giorno. Te lo saresti meritato.
-Forse. Ma se qualcuno dovesse prendersi il merito di qualcosa, questa sei tu, capo.
-Ho smesso il giorno in cui ho deciso di assumere Jane come consulente.
-Sai che non è così. Jane ha fatto bene il suo lavoro e tu hai fatto di tutto per permetterglielo.
-Eppure non sono stata abbastanza brava da impedirgli di distruggerci.
-Nessuno avrebbe potuto.
Lisbon sentì le ultime parole del coreano scavarle un buco nel petto. Forse aveva ragione. Forse era sempre stata una battaglia persa. Ma questo pensiero non le dava alcun conforto.
-Portami le trascrizioni dell’interrogatorio e i moduli per l’arresto. Mi troverai nel mio ufficio.
-Ok, boss.
Lisbon andò a rifugiarsi nel suo ufficio, mentre Cho si dirigeva di nuovo verso le scale. Crollò sulla sedia, senza neanche preoccuparsi di buttare la borsa sul tavolo. Con le mani sul volto, si permise di piangere le lacrime che aveva nascosto davanti al suo sottoposto.
-Perché stai facendo tutto questo, Jane? Perché?
Chiuse gli occhi, asciugando via le lacrime con la punta delle dita per rendersi presentabile davanti a Cho. Forse davvero non le era rimasto ancora molto. Ma la sua dignità non era ancora appannaggio di Jane, e non lo sarebbe stata fin quando avrebbe ancora avuto forza di tenersela stretta.
Prese una delle penne davanti a sé e il primo foglio dalla lunga pila di rapporti da firmare e, meccanicamente, così come tutti i giorni, si concentrò per portare a termine l’unica cosa che nella sua vita avesse ancora importanza. Il suo lavoro.

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Jane guardava fuori dalla finestra con una tazza in mano, in uno dei pochi momenti di riposo che usava concedersi. Prese un sorso della bevanda ambrata dalla tazza e continuò ad osservare la strada sotto di lui. Un uomo vestito con un pesante cappotto aveva tra le mani due pesanti buste piene di regali. Era in compagnia di un altro uomo –un amico, un compagno, forse- e stava cercando di far entrare tutte quelle buste in un SUV nero.
Tutta l’allegria di quell’immagine, però non riusciva a contagiare l’uomo alla finestra. Era solo uno spettacolo. Un palcoscenico lontano e a lui, seduto sugli spalti, non era permesso interferire.
Un tempo anche lui si trovava su quello stesso palcoscenico. Assieme a una donna adorabile ed un piccolo gomitolo di gioia. Ma si era avvicinato troppo all’orlo della scena e qualcuno da sotto l’aveva trascinato giù. Lui era sopravvissuto, i due angeli che si era tirato dietro no. E proprio per questo non poteva risalire su quel palco. Qualsiasi cosa fosse accaduta. Doveva restare a vegliare sui morti, scovare tra le ombre dei sedili colui che aveva causato tutto questo e, soprattutto, evitare che qualcuno cadesse nuovamente con lui.
Per questo non c’erano pensieri natalizi nel suo cuore. Non gioia o felicità. O la più flebile traccia di compassione. Solo una nebbia cupa e scura, che sembrava infittirsi anno dopo anno, Natale dopo Natale.
Questo rappresentava ogni Natale per lui. Un’altra sconfitta. Un altro anno durante il quale non era riuscito a prendere Red John. Come poteva gioire di quelle luci, quando per lui non rappresentavano altro che un nuovo fallimento?
-Non restare sulla porta, Lisbon. Entra. Qui non c’è nessuno che possa farti del male.
Il sussulto proveniente da dietro la porta di metallo era la conferma che il suo messaggio era arrivato al destinatario. Dei passi leggeri ma sicuri si avvicinarono al suo corpo immobile. Non voleva voltarsi e assistere al suo solito, pietoso tentativo di staccarlo da quella stanza.
-Abbiamo un caso. Nulla di importante, sicuramente finiremo prima delle sette di stasera. Vuoi raggiungerci?
Ecco, cosa intendeva. Sentiva già quella colpa dentro di sé. Ed era sufficiente. Non voleva guardarla negli occhi. Non voleva vedere.
-Mi dispiace, Lisbon. Ho da fare…
-Come lo scorso caso. E quello prima. Pensavo che almeno oggi…almeno la vigilia di Natale…
-Cosa speravi? Che sarei andato in ferie come tutti voi? Che avrei smesso la mia ricerca, oggi? Si dia il caso, Lisbon, che io non possa semplicemente smettere di lavorare per un giorno e continuare come se nulla fosse.
-…volevo soltanto questo caso…poche ore…come regalo di Natale…
-L’ultima volta che ho controllato, Lisbon, tu avevi 38 anni. Non sei più una bambina, dovresti aver imparato che Babbo Natale è solo una favola.
A un tratto, sentì gli occhi di Lisbon bruciargli la schiena. Certo, era stato un commento brutale, fatto a posta per ferirla. Ma sembrava che quella frase avesse avuto sulla donna una risposta ben più acuta di quanto pensasse.
Poco male. Forse questo l’avrebbe convinta ad andare via.
-Perciò ti consiglio di chiudere il caso da sola e goderti le festività natalizie. Ti faccio i miei auguri di spendere un buon Natale con le persone che ami, Lisbon. E non preoccuparti, mi troverai qui quando tornerai.
Io non ho nessun’altro posto dove andare sembrava dover continuare la sua affermazione. Ma si fermò prima di sfiorare il patetico.
-Pensavo che per te il Natale valesse ancora qualcosa. Che, nel tuo cuore, avessi ancora almeno un minimo di rispetto. Ma non pensare che per tutti valga la stessa cosa. Il Natale è l'unico periodo che io conosca, in tutto il lungo calendario di un anno, nel quale uomini e donne sembrano concordi nello schiudere liberamente i cuori serrati e nel pensare alla gente che è vicina a loro come se si trattasse realmente di compagni nel viaggio verso la tomba, e non di un'altra razza di creature in viaggio verso altre mete. Per questo ero venuta qui. Volevo invitarti da me, domani, per non spendere un giorno così da solo. Ma, a quanto pare, la mia richiesta era troppo grande. O io troppo stupida nel pensare che tu potessi accettare.
-Buon Natale, Lisbon. E felice anno nuovo.
Rispose, freddamente. Ogni parola, invece di essere un augurio felice, era una coltellata al cuore già ferito di Lisbon.
Senza una parola, i passi della donna si diressero di nuovo verso la porta. Ma prima di lasciare la stanza, l’agente si fermò, fissando l’uomo fermo davanti alla finestra.
-Perché mi hai mentito, prima?
-Quando?
-Quando sono entrata. Mi hai detto di entrare. Che non c’era nessuno che mi avrebbe fatto del male. Mi hai mentito. Non sai fare altro. Menti a me, alla squadra, a Bertram, a te stesso, alla tua famiglia. Passa un buon Natale, Jane. Te lo auguro con tutto cuore.
Jane stava per voltarsi e rincarare la dose nei confronti di Lisbon, ma il forte clangore alle sue spalle gli fece capire di essere di nuovo solo nella stanza. Ma la solitudine non lo stava facendo sentir bene come prima. Anzi, il freddo che regnava nella stanza sembrava ancor più forte, dato che l’unica fonte di calore se n’era andata.
Continuò a bere the ed osservare la strada sotto di lui fino a sera, quando le ombre della notte più magica dell’anno sembravano spietatamente maledirlo da dietro i vetri sporchi. 

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Era quasi mezzanotte, quando Jane sembrò decidersi che il liquido nella teiera nell’attico era decisamente troppo freddo per essere bevuto.
Il bullpen, a quell’ora della notte, era decisamente deserto. Tutte le luci sulle scrivanie erano spente, i fascicoli scomparsi, le penne al loro posto. Ma stanotte, più di tuti gli altri giorni, la desolazione di quel luogo sembrava più cupa. Forse perché ogni persona avrebbe avuto qualcuno da cui tornare quella sera. Tranne lui. Avrebbe festeggiato accanto a un grande albero. Tranne lui. Avrebbe aperto i regali –belli o brutti- e avrebbe riso con i propri cari. Tranne lui.
Riempì di nuovo la teiera e la mise sul fuoco. Il rumore dell’acqua bollente era quasi assordante in quel silenzio così denso. Immerse un paio di bustine dentro il liquido caldo e riprese la strada verso l’attico.
La sua mano si era poggiata sul freddo ferro della porta, pronta ad aprirla quando, vicino alle sue dita, gli parve di scorgere un volto nelle linee del metallo. Il volto sembrava appartenere proprio a Leroi Johnson, quello strozzino del cassiere del circo in cui lavorava col padre. La sua faccia, stravolta dalle rughe e quello che sembrava essere un dolore sconvolgente, parve quasi stagliarsi al suo fianco, costringendolo a ritrarre la mano e stringerla vicino al fianco.
Un secondo dopo, la faccia era scomparsa. Jane si passò una mano sugli occhi stanchi, attribuendo l’origine dell’allucinazione alle troppe ore passate su quel libretto.
-Stronzate. Adesso comincio persino a vedere in giro la faccia del Monco!
E si sedette su una vecchia poltrona che aveva portato qualche mese fa nella stanza. Per qualche minuto ricominciò a leggere il taccuino, quando gli occhi gli caddero casualmente su un campanello,  un campanello fuori uso, che pendeva nella stanza e comunicava, per una qualche ragione ormai dimenticata, con una stanza nel piano più basso del fabbricato. Fu con grande meraviglia e con uno strano e inesplicabile terrore che, nel guardare, si accorse che il campanello cominciava a dondolare. Dondolava così dolcemente, da principio, da non produrre alcun suono; ma ben presto cominciò a suonare forte e così fecero tutti gli altri campanelli dell’edificio.
Questo durò forse mezzo minuto o un minuto, ma parve che durasse un'ora. I campanelli cessarono tutti insieme, come avevano incominciato, e ad essi tenne dietro un rumore metallico, che veniva dalla profondità dei piani inferiori, come se qualcuno stesse trascinando una catena pesante sulle alzate metalliche dei mobili dell’archivio. Allora Jane si ricordò di aver sentito dire che gli spettri nelle case stregate si trascinano dietro i mobili. La porta dell’archivio si spalancò con un colpo fortissimo, e allora udì il rumore ai piani inferiori farsi molto più forte, poi su per le scale, poi venire direttamente verso la sua porta.
-Sono tutte fesserie!- disse Jane. -Non ci voglio credere.
Però cambiò colore allorché, senza una pausa, qualcosa attraversò la porta pesante ed entrò nella stanza davanti ai suoi occhi.
Strinse tra le dita il tessuto damascato della sedia quando si accorse della presenza che aveva di fronte. Lo spettro di Leroi Johnson, in tutta la sua terrificante maestà se ne stava al centro della stanza, ripiegato su se stesso a fissarlo. Una lunga e pesante catena gli cingeva la vita e dei pesanti pesi di ferro stava lasciando delle profonde spaccature nel legno ad ogni suo passo.
Jane si strinse in un angolo della sedia, raccapricciato da quella visione. Per una vita intera aveva aberrato l’idea dell’esistenza di fantasmi, spettri e qualsiasi altra cosa correlata al genere. Ed ora una nuvola verdognola dall’aspetto del compianto Leroi Johnson lo stava trapassando con occhi di ghiaccio.
-Cosa vuoi da me?
Chiese Jane con la voce spezzata dalla paura.
-Molto.
Rispose la piatta voce dello spettro.
-Chi sei?
-Chiedimi piuttosto chi ero.
-Chi eri, dunque?
Disse Jane, alzando la voce.
-Da vivo, tenevo i conti del circo dove lavoravi e la gente pagava a me i biglietti per entrare.
Ma Jane non sembrava affatto soddisfatto da quelle risposte. Continuava a guardare quell’ombra corrugando le ciglia e sbattendo gli occhi, come se, aprendoli, quell’apparizione potesse svanire nell’aria.
-Tu non credi che io esista
Disse lo Spettro.
-No
Rispose Jane.
-Quali prove vorresti avere della mia realtà, oltre a quella dei tuoi sensi?
-Non so
Disse Jane.
-Perché dubiti dei tuoi sensi?
-Perché per influenzarli basta una piccolezza. Sono stato sveglio per giorni, senza un attimo di riposo. Potresti essere un’allucinazione, un inganno della mia mente. Potrei già stare sognando. Ecco, ne sono sicuro, questo non è altro che un sogno. Un sogno davvero ben fatto nel quale sono caduto senza accorgermene!
A queste parole, lo Spirito emise un grido terribile e scosse la catena con un rumore talmente lugubre e spaventoso che Jane si afferrò con tutte le forze alla sedia per evitare di cadere svenuto. Ma quando lo Spettro si strappò la camicia dal petto, mostrando la carne del suo ventre martoriata dai colpi di un fucile e ancora grondanti di sangue, Jane non riuscì più a trattenere la sua reazione. Cadde in ginocchio, coprendosi il volto con le mani.
-Misericordia!- Disse.
-Spaventosa apparizione, perché mi tormenti?
L’uomo parve tornare padrone della sua essenza –di corpo, certo, non si poteva parlare.
-Ti vedevo tutti i giorni, Patrick Jane, scorrazzare per il circo assieme a tuo padre. Era un’altra epoca, un altro tempo. Sono cambiate tante cose da allora. E questa notte, io sono qui per renderti consapevole di quelle più importanti. Quelle che riguardano la persona che eri, che sei e che diverrai.
-Perché tu? Per quale motivo sei qui? Perché me?
A quel punto lo Spettro gli buttò addosso le proprie catene e i propri pesi. Jane fece per scansarsi, sapendo che un simile peso gli avrebbe rotto le ossa. Ma le nuvole verdi gli si fermarono sul grembo, senza peso.
-Porto la catena che ho forgiato in vita. Sono io che l'ho fatta, un anello dopo l'altro, un braccio dopo l'altro; sono io che me la sono cinta di spontanea volontà e di spontanea volontà l'ho portata. Quand’io ero vivo, Patrick Jane, sentivo questi pesi esattamente come li senti tu adesso. Essi non avevano alcuna consistenza. Non avevano importanza, come credevo non avessero importanza le azioni che me li hanno caricati addosso. Ma appena emisi il mio ultimo respiro, appena il mio corpo venne rapito dalla freddezza del rigore destinato ai cadaveri, la mia anima venne condannata a portare questo pesantissimo fardello, questa catena senza fine. Ti pare strana?
Sentendo queste parole, Jane tremava sempre di più.
-O non conosci forse-, proseguì lo Spettro, -il peso e la lunghezza della catena che tu stesso porti? Aveva la stessa lunghezza e lo stesso peso di questa già sette Natali fa. Da allora ci hai lavorato ancora. È una catena imponente!
Jane ormai era piegato su se stesso, in preda ai singhiozzi.
-Comprendi adesso perché sono qui, Patrick Jane?
-Lo comprendo, Spirito. E benedico la magnanimità che ti ha spinto a presentarti davanti a un’anima misera come la mia!
-Io non sono altro che un messaggero. La tua salvezza, se vorrai, proverrà da altri uffici. Altre forze si muoveranno in tuo favore, Patrick Jane. Ti verranno mostrati tremendi e sublimi spettacoli. E ti verrà chiesto di fare una scelta.
-Spirito! Io…
-Ora taci, Patrick Jane! Non è richiesta la tua parola. Il mio tempo qui è quasi concluso. L’ora è tarda e la mia partenza vicina.
-Ti supplico, Spirito! Non lasciarmi! O non avrò altro viso amico nel mio errare!
Se avesse potuto, Jane si sarebbe attaccato all’orlo della sua veste. Ma lo Spettro si tirò indietro, non concedendogli alcun conforto.
-Questa è la pena di quelli come me! Questa sarà la tua pena, se la notte non avrà frutto! Io sono costretto ad errare per il mondo senza pace, guardando le vicende degli uomini, guardando la ruota del tempo girare per tutti, tranne che per me. La mia sentenza non sarà riscritta e questo è il mio destino fino alla fine dei tempi. Accetta questa singola speranza che ti ho procurato, Patrick Jane. Perché puoi essere sicuro di questo. Non ne avrai un’altra.
Jane si allontanò da lui, annuendo ed abbassando il volto verso il pavimento polveroso. Su di sé sentiva l’onore e l’onere di quella possibilità che non avrebbe esitato ad accettare.
-Verrai visitato da tre spiriti, Patrick Jane. Aspetta il primo domani, quando l'orologio suonerà l'una. Aspetta il secondo la notte successiva alla stessa ora. Il terzo la notte seguente, quando cesserà di vibrare l'ultimo colpo delle dodici. Non contare di rivedermi. Cerca, nel tuo stesso interesse, di ricordarti quello che è accaduto stasera tra noi!
Detto questo, Leroi Johnson percorse la strada verso la finestra. La sua forma lo attraversò senza difficoltà dileguandosi nell’oscurità nella notte.
Jane cercò di fermarlo per offrirgli almeno il suo saluto, ma l’uomo era già scomparso. Era solo, semidisteso sul pavimento freddo di un edificio deserto e scricchiolante. Aveva il volto coperto dalle lacrime e dalla paura. E nessuno, nessuno a dargli una mano per rialzarsi.
Sentiva i polmoni riempirsi d’aria, ne percepiva il volume sulla parete delicata degli alveoli. Eppure non sentiva l’ossigeno rigenerarlo. Stava annegando nell’aria che aveva attorno.
Puntellandosi sulle braccia, arrivò al letto e stese le coperte fin sopra i capelli, tremando come un bambino. Avrebbe dato l’anima per potersi stringere a qualcosa, a qualsiasi cosa. Ma non c’era nulla con lui.
E solo, in preda ai singhiozzi cadde in un lungo sonno senza sogni.

 
 

-Fine Strofa Prima-

 

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Capitolo 2
*** Il primo dei tre Spiriti ***


A/N: Ed eccoci arrivati al capitolo due, nel quale finalmente cominciamo a conoscere gli Spiriti. C'è da dire che, a differenza di Leroi Johnson, la cui persona è totalmente frutto della mia fantasia, questo sia un personaggio molto reale, anche se non abbiamo mai (e sottolineo mai) avuto l'occasione di vedere interpretato. Ciò nonostante, dubito che impiegherete più di qualche secondo a riconoscerla. Inoltre, volevo sottolineare un piccolo punto, che nella scorsa nota ho dimenticato di inserire: questa storia, come potete leggere è OOC. Certo, non perchè sia totalmente travolta, ma perchè vedrete i protagonisti in situazioni inusuali. Questa fic, così come il racconto originale di Charles, è una allegoria. Il suo obiettivo è spingere i protagonisti a fronteggiare forze assolutamente straordinarie. Ovviamente, le reazioni a queste sono del tutto particolari e, sottolineo, difficilmente le potrete vedere nella serie vera e propria. Ciò detto, ho solo un piccolo avviso da darvi, stavolta: qui finiscono i capitoli completamente corretti, perciò dovrete aspettare qualche giorno prima di una nuova pubblicazione. Se dovessi riuscire a trovare del tempo per completare la revisione almeno del terzo capitolo, potete essere sicuri che sarà pubblicato al più presto. Tuttavia, dubito che questa storia potrà avere un decorso regolare fino a mercoledì/giovedì della settimana prossima, quando finirò gli esami di questa sessione. Ribadisco ancora una volta il mio invito a venirci a trovare e, se il link non vi fosse d'aiuto, potete contattarmi su i messaggi privati. Inoltre, sarei felice di sapere il vostro parere. Basta un "Ehi, va bene continua così" oppure un "Cancellala, e va a zappare l'orto". Detto ciò *e me super-gongolante per il nuovo promo* alla prossima.

Nikki C. (T.U.W.)

 

STROFA SECONDA

 
 
Il primo dei tre spiriti

It's gonna take more than a hand to turn this thing around.
Do you need a little relief?
Rescue!
Set me free!

BattleBorn –The Killers

 

Jane venne svegliato dagli scricchiolii del vecchio edificio. Strinse il proprio corpo per preservare il calore del sonno, inutilmente. La sottile coperta che lo avvolgeva poteva ben poco contro il freddo penetrante della notte. Aprì gli occhi impastati dalle lacrime, cercando di lavar via gli ultimi brandelli di sonno dal corpo.
Con sua enorme sorpresa, si accorse che il paesaggio fuori dalla finestra era ancora avvolto dal buio. Ancora o…già. Jane conosceva abbastanza bene il suo corpo da sapere quante ore dovesse aver dormito. E di certo non le poche a separare mezzanotte dall’alba.
Si alzò dal letto, scorgendo la città fuori dai vetri appannati. In quel momento, le campane di una chiesa lontana stavano suonando dodici rintocchi. Jane si catapultò lontano dalla finestra, impaurito non tanto dal fatto di aver dormito per un giorno intero, bensì dalle parole che lo Spirito gli aveva riservato la notte precedente. Tornò a letto, portandosi nuovamente le coperte fin sopra alla testa.
Confortato dalla –seppur scarsa- protezione offertagli dalla coperta, cominciò a riflettere sulla sua situazione.
Più rifletteva e più era perplesso; e più si sforzava di non riflettere, più rifletteva. Lo spettro di Leroi continuava a torturarlo. Ogni volta, dopo matura riflessione, decideva fra sé e sé che era stato tutto un sogno; ma la sua mente tornava sempre al punto di partenza, come una grossa molla lasciata andare, e gli sottoponeva sempre lo stesso problema. E’ stato un sogno…o no?
Jane era rimasto sotto le coperte per tutto il tempo, tremante all’attesa dei prossimi rintocchi. Ma l’ultimo quarto d’ora fu il peggiore dei quattro. L’anticipazione lo stava facendo impazzire, tanto da portarlo a desiderare che il tempo accelerasse. Che succedesse qualsiasi cosa! Ma che lo facesse in fretta!
Finalmente la lista dei secondi che lo separavano dall’una stava svanendo e, infine, sentì di nuovo i rintocchi della campana.
-Ecco l’una! E non è successo nulla!
Aveva parlato prima che battesse l'ora, ciò che avvenne ora, con un unico colpo profondo, cupo, cavernoso, malinconico. In quello stesso istante una luce inondò la stanza e le coperte del suo letto vennero scostate.
Pian piano dalla porta, come se seguisse una qualche sacra processione, entrò una donna minuta. Il suo volto non aveva età; sarebbe potuto esser quello di una bambina o di un’anziana, quello di una ragazzina o di una donna matura. Il corpo era piccolo, ma Jane non riusciva a capire se per costituzione o età.
A dare qualche indizio sulla sua età, c’erano però i capelli. Soffici, le ricadevano lunghi sulle spalle, abboccolati morbidamente fino alla curva della schiena. I suoi piedi erano nudi, candidi come se fossero stati fatti di marzapane, così come le braccia scoperte.
Indossava una tunica del bianco più puro, e intorno alla vita era legata una cintura lucente, che luccicava in modo stupendo. Teneva in mano un ramoscello di agrifoglio, fresco e verde, e il suo vestito, in strana contraddizione con quell'emblema dell'inverno, era adorno di fiori estivi.
Sopra la nuvola scura dei suoi capelli, era posata una corona fatta di cera, e sopra ogni curva era accesa una piccola fiammella luminosa. Ma nessuna di queste poteva essere comparata con i suoi occhi, la cui luce sembrava illuminare l’intera stanza e il mondo fuori dalla finestra. Jane rimase senza parole davanti al calore materno che questi sembravano irradiare, scaldandolo in fondo al cuore.
Lo Spirito spostò la testa da un lato, posando la mano libera dall’agrifoglio sul cuore. I suoi capelli sfioraravano gli avambracci, mostrando un delicato contrasto. Aprì la bocca come per parlare, ma la richiuse subito dopo, abbassando gli occhi luminosi.
Jane comprese che era il suo momento di parlare e che lo Spettro non stesse aspettando altro se la sua domanda.
-Siete voi, signora, lo Spirito del quale m'era stata preannunciata la venuta?
-Sono io.
La voce era dolce, gentile. Singolarmente tenue, come se invece di essergli accanto vicinissimo, lo Spirito si fosse trovato lontano.
-Chi e cosa siete?
-Sono lo Spettro del Natale Passato.
Le labbra dello Spirito si curvarono in un dolce sorriso, ancora una volta richiedendo la sua domanda.
-Di quale Passato stai parlando, Spettro?
-Il tuo, e quello di chi con te sta convivendo il lungo viaggio verso il riposo eterno. Questo poiché tu conosca il vero.
-Io conosco la verità di molti, Spettro. Perché dunque sono destinato ad accompagnarti nel tuo errare?
-Perché l’uomo cerca solo quello di cui conosce l’esistenza, e ciò di cui non conosca l’esistenza, lui non lo cerca. Eppure la conoscenza umana non è ragione né necessaria né sufficiente all’esistenza di qualcosa. Perciò io sono qui: per mostrarti ciò che esiste senza che tu sappia e, una volta saputo, assicurarmi che tu lo comprenda.
-Spirito, perché mi parli con parole oscure?
-La luce presto ti sarà concessa, Anima Cieca. Allora comprenderai.
Lo Spirito allungò le candide dita verso di lui e Jane notò che le punte erano leggermente macchiate di sangue.
-Spirito, le tue dita stanno stillando sangue. Permettimi di ripagare la tua benevolenza asciugandole.
-Le mie mani ne sono macchiate, ma questo sangue non è il mio. Tuttavia, solo la mia persona è degna di portarlo. Bada bene e rammenta la tonalità. I miei fratelli te ne mostreranno la fonte e molto altro. Ora alzati e vieni con me.
Con due lunghe e leggere falcate, lo Spirito raggiunse la finestra dell’attico e la oltrepassò giungendo sulla piccola terrazza adiacente. Salì, dunque, sul cornicione e guardò in basso. La città sembrava assopita, e non una luce o un rumore di anima viva rimbombava tra i vicoli.
Lo Spirito porse a Jane la mano macchiata di sangue, in segno di seguirla. All’inizio l’uomo si allontanò di un passo, riluttante. A differenza dello Spirito, lui sarebbe caduto tre piani più sotto, morendo. Ma subito dopo, pensando agli straordinari eventi di questa e della notte precedente, si convinse che seguire le indicazioni di quell’Anima non gli avrebbe portato alcun danno.
Strinse le dita a quelle della Donna e, con questa, si librò leggero nel cielo notturno, oltrepassando la città e la vallata. In lontananza, alcune luci sembravano brillare da dietro una collina, formando una sottile linea luminosa. Appena oltrepassato l’altopiano, si ritrovarono davanti una scena festosa. Un circo enorme e colorato sembrava illuminare l’intera radura a giorno. Un chiasso festoso e familiare alle orecchie di Jane, riportò nella sua mente antichi ricordi.
Lo Spettro si posò sull’entrata, e Jane quasi dovette trattenersi dall’entrare di corsa in quella allegra marmaglia e andare a salutare i suoi amici.
-Riconosci questo posto?
-Oh, mio Dio! Certo che lo riconosco! Era il circo in cui lavoravo con mio padre.
Jane si girò verso lo Spettro che ora, illuminato dalle luci dei mortali, dava mostra del suo vero aspetto. Così, alla vista del volto della sua compagna, Jane dovette quasi reggersi allo steccato per non crollare svenuto. E, se ciò non fosse stato già di per sé terribilmente agghiacciante, ancora più sconvolgente era il fatto che lui mai, nella sua vita, avesse visto quella donna. Ma i suoi tratti, la sua espressione erano così singolari e inconfondibili, che l’uomo sentì mancare la terra sotto le gambe.
-Hai finalmente compreso chi sono, non è vero, Patrick Jane?
-Come non potrei, Spirito? I tuoi tratti sono sempre nella mia mente. Impressi, come se un fuoco li avesse ricamati.
-Come quelli di chi con me li condivide, o sbaglio? Con l’unica differenza, che con me hai potuto attuare solo una mera speculazione. Hai sempre avuto solo un’idea. Diversamente…
-Taci, Spirito! Le tue parole sono divenute veleno!
-Tu taci, Anima Peccatrice! Perché queste parole sarebbero potute essere un balsamo, se tu soltanto l’avessi voluto!
Gli occhi densi di rabbia dello Spirito e il repentino cambiamento della sua voce lo spinsero ad appiattirsi contro lo steccato. I ricordi erano già fin troppo dolorosi. Quel rimprovero era come una mano ruvida su una ferita aperta.
Jane abbassò gli occhi, in preda alla più profonda vergogna. Non c’erano scuse per lui, di nessun genere. In quel momento, la sua persona era spoglia, senza più difese davanti allo Spettro. Aveva perso la traccia dei luoghi dove poter nascondersi, e adesso ne avrebbe dovuto pagare le conseguenze.
Come improvvisamente la rabbia aveva preso possesso dello Spirito, così immediatamente si allontanò. Ciò nonostante, un’ombra era rimasta nei suoi occhi, oscurandone la luce. E così sarebbe stato per tutto il loro cammino.
-Non mi fraintendere, Patrick Jane. Questa è e rimane la maggiore delle tue colpe. Ma a me è data la conoscenza delle cose che ti verranno mostrate, e non è riservato a me il compito della pena. Inoltre, il mio cuore trema davanti all’impervio sentiero che ti sarà mostrato, e io non posso assolutamente rovinare questa strada, che per te è ancora destinata ad essere dolce. Perciò prometto che non avrai più da me parole di rimprovero. Sai che ne avrei il diritto. Un diritto ben più imponente di quello delle mie sorelle.
-Sono consapevole del fatto che i miei peccati non mi permetterebbero di incrociare il tuo sguardo.
-Seguimi, adesso, abbiamo perso già fin troppo tempo.
Lo Spettro si mosse all’interno del circo, camminando sicura tra i tendoni e le roulottes. Jane, invece, cercava di nascondersi dietro qualsiasi cosa per non farsi vedere dai circensi.
-Cosa stai combinando?
-Mi nascondo da loro, non trovi? Molti di loro non sarebbero felici di vedermi.
-Queste sono soltanto ombre delle cose che sono state. Non si accorgono affatto di noi.
Jane osservò le persone attorno a lui, accorgendosi che il viso di molti non era ancora rigato dalle rughe che avrebbe imparato a conoscere.
-Questo…questo è il mio passato, non è vero?
Lo Spettro scostò l’entrata di una delle tende, rivelando il calore e la luminosità dell’interno. La musica era alta e un grande gruppo di bambini stava ballando assieme ai genitori. A quel punto Jane sentì gli occhi pizzicare, e sembrò non riuscire a liberarsi dal nodo che gli aveva serrato la gola.
-Loro…loro erano i figli degli altri circensi…li conosco tutti. Hanno la mia età, adesso. Vedi quella che sta facendo la ruota? E’ Johan Rutherford, la figlia dei domatori dei leoni. E quello sulla sedia con la chitarra in mano? Oh, era il sogno di tutte le ragazze. Si chiamava Fred Lloyd e conosceva tutte le canzoni dei Beatles e…no, non posso crederci! Lui era il cugino di Sasha Anderson, una delle equilibriste. Mi ricordo che lo prendevano tutti in giro perché il suo cognome era Bunny…cioè lui si chiamava Anthony Bunny...e non è un nome molto felice se ti trovi circondato da pesti come queste. Ma in una cosa lui era bravissimo: conosceva un sacco di storie. Ricordo le serate davanti al fuoco e lui che ci raccontava di donzelle in pericolo, di pirati e filibustieri, di strani animali e posti esotici e…be’, era bello se eri un bambino costretto a lavorare dall’età di due anni senza ricevere il più che minimo apprezzamento.
In quel momento lo sguardo di Jane sembrò oscurarsi. Non erano dei bei ricordi. La pressione immensa, un senso del dovere troppo grande per un bambino così piccolo. Era una cosa che non avrebbe augurato a nessuna persona.
-E’ stato un periodo difficilissimo. Ogni giorno sarei voluto scappare ed andare lontano…avrei voluto…avrei voluto…
La sua voce si spezzò sulle ultime parole. In un angolo, seduto rannicchiato e lontano da tutta quella festività, c’era un bambino di tre o quattro anni. Aveva un lungo graffio su una guancia e le piccole braccia erano coperte di lividi. Gli occhi verde chiaro erano circondati da un alone rosso scuro.
-Non posso pensare che un uomo possa far fare cose del genere al proprio figlio. Non…non è naturale. Un bambino dovrebbe essere felice e vivere questi anni in maniera gioiosa. Io non ho avuto quasi niente di tutto questo.
Il bambino sembrava sull’orlo di una nuova crisi di pianto e Jane stava per seguirlo a breve. Ma a un tratto, da dietro un angolo, entrò nella scena una bambina, tutta trotterellante nel suo nuovo vestito di velluto verde. Entrambi gli adulti sorrisero a quella vista, e quando la bambina cominciò a correre in direzione del bambino, Jane si sentì bagnare dalla testa ai piedi da una calda cascata di tenerezza.
-Patrick, che cosa ci fai qui?
La voce della bimba era festosa e allegra, nonostante una leggera nota malinconica la incrinasse.
-Non posso farmi vedere così. Sono pieno di lividi. Tutti rideranno di me!
La bambina sembrò riflettere per qualche secondo e, un attimo dopo, il suo volto venne illuminato da una luce furbetta.
-Ho avuto un’idea, tu aspettami qui.
Il piccolo tornado si catapultò fuori dalla tenda, tornando qualche secondo dopo con un oggetto stretto in grembo.
-L’ho rubato a mamma. Shhhhhh…non dire nulla a nessuno. L’ho vista mentre se lo metteva sulla cicatrice che le ha lasciato Betty e dopo non si vedeva nulla.
La bambina prese un po’ di fondotinta da dentro il contenitore, stendendolo sul volto dell’amichetto con le sue piccole dita sottili. Neanche un minuto dopo, il bambino sembrava guarito e in perfetta salute.
-Grazie, Ang. Sei la mia migliore amica.
E il bambino diede un bacio sulla guancia della bambina, che arrossì furiosamente.
Jane sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Lo Spettro si era accorto del suo volto nascosto tra le mani, imbarazzato dalle calde lacrime che stavano scorrendo sulle guance. Ebbe bisogno di qualche secondo per ricomporsi e, quando tornò a parlare, la sua voce era profonda e bassa, riscaldata dalle lacrime.
-E’ stato il più bel Natale della mia infanzia, perché era stata lei a regalarmelo. E, una volta sposati, lei mi raccontò che quell’anno ricevette un regalo stupendo. Il mio primo bacio.
I due restarono ancora per un po’ a guardare i bambini ballare felici sopra le note di quelle musiche natalizie. Ma a un tratto, lo Spettro prese la sua mano.
-E’ già ora di andare?
-E’ tardi e ci sono ancora tante cose che devo mostrarti.
Jane si girò a dare un’ultima occhiata all’interno della tenda e poi si avviò verso l’esterno, lasciando che il freddo della notte asciugasse le sue ultime lacrime.

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-Spettro, dove siamo? Non conosco questa città.
Disse Jane, stringendosi nella giacca sottile per ripararsi dallo gelido vento di dicembre.
-Non sei mai stato qui prima d’ora, Patrick Jane. Ma conosci la città.
Jane alzò gli occhi al cielo, scrutando lo skyline nel cielo notturno. Girò con la testa a destra e a manca, finché i suoi occhi  non incontrarono una silhouette a lui nota.
-Ma…ma quella è la Sears Tower…Siamo a Chicago?
Gli occhi dello Spettro parvero ritrovare una nuova luce, immersi in quell’ambiente famigliare. A un tratto Jane comprese  chi sarebbe stata la prossima persona che avrebbero visitato.
-No, Spettro. Ti supplico…non farmi vedere queste cose…non voglio…
-Non avere timore, Patrick Jane. Il dolore non popolerà questo ricordo. E’ una promessa.
Jane cominciò a tremare ancora più forte, per il freddo e per la paura. Temeva di dover vedere uno spettacolo a cui non avrebbe retto. Uno spettacolo di cui era a conoscenza, ma che non era stato altro che una chimera, un mito. Qualcosa di dimenticato tanto tempo fa. Ma adesso? Se avesse visto quelle cose con i suoi occhi…
Davvero, non sapeva quale sarebbe stata la sua reazione.
Lo Spettro lo stava conducendo lungo le strade e i vicoli deserti, con la sicurezza di chi conosce la strada di casa e gli ostacoli che troverà lungo il cammino. I suoi passi lo condussero ad una piccola costruzione addobbata per le feste. Era sicuramente vecchia e forse necessitava di qualche riparazione sulle grondaie, ma si ergeva ancora maestosa in tutta la sua dignità.
Le luci all’interno erano accese e un caldo sentore di biscotti allo zenzero si spargeva fino dall’inizio del viale. All’esterno c’erano solo poche luci, ma appese in punti specifici per far risplendere la casa. Sul portone era appesa la classica ghirlanda rossa con le bacche, e alcune foglie di vischio dondolavano dal porticato.
Lo sguardo dello Spirito si riempì di tenerezza e orgoglio e, porgendogli una mano, lo condusse su per le scale, davanti alla finestra del salone. La stanza era in penombra, ma potevano distinguersi quattro figurine, tutte di età diverse, attorno a un albero decorato con palline di carta coperte di brillantini e popcorn. Gli occhi di Jane cercarono subito uno dei componenti della famiglia, trovandolo dietro ai tre fratelli più piccoli.
Una Teresa Lisbon di non più di quattordici anni stava aiutando il suo fratellino a scartare il proprio regalo di Natale. James, di soli due anni, sembrava però più interessato a uno dei nastri in cui era incartato il pacco. Quando finalmente il regalo venne svelato, la stanza si riempì dei cinguettii gioiosi del più piccolo della famiglia. Anche Teresa sorrise alla gioia del bambino, aiutandolo a prendere possesso del suo nuovo e fiammante tir giocattolo.
-Matty, ora tocca a te.
Disse la ragazza, stendendo al suo fratellino un altro dei pacchetti. Questo era più regolare del primo, e più sottile. Il giovane uomo strappò via la carta regalo, rivelando una enorme scatola di latta dall’aspetto piuttosto costoso, piena di pastelli colorati.
Matty si portò una mano alla bocca aperta dallo stupore. Poi spostò lo guardo sulla sorella e le si buttò al collo, stringendola forte.
-Graziegraziegraziegrazie!! Era proprio quello che volevo. Sei la migliore sorellona del mondo.
Sotto l’albero erano rimasti ancora due pacchetti, e l’ultimo rimasto della combriccola guardò la sorella, tacitamente chiedendole il permesso di poterlo aprire. Teresa annuì, con ancora addosso la piccola peste che aveva deciso di usare il suo braccio a mo’ di autostrada.
Il regalo non era altro che una busta con alcuni fogli all’interno, ma Tommy la stava tenendo tra le mani come se fosse fatto d’oro. La aprì , tirando fuori il contenuto. Lesse i fogli, mentre il suo volto cominciava a dare qualche segno di cedimento al pianto.
-Non può essere…avevi detto che…
-So quello che avevo detto. Ma ho fatto qualche sabato in più e alla fine sono riuscita a trovare i soldi anche per questo.
-Ma Reese, questo vuol dire che…
-…Che quest’anno hai il permesso di andare in campeggio con la scuola. So che ci tenevi tantissimo.
Il piccolo Tommy ormai stava piangendo come una fontana, mentre i fratelli, troppo presi dai propri regali, sembravano catapultati in un altro mondo. Anche lui, come loro, si diresse dalla sorella, che aveva lasciato il piccolo James sul tappeto, per abbracciarla.
-Ti voglio tanto bene, sorellona. Tanto, tanto bene.
-Lo so piccolo, anche io ti voglio tanto bene. Ora porta questi due teppisti in cucina, la cena è quasi pronta.
I tre lasciarono la stanza. Nel salone era rimasta solamente lei e, per un attimo, il suo sguardo venne catturato dall’albero.
Si alzò, prendendo tra le mani l’unico globo di vetro colorato, appeso sulla sommità come una reliquia. Una di queste lasciò l’addobbo per posarsi sulla maglia, vicino al cuore, dove Jane sapeva essere appesa una piccola croce.
-Scusa mamma. Non sono riuscita a salvare le ultime palline dalla furia i quei tre. Non sei arrabbiata, vero? Ti prometto che l’anno prossimo lavorerò di più e le ricomprerò tutte quante. Ma non potevo dire loro di no. Non quest’anno. Ne hanno bisogno. Hanno già rinunciato a tante cose e sono ancora così piccoli. E io non ce la faccio a dar loro altro, se non questo. Aiutaci mamma, e proteggici.
Detto questo, la ragazza si abbassò a prendere l’ultimo pacchetto, ma invece di aprirlo, si diresse verso il divano. Jane non si era accorto della figura indistinta allungata tra i cuscini. A quella vista, sentì il sangue ribollirgli nelle vene.
-Dimmi, Spettro, cosa c’è nel regalo che Teresa tiene tra le mani. Di sicuro è da parte dei suoi fratelli. Allora perché non lo scarta?
Il volto dello Spettro si riempì di dolore.
-Spirito…
-Guarda tu stesso la risposta.
Teresa stava realmente scartando il regalo. Dentro la carta natalizia, era avvolta una piccola cornice con una fotografia indistinta ma, invece di tenerla per sé, la giovane donna la posò sotto il braccio del padre.
-Cosa c’è in quella foto, Spirito?
-Un’immagine di loro quattro. Un’immagine felice.
-Perché ha messo il proprio regalo sotto il braccio del padre?
Lo Spettro sembrò ancora più triste di pochi momenti prima.
-Quel regalo non è suo. E’ del padre. Ogni anno, Teresa ha sempre fatto un regalo per i piccoli e uno per il padre.
-Ma sotto l’albero adesso non c’è più n…
Jane si portò una mano alla bocca, una volta metabolizzata la notizia. Sotto l’albero, il pavimento era vuoto.
-Nessun regalo per la piccola Teresa.
Pronunciò duro, lo Spettro. Il cuore dell’uomo si spaccò in mille pezzi. La sua migliore amica aveva assicurato un Buon Natale per la sua famiglia, tutti i membri della sua famiglia, ma non per sé. Quell’anno non ci sarebbe stato nessuno a fare regali a quella ragazza cresciuta così in fretta.
-E io…io le ho detto quella cosa orribile oggi pomeriggio...non…non ne avevo idea. Ecco perché mi ha guardato in maniera così strana.
-Dall’incidente, non c’è stato nessuno a farle regali. Poi ha conosciuto quella che sembrava essere la sua nuova famiglia. Ed è stata felice, Patrick Jane. Così felice. Poi tu hai fatto quello che hai fatto. Per lei è stato come rivivere tutto una seconda volta.
Jane posò una mano sul vetro gelido della finestra, non desiderando altro se non correre dentro, e stringere tra le braccia quella figurina minuscola. Passare le mani tra i suoi corti capelli e asciugare le lacrime dalle sue guance scarne. Sussurrarle dolci parole alle orecchie per calmarla. Avrebbe voluto essere suo padre e poterle regalare il mondo intero.
Invece l’uomo era immobile sul divano, assopito. Teresa si abbassò, tirando i capelli dietro le orecchie perché non disturbassero il suo sonno, e gli diede un bacio sulla guancia.
-Buon Natale, papà.
E lasciò la stanza nel buio, spegnando la luce. 
Jane non aveva il coraggio di parlare. Non aveva neppure il coraggio di alzare gli occhi sulla sua Compagna. Rimase a guardare la stanza scura senza dire una sola parola.
-Adesso comprendi ciò che ti dissi all’inizio del nostro viaggio? Lei non ha mai raccontato a nessuno di questi giorni, ma adesso sei in grado di vedere cos’è successo.
-Io…io…non lo sapevo.
-Ti sei mai preoccupato di scoprirlo?
Jane alzò gli occhi allo Spirito, malinconico, accorgendosi della verità delle sue parole. Non si era importato di tante cose in questi anni. Prima tra tutti quella stupenda donna che aveva al suo fianco. Avrebbe voluto che nella sua coscienza ci fosse il sollievo di averla trattata diversamente da quell’uomo allungato sul divano. Ma adesso stava scoprendo che quell’uomo disteso e addormentato sarebbe potuto essere lui.
-Io non voglio essere come lui. Per lei io non voglio essere come lui.
-Allora perché la stai trattando allo stesso modo? Perché eviti il suo affetto?
-Perché…perché….
Tutte le sue sicurezze stavano svanendo a quella domanda. Ormai evitarla, ingannarla, tradire la sua fiducia erano diventate azioni quasi naturali. Non si stava più accorgendo del male che le stava causando.
-Non osare riempirmi di bugie. Come il fatto che se le rivolgessi un sorriso sarebbe il nuovo obiettivo di Red John o che hai paura di avvicinarla perché chiunque si avvicini a te fa una brutta fine. Lei è l’obiettivo di Red John ormai da anni, non puoi evitarlo. Ma la cosa peggiore, è che non è lui la persona di cui dovrebbe aver più paura, ma te. Lei è in grado di lottare contro Red John. Ma contro di te? Non ti sei reso conto che si sta martirizzando per permetterti di continuare la tua ricerca, seppur lo ritenga sbagliato, nonostante sappia quale sarà il finale? Perché tu lo sai, Patrick Jane, come andrà a finire, non è vero? Tu non hai intenzione di sopravvivere a Red John, è per questo che la tua vita è una totale carogna! Ti nascondi dietro al tuo dolore, credendo che renda giustificabile quello che causi agli altri!
Jane chinò ancora di più la testa, come se si aspettasse che lo pettro tirasse fuori una verga e lo frustasse sulla nuca.
-Avevi…avevi detto che non avresti avuto più parole di rimprovero verso di me.
-Si promettono tante cose, Patrick Jane, ma davvero poche si mantengono. Tu di certo non sei tra quelli che hanno mantenuto le proprie promesse. Avevi giurato di proteggerla, tanto tempo fa, e l’hai abbandonata. Avevi giurato che lei avrebbe potuto avere fiducia in te. E non hai fatto altro che mentirle e metterla nei guai per anni.
A quel punto Jane cadde in ginocchio come la sera precedente, in preda ai singhiozzi. Aveva ragione Leroi. Credeva che i pesi attaccati al suo corpo fossero ben più leggeri di quelli che in realtà stava scoprendo. Voleva scappare. Ma come poteva scappare dai suoi stessi peccati?
-Mi mostri queste cose, quelle di cui ancora non ho colpa e già sento il peso mortale del dolore. Come può esserci sollievo quando dovrò affrontare le mie mancanze?
-Non ce ne sarà. Questo viaggio è perché tu veda la tua miseria e la miseria che hai causato.
-Ho paura, Spettro, e il dolore mi lascia immobile.
-Dobbiamo muoverci, adesso. C’è ancora una cosa che devo mostrarti.
Jane si tirò indietro, terrorizzato. Quale sarebbe stata la prossima meta? Quale nuovo dolore l’avrebbe atteso?
-No, Spettro, non mostrarmi null’altro. Te ne prego.
-Non avrai sollievo restando qui. Soltanto freddo e neve.
La mano della donna si avvicinò di nuovo a lui. La prese, tremante, pregando il suo cuore di essere forte.

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Un’ambientazione familiare li accolse. Erano di nuovo al CBI, ma Jane non riusciva a ricordare questo giorno.
-Dimmi, Spettro, questo è un Natale di tanti anni fa? Quando io ancora non lavoravo in questo edificio?
-No, Patrick Jane. Questo Natale è più vicino di quanto pensi.
-Ma io ho partecipato a tutti i Natali da quando sono al CBI.
-Non tutti, Patrick Jane, non tutti.
L’uomo non capiva a cosa si riferisse lo Spettro fin quando non si accorse del calendario su quella che doveva essere la scrivania di Rigsby. Dicembre 2011. A quel punto comprese le parole dello Spirito. Quello doveva essere il Natale precedente, quello che aveva speso solo a Las Vegas.
Non riusciva però a capire perché fosse lì. Era un Natale che non aveva condiviso con la squadra. Si trovava lontano chilometri, eppure lo Spirito voleva che assistesse a qualcosa accaduta quella sera.
-Spettro, perché siamo qui?
Dall’ufficio di Lisbon si alzò una risata gioiosa. Jane non poteva vedere l’interno, ma non aveva riconosciuto la risata come quella di Lisbon. Era troppo…acuta, ecco.
La porta si aprì e due bambini uscirono dalla stanza, ognuno portando un piccolo pacchettino verso il grande albero  nell’atrio. Al CBI era una tradizione ricorrente. Tutti potevano mettere i propri regali sotto l’albero e, al ritorno dalle vacanze, aprirli. C’erano persino scommesse su chi avrebbe avuto più regali.
-Olivia! Christian! Non correte lungo i corridoi, rischiate di scivolare.
-Ma ziaaaaaaaaaaaaaaa! Papà ha detto che potevamo farti arrabbiare quanto volevamo.
Risposero in coro le due pesti. Jane vide Lisbon sorridere e alzare bonariamente gli occhi al cielo.
-Sì, ma papà ha anche sarebbe stato felice di trovarvi tutti interi quando sarebbe venuto a prendervi. Niente dolce per i bimbi cattivi che fanno arrabbiare le zie.
-NOOOOOOO!
Risposero i piccoli, di nuovo in coro. Lisbon rise, abbassandosi a dare un bacio sulla fronte ad entrambi.
-Adesso mettiamo i regali sulla pila come bravi bambini, ok? E se farete un bel lavoro avrete anche due orsetti gommosi come premio.
I due si guardarono l’un l’altro sorridendo, trotterellando accanto alla zia in direzione dell’ingresso. Chris aveva in mano un pacchetto dall’inconfondibile forma di libro. Aprì il biglietto cercando di leggere l’interno.
-Questo è per…Cho. E’ quel signore che non ride mai, vero?
-No, Chris. Lui è il signore che ride solo quando è necessario.
-Quindi tu l’hai visto ridere?
-Certo!
-Wooooooooooow.
Disse il piccolo, come se la zia gli avesse appena detto di aver visto uno yeti. Dietro di loro, la piccola Liv stava cercando di articolare qualche nome particolarmente astruso. L’impresa era resa ancor più difficile dai lunghi capelli scuri, che un refolo di vento le stava spostando sul viso.
 -Rhiggg…Ristp…Ript…
-Ti aiuto io. Questo è per…Rigsby.
-Rig-sby. Ha un cognome parecchio strano questo qui!
-Anche tu hai dato al tuo gatto un nome strano.
-Asdrolabe non è un nome strano.
-Lo è.
Risposero in coro, stavolta, il fratello e la zia.
-Questo è per…Grace.
-La signora bella con i capelli rossi?
Chiese Liv con occhi sognanti. La zia alzò di nuovo gli occhi al cielo, forse pensando al perverso amore della nipote nei confronti della collega.
-Sì, Liv , proprio lei.
-Cosa le hai regalato, zia?
-E’ un segreto…
-Ma io sono piccola, con me i segreti non valgono.
-Un segreto è sempre un segreto.
Tagliò corto Lisbon. Restava ancora un pacco nelle mani di Chris, che lo stava girando e rigirando in maniera interrogativa.
-Cosa c’è, tesoro?
-Niente. Solo che c’è scritto che questo regalo è di una certa Jane. E’ una tua nuova amichetta, zia?
Lisbon sorrise, anche se in maniera un po’ malinconica. Andò vicino al nipote, sedendosi sui talloni. Il piccolo Chris le porse il regalo, che lei rigirò tra le mani, prima di parlare.
-No, piccolo, non è una mia nuova amica. Jane è il cognome di quello stregone di cui ti ho parlato…
-Quello che ti fa tanto arrabbiare?
-Sì, piccolo, quello che mi fa tanto arrabbiare.
-Allora perché hai comprato un regalo allo stregone?
-Io…
Lisbon sembrò colta in fallo, a quella domanda. Per tutto il tempo, Jane le era rimasto accanto, quasi se fosse impossibile stare più lontano di qualche metro da lei.
-…vedi, piccolo, questo mio amico è uno stregone che da tanti anni sta combattendo con un troll malvagio e cattivo. Adesso è tanto lontano, sta combattendo ed è tutto solo. Io ho voluto fargli questo regalo, così potrò darglielo quando tornerà dalla guerra.
-Allora è uno stregone buono!
Concluse il piccolo, strappando dalle mani il regalo e mettendolo in cima alla pila.
-Sì, tesoro, lui è uno stregone buono.
Rispose, più a se stessa che al nipote. Jane era incredulo, sorpreso da tutto quell’affetto. Si mise davanti a Lisbon, che non si era mossa, esattamente come Chris pochi attimi prima. Allungò una mano per sfiorarle una guancia, ma le sue dita passarono attraverso quella che sembrava essere solo aria.  Lisbon parve destarsi dai suoi pensieri e, insieme ai due gemelli si allontanò in direzione della porta.
Nel grande atrio rimasero solo Jane e lo Spettro e, a un tratto, tutte le luci si spensero attorno a loro. Rimasero soltanto quelle della corona a far strada verso l’attico. Giunti lì, Jane si sedette sul materasso, esausto dopo tutti quegli avvenimenti.
-Spettro, tutto quello che oggi mi hai fatto vedere è stato sorprendente. Ho paura dei tuoi fratelli. Dimmi, cosa mi attende la prossima notte?
-Avrai la visita della mia sorella. Ti avverto, Patrick Jane. Non sottovalutare la sua tenera natura, e porta sempre in mente il suo compito.
Jane annuì. Lo spirito si portò una mano alla corona, spegnendo una ad una tutte le candele. Quando solo l’ultima rimase accesa, pronunciò il suo saluto.
-Addio, Patrick Jane.
-Addio Spirito.
E la stanza fu nuovamente avvolta dall’oscurità.
 

-Fine Strofa Seconda-

 

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Capitolo 3
*** Il secondo dei tre Spiriti ***


A/N: Ok, posso dirlo? Odio l'HTML con tutto il mio essere -.-. Anyway, ecco il nuovo capitolo (Finalmente!!!). Ricordo ancora una volta il nostro gruppo e ringrazio _diana87, Fras, Theresa_94 e DebbiePatience per le loro recensioni, siete voi che date valore al mio impegno <3.
Vi lascio alla lettura :**
Nikki C.

 

STROFA TERZA

 
 
Il secondo dei tre spiriti

May your limits be unknown.
May your efforts be your own.
If you ever feel you can't take it anymore.

Be Still – The Killers

 

Jane si svegliò di soprassalto, completamente coperto di sudore. Tremava come una foglia, e ogni tentativo per smettere di digrignare i genti sembrava inutile. Aveva paura di muoversi o aprire gli occhi, paura di trovarsi di nuovo catapultato in quel terribile incubo.  Eppure, più la sua mente sembrava destarsi dal sonno, più si rendeva conto che quello della notte precedente non era stato affatto un incubo. Tutto quello che aveva visto era troppo vero, troppo vivo per essere solo un sogno. Quei ricordi da lungo tempo dimenticati, il Natale a casa di Lisbon, quello precedente lontano da lei.
La sera precedente aveva potuto sperare che l’apparizione di Leroi Johnson fosse stata un sogno. Adesso avrebbe dovuto prendere per vere le parole dello Spettro ed aspettare la visita di un suo simile.
A un tratto, da dietro la porta di metallo, Jane scorse un bagliore soffuso. Si chiese da dove provenisse, dato che, dietro la porta, si sarebbero dovute trovare solo scale buie. La curiosità gli diede abbastanza coraggio per alzarsi dal letto e percorrere i pochi passi che lo separavano dal portone. Non appena la sua mano si posò sulla maniglia, una voce lo invitò a entrare, come se conoscesse il suo timore. Jane obbedì e, con un colpo secco, spalancò l’uscio.
Con sua grande sorpresa, si accorse che le scale buie erano del tutto scomparse e, al loro posto, si trovava una stanza monumentale. Le pareti e il soffitto erano talmente coperti di vegetazione, da farli sembrare un vero e proprio bosco in cui da ogni punto luccicavano bacche lucenti. Le foglie dell'agrifoglio, del vischio e dell'edera riflettevano la luce come tanti piccoli specchi e nel caminetto ardeva un fuoco scoppiettante. Ammucchiati sul pavimento, in modo da formare una specie di trono, c’erano giocattoli di ogni genere. Pelouche e bambole, insieme a tanti vestiti e scarpine. Animali di ogni foggia e materiale, insieme ai propri piccoli. Riproduzioni di oggetti comuni, ma talmente luccicanti e delicate da non sembrare una mera copia.
Seduta comodamente sul tutto, stava un’allegra ragazza con in mano una torcia ardente a forma di cornucopia; la teneva alta, molto alta, in modo da farne cadere la luce su Jane ,quando fece capolino da dietro la porta.
-Entra!-, esclamò lo Spettro, -entra a fare la mia conoscenza.
Jane entrò timidamente e chinò la testa davanti allo Spirito. Non era più il duro Jane di prima, e per quanto gli occhi dello Spirito fossero chiari e benevoli, non si sentiva di incontrarne lo sguardo.
-Io sono lo Spirito del Natale Presente-, disse lo Spettro. -Guardami!
Non ancora era stato in grado di conoscere l’identità del suo spettro, ma quando obbedì, di nuovo si sentì mancare. La sensazione fu, però, meno forte di quella del giorno precedente –era quello, infatti, un volto conosciuto e recente- e, dopo un respiro o due fu di nuovo in grado di ragionare con cognizione di causa.
-Ch…
Lo Spirito alzò una mano per zittirlo.
Jane lo guardò rispettosamente. Era vestito di una semplice toga o mantello di color verde scuro, orlato di pelliccia bianca. Questa veste gli stava indosso così sciolta che le sue spalle erano nude, come se avesse sdegnato di essere rinchiuso o celato da un artificio qualsiasi. I piedi, visibili sotto le ampie pieghe della veste, erano pure nudi; sulla testa non portava che una corona di agrifoglio, punteggiata qua e là da ghiaccioli lucenti. I ricci, d'un biondo scuro, erano lunghi e liberi, liberi come la faccia gioconda, lo sguardo scintillante, le mani aperte, la voce allegra, il contegno scevro di ogni costrizione e l'aspetto gioioso. Dalla vita pendeva un fodero antico, ma dentro non c’era la spada, e quella vetusta guaina era divorata dalla ruggine.
-Mia sorella ti ammonì la scorsa notte, Anima Sciocca. Non farti ingannare dalla mollezza degli anni miei. Non son qui per darti un insegnamento più leggero.
La sua voce, nonostante il rimprovero, non era calata in dolcezza. Ma Jane comprendeva la difficoltà del suo compito e mai avrebbe permesso di intralciarla.
-Spirito Tenero, il tuo avvento mi è il più dolce, tra quello delle tue sorelle. Lungi da me l’imbarazzare il tuo compito. Ma permetti ai miei occhi di avere una dolce luce quando mi rivolgo a te.
Lo Spirito sorrise pieno di affetto e si rivolse di nuovo a lui.
-Ti è concesso, Patrick Jane. Ma non dimenticare le mie parole.
-Non lo farò Spirito. Conducimi dove vuoi. La notte scorsa ho ricevuto una lezione che comincia a dare i suoi frutti. Stanotte, se hai qualcosa da insegnarmi, lascia che ne approfitti.
-Tocca la mia veste.
A quel punto, i giocattoli e la vegetazione sparirono ma, con grande stupore di Jane, non vennero trasportati molto lontano. In realtà, si accorse che non avevano lasciato nemmeno l’edificio. Si trovavano nel bullpen, deserto come solitamente a quell’ora. Ma, ancora più usuale, era la luce proveniente dall’ufficio di Lisbon. Cosa ci faceva lì a quell’ora? Si chiese Jane.
Lo Spirito gli fece segno di seguirlo ed entrambi entrarono nella piccola stanza.
Lisbon era completamente china sui rapporti e i lunghi capelli le coprivano i volto. Ciò nonostante Jane riusciva a scorgere le labbra pallide e strette in una linea sottile.
-Dovrebbe smetterla di lavorare fino a quest’ora. Non…non le fa bene.
-Hai visto cosa sta compilando? E tutte quelle carte sulla pila?
Jane guardò lo Spirito interrogativo. Si spostò in avanti e, al contrario, lesse il contenuto di quelle righe.
-E’…è un’ammonizione formale.
Lo Spirito annuì. Jane sapeva cosa significasse ricevere un’ammonizione formale. Quel foglio l’avrebbe bloccata in quell’ufficio per sempre, impedendole qualsiasi avanzamento di carriera.
-Riguarda il caso Stephens. Hai fatto arrabbiare qualcuno troppo in alto stavolta, e Stephen non si è accontentato di citare il dipartimento. Ha voluto una testa. E a cadere è stata quella di Lisbon.
Jane sentì una mano gelata stringergli il cuore. Non solo aveva ferito –fisicamente ed emotivamente- la persona più preziosa che avesse, ma le aveva addirittura rovinato la carriera. Nessuno aveva obbligato Lisbon ad assumerlo. Nessuno l’aveva obbligata a mettersi tra lui e il fuoco più e più volte in passato. Nessuno l’aveva obbligata a continuare a lavorare con lui. Eppure lei l’aveva fatto.
-Bertram pagherà per questo.
-Sei sicuro che sia Bertram a dover pagare per questo? Lui non ha fatto altro che il suo lavoro. Ha avuto una richiesta legittima da qualcuno che legittimamente si è visto offeso in qualche maniera. E Lisbon è legittimamente la tua responsabile. Nessuno ha fatto qualcosa fuori dall’ordinario. Nessuno di loro, almeno.
Jane capiva dove lo Spettro volesse andare a parare. Non era colpa del grande capo se Lisbon era stata ammonita. Ma solo sua. Controllando la data, inoltre, si accorse che la lettera era vecchia di qualche mese.
-L’ha ricevuta in ottobre. Perché non mi ha detto nulla?
-Avevi da fare. Non hai fatto altro che ripeterle questo, da quando hai cominciato a scrivere quel dannato taccuino. E lei ha dovuto affrontare questo come tutti gli altri problemi della sua vita. Da sola.
Lo Spettro si sedette sul divano, continuando ad osservare Jane, intento ad osservare Lisbon. Non riusciva letteralmente a staccare gli occhi da lei. Dopo qualche tempo, Lisbon lasciò andare la lettera, richiudendola nel primo cassetto della sua scrivania. Prese uno dei rapporti sulla sua scrivania e cominciò a compilarlo.
-Cosa c’è in quei rapporti?
-Altri guai che hai creato, Patrick Jane.
Rispose spietatamente lo Spirito. Preoccupato, Jane osservò la grandezza della pila. Erano davvero tanti. Come se potesse vedere la reale e concreta estensione dei guai che stava combinando. In tutto quel tempo, non era mai riuscito a guardare Lisbon negli occhi. Ma a un tratto vide qualcosa che gli fece gelare la punta delle dita. Dal suo volto era colata una sola, singola lacrima. Aveva formato un cerchio sulla carta, scuro per il mascara.
-No…no…no ti prego, Lisbon non piangere. Sono qui, non piangere.
-Come se, se davvero lo sapesse, la cosa l’aiuterebbe a calmarsi.
Jane non fece caso al commento dello Spettro, e si chinò per cercare di incrociare lo sguardo di Lisbon. La vide affondare i denti nel labbro inferiore, in quello che sembrava un disperato tentativo per non cedere ai singhiozzi. Jane allungò una mano per cercare un contatto col suo volto.
-Lisbon…
Ma prima che potesse anche solo sfiorare la sua pelle, un raccapricciante singhiozzo scosse l’intero corpo della donna. Il gesto era stato talmente improvviso e repentino, che persino lo Spettro era balzato in piedi per lo spavento. Lisbon si tirò indietro con la sedia, lontano dalla scrivania. Aveva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e le mani sul volto per nascondere le lacrime. Eppure, il tremendo suono dei suoi singhiozzi continuava a rimbombare nella stanza deserta.
Jane era letteralmente scattato dietro la scrivania, piegandosi sui talloni per avere il volto all’altezza di quello di Lisbon. Non sapeva che fare, come rassicurarla.
-Spirito! Per l’amor del cielo! Ridammi il mio corpo! Non posso lasciare che si consumi piangendo!
Ma lo Spirito lo guardava impassibile dal centro della stanza.
-Spirito, ti supplico! Non vedi che è disperata?
-E tu…tu l’hai visto che è disperata?
-Certo che lo vedo!
-Perché sei qui. Ma dimmi…in questo momento, se ti fossi trovato nell’attico, te ne saresti accorto?
Jane rimase congelato sul posto. No, era la risposta, non se ne sarebbe accorto. Avrebbe continuato a starsene da solo nell’attico, senza la minima idea di quello che stava accadendo lì sotto. A un tratto, una domanda gli uscì dalle labbra.
-Quante volte è successo, prima d’ora?
-Tutte le sere. E’ sempre successo.
-…cos’altro?...
Entrambi si girarono verso l’origine della voce. Lisbon aveva parlato da sotto le dita ormai grondanti di lacrime.
-Cos’altro ti rimane da prendermi, Jane?
Jane spalancò gli occhi dallo stupore. Sentiva come se le sue viscere fossero state immerse nell’acido. Si sentiva crollare piano piano e presto le lacrime avrebbero avuto la meglio.
-Hai già preso tutto…non ho più niente…
-No! No, Lisbon non è vero! Tu sei forte, sei coraggiosa. Hai ancora tanto…
-Le hai preso anche questo, Jane.
L’uomo si voltò verso lo Spettro, scioccato. Ma questo non fece breccia nel cuore di quell’Anima.
-Si è arresa. Ha perso tutte le speranze. Hai rovinato il suo lavoro, impedendole di fare carriera. Hai rovinato la sua vita, non permettendole più di avere una gioia degna di questo nome. Hai distrutto il futuro che si era costruita. E adesso?
Jane continuava a tenere gli occhi sulla figura tremante davanti a lui.
-No…no posso aver fatto un cosa simile.
-L’hai fatto. Ci hai messo 10 anni e ci sei riuscito anche piuttosto bene.
Lisbon, nonostante fossero passati parecchi minuti, continuava a piangere incessantemente. Né una parola o un altro suono riempivano la stanza. Lo Spirito aveva terminato le spiegazioni. E Jane le scuse.
L’uomo accostò una mano su quella dell’amica, pur non potendo toccarla. Cominciò a disegnare cerchi lenti sull’arco tra il pollice e l’indice, cercando di infonderle una calma che non l’avrebbe mai raggiunta. Lisbon scostò le mani dal volto bagnato, infliggendo un’altra stilettata al cuore di Jane. Aveva le guance arrossate e umide, il labbro inferiore sembrava non riuscire a fermarsi e tremava violentemente al ritmo del suo respiro. Gli occhi erano gonfi, irritati, il verde contaminato dal rossore. Ma, ciò nonostante, Lisbon stava cercando di ridarsi un contegno.
Aveva posato le mani sulle ginocchia, affondando le unghia nella stoffa dei jeans, quasi strappandoseli di dosso per la forza di quella stretta. Aveva gli occhi chiusi e stava facendo dei lunghi respiri lenti e profondi.
-Brava, Lisbon…respira piano…dentro e fuori…dentro e fuori…così…sei bravissima…ancora…dentro e fuori…
Lo Spirito era sul punto di rimproverarlo nuovamente, come il suo compito gli avrebbe richiesto. Ma la scena lo costrinse a trattenersi, non permettendogli di andare oltre un semplice appunto.
-Lo stai facendo solo per sentirti utile, solo per dimostrare a te stesso di aver fatto la differenza, stavolta. Non può sentirti, lo sai benissimo. Non le sei vicino adesso più di quanto lo sia stato nei mesi scorsi.
-…fai respiri profondi…è tutto a posto…respira piano…
Ci vollero diversi minuti prima che il respiro di Lisbon si calmasse del tutto. Jane alla fine smise di parlare, continuando a fissare il volto ormai rilassato della donna. Un sorriso gli aprì le labbra, ma proprio in quel momento, Lisbon scattò in piedi e uscì dalla stanza prendendo la sua borsa con sé. Jane era rimasto seduto per terra vicino alla sedia, svuotato. Sentiva come se sollevare il suo essere fosse un’impresa ormai impossibile. Rimase immobile ad osservare la sedia vuota per i cinque minuti successivi. Quando parlò di nuovo la sua voce era rotta e roca.
-Spirito…mi chiedo perché tu sia qui…come può esserci salvezza per me?
-Anima Sola, perché non capisci? Sei ormai così avvolto dalle tenebre da credere che queste posseggano anche gli altri?
Una luce sembrava essere tornata negli occhi dell’uomo. Capiva il significato delle parole dello Spirito, ma non ardiva di parlare oltre.
-Non sarai mai libero se non capirai questo. La tua vita è stata piena di dolore, Patrick Jane, e per anni non hai conosciuto altro. Sei affondato così tanto nel buio da non riuscire a concepire altro, se non quello. E così, pur riconoscendo la luce, preferisci avvolgerla dalle tue tenebre, piuttosto che farti illuminare.
-Lo vedi, Spirito? Non fai altro che ribadire ciò che ho detto! Finirò per inghiottire anche quest’altra luce e io…e io…
Urlò Jane esasperato.
-TU non fai altro che ribadire ciò che IO ho detto. Non cambierai mai se continuerai così, non ci sarà nessuna salvezza se la tua anima non comprenderà il suo errore! Anche nelle nostre ultime parole, ti sei comportato esattamente come è tua abitudine. Sei ritornato nell’ombra, ti sei riavvolto nello sconforto. Perché non sei stato tu a rispondere a ciò che ti detto?
-Spirito, cosa ti ha annebbiato la ragione? Sono stato io a rispondere alle tue parole!
-No, è stato il tuo dolore a parlare per te. Così come per molti anni a questa parte. Avresti potuto chiedermi come sradicare il buio e, invece, non hai fatto altro che spanderlo sulle mie parole. Tu non hai mai parlato, non hai mai deciso. Hai visto la tua oscurità ferire la tua squadra e tanti innocenti. Eppure sei rimasto lontano, immobile senza far nulla. Fin quando non tornerai padrone della tua persona, non ci sarà mai salvezza per te. Fin quando non sceglierai di essere migliore, la tua realtà non sarà costellata da altro se non questi incubi.
Dopo le ultime parole dello Spirito, il silenzio tornò di nuovo nell’ufficio. Quelle frasi non erano state semplici da mandare giù, soprattutto perché portavano con loro una verità troppo scomoda per Jane. Ma, invece di sentirsi sotterrare da ciò che lo Spettro aveva detto, Jane si sentiva quasi…sollevato.
-Non credere che chi ti sta attorno non sia divorato dai propri demoni. La persona che ha appena lasciato questa stanza te ne da una prova.
-Ma dentro di lei c’è sempre così tanta luce. Una luce che nemmeno io posso spegnere. Per me è diverso. Questa luce non mi appartiene e…non conosco modi per permetterle di avvicinarmi.
-Non serve, Patrick Jane. La luce che cerchi, è essa stessa a venire da te. Anche quel pomeriggio nell’attico. Lei è venuta a portarti un po’ di luce. Ma tu l’hai spenta.
-Come può una cosa così semplice guarirmi?
-Perché il buio, da solo, non può sopravvivere all’esistenza di una singola luce. Quello che devi fare, è soltanto permetterle di brillare. Non permettere che muoia. E’ questo il compito più duro, ti avverto.
Jane posò la testa su uno degli scaffali, tornando con lo sguardo alla sedia, con la mente a Lisbon.
-Lei come ci riesce?
-A fare cosa?
-Ad essere così luminosa.
Lo Spettro abbassò gli occhi, come imbarazzato. A Jane non sfuggì l’ombra che si era posata sugli occhi dello Spirito. Si alzò, muovendosi verso la sua direzione.
-Cosa c’è Spettro? Quale pensiero ti turba?
L’Anima alzò gli occhi a quelli dell’uomo, animati da una nuova determinazione.
-Prima di conoscere la sua luce, è bene che tu conosca la sua tenebra.
-No, Spirito, non posso. Ti supplico, non costringermi a vedere oltre.
-A questo sei destinato. Non vedendo il dolore, non lo farai sparire.

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Un nuovo viaggio li portò in una stanza ben conosciuta da Jane. Era stato lì altre volte, seppur poche di queste fossero accompagnate da ricordi felici.
L’appartamento di Lisbon, a differenza della casa che aveva visto la sera prima, non era stata addobbata per le feste. Certamente, aveva pensato Jane, data l’impressionante mole di lavoro che la donna aveva sopportato nelle settimane precedenti. E il pensiero che fosse in parte colpa sua, di certo non rendeva la vista più sopportabile. L’unico piccolo segno del Natale, era rappresentato dalla pallina di vetro sul mobile dell’ingresso, tenuta ferma da un festone arrotolato alla sua base. Jane sfiorò per un attimo il globo con riverenza e continuò l’osservazione della casa.
Poco era cambiato dall’ultima volta che si era trovato lì. Gli stessi mobili, nelle stesse posizioni. Chi avrebbe avuto tempo di decorare una casa usata così poco? Si mosse tra gli scaffali, cercando qualcosa che portasse un’impronta della proprietaria. Libri, forse il suo unico sfogo, e un’immensa quantità di cd, alcuni dei quali abbastanza recenti. Il suo sguardo rimase bloccato su un oggetto bianco, posato qualche mensola più in alto. Allungò la mano per prenderlo e, con sua sorpresa, si ritrovò tra le dita una rana di carta. La sua rana di carta.
La osservò da ogni angolazione, notando con stupore che non fosse coperta da un singolo granello di polvere. Forse avrebbe dovuto regalargliene un’altra. O magari qualche fiore. Sì, magari un bel mazzo di fiori colorati tutti fatti di carta.
Ripose la rana nuovamente sullo scaffale e, dietro di lui, la porta si aprì. Lo Spirito lo affiancò, ma non emise suono.
La proprietaria di casa entrò nell’ingresso, tirando un sospiro di sollievo. Finalmente era protetta dalla sua tana. Lanciò la borsa su uno dei divani, assieme al cappotto, lasciandosi cadere su una delle poltrone. Si mise le mani sulla fronte, stavolta però sembrava padrona finalmente della sua persona.
-…Patetica…
Sussurrò soltanto, e Jane non dovette pensarci due volte per capire a chi si riferisse. Quasi nello stesso momento, Lisbon cominciò a slacciarsi la cintura e i pantaloni. Jane si voltò, imbarazzato, nonostante sapesse che la donna non sarebbe stata in grado di vederlo. Non poteva nemmeno pensare ai modi in cui Lisbon l’avrebbe torturato se avesse saputo. Subito, però incontrò la faccia esasperata dello Spirito.
-Devi guardare, Patrick Jane.
L’uomo alzò le sopracciglia alla stramba richiesta dello Spettro, il quale, notando il suo imbarazzo, alzò gli occhi al cielo.
-Non devi assistere certo a uno strip. Focalizza la tua attenzione su altro!
Jane cedette e si girò, boccheggiando appena dopo aver posato lo sguardo sul corpo della donna. La reazione, però, non era dovuta al completo intimo che la copriva, bensì alla forma del suo stesso corpo.
Jane aveva visto il suo capo in intimo più di una volta. Si era sempre reso conto della tua statura minuta e sottile. Ciò nonostante, aveva sempre fatto esitare lo sguardo sulle sue curve, ancora deliziosamente femminili. Era sempre stato sorpreso dall’infinita contraddizione di quel corpo –in fin dei conti, era sempre un uomo- estremamente forte, ma decisamente armonioso.
Adesso, osservandola dopo tanto tempo, si stava accorgendo di una cosa. Non c’erano più curve, di nessun genere. Erano scomparse per lasciar spazio a quello scricciolo davanti a lui.
Nonostante vedesse scattare i muscoli sotto la pelle sottile e diafana, non c’era più un minimo di sensualità. Il suo stomaco era quasi concavo e le ossa del bacino svettavano oltraggiose sopra l’orlo delle mutandine. Costole, scapole e clavicole piegavano i laccetti del reggiseno. Le gambe ormai erano solo un fascio di muscoli, le ossa delle ginocchia e delle caviglie erano visibili anche da lontano.
Jane quasi riusciva a immaginarla, chiusa in palestra a distruggersi con allenamenti massacranti, troppo pesanti per un corpo piccolo come il suo. Tutto per dimenticare, per dimenticarlo. Perché non si era reso conto di niente? Dov’era quando tutto questo era accaduto?
Inoltre, la sua pelle era costellata di lividi e cicatrici più o meno profonde, alcune causate dagli allenamenti, altre di origine indubbiamente violenta. Tra questi, svettava quello sul suo fianco destro, l’impronta scura di una mano.
-Tu sai come se l’è fatto, vero?
-Certo…
Ammise, con un sospiro.
-E’ stata la settimana scorsa, quella gang in periferia. Eravamo andati ad arrestarli e uno della banda aveva cercato di puntarmi un coltello al collo. Lei si è messa tra me e lui, e quel criminale l’ha sbattuta per terra. Ma lei si è rialzata e l’ha sbattuto contro il muro senza neanche battere ciglio. Quell’uomo doveva pesare il triplo di lei e Lisbon lo ha messo all’angolo in un attimo. Se non fosse stato per lei, adesso avrei una carinissima cicatrice sul collo.
-L’hai notato, quindi. Ma che hai pensato allora?
-Io…io non ho pensato a…niente…
In realtà non se n’era neppure accorto. Aveva semplicemente visto l’azione, ma come se appartenesse a un’altra vita, non alla sua. Non l’aveva neppure ringraziata di averle salvato la vita. Adesso non riusciva a pensare ad altro, se non all’uomo che aveva causato quella macchia sulla sua pelle. Avrebbe voluto scuoiarlo con le sue stesse mani. Nessuno poteva ferire la sua Lisbon e passarla liscia.
-Lei non è tua, Patrick Jane. Lo sai bene.
-Certo, ma a volte mi piace credere che lo sia. Mi piace credere che qualcosa mi appartenga. E che io stesso appartenga a qualcuno.
Videro la donna salire le scale e chiudere la porta della camera da letto, ma lo Spirito non la seguì, sedendosi su una delle poltrone. Posò una mano sul posto accanto a lei, chiedendo a Jane di sedersi al suo fianco.
-Sono quattordici mesi.
Lo Spirito si voltò verso di lui, per una volta sorpreso.
-Quattordici mesi cosa?
-Sono passati quattordici mesi da quando l’ho abbracciata l’ultima volta. Avrei dovuto abbracciarla di più. Se l’avessi fatto, questo non sarebbe successo.
-Sarebbe bastato che tu non ti fossi comportato come un completo stronzo.
-Hai ragione, anche quello.
-Cos’hai intenzione di fare allora?
-Abbracciarla. Sempre. Tutti i giorni.
Lo Spirito annuì. Ovviamente, tutto ciò non sarebbe successo, ma capiva a cosa si stesse riferendo. Non avrebbe lasciato che l’amica continuasse ad auto-distruggersi.
In quel momento, la sala si riempì del rumore dei passi veloci della donna. Lisbon scese le scale cercando di infilarsi un paio di ballerine. Le gambe erano fasciate da pantaloni scuri e aveva indossato una maglia rosso acceso. Si sarebbero potuti confondere con i vestiti che usava indossare in ufficio, ma la foggia e il modo in cui accarezzavano il suo corpo facevano comprendere che fossero stati scelti apposta per un’occasione speciale.
Jane sentì un grumo di gelosia bloccargli la gola. Lisbon stava addirittura indossando un paio di orecchini dorati.
-Ma cosa…? Lei non indossa mai gioielli. Che razza d’uomo è finalmente riuscito a convincerla ad indossare un paio di orecchini?
Lo Spettro, dopo tanto tempo, sorrise. Sentendo quelle parole, percepì il proprio cuore sollevarsi. Forse non tutte le speranze erano perdute. Si avvicinò ancora di più al posto in cui l’uomo era seduto e gli tese una mano.
-Ti porterò in uno dei posti più cari alla tua compagna. E se le mie parole avranno avuto abbastanza effetto in te, comprenderai.

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Lo Spettro lo condusse in una grande stanza, ornata d lampadari dorati. Nell’aria aleggiava un forte odore d’incenso e l’atmosfera era riscaldata dal suono di un organo lontano. Le luci erano soffuse e un silenzio surreale regnava assoluto. Jane cominciò a camminare lungo la navata. Nella sua vita, era entrato in chiesa pochissime volte. Una di queste, per poter finalmente rivedere Lisbon dopo il lungo periodo passato a Las Vegas. E, il Cielo sarebbe potuto essergli testimone, in quell’occasione la donna era riuscita a far impallidire tutte le sacre icone appese alle pareti.
Lentamente, i suoi passi lo condussero fin sotto l’altare e, così come aveva visto fare all’amica tempo prima, si piegò su un ginocchio.
-Pensavo tu non credessi a queste cose, Patrick Jane.
Quasi si era dimenticato della sua presenza. Si alzò nuovamente in piedi e voltò lo sguardo verso di lei, rivolgendole parola.
-Che io non creda, non significa che io non porti rispetto.
Lo Spettro annuì il suo assenso e gli indicò un sedile. Entrambi si sedettero e, in silenzio, aspettarono. Per la prima volta in due notti, sembrava che il mondo intero e il tempo si fossero fermati, cristallizzati in quel momento infinito. Ognuno dei due rifletteva, pensava; si faceva domande le cui risposte sembravano ancora premature. Ma nessuno parlava o si muoveva di un centimetro.
Dopo alcuni minuti, la porta dietro di loro si aprì e cominciarono ad entrare delle persone. Famiglie, coppie, persone che da sole erano giunte in quel luogo. Tra queste, Jane riconobbe gli inconfondibili tratti di una figura. L’aveva lasciata solo pochi momenti prima, ma sembravano passati secoli.
Lisbon si sedette al suo fianco, come se fosse consapevole della sua presenza. Stavolta, Jane non disse nulla, come avrebbe fatto se davvero si fosse trovato in quel luogo assieme a lei. Lasciò indisturbata la sua preghiera, quasi incantato da quella vista. C’era qualcosa di così sottilmente affascinante nel vederla pregare. Qualcosa che sembrava completare la sua immagine, come un ornamento.
Jane impresse nella sua mente i suoi occhi chiusi, ma dalle palpebre rilassate; le labbra tremanti, ma per antiche preghiere imparate nell’infanzia. Non c’era bisogno d’altro. La sua presenza sembrava finalmente averlo riportato alla calma, seppur il suo cuore ancora soffrisse per ciò che aveva visto poco prima.
A un tratto, la preghiera di Lisbon si fermò, come se un pensiero improvviso l’avesse interrotta. Jane la vide infilare una mano nella tasca interna della giacca ed estrarre due fotografie. L’uomo si accostò ancora più vicino a lei, la testa quasi sulla sua spalla, per osservare le fotografie.
La prima, la sola visibile dalla sua posizione, ritraeva un qualche Natale precedente. Il soggetto dell’istantanea era Annie, immortalata al centro della foto. Era tenuta ferma dalle braccia del padre e aveva la faccia tutta sporca di panna, la cui provenienza era facile da comprendere, dato che Lisbon ne aveva sporche entrambe le mani. Oltre i tre Lisbon, si scorgevano altre facce in sottofondo, tutte piuttosto simili nei tratti. Una foto di famiglia.
La donna sorrise, sfiorando con le dita il fratello e la nipote. Poi scostò leggermente la prima immagine, permettendo al suo sguardo di cadere anche sull’altra.
Jane sorrise, ricordando l’evento in cui era stata scattata la foto. Tutta la squadra era stata invitata al primo compleanno di Ben ed avevano trasformato la casa di Rigsby in un enorme parco giochi. Nessuno aveva potuto farci nulla. Appena il piccolo Ben aveva messo piede in questo mondo, era subito divenuto il bambino dell’intera squadra. Soprattutto di Jane, il quale, per tutta la serata, non aveva fatto altro che farlo scorrazzare su e giù per la casa, mettendo il broncio a chiunque osasse rubare l’oggetto della sua onnipresente attenzione.
La foto aveva immortalato proprio uno di quei momenti. Jane e Grace si stavano scherzosamente contendendo Ben, il primo tenendolo per le braccia e la seconda per i piedi. Entrambi stavano ridendo a crepapelle, assieme al resto della squadra e gli altri invitati.
Lisbon aveva messo  le due fotografie vicine, in modo da poterle osservare entrambe.
-Buon Natale.
Sussurrò, in maniera così impercettibile da non poter essere sentita in quel silenzio assoluto. Jane rimase in quella posizione a lungo, durante la celebrazione. Stava…bene. Sentiva il calore di Lisbon scaldarlo, sciogliere la tensione in tutto il suo corpo. Come aveva fatto ad evitare tutto questo per anni?
-Capisci, adesso, da dove provenga la sua luce?
Jane annuì, gli occhi lucidi per la tenerezza. Sollevò una mano per posarla sulla foto, vicina a quelle di Lisbon.
-Buon Natale.
Sussurrò, girandosi verso la donna. Si avvicinò ancora di più a lei e si chinò per sfiorare appena la sua guancia con le labbra. Nessuno ci avrebbe creduto, ma all’ultimo momento, esattamente un attimo prima di ritrarsi, era quasi riuscito a sentire il sapore della sua pelle. Lisbon alzò il volto, sorpresa, come se anche lei avesse avvertito quel contatto.
-Lei ha…
Chiese, voltandosi in direzione dello Spirito.
-Ha importanza?
Rispose lei, impassibile.
-E’ ora di andare, Patrick Jane. Il nostro tempo qui è finito.

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In quell'istante gli orologi stavano battendo le undici e tre quarti.
Una stanchezza assoluta si era adagiata su di lui e lo costrinse ad appoggiarsi alla parete dell’attico per non cadere addormentato. Ma ai suoi occhi stanchi non sfuggì un piccolo particolare. Da dietro il vestito delle Spettro, sembravano provenire due voci sottili.
-Spettro, cosa nascondi dietro la tua persona?
La Donna lo osservò con occhi decisi e, con un movimento rapido, rivelò cosa vi era nascosto dietro la sua veste.  Erano un bambino e una bambina, gialli, magri, stracciati, imbronciati, simili a piccoli lupi, ma al tempo stesso prostrati nella loro umiltà, quando si inginocchiarono ai piedi dello Spirito. Dove la grazia giovanile avrebbe dovuto riempire i loro lineamenti e tingerli dei suoi più vivaci colori, una mano decrepita e rugosa come quella della vecchiaia, li aveva afferrati, contorti, dilaniati. Jane, sgomento arretrò. Poiché gli erano stati mostrati in questo modo, tentò di dire che erano dei bei bambini, ma la voce gli si fermò in gola piuttosto che farsi complice di una così colossale bugia.
-Sono figli dell'uomo-, disse lo Spirito, abbassando lo sguardo su di lui; -e si afferrano a me chiedendomi di aiutarli contro i loro padri. La bambina si chiama Ignoranza, il bimbo Bisogno. Guardali bene tutti e due, e tutti quelli che somigliano a loro; ma soprattutto guarda bene la bambina, perché sulla sua fronte vedo scritta una parola che è una condanna, a meno che quella scritta non venga cancellata. Negalo!
Jane sembrò svegliarsi finalmente dalla stanchezza che gli stava pervadendo le membra. Guardava alternatamente lo Spirito e poi i bambini, lo sguardo pieno di domande.
-Ieri ti fu mostrata la Verità. Oggi ti mostrai l’Errore. Adesso ti sarà mostrata la Conseguenza.
L'orologio batté le dodici. Jane cercò lo Spirito con lo sguardo ma non lo vide. Allorché l'ultimo colpo cessò di vibrare, si ricordò della predizione del vecchio Leroi Johnson e, alzando gli occhi, scorse un Fantasma solennemente drappeggiato e incappucciato, che gli veniva incontro, simile alla nebbia che striscia sul terreno.
 

-Fine Strofa Terza-

 

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Capitolo 4
*** L'ultimo degli Spiriti ***


A/N: Eccoci qui al nostro penultimo incontro (sob,sob). E devo avvisarvi. E' stato straziante per me scriverlo, davvero. Perciò, se vi da fastidio vedere i vostri personaggi preferiti bistrattati e ridotti male, be', passate oltre. Non sarà veloce, non sarà delicato e, soprattutto, non sarà piacevole. Quello di questo capitolo, è il Terzo Spirito, quello per sua natura più temibile. E, di sicuro, io non ho fatto sconti per trattenere la sua furia. Quindi siete ancora in tempo per passare oltre. Altrimenti, vi consiglio di stringere i denti assieme a Jane e bere questa medicina amara fino in fondo. In cambio, vi prometto che il prossimo capitolo sarà (quasi totalmente) Fluff e sarà lungo. Molto lungo. Parecchio lungo. Cercherò di far far pace tra Jane e il "destino", per così dire. Infone, ci sarà l'Epilogo, che posterò in contemporanea. E' totalmente in continuità con l'ultimo capitolo, ma voglio che sia staccato da questo perchè parlerà del futuro. Perciò, due "capitoli" insieme, ok? state pronti. Volevo inoltre dirvi, anche se so che ve ne fregherà altamente, che ho i biglietti per il concerto dei The Killers. Sono superstramegacosìtantissimodeliceimmensamentegrazie!!! Se non aveste letto l'A/N del primo capitolo, tornate indietro per capire perchè. Ringrazio Elixana e Theresa_94 per le recensioni dello scorso capitolo. You go, girls!! ;)
Alla prossima
Nikki C.

 

STROFA QUARTA

 
 
L’ultimo degli spiriti

With my face flashing crimson from the fires of hell.
What are you afraid of?
And what are you made of?

Flesh And Bone– The Killers

 

Il Fantasma si avvicinava lentamente, con silenziosa gravità e, quando gli fu vicino, Jane cadde in ginocchio, giacché l'aria stessa attraverso la quale si muoveva questo Spirito sembrava diffondere tutt'intorno l'oscurità e il mistero. Era avvolto in un'ampia veste nera che gli nascondeva la testa, il volto e la forma, e non lasciava vedere di lui che una mano tesa e due lunghi fasci di capelli che scendevano sulle sue spalle. Quando gli fu accanto, Jane sentì che era di statura alta e imponente e che la sua presenza misteriosa lo riempiva di un solenne terrore. Altro non sapeva, giacché lo Spirito non parlò né si mosse.
-Sono alla presenza dello Spirito del Natale Avvenire?
Lo Spirito non rispose, ma additò in alto con la mano.
Jane rimase sorpreso dal gesto. Gli altri Spiriti lo avevano più e più volte incitato, avevano parlato con lui, pur se con parole di fuoco. Questo, invece, era fermo al centro della stanza, immobile nella sua maestosità. Aveva riposto la candida mano vicina all’altra, facendole entrambe riposare sul grembo.
-Spirito, perché taci? Perché mi è nascosto il tuo volto e la tua parola mi è negata?
In quel momento, lo Spirito alzò solo lievemente il capo, in modo che i suoi lineamenti fossero, per un attimo e per un attimo soltanto, visibili all’uomo. Jane spalancò gli occhi, un misto di emozioni aleggiava nel suo cuore. Sollievo, orrore, amore, ma, soprattutto, paura.
-Oh…
Fu l’unica cosa che uscì dalle sue labbra, solo un’unica sillaba d’assenso. Colei che aveva davanti, aveva diritto di non rivolgergli alcun suono, lo sapeva bene. Non poté far altro che allontanare gli occhi dal suo sguardo vuoto e chinare il capo. Se con gli altri Spiriti era stato un segno di rispetto, questa volta era la dimostrazione della sua più totale sottomissione. Avrebbe potuto fare di lui qualsiasi cosa volesse, non avrebbe meritato meno.
Lo Spirito puntò le dita verso di lui e sentì come una forza tirarlo su. Questi aveva di nuovo abbassato il cappuccio sul volto, in modo che solo le labbra e il mento fossero visibili.
Cominciò a camminare verso la porta. Jane sentì il coraggio tornare e alzò appena lo sguardo verso di lui. Lo Spirito si fermò, come se avesse visto la scena proprio davanti ai suoi occhi e si voltò verso l’uomo alle sue spalle. Jane sembrò per un attimo indeciso se parlare o meno. Ma alla fine la voce tornò, sottile, e costrinse la sua lingua a parlare.
-Dimmi, quale destino ha scelto te per condurmi? Quale oscura divinità ha voluto proprio te per affiancarmi nell’ora più oscura? Perché…
Le sue domande furono bloccate dall’Ombra, che alzò di scatto una mano per farlo tacere. Jane comprese che la sua parola non era richiesta e si rimise nuovamente alle volontà dello Spettro.
-Avanti! Conducimi! La notte sta per finire, e so che per me il tempo è prezioso. Conducimi innanzi, Spirito.
Lo Spirito obbedì.

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I due camminarono a lungo senza dire una sola parola. Jane ormai aveva perso il senso dell’orientamento. Gli sembrava di camminare da ore, cosa impossibile dato che il cielo era del nero più profondo e nessuna luce sembrava ergersi all’orizzonte. I piedi cominciavano a dolergli, ma lo Spettro continuava la sua marcia con la stessa andatura solenne.
La strada a un tratto sembrò voltare a sinistra e Jane rimase pietrificato davanti agli angeli di pietra che si ergevano ai lati del sentiero. Oltre questi c’era un cancello dall’aspetto antico, ma al contempo non c’erano tracce di ruggine sulle sbarre. A Jane non sfuggì la natura di quel luogo. Si trovavano in un cimitero.
L’uomo si voltò verso lo Spirito, gli occhi pieni di domande. Come mai stavano visitando un cimitero? Chi mai era sotterrato lì? L’Ombra non rispose in alcuna maniera, se non ricominciando a camminare verso l’interno.
Lapidi si ergevano alla loro destra e alla loro sinistra, una nebbiolina spettrale sembrava esser parte del terreno, come sorretta dai sottili fili d’erba verde. Si vedevano le luci lontane della città, ma a Jane pareva di camminare nella completa oscurità. Lo guidavano solo i riflessi argentati della luna sul lungo mantello dello Spettro e qualche sprazzo dei suoi occhi.
La figura lo portò oltre, lontano dalle lapidi più comuni, verso una collina isolata. Su questa si ergeva un maestoso salice piangente. I suoi lunghi rami sfioravano il terreno, come una carezza leggera, appena mossi dalla flebile scia notturna. Nascosta da questi c’era una lapide solitaria, semplice. Lo Spirito lo stava guidando proprio in quella direzione e entrambi cominciarono a risalire il colle.
La vegetazione era scivolosa a causa dell’umidità e Jane perse l’equilibrio più e più volte. Ma lo Spettro non sembrava voler attendere la sua esitazione e, senza neanche voltarsi, continuò come se stesse camminando su una strada appena battuta.
Arrivati in cima, Jane guardò in direzione dello spettro per cercare di capire, almeno in parte, il motivo della loro presenza in quel posto. Lo Spettro distolse gli occhi dalla lapide e si voltò verso di lui. Con un movimento lento del braccio, alzò l’argentea mano in direzione della lapide, indicando a Jane la direzione su cui avrebbe dovuto muovere lo sguardo.
L’uomo obbedì allo spettro, seppur il nome della persona sepolta in quel luogo restasse ancora nascosto dai lunghi rami del salice. A un tratto, una folata più fredda, proveniente dal nord, spostò vistosamente le lunghe appendici, rivelando finalmente le lettere scolpite nella pietra.
Jane sentì l’aria lasciargli i polmoni e cominciò a sudare freddo. Ma aveva visto tante cose orribili in quei giorni e, quasi col cuore sollevato, poté dire a se stesso che quella non era stata una delle peggiori. Impose alla sua persona di ritrovare più in fretta il contegno e ci riuscì con il minimo sforzo. Mandò giù un grumo di saliva e si spinse all’interno dei fitti rami, raggiungendo la lapide.
Lo Spettro sembrò guardarlo sorpreso dall’interno del suo cappuccio, e senza errore. Un qualsiasi altro uomo sarebbe andato nel panico a una simile vista. Qualsiasi uomo da aggettivarsi sano, intendiamoci. Eppure, Patrick Jane sembrava sostenere più che bene quello che i suoi occhi gli stavano mostrando. Non senza paura certamente, ma con quella rassegnazione di un uomo che ha ormai preso in considerazione ogni eventualità. Anche quella eventualità.
Jane si piegò su un ginocchio, in modo da avere gli occhi all’altezza della semplice scritta al centro stele. Con le dita, sfiorò le lettere una ad una. Non c’era incredulità. Non c’era sorpresa. Soltanto, sospirò e, con un ghigno quasi malvagio, si voltò verso l’ombra alle sue spalle.
-Credevi che portandomi qui saresti in qualche modo riuscita a far entrare il timore dentro di me? Ti sbagli. Aspetto questo momento dal giorno che ti ho trovata morta nella nostra camera da letto. E ho passato giorni, mesi, anni interi, a pensare a come sarei riuscito ad appagare questo mio deside…
Le sue parole furono interrotte da una sensazione che aveva provato una sola volta in vita sua. Per la precisione, quando l’esplosione di quel furgone, anni prima, l’aveva accecato. Ricordava il modo in cui il suo corpo era stato sbalzato lontano, alzato quasi senza peso, e guidato da una forza terribile. In quel momento, sentiva come se un treno in corsa l’avesse travolto e sbattuto per terra. Qualcosa datata di una forza incredibile l’aveva colpito.
Aprendo gli occhi, sentì una fitta stilettargli lungo la guancia destra e, portando una mano alla bocca, si accorse che il labbro inferiore era spaccato di netto. Con la lingua, pulì via parte del sangue, assaporando la sensazione amara. Guardò in direzione dello Spettro e notò la mano ancora abbassata, quella che si era scontrata col suo volto pochi secondi prima. L’Ombra sembrava possedere una forza straordinaria e, se un solo schiaffo era riuscito a ridurlo in quel modo, si chiese cosa sarebbe successo se le sue azioni l’avessero fatto arrabbiare sul serio. Ma la cosa non sembrò spaventarlo, anzi. Si rimise in piedi in un attimo e camminò di nuovo al suo posto, vicino alla pietra mortuaria. I suoi occhi sembravano animati da un fuoco che chiunque avrebbe riconosciuto in lui. Lo stesso che si trovava lì quando le sue azioni erano richieste nei confronti di un uomo in particolare.
Si passò una mano sulle labbra a mo’ di sfida, colorando la guancia destra con una striscia del suo stesso sangue e puntò gli occhi in direzione dello spettro con sfida.
-Non ho paura di quelle lettere. Non mi fa paura il mio nome scritto su una fossa, Spirito! Sono passato troppe volte vicino alla morte, per temerla. Si è mostrata davanti ai miei occhi troppe volte, per non comprendere la sua ineluttabilità.
Aspettò un nuovo colpo, ma lo spirito non si mosse. Piuttosto, guardò verso la base della collina, dove due figure nere si stavano avvicinando lentamente. Jane non spese neanche un secondo per riconoscere la lunga chioma vermiglia della donna e i tratti duri dell’uomo che la stava accompagnando.
In un moto spontaneo, si mosse per nascondersi. Ma le parole del Primo Spirito risuonarono nelle sue orecchie e, invece di spostarsi, attese l’arrivo dei due sulla cima della collina.
Grace e Cho avevano i volti chini, bassi. La prima portava in mano un piccolo mazzo di margherite, il secondo aveva le mani affondate nelle tasche. I loro occhi, però, mandavano un messaggio di inequivocabile dolore. Entrambi dovevano aver pianto, e molto, a considerare le macchie rosse intorno ai loro occhi. In più, Grace stava mordendo il suo labbro inferiore, cercando in qualche maniera di frenare un impulso profondo ed opprimente.
Jane rifletté sull’ironia della situazione. Anni prima, lui e Lisbon si erano trovati in cima al terrazzo del loro caffè preferito, mangiando un gelato, ed a un tratto Lisbon gli aveva chiesto quali reazioni si sarebbe aspettato dai suoi cari, una volta morto. Lui aveva scioccamente risposto di non importarsene. Era stata una cosa semplice da rispondere, soprattutto da vivo. Ma adesso, essendo venuto a conoscenza del fatto che presto sarebbe giunta la sua ora, era impaziente di conoscere i pensieri dei suoi colleghi.
Cho si fermò a circa due metri dalla lapide e lo stesso fece Grace. Il viso della donna si contorse in una maschera di disgusto, una volta letto il suo nome. La cosa non sorprese Jane. Era consapevole che la sua morte avrebbe causato qualche danno alla squadra e a Lisbon. Forse gli aveva fatto ricevere un richiamo un po’ troppo duro. Forse aveva fatto perdere il lavoro a qualcuno.
Ma era convinto di una cosa. Sarebbe passato. Presto tutti avrebbero ripreso la propria vita come se nulla fosse. Sarebbero andati avanti, questo era inevitabile. E con lui fuori dalla scatole, le cose sarebbero state presto migliori per tutti.
-Spero che il bastardo stia bruciando tra le fiamme dell’Inferno per ciò che è successo.
-Ehi!
Esclamò Jane, nonostante la donna non potesse sentirlo. Grace aveva pronunciato quelle parole dopo aver lanciato il mazzo di margherite contro la lapide. Il suo volto era sconvolto e sembrava a stento trattenere le lacrime.
-Non è stata colpa sua. Grace, lui è morto da sei mesi.
La donna fece segno di no con la testa, in disaccordo col collega. Stava cercando di controllarsi, in qualche maniera. Le lacrime cominciarono a rigarle il volto e si portò una mano alla bocca per trattenere il suono dei singhiozzi.
-E’ solo colpa sua, Cho…È sempre stata colpa sua!
Jane si rivolse allo Spirito. Non capiva di cosa stesse parlando Grace e, soprattutto, era sorpreso di essere morto da così tanto tempo. Per quale motivo allora quei due si trovavano lì?
-Hai sentito quelli dell’obitorio, Cho?
Domandò Grace, sibilando. Aveva gli occhi pieni di rabbia mentre continuava a fissare la tomba.
-Hanno eseguito ieri l’autopsia. Stavo parlando con Tony a pranzo. E’ nella squadra dell’obitorio. Era lì, col medico legale. Ha detto che non hanno trovato segni di difesa, sul corpo. Non ha lottato. Neanche per un secondo. Mi ha detto che non lo diranno alla sua famiglia. Finirebbe per distruggerli. E non se lo meritano, dopo tutto quello che hanno passato. Non lo meritano…
Grace si pulì il volto dalle lacrime col dorso delle mani.
-Io sono stata la prima a entrare nel bagno, Cho. Penso di non aver visto tanto sangue dai tempi di Red John. E a un tratto ho pensato che fosse resuscitato, se non fossi stata io a fargli esplodere la testa. E il suo corpo era lì…così bianco…e i suoi occhi…Pensavo che sarei impazzita, se li avessi guardati un solo secondo in più.
La donna emise un profondo sospiro, guardando il cielo e sorridendo sconfitta. Poi si girò verso il collega e continuò a parlare, stavolta la voce più bassa e roca per il pianto.
-E’ colpa sua se non ha lottato. L’ha smesso di fare il giorno in cui questo bastardo è morto. Quindi non venirmi a dire che non è colpa sua. Sono solo stronzate!
E Grace si voltò, scendendo dalla collina. Jane stava iniziando a sentire una forte stretta allo stomaco, come se un mirino fosse puntato alla sua testa e l’arma fosse pronta a sparare. Stava per accadere qualcosa. Qualcosa di grosso. Qualcosa a cui, era sicuro, non sarebbe sopravvissuto.
Cho, nel frattempo, era rimasto fermo, al suo posto. La sua stoica statura tradiva ben poco del suo tormento interiore, Jane lo sapeva bene. Si mosse verso il collega, ma questo si avvicinò alla lapide, posando qualcosa sul terreno.
-Forse non sarai stato tu a ucciderla. Ma Grace ha ragione. Se non ti fossi comportato come un completo stronzo, forse sareste ancora vivi entrambi.
Si alzò e seguì la collega, sparendo nella notte nebbiosa.
Jane stava cominciando pian piano a mettere assieme i pezzi. La sua mente fin troppo allenata stava facendo due più due e la soluzione a cui stava giungendo non poteva essere in alcun modo possibile.
-Spirito, di chi stavano parlando?
Ma l’Ombra non mosse neanche un muscolo. E la cosa stava spaventando Jane sempre più.
-Spirito…? Perché stai facendo questo? Cosa sta succedendo?
Lo Spettro alzò sola una mano in direzione della sua lapide, ma non indicò la pietra, bensì il terreno. Qualsiasi cosa Cho avesse portato lì, era la chiave per risolvere il mistero dietro quelle parole. Jane mosse pochi passi, cauto. Come se qualsiasi cosa fosse nascosto nel terreno avesse potuto saltargli addosso e non lasciargli scampo.
Si inginocchiò sull’erba bassa e tese la mano dove sapeva essere l’oggetto. Le sue dita toccarono qualcosa di una consistenza diversa dalle foglie. Strinse il pugno attorno a quello e lo avvicinò al corpo per osservarlo. Era un involto stropicciato rosso e bianco, di cui non riusciva a capire la provenienza o l’utilizzo. Mosse le dita per svolgerlo leggermente. A quel punto, spalancò gli occhi dal terrore e urlò con tutto il fiato che aveva in gola. La consapevolezza lo travolse come una valanga e buttò via l’oggetto come se improvvisamente avesse preso fuoco.
Si spinse su braccia e gambe per allontanarsi da lì e incontrò le gambe di marmo dello Spirito. Cercò di tirarsi via anche da lui, ma la sua mano gelida e inclemente lo afferrò per una spalla e lo sollevò. Voleva scappare, urlare, cercare una via di fuga, ma tutto quello che riusciva a fare era piangere come un bambino e tentare invano di slacciare la ferrea presa di quell’ombra.
-No…Non puoi farmi questo…non proprio tu…DIO, NON TU!
Lo spirito strinse ancora di più la mano, facendolo singhiozzare dal dolore. Lo trascino giù dalla collina, via, lontano dal cimitero. Condusse l’uomo all’interno di una grotta cupa e nera e lì scomparvero.

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Jane si stringeva contro la parete dell’ingresso, tremante, sull’orlo di una crisi di panico.
Lo Spirito lo aveva barbaramente trascinato e buttato per terra sul tappeto, come se fosse un sacco di spazzatura. E così si sentiva dopo tutti quei giorni. Stanco, distrutto, con il cuore e la mente a pezzi. Stavolta i suoi trucchi sarebbero stati inutili, non avrebbero potuto evitare ciò a cui stava per assistere. Aveva cercato di buttare quelle immagini fuori dal suo castello della memoria, inutilmente.  Com’era possibile che la sua salvezza fosse così dolorosa? Com’era possibile che il destino si stesse comportando così, senza un minimo di pietà?
Era tutto il frutto del dolore che aveva causato. Maturato, cresciuto in seno al tempo, e finalmente divenuto quella bestia che lo stava distruggendo. Avrebbe dato via qualsiasi cosa per tornare indietro, per cambiare la maniera con cui si era comportato. Esattamente com'era successo con la sua famiglia. Tornare indietro nel tempo, cambiare il passato, cambiare se stesso.
Ma ciò che stava vedendo in quel momento, gli stava facendo capire di non aver ancora imparato la lezione. Se la morte di Charlotte ed Angela avesse cambiato il suo essere cinico ed egoista, adesso non si sarebbe trovato lì. Cominciava a comprendere con quale criterio fossero stati scelti gli Spiriti. E pregava il cielo di non voltare loro le spalle ancora una volta.
Dei passi sulle scale fecero voltare Jane e lo Spirito. Un uomo alto e magro stava lasciando l’appartamento. Jane lo guardò in volto, ma non lo riconobbe affatto.
-Spirito, non anche questo…
Sussurrò, singhiozzando. Posò la testa sulla parete al suo fianco, arrivato ormai allo stremo delle forze. L’uomo passò al suo fianco, senza vederlo, ed esitò un attimo prima di estrarre di tasca un mazzo di chiavi. La porta si chiuse alle sue spalle e Jane rimase accucciato a terra in posizione fetale, senza riuscire a muovere un muscolo. Stava per toccare il fondo. Sentiva il suolo avvicinarsi. E lui era caduto per troppo tempo per poter sopravvivere.
Lo Spirito si avvicinò di nuovo e strinse il tessuto della camicia sulla sua spalla destra. Jane mise su una debole protesta, ma subito capitolò. L’Ombra lo spinse in piedi conducendolo alle scale.
Aveva ripercorso quella scena mille volte nella sua testa. In un’altra casa, in un’altra era, in un’altra vita. Quei gradini, ancora una volta, lo avrebbero condotto in un corridoio. E il corridoio, in una stanza. E la stanza, alla sua fine.
Come spinto da qualche forza nascosta, mosse il primo passo in avanti. E poi il secondo. E un terzo. La sua mente era una stanza vuota.
Senza quasi saperlo, si ritrovò di fronte alla porta. Non quella di una camera, ma di un bagno. E su questa non c’era nessun biglietto, nessun pezzo di carta a presagire quello che avrebbe trovato oltrepassando la soglia. Dall’interno, proveniva solo una nuvola di vapore caldo e lo scroscio dell’acqua all’interno di una vasca da bagno. La contemplò per un attimo, assaporando gli ultimi momenti di sanità.
Il freddo respiro dello Spirito alle sue spalle lo costrinse a compiere l’ultimo gesto e, toccando appena la porta con la punta delle dita, la aprì verso l’interno.
La prima cosa che lo colpì, fu l’odore penetrante e ferroso del sangue. Poi il rumore ancora più forte dell’acqua, ormai arrivata all’orlo della vasca. Infine la vista di un mare di rosso, sparso su tutto il bagno. Schizzi e strisce sottili sui mobili color crema. Sulle piastrelle bianche e lucide. Sullo specchio appannato. E infine per terra, un corpo nudo e senza vita  allungato scompostamente, coperto soltanto da un asciugamano grondante di sangue.
Accanto a quel corpo, stavano gli altri due Spiriti. Il Primo, chino per terra con le mani grondanti di rosso. Il Secondo, in piedi, statuario, a pochi passi. Entrambi alzarono gli occhi mesti verso di lui, ma solo uno parlò.
-Non siamo bastate noi? Avevi bisogno anche del suo sacrificio?
Domandò, non aspettandosi tuttavia alcuna risposta.
-D’altronde le avevi già preso tutto. La vita era l’unica cosa che l’era rimasta. E alla fine hai preso anche quella.
Ma a Jane parve solo un rumore lontano. Spalancò gli occhi davanti a quella scena e, come se gli fosse caduto addosso il peso del mondo, finì in ginocchio per terra. Il sangue penetrò tra le fibre del tessuto dei suoi pantaloni. Si sciolse attorno alle sue lacrime che erano cadute sul pavimento.
-Teresa…
Sentì le sue labbra sussurrare, ma si domandò se fosse stato lui a dirlo. Non sembrava la sua voce, era rauca, graffiante, quasi non umana. I suoi occhi non erano in grado di lasciare quella forma, seppur oscurati da un fiume di lacrime. Non c’era più nulla che avesse importanza al mondo.
Si spinse sulle braccia e si accostò al corpo dell’Agente Teresa Lisbon, accoltellata a morte nel bagno di casa propria la sera del 22 dicembre 2013 da Eugene Finnigan. Il fratello, il magnante della coca Ferdinand Finnigan, era stato ucciso quattro giorni prima durante una retata organizzata dalla SCU del CBI.
Nel rapporto definitivo, l’omicidio sarebbe stato motivato dal fatto che Eugene ritenesse l’Agente responsabile della morte del fratello. Pochi giorni dopo, la SCU avrebbe arrestato l’uomo, mentre stava cercando di lasciare il paese. Condannato all’ergastolo per l’omicidio di un pubblico ufficiale, si sarebbe tolto la vita due anni dopo.
Tutto questo, Patrick Jane non l’avrebbe mai saputo. E sicuramente, non gli sarebbe mai importato.
Le sua dita erano impegnate a spostare alcune ciocche di capelli dalla fronte fredda della donna. Le ciocche erano morbide e lisce, esattamente come le aveva sognate. I capelli erano lievemente più corti, ed indossava di nuovo la frangia, dello stesso colore delle lunghe ciglia scure, disposte a ventaglio sulle guance ancora rosee. Da quella posizione, riusciva a scorgere bene la manciata di lentiggini disegnate attorno al suo naso e alle guance. E la corona delle orecchie, bianca e sinuosa. Sembrava addormentata in un sonno leggero, riposando alla fine di uno dei tanti, lunghissimi giorni che avevano passato insieme.
Solo in quell’istante, si accorse che la sua mente stava parlando come se non ci fosse una pozza di sangue raccolta sotto la sua schiena, come se il suo ancora più fragile corpicino non fosse ferito da chissà quante coltellate. Come se ancora si potesse fare qualcosa.
La realizzazione, lo colpì quasi come lo schiaffo qualche ora prima. Si trovò catapultato in quella realtà, dove lui era morto, l’aveva abbandonata e non era più in grado di proteggerla. E lei se n’era andata, per sempre, dalla propria vita e da quella della squadra.
Dalla sua gola risuonò un singhiozzo spezzato. Sollevò Lisbon, adagiando la sua testa sulla spalla. Con le braccia circondò la sua vita e la schiena nuda. Sentì il liquido appiccicoso sulla pelle, come una carezza tiepida. Affondò il viso nella piega del suo collo, lasciando dei piccoli e casti baci sul suo percorso. La pelle avrebbe dovuto avvampare sotto le sue labbra, i muscoli tendersi in imbarazzo per quel gesto.
Un oggetto fece rumore cadendo per terra da chissà dove. Jane si destò. Un’intera batteria di cannoni sarebbe parsa silente, in quel momento, ma quel suono leggero sembrò rimbombare tra le pareti strette della stanza. Si voltò a vedere cosa fosse e notò la sua rana di carta che cominciava ad inzupparsi lentamente di sangue. La mano destra di Lisbon era leggermente chiusa, come se fosse stato quello il posto dell’origami fino a quel momento.
Lisbon era morta tenendo in mano uno dei pochi regali sinceri che le aveva fatto. Se, in un altro mondo, questo avrebbe potuto sollevarlo e onorare la sua persona. In realtà non fece altro che dargli il colpo di grazia. Raccolse la rana accartocciata e la pose vicino al cuore, stringendo al contempo il minuscolo corpo della donna. Sembrava ancora più piccolo, ancora più di un anno prima e, nel suo abbraccio, sentiva le ossa premergli sulla pelle. Le baciò la fronte, le sopracciglia, le palpebre chiuse, il naso. Poi fece riposare le labbra sui suoi capelli e ne annusò l’odore, ancora forte e persistente.
-Dove sei andata, piccola mia…?
Chiese, facendo scivolare il suo respiro a scaldarle la pelle della fronte. Abbassando le palpebre, cominciò a piangere compostamente, in silenzio, in rispetto della persona appoggiata contro di lui.
Nel frattempo, i Tre Spiriti non avevano smesso un secondo di osservarlo, silenti. Lo vedevano cullare avanti e indietro quel corpo senza vita, le lacrime rigare lentamente il volto rilassato sotto di lui. L’uomo di soli tre giorni prima era scomparso, la sua maschera distrutta. Sarebbero dovuti essere soddisfatti del loro lavoro, ma davanti a quella scena, neppure il più freddo degli Spettri avrebbe esultato.  
Il tempo sembrò rallentare fin quasi a fermarsi. L’acqua nella vasca cadde oltre il bordo, diluendo il sangue sul pavimento, riflettendo il soffitto. Per un attimo solo, la stanza sembrò tornare pulita, ma le cinque persone al suo interno testimoniavano gli eventi che l’acqua non avrebbe potuto lavare via.
Ore dopo, un raggio caldo penetrò dalla finestra. In un ultimo atto di forza, Jane alzò il volto sfigurato verso i Tre.
-Spiriti, ascoltatemi. Io non sono l'uomo che ero prima e non sarò l'uomo che sarei stato se non vi avessi incontrato. Perché mi mostrate tutto questo, se per me ogni speranza è perduta?
Sussurrò rivolgendosi agli Spiriti, tenendo ancora stretta a sé Lisbon. Come se fosse in grado di pronunciare quelle parole soltanto appoggiandosi segno sua definitiva sconfitta. Alzò una mano tremante verso gli Spettri, in attesa di un impossibile aiuto.
-Spiriti buoni, la vostra natura intercede per me ed ha pietà di me. Assicuratemi che io posso ancora, cambiando la mia vita, cambiare queste ombre che mi avete mostrato.
Ma nessuna parola lasciò le loro labbra e tre paia di occhi scuri continuarono a osservarlo, vuoti. Sconsolato, abbassò gli occhi al volto di Lisbon un’ultima volta, abbandonando un bacio in mezzo alle sue sopracciglia. Poi la posò delicatamente per terra, come se non volesse farle male, e la sistemò in una posizione rilassata, con le braccia incrociate in grembo. Infine, prendendo il suo viso tra le mani, sfiorò appena la sua bocca, come il bacio del Principe alla Bella Addormentata.
-Addio.
E si allontanò per concederle riposo.
Lentamente, andò in contro agli Spiriti, mai alzandosi da terra e mai sollevando il volto. Si prostrò ai loro piedi e, tenendo gli occhi serrati, parlò con l’ultima voce che gli era rimasta.
-Voglio onorare il Natale nel mio cuore e cercare di osservarlo per tutto il corso dell'anno. Voglio vivere nel Passato, nel Presente e nel Futuro. Gli spiriti di tutti e tre vivranno dentro di me. Non rimarrò sordo alle loro lezioni. Oh, ditemi che posso cancellare questo sangue dalle mie mani!
Nel suo tormento afferrò la mano spettrale dell’Ultimo Spirito.Questo cercò di liberarsi, ma egli lo stringeva con tutta la forza e la trattenne. Lo Spirito, più forte di lui, lo respinse. Alzando le mani in un'ultima preghiera perché il suo Fato mutasse, vide un'alterazione nel cappuccio e nella veste del Fantasma. Questo si contrasse, cadde e, in quel momento, Jane aprì gli occhi sotto il soffitto del suo attico, inondato dalla luce del nuovo giorno.

 

-Fine Strofa Quarta-

 

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Capitolo 5
*** Come Andò a Finire ***


A/N: E alla fine siamo (quasi) arrivati alla conclusione. Ma ho una buona notizia. Questo NON sarà l'ultimo nostro incontro. Precedentemente, avevo detto di aver deciso di pubblicare epilogo e ultimo capitolo assime. In questi giorni ho riflettuto attentamente e ho decios che non farò così. Questo capitolo e l'epilogo assieme sono lunghi ben 13 pagine. Inoltre ci sarebbero stati problemi con le recensioni, perchè voi non avreste capito cosa recensire. Ciò nonostante, ho pensato che l'epilogo da solo fosse troppo breve da pubblicare. Perciò ho deciso di fare un piccolo flash forward, scrivendo un evento del loro futuro. La storia non sarà assolutamente collegata a questa. Prendetela come una "traccia fantasma" e...ecco...un piccolo regalo da parte mia per essere stati così incredibili. Vi anticipo solo il nome: Red Markers and Blue Markers. Prima di cominciare a leggere, vi avviso: faccio schifo col Fluff e sono molto titubante su questo capitolo. Non so se è uscito fuori esattamente come l'ho concepito. Spero comunque che vi piaccia come gli altri. E se trovaste degli errori nelle parole non esitate a scrivermi tutto nelle recensioni. Apporterò subito le modifiche.
Grazie a N i k k i, Elixana, Theresa_94 e DebbiePatience per le loro stupende recensioni <3

Alla prossima
Nikki C.

 

STROFA QUINTA
 

 
Come andò a finire

If you should fall upon hard times.
If you should lose your way.
There is a place here in this house that you can stay.


Deadlines and Commitments– The Killers
 

Sì, e quello era il soffitto del suo attico. Il letto era il suo, la stanza era la sua. Ciò che era la cosa migliore e più lieta di tutte, il tempo che gli era dinanzi era suo, perché potesse rimediare al passato.
-Voglio vivere nel Passato, nel Presente e nel Futuro. Gli spiriti di tutti e tre vivranno dentro di me. Oh, Leroi Johnson, sia lode al Cielo e al Natale per tutto questo! Lo dico in ginocchio, mio vecchio Leroi, in ginocchio! Le ombre delle cose che sarebbero accadute possono essere disperse. Saranno disperse; so che lo saranno!
Era talmente eccitato e talmente fervente di buone intenzioni, che la sua voce spezzata funzionava con difficoltà. Nella sua lotta con lo Spirito aveva singhiozzato con violenza e aveva il volto bagnato di lacrime.
Con un salto, volò giù dal letto in direzione di uno dei cassetti. Tirò fuori un completo pulito e cominciò a togliersi di dosso i vestiti sporchi. Afferrò cellulare, portafogli e le chiavi della macchina, catapultandosi giù per le scale con il panciotto ancora sbottonato. Con un movimento esperto, riuscì ad allacciarsi la cinta con la mano destra, mentre la sinistra teneva il cellulare premuto contro l’orecchio.
Doveva avere un aspetto a mala pena presentabile, quando saltò gli ultimi gradini delle scale nel bullpen. Augurò buon Natale a Jim e a un addetto della squadra delle pulizie, allacciandosi i polsini.
-Signor Jane! Ma da chi diavolo sta fuggendo?
-James! Ti prego, dimmi, che giorno è oggi?
Domandò, tirandolo per la giacca dentro l’ufficio di Lisbon, vicino al quale erano arrivati in tempo da record. Mentre l’uomo se ne stava immobile all’ingresso con la scopa in mano, Jane aveva già messo le mani dentro il primo cassetto della scrivania di Lisbon, dove sapeva fosse nascosta la lettera.
-Oggi…oggi è Natale, signor Jane! Che domande sono queste?!
Jane quasi interruppe la sua ricerca per lo stupore, quando sentì le parole dell’uomo. Con la mano, toccò il foglio nascosto in fondo al cassetto e lo tirò fuori, quasi strappandolo in due. Quasi nello stesso momento, saltò fuori da dietro la scrivania in direzione di James. L’uomo fece un passo indietro, spaventato. Erano quasi sei anni che assisteva alle bizzarrie di quell’uomo, ma mai nessuna aveva superato questa. Jane lo prese nuovamente per la giacca e iniziò a scuoterlo.
-Vuoi dirmi che non sono passate tre notti? Che oggi è ancora il giorno di Natale?
James strabuzzò gli occhi alla sorpresa del consulente.
-Santi numi, signor Jane! Certo che è Natale! Credo che lei debba uscire da quel suo att…
Non riuscì a finire la frase, dato che l’uomo aveva stretto le braccia intorno alla sua enorme vita, stritolandolo in un abbraccio soffocante.
-Ahhhhh, James, non sai che notizia mi hai dato! Sono ancora in tempo, capisci? Sono ancora in tempo!
Un secondo dopo, era sparito. James lo vide correre a perdifiato giù per le scale quasi inciampando nei suoi stessi passi, salutando giulivamente qualsiasi persona incontrasse sul suo cammino. Cosa diavolo avesse in corpo quel matto da legare, nessuno lo sapeva.
Neanche mezzo minuto dopo, Jane era dentro la sua auto, le chiavi già nell’avviamento.
-Pronto…? E’ il telefono del Direttore Bertram? Buon Natale, senta, le volevo chiedere se stamattina avesse qualche minuto libero. Avrei alcune parole da scambiare con lei…
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Nonostante fosse la mattina di Natale, Teresa Lisbon non aveva alcuna intenzione di mettere piede fuori dal letto. La  sera precedente la funzione era durata quasi tre ore, sfinendo definitivamente il suo corpo già esausto. Si era messa sotto le coperte in canottiera, non riuscendo
nemmeno a tenere gli occhi aperti  per infilarsi il pigiama. La notte era passata lentamente, tormentata da sogni strani e confusi, che non riusciva a ricordare.
Aveva aperto gli occhi qualche manciata di minuti prima, consolata dal calore delle coperte. Non aveva programmi per la giornata, se non chiamare Tommy e Ann nel pomeriggio, qualche film natalizio in tv e un pranzo riscaldato sul divano. L’unica cosa differente dagli altri giorni lavorativi era stata la sveglia, che quella mattina non aveva suonato.
Non avrebbe festeggiato, almeno non come tutti gli altri avrebbero potuto intendere. Un altro Natale da sola, ma non osava lamentarsi. Certamente, ci sarebbe stata gente accampata al freddo sotto i ponti, orfani affamati in cerca di un minimo di affetto, anziani soli nello loro case davanti a un termosifone, persone ossessionate da noti serial killer che avrebbero passato la giornata chiusi in attici polverosi.
No, non poteva certo lamentarsi. Ma non avrebbe fatto finta di essere felice. Sarebbe stata una enorme bugia.
Le parole dette da Jane il giorno precedente, nonostante inconsapevoli, l’avevano tormentata fino a sera. Certo, l’uomo non completamente reo di quella situazione, dato che la conoscenza dei tempi della sua adolescenza era qualcosa riservata solo a pochi. Ma non poteva non pensare che il suo comportamento stesse ormai raggiungendo il limite. Non avrebbe potuto sopportare quella situazione ancora a lungo.
Si strinse nel piumone, la sensazione del cotone caldo così rigenerante sul suo corpo. Osservò i numeri verdi sul display della sveglia muoversi lentamente. A un tratto, udì una macchina inchiodare davanti casa sua. Si impose di non farci caso –probabilmente uno di quei ragazzini neopatentati che avevano iniziato a prendere il rettilineo lì di fronte come una pista per auto Nascar- e stava quasi ritornando al suo sonno di bellezza, quando un altro suono la fece rizzare a sedere. Qualcuno stava cercando di buttare giù la porta d'ingresso, bussandoci sopra come un maniaco.
Prese la pistola dal cassetto del comodino e, senza neanche mettersi addosso una vestaglia, scese di corsa in salotto. L’appartamento era gelido, dato che il riscaldamento non era ancora stato acceso.  Davanti alla porta, sentì il rumore bloccarsi all’improvviso. Il pensiero che fosse qualcuno ad aver sbagliato appartamento le aveva solleticato la testa, ma quelli erano tempi difficili e la sicurezza mai troppa.
Mise una mano sulla maniglia della porta, girando il chiavistello più silenziosamente possibile. Fece un profondo respiro e, con un movimento secco, abbassò la maniglia e spalancò la porta, puntando l’arma alla persona sul pianerottolo.
-Jane..?
-Chi diavolo credi che sia a quest’ora di mattina?!
Jane era stato sul punto di ricominciare con un’altra batteria di colpi, ma era saltato via alla vista dell’arma. Se Lisbon non fosse stata sul punto di scoiare il suo consulente a mani nude, avrebbe riso dell’espressione terrorizzata sul suo volto. Mise via la pistola sul mobile dell’ingresso. Non tanto per la sicurezza dell’uomo, quanto per non trovarsi nella tentazione di sparargli seduta stante.
A Lisbon non sfuggì il suo sguardo, che la stava studiando dalla testa ai piedi. Certo, indossava ancora solo la canottiera e gli slip, e dubitava che il rossore sulle guance di Jane fosse dovuto al calore dell’ambiente. Santo Cielo! In fondo, era un uomo anche lui.
-Hai 7 secondi per dirmi cosa ci fai qui. Parla, o giuro che ti ritroverai due pallottole piantate in testa.
Stava guardando negli occhi Jane e, a un tratto, si accorse che c’era qualcosa di diverso. Se il giorno prima le erano sembrati gelidi e duri, adesso avevano qualcosa di tenero e…riconoscente?
L’attimo immediatamente successivo, si ritrovò premuta contro il suo petto. Sentì la pelle d’oca formarsi sulle braccia e sulle cosce quando vennero a contatto col suo cappotto freddo – o forse non era quello il vero motivo. Scosse la testa da un lato e dall’altro, cercando di lavar via quel pensiero. La punta gelida del naso di Jane stava cominciando a risalire il suo collo dalle spalle fin sotto l’orecchio. La sensazione fu come una scossa elettrica per tutto il corpo, avvertendola che avrebbe dovuto liberarsi dalle braccia di Jane – e in fretta.
Riluttante, fece forza sulle sue spalle, allontanandolo. Dovette mandare giù un grumo di saliva quando, guardandolo negli occhi, notò che questi erano lucidi. Fece un passo indietro, in modo che Jane non invadesse più il suo spazio personale.
-Ora mi spieghi cosa succede, ci siamo capiti? Ti prometto che la pistola rimarrà sul mobile, ok?
Per un attimo Jane sembrò rimanere senza parole. Aprì la bocca come per dire qualcosa, ma la richiuse esattamente un attimo dopo, abbassando lo sguardo.
-Mi hai già comprato un regalo per Natale?
La sua voce era venuta fuori così flebile che Lisbon a mala pena era riuscita ad udirla. Alzò un sopracciglio alla domanda.
-Certo che ti ho comprato un regalo, Jane. E, davvero, non fa nulla se tu te lo sei dimenticato…
-Vorrei chiederti se saresti tanto gentile da farmene un altro.
Cosa? Non solo Jane aveva appena saputo che avrebbe ricevuto un –immeritato- regalo da parte sua, ma addirittura gliene stava chiedendo un altro. Lisbon si chiese cosa mai avesse fatto di male per avere a che fare con una persona del genere. Alzò gli occhi al cielo, ma rispose ugualmente.
-Dimmi il negozio e vedrò che si può fare.
Per la prima volta da quando aveva aperto la porta, Jane sorrise.
-Non devi acquistare nulla, Lisbon. Il regalo che io vorrei da te è completamente diverso. Vorrei chiederti se fosse possibile rivivere un momento, un momento del passato che vorrei cambiare. Certo, sai bene che ci sono tanti momenti del mio passato che vorrei cambiare, ma questo mi preme in particolare.
-E quando è accaduto questo momento, Jane?
-Ieri pomeriggio. Quando sei venuta nell’attico e mi hai chiesto se volessi passare il Natale con te.
Lisbon strabuzzò gli occhi alla richiesta. Non capiva dove Jane volesse andare a parare. Ma di una cosa era sicura. Sicuramente non sarebbe stato niente di buono.
-Che cosa vuoi che faccia, Jane? Che rimetta indietro l’orologio fino a ieri? Che faccia finta che nulla sia accaduto?
Sapeva di aver puntato direttamente alla giugulare. Ma non se ne pentiva affatto. L’uomo non aveva provato vergogna il giorno prima, quando le aveva rivolto quelle parole. Non credeva avesse importanza che ne provasse adesso.
-In realtà vorrei solo che tu mi facessi di nuovo quella domanda.
-So già la risposta. E, in tutta sincerità, non ho affatto voglia di sentirla ancora.
-Per favore…Ti chiedo solo questo.
Sia dannato quello sguardo!maledì. Lo stronzo sapeva esattamente come farla cedere alle sue pretese. Per la seconda volta in pochi minuti, alzò gli occhi al cielo, chiedendo l’intercessione di qualche forza divina. Ma alla fine cedette e si costrinse a dire quelle parole.
-Jane, ti andrebbe di passare questo Natale con me?
Era sul punto di aggiungere qualche commento caustico, ma vide una mano di Jane alzarsi per interromperla.
-Sì, Lisbon. Mi piacerebbe molto passare il Natale con te.
Lo stupore non le permise nemmeno di chiudere la bocca. Rimase imbambolata sul posto a fissare quella che credeva essere un’apparizione. Forse lui non era neanche lì, forse era la mancanza di sonno o il suo cervello che aveva finalmente deciso di andare in vacanza. In nessun caso avrebbe mai creduto che quello che aveva davanti ai suoi occhi fosse vero.
A meno che…
In un attimo, la sua mente ricollegò. Come aveva potuto pensare che Jane volesse davvero passare quella giornata con lei? La classica manata sulla fronte ci sarebbe stata bene, ma non avrebbe dato a Jane quella soddisfazione. Invece, mise le braccia conserte davanti al corpo –cosa il consulente avrebbe immediatamente interpretato con un gesto di chiusura- e appoggiò la spalla sinistra sullo stipite della porta.
-Davvero, Jane, mi hai sorpreso. In questi mesi hai dato del tuo peggio. Ma davvero pensavo che non ti saresti abbassato a tanto. Ti credevo una persona meschina e opportunista. E invece mi stai facendo capire che c’è molto, molto  di peggio in te.
Vide la faccia di Jane contorcersi in un’espressione confusa, ma stavolta la cosa non ebbe il minimo effetto su di lei. Aveva fatto l’ultimo passo, l’ultima coltellata alle sue spalle. Lisbon sentì l’acido corroderle lo stomaco e fu pervasa da un’onda di profondo disgusto. Ciò nonostante, aveva intenzione di offrire a Jane il suo personale regalo di Natale. Non sapeva se l’avrebbe gradito, ma di sicuro se ne sarebbe ricordato per molto tempo.
-Il mio nome non è Lorelei Martins, Jane. Non credere che io sia una bambina e, soprattutto non credere che io sia come lei. Pensi davvero di usare con me lo stesso trattamento che riservi a lei? Pensi sul serio che facendomi felice io ti dia il mio benestare? Che rifilandomi qualche caramella, ti dia il permesso di fare il bello e il cattivo tempo? No, Jane, non funziona così. Non mi hai danneggiato abbastanza per arrivare a tanto.
Lisbon si rimise dritta sulle gambe aperte, colta da un moto di totale indignazione. La stessa posizione che usava assumere prima di sparare.
-Non sono così cieca da non vedere tutti i tuoi piani. Ho fatto spesso l’errore di girarmi dall’altra parte, Jane, e lo ammetto, in tutto ciò non hai colpa. E lo farò ancora in futuro, dieci, centro, mille altre volte. Ma non ti permetterò di usarmi in questa maniera. Non permetterò a me stessa di essere in debito con te. Perciò adesso prendi le tue cose e allontanati da qui il più in fretta che puoi o, giuro sul mio nome, non vedrai un’altra alba.  
Jane non aveva allontanato gli occhi dai suoi per tutto il tempo. Era rimasto fermo, incassando tutti i colpi. Ma alla fine fece esattamente ciò che nessuno si sarebbe mai aspettato. Scoppiò a ridere. Tanto forte da far uscire le lacrime. Una risata convulsa che non gli permetteva di respirare. Andò avanti per alcuni minuti, davanti allo sguardo impassibile di Lisbon. Alla fine si fermò, riprendendo fiato, ma sul suo volto non c’era un’espressione allegra. Semmai, ancor più misera di prima.
-Dimmi cosa ci trovi di divertente.
-Nulla. Mi stavo solo chiedendo quanto ti abbia ferito per farti dire questo.
Lisbon lo guardò confusa.
-E credo davvero di aver fatto male i calcoli.
Sospirò, pulendosi il volto con la punta delle dita. Sorrise di nuovo, triste, ed estrasse una busta dall’interno della tasca interna della sua giacca. La voltò e rivoltò per qualche secondo tra le mani e la porse a Lisbon.
-So che non posso in alcun modo dimostrarti che questo non è uno dei miei trucchi.* Che questa non sia un’altra caramella che ti offro in cambio di un tuo favore. E sono perfettamente consapevole che se le cose stanno così, la colpa non è di nessuno, se non mia. Posso solo dirti che quello che ho fatto, l’ho fatto con sincerità e che non ti chiedo niente in cambio. E’ stata una mia scelta, non dettata da Red John o da nessun altro. Volevo solo fare la cosa giusta. A cominciare da questo.
Lisbon aprì la busta come se avesse paura che al suo interno ci fosse del cianuro. Spiegò l’interno con cautela, ma appena lette poche righe, spalancò la bocca e si bloccò.
-Ma…questa…
-Questa è una copia dell’e-mail arrivata al CBI qualche ore fa, in cui il Direttore Gale Bertram richiede che sia annullato il Richiamo nei tuoi confronti. Inoltre, richiede che molte delle ammonizioni ricevute da te e dalla squadra in siano cancellate dai vostri fascicoli. In fondo, sono allegate anche le sue scuse all’Agente Lisbon per l’erronea attribuzione della responsabilità dei vari incidenti.
-Erronea attribuzione della loro responsabilità? E quindi a chi è stata attribuita la responsabilità? 
-Alla persona che la merita. Vale a dire… a me.
Lisbon sollevò di scatto lo sguardo verso Jane.
-A te? Jane, ti rendi conto di quello che hai fatto? Potresti essere licenziato in tronco per questo.
-In realtà, domani sarà il primo degli 87 giorni di sospensione che ho ricevuto.
Ok, adesso era lei quella a sentirsi in colpa. Non avrebbe mai immaginato un simile stravolgimento degli eventi. Jane che si prende la responsabilità delle proprie azioni? Ma in che mondo si era risvegliata? Dreamville?
Certo, quel foglio tra le sue mani significava tanto. Ma non che le parole dette da lei in precedenza non valessero più. Anzi, ora più che mai aveva paura che ci fosse qualcosa dietro a quell’azione. Era tutto troppo bello per essere vero. E, dato che la piccola Teresa non poteva aspettarsi che il mondo improvvisamente cominciasse ad andare per il verso giusto, sentì un brivido freddo risalirle per la schiena. Seriamente, dov’era il trucco?
Jane sembrava averla letta nel pensiero – come sempre d’altra parte.
-Questo foglio non mi restituirà la tua fiducia. Questo lo sapevo prima ancora di vedere la tua reazione. E’ soltanto un gesto. Un passo. Il primo. E tu, certamente, non puoi sapere se ne seguiranno altri o meno, se la mia strada cambierà, se all’improvviso ti volterò le spalle.
-Non posso farti promesse, dato che ormai non ne ho più diritto. Quante volte le ho infrante? Sinceramente, credo di aver perso il conto. E il modo in cui mi hai risposto, pochi minuti fa, mi fa capire che forse sono andato troppo oltre per rimettere a posto le cose. So di chiederti molto con questo, ma vorrei che mi concedessi un ultimo patto. Spero che sia rimasta in te ancora un briciolo di fiducia nei miei confronti. Ne userò il meno possibile, te l’assicuro. Ora che ne rimane così poca, non mi resta che trovare il modo migliore per usarla.
La donna annuì, concedendogli di parlare. Prima di rifiutare, poteva almeno concedergli di ascoltarlo.
-Nei prossimi mesi farò tutto quello che sarà in mio potere per non arrecare nessun danno a te o alla squadra. Ciò non vuol dire che mi incatenerò alla poltrona, lasciando a voi tutto il divertimento. Ma cercherò altri modi. Qualcosa che non vi costringa ad essere chiamati nell’ufficio di Bertram un giorno di e l’altro pure. Ovviamente, in alcune situazioni dovrai scegliere a scatola chiusa. In quei casi, sarai libera di darmi o meno la tua fiducia. E, se riterrai che non sia il caso di concedermela, lo accetterò e cercherò un’altra maniera per risolvere il problema. Cercherò di risolvere i casi stando al mio posto. E il mio posto è aiutarti.
-E cosa ne penserai domani?
-Di cosa?
-Di quello che hai appena detto. Cosa ne penserai quando domani tornerai dentro l’attico e ricomincerai a leggere quel quaderno? Come faccio a sapere che quello che mi stai dicendo è vero?
-Non puoi.
Quelle poche parole, dopo il lungo discorso, la fecero sussultare.
-Potrei stare qui a darti mille rassicurazioni, Lisbon. A dirti che tutto andrà bene, domani. Che troveranno la cura per il cancro, il giorno dopo. Che quello successivo la guerra finirà. E che quello dopo ancora il mondo comincerà a girare nel verso giusto. Ma non è così. Mentirei. Non hai nessun modo, motivo o ragione di essere sicura se potrai realmente fidarti di me. E questo non perché io non lo voglia. Ma perché è semplicemente così. E’ sbagliato, ma è così. Ai solo una possibilità. Fidarti di me.
Jane non le stava dando una speranza, entrambi erano consapevoli che non ancora ce ne sarebbe potuta essere una. Ma le stava mostrando un piano. Una prospettiva. Ed era questo, quello di cui aveva realmente bisogno.
-Quel quaderno presto non sarà più solo mio. Lo mostrerò a tutta la squadra e chiederò il vostro aiuto. Ma stavolta non per coinvolgervi in qualche trappola. Vi chiederò di aiutarmi a prendere Red John. Saprete i miei avanzamenti nel caso, le miei idee e voi sarete liberi di condividere le vostre. Non costringerò nessuno, ovviamente. Non nego che sia pericoloso, e capirò se qualcuno non vorrà seguirmi. Non posso prometterti che non scomparirò di nuovo, ma posso prometterti che tornerò sempre a casa. Non posso prometterti che non sentirai ancora dolore, ma ti prometto che stavolta non sarai da sola ad affrontarlo.
Lisbon si morse il labbro inferiore. Jane sentiva l’esitazione irradiare dalle sue spalle tese. E forse anche un po’ di freddo, dato l’outfit che stava indossando al momento.
-Prima di darti una risposta, voglio chiederti una cosa.
-Qualsiasi cosa.
-Cos’è cambiato?
-A cosa ti riferisci?
-Ieri mi hai allontanato come se fossi un insetto schifoso, e oggi ti ritrovo davanti alla porta di casa mia. Mi chiedi di trascorrere il Natale con te, mi fai un’offerta così piena di buone intenzioni che solo uno stupido accetterebbe e addirittura mi dici che prenderai Red John assieme alla squadra. Non so se sono così pazza da crederti o meno. Ma almeno voglio sapere il motivo per il quale tutto questo è cambiato.
Jane rise sotto i baffi, ripensando a ciò che era successo la notte precedente. Era stato un sogno? O meglio, un incubo? Era successo tutto davvero? Non lo sapeva, ma gli effetti che aveva avuto su di lui erano stati inequivocabili.
-Ieri sera ho incontrato alcuni amici. Persone che non vedevo da tanto, tanto tempo. Abbiamo parlato per tutta la notte. E mentre parlavamo, ho pensato a tante cose. Mi sono accorto che ci sono alcune cose del passato di cui mi pento, alcune del presente che voglio cambiare, ed altre del futuro che non permetterò mai che accadano. Ci sono certe lezioni che avrei dovuto comprendere tempo fa. Ma non l’ho fatto. Ieri sera ho capito cosa accadrà se non rimedierò al più presto. E te l’assicuro, Lisbon, non ce nulla che non farei per impedirlo. Perciò, qual è la tua risposta?
Lisbon rimase in silenzio a analizzarlo, spostando il peso da un piede all’altro. Alla fine sbuffò e aprì le mani in segno di resa.
-La mia risposta è tu adesso mi prepari la colazione di Natale del secolo, mentre io mi concedo un lungo bagno caldo, dato che sono stata qui a discorrere con te per quasi mezz’ora e non ho alcuna intenzione di prendere una polmonite. E che poi se ne può parlare.
Gli occhi di Jane si illuminarono alla prima buona notizia da…quando? Tre mesi? Di più? Sorrise, contagiando anche Lisbon. Ma invece di seguirla all’interno, scattò in direzione del parcheggio.
-Patrick Jane, come pensi che io possa accettare una tua offerta se ti dilegui davanti ad un’innocua colazione?
L’uomo ormai era già arrivato all’auto, tirando fuori cinque grandi buste di plastica bianche, stracolme di ogni ben di Dio disponibile la mattina di Natale. Spuntavano fuori gambi di sedano, cartocci di pane e -Lisbon sentì l’acquolina in bocca- anche bastoncini di zucchero.
-Non sto affatto scappando, Lisbon, anzi, mi sto assicurando che tu abbia la più squisita colazione di Natale di sempre. Prendi queste qui.
Indicando due delle buste. Appena Lisbon le prese in mano, si sentì attirata verso il pavimento. Le portò sul mobile della cucina e, con sommo orrore, notò che Jane era già uscito fuori per un altro carico.
-Mio Dio. Ecco. Lo sapevo. Ho aperto casa mia ad un mostro!

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Quaranta minuti e parecchie buste dopo, Lisbon poté finalmente tirare un sospiro di sollievo. Oh, no…guardando lo stato del suo appartamento, non poteva tirare certo un sospiro di sollievo.
Non lo ricordava così pieno dai tempi del trasloco e, con una certa curiosità, si chiese come tutta quella roba fosse entrata nell’auto di Jane. Nell’ordine, il carico consisteva in sette buste per la spesa, cinque di addobbi, tre di luci per interno ed esterno, due di decorazioni per la casa, due di candele, tre di vini e liquori vari, una di film a noleggio, una scatola contenente un abete da montare e altre due buste piene di articoli per la casa e per il bagno in profumazioni rigorosamente natalizie.
Dopo le varie lamentele espresse da Lisbon a riguardo, lei e Jane avevano iniziato a mettere a posto tutta quella roba. Il frigo fu pieno in un baleno, così come tutti i pensili della piccola cucina.
-Hai preso anche un panettone? Dove diavolo sei riuscito a trovare un panettone a Sacramento?
-Il negozio dove mi rifornisco vende anche prodotti provenienti da altri paesi. L’ho assaggiato una volta tanti anni fa e volevo fartelo provare. Questo è uno glassato, ovviamente di Verona, con mandorle e uvetta. L’ideale è servirlo appena caldo insieme a un vino bianco frizzante. Ma lo sto riservando per stasera.
Disse, facendole l’occhiolino. Lisbon ricominciò a riporre le altre cose nella piccola dispensa e, una volta svuotate le prime sette buste, decise che fosse ora di concedersi quel famoso bagno.
-Io vado. Mi lavo i capelli, quindi dovrei scendere tra un’ora e mezza. Credi di riuscire a non rivoluzionare la mia casa in questo tempo?
Chiese, cominciando a salire i gradini.
-Non temere. Se le mie mani dovessero mai toccare qualcosa all’interno di casa tua, sarebbe solo per il meglio.
Rispose, da uno degli scaffali dietro il quale si era chinato per trovare padelle e pentole.
-Questo è tutto da dimostrare.
-Non sfidarmi, Lisbon. Dovresti sapere che la maggior parte delle volte, perdi.
-Sbruffone.
-Ti consiglio di salire in bagno, prima che decida di mettere qualche orrenda canzone natalizia in sottofondo.
-Sai che ti dico, mi hai convinto. Ma solo per le orrende canzoni natalizie.
-Me la darai vinta qualche volta?
-Continua a sognare.
E si lasciò la risatina malefica di Jane alle sue spalle. Fece una fermata in camera per prendere un cambio di biancheria ed i vestiti, per poi chiudersi in bagno. Cominciò a riempire la vasca con acqua calda e il bagnoschiuma alla cannella e anice stellato che Jane le aveva portato, assieme a tutto il resto. Aprì la boccetta color crema e annusò il ricco profumo del suo contenuto. Quell’uomo sapeva come coccolare una donna. Ne versò una generosa dose nella vasca.
Minuti dopo, chiuse l’acqua e si immerse tra le bolle, quasi cantando in estasi quando l’acqua calda cominciò a lavorare sui suoi muscoli tesi. E quel profumo, poi. Si sarebbe volentieri addormentata, se non fosse stato per l’ovvio pericolo che sarebbe consistito nel cadere addormentata in una vasca da bagno e l’ovvio pericolo che stava girando in quel momento per la sua cucina.
Prese una manciata di schiuma e la soffiò via come una bambina, ridacchiando allegra. Non riusciva a ricordare quando fosse stata l’ultima volta in cui si era sentita così serena. Forse sarebbe dovuta tornare ai tempi prima di Las Vegas, o anche prima. Di certo non era completamente felice, ma per qualche ora le cose sarebbero state a posto. Avrebbe passato un bel Natale con la persona a cui teneva di più al mondo, e questo le bastava. Sapeva di non doversi illudere. Che quella sensazione sarebbe scomparsa in fretta. Sarebbe dovuta tornare al CBI appena cinque giorni dopo, senza Jane, che avrebbe avuto tutto il tempo e i mezzi per ritornare nel baratro dal quale sembrava essere risorto per qualche ora. Si stavano preparando tempi duri, ma non avrebbe rinunciato a quell’assaggio di gioia.
Si tappò il naso e sparì sotto le bolle.
Circa cinquanta minuti dopo, Lisbon diede l’ultima spazzolata ai capelli, controllando che fossero completamente asciutti e lisci. Si guardò allo specchio, chiedendosi se mai avesse dovuto indossare un po’ di make-up. Scartò l’idea, immediatamente. Santo cielo! Era pur sempre Jane, al piano di sotto. Infilò una camicia pulita e dei semplici pantaloni scuri e si avviò verso le scale.
Scendo i gradini però, strabuzzò gli occhi alla vista della casa, chiedendosi se si fosse a un tratto ritrovata nel salone di qualcun altro. La stanza spartana e funzionale era scomparsa. Al suo posto, si trovava un’ambiente pieno di candele e decorazioni, non troppe, ma sufficienti a riempire ogni superficie libera.
C’erano candele e luci attorno ad alcuni mobili, fodere rosse e oro sui cuscini dei divani, mazzi di agrifoglio con bacche rosse sulle mensole, e sul corrimano della scala e attorno alla porta erano stati intrecciati dei lunghi rami di pino. In un angolo della stanza si trovava un abete ancora non decorato e, ai suoi piedi, alcuni scatoloni stracolmi di palline e luci. Ultimo, ma non meno importante per completare la magia dell’ambiente, nell’aria si poteva annusare un delicato profumo di cibo fatto in casa e spezie dolci.
-Ma…questa è…
-Questa è la tua sala, Lisbon, anche se può non sembrare. Non c’è voluto molto per addobbarla, in realtà. Ho solo cambiato la disposizione dei mobili e aggiunto qualche piccola magia natalizia. Nulla di troppo difficile, ma dalla tua faccia mi pare di capire che l’effetto sia stupefacente.
Lisbon continuava a spostare gli occhi per la stanza osservando ogni piccolo oggetto.
Jane sentì stringersi il cuore a quella vista. Gli occhi di Lisbon erano così sorpresi e riconoscenti; aveva una mano sulla bocca, come una bambina davanti al proprio regalo di Natale. Chissà quanti giorni doveva aver passato da sola, chiusa in quella casa senza neanche un piccolo abete o qualcuno con cui festeggiare. Avvertiva la colpa per il rifiuto del giorno precedente bruciare ancora più forte.
Si sentiva un mostro per averla trattata in quella maniera e sapeva che quel sentimento lo avrebbe perseguitato per molto, molto tempo. Ma non si poteva più concedere il lusso di rimproverare sé stesso inutilmente. Ieri era passato da un pezzo; adesso aveva il compito di rendere speciale per Lisbon ogni singolo Natale avvenire, e di ritrovare ogni volta sul suo volto quell’espressione. Prese la sua mano destra e le diede una stretta delicata, a reclamare di nuovo la sua attenzione.
Lisbon aveva avvertito l’insolito contatto a rallentatore. Prima solo il fantasma di una carezza sull’avambraccio; poi la sensazione della punta delle dita come un’onda calda sulla pelle del polso; infine, la pressione gentile sulle sue falangi. Il suo corpo si tese spontaneamente sull’allerta. Si voltò verso la persona a cui sapeva appartenere la mano e venne sorpresa dal sorriso che vi trovò. Era sempre stata a conoscenza che Jane male sopportasse il contatto con le altre persone. L’aveva visto toccare estranei pochissime volte, e solo per ricavare da loro informazioni utili a qualche caso. A lei aveva riservato solo qualche rara carezza di conforto. Mai aveva osato sfiorarla senza che ve ne fosse motivo.
L’uomo alzò l’altra mano vicino al suo viso, piano, dandole modo di spostarsi se non si fosse sentita a proprio agio. Posò le dita sulla sua tempia destra, premendo il pollice sulle increspature tra le sue sopracciglia. Stava disegnando dei piccoli cerchi e, quando vide la pelle distendersi, fece scivolare il dito verso il basso, fino alla punta del naso. Avrebbe voluto andare oltre e continuare sulle labbra, ma per quel giorno gli sembrò abbastanza. Si accontentò di circondare la sua guancia con la mano, accarezzando delicatamente la curva dello zigomo.
-Non preoccuparti, almeno per oggi. E’ tutto a posto.
Sussurrò. La sua voce bassa e dolce sembrò rilassarla all’istante, tanto che dovette appoggiare la fronte sulla sua spalla. Era stata stanca per giorni, ma solo adesso si sentiva abbastanza sicura per non costringersi ad ignorare la sensazione. 
-Hai fame?
Chiese Jane, appoggiando la testa sui suoi capelli. Lisbon annuì.
-Così poi possiamo preparare l’albero, ok?
Lisbon annuì nuovamente, senza aprire bocca o muoversi di un solo millimetro. Jane alzò il suo volto per incrociare i suoi occhi, lasciando un bacio dove prima aveva posato il pollice. Vide la donna prendere un profondo respiro e, un attimo dopo, cominciò a guidarla verso la cucina.
Il rumore di pentole e padelle faceva da padrone, insieme al profumo intenso. Lisbon annusò e riconobbe mille odori diversi, mischiati assieme nell’aria. Ma la prima cosa che più riuscì ad attrarre la sua attenzione fu il piatto con i French toast e la pentola piena di uova e pancetta. Si leccò le labbra, cosa che non sfuggì a Jane.
L’uomo prese due piatti, indicando a Lisbon la padella e la caraffa di caffè. Insieme, portarono la colazione sul tavolo, imbandito con una lunghissima tovaglia rossa ricamata con disegni di agrifoglio. Jane non fece in tempo a riempire il proprio piatto che Lisbon aveva già divorato buona metà del proprio. Non ci volle molto prima che suoni di approvazione si alzassero dalla sua gola e, circa a metà della porzione successiva, finalmente la donna parve rallentare, gustando il proprio cibo.
-Santo cielo, Jane! Chi ti ha insegnato a cucinare?
-Credi che abbia passato dieci anni da single mangiando tacos?
-Ma è tutto così buono! Sarei in grado di mangiarne una padella intera.
Disse Lisbon. In quel momento afferrò nuovamente la padella, riempiendo il piatto per la terza volta. Dove diavolo riusciva a trovare posto per tutto quel cibo in quel suo corpicino? Jane prese un sorso di the, cercando di mandare giù anche l’amara risposta a quella domanda. Sapeva benissimo che quel piccolo corpo fosse pieno zeppo di spazi vuoti da riempire. Ma aveva un piano anche per questo, che stava attendendo nascosto tra le pentole della cucina.
Dopo aver preso l’ultimo boccone di uova prese il proprio piatto e quello di Lisbon.
-Cosa credi di fare? Chi cucina non lava mai i piatti.
-La regola non vale per i consulenti rompiscatole come me e le belle poliziotte come te. E quando torno voglio vederti vicino all’albero.
Lisbon sorrise, e fece come le era stato detto.

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-Alla fine non è andata tanto male.
-No.
-Voglio dire, non abbiamo fatto scoppiare casa né abbiamo dovuto chiamare i pompieri.
-Già
-Non siamo feriti gravemente o invalidati a lungo termine, credo.
-Sì.
-Abbiamo fatto un bel lavoro.
-M-mh.
-A parte la fila di palline che è scoppiata…
-Che peccato.
-…il ramo che è tutt’ora disperso…
-E che mai sarà ritrovato.
-…le palline in frantumi…
-Che dolore.
-…e devi ancora spiegarmi come hai fatto ad inciampare nel nastro e cadere sul tavolino.
-Credo che questo rimarrà un mistero, Jane.
I due seduti sul divano si guardarono negli occhi, scoppiando a ridere un attimo dopo. Erano circa le dodici del mattino e i due avevano passato le due ore precedenti a decorare l’albero. Ovviamente, non si era rivelata un’impresa così semplice. Essendo entrambi fuori allenamento, avevano rischiato più e più volte di arrecare qualche danno permanente a se stessi e all’appartamento.
Alla fine, si erano ritirati sul divano a guardare il proprio lavoro. Non sarebbe mai finito sulla copertina di qualche rivista di arredamento, ma lo trovavano ugualmente bellissimo. L’avevano fatto insieme e, per entrambi, era il primo albero dopo troppi Natali in cui non c’era stato. In tutto quel tempo, avevano sempre pensato di non averne bisogno. Ma adesso, seduti vicino alle luci e alle palline, cominciavano a sentire quanto fosse mancato.
-Qual è stata l’ultima volta che hai decorato un albero?
Chiese a un tratto Lisbon, rivolgendosi a Jane. La domanda le era uscita dalle labbra senza che neanche se ne accorgesse. Un attimo dopo avrebbe voluto ritirare quelle parole, ma Jane era già con gli occhi al cielo, cercando di riportare alla mente l’ultimo Natale con la propria famiglia.
-E’ stato l’anno prima che Charlie ed Ang fossero uccise. Mi ricordo che Charlotte si sentiva abbastanza grande da appendere le decorazioni da sola. E non credo che tu sappia cosa vuol dire tenere le manine di una bimba di nove anni lontane da tutto quel vetro. Ang ed io siamo stati preoccupati per un pomeriggio intero. Sapevamo che Charlie avrebbe fatto cadere qualche pallina. E sicuramente avrebbe cercato di “occultare le prove”. Non che ci importasse davvero che qualche pallina finisse distrutta. Avevamo solo paura che potesse farsi del male alle mani. Per quasi l’intero pomeriggio Charlie non aveva fatto cadere neanche una campanella. Il che è molto strano per una bambina della sua età. Alla fine, erano rimaste solo una decina di palline nel cesto. Io stavo sistemando le luci e Ang era andata un attimo in cucina a prendere dell’aranciata. A un tratto abbiamo sentito del vetro rompersi e ci siamo immediatamente girati verso Charlie. Avresti dovuto vederla, se ne stava al centro della stanza con la pallina rotta ai suoi piedi. Era rimasta ancora con le mani in quella posizione e sembrava congelata dalla paura e dalla vergogna. Dopo alcuni secondi ha iniziato a piangere come una fontana, povera piccola. Probabilmente doveva aver visto i nostri volti spaventati e creduto che l’avremmo punita in qualche maniera. In realtà, il pensiero non ci aveva neppure attraversato la testa. Io sono corso da lei a rassicurarla, mentre Ang ha tolto i vetri dal pavimento. Dopo averla calmata, abbiamo finito di decorare l’albero e siamo stati per tutta la sera stretti sotto il plaid sul divano vicino al caminetto a guardare Il Grinch.
Durante il racconto, gli occhi di Jane erano divenuti lucidi. Lisbon era rimasta silenziosa per tutto il tempo, posando una mano su quella dell’uomo al suo fianco, quando una lacrima era rotolata sulla sua guancia. Nel suo sguardo riusciva a vedere ancora tanto dolore, ma questo non riusciva ad offuscare la bellezza di questo ricordo. Non aveva mai smesso di sorridere e, alla fine, aveva asciugato gli occhi e l’aveva guardata intensamente. Era la prima volta che condivideva quel ricordo con qualcuno, e il fatto che fosse lei rendeva tutto più…giusto. Non aveva paura di parlare stavolta, e continuò spostando di nuovo lo sguardo altrove.
-Mi mancato così tanto, soprattutto quando arrivano le festività. Ricordo i tempi in cui le condividevo con loro e mi sembrava tutto così normale, così quotidiano. Non sono mai riuscito a capire quanto davvero la loro compagnia fosse preziosa, quanto riuscissero ad illuminare la mia vita solo facendone parte. Quando se ne sono andate, per me è stato come divenire cieco. Non vedevo più nulla, nessuna forma, nessun colore. E la cosa più assurda era che…la cosa mi andava bene. Sapevo di meritarmelo, e non volevo fare nulla per cambiare tutto questo. Almeno fino a ieri.
Lisbon si voltò verso di lui. Jane semplicemente annuì e si spostò in modo da poterla guardare meglio.
-Qual è sta l’ultima volta che hai decorato un albero, Lisbon?
Chiese, esattamente come aveva fatto lei alcuni minuti prima.
-L’ultimo anno prima del college. Io e i miei fratelli non avevamo molti soldi. Ma facendo alcuni lavoretti eravamo riusciti a mettere da parte un po’ di denaro per l’albero. Nulla di speciale, era solo un abete circondato da un filo di luci e qualche pallina di plastica. Ma era il nostro albero, ed era quella la cosa importante. E non c’era anno che una pallina speciale non venisse appesa.
Lisbon si alzò e si diresse verso l’ingresso, dove Jane sapeva essere custodita quella decorazione. La donna tornò tenendo la pallina con entrambe le mani. Era di vetro rosso, decorata con alcune strisce dorate. Una lieve spaccatura vicino alla sommità, indicava che era miracolosamente sopravvissuta incolume a qualche caduta.
-Mia madre usava comprare a me e ai miei fratelli una pallina nuova ogni anno.** Prima che lei morisse, il nostro albero era pieno di globi di vetro di mille colori. Quando è morta, è sembrato come se si fosse voluta portare dietro queste palline con sé. Una dopo l’altra sono state distrutte, ed è rimasta solo questa. E’ quella che mi ha regalato quando avevo 7 anni, l’anno in cui è nato Matty. I miei fratelli hanno pensato che fosse giusto che la tenessi io. Da quell’ultimo anno con i miei fratelli, non ho più decorato alcun albero. Ormai erano quasi vent’anni che non vedevo un abete e il fatto che tu oggi abbia voluto decorarlo con me…significa davvero molto.
Jane le regalò uno dei suoi mega sorrisi. Ovviamente, il fatto che quell’albero fosse speciale era reciproco. Si alzò dal divano e si diresse all’ingresso, tirando fuori un pacco da una busta che Lisbon non aveva notato. Jane lo mise sulle sue gambe e attese che lei lo aprisse.
-Che cos’è?
-E’ il tuo regalo di Natale di quest’anno.
-…di quest’anno?
-Certo, dato che ho portato anche quello dell’anno scorso.
-Ma…l’anno scorso eri a Las Vegas, non credevo avessi avuto il tempo di pensare ai regali di Natale.
-Ho avuto molto più tempo libero di quanto tu possa credere. E, dopotutto, Natale è Natale anche se una persona è lontana, dico bene?
Disse, con nonchalance, come se fosse una frase butta lì. Ma a Lisbon non era sfuggito quel lampo di consapevolezza nei suoi occhi. Decise di non indagare oltre, onde evitare di ritrovarsi in qualche situazione spiacevole.
Aprì prima il fiocco dorato, togliendo poi la carta regalo rossa. All’interno, una scatola bianca bordata d’argento sembrava custodire un regalo che Lisbon presagiva ben più costoso dei suoi standard. Ciò nonostante non osò controbattere e alzò il coperchio. Sotto questo c’era una semplice velina bianca che, una volta alzata, rivelò il regalo incartato al suo interno. Lisbon sollevò a bocca aperta la fragilissima decorazione, usando il cordoncino dorato a cui questa era legata. Era ciò che poteva essere considerata una pallina, seppur fosse costituita da un lungo filo di vetro rosso avvolto a spirale in modo da avere la forma di un globo. All’altro capo del filo, esattamente all’estremità inferiore era appeso un cristallo bianco a forma di goccia.
-Ho visto quella pallina una volta, entrando in casa tua. Ho pensato che, magari, avresti voluto averne delle altre. Inoltre, dopo quello che mi hai raccontato, mi piacerebbe riprendere la tradizione di tua madre, se me lo permetterai.
Ma Lisbon non sembrava aver sentito le sue parole. Continuava ad osservare la decorazione in silenzio, senza accorgersi del mondo attorno a lei. Jane abbassò lo sguardo, tormentandosi le mani.
-O…o forse magri no. So che è una cosa tra te e tua madre e forse è meglio che io non ne entri a far parte. Dopo tutto sono un estraneo…be’, un estraneo che ti ha anche combinato dei casini abbastanza seri…quindi so che non sono proprio la persona adatta per riprendere questa tradizione così bella…solo…
-Jane, sono convinta che mia madre sarebbe onorata se tu volessi continuare ciò che lei ha iniziato.
L’uomo alzò lo sguardo, trovando gli occhi lucidi di Lisbon. Stava sorridendo, di un sorriso che le aveva indossare pochissime volte. La vide passare la punta delle dita sulla lunga spirale, come incantata da quel viaggio sinuoso.
-Penso che mai nessuno mi abbia fatto un regalo così bello e profondo, e allo stesso tempo così semplice. E credimi se ti dico che penso che nessuno, a parte te, abbia più diritto di continuare questa tradizione.
Lisbon  si alzò, tenendo in mano la pallina appena ricevuta. Si diresse all’albero e l’appese in alto, vicino alla punta. Poi invitò Jane a seguirla con la pallina della madre e, prendendola dalle sue mani, la mise vicino alla nuova.
-Credo che adesso il nostro albero sia perfetto.
La parola “nostro” scaldò le guance di Jane come cioccolata calda. In quel momento, si ricordò del cofanetto nella tasca dei suoi pantaloni. Si voltò, in modo che Lisbon, ancora ferma ad osservare l’albero non vedesse nulla, e ne estrasse il contenuto.
-Chiudi gli occhi.
-Per cosa?
-Per il secondo regalo.
-Io credevo che tu stessi scherzando.
-Assolutamente no! L’ho preso e voglio che tu lo riceva.
Lisbon sbuffò e si tappò gli occhi con le mani. Controllando che la donna non potesse vedere, Jane spostò i capelli dalle sue palle, cercando con le dita il gancetto della catenina che portava sempre al collo. Non con una certa soddisfazione, sentì i muscoli dietro la nuca di Lisbon avere un piccolo scatto. Siamo delicati in questo punto, vero? pensò. Fece scivolare l’oggetto lungo la catenina, in modo che poggiasse sulla croce.
-Perfetto, puoi aprire gli occhi.
Lisbon fece ciò che le era stato detto e, in quel momento, Jane ebbe l’esatta conferma che fosse quasi certamente il regalo perfetto. La vide portare una mano al collo e accarezzare la catenina. Ma, invece di trovare solo la croce, sentì sotto le dita la presenza di un altro pendente. Aprì immediatamente la bocca per dirgliene quattro, ma Jane la fermò immediatamente.
-Prima che tu possa dire qualsiasi cosa, ascoltami. Come avrai capito, è un ciondolo, ma, davvero, è piccolissimo. Sono sempre rimasto del parere che gli smeraldi siano stupendi su di te, e volevo farti capire che avevo ragione. Ma quando la scorsa volta ho comprato la collana a te e a Van Pelt, ho fatto un errore. Avrei dovuto comprendere che non avreste mai potuto accettare un regalo così vistoso. Quindi stavolta ho preso qualcosa di più piccolo e delicato, che sceglieresti anche tu e porteresti al collo tutti i giorni. Inoltre, non è troppo grande perché tu debba togliere la croce di tua madre e, anche vicini, nessuno dei due nasconde l’altro. Mi piacerebbe sapere che qualcosa di mio è sempre con te. Sai è…confortante.
Ricordava il sogno e la piccola rana nel bagno. Sapeva che Lisbon avrebbe meritato qualcosa di più di un semplice pezzo di carta. E sapere di avere un posto vicino al suo ricordo più caro lo faceva sentire bene. Lisbon non poté fare a meno di sorridere alle parole di Jane. Questo non era uno dei suoi soliti regali stupefacenti e –molto spesso- anche imbarazzanti. Poteva sentire la cura che aveva messo per scegliere una cosa che le piacesse, e che avesse anche un significato profondo per entrambi. Il vero regalo non era stato il ciondolo, ma ciò che questo stava a significare. Forse le cose erano davvero cambiate, forse stavolta avrebbe potuto credergli sul serio. Era questa la sua ultima risoluzione. Per stavolta –e solo per questa- Jane avrebbe potuto avere la sua fiducia. Con il dito, tracciò il bordo del piccolo cerchio appeso alla catenella, sicura che non l’avrebbe dimenticato. Si alzò sulle punte e, poggiando una mano sul collo di Jane per sostenersi, diede all’uomo un bacio sulla guancia.
-Grazie, Jane.
Lisbon si allontanò solo per un attimo, ancora stringendo in mano sia la croce che il ciondolo. Salì sulle scale e andò in camera sua, sollevando dal fondo dell’armadio i due pacchi colorati. Scese nuovamente in salotto, dove vide Jane di nuovo seduto al suo posto sul divano. Poggiò i due involucri sui cuscini e tese il primo all’uomo al suo fianco.
-E questo è…
-Dell’anno scorso.
Jane sorrise in maniera un po’ imbarazzata. Avvicinò il pacco all’orecchio e lo scosse.
-Controllo se c’è una bomba.
Mimò con le labbra. Lisbon si portò una mano alla faccia, mai fin troppo conscia della pazzia del suo consulente.
Dopo un altro paio di controlli, rimise il pacco sulle sue ginocchia. Con circospezione, staccò lo scotch e rimosse la carta regalo. Appena fatto, si ritrovò tra le mani una busta trasparente, all’interno della quale si poteva scorgere una grossa manciata di stoffa bianca e morbida. Guardò Lisbon stranito, non capendo cosa potesse essere. Tirò giù la lampo e, poco dopo, sulle ginocchia era accoccolato un enorme e caldo plaid candido. Ridacchiando come un bambino, infilò entrambe le mani nel tessuto soffice e confortevole, beandosi immediatamente del calore attorno alle sue dita.
-Be’, pensavo che se tu avessi davvero intenzione di stare dell’attico, dovresti almeno avere qualcosa di caldo con cui coprirti.
Inaspettatamente, Jane si tolse le scarpe e, accomodandosi sul divano, si coprì dalla punta dei piedi al mento con la coperta, sorridendo soddisfatto. Lisbon scoppiò a ridere, sorpresa dalla sua stramba reazione. Non c’era che dire. Aveva fatto centro. Ma mai si sarebbe aspettata il suo comportamento immediatamente successivo. Jane tirò via parte della coperta rivolta verso di lei, facendole segno di avvicinarsi.
-Avanti, Lisbon, si sta così bene qui sotto. E poi sono sicuro che staremo entrambi comodi. Sei così piccola.
Lisbon serrò la bocca, chiedendosi se Jane volesse davvero che lei lo seguisse o se fosse tutto uno scherzo. Vide l’uomo tamburellare con le dita sul posto al suo fianco, non aspettando altro che lei lo raggiungesse. Lisbon decise di mandare al diavolo l’imbarazzo e, un attimo dopo, si infilò sotto la coperta.
Doveva ammetterlo, Jane aveva ragione. Il tessuto già scaldato dal colore del suo corpo era magnifico. Si strinse ancora di più al torso di Jane, accoccolandosi nella nicchia creata tra il divano e la sua spalla. La sua mano finì dietro la sua schiena, stringendosi teneramente alla vita dell’uomo, finché a un tratto non si accorse della imbarazzante vicinanza tra lei e il suo ospite. Vide il volto di Jane osservarla stupito. In quel momento, tirò indietro il braccio ed iniziò a muoversi verso la direzione opposta. Una mano sotto la coperta si strinse appena alla parte bassa della sua cosca, sopra il ginocchio, trattenendola.
-Aspetta, non andare. Era piacevole…come stavi prima.
Lisbon lo guardò negli occhi, come se da un momento all’altro potesse rimangiarsi quelle parole. Ma vide soltanto un infinito bisogno di vicinanza e conforto. Continuando a guardarlo, aspettando che la fermasse, riprese le stessa posizione di pochi attimi prima. Jane, ridacchiò, aggiustandosi in modo che fosse comodamente abbracciato dal corpo di Lisbon. Si accorse che ormai da tanto tempo non era stato in grado di sentire qualcosa di simile. Aveva scordato cosa volesse dire trovarsi in un posto caldo e al sicuro, dove non dover aver paura del mondo esterno. Una bolla, che sarebbe potuta durare pochi minuti, ma che avrebbe reso sopportabili tante ore di freddo.
I due restarono in silenzio per minuti preziosi, ognuno a farsi le proprie domande e a cercare le proprie risposte.
-Non avresti un altro regalo da darmi?
Chiese a un tratto Jane.
-Uh?
-Il regalo di quest’anno.
-Chi ti fa credere che tu quest’anno ti sia meritato un regalo?
-Vuoi dirmi che sono nella lista del cattivi di Santa Teresa?
-Oh…puoi scommetterci.
-Neanche uno piccolo piccolo?
Lisbon sbuffò, ormai stufa di quel tira e molla. Prese l’altro pacco e glielo mise davanti. Ma prima che Jane potesse prenderlo tra le mani, lo tirò di nuovo verso di sé.
-Che sia inteso. Continuo ancora a pensare che non lo meriti.
E lasciò che Jane prendesse il pacco. Lo vide rigirarlo tra le mani per comprenderne il contenuto, esattamente come per quello precedente. Poi tirò via la carta, rivelando una scatoletta di legno antico. Sul coperchio era stata incisa una nave all’interno di un porto. Aveva un aspetto piuttosto antico, ma la copertura era nuova e lucida, come se fosse stata appena riverniciata.
-Un mio amico è un antiquario, e una volta mi ha detto che gli era stata venduta questa vecchia scatola per riporre il the. E’ della fine dell’ottocento ed è stata ritrovata in una vecchia casa assieme a un mucchio di cianfrusaglie. Così gli ho se avesse potuto ripulirla e rimetterla a posto, per poi regalartela. In questo modo, non rischierai più che Nancy mischi le sue tisane alla frutta con i tuoi the.
Disse Lisbon. Jane passò la palma della mano sull’incisione del coperchio, osservando poi la scatola da varie angolazioni. Infine aprì il coperchio e avvicinò il naso all’interno, chiudendo gli occhi. Fu sorpreso da un forte odore di the nero, mischiato con quello di vernice fresca e mogano. Lisbon vide le sue labbra piegarsi in un sorriso e chiudere nuovamente la scatola.
-E’ perfetto.
Jane poggiò la testa sulla sua spalla, ancora osservando la scatola. Spostò il peso totalmente sul fianco sinistro, assicurandosi di poter riposare su quel sostegno sicuro. Per un attimo soltanto, non avvertendo alcun movimento da parte di Lisbon, pensò di essere arrivato al limite, di aver chiesto troppo. Ma sentì il suo naso muoversi lentamente tra i suoi capelli, descrivendo cerchi piccoli e lenti. Poi, quasi senza sfiorarlo, la sua bocca gli lasciò un bacio sull’attaccatura dei capelli, schioccando le labbra.
-Perché non può restare così? Perché non puoi restare così?
Chiese, inondando col suo respiro caldo il suo scalpo. Jane sentì la cosa risvegliare in lui una sensazione a lungo dimenticata, che neanche una sirena come Lorelai era riuscita a riportare alla luce. Dimenticata, certo, ma immensamente piacevole. Strinse le gambe, cercando di concentrarsi sulla domanda, più che sulle –per quanto interessanti- risposte del suo corpo alla vicinanza della collega.
-Lisbon, non tornerò indietro. Te lo prometto. Resterò così se tu lo vorrai. Se me lo permetterai.
Lisbon, per la prima volta da quando la mattina era iniziata, sentì qualcosa rompersi dentro di lei. La spessa barriera di paura e rabbia che sembrava circondarla da mesi, si era incrinata. La sentiva ancora incombere sulla sua testa, ma ne aveva scoperto la debolezza.
-Ok.
Sussurrò, quasi impercettibilmente. Gli occhi di Jane si illuminarono per la nuova fiducia che sembrava di sentire scorrere tra le parole di Lisbon. Tornò a contemplare i cofanetto, mentre la donna era impegnata a far scendere la mano su e giù per il suo fianco. Entrambi restarono così a lungo, a saziarsi di quel reciproco conforto. Nessuno aveva il coraggio di interrompere quel momento. Finché lo stomaco di Lisbon tornò a protestare a tutta forza.
-E’ così imbarazzante. Mi dispiace.
-Non capisco cosa ci sia di imbarazzante nel tuo delizioso stomaco che si sta preoccupando di avvisarmi che hai fame. Se non ci pensasse lui, mi chiederei chi potrebbe.
-Davvero, non c’è bisogno che mi prepari il pranzo.
-L’ho già fatto, Lisbon.
Lisbon si tirò indietro, per assicurarsi che non scherzasse.
-E quando avresti trovato il tempo?
-Mentre eri nella vasca da bagno.
-Ma sono mancata poco più di un’ora.
-Sarai sorpresa di quante cose sono in grado di fare in poco più di un’ora.
Jane la prese per mano e la trascinò in piedi senza che nemmeno se ne rendesse conto. Perché aveva la netta sensazione che presto l’avrebbe saputo?

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Jane avrebbe potuto descrivere quella giornata con una sola parola. Favolosa.
Avevano pranzato assieme, godendo l’uno della compagnia dell’altro. Il cibo, il vino, gli argomenti leggeri erano stati in grado di trasportarli in un’atmosfera tenue e famigliare. Entrambi si sentivano riposati, in pace, una sensazione così a lungo dimenticata da riuscire a sorprenderli. Avevano sparecchiato assieme e Jane, a malincuore, si era dovuto accontentare di asciugare i piatti doviziosamente lavati da Lisbon.
Durante il pomeriggio, avevano diviso i compiti per la preparazione della cena. Prepararla assieme era stato uno spasso, soprattutto con lo scontro tra Lisbon e il minipimer, che aveva lasciato enormi schizzi di olio, farina e uova sulle pareti e sui loro vestiti.*** Vedere Lisbon tutta sporca, imbronciata ed abbattuta per la sua sconfitta, era stato in grado di far scoppiare Jane in una risata clamorosa, talmente sconvolgente da farlo cadere in ginocchio. La donna l’aveva seguito subito, cominciando anche lei a ridere anche lei a crepapelle. Un attimo dopo, Jane l’aveva abbracciata, ancora sussultando per il forte riso. Ma pochi secondi dopo, Lisbon sentì qualcosa di caldo caderle sul collo, accorgendosi che i forti singulti si erano trasformati in pianto.
-Jane! Jane, cosa tu succede? Jane…
Ma l’uomo restava in silenzio, stringendola come se ne valesse la sua stessa vita. Lisbon decise di non fare domande, e lo strinse ancora più forte, sicura che le sue azioni avessero risvegliato qualche antico ricordo della sua famiglia. Perciò rimase sorpresa dalle parole che a un tratto sentì pronunciare dal mentalista.
-Devi promettermi una cosa. Che qualsiasi cosa succeda, tu andrai avanti, ok? Che se accadesse qualcosa a me o a Grace o a Rigsby o a Cho, tu non ti abbatterai e continuerai. Sempre, in ogni caso. Giurami che starai bene. E’ l’unica cosa che ti chiedo. Ti prego.
Lisbon non riusciva a capire a cosa si riferisse Jane, e soprattutto non riusciva a comprendere per quale motivo le stesse chiedendo quelle cose. Non poteva sapere che senza il minimo preavviso, proprio in quell’attimo di totale gioia, dietro gli occhi dell’uomo erano tornate le immagini del suo corpo nudo e martoriato. Grace aveva ragione, non era stato lui a ridurla così. Ma era stata sua colpa. Era stato in grado di farla desiderare di morire. Lei, ciò che aveva di più prezioso al mondo, l’unico motivo che l’aveva spinto a cambiare, ad essere migliore. Che razza di uomo pensava di essere, a credere di meritare una persona del genere della sua vita?
Ma Lisbon non avrebbe mai scoperto queste cose, e Jane avrebbe dato la sua vita per tenerle nascoste.
-Te lo prometto. Se è ciò che vuoi, lo farò.
-Non è ciò che io voglio, Lisbon. Devi fare questo per me.
Lisbon abbassò gli occhi, colpita dall’intensità dello sguardo di Jane.
-Lo farò. Te lo prometto.
E di nuovo venne accolta tra le sue braccia. Cosa stesse succedendo, non era stata in grado di capirlo. Ma aveva visto Jane piangere pochissime volte, e sapeva che essere in grado di vederlo così era un dono. Il fatto che Jane si fidasse così tanto di lei da accettare la sua vicinanza in quel momento di totale vulnerabilità. E quello, almeno per il momento, era abbastanza.
Dopo quella improvvisa crisi di pianto, il clima tornò di nuovo rilassato. Senza ulteriori incidenti, erano riusciti a portare in tavola una cena succulenta. Jane si era deliziato nel vedere Lisbon incredibilmente vorace su quel cibo squisito, quasi riuscendo a mangiare più di lui. La serata, alla fine, si era conclusa sul divano, sotto il plaid nuovo di zecca e davanti all’enorme pila di film a noleggio.
Dopo Mamma ho Perso l’Aereo, Una Poltrona Per Due, The Family Man e The Nightmare Before Christmas erano passati al Grinch, ma il folletto cattivo non era stato in grado di rubare i regali natalizi, che Jane era stato in grado di sentire un peso sulla propria spalla. Immediatamente dopo, Lisbon aveva risollevato la testa, seppure le sue palpebre non riuscissero a stare alzate. Subito dopo, i suoi occhi si erano chiusi nuovamente, riaprendosi poi con considerevole sforzo.
-Non serve che tu rimanga sveglia fino alla fine del film.
Lisbon fece di sì con la testa, forse troppo stanca per rendersi conto della sua accondiscendenza. Jane si spostò in modo da poterle offrire più spazio per stare comoda e, immediatamente, la donna mise un braccio sotto al suo, stringendolo forte come un orsacchiotto di pelouche. Mai, in tutta la sua vita avrebbe immaginato Lisbon come il tipo coccolone.
Una volta arrivato ai titoli di coda, per un attimo aveva pensato di portarla al piano di sopra e sistemarla a letto, ma il divano era caldo e morbido e il plaid forniva un buono scudo contro il freddo dell’ambiente. Si allungò sul fianco destro fino a posare il capo su uno dei cuscini del divano, portandosi dietro Lisbon, in modo che potesse tranquillamente riposare su di lui. Alzò il plaid in modo da coprirla fino alla nuca.
In quel momento sentì finalmente di potersi rilassare, espirando fino all’ultimo centimetro quadrato di aria dai polmoni. Strinse a sé quella donna meravigliosa, memore di averlo fatto l’ultima volta col suo corpo senza vita. Così come allora, cominciò a baciarla piano e teneramente. Nel sonno, sentì la sua pelle scaldarsi ancora di più e fremere leggermente. Per un attimo, ebbe paura di averla svegliata, ma dopo un sospiro più profondo, la sentì ritornare quieta.
Non c’erano parole per descrivere quel momento. Il profondo stato di grazia in cui si trovava, il rispetto e la riconoscenza di quel dono magnifico. E non stava pensando al suo riposo eterno, bensì della preziosa umana che stava stringendo su di sé. Avere la possibilità di rimediare ai suoi errori, di non dover rivivere quel futuro così orribile…era ben oltre quello che meritasse per i suoi peccati.
Con un dito, sfiorò finalmente il contorno del labbro superiore, leggermente più pieno di quello inferiore. Lo sapeva, lei, che era un particolare che aveva notato fin dal primo giorno? E che spesso e volentieri si soffermava ad osservarlo ancora ancora e ancora? Fortunatamente no o, ne era sicuro, la donna avrebbe usato la sua pistola su di lui.
Era un’occasione unica, che non si sarebbe ripresentata tanto presto. Abbassò il capo e lasciò un bacio proprio lì, su quella piccola curva sinuosa. Vi passò poi il pollice sopra, come per cancellare quella piccola bravata. Nel sonno, Lisbon mosse le labbra verso di lui, baciando a sua volta la punta del suo dito.
No, era definitivo. Non meritava tutto quello. Ma per una buona volta, non avrebbe rinunciato a priori a quel dono. Piuttosto, se lo sarebbe guadagnato ogni giorno, fino ad arrivare a sentirsi degno di quella fortuna.
Prima di chiudere gli occhi, un fremito lo travolse dalla testa ai piedi, così come la sera precedente. Sentiva una presenza nella stanza e il panico si irradiò in lui. Strinse ancora più Lisbon a sé, come a volerla proteggere da qualsiasi pericolo. Voltò gli occhi a destra e a sinistra e alla fine li vide. Dietro l’albero, illuminati dalle luci intermittenti, stavano i Tre Spiriti, alti e silenti.
Ma le mani del Primo Spirito erano candide, il sangue scomparso. Il cappuccio del Terzo era abbassato sulla schiena e il volto era aperto, gioviale. In mezzo a loro, il Secondo stava piangendo di felicità. Tutti e Tre li stavano osservando, stesi sul divano, tutti e Tre avevano capito che la loro missione era conclusa.
-Grazie.
Sussurrò loro. E detto questo, si dissolsero nella polvere.
Jane abbasso il capo sui cuscini, riposando i muscoli stanchi. E, cullato dal respiro gentile di Lisbon, cadde in un sonno profondo e senza sogni, leggero come la benedizione più dolce.

 

-Fine Strofa Quinta-

 

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*Questa frase è presa in parte del film "V per Vendetta".
** Questa è, in realtà, una tradizione della mia famiglia. Di solito si regala una pallina di Natale ogni anno ai bambini piccoli, anche se le mie zie continuano a farlo con me, nonostante io abbia 19 anni.
*** Questa scenetta è successa davvero un pomeriggio in casa di mia zia, non per colpa mia!!! con la differenza che, a differenza di Lisbon, noi abbiamo dovuto ritinteggiare la cucina.

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Capitolo 6
*** Epilogo ***


A/N: Eccoci arrivati all'ultima A/N...wow, che dire? in realtà non i vengono le parole. Ok. "Allora cominciamo dall'inizio - come diceva la mia professoressa di italiano - cosa facile da dire, ma ben difficile da farsi". Per prima cosa, grazie a tutti voi lettori. Siete stati così pazienti, per tutto il tempo. Davvero, non so come ringraziarvi per tutto questo :''')) Avete dato amore e fiducia alla mia storia, e questo è il sogno di ogni persona che si impegna a scrivere. Un altro grazie a chi ha recensito. Questa storia ha avuto molte più recensioni di quante me ne aspettassi. Ma non è questa la cosa davvero importante. Sono state LE recensioni: i pensieri e le considerazioni che vi avete messo dentro. Avete usato il vostro prezioso tempo per farmi sapere le vostre idee e persino per farmi degli stupendi complimenti. Non so che altro fare per ringraziarvi, se non continuare a scrivere e migliorarmi. Inoltre, grazie a Lettie, quella incredibile donna senza la quale queste storie non sarebbero mai venute fuori. E non solo per il supporto tecnico - è grazie a te se quello che scrivo diviene leggibile -  ma per il supporto da amica che mi dai sempre. Mi incoraggi, mi sproni e mi spingi sempre a fare del mio meglio. E questo te lo dovrò per sempre. Always. Grazie, infine, a quella stupenda serie che supportiamo e amiamo così tanto. Inutile dire che, se non ci fosse, non ne staremmo qui a parlare. Mi ha aiutata a mantenere un minimo di "familiarità" in questo momento in cui la mia vita è cambiata. Mi ricorda che alla fine sono sempre la stessa persona, e che posso esserlo per sempre, se lo vorrò.
Vi lascio, quindi all'epilogo.
Alla prossima, miei carissini.
Per sempre vostra.
Nikki C.

 


EPILOGO

Just how thick is your skin? Just how sharp are your teeth?
Oh, you've got a lot to learn.
Is there somewhere else that I can win? Is there something else to start over again?
From the summit's edge to the cutting room floor.
I will be afraid no more.
The morning dove sings with two broken wings: “Carry me home, I'm not afraid.
The stars in my eyes with shimmering lights. Carry me home, don't let me fade…”
Carry me home. Carry me.

 
 
La mattina seguente, Lisbon si svegliò sul divano, sola.
Il plaid stropicciato e l’impronta sul divano accanto alla propria, erano la prova che non avesse sognato. Sentì lo sconforto crollarle addosso. Si portò una mano alla bocca per tacere un moto di stizza e rabbia,
Proprio in quel momento, Jane entrò nella stanza, tenendo in mano due contenitori di succhi di frutta. Era a torso nudo, i capelli ancora bagnati e caldi per la doccia. Guardando le etichette dei cartoni, le chiese quale fosse il suo preferito, tra pesca e arancia. Non ricevette risposta, se non le braccia della donna attorno al suo collo.
Tre giorni dopo, la vita al CBI riprese, senza Jane. Ciò nonostante, il mentalista cominciò a passare tutte le sere a casa di Lisbon per prepararle la cena, discutere sui casi e trascorrere la notte. Piano piano, il suo spazzolino prese posto affianco a quello di  Lisbon, il suo rasoio sulla mensola del bagno, il suo intimo vicino alle mutandine nel cassetto, i suoi completi vicino alle camicie colorate nell’armadio e il posto nella parte destra del letto. Dopo due mesi, Jane decise di prenotare il solito tavolo nel suo ristorante preferito. Quella sera stessa, fecero l’amore per la prima volta insieme.
In maggio, il caso di Red John arrivò alla svolta. Jane fece esattamente quello che aveva detto la mattina di Natale. Nessun segreto, nessun piano. Ciò nonostante, si ritrovò con in mano una pisola, e la pistola puntata contro la sua nemesi. E la pistola sparò un colpo.
Quando la sua chiamata e la descrizione della situazione raggiunsero Lisbon, questa si sforzò di non crederci. Arrivata alla casa segnalatale dalla radio, vide Jane paonazzo, il volto rigato da lunghe strie di sangue, e un’arma in mano. Sentì la terra aprirsi sotto i suoi piedi, pronta a farla precipitare nell’abisso.
Un attimo dopo si accorse di un suono alla sua destra. Un uomo era disteso a terra e si teneva il piede sanguinante. Con lo sguardo tornò sul collega e sui suoi occhi spenti. Jane le consegnò la pistola, senza una parola, uscendo dalla casa per farsi medicare la fronte. Pochi minuti dopo, Lisbon lo raggiunse sull’ambulanza e lo abbracciò con tutta la forza possibile, coprendo il suo volto di baci, fregandosene altamente di essere vista da Bertram. Quando lo guardò nuovamente negli occhi, vide una luce nuova riempirli, rivolta a lei, solo a lei. E finalmente capì perché Red John non fosse morto in quella casa. Non era più lui lo scopo della vita di Jane, e non lo era più stato da quel giorno di Natale. Sussurrò un flebile grazie sulle sue labbra, e lo baciò di nuovo. Nessuno dei due si accorse che, in quel momento, Red John era stato condotto fuori dalla casa, urlante di rabbia e di dolore.
Così come nel sogno, fu Grace a ucciderlo, durante un tentativo di fuga dalla prigione due settimane dopo. Jane non sentì né dolore né rimorsi. Solamente, quella sera pianse tra le braccia di Lisbon, così come cinque mesi prima.
A settembre, Lisbon presentò ufficialmente Jane alla sua famiglia. Dopo la sorpresa iniziale, il mentalista era stato accolto nella grande famiglia con un calore infinito, soprattutto da Anne, che grazie a quella notizia aveva guadagnato 467 dollari.
Il Natale successivo, fu il primo passato come una coppia. Esattamente come il precedente, la giornata fu semplice e tenera, passata tra il divano e i fornelli. Ciò nonostante, una paura sottile seguì Jane fino a sera. Alla fine entrambi sentirono la necessità di festeggiare quella giornata speciale sotto le coperte. E quando dopo parecchio tempo, ansimanti e sudati,  assieme decisero di concedersi il loro meritato riposo, Lisbon avvicinò le labbra all’orecchio di Jane e sussurrò.
-Sono felice che il nostro albero sia così grande. Soprattutto perché l’anno prossimo avremo un regalo in più da comprare.
Il significato di quelle parole piovve su Jane come una meteora, facendo esplodere di gioia il suo cuore. Quel Natale non sarebbe stato dannato dalla perdita di una vita, ma rallegrato dalla creazione di una nuova.
Sette mesi dopo, insieme a tutta la squadra, la famiglia di Lisbon, buona metà del dipartimento e un discreto numero di circensi, espressero i loro voti al tramonto, su un’infinita spiaggia di sabbia bianca. Quella sera, Wayne prese la sbronza del secolo, rallegrando la serata con la migliore esibizione di Jodel mai sentita in tutta la California. Sfortunatamente, il vino in corpo all’agente portò anche alla sua dichiarazione di amore eterno a Grace e la quasi definitiva rottura della sua mascella. Ciò nonostante, nessuno si stupì del bacio che, prima di entrare in macchina, Grace lasciò sulle sue labbra.
Non ci volle molto prima che la piccola Juliett Blessing Jane venisse al mondo, appena due settimane dopo. Un piccolo angelo dai capelli biondi e gli occhi verde chiaro. Quel Natale venne passato assieme alla squadra nella loro nuova casa, e nessuno quella sera riuscì a staccare gli occhi dal fagottino di gioia appena arrivato nella loro vita.
E tre anni dopo, Lisbon e Jane, davanti ad un enorme uovo di Pasqua di cioccolato, tentarono di spiegare alla loro piccola Juliett che presto anche il pancione della mamma avrebbe svelato una nuova, stupenda sorpresa.
Jane non ebbe più rapporti con gli spiriti; ma visse sempre, d'allora in poi, sulla base di una totale felicità e completezza ; e di lui si disse sempre che se c'era un uomo che sapeva osservare bene il Natale, quell'uomo era lui. Possa questo esser detto veramente di noi, di noi tutti! Che Dio vi benedica, tutti!

 

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A/N 2: Pensavate davvero che vi avrei lasciato così??? E invece no!! Ecco quest'ultima piccola storiella.
AVVISO IMPORTANTE!!

Se siete dei "puristi dell'Agnst" e le storie Fluff "are not your usual cup of tea", NON ANDATE OLTRE!! NON LEGGETE QUELLO CHE E' SCRITTO QUA SOTTO, PERCHE', A DIFERENZA DI QUELLO CHE HO SCRITTO NEI CAPITOLI SCORSI, E' UNA PARTE MOOOOOOOOLTO MIELOSA E MOOOOOOLTO POCO "INCAZZOSA". IO VI HO AVVERTITO. SIETE ANCORA LIBERI DI PREMERE IL TASTINO "INDIETRO". LO VEDETE? QUELLO IN ALTO SULLA SINISTRA. NON L'AVETE PREMUTO ANCORA? BE', SPERO DI SI' PERCHE' DA QUA NON SI TORNA INDIETRO. 





Ok, se siete arrivati qui vuol dire che volevate farlo, e ne sono davvero felice :)))) Stavolta vi lascio per davvero. da adesso in poi questa storia è definivamente CONCLUSA.
A voi tutti alla prossima.
Nikki C.


 

Red Markers, Blue Markers

 

Many doors, knock on one. Standing still, time is raging.
Staring down the mouth of a hundred thousand guns.
And you’re still here. You’re still here.
I believe that we never have to be alone. Yes, I believe, It’s just around the ben.
You can hold it in or scream it on a microphone.
There is no end. There is no end.
Deep in the night, I feel the presence of something that was long ago told to me.
There is a hand guiding the river, the river to wide open sea.
And deep in my heart, in any game.
On any mountain, oh!, I’m not afraid.
Standing on stone, you stand beside me and honor the plans that were made.

Heart of a Girl – The Killers

 

-Facciamo un gioco?
Mi dice Jane, poggiando delicatamente la giacca del completo su una delle poltrone. E’ maggio inoltrato, e mi chiedo come riesca ad indossare quell’immacolato tre pezzi con questo caldo. Personalmente, non riuscirei a sopportare addosso più di uno strato di tessuto, figuriamoci tre.
Prendo tra il pollice e l’indice la camicetta sul davanti. La sventolo un po’, in modo da asciugare la sottile patina di sudore che mi si è formata in mezzo ai seni. Invano, dato che ai 27 gradi di questa stagione, si aggiungono le parole dell’uomo di fronte a me. So fin troppo bene che, quando parla di giochi, può trattarsi del mio peggiore incubo o della notte della mia vita.
-Ho qualche scelta?
Gli chiedo, inclinando la testa di lato. Lui alza le sopracciglia, come se non si aspettasse altro.
-Certo che no.
Risponde, onorandomi di uno dei suoi sorrisi a tremila megawatt. Credo che la cosa si protrarrà per un po’. Per questo mi dirigo in camera, abbandonando borsa, fascicoli e altro sulle lenzuola. Un attimo dopo sono di nuovo in salotto. Ad aspettarmi, in piedi in mezzo alla stanza, c’è Jane. E i suoi vestiti –tutti i suoi vestiti- sono ordinatamente piegati sul divano dall’altro lato della stanza.
-Woh…sei stato così…efficiente…
In fondo, sono stata in camera appena pochi secondi. Mi soffermo un attimo a guardarlo, gustandomelo con gli occhi. Fisico asciutto, ma delicatamente scolpito. Fianchi sottili e quella deliziosa linea bionda a puntare al suo basso ventre. Nemmeno dopo dieci anni di peccaminose coccole sotto le lenzuola, riuscirei a non arrossire davanti a Jane con addosso un paio di boxer. Molto neri. E molto attillati.
-Davvero, Lisbon. Credi davvero che rinuncerei così facilmente all’onore di essere spogliato da te? No di certo. Se lo sto facendo, sappi che è per una buona causa.
-Oh, sarebbe un evento da immortalare. Patrick Jane che fa qualcosa per una buona causa. Già mi vedo la notizia sui giornali.
-Non prendermi in giro, donna. Sai che divento una belva quando lo fai.
-Ed è per questo che mi piace farti arrabbiare. Per la soddisfazione e per…dopo.
Sussurro maliziosa come una scolaretta. Jane si passa la lingua sui denti. Con un braccio dietro la schiena, si avvicina a me. L’altra mano si alza verso la scollatura della mia camicetta. Il suo indice segue le piega interna del mio seno, asciugando una goccia di sudore sul suo tragitto. Noto le sue pupille dilatarsi, fin quasi ad ingoiare il verde attorno. Ma il suo controllo resta fermo, ferreo. Il maestro del biofeedback.
-Ho in programma qualcosa di diverso per stasera. Non che alla fine la cosa non possa concludersi con qualche attività extra. Ma adesso ho bisogno di questo, Lisbon. Ti fidi di me?
Se mi fido di lui? Santo cielo! In questi mesi è riuscito a dare un senso tutto nuovo alla parola “fiducia”. E’ riuscito a recuperare il rapporto con gli altri membri della squadra in tempo di record. Per non parlare del nostro. Se me l’aveste chiesto sei mesi fa, vi avrei riso in faccia.
Jane è un uomo nuovo. E’ felice, sempre sorridente e disponibile. E da quando Red John ha lasciato questo mondo, l’ultima ombra del rimorso e della paura ha lasciato i suoi occhi.
Alcune volte, nel bel mezzo della notte, abbracciata a quest’uomo che ho imparato ad amare più della mia stessa vita, mi domando cosa sia davvero successo quella notte. Non avrei paura di chiederglielo. So di potergli domandare qualsiasi cosa, aspettandomi da lui la risposta più sincera. La verità è che io non voglio sapere. O almeno non ancora. E non perché ne abbia paura. Ma perché non sopporterei di vederlo costretto a rivelarmi qualcosa di così profondo. Sono convinta che se e quando vorrà dirmelo, io sarò pronta ad ascoltarlo.
-Si, Jane. Mi fido di te.
Lo vedo sorridere, guardandomi con tanta tenerezza da riempirmi il cuore fino a farlo scoppiare. L’altra sua mano spunta da dietro la schiena e, delicatamente, scosta una ciocca di capelli dalla mia fronte. Poi fa un passo indietro e indica la mia camicetta.
- Vuoi che ti aiuti a liberarti di quel niente che hai addosso?
Scoppio a ridere, ma subito mi accorgo della serietà nei suoi occhi. Per una volta, decido di cogliere la palla al balzo, e sfruttare questa occasione a mio favore. Porto le mani sul davanti della camicetta, accarezzando appena i miei seni. I bottoni si aprono quasi per magia, rivelando solo una sottile striscia di pelle. Vedo Jane affondare le unghia negli avambracci. Le sue narici si allargano sotto la forza di una violenta inspirazione.
Senza rimuovere il capo, seguo la strada fino al bottone dei miei jeans. Lo apro con uno scatto secco. Il suo corpo ha un fremito improvviso. Se c’è una cosa che amo più del vederlo completamente nudo, è vederlo completamente alla mia mercé. Il suo autocontrollo che si dissipa in una nuvoletta di vapore. La sua totale incapacità di resistere a queste sensazioni così profonde e ataviche. Non c’è nulla di più eccitante. Il solo sapere di avere questo effetto su di lui mi fa sciogliere le gambe.
Faccio scorrere una volta il dito indice su tutta la lunghezza della cerniera. Poi torno in cima, afferrando il cursore, e facendolo scorrere tra i denti con una lentezza estenuante. La cosa genera un rumore quasi impercettibile, che sembra però rimbombare nel silenzio della stanza. Oh…so che effetto fa questo rumore su di lui. E di certo non dovrei nemmeno chiederglielo, per averne conferma.
-Sicuro di non voler accorciare i tempi?
-Te ne pentiresti, te l’assicuro.
La sua voce è tesa. Sta cercando di aggrapparsi a quel poco di sanità mentale che non gli permette di saltarmi addosso seduta stante.
Butto i vestiti sul divano. Nulla di comparabile all’ordinata pila affianco alla mia. Sono rimasta solo in reggiseno sportivo azzurro e mutandine fucsia. Certo, se l’vessi saputo avrei indossato qualcosa di più provocante. Ma credo che adesso sia tardi per potersene pentire.
Jane mi guarda soddisfatto e, con due grandi falcate, raggiunge la sua giacca. Dalla tasca esterna estrae due pennarelli colorati. Uno rosso e uno blu. Stende il secondo a me, e io lo guardo con una certa diffidenza. Non era certo questo ciò per cui credevo di essermi spogliata!
-Pennarello.
Dico, puntandolo verso di lui.
-Saresti tanto gentile da spiegarmi cosa ne dovrei fare?
Vedo Jane alzare gli occhi al cielo, per poi cominciare a parlare con la sua classica cadenza da enciclopedia.
-Questi pennarelli sono di colori diversi, a quanto vedi. Vanno usati per indicare alcune zone del proprio corpo o del corpo del proprio partner. Si usa sul proprio partner per indicare le zone del suo corpo che ci piacciono. Si usa il proprio pennarello su sé stessi per indicare zone del nostro corpo che, invece, non ci piacciono. E’ un esercizio che serve a migliorare l’autostima e a cementare il feeling tra i partner. Inoltre, aiuta ad avere un rapporto più sereno con sé stessi e con l’altro. Non serve dire che quelle parti sono del tutto fuori dal gioco.
-Oh…che peccato…mi sarebbe piaciut…
-Lisbon, vuoi piantarla prima che ti salti addosso come un cavernicolo?
-E questa sarebbe una minaccia?
Mi guarda torvo, ma so perfettamente che non è arrabbiato. Magari solo un po’ frustrato. Senza staccare gli occhi da me, stappa il proprio pennarello. Dopo aver provato l’inchiostro sull’indice, se lo porta al naso, lasciando un piccolo segno sulla punta.
-Il tuo naso?!
-Sì. Non trovi che sia grosso?
-Sì, ora che me lo fai notare credo che tu abbia ragione. E’ proprio enorme!
-Ok, questa è l’ultima volta che giochiamo a questo gioco insieme.
-Stavo scherzando! E poi, anche se fosse, non mi importa. Mi piace come solletica la mia guancia quando mi baci.
Jane spalanca gli occhi alla mia affermazione, come se avessi detto la più grande stronzata di questo mondo. Non mi lascio scappare la sua sorpresa, e mi alzo sulle punte. Poggio una mano sulla sua guancia e accarezzo un bacio su quel piccolo puntino. Ne schiocco una anche sul suo mento e poggio di nuovo le piante per terra.
Stappo il mio pennarello guardandolo negli occhi. Socchiudo appena la bocca e spingo la punta sull’arco destro del mio labbro superiore.
-Dici sul serio?
-E’…grosso. Sproporzionato. Non mi è mai piaciuto, fin da quando ero alle superiori.
Jane stappa il suo pennarello e fa un puntino vicino a quello che ho appena disegnato. Poi, con la punta del dito, disegna la forma del labbro, da parte a parte.
-A me, invece, piace tanto. Amo vederlo sporgere quando metti il broncio. E ogni volta che lo mordo ha una consistenza stupenda.
Jane mi prende il mento tra le dita, costringendo ad alzare lo sguardo che non sapevo di aver abbassato.
-Non pensare mai il contrario, ok?
La sua voce è appena udibile, ma sento una scossa elettrica attraversarmi da capo a piedi. Ecco l’effetto che mi fa, quando si comporta come il perfetto gentiluomo di altri tempo.
-Ok.
Sussurro, ancor più piano. A questo punto, fermo il suo volto tra le mani. Mi avvicino e faccio una x col mio pennarello sulla sua tempia destra.
-E questo sarebbe….
-Il tuo cervello. E’ qualcosa che ho sempre ammirato in te. Mi sorprende ogni giorno e mi lascia senza fiato. Anche adesso, che ti sei inventato questo gioco pazzo.
-Non me lo sono inventato! E’ una ricerca documentata e sicura.
-Oh, controllerò.
-Bene…
Lo vedo un po’ arrossire, visibilmente compiaciuto da quella piccola scenetta. Alza il pennarello sulla mia fronte e, con una freccia, indica i suoi capelli.
-Sono morbidi ed accoglienti. Profumano di te. Potrei accarezzarli per giorni interi. E amo quando mi permetti di pettinarli o di intrecciarli.
-O di fare entrambe le cose nello stesso momento.
-Avresti dovuto metterti con un parrucchiere, sai?
-Ma un parrucchiere sarebbe riuscito a occuparsi solo dei miei capelli. Tu ti occupi di tutto il resto. Credo che non possa reggere il confronto.
-Mi lusinghi.
-Aspetta a gongolare.
Il mio pennarello finisce sulla mia fronte. Segno una linea orizzontale da tempia a tempia.
-E questo sarebbe…?
-La mia altezza. Sono bassa, troppo bassa. Sai cosa vuol dire avere questa statura in un lavoro pieno di uomini super-palestrati alti almeno un metro e novanta?
-No…ma so che vuol dire avere la tua statura tra le mie braccia. E ti assicuro che la trovo assolutamente perfetta.
Non perde neanche un attimo per dimostrarmelo. Mi circonda con le braccia e mi stringe. Affondo il volto nel suo collo, accarezzandogli la giugulare con la punta del naso. Sento vetiver e foglie di betulla, patchouli e cedro. Insieme a qualcosa di semplicemente Jane. Ispiro a pieni polmoni quel suo profumo meraviglioso. Sa come di casa. La mia casa. Lui.
Vorrei potere restare qui per tutta la vita. Ma premo sui suoi fianchi per allontanarlo. Mi accorgo che ha gli occhi lucidi e, neanche un attimo dopo, un segno rosso appare vicino a quello che ho disegnato in precedenza. Subito dopo, il suo pennarello si posa sulle sue nocche, disegnando una piccola linea su ciascuna. Apro la bocca, senza parole.
-Mi stai prendendo in giro?
-Affatto. Sono sempre stata una persona che non ha mai fatto ricorso alla propria forza per distinguersi. Ma resta il fatto che, se qualcuno volesse aggredirmi, io sarei a malapena in grado di sferrare qualche pugno. Queste dita sono…troppo deboli, sottili, graciline. E ogni tanto mi piacerebbe essere un po’ più forte. Essere migliore di quello che sono. Vorrei essere come te. Vorrei poter essere in grado di proteggerti meglio. Di sapere che, se ti succedesse qualcosa, io non ti sarei solo d’intralcio.
Spalanco gli occhi, travolta da quella rivelazione. Mai  avrei pensato che Jane si sentisse a disagio a non essere forte quanto me. Ho anni di esperienza alle mie spalle. Infinite ore di esercizio al poligono e frequento la palestra del CBI almeno quattro volte a settimana. Eppure non mi crede ancora abbastanza al sicuro. E, in un certo modo, se ne dà la colpa. Oh, Patrick…
Jane, che aberra la violenza, che ha paura delle pistole e dei coltelli, vorrebbe essere più forte. Ma non per se stesso. Vuole esserlo per me. Per tenermi al sicuro. Per proteggere me. Nessuno, dalla morte di mia madre, ha mai espresso l’istinto di proteggermi.
Il pensiero che lui provi questo sentimento, il sapere di essere così preziosa per lui, e il fatto stesso che me lo abbia rivelato, mi fa scorrere una cascata calda di tenerezza sotto pelle. In quale luogo oscuro e freddo si era smarrito questo cuore così grande, durante gli anni in cui Red John ha infettato la sua vita?
Prendo il mio pennarello e ripasso uno ad uno i tratti che Jane ha lasciato sulle proprie dita.
-Mi piacciono perché sono le mani più belle che io abbia mai visto. Lunghe, grandi, ma amorevoli. Mi piace sentirle la mattina quando mi sveglio e mi sfiori la schiena. O quando sfogli un libro. Sembra che le tue dita si incastrino tra le pagine. Quando alzi la tua tazza di the alle labbra. Forse le tue mani non saranno in grado di proteggermi dalle persone cattive…
Alzo lo sguardo, ormai colmo di lacrime verso i suoi occhi. In questo momento non ci sono maschere, non ci sono barriere. Solo l’uomo che amo intensamente e senza confini. Con i suoi difetti, i suoi limiti, che ho imparato ad amare quanto le sue virtù.
-…ma mi hanno sempre protetta contro i mostri che affollavano i miei sogni. E la mia vita. Sono riuscite a tenerli lontani e a mandarli via. Per proteggermi dai criminali ho Cho e Rigsby. Ma solo tu sei in grado di proteggermi da ciò che ho dentro.
Mi alzo di nuovo sulle punte. Passo la lingua sul suo labbro inferiore, che si apre delicatamente per accogliermi. Butto le braccia attorno al suo collo, mentre sento le sue mani accarezzarmi dolcemente, dovunque.
Mi appoggia delicatamente sul tappeto, spingendomi a terra sotto il peso del suo corpo. Faccio scivolare la mani nell’incavo della sua colonna vertebrale fino alla curva della schiena, poi ancora più sotto, rimuovendo i suoi boxer. Lo sento gemere sulle mie labbra, mentre porta le mani dietro la mia schiena. Un attimo dopo il mio reggiseno e il mio intimo volano via. Infine, dopo averlo guardato un’ultima volta, scivolo attorno a lui.
Qui non c’è nessun’altro. Ci siamo solo noi due. Io, e questo cuore dolce e insicuro. L’unico che desideri proteggermi, l’unico che desidero proteggere.
Sempre.

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