Il nostro segreto - La vera storia di Durza e Arya di _Lalli (/viewuser.php?uid=195247)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La cattura ***
Capitolo 2: *** Durza ***
Capitolo 3: *** Vediamo di essere saggi ***
Capitolo 4: *** Paura ***
Capitolo 5: *** Lord Barst ***
Capitolo 6: *** Mi stai corteggiando, Durza? ***
Capitolo 7: *** Carsaib ***
Capitolo 8: *** La Ragazza ***
Capitolo 9: *** Verità e Bugiardi ***
Capitolo 10: *** Gli Spettri non baciano! ***
Capitolo 11: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 12: *** Follie ***
Capitolo 13: *** Aria di partenza ***
Capitolo 14: *** Piani folli ed alleanze inaccettabili ***
Capitolo 15: *** Sotterfugi, insulti e orrende visioni ***
Capitolo 16: *** Giornate di pace e pomeriggi di sangue ***
Capitolo 17: *** Dras-Leona ***
Capitolo 18: *** Spie e spionaggio ***
Capitolo 19: *** Grazie per il tuo sacrificio ***
Capitolo 20: *** Scoperte e confessioni ***
Capitolo 21: *** Disgelo ***
Capitolo 22: *** Sono pazzi ***
Capitolo 23: *** Attenzioni indesiderate ***
Capitolo 24: *** Giù le maschere ***
Capitolo 25: *** Fughe ***
Capitolo 26: *** Una sventura tira l'altra ***
Capitolo 27: *** Fidati di me ***
Capitolo 28: *** Decisioni ***
Capitolo 29: *** Addio, mio signore ***
Capitolo 30: *** Climax ***
Capitolo 31: *** Tutto precipita ***
Capitolo 32: *** Morte delle Ombre ***
Capitolo 33: *** Morte e Vita ***
Capitolo 34: *** Fantasmi ***
Capitolo 35: *** Arya Ammazzaspettri ***
Capitolo 36: *** Ritorno alla Cattedrale ***
Capitolo 37: *** Figlia del mattino ***
Capitolo 38: *** Orfana di madre, madre di un'orfana ***
Capitolo 39: *** La Regina e l'Elfa Nera ***
Capitolo 40: *** Casa ***
Capitolo 41: *** Appendice 1: Studio dei nomi e fine del culto dell'Helgrind ***
Capitolo 1 *** La cattura ***
La
narrazione è in mano ad Arya, che racconta in prima persona
le sue
vicende a partire dal rapimento da parte di Durza. Siamo già
dopo la
fine di Inheritance e tutta la storia è
un gigantesco
flashback.
Gli eventi dei quattro libri verranno manipolati
fantasiosamente a favore della trama che ho immaginato, cercando
tuttavia di non alterarli. Mi limiterò a costruire delle
trame
sotterrane e a riempire i "buchi" che Paolini ci
ha lasciato alla fine di Inheritance.
Coppia: Crack
Pairing. Durza x Arya.
Rating: Arancione.
ATTENZIONE! Ampio spoiler dei quattro libri!
Buona lettura!
^_^
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1.
La cattura
Cara
Nasuada,
Se tutto andrà bene come spero, quando leggerai questa
mia lettera io sarò molto lontana.
Il mio popolo ti avrà già
sicuramente informata delle mie malefatte e della mia fuga. Voglio
che tu sappia che non sono pentita di nulla di ciò che ho
fatto.
Sono solo dispiaciuta di essere stata, indirettamente o meno, causa
di così tante morti e sofferenze.
A questa mia lettera allego un
flusso delle mie memorie degli ultimi mesi, tutto ciò che mi
ha
portato alle scelte che ho compiuto. Le confidenze che ho sempre
rifiutato di farti.
Scriverti tutto questo potrebbe essere
pericoloso, ma voglio che almeno tu sia cosciente delle ombre che
questa terra ha nascosto a tutti, e quelle che probabilmente ancora
cela. Tu sei regina in un tempo in cui tutto è in precario
equilibrio, ancora più che durante il regno di Galbatorix.
Ti prego
sii prudente, amica mia.
Non rivelare a nessuno l’esistenza di
queste parole e distruggile non appena puoi. Le informazioni che
contengono trattano anche di persone che sono ancora in vita, alcune
anche intorno a te. Se qualcuno venisse a sapere che sono in mano
tua, potrebbe decidere di ucciderti.
Che le stelle ti
proteggano,
Arya.
Mi strinsi forte alla
coperta imbottita, avvicinandomi ancora un po’ al fuoco.
Dannazione
al freddo!
Lo odiavo da sempre, e non mi risparmiai di odiarlo
neanche quella notte. L’inverno si stava avvicinando, e io
dovevo
arrivare alla mia città, Ellesméra, prima della
caduta della prima
neve, e portarvi al sicuro la bisaccia che avvinghiavo a me anche
mentre dormivo. Ero la custode dell’ultimo e unico uovo di
drago in
possesso alla resistenza, l’uovo di zaffiro.
Da quindici anni
ormai la mia vita era un continuo ritmo cadenzato.
Ellesméra-Tronjheim. Tronjheim-Ellesméra. Restavo
un anno in
ciascuna delle due città, nella speranza che
l’uovo si schiudesse
per qualcuno, o umano o elfo che fosse. Ma ormai si stavano perdendo
le speranze, il drago non dava il minimo cenno di collaborazione, e
io continuavo ad attraversare Alagaësia a vuoto.
Non che mi
dispiacesse, ovvio. Per avere quell’incarico avevo rinunciato
a
tutto e tutti. Persino a mia madre, colei che più di tutti
si era
accanita contro di me e la mia decisione, la donna che mi aveva dato
la vita e che si era poi affrettata a ripudiarmi non appena avevo
deluso le sue aspettative.
Scacciai in fretta quel pensiero
velenoso, mi gelava le ossa, e non ne avevo certo bisogno in quel
momento.
Mi accoccolai ancora più stretta al tesoro che giaceva
tra le mie braccia, alla ricerca di una maniera decente per
addormentarmi, invano. Ero troppo agitata quella notte e non seppi
spiegarmi il perché.
Mi alzai a sedere di scatto, sospirando
scocciata capendo che sarebbe stata una notte insonne. I miei occhi
si andarono a scontrare contro una figura scura, accucciata di fronte
a me.
«Scusami» sussurrò Fäolin,
«ti ho svegliata».
Sorrisi
appena. «Figurati».
Fäolin ed io eravamo amici fin da quando io
ero bambina. Di trent’anni più vecchio di me, lui
era stato
l’unica luce della mia triste e desolata infanzia, stipata di
impegni, lezioni, etichetta. L’unico, oltre alla mia nutrice,
ad
avere provato sincero affetto per me, mentre tutti i cortigiani non
facevano altro che elargire consigli e sollecitazioni al solo scopo
di prepararmi al mio futuro di regnante. L’unico ad avermi
offerto
un sorriso o una parola gentile, quando mia madre passava per i
corridoi salutandomi appena, troppo impegnata a soffrire per la morte
del mio valoroso padre Evandar. Padre che non avevo nemmeno mai
conosciuto.
Quando avevo ottenuto l’incarico di ambasciatrice
degli Elfi, lui mi aveva seguito nei miei viaggi, non prima di avermi
confessato di amarmi profondamente.
Allora lo avevo ferito.
Imbarazzata e completamente ignorante della situazione, avevo
iniziato a trattarlo con più freddezza, allontanandolo da
me. Con il
passare degli anni e dei viaggi attraverso il paese, sempre insieme,
il nostro legame era diventato più forte che mai, e io avevo
capito
la portata del profondo affetto che sentivo per lui. Tanto che quella
notte potevo benissimo definirmi innamorata di lui.
E lui lo
sapeva, glielo avevo confessato un mesetto prima, mentre aspettavamo
novità sulla schiusa dell’uovo, che poi non era
avvenuta. Non che
da allora fosse cambiato molto tra di noi, eravamo sempre in
missione, sempre all’erta, sempre con Glenwing a guardarci le
spalle. E a toglierci ogni possibilità di restarcene un
po’ per i
fatti nostri per più di cinque minuti. Ma ogni tanto, come
quella
notte ad esempio, riuscivamo a ritagliarci un angolino di
solitudine.
«Non dormi?» mi chiese, interrompendo il flusso dei
miei pensieri.
«No» borbottai distratta, «è
freddo».
Mi
sorrise premuroso. «Vuoi che aumenti il fuoco,
Arya?»
Scossi il
capo. «Vado a fare una passeggiata».
Mi alzai in piedi di
scatto, uscendo dal cerchio luminoso creato dalle fiamme.
«Aspetta».
La sua mano si serrò sicura sul mio braccio. «Non
possiamo
abbandonare il nostro compare». Annuì in direzione
di Glenwing, che
russava rumorosamente.
Ecco perché non dormo. Mi ritrovai
a pensare, piccata.
«Resta con lui» dissi tranquilla.
Scosse
la testa. «Non puoi certo andare in giro da sola con il
tesoro più
prezioso che abbiamo attaccato al collo».
«Giusto» mi arresi,
tornando a sedermi accanto alle fiamme.
Mi raggiunse
silenziosamente, sedendosi accanto a me.
«Senti Arya» cominciò
incerto, «stavo pensando.. una volta finita questa missione
che ne
sarà di noi?»
Quella era una domanda che mi ponevo anche io da
tanto, tanto tempo, ma che confinavo rapidamente ai margini del mio
cervello, per non poterla prendere in considerazione in alcun modo.
Cosa avrei mai fatto dopo che la mia vocazione si fosse estinta?
Forse per allora mia madre avrebbe perdonato le mie scelte, che
riteneva tanto sbagliate? L’idea della schiusa
dell’uovo e della
sconfitta del re era troppo lontana perché io potessi
prendere in
considerazione il mio futuro.
«Non saprei» risposi vaga.
«Troveremo qualcos’altro da fare.. potremmo
continuare a
combattere per l’esercito o..»
«Non intendevo quello» mi
interruppe con dolcezza.
«Cosa allora?» Gli domandai,
increspando la fronte.
«Intendo cosa accadrà tra noi due»
specificò.
Sorrisi. «Hai qualche idea?» mi informai
curiosa.
«Beh io vorrei chiederti ufficialmente come mia
fidanzata» disse convinto, prendendomi una mano.
«E io credo che
allora accetterò» lo rassicurai.
Sgranò gli occhi.
«Davvero?»
Risi. «Sì!» Sembrava un bambino.
«Quando
finisce tutto, allora sarai la mia fidanzata?»
«Quello
dipende».
«Da cosa?»
«Da te».
Lo vidi farsi pensieroso.
«Io chiederei la tua mano in questo stesso istante, Arya,
sappilo,
ma non so se tua madre sarebbe d’accordo».
«Io non ho mai
avuto una madre» lo informai con amarezza.
«Non dire così».
«Sii
realista» ribattei risoluta. «Meno mi vede, meglio
sta. Ed è
reciproco».
«Ma non è vero..»
«Basta!» lo zittii
piuttosto freddamente.
Glenwing grugnì disturbato nel
sonno.
«Scusami». Tornai a parlare in un bisbiglio, per
non
svegliarlo. «Ma devi capire che lei non ha alcuna influenza
nella
mia vita. Se devi chiedere qualcosa, chiedilo direttamente a
me».
«Tu
vorresti essere la mia fidanzata?»
Accennai un sorriso «Magari
prova a domandarmelo quando saremo ad Ellesméra, potrei
anche dirti
di sì».
«Non sai quanto mi rendi felice» mormorò
al mio
orecchio.
Si ritrasse lentamente da me, sfiorando le mie labbra
con le sue, a tradimento, per un brevissimo istante. Sobbalzai. Non
mi aveva mai baciata, mai.
«Dovresti scioglierti un po’» mi
informò ridacchiando.
«Che dici?»
«Sul serio Arya».
Avvicinò di nuovo il viso al mio. «Non puoi essere
nervosa come una
ragazzetta al primo bacio». Mi strinse la nuca e premette
ancora le
sue labbra sulle mie.
Mi irrigidii ma poi finii per arrendermi
alle sue labbra morbide. Socchiusi gli occhi, restituendo quel bacio
leggero.
Fäolin si staccò da me e rise. «Arya la
donna di
ghiaccio, non mi sarei mai aspettato una simile reazione da una
come».
«Fäolin!» esclamai ammonitrice.
«Come non detto»
alzò le mani in segno di resa. «Arrivati ad
Ellesméra annunceremo
il nostro fidanzamento. Tua madre e gli altri membri del Consiglio lo
accetteranno prima o poi. Del resto il tempo non sarà un
problema
per me, né per te». Mi sorrise. «Abbiamo
un’eternità.»
«Sempre
che non finiamo ammazzati prima» ironizzai
macabramente.
«Sciocchezze..!» ribatté con sicurezza,
scatenando un ennesimo grugnito del povero Glenwing.
Mi affrettai
a sigillargli la bocca con una mano, bloccando il flusso delle sue
parole e impedendogli di svegliare il nostro amico e segnalare la
nostra posizione all’intero esercito imperiale.
«Controllati»
sibilai.
Sorrise con aria innocente. «Perdonami, mia
signora».
«Ci devo pensare» sbottai.
Sospirò. «Attendo con
impazienza il giorno in cui uscirai dal tuo guscio, mia cara,
perché
quello sarà la volta buona che il cielo ci cadrà
in
testa».
«Buonanotte Fäolin» mi congedai.
Rise di nuovo
«Buonanotte Arya Dröttningu».
Non potei trattenere un
sorriso.
Non riuscii a dormire.
Nonostante quella chiacchierata
che mi aveva scaldato la coscienza, nonostante la certezza che
Fäolin
era di guardia, nonostante la sicurezza datami dal cerchio magico che
ci proteggeva, mi sentivo inquieta.
E quell’inquietudine mi
tormentò, impedendomi di scivolare
nell’incoscienza. Quando il mio
uomo mi scosse, all’alba, non avevo chiuso occhio.
Riprendemmo
il nostro viaggio a cavallo. Il mio battito cardiaco era accelerato,
senza alcun motivo valido, e non riuscii in alcun modo a
placarlo.
Il viaggio continuò con una tranquillità quasi
inquietante, nonostante la mia irrazionale paura, che i miei compagni
si divertivano a beffeggiare con affettuosa ironia.
Il paesaggio
scorreva fluido sotto gli zoccoli dei nostri veloci cavalli elfici e
io non potevo fare a meno di provare un certo sollievo ad ogni lega
bruciata, ad ogni passo più vicino alla mia foresta.
Fäolin
continuava a baciarmi, di nascosto, di sfuggita, la mattina quando mi
alzavo, mentre accendevo il fuoco, non appena avevo finito di
mangiare, prima che mi addormentassi.
E io sorridevo come un’ebete
quando lo vedevo avvicinarsi con quello sguardo complice e adorante
che tanto mi piaceva. La situazione mi imbarazzava un po’,
specie
se Glenwing era troppo vicino e c’era il rischio che ci
vedesse. Ma
ogni bacio valeva abbastanza da rischiare di farsi scoprire e
stuzzicare da lui.
Quando ci avvicinammo a Daret decisi di
viaggiare solo di notte, non era il caso che qualche popolano ci
vedesse e riferisse al suo re, rivelandogli il nostro tracciato per
trasportare l’uovo. I miei compagni protestarono sonoramente.
Gli
elfi amano la luce e loro erano fermamente convinti che non avremmo
incontrato difficoltà di alcun tipo in quel viaggio, come
sempre, ma
io fui irremovibile.
Non era certamente la prima volta che passavo
per quelle strade, ma il mio istinto mi diceva che c’era
qualcosa
che non andava.
Ci accampammo a mezza giornata dalla Du
Weldenvarden, al sorgere del sole. L’ultimo giorno fuori
casa.
Sospirai sollevata, sedendomi pesantemente a terra.
«Sei nervosa
come un gatto prima del temporale» mi informò una
voce canzonatoria
alle mie spalle.
L’alba nascente incorniciava la figura
longilinea di Fäolin, esaltando il suo incarnato color del
miele,
illuminando i suoi lunghi capelli biondissimi della luce delle stelle
e schiarendo il blu profondo dei suoi occhi.
Era bello, Fäolin.
Probabilmente rappresentava l’uomo che ogni fanciulla elfica
avrebbe mai voluto al suo fianco come compagno. Era di poco
più alto
di me, con un fisico esile e magro; la pelle era piuttosto chiara per
la media elfica, aristocratica, così come i lineamenti, che
comprendevano un naso dritto e regolare, le labbra morbide e piene,
gli occhi grandi e a mandorla del blu scuro di un lago a mezzanotte.
Aveva in sé le caratteristiche della perfezione elfica: era
cortese,
gentile e attento, amava perdersi a guardare le stelle, suonava il
flauto benissimo, alle canzoni che intonava rispondevano i cinguettii
degli uccelli, inoltre era un abilissimo mago delle piante. Sapevo di
essere l’unica ad aver mai avuto l’onore di
ricevere in dono un
fiore creato da lui e la cosa mi faceva piacere più di
quanto fosse
lecito ammettere.
Ma non era solo il suo essere impeccabile che lo
rendeva particolarmente piacevole. Rispetto agli altri elfi maschi
che avevo conosciuto, Fäolin aveva un atteggiamento
più rilassato,
talvolta quasi giocoso.
Si legava i capelli sotto la nuca in
tre-quattro sottili treccine, tenute ferme da perline di legno
azzurre e aveva tre orecchini, due nel lobo destro e uno sulla punta
di quello sinistro, da cui di solito pendevano piume o pietre
colorate. E quelle sue piccole libertà lo scostavano un
po’ dal
suo essere terribilmente perfetto, dandogli un’aria quasi
malandrina, caratteristica che in fondo ogni elfa sognava nel proprio
uomo.
«Pronta a tornare a casa Arya Dröttningu?»
Le sue
parole mi riportarono bruscamente alla realtà.
«Uhm» borbottai
incerta.
Rise piano, cercando di non svegliare il nostro compare
che, come al solito, ronfava della grossa. Ma che razza di Elfo
era?
«Hai paura?» domandò serio, stringendomi
il mento tra le
dita.
Tentai un sorriso, ma ottenni solo una smorfia stirata
malamente sulle labbra. «C’è qualcosa
che non mi convince in
questo viaggio».
«È per il fidanzamento vero? Hai cambiato
idea?»
«No» risposi sicura.
Mi fissò dubbioso, come stesse
riflettendo se potessi essere capace di mentirgli o meno.
«Io
sono felice per noi». Lo fissai negli occhi, sfidandolo a
contraddirmi.
Annuì. «Ti credo» mormorò.
«E se ci stessero
seguendo?»
Mi scoccò uno sguardo obliquo. «Ci avrebbero
già
attaccati e ce ne saremmo già accorti. Questo compito ti sta
stressando Arya. Dovresti prenderti una pausa, lasciare a qualcun
altro il peso di tutto questo e ritirarti, per un annetto o due
magari».
«Che dici!» sbottai.
«Uniamo i nostri cuori,
Arya».
Sobbalzai. Mi affrettai a cercare il viso del mio
interlocutore e lo fissai, alla ricerca dell’ironia che
sicuramente
ci sarebbe stata nella piega delle sue labbra. Ma Fäolin era
serio,
come non l’avevo mai visto.
Ispirai forte. «Ti rendi conto di
quello che hai appena detto?»
«Sì» rispose fermo.
Unire i
nostri cuori? «Non è un po’
presto?» Azzardai.
Ero abbastanza
convinta di amare il mio eterno compagno di avventure, ma il mio era
un sentimento giovane, appena scoperto. Non ero pronta ad un passo
importante come l'unione dei cuori. Mi sentivo totalmente inadeguata
a quella situazione, ero come una bambina che si affacciava su un
mondo sconosciuto. E quella proposta mi aveva fatta precipitare.
C’erano troppe cose che all’improvviso mi
assalirono il cervello,
troppe novità, troppi cambiamenti.
Tra gli elfi il rito
dell'unione dei cuori corrispondeva vagamente al matrimonio tra gli
uomini, ma aveva un significato diverso. Prevedeva lo scambio di
promesse di amore e devozione e aveva come conseguenza l'istallazione
della coppia in una casa tutta loro, in previsione di un futuro e
ambitissimo figlio. L'unica differenza con il matrimonio umano stava
nel fatto che non aveva valenza a vita, anche se si supponeva che
restasse valido almeno un secolo dal giorno in cui le promesse
venivano scambiate. In effetti a quel punto i veri nomi dei due
interessati erano probabilmente cambiati e le promesse non erano
più
valide, anche se non era escluso che la relazione proseguisse anche
per millenni.
Però tutto quello supponeva una certezza totale dei
sentimenti che provavo per Fäolin.
«Non sei obbligata» mi
informò lui piattamente, ma nei suoi occhi vidi
l’ombra viscida
della tristezza.
«Io..» mi interruppi, alla ricerca delle parole
che mi avrebbero permesso di esprimere le mie idee senza ferirlo
troppo, «..non credo di essere pronta.»
Fäolin sospirò
rumorosamente. «È il tuo carattere così
freddo e rigido che te lo
impedisce?»
«No» risposi secca.
Non amavo che mi si
rinfacciasse il mio modo di fare, e lui lo sapeva. La mia freddezza
era venuta da sé, dopo l’indifferenza di mia
madre, dopo le
assillanti attenzioni della sua corte riguardo la mia educazione come
principessa, dopo le mille critiche di ogni persona che mi circondava
riguardo alle mie convinzioni sul mio ruolo di ambasciatrice, prima,
e custode, poi. Non poteva e non doveva osare rimproverare il mio
carattere, dato che lui stesso conosceva i fatti che mi avevano
temprata.
«Scusami» sussurrò sedendosi di fronte a
me.
«Non
fa niente» mentii.
«Possiamo unire i nostri cuori anche tra
mille anni». Sorrise. «Io non vado da nessuna
parte».
Alzai le
sopracciglia. «Pensi di poter sopportare questa missione
ancora a
lungo? Mi sembri un po’ stressato..» lo citai con
palese
ironia.
Scoppiò a ridere fragorosamente, facendo rivoltare
Glenwing nel sonno.
«Contieniti dannazione» sibilai.
Si portò
una mano alla bocca, soffocando l’ennesimo attacco di risa.
Inaspettatamente, mi prese entrambe le mani tra le sue e il blu
dei suoi occhi incontrò i miei.
«Voglio che tu sappia che per te
sopporterei tutto questo per la vita intera. Potrai sempre contare su
di me, Arya, perché io ti amo e sarà
così sempre. Non mi importa
nulla se tu oggi mi rifiuti la mia proposta, riproverò tra
dieci,
cento, mille anni. Io voglio che tu sia nella mia eternità,
perché
altrimenti non varrebbe la pena di essere vissuta».
Rimasi
attonita di fronte a quelle parole, che mai mi sarei aspettata di
sentirmi rivolgere. Non seppi cosa rispondere, perché quello
che
sentivo dentro, semplicemente, non aveva parole che potessero
esprimerlo. Mi chinai lievemente in avanti e lo baciai sulle labbra,
sorridendo.
Mi rasserenai, perché lui era una sicurezza nel mio
futuro. Io, che mai avevo avuto certezze.
Il suo amore per me era
confortevole come niente al mondo.
«Ti proteggerò da tutto.
Siamo insieme da quando siamo piccoli, e lo saremo per
sempre»
mormorò stringendomi tra le sue braccia.
E io mi abbandonai a
quelle parole, che nonostante sembrassero rivolte ad una bambina, mi
facevano sentire bene e terribilmente al sicuro. La strana tensione
accumulata nei giorni precedenti si sciolse all’improvviso,
liberando quel senso di oppressione che mi aveva invaso il corpo e la
mente.
Vicino a lui, il mondo aveva nuovi colori.
Stavamo
attraversando una piccola valle, verde di alberi. Eravamo ormai
vicini alla foresta e il fatto che i tronchi fossero fitti e il
sentiero così stretto da costringerci a proseguire in fila
indiana,
ne erano una chiara dimostrazione.
Fäolin cavalcava davanti a me,
i capelli biondi persi nel vento.
Fissavo la sua schiena da quando
eravamo partiti, non appena il sole era sceso, e non riuscivo proprio
a togliermi dalla testa le parole che mi aveva rivolto quella
mattina.
Sorrisi lievemente quando si voltò a guardarmi, come per
assicurarsi che io fossi ancora lì.
Neanche la terra potesse
inghiottirmi. E poi c’era sempre Glenwing dietro di me,
riservato e
silenzioso, ma attento ad ogni singolo rumore.
Entro l’alba
saremmo arrivati alla foresta, e di lì il viaggio sarebbe
proseguito
con la massima calma.
Le mie dita si spostarono istintivamente
all’anonima bisaccia di cuoio che portavo a tracolla.
Sospirai
soddisfatta sentendo la superficie liscia e fredda dell’uovo
di
zaffiro sotto i polpastrelli.
Andava tutto al meglio. Ero viva,
stavo per diventare la compagna di Fäolin e la missione
proseguiva
senza il minimo intoppo.
Mi ritrovai a sorridere di nuovo, dopo
tanti problemi e sofferenze, la mia vita sembrava finalmente aver
preso la piega giusta. Dovevo essere l’elfa più
fortunata al
mondo, non c’era nulla che avrei potuto desiderare, che io
non
avessi già.
Fäolin si girò di nuovo. «Possiamo
invertirci i
posti di guardia, mia signora?» mi domandò, con
rispetto farcito di
ironia.
Adoravo quello sguardo complice e velato di tenerezza che
mi rivolgeva di sottecchi.
«Scambiatevi» ordinai con voce atona
e un tono imperioso, stando al suo gioco.
Fäolin scivolò alle
mie spalle.
Sentii i suoi occhi bruciare in maniera strana sulla
mia nuca, alzai il mento e mi guardai intorno altezzosa, fingendo
indifferenza al suo sguardo che in realtà mi
provocò un lieve
brivido lungo la colonna vertebrale. Repressi un ennesimo
sorriso.
Superammo in silenzio un gruppo di cespugli nascosti
dalle tenebre. Continuai a cavalcare tranquilla, il vento che mi
sferzava il viso. Un brusco cambiamento della sua direzione mi fece
scivolare i capelli sugli occhi, oscurandomi la vista. Li spostai
stizzita passandomi una mano sul volto. Il mio braccio si
bloccò a
mezz’aria. C’era uno strano odore animale
nell’aria. I cavalli
nitrirono agitati.
«Fäolin» sussurrai implorante, voltandomi
all’indietro.
Ti prego ridimi in faccia e dimmi che era una
sciocca e infondata sensazione, ti prego guardami negli occhi e dimmi
che il pericolo non c’è, ti prego parlami e dimmi
che arriveremo
presto sani e salvi ad Ellesméra.
Lo guardai in viso e le mie
speranze si infransero come cristallo di fronte
all’espressione
stravolta di lui. Le sue iridi, illuminate di ferma determinazione,
mi scrutarono con disperata urgenza, quasi a voler memorizzare ogni
mio singolo particolare.
«Vai Arya, vai!» gridò schiaffeggiando
poderosamente il fianco del mio cavallo.
L’animale si allontanò
rapidamente dai compagni.
La terribile realtà mi cadde addosso
come una cascata gelata.
Un agguato.
Ero stata una stupida.
Come avevo potuto abbassare la guardia! Come avevo potuto lasciarmi
accecare dalla sicurezza che tutto sarebbe andato bene!
Cercai di
non pensare all’ultimo sguardo di Fäolin.
Perché in fondo agli
occhi blu di lui avevo letto una parola che mi faceva male anche solo
a pensarla. Una parola che mi lacerava.
Addio.
Battei
velocemente le palpebre, dissipando le lacrime che mi offuscavano la
vista.
La missione veniva prima di tutto e tutti e io mi ero
impegnata a portarla a termine, ma un forte magnetismo mi tentava in
continuazione di girarmi e raggiungere Fäolin, e morire con
lui.
Scossi la testa, cacciando, per quanto possibile, quella
possibilità.
Lui se la sarebbe cavata.
Spronai il mio cavallo
ad andare ancora più veloce, anche se il mio cuore
sanguinante mi
ordinava tutt’altro.
Una voce riempì improvvisamente l’aria,
fredda e carezzevole come un velo di seta che nasconde un pugnale tra
le sue pieghe.
«Garjzla».
Una sfera di luce colpì il mio
cavallo, che stramazzò a terra. Riuscii a saltare dal suo
dorso
evitando ogni danno. Maledizione! Avevano uno stregone con loro!
Quello avrebbe complicato le cose, avrei dovuto darmi una mossa per
sfuggirgli.
La stessa voce di prima risuonò tra gli alberi.
«Prendetela! È lei che voglio!»
Si trattava del capo,
sicuramente.
Ma perché i miei compagni tardavano tanto?
Mi
sfuggì un gemito e una morsa di ghiaccio mi strinse il cuore
quando
i miei occhi corsero nella loro direzione.
Fäolin giaceva a
terra, il collo delicato trapassato da una freccia nera, gli occhi
chiusi e il torace immobile.
Per un attimo mi sembrò che tempo e
spazio fossero scomparsi, smisi di essere la principessa Arya e
rimasi semplicemente una donna di fronte al corpo senza vita di una
persona che amava. Mossi istintivamente un passo nella sua direzione.
Non poteva essere vero, era solo uno dei suoi scherzi, sicuramente.
In un attimo si sarebbe alzato di scatto, ridendo, e saremmo scappati
insieme da quell’incubo. Ma lui rimase ostinatamente
immobile.
Ingoiai le lacrime. Non poteva lasciarmi così. Lui mi
aveva promesso..
Qualcosa nella mia testa aveva già accettato
l’orribile realtà. Due parole mi rimbombarono nel
cranio.
Mai
più.
Delle figure nere si avvicinarono al mio campo visivo:
Urgali.
Urgali?
Che ci facevano gli Urgali insieme ad uno
stregone del re?
Beh, non avevo il tempo di rifletterci
troppo.
Imprecai sonoramente nella loro direzione e corsi nel
fitto della foresta con tutta la velocità che il peso della
pietra
al mio fianco mi consentiva. Sfilai la bisaccia da tracolla,
tenendola con una mano sola per liberarmi del suo intralcio.
Mai
più.
Colsi un bagliore lontano, la foresta stava andando a
fuoco. Mi bastò fare due più due per capire che
non erano
sicuramente fiamme naturali.
Solo un mago molto potente avrebbe
potuto fare una cosa simile, anzi, a giudicare dalla portata
dell’incantesimo poteva trattarsi del re in persona.
Spalancai
gli occhi, atterrita da quel pensiero, che mi affrettai a respingere
con tutte le mie forze.
Ben presto sentii il fiato puzzolente dei
mostri cornuti soffiarmi sul collo. Mi voltai di scatto, snudando la
spada con una mossa fulminea, e la conficcai fino all’elsa
nel
torace dell’Urgali appena dietro di me. Solo
nell’atto dello
sfilarla mi resi conto che i miei inseguitori erano così
vicini che
ne avevo uccisi due in un colpo solo. Tagliai la gola al terzo ancor
prima che potesse riprendersi dalla sorpresa.
La loro vista
scatenò in me rabbia e il desiderio di distruggerli, pezzo
per
pezzo.
Una delle loro maledette frecce aveva ucciso Fäolin.
Una
delle loro maledette frecce mi aveva privata di metà del mio
cuore.
Sputai sui cadaveri e mi affrettai a proseguire la mia
fuga
Notai uno sperone di granito dominare sul bosco e mi ci
indirizzai alla ricerca di un posto in cui nascondermi e portare in
salvo ciò per cui i miei compagni avevano dato la vita.
Ero quasi
arrivata quando una figura nera atterrò agilmente davanti a
me, come
piovuta dal cielo. Riuscii a capire che non si trattava di un Urgali
-la corporatura e i capelli rossi che gli coprivano il viso lo
identificavano come un essere umano- prima di voltarmi e dirigermi
nuovamente sul sentiero.
Forse quello era il capo della
spedizione. Ma com’era possibile che gli Urgali lavorassero
per gli
uomini del re? Era lui che aveva dato ordine di tirare sui miei
compagni? Per colpa sua Fäolin era..
Il filo dei miei pensieri
venne interrotto all’improvviso. La mia fuga verso lo sperone
era
stata la mia trappola. I mostri mi avevano raggiunta. Mi guardai
intorno un’ultima volta, cercando disperatamente una via di
fuga
che non c’era. Maledissi tutti gli dei umani e del popolo dei
nani
che mi venivano in mente ma poi realizzai che non avrebbe aiutato a
rimediare alla mia stupidità.
Ispirai profondamente e tornai a
concentrarmi sull’uomo, le membra distese in una calma che
non era
mia.
Volevo vedere in viso l’assassino del mio amato.
Seguii
il profilo di un corpo snello ma muscoloso, un guerriero
probabilmente, fino alle ampie spalle dell’uomo, per poi
giungere
infine al suo volto.
Non riuscii ad impedire ad un fremito di
orrore di squassarmi il corpo.
Di fronte a me, un ghigno
compiaciuto a scoprire i denti aguzzi, c’era uno Spettro. Gli
Spettri erano i flagelli di Alagaësia, lo sapevo, me lo
avevano
sempre detto. Insieme al fatto che, se mi fosse mai capitato di
incontrarne uno, difficilmente sarei andata a raccontarlo in giro
Mi
sentii piccola e indifesa sotto lo sguardo di sufficienza dei suoi
occhi cremisi.
«Prendetela» ordinò con un tono quasi
annoiato.
Non c’era più tempo. Fäolin era morto per
quella
missione e se fosse successo anche a me, beh sarei stata ben lieta di
seguirlo.
Brom.. era nascosto in un paese su quelle
montagne!
Estrassi rapidamente la pietra dalla bisaccia e,
alzatala sopra la testa, bisbigliai frenetica le parole che
l’avrebbero portata lontano da lì, al sicuro.
Probabilmente lo
sforzo della magia mi avrebbe uccisa, ma ormai non era più
importante. Fissai spavalda le pozze di sangue che lo Spettro
nascondeva tra le ciglia.
Se io dovevo fallire, allora lo avrebbe
fatto anche lui.
I suoi lineamenti si deformarono in una maschera
di stupore e disperazione quando capì le mie intenzioni.
«Garjzla!»
gridò precipitosamente.
Sentii il peso dell’uovo sparire dalle
mie dita mentre un globo di fuoco mi raggiungeva fulmineo e mi
colpiva al petto. Il terreno mi venne incontro e caddi
sull’erba
bruciacchiata dalle fiamme fatue dello Spettro.
Forse ora ti
rivedrò Fäolin. Ma non volevo morire.
I miei occhi
rimasero incatenati un ultima volta ai tizzoni ardenti della creatura
maligna che mi aveva colpita.
Lessi l’Ira danzargli nelle iridi.
Un ultimo, beffardo, sorriso di sfida mi increspò le labbra.
Chi aveva vinto alla fine!?
Poi le palpebre mi si chiusero e
persi coscienza di me.
Creato su:
Rinmaru
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NdA: Il rito dell'unione dei cuori è una mia invenzione. Nei libri Paolini specifica che gli elfi non hanno un vero e proprio matrimonio perché effettivamente avrebbe un valore assurdo nella vita di un immortale, così mi sono permessa di aggiungere questa via di mezzo. |
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Capitolo 2 *** Durza ***
2.
Durza
Mi
sembrava di galleggiare, tutto intorno a me era privo di consistenza
e pensieri confusi facevano a pugni nella mia testa, tanto da darmi
l’emicrania.
Dove diamine sono finita?
D’un tratto
la sensazione di qualcosa di duro, umido e freddo sotto la mia
schiena mi catapultò nella realtà.
Aprii gli occhi, lentamente,
per poi tornarli a chiudere subito dopo, feriti da una luce alla
quale non ero pronta. Quando finalmente il bagliore non mi diede
più
fastidio, cominciai a prendere coscienza di me.
Ero distesa sul
terreno nudo e semi ghiacciato di un bosco, sopra di me un cielo che
prometteva neve si stagliava oscuro e opprimente, come solo una notte
invernale poteva renderlo. Voltai appena la testa a sinistra, per
individuare il fuoco che qualche istante prima mi aveva
accecata.
Nonostante il tepore che emanava, avevo freddo. E
continuavo a sentirmi confusa, come se una nebbia densa e vischiosa
avesse avvolto la mia coscienza.
Piano, piano presi consapevolezza
del mio corpo, ma quando feci per tirarmi a sedere mi bloccai. Non
potevo aiutarmi con le mani, legate dietro la schiena da una corda
grossa e ruvida.
E questo spiega il male a spalle e braccia.
Pensai.
Rotolai su un fianco e riuscii ad alzarmi. Ero tutta
indolenzita.
Ero in una minuscola radura, circondata da un bosco
che non era nemmeno lontanamente simile alla mia foresta.
Annaspai
alla disperata ricerca delle mie facoltà mentali, ma venni
interrotta dalla vista di un uomo che sedeva di fronte a me sul
tronco di un albero caduto, dall’altra parte del fuoco.
«Finalmente
ti sei svegliata», mormorò con voce vellutata.
Strinsi gli
occhi, mettendo a fuoco la sua figura, senza riuscire a capire chi
fosse e perché fosse lì.
Io ero in viaggio con Fäolin e
Glenwing. Perché in quel momento mi trovavo in compagnia di
un
perfetto sconosciuto, legata e con la sensazione che qualcosa non
andasse?
Mi gettai un’occhiata addosso: la bisaccia di cuoio in
cui custodivo la pietra era scomparsa, insieme alle mie armi. Un
attacco di panico mi si riversò addosso.
«Ti ho trovata a terra
nel bosco». La voce melliflua dell’uomo mi riscosse
nuovamente.
«Sei un’Elfa» specificò, come
se quello potesse spiegare perché
mi avesse legata.
Analizzai con attenzione lo sconosciuto davanti
a me. Non doveva avere più di venticinque primavere, secondo
il
tempo degli uomini e il suo viso non recava la minima traccia di
barba, doveva essersi rasato al più tardi qualche ora prima.
I
suoi piccoli occhi avevano un taglio leggermente allungato ed erano
dello stesso colore marrone scuro delle castagne nella stagione dei
venti. Mi scrutavano senza la minima vergogna, registrando ogni
singola variazione della mia espressione, quasi scavandomi dentro,
mettendomi a disagio e scatenandomi allo stesso tempo un brivido di
inquietudine sul cuoio capelluto.
Le sopracciglia folte e arcuate
gli davano un’aria ancora più inquisitoria, di un
rosso appena più
scuro dei capelli corti che gli ricadevano sulla fronte, resi
brillanti dalle fiamme del fuoco, ma sporchi di terriccio, ad
indicare che sicuramente non era la prima notte che dormiva
all’addiaccio.
Le labbra pallide e troppo sottili erano
sollevate leggermente da un lato in un sorrisetto che di rassicurante
non aveva nulla e si sposavano alla perfezione con il viso ovale, con
un naso aquilino ad evidenziare ulteriormente il suo taglio da
rapace.
La pelle resa giallastra dal riflesso del fuoco aveva
qualcosa di profondamente inquietante, quasi si trattasse di un morto
ritornato dalle ombre.
Nel complesso aveva un’aria pericolosa e
sfuggente, tanto che non ero ancora riuscita a decidere se fosse un
semplice umano o no, nonostante parlasse la loro lingua senza
inflessioni e le orecchie che i capelli lasciavano scoperte fossero
inequivocabilmente rotonde.
«Non voglio farti alcun male, voglio
solo che tu te ne vada senza uccidermi» disse ancora.
Tirai un
impercettibile sospiro di sollievo. Era un umano, senza dubbio, solo
loro avevano la stupidità di credere gli elfi creature
malvagie che
traevano piacere nell’uccidere intere popolazioni avvelenando
le
fonti, spalmando unguenti infetti sulle porte delle loro case e
rapendo i bambini in fasce per sostituirli con sosia che non erano
altro che incarnazioni dei demoni. Sciocche superstizioni.
«Che
cosa mi è successo?» mi informai cautamente.
Le labbra sottili
si schiusero in un sorriso, scoprendo denti dritti e bianchi, segno
che il loro proprietario se ne prendeva cura almeno una volta al
giorno con impasti di erbe e foglie di salvia.
«Eri stesa a terra
in un bosco poco distante da qui, intorno a te c’erano delle
impronte di zoccoli di cavalli e di Urgali. Devi essere stata
attaccata da loro».
Come se le mie memorie venissero da un sogno,
ricordai l’improvviso fetore di carne rancida che mi era
giunto
alle narici e il nugolo di frecce nere che aveva riempito
l’aria.
«Non c’era nessuno con me?»
Dov’erano finiti i
miei compagni?
Scosse la testa lentamente. «Eri sola. E stringevi
questa tra le dita». Sollevò da accanto a
sé la mia bisaccia di
cuoio, visibilmente vuota.
Il mio cuore fece una capriola, mentre
una corazza di lucida logica prendeva il posto del panico che mi
aveva stretta fino a quel momento.
Probabilmente una banda di
Urgali aveva attaccato me e la mia scorta, costringendo Fäolin
e
Glenwing ad abbandonarmi nel bosco dopo essere stata disarcionata. E
i miei compari dovevano aver preso la pietra con loro.
C’erano
solo un paio di cose che non tornavano.
Perché gli Urgali si
trovavano così in profondità nel territorio
dell’impero? Perché
erano riusciti a coglierci alla sprovvista e addirittura batterci?
Perché non mi avevano uccisa per conquistare gloria presso
la loro
tribù? Perché Fäolin non era tornato
indietro a cercarmi, come mi
aspettavo avrebbe fatto? Perché se cercavo di fare chiarezza
nella
mia mente vedevo solo.. fiamme? Una foresta in fiamme.
E rosso,
un colore che mi avvolgeva fino a soffocarmi.
Cielo rosso. Alberi
rossi. Occhi rossi. Capelli rossi.
Annusai con discrezione i miei
vestiti, constatando che erano impregnati dell’odore acre del
fumo.
L’uomo non mi stava dicendo tutta la verità.
Feci per usare i
miei poteri e liberarmi della corda, ma mi accorsi con un certo
orrore che non ricordavo la mia lingua madre. Più cercavo di
arraffare una semplice parola che potesse formare un incantesimo,
più
quella pareva fuggire.
«Perché non mi liberi?» domandai
candidamente, accennando un sorriso melenso. Avevo bisogno di
guadagnarmi la fiducia di quello sconosciuto, prima che capisse quale
fosse lo stato di confusione che albergava nella mia mente e ne
approfittasse per vendermi a qualcuno degli uomini imperiali.
Abbassò
la mano che stringeva la bisaccia. «Avevi una pietra con te o
sbaglio?»
Mi irrigidii immediatamente.
«Vedi, mi basta sapere
dove hai mandato quella pietra e ti lascerò andare per la
tua
strada, non ho alcun interesse a trattenerti qui».
«Non so di
cosa tu stia parlando» replicai tranquillamente, sopprimendo
la mia
ansia sotto una fredda maschera di indifferenza.
«Oh io credo di
sì invece» rispose senza esitazione.
Tormentai le corde che mi
legavano i polsi, ma mi resi conto di essere troppo debole per poter
anche solo sperare di scioglierle. E che l’uomo di fronte a
me non
era certamente uno sprovveduto, e tanto meno un amico. Doveva avermi
drogata.
«Non ci riuscirai» mi informò, notando i
miei
movimenti. «La pietra, Elfa. Voglio solo quella
stramaledettissima
pietra e poi potrai tornartene nella tua foresta».
Gli occhi
castani furono oscurati da un lampo di impazienza e seppi con
assoluta certezza che si trattava di un fedele all’impero.
Di
fronte al mio mutismo, parve perdere l’atteggiamento
rilassato che
lo aveva accompagnato fino a quel momento. Si alzò agilmente
in
piedi e girò intorno al fuoco, estraendo un pugnale lungo
quanto il
mio avambraccio dal mantello nero e avvicinandosi a me.
Dovetti
fare uno sforzo per rimanere immobile e impassibile mentre si
inginocchiava di fronte a me, portando il viso a una spanna dal mio,
puntandomi nuovamente addosso i suoi occhi penetranti. La parte del
viso che non era illuminata dalle fiamme pareva così pallida
da
essere trasparente. Sentii che c’era qualcosa di sbagliato in
lui,
di oscuro.
«Parla».
Un forte odore, acuto e pungente mi
soffiò addosso. Sembrava menta selvatica.
Quell’odore ebbe il
potere di spazzare via la nebbia che mi oscurava il cervello e i
ricordi dell’imboscata tornarono, con vivida e dolorosa
chiarezza.
Lui era uno Spettro. Gli Urgali avevano
attaccato perché lui lo aveva ordinato.
Ero a terra perché
lui mi aveva colpita non appena avevo tentato di
mettere in
salvo la pietra di zaffiro. Fäolin e Glenwing non erano con me
perché lui aveva stregato le frecce nere
affinché potessero
superare con tranquillità le nostre protezioni. E li aveva
uccisi. I
miei compagni di viaggio non esistevano più.
Una bestia feroce si
scatenò dentro di me, donandomi una scarica di energia
incredibile.
Con un movimento brusco, mi sporsi in avanti per dargli una testata
nello stomaco, ma lo Spettro mi afferrò prontamente per le
spalle.
«Peccato» disse, ghignando, «temo che
l’armistizio
finisca qui».
Sotto i miei occhi, vidi le sue iridi diventare
dello stesso colore rosso e denso del sangue, le pupille si fecero
leggermente verticali, come quelle di un felino, ed erano da felino i
denti appuntiti che fecero capolino dalle labbra sottili e
crudeli.
Uno Spettro. Ero nelle mani di uno Spettro.
Un lieve
tremore tradì l’orrore che si era impossessato di
me.
Ero stata
ampiamente istruita sulle creature malefiche -sia quelle estinte, sia
quelle esistenti- dalle quali avrei dovuto starmene ben lontana se
tenevo alla mia vita. E sapevo con esattezza che, in tutta la storia
di Alagaësia, solo
Laetri
l’elfo e Irnstad il cavaliere erano riusciti a
sconfiggere
uno Spettro, accompagnati ovviamente da una buona dose di fortuna,
oltre che di indiscussa abilità. Erano creature malefiche e
potenti,
abili maghi e combattenti capaci. Fino a che uno Spettro calpestava
il suolo di quel regno, non poteva esservi pace, dato che era
risaputo che praticassero le forme più sacrileghe e oscure
della
magia, aiutati dagli Spiriti che abitavano nei loro corpi.
Una
risatina fredda e secca riempì la radura deserta. Mi si
accapponò
la pelle.
«Non devi avere paura di me» sillabò lo
Spettro con
il suo ghigno raccapricciante. «Non ti farò nulla,
se sarai
disposta a collaborare».
Il mio pensiero scivolò a Glenwing e
Fäolin e per un attimo mi parve di poter precipitare nel vuoto
di
dolore che riempiva la loro memoria. Non dovevo pensarci. Non ancora.
Non fino a che avrei dovuto tentare di tenere testa a quel mostro.
Dopo ci sarebbe stato il tempo di strapparsi i capelli e rigarsi il
viso di lacrime, forse.
«Non mi fai paura» ringhiai
orgogliosa.
Sbuffò. «L’arroganza non ti
sarà amica. Voglio
solo sapere dove hai mandato quella pietra».
Accennò un sorrisetto
di chi la sa lunga. «E tu vuoi solo tornartene a casa. Dimmi
quello
che voglio sapere e io ti lascerò andare. Ora. Senza altri
indugi.
Potrai tornare in pace nel tuo regno. Hai la mia parola che non ti
ostacolerò in nessun modo».
Detta così sembrava tutto così
semplice. Forse credeva che fossi una stupida sprovveduta.
Beh,
non lo ero.
Sapevo perfettamente fino a quanto potesse valere la
parola di una creatura del male. E per essere precisi era zero. Non
ero così folle da credergli, non così smarrita da
mettergli tra le
mani tutto ciò per cui avevo sempre combattuto. Dirgli
ciò che
voleva sapere significava condannare a morte il mio popolo e tutta
l’organizzazione ribelle dei Varden, significava sputare in
faccia
al sacrificio di Fäolin e Glenwing. Loro avevano dato la vita
per
prolungare la mia, per permettermi di portare a termine la missione.
E se lo Spettro chiedeva con tale insistenza dove avessi mandato
la pietra significava che non aveva la minima idea di dove potessi
averla materializzata e che il mio incantesimo era riuscito alla
perfezione, nonostante la foga del momento. Probabilmente in quel
momento l’uovo era al sicuro nelle mani di Brom e
l’unica cosa
che mi rimaneva da fare era tenere il silenzio fino a che lo Spettro
non mi avesse uccisa.
E a giudicare dall’espressione furente che
gli deformò i lineamenti non appena alzai il mento, non mi
avrebbe
fatta attendere a lungo.
Sussultai quando la parte piatta della
lama gelida del pugnale mi sfiorò il collo.
«Rilassati»
sussurrò lo Spettro con voce suadente e pericolosa, che ebbe
l’effetto di inquietarmi ancora di più.
«Ti sei appena guadagnata
un soggiorno a Gil’ead. Sarai mia ospite per..»
interruppe la
frase, schioccando la lingua contro i denti «..diciamo a
tempo
indeterminato» concluse maligno.
Mi fissò ancora, osservando
ogni mia mossa, ogni mia espressione, probabilmente alla ricerca di
una crepa nella maschera di granito che sapevo di poter impostare al
mio volto. Nonostante tutto fui colta da un’incalzante
inquietudine
e mi affrettai a controllare che le mie barriere mentali fossero ben
salde al loro posto.
«Qual è il tuo nome?» c’era
una sorta di
velata minaccia nella sua domanda.
Serrai le labbra, sfuggendo al
suo sguardo cremisi.
Il suo fiato caldo sulla fronte mi annunciò
che si era ulteriormente chinato su di me. La sua vicinanza mi mise a
disagio in maniera indicibile, ma rimasi impassibile.
Accennò un
sorriso. «Avremo modo di fare lunghe chiacchierate una volta
giunti
nella mia città. E ti assicuro che parlerai, Elfa. Oh se
parlerai».
Tese una mano verso di me e io dovetti fare uno sforzo
immane per non ritrarmi e rimanere immobile come una statua di sale.
Le sue dita bianche mi sfiorarono una guancia, lasciando una scia
fredda lungo la mia pelle già gelata, scivolando poi sul
collo e
accarezzando lievi il profilo del petto.
Fremetti violentemente,
incapace di controllarmi.
«Io sono Durza» disse carezzevole.
Il
suo tocco mi stava gelando le ossa, e non per la temperatura della
sua pelle.
«Ricorda questo nome, avrai paura sentendolo
pronunciare».
A quel punto mi ritrassi. Lo Spettro sorrise.
«Slytha» mormorò.
Ed io caddi in un sonno profondo.
Una
sensazione di gelo al viso mi costrinse ad aprire gli occhi. Vidi una
figura indistinta china su di me.
«Fäolin» sussurrai.
Impiegai
meno di un istante prima di comprendere il mio errore.
I
lineamenti affilati dello Spettro presero contorno, ricordandomi in
quale terribile guaio mi fossi cacciata.
Mi fissò annoiato. «Uno
dei tuoi compari? Sono morti entrambi, Elfa» mi
informò seccamente.
«E le mie fiamme avranno bruciato i loro corpi».
Mi sedetti,
lanciandogli un’occhiata di puro odio.
Stava nevicando, e i
fiocchi ghiacciati lambivano la mia pelle, facendomi rabbrividire dal
freddo.
«Alzati» ordinò, «voglio
raggiungere Gil’ead prima
che la neve ci blocchi il passo».
Raccolsi rapidamente le mie
idee, ricordando in un lampo i fatti dell’imboscata e
cacciando
conseguentemente il dolore che mi legava a quei ricordi, per passare
poi alla conversazione della sera precedente. Sbirciai lo Spettro da
sotto le ciglia.
Sapevo chi era. Chi, tra ribelli non era a
conoscenza dell’identità di Durza lo Spettro,
luogotenente del re
Galbatorix in persona, fautore di incredibili massacri e sofferenze,
spietato ai limiti del possibile. E anche se per caso non lo si
avesse mai sentito nominare era impossibile stare per più di
un
quarto di clessidra in compagnia di Ajihad senza che nominasse il suo
famoso duello con Durza, dal quale era uscito non propriamente
incolume, ma vivo. E già quello era un evento straordinario.
Con
un’altra occhiata constatai che il fodero nero di una spada
lunga e
sottile pendeva dal fianco dello Spettro, seminascosto dal mantello
nero, sotto il quale si intravedevano pantaloni neri, una giubba nera
e stivali neri.
Durza aveva detto che mi avrebbe portata con sé a
Gil’ead. Voleva forse consegnarmi al suo re? Se quello era il
mio
destino tanto valeva ammazzarmi subito ed evitare almeno che
Galbatorix riuscisse a carpire da me informazioni che sarebbero state
disastrose nelle mani sbagliate.
Ma forse lo Spettro aveva solo
intenzione di torturarmi per qualche giorno, fino ad arrendersi
all’evidenza che non avrei parlato e mi avrebbe poi spedita
nelle
ombre.
«Sappi che non amo ripetermi». Una voce ben
più gelida
della neve che cadeva mi riscosse.
Il mio rapitore era in piedi a
pochi passi da me, e teneva per le redini un cavallo grigio nebbia,
striato di nero.
Mi alzai, nonostante le mani legate, con una
certa agilità.
«Sali» comandò con un ghigno.
Guardai
l’immenso cavallo. Mi sarei dovuta letteralmente arrampicare
su
quell’animale gigantesco, e ovviamente non potevo neppure
pensare
lontanamente di farlo con le mani impegnate. E lui lo sapeva. Quella
messa in scena aveva il solo scopo di umiliarmi.
«Dovrò
aiutarti».
Le sue mani si strinsero sicure sulla mia vita, le
sentii fredde attraverso i vestiti. Mi issò in sella con una
facilità incredibile, quasi non fossi altro che una bambola
di
pezza.
Montò rapido dietro di me e strinse le redini, passando le
braccia intorno al mio corpo.
La sua vicinanza e il fatto di non
poterlo vedere in viso mi provocavano una certa inquietudine. Non si
danno le spalle al nemico, mai. Ero rigida come un manico di scopa, e
lui parve notarlo.
«Come avrai intuito, mi servi viva, Elfa»
disse ridacchiando in maniera snervante. «Quindi non ti
ucciderò
nell’immediato futuro, e di questo puoi esserne
certa».
Spronò
il cavallo e l’animale partì al trotto, la mia
spada e il mio arco
che penzolavano dalle bisacce legate alla sella. Mi dispiacqui
nuovamente di non riuscire ad usare la mia magia.
Mentre il
paesaggio scorreva rapido di fianco a me, mi permisi di dedicare i
miei pensieri a un modo alternativo per sfuggire a quella situazione,
conscia che sarebbe stato difficile, ai limiti del possibile.
Ma
non dovevo farmi prendere dal panico. Dovevo rimanere il più
lucida
e fredda possibile.
Ad Ellesméra ero stata per anni allieva di
Oromis e Glaedr. Non che avessi ricevuto una vera e propria
formazione da cavaliere -dato che il mio compito mi imponeva di
viaggiare spesso e i cavalieri avevano segreti che nessuno al di
fuori dell’ordine sapeva, la cosa non era possibile- ma i due
si
erano impegnati ad insegnarmi qualche trucchetto dietro insistenza di
mia madre. Del resto ero la prima Elfa che si sarebbe avventurata
fuori dalla foresta da anni. E con il re in circolazione non si era
mai troppo sicuri. Se avevo imparato una cosa da loro, era che ogni
situazione andava analizzata da ogni punto di vista per poter trovare
una soluzione.
Sapevo che ad Osilon si aspettavano di
vedere arrivare me e i miei compagni la sera stessa in cui eravamo
caduti nell’imboscata. Quanto era passato da allora? Non lo
sapevo,
potevo essere rimasta incosciente per ore, come per giorni.
C’era
una sottile, lontana possibilità che la guarnigione fissa
della
città decidesse di mandare qualcuno a cercarci, magari
preoccupati
per il nostro eccessivo ritardo. Se avessero trovato i resti
dell’incendio e.. Deglutii. E i corpi di Fäolin e
Glenwing,
avrebbero capito che c’era qualcosa che non andava e, notando
la
mia assenza e quella della pietra, mi avrebbero cercata in lungo e in
largo.
Dovevo trovare un modo per rallentare Durza.
La mano
destra dello Spettro in questione si staccò dalle briglie,
per
insinuarsi tra i mie capelli e afferrare la punta del mio orecchio.
Le sue dita erano gelate, avrei voluto suggerirgli dei guanti contro
il freddo.
«Mi sembra corretto offrirti un’ultima
possibilità»
disse con voce alta e chiara, che sentii distintamente sopra lo
scalpiccio degli zoccoli e il fruscio dell’aria che stavamo
tagliando. «Decidi ora se ti senti più disposta a
collaborare. La
pietra per la tua vita, mi pare uno scambio equo».
Scrollai
rabbiosamente il capo, togliendo la presa delle sue dita.
«No,
non lo è» replicai ostentando calma.
Con un movimento brusco, lo
Spettro mi artigliò la spalla. «Non prenderti
gioco di me, piccola
Elfa. Perché io non sto affatto scherzando».
Rimasi immobile e
impassibile come una statua di granito. Ma in cuor mio pensai che
Durza aveva l’aria di uno che non parla a vanvera.
«Sai a
Gil’ead c’è una magnifica prigione, ti
piacerà» sibilò lo
Spettro. «E questa pelle di velluto..»
sfiorò appena il mio collo
con l’indice «..ha mai sentito che sensazione da un
ferro rovente
addosso?»
Serrai le labbra e mi scostai di lato, sfuggendo al
fastidio del suo tocco. Mi sembrava che se mi avesse sfiorata per un
altro istante, una parte di me sarebbe inesorabilmente marcita.
«Sei
proprio una stupida» decretò, tornando a posare la
mano sulle
briglie.
Lo ignorai, cercando nuovamente di richiamare alla mente
le parole nell’antica lingua, invano.
Bene. La magia era fuori
gioco.
Rimanevo solo io.
Agii senza nemmeno riflettere troppo
su dove mi avrebbero portato le mie azioni.
Sciolsi le membra e mi
afflosciai sulla sella, cogliendo Durza di sorpresa, tanto che non
poté impedirmi di scivolare sotto le sue braccia e cadere
dal
cavallo. Rotolai sul terreno reso fangoso dagli acquosi fiocchi di
neve che ancora cadevano, rannicchiandomi su me stessa per evitare
danni.
Gli zoccoli dell’animale rasparono nel terreno e il tonfo
di un paio di stivali mi annunciò che lo Spettro mi avrebbe
raggiunta in pochi istanti.
Chiusi gli occhi e mi concentrai,
rilassando il respiro e le membra, fingendomi svenuta.
«Come sei
ingenua, piccola Elfa» sussurrò Durza nel silenzio
ovattato. «Con
me ogni finzione è inutile. Non ti hanno mai insegnato le
regole di
un bravo guerriero? Quando la situazione è inesorabilmente
fuori
controllo, bisogna arrendersi».
I suoi passi frusciarono
lenti e decisi nella mia direzione. Rimanere immobile mi
costò uno
sforzo che non credevo possibile.
«Anche adesso» continuò lui
con la sua voce melliflua, «sento che hai paura».
Controllai le
mie barriere mentali. Salde e intaccate al loro posto. Come riusciva
a capire che la mia fosse solo finzione e addirittura ad intuire i
miei sentimenti?
Il suono del suo respiro mi fece capire che era
praticamente accanto a me.
Aprii gli occhi e mi alzai di scatto,
assestandogli una gomitata alla tempia e rendendomi conto solo in
quel momento di quanto incredibilmente alto fosse, anche per i canoni
elfici.
Lo Spettro ringhiò qualcosa, ma non volevo restare
lì ad
informarmi se si fosse offeso o meno. Schizzai immediatamente in
direzione del cavallo che Durza aveva abbandonato poco più
avanti
sul sentiero, scapolando con le braccia e portandomi le mani legate
davanti a me.
Avevo appena allungato le mani verso la spada che
pendeva dalla bisaccia legata alla sella, quando un braccio forte mi
cinse la vita, spingendomi a terra.
Rotolai nel fango avvinghiata
allo Spettro, dando e ricevendo pugni e calci in egual misura. Uno
scricchiolio agghiacciante e un dolore sordo al viso mi annunciarono
che probabilmente mi aveva slogato la mascella. Un istante dopo
offrii la schiena al suolo gelido, le mani di Durza premute con forza
sulle mie spalle, a tenermi ferma. Notai con una certa soddisfazione
che gli sanguinava il naso. Era abbastanza umano da avere sangue
nelle vene, almeno.
In un impeto di coraggio gli sputai in
faccia.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio. «Non provarci
mai
più». La sua voce risuonava di un sottile sibilo.
Alzai gli
occhi sul suo viso e la sua espressione irata mi fece tremare. Ma
più
di tutto furono i suoi occhi a sconvolgermi. Così rossi,
così
profondamente intrisi di odio. Mi fecero desiderare di non essere mai
nata, di poter morire. Subito. Di non dover passare un solo istante
in più a fissarli.
Mi divincolai nell’inutile tentativo di
liberarmi dalla sua presa.
Ero debole.
Ero impotente come una
formica nelle mani di un bambino.
«Mi troveranno» ringhiai. «Ti
taglieranno la strada Spettro. Portami pure a Gil’ead. Non ci
arriveremo mai, altre guardie elfiche ti attendono su quella strada e
non potrai coglierle con l’inganno come hai già
fatto. Dovrai
combattere. E sarai sconfitto».
Mentivo, mentivo spudoratamente.
Speravo solo che mi avrebbe creduta e che per prudenza avrebbe deciso
di aspettare nel bosco un altro giorno o due, giusto il tempo
necessario alla vera guarnigione per arrivare.
Se la cosa lo
impressionò o lo spaventò come avrei voluto
facesse, non lo diede a
vedere.
«Credo che sia la frase più lunga che un elfo
abbia mai
detto dalla nascita di Alagaësia» si
limitò a dire, con palese
sarcasmo.
Furiosa, tornai a divincolarmi con tutte le mie
forze.
«Buona» sussurrò minacciosamente.
«Stai buona».
Mi
addormentò nuovamente.
La testa mi pulsava dolorosamente e,
quando aprii gli occhi, vidi per un attimo tutto nero.
La mascella
scricchiolò sinistramente quando aprii la bocca, ma non
sembrava
rotta. Si era trattato di un innocuo pestaggio.
«Vi facevo più
temprati voi Elfi, e più intelligenti».
La voce dello Spettro
vibrava d’ira. Mi alzai a sedere e lo vidi seduto a poche
iarde di
distanza da me, un fuocherello brillava alla sua sinistra.
Solo
allora mi accorsi che non ci eravamo mossi. Non sapevo quanto tempo
fosse passato da quando mi aveva addormentata, ma doveva trattarsi di
ore dato che la luce stava rapidamente scemando nel tramonto.
Mi
concessi un istante per lanciare un interiore grido di
vittoria.
C’ero riuscita! Ero riuscita a rallentare la marcia.
Dovevo solo sperare che i soccorsi in cui avevo riposto tutte le mie
speranze arrivassero il prima possibile.
Lo Spettro corrugò la
fronte, scrutandomi con intensità, al punto di farmi
rabbrividire.
Sembrava che mi stesse leggendo dentro. Istintivamente, rafforzai le
barriere della mia mente.
«Come mai tanto trionfo Elfa?»
Rimasi
sconvolta alla sua domanda, posta con aria quasi noncurante, quasi
avesse domandato perché avevo messo un abito giallo invece
di uno
verde.
Ero convinta di essere rimasta impassibile, a quanto pare
mi era sfuggita un’espressione.
Non può riuscire a leggermi
la mente nonostante le mie difese, o a questo punto avrebbe
già tra
le mani tutte le informazioni che gli servono.
Rassicurata dal
pensiero sciolsi la tensione dei muscoli.
Un sordo brontolio ruppe
il silenzio della notte.
Era il mio stomaco. Non ricordavo quale
fosse stata l’ultima volta che avevo mangiato.
Durza scoppiò in
una risata stridula che mi fece quasi sobbalzare.
«Se non mi
avessi rallentato a quest’ora saremmo già arrivati
a Gil’ead»
mi informò beffardo, «e tu avresti potuto mangiare
qualcosa».
Non
reagii in alcun modo.
«Comincio a chiedermi se tu non sia
diventata muta».
Ancora non risposi.
«Vedrai che presto
parlerai». Suonò molto come una minaccia.
Lo Spettro sussurrò
alcune parole nell'antica lingua, che faticai a capire ma non riuscii
a memorizzare, e subito dopo un evanescente cerchio di nebbia nera si
avvolse intorno a noi.
«Prova a superarlo Elfa» mi lanciò uno
sguardo di sfida, «e spererai di non essere mai
nata».
Detto
quello si avvolse in una coperta, me ne lanciò
un’altra e si stese
accanto al fuoco. Pochi minuti dopo il suo respiro era regolare.
Dormiva.
Imprudente, molto imprudente. Con un ghigno che avrebbe
fatto strappare i capelli ad ogni elfo ben educato che c’era
alla
corte di mia madre, strisciai lentamente verso di lui.
Mi aveva
sottovalutata. Peccato, non si sarebbe più svegliato.
Mi
acquattai a terra a una spanna di distanza dallo Spettro e osservai
con attenzione il suo viso. Ingannevolmente giovane e liscio come
quello di un elfo, solcato da occhiaie scure sotto gli occhi, chiaro
segno di quanto a lungo si fosse negato il riposo. I lineamenti da
falco erano contratti in un’espressione seria, che gli
conferiva
un’aria malvagia anche mentre dormiva.
E a proposito di dormire.
Restai una buona mezzora immobile accanto a lui, per accertarmi che
non stesse fingendo e non ebbi motivo di pensare il contrario.
Non
pensavo che avesse un lato così umano da
ridursi ad
addormentarsi. Avevo sempre visto gli Spettri come creature
demoniache nate per la morte e la distruzione, sostenute dalla sola
forza degli spiriti che li comandavano; non mi era mai venuto in
mente che anche loro avessero delle esigenze così banali
quali il
dormire e il mangiare.
Gettai un ultimo sguardo all’inquietante
barriera nera che circondava il piccolo bivacco e sospirai piano. Ero
convinta che Durza non mi avesse minacciata a vuoto, e quindi cercare
di scappare attraverso la cupola nerastra era da escludere.
Cercai
nuovamente di usare i miei poteri, ma mi rispose il nulla.
Probabilmente mi aveva drogata ancora, dopo avermi addormentata.
Le
mie armi erano assicurate alle bisacce del cavallo, che
sfortunatamente era placidamente legato ad un albero fuori dal
cerchio magico.
Per l’ennesima volta, mi dissi che sarei bastata
io.
Con movimenti estremamente lenti e misurati, mi spostai dietro
la testa dello Spettro. Quando allungai le mani davanti a me notai
con una smorfia che la grossa corda ruvida, strettamente serrata sui
polsi, mi aveva procurato delle piaghe sulla pelle. Ma per il freddo
o per altro, non sentivo dolore.
Tornai a concentrarmi sul mio
nemico.
Poteva morire solo se colpito al cuore, ma io non avevo
nulla che potesse aiutarmi in una simile impresa.
Lo avrei
soffocato a mani nude. Non sarebbe morto definitivamente, ma sarebbe
scomparso per qualche tempo e almeno io sarei stata libera, confidavo
che la barriera nera sarebbe scomparsa con lui.
Senza ulteriori
esitazioni calai sulla sua gola scoperta..
..e mi sentii afferrare
la mani da delle lunghe e forti dita gelide.
«Non dormi Elfa?»
domandò schiudendo gli occhi cremisi con un sorriso di
scherno.
Mi
dibattei dalla sua presa, scalciando nel tentativo di colpirlo alla
testa.
Si alzò in piedi con rapidità inumana, tirandomi
su con
lui e girandomi di spalle. Mi incrociò le mani sul petto,
continuando a stringermi contro di sé, con una forza tale
che
faticai a riempire i polmoni d’aria.
Sentii il suo fiato
all’orecchio. «Non sono nato ieri»
mormorò.
Mi lasciò andare
di scatto. Impreparata, scivolai a terra.
Durza si chinò
lievemente su di me con un’espressione affabile.
«Credevo di
essermi divertito abbastanza a giocare con te, per oggi. Ma mi pare
che tu non sia dello stesso avviso».
Farfugliò qualche parola
nell'antica lingua e i capelli mi si rizzarono sulla
nuca.
Un’improvvisa scarica elettrica mi attraversò il
corpo.
Era come se qualcosa mi stesse strappando la carne a morsi,
distorcendo i legamenti, maciullando le ossa. Era un dolore
indicibile, che mai in vita mia avevo provato. Serrai con forza le
palpebre cercando di ritrovare un minimo di lucidità in
quella
marea di sofferenza.
Il male sparì, rapido così com’era
venuto.
Sentii in bocca uno strano sapore ferroso. Mi toccai il
labbro e ritrassi le dita sporche di un liquido caldo. Mi ero morsa
le labbra a sangue, per non urlare.
«Questo era solo un ennesimo
avvertimento» ringhiò lo Spettro. Aprì
la bocca per aggiungere
qualcos’altro ma poi la sigillò un istante dopo.
Socchiuse gli
occhi e inclinò appena il capo.
Stava ascoltando qualcosa.
Mi
concentrai a mia volta sui suoni che mi circondavano e non potei non
trarre un respiro di sollievo. Il rumore di zoccoli sul terreno
schioccava in lontananza, mischiato a voci argentine di indubbia
provenienza. Elfi.
Stavano venendo a prendermi. Ero salva.
Mi
resi conto che lo Spettro mi aveva sollevata da terra solo quando mi
ritrovai adagiata sulla sua spalla come un sacco di patate.
Strillai
come un’ossessa, contorcendomi per liberarmi dalla presa.
«Bastarda
di un’Elfa!» imprecò il mio rapitore.
«Sei stata furba, ma non
ti salveranno stanne certa».
Mosse la mano di fronte al mio viso
e la voce mi si serrò in gola, secondo l’effetto
della sua magia.
Non aveva pronunciato alcuna parola di potere, ma forse era
più
facile usare direttamente le proprie abilità magiche senza
doverle
legare a delle frasi quando si aveva uno, o forse più di
uno,
spirito dentro di sé. Quelle creature erano fatte di pura
magia.
Una
sensazione di disgusto mi serrò lo stomaco, che unita a
quella di
panico, non mi aiutò certamente a riprendere il controllo
della
situazione.
Durza correva rapidamente tra gli alberi spogli,
tirandosi dietro il cavallo e tenendomi saldamente stretta sulla sua
spalla. Nel buio totale e avvolgente della notte, io vedevo a
malapena i contorni degli alberi e del terreno, mentre lui avanzava
con sicurezza. Mi chiesi se gli occhi da gatto non avessero un altro
scopo altre a quello di rendere uno Spettro spaventoso.
Durza si
allontanò dal sentiero, inoltrandosi sempre di
più nel sottobosco,
fino a giungere ad una piccola grotta, spingerci dentro il cavallo e
sbattermi con violenza contro la parete.
Per un attimo vidi tutto
rosso.
Poi avvertii la pressione di qualcosa di duro e gelido
contro la mia gola. Lo Spettro mi cingeva la vita con un braccio e
con una mano reggeva un pugnale, che mi teneva puntato contro. Notai
una strana incisione lungo la guardia, ma non riuscii a decifrare la
lingua in cui era scritta e non potevo chiedere delucidazioni. Che in
ogni caso sarebbero state fuori luogo.
«Stai tranquilla Elfa»
disse lo Spettro con voce bassa, «o giuro che non me ne
importa
nulla delle informazioni che potrei spremerti e ti ammazzo. E non
provare ad aprire la mente ai tuoi amici» mi prevenne,
«perché
allora dovrai abbassare le tue difese e io riuscirò a
penetrare i
tuoi segreti».
Deglutii faticosamente, dato il nodo che si era
serrato alla mia gola. Purtroppo la situazione era tutta a suo favore
e se anche avessi avuto la mia voce, non avrei mai potuto usarla.
Ma
ero speranzosa. Lo Spettro non sarebbe riuscito a farla franca,
c’era
un dettaglio di cui non era a conoscenza.
Io ero pur sempre Arya
Dröttningu, la figlia della regina.
Il mio popolo non avrebbe
condotto la ricerca tanto superficialmente, avrebbero battuto ogni
centimetro di Alagaësia, guardato sotto ogni albero, vicino ad
ogni
ruscello, in ogni singola casa o catapecchia.
In quel momento gli
elfi erano esattamente davanti a noi, riuscivo a vedere le figure
candide dei loro destrieri attraverso gli alberi scheletrici.
Fui
tentata di divincolarmi e scappare. Ma la lama dello Spettro premette
più forte, al punto da provocarmi un lieve taglio sul collo.
Un
minimo movimento e mi sarei uccisa da sola.
I cavalli si fermarono
e gli elfi si chiusero in cerchio, confabulando tra di
loro.
«Dividiamoci» propose uno di loro. «Il
suo corpo non era
con gli altri, forse è stata rapita dagli uomini del
re».
«Abbiamo
trovato i cadaveri di dodici Urgali, ma di uomini nessuna traccia.
Sono stati attaccati dai mostri, non dai servi del re».
Dodici?
Ruotai gli occhi in direzione dello Spettro, che ostentava un
sorrisetto lieve sulle labbra sottili. Io avevo ucciso tre Urgali,
non mi ero mai chiesta che fine avessero fatto gli altri.
«Ormai
erano inutili» bisbigliò al mio orecchio,
allentando lievemente la
pressione della lama.
Il battito del mio cuore accelerò per la
tensione.
Tornai a concentrarmi sugli elfi, che stavano ancora
discutendo. «I custodi se la sarebbero cavata benissimo
contro una
banda di Urgali. No, probabilmente si trattava di
un’imboscata ad
opera di un gruppo di stregoni del re. Solo un fuoco magico poteva
provocare tutti quei danni alla foresta». Una sfumatura di
dolore
incrinò la voce dell’elfo. «Devono
essersi presi la pietra e
anche la nostra ambasciatrice».
«Ambasciatrice eh?» sottolineò
Durza, facendo scivolare la parte piatta della lama sul mio collo e
mantenendo salda la stretta del suo braccio intorno alla mia vita.
Ci
mancava solo che quei soldati dicessero che ero la figlia della
regina e per me era la fine..
Gli elfi pattugliarono con
attenzione la zona, pronunciando un incantesimo luminoso dopo
l’altro; uno di loro si affacciò addirittura nella
grotta, ma non
vi si inoltrò e non ci vide. Probabilmente perché
lo Spettro
continuava a bisbigliare complicati incantesimi per riflettere la
luce e renderci invisibili e per creare una barriera che
insonorizzasse l’area intorno a noi alle orecchie degli elfi,
così
che non sentissero i nostri respiri.
Le parole nell’antica
lingua che pronunciava mi entravano da un orecchio e uscivano
letteralmente dall’altro. Le capivo, ma erano
inafferrabili.
Continuai a sperare fino all’ultimo secondo che
qualcuno decidesse di sondare la grotta, ma era ormai ovvio che non
lo avrebbero fatto.
Più di mezzora dopo ero tutta irrigidita per
il freddo e la posizione scomoda, con la schiena premuta contro il
petto dello Spettro, le mani ancora legate dalla corda e la lama del
suo pugnale che continuava a scivolare minacciosa sulla mia pelle,
pronta ad affondare nella mia carne al mio minimo tentativo di
fuga.
Gli elfi si riunirono nuovamente in cerchio.
Quello che
pareva il capitano parlò. «Qui non
c’è nulla. È inutile
inoltrarci ulteriormente nel territorio dell’impero, sarebbe
rischioso. Recuperiamo i cadaveri di Fäolin e Glendwing,
meritano
una vera cerimonia funebre e una tumulazione decorosa».
«Dovremo
riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti
probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così
sicuro». Tirò le briglie del cavallo e lo
voltò. «Torniamo a casa
soldati!»
Poi se ne andarono nella direzione da dov’erano
venuti, spronando gli animali a tutta velocità.
Un macigno mi
scese sul petto. Ero perduta, abbandonata, sola.
Lo Spettro, alle
mie spalle, rise sommessamente.
Lo odiai con tutta me stessa. Gli
lanciai silenziosamente contro tutte le maledizioni che mi venivano
in mente, a raffica, e se avessero funzionato, sarebbe morto sul
colpo, senza bisogno di nessun coltello piantato nel cuore.
E
subito dopo la rabbia, seguì la stanchezza, e poi
l’impotenza.
Il
pugnale si allontanò dalla mia pelle, lo Spettro sciolse la
presa
d’intorno a me.
Era la mia ultima possibilità.
Gli sferrai
un calcio agli stinchi, ma lo schivò con assurda
rapidità. Allora
tentai di colpirlo in viso con entrambe le mani ancora legate, ma me
le bloccò a mezz’aria. Provai a colpirlo con la
testa, ma piegò
fluidamente il collo di lato e si scansò.
Ero debole. Non
mangiavo da giorni, il suo colpo nella radura e la scarica di energia
di pochi minuti prima contribuivano alla mia stanchezza.
«Arrenditi»
proferì trionfale.
Non ero fisicamente in grado di oppormi a lui,
e non potei impedirgli di caricarmi sul suo cavallo e riprendere la
corsa a Gil’ead.
Persistetti nel mio mutismo anche per tutto il
viaggio fino alla città, nonostante la pressione della magia
sulla
mia gola fosse sciolta da un pezzo.
Avevo più vivida che mai
l’immagine del corpo di Fäolin steso a terra, una
freccia piantata
nella carne, il petto immobile privo di respiro e le parole del
capitano del manipolo mi rimbalzavano in testa.
«Dovremo
riferire alla regina che lei è morta?»
«Sì, in effetti
probabilmente è così».
«Ne soffrirà».
«Non ne sono così
sicuro».
Era risaputo che io e mia madre non fossimo in buoni
rapporti, anzi. Lei si aspettava che io mi dedicassi anima e corpo
alla mia educazione e mi preparassi per diventare
un’impeccabile
regina. Io volevo agire.
Forse Islanzadi si sarebbe dispiaciuta di
aver perso l’ultima esponente della sua famiglia. O forse no.
Forse
si sarebbe accontentata di adottare un successore a lei gradito e mi
avrebbe dimenticata in fretta, sorseggiando infusi di erbe con il
perfetto sovrano di cui tanto aveva bisogno come garanzia per il
futuro.
A quel punto cosa mi rimaneva da fare? E cosa mi
aspettava? L’espressione imperturbabile dello Spettro non
tradì
nulla delle sue precise future intenzioni.
Vittima degli eventi,
lasciai che mi trascinasse a Gil’ead, senza tentare altre
fughe
disperate.
_____________________________________________________________________________________
Piccola parentesi..
So che tutti, nessuno escluso, immaginate Durza come lo hanno rappresentato nel film. Purtroppo io ho avuto la sfortuna di averlo visto solo dopo diversi anni dalla lettura di “Eragon” e ormai mi ero creata un’immagine dello Spettro tutta mia, che sono molto restia ad abbandonare a favore di quella del film.
Nel caso potesse aiutarvi, Durza l’ho immaginato molto simile al principe
Nuada
nel film “Hellboy II- the golden army”, Film che peraltro prende qualche spunto dall’originale leggenda irlandese in cui il Principe Nuada perse una mano in battaglia e se ne fece fare una nuova, d’argento. Da qui poi il nome di Airgetlám, cioè braccio o mano d’argento (Gli Spunti di Paolini vengono fuori).
Dunque Durza sarebbe fisicamente identico al principe Nuada (alto, muscoloso, pallidissimo, viso affilato) tranne per gli occhi e il colore e la lunghezza dei capelli.
C’è un disegno magnifico su Deviantart, chiamato “Faces of Alagaesia” di Trouble Train. Ha disegnato i principali personaggi del ciclo dell’eredità e il mio Durza è identico a come l’ha fatto lei.
Lo trovate qui ----->
Faces
of Alagaesia
Saluti a tutti! :)
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Capitolo 3 *** Vediamo di essere saggi ***
3.
Vediamo di essere saggi
Gil’ead
somigliava più ad una fortezza che a una città.
Sorgeva su una zona
rocciosa e aspra che si affacciava sul lago Isentar, era lontana
dall’umidità del lago e facilmente difendibile, ma
ciò non le
impediva di essere ulteriormente protetta. Le mura di pietra erano
alte, grigie e spesse, l’unico portone che dava accesso alla
città
era chiuso a quell’ora della notte e diverse guardie si
aggiravano
per i camminamenti, trascinando con loro grandi torce che creavano un
curioso gioco di puntini luminosi in mezzo a tutta
quell’oscurità.
L’ambiente era decisamente diverso da quello
boschivo che ci aveva circondati fino al giorno prima. Il terreno era
aspro e brullo e non riuscivo a capire di che cosa potessero mai
vivere gli abitanti della zona, se non della pesca sul lago.
Lo
Spettro emise un gemito di sollievo quando arrivammo in vista alle
mura. Dopo che la guarnigione di elfi ci aveva raggiunti avevamo
proceduto con calma, viaggiando solo di notte, senza nessun tentativo
da parte sua di estorcermi altre informazioni.
L’unica parola
che aveva pronunciato era stato un risicato:
«Mangia», che aveva
borbottato porgendomi un pezzo di pane rinsecchito. Non aveva nemmeno
osato avventurarsi in una fattoria a comprare o rubare provviste e
nemmeno ad accendere un fuoco per mangiare della selvaggina.
Durza
non lo avrebbe mai ammesso, ma avevo capito che
quell’interferenza
da parte del mio popolo lo aveva inquietato. Non ci voleva un genio
per capire che nemmeno uno Spettro avrebbe potuto fare molto contro
venti-trenta elfi.
Ci fu un certo movimento quando ci avvicinammo
al portone e qualcuno ci intimò il chi va là. A
giudicare
dall’oscurità totale che ci avvolgeva, era
impossibile che ci
avessero visti; dovevano avere uno stregone di ronda con i soldati
che controllava il territorio circostante. Erano preparati a
tutto.
«Brisingr» bisbigliò
Durza e una fiammella
comparve sul suo palmo, illuminandogli il viso cadaverico.
«Sono
Durza lo Spettro» disse poi.
Pochi istanti dopo il portone e la
grata di ferro erano già spalancati.
Prima di varcarli Durza si
assicurò che i capelli mi coprissero le orecchie. Da quello
capii
che la mia presenza non doveva diventare di dominio pubblico.
Un
uomo piuttosto anziano con una lunga veste elegante si
avvicinò al
cavallo e si inchinò profondamente. «Bentornato
mio signore.
Desideri che qualcuno ti scorti fino alla fortezza?» I suoi
occhi
scivolarono su di me. «Devo incaricare qualcuno di occuparsi
della
prigioniera?»
Mi irrigidii contro il busto dello Spettro.
«Torna
al tuo posto di guardia» si limitò a dire Durza,
facendo frusciare
le redini e spingendo il cavallo a proseguire al passo per le
strettissime vie della città, circondate da case di pietra
ammucchiate l’una sull’altra in maniera caotica.
Le strade
erano lastricate e sul ciglio erano ammucchiati strati di spazzatura
e anche qualche vagabondo a giudicare dai respiri che percepii.
Incontrammo solo un altro gruppo di soldati di pattuglia che
svanirono nel silenzio innaturale dopo un rapido, profondo inchino in
direzione dello Spettro. Probabilmente c’era un coprifuoco
che gli
abitanti dovevano rispettare e quei soldati si impegnavano a
mantenere l’ordine; non sapevo come spiegare altrimenti
l’assoluta
mancanza di rumori, se non quelli lievi dei respiri dei
dormienti.
Era un ambiente ostile. E squallido.
Al centro della
città di ergeva un secondo muro e dopo che Durza fu
identificato
venne aperto un secondo portone. Entrammo in un cortile ampio sul
quale si affacciava una struttura in stile decisamente militare. Dopo
una rapida occhiata dedussi che si trattasse di una caserma munita di
dormitori e armeria, mentre la zona dall’altra parte del
cortile
doveva essere consacrata alle prigioni.
Rabbrividii. La neve non
era ancora caduta in quella zona, ma la temperatura era bassa e le
mie prospettive per il futuro lo erano ancora di più.
L’improvviso
gelo alla schiena mi informò che Durza era smontato dal
cavallo,
privandomi del calore del suo corpo, che mi aveva suo malgrado
fornito durante tutto il viaggio. Un istante dopo le sue mani mi
afferrarono e mi trascinarono giù.
Uno stalliere si avvicinò e
prese il cavallo in custodia, non prima che lo Spettro avesse slegato
dalla sella le bisacce e le mie armi.
«Fai venire Hillr, subito»
comandò freddamente. «Lo aspetto nelle prigioni
sotterranee».
Durza
si mosse con decisione in direzione della parte di edificio opposta
all’ingresso da cui eravamo appena passati, trascinandomi con
sé
per il polsi, legati davanti a me ancora da quando avevo cercato di
fuggire. Arrancai faticosamente dietro di lui. Negli ultimi giorni
ero stata drogata e il mio ultimo pasto era stato un pezzo di pane
duro come un sasso, ero parecchio debole in quel momento.
Lo
Spettro bussò ad una porta robusta. Un uomo aprì
lo spioncino e
Durza si illuminò il viso con una sfera luminosa che era
improvvisamente apparsa sul suo palmo. La porta venne immediatamente
schiusa. Un lungo corridoio si aprì davanti a noi, ma Durza
proseguì
per una stretta e ripidissima rampa di scale che portavano nella
più
completa oscurità. Schioccando le dita tra di loro, accese
una
torcia sulla parete, illuminando un altro corridoio, solo
più corto
del precedente. Una quindicina di porte facevano capolino dalle
fredde e umide pareti ricoperte da un sottile strato di
muschio.
«Benvenuta nella tua nuova casa, Elfa».
Mi spinse
dentro alla penultima porta del corridoio e mi liberò le
mani,
rivelando la pelle dei miei polsi rossa e scorticata dalla corda
ruvida.
Strinsi gli occhi per abituarli all’oscurità e
intravidi la sagoma di una branda di legno appesa al muro. Provai il
fortissimo desiderio di stendermi e sprofondare nel sonno.
«Tieni».
Durza mi lanciò in faccia la coperta di lana che avevo usato
durante
tutto il viaggio. «Verrò presto a farti visita,
piccola Elfa».
Sorrise, facendo brillare i denti aguzzi
nell’oscurità e poi
chiuse il pesante e massiccio portone di legno e ferro.
Le mie
speranze si sgretolarono con il tonfo della porta. Volevo trovare un
modo per uscire di lì, ma ero così stanca.. mi
abbandonai sull’asse
di legno e mi avvolsi nella coperta. Il mondo svanì nelle
ombre dei
miei sogni.
Poteva essere l’alba, come mezzogiorno. La mia
cella era affacciata al livello del terreno del cortile con una
piccola finestrella sbarrata, unica fonte di luce di tutta la stanza,
ed era impossibile riuscire a giudicare quale fosse il momento del
giorno basandosi solamente sulla luminosità che filtrava da
essa.
La cella era piccola, buia, fredda, umida e puzzava di marcio e
di chiuso.
L’unico arredamento consisteva nella branda di legno,
la mia coperta di lana, un catino di acqua pulita e gelida posato a
terra accanto alla porta e la latrina che occupava l’angolo
opposto.
Il respiro di dieci uomini al di là del massiccio
portone mi informava che lo Spettro aveva preso provvedimenti contro
ogni mia possibile fuga. Le guardie erano immobili, si scambiavano
solo qualche rara battuta e svolgevano con attenzione il loro
compito: ogni tanto lo spioncino rettangolare dell’uscio
veniva
scostato e qualcuno controllava che non mi fossi mossa.
La porta
era resistentissima e le sbarre della finestra pure. Ero gelata fino
all’osso, ma mi girava anche la testa per la fame atroce che
mi
attanagliava le viscere.
Una manciata di ore dopo il mio risveglio
dei passi delicati si avvicinarono alla mia porta, ci furono un paio
di apprezzamenti da parte dei soldati per quella che doveva essere
una cameriera, che rise civettuola, poi un vassoio di legno
scivolò
dalla bassa apertura sotto il portone e le mie narici si dilatarono
sentendo l’inconfondibile odore del cibo. Sopraffatta dal mio
istinto di sopravvivenza, mi gettai letteralmente sul piatto di zuppa
di cipolla e il pezzo di pane che la accompagnava.
Solo quando
ebbi finito di divorare tutto mi ricordai che io odiavo la cipolla,
l’avevo sempre odiata. Ma la fame mi aveva accecata e niente
aveva
avuto più importanza.
Ed era stato un errore. Le parole
nell’antica lingua continuavano a sfuggirmi e non mi ero
neppure
premurata di controllare che il cibo non contenesse droghe. Dovevo
stare molto più attenta in futuro se avevo intenzione di
sopravvivere il più a lungo possibile.
E a proposito di
sopravvivere.. lo Spettro mi aveva promesso delle torture. Restai in
allerta, in attesa di sentire il brivido che mi avrebbe attraversata
con l’avvicinarsi di Durza e delle presenze oscure che lo
accompagnavano.
Ma tre giorni dopo lo Spettro non si era ancora
fatto vedere.
Avevo inciso nella parete delle linee bianche con un
sasso chiaro ad indicare lo scorrere approssimativo del tempo, o
altrimenti temevo che sarei impazzita.
I soldati si davano il
cambio verso mezzogiorno e la sera, lasciandomi sola per poco
più di
una decina di minuti. Minuti che impiegavo per prendere inutilmente a
spallate la porta.
La cucina non era variata di una virgola e io
avevo cominciato ad apprezzare la cipolla. Non capivo come potesse lo
Spettro bloccare la mia magia senza drogare il cibo; avevo
controllato attentamente, ma non avevo percepito nessun odore
traditore. Una notte provai anche a restare sveglia a fingere di
dormire per controllare se qualcuno entrasse nella cella durante la
notte per farmi ingerire qualcosa nel sonno, ma l’unico suono
era
quello dello spioncino aperto ogni tanto e il chiacchiericcio pigro
degli uomini.
Le altre notti dormii. E ricordi di Fäolin
popolarono le mie visioni, smuovendo in continuazioni le braci ancora
ben calde del dolore e del vuoto atroce che la sua morte avevano
lasciato in me. Potevo fingere di essere abbastanza forte da poter
avere già superato la sua dipartita, ma sapevo che prima o
poi gli
argini della mia sofferenza avrebbero ceduto. E io non sarei stata
pronta a nuotare contro la tristezza che si sarebbe riversata in
me.
Mi sentivo terribilmente sola e impotente, tagliata fuori dal
mondo e dai suoi eventi, ignorante di tutto ciò che stava
succedendo
fuori dalla tana del lupo. Lo Spettro poteva benissimo avere
individuato Brom nel frattempo e essersi impossessato
dell’uovo
senza che io non ne sapessi niente. Senza contare che c’era
anche
la possibilità che quella a Gil’ead fosse solo una
tappa, e che la
meta finale fosse Uru’baen.
La sensazione di attesa e ansia si
fece così pesante da parere quasi palpabile.
Ma proprio quando
mi ero ormai rassegnata a quella situazione, ci fu una svolta.
Probabilmente
era sera, ma non avrei mai saputo dirlo con certezza
assoluta.
L’improvviso rumore di ferraglia fuori dalla porta mi
fece intendere che stava per succedere qualcosa. Mi alzai di scatto
dalla branda, piantandomi saldamente sui piedi in mezzo alla
stanza.
Una chiave girò rumorosamente nella toppa e la porta si
aprì cigolante su cardini mai oliati.
Il fascio di luce che entrò
mi accecò totalmente e impiegai qualche secondo prima di
identificare le figure che avanzavano.
Fu come se la mia mente
riprendesse improvvisamente a funzionare dopo un lungo periodo di
letargo.
Tre uomini grandi e grossi erano entrati nella stanza, le
fiamme dorate ricamate sulle casacche rosse ad identificarli come
soldati dell’impero. Esibivano espressioni di sufficienza,
quasi
tranquille. Dedussi che non sapevano cosa veramente
io fossi e
non ritenevano che io potessi essere in grado di nuocere a nessuno di
loro. Potevo benissimo apparire una donna umana dai lineamenti molto
particolari.
Stupido da parte tua non informare i tuoi uomini,
Spettro.
Mi piegai sulle ginocchia e spiccai un balzo
fulmineo, assestando un calcio deciso al viso dell’uomo
più
vicino. Il malcapitato cadde a terra stringendosi il naso fratturato,
mentre i suoi compagni si aprivano in esclamazioni di sorpresa.
Fu
fin troppo semplice. Prima che riuscisse a fare una qualsiasi mossa,
piantai una gomitata nello stomaco del secondo uomo, gli sfilai la
spada dalla fodera che portava a cintura e colpii l’altro al
petto.
Con la lama che lasciava una macabra scia di sangue, mi
affrettai all’uscio, varcandolo senza esitazioni.
Mi guardai
rapidamente intorno. Su un piccolo tavolino vicino alla scaletta
dalla quale mi aveva trascinato Durza -la notte del nostro arrivo-
giacevano la mia spada e il mio arco. Corsi verso le scale.
Nello
stesso istante un soldato alto scese rapidamente i gradini. Mi
slanciai impulsivamente verso di lui, ben intenzionata a colpirlo,
riprendere la mia roba e darmela rapidamente a gambe.
Solo quando
fui veramente vicina notai un paio di particolari.
L’aria
intorno a lui sembrava essere più gelida e pesante. Non
indossava
nessuna casacca con la fiamma, ma solo pantaloni neri, lucidi stivali
neri e un pesante mantello nero. E aveva i capelli
rossi.
«Letta».
Una forza invisibile mi bloccò a mezz’aria
e, per quanto tentassi di muovermi, non un solo muscolo
obbedì ai
miei comandi.
Durza alzò gli occhi su di me, lentamente.
«A
quanto pare io e te non ci capiamo, Elfa» ringhiò,
scoprendo i
denti aguzzi.
I suoi occhi cremisi parevano mandare lampi. Li vidi
impregnati di un odio e una rabbia arcani, che mi fecero pentire
immediatamente di aver tentato la fuga.
Fu quello il momento
scelto dai soldati per uscire dalla mia cella e gettarsi al mio
improbabile inseguimento.
Si fermarono non appena notarono la
scena, sbigottiti.
Erano solo in due.
«Incapaci!» li riprese
Durza.
I due chinarono il capo, come due bambini sorpresi a rubare
le croste di miele dalla dispensa.
«Bastof?» domandò poi
seccamente.
Parlava dell’altro uomo, quello che avevo colpito al
petto.
I due si lanciarono un’occhiata incerta.
«È morto, mio
signore» sussurrò uno.
Lo Spettro annuì lentamente. «Deya»
disse poi.
I soldati caddero a terra senza un grido, i battiti dei
loro cuori arrestati.
Se all’inizio avevo provato una sorta di
gioia perversa nel sapere che almeno uno di quei maledetti era
passato a miglior vita, in quel momento ero semplicemente
sconcertata.
Aveva freddato i suoi uomini. Senza alcun valido
motivo.
Un terrore gelido si insinuò dentro di me. Ero nelle mani
di un pazzo assetato di sangue.
Con una brusca torsione del polso,
lo Spettro interruppe l’incantesimo che mi fermava a
mezz’aria.
Caddi a terra, atterrando come un gatto e la lama fu sbalzata dalla
mia presa un istante dopo.
Le altre guardie uscirono da una porta
in fondo al corridoio e, alla vista dei compagni morti, si bloccarono
sul posto come statue di pietra.
«Andiamo a fare due chiacchiere»
sibilò lo Spettro nella mia direzione.
Mi strinse per il colletto
della giubba, strattonandomi nel corridoio. Superò
impassibile gli
uomini che facevano ala intorno alla porta nera e mi ci spinse
dentro.
«Fate sparire quei tre» ordinò
seccamente. «E quando
esco di qui non voglio nemmeno vedere l’ombra di
sangue».
Si
sbatté l’uscio alle spalle.
Gettai un’occhiata alla stanza
con pareti e pavimento di pietra grigia, come la mia cella. Un grande
tavolo di pietra ne occupava il centro, affiancato da un braciere
spento. In un angolo giacevano fruste di vario genere e catene di
ogni sorta facevano capolino dal muro e dal soffitto. Un armadio
malandato, di legno scuro e marcio, giaceva contro la parete. Chiuso.
Non volevo nemmeno pensare a cosa avrei potuto trovare lì
dentro.
Incrociai le braccia sul petto, quasi a difendermi. Quella
era una tipica stanza delle torture. Ne avevo vista una simile a
Tronjheim, anche se non avevo mai voluto assistere a torture di alcun
genere. Non mi era mai piaciuto fare soffrire gli altri,
semplicemente a volte era necessario.
Una grande mano fredda si
strinse sul mio mento. Durza mi scrutò a lungo, mentre io
trovai
improvvisamente difficile staccare lo sguardo dalle sue iridi rosse,
magnetiche e spaventose insieme, sembravano fuoco liquido. O una
pozza di sangue.
«Non sei stata molto gentile, piccola Elfa»
disse.
Stritolandogli il polso, mi staccai dalla sua presa.
Alzò
un sopracciglio. «Ti aspetta di molto peggio, Elfa.
Intanto..», con
un gesto fulmineo estrasse il pugnale dalla cintura e recise i lacci
della mia giubba, «..questa la prendo io».
Rabbrividii per il
freddo quando l’indumento scivolò dalle mie spalle.
«Sei una
donna» ovviò. «La tua razza è
solita mandare giovani fanciulle in
missioni di cruciale importanza come la tua?»
Non risposi.
Lo
schiaffo che schioccò sulla mia guancia fu talmente
inaspettato e
violento che quasi caddi a terra.
«Rispondimi» sillabò
Durza.
Resistetti alla tentazione di portarmi una mano al viso,
dove la carne pulsava e persistetti nel mio mutismo.
Lo Spettro
ringhiò come un animale feroce, per poi afferrarmi per i
capelli e
tirarmi nella stanza insieme a lui. Mi divincolai furiosamente
mulinando braccia e gambe per rendergli il più difficile
possibile
l’intento, qualunque esso fosse. Le mie unghie indecentemente
mangiucchiate scivolarono sulle sue guance senza riuscire a
procurargli alcun dolore e, forse per la prima volta in tutta la mia
vita, mi pentii di non avere mai dato retta a mia madre, quando mi
faceva ungere le dita con un olio dal sapore amaro affinché
non le
mangiassi e mi ricordava che le unghie così ridotte erano
ineleganti
per una fanciulla. Le avevo sempre ritenute frivolezze. In quel
momento capii che mi sarebbero state utili.
Morsi con forza la
mano che mi ritrovai sul viso e un’imprecazione oscena
riempì la
stanza.
Una gomitata alla nuca mi stordì. Prima di riuscire a
rendermi conto di cosa fosse successo mi ritrovai distesa supina
sulla gelida lastra di marmo, i piedi incatenati in fondo al tavolo.
Lo Spettro mi incatenò a forza anche le mani, sopra la testa.
Durza
sorrise sinistramente. «Vediamo di essere saggi, piccola
Elfa»
disse dolcemente.
Poi parlò. Parlò per quelle che mi parvero
ore. E forse furono veramente tali. Parlò con voce fredda e
insieme
suadente e melliflua. Pericolosamente seducente.
Mi fece promesse
e mi diede garanzie, se solo in cambio gli avessi offerto la
posizione della pietra.
Non volevo nemmeno ascoltarlo, cercai con
tutta me stessa di pensare a qualunque altra cosa per ignorare le sue
parole. Ma la voce che la natura gli aveva donato non poteva essere
ignorata, era profondamente convincente, così come le
argomentazioni
che mosse a suo favore.
Dovetti concentrarmi con tutta me stessa
sull’immagine di Fäolin e Glenwing stesi a terra nel
loro sangue
per ricordarmi che l’uomo che camminava con disinvoltura
intorno a
me, elencandomi tutti quelli che parevano ottimi motivi per cedere
alle sue richieste, era lo stesso mostro che li aveva brutalmente
strappati alla vita. E che avrebbe fatto lo stesso con me non appena
avesse ottenuto ciò che desiderava.
Mi focalizzai sui miei
principi e i miei obbiettivi per resistere alla tentazione di credere
a ciò che prometteva e mettere fine a quella prigionia che
già mi
tormentava all’inverosimile, e per non iniziare le torture
che
certamente mi sarebbero spettate.
E ci riuscii. Mantenni un
perfetto controllo di me stessa e delle mie emozioni.
Quando Durza
si fermò al mio fianco ed estrasse nuovamente il pugnale fui
certa
che il tempo delle parole fosse finito.
«Ora facciamo sul serio»
sussurrò. La sua voce riprese una nota minacciosa.
«Puoi decidere
se risparmiarti qualche sofferenza e parlare subito, oppure dare il
via ad una lunga, dolorosa catena di torture, che non verrà
interrotta finché non otterrò le informazioni che
mi servono o fino
a che tu morirai».
Gli regalai l’ombra di un sorriso
beffardo.
Non avrei mai parlato. A costo di morire in quello
stesso istante, non sarei stata a meno dei miei compagni, che avevano
offerto la vita senza esitazione di fronte al pericolo. Ero stata
scelta come custode tra tutti gli elfi candidati per il valore e la
fermezza che avevo dimostrato. Dopo quindici anni, era giunto il
momento di sfruttare quelle mie capacità.
Il braciere era spento,
ma a Durza non serviva il fuoco per arroventare il pugnale.
«Brisingr» soffiò.
Il metallo rosseggiò e io chiusi gli
occhi.
Mi analizzai i palmi, nella luce incerta
proiettata dalle
torce del corridoio.
Una sensazione di nausea mi chiuse lo
stomaco. I miei polsi erano ancora segnati dalle piaghe delle corde e
le mie mani erano coperte di ustioni. Un lieve sentore di carne
bruciata aleggiava intorno a me.
Povera me!
Lo Spettro
mi stava scortando nuovamente fino alla mia cella. Aveva appena
terminato la prima sessione di torture della mia vita, che si era
però conclusa invano.
Non avevo aperto bocca, nemmeno per
gridare, ma le mie labbra erano scorticate a sangue per ogni istante
che avevo passato a morderle per non emettere suono e le mie membra
erano scosse dalla tensione dei muscoli, che avevo tirato nel
disperato tentativo di arginare il dolore che la tortura mi
provocava.
Durza non si era dimostrato particolarmente soddisfatto
del mio comportamento.
«Ho intenzione di cancellare dai tuoi
occhietti verdi quel luccichio di sfida che porti. E stai certa che
ci riuscirò. Non ho alcuna fretta, Elfa, non è il
mio il corpo che
verrà massacrato» aveva detto.
E non mi sembrava un uomo dalle
vane promesse.
Una volta nella mia cella, constatai che era sera e
che si stava facendo sempre più freddo di giorno in giorno.
E che la
mia giubba mi sarebbe stata veramente utile. Afferrai cautamente la
coperta adagiata sull’asse di legno che fungeva da letto,
troppo
vicino alla finestra e al gelo notturno perché io potessi
pensare di
dormirci. Ma la stoffa era troppo sottile perché riuscisse a
ripararmi dal freddo e il pavimento di pietra troppo gelido
perché
io potessi resistere per delle ore lì distesa.
Però se premevo le
mani sulla pietra, le ustioni facevano meno male.
Avvolgendomi
stretta nella coperta e rannicchiandomi su me stessa per salvare un
po’ di calore, mi abbandonai al mio breve sonno vigile.
Faölin
mi guardava con gli occhi sgranati e vuoti di chi non è
più
cosciente. Ma le labbra mortalmente pallide di lui si muovevano
comunque, in mute parole che non riuscivo a capire.
«Cosa c’è?»
domandavo.
Ma lui pareva non volermi ascoltare, continuava a
parlare febbrilmente, agitato, nonostante io fossi sempre sorda alla
sua voce.
I miei occhi si spalancarono nel buio, il suono
affannato del battito del mio cuore rimbombò cupamente per
la stanza
spoglia. Un sogno. Era solo un sogno.
Gli occhi mi si riempirono
di lacrime. Quel sogno mi aveva sconvolta.
E Fäolin.. oh
Fäolin!
Ingoiai l’inquietudine insieme alle lacrime. Non era il
momento di essere debole, non potevo proprio permettermelo.
Mossi
lentamente le mie membra intorpidite dal gelo e presi a passeggiare
su e giù per la mia cella, per scaldarmi. Fuori dalla
robusta porta,
quattro guardie chiacchieravano pigramente tra di loro, a bassa voce.
Lo Spettro doveva aver ritenuto inutili altre misure di
sicurezza.
«Deve essere stata lei per forza».
«Ti dico di
no. Li ha uccisi il padrone, l’ho visto io, ha bisbigliato
qualcosa
e loro zac! Stesi a terra stecchiti!»
«Bastof lo ha ucciso lei,
aveva una spada insanguinata in mano e lui era stato colpito al
cuore».
«Come avrà fatto ad avere la meglio su tre uomini
come
loro?»
«Non lo sapremo mai».
«Non è che..» la voce si
fece esitante. «E se sa usare la magia? E se è una
di quelli? Gli
elfi».
Due persone sussultarono, la terza rimase senza
fiato.
«Può anche essere che hai ragione».
«Un’elfa! Sono
delle cose pericolose gli elfi. Scambiano i bambini alla nascita,
avvelenano le fonti, portano le malattie. Sono oscuri».
«Come il
padrone?»
«No, il padrone lo è molto di più. Non
ha cuore
quello, ha ucciso tanta di quella gente che non si ricorda nemmeno
lui».
«Non parlare così forte! Potrebbe sentirti! Lo sai
che
lui sente tutto».
Tacquero.
Sciocchi superstiziosi. Il
paragone tra spettri ed elfi non era nemmeno proponibile! Erano
diversi come il giorno e la notte.
Tentai di usare la magia,
invano. Battei una mano contro la parete per l’ira. Mi si
rovesciarono gli occhi. Dannazione, i miei palmi erano ricoperti di
ustioni!
Finii per accasciarmi sulla branda, concentrandomi sul
lento pulsare delle mie mani ferite.
A circa metà giornata la
solita cameriera che camminava con leggerezza, portò il
vassoio di
legno con la zuppa di cipolla, un pezzo di pane e un bicchiere
d’acqua. Non sembrava che ci fossero droghe di alcun genere,
ma per
esserne certa, non mangiai. Ero stanca di sentirmi così
incapace. E
non ricordare la mia lingua madre mi faceva sentire vulnerabile; era
il momento di dubitare di tutto.
A fine giornata venne lo
Spettro.
«Come vanno le mani?» domandò con palese
sprezzo.
Ritenni inopportuno controllare la situazione della mia
pelle ustionata di fronte a lui, ma non doveva essere certamente in
condizioni ottimali.
«Lasciami andare».
La mia voce fu un
soffio flebile, come se in quei giorni avessi disimparato a
parlare.
Gli occhi cremisi dello Spettro si sgranarono lievemente.
«Parli» constatò.
Gli scoccai uno sguardo di sufficienza.
Durza
rise freddamente, avvicinandosi di qualche passo. «Quando mi
dirai
ciò che voglio sapere».
«Faresti prima ad uccidermi ora» lo
informai.
Piegò le labbra crudeli in un sorriso di scherno.
«Troppo facile».
«Da me non uscirà una parola»
sibilai.
«Quello di ieri era un assaggio, Elfa. La portata delle
torture è piuttosto varia e io non ne disprezzo
nessuna».
Aprii
e chiusi spasmodicamente i pugni, nervosa.
«Privarti di acqua e
cibo è una mossa poco intelligente» aggiunse
Durza, lentamente.
Mi
feci attenta. Avevo rovesciato la zuppa e l’acqua nel
canaletto di
scolo della latrina della mia cella, lui che ne sapeva?
«Fossi in
te mangerei, diventerai debole già di tuo con quello a cui
ti
sottoporrai con la tua stoltezza. E non preoccuparti, il tuo cibo non
è drogato. È ovvio che un elfo capirebbe subito
se una zuppa
contiene qualche ingrediente in più.. No, ho semplicemente
incaricato qualcuno di gettare un pugno di polvere dalla tua porta.
Inodore e pressoché invisibile, comprensibile che ti sia
sfuggito»
concluse con maligna condiscendenza.
Certamente non potevo
smettere di respirare. Ma possibile che non mi fossi accorta di
niente?
«Tuttavia», riprese lui, «la prudenza non
è mai troppa
dico bene?»
«Hai intenzione di incatenarmi alla parete?» la mia
voce assunse il giusto tono di sarcasmo. «Non avrai paura di
me
Spettro..»
Assottigliò gli occhi. «Nemmeno Galbatorix conosce
a
fondo la magia degli elfi, o almeno non ancora. Non ho intenzione di
lasciarti fuggire tanto facilmente. Avrai l’onore di
sostenere con
le tue stesse energie un trucchetto che elaborai diversi anni
fa».
Mi
ritrassi.
«Abbi almeno la compiacenza di accettare il mio
dono»
protestò il mio nemico, tendendomi una mano.
Avrei voluto
scappare in direzione opposta alla sua, ma il fatto che
all’improvviso le membra non mi rispondessero non fu
particolarmente d’aiuto.
Tenendomi bloccata sul posto con
l’incantesimo immobilizzante, Durza mi si avvicinò
e mi afferrò
la mano sinistra, facendo scivolare un cerchietto di metallo nel mio
dito indice. Restò qualche minuto immobile in quella
posizione,
pronunciando un lungo incantesimo nell’antica lingua, il cui
significato mi sfuggì mano a mano che continuava a
pronunciarlo.
«Non ti donano le ametiste» disse poi, lasciandomi
andare.
Retrocedetti rapidamente di qualche passo, prima di
studiare il monile che si era stretto intorno al mio dito. Era una
semplice fascia d’argento, con piccole ametiste quarate
incastonate
nel metallo. Un lieve, minaccioso bagliore violetto
scintillò con
prepotenza nel buio della mia cella.
La mano mi tremò. Cercai
disperatamente di sfilarmi l’anello, ma non riuscii a
muoverlo di
un soffio.
«Non si toglierà» mi informò
Durza,
lapidario.
«Cos’è?» domandai con voce
rauca.
«Un anello,
mi pare» rispose prontamente.
«Cos’è?» ripetei, a voce
più
alta.
«Diciamo solo che le pietre hanno una particolare funzione
che ti lascerò scoprire da sola». Sorrise,
scoprendo i suoi
agghiaccianti denti da felino. «A tue spese».
Mi sforzai di
mantenere la calma fisica e mentale. Che quell’anello
servisse per
confondere la mia conoscenza dell’antica lingua come avevano
fatto
le droghe?
«Allora Elfa» la voce gelida dello Spettro mi
distrasse. Durza estrasse un pugnale dalla cintura e, dopo averlo
fatto volteggiare in aria un paio di volte, lo alzò al
livello del
mio naso. «Hai intenzione di cambiare idea?»
Alzai il mento e
avanzai di un paio di passi. La lama mi sfiorò la guancia in
una
piccola ferita superficiale.
Un’ombra di stupore deformò il
viso dello Spettro, ma si affrettò a farla sparire.
«Sei
coraggiosa» abbassò l’arma.
«Bene, vedremo per quanto».
Con
le mani incatenate sopra la testa e il gelo del tavolo di marmo
contro la schiena, non potei fare nulla mente Durza arrotolava con
calma le maniche larghe della mia camicia fino quasi alle
spalle.
Restai impassibile mentre lo Spettro incideva profondi,
regolari tagli sulla pelle. Sfuggii faticosamente alla
realtà che mi
circondava, rifugiandomi nei meandri della mia mente, tra i piacevoli
ricordi delle giornate passate nei giardini di Tialdarí con
Fäolin.
Mi era ovviamente capitato di essere ferita in altre
occasioni della mia vita, ma era sempre stato un dolore breve, che mi
ero sempre affrettata a fare sparire con un paio di parole di
magia.
Arginare tutta quella sofferenza fu più difficile del
previsto e mi lasciò sfiancata.
Quando Durza ripulì la sua arma
dal sangue, sfregandola sui miei pantaloni di pelle, le mie braccia
erano una selva di tagli paralleli, come le branchie di uno strano
pesce e nutriti rivoletti di sangue scivolavano su di me fino a
sporcare il marmo su cui ero distesa.
La mia vista era appannata
per l’ingente perdita di sangue e, quando lo Spettro
lasciò andare
il braccio per il quale mi aveva trascinato fino alla mia cella, per
poco non caddi a terra.
Riuscii a barcollare fino alla branda di
legno e ad accasciarmi inerte, mentre un'improvvisa sensazione di
bollore mi invadeva, accompagnata dalla nausea. Rimasi lì
distesa
per ore, senza la forza né per stare in piedi, né
per ripulire i
tagli con l’acqua gelida della tinozza che giaceva accanto
alla
porta.
Ringraziai il freddo che affievoliva le mie sensazioni e
rendeva più sopportabile tutto.
Dovevo resistere. Per la mia
Alagaësia, per Glenwing, per Fäolin, per tutti i
morti che
Galbatorix aveva provocato, per le troppe ingiustizie che ancora
tutte le razze subivano sotto il suo regno..
Mi resi conto di
essermi addormentata solo quando mi risvegliai, aprendo gli occhi sul
soffitto grigio e macchiato di umidità.
Il sangue che imbrattava
le maniche della mia camicia nera era secco e la stoffa leggermente
appiccicata alla pelle.
Mi affrettai a sollevare le maniche prima
che le ferite si saldassero con l’indumento.
E nello stesso
preciso istante ricordai la formula che mi avrebbe
permesso di
guarirmi. Improvvisamente eccitata per la scoperta, attinsi alle mie
energie e feci per pronunciare l’incantesimo.
E ci
riuscii.
Eccome se ci riuscii.
Peccato che non appena finii di
parlare, un dolore bruciante si diffuse in tutto il mio corpo,
recidendo ogni mia capacità di concentrazione e lasciandomi
a
contorcermi a terra.
Maledissi Durza con una passione e un
trasporto non indifferenti.
_____________________________________________________________________________________________
Piccola nota:
Le ametiste sono lo stesso tipo di pietre stregate che Eragon incontrerà a Dras-Leona in Inheritance, quando lui e Arya verranno imprigionati dai Sacerdoti dell'Helgrind. In quel caso un cerchio di ametiste bloccherà i loro poteri, l'anello è una variante elaborata da Durza per sopprimere i poteri di Arya.
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Capitolo 4 *** Paura ***
4.
Paura
I
giorni si susseguirono con lenta e macabra monotonia.
Persi la
concezione del tempo in maniera totale. Le tacche che avevo iniziato
ad incidere sul muro erano ormai abbandonate da un pezzo,
l’unica
mia fonte di scansione del passare delle ore era il cambio della
guardia, alla sera e verso il mezzogiorno.
La neve era giunta
anche a Gil’ead e il cortile sul quale si affacciava la mia
cella
ne era rimasto velato per una notte intera. Ma poi il marciare dei
soldati sul terreno aveva ridotto il manto candido ad un lago di
fango.
Tolta la poesia del biancore della neve, mi restarono solo
le sue conseguenze. Quindi il freddo che filtrava dalla piccola
finestrina era aumentato, anche se non ero più tanto sicura
che
fosse più caldo dentro che fuori.
Ogni istante della mia vita era
accompagnato da un eterno, totale e soverchiante senso di
terrore.
Sapevo che quando passi lenti e leggeri scendevano le
scale, il mio tormento stava per iniziare.
E quando lui si
affacciava alla porta della cella, il panico si faceva così
forte da
rischiare di sottomettermi alla sua follia.
Durza mi trascinava
con malagrazia fino alla porta nera della stanza delle torture, mi
portava dentro e mi bloccava sul tavolo.
E poi parlava. A
lungo.
Il tono carezzevole e mellifluo della sua voce era letale e
pericoloso. E di giorno in giorno sempre più pericolosamente
attraente.
«Si tratta di poche parole, piccola Elfa. Dimmi
dov’è
e finirà tutto. Non vuoi tornare a casa tua? Tra gli alberi,
i
canti, la pace? Non farai del male a nessuno, vedrai. Non
darò al re
nessuna informazione che possa nuocere ai Varden o alla tua specie,
te lo prometto. Nessuno potrà biasimarti per le tue azioni,
sei
stata brava, sei stata coraggiosa. Ma adesso arrenditi, la tua
resistenza non porterà a nulla se non a farti del male.
Aiutami e
saprò come ricompensarti».
Resistere a tutto quello era sempre
più difficile, specialmente se avevo la piena consapevolezza
che
alle maniere gentili sarebbe subito seguita la violenza.
Quando
Durza smetteva di camminare intorno a me, stanco di parole, ero
sempre totalmente fradicia di sudore gelido. La prova concreta della
mia paura. Era un sentimento che era ormai fuggito al mio controllo,
spinto fuori dagli angoli più reconditi della mia coscienza,
giorno
dopo giorno, ferita dopo ferita.
Lo Spettro si era premurato di
raggiungere con il ferro rovente e con la lama dei suoi pugnali, la
maggior quantità possibile di pelle.
E mi aveva spogliata.
Era
stata una delle esperienze più umilianti della mia vita.
Durza aveva
tirato i lacci della mia camicia nera con lentezza, guardandomi con
freddo disinteresse, come se per lui non fossi altro che un ennesimo
animale da mandare al macello.
«Spettro c-cosa..?» avevo
balbettato, spaesata dalla sua azione, e muovendo le braccia
incatenate nel vano tentativo di fermare l’opera delle sue
dita
agili.
Il mio nemico era scoppiato a ridere, una risata forte e
piena, di gola. Non pensavo che gli Spettri avessero la
capacità di
ridere in quel modo.
«Non vedo il motivo della tua vergogna»,
aveva poi detto, sollevandomi la camicia, «il tuo
è il corpo di un
guerriero, ti fa onore». Le sue dita gelide avevano percorso
l’orlo
della fascia di stoffa che mi copriva il seno. «Questa potrei
concederti di tenerla».
Avevo girato il capo di lato, con gli
occhi lucidi per l’umiliazione e la vergogna di essere
così
esposta sotto lo sguardo indagatore di un mostro.
Le mie labbra
erano spaccate per tutte le volte in cui ci avevo affondato i denti,
nel faticoso tentativo di trattenere un qualsiasi lamento, le palme
delle mie mani non erano graffiate solo perché le mie unghie
erano
troppo corte per riuscire ad affondare nella mia carne. Al termine di
ogni tortura il mio corpo tremava violentemente per la tensione dei
muscoli, che mantenevo per arginare il dolore.
Quando nella parte
superiore del mio corpo non ci fu letteralmente più spazio
per altre
ferite, i pantaloni di pelle fecero la stessa fine della camicia e
anche in quel caso Durza mostrò la decenza di lasciarmi
almeno
addosso le corte brache che portavo sotto.
A quel punto ogni
singolo pollice della mia pelle era devastato da graffi, ustioni e
ferite che avevano a malapena il tempo di smettere di sanguinare, che
già ero nuovamente nelle mani assassine di Durza, per
ricominciare
daccapo. Talvolta doveva guarirne alcune per impedirmi di morirne o
per potere procurarmele di nuovo.
Quanto tempo passava tra una
sessione di tortura e un’altra? A me non parevano altro che
pochi
minuti.
Quanto tempo passava mentre ero distesa sul tavolo di
pietra? Ore. Giorni. Settimane. Mesi. L’eternità.
Il malefico
anello di ametiste violette era ancora attaccato al mio indice con
un’ostinazione incredibile, sicuramente dovuta alla magia
dello
Spettro. Il bagliore violetto che emanava anche nella totale
oscurità
era un perenne monito. Era come avere sempre una parte di Durza con
me. E non era piacevole.
Avevo provato di tutto, compreso sbattere
la mano contro il muro, avevo cercato di farlo scivolare via con
l’acqua, avevo cercato di rompermi l’osso. Ma con
il solo
risultato di scatenare l’ilarità del mio
carceriere quando se
n’era accorto.
«Credo che cominciare a credere alle mie parole
sarebbe più.. salutare per la tua persona» aveva
detto, spostandomi
il dito rotto.
E poi me lo aveva aggiustato con un
incantesimo.
«Non lo farò una seconda volta» mi
ammonì.
Lo
odiavo.
Non avevo mai odiato nessuno così tanto quanto odiavo
lui.
Durza era spaventoso. Sembrava che la natura avesse voluto
scherzare con lui.
Non mi piacevano i suoi capelli rossi.
Non
mi piaceva il modo in cui i suoi occhi da gatto apparivano sempre
divertiti da ogni mio comportamento e pronti a cogliere ogni mia
reazione non appena me ne fossi lasciata sfuggire una.
Non mi
piaceva la smorfia divertita che avevano sempre le sue labbra crudeli
e pallide, come se farmi del male fosse qualcosa da cui trarre
divertimento.
Non mi piaceva il suo naso aquilino, che gli dava
l’aria di un rapace pronto ad attaccare.
Non mi piaceva il tono
pericolosamente gelido della sua voce.
Mi venne la tosse per il
gelo. E poi la febbre per gli sforzi a cui il mio fisico era
sottoposto.
Ogni movimento minimo scatenava dolori in ogni
terminazione delle mie membra.
E intanto i giorni passavano e le
torture continuavano..
«Dove hai mandato la pietra?»
«Come
ti chiami?»
«Dove si trovano gli elfi?»
La voce era
quella morbida e modulata di Fäolin, ma le domande erano le
stesse
che mi rivolgeva lo Spettro ogni giorno.
E dopo una lunga
insistenza Fäolin sussurrò: «Resisti.
Verrò a prenderti».
Per
poi sparire.
Mi svegliai, sudata fradicia.
Oltre la porta,
il respiro regolare e tranquillo dei quattro uomini appostati davanti
alla mia cella, parve quasi innaturale.
Mi alzai a sedere e
rabbrividii. Poi tossii. Ripetutamente. Fino a che una lancia non
batté sulla mia porta per intimarmi il silenzio.
Nonostante le
sofferenze delle torture fossero per me nuove e molto sentite, quasi
la stessa sofferenza era data dalla noia e dall’inerzia. Gli
elfi
erano famosi per la loro infinita pazienza, caratteristica che
condividevano con i draghi, ma io ero la famosa eccezione alla
regola.
Gli uomini avevano una vita molto breve e quindi
tendevano a sfruttarne al massimo ogni singolo istante, gli elfi
invece, incorruttibili nella carne, avevano a loro disposizione una
vita lunghissima e quindi non conoscevano l’affanno e
l’impazienza.
Forse io, dopo tutti quegli anni passati tra gli
uomini, mi ero lasciata condizionare dal loro modo di vivere, o forse
era semplicemente il fatto che la mia vita fosse pericolosamente in
bilico. Non sapevo per quanto lo Spettro avrebbe sopportato la mia
insistenza, ma di sicuro non per sempre. E quando si sarebbe
rassegnato mi avrebbe uccisa.
E, nonostante fosse ovvio che quello
era il mio destino, non riuscivo ad accettarlo.
Ma del resto, se
non ce l’aveva fatta Fäolin perché avrei
dovuto farcela io? Era
sempre stato così, se falliva uno, falliva
l’altro. Sempre. Da
quando ero bambina. Perché quella volta sarebbe dovuto
essere
diverso?
La mia solitudine fu interrotta da voci sommesse,
provenienti dalla ripida scaletta che portava alle prigioni. Una la
riconobbi immediatamente come quella di Durza, l’altra era
così
bassa che non riuscii nemmeno a distinguere se si trattasse di una
donna o di un uomo.
Durza congedò il suo interlocutore con
evidente irritazione: «Non ti voglio vedere mai
più girare qui
intorno, sono stato chiaro? Sparisci» ordinò
gelido.
Poco dopo i
soldati aprirono la porta della mia prigione, lasciando filtrare un
cono di luce emesso dal braciere che usavano per scaldarsi, e che mi
accecò.
Senza nemmeno intimarmi di uscire o di arrischiarsi a
mandare uno dei suoi soldati a prendermi, lo Spettro entrò,
mi
afferrò per i polsi, e mi trascinò per il
corridoio, fino alla
porta della stanza delle torture. Mantenne uno sguardo assorto,
assente e rabbioso per tutta la durata del breve tragitto. Sembrava
preoccupato.
Ma quello non gli impedì di tenermi saldamente
mentre mi divincolavo disperatamente nel vano tentativo di fuggire al
mio supplizio giornaliero.
Durza mi trascinò in un angolo della
stanza delle torture, lontano dal solito tavolo di marmo e
tirò i
lacci della mia camicia bruscamente, senza troppe
cerimonie.
Praticamente nuda sotto i suoi occhi, incassai le
spalle e feci scivolare i miei capelli lunghi fino quasi alla vita in
avanti, a coprirmi. Ero terrorizzata e dovetti fare uno sforzo immane
per non tremare.
Cosa aveva intenzione di fare?
Lo seppi quando
lo Spettro mi annodò i capelli sporchi sulla testa con un
laccio di
cuoio e mi incatenò con il viso rivolto alla parete.
Uno schiocco
sordo riempì l’aria.
Una frusta.
Chiusi gli occhi e
digrignai i denti così forte da farmi male alla mascella.
Contai
fino a cinquanta frustate, sentendo il sangue caldo che mi scorreva
sulle gambe, poi la vista mi si annebbiò, ma lo Spettro non
pareva
intenzionato a fermarsi. Non ebbe la minima pietà, pareva
semplicemente aspettare che io mi arrendessi. Cercai rifugio nelle
profondità della mia mente, ma il dolore era così
forte che mi
trascinava sempre brutalmente alla realtà.
Quella fu la prima
volta che gridai fino a sputare sangue.
Poi svenni.
Riaprii
gli occhi con la sensazione che qualcosa mi avesse strappato la carne
della schiena a morsi. E forse era veramente così. Con un
gemito, mi
tastai il dorso. Ero nella mia cella, distesa sulla pancia
sull’asse
di legno che era il mio letto. Le mie dita toccarono profonde
scanalature nella mia carne, ma mi affrettai a ritrarle
perché erano
dolorose in maniera indicibile.
Con fatica, mi alzai in piedi.
Barcollai.
Davanti a me c’erano la mia camicia e i miei
pantaloni, gettati con noncuranza a terra. Li raccolsi, rendendomi
conto di stare tremando convulsamente. C’era qualcosa che non
andava.
Mi bruciava la nuca e i miei sensi erano in massima
all’erta. I miei occhi guizzarono lungo le pareti della cella
e poi
verso la porta.
Dalla finestra dello spioncino, un grande occhio
dall’iride bianca mi scrutava nel buio.
Gridai e caddi
nuovamente a sedere sul letto, terrorizzata da quella visione
agghiacciante.
L’uomo proprietario dell’occhio non si
scompose, sempre che si trattasse di un uomo in effetti. Aguzzando le
orecchie, scoprii con orrore che non percepivo il respiro di quella
cosa, e tanto meno il battito del cuore.
Quell’occhio pareva
essere sospeso nel vuoto, avrebbe potuto essere finto se solo la
palpebra, ornata di lunghe ciglia, non si stesse abbassando a ritmo
regolare.
Cercai la mia voce, ma quello che mi uscì fu solo un
rantolo nervoso. «Chi sei?»
La situazione non si smosse, tanto
che mi rassegnai a rimanere immobile come una statua di pietra e
lasciarmi scrutare dall’occhio indagatore, che si muoveva in
tutte
le direzioni, osservandomi interamente, quasi a volersi accertare che
fossi proprio io.
I miei muscoli si tesero e rilassarono
ritmicamente, scatenando fitte di dolore lungo la schiena. Cercai
istintivamente le parole nell’antica lingua che mi avrebbero
potuta
salvare, ma il bagliore violetto al mio dito mi informò che
non ne
sarebbe valsa la pena.
Mi diedi uno schiaffo per accertarmi di
essere sveglia, ma effettivamente il dolore diffuso in tutto il corpo
era sufficiente come garanzia.
Dov’erano le guardie? Non
percepii i loro respiri. Semplicemente non c’erano, ero sola
con
quella strana apparizione. Una morsa di tensione mi strinse lo
stomaco.
L’essere al di là della porta parve riscuotersi
dopo
un lungo sonno. Sentii d’improvviso una voce sottile, quasi
sicuramente contraffatta con la magia, scivolare nell’aria.
Non
capii nulla di quello che stava dicendo ma ebbi l’improvvisa
intuizione che si trattasse di un incantesimo.
«VATTENE!»
gridai, alzandomi di scatto dalla branda, ignorando la protesta delle
ferite della mia schiena, e correndo a sbattere i pugni contro lo
spesso portone di legno e metallo.
Ma quando guardai attraverso la
finestrina quadrata che costituiva lo spioncino, non vidi nessuno.
Il
fatto mi sconvolse. Attonita, rimasi immobile, capendo che doveva per
forza essersi trattato di uno scherzo della mia mente.
Sto
diventando pazza? O era una visione provocata da qualcuno?
Scossi
la testa. La mia mente era sempre stata talmente salda che riuscire a
procurarmi visioni doveva essere escluso. Questo prima
che il
mio corpo venisse sottoposto a sforzi indicibili, però.
In quello
stato di riflessione e profonda inquietudine, non udii i veloci e
leggeri passi che si avvicinavano.
E quando un viso pallido,
labbra crudeli e occhi rossi come braci riempirono il vuoto del
corridoio fuori dallo spioncino, sussultai.
«Ho sentito la tua
voce» proferì Durza con espressione seria e
indagatrice.
Scossi
lentamente la testa. «Non io Spettro» mentii.
Con poca
convinzione, socchiuse gli occhi da gatto, gettando un rapido ma
accurato sguardo intorno a sé.
La tensione che mi soffocava
raggiunse un livello insostenibile, se anche uno Spettro mostrava
palese ansia, doveva essere successo veramente qualcosa.
A
confermare la mia teoria venne la domanda di Durza.
«Hai visto
per caso qualcuno di insolito passare di qui da ieri notte,
Elfa?»
chiese con un tono di voce così morbido che ebbi la
tentazione di
scoppiare a piangere e confessargli tutto.
Analizzai rapidamente
la faccenda dell’occhio. Non poteva essere successo
veramente,
doveva essere stato uno scherzo della mia mente stanca, e io non
volevo assolutamente dare soddisfazioni di alcun tipo
all’uomo
davanti a me.
«No» dissi. E subito mi staccai dalla finestrella
e retrocedetti nella mia cella, non riuscendo a sostenere un istante
in più gli occhi penetranti di Durza. Mi inquietavano,
sembravano
leggermi dentro, facevano sembrare vano ogni mio tentativo di
nascondergli la verità, di qualunque natura essa fosse.
La pelle
d’oca sulle braccia mi informò che non avevo
ancora indossato i
miei vestiti e che mi stavo letteralmente congelando.
«Non
disturbarti a metterla» mi fermò lo Spettro,
ancora affacciato
dallo spioncino, quando presi in mano la camicia.
«È ora di
rinnovare quei graffietti, da ieri sera sono già migliorati
parecchio» aggiunse da dietro alla porta.
Da ieri sera? «Ho
dormito un giorno intero?»
Per quello le guardie non c'erano: era
l'ora del cambio serale.
«Sei svenuta» specificò.
«Quello
delle frustate non è un dolore dal quale ci si riprende
così in
fretta. Temo che tuttavia dovrai farci l'abitudine».
Distolsi lo
sguardo, umiliata.
Lo vidi scostarsi da davanti alla porta quando
sopraggiunsero i soldati con la chiave della mia cella ed entrarono
per tirarmi fuori.
Il dolore alla schiena mi rese cosciente del
fatto che non volevo farmi torturare di nuovo, non volevo che altre
frustate si sovrapponessero a quelle. Avrebbe fatto male, un male
indicibile. E io non volevo, non ero pronta, non mi ero ancora
ripresa dal dolore della sessione precedente e nemmeno dal terrore
causato dall’occhio bianco.
Un tremito di paura mi scosse le
membra e, quando i quattro soldati si avvicinavano a me sospettosi,
le lance alla mano, capii che sarei stata disposta a tutto pur di non
subire ancora le torture di Durza.
E fu quello che mi spinse a
correre incontro alle guardie, sfilare la spada dal fodero di uno,
scivolare tra di loro e raggiungere in un attimo lo Spettro sulla
soglia.
Ebbi il tempo di registrare l’espressione sorpresa di
Durza prima che la lama si abbattesse su di lui..
..sfiorandogli
a malapena la spalla sinistra.
Lo Spettro si era spostato con una
prontezza e una velocità ammirevoli persino per un elfo e in
quel
momento mi fronteggiava con un’espressione piuttosto irata e
un
fiore di sangue che andava formandosi dove l’avevo a malapena
ferito.
Con il solito ritardo di riflessi, gli uomini mi corsero
dietro gridando. Alzai la spada, ma un colpo violento me la fece
volare via di mano.
Durza stringeva tra le mani una spada pallida,
con un sottile graffio sulla lama e mi stava letteralmente uccidendo
con gli occhi. Deglutendo, fissai la sua arma, quella che Ajihad
aveva scalfito durante il suo famoso duello con Durza, duello che il
capo dei Varden non si faceva riserve di raccontare a destra e
manca.
Del resto era forse l’unico umano in tutta la storia di
Alagaësia ad essere sopravvissuto ad un combattimento contro
uno
Spettro. Peccato che lui in quel momento fosse al sicuro nella sua
inaccessibile montagna, incurante della mia situazione, mentre io ero
in balia di un mostro alleato del re che pareva avere esaurito la sua
debole riserva di pazienza.
«Questa me la pagherai» sibilò lo
Spettro, con un tono che mi fece balzare il cuore in gola.
Mi
avvolse il braccio con le sue lunghe dita, stringendo la presa al
punto di farmi perdere la sensibilità dal gomito alla mano.
Mi
dibattei disperata, come un animale in gabbia. Non volevo tornare in
quella stanza, non volevo sentire ancora dolore. Non ne potevo
più.
E lui era troppo, terribilmente spaventoso, temevo quello che mi
sarebbe aspettato una volta varcata la soglia di quella camera
maledetta.
Mentre puntavo i piedi per fare resistenza alla forza
di Durza, non notai il giovane soldato con i capelli e gli occhi
castani, passarmi accanto e andare a posizionarsi davanti allo
Spettro, costringendolo a fermarsi.
«Cosa vuoi Rohat?» ringhiò
Durza, con un tono che prometteva guai.
Il soldato si inchinò e
poi rimase a fissarsi la punta dei piedi, pallido come un cencio.
«Mio signore non dovresti torturarla oggi» disse.
Gli uomini
dietro di me sussultarono, io sgranai gli occhi per la sorpresa e lo
Spettro emise una risatina spaventosa.
«Perché non dovrei
ragazzino? Non ti impicciare in faccende che non ti riguardano, non
ho proprio tempo da perdere con te. Togliti prima che mi venga voglia
di punirti per la tua sfacciataggine».
Rohat si dimenò,
decisamente spaventato, ma non si allontanò. Scrutandolo con
attenzione, realizzai che non doveva avere più di
diciassette-diciotto primavere e che era molto più giovane
rispetto
ai suoi compagni, tutti uomini fatti.
«V-vedi padrone le ferite
che ha sulla schiena sono gravi, se oggi gliele rifai, lei muore. E
non penso che lei deve morire no?»
Con poche parole borbottate,
Durza lo mandò a schiantarsi contro la parete.
«D’ora in poi
ti occuperai di fare la guardia nel castello» disse,
riprendendo a
strattonarmi verso la porta nera della stanza delle torture.
«Non ho
bisogno di soldati che hanno pietà dei prigionieri qui. E
sono stato
fin troppo magnanimo con te, non farmene pentire».
Prima che la
porta si richiudesse alle mie spalle, ebbi il modo di incontrare lo
sguardo atterrito del ragazzo, con le sopracciglia sollevate, quasi
mi stesse chiedendo scusa per non essere riuscito a fare di
più per
me.
Mi si inumidirono gli occhi per la commozione, era il primo e
probabilmente ultimo esempio di pietà umana che avevo
incontrato da
quando ero imprigionata a Gil’ead. Sperai con tutto il cuore
che il
suo signore non meditasse alcuna punizione nei suoi confronti per il
comportamento che aveva mostrato, non lo meritava.
L’unico che
avrebbe dovuto essere punito era l’uomo dai capelli rossi che
mi
stava incatenando con malagrazia alla parete, con gli spaventosi
occhi cremisi assottigliati per la rabbia e l’irritazione e
una
scura macchia di sangue che si espandeva sul tessuto altrimenti blu
notte della sua giubba. Almeno potevo tenermi la soddisfazione di
averlo ferito.
Una mano fredda mi sfiorò la spalla, facendomi
tremare.
«Cos’è questo?» chiese Durza
seccamente.
Lo Yawë,
probabilmente stava parlando dello Yawë.
Le sue dita percorsero
crudelmente le ferite ancora profonde della sera precedente,
mandandomi fitte di dolore in tutto il corpo e facendomi
singhiozzare.
«Parla Elfa e tutto questo finirà»
mormorò lui
con voce suadente.
Ne fui tentata, davvero. E nello stesso istante
mi maledissi per la mia debolezza. Non l’avrei fatto, non
l’avrei
mai e poi mai fatto. Il mondo meritava ancora di essere salvato. Me
lo aveva dimostrato il soldato che pochi minuti prima aveva messo a
repentaglio la propria vita per quella di una sconosciuta.
Finché
persone come lui calpestavano il suolo di Alagaësia, si poteva
ancora sperare in un futuro che non fosse di morte e distruzione, e
per quel futuro io avrei combattuto, fino a che avessi avuto
vita.
«Mai Spettro» dissi, la voce spezzata per il
dolore. «Da
me non saprai mai nulla».
Decretata la mia condanna, subii il
prezzo che i miei ideali richiedevano.
Persi i sensi così tante
volte che ne persi il conto, ma Durza mi risvegliò ogni
volta con un
incantesimo. La mia pelle fu dilaniata da ferri roventi, uncini,
pugnali, frustate.
Urlai fino a perdere la voce.
Il dolore era
così intollerabile che desiderai morire. Raggiungere il
nulla, la
pace, il silenzio. Fäolin.
Probabilmente passarono delle
ore.
Alla fine lo Spettro mi sciolse dalle catene e mi spinse
verso il centro della stanza. Le gambe mi cedettero e caddi a terra
senza riuscire in alcun modo ad attutire la caduta.
Durza mi si
inginocchiò accanto e mi schiaffeggiò con furia.
Non ebbi nemmeno
la forza di difendermi e crollai come morta tra le sue mani quando mi
afferrò le spalle.
«Perché non puoi essere come una qualsiasi
donna sana di mente, Elfa?» latrò lo Spettro con
voce stridula e
gli occhi incupiti per la frustrazione. «Diamine, non capisci
che ho
bisogno di quelle maledette informazioni! Cosa devo fare per
farti parlare? Cosa? COSA?» Mi scosse violentemente.
Un gemito di
dolore scivolò tra le mie labbra, ma quello fu
l’unico suono che
la mia gola arida riuscì ad emettere. Ero un grumo di carne
maciullata, ero distrutta. Non avrei retto ad un solo altro istante
in quella condizione, ne ero certa. Eppure lo feci. Perché
le ferite
che mi erano state inflitte erano troppo precise per permettermi di
morire.
Mi accasciai su un fianco e vomitai bile.
Con la vista
appannata, riuscii ad individuare la mano bianca di Durza che si
avvicinava al mio volto, che era forse la parte più integra
che era
rimasta nel mio corpo, a parte un paio di lividi dovuti agli
schiaffi.
Mi scostò una ciocca di capelli dagli occhi e
seguì
con le dita il profilo del mio viso.
Deglutii. «Cosa stai
facendo?» riuscii a gracchiare.
«Sto pensando a quanto falliti
siamo entrambi» rispose lentamente.
Gli diedi mentalmente
ragione. Ma, mentre per il momento ero stata di un paio di passi
avanti a lui, ero certa che prima o poi mi avrebbe spezzata. Avrebbe
vinto.
«Dovresti uccidermi» e le mie parole parvero quasi
una
supplica.
Finse di non avermi sentito e mi sollevò da terra, per
poi depositarmi distesa sul tavolo di pietra.
Cominciò a
pronunciare incantesimi di guarigione, sfiorando con le dita le parti
del mio corpo che stava lentamente, parzialmente rimettendo in
sesto.
La vista mi tornò più limpida e respirare non fu
più
così faticoso.
Durza si puntellò con le mani sul bordo della
lastra di pietra e mi fissò negli occhi. «Non
perdevo la pazienza
da decenni» disse.
Trovai la sua affermazione vagamente stupida,
ma gli risposi: «Abbiamo appena cominciato, giusto?»
Ridacchiò
sinistramente, snudando la punta dei suoi denti aguzzi. «Chi
te lo
fa fare, piccola Elfa? Ti stai lasciando massacrare. E per cosa?
Pensi che i Varden riusciranno mai a sconfiggere il re? Non
basterebbero dieci nuovi cavalieri dei draghi per contrastarlo. Ha
dalla sua parte le creature più pericolose di
Alagaësia, oltre che
un regolare esercito imperiale. E poi lui stesso è
invincibile,
potrebbe spazzarvi via tutti senza troppo sforzo. Perché lo
fai?»
«Se il mio popolo scendesse in battaglia non se la
caverebbe tanto bene» ribattei.
«Hai detto “se”. Il tuo
popolo è rintanato chissà dove da ormai un
secolo. Il re non vi
teme, e ne ha tutte le ragioni. Non uscirete mai allo scoperto contro
di lui e se anche lo faceste.. non sarebbe sufficiente».
Chiusi
gli occhi. «Non mi importa».
«Morirai se continui così».
«Non
mi importa».
«Bugiarda».
«Non pretendo che un servo di
Galbatorix capisca».
Rise. «Allora può darsi che con il tempo
riuscirò a capire».
Riaprii gli occhi e lo guardai con sospetto,
ma il mio carceriere si limitò a farmi alzare in silenzio e
a
ricondurmi nella mia cella.
Non ebbi il coraggio di indossare
camicia e pantaloni perché nonostante mi avesse guarita
dalle piaghe
più gravi, molte ferite erano ancora profonde e sanguinanti.
Non
riuscii a mangiare perché il mio stomaco rigettò
tutto.
Non
riuscii a dormire perché ero troppo agitata e stordita dal
dolore.
Non riuscii a smettere di pensare alle ultime parole di
Durza perché non le avevo capite.
|
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Capitolo 5 *** Lord Barst ***
5.
Lord Barst
Dei
giorni che seguirono mi restano solo ricordi confusi e sbiaditi.
Stavo male.
La febbre andava e veniva senza un’apparente logica.
Per un paio di ore mi divorava ferocemente e poi spariva. Quelle
piccole incursioni di malattia mi indebolirono ulteriormente e il mio
stomaco pareva essere diventato improvvisamente intollerante al cibo,
perché ormai vomitavo almeno un pasto al giorno. E i pasti
erano
due. Così cominciai ad avere anche fame e a fiaccarmi
ulteriormente.
Le torture di Durza si erano intensificate e si
erano fatte ancor più fantasiose. Lo Spettro pareva
utilizzare ogni
istante di tempo che aveva a disposizione per martoriare il mio
corpo, al punto che alcuni giorni fui legata alla lastra di pietra
della stanza delle torture all’alba e vi rimasi fino a che
non fece
buio.
Se avevo creduto che le frustate fossero la cosa peggiore
che poteva capitarmi, capii di essermi sbagliata quando Durza
iniziò
ad immergere la mia testa in un secchio d'acqua e a trattenermi fino
a che non cominciavo a vedere nero e sentivo la morte soffiarmi sul
collo.
A quel nuovo tormento seguirono incubi di inondazioni e
cominciai a provare una sorta di avversione per la bacinella d'acqua
gelida che giaceva vicina alla porta, tanto che anche lavami il viso
divenne una sorta di sottile tortura.
La mia mente stava
vacillando. Un giorno mi alzai dal letto di scatto, credendo di avere
visto Fäolin nell’angolo opposto della cella, per
poi cadere a
terra un istante dopo, vista l’incapacità delle
mie gambe di
sorreggermi. E ovviamente Fäolin non c’era mai stato.
Un altro
paio di volte vidi l’occhio bianco, sempre quando le guardie
mi
lasciavano per il cambio serale. Si affacciava dallo spioncino,
grande e spaventoso, le sue palpebre si abbassavano due o tre volte e
poi svaniva. Cominciai a considerarlo una semplice allucinazione
della mia mente instabile.
Venne a trovarmi Rohat, il giovane
soldato che aveva quasi rischiato la pelle per impedire a Durza di
torturarmi. Mi parlò -dalla fessura dello spioncino- per
quel breve
arco di tempo che concedevano le guardie quando si davano il cambio.
Mi parlò della sua infanzia, di sua madre che viveva sola in
una
casa ai confini di Gil’ead, fuori dalle mura. Del suo lavoro
come
soldato, che odiava ma che era costretto a svolgere se voleva
procurare un minimo di dote alla sua sorellina e fare in modo che un
giorno potesse sposarsi con dignità. Disse anche che ero
bella, e
che il suo padrone era senza cuore.
Prima di andarsene fece
scivolare una rosa bianca sotto la porta e io la contemplai da
lontano, attraverso le lacrime che mi appannavano gli occhi ma che
rifiutavo di fare scendere.
Dallo stelo privo di spine partì un
intero ramo, che si diffuse in tutta la stanza. La rosa crebbe, i
suoi rami verdi privi di spine si insinuarono tra le fessure delle
pietre, rompendole, risalendo ancora, distruggendo tutte quelle
pareti grigie e raggiungendo il cielo, la luna, attorcigliandosi su
se stessi come a formare una gigantesca torre. Potevo fuggire.
Sì,
bastava solo alzarmi. Se mi fossi alzata sarei andata via di
lì per
sempre, Durza sarebbe rimasto un ricordo, il dolore anche e avrei
ritrovato i canti dolci della mia gente. Sarei andata nei giardini
del palazzo di
Tialdarí
ad Ellesméra con Fäolin e lui, sorridendo, avrebbe
colto per me una
campanula nera, chiusa, dicendo dolcemente che io ero come quel fiore
e che dentro di me di nascondeva una bellezza infinita.
Dovevo
solo alzarmi.. ma non ce la facevo. Ordinai ai miei muscoli il
movimento, più e più volte, invano.
Quando la porta si aprì
bruscamente, spazzando via la rosa e gli occhi cremisi di Durza si
puntarono su di me, mi resi conto di essere rimasta confinata in quel
pensiero utopistico per delle ore. E che purtroppo la realtà
era di
natura totalmente diversa.
La rosa bianca mi parve all'improvviso
un maligno monito alla mia morte imminente.
Durza dovette
sollevarmi di peso dalla branda perché io non ero in grado
di farlo.
E anche quando poggiai i piedi sul pavimento mi sarei afflosciata a
terra se lo Spettro non mi avesse tenuta saldamente in piedi, quasi
sollevandomi. Da un lato ne fui felice, perché da quando il
mio
nemico mi aveva tolto gli stivali per ustionarmi la pianta dei piedi,
se ne era definitivamente appropriato, ed erano gelidi al contatto
con il pavimento umido.
«Ti stai distruggendo con le tue mani»
mi informò.
«Tu mi stai distruggendo» la mia lingua era pesante
e quelle parole scivolarono fuori dalla mia bocca come macigni spinti
faticosamente a rotolare.
Da quando aveva perso la pazienza, lo
Spettro aveva smesso di parlare. Ormai si limitava a torturarmi,
torturarmi e torturarmi.
«Non sei nemmeno in grado di stare in
piedi, piccola Elfa».
Ebbi comunque la forza di squadrarlo
severamente e -mi augurai- con un pizzico di sfida.
Oromis, quando
mi aveva istruita tra un mio viaggio e un altro come ambasciatrice
affinché potessi difendermi meglio dal mondo, mi aveva detto
che a
volte dalla rabbia e dall’irritazione possono scaturire
energie
insospettabili. Bene. Non mi era mai piaciuto farmi chiamare
“Piccola” -era lo stesso nomignolo che mi davano i
cortigiani di
Ellesméra quando ero bambina, “Piccola
Arya”- e odiavo
Durza.
«So camminare» ribattei risoluta.
Ma non appena le sue
mani si scostarono nuovamente, traballai pericolosamente.
Durza
sorrise a fior di labbra «Non male».
Puntò l’indice al centro
del mio torace e mi diede una lieve spinta all’indietro, che
bastò
a farmi perdere l’equilibrio. Gli schiaffeggiai furiosamente
la
mano, ma lo Spettro si affrettò ad afferrarmi e, incurante
delle mie
proteste, mi sollevò da terra e mi portò nella
stanza delle torture
come un corpo morto.
La tavola di pietra della sala delle torture
era ancora più gelida, ma in maniera quasi piacevole.
Probabilmente
avevo un altro attacco di febbre.
Guarì alcune delle mie ferite
più gravi prima di afferrare il ferro arroventato e
accingersi a
procurarmele nuovamente.
Il fuoco mi stava dilaniando lo sterno
quando un ticchettio insistente scosse la porta, passando sopra ai
miei lamenti.
Qualcuno aveva bussato. Nessuno aveva mai bussato
prima di allora, ma lo benedissi, chiunque fosse.
«Hillr devo
ricordarti quali sono le mie disposizioni mentre mi sto occupando dei
prigionieri?» chiese Durza con voce pericolosamente
calma.
«Perdonami mio signore ma si tratta di una cosa urgente.
Posso entrare?»
«Mi auguro per te che sia veramente
così».
Arricciando pigramente un dito, lo Spettro fece scattare
la serratura e la porta si aprì.
Un uomo con i capelli ingrigiti
sulle tempie e gli occhi tondi come quelli di un pesce entrò
rapidamente e si inchinò in direzione di Durza.
«Lascia perdere
i convenevoli e parla».
«Signore, Lord Barst è sulla strada per
Gil’ead con il suo seguito. Arriverà in
città tra un paio
d’ore».
«Cosa viene a fare a Gil’ead?»
L’uomo si
tormentò la barba. «Non lo sappiamo signore. Uno
dei nostri uomini
è appena tornato dal suo giro di ricognizione ed
è sicurissimo che
si tratti di lui. Ed è il migliore della squadra, non si
sbaglia
mai».
L’espressione del mio nemico divenne una maschera di
irritazione. «Di’ a tutti gli uomini di dare una
mezza ripulita a
quelle topaie che chiamano dormitori; se tra un’ora trovo
anche
solo l’ombra di una bottiglia di idromele me la pagheranno
cara. E
poi date una scrollata alle vostre casacche -sono più grigie
che
rosse ormai- schiera tutte le forze in giro per la città e
il
castello e informa la popolazione».
Seguii l’intera
conversazione come se le voci venissero da un altro mondo, desiderosa
solo di ritornare ai miei sogni di rose e giardini. Non potei
però
impedirmi di notare che lo Spettro era preoccupato e capii che quel
Lord Barst doveva essere un uomo di una certa importanza a giudicare
dall’impressione che voleva fare Durza su di lui.
Hillr uscì e
Durza ringhiò, frustrato. Fece un rapido giro della stanza,
andando
a raccogliere la mia camicia e i miei pantaloni da terra, che mi
aveva sfilato per potermi torturare.
«Mi spiace informarti che
dovremo rimandare il nostro incontro a domani, Elfa».
Fece
sparire una mano in una piccola bisaccia di velluto che portava in
vita e ne estrasse qualcosa che si affrettò a fare sparire
tra le
labbra e a masticare nervosamente.
«Saprò contenere
l’impazienza» replicai asciutta.
Durza sogghignò e sciolse le
catene, porgendomi i miei vestiti. Dall’odore che mi
arrivò alle
narici quando si chinò su di me capii che probabilmente
stava
mangiando delle foglie di menta. E che per farlo aveva trasformato i
suoi denti da quelli di un felino a quelli dritti e regolari di un
essere umano. Purtroppo il suo aspetto non perse nulla dello
spaventoso che gli apparteneva.
Mi prese nuovamente in braccio
come una malata per condurmi nei miei alloggi, come li chiamava
lui.
Quando se ne andò portò le quattro guardie, che
erano ormai
fisse da tempo davanti alla mia porta, con sé.
A quel punto avrei
tanto voluto sapere chi fosse quel Lord Barst.
Tossii sputando
sangue.
Mi afflosciai sul mio giaciglio e scivolai nelle immagini
confuse del mio sonno.
Ero
ad Ellesméra e gli Athalvard cantavano magnificamente sul
sentiero
che si snodava sotto l’albero su cui ero seduta io. Era tutto
caldo, luminoso, sereno, così bello che faceva quasi male.
Poi
arrivò Durza, parlottando qualcosa di incomprensibile
riguardo ad un
certo Lord Barst. E tutto divenne freddo e gelo.
Il
rumore di ferraglia era molto vicino. Aprii gli occhi nello stesso
istante in cui la chiave della mia cella fece l’ultimo giro
nella
serratura e l’uscio si aprì.
Mi puntellai sui gomiti e mi tirai
a sedere. Due soldati mi si avvicinarono e mi misero in piedi senza
troppi complimenti, trascinandomi con loro. Mi dibattei debolmente ma
bastò uno schiaffo ben assestato per confondermi. Non
riuscivo più
a contrastare nemmeno degli umani.
I due mi portarono fino alla
stanza delle torture e mi incatenarono al tavolo.
C’era qualcosa
che non andava. Dov’era Durza? Di solito non lasciava nemmeno
che i
soldati varcassero la soglia della porta nera di quella stanza.
Un
uomo basso e tarchiato entrò e diede ordine di chiudere bene
a
chiave la porta. Allungava curiosamente il suono della
“R” tanto
da pronunciarla moscia. Tra il mio popolo nessuno aveva mai quei
problemi nel parlare, invece qualcuno tra gli uomini a volte
pronunciava le lettere in modo strano o balbettava senza la minima
capacità di controllarsi. In quel caso bastava mettersi un
pugno di
sassi in bocca ed allenarsi a dire l’alfabeto tutto di fila,
magari
anche al contrario. Peccato che gli uomini non riuscissero proprio ad
arrivarci da soli.
L’uomo in questione mi si avvicinò e mi
scrutò con evidente curiosità, gli occhi da
cerbiatto sgranati e
attenti. Mi scostò i capelli sudici dalle orecchie.
«Non avevo
mai visto una della tua razza» disse. «Siete
veramente belle come
si dice».
Restai impassibile, in attesa che mi spiegasse il
perché fosse lì. Ma non pareva avere alcuna
fretta. Si sfilò con
calma i guanti bianchi candidi e li porse ad uno dei suoi soldati.
Dalla stazza e dalla muscolatura si poteva dedurre facilmente che
fosse un guerriero, eppure le sue mani erano morbide e lisce, indice
del fatto che non si togliesse i guanti quasi mai mentre maneggiava
una spada. Al contrario di Durza, le cui mani erano grandi, con dita
lunghe, agili e inquiete, che sembravano nate per impugnare
un’arma
ed erano rovinate, scorticate, irruvidite dai calli tipici di un
combattente.
Dove era finito Durza? Per un assurdo istante mi
ritrovai a desiderare che fosse lì con me, a tenere
d’occhio
quell’uomo che non conoscevo e dal quale non sapevo cosa
aspettarmi. Mi disprezzai profondamente per la mia debolezza.
«Sono
il conte Barst, figlio di Berengar» si presentò,
confermando i miei
sospetti. «Sono uno dei secondi di sua maestà il
re Galbatorix e
sono qui in missione per conto suo. Da quando la sua pietra
è stata
rubata da quei villani dei Varden il mio signore non dorme
più sogni
tranquilli. E se non gli è ancora stata restituita
è solo perché
ha fatto affidamento sul servo sbagliato. È evidente che lo
Spettro
non ha saputo essere abbastanza convincente con te». Mi mossi
lievemente sul tavolo, inquieta. «Quindi io sono qui per
riuscire
dove lui ha fallito. Vorrei proporti una soluzione diplomatica: se tu
mi indicherai il luogo dove si è schiuso l’uovo
allora saprò
ricompensarti con la libertà e con la garanzia che il re
lascerà il
tuo popolo fuori dalla guerra imminente. Galbatorix stima e ammira
gli elfi più di ogni altra creatura al mondo e non vorrebbe
mai
arrecarvi danno».
Non era affatto uno stupido, Lord Barst. Ma
l’arte oratoria dello Spettro era di gran lunga superiore, e
non
era bastata. Il conte sembrava più un uomo dalle maniere
rozze, che
un diplomatico.
Sbattei le palpebre e lo guardai in
silenzio.
L’uomo sospirò, scuotendo lentamente la testa.
«Non
vorrei mai dovere usare delle maniere forti su una fanciulla».
La
sua affermazione era ridicola considerando che il mio corpo era
ridotto a un grumo di carne sanguinolento. Che fossi una fanciulla o
meno, le maniere forti non mi erano state
risparmiate.
«Rispondimi».
Illuso.
«Oh
e va bene!» esclamò affabilmente.
«Accendete quel braciere e
arroventatemi un ferro».
I soldati eseguirono, mentre lui
continuò ad insistere per un altro paio di minuti, prima di
arrendersi all’evidenza che non avrei parlato e aspettare che
il
ferro fosse pronto.
Lo aveva appena impugnato quando la serratura
scattò e la porta si aprì, senza che nessuno da
fuori avesse usato
la chiave, dato che in effetti era incastrata nella parte
interna.
Durza entrò nella stanza come un tornado, i capelli
rossi scomposti. «Mi pareva di averti chiesto di farlo solo
in mia
presenza, Barst» osservò gelidamente.
Il mio carceriere
indossava un lungo ed inquietante mantello di pelli di serpente che
lo faceva sembrare ancora più alto e minaccioso, accanto a
lui il
conte sembrò improvvisamente piccolo. E ovviamente i denti
aguzzi
erano tornati al loro posto.
Barst iniziò a parlare con aria di
sufficienza, ma la sua espressione appassì mano a mano che
continuava a guardare gli occhi cremisi dello Spettro.
«Sono un
funzionario mandato direttamente da sua maestà il re in
persona. E
come tale devo rispondere direttamente e solo a lui, senza
interferenze intermedie. Io ritengo che tu abbia trattato
l’elfa
con troppa grazia e quindi voglio accertarmi che tu abbia provato
ogni tipo di torture possibili per estorcerle la
verità».
Durza
sollevò un angolo della bocca in un sorriso beffardo.
«Perché non
lo chiedi direttamente a lei?» annuì nella mia
direzione.
«Si
rifiuta di parlarmi» dovette ammettere l’uomo.
Mi divertì il
trionfo che deformò i lineamenti dello Spettro. «E
sono già un
passo avanti a te, caro Barst. Ma prego». Si
poggiò con la schiena
contro la parete in fondo alla stanza, le braccia conserte.
«Rimarrò
qui a supervisionare e ad accertarmi che tu non la uccida»
Dal
modo in cui il funzionario del re serrò la mascella dedussi.
che
fosse molto arrabbiato, ma che la paura di Durza superasse
l’ira.
L’espressione che assunse il suo viso largo era grottesca,
assomigliava vagamente ad un Urgali imbronciato.
Barst giocherellò
con il ferro su di me fino a che quello non diventò freddo,
senza
ottenere nulla se non i miei muscoli irrigiditi dal dolore, che
però
mi parve più lieve del solito, come se mi ci fossi abituata.
Poi
posò l’attrezzo e si deterse la fronte con la
manica della
veste.
La mia lucidità non era normale, considerata la condizione
in cui versavo fino a poche ore prima. Capii il perché
quando Durza,
dal suo angolo avvolto nella semioscurità, mi
strizzò un occhio con
aria complice e la situazione mi parve così ridicola che per
poco
non scoppiai a ridere. Mi ritrovavo coinvolta in una faida tra due
servi del re ed entrambi volevano dimostrare all’altro di
essere
migliore. Lo Spettro mi stava probabilmente regalando delle energie e
proteggendo dal dolore perché io riuscissi a resistere e a
non
rivelare nulla al Lord. Era stupido e maledettamente
infantile.
«Desideri risolvere il tuo dubbio con altri
esperimenti, Barst?» chiese Durza con un tono così
ossequioso da
parere offensivo.
La mascella quadrata dell’uomo si contrasse
nuovamente. «Non ho bisogno che tu mi aiuti a svolgere il mio
compito Spettro. Questa cagna di un’elfa parlerà,
in una maniera o
nell’altra».
Durza sollevò un sopracciglio, squadrando i due
soldati che erano con noi nella stanza. «La presenza di lei
qui era
un’informazione riservata. Quindi o i tuoi uomini tengono la
bocca
cucita o mi premurerò di cucirgliela io. O di tagliargli la
lingua,
se preferiscono».
I due impallidirono ma riuscirono
coraggiosamente ad annuire.
Barst si concentrò nuovamente su di
me. «È molto graziosa» disse, rivolto
allo Spettro.
Lui si
strinse nelle spalle. «Forse».
«Non sai proprio come goderti le
cose belle della vita tu, eh?» La sua mano liscia
sfiorò la pelle
scoperta del mio collo.
Mi irrigidii immediatamente.
«Dovresti
farle un bagno» disse Barst.
«Sono il suo carceriere, non la sua
balia».
I denti storti del funzionario del re si scoprirono in un
sorriso. «Deduco quindi che tu non abbia avuto modo di..
divertirti
con lei».
«No» fu la secca replica.
«Peccato. Forse non sai
che la tortura psicologica e il totale annientamento fisico
può
spingere anche il più tenace a cedere. Ma forse ad uno
Spettro non
vengono in mente idee di un certo tipo».
«Semplicemente perché
ho altri modi per sfogare le mie frustrazioni, non mi è
necessario
farlo sulle prigioniere».
Le dita di Barst scivolarono sul mio
petto. «Che razza di uomo sei?»
Gli sputai in faccia,
costringendolo a togliermi le mani di dosso per asciugarsi la
fronte.
«Non sono un uomo. E forse non ti ho avvertito»
ridacchiò Durza, «che questa è una
gatta feroce. Non si lascerà
domare tanto facilmente».
Il sorriso osceno sul viso del
funzionario del re mi fece inorridire. «Sarà solo
più
divertente».
Tirai furiosamente le catene che mi bloccavano sul
tavolo, ma non riuscii ovviamente a smuoverle di un pollice.
Disperata, cercai istintivamente il viso di Durza e gli scoccai uno
sguardo implorante.
«Non credo che la fanciulla ne sarebbe molto
felice» disse lo Spettro, restituendomi uno sguardo
indecifrabile.
Barst agitò una mano. «Ha importanza? Non
è
nemmeno umana, non merita la mia pietà. E se non sbaglio tu
non
l’hai mai avuta la pietà, giusto?»
Le sue parole mi
indignarono profondamente. Capii che il potere aveva eccitato il
carattere di quell’uomo al punto di fargli credere di poter
fare
tutto secondo le sue regole e la sua volontà, con il pieno
diritto
di calpestare gli altri senza farsi scrupoli. Era sprofondato nel
pozzo nero della depravazione, trasformandosi in un animale.
Le
sue dita giocarono con l’orlo della fascia di stoffa che mi
copriva
il seno. Chiusi gli occhi, sul punto di vomitare.
«Barst scopri
un altro pollice della sua pelle e non sarò più
padrone delle mie
azioni» lo informò lo Spettro affabilmente.
L’uomo parve
infastidito dall’insistenza di Durza. «Il mio
signore, il nostro
signore, mi ha dato la più ampia libertà di
azione. Posso fare ciò
che voglio, senza alcun limite. E se è ciò che
desideri, potrai
farlo anche tu una volta che avrò finito con lei».
«Una cosa è
fare di tutto per strapparle informazioni, un’altra
è costringerla
nel tuo letto per poterti vantare dell’impresa. Se vuoi una
donna
vattela a cercare, in questo castello ci sono certamente un paio di
belle servette che sarebbero ben liete di concederti i loro
favori».
Con un movimento agile delle dita, Durza aprì le mie
catene e io mi alzai a sedere così velocemente che il mondo
mi
vorticò intorno.
«Per oggi direi che hai verificato abbastanza,
Barst. Continuerai domani».
Mi afferrò per il gomito e mi
sostenne fino all’uscita.
«Resterò a Gil’ead solo tre
giorni, poi tornerò a fare rapporto al mio re» lo
richiamò l’uomo,
«e userò tutti i mezzi possibili per ottenere
ciò che lui mi ha
ordinato, non sarai certo tu ad impedirmelo».
Durza lo guardò
beffardo da sopra la spalla. «Prova a sfidarmi se ne hai il
coraggio. Sappi solo che te ne pentirai amaramente».
«Non puoi
uccidermi Spettro. Il re lo verrebbe a sapere e ti
punirebbe».
«Allora diciamo che non vorrei proprio che ti
capitasse uno sfortunatissimo
incidente,
sono stato abbastanza chiaro?»
«Trasparente» dovette abbozzare
Barst, la voce ridotta ad un sibilo rabbioso. «Ma guardati le
spalle».
Mi accorsi di stare tremando violentemente solo quando
Durza dovette sollevarmi da terra per permettermi di proseguire nel
corridoio fino alla mia cella.
«Avrei dovuto darmi da fare a
sfigurare anche il tuo bel faccino, piccola Elfa».
Annuii
distrattamente, nascondendo automaticamente il viso contro il suo
collo, fuggendo al mondo. La sua pelle era calda e lo trovai strano.
Avevo sempre pensato che fosse gelida come lo erano le sue mani, e
magari anche viscida come quella di un serpente. Invece no, era..
umano. E sapeva di un qualche olio da bagno. Non seppi
perché ma lo
trovai tremendamente rassicurante.
Mi scostai immediatamente non
appena sentii il suo corpo irrigidirsi contro di me.
Il fatto che
proprio lui mi avesse difesa da un uomo del re, stonava
incredibilmente. E il fatto che io gli fossi così
profondamente
grata per la sua azione, stonava ancora di più.
«Perché lo hai
fatto?» chiesi quando lo Spettro mi depositò a
sedere sulla mia
branda.
Gli occhi seri di Durza si assottigliarono. «Me lo hai
chiesto tu».
«Magari il suo metodo avrebbe funzionato».
Fece
un gesto spazientito. «Se era ciò che volevi posso
sempre scortarti
da lui. Non credo che il caro Barst ti respingerebbe».
«Non ho
detto questo!»
Sospirò rumorosamente. «Lo so. Devo almeno
riconoscere a quel maiale che in pochi minuti è riuscito a
spaventarti quasi quanto ho fatto io in più di due
mesi».
Mi
tormentai nervosamente le unghie. «Che ne sai tu?»
L’angolo
sinistro della sua bocca si sollevò leggermente.
«Lo so Elfa». Si
avviò alla porta. «Non credere che d’ora
in poi cambi qualcosa.
Ho impedito ad un uomo che odiavo di compiere un’azione
indegna
solo per mio personale interesse. Quando finalmente leverà
le tende
tornerà tutto come prima».
«Non c’era bisogno di
puntualizzarlo».
Esitò sulla soglia. «Meglio di sì,
invece».
«Non ho mai pensato che sarebbe cambiato qualcosa»
lo
informai.
«Lo hai sperato» disse, prima di chiudere la
porta.
Continuavo a rifiutare fermamente una verità che
però
premeva sul mio cervello da troppo tempo. Il fatto che Durza sapesse
sempre con esattezza che sentimenti provassi non poteva essere
casuale. Le barriere della mia mente erano pressoché
inattaccabili
ed era impossibile che le mie espressioni fossero così
rivelatrici,
sapevo perfettamente come fare per rimanere impassibile e mi riusciva
piuttosto bene, ne ero sicura.
A quel punto l’unica soluzione
possibile era che Durza fosse capace di creare un contatto con la
parte più profonda delle persone e riuscire a carpirne gli
stati
d’animo. Probabilmente era un potere che derivava dal fatto
di
essere uno Spettro ed avere legami così profondi con degli
spiriti.
Mi chiesi fino a che punto lui potesse leggermi e
all’improvviso mi sentii vulnerabile. Avevo passato tutta la
vita a
nascondere i miei sentimenti alle persone che mi circondavano -era il
fulcro su cui ruotava tutta la mia forza- e il fatto che qualcuno
riuscisse a portare alla luce con una tale facilità i
segreti della
mia anima mi faceva sentire in qualche modo violata.
Debole.
__________________________________________________________________________________________
Lord Barst! Perché? Perché era una figura che mi interessava approfondire, dato che Paolini lo ha presentato in modo molto superficiale.
Per quanto riguarda la possbile capacità di Durza di leggere i sentimenti, la cosa mi è sembrata plausibile da come si comportava con Eragon mentre era prigioniero a Gil'ead, nessuno lo ha mai fatto presente, ma nemmeno negato, giusto?
Ciao a tutti! (:
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Capitolo 6 *** Mi stai corteggiando, Durza? ***
6.
Mi stai corteggiando, Durza?
Barst
rimase altri due giorni, giorni che spese totalmente sul mio corpo
con uncini, lame, ferri, fruste e mezzi del genere.
Durza non
mancò mai a nessuna delle sessioni, anche se si limitava a
stare
nell’ombra come una minaccia silenziosa. Mi diede comunque un
senso
di sicurezza saperlo pronto ad intervenire in mio favore,
accompagnato da scrupoli che Barst sembrava non avere e che in
effetti non mi sarei mai aspettata nemmeno da lui.
A tratti lo
sentivo sussurrare incantesimi di guarigione che impedissero al
funzionario del re di uccidermi. Perché in effetti mentre
nelle
torture lo Spettro era metodico e preciso, esperto, Lord Barst era
rabbioso e violento. Durza si premurava di farmi sfiorare la morte,
ma trattenendomi, lui colpiva a casaccio, sperando di procurarmi
più
dolore possibile e spingermi a parlare.
I due bisticciavano in
continuazione, ma dato che quelle liti parevano avere come scopo
quello di stabilire chi fosse il migliore, non mi toccavano e mi
limitavo a godermi la scena.
L’ultimo giorno, poco prima di
partire, Barst discese nella mia cella e mi fece legare al tavolo
delle torture. Durza arrivò poco dopo e si ritirò
silenziosamente
in un angolo.
Sentii a malapena le mani dell’uomo che mi
afferravano un piede -da quando non avevo più gli stivali il
gelo mi
faceva spesso perdere la sensibilità in quel punto del
corpo- ma
sentii chiaramente il dolore acuto che mi procurò quando mi
strappò
l’unghia dell’alluce con una pinza. Alluce, illice,
trillice,
pondolo e minolo. Poi passò all’altro piede. Il
sangue che mi colò
sulla pelle mi parve bollente.
«Consideralo un regalo d’addio»
mi sibilò rabbiosamente. «Il tuo comportamento
verrà riferito al
re, Spettro» aggiunse ad alta voce.
Durza avanzò nel cono di
luce creato dal braciere. «E allora mi auguro che farai
presente la
mia indiscussa abilità, Barst. Come avrai avuto modo di
notare ho
fatto tutto il necessario, ma senza risultati».
«Ti sei
rifiutato di lasciarmi agire come volevo, com’era ordine del
re e
questo basterà a renderti colpevole di
insubordinazione».
Lo
Spettro inarcò un sopracciglio, per niente turbato.
«Notevole».
«Fossi in te non riderei più di tanto. Galbatorix
odia perdere tempo. Non esce mai dal suo castello perché
deve
concludere la sua ricerca, quindi lascia ai suoi luogotenenti il
compito di fare il suo volere in Alagaësia. E tu ti sei
dimostrato
incapace anche di questo piccolo incarico. Ultimamente stai perdendo
colpi, a lui non piacerà».
«Non sono il leccapiedi del mio re
quanto te, questo è sicuro. Ma non osare svalutare i miei
meriti, ti
giuro che la mia natura potrebbe rivelarsi piuttosto spiacevole in
questi casi».
«Non penserai veramente di spaventarmi
così».
«Io
non penso, so» ribatté Durza, aggiungendo
un’ulteriore conferma
alla mia ipotesi sulle sue capacità di lettore di anime.
Barst
divenne paonazzo. «Non sei altro che uno schiavo delle ombre!
Cosa
si prova ad avere degli spiriti che ti comandano a bacchetta? Non so
nemmeno se sto parlando con un essere solo o con altri cento
adesso!»
Gli occhi di Durza divennero di ghiaccio. «Vattene»
disse, parlando così lentamente da parere sul punto di
scoppiare.
«Vattene prima che ti dimostri quanto sono padrone della mia
volontà
e ricacci il consiglio dei miei spiriti, che mi suggeriscono di non
inimicarmi il re».
L’uomo spinse orgogliosamente il mento in
fuori. «Non finisce qui. Rivedrai presto la mia faccia,
Durza».
Lo
guardai andarsene impassibile. Io certamente non avrei dovuto
rivederlo, probabilmente non avrei nemmeno mai più sentito
parlare
di lui.
Ancora non potevo sapere quanto mi stessi sbagliando e
quanto il nome del conte avrebbe avuto effetto nella mia vita
futura.
«Finalmente soli, Elfa».
Feci una smorfia. «Mi stai
corteggiando, Durza?»
«Vedo che sentire altri offendermi ti
rinvigorisce». Mi guardò maliziosamente.
«Ma si possono fare cose
interessanti rimanendo soli, Elfa, te lo assicuro».
«Taci»
riuscii solo a dire, aspramente.
Annuì in direzione dei miei
piedi. «Barst mi ha tolto il progetto che avevo intenzione di
realizzare durante la prossima settimana».
Gettai un’occhiata
alle mie dita grondanti di sangue e feci una smorfia disgustata.
«Mi
restano le mani».
Durza fece un sorrisetto. «Da quando mi dai
suggerimenti? E poi non c’è nulla da strappare
dalle tue unghie,
ci pensi già abbastanza da sola, quando sei
nervosa».
Accolsi
con fastidio quell’osservazione. «Non pretendere di
conoscermi».
Lo Spettro mi sciolse dalle catene sorridendo
sinistramente. «Non so nemmeno il tuo nome, tanto per
cominciare».
«E non lo saprai mai, tanto per
concludere».
Appoggiai la punta del piede destro a terra, ma non
appena ci feci pressione delle stilettate di dolore si diffusero per
tutto l’arto.
Durza mi guardò con una luce giocosa negli occhi
di sangue, le pupille assottigliate dalla luce del braciere
«Potrei
ridarti le unghie in cambio del tuo nome. Tanto cosa vuoi che ne
sappia della vostra società elfica?»
«Perché mai vuoi saperlo
con tanto interesse?»
«Conosco i nomi di tutti gli uomini e le
donne che lavorano al mio servizio. Odio rivolgermi alla gente
chiamandola “Tu”, “Soldato”,
“Cameriera”, “Stalliere”,
“Elfa..”»
Mi alzai in piedi con decisione, ignorando il
dolore. «Tanto me le strapperesti di nuovo, le
unghie».
Lo
Spettro tormentò una catenella d’argento che
teneva intorno al
collo. «Vero. Ma sappi che verrò a sapere tutto
prima o poi, che tu
collabori o meno. Ho i miei mezzi. Intanto so
cos’è il tatuaggio
che hai sulla spalla. Si chiama Yawë ed è un
simbolo di
riconoscenza presso i vostri reali. Quanto bene hai fatto per
meritare un simile onore da parte del vostro sovrano, piccola
Elfa?»
L’ironia della situazione mi costrinse a ricacciare un
sorriso. Se solo avesse saputo che ero la figlia della regina..
«Non
sono piccola. E la nostra inutile conversazione si conclude
qui».
Ridacchiò, afferrandomi per un polso mentre mi conduceva
all’uscita. «Se voi Elfi siete tutti
così algidi e noiosi non mi
stupisce che Galbatorix abbia intenzione di sterminarvi».
«Barst
pareva pronto a giurare che il re ammirasse profondamente il mio
popolo».
A quel punto Durza scoppiò a ridere rovesciando il capo
leggermente all’indietro, gonfiando i tendini del collo e
spalancando la bocca irta di denti aguzzi. Uno spettacolo spaventoso,
nonostante la risata fosse palesemente sincera, calda. Potevano gli
Spettri ridere così?
«Potrei sentirmi ferito nei sentimenti. Hai
creduto a lui e non a tutte le mie promesse di
libertà!»
Bloccai
i miei muscoli facciali prima che si distendessero in un sorriso. La
sua allegria era stravagante. «Non gli ho creduto nemmeno un
istante». Entrai nella mia cella e lo Spettro mi
lasciò il polso.
«Ma perché hai voluto che tacessi tutto a
Barst?» chiesi,
recuperando tutta la mia serietà. «Me ne sono
accorta sai. Tu non
volevi che io mi lasciassi sfuggire nemmeno una più piccola
informazione di fronte a lui, eppure il vostro padrone è lo
stesso.
È così importante per te essere la persona che
dirà a Galbatorix
ciò che vuole sapere? Riceverai una ricompensa o
cosa..?»
Durza
mi posò un indice sulle labbra, bloccando le mie parole.
«Vorrei
tanto prolungare questa chiacchierata Elfa, ma ho da fare. Ti dico
solo questo: non è detto che io riferirei direttamente al
mio re
come un cagnolino obbediente chiaro?»
Se ne andò, lasciandomi
piuttosto basita. Misi insieme le sue ultime parole e quelle che mi
aveva rivolto la settimana precedente.
«Non pretendo che un
servo di Galbatorix capisca».
«Allora può darsi che con il
tempo riuscirò a capire».
Mi sedetti sul mio giaciglio.
Durza non pareva molto entusiasta di dichiararsi servitore di
Galbatorix. Ma allora perché era al suo servizio? Quali
erano le sue
vere intenzioni?
Scossi la testa. Non l’avrei mai saputo e
probabilmente non dovevo nemmeno interessarmene.
Lo Spettro parve
voler dedicare il resto della giornata al risposo perché non
si fece
più vedere. Così sfruttai quella piccola tregua
per immergere i
piedi nell’acqua gelida del catino, che mi diede sollievo
immediato. In effetti era così fredda che quasi non sentivo
più i
piedi.
Il comportamento del mio nemico degli ultimi giorni mi
aveva colpita e non poco, anche se una parte di me rifiutava di
ammetterlo. Non avrei mai creduto che potesse avere la decenza di
muoversi in mio soccorso, che fosse solo per ripicca verso Barst o
per impedirgli di racimolare informazioni che a quanto pareva non
voleva che arrivassero al sovrano.
Grazie alla sgradevole visita
del conte, ero io ad avevo raccattato informazioni interessanti: I
sostenitori del re erano divisi tra loro e quindi vulnerabili;
Galbatorix restava veramente chiuso nel suo castello a compiere
chissà quali sacrileghi studi come si mormorava tra la mia
gente;
Durza sapeva leggere i sentimenti, a quel punto non c’erano
più
dubbi.
Riguardo all’ultimo punto potevo solo azzardare qualche
ipotesi. Gli Spettri e gli Spiriti erano le creature più
misteriose
di Alagaësia insieme ai Draghi. Non si era mai sentito di uno
Spettro che si fosse lasciato studiare. I loro segreti nascevano e
morivano con loro, cose che avvenivano difficilmente entrambe; la
maggior parte degli Spettri creati avveniva per errore, da maghi
inesperti o troppo ambiziosi e gli spiriti prendevano il sopravvento
sulla loro coscienza. Ucciderli era ancora più difficile,
anche se
Ajihad vantava la discendenza diretta da un uomo delle tribù
desertiche che era riuscito a sterminare l’intera famiglia di
uno
Spettro e a sconfiggere e fare sparire lo Spettro stesso. Ma nei suoi
racconti leggenda e realtà si intrecciavano con evidente
trasporto,
al punto che era impossibile distinguere quanto di ciò che
narrava
fosse vero.
Mi resi conto di essere probabilmente la creatura con
più conoscenze sugli Spettri in tutta Alagaësia.
Chissà come
aveva fatto a diventare uno Spettro. In effetti prima di diventare il
Durza che conoscevo io doveva essere stato un comunissimo mago
umano..
Mi concessi di gioire per tutte le informazioni che erano
finite in mio possesso.
Sarei sopravvissuta a tutto quello e le
avrei riferite ai miei alleati. Se solo avessi trovato un punto
debole in Durza avrei potuto dare suggerimenti per come riuscire ad
ucciderlo. Non sapevo da quanto la sua presenza inquinasse la terra
di Alagaësia, ma doveva essere da parecchio dato che si diceva
che
fosse già un mago esperto quando aveva sostenuto il re nella
sua
ascesa al trono.
Ce l’avrei fatta! Qualcuno sarebbe venuto a
salvarmi. Ero comunque un anello abbastanza importante nella catena
delle forze della resistenza, non potevano essersi semplicemente
rassegnati alla mia morte.
Poi un pensiero viscido e triste si
insinuò nella mia mente e la mia flebile felicità
si incrinò
all’improvviso, come una casa dalle deboli fondamenta.
Non
sapevo esattamente cosa stesse succedendo fuori da quelle mura
ammuffite, ma la verità era che vita in Alagaësia
stava sicuramente
proseguendo a ritmi vertiginosi anche senza di me.
Anche senza la
gentilezza di Glenwing. Anche senza il sorriso di Fäolin.
La vita
era profondamente ingiusta.
Un male che non aveva nulla a che fare
con i dolori delle torture mi dilaniò il petto.
Fäolin.
Fäolin..
Oh
no! Non dovevo, non dovevo davvero. Eppure gli argini che ero
riuscita a impormi per tutto quel tempo, si ruppero. Prima una lieve
crepa e poi cedettero, di botto.
Fäolin.
Chiusi gli occhi e mi
lasciai travolgere dal suo ricordo. I suoi capelli così
biondi da
sembrare d’argento, lisci e lunghi fino alle spalle, raccolti
sempre in una coda bassa; la sua pelle delicata; i lineamenti
aristocratici; i grandi occhi blu, profondi come solo
l’oceano
doveva essere; le labbra morbide come petali di rosa, capaci di dare
vita a stupende melodie; le mani gentili e lisce, che riuscivano ad
intrecciare una ghirlanda di fiori nello spazio di tempo di pochi
battiti di cuore. Fäolin che mi baciava, Fäolin che
mi abbracciava,
Fäolin che mi ascoltava, che mi capiva, che mi accettava, che
mi
voleva bene.
Poi rividi il suo corpo disteso a terra, le palpebre
serrate, la bocca aperta in una muta richiesta di aiuto, la freccia
nera stregata dalla magia dello Spettro conficcata nella sua gola.
La
morte se l’era portato via e io non lo avrei rivisto mai
più. Mi
aveva promesso che ci sarebbe stato. Sempre.
Ma non aveva potuto
mantenere la parola e la sua assenza mi bruciava come un continuo ed
eterno groppo alla gola. Ispirai profondamente per trattenere le
lacrime e i singhiozzi.
Forse era così che si era sentita mia
madre alla morte del re Evandar. Era un dolore così profondo
da
cancellare ogni pensiero ed ogni speranza.
Io stavo cercando di
combattere, era vero. Ma per cosa? Per un futuro? Come potevo pensare
ad un futuro se anche solo l’idea di viverlo senza
Fäolin mi
pareva insostenibile? Come potevo guardare avanti e continuare a
sperare, quando il mio più forte pilastro si trovava nel
passato?
Così smisi di pensare, semplicemente. Mi abbandonai al
dolore e mi lasciai cullare dalla sua forza distruttiva. Lo avevo
rifiutato e ricacciato per troppo tempo e mi ero illusa di poterlo
sconfiggere semplicemente spingendolo nell’angolo
più recondito
della mia mente. Ma come il fiume che restituisce sempre le sue
vittime prima o poi, così aveva fatto il mio cervello. E il
dolore
non si era placato, no. Era marcito e si era accumulato. Dolore su
dolore, cataste su cataste di materiale in putrefazione. Non ero in
grado di contrastarlo, ero troppo, troppo debole.
Mi
arresi.
Affondai il viso nella coperta di lana del mio giaciglio e
cercai disperatamente il sonno. Quello era l’unico luogo dove
i
pensieri sbiadivano, fuori dal mio controllo, e i morti
vivevano.
Fuggii da me stessa, debole e vulnerabile come mai in
vita mia ero stata.
Mi venne la febbre. Un attacco feroce dal
quale non seppi difendermi e che mi confuse la mente al punto che,
nei miei vaneggiamenti e confuse visioni, mi parve di vedere per
l’ennesima volta l’occhio bianco dallo spioncino
della
porta.
Biascicai una serie di parole, inutili minacce ed
esortazioni a sparire.
Alla fine cedetti e mi addormentai.
Sognai
mille morti. Volti di uomini che avevo ucciso, che ritornavano dalle
ombre per sussurrare minacciosamente il mio nome, invitandomi a
raggiungerli, minacciando di venire loro stessi a prendermi.
Mi
svegliai più volte, fradicia di sudore e tremante.
[Durza]
Il
sole non aveva ancora sfiorato lo Zenit e Durza avrebbe avuto ancora
un bel po’ di questioni da sbrigare prima di potersi
concedere un
po’ di pace.
Lord Barst se n’era finalmente andato, doveva
smettere di preoccuparsi. Ma la minaccia che gli aveva lanciato quel
maledetto prima di partire continuava a tormentarlo.
Se avesse
riferito al re che le sue torture non erano sufficienti, Galbatorix
avrebbe potuto pretendere che l’Elfa fosse portata al suo
cospetto
per occuparsene lui stesso. E quello avrebbe rovinato tutti i suoi
piani.
Si sedette stancamente alla massiccia scrivania di legno,
afferrando di malavoglia il pacco di pergamene, che conteneva i
rapporti dei propri uomini sul territorio intorno a Gil’ead,
che
lui governava e gestiva per conto di Galbatorix.
Era stato quello
il premio che il sovrano gli aveva riservato per averlo aiutato ad
assumere il potere. Durza pensava di meritarsi come minimo di regnare
su una buona metà di Alagaësia, visto che senza di
lui Galbatorix
sarebbe rimasto solo un pazzo senza speranza. Lui lo aveva guidato
nel sottomettere il suo nuovo drago nero, senza di lui non sarebbe
mai riuscito a piegare al suo volere nemmeno uno dei cuori dei cuori
di drago che erano in suo possesso. Lui ci sapeva fare con le anime
degli esseri, era un potere che gli avevano dato gli Spiriti che
avevano fuso la loro coscienza con la sua, lo stesso potere che gli
permetteva di controllare il volere degli Urgali.
Già, anche
senza i suoi Urgali il re si sarebbe trovato parecchio in
difficoltà.
Meritava decisamente più della metà di
Alagaësia.
Unì le mani davanti al volto e tornò col pensiero
al
giorno in cui il re era riuscito a strappargli il giuramento che
ancora lo teneva vincolato a lui.
«Io so che stai cercando
disperatamente qualcuno che odi e che il tuo cuore gronda vendetta.
Una volta diventato re di queste terre, io potrò offrirti
ciò che
desideri su un piatto d’argento».
«E perché non subito?»
aveva chiesto lui, impaziente.
«Dovrai fidarti di me» era stata
la risposta. «Però ho bisogno di un paio di
garanzie..»
Le
garanzie si erano rivelate essere dei giuramenti di obbedienza che
lui, accecato dalla prospettiva di poter avere immediatamente la
propria vendetta, aveva impulsivamente accettato e
pronunciato.
Ovviamente il re non aveva tra le mani l’uomo che
lui stava cercando, aveva semplicemente sfruttato la sua debolezza,
lasciandogli la garanzia futura che, finita la guerra, lo avrebbe
certamente catturato.
Aveva trovato lui stesso l’uomo che gli
interessava, diversi decenni più tardi. Ma purtroppo si era
reso
conto della sua vera identità quando quello gli era ormai
sfuggito.
Lo aveva inseguito ed era riuscito solo ad ottenere una delle
più
cocenti sconfitte della sua vita, oltre che un graffio sulla sua
spada. Non aveva fatto nulla per eliminarlo dalla lama, lo teneva
lì,
in bella mostra, come monito alle sue azioni passate.
L’uomo in
questione non ce l’avrebbe mai fatta da solo, e in effetti
era
stata una donna misteriosa a favorirgli la fuga con la magia, tenendo
impegnato Durza. Aveva impiegato decenni per scoprire infine
l’identità di quella maga maledetta. Ma nel
frattempo il suo uomo
era riuscito a riparare presso i Varden e lì ancora viveva,
addirittura in vece di loro capo.
Durza pensò con disgusto che il
mondo non era nemmeno in grado di distinguere i cattivi, quando
quelli si nascondevano tra loro. E Ajihad e la sua famiglia erano
colpevoli di crimini orrendi, almeno quanto i suoi.
Sapeva di
essere spietato, ma tutto era sacrificabile per lui. La sua vendetta
veniva prima della sua stessa vita, lo doveva a se stesso. E a tante
altre persone.
I muscoli delle spalle e del collo furono percorsi
da uno spasmo. Quanto? Quanto avrebbe dovuto aspettare ancora?
Se
all’inizio aveva accettato il comando del re nella speranza
di
poter raggiungere con facilità i propri obiettivi, ormai
aveva
perduto totalmente fiducia nelle sue vuote promesse.
Doveva essere
cauto. Prima di tutto avrebbe dovuto assicurarsi la fedeltà
del
cavaliere dei draghi che sarebbe nato dall’uovo azzurro che
purtroppo non era riuscito ad intercettare. Complottava da anni per
riuscire a prendere il potere che era in possesso di Galbatorix e non
appena avesse trovato il modo di svincolare dal suo giuramento,
cambiando il suo vero nome, avrebbe rovesciato il suo regno e si
sarebbe lui stesso impadronito del trono.
Era stanco di essere
sempre secondo ed inferiore a qualcuno. Il gusto dolce-amaro del
potere era troppo allettante per potervi rinunciare.
E se pensava
che era stato lui stesso a rendere il sovrano così forte
rischiava
di impazzire per la frustrazione!
Hillr bussò alla porta e lo
Spettro fu riscosso brutalmente dai suoi pensieri.
«Entra»
comandò brusco.
L’uomo era uno dei pochi bifolchi che lo
circondavano capace di leggere e scrivere, era lui che raccoglieva i
rapporti su pergamena, lui che lo sostituiva durante i periodi di
assenza. Era intelligente, capace e silenzioso, caratteristiche che
Durza stimava parecchio nei suoi servitori.
«Mio signore, ho qui
un altro rapporto».
«Di chi?»
Hillr gli porse un foglio di
carta piegato in quattro. «Dell’unica persona che
utilizza la
carta invece della pergamena, signore».
Lo Spettro fece un mezzo
sorriso. «Grazie».
L’uomo fece un rapido inchino e se ne
andò.
Durza si dedicò alla lettura di quell’ultimo
rapporto,
decifrando agilmente la grafia graziosa e minuta, scritta in un
codice noto solo a lui e al mandante, che avevano inventato tempo
addietro per potersi scambiare messaggi con la certezza che nessun
altro nel palazzo li avrebbe intercettati.
Durza,
Come
mi avevi chiesto ho interpellato il nostro ospite. Ho fatto
più
fatica del previsto a riuscire a farmi dire ciò che volevo,
è più
astuto di quanto credessi. Devo confermare i tuoi timori, il tuo
amico fraterno ha proprio intenzione di cercare di privarti di tutto
il potere che hai e di sminuirti di fronte al suo re.
Lo
Spettro sorrise del modo che utilizzava la sua spia per indicare Lord
Barst, che certamente suo amico fraterno non era, dato che si
odiavano cordialmente da quando si erano conosciuti. Aveva chiesto
alla sua spia di trovare un modo per estorcergli più
informazioni
possibili sulle sue future intenzioni, e lei c’era riuscita
benissimo. Era un’esperta in quello.
Non
ti sopporta proprio e ha intenzione di fare ricadere tutte le colpe
su di te, affermando che sei di polso troppo leggero e che non ti sei
impegnato a sufficienza nel trattamento dell’altra tua
ospite. Sta’
attento a ciò che fai.
Beh,
l’avvertimento era giunto un po’ tardi dato che
Lord Barst aveva
appena abbandonato Gil’ead furioso come un calabrone
stuzzicato. E
riguardo “l’altra tua ospite”,
cioè l’Elfa, stava
cominciando a rassegnarsi. Era testarda, terribilmente testarda. E
non avrebbe ceduto mai, ne era certo.
Se il re lo avesse ordinato,
avrebbe dovuto portarla al suo cospetto e lasciare che se ne
occupasse lui, con la forza infinita che i suoi Eldunarí
gli fornivano e la sua indiscussa abilità
nell’impossessarsi delle
menti altrui.
No, l’Elfa doveva dare a lui le informazioni che
custodiva come un’amante gelosa.
Gli era venuto un mezzo
accidente quando Barst si era dimostrato disponibile ad approfittarsi
di lei pur di riuscire a convincerla a parlare. Non era certo che la
volontà di lei avrebbe retto fino a quel punto, e se le
informazioni
fossero passate al conte, era come se fossero già nelle mani
del
re.
Per quello si era affrettato ad intervenire. Per quello e
perché non riusciva a tollerare un’azione simile.
Poteva anche
essere la creatura più spietata e priva di scrupoli di
Alagaësia,
ma le urla di sua madre quando i predoni li avevano catturati le
ricordava benissimo. E non si era mai sentito in grado di poter
compiere la stessa azione su una donna. Sapeva però che, se
si fosse
abbandonato alle voci grondanti di odio dei suoi spiriti, sarebbe
stato capace di fare qualsiasi cosa.
Durza serrò la mascella,
cercando di dominare la rabbia e l’impotenza.
Perché i suoi
piani parevano sempre destinati a fallire?
Doveva assolutamente
riuscire a muovere dei passi avanti dalla sua situazione. E il primo
e necessario era convincere l’Elfa a vuotare il sacco. E dato
che
né le parole melliflue né la tortura erano
serviti a granché,
avrebbe cercato di conquistarsi la sua fiducia.
Rise piano di se
stesso. Non sarebbe stato facile per niente, lei lo odiava con tutte
le sue forze e non sarebbe mai stata disposta a cambiare la sua
posizione. Doveva essere l’uomo che le aveva fatto
più male al
mondo.
Quella non era l’unica soluzione. Avrebbe sempre potuto
cercare di entrare nella sua mente, ma era restio a farlo
perché le
sue difese gli sembravano molto forti e perché lui,
nonostante
l’assistenza delle coscienze dei tre spiriti che abitavano in
lui,
non era molto abile in quei giochetti. La sua coscienza era piuttosto
controversa: una continua lotta tra lui e i suoi ospiti, che al
momento sbagliato potevano cedere per capriccio e eludere il suo
controllo. Era diventato molto abile a dominarli, ma talvolta
sfuggivano ancora al suo dominio, anche se lo avevano aiutato
parecchio ai tempi in cui aveva piegato le menti degli Eldunarí
per il suo re.
Non voleva rischiare di attaccare la mente
dell'elfa.
Eppure fu proprio ciò che si ritrovò a fare. Ma
non
subito e neppure quello stesso giorno.
Prima si perse a ricordare
i rari e brevi momenti in cui il viso di granito della sua
prigioniera assumeva qualche espressione, ricordandogli che in fondo
era una donna, viva, reale.
E poi pensò al momento in cui lei
aveva appoggiato il viso contro di lui -il naso freddo contro il suo
collo- subito dopo averla salvata dall’intento di Barst, solo
pochi
giorni prima, come se lui potesse nasconderla da tutti i mali del
mondo, lui che era la causa dei suoi. L’aveva sentita tremare
tra
le sue braccia, fragile come una foglia al vento. Per un assurdo
istante aveva desiderato veramente proteggerla da tutti i mali del
mondo. Più tardi aveva riso di se stesso e dei suoi stupidi
sentimentalismi. Lui e l’Elfa non potevano fare altro che
odiarsi e
lui sarebbe stato costretto ad ucciderla se lei si fosse rifiutata di
parlare. Anzi, per essere specifici avrebbe dovuto ucciderla anche
dopo che avesse parlato.
Ma in fondo a lui non importava nulla.
Non gli piaceva quella donna. Era l’esatta antitesi di
ciò che era
lui, rappresentava gli ideali che lui non avrebbe mai seguito,
l’altruismo che lui non avrebbe mai avuto.
Tutto ciò da cui si
era allontanato da lungo tempo.
Forse era per quello che non
riusciva a non provare una certa curiosità nei suoi
confronti.
Non
andò a torturarla quel giorno, non se la sentiva. I suoi
spiriti
invocavano sangue e dolore, ma Durza si chiuse in se stesso,
allontanando il fastidioso vociare delle creature.
Pensò che sia
lui che l’Elfa avessero diritto ad una pausa dopo la
liberazione
della funesta presenza di Lord Barst.
Tornò nella sua cella la
mattina dopo.
E la condizione in cui trovò la sua prigioniera
ebbe il potere di mandarlo nel panico più totale.
__________________________________________________________________________________________ Ciao a tutti e bentornati! :D
Allora, vi è piaciuta la narrazione con un po’ di pensieri di Durza? Spero di non aver fatto troppa confusione in quel punto, vi ho imbottiti di nuove informazioni.
Se c’è qualcosa di poco chiaro fatemelo presente, grazie ;)
Baci,
Lalli
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Capitolo 7 *** Carsaib ***
7.
Carsaib
Quando
riaprii gli occhi il mio sguardo era annebbiato e sentivo gli occhi
gonfi.
Il mio corpo era un qualcosa quasi staccato dalla mia
coscienza, estraneo alla mia volontà. Non riuscivo a dare
alcun
ordine di movimento nemmeno alle gambe, ero totalmente irrigidita.
E
in effetti avevo freddo. Ero stretta convulsamente alla coperta di
lana ma riuscivo a vedere la neve che cadeva fuori e sentivo il gelo
penetrare dalla finestra come mille aghi che mi pungevano la
pelle.
Dovevo alzarmi e allontanarmi dall’apertura.
Ma ne
valeva veramente la pena?
In quegli ultimi mesi non mi ero mai
resa conto di quanto la mia vita fosse pericolosamente in bilico. Mi
ero limitata a stringere i denti e a concentrarmi su tutto
fuorché
la mia condizione. Avevo indirizzato ogni mio singolo pensiero
all’uovo, al drago, al cavaliere, al futuro di
Alagaësia, come
avevo sempre fatto nella mia vita. E tutto quello senza rendermi mai
conto che quasi sicuramente io non avrei mai fatto parte di quel
futuro. La mia condizione mi impose di essere egoista, per una volta,
ed ebbi paura.
Fu in quel momento che capii con orrore di stare
morendo. Un velo di lacrime appannò ancora di più
la mia già
confusa vista.
Anni di sacrifici e sofferenze e me ne sarei andata
così. Sola, abbandonata a me stessa, strappata alla vita da
una
stupida e banalissima febbre che non potevo curare.
Non sentii
Durza entrare, lo vidi quando era già chino su di me, ma non
riuscivo a distinguere bene i suoi lineamenti. L’unica cosa
che
riuscii a percepire fu il rosso dei suoi capelli. E il suo odore di
menta, ovvio.
Conobbi d’un tratto una strana leggerezza. Almeno
non ero più sola, non volevo andarmene da sola.
Cercai di muovere
le labbra in quella che sicuramente sarebbe stata una supplica, ma mi
sentivo la gola arida e la voce impastata.
Poi d’improvviso
qualcosa di fresco si posò con sicurezza sulla pelle sudata
e
bollente di febbre della mia fronte.
Mi diede un sollievo
immediato, anche se non diminuì il freddo che sentivo
addosso. Capii
che era la mano di Durza. In un attimo di lucidità, sentii
le parole
dello Spettro riecheggiare quasi dolorosamente nella mia testa,
mentre la sua mano mi sfiorava con leggerezza il viso.
«Sei una
stupida, Elfa» gracchiò. E nella sua voce percepii
il panico.
Poi
la mano si scostò, e fu di nuovo il buio.
Disperata, smarrita, al
limite della sopportazione fisica, afflosciai il capo sul legno del
giaciglio.
E mi abbandonai alla morte.
Un silenzio pacifico
mi avvolgeva in maniera totale ed ero al caldo, finalmente. Il mio
corpo non bruciava più per la febbre, non mi era
più difficile
respirare.
Ero morta?
Beh se era così bello morire, avrei
dovuto farlo prima.
Ma fui presto smentita. Sentivo dolore in ogni
parte del corpo, ed era così presente da dover essere vero
per
forza.
Cercai di aprire gli occhi, ma c’era troppa luce, non ci
riuscii.
Crollai in un sonno nero e privo di qualsiasi
percezione.
Il cigolio di una porta che si apriva, il fruscio
di passi leggeri, il respiro di un’altra persona in piedi
accanto a
me.
«Ebbene?» domandò una voce.
Il suono mi giunse
lontanissimo, come se venisse da un’altra dimensione.
Una mano
piccola, morbida e calda, si posò sul mio viso e lo
sfiorò
delicatamente, per poi ritrarsi.
Un’altra voce, probabilmente
del proprietario della mano si librò nell’aria.
Era dolce, soave,
incredibilmente argentina e musicale.
Ma le parole che pronunciò
mi turbarono.
«Complimenti, mio signore. Hai tra le mani
nientemeno che la.. » un sottile fischio di approvazione
precedette
il resto della frase «la principessa degli Elfi, Arya di
Ellesméra,
figlia della regina Islanzadi e del re..»
«Puoi andare».
Una
voce incolore e fredda. Durza.
I passi leggeri frusciarono
nuovamente via.
Il respiro calmo accanto a me persisteva.
Volevo
alzarmi, ma la stanchezza ebbe la meglio su tutto e piombai
nuovamente nell’oblio, cullata da quel suono ripetitivo e
regolare.
Non avrei ricordato quella breve conversazione. Se non
molto tempo dopo, quando sarebbe stato troppo tardi.
Quando
aprii finalmente gli occhi, pensai di stare ancora sognando. La luce
rossastra di una candela posata accanto a me ingentiliva le pareti di
pietra grigia della stanza sconosciuta in cui mi trovavo.
Lasciai
correre pigramente gli occhi intorno a me. Era un ambiente spoglio,
arredato con il solo letto in cui ero distesa -un vero letto! Con un
vero materasso di paglia- e privo di finestre. Capii di essere ancora
nelle prigioni sotterranee perché l’aria sapeva di
marcio ed
umidità.
A quel punto mi concentrai su me stessa. Ero decisamente
viva. Respiravo ed ero piuttosto indolenzita.
Stirai le braccia e
le gambe e mi lasciai sfuggire una smorfia. Le croste delle ustioni,
dei graffi e delle frustate, tiravano dolorosamente.
Scostai la
coperta pesante sotto cui ero accoccolata e mi alzai cautamente in
piedi.
Niente febbre, niente tosse, niente mal di gola ed
equilibrio stabile. Perfetto. Rispetto alle mie ultime condizioni,
ero decisamente in forma. Avevo solo una fame terribile.
Indossavo
anche abiti puliti, che non mi appartenevano. Una pesante camicia
bianca e troppo grande, che mi raggiungeva quasi le ginocchia, con le
maniche arrotolate sui polsi e un paio di pantaloni di lana grigia,
da contadino. In compenso ero ancora scalza e c’era una conca
rossastra per ogni unghia dei piedi che mancava.
Qualcuno mi
doveva anche avere fatto un bagno perché la mia pelle era
pulita e i
capelli non erano più sudici. Mi strinsi una ciocca tra le
mani e la
portai alle narici. Muschio. E salvia, forse. Chiunque mi avesse
lavato i capelli lo aveva fatto con degli oli profumati.
Ma
chi..?
Durza?
Oh. Speravo vivamente di no! Teoricamente avevo
ancora una dignità. Sentii le orecchie andarmi in fiamme.
In ogni
caso mi aveva guarita. Perché lo aveva fatto?
Dei passi
riecheggiarono fuori dalla porta e riconobbi immediatamente la
camminata rapida del mio nemico.
Lo Spettro aprì la porta
distrattamente, sovrappensiero, e sussultò quando mi vide
alzata.
«Oh bentornata tra noi Elfa!» esclamò
con aria
sorpresa. «Non mi aspettavo di trovarti in piedi».
«Mi hai
curata» decretai, con una tale sicurezza che parve
un’accusa.
Durza
si ricompose e mi gettò un’occhiata vacua.
«Te l’ho già detto:
morta non mi servi, non ancora».
In condizioni normali mi sarei
dovuta inchinare a baciargli le mani per ringraziarlo della sua
cortesia. Ma insomma.. non ero propriamente di fronte ad un qualsiasi
uomo di quella terra.
Ma la mia buona educazione ebbe comunque un
minimo di sopravvento.
«Grazie» dissi coincisa.
Esibì un
ghigno. «Non sforzarti di ringraziarmi. Fidati quando ti dico
che
non l’ho fatto certo perché tenevo alla tua
salute».
I suoi
denti erano regolari e stava masticando una foglia di menta. Doveva
essere un vizio, come quello di Brom di fumare la pipa e quello di
Oromis di fissare il vuoto.
Sollevai una ciocca dei miei capelli.
«Muschio e salvia?»
Si strinse nelle spalle. «Mi pare meglio di
niente».
Lasciai ricadere il braccio e lo fissai arrabbiata ed
imbarazzata. «Hai criticato con tanta asprezza Lord Barst per
il suo
comportamento svergognato e poi ti sei anche permesso di farmi un
bagno?»
«Non mi permetterei mai» ribatté lui
posandosi la mano
sul cuore in un ironico giuramento. «Il bagno te lo ha fatto
una mia
serva, ma se lo desideri me ne occuperò personalmente da
oggi in
poi».
Gli tirai un debole pugno sulla spalla e solo in quel
momento mi resi conto di quanto le mie forze fossero ancora fiaccate.
«Non osare».
«Come preferisci» si chinò fino a
sfiorarmi
l’orecchio con la bocca, «Principessa».
Sobbalzai. E
Durza rise.
Come..? Ricordai all’improvviso quello che mi aveva
detto quando mi aveva rivelato di sapere cos’era lo
Yawë.
Sappi
che verrò a sapere tutto prima o poi, che tu collabori o
meno. Ho i
miei mezzi.
Deglutii. A quanto pareva ci stava riuscendo
perfettamente.
Lo Spettro mi girò intorno con calma inquietante.
«Principessa Arya dunque? E guardiana della pietra.. E
ambasciatrice, anche. Notevole. La vostra specie è stupida
al punto
di mandare i reali in missioni pericolose quale la tua, oppure siete
veramente a corto di guerrieri capaci?»
Non risposi alla
provocazione e rimasi immobile.
Ma mentre mi era alle spalle,
sentivo una morsa di inquietudine serrarmi lo stomaco. Non sapevo
cosa aspettarmi da lui. Mi aveva guarita, ma mi aveva anche fatto
capire che il suo non era stato un gesto di pietà.
Si fermò
accanto a me. «Potrei chiedere un riscatto per una merce di
tale
valore, che dici?»
Con le labbra serrate per la rabbia mi voltai
nella sua direzione. «Credi davvero che gli Elfi siano
disposti a
cedere qualcosa per riavermi indietro?» sibilai.
«Ti sbagli di
grosso».
L’espressione di Durza si accigliò e si
indurì. «Non
farmi ridere, sei la loro principessa».
«Ti ho già detto di non
pretendere di conoscermi, Spettro. Io ricopro tutti questi ruoli
perché così ho voluto. E non dare per scontato
che il mio popolo
sia così debole da cedere ad un ricatto. Gli Elfi sono
pronti a
sacrificare senza esitazione se stessi e gli altri per il bene
superiore. E in questo momento il bene superiore è liberare
Alagaësia dal dominio del tuo re assassino».
«Quello lo avevo
capito. Ma la solidarietà che avete tra di voi è
scarsina».
Alzai
il mento. «Lo scopo finale è più
importante della mia vita».
Mi
afferrò una mano. «Quindi mi stai suggerendo di
tenerti con me
ancora qualche mese».
Lo guardai sospettosa mentre osservava la
mia mano con interesse. «Se non avessi voluto tenermi qui mi
avresti
lasciata morire» osservai.
«Forse». Accarezzò il dorso della
mia mano.
La ritrassi rapidamente. Durza alzò gli occhi sui miei
e vi lessi uno strano turbamento.
«Mi hai costretto, Elfa. Non mi
lasci altra scelta».
«Cosa?» soffiai confusa.
Mi afferrò
gli avambracci e chiuse gli occhi. Un istante dopo la mia mente
subiva un attacco talmente violento che non riuscii a fare
nient’altro se non concentrare tutte le mie energie per
difendermi
e ritirarmi in me stessa.
L’assalto non aveva un fronte solo, ma
veniva da almeno quattro punti e la sua forza circondava la mia
coscienza in maniera totale.
Controllai rapidamente tutte le mie
barriere e svuotai la mente. La situazione rimase di stallo
così a
lungo che le gambe cominciarono a tremarmi, così come
tremavano le
labbra sottili e crudeli dello Spettro.
Dovevo trovare un modo per
distrarlo e liberarmi dal suo assalto. Qualsiasi cosa.
Finii per
afflosciarmi a terra e l’idea fu talmente azzardata che
funzionò.
Durza fece un’espressione sorpresa mentre gli cadevo inerte
tra le
braccia e una piccola breccia si aprì nella sua mente. Ne
approfittai e lo assalii.
Lo Spettro urlò e battito di cuore dopo
un fiume di immagini e ricordi non miei si riversò nella mia
mente.
Carsaib si era allontanato parecchio dal suo maestro, lo
sapeva. Ma lui si divertiva così e Haeg lo lasciava fare
perché
sapeva di poterlo ritrovare con facilità e perché
sapeva che ogni
tanto aveva bisogno di stare da solo per non impazzire dal dolore per
il ricordo della sua famiglia massacrata. Ma ormai erano passati
tanti anni e il ragazzo aveva imparato a convivere con la
sofferenza.
In quel momento avvistò lo stesso Haeg, l’uomo che
lo aveva preso con sé come se fosse un figlio, che si stava
avvicinando tra la distesa di sabbia e arbusti, ridendo come un
matto.
«Carsaib!» gridò. «Aspettami
ragazzo!»
Ma lui non
aveva intenzione di muoversi di un pollice e aveva già
posato le
bisacce a terra. Gli sorrise, malandrino. «Ho trovato una
sorgente!
Ma se non ti sbrighi si prosciugherà!»
Senza abbandonare il
sorriso si voltò in direzione dello specchio
d’acqua. Una folata
di vento gli scostò il cappuccio del mantello dal viso e lui
intravide nell’acqua il riflesso di un giovane uomo alto, dal
viso
ovale, gli occhi castani così brillanti da sembrare fatti di
luce
pura e una cascata di capelli scarlatti lunghi fino alle
spalle.
Guardò con attenzione e capì di essere lui
stesso. Era
da tempo che non guardava la sua immagine. Erano cambiate molte cose
da quando sua madre possedeva ancora uno specchio d’argento..
Il
ricordo gli procurò una lancinante fitta di dolore al
petto.
«NO!»
L’urlo che mi trapassò dolorosamente le
orecchie era reale.
Misi a fuoco il viso di Durza e non cercai
nemmeno di trattenere lo stupore quando riconobbi i tratti del
ragazzo che avevo visto un istante prima. La pelle era decisamente
molto più pallida e le iridi rossicce, i capelli tagliati
corti, la
mascella più pronunciata e i lineamenti più
maturi. Ma per il
resto..
Lo Spettro stava sudando copiosamente e aveva gli occhi
fuori dalle orbite mentre cercava di riprendere il controllo della
sua mente.
Il controllo della sua mente. Che avevo avuto io.
Mi
lanciai nuovamente all’attacco. Era la mia occasione. Era la
mia
prima, unica occasione da mesi. Ma non riuscii a respingere
l’ennesima ondata di immagini
Carsaib era distrutto.
Fisicamente e spiritualmente. Il suo maestro, il suo secondo ed
ultimo padre era morto. Anche Haeg era sparito tra le ombre, anche
lui lo aveva abbandonato. Era solo.
Le gambe gli tremavano per lo
sforzo di contrastare la tempesta di sabbia che si stava scatenando
da quelle che sembravano ore. Aveva un braccio ripiegato sugli occhi
per proteggerli e tuttavia nemmeno quello riusciva a frenare le
lacrime che gli stavano inondando le guance, inumidendo le labbra
aride e spaccate.
Inciampò e cadde. Gridò quando una pietra gli
urtò le costole, mozzandogli il respiro.
Rimase disteso a terra,
senza le forze necessarie per rialzarsi.
Haeg era morto perché
lui non era stato abbastanza forte da difenderlo. Era rimasto con il
suo maestro per degli anni, eppure non era riuscito a diventare
abbastanza potente per riuscire a fermare i predoni che li avevano
assaltati. E Haeg era corso incontro alla sua morte per salvarlo.
Un’ennesima volta.
Uno straziante grido di rabbia e sofferenza
scivolò tra le sue labbra.
Lo avrebbe vendicato, sì. Avrebbe
chiesto aiuto agli Spiriti più potenti che conoscesse.
Conosceva i
rischi, li conosceva benissimo, ma non gliene importava più
nulla.
Comportarsi in maniera irreprensibile non era servito a
salvare il suo maestro e neppure la sua famiglia.
Si sarebbe
spontaneamente consegnato alle ombre se quello gli avesse permesso di
mettere fine al dolore dilaniante che sentiva dentro. E sapeva che
l’immagine di Haeg sanguinante non l’avrebbe mai
abbandonato se
non lo avesse vendicato.
Si alzò in piedi con nuova
determinazione. Se la vendetta era la soluzione, era pronto a
diventare qualsiasi cosa pur di realizzarla. Anche uno Spettro.
«ELFA
ESCI DALLA MIA TESTA!» sbraitò Durza.
Con una rapidissima azione
mi respinse, riunendo la sua mente alle altre tre e
ricostruì le sue
barriere. Boccheggiai per l’improvvisa violenza e
indietreggiai
fino a cadere a sedere sul materasso. Mi afferrai la testa cercando
disperatamente di mettere ordine tra i miei pensieri e i ricordi
dello Spettro.
Uno schiaffo fortissimo mi rivoltò il viso
dall’altra parte. Prima che avessi il tempo di reagire Durza
mi
afferrò per la gola e mi sollevò da terra.
«Brutta sgualdrina!»
imprecò ansimando, le iridi da gatto a scavarmi la
coscienza. Non
mancai però di notare che i suoi occhi erano lucidi e folli,
ardenti
di una rabbia che raramente gli avevo visto.
Gli artigliai le mani
che mi serravano il collo scalciando con i piedi.
Non riuscivo a
respirare.
Lo Spettro parve finalmente rendersi conto che se
avesse continuato in quella maniera mi avrebbe uccisa e
allentò la
presa, permettendomi di poggiare i piedi a terra. Tossii.
Un altro
schiaffo mi raggiunse in viso. «Non farlo mai
più!» sputò.
«Hai..
hai cominciato tu» balbettai, cercando di riprendermi.
«Non
prenderti gioco di me, Principessina».
«Durza lasciami»
ordinai, riuscendo persino ad apparire calma.
Con evidente
riluttanza, lo fece. Poi si volse in direzione della porta.
«Dimentica» disse solo.
Mi massaggiai il collo. «Chi era
quell’uomo?»
Mi fulminò con un’occhiataccia stizzita. Va
bene, me l’ero cercata. «Mi sembra di averti detto
di
dimenticare».
Presa da un improvviso assalto di spavalderia,
spinsi il mento in fuori. «Costringimi».
Lo Spettro si precipitò
nella mia direzione ringhiando rabbiosamente. «Ho tutti i
mezzi che
mi servono per farlo».
«Finora non ti è andata molto bene, no?»
Evidentemente avevo trovato Durza in un momento di debolezza. E
la tentazione di approfittarne per fare a lui anche solo un millesimo
di tutto il male che avevo subito io era troppo allettante.
«È
dunque questa la grandezza degli Elfi? Tu non sai niente»
scandì,
«eppure ti permetti di giudicare».
Alzai il mento. «So di te
più di quanto tu sappia di me».
Rise, una risata aspra che non
gli si trasmise agli occhi. «E da quali fonti di
grazia?»
«Ajihad»
dissi semplicemente.
La reazione dello Spettro fu spropositata. Il
pallore cadaverico del suo viso assunse un minimo di colore, un nervo
del collo si tese pericolosamente e un paio di capillari uscirono in
rilievo sulla sua fronte.
«Non nominare il suo nome di fronte a
me».
«Deve essere difficile accettare di esserti lasciato
fuggire un umano, un umano che è anche riuscito a rovinarti
l’arma».
«Non credere che mi irriti così tanto il
graffietto
sulla mia spada. Quello è stato frutto di un incantesimo
bastardo,
perché nessun materiale al mondo potrebbe scalfire la mia
lama. E ti
posso assicurare che non è stato lui a farlo. Se non fosse
intervenuta.. una persona in suo aiuto, non ce l’avrebbe mai
fatta
a sfuggirmi». Scosse rabbiosamente la testa. «Ma
quell’uomo..
merita la morte più di quanto la meriti io».
Distolse lo sguardo e
ispirò profondamente, cercando di recuperare un minimo di
controllo.
«Faresti meglio a tacere» lo informai freddamente.
«Ajihad sta combattendo per la libertà da decenni,
e lo fa
egregiamente. Difende i deboli e gli oppressi dal tuo re con
un’energia non indifferente. È il miglior capo che
i Varden
potessero desiderare e non puoi nemmeno osare a paragonare la tua
vita alla sua».
«I Varden seguono un assassino» disse. La sua
rabbia era sfumata in qualcos’altro. Un dolore ed un
rimpianto
antichi e profondi come solo il mare poteva essere.
Scacciai il
turbamento che mi sovvenne in seguito alle sue parole. Stava mentendo
sicuramente, probabilmente stava solo cercando di screditare Ajihad
ai miei occhi. E io sapevo benissimo di chi fidarmi dovendo scegliere
tra lui e il capo dei Varden.
Durza mi guardò con serietà.
«Anche tu credi alle favole che ti racconta? Sei ingenua,
piccola
Elfa. Ma del resto è sempre così, solo coloro che
non temono di
mostrare gli orrori di cui ci siamo macchiati vengono additati come
male, mentre chi li cela riesce a nascondersi dietro una maschera e
mischiarsi al gregge, come un lupo tra gli agnelli».
«La tua è
invidia» decretai, recuperando parte della mia freddezza.
Il
sorriso diabolico che gli deformò le labbra parve una
conferma.
«Dovrei punirti in maniera diversa» disse
lentamente, afferrandomi
per le spalle e facendomi indietreggiare fino a che la mia schiena
non venne in contatto con la parete di pietra gelida della
stanza.
Presi a dibattermi, ma Durza mi bloccò, appiccicandosi a
me al punto che sentii addosso ogni pollice del suo corpo granitico,
i suoi capelli sul viso, le sue gambe mischiate alle mie.
Il
respiro mi si mozzò in gola. Restai a fissare il suo volto
niveo,
atterrita, senza capire bene cosa volesse fare. I suoi occhi avevano
di nuovo quella strana luce, di odio, di dolore, di rabbia e di
follia.
Chinò lievemente il capo di lato. Sentii il suo fiato
freddo accarezzarmi il collo.
Un tremito involontario mi salì tra
le vertebre e mi squassò le membra.
«Togliti» ordinai, con la
voce strozzata per la paura.
Durza rise piano. «Quando imparerai
a rispettarmi, forse».
Soffiò delicatamente sulla mia pelle,
facendomi venire i brividi.
«Finiscila» protestai cercando uno
spazio tra di noi per poter puntellare le mani su di lui e
allontanarlo da me, «mi fai freddo».
Mi afferrò le mani e me le
bloccò lungo i fianchi. «Ah, dunque hai
freddo..»
A quel punto
furono le sue labbra a toccare la mia pelle.
Rimasi immobile e
rigida come un pezzo di legno mentre Durza chiudeva la bocca sulla
mia gola, con forza. Un bacio caldo, poi un altro, un altro e un
altro. Scese fino alla clavicola.
«D-Durza smettila» lo ripresi
flebilmente, sconvolta dal suo comportamento, perdendo ogni ferreo
autocontrollo sull’espressione del mio viso, che
rifletté i miei
sentimenti.
Ed era così vicino che sentii il suo petto scuotersi
alla risata crudele che gli arrivò alle labbra.
Sollevò la testa
e si staccò lievemente da me, giusto lo spazio necessario
per
portare il viso all’altezza del mio. I nostri nasi quasi si
toccavano.
Sgranai gli occhi. «Hai finito?» chiesi con voce
stridula.
«No» fu la secca risposta, accompagnata da
un’espressione maligna.
Mi divincolai nervosamente. «Non vorrai
ridurti ad approfittarti di me Spettro..»
Voleva essere
un’osservazione ironica, ma mi resi conto di temere che
quella
possibilità non fosse poi così assurda. Avrebbe
benissimo potuto
farlo, non ero in grado di contrastarlo, anche se dopo
l’episodio
con Barst mi ero sentita al sicuro sotto quel punto di vista.
«Non
sono ridotto male a tal punto» mi informò
scrutandomi il viso e
sollevando le sopracciglia quasi con stupore. Cercai di recuperare il
mio contegno e la mia maschera di impassibilità, ma quella
svanì
non appena Durza tornò a respirare sul mio collo.
Mi morse, tanto
che sobbalzai sentendo i suoi denti appuntiti graffiarmi appena, ma
poi prese a succhiare delicatamente la mia pelle. Poi con forza
sempre maggiore.
Ero indignata, inorridita, schifata. Ma non potei
fare nulla per impedirgli di fare ciò che voleva.
Quando lo
Spettro si staccò da me e mi lasciò andare,
riuscii finalmente a
respirare in maniera più tranquilla. Con qualche spanna di
distanza
tra di noi, mi sentivo più padrona della mia situazione.
«Perché?»
chiesi sfiorandomi il punto in cui mi aveva toccata.
«Per
punirti» ringhiò. «Hai ragione tu, le
torture su di te non
funzionano come dovrebbero. Ma questo..» rise gelidamente,
disegnando un piccolo cerchio sulla mia gola «..forse questo
ti
resterà più impresso»
Mi voltò bruscamente le spalle e sbatté
la porta.
«Domani si balla bellezza» sussurrò
dolcemente, dallo
spioncino.
Era la minaccia più spaventosa che mi avessero mai
rivolto ed ebbe il potere di rievocare in un solo istante una serie
infinita di immagini e sensazioni spiacevoli.
Poi mi ricordai che
lo Spettro mi aveva baciato il collo. Con una smorfia schifata mi
diressi al catino e mi affrettai a gettarmi dell’acqua gelida
sulla
pelle.
Nella penombra della mia cella impiegai diversi istanti
prima di notare una macchia appena più scura
all’altezza della
gola.
Solo in quell’istante capii in maniera totale cosa aveva
voluto dire lo Spettro.
Sulla giugulare, nonostante la mia pelle
scura, spiccava un livido violetto, risultato dei suoi baci non
richiesti.
Marchiata.
Era una delle cose più umilianti
che avessi mai subito in vita mia. O per lo meno rientrava tra le
prime dieci. Molte, guarda a caso, dovute a Durza.
Colpii
rabbiosamente l’acqua, cancellando la mia immagine.
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Capitolo 8 *** La Ragazza ***
8.
La Ragazza
Durza
quel giorno pareva seriamente intenzionato ad uccidermi.
Ero
incatenata alla lastra di pietra da tantissime ore e il mio corpo era
nuovamente allo stremo delle forze, nonostante fino alla sera
precedente mi fossi sentita quasi in forma.
I suoi occhi gelidi e
impenetrabili non lasciavano presagire nulla di buono.
Forse la
mia stanchezza era dovuta al fatto che quella notte non avevo avuto
il coraggio di chiudere occhio, troppo spaventata
dall’opportunità
che la mia mente giocasse troppo con le parole che mi aveva rivolto
lo Spettro e i ricordi che erano scivolati inavvertitamente fuori da
lui.
Ma in effetti non avevo fatto altro che pensare a quello fino
a che Durza non era venuto a prendermi per torturarmi.
Dalle sue
parole e dalle immagini delle sue memorie avevo dedotto che lui, come
molti altri in Alagaësia, doveva aver sofferto parecchio nella
vita.
Era una terra crudele, Alagaësia, era raro incontrare qualcuno
che
non avesse perso un amico o un lontano parente in qualche
scaramuccia, il governo del re Galbatorix era troppo debole e
decisamente disinteressato alle sorti dei propri sudditi, violenze
senza giustizia avvenivano ovunque.
Per questo la mia pietà nei
suoi confronti non era durata a lungo.
Le sue sofferenze non
giustificavano il suo comportamento. Non potevo ignorare nemmeno per
un attimo tutto il male che mi aveva fatto. Aveva ucciso
Fäolin e
Glenwing e distrutto completamente il mio corpo, rendendomi
nient’altro che una debole donna indifesa nelle sue mani.
Senza
contare tutte le altre di cui sicuramente non ero al corrente.
E
io lo odiavo.
Lo odiavo come non avevo mai odiato nessuno.
Ma
poi avevo capito che il mio doveva essere lo stesso odio che provava
ogni donna a cui veniva dato l’annuncio che il proprio uomo
era
caduto in battaglia. L’odio profondo, radicato e implacabile
nei
confronti del suo assassino.
E in quello stesso istante ero
diventata cosciente della mia ipocrisia. Io osavo fare la parte della
vittima quando avevo ormai perso da tempo il conto degli uomini che
io stessa avevo ucciso. Di tutte le donne che avevo lasciato vedove,
di tutti i bambini che avevo lasciato orfani.
Sotto quell’aspetto,
io e Durza non eravamo poi così diversi.
Ma in tutta sincerità i
miei nobili pensieri tendevano a sparire quando mi trovavo sotto i
ferri e il mio odio nei confronti del mio boia ritornava con tutta la
sua potenza.
Insieme alla paura annientante che lui riusciva a
scatenare in me.
Quando avevo sentito i suoi passi scendere le
scalette di pietra avevo sussultato e avevo finito per tremare senza
ritegno. Avevo uno zigomo tumefatto per i suoi schiaffi violenti e
due sottili ma scuri lividi sul collo, dove le sue mani si erano
strette per la rabbia. Senza contare quello sulla gola. La sensazione
di impotenza e umiliazione non si era ancora estinta.
Quando la
tortura si concluse non avevo più un pollice di pelle
esposta che si
fosse salvato all’azione dei pugnali dello Spettro, delle
fruste e
dei ferri roventi. Durza mi porse i miei vestiti senza guardarmi e
senza proferire parola e io fui ben felice di assecondare quel
silenzio. La mia nuova camicia bianca si tinse di un macabro rosso
cupo quando la feci scivolare sulle mie membra tremanti.
Arrancai
dietro lo Spettro per il corridoio -la mia nuova cella era proprio
accanto alle ripide scale di pietra- non riuscendo a pensare ad altro
che al letto che mi aspettava e alla nuova coperta imbottita,
calda.
Ma il turbamento non sembrava intenzionato a rimanere fuori
dalla mia vita.
Proprio quando la porta della mia cella si stava
chiudendo alle mie spalle, qualcuno si precipitò
giù dalle scale,
finendo praticamente a sbattere contro Durza, che imprecò a
mezza
voce.
L’uomo si scusò e riconobbi la voce di Hillr, il
servo
che gli aveva riferito dell’arrivo di Barst, qualche giorno
prima.
Durza sbatté la porta e la chiuse a chiave, ma io rimasi
in ascolto.
«Mio signore ho notizie interessanti» fu
l’annuncio
entusiasta.
«Ho notato» ribatté lo Spettro.
«Un messaggero del
re? Di Lord Barst?» la sua voce assunse un tono irritato.
«Niente
del genere. Solo una consegna dei nostri esploratori».
Ci fu
qualche istante di totale silenzio, sufficiente a farmi contorcere le
viscere per l’attesa. Le gambe improvvisamente parvero
incapaci di
sorreggermi e la testa mi girò. Avevo perso troppo sangue.
Strinsi i
denti per riuscire a mantenermi salda nella mia posizione.
«Che
genere di consegna?» chiese Durza titubante.
«Hanno catturato
due omini sospetti» si lanciò Hillr.
«Pensano che..»
«Basta
così!» lo interruppe il mio boia
«Proseguiremo questa
conversazione nel mio studio. Anche se la gente ben educata dovrebbe
sapere che origliare è considerata una delle azioni
più scortesi di
questa terra».
Incassai la frecciatina con rabbia. Ovviamente
sapeva che ero in ascolto, aveva permesso a Hillr di continuare fino
a quel punto solo per potermi privare immediatamente della notizia
che avevo già sentito mia. Sapeva perfettamente che ero
avida di
sapere cosa stesse succedendo fuori e si era affrettato a creare
piccole speranze che aveva annientato con sorprendente
rapidità.
Se
fossi stata un uomo o un nano avrei bestemmiato gli dei.
Però
prima avrei dovuto inventarmeli.
Entrambe le cose andavano altre
le mie capacità, quindi mi limitai ad ignorare la risatina
gelida
che emise Durza prima di allontanarsi con Hillr e mi buttai
letteralmente distesa sul letto di legno, che gemette appena sotto il
mio peso. Nessuna delle mie ferite era stata guarita e sanguinavo
come un sacerdote dell’Helgrind.
Non potevo farci niente. Era da
mesi che non potevo più usare la mia magia e non mi ero mai
veramente resa conto di quanto affidamento facessi su di essa prima
di ritrovarmi senza. Era proprio vero che il valore delle piccole
cose si apprezza solo dopo averle perdute.
Per esempio in quel
momento avrei tanto voluto avere una focaccia dolce con le noci,
quelle che i cuochi reali mi procuravano tutte le mattine per
colazione, in un tempo che mi pareva lontanissimo, mentre risaliva a
poco più di un anno prima. L’ultima volta che ero
stata ad
Ellesméra.
Dovevo essere prigioniera da circa due mesi, forse
quasi tre, così aveva detto Durza quando mi aveva salvata
dagli
intenti lascivi del conte Barst.
La mia vita mi mancava
atrocemente. Avevo trascorso infinite notti di veglia, nella speranza
di sentir suonare un flauto in lontananza. Ma sapevo perfettamente
che l’esercito elfico non si sarebbe messo in moto solo per
me, non
era prudente. E probabilmente mi credevano morta
nell’incendio che
aveva divorato la foresta.
Chiusi gli occhi. Avrei tanto voluto
dormire in pace, sogni tranquilli, senza incubi, senza immagini o
sensazioni. Il vuoto. Avevo bisogno di oblio.
Durza mi stava
lentamente conducendo sulla strada della follia.
Mi bastava
serrare le palpebre che subito mi balenava in mente
l’immagine dei
suoi occhi felini, orrendamente rossi. Repressi un tremito.
Quando
i soldati fuori dalla porta si allontanarono capii che doveva essere
il cambio serale.
Mi stirai faticosamente le membra. Una decina di
minuti di pace e silenzio.
Il rumore di passi nel corridoio mi
smentì immediatamente.
La finestrella dello spioncino fu scostata
e un occhio ceruleo fece capolino nella penombra.
Mi si rizzarono
i capelli sulla nuca.
Io avevo già visto quell’occhio.
Grande
e ornato di lunghe ciglia. E bianco.
Però quello che avevo
davanti era azzurro. E percepivo un cuore che batteva e un respiro
tranquillo.
Quello era indubbiamente reale.
Mi alzai a sedere,
sulla difensiva.
L’occhio si assottigliò e poi si levò
una
voce dall’altra parte della porta. «Allora
è vero che c’è una
donna in queste prigioni».
La voce era delicata e soave, striata
di una sorta di ingenuo stupore. Era una ragazza, poco più
che una
bambina.
«Cosa vuoi?» domandai, più bruscamente
di quanto
avessi voluto. La presenza di una ragazza lì era una cosa
piuttosto
strana, ma mi diede quasi sicurezza. Era l’unica ad avermi
rivolto
delle parole civili, oltre a Rohat, il soldato che aveva tentato di
risparmiarmi una sessione di torture. Ed era da un pezzo che non lo
vedevo più.
«Il padrone viene sempre qui, ero curiosa» rispose
candidamente.
Il padrone. Doveva riferirsi a Durza.
«Chi sei?»
domandai più per cortesia che per vero interesse. Avevo solo
voglia
di dormire.
«Una cameriera signora» mormorò
spostandosi
lievemente dalla fessura dello spioncino, tanto che intravidi una
ciocca di capelli chiari fare capolino dalla fessura. «Sono
io che
ti porto i pasti».
Annuii. Non sapevo chi fosse a portarmi i
pasti, non lo vedevo mai in volto. Però in effetti ricordavo
una
risata femminile che rispondeva agli apprezzamenti dei soldati di
guardia.
Cercai di ricacciare un’ondata di disprezzo per la
frivolezza della mia interlocutrice.
Però il fatto che fosse lei
a portarmi da mangiare poteva spiegare la faccenda
dell’occhio.
Forse, a causa della mia stanchezza, la mia mente mi aveva giocato
brutti scherzi, impedendomi di percepire il corpo a cui
l’occhio
apparteneva e facendomelo apparire bianco anziché azzurro.
Sì,
era tutto molto logico e plausibile.
«E cosa sei venuta a fare?»
chiesi.
«Voglio aiutarti».
Feci una smorfia amareggiata. «Non
vedo come».
«Ho sentito il mio padrone parlare con il suo
siniscalco. Ha detto che tra pochi giorni partirà per
Uru’bean e
si presenterà al cospetto del re. Pare che voglia portarti
personalmente a lui, perché possa interrogarti».
Oh! Non avevo
contemplato l’imminenza di quella possibilità. Che
probabilità
avevo contro Galbatorix? Meno di zero. Tento valeva strangolarmi da
sola.
Eppure qualcosa in quella faccenda non quadrava. Mi era
parso che Durza non fosse in buoni rapporti con il suo re. Quando gli
avevo chiesto perché avesse cercato di impedirmi di cedere
alle
torture di Barst lui mi aveva dato una risposta vaga, ma che
suggeriva un certo distacco dal suo signore.
Ti dico solo
questo: non è detto che io riferirei direttamente al mio re
come un
cagnolino obbediente chiaro?
Fissai con decisione l’iride
della ragazza, che resse il mio sguardo con tranquillità.
Come
potevo sapere se potevo fidarmi di lei? E perché mi diceva
quelle
cose? Se Durza l’avesse scoperta avrebbe passato brutti
guai.
Decisi di stare sul vago. «Perché sei
qui?» chiesi di
nuovo.
«Te l’ho detto, voglio aiutarti ad
uscire».
«Perché
mai dovresti? Sarebbero guai seri se il tuo padrone ti
scoprisse»
osservai.
Emise un sbuffo giocoso. «Se mai mi
scoprirà..»
«Tra
poco torneranno le guardie» la informai.
«Ci vorrà ancora un
po’ perché arrivino. Si stanno intrattenendo con
alcuni boccali di
idromele».
La cosa non mi era troppo chiara. Non si erano mai
ubriacati, che cominciassero in quel momento era un poco strano.
«Cosa ci fai nella fortezza di Gil’ead,
nonché palazzo
privato di Durza e prigione di stato per traditori e
ribelli?»
L’occhio azzurro si socchiuse. «Sei una traditrice
o una
ribelle?»
Non le risposi. «Dici di volermi aiutare..»
Va
bene, non sapevo nulla di quella ragazza comparsa dal nulla, e non
ero convinta affatto poter fare affidamento alle sue promesse.
Ma
mi stava offrendo una via di fuga! Era un’occasione troppo
allettante perché la facessi cadere nel vuoto con i miei
sospetti.
Tanto che avevo da perdere? Se di lì a poche settimane fossi
finita
nelle grinfie di Galbatorix mi sarei dovuta uccidere perché
non
prendesse con la sua forza misteriosa i segreti che custodivo.
E
io non volevo morire senza nemmeno cercare un’alternativa.
«Sì»
rispose la giovane prontamente. «Ho le chiavi della tua cella
con me
e ti farò uscire di qui. Solo.. potresti dirmi come ti
chiami?»
Mi
alzai in piedi. «Non vedo perché dovrebbe
interessarti». Perché
tutti in quella fortezza -a partire da Durza- parevano avere
un’ossessione per i nomi?
«Non c’è un motivo preciso.
Diciamo curiosità, voglio avere un nome quando mi
ricorderò di
te».
Riflettei un istante. Se ormai anche Durza possedeva
quell’informazione, passarla ad una delle sue cameriere non
doveva
essere così pericoloso, però..
«Aryna» storpiai.
Vidi che
annuiva. Poi aprì la porta. «La tua spada e il tuo
arco sono
nell’armeria, ma fossi in te non andrei a riprenderli. La
struttura
di questo posto è particolare. Tu ti trovi
nell’area militare,
nonché la più sorvegliata. Per avere qualche
speranza di scappare
di qui dovresti intrufolarti nel palazzo, c’è
un’entrata dalle
prigioni. Sali quelle scale» indicò le ripide
rampe di pietra «e
percorri tutto il corridoio a destra. Troverai una porta che ti
condurrà direttamente nel giardino del palazzo.
Tieni»
Mi porse
un abbozzo di mappa stilizzata su un pezzo di carta.
Spostai lo sguardo su di lei.
Era molto giovane, con la pelle del viso luminosa e leggermente tinta
di rosa sulle gote. Gli occhi erano grandi e dello stesso colore
azzurro intenso del cielo sereno in estate. I capelli color del grano
erano stretti sulla testa in una crocchia, ma un paio di ciocche
ribelli erano scivolate dalla pettinatura e le incorniciavano il
volto innocente. Era esile e almeno di una spanna più bassa
di me,
ma con delle curve che un uomo avrebbe decisamente definito sensuali,
e che il semplice abito aderente risaltava. Per essere
un’umana era
molto graziosa, di una bellezza eterea e delicata. Anomala.
E per
di più era anche pulita, cosa piuttosto rara per un umano.
Persino i
capelli non erano divisi in ciocche untuose, doveva aver fatto un
bagno al più tardi qualche giorno prima.
Ancora non mi fidavo di
lei. Per niente.
Sorrise. «Aspetta che mi allontani prima di
salire le scale. Se Durza lo venisse a sapere..» la sua
espressione
si incupì.
«Perché lo fai?» chiesi.
Gli occhi azzurri
persero la loro luminosità. «Troppo sangue
innocente ha imbrattato
questa città. Il re ha ucciso la mia famiglia,
l’unica cosa che mi
sento in grado di fare per contrastarlo è fargli sparire i
suoi
prigionieri».
Oh. Strinsi le labbra e annuii bruscamente.
«Grazie». E il mio ringraziamento fu sincero.
Mi salutò con la
mano, recuperando il buon umore. «Non accennare mai a me. Una
volta
raggiunto il giardino sali al secondo piano e cerca una stanza con la
porta di legno di quercia. A quella stanza si affaccia un rampicante
robusto che ti permetterà di calarti fuori dal muro. Una
volta fuori
non fermarti in città. Mascherati in qualche modo e corri
fuori
prima che si faccia buio del tutto, perché in quel momento
chiudono
il portone e ti individueranno subito. Buona fortuna. E
addio».
Corse
su per le ripide scalette, senza neppure darmi il tempo di
ringraziarla nuovamente e come si conveniva.
Guardai le scale.
Le
ripide scalette di pietra.
Quelle per cui mi aveva trascinata
Durza dopo la mia cattura.
Più di due mesi prima.
Mi colse un
capogiro: ero fuori! Libera! Finalmente avevo una
possibilità di
fuga, di tornare tra la mia gente. Il mio cuore si allargò
di una
speranza feroce. Mi parve che un fiotto di nuova energia fosse fluito
nel mio corpo e all’improvviso l’ambiente non
vorticava più
intorno a me, i miei sensi erano relativamente vigili.
Sgomberai
la mente e mi concentrai sui suoni. Non avrei sprecato
quell’occasione.
Salii le scale senza riuscire a trattenere un
tremito di emozione. Bastarono quei pochi scalini per rendere
più
aspro il mio respiro. Non ero più l’elfa guerriera
e forte che era
stata portata in quel luogo di morte.
Avvertii il respiro di un
uomo nel corridoio superiore e mi ricordai dell’uomo che
aveva
aperto la porta a Durza, la notte che eravamo arrivati a
Gil’ead.
Doveva essere il custode delle prigioni.
Strisciai nel corridoio
malamente illuminato dalle poche torce appese al muro, non vista.
L’uomo che mi dava le spalle era robusto e barbuto e stava
canticchiando una volgare canzone popolare, che mai al mondo vorrei
rievocare. E puzzava come solo gli uomini potevano puzzare. Sospirai
di sollievo.
Durza aveva l’abitudine di lavarsi ed era
pericoloso, gli uomini non si lavavano e non lo erano. La ragazza
bionda si lavava e poteva essere pericolosa anche lei. Gli Elfi si
lavavano ed erano pericolosi.
Mi venne da ridere di fronte alle
mie sciocche congetture.
Poi mi feci seria non appena mi resi
conto si ciò che avrei dovuto fare di lì a poco e
mi avvicinai
all’uomo; gli sgusciai alle spalle, gli afferrai la testa tra
le
mani e con una brusca torsione gli spezzai l’osso del collo.
Si
afflosciò a terra con un rumore di ferraglia.
Ricacciai un groppo
alla gola e mi chinai su di lui per chiudergli gli occhi. Non ero una
debole. Il mio cuore era troppo indurito per riuscire a provare
ancora pietà per i morti.
Non indossava l’armatura, ma aveva
una spada a cintura.
Gli sfilai lo spadone largo e pesante dalla
cintura, di buona lega, ma scadente rispetto alla mia spada elfica.
Ebbi una fitta di nostalgia per la mia spada, leggera e appena
più
larga di una spada a striscia, estremamente maneggevole. Purtroppo
avrei dovuto abbandonarla chissà dove nella fortezza. Era
nata per
me, fabbricata da un fabbro di Ellesméra, ma non dalla
famosa
maestra Rhunön. Lei non forgiava più spade dalla
caduta dell’ordine
dei cavalieri.
Scacciai il pensiero. Ero veramente troppo
distratta.
Seguendo le istruzioni della ragazza -non le avevo
nemmeno chiesto il suo nome- percorsi il corridoio sulla destra,
ignorando tutte le porte di ferro delle prigioni e puntando con
sicurezza alla porticina di legno di fronte a me. Passando davanti ad
una torcia, vi appoggiai sopra il pezzo di carta su cui era disegnata
la mappa semplificata della fortezza e la lasciai bruciare, era
meglio se non me la trovavano addosso o avrei anche dovuto trovare
una scusa intelligente per giustificare il perché ce
l’avessi. Ma
a dire la verità non avevo la minima intenzione di farmi
catturare.
Quando l’aria gelida all’esterno mi
colpì, il
respiro mi si mozzò. Rimasi qualche istante immobile
nell’angolo
del giardino, mangiando con gli occhi tutto quello che mi capitava
allo sguardo. Gli alberi spogli, il pozzo di mattoni rossi coperto da
un velo di neve, il cielo plumbeo e scuro della sera. Il grande
giardino era circondato da un edificio che aveva una struttura a
metà
strada tra una caserma, un edificio pubblico ed una residenza.
Intravidi da lontano l’ombra scura di una torretta di
guardia, ma
era buio e l’uomo che si trovava lassù in cima con
una torcia in
mano non poteva sicuramente vedermi.
Respirai avidamente l’aria
gelida, che mi seccò la gola. Non vedevo uno spazio aperto
da
settimane.
Non c’era nemmeno la luce incerta della
luna.
Rabbrividii per il gelo.
Nonostante il cattivo tempo era
una notte perfetta per una fuga silenziosa.
Sorrisi.
[Hillr]
Hillr
lavorava al servizio di Durza lo Spettro da più di
vent’anni e
conosceva l’umore del proprio padrone come conosceva le sue
tasche.
Per quel motivo temeva l’espressione rannuvolata del suo
signore mentre avanzava a passi veloci per il palazzo, imboccando con
sicurezza lo scalone in pietra rivestito da un pesante tappeto rosso
cupo. Lo scalone portava ai piani alti, dove stavano le stanze
padronali e degli ospiti e la libreria e le camere dei servi
più
importanti. Come lui.
Hillr non poteva lamentarsi di nulla. Ormai
vicino alla quarantina, aveva avuto una vita piuttosto serena, anche
se passata al servizio di uno Spettro.
A dire il vero le premesse
non erano state tra le migliori. Era figlio di una donnaccia, sua
madre faceva la pescivendola al porto di Teirm e lui avrebbe potuto
scegliere suo padre tra una decina di marinai, date le discutibili
abitudini disinibite di sua madre, che a quanto pareva era solita
trascinarsi nei magazzini portuali con uomini ogni notte diversi. Si
era chiamata Moira, un nome insulso, appioppatole dai genitori che,
dopo cinque figli, dovevano aver avuto altro da fare che cercare un
nome poetico per lei. E così lei si era chiamata Moira,
perché
quell’anno c’era stata una gran moria di polli in
città e tutti
quelli della sua famiglia erano morti stecchiti, riducendoli alla
fame.
Quando era rimasta in cinta -aveva sì e no quindici
primavere- i genitori l’avevano ovviamente cacciata di casa.
Non
avevano certamente bisogno di un’altra bocca da sfamare!
Sua
madre se l’era cavata piuttosto bene anche da sola. Era stata
assunta da un uomo che possedeva gran parte del mercato di pesce a
Teirm e aveva iniziato a vendere il pesce per conto di lui,
perché
certamente da sola non sarebbe riuscita a gestire un peschereccio.
Aveva una paga misera, ma bastava per lei e il figlioletto.
Hillr
ricordava perfettamente il giorno in cui avevano lasciato quella
città. Lui sarebbe diventato uomo nel giro di un anno, aveva
già
qualche accenno di barba! Sua madre voleva allontanarsi dalla
città
che l’aveva disprezzata e lui era stato felice di seguirla.
Avrebbe
potuto renderle il favore che gli aveva fatto quando non lo aveva
annegato appena nato, aiutandola nel suo futuro lavoro, e poi non
amava farsi chiamare “bastardo” da tutti quelli che
incontrava
per strada, era felice di andarsene. Era un tipo pacifico lui e non
voleva scatenare alcuna rissa.
Si spostarono di parecchie miglia e
finirono a Gil’ead. Lì una vecchia signora che
faceva l’erborista
assunse Moira come sua apprendista e lei ne ereditò la
bottega
quando la vecchina morì, un paio di anni dopo.
Sua madre lo aveva
costretto ad imparare a leggere e scrivere dalla vecchia, sostenendo
che un giorno avrebbe potuto cambiargli la vita avere delle
capacità
simili. Lui odiava entrambe le attività, ma si costrinse a
seguirle
per amore della genitrice.
Sua madre si dedicava alla cura degli
abitanti con solerzia e passione. Adorava quell’impiego,
anche se
Hillr ne era vagamente disgustato. Non era bello assistere a deliri
di uomini febbricitanti, tirare indietro i capelli alle donne incinte
perché potessero vomitare senza imbrattarli e ascoltare le
ultime
parole degli anziani sul loro letto di morte, tra la puzza di sudore
e urina.
Lui non era come tutti gli altri ragazzi della sua età,
non ambiva a diventare un cavaliere o un potente signore, avrebbe
tanto voluto fare il contadino. Voleva un piccolo pezzo di terra da
coltivare e magari qualche oca e qualche gallina. E una donna, una
moglie che gli restasse accanto per tutta la vita, facendolo sentire
accettato, come solo sua madre sapeva fare.
Erano desideri
semplicissimi. E la moglie l’aveva quasi trovata. Era una
ragazza
che viveva vicino al lago, ma che saliva in città per
comprare il
pane. Aveva sempre un vestito color zafferano e un sorriso gentile
per tutti. Si erano parlati spesso e quando lui aveva proposto di
recarsi dal padre di lei per chiedere la sua mano lei si era
dimostrata entusiasta.
Ma poi tutto era crollato.
Sua madre non
era riuscita a curare ben tre persone di seguito! Era una brutta
malattia e lei non aveva potuto fare nulla contro tutto quello, e i
poveri disgraziati erano morti sputando sangue. Non li aveva curati,
ma non perché non volesse, ma proprio non sapeva come fare,
era
oltre le sue capacità.
Ma nessuno le aveva creduto. L’avevano
chiamata strega, figlia di Elfi, accusata di aver avvelenato le
sorgenti affinché tutte quelle persone si ammalassero.
Lui
l’aveva difesa, ovviamente. Sua madre non aveva fatto nulla!
Era
una donna buona nonostante tutto!
Non era bastato.
Si era
radunata in fretta e furia una catasta di legna, legata sua madre ad
un palo e appiccato il fuoco.
Lo avevano tenuto fermo e costretto
a guardare mentre Moira la Strega bruciava viva, urlando atrocemente
per il dolore e imprecando contro gli dei.
La ragazza che amava
era stata la prima a sputare sulle sue ceneri. Anche suo padre era
morto sotto le magie oscure che sua madre aveva imparato dagli
Elfi.
Non contenti, gli abitanti vollero uccidere anche lui,
perché il sangue maligno della Strega si esaurisse. Qualcuno
si
procurò una scure, non avrebbero sprecato del legno per una
pira, la
sua anima non aveva bisogno di bruciare dato che le streghe erano
solo le femmine.
Ma quando la lama stava per calare sul suo collo
tutto si era fermato.
Il padrone era tornato. Il governatore di
Gil’ead stava rientrando in città a spron battuto
sul suo
gigantesco cavallo da guerra e tutti si affrettarono a fargli ala,
lasciandolo passare.
Hillr non aveva mai visto il governatore,
sapeva solo che era una creatura non umana, ma neppure un Elfo.
Qualcuno diceva che fosse un demone. Ed in effetti pareva proprio un
demone l’uomo che sorrise malignamente alla folla, snudando
dei
terribili denti aguzzi. La sua pelle era dello stesso colore di un
osso sbiancato, sembrava un cadavere, e il contrasto con i capelli
rossi la rendeva ancora più bianca. E non aveva ancora visto
i suoi
occhi! Quando per sbaglio aveva incrociato il suo sguardo mentre gli
passava accanto e quasi aveva gridato. Quegli occhi. Non avevano
nulla di umano. Rossi come sangue, da animale, eppure così
penetranti, vigili, scrutatori. Quell’essere aveva qualcosa
di
profondamente inquietante e non era solo per il suo aspetto
esteriore. Era una sensazione che colpiva l’anima di tutti i
presenti, c’era qualcosa in lui, nel suo modo di camminare e
di
guardarsi intorno, qualcosa che rendeva indubbio il suo potere, di
qualunque natura fosse.
Qualcosa che faceva paura.
Il mostro
aveva scrutato attentamente il mucchio di legna annerita e ancora
fumante che sorgeva in mezzo alla piazza del mercato, dove di solito
si montava la gogna. C’era ancora odore di carne bruciata
nell’aria.
Il governatore era scoppiato a ridere in un modo che
aveva terrorizzato tutti.
«Avete bruciato una strega, dunque»
aveva detto, con un tono così sprezzante che tutti nella
piazza si
erano sentiti stupidi. Tremendamente stupidi.
«Deduco che a
nessuno di voi piaccia la stregoneria».
Tutti in città sapevano
che quell’uomo -se tale poteva definirsi- praticava della
magia
nella sua forma più oscura. Erano voci che erano filtrate
anche alle
orecchie di Hillr. Una madre sussurrò alla figlia che quello
che
aveva davanti era Durza lo Spettro, il governatore della
città.
Il
giovane Hillr non sapeva esattamente cosa fosse uno Spettro, ma non
lo avrebbe capito neppure più avanti. Gli Spettri erano
creature
misteriose che nessuno conosceva e lui non si sarebbe mai azzardato a
fare domande al diretto interessato.
«E tu eri il rampollo
suppongo» aveva proseguito la creatura dagli occhi felini,
guardandolo da testa a piedi.
Hillr si era sentito snudato, come
se quegli occhi animaleschi lo stessero rivoltando.
«Sai
leggere?» gli aveva chiesto.
Allora Hillr aveva creduto che fosse
una domanda stupida, posta in quel contesto.
«Sì» aveva risposto,
prontamente.
«Se hai bisogno di un lavoro, vieni più tardi al
palazzo. Di’ che ti manda Durza lo Spettro».
Dette quelle poche
parole aveva spronato il cavallo verso il palazzo di pietra grigia
che troneggiava al centro di Gil’ead, sussurrando un paio di
parole
in una lingua sconosciuta, che spaventarono ancora di più
gli
abitanti.
Ma non era ancora finita.
Finite le parole, sette
persone nella piazza caddero a terra. Morte.
Hillr li guardò uno
ad uno. Erano i capi. Quelli che avevano esortato tutti a bruciare
sua madre. C’era anche la ragazza che stava per sposare.
Aveva
sorriso, mentre grida di panico rimbalzavano ovunque.
La morte
ingiusta era già stata vendicata, ma a quel punto temeva per
il
cavaliere dai capelli rossi. Erano molti, gli abitanti di
Gil’ead.
E lui era solo. Se gli si fossero avvicinati lo avrebbero potuto
disarcionare facilmente e uccidere a forza di pedate.
Ma nessuno
lo fece. E Hillr credette di capire il perché.
Quell’uomo era
inavvicinabile, pareva avere il potere di piegare gli elementi al suo
volere e incuteva un senso di timore che era pressoché
insuperabile.
Nessuno gli torse un capello, nessuno fece un segno
scaramantico contro la cattiva sorte, nessuno innalzò una
preghiera
agli dei, e nessuno fermò lui quando seguì
l’uomo che gli aveva
appena salvato la vita.
Da allora erano passati vent’anni.
Hillr era entrato al servizio di Durza e si era subito trovato bene
tra pile di carte da scrivere e trascrivere. Non amava il suo
padrone, era impossibile amarlo, faceva troppa paura. Però
lo
rispettava e gli era profondamente grato per aver vendicato sua madre
quel giorno di tanti anni prima. Adesso era il suo siniscalco, il suo
consigliere, il vice governatore, il coordinatore della vita del
castello, colui a cui tutti facevano riferimento per riferire i
messaggi allo Spettro.
Era un ruolo degno di nota e Hillr ne
andava fiero.
Sua madre aveva avuto ragione ad insistere
nell’insegnargli a leggere e scrivere. Era stata la sua
salvezza.
L’uomo annaspò
dietro alla camminata troppo rapida
del suo padrone. Era invecchiato, non era più quello di un
tempo e
presto sarebbe stato troppo rincitrullito per continuare nel suo
mestiere. Sarebbe stata una vecchiaia triste la sua. Niente moglie,
né figli. La sua unica compagnia fuori dal castello erano le
donne
del bordello, ma non avevano alcun valore affettivo.
Respirò
dalla bocca, praticamente correndo dietro alla chioma rossa che
pareva sfrecciare davanti a lui. Una cosa inquietante del suo padrone
era che non era invecchiato di un giorno da quando lo aveva visto per
la prima volta, vent’anni prima. Era contro natura!
Come se il
tempo gli scivolasse addosso senza scalfirlo. Sapeva che quella era
una prerogativa degli Elfi, ma sapeva anche che il suo padrone non
era un lurido Elfo!
Però sembrava comunque che la sua età si
fosse cristallizzata intorno alle venticinque, forse trenta
primavere. E a quanto pareva aveva anche le stesse energie di un uomo
di quell’età.
«Gradirei che non venissi a cercarmi nelle
prigioni per farmi annunci di questo tipo, Hillr» disse con
voce
monocorde dopo che si fu seduto oltre alla massiccia scrivania di
legno, senza invitarlo a fare altrettanto. Del resto non aveva mai
provveduto a sistemare un'altra sedia nella stanza.
«Si tratta di
una notizia importante, Signore» ribatté,
recuperando fiato ed
entusiasmo.
«Appunto per questo» occhi rossi lo fulminarono,
facendolo quasi indietreggiare. «La prigioniera non deve
venire a
sapere nulla. È una dei ribelli, te l’ho detto.
Non credo che
potrà mai sfuggirmi, ma nel caso ci riuscisse non deve avere
in mano
informazioni utili».
«Lei è molto bella» disse Hillr di punto
in bianco.
Il suo padrone fece un gesto spazientito. «Lo dite
tutti. Cosa ci troviate in una donna piatta come un tavolo ancora non
lo capisco.»
Hillr era convinto che il suo padrone capisse
benissimo. Era vero, forse la ragazza non aveva un corpo molto
attraente: era veramente troppo alta e con curve pressoché
inesistenti. Insomma aveva un fisico troppo androgino, ma il viso era
estremamente esotico e ammaliante. Nulla deturpava la perfezione
della sua pelle se non la sporcizia e le ferite, aveva occhi di una
forma particolare e di un verde sorprendente. Innaturale. Hillr aveva
molto sentito parlare degli elfi e aveva sentito qualche chiacchiera
dei soldati. Qualcuno diceva che fosse stata lei ad aver ucciso
Bastof, qualche mese prima. E lui ci credeva.
Quella ragazza era
troppo strana per essere una semplice umana e un volto così
affilato
non l’aveva mai visto in vita sua, con il naso sottile e il
mento
aguzzo sembrava quasi un rapace.
Forse non era poi così tanto
bella.
«Non è umana vero?» chiese, e subito fu
certo di essersi
spinto troppo in là.
Lo Spettro lo scrutò in silenzio, con
circospezione. «Non ucciderai un’Elfa per
vendicarti delle tue
sofferenze» disse poi. «Non è colpa sua
se i tuoi compaesani hanno
accusato tua madre di discendere dalla sua razza».
«Ma la dovrai
uccidere» replicò Hillr.
«Sarà molto importante per te farlo di
persona? Potrei occuparmene io al posto tuo» aggiunse
speranzoso.
Lui odiava gli elfi. Se non fossero mai esistiti sua madre non
sarebbe morta, uccidere uno di loro era come dimostrare di aver avuto
ragione.
«Se le succederà qualcosa sarai il primo a pagarne
le
conseguenze» disse tranquillamente lo Spettro, guardandosi
distrattamente le unghie. Poi fece una smorfia «Anzi, forse
il
secondo».
«Credo di essere l’unico a sapere con esattezza chi
sia la ragazza» lo rassicurò.
Il suo signore scosse la testa.
«No Hillr. Anche lei lo sa, molto meglio
di te».
Hillr
spostò il peso da un piede all’altro a disagio.
Lei. La spia del
suo padrone. Anche lei era troppo sinistra.
Scosse la testa per
scacciare tutti i pensieri funesti. «Devo ancora riferirti la
notizia».
Durza annuì. «Ti ascolto».
«Ieri due dei tuoi
soldati si trovavano in ricognizione quando si sono imbattuti in un
viandante solitario» cominciò Hillr. «Ha
evitato accuratamente
Gil’ead e ha puntato verso Daret. Capirai che un viandante
solo, a
piedi, nella stagione del gelo e con l’aria schiva li ha
immediatamente insospettiti». Durza annuì
lentamente, serio e
concentrato. «Lo hanno fermato e lo hanno interrogato,
chiedendogli
dove andasse e perché viaggiasse solo. Quello ha risposto
dicendo
che stava andando alla tomba della sorella morta qualche settimana
prima e che veniva da Dras-Leona. La sua meta era proprio Daret e
abbiamo avuto la fortuna sfacciata di avere un abitante di Daret tra
i due soldati. Gli ha detto quasi per scherzare se conoscesse una
determinata taverna dove il vino era buonissimo e il viandante ha
risposto affermativamente, con entusiasmo».
«L’unico problema
è che questa taverna non esisteva affatto,
giusto?» lo interruppe
Durza sorridendo malignamente.
Dei passi risuonarono fuori dalla
stanza e poi scomparvero. Probabilmente qualcuno era venuto a portare
la cena al padrone, ma aveva rinunciato trovandolo impegnato.
Hillr
fece un cenno affermativo. «Esattamente. I soldati hanno
proseguito
con le domande ma hanno ricevuto solo risposte vaghe, quindi hanno
deciso di portare l’uomo con loro. Lui ha opposto resistenza,
aveva
una corta spada sotto la tunica e la sua copertura di innocuo
viandante è saltata. Non ha voluto rivelare
nient’altro nonostante
i metodi di persuasione, ma ora si trova qui a Gil’ead, nelle
prigioni del piano terra ed è pronto a subire il tuo
interrogatorio,
quando più lo desideri».
Durza assunse un’espressione
soddisfatta e incuriosita. «Sarà uno dei
ribelli?»
«Non lo
sappiamo signore».
«Lo scopriremo».
Hillr stava per
replicare, quando il trillo stridulo della campana della torre lo
interruppe.
Il siniscalco sbiancò in volto. Quella campana
suonava solo segnali di allarme.
[Arya]
Ispirai ancora una
volta l’aria fresca e poi decisi di mettere da parte i
sentimentalismi. Sgusciai nel porticato che si affacciava sul cortile
e poi all’interno di una piccola porticina di legno. Mi
affacciai e
uscii immediatamente quando capii che si trattava delle cucine,
affollate di servitori intenti a lavare pentole.
Fortunatamente
non c’era troppo movimento a quell’ora,
probabilmente buona parte
dei soldati stava cenando e i servitori erano impegnati a
servirli.
Dovevo raggiungere il primo piano e cercare una porta di
legno di quercia. Potevo farcela.
Entrai da un portone più grande
e mi trovai di fronte ad un ampio scalone di pietra rivestito da un
folto tappeto rosso scuro.
Usai la massima cautela, ma per salire
lo scalone dovetti espormi alla luce delle torce e una serva che lo
stava scendendo con un vassoio di cibo in mano mi vide e
gridò.
In
effetti non dovevo essere un bello spettacolo. La camicia bianca mi
si era appiccicata alle ferite fresche della giornata, tingendosi di
un macabro color cremisi, stringevo in mano uno spadone dei soldati e
i miei piedi scalzi erano rossi, gonfi per il gelo e scorticati a
sangue, i miei capelli scarmigliati.
Il grido della cameriera non
si era ancora spento, quando una campana suonò. Fu un suono
vicino e
acuto, probabilmente veniva dalla torretta che avevo visto dal
giardino. Aveva un ritmo allarmante. Era un segnale di
allarme!
Schizzai su per i gradini, scostando bruscamente la
cameriera impalata sul posto e facendola cadere a terra. Imboccai a
casaccio la parte sinistra del corridoio che mi si apriva davanti,
guardandomi febbrilmente intorno alla ricerca di una porta di
quercia.
Andai a sbattere contro un muro solido. Riconobbi Durza
dal rosso dei suoi capelli. Mi ero appena scontrata con lo Spettro,
si poteva essere più sfortunati?
Un paio di mani forti si
serrarono sulle mie spalle e Durza mi guardò con occhi
severi.
«Dovevi proprio fare sciocchezze durante l’ora di
cena?»
In
risposta alzai la mano che stringeva la spada, cercando di colpirlo
al petto. Si scostò agilmente ed estrasse la spada che
teneva sempre
a cintura. Era uno scontro impari ed io ero così debole che
finii
subito disarmata. La lama quasi trasparente di Durza emise un trillo
argentino quando si scontrò contro la mia, che
scivolò dalla mia
presa malferma.
Un’ondata di rabbia e frustrazione mi
travolse.
Gli tirai qualche rabbioso pugno allo sterno, ma non
potei continuare quando lui mi afferrò i gomiti.
Fece un lieve
sorriso. «Smettila piccola Elfa o mi vedrò
costretto a tirare fuori
il metodo dell’ultima volta».
Avevo ancora il risultato del
“metodo dell’ultima volta” sulla gola e
non ci tenevo a
ripetere l’esperienza.
«Ti odio» sputai.
«Prevedibile.
Come hai fatto ad uscire?»
Serrai le labbra e alzai
orgogliosamente il mento.
«HILLR!» gridò, così forte da
farmi
male alle orecchie.
L’uomo di mezza età annaspò nella
nostra
direzione qualche istante dopo e mi gettò uno sguardo
sconcertato,
che in un istante si fece ostile.
«Vai a vedere cosa è successo
nelle prigioni e fammi rapporto. Due minuti»
ordinò seccamente
Durza.
L’uomo fece un inchino profondo. «Devo riportare la
prigioniera nella sua cella?»
«No, vai. Io e la prigioniera
dobbiamo scambiare due chiacchiere».
«E così mi porterai dal
re!» dissi, non appena fummo di nuovo soli.
Inarcò un
sopracciglio. «Perché dovrei?»
Scossi la testa. Non volevo
tradire la ragazza, probabilmente avevo già detto qualcosa
di
troppo.
«Elfa» mi ammonì minaccioso.
Mi strappai
un’unghia.
Mi afferrò i polsi. «Smettila».
Annuì in
direzione delle mie dita. «Odio quando lo fai»
«Lasciami»
ordinai.
«Non credo che lo farò, non finché non
avrai parlato.
Come sei uscita dalla tua cella?»
Mi divincolai, ma le sue dita
si strinsero saldamente. «Mi stai fermando la circolazione
del
sangue» lo informai.
Sospirò. «Cosa devo fare con te,
Arya?»
Doveva essere la prima volta che pronunciava il mio nome.
E non mi piacque il suono che aveva sulle sue labbra. Ogni parola
detta da lui pareva essere insieme miele e veleno.
«Uccidimi»
sibilai. «Avresti dovuto farlo subito. Uccidimi e i miei e i
tuoi
problemi saranno risolti».
Parve soppesare la mia proposta,
estraendo con disinvoltura un pugnale dalla cintura.
«Ti
semplificherei la vita, troppo». Mi fissò
beffardo. «Hai sbagliato
i tuoi calcoli, Elfa. È il mio signore che ama sentire i
prigionieri
implorare la morte, non io». Il suo sguardo si
concentrò in un
punto indefinito nella parte bassa del mio volto, intorno al mento.
«Ci sono diverse altre cose che amerei fare,
invece» bisbigliò
suadente.
Non capii le sue parole, ma cercai in ogni modo di
celargli la mia confusione.
Mi si avvicinò ancora, fino a farmi
sentire l’odore di menta emanato da lui. C’era una
strana luce
nelle sue iridi rossicce, una luce che fui incapace di comprendere e
che per questo mi atterrì ancora di più.
«Che vuoi fare?»
cercai di assumere un tono spavaldo, ma la voce mi tremava.
Si
mosse con la rapidità di un serpente, ebbi solo modo di
vedere la
lama lucente venirmi incontro e chiudere gli occhi.
Niente.
Non
sentivo niente. Era così semplice morire?
Schiusi le palpebre,
con cautela. Il pugnale era conficcato fino all’elsa nel
portone
alle mie spalle, ad una distanza millimetrica dalla mia tempia
sinistra.
E respiravo ancora. E l’odore di menta selvatica era
troppo.. vivo.
La mia attenzione saettò in un attimo al
mio carceriere, che mi fissava con un insopportabile ghigno sfottente
dipinto in viso. «Tu hai paura di morire.»
«Che ne sai?»
«Lo
so» rispose asciutto, estraendo il pugnale senza sforzo.
«Sono
pronta a sacrificarmi per il mio popolo» ribattei fiera.
Mi fissò
con aria di compatimento. «Queste sono solo parole, e io ne
ho
abbastanza delle tue parole. Precedimi nella tua cella, Elfa»
ordinò
poi, puntandomi con noncuranza la lama all’altezza della
gola,
«vedrò di rendertela ancora più cara,
così che tu non senta il
bisogno di lasciarla mai più».
Fu quello il momento scelto da
Hillr per tornare a fare rapporto. «Devo passare dopo
signore?»
chiese, lanciandomi nuovamente un’occhiata sospettosa. Capii
di non
piacergli.
«No parla pure, non credo che ci sia qualcosa che la
nostra graziosa prigioniera non sappia già» fece
un sorrisino
feroce nella mia direzione.
L’uomo si schiarì la gola. «Non
c’è segno di scasso nella porta della cella,
chiunque l’abbia
aperta deve averlo fatto con le chiavi, che però erano
ancora appese
alla cintura del custode. Che a dirla tutta, signore, è
morto; aveva
il collo spezzato. Gli uomini hanno poi notato l’assenza
della
prigioniera e hanno dato l’allarme».
Durza annuì con calma.
«Le altre guardie dov’erano nel
frattempo?»
«Erano state
trattenute signore..»
«Cosa le ha trattenute?» ringhiò,
perdendo pericolosamente il controllo.
Hillr aprì la bocca, poi
la richiuse, poi parlò. «Alba, signore.»
Durza si spalmò una
mano sul viso. «Quante volte vi ho detto di non ascoltarla?!
EH?»
L’uomo si ritrasse.
Alba.
La ragazza. Aveva il nome
della luce del mattino, nome che in effetti sembrava nato per il suo
incarnato delicato e i capelli color dell’oro.
L’avevano
scoperta. Un’altra innocente che sarebbe morta a causa mia.
«Con
quegli idioti faccio i conti dopo, adesso» mi
scoccò un’occhiata
fiammeggiante, «tu ed io andiamo a decidere chi è
che comanda qui
dentro».
Mi afferrò per i capelli e mi fece rifare a ritroso la
strada che avevo compiuto io qualche minuto prima per fuggire.
L’ebbrezza della fuga si spense lentamente dentro di me,
lasciandomi una sensazione di spiacevole vuoto.
«Ti ha fatto
uscire una ragazza?» chiese Durza cupamente.
«So aprirla anche
da sola una porta, Spettro, basta darsi da fare».
«Stai
mentendo» sussurrò al mio orecchio.
Mi si accapponò la pelle.
Era la prima volta che dava chiara dimostrazione del suo dono di
leggere i sentimenti. E io ero troppo agitata, mi ero tradita da
sola.
Il vento freddo sparì, le luci delle torce mi ferirono gli
occhi, la puzza di chiuso e di muschio mi invase la gola mentre la
porta nera della stanza delle torture si avvicinava
inesorabilmente.
Quando Durza mi spinse dentro e chiuse la porta
appoggiandocisi con la schiena, vidi nei suoi occhi una cupa
soddisfazione che mi inquietò. Il suo umore pareva essere
notevolmente migliorato da quel mattino, e non poteva essere dovuto a
niente di buono.
«Forse dovremmo rimandare a domani mattina,
piccola Elfa» disse.
«Non credo che andrò da qualche parte
stanotte» ribattei seccamente, ma il mio tono
mancò della durezza
che avrei voluto imprimervi. La delusione per la libertà
sfiorata mi
bruciava ancora.
Durza scoprì i denti aguzzi in un sorriso
raccapricciante. «Ma la tua mente viaggerà
parecchio, te lo posso
assicurare. Domani assisterai ad un bello spettacolo. I miei uomini
hanno trovato un uccellino e domani vedremo di farlo cantare..
potrebbe rivelarsi parecchio interessante..»
Come potevo dormire
sonni sereni con quelle parole che rimbalzavano nella mia mente?
Ero
confusa.
Durza mi aveva fatto capire di non nutrire alcuna
simpatia per Galbatorix.
La ragazza bionda, Alba, mi aveva
assicurato di averlo sentito parlare con il suo siniscalco, e che
aveva affermato di volermi portare dal re.
Il servo di Durza,
Hillr, mi aveva guardata con l’aria di uno che mi avrebbe
uccisa
volentieri nel sonno.
Alba. Come aveva trattenuto i soldati?
Perché Durza si era arrabbiato a tal punto nel sentirla
nominare?
Perché nel ricordare la sua immagine l’istinto mi
suggeriva che ci
fosse qualcosa di profondamente sbagliato in lei?
E Durza.. Sapevo
cose significasse nel gergo militare “un uccellino da fare
cantare”. Era un prigioniero, qualcuno a cui strappare
confessioni.
Chi altri era finito nelle abili mani dello Spettro? Intendeva forse
farmi assistere a delle torture il giorno dopo? Quanto avrebbe
resistito il prigioniero prima di implorare pietà?
La cella mi
sembrava soffocante dopo quella breve sortita all’aria aperta.
Mi
rannicchiai sul letto.
Gli uomini raccontavano spesso ai loro
bambini che se non fossero andati a letto senza discutere o non si
fossero comportati bene, l’uomo nero sarebbe uscito dalle
ombre e
li avrebbe portati via con sé. Ovviamente l’uomo
nero non
esisteva, era solo una fantasia che aveva come scopo quello di
spaventare i bambini.
Ma in ogni caso, prima di nascondersi
nell’ombra, avrebbe fatto meglio a controllare che non ci
fosse
Durza già acquattato nell’oscurità.
[Durza]
«Alba!»
Non
le diede nemmeno il tempo di voltarsi che la schiaffeggiò
con furia,
lasciando un’impronta sulla sua pelle candida.
La ragazza emise
uno strillo di dolore e si posò entrambe le mani sul viso.
«Cosa
pensavi di ottenere, stupida!» la rimproverò
aspramente.
Durza
aveva fatto lui stesso domande agli uomini che sarebbero dovuti
essere in servizio davanti alla cella dell’Elfa quando quella
aveva
tentato la fuga e tutti avevano confermato che Alba aveva fornito
loro boccali di idromele, convincendoli a temporeggiare e assicurando
loro di avere ancora parecchio tempo prima dell’inizio del
turno di
guardia.
Lo Spettro tolse bruscamente le mani dal bel viso della
sua interlocutrice. «Perché?» chiese
lapidario.
«I-io ero solo
curiosa» balbettò la ragazza con un pizzico di
indignazione.
«Volevo solo controllare se lei fosse davvero..»
«Questo non ti
riguarda più» la interruppe. «E
perché l’hai fatta uscire?»
Gli
occhi celesti si sgranarono. «Io non l’ho fatta
uscire, le ho solo
parlato per qualche minuto».
Lo Spettro la lasciò andare
sospirando. «E chi se non tu? Sei l’ultima ad
averla vista. Poi me
la sono ritrovata davanti alla mia camera da letto».
«Non avrei
avuto motivo di farla scappare» ribatté lei con
sicurezza.
Durza
la guardò con sospetto, per nulla convinto. Ma
c’era una semplice
maniera per conoscere la verità. Quella ragazza gli aveva
giurato
fedeltà e non poteva che dire la verità se lui
l’avesse
incastrata con la domanda giusta.
«Non mentirmi. Hai aperto la
porta all’Elfa? L’hai aiutata a fuggire?»
«Non avevo la
minima intenzione di farla fuggire».
Quelle parole furono la
conferma che Durza aspettava. «Va bene» disse,
più inquieto di
prima.
Chi era stato allora? Possibile che l’Elfa fosse
veramente riuscita ad aprire la porta con un qualche metodo a lui
sconosciuto? Eppure la magia era totalmente fuori dalla sua
portata..
«Portami la cena in camera» ordinò,
prima di
dirigersi un’ultima volta verso le prigioni.
Cominciava ad
odiare quel luogo, era diventato un monumento alla sua sconfitta.
Poteva almeno sperare che il nuovo prigioniero non sarebbe stato
algido e insofferente come Arya.
Si affacciò alla cella del nuovo
arrivato. Dormiva profondamente, avvolto nel suo mantello. Un taglio
rossastro gli deturpava la fronte e aveva qualche livido sparso per
tutto il viso. Tremava dal freddo e sembrava sofferente.
Durza
pensò con un accenno di ottimismo che probabilmente sarebbe
stato
molto più facile con un comune essere umano, meno resistente
sul
piano fisico e mentale rispetto ad un elfo. E se quell’uomo
era uno
dei Varden, come lui sospettava, avrebbe potuto scoprire cose
interessanti. Forse l’Elfa non gli sarebbe servita
più e avrebbe
potuto liberarsene. Aveva come la sensazione che la sua vita sarebbe
stata molto più tranquilla senza di lei.
Forse avrebbe potuto
soddisfare le richieste di Hillr e lasciare che la uccidesse.
O
forse quelle di lei, anche se Durza non sapeva con
esattezza
cosa ne avrebbe fatto.
O forse avrebbe potuto tenere l’Elfa e
piegarla al suo volere. Ci sarebbe riuscito prima o poi, ne era
certo. Avrebbe impiegato mesi, forse un intero anno, ma alla fine
l’avrebbe spezzata. Per piegare la volontà dei
draghi anziani si
impiegavano decenni, per quella di un’Elfa sarebbe certamente
bastato meno.
Lo Spettro prese a tenere in considerazione l’idea
con più serietà. Se voleva veramente prendere il
potere al posto di
Galbatorix aveva bisogno di tutto l’aiuto possibile. E avere
un’Elfa vincolata a sé da un giuramento di
fedeltà avrebbe potuto
rivelarsi molto utile.
Ci avrebbe pensato.
Passò anche dalla
sua cella e sussurrò un incantesimo per bloccare
ulteriormente la
porta. Più di così non avrebbe potuto fare.
Gli occhi verdi di
Arya incontrarono i suoi nel buio. Era turbata.
Durza sorrise.
Quella era una delle poche vittorie che aveva avuto su di lei.
Poi
se ne andò dalle prigioni e camminò verso la
parte del palazzo
riservata a lui.
Alba e la cena lo aspettavano nelle sue stanze.
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Capitolo 9 *** Verità e Bugiardi ***
9.
Verità e Bugiardi
Avevo
sentito i rumori fuori dalla mia cella. Qualcuno aveva trascinato un
corpo inerte dalle scale e lo aveva portato fino in fondo al
corridoio, nella stanza delle torture. Doveva essere
l’uccellino da
fare cantare.
Nessuno poteva aprire la mia cella perché Durza era
venuto a sigillarla con la magia, durante la notte. I soldati avevano
girato la chiave, ma dovettero attendere lo Spettro per poterla
aprire.
Doveva essere già mattino inoltrato e Durza era di ottimo
umore. Sorrideva e, nonostante il freddo, non portava neppure il
mantello, ma solo camicia e casacca. Rigorosamente neri.
Si poggiò
sullo stipite della porta e mi fece cenno di uscire, con ironica
galanteria.
Lo precedetti nel corridoio. Ero tesa come una corda
d’arco e un velo di sudore mi imperlava la fronte. Non sapevo
proprio cosa aspettarmi da quella giornata, ma la prospettiva di
dover semplicemente assistere a delle torture, e non subirle, mi
rinfrancava un poco. Ero consapevole che i miei pensieri fossero
piuttosto meschini, ma non potei evitarli.
Le ferite delle torture
che avevo subito il giorno prima erano pressoché rimarginate
e mi
sentivo abbastanza in forma. Gettai un’occhiata sospettosa a
Durza
da sopra la spalla. Non mi ero resa conto che mi avesse guarita, se
non quella mattina, non appena mi ero ridestata. Perché lo
aveva
fatto? Che progetti aveva per me?
Spinsi la porta nera ed entrai.
Un uomo con il viso sporco di sangue e fango , disteso ed incatenato
sulla lastra di pietra, mi gettò uno sguardo atterrito e poi
si
illuminò. I suoi occhi si sgranarono lievemente e
un’ombra di
sollievo spianò le rughe sulla sua fronte. Non lo riconobbi,
ma
dalla sua reazione dedussi che lui conosceva me. Quindi doveva avermi
vista un paio di volte a Tronjheim, quando ero lì come
ambasciatrice
e custode, gli elfi non passavano certamente inosservati in mezzo
agli uomini.
Quindi doveva per forza essere un membro dei
Varden.
E quindi tutta l’organizzazione ribelle era in pericolo
mortale.
Durza sapeva come spillare informazioni. E gli umani era
così fragili..
C’era una sola cosa che potevo fare per impedire
a quell’uomo di rivelare tutto ciò che sapeva.
Dita forti
circondarono i miei polsi non appena diedi ai miei muscoli
l’impulso
del movimento e riuscii a malapena a fare un passo avanti prima di
ritrovarmi bloccata dalla presa dello Spettro.
«Oh andiamo, Arya»
sussurrò Durza dolcemente, «sei crudele.
Quest’uomo non ti ha
fatto nulla di male, credo».
Sentii l’uomo in questione
deglutire rumorosamente non appena vide lo Spettro alle mie spalle.
Chiusi gli occhi per nascondere le lacrime di rabbia e di
impotenza.
Fui incatenata alla parete, in modo che mi fosse
impossibile intervenire in alcun modo.
Mentre guardavo quell’uomo
non riuscivo a togliermi dalla testa l’idea che uccidendolo
gli
avrei solo fatto un favore.
E la mia teoria non fu smentita.
«Ti
porgo i miei omaggi, Gal di Dras-Leona giusto?» chiese lo
Spettro in
tono affabile. Ebbi un moto di disgusto per la sua doppiezza.
L’uomo
annuì in silenzio, lanciandomi un’occhiata
spaventata.
Probabilmente si stava chiedendo cosa fare. Se qualcuno era riuscito
a rendere impotente un elfo -che agli occhi degli umani erano
creature invincibili- che possibilità poteva avere lui?
Feci un
impercettibile cenno di diniego col capo. Doveva perlomeno fingere di
non conoscermi se voleva sperare di cavarsela, anche se sinceramente
non credevo che avesse qualche possibilità.
Colse il messaggio,
era un tipo sveglio. Del resto Ajihad non avrebbe mai mandato un
idiota in giro per conto suo. Era forse una spia? O stava portando un
messaggio? In entrambi i casi le informazioni che aveva con
sé
potevano essere di mortale pericolo.
«Ti dispiace ripetermi chi
sei e come mai stavi attraversando le mie terre? Con i miei soldati
non ti sei dimostrato molto collaborativo» lo
esortò Durza, quasi
gentilmente.
«Mi chiamo Gal e vengo da Dras-Leona»
cominciò
l’uomo, parlando con lentezza e con un tono quasi fermo.
«Circa un
mese fa mia sorella è morta. Viveva a Daret e la notizia mi
è
giunta appena una settimana fa, quando i tuoi soldati mi hanno
incontrato stavo andando a visitare la sua tomba. Mi hanno fermato e
hanno cominciato a farmi delle domande, mi sono spaventato ed ero di
fretta, quindi ho risposto sbrigativamente, finendo per dire una
falsità. Loro si sono insospettiti e mi hanno portato qui,
ma non ho
fatto nulla di male».
Durza estrasse un pugnale e se lo
picchiettò leggermente sulle labbra pallide.
L’uomo sbiancò.
«Sai
chi sono i Varden?» chiese poi, con apparente noncuranza.
«Sì
signore» fu la pronta risposta. «Dei banditi che si
nascondono ai
confini del regno e che hanno delle pretese sul trono del re
Galbatorix».
«Sai chi è lei?» domandò
Durza puntando il
pugnale nella mia direzione. Poi fece una smorfia di sufficienza non
appena l’uomo rivolse lo sguardo a me.
«Un’Elfa, signore».
Era spaventato, glielo si leggeva in viso.
«Volevo dire.. conosci
il suo nome?»
«No signore».
«Non chiamarmi signore».
«Sì
signore. Cioè.. va b-bene».
Durza sorrise e l’uomo sussultò
alla vista dei suoi denti.
«Basta giocare» fece poi lo Spettro,
indurendo la voce. «Stai mentendo, Gal di Dras-Leona. E il
fatto che
tu conosca Arya, ambasciatrice degli Elfi presso i Varden e custode
dell’uovo di drago zaffiro, mi porta a pensare che tu sia un
ribelle».
«Ti sbagli, non conosco costei» fu la debole
protesta. Ma sarebbe bastato un attento osservatore umano per capire
che mi conosceva, si era notato subito, non appena mi aveva vista
entrare.
«Io non sbaglio mai. E per restituirti il favore mi
presento: sono Durza lo Spettro, governatore di Gil’ead e
figlio
delle ombre. Ma mi pare di capire che tu mi conosca
già».
Tutti
tra i Varden conoscevano Durza. Ajihad ne parlava spesso, dispensando
consigli su come ucciderlo.
«In molti ti conoscono» disse
Gal.
Lo Spettro sorrise di nuovo. «Mi fa piacere. Ma ora ti prego
di non farmi perdere tempo e di risparmiarti inutili sofferenze. Sai
benissimo che se voglio ottenere da te delle informazioni le
otterrò,
ti rimane se scegliere di darmele adesso e tornare dalla tua gente
con ancora tutte le dita delle mani o fartele estorcere con la forza.
E morire».
«Ti stai sbagliando, non sono quello che credi!»
«Se
parli subito entro stasera sarai sulla strada di casa senza un pelo
della barba fuori posto» insistette Durza.
«Ti dico che ti stai
sbagliando!»
«Quand’è così..»
Durza afferrò le tenaglie
dal braciere spento e le arroventò con la parola di potere.
Chiusi
gli occhi fino a farmi dolere la testa, ma udii comunque con
chiarezza le urla strazianti di Gal, mentre il mio nemico lo
torturava. La sua voce si placò solo quando svenne, parecchi
minuti
dopo, senza però aver rivelato una sola parola
compromettente.
Lo
Spettro rise sommessamente e depose la tenaglia. «Siete
bravi, voi
ribelli. Forti e convinti fino alla fine».
«Sei spregevole»
sputai.
«È il mio lavoro, Elfa».
Mi si avvicinò.
«Cosa
ne farai di lui?» domandai annuendo in direzione del corpo
inerte di
Gal.
«Me ne occuperò più tardi. È
umano ed è debole, non
resisterà ad un attacco mentale ben fatto, specialmente in
una
condizione fisica così degradante. Non resisterà,
non è un Elfo»
concluse, con una punta di sollievo.
«Dunque ora tocca a me»
osservai, con una morsa di panico al petto.
«Come da manuale»
confermò lo Spettro, annuendo.
Chiamò i soldati fuori dalla
porta ed ordinò loro di portare Gal nella sua cella. I
militari lo
liberarono dalle catene con la chiave che Durza lanciò loro
e se ne
andarono rapidamente, chiudendosi la porta alle spalle.
«Questa
la togliamo?» domandò lo Spettro sarcasticamente,
tirando
lievemente il collo della mia camicia e iniziando a sbottonarla.
Mi
liberò le mani dalle catene per potermela sfilare dalle
braccia e
poi si fermò a guardarmi in silenzio totale, alla luce
incerta delle
torce appese alle pareti. Il suo sguardo era così insistente
che
provai un moto di imbarazzo e seguì i suoi occhi per capire
cosa non
andasse. Quando mi guardai fu tutto chiaro.
Le ferite che già
quella mattina erano nettamente migliorate, erano scomparse.
Mi
sollevai un braccio davanti agli occhi, incredula. Non vi era alcun
segno di ferite recenti, solo la traccia rossastra dei tormenti
passati.
Durza mi strinse il braccio con forza. «Come hai
fatto?»
Reclinai il capo di lato, confusa. «Credevo mi avessi
guarita tu».
«Come hai fatto?» ripeté con calma
glaciale.
«Prima esci dalla tua cella con facilità, ora ti
risani le ferite».
I suoi occhi rossastri furono incupiti da un lampo di spavento.
Durza
aveva paura.. di me. La situazione era comica.
Mi strinse il mento
e me lo sollevò, costringendomi ad esporre la gola.
«Anche
quello è scomparso!» esclamò.
Capii che si stava riferendo al
livido violaceo che mi aveva procurato con i suoi baci insistenti e
un lampo di trionfò illuminò la mia confusione.
Poi tornò tutto
all’origine. Perché se non era stato Durza a
guarirmi non avevo la
minima idea di chi potesse essere stato. Forse c’era qualcuno
intenzionato ad aiutarmi a Gil’ead. Forse.. Alba? Era una
maga? In
effetti quando era comparsa lei avevo avvertito una forza improvvisa
invadermi, ma avevo imputato tutto all’eccitazione del
momento.
Con
un’occhiata constatai che il mio carceriere era allibito e
disorientato, ma si stava dando un gran daffare per riuscire a
riprendere il controllo della situazione.
«Fa’ un incantesimo»
ordinò.
Scossi la testa. «Per farmi quasi ammazzare da una
scarica di energia? No grazie, Spettro».
Non si scompose. «Se lo
fai potrei evitarti le torture per oggi, se non lo fai ti assicuro
che riempirò ogni pollice della tua pelle di lividi. Con lo
stesso
metodo che ho usato per quello che avevi sul collo».
Tentennai.
Era un bel ricatto. Il buon senso mi suggeriva di accettarlo,
l’orgoglio di resistervi.
Durza mi afferrò una mano e si portò
il polso alla bocca. Le sue labbra ruvide sfiorarono la mia pelle.
Il
mio istinto di conservazione prevalse su buon senso ed orgoglio.
«Va
bene, va bene». Allontanai il suo viso da me.
Lo Spettro si
lasciò sfuggire un sorrisetto irriverente. «Devo
proprio
disgustarti parecchio».
Lo ignorai. Pensai ad una parola di
morte. Se dovevo tentare un incantesimo che magari poteva funzionare
tanto valeva farlo in grande. Pronunciai la parola e feci per
attingere alle mie energie, ma le ametiste si attivarono e io mi
ritrovai a contorcermi, agonizzante per il dolore.
Quando il
sangue cessò di rombarmi nelle orecchie, mi resi conto che
Durza mi
aveva trattenuta, afferrandomi per i fianchi affinché non
cadessi a
terra.
Lo udii imprecare oscenamente, come solo un nano ubriaco
poteva fare.
«Se credessi agli dei, direi che ce n’è
qualcuno
che ti vuole mantenere in salute, Principessa»
ringhiò poi tra i
denti.
A quel punto non vi erano più spiegazioni sensate. Lui non
mi aveva guarita. Io non potevo essermi guarita. Doveva averlo fatto
qualcun altro.
«Ti riporto nei tuoi alloggi» disse, lasciandomi
andare.
Raccattai la mia camicia da terra e la indossai, poi lo
seguii per il corridoio, con la mente ancora annebbiata e il corpo
intorpidito per il dolore. Guardai con ostilità
l’anello che mi
cingeva l’indice sinistro.
Durza entrò con me nella mia cella e
iniziò a pronunciare diversi incantesimi, che riconobbi con
facilità, nonostante la mia lingua madre cominciasse a
suonarmi
strana dopo mesi che non la parlavo. Mi ero spesso sorpresa a pensare
nella lingua degli uomini, che era ormai l’unica che usavo. E
praticamente solo per parlare con Durza.
Lo Spettro sigillò tutti
i muri della stanza e piazzò incantesimi che gli avrebbero
segnalato
se qualcuno avesse agito sulle sue barriere o se qualcuno avesse
usato la magia su di me o nel raggio di tre iarde intorno a me.
Non
sapevo se sentirmi protetta o ancora più reclusa di prima.
Non
sapevo se la forza che mi aveva guarita aveva agito solo per il mio
bene o per secondi fini.
Non sapevo nemmeno cosa avesse intenzione
di fare il mio carceriere al riguardo.
Mi sedetti sul letto e mi
pettinai distrattamente i capelli annodati, ripensando agli ultimi
avvenimenti.
«Vado a fare una chiacchierata con Gal» disse Durza
con voce incolore. «Non sparire, per favore».
Mi sfuggì un
sorriso amaro. «No di certo».
Passai il resto del giorno a
domandarmi quanto a lungo Gal avesse resistito prima di parlare.
Durza non lo aveva portato nella stanza delle torture, quindi
probabilmente stava subendo un attacco mentale a cui non era pronto
e, incapace di resistere, stava lasciando che lo Spettro si aggirasse
tra i suoi pensieri e ricordi.
Il pensiero che il mio doloroso
silenzio, in cui persistevo da più di due mesi, fosse stato
vano, mi
avvelenava la mente e metteva a dura prova la mia pazienza. Inoltre
un terrore viscido iniziò a farsi largo nella mia mente: se
Durza
avesse saputo da quell’uomo qualcosa riguardo
all’uovo, se Brom
non fosse ancora riuscito a portarlo al sicuro da qualche parte.. Io
non ero in grado di avvertire nessuno. Non sapevo nemmeno come si
stava svolgendo la situazione militare e politica al di fuori della
fortezza di Gil’ead. Gli umani avevano vite veloci, come il
passaggio di una cometa, e in pochi mesi potevano compiere
ciò che
gli elfi ponderavano attentamente per decenni.
Non ero nemmeno
sicura di sapere cosa volesse farne Durza dell’uovo. Se non
era
veramente fedele a Galbatorix come ormai ben sapevo, a quale scopo
gli sarebbe servito? Lo Spettro voleva forse rovesciare il suo re e
prendere il suo posto?
Mi raggelai. Con Durza al potere la
situazione non sarebbe certamente migliorata. Anzi..
Poi mi
sovvenne un’altra possibilità: forse la mia vita
non gli sarebbe
stata più tanto necessaria come lo era fino a quel momento.
Forse
avrebbe voluto liberarsi della mia ingombrante presenza, specialmente
dopo gli ultimi avvenimenti. La mia unica speranza era che volesse
cercare in ogni modo di sapere qualcosa di più sul mio
popolo.
Durza
tornò solo per sollevare le barriere per quei pochi istanti
necessari a far scivolare un vassoio di cibo sotto la porta, e
così
non ebbi neppure modo di controllare se era Alba quella che respirava
accanto a lui oltre la porta o no. Il mio stomaco non riuscì
a
reggere il pasto di quella sera e vomitai tutto quello che avevo
ingerito nello scarico della latrina.
Mi sentivo terribilmente
stanca e fiacca quando mi distesi a letto per dormire qualche ora.
Chiunque mi avesse aiutata fino a quel momento doveva aver cambiato
idea, spaventato dagli incantesimi di Durza.
[Durza]
Avrebbe
dovuto prendere la mente di Gal -che non era di Dras-Leona- molte ore
prima! A quel punto sarebbe già stato parecchio
più avanti con il
suo piano. Aveva voluto torturarlo di fronte ad Arya per scatenare
qualche sua reazione di pietà. L’Elfa aveva
sì chiuso gli occhi
per la pena, ma non aveva detto nulla per evitare al suo alleato
qualche sofferenza. Avrebbe dovuto saperlo ormai, quella donna faceva
tutto quello che era necessario per perseguire i suoi obiettivi,
anche se era doloroso.
Ma un semplice umano non aveva potuto nulla
contro di lui. Gal veniva direttamente da Tronjheim, la
città
ribelle nel Farthen Dûr ed era diretto nella valle Palancar.
Durza
si chiese perché quelle viscide spie che il re aveva
laggiù, meglio
noti come i Gemelli, fossero incapaci di fornire informazioni utili,
mentre i viandanti sì. Galbatorix doveva avere imposto loro
un
giuramento di fedeltà, perché nemmeno il
più stolto tra gli uomini
si sarebbe fidato di quei due.
Insomma le conoscenze di Gal si
erano rivelate piuttosto deludenti all’inizio, conosceva bene
il
covo dei ribelli, ma era quel tipo di informazione che sia il re che
lui avevano già da un pezzo, e nei minimi dettagli. Quando
il re
avesse voluto, avrebbe potuto attaccare la base dei Varden con
assoluta tranquillità, passando per le gallerie sotterranee
dei
nani. Anche se a dire il vero i Gemelli non avevano fornito una
mappatura precisa di quelle, avrebbero dovuto rimediare prima o
poi.
Lo Spettro andò nel suo studio e srotolò con
cautela una
mappa di Alagaësia sul grande tavolo. Cercò
Carvahall con lo
sguardo. Era un’insulsa cittadina a nord della valle
Palancar, un
luogo che non aveva nemmeno mai visitato, nonostante avesse girato
quasi tutte le terre di Alagaësia. Sapeva che vi vivevano un
pugno
di contadini e che il villaggio viveva praticamente di auto
sussistenza, forse l’unico modo che avevano per commerciare
era
fare scambi con le carovane di nomadi che ogni anno percorrevano il
paese da nord a sud.
Durza non riusciva proprio a capire perché
un membro dei Varden dovesse vivere in quel luogo dimenticato dagli
dei. Gal era incaricato proprio di questo: riferire ad un uomo che
viveva a Carvahall che l’uovo di zaffiro era andato smarrito
e che
gli elfi avevano tolto il loro appoggio ai ribelli. E l’uomo
destinatario del messaggio era Brom.
Non aveva una buona fama
presso gli affiliati all’impero, l’ex cavaliere
aveva dato
parecchio filo da torcere a Galbatorix. Durza in parte lo stimava e
in parte lo temeva, perché lo avrebbe certamente ostacolato
nella
sua scalata al potere. Ma a quel punto l’unica cosa da fare
era
andare a Carvahall ed interrogare Brom. Forse era a lui che Arya
aveva mandato l’uovo, era molto probabile vista la ridotta
distanza
di spazio in cui il suo incantesimo avrebbe potuto agire. Ma se Brom
aveva ricevuto l’uovo perché non aveva avvisato
gli altri ribelli?
C’era qualcosa che non tornava. Doveva partire subito.
Un
improvviso calore sul cuore lo costrinse a cambiare in un attimo
tutti i suoi piani. Insinuò una mano sotto mantello e
camicia ed
estrasse il ciondolo a forma di sole a sei raggi che impediva a
chiunque di divinarlo senza il suo consenso. Ma a dire il vero
l’unico che mai provava a divinarlo era Galbatorix in
persona.
Esitante, lo Spettro si diresse verso lo specchio che giaceva in un
angolo e si sfilò l’amuleto.
Il viso volitivo del sovrano
apparve sulla superficie liscia.
«Ho appena ascoltato il rapporto
di Barst. Mi aspettavo un servizio migliore da te, Durza».
Il
conte era già arrivato a Uru’baen? Aveva viaggiato
molto
velocemente. O forse il re gli aveva parlato con la mente, a leghe di
distanza.
«Qualunque cosa ti abbia detto Barst, temo che abbia
mentito, mio signore».
«Mi ha detto che avete avuto una disputa
subito prima che lasciasse Gil’ead».
«Riguardo a quello non
mentiva».
«Pazienza per Barst, che è un semplice umano, ma
da
parte tua mi aspettavo più maturità. Sei persino
più vecchio di
me, Durza, eppure ti comporti ancora come un ragazzino».
Restò muto
qualche istante, affinché assorbisse il rimprovero.
«E poi Barst ha
aggiunto che l’Elfa che è in tua custodia non ha
ancora
parlato».
«Vero anche questo» dovette ammettere lo
Spettro.
«Dimmi la verità, non hai veramente nulla da
dirmi? Se
hai delle informazioni ti ordino di darmele immediatamente».
Durza
ebbe il tempo di maledirsi per aver giurato obbedienza a quel verme,
che fu costretto a sottostare al suo volere.
«L’Elfa non ha
veramente detto nulla, mio signore. È molto ostinata.
L’ho
torturata fino a quasi ucciderla e poi sono stato costretto a curarla
affinché non morisse, ma ancora non mi è stata di
nessuna utilità.
Ma i miei uomini hanno catturato un uomo, un paio di giorni
fa..»
«Un
dei Varden?»
«Sì, mio re. L’ho interrogato e
torturato, ma ha
negato tutto. Quindi ho penetrato la sua mente e scoperto la
verità.
È un messaggero dei Varden, mandato da Ajihad in
persona».
Contrasse la mascella al solo pensare quel nome. «Era diretto
a
Carvahall».
«Non c’è nulla a Carvahall»
osservò Galbatorix,
«è solo un pugno di case, campi e contadini
scorbutici».
«A
quanto pare là è rintanato un membro dei Varden.
Qualcuno che
credevamo morto da tempo. Ricordi Brom?»
L’impassibilità del
sovrano si incrinò «Ne sei sicuro?»
«I pensieri di un uomo non
possono mentire».
«E cosa doveva riferire quest’uomo a
Brom?»
«Che l’uovo azzurro che ti rubarono diversi anni fa
è
disperso insieme ai suoi custodi. E che gli elfi hanno tolto il
sostegno ai ribelli».
«Dunque nemmeno i Varden hanno più il mio
uovo? Dove lo avrà mandato l’Elfa?»
«Non ho nessuna ipotesi
certa».
«Che gli elfi si siano ritirati dalla lotta è una
buona
notizia. E dal prigioniero non hai saputo
nient’altro?»
«È
morto. Ha recuperato per un istante il controllo del suo corpo e si
è
ucciso. Si è morso la lingua fino ad annegare nel suo
sangue».
Galbatorix tacque così a lungo da fare sperare a Durza
che la conversazione fosse finita, poi purtroppo tornò a
parlare.
«Ti convoco a Uru’baen, mio fedele
braccio».
«Adesso?»
chiese lo Spettro con stupore. Era l’ultima cosa che si
aspettava
ed era un contrattempo piuttosto importante.
«Parti il prima
possibile! E vieni a piedi o a cavallo, da solo. Entro una settimana
ti voglio sotto le mura. Per tornare a Gil’ead
chiederò ai Ra’zac
di portarti sulle loro cavalcature, poi loro proseguiranno fino a
Carvahall. È ora di ricordare a Brom che non può
sperare di fuggire
al signore di Alagaësia».
Durza maledisse silenziosamente il
signore di Alagaësia. Perché mai
aveva una tale urgenza di
vederlo di persona?
«Mentre sarò lontano non potrò
torturare
l’Elfa» cercò di ribattere.
«Sei un illuso se credi ancora di
potere ottenere qualcosa da lei con questo metodo. Ma del suo destino
parleremo quando sarai inginocchiato di fronte a me nella sala del
trono».
Ingoiò la rabbia. «Sì, sire».
«Tra una settimana
ad Uru’baen. Vedi di non farmi aspettare».
Il contatto svanì e
Durza provò l’improvviso desiderio di rompere
qualcosa. Diede un
pugno all’angolo della massiccia scrivania del suo studio e
un
pezzo del legno si ruppe e rotolò a terra.
Dannazione!
Ora il
re sapeva tutto e ormai la situazione era totalmente volta a suo
vantaggio.
E come se non bastasse sarebbe anche dovuto andare a
Uru’baen! Per fare cosa poi, non era dato a sapere. Aveva
come la
sensazione che il re avesse qualcosa da lamentare se lo convocava di
persona.
La sua situazione era molto complessa e delicata. Se il
re avesse letto la sua mente avrebbe capito immediatamente che, per
quanto il suo giuramento di obbedienza lo permetteva, stava cercando
di spodestarlo.
Era da molti anni che agiva nell’ombra ed era
abilissimo ad ordire intrighi e complotti. Non favoriva né
il re, né
i Varden. Entrambi gli schieramenti si sarebbero fermamente opposti
alla sua ascesa, senza contare che il capo dei Varden era Ajihad in
persona..
Ma nessuno dei suoi piani era mai andato a segno,
nonostante la precisa organizzazione.
Ricordava ancora quando era
riuscito ad inserirsi nel furto dell’uovo di zaffiro,
più di
quindici anni prima. Hefring, spia dei Varden a Furnost, era assetato
di denaro, poco importava se fosse Galbatorix o i Varden ad avere il
potere. Durza lo aveva incontrato per puro caso, ubriaco fradicio nei
vicoli di Furnost, mentre era lì per spiare di persona
l’attività
dei Varden in quella regione. L’uomo aveva biascicato
qualcosa di
incoerente riguardo al furto di un uovo gigante. Lo Spettro era stato
abbastanza intelligente da prendere l’uomo con sé,
renderlo sobrio
con un incantesimo, e farsi dire tutto con una borsa di monete
d’oro.
Con la promessa di ricchezze ben maggiori, era riuscito a far giurare
a Hefring di portare a lui l’uovo, una volta che
l’avesse rubato.
Lui lo avrebbe aspettato tre mesi dopo che il furto fosse avvenuto,
quando le acque si fossero calmate, sotto la gogna in piazza a
Gil’ead, a mezzanotte.
Hefring doveva avere avuto qualche
problema, perché si era presentato solo ben sette mesi dopo
il
furto, farneticando a proposito di strane voci che gli erano esplose
in testa dopo il furto. Braccato sia dall’impero che dai
Varden,
era stato costretto a compiere una lunga deviazione, e quando
l’uovo
era finalmente arrivato a Gil’ead, se l’era fatto
soffiare da
Morzan, che a sua volta se l’era fatto soffiare da Brom.
Quando
Hefring era venuto da lui a chiedere comunque la sua ricompensa per
gli sforzi compiuti, l’aveva ucciso. Era un testimone troppo
scomodo per lasciarlo in vita, era viscido e non aveva più
amici o
famiglia, nessuno si sarebbe preoccupato troppo della sua scomparsa,
dato che l’uovo era ormai definitivamente in mano ai
ribelli.
Quella era stata la prima volta che Durza aveva sfiorato
il successo, la seconda era stata rovinata da Arya.
Arya. Che ne
sarebbe stato di lei mentre lui sarebbe andato a Uru’baen?
Più
pensava alla convocazione del re più sentiva che
c’era qualcosa
che non andava. Forse il sovrano aveva scoperto qualcosa, forse aveva
intenzione di ucciderlo.
Durza non temeva la morte, sapeva che se
ci fosse stata quella non ci sarebbe stato lui, quindi non avrebbe
avuto tempo di averne paura. Però non voleva rinunciare
così
facilmente alla vita, aveva ancora molti progetti da
realizzare..
Sarebbe andato ad Uru’baen ovviamente. Non poteva
fare altrimenti.
E avrebbe lasciato l’Elfa a languire in
prigione. Sempre che qualche forza misteriosa non accorresse in suo
aiuto. Si era sinceramente spaventato quando aveva visto le sue
ferite risanate. Lei non aveva mentito, quindi non si era guarita da
sola, ma lui non aveva la minima idea di chi potesse essere stato.
C’era una sola persona che sapeva usare la magia e che
avrebbe
potuto avvicinarsi indisturbata, ma Durza era sicuro che certamente
non avrebbe cercato di guarirla. Lei sembrava
provare un odio
infondato nei confronti di Arya, quindi semmai avrebbe provato ad
ucciderla.
E poi c’era Hillr..
Durza non sarebbe mai riuscito
a mantenere gli incantesimi di protezione da Uru’baen, a meno
che
non li affidasse alle forze della sua prigioniera, ma se qualche
essere superiore avesse provato ad intromettersi, lei ne sarebbe
morta.
E lui aveva ancora bisogno di lei. L’idea di fare di Arya
una specie di serva non l’aveva totalmente abbandonato. Lei
lo
odiava e lo disprezzava profondamente, lo sapeva, ma se fosse
riuscito a piegare la sua mente e l’avesse costretta a
giurare, lei
non avrebbe potuto fare altrimenti.
Però in un certo senso gli
sarebbe dispiaciuto annientare il suo carattere indomito, era
ciò
che la rendeva interessante. Pochi erano riusciti a tenergli testa
come lei.
Si disse che era ora di rivedere le sue
priorità.
Afferrò la catena d’argento con il sole, la
indossò
e si trascinò fino alla sua stanza da letto. Era stanco di
tutte le
delusioni che la vita gli aveva riservato. Per una volta avrebbe
voluto che qualcosa andasse per il verso giusto, ma pareva che ci
fosse qualcosa perennemente contro di lui.
Durza sparì sotto le
lenzuola di seta e le coperte imbottite. Quel letto era troppo grande
per lui solo, ma in quel momento non aveva alcuna voglia di
compagnia.
Sognò Arya. Era vestita riccamente, con i capelli
corvini intrecciati di perle e fili d’argento e lo fissava
con la
sua solita espressione altezzosa, gli occhi verdi impenetrabili come
un freddo, cupo smeraldo.
«Non mi avrai mai» diceva.
«Mai».
E il tono era così gelido da farlo
rabbrividire.
Poi vennero i soliti sogni, quelli che da più di un
secolo si ripetevano, notte dopo notte.
Le urla del padre mentre i
banditi lo picchiavano e lo facevano a pezzi, inebriati dalla
violenza; le urla della madre mentre la stupravano, i singhiozzi
della sorella mentre subiva la stessa infelice sorte. E poi il cuore
che gli rimbombava nel petto mentre rimaneva nascosto tra le rocce, a
distanza di sicurezza dalle tende, sperando di non essere
notato.
Vigliacco.
Ma allora cosa avrebbe potuto fare?
Allora era solo Carsaib.
Codardo e debole Carsaib.
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Capitolo 10 *** Gli Spettri non baciano! ***
10.
Gli spettri non baciano!
Ero
ansiosa. Avevo dormito male, avevo fame, eppure il mio stomaco era
chiuso.
Volevo sapere quanto lo Spettro avesse estorto da Gal,
volevo sapere se avesse capito chi o cosa era intervenuto su di
me.
Scattai in direzione della porta non appena riconobbi i passi
di Durza per le scale e attesi che aprisse la porta con la chiave e
con la magia.
Le occhiaie che solcavano il suo viso pallido mi
informarono che non ero l’unica ad aver passato una brutta
nottata.
Lo Spettro sembrava stranamente stanco e rassegnato.
Non pensavo
che l’avrei mai visto ridotto così male.
«Ebbene?» chiesi,
impaziente.
«Gal è morto» disse Durza chiudendosi la
porta alle
spalle e picchiettandola leggermente con le nocche affinché
i
soldati fuori girassero la chiave. «Era uno dei Varden e
stava
portando un messaggio. Sono entrato nella sua mente e ho trovato
diverse cose interessanti, ma lui ha resistito bene. Si è
morso la
lingua ed è affogato nel suo sangue pur di impedirmi di
accedere
ulteriormente alle sue memorie».
Un’ondata di orgoglio per
quell’eroe mi investì, seguita a ruota da una di
panico e
sofferenza.
«So che Brom è a Carvahall» disse Durza.
«Immagino
che tu conosca Brom».
Respirai profondamente, ma tacqui. Ovvio
che lo sapevo, avevo mandato l’uovo proprio a lui. Ma lo
Spettro
aveva fatto quel collegamento?
«Avrei voluto andare
personalmente a controllare la situazione laggiù»
continuò, «ma
non posso».
«E cosa ti trattiene?» domandai aspramente.
L’unica
cosa importante che stava facendo era torturare me, o almeno
così
credevo.
Durza compì i pochi passi che lo separavano dal mio
letto e si sedette.
«Tra qualche ora parto».
Ah. Era l’ultima
cosa che mi aspettavo.
«E dove..?»
«Non ti interessa
veramente dove andrò» commentò
sarcasticamente, fissando un punto
indefinito all’altezza dei suoi piedi. «Sappi che
rivedrai la mia
brutta faccia tra una settimana. Forse».
Non ero pronta al panico
che mi assalì. «E mi lascerai qui da sola? Con
forze misteriose che
agiscono intorno a me? Non hai paura che qualcuno mi faccia fuggire,
o che mi uccida?»
I suoi occhi cremisi si spostarono su di me.
«Forse».
Mi imposi di assumere un minimo di indifferenza, ma non
ci riuscii. Certo, avere Durza lontano significava non essere
torturata per un’intera settimana! Era una prospettiva
positiva, ma
in verità avevo paura. Gli ultimi avvenimenti erano rimasti
inspiegati. Se Durza fosse andato via sarei rimasta totalmente
abbandonata a quel delirio.
Era assurdo. Avevo desiderato così
tanto che sparisse, che la terra lo inghiottisse, che un fulmine lo
colpisse..
«Se ti andrà veramente bene»
proseguì lentamente,
«potresti avere la fortuna di non rivedermi mai
più».
«Non
capisco» ammisi. «E non mandi nessuno a Carvahall?
Hai trovato
l’uovo altrove e stai andando a cercarlo? Cosa..?»
affondai le
mani tra i capelli, respirando affannosamente. Mi sembrava che tutti
gli eventi stessero precipitando.
Durza mi fissò con interesse.
«Non mi dirai che stai avendo un attacco di panico,
Elfa».
«N-non
respiro» boccheggiai e tremai, stringendomi le mani alla
gola.
L’aria non riusciva a riempirmi i polmoni. Mi piegai sulle
ginocchia e mi imposi di ispirare lentamente, ma non ci riuscivo,
più
cercavo di calmarmi più sembrava aumentare la mia
agitazione. Lo
Spettro disse qualcosa, ma la sua voce svanì nel rombo che
mi
riempiva le orecchie. Dovevo respirare. Lentamente, lentamente..
Funzionò. Mi asciugai il sudore dalla fronte e mi alzai con
cautela.
Quando tornai a guardare Durza non sapevo più cosa dire
o fare.
Anche lui era a corto di parole, però sembrava sapere
esattamente cosa fare.
Ero in piedi esattamente davanti a lui. Una
mano pallida si allungò nella mia direzione e mi
afferrò con
decisione per il colletto della camicia.
Durza mi tirò a sé
-dovetti appoggiarmi con le mani sulle sue ginocchia per non cadergli
addosso- e mi depositò un brusco e frettoloso bacio sulle
labbra,
lasciandomi poi andare immediatamente.
L’intera azione non era
durata più di una frazione di secondo, tanto che dubitai che
fosse
accaduto veramente. E non ebbi modo di protestare, perché lo
Spettro
si era già alzato.
Mi passò accanto. «Addio Elfa».
Fui io
ad occupare il letto a quel punto. Mi sfiorai le labbra. Non poteva
avermi veramente baciata.
Doveva essere per forza la mia
immaginazione. Gli Spettri non baciavano! Gli Spettri odiavano e
basta.
O almeno, era quello che avevo sempre creduto prima di
incontrare Durza.
Prima di incontrare Durza ero sempre stata
convinta che gli Spettri non potessero avere sentimenti.
Ricordavo
che da bambina mi erano state narrate tutte le leggende della lunga
letteratura elfica. Si parlava spesso di creature oscure come demoni
-ormai estinti- e Spettri, erano le figure negative
all’interno
delle ballate, com’era ovvio. Erano quel tipo di creature che
si
distruggevano solo con l’eroica e combinata forza di almeno
una
decina di elfi.
Ma il mio popolo possedeva anche una cronaca
seria, scritta da Laetri l’elfo dopo aver sconfitto Nadua, lo
Spettro che infestava le terre di Alagaësia ai suoi tempi.
“Vidi
io stesso quell’essere fatto di ombre uccidere di suo pugno
uomini,
donne e bambini innocenti, che imploravano pietà. Seppi in
quell’istante che le creature prostrate dalla sete di sangue
degli
spiriti non possono che compiere del male. Lo Spettro non provava
alcun sentimento che non fosse odio verso il mondo intero e disprezzo
per la vita e la morte. Fu in quel momento che decisi che non avrei
permesso che simili sofferenze continuassero..”
Poi
c’era una lunga ed inutile parentesi su una profezia che
narrava di
qualcosa come una figlia dell’aurora che in periodo di
disperazione, avrebbe tirato fuori le razze di Alagaësia dalle
ombre
e dal dolore.
Ma non era importante.
A dire il vero nulla di
tutto quel mio pensare era importante.
Pensai ai baci delicati di
Fäolin.
La solita profonda tristezza mi assalì. La sua morte
sembrava risalire a qualche ora prima, tanto era nitido il ricordo
del suo corpo inerte.
Fortunatamente l’arrivo del pranzo mi
salvò dai miei pensieri cupi. Mi alzai dal letto non appena
sentii i
passi leggeri e mi accostai allo spioncino, sperando di vedere Alba.
E la vidi. Le torce facevano risplendere i capelli sfuggiti alla
morbida crocchia come oro liquido, sarebbe stata facilmente
riconoscibile anche da molto più lontano. La ragazza fece
scivolare
il pasto oltre la porta e mi rivolse un piccolo sorriso, accompagnato
da un’occhiata rammaricata.
Un soldato fece un’osservazione
volgare sul vestito azzurro troppo generosamente scollato e lei ne
rise, arrossendo. Poi se ne andò, guardandomi con
un’espressione
radiosa e soddisfatta.
Recuperai una parte del mio ottimismo.
Forse Alba avrebbe potuto tentare di farmi nuovamente uscire. E forse
ci sarebbe riuscita, senza Durza ad ostacolarla. Forse avrei potuto
tornare a casa mia, a rifare la mia vita.
Anche se dopo
un’esperienza del genere ero certa che nulla sarebbe rimasto
come
prima.
Il pasto mi parve ancora più insapore del solito, mentre
lo divoravo con ben poca dignità. Avevo fame.
E nonostante tutto
vomitai l’intero contenuto del mio stomaco pochi minuti
dopo.
Gettai un’occhiata sospettosa al bicchiere e al piatto di
legno ormai vuoti. Se qualcuno avesse messo qualche veleno me ne
sarei accorta immediatamente, conoscevo bene l’odore della
noce
vomica.
Che fosse qualche altra strana malattia?
Quella
sera non venne nessuno. E nemmeno la mattina dopo, nemmeno il
pomeriggio e nemmeno la sera. A parte Alba. Non riuscii mai a parlare
con lei, si limitava a portarmi il cibo, che ormai rigettavo
regolarmente, e non si imbucava nei sotterranei tra un cambio di
guardia ed un altro. Mi rassegnai tristemente, forse non aveva
più
alcuna intenzione di aiutarmi, forse Durza l’aveva
minacciata. Cosa
poteva fare una povera umana contro uno Spettro?
Dopo quelli che
dovevano essere tre giorni dalla partenza di Durza un uomo si
affacciò allo spioncino.
Impiegai un paio di minuti prima di
capire chi fosse. Era Hillr, il siniscalco di Durza.
Sussurrò
alle guardie, forse credendo che non potessi sentirlo.
«Il
padrone vi ha lasciato qualche disposizione?»
«Solo di non fare
entrare nessuno nella sua cella».
«Quindi non mi lascerete
entrare nemmeno se vi corrompessi, giusto?»
«Giusto. Amico,
quello viene sempre a sapere tutto. Chi ci assicura che se noi ti
lasciamo fare quello che vuoi poi non ci ammazza con una
stregoneria?»
«Legittima obiezione».
Hillr restò a
guardarmi ancora per qualche istante, con un astio e un rigetto che
non avevo mai visto nel volto di un essere umano.
«Quelli come te
impestano questo mondo» sibilò sputando oltre la
porta.
Dal mio
letto, aderente alla parete opposta, gli rivolsi un sorriso
volutamente gelido.
Il suo viso si contrasse per la rabbia. Quando
se ne andò fui certa di essermi creata un altro accanito
nemico. E
senza alcun motivo logico apparente.
Dopo cinque giorni stavo
morendo di fame. Il mio stomaco non era più riuscito a
trattenere
nulla. Non mi sembrava che ci fosse alcun veleno nel cibo, ma allora
perché? I primi giorni passeggiai nervosamente per la mia
cella,
frustrata e furiosa per la mia sorte. Poi caddi in uno stato di cupo
deperimento.
Ero completamente sola, in balia di chissà chi che
mi stava riducendo alla fame.
Durza era lontano e chissà se e
quando sarebbe tornato, Alba mi ignorava.
Caddi nuovamente in
preda a brevi deliri.
Una notte mi svegliai di soprassalto,
sentendo qualcosa di sbagliato intorno a me.
Guardai verso la
porta, temendo che Hillr fosse venuto a tentare di assassinarmi nel
sonno.
Il respiro mi si strozzò in gola.
L’occhio bianco era
lì.
Immobile.
Pareva brillare nel buio.
Fui incapace di
riprendere a respirare.
Cercai di imporre un po’ di razionalità
sopra il mio terrore. Mi sembrava di avere stabilito che fosse solo
un’illusione. Sì, solo un’illusione
della mia mente
malata.
Doveva essere un’illusione.
Chiusi gli occhi,
ordinandomi di ignorarlo. A quel punto sentii una risata dal suono
stridente come metallo contro le unghie, che mi fece accapponare la
pelle dal gelo, seppure fossi sotto le coperte imbottite.
L’odore
di noce vomica mi aggredì le narici ed ebbi in un istante
l’acuta
e totale sicurezza che quell’occhio fosse la causa di ogni
mio
male.
Urlai. E fui costretta a smettere quando sentii le
imprecazioni sonore degli armigeri fuori dalla porta. Tornai a
guardare lo spioncino. L’occhio affacciato era il comunissimo
occhio castano di un essere umano.
Mi tappai con forza le orecchie
per non dover sentire le parole canzonatorie dei soldati, ma i suoni
filtravano sin troppo bene oltre i miei palmi. Qualcuno di loro mi
chiamò “Elfetta”, segno che il segreto
sulla mia identità non
era poi così controllato come credeva Durza.
Rimasi a fissare il
soffitto con gli occhi spalancati, per quelli che mi parvero mesi ed
anni, ignorando il cibo che scivolava sotto la mia porta.
L’odore
della noce vomica sembrava essersi insinuato in ogni pollice delle
mie membra, continuavo a sentirlo sempre e anche solo l’odore
di
generi alimentarmi mi dava la nausea.
Mi distolsi dal mio stato
quando, sotto il respiro regolare degli uomini di guardia e il loro
chiacchiericcio, percepii il fruscio di qualcosa che scivolava sotto
l’uscio.
Gettai un’occhiata intorno a me. Per terra, accanto
al mio letto, c’era un pezzetto di carta, ripiegato
più e più
volte su se stesso. Allungai faticosamente un braccio, lo raccolsi e
lo aprii.
“Morirai”.
Lo
accartocciai nel palmo. Probabilmente si era trattato di un semplice
scherzetto degli uomini lì fuori. Poi capii che sicuramente
la metà
di loro non sapeva né leggere né scrivere.
Mi morsi le labbra e
serrai la carta nel pugno. Non volevo piangere.
La mattina
seguente il pezzo di carta era scomparso e non lo trovai, nonostante
le accurate ricerche nella mia angusta cella.
|
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Capitolo 11 *** Nella tana del lupo ***
Ciao
11.
Nella tana del lupo
Durza
si stirò come un gatto non appena sorse il pallido sole
invernale.
Aveva impiegato sei giorni esatti per compiere il tragitto fino a
quel punto e secondo i suoi calcoli avrebbe raggiunto la grande
collina, alla cui base sorgeva Uru’baen, prima che il sole
giungesse allo Zenit. Viaggiava a piedi, orientandosi in principio
con il corso del fiume Ramr -ingrossato per lo scioglimento delle
nevi- e poi con le stelle, che sapeva essere fisse in
cielo.
Galbatorix lo aveva informato che per il ritorno avrebbe
dovuto cavalcare un Lethrblaka con i Ra’zac e quindi aveva
preferito viaggiare solo con se stesso, così da non dovere
abbandonare il suo cavallo, Nebbia, ad Urû’baen.
Almeno il suo
magnifico animale voleva lasciarlo al sicuro nelle stalle di
Gil’ead.
Sapeva che per un uomo del suo rango e della sua
importanza sarebbe stato consono presentarsi a corte a cavallo, con
le bisacce appese al fianco dell’animale. Ma a lui non gliene
importava un beato niente di quello che avrebbero detto, pensato, o
sussurrato i cortigiani nel vederlo conciato in quella maniera. Aveva
indossato i vecchi e ormai logori stivali marroni, ammorbiditi dalle
leghe che avevano percorso e quindi più comodi per la corsa,
portava
un semplice zaino con i viveri e le coperte in spalla e aveva
inevitabilmente bisogno di un bagno dopo tutti quei giorni di marcia
e di dormite all’addiaccio.
Stava ormai camminando lungo il
sentiero che solcava le colline, coperte interamente da filari spogli
che con la stagione della fioritura si sarebbero riempiti di foglie e
con la stagione dei venti avrebbero dato grossi grappoli
d’uva nera
e bianca, da cui si ricavava il raffinato vino che si consumava alla
corte. Anche lui ne aveva alcune botti nel suo palazzo, ma era una
bevanda riservata ai più abbienti e che non tutti potevano
permettersi.
Come aveva previsto, raggiunse la capitale quando il
sole sfiorò lo Zenit. Il frenetico movimento di bestie e
persone lo
infastidì immediatamente. La città era cresciuta
parecchio quando
era stata in mano ai Broddring, in particolare sotto l’ultimo
sovrano di quella stirpe, Angrenost, e le vecchie mura erano state
ampliate fino a cingere l’intera cittadina, ma da allora
erano
state nuovamente rinforzate e ristrutturate ed erano larghe e alte il
doppio rispetto ad ottant’anni prima.
Durza prese coscienza di
aver passato almeno un secolo al servizio di Galbatorix. Essendo nato
umano, il tempo continuava ad avere uno strano valore per lui, sapeva
di poterne avere per altri millenni, ma quando si guardava indietro
gli sembrava di aver già vissuto centinaia di vite. E non
doveva
avere più di centocinquant’anni. Forse. Nella
tribù dov’era
nato in pochi sapevano contare, e suo padre era tra quei pochi, ma
non si era mai interessato del conto delle primavere che passavano i
suoi figli. Ricordava solo che sua sorella aveva quattro primavere in
meno di lui..
Scosse infastidito la testa. Non era certamente il
momento giusto per lasciarsi trascinare da quei pensieri inerti. Al
cospetto di Galbatorix bisognava sempre stare in guardia. Era un
pazzo, sì, ma un pazzo geniale.
Impiegò un tempo ridicolmente
lungo a percorrere le vie affollate della città, tanto che
finì per
deviare per i vicoli più oscuri e malfamati, dove donne con
i
vestiti abbassati sul seno e le labbra dipinte di rosso offrivano i
loro servigi alla luce del sole. Ma purtroppo aveva altro da fare e
tirò dritto, calandosi ancora di più il cappuccio
del mantello nero
sul viso.
La struttura di Urû’baen era logica, era ben divisa
tra i quartieri dei commercianti, dei conciatori, dei lavoratori
della lana e del tessile, degli artigiani, dei fabbri, dei
costruttori, dei muratori, degli speziali ed erboristi. Le taverne
erano sparse qua e là agli angoli delle strade e
un’ampia fascia
accanto al palazzo era occupata dalle caserme.
E il palazzo. Era
enorme, a misura di drago in tutti i sensi. Il portone di ingresso
era della larghezza esatta di Shruikan
e
l’intero edificio era in grado di ospitare appena il
mastodontico
animale. Ecco, quel drago era una delle poche creature che Durza
temeva.
Quando arrivò sotto l’ombra dello sperone roccioso
che
proteggeva il castello sotto le sue ali lugubri, raddrizzò
le spalle
e sospirò. Due guardie incrociarono le lance per impedirgli
il
passaggio e gli domandarono chi fosse e cosa volesse. Sì,
forse
apparire su un maestoso cavallo da guerra avrebbe fatto tutto un
altro effetto.
Si scrollò il cappuccio del mantello. «Sono Durza
lo Spettro». E sorrise perché il concetto fosse
chiaro. «Sono
atteso dal sovrano».
Lo lasciarono passare, chiamarono a gran
voce un compare dal cortile, e lo fecero scortare per il palazzo. I
passi suoi e del soldato davanti a lui risuonarono per i corridoi
alti e cupi, illuminati talvolta da torce, talvolta da fuochi fatui.
Nel passare per il piano terra incontrarono diversi servi indaffarati
nella preparazione del pranzo, che si muovevano con piatti ricolmi di
pietanze.
Poi salirono lo scalone e tutto si fece più ricco,
caldo, luminoso e sfarzoso. Lunghi e precisi arazzi raffiguranti
varie zone di Alagaësia ingentilivano le pareti cupe. Le
finestre,
che al piano terra erano molto strette per preservare il calore,
divennero le quattro volte più grandi, coperte da vetri
finissimi e
tende di velluto pesante. Diversi bracieri scaldavano l’aria.
Il
massiccio portone del salone da pranzo fu spalancato con fatica con
la forza coordinata di quattro uomini. Sulle due ante, le formelle di
legno di ciliegio raffiguravano il sovrano, anche se spesso girato di
spalle, mentre compiva l’oneroso compito di sterminare il
corrotto
ordine dei draghi e dei loro cavalieri, ristabilendo la pace nel
territorio di Alagaësia.
Galbatorix non aveva nemmeno avuto il
buon gusto di dare un nome al suo regno. Dopo il Regno
di Broddring
era seguito semplicemente l’Impero.
Lo
Spettro avanzò con passi decisi nella stanza.
Seppe di aver
infranto ogni regola di decenza per i canoni dei nobili presenti
quando quelli lo occhieggiarono con velato disgusto, senza
però
interrompere le loro conversazioni. Qualcuno bisbigliò un
commento
sarcastico o astioso e lo Spettro si affrettò a fulminare
con
un’occhiata raccapricciante chiunque osasse dire qualcosa
alle sue
spalle. Possibile che nessuno avesse ancora capito che lui poteva
sentire molto meglio di un qualunque normale umano?
Disprezzò
ogni uomo o donna che respirava in quella stanza, ed erano
più di
una cinquantina. Quei conti e quelle contesse avevano ricche
residenze in città e ricevevano con regolarità
una rendita da un
appezzamento di terreno che possedevano in giro per Alagaësia.
La
maggior parte di loro non aveva nemmeno mai visto la terra che
procurava loro il denaro necessario per permettersi abiti lussuosi,
gioielli pregiati, stuoli di servitori e case fornite di ogni
comodità. Erano tutti così visceralmente immersi
ed invischiati
negli intrighi di corte da aver perso il contatto con il mondo
esterno.
Erano stupidi. E Galbatorix si stava prendendo
apertamente gioco di loro senza che lo notassero. Il re amava
quell’ambiente che lo circondava, trovava divertente vedere
ora uno
ora l’altro nobile parteggiare per ottenere le sue
attenzioni, che
spesso si limitavano ad un semplice cenno di saluto e, solo con le
compagnie preferite, ad una cena nel suo salone privato. Senza
parlare del numero quasi vergognoso di concubine che il sovrano aveva
radunato intorno a sé. Era ovvio che qualunque cortigiana
sarebbe
stata ben disposta nei suoi confronti, era il re! Ma le povere
ragazze venivano elette a preferite e gettate in un angolo con la
rapidità con cui passano le stagioni, non appena una
più giovane,
bella o provocante veniva adocchiata da Galbatorix. Del resto era
ciò
che si meritavano! Gli arrivisti non erano destinati a fare strada
nel mondo, e con Galbatorix meno che mai.
Durza si ripeté per
l’ennesima volta che il re non era affatto stupido. Nel
vincolare a
sé tutti quei nobiliastri, rendendo il loro potere
più simbolico
che effettivo, era riuscito ad affidare la gestione delle proprie
città a governatori o ad altri aristocratici minori, legati
a lui da
un giuramento di fedeltà o di ubbidienza e che gli
permettevano di
avere un contatto diretto e prioritario con il territorio
amministrato e soprattutto con le tasse che riusciva a spremervi. Il
denaro era il solo scopo del sovrano, ma del resto una guerra bisogna
pagarla, le confische forzate non sono sempre sufficienti, e quella
guerra contro i ribelli andava avanti da decenni. Spesso erano solo
scaramucce di poca rilevanza, talvolta vere e proprie battaglie, ma
era necessario mantenere costantemente armato un esercito regolare
per non farsi cogliere di sorpresa.
Non che Galbatorix avesse
bisogno di un esercito per sbaragliare i Varden, il suo potere era
così grande e il suo drago così potente che
avrebbe potuto spazzare
via i suoi avversari con una moderata fatica.
Il vero problema era
la sua ricerca, che perseguiva fino alla follia. Lo Spettro sapeva
che se non fosse stato per gli incantesimi, il re sarebbe diventato
cieco già da parecchi anni a causa delle ore e delle
giornate
passate sui libri polverosi, alla luce tremula delle candele.
Il
sovrano cercava il nome, la parola o la frase che poteva controllare
l’antica lingua e piegare l’intera magia al suo
volere. Dal canto
suo, Durza non era neppure sicuro che esistesse una parola con un
simile potere, ma se il re insisteva non poteva significare altro che
una possibilità c’era.
Forse non era ancora sicuro di avere
capito se fosse pazzo o geniale.
Quando arrivò al cospetto del
proprio signore, che sedeva in fondo alla sala circondato da amabile
compagnia, si inchinò e rimase in ginocchio, in attesa che
gli fosse
permesso di rialzarsi.
E dovette aspettare per quella che gli
parve un’eternità prima che il sovrano lo degnasse
della minima
attenzione, ma alla fine parlò.
«Durza! Con tutta quella polvere
addosso non ti avevo riconosciuto».
Lo Spettro considerò quelle
parole come un permesso e si rialzò.
«L’urgenza della tua
convocazione non mi ha permesso di indugiare prima di venire
qui».
Galbatorix sorrise bonariamente. Il tempo aveva lasciato
qualche segno sul suo viso scarno e sottili rughe gli solcavano la
pelle intorno agli occhi scuri, ma nonostante quei segni il re poteva
essere ancora considerato un uomo affascinante.
«Certamente,
certamente. Ma venire qui conciato come un messaggero mi pare
eccessivo». Delle risatine risuonarono nella stanza
improvvisamente
muta. «E riguardo a ciò che devo dirti, ne
discuteremo in privato
più tardi. Se ora vuoi unirti al pranzo insieme a tutti
noi..»
disse il sovrano.
Durza gettò un’occhiata di sufficienza alla
marmaglia di gente vestita di sete e velluti che lo circondava e
scosse il capo. «Con il tuo permesso, mi ritirerò
nella mia
stanza».
Pochi minuti dopo una cameriera gli aprì la porta che
conduceva alla sua camera da letto. Anche lui, come quasi tutti i
nobili presenti, aveva una piccola stanza tutta sua a palazzo, nel
caso in cui si fosse dovuto trattenere, come in quel momento. Si fece
portare il pranzo in camera e si fece preparare un bagno
perché
effettivamente ne aveva bisogno. Quando gli odori sono più
forti
alle narici, ci si preoccupa di più della propria igiene,
era una
cosa che aveva capito dopo essere diventato uno Spettro.
Galbatorix
si fece attendere. Era ormai scesa la sera quando fu convocato nella
biblioteca reale, il servo che lo precedeva reggeva una fiaccola e
faticava comunque a vedere, tanto che ad un certo punto lo
congedò,
informandolo di essere in grado di proseguire da solo. Non aveva
certamente bisogno di una balia per orientarsi nel castello, vi si
aggirava da decenni.
Il sovrano era in piedi di fronte ad un alto
specchio, in un angolo dell’immensa e labirintica biblioteca.
Passava lì molto del suo tempo, la stanza era ben protetta
perché
nessuno potesse varcare la soglia senza il suo permesso. Il re
sussurrò alcune parole di congedo e poi si voltò
nella sua
direzione. Durza percepì la sua forza e il suo sconfinato
potere e
il suo corpo si mise automaticamente in allerta.
«Vedo con
piacere che hai rispettato i tempi che ti ho imposto».
«Sì, mio
signore».
«E l’Elfa?»
«Chiusa nella sua cella, c’è
qualcuno che la sta sorvegliando per conto mio».
Lo Spettro aveva
cercato di tenere quell’argomento fuori dai suoi pensieri, ma
era
ovvio che Galbatorix lo avrebbe tirato fuori. Arya rappresentava il
suo più grande fallimento da quando era al servizio del
sovrano.
Dovette fare uno sforzo per ricacciare un sorriso. Almeno era
riuscito a lasciare su di lei un ricordo permanente prima di
andarsene. Non sapeva esattamente cosa lo avesse spinto a baciarla,
ne aveva avuto voglia, e l’aveva fatto. E non era stato
così male,
o perlomeno, lei non aveva avuto tempo di ribellarsi, o allora
sì
che avrebbe fatto male.
«Sei sicuro che gli umani saranno
sufficienti per impedirle di fuggire?» chiese il re con
noncuranza,
occupando con calma una poltrona imbottita.
«La porta è
sigillata con un incantesimo. E non ho mai detto di averla lasciata
in custodia ai soli uomini, mio re».
«Oh, vedo che la nostra
trovatella comincia ad essere di qualche utilità!»
disse Galbatorix
con improvviso ottimismo. «E dimmi: Lei
ha ricordato qualcosa o qualcuno? Ogni più piccola
informazione ci
sarebbe preziosa, lo sai».
Durza annuì. «Lo so bene. Ma no, lei
non ricorda nulla, non ancora. Ma odia gli Elfi. Ed ho il sospetto
che odi anche la prigioniera». l’inquietudine che
lo aveva
accompagnato da quando il re lo aveva convocato tornò a
farsi
sentire e lo Spettro tese i muscoli delle gambe, impaziente di
andarsene. «Ora posso sapere il motivo per cui la mia
presenza ti è
necessaria? Ho lasciato una questione in sospeso a
Gil’ead».
Il
re lo fissò con calma negli occhi. «Una questione
che non mi sembri
in grado di risolvere», disse con gentilezza, «ma
di questo
parleremo dopo. Ora ti devo mettere al corrente delle mie ultime
decisioni».
«Ti ascolto» fu la risposta monocorde di Durza.
«Si
sono verificate diverse cose interessanti negli ultimi tempi. Primo:
una spia mi ha riferito di aver visto il figlio di Morzan, o qualcuno
di molto simile a lui, nei pressi di Belatona. Ho il timore che sia
riuscito a farsi accettare dai Varden e lavori per loro come sicario.
Secondo: c’è qualcosa di strano, lo sento
nell’aria, nella
terra, è come se la natura stesse urlando qualcosa, ma non
riesco a
capire cosa. E questa faccenda va avanti da quasi tre mesi, che se
non sbaglio coincide con il tempo passato dal tuo fiasco sulla Grande
Dorsale e dall’ultima volta che ho avuto notizie
dell’uovo.
Terzo: l’uomo che hai catturato ha portato notizie importanti
e
credo ormai fermamente che Brom sia ancora vivo e chissà,
forse
anche in possesso dell’uovo». Durza fu interrotto
con un gesto
secco quando fece per intervenire. «Quarto: entro domani
all’alba
i Ra’zac e i loro genitori saranno qui, li ho incaricati di
andare
a perlustrare Carvahall in cerca di Brom e di qualsiasi notizia
sull’uovo. Quinto: le mie spie dai Varden mi hanno informato
che si
stanno smuovendo le acque. I ribelli continuano a ricevere
approvvigionamenti dagli Elfi, armi dai Nani e la promessa di una
sostegno militare dal Surda, anche in campo aperto. È
questione di
pochi mesi prima che si decidano a dichiarare aperta una nuova
stagione di guerra. Per ora sono impreparati e la neve è
ancora
presente sui passi, quindi non si muoveranno. Ma sono stanco di
questa eterna minaccia alla pace e all’integrità
del mio regno.
Una volta finito il tuo compito con l’Elfa,
manderò un esercito, e
per essere precisi, un esercito di Urgali. Riesci ancora a mantenere
il controllo su di loro?»
«Certamente» rispose Durza,
trattenendo a stento l’emozione. Il re stava forse dicendo
che..?
«Bene allora tu sarai comandante della spedizione, le spie
ci forniranno ulteriori dettagli per una vittoria rapida e pulita.
Non voglio prigionieri, nemmeno un bambino cencioso. Devono sparire
dalla faccia della terra. In quanto ad Ajihad», il cuore
dello
Spettro accelerò, «fa’ di lui e della
sua famiglia ciò che
ritieni opportuno. Nemmeno loro mi servono vivi. Dopo questa vittoria
i Nani e il Surda si ritireranno per sempre. Per gli Elfi
sarà più
complicato, ma presto cederanno anche loro».
«Quando?» fu la
sola parola che Durza riuscì ad articolare.
Galbatorix lo guardò
con una punta di dispiacere. «Quando avrai spremuto ogni
informazione possibile alla prigioniera. Una volta eri molto abile in
questo, hai perso anche questa capacità?»
«È ostinata».
«Tutti
hanno un punto debole. Voglio che trovi il suo. Portala
sull’orlo
della morte e poi cambia improvvisamente. Fingiti gentile e
comprensivo, seducila, cerca di convincerla che lei è dalla
parte
del torto e tu del giusto. Anche in questo eri molto abile un
tempo».
«Credo di esserlo ancora».
La mente di Durza era
stipata di pensieri chiassosi e dovette sforzarsi enormemente per
celarli e contenerli. Avrebbe pensato a tutto. Ma dopo essersi
allontanato dal re.
«C’è un’ultima questione che
devo
risolvere con te» aggiunse il sovrano con un tono paterno.
«Sì,
mio re?» disse, mentre la sensazione di inquietudine
aumentava
dentro di lui.
«Negli ultimi mesi sei distratto, scostante,
superficiale, irrispettoso nei confronti dei miei ordini e dei miei
altri servitori. Sono fermamente convinto che tutto ciò
troverà
presto un rimedio».
Durza si disprezzò profondamente quando si
sentì come un bambino rimproverato. Perché il re
riusciva ad avere
un simile effetto sulle persone?
«Sì» soffiò, scostando gli
occhi da quelli di Galbatorix.
«Capirai che il mio rimprovero
esige una prova concreta delle mie intenzioni. Io ti amo come si ama
un figlio, Durza. Io amerei allo stesso modo tutti gli abitanti di
queste terre se solo non si opponessero a me. Vorrei poter proteggere
il mondo dalla stupidità e dalla superficialità
umana, ma non sono
in grado di farlo da solo. E i miei emissari devono essere in grado
di agire come se fossero una mia emanazione. Sarai punito per il tuo
comportamento. Ti prego di ricordare che è solo per il tuo
bene. Non
farei mai del male a nessuno, se non fosse necessario, lo
sai».
Durza
serrò la mascella. Era pazzo, decisamente. E il bello era
che era
quasi riuscito a convincerlo che tutto fosse veramente per il suo
bene. E ora? Cosa aveva intenzione di fare? Un rivoletto di sudore
gelido gli accarezzò la schiena. Non poteva nulla contro
Galbatorix.
E ne fu certo nel momento in cui il suo corpo fu bloccato da un
incantesimo che nessun vivente avrebbe mai potuto contrastare. Lo
Spettro sentì i sussurri pigri e piangenti delle coscienze
dei
draghi, che lui stesso aveva contribuito a spezzare.
Il re gli
sorrise con gentilezza. «Solo per il tuo bene».
Con un gesto
estrasse i suoi stessi pugnali dalla fodera che portava in vita e da
quella nascosta nello stivale. Durza guardò con rimpianto le
sue
armi, con la certezza che non sarebbe mai più stato capace
di
tenerle in mano senza risvegliare brutti ricordi.
Il sovrano
spalmò le lame di un liquido che lo Spettro riconobbe subito
e, se
avesse potuto, avrebbe tremato.
«Domattina verranno i Ra’zac.
Ti riporteranno a Gil’ead in volo. D’ora in poi non
deludermi mai
più Durza. Ti concedo tre mesi di tempo, se per allora non
sarai
stato capace di far cantare l’Elfa, la porterai qui e
discuteremo
nuovamente».
Durza registrò a malapena le parole, perché un
istante dopo una lama gli si conficcò all’altezza
dello stomaco.
Lo Spettro emise un gemito strozzato di dolore e una pozza di sangue
si allargò ai suoi piedi. Poi non poté fare altro
che guardare
l’uomo a cui aveva concesso la sua ubbidienza mentre lo
pugnalava
con attenzione, evitando accuratamente il cuore e anche ferite che
avrebbero potuto condurlo ad una rapida. L’olio che
Galbatorix
aveva spalmato sulle lame bruciava sulla sua carne come fuoco vivo.
Non poté nemmeno gridare, perché la sua bocca era
immobilizzata.
Prima di perdere i sensi sentì l’incantesimo del
re sciogliersi, e lui si accasciò sul suo sangue.
Prima di
perdere i sensi vide il re sorridergli come un padre affettuoso.
__________________________________________________________________________________________
I miei omaggi a tutti voi :)
Spero di essere stata abbastanza coerente con le scarne descrizioni di Paolini, in caso contrario siete invitati a farmelo presente.
Per la corte di Galbatorix e la situazione dei nobili mi sono ispirata alla corte di Versailles sotto Luigi XIV e XV.
Se avete altre domande, vedrò di rispondere con puntualità :D
Baci e grazie a tutti ;)
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Capitolo 12 *** Follie ***
12.
Follie
Giacevo
supina sul letto con le palpebre così serrate da farmi male
agli
occhi, avevo paura di vedere ancora quell’occhio o qualsiasi
altra
oscena visione. Mi imponevo di non lasciare correre i pensieri,
perché si sarebbero addentrati ad esplorare antri della mia
mente
che avrei tanto voluto far sprofondare nel nulla, ma quelli
sfuggivano inesorabilmente al mio controllo. Sembrava che la testa
potesse scoppiarmi da un momento all’altro. Ero
così concentrata
nel cercare di non provare o sentire nulla, che effettivamente non
percepii i passi nel corridoio fino a che non si arrestarono
pesantemente davanti alla mia porta.
Gli uomini fuori proruppero
in esclamazioni di sorpresa.
«Apritemi» ordinò un voce,
imperiosa ma affaticata.
Durza?
Durza!
Mi trascinai
faticosamente giù dal letto, traballando per mantenermi in
piedi e
appoggiandomi pesantemente al muro quando le gambe minacciarono di
lasciarmi.
«Mio signore..» tentò di protestare un
soldato.
«Aprite ho detto!» ribadì lo Spettro.
«Poi
chiudete».
Gli ordini vennero frettolosamente eseguiti. Lo
Spettro entrò nella mia stanza barcollando, il mantello
calato sul
volto, e si sbatté con violenza la porta alle spalle.
L’azione
parve svuotarlo di ogni vigore, perché si
accasciò a terra con un
gemito.
Istintivamente mi precipitai su di lui e gli caddi
accanto. «Durza?» lo chiamai incerta, con voce resa
flebile dalla
stanchezza.
Nella confusione e nella stanchezza che albergava
nella mia mente riuscii ad avere solo qualche pensiero confuso. Durza
era tornato. Era vivo. Forse avrebbe impedito all’occhio di
farmi
del male.
Ma perché sembrava stesse così male?
Posai una
mano sulla sua spalla e lo scossi delicatamente, facendogli scivolare
il cappuccio dal viso. Alla sua vista sussultai.
Lo Spettro era
-se possibile- ancora più pallido del solito, gli occhi
cremisi
erano socchiusi in un’espressione sofferente e un profondo
graffio
ancora sanguinante gli deturpava la guancia sinistra. I capelli rossi
erano sudati e appiccicati alla fronte.
«Cosa ti è successo?»
pigolai, piuttosto sconvolta.
Durza deglutì con fatica. «Aiutami
Elfa» soffiò.
Aggrottai la fronte. «Perché dovrei?»
sbottai.
Il suo sguardo si fece vacuo. «Lui è un pazzo..
Trova
lei, Arya, è l’unica che.. Non
ce la faccio più. Il dolore
mi..» Ansimò.
«Chi devo trovare?» Mi pulsavano le tempie per
lo sforzo di concentrarmi.
Mi afferrò bruscamente per la camicia,
tanto che per poco non me la strappò di dosso.
«Trovala!»
Sussultai
e scrollai le sue mani. «Va bene, ci
proverò» dissi, con il solo
scopo di calmarlo.
Durza emise un rantolo spezzato e si lasciò
andare sul pavimento. Il suo mantello nero gli si scostò di
dosso,
rivelando una camicia altrettanto nera e zuppa di un liquido
indefinito.
Lo toccai. Era sangue.
Mi inginocchiai accanto a
lui e con gesti secchi e febbrili, gli slacciai il mantello e la
camicia. Il corpo pallido dello Spettro era coperto di una selva di
tagli verticali, più o meno profondi, di
un’inquietante
regolarità, chiaro segno che non erano dovuti ad un
incidente. La
sua pelle era interamente ricoperta di sangue e le ferite parevano
perderne ancora.
«Barzul!» imprecai istintivamente. «Cosa
ti
sei fatto?»
Durza cercò i miei occhi e mi fissò con
un’espressione disperata che non gli avevo mai visto.
«Devi
aiutarmi» ripeté, reclinando il mento sul petto.
Restai a
guardarlo per qualche istante, sconvolta, confusa, combattuta,
frustrata.
Durza chiuse gli occhi.
«Non credo che lo farò»
lo informai.
Forse ero pazza, mezza morta di fame e delirante, ma
ricordavo tutto il male che mi aveva fatto alla perfezione. Quella
era la mia occasione per ucciderlo.
«Ti posso salvare» disse,
senza schiudere le palpebre. «Se io muoio, tu finirai in
grossi
guai. Il re ti vorrà ad Uru’baen e allora io non
potrò fare
nulla, ma io.. ho dei progetti per te.. Io sono l’unico che
potrebbe aiutarti a sconfiggere Galbatorix, Elfa, pensaci
bene».
Mi
lasciai stupidamente sedurre dalle sue parole e subito maledissi la
mia incapacità di ragionare lucidamente.
«Perché dovresti
aiutarmi?» domandai poi scettica.
«Non ti riguarda».
«Dovresti
almeno darmi delle garanzie, nell’antica lingua».
Aprì
finalmente gli occhi. «No».
Le emozioni che si rincorrevano
nelle sue iridi erano così tante, che non riuscii a seguirle
tutte.
Tuttavia vi era un odio così profondo da darmi i brividi. E
non era
riservato a me.
Gli scostai automaticamente i capelli dalla
fronte, un gesto premuroso dettato da quella parte di me che mi
suggeriva di porre fine alle sofferenze del mondo intero, la stessa
parte di me che mi aveva portata a fare tutte le scelte della mia
vita. La sua pelle scottava.
Se lo avessi ucciso sarebbe sparito
un ostacolo di importanza cruciale per i Varden. Senza il suo
luogotenente, il re sarebbe stato molto più debole. E poi
stavamo
parlando di Durza lo Spettro!
Quanti avevano perso la vita nel
tentativo di farlo sparire tra le ombre?
La lista delle sue
malefatte era più lunga della strada da Ellesméra
ad Aberon.
Aveva
provocato tantissimi danni, sia agli Elfi che ai Varden, che agli
abitanti di Alagaësia, oltre che a me, si intende.
Se invece le
sue parole corrispondevano al vero sarebbe stato un guadagno enorme
per me e i miei alleati. Ma quanto potevo fidarmi delle promesse di
uno Spettro delirante? Forse stava solo cercando di salvarsi la vita.
Ma perché allora era venuto ad offrirsi, debole ed indifeso,
alla
sua prigioniera affamata di vendetta?
E mentre io pensavo e
ripensavo a qualsiasi implicazione che la mia scelta avrebbe portato
Durza si agitò e quando tornai a guardarlo stava
socchiudendo gli
occhi, per mettere meglio a fuoco il mio viso.
«Sei pallida».
Sollevò una mano tremante come quella di un vecchio.
«E malata»
soffiò.
La debole forza che sosteneva il suo braccio venne a meno
e le sue dita non raggiunsero mai il mio volto.
Restai a fissare
la sua mano fino a che non gli ricadde lungo il fianco. Solo allora
la presi e la strinsi forte tra le mie. Al contrario della fronte,
era gelida.
Scossi la testa, sconsolata di fronte alla decisione
intricata e alla mia incapacità di ragionare lucidamente e
sbattei
un debole pugno di frustrazione a pochi pollici dal suo viso. Ma
avevo già scelto.
«Io sono un po’ più a destra,
Elfa» mi
informò lo Spettro con una nota di debole sarcasmo.
«Lo so».
Mi
spostai da accanto a lui e praticamente strisciai sul pavimento fino
a raggiungere il catino con l’acqua, che spinsi verso il mio
letto.
Poi tornai dallo Spettro e mi avvolsi un suo braccio
intorno alle spalle.
Facendo leva sulle gambe, lo tirai su. Si
lasciò andare praticamente inerte addosso a me. Strinsi i
denti,
sostenendo faticosamente il suo peso fino ai piedi del letto, dove lo
lasciai cadere di botto sul pavimento e mi accasciai accanto a lui,
ansimando e sudando. Durza ebbe comunque la forza di imprecare.
«Cosa
farai Arya?» sussurrò.
Strattonai via le lenzuola dal letto. «Ti
pulisco le ferite» dissi, tirando verso di me
l’acqua.
Fece una
smorfia. «Se basterà..»
Gettai un’occhiata critica al suo
petto devastato di tagli. «Chi è stato?»
mi informai sfiorandogli
le spalle e lasciandomi guidare dal semplice istinto che ogni elfo
aveva nei confronti di una creatura ferita: guarirla.
«Il re non
è stato molto contento di sapere che non sono riuscito a
strapparti
nemmeno la più piccola informazione».
Feci scivolare lentamente
la camicia dalle braccia forti di Durza. «Non ti sei
curato»
osservai.
Guardò prima le mie mani e poi mi fissò
direttamente
negli occhi, con un’espressione che non riuscii ad
interpretare, ma
che mi fece venire le vertigini. Ebbi un piccolo tremito.
«Non
posso» disse semplicemente. «Olio di Seithr
stregato e spalmato
sulle lame. Le ferite impiegheranno giorni a richiudersi. E
Galbatorix mi ha ordinato di non agire su di esse con la
magia».
Olio
di Seithr. Una volta avevo voluto provare per curiosità a
versare
una goccia di quel liquido sul palmo della mano e il bruciore, anche
se per pochi secondi, era stato fortissimo. Feci una smorfia.
«Perché
lo servi se ti tratta così?» chiesi, liberando
finalmente il busto
dello Spettro dalla stoffa insanguinata.
«Gli giurai di
ubbidirgli. Tanti anni fa».
Stracciai una striscia di lenzuolo e
la immersi nell’acqua fredda. Poi usai la pezza per ripulire
la
pelle rossa di sangue di Durza. I muscoli dello Spettro si tesero
spasmodicamente non appena toccai le ferite.
«Non è stata una
gran bella idea eh?» ironizzai.
«Allora era diverso.. Lui mi
prometteva ciò che mi serviva e io potevo dargli qualcosa in
cambio».
Feci un gesto interrogativo, mentre le mie dita si
facevano sempre più tremanti mano a mano che constatavo
quanto
gravi, eppure studiatamente non drasticamente mortali, fossero quelle
ferite.
«Io conoscevo bene le arti oscure e lui aveva bisogno di
un maestro. Io avevo bisogno di qualcuno che fosse potente per
riuscire a..» si interruppe, «fare quello che
dovevo fare» tagliò
corto. «E così lo aiutai con il suo
drago».
Mi fermai. «Tu lo
hai aiutato a schiavizzare Shruikan!» esclamai.
Ghignò piano.
«Quello e molto altro, e molto peggiore, anche. Sicura di
voler
continuare?» Annuì in direzione delle mie mani,
ormai sporche di
sangue.
Gettai via la pezza e ne strappai un’altra, senza
rispondergli.
Rise sommessamente e reclinò il capo sulla spalla
destra .«Sono veramente un fallimento»
soffiò. «Ridotto a farmi
curare da un’Elfa.. Che sarebbe anche mia prigioniera per di
più».
Tacqui.
Lentamente lavai con cura tutti i graffi. Lo
Spettro aveva il fisico forte di un guerriero e non vi era traccia di
mollezze nel suo corpo, a testimoniare il suo impegno nelle armi, che
certamente durava da parecchi decenni. Quando poi arrivai a
ripulirgli la schiena e le spalle ebbi un moto di stupore: i muscoli
erano così scavati e definiti come ne avevo visti solo in
certi
acrobati che davano spettacolo nel mondo degli umani.
Mi accorsi
che Durza respirava male solo quando tornai a guardarlo per occuparmi
della ferita che gli tagliava in diagonale la guancia sinistra, come
il macabro proseguimento di un sorriso.
I tagli non sanguinavano
troppo, ma le ferite erano ancora aperte e aveva perso un bel
po’
di sangue in precedenza, probabilmente aveva la febbre.
«Spettro?»
lo chiamai, non senza un nota di preoccupazione, schiudendogli gli
occhi a forza. Erano iniettati di sangue. Sangue, sangue, sangue. Mi
venne un attacco di nausea ma feci di tutto per ricacciarlo.
Rispose
con un borbottio di assenso.
Riducendo a brandelli quello che
restava del lenzuolo, gli bendai il torace, poi lo sollevai di peso e
lo feci distendere sul mio letto.
Gli sollevai le coperte fino al
mento. Durza non smetteva un attimo di tremare e i suoi occhi erano
lucidi per la sofferenza.
Ma anche io ero distrutta, giorni e
giorni di digiuno, malattia, insonnia e tormento continuo mi avevano
ridotta all’ombra di me stessa. Uno straccio.
Avrei tanto voluto
dormire.
«Non te ne andare» farfugliò Durza.
Mi sfuggì un
amaro sorriso a fior di labbra. Lui stava male, malissimo. Non ero
nemmeno certa che avrebbe superato la nottata e non sapevo proprio
come poter chiudere le sue ferite. E non ero abituata ad essere
così
impotente di fronte ad un moribondo, di solito avevo sempre la magia
dalla mia parte, mentre in quel momento ero totalmente inutile..
Pochi minuti dopo lo Spettro dormiva. Rabbrividendo per il gelo
della stanza, sgusciai sotto le coperte accanto a lui, incurante del
fatto che stavo dividendo il letto con Durza lo Spettro. Rifiutare le
coperte per il gusto di accontentare l’etica mi sarebbe
costato la
morte per assideramento.
Non riuscii a prendere sonno. Lo Spettro
si agitava, balbettava parole incoerenti -le uniche che riuscii a
cogliere furono “madre”,
“bastardo”, “signora” e
“tempo”,
che non parevano avere nessun collegamento logico tra di loro-
inoltre la sua pelle scottava ancora ed era madida di sudore.
Il
punto di rottura venne quando cominciò a sfregare le mani
tra di
loro, ripetutamente, con forza. Come se stesse cercando di lavare via
una macchia che non voleva saperne di andarsene.
Lo scossi e lo
svegliai.
«È rosso!» gridò, con gli
occhi fuori dalle orbite.
Come un folle.
Sobbalzai e gli afferrai le mani. «Non è nulla,
Durza torna a dormire».
Mi guardò vacuamente. «Non te ne
andare» ripeté.
«Non me ne vado» cercai di rassicurarlo, ma la
mia voce era pericolosamente incrinata.
«Non sparirà mai vero?
Rimarrà su di me per tutta la vita!»
«Cosa?»
Tacque per
qualche istante. «Il sangue». E si fissò
le mani.
All’improvviso
ebbi freddo. «Non c’è nulla»
dissi lentamente, come se parlassi
ad un bambino. «Adesso dormi».
«Non te ne andare.»
«Non me
ne vado».
Si lasciò cadere sul materasso e chiuse gli occhi di
scatto.
Io mi tirai a sedere, cercando di regolarizzare il battito
impazzito del mio cuore. Ero travolta da una quantità tale
di
pensieri e preoccupazioni che temevo di poter morire sotto quel
peso.
Poi guardai Durza. E poi non pensai più a nulla.
Gli
sfiorai la fronte con la punta delle dita e poi la guancia deturpata
dal taglio. E quando lo Spettro allungò una mano e mi
strinse la
nuca, avvicinando bruscamente il viso al mio, il ricordo del bacio
sfuggevole che mi aveva lasciato sulle labbra poco prima di partire
tornò con tutta la sua chiarezza.
Le sue labbra sottili
premettero debolmente contro le mie. Impreparata, subii passivamente
quel bacio, senza riuscire a trovare la forza di respingerlo. La sue
mani circondarono il mio viso e mi trattennero contro le sue labbra,
che a quel punto divorarono le mie con brusca avidità, al
punto di
farmele quasi dolere.
Le sue erano ruvide e crepate per il
freddo. Mi ritrovai a pensare che avrebbe dovuto utilizzare il
Nalgask, un unguento di cera d’api e olio
di noci che il mio
popolo produceva e usava per evitare appunto che la pelle si
inaridisse e si spaccasse per il gelo o il vento. Ma probabilmente
lui non se ne curava affatto.
Mi resi conto di stare annaspando,
a corto di fiato, solo quando Durza mi lasciò andare e si
staccò da
me per qualche istante, lasciandomi vagamente perplessa e
confusa.
Scrutai i suoi occhi rossi, alla ricerca di una
spiegazione, ma la luce ardente che brillava nelle sue iridi mi
spaventò. Sembrava folle eppure terribilmente consapevole.
Spinse
i pollici contro la mia gola, reclinandomi lievemente il capo
all’indietro, tanto che per un attimo temetti che volesse
uccidermi.
Ma in effetti ci andò vicino.
Mi baciò nuovamente,
con più calma, quasi chiedendomi il permesso di continuare a
farlo.
Non risposi a quel gesto, ma non cercai nemmeno di impedirglielo.
Restai semplicemente rigida e immobile, fino a che non persi
interesse in quella ribellione silenziosa e mi arresi. Accettai che
le sue labbra plasmassero le mie e che la mia dignità
raggiungesse
Glenwing e Fäolin nelle ombre.
Qualcosa mi suggerì -come una
voce lontana- di staccarmi dalla bocca dello Spettro e dal fresco
sapore di menta che gli era tipico. Ma non riuscii a focalizzare la
mia attenzione su quel pensiero per più di qualche
istante.
Un’ondata di calore mi esplose nel corpo e nel petto,
facendomi sciogliere ai baci di Durza.
Travolta da quella
sensazione, mi aggrappai alle sue spalle, strappandogli un gemito di
dolore quando artigliai le sue ferite appena fasciate. Ma sul momento
non me ne curai affatto.
Tremai violentemente quando la sua lingua
mi schiuse con decisione le labbra e si insinuò nella mia
bocca. Il
sapore di menta fu così forte che mi lacrimarono gli occhi.
La mente
mi si annebbiò totalmente, ogni pensiero si dissolse come
polvere al
vento. Forse avrei dovuto ribellarmi, scalciare, spingerlo via. Ma
ancora fui incapace di mettere in atto quel pensiero.
Mi
abbandonai contro di lui e gli occhi mi si socchiusero, tutto si
sciolse nelle sensazioni sconosciute che mi stavano accarezzando.
Un
nuovo brivido mi percorse, ma fu totalmente diverso da uno qualsiasi
provato fino a quel momento. Caldo, intenso, vibrante.
Stavo..
fluttuando.
Solo quando i polmoni minacciarono di scoppiarmi, mi
scostai e ricaddi al suo fianco sul materasso.
Scossi con lentezza
la testa e cercai di interpretare logicamente il fatto.
«Siamo
entrambi ridotti male. Domattina avremo già dimenticato ogni
cosa e
imputeremo tutto alla nostra condizione» dissi ad alta voce,
come a
giustificarmi con lui.
«Uhmf» mugugnò Durza, appoggiando il
viso nell’incavo del mio collo, apparentemente disinteressato
alle
mie questioni. Piccoli brividi partirono dal punto in cui il suo
respiro sfiorò la mia pelle.
«Ti do fastidio?» chiese
piano.
«No» sussurrai, accarezzando i suoi capelli rossi,
incerta.
«Lo faceva tutte le sere» mormorò.
«Chi?»
«E
mi chiamava per nome».
«Carsaib?» azzardai.
Sorrise con gli
occhi chiusi. «Madre».
Si addormentò in definitiva, ancora
ardente di febbre, ma perlomeno smise di agitarsi.
Crollai a mia
volta.
Sognai una donna che entrava nella cella, seguita dalle
guardie, e portava via Durza. Io protestavo qualcosa, ma nessuno mi
ascoltava e le mie braccia non bastarono a trattenere lo Spettro. Non
ricordai mai i particolari del viso della donna, l’unica cosa
chiara in tutto il sogno furono le parole che mi sussurrò
all’orecchio prima di andarsene: «La pagherai
sgualdrinella
elfica».
Quando capii finalmente che non era affatto un sogno e
mi alzai a sedere sul letto, la porta era chiusa e Durza non
c’era
più. E nemmeno le guardie lì fuori.
Pensai di avere immaginato
tutto, compresa la presenza dello Spettro nella mia cella. Mi
strofinai gli occhi e mi guardai intorno con tutta
l’attenzione che
riuscii a raccattare. Il lenzuolo che avevo stracciato e usato per
tamponare le ferite di Durza non c’era più,
così come non c’era
alcuna traccia di sangue, né sul pavimento, né
nel mio letto.
A
quel punto stavo per accantonare tutto come un sogno e la delusione
rischiò di sopraffarmi. Con Durza mi ero sentita salva da
tutto
quello che mi era accaduto nell’ultima settimana: dalle magie
misteriose, dagli attacchi dell’occhio bianco, di Hillr, dei
soldati, di Galbatorix..
Poi vidi alcuni sottili fili rossi
incastrati tra le mie dita e ricaddi sul letto sorridendo.
Durza
era stato lì e gli avevo accarezzato i capelli. Presto
sarebbe
venuto a curarmi e non avrei più sentito l’odore
di noce vomica.
Aveva detto di volermi salvare.
Sarebbe andato tutto
bene.
[Durza]
Quando riuscì a vedere qualcosa con un
minimo di chiarezza, Durza colse la figura di una donna dai capelli
lunghi e sciolti sulle spalle china su di lui.
«Stai bene?»
domandò una voce aspra.
Strinse gli occhi e li riaprì e la
figura apparve più chiara. Capì chi era ed ebbe
un moto di
delusione, era un’altra l’ultima donna che
ricordava di aver
visto.
«Dove sono?» chiese.
«Nel tuo letto, sciocco» fu la
secca risposta. «Ma fino a qualche ora fa eri in quello
dell’Elfa».
Lo Spettro si spostò le mani alle tempie e si
impose di respirare profondamente. Si sentiva relativamente bene,
quasi lucido, ma aveva dei buchi nei ricordi delle ore precedenti.
«Come hai saputo che ero tornato?»
«Quei maledetti Ra’zac
fanno un rumore terribile quando volano la notte, li ho sentiti a
miglia di distanza. Ho immaginato che sarebbero atterrati fuori
città
e che saresti venuto a piedi, ma invece hanno sorvolato la fortezza.
A quel punto ho creduto che ti saresti calato a terra con la magia e
sono venuta qui ad aspettarti. Ho aspettato un bel po’, delle
ore,
poi uno dei tuoi soldati si è precipitato qui, dicendo di
averti
visto trascinarti, sanguinante e malconcio, fino alla cella della
prigioniera».
«Mi ricordo» la interruppe Durza puntellandosi
sui gomiti, «dovevo parlare con Arya, ma ero un po’
confuso».
Lo
Spettro ripercorse il tempo passato nella cella. I ricordi erano
molto sfocati, ma abbastanza nitidi da chiarire cosa fosse successo a
linee generali. Si rese conto di averla scampata bella. I suoi
pensieri mentre volava con i Ra’zac erano stati di vendetta
contro
il sovrano e aveva deciso di trascinare anche Arya nelle sue file per
contrastarlo. Sceso a terra, era così delirante da non
riuscire bene
a capire la sua situazione ed era andato fino alle prigioni convinto
che fosse quella la cosa giusta da fare. Se l’Elfa avesse
voluto,
avrebbe potuto ucciderlo con estrema facilità, ma
fortunatamente era
riuscito a convincerla e anche lei non sembrava troppo in forma.
La
ricordava pallida e smunta. Ma poi tutto sprofondava nel buio. Arya
aveva pulito le sue ferite con mani tremanti, era l’ultima
cosa che
ricordava. Quell’Elfa doveva essere pazza.
«Arya!?» proferì
gelidamente la sua interlocutrice, ridestandolo. «Adesso la
chiami
anche per nome la principessina?»
«Ce l’ha un nome, e pure
bello, quindi lo uso» la freddò lo Spettro.
«Eri molto nervoso
quando parlavi di lei negli ultimi tempi» osservò
la donna,
porgendogli una pezza di stoffa imbevuta di acqua gelida, che lui si
posò con piacere sulla fronte.
«Pensavo che avrebbe mollato
prima, e con i metodi tradizionali. Dopo una chiacchierata con
Galbatorix, ho deciso di fare altrimenti».
«Da quando ascolti i
consigli del re?» chiese lei sedendosi sul grande letto al
suo
fianco. «Ho buone ragioni di credere che sia stato lui a
ferirti».
Durza scostò le coperte e si scrutò il torace.
Ricordava che Arya lo aveva fasciato con il lenzuolo, ma ora le bende
erano rifatte ed odoravano di erbe curative. Gli bastò
annusare un
istante l’aria per capire che non era legna quella che
bruciava nel
camino.
«Hai bruciato la fasciatura dell’Elfa?»
chiese con una
punta di divertimento.
La donna serrò la bocca con rabbia. «Aveva
il suo schifosissimo odore. Dovresti ucciderla. Faresti un favore a
me e a te».
Durza rise «A me?»
Lei annuì seriamente. «Ti
sta rabbonendo».
«Sai che non è vero».
«No, non ancora
forse, ma ci riuscirà. Quelli della sua razza ci provano in
continuazione». Fece una pausa. «Sai che sto
ricordando,
vero?»
«Sì, me lo hai detto decine di volte, insieme al
caldo
consiglio di sbarazzarmi di Arya» confermò lo
Spettro
annoiato.
«Sua madre è la causa di ogni mia
sofferenza».
«La
causa di ogni tuo male è Galbatorix» la corresse
lo Spettro. «E
non ti lascerò ammazzare l’unica fonte di
informazioni che
possiedo. È l’unica che conosce il luogo dove
è nascosto l’uovo
ed è l’unica che può aiutarci.
Fingerò di schierarmi dalla sua
parte e mi farò dire tutto quello che posso. Se il cavaliere
del
drago azzurro non sarà dalla nostra parte, non deporremo mai
Galbatorix».
«La stai difendendo» lo accusò.
«Sì» ammise
lui senza fare una piega, «e dovresti smetterla di farti
accecare
dal dolore. Ti dico per esperienza che porta a scelte
insane».
«Troveremo l’uovo senza il suo aiuto!»
insistette
lei. «Puoi mandare gli Urgali a setacciare
Alagaësia, se la
caveranno».
«Gli Urgali sono stupidi».
«Gli Urgali sono una
razza come lo sono gli Elfi, i Nani o gli Uomini. O gli Spettri.
È
tutta colpa tua se sono così rintontiti. Se non dominassi le
loro
coscienze deboli sarebbero capacissimi di dimostrarsi
intelligenti».
Durza
sollevò un sopracciglio e un angolo della bocca insieme.
«La tua
educazione e le tue origini ti hanno influenzata più di
quanto tu
voglia lasciare intendere».
«No!» ribatté l’altra,
risoluta.
«Non ho più nulla a che fare con loro».
«Capisco. Ma io avrò
a che fare con Arya.. Ascoltami!» esclamò quando
lei iniziò ad
inveire. «Andrò a Dras-Leona a cercare degli
alleati».
«Che
genere di alleati?» chiese con perplessità.
Durza esitò.
«Chiederò ai Sacerdoti dell’Helgrind di
appoggiarmi contro
Galbatorix. Odiano i cavalieri dei draghi e il loro ordine, per loro
solo i loro dèi devono avere potere assoluto. Non sanno che
in
realtà gli esseri che venerano sono legati al re da un
giuramento di
fedeltà e se darò loro una possibilità
si uniranno volentieri a
me».
«Ma progetteranno la tua morte» osservò
la donna. «Anche
tu sei considerato una creatura ostile ai loro occhi. È
pericoloso,
Durza.»
«Preoccupata?»
«Lo stretto necessario» fu la
risposta asciutta, accompagnata da un sorriso seducente.
«Starò
attento. E una volta terminato il loro compito, mi libererò
di loro.
Conoscono alcuni incantesimi oscuri e hanno delle biblioteche che
nemmeno il re ha mai consultato, forse tra uno di quei libri
troverò
un incantesimo, una debolezza, qualcosa che mi permetta di vincere la
forza di Galbatorix».
«Faresti prima ad unirti ai Varden».
«Non
mi accetterebbero mai, né tra le loro file, né
come sovrano poi. Tu
piuttosto, stai facendo quello che ti ho chiesto?»
Lei annuì.
«Ho cercato, ma per ora non ho notizie di altri come
me».
«Insisti,
ogni alleato sarà utile».
«D’accordo. Ma non mi hai ancora
detto cosa c’entra la principessina in tutto
questo».
«Mi
accompagnerà a Dras-Leona. E cercherò di
convincerla delle mie
“buone intenzioni” mentre saremo là. Non
saprà mai che voglio
prendere il potere dopo Galbatorix e mi limiterò a dirle che
sono
stanco di stare al servizio del re. Forse facendo pressione sulla sua
filantropia riuscirò a convincerla a dirmi
qualcosa».
«Certo»
concesse lei con voce pericolosa, «ma una volta finito il suo
scopo
la lascerai a me?»
Lo Spettro nascose il suo turbamento. La
persona con cui stava parlando era mentalmente instabile, lo sapeva.
Era stata bandita dalla propria città natale e lui
l’aveva accolta
nella propria casa, prendendola al proprio servizio come cameriera
personale dopo che si era dimostrata inutile per le sue iniziali
intenzioni: aveva perso la memoria, non ricordava neppure il suo
nome. Con gli anni qualche ricordo era emerso, niente di troppo
importante. Dopo che aveva visto Arya il processo di recupero della
memoria pareva aver ripreso a pieno ritmo, rivangando ricordi che
avrebbero fatto meglio a restare sepolti.
O almeno secondo il suo
personale interesse, sì. Durza non aveva bisogno di una
persona
affamata di vendetta, oltre a se stesso.
Era capace di fare molte
cose la sua serva e lui sfruttava volentieri le sue
capacità. L’odio
verso Galbatorix li aveva uniti fino a quel momento e molti aspetti
dei rispettivi passati erano simili.
Inoltre sapeva che lei era
molto affezionata a lui. E come aveva fatto Morzan con la sua mano
nera, Durza si era assicurato che quel legame gli garantisse la
fedeltà di lei.
Quella donna era uguale a lui. Apprezzava la sua
compagnia e il suo modo di essere. Era l’unica su tutto il
suolo di
Alagaësia a conoscere una fetta della personalità
di Durza lo
Spettro e ad avere un rapporto umano con lui.
Ma in quel momento
lei si stava pericolosamente lasciando trascinare dalla rabbia e lui
non poteva permetterlo.
«Devi placarti».
«Non osare»
ringhiò lei, «non osare dirmi una cosa simile!
È questo il nostro
patto, no? Ci sosteniamo a vicenda per raggiungere i nostri scopi. Io
uccido la principessina Arya e avrò finalmente la mia
vendetta sulla
sua famiglia. Poi uccidiamo il re e saldiamo i conti che entrambi
abbiamo con lui. Poi tu prendi il potere e sbaragli i Varden,
così
potrai uccidere la progenie dell’assassino della tua
famiglia. Sono
questi i piani giusto?»
«Ovviamente» rispose Durza con cautela.
«Ma Arya non era compresa nei piani iniziali».
Lei rise
stridulamente. «Visto? Ti sei rammollito. Non devi fidarti di
lei.
Qualunque cosa ti stia dicendo è falsa. Vuole ingannarti,
non
lasciarti sedurre da un paio di occhi dolci».
Durza sorrise. «Non
ho detto che voglio sposarla».
«NON DOVRESTI NEMMENO AVERLO
QUESTO PENSIERO!» sbraitò lei.
Lo Spettro scattò. «Vattene»
ordinò irritato. «Mi stai stancando. Dimentichi
che lei è sotto la
mia protezione, e sarò io a decidere cosa ne sarà
di lei. E per ora
non la voglio morta. E se non sbaglio qui dentro sono io il padrone e
tu la serva, quindi non contraddirmi!»
La donna si alzò in piedi
fieramente. «Tu non la vorrai mai morta! Ma non dimenticare,
mio
signore, che io sono l’unica che può capirti qui
dentro, sono
l’unica ad averlo mai fatto». Lo guardò
seriamente negli occhi.
«Credevo che avrei potuto fermarti, ma ormai è
troppo
tardi».
«Tardi per cosa?» ridacchiò lui.
Ma non ottenne
risposta perché la sua interlocutrice si era già
defilata oltre
alla porta delle sue stanze.
Durza si chiese cosa avesse mai fatto
di male nelle sue vite precedenti. Doveva aver venduto qualcuno dei
suoi parenti. Presumibilmente il padre o la madre. Forse anche la
sorella.
Sprofondò nel suo letto morbido.
E poi ricordò.
Sgranò gli occhi nella penombra.
______________________________________________________________________________________________
Hello everyone!
Credo di dovere chiarire un po’ di cose: Durza arriva a Gil’ead a Dorso di Lethrblaka e si cala a terra con la magia. Ferito e confuso riesce a capire di dover parlare con Arya e va nella sua cella. L’Elfa non distingue più bene il nero dal bianco e, sperando che le promesse dello Spettro siano vere, finisce per aiutarlo.
Nel sonno Durza si sfrega le mani, quasi a volerle lavare dal sangue, e qui devo citare il grande Shakespeare e Lady Macbeth, da cui ho preso l’idea.
Finalmente vi presento un po’ questa fantomatica “Lei” che ho sempre lasciato avvolta nell’ombra. Con un po’ di impegno si possono dedurre molte cose su di lei in questo capitolo.
Infine un’altra citazione è di dovere: “Doveva aver venduto qualcuno dei suoi parenti. Presumibilmente il padre o la madre. Forse anche la sorella.”
Questa frase non è esattamente un copia e incolla, ma quasi, da uno dei libri della mitica scrittrice fantasy italiana Silvana De Mari: L’ultimo Elfo.
Baci e a presto, spero ;)
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Capitolo 13 *** Aria di partenza ***
13.
Aria di partenza
Quando
Durza lo Spettro entrò nella mia stanza accompagnato da Alba
credetti che si trattasse dell'ennesima illusione data dalla mia
mente disturbata. Eppure le dita di lei sulla mia fronte erano reali
e anche il tono allarmato nella voce dello Spettro.
E furono
proprio le sue mani a curare con delicatezza le ferite rimaste sul
mio corpo, accompagnate da parole di magia.
Cercai più volte i
suoi occhi, cercavo un lampo di comprensione, di complicità.
Qualcosa che mi guidasse i pensieri. Lo ricordavo sanguinante,
delirante, disperato, ricordavo il bacio senza perché che ci
eravamo
scambiati. Eppure lo Spettro pareva abbassare accuratamente gli occhi
ovunque, tranne che sul mio viso.
Quando le parole sussurrate da
Durza cessarono, Alba mi si avvicinò con un piatto fumante e
mi
dovette imboccare per farmi sorbire la zuppa di verdure.
Una volta
curata e nutrita lo Spettro mi sollevò dal mio letto e
uscì dalla
stanza. Ebbi un tremito, realizzando che probabilmente il tragitto
sarebbe finito nella sala delle torture, ma con mio immenso sollievo,
Durza si incamminò in direzione oppposta, salendo le
scalette di
pietra.
Mi permisi di chiudere gli occhi e di rilassarmi. Forse le
promesse che mi aveva fatto mentre delirava non erano così
infondate
come credevo, forse voleva veramente allearsi con i ribelli, stanco
del potere che Galbatorix aveva su di lui.
Riconobbi le scale che
avevo salito la notte in cui avevo tentato la fuga
-un'eternità
prima- e anche la porta di legno di quercia che avrei dovuto aprire
per trovare un rampicante che avrebbe favorito la mia fuga. Dietro la
porta c'era una camera da letto calda e accogliente, ma ci fermammo
solo dietro ad un'ulteriore porta, dove trovammo una vasca di rame
piena di acqua fumante.
«Arya
mi senti?» domandò Durza.
Provai a rispondere ma riuscii solo a
balbettare con voce roca: «S-Sì».
Mi sembrava che tutti i
cavalli dell'esercito imperiale mi avessero travolta e gli sforzi di
Durza per rimettermi in sesto parevano pressoché nulli. Come
puoi
sperare che un vaso di vetro torni integro se prima non si hanno
raccolto tutte le schegge? E sopratutto come puoi pensare che
tornerà
esattamente liscio e immacolato come lo era al principio?
«Va
tutto bene. Adesso verrà una ragazza e ti aiuterà
a fare un bagno,
quando starai meglio ti farò una proposta».
«Non ti dirò
nulla». Furono le uniche parole che dissi, non un grazie, non
una
domanda. Mi sentivo al contempo rassicurata e minacciata.
«Va
tutto bene» ripeté lui. «Non ti
farò del male. Ti ho promesso che
ti avrei aiutata e ho intenzione di farlo. Sei salva».
Non mi
riuscì facile credergli. Forse perché continuava
ad evitare di
guardarmi, forse perché era dura credere alle parole che
sognavo di
sentire pronunciare da mesi. Che tutto andava bene, che non dovevo
preoccuparmi, che altri potevano soffrire e preoccuparsi al posto
mio.
Mi sentii adagiare a terra e poco dopo la porta fu nuovamente
aperta da Alba, che riconobbi dai capelli biondi.
«Guarda come ti
ha ridotta» gemette lei. «Mi dispiace tanto, io
avrei voluto farti
fuggire, volevo salvarti, ma non ci sono riuscita».
E scoppiò a
piangere.
«Hai fatto molto per me, ti ringrazio»
biascicai.
«Cosa ti ha proposto?» chiese tra le lacrime,
aiutandomi a spogliarmi. «Non credergli, non credere a nulla
di ciò
che ti ha detto e che ti dirà. E' una bugia, le sue sono
sempre
bugie. Ti venderà al re, che ti spremerà come un
limone maturo. Io
credo.. credo che la tua ultima possibilità di sfuggirgli
sia
ucciderti prima di arrivare alla capitale».
La ascoltai con la
testa che pulsava e con l'attenzione che vacillava, mentre mi
sosteneva e mi adagiava nella vasca. Un profondo gemito di piacere
sfuggì dalle mie labbra non appena le mie membra toccarono
l'acqua.
Cercai di ricordare l'ultimo vero bagno decente che avessi fatto -da
cosciente si intende- e la mia mente si perse ad un'eternità
prima,
quando ancora vivevo tra i Varden e la mia vita non era stata
massacrata.
Mi concentrai sull'intensa sensazione dell'acqua calda
sulla pelle e non riuscii a percepire nient'altro, nemmeno la voce di
Alba. Quindi mi vergognai per il mio materialismo quando lei mi
chiese, con voce ferita: «Ma mi stai ascoltando?»
«Perdonami»
sussurrai, «ora sono troppo stanca».
La mia risposta debole e
secca parve infastidirla. Raccolse i miei vestiti da terra, mi porse
un pezzo di sapone e degli oli profumati e poi uscì
chiudendosi la
porta alle spalle con malagrazia.
A dire il vero il suo
atteggiamento non mi toccò più di tanto. Insomma
avevo sfiorato la
morte innumerevoli volte negli ultimi mesi, avevo tutte le ragioni di
sbagliare qualcosa.
Mi lavai con assurda lentezza, ispirando ed
espirando ad ogni singola azione, come se stessi compiendo un rito
sacro. La mia pelle era secca, ruvida, tempestata di cicatrici
frastagliate e di lividi violetti, ma non una ferita sanguinante era
rimasta sul mio corpo.
Una volta terminato il bagno afferrai un
panno posato sullo scaffale accanto alla vasca e mi ci avvolsi.
Uscita dall'acqua finii per sedermi a terra, persino quelle poche
azioni mi avevano sfiancata.
Nel silenzio percepii dei passi e un
respiro provenire dalla stanza accanto e li identificai come quelli
di Durza, quindi decisi a maggior ragione di non uscire, non avevo
voglia di resistere alle sue parole melliflue in quel momento, avrei
certamente ceduto.
Alba tornò dopo una decina di minuti con un
abito e una sottoveste per me.
«La mia fascia e le mie brache?»
domandai stancamente.
«Tra gli umani non si usa portare indumenti
corti da uomo sotto i vestiti» rispose candidamente, con una
risatina di scherno.
«Posso riaverli per favore?» mi impuntai.
«Mi servono perché sono pratici».
Ancora una volta mi parve
seccata. «Li laverò e domani li riavrai»
disse.
Poi immerse un
secchio nell'acqua e se ne andò, cominciando così
a svuotare la
vasca di rame.
Avevo a malapena indossato la corta sottoveste e mi
ero nuovamente seduta a terra quando Alba entrò per riempire
un
secondo secchio. Mi risultava particolarmente fastidioso non avere un
qualcosa a sostenermi il petto, che sentivo troppo libero,
così come
mi disturbava non avere addosso almeno un paio di pantaloni, anche se
corti.
La ragazza uscì lasciando la porta aperta.
A quel punto
notai lo specchio appeso alla parete alle mie spalle e incrociai il
mio riflesso.
E mi pietrificai.
I minuti divennero ore.
Me
ne stavo lì ferma , immobile, a guardare e riguardare il
cadavere
che mi sbirciava dal fondo dello specchio, incredula e sconvolta.
I
miei capelli erano appena più lunghi di quanto ricordassi e
ricadevano in onde umide fino alla mia vita. Erano l’unica
cosa di
me che appariva sana.
La pelle del mio viso era pallida, quasi
giallastra, per non aver visto così a lungo la luce ed era
tirata
sulla fronte e sugli zigomi, spingendo in fuori le ossa del mio volto
in maniera quasi inquietante. Come una membrana tesa su un teschio.
I
miei occhi sembravano più grandi, incastonati nella magrezza
del mio
viso e non risplendevano più del verde degli smeraldi, come
diceva
sempre Fäolin. Erano opachi, ingrigiti, spenti. Sotto quello
spettacolo desolante, due occhiaie scavate e nere mi davano
l’aria
di un’Elfa vecchia di millenni.
Tremando, mi arrampicai sulla
parete, alzandomi in piedi.
La privazione di cibo mi aveva rubato
le poche curve che avevo avuto in precedenza. Le ossa delle costole
sporgevano sotto il seno. Quel poco che la fame mi aveva lasciato.
Le
mie gambe e le mie braccia non erano ridotti a due traballanti
stecchi solo perché i muscoli che avevo sviluppato in anni
di
allenamenti non avevano avuto il tempo di sparire, ma sapevo che per
poterli riattivare al massimo della loro antica potenza avrei
impiegato settimane.
Ogni pollice della mia pelle era straziato da
raccapriccianti cicatrici rossastre ed infiammate.
Non reagii
nemmeno quando una fiamma apparve nell’angolo destro in alto
dello
specchio.
Capii che erano i capelli di Durza solo quando lo
Spettro si avvicinò abbastanza da entrare nella luce e
mostrare il
suo viso innaturalmente bianco.
Mi voltai lentamente verso di lui,
senza nemmeno cercare di cancellare la mia aria smarrita dal volto e
senza riuscire a vergognarmi del fatto di essere seminuda. Il mio non
era un corpo che avrei dovuto temere di mostrare agli uomini per
amore del pudore. Non c’era nulla che un uomo avrebbe mai
potuto
desiderare in quel cadavere.
«Ho visto che faccia ha la morte»
sussurrai indicando lo specchio.
Lo spettro mi guardava finalmente
in viso.
«Elfa fai spavento» disse semplicemente.
«Mentre ero
via hai forse scordato come si mangia?» E la sua espressione
rasentava la pietà.
Volevo parlargli della noce vomica e del
vomito sospettosamente ricorrente, ma non mi avrebbe creduta, anzi
forse era stata addirittura una mia sensazione inautentica. E poi
c'erano tante altre cose assurde: l'occhio bianco, i sogni, la
minaccia di morte, le occhiatacce di Hillr. No, non era il caso di
condividerle con lui, o mi avrebbe giudicata assai poco sana di mente
e il suo sguardo era già un colpo basso al mio orgoglio.
«Il mio
stomaco non funzionava più a dovere». La mia voce
si affievolì.
Sentivo gli occhi chiudersi per la stanchezza.
«Sei stanca?»
domandò avvicinandosi.
«Infinitamente».
Mi prese in braccio.
«Dormi Elfa, mi servi al più presto in
forma».
Lo presi alla
lettera: mi abbandonai contro il suo petto, evitando accuratamente di
guardare quella
nello specchio e piombai in un sonno così profondo da fare
concorrenza a quelli che dovevano fare normalmente gli umani.
Per
i seguenti tre-quattro giorni la mia vita fu uno scandirsi di
routine. Ero debolissima e il mio stomaco si era talmente contratto
da non poter sopportare molto più di una zuppa di verdure al
giorno.
Alba aumentò le dosi piano piano, per riabituarlo. Tuttavia
non
venne mai nella mia cella senza la compagnia dello Spettro, quindi
non ebbe più occasione di parlarmi dei suoi sospetti e di
mettermi
all'erta.
Riottenei i miei indumenti e anche un paio di pantaloni
e una camicia, anche se decisamente larghi, dovevano essere della
divisa dei soldati.
Durza continuava a ronzarmi intorno e a
parlare di partenza. Io non capivo cosa intendesse ma non gli chiesi
mai spiegazioni, perché in fondo non le volevo. Volevo
continuare a
mangiare, riposare e lavarmi per il resto della mia vita. Erano
azioni così piacevoli che a volte mi sembravano irreali.
Ma lo
spettro incalzava sempre di più e venne la sera in cui,
entrando
nella mia cella con aria risoluta disse: «Domattina all'alba
partiamo, Arya».
Spostai gli occhi dal soffitto al suo viso. «Per
dove, spettro? Che cosa stai facendo esattamente?»
Durza incrociò
le braccia sul petto. «Ricordi la sera che sono tornato da
Uru'baen
vero? Beh non stavo affatto scherzando. Il re mi ha umiliato, mi ha
trattato alla stregua di un cane pulcioso e disubbidiente e io non
posso sopportare di passare anche un solo altro mese al suo servizio.
Per questo ho bisogno del tuo aiuto» disse, concludendo il
discorso
con un tono che virava sull'infastidito, come se gli seccasse vedersi
costretto a chiedere aiuto a me.
«Ah dunque vuoi che io mi faccia
un giretto per la capitale, uccida il re nel sonno e ti liberi dalla
tua servitù giusto? Un giochetto da ragazzi, dammi un paio
d'ore e
sarà tutto finito».
«Non è il momento per il sarcasmo. Voglio
che tu mi aiuti a cambiare il mio vero nome».
Scossi la testa
lentamente «Dovresti cambiare profondamente un aspetto di te,
non è
come sostituire un paio di stivali» obiettai.
«Fingerò di
ignorare la tua frecciatina ai miei poveri vecchi stivali
principessa» disse ridacchiando, «ma il mio
problema resta. C'era
una persona, qui a Gil'ead che doveva aiutarmi, ma non ci è
riuscita, forse perché è così simile a
me che non c'è
assolutamente nulla in me che potrebbe riuscire a cambiare. Invece tu
ed io siamo come il giorno e la notte: tu saresti la persona perfetta
per farmi fare qualcosa che finora non ho mai fatto, o pensare in
modo completamente diverso rispetto a ciò a cui sono
abituato».
Soppesai le sue parole. «E io che ci guadagno
spettro?»
«La libertà».
Sbuffai sarcastica. «E sono pronta
a giurare che non vorrai mai ripetere le tue parole nell'antica
lingua, quindi io..»
«Se mi aiuti, ti lascerò libera» mi
interruppe. Le parole gli erano uscite di bocca con il suono dolce e
melodioso della mia lingua madre, una lingua che nessuno mi parlava
da così tanto tempo che gli occhi mi si inumidirono per la
nostalgia.
La mia Ellesméra. Guardai Durza e l'espressione
determinata che aveva stampata in viso. Forse era sincero, anzi
doveva esserlo siccome lo aveva giurato.
Forse avrei rivisto la
mia città, le mie campanule, cantato fiori alle tombe di
Glenwing e
Fäolin, detto a mia madre che nonostante tutto le volevo bene,
ringraziato Oromis e Glaedr per la loro pazienza e il loro aiuto,
abbracciato Rhunön..
Le cose che avrei potuto fare una volta
libera, saltarono sullo specchio placido della mia mente come pesci
impazziti.
«Allora è un sì?» insistette
lo Spettro. «Partirai
con me?»
«Ho veramente altra scelta?»
Ridacchiò.
«Effettivamente no. Se rifiuti dovrò impedire al
re di mettere le
mani su di te e l'unico modo per farlo sarà
ucciderti».
«Oppure
potresti liberarmi e basta» proposi cautamente.
«Elfa, sapendomi
in giro mi manderai contro l'intero esercito Varden ed Elfico. Anche
io ho bisogno di garanzie».
«Potrei giurarti di non farlo»
ribattei.
Alzò un sopracciglio. «Davvero potresti?»
Tacqui
per qualche istante, qualche istante di troppo.
«Come pensavo»
riprese lui. «Sarebbe troppo difficile per te l'idea di
rinunciare a
mettermi le mani addosso. E comunque, se permetti, vorrei guadagnare
qualcosa da questi mesi sprecati a torturarti con tutte le mie
abilità. Accetta, Arya, è così
semplice. Accompagnami, aiutami e
sarai libera».
«E dove andremo?»
«Te lo spiegherò strada
facendo».
Avrei dovuto rifletterci a lungo e ponderare la
situazione ma la proposta era così allettante che la mia
impulsività
ebbe la meglio. «Allora sì, ma ripeti il
giuramento».
Lo fece.
Sei volte di fila, in modo da togliere qualunque ambiguità
dalla sua
promessa.
Mi lasciò con un sorrisetto e la notizia che sarebbe
tornato a prendermi all'alba.
Più tardi pensai a quanto era
successo. Per tutte quelle settimane, Durza mi aveva tolto ogni
possibilità di vedere un futuro nella mia vita, anzi aveva
ridotto
la mia stessa esistenza ad un debole trascinarsi attraverso ore e
sofferenze.
Quella sera aveva riaperto di botto le finestre, e il
vento aveva spazzato via la polvere. I miei sogni, le mie aspettative
e le mie certezze riaffioravano timidamente, permettendomi di tornare
ad essere una persona.
Mi aveva comprata offrendo come moneta me
stessa. Aveva aggirato le mie resistenze promettendomi il lontano
bagliore di un'esistenza degna di essere definita tale.
Aveva il
mio più sconfinato odio e la mia eterna gratitudine per
quello.
Non
avevo più alcun timore di ciò che sarebbe
iniziato il giorno dopo.
Ero viva, ero prostrata ma ancora integra, e avevo stretto un patto
con un demonio. Più di così che poteva capitarmi?
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Capitolo 14 *** Piani folli ed alleanze inaccettabili ***
14.
Piani folli e alleanze inaccettabili
Quando
sentii dei passi per le scale, qualche ora dopo, credetti che si
trattasse di Durza. Ma il fruscio era addirittura più
leggero della
sua camminata quindi non poteva essere lui, eppure fu proprio lui ad
entrare nella mia cella un attimo dopo, chiudendosi la porta alle
spalle.
«Dovevo parlarti disperatamente» disse pianissimo,
con
la voce di Alba.
«Alba?» domandai stupita.
«Ssst! Ti prego!»
implorò. E fu un'esperienza assurda vedere un'espressione
implorante
sul viso dello Spettro.
«Ti sei.. Come hai..?» non riuscii a
completare la domanda perché mi stavo già
rispondendo da sola.
Magia. Alba era una maga, e anche abile se era riuscita a mascherare
così bene il suo aspetto.
«Non è come sembra» si
affrettò a
dire, sedendosi accanto a me sul letto. «Mi sono fatta
aiutare, ma
conosco qualche rudimento di magia, hai ragione».
«Ecco come sei
riuscita a farmi fuggire» osservai piattamente, «i
soldati non si
erano intrattenuti volontariamente, li hai obbligati».
«Volevo
salvarti» pigolò lei. E per la prima volta vidi
una lacrima solcare
le guance pallide di Durza.
Non riuscivo a guardarla e a crederle
con indosso le spoglie dello Spettro, era una contraddizione vivente
il fatto che lei avesse il suo corpo, che ciò che
rappresentavano
per me innocenza e crudeltà convivessero, anche solo per
qualche
minuto, in una sola entità.
«Lui ha ucciso quelle guardie»
aggiunse Alba. «Sono morte per colpa mia e, indirettamente,
per
colpa tua».
«Cosa sei venuta a fare?» domandai, scacciando il
dolore della sua affermazione ed evitando di guardare gli occhi
cremisi che appartenevano a Durza.
«Metterti nuovamente in
guardia. Pochi giorni fa non hai prestato ascolto alle mie parole,
ora ti prego di farlo. Lui ti ingannerà, non ha intenzione
di
mantenere il giuramento. Una volta che ti avrà lasciata
libera farà
in modo che tu venga catturata dal re in persona».
«Come sai
delle promesse che mi ha fatto?» domandai sospettosa.
«L-lui..
Durza è.. Insomma a volte mi dice distrattamente
qualcosa»
balbettò.
Cominciai ad intuire qualcosa. «Siete in rapporti
stretti dunque» dissi gelida. E mi parve incredibile di
essermi un
tempo fidata di una donna che era probabilmente l'amante del mio
nemico.
«Io lo odio» disse lei con una voce terribile.
«lo odio
come odio il re. Forse sono una sua concubina, ma come potrei mai
evitarlo? Sono solo la sua serva, ciò che lui desidera io
devo
farlo. Non è colpa mia!» E scoppiò di
nuovo a piangere.
Ero
abbastanza stanca ed imbarazzata per i suoi continui piagnistei, ma
era umana, dovevo avere pazienza. Probabilmente non sapeva neppure
lei cosa stava facendo e le pareva inconcepibile che il suo padrone
avesse proposto a me un patto per salvarmi, mentre ai suoi occhi lui
era solo un essere capace di malvagità.
«Va bene» accennai,
sperando si calmasse, «farò attenzione».
Scosse la testa e i
capelli rossi di Durza si agitarono nell'aria. «Non
c'è speranza
per te, o riesci a fuggire durante il viaggio -ma credo che lui ti
troverà- oppure non ti resta che la morte».
Sempre più turbata,
mi massaggiai le tempie. Non potevo fidarmi né di lei
né di Durza.
Lo Spettro poteva avere veramente intenzione di liberarmi per poi
farmi catturare da altri, magari era davvero fedele al re, nonostante
lo negasse.
Alba era una povera umana sin troppo vittima delle
proprie emozioni. Eppure mi aveva celato qualcosa e non mi era ancora
chiaro chi poteva averla aiutata a prendere le sembianze di Durza e
perché. Forse era più intelligente e furba di
quanto lasciasse
intendere, magari era stata lei stessa a trasfigurarsi, forse era in
realtà una maga potente, anche se si comportava come un
ragazzina
disperata.
Mi ritrovai sotto al naso una fialetta di un liquido
nero.
«Cos'è?» domandai.
«Veleno» fu la tremula risposta.
«Se le cose dovessero andare molto male potrebbe
servirti».
«Ti
ringrazio» dissi, ma non lo pensavo veramente. Avevo appena
ripreso
in mano la mia vita, non volevo uccidermi, anche se pur di non finire
in mano a Galbatorix lo avrei fatto.
«Addio» sussurrò Alba, «e
buona fortuna».
Mi abbracciò. Sorvolando sul fatto che già di
mio non amavo gli abbracci, essere abbracciata dal corpo di Durza fu
piuttosto spiacevole. Picchiettai leggermente la mano sulla sua
spalla, in imbarazzo.
Fui in qualche modo sollevata quando se ne
andò dalla stanza. Dal modo in cui gli armigeri si
affacciarono
subito dopo capii che dovevano aver credo che fossi stata io a
piangere in quel modo, visto che quello che loro avevano fatto
entrare era il loro padrone e sicuramente non poteva essere stato
lui. Mi scrutarono dallo spioncino con curiosità, ma alla
fine
tornarono ai loro posti.
Stappai la boccetta e annusai il suo
contenuto. Fricai Andlat. Il gambo di quel fungo era un potentissimo
veleno ad azione rapidissima. E paradossalmente l'unico antidoto
possibile era la stesso cappello del fungo. Se avessi bevuto un solo
sorso di quell'infuso, Durza non sarebbe nemmeno arrivato a capire
cosa mi stesse succedendo prima di vedermi morta a terra.
Mi
rifiutai di credere alle parole di Alba, avevo paura che mi avesse
detto la verità. Tuttavia nascosi il flaconcino di veleno
nel mio
nuovissimo stivale sinistro, per precauzione.
Non vedevo la luce
esterna dalla mia cella, quindi quando sentii il suono dei passi di
Durza non sapevo che ora del mattino potesse essere.
Potevo solo
immaginare la perplessità dei suoi uomini nel vederlo
tornare dopo
poche ore.
Avevo deciso di non dirgli nulla di Alba, volevo
tenermi aperta la possibilità di sembrare completamente
sicura
dell'affidabilità della parola dello Spettro,
così da poterlo
cogliere di sorpresa nel caso succedesse qualcosa.
«Dovremo
lasciare la città prima che il sole sorga del
tutto» mi informò.
«I miei soldati non dovranno sapere nulla della tua
partenza».
Con
questo pretesto mi legò le mani e mi portò fuori
dalla cella, in
modo da sembrare una prigioniera in piena regola. Lo seguii nel suo
palazzo, su per le scale e oltre il portone di quercia.
L'ultima
volta che ero stata lì ero così sfinita da vedere
solo nebbia
intorno a me. Quella volta vidi invece una camera spaziosa, con un
letto a baldacchino posto in un angolo, un paravento e una cassapanca
appoggiati alla parete opposta al letto. Un grande camino troneggiava
vicino a una libreria ricolma di libri e pergamene, affiancato da una
poltrona imbottita. Esattamente di fronte alla porta si apriva una
finestra di vero vetro, semi nascosta da pesanti tende nere. Il
pavimento era coperto da un morbido tappeto rosso cupo, lo stesso che
nascondeva le scale. L'ambiente era piacevolmente caldo e
accogliente, nonostante fosse la camera da letto dello spettro, come
intuii dal mantello di pelle di serpente appeso ad un gancio accanto
alla cassapanca.
Ricordavo il giorno in cui Durza lo aveva
indossato, quando Lord Barst mi aveva prelevata dalla mia cella per
torturarmi.
Ebbi un sussulto quando, dalla porta che sapevo
nascondere la stanza da bagno, uscì una copia esatta di me
stessa,
che rimasi a fissare ad occhi sgranati.
Quella "me" fece
un inchino profondo in direzione di Durza mormorando un: «Mio
signore».
Riconobbi subito la voce di Alba ed ebbi un
inspiegabile brivido di gelo.
«Elfa, ti presento la te stessa che
rimarrà qui a coprire la tua assenza, mentre saremo
via» disse
Durza.
Mi voltai bruscamente verso di lui e lo rimbrottai
rabbiosamente. «Spettro è rischioso. Se la
scoprissero la
ucciderebbero».
Mi rivolse un sorriso di scherno. «Come sei
pateticamente premurosa e altruista stamattina».
«Mi rifiuto di
farla morire per me» ribattei.
«Non le succederà nulla, te lo
posso garantire» fu l'asciutta risposta. «Ora devi
cambiarti
d'abito, non si è mai vista una donna girare in pantaloni
per
Alagaësia. Forza, sbrigati!»
Alba mi venne incontro porgendomi
una sottoveste e un abito di stoffa marrone rossastra, non troppo
grezza, ma non troppo raffinata, insomma quello che indosserebbe una
mercantessa benestante ma non ricca.
Andai nel bagno a cambiarmi e
anche qui la stanza mi apparve molto più ricca di dettagli
di come
l'avevo vista qualche giorno prima. Era piccola e angusta, con il
pavimento in pietra fredda ma levigata.
La vasca di rame era
fissata nel pavimento e sopra di essa erano appesi scaffali di legno
che contenevano pezzi di sapone e bottiglie di vetro. Notai con
curiosità che in un vaso di terracotta cresceva una piantina
di
menta, doveva essere quella che masticava Durza. Evitai accuratamente
di guardare in direzione dello specchio.
Mi cambiai, ma decisi di
tenere la fascia e le brache e tenni anche la fiala di veleno
nerastro nello stivale.
L'idea di lasciare Alba a rischiare la
vita per me non mi piaceva. Non mi fidavo di lei ma non volevo
neppure che l'ennesima persona morisse per colpa mia. Alla fine
risolsi il mio conflitto, capendo di rappresentare un pezzo ben
più
importante nella scacchiera di Alagaësia. Anche se innocente,
Alba
era più sacrificabile di me.
In seguito Durza modificò i miei
lineamenti fino a farmi assumere quelli della ragazza, che a quel
punto mi guardò con un'espressione che rasentava la
disperazione. La
disperazione comprensibile di chi viene lasciato indietro a rischiare
per qualcuno che forse non lo merita.
Era la seconda maschera che
indossava in quella giornata e vedere la disperazione sui miei
lineamenti
fece uno strano effetto.
Quando finalmente ci avviammo alle stalle
l'alba stava sorgendo. Durza mi lasciò qualche minuto in
compagnia
dei cavalli, senza dimenticare di incatenarmi un polso ad un anello
appesa al muro, destinato probabilmente agli animali. Anche se
avevamo stretto una sorta di patto, decisamente non c'era fiducia
reciproca tra di noi.
Approfittai di quel momento per allentare la
fascia, dato che il seno di Alba era più abbondante del mio
e la
stoffa mi stringeva in maniera insopportabile.
«Alba ha preso il
tuo posto nella cella» mi annunciò lo Spettro,
tornando con le
bisacce da appendere alla sella del cavallo.
Sellò un animale
forte dal mantello marrone scuro. Probabilmente il suo cavallo da
guerra grigio, che nitriva lì accanto, era troppo
appariscente per
andare ovunque dovessimo andare.
«Perché tu capisca bene come
stanno le cose, Elfa» disse poi con espressione burbera,
«questo»
e mi strinse la mano serrata nella morsa dell'anello di ametiste,
«è
un incantesimo che io solo posso rompere. Se morissi prima di
avertelo sciolto avrai una bella gatta da pelare prima di recuperare
i tuoi poteri, chiaro? E come se non bastasse»
proseguì, prima che
potessi rispondere, «questo mi farà stare
più tranquillo».
E
strinse una robusta e sottile catena al mio polso destro, lunga poco
più di una iarda, che poi legò al suo.
«Credevo che la nostra
fosse un'alleanza» obbiettai.
«Io lo definirei un compromesso,
per ora».
«E chi mi garantisce che tu stia cercando di
ingannarmi?»
«Dovrai fidarti di me per qualche tempo» rispose,
tirando il cavallo per le briglie e conducendolo fuori dall'edificio,
nel bel mezzo della piazza militare.
A quel punto dimenticai il
battibecco con lo Spettro e anche ogni altro sospetto,
perché vidi
il sole affacciarsi sui tetti aguzzi delle case, luccicanti di neve
che doveva essere caduta quella notte. Respirai l'aria ricca e fresca
del mattino e mi riempii gli occhi dello spettacolo della luce che
inondava il mondo. Quando Durza montò a cavallo le lacrime
mi
lambivano le ciglia e le nascosi avvicinandomi all'animale e
issandomi alle spalle dello Spettro.
Hillr uscì dall'ala che
conduceva al palazzo pochi istanti dopo, reggendo altre due bisacce a
tracolla. Alla vista dell'uomo mi tesi automaticamente, sulla
difensiva e sollevai il cappuccio del mantello sui capelli biondi di
Alba.
«Ti auguro buon viaggio, mio signore» disse il
siniscalco,
porgendo al suo padrone una bisaccia dopo l'altra.
Una mi fu
consegnata e la misi a tracolla sotto il mantello.
«Mi raccomando
Hillr» aggiunse Durza, «lascio tutto in mano tua.
Se il re manda
messaggeri riferisci che sono impegnato in una missione per
procurargli ciò che desidera. Non lasciare che nessuno si
avvicini
alla prigioniera, escluse le guardie e la cameriera che d'ora in poi
si occuperà dei suoi pasti. Tu non fai eccezione alla
regola»
specificò. «Se quando torno troverò in
lei un solo capello fuori
posto, tu sarai il primo a morire male». E lo disse con una
tale
veemenza che cominciai a sospettare che Alba fosse in realtà
una
persona davvero importante per lui, nonostante fosse solo una sua
serva, o almeno secondo quanto mi aveva detto lei.
Ricevute le
dovute rassicurazioni dall'uomo, Durza strinse lievemente i talloni
sui fianchi del cavallo, partendo a passo lento.
Mi voltai per
guardare di sfuggita Hillr e mi avvidi che mi fissava. Quando i
nostri occhi si incontrarono lui annuì e mi fece un cenno di
saluto,
con un'aria complice da congiurato.
Impiegai qualche istante per
realizzare che quei gesti non erano per me, bensì per Alba.
Che
avevano intenzione di combinare quei due?
«Non parlare fino a che
non saremo fuori Gil'ead» mi ordinò Durza.
Gli obbedii, in ogni
caso in quell'istante non avrei avuto una gran voglia di parlare.
Respiravo aria fresca come se dovessi morire annegata da un momento
all'altro. Quando il portone della fortezza si aprì ed
uscimmo dalle
mura il mio cuore prese a battere impazzito e continuò a
palpitare
per tutto il tragitto fino alle mura più esterne della
città.
Quando
ero arrivata a Gil'ead era notte fonda, quindi non avevo visto con
chiarezza il panorama intorno a me. Il territorio aspro era velato
qua e là da qualche insistente chiazza di neve e qualche
boschetto
rinsecchito. Tutto quello spazio aperto.. mi sembrava non dovesse
finire mai.
Mentre io e lo Spettro uscivamo dalle mura, un
gruppetto di uomini vestiti di pellicce si avviava verso la
città.
Non riconobbero Durza, che aveva il mantello calato fino agli occhi e
indossava abiti dimessi.
Guardandoli attentamente capii che doveva
trattarsi di cacciatori che si recavano in città a vendere
le loro
pelli di prima mattina. Passammo accanto a loro e potei sentire il
puzzo di cadavere e, quando guardai le pellicce che stavano trainando
su una slitta, mi avvidi che erano di lupo.
Stavamo scendendo
lungo l'altura su cui sorgeva Gil'ead quando il scintillio del lago
Isentar, parzialmente incrostato di ghiaccio, mi abbagliò al
punto
da costringermi a voltarmi dall'altra parte e a perdere nuovamente lo
sguardo nello spazio infinito che avevo davanti.
Ma non appena il
cavallo si diresse verso sud, tutta la mia eccitazione svanì
in un
attimo.
«Durza dove mi stai portando?» gridai allarmata.
Stavano
cavalcando verso Uru'baen.
Si voltò verso di me ridacchiando.
«Paura elfa?» E tornò a guardare la
strada davanti a sé.
Mi
agitai inquieta sulla sella, combattuta tra l'orgoglio e il bisogno
disperato di sapere. Finii per stringere con forza il suo mantello e
strattonarlo verso di me, senza dire nulla.
«Rilassati
Principessa» fu il suo commento, «facciamo qualche
lega verso sud e
poi viriamo a ovest. Non voglio aiutare il re più di quanto
non
abbia già fatto, quindi è mia intenzione evitare
la capitale,
contenta?»
Abbastanza. Tornai a stringermi alla sua cintura per
non essere sbalzata via dalla sella e tacqui, girandomi in
continuazione per vedere Gil'ead diventare sempre più
piccola e il
mondo aprirsi come un'enorme teatro davanti a me. Non potevo fare a
meno di pensare che casa mia era esattamente nella direzione opposta
a quella in cui stavamo cavalcando e una parte di me sperava, illusa,
che Durza volesse dirigersi a sud, sempre più a sud, dritto
nelle
braccia dei Varden, a consegnarsi e a offrire la propria
alleanza.
Cavalcammo fino al primo pomeriggio, quando il sole
pallido batteva ormai a picco sulle nostre teste.
Quando ci
fermammo ottenni da Durza lo scioglimento momentaneo della catena che
ci univa, giusto il tempo per esaudire i miei bisogni fisiologici.
Non appena mi fui ricomposta mi chiesi se valesse la pena tentare di
fuggire, ma mi dissi che non era il caso, ero ancora troppo debole e
priva di poteri. Forse mi conveniva tentare di traviare lo Spettro e
trascinarlo dalla mia parte, o anche solo aspettare il momento
migliore e ucciderlo, o darmela a gambe.
Nonostante tutto tornai
nella sua direzione, come un condannato si muove verso il
patibolo.
Durza era seduto su una grossa pietra e stava frugando
in una bisaccia, fino a che non ne trasse due pezzi di pane e strisce
di carne secca. Rifiutai sdegnosamente la carne, presi il mio pane e
mi appoggiai con la schiena ad un albero, in piedi.
«Per quanto
hai intenzione di tenermi nascosta la meta del nostro viaggio, o uomo
del mistero?» domandai non senza sarcasmo.
Non accolse la mia
provocazione. «Andiamo a Dras-Leona» fu la risposta
coincisa.
Aggrottai le sopracciglia. «A fare cosa spettro? Per
cambiare il proprio vero nome non è necessario viaggiare
così
tanto, potevi benissimo farlo da Gil'ead».
«Non ti ho detto
tutto» biascicò, con la bocca piena.
Tacqui, aspettando che
finisse di parlare, ma pareva intenzionato ad aspettare che glielo
domandassi, quindi accontentai il suo capriccio. «Allora
spiegami.»
«Io voglio deporre Galbatorix, Elfa, ma non voglio
perdere la mia occasione. Quando mi ribellerò a lui voglio
avere
nelle mie mani i mezzi per sconfiggerlo».
«Unisciti ai Varden!»
lo interruppi precipitosamente. «Chi è contro il
tuo nemico è tuo
amico».
Fece un ghigno. «Oh ma anche i Varden sono dei nemici
per me. Desidero la morte del loro capo più di quanto
desideri
quella del re».
«Che male ti ha mai fatto Ajihad, oltre ad
umiliarti in un duello?»
Notai con piacere che la mia
affermazione lo aveva infastidito. «Non era solo,
Principessina,
altrimenti non sarebbe vissuto abbastanza per raccontartelo. Nessuno
può battermi in un duello, e sicuramente non un semplice
umano»
concluse, colmo di disprezzo.
«E pensi di trovarlo a Dras-Leona?
Se sei sulle tracce di Ajihad per ucciderlo, Spettro, non avrai alcun
aiuto da me, nemmeno se mi promettessi di restituirmi gli ultimi tre
mesi di vita!»
«Sei sempre più noiosamente prevedibile»
mi
informò. «Comunque non sono queste le mie
intenzioni». Mi guardò
di sottecchi. «Voglio offrirti qualcosa in più
della tua libertà,
elfa, ma voglio i tuoi servigi».
«Arrivi tardi. La mia lealtà
va al mio popolo, ai Varden e al drago che si cela nell'uovo di
zaffiro, e a nessun altro».
Sbuffò. «Atrocemente prevedibile,
piccola Elfa!»
Incrociai le braccia. «Si chiama coerenza».
«Si
chiama testardaggine! Non chiuderti tutte le vie!»
Ribatté
rabbiosamente. «Se io potessi offrirti una
possibilità di
sconfiggere il re cosa faresti?»
«Stenterei a crederti»
ammisi.
«Bene, allora dovrò convincerti!» E i
suoi occhi
fiammeggiarono, spazientiti.
«Prego».
«Spero di trovare
aiuto a Dras-Leona. Il re ha un segreto, la fonte del suo sconfinato
potere. Ho cercato per anni un modo per neutralizzare quel potere,
senza risultato. Nemmeno l'incantesimo che ho fatto su di te ha
funzionato». Ed accennò al mio indice sinistro.
«Tuttavia, devo
ammettere che quel trucco non è esattamente una mia
invenzione.. Mi
sono ispirato ad un incantesimo coniato dai sacerdoti
dell'Helgrind».
Cominciai a capire dove volesse arrivare e mi
venne la pelle d'oca. «Non vorrai..?»
«Loro potrebbero
conoscere un modo per rendere inoffensivo quel potere. Sono l'unica
setta che studia la magia nera e conserva memoria dei propri studi.
Avranno un archivio e se lo consultassimo potremmo trovare
qualcosa».
«Ma di quale potere stai parlando? E.. i sacerdoti?
Non ti aiuterebbero mai, loro non hanno nulla da guadagnarci in tutto
questo».
«La sconfitta del re sarebbe abbastanza per
loro».
«Loro servono i Ra'zac, che servono il tiranno, quindi in
modo indiretto sono suoi servi!»
«Non è ciò che vogliono!» Mi
contraddisse di slancio. «Anni fa ebbi un affare con i
sacerdoti
dell'Helgrind. Dovevo avere un libro da loro, ma quando andai a
Dras-Leona per fare lo scambio mi proposero un'alleanza contro il
sovrano. I Ra'zac non sanno nulla di ciò che i loro
adoratori stanno
organizzando. I sacerdoti sono convinti che i loro dei siano troppo
misericordiosi e non possano fare a meno di aiutare Galbatorix e che
quindi egli sia un ostacolo alla loro gloria».
«E sicuramente
penseranno lo stesso di te. Io non entrerò con te nella tua
tomba,
Spettro. Come hai detto tu praticano arti oscure da secoli, nemmeno
il mio popolo sa fino a che punto si è spinta la loro
depravazione».
«Magari hanno intenzione di servirsi di me fino a
che il sovrano non sarà sconfitto, per poi uccidermi. Ma
fino a quel
momento io sono un alleato prezioso per loro e non getteranno via
l'occasione, mi aiuteranno se possono. Non conoscono il segreto del
potere del re e sarà facile ingannarli».
«Non mi hai ancora
detto di che potere stai parlando» gli feci notare.
Sorrise con
amarezza. «Perché non posso».
Ah. Pensai che se lo avessi
aiutato a cambiare il suo vero nome sarebbe stato libero dai vincoli
che lo legavano a Galbatorix, sempre che tutto ciò che mi
aveva
detto non fosse un'accozzaglia di menzogne.
«Voglio che tu mi
aiuti a trovare ciò che mi occorre, a cambiare il mio vero
nome e
poi a sconfiggere il re. Non voglio nessuna interferenza da parte di
elfi, nani, Varden, gatti mannari e così via. In questa
alleanza ci
siamo solo io, te e un'altra persona che ti presenterò una
volta
tornati a Gil'ead, una mia vecchia amica».
Lo guardai sprezzante.
«Se credi che io..»
«Tu devi
accettare, Arya. Fa parte del tuo compito e anche dei tuoi desideri.
Se c'è una possibilità, anche solo remota, che
Galbatorix venga
sconfitto senza ulteriori scontri e perdite è tuo dovere
analizzarla
attentamente, almeno».
Mi morsi le labbra. In parte aveva
ragione, ma non mi fidavo totalmente di lui e del suo repentino
cambiamento da carceriere a salvatore. E non desideravo affatto
incontrare i Sacerdoti.
Ma la mia vita aveva smesso di
appartenermi il giorno stesso in cui avevo giurato di salvare
Alagaësia.
«Giurami che non stai mentendo. Giuramelo»
pretesi.
«Lo giuro sulla mia testa» disse nell'antica lingua.
«E
ora dimmi perché lo fai».
«Non voglio Galbatorix sopra di me
piccola Elfa, io voglio essere un uomo libero».
«Ma vuoi anche
la morte di Ajihad».
«Ti ho detto che i Varden non sono inclusi
nel nostro accordo».
«E nemmeno il futuro di Alagaësia lo
è»
gli feci notare.
«Non credi» cominciò con una punta di
sarcasmo, «che una volta sconfitto Galbatorix, semmai io
dovessi
diventare un problema vi sarà decisamente facile mettermi a
tacere?»
Annuii. «Sì, sta bene».
«E ora tocca a te,
Arya».
«Cosa?»
«Mi devi un giuramento».
«Io non
devo..»
«Giurami che non mi tradirai» mi interruppe,
guardandomi con aria di sfida.
Tentennai. Non tradirlo significava
non consegnarlo ai miei alleati una volta finito tutto, ma nemmeno
cercare vendetta per ciò che mi aveva fatto. Per me era un
grosso
sacrificio e le immagini di Glenwing e Fäolin morti mi
balzarono
ammonitrici alla mente. Tuttavia non potevo vivere per il passato e i
morti, purtroppo, non hanno alcun potere sul futuro.
«Hai la mia
parola d'onore» dissi, lentamente.
«Bene» disse Durza,
alzandosi in piedi e porgendomi il braccio sinistro, per suggellare
l'accordo secondo il costume degli uomini.
Glielo strinsi. «Bene»
ripetei.
«Ora vediamo di metterci all'opera immediatamente»
disse, prendendo in mano una ciocca dei miei capelli e ricordandomi
all'improvviso che avevo ancora l'aspetto di Alba.
Poi le sue dita
scivolarono sul mio polso e sentii la catenella tintinnare.
«Ma
davvero, Durza?» lo provocai. «Finalmente
stringiamo qualcosa di
simile ad un'alleanza e tu mi vuoi incatenare?»
Assunse
un'espressione sospettosa. «Quando hai ragione hai
ragione» disse.
E mi lasciò con palese reticenza.
Poi raccolse la sua bisaccia da
terra, slegò il cavallo e ci montò sopra.
«Vuoi le redini, mia
signora?» mi domandò con un ghigno.
«Preferisco guardarti la
schiena, grazie». E mi issai dietro di lui.
«Ho sempre saputo di
piacerti» fu la sua risposta irriverente.
Riprendemmo a
cavalcare.
Qualunque cosa fosse successa da quel momento in poi
sarebbe stata un'avventura incredibile, ne ero certa, come ero certa
che nessuna ballata avrebbe mai dovuto raccontarla.
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Capitolo 15 *** Sotterfugi, insulti e orrende visioni ***
15.
Sotterfugi, insulti e orrende visioni
[Hillr]
Hillr
avrebbe voluto avvicinarsi alla prigioniera, avvelenarle il cibo, il
bere, l'aria che respirava. L'importante era farla sparire da quella
terra. Poteva addirittura inscenare un suicidio per lei.
Quando
aveva saputo dal suo padrone che sarebbe partito di lì a
poche ore
aveva immediatamente deciso che sarebbe andato a cercare l'unica
persona nel palazzo che lo avrebbe sostenuto nel suo tentativo di
ammazzare l'elfa in sua assenza, ma fu troppo impegnato nei
preparativi per riuscirvi.
Era stata Lei a confermare i suoi dubbi
riguardo alla prigioniera e alla sua natura, Lei a istigarlo ad
ucciderla, Lei a proporsi come sua alleata in
quell'impresa.
L'occasione buona era venuta quando Durza lo
spettro aveva lasciato Gil'ead, diretto alla capitale, circa due
settimane prima, ma ad entrambi era mancato il coraggio necessario.
Non che avessero pietà dell'elfa, affatto, ma temevano
entrambi
l'ira dello spettro e i molti e fantasiosi modi in cui avrebbe potuto
ucciderli.
Così si erano limitati a fare dei piccoli sabotaggi.
Noce vomica nel cibo della prigioniera, qualche allucinazione creata
ad arte da Lei. Speravano con tutto il cuore che sarebbe morta senza
che loro dovessero sporcarsi direttamente le mani, così non
sarebbe
stata colpa di nessuno.
Tuttavia il padrone aveva avuto fretta di
tornare purtroppo. Se avesse tardato anche un solo giorno in
più
probabilmente l'elfa sarebbe schiattata.
E ora.. il comportamento
di Lei si era fatto indecifrabile.
Questo pensava mentre, dopo
aver salutato il suo signore e visto le porte della fortezza
chiudersi alle sue spalle, si dirigeva verso le sue stanze, sentendo
la chiave della cella dell'elfa bruciargli a cintura e tuttavia
cercando di dominarsi.
Quando finalmente spinse la porta della sua
camera trovò una donna seduta sul suo letto, che lo guardava
sorridendo radiosa.
«Hai fatto molto presto» disse con voce
morbida, spostando i capelli biondi su una spalla in modo
sensuale.
Hillr era sbigottito. «Tu?»
«Sono io» confermò
lei, facendogli cenno di entrare.
L'uomo si chiuse la porta alle
spalle e avanzò fino a porsi di fronte a lei. «Che
ci fai qui?»
«La
donna che è partita poco fa con il tuo padrone era
l'elfa» lo
informò seccata. «Durza mi ha lasciata qui a
coprire la loro
assenza. Ho anche dovuto prendere le sue disgustose
sembianze».
«Infatti hai ancora le orecchie appuntite, Alba» le
fece notare.
«Già» disse lei toccandole,
«le avevo scordate.»
E le fece sparire borbottando qualche incantesimo.
Hillr si
ritrasse impercettibilmente. Non gli piacevano gli incantesimi e le
magie di quella donna, era una maga umana, non una sozzura elfica, ma
era comunque un'abilità che lo innervosiva.
«Mi stavo chiedendo
come mai non mi avessi riconosciuto stamattina, ma ora è
chiaro. Non
eri tu, era l'elfa». Fece una lunga pausa. «Il
padrone non ha
voluto dirmi dov'era diretto» disse poi.
«Nemmeno io lo so con
certezza, amico mio, ma credo che entro un mese o poco più
tornerà
con la sua prigioniera».
«Perché l'ha portata con sé?»
La
ragazza abbassò il capo. «Io credo che lei sia
riuscita a sedurlo.
Probabilmente il nostro signore starà viaggiando verso nord,
dove
vivono gli elfi, per stringere un patto con loro».
«No..»
mormorò Hillr, e non fu capace di aggiungere nient'altro.
«Non
disperare, possiamo ancora salvare lui e noi stessi!»
«Forse
dovremmo inseguirli» propose l'uomo, colto da un'ansia che
gli
divorava lo stomaco. Quell'elfa avrebbe preso il controllo del suo
signore e poi della città, e infine del mondo intero.
«Ci
ucciderebbe senza pensarci due volte» lo contraddisse Alba.
«No,
dovremmo stare qui, aspettare che tornino e poi cogliere il momento
giusto per liberarci di lei. Mi sono guadagnata parte della sua
fiducia, lo sai, e anche se dubita di me ha nei miei confronti un
debito di riconoscenza ed è una cosa che quelli della sua
razza non
possono assolutamente ignorare».
L'uomo annuì. «Sembra un buon
piano».
«Ha un suo prezzo però»
bisbigliò la donna, «dopo
esserci liberati di quella feccia dovremo scappare, perché
Durza non
ce lo perdonerà mai».
«Io non voglio andare da nessuna parte!»
ribatté Hillr. La sua vita gli piaceva, e ormai era troppo
vecchio
per viaggiare e trovare un'altra sistemazione. Tuttavia la faccenda
dell'elfa era davvero seria..
«Purtroppo è l'unica soluzione, ma
posso capire la tua paura» lo provocò.
«Ci sto!» scattò
infatti, punto sul vivo.
«Bene» disse lei, «allora dovremo solo
portare avanti questa farsa fino al loro ritorno». E
già mentre
parlava i capelli color dell'oro si macchiavano di inchiostro, il
corpo si allungava e si appiattiva, i grandi occhi azzurri
diventavano due taglienti fessure verde brillante e le orecchie si
deformavano in una punta.
«Bene» disse lui, osservando con un
velo di disgusto l'intero procedimento.
[Arya]
Fosse stato
per me o per lo Spettro avremmo potuto continuare a cavalcare per
tutta la notte, con tre ore scarse di riposo, ma il cavallo era
stremato quando ci fermammo quella sera e io stessa capii che
probabilmente avrei dormito anche quattro ore quella notte.
Stare
all'aria aperta mi aveva stancata, oltre a farmi venire una fame da
lupi, e inoltre non mi sentivo ancora completamente in forma, stavo
riprendendo le mie energie lentamente.
Io e lo Spettro analizzammo
il contenuto delle nostre bisacce, la mia piena di coperte, la sua di
cibo, e ci dividemmo equamente le due cose. Non senza qualche
commento malizioso e sfottente, Durza si prese tutte le scorte di
carne, lasciandomi tutte le mele secche e buona parte del formaggio
in cambio.
Mi imposi di non divorare tutto il cibo che avevo sotto
al naso e mangiai un panino con le noci.
Già da pochi minuti dopo
il tramonto del sole, l'aria aveva cominciato a rinfrescarsi e nel
giro di mezz'ora divenne decisamente gelida.
Raccogliemmo della
legna e lo Spettro le diede fuoco con un semplice
“Brisingr”
sussurrato. Una fitta di nostalgia mi scavò il petto. Avevo
una
voglia tremenda di pronunciare una parola di potere e vedere gli
elementi della natura agire dietro il mio volere.
Mi domandai se
non fosse un mio diritto chiedere a Durza la restituzione dei miei
poteri, in seguito alla nostra alleanza, ma quando lo feci lo Spettro
mi rispose con una risatina e un secco diniego.
«Sei già stata
in missione tra gli uomini, non è vero?» mi chiese
poi.
Annuii.
«Da settant'anni anni faccio visita regolare ai
Varden».
Tacque
qualche istante. «Ma loro sanno già chi sei, non
è vero?»
«Solo
alcuni sanno che sono la figlia della regina, gli altri mi credono
solo la custode della..»
«Non in quel senso» mi interruppe.
«Sanno che sei un'elfa?»
«Certamente sì» risposi,
avvolgendomi in una coperta.
Schioccò la lingua contro il palato.
«Quindi non hai mai dovuto fingerti un'umana tra gli
umani!»
«Sono
perfettamente in grado» lo informai orgogliosamente,
chiudendo la
bisaccia e appoggiandola accanto a me.
Durza studiò i miei
movimenti con attenzione. «Sei troppo veloce,
Principessa» mi
informò tra i denti. «Gli umani saranno anche
stupidi ma certe cose
le notano. Ecco anche adesso!»
«Anche adesso cosa?» Cominciavo
ad averne abbastanza.
«Hai spostato la testa. Troppo veloce di
nuovo».
«Devo solo fare attenzione, Durza, imparerò in
fretta».
«Lo spero per entrambi, ma non basta rallentare i
movimenti. Devi pensare di poter fare le cose alla metà
esatta delle
tue capacità. Non puoi udire una conversazione bisbigliata a
distanza di cento piedi, e non puoi leggere un'insegna grande come la
mia mano che si trova in fondo alla strada. Sono particolari che tu
percepirai lo stesso, ovviamente, ma devi nascondere a quelli che ti
circondano le tue capacità. E lo stesso vale per la tua
intelligenza, piccola Elfa. Ora non credere che voglia farti un
complimento, ma rispetto ad un'umana media di diciamo venti
primavere..»
«Io non ho venti primavere Spettro, ne ho cento»
ribattei piccata.
«.. Sicuramente hai molte più
conoscenze»
proseguì lui imperterrito, «anche di avvenimenti
che hai visto e
che per un umano devono essere accaduti ai tempi del suo bisnonno,
quindi devi regolarti, anche per quanto riguarda opinioni o pensieri
espressi ad alta voce. E poi devi toglierti quell'aria saggia e
sofferente dagli occhi perché che tu riesca a renderla anche
con gli
occhi di Alba è un chiaro segno della tua sin troppo
eccessiva
serietà» concluse fissandomi corrucciato.
«Hai finito?»
«Potrei
insultarti per ore e non stancarmi mai, Principessa».
«Mi fa
piacere che tu abbia una così alta considerazione di
me» dissi,
ignorando la sua ultima battuta, «ma non sono stupida,
saprò
adeguarmi ai ritmi umani».
«E allora ti consiglio di cominciare
ad abituartici sin da domattina, potrebbe risultarti più
difficile
di quanto sembri».
«D'accordo» concessi.
«E ora dovremmo
pensare a te». Si alzò, girò intorno al
fuoco e sedette accanto a
me.
Con un incantesimo mi spogliò delle membra di Alba e fu
bello
tornare a vedere i miei capelli scuri e le mie mani callose.
«I
capelli vanno bene, viso, orecchie e occhi per niente»
borbottò
Durza, scostandomi i capelli su una spalla. «In
realtà potrei
lasciarti l'aspetto di Alba».
«Preferirei di no».
«Perché
mai? È molto bella». E mi guardò con
aria di sfida.
«Il suo
fisico mi risulta scomodo nei movimenti» lo informai.
«Ah
capisco, non sei avvezza ad avere curve» disse sarcastico,
accennando al mio petto. E in effetti la fascia era improvvisamente
lenta.
«Non sono avvezza ad avere un corpo così
molle» lo
contraddissi con dignità.
«Sai Arya, ci sono uomini che
apprezzerebbero comunque, anche se non..»
«NON è quello il
problema» sibilai fulminandolo.
Rise, socchiudendo gli occhi
vermigli. «Voi elfi siete uno spasso!»
Lo guardai impassibile
mentre rideva del mio atteggiamento, ma la mia mente sostava su
immagini confuse. La bocca sottile dello Spettro contro la mia, le
sue labbra dischiuse, la sua lingua che mi accarezzava il palato. Io
ricordavo tutto quello che era successo quella notte, anche se
sembrava avvolto in una spessa nebbia, ma lui? Poteva ridere del mio
corpo troppo asciutto, ma non gli era affatto dispiaciuto baciarmi.
Avrei potuto provocarlo con un'affermazione simile, ma decisi di
tenerla per me e stirai le labbra in un sorriso che doveva apparire
quasi sadico.
Tanto che Durza recuperò un po' di serietà.
«Va
bene». E si pettinò i capelli tra le dita,
riordinandoli. «Farò
come vuoi tu».
Senza togliersi quel ghigno insopportabile dalla
faccia si mise all'opera con l'antica lingua, plasmando i miei
lineamenti.
Quindi tolse un pugnale lungo quanto il mio
avambraccio dallo stivale e me lo porse per specchiarmi. Il mio viso,
i miei occhi e le mie orecchie erano rotondi e le mie iridi di un
verde più cupo e meno appariscente di quello a cui ero
abituata, ma
ero sempre io, tanto che mi sentivo abbastanza a mio agio con quelle
sembianze.
«Il pugnale puoi tenerlo se mi prometti di non
piantarmelo nel cuore stanotte» mi informò Durza e
sorrise.
Una
fila di denti piani fece mostra di sé quando
ritirò le labbra.
Guardandolo mi resi conto che i suoi occhi erano marrone scuro, i
capelli sempre rossi, ma meno accesi e la pelle di un colore
umano.
Quello era l'uomo che avevo visto davanti a me quando mi
ero risvegliata, la notte dopo l'agguato.
«Allora lo vuoi tenere
sì o no?»
Posai lo sguardo sul pugnale che stringevo tra le mani
a quel punto tremanti. Lo riconobbi come quello che aveva premuto
sulla mia gola quando avevamo incrociato la pattuglia di elfi di
Osilon e che aveva usato per le torture poi.
Era una bella lama a
filo doppio, arrotata da poco, con un'impugnatura semplice rivestita
in cuoio. Uniche decorazioni, una figura tondeggiante in argento
-simile ad una luna- in rilievo sul pomolo e una scritta che correva
lungo la guardia.
Avvicinandola al fuoco constatai di non
conoscere quelle rune.
«Quella è una lingua ormai dimenticata,
Arya. La lama è di fattura nanica ma probabilmente
è nata come dono
o oggetto di scambio per un mercante delle tribù nomadi nere
del
deserto di Hadarac. Era una lama gemella». Ed estrasse un
pugnale
identico dall'altro stivale. «Le rune su quello che hai in
mano
stanno per “luna”, quelle su questo stanno per
“sole”.
Dunque? Vuoi il sole o la la luna?» chiese con un mezzo
sorriso,
contemplando assorto le due lame.
Mi strinsi nelle spalle. Mi
stavo chiedendo come fosse venuto in possesso di quelle lame e allo
stesso tempo ricordavo di aver sbirciato dentro ai suoi ricordi, una
volta. Lui era un giovane che correva per un deserto, accompagnato da
un uomo anziano. Forse era originario del deserto di Hadarac, forse
aveva rubato quelle lame mentre era ancora umano, perché mi
pareva
impossibile che il ragazzo con gli abiti trasandati che avevo visto
avesse il denaro sufficiente per comprarsi una lama nanica.
«Allora
decido io» intervenne Durza, «tieni la luna:
è bella, fredda e
distante come te». E rinfoderò il pugnale con il
sole in rilievo
sul pomolo, per poi darmi il fodero di quello in mio possesso.
Feci
una smorfia. «Spettro non so se la cosa ti diverta, ma
potresti
smettere di provocarmi?»
«La cosa mi diverte troppo per poter
smettere, Elfa, mi spiace».
Decisi di ignorarlo e mi stesi su un
fianco, con l'intento di riposarmi, ma non potei rilassarmi
finché
lo Spettro rimaneva, sveglio e vigile, al mio fianco.
Poi lo udii
mentre legava e scaricava il cavallo, stendeva le coperte e si
coricava. Prima di addormentarsi creò un cerchio protettivo
intorno
a noi. Socchiudendo gli occhi notai che era invisibile e che quindi
doveva essere prettamente difensivo, non come quello nerastro che
aveva eretto dopo la mia cattura.
«Dormi bene, Arya» disse.
Non
risposi e nemmeno sprofondai nel riposo. La mia mente era affollata
di pensieri scomodi. È quando il corpo raggiunge
l'immobilità che
la testa comincia ad agire anche per esso.
Motivo per cui giacqui
ad occhi spalancati per lungo tempo, ascoltando il mio respiro e
quello di Durza dall'altro lato del fuoco.
Quando alla fine
riuscii a rilassarmi a sufficienza per cadere nello stato di
semi-incoscienza tipico della mia specie, una visione mi
risucchiò
con una tale potenza che mi fu impossibile sfuggirle o anche solo
svegliarmi.
Inizialmente
mi parvero una serie di ricordi legati a Fäolin: ricordai la
sensazione che avevo provato quando mi aveva baciata, quando mi aveva
fatto dono della campanula da lui creata, quando avevo capito di
provare qualcosa di più della semplice amicizia per lui,
quando lo
avevo visto morire sotto i miei occhi.
Poi
mi apparve un'immagine di Fäolin che mi guardava deluso e
addolorato, intimandomi di badare a me stessa e di non allontanarmi
troppo dal sentiero.
Poi mi porgeva lo stesso pugnale che stavo
stringendo a me nel sonno, Luna.
«Uccidilo» sibilò.
E sapevo
benissimo di chi stesse parlando.
Se
anche avessi voluto farlo a quel punto non mi sarebbe più
stato
possibile, perché quando riuscii a tornare totalmente
cosciente lo
Spettro era all'erta, allarmato, e mi guardava con i suoi soliti
occhi di fuoco.
Distolsi lo sguardo, mi toccai le guance bagnate
di lacrime e regolarizzai il respiro. Per il resto della notte ebbi
paura a lasciarmi andare troppo nei sogni, pena la prigionia nella
visione di Fäolin.
Durza non si mosse, non chiese nulla e fece
anche finta di dormire fino a che non si addormentò del
tutto.
Gliene fui grata.
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Capitolo 16 *** Giornate di pace e pomeriggi di sangue ***
16.
Giornate di pace e pomeriggi di sangue
Il
mattino seguente il freddo pungeva quasi dolorosamente sotto i
vestiti e qualche fiocco di neve volteggiava nell'aria.
Mentre lo
Spettro cancellava le tracce del falò che avevamo acceso
analizzai i
miei capelli e decisi di accorciarli all'altezza del seno con il
pugnale. Poi, siccome mi infastidivano, li legai in una treccia.
«Se
hai finito di farti bella potremmo partire, piccola Elfa» mi
urlò
Durza, già in sella al cavallo.
«Arrivo!» esclamai. Poi colta
da un istante di paranoia, scavai una buca nel terreno ghiacciato e
vi sotterrai le ciocche amputate.
Dopo qualche ora di viaggio la
strada si accostò al fiume Ramr. Ne approfittammo per fare
una breve
sosta per mangiare e riempire le borracce, quindi ripartimmo.
Ma
già nel primo pomeriggio il cavallo cominciò a
sbuffare,
stanco.
«Non faremmo prima a piedi?» domandai allo
Spettro.
«Correndo dici? Indubbiamente sì, in quattro,
massimo
cinque giorni saremmo a Dras-Leona. Ma ho pensato di tenere il
cavallo almeno fino a Taurida».
«E perché?»
«Perché non
saresti in grado di coprire una simile distanza nelle tue
condizioni».
«Durza non sono incinta» mi sentii il dovere di
specificare, un po' ferita nell'orgoglio.
Vidi la sua schiena
scuotersi in una risata. «Mi fa piacere! Quindi non
sarà un
problema farti correre da Taurida a Dras-Leona non è
vero?»
«No
di certo».
Tuttavia la mia sicurezza era un po' fuori luogo e me
ne resi conto quella sera stessa, quando, una volta accampati per la
notte, decisi di provare qualche posizione di Rimgar, giusto per
sciogliere i muscoli indolenziti dalla cavalcata.
Non mi ero resa
conto di quanto il mio corpo si fosse irrigidito in quegli ultimi
mesi. Persino il più semplice esercizio -cioè da
in piedi toccare a
terra con i palmi delle mani- mi risultò più
fastidioso del solito,
e i muscoli delle mie gambe urlarono pietà quando provai a
tirare il
piede sopra la testa.
«Stai tentando il suicidio?» mi chiese
Durza con un'espressione incuriosita.
«Di riprendere la mia
elasticità a dire il vero» borbottai, scapolando a
fatica con le
braccia.
«Sembra doloroso».
«Sono solo fuori
allenamento».
«E di cosa si tratta?»
«Rimgar, noi la
chiamiamo la danza del Serpente e della Gru. Consiste in una serie di
posizioni e movimenti mirati a mettere in azione e a scaldare ogni
singolo muscolo corporeo, così da reagire più
prontamente in
battaglia ed evitare errori sciocchi come un crampo ad un
polpaccio».
«E se volessi provare?» domandò
alzandosi in
piedi.
Lo guardai con sufficienza. «Non è così
facile, se non
l'hai mai fatto in vita tua cominciare adesso sarà
faticoso».
Sollevò un sopracciglio. «Tu non ci perdi niente
Principessa, al massimo ti farai due risate».
La sua affermazione
si rivelò veritiera, come anche la mia.
Durza faticava parecchio
anche negli esercizi di allungamento muscolare più semplici,
e
vederlo in difficoltà era veramente divertente. Era quasi
gratificante aver trovato un ambito in cui riuscivo molto meglio di
lui, anche se fuori forma.
Anche se per quanto riguarda gli
esercizi di forza era ovviamente molto capace.
Un paio di ore dopo
lo Spettro si gettò a terra, con la fronte velata di sudore.
Aveva
da tempo rinunciato al mantello -che ora giaceva sotto la sua
schiena- e le maniche della sua camicia e della sua casacca erano
arrotolate fino ai gomiti. Notai in quel momento che non c'era
traccia delle ferite procurategli da Galbatorix.
Lanciò
un'imprecazione. «Mi sento molle come un fico troppo
maturo» mi
informò.
Mi concessi un sorriso per il paragone. «Ti avevo
avvisato». E mi sedetti a mia volta, perché, anche
se non volevo
ammetterlo, anche io mi ero piuttosto stancata.
«Prima di
arrivare a Taurida, quindi entro i prossimi due giorni, vorrei che
facessimo un bel duello, Elfa. Potrebbe essere interessante».
«Non
ho la mia spada» osservai.
Si mise a sedere e fece un cenno in
direzione delle bisacce che giacevano accanto al cavallo. «In
un
involto di cuoio c'è la mia spada, e anche la tua».
«E pensavi
di restituirmela prima o poi?»
«Siamo due semplici mercanti,
non dei mercenari. Le spade sono comprensibili, perché
servirebbero
per proteggere la mercanzia o noi stessi da eventuali attacchi, ma
destano anche sospetti e preoccupazioni. Fidati di me, meno persone
le vedono meglio è, anche perché la mia spada
è abbastanza
conosciuta in Alagaësia».
Esitai. «A questo punto ho un dubbio:
dov'è la nostra merce?»
Durza sollevò un dito ammonitore. «Non
aggrottare la fronte davanti a me». E ridacchiò.
«Ti rispondo se
prometti di non uccidermi».
Accarezzai dolcemente la fodera del
pugnale. «Forse».
Lo Spettro tese una mano e, con un sospiro di
rassegnazione, gli consegnai l'arma. Ma in realtà ero
divertita.
«Stiamo andando a Dras-Leona per cercare una casa,
veniamo da Teirm e vogliamo trasferirci per aprire una nuova
attività. Siamo mercanti di stoffe».
Mi strinsi nelle spalle. E
allora?
«Siamo
troppo diversi per poterci spacciare per fratello e sorella»
mi
guardò allusivo, «quindi dovremo fingerci marito e
moglie».
Mi
lasciai sfuggire una smorfia. Non mi piaceva l'idea, ma in fondo
avevo passato di molto, molto peggio.
«Non è un enorme problema
per me Spettro, la cosa non mi tocca».
Mi riconsegnò il pugnale
tendendomelo dall'impugnatura. «Pensavo al peggio».
Chiesi a
Durza di vedere la mia spada e mi accontentò. Vedere
nuovamente la
mia lama, sentire il suo peso perfetto tra le mie mani.. Mi sentii di
nuovo forte e pronta a fare qualsiasi cosa.
Più tardi mi
abbandonai al riposo serenamente, ma non durò a lungo. La
visione di
Fäolin mi catturò nuovamente con la potenza di un
magnete e di
nuovo riaprii gli occhi con la sensazione di stare per vomitare,
tremando dalla testa ai piedi nonostante il calore del fuoco sulla
mia schiena e le coperte intorno al mio corpo.
In tarda
mattinata del quarto giorno di viaggio giungemmo finalmente in vista
di Taurida. Essendo l'ambiente pianeggiante, fu abbastanza facile
individuare la città anche quando era ancora a ore di
distanza.
Mentre ci avvicinavamo con calma, accanto a noi, sul filo dell'acqua,
passarono leggere un paio di chiatte fluviali cariche di
merci.
«Mercanti di pelli» mi informò lo
Spettro. «Vengono dal
nord per vendere i loro prodotti, del resto questo è un
momento
propizio, anche se la navigazione fluviale è abbastanza
pericolosa
in questa stagione, a causa del ghiaccio».
Durza si era parecchio
divertito negli ultimi giorni ad impartirmi continue lezioni su usi e
costumi degli umani. Avevo già molte nozioni in merito, ma
feci
altre interessanti scoperte, come per esempio il fatto che nelle
città caotiche e fitte -come Dras-Leona- fosse abitudine
comune
gettare gli escrementi per strada dalle finestre, con l'alto rischio
di colpire i passanti. L'idea era piuttosto nauseante.
Un'altra
attività alla quale io e lo Spettro ci eravamo ampiamente
dedicati
era la scherma. Ci eravamo sfidati in continui e sfiancanti duelli,
nei quali lui usciva sempre vincitore, anche grazie alla mia
momentanea debolezza. Non avevo dimenticato nulla di ciò che
avevo
imparato in decenni di allenamento e la cosa mi incoraggiò.
Ebbi
anche l'occasione di fare una sfida alla pari con la sinistra
perché
-come scoprii- sia io che Durza eravamo mancini, tuttavia dovevo
ammettere che l'abilità dello Spettro rimaneva superiore
alla mia.
A causa delle lunghe pause di cui aveva bisogno il nostro povero
cavallino, trovammo anche il tempo di discutere qualche piano per
parlamentare con i Sacerdoti o infiltrarci nei loro locali nel caso
ci fosse preclusa un'udienza o le nostre richieste venissero
rifiutate. Non venni a sapere nulla di più sul misterioso
potere che
il re nascondeva al mondo, ma tendevo a fidarmi della parola di Durza
perché sembrava spiegare molto bene il perché
nessuno fosse ancora
riuscito a spodestarlo nonostante i molti tentativi.
Quel nostro
incedere lento era frustrante. Non avevo più la presunzione
di
definirmi completamente guarita, tuttavia ero convinta che, correndo,
saremmo già stati a buon punto della strada.
Quando varcammo le
malconce mura della città era mezzogiorno passato. Le
guardie ci
intimarono di scendere da cavallo e di proseguire a piedi ma non ci
degnarono di una seconda occhiata, probabilmente in quel posto non
succedeva mai nulla degno di nota.
«Per prima cosa una locanda!»
esclamò lo Spettro allegramente, tirando l'animale per le
redini.
Non fui troppo contagiata dalla sua allegria, ero stanca,
e nelle ultime notti avevo parecchio faticato a dormire per colpa
delle strane visioni che mi assillavano e non parevano intenzionate a
diminuire.
Vagammo per qualche minuto, poi di fronte ad un’insegna
che recitava “Il Muschio Verde” lo Spettro si
fermò.
«Direi
che può andare».
«Spero che il nome sia solo poesia» osservai.
Durza mi lasciò le redini e si diresse con decisione verso
il
bancone. La sala era semivuota, qualcuno era seduto ai tavoli e
consumava un pranzo veloce, ma nessuno ci gettò
più di una rapida
occhiata.
«Salve» disse una donna rugosa con fare
spiccio.
Intravidi alle sue spalle un uomo, che doveva essere il
marito, affaccendarsi intorno al fuoco e ad un pentolone di
stufato.
Lo Spettro parlò qualche istante con la donna, con un
sorriso cortese, accennando anche nella mia direzione.
Io mi
scostai leggermente dalla soglia per non chiudere l'ingresso e mi
guardai intorno, accarezzando il cavallo, che sbuffò. Ero in
una
città umana in compagnia di uno Spettro e cominciavo a
temere i
risvolti di quel mio viaggio.
Durza arrivò giusto in tempo a
salvarmi dai miei pensieri cupi.
«La signora ha una stanza per
noi» disse, avvicinandosi a me.
Ebbi appena il tempo di vedere la
signora in questione affacciarsi sulla soglia per chiamare lo
stalliere, che Durza si chinò a baciarmi sulle labbra. Fu un
attimo,
e dovetti anche dissimulare il mio turbamento dato che secondo la
farsa che avevamo organizzato eravamo una coppia sposata. Mi limitai
a scostare gli occhi dai suoi e guardare un punto indefinito alle sue
spalle.
«Mio figlio si prenderà cura del vostro
cavallo»
borbottò la donna. «Ora vi faccio vedere dove sono
le brande per
dormire e poi dovete pagarmi perché se domattina fate i
furbetti e
scappate prima dell'alba io ci perdo dei soldi».
«Certamente»
fu la serena risposta dello Spettro.
La “stanza” per noi si
rivelò essere una stanza comune, con il pavimento tappezzato
di
pagliericci. A quell'ora del giorno c'era solo un uomo addormentato
in un angolo, ma sicuramente quella sera non saremmo stati soli. La
locandiera ci indicò un pagliericcio, grande lo stretto
indispensabile per stendersi in due e poi tese la mano, agitandola
impaziente. Durza la pagò, la ringraziò e disse
che sarebbe tornato
a prendere il cavallo un'oretta dopo.
«Com'è che vi chiamate voi
due? Devo scriverlo sul registro, sapete com'è.. il nuovo
catasto».
«Io sono Bitr e lui è Natt» risposi io
prontamente,
per dimostrare che avevo la lingua, almeno.
La donna annuì e se
ne andò sbuffando e imprecando contro le nuove tasse del re,
che la
costringevano a versare una quota supplementare per ogni cliente
alloggiato alla sua locanda.
Sia io che Durza sapevamo bene a cosa
servisse tutto quel denaro: vettovaglie e armamenti per un imminente
e probabile nuovo scontro contro i Varden e l'Impero. Ci scambiammo
un'occhiata significativa e ci avvicinammo al nostro
pagliericcio.
«Non mi svegliare prima della fine di questo ciclo
lunare» borbottò, gettandosi su di esso.
Anche io ero piuttosto
esausta. «Fammi spazio».
«Lo farei se ce ne fosse» sorrise lui
con gli occhi chiusi, intrecciando le mani dietro la nuca.
In
effetti il materasso era a largo a malapena per due bambini e in
alcuni punti la stoffa era lacera e lasciava intravedere
l’imbottitura di paglia.
«Sarebbe stato meglio avere una stanza
solo per noi, con una porta da chiudere» borbottai,
«quella ha
guardato il tuo sacchetto di monete come un corvo guarda un
cadavere».
Durza sollevò un angolo della bocca ed un
sopracciglio. «Vuoi restare sola con me, Bitr?»
«No» lo
freddai, «voglio stare su quel pagliericcio senza di te, ma
dato che
siamo due, dovremo stringerci».
A quel punto aprì gli occhi e mi
guardò con curiosità. «E non ti
scandalizza l’idea di dormire
con un uomo con il quale non sei sposata da almeno due
secoli?»
«Molto divertente e maturo».
«Sei tu che fai
passare queste idee».
Lo scostai leggermente di lato con un piede
e mi distesi in senso opposto al suo, badando bene di stargli
lontana. Lo Spettro rinunciò a scherzare e parve
appisolarsi, io
sciolsi le membra e mi godetti la morbidezza del pagliericcio,
sapendo bene che la nuda terra avrebbe ospitato il mio riposo per
altri giorni ancora.
Non era ancora passata un'ora quando Durza
parve riscuotersi all'improvviso e si alzò di scatto.
«Vado a
cercare un'acquirente per il cavallo, tu aspettami qui, dovrei
tornare presto» disse infilandosi gli stivali.
«Ti accompagno»
risposi e feci per alzarmi.
«No tu aspetta qui!»
«Come? Vuoi
lasciarmi in una locanda?»
Indossò il mantello. «Arya»
bisbigliò, «ci metterò pochissimo,
davvero. Tu aspetta qui,
prenditi qualcosa da mangiare e riposati, da stanotte dovremo
cominciare a correre».
Oltrepassò la porta, ma poi si riaffacciò
all'improvviso. «Ah e.. bada anche ai nostri
bagagli» aggiunse, per
poi sparire definitivamente oltre la soglia.
Con uno sbuffo
seccato mi lasciai cadere sul letto e chiusi gli occhi.
Tanto
valeva dargli ascolto e aspettarlo lì.
[Durza]
Già mentre
abbandonava la stanza e scendeva le scale sentiva un forte mal di
testa martellargli le tempie. Il buonumore che lo aveva accompagnato
dal mattino andava scemando mentre si avvicinava alle stalle per
recuperare Mor, il cavallo.
Forse una ragione c'era: ora che si
avvicinava il momento di incontrare il suo uomo sentiva salire un po'
di tensione.
Aveva mentito quando aveva detto ad Arya di voler
arrivare fino a Taurida a cavallo solo per lasciarla riposare.
Semplicemente aveva un appuntamento con la sua spia nelle ore tarde
del pomeriggio di quella specifica giornata, ed era un appuntamento
che non poteva mancare. Senza contare che non avrebbe retto un'altra
giornata a Gil'ead, sommerso dalle pressioni.
Tirandolo dolcemente
per le redini, condusse Mor via dalla locanda, concedendogli qualche
carezza rassicurante quando l'animale parve irritato dai rumori della
città.
Non conosceva troppo bene Taurida, c'era stato in poche
occasioni. Aveva ben chiara solo la posizione delle caserme, lungo le
mura cittadine, del palazzo del governatore al centro della
città e
un paio di vicoli malfamati dove anche Durza lo Spettro sarebbe
passato inosservato, senza dover ricorrere a mutamenti o a stupidi
falsi nomi quali Natt.
Quel nome aveva un suono ridicolo, lo aveva
scelto l'Elfa per lui quindi gli aveva probabilmente affibbiato
quell'appellativo per vendicarsi.
Ma in fondo avevano stretto
un'alleanza e, salvo brutti ricordi dei mesi precedenti, non c'era
motivo per lei di avercela con lui. O almeno non ce ne sarebbe stato
fino a che non avesse messo in atto il piano che aveva studiato e che
sarebbe partito dopo la morte di Galbatorix.
Arya era la sua
rivale naturale.
In qualche oscura maniera gli era piaciuto
torturarla, farla oscillare sul filo della pazzia e della morte e poi
trarla in salvo all'ultimo istante. Forse in quel momento non aveva
alcun interesse a farle del male, anzi, era divertente provocarla e
avrebbe volentieri baciato altre mille volte la sua bocca
imbronciata, ma era destino che arrivassero allo scontro e le
schermaglie verbali e i duelli con le spade non erano che un piccolo
assaggio. E se da un lato temeva quel momento e il suo avvicinamento,
dall'altro non vedeva l'ora.
Gli spiriti, ridotti a sussurri nella
sua mente, avevano sete del sangue della principessa elfica e non gli
avrebbero dato pace fino a che non l'avesse uccisa. A dire il vero
non gli avrebbero mai dato pace e basta perché, anche in
quel
momento, le pulsazioni alla testa si fecero più forti e
sentì un
forza interiore comandargli di prendere vite, maciullare ossa e
assaggiare sangue.
Durza resistette a quella tentazione come si
resiste al desiderio di grattarsi un punto del viso che prude, con
fatica e con la sensazione che se lo avesse assecondato non sarebbe
successo nulla di male. Ogni persona che accidentalmente lo urtava
diventava una plausibile vittima e tuttavia ignorò ancora
quell'istinto.
Lo Spettro non impiegò più di mezz'oretta a
raggiungere il luogo prestabilito. Si trattava di un vicoletto
stretto e puzzolente, quasi totalmente deserto. Subì qualche
occhiata fin troppo incuriosita da parte di uomini sinistri riuniti
in piccoli gruppi, ma il lungo pugnale faceva bella mostra di
sé,
senza fodero, alla sua cintura, e la sua mano inquieta poggiata sul
pomolo insieme alla sua corporatura robusta erano una garanzia
sufficiente per tenere lontano interlocutori indesiderati.
Bussò
ad una porta male in arnese. Due colpi lenti, tre rapidi e un breve
tamburellare con le nocche.
La porta si aprì di una fessura, poi
si spalancò del tutto e Durza entrò trascinando
con sé Mor.
Anche
il povero animale portava il fardello di un nome orribile, ma la
colpa era tutta di Hillr, essendo quello il suo cavallo.
«Tu sei
l'uomo che devo incontrare?» chiese l'ometto dagli occhi
sfuggenti
che lo aveva fatto entrare.
«Sì».
«Io sono Praell».
«Non
ritengo necessario che tu sappia il mio nome» rispose Durza
glaciale, lasciandogli le redini di Mor in mano e dirigendosi verso
un tavolo di legno attorniato da grezzi sgabelli treppiede, dove si
accomodò. Le spie che ingaggiava non conoscevano mai il
mandante e
lui le incontrava sempre sotto false spoglie, così le trame
di
Durza, governatore di Gil'ead, rimanevano segrete.
«Posso almeno
sapere per chi stiamo lavorando?» chiese l'uomo a quel punto,
raggiungendolo.
Lo Spettro posò sul tavolo un corposo sacchetto
di monete. «Se ti basta come risposta ti prego di riferirmi
in
fretta tutte le informazioni che hai».
Praell raccolse il
sacchetto, lo soppesò, e poi annuì. «Ho
un amico a Therinsford che
circa una settimana fa era in visita da un parente a Carvahall, il
paese che mi è stato chiesto di tenere d'occhio. Ha
raccontato cose
incredibili, a quanto pare ci sono state strane visite in paese: due
uomini in nero puzzolenti, che se ne andavano in giro a fare domande
su una pietra blu. Il macellaio, un certo Sloan, ha detto di averla
vista tra le mani di un ragazzino e quanto pare deve averlo detto
anche con quei tali perché la casa dello zio del ragazzo
è stata
trovata rasa al suolo, con il vecchio intrappolato sotto».
«E il
ragazzo?» domandò Durza, senza riuscire a
trattenere un fremito di
eccitazione.
«Il ragazzo ha portato lo zio moribondo fino al
villaggio, ma anche lui era ferito. Ferite strane e profonde mi hanno
detto, tra le cosce, come una verginella che ha cavalcato delle
rocce». E scoppiò a ridere per la sua battuta.
Ma lo Spettro non
lo sentiva più. Ci sono pochi animali che puoi cavalcare
senza sella
ferendoti le gambe a sangue, e uno di quelli era un drago.
Chiuse
gli occhi. L'uovo di zaffiro aveva trovato il suo cavaliere, il primo
da cento anni. Era una notizia sensazionale, notizia di cui il re
doveva essere ormai al corrente se i suoi messi avevano fatto il loro
dovere, volando dritti a Uru'baen.
«Che ne è stato degli uomini
in nero?» domandò, interrompendo lo scoppio di
ilarità del suo
informatore.
«Spariti» fu la risposta laconica.
«Nessuno sa
dove e nessuno gli è andato dietro. Insomma hanno tirato
giù una
fattoria! Si vede che qualche trucco magico lo conoscevano».
Bene.
Poteva significare solo una cosa: il nuovo cavaliere era ancora
libero da qualunque vincolo di fedeltà e se fosse riuscito a
trovarlo per primo, avrebbe potuto assicurarsela lui stesso. Poi
però
si ricordò di Brom. Se il vecchio cavaliere si fosse preso
la bega
di guidare e addestrare il nuovo venuto le possibilità si
riducevano.
Doveva mandare qualche manipolo di Urgali nelle città
vicine, per intercettare il loro passaggio. Se era con Brom, il
cavaliere si sarebbe diretto immediatamente a sud, tra le braccia dei
Varden; era improbabile che cercassero rifugio tra gli elfi dato che
i rapporti tra le due forze si erano raffreddati.
«Il
nome?»
«Come?» domandò Praell confuso.
«Il nome del
ragazzo!» rispose iroso. «Lo hai saputo?»
L'uomo annuì. «Un
certo Eragon.»
Eragon! Il primo cavaliere! Non poteva esserci
nome migliore per il primo esponente della nuova stirpe.
«Come
hai avuto le notizie così in fretta?»
«Corvi» fu la pronta
risposta.
«Quindi dei corvi giravano per Alagaësia con delle
informazioni simili appese alle loro zampette?» il tono dello
Spettro si fece irato e sentì la sete degli spiriti
risvegliarsi e i
denti farsi appuntiti.
«No, non sono mica scemo!» fu la
baldanzosa risposta di Praell. «Le mie spie usano un codice,
guarda». E si frugò in tasca, tirandone fuori una
piccola pergamena
ricoperta di segni indecifrabili.
«Bene» rispose Durza secco, ma
la sete non passava.
«Mi hai preso per un pivello?» riprese
l'uomo, sprezzante. «Dovresti dire al tuo capo di pagarmi di
più
invece, guarda che il compenso che mi hai dato oggi lo devo dividere
con il tizio che da Therinsford mi ha procurato le indiscrezioni. Non
me ne frega un accidente se vuole fare il misterioso, ma io sono un
professionista e non è la prima volta che chiede i miei
servigi e ha
da me tutto ciò che desidera. Potrebbe essermi un po' grato
almeno,
no? Invece manda te che stai qua a trattarmi come uno stalliere
e..»
Ma non terminò mai la sua sfuriata. Lo Spettro gli
saltò
alla gola, con la rapidità e le movenze di un felino,
conficcando i
denti appuntiti della carne tenera e squarciandola. Vide
l'espressione atterrita e terrorizzata dell'uomo mentre la luce
lasciava i suoi occhi e cercava invano di gridare, con le corde
vocali distrutte.
Poi fu il turno del pugnale, che si conficcò
infinite volte nella sua carne schizzando di sangue il viso, i
capelli e il busto di Durza. Tuttavia non si fermò fino a
che non
sentì le voci eccitate dei suoi spiriti scemare lentamente.
Sotto
di lui il corpo di Praell giaceva immobile e scomposto, interamente
ricoperto di sangue e di raccapriccianti e profonde ferite.
Senza
scomporsi, lo Spettro si alzò e diede uno strattone al
pugnale, per
scrollarlo del sangue e poi lo ripulì con un incantesimo. Lo
stesso
fece con la pelle del viso, i capelli, il mantello, la casacca, i
pantaloni e anche gli stivali.
Tornò poi al tavolo e recuperò il
sacchetto di monete, bruciò la pergamena in codice e se ne
andò,
chiudendosi la porta alle spalle e tirando con sé Mor,
agitato
dell'odore del sangue.
Durza soppesò la situazione. Ogni tanto
gli capitava di perdere il controllo sulla parte più
bestiale che i
suoi ospiti risvegliavano e del resto era da parecchio che non
uccideva. Se andava tutto bene nessuno avrebbe trovato il corpo fino
all'indomani mattina e nessuno avrebbe potuto fornire una sua
descrizione perché aveva girato per il vicolo con il volto
coperto.
Senza contare che in quella zona della città l'omicidio
doveva
essere l'ordine del giorno.
Si premurò di andare a vendere il
cavallo nella parte opposta della città, ad un compratore
diretto
proprio a Gil'ead. Mor parve quasi contento di passare ad altre mani
e lo Spettro non lo biasimò.
A quel punto il sole era calato da
un pezzo e il freddo si era intensificato. Durza si
incamminò verso
Il
muschio verde
dove Arya lo stava aspettando ormai da ore.
Avrebbe fatto domande,
e molte anche, e lui avrebbe mentito, come al solito.
Non voleva
che l'elfa sapesse troppo di quello che stava macchinando, per lei
stavano andando a Dras-Leona e basta.
Si fermò a comprare due
zaini e una volta tornato alla locanda pagò la vecchia
affinché li
riempisse di provviste. La donna non si risparmiò di
rimproverarlo,
informandolo che se avesse tardato qualche minuto in più lo
avrebbe
chiuso fuori dal portone. Durza si impose di ignorarla e quando
finalmente lo lasciò andare si incamminò per le
scale lentamente,
all'improvviso turbato all'idea di rivedere l'elfa, come se
guardandolo avesse potuto scoprire in un attimo i suoi segreti e
rimproverarlo per ciò che aveva fatto quel pomeriggio.
Trovò la
stanza più affollata, con il camino acceso e un lieve brusio
di
sottofondo, anche se la maggior parte dei presenti dormiva.
Lei
era seduta a gambe incrociate sul pagliericcio a loro assegnato e lo
guardava con espressione rabbiosa e altezzosa insieme. Lineamenti
umani o no, per lui rimaneva bellissima e indomita.
Come si poteva
pensare di mentire ad una donna del genere?
[Arya]
Feci
come mi aveva detto Durza: mangiai qualcosa di caldo, mi distesi sul
pagliericcio a riposare e lo aspettai.
Lo aspettai per un'ora, poi
due, poi tre.
Ormai non ero più sola nella stanza, ma feci finta
di dormire a lungo, stringendo a me le bisacce affinché
nessuno
provasse a sottrarmele.
Quando finalmente sentii la voce dello
Spettro al piano di sotto mi tirai a sedere di scatto, furiosa. Mi
aveva lasciata lì per delle ore, per andare a fare
chissà cosa e
sicuramente non se la sarebbe cavato propinandomi due scuse da
quattro soldi.
Ma l'uomo che aprì la porta del dormitorio pareva
quasi spaventato e fissò i miei occhi con riluttanza.
«Dove sei
stato?» sibilai non appena mi si parò di fronte.
«Mi sono..» mi
bloccai appena in tempo. Stavo davvero per dire che mi ero
preoccupata?
Durza sedette accanto a me e sorrise titubante. «Ti
sei cosa?»
«Annoiata a morte!»
«Mi sembrava di averti detto
di riposare».
«L'ho fatto! Ma tu mi avevi detto che saresti
tornato in un attimo e invece sei stato fuori per delle ore!»
«Mi
dispiace, la contrattazione è stata più lunga del
previsto».
Abbassò la voce ad un sussurro mano a mano che i clienti
della
locanda si appisolavano.
Finsi di credergli e gli presi dalle mani
gli zaini. «Quando vuoi partire?» mormorai.
«Quando tutti si
saranno addormentati prepariamo le nostre cose e ce ne
andiamo».
«Va
bene» approvai e mi concessi un sospiro per scaricare il
nervosismo.
Ma quando ispirai un odore metallico mi riempì le
narici, proveniva da dallo Spettro e non era certamente quello del
suo pugnale.
Proprio in quel momento Durza si sfilò gli stivali e
slacciò il mantello, mettendosi comodo. Gli posai una mano
aperta
sul petto, bloccandolo.
Lo Spettro sollevò un sopracciglio,
perplesso, e fissò la mia mano. «Che stai facendo
Ary.. Bitr?»
Gli
sbottonai la casacca scura e la macchia di sangue sulla sua camicia
bianca mi colpì come un pugno in un occhio. Alzai su di lui
lo
sguardo più indifferente che potevo esibire e lo spintonai
con la
mano che era ancora appoggiata sul suo torace.
Ecco, fantastico!
Mentre io languivo in una squallida locanda lui spariva un intero
pomeriggio per dedicarsi all'omicidio e osava anche mentirmi.
Durza
si riabbottonò rapidamente la casacca e gettò uno
sguardo
circospetto per la stanza.
Aprii la bocca per ricoprirlo di
insulti, ma mi colse di sorpresa stringendomi forte le braccia
intorno al corpo e ribaltandomi con lui sul materasso.
La sua
bocca raggiunse il mio orecchio. «Non essere sciocca, ti
spiegherò
tutto, ma non è il caso di fare insospettire
qualcuno»
bisbigliò.
«Sei un verme e un bugiardo» ringhiai in
risposta.
«Non ne possiamo parlare adesso, Principessa». Il
suo
fiato e le sue labbra mi sfiorarono il collo ed ebbi un involontario
fremito, di cui mi vergognai immensamente.
Sentivo la rabbia
bruciarmi lo stomaco e la delusione stringermi la gola, ma mi imposi
di non dire o fare nulla e mi lasciai andare inerte tra le sue
braccia, mentre il suo respiro alla menta continuava a scivolarmi
indiscreto sulla pelle e il suo corpo, che puzzava ancora di sangue,
premeva contro il mio.
Non dovemmo restare così a lungo perché
gli esseri umani intorno a noi caddero presto nelle spire del
sonno.
Puntellandomi sullo stomaco di Durza, mi staccai finalmente
da lui, nervosa e un po' in imbarazzo.
Trasferimmo il contenuto
delle bisacce negli zaini e legammo le coperte per la notte
all'esterno di essi. Con il mio pugnale tagliai una striscia del
lenzuolo del nostro pagliericcio e feci una fasciatura lenta ai
piedi. Gli stivali di pelle erano nuovi e avevo paura che mi
riempissero le piante di vesciche. Intanto che lo Spettro finiva di
preparasi composi i miei capelli scarmigliati in una coda alta.
Il
lungo sacco che Durza mi passò mentre scendevamo piano le
scale
conteneva la mia spada e la assicurai al mio zaino con dei legacci
così da non doverla tenere a cintura, dove era piuttosto
ingombrante
per la corsa.
Giunti al portone della locanda sollevammo il
chiavistello e fummo per strada, dove un vento gelido che annunciava
neve frustò prepotente i nostri abiti.
Seguii Durza, che
camminava con sicurezza in direzione delle mura, in un punto ben
preciso. Solo quando fummo vicini capii: il portone della
città
veniva chiuso al tramonto e l'unico modo per uscire era scavalcare le
mura, che per nostra fortuna non erano troppo alte ed erano
costituite da pietre irregolari che permettevano una faticosa ma non
impossibile scalata. Dal punto in cui eravamo noi un grosso albero
dai rami scheletrici offriva un buon appiglio per cominciare ad
arrampicarsi.
Lo Spettro insistette perché salissi prima io e non
mi ribellai, del resto era troppo buio perché potesse anche
solo
pensare di sbirciare sotto la mia gonna quindi sicuramente non era
quello il suo movente. Inoltre preferivo che fosse lui a dovermi
prendere al volo nel caso fossi caduta -anche perché era
l'unico dei
due a poter disporre della magia- e non viceversa.
La salita fu
ostacolata del freddo, che rese le mie mani intorpidite e le pietre
gelate e scivolose. Inoltre fummo obbligati a fare delle soste ogni
volta che una guardia passava dal camminamento sopra di noi.
Ebbi
la fortuna sfacciata di non scivolare mai, ma quando mi issai oltre
il parapetto avevo i muscoli delle spalle piuttosto indolenziti e una
breve occhiata alle mie mani mi informò che le mie unghie si
erano
spezzate tra una pietra e un'altra e ora sanguinavano, ma grazie al
freddo non sentivo particolare dolore.
Durza legò una corda lunga
ad un merlo e si calò dalla parte opposta, scomparendo
nell'oscurità. Quando sentii il verso artificioso di un gufo
lo
presi per un segnale e lo seguii.
La corda terminava a qualche
metro da terra, intravedevo la neve luccicare sotto di me, quindi mi
buttai con sicurezza al suolo, mantenendo a fatica l'equilibrio.
Lo
Spettro mormorò qualche parola e la corda si sciolse da
sé,
arrotolandosi tra le sue mani.
Una mano gelata mi sfiorò il
mento. «Corriamo piccola Elfa, se hai difficoltà a
vedere
concentrati su di me e cerca di seguire i miei passi».
«Tu vedi
così bene?» mi stupii. Io riuscivo vagamente a
percepire i contorni
delle cose, ma la notte era veramente troppo buia per poter pensare
di correre.
«Io vedo quasi perfettamente» rispose.
Scossi la
testa. «Io non vedo quasi nulla, Durza».
Sospirò. «Dammi la
mano». E fece scorrere la sua sul mio braccio, fino a
stringermi le
dita. «E cerca di tenere il mio passo» concluse.
Sbuffai. «Tu
cerca di tenere il mio
piuttosto» ribattei.
Il tempo di sentire la sua risatina e
partimmo correndo, prima lentamente, poi sempre più veloci.
I
muscoli delle mie gambe si tendevano al massimo, finalmente; l'aria
fredda mi congelava il viso e mi faceva bruciare gli occhi e la gola;
i miei capelli fluttuavano alle mie spalle; il mondo era avvolto nel
silenzio pulito della neve che cade e la mia mano destra era calda
tra quella sinistra dello Spettro.
Così, un passo dopo l'altro,
abbandonammo il sentiero e corremmo liberi da ogni pensiero in
direzione di Dras-Leona.
______________________________________________________________________________________________
Piccola nota: Durza! Paolini ha spesso specificato in interviste varie che gli spettri non possono che fare del male, è nella loro natura. Tuttavia ho ben presente lo spettro che viene creato in “Brisingr”, Varaug. Da come viene descritto pare quasi che un neo-spettro non possa controllare affatto il suo corpo (e in effetti Varaug parla al plurale, come se fossero i suoi spiriti a farlo per lui), mentre a mio avviso Durza riscontra questa capacità in “Eragon”, è sopratutto un individuo, con la sua boria e la sua sicurezza, non tanto un corpo manovrato da altri. Ho strutturato il mio personaggio di Durza seguendo questa idea: che con il passare del tempo sia sempre più facile controllare gli impulsi dati dagli spiriti, anche se impossibile sottrarsene totalmente (anche perché poi non parleremmo più di cattivoni, no? ;)
Grazie a chi mi segue/ mi recensisce/ mi preferisce/ mi scrive solo in privato! Ci vediamo tra una settimana con un capitolo che, vi giuro, sarà più corto! xD
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Capitolo 17 *** Dras-Leona ***
17.
Dras-Leona
Corremmo
incessantemente fino a che i primi chiarori dell'alba non
illuminarono il mondo della luce sufficiente per vedere con assoluta
chiarezza l'ambiente intorno a noi. O almeno, fino a che io
non vidi chiaramente l'ambiente intorno a noi.
La notte aveva
portato con sé un po' di neve, che in quel momento ricopriva
leggera
il terreno già ghiacciato.
Quando lo Spettro si fermò dovetti
trattenere un sospiro di sollievo: ero insonnolita, i muscoli delle
gambe mi dolevano e il braccio allungato nella direzione di Durza era
tutto contratto per la lunga e scomoda posizione.
Posizione che,
mi resi conto solo in quel momento, avrei potuto abbandonare con
serenità già un paio di ore prima siccome la luce
era da tempo
sufficiente per permettermi di indovinare i contorni delle
cose.
Tuttavia, prima di lasciarmi la mano, lo Spettro depositò
un canzonatorio bacio sulle mie dita, accennando un inchino.
Ritirai
il braccio con rabbia. Se pensava che qualche moina mi avrebbe fatto
dimenticare le vicende della sera precedente si sbagliava. Mi aveva
voluta come alleata? Allora era suo dovere essere onesto con me,
almeno per ciò che concerneva quella nostra missione in
sodalizio.
«Sto ancora aspettando le tue spiegazioni» dissi,
secca.
Durza parve non sentirmi, si passò una mano tra i capelli,
ricoperti di piccole perle di ghiaccio, e se li scrollò con
un
sorriso divertito sulle labbra pallide.
«Durza!» ringhiai, al
limite della proverbiale pazienza elfica.
Lo Spettro sbuffò. «Non
ti risponderò, Arya. Sì, lo so che ti ho detto
che ti avrei dato
delle spiegazioni e ho intenzione di mantenere la parola, credimi, ma
non ti dirò tutto quello che mi è successo ieri,
per il semplice
fatto che non ti riguarda. Diciamo che stavo facendo gli affari miei
quando un uomo mi ha provocato, mi ha infastidito e ha trovato la
morte che si meritava».
«Stavi facendo gli affari tuoi, o stavi
lavorando ad affari loschi?»
Durza scostò gli occhi dai miei.
Centro!
«Ti
prego non farmi domande a cui non posso e non voglio
rispondere» fu
il commento aspro. Si sfilò lo zaino dalle spalle e prese a
mormorare Brisingr
per liberare uno spiazzo dalla neve.
«Gli affari tuoi sono anche
i miei ora. Dubito che si trattasse di qualcosa che non aveva a che
fare con quello che stiamo progettando adesso».
Vidi che
continuava ad ignorarmi e mi avvicinai a lui, afferrandogli una
ciocca di capelli vermigli. I suoi occhi, all'improvviso color
sangue, mi fissarono pericolosi.
«La nostra alleanza può dirsi
conclusa, allora». E feci per andarmene.
Mi afferrò per un
gomito. «Ho incontrato un informatore e l'ho ucciso
perché ormai
sapeva troppe cose. Era necessario» disse, palesemente
controvoglia.
«E che informazioni hai avuto?» chiesi
scettica.
«Non buone. Il re ha raggiunto Carvahall e sta cercando
la pietra».
Mi gelai sul posto. «Credevo che avessi tenuto
quell'informazione per te! Perché lo hai detto al
re?»
«Come se
avessi scelta, Elfa!» sibilò e vidi un lampo di
umiliazione nei
suoi occhi.
Deglutii. «Devo avvertire assolutamente Brom!»
«No,
non puoi. Ragiona, un messaggio di qualunque natura attirerebbe solo
l'attenzione. Se il tuo Brom ha trovato l'uovo che gli hai
gentilmente spedito, avrà avuto l'accortezza di metterlo al
sicuro,
magari lasciando Carvahall e portandolo con sé.
Probabilmente a
questo punto sarà già dai Varden o dalla tua
gente».
«Forse
saremmo dovuti andare a Carvahall, non a Dras-Leona»
osservai,
inquieta.
«A Carvahall bazzicano i Ra'zac, principessa. Non ho
nulla contro di loro per carità, gente simpatica, ma il loro
odore e la loro fedeltà al re non mi fanno
impazzire».
Pensai a Brom.
Se la sarebbe cavata contro i Ra'zac? Probabilmente sì, ma
ancor più
probabilmente era già lontano da Carvahall, non era uno
sprovveduto.
Rabbrividii e per la prima volta da quando avevo lasciato Gil'ead
sentii di aver preso la scelta sbagliata.
Lo spettro stese a terra
le sue coperte e mi rivolse un sorriso, che parve voler essere
rassicurante.
«Vieni a dormire un po' Arya».
«Hai abolito i
falò?» domandai, sfilandomi finalmente lo zaino
dalle spalle e
sganciando la spada e le coperte.
«Ormai è giorno, il freddo non
è così terribile, e nel caso il gelo fosse
insopportabile puoi
avvicinarti a me». Percepii un sorriso di scherno nel tono
della sua
voce.
«Non ne avrò bisogno, grazie» dissi, e
mi infilai sotto
le coperte a un paio di iarde da lui, dandogli le spalle.
«Puoi
anche prenderti delle libertà se lo desideri».
«Durza non sei
stanco di questi giochetti?» ribattei, nascondendo a fatica
l'esasperazione.
«Tu assecondami, non sarà troppo difficile,
no?» rispose lui ridendo.
Tacqui. Era la prima volta che -anche
se in maniera indiretta- faceva riferimento alla notte in cui era
strisciato nella mia cella sanguinante e mi aveva baciata. A quel
ricordo si aggiunse quello del bacio che mi aveva rubato giusto
qualche ora prima davanti alla locanda, quello del suo respiro che mi
sfiorava il collo sul pagliericcio e quello della sua mano stretta
forte nella mia.
Cosa stava cercando di fare Durza? Se pensava che
con un paio di mosse da seduttore consumato mi avrebbe incantato,
allora non sapeva proprio niente di me.
Ma era quello il vero
problema: da quel punto di vista mi conosceva meglio di chiunque
altro al mondo, aveva avuto una prova concreta della mia tenacia e
quindi doveva essere consapevole del fatto che qualunque sua mossa
non avrebbe cambiato il mio atteggiamento nei suoi confronti.
Forse
per lui era veramente solo un gioco.
E forse gli sfuggiva che
poteva essere benissimo giocato in due.
Quanto potere avevo su di
lui? Poco, ma un po' sì. E forse potevo giocarmelo con
intelligenza
e tirarlo completamente dalla mia parte.
Scossi la testa tra me e
me. Durza era testardo almeno quanto lo ero io e su quello non
avrebbe ceduto, quindi era inutile umiliarmi di fronte a lui,
assecondandolo.
Che
continuasse pure a fare l'arrogante impertinente, la cosa non mi
avrebbe toccata.
Forse ero riuscita a riposare per un'ora
quando
la visione che mi era ormai familiare mi assorbì
completamente.
Ma
questa volta comparve anche Durza.
Era completamente coperto di
sangue e pugnalava con cattiveria un corpo che giaceva a terra,
inerte tra le sue ginocchia. Gli occhi dello Spettro erano spiritati
e sembrava sudare sangue dalla fronte.
Poi una luce improvvisa
illuminò il volto della sua vittima.
Ero io.
«Questo è un
avvertimento» cantilenò Fäolin
ferocemente e i suoi lineamenti si
fusero con quelli di Durza.
Il
tocco di una mano gelida sul viso mi catapultò bruscamente
alla
realtà. La mia condizione era la solita di tutte le notti:
ero
sudata eppure tremavo di freddo, la testa mi doleva e le mie ciglia
erano umide delle lacrime che non mi ero accorta di aver
versato.
Sentii un fruscio alle mie spalle e mi voltai spaventata,
giusto il tempo per vedere Durza allontanarsi da me e tornare al suo
giaciglio.
Per l'ennesima volta fui felice che non accennasse a
quella mia debolezza e gli fui riconoscente per avermi svegliata.
Non
volevo chiudere gli occhi. Mai più.
E in effetti per il momento
non lo feci, nonostante fossi stanca. Mi limitai a rilassare le
membra e anche quello mi permise di recuperare un po' di forze.
Un
paio d'ore dopo il sole era ormai sorto, ma era nascosto dietro
pesanti nuvole grigie e l'aria rimaneva fredda. Lo Spettro si
svegliò, si stirò come un gatto e poi
scattò agilmente in
piedi.
«Buongiorno madamigella! Pronta a correre per qualche
altro miglio?»
Non mi guardò, ma sorrise a fior di
labbra.
«Pronta» risposi, laconica.
Ricominciammo a
correre.
Quella sera mi ritrovai mio malgrado a chiudere gli
occhi, stremata. Non dovevo dormire, non dovevo dormire, non dovevo
dormi..
Quando mi svegliai dalla visione il mio panico fu
ulteriormente amplificato dall'assenza di rumore. Oltre al mio
respiro affannato c'era un silenzio inquietante.
E Durza non era
disteso accanto a me. Un terrore cieco mi si riversò nel
petto e per
poco non balzai in piedi a gridare il suo nome. Cercai di dominarmi,
mi alzai in piedi, sfoderai la spada e il pugnale e mi avventurai tra
gli alberi del boschetto dove eravamo accampati. Non trovai neanche
un'impronta nella neve.
Camminai in cerchio nella luce grigia del
mattino per una decina di minuti, allontanandomi sempre di
più dai
nostri zaini, poi sentii un respiro davanti a me e mi diressi con
decisione in quella direzione.
Durza era seduto a terra, incurante
della neve che gli bagnava i vestiti, aveva gli occhi chiusi e le
dita sulle tempie. E sembrava che non mi avesse sentita
arrivare.
All'improvviso mi ritrovai a non sapere cosa
fare.
[Durza]
Non sapeva cosa fossero esattamente quegli
strani attacchi che prendevano l'elfa ogni volta che pareva
addormentarsi. Sapeva solo che se i primi giorni era bastato fare un
po' di rumore per ridestarla, la sera prima aveva dovuto scuoterla a
lungo prima che i suoi occhi bagnati di lacrime si spalancassero.
La
cosa lo turbava. Più di quanto desse a vedere.
Però sapeva che,
se avesse osato ficcare il naso negli affari di Arya, lei avrebbe
reagito come una gatta inferocita, intimandogli di non impicciarsi. E
poi gli sembrava una cosa troppo.. intima da condividere, sopratutto
con lui.
Tuttavia sentiva la gratitudine di lei ogni volta che la
svegliava.
E nonostante tutto quella notte non l'avrebbe fatto.
Non aveva alcun interesse a fare soffrire la sua ex-prigioniera, ma
doveva terminare un certo lavoretto e se l'unico modo per tenerla
fuori dai piedi era lasciarla a contorcersi in un dolore che lui non
sapeva spiegare, beh l'avrebbe lasciata lì.
Doveva mettersi in
contatto con gli Urgali che vivevano sulla Grande Dorsale, sotto il
suo diretto controllo, e mandarli in direzione di Carvahall
immediatamente. Aveva a lungo ragionato sulla direzione che dovevano
aver preso Brom e il neo-cavaliere, Eragon, ed era giunto alla
conclusione che, in ogni caso, sarebbero passati da Yazuac. Ed era
lì
che aveva intenzione di mandare il suo esercito personale. Voleva
fermarli, catturare il ragazzo e il suo drago e aggiungerli alla
babele di piccole alleanze che negli anni aveva stretto contro il
tiranno.
Capì immediatamente quando
Arya cominciò a stare male
perché il suo respiro si fece affannoso. Con qualcosa che
somigliava
vagamente a vergogna a zavorrargli il petto, si alzò e
sgusciò via
tra gli alberi. Non sapeva quanto tempo avesse, quindi tanto valeva
darsi una mossa e tornare a scuoterla dai suoi incubi.
Sedette per
potersi concentrare meglio. Il primo manipolo di Urgali era parecchio
a nord e avrebbe impiegato qualche minuto ad individuarli dato che
non li monitorava da settimane. Controllare quelle menti primitive e
violente non era stato troppo difficile, gli ricordavano sin troppo
bene una versione alleggerita degli spiriti che abitavano nel suo
cuore.
Le tribù erano più di una decina e tendevano a
darsi
battaglia ogni primavera, ma Durza era riuscito a tenerli buoni e a
riunirli sotto vari reparti, ognuno con il loro capo, e da allora non
c'erano più stati scontri tra di loro.
Si concesse un sorriso a
fior di labbra. Qualcosa di buono aveva fatto anche lui, no?
Quando
finalmente trovò il contatto con il capo del manipolo
più vicino
-in corrispondenza del lago Fläm- cominciò a
dettare rapide e
secche istruzioni nell'asprissima lingua urgali, che conosceva bene
quanto l'elfico. Ordinò loro di concentrarsi tutti nei
pressi dei
paesi del nord: Yazuac, Daret, Gil'ead e anche Ceuron. E in
particolare di formare uno sbarramento su Yazuac.
Poi diede loro
la descrizione di Brom, o almeno del Brom che conosceva quindici anni
prima, insieme all'informazione che con lui c'era un ragazzo,
giovane, con un segno luccicante sul palmo -probabilmente il destro-
e che un drago color zaffiro viaggiava con loro.
Ripeté le
istruzioni più volte: dovevano catturare il ragazzo ma non
nuocere
né a lui né al suo drago. Per quanto riguardava
il vecchio potevano
fare ciò che volevano. Per quanto riguardava gli abitanti di
Yazuac,
pure.
Stava ripetendo il tutto daccapo per la terza volta quando
la pressione di qualcosa di gelido sulla sua gola lo costrinse a
ritornare a concentrarsi sul suo corpo.
Inginocchiata nella neve
davanti a lui c'era Arya, con il viso pallido e tirato. Reggeva il
pugnale nella mano sinistra e lo teneva dolcemente appoggiato contro
la sua pelle.
«Cosa stai facendo, Spettro?»
Le sorrise,
elaborando rapidamente l'ennesima bugia. «Ho parlato con
Hillr. A
Gil'ead è tutto a posto, nessuno sospetta che Alba abbia
preso il
tuo posto e nessuno le ha fatto del male. Contenta?»
Lesse
l'indecisione nei suoi occhi, ma poi parve fidarsi di lui
perché
rinfoderò il pugnale.
«Te stai bene elfa? Mi sembri un po'
sconvolta».
Sapeva di stare toccando una piaga dolente, ma era
proprio quello il suo scopo. Arya voleva sicuramente evitare di
ammettere che qualcosa non andava, quindi avrebbe rapidamente
cambiato discorso, fingendo di dimenticare.
«Eri sparito, credevo
che un branco di lupi ti avesse sbranato» disse infatti.
Come
se fosse possibile, Principessa.
«Purtroppo
per te sono ancora intero». Si alzò e le
allungò una mano per
tirarla in piedi. Lei la ignorò e si alzò subito
dopo di
lui.
«Benissimo, allora credo che tornerò a riposare.
Ma la
prossima volta sei pregato di avvisarmi». Lo
anticipò in direzione
del piccolo spiazzo tra gli alberi dove avevano piazzato il loro
accampamento.
Restò a guardarla per qualche minuto dopo che ebbe
chiuso gli occhi. Aveva ripreso parecchio da quando erano partiti da
Gil'ead, ma aveva scritto in volto che il riposo era un lusso che
raramente riusciva a concedersi ed era convinto che, se avesse
interrotto il debole flusso di energia che le passava a sua insaputa
durante la loro corsa giornaliera, sicuramente non avrebbero
viaggiato così agilmente.
Con reticenza tolse gli occhi dai
capelli di inchiostro sparsi intorno al viso pallido,
indugiò un
istante sulle labbra screpolate e leggermente bluastre per il freddo
e poi si costrinse a chiudere gli occhi a sua volta.
Poteva
rispettare i suoi silenzi e i suoi segreti, del resto anche lui ne
aveva parecchi nei suoi confronti, ma non voleva assolutamente che un
sogno, una malattia o quel diavolo che era la sciupassero.
Oh no,
le era costata mesi di sofferenze e convincerla a diventare sua
alleata era stato ancora più difficile. Non avrebbe permesso
che una
bazzecola se la portasse via. Avrebbe aspettato ancora un po'.
E
poi l'avrebbe convinta a dirgli cosa le succedeva.
Più tardi
sognò di baciare il suo cadavere.
[Arya]
Continuando a
quel ritmo serrato, tagliando per i boschi e le pianure, lontani
dalle strade e correndo come pazzi sopratutto di notte, dopo due
giorni di viaggio avvistammo l'Helgrind in lontananza.
Il mattino
dopo avvertimmo il luccichio del lago Leona e smettemmo di correre,
rientrando nelle strade e sistemando il nostro aspetto
umano.
Costretti a mantenere un'andatura lenta, arrivammo in città
solo a sera inoltrata, quando era ormai buio.
Chiamarla città
poteva effettivamente essere un complimento. Era un caotico grumo di
case di legno talmente scuro da apparire nero.
«Dras-Leona la
fangosa» mormorò Durza, e mi parve di cogliere una
nota di sincera
soggezione nella sua voce.
Lo Spettro mi aveva svegliata ogni
volta che le mie visioni mi avevano aggredita. Ma poi, come al
solito, aveva mantenuto il silenzio sulla faccenda. Non ero una
persona espansiva e ammettevo di essere abbastanza orgogliosa,
tuttavia cominciavo a sentire il desiderio di parlare di quel mio
problema con qualcuno.
Peccato che al momento Durza fosse l'unico
possibile candidato.
Ci avvicinammo alle mura, alle quali la città
doveva il proprio infelice nomignolo. L'Helgrind era una presenza
opprimente alla mia sinistra e la vista delle guglie della
cattedrale, che riprendevano la sua struttura, mi fecero rovesciare
lo stomaco.
Istintivamente, mi aggrappai al braccio dello Spettro
e lui posò una mano sulla mia senza dire una parola.
I cancelli
erano enormi e neri come il resto della città, ingentilita
da una
spennellata di neve bianca sui tetti di legno.
«Ehi voi due
sbrigatevi!» urlò una guardia. «Stiamo
per chiudere!»
Durza mi
lanciò un'occhiata ammonitrice e iniziò a
correre, ma molto piano.
Capii l'antifona: gli umani non corrono come avevamo fatto noi negli
ultimi giorni, chiaro. Lo seguii.
Probabilmente se fossimo
arrivati di giorno, con il flusso normale di chi entrava in
città,
ci avrebbero fatto passare senza alcun problema. Invece in quel
momento avevamo ben dieci guardie con gli occhi puntati
sospettosamente su di noi.
Pensai alle spade che nascondevamo
sotto i mantelli e capii immediatamente che non ce la saremmo cavata
con un paio di rassicurazioni sulle nostre buone intenzioni.
Durza
poggiò le mani sulle ginocchia e finse di ansimare, lo
imitai
portando la mano sinistra al petto e le porte si chiusero dietro di
noi. All'improvviso mi sentii terribilmente in trappola.
«Chi
siete?» tuonò quello che doveva essere il capitano
delle guardie,
un uomo alto con i capelli biondi e sporchi legati in una coda
bassa.
Lasciai che il mio compagno di viaggio offrisse le nostre
generalità e mi guardai intorno rapidamente. Molte delle
guardie
sembravano insonnolite, oltre che sospettose. Forse c'era una minima
possibilità che ci lasciassero andare, fosse anche solo per
tornare
finalmente a casa. Probabilmente erano al termine del loro
turno.
«Quindi cercate una casa qui a Dras-Leona?» La voce
del
capitano emerse improvvisa.
«Vorremmo trasferirci qui, sì, ma
nel caso non ci piacesse l'ambiente nelle prossime settimane
proveremo a Belatona, vorremmo solo stare sul lago Leona o nei
pressi». Durza rispondeva con ferma allegria, venata di
spensieratezza. Sembrava un giovane ingenuo ed entusiasta, niente a
che fare con l'uomo micidiale che conoscevo.
«Ancora pochi minuti
e sareste rimasti chiusi fuori!»
«Oh mi spiace» fece lo Spettro
senza perdere il sorriso, «ma abbiamo avuto un paio di
intoppi da
stamattina, purtroppo la mia signora non si è sentita
bene».
Il
biondo mi guardò. «E neanche adesso mi pare tanto
in forma. Sai
parlare, ragazza?»
«Sì» mormorai, «mi dispiace
molto».
La
guardia scoppiò a ridere e i suoi compari lo seguirono,
apparentemente a caso.
«Non riesco a credere che ti sia sposato
una donna così musona» disse poi rivolto a Durza.
«Sembrate
diversi come il giorno e la notte!»
Trattenni l'istinto di alzare
gli occhi al cielo.
Poi sorrisi radiosamente. «Devo contraddirti,
sono semplicemente molto stanca. Sono solo al secondo mese, ma il
bambino comincia a pesarmi».
Ebbi modo di vedere un lampo di
sconcertata sorpresa negli occhi -in quel momento castani- dello
Spettro, prima che si decidesse a reggermi il gioco, avvicinarsi a me
e baciarmi sulla fronte.
«Andiamo a cercare una locanda» disse,
a voce abbastanza alta da farsi sentire da tutti.
«Il primo
figlio?»
«Sì» risposi, posando una mano sul mio
addome piatto.
Ma con il buio e i vestiti e il mantello sopra nessuno se ne sarebbe
accorto.
«Mi ricordo il mio primo figlio» disse il capitano
delle guardie. «Quando arrivò il momento ero
più agitato di mia
moglie». E rise.
Mi si strinse il cuore. Quelli erano i soldati
di Galbatorix: uomini normali, che facevano il loro dovere, che
avevano una famiglia a cui badare, a casa.
Uomini che avevo e
probabilmente avrei ucciso in battaglia.
All'improvviso ebbi
voglia di vomitare.
Ci lasciarono andare con i migliori auguri,
appena prima che arrivasse il drappello che doveva dare loro il
cambio per la notte.
Ricominciai a respirare solo quando fummo ad
un paio di strade di distanza. Ce l'eravamo cavata con poco,
dopotutto.
«Elfa farmi diventare padre così all'improvviso
è
stato un gran brutto colpo!» bisbigliò Durza
ridacchiando e
rifiutandosi di lasciarmi il braccio per il quale mi aveva trascinata
via dal portone. «E per di più non ricordo di aver
mai consumato il
matrimonio» concluse, gettandomi un'occhiata
allusiva.
«Probabilmente eri ubriaco, Spettro».
Lo spiazzai.
Sollevò entrambe le sopracciglia e rinunciò a
fare commenti.
«Se
non troviamo presto una locanda mi perderò tra questi
cunicoli»
disse invece.
Non aveva tutti i torti. A parte qualche lanterna
appesa saltuariamente a qualche incrocio, il buio più totale
avvolgeva la città. Le case erano tutte in legno, altissime,
e
pendevano verso il centro della strada, tanto che non era raro
trovare un palo inchiodato orizzontalmente a sostenere le due
strutture. Solo una piccolissima porzione di cielo era visibile e
ormai il debole bagliore del tramonto lo aveva abbandonato da un
pezzo.
Alla fine Durza cominciò a chiedere indicazioni ai
frettolosi passanti, ma impiegammo ancora parecchio tempo prima di
trovare un posto per dormire.
Al contrario della silenziosa
Gil'ead, a Dras-Leona pareva non esistere un coprifuoco. Io e Durza
entrammo alla Ghiandaia
impazzita
e ci ritrovammo pressati tra fitti tavoli di legno, boccali di birra
e avventori parecchio alticci. Per di più c'era un odore
insopportabile.
Raggiungemmo il bancone a fatica e lo Spettro
dovette urlare per farsi sentire sopra il baccano.
Ci trovarono
una “stanza”. Uno stanzone spoglio, senza camino,
tappezzato di
paglia. Non una coperta e non un lenzuolo a disposizione, nemmeno un
modo per separare un letto da un altro.
Fummo costretti a dormire
con le bisacce abbracciate a noi e, quando arrivò il nostro
vicino e
cominciò ad infastidirmi con complimenti non richiesti,
Durza lo
guardò con ferocia e poi mi passò un braccio
intorno alla vita. Lo
accettai, almeno teneva lontano disturbatori, e, ancora meglio, mi
riscosse con prontezza non appena la visione tentò di
accalappiarmi.
Fummo costretti a rimanere lì, pressati tra corpi
puzzolenti, fino a che il sole non fece capolino. Andarsene prima
sarebbe stato piuttosto sospetto e poi un po' di riposo in
più non
ci avrebbe certo danneggiati.
Non appena il pavimento fu
abbastanza libero da poter camminare senza pestare le membra degli
altri ospiti, ci affrettammo ad andarcene, allungando quanto dovuto
al locandiere.
«Dovremo prendere una stanza più vicina alla
cattedrale, ma non troppo, in modo da poter avvicinarci ed
allontanarci senza problemi. E in più pretendo un alloggio
decente!
Per la miseria, il denaro ce l'ho, tanto vale usarlo!»
Mi strinsi
nelle spalle. Non ero molto esperta per quanto riguardava il denaro
degli umani. Gli elfi si limitavano a scambiarsi favori e, fino a che
avevo viaggiato in veste di ambasciatrice, non avevo mai dovuto
pagare nulla, mi era sempre tutto dovuto.
Tuttavia quando Durza
comprò due focacce calde dal forno che incontrammo lungo il
cammino,
fui felice che il denaro esistesse e divorai la mia in un
istante.
Mano a mano che abbandonavamo la cerchia esterna le case
si facevano più basse e solide, ne incontrammo poi alcune in
pietra
e il culmine fu la vista del grandioso palazzo in granito del
governatore della città, un tale Marcus Tàbor.
A quel punto
eravamo decisamente nella zona più ricca della
città e fu lì che
cominciammo a cercare un'ennesima locanda da usare come base,
tuttavia nei dintorni trovammo solo case grandiose, circondate da
inaccessibili cancelli impreziositi da fiori stilizzati. Decisamente
la componente ricca della città non se la passava troppo
male.
«Dovremmo tornare indietro» osservai.
«Qui non ci sono
locande. Magari ce ne sono oltre la cattedrale, ma poi saremmo..
lontani».
Lontani dalle porte della città ovviamente.
Durza
capì bene cosa intendessi dire: non volevo rimanere chiusa
in quella
città come un topo in una sudicia trappola e sembrava
condividere il
mio stesso desiderio, tuttavia la sua proposta fu di altra
natura.
«Raggiungiamo la cattedrale e superiamola. Più ci
allontaniamo dalla cattedrale più i quartieri sono miseri,
quindi
dovremmo trovare un posto nella fascia intermedia; e lo so che
preferisci il semicerchio della città vicino alle porte.
Però nella
parte opposta alla porta della città siamo vicini al lago e
ci sono
gli scarichi delle fognature..»
Aggrottai la fronte, ma lo
Spettro mi fece cenno di seguirlo e quindi decisi di tacere. C'erano
troppe persone intorno a noi per fermarsi a discutere.
Più ci
avvicinavamo al cuore di Dras-Leona più la cattedrale
sembrava
inghiottire ogni luce intorno a noi, eppure, quando ci ritrovammo nel
piazzale al di sotto si essa, dovetti ammettere che era
grandiosa.
Non avrei saputo trovare una definizione migliore di
quella. Era alta, talmente alta che ero costretta a rovesciare il
capo totalmente all'indietro per vedere la struttura per intero.
Il
marmo nero era lucido e poco segnato dalle intemperie. La chiesa non
doveva avere più di mezzo secolo, nonostante la setta
religiosa
esistesse da tempo immemorabile. Probabilmente in assenza dei
cavalieri si erano rafforzati altri credi religiosi e quello dei
sacerdoti dell'Helgrind era antico e ora pieno di aderenti, quindi
probabilmente era anche ricco.
Quando riuscii a staccare gli occhi
dal gigantesco rosone centrale trovai gli occhi di nuovo rossi di
Durza puntati sulla mia gola, con uno sguardo rapace nelle iridi.
Sembrava sul punto di sbranarmi.
Indietreggiai automaticamente.
Lo
Spettro si riscosse all'improvviso e le sue pupille e le sue iridi
tornarono umane.
«Avrai tempo più avanti di osservarla in ogni
particolare, ora andiamo» disse, con un tono assente.
Poi si
voltò e riprese a camminare.
Un po' turbata, gli andai dietro,
portando una mano alla fodera del pugnale che tenevo a cintura sotto
il mantello.
Trovammo una locanda più che decorsa, ma non di
lusso. Era a dieci minuti dalla cattedrale e a più di
mezz'ora a
piedi dai cancelli.
E, cosa più importante, avevamo una stanza
con una serratura e una chiave, ma purtroppo con un solo letto.
Era
una camera al terzo piano e c'erano solo un paio di stanze occupate
oltre alla nostra. Meglio così.
Lasciammo i nostri zaini e le
nostre armi sulla cassapanca ai piedi del letto ed esplorammo con lo
sguardo la stanza: c'era il letto, la cassettiera, un grande catino
pieno di acqua e un paio di ganci alle pareti.
«Una stufa!
Addirittura una stufa!» esclamò lo Spettro
lanciandosi in direzione
di una stufetta di terracotta e iniziando a riempirla di piccoli
ciocchi di legna ammucchiati lì accanto.
L'accese schioccando le
dita.
Mi sedetti sul pavimento di legno accanto a lui, godendomi
il tepore delle fiamme sul viso mezzo congelato.
«Le fogne
sono..?» mi interruppi. Non volevo veramente dire quello che
stavo
pensando. «Non saranno una possibile via di fuga
vero?»
Durza
sorrise innocentemente. «Finiremmo nel lago, che è
come lavarsi
no?»
A proposito di lavarsi.. avrei veramente avuto bisogno di un
bagno.
«Va bene» concessi. «Nel caso ne avessimo
bisogno sai
dove andare con esattezza?»
«Non proprio, dovremo andare in
esplorazione anche per quelle» ammise. «Poi sarebbe
ora che
prendessimo qualche decisione pratica per quanto concerne la nostra
visita di cortesia ai Sacerdoti».
«Hai insonorizzato la
stanza?»
Lo fece, stranamente senza fare commenti. «Non volevo
andare lì e presentarmi come Durza, nel caso lo scoprissero
non
credo che sarebbe un problema, ma preferirei trattare in
incognito.»
«E come credi di poter spiegare ai sacerdoti il
fatto che un apparentemente comune essere umano vada alla ricerca di
un misterioso e potentissimo incantesimo?»
«Chiederò di poter
visitare la loro biblioteca e basta, sono certo che ne abbiano una!
Non è necessario che sappiano cosa sto cercando».
«Vorranno
certamente qualcosa in cambio» gli feci notare.
«Tutto ha un
prezzo e tutto si può comprare Principessa. Non credo che
abbiano
bisogno di denaro, ma qualche informazione su una qualsiasi
attività
del sovrano potrebbe essere una buona merce di scambio»
disse,
stirandosi pigramente le braccia.
Mi fermai un istante a
ragionare. «Quanti schieramenti tra loro indipendenti sono
contro
Galbatorix? Quante.. potenze stanno attentando alla sua
corona?»
Era
un dubbio che non mi era mai sorto prima di allora. Per tutta la mia
vita lo schieramento composto dai Varden, dai nani e dal mio popolo
era stato l'unico con cui ero venuta in diretto contatto.
Lo
Spettro fece un sorriso arrogante. «Noi siamo una, Elfa. E
non so
te, ma la componente maschile di questa potenza comincia ad avere
fame. Che ne dici di scendere e farci preparare qualcosa?»
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Capitolo 18 *** Spie e spionaggio ***
18.
Spie e spionaggio
Dovetti
darmi parecchio da fare per convincere l'oste che non mangiavo carne
non perché non la volessi ma perché lo speziale
mi aveva detto di
moderarla a causa del “bambino” che ipoteticamente
portavo in
grembo.
Era una sciocchezza, ovviamente, e stava in piedi a
stento, ma l'uomo finì per stringersi nelle spalle e
borbottare un:
«Ognuno ha il mestiere suo, sicuramente lo speziale sa quello
che
fa».
Gli sorrisi candidamente, annuendo con convinzione.
Ma
perché gli uomini consideravano la carne una tale
prelibatezza?
Mangiarla significava fare festa per loro, non capivano quanto fosse
terribilmente disgustoso?
E non avevo ancora visto il peggio,
perché Durza sembrava condividere quella passione con gli
esseri
umani e quando la sua porzione arrivò vi si gettò
sopra con
voracità.
Mentre sorbivo la mia zuppa di verdure, osservai lo
Spettro con un moto di disgusto. Stava mangiando con le mani un pezzo
di carne untuosa, aveva le dita lorde e il grasso gli gocciolava dal
mento. L’odore di cadavere cucinato mi pizzicava il naso fino
a
darmi la nausea.
«Che schifo!» sibilai. «Ti auguro di
morire di
gotta».
Durza mi guardò con divertita perplessità.
«Mi
guarirei, principessa» rispose ridendo. Allungò un
pezzo di carne
nella mia direzione. «Dovresti assaggiarla, invece».
Indietreggiai,
raspando con la sedia sul pavimento e attirando un paio di sguardi di
avventori spaventati dal rumore.
«In teoria dovremmo evitare di
attirare l'attenzione, Bitr» bisbigliò Durza
pianissimo.
Annuii
e tornai al mio piatto in silenzio.
Il proprietario della locanda
volle essere pagato in anticipo e lo Spettro gli consegnò il
denaro
sufficiente a tenere la stanza per una settimana.
Rimasi un po'
turbata quando Durza mi spiegò che il nome del locale -L'Avvoltoio-
altro non era che un soprannome popolare per i sacerdoti della
religione dell'Helgrind, dovuto alla loro abitudine di vestire sempre
di nero.
Più tardi, quando era ormai ora di pranzo, noi avevamo
già mangiato da un pezzo e, i pugnali nascosti sotto i
mantelli, ci
avviammo in direzione opposta alla cattedrale, verso il lago
Leona.
Avevamo deciso di cominciare cercando l'uscita di emergenza
costituita dalle fognature. Non che l'idea mi entusiasmasse, ma
andare direttamente alla cattedrale mi entusiasmava ancora meno, fui
anzi felice di averla alle mie spalle.
«Dovremmo trovare una
botola per calarci» osservai.
«Già! E la troveremo nei
quartieri più malfamati della città» fu
l'allegra
risposta.
«Credevo che non conoscessi Dras-Leona».
«La
conosco molto bene, invece. Diciamo che non ho mai dovuto prendere
l'uscita di servizio per andarmene di qui. Ma del resto non ho mai
avuto nulla da discutere con i Sacerdoti, mentre questa volta il
rischio è molto più alto».
«Eppure sai da dove possiamo
entrare nelle fogne».
Sbuffò, si portò una mano al petto ed
estrasse una pergamena ripiegata da sotto il mantello.
«Da'
un'occhiata» disse porgendomela.
Era una mappa di Dras-Leona, ma
decisamente non una mappa convenzionale. In inchiostro rosso erano
vergate sottili linee che attraversavano disordinatamente quasi tutta
la parte centrale della città, creando una griglia, mentre
un'altra
più spessa la tagliava in due. Le fognature.
«Come l'hai avuta?»
domandai restituendola e nascondendo immediatamente le mani sotto i
vestiti. Si gelava.
«Sono pieno di risorse» rispose sorridendo e
nascondendola nuovamente.
«Fammi capire: hai la mappa, hai la
magia per aprire qualsiasi botola quindi non ti serve una chiave..
che cosa andiamo a fare?»
Schioccò la lingua contro il palato.
«Purtroppo sei intelligente. Andiamo ad incontrare una
persona che
ci spiegherà qualcosa sui Sacerdoti».
«E non potevi dirmelo
subito?» La mia voce aveva un'inflessione gelida.
Non mi piaceva
che mi si prendesse in giro e Durza lo faceva continuamente.
«Volevo
evitare le domande che da qui fino alla meta mi farai»
rispose con
tono falsamente addolorato.
«Qualcosa del tipo: chi è la persona
che andiamo a incontrare? Perché ti aiuta? È
l'unica spia che hai
qui dentro..?»
«Sì, direi che può bastare».
Passammo per
un'ampia piazza, quasi totalmente deserta, occupata al centro da
quella che sembrava una grande gogna, ma senza l'albero per le
impiccagioni.
«Qui ogni secondo e quarto giorno della settimana
si svolge il mercato degli schiavi. Quello che vedi è il
palco dove
espongono la mercanzia» disse lo Spettro in tono piatto.
Feci un
respiro appena più pesante. Sapevo di quell'usanza barbara.
Come
sapevo anche che buona parte degli uomini venduti erano o surdani
colti fuori dai confini; o abitanti del deserto di Hadarac, dove
intere tribù venivano catturate con facilità
vista la loro
disorganizzazione sociale; o anche criminali, ladruncoli e
tagliaborse che i nobili tiravano fuori dalle loro prigioni per
ricavarne qualcosa.
Talvolta avveniva anche che un mercante caduto
in disgrazia venisse sequestrato e venduto insieme alla sua famiglia
per saldare debiti rimasti a lungo fermi presso i propri
creditori.
Inutile specificare che ero disgustata da
quell'istituzione. L'idea che un essere vivente potesse appartenere
totalmente ad un altro, essere sottomesso al suo volere senza poter
fare nulla, era agghiacciante e spaventosa.
Senza contare che
quella sensazione la sentivo un po' mia ogni volta che pensavo ai
mesi di prigionia nelle grinfie di Durza. Potevo essere benissimo
paragonata ad una schiava liberata dal proprio padrone e la cosa era
atrocemente umiliante.
Gettai un'occhiata all'uomo al mio fianco,
che del mio aguzzino aveva mantenuto solo gli irritanti modi di fare
e l'indole violenta. Non aveva alzato un dito su di me da quando
avevamo stretto quel patto e probabilmente non l'avrebbe fatto mai
più, ma in quel momento mi sentii invadere dall'irritazione
per i
pensieri che avevo appena formulato sulla mia schiavitù
quindi
tornai a guardare davanti a me con stizza, rinunciando anche alle
domande che avevo in serbo per lui.
Lo Spettro probabilmente
percepì il cambiamento nel mio stato d'animo
perché sentii i suoi
occhi pungermi la parte del viso rivolta nella sua direzione, ma
scelse saggiamente di fare finta di nulla.
Dras-Leona era una
delle più grandi città dell'Impero e una grande
città ha sempre
grandi ricchezze e grandi miserie racchiuse nelle sue mura. Dopo aver
visto le enormi ricchezze dei quartieri alti quella mattina,
riscontrai nuovamente il peggio di cui avevo avuto un assaggio la
sera precedente.
Più la zona era povera più le case erano alte,
marce e traballanti. I crolli dovevano essere all'ordine del giorno e
mi ritrovai a chiedermi cosa sarebbe successo se un abitante
distratto avesse lasciato cadere una lanterna accesa sul pavimento di
legno, nei mesi più caldi e secchi dell'estate.
Una buona metà
della città povera sarebbe andata a fuoco prima ancora di
riuscire a
rendersene conto. Probabilmente le mura interne avrebbero tagliato
fuori le fiamme e il resto della città si sarebbe salvata.
Questo
pensavo mentre, con il cappuccio calato sul viso e degli odori
terribili nelle narici, superavo mendicanti aggressivi e non, bambini
cenciosi dallo sguardo astuto -probabilmente piccoli ladruncoli- ,
uomini ubriachi già a quell'ora del giorno e persone
dall'espressione pensierosa e losca. In mezzo a questi elementi
spiccava ovviamente il lavoratore onesto e la donna che portava un
secchio d'acqua tirandosi dietro il figlioletto di non più
di tre
primavere.
Durza si fermò davanti ad una porta così
malandata
che pareva a malapena adatta a chiudere una stalla. Eravamo ormai in
prossimità delle mura, esattamente dalla parte opposta del
portone
da dove eravamo entrati.
Lo Spettro mormorò una parola di potere
e aprì la porta, poi mi fece cenno di entrare e
insonorizzò la
stanza. L'interno era malmesso come l'esterno, c'era uno sgabello,
delle assi di legno, delle corde e degli attrezzi sparsi per
terra.
Il pavimento era di terra nuda e un odore ancora più
terribile di quello che gravava all'esterno riempiva l'aria. Era il
tipico odore di.. fogna!
«Intanto che aspettiamo che il mio
amico rincasi ti dico un paio di cose sulle fognature»
cominciò
Durza, tornando a parlare dopo un'eternità di mutismo.
«Oltre a
puzzare terribilmente, sappi che sono state costruite parecchio tempo
fa, quando la città era al massimo dello splendore. I canali
sono
alti poco più di due iarde e altrettanto larghi nella zona
centrale
di Dras-Leona e lungo l'asse che porta dai cancelli fino al lago, per
il resto sono molto più piccoli, malmessi e sopratutto, in
legno.
Quindi se devi scomparire in una fogna, fallo nella zona ricca o non
ci entreresti neanche. Pochi edifici hanno una latrina, il resto
della popolazione usa dei catini, che poi ribalta per strada. Quando
piove le strade si lavano e gli scoli portano tutto nel lago, ma in
quel momento rischieresti di annegare perché i canali sono
gonfi,
quindi è meglio evitare. Gli ingressi sono a terra ma ben
custoditi,
spesso in casa di altre persone. È un provvedimento
abbastanza
recente, serve ad impedire che la gente si ammassi lì sotto,
sopratutto criminali. Ma ci sono persone che con un paio di monete ti
faranno passare per l'ingresso che custodiscono».
«Come il tuo
“amico”?» chiesi accennando agli attrezzi
sparsi a terra.
Durza
si accomodò sullo sgabello. «Già.
Questo è l'ultimo ingresso
disponibile prima che le tubature sfocino nel lago Leona. Ed
è qui
che io preferirei buttarmi nel caso le cose si mettessero male. Da
qui in poi tutti i canali convogliano in uno unico, più
largo e dal
breve tragitto.»
«C'è un'uscita che porta dentro alla
cattedrale?»
Lo spettro fece un ampio sorriso. «Sì».
«Quindi
se non arriveremo alla biblioteca con le buone..»
«Lo faremo con
le fogne».
Mi scappò una risatina. «Va bene».
«Era una
risata quella?» domandò scrutandomi con malizia.
«Più un
singhiozzo direi».
«Dovrei fare battute intelligenti più
spesso» affermò, tirando nuovamente fuori la mappa
delle fognature.
«Vieni qui piuttosto, ti faccio vedere quali sono gli
ingressi
sicuri».
Erano solo quattro. Sparsi un po' ovunque lungo il
canale che tagliava la città in due, ed erano tutti nella
zona che
andava dalla Cattedrale al lago Leona. A detta di Durza, gli
abitanti e proprietari delle rispettive case, taverne e armerie, mi
avrebbero aiutata senza problemi se avessi messo loro in mano la
giusta somma.
Fummo costretti ad aspettare il nostro ospite per
qualche ora. Lo Spettro impiegò quel tempo parlandomi di
fatti e
curiosità riguardo a Dras-Leona, che effettivamente
conosceva molto
bene. Mi stava parlando della cava di marmo nero dove buona parte
degli abitanti di Dras-Leona trovava impiego quando si interruppe
all'improvviso e inclinò lateralmente la testa nella sua
maniera
buffa di ascoltare meglio i suoni.
«Passi decisi nella nostra
direzione. Credo che il nostro uomo stia arrivando».
Si accomodò
ancora meglio sul basso sgabello e mi fece cenno di stare vicino a
lui.
L'uomo che entrò era sulla quarantina, era secco come un
manico di scopa e aveva una barba grigia così folta e
annodata che
sembrava un nido di uccelli.
«Ehi!» esclamò subito. «Che
volete qui voi due?» E alzò le mani in segno di
resa.
Gli
mancavano tre dita della mano destra. Non sapevo quale fosse il
lavoro attuale del nostro amico, ma sicuramente doveva aver tagliato
parecchie borse in passato. E dovevano averlo beccato qualche volta
di troppo.
«Ditolesto?» domandò lo Spettro
accennando alla sua
mano. «Non hai scelto un così bel soprannome,
amico».
L'uomo
parve rilassarsi all'improvviso e chiuse la porta dietro di
sé. «Che
volete da me?» ripeté grattandosi la testa.
«Lavoro per un uomo
che ha già chiesto i tuoi servigi in passato. Si fa chiamare
Il
Ratto».
Ditolesto, o come diavolo si chiamava, si illuminò.
«Ah
sì, ma certo! L'ultima volta mi aveva mandato una bella
bionda
però!» E rise sguaiatamente.
Mi irrigidii e, non so per quale
motivo, ma pensai subito ad Alba.
«Oggi dovrai accontentarti di
me» fu l'incolore replica.
«Va bene, va bene, se mi paghi non
c'è problema, no? Cosa vuole Il Ratto stavolta? Altre
informazioni
da Aberon?»
Faticai parecchio a contenere una mia reazione di
fronte a quelle parole. Sapevo che lo spionaggio era
un'attività
proficua in quel brutto e pericoloso periodo, ma sentirmelo dire in
faccia..
«No» lo interruppe Durza e mi parve quasi agitato.
«Voglio sapere qualcosa sugli Avvoltoi».
L'uomo si rabbuiò e
incrociò le braccia sul petto. «Non so se posso
aiutarti. Quasi
tutti qui seguono la loro religione, ma nessuno sa davvero qualcosa
su quello che fanno. Se vai alle cerimonie li senti cantare e basta
ma non ci capisci nulla del loro rito che fanno all'altare. So che
per diventare parte della loro religione devi fare un battesimo col
sangue, tipo che te lo fanno bere, roba così..»
«Chi ha accesso
agli edifici dietro la cattedrale?»
Ditolesto rise di nuovo.
«Dietro dici? Forse non sai che quasi tutta la loro roba
è sotto
la chiesa».
Durza fischiò ammirato. «E come lo sai?»
«Lo
senti dire dappertutto che a volte vengono degli strani rumori dal di
sotto. Quando vedi gli avvoltoi te ne accorgi, sono così
bianchi che
per forza devono stare sottoterra o così pallidi non sono,
no? E
poi.. non so se c'entra qualcosa, ma una volta ho fatto entrare un
gruppo di tizi dal di là». E annuì in
direzione di una botola,
quella che sicuramente portava alle fognature. «Per me erano
dei
ribelli perché parlavano di ammazzare qualcuno. Io gli ho
dato la
mappa, no? Così non si perdono, ma loro non sono mica
tornati sai? E
volevano andare sotto alla chiesa. Per me si sono fatti
ammazzare»
concluse in tono quasi confidenziale.
Durza annuì lentamente,
composto. «Sai come posso entrare negli edifici sotto la
cattedrale
senza farmi ammazzare?»
«Mhhh credo che devi diventare uno di
loro, no? Così dopo puoi andare dove ti pare. Mi sa che
è l'unica
cosa che puoi fare».
«Come divento uno di loro?»
«Comincia
ad andare alle cerimonie, amico, no? Poi parli con uno dei monaci e
chiedi se puoi entrare nel giro».
«Quando ci sono le
cerimonie?»
«Tutti i giorni alla mattina presto e alla sera.
Tutti possono entrare quindi stai tranquillo».
«Va bene». Durza
si alzò in piedi. «Tornerò la prossima
settimana, tu raccogli
informazioni e se avrai qualche novità saprò come
ricompensarti
adeguatamente».
Gli posò qualche moneta sul palmo e si avviò
alla porta. Lo seguii rapidamente.
«Omaggi al Ratto, amico. Avrò
certamente qualche cosa per te la prossima settimana». Con
queste
parole Ditolesto ci lasciò andare.
«Ratto?» domandai quando
fummo a qualche iarda di distanza.
Durza si strinse nelle spalle.
«Mi chiamavano così una volta, non mi dispiace
come nomignolo. Lo
trovo.. azzeccato».
«Così hai delle spie ad Aberon» dissi
cambiando bruscamente discorso.
«Tutti hanno spie ad Aberon. I
Varden, l'Impero e anche io, sì».
«Se tutte le tue spie sono
ridotte così ho paura ad affidarmi alle loro
informazioni».
«Sono
ridotte così perché non ho una mia catena
personale di spie. Vedi
l'Impero ha la sua Mano Nera, ad esempio, ma io non posso permettermi
che un intero gruppo di persone possa parlare e dire chi è
il
mandante. Io lavoro nell'ombra, Bitr, ho sempre fatto così e
così
farò, non sai quanto sia stato strano
avere con me qualcuno che non fossi io, oggi».
Ripensai
all'intera conversazione avuta con l'uomo. «Ditolesto ha
detto che
l'altra volta gli hai mandato una bionda..» mi interruppi,
sperando
che che Durza terminasse il discorso al posto mio, ma non lo fece.
«Era Alba vero?» chiesi alla fine.
Lo Spettro sospirò. «Non
era previsto che sentissi quella parte di discorso. Comunque
sì, era
lei. Ha lavorato anche come spia per me».
«Devo averla
sottovalutata parecchio» mi lasciai sfuggire.
Durza si bloccò
all'improvviso e gli ero così vicina che urtai contro la sua
schiena. Mi guardò da sopra la spalla sinistra e riprese a
camminare. «Non credevo che la conoscessi così
bene» disse
innocentemente, con voce morbida.
La voce suadente da
interrogatorio.
Mi costrinsi a non farmi toccare dall'ansia per
quello che sarebbe potuto saltare fuori su Alba, lo avrebbe
percepito.
«Mi portava i pasti, la vedevo ogni giorno» risposi
con calma assoluta. «Però mi sembrava una
ragazzina, non mi sarei
mai aspettata che facesse la spia per te».
«Ha.. doti nascoste»
replicò guardandomi un'ultima volta.
Come
l'essere una maga?
«Sa
usare molto bene la magia» aggiunse infatti.
Non risposi e per un
po' proseguimmo in silenzio.
Fino a quando Durza non si voltò di
scatto, mi afferrò per il mantello e mi spinse in uno
strettissimo
vicolo tra due case.
«Durza che..?»
«Come mai non mi sembri
per niente sorpresa dal fatto che Alba sappia usare la magia, piccola
Elfa?» ringhiò minacciosamente.
«Lasciami» comandai
seccamente, «o mi metto a urlare».
Scoppiò a ridere. «Potrei
stuprarti in questo vicolo e nessuno dei grigi passanti che vedi
farebbe nulla per fermarmi, anzi, verrebbero probabilmente a
reclamare il loro turno. Non siamo tra i bravi Varden o i perfetti
elfi, qui siamo nei bassifondi di una città umana, tutto
è
concesso, fin qui non arriva giustizia».
Non mi dibattei. «Cosa
diavolo vuoi?»
«Che tu mi risponda».
Non dovetti fingermi
indignata. «Pensi che me ne freghi qualcosa della tua
cameriera? Per
la miseria Durza, la tua reazione è ridicola».
«Non mentirmi
Principessa, non sei abbastanza capace da nascondere la
paura».
Strinsi le labbra e guardai un punto indefinito oltre la
sua spalla. «Puoi non credermi se vuoi, ma sappiamo entrambi
che non
sono io quella delle bugie».
Le mie parole parvero non toccarlo
affatto. Tuttavia, dopo qualche lungo istante, lasciò andare
il mio
mantello.
«Sei una mia alleata adesso e non posso farti del
male»
disse semplicemente.
«Dunque vorresti?» lo provocai aspramente.
«Perché se mantenere la parola è un
compito troppo difficile per
te, me ne farò una ragione e vedrò di trovarmi il
più lontano
possibile da te quando ti salirà la voglia di
uccidermi».
La
miglior difesa è l'attacco e il ricordo del suo sguardo
predatore
davanti alla cattedrale, quella stessa mattina, mi aveva suggerito
quelle parole.
«Non ti ucciderò Arya, né ti
farò del male. Non
è questo che voglio. Hai ragione tu, mi sono comportato da
idiota,
perdonami».
Ebbi un moto di sincero stupore e scossi la testa,
confusa.
Non mi aveva mai chiesto scusa e mai e poi mai avrei
pensato di sentire uscire una simile frase da quelle labbra
sottili.
Con un mezzo sorriso lo Spettro uscì dal vicolo e si
avviò nuovamente verso la nostra locanda.
Mentre camminavamo in
silenzio mi sovvenne un pensiero ancora più inquietante:
forse ciò
che avevo detto lo aveva colpito perché era minacciosamente
vero.
Tornati alla locanda consumammo una cena
veloce, poi
salimmo in camera.
Ma l'aria in quella stanza era troppo pesante e
in più non mi sentivo per niente stanca. Ditolesto mi aveva
dato
parecchie informazioni su cui ragionare e prima avessimo portato a
termine quella missione meglio sarebbe stato per entrambi, quello era
certo.
Mi sedetti sul letto e infilai gli stivali.
«Vai da
qualche parte, Principessa?» domandò lo Spettro,
alzando pigramente
gli occhi da pugnale che stava affilando.
«A fare una
passeggiata» risposi, vaga.
Durza si allarmò. «Arya sei una
donna ed è buio lì fuori, non puoi passeggiare
sola per la città
come se niente fosse».
Alzai il cappuccio del mantello. «Se solo
avessi ancora i pantaloni e la camicia potrei benissimo passare per
un uomo, ma mi hai costretto a lasciarli a Gil'ead».
«Già, ho
fatto un grande errore» sospirò. «Ma ci
tenevo molto a vederti con
qualcosa di più scollato di un farsetto di pelle».
Mi voltai e
uscii dalla stanza sbattendo la porta, poi corsi rapidamente
giù
dalle scale.
La voce di Durza mi raggiunse quando ero ormai sulla
soglia dell'Avvoltoio.
«Bitr, aspettami!»
Esitai, sopratutto
perché ormai gli uomini e donne seduti ai tavoli seguivano
con
interesse la scena. Probabilmente credevano si trattasse di un
litigio tra innamorati.
Lo Spettro scese le scale con
l'espressione preoccupata da manuale e corse verso di me.
«Vengo
anch'io» sussurrò portando il viso a un palmo dal
mio, «almeno
saremo in due quando cercheranno di aggredirci in un angolo
buio»
borbottò.
«D'accordo» dissi semplicemente. E sgusciai fuori
nella notte.
Non nevicava, ma come al solito era freddissimo.
«Non
ti credevo così irresponsabile» mi
rimproverò Durza. «Se qualcuno
ci attaccasse saremmo costretti a fare quello che dobbiamo per
difenderci e la nostra copertura salterebbe se qualcuno ci vedesse
farlo».
Mi incamminai in direzione dei pinnacoli della
cattedrale, quasi invisibili nel cielo notturno. «Hai per
caso
paura, Natt?»
«Non ho paura» ringhiò, «ma
non voglio buttare
tutto all'aria. È da anni che organizzo piani su piani per
tirare
quel pazzo giù dal suo trono e non voglio fare passi falsi
per colpa
dei capricci di una..» si interruppe.
«Di una?»
«Stavo per
dire donna, ma una donna sarebbe indubbiamente rimasta nella sua
calda stanza a riposarsi, quindi le tue azioni ti escludono dalla
categoria. Devi essere un demonio».
«Mi sa che non puoi
permetterti di chiamarmi demonio» ribattei.
«Purtroppo hai
ragione».
«Non volevo fare una semplice passeggiata» lo
informai qualche istante dopo.
«Lo avevo immaginato. Che hai in
mente?»
Mi strinsi più vicina a lui in modo da poter sussurrare
ancora più piano. «I rumori sotto la cattedrale..
voglio sentire
con le mie orecchie».
«Sai qualcosa che io non so sui loro
riti?»
Scossi la testa. «So solo che adorano l'Helgrind e i suoi
abitanti e che la loro religione è crudele e
sanguinosa».
«Non
più di quanto ne sappia io, allora. Bene, andiamo pure, ma
dovremo
cercare un buon nascondiglio da dove ascoltare non visti».
Non
eravamo i soli a girare per le strade a quell'ora, tuttavia c'era un
relativo silenzio. Solo i richiami delle prostitute risuonavano
chiari e netti tra le viuzze, ma nessuno si avvicinò a
disturbarci.
Quando raggiungemmo lo spiazzo davanti alla
cattedrale vedemmo un fiume di gente fuoriuscire dai tre portoni
spalancati.
«La funzione della sera..» mormorai.
«Direi che
è appena terminata» concluse Durza per me.
«Quindi temo che non
passerebbe inosservato il fatto che andiamo in direzione opposta al
flusso» dissi mogia.
«Nascondiamoci in un vicolo e aspettiamo
che tutti se ne vadano» rispose lo Spettro prontamente.
«Basterà
restare qui immobili, è buio».
Durza si appoggiò con le spalle
al cancello della ricca casa dietro di noi «Vediamo di
passare
inosservati, almeno. Avvicinati».
Lo affiancai e assunsi la sua
stessa posizione.
Le dita dello Spettro mi sfiorarono la spalla e
poi si arrampicarono sul mio viso.
Mi fulminò un pensiero. «Cosa
intendevi con “passare inosservati”?»
Ghignò. «Puoi sempre
ritirarti» bisbigliò chinandosi su di me.
Mi sfiorò appena le
labbra con le sue. Non reagii in alcun modo, non me ne sentivo in
grado. Da un lato avrei voluto schiaffeggiarlo con tutte le mie
forze, dall'altro.. ero un po' confusa. Non era minimamente
necessario fingere un incontro amoroso per non farci notare, di
questo ero sicura, ma del resto stare lì a bighellonare con
le mani
in mano poteva sembrare sospetto..
Tornò a baciarmi, con più
convinzione.
Sollevai una mano, forse per fermarlo, ma me la
strinse e la abbassò nuovamente. E io non mi ribellai.
Percepii
le sue braccia sfiorarmi i fianchi mentre si appoggiava al cancello
alle mie spalle, poi gli occhi mi si socchiusero e, presa dal
momentaneo trasporto, posai le mani sul suo torace.
Sentii i suoi
muscoli tendersi sotto le mie dita e le sue labbra schiudersi per
approfondire il bacio. Lo lasciai fare, fino a che non dimenticai la
mia reticenza e mi lasciai trascinare da una sensazione calda e
piacevole che scivolò dalla gola al petto come una bevanda
magica.
Poi l'improvvisa assenza di suoni mi riscosse e mi
dibattei piano per liberarmi.
Gli occhi di Durza si spalancarono,
selvaggi e divertiti insieme. Si staccò da me con un
mugugno.
Schioccò la lingua contro il palato. «Non male,
cominciavo a prenderci gusto».
Anche
io.
«Sono andati via,
Spettro».
«Già, te lo avevo detto che saremmo passati
inosservati, dovremmo tenerlo presente come metodo futuro».
«Andiamo»
lo liquidai, spostandomi silenziosamente verso la cattedrale e
scrollandomi violentemente di dosso le impressioni appena ricevute.
Lo Spettro mi seguì.
L'edificio era nero, immerso nel nero del
cielo e nell'oscurità della terra. Insomma la sua
arzigogolata
struttura era a malapena distinguibile, tuttavia i portoni di legno
che si aprivano sulle tre navate erano chiaramente chiusi.
«Potrebbe
ancora uscire qualcuno» bisbigliò Durza,
«togliamoci
dall'ingresso».
Scivolammo sul fianco sinistro della costruzione,
dove trovammo rifugio appiattendoci tra i contrafforti.
«Senti
niente?» mi chiese.
«Non finché parli».
Tacque e rallentò
il respiro. Feci lo stesso e chiusi gli occhi per concentrarmi al
meglio sui suoni.
Dall'interno venivano alcuni rumori che tuttavia
non erano particolarmente allarmanti: uno strisciare di panche, il
tintinnio di alcuni piccoli oggetti in metallo. Probabilmente stavano
mettendo a posto l'occorrente usato per il rito.
Poi sentii le
voci.
«Avremo la veglia fino a mezzanotte oggi» disse una
voce
cavernosa, indubbiamente maschile.
«Un altro novizio?» rispose
una più acuta, ma sempre maschile, di un giovane.
«Esattamente.
Deve ancora seguire la Purificazione e poi fare la prima Donazione
nell'Arca».
«E la prima Rinuncia? La farà all'alba?»
«No,
credo che si farà tra un paio di giorni. È un
peccato che voglia
fare il praticante, era abbastanza forte da entrare nel corpo delle
guardie».
«Avete provato a convincerlo?»
«Senza successo
purtroppo. Vuole assolutamente essere vicino agli dei».
«Se la
Rinuncia è tra un paio di giorni c'è ancora
tempo».
«Suppongo
di sì! Ora andiamo a prepararci. Tra due ore dovremo essere
pronti
nella cappella per cominciare le preghiere».
«Abbiamo già
officiato il rito e io stamattina ho fatto un'ulteriore Donazione per
espiare.. Sono molto stanco».
«È un onore servire gli dei» fu
il secco rimprovero.
«Che sciocco, hai ragione tu!»
«Ora
dovrai espiare nuovamente per il tuo comportamento
inappropriato!»
E
continuando il discorso su quel filo, scomparvero lentamente in
lontananza. Probabilmente avevano attraversato la sagrestia ed erano
entrati negli edifici riservati a loro.
Durza si spostò e sedette
a terra, stendendo le gambe di fronte a sé.
«Interessante»
osservò.
«Mi fanno venire i brividi» dissi invece.
Avevo
sentito solo un breve scambio di battute, eppure parole come Rinuncia
e Donazione riecheggiavano inquietanti nella mia testa.
«Se vuoi
posso riportarti alla locanda. Io dopo torno qui però, a
questo
punto sono curioso».
«Non insultarmi, per favore» sibilai. «Ti
ricordo che è stata una mia idea».
«Hai ragione, sei stata
davvero brava, Elfa, ma in ogni caso dovremo aspettare la mezzanotte
e mancano più di tre ore. Direi che puoi
accomodarti».
Posai la
schiena al muro alle mie spalle e scivolai lentamente a terra, pronta
a cogliere un qualunque suono proveniente dall'interno.
I minuti
scivolarono lentamente via. Tremavo per il gelo e per di più
ero
costretta a rimanere immobile, quindi mi strinsi nel mantello e mi
abbracciai le ginocchia per preservare più tepore possibile.
Tuttavia sentivo il freddo della pietra sotto le gambe e ad un certo
punto staccai la schiena dal muro per evitare la dispersione di
calore.
Dopo un'oretta passata in quella condizione sentii un po'
di caldo attraversarmi le membra. Alzai gli occhi sullo Spettro, che
era un'ombra nera di fronte a me.
«Grazie» dissi.
Fece un
gesto noncurante con la mano, ne intravidi il movimento. «Non
mi
servi morta assiderata, Principessa».
A mezzanotte suonarono le
campane. Un suono cupo, duro e profondo che mi fece sobbalzare sul
posto.
Dopo tre rintocchi tacquero e Durza mi posò una mano sul
ginocchio per richiamare la mia attenzione.
«Non si sentono i
suoni dalla cappella, dovrò fare un incantesimo per ampliare
i
rumori alle nostre orecchie» mi informò.
«Pronta?»
Annuii.
La
prima cosa che sentii furono i mormorii supplici: preghiere
sussurrate a fior di labbra. Ma c'era qualcosa che non
andava..
«Parlano l'antica lingua?» mormorai.
«Ci sono anche
parole di lingua urgali e della lingua degli uomini».
«E nanico»
aggiunsi.
Durza parve irritato. «Non capisco un'accidente.»
Anche
io ero confusa, ma qualcosa percepii lo stesso, tranne le parole in
lingua urgali che erano davvero fuori dalla portata delle mie
conoscenze.
Stavano implorando e invocando la pietà di un dio. Un
dio? Credevo che i Sacerdoti pregassero i Ra'zac, e loro erano
decisamente due, quattro con le loro cavalcature, i Lethrblaka.
Poi,
dopo le preghiere, passarono a dei lugubri canti, che narravano le
vicende di un tale di nome Tosk, che a quanto pareva era il fondatore
e teorico della loro religione. Infine conclusero il tutto accennando
a diversi meritevoli rappresentanti della loro setta attraverso i
secoli.
Erano tutti vaghi accenni, evidentemente davano per
scontato che i presenti conoscessero bene ciò di cui
parlavano, ma
da parte mia le loro parole mi rimanevano oscure.
Poi i canti
tacquero e il rumore di passi fece da padrone alla scena. Erano
almeno sette persone che camminavano allo stesso lento ritmo in una
direzione ben precisa. Poi buona parte del corteo si fermò e
solo
una persona proseguì, salendo quelle che parevano scale.
«Questa
sera» cominciò una voce veemente,
«accogliamo tra noi un nuovo
fratello. Oggi sei davanti a noi e al nostro Grande e Terribile
signore in veste di novizio. Puoi scegliere un nuovo nome per
cominciare tra noi la tua nuova vita o mantenere il tuo vecchio, qui
non beneficerai del tuo stato sociale, delle tue origini o delle tue
ricchezze e nemmeno sarai discriminato per queste».
Una voce
tremante si alzò nel silenzio. «Io scelgo
Fuilteacha come nuovo
nome, spero di essere degno dell'adepto che lo portò in
passato».
«Che il Signore supremo ti accolga nella sua
famiglia»
risposero gli altri in coro.
Il sibilo inequivocabile di una lama
piantata nella carne mi fece sobbalzare nuovamente. Dai movimenti
indaffarati intuii che qualcuno si stava premurando di raccogliere il
sangue sgorgato dalla ferita, probabilmente in un calice, che poi
venne portato in direzione del novizio.
«Bevi» disse il
sacerdote, «e sarai mondato da ogni colpa, bevi e i tuoi
desideri
terreni ti saranno strappati in previsione di un più alto
compito».
Si sentì un lungo gorgoglio e poi ci fu una lunga
attesa.
«Credo che vogliano essere sicuri che non lo
vomiti»
bisbigliai inorridita.
«Ora» riprese la voce veemente,
«è ora
di fare la tua prima Donazione, che riconfermerai sotto la dimora
terrena del Signore. Questo sarà il tuo primo passo verso la
sua
immensità».
Si sentii il suono metallico di un pugnale sguainato
e poi un improvviso pestare frenetico di piedi.
Durza imprecò
oscenamente, poi mi afferrò il gomito e mi
trascinò via, giù dallo
spiazzo e lungo una delle tante strade che si ramificavano dalla
Cattedrale.
«Spettro cosa c'è?» gridai sopra allo
scalpiccio
del corsa.
«Ho fatto una sciocchezza» rispose. «Ci
stanno
inseguendo. Corri e basta!»
Lo presi in parola, senza resistere
alla tentazione di guardarmi alle spalle qualche volta.
Durza
rallentò bruscamente quando passammo di fronte ad un'osteria
-ormai
nella fascia media della città- raggiungendo un ritmo che
almeno
apparisse umano.
Sciolsi la presa del gomito dalla stretta ferrea
dello Spettro e gli afferrai la spalla. «La nostra locanda
è dalla
parte opposta!»
«C'è qualcuno dietro di noi?»
«Non mi
pare» risposi, spostandomi lontano dalla lanterna che
illuminava
l'incrocio dove ci eravamo fermati e tirandolo via con me.
«Cos'hai
combinato?» aggiunsi.
«Te lo spiego quando torniamo
all'Avvoltoio.
Se ci
torniamo ovviamente».
«Muoviamoci allora».
Cercai con gli
occhi le alte guglie della cattedrale per orientarmi e poi mi
incamminai per le strade, prevedendo di fare un giro molto ampio
intorno ad essa.
Impiegammo quasi un'ora, sussultando ad ogni
rumore e cercando di evitare qualunque persona a piedi o a cavallo
che incrociasse il nostro cammino.
Quando arrivammo all'Avvoltoio
trovammo la porta chiusa. Lo Spettro si morsicò le labbra e
poi
bisbigliò una parola per aprirla. Con lo stesso metodo la
chiuse
alle nostre spalle e mi fece cenno di salire in silenzio le
scale.
Solo quando chiudemmo la porta della nostra stanza a chiave
e posammo un pannello di legno sulla finestra per sigillarla,
cominciai a sentirmi vagamente in salvo, ma la sensazione di
inquietudine impiegò parecchio a sparire.
«Non insonorizzo la
stanza perché qualcuno potrebbe già rintracciare
l'incantesimo che
ho fatto sulla porta. Dovremo semplicemente parlare
pianissimo»
ansimò gettandosi in orizzontale sul letto.
Presi le pietre
focaie posate accanto alla stufetta ed accesi una candela, posandola
sulla cassettiera accanto al letto. Tutti gesti che servirono a
calmarmi e a tirare le somme della situazione.
«Hai fatto qualche
incantesimo invasivo e c'erano tra loro dei maghi ti hanno
individuato?»
«Non era invasivo» mi assicurò,
«ho solo
allungato un tentacolo mentale per cercare di percepire il quadro
generale della situazione. Mi hanno individuato con una prontezza che
non avrei mai creduto possibile. I passi che hai sentito dopo erano
di guardie armate, venivano a cercarci».
«Probabilmente saremmo
riusciti a cavarcela».
«Non ne avevo la certezza e in ogni caso
avremmo attirato parecchia attenzione indesiderata. La fuga era la
soluzione migliore, fidati».
«Ci siamo persi il resto del rito,
peccato» borbottai sedendomi sul ciglio del materasso.
«Da
quello che ho sentito posso provare a dedurre che si trattava
probabilmente di privarsi di un arto o di dissanguarsi un braccio o
giù di lì».
«Ed è quello che dovremmo fare anche noi per
entrare nella loro maledettissima setta?» mi informai
allarmata. «Io
non vorrei perdere mani, dita o qualunque altra parte del mio corpo.
Non è successo in tutti questi anni di battaglie e
scaramucce..»
«Ti
capisco, non piacerebbe nemmeno a me. Spero che troveremo facilmente
un'altra soluzione».
«Dobbiamo almeno osare. Andiamo al loro
rito domattina?»
Sospirò. «Sì. Hai ragione
tu». Si sfilò gli
stivali con un calcio e si tirò a sedere vicino a me.
«Ho un
altro dubbio: si sono riferiti ad un dio, ma io credevo che
venerassero i Ra'zac, cioè due dei..»
«Credono che sia i Ra'zac
sia i loro genitori siano la rappresentazione su questa terra di
un'unica divinità e allo stesso tempo sono la
divinità stessa. È
complicato da spiegare, loro dicono semplicemente che per crederci
basta avere fede e allora tutti i sentieri della religione saranno
chiari».
«E quale sarebbe questa divinità?»
«La
morte».
Ovviamente.
Annuii ma non replicai. «Immagino che il rito non sia molto
dopo
l'alba».
Si sfilò anche il mantello e lo gettò sugli
stivali.
«Tanto ci sveglieremo molto prima di tutti gli abitanti.
Quando
sentiremo il movimento generale verso la cattedrale ci
aggregheremo».
Fece una pausa. «Adesso vediamo di dormire qualche ora. Io
sto sul
lato della porta» aggiunse subito.
Gettai un'occhiata critica
agli stivali e al mantello abbandonati a terra ai miei piedi e mi
alzai per lasciargli la sua metà di materasso. Spensi la
candela tra
le dita e mi distesi per dormire.
Quando nel cuore della notte
mi riscossi dalla mia visione e trovai gli occhi felini dello Spettro
puntati su di me, ebbi l'improvvisa certezza che mi avrebbe costretta
a confessargli tutto.
Tuttavia Durza non disse nulla. Mi strinse
piano il mento e mi depositò un bacio impercettibile sulle
labbra,
poi mi lasciò e chiuse gli occhi.
Il battito del mio cuore
aumentò ulteriormente, ma dopo qualche minuto si
placò.
Forse
per quella notte il terrore era finito.
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Capitolo 19 *** Grazie per il tuo sacrificio ***
19.
Grazie per il tuo sacrificio
Scendemmo
a fare colazione intorno alla sesta ora del mattino. Inutile
specificare che ci eravamo svegliati almeno due ore prima, ma
ovviamente eravamo rimasti reclusi nella nostra stanza fino a che un
po' di movimento non ci aveva rassicurati sulla presenza di altri
umani svegli al piano di sotto.
Tornammo a comprare le focacce dal
forno dove eravamo passati la mattina precedente e ne prendemmo due a
testa, che consumammo mentre ci avviavamo lentamente in direzione
della cattedrale, sbuffando nuvolette di calore dalla bocca.
Il
sole doveva ancora fare capolino ma un lieve bagliore cominciava a
riversarsi sulla città.
Della cattedrale spiccava il pinnacolo
più alto -quello della torre campanaria- doveva trovarsi a
più di
cinquecento piedi da terra per soverchiare di così tanto
tutti gli
edifici della città. Persino il palazzo del governatore
sembrava un
cucciolo indifeso vicino ad essa.
Né io né Durza avevamo
particolare fretta, quindi potei osservare al meglio i dettagli, mano
a mano che ci avvicinavamo, ma l'intera struttura era talmente
arzigogolata e complessa che l'impresa mi riusciva impossibile.
Ogni
pietra, pilastro, colonna o guglia era tappezzato totalmente di
statue ed incisioni, Come se un qualsiasi spazio vuoto potesse
spaventare i passanti. Non riuscivo a concentrarmi su una statua che
immediatamente ero distratta dalle altre dieci che la circondavano.
Quel non riuscire a cogliere il tutto lasciava una sensazione di
acuta inquietudine e di piccolezza: ero certa che, anche se fossi
rimasta lì seduta per l'eternità, non sarei mai
riuscita a
memorizzare tutte le decorazioni esterne dell'edificio.
Quando gli
uomini erano diventati capaci di produrre tanto orrore e bellezza
allo stesso tempo?
«Chiudi la bocca, bellezza» mi canzonò
Durza, picchiettando le dita sotto il mio mento.
Gli concessi una
smorfia a metà strada tra una richiesta di scuse e il
divertito, ma
poi tornai alla mia osservazione.
Avevamo ormai raggiunto lo
spiazzo davanti alla cattedrale e la solitaria torre campanaria si
perdeva nel cielo grigio scuro del mattino. Le guglie che si
allungavano verso l'alto erano più basse, ma tutte di
altezze
diverse, tanto che formavano una foresta attorcigliata.
Non
eravamo gli unici che si muovevano verso la struttura: altre persone
salivano con solennità le ampie scale che portavano al
portale
principale, l'unico dei tre ad avere un'anta aperta.
L'acuta
strombatura sopra di esso lo incassava nel muro della cattedrale, ma
permetteva anche di rappresentare un'ulteriore ciclo di immagini
nello spazio reso disponibile. Quindi sopra il portale trovava spazio
una lunetta che rappresentava un individuo semi-umano, con ali da
pipistrello e due teste con becco da avvoltoio che divoravano dei
corpi decisamente umani.
Dalla lunetta fino a terra si allungavano
processioni di uomini e donne che facevano da cornice al portale,
ognuno scolpito con caratteristiche salienti. Non riconobbi bene i
dettagli perché, come al solito, erano troppi da cogliere
tutti in
una volta, ma intuii che si trattasse di una sorta di
rappresentazione di vizi, come mi indicava l'uomo grasso con una
coscia di animale in mano -il Goloso-, la donna riccamente vestita
-la Scialacquatrice-, un altro uomo con un boccale e il naso grosso
-l'Ubriaco- e un'altra donna, formosa, rappresentata nell'atto di
togliersi le vesti -la Dissoluta.
Poi fummo esattamente sotto al
portale e solo in quell'istante mi resi conto che non era in legno,
come avevo creduto la notte precedente, ma in ferro. Una scritta in
argento solcava la metà sinistra, ancora chiusa, e rimaneva
incompiuta a metà. Probabilmente proseguiva nell'altra anta,
al
momento spalancata verso l'interno della cattedrale.
Colsi dunque
solo qualche frammento: “O tu che varchi.. rammenta la.. e
dimentica l'attaccamento..”
Solo quando avevo ormai passato
l'uscio realizzai che la scritta non era nella lingua degli uomini,
ma nella mia lingua madre.
Lo Spettro si sedette sulla prima panca
che trovò alla sua destra, in ultima fila e
scivolò lontano dal
corridoio centrale. Feci lo stesso, ma non era particolarmente
necessario nasconderci: a quell'ora del mattino l'interno spoglio era
buio, nonostante le pareti fossero in gran parte composte da vetrate,
e c'erano solo due grandi bracieri, per di più posti in
corrispondenza dell'altare. Esso era una semplice pietra, come erano
in pietra le fredde panche dove eravamo seduti. Se non fosse stato
per le grandiose, altissime vetrate e le statue incastrate nelle
nicchie delle navate laterali, l'ambiente sarebbe stato poco
dissimile da quello di una grotta: grigio e cupo. Persino l'altissima
volta a crociera non bastavano a renderlo più
sofisticato.
Lentamente, la chiesa si popolò, fino a diventare
stracolma di gente, ma la navata era talmente larga e lunga e le
panche talmente tante che nessuno rimase in piedi. Notai che le
persone più riccamente vestite si addensavano in
corrispondenza
dell'altare, mentre i più poveri sedevano più
vicini
all'ingresso.
Ad un certo punto le campane iniziarono a suonare.
Sei lugubri rintocchi.
I fedeli caddero tutti in ginocchio sul
pavimento levigato e io e Durza ci affrettammo ad imitarli senza
farci troppe domane.
Da una porta accanto all'abside triangolare
comparvero gli Avvoltoi nelle loro lunghe vesti nere, seguiti da una
fila di uomini vestiti di quello che pareva un rozzo sacco di iuta
stretto in vita da una catena di ferro. Non li seppi collocare
all'interno della scena, quindi tolsi l'attenzione da loro e la
riportai sui sacerdoti, che si stavano disponendo ordinatamente
intorno al rozzo altare di pietra.
Uno di loro si pose però
davanti ad esso e allungando al cielo le braccia -o almeno, il
braccio, dato che la manica sinistra penzolò vuota fino
all'altezza
del gomito- parlò con voce tonante, che
riecheggiò alla perfezione
tra le pareti:
«Il Signore supremo ci dona questo giorno, come
ulteriore occasione di rendere omaggio alla sua forza. Siate i
benvenuti, tutti voi».
«Fuori i pensieri, dentro i misteri»
rispose il coro cantilenante dei fedeli, alzandosi da terra e
accomodandosi a sedere.
Mossi le labbra per dare almeno la
parvenza di saper seguire il loro rito.
Ripensai alle incisioni in
argento sul portale e alle parole appena pronunciate: probabilmente
era una sorta di dichiarazione. Essi assicuravano che la loro vita,
le loro paure e sofferenze sarebbero rimaste fuori da quelle mura,
così da potersi dedicare appieno all'adorazione del loro Dio.
«Prima
di cominciare con le preghiere voglio presentare a questa
congregazione il nuovo membro che si è ormai unito alla
nostra
fratellanza. Fuilteacha ha già eseguito i primi passi e tra
un paio
di giorni diventerà ufficialmente carne di Dio».
«Che il
Signore Supremo ti accolga nella sua famiglia»
replicò il coro,
mentre un giovane robusto, pallidissimo e con occhi e capelli scuri
si faceva avanti fino a raggiungere il sacerdote senza braccio.
Indossava una veste dorata e il colore fulgido contrastava
terribilmente con il nero lucido di quella in pelle
dell'Avvoltoio.
Così quello era il tizio che si era bevuto una
coppa di sangue non troppe ore prima. Chissà cos'altro era
stato
costretto a fare per entrare in quella setta agghiacciante..
Non
avevo ancora finito il pensiero che l'uomo arrotolò le
larghe
maniche della veste fino alle spalle, scoprendo bende macchiate di
sangue legate strette all'altezza dei polsi.
Ecco cos'era stato il
suono metallico di pugnale sguainato che avevo sentito la notte
precedente, prima che Durza mi trascinasse via.. La Donazione
consisteva probabilmente nel fare cadere qualche goccia del proprio
sangue dai polsi.
Questo
lo posso fare,
pensai.
Non era nulla in confronto all'idea di perdere un arto.
Il
novizio sciolse le bende con le mani che tremavano penosamente e,
quando finalmente ci riuscì, le distese con incredibile
deferenza
sull'altare. Qualche goccia di sangue stillò dalle ferite e
cadde
sulla pietra insieme alla stoffa.
«Siete tutti testimoni davanti
a Dio» riprese il sacerdote senza braccio, «della
Donazione che
questo suo adoratore ha compiuto per lui».
«Lo testimonieremo
davanti agli abissi» dissero i fedeli.
Continuai a muovere le
labbra nella mia recita e vidi lo Spettro fare lo stesso, ma vidi
anche la sua fronte corrugata. Con un lento movimento, quasi
impercettibile nella penombra, frugò nelle piccole bisacce
che
portava a cintura e si portò qualcosa alla bocca.
Per poco non
gli diedi uno scappellotto. Gli sembrava il momento giusto per
mangiare?
A parte il fatto che lo spettacolo che avevo di fronte
dava la nausea.. e poi probabilmente non era considerato educato
mangiare alla presenza di “carne di Dio” o come
cavolo si
auto-definivano i Sacerdoti, e per di più in mezzo ad un
rito che si
presupponeva fosse sacro.
Continuai ad inveire mentalmente nella
sua direzione, fino a che l'odore di menta non mi pizzicò le
narici
ed ebbi la tentazione di scoppiare a ridere. Durza masticava le sue
foglie di menta con la stessa assiduità e passione con cui
Brom
fumava la sua pipa.
Il sole doveva essere sorto, ormai, perché un
debole raggio colpì il grande rosone della contro-facciata e
un
fascio di luce piovve dolcemente sulla navata centrale, tra le due
fitte file di panche.
«Ora possiamo proseguire con la nostra
cerimonia. In onore del nostro nuovo fratello, Fuilteacha,
dedicheremo i canti all'uomo che in passato portò il suo
stesso
nome».
Poi cominciarono a cantare tutti insieme, in quella strana
babele di lingue che avevo già sentito la sera prima. Non ne
ero
certa, ma i concetti espressi mi parevano esattamente gli stessi.
In
tutto quel passaggio i fedeli seduti alle panche se ne stettero
immobili, a capo chino, senza dare cenno né di capire
né di
ignorare totalmente quella cantilena. Forse non sapevano il vero
significato, ma ormai ne erano avvezzi e quindi la reputavano
normale.
L'intera orazione non durò a lungo, al massimo dieci
minuti, e fu seguita da una nuova orazione del sacerdote senza
braccio.
«Fedeli del solo, Potente e Terribile Signore, recitiamo
insieme le Verità che egli dettò alla sua carne,
l'Irraggiungibile
Tosk, nella notte dei tempi». Fece una lunga pausa e
allungò
nuovamente il braccio e il moncherino al cielo. «Per primo,
Dio
stabilì la sua assoluta e unica presenza
nell'universo».
«Così
sia» risposero i fedeli.
«Come seconda Verità Egli stabilì che
l'uomo avrebbe popolato la terra, impegnandosi per servirlo e
ricompensarlo del dono della vita».
«Così sia».
«Come
terza Verità Egli stabilì che alcuni uomini
sarebbero stati eletti
a suoi più stretti servitori».
«Così sia».
«Come quarta
Verità Egli stabilì che questi suoi servitori
fossero suoi
sacerdoti e saziassero la sua fame sulla terra con l'offerta della
propria carne».
«Così sia».
«Come quinta Verità Egli
stabilì che i suoi sacerdoti diffondessero il suo credo nel
mondo».
«Così sia».
«Come sesta Verità Egli stabilì che
l'uomo avrebbe vissuto un ciclo di anni non superiore ai
cento».
«Così sia».
«Come settima Verità, Egli stabilì
che chiunque forzasse il limite di anni stabilito gli fosse
nemico».
«Così sia».
Quindi Durza, io, tutti gli Elfi, i
Nani, i Draghi, persino il re in persona, che era cavaliere, eravamo
considerati nemici della loro religione. Mi parve strano che
Galbatorix permettesse il diffondersi di un simile credo.
«Come
ottava Verità Egli stabilì che i nemici della sua
chiesa erano da
combattere».
«Così sia».
«Come nona Verità Egli stabilì
una ricompensa per chiunque gli offra la carne del suo
nemico».
Rabbrividii.
«Così sia».
«Come decima Verità
Egli stabilì la condanna dell'Abisso a chiunque neghi la sua
grandezza».
«Così sia».
«Come undicesima Verità Egli
stabilì lo Sterminato Riposo per chiunque l'avesse onorato
in
vita».
«Così sia».
«Come dodicesima Verità Egli proibì
il contatto anche solo più lontano con l'Illusionista,
l'enigmatico,
il protettore dell'equilibrio, il multiforme che trova la vita nella
morte e che non teme alcun male; colui che cammina attraverso le
porte. Il dio che solitario che, alla deriva sul mare del tempo, vaga
da sponda a sponda, custode delle leggi delle stelle».
«Così
sia».
La risposta venne spontanea dalla folla, ma io ero rimasta
bloccata sull'ultima Verità, perché era l'unica
delle dodici che
non avevo capito per nulla. E mentre i sacerdoti tornavano a
cantilenare in gloria al loro dio nella cacofonia di lingue mischiate
-e sopratutto pronunce nell'antica lingua così sbagliate che
sentivo
il bisogno quasi fisico di correggerle- io mi concentrai su quelle
ultime parole, che parevano davvero prive di senso, nel tentativo di
sciogliere l'enigma, invano.
Tornai alla realtà quando il
sacerdote passò nuovamente alla lingua degli uomini.
Tuttavia lo
ritrovai con le spalle rivolte alla platea, girato in direzione
dell'altare e dei suoi fratelli.
«Per affermare e confermare la
nostra devozione al Triumvirato recitate con me i Nove
Giuramenti».
E da quel preciso istante tutti gli uomini in nero si unirono al suo
discorso. «In nome di Gorm, Ilda e Angvara il Crudele,
giuriamo di
rendere omaggio almeno tre volte al mese, nell'ora che precede il
crepuscolo e di offrire parte di noi stessi per soddisfare la fame
perenne del nostro Grande e Terribile Signore. Giuriamo di osservare
i comandamenti del libro di Tosk, giuriamo di portare sempre il
Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e
dal tocco di una corda annodata, affinché non corrompa il
nostro
ordine e la nostra purezza di fronte a Dio. Giuriamo di combattere i
Suoi nemici e di difendere la Sua gloria, giuriamo di non abbandonare
mai il cammino che Egli ci ha indicato».
Ci fu un lungo momento
di silenzio e tutti i fedeli chinarono rispettosamente il capo.
Poi,
sempre con voce cantilenante ma in lingua corrente, i sacerdoti,
compresi gli uomini con la catena in vita che erano in piedi dietro
di loro, iniziarono a narrare la vita di Fuilteacha e anche parte dei
fedeli si unì al coro, anche se era chiaro come il sole che
non
tutti conoscessero bene le parole.
Il canto era ovviamente un
riassunto molto succinto, ma nonostante questo agghiacciante: a
quanto pareva Fuilteacha era vissuto trecento anni prima -quando mio
padre regnava ancora sugli Elfi dunque- ed era considerato uno dei
più grandi predicatori della loro religione. L'uomo aveva
lentamente
donato ogni più piccola parte del suo corpo, fino ad
immolare se
stesso alle pendici del monte Helgrind, alla giovane età di
trentatré primavere.
Al termine del canto il sacerdote senza
braccia tornò all'altare, sfregò con forza la sua
unica mano sul
bordo di esso e la mostrò, lievemente ferita, alla folla.
«Dio
apprezza ogni più piccolo sacrificio che sarete in grado di
offrirgli. Seguite le sue Verità e le cose che desiderate e
bramate
vi saranno concesse come ricompensa per la vostra obbedienza.. Il
rito è concluso. Mentre uscite accettate il Segno, e che il
Signore
vi protegga sotto le sue ali».
«Eterna gloria a lui» fu la
replica generale.
Tutto
qui?
Mi
aspettavo bagni i sangue, sacrifici umani e dita mozzate
sull'altare.
I tre portoni furono spalancati dagli uomini vestiti
di sacco con la catena e due sacerdoti per portone si posero sugli
usci, con una ciotola preziosamente incastonata di gemme tra le
mani.
Altroché tutto lì, il bello a quanto pareva
doveva ancora
venire.
Cercai il consenso di Durza -che annuì- e mi avviai dal
portone alla mia sinistra, premurandomi di fare passare altre persone
prima di me.
La gente veniva semplicemente toccata sulla guancia e
rispondeva con un: «Grazie per il tuo sacrificio».
Quando fummo
più vicini sentii l'odore metallico del sangue e fu ovvio
cosa
contenessero quelle stupende ciotole. Tuttavia nascosi il mio
turbamento quando le unghie dell'Avvoltoio mi solcarono delicatamente
la pelle dall'occhio alla mascella, sporcandomi orrendamente il
viso.
«Grazie per il tuo sacrificio» dissi con la voce
più
dolce che riuscii ad impormi.
Poi passai avanti. E vidi una donna,
ferma sulle scalinate della cattedrale ad almeno quattro iarde da me,
che mi fissava intensamente, con gli occhi grandissimi, scuri,
inquieti. Sembravano occhi di un lupo braccato.
«Hai uno strano
accento» disse sottovoce.
Così piano che probabilmente se fossi
stata umana non avrei nemmeno dovuto sentirlo.
Motivo per cui mi
fu facile fingere di non averlo fatto. Mi voltai verso Durza, che
usciva in quel momento dalla chiesa, e gli sorrisi. Lo Spettro -la
guancia macabramente segnata di sangue- parve capire immediatamente
che qualcosa non andava. Mi afferrò una mano e
iniziò a parlare del
nome da dare al nostro presunto bambino.
«Potremmo chiamarlo
Haeg, che dici? Se mi somiglia Haeg è indubbiamente il nome
giusto».
Scendemmo rapidamente le scale, passando accanto alla
donna con gli occhi da lupo, che ancora mi fissava, immobile in mezzo
alla folla che si dileguava.
«Peccato che sarà sicuramente una
femmina» risposi a voce alta, inscenando una risata.
«In quel
caso la chiameremo Rahi!»
Arrivammo in fondo alle scale e
proseguimmo in direzione opposta alla nostra locanda, di
nuovo.
«Scusa ma della mia opinione non ti importa?»
Durza
rise più forte di quanto avessi fatto io e si
chinò a darmi un
bacio sulla tempia. «Dobbiamo continuare?»
bisbigliò.
Gettai
un'occhiata alle mie spalle. La donna dagli occhi di lupo era
sparita.
«No» lo rassicurai.
«Bene». Continuò a camminare,
accarezzando piano le vene del mio polso, che tremavano al battito
accelerato del mio cuore.
«C'era una donna che mi guardava fisso.
Ha detto che ho uno strano accento, ma lo ha detto pianissimo.. e poi
ha continuato a fissarmi, anche quando sei arrivato tu»
spiegai a
voce bassissima.
Lo Spettro grugnì in segno di assenso.
«Dannazione, spero non sia nessuno di importante. Non l'ho
vista,
com'era? Bassa e con i capelli scuri e ricci?»
«No statura
media, capelli lisci e dritti, ed enormi occhi scuri».
Sospirò
sollevato. «Meno male. Senti probabilmente non era nessuno,
solo una
tizia sorpresa dal tuo accento esotico».
«La mia pronuncia è
impeccabile» ribattei.
«Sì, ma una lieve inflessione rimane,
Principessa. Per niente spiacevole, ma c'è».
Oh beh, quello non
me lo aveva ancora rimproverato nessuno. «Quindi?»
Sollevò le
spalle ed ispirò allegramente l'aria del mattino. La
funzione era
durata circa mezzora e il sole stava ancora finendo di
sorgere.
«Quindi niente» mi rispose Durza, «direi
che puoi
stare tranquilla».
«Torniamo alla locanda?» chiesi
titubante.
La giornata era ancora lunga, ma né io né lo
Spettro
ci eravamo sentiti in grado di avvicinare un sacerdote dopo essere
entrati meglio nell'ottica del loro credo religioso, quindi
probabilmente avremmo passato quel giorno con le mani in mano, fino a
che non si fosse fatta sera, e poi ci saremmo nuovamente recati al
rito serale.
Un intero giorno con le mani in mano, dopo tutte
quelle giornate di piena attività, sarebbe stata un incubo.
Ma
Durza mi sorprese con la sua risposta: «Va' pure se vuoi, io
devo
uscire per qualche ora da Dras-Leona». E mentre mi rispondeva
continuava a camminare noncurante in direzione della porta esterna,
sempre con le dita tese a sfiorare la pelle del mio braccio.
Mi
irrigidii. «L'ultima volta che mi hai lasciata sola qualche
ora a
Taurida..»
«Stai tranquilla, non devo fare nulla del genere».
«E
cosa dovresti fare invece?»
Voltò il viso nella mia direzione e
mi sorrise con aria di sfida. «Voglio fare un bagno nel lago
e
togliermi un po' di sporcizia di dosso. Se non ti fidi di me, amore
mio,
puoi sempre venire a farmi compagnia, ti assicuro che la cosa non mi
dispiacerebbe».
Incassai la frecciatina con dignità. «Credo che
io resterò a farmi un bagno alla locanda. Non faranno
obiezioni se
chiederò loro dell'acqua calda per la tinozza che abbiamo in
camera».
Il sorriso di Durza si allargò e il suo tono si fece
sempre più sarcastico .«Insisto, non vorrai
scomodare quella povera
gente, che lavora da mattina a sera spaccandosi le ossa..»
«È
il loro lavoro dopotutto, li stai anche pagando».
Sogghignando,
lo Spettro rinunciò a convincermi e si fermò,
lasciandomi
finalmente il polso.
«Tieni». Mi porse una piccola borsa di
denaro. «Non hai l'aria di una sperperatrice, quindi mi
sembra
inutile chiederti di non spenderli tutti. Sta' attenta ai
borseggiatori e non mostrare troppo il tuo denaro in giro».
Battei
le palpebre. «Mi stai prendendo in giro?» Mi
reputava davvero così
sciocca?
Si strinse nelle spalle. «Non ti conosco così
bene,
Arya, o almeno non so come ti comporteresti in una vita normale.
Posso azzardare l'ipotesi che non ti piacciano le gonne, ma non
provare a comprarti un paio di pantaloni o giuro che ti annego nelle
fogne».
Non era chiaramente una minaccia. Durza si stava
divertendo un mondo e basta.
«Credo che comprerò del sapone»
risposi serafica, prendendo la borsa di denaro dalle sue mani e
facendola sparire sotto il mantello.
«Nel caso ti imbattessi in
uno speziale o in un erborista comprami anche delle foglie di menta.
Fresche, mi raccomando!»
Feci una sorta di sbuffo divertito. «Non
sono davvero tua moglie, sai?»
«Lo so» disse con voce
melliflua, sfilandosi qualcosa dal collo: la chiave della nostra
stanza, legata ad uno spago.
Me la passò sulla testa e sfilò la
treccia da sotto il cordino, poi accompagnò la chiave sotto
il
mantello, fino alla scollatura del mio vestito e ve la fece sparire.
La sua mano a contatto con la mia pelle nuda era gelida e decisamente
indiscreta, mentre la chiave, che aveva ormai raggiunto l'altezza del
cuore, era ancora pregna del suo calore.
Qualcosa che somigliava
vergognosamente ad un tremito -e decisamente non di disgusto- mi
squassò le membra.
«Non perdere nemmeno questa» bisbigliò,
mantenendo il tono mellifluo e prolungando più del dovuto la
carezza
sul mio collo.
L'odore di menta mi soffiò in faccia. «V-va
bene».
«Ah e non mi mordere, per favore». Fece un'ultima
risatina, prima di spegnerla sulle mie labbra.
Fu lui a mordermi
invece, ma piano, in maniera piacevole. Lo baciai per prima e lui mi
rispose per qualche lungo, intenso istante.
Durza si scostò con
un'espressione quasi beata, condita da una buona dose di malizia.
Un
po' punta nell'orgoglio per il fatto di avergli ceduto tanto
facilmente, mi affrettai ad andarmene, dopo avergli rivolto un
frettoloso saluto.
Quando mi leccai le labbra seccate dal freddo
vi ritrovai il sapore di menta.
Vagai a caso per qualche minuto,
poi mi decisi a fermare una donna e chiederle se sapesse indicarmi la
bottega di un erborista.
«Ti ci porto, devo passare giusto da
lì!»
Sorrisi. «Grazie».
Ripassai mentalmente le regole di
un buon essere umano: mezzi ciechi, mezzi sordi e lenti nei
movimenti.
«Abiti a Dras-Leona?» mi chiese, squadrandomi e
cominciando a camminare.
A mia volta squadrai i suoi stracci e
colsi un'ombra di invidia nel suo volto. Del resto io ero vestita
come una donna semi-agiata e avevo un mantello pesante e stivali
nuovi.
D'istinto, mi feci più guardinga, quella donna poteva
essere benissimo una ladra, la povertà poteva fare questo
alle
persone. E anche la disperazione.
«Sono di Teirm. Io e mio marito
vorremmo trasferirci qui, credo che resteremo un po' di tempo per
ambientarci in città e poi torneremo a Teirm a prendere le
nostre
cose».
«Si sente che sei straniera, hai uno strano
accento».
E
due.
Alzò
una mano all'altezza del mio mento. «Sei credente».
Mi toccai la
guancia, sentendo sotto le dita il sangue secco. Me ne ero totalmente
scordata.
«A dire il vero» risposi cautamente,
«quella di oggi
era la mia prima funzione. Mio suocero era credente e prima di morire
ha chiesto a mio marito di convertirsi a sua volta».
«Oh!
All'inizio è un po' strano sai? La mia famiglia ha
cominciato a
partecipare ai riti quando io avevo dodici primavere. Ero spaventata
da quello che dicevano e facevano i sacerdoti all'altare».
Rise con
leggerezza. «Dopo ho capito che non era nulla di male
ovviamente».
«E sei diventata credente partecipando
semplicemente alle funzioni?»
Mi guardò come se fossi spuntata
davanti al suo naso come un fungo velenoso. «No, devi
chiedere ai
monaci».
«I monaci?»
«Sì. Sono vestiti con un sacco chiuso
da una catena, dovresti averli visti al rito!»
«Li ho visti
infatti» confermai.
«Loro sono una guida per tutti quelli che si
avvicinano alla religione. Tu e tuo marito dovreste chiedere a loro
se volete che Dio vi riconosca».
«Ti ringrazio» dissi un po'
imbarazzata, consapevole di camminare su un terreno spinoso.
«Sei
sposata?» cambiai discorso.
«Sì e ho tre figli» rispose
contenta. «Ma di bambini ne ho visti parecchi, sono
levatrice!»
«Davvero?»
«Sì, è per questo che vado
dall'erborista, devo comprare dei semi di papavero per una donna che
soffre di dolori da dopo-parto». Mi guardò
«Tu hai figli?»
Ahi,
di nuovo spine. «Aspetto il mio primo» mentii con
disinvoltura.
«Sono solo al secondo mese però».
«Dovresti trattarti meglio,
il pallore e le occhiaie non sono mai un buon segno»
osservò con un
tono di scuse.
Mi sforzai di ridere. «Hai ragione, avrò
più
cura di me d'ora in poi».
«Senti già le nausee o dei
dolori?»
«No, sono stata fortunata. Nessun fastidio e nessun
dolore, se non fosse stato per il sangue interrotto e il seno
più
gonfio non me ne sarei mai accorta».
Ringraziai mentalmente il
mio buonsenso giovanile -che mi aveva spinta a studiare parecchio- e
la mia abitudine di portare con me libri e pergamene durante i lunghi
viaggi. Avevo letto un'infinità di trattati su tantissimi
ambiti e
le gravidanze erano uno di quelli. Per di più in quindici
anni avevo
aiutato a far nascere quattro bambini tra i Varden: il processo di
gravidanza e del parto era lo stesso sia tra gli uomini che tra gli
elfi -tranne per il fatto che gli elfi soffrivano molto meno- e la
mia magia arrivava dove l'abilità delle levatrici umane non
poteva.
La donna parve soddisfatta dalle mie risposte e mi chiese
che lavoro facessi. Dissi che mio marito era un mercante e che io mi
occupavo della casa.
Inventai un dettaglio della mia vita dietro
l'altro, chiedendomi se per caso il fantomatico erborista abitasse ai
confini del mondo. Quando ebbi finito di descriverle il mio ipotetico
cane -animali chiassosi che tra l'altro non erano tra i miei
preferiti- arrivammo finalmente in vista di una piccolissima bottega,
estesa in gran parte sul marciapiede, ricolma di contenitori, piante
e tutto ciò che ci si aspetta di trovare da un
erborista.
L'erborista in questione era un vecchio canuto
dall'aria gentile, intento a macinare qualcosa con un pestello su un
tavolinetto di legno. Quando ci vide ci accolse con un
sorriso.
«Svella! Come stai?»
«D'incanto, Gamall . È nato
anche l'ultimo piccolo che stavo seguendo, ma la madre è
stremata e
non riesce nemmeno a riposare. Hai dei semi di papavero?»
L'ometto
scomparve tra scaffali e sacchi e riemerse con un pugno di semini
neri, che arrotolò in uno straccio e porse alla donna.
«Cosa
posso fare per te, ragazza?» mi chiese poi.
«Ho bisogno di
diverse cose» dissi gettando un'occhiata al piccolo locale.
«Un
pezzo di sapone prima di tutto, poi un poco di cera d'api e di olio
di noci».
Il vecchio tornò con un bel pezzo di sapone grande
quanto il mio palmo, una scatola di legno piena di cera d'api e una
grande boccia che doveva contenere l'olio di noci.
«Dimmi tu
esattamente quanto ne vuoi» disse tirando fuori una
bottiglietta di
vetro e versandoci lentamente l'olio.
Lo fermai quando il livello
era salito a circa due dita.
«E di cera d'api?»
«La quantità
che starebbe nell'incavo del mio palmo» lo istruii
mostrandogli la
mano.
L'uomo eseguì e tirò fuori un'altra scatoletta
per
metterci la cera.
Accarezzai la borsa di denaro che tenevo sotto
il mantello ed estrassi qualche corona, poi mi ricordai all'ultimo
istante della menta per Durza.
L'uomo mi guardò un po' confuso.
«Foglie di menta fresche? Cosa devi farci? Per le tisane si
usano le
foglie secche di solito».
«Impacchi per mio marito» risposi
asciutta, chiarendo che non intendevo approfondire la questione.
Lo
pagai, un po' a disagio nel maneggiare del denaro e presi le mie
cose. A quel punto avrei voluto allontanarmi immediatamente, ma la
donna riprese a parlarmi.
«Se tornerai alla funzione stasera ci
vedremo» esclamò allegramente.
Era l'ultima cosa che volevo, ma
con tutta la folla che riempiva la cattedrale era alquanto
improbabile che succedesse.
Mi sorprese il vecchio erborista, che
replicò con voce carica di disprezzo: «Non entrare
anche tu tra
quei sanguinari, la loro religione è una farsa».
La donna reagì
indignata. «Gamall cosa dici? Dio ti punirà
nell'abisso per queste
parole».
«Certo, che faccia pure. Io sono una brava persona e
certamente non mi merito una punizione».
«Sei una brava persona»
confermò la donna, «ma il Signore Supremo non ha
pietà dei
miscredenti. Perché non ti unisci semplicemente alla
comunità? E
smetti di dire queste cose ad alta voce, non diventerai molto
popolare..»
«Questa religione è seguita da un popolo di
disperati. Non ho alcuna intenzione di inchinarmi davanti ad un'idea,
le idee non ti danno da mangiare e non ti tengono lontana la
morte».
«Ma Dio è reale»
insistette la donna.
«Però il nostro sovrano sembra più
potente
di lui, dato che qui fa il bello e il cattivo tempo».
La donna si
afferrò il volto disperata e scosse con convinzione la
testa. «Ora
ti comporti anche da ribelle? Sei troppo vecchio per esporti
così,
qualcuno potrebbe farti del male».
L'erborista si strinse nelle
spalle. «Che facciano pure, ormai abbiamo toccato il
fondo».
La
donna mi guardò tristemente. «Faresti meglio ad
andare. Queste
parole nuoceranno al tuo bambino».
Annuii dubbiosa, salutai
entrambi e li ringraziai.
Mentre mi allontanavo sentivo ancora il
vecchio inveire contro i falsi dei che possedevano la città.
A
quanto pareva l'aderenza alla religione non era così unanime
come
credevo.
Bene, mi sembrava che il mio primo vero approccio con
degli umani fosse andato liscio, e per di più avevo scoperto
un'altra cosetta sulla religione dell'Helgrind: il metodo giusto per
farvi parte.
Quando finalmente tornai alla locanda
era trascorsa
più di un'ora da quando avevo salutato lo Spettro.
Chiesi alla
ragazza che stava spazzando il pavimento se poteva scaldarmi
dell'acqua per fare il bagno e le misi in mano qualche moneta per
ringraziarla del disturbo.
Poi salii al terzo piano, recuperai la
chiave da sotto il vestito ed entrai in camera. Mentre aspettavo che
la ragazza mi chiamasse, presi l'olio di noci e lo versai dolcemente
nella scatolina con la cera d'api, poi impastai il tutto con le dita.
Forse era un po' rozzo come procedimento, ma avevo ottenuto una mia
piccola riserva di Nalgask da spalmare sulle labbra: non ne potevo
più di sentirle spaccate dal gelo.
Riposi il tutto sulla
cassettiera accanto al letto e controllai che le spade mia e di Durza
fossero ancora nascoste sotto il materasso. Tutto a posto.
Sganciai
la cintura con le bisacce e il pugnale, mi tolsi il mantello..
insomma mi misi comoda.
Poi sentii passi pesanti su per le scale
e, dopo qualche minuto di esitazione mi affacciai per controllare chi
fosse. Mi imbattei nella servetta che trascinava un pentolone di
acqua su per le rampe.
«Dovevi chiamarmi, sarei venuta ad
aiutarti!» esclamai automaticamente, scendendo rapidamente le
scale
per andarle incontro. Troppo rapidamente.
Ma per fortuna la
ragazza non mi stava guardando. «Mi hai pagata»
ansimò, «e poi mi
hanno detto che aspetti un bambino, quindi ho pensato che non dovevi
fare fatica».
Accidenti, aspettare un bambino sembrava
un'attività pericolosissima tra gli uomini.
La convinsi a farsi
aiutare. Il pentolone di rame non era pesante quanto pensavo, ma
probabilmente per una donna lo era, quindi finsi di faticare almeno
quanto lei. Quando ebbe versato tutta l'acqua la ringraziai e non
appena uscì chiusi la porta a chiave.
La tinozza era poco più
alta di una iarda da terra, di forma ovale, ma comunque piccola.
Dovetti lavarmi tenendo le gambe piegate quasi al petto: uno dei
bagni più scomodi della mia vita.
Tuttavia mi fece davvero bene
togliermi tutta quella sporcizia e quel luridume dalla pelle e dai
capelli, tanto che dopo mi prese una sensazione simile alla
sonnolenza e rimasi immersa nell'acqua a lungo, con gli occhi
socchiusi e i pensieri che viaggiavano.
L'acqua era ormai
diventata fredda quando sentii i passi di Durza sul pianerottolo.
Fece per spingere la porta ma la trovò chiusa.
«Bitr? Posso
entrare?»
Mi riscossi. «Te provaci e io mi assicurerò che tu
non possa lasciare eredi su questa terra».
Sentii la sua risata
fragorosa scoppiare come un tuono, poi lo scricchiolio della porta
quando vi si appoggiò con la schiena.
«Sai mi è appena venuto
un dubbio» disse poi a voce bassa.
«Cosa?»
«Se io avessi
uno specchio o una qualsiasi superficie riflettente e poi provassi
a..» fece una pausa, «non so, a
divinarti?»
Mi affrettai ad
allungare una mano in direzione di una coperta. «Non
oserai».
Rise
di nuovo. «Rispondimi: che cosa vedrei?»
«Sarà l'ultima cosa
che vedrai se osi farlo». Uscii dall'acqua e mi ci avvolsi.
«Allora
muoviti a ricomporti, purtroppo sono poco paziente e molto
curioso».
Mi asciugai, avvolsi i capelli gocciolanti nella
coperta e indossai un abito pulito di riserva che avevo con me da
Gil'ead. Il tutto tremando violentemente: non mi ero resa conto di
avere preso tanto freddo immersa nell'acqua non più calda.
Aprii
la porta. Durza aveva i capelli puliti e spettinati, ma asciutti.
I
vantaggi innegabili di poter usare la magia: scaldare una porzione
d'acqua, asciugarsi i capelli con un gesto.. potevo andare avanti per
giorni.
Lo Spettro mi gettò un'occhiata. «Sembri
un'abitante del
deserto di Hadarac conciata così.»
Toccai la coperta che avevo
avvolto intorno alla testa. «Ti ringrazio» dissi,
senza sapere bene
se la sua fosse un'offesa o meno.
Andai a nascondermi sotto le
coperte imbottite del letto per scaldarmi un poco.
Durza chiuse
nuovamente la stanza a chiave e riempì di legna la stufetta.
Io
ovviamente non lo avevo fatto, mi ero crogiolata nel calore del bagno
fino a perdere la percezione della realtà.
«Allora Principessa?
Hai scialacquato tutto il mio denaro?»
«La tua menta è sulla
cassettiera» borbottai.
«Sei un tesoro». Arraffò una
fogliolina e la masticò.
«Sì, lo so. E lo era anche la donna
che mi ha portato fino dall'erborista..»
Sedette sul letto. «Hai
avuto problemi?»
«No, fammi finire.. Mi ha spiegato che quegli
uomini con la catena in vita che erano stamattina alla funzione sono
quelli che si occupano dei conversi. Insomma dovremmo chiedere a loro
per farci inserire tra i credenti prima, e tra i sacerdoti
poi».
«Mi
ero chiesto chi fossero.. sembrano sacerdoti pure loro ma non ne sono
certo, stavano dietro gli Avvoltoi e non sembravano più
attivi della
plebe nel rito».
«Non so nemmeno io chi siano, la donna li ha
chiamati monaci e a quanto pare dovremo parlare con loro».
«E
allora lo faremo».
«Stasera?»
Gemette. «No, ti prego,
troppe cose tutte assieme. Aspettiamo almeno domani».
«Va bene»
acconsentii, sgusciando fuori dal letto e avvicinandomi alla stufa
per asciugarmi i capelli.
Una ventata bollente mi avvolse con
violenza, strappandomi un grido sorpreso e asciugando in un lampo
ogni pollice del mio corpo. Era indubbiamente una magia.
Mi girai
in direzione di Durza -che stava nuovamente ridendo senza ritegno- e
resistetti alla tentazione di saltargli addosso e prenderlo a
pugni.
«Bastava avvisarmi!» ringhiai irata. «La
minaccia alla
tua virilità è ancora valida, Spettro!»
Alzò i palmi in segno
di resa. «Non arrabbiarti, volevo solo riscaldarti»
concluse in
tono sensuale.
Mi morsicai le labbra. «Vado a prendere un secchio
per svuotare la tinozza» dissi poi. O
ti uccido, aggiunsi
tra me e me.
«Vuoi una mano?»
«No».
Mi seguì lo stesso.
Prendemmo un secchio a testa dalla cucina e svuotammo l'acqua in
strada.
Poi, di comune accordo, andammo a mangiare in un'osteria
non troppo lontana. Il cibo era stranamente delizioso e mangiai
almeno tre tortine dolci alle mele. La birra non era da meno e per
una volta ci concedemmo di bere qualcosa di diverso da una brocca
d'acqua.
Tornammo all'Avvoltoio un po' su di giri, ma comunque
lucidi, e salimmo in camera, dove avremmo semplicemente aspettato che
si facesse sera per tornare alla funzione.
Tutto ad un tratto mi
venne voglia di conversare.
«Te hai capito cosa significava la
dodicesima Verità di stamattina?»
«La cosa?» biascicò
stendendo un braccio sopra agli occhi.
Era supino sul materasso,
mentre io stavo riordinando il mio zaino e le mie bisacce, seduta
accanto alla cassettiera.
«Sei così
ubriaco
Spettro?»
«No, ma non me la ricordo. Forse è quella che non
ho
capito neanche io».
«Parlava di un illusionista, multiforme, un
dio solitario che viaggia da sponda a sponda, che apre le porte..
qualcosa del genere».
«Hai buona memoria».
«E tu una buona
parlantina.. Era quella allora?» insistetti.
«Sì». Si puntellò
sui gomiti e mi guardò. «Non potrebbe riferirsi ai
draghi vero?»
Ci
pensai su. «Dio solitario? Non credo..»
«Loro tendono ad
unificare diversi concetti in uno unico, come hanno fatto con i
Ra'zac, ai quali si riferiscono come un unico dio, quindi potrebbero
benissimo parlare dell'ordine dei cavalieri in generale».
Esitai.
«Non mi sembra coerente. Dopo presterò
più attenzione, ma non ci
scommetterei».
Dopo quel breve scambio Durza parve rabbuiarsi.
Tacque a lungo e divenne pensieroso. Quando si alzò sembrava
addirittura in imbarazzo, a disagio.
Afferrò una bisaccia dalla
cassettiera e la aprì, probabilmente alla ricerca di altra
menta.
Peccato che avesse sbagliato bisaccia.
«Durza quella è la mia!»
esclamai.
Ma quando mi tirai in piedi era troppo tardi.
Lo
Spettro teneva in mano una piccolissima fialetta contenente un
liquido nero. Feci per strappargliela di mano, ma si voltò e
la
stappò in un istante.
L'odore amaro giunse anche alle mie
narici.
«Veleno» sentenziò con voce gelida.
Mi sentii
precipitare. Abbassai la testa e aspettai che tornasse a parlare.
Ero
stata una sciocca. Avevo sfilato la boccetta di Fricai Andlat dallo
stivale quando eravamo arrivati a Taurida e l'avevo messa nella
piccola sacca che tenevo in vita insieme alla borraccia e i
fazzoletti di lino. Non avrei mai pensato che Durza avrebbe finito
per trovarla.
Non ero pronta ad inventarmi delle spiegazioni,
anche perché non ce n'erano di possibili. A meno che non
volessi
negare di sapere della presenza del veleno tra le mie cose, ma la mia
reazione era stata più che rivelatrice.
Lo Spettro poggiò con
delicatezza la fiala sulla cassettiera, mi afferrò le spalle
con
violenza e mi trascinò a sedere sul letto di fronte a lui.
Mi
stava facendo male, ma preferii stare zitta.
Quando tornò a
parlare lo fece nell'antica lingua. «Era per me?»
«No» risposi
sinceramente.
Si rilassò visibilmente e le sue dita si
allentarono. «Per te?»
Colsi l'occasione per sviare il discorso
da come, dove e quando mi fossi procurata il Fricai Andlat, e
conseguentemente di non riportare la discussione sull'argomento
“Alba”, che a quanto pareva era abbastanza
scottante.
Lasciai
che le lacrime mi annebbiassero gli occhi e risposi con un flebile:
«Sì».
L'espressione dura di Durza si addolcì ulteriormente e
la stretta sulle mie spalle diventò una carezza.
«Per quale
motivo?»
«Se Galbatorix mi trovasse e mi catturasse.. Non voglio
finire viva nelle sue mani».
Ed era effettivamente parte della
verità. Non potevo certamente dirgli che conservavo quel
veleno nel
caso lui avesse deciso di tradirmi, e ancor meno confessare che era
stata la sua cameriera a mettermelo tra le mani.
Sospirò
profondamente. «Mi hai fatto prendere un accidente,
Arya» disse
tornando alla lingua degli uomini.
Lo guardai confusa. «Perché?
Ho giurato che non ti avrei tradito, ricordi?»
«Sul tuo onore..
ma magari eri disposta a sacrificare il tuo onore per levarmi di
mezzo.. In realtà io..»
Lasciò il discorso a metà e sentii
nell'aria il peso grave delle parole non dette. Parole che non avrei
mai potuto indovinare ma che avrei voluto sentire.
I suoi capelli
erano ancora scompigliati dal bagno mattutino ed ebbi il fortissimo
istinto di allungare una mano per pettinarli tra le dita.
Mi
trattenni, ovviamente, e per qualche minuto restammo in silenzio
totale.
Un altro paio di sensazioni mi giunsero tutte insieme: le
sue mani cadute ormai sulle mie gambe, ma non inerti, bensì
tese ed
inquiete; i suoi occhi che mi scivolavano addosso; le sue labbra
strette in una linea sottilissima.. E quella fu la prima volta che
ebbi l'atroce dubbio che Durza lo Spettro mi desiderasse.
Che non
fosse solo una questione di irritanti battutine e scherzetti fuori
luogo.
Forse mi voleva davvero. Voleva baciarmi, voleva toccarmi,
voleva..
Per
il Wyrda di Alagaesia, no!
«Bene!»
esclamai alzandomi in piedi, agitata come in poche altre occasioni
della mia vita. «Se la cosa non ti turba eccessivamente mi
tengo il
veleno» dissi accennando alla fiala.
«Mi fido del tuo giudizio»
rispose con calma, gli occhi vacui.
Lo Spettro rimase in silenzio
per più di due ore. Un mutismo quasi preoccupante
considerata la sua
abilità nel parlare in continuazione di ogni cosa che gli
venisse in
mente.
Doveva esserci qualcosa che non andava, ma non mi azzardai
a fare domande, non avrebbe apprezzato.
Riprese a parlare quando
la seconda ora del pomeriggio era ormai al termine e per lungo tempo
discutemmo dell'eventualità di introdurci in segreto nei
locali
della cattedrale, saltando a pie' pari tutto ciò che
riguardasse la
conversione.
Era rischioso, molto rischioso. E probabilmente non
avremmo nemmeno avuto la magia dalla nostra parte: Durza sosteneva
che l'incantesimo di ametiste che bloccava la mia magia fosse
un'invenzione dei Sacerdoti, quindi era probabile che fossero capaci
di respingere un attacco magico senza troppi sforzi.
In più ci fu
un'altra cosa che disse lo Spettro che mi inquietò
ulteriormente.
«Lo so che conviene essere prudenti, ma dovremmo
sbrigarci. Il Re sta lavorando a.. una ricerca. Una ricerca che gli
darebbe in mano un potere enorme. E non è così
lontano dalla
soluzione, purtroppo».
«Un potere enorme? Un ulteriore potere
oltre a quello di cui mi hai già parlato?»
«Sì» rispose e
colsi nuovamente un'espressione che rasentava l'umiliazione, tipica
del suo viso ogni volta che si finiva per parlare del sovrano.
Feci
scricchiolare la schiena in una torsione. «Quanto?»
«Quanto
tempo abbiamo dici?» Annuii. «Ancora qualche mese
penso. Spero. In
realtà non ho alcuna certezza. Potrebbe scoprirlo oggi, come
domani,
come tra un decennio..» Esitò.
«Effettivamente non vale la pena
preoccuparci di questo, non posso stabilire una scadenza».
Così
accantonammo la fretta a favore della prudenza.
E quella sera
tornammo alla cattedrale e seguimmo il rito.
E la dodicesima delle
dodici Verità rimase un mistero per me e anche per Durza.
La
visione di Fäolin tornò anche quella notte, come in
tutte le notti
precedenti. Mi risvegliai scossa dalle mani dello Spettro,
biascicando parole nell'antica lingua riguardo a una porta e a una
speranza. Non avevo idea di cosa volessi dire, né
dell'origine di
quei concetti.
Durza mi guardava sconvolto e allarmato, come si
guarda una pazza o una morente. Ma poi mi porse una borraccia d'acqua
e mi accarezzò la schiena fino a che non mi calmai.
La sua
espressione, tesa e guardinga, e i suoi occhi fiammeggianti passavano
un chiaro segnale: Questa
era l'ultima volta. Alla prossima mi dovrai una spiegazione.
In
tutta sincerità, non vedevo l'ora.
_____________________________________________________________________________________________
Salve a tutti! ^_^
Mi prendo un piccolo angolo autore per informarvi che per la descrizione del rito ho in gran parte ripreso le descrizioni all'inizio di "Brisingr" e ho cercato di tappare i buchi con un po' di fantasia, ovviamente!
L'allusione al Dio solitario si trova anch'essa in "Brisingr", quando Arya va a recuperare Eragon e scrive quelle frasi sulla terra. Le parole sono rimaste un mistero, che cercherò di sciogliere più avanti.
La donna con gli occhi di lupo.. è davvero necessario dirvi chi è? xD Paolini ha accennato e lasciato cadere molti ponti durante l'intero Ciclo -non so se intenzionalmente o per errore- e ho intenzione di recuperarne il più possibile e portarli a termine.
Grazie a tutti e buona domenica! :* |
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Capitolo 20 *** Scoperte e confessioni ***
20.
Scoperte e confessioni
Io
e Durza eravamo seduti sul fondo alla Cattedrale, dove già
ci
eravamo nascosti le due volte precedenti, e ascoltavamo il rito con
impassibile attenzione. Avevamo già imparato le poche
risposte
necessarie per poter partecipare alla funzione senza problemi, erano
piuttosto facili.
Quella mattina buona parte dei nostri sguardi
erano stati riservati ai monaci, gli uomini vestiti di tela che
stavano in piedi dietro ai Sacerdoti, lungo le pareti dell'abside.
Sapevamo di dover parlare con uno di loro, ma non sapevamo
esattamente quando e come, così decidemmo di aspettare la
fine della
funzione e di fermare uno di quelli che stavano alle porte, dopo che
avessimo ricevuto il Segno di sangue sul volto.
E così facemmo.
Lo Spettro mi strinse le dita e mi condusse con sé verso il
portone
di sinistra, dove ricevette il Segno per primo.
Mentre ancora
pronunciavo il mio “Grazie per il tuo sacrificio”
il mio compagno
di viaggio iniziò a parlare con il monaco in piedi
lì
accanto.
«Prima di entrare nella comunità dovrete essere
indottrinati a dovere da uno del mio ordine» stava dicendo
l'uomo,
con la testa completamente rasata che riluceva dei primi raggi del
mattino.
«Lei è mia moglie» mi introdusse Durza.
Accennai
una riverenza. «Onorata.»
Lo Spettro mi lanciò uno sguardo
obliquo, ma il monaco parve compiaciuto e mi rispose con un cenno
della mano.
«Anche tu vuoi convertirti?»
«Sì» risposi con
ferma pacatezza.
«Ebbene, amici miei, dovrete seguire un
percorso. Verrete convocati per un mese, due volte a settimana, e
imparerete tutto ciò che dovete sulla nostra religione e sul
nostro
immenso Dio». Si baciò il pugno chiuso.
Vidi le spalle di Durza
gonfiarsi leggermente in un atteggiamento teso. «Non possiamo
cominciare subito? È necessario un intero mese?»
«Sei così
impaziente di servire il Signore?»
«Non vorremmo fermarci al
semplice ruolo di credenti, vogliamo diventare suoi funzionari ed
entrare nell'ordine dei Sacerdoti» fu la pronta risposta.
Il
monaco ci fece cenno di spostarci dal portone e ci condusse fuori
dalla strombatura, lateralmente alla facciata, e si appoggiò
ai
bassorilievi.
«Avete figli?» ci chiese poi.
«No» fece
Durza.
«Non ancora» specificai.
Ebbi la netta sensazione che
lo Spettro fosse sul punto di inchiodarmi alla parete nera e sbattere
la mia testa contro di essa fino a massacrarmela.
Sorrisi
lievemente. Non potevamo permetterci di dire cose diverse su quel
punto. Alla locanda dove alloggiavamo sapevano che aspettavo un
figlio, e lo stesso sapevano una parte delle guardie cittadine, una
sconosciuta e un erborista. Non erano molti calcolata la
vastità di
Dras-Leona, ma una gravidanza è una caratteristica che si
tende a
ricordare fin troppo bene, non valeva la pena correre il rischio di
essere pubblicamente contraddetti da una di quelle persone che
così
credevano. Sperai che Durza lo capisse e continuasse a reggermi il
gioco.
Lo fece restando in silenzio quando il monaco mi chiese se
fossi incinta e io assentii.
«Allora la cosa si fa più
complicata» disse poi. «Non impossibile, ma
complicata. Insomma una
coppia che aspetta un figlio può unirsi alla famiglia della
Carne di
Dio ma dovrete offrire un dono in cambio: il frutto dei vostri atti
terreni sarà consacrato al Signore e sarà
cresciuto nel monastero
come figlio non vostro ma di Dio stesso».
«Dovrei rinunciare a
crescere mio figlio?»
L'uomo annuì. «O liberartene prima che
nasca». Fissò ostinatamente il mio addome.
«Non mi sembra che la
tua gravidanza sia molto avanzata.»
«Solo due mesi»
confermai.
«Un bravo speziale o erborista sarà in grado di
darti
una pozione che ti faccia abortire. Se volete entrare nei Sacerdoti
questa è la soluzione migliore, anche perché
altrimenti sarete
costretti ad aspettare che la signora partorisca prima di poter
essere ufficialmente ammessi».
Non avevamo altri sette mesi a
disposizione. Mi sarei liberata del “bambino”.
«D'accordo,
grazie» disse lo Spettro.
«Oppure» saltò su improvvisamente il
religioso, «c'è un'altra soluzione».
«Quale?» abboccai
immediatamente.
«Conoscerete ovviamente le differenze tra
l'ordine monacale e quello sacerdotale..»
cominciò, ma si
interruppe, probabilmente alla vista dei nostri sguardi
perplessi.
«Siete sicuri di volere entrare nell'Ordine?»
insinuò
davanti alla nostra ignoranza.
«Sentiamo di doverlo fare» dissi,
cercando di impregnare la mia voce di tutta la superstiziosa credenza
che avevo notato nel tono della donna che mi aveva accompagnata
dall'erborista.
Funzionò, il monaco ricominciò a parlare
spedito: «Allora sappiate che c'è una sostanziale
differenza tra
Monaci e Sacerdoti. Mentre i Sacerdoti sono letteralmente la Carne di
Dio, noi ne siamo solo i servi. Doniamo a volte il nostro sangue
durante le cerimonie, ma ci sono riti e misteri ai quali non possiamo
partecipare, ali della Cattedrale a cui non dobbiamo accedere.
Diciamo che siamo più limitati, ma in un certo senso la
nostra
esistenza è più tranquilla dato che non dobbiamo
privarci di parti
del nostro corpo per nutrire la fame del Signore. E come se non
bastasse è molto più facile entrare nell'ordine:
un'educazione di
base, un notte intera in preghiera, i capelli rasati, un goccetto di
sangue sull'altare e sareste già dentro». Si
fermò all'improvviso
e ci guardò con imbarazzo. «In teoria dovreste
però rinunciare
ufficialmente al vostro matrimonio -cosa che dovreste fare anche per
entrare nei Sacerdoti- e non.. insomma non giacere più
insieme. È
un problema?»
Durza aprì la bocca e lo anticipai esclamando:
«Niente affatto!»
«Per me è un problema a dire il vero»
ribatté e mi lanciò un ghigno.
Il monaco si strinse nelle
spalle. «Questa è una scelta vostra. Io posso solo
darvi altre
informazioni sull'ordine monacale. Si tratta di lavorare all'interno
dell'ambiente della Cattedrale e dei suoi edifici, ma fare cose
semplici, come cucinare e pulire e riscuotere denaro dagli
appezzamenti di terreno che la chiesa possiede. Siamo coloro che
assistono i Sacerdoti nel loro alto compito».
«E potrò tenere
mio figlio?» chiesi a quel punto. Non potevo fingermi
così
altamente disinteressata alla mia prole. Quella era una prerogativa
di mia madre.
«Fino a che non sarà diventato adulto
potrà stare
all'interno della struttura. Ma come laico dovrà lavorare,
non può
pesare inerte sulle spalle della chiesa. Tuttavia una volta diventato
adulto verrà cacciato, a meno che non entri a sua volta
nell'ordine».
Annuii. «Mi pare ragionevole.»
«Intanto
potremmo cominciare con le lezioni sulla religione, amico, che
dici?»
propose lo Spettro.
«Sì, avrete tempo di decidere dopo che
sarete diventati dei fedeli in piena regola. Allora dovrete venire
qui alla cattedrale ogni terzo e quinto giorno della settimana. Gli
altri giorni c'è il mercato sapete.. non verrebbe
nessuno!» Perse
il filo. «Ehm sì, allora ogni terzo e quinto
giorno un'ora prima
del rito della sera. Entrate nella cattedrale»,
indicò alle sue
spalle, «e mettetevi in preghiera. Qualcuno verrà
a prendervi, non
siete gli unici conversi, molti stanno lentamente abbracciando Dio in
questa miseria».
«Ci sei stato molto utile» lo ringraziò
Durza.
«Vi rivedrò presto alle funzioni e alle lezioni
suppongo».
Gli sorrisi. «Non mancheremo.»
Ci allontanammo
dall'ombra opprimente della cattedrale.
«Ne sappiamo troppa poca»
bisbigliò lo Spettro.
«Di cosa?»
«Di tutto. Se sapessi che
diventare monaci fosse sufficiente direi di buttarci su quella
soluzione -anche se ovviamente mi piange il cuore all'idea di non
poter più dividere il letto con te- ma non sono sicuro che
questo ci
permetta l'accesso ai loro archivi».
«Potremmo sempre
intrufolarci» suggerii ignorando la provocazione.
«Una volta
entrati nell'ordine monacale dici?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Rubiamo delle tuniche nere, sicuramente saranno i monaci a
lavarle
quindi non dovrebbe essere un problema».
«Io non ho la minima
idea di come sia organizzato quel posto. Non conosco gli edifici
sotto e nemmeno quelli sopra. Non ho idea di dove sia l'archivio e a
dire il vero non sono nemmeno certo che ne abbiano uno!» la
frase si
concluse in un tono esasperato.
«Mi stai suggerendo di
rinunciare?»
«Ti sto informando che è l'impresa più
sventata,
male organizzata e pericolosa che io abbia mai fatto» disse
con il
volto allungato in un'espressione seria.
«Probabilmente vale
anche per me» osservai, nel vano tentativo di consolarlo.
«Ma forse
ne vale la pena, no? Se esiste davvero una labile
possibilità di
neutralizzare il potere di Galbatorix potremmo fare in pochi mesi
ciò
che nessuno è riuscito a fare nell'ultimo secolo».
Ridacchiò.
«L'Elfa e lo Spettro, saremo il terrore di
ogni
cantastorie».
Mio malgrado risi a mia volta, forse la prima vera
risata da quando Fäolin mi aveva strappato l'ultima, prima di
morire. Il pensiero mi costrinse a spegnerla bruscamente.
Durza mi
guardò, la fronte aggrottata, ma poi passò ad un
altro
argomento.
«Tra qualche giorno abbiamo un appuntamento con
Ditolesto. Ho buone ragioni di credere che sarà in grado di
dirci
qualcosa in più sulla Cattedrale e i suoi
ambienti».
«Lo spero
davvero, o saremo costretti ad entrare alla cieca».
Percepii una
certa frenesia intorno a me e mi guardai intorno con attenzione. Io e
lo Spettro ci stavamo dirigendo verso un'osteria -stava diventando
sospetto il fatto che passassimo tutto il giorno alla locanda- e
stavamo procedendo in direzione delle porte, controcorrente.
«Dove
vanno tutti? Non dirmi che c'è un'altra funzione».
Scosse la
testa. «Oggi è il secondo giorno della
settimana» disse
semplicemente.
Ricordai immediatamente: il mercato degli
schiavi.
«Prima che tu me lo chieda: no, non ti porterò a
vederlo» aggiunse immediatamente lo Spettro.
«Non stavo per
chiedertelo» mentii. «E in ogni caso..
perché?»
«Perché
qualcosa mi dice che faresti una sciocchezza, tipo buttarti sul palco
del mercato e tagliare la gola a tutti i mercanti, poi condurre una
spedizione di schiavi ad assediare il palazzo del governatore e
prendere il controllo della città e..»
«Stai lievemente
esagerando» lo fermai.
«Uhm, conoscendoti l'esagerazione non è
mai troppa».
Adorabile.
Ci accomodammo ai tavoli di
un'osteria, ovviamente diversa da quella del giorno precedente, e ci
facemmo portare del vino caldo.
Continuando a ragionare
sull'ipotesi di entrare nell'ordine monacale, la mia mente si
soffermò su una soluzione che pareva così ovvia
da dover essere per
forza irrealizzabile.
«Durza?» mi guardò «Puoi
cambiare
ulteriormente i nostri tratti? Renderci totalmente diversi da come
siamo adesso si intende?»
«Senza problemi direi».
«Bene.
Allora se noi fingessimo di essere due tizi qualsiasi in viaggio e
andassimo alla cattedrale a chiedere di vedere i loro documenti, cosa
ci risponderebbero?»
«Farebbero tante domande».
«Domande a
cui non siamo tenuti a rispondere» dissi semplicemente.
«Se ci
rifiuteranno l'accesso ai loro fantomatici archivi, ce ne andremo con
aria indignata».
«Potrebbero semplicemente chiederci di che
libro abbiamo bisogno e andare loro stessi a cercare qualcosa nei
loro antri. E in quel caso dovremmo -anzi dovrei- rivelare loro il
segreto di Galbatorix, e non posso farlo. A quel
punto li
avremo insospettiti per nulla, tanto vale seguire la via dei Monaci o
dei Sacerdoti».
Gli rivolsi uno sguardo grave. «Dovremmo anche
cominciare a lavorare sul tuo vero nome. Fino a che Galbatorix ha
questo potere su di te non posso nemmeno fidarmi totalmente delle tue
promesse e delle tue azioni».
«Perché se fossi libero dal suo
controllo ti fideresti?» chiese con asprezza e un pizzico di
sfida.
«Sì» risposi, stupendo sia lo Spettro
che me stessa.
Le
sopracciglia di Durza migrarono fino all'attaccatura dei suoi
capelli, o almeno così mi parve.
«So che hai ucciso i miei amici
e mi hai torturata per dei mesi» mi affrettai a
giustificarmi, «ma
mi hai anche fatto delle promesse. E anche se mi hanno insegnato a
non fidarmi mai delle promesse di uno Spettro, voglio crederti. Che
dovere ubbidire a Galbatorix non ti piaccia è chiaro come il
sole,
quindi perché dovresti mentirmi? Se vuoi veramente liberarti
del
dominio del re io potrei davvero esserti utile, quindi mi pare che
l'intero ragionamento fili dal punto di vista logico».
Vidi
un'ombra oscurare le iridi dello Spettro ma non riuscii ad
interpretarla perché dopo un attimo era già
sparita.
«So cosa
stai cercando di fare, Arya» disse poi duramente.
Non tentai
nemmeno di nascondere la mia confusione. «Cosa starei
cercando di
fare, scusa?»
«Stai cercando di incantarmi» rispose, in un tono
di minaccia controllata. «Sappi che in buona parte ci stai
riuscendo, ma sappi anche che quando verrà il momento di
scegliere
io sceglierò sempre me stesso».
«Barzul!» imprecai tra i denti
«Sei tu che per primo mi hai chiesto di fidarmi di te e ora
te ne
stai lamentando?»
«Abbassa la voce ed evita di sbottare parole
che non conosco».
«È nanico» lo informai.
Fece un gesto
disinteressato. «Non lo parlo».
Ero esasperata. «Dato che non
mi credi sarà difficile aiutarti a cambiare te stesso,
dovrei
conoscerti molto meglio per poter fare qualcosa».
«Vuoi che ti
racconti la mia vita piccola Elfa?»
Accolsi la domanda con un
cenno vago del capo, ricordando automaticamente la volta in cui si
era distratto cercando di penetrare la mia mente. Ricordavo che la
sua era strana, multiforme, costellata da zone di buio.
Ricordavo
un dolore atroce, la solitudine e la perdita di un uomo che amava
come un padre.
Non ero mai stata una che incoraggiava gli altri ad
esporre le proprie sofferenze. Non volevo che lo chiedessero a me,
quindi mi veniva spontaneo evitare. C'erano cose che si potevano
tenere per sé, se si era in grado di sopportarle senza
cercare
consolazione.
Tuttavia con Durza ero curiosa. Forse perché era
uno Spettro e non ne avevo mai conosciuto uno, ovviamente. Anzi,
nessuno ne aveva mai conosciuto uno.
Era una curiosità più
accademica che personale, però mi bruciava le viscere alla
stessa
maniera. Ma non volevo che lui lo notasse.
I miei occhi vagarono
pigramente sui suoi capelli e di nuovo ebbi l'impulso di passarci le
dita. Non ne avevo mai visti di così rossi, se non nel Surda.
Lo
Spettro tossicchiò. «Quindi non stai cercando di
incantarmi?»
chiese in tono più amichevole, deviando immediatamente dal
discorso
sul suo vero nome.
Lo capivo. Non è facile affidarsi a qualcuno
per risolvere un problema di una tale delicatezza, considerando anche
il fatto che, per poterlo aiutare, avrei dovuto conoscere almeno
parte del suo vero nome e gli avvenimenti legati ad esso. Durza non
aveva la minima voglia di farmi delle confidenze e la cosa era
comprensibile.
«No, credevo che fossi tu a cercare di incantare
me» ribattei senza insistere.
«Confermo».
«Spettro..» lo
ammonii.
Fece una smorfia divertita e schioccò due dita tra loro.
«Non ci riuscirò mai, temo».
«No».
«A parte gli scherzi:
Davvero ti fideresti di me? Non mi odi?» chiese con sincera
curiosità.
Tentennai. Fidarmi di lui e non odiarlo erano due
faccende completamente diverse, e a dire il vero non ero certa di
riuscire a rispondere con sicurezza a nessuna delle due domande.
Forse mi fidavo, ma non in maniera totale e forse non lo odiavo,
ma gli serbavo comunque del rancore.
«E tu? Mi odi?»
«Non si
risponde ad una domanda con una domanda».
«Non lo sapevo»
mentii. Quelle erano le regole della buona educazione, e le conoscevo
benissimo.
«Mi dispiace di avere ucciso i tuoi amici e averti
torturata» disse all'improvviso, facendomi sussultare.
«Anzi no,
non mi dispiace, perché se mi dispiacesse veramente
sceglierei di
non farlo mai più. E se invece avessi la
possibilità di ritornare
indietro lo rifarei ancora, senza pensarci due volte. Quello che
voglio dirti è che ho dovuto. Che non mi sono divertito, e
che so
quanto odio si prova nei confronti di chi ti ha portato via gli
affetti».
«Non eri minimamente tenuto a giustificarti»
osservai
perplessa.
«Lo so». Sorrise. «Era una maniera
dignitosa per
dirti che non ti odio».
Ricambiai il suo sorriso stirando le
labbra. «Forse» dissi poi, laconica.
Forse non ti odio, forse
capisco cosa ti ha spinto a farmi questo, perché per
arrivare ai
miei obiettivi anche io avrei fatto qualsiasi cosa fosse necessaria.
Anche uccidere, anche torturare, anche se ne avrei odiato ogni
istante.
«Ricevuto!» esclamò, poi
abbassò nuovamente il
tono. «Se non hai nulla in contrario io direi di cominciare
ad
andare a quelle maledette lezioni di religione già da domani
sera».
«Il nostro mentore ha detto che ci vorrà un mese
per
poterci convertire appieno», osservai,
«è un tempo molto
lungo».
Annuì vigorosamente. «Lo so, ma credo che
sarà più
prudente e più fruttuoso procedere con calma. Hai fretta
madamigella?» domandò poi sarcastico.
«No, ma sono preoccupata»
ammisi a disagio.
«Per cosa?»
«Tutto e tutti. Mi credono
morta, Durza. Nessuno di quelli che conosco sa di quello che sto, che
stiamo facendo».
«Ed è così problematico?»
Aprii la
bocca per rispondere che sì, lo era, che avevo lasciato
dietro di me
una vita, una serie di progetti, un compito importante. La resistenza
aveva bisogno di me, non era una questione di egocentrismo, era
così
e basta.
Gli Elfi avrebbero impiegato un tempo infinito per
nominare un mio sostituto, se lo avrebbero
nominato, e i
contatti tra i Varden e il mio popolo sarebbero rimasti asciutti per
tutto quel tempo. Forse avevo fallito nel mio ruolo di Custode, ma
ero ancora l'ambasciatrice.
Aprii la bocca per dire tutto questo e
per chiedere di mandare un messaggio alla mia gente, solo un avviso,
per dire loro che ero viva e in salute. Ma poi realizzai che avrei
automaticamente dovuto rinunciare all'alleanza con lo Spettro.
Perché
il mio popolo sarebbe venuto a cercarmi. Non ero propriamente amata
tra la mia gente, ma rispettata sì, e per di più
ero la figlia
della regina: non mi avrebbero lasciata a fare gli affari miei
sapendomi in combutta in un piano segreto per deporre Galbatorix. Un
piano che non comprendeva l'aiuto di nessuno dei miei storici
alleati.
No, se volevo usufruire della proposta di Durza dovevo
farlo in silenzio e nell'ombra, anche fingendomi morta se
necessario.
Se avessimo fallito nessuno ne avrebbe mai saputo
nulla, se fossimo riusciti nell'impresa allora avrei potuto
raccontare tutto, per quanto incredibile potesse sembrare.
Aprii
la bocca.. e poi la richiusi. «Direi di no»
risposi, dopo una pausa
troppo lunga, lo sapevo.
Durza allungò una mano sul tavolo che ci
separava e sfiorò le mie dita, serrate intorno alla tazza di
vino
ormai raffreddato.
«Se andrà tutto bene diventerai
un'eroina»
disse in tono incoraggiante.
«Non mi importa».
«Lo
immaginavo, ma sarà gratificante lo stesso,
vedrai». Ritirò la
mano e tornò alla sua bevanda.
Restammo ancora qualche ora
all'osteria, poi nel pomeriggio uscimmo da Dras-Leona per andare a
dare un'occhiata alla cava di marmo nero poco distante. Era una
visita di puro piacere, non accompagnata da secondi fini, e me la
godetti come da bambina mi godevo le passeggiate nella foresta, nei
rari spazi di tempo libero che avevo.
La cava era grande e ci
lavoravano in moltissimi contemporaneamente, tanto da sembrare un
enorme formicaio.
Durza girò qua e là tra i lavoratori, facendo
domande e chiacchierando banalmente nei loro tempi di pausa. In
generale mi limitai a seguirlo e ad ascoltare ciò che i
cavatori
avessero da dire.
Dilagava malcontento, ovviamente. Per le tasse
aumentate, per i comportamenti del governatore Tàbor, per la
vertiginosa differenza tra ricchi e poveri.
C'era molta rabbia in
quella folla, una forza spaventosa. Se avessero voluto avrebbero
potuto prendere i loro picconi, presentarsi sotto le bellissime ville
dei nobili e ucciderli uno ad uno, guardie reali comprese.
Ma non
mancavano i deterrenti.
Molti raccontarono di compagni puniti per
una qualche loro comportamento giudicato scorretto o sovversivo: si
andava dalle dita, alle mani, alle lingue, alle braccia tagliate. E
c'erano bel altre fantasiose esecuzioni: la vendita come schiavi,
rogo, impiccagione, morte su graticola, smembramento.
Niente che
contemplasse una pulita e dignitosa decapitazione.
Oltre a quei
discorsi che non mancavano mai di impressionarmi fu interessante
vedere gli uomini al lavoro, con attrezzi rudimentali e fatica
puramente fisica. Dove gli Elfi sarebbero arrivati in un attimo con
la magia, loro arrivavano con la tecnica e le invenzioni, erano
incredibili.
Rientrammo a Dras-Leona all'imbrunire, anticipando la
carovana dei cavatori, che avrebbe fatto lo stesso entro mezz'ora. Le
guardie dei cancelli erano le stesse che ci avevano fatti entrare la
prima sera, Il capitano ci riconobbe e ci chiese come ci trovassimo.
Durza rispose con la sua solita allegria, inventando una menzogna
dopo l'altra, ma non appena voltammo l'angolo imprecò.
Avevamo
attirato troppa attenzione la sera del nostro arrivo e un manipolo di
guardie aveva memorizzato i nostri volti, una cosa che sarebbe stato
meglio evitare.
Dopo cena andammo alla funzione della
sera e per
la prima volta essa fu presenziata da quello che si definiva il Sommo
Sacerdote, un tale senza capelli, con il volto pallido quasi ai
livelli della pelle di Durza e solcato da rughe di fatica, e
sopratutto: privo di arti. Era un semplice tronco, che doveva fare
affidamento sui suoi inferiori per ogni azione. Persino per stare
seduto era legato con delle cinghie al sedile della portantina.
Egli
cominciò ad officiare la funzione chiedendo perdono per la
sua lunga
assenza nella comunità, adducendo come scusa una lunga
convalescenza
a seguito della perdita del braccio destro, offerto in sacrificio a
Dio.
Aveva un modo di parlare un po' sputacchiante, ma
profondamente esaltato. Non c'era dubbio che avesse la più
totale e
sconfinata fiducia in ciò che predicava e che si sentisse di
un
gradino sopra a tutti i presenti, come se lui fosse parte di qualcosa
che noialtri nemmeno potevamo immaginare.
Notai anche l'enfasi
particolare che diede alla dodicesima Verità, che ormai
sapevo a
memoria.
Quella notte la scarabocchiai sul muro della nostra
stanza, con un pezzo di carbone preso dalla stufetta. «Domani
cancellala, Principessa», mi disse Durza, «se
qualcuno si
intrufolasse qui si farebbe delle domande».
«Anche io me ne
faccio parecchie su queste poche parole».
«Potrai sempre farle a
chi potrà risponderti, domani sera».
Ammiccò.
Gli diedi
ragione, ma restai a contemplare le parole ancora un poco, prima di
cancellarle con l'acqua gelida che gli inservienti della locanda
avevano attinto per noi al pozzo del vicino incrocio.
Mi stesi
vicino allo Spettro sentendo il mio corpo mandare segnali di
inquietudine: avevo il battito del cuore accelerato e le mani che
tremavano leggermente.
Non volevo addormentarmi di nuovo, ero in
ansia per le visioni che vi avrei trovato e anche per il discorso che
avrei dovuto fare con il mio compagno di viaggio subito dopo.
Come
se mi avesse letto nel pensiero -probabilmente aveva solo percepito i
miei sentimenti- Durza si girò su un fianco, nella mia
direzione, e
intrecciò le dita alle mie, fermandone il tremore.
«Voglio solo
aiutarti, Arya» disse con la voce così carezzevole
che pareva
stesse spalmando miele nell’aria. «Vuoi dirmi cosa
succede ogni
notte da un paio di settimane a questa parte?»
«Mi sembrava che
per oggi avessimo già esagerato con le confidenze»
protestai
flebilmente.
«Certo, ma sono io quello che ti risveglia ogni
notte, piccola Elfa. Lo faccio da parecchi giorni, in silenzio. So
che gli Elfi non hanno il sonno pesante, so che mantenete un contatto
con la realtà, eppure tu sembri sprofondare in una sorta di
coma.
Avrei il sospetto che tu lo faccia apposta, ma ho visto il terrore
autentico sul tuo viso e ti ho sentita piangere, quindi si direbbe
che c'è qualcosa su questa terra che ti fa più
paura di me.
Forza..»
Solo allora ebbi il coraggio di alzare gli occhi. Durza
era più vicino di quanto ricordassi e sentivo il leggero
profumo di
menta del suo respiro. Calmo e regolare. In qualche modo
calmò anche
me.
«Non so cosa mi succeda» sputai fuori, sentendo il
mio
orgoglio subire una forte ammaccatura.
«Non lo sai?»
«No».
«Prova
a parlarmene lo stesso».
Serrai le labbra e fissai le nostre mani
intrecciate. «Credo che sia una visione, ma più
potente, tanto che
non riesco a staccarmene nemmeno con la mia forza di
volontà. Vedo..
una persona a cui ho voluto bene e che è morta. Lui mi
parla, mi
dice sempre le stesse cose, ma sempre più aspramente. A
volte ci
sono anche altre immagini e ogni volta è sempre
più difficile
riscuotermi».
Se non ci fossi tu probabilmente non mi
staccherei affatto. Pensai, ma non lo dissi.
«Cosa ti
dice?»
Lo guardai. «Mi ordina di ucciderti». Feci una
lunga
pausa «A volte vedo te uccidere me, ti vedo torturarmi di
nuovo..»
Mi fermai quando la mia voce prese a tremare eccessivamente.
Non
era necessario dirgli tutto, no, mi sarei sentita ridicola nel farlo.
Non era necessario che sapesse che Fäolin era morto per colpa
sua.
«Ti direi che sono normalissimi incubi e ti manderei a casa
con una pacca sulle spalle, ma non credo che sia
così».
«Non lo
credo neanche io» lo informai.
«A questo punto resta da capire
chi e perché. Hai nemici potenti?»
Tentai una risata, ma ne uscì
solo un rantolo strozzato. «Intendi oltre a
Galbatorix?»
Ammutolì.
«Non so se può esistere un nemico più
potente di lui in
Alagaësia».
«Ne dubito fortemente».
Ovviamente avevo
pensato che potesse essere qualcuno che mi odiava profondamente a
farmi quello, ma non riuscivo a capire chi potesse conoscermi a tal
punto da farmi rivangare ricordi che erano appartenuti soltanto a me
e a Fäolin.
Deglutii rumorosamente. «Il re sa di
me?»
«Ovviamente sì Principessa» fu la
risposta quasi
pietosa.
«Può.. non so.. leggere la mia mente senza il mio
permesso?»
«Senz'altro, ma non può farlo senza che tu te ne
accorga».
«Non mi sento forzare la mente».
«No, è come se
qualcuno ti mandasse semplicemente un messaggio».
«Chiunque sia
sa troppe cose di me».
«Che invidia!» borbottò in tono
scherzoso, ma non mi lasciai contagiare dal suo sarcasmo.
Avevo
paura, una paura nera.
Mi ero aspettata che Durza sapesse
risolvere la cosa, ma fino a quel momento c'erano state solo tante
domande e poche risposte.
«Lasciamo stare, non è importante.
Passerà..» Sciolsi le mani dalle sue, ma
tornò a sfiorarmi la
pelle sensibile dei polsi un istante dopo.
«Sai benissimo che
non è così».
«E tu sai benissimo che non posso farci
nulla».
«Io sì però, stanotte
cercherò di rilevare l'origine
della visione. Se è un incantesimo scoverò la
fonte senza dubbio.
Se non è un incantesimo posso anche ritirarmi e andare a
cacciare
orsi con gli Urgali».
Risi piano, per la seconda volta nella
giornata.
Quella era l'unica possibile cosa da fare: scoprire chi
mi stesse torturando.
«Ti ringrazio» aggiunsi poi.
Si sporse
su di me e mi baciò sonoramente sulle labbra.
«Dormi che sono
curioso».
E spense la candela.
Ma non riuscivo ad assopirmi,
non quando da un lato desideravo ardentemente dormire e dall'altro
avrei voluto mantenere la mia veglia in eterno. Mancavano tre ore
all'alba e ancora giacevo ad occhi
spalancati.
«Arya..»
«Addormentami».
Lo fece.
Fäolin,
sanguinante e disperato, mi implorava di vendicarlo, di non
dimenticare chi fosse lui e di non perdere me stessa. Poi vidi degli
occhi. Occhi di tutte le forme e dimensioni, gli occhi di mia madre e
di altri elfi di Ellesméra, gli occhi di Orik, Brom e dei
nani e
degli umani a Tronjheim, poi tutte le visioni sfumarono in un unico
grande occhio lattiginoso.
Mi riscossi bruscamente, scattando
a sedere e inspirando violentemente aria fredda, che mi
graffiò la
gola.
Poi schiusi le palpebre, lentamente. Era buio, totalmente
buio, ma sentivo lo Spettro respirare vicino a me.
«Allora?»
ansimai.
«Niente» rispose funereo.
Il sangue mi defluì dalla
testa e mi parve di stare pericolosamente fluttuando nel vuoto.
Ricaddi pesantemente sul materasso.
«Cosa significa
niente?»
«Esattamente quello. Non ho trovato una fonte,
una traccia, un minimo segno di magia. È come se venisse da
te».
«Oh
per il Wyrda di Alagaësia!»
«O forse qualcuno è riuscito a
nasconderla».
«Nascondere l'origine dell'incantesimo? Ci vuole
un potere enorme».
Non sapevo a chi pensare. Dopo Galbatorix, gli
Elfi erano l'unica potenza che mi pareva in grado di fare una cosa
simile. Ma non era il mio popolo il colpevole, di quello ero sicura:
non mi avrebbero mai fatto una cosa del genere.
«Non ho idee»
ammise Durza scoraggiato, «ero convinto che sarei riuscito a
risolvere la cosa in un lampo e invece è più
complicato di quanto
credessi».
Mi tremarono le labbra, quindi le morsicai con
violenza. Non era decisamente il caso di mettersi a piangere, anche
se una forza sconosciuta agiva su di me, terrorizzandomi.
Del
resto fino a quel momento non mi aveva uccisa, potevo sperare che
continuasse così.
Certo, ma mi avrebbe esaurita.
«Mi
dispiace, Principessa» biascicò lo Spettro,
sfiorandomi una
spalla.
«Non fa nulla».
«Proverò di nuovo, farò anche uno
scudo protettivo intorno a te».
«Grazie».
«E nel caso
continuerò a svegliarti».
«Grazie».
Per quella notte
non dormii più, ovviamente.
Al mattino andammo alla funzione e
all'uscita incontrammo nuovamente il monaco che ci aveva dato le
indicazioni per convertirci.
«Vi aspetto nel pomeriggio, sarò io
a istruirvi».
«A più tardi allora!» rispose Durza con
entusiasmo.
Per il resto della mattina bighellonammo per la città
fino a che il freddo non ci costrinse a rifugiarci in un'osteria,
dove ci fermammo anche a mangiare per pranzo.
Nel pomeriggio
proposi allo Spettro di tornare dall'erborista dove avevo
già
comprato l'occorrente per il Nalgask e le sue foglie di
menta.
«Voglio della salvia per la cura dei denti».
Rise.
«Sei una maniaca della pulizia. L'ultima volta ti sei
comprata un
pezzo di sapone, oggi la salvia..»
«Tu puoi usare la magia per
ripulirti».
«Posso usarla anche su di te».
«Oppure possiamo
andare a comprare della salvia».
Si strinse nelle spalle. «Ci
sto! Tanto non avremmo granché da fare qui».
Gettò un'occhiata
alla stanza -non troppo pulita- dove avevamo trascorso buona parte
della mattina, a mangiare e a parlare pigramente di tutto tranne che
di quello che era successo la notte precedente. Non ce n'era affatto
bisogno ormai.
Ricordavo abbastanza bene la strada per la bottega,
che era nella parte di Dras-Leona rivolta verso il Surda, fuori dalla
zona ricca e al limite di quella della miseria.
Tuttavia, quando
vi arrivammo, trovammo la piccola bottega distrutta, le piante sparse
ovunque in mezzo alla strada, e tutto ciò che poteva anche
solo
vagamente sembrare di valore era sparito.
Mi tesi immediatamente.
Che cos'era successo?
Avanzando con cautela, mi sporsi all'interno
del piccolo ambiente e vi trovai lo stesso disastro che dilagava
fuori. Quando mi volsi nuovamente verso la strada, trovai Durza con
il naso all'insù, i tendini del collo contratti e lo sguardo
puntato
esattamente sopra la mia testa, all'altezza dell'architrave.
Seguii
la linea dei suoi occhi e vidi una mano rossa impressa sopra la
porta. La raggiunsi con un piccolo salto e ne grattai via un poco con
le unghie, poi mi portai le dita al volto, per annusarle.
Era
sangue.
«Cosa state facendo?» urlò qualcuno alle
nostre
spalle.
Era un bambinetto così magro che quasi si confondeva con
l'aria. Forse aveva anche una dozzina di primavere, ma non ne
dimostrava più di otto.
«Ehi ragazzino», lo apostrofò Durza,
«sai dirci che cosa è successo qui?»
«C'è la mano rossa sulla
porta» rispose lui con ovvietà, avvicinandosi
sospettoso a noi.
«E
cosa significa?» domandai, piuttosto impaziente.
«Che il vecchio
Gamall è un Irriverente e ha compiuto crimini contro
Dio». Fece una
smorfia pensierosa. «O forse posso già dire che era
un
Irriverente. Ma no, mi sembra che la consacrazione dei nuovi adepti e
la consegna del terzo sacrificio mensile è domani».
«Va bene,
spiegaci esattamente tutto quello che hai detto e tornerai a casa con
due corone, hai capito bene?» calcò lo Spettro.
Il bambino si
illuminò tutto e cominciò a parlare come un fiume
in piena: «Tutti
dicevano che Gamall era bravino nel suo lavoro, ma che era vecchio e
che stava diventando pettegolo come una comare e che non aveva
più
bene in controllo della sua lingua. Lo sapevano tutti, eh! Bastava
passare di qua per caso per sentirlo bestemmiare contro Dio,
accusandolo di essere la rovina della città. Una volta ha
interrotto
la funzione del mattino e si è messo ad urlare in chiesa,
poi ha
anche tirato una scatola di foglie secche contro un Sacerdote.
Qualche volta», abbassò il tono ai livelli di un
cospiratore,
«diceva male anche del re. Comunque qualcuno deve finalmente
aver
trovato la forza di andarlo a dire ai Sacerdoti, che lo hanno
riconosciuto come un Irriverente, uno che ostacola la chiesa e robe
così, quindi Gamall sarà giustiziato. Lo
consegneranno a Dio perché
con la sua carne paghi i suoi errori e trovi il perdono. Per questo
c'è la mano rossa: ti fanno un buco nel mezzo della
mano» e si
indicò il palmo «e poi te la fanno appoggiare alla
porta, così la
gente sa che eri un Irriverente e che deve buttare le tue cose. Se
avete comprato della roba dal vecchio dovete metterla via
perché è
maledetta e vi procurerà dolore. Gamall potrebbe anche
tornare sotto
forma di spirito e cercare le sue cose, quindi è meglio che
non le
abbiate più».
«Quando.. Quando lo consegneranno a Dio?» trovai
la forza di chiedere.
«Mi sembra domani sera dopo la funzione. I
Sacerdoti vanno in processione fino alla dimora di Dio», fece
un
cenno verso la sagoma scura dell'Helgrind, «tre volte al mese
per
consacrare i nuovi arrivati tra di loro e per offrire una parte di
sé. Di solito portano anche dei doni per Dio. Di solito sono
degli
schiavi, ma molto spesso se c'è un Irriverente si portano
dietro
lui. Durante la notte Dio li addormenta e si nutre di loro,
così
diventano parte della sua carne e li usa per riprendersi dalla fatica
di aver creato il mondo».
Durza aveva un'espressione comicamente
perplessa mentre allungava al ragazzino le sue due corone e gli
intimava di tornarsene a casa.
Lui ci rivolse uno sguardo obliquo
e schizzò via.
«Non sapevo che la religione dell'Helgrind avesse
tanto potere sui cittadini» dissi incredula.
«Io ne avevo
sentito parlare», ammise, «ma credevo che si
trattasse di una
chiacchiera infondata. Invece a quanto pare hanno davvero la forza di
stroncare chi si schiera apertamente contro di loro e gli mette i
bastoni tra le ruote».
«Il vecchio, Gamall.. era gentile. E ha
detto qualcosa contro la chiesa e contro Galbatorix anche l'altro
giorno».
«Non puoi fare nulla per lui», disse seccamente,
«i
sacrifici che arrivano all'Helgrind sono per i Ra'zac, che come sai
non disdegnano la carne umana, anzi ne vanno veramente
ghiotti».
«Lo
so, ma mi sembra assurdo che la gente riesca a credere a tutte queste
sciocchezze, montate sulle spalle di due semplici creature come i
Ra'zac. Insomma qualunque esponente della mia razza potrebbe essere
un dio, allora!»
«Non vi fate abbastanza propaganda,
Principessa. Alla gente piacciono i Sacerdoti perché, anche
se fanno
cose schifose, non si danno delle arie, non pretendono di
calpestarli, anzi a volte li aiutano: curano i loro bambini, mi
sembrano disposti ad accogliere chiunque stia morendo di fame tra i
monaci. Magari fanno poco, ma sono gli unici a fare qualcosa per
loro. Per questo li adorano».
«E sono disposti anche ad
accettare la condanna di un amico?» indicai la bottega
distrutta.
«Amico? Quale amico? Chi complotta contro il dio che
ti da da mangiare non è un tuo amico».
Alzai le mani in segno di
resa. «Non li capisco, gli esseri umani».
«Siamo creature
interessanti».
«Tu non..»
«Io lo ero e ricordo
perfettamente la sensazione. E in buona parte lo sono ancora, solo
più longevo, potente e probabilmente inquietante di prima.
Ora
prendi le tue foglie di salvia ed andiamocene, quella mano di sangue
mi inquieta».
Sgranai gli occhi. «Mi devo comportare da
sciacallo?»
«Immagino fosse una domanda retorica».
Sospirai
e tornai nella bottega, dove frugai in lungo e in largo fino a che
non trovai la salvia. Poi seguii Durza lontano dalla mano di Gamall,
stampata a chiari caratteri su quella che era stata la sua
attività.
«Consideriamolo un ammonimento», mi disse poi,
«dobbiamo essere più cauti con la
chiesa».
«Non vedo l'ora che
arrivi il pomeriggio» ringhiai.
E il pomeriggio arrivò, fin
troppo lentamente. Quando entrammo in chiesa trovammo una decina di
persone inginocchiate davanti alle panche che davano sull'altare,
tutte con entrambi i pugni chiusi portati al petto, in totale
silenzio.
Li imitammo e immediatamente sentii un po' di emozione e
di adrenalina montarmi dentro. Avrei scoperto qualcosa di
più di
quella religione e poi anche dei sacerdoti, avrei visitato le loro
stanze più nascoste e portato alla luce i loro segreti
più
oscuri.
Se fossi riuscita a tornare a casa avrei potuto scrivere
il primo trattato della storia di Alagaësia sulla religione
dell'Helgrind.
Ci fecero attendere, ma alla fine si presentò il
vecchio monaco rasato che avevamo già incontrato, come ci
aveva
informati quella mattina.
«Benvenuti», disse con voce pacata,
«tutti voi avete mostrato l'intenzione di apprendere le gesta
di Dio
e del suo popolo e io sono qui per accompagnare i vostri primi passi
in questo mondo a voi finora sconosciuto. Se volete seguirmi
all'esterno vi racconterò tutto, dall'origine fino ad
oggi».
Inizialmente mi chiesi perché dovessimo uscire
all'esterno, poi individuai le decorazioni in bassorilievo
nell'ordine inferiore del muro esterno -che già le altre
vole avevo
notato- e capii: intendeva compiere un ciclo di istruzione per
immagini. Forse, delle persone che accompagnavano me e Durza, la
metà
non sapeva nemmeno leggere e scrivere.
Come promesso, non ci
trattenne per più di un'ora, anche perché poi
sarebbe cominciata la
funzione alla quale non potevamo proprio mancare.
E proprio
durante il rito mi misi a ricapitolare l'assurda favoletta che ci
aveva raccontato il monaco -che per inciso si chiamava
Gagnsamr.
Stando a ciò che ci aveva detto, secondo la chiesa
dell'Helgrind il mondo era stato creato da un Dio ingenerato, che si
era sacrificato per portare la vita. Di conseguenza l'uomo gli era
debitore di ogni suo respiro ed era suo compito risarcirlo per tutte
le sofferenze patite per crearlo, un po' come una madre che mangia il
figlio in fasce per riprendersi dalla fatica della gravidanza e del
parto. Sempre secondo la storiella il monte Helgrind sarebbe una
sorta di scala, che permette agli uomini di avvicinarsi al loro
Signore che, udite, udite, dimora direttamente nel sole, anzi
è il
sole stesso. Ecco perché i sacrifici sono sempre compiuti al
tramonto, per dare la forza al Dio di rinascere il giorno dopo,
più
forte di prima.
E quel Dio a quanto pareva udiva tutte le
preghiere che gli erano rivolte, riprendeva le forze con i sacrifici
dei Sacerdoti e puniva tutti coloro che si rifiutavano di
inginocchiarsi davanti alla sua potenza. A costoro era riservata
un'eternità di veglia in quelli che il monaco aveva chiamato
“Gli
Abissi”, un luogo che a quanto pareva si trovava sotto la
superficie della terra, dove tutti i non-credenti erano condannati a
essere divorati dagli emissari del Dio e poi rigenerarsi e
ricominciare daccapo il giorno dopo. Coloro che invece avevano
aderito alla religione potevano morire in pace.
Quella era la
spiegazione della decima Verità, dove si parlava
dell'Abisso
Fantastico.
Continuavo a chiedermi come potesse la
gente credere a un simile ammasso di sciocchezze, io avevo faticato a
mantenere un'espressione credulona per tutta la durata di
quell'ora.
E per di più non avevo avuto le risposte che
desideravo.
«Non ho capito il significato della dodicesima
Verità», avevo detto al monaco, al termine del
breve viaggio sul
fianco della cattedrale.
Il monaco mi aveva rivolto un'occhiata
rassegnata. «Perché non puoi. Nessuno lo sa, gli
unici che hanno
qualche informazione in più sono i Sacerdoti, ma la
condividono solo
con Dio, noialtri non ne siamo messi a parte».
«Non sai nulla
del Dio solitario?»
«Solo che è un nemico dell'unico e vero
Dio».
Avrei volentieri continuato il dibattito, ma Durza mi aveva
gentilmente indirizzata verso il portale principale, intimandomi
sottovoce di lasciare perdere.
Così ci eravamo sorbiti il rito in
silenzio ed eravamo tornati alla locanda con la nostra brava traccia
di sangue sul viso.
Lo Spettro provò a erigere una barriera
protettiva per bloccare l'azione di un qualsiasi
incantesimo.
Ovviamente non contò nulla.
Le visioni erano un
morbo che mi consumava dall'interno e che per il momento non aveva
soluzioni possibili, l'unica cosa in cui potevo sperare erano le mani
e la prontezza di Durza, che non mancò di riscuotermi
né quella
notte né quelle a seguire.
Almeno per quella notte, però,
riuscii a riaddormentarmi.
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Capitolo 21 *** Disgelo ***
21.
Disgelo
La
notte seguente non fui l'unica a venire disturbata nel sonno. Durza
scattò in piedi così velocemente che mi
sfuggì un piccolo grido.
Avevo già avuto il mio incubo giornaliero ma ero riuscita a
scivolare in una sorta di semi-veglia.
«Durza cosa
fai?»
«Tranquilla, va tutto bene».
Mi sporsi sulla sua metà
del letto e accesi la candela posata sul cassettone con le pietre
focaie.
«Torna a dormire, Principessa» sussurrò
lo Spettro,
frugando sotto la casacca e la camicia.
Estrasse un ciondolo, che
brillò argentato nella penombra, e tirò a
sé il secchio
d'acqua.
Sedetti sul materasso e lo guardai concentrata e confusa.
Riconobbi la forma del ciondolo: un sole a sei raggi.
«Ti prego
non dire nulla per i prossimi due minuti, devo.. parlare con una
persona». Detto questo si sfilò il ciondolo e
applicò una variante
dell'incantesimo di divinazione al secchio d'acqua.
«Durza?»
fece una voce gentile.
«Sono qui, Alba».
Sobbalzai.
«Ho
un messaggio per te. I Ra'zac sono appena passati da Gil'ead e hanno
chiesto di te. Ho detto loro che eri impegnato con la prigioniera e
che non potevi assolutamente essere disturbato, così loro mi
hanno
lasciato detto un paio di cose e hanno proseguito di tutta fretta in
direzione di Uru'baen, dove a quanto pare il re li sta
aspettando».
«Arya è con me» disse semplicemente lo
Spettro.
Quasi percepii il clima raggelarsi e farsi immediatamente
più cauto.
«Porgile i miei saluti» disse Alba coincisa.
Durza
accennò un sorriso nella mia direzione e io feci un cenno di
saluto
con la mano. «Ricambia» fece poi. «Ora
dimmi tutto quello che hai
da dirmi». Concluse l'ordine fissando intensamente il secchio.
«I
Ra'zac sono stati a Carvahall, ma non hanno trovato ciò che
cercavano, era già fuggito».
«Ho già avuto queste informazioni
da un tale di Taurida».
«Ah.. Non ne sapevo
nulla».
All'improvviso mi sentii decisamente di troppo.
«Cosa
riferiranno al re?» chiese lo Spettro.
«Che sono tornati a mani
vuote. A quanto pare alcuni abitanti hanno intravisto un tale che
girava con una grossa pietra di zaffiro, ma poi è scomparso.
Io
penso che si trattasse di Brom».
«Direi che è molto probabile.
Bene, grazie, per oggi mi basta. Cercami se avrai altre
novità».
«Certamente, mio signore» si congedò la
ragazza.
Lasciai passare qualche minuto di silenzio. Il povero
mozzicone di candela che giaceva sulla cassettiera si spense
definitivamente.
«È lei l'alleata di cui
parlavi quando
abbiamo lasciato Gil'ead?» azzardai.
«Sì» rispose, tornando
sotto le coperte pesanti. «Galbatorix le ha fatto un torto.
Sarà
con noi per eliminarlo».
«Mi hai detto che è una maga giusto? È
molto potente?»
Esitò. «Per essere umana abbastanza, ci
sarà
preziosa».
«Credevo fosse una tua serva, non una tua
alleata».
«Perché effettivamente è prima di tutto
una mia
serva. Accettala, non dovrebbe costarti troppo no?»
«No, non c'è
problema».
Avrei voluto fargli altre domande, ma cominciavo a
sentirmi petulante.
Cedetti almeno ad una curiosità. «Hai uno
strano ciondolo».
«Impedisce a chiunque di divinarmi senza il
mio permesso, può rivelarsi parecchio utile in molte
occasioni».
«E
hai una passione per il sole» aggiunsi, pensando al suo
pugnale con
il rilievo dell'astro.
Rise piano. «Era il simbolo della mia
tribù, quando ero ancora un ragazzo. Ora basta indagare,
speravo che
Alba avesse notizie di cose che non sapevo, invece niente!
Peccato».
Già allora avrei dovuto capire che qualcosa non
andava. Avevo notato il tono più controllato di Alba dopo
che Durza
la aveva informata della mia presenza, ma più tardi lo
attribuii
alla mia immaginazione e ad una eccessiva paranoia.
Era
rassicurante fidarsi dello Spettro, mi permetteva di alleggerire un
poco le mie spalle dal loro carico di responsabilità, quindi
cedetti
nuovamente a quella lusinga e lasciai perdere.
La giornata passò
in ozio. Dopo il rito della sera mi affrettai a tornare alla locanda,
non avrei sopportato così bene come volevo credere la
processione
che avrebbe portato Gamall l'erborista incontro alla sua morte: si
vedeva già una certa quantità di gente radunarsi
sotto la
cattedrale. Sarebbe stata una grande processione dato che era anche
il giorno di consacrazione dei novizi Sacerdoti.
Una settimana
esatta dopo il nostro arrivo a Dras-Leona pagammo nuovamente il
proprietario della locanda per un'altra settimana, ripromettendoci di
cambiarla alla fine di essa. Prima che qualcuno imparasse troppe cose
su di noi.
Il giorno seguente andammo alla ricerca di Ditolesto e
aspettammo per ore nella sua baracca puzzolente. Quella volta Durza
mi offrì lo sgabello che aveva occupato alla nostra
precedente
visita e si appoggiò al muro accanto a me.
«Cosa speri di
sapere?»
«Tante cose in realtà» rispose
fiducioso. «Forse i
Sacerdoti sono incorruttibili, ma i Monaci mi sembrano molto
più
alla mano. Ditolesto è uno che non si fa scrupoli,
avrà scoperto
qualcosa per noi, anche se ormai abbiamo praticamente già
scelto
come agire».
Già, seguire il nostro mesetto di istruzione e poi
infilarci tra le file dei monaci.
Quando i passi trascinati del
nostro informatore si fecero più vicini Durza mi
abbassò il
cappuccio fino agli occhi e poi fece lo stesso con il suo.
«Chi
siete?» domandò Ditolesto non appena ebbe aperto
la porta.
«I
due tizi del Ratto, ricordi?»
«Ah sì, certo! Non ho ancora
capito come mi aprite la porta senza rompermela, ma non importa,
no?»
Se la chiuse alle spalle e posò il sacco che aveva in mano
in un angolo della stanza, dove raccattò anche un pezzo di
stoffa
giallastro ripiegato su se stesso.
«Questo è quello che mi avete
chiesto».
Lo Spettro fu rapido ad allungare una mano davanti a me
e ad afferrarlo per primo. Lo svolse e vi gettò un'occhiata,
mentre
un ghigno soddisfatto gli stirava le labbra sottili.
Era
inquietante e anche Ditolesto parve notarlo, perché
dondolò sui
piedi, a disagio.
«Vi va bene, no?»
Durza lasciò cadere la
stoffa sul mio grembo, affinché potessi vederla anche io, e
chiese,
perentorio: «Non hai saputo nient'altro?»
«Qualche cosa che non
vi servirà a molto: so che i Sacerdoti hanno un gruppo di
guerrieri
protettori, quasi guardie del corpo, che si occupano di pattugliare
le robe della chiesa. Li chiamano le Ombre».
Quelli che si
sono mossi per venire a cercare me e Durza, la notte in cui abbiamo
cercato di origliare il loro rito. Con questo pensiero mi
estraniai un istante dalla conversazione e mi concentrai sulla stoffa
che giaceva sulle mie cosce. Era una mappa. Stilizzata e con simboli
al posto di qualsiasi scritta, ma era una mappa, un principio, una
breccia nell'impenetrabile muro di segreti che era la Cattedrale.
Vi
era rappresentata non solo la chiesa in sé, ma anche gli
ambienti
monacali e anche i dormitori dei Sacerdoti, come mi indicava il
pagliericcio stilizzato affiancato dall'effige di un avvoltoio, il
loro simbolo.
La mappa era ovviamente incompleta. C'erano stanze
accennate ma lasciate in bianco, altri spazi completamente vuoti.
Forse con quella avremmo potuto orientarci sui piani superiori della
struttura, ma non avevamo troppe certezze per quanto riguardava i
piani sotterranei.
«E hanno anche alcuni maghi, pochi, ma
abbastanza efficienti a quanto dicono i miei contatti. Non è
la
prima volta che una brava spia si intrufola nella cattedrale per fare
il suo lavoro e viene beccata e fatta secca a quel loro altare dal
monte nero. Poi niente, i Sacerdoti passano davvero tutte le giornate
rintanati nelle loro celle o in degli studi che però
chiudono a
chiave non appena abbandonano. Mica scemi, no? Nessuno mi ha detto
bene cosa facciano tutto il giorno, ma a volte qualcuno arriva al
pasto del mattino senza un pezzo». Si guardò la
mano «E pensare
che non ci vuole una gran fatica per farsi cavare dei pezzi e loro lo
fanno apposta. Potrei essere un buon Sacerdote, no? Ogni ladruncolo
un po' troppo imprudente lo sarebbe».
«Hai altro da dirci?»
Fece
un sospiro pesante, poi si soffiò il naso tra le dita e
scrollò il
muco a terra. Disgustoso.
«Non so che volete fare ma fate
attenzione voi due. Nessuno esce da quel posto se non è
invitato,
credetemi. Non siete mica i primi che ci hanno provato, sapete? Non
ne ho più visto nessuno. Tu amico», e
indicò Durza, «hai con te
la mappa che avevo dato alla bionda?»
Lo Spettro estrasse dal
mantello il tracciato delle fogne. «Questa?»
«Proprio lei!
Scarabocchiata di mio pugno. Allora voi due mi state simpatici, non
voglio che ci lasciate le penne. Se volete entrare là dentro
fatelo
pure, ma se ve la vedete male cercate le fogne! Il vostro Ratto
dovrebbe saperlo bene che chi si muove nelle fogne la scampa sempre,
no? Il canale più grosso è l'unico dove potete
entrare perché gli
altri sono piccoli e fatti alla boia. Sapete nessuno che sia entrato
nel canale grosso è mai tornato, ma andavano tutti in
direzione
della cattedrale, invece voi ve ne allontanate, quindi
chissà. Da
qui in poi», pestò un piede a terra,
«tutti i canaletti finiscono
in quello grande e poi si buttano nel lago, farà schifo ma
ci si
salva, no? Cercate le fogne, subito, poi fate quel diavolo che dovete
fare e se dovete scappare con dei tizi in nero alle calcagna
usatele!» Fece una pausa. «Nel caso scopriste altre
informazioni
sui Sacerdoti io sono disposto a pagarvi sapete. Non siete gli unici
che le cercano, proprio no! Se trovate qualcosa in più
venite qui e
io vi pago, ho giusto un bel giovane arrivato ieri che mi ha
chiesto..»
Non riuscì a finire la frase. Durza lo afferrò
per
il mantello e lo inchiodò alla parete, puntandogli la lama
del
pugnale alla gola.
«Queste informazioni», sibilò con voce
glaciale, «te le abbiamo pagate. E non devi darle a nessun
altro.
Hai un'altra copia di quella mappa?» Accennò a
quella che stringevo
tra le dita, in tensione.
«S-sì» balbettò il
miserabile, «là
sotto i sacchi».
Lo Spettro mi fece un cenno e mi alzai per
recuperare la copia, poi nascosi il tutto nelle bisacce.
«A
nessuno!» Ringhiò. «Chiaro?»
«Certo, sì.. Servo vostro,
signore, io..»
Lo lasciò andare e gli porse delle monete. «Se
manterrai il silenzio sarai ulteriormente ricompensato, se ti
sfuggirà una sola sillaba io ti troverò e ti
ucciderò staccandoti
un pezzo di carne alla volta e buttandolo ai ratti che tanto mi
piacciono».
Ditolesto, serio in volto, accettò il denaro e fece
un inchino. «Non dirò nulla dei vostri
affari».
«Grazie» mi
sentii il dovere di aggiungere, vista la fin troppa
aggressività
dello Spettro.
Durza mi guardò un po' dubbioso, ma poi fece un
cenno di saluto all'uomo, rinfoderò il pugnale, e mi
seguì alla
luce morente del sole.
«Sei troppo gentile».
«Abitudine» mi
giustificai.
«No, sei gentile con tutti tranne che con me, è
questo a turbarmi». Ridacchiò.
Arrivammo in ritardo alla
funzione della sera, ma nessuno parve notarlo.
Per tutta la sua
durata fui distratta dal pensiero di cosa ci fosse oltre all'abside,
ora che ne avevo una vaga idea: i dormitori dei Monaci, il
refettorio, l'ospedale, le cucine, le latrine, la lavanderia..
I
giorni mi scivolarono rapidamente tra le dita. La settimana seguente
cambiammo locanda, una più lontana dalla cattedrale e di
conseguenza
più povera, dato che Durza mi aveva confessato di avere
già speso
parecchio denaro. Il Covo segreto era ancora
più vicino alla
baracca di Ditolesto, in vista di una disperata fuga attraverso le
fogne, e aveva un nome decisamente meno inquietante della locanda
precedente, anche se rimaneva losco.
La nostra educazione alla
chiesa dell'Helgrind proseguiva e presto scoprimmo che il triumvirato
a cui i Sacerdoti si rivolgevano -Gorm,
Ilda e Angvara il Crudele- altro non erano che i nomi dei tre picchi
del monte Helgrind, sacri perché più vicini al
sole, e dunque a Dio
stesso. Il quarto picco, Teufel, più basso, era ancora
discusso se
fosse da considerare sacro o meno e a quanto pareva era un argomento
molto discusso tra i Sacerdoti.
“Giuriamo di portare sempre il
Bregnir sul nostro corpo e di astenerci dal dodicesimo dei dodici e
dal tocco di una corda annodata.” Recitava poi la loro
formula di
rito.
Il dodicesimo dei dodici era la dodicesima verità, quella
riguardante il dio solitario e intimava di tenere le distanze dal
soggetto stesso. Soggetto che ai fedeli non era dato conoscere,
però.
La corda annodata era un modo simbolico per indicare una
maledizione nella lingua popolare e faceva riferimento alle
capacità
degli elfi, considerati quasi dei demoni dall'intero ordine.
Il
Bregnir, invece, altro non era che una fascetta di cuoio uncinata,
che i Sacerdoti dovevano sempre indossare e che graffiava loro la
pelle, un eterno monito al loro ruolo nei confronti di Dio. Si
partiva stringendola intorno alle estremità -polsi o
caviglie- e poi
si spostava mano a mano che i Sacerdoti effettuavano una Rinuncia,
cioè l'amputazione di una parte.
«Il nostro Sacerdote
Supremo», aveva annunciato Gagnsamr
gonfio di orgoglio, «lo porta ora sul ventre
perché ha già
sacrificato quasi tutto se stesso».
Già. Il Sacerdote Supremo
aveva presenziato tutti i riti a cui avevamo partecipato,
intervenendo di tanto in tanto sopra all'officiante, che gli lasciava
la parola con un rispettosissimo inchino. Indossava sempre una strana
corona in pelle, alta quasi quanto lui stesso -o almeno quanto
rimaneva di lui- e che lo rendeva ancora più grottesco di
quanto già
non fosse. Osservandolo attentamente avevo intuito la causa del suo
parlare sputacchiante: gli mancavano buona parte dei denti e anche la
punta della lingua.
Cosa otteneva in cambio di quei suoi
sacrifici? Quale folle forza lo spingeva a persistere nelle sue
convinzioni anche quando il suo Dio restava muto alle sue
richieste?
Era sempre stato un mistero per me, come gli uomini o i
nani riuscissero a crearsi una così convinta immagine di un
essere
superiore quando non avevano alcuna prova, se non qualche avvenimento
naturale perfettamente regolare che nella loro ignoranza
classificavano come atto del divino. Il vero problema era che non si
poteva discutere con colore che si definivano
“credenti” perché
rifiutavano qualsiasi spiegazione che potesse apparire razionale,
affermando che Dio non poteva ridursi ad un ragionamento e che io non
potevo capire perché mancavo della fede necessaria a farlo.
Se
avere fede significava essere ciechi ero felice di esserne totalmente
priva.
Partecipando alle
funzioni e alle lezioni venimmo presto a conoscenza dei vari miti
sugli Irraggiungibili, coloro che il loro Dio aveva preferito e che
erano stati meritevoli testimoni della sua esistenza. Tra questi il
più misterioso rimaneva il vate Tosk, che avrebbe scritto in
codice
tutta la dottrina sacerdotale sotto diretto dettato di Dio, ma di cui
si parlava talmente poco da rimanere una leggenda.
Avrei tanto
voluto procurarmi quel libro ma lo Spettro mi spiegò che,
essendo la
pergamena così costosa, l'acquisto di un libro era da
considerarsi
un lusso bello e buono e che quel volume in particolare era uno dei
segreti meglio custoditi dai sacerdoti. Peccato che gli umani non
producessero carta, avrebbero risolto molti problemi e probabilmente
anche calato il livello di ignoranza.
«Nessuno vuole comandare un
popolo acculturato, si fa troppe domande e ha troppe pretese»
mi
disse Durza, con il tono di chi in parte condivide l'idea.
«Un
popolo acculturato sa cosa è bene e cosa è male e
può collaborare
con il governo. Un popolo che sa è
tutto allo stesso livello
e non lascia spazio all'ingiustizia» avevo ribattuto,
prendendo la
perfetta società elfica come base delle mie argomentazioni.
«Gli
umani sono più impulsivi e sentimentali degli Elfi,
Principessa»,
fu la risposta. «Non hanno il tempo di ponderare le loro
scelte,
vogliono vivere al massimo le loro brevi vite e questo li porta
irrimediabilmente a fare delle sciocchezze. Non dubito che una
società perfettamente equa diminuirebbe le ingiustizie,
dubito della
semplice possibilità di instaurare una società
perfettamente equa
tra gli esseri umani. Non ne sono capaci, la violenza è
parte della
loro natura e la vendetta, l'odio e l'amore guidano i loro movimenti,
non la razionalità».
Quel discorso mi colpì, perché in parte
giustificava il modo di fare di tutti gli uomini con cui avevo avuto
a che fare e anche le azioni stesse di Durza: l'odio verso
Galbatorix, una sorta di sentimento di vendetta nei confronti di
Ajihad, l'amore.. Mi dissi che probabilmente l'amore era riservato
solo a se stesso e forse a qualche figura che giaceva morta e sepolta
nel suo passato.
Una mattina fummo testimoni di una scenetta
che mi lasciò con l'amaro in bocca per il resto della
giornata.
Passavamo dalla piazza, dove si teneva il mercato di schiavi due
giorni alla settimana e il mercato normale il resto delle mattinate.
Lo Spettro voleva semplicemente farmi vedere in cosa consistesse un
mercato dato che non mi ero mai attardata ad osservarne uno e al
massimo ne avevo letto qualche informazione nei libri sulle
tradizioni degli uomini che avevo studiato per diventare
ambasciatrice.
Ne ero rimasta abbastanza stupita: in mezzo a
quella città caotica, squallida e pericolosa il mercato era
come un
cuore pulsante di vita, voci ed allegria. Tutti contrattavano sui
prezzi, qualche ladruncolo si intascava, non visto, la merce e molti
altri trascinavano i loro carri nel poco spazio disponibile, per
diventare anch'essi parte di quella massa di venditori.
Stavamo
passeggiando innocuamente, dividendoci una frittella, quando un tale
balzò agilmente su un barile di birra -non troppo lontano da
noi- e
distese con aria solenne una corta pergamena.
«Cittadini!»
gridò. «La terra di Alagaësia, questa
città e la vostra stessa
sicurezza sono minacciate da un nemico che si fa di anno in anno
sempre più forte e pericoloso. Il vostro sovrano, il re
Galbatorix,
ha tentato con tutte le sue forze di tenere il suo popolo lontano dal
sangue e dalle battaglie, ma purtroppo i suoi sforzi non sono stati
sufficienti..»
«Lo ha scritto lui quel discorso»,
sussurrò
Durza al mio orecchio, «è il suo stile di indorare
le cose. Guarda
la gente, tutti attoniti, sconvolti. Il re sa come infiammare i
cuori».
Annuii, rendendomi conto solo in quel momento che il
vociare confuso della piazza si era pressoché estinto e che
tutti
gli uomini e le donne presenti pendevano letteralmente dalle labbra
dell’araldo imperiale
«I Varden», continuò l’uomo
con fare
drammatico, «si sono definitivamente schierati con i Nani e
gli
Elfi. Sono servi delle creature più malefiche e pericolose
di queste
terre, sono i portatori della distruzione e gli annientatori della
pace e dell’equilibrio. Inoltre complottano con i nostri
eterni
nemici: i surdani. Il loro unico scopo è rovesciare
Galbatorix e
porre il loro tiranno sul trono».
Presi coscienza delle mie
unghie conficcate nei palmi e delle braccia rigide lungo i fianchi
solo quando lo Spettro mi sfiorò lievemente la guancia, in
un gesto
di intima sicurezza. Non che il mio comportamento potesse essere
considerato sospetto in mezzo alla folla: tutti esibivano espressioni
sorprese, disgustate, indignate e persino spaventate. Quanto sapevano
essere sciocchi gli umani. Con le loro brevi vite tendevano a credere
immediatamente a qualunque fandonia avesse infangato la storia,
troppo giovani e inesperti per aver partecipato agli eventi, avevano
un tempo troppo breve per imparare a vivere nel mondo.
Erano
cresciuti in una vita in cui Galbatorix era considerato un uomo
onesto che cercava disperatamente di proteggere tutti da nemici che
rischiavano di sommergere l’intera Alagaësia. Non
era colpa loro.
Ma l’insinuazione sul mio popolo e sui miei alleati mi faceva
infuriare.
Feci un profondo respiro e posai una mano sul braccio
di Durza al mio fianco. Lui se la scrollò di dosso e mi
tirò
davanti a sé, cingendomi la vita con le braccia e posando il
mento
sulla mia testa. In qualche contorta maniera mi sentii meglio.
L’araldo continuava imperterrito. «Ora voi avete
l’occasione
di difendere la vostra patria dalla minaccia che incombe. I Varden si
spacciano per liberatori ma non sono altro che briganti assassini,
lasciateli entrare in queste terre e porteranno la morte ovunque. Il
vostro sovrano esorta uomini in forze a prendere il proprio coraggio
e l’amore per i propri cari ed arruolarsi nel suo esercito.
Tutti
potranno essere utili in questa guerra. Le sole forze del nostro re
non basteranno. Difendete le vostre case e le vostre
famiglie!»
L’uomo balzò giù dal barile e si
infilò la pergamena a cintura
con un gesto fluido e noncurante. «Da domani mattina il
palazzo del
governatore sarà aperto per accogliere le vostre adesioni.
Partirete
alla fine di questa settimana per un breve addestramento ad
Uru'baen».
Tacque un istante e posò una mano sul ventre
prominente. Era piuttosto avanti con l'età e doveva aver
preferito
un tavolo imbandito ad una spada.
Quando tornò a parlare disse le
magiche parole che tutti stavano aspettando: «Verrete
regolarmente
retribuiti, ovviamente, e sarà tenuto conto del vostro
valore quando
le terre strappate ai nostri nemici dovranno essere equamente
ripartite. Vi auguro una buona giornata!»
Si avviò con
noncuranza in direzione della Cattedrale -anzi probabilmente in
direzione del palazzo del governatore- seguito da un paio di uomini
che gli rivolgevano delle domande sulla condizione nell'esercito e su
quanto ammontasse il salario.
La gente tornò lentamente alle
proprie attività con un brusio di indignazione e di
malcontento.
Captai qualche discorso qua e là e mi ritrovai
ulteriormente scoraggiata: nessuno dubitava di quanto avesse appena
detto l'araldo, nessuno credeva alla possibilità che fosse
il re
quello da additare come pazzo e non i Varden e i loro
alleati.
«Andiamo via?» chiesi a Durza. E la mia voce
sfumò in
una supplica.
Ci avviammo automaticamente verso il Covo.
Lo
Spettro mi guardò fisso, in silenzio, per parecchi minuti.
«Sto
bene», affermai con sicurezza.
«Ma stai piangendo» mi
informò.
«Non sto piangendo» ribattei con voce ferma, ma i
miei
occhi erano bagnati di lacrime e il mondo stava scomparendo dietro il
loro velo.
«Andrà tutto bene».
«No!» protestai. «Se il
nostro progetto non funzionerà non andrà tutto
bene! Finché il
popolo non capisce, finché non decide di rifiutare
Galbatorix come
re, i Varden, gli Elfi e i Nani potranno combattere fino
all’estinzione, ma non conterà nulla. E nel
frattempo altre
migliaia di persone moriranno inutilmente su campi di battaglia.
Tutto questo mi disgusta. La morte mi disgusta..»
Mi sistemai una
ciocca di capelli dietro l’orecchio e recuperai un
contegno.
L’espressione di Durza era vuota e rassegnata. Forse
per il fatto di essere semi-posseduto da degli spiriti o
perché così
per natura, non sembrava provare gli stessi rimorsi delle persone
normali.
«Scusami» mormorai.
Fece un sorriso mesto. «Tu sei
troppo sensibile per fare la guerriera, Arya».
«Mi chiamo Bitr»
gli ricordai, gettandomi un’occhiata circospetta intorno, ma
la
massaia che stendeva il bucato dalla finestra canticchiando
allegramente non poteva averci sentito. «E se l’ho
fatto finora
potrò continuare» conclusi.
«Ma non vorresti farlo» disse
riprendendo a camminare.
«E chi vorrebbe?» lo
affiancai.
«Riusciremo» mi tranquillizzò.
«E nel caso non
fosse così.. Il re si fa passare per un eroe delle antiche
leggende,
che ha sconfitto la morte per poter mantenere la vita di queste
terre, ma non appena lascerà le città al loro
destino tutti
capiranno».
«E lui non interverrebbe nella guerra?» lo
interruppi.
«Se volesse veramente fermarvi non avreste scampo, ma
non lascerà il suo palazzo per impedirvi una simile
quisquilia. Se
riuscirà nel suo progetto potrà riprendere il
potere dopo, con
tutta la calma del mondo. .
Le sue parole mi ricordarono che
ancora non avevamo fatto nulla per il suo vero nome e che aveva
ancora parecchi segreti che non poteva rivelarmi, oltre ad essere
ancora in parte succube del re.
Fui sul punto di dire qualcosa, ma
Durza lasciò la mia mano e la spostò sulla mia
schiena,
avvicinandomi a sé per strapparmi un bacio, in mezzo al
vicolo
soffocante.
Così rinunciai, per l'ennesima volta.
Lo Spettro
vegliò su di me ogni notte. Ad un certo punto
cominciò a posare una
mano sul mio torace -subito sotto il seno- prima di addormentarsi,
così da percepire sotto le dita le variazioni del battito
del mio
cuore non appena le visioni mi ghermivano e agire più
rapidamente.
Non sempre riusciva a svegliarmi con uno scossone,
doveva toccarmi a lungo e quando finalmente aprivo gli occhi da me
non riceveva altro che uno sguardo vacuo e il respiro
affannoso.
Durza era caldo, solido, reale, familiare. E di solito
riusciva a tranquillizzarmi con pochi gesti.
Riprendemmo anche ad
allenarci con le spade e a proseguire un poco con la Rimgar -per mio
sommo divertimento- uscendo tutte le mattine da Dras-Leona per non
attirare attenzioni. Notai che avevo ormai ripreso buona parte del
mio vigore fisico e i duelli con Durza duravano di più.
Spesso,
dopo gli allenamenti, ci fermavamo a fare un bagno al lago e lo
Spettro ebbe la decenza di non sbirciarmi e di lasciarmi nascondere
dietro a pietre o canne, anche se ovviamente all'inizio
tentò di
persuadermi a fare altrimenti.
Con il decadimento dell'inverno il
rapporto tra me e Durza si modellò, si deformò,
cambiò, fino a
diventare qualcosa di diverso da una semplice alleanza di
convenienza.
Non ci avrei mai e poi mai definiti amici, ma
complici.. complici forse sì.
Tuttavia
c'era un'ombra, una tensione tra di noi che si stringeva e che si
intensificava di giorno in giorno. Nemmeno quella sapevo definirla,
esulava dal mio sapere critico. Sapevo solo che i baci che ci
scambiavamo, sia che fossero per la recita, sia che fossero -come
arrivai ad ammettere a me stessa- per desiderio, avevano il potere di
imbrogliare ulteriormente la matassa.
Non mi fermai mai abbastanza
su questi pensieri da farli diventare un problema. Sia io che Durza
avevamo cose ben più importanti a cui pensare oltre ai
capricci dei
nostri sentimenti.
Così relegai in un angolo le incertezze,
dicendomi che, nonostante tutto, un giorno quella tensione avrebbe
trovato uno sfogo.
A due settimane dalla nostra prima lezione
con il monaco, successe qualcosa di inaspettato, che ci colse di
sorpresa e preparati insieme.
«Avete ancora intenzione di entrare
nell'ordine monacale?» ci chiese
Gagnsamr,
trattenendoci prima
dell'inizio del rito e subito dopo la sua lezione.
Ormai avevamo
percorso e studiato più della metà dei
bassorilievi sul perimetro
della cattedrale, ma mancavano ancora una quindicina di giorni per
terminare il tutto.
«Sì» rispose Durza,
ignorando il
fatto che nessuno dei due avesse mai confermato al monaco di volere
entrare nel suo ordine.
«Bene, allora ho una proposta per voi.
Dopo la funzione raggiungetemi all'esterno e vi spiegherò
tutto.»
Durante il rito discutemmo della cosa, a bassa voce, fino
a che due donne anziane sedute accanto a noi non ci intimarono di
tacere o di lasciare la chiesa.
Lo Spettro rivolse loro un ghigno
irriverente, ma poi tacque e io feci lo stesso.
La proposta del
monaco si rivelò decisamente interessante, quasi
provvidenziale in
effetti.
«Uno dei nostri ha abbandonato la catena per unirsi
all'esercito del re» ci disse con l'aria di uno che
è stato
schiaffeggiato dalla moglie. «Per di più il
vecchio Kran è caduto
nel sonno eterno un mese fa e ora ci troviamo a corto di manodopera..
So che può sembrare un poco squallido come avvicinamento a
Dio, ma
che ne direste di cominciare già da domani o dal giorno dopo
ad
ambientarvi nei luoghi della chiesa in vista del vostro ordinamento?
Nel frattempo continuerete la vostra istruzione ma sarete anche
iniziati ai vostri futuri compiti, che ne dite?»
Ci scambiammo
una rapida occhiata, ma la risposta era così ovvia che
parlammo
contemporaneamente: «Accettiamo!»
Poi ci guardammo nuovamente,
perplessi e divertiti per la sincronia.
A quel punto Gagnsamr
parlò di nuovo: «Prima
dovrò sciogliere il vostro
matrimonio, capite? Ufficialmente dovete essere impegnati solo con il
Signore». Abbassò il tono. «Vi
è proibito giacere insieme e se
qualcuno vi scoprisse a farlo sareste immediatamente allontanati
dall'ordine. Tuttavia non è raro che una delle nostre
monache
rimanga in cinta di tanto in tanto e nessuna di loro è mai
stata
mandata via. Di solito si limitano a nascondere la gravidanza e a
spacciare il figlio per un trovatello pescato alla porta. Nessuno
è
troppo severo con il nostro ordine, riuscirete a mascherare al meglio
l'esistenza del vostro bambino».
«Ti ringrazio immensamente»
feci con enfasi, cingendomi la vita con le braccia per nascondere la
totale piattezza del mio addome.
Se non ci fossimo dati una mossa
avrei dovuto fare qualcosa anche per quello.
«Domattina, dopo la
funzione del mattino, vi chiamerò all'altare e
scioglierò il vostro
impegno. Mi ripetete i vostri nomi per favore?»
Ripetemmo i
nostri nomi, ringraziammo per l'ennesima volta e ci dirigemmo verso
il Covo.
«Dunque questo è il nostro ultimo giorno da marito
e
moglie, Principessa. Devo ammettere di essere un po' turbato. Vedi di
farmi ricordare la nostra ultima notte insieme dato che a quanto pare
alla prima ero ubriaco» scherzò Durza
più tardi, sedendosi sul
materasso e sfilandosi gli stivali.
Sorrisi a fior di labbra e lo
raggiunsi, dopo essermi lavata dal viso la sporcizia di quella
giornata.
«Cosa facciamo allora?»
«Facile e indolore:
andiamo, ci separiamo e domani ci trasferiamo tra i monaci.
Pagherò
la locanda per altre due settimane, per sicurezza, e
bloccherò la
porta con un incantesimo per evitare ospiti indesiderati. Non credo
che potremo entrare tra i monaci con qualunque possedimento
personale, o almeno non di certo con i pugnali o le spade. Quando ci
saremo sufficientemente ambientati torneremo qui a prendere le nostre
armi e le nasconderemo da qualche parte begli ambienti della
cattedrale, a portata di mano».
«Spero di non doverle usare»
mormorai stringendomi addosso il mantello.
A differenza
dell'Avvoltoio la nostra stanza era molto più angusta, con
un letto,
un secchio d'acqua e qualche chiodo appeso al muro. Poche coperte e
decisamente nessuna stufetta, quindi la temperatura era non molto
dissimile da quella esterna.
«Spero che i loro guerrieri e maghi
non siano troppo abili e sopratutto spero che non ci dovremo mai
addentrare in una zona circondata da ametiste, o anche i miei poteri
saranno nulli».
Fissai istintivamente l'anello al mio
indice.
«Pensi di togliermelo mai?»
«Elfa..»
«Durza
potrei esserti utile con i miei poteri» protestai
pacatamente. «E
sinceramente credo anche di averne il diritto».
«Non ho mai
specificato in quali circostanze ti avrei liberata». Mi
rivolse uno
sguardo che pareva quasi implorante, anche se il tono della sua voce
sfiorava l'imperiosità.
«Puoi fidarti di me, sai?»
«Mi fido
di te, Arya. Ti prego assecondami ancora un po'».
Sospirai.
«D'accordo, d'accordo. Sappi che la cosa mi
infastidisce».
Rise.
«C'è anche qualcosa di me che non ti
infastidisce?»
«In
effetti no». Scivolai sotto le coperte e chiusi gli occhi.
La
nostra ultima notte di matrimonio si concluse come tutte le
precedenti: i miei incubi e la veglia dello Spettro sul mio
risveglio, con l'aggiunta di un breve bacio a fior di
labbra.
[Durza]
Arya si era appena riassopita dopo la
visione di quella notte e aveva ancora la mano sudata stretta nella
sua.
Gli piaceva quella mano, era morbida e ruvida insieme,
rassicurante e pericolosa. Un po' come la sua proprietaria.
Spesso
si chiedeva se sarebbe mai stato in grado di restituirle i poteri.
Ormai l'Elfa si fidava di lui a sufficienza da non tradirlo, nemmeno
con la sua magia a disposizione, ma aveva la strana e angosciante
sensazione che l'anello di ametiste che ora sfiorava con le dita
fungesse da una sorta di deterrente: lei non sarebbe andata via fino
a che lui non la avesse liberata del tutto. Se invece se ne fosse
liberata forse..
Stava diventando uno stupido sentimentale per
caso?
Di sicuro non al punto da smettere di mentirle. Ecco, per
quello non le restituiva i poteri, perché se avesse scoperto
la
verità sarebbe stato più difficile controllare la
sua reazione.
Due
settimane prima Alba lo aveva divinato e avevano dovuto interrompere
la conversazione a causa di Arya. Il giorno seguente, con la scusa di
andare alla latrina, aveva ripreso il contatto con lei, che gli aveva
confermato le informazioni che aveva già avuto a Taurida:
che il
cavaliere esisteva davvero, che era un ragazzo dagli occhi e capelli
castani e che si chiamava Eragon. I Ra'zac avevano avuto le
informazioni sulla pietra dal macellaio del paese e avevano
addirittura incrociato il ragazzo, ma purtroppo erano stati
ostacolati da Brom. Allora si erano recati a casa del giovane, ma vi
avevano trovato solo il vecchio zio e le orme di un enorme animale
-che doveva per forza essere un drago- così avevano ucciso
il
vecchio ed erano corsi a riferire al re, assicurandosi così
l'eterno
odio del ragazzino, che a quel punto doveva aver lasciato Carvahall
per mettersi sulle loro tracce, forse accompagnato da Brom.
Che
Eragon avesse lasciato il villaggio era una certezza assoluta per
Durza. La prima volta che era uscito da Dras-Leona, oltre a farsi un
bel bagno, aveva anche contattato nuovamente le bande di Urgali che
bazzicavano a nord. Gli avevano riferito che, qualche ora dopo aver
lasciato Yazuac –e dopo avere ucciso tutti gli abitanti, che
erano
ormai testimoni del loro passaggio- avevano visto un lampo blu
balenare in città, così erano tornati indietro e
avevano visto una
fila parallela di orme di cavallo abbandonare la città verso
sud.
Purtroppo non erano riusciti a seguire le orme perché si
erano perse
nella boscaglia.
Ma se i Ra'zac si erano fatti riconoscere da Brom
e il ragazzo aveva perso lo zio per causa loro.. Brom, quella vecchia
volpe, non ci avrebbe messo molto a scoprire dove fosse il loro
covo.
E guarda a caso lui si trovava proprio a Dras-Leona.
Era
stato contento quando il monaco aveva detto loro che sarebbe stato
necessario un mese: un mese gli serviva, per aspettare il giovane
cavaliere e catturarlo. Certo, voleva anche trovare un incantesimo
per mettere a tacere una volta per tutte gli Eldunarí di
Galbatorix,
ma se fosse riuscito a fare entrambe le cose tanto
meglio.
L'anticipazione di due settimane era imprevista,
ovviamente, ma non troppo dannosa. Non conosceva troppo a fondo i
Sacerdoti, aveva chiesto il loro aiuto solo due volte: una per
l'incantesimo delle ametiste e una per un incantesimo che privasse il
corpo della sensazione del dolore, quest'ultima voluta dal re nero in
persona non troppi mesi prima.
Era certo di riuscire a trovare ciò
che gli serviva e svignarsela, il tutto senza farsi notare, in modo
da poter temporeggiare fino all'arrivo del cavaliere. Per allora
doveva solo sperare che i Ra'zac non tornassero e non si mettessero
in mezzo. In quel momento erano a nord con i loro disgustosi
genitori, intenti a controllare ogni paese, valle o pietra, alla
ricerca del ragazzo.
Tuttavia prima o poi si sarebbero rassegnati
al fatto di averlo perso e sarebbero rientrati al loro covo, ad
aspettarlo. Tutti i pezzi grossi della scacchiera si sarebbero
scannati per averlo dalla loro parte, era ovvio, come era ovvio che,
avendo probabilmente seguito un addestramento con Brom, egli si
sarebbe schierato con i Varden il prima possibile.
Lo avrebbe
intercettato e lo avrebbe convinto a collaborare con lui con le buone
o con le cattive.
Per quello non aveva messo Arya a parte delle
sue informazioni, perché non avrebbe capito, anzi avrebbe
probabilmente insistito per lasciare andare Eragon dai Varden. Era
scesa a molti compromessi per allearsi con lui, ma aveva dei paletti
morali che lui aveva perso da tempo e che, in quella situazione,
sarebbero stati solo uno svantaggio.
Le avrebbe detto tutto una
volta che il cavaliere fosse passato dalla sua parte.
Forse
avrebbe capito e lo avrebbe perdonato, forse no. Non erano
così
diversi in fondo, potevano avere un modo completamente diverso di
vedere le cose, ma c'era qualcosa che condividevano.
Arya era una
che camminava da sola, come lui, lo aveva capito sin dal loro primo
incontro.
E aveva scoperto molte cose di lei in quelle poche
settimane.
Già.. se il suo primo grande pensiero era la vendetta
e il potere, il secondo era l’Elfa.
Non si era nemmeno reso
conto di come fosse successo, ma quella che era stata solo una
prigioniera era diventata un’alleata, una confidente, quasi..
un’amica?
No, certamente non un’amica.
La consapevolezza
dell’esistenza di Arya lo avvolgeva come un fluido tiepido e
talvolta riusciva addirittura a scacciare il gelo che da sempre era
su di lui, dentro di lui.
Certo aveva un caratteraccio -era
fredda, altera e superba- eppure lo aveva baciato più e
più volte,
aveva condiviso passeggiate, scoperte, cibo, duelli, pensieri,
pericoli, persino il letto, con lui. Non era solo un’algida
principessa elfica, era anche gentile, premurosa, forte, testarda,
piacevole, misteriosa, altruista, sagace, intelligente, sveglia,
intrigante..
«Spettro mi stai stritolando la mano» lo
informò
lei in un mugugno, facendolo sobbalzare per la sorpresa.
«Scusami»
si affrettò a dire, interrompendo il contatto tra di loro.
«Non
dirmi che fai brutti sogni anche tu..» azzardò.
Eccome se ne
faceva, ma non erano decisamente problematici quanto i suoi. Dopo
giorni di tentativi aveva anche smesso di creare una barriera intorno
a lei, non contava un accidente.
«No», mentì, «dormi pure, mi
spiace di averti disturbata».
Percepì lui stesso la vuotezza
delle parole appena pronunciate.
E forse lo percepì anche lei
perché allungò una mano nella sua direzione e gli
sfiorò una
spalla nel buio. Quando fece per ritrarre la mano la fermò e
la
sentì tiepida tra le sue.
Un calore aggressivo si fece strada
nelle sue membra e non aveva nulla a che fare con gli spiriti, che
per una buona volta giacevano in silenzio sul fondo della sua
coscienza. Aveva una voglia atroce di baciare la pelle nuda e
bollente dell'Elfa, accarezzarne ogni pollice e abbandonarsi tra le
sue braccia. Non era la prima volta che aveva quel pensiero, ormai la
desiderava da non sapeva nemmeno lui quanto tempo, ogni giorno con
forza maggiore. Tuttavia non era il caso di..
Si sentì cadere a
pezzi quando Arya si avvicinò ulteriormente a lui e gli
baciò le
labbra. Un attimo solo, giusto il tempo di passargli il sapore di un
intruglio che si spalmava per mantenerle morbide.
E che funzionava
alla perfezione.
L'avrebbe presa, spinta sotto di sé e spogliata
seduta stante, se solo non si fosse alzata di scatto dal materasso.
Era sempre così, un po' si lasciava andare e un po' si
ritraeva, in
un atteggiamento quasi irritante e terribilmente imprevedibile.
«Sono
abbastanza riposata per tutta la giornata»
sentenziò calzando gli
stivali.
Durza lo Spettro, governatore di Gil'ead e terrore di
Alagaësia, sospirò pesantemente e si
alzò anche lui, certo che, in
ogni caso, non avrebbe più dormito fino all'alba. E il tutto
per una
donna, incantevole e fuori dagli schemi per carità, ma pur
sempre
una donna.
[Arya]
Dopo il breve scambio di battute con
Durza sentii nuovamente quella sensazione di cose non dette che
pesavano nell'aria che respiravo. Erano abbastanza frequenti negli
ultimi tempi, ma come al solito non avevo né il tempo
né la voglia
di analizzare il problema.
Io e lo Spettro cominciammo a
riordinare le nostre cose e a prepararle nel caso avessimo dovuto
lasciare la città inseguiti da un'orda di Sacerdoti monchi
impazziti.
Durza mi convinse anche a mettere un paio di guanti con
le dita tagliate. Solo dopo qualche minuto realizzai che il loro
scopo era nascondere l'anello di ametiste e per un attimo mi sentii
quasi ferita.
Dopo aver pagato per altre due settimane la locanda
e aver fatto una colazione veloce -nessuno dei due era
particolarmente affamato- ci accomodammo sulle panche della
cattedrale, più vicini all'altare del solito così
da non dovere
andare contro troppa corrente umana al termine della funzione.
Ero
disattenta e prestai poca attenzione al tutto, gli occhi fissi su
Gagnsamr, nascosto dietro
ad un
sacerdote. E la mano di Durza sul mio ginocchio non favoriva
esattamente la concentrazione.
Quando il sacerdote che officiava
il rito indirizzò i fedeli in direzione dei portoni per
ricevere il
Segno, noi rimanemmo seduti ai nostri posti, in attesta di un cenno
del monaco, che arrivò non appena i Sacerdoti liberarono
l'abside.
«Bitr e Natt», cominciò
subito in tono solenne
e sbrigativo, come se avesse timore che cambiassimo idea
improvvisamente, «vi ho chiamati davanti a questo altare
perché
giuriate di fronte a Dio e me, suo funzionario e testimone, di
rinunciare alla vostra unione, così da poter entrare
pienamente
nella famiglia del Signore. Ora giurate».
«Lo giuro»
bisbigliai, a disagio sotto gli sguardi degli ultimi fedeli che
lasciavano la cattedrale, quasi tutti nobili e ricchi che sedevano ai
primi posti.
«Lo giuro» ripeté lo Spettro.
«Devo chiedervi
di farvi un taglietto e di lasciare cadere una goccia del vostro
sangue sull'altare, in modo da rendere il vostro giuramento
indissolubile. Basterà sfregare un dito
nell'asperità qui di lato»,
ci istruì, indicando una irregolarità laterale
della lastra di
pietra, quella che usavano tutti i Sacerdoti che celebravano la
funzione al termine di essa.
Durza si fece avanti per primo e vi
sfregò dolcemente il palmo. Fu sufficiente a procurargli un
lungo
graffio sulla pelle, che premette sull'altare per tingerlo di sangue.
Io mi ferii un polpastrello, dato che indossavo i guanti e lo strinsi
fino a stillarne una goccia di sangue.
Il monaco annuì
soddisfatto e ci fece cenno di seguirlo fino all'ingresso per
ricevere il Segno.
«Bene!» Esclamò una volta giunti
all'esterno, «Se volete posso accogliervi anche oggi stesso,
nel
pomeriggio! Potete tenere i vostri abiti ma dovrete indossare questa
veste sopra», tirò la stoffa della sua,
«e poi se avete qualche
oggetto personale portatelo pure, inutile dirvi che non sono
accettate armi di alcun genere e la signora non potrà
portare monili
preziosi».
Non li avevo mai portati quindi non era un
problema.
«Avrete un pagliericcio in un dormitorio e potrete
mettere lì tutte le vostre cose. Le regole sono semplici:
dovete
ubbidire ai vostri superiori, è vietato fare del male a
chiunque,
rubare sia cibo che oggetti della chiesa, avere del denaro vostro con
voi.. Direi che per ora è sufficiente. Potrete coricarvi
dopo ogni
funzione serale e svegliarvi in anticipo per preparare i pasti ai
Sacerdoti, ma su questo vi istruirò più tardi. Ah
e ovviamente ci
sono dormitori per maschi e femmine» concluse quasi con
noncuranza.
Ma a quelle parole il mio cuore sobbalzò. Guardai
Durza con un terrore e uno smarrimento che doveva essere più
che
evidente, perché lo Spettro mi passò davanti e
parlò al
monaco:
«Possiamo cominciare da domattina?»
Gagnsamr
corrugò la fronte. «Quello che state
prendendo è un
impegno, non potete ritirarvi e tornare ogni volta che lo desiderate.
Non siete carne di Dio come i Sacerdoti, ma siete comunque una
piccola fetta della sua chiesa e Dio non accetterà traditori
e
spergiuri nelle sue fila».
Vidi la figura dello Spettro tendersi
in modo quasi spasmodico. «Non siamo spergiuri. Vorremmo
semplicemente un altro giorno per sistemare le nostre cose e mandare
qualcuno a portare il resto alle nostre famiglie a Teirm, è
possibile?» Il suo tono si fece sempre più gelido.
Il monaco si
schiarì in volto e annuì. «Certamente!
Però domattina, dopo la
funzione, vi trasferirete direttamente qui, d'accordo?»
«Sì,
per domattina dovremmo essere pronti».
«Bella giornata a voi!»
si congedò.
«Se qualcuno non mi sveglia credo che
morirò»
sentenziai sottovoce non appena si fu allontanato.
Era stato il
mio primo pensiero quando il monaco aveva accennato ai dormitori
divisi: dormire lontano da Durza significava dormire in balia dei
miei incubi, oltre al rischio di attirare l'attenzione presso le mie
compagne di stanza.
«Troveremo un modo» rispose Durza,
prendendomi per mano e avviandosi verso un'osteria. «Non
credo che
sia saggio cercare di usare la magia, l'ultima volta che ho provato
ad espandere la mente mi hanno intercettato subito. Hai una sola
visione a notte di solito e comincia subito dopo che ti sei
addormentata, quindi basterebbe che io fossi con te ogni volta che
succede».
«Hai imparato bene le tempistiche» osservai
amaramente.
«Ti aiuterò, Principessa» disse
semplicemente e le
sue parole erano tutto quello che avevo bisogno di sentire, veritiere
o false che fossero. E lui lo sapeva perfettamente.
___________________________________________________________________________________________________________
Questo capitolo è insieme statico e ricco di informazioni e l'ho interrotto solo perché sarebbe diventato esageratamente lungo e illeggibile! Quindi il vero e proprio ingresso nella chiesa lo lascio alla prossima settimana, spero mi perdonerete ^_^
Piccola nota: il quarto picco dell'Helgrind non ha nome nel Ciclo dell'Eredità (o almeno così mi pare, in caso contrario siete pregati di farmelo notare perché qualche errorino con i libri mi scappa spesso e volentieri) quindi l'ho chiamato "Teufel", sia perché la parola ha un suono che mi sembrava adeguato, sia perché significa "Diavolo" in tedesco ed è appropriato per la setta impazzita che sono i Sacerdoti.
Buona domenica a tutti e alla prossima!
Baci,
Lalli
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Capitolo 22 *** Sono pazzi ***
Ciao
22.
Sono pazzi
Quella
era l'ultima notte che avrei potuto passare a dormire in pace, certa
che qualcuno mi avrebbe riscossa in tempo, eppure faticai
terribilmente ad assopirmi e riuscii sì e no a sommare
un'ora totale
di sonno da quando ebbi la visione al sorgere del sole.
Lo Spettro
dormì poco più di me e passammo il resto della
notte in chiacchiere
che sarebbero state decisamente frivole in qualunque circostanza. Per
la maggior parte del tempo, Durza schermì Galbatorix,
elencandomi i
suoi difetti e i suoi fallimenti, i suoi lunghi discorsi e le poche
azioni concrete che vi corrispondevano. Mi sembrava così
strano
sentire ridicolizzare quello che dalla mia nascita era stato il mio
primo e assoluto nemico.
«Galbatorix uccise mio padre, sai?» mi
scappò detto, nel clima disteso di conversazione che si era
creato.
«Davvero? Quando?»
«Cento anni fa, quando prese il
potere».
«Nella battaglia di Ilirea?» domandò
quasi
stupito.
«Già. Non si sa nemmeno come sia morto
esattamente. Si
gettò nel cuore dell'esercito nemico per affrontare
Galbatorix
faccia a faccia, un'azione folle che gli costò la vita,
quasi
sicuramente per mano del re o forse per uno dei Rinnegati. A quanto
pare i suoi generali gettarono la testa di Evandar davanti
all'esercito elfico, fermandone in buona parte l'avanzata. Quel
giorno fummo ovviamente sconfitti» conclusi con tono
amareggiato.
«Evandar era tuo padre?» si accertò
Durza.
«Sì.
Dopo la sua morte il consiglio elesse mia madre come suo successore e
da allora regna sugli elfi. Eri anche tu in battaglia?»
domandai
dopo aver ragionato sulla possibile età dello Spettro.
Sapevo che
aveva aiutato Galbatorix a fare schiudere il drago nero per lui,
tramite l'uso della magia nera e quindi doveva già essere
uno
stregone esperto all'epoca.
Durza non mi rispose e tacque talmente
a lungo che credetti che la conversazione fosse finita.
Poi tornò
a parlare, cambiando argomento. «Dunque tu diventerai regina
dopo
tua madre, Principessa..»
«Non è corretto chiamarmi
principessa, Spettro», puntualizzai, «Il mio popolo
mi chiama Arya
Dröttningu, ma non esiste un preciso corrispondente nella tua
lingua, sarebbe letteralmente “figlia della
regina”. Ed essere
figlia della regina non ha lo stesso significato che ha tra gli
uomini: non mi assicura l'accesso al trono, chiunque potrebbe
diventare sovrano al posto mio, se il consiglio lo riterrà
opportuno. Ma dato che la mia famiglia regna da parecchi secoli
è
probabile che scelgano me come successore».
«E tu, Arya dal
nomignolo così altamente elfico da non potere nemmeno essere
tradotto, vuoi diventare regina?»
Risi. «Perché ho la
sensazione che tu sappia già la risposta?»
«Forse perché è
così?» aggiunse con sarcasmo. «Sarebbe
ovvio a chiunque: sei
troppo abile con la spada per diventare una sedentaria regnante e in
ogni caso sei uno spirito libero. Non ti piacerebbe vivere ingabbiata
in una corte».
«Nemmeno a te».
«Invece magari mi
piacerebbe, che ne sai?»
Fui incerta sulla risposta perché mi
pareva un po' indiscreta, ma alla fine parlai:
«Perché in certi
aspetti sei simile a me. E inoltre sei sempre inquieto, sembri in
eterna fuga da te stesso e sei troppo disinteressato ai problemi
degli altri, non saresti mai un buon sovrano. Forse un buon
amministratore di provincia, sì», aggiunsi
precipitosamente, «ma
con l'intera terra di Alagaësia non solo non ce la faresti,
sarebbe
un compito che odieresti con tutta l'anima».
«Diamine, Elfa! Non
mi parlavano con così poco rispetto da decenni».
«Magari perché
sei circondato da persone che hanno troppa paura di te per potersi
azzardare ad essere sincere».
Esitò. «Forse. Ma hai ragione tu.
Anzi non sono nemmeno un buon amministratore di provincia: la maggior
parte del lavoro lo fa Hillr».
Mi irrigidii. Disprezzavo
profondamente quell'uomo e il disprezzo era ovviamente
reciproco.
Durza percepì il mio disappunto e si sentì il
dovere
di difendere il suo sottoposto. Così mi raccontò
la straziante
storia di Hillr il Siniscalco e di come avesse perso la madre,
accusata di stregoneria in un processo popolare e arsa viva.
«Da
allora rifugge chiunque mostri di avere dei poteri. Ne ha un timore
così assoluto che credo preferirebbe uccidersi pur di non
venirne in
contatto. I miei li tollera, forse solo perché gli ho
salvato la
vita».
«Dunque ha orrore del mio popolo».
«Come molti tra
gli uomini. Voi siete così terribilmente superiori ad un
comune
mortale e così misteriosi.. Sono fiorite migliaia di
leggende su di
voi e la gente ha paura di ciò che non comprende».
Lo sapevo
già. Nonostante i membri dei Varden mi rispettassero, mi
temevano
anche parecchio e la cosa non era calata negli ultimi
settant'anni.
«Anche tu hai paura?»
Sbuffò. «Potrei
cavarmela anche contro una mezza dozzina di elfi, purché non
siano
addestrati come te. E comunque non siete così
incomprensibili per
me. Il re sa molte cose su di voi, le ricorda dal suo primo
addestramento, e quindi le so anche io».
«Cose importanti?»
domandai tesa.
«Più che altro cose riguardanti la vostra
etichetta e il vostro modo di vivere. Niente di pericoloso, lui
stesso ha ammesso che ci sono segreti nelle vostre foreste che non
è
arrivato a capire».
Mi rilassai un poco.
«Credo che sia
l'alba» borbottò lo Spettro.
Andò a spostare l'asse di legno
dalla finestra ed un tenue chiarore illuminò la stanza.
«Siamo
pronti, Principessa?» chiese stirandosi.
«Non lo saremo
mai».
«Questa dovrebbe essere la fase in cui mi incoraggi,
Elfa».
«Come non detto: siamo preparatissimi!»
«Meno male!»
esclamò. Poi scoppiò a ridere, sciogliendo in
parte quel po' di
tensione che si stava accumulando per la giornata che ci
aspettava.
Recuperammo le bisacce che avevamo utilizzato per la
prima parte del viaggio dal loro nascondiglio in fondo agli zaini e
le riempimmo delle banalità: vestiti di ricambio, una
coperta, il
Nalgask per me e la menta per Durza. Poi nascondemmo le lame sotto il
materasso e per un lungo attimo mi dispiacque lasciare lì la
mia
spada, quasi fosse un
amico che
abbandonavo nelle difficoltà.
Era stata forgiata per me quando
ero ancora una ragazzina ed ero partita per la mia prima missione
diplomatica. Quante primavere avevo allora? Trenta?
Trentadue?
Ricordavo il volto impassibile di mia madre, il sorriso
incoraggiante di Däthedr mentre mi porgeva il suo dono: una
lama
realizzata su misura per me, anche con l'aiuto di Fäolin, che
conosceva alla perfezione il mio stile di combattimento.
L'avevo
banalmente chiamata Ren, promessa o giuramento nella lingua degli
uomini, talmente forte era la mia convinzione nell'assumere il ruolo
di ambasciatrice e sostenere il mio popolo. Per me era stata davvero
una scelta importante, che mi era costata parecchio: ero andata
contro a tutte le aspettative e in molti avevano dubitato di me data
la mia giovanissima età, tuttavia mi ero allenata e avevo
studiato
duramente per avere quella carica e alla fine l'avevo
guadagnata.
«Arya?» la voce dello Spettro mi
risucchiò
nella realtà.
Ero ancora inginocchiata sul pavimento, le mani
strette intorno al fodero di Ren.
«Dimmi» nascosi la spada e mi
alzai.
«Il Fricai Andlat dovresti lasciarlo qui».
«L'ho già
nascosto insieme alle spade» lo rassicurai.
«Avresti fatto
meglio a lasciarlo direttamente dall'erborista, ma ormai..»
Stirai
le labbra in un sorriso amaro -non vista- pensando a chi veramente mi
aveva fornito quella boccetta e a quali fossero le sue vere
intenzioni. Avevo smesso di considerare Alba un'inerme e piagnona
umana da quando Durza aveva ricevuto quella comunicazione da lei, in
piena notte. Non lasci che una semplice serva interagisca con
soggetti importanti e pericolosi quanto i Ra'zac, specie se hanno
informazioni rilevanti -che tu le conosca già o meno. A
giudicare da
quello che ormai sapevo di lei doveva trovarsi anche al di sopra di
Hillr, forse non nell'amministrazione di Gil'ead, ma perlomeno nelle
forze che dipendevano dallo Spettro sì.
E a paragonarla con la
visione che avevo avuto io di lei, la donna a cui stavo pensando
sembrava un'altra persona. Più misteriosa, ingannatrice e
pericolosa.
Non fui di molta compagnia quella mattina: ero
concentrata sulla nostra missione e stavo ripassando mentalmente il
mio comportamento da debole donna umana, che avrei dovuto mantenere
ben solido per tutto il tempo, senza osare mai gettare la
maschera.
Quando arrivammo in prossimità della chiesa,
però,
qualcuno decise di distrarmi.
Lo Spettro mi trattenne nel vicolo
che dava sulla piazza della cattedrale, si bloccò al lato
della
strada e mi si fece più vicino, abbandonando la bisaccia ai
suoi
piedi. Non feci domande e accettai la carezza gelida delle sue dita,
che mi sfiorarono delicatamente il viso.
Ma il bacio che seguì
non ebbe niente di delicato. Era frenetico, esigente, avido come non
mai. Non mi baciava in quella maniera dalla sera in cui era tornato
dalla città del dolore e le sensazioni che provai mi parvero
ancora
più intense di quelle a cui mi ero abituata negli ultimi
tempi, mi
sballottarono qua e là senza pietà,
disorientandomi e
sprofondandomi in un dolce oblio.
Durza baciò le mie labbra, le
succhiò, le morse con un entusiasmo che rasentava la
disperazione,
mentre le sue dita si incastravano tra i miei capelli,
scompigliandomi la treccia, e i suoi occhi si spalancavano voraci su
di me, facendomi improvvisamente sentire trasparente.
La bisaccia
mi cadde dalle mani e mi aggrappai alle sue braccia -unico punto
fermo che trovai in quel delirio- e allo stesso tempo abbandonai la
mia postura rigida, permettendogli di tirarmi a sé con una
violenza
che quasi mi tolse il respiro.
Sentii il calore del suo corpo
colpirmi come uno schiaffo attraverso i vestiti e fui improvvisamente
cosciente delle sue mani strette quasi con cattiveria sulla mia
schiena, del mio seno premuto contro il suo petto e del fortissimo
sapore di menta che mi pizzicava la gola. Mi parve di sentire il mio
spirito vibrare e mi colse un’ansia incontrollabile, come un
incendio estivo su un tetto di paglia. Somigliava vagamente al
trasporto feroce che si provava in battaglia, dove la ragione sfumava
nell'istinto, e alla sensazione che si sentiva a stare su un picco
alto, quando si era padroni del mondo.
Ero certa che avrei potuto
continuare a baciare Durza fino alla fine dei tempi e non averne mai
abbastanza, e allo stesso tempo volevo.. di più.
Più baci, più
carezze, più calore.
Ma non era il luogo e neanche il momento. Il
rito stava per cominciare e quella mattina non potevamo proprio
mancare, tuttavia fu quasi faticoso abbandonare le labbra dello
Spettro, sciogliere le mani dal suo mantello, e tornare bruscamente
alla realtà non appena le campane suonarono.
Quando entrammo in
chiesa Durza aveva ancora il respiro pesante e io mi sentivo
riscossa, devastata e profondamente turbata.
I confini netti che
avevo sempre mantenuto nei suoi confronti si erano rotti. Altre volte
mi ero volentieri abbandonata alle sue labbra, quel giorno mi ero
abbandonata e basta, in maniera totale.
Eppure non mi sentivo
abbattuta, non mi sembrava di aver calpestato la mia dignità
o la
mia integrità. Mi era sembrato naturale e il fatto che lo
Spettro ne
fosse rimasto trascinato quanto me contribuì a calmare la
mia
agitazione e a scacciare l'episodio dalla mia mente.
Per il resto
della funzione tormentai la tracolla della bisaccia e mi concentrai
per tornare totalmente nel mio ruolo. Ero Bitr e non vedevo l'ora di
servire Dio, ero lenta, ignorante, spaventata, non sapevo cosa fosse
la magia, tanto meno una spada e non provavo più alcun
sentimento
per quello che era stato mio marito.
Guardai Durza e lui posò su
di me occhi ardenti di fiamme e umidi di smarrimento.
Ci
stringemmo una mano, in un gesto di incoraggiamento reciproco. Quello
che stavamo per fare non era impossibile, ma così tanto
più grande
di noi che entrambi ce ne sentivamo schiacciati. Era in ballo il
futuro di Alagaësia e il destino di migliaia di persone.
Il rito
terminò troppo in fretta e, ricevuto il Segno, Gagnsamr ci
venne a
recuperare dall'esterno della cattedrale e ci fece cenno di seguirlo
con i nostri bagagli.
«Vi mostro immediatamente i dormitori così
potrete lasciare lì le vostre cose e mi seguirete
più agilmente
mentre vi mostro gli ambienti».
Mi sarebbe piaciuto dirgli che
non c'era bisogno, che ormai conoscevamo a memoria gli ambienti,
grazie alla mappa di Ditolesto.
Arrivammo all'altezza dell'altare
-dove il monaco si inginocchiò portando un pugno al petto- e
imboccammo una porticina a sinistra di esso, che portava ad una
piccola stanza che sapevo essere la sagrestia. Tre Sacerdoti
riponevano, su un tavolo coperto da un ricco drappo dai colori cupi,
le coppe utilizzate per segnare i fedeli di sangue.
«Novizi?»
chiese uno, sfilandosi la larga veste nera da cerimonia e scoprendo
abiti più stretti, che mettevano in risalto le parti
amputate -nel
suo caso una mano e un piede.
La nostra guida rispose
affermativamente, con grande rispetto e chinando lievemente il capo.
Emulammo quel suo saluto e lo seguimmo oltre un'altra porta, che dava
su un cortile quadrato, incorniciato da un portico colonnato. Eravamo
nel chiostro e sul portico si affacciavano diverse aperture, che
conducevano agli edifici interni. Una graziosa fontana campeggiava
nel centro esatto dello spazio erboso, spenta. Il bocchino, che
probabilmente spruzzava acqua nelle stagioni più calde,
aveva
l'inconfondibile forma di una testa di avvoltoio.
Feci il punto
della situazione. Stando alla mappa di Ditolesto, sul lato alla mia
destra si trovavano gli edifici dei Sacerdoti, con il loro
dormitorio, le loro latrine e i loro ambienti da bagno; alla mia
sinistra si trovavano il refettorio e la cucina, che proseguiva su un
altro cortile di servizio, e dritto davanti a me si trovavano i
dormitori dei monaci, con sopra l'infermeria.
Gagnsamr proseguì
sul lato sinistro del porticato, passando accanto alle porte che
dovevano condurre al refettorio e alle cucine e si fermò in
corrispondenza del lato opposto a quello da cui eravamo entrati, dove
appunto si trovavano i dormitori monacali.
«Britt per di qua»
disse accennando alla prima porta che incontrammo, che celava il
dormitorio femminile.
«Sono Bitr» corressi automaticamente,
seguendo le sue indicazioni e aprendo la soglia.
Una doppia fila
di pagliericci -sei in tutto- occupava tutta la stanza, ed erano
l'unico arredamento oltre ad un chiodo sopra ciascuno, da cui
pendevano abiti e mantelli.
«Mi hanno detto che il tuo giaciglio
è l'ultimo a sinistra» mi istruì il
monaco dall'esterno.
«Grazie»
risposi e mi ci avviai per lasciare le mie cose.
Mentre
appoggiavo la bisaccia sul pagliericcio e mi guardavo intorno sentivo
le voci provenire dalla stanza attigua, dove il monaco stava
accompagnando Durza di persona. A quanto pareva le regole di
divisione dei dormitori erano abbastanza rigide, dato che non si era
nemmeno arrischiato ad affacciarsi in quello femminile.
Un altro
suono proveniva dall'altra parete, un chiacchiericcio sommesso, un
rumore di stoviglie e il fruscio di un fuoco acceso. Quella stanza
condivideva il muro con la cucina e si sentivano i suoni delle
persone al lavoro, ecco perché non c'era nessuno in giro
Tornai a
guardare la stanza. I letti erano molto vicini -circa un paio di
piedi l'uno dall'altro e le coperte e le lenzuola giacevano
ordinatamente piegate su ciascun giaciglio, ma non vi era traccia
delle minime comodità quali un cuscino o una stufa.
Al chiodo
sopra al mio letto era appesa una veste di rozza iuta grigiastra, la
stessa che indossavano i monaci, ma non vidi nessuna catena.
Seguendo
i discorsi della stanza accanto venni a sapere che le catene da
mettere a cintura ci sarebbero state consegnate non appena avessimo
prestato giuramento ufficiale davanti a Dio, fino ad allora potevamo
tenere ferma la tonaca con le nostre cinture. Dando per scontato che
il discorso che valeva per Durza valesse anche per me, mi slacciai il
mantello, mi sciolsi di vita la cintura e la utilizzai come aveva
suggerito Gagnsamr. La veste pizzicava contro la pelle nuda del
collo, così nascosi i capelli sotto la stoffa per limitarne
in parte
il contatto. Non scaldava neanche lontanamente quanto il mio
mantello, ma con i miei abiti sotto non pativo particolarmente il
freddo.
Uscii nel chiostro nello stesso istante in cui lo fecero
lo Spettro e il monaco. Durza era bardato come me e vederlo in quegli
abiti quasi da penitente era piuttosto ridicolo.
«Bene, vedo che
te la sei cavata senza le mie istruzioni!» esclamò
il monaco. «Ora
seguitemi e non disturbate le attività della cattedrale, ve
ne
prego. Come ho già detto al tuo compagno», disse
rivolgendosi a me,
«esattamente sopra ai dormitori di trova l'infermeria, a cui
si
accede dai dormitori maschili tramite una scala. Ora, a meno che uno
di voi non dimostri di avere doti curative o non vi ammaliate la cosa
non dovrebbe interessarvi più di tanto».
Lo Spettro intervenne:
«Non credo che saremo abili in una simile arte». E
vi lessi un
sottile ammonimento in quella precisazione. «A Teirm eravamo
commercianti di stoffe e..»
«Oh, non voglio sapere cosa eravate.
Da quando vi consacrerete a Dio non avrà più
alcuna importanza cosa
eravate prima, se nobili, accattoni, ricchi, poveri, istruiti o
ignoranti. Sarà come nascere una seconda volta e potrete
anche
scegliere un nuovo nome, purché non sia un nome
già preso da uno
dei Sacerdoti. Dunque.. di qua ci sono le cucine».
Spalancò la
porta accanto al dormitorio femminile, quella che ne condivideva le
pareti. La mappa non aveva peccato, dunque. Trovammo un gruppo di
monaci, tra uomini e donne, intenti a riassettare l'ambiente. Non
interruppero il loro lavoro, sembrammo quasi invisibili ai loro
occhi.
«Qui prepariamo i pasti per la Carne di Dio, tre volte al
giorno. Sappiate che noi non mangiamo mai con loro. Il nostro primo
pasto del mattino c'è al sorgere del sole, poi abbiamo il
tempo
appena sufficiente di sgomberare la sala e prepararla per il pasto
mattutino dei Sacerdoti. Per il pranzo del mezzodì e della
sera è
il contrario: prima serviamo i Sacerdoti e quando hanno terminato
abbiamo il permesso di nutrirci a nostra volta. Qui sopra»,
puntò
al soffitto e notai solo in quel momento la ripida scaletta che si
arrampicava al piano superiore, «c'è una stanza
dove stendiamo il
bucato ad asciugare. Vedete quelle fenditure? Da lì passa il
calore
del fuoco e permette di rendere l'operazione molto più
veloce».
Dalla cucina finimmo in un ulteriore cortile erboso, quadrato,
palesemente di servizio. Al centro si ergeva un pozzo di mattoni
rossi, sulla sinistra un pugno di cabinotti emanavano
l'inconfondibile odore di latrina e sulla destra, sotto un portico,
si trovava la lavanderia vera e propria, con le sue vasche e i suoi
piani di legno.
Accanto alla lavanderia prendeva spazio un
bell'orticello. L'intero cortiletto era circondato da un muro di
mattoni, che aderiva alla strada, dalla quale provenivano i rumori
della vita cittadina.
Gagnsamr ci ricondusse poi nel chiostro dove
ci mostrò l'ingresso del refettorio e quello dei dormitori
dei
Sacerdoti, precisandoci che l'ingresso ad esso ci era proibito se non
nelle ore in cui erano ritirati in preghiera nella cattedrale -e in
quel momento ci era proibito l'accesso alla cattedrale- quando
dovevamo ripulirlo e riassettarlo. Mi parve di sentire una ventina di
respiri profondi, da dormienti, provenire dal piano superiore del
dormitorio.
Quel giro fu quasi totalmente inutile perché entrambi
sapevamo già com'erano ripartite le stanze superiori, il
nostro
interesse andava a quelle sotterranee, ovviamente. Ed era ancora
più
ovvio che i monaci sapevano a malapena della loro esistenza. Gagnsamr
accennò solo ad una cappella riservata ai Sacerdoti, che si
trovava
sotto alla chiesa, ma che aveva un accesso segreto che nessuno
conosceva a parte i diretti interessati.
Nessun problema, lo avrei
scovato.
Poi il monaco passò alla spiegazione dei compiti dei
monaci. Dovevamo svegliarci all'alba, lasciare il dormitorio in
ordine, consumare una colazione veloce e poi affaccendarsi per quella
dei Sacerdoti. Subito dopo dovevamo presenziare alla funzione del
mattino.
«Ma fino a che non sarete monaci non potrete salire
sull'abside insieme a noi quindi dovrete mischiarvi alla
folla»
specificò.
Poi c'era la preparazione e la consumazione del
pranzo. Da quel momento del giorno in poi i monaci si dividevano i
compiti: chi si occupava di riordinare il refettorio, chi la cucina,
chi ripuliva gli oggetti sacri utilizzati per il rito, chi faceva il
bucato, chi curava l'orto.. A turni, i monaci si recavano all'esterno
per fare acquisti al mercato o occuparsi dei cavalli riservati ai
Sacerdoti, che erano tenuti in una stalla vicina alle mura della
cerchia esterna.
«Sarete assegnati ad un compito se verrà fuori
una vostra particolare attitudine, altrimenti ogni giorno ruoterete
ad un lavoro diverso» ci informò Gagnsamr.
Spesso e volentieri i
fedeli portavano doni: cibo, piccoli monili, stoffe e simili. Gli
oggetti di uso pratico dovevamo riporli nella dispensa sotto la
cucina e negli scaffali della stanza dove si asciugava il bucato, ma
gli oggetti preziosi -proibiti ai monaci- dovevano essere lasciati
dietro all'altare, ai Sacerdoti, che a quanto pareva sapevano bene
come usarli.
Insomma i monaci erano una sorta di servi all'interno
della chiesa dell'Helgrind. Servi che ricevevano vitto e alloggio in
cambio dei loro servizi e che onoravano Dio occupandosi semplicemente
dei Sacerdoti e trascorrendo il resto del loro tempo libero in
preghiera. Conoscevano la religione, ma non il libro di Tosk,
riservato ai Sacerdoti, quasi nessuno di loro sapeva leggere o
scrivere e provenivano tutti da ceti bassi, dato che qualunque nobile
avrebbe disprezzato le loro condizioni.
«Non fatevi illusioni»,
aggiunse Gagnsamr, «qui c'è sempre molto da fare.
Siamo quindici
monaci -voi inclusi- e dobbiamo occuparci di ottantacinque
persone».
Quasi sobbalzai. «Ottantacinque?» chiesi
cautamente.
Il monaco annuì. «I Sacerdoti praticanti sono
ventiquattro, poi abbiamo una decina di novizi e cinquanta
guardie».
Durza assunse un'espressione di innocente stupore. «Non
avevo mai visto guardie nella cattedrale» insinuò.
«Diciamo che
è una sorta di piccolo segreto. I fedeli non ne sono messi a
parte,
anche se probabilmente molti di loro lo sanno per sentito dire o per
le chiacchiere troppo indiscrete di un monaco. Le guardie sono parte
dell'ordine sacerdotale e proteggono i segreti di Dio insieme ai
praticanti, che però non possono difendersi visti i
sacrifici che il
loro alto compito richiede. Sono stati istituiti per la loro
protezione, noi li chiamiamo le Ombre e li onoriamo come carne di
Dio».
Io e lo Spettro ci guardammo di sottecchi. Sapevamo delle
guardie, ma non sapevamo che fossero così tante.
Probabilmente anche
loro svolgevano i loro compiti sottoterra, insieme agli avvoltoi, e
forse i respiri che avevo sentito provenire dal dormitorio dei
Sacerdoti erano di alcuni di loro che avevamo vegliato per tutta la
notte. Doppia cautela, dunque.
Quando il vecchio ebbe terminato di
impartirci ordini e istruzioni era ormai mezzodì e ci
condusse
direttamente alle cucine, dove aiutammo ad imbastire il pranzo per i
Sacerdoti e poi consumammo il nostro.
Durante il pasto dei primi
assistetti a scenette grottesche: figure che mangiavano con la faccia
nel piatto, vista l'impossibilità di usare gli arti, che si
imboccavano a vicenda o che mangiavano con l'aiuto di un monaco.
Vidi
anche qualche membro delle Ombre: indossavano abiti neri e farsetti
imbottiti e avevano le spade al fianco, ma erano veramente in pochi,
quindi dedussi che il cibo che tenemmo da parte fosse destinato ai
loro compari, rintanati nel ventre della terra.
Dopo gli Avvoltoi
si ritirarono in chiesa e non ne uscirono più per il resto
della
giornata. Dovevano essere nelle loro stanze sotterranee, senza
dubbio.
Gagnsamr ci aveva detto che i monaci non avevano un capo e
che dipendevano direttamente dal volere dei Sacerdoti e del Sacerdote
Supremo prima di tutti, ma lui sembrava una sorta di coordinatore
all'interno della comunità: si occupava dell'educazione dei
fedeli,
accoglieva i novizi ed assegnava i compiti per il giorno.
Durza fu mandato con tre monaci ad occuparsi dei cavalli, mentre io,
forse
perché ero una donna, fui assegnata alle cucine.
Fu presto chiaro
a tutti i sei monaci che si affaccendavano tra le pentole che la mia
“attitudine” non era certo alla cucina, del resto
se avessero
saputo chi ero avrebbero capito: noi Elfi non mangiavamo molto cibo
cucinato, oltre ai dolci, al pane e ai vegetali e in ogni caso non mi
ero mai trovata nella condizione di dover provvedere di persona.
Quando soggiornavo a Tronjheim mi era sufficiente recarmi alla mensa
e richiedere un pasto, quando tornavo ad Ellesméra mi
venivano
addirittura serviti in camera, se preferivo non scendere a consumarli
con mia madre. Durante gli spostamenti eravamo soliti mangiare pasti
freddi, per dare meno nell'occhio e muoverci più veloci sul
territorio dell'impero. Prudenze che tra l'altro si erano rivelate
inutili..
Insomma l'unica cosa che mi ero vista in grado di fare
autonomamente era stato tagliare le verdure per lo stufato, per il
resto ero quasi d'impaccio. Senza contare che i miei guanti tagliati
erano guardati con un velo di disapprovazione.
Non conversai molto
con le persone che mi circondavano: un po' perché ero
silenziosa di
mio, un po' perché nessuno pareva a suo agio nel parlare di
ciò che
gli era accaduto prima di diventare monaco, quindi le mie
possibilità
di appigliarmi a qualcosa si riducevano drasticamente. Quando si
parlava si parlava di Dio, degli Avvoltoi, della chiesa e dei propri
doveri, nessuno aveva legami di amicizia con nessun altro, tutti
erano semplici compagni che come loro servivano Dio.
Ulteriore
elemento di estraneità era dato dai miei capelli. Tutti,
uomini e
donne, avevano il cranio rasato, così volevano le regole e
tutti
tenevano il cappuccio sollevato per riscaldarsi la testa altrimenti
esposta al gelo. La mia spessa treccia nera mi identificava per
quello che ero: al di sotto di una novizia, introdotta tra di loro
solo perché si erano momentaneamente trovati a corto di
adepti.
Quando il sole cominciò la sua discesa verso il tramonto
i Sacerdoti uscirono in massa dalla chiesa insieme ai loro novizi e
si riunirono nuovamente nel refettorio. Rividi il tale che io e Durza
avevamo origliato mentre beveva il suo calice di sangue, ormai era un
Sacerdote in piena regola e indossava le loro stesse vesti nere,
inoltre gli mancava già il pollice della mano sinistra.
Mentre
riportavo in cucina una pila di piatti di terracotta, apparve
Gagnsamr e mi trasse in disparte.
«Nessuno deve sapere nulla di
tuo figlio», mi bisbigliò, «o
finirò nei guai io per averti
ammessa in queste condizioni, ma anche te perché verrai
scacciata».
«Non temere» risposi serenamente, ricordandomi solo
in quel momento della mia presunta gravidanza.
«Lo dirò anche a
Natt».
Ebbi il buon senso di non chiedere dove si fosse cacciato
Durza, ma non lo vedevo da mezzodì e cominciavo ad essere
preoccupata.
Lo Spettro in questione apparve quando venne il turno
dei monaci di cenare, accompagnato da due uomini di mezza
età con i
quali sembrava aver fatto amicizia, perché parlavano e
ridevano
sommessamente tra di loro. I suoi capelli rossi spiccavano nel
grigiore dell'ambiente: un'impertinente macchia di colore.
Essendo
assegnata alle cucine dovetti aiutare a servire anche i monaci, che
in realtà, essendo solo tredici in tutto -quindici con me e
lo
Spettro- occupavano una minima parte di uno dei lunghi tavoli che i
Sacerdoti, i Novizi e le Ombre avevano riempito.
Durza ammiccò
quando posai il pasto davanti a lui e io gli strinsi furtivamente la
spalla per informarlo che andava tutto bene. Ma poi gettai
un'occhiata alle strette finestre e alla notte che avanzava
inesorabile e mi resi conto di cosa significasse. Potevo non dormire
per un giorno, anche due, tre o quattro, non di più, il mio
fisico
non avrebbe retto.
Mi sedetti tra una donna dai grandi occhi
marroni e un uomo dall'aria severa.
La donna mi guardò
amichevolmente e si presentò: «Mi chiamo
Tove».
«Bitr».
Ci
stringemmo il polso destro. La sua prima domanda mi fece
sorridere.
«Perché hai i capelli?»
Le spiegai del
particolare noviziato che stavo seguendo.
«Anche l'uomo con i
capelli rossi è nella tua stessa situazione?»
«Sì».
«Succede
raramente che Gagnsamr faccia venire qualcuno prima ancora che abbia
giurato, ma puoi stare tranquilla, Dio ti accoglierà come ha
accolto
tutti noi».
«Già, ma di solito si prendono almeno le persone
che hanno concluso la loro istruzione» fu l'aspro intervento
dell'uomo dall'aria severa.
«Mi chiamo Bitr» replicai
candidamente, senza porgergli il braccio.
«Sono Mikell. Il mio
nome significa “simile a Dio” nell'antico dialetto
del vate
Tosk».
Feci un cenno del capo. «Ne sarai
orgoglioso».
Indubbiamente lo era, lo avrebbe capito anche un
bambino.
«Molto. Il tuo cosa significa?»
«Nulla, credo».
Mi
guardò con superiorità. «Potrai
cambiarlo quando diventerai
monaca» mi provocò.
«Quindi entro due-tre settimane» conclusi,
alzandomi dal mio posto e portando il mio piatto integro al cortile
di servizio, dove lo vuotai nello scolo.
Stufato di verdure e
carne di pollo. Non sarei mai riuscita a mangiarlo, a meno che non
stessi per morire di fame, e non ero ancora nella condizione.
Ah,
e Mikell era un insopportabile e tronfio vecchio.
Tornai al
refettorio per aiutare a ripulire il tutto, poi venne l'ora della
lezione, che io e lo Spettro seguimmo insieme alle solite persone,
che guardarono incuriosite la nostra mise.
Poi Gagnsamr venne
verso di me con Durza al seguito.
«Sedete dove preferite, ma
lasciate libere le panche davanti per i nobili della città.
Concluso
il rito andate alle porte per ricevere il segno, ma poi restate
all'interno. I portoni vengono chiusi per la notte».
Facemmo come
ci aveva detto. Sedemmo in fondo, in quella che doveva essere
diventata la nostra panca preferita e, per la prima volta da quando
ci eravamo baciati, mi ritrovai da sola con lo Spettro.
«Com'è
andata?» mormorò esibendo un sorriso accennato,
gli occhi castani
che brillavano quasi giocosi.
«Credo che non mi metteranno mai
più in cucina».
Ridacchiò .«A me è andata meglio. Ho
portato
a passeggio un paio di cavalli per tutto il pomeriggio».
«Sì,
decisamente molto meglio».
«Ti ho vista discutere con un tizio,
prima».
«Mikell» lo informai. «Un
idiota.»
«Come molti
altri qui dentro. Come hai fatto con la cena? La brodaglia di
cadaveri era di tuo gradimento?» mi stuzzicò con
sarcasmo.
«L'ho
buttata. E comunque mi sembravi circondato da amabile
compagnia».
Annuì lentamente. «Trygg e Stian sono due persone
sopportabili. Elof invece no, non so perché sia finito tra i
sacerdoti ma continua a parlare della sua ricchezza perduta e
dell'ingiustizia del padre nel preferire suo fratello minore come suo
erede. E non ha parlato d'altro per tutto il pomeriggio, stavo
morendo di noia».
«In ogni caso non siamo qui per fare amicizie»
lo consolai.
«No, infatti. Te hai scoperto qualcosa?»
«Ho
intuito da quello che ci ha detto Gagnsamr stamattina.. immagino che
l'ingresso agli ambienti sotterranei si trovi qui dentro, anche
perché i Sacerdoti sono rimasti qui tutto il
giorno».
«Allora
dovremmo perlustrare la chiesa, che dici?»
«Quando?»
«Stanotte».
«Non
la chiuderanno a chiave, vero?»
«Perché dovrebbero? I monaci
non rappresentano una minaccia per loro e in teoria hanno delle
guardie armate a proteggere i loro segreti. So che a parte la magia
siamo disarmati, ma per ora propongo solo una rapida ispezione per
trovare l'ingresso, poi ci avventureremo là sotto solo
quando saremo
in grado di difenderci».
«Allora vediamoci nella sagrestia a
mezzanotte. Aspettiamo un'ora e se l'altro non è arrivato
torniamo
ai rispettivi dormitori».
Mi scoccò uno sguardo malizioso.
«Vorresti davvero farmi credere che non stai cercando di
incantarmi?»
«Sei il solito idiota» sbuffai.
«Mi sei
mancata anche tu».
Non riuscii a fermare un sorriso.
Dopo la
funzione assistemmo a retroscena che di solito perdevamo quando
lasciavamo immediatamente la cattedrale. Dopo aver segnato tutti i
fedeli, i Sacerdoti facevano anche il giro tra i monaci, ma non si
sporcavano tra di loro, forse perché non potevano
ringraziarsi per
il loro stesso sacrificio.
Gli Avvoltoi sparirono in massa nei
propri dormitori, mentre noi affiancammo i monaci nelle operazioni di
ripulita del refettorio e della cucina. Un gruppetto fu mandato a
pulire l'altare dalla striscia di sangue lasciata dal sacerdote
officiante e a lucidare le bellissime coppe che avevano contenuto il
sangue.
Poi, stanchi dal lungo giorno di lavoro, i monaci si
coricarono.
Seguii le monache con cui avrei condiviso la stanza,
affiancata da Tove, la donna che avevo conosciuto durante la cena.
Lo
Spettro mi lanciò una lunga occhiata, prima di sparire oltre
alla
porta accanto. Ci vediamo dopo, mi diceva.
«Vieni, ti
presento le altre» disse pacatamente Tove, facendomi cenno di
entrare. «Compagne», annunciò poi una
volta che ebbe chiuso la
soglia, «questa è..» si interruppe, a
disagio.
«Sono Bitr»
suggerii, stampandomi in volto un sorriso indulgente.
«Bitr!»
esclamò, come se lo avesse appena ricordato.
«Queste sono Gefion,
Delling, Elin e Helsa». Indicò rispettivamente un
donna abbastanza
alta dallo sguardo intelligente; una molto bella per essere un'umana,
con le labbra rosse e carnose e il viso rotondo; una dall'espressione
assente e una bassina, con un'ombra infelice negli occhi.
Mi
rivolsero tutte un sorriso cortese, fecero qualche domanda di
circostanza -tipo come fosse andata la mia prima giornata- ma poi fu
evidente che non vedevano l'ora di andare a dormire.
Rimasi
distesa nel buio totale per delle ore, aspettando le campane che
annunciavano la mezzanotte, che sapevo suonate da un membro delle
Ombre, che concludeva il suo turno sul campanile e poi andava a
dormire.
Quando le campane suonarono giacqui immobile ancora un
poco, in attesa di sentire l'uomo che entrava nel dormitorio, ma un
altro suono mi sorprese. Una figura si alzò da uno dei
giacigli più
vicini alla porta e sgusciò non troppo silenziosamente fuori
nel
chiostro.
Mi parve di riconoscere Delling, la più giovane delle
monache e anche la più graziosa. Poi sentii dall'esterno
altri
passi, ancora più pesanti, unirsi ai suoi e dirigersi verso
le
cucine, poi sparirono.
Arrotolai le coperte che mi ero portata
dietro, sistemai un po' la bisaccia e coprii il tutto con le coperte
che mi erano state fornite: al buio poteva sembrare che non mi fossi
mossa dal mio giaciglio.
Senza fare un suono, uscii anche io nel
chiostro e mi affacciai guardinga alla porta della cucina. Sentii due
risatine, fruscii di abiti e qualche sospiro.
Forse i monaci e i
Sacerdoti avevano come unico desiderio quello di servire Dio, ma non
si facevano problemi a prendersi qualche libertà. Immaginai
la
guardia che aveva suonato le campane scendere pigramente, recuperare
Delling e portarla con sé nel buio della dispensa, sotto il
refettorio, dove nessuno sarebbe mai venuto a spiare a quell'ora di
notte e dove nessuno -a parte me ovviamente- avrebbe sentito. Almeno
non ero l'unica a darmi alle uscite clandestine.
Durza uscì in
quel momento dal suo dormitorio, mi si avvicinò e vidi
l'ombra della
sua testa inclinarsi leggermente di lato. Quando faceva così
sapevo
che ascoltava suoni lontani.
Fece uno sbuffo divertito e richiuse
l'uscio della cucina. «Non è educato origliare
questo tipo di
conversazioni, Principessa».
«Stavo valutando se fossero una
minaccia».
«È una tua compagna di stanza o una sacerdotessa
quella che sta.. conversando?»
«Una mia compagna, ma la stanza è
buia e ho lasciato le coperte a fare il loro dovere. Possiamo
andare».
«Bene allora».
Con mia profonda sorpresa, entrammo
in chiesa senza dovere abbattere porte o serrature.
«Te l'avevo
detto» cantilenò Durza.
Qualche sottile filo di luce soffiava
dalle ampie vetrate, lasciando l'ambiente in una dolce penombra. Non
sarebbe stato troppo difficile perlustrarla da cima a fondo.
«Io
parto dal fondo e tu fai l'abside» proposi.
Lo Spettro mi afferrò
una mano. «Te non ti stacchi da me, piccola Elfa. Non so cosa
troveremo e voglio essere pronto ad intervenire».
Rimasi
interdetta qualche istante. «Come vuoi tu» accordai
alla
fine.
Cominciammo dall'abside, insieme. Tastammo l'altare, le
pareti, i pavimenti. Alla fine, sul fondo dell'abside, nascosta ai
fedeli, ci ritrovammo davanti ad una pala che raffigurava
realisticamente i colli dell'Helgrind, incompiuta.
La spostammo,
scoprendo un'altra lastra di marmo, apparentemente un qualsiasi altro
pezzo della parete, solo più grande. Picchiettai dolcemente
sui
bordi e sentii un lieve eco.
«Qui sotto è cavo»,
bisbigliai.
«Proviamo a spostarlo», fu la risposta.
Le dita
di Durza non riuscivano a passare nella fessura che separava quella
lastra dalle altre, quindi vi incastrai le mie, più sottili,
e tirai
dolcemente il marmo verso di me. Si spostò senza fare
resistenza,
aprendo una cavità buia, in fondo alla quale si intravedeva
un lieve
bagliore.
Poggiai la lastra a terra e mi concentrai sui suoni.
Niente.
Allungai cautamente un braccio nell'oscurità e le mie
mani sfiorarono un gradino, quindi vi passai le gambe e cominciai a
scendere quella che indubbiamente era una scala, seguita a ruota
dallo Spettro. E così andò all'aria la nostra
intenzione di
aspettare di essere almeno armati prima di correre verso
l'ignoto.
Scendemmo una lunga rampa, inizialmente ripida e
strettissima e poi sempre più larga, ma comunque scivolosa.
In
fondo ad essa trovammo una lanterna, con al suo interno una grossa
candela di cera rossa, consumata circa a metà, che lasciava
intravedere a malapena il corto corridoio in cui eravamo finiti.
«La
città sotterranea» mormorò Durza,
afferrando la lanterna.
«Ditolesto diceva il vero».
«Sì, ma che posto è?» Posai
una
mano sul muro, era gelido e forse vagamente umido, ma non era scavato
nella roccia viva. C'erano lastre di pietra incollate le une alle
altre con un'abilità che credevo solo i nani potessero
avere, eppure
non mi sembravano certamente le pareti di una fogna, c'era anche un
tappeto sotto i nostri piedi, sottile e consumato, ma c'era.
Il
nostro corridoio presentava due alternative: una porta sulla sinistra
e una in fondo ad esso.
Optammo per quella a sinistra e ci
ritrovammo in un piccolo ambiente quadrato che doveva essere la
cappella dove si era svolto il rituale per ammettere il novizio tra i
sacerdoti, che avevamo origliato dall'esterno. La struttura era in
tutto e per tutto simile a quella della chiesa superiore, ma non vi
trovammo alcun oggetto di interesse e non aveva altri sbocchi verso
l'esterno.
Tornammo al corridoio e prendemmo la porta in fondo ad
esso: dava su un ulteriore corridoio, più largo e lungo, con
affacciate tre porte.
Nella prima a sinistra trovammo una sorta di
vasca rotonda incassata nel pavimento, circondata da scaffali
contenenti drappi di velluto nero e preziosissime coppe incastonate
di pietre colorate. Riconobbi parecchi rubini autentici.
Ma
l'odore che emanava era inconfondibile.
«Hanno una piscina di
sangue umano», decretai disgustata.
«Credo sia quello che
utilizzano per segnare i fedeli a fine funzione. Quanto sarà
profonda secondo te?»
«Spero poco, o i Sacerdoti devono pagare
un prezzo molto alto per mantenerla sempre piena».
Durza si
avvicinò all'orlo.
«Cosa vuoi fare?» domandai
allarmata.
«Verificare», rispose asciutto, posando la lanterna
e
arrotolandosi la manica fino al gomito. Entrambi avevamo ancora le
vesti monacali sopra i nostri abiti, ma lui aveva anche il
mantello.
Il braccio dello Spettro scivolò nel liquido vischioso
fino a quasi raggiungere i vestiti. «Sono pazzi»
sentenziò.
La
vasca era grande quanto quattro di quelle che avevo utilizzando per
farmi un bagno all'Avvoltoio e, anche se non era molto profonda,
aveva comunque un'enorme capienza. I Sacerdoti dovevano essere
perennemente in fragili condizioni a causa di qualche perdita: di
arti, di sangue, di senno..
Durza si asciugò il braccio sul retro
di uno dei panni di velluto e mi fece cenno di volere uscire
rapidamente, lasciandomi il compito di recuperare la lanterna. Non
credevo che il sangue lo avesse impressionato, quindi doveva essere
successo qualcos'altro, ma si rifiutò di spiegarmelo.
«Continuiamo
a guardarci intorno», disse semplicemente, dicendomi di
tenere la
nostra fonte luminosa.
Nella stanza accanto trovammo denaro e
gioielli in quantità incredibili, forse dovute agli omaggi
dei
ricchi credenti, che speravano così di ingraziarsi il loro
Dio.
Tutto era ordinatamente riposto in mensole, scaffali, cassetti e
bauli, quasi qualcuno si occupasse regolarmente della cura di quelle
ricchezze. Forse avevano un tesoriere incaricato del compito.
Oltre
la terza porta si affacciavano stanze comunicanti a catena. Sembrava
che l'intera struttura sotterranea seguisse la scia di una
chiocciola: lunga e sottile. Se quegli ambienti erano stati costruiti
sulla struttura delle vecchie fogne della città, esse erano
decisamente inutilizzate da secoli.
Un lontanissimo rumore di
passi fece salire la mia attenzione alle stelle. Sfiorai il braccio
di Durza e lo invitai ad ascoltare e anche lui parve allarmato e
concorde nell'affermare che provenissero dal nostro stesso
piano.
«Apri lo sportello della lanterna e stai pronta a spegnere
la candela» bisbigliò.
Ma i passi scemarono nel silenzio, e
tuttavia servirono a ricordarci che non eravamo al sicuro, che i
Sacerdoti non andavano sottovalutati e che non tutti erano di sopra a
riposare.
Avanzammo in silenzio assoluto nella prima stanza e la
lanterna illuminò strane e allungate boccette di vetro,
libri
lasciati spalancati sugli scrittoi e scatole di candele nuove
ammucchiate accanto a quelle ridotte a mozziconi.
Ovunque fossimo,
eravamo arrivati. Gli studi degli Avvoltoi e i loro libri erano a
portata di mano.
Agganciai la lanterna ad uno scrittoio dal
tavolo inclinato e analizzai il contenuto dei libri poggiati
lì
sopra. Sembravano libri sull'anatomia umana e realizzai con sdegno
che i Sacerdoti stavano studiando quali parti non vitali fosse il
caso di amputare per non perdere la vita.
«Ora dovresti darmi
qualche indizio su cosa stiamo cercando, Spettro, o dubito che
riuscirò ad aiutarti».
«Qualunque cosa riguardante la magia.. e
i draghi».
«I draghi?»
«Arya sai che le domande saranno
inutili, non.. non posso rispondere».
Mi affrettai a scusarmi.
«Va bene, cerco quello che dici tu».
Prendemmo una pergamena
ciascuno e cominciammo a scorrere rapidamente le righe, mentre la
candela rossa si consumava lentamente e colava la sua cera nel piatto
della lanterna.
Trovai molti studi sulla natura e suoi suoi usi:
liste di piante velenose, i loro effetti e i loro antidoti, ma anche
piante curative. Alcuni erano piuttosto grossolani e rudimentali,
altri addirittura sbagliati e affidati alla pura superstizione, ma
non erano affatto male per essere condotti da degli umani.
Mischiati
ai libri e alle pergamene trovai polveri, preparati di veleni e erbe
appese a seccare. Al contrario delle stanze precedenti, quella
sembrava piuttosto disordinata, anche se era chiaro che il
macro-argomento studiato in quella stanza era la natura, vegetale,
animale o umana.
Un cigolio ruppe il silenzio.
«Vado a dare
un'occhiata alla candela, tra un po' dovrebbero venire a darci il
cambio».
«Sì, vai anche a svegliarli, quelli non vengono
mai
senza un aiutino».
Mi inumidii indice e pollice e soffocai la
fiamma della nostra lanterna repentinamente.
Un'altra luce,
proveniente dalle stanze successive, si avvicinò,
accompagnata da un
respiro e un rumore di passi.
Feci un respiro appena più
profondo, per richiamare l'attenzione di Durza, e camminai
rapidamente verso le scale. Fortunatamente avevamo lasciato le varie
porte aperte e sgusciammo rapidamente fin dentro alla cattedrale,
abbandonando la lanterna dove l'avevamo trovata.
La vera impresa
fu riaccostare la lastra di marmo senza fare rumore, ma prima di
sigillarla sentimmo un'ultima volta la voce dell'uomo: «Si
è spenta
'sta stronza!» esclamò, probabilmente rivolto alla
candela.
Pregai
che non si facesse troppe domande sul come e sul perché.
Dunque
non era mai vuoto lì sotto: le Ombre si davano il cambio
come
qualsiasi guardia imperiale, segnando il tempo con il consumarsi
della candela.
«Nascondiamoci in chiesa, Principessa»
suggerì
Durza spostandosi nella navata sinistra e poi in una nicchia, dietro
ad una statua.
Ma non venne nessuno per parecchi minuti. Dovevamo
essere vicini alla seconda ora del mattino, quando una ventina di
uomini vestiti di nero da testa a piedi, con un velo nero davanti al
volto, scostarono la lastra e uscirono dalla porta della sagrestia.
Non molto tempo dopo un'altra ventina di guardie fece lo stesso
tragitto, ma al contrario.
«Credo che fino a domattina non
avremo più traffici», sussurrai pianissimo non
appena i rumori
scemarono.
Durza si sfilò la tonaca e la stese a terra.
«Vediamo
di dormire un poco.»
«Vuoi dormire qui?»
Mi sorrise.
«Perché? Credevo che la spoglia chiesa di una
sanguinaria setta di
pazzi fosse l'ideale per portare avanti il tuo
corteggiamento».
La
stava buttando sul sarcastico, ma fui felice che facesse quello per
me: dormire in quella scomoda postazione solo per potermi svegliare
non appena le visioni fossero sopraggiunte era un gesto veramente
gentile, e io ero in debito con lui per l'ennesima
volta.
«Grazie».
Per un attimo parve quasi imbarazzato. «Come
al solito è più per me che per te. Mi
servi».
La mia
gratitudine non scemò. Poggiai la mia tonaca attaccata alla
sua e mi
coprii con il lembo di mantello che lo Spettro mi offrì e
che aveva
avuto il buon senso di indossare prima di lasciare il
dormitorio.
Anche dopo la mia visione, anche dopo che mi fui
calmata, indugiammo sul duro pavimento di marmo, fino a quando non
divenne pericoloso esitare ancora e tornammo ognuno al proprio
letto.
«Dormi bene», fu il semplice congedo di Durza.
Per un
attimo rimasi insoddisfatta sulla soglia, sentendo la mancanza delle
sue labbra sulla mia bocca, poi scivolai all'interno silenziosamente
e riposai per un paio d'ore.
Finsi di svegliarmi non appena le
campane suonarono l'alba e, dopo aver ordinatamente piegato le
coperte, seguii le mie compagne all'esterno, dove Gagnsamr dava le
direttive per la giornata.
______________________________________________________________________________________________
Ehilà! :D
Allora questo capitolo è stato un parto perché ho dovuto recuperare tutte le descrizioni della cattedrale di "Eragon" e "Inheritance" e vi giuro che è un'impresa!
Qualcuno mi ha chiesto dei nomi dei personaggi: no, non sono dati a caso.
Paolini ha detto di avere ispirato l'antica lingua al Norreno antico e io ho più o meno fatto lo stesso, creando o recuperando nomi dalle tradizioni celtiche, finlandesi, danesi, anche norrene.
I nomi dei nostri monaci hanno un perché e troverete la spiegazione in Appendice 1!
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Capitolo 23 *** Attenzioni indesiderate ***
Ciao
23.
Attenzioni indesiderate
«Bitr
vai al mercato con Delling e Broder, loro sanno cosa fare, tu
limitati a non perderli di vista. Dopo vi darò il denaro,
comprate
della carne, che è finita, e passate dal taglialegna a
ordinare
degli altri ciocchi. Mi raccomando non pagatelo subito o quello se la
svigna con i soldi, dategli un piccolo anticipo e promettetegli il
resto per quando avrà consegnato la legna alla
cattedrale», ci
istruì Gagnsamr.
Annuimmo e il monaco passò ai compiti degli
altri. Durza fu assegnato alla cura degli oggetti sacri,
probabilmente Gagnsamr stava facendo di tutto per tenerci il
più
possibile separati dato che ai suoi occhi eravamo sposati prima di
aderire alla chiesa. Sospettava che potessimo.. fare sciocchezze e ci
teneva d'occhio.
Lo Spettro mi passò accanto mentre andavamo al
refettorio per consumare una frugale colazione.
«Riesci a
prendere Sole e Luna dalla locanda? È vicina al
mercato»,
sussurrò.
«Credevo l'avessi sigillata con la magia» risposi
con
lo stesso tono.
«Sì, ma non per te».
«Hai la chiave?»
«Vado
a prendertela, te la farò cadere in mano
stavolta», concluse con il
divertimento stampato in volto.
Si voltò e si mosse
controcorrente verso i dormitori.
Inevitabilmente, pensai a quando
le sue dita gelide avevano accompagnato la chiave fin sotto alla
scollatura del mio abito, il primo giorno che avevamo partecipato
alla funzione. Poi mi riscossi e pensai a come
“perdermi” nel
caos del mercato e sgusciare fin dentro alla locanda senza farmi
notare da Broder e Delling.
Non doveva essere troppo difficile.
I
Sacerdoti, che erano precedentemente entrati in chiesa chiudendo la
porta a chiave, uscirono portando in spalla il Sommo Sacerdote. Notai
delle bende insanguinate sporgere dalle maniche della sua casacca di
pelle aderente. Sangue, latte e pane a colazione. Fantastico.
Durante
la funzione, Durza mi infilò al collo lo spago a cui era
allacciata
la chiave della stanza al Covo Segreto, ma lasciò che fossi
io
stessa a nasconderla sotto i vestiti.
«Ci vediamo stanotte in
sagrestia», mormorai dopo il rito, quando Gagnsamr mi
chiamò
-insieme a Broder e Delling- a recuperare il denaro.
«Fai
attenzione», disse in risposta.
Sapevo già chi fosse Delling, la
piccola, graziosa monaca che avevo visto e sentito abbandonare il suo
pagliericcio per correre tra le braccia della guardia.
Broder era
invece un uomo dall'aria mite che, come scoprii mentre camminavamo in
direzione della piazza del mercato, discendeva da una famiglia nobile
caduta in disgrazia dopo la fine dei Broddring e l'ascesa di
Galbatorix ed era l'unico tra i monaci -insieme a Gagnsamr, Gefion e
Elin- a saper leggere e scrivere. Perché ufficialmente
né io né
Durza ne eravamo capaci.
«E come mai non hai preferito entrare
nell'ordine sacerdotale?» domandai, sapendo che uno dei
requisiti
era appunto una cultura di base, forse in modo da poter continuare i
loro studi segreti.
Broder rise pacatamente. «Immagino per lo
stesso motivo di tutti coloro che preferiscono il monacato: amo il
mio Dio e sono lieto di servirlo, ma non sono disposto a sacrificare
me stesso come fanno i Sacerdoti. Onore a loro» aggiunse
infine.
«Siamo molto meno vincolati della Carne di Dio»,
rincarò
Delling, «magari dobbiamo lavorare duramente tutto il giorno,
ma è
una vita tranquilla, quasi contemplativa e, se si è pronti a
rinunciare a qualche cosa, è la migliore delle
scelte».
Le
sorrisi, pensando ancora alla sua scappatella notturna.
Il mercato
era pieno di gente come al solito, come speravo e come mi serviva che
fosse.
Broder e Delling sapevano già dove comprare tutto e a
quanto pareva avevano i loro banchi di fiducia perché nulla
di ciò
che comprammo ci fu consegnato in mano. I commercianti venivano
pagati, poi preparavano la merce e incaricavano un garzone di fare
avanti e indietro dal mercato alla cattedrale fino a che tutto non
fosse stato recapitato.
«C'è Trygg a ricevere le consegne oggi»
mi spiegò Broder.
Poi ci tuffammo nuovamente nella calca, diretti
dalla parte opposta della città, più vicino alle
porte, dove la
figlia del taglialegna avrebbe preso l'ordine di legna e lo avrebbe
riferito al padre, a quell'ora probabilmente già nei boschi.
Fu
quello il momento che scelsi per restare leggermente indietro,
staccarmi dai miei compagni e confondermi tra la folla. Camminando a
passo veloce, raggiunsi il Covo Segreto in non più di cinque
minuti.
Come promesso da Durza, la porta si aprì docilmente al
tocco delle mie mani e allo scattare della serratura. Tutto era
rimasto esattamente come lo avevamo lasciato la mattina precedente e
mi fu facile scivolare sotto al materasso, recuperare i due pugnali e
nasconderli sotto il vestito, coperti dalla larga tonaca e dal
mantello.
Esitai per parecchi minuti, poi presi la boccetta di
veleno e la nascosi nella fascia di stoffa, tra i seni. Averla con me
mi risultava sempre rassicurante, mi faceva sentire più
padrona di
me stessa: sapevo che non avrei mai retto ad una seconda sessione di
torture e anche se ormai ero al sicuro da Durza non lo ero da
Galbatorix e tanto meno dai Sacerdoti. Avere una via di eterna fuga
con me poteva essere l'unica mossa possibile nel caso mi fossi
trovata nei guai.
Il locandiere mi guardò stranito vedendomi
passare, ma non mi fece domande e non mi fermò. Non ci
avrebbe visti
tornare alla nostra stanza per parecchi giorni, purtroppo, ma aveva
l'aria di uno abituato alle stranezze altrui.
Arrivai alla
cattedrale ben prima degli altri due e mi presentai direttamente a
Gagnsamr, che era nella sagrestia insieme a Durza, intenti entrambi a
riporre le vesti nere dei sacerdoti in ricchi bauli.
Il monaco mi
liquidò con poche parole, intimandomi di fare più
attenzione in
futuro, mentre lo Spettro alle sue spalle grondava
approvazione.
Corsi a nascondere le armi e il veleno nella paglia
del mio giaciglio e fino a mezzogiorno aiutai Tove a rammendare una
pila di vestiti, appartenenti un po' a tutti gli abitanti della
Cattedrale: c'erano un paio di vesti da cerimonia dei sacerdoti, un
paio di pantaloni neri delle ombre, ma anche degli abiti civili che i
monaci portavano sotto alla tonaca. Non ero abilissima, ma me la
cavavo decisamente meglio che in cucina.
Mi scusai anche con
Delling e Broder non appena tornarono, ma i due erano tranquilli e
non se la presero affatto.
Il primo vero colpo della giornata
arrivò durante il pranzo, quando, mentre davo una mano a
servire i
sacerdoti, mi imbattei in una donna con indosso la veste dorata dei
novizi e dai grandi occhi neri. La riconobbi come quella che, qualche
settimana prima, si era fermata a guardarmi, commentando sottovoce il
mio accento, quasi tra sé e sé. Non diedi segno
di averla
riconosciuta ma vidi di sottecchi che mi gettava qualche occhiata di
tanto in tanto e lo stesso faceva con Durza.
Chi era? Barzul,
sembrava quasi conoscerci eppure ero certa di non averla mai vista in
vita mia ed ero parecchio brava a ricordare i volti.
Chiunque
fosse sembrava ben intenzionata ad entrare nella setta dei Sacerdoti
e se conosceva o me o lo Spettro, o anche solo sospettava che
stessimo combinando qualcosa, era un pericolo.
Mi appuntai
mentalmente di farlo presente al mio ex carceriere più tardi
e fui
sollevata quando i tavoli si svuotarono da quelle figure inquietanti,
che sparirono nuovamente all'interno della chiesa, donna dagli occhi
di lupo compresa.
Quella notte Delling non si mosse quando
le
campane annunciarono la mezzanotte e i passi dell'Ombra che le aveva
suonate si spensero nel dormitorio dei Sacerdoti.
Quando fui
abbastanza tranquilla mi alzai -i pugnali avvolti nel mantello e la
boccetta di veleno nella fascia- e scivolai nella sagrestia, in
attesa di Durza. Mentre lo aspettavo arraffai anche due candele con
rispettivi candelieri in modo da poter lasciare la lanterna al suo
posto e muoverci più agilmente nelle stanze sotterranee.
Durza
arrivò portando con sé il suo inconfondibile
odore di
menta.
«Vorrei davvero dirti che è un piacere vederti,
Principessa, ma qui dentro è buio pesto. Che ne dici di
accomodarci
nella cattedrale?»
«Stavo pensando..» cominciai entrando nella
chiesa.
«Di dormire un'oretta prima di scendere in modo da
evitare il cambio delle guardie? Sì anche io».
«Non ti si
nasconde niente».
«E detto da te non può che essere un
insulto», scherzò, stendendo a terra la tonaca
come aveva fatto la
notte precedente, a sottile barriera tra i nostri corpi e il
pavimento gelato.
Svolsi il mantello e gli porsi il suo pugnale.
«Forse dovremmo nasconderli qui, invece che riportarli nei
dormitori, dove chiunque potrebbe andare a frugare e imputarci
immediatamente» osservai.
«L'unico posto possibile mi pare in
cima ad una statua perché oggi, insieme al caro Gagnsamr, ho
ripulito il pavimento dal fango e non abbiamo tralasciato un solo
angolo o nicchia», mi informò.
Mi allontanai da lui, per
scrutare la statua che si trovava nella nicchia eletta a nostro
rifugio. Riconobbi le caratteristiche tipiche di Hofud, il Sacerdote
guerriero che offriva le teste dei suoi nemici in dono a Dio.
Era
alta circa una dozzina di piedi ma c'erano dei buoni appigli per
scalarla e incastrare le armi sopra il suo elmo o nella curva del
collo.
«Si può fare», mormorai tornando dallo
Spettro.
«Devo
smettere di dire le cose per scherzo o potresti prenderle per
buone»,
commentò, un sorriso arrogante stampato sulle labbra.
«Devo
dirti una cosa, piuttosto».
«Se sei in cinta davvero non è
colpa mia, bellezza, non mi sbronzo dalla nostra prima notte di
nozze», disse con voce candida.
Sbuffai e gli diedi un pugno
leggero sul torace. «Sarebbe una cosa seria. Ho rivisto la
donna che
ha notato il mio accento» che in realtà
era perfetto «ed è
qui, tra gli Avvoltoi. Aveva indosso la veste da novizia».
Gemette.
«Ti ha riconosciuta?»
«Non solo, ci ha guardati entrambi, più
volte, per tutta la durata del pranzo».
Imprecò con la sua
solita finezza. «Domani indicamela, discretamente. Non ho
idea di
chi possa essere, ma non mi piace».
«Sembrava quasi
conoscerci..»
«Quindi siamo in svantaggio perché non abbiamo
idea di chi sia lei. Aspetta.. credo di aver già vissuto
qualcosa di
simile negli ultimi mesi», fece allusivo.
«Sei insopportabile.
Comunque d'accordo, domani ti faccio un cenno prima di passarle
vicino, ma non credo che aiuterà».
«Teniamola d'occhio, non c'è
altro da fare per ora». Sospirò. «Sono
circondato da misteri negli
ultimi tempi».
Già.
Dopo la visione, Durza mi strinse
le mani nude per aiutarmi a calmarmi e mi fece notare che erano
più
ruvide del solito. Da lì il discorso cadde sui nostri doveri
della
giornata: lavanderia al pomeriggio per me -causa della
ruvidità
particolare della mia pelle- e cura degli ambienti e oggetti sacri
per lui.
«Credo che ogni mattino bevano un poco di sangue del
Sommo Sacerdote. Quando sono andato a ripulire gli oggetti usati per
la funzione c'era anche un'altra coppa, più piccola. Era
sporca di
sangue ma vuota, quindi quello che conteneva deve essere stato
consumato. E ho notato le bende che uscivano dalla manica del monco
durante la colazione».
«Sì, l'ho notato anche io» risposi,
resistendo alla tentazione di sfilare le mani dalle sue per
tamponarmi la fronte imperlata di sudore.
Non mi ero ancora
abituata a nessuna delle immagini che vedevo la notte, anche se erano
sempre le stesse, magari ricombinate, ma sempre uguali. In generale
sembrava che una volta al giorno i miei ricordi si mettessero insieme
e assumessero volontà propria, cercando di ammonirmi
ripetutamente
per i miei comportamenti, anche se a me non sembravano così
scorretti o incoerenti con ciò che ero sempre stata.
A parte i
baci concessi a Durza. Ma quelli non erano così importanti.
Lo
Spettro continuava a parlare e parlare sottovoce, senza nemmeno
aspettarsi una risposta da me. Era quello che faceva ogni volta che
mi risvegliavo: dopo avermi rassicurata cercava di non farmi pensare
e mi imbottiva di parole.
La scomoda sensazione di essere in
debito con lui cominciava a farsi sempre più insopportabile.
Fummo
testimoni silenziosi del cambio della guardia e, dopo qualche minuto
di attesa, ci addentrammo a nostra volta nella botola. Le candele che
avevo sottratto dalla sagrestia ci furono decisamente
utili.
Continuammo la nostra esplorazione interrotta, sfogliando
in rapida successione libri e pergamene e cercando di ignorare gli
alambicchi poggiati qua e là su tavoli e scaffali.
Vicino ad un
manuale di astronomia trovai un aggeggio piuttosto stupefacente: un
tubo con due lenti per estremità che, se accostato agli
occhi,
ingrandiva incredibilmente gli oggetti. Mi persi un poco anche nel
manuale di astronomia. C'erano studi di costellazioni che
già
conoscevo, ma un lungo capitolo dedicato alla luna dove si sosteneva
che essa non brillasse di luce propria, ma riflettesse quella del
sole!
Non avevo mai letto nulla del genere nelle biblioteche di
Ellésmera, ma essendo la mia un'educazione prettamente
militare e
socio-politica potevano essermi benissimo sfuggiti dei libri sugli
astri, che il mio popolo studiava con profonda passione.
«Arya»,
mi richiamò Durza in tono amareggiato, «smetti di
comportarti da
Elfa e molla quel libro al suo posto».
Per un attimo fui
profondamente tentata di tenerlo con me, ma alla fine lo lasciai
dov'era, a malincuore.
Restammo lì sotto per quasi tre ore,
accendendo altre due coppie di candele sottratte alla scorta che i
Sacerdoti avevano accanto agli scrittoi. Ogni volta che trovavo un
qualsiasi riferimento ai draghi non potevo fare altro che chiamare lo
Spettro e lasciargli esaminare il volume lui stesso, ma puntualmente
scuoteva la testa.
Circa alla quinta ora del mattino tornammo alla
cattedrale e Durza rimase a tirarsi i capelli mentre mi arrampicavo
sulla statua di Hofud e nascondevo i pugnali nell'incavo tra i lunghi
capelli e le spalle di marmo.
«Non ho mai visto un animale
arrampicarsi così velocemente», mi disse non
appena i miei piedi
toccarono a terra, con stupito rispetto.
«Si imparano parecchie
cose a vivere in una foresta».
Accennai una scherzosa riverenza,
misi nella tasca del mantello il mozzicone di candela avanzato e
entrambi ce ne tornammo rapidamente nei nostri letti, sapendo che i
Sacerdoti avrebbero tardato solo un'altra ora o poco più
prima di
correre in chiesa a bere la loro dose mattutina di sangue.
Prima
di entrare nel dormitorio, strinsi gentilmente la spalla dello
Spettro.
«Grazie», mormorai, consapevole di avere ancora un
debito con lui.
Feci per restituirgli la chiave della nostra
stanza alla locanda, ma mi disse di tenerla. Lui poteva sempre usare
la magia in casi di emergenza.
Dormicchiai fino a che Gagnsamr non
suonò la piccola campana della sagrestia, l'appello
mattutino dei
monaci
Durante la colazione degli Avvoltoi riuscii a segnalare la
presenza della donna a Durza, ma lui scosse la testa, mordendosi le
labbra fino a farle sparire, talmente erano sottili.
E lei
continuò a gettarci qualche rara ma circospetta occhiata.
Se noi
avevamo attirato la sua attenzione, lei aveva ormai attirato la
nostra
Ne discutemmo un poco, sottovoce, durante il rito, ma non
c'era molto che potessimo fare quindi ci limitammo a ribadire quello
che avevamo già detto: dovevamo tenerla d'occhio.
Per altre
tre notti io e Durza ci trovammo a mezzanotte nella sagrestia. Ormai
avevo imparato che Delling aveva appuntamento con la sua guardia a
notti alterne e sapevo come evitare di farmi scoprire dai due.
La
ricerca nelle stanze sotterranee dei Sacerdoti progrediva e si faceva
sempre più pericolosa perché ci avvicinavamo
lentamente alla porta
dietro alla quale stavano schierate le venti Ombre di guardia.
Ovviamente era prevista un'intrusione, ma non dalla chiesa.
Le
stanze comunicanti erano in tutto sette. Sette grandi saloni
allungati, tappezzati di ricchezze e conoscenze.
Il compito mio e
dello Spettro si faceva sempre più frustrante, mi bruciavano
un poco
gli occhi al termine delle lunghe letture alla fioca luce della
candela e cominciavo ad accusare della stanchezza dovuta alla scarsa
ora di sonno che mi concedevo ogni notte e agli innumerevoli pasti
saltati a causa della componente di carne che contenevano.
Ma era
la frustrazione la cosa peggiore da affrontare: erano già
passate
cinque notti ed avevamo appena cominciato a frugare la seconda
stanza. Senza risultato.
Avremmo potuto continuare ancora per un
mese intero, ma a quale scopo? Di solito leggevamo le prime righe di
ogni manoscritto prima di etichettarlo come inutile e metterlo da
parte. Chi ci assicurava che non ci fosse un capitoletto, un
paragrafo, due sole righe con la nostra soluzione, nascoste tra le
sue pagine?
Né io né Durza lamentammo i reciproci dubbi, ma
erano evidenti sul suo viso, come immaginavo anche sul mio. Forse il
vero e unico modo per ottenere le nostre informazioni era chiedere
direttamente ad un sacerdote, ma lo Spettro non poteva parlarne, il
suo giuramento glielo impediva, e il suo vero nome era ancora
argomento intoccato nelle nostre conversazioni.
E come se non
bastasse -oltre a quelle della donna dagli occhi di lupo- cominciammo
ad attirare anche le attenzioni degli altri monaci.
Al pomeriggio
del nostro sesto giorno lì, mi fu proposto di fare un bagno.
Tove
mi venne a prendere dalla lavanderia e mi disse allegramente di
smettere di lavorare. «Gangsamr ha detto che i Sacerdoti ci
hanno
dato il permesso di usare le loro vasche. Sono meravigliose, vedrai.
Si stendono delle braci ardenti sotto e si riempiono di acqua, che
così diventa tiepida. Vieni, andiamo a prendere i
secchi!»
Il
sorriso mi si congelò sul volto. Non potevo fare un bagno
con delle
altre donne, c'erano almeno due o tre cose che avrebbero trovato
fuori dal normale. Prima di tutto le cicatrici lasciate dai mesi di
tortura. C'erano ancora tutte, tranne quelle sul petto, che Durza
aveva cancellato mentre ero incosciente, probabilmente per farmi
mettere l'abito da popolana.
Secondari, ma non meno importanti
erano i miei muscoli, troppo definiti per una debole donna, e il
fatto che non avevo peli sul corpo.
Rifiutai, insistette, rifiutai
nuovamente e alla fine se ne andò con un'espressione
stranita e
quasi scandalizzata.
Durza mi disse più o meno la stessa cosa la
sera stessa.
«Oggi Rasmus mi ha chiesto come faccio a farmi la
barba così perfetta e come riesco a trovare il tempo di
farla tutti
i giorni». Si sfiorò il volto glabro.
«Da quando sono diventato
uno Spettro non mi sono mai dovuto preoccupare di queste
cose».
«La
nostra copertura sta crollando», affermai, raccontandogli
quello che
mi era successo poche ore prima.
«Dobbiamo fare in modo che non
crolli, invece».
«Durza..» cominciai incerta, accarezzando
istintivamente il suo viso. Eravamo distesi sotto lo stesso mantello,
l'altro posato sotto le schiene per arginare il freddo e non avevo
ancora subito la mia tortura giornaliera.
«Ti ascolto», mi
incoraggiò lui, passando le dita tra i miei capelli e
sciogliendo il
legaccio che mi fermava la treccia. Doveva essere una sorta di
mania.
«Forse dovremmo valutare l'opzione di rinunciare. Non
riusciremo mai a nasconderci per il tempo sufficiente a trovare
quello che stiamo cercando, ci scopriranno molto prima. Finora i
libri spostati, il furto di qualche candela e la cera che sicuramente
abbiamo fatto cadere sui tappeti sono passati inosservati, ma per
quanto? E quanto passerà prima che qualcuno scopra che non
passiamo
la notte nel nostro letto? Quanto prima che Gagnsamr scopra che non
sono veramente incinta? Quanto prima che la donna faccia qualsiasi
mossa? Finora ci siamo incoraggiati a vicenda e abbiamo insistito, ma
stiamo letteralmente cercando un ago in un pagliaio».
Pensò a
lungo prima di rispondermi, pettinando i miei capelli ormai sciolti
tra le dita. «Anche io sono scoraggiato, ma in tutta
sincerità non
trovo altre soluzioni».
«Tutto qui?»
«Hai idea del potere
che ha Galbatorix, piccola Elfa?»
«Ha sbaragliato il mio popolo
e convinto mia madre a tenere gli Elfi al sicuro per cento anni! Sono
giovane, ma non così ingenua».
«Un uomo non può avere tutto
quel potere dentro di sé. Io l'ho aiutato a piegare al suo
volere il
suo drago», disse lo Spettro, laconico.
I miei occhi si
inumidirono per la frustrazione. «Cosa vuoi dire?»
«Che
dobbiamo continuare a cercare e sperare. I draghi sono intrisi di
magia».
«Continui a dire cose senza senso», protestai.
«Sono
le uniche cose che la mia bocca mi concede di dire».
La
settima notte parte dei miei timori si avverò. Eravamo
appena
entrati in chiesa e avevamo appena recuperato i pugnali, quando dei
passi frusciarono nel chiostro, nella sagrestia e infine nell'abside
stesso.
Io e Durza ci appiattimmo nella nicchia, contro la
statua.
Una voce composta, che tradiva un lieve tremore risuonò
piano ma chiara tra le navate: «Venite fuori, voglio solo
parlare
con voi. Sono disarmata».
Ci ritrovammo faccia a faccia con la
donna dai grandi occhi neri come pozzi, quasi fusi con la
pupilla.
«Andiamo in fondo alla navata», ordinò
accennandolo
col mento, poi ci passò accanto, anticipandoci.
Vidi il colpo
diretto alla nuca di Durza quando era ormai troppo tardi. Lo Spettro
riuscì a schivarlo solo in parte e, invece di finire
tramortito sul
pavimento, cadde semplicemente sulle ginocchia, stordito.
La donna
gli andò dietro, gli tirò i capelli e premette un
coltello da
cucina contro la sua gola. Mi fermai a poche braccia da lei,
interrompendo lo scatto che avevo iniziato per allontanarla da
lui.
La donna mi guardò, seria in volto. «Non credo di
doverti
spiegare come funzionano queste cose. Fai cinque passi indietro,
togli il mantello e la tunica e butta per terra tutte le armi che
hai. Poi fanne altri cinque».
Cercai gli occhi di Durza,
chiedendomi che cosa sarebbe successo se lei gli avesse tagliato la
gola. Era uno Spettro, quindi si sarebbe rigenerato. Ma dove? E
sopratutto, come e quando?
Il mio ex carceriere ammiccò e
intravidi uno sfarfallio nei suoi occhi castani, che per un attimo
assunsero di nuovo l'aspetto di quelli di un felino.
Era pur
sempre in grado di usare la magia e avrebbe potuto fermare la
sconosciuta in qualsiasi momento, forse aveva addirittura fatto
apposta a farsi colpire.
Mi stava suggerendo di darle corda e
vedere come si evolveva la cosa.
Quindi lo feci: gettai il pugnale
sopra la iuta e il mantello, poi la assecondai mentre mi ordinava di
toccarmi il corpo per farle vedere che non avevo nient'altro sotto i
vestiti. Il Fricai Andlat giaceva nella tasca del mantello, ormai
fuori dalla mia portata.
«Per chi lavorate te e il tuo amico?»
mi chiese poi, calma e fredda.
Decisamente non era una qualunque
popolana, aveva l'aria di una che ha ricevuto un qualche
addestramento.
«Per nessuno».
Si aspettava quella risposta e
reagì graffiando la pelle di Durza. «Vorresti
farmi credere che
venite qui la notte ad amarvi e basta? Non credo che sarebbe
necessario un pugnale per quello.» Spinse la lama con
più forza e
un fiotto di sangue scivolò sotto la tonaca dello Spettro,
che fece
una smorfia.
«Lavoriamo per il Surda!» esclamai, imprimendo una
buona dose di panico nella mia voce e nella mia espressione.
«Il
Surda?»
Improvvisai. «Una fazione interventista. Re Orrin
è
ancora incerto sulla sua posizione nei confronti dell'Impero, ma il
Ratto no e i suoi membri stanno raccogliendo informazioni su tutto il
territorio di Alagaësia. Vogliono spingerlo alla
guerra».
«E
voi sareste parte di questa fazione? Questo.. Ratto?»
«Siamo
spie assoldate da loro».
«Cosa state cercando?»
«Te l'ho
detto: informazioni. Di qualunque tipo».
La donna socchiuse gli
occhi. «Il tuo accento non è surdano, ragazza. Non
l'ho mai
sentito».
«E io non ho mai detto di essere del Surda»,
risposi
coincisa.
Tacque per qualche istante. «Non riesco a raggiungere
la tua mente. Perché?»
La confusione che esibii poco dopo era
genuina. L'anello di ametiste, dono del mio carceriere, impediva alla
mia mente di varcare i suoi stessi confini, ma non credevo che
impedisse anche l'accesso in verso opposto, anche perché
avrebbe
significato.. Che Durza aveva sciolto l'incantesimo per poter
attaccare la mia mente, il giorno in cui avevo visto alcuni dei suoi
ricordi da umano! Secoli prima.
«Mi hanno maledetta da bambina»
inventai e capii dalla sua esitazione che ne sapeva troppa poca di
magia per poter contestare.
Ma si riprese in fretta: «Il tuo
amico invece ha una mente ben difesa. Siete un'accoppiata originale,
i vostri mandanti devono sapere il fatto loro».
«E i tuoi?»
«Non
vi interessano. Sentite io non ho alcuna intenzione di uccidervi
-scatenerebbe allarmismi- o di ostacolarvi, quindi se mi giurate che
ognuno proseguirà sulla propria strada senza tentare di fare
inciampare l'altro..»
«Vuoi entrare davvero nei Sacerdoti?»
Il
suo atteggiamento cambiò e vidi i suoi muscoli allentarsi di
parte
della tensione, anche se il coltello rimase sulla pelle dello
Spettro. «Sono una spia come voi, ho tutto l'interesse a
farlo.
Mantenete i miei segreti e io manterrò i vostri. Se venissi
catturata mi ucciderei piuttosto che permettere a qualcuno di
frugarmi il cervello».
Annuii ma non spostai lo sguardo dalla
gola macchiata di sangue del mio compagno.
La donna seguì i miei
occhi e intuì parte della mia inquietudine.
Scostò la lama e lasciò
i capelli di Durza, poi mi passò accanto e si
incamminò guardinga
verso l'abside, dichiarando chiusa la conversazione.
La lasciai
andare e corsi ad esaminare la ferita dello Spettro. Lunga e
superficiale. Niente di cui preoccuparsi.
«Forse dovremmo
ucciderla», ringhiò lui toccandosi il collo.
Mi voltai a
guardare la donna, che sparì nella sagrestia. «Non
è necessario.
Non ha motivo di tradirci e in ogni caso in realtà non sa
nulla di
noi».
Lo Spettro era stranamente agitato e rabbioso. Una serie di
espressioni gli solcarono il viso, un misto di disgusto, ira,
ferocia, confusione. Mi inginocchiai alla sua altezza per chiedergli
se stesse bene, ma le sue mani si serrarono sui miei avambracci, in
una morsa micidiale e così forte che mi sfuggì un
gemito di
dolore.
Poi gli occhi gli tornarono improvvisamente limpidi e mi
lasciò andare di scatto, come se lo avessi scottato.
Mi trattenni
dal massaggiare la mia pelle ma lo guardai con voluto
rimprovero.
«Scusami, non..» Si interruppe e si alzò
in
piedi.
Vidi nel suo tono e nel suo atteggiamento uno spiraglio e
mi ci aggrappai. «Qualcosa ti turba?»
Fece un sorriso tirato. «I
miei Spiriti sono inquieti. Colpa di quella tizia, è
già
passato».
Deglutii, un po' spaventata. Quello era un argomento di
cui non sapevo davvero nulla. «Posso aiutarti?»
Il sorriso
divenne un ghigno. «Non tentarmi», fece, fissando
la mia bocca,
«potrei approfittarne».
Probabilmente lo avrei lasciato fare, ma
non si mosse.
Recuperai i miei vestiti e la mia arma. «Ti..
parlano?» chiesi infine.
«Sussurrano insistentemente, mandano
impulsi, ma riesco a controllarli ormai. Conviviamo da parecchio
tempo.. qualcosa come centocinquant'anni anni».
«Ah. E
all'inizio?»
Raggiungemmo la nostra nicchia e ci sedemmo a terra,
come tutte le notti.
«Ricordo poco dell'inizio. Prova ad
immaginare tre coscienze che entrano nella tua, si fondono con essa e
la nascondono come sotto ad un drappo pesante. Ero spettatore dentro
al mio corpo, poi ho cominciato lentamente a sentire le mani e ho
capito che erano mie. Ma ancora non distinguevo se il desiderio di
uccidere era mio o di qualcun altro, talmente gli Spiriti erano
aggrovigliati alla mia coscienza. Dopo un po' ho imparato a
dominarli. Non so quanti mesi o anni siano passati all'inizio: non
capivo molto bene cosa stessi facendo».
«Sembra orribile. Non
conoscevi i rischi quando hai evocato gli spiriti?»
Gli si
gonfiarono i muscoli delle spalle. «Lo sapevo benissimo. Io volevo
diventare quello che sono».
«Davvero?» chiesi perplessa,
ripescando vagamente ai suoi ricordi.
Chiuse le palpebre. «No. Ma
è umiliante da ammettere, no?» Gracchiò
una risata.
«Stai
rimediando ai tuoi errori».
Spalancò gli occhi. «È questo che
pensi?»
Mi strinsi nelle spalle, anche se era un gesto
maleducato. «Sì».
«Io sono il cattivo Elfa, non so se la
situazione ti è chiara. Ho fatto tanto male, ma rifarei
tutto
daccapo. Prima ero un ragazzetto, sciocco e debole, costretto a
piegarsi alla prepotenza di chiunque, ora sono una delle creature
più
potenti di questa terra. Ma tu.. non credo che tu possa capire.
Quante volte nella tua vita qualcuno ti ha messo nella condizione di
non poter fare nulla per contrastarlo?»
Alzai il mento con
fierezza. «Tu», ammisi.
Mi parve a disagio e spostò gli occhi
sui suoi stivali. «Moltiplica quella sensazione per dieci.
Forse non
era previsto che degli Spiriti prendessero il controllo, ma allora lo
accolsi come una benedizione: non dovevo più preoccuparmi,
non ero
più un debole e potevo proteggere me stesso e le persone che
amavo».
«Ma loro erano già morte, non è
vero?»
soffiai.
Annuì. «Non voglio più essere come quel
ragazzetto,
per questo sconfiggere Galbatorix è la mia
priorità. Lui doveva
aiutarmi ma ormai mi fa sentire di nuovo l'eco di quella
debolezza».
I suoi occhi tornarono su di me, accusatori.
«Cosa c'è?»
domandai, sulla difensiva.
«E tu sei quella che non mi sta
incantando, Principessa? Perché mi fai raccontare queste
cose?»
«Mi
sembrava che ne avessi bisogno».
Durza restò immobile a
guardarmi, fino a somigliare ad una delle statue che costeggiavano le
navate laterali.
Con la luce della luna che filtrava dalle vetrate
colorate riuscivo a vederlo chiaramente. Aveva un'espressione quasi
compassata, ma gli occhi ero inquieti e le sopracciglia aggrottate.
Da così vicino le sue labbra non erano poi così
sproporzionate.
Erano pallide e sottili, sì, ma in modo quasi piacevole,
sensuale.
All'improvviso ebbi caldo.
«Io provo a dormire un poco», dissi
lentamente, sfilandomi il mantello dalle spalle e posandolo a terra.
«Spero che quella donna faccia come ci ha promesso e spero
che non
sia una spia del re», aggiunsi poi.
«Non credo. È più
probabile che lavori per i Varden».
Scossi la testa. «Non
credo».
«Forse sarebbe meglio farci un'altra chiacchierata».
Lo
Spettro mi fece spazio e mi aiutò ad allestire il nostro
giaciglio
improvvisato, poi tirò il suo mantello sopra entrambi.
Cedetti al
sonno a fatica, distratta dalle lunghe dita di Durza che erano
intente a disegnare leggeri e minuscoli cerchi sopra il mio stomaco,
dandomi le vertigini.
La mattina seguente mi trovai dei lividi
sulle braccia, ma in compenso la donna con gli occhi di lupo non ci
degnò di uno sguardo per tutta la giornata e io e lo Spettro
ci
adeguammo facilmente al suo atteggiamento, fingendo di non aver mai
vissuto la discussione della notte precedente. Mi dissi che le cose
stavano andando a posto, ma una seconda stranezza mi smentì
quella
sera stessa, durante la funzione.
Un attimo prima ero seduta sulla
panca di pietra e un attimo dopo mi ritrovavo all'esterno, tra le
braccia di Durza, che mi scuoteva ansioso.
«Arya guardami. Mi
senti?»
Ma la mia mente era persa in altre immagini. Immagini che
qualcuno mi aveva mandato, in barba all'anello di ametiste e alle mie
difese.
Vedevo Brom, un ragazzo e un drago. Dello spesso
stupefacente color zaffiro della pietra che per anni avevo portato
con me.
I tre si muovevano in un luogo indefinito, venendo nella
mia direzione. «Vengono a salvarti»,
disse una voce nella
mia testa, una voce che riconobbi come quella di Fäolin.
Dolce,
limpida, gentile. «Resisti».
Un'altra voce,
fredda, carezzevole e allarmata, mi chiamava, però da un
altro
luogo.
«ARYA!»
Sobbalzai e tirai un respiro furioso,
mettendo a fuoco il viso dello Spettro, a pochi pollici dal
mio.
«Durza», constatai.
Mi baciò sonoramente le labbra e i
suoi capelli mi pizzicarono la fronte. «Cosa diamine ti
è
successo?»
Mi aggrappai alla sua tonaca e mi alzai a sedere. Ero
sulle scale, fuori dalla chiesa e non ricordavo come ci fossi
finita.
«Ho avuto una specie di visione», biascicai, ed
ebbi un
brivido di freddo, causato dalla mancanza del mio mantello,
probabilmente.
Durza si mise a sedere sulle scale e mi tirò sulle
sue gambe, strappandomi una smorfia quando strinse i lividi che lui
stesso mi aveva procurato. «Sei rimasta con gli occhi
sgranati per
dei minuti interi. Se non avessi sentito che respiravi e il tuo cuore
batteva ti avrei data per morta».
«Ho visto un drago», dissi e
mi resi conto di stare sorridendo.
Le sue cosce si tesero sotto le
mie. «Un drago?»
«Un drago e il suo cavaliere. Non era una
semplice visione», mi affrettai ad aggiungere, «ho
sentito qualcuno
nella mia testa, qualcuno mi ha passato quelle immagini».
«Non è
possibile» mi informò, sfiorando l'anello da sopra
il
guanto.
«Hanno detto che stanno venendo a salvarmi».
«Chi?»
«Il
ragazzo, il drago.. e Brom».
«Temo che la tua mente ti abbia
fatto un brutto scherzo, Principessa».
Aveva ragione. Io non ero
in pericolo, Brom era chissà dove e io non avrei mai
lasciato
entrare una coscienza sconosciuta senza almeno provare ad oppormi.
Eppure quella visione era stata così bella e rassicurante..
Gli
occhi mi si riempirono di lacrime, senza motivo, ma mi sentivo
così
trasognata che quasi non me ne curai «Peccato».
Durza lo Spettro
mi baciò e mi abbracciò come se fossi appena
tornata dal mondo dei
morti, scaldandomi e scacciando lentamente la sensazione di
infelicità che mi aveva colta non appena ero tornata alla
realtà.
Tornammo in chiesa solo al termine della funzione e ci
beccammo uno sguardo di disapprovazione da parte di Gagnsamr.
«Ha
avuto un malore e l'ho portata fuori a prendere un po'
d'aria»,
spiegò Durza umilmente, senza spostare il braccio da intorno
a
me.
Il monaco non fece una piega. «Se ne occuperanno le sue
compagne. Elin!» chiamò. «Bitr non sta
bene, aiutatela a
coricarsi».
«Sto già molto meglio, grazie» mi
affrettai a
dire.
Ma Elin e Tove insistettero per portarmi praticamente a
braccia fino al mio pagliericcio, dove restarono vicino a me per
qualche minuto, sentendomi la fronte e il battito del cuore dai
polsi.
Alla fine Elin decretò che ero debole per mancanza di
cibo.
«Ho notato che spesso salti i pasti», mi
rimproverò.
Solo
quelli di cadaveri. «Sì ho sempre avuto
qualche problema con il
cibo».
«Vado a prenderti del pane e del latte, domattina sarai
di nuovo in forma perfetta», mi rassicurò.
«Ti
ringrazio».
Mentre Elin si allontanava e dall'esterno venivano i
rumori degli ultimi preparativi per la notte, Tove mi si
avvicinò
ulteriormente e mi guardò quasi con pietà.
«Chi è l'uomo dai
capelli rossi?»
Mi colse contropiede. «Si chiama Natt ed è un
novizio come me», risposi con semplicità.
Sorrise. «Sembra
tenere molto a te».
Scossi una mano. «Ti sbagli».
«Non sono
certo in grado di giudicare, ma dovresti dirgli di nascondere i suoi
sentimenti per te. A Gagnsamr non piace e non sono ammessi altri
amori oltre a quello per Dio. Potrebbe anche decidere di non
ammettervi a causa della sua infatuazione».
Spiegò il tutto con
pacatezza, ma non si rendeva conto delle assurdità che
andava
dicendo. Dovetti trattenermi dal riderle in faccia.
«Lo farò»,
dissi, con il suolo scopo di chiudere il discorso.
Poi mangiai il
cibo che Elin mi porgeva e augurai loro buon riposo, solo per poter
sgusciare in pace fuori dalla stanza, a mezzanotte.
Durza mi
aspettava nella sagrestia. «Stai bene?»
«Benissimo! Scusa per
prima.. sono andata fuori di testa».
Lo Spettro aprì la bocca un
paio di volte, ma qualunque cosa volesse dirmi gli morì
sulle labbra
e decisi di non insistere.
Visto il mio delirio di qualche ora
prima, sperai che la visione mi fosse risparmiata, ma venne con la
solita puntualità, non appena mi assopii. Quella notte
faticai a
tenere la concentrazione su quello che stavo facendo: ero stanca e mi
si incrociavano gli occhi. Le pareti ricolme di vetri, scatole e
marchingegni di legno sembravano quasi ondeggiare insieme alla fiamma
della candela e le righe scritte si sdoppiavano spesso e
volentieri
Da quanto non dormivo almeno tre-quattro ore a notte?
Da quando siamo arrivati alla cattedrale, mi risposi.
Fu
Durza ad abbassare la maschera di orgoglio e a chiedere una pausa,
non appena abbandonammo le stanze sotterranee.
«Elfa domani
veniamo qui, te ti fai il tuo incubo giornaliero e poi dormiamo fino
all'alba».
Fui lieta di sapere che non ero la sola ad essere
ridotta così male. «Approvo.»
Arrivammo davanti ai dormitori e
le nostre voci divennero un sottile bisbiglio.
«Allora a domani
notte», fece lo Spettro e intravidi il biancore dei suoi
denti
quando sorrise.
«A domani».
Mi prese una mano e, trovandola
coperta dal guanto, la voltò con il palmo verso l'alto e mi
depositò
un bacio sul polso, con lentezza, accarezzando le vene con la punta
della lingua.
Mi ritrovai a tremare.
La notte seguente non
facemmo esattamente quello che avevamo programmato di fare.
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Capitolo 24 *** Giù le maschere ***
Ciao
24.
Giù le maschere
Le
prime avvisaglie della notte turbolenta che ci aspettava furono
evidenti già dal mattino, quando vidi la donna dagli occhi
di lupo a
colazione. Il suo cuore batteva fortissimo e si sfregava le mani
sudate, anche se per il resto sembrava tranquillissima e
perfettamente padrona di sé.
Probabilmente erano dettagli che
solo io e forse Durza avremmo notato.
«La donna era
spaventata stamattina», mi disse infatti durante la
funzione.
«Secondo te dobbiamo preoccuparci?»
«Credo che sia
venuto il momento di cancellare dalla sua memoria il ricordo del
nostro incontro qui dentro», rispose lo Spettro con durezza.
«Magari
riaffiorerà prima o poi, ma per ora ci basta che se ne stia
buona
per qualche altra settimana».
Mi voltai a guardarlo per capire se
facesse sul serio. Non scherzava affatto.
«Potresti distruggerle
la mente nel tentativo e renderla pazza per il resto della sua
vita»,
gli feci notare.
Sollevò un sopracciglio. «Conosco perfettamente
gli effetti collaterali di una simile operazione, Principessa. Ma
sarai certamente d'accordo con me nell'affermare che è una
soluzione
meno drastica e appariscente di una pugnalata al cuore».
Annuii.
«Indubbiamente. Sì, forse è necessario.
Il fatto che sia
imprevedibile e sconosciuta la rende solo più pericolosa e
noi
abbiamo bisogno di molto altro tempo qui prima di avere
finito».
«Riusciresti a mandarla alle latrine dei Sacerdoti oggi
pomeriggio? Sono assegnato alla pulizia dei loro ambienti per tutta
la giornata e dato che sono l'ultimo arrivato quelle toccheranno
sicuramente a me. Potrei risolvere la questione senza farmi
notare».
Annuii di nuovo. «Se qualcosa va storto mi trovi nelle
cucine».
Ridacchiò. «Di nuovo?»
«Gagnsamr è l'unico a
conoscenza delle mie “condizioni”»,
enfatizzai l'ultima parola,
«e quindi fa in modo che mi siano assegnati i compiti che
ritiene
meno onerosi. Per esempio non mi ha mai mandata alle
scuderie».
«Credo che l'unica donna che abbia mai mandato alle
scuderie sia Tove. È la figlia di un macellaio, ci sa fare
con le
bestie».
«Ecco perché è così
gentile», borbottai, «ci
rassicura come animali prima del macello. Hai fatto amicizia anche
con lei?»
Alzò le spalle. «Credo che Gagnsamr le abbia detto
che eravamo sposati. Dopo ogni funzione ci scruta minuziosamente da
testa a piedi, come se potessimo metterci a fare gli affari nostri
sotto le panche».
Non gli dissi quello che mi aveva riferito Tove
stessa la notte precedente, mi sarei sentita ridicola.
«Due ore
dopo il pranzo dei Sacerdoti la donna verrà da
te», gli assicurai,
tornando al discorso originario.
«Sarò rapido e silenzioso come
un serpente».
Trovai le sue parole calzanti e le labbra mi si
stesero in un sorriso. «Non ne dubito».
«Ma sarò anche
gentile», aggiunse lui, «le porto via quei due
minuti di ricordi e
poi la rimando sottoterra. Vedrai non le succederà nulla, i
veri
danni si hanno quando si asportano le memorie di una vita
intera».
«Non ho mai dovuto fare una cosa simile, quindi mi fido
della tua agghiacciante esperienza».
«Già..» fece lui.
A
mezzogiorno feci in modo di servire la donna di persona,
così da
poterle sussurrare all'orecchio mentre posavo la scodella di cibo
davanti a lei.
«Tra due ore alle vostre latrine. È
urgente».
Mi
guardò solo quando tornai a servire il Sacerdote accanto a
lei.
Sospettosa e preoccupata, il battito del cuore nuovamente
irregolare.
Mi sentii un po' in colpa per quell'imbroglio, ma la
paura che parlasse prima del previsto si era fatta più forte
da
quando l'avevo vista inquieta, quella mattina. E poi non si trattava
di una soluzione così estrema, avrebbe solo dimenticato me e
Durza
per qualche tempo, speravo solo il più a lungo possibile.
Alla
seconda ora del pomeriggio ero intenta a lavare le stoviglie usate
dai monaci per pranzare e mi ero tolta i guanti. Era disagevole stare
molte ore con la stoffa bagnata contro la pelle e inoltre sapevo
essere abbastanza rapida da nascondere la mano sinistra se qualcuno
si fosse avvicinato eccessivamente. Ma in ogni caso chi avrebbe mai
badato alle mie mani?
Mentre i monaci consumavano il loro pasto di
cadavere, mi ero lavata rapidamente alle vasche della lavanderia,
usando il pezzo di sapone che avevo comprato da Gamall e che avevo
portato con me. I capelli fradici erano stati avvolti in un telo che
Gefion mi aveva gentilmente procurato, affinché non mi
congelassi
totalmente. Però il calore della stanza aveva già
operato bene ed
erano ormai solo umidi.
Aspettavo lo svolgersi degli eventi. Non
ero molto tranquilla a lasciare la donna sola con lo Spettro,
ricordavo bene qual'era stata la sua ultima reazione e quella dei
suoi spiriti. Non mi sarei stupita troppo se fosse venuto da me con
un sorriso innocente stampato in volto e una macchia di sangue
nascosta sotto i vestiti.
Gillis, il più giovane dei monaci,
entrò in cucina affannato. «Una novizia
è svenuta! Gagnsamr mi ha
mandato a prendere Gefion, Ellin è fuori a fare commissioni
purtroppo».
Ellin era la più abile in fatto di medicamenti, ma
anche Gefion se la cavava bene, o almeno così mi aveva detto
Mikell,
premettendo che lui era in realtà più esperto di
entrambe.
Quando
Gefion seguì Gillis nel chiostro, asciugandosi le mani con
uno
strofinaccio, mi sporsi anche io sulla soglia della cucina e vidi
Durza entrare nel dormitorio dei monaci con la donna dagli occhi di
lupo in braccio, inerte, diretto alle scale che portavano
all'infermeria.
Mi imposi di non seguire la processione di gente
che accompagnava la donna svenuta e tornai ai miei doveri. Gefion
tornò dopo una decina di minuti e raccontò a me,
Rasmus e Stian
cosa fosse successo.
«Abbiamo trovato una pila di fogli di
pergamena scritti fitti sotto la sua veste, probabilmente ci ha
lavorato strappando ore al sonno, poi quando è andata alla
latrina
si è sentita male. Fortuna che Natt era lì vicino
e se n'è accorto
subito. Quando ha ripreso i sensi era parecchio confusa, forse ha
battuto la testa mentre cadeva a terra. Direi che per oggi è
meglio
che stia stesa sulla branda dell'infermeria».
«Cosa c'era
scritto sui fogli?» domandai quasi distrattamente, sapendo
che lei
era una delle poche che sapeva leggere.
Gefion si picchiettò la
testa rasata. «Non ho letto. Bitr non sono affari nostri le
ricerche
dei sacerdoti», aggiunse con una punta di rimprovero.
Cercai di
riparare il danno. «Magari era una lettera che l'ha
sconvolta»,
ipotizzai, «e leggerla avrebbe semplicemente significato
capire il
perché e confortarla com'era necessario».
«No, non vorrei mai
leggere cose che non mi sono permesse e incorrere per errore nell'ira
di Dio».
«Hai ragione», tagliai corto.
La verità sui fogli
di pergamena mi fu svelata da Durza in persona, sussurrata in pieno
svolgimento della lezione pomeridiana con Gagnsamr.
Sentii il suo
torace contro le mie spalle e il suo respiro all'orecchio quando di
chinò su di me. «È andato tutto bene.
Quella tizia ha una mente
ben difesa, ma sono riuscito a violarla dopo qualche sforzo e a
dissipare i suoi ricordi di noi, anche quello di te e della tua voce.
Il mancamento è una reazione comprensibile, non
c'è da
preoccuparsi».
«Hai saputo altro di lei?»
«Non lavora né,
per i Varden né per l'Impero. Ho solo colto un paio di
riferimenti
ad occhi e orecchie e a segreti».
«Gefion mi ha detto che aveva
della pergamena nascosta sotto i vestiti».
«Ci stavo arrivando:
l'ho letta e sembrava tanto un rapporto».
«Un rapporto?»
«Bitr
e Natt!» tuonò Gagnsamr, rosso in volto per la
rabbia.
«Perdonaci!»
esclamò Durza chinando il capo e allontanando la bocca dal
mio
orecchio.
Ma il monaco non si placò così facilmente e ci
trattenne anche dopo la lezione, intimandoci di correggere
rapidamente il nostro atteggiamento o saremmo stati espulsi.
Nella
cattedrale vedemmo la donna con gli occhi di lupo disposta nel
semicerchio di Sacerdoti e novizi, pallida e leggermente traballante,
con un braccio stretto in quello del suo vicino, che la
sorreggeva.
«Diamine», sibilò lo Spettro durante la
funzione,
«devo smetterla di parlarti».
«Non è colpa tua», lo
rassicurai con una leggera carezza sulla schiena. «Finisci di
raccontarmi, da qui il nostro mentore non ci
vedrà».
«Potrebbe
avere una vista migliore della mia per quanto sembra»,
sbottò.
«Comunque non c'è molto da dirti: quella donna ha
messo per
iscritto i ruoli, i numeri e le abitudini dei Sacerdoti. C'è
anche
un accenno alla funzione dei monaci. Prima che tu me lo chieda.. Sono
tornato in infermeria dopo che Gefion è andata via per
leggerli, mi
avevano insospettito».
«Per questo era così agitata oggi? Ha
con sé un rapporto ed è una spia. Potrebbero
scoprirla da un
momento all'altro. Ha paura».
«Sì, ne aveva parecchia quando
l'ho trascinata in una latrina con me. Le ho rimesso i fogli sotto la
veste, comunque, non era il caso di lasciarli in bella vista sullo
sgabello accanto al letto».
«Sei stato gentile», mi
sorpresi.
«Dopo averle strappato la memoria di noi due? Direi che
era il minimo. E poi vorrei scoprire per chi lavora prima o
poi».
Poi
un po' per gioco, un po' per sfida a Gagnsamr, mi diede un bacio
sulla tempia, ricordandomi che per quella notte era previsto il
riposo più totale.
«Io per riposo intendo dormire», lo
informai.
«Perché che altro vorresti fare,
bellezza?» mi
provocò.
Scossi la testa con divertita rassegnazione.
Dopo il
rito vedemmo la donna farsi sostenere dai suoi compagni novizi per
raggiungere il dormitorio.
«Non parlarle e cerca di non farti
vedere in volto», mi ammonì lo Spettro,
«o stimoleresti quella
parte del suo cervello che ora è annebbiata e i suoi ricordi
tornerebbero molto più in fretta».
Poi si staccò da me e
assunse un'espressione perfettamente fredda e distante mentre ci
aggregavamo ai monaci, con lo scopo di evitare l'ennesima sfuriata da
parte di Gagnsamr, che come al solito ci stava studiando. Quella sera
notai anche lo sguardo di Tove, che guizzava da Durza a me con
curiosità e un pizzico di preoccupazione, ma quando le
arrivai
vicino mi sorrise.
Delling non aveva appuntamento con il suo
amante quella notte, quindi non appena la guardia chiuse la porta del
dormitorio sacerdotale mi alzai e preparai le coperte come al solito.
Teoricamente io e Durza dovevamo trattenerci in chiesa solo per
un'ora -il tempo necessario per scacciare le mie visioni e poi
tornare ognuno a dormire- ma ero certa che alla fine saremmo rimasti
nella nicchia un po' più a lungo.
Allestimmo il nostro giaciglio
come al solito e per qualche minuto restammo in silenzio, la mano del
mio compagno già posata sotto il mio cuore per registrarne i
battiti.
«Hai più visto draghi?» mi chiese di
punto in
bianco.
«Non prendermi in giro», protestai.
«Era sincera
preoccupazione!» ribatté lui con plateale
indignazione.
«Indubbiamente».
«Il tuo silenzio mi addolora,
Elfa. Dopo tutto questo tempo credevo che fossimo diventati intimi
confidenti» concluse ridacchiando.
Feci uno sbuffo divertito, ma
non gli risposi. Chiusi gli occhi e sentii la mia mente sprofondare
lentamente nel buio.
Rividi il drago, effettivamente. Era un'ombra
che andava e veniva, intervallata dalle minacce proferite da
Fäolin,
ma era rassicurante, bellissima e quasi familiare.
Tornai al
presente e la prima cosa che vidi furono gli occhi castano scuro di
Durza socchiusi su di me.
«Va tutto bene», disse subito per
rassicurarmi. Poi mano a mano che il mio respiro si calmava anche il
suo sguardo si rasserenò. «Niente tremore
né lacrime
stanotte?»
«Credo fosse meglio del solito», risposi.
«Magari
stai.. guarendo?»
«Mi piacerebbe moltissimo».
«Ti credo».
Si sedette e si stirò.
Il mantello si spostò, lasciandomi
scoperta dalla vita in su. Rabbrividii e mi sedetti a mia
volta.
«Vuoi tornare al dormitorio?» mi informai, un po'
intorpidita.
«No, sei più calda te del mio
pagliericcio».
Quell'affermazione mi colse impreparata e mi
svegliò all'istante. Completamente.
Tossicchiai. «Ora possiamo
dormire sonni tranquilli, allora».
«Il punto è che ora
finalmente possiamo dormire, Principessa».
Risi piano,
premurandomi di non fare riecheggiare la mia voce nella cattedrale
spoglia.
Quando
tornai a guardare Durza i suoi occhi mi parvero così
profondi da
poter assorbire in un attimo me, la chiesa, la città
stessa.. Poi
caddero sotto il mio mento e si tinsero di una sfumatura più
inquietante: selvaggia, incontrollabile, bruciante.
Ebbi
paura dell’improvviso istinto che mi assalì,
quello di buttarmi
tra le sue braccia e dimenticare tutto e tutti, restai destabilizzata
dal fatto che le mie labbra bruciassero per il desiderio delle sue,
che la pelle mi formicolasse, bramosa delle sue mani.
L’espressione
dello Spettro cambiò ancora. E un’ombra di
impazienza gli oscurò
le iridi.
Allungò un braccio verso di me e attorcigliò una
ciocca dei miei capelli tra le dita, per poi afferrarne
un’altra e
ricominciare il suo gioco ipnotico, che restai a fissare in
silenzio.
«Durza non..» balbettai pateticamente,
improvvisamente
conscia del pericolo e ritraendomi appena.
«Shht», sussurrò
lui, «non scappare», mi pregò con voce
vellutata.
La mano dello
Spettro cadde sul mio collo ed esplorò curiosamente la mia
pelle in
una lenta carezza. Un brivido che non aveva niente a che fare con il
freddo delle sue dita mi percorse piacevolmente la spina dorsale in
un lieve spasmo.
Solo quando i suoi polpastrelli scivolarono
pericolosamente verso il basso, decisi che doveva essere
sufficiente.
Afferrai il polso di Durza. «Dovremmo
andare».
«Magari più tardi». Mi gettò
una rapida occhiata da
testa a piedi, ignorando volutamente il mio turbamento.
«Adesso»,
aggiunse con voce bassa e suadente, «voglio solo farti
scivolare
questo dannato vestito di dosso».
La normalità avrebbe previsto
che io scattasi come una molla e gli urlassi indignata che era un
lurido verme schifoso.
Ma io mi limitai ad un totalmente fuori
luogo, fremito di eccitazione.
Lo Spettro si chinò su di me e le
sue braccia mi circondarono senza stringermi. Sentii la punta fredda
del suo naso sfiorarmi la guancia e le sue labbra ruvide graffiarmi
dolcemente il filo della mandibola, spostandosi poi apparentemente
per sbaglio sulla giugulare e chiudendosi in baci lenti e quasi
dolorosi.
Non sapevo bene come comportarmi. Sapevo ovviamente dove
volesse arrivare Durza e sapevo anche che era da parecchio tempo che
ci voleva arrivare, ma il mio animo era confuso circa la risposta ai
suoi desideri: una parte di me era spaventata ed impreparata,
un'altra parte -quella in quel momento prevalente- voleva
assecondarlo, anche se significava concedere libertà che non
avevo
mai concesso a nessun uomo prima a quello che era stato il mio
carceriere e boia.
Travolta dalle attenzioni dello Spettro e dal
rapido evolversi della cosa, ridacchiai
nervosa,
protestai,
fremetti, gli fermai il volto tra le mani. Durza voltò
rapidamente
il viso contro i miei palmi e li baciò entrambi, uno dopo
l’altro,
poi chinò nuovamente la testa e artigliò la
scollatura del mio
abito con l'indice, tirandolo verso il basso insieme alla
fascia.
Aggrottò la fronte alla vista della boccetta di veleno,
ma poi si limitò a prenderla, posarla sul pavimento e
precipitarsi a
ricoprire di baci la pelle appena esposta, mentre i suoi capelli mi
sfioravano il petto.
Smisi di pensare e di esitare. Un sospiro mi
scivolò tra le labbra e una sensazione di languore si
espanse nel
mio corpo.
Le sue dita si strinsero sui miei fianchi e risalirono
ad accarezzare la mia vita,
il respiro alla menta di Durza mi soffiò sul viso e un
istante dopo
la sua bocca travolgeva la mia. Schiusi automaticamente le labbra e
la mia schiena finì contro il muro, mentre gli stringevo
nuovamente
il viso -stavolta con l'intenzione di trattenerlo contro la mia
bocca- e lo baciavo come se fosse l’ultima cosa che avrei
potuto
fare in vita.
Lo
Spettro cominciò a toccarmi con rude sicurezza da sopra al
“dannato”
vestito, che mi sembrava diventato improvvisamente stretto e
decisamente di troppo: seguì la curva della schiena, le
gambe, il
seno..
Mi sentii sciogliere, diventare di puro fuoco tra le sue
mani e contemporaneamente sentivo crescere la brama dell'incendio, il
senso di vuoto sotto il mio stomaco e acuirsi quella particolare
tensione che si era stretta tra di noi, che a quel punto divenne
insopportabile.
Con un mugugno, affondai le mani tra i capelli
rossi di Durza e li scompigliai caoticamente -come da settimane
volevo fare- tirandolo a me come un'amante consumata: mi sembrava che
non potesse mai essere abbastanza vicino.
Lo Spettro abbandonò la
mia bocca martoriata ed emise quello che parve un ringhio, poi
tornò
ad armeggiare bruscamente con il mio abito. Il corpetto fu
rapidamente slacciato. La bocca di Durza scivolò sulle mie
spalle
nude e sul petto, arrossando la mia pelle di baci.
Mi ritrovai
alla mercé dei suoi gesti, quasi inerme, poi incontrai le
iridi
improvvisamente rossicce di lui e le trovai lucide di passione e
dello stesso desiderio devastante che mi stava sconvolgendo.
Volevo
baciare di nuovo la sua bocca sottile, sfilargli la casacca e sentire
la sua pelle nuda contro la mia, tutto insieme. Subito.
Con ogni
fibra del mio essere che bruciava di desiderio, agii scompostamente,
baciandolo con aggressività e insinuando le mani sotto i
suoi
vestiti.
Durza tremò come in preda ad una forte febbre. Con uno
scatto felino mi stese sul pavimento gelido della cattedrale,
lasciando il corpetto mezzo slacciato e schiudendomi le ginocchia con
impazienza.
E mi sarei data a lui senza remore, davvero, ma le
cose non andarono come entrambi desideravamo.
Lo Spettro si staccò
improvvisamente dal bacio, ansante, le mani ancora sotto la mia
gonna.
Restai con la schiena pressata contro il pavimento, le
labbra dischiuse in attesa del ritorno delle sue, respirando
furiosamente per riempire il vuoto di aria che si era venuto a
creare. Restai imbambolata a fissare Durza, che stava inclinando il
capo di lato.
In ascolto.
Sentii dei passi provenire
dall'abside.
«Diamine!»
sibilò lo Spettro.
Si sollevò bruscamente da sopra di me,
afferrò le nostre tuniche monacali e i mantelli, e mi
trascinò
contro la statua di Hofud. Arraffai al volo i nostri pugnali e gli
andai dietro.
«Chi è?» bisbigliai sconvolta.
«Chiunque sia
ha un tempismo terribile», replicò con voce bassa,
roca,
impaziente.
Così terribilmente sensuale da farmi
fremere.
Qualcuno dal passo instabile raggiunse l'altare. La
donna.
Durza lasciò cadere i nostri abiti e prese il suo pugnale
dalle mie mani. Ma la tizia si guardò intorno spaesata e se
ne andò,
il pugno stretto intorno a dei fogli di pergamena.
Solo a quel
punto mi resi repentinamente conto di essere seminuda. Sollevai la
fascia e il vestito e tirai nuovamente i lacci del corpetto.
«Arya»,
mormorò Durza, «è andata
via». E mi baciò.
Lo staccai da me.
«Aveva il suo rapporto in mano. Lo deve consegnare
stanotte».
Si
pettinò i capelli che gli avevo scompigliato. «Non
l'ho
visto».
«Be' io sì. Se qualcuno la scopre scopre anche
noi,
dobbiamo andarcene».
Annuì. «Va bene. Ti aiuto».
Mi diede
una mano a stringere i lacci del corpetto, anche se non era
decisamente necessario. La lessi come una scusa per non interrompere
così bruscamente il contatto prezioso che c'era stato tra di
noi.
Indossammo le nostre tuniche, tenemmo i pugnali sotto e ci
avvolgemmo nei mantelli.
Lo Spettro mi porse il mio veleno. «E
questo?»
«Prima non sembrava importarti più di
tanto», lo
liquidai, strappandoglielo dalle mani e spostandomi nella
sagrestia.
«Quando hai ragione hai ragione.. Ma domani
continuiamo la conversazione interrotta, che ne dici?»
azzardò con
tono speranzoso.
Gli sorrisi accondiscendente e mi trattenni sulla
porta che dava sul chiostro per baciarlo sulle labbra e affondare
un'ultima volta le dita nella sua chioma rossa, mentre l'aria
notturna rinfrescava la mia pelle rovente.
Fu a quel punto che un
grido angosciato mi perforò le orecchie.
Sobbalzammo
entrambi.
«Chi era stavolta?» piagnucolò Durza.
Non avrei
saputo cosa rispondergli, ma fui sollevata rapidamente dal compito:
sacerdoti e monaci si riversarono nel chiostro come un fiume in
piena, guardandosi intorno allarmati e spaesati.
Poi un uomo
vestito di nero, con una benda davanti alla bocca, spuntò
dalla
porta della cucina, trascinando una figura recalcitrante con
sé. La
nostra amica spia si era fatta catturare.
Qualcuno si decise a
recuperare candele e lanterne e presto l'intero chiostro fu
illuminato da una luce soffusa. Io e lo Spettro strisciammo contro la
parete del refettorio e ci avvicinammo al gruppo dei monaci, che,
presi com'erano dalla scena, quasi non ci notarono.
Quasi.
Perché
Delling sobbalzò non appena ci vide comparire alla sua
destra e
Stian guardò con sospetto Durza, che teoricamente avrebbe
dovuto
trovarsi vicino all'ingresso del dormitorio maschile, non di quello
femminile.
Ma ovviamente l'attenzione generale fu nuovamente
catapultata alla donna, singhiozzante e in preda al panico, che era
ora bloccata da due Ombre, mentre un altro soldato mostrava dei fogli
di pergamena stropicciati al Sommo Sacerdote, sostenuto come al
solito nella sua lettiga.
Il cipiglio dell'uomo si indurì di
minuto in minuto, più i suoi occhi scorrevano le parole
vergate, e
fui certa in un istante che la donna con gli occhi di lupo non
avrebbe fatto una gran bella fine. Forse averla uccisa quando ne
avevamo avuta l'occasione poteva essere ormai considerato un atto di
pietà.
Lo Spettro mi strinse le spalle con muto incoraggiamento e
poi scivolò tra i suoi compagni.
E io mi ritrovai a consolare
Helsa, la giovane donna dagli occhi perennemente tristi, che era
scoppiata a piangere apparentemente senza motivo.
Dopo un lungo
discutere e bisbigliare, il Sommo Sacerdote si erse in tutta la sua
monca statura e parlò: «Miei cari compagni e
amici, stanotte
abbiamo scovato una serpe che si annidava nel nostro seno. Avete
davanti a voi una traditrice. Stava per consegnare questi documenti
segreti», annuì in direzione dei fogli, ancora in
mano all'Ombra,
«ad un suo complice oltre al muro del cortile. Purtroppo egli
ci è
sfuggito, questo significa che questa donna dovrà pagare
sulla sua
carne il tributo che Dio esige anche da colui che non siamo riusciti
a catturare». Fece una pausa drammatica.
«Dimenticate quella che
conoscete come Augyra, non era altro che una maschera per ingannarci.
Ma Dio non può essere ingannato e ha provvidenzialmente
tenuto
sveglio Wachter che ha notato l'insolito movimento notturno della
traditrice, e di questo lo ringraziamo!» I Sacerdoti si
batterono
contemporaneamente un pugno al petto. «Ora che la maschera
è
caduta», proseguì il monco, «Augyra
avrà la punizione che si
merita. Che sia portata negli antri della cattedrale, dove domani
sarà deciso il suo destino».
La donna -Augyra era sicuramente un
nome falso- aveva smesso di ribellarsi, stremata, e si
lasciò
condurre docilmente nella cattedrale, dove sarebbe ovviamente sparita
sottoterra per mai più riemergere. O forse l'avrebbero
portata in
sacrificio all'Helgrind, come avevano portato Gamall
l'erborista?
Riuscii solo a pensare che avevamo nascosto i suoi
ricordi di noi appena in tempo.
Ci fu comandato di tornare a
dormire e di non preoccuparci di nulla, dato che ormai eravamo al
sicuro. Cercai lo sguardo di Durza e lui me ne restituì uno
così
intenso che mi riportò all'istante all'abbandono che avevo
provato
per lui, tra le mura spoglie della chiesa.
Poi sparì oltre alla
porta e fui colta dalla certezza che quella notte, nonostante la
stanchezza infinita, non sarei riuscita a dormire tanto serenamente.
C'erano le solite preoccupazioni, alle quali si aggiungeva quella
per Augyra, della quale mi sentivo in qualche modo responsabile;
quella per Delling e Stian, che avevano notato che io e lo Spettro
eravamo fuori dai dormitori prima che il fatto avvenisse; e
sopratutto quella per Durza stesso.
Non volevo sbilanciarmi con me
stessa, ma dovevo ammettere di non aver mai provato un trasporto
simile per nessuno, nemmeno per Fäolin, che fino a qualche
settimana
prima ero convinta di aver amato. Ero visceralmente attratta da
Durza, dal suo sarcasmo, dal pericolo che emanava da lui, dai suoi
atti di sottile gentilezza nei miei confronti, dai suoi segreti,
dalla sua curiosità, dai suoi capelli rossi e dal suo corpo
forte.
Era un'attrazione acerba, che non giustificava le azioni
decisamente precoci di quella notte, ma c'era, ormai ne ero certa.
Cosa dovevo fare? Confessargliela o tenerlo per me?
Non conoscevo
esattamente i suoi sentimenti nei miei confronti, ma se la notte
seguente avesse di nuovo cercato di sedurmi probabilmente gli avrei
ceduto senza rimpianti.
Ero prima di tutto un essere razionale,
non un animale in preda all'istinto, ma non trovavo dei freni solidi
su quella questione. Certo, c'erano i più banali: Come puoi
concederti ad un uomo che conosci da pochi mesi? Come puoi desiderare
una carezza da quelle stesse mani che ti hanno accoltellata? Come
puoi tu, figlia della regina di Ellesméra, lasciarti sedurre
da
Durza lo Spettro?
Forse erano validi, ma non lo erano abbastanza.
L'unica risposta che mi rimbalzava in mente era: che male
c'è?
Così lasciai cadere
quei ragionamenti e mi dissi che si trattava di un imprevisto,
scivolato tra le questioni importanti che stavo affrontando e
probabilmente causato dalla gratitudine che provavo nei confronti di
Durza. Forse mi sarebbe passata in fretta, forse no, ma ci avrei
pensato sul momento. Mi fidavo della mia capacità di
prendere
decisioni.
Dovetti accompagnare Helsa al suo pagliericcio
-che era di fronte al mio- e lei non smise un attimo di piangere
piano, ma con sincera disperazione.
Così quello fu l'ennesimo
tormento di quella notte già agitata. La giovane si
svegliava
spesso, singhiozzava a lungo e poi si addormentava.
Al terzo
risveglio, quando mi vide chinata su di lei a chiederle se andasse
tutto bene, spalancò la bocca, mi si fece vicina e
sussurrò:
«Questo è un posto orribile, quello che hanno
fatto a quella donna
è orribile. Io voglio andarmene. Vattene, Bitr,
finché sei in
tempo».
Poi ricadde all'indietro e piombò di nuovo nel sonno.
Mi
addormentai anche io, con l'immagine di Helsa piangente in testa e la
vivida sensazione dei baci di Durza sulla pelle.
Fui riscossa
solo dalla campana del mattino e mi ritrovai perfettamente riposata e
piena di energie, nonostante la notte un poco inquieta.
Helsa si
alzò con gli occhi rossi e gonfi e, dopo aver preso l'ordine
di
Gagnsamr -che destinava lei alla cucina, me agli ambienti sacri e
Durza all'orto e a delle commissioni pomeridiane- scappò nel
cortile
di servizio, stringendosi la testa rasata tra le mani.
Incontrai
lo sguardo di Tove, che mi fece cenno di lasciarla stare. «A
volte
ha delle crisi spirituali, dovute al suo duro passato. Ma non
preoccuparti, ne esce sempre», disse.
Accettai la spiegazione e
mi diressi con tutti gli altri al refettorio, cercando lo Spettro tra
la piccola folla.
Lo trovai intento a parlottare con Stian,
entrambi corrucciati, e il mio cuore sobbalzò. Sicuramente
stavano
discutendo della notte appena passata, forse Stian aveva notato Durza
accanto a me, aveva notato che eravamo i soli ad indossare un
mantello e ne aveva tratto le sue conclusioni.
Istintivamente
cercai Delling e la vidi poco distante da me, concentrata sul suo
cibo. Forse era il caso di dirle che conoscevo il suo segreto,
così
dal dissuaderla dal rivelare il mio.
Sentii una risata e alzai di
scatto la testa, per vedere Stian scostare bruscamente lo sguardo da
me e tornare a bisbigliare a Durza. Qualunque cosa avesse visto e
concluso non sembrava importargli granché perché
il suo turbamento
era scomparso.
Fermai Delling in cucina, mentre riempiva le
scodelle dei Sacerdoti di latte caldo.
«Delling», dissi
piano.
Lei non alzò gli occhi dal suo compito. «Ti ho
vista ieri
notte, con Natt. Dove eravate quando la donna ha urlato? Siete suoi
complici per caso?»
«No», la rassicurai, «eravamo nel
chiostro
a fare quello che tu vai a fare con Wachter a notti alterne».
Le
tremò violentemente la mano e un po' di latte si
riversò a
terra.
«Ti prego..» I suoi occhi grigi si sgranarono.
«Non
dirò nulla, ma tu dovrai restituirmi il favore».
Annuì
ripetutamente. «Certo, certo».
«Grazie. Bella giornata a
te».
Presi tre scodelle e andai a servire i Sacerdoti.
Poco
dopo Elin tornò in cucina con Helsa sottobraccio. La giovane
aveva
uno sguardo perso e sofferente, ma si era calmata. La facemmo sedere
e le mettemmo tra le mani la colazione, in ritardo.
«Helsa ha
completa fiducia in Dio», mi disse Elin sottovoce,
probabilmente
notando il mio sgomento, «ma ogni tanto le sue origini la
fanno
soffrire».
«Me lo ha detto anche Tove», risposi, «ma
non
conosco il suo passato».
«Perché in teoria non dovremmo. La
nostra vita comincia da quando prendiamo i voti, quello che
c'è
prima non conta. Helsa ogni tanto lo dimentica, è un po'
debole in
questo».
Se avessi insistito mi avrebbe probabilmente
rimproverata, quindi lasciai perdere, anche perché non
potevo
preoccuparmi delle sofferenze di tutte le mie compagne, non ero
lì
per quello.
Tuttavia Helsa mi sembrava la più infelice lì
dentro, lo avevo pensato anche il primo giorno che l'avevo vista, e
mi faceva pena.
Arrivò finalmente l'ora della
funzione.
«Buongiorno», mi salutò Durza,
rivolgendomi un
sorriso radioso.
Ci sedemmo nella nostra solita panca,
all'estremità opposta alla navata centrale.
«Buongiorno a te»,
ricambiai il sorriso, «hai parlato con Stian?»
Sollevò le
sopracciglia. «Come sei arida, Elfa, non mi chiedi neanche un
bacio?»
«Idiota».
Mi posò una mano sul collo e mi baciò
con desiderio, intrecciando la lingua alla mia. Chiusi gli occhi e mi
strinsi alla sua tonaca, sperando con tutto il cuore che la ragazzina
seduta accanto a me stesse guardando da un'altra parte.
Il rito
cominciò e tornammo con i piedi per terra.
«Ho parlato con
Stian», confermò lo Spettro.
Strinsi la sua mano. «E..?»
«Si
è congratulato con me e ha detto.. vuoi le testuali parole?
“Anche
io perderei volentieri un paio di ore di sonno per
quella”».
Sbuffai
con muta rassegnazione. «Ma davvero? Si è
congratulato con
te?»
«Anche io mi sarei congratulato con me», mi
informò
ghignando.
Ignorai l'allusione. «Delling non dirà nulla, ma
ci
credeva complici della donna dagli occhi di lupo».
«Quella
sciocca. Probabilmente ha cercato di fare quello che doveva fare, ma
era ancora confusa».
«Per colpa nostra», aggiunsi.
«Per
colpa nostra», concesse, «ma almeno se ora
scaveranno nella sua
mente dovremmo essere al sicuro».
«La mia maggiore
preoccupazione va alle stanze sotterranee. Saranno più
sorvegliate
del solito adesso che hanno una sorta di prigioniera là
sotto?
Nessuno ha più parlato di lei, quindi immagino che sia
ancora nelle
mani dei Sacerdoti».
«Credo che la uccideranno presto».
«O
la tortureranno per strapparle informazioni su chi l'ha
mandata»,
ipotizzai.
«Probabile anche quello, ma in ogni caso faremo
più
attenzione. Non possono tenerla in quelle stanze ricolme di begli
oggetti e pergamene, di sicuro c'è un'altra stanza, oltre a
quella
presidiata dalle guardie, quindi avremo ancora libero accesso alla
parte che ci interessa».
«Lo scopriremo stasera».
«Sarà la
giornata più lunga della mia vita», concluse
Durza, accarezzandomi
il ginocchio con malcelata malizia.
La sua aspettativa e
impazienza per la notte mi contagiò e separarmi da lui fu
quasi
penoso. Non era una sensazione nuova, ma fino al giorno prima non le
avevo mai attribuito il significato che assumeva a quel punto, dopo
gli eventi della notte precedente.
Per tutta la mattina fui un
poco distratta. Pensavo a casa mia, ai sotterranei, a Helsa, a Augyra
e al suo mandante, che mi era ancora ignoto. E allo Spettro,
ovviamente, anche se cercavo di non farmi distrarre dal ricordo del
fuoco che avevo visto nei suoi occhi.
Lo rividi, allegro come un
bambino, durante il pasto di mezzogiorno, poi fui impegnata a lavare
coppe dal sangue dei Sacerdoti e a pulire il pavimento della chiesa
per tutto il pomeriggio.
Fu mentre ripulivo l'altare dal sangue
che ebbi una seconda visione ad occhi aperti. C'erano di nuovo il
drago, Brom e il ragazzo, che venivano verso di me avanzando in uno
spazio senza confini. Ed era così vivido, così
reale, che quasi
allungai una mano per toccarli.
«Bitr stai bene?» mi chiese
Rasmus toccandomi una spalla.
Le dita serrate agli angoli
dell'altare, ero immobile e rigida, la bocca dischiusa e lo straccio
abbandonato sulle mie ginocchia.
Dissi che avevo avuto un capogiro
e allontanai Rasmus con gentilezza, però decisi di riferire
a Durza
ciò che avevo visto, non poteva essere di nuovo uno scherzo
della
mia mente. O almeno speravo.
Ma l'uomo che sedette accanto a me
durante la funzione non aveva nulla di quello che aveva chiesto un
bacio, quella mattina.
[Durza]
Gagnsamr lo mandò alla bottega del taglialegna, a esigere il
carico di legna che avevano richiesto ormai una settimana prima,
quando Arya si era allontanata dal gruppo per recuperare i pugnali,
come gli aveva raccontato.
Avrebbe impiegato circa mezzora a
raggiungere le mura esterne della città, dove la bottega del
taglialegna giaceva, condividendo una parete con esse. Il monaco
aveva mandato lui, anche se non conosceva il posto, perché
era il
più alto di tutti i monaci e lo scopo di quella visita
voleva essere
intimidatorio. La chiesa aveva già versato un anticipo per
la legna,
ma essa non si era ancora vista e quindi andava là per
protestare.
In parte ne era felice, perché l'ambiente bigotto
della cattedrale minacciava di soffocarlo, a volte, ma in parte era
inquieto, perché non gli piaceva allontanarsi troppo dalla
sua
Elfa.
Sorrise tra sé. Quasi
sua.
Non si raccapezzava del fatto che quella donna fiera e altera
fosse stata sul punto di offrirsi a lui e non riusciva a descrivere
la gioia feroce che aveva provato quando Arya aveva sospirato ai suoi
baci e lo aveva ricambiato con ogni pollice del suo corpo che
trasudava desiderio.
Non riusciva a descriverla, ma poteva
rievocarla. E anche in quel momento gli trasmise un tremito nel
tiepido pomeriggio assolato.
Si era vergognato delle sue azioni
quando aveva realizzato di averla illusa di essere un tipo di uomo,
quando in realtà stava ancora indossando la sua maschera. La
vergogna, però, stava rapidamente sfumando nel panico.
Il panico
non completamente sconosciuto, ma da tempo assente, di perdere una
persona cara.
Il sorriso si spense repentinamente dal suo volto,
sostituito da un'espressione corrucciata. Quel tipo di paura lo aveva
tormentato quando era ancora un semplice umano e si era visto
strappare dalle mani la sua vita, il padre, la madre, la sorella e
infine Haeg, lasciandolo solo al mondo. Ma quello era un tipo di
paura particolare, dove la perdita quasi non dipendeva da lui: i suoi
cari potevano essere portati via da chiunque avesse la forza di
farlo.
Con Arya invece si trattava di un terrore diverso:
rischiava lui stesso di allontanarla da sé con le sue stesse
mani,
con i suoi atteggiamenti e le sue bugie.
Si era affezionato alla
Principessa elfica più di quanto volesse e potesse ammettere
e non
riusciva ad immaginare come potesse diventare la sua vita senza di
lei.
Vuota, indubbiamente.
Era da tempo che metteva in
discussione la validità dei suoi propositi, e se aveva
cominciato a
farlo era principalmente per colpa sua. Il suo primo obiettivo,
quando aveva evocato gli spiriti sotto il sole cocente, era stato
quello di sterminare i predoni che avevano massacrato la sua
famiglia. Tutti loro e tutta la loro discendenza, fare sparire il
loro sangue lercio da quelle terre.
Non ci era riuscito,
ovviamente, e aveva scatenato una caccia all'uomo, che lo portava
ormai da anni alle calcagna di Ajihad, al quale aveva già
portato
via la moglie, ma non ancora la figlia.
Quello era il punto
focale della sua rabbia: i discendenti di quegli assassini vivevano
insieme e avevano costruito ciò che a lui era stato
strappato. E non
aveva mai potuto sopportarlo.
Su quella linea si era basato il
piano con cui aveva lasciato Gil'ead: trovare un modo per annullare i
poteri degli Eldunarí -che riuscivano a passare oltre al
cerchio di
ametiste- e allo stesso tempo ingannare l'Elfa in modo da prenderle
qualche informazione e asservirla, poi avrebbe deposto Galbatorix,
preso il trono e attaccato i Varden, che, sopraffatti, avrebbero
ceduto alle sue richieste e gli avrebbero consegnato il loro capo e
sua figlia. Vivi.
Quello era
appunto il piano.
Ma poi Arya aveva cominciato a incrinare la sua,
di maschera, e a mostrare la debolezza e la bellezza che vi si celava
sotto e lui si era ritrovato a pensare che, invece di seguire la
vendetta per la sua famiglia perduta, avrebbe forse potuto trovare
pace nel formarne un'altra, tutta sua.
A quei pensieri seguiva la
paura. La paura di avere di nuovo qualcuno da perdere, qualcuno per
cui provare delle debolezze, qualcuno che lui non sarebbe mai
riuscito a proteggere e che sarebbe indubbiamente caduto tra le
ombre.
Certo per anni aveva intessuto una sorta di instabile
amicizia con Alba ed erano stati anche amanti, una o due volte, forse
anche tre. Ma non aveva stabilito un legame particolarmente profondo
con la sua serva, era troppo contraddittoria, alternava sbalzi di
umore spaventosi ed era palesemente disturbata al punto di non
ritorno.
Arya invece era stata magistrale. Lo aveva legato a sé
piano piano, un pezzetto alla volta, sciogliendosi e facendolo
sciogliere, e quando finalmente se n'era accorto era ormai troppo
tardi. Era perso di lei, e probabilmente nemmeno per quello c'era
ritorno.
A quel punto non gli rimanevano molte scelte: o lei o la
vendetta e il potere. E non era pronto a rinunciare a nessuno dei
due. Forse se ne avessero parlato avrebbero trovato un compromesso,
perché era certo che anche lei provasse un qualche
attaccamento nei
suoi confronti, ma c'era l'alta possibilità che lei fuggisse
alla
scoperta di tutte le cose che le aveva celato, di tutte le bugie che
aveva intessuto per nasconderle il suo vero piano.
Non voleva che
se ne andasse, ma non era disposto a buttare via tutti i piani che
aveva fatto in una vita solo per una donna. Anche perché se
avesse
rinunciato al trono, qualcun altro lo avrebbe reclamato per
sé,
insieme a tutti i cuori dei cuori appartenuti al sovrano, e a quel
punto sarebbe stato nuovamente alla mercé di qualcuno di
più grande
e potente di lui e sarebbe tornato il ragazzino che piangeva,
nascosto alla vista, mentre la sua famiglia veniva massacrata sotto i
suoi occhi impotenti.
E Arya.. non poteva perderla! Cominciava
però a rendersi conto che, qualunque fosse stata la sua
scelta,
l'avrebbe perduta comunque.
Basta
fare il codardo!
Le
avrebbe parlato. Le avrebbe vomitato addosso tutte le nefandezze
della sua anima nera e per il tempo necessario a finire l'elenco era
sicuro che lei si sarebbe già dileguata.
Ma non poteva costruire
un castello su delle bugie. Tutte le maschere, prima o poi, cadevano.
Per sbaglio, per distrazione, per logoramento, per un incendio.. era
una verità senza scampo.
Avrebbe detto la verità e avrebbe corso
il rischio. Non aveva più le forze di ingannare l'Elfa,
voleva
baciarla, amarla e dimenticare il mondo nella curva elegante del suo
collo. Una, due, mille volte..
Alla bottega del taglialegna
trovò
solo una ragazza, la figlia, che gli assicurò che il legname
sarebbe
arrivato entro sera. La ragazza sembrava esausta e, viste le ampie
spalle che il vestito celava a malapena, doveva aiutare spesso il
padre nel suo lavoro, oltre che a badare alla casa.
Tuttavia
quando intravide una fornace all'interno della bottega
faticò a
nascondere lo stupore.
La indicò alla ragazza. «Credevo fosse la
bottega di un taglialegna, non di un fabbro».
«Mio padre era un
fabbro, signore. Il mio patrigno è taglialegna, ma io porto
avanti
l'attività della mia vera famiglia».
«Sei tu a
forgiare..?»
«Tutte le spade dei soldati imperiali. Sono molto
brava», disse orgogliosa.
Fece un cenno di sorpresa.
«Incredibile, complimenti».
«Sei gentile».
«Sei
sola?» le chiese poi, distrattamente.
Si fece sospettosa. «Cosa
vuoi dire?»
«Tua madre dov'è?»
«Oh è morta di febbri lo
scorso inverno».
Mentiva. Strano.
Provò a sfiorarle la mente
e si trovò respinto da un solido muro. La figlia di un
taglialegna,
anzi di un fabbro, con abilità magiche?
La giovane brandì un
lungo bastone di legno e gli fece cenno di andarsene. «Non so
chi tu
sia, ma devi lasciarmi in pace».
Lo Spettro sollevò le mani e le
sorrise con una punta di sarcasmo. «Sono un monaco,
ragazzina, non
hai nulla da temere da me».
«Preferirei che te ne andassi»,
replicò un po' spaventata. «Ti giuro che la legna
arriverà prima
del tramonto, ma ora va'».
Durza la guardò attentamente, perché
era certo di voler ricordare quella figura in futuro. Era comune:
altezza media, capelli lisci -ma non della stessa seta di quelli di
Alba- e castano chiaro raccolti in una crocchia, occhi piccoli e di
un colore leggermente più chiaro dei capelli e folte
sopracciglia
che davano una forte espressività al suo volto tondeggiante,
ancora
da bambina. Osservò le sue braccia e vide forti muscoli
guizzare
sotto la stoffa e poteva quasi indovinare i calli sulle sue mani.
Forgiare armi non era decisamente un mestiere adatto ad una
fanciulla.
Le fece una riverenza, senza poter evitare di fare una
smorfia ironica, e se ne andò.
Non erano molti quelli capaci di
difendere la propria mente, anzi..
Un forte bruciore all'altezza
del cuore lo fece sobbalzare. Toccò la catena d'argento che
sosteneva il ciondolo a forma di sole e si affrettò a
trovarsi un
vicolo buio dove poter ricevere quello che sicuramente era un
messaggio di Alba e che lo raggiungeva con un tempismo perfetto,
proprio nel momento in cui era fuori dalla cattedrale.
L'immagine
tremolante della sua serva fu applicata ad una pozza di acqua,
residuo della neve ormai sciolta.
«Mio signore ho notizie per te,
posso parlarti liberamente?»
«Certo, ma fai in fretta».
«Una
banda di Urgali ha localizzato il cavaliere, il suo drago e Brom. Il
ragazzo ne ha uccisi molti ma due sono riusciti a mettersi in
contatto con me».
Durza si mosse inquieto. Aveva ordinato agli
Urgali di riferire direttamente ad Alba perché lui non
poteva
ricevere messaggi ad ogni ora del giorno, ora che era relegato nella
cattedrale, e non era sicuro che quei bestioni avrebbero capito di
dover ritentare fino a che non avesse dato loro udienza.
«Dove
sono?» domandò.
«Vicino a Teirm, in direzione del lago di
Leona».
«Di già..»
«Te lo aspettavi?»
«Sì prima o
poi sì, era un altro motivo per cui volevo essere qui. Il
ragazzo
sta sicuramente seguendo i Ra'zac e le loro tracce lo avrebbero
portato a Dras-Leona in un modo o nell'altro».
«Come sta andando
per ora? Hai già ottenuto un'alleanza dai
Sacerdoti?»
«Diciamo
che per il momento sto solo cercando di sottrarre loro
qualcosa»,
abbozzò.
Il viso grazioso della sua interlocutrice si accigliò.
«Di questo non mi avevi parlato». Fece una lunga
pausa. «E
l'Elfa?»
«Sotto controllo», disse, ma non credeva neanche
lontanamente a quello che stava dicendo.
«Durza tu mi stai
nascondendo qualcosa, non è vero?»
«Sì», ammise bruscamente,
«te ne parlerò non appena faremo
ritorno».
Sibilò. «Io la
voglio uccidere».
«Me ne ricordo perfettamente».
«E tu
dovrai lasciarmelo fare. Era nel nostro patto».
«Il nostro patto
risale a ormai quattro mesi fa, da allora molte cose sono
cambiate»
le fece notare.
«Non per me, mio signore». Lo guardò a
lungo in
silenzio. «Credevo
che
avrei potuto fermarti, ma ormai è troppo tardi.
Ricordi queste mie parole?»
Lo Spettro sentì lo stomaco fare una
capriola. Le ricordava benissimo. Gliele aveva rivolte la notte in
cui lo aveva recuperato, febbricitante, dalla cella di Arya. Quando
lei lo aveva curato invece di ucciderlo.
Ricordava anche di aver
riso a quella sua affermazione, non capendola.
Alla luce dei nuovi
eventi assumeva tutt'altro significato.
«Vedo che ricordi. E
allora ricordati anche questo: lei non potrà mai e poi mai
perdonarti ciò che le hai fatto, come tu non potrai mai
perdonare
agli antenati di Ajihad ciò che hanno fatto a te. Pensaci,
prima di
fare sciocchezze. Non potrai mai avere la principessa degli elfi, il
suo primo e unico desiderio sarà quello di
ucciderti».
Durza
spezzò il contatto con un lento gesto della mano e
indossò
nuovamente il ciondolo. Non voleva darle la soddisfazione di vedere
quanto le sue parole gli avessero fatto male.
Durante la funzione
quasi non ebbe il coraggio di alzare gli occhi su Arya e quando lo
fece fu solo mentre erano in fila per ricevere il segno. La vide
ferita e preoccupata e si dispiacque di doverle causare ulteriore
sofferenza quella notte.
«Dopo dobbiamo parlare».
«Di cosa?»
chiese dolcemente, con quel suo timbro particolare di voce.
«Tante
cose. Ci vediamo nella sagrestia come al solito».
«E la nostra
ricerca?»
«Due giorni di pausa non ci uccideranno, non
credi?»
Annuì titubante.
Avrebbe voluto stringerla a sé e
baciare le sue labbra di rosa, ma sentiva le braccia di legno e il
sapore della sabbia in bocca. La sabbia che lo aveva quasi soffocato
il giorno prima dell'evocazione che lo aveva trasformato in un
mostro, salvandolo dalla disperazione.
[Arya]
Durza
non mi aveva detto nulla durante il rito, anzi, quasi non mi aveva
guardata. Mi voleva parlare, così aveva detto, ed io ero
preoccupata. Cos'era cambiato nelle ultime ventiquattr'ore?
Faticavo
a mantenere regolare il mio battito cardiaco quando aprii la porta
della sagrestia e quello scarso minuto che attesi mi parve
infinito.
Quando arrivò, lo Spettro non mi sorrise e non mi disse
nulla. Poggiò la schiena alla porta e rimase immobile.
«Andiamo
in chiesa?» Proposi sulle spine. «Qui non riesco
nemmeno a
vederti».
«Andiamo».
Non ci nascondemmo nella nostra solita
nicchia. Durza mi portò sulle panche in fondo, mi fece
sedere e
cominciò a parlare, piano, con voce monocorde, quasi
distante.
E
in pochi minuti aprì una voragine di dolore sotto i miei
piedi.
Mi
disse tutte quelle verità che a lungo mi aveva taciuto,
quelle che
avevo sempre sentito sospese tra di noi ma che per convenienza non mi
ero mai preoccupata di affrontare.
Partì dai veri scopi di quella
missione: sconfiggere il re con il mio aiuto, sì, ma anche
prendere
il suo trono dopo e costringere i Varden alla resa poi. Aveva dei
conti in sospeso con Ajihad e aveva intenzione di uccidere sia lui
che Nasuada, ma non entrò nei dettagli.
Finito quello passò
all'argomento che sul momento mi sconvolse di più: mi aveva
mentito
a Taurida e mi aveva mentito quando Alba lo aveva contattato. L'uovo
di cui ero custode era arrivato a Brom e lui ne aveva trovato il
cavaliere. Le visioni che avevo avuto non erano uno scherzo della mia
mente malata, erano la verità. Brom e il cavaliere erano in
viaggio
verso Dras-Leona, sulle tracce dei Ra'zac che più di un mese prima
avevano attaccato la casa del ragazzo e ucciso suo zio.
Le parole
di Durza si spensero nel silenzio.
Mi resi improvvisamente conto
di essere tesa come una corda d'arco e di avere la mascella
così
contratta da far sfregare i denti tra di loro.
«Mi hai mentito»,
sentenziai con freddezza, «e io ti ho creduto come una
sciocca. Non
credo che farò mai più questo errore».
Mi alzai. Volevo
andarmene da lì, mi sembrava che i muri severi della chiesa
potessero crollarmi addosso da un momento all'altro.
«Ora ti ho
detto la verità», soffiò lui. E io mi
chiesi dove fosse finita la
voce suadente e melliflua di Durza lo Spettro, non ne trovavo traccia
in quella tremante che avevo appena udito.
«Magari avresti dovuto
dirmela prima che mi alleassi con te, non credi? Io non ti
permetterei mai di asservire il cavaliere, uccidere Ajihad o prendere
le redini di questo regno. E, fidati, se mi avessi premesso queste
cose quando mi hai chiesto di partire con te, non avrei mai accettato
e sarei morta, folle e denutrita nella mia cella».
Cercò i miei
occhi, ma io li spostai di lato. Stavo trattenendo tantissime
emozioni dentro di me -rabbia, delusione, umiliazione, sofferenza- e
tuttavia sapevo che lui le avrebbe lette tutte, dalla prima
all'ultima. Per l'ennesima volta ero nuda e indifesa davanti a lui e
ebbi di nuovo la tentazione di scappare.
«Devi credermi quando ti
dico che mi dispiace».
«Non
posso credere a nulla di ciò che mi dici, potrebbero essere
altre
fesserie, per quello che mi riguarda».
Picchiettò sulla panca
accanto a sé. «Siediti, ti prego».
Sedetti su quella di fronte
a lui e sfuggii nuovamente ai suoi occhi.
«Puoi guardarmi»,
aggiunse, «essere bugiardi non è
contagioso».
Non lo feci.
«Dimmi quello che hai da dirmi. Domattina io me ne
vado».
«Non
puoi».
«Eccome se posso. Hai intenzione di trattenermi con la
forza, Spettro? Sinceramente non credo di meritarlo».
Vidi con la
coda nell'occhio che allargava le braccia. «Non ti
costringerò a
fare nulla che tu non voglia, Principessa, ma se ti lasciassi andare ora
cercheresti di fermarmi e io non posso permettermelo. Ti garantisco
che non ti farò del male, ma non sarai libera fino a
che non
sarà tutto finito».
Trattenni l'istinto di strapparmi i capelli
per l'esasperazione. «Allora riportami a Gil'ead.
È lì il mio
posto. Se non sono tua alleata torno ad essere la tua
prigioniera».
«Puoi ancora essere mia alleata».
«Peccato
che io non voglia. A meno che tu non cambi i tuoi piani».
«Non
posso rinunciare alla mia vendetta se è quello che stai
pensando, e
nemmeno al potere».
«Hai mai pensato che io ho rinunciato alla
mia nei tuoi confronti per unirmi a te in questa missione?»
Ammutolì.
No, non ci aveva pensato affatto.
«Tu sei migliore di me» disse
infine.
«E dunque hai pensato bene di approfittarne»
sibilai aspramente.
«Sono cambiate delle cose, Elfa. Tu mi
piaci».
«Sì, l'ho notato», osservai sarcastica.
«Non
fraintendermi. Sei bellissima, ma non è solo.. Puoi
guardarmi almeno
adesso?» Lo ignorai. «Arya, maledetto mulo
cocciuto! Guardami!» Mi
afferrò per il mento e mi costrinse nei suoi occhi. Li
fissai,
indignata per la metafora.
«Tu mi piaci», ribadì con
sincerità
disarmante, «e so che è reciproco. Ieri
notte..»
«Non eri tu
l'uomo che ho baciato ieri notte».
Mi lasciò il viso e si
strinse il suo. «Non troveremo mai un compromesso,
vero?»
«Durza
io non andrò contro tutto ciò che ho sostenuto in
tutta la mia vita
solo perché ti..» mi fermai. «Potrei
perdonarti le bugie»,
aggiunsi titubante, «perché
non
sono così stupida da negarmi la felicità per dei
risentimenti. Ma
non diventerò un'altra persona per te».
Mi alzai. Ed era una
scelta definitiva.
Lo Spettro fece lo stesso. «Io continuerò a
cercare là sotto», accennò all'altare,
«ma non ti costringerò ad
aiutarmi. Tuttavia non cercare di ostacolarmi o di andartene,
perché
nemmeno io cambierò per te».
Alzai il mento. «Bene.
Buonanotte».
«Aspetta, i tuoi incubi..»
«Non mi importa.
Per una notte le mie compagne si adegueranno».
«Arya posso
ancora fare questa cosa per te» mi informò, e
c'era una tale
passione nel suo sguardo che per un attimo mi sembrò che
nulla fosse
cambiato.
«No, preferisco starti lontana per un po'».
Restammo
in silenzio a fronteggiarci per qualche istante, poi mi decisi ad
andarmene, con il cuore straziato e la gola che bruciava a causa
delle lacrime a stento trattenute, che da un pezzo mi bruciavano
bollenti negli occhi.
Scivolai tremando nel mio pagliericcio e mi
ripiegai su me stessa. Nonostante nella vita avessi sempre cercato di
tenere una certa distanza dai miei sentimenti e dominarli con la
ragione, in quel momento mi sentivo a pezzi, dilaniata.
Non mi
avevano forse avvisata di non fidarmi delle promesse di uno Spettro?
Avevo voluto vedere l'uomo nascosto dietro il mostro e avevo finito
per dimenticarmi che il mostro c'era, e non se ne sarebbe mai
andato.
Forse provava dei sentimenti per me, ed era bello, ma non
valeva nulla se né io né lui eravamo in grado di
rinunciare a
qualcosa per venirci incontro. Andargli incontro significava
rinnegare tutti gli insegnamenti con cui ero cresciuta e in cui
credevo profondamente e non lo avrei fatto, mai e poi mai.
Perché i
miei principi erano giusti e non li avrei calpestati per niente e
nessuno.
Fu con estremo stupore che mi svegliai con il suono
della campana mattutina nelle orecchie.
Persino il mio incubo
notturno mi aveva abbandonata.
__________________________________________________________________________________________
Capitolo lunghisssssssimo! T_T
Vi supplico di perdonarmi ma ad interromperlo prima mi sembrava di spezzare troppo la vicenda e non me la sono sentita, ma mi rendo conto che forse per i canoni di una fanfiction ho un po' esagerato, scusate!
Quando ho finito il capitolo ho passato una notte di sofferenza a pensare alla situazione in cui ho lasciato la mia povera Arya ç_ç
Non ho molto da dirvi, lo Spettro ha mostrato le sue vere intenzioni e l'Elfa non è disposta a fare passi indietro e nemmeno lui. Provano qualcosa l'uno per l'altra, ma non è abbastanza per due persone così orgogliose e decise!
Quindi per ora.. ciao xD
Grazie mille a tutti e ci vediamo domenica prossima!
Bacioni,
Lalli |
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Capitolo 25 *** Fughe ***
Ciao
25.
Fughe
La
colazione sapeva di fango, quel mattino.
Elin fu la prima a
guardarmi in faccia e a dirmi che ero pallidissima. Riuscii a
convincerla che stavo bene e lei mi lasciò stare,
incaricandomi di
prendermi dieci minuti per pregare Dio di preservarmi dalla
malattia.
Ovviamente, solo Dio poteva salvarmi.
All'ora della
funzione sedetti rigida accanto a Durza, ma non gli dissi nulla, mi
limitai ad un cenno del capo che stava per un
“buongiorno”. Le
buone maniere non le avevo ancora dimenticate, ma il dolore e
l'umiliazione della notte si erano tramutati in furia gelida e
l'affetto in rancore.
Per quel motivo accolsi con fastidio il suo
profumo di menta, che masticava anche in quel momento, e le occhiate
che mi rivolgeva praticamente ogni minuto. Per un attimo fui sul
punto di voltarmi e di dirgli di smetterla, ma in tutta
sincerità
avevo paura di cosa avrei trovato nei suoi occhi inquieti.
Mi
ritrovai comunque a farlo al termine della funzione, quando il Sommo
Sacerdote si fece portare davanti a tutti i fedeli e prese la
parola.
«L'altra notte è stata trovata una criminale
all'interno
della cattedrale e dopo un processo davanti a Dio, Egli ha stabilito
che la donna che risponde al nome di Augyra dovrà essere
giustiziata
tra due giorni, durante la processione ai picchi sacri».
Nel
lungo silenzio che seguì io incrociai gli occhi sgranati di
Durza e
rimasi in attesa delle seguenti parole del Sacerdote, che
però si
guardò intorno ancora a lungo prima di concludere.
«Augyra»,
scandì bene il nome, «verrà lasciata
nelle mani di Dio».
Poi
dichiarò terminato il rito e i fedeli cominciarono a
disperdersi,
bisbigliando eccitati.
«Aspettava che qualcuno si facesse
avanti.. un familiare o un complice, per chiedere la salvezza della
donna» fece lo Spettro, più tra sé e
sé che a me in particolare,
riferendosi al lungo e quasi inopportuno silenzio del monco.
Durante
il giorno ebbi più volte la fortissima tentazione di
scappare.
Forse
avrei perso i miei poteri per sempre -perché Durza non mi
aveva
ancora sciolta dall'anello di ametiste, né lo avrebbe mai
fatto- ma
almeno avrei potuto dire concluso quell'incubo che durava ormai da..
quanto? Quattro mesi? Forse di più.
Potevo correre a sud, varcare
i confini del Surda e avviarmi con più calma al covo dei
Varden. Lo
Spettro non mi avrebbe seguita fino in capo al mondo. O forse
sì.
Non poteva permettersi che qualcuno sventasse i suoi piani.
E a
proposito dei suoi piani: in fondo sapevo che sarei stata costretta a
restare, anche solo per tenerlo d'occhio. Il cavaliere sarebbe venuto
a Dras-Leona, alle calcagna dei Ra'zac, e lo Spettro avrebbe cercato
di asservirlo, per poi attaccare il sovrano, cercare di sottrargli il
potere e infine uccidere Ajihad per una faida antica che aveva con la
sua famiglia.
Non approvavo nemmeno una di quelle azioni -se non
la sconfitta del re- ed ero l'unica persona al mondo che avrebbe
potuto fermarlo o anche solo distrarlo o ostacolarlo e ancora una
volta ero vincolata dalle mie responsabilità.
Potevo fingere di
assecondarlo, aiutarlo a trovare un modo per configgere Galbatorix e
una volta reso innocuo il re nero impedirgli di prendere il trono. O
lasciarglielo prendere e sconfiggerlo poi. Durza avrebbe recuperato
tutto il potere che aveva il sovrano? Lo Spettro mi aveva lasciato
intuire che esso derivasse dal suo drago. Su quello si concentravano
le nostre ricerche notturne: draghi e magia, ma probabilmente non
bastava uccidere Shruikan o lo avrebbe fatto già da un pezzo.
Durza
rappresentava in quel momento la mia unica speranza, sebbene flebile,
di deporre Galbatorix. Al momento giusto avrei potuto sfruttare
l'influenza che ormai sapevo di avere su di lui, avvicinarmi e
trapassargli il cuore con il suo stesso pugnale.
L'idea mi faceva
soffrire immensamente e sarebbe stata molto difficile da attuare,
anche perché una parte di me mi avrebbe probabilmente
ordinato di
stringerlo invece che di ucciderlo, e io avrei dovuto ignorarla,
aggrappandomi alla mia rabbia.
Alla fine avrei fatto ciò che
dovevo, a qualsiasi prezzo, come sempre.
Continuai a pensare con
tutta la freddezza e la razionalità di cui ero capace,
mentre
svolgevo il mio compito nelle vasche di acqua gelida della
lavanderia. E a fine giornata avevo preso la mia decisione
Alla
funzione della sera il Sommo Sacerdote ripeté l'annuncio e
di nuovo
aspettò qualcuno che si facesse avanti. Non lo fece nessuno
e dopo
aver riassettato gli ambienti ce ne andammo a dormire.
Giacqui
sveglia fino a che non sentii la campana di mezzanotte e il fruscio
dei passi della guardia sparire nel suo dormitorio.
Poi sentii un
altro fruscio, così lieve da essere quasi impercettibile, ma
che
conoscevo a memoria: i passi di Durza. Non era più
necessario che
andasse in chiesa a mezzanotte perché io non gli avevo
certamente
promesso che sarei andata con lui, ma probabilmente pensava che io
avessi ancora i miei incubi e che quindi avessi bisogno di lui.
Be',
non era così, o almeno forse
non era così. La notte precedente ero stata risparmiata ma
quella
che veniva era un'incognita. Per quello non ero riuscita a prendere
sonno fino a quel momento, avevo paura.
Attesi ancora una buona
mezzora, prima di trascinarmi fuori dal pagliericcio, indossare il
mantello e incamminarmi silenziosamente verso la sagrestia.
Trovai
Durza steso su una delle panche di pietra in fondo alla cattedrale,
le mani incrociate dietro la nuca e gli occhi chiusi. Mi stesi sulla
panca davanti a lui e mi strinsi nel mantello.
«Credevo che non
saresti venuta» disse dopo qualche minuto.
«Vengo con te» lo
informai.
«Sottoterra?»
«Sì».
Parve riflettere «Non
metterti contro di me, Principessa».
«Spero solo di farti
cambiare idea».
«Temo non succederà».
«Allora avrò
sprecato un altro paio di mesi di vita, tanto ormai..»
Sospirò.
«Come desideri».
«E poi potremmo ritrovare Augyra là
sotto»
abbozzai. «Voglio sapere cosa le hanno fatto».
«La tua memoria
non manca mai di stupirmi» osservò.
Non risposi. Mi avvolsi
stretta nel mantello e mi costrinsi ad appisolarmi, certa che
nonostante tutto mi avrebbe svegliata.
Recuperai la percezione
della realtà quando lo Spettro si alzò dalla
panca.
«Tra poco
ci sarà il cambio della guardia» disse
torreggiando su di me, gli
occhi sgranati per la sorpresa.
Lo anticipai in una nicchia,
diversa dalla solita, dove mi sedetti a terra.
Il mio compagno mi
stava guardando fisso, mettendomi quasi in imbarazzo.
«Non so
perché» ammisi controvoglia, riferendomi
all'improvvisa assenza di
incubi notturni.
Fece una smorfia. «Sei guarita».
«Sembri
quasi dispiaciuto».
E forse in parte lo era, perché aveva perso
un qualche potere su di me: non mi era più necessario, ero
libera.
Lo Spettro chinò il capo, pensieroso, ma non mi
contraddisse.
Scendemmo con maggiore cautela quella notte, perché
nessuno dei due andava nelle stanze sotterranee da quando la donna
era stata catturata e non sapevamo se ci fossero delle nuove
disposizioni e nel caso quali.
Ma in effetti non trovammo nulla di
insolito. La lanterna con la grossa candela rossa era al suo posto in
fondo alle scale e le sale oltre al corridoio erano deserte, mentre
sicuramente i soliti venti uomini facevano la guardia oltre l'ultima
porta.
Riprendere la ricerca fu in qualche modo benefico per il
mio spirito turbato. Tornavo finalmente a fare qualcosa di utile per
il mondo e Durza era solo l'uomo a cui dovevo chiedere consulenza,
non quello per cui provavo sentimenti scomodi o quello che avrei
dovuto ingannare sfruttando quegli stessi sentimenti.
Circa tre
ore e tre coppie di candele dopo, era ormai ora di riemergere nel
chiostro, onde evitare scontri con i Sacerdoti e i loro riti del
mattino. Tuttavia.. occhieggiai alla massiccia porta che doveva
esserci in fondo alle sette stanze, dietro la quale c'erano le
guardie e forse anche la donna dagli occhi di lupo.
Durza seguì
il mio sguardo e un'espressione di sfida gli deformò il
volto.
«Andiamo a dare un'occhiata?»
La curiosità mi fece formicolare
le gambe. «Perché no?»
Lo Spettro inumidì indice e pollice e
spense la sua candela. «Meglio evitare di fare troppa
luce»
affermò, facendomi segno di seguirlo con la mia e
spostandosi nella
terza stanza.
Non ci eravamo mai avventurati oltre e mentre ci
muovevamo mi guardai intorno, trovando all'incirca gli stessi oggetti
che tappezzavano le prime due sale. Qualche parete era coperta di
ricchi arazzi e urne preziose ma puramente decorative giacevano su
mensole e scaffali o appese a dei ganci.
Quando la massiccia porta
di legno e ferro fu in vista rallentammo contemporaneamente i respiri
e alleggerimmo ulteriormente i passi. Posai un orecchio sul portone
ma non udii niente di diverso dai respiri e i battiti dei cuori di
venti persone circa. Quella porta era parecchio spessa e se Augyra si
trovava in una stanza ancora oltre non l'avremmo mai sentita.
Scossi
la testa in direzione di Durza, anche lui attaccato alla soglia, e
poi retrocedetti verso le scale.
«Nemmeno le porte della città
sono così spesse» borbottò lo Spettro.
«Potrebbero nascondere un
drago là sotto e noi non ce ne accorgeremmo nemmeno. Potrei
sempre
fare un incantesimo ma..»
«Meglio di no» tagliai corto. «Vuoi
darmi il pugnale o preferisci riportarlo al dormitorio?»
«Oh»
fece lui, precipitandosi a sganciare la fodera di Sole e porgendomelo
con gli occhi bassi.
Mi arrampicai sulla statua di Hofud e nascosi
entrambe le lame nel solito incavo. Come se nulla fosse cambiato.
Ci
affrettammo ai nostri dormitori, dove ci separammo con un poco di
imbarazzo, in silenzio.
Era passata un'ora esatta quando la
campana della Sagrestia trillò. Helsa, di fronte a me, si
alzò con
un sobbalzo, guadagnandosi un'occhiata gentile da parte di Tove e una
infastidita da parte di Elin. Gefion sbadigliò sonoramente e
Delling
evitò di guardarmi in volto, come faceva sempre da quando le
avevo
imposto il silenzio, praticamente ricattandola.
Gagnsamr era teso
quella mattina, come anche la precedente. La presenza di una spia tra
i Sacerdoti era stato un brutto colpo per tutti e avevo il sospetto
che il monaco avrebbe sorvegliato me e Durza più da vicino
da quel
momento in poi, del resto eravamo novizi ed eravamo
estranei.
Dovevamo sbrigarci a trovare quella maledetta soluzione
o non sarebbe finita bene. Qualunque cosa fosse successa avevo ancora
la mia boccetta di veleno tra i seni, e quel giorno avevo con me
anche la chiave della stanza alla locanda. Volevo poter recuperare la
mia spada e andarmene in qualsiasi momento.
Anche senza lo
Spettro.
«Natt tu ritorna dal taglialegna»,
borbottò Gagnsamr,
«e vedi di essere più convincente di ieri! Mi
avevi detto che
avrebbe mandato la legna entro sera e invece non si è visto
niente».
«C'è solo la figlia in bottega, mi è
difficile
minacciare una ragazza indifesa per la negligenza del padre»
fu la
sua replica.
Mi morsi le labbra per non ridere amaramente. In
realtà non gli sarebbe importato un accidente.
«Bitr, Helsa e
Mikell riassetterete gli ambienti sacerdotali»
proseguì Gagnsamr,
ignorando l'osservazione di Durza.
Fantastico. Mikell mi avrebbe
uccisa con il suo orgoglio e le sue deliranti lodi a Dio e Helsa
rischiava un crollo mentale da un momento all'altro.
Durza tornò
con una nuova promessa di legna in arrivo e in effetti il carretto
del taglialegna si fermò all'ingresso della chiesa qualche
ora prima
di cena e tutti i monaci furono impegnati a scaricarlo. L'uomo era un
vecchio ubriacone, con barba e capelli ingrigiti e occhi giallastri e
iniettati di sangue. Non c'era da stupirsi se il carico ci avesse
messo tanto ad essere recapitato.
Arrivai viva e vegeta all'ora
della funzione serale. Come aveva già fatto a quella del
mattino, il
Sommo Sacerdote ripeté l'annuncio del sacrificio della donna
a Dio,
ma fu nuovamente accolto da un silenzio attonito e a tratti eccitato.
Dalla reazione della folla sembrava si stesse allestendo uno
spettacolo divertente.
Per la prima volta da quando eravamo
entrati nei ranghi dei monaci come novizi, il monco tenne un breve
discorso dopo la funzione, con le istruzioni per la sera seguente,
quando il rito sarebbe seguito alla processione all'Helgrind per
offrire la vittima.
«Voi seguirete semplicemente il corteo dei
Sacerdoti affiancando la folla e incitandola a seguire i canti. Come
al solito non intromettetevi e pregate quando vi è chiesto
di
farlo». Parlava con un tono così sprezzante che
sembrava sputare le
parole insieme alla saliva.
Avrei voluto spiegargli che senza i
monaci la casta dei Sacerdoti avrebbe dovuto sporcarsi le mani a
preparasi da mangiare o a fare il bucato. Ah, se avevano le mani
ovviamente. Nel suo caso sarebbe probabilmente morto di disagi nel
giro di una settimana.
Gagnsamr trattenne me e Durza
ulteriormente.
«Voi non siete ancora monaci, quindi mischiatevi
ai fedeli come fate in chiesa. Tuttavia non scordate di mettere le
tonache, siete pur sempre parte dell'ordine». La sua voce,
invece,
era stanca.
Mi era sempre risultato facile stabilire l'età degli
esseri umani visti i profondissimi e insoliti segni che essa lasciava
sui loro corpi. Ed era chiaro che Gagnsamr cominciava ad essere
vecchio.
«Verrai?» mi chiese lo Spettro sottovoce, dopo che
il
monaco si fu allontanato.
Non capii bene se si riferisse alla
processione o all'esplorazione notturna, ma risposi con un:
«Verrò»,
che valeva per entrambe.
E invece quella notte ci furono altri
intoppi.
Non doveva mancare più di mezzora alla mezzanotte,
quando il respiro di Helsa -che era stato pesante per tutta la sera-
si trasformò in vero e proprio affanno.
Tove, che aveva il sonno
più leggero, si svegliò e andò a
scuotere anche Elin e Gefion. A
quel punto finsi di svegliarmi e le affiancai al capezzale di
Helsa.
Occhi lucidi e fronte velata di sudore. Probabilmente era
una semplice febbre invernale, ma Elin e Gefion insistettero per
portarla in infermeria.
Fui mandata insieme a Tove a bussare al
dormitorio maschile, dove ci aprì un assonnato Elof.
Helsa fu
portata di sopra e Elin decise di rimanere a dormire nel giaciglio
accanto al suo e vegliarla nel caso le sue condizioni fossero
precipitate.
Notai l'espressione delusa di Delling quando la
campana suonò la mezzanotte, trovandoci ancora sveglie e
impedendole
di sgattaiolare nella dispensa come suo solito.
E in effetti
dovetti aspettare un'ora prima di sentirmi abbastanza tranquilla da
uscire. Non trovai Durza in chiesa e mi domandai se per caso stesse
cercando di farmi un dispetto, mancando al nostro incontro notturno.
Oppure aveva semplicemente pensato che, dato che i miei incubi erano
spariti, non aveva senso trascinarsi fuori dal dormitorio a
mezzanotte.
Ci fu il cambio della guardia, ma ancora nessuna
traccia dello Spettro, forse temeva che la situazione di quella sera
avesse mosso troppo le acque e che fosse più prudente
rinunciare.
Un
po' per orgoglio, un po' per impazienza decisi di scendere senza di
lui, lasciando la chiave della locanda dietro alla nostra nicchia
come segnale del mio passaggio. Sia nel caso fosse arrivato in
ritardo sia nel caso venissi catturata.
Ma non successe nulla del
genere. Frugai pigramente tra le pergamene -registrando mentalmente
quali avrei dovuto far presenti al mio compagno la notte seguente-
per più di un'ora. Poi sentii l'eco lontanissimo di un
grido.
Strisciai verso la porta in fondo alla settima stanza e mi
misi in ascolto. L'urlo era molto più nitido e apparteneva
ad
Augyra, non c'erano dubbi. Probabilmente qualcuno aveva aperto la
famigerata stanza dove la donna era tenuta prigioniera e in quel
momento la stava in qualche modo torturando.
Rimasi lì incollata
per lunghi minuti, tremando al ricordo di ciò che avevo
subito sotto
le mani di Durza e compatendola con un trasporto non
indifferente.
Poi tornai alla mia ricerca, ma ormai ero distratta
ed inquieta, quindi vi rinunciai presto e tornai al dormitorio per
riposarmi un paio d'ore.
Lo Spettro si era addormentato. Me lo
bisbigliò a colazione il mattino seguente, sbilanciandosi in
un paio
di scuse, che mi ripeté con costernazione durante la
funzione.
Gli
dissi che ero andata lo stesso ma non gli parlai degli urli della
donna. Li sentimmo entrambi, con estrema chiarezza, quella sera
stessa.
La processione partì da davanti alla cattedrale all'ora
della funzione della sera. I fedeli e i monaci si radunarono
all'esterno e Augyra fu presumibilmente recuperata dai sotterranei,
incatenata e condotta all'esterno, esausta, emaciata e rassegnata.
Aveva un livido violaceo sullo zigomo sinistro e le maniche della
veste da novizia, che ancora indossava, lerce di sangue
rappreso.
Solo alla vista delle sue mani incatenate capii il
perché: non era stata torturata, aveva semplicemente cercato
di
liberarsi dalle manette, strattonandole fino strapparsi la carne
all'osso.
Sfilò tra la folla in direzione della punta della
colonna, dove avrebbe camminato fino all'Helgrind accompagnata dai
Sacerdoti. Passò davanti ai primi fedeli, arrivò
all'altezza mia e
di Durza..
..e mi guardò dritto negli occhi.
Si bloccò,
costringendo i suoi accompagnatori a strattonarla e farla gridare per
il dolore del ferro premuto sulla carne viva.
«Aiutami» soffiò
pianissimo, girando la testa verso di me. «Ti prego uccidimi.
Uccidimi».
Voltai il capo e mi finsi intenta a guardare
tutt'altro, mentre sentivo il cuore stringersi mio malgrado.
«Non
ti ha riconosciuta, le sei solo sembrata affidabile. Nei recessi
della sua memoria qualcosa le ha detto che tu avresti potuto
salvarla» fece la voce fredda dello Spettro.
«C'è modo di
avvicinarsi nuovamente a lei?» chiesi guardando la schiena
china di
Augyra allontanarsi e pensando alla boccetta di Fricai Andlat che
avevo con me.
«Non lo so e non te lo lascerò fare, Principessa.
La tua vita vale molto più della sua».
La donna continuava a
cantilenare la sua supplica di aiuto e continuai a udirla nelle mia
testa anche dopo che si fu allontanata di troppo da me per poterla
realmente sentire.
La processione partì. La seguii affiancata da
Durza, pensando e ripensando ad un modo per avvicinarmi ad Augyra
senza risultare sospetta, farle bere il veleno, e poi rientrare nei
ranghi.
Non c'era. Anzi, probabilmente non era nemmeno passato
inosservato il fatto che avesse chiesto aiuto a me, pochi minuti
prima. Se Delling avesse visto la scena probabilmente i suoi sospetti
della mia complicità con la donna sarebbero riemersi e
allora
nemmeno la minaccia di rivelare a tutti del suo amante l'avrebbe
fermata. Fortunatamente era più avanti e non poteva averlo
notato.
A
poca distanza da noi c'era invece Helsa, ancora febbricitante e con
gli occhi vacui.
«Un giorno la troverete impiccata nel vostro
dormitorio» mi sussurrò Durza, seguendo la
direzione del mio
sguardo.
«Perché dici così?»
«Me lo ha detto
Stian».
«Siete proprio diventati amiconi» ironizzai.
Fece un
sorriso traballante. «Non volevo farti ingelosire, Elfa, ma
quell'uomo ama raccontare i fatti altrui».
Mi irrigidii. «E non
temi che possa andare a raccontare anche i nostri?»
Fece un gesto
noncurante. «Parla solo con chi lo ascolta, e tra i monaci lo
ascolto io e forse Trygg, ma lui è molto discreto, non
c'è da
preoccuparsi».
Assentii.
«Perché
dovremmo trovarla impiccata?» mi informai.
«Stian mi ha detto
che ci ha già provato una volta ad ammazzarsi. A quanto pare
i
monaci fanno offerte di sangue all'altare se devono chiedere qualcosa
a Dio. Lei ci è andata, ma si è tagliata tutte e
due le braccia dai
polsi ai gomiti e secondo l'opinione di Stian non era per fare un
favore al loro stramaledetto Dio. L'hanno recuperata appena in tempo,
quasi dissanguata».
«Ti ha anche raccontato della sua
storia?»
«Sì. I suoi genitori erano dei poveracci, il loro
primogenito era gravemente malato e quando è nata la seconda
figlia
hanno deciso di consacrarla a Dio, così che mosso a
pietà guarisse
il figlio maggiore. Avrebbero voluto che diventasse Sacerdotessa, ma
non sa né leggere né scrivere quindi hanno dovuto
spedirla tra i
monaci. A quanto pare aveva dodici primavere quando è
arrivata qui e
non voleva assolutamente lasciare la sua famiglia, ma l'hanno
abbandonata e sono fuggiti, quindi non aveva molta scelta. Sono
passati diciassette anni da allora. La madre è tornata
quattro anni
fa, per dire alla figlia che sia suo padre che suo fratello erano
morti, per poi morire a sua volta sotto i suoi occhi. Credo che la
cosa l'abbia un po' traumatizzata».
«Direi. È questo che
intendeva Tove per “duro passato”».
«Forse poteva anche
andarle peggio» replicò funereo.
Non risposi, perché non volevo
sbilanciarmi in discorsi personali, non era decisamente il
caso.
Mano a mano che ci avvicinavamo alle
porte della città la
folla sembrava aumentare alle nostre spalle, tanto che quando
oltrepassammo le mura eravamo ormai parte di un lungo serpente. Forse
erano meno persone di quante partecipassero di solito al rito, del
resto si trattava di camminare per un'ora e non tutti ne avevano le
forze. Notai principalmente persone ben vestite: coloro che non si
sarebbero dovuti svegliare all'alba del giorno dopo per iniziare a
lavorare.
Ci fu un momento di eccitazione generale mentre
passavamo accanto ad un mucchio di stracci appeso ad un albero, un
criminale impiccato, ma per il resto uomini e donne se ne stavano
raccolti in silenzio, concentrati sui canti.
Le giornate si
stavano allungando lentamente, eppure quando arrivammo sotto il monte
Helgrind la luce era così lieve che alcuni degli esseri
umani
intorno a noi iniziarono ad inciampare nei loro piedi. Furono accese
le torce che molti avevano portato.
L'Helgrind era una figura nera
contro il cielo già scuro e di nuovo provai una sensazione
di
disagio e oppressione. Anche se i Ra'zac non erano lì la
loro cupa
presenza aleggiava su tutti noi e gli uomini la temevano.
Ci
fermammo in prossimità di un ennesimo altare di pietra. I
Sacerdoti
proseguirono, trascinando con loro la donna e agganciando le catene
ad un perno impiantato nella roccia.
Una serie di sacchi e scatole
furono ammucchiati intorno ad esso ed intuii si trattasse di
ulteriori offerte.
Quattro torce furono inserite in quattro
apposite scanalature agli angoli dell'altare, schiarendo la scena.
Solo allora i miei occhi registrarono con chiarezza i resti di una
pira, non distante dall'altare. Le ossa bianche giacevano sparse tra
le braci, ma era chiaro che il rogo risaliva a qualche giorno
prima.
«Gamall?» gemetti.
Durza allungò un braccio nella mia
direzione, ma decise saggiamente di interrompere l'azione e lo
ritrasse precipitosamente.
«Temo di sì. I Ra'zac non vengono al
loro covo da diverse settimane, quindi non hanno potuto consumare il
loro pasto. E non si può lasciare un cadavere incatenato ad
un
altare sacro suppongo. Il rogo è una soluzione rapida e
pulita».
Deglutii. Quindi quel poveraccio era morto di stenti, in
attesa di un destino ben peggiore, che per sua fortuna non era
arrivato. Era comunque un modo orrendo per andarsene e se pensavo che
Augyra avrebbe quasi sicuramente subito lo stesso sentivo la nausea
sfiorarmi la bocca dello stomaco.
Incrociai le braccia al petto e
mi preparai ad assisterei impassibile ad un'ennesima funzione.
I
Sacerdoti sembravano quasi inebriati dall'inquietante vicinanza
dell'Helgrind e conclusero il rito incidendo la pelle del Sommo
Sacerdote e raccogliendo il sangue in due piccole coppe, che poi si
passarono tra di loro per berne, davanti a tutti.
La folla rimase
in assoluto silenzio per tutto il tempo, stringendosi nei mantelli
per il freddo e scrutando la scena come si trattasse di un magnifico
regalo, finito per sbaglio tra le loro mani. I monaci fecero
più o
meno lo stesso, ma intravidi Mikell con il capo chino, che pregava
sottovoce, con fervore.
Infine una donna nelle vesti neri di
sacerdotessa si avvicinò all'altare, prese uno dei coltelli
ricurvi
che i Sacerdoti avevano usato per ferire il monco e lo calò
con
violenza all'altezza del gomito, strappandosi il braccio.
Lanciò
un grido terrificante e un brivido scosse i presenti, mentre la donna
veniva circondata e fasciata dai suoi compagni.
L'arto fu lasciato
sulla pietra, quasi con noncuranza.
«Arya..» fece Durza
incerto.
Mi volsi nella sua direzione. Tremava e cercava in tutti
i modi di non guardare i Sacerdoti. Intuii che ci fossero i suoi
spiriti di mezzo e mi precipitai davanti a lui per distrarlo da
qualunque cosa stesse pensando, stringendo le sue mani nel buio e
accarezzandone il dorso.
In realtà ero io quella che aveva
bisogno di essere rassicurata. Temevo immensamente gli spiriti,
specialmente dopo ciò che mi aveva raccontato Durza su di
essi e sul
potere che avevano avuto su di lui e che di tanto in tanto
rischiavano di riprendere. Se avesse perso il dominio su di
essi..
Lui mi guardò respirando profondamente e per fortuna si
riprese in fretta. Poi sgranò improvvisamente gli occhi,
fissi in un
punto oltre alla mia spalla.
«È svenuta», ansimò,
lasciandomi
e passandomi accanto.
Impiegai qualche istante per capire che
stava parlando di Helsa, talmente mi ero lasciata assorbire da
immagini di sangue e morte e spiriti assetati di violenza.
Sospirai
di sollievo, lo raggiunsi e strinsi il polso della monaca. Il battito
era un poco debole, ma era normale dopo uno svenimento.
«Sarà
meglio che la porti via» dissi, facendo per sollevarla.
Mi fermò
con un gesto. «Ci penso io, tu sei una donna e sei troppo
debole».
Giusto. Gli feci spazio e Durza sollevò Helsa tra le
braccia sostenendole la testa, un po' impacciato.
Piantai la
torcia sfuggita dalle mani della monaca per terra e guardai davanti a
me in cerca di consulenza, giusto in tempo per vedere la veste di
Augyra strappata sullo sterno e uno dei pugnali sfiorarle la carne
non troppo in profondità, ma a sufficienza da lasciarle una
brutta
cicatrice. Il Sacerdote che reggeva la lama incise tre triangoli,
probabilmente una schematizzazione dei tre picchi dell'Helgrind e poi
fece colare un po' del sangue della donna sull'altare. Lei
urlò, ma
non aveva più lacrime, sedeva rannicchiata, dondolandosi e
muovendo
le labbra in una preghiera frenetica.
Ti
prego uccidimi. Uccidimi.
Sfiorai
il veleno, nascosto nell'incavo tra i seni. Avrei voluto aiutarla con
tutto il cuore, ma non potevo, non senza attirare attenzioni che non
valeva la pena di attirare.
«No» mi ammonì lo Spettro con voce
severa, ovviamente consapevole di ciò che nascondevo sotto
la fascia
e il vestito.
Lasciai cadere la mano che avevo portato al petto,
per mostrargli che avevo rinunciato.
«Vado a chiamare Gagnsamr»
annunciai. «Tu prova a schiaffeggiarla, delicatamente».
«Non
sono totalmente idiota, Elfa».
La cerimonia era ormai conclusa e
io e Gagnsamr dovemmo farci strada a braccia tra la calca per
raggiungere Durza, che spiccava per la sua altezza e i suoi capelli
rossi in mezzo a tutte quelle persone.
Helsa aveva ripreso i
sensi, ma era sorretta dallo Spettro ed ero certa che se l'avesse
abbandonata anche solo per un attimo si sarebbe afflosciata nella
polvere.
Si decise che Helsa avrebbe camminato, ma alla fine Durza
finì per sollevarla nuovamente da terra, anche se Gagnsamr
osservò
che poteva apparire sconveniente di fronte a tutti i fedeli della
città. Ma dato che l'alternativa era fare arrancare la
poveretta,
accettò di buon grado la soluzione.
Fu proprio lungo il viaggio
di ritorno a Dras-Leona che il vecchio monaco cominciò a
parlarmi, a
voce bassa, lasciando passare lo Spettro davanti a sé.
«Le tue
compagne sanno qualcosa delle tue condizioni?» mi chiese.
Incinta,
ero incinta. Tendevo a dimenticarlo.
Spostai la torcia di Helsa da
una mano all'altra, per prendermi un istante. «Non ho detto
nulla né
del bambino né del mio precedente matrimonio con
Natt» risposi con
il suo stesso tono di voce.
«Hai più valutato l'idea di
sbarazzartene?»
«Ma tu avevi detto..»
«Sì, ti ho detto che
saresti riuscita a mascherare la gravidanza, e per ora ci sei
riuscita. Se ti scoprono però io non potrò fare
altro che cacciarti
e allora forse ti pentirai di avere tenuto il bambino».
«Temo di
doverci pensare ancora un po'. Non voglio essere cacciata, ma non
è
una decisione così facile da prendere»
improvvisai, aggiungendo un
po' di sano sentimentalismo alla mia voce.
«Sì, lo capisco. Ti
ho detto questo perché pensavo che ormai il noviziato tuo e
di Natt
potrà iniziare ufficialmente. Tra due lezioni esatte
avrò finito di
illustrarvi le storie degli Irraggiungibili e allora vi rimarranno da
imparare i canti necessari per le funzioni e poi potrò
organizzare
la vostra notte di preghiera».
«Una notte di preghiera nella
cattedrale?»
E come facevano le ombre a passare inosservate ai
monaci novizi? Avevo creduto che l'ingresso dei sotterranei fosse
segreto.
«E dove sennò?» fece il monaco,
impaziente. «A
mezzanotte vi verranno rasati i capelli e poi sarete lasciati da soli
in meditazione fino alla seconda ora della notte. A quel punto sarete
condotti all'altare, dove verserete una goccia del vostro sangue e
resterete in preghiera fino alla campana del mattino. Allora vi
saranno consegnate le catene e sarete ufficialmente parte dell'ordine
monacale».
Ovviamente facevano in modo che i due gruppi non si
incrociassero.
Provai ad immaginare la mia testa rasata e non vi
riuscii. Quando poi tentai di immaginare Durza.. sarebbe stato un
vero peccato tagliare i suoi capelli rossi.
Gagnsamr prese il mio
silenzio come un segno di comprensione e si allontanò lungo
la
colonna, recuperando il suo ruolo di monaco e riprendendo i canti.
Lo
Spettro mi guardò con occhi socchiusi, le ciglia corte e
sottili che
si sfioravano, e mi fece cenno di avvicinarmi a lui.
La testa di
Helsa oscillava sulla sua spalla destra, così camminai in
prossimità
della sua sinistra.
«Hai sentito?» chiesi.
«Ogni parola. Nei
prossimi giorni vai da Gagnsamr e digli che hai bisogno di
più tempo
per decidere della sorte del bambino. Da quello che ti ha detto
sembra intenzionato a farci monaci nel giro di dieci giorni, cerca di
farli diventare almeno quindici».
«E tu nel frattempo non ti
farai monaco per non attirare sospetti sulla mia reticenza,
giusto?»
«Esatto. È meglio che non ci invischiamo fino a
questo
punto nella vita della cattedrale, finora ci hanno lasciato
più
libertà d'azione anche per il fatto che non siamo nemmeno
veri e
propri novizi, ma ora.. Ho realizzato che è meglio per me
non farmi
notare troppo dal monco. Mi ha visto una volta sola, ed avevo altre
sembianze, ma potrebbe avere sentito delle descrizioni e farsi venire
il sospetto. Il tradimento di Aug.. come cavolo si chiama, ha messo
tutti sulle spine».
«Augyra» lo corressi distrattamente,
pensando alla piccola figura che avevamo lasciato accasciata
sull'altare.
Forse sarebbe morta di freddo quella notte stessa e
se un domani i Ra'zac fossero tornati avrebbero trovato solo il suo
corpo, freddo e rigido.
Tra un intoppo e un altro, ci trovavamo
ormai in fondo alla fila. C'erano un pugno di persone dietro di noi,
tutte così anziane da non riuscire a camminare abbastanza
veloci da
superarci.
Tuttavia, quando arrivammo all'albero dell'impiccato,
una ragazza scivolò alle nostre spalle, rallentata da un
laccio
sciolto dei suoi stivali. Non avrei badato a quella scena se Durza
non mi avesse dato una gomitata e fatto segno di guardare la
giovane.
Aveva il viso tondeggiante e spaventato di una ragazzina
e le labbra le tremavano violentemente.
«Quella è la figliastra
del taglialegna» sibilò il mio compagno.
Sollevai leggermente le
sopracciglia. Allora?
«L'altro
giorno ho provato a sondarle la mente e ho trovato un muro. Quando
ieri sono tornato a imporle di farci portare la legna mi guardava
come un coniglio in trappola. Non so come, ma deve avere percepito
che sono diverso e si è spaventata».
Gettai nuovamente
un'occhiata alle mie spalle. Gli anziani dietro di noi non seguivano
affatto i canti e chiacchieravano liberamente tra loro, a toni quasi
troppo alti per un contesto religioso.
Capii con un pizzico di
divertimento che avevano perso buona parte delle loro
capacità
uditive.
Poi vidi la ragazza -lo stivale ormai decisamente
allacciato- rimanere ferma mentre i bagliori delle ultime torce
abbandonavano il suo viso, lasciandola tra le braccia
dell'oscurità.
«È rimasta indietro. Di proposito».
«Va ad
aiutare la tizia, non è vero?»
Rievocai lo sguardo della
giovane: impaurito e determinato insieme. «Credo di
sì».
«Natt
mi viene da vomitare» intervenne Helsa.
Era più tardi del
solito quando ci coricammo, quella notte. Helsa, dopo aver rigettato
sulla strada, si era appisolata sulla spalla di Durza, che l'aveva
depositata direttamente nel suo giaciglio. Era ancora febbricitante
ma l'infermeria era riservata alla sacerdotessa che aveva offerto il
suo braccio, quella notte, quindi restò nel dormitorio.
Nessuna
di noi le chiese cosa la tormentasse, oltre alla malattia ovviamente,
e accettammo di buon grado i suoi piagnistei notturni. Solo Elin fu
sul punto di perdere le pazienza, ma Tove e Gefion riuscirono a
mitigarla e la convinsero a lasciare Helsa nel suo letto e non
trascinarla a pregare Dio nel chiostro.
Più tardi sgattaiolai in
chiesa con lo Spettro, dove proseguimmo in silenzio la nostra
ricerca.
Ci soffermammo qualche istante più del solito in
sagrestia, dove accendemmo una candela per contemplare le lame dei
Sacerdoti. Erano lunghe quanto il mio avambraccio e leggermente
ricurve, con delle scanalature geometriche su tutta la lunghezza
della lama, che confluivano in un piccolo incavo all'altezza della
guardia. Sembravano nate apposta per raccogliere il sangue ed erano
state arrotate di fresco, per questo la sacerdotessa era riuscita a
tagliare la carne senza dover fare troppa pressione.
Nemmeno
quella notte Durza dovette scuotermi dai miei incubi, tuttavia
tornammo ad accucciarci nella nicchia di Hofud, ognuno sulla propria
tonaca e sotto il proprio mantello, ma a distanza decisamente
maggiore. Non era comodo e nemmeno particolarmente caldo, ma nessuno
dei due ebbe il coraggio di proporre di rinunciare a quell'inutile
appuntamento di mezzanotte e vederci direttamente alla seconda ora
del mattino.
Il mattino seguente un gruppetto di Sacerdoti si
recò alle pendici dell'Helgrind per verificare se Dio avesse
gradito
l'offerta o meno e tornarono soddisfatti, annunciando che tutti i
doni erano spariti.
Pensai ad Augyra e alla ragazza. Se davvero la
giovane era tornata indietro per liberarla probabilmente c'era
riuscita, ma il fatto che tutti i doni fossero spariti, incluse le
sacche e scatole, suggeriva una seconda soluzione: il ritorno dei
Ra'zac. Del resto le due donne non potevano essere fuggite portando
tutto con loro, sarebbe stato solo d'impaccio.
La vera domanda
era: la ragazza aveva liberato Augyra in tempo?
Non lo avrei
saputo mai, e in ogni caso non doveva importarmi, come non doveva
importarmi della condizione di fragilità di Helsa, alla
quale
cominciavo ad affezionarmi.
Durza venne in cucina nel pomeriggio e
mi fece cenno di seguirlo nel chiostro. Mi scusai con i miei compagni
e andai con lui in prossimità della fontana spenta.
«Sono loro»
mi disse lo Spettro. «Quando il ragazzo e il drago
arriveranno a
Dras-Leona dovremo intercettarli prima che lo facciano i
Ra'zac».
«Io
non sono più la tua alleata» gli ricordai
freddamente.
«Preferisci
vederlo nelle mie mani o in quelle del re?»
Mi tormentai le
unghie. «Dove sono lui e Brom?» mi risolsi a
chiedere, ricordando
in quali dolorose circostanze ero venuta a conoscenza di quelle
informazioni.
«Erano a Teirm tre, forse quattro giorni
fa».
«Allora non viaggiano a dorso di drago», constatai,
«o
sarebbero arrivati tre giorni fa».
«Temo sia troppo giovane per
essere montato da più di una persona per volta». E
dal tono intuii
che aveva più conoscenze sui draghi di quanto avessi
immaginato.
«Quando si è schiuso l'uovo?»
Lo Spettro scosse
la testa. «Non lo so, ma credo non molto tempo dopo il nostro
primo
incontro. Forse un paio di settimane dopo, non di
più».
«In
ogni caso sarebbe troppo giovane» confermai.
«Ci vuole una
settimana abbondante a cavallo, se si va di fretta» aggiunse
poi.
«Potremmo trovarli alle porte della città tra una
manciata di
giorni».
«Nel caso dovessimo combattere contro i Ra'zac tu
puoi.. Agire?» mi riferivo ai suoi giuramenti prestati a
Galbatorix
e alle limitazioni che riscontravano nella sua vita.
«Posso anche
ucciderli» fu la dura risposta.
«Bene. Perché non sono sicura
che passeranno dalle porte della città. Brom è un
uomo molto
prudente, ma il cavaliere non lo conosco e potrebbe essere folle al
punto di gettarsi direttamente sull'Helgrind non appena
arrivato».
«Tieni gli occhi puntati sul cielo, Principessa.
Credo sia inutile spiegarti di che colore è il
drago».
Blu
zaffiro. Un colore così intenso da fare quasi male agli
occhi,
specialmente se esposto alla luce del sole o di un falò.
Nella
penombra aveva sfumature più cupe, ammalianti, che
ricordavano i
fairth che avevo visto sul mare.
Conoscevo a menadito l'uovo, ma
non la creatura che ne era fuoriuscita. E al nostro primo incontro
avrei dovuto trovare un modo di spiegare ad essa e al suo cavaliere
che non stavo effettivamente parteggiando per uno Spettro, che era
tutto un piano per deporre il re, che progettavo di ingannarlo e
ucciderlo una volta che non mi fosse stato più utile.
Probabilmente
avrei censurato la parte in cui io e quello stesso Spettro ci
baciavamo come due assetati bevono ad un otre d'acqua, sul pavimento
della cattedrale di Dras-Leona.
«Credevo che avessi smesso»
aggiunse Durza all'improvviso.
Pensai che il suo commento fosse in
qualche modo legato ai miei pensieri e reagii con brusco:
«Cosa?»
«Di
strapparti le unghie». Annuì in direzione delle
mie mani. «Non ti
ho mai detto quanto mi dia fastidio il suono delle unghie spezzate.
Non somiglia sinistramente al rumore di un osso che si rompe?
È
odioso».
Mi guardai le dita e la mia mente tornò ad una
conversazione avuta con lo Spettro, subito dopo la partenza di Lord
Barst da Gil'ead. Aveva fatto un'osservazione sul mio vizio di
strapparmi le unghie quando ero nervosa e io gli avevo intimato di
non pretendere di conoscermi.
Avrei voluto replicare quella frase,
ma ormai aveva perso di spessore. Durza mi conosceva sin troppo, gli
avevo permesso di conoscermi troppo a fondo, per essere mio
nemico.
Comunque lo accontentai e lasciai cadere le mani lungo i
fianchi. «Torno ai miei doveri».
«Prima devo dirti un'altra
cosa».
«Un altro segreto taciuto?» domandai con
asprezza.
Strinse le labbra. «A dire il vero me ne ero
stupidamente dimenticato, ma non doveva essere un segreto. Quando
sono andato ad Uru'baen il re mi ha detto che potevo continuare a
torturarti, ma che se non fossi riuscito a strapparti nulla entro i
seguenti tre mesi avrei dovuto portarti a lui. E con tre mesi intende
che entro due e mezzo ti vuole alla capitale, è spesso
impaziente
quando sono altri ad occuparsi delle sue questioni».
Mi
irrigidii. «Quanto tempo è passato?»
«Un mese e due settimane,
più o meno. Non mi ero preoccupato di questa scadenza
perché
credevo che sarebbe stato tutto molto più rapido, ma ormai
comincia
ad essere una minaccia quasi imminente».
Cercai i suoi occhi e
battei le ciglia con voluta lentezza. «Se ti dicesse di
portarmi da
lui lo faresti?»
«Se me lo comanderà con il mio vero nome non
avrò scelta, lo sai. In caso contrario.. tu vuoi ancora
sconfiggerlo
se non erro». Annuii. «E allora potresti servirmi
da diversivo,
Principessa, nel caso avessi la soluzione su cui agire».
«E nel
caso non l'avessi?»
«Non ti manderò al macello. Ti lascerò
andare».
«Davvero?» feci dubbiosa.
Si alterò. «Puoi
continuare a non prendermi sul serio se vuoi, ma questo non
cambierà
le cose. Voglio che tu viva, che sia con me o contro di me mi
importerà poco nel caso non trovassi una scappatoia,
perché la mia
sarebbe una schiavitù eterna e non condannerei nemmeno il
peggiore
dei miei nemici a viverla con me, figuriamoci..»
La
donna che amo.
Non
lo disse, ma la mia mente si bevve le parole taciute come
miele.
All'improvviso mi sentii in colpa.
«Ci vediamo più
tardi» fece, laconico. E se ne andò nel cortile
senza più alzare
gli occhi su di me.
Delling mi fulminò con lo sguardo quando
tornai in cucina.
Mi ero cacciata in una situazione così
terribilmente contorta che era ormai impossibile uscirne fisicamente
e mentalmente indenne. Potevo strappare gli uncini dalla carne, ma
essi ne avrebbero portato una buona porzione via con loro.
Un'ora
prima della cena dei Sacerdoti ci fu un'ennesima sorpresa. Due uomini
incappucciati di nero apparvero in chiesa, chiedendo al povero Broder
-che stava lucidando l'altare- di allontanarsi per lasciarli pregare
in pace. Venne in cucina da noi, tutto agitato.
«Quei due erano
inquietanti, gobbi e per di più non ho nemmeno visto i loro
volti,
avevano i cappucci calati fino al mento».
Feci due più due ed
intuii di chi si trattasse.
Dovevo avvisare Durza? Era in cortile,
quindi in ogni caso lo avrei incrociato se si fosse spostato.
Probabilmente i Ra'zac lo avrebbero riconosciuto se lo avessero visto
e non era il caso che la mia unica speranza di eliminare Galbatorix
venisse smascherata.
Il buon Broder rimase in cucina fino a che
non fu ora di servire il pasto dei Sacerdoti, solo allora si
avventurò oltre alla porta della Sagrestia, continuando a
ripeterci
che sarebbe tornato presto.
Era il tipo di rassicurazione che
rivolgi agli altri nella speranza che ti vengano a cercare nel caso
ci mettessi troppo, tipico di chi ha paura di non tornare affatto.
Ed
era ridicolo considerando che in fondo la chiesa dell'Helgrind altro
non era che una facciata per nascondere gli adoratori dei Ra'zac. Ma
forse quella era un'informazione riservata ai Sacerdoti.
I Ra'zac
dovevano avere davvero un brutto impatto sugli uomini, probabilmente
era l'istinto della preda che aveva allarmato Broder, lo stesso che
avevo provato io con Durza quando mi ero risvegliata dopo il suo
attacco nel bosco.
Non avevo mai incontrato un Ra'zac in vita mia
e ciò che sapevo su di loro derivava da letture sulle
creature che
avevano popolato Alagaësia. Sapevo che erano ghiotti di carne
umana,
ma probabilmente nemmeno quella degli elfi faceva loro ribrezzo,
anche se eravamo prede decisamente più difficili.
Ai tempi delle
prime migrazioni, il mio popolo aveva cercato di avvisare gli uomini
delle creature di cui le terre del sud brulicavano, ma essi non
avevano capito la minaccia a cui andavano incontro, anzi avevano
addirittura fondato una città e dato ad essa il nome Dauth,
morte.
Ma cos'erano venuti a fare i Ra'zac? A parlare con i Sacerdoti?
Per dire loro cosa esattamente? Che il pasto della sera prima se
l'era data a gambe? Speravo davvero di sì.
Lo dissi allo Spettro,
quella sera. E lui parve agitarsi, tanto che lo sentii deglutire
rumorosamente un paio di volte durante la nostra ricerca
notturna.
Dovetti trattenermi dal cercare di rassicurarlo, ma
cominciavo a comprendere il suo terrore. Se fosse stato scoperto, il
re lo avrebbe ucciso, e avrebbe fatto in modo che morisse male. Molto
male.
Stava rischiando molto a schierarsi -anche se segretamente-
contro di lui, tanto più che il suo vero nome era nelle mani
del suo
nemico.
Avrebbe potuto costringerlo ad uccidersi da solo.
Cedetti.
E sfiorai la spalla di Durza nella penombra.
Gli occhi che si
incastrarono nei miei erano così ricolmi di gratitudine e
tenerezza
che per un attimo mi parve di venirne fisicamente
accarezzata.
Ispirai appena più forte e mi staccai.
Non dovevo
lasciarmi abbindolare da lui, mi aveva raggirata e io stessa stavo
progettando di restituirgli il favore ed eliminarlo in quanto mio
antagonista, non potevo permettermi sentimentalismi.
Eppure ormai
mi sembrava che il posto dello Spettro dovesse essere tra le mie
braccia, con le mie labbra sulle sue e le mie dita tra i suoi
cappelli.
Il libro che stava sfogliando quasi gli cadde dalle
mani, ricordandomi in un istante che poteva percepire nitidamente i
miei sentimenti, incluso il mio desiderio.
Tornai a concentrarmi
nella ricerca, anima e corpo.
All'alba del giorno dopo lottai
con Gefion e Tove contro Elin, affinché lasciasse Helsa a
letto e
non la costringesse a prendere parte alla funzione. Sembrava essersi
ormai ripresa, ma proprio all'alba aveva avuto una ricaduta,
accusando un feroce mal di capo.
Delling guardò disinteressata le
due parti, ma si astenne dall'esprimere commenti. Nemmeno la notte
precedente era sgattaiolata all'incontro con la sua guardia. Che
avessero litigato? O forse temevano di dare nell'occhio, visti gli
ultimi fatti?
Alla fine Helsa ottenne di essere lasciata a riposo
e noialtre ci affrettammo in chiesa.
Quando tornammo nel nostro
dormitorio non c'era più traccia di lei. Solo una pila di
casse
delle provviste accanto al muro del cortile ci illuminò
sulla sua
sorte.
L'infelice Helsa era fuggita dalla sua gabbia, finalmente.
__________________________________________________________________________________
Allora.. im primis: se nei prossimi giorni vedete i capitoli calare, cambiare titoli o layout, non avete le traveggole, sto semplicemente facendo una rilettura nei tempi morti e sistemando qualche errorino di battitura qua e là, oltre a raggruppare i primi capitoli tra di loro (perché diciamocelo, ero così pigra che li scrivevo lunghi un decimo di quelli che faccio adesso e se continuo su questa strada arriverò alla fine con 150 capitoli e non mi pare il caso. Quindi potreste trovare il primo capitolo che include anche l'attuale due, il due che include l'attuale tre e quattro, ecc..)
Poi.. la scorsa volta mi sono scordata di avvisarvi che i capitoli con contenuti sessuali non verranno preannunciati, quindi metto le mani avanti: se vedete che sto descrivendo qualcosa che preferireste non leggere, saltate il pezzo a pie' pari! ;)
Da parte mia mi impegno ovviamente a rispettare i limiti del rating arancione che ho assegnato alla mia storia, quindi non sarò troppo prodiga di dettagli e cercherò di non scadere nella volgarità. Nel caso ci fosse qualcosa che non vi garba siete pregati di segnalarmelo nelle recensioni e/o per messaggio privato ^_^
In questo capitolo mi sono concentrata su Occhi di lupo e sulla ragazza che sparisce nella notte per andare a liberarla. Perché lo fa? Immagino che ve lo spiegherò più avanti :D
Sappiamo tutti che, però, rivedremo entrambe in "Brisingr" con i nomi di Occhi di lupo e Cantalama!
Helsa non corrisponde a nessun personaggio in particolare all'interno del Ciclo dell'eredità, l'ho creata per mostrare che anche la religione ha delle falle e che non tutti gli aderenti sono convinti, quindi la sua funzione dovrebbe terminare qui!
Okay ho finito! (:
Alla prossima, baci a tutti,
Lalli
|
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Capitolo 26 *** Una sventura tira l'altra ***
Ciao
26.
Una sventura tira l'altra
Gagnsamr
ci ordinò di cercare Helsa daccapo e noi tutti ubbidimmo in
silenzio, tutti perfettamente consapevoli del fatto che non l'avremmo
trovata, non dentro le mura della cattedrale, almeno.
Indugiai
qualche istante in più sulle casse malamente ammucchiate
accanto al
muro di mattoni che separava i vicoli di Dras-Leona dal cortile,
chiedendomi quante altre volte la donna avesse pianificato una fuga
alla quale aveva poi sempre rinunciato.
Aveva trovato il coraggio,
alla fine.
Tuttavia quella situazione non sarebbe stata
particolarmente comoda per me e Durza. Una traditrice e una fuggitiva
nella stessa settimana non passavano esattamente inosservate, anzi,
facevano dubitare di tutto e tutti.
Dopo mezzora ci ritrovammo
tutti e quattordici nel cortile, dove il povero Gagnsamr si torceva
le mani con tale preoccupazione che faceva pena, come se la monaca
fuggita fosse stata sua figlia.
Per lui non era concepibile che
qualcuno abbandonasse Dio. Lui viveva della sua servitù agli
Avvoltoi, lo faceva sentire pieno e realizzato e non trovava scopi
più alti nella vita. La fuga di Helsa e il tradimento di
Augyra
erano stati un gran brutto colpo per lui, avevano dimostrato che
persino Dio ha dei limiti e che persino la sua religione poteva
essere calpestata.
Gagnsamr ci assegnò infine ai nostri compiti
giornalieri e spedì Broder alle porte della
città, per avvisare le
guardie di fermare una donna con la testa rasata e la veste grigia da
monaca se l'avessero vista varcare i cancelli.
Non sapevo quanto
buon senso avesse Helsa, ma se ne aveva anche solo un briciolo si
sarebbe nascosta in qualche angolo della città, si sarebbe
mascherata rubacchiando qualcosa al mercato e sarebbe uscita qualche
giorno dopo, magari mischiandosi alla folla dei cavatori.
Gagnsamr
ci aveva più volte ribadito che chiunque può
abbandonare il suo
status di monaco se lo desidera, ma probabilmente riteneva che la
donna avesse preso una decisione in preda ai deliri della febbre o
dei fantasmi del suo passato e che quindi la sua non fosse una scelta
ponderata, affidabile o definitiva. Insomma non gli aveva comunicato
nulla, non gli aveva chiesto un rito per scioglierla dai suoi
doveri.. Si era comportata in modo imprevisto e al vecchio non
piaceva quando le situazioni sfuggivano dalle sue mani pazienti.
Lo
Spettro condivideva parte della mia preoccupazione per il nostro
futuro e la espresse chiaramente nell'espressione corrucciata che mi
rivolse prima di dirigersi in cucina a lavorare alla pulizia delle
stoviglie della colazione.
Delling lo notò e fece guizzare gli
occhi da me a lui con fastidio. Forse avrei dovuto parlare nuovamente
con lei, prima o poi, per accertarmi che la mia minaccia fosse stata
ben recepita.
Dovevo fare anche un discorso con Gagnsamr sulla
eventuale posticipazione della nomina mia e di Durza a novizi, ma il
momento non mi sembrava propizio così decisi di rinunciarvi
e andai
a riassettare le camere dei Sacerdoti.
Dopo il pasto di
mezzogiorno il Sommo Sacerdote decise di tenere una sorta di discorso
nel chiostro. Avevo notato Gagnsamr bisbigliare al suo orecchio
durante il pasto e avevo carpito qualche tralcio di conversazione,
che avevo individuato come una lunga spiegazione della fuga di Helsa,
imbottita di giustificazioni per la donna e di rassicurazioni per il
suo imminente ritorno.
Il monco capì probabilmente che il morale
della sua chiesa doveva essere ormai sotto i talloni dopo quella
terribile settimana e ci convocò insieme agli Avvoltoi
-senza
nemmeno lasciarci mangiare, prima- intorno alla fontana spenta del
chiostro, dove fece una predica su Dio e sulla sua grandezza e di
come i fatti terreni cercassero in continuazione di distrarci dai
nostri più alti doveri.
Durza, il capo chino e il cappuccio
stranamente abbassato sui capelli rossi, era immobile dietro a Elof,
il più alto dei monaci, dopo di lui.
Capii la sua mossa solo
quando realizzai che il Sommo Sacerdote ci stava scrutando tutti, uno
ad uno, per imprimere il più profondamente possibile le sue
parole
in noi. Mi affrettai ad assumere un'aria credulona, sperando con
tutto il cuore che non avesse un'improvvisa rivelazione alla vista
del viso dello Spettro. Fino a quel momento non aveva mai perso il
suo tempo a chiedersi perché alcuni di noi avessero ancora i
capelli, anzi a dire il vero non aveva mai perso il suo tempo a
guardarci e basta, ma in quel momento lo stava facendo.
Il mio
carceriere mi aveva detto di aver avuto un precedente affare con i
Sacerdoti dell'Helgrind, ma di averlo concluso sotto altre sembianze,
quindi doveva essere irriconoscibile agli occhi del monco, che
però
avrebbe potuto riesumare delle descrizioni e dei ricordi di un
qualche aspetto di Durza, che magari non si era premurato di
alterare.
La fortuna parve essere nuovamente dalla nostra parte
perché il discorsetto si concluse con una preghiera a Dio,
di
mantenerci fedeli e uniti nel sostegno della sua chiesa, poi gli
Avvoltoi sparirono oltre la sagrestia e noi potemmo tornare al nostro
pranzo ormai freddo.
Io lasciai intoccato il mio brodo di pollo,
nonostante Elin mi facesse delle pressioni, memore del mio mancamento
avvenuto non più di una settimana prima. Quello che non
sapeva era
che non avevo affatto avuto un mancamento, solo una semplice visione
della verità che lo Spettro mi aveva taciuto e che era
misteriosamente apparsa ai miei occhi.
Non era il cibo il mio
problema, passavo a rubare qualcosa dalla dispensa ogni tanto, per
mantenermi in forze quando i pasti a base di carne diventavano
troppi. Del resto Durza rubava la menta dall'orto..
Elin non poté
durare a lungo con i suoi rimproveri perché doveva recarsi
in
infermeria, a prendersi cura della sacerdotessa che si era amputata
il braccio due notti prima, quando la processione aveva accompagnato
Augyra a morire. A quanto pareva la ferita non si era chiusa molto
bene e la donna ne soffriva.
Helsa non tornò e Gagnsamr ci
mandò
a dormire ancora più inquieto di quanto fosse quella mattina.
«Spero
di vedervi tutte domattina» mormorò scherzosamente
Tove, cercando
inutilmente di scacciare la pesantezza data dalla vista del giaciglio
vuoto di Helsa.
Aveva persino portato con sé le coperte e i
vestiti.
Delling si svegliò con le campane di mezzanotte e io
pensai automaticamente che sarebbe uscita con la guardia, ma si
trattenne nel suo giaciglio, fingendo di dormire.
Voleva per caso
fermarmi o spiarmi?
Ero indecisa. Così finii per scattare fuori
dal mio pagliericcio solo quando sentii la porta del dormitorio
accanto aprirsi.
Delling non mi fermò e non mi disse nulla, ma
temevo il suo comportamento, così non appena vidi Durza gli
posai un
indice sulle labbra e lo tirai con me in cucina.
«Delling è
sveglia», lo informai, «e non so cosa voglia fare
ma ho avuto la
sensazione che aspettasse solo che io uscissi».
«Cosa?!»
gemette.
«Io.. credo che sia meglio che torni al dormitorio. Se
dopo si addormenta ti raggiungo in chiesa».
Annuì. «D'accordo.
Vai!»
E effettivamente mi scontrai con la ragazza nello stesso
istante in cui lei usciva nel chiostro.
La spaventai e per poco
non gridò. «Hai.. già di
ritorno?» balbettò.
«Wachter è già
passato temo» la punzecchiai.
Si fece rossa in volto, lo vidi
nonostante l'oscurità. «Mi sono accorta che stai
via tutta la
notte», disse, «e torni solo poco prima della
sveglia».
«Ti ho
già spiegato il perché, non credo che tu possa
permetterti di
giudicarmi o di biasimarmi».
«Sì ma io non ti credo. Perché
sono venuta a vedere se vi trovavo, le scorse notti, e non c'eravate
da nessuna parte. Non andrete in chiesa spero» concluse con
disgusto.
Sentii i passi di Durza alle mie spalle, mentre si
spegnevano sulla soglia della cucina, nell'ombra.
«Non ti
riguarda».
«Sei una traditrice anche tu, non è
vero?» E i suoi
occhi luccicarono di lacrime.
Inspirai con calma. Avevo due scelte
davanti a me: colpire Delling sulla nuca, portarla fuori dalla
cattedrale e annegarla nelle fogne, oppure potevo continuare a
tentare di lavorarmela e a fare un po' di scena.
Rievocai un paio
di ricordi dolorosi -non mi mancavano- e lasciai che le lacrime mi
inumidissero le ciglia a mia volta.
Poi scoppiai in bassi
singhiozzi e mi accasciai a terra.
La ragazza sobbalzò, ma poi si
chinò alla mia altezza e mi scrutò incuriosita e
indecisa con i
suoi occhietti grigi.
Balbettando come si conveniva ad una donna
sommersa dal dolore, raccontai dell'amore infinito che provavo per
Natt, che era stato mio marito prima del mio ingresso tra i monaci e
che era stato esiliato da Teirm a causa di un furto finito
male.
«Eravamo poveri, stavamo morendo di fame e io ero incinta..
Lui non aveva scelta» bisbigliai affranta. «Ma poi
ci hanno
scoperti e ci hanno cacciati dalla città, risparmiandoci la
vita
solo perché ne portavo una dentro di me. Ho perso quel
bambino a
causa delle percosse e io e Natt abbiamo deciso di ritirarci dal
mondo, perché saremmo stati prede facili per chiunque.
Questa era
l'unica soluzione, capisci? Questo era l'unico rifugio che potessimo
trovare e quindi.. Ma io lo amo e non riesco a stargli
lontana».
Feci una pausa. «Hai ragione, siamo in chiesa tutte le notti,
per
tutte le ore che riusciamo a passare insieme senza che qualcuno ci
scopra. Ma la donna che hanno sacrificato non ha nulla a che fare con
noi. Lei l'hanno catturata mentre cercava di scappare dal cortile,
mentre io e Natt eravamo semplicemente insieme quando abbiamo sentito
gridare. Per questo quella notte ci hai visti nel chiostro..
Io..»
Ero stata convincente sin troppo. Lacrime bollenti mi
bagnavano il viso, scivolando fino al collo e il mio corpo era scosso
da lievi spasmi, mentre la mia voce tremava e vibrava di dolore e di
passione.
Delling fece la cosa più inaspettata e incredibile che
potesse fare. Mi abbracciò stretta, cullandomi tra le sue
braccia
fino a che non mi fui “calmata”.
«Scusami», singhiozzò lei,
«sono una stupida, non avevo capito niente. Vedi anche io amo
Wachter, e lui ama me. Siamo nella vostra stessa situazione, per cui
tranquilla, tu mantieni il mio segreto e io manterrò il
tuo». Mi
mise in piedi. «Vai da Natt, io torno a dormire»
concluse
dolcemente.
Ero incredula. Se l'era bevuta sul serio. Davvero gli
umani si lasciavano corrompere tanto facilmente di fronte al dolore
altrui? Era una reazione molto sciocca quella di Delling, non aveva
capito che forse si era trattato di una farsa per ingannarla?
Durza
apparve alle mie spalle. «Elfa, mi hai spezzato il
cuore» bisbigliò
con sarcasmo.
Mi asciugai le lacrime dalle guance e ripresi a
respirare a ritmo regolare per placare i sussulti e i singhiozzi, ma
non fu così immediato.
Eravamo seduti nel nostro cantuccio da
qualche minuto -i pugnali già accanto a noi- quando potei
definirmi
completamente ristabilita.
Lo Spettro mi scrutava incuriosito.
«Stavo per applaudire. Dove hai imparato a mentire con tanta
convinzione? Non sembravi nemmeno tu».
«Non te lo
aspettavi?»
«No, mi hai stupito. E messo in guardia»
aggiunse.
«Da cosa?»
«Da te, Principessa. Persino i tuoi
sentimenti sembravano sinceri in certi momenti, avresti anche potuto
ingannare uno come me».
«Grazie per il consiglio» risposi
asciutta.
Non gli dissi del dolore che avevo rivangato per poter
sembrare più credibile in tutta la breve recita. Molto di
quel
dolore era causato da lui, dalle sue torture, dalle sue
parole..
Sospirò. «La finirai mai?»
«Di fare cosa,
Spettro?» domandai irritata. «Smetti di parlarmi
per enigmi
stanotte».
«Di cambiare idea su di me ogni secondo»
borbottò
abbassando gli occhi e raccogliendo il suo pugnale da terra.
«Smetti
di leggere i miei sentimenti e ti libererai da questo
tormento»
suggerii freddamente.
Si sfiorò le labbra con la lama del
pugnale. «Sarebbe come chiederti di girare per strada e non
vedere.
Non è una cosa che posso controllare, al massimo posso non
farci
caso, ma è molto difficile quando si è in due in
una stessa
stanza».
«Trova il modo di conviverci, per favore».
«Conviverci»
ripeté, continuando a picchiettare l'arma sulla bocca.
«Fosse
facile, Elfa. Tu a tratti grondi odio, amarezza e risentimento e a
tratti affetto, preoccupazione e desiderio».
Tremai sotto il
mantello «Smettila» soffiai. «Tu sei
pazzo».
«Dici?» ribatté
socchiudendo gli occhi. «Sì, forse hai ragione tu
Elfa. Sono
completamente fuori di testa. Ed è colpa tua, è
tutta colpa
tua».
«Non..»
«Tu», ringhiò, interrompendomi,
«devi
avermi stregato. Solo non capisco a quale antico e sconosciuto
incantesimo elfico tu abbia fatto ricorso per ammaliarmi fino a
questo punto e quale magia abbia potuto aggirare quello».
Accennò bruscamente all'anello di ametiste che da mesi
imprigionava
in maniera totale il mio potere.
Mi sporsi verso di lui spingendo
il mento in fuori. «Sai perfettamente che non sono in grado,
quindi
smetti di incolparmi per cose di cui non posso essere
responsabile».
Posò il pugnale a terra e assottigliò le labbra,
avvicinandosi a sua volta a me. «Allora spiegami»,
disse con voce
tremula per l’ira a stento trattenuta,
«perché sono così..
ossessionato da te».
Il tono era imperioso, ma i suoi occhi
parevano quasi spaventati.
Il cuore mi schizzò contro le costole,
battendo così forte da riempire il vuoto che si era creato
nel mio
stomaco.
«Non lo so» gracchiai. «Ma smettila, ti
prego».
Durza
inspirò ed espirò lentamente, un paio di volte.
«Elfa..» disse
con un tono di voce duro e insieme sensuale.
Scossi la testa.
«Io
credo che dormirò un poco» concluse sistemandosi
per la notte.
Mi
ritrassi, sprofondando il volto nel bavero del mantello. Non era
necessario rispondergli, avrebbe potuto leggermi in qualsiasi
momento, come un libro aperto.
Sapeva che odiavo molte parti di
lui, sapeva che avevo voluto le sue labbra da quando vi aveva posato
sopra il pugnale, sapeva che ero infatuata di lui e sapeva che le sue
confessioni mi avevano scombussolata e confusa.
Come sapeva che
non avevo fatto alcun incantesimo su di lui, che non avevo mai avuto
l'intenzione di incantarlo -semmai era il contrario- e che non avrei
mai accettato il sentimento che era nato dentro di me se prima non
fossero cambiate le carte in gioco.
Finii per addormentarmi
seduta, con la schiena contro il muro.
Erano passate più di due
settimane da quando eravamo arrivati alla cattedrale con le nostre
bisacce e in quel lasso di tempo avevamo a malapena frugato le prime
due stanze e una buona metà della terza. Il nostro tempo
stava per
scadere, lo sapevamo entrambi, e la nostra ricerca si faceva sempre
più frettolosa e superficiale, tanto che spesso leggevamo le
prime
pergamene di uno scaffale e non trovandovi niente di utile, lo
etichettavamo come irrilevante e non finivamo nemmeno di analizzarle
tutte.
Quella notte arrivammo fino alla quarta stanza e ci
trattenemmo fino a che non fu veramente troppo tardi e fummo
costretti a rientrare nei dormitori di corsa, appena prima del suono
della campana del mattino.
Nei seguenti due giorni la
situazione cominciò davvero a precipitare.
Helsa non era tornata
e le guardie alle porte esterne della città non erano venute
per
portarcela quindi supponevo che si fosse nascosta da qualche parte al
sicuro o avesse trovato il modo di uscire mascherata, magari
fasciandosi la testa rasata.
Delling si era bevuta le mie parole
con facilità, ma da quel momento in poi prese a guardare me
e Durza
con un'espressione così carica di pietà da
risultare sospetta. E
poi ricominciò a vedere Wachter la notte, anche se mi
premurai di
non incrociarla mai.
Il primo vero problema fu Gagnsamr che,
ancora sconvolto per la fuga e il tradimento, venne a chiedermi se
avessi preso una decisione riguardo al mio bambino. Aveva intenzione
di farci presto novizi e poi monaci, vista l'improvvisa penuria di
adepti.
Lo implorai di concedermi altro tempo prima di farmi
prendere una decisione sul bambino.
«Bitr comincio a credere che
tu non voglia veramente diventare monaca» insinuò
dispiaciuto.
Mi
affrettai a difendermi, ma il vecchio sembrava avere veramente
esaurito la sua riserva di pazienza.
«Ti concedo sette giorni,
anche a Natt ovviamente. Poi dovrete decidere se restare o andarvene.
Sappiate che questa vostra situazione di stallo non è
piacevole per
me e mi sono anche dovuto giustificare di fronte al Sommo Sacerdote
per la presenza di due elementi ancora estranei alla chiesa tra i
monaci. È vero, vi ho chiesto io di anticipare il vostro
ingresso
qui perché avevo disperato bisogno di aiuto, ma non voglio
perdere
il mio tempo a rincorrere due giovani capricciosi come voi. Se
sentite di dovere servire Dio è il momento di
dimostrarlo».
Quando
lo riferii a Durza lui imprecò tra i denti e quella notte
scendemmo
nei sotterranei ancora prima che avvenisse il cambio della guardia,
nascondendoci sotto gli scrittoi mentre quello era in corso.
Nel
giro di due notti terminammo di analizzare la quarta stanza e ci
spostammo nella quinta, dove per la prima volta la fortuna
sembrò
sorriderci: le pergamene sembravano concentrarsi sulle creature di
Alagaësia, e questo ci permise una rapida scrematura, anche se
Durza
dovette passare molto più tempo a leggere quelle riguardanti
i
draghi.
Arrivammo al punto in cui io frugavo negli scaffali e lui
sedeva ad uno scrittoio a leggere ciò che gli portavo,
restituendomelo ogni volta con un'espressione di cocente delusione in
viso.
Seguendo quel metodo, annullammo totalmente le poche ore di
sonno che ci eravamo concessi fino a quel momento e, dopo soli due
giorni a quel ritmo serrato, Elin mi rimproverò prontamente
per il
mio aspetto orribile. Il vero problema era che lo Spettro ne aveva
uno simile, e sarebbe bastato veramente poco per guardarci entrambi e
trarne le dovute conseguenze.
Mi ritrovai a maledire le notti che
avevamo trascorso nell'ozio fino a quel momento, che avremmo potuto
sfruttare molto di più nella ricerca.
La fretta mi rese anche più
incauta e all'alba del terzo giorno dopo il discorso di Gagnsamr, mi
resi conto di avere il pugnale appeso a cintura solo quando ero ormai
sul punto di uscire nel chiostro. Mi affrettai a riporlo nel
pagliericcio e nessuno notò nulla, per mia fortuna.
Ma purtroppo
qualcuno notò qualcos'altro.
Mikell si svegliò la notte seguente
per un forte dolore di stomaco e, non riuscendo a riaddormentarsi,
giacque sveglio per ore. Fino a che non vide Durza rientrare dalla
nostra ricerca notturna.
Lo Spettro disse di essere andato alle
latrine.
«Non mi ha creduto» mi informò
più tardi, durante la
funzione. «Ha detto di essere rimasto sveglio per delle ore e
io ho
cercato di convincerlo che probabilmente si era appisolato, ma
è
testardo come un mulo. È convinto di avere ragione e io e te
non gli
siamo mai piaciuti particolarmente».
Mi strinsi il volto tra le
mani. «Forse dovresti riservargli lo stesso trattamento che
abbiamo
imposto ad Augyra. Di certo lo meriterebbe molto più di
lei».
«Lo
farò» rispose, d'impulso. Poi sorrise con
amarezza. «Forse avrei
dovuto informarti che, per uno strano gioco del destino, i miei piani
sembrano essere destinati a fallire. Sempre e comunque, nonostante
gli sforzi e la prudenza che vi riservo».
«Il destino non
esiste, Durza» mi limitai ad affermare.
«È solo un modo elegante
per dire che non siamo stati capaci di fare quello che volevamo
fare».
«Allora sono un incapace, Principessa».
«Ho fallito
un'unica volta: quando mi hai catturata. E mi sono promessa che non
avrei fallito mai più. Quindi troveremo quel maledetto..
qualunque
cosa dobbiamo trovare, stanne certo» ribattei, con una
sicurezza che
non sentivo mia.
Un
buon
generale sa quando è meglio ritirarsi.
Queste erano le parole che mi rimbalzavano in testa.
Lo Spettro
alzò leggermente le spalle e io faticai a concentrarmi su
qualunque
altra cosa che non fosse lui.
A cosa stava pensando? Che forse
non sarebbe mai riuscito a diventare il padrone di Alagaësia?
Be',
non gli avrei permesso di rinunciare all'idea di deporre Galbatorix,
poi quando fosse giunto il momento di insediarsi al suo posto ne
avremmo riparlato. Probabilmente armati di spada.
Quella notte,
la quarta dopo l'ultimatum di Gagnsamr, io e Durza ci trascinammo
fuori dalla botola, a pezzi e sconfortati per l'ennesimo
fallimento.
Era quasi l'alba e dovevamo darci una mossa se non
volevamo farci scoprire, eppure fu proprio la nostra fretta a
renderci troppo precipitosi.
Strisciai sul pavimento di pietra
della cattedrale e mi tirai in piedi spazzolandomi il vestito con le
mani. Solo a quel punto vidi la sacerdotessa inginocchiata davanti
all'altare, le bende sciolte intorno al moncherino infettato e gli
occhi spalancati su di me.
Scattai nella sua direzione con tutta
la forza e la velocità concessami dalle mie membra stanche
ed ebbi
la sfacciata fortuna di avere a che fare con una donna indebolita da
una ferita rimarginata male.
La atterrai lanciandomi su di lei e
abbracciandole le ginocchia. Sbatté la testa a terra e il
suo grido
fu soffocato dall'urto. Mi affrettai a premere un braccio contro la
sua gola e una mano sulla sua bocca.
«Arya!» sibilò Durza,
raggiungendomi.
La donna mi morse la mano e io trattenni a fatica
una smorfia.
«Ci ha visti» bisbigliai.
Lo Spettro guardò in
un lampo me, poi la donna e poi un'ondata di panico gli
deformò i
lineamenti.
«Non credo che ci sia tempo!» disse.
Capii cosa
intendesse. Non c'era tempo di cancellarle la memoria, Gagnsamr
avrebbe suonato la campana della sagrestia da un minuto
all'altro.
«Durza il veleno» suggerii, spingendo la testa
della
sacerdotessa all'altezza del mio stomaco e liberando così la
scollatura dell'abito.
La donna mi morse di nuovo, con forza,
mugugnando disperata.
«Sbrigati» gemetti, sentendo il sangue
sgorgare dalle ferite lasciate dai suoi denti.
Lo Spettro abbassò
il corpetto dell'abito con una mano e afferrò la boccetta
che
nascondevo tra i seni con l'altra, cercando pateticamente di non
sfiorarmi la pelle e fallendo miseramente.
La stappò e si
inginocchiò davanti alla Sacerdotessa. Spostai entrambe le
mani al
suo collo, mozzandole il respiro e impedendole di gridare, mentre
Durza le tappava il naso e la costringeva a ingollare una generosa
dose di Fricai Andlat.
La trascinammo verso l'altare, mentre il
suo corpo era scosso da piccoli spasmi. Il veleno agiva rapidissimo,
lo sapevo, e in pochi minuti sarebbe certamente morta di una morte
che sarebbe risultata inspiegabile da chiunque non fosse un maestro
di veleni.
Ma in realtà nessuno avrebbe mai sospettato un
avvelenamento. Tutti nella cattedrale sapevano che la Sacerdotessa
che aveva offerto un braccio sotto i picchi sacri soffriva ormai da
giorni per una grave infezione della ferita. La donna poteva
benissimo essere andata in chiesa per invocare il suo Dio, sentendo
la morte imminente.
Probabilmente sarebbe stata considerata una
bella dipartita la sua: in preghiera sull'altare del suo signore, per
il quale era vissuta e morta.
Lasciai la sua gola e lei emise un
flebile lamento.
«C'è del sangue sulla sua pelle» mi
informò
Durza.
Lo asciugai, insieme ai suoi denti, con un lembo del mio
abito e sistemai la sacerdotessa in ginocchio, chinata in avanti, con
un pugno stretto all'altezza del cuore, nel segno di rispetto che
quegli idioti riservavano al loro Dio.
Corremmo via dalla chiesa,
non prima di aver recuperato le nostre tonache, e sgusciammo ciascuno
nel proprio dormitorio, scambiandoci un breve cenno di saluto.
Non
più di dieci minuti dopo Gagnsamr uscì
pesantemente dal dormitorio
accanto e andò in sagrestia a suonare la campana. Finsi di
svegliarmi insieme alle mie compagne, lasciai il pugnale nel
pagliericcio, indossai la tonaca per coprire l'abito macchiato
leggermente di sangue e mi avvidi solo a quel punto di avere una mano
a sua volta ricoperta di sangue caldo.
Stracciai rapidamente una
striscia di lenzuolo e la bendai, indossando immediatamente i guanti
tagliati sopra. Poi mi ricordai di avere lasciato il veleno a Durza e
fui colta dalla certezza che non mi sarebbe stato mai più
restituito.
Stavamo consumando la nostra colazione
in refettorio
quando i Sacerdoti entrarono in chiesa.
Ne uscì un gran baccano,
voci che parlavano le une sopra alle altre e inutili tentativi di
scuotere la sacerdotessa mutilata, che a quel punto doveva essere
passata a miglior vita.
Tuttavia i miei compagni sembravano non
notarli e solo quando vidi Durza poco lontano da me, con la sua
ciotola di latte tra le mani e la testa leggermente inclinata di
lato, capii che i rumori dovevano essere troppo flebili per loro
nonostante le porte aperte della sagrestia permettessero a buona
parte dei suoni di filtrare alle mie orecchie. Scemarono nel silenzio
solo quando le porte furono chiuse.
Elin si alzò per portare la
colazione alla donna che stava curando in infermeria. Ma non
l'avrebbe trovata e presto sarebbe scoppiato il finimondo.
Non
sapevo come fosse normalmente la vita nella cattedrale di Dras-Leona,
ma era certo che da quando io e lo Spettro eravamo arrivati
lì erano
successe una disgrazia dopo l'altra. Ed erano passati poco
più di
venti giorni.
Qualcuno avrebbe velatamente affermato che eravamo
dei portatori di sventura, prima o poi.
«Bitr come mai tu e Natt
non siete ancora novizi?» mi chiese Mikell con arroganza e
con
l'evidente scopo di provocarmi.
«Gagnsamr non te lo ha detto?»
risposi dolcemente, inarcando le sopracciglia in un'espressione che
doveva apparire comicamente sorpresa.
Si irrigidì. Il fatto che
Gagnsamr non lo avesse messo al corrente degli ultimi avvenimenti lo
infastidiva parecchio, perché metteva in chiaro la sua
inferiorità
rispetto al vecchio monaco. Inferiorità che gli pesava a
causa del
suo incommensurabile orgoglio e della sua ancor più
incommensurabile
arroganza.
Convinta di essere uscita vincitrice da quello scambio,
tornai a concentrarmi sulla colazione, cogliendo il sorriso divertito
di Durza.
Elin tornò nel refettorio molto allarmata e corse a
farfugliare a Gagnsamr che la sacerdotessa era sparita nel nulla.
Il
vecchio monaco iniziò a sudare copiosamente. Due sparizioni
nel giro
di una settimana non dovevano essere esattamente
rassicuranti.
«Amici!» esclamò con voce un poco
stridula.
«Bidelia, la nobile donna che ha offerto il suo braccio a Dio
non si
trova nel suo giaciglio. Siete pregati di disperdervi negli ambienti
del chiostro e di cercarla. È debole e potrebbe avere un
malore.. e
avere bisogno di aiuto insomma».
In chiesa non si poteva andare,
era ovvio. Nessuno poteva interrompere il rito mattutino dei
Sacerdoti, che a quanto pareva non avevano rinunciato a celebre
nemmeno quella mattina, nemmeno in presenza di un cadavere.
Finsi
pigramente di cercare nei dormitori dei sacerdoti, combattendo contro
l'istinto di gettarmi su uno dei loro materassi imbottiti di lana e
concedermi qualche ora di sonno ristoratore.
Quando arrivai alle
loro latrine mi tirai in un angolo e mi lavai la mano in un secchio
di acqua gelida, che poi lasciai scivolare -rosata per il sangue-
giù
per lo scarico della latrina.
La morte della sacerdotessa ci fu
comunicata solo dopo che i Sacerdoti stessi ebbero mangiato. La
reazione del Sommo Sacerdote era stata quella in cui avevo sperato:
aveva visto la bellezza del gesto della povera donna e non si era
curato di analizzare più attentamente la sua improvvisa
dipartita.
Ripeté il suo drammatico discorso anche durante la
funzione del mattino, aggiungendo che la donna sarebbe stata tumulata
nella cripta della cattedrale.
La tumulazione doveva essere già
avvenuta perché non c'era la minima traccia del corpo.
Durza mi
mise in mano la boccetta di vetro contenente il Fricai Andlat, ormai
ridotto a meno della metà.
«Alla fine ci è stato utile»
abbozzò, in tono quasi di scuse.
Lo feci sparire nella scollatura
dell'abito e pensai se fosse il caso di rivelargli infine chi mi
avesse fatto quel macabro dono. Sapevo ormai che Alba mi aveva in
buona parte mentito, ma ricordavo anche che aveva tentato di farmi
fuggire e non potevo ignorare il suo gesto e consegnarla ad una
probabile punizione da parte del suo padrone.
«Spero non servirà
più» mi limitai a commentare.
«Mikell ti odia» disse lui dopo
un po', guardandomi di sottecchi. «Non che non abbia
apprezzato il
tuo spirito, Principessa, -ho sempre pensato che fossi una persona
dotata di senso dell'umorismo in fondo- ma credo anche che quell'uomo
si affretterà a cercare di fartela pagare».
«Ho ancora del
Fricai Andlat, giusto?»
«Diamine Elfa, a volte mi fai paura»
sentenziò Durza, aggrottando la fronte.
«Davvero?»
«Solo a
volte» si sentì il dovere di specificare.
«La Sacerdotessa sapeva
difendere la sua mente comunque» aggiunse, quasi per caso.
«Ah
sì?» mormorai stupita.
Lo Spettro annuì e una ciocca di capelli
rossi gli piovve sulla fronte. «Ha provato ad attaccarmi. E
forse
sapeva anche qualche rudimento di magia, ma non abbastanza da fare un
incantesimo senza pronunciarlo».
Mi guardai la mano sinistra, che
pareva il doppio dell'altra così bendata e ricoperta dal
guanto
«Probabilmente si affilava i denti ogni mattino».
«Come la
capisco. Non sottovalutare la comodità di avere i denti
appuntiti».
Durza ridacchiò. «Ti ha fatto molto
male?»
«No». Lui mi aveva
fatto molto di peggio, ormai potevo sopportare di tutto. «Ma
in
realtà non l'ho ancora esaminata per bene.»
«Se te la vedessi
male dimmelo».
«Non è il caso di usare della magia, ma grazie
per l'interessamento» dissi, cercando di non apparire
né troppo
fredda né troppo coinvolta.
Lo Spettro si strinse nelle spalle.
«Figurati» rispose in tono distante.
Mi veniva da ridere.. o da
piangere, ancora non ero sicura. Ma sentivo più presenti che
mai la
stessa tensione e le stesse parole taciute che da settimane
accompagnavano il nostro rapporto.
Durza posò la mano a pochi
pollici di distanza dalla mia, sulla panca di pietra. Era un muto
invito e io vi caddi come una sciocca. Mi spostai impercettibilmente
e lui fece lo stesso, così che le punte delle nostre dita si
incontrassero e si stringessero.
Era un atto puerile, eppure fu
piacevole, per quanto breve.
Evitammo di ripetere la cosa alla
funzione della sera, mentre il Sommo Sacerdote non mancò di
ribadire
che la povera donna era morta come una santa.
Gagnsamr era
sull'orlo di una crisi di nervi quando ci congedò per la
notte. Non
sapevo cosa gli avesse detto il Sommo Sacerdote riguardo ad Helsa e
alla sua ormai definitiva scomparsa, ma il monaco sembrava nervoso e
irritabile.
«Bitr» mi chiamò. «All'alba di
dopodomani voglio
la risposta e la tua decisione definitiva».
Chinai il capo e
assentii in silenzio, ma forse avrei potuto trovare il modo di
rallentare ulteriormente il noviziato. Magari ammalandomi gravemente
o sparendo e tornando con altre sembianze.
Arrivai in chiesa prima
di Durza quella notte e posai la tonaca a terra per riposarmi qualche
minuto. Lo Spettro mi raggiunse poco dopo e restammo entrambi seduti
a terra, sfiniti.
«Ci rimane un'ultima notte» mormorai rompendo
il silenzio.
«Ci tieni particolarmente ai tuoi capelli,
Principessa?»
«Dovremmo accettare di diventare novizi
allora?»
«Sperando che nessuno mi riconosca.. Sì, direi che
è
l'ultima soluzione rimasta. Sei disposta a farti rasare il cranio o
preferisci che prosegua da solo?»
Feci un gesto sprezzante. «Non
mi importa nulla dei miei capelli. Ricresceranno».
«Allora
resistiamo fino a domani e poi ci prenderemo un giorno per dormire,
nel caso non trovassimo in tempo ciò che cerchiamo.
Riprenderemo la
ricerca quando saremo ufficialmente novizi» concluse con un
sospiro
di stanchezza.
Mi imposi di alzarmi. «Andiamo?» lo spronai
arrotolando la tonaca e nascondendola ai piedi di Hofud.
Trovammo
l'ambiente leggermente diverso da quello che ci attendeva di
solito.
La prima inquietante visione ci fu offerta non appena
arrivammo in fondo alle scale. La candela rossa illuminava una sorta
di barella sulla quale erano ammucchiate delle vesti nere,
insanguinate all'altezza del braccio.
Trovammo la porta della
cripta socchiusa e, senza bisogno di scambiarci una parola, ci
affacciammo nell'ambiente gelido. Sull'altare giaceva la sacerdotessa
che avevamo ucciso quel mattino, avvolta in un telo bianco quanto
lei.
Lì accanto, in un secchio pieno di pezzi di ghiaccio, erano
ammucchiati quelli che dovevano essere i suoi organi interni,
ripuliti a ben conservati.
Provai ad immaginare a quale orrendo
scopo potessero servire e l'unica immagine che mi balzò in
mente fu
l'Helgrind e l'altare dove avevo abbandonato Augyra e visto le ceneri
di Gamall.
Mi voltai per andarmene, sopraffatta dalla nausea per
l'odore disgustoso. Durza aveva uno sguardo vacuo e io mi affrettai a
spingerlo gentilmente all'indietro e chiudere la porta alle mie
spalle.
Nella quinta stanza la luce timida della mia candela
illuminò una nuova stranezza: una pila di libri ammucchiati
sul
pavimento, poi una di pergamene lì accanto. Avanzammo ancora
e ne
trovammo altre, tutte poste ordinatamente sul tappeto, quasi.. in
cerchio intorno a noi.
Durza si girò a guardarmi e sobbalzò.
«I
tuoi occhi» latrò.
Guardai i suoi e li vidi rossi come sangue,
con le pupille strette da felino. La cosa in sé non mi
avrebbe
stupita particolarmente: non era la prima volta che lo Spettro pareva
perdere per qualche istante il controllo sulla forma impostata ai
suoi caratteri.
Poi intravidi le punte aguzze dei suoi denti e
percepii il riflesso inquietante della fiamma sulla sua pelle
improvvisamente nivea.
Portai una mano al mio orecchio destro e lo
sentii appuntito sotto le dita.
Prima ancora che io o Durza
potessimo ovviare la situazione, due aperture solcarono i muri e da
esse uscirono una quantità di Ombre, ben superiore a quelle
che
solitamente stavano di guardia dietro alla porta di legno massiccio.
Sembravano esserci tutti: una cinquantina di uomini in nero, armati
fino ai denti.
Mi pentii di non avere mai picchiato contro le
librerie alla ricerca di una seconda parete o di un muro cavo. Ma del
resto il passaggio doveva essere abbastanza massiccio dato che
né io
né il mio compagno avevamo percepito i loro respiri.
Sguainai il
pugnale con la destra, ritenendo la sinistra momentaneamente
inadeguata al compito, e vidi Durza fare lo stesso. La sua schiena
sfiorò la mia.
«Fammi indovinare», azzardai a voce bassissima,
«non puoi usare la magia, vero?»
«Purtroppo no» fu la risposta
lapidaria.
Probabilmente avremmo trovato una pietra di ametista
nascosta sotto ad ogni caotico mucchietto di libri e pergamene.
A
quel punto ebbi davvero paura. Cinquanta contro due -per di
più
armati di soli pugnali- era uno scontro così impari da non
poter
nemmeno essere definito tale. Forse io e lo Spettro avevamo
qualità
particolari e forza straordinaria, ma non ce la saremmo mai cavata
contro un tale dispiegamento di forze. L'unico punto che avevamo
coperto era la schiena, per il resto eravamo vulnerabili da ogni
lato.
Sentii del trambusto provenire dalle pareti aperte e pochi
istanti dopo ne uscì una processione di Sacerdoti, con il
monco in
testa, trasportato nella sua lettiga.
«Durza lo Spettro!»
esclamò l'uomo. «Non ricordo di averti mai
invitato qua
sotto».
Durza rispose con un lieve inchino. «Sono famoso per non
chiedere mai il permesso, Abracham».
«Già», riprese il monco
affabilmente, «ma non era necessario uccidere una di noi,
fare
sparire chissà dove una monaca e traviare una novizia. Te la
sei
presa con tre povere donne..»
«Mi hai riconosciuto?» domandò
lo Spettro e capii che stava cercando inutilmente di prendere
tempo.
Il Sommo Sacerdote scosse lievemente la testa, ultima
sostituzione alla sua gestualità e rispose: «Non
ti avrei guardato
una seconda volta se solo non fossero accaduti tutti questi incidenti
in così pochi giorni. Poi ovviamente ci sono stati un paio
di
indizi: gocce di cera sui tappeti, scorte di candele finite
precocemente, pergamene leggermente spostate, libri con le pagine
girate.. E sangue nella bocca di Bidelia. Senza contare la preziosa
testimonianza di Wachter», indicò la guardia, al
suo posto
dall'altra parte del cerchio, «che ha detto di avervi visti
nel
chiostro il giorno che Augyra è stata scoperta.»
Non era stato
lui a vederci, era stata Delling. La giovane doveva aver raccontato
tutto al suo amante e se la mia spiegazione era riuscita a convincere
lei, lo stesso non si poteva dire del suo uomo, che aveva anche avuto
il buon senso di non accennare alla loro relazione.
«Ah poi c'è
quel monaco, Mikell, che ha detto di sospettare di voi già
una
settimana fa, prima che avvenisse l'ultima disgrazia. Sapevamo
già
che qualcuno si intrufolava qua sotto e sapevamo che erano
presumibilmente Bitr e Natt, i due giovani appena arrivati,
dall'educazione incompleta e dall'aria curiosa. A Gagnsamr non sono
piaciute le vostre esitazioni nell'abbracciare l'ordine. Se ne
è
molto lamentato quando gli ho chiesto spiegazioni della vostra
presenza tra i monaci. A quel punto vi ho guardati attentamente e ho
mezzo intuito chi fossi tu, Durza, mentre ancora mi sfugge
l'identità
della tua accompagnatrice».
«Si chiama Alba» rispose lo Spettro
al posto mio.
«E come mai ti porti appresso un'elfa?»
«Lei è
un'elfa nera. Mi sta aiutando a cercare un modo per distruggere
Galbatorix» disse guardando il sacerdote dritto negli occhi e
assumendo un'aria spavalda.
Il monco fece quello che doveva essere
un sorriso sdentato. «Perché non lo hai detto
subito? Accomodatevi,
tu e la tua amica. Vi prego di restare all'interno del cerchio di
ametiste intanto che discutiamo, ma potete considerarvi miei
ospiti».
Durza rinfoderò il pugnale e io abbassai il mio con
reticenza.
Il mio compagno mi guardò con occhi feroci e
determinati.
Fidati
di me.
Dicevano.
Ma
la mia mente corse inevitabilmente all'esigua scorta di Fricai Andlat
che avevo sotto il vestito e allo scopo originale per cui mi era
stata data.
Uccidermi.
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Capitolo 27 *** Fidati di me ***
Ciao
27.
Fidati di me
Forse
il monco poteva considerarci suoi ospiti, ma io non mi sentivo
precisamente a mio agio: ero completamente circondata da uomini in
nero, che puntavano le loro armi contro di me per impedirmi di uscire
da un cerchio di ametiste che bloccava la magia. Come se non ne
avessi già abbastanza del mio anello.
Durza, invece, aveva l'aria
di sapere il fatto suo, ma poteva essere un'ennesima maschera.
Non
vedevo molte vie d'uscita da quella situazione, ma lo Spettro aveva
detto di aver già avuto a che fare con i Sacerdoti, quindi
forse
sarebbe riuscito a parlamentare.
Abbassai il pugnale, ma non lo
rinfoderai. Anzi, ero pronta a scattare in qualsiasi momento e a
vendere cara la pelle. Se mi avessero sopraffatta mi sarei uccisa
prima che potessero catturarmi o torturarmi.
Le candele che ci
avevano fatto luce fino a quella stanza giacevano a terra, ormai
annegate nella loro cera, ma i Sacerdoti avevano con loro delle torce
e con esse accesero quelle attaccate ai muri, rendendo l'ambiente
molto più luminoso.
Il Sommo Sacerdote se ne stava sulla sua
lettiga, dietro le Ombre, e non sembrava minimamente intenzionato ad
avvicinarsi. Capii che in fondo aveva paura di Durza, e forse anche
di me.
«Mi hai detto di voler distruggere il re, ma non mi hai
detto cosa sei venuto a fare qui».
«Cercavo appunto la soluzione
ad un problema: il modo per aggirare il potere di Galbatorix».
«Cosa
cerchi?»
Lo Spettro fece un ghigno. «Non posso dirtelo».
«Allora
non vedo come tu possa trattare con noi» sputò
l'altro.
«Non
sto chiedendo la vostra alleanza», specificò,
«ma solo una
consultazione dei vostri archivi».
«Direi che in quello ti sei
già dato parecchio da fare. Ancora due stanze e gli archivi
della
cattedrale sono finiti, altri testi si trovano nella dimora degli
dei» concluse chinando il capo.
C'erano altri testi
nell'Helgrind? Chissà quanti altri mesi avremmo impiegato a
spulciare anche quelli.
«Non ho ancora trovato ciò che cercavo»,
insistette Durza, «e dato che ormai mi avete scoperto
potreste
aiutarmi a farlo».
Il monco assunse un cipiglio duro. «Non ti
lascerò andare senza le dovute garanzie» disse.
«Che ucciderò
il re? Puoi starne certo, se mi darete ciò che
cerco».
«No»,
fece il monco, «io voglio un tuo giuramento vincolante che,
una
volta annientato il re, tu ti ritirerai e lascerai che i legittimi
sovrani prendano le redini di questa terra. Gli Antichi sono i
creatori del mondo ed è loro diritto comandarlo. Se li
libererai
dalla loro schiavitù avranno sicuramente la pietà
di non nutrirsi
di te o dei tuoi cari».
«Abracham, i Ra'zac hanno giurato
di
ubbidire al re. Ed è quello che tu chiami un giuramento
vincolante.
Hai mai pensato che forse a loro vada bene la condizione di
servitù?»
Un cupo mormorio si diffuse tra i nostri ospiti e
alcune Ombre si mossero inquiete. Non ci voleva un genio per capire
che lo Spettro aveva detto la cosa sbagliata: insinuare che il tuo
dio sia il servo di un mortale deve essere considerato una sorta di
sacrilegio.
Ma il monco gli aveva toccato il tasto del potere, e
Durza non lo avrebbe mai abbandonato per nessuno, lo sapevo bene.
«Ti
ricordo che ti trovi ancora nel cuore del culto degli
Antichi» sputò
il Sommo Sacerdote. «Se non vi abbiamo ancora uccisi
è solo perché
i nostri dei ci impongono di pensare a loro».
«Lo so» rispose
Durza, più conciliante. «Ma in ogni caso non
avrete alcun
giuramento né da me né da Ar.. Alba. Posso
esservi utile anche
così, non credete?»
«Nulla ci garantisce che non cercherai di
nuocere agli Antichi, una volta sconfitto il re».
«Io non farò
alcun male ai vostri dei» disse lo Spettro spazientito,
nell'antica
lingua. «Contenti?» aggiunse gettandomi un'occhiata
significativa.
Ovvio. Forse lui non poteva fare del male ai
Ra'zac, ma chiunque altro sì. Io stessa sarei stata in grado
di
ucciderli senza troppe difficoltà, se li avessi colti senza
i
Lethrblaka al seguito.
Il monco parve sorpreso, e subito dopo
soddisfatto. «Non ci basta. Vogliamo avere un ostaggio come
ulteriore deterrente. Lei per esempio potrebbe andare bene»
disse
annuendo nella mia direzione.
Sollevai il pugnale. «Non ho
intenzione di rimanere qui» dissi con voce ferma.
«Non ho
chiesto a te, elfa. Ho chiesto allo Spettro..»
«Che rifiuta»
concluse Durza seccamente. «Non avete bisogno di nient'altro.
Se
volete sconfiggere Galbatorix io so dove bisogna colpirlo, mi serve
solo qualche altra informazione. Voi brancolate nel buio al riguardo,
quindi credo di avere io il coltello dalla parte del manico».
Il
monco fece nuovamente quello che doveva essere un sorriso.
«Sei mio
prigioniero, sono io a dettare la legge qui dentro».
«Credevo di
essere un ospite» lo pungolò il mio compagno.
«Questo finché
ho creduto che sarei riuscito a farti ragionare. O sei totalmente
dalla nostra parte o sei nostro nemico. Lasciaci l'elfa e ti
aiuteremo come possiamo. E ti lasceremo andare, ovvio».
Vidi
Durza tentennare e fui nuovamente colta dal panico. Strinsi con forza
l'elsa del pugnale e portai una mano al petto, pronta a trapassarmi
con la lama o a svuotare la boccetta di Fricai Andlat nel caso mi
fossi trovata costretta a farlo.
«Cosa avete intenzione di fare
con lei?» chiese poi, dandomi le spalle e facendo sprofondare
le mie
speranze nel buio.
«Nulla di male, te l'assicuro».
«Balle»
sentenziò freddamente lo Spettro. «Sono stato
allievo di Gagnsamr
per un mese e ormai conosco le vostre dodici verità a
menadito. Voi
rifiutate chiunque non viva un ciclo normale di anni, e gli elfi
vivono ben più di cento anni. Non ha senso che la torturiate
per
strapparle informazioni perché non ne ha. È
un'elfa nera e le hanno
cancellato la memoria quando l'hanno cacciata dalle terre degli elfi,
quindi il massimo che saprebbe dirvi sarebbe il suo nome, il mio e la
pianta del mio palazzo a Gil'ead».
Mi stava difendendo, ma non
potei fare a meno di chiedermi chi fossero gli elfi neri. A sentire
parlare lo Spettro parevano dei ripudiati, ma non esistevano degli
elfi ripudiati, raramente compievamo atti per i quali era necessario
punirci. L'unico esempio che mi veniva in mente era la triste storia
di Linnea, che aveva finito per punirsi da sola.
Probabilmente se
li stava inventando.
«Non dovrebbe importarti più di tanto del
suo destino. Preoccupati del tuo» lo invitò il
monco.
Mi
balzarono in mente immagini del mio corpo morto tagliato a pezzetti,
analizzato e studiato, e poi dato in pasto ai Ra'zac. Avevo sempre
pensato che una degna pira funebre mi attendesse dopo la morte, non
di certo di diventare oggetto di perversi studi di una setta di
folli.
In fondo neanche ammazzarmi mi avrebbe totalmente
preservata.
«Se rifiutassi?»
«Uccideremo entrambi. Tu ti
credi superiore forse, ma la nostra religione è piena di
adepti e di
potere. Riusciremo a sconfiggere il re anche senza il tuo
aiuto».
Durza scoppiò a ridere. «Stai sopravvalutando le
tue
possibilità Abracham».
«E tu le stai sottovalutando!» rispose
il sacerdote alzando la voce. «Sei in mio potere e non hai
affatto
in mano la situazione. Ecco perché farai esattamente
ciò che ti
dirò, senza discutere se tieni alla vita! Forse non conosco
ancora
il punto debole del re, ma conosco bene il tuo» disse
accennando al
torace dello Spettro, dove il suo cuore batteva leggermente
accelerato.
Il monco aveva scoperto le proprie carte. Non aveva
alcuna intenzione di scendere a compromessi, voleva dettare legge. Le
parole che ci aveva rivolto all'inizio della conversazione avevano il
solo scopo di farci sentire ancora padroni del contesto.
Ad un suo
cenno l'ultima fila delle Ombre lasciò le lance e
incordò dei
piccoli archi dalla gittata sicuramente breve, ma sufficiente a
freddare sia me che Durza.
Lo Spettro sfoderò nuovamente il
pugnale e restò a guardarlo con interesse per qualche lungo
istante,
quasi distratto.
Sta
valutando
la proposta pensai.
E
invece le parole che sussurrò mi stupirono:
«Pronta a correre,
Principessa?»
Flettei i muscoli delle gambe. «Ci ammazzeranno»
risposi allo stesso tono, quasi impercettibile.
«Verso la chiesa»
disse semplicemente.
«Allora, Spettro?» lo richiamò il
monco.
Durza sorrise, snudando terrificanti denti aguzzi, allargò
le braccia e chinò il capo facendo alcuni passi nella sua
direzione.
«Accetto tutte le condizioni».
Fidati..
«Tieniti
Alba, ma non farle del male..»
..di..
«..
e sopratutto forniscimi tutte le informazioni che ti
chiederò».
..me!
Le
sue parole melliflue ebbero il potere di calmare gli animi. Vidi i
lineamenti di molti uomini intorno a me distendersi e gli archi e le
lance di alcune Ombre abbassarsi.
«Ora» sibilò Durza.
Lanciò
il coltello in direzione del Sommo Sacerdote, che gridò non
appena
la lama sprofondò nella sua carne con un tonfo.
Ma non seppi mai
dove l'avesse colpito. Durza non aveva ancora finito di pronunciare
“ora” che già io ero schizzata in
direzione della quarta stanza,
saltando sopra alle Ombre e finendo con i piedi in faccia agli
arcieri.
Forse a causa dei loro riflessi troppo lenti, non
arrivarono a fermarci. Riuscirono appena a tirare qualche freccia
prima che lo Spettro -recuperato l'uso dei suoi poteri- alzasse una
barriera dietro l'altra per chiuderli nella stanza.
Tuttavia le
lance e le frecce dovevano essere incantate perché
superarono in
gran parte quelle difese, andandosi a conficcare dolorosamente in
diversi punti del mio corpo.
Caddi a terra gridando, con una
lancia nella coscia sinistra, due frecce nel polpaccio destro e un
paio di colpi di striscio alle braccia. Durza era passato avanti,
quindi aveva subito meno danni: in qualche modo gli avevo fatto scudo
col mio corpo.
Mi trascinò fuori dal fuoco delle Ombre e mi
strappò frecce e lancia dal corpo senza troppi complimenti,
iniziando a guarire le mie ferite con rapide formule.
«Usciranno
dai muri!» ansimai, la pelle velata di sudore gelido, datomi
dalla
sofferenza.
Lo Spettro realizzò che la sua barriera chiudeva
semplicemente l'accesso più rapido dalla quinta alla quarta
stanza,
ma che probabilmente c'era una serie di tunnel che correvano
paralleli a tutte le stanze, permettendo ai Sacerdoti e alle loro
guardie di muoversi liberamente nonostante il suo sbarramento.
Sentii
le sue lunghe dita circondarmi i fianchi mentre mi caricava sulle sue
spalle e correva con fretta disperata verso le scale che portavano in
superficie.
Rimasi inerte. Non ero in grado di correre,
probabilmente nemmeno di camminare fino a che qualcuno non si fosse
preso cura delle mie ferite, che dolevano terribilmente.
Ci
eravamo trattenuti qualche istante di troppo oltre alla barriera
dello Spettro, ma lui correva parecchio veloce, quindi arrivammo in
prossimità delle scale nello stesso istante in cui le Ombre
cominciavano a raggiungerci per i corridoi paralleli. E infatti
fuoriuscirono dalla cripta, praticamente pestandosi i piedi a
vicenda.
Mi sporsi ad afferrare la barella di legno e la tirai
loro addosso, ostacolandoli ulteriormente, poi fui sballottata su per
le scale e infine praticamente gettata sul pavimento duro della
cattedrale, dove lasciai una piccola scia di sangue.
Durza salì
dopo di me e io pugnalai il braccio che si allungava per afferrargli
la caviglia. Con mio grandissimo stupore, l'uomo non parve farci caso
e continuò imperterrito la sua azione, stringendo infine il
piede
dello Spettro.
Strisciai più vicina e gli tagliai di netto la
mano, ma nemmeno allora parve soffrire particolarmente, anzi, si
issò
fuori dalla botola e cercò la corta spada che portava a
cintura con
l'unica mano rimastagli.
«Tra gli occhi!» mi gridò Durza,
lanciando una sfera di energia contro un'altra Ombra.
Mi alzai in
piedi a fatica, evitai un fendente e conficcai la lama nella fronte
dell'uomo, uccidendolo sul colpo.
Vidi lo Spettro alle prese con
un'altra ombra. Aveva afferrato l'uomo disarmato per la giubba
imbottita e lo stava tenendo saldamente, con gli occhi serrati e
un'espressione concentrata in volto.
Un attacco mentale? Non
avrebbe fatto prima ad ucciderlo e basta?
Sentii i passi
affrettati di altri uomini per le scale di pietra, così feci
scivolare la lastra nell'insenatura e vi trascinai sopra i corpi dei
due uomini che giacevano morti lì accanto, per
appesantirla.
«Durza!» sbraitai, «Stanno
arrivando!»
Lo
Spettro mi ignorò per qualche altro istante, continuando la
lotta
silenziosa con l'Ombra, e io iniziai a trascinarmi in direzione del
portone principale, zoppicando appoggiandomi alle panche e
digrignando i denti per le ferite.
Mi raggiunse e mi prese
nuovamente in spalla, poi corse fino al portone, che aprì
con un
incantesimo e richiuse dietro di sé con un altro.
«La locanda!»
esclamai, pulendo il pugnale gocciolante di sangue sulla mia gonna e
rinfoderandolo.
«Prima ti guarisco, Principessa».
Ci
spostammo in direzione opposta al Covo Segreto e Durza mi
adagiò a
terra in un vicolo, riprendendo a biascicare una formula curativa
dietro l'altra fino a che tutte le mie ferite non smisero di
sanguinare e i tessuti non si furono saldati tra loro. Solo allora la
mia sofferenza si placò.
Avevo decisamente perso l'allenamento da
quando Durza mi torturava ogni singolo giorno.
«Sei abile con la
magia curativa» osservai.
Strano
per uno Spettro portatore di morte.
«Volevo
essere sicuro di poter salvare le persone che volevo restassero in
vita» rispose semplicemente, un po' ansimante.
Mi resi conto che
mi aveva effettivamente salvato la vita. Volevo ringraziarlo, ma la
frase che mi uscì era dettata dall'esigenza di
sopravvivere.
«Andiamo alla locanda ora?»
«Facciamo
attenzione. Ho paura che i Sacerdoti abbiano potere anche sulle
guardie cittadine e se mettessero di ronda anche i soldati potremmo
essere veramente in pericolo. Almeno saremmo attaccati da piccole
pattuglie. Te hai ancora il pugnale?»
«Sì».
«Io no
purtroppo, spero almeno di aver ferito mortalmente il monco»
commentò rabbioso.
Piegò il capo per captare suoni sospetti e io
feci lo stesso. Percepivo ordini urlati in lontananza e rumori di
passi pesanti sparpagliati in ogni direzione.
«Ci verranno a
cercare. Sappiamo molte cose che non dovremmo sapere e non siamo
legati ai loro dei in alcun modo, quindi nulla ci impedisce di andare
a spifferarle in giro. Mi dispiace solo di essermi lasciato scappare
un giuramento di troppo, ma credevo che le cose si sarebbero
sistemate pacificamente a quel punto, invece ho sottovalutato la
testardaggine di Abracham».
«Durza..» mormorai, nuovamente sul
punto di ringraziarlo.
In un impeto di affetto mi sfiorò il
volto, accarezzandomi una guancia con il dorso della mano.
«Tutto
bene, piccola Elfa?»
A quel punto udii dei passi. «Qualcuno si
sta avvicinando».
«Allora dovremo nasconderci dietro quei barili
laggiù».
Lo facemmo, ma la figura che ci passò accanto non era
né una guardia imperiale né un'Ombra,
bensì una semplice
prostituta.
Cominciammo il nostro lento spostamento in direzione
della locanda. Le guardie cittadine erano state avvisate e
cominciavano a riversarsi per le strade in una ricerca silenziosa, un
terzetto passò nella strada davanti a noi, senza vederci.
Cosa
sapevano di noi? Il colore dei nostri capelli? Probabilmente avremmo
fatto meglio ad alterare nuovamente le nostre sembianze, ma forse
Durza non aveva intenzione di lasciare troppe tracce di magia, per
non indicare la nostra direzione, o forse se n'era semplicemente
dimenticato.
A rigore di logica l'unica nostra via di fuga doveva
essere per la porta principale, che da quel momento in poi sarebbe
stata sorvegliata come solo le ultime due uova rimaste al re dovevano
essere.
Lo Spettro mi aveva guarita in un vicolo in direzione dei
cancelli -dove sicuramente erano rimaste tracce di sangue- e forse
quello avrebbe orientato la nostra ricerca in direzione di essi,
mentre noi ci spostavamo dalla parte opposta.
Trovammo tutte le
lanterne agli angoli delle strade accese, probabilmente per stanarci
più facilmente. Ma se sentivamo un respiro nei paraggi ci
limitavamo
a cambiare strada e allungare ulteriormente il giro.
A nostro
svantaggio andava anche la luna: piena, libera di nubi e brillante.
Illuminava le stradine di una luce liquida che permetteva a noi di
muoverci agilmente, ma anche ai nostri inseguitori di individuarci
con più facilità. Fortunatamente,
però, avevano una vista peggiore
della nostra.
Impiegammo più di un'ora per raggiungere il Covo
segreto. Doveva
avvicinarsi ormai la seconda ora del mattino e io non ero ancora
certa che avrei visto l'alba, anche se la situazione era
infinitamente migliorata rispetto a un'ora prima.
Ovviamente la
porta della locanda era chiusa dall'interno, e anche quella di
servizio della cucina, quindi decidemmo di entrare per una finestra
ed evitare nuovamente di fare uso della magia.
Durza
socchiuse la finestra della cucina dopo una minima forzatura,
sbirciò
all’interno e poi la spalancò del tutto.
Analizzò lo stretto
passaggio per qualche secondo, poi scosse la testa e mi
sussurrò:
«Arya prova a passare tu, le mie spalle sono troppo
larghe.»
Annuii e accettai le sue mani incrociate a mo’ di
scalino per issarmi fino all’apertura. Nemmeno le mie spalle
erano
strette, se si consideravano i canoni di una fanciulla media, ma
stringendomi su me stessa al massimo riuscii a passarci e a scivolare
dentro la cucina. Atterrai, non esattamente con grazia, sul massiccio
tavolo di legno, rovesciando un secchio d’acqua. Soppressi
un’imprecazione e sgusciai fino alla soglia, ma non sentendo
nessun
suono mi rassicurai e mi diressi verso la porta principale, che aprii
con circospezione. Durza scivolò dentro e richiuse il
chiavistello
dietro di sé.
Feci mentalmente il punto della situazione: il mio
abito di riserva e le nostre coperte erano rimaste nei dormitori
della cattedrale. Fortunatamente avevamo con noi i mantelli e avevamo
lasciato le nostre spade sotto al materasso del Covo.
Se avessimo rubato un paio di coperte dalla locanda non avremmo
rovinato nessuno. Del resto la primavera era ormai alle porte e le
temperature erano mitigate di parecchio.
«Vado a recuperare le
nostre cose» dissi salendo i primi scalini.
Lo Spettro annuì e i
suoi occhi scintillarono vermigli nella penombra .«Ti aspetto
in
cucina, prendo qualche provvista nel frattempo».
Salii al secondo
piano, dove dormivano tutti e riuscii a muovermi con
tranquillità
nel buio avvolgente. Cercai la cordella che mi cingeva il collo e
inserii la chiave nella serratura. La porta si aprì con un
lievissimo cigolio.
Una volta all'interno scostai il pannello di
legno dalla finestra per godere un poco della luce lunare e recuperai
i nostri zaini, arrotolai due coperte e ve le agganciai. Poi
strisciai sotto al letto e presi con delicatezza la mia spada e
quella di Durza, facendo attenzione a non farle tintinnare.
Sciolsi
la chiave dallo spago, la lasciai nella toppa e tornai di
sotto.
Durza aveva ammucchiato del pane, del formaggio e delle
mele sul tavolo e mi strappò di mano gli zaini per
riempirli.
«L'incantesimo
che hai lanciato sulla porta perché nessuno la aprisse
andrebbe
sciolto» osservai posando le spade su una sedia.
Esitò.
«Diamine, hai ragione!»
Senza nemmeno avvicinarsi alla porta
bisbigliò qualche parola.
«Se
non avessi ribaltato un intero secchio d’acqua potremmo anche
riempire le borracce». Sbuffò e fece un
sorrisetto. «A proposito,
hai delle gran belle gambe Elfa, non so se nessuno te l’ha
mai
detto».
«E c’era bisogno di sbirciare sotto la mia gonna
per
scoprirlo?» risposi, ma il mio tono mancava del pepe che
doveva.
Guardavo la testa rossa di Durza e non potevo fare a meno
di pensare che lui, mio nemico, che aveva visto le mie gambe almeno
mille volte e solo grazie alle torture che mi aveva inflitto, mi
avesse preferita ad un accordo decisamente vantaggioso che gli
avrebbe procurato più potere di quanto sicuramente potessi
fare io
con il mio ambiguo aiuto.
Sentii una sensazione calda stringermi
la gola e da lì scendere al cuore, tanto che mi parve di
librarmi
nell’aria per qualche istante.. Fino a che una mano bianca
non mi
sfiorò il braccio.
«Tira il chiavistello della porta della
cucina, ce ne staremo qui un’oretta o due per placare le
acque e
poi usciremo dalla porta di servizio». Durza parlò
con un tono
pratico e sbrigativo, ma la sua voce mi toccò in maniera
profonda e
indefinibile.
Quando allungai il braccio per chiudere la porta mi
resi conto di avere la pelle d’oca, diffusa in tutto il corpo
e che
la sensazione di calore aveva al contempo raggiunto ogni mia
terminazione nervosa.
Lo Spettro si accasciò su una sedia di
legno e sospirò di stanchezza. «Non me ne va mai
bene una»
borbottò.
Lo guardai. La pelle pallida del suo volto, anche se
increspata in un cipiglio frustrato, riluceva al bagliore della luna,
gli occhi cremisi erano più profondi e intensi
più che mai e le
sue forti mani erano strette a pugno sulle sue ginocchia. I suoi
vestiti erano sporchi di sangue, probabilmente più mio che
suo.
Non
era la prima volta che lo guardavo in quella maniera, ma quella notte
mi parve quasi insopportabile, le mie labbra bruciavano e bramavano
le sue come acqua fresca e il desiderio mi travolse tutto
d’un
tratto, lasciandomi immobile accanto alla porta,
destabilizzata.
All'improvviso seppi che io e Durza eravamo al
sicuro, che nessuno ci avrebbe trovati per molto tempo, che mi
sentivo addolcita, morbida, accaldata, e che ciò che provavo
per lui
mi stava riempiendo il petto fino a farmi scoppiare il cuore e
tremare le gambe.
E fui perduta.
Colmai la distanza che mi
separava dallo Spettro, ignorando la sua espressione confusa.
Tremavo quando mi chinai su di lui e lo baciai. Vidi i suoi occhi
sgranarsi di scatto e vi lessi la sua esitazione e la sua sorpresa,
prima che li chiudesse e si abbandonasse completamente alle mie
labbra, allungando le mani e stringendomele intorno al viso. Mi parve
di avere già vissuto una situazione simile e il ricordo del
giorno
in cui Durza era partito per Uru'baen mi balzò vivido in
mente.
Ma
io non avevo intenzione di andare da nessuna parte, e glielo
dimostrai quando mi sedetti a cavalcioni sulle sue gambe. Lo Spettro
mi strinse le cosce e mi divorò la bocca nel più
passionale e
irruento bacio che avessi mai ricevuto, mentre il suo corpo si
tendeva contro il mio, come se l’aria tra di noi fosse un
ostacolo
insormontabile.
E non pensai più a nulla se non al fatto che
volevo Durza. Lo desideravo ardentemente, insensatamente,
indecentemente, incondizionatamente.
Quei semplici baci non erano
abbastanza.
Non erano mai stati abbastanza.
Avida, sfiorai il
profilo del suo petto, risalendo fino ai lacci del mantello, che
presi a sciogliere. Quando gli baciai la gola Durza emise un gemito
roco che mi colpì come una ventata d’aria rovente,
ma subito dopo
mi afferrò le spalle e mi allontanò da
sé.
«Elfa», disse
ansimando leggermente, «non c’è bisogno
di ringraziarmi per ciò
che ho fatto.. cioè magari sì, ma non.. non
così». E tentò una
risatina di scherno.
Ma ormai lo conoscevo e individuai la
maschera sul suo viso da falco, sentii la tensione dei suoi muscoli,
lessi il desiderio nei suoi occhi felini e seppi che mi voleva
almeno quanto lo volevo io. Chinai il capo e tornai ad armeggiare con
il mantello.
Strinse la presa sulle spalle. «Che cosa stai
facendo?» E mi parve quasi allarmato.
«Non riesco a slacciarlo»
ammisi fissando le mie mani tremanti e i nodi stretti.
Percepii lo
sguardo dello Spettro, uno sguardo freddo e calcolatore, lo sguardo
di chi cerca di capire dove sia il trucco.
E nonostante ciò si
sfilò il mantello dalla testa, lentamente, senza neanche
provare a
districare la selva di nodi.
«Vuoi per caso sedurmi e uccidermi a
metà dell’opera?» domandò
giocherellando con lo spago che avevo
ancora al collo e sfiorandomi il seno, esitante.
«Perché vorrei
informarti che, se me la lasciassi finire, morirei felice».
«Forse
dovrai rischiare» lo provocai, sporgendomi a baciargli
un'altra
volta le labbra e ritirandomi subito dopo, invitandolo in silenzio a
seguirmi.
Rischiò. Il dubbio e la reticenza sparirono rapidamente
dai suoi occhi e di nuovo li socchiuse quasi con ferocia,
assecondando i miei gesti, rispondendo alla mia bocca e spostando le
mani improvvisamente impazienti sul mio corpo.
Fiori di fuoco
sbocciarono sulla mia pelle quando insinuò le mani sotto il
vestito
e mi accarezzò le gambe, trascinando con sé la
stoffa fino a che le
sue dita non raggiunsero le corte brache che portavo sotto.
Lo
sentii sorridere contro la mia bocca. «E queste?»
«Ti ho detto
che odio le gonne» mugugnai tra un bacio e un altro.
«In ogni
caso adesso non ti servono».
Durza mi strinse nuovamente le cosce
e si alzò in piedi tenendomi a sé,
gettò uno sguardo frenetico
nella stanza e finì per appoggiarmi sull’orlo del
tavolo, che
pareva l’unico angolo libero tra quelle quattro mura.
Fece per
tirare via le brache, ma quelle si incastrarono all'altezza dei miei
stivali. Lo Spettro ridacchiò per l'impaccio e io scalciai
via
direttamente uno stivale, sfilando le brache dalla caviglia
sinistra.
Arrotolai le gambe intorno alle sue, portandolo più
vicino, e gli sganciai la cintura con mani ancora più
tremanti per
la trepidazione. Finì a terra e il fodero vuoto che vi era
agganciato atterrò con un tonfo sul pavimento grezzo.
Il mio
carceriere sollevò la gonna fin sopra alle ginocchia e mi
baciò per
l'ennesima volta, lasciando vagare pigramente le mani sulle mie gambe
scoperte.
Quando si staccò pensai che mai Durza mi era sembrato
così bello. Con i capelli scomposti, i lineamenti distesi in
un
abbandono quasi infantile e gli occhi cremisi ricolmi di una brama
incalzante, che di infantile non aveva nulla.
Con l'ardore che mi
bruciava le vene, tutti i muri che mi avevano tenuta separata da
Durza lo Spettro mi parvero improvvisamente insignificanti e, senza
pensare a nulla che non fosse lui, abbracciai l'uomo di fronte a me
come se non avessi fatto altro per secoli.
Fu brusco e mi fece
male. Mi sfuggì un piccolo singhiozzo, ma mi affrettai a
reprimerlo.
Mi aggrappai con forza alle spalle dello Spettro, irrigidita per
il dolore, e lasciai che soffocasse i sospiri e i gemiti contro la
mia bocca.
Sarebbe passato, lo sapevo, ed in effetti fu così. Il
dolore si ridusse lentamente ad un lieve fastidio, sempre
più
lontano, mentre la passione e una sensazione gradevole prendevano il
suo posto, strappandomi un paio di profondi sussulti e stringendo
ulteriormente il nodo sotto il mio stomaco.
Cominciai a perdermi,
ad annaspare, ad abbandonare la coscienza dei netti confini del mio
corpo, ad annegare nelle iridi di sangue dello Spettro.
Poi Durza
mi strinse a sé, affondando le dita nella mia schiena, e
rilassò
improvvisamente i muscoli con un ringhio gutturale, premendo la
fronte imperlata di sudore contro la mia, il respiro pesante e gli
occhi spalancati. Gli pettinai i capelli tra le dita, insoddisfatta
eppure felice, e lui mi baciò con una dolcezza che non mi
aveva mai
riservato in mesi di baci rubati.
Non sanguinai, e potei
risparmiarmi l'imbarazzante ammissione di non avere mai fatto l'amore
prima di allora e potei restare a godermi ancora un poco le labbra
screpolate di Durza, la carezza gentile delle sue mani e la sua
espressione beata.
Ma non potevamo restare troppo a lungo in
quella bolla di non troppo innocente spensieratezza.
Sentii dei passi frettolosi provenire dalla strada accanto
e la realtà inquinò in un istante tutto: la
cucina tornò ad essere
un luogo squallido e io e lo Spettro tornammo ad essere due
fuggitivi.
«Forse dovremmo andare» mormorai, quasi spaventata
all'idea di interrompere il nostro silenzio complice.
«Non
ancora» rispose Durza pigramente. «Fammi prima
realizzare che
questo non è un sogno».
Gli sorrisi e gli afferrai il volto per
baciarlo sonoramente sulla fronte. «Non lo è. Ma
non è il caso di
farci trovare in queste condizioni dal locandiere, dai Sacerdoti o
dalle guardie cittadine».
Ormai avevo spezzato l'incantesimo.
Durza si separò con reticenza da me, non prima di avermi
sfiorato le
labbra un'ultima volta. Come se fossi effettivamente un sogno che
rischiava di dissolversi tra le sue dita.
Il
mio amante ridacchiò quando mi vide indossare le brache
sotto la
gonna, ma poi si ricompose in silenzio, allontanandosi per recuperare
il mantello, che giaceva ancora a terra accanto alla
sedia.
Inevitabilmente calò un lieve imbarazzo e lo Spettro non
si diede esattamente da fare per dissiparlo.
«Forse
avrei dovuto dirtelo prima di.. insomma..»
cominciò, guardando un
punto indefinito all'altezza delle mie spalle. Gli feci cenno di
andare avanti e lui mi accontentò.
«Prima, quando eravamo alla
Cattedrale, mi hai visto assalire la mente di un uomo,
ricordi?»
«Certamente».
«Ecco forse quell'uomo potrà
portarci qualche informazione entro le prossime due ore».
Trattenni
un'esclamazione di stupore. «Gli hai invaso la
mente?»
Annuì.
«Sta terminando le ricerche per noi. Costringerà
un sacerdote a
dargli indicazioni più precise».
«Hai.. Gli hai detto il tuo
segreto?»
«Non posso. Ho cancellato la sua identità e l'ho
sostituita con l'idea fissa di trovare quello che cerchiamo. Eravamo
vicini, Arya, molto vicini. Se ciò che cerco non si trova in
quella
stanza direi che non si trova in nessun altro luogo di
Alagaësia se
non nella biblioteca privata di Galbatorix».
Era una scelta
orribile, la sua, e così perversa da darmi i brividi.
Cancellare
l'identità di un uomo era molto peggio che ucciderlo.
Avrebbe
potuto consegnare me e riprendere la ricerca con calma.
Ma non lo
avrebbe mai fatto, in quel momento ne fui certa. Spettro o no, nemico
o no, Durza ci teneva a me. In modo singolare e tutto suo, ma ci
teneva.
Fui distratta dalla tinta rosata che avevano assunto le
sue guance mortalmente pallide e così mi dimenticai di
commentare le
sue azioni.
«Non sei arrabbiata?» mi chiese con cautela.
«Non
avevi scelta. Era la nostra ultima possibilità..»
Mi bloccò con
un gesto. «Non parlavo di quello».
Incrociai le braccia sotto il
seno e risposi con una franchezza senza precedenti: «Non mi
sono
data a te solo perché non mi hai consegnata al monco,
Spettro, e lo
sai anche tu. Sono felice che tu abbia avuto la prontezza di mettere
a punto un piano di riserva».
Ammutolì, guardandosi la punta
degli stivali. «Hai sempre intenzione di uccidermi?»
Ero
abbastanza sicura che solitamente non ci si intavolassero discorsi di
quel genere dopo aver giaciuto insieme, ma fui sollevata
dall'impaccio della risposta quando qualcuno dal passo pesante si
avvicinò alla porta di servizio e vi picchiettò
leggermente le
nocche.
Durza sollevò un sopracciglio e andò ad aprire il
chiavistello.
Mi ritrovai faccia a faccia con l'ombra dell'uomo
che aveva lottato contro Durza nella cattedrale. Aveva un'espressione
vuota e assente, i muscoli facciali molli e il passo tremebondo.
Aveva subito una cosa orribile del resto.
Lo Spettro stava per
tirarlo dentro e strappargli la pergamena che stringeva tra le mani,
ma un grido risuonò, sin troppo vicino.
«ECCOLI!»
Erano altre
ombre. Probabilmente il loro compagno così ridotto aveva
attirato la
loro attenzione, ma non era il caso di fermarsi a chiedere
conferma.
Infilai lo zaino in spalla, la spada già legata
saldamente ad esso, ed estrassi il pugnale.
«Ti serve
vivo?»
«No».
Lo colpii al cuore e in qualche modo seppi di
avergli fatto un enorme favore.
Poi mi ritrovai a correre
nuovamente con lo Spettro per i soffocanti vicoli di Dras-Leona, in
direzione della baracca di Ditolesto.
«La pergamena?» gli urlai
dietro.
«L'ho io, Principessa».
I nostri inseguitori erano
parecchi, ma erano lenti. Tuttavia, anche se ci persero di vista,
sapevano ormai alla perfezione in che zona della città ci
stessimo
nascondendo e avrebbero stretto il cerchio frugando in ogni casa
traballante.
Mentre noi avremmo fatto un bel bagno nelle
fognature, sperando di non annegare in quella melma
puzzolente.
Ricordavo la strada per la baracca di Ditolesto, ma
dovetti lasciar passare Durza avanti, perché aprisse la
porta con la
magia. Ormai potevano anche rintracciarci, ma una volta fuori da
Dras-Leona io e lo Spettro avevamo altissime possibilità di
fuggire
indenni, con il buio e la velocità dalla nostra.
Peccato però
che, dopo tutte le emozioni di quella notte, mi sentissi decisamente
esausta. E a quella stanchezza si sommava quella accumulata dalle
notti precedenti.
La botola che portava sottoterra era coperta da
varie assi di legno, secchi, corde, scatole di chiodi e martelli e
picozze. Se non fosse stata l'unica possibile botola in quella stanza
l'avrei scambiata per un semplice ammasso di strumenti e
materiali.
Facemmo troppa confusione.
Ditolesto scese da una
scaletta di legno dopo pochi minuti, una camicia lercia a coprirgli
il torace ossuto e una torcia in una mano.
«Ehi, voi siete quelli
del Ratto, no?»
«Sì», rispose Durza seccamente,
«e dobbiamo
andarcene in fretta se permetti».
Ma l'uomo non sembrava
intenzionato a lasciarci andare con tanta semplicità e
iniziò a
tempestarci di domande. Eravamo entrati tra i sacerdoti? Cosa avevamo
scoperto? Volevamo vendergli qualche informazione?
«Vi ho detto
che c'è un giovane uomo coi capelli scuri che vuole sapere
un paio
di cose su di loro, no? Se restate fino all'alba vi organizzo un
incontro così ci parlate diretto e magari vi fate dare un
po' di
soldi. Oppure vi scambiate altre informazioni..»
Capii che c'era
qualcosa che non andava quando mi accorsi che il suo tono di voce si
faceva sempre più flebile mano a mano che parlava. Alzai gli
occhi
su di lui, abbandonando il martello che stavo spostando, e colsi il
volto di Durza ai margini del mio campo visivo.
Gli occhi
animaleschi assottigliati, la pelle bianca, i denti aguzzi. Nessun
uomo avrebbe esitato a riconoscerlo per ciò che era, e
probabilmente
nemmeno le mie orecchie a punta erano sufficientemente nascoste dalla
treccia ormai totalmente scarmigliata dopo le disavventure della
notte.
Non mi mossi abbastanza in fretta da impedirgli di urlare.
Ditolesto riuscì ad emettere un grido sorprendentemente
acuto -pur
essendo un uomo- prima che gli recidessi le corde vocali col pugnale
ancora incrostato del sangue dell'Ombra. Poi lo colpii al petto e
misi fine alle sue sofferenze. L'uomo cadde a terra fissandosi la
mano destra -quella mezza amputata- lercia di sangue, con
un'espressione di ingenua sorpresa stampata in viso.
Lo Spettro
imprecò quando la torcia, caduta dalle mani della spia,
sparse le
sue fiamme sul pavimento legnoso della baracca. Ma per nostra fortuna
non attecchì a causa dell'umidità del materiale e
con un paio di
calci bruschi riuscimmo ad estinguere il fuoco.
«Arya finisci tu
ti prego!» implorò stirando la pergamena che gli
aveva portato
l'Ombra tra le mani e scorrendola rapidamente.
Avrei voluto
sedermi accanto a lui e leggerla a mia volta, ma le grida di
Ditolesto avevano svegliato un buon numero di vicini, che domandavano
inquieti cosa fosse successo. Entro un minuto avremmo avuto addosso
le guardie imperiali e l'intero manipolo di Ombre.
Gettai via
tutto ciò che trovai sulla botola, senza più
curarmi di essere
cauta e silenziosa.
Quando la botola fu sgombra, Durza la aprì
con un incantesimo e mi fece segno di scendere per prima dalla marcia
scaletta a pioli, per poi seguirmi nel buio e chiudere nuovamente la
botola. Fece danzare una fiammella accanto a me per illuminarmi la
strada, ma non dovemmo scendere troppo prima che i miei stivali
toccassero una superficie solida. Più o meno eravamo alla
stessa
altezza delle stanze sotterranee dei Sacerdoti, solo che al centro
del tunnel scorreva lentamente un melma nerastra e terribilmente
puzzolente.
Stringemmo saldamente la scaletta di legno e dopo una
lunga forzatura, riuscimmo a staccarla dal suo sostegno. Quella
soluzione avrebbe ulteriormente rallentato i nostri inseguitori.
Io
e lo Spettro corremmo su una sorta di stretta piattaforma rialzata,
che tuttavia si estinse presto, affondando direttamente nel
liquido.
L'idea di tuffarmi in quello schifo mi disgustava, ma non
avevo molte altre scelte, quindi scesi il primo scalino e i miei
stivali si mossero con uno sciacquio.
Ben presto mi ritrovai
immersa fino alla vita, con lo stomaco contratto per la
nausea.
«Forza, Principessa!» mi incoraggiò
Durza facendo una
lieve pressione tra le mie scapole. «Non siamo molto lontani
dal
muro esterno. Una volta lì dovremmo cadere in un canale che
porta al
lago e allora ci laveremo tutto di dosso».
«Sono stanca»
ammisi, trascinando le mie gambe dai muscoli tremanti nella
melma.
«Anche io». Mi strinse un gomito, senza smettere un
attimo di camminare.
Alle nostre spalle qualcuno mandò in pezzi
la botola di legno. Lo Spettro estinse la fiammella e io riuscii ad
afferrare la sua mano appena in tempo, prima che tutto sprofondasse
nell'oscurità.
Qualcuno urlò di portare una corda e io mi
ritrovai a camminare nel buio totale, con il respiro di Durza e la
sua mano nella mia come unico segnale della sua presenza e un
sciabordio sempre più forte che si avvicinava davanti a
noi.
Sembrava passata un'eternità, ma probabilmente non
più di
cinque minuti dopo ci trovammo davanti ad una cascata, come intuimmo
dal rumore dell'acqua che si infrange dopo una caduta.
Non era
certamente alta, ma ci avrebbe costretti ad inzaccherarci dalla testa
ai piedi ed esitammo qualche istante prima di buttarci.
Sentivo
ancora il sciabordio del liquame alle mie spalle, causato dai
movimenti dei militari che ci stavano seguendo in quel pantano,
agitando le torce.
Non ero più particolarmente spaventata da
loro. Io e Durza li avevamo distanziati e non avevano un udito buono
a sufficienza per poter azzeccare la nostra posizione e colpirci a
distanza con armi da lancio, in quel buio. Ed ero certa che una volta
fuori dalle acque del lago nessuno sarebbe riuscito a raggiungerci, a
meno che non venissero movimentati i Ra'zac.
Ma probabilmente
sarebbero rimasti a Dras-Leona ad aspettare il cavaliere, com'era
loro dovere. Io non potevo fare altro che sperare che Brom e il
ragazzo se la cavassero contro di loro, mentre accompagnavo Durza lo
Spettro a Gil'ead, lontano da loro e forse vicino ad una soluzione
per deporre Galbatorix.
Sì, perché nonostante l'intimità di
quella notte, nulla era cambiato nelle mie convinzioni e nei miei
propositi.
Quasi a risposta dei miei pensieri, Durza mi sfiorò il
viso, cercando le mie labbra, e mi baciò duramente.
Ricambiai mio
malgrado quel gesto familiare, per poi stringergli nuovamente la mano
e saltare nel vuoto.
Prima di atterrare con un tonfo nei fluidi
puzzolenti, pensai al cibo che avevamo negli zaini. Non lo avrei
mangiato mai, a costo di morire di fame.
Strinsi le labbra, mi
tappai il naso e serrai gli occhi con tale forza che apparvero dei
lampi colorati sotto le mie palpebre. La puzza era diventata
insostenibile, ma ora sembravamo trascinati da una vera e propria
corrente, anche se non osai aprire gli occhi incrostati di melma per
accertarmene.
In un pugno di secondi sentii il contatto di un
liquido freddo e dedussi che fossimo ormai arrivati alle acque del
lago Leona, anche perché non ero più costretta
dall'acqua densa.
Quella era più leggera e liquida.
Tuttavia non ebbi il coraggio
né di lasciare le dita di Durza, né di aprire gli
occhi, né di
immergere la faccia per lavarmi il viso in quella che forse era acqua
pulita.
Nuotammo scomodamente per qualche minuto prima di riuscire
a compiere tutte e tre le azioni.
Quando finalmente aprii gli
occhi sulla notte vidi le luci di Dras-Leona ancora vicine e
l'immensità scura del lago argentato alle mie spalle. La
luna non
aveva abbandonato la sua posizione e presto individuai le rive
più
vicine, continuando al contempo a strofinarmi il lerciume di
dosso.
«Potremmo nuotare fino alla sponda opposta»
suggerii.
Ero
sfinita, ma procedendo con calma ci sarei riuscita.
Ma lo Spettro
scosse la testa rossa. «Non sono un gran nuotatore.
È già buono
che sia riuscito a rimanere a galla finora, ma è il caso che
mi
sposti verso riva» concluse accennando alla sponda
più vicina,
quella sotto le mura della città.
Lo seguii, ovviamente. E
appurai che effettivamente era a malapena capace di galleggiare.
Una
volta arrivati al suolo sassoso cominciammo a correre, tenendo il
lago alla nostra sinistra. Corsi fino a che le gambe non mi ressero
più. Allora camminai, poi traballai, reggendomi al mantello
di
Durza, poi ci sostenemmo a vicenda e infine crollammo l'uno sopra
l'altra, all'estremità settentrionale del lago Leona.
Era mattino
fatto e io crollai addormentata, sfinita.
______________________________________________________________________________________________
Ehilà, salve a tutti! ^_^
Questo è decisamente un capitolo denso di azione e azioni, che dite?
So che molti aspettavano il momento in cui Durza e Arya sarebbero arrivati al sodo e infine eccoci qua!
Rimangono tuttavia dei dubbi: Durza ha tra le mani la soluzione che cercava? Che faranno ora i nostri eroi? Arya è davvero indifferente a ciò che è successo, nonostante il suo trasporto?
Vi lascio con queste domande e vi auguro un felice Natale -che lo festeggiate o meno- e vi mando un mucchio di baci, vi adoro ;)
A domenica prossima (perché non vado in vacanza con la fanfiction, tranquilli),
Lalli
|
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Capitolo 28 *** Decisioni ***
Ciao
28.
Decisioni
Non
so quanto tempo riuscii a dormire in pace. Ma so per certo che Durza
si accorse subito quando la mia visione -che sembrava avermi ormai
abbandonata- ricomparve in tutta la sua potenza, trascinandomi in un
vortice di sofferenza e disperazione. Mi svegliò scuotendomi
violentemente le spalle e schiaffeggiandomi leggermente il
viso.
Aprii gli occhi per fargli capire che era riuscito a
riscuotermi, ma poi ero così stanca che mi riaddormentai
nuovamente,
di un sonno di poco più leggero.
Tornai alla realtà con la
luce
del sole che picchiava violentemente sui miei occhi. Doveva essere
ormai la seconda ora del pomeriggio e io mi sentivo sporca
-probabilmente non avevo mai puzzato tanto in vita mia-, indolenzita
e dolorante.
Mi sarei alzata a sedere ma lo Spettro era
praticamente steso su di me e il suo peso mi teneva premuta a terra,
con un sasso scomodamente affondato nella schiena. Gli scostai i
capelli inzaccherati dalla fronte e sussurrai un paio di parole per
incitarlo a svegliarsi.
Riuscii nel mio intento e Durza si scostò
bruscamente da sopra di me, guardandosi intorno un poco spaesato.
Solo in quel momento mi ricordai che eravamo ancora braccati.
«Ho
bisogno di lavarmi» lo informai, sollevandomi dal terreno e
massaggiandomi la schiena, dove il malefico sasso aveva scavato un
solco.
Trovai il mio zaino gettato scompostamente accanto a me e
lo portai con me sulle sponde del lago, dove mi immersi con piacere
nell'acqua fredda. Mi frizionai la pelle, gli abiti e i capelli con
energia, piangendo la perdita del sapone dell'erborista Gamall.
Lo
Spettro mi seguì e mi imitò. Insieme, svuotammo i
nostri zaini e
gettammo buona parte delle provviste che avevamo radunato nella
cucina del Covo, tenendo solo le mele e sciacquando le borracce
vuote, le coperte e le nostre spade.
«Possiamo lasciare
Dras-Leona?» mi accertai, intrecciando i miei capelli
grondanti
d'acqua.
«Dobbiamo,
direi. E di corsa, prima che qualcuno trovi le nostre tracce con la
magia. Perderemo il cavaliere, ma se i Ra'zac ci trovassero e
riferissero al re saremmo finiti».
«I Sacerdoti..»
«Non
parleranno» mi rassicurò. «Sanno bene
che la priorità dei loro
dei è servire Galbatorix, volenti o nolenti, e non andranno
a
sbandierare il loro tradimento e il loro fallimento in faccia a loro.
Sanno che la pagherebbero cara».
Annuii e mi concentrai sulla
domanda cruciale. «Hai ciò che
cercavamo?»
Sorrise, con un
pizzico di amarezza. «Sì. Ed è
più semplice di quanto credessi,
anche se non facile».
Una feroce esultanza mi montò in petto e
una scarica di energia mi percorse le membra. Lo Spettro
ammiccò,
allargando il sorriso e cedendo per qualche istante a un'allegria che
mi parve sincera.
Poi asciugò entrambi con poche parole, quindi
mettemmo gli zaini in spalla e corremmo verso nord, cercando il punto
in cui il fiume Toark sfociava nel lago Leona. Non avevo chiesto
nulla ma immaginavo che la nostra meta sarebbe stata Gil'ead.
Non
ci fermammo -se non per riempire le borracce- fino a che la luce non
cominciò a calare. A quel punto crollammo a terra,
nuovamente
sfiniti e decisamente affamati. Mangiammo le nostre mele e bevemmo
abbondantemente l'acqua del fiume, che in quel punto si gettava a
estuario nel lago.
Durza riuscì anche a pescare un paio di pesci
con la magia e accese un fuoco per cuocerli prima che facesse buio e
il bagliore diventasse localizzabile a miglia di distanza. Tuttavia
anche la colonna di fumo che si levava sopra di noi era abbastanza
evidente nella sera grigiastra.
Non sentivamo la presenza di
nessun inseguitore alle nostre spalle, ma la prudenza non era mai
troppa.
«Ne vuoi un po', Arya?» mi chiese Durza, porgendomi
del
pesce. E per la prima volta non percepii del sarcasmo nella sua
proposta di mangiare le carni di un essere che aveva pensato e
respirato.
«No, grazie» risposi.
Non avevo così fame da
dovermi abbassare a quello.
«Non so se troveremo altro» mi
avvisò lo Spettro, un poco titubante. «Non avevo
previsto di dover
fare un tuffo da testa a piedi in quella schifezza o mi sarei
risparmiato di riempire gli zaini».
Sarebbe successo quello che
era successo se lui non avesse riempito gli zaini? Forse sarebbe
andato lui stesso a chiudere la porta della cucina e quindi non mi
avrebbe toccato il braccio. Era da quel contatto che era partita la
pelle d'oca in tutto il mio corpo, ma forse non era stato quello il
vero principio.
Forse la sua battuta irriverente sulle mie
gambe?
Probabilmente non aveva senso cercare di capire come il
tutto fosse partito: era successo e basta.
«All'altezza dell'ansa
del Toark, quando ripiega sulle montagne, potremmo spostarci di
qualche miglio verso Taurida. Troveremo delle fattorie e dei frutteti
dove potremmo rubacchiare qualcosa» dissi, tornando al mio
lato
pratico.
Mi guardò da sotto le corte ciglia. «Lo sai per
certo?»
«Ho percorso questa via ad anni alterni, per quindici
anni, portando l'uovo con me. Io e i miei compagni cercavamo di
evitare i centri abitati e non viaggiavamo con troppe provviste,
quindi non era raro che facessimo qualche deviazione per
rifornirci».
Sollevò un sopracciglio. «Elfi che rubano agli
uomini?»
«Ho passato più tempo tra gli uomini che tra la
mia
gente, qualche brutta abitudine devono avermela passata» mi
giustificai debolmente.
Ridacchiò. «Tranquilla, non lo dirò a
nessuno. Forse non sarò amabile come i tuoi amici elfi, ma
direi che
stavolta ti accompagno io nelle tue.. scorrerie».
«Si trattava
di piccoli furti» minimizzai.
«Arriveremo entro domani al
tramonto?»
«Sì».
«Bene, perché credo che moriresti di
fame se tardassimo ulteriormente». Mi lanciò
un'altra mela, che
afferrai al volo. «Prendi anche questa, io per stasera sono
più che
sazio».
«Grazie» dissi, stirando le labbra in un sorriso
accennato.
Si strinse nelle spalle e spense il falò. «Ti
dispiace camminare altri dieci minuti? Giusto per allontanarci un
poco dal bivacco, non si sa mai».
«Non credo che qualcuno ci
abbia seguito» lo rassicurai.
E tuttavia acconsentii ad
allontanarmi di un poco.
Stendemmo le coperte lontano dalla strada
e dal fiume.
«Sai una cosa?» fece lo Spettro dopo avere slegato
la spada dallo zaino e averla posata accanto a sé.
«Non abbiamo
pagato le ultime settimane di permanenza al locandiere del Covo
Segreto. E per di più gli abbiamo anche rubato del cibo e
delle
coperte».
Sbuffai una risata. «Potrai tornare a pagarlo una
volta che tutto sarà finito. Mi fai leggere la
pergamena?»
azzardai, cambiando discorso prima che i pensieri di entrambi
indugiassero sulla cucina e sul tavolo della cucina in
particolare.
Durza parve sorpreso della richiesta, ma stranamente
non si oppose. Forse non aveva pensato che, se il suo giuramento gli
impediva di rivelarmi il segreto di Galbatorix, nulla gli impediva di
lasciarmelo scoprire da sola.
Tuttavia quando estrasse la
pergamena macchiata di inchiostro dalla tasca della casacca realizzai
immediatamente che le mie speranze erano state vane e persino un po'
ingenue.
Avevamo fatto un bagno in del liquame e poi in
dell'acqua. Cosa poteva essere rimasto delle parole se non qualche
sparuta macchia nera a testimoniare il loro passaggio?
«Ricordi
ciò che c'era scritto vero?» mi accertai, un poco
amareggiata.
Annuì. «Mi spiace, non ho pensato a
salvarla».
«Oh,
non fa nulla».
Mi avvolsi nel mantello e nelle mie coperte e mi
preparai a dormire. Ormai era calato il buio e nessun falò
rischiarava il nostro bivacco, la nostra unica luce era nuovamente
quella della luna, che però era un po' oscurata dalle nubi,
al
contrario della notte precedente.
«Arya», mormorò Durza in tono
morbido, «forse dopo dovrò svegliarti. Ed
è freddo».
Persino
un idiota avrebbe letto l'implicito invito nelle sue parole.
Raccolsi
il mio zaino e le mie coperte e mi spostai di qualche iarda, fino a
che non mi trovai accanto a lui.
Le nostre mani si trovarono. E
poi anche le nostre labbra.
Dovevo smetterla di comportarmi da
stupida e mettere in chiaro le cose con lui una volta per tutte:
potevo provare nuovamente a convincerlo a rinunciare ai suoi
propositi, oppure dovevo allontanarmi definitivamente da lui.
«Devo
parlarti, Spettro».
Tormentò i miei capelli e assunse
un'espressione corrucciata. «Domani, ti prego».
Mi riscosse dal
mio incubo e mi baciò di nuovo. E io lo baciai e poi lo
strinsi e
poi mi addormentai, tremando tra le sue braccia.
Mi
risvegliai sentendo Durza canticchiare una ballata popolare, stonato
come poche altre persone che avevo sentito cantare in tutta la mia
vita. Parlava di due nemici che si scontravano sul campo di
battaglia. Lui uccideva il suo avversario, il migliore che avesse mai
sfidato, ma quando gli sfilava l’elmo scopriva che era la sua
amata, che apparteneva all’esercito avversario. Lei moriva
piangendo, spiegando che aveva fatto tutto quello perché il
conflitto tra lealtà e amore la stava uccidendo
più di qualunque
spada. E quale morte migliore di quella per mano sua?
Le mie
palpebre chiuse tremarono, riconoscendo l’ombra della nostra
situazione in quelle parole.
«Non farmi mai uno scherzo del
genere, Elfa» borbottò ridacchiando, ma la sua
voce era fioca e
debole.
Schiusi gli occhi e restai a fissare i suoi in silenzio,
ritardando il più possibile il momento in cui avrei dovuto
erigere
nuovamente un muro tra di noi.
«Comincio
io se permetti» mormorò lo Spettro, stringendomi
la mano
sinistra.
Ne
baciò le dita, poi si staccò e iniziò
a pronunciare una lunga
cantilena nell’antica lingua. Mi imposi di non muovermi e di
non
intervenire, ma ero spaventata e non riuscivo a capire cosa stesse
facendo e perché.
«Toglilo» disse infine.
«Cosa..?»
«L’anello»
puntualizzò.
Ah. Lo tirai quasi con pigrizia e, con mio estremo
stupore, si tolse con facilità.
Sentii vagamente Durza dire: «Sei
libera».
Ma la mia mente vagava ad altro. Sentivo la mia energia
tumultuosa premere per uscire, potevo fare una magia, una qualsiasi,
quando volevo e come volevo.
Una fiammella danzò sul mio palmo
senza neanche bisogno di parole, seguita da globi luminosi che mi
fecero pizzicare tutto il corpo per l'emozione.
Poi abbandonai la
solitudine della mia mente ed espansi tentacoli di coscienza tutto
intorno a me, percependo all'improvviso la natura brulicante che si
risvegliava nella primavera, insetti, piante, piccoli animali. Da
mesi ero costretta in me stessa come dietro ad un muro e in quel
momento sentire la vita, il suo flusso, i suoi misteri.. Mi si
riempirono gli occhi di lacrime bollenti e le membra mi formicolarono
di rinnovata energia.
E mi sentii forte, potente, invincibile,
letale, pronta a colpire.
Infine sentii la coscienza di Durza e il
vuoto lasciatomi al dito dall’anello. Dopo tutti quei mesi
avevo
fatto l’abitudine a sentirlo lì, a stretto
contatto con la mia
pelle, dove ormai si era disegnato un pallido cerchio.
Era il
simbolo schiacciante della mia sconfitta, della mia umiliazione e
inferiorità, delle mie illusioni, delle mie sofferenze,
delle mie
paure più oscure, delle sue menzogne e delle sue
crudeltà.
Eppure
lo rimisi al suo posto, d'impulso.
Tornai
faticosamente a concentrarmi sullo Spettro e lo trovai guardingo,
teso e inquieto, con
gli occhi così socchiusi che sembravano scomparire sotto le
ciglia
corte e sottili.
Mi
parve bello e pericoloso allo stesso tempo. E sembrava
quasi aspettare un mio attacco.
«Se
lo desideri,» disse lentamente, «puoi tornare a
casa».
«Cosa?!»
esclamai sconvolta. «Ma.. e il piano per deporre il re? I
tuoi
segreti?»
«Ormai non importa» replicò con voce
monocorde,
sfilando delicatamente il braccio da sotto il mio corpo e alzandosi a
sedere, privandomi repentinamente del suo calore. «Il
cavaliere mi è
scappato, quindi non c'è nessuno dei miei piani che potresti
intralciare facendo rapporto al tuo popolo o ai Varden. Vado ad
affrontare Galbatorix, ma credo che non avrai nulla in contrario su
quello» concluse con una risatina. «Per quanto
riguarda ciò che
succederà dopo.. immagino che non arriverai in tempo per
ostacolarmi. Al massimo potrai tentare di depormi più
avanti. Hai
fatto il tuo dovere e anche di più, non credi?»
Mi accigliai e
mi alzai a mia volta. «Hai bevuto qualcosa mentre io dormivo,
Spettro?»
«A quanto pare devo sempre essere ubriaco quando
succedono cose interessanti» fu la sarcastica risposta.
Nel
tumulto che sentivo crescermi dentro trovai a malapena la
lucidità
di chiedere: «Perché?»
«Devo veramente spiegarti il perché?
No, credo che tu lo sappia già alla perfezione».
«E quindi mi
mandi via? Non dovevo servirti contro il re?» insistetti.
Mi
pareva incredibile di essere improvvisamente sciolta da ogni vincolo
dopo più di quattro mesi. E se da un lato mi sentivo
esultante,
dall'altro ero terrorizzata.
Non mi aspettavo un allontanamento
così brusco e improvviso né dalla missione
né da Durza
stesso.
Mise le mani sugli occhi. «Vai via prima che mi venga
voglia di trattenerti, piccola Elfa».
«Io voglio esserci!»
decisi, determinata, afferrandogli i polsi e spostandogli le mani.
«Voglio esserci quando il re cadrà».
«Non capisci», soffiò
con voce rotta, «che dopo Galbatorix sarà uno di
noi due a morire?
Io non voglio morire. E non voglio ucciderti».
Le lacrime mi
punsero gli occhi. «Nemmeno io».
«Allora, ti supplico,
vattene».
Solo in quel momento realizzai pienamente la portata
dei sentimenti che provavo per Durza lo Spettro.
Ciò che mi
legava a lui era così complesso, contraddittorio e
stratificato..
qualcosa che non avevo provato per nessuno, mai.
Avevo combattuto
contro di lui e poi al suo fianco, lo avevo ferito e salvato e lui
aveva fatto lo stesso per me, ero stata sua nemica e alleata, lo
avevo schiaffeggiato e baciato, gli avevo nascosto e confessato
segreti terribili, avevo tramato alle sue spalle e fatto l'amore con
lui, avevo pregato per la sua morte e la sua salvezza, avevo subito
le sue torture e goduto delle sue carezze, lo avevo definito un
mostro e poi avevo scoperto il ragazzino spaventato alle sue spalle,
accanto a lui mi ero sentita in pericolo e al sicuro, avevo decifrato
le sue espressioni e reagito impreparata alle sua azioni, riso e
protestato alle sue battute, negato e richiesto il suo
affetto..
Forse potevo andare avanti per delle ore.
E forse
era il caso di smetterla di pensare e cominciare a prendere decisioni
che avrebbero sconvolto la mia abituale esistenza, ma forse mi
avrebbero finalmente resa felice.
Ed era tutto così facile..
Volevo che Durza fosse mio. Non c'era niente di male in tutto
quello.
«Io.. tu hai detto di provare dei sentimenti per me,
quella notte nella cattedrale» balbettai.
«Sì, Arya. Tantissimi
sentimenti. Ed è per questo che..»
«Anche io» lo
interruppi.
Addolcì l'espressione disperata che aveva in volto.
«Lo so e so anche che non mi vorrai veramente, non
finché le cose
non cambieranno».
«E allora dovremmo cambiarle, non credi?»
«Non
sai quello che dici, Elfa».
Strinsi la presa sui suoi polsi. «Se
reclamerai il trono del re ti uccideranno, Durza. Gli elfi, i nani,
gli uomini, forse anche i gatti mannari. Nessuno vuole un altro
tiranno, tanto meno uno spettro, quindi se vuoi vivere devi
rinunciare al potere».
Mi scrollò bruscamente e iniziò ad
arrotolare le coperte. «Non voglio»
proferì gelidamente.
Lo
imitai e gli concessi qualche minuto di pace, anche solo per meditare
sulle mie parole. Ma poi, mentre camminavamo fianco a fianco lontano
dal sentiero, tornai all'attacco.
«Cosa te ne fai del trono di
Galbatorix?»
«Mi hanno schiacciato molte volte nella mia vita,
troppe. E ora non voglio sottostare mai più
all'autorità di
qualcuno. Ho capito che in questo mondo si ferisce o si è
feriti, si
schiaccia o si è schiacciati, e non c'è una via
di mezzo» fu
l'asciutta risposta.
«Non so con esattezza cosa ti abbia condotto
a queste conclusioni, anche se una vaga idea ce l'ho, ma ciò
che ho
detto è la verità: se prenderai il trono di
Alagaësia sarai
sicuramente e inevitabilmente schiacciato da forze superiori alle
tue. Sei potente, ma non abbastanza da sconfiggere tutti i membri del
mio popolo».
«Non credo che..»
«Si muoveranno» lo freddai.
«Sicuramente si muoveranno contro di te».
Fece una smorfia e
all'improvviso mi parve spaesato. «E dunque vuoi propormi
amnistia?
Posso rinunciare al potere, ma sarei in ogni caso condannato a
morire. Ci sarà un processo o qualcosa del genere e sono
abbastanza
sicuro che una buona fetta di Alagaësia vorrà
vedere il mio cuore
strappato dal mio petto».
«Rinunceresti al trono?» mi
accertai.
Esitò. «Ormai te lo dico, tanto peggio di
così non
potrà mai andare». Fece un respiro profondo.
«Fino ad un giorno fa
avevo intenzione di uccidere il re ed impossessarmi del suo potere,
ma ora so che se voglio sconfiggerlo devo distruggere la fonte della
sua magia e non avrò più possibilità
di recuperarla. Mi trovo ad
un bivio, ed entrambe le mie scelte sono vicoli ciechi, come puoi
vedere. Quindi continuerò sulla pista originale,
chissà che non mi
imbatta per sbaglio in Ajihad nel frattempo, magari almeno uno dei
miei progetti potrebbe essere realizzato».
«Verresti via con
me?» chiesi a bruciapelo.
Si fermò e sollevò le sopracciglia.
«Una fuga d'amore, Principessa?»
Mi fermai a mia volta.
«Sì».
«Quando ti è venuta in mente un'idea
simile?»
«Adesso»
ammisi.
Contrasse il viso in un'espressione sospettosa. «E me lo
stai proponendo per tenermi con te o per tenermi lontano dal trono di
Galbatorix?»
«Una cosa implica l'altra. Non disdegnerò di
prendere due piccioni con una fava» ammisi.
Ammutolì,
spiazzato.
Capii che aveva creduto di avere solo due misere ed
infelici opzioni tra cui scegliere e che la mia proposta gli aveva
aperto un baratro.
Individuato quello spiraglio di incertezza nel
suo esitare, decisi di insistere.
«Non devi né diventare re, né
consegnarti ai Varden o agli elfi. Sono d'accordo sul fatto che in
entrambi i casi verresti probabilmente ucciso, ma sono sicura che se
sparissi semplicemente dalla circolazione, prendessi nuove sembianze
e un nuovo nome, allora potresti vivere in pace la tua vita. Potresti
difenderti da qualsiasi essere umano e stare alla larga dagli Elfi,
per sicurezza. Non sarebbe un'esistenza così
terribile».
«Con
te?» chiese semplicemente
«Con me» confermai. «Ma non tentare
di ingannarmi con finte promesse o ti giuro sulla mia vita e su
quanto ho di più caro in questo mondo che non avrai mai e
poi mai il
mio perdono. A quel punto avresti creato la tua più acerrima
nemica,
per di più custode di parecchi dei tuoi segreti»
aggiunsi con voce
terribile.
E in effetti Durza parve quasi spaventato.
Ripresi a
camminare davanti a lui, dandogli nuovamente il tempo per
metabolizzare le mie proposte e le mie intimidazioni.
La sua voce
suadente mi accarezzò le scapole. «E il tuo
popolo? La tua casa? I
tuoi amici?»
«Nessuno mi mancherà particolarmente. Dopo che il
re sarà sconfitto gli elfi nomineranno un nuovo ambasciatore
e se la
caveranno alla perfezione anche senza di me».
Lo Spettro sbuffò.
«Devo piacerti davvero parecchio per abbandonare tutto come
se
niente fosse, solo per stare con me».
«Oppure non mi piace
l'ambiente in cui vivo e tu sei la mia prima vera occasione di fuga
da quando sono nata» dissi con leggerezza, ma quella
confessione
pesava terribilmente sulla mia anima e avrei tanto voluto vedere
l'espressione del suo viso mentre la condividevo con lui.
Tuttavia
Durza pareva intenzionato a convincermi a rinunciare.
«Non credo
che tu sappia esattamente quello che stai facendo, piccola Elfa. Io
sono pur sempre Durza lo Spettro, ho fatto cose orribili e non sono
sicuro che riuscirò a trattenermi dal farne delle
altre».
«Ti
fermerò io» quasi lo ammonii. «E anche
Ajihad deve restare fuori
dai tuoi pensieri».
«Sto lavorando alla mia vendetta..»
«..
da decenni» conclusi per lui. «Ma puoi voltare
pagina. Mi dispiace
per ciò che ti è successo, per ciò che
la famiglia di Ajihad può
averti fatto, però potresti guardare avanti, per una
volta».
«Non
sono sicuro di poterlo fare».
Mi voltai a fronteggiarlo, fermando
il suo passo. «Durza ascoltami: hai ucciso due elfi la notte
che mi
hai catturata. Uno era un mio caro amico e fedele compagno, l'altro
era come un fratello per me e giusto qualche ora prima mi aveva
chiesto di.. diciamo sposarlo».
Lo Spettro sgranò gli occhi.
«Per la miseria..»
«E poi mi hai torturata» proseguii
imperterrita, «e mi hai ingannata. Eppure io ti sto chiedendo
di
stare con me. Credi che non sia stato difficile per me perdonarti e
accettarti? L'ho fatto. E non sono affatto migliore di te, quella
è
solo una scusa. Ti chiedo di rinunciare alla tua vendetta per me, per
noi. Puoi farlo?»
«Non voglio che tu sia mia solo per senso del
dovere».
«Sai che non è così» risposi
prontamente, mettendo a
tacere la sua flebile protesta.
Insistette. «Dimmi solo una cosa:
è considerato normale tra gli elfi fuggire con un uomo che
conosci
da.. quattro mesi e mezzo? Cinque? Magari ti stuferesti di me nel
giro di una settimana, Principessa. E dopo?»
«Non tutte le
persone sono in questo mondo per ferirti, Durza. Io non sarà
la
compagna perfetta: sono più brava a maneggiare una spada che
un ago
da ricamo, e ho visto più sangue che minestroni di verdure,
però
sono sicura di ciò che provo per te. Non posso giurarti che
non mi
stancherò mai, perché la mia vita è
appena iniziata, ma i miei
sentimenti sono autentici e non si dissiperanno tanto in
fretta».
Fischiò, tentando con scarso successo di recuperare i
modi di fare sfottenti che gli erano tipici. «Non avrei mai
creduto
di sentirti dire qualcosa del genere».
«Questa è la semplice
verità» insistetti, muovendo qualche piccolo passo
nella sua
direzione.
«Sembra
troppo facile e bello per essere vero».
Mi sentivo in biblico
sull'orlo di un baratro e sapevo che avrei dovuto fare del mio meglio
per portare lo Spettro con me. Durza era una persona importante ed
ero davvero disposta ad andarmene pur di stare con lui, tanto non
avrei lasciato troppe cose o persone dietro di me. Solo che.. per il
Wyrda di Alagaësia, stava succedendo tutto così in
fretta!
E lui
sembrava condividere il mio stesso timore, la mia stessa impazienza e
la mia stessa incertezza.
Sembrava incredibile che le nostre vite
si fossero sviluppate su due sentieri completamente diversi, tortuosi
e ben separati, che tante altre cose importanti fossero successe
prima che le nostre strade si incrociassero. Abbandonare i progetti
di una vita per un amore incerto e appena sbocciato era un azzardo,
quasi un atto incosciente.
Guardai Durza e vidi la sua postura
rigida saldarsi ulteriormente, ma quando i suoi occhi si alzarono su
di me, non li trovai tristi
e sconsolati, bensì cupi e voluttuosi, densi di sentimenti e
di
promesse.
Finii tra le sue braccia ancora prima di essermi resa
conto di aver mosso gli ultimi passi che mi separavano da lui. Lo
baciai, lentamente, chiudendo le palpebre con abbandono e
accarezzandogli la schiena.
Lo Spettro mi strinse la vita.
«Grazie» gracchiò, il volto premuto
contro la mia spalla.
«Avrai
ancora tempo per pensarci, fino a che non avremo raggiunto
Gil'ead»
sussurrai.
Sentii le sue labbra sfiorarmi il collo. «Non credo di
averne bisogno».
E mi morsicò appena la pelle con i denti
aguzzi, giocosamente.
Un peso enorme sparì dal mio cuore, ma un
leggero brontolio mi annunciò che il mio stomaco voleva la
sua
parte.
«Andiamo a cercare qualcosa da mangiare» mugugnai,
staccando lo Spettro da me.
Rise. «Se incredibile. Ardore e
calcolo da un minuto all'altro».
Scoprii i denti in un sorriso.
«Ma abbiamo un accordo, giusto?»
Mi guardò con aria di sfida.
«Sì, donna infida».
Non mi fu troppo difficile sorridergli di
nuovo. Avevo appena compiuto la seconda mossa più azzardata
della
mia vita, eppure sembrava essere quella giusta, finalmente.
Perché
in effetti mi sentivo felice, leggera, serena,quasi.. realizzata,
completa. Arrivata alla fine del mio viaggio.
Una piccola parte di
me continuava a guardare Durza con l'occhio sospettoso di chi ha
già
subito un tradimento e non sa se aspettarsene un altro, ma gli
credevo, volevo credergli. I suoi sentimenti erano reali e io potevo
forse offrirgli ciò che aveva perso in passato e non di era
mai
aspettato di ritrovare in futuro.
Amore.
Quella notte dormimmo
nel granaio della fattoria. Avevamo raggiunto i frutteti poco prima
del tramonto e avevamo saccheggiato la dispensa del fattore e l'orto
fino a riempire gli zaini. Forse il fattore si sarebbe accorto che
qualcosa mancava, ma noi avremmo affrontato i nostri quattro giorni
di viaggio fino a Gil'ead con più serenità. Ma in
realtà, dopo un
breve scambio, avevamo stabilito che avremmo tagliato in linea retta
in direzione della città, ignorando i sentieri tracciati e
accelerando il tutto.
Durza sembrava da un lato impaziente di
tornare a casa e dall'altro preoccupato. Mi chiesi se la sua ansia
derivasse dal fatto che, dopo Gil'ead, la meta seguente sarebbe stata
Uru'baen, dove avremmo dovuto tentare l'impossibile.
«Sei
preoccupato?» gli chiesi stringendomi a lui sotto le
coperte.
«Pensavo che la nostra avventura potrebbe finire ancor
prima di cominciare. Possiamo fare dei progetti per il nostro futuro,
ma nulla ci garantisce che non finiremo ammazzati da Galbatorix. So
che è una meta necessaria per riottenere la mia
libertà, ma ora che
è così vicino..»
«Ho paura anche io» ammisi.
Ridacchiò.
«Sei brava a non farlo vedere o a non pensarci».
«E se
andassimo direttamente ad Uru'baen?» gli proposi. Forse
l'attesa di
agire ci avrebbe scoraggiati ancor più di quanto
già non fossimo in
quell'istante.
Mi rispose quasi controvoglia. «Devo assolutamente
vedere Alba e parlarle».
Sobbalzai. Non avevo più pensato a lei
e quindi non ero ancora riuscita a dare un significato a tutti i
misteri nascosti dietro le sue mosse. Sapevo però che molte
di esse
le avevo tenute per me, nascondendole allo Spettro per evitare che la
poveretta facesse una brutta fine.
Ma forse era giunto il momento
di abbattere anche quelle ultime barriere e dirgli tutta la
verità.
Nessun rapporto può reggere se nato su menzogne o cose non
dette,
tuttavia c'erano altre vite implicate quindi dovevo agire con
cautela.
«Cos'è Alba per te?» domandai alla fine,
anche se in
realtà avrei voluto chiedergli direttamente chi fosse.
«Un'amica
e un'alleata, ma avevamo stabilito una sorta di patto al quale ormai
non posso più attenermi e le devo delle spiegazioni,
almeno».
Notai
l'esagerata lentezza nel suo tono e capii che entrambi ci stavamo
nascondendo buona parte della verità. Così gli
dissi tutto: della
volta che Alba mi aveva aiutata a fuggire dalla mia cella, dei suoi
avvertimenti, dei suoi consigli, della boccetta di veleno.
Evitai
di parlare dell'occhio bianco, così somigliante a quello
della
giovane. Non ero ancora certa che si fosse trattato di una mia
fantasia o della verità.
Durza mi ascoltò in silenzio sbigottito
e quando tornò a parlare il suo tono grondava amarezza.
«A
quanto pare non sono l'unico a volersi ribellare al proprio
padrone»
ringhiò.
«Mi dispiace».
«Dispiace anche a me, piccola Elfa.
Avrei dovuto capirlo da molti segnali che Alba avrebbe tentato di
ucciderti prima che fosse arrivato il suo momento».
«Uccidermi..
prima?» bofonchiai, un po' confusa. Alba era sempre stata un
personaggio ambiguo per me, ma in fondo ero sempre stata convinta che
avesse intenzione di aiutarmi.
Durza sospirò, mi baciò e vuotò
il sacco.
«Alba è un'elfa nera. Il tuo popolo l'ha esiliata
circa ottant'anni fa».
«Non credo sia possibile» lo interruppi.
«Se fosse veramente successa una cosa del genere ne sarei
stata
informata, avevo già più di vent'anni quando
è successo. Non ho
mai saputo di un elfo esiliato nell'ultimo millennio e non è
una
cosa molto frequente dalle nostre parti».
«Eppure è così»
insistette lui. «E se chiedessi a tua madre sono certo che
confermerebbe. Alba è stata scacciata da Islanzadi in
persona, che
ha anche provveduto a farle rimuovere tutti i ricordi legati alle
vostre terre».
Deglutii rumorosamente, sentendo il cuore
affondarmi nel petto. «Non è possibile..»
«L'hanno trovata i
miei uomini, mentre vagava sulle sponde del lago Isentar, con le
vesti stracciate e un'aria folle. Non ha saputo rispondere a nessuna
domanda e le orecchie a punta l'hanno tradita. A quel punto
è stata
portata a Gil'ead, dove ho provato ad interrogarla e a violarle la
mente, ma ho trovato la nebbia. Non un ricordo, solo la sua lingua
madre. Non sono un esperto di Antica lingua ma me la cavo e in breve
sono riuscito a rassicurarla e anche ad insegnarle la lingua degli
uomini. Tre anni dopo ha ricordato il suo nome e ha voluto
immediatamente cambiarlo, così da Aiedail ho iniziato a
chiamarla
Alba. Mi ha giurato fedeltà e si è messa al mio
servizio. Il re ha
voluto vederla, ma non ha potuto fare nulla, così le ha
concesso di
rimanere con me nella speranza che qualche ricordo riemergesse negli
anni. Ma non è accaduto nulla fino a che non sei arrivata
tu».
«Io?»
soffiai.
«Alba ti ha riconosciuta come la principessa degli elfi,
o non avrei mai e poi mai saputo il tuo nome, immagino».
Una
voce dolce, soave, incredibilmente argentina e musicale.
La
voce di un elfo.
«Complimenti,
mio signore. Hai tra le mani nientemeno che la principessa degli
Elfi, Arya di Ellesméra, figlia della regina Islanzadi e del
re..»
Le
parole di qualcuno che mi conosceva. Bene.
Quei ricordi mi
colpirono come una rivelazione. Ero divorata dalla febbre e quelle
parole erano scivolate sul fondo della mia coscienza.
E in quel
momento riemersero, portando con loro la prova schiacciante che
ciò
che lo Spettro mi aveva detto era la pura e semplice verità.
Poi
misi in ordine i ricordi confusi dei giorni di deliri che avevo
passato nella mia cella. L'odore di noce vomica, l'occhio, il foglio
di carta con il suo minaccioso “morirai” vergato in
inchiostro
rosso, poi sparito nel nulla il giorno seguente.
Alba aveva
cercato di ammazzarmi, più volte, cercando di non rimanerne
troppo
coinvolta da poter essere scoperta da Durza. Anche la mia fuga,
organizzata da lei, era una semplice farsa: mi aveva indirizzata ad
un portone di legno di quercia, che a quel punto sapevo celare la
camera da letto dello Spettro. Probabilmente nella speranza che lui
mi scoprisse e provvedesse ad eliminarmi.
Come avevo fatto a non
unire prima tutti quegli indizi, sparsi in quei tre mesi di
prigionia?
«Arya»
mi richiamò il mio compagno. «Io e Alba avevamo un
patto: io ti
avrei spremuto tutto le informazioni in tuo possesso, avrei asservito
il cavaliere e poi avrei trovato il modo di sconfiggere il re. Poi ti
avrei consegnata a lei, che avrebbe fatto di te ciò che
voleva. Non
è più valido, ovviamente, ma ha il diritto di
sapere tutto».
Ero
frastornata e schiacciata dal peso di tutte quelle verità.
Elfi
neri? Traditori? Mia madre aveva distrutto la mente di
un'elfa?
«Quale crimine ha commesso?» chiesi.
«Perché
l'hanno cacciata, chiedi? Stava cercando di resuscitare sua sorella.
Era morta per mano di uno dei rinnegati nella battaglia di
Ilirea».
Sussultai. «Resuscitare..»
Oh no! Non poteva
veramente esistere un incantesimo in grado di compiere una cosa
simile. Era sbagliato, dannatamente sbagliato. La morte è un
processo irreversibile. Quale persona oserebbe mai fare una cosa
così
innaturale? E sopratutto come?
«Non dirmi che non hai mai
desiderato che qualcuno che era morto tornasse a respirare. I morti
sono irrecuperabili, ma tutti sognano di vedere i propri cari tornare
alla vita» mi punzecchiò Durza.
«Non l’ho mai pensato»
ammisi, quasi con vergogna.
«Quanto sei arida, Elfa» sbottò
lui.
Non vedevo più il suo volto, così risalii le sue
braccia e
gli scompigliai i capelli con affetto.
Lui cercò nuovamente le
mie labbra e io divorai le sue con trasporto.
Poi mi sovvenne
un'ennesima affermazione di Alba.
«Alba mi ha detto di essere la
tua amante» dissi, quasi con timore.
Durza rise piano e passò un
braccio sotto di me, tirandomi al suo petto. «Sei tu la mia
amante,
Principessa».
«Ero seria, Spettro» borbottai in imbarazzo.
«Sì.
Due o tre volte. Ma è passato e non succederà mai
più» quasi
implorò.
«Non mi importa» lo rassicurai, «volevo
solo
accertarmi che non fosse un'ennesima bugia».
«Mi sa che entrambi
avremo qualcosa da dire ad Alba quando torneremo a Gil'ead».
«Temo
anche io».
L'incubo tornò anche quella notte e Durza mi
riscosse, così come mi risvegliò le notti
seguenti.
Fui io ad
usare la magia per orientarci al meglio fino a Gil'ead e fu
un'esperienza fantastica tornare ad usarla dopo tanti mesi di
inerzia.
Qualcuno tentò di divinare Durza, ma lui lo
ignorò
sempre, affermando con sicurezza che non si trattava di Galbatorix,
perché il medaglione a forma di sole non gli risucchiava
troppa
energia.
Nel giro di tre giorni arrivammo a Gil'ead. Era notte
fonda quando raggiungemmo il portone esterno e io fui colta dal duro
ricordo della notte in cui ero arrivata in città, a cavallo
davanti
allo Spettro, distrutta dalla morte dei miei amici, non sapendo cosa
mi avrebbe aspettato nei giorni seguenti e certa di morire entro un
paio di settimane.
Durza ripeté effettivamente la stessa
procedura della volta precedente. Si illuminò il volto e
esplicitò
la propria identità davanti ad ogni portone, anche quello
della
fortezza interna.
Per un attimo mi aspettai che lo Spettro mi
ridesse in faccia, schernisse la mia ingenuità e mi gettasse
nella
mia gelida e angusta cella. Durza invece mi condusse con sé
sulle
scale di pietra, oltre la porta di legno di quercia e infine nel suo
letto morbido, dove adagiammo il capo su grandi cuscini e dove lui
coprì entrambi con spesse coperte imbottite di piume.
Dormimmo,
sporchi e stanchi dal viaggio, fino a mattino inoltrato.
______________________________________________________________________________________________
Ehilà, ciao a tutti! Spero abbiate passato buone feste e mangiato come non ci fosse un domani xD
Scusate il ritardo ma ho avuto problemi al mio povero pc!
Questo è un capitolo un po' statico e un po' di passaggio, avevo bisogno che Durza e Arya definissero finalmente il loro legame e prendessero una decisione e mi sembrava che un capitolo intero fosse necessario ^_^
Direi che ci vediamo domenica prossima (il prossimo anno)!
Oggi vi auguro un felice anno nuovo e vi ringrazio nuovamente ;)
Baci,
Lalli |
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Capitolo 29 *** Addio, mio signore ***
Ciao
29.
Addio, mio signore
La
prima cosa che feci non appena aprii gli occhi fu gettare una rapida
occhiata alla stanza. La ricordavo bene dall'ultima volta che vi ero
stata, quando Durza mi aveva dato le sembianze di Alba e fatto
indossare un vestito per meglio mascherarmi durante il nostro
viaggio, tuttavia la prospettiva dal suo letto era nuova.
Di
fronte a me intravedevo una cassapanca, nella penombra, e la parete
che celava quella che sapevo essere la sala da bagno.
Scostai la
mano dello Spettro da sopra il mio cuore, dove la teneva sempre per
svegliarmi dai miei incubi, e scesi piano dal materasso. Le tende
scure erano aperte e legate ai quattro pilastri del baldacchino e,
quando posai i piedi nudi a terra, sentii la morbidezza del tappeto,
che copriva anche il piccolo palchetto su cui si ergeva il
letto.
Delle pelli giacevano ai piedi di esso, probabilmente in
uso nella stagione invernale, ma ormai totalmente inutili nella
primavera che prendeva lentamente piede.
Mi avvicinai alle tende
che coprivano le finestre attorcigliandomi una ciocca di capelli
biondi tra le dita e mi liberai dell'aspetto di Alba -residuo della
notte precedente- chiedendomi con che occhi avrei guardato la
suddetta donna da quel momento in avanti.
Non mi ero presa il
tempo di pensarci durante la corsa fino a Gil'ead, ma l'idea che
un'elfa più grande di me, punita duramente da mia madre e
che doveva
odiare lei e la sua discendenza al di sopra di ogni cosa, mi fosse
stata così vicina da potermi uccidere senza troppa fatica mi
dava i
brividi. Per di più mi risultava ancora arduo credere che la
regina
degli elfi fosse stata capace di un gesto così estremo.
Premetti
la fronte contro il vetro della finestra che dava sull'esterno e mi
ritrovai davanti l'intera città di Gil'ead, con il lago
Isentar che
luccicava poco lontano. Nessun rampicante che potesse aiutarmi a
fuggire da quella stanza raggiungeva quell'altezza. Alba aveva
previsto che finissi direttamente tra le braccia dello Spettro, che
mi avrebbe punita a dovere per la mia fuga.
Lo Spettro in
questione borbottò qualcosa di incomprensibile sul
“dormire
ancora” e sputò un paio di insulti nella mia
direzione per aver
scostato le pesanti tende di velluto nero che coprivano i vetri,
rivelando la luce del mattino.
«Ben svegliato» dissi in tono
canzonatorio avvicinandomi nuovamente al letto e inginocchiandomi
all'altezza del mio zaino, che avevo gettato a terra con noncuranza
al nostro arrivo.
Indossai gli stivali, recuperai Ren e la cintura
a cui era agganciata Luna, lasciando intatto il restante bagaglio.
Effettivamente non sapevo cosa fare: dovevo riporre il tutto da
qualche parte? Quanto saremmo rimasti a Gil'ead prima di avventurarci
nella città del dolore? Forse non valeva neppure la pena di
disfare
il tutto?
«Voglio farmi un bagno» mugugnò Durza,
trascinandosi
fuori dalle coperte e cercando gli stivali.
Non ribattei, ma anche
io avrei usufruito della sua vasca dopo di lui perché ne
avevo
davvero bisogno.
«Ma prima vado a cercare Alba» aggiunse in un
sussurro, sedendosi accanto a me per baciarmi la bocca.
Aveva
finito le foglie di menta da giorni e le sue labbra ne avevano perso
il sapore, ma sapevo che entro sera sarebbe tornato tutto alla
normalità.
«Dopo vorrei lavarmi anche io, se possibile»
dissi.
Rise. «Quanta formalità. Forse non è
così ovvio come
sembrava a me, ma con un bagno io intendevo un bagno insieme,
bellezza» fece con malizia, sfiorandomi la pelle esposta del
collo.
«Sei un idiota». Sorrisi.
«No, ho bisogno di qualcuno
che mi lavi la schiena e mi consoli per le fatiche del
viaggio»
ribatté giocosamente. «Vado, parlo con Alba e
torno con dell'acqua
calda. Non osare spogliarti, voglio avere l'onore».
«Non essere
crudele con lei».
In realtà avrei voluto andare con lui e dire
ad Alba quel che si meritava di sentire, ma una parte di me si
sentiva in colpa per le fantomatiche azioni di mia madre e inoltre
ero certa che, in una discussione tra lei e Durza -che si conoscevano
da parecchi decenni-, sarei stata solo di troppo, quasi molesta.
Lo
Spettro indossò il mantello da viaggio sopra i vestiti
impolverati.
«Non mentivo quando ti ho detto che è un'amica per
me. Non ho
alcuna intenzione di farle del male, ma di rimetterla in riga
sì.
Vedrai che capirà e ci sosterrà, del resto il
vero colpevole della
morte di sua sorella è Galbatorix».
Annuii, non troppo convinta.
«Ti aspetto qui».
«Sì, è il caso che tu non ti faccia
vedere
in giro per il castello, libera come l'aria».
Esitò sulla soglia.
«Guarda ciò che vuoi nel frattempo»
disse, indicando gli scaffali
ricolmi di libri impilati disordinatamente.
«Non sparisco» lo
rassicurai, notando la sua esitazione.
Sorrise e uscì nel
corridoio.
Mi mossi in direzione del camino freddo e spento e
sbirciai curiosamente la libreria che lo incorniciava.
Erano tutti
testi scritti nella lingua degli uomini e, in mezzo a cronache di
guerre, trovai anche libri di poesie e ballate. Non credevo che Durza
fosse un gran lettore, ma le pergamene e i libri che aveva consultato
erano evidentemente quelli riposti in malo modo negli scaffali.
Li
sfilai, scorsi vagamente i titoli, e li rimisi al loro posto, in
ordine.
In tutta sincerità non avevo voglia di leggere nulla.
Avevo passato tre settimane a leggere pergamene su pergamene alla
luce scarna di una candela e, all'idea di concentrarmi nuovamente su
delle parole, mi si incrociavano gli occhi.
Pensai automaticamente
alle persone che avevo lasciato così bruscamente alla
cattedrale.
Gagnsamr si sarebbe disperato per la nostra fuga, Delling sarebbe
tornata sulla sua idea del nostro tradimento, Elin ci avrebbe
maledetti davanti al suo dio, Gefion avrebbe presto dimenticato il
fatto e Tove avrebbe vagato per le stanze, incredula. Helsa non
avrebbe mai saputo nulla e in tutta sincerità ne ero
felice.
Nonostante i miei propositi mi trattenni qualche istante
in più su un libro che parlava di fantastiche creature che
vivevano
oltre il mare. Le miniature rappresentavano cavalli con il manto
macchiato a strisce, strani lupi con pelo giallo e folto intorno alla
testa e una specie di cervo femmina con il collo lunghissimo e il
manto a macchie, senza contare l'enorme animale grigio dalle grandi
orecchie e il naso lunghissimo.
Le illustrazioni erano così
grottesche che dovetti trattenermi dal riderne e mi chiesi a lungo se
non si trattasse di un libro per divertire i bambini. Ma il
linguaggio era complesso e arcaico, indubbiamente destinato ad un
adulto. L'autore era un certo Vandrer, ma non c'era scritto
né il
nome della sua famiglia né il suo luogo di nascita, e tanto
meno una
data a cui fare riferimento.
Erano passati pochi minuti da quando
lo Spettro si era allontanato e un lieve rumore di passi
riempì il
corridoio, avvicinandosi alla stanza. Se si fosse trattato dei passi
di un qualsiasi umano del castello sarei corsa a nascondermi dietro
le tende o nella sala da bagno, ma ormai conoscevo i passi delicati
di Alba e sapevo anche perché fossero così
particolarmente leggeri:
non era un'umana, ma un'elfa.
Riposi il libro Le
creature d'oltremare,
che stavo ancora tenendo in mano e afferrai la cintura a cui era
agganciato il pugnale, fermandola in vita in modo che la fodera
pendesse dietro la mia schiena, fuori dal campo visivo di Alba.
Entrò
socchiudendo un'anta della porta, con il solito sorriso gentile e
rassicurante che aveva esibito ad ogni sua visita.
La sua era una
finzione perfetta e, se non fossi stata certa che Durza mi aveva
detto la verità e non avessi avuto prove sufficienti, sarei
caduta
nella sua rete per l'ennesima volta.
«Bentornata!» esclamò.
«Durza è venuto a cercarti» replicai
freddamente.
«Lo so»
cinguettò. «Ma io volevo prima parlare con
te».
Sfiorai la sua
coscienza. Ben difesa, ovviamente, avrei faticato parecchio a
penetrarla.
Non appena si sentì sfiorare la mente Alba
trasalì e
i suoi occhi corsero alle mie mani, alla ricerca -come intuii-
dell'anello di ametiste che doveva bloccare i miei poteri. Il monile
cingeva ancora il mio indice sinistro, ma il leggero bagliore
violetto delle pietre era svanito, così come il loro potere,
e
l'elfa dovette rendersene conto, perché il suo viso si
deformò in
una maschera di odio.
Decisi di scoprire le carte, tanto ormai non
aveva più senso fingere.
«Durza mi ha detto tutto».
«Ti ha
liberata» sibilò.
«Sì».
«Non doveva farlo».
«Per
questo era venuto a cercarti: doveva dirti la
verità».
Mi guardò
con disprezzo. «Non gli avrai creduto, vero
principessina?» Scoppiò
in una risata sguaiata e folle, che mi diede i brividi.
«Vai a
cercarlo, sarà lui a spiegarti» tagliai corto,
cercando di evitare
l'oneroso compito di spiegare ad una persona che odiava me e mia
madre, che il suo padrone -e probabilmente amico e alleato- si era
innamorato di me.
Si avvicinò di qualche passo e io indietreggiai
di altrettanti, portando la mano sinistra dietro la schiena e
stringendo l'elsa del pugnale.
«Tu non sai niente» sillabò
Alba, sgranando gli occhi celesti. «Ti ha detto tutto? Non ci
credo
neanche un po'. Ti ha detto che vuole diventare re? Ti ha parlato
della sua famiglia? Ti ha detto che ha ucciso tuo padre? Ti ha detto
che controlla tutti gli Urgali sottomettendo le loro anime? Ti ha
detto della carneficina di Yazuac? E del nostro patto?»
Tentennai.
«Stai mentendo».
«Hai ragione, puoi dubitare di me, ma posso
sempre rispolverare un po' di antica lingua per te».
«Potresti
essere convinta di una menzogna. Smettila di recitare, so tutto di
te. So chi sei e so cosa hai provato a farmi. Non ho bevuto il tuo
veleno e non ho intenzione né di uccidermi né di
farmi uccidere da
te, quindi puoi rinunciare alla tua parte di messaggera della
verità
perché io non ti credo».
Rise. «Se non ti uccidi da sola sarò
io a farlo. È il minimo che meriterebbe tua madre, per
ciò che mi
ha fatto».
«Hai tradito i principi cardine del nostro popolo,
Islanzadi non avrebbe avuto scelta. Anche se io non sono ancora
convinta che tu stia dicendo il vero» dissi senza battere
ciglio.
Alba mi scoccò uno sguardo sprezzante. «Non osare
farmi
la morale, principessina. Tu non sai niente di me. Ti credi
l’eroina
della tua razza perché hai saputo resistere a qualche mese
di
torture, credi che il tuo popolo sia capace solo del giusto, ma non
sai proprio niente. Sei cieca».
«Gli Elfi sono anche il tuo
popolo!» replicai indignata.
«Ti sbagli».
«Sei tu quella in
errore. So che hai provato a resuscitare tua sorella ed è
probabilmente l'abominio più grande che potessi compiere. Un
elfo
che usa la magia nera non può sperare di continuare a vivere
nella
Du Weldenvarden».
Un’espressione di cupa soddisfazione le
deformò il viso. «Non hai idea di quante cose
meravigliose si
possano fare con quel tipo di magia. È molto più
potente e più
ampia di quella che gli Elfi si limitano a studiare, e la ignorano
per pura codardia, perché temono che possa sfuggire loro di
mano».
«La ignorano perché è male»
sibilai.
«La ignorano
perché sono degli sciocchi, ecco perché! E hanno
avuto paura di me
quando mi hanno scoperta, tua madre ha avuto paura di me».
«Non
tirare in ballo mia madre, non avrebbe mai fatto ciò che tu
sostieni».
«Tua madre è stata colei che mi ha cacciata! Lei e
i
suoi consiglieri. Tutti quegli uomini e quelle donne che ti hanno
cresciuta nella tua deliziosa bolla dorata. Io mi ricordo di te,
principessina. Avevi diciannove anni quando mi hanno mandata in
esilio e già scalpitavi per andartene da
Ellesmèra, uscivi di
nascosto dal palazzo e ti esercitavi al combattimento».
«Perdonerai
la mia scortesia, ma non ricordo di averti mai vista».
«Ovviamente
no! Tua madre ha insabbiato ogni traccia di me».
«Non ti
credo».
«Eppure sai che in fondo è la verità,
giusto? Ormai
non avrei alcun interesse a mentirti. E non avrei motivo di avercela
con te se tua madre non mi avesse veramente fatto un torto di tale
portata».
Il suo ragionamento filava e, seppure con un po' di
disperazione, cominciai a credere davvero alla sua versione.
«Se lo
ha fatto significa che era necessario» dissi, difendendo
Islanzadi
per l'ennesima volta.
«Cancellare la mia identità ed insabbiare
la mia storia?» chiese lei con una punta di sarcasmo.
«Avrebbe
potuto imprigionarmi o farmi subire un processo davanti a tutti gli
elfi, ma invece ha preferito agire di nascosto, con l'appoggio di
pochi fidati e di eliminare la mia esistenza alla radice. Dovevo
essere una gran brutta macchia nel suo regno perfetto per farmi
questo. Mentre tu eri impegnata a farti imbottire il cervello di
sciocchezze sulla perfezione e la bellezza della nostra razza quella
stessa razza non ha esitato a cacciarmi, senza nemmeno volere
ascoltare le mie ragioni».
«E che ragioni sarebbero?» la
provocai. «Tutti hanno subito perdite ad Ilirea,
perché tu avevi il
diritto di reagire diversamente da tutti gli altri?»
Disprezzavo
davvero Alba, le sue debolezze e le sue azioni, ma mi sentivo anche
responsabile per l'ingiusto e terribile trattamento che le era stato
riservato. E quei miei sensi di colpa mi infastidivano, quindi mi
impegnai a nasconderli alla mia interlocutrice.
Alba ignorò le
mie domande. «Non sai quanto sia stato difficile impormi di
essere
carina e gentile con te per tutti questi mesi». Mi si
avvicinò.
«Quando Durza mi fece chiamare per chiedermi chi fossi, sono
stata
contenta di potergli dire che eri la figlia della regina. Speravo
che, sapute le tue origini reali, ti avrebbe spremuta come un limone
maturo, fino ad ammazzarti. E io avrei finalmente avuto la mia
vendetta sulla tua famiglia».
I suoi lineamenti gentili erano
grottescamente deformati in un odio profondo, più radicato
di quanto
fosse mai stato quello che brillava negli occhi di Durza.
Ma di
fronte a lei non sentivo quella debolezza che mi caratterizzava con
lo Spettro. Lei non mi confondeva. Lei mi odiava e basta. E fu quasi
un sollievo riuscire improvvisamente a trasformare la simpatia che
avevo sentito in precedenza in freddo disprezzo e rancore.
Dopo
mesi, mi sembrava di essere tornata pienamente la vecchia me stessa,
calcolatrice e distante. E mi ero estranea.
«Ma lui non lo ha
fatto» ringhiò Alba. «Io gli ho creato
tutte le situazioni
favorevoli per farlo. Ti ho anche fatta fuggire, perché lui
perdesse
la pazienza, ma niente. Durza aveva piani di altro genere per te, ma
lo hai sedotto e lui è stato così ingenuo da
lasciarsi abbindolare
da te».
«Mi dispiace..» dissi, con evidente sarcasmo.
«Non
provocarmi!» urlò avvicinandosi ancora e
allungando le mani alla
mia gola. Scattai di lato, sfuggendole.
«Sono stata al suo fianco
per anni, decenni. E poi? Arrivi tu e in pochi mesi mi porti via
tutto quel poco che ero riuscita faticosamente a ricostruire. Arrivi
tu e ad un tratto perdo di nuovo la mia famiglia. Sei tale e quale a
tua madre, cammini per la tua strada, fissando la luce della
rettitudine, e ignori i poveracci che pesti durante il tuo
cammino!»
Il suo tono si alzò fino a diventare un urlo
isterico.
Non fui troppo sorpresa quando sentii i passi agili di
Durza rimbombare sul pavimento. Lo Spettro spalancò le ante
con
furia, mandandole a sbattere contro le pareti e fissò Alba
con
ira.
«Cosa ci fai qui?»
«Mi hai tradita, brutto verme!» fu
l'acida replica di Alba, che rivolse tutta la sua attenzione al nuovo
venuto, ignorandomi.
«Tu mi hai tradito, disobbedendo ai miei
ordini. Per quanto riguarda il resto, ti avrei spiegato»
disse
Durza, camminando cautamente nella sua direzione.
«Che cosa? COSA
devi spiegarmi!? Quello che io ho capito un mese prima di te? Io ti
avevo avvisato, te l'ho detto com'è fatta lei e la sua
gente, ma tu
non mi hai ascoltata. E ora guardati.. ridotto ai piedi di una
frigida Principessa elfica, che non sta facendo altro che sfruttare
la tua debolezza per raggiungere i suoi scopi».
Arrivò anche
Hillr, trafelato. Probabilmente era alle calcagna dello Spettro, che
però doveva averlo seminato. Il siniscalco
riservò un'occhiata
diversa ad ogni persona della stanza: timore per Durza,
pietà per
Alba e odio per me.
«Hillr vattene» comandò Durza.
«Questa
conversazione non ti riguarda».
«No, no!» lo interruppe Alba.
«Riguarda anche Hillr, non è vero? Durza adesso
cerca di capire chi
sono i tuoi veri amici e chi sono i nemici. Io e Hillr ti abbiamo
servito per anni con assoluta dedizione e non vogliamo che ti succeda
niente di male». Raggiunse l'uomo e lo prese a braccetto,
anche se
lui non parve particolarmente entusiasta della piega presa dalla
situazione. «Mentre quella», e mi
indicò, «la conosci appena e
per quanto ne sai potrebbe averti mentito su tutto».
«Non sono
io quella delle bugie» dichiarai in tono neutro, gettando
un'occhiata a Durza.
Lo Spettro era imperturbabile, ma continuava
a fissare Alba, tanto che per un attimo mi chiesi se non le stesse
credendo.
«Avevi grandi progetti» insistette lei.
«Non puoi
abbandonarli per un'infatuazione che si spegnerà nel giro di
pochi
mesi».
«Durza..» dissi a quel punto.
«Non temere» mi
interruppe lo Spettro, senza guardarmi. «Ho già
preso la mia
decisione e non ho intenzione di tornare sui miei passi».
A quel
punto Alba scattò. «Hai preso la tua decisione?
Vuoi vivere con
l'elfa? Fai pure, ma prima dovresti almeno trovare il coraggio di
dirle la verità su Evandar, sugli Urgali e un paio di
massacri e
carneficine che hai compiuto negli ultimi secoli».
Durza parve
ferito da quelle parole e i suoi occhi mi porsero delle mute
scuse.
Era la verità, dunque?
Mi irrigidii un poco, ma non
ebbi il modo di chiedergli conferma perché Alba
rincarò nuovamente
la dose.
«Lei non ti accetterà mai, capisci? Tu sei un
mostro,
come me, e nessuno -tanto meno un'elfa- potrà mai volerti
bene o
accoglierti con sincerità nella sua vita».
Le pupille dello
Spettro si assottigliarono e la sua espressione subì un
repentino
cambiamento, diventando in un attimo grondante d'ira e di
sofferenza.
Scattò in direzione di Alba e la atterrò,
strappandola al braccio di Hillr, che scappò terrorizzato
alla vista
della pazzia del suo padrone.
Mi precipitai su Durza e lo afferrai
per il mantello, tirandolo via dal corpo dell'elfa prima che la
ammazzasse di botte e spingendolo a terra sotto di me. Alba aveva il
labbro inferiore spaccato e un fiotto di sangue le usciva dal naso,
inzuppandole i capelli color del grano. Tuttavia sorrideva. Non aveva
reagito, anzi, sembrava quasi aver provocato deliberatamente l'ira di
Durza.
Combattei per tenerlo inchiodato a terra per qualche
istante prima che la consapevolezza gli illuminasse nuovamente gli
occhi. A quel punto tornò padrone di sé e parve
inorridito.
«Questo
è ciò che ti aspetta» sibilò
Alba. E sputò un grumo di sangue
sul tappeto.
La ignorai e lasciai andare lo Spettro con cautela,
permettendogli di alzarsi a sedere.
Ancora una volta le mosse di
Alba erano volte a doppi fini. Ma se pensava che mi sarei sorpresa
dell'improvviso attacco d'ira dello Spettro si sbagliava. Conoscevo i
suoi demoni e sapevo che non sempre riusciva a tenerli imbrigliati,
tuttavia fino a quel momento ero sempre riuscita a calmarlo, quindi
l'intero spettacolo non mi spaventò più di tanto,
se non per le
condizioni in cui verteva Alba dopo il pestaggio.
Durza mi fissò,
iniziò a tremare e non smise fino a che non iniziai a
pettinargli i
capelli tra le dita, un gesto che sapevo capace di
calmarlo.
«Coraggio Durza, dille la verità e in pochi minuti
ti
volterà le spalle!» insistette Alba, forse delusa
dalla mia mancata
reazione alle mosse dello Spettro.
A quel punto però fissai il
mio compagno, seduto davanti a me, alla ricerca di spiegazioni.
Forse
speravo che negasse tutto ciò che aveva insinuato Alba e mi
rassicurasse, ma non lo fece, e seppi in un istante che l'elfa aveva
detto la verità e che Durza lo Spettro mi aveva mentito
un'altra
volta, nascondendomi verità scomode.
«Dopo» mi disse lui con
voce melliflua, liberandosi gentilmente dalle mie mani e muovendosi
in direzione della mia rivale.
Alba rifiutò sdegnata il suo
aiuto, si guarì da sola e rimase immobile con le braccia
incrociate
sotto al seno.
«Non le parlerò davanti a te»
specificò Durza,
fronteggiandola.
«Ti sei davvero innamorato di lei»
sentenziò
l'elfa, sprezzante. «Mi sembrava che avessimo stabilito che
l'amore
era per i deboli e che né tu né io potevamo
permettercelo».
«Sono
sempre stato un debole, lo sai, ma Arya mi da forza, per una
volta».
Scoppiò a ridere. «Ti stai solo raccontando delle
menzogne. Non funzionerà mai. Un amore del genere.. nemmeno
il più
ardito cantore umano avrebbe mai osato immaginarlo. Finirete male,
entrambi. Non c’è futuro per chi è
così diverso come voi
due!»
«Forse no. Ma vogliamo provarci» replicò
lo Spettro,
prontamente.
Mi alzai in piedi, alle spalle di Durza, e fui
profondamente tentata di andarmene dalla stanza. Alba mi voleva
morta, ma mi feriva che l'uomo al quale avevo offerto la mia vita
avesse preferito non dirmi che era l'assassino di mio padre. Insomma,
ero fuori posto, di nuovo.
Alba alzò il mento con compostezza e
dignità, nonostante l’espressione folle che aveva
il suo viso.
«Sono stata bene nella tua casa, mio signore, ti ringrazio
per
avermi accettata quando nessun altro si era dimostrato disposto a
farlo». I suoi occhi celesti scivolarono nella mia direzione.
«Ci
rivedremo, principessina Arya. Non chiedermi come, quando e dove. Ma
ti giuro che ci rivedremo e non sarà divertente per te. Che
tu e la
tua famiglia siate maledetti. Auguro una lenta, dolorosa, vergognosa,
disonorevole e orribile morte a te e a quella sgualdrina di tua
madre!»
«Mi dispiace» dissi. E in parte ero sincera,
perché la
sua storia era veramente terribile e degna di pietà, ma io
non avevo
alcuna colpa per le presunte azioni di mia madre e non potevo fare
nulla se non scusarmi al posto suo. Sempre che Alba non si fosse
inventata tutto, ovvio.
Feci per aggiungere qualcosa, ma l’elfa
aveva già voltato le spalle e tirato la porta dietro di
sé.
Sciolsi
bruscamente la tensione dei muscoli e sentii lo Spettro fare lo
stesso.
«Hillr mi ha intrattenuto all'ingresso delle prigioni o
mi sarei reso conto prima che Alba non era dove doveva essere.
Perdonami» disse, con cautela, guardandomi circospetto.
«Non è
colpa tua» risposi, atona.
«Arya mi dispiace, ti avrei detto
tutto al momento opportuno..»
«Non esiste un momento opportuno
nella nostra situazione» lo interruppi. «Quindi sei
pregato di
smetterla di trattarmi da sciocca».
Fece un gesto vago. «Avevo
solo paura che tu te la prendessi e decidessi di andartene».
«Non
sono una ragazzetta volubile. So distinguere il passato dal futuro e
non ti accuserei mai di avermi tradita per aver fatto qualcosa che io
stessa avrei fatto al tuo posto. Credevo che almeno questo punto
fosse chiaro, dopo che ti ho parlato di Fäolin».
Era la prima
volta che pronunciavo il suo nome di fronte a lui e un poco me ne
vergognai, perché in qualche modo mi sembrava di aver
infangato la
sua memoria.
Durza capì a chi mi riferissi dopo qualche istante
di riflessione e annuì.
«Sono uno sciocco, finisco sempre per
sottovalutarti» confessò infine.
La mia rabbia si placò un
poco. «Già».
«Ora vado finalmente a parlare con Alba. Tra
qualche minuto verrà qualcuno a riempire la vasca, te non
farti
vedere e fai pure un bagno caldo. Quando tornerò metteremo
tutto in
chiaro, d'accordo?»
«D'accordo» concessi.
Poi allungai un
braccio, d'impulso, afferrai la sua casacca e lo tirai a me per
baciarlo sulle labbra.
«Tutto questo è reale» dissi.
«Non
dimenticarlo».
Il mio voleva essere un avvertimento: sapevo cosa
avrebbe tentato di fare Alba e non volevo vedermi strappare Durza da
sotto il naso dopo tutti quei mesi di confusione, errori e duri patti
con me stessa.
Lo Spettro sorrise, scoprendo i denti aguzzi. «Lo
so».
E se ne andò, quasi a malincuore, lasciandomi parecchio
confusa e incerta sul mio futuro.
Avevo faticato a convincere lo
Spettro che una vita insieme sarebbe stata possibile e temevo che
Alba lo avrebbe facilmente trascinato nella spirale di odio e
vendetta nella quale era avvolto prima che qualcosa scattasse tra di
noi.
Mi nascosi dietro al paravento quando
due domestici vennero
a portare acqua calda per il bagno e riordinarono il letto. Poi mi
chiusi in bagno con la magia e mi abbandonai nel calore dell'acqua
mentre mi toglievo definitivamente la sporcizia del viaggio di dosso.
Lasciai i vestiti a terra e posai la fialetta ormai vuota del Fricai
Andlat sugli scaffali di legno.
E intanto pensavo..
A quanto
tempo ci stesse impiegando lo Spettro, alle cose che mi aveva taciuto
e alle fragili prospettive che avevo davanti a me.
Mi lasciai
trascinare dal gioco dei “se” e dei
“forse” e mi chiesi cosa
ne sarebbe stato della mia vita se Evandar non fosse morto poco dopo
la mia nascita. Forse mia madre sarebbe stata un'altra persona, non
chiusa nel suo dolore e nel suo astio e forse mi avrebbe voluto bene.
Forse se i miei genitori fossero stati insieme avrebbero trovato le
forze per opporsi con più energie a Galbatorix e non avrei
dovuto
passare la mia vita in funzione di Alagaësia.
E non avrei nemmeno
conosciuto Durza. Era tutto un cerchio di dolore e felicità.
E a
quel punto cosa mi aspettava? Cosa avremmo mai fatto dopo la
sconfitta del re? Due vite fuori dall'ordinario come le nostre non
potevano concludersi in una casetta anonima in una città
umana,
imprigionate in un'esistenza banale e ripetitiva.
Sapevo per certo
che né io né lui lo avremmo mai sopportato.
Avevamo deciso di
camminare sullo stesso sentiero, ma non avevamo ancora deciso la
direzione, ed era ormai una decisione necessaria se volevamo
inseguire il sogno di una vita insieme.
Chiusi gli occhi e
abbandonai la testa all'indietro. Il sapone che avevo usato per
lavarmi i capelli aveva l'odore della salvia e del rosmarino. Ed ero
ormai certa che fosse stata Alba a farmi un bagno, la prima volta che
Durza mi aveva trovata in fin di vita nella mia cella.
Mi sporsi
sulla mensola, alla ricerca di un altro sapone.
[Durza]
Era
quasi mezzogiorno e ovviamente nulla era andato come lo Spettro aveva
previsto.
Appena sveglio aveva deciso che avrebbe subito
affrontato il problema spinoso costituito da Alba e poi si sarebbe
goduto qualche ora di pace in compagnia di Arya.
Ma Alba aveva
agito di testa sua e la Principessa stava probabilmente facendo un
bagno solitario in quel momento, rimuginando sulle sue bugie e sui
suoi errori. Forse non avrebbe dovuto lasciarla a macerarsi
nell'incertezza, ma temeva veramente che Alba sparisse da Gil'ead
prima di riuscire a farla a ragionare.
Trovò l'elfa nella sua
stanza al piano terra, intenta a preparare un bagaglio con abiti e
coperte.
«Alba fermati».
Lo ignorò. «Tu hai fatto la tua
scelta e io ho fatto la mia. Semplice, non ti pare?»
«Non ho
rinunciato a sconfiggere il re e almeno questo dovrebbe importarti.
Insomma in fondo è lui ad avere causato la morte di tua
sorella».
«Non provarci con me, Durza, non
funzionerà».
«Cosa?»
«La voce suadente!» specificò
rabbiosa, lanciando un mantello pesante nella sacca. «Forse
la
principessina cadrà ai tuoi piedi, ma io no. Puoi credere
ciò che
vuoi, ma Islanzadi mi ha impedito di riprendermi Solus e in qualche
modo l'ha uccisa una seconda volta, per poi uccidere anche me! Tu lo
sapevi», gli puntò un indice al petto,
«tu lo sapevi
perfettamente, eppure abbandoni la nostra alleanza per la figlia
della stessa donna che ha distrutto la mia vita, DUE volte in
una!»
«Calmati adesso!» rispose con altrettanta furia.
«Mi hai
già provocato a sufficienza per oggi».
E anche in quell'istante
sentì gli spiriti muoversi inquieti e assetati di sangue.
Mai come
in quel momento la gola di Alba gli parve incredibilmente morbida e
perfetta da azzannare.
Distolse lo sguardo bruscamente non appena
si rese conto che lei lo stava fissando, sorridendo con
disprezzo.
«Tu non mi ucciderai. Non l'hai fatto negli ultimi
decenni e sicuramente non lo farai oggi. Prima non ti avrei mai
provocato in quel modo se non fossi stata sicura che ti saresti
fermato».
«Arya
mi ha fermato. E solo perché, al contrario di noi, non ama
le morti
inutili, anche se di un nemico».
«Sei ridicolo».
«E tu sai
che è così. In qualche modo ti ha salvato la
vita, pochi minuti
fa».
Alba chiuse la sacca. «Questo non cambia le cose. Tu hai
scelto una nuova alleanza e io non posso sopportarla, quindi me ne
vado per la mia strada».
Durza ringhiò frustrato. «Potrebbe
servirmi anche il tuo aiuto per sconfiggere il re».
L'elfa lo
guardò con attenzione. «Tu mi hai promesso del
potere, ricordi?
Potere e il corpo di Arya. Ora mi dici che sì, possiamo
uccidere il
re, ma non avrò mai ciò che mi spetta. Prima
servivi ai miei scopi
e ora non più, quindi non ho alcun interesse a rimanere al
tuo
servizio».
«Ma mi hai giurato fedeltà» le
ricordò.
«Vuoi
costringermi a rimanere contro la mia volontà? Fallo pure, e
io
renderò la tua vita un inferno, nei limiti permessi dal mio
giuramento ovviamente». E sorrise sinistramente.
«Oppure potresti
tornare sui tuoi passi, darmi la principessa e sconfiggere Galbatorix
con il mio aiuto. Poi uccideremo Ajihad, tagliandolo pezzo per pezzo,
come hai sempre sognato. Credevo che la vendetta per la tua famiglia
fosse il tuo principale dovere e obiettivo, dopo l'orribile
trattamento che è stato riservato loro».
Durza sentì la fronte
velarsi di sudore gelido. «Quelle erano le mie
priorità, ma poi
Arya mi ha offerto un'alternativa e mi ha aperto gli occhi. Non so
che farmene del potere e della vendetta se poi sarò
condannato ad
essere infelice per tutta la mia vita. La morte di Ajihad non mi
restituirà la mia famiglia e il mio maestro».
«No», sorrise
lei, «ma io potrei farlo».
Lo Spettro esitò, basito.
«Tu?»
«Stavo per riportare in vita mia sorella, ricordi? Non
ero ancora giunta ad una soluzione, ma con qualche ricerca e qualche
altro mese di memorie recuperate riuscirò a trovare il modo.
A quel
punto sia io che tu potremo recuperare le nostre vecchie vite e
cancellare un secolo di sofferenze. In qualche mese dimenticherai la
principessa e chissà, magari troverai un'altra bella donna
capace di
darti amore, se è ciò che desideri».
«Una come te?» chiese,
con sarcasmo, sentendo tuttavia una parte di lui cedere alle lusinghe
di Alba.
Lei si portò i capelli sulle scapole con un gesto
grazioso. «Perché no? Già in passato
hai mostrato di essere
attratto da me. Magari in qualche anno riusciremo a trasformare la
nostra amicizia in amore e ci ricostruiremo una vita, circondati
dalle persone a cui teniamo più al mondo. Non dirmi che non
sarebbe
bello, mio signore, perché non ti
crederò».
Durza si stropicciò
gli occhi con l'indice e il pollice e mise sulla bilancia le ennesime
scelte che si trovava davanti. Ma non riusciva proprio a valutare
quale dei piatti pesasse di più.
Aveva amato i suoi genitori, sua
sorella e Haeg con tutto il suo cuore, ma ormai erano passati
talmente tanti anni che a malapena ricordava i loro volti. Per oltre
un secolo, l'odio che sentiva per la loro perdita era stato il
movente di tutte le sue azioni, ma non si era mai reso conto che
ormai quelle persone erano diventate ombre. Le amava così
come le
ricordava, nel suo passato, nel loro contesto.
Pensò all'orgoglio
negli occhi dei genitori, l'adorazione in quelli della sorellina e
l'approvazione in quelli di Haeg e si chiese come lo avrebbero
guardato che avessero visto cos'era diventato; come avrebbero reagito
nel risvegliarsi all'improvviso, cento anni dopo.
Poi pensò ad
Arya, alle sue promesse e alle sue speranze e alla grande incognita
che il futuro con lei rappresentava. Una pagina bianca. Faceva paura,
ma era anche estremamente eccitante. Forse non avrebbe mai avuto
ciò
che voleva, ma ciò di cui aveva bisogno sì. E
ormai gli risultava
difficile pensare a un domani in cui non avrebbe trovato gli occhi
taglienti di lei, la sua intelligenza vorace e il calore del suo
corpo.
«Credi che i morti vorrebbero davvero tornare?»
finì per
dire.
Alba parve sorpresa. «Non lo so, ma.. non esiste una
seconda vita dopo la morte, quindi per loro sarebbe come..
risvegliarsi dopo un lungo sonno, ecco!»
Ma nemmeno lei era certa
delle sue stesse parole e forse cominciava a comprendere ciò
che lui
stesso aveva appena intuito: magari i morti volevano restare nel
nulla dov'erano relegati e non sarebbero mai più stati gli
stessi se
fossero stati strappati alla loro pace. Forse avevano lasciato una
vita in sospeso, ma non avrebbero voluto completarla dopo avere
raggiunto una condizione di totale non sofferenza.
Sempre che non
esistesse un aldilà dove gli dei giudicano e gli uomini sono
puniti
o premiati. Quello lui non lo sapeva, ma gli risultava difficile
crederci.
Chinò il capo e si rese conto di stare sorridendo.
«Addio, Aiedail» disse, nell'antica lingua.
«Ti auguro tutta la
fortuna di questo mondo. Grazie per la tua amicizia, ma credo che le
nostre strade si siano ormai separate».
Non reagì quando lei gli
posò le mani sulle spalle e si alzò in punta di
piedi per
baciarlo.
«Solus era la mia gemella» sussurrò
Alba, a pochi
pollici dalle sue labbra. «Gli elfi sono poco fertili e una
nascita
simile è salutata come una specie di miracolo della natura.
Io e lei
eravamo una cosa sola e non posso pensare di vivere senza di lei o
non punire coloro che hanno tentato di tenerla lontana da me. Uccidi
il re e costruisci la tua vita con Arya, ma vigila attentamente su di
lei perché vorrò sempre ucciderla, fosse solo per
fare provare a
sua madre un millesimo della sofferenza che ho provato io quando ha
distrutto le mie speranze».
«In tal caso spero che non ci
rivedremo mai più».
«Lo spero anche io.» Lo baciò
nuovamente.
«Addio, mio signore».
E gli passò accanto, abbandonando la
presa sulle sue spalle concludendola con una carezza.
«Ah,
un'ultima cosa!» lo richiamò, a tradimento.
«Cosa?» domandò
incrociando nuovamente i suoi occhi azzurri.
«Negli ultimi giorni
cercavo di divinarti, non per capriccio, ma perché dovevo
darti
informazioni importanti: Galbatorix arriverà a Dras-Leona
entro la
fine di questa settimana. A quanto pare Lord Tàbor ha
intascato dei
soldi riservati ai forzieri reali per potersi godere qualche lussuoso
banchetto di troppo. E poi a quanto pare le tue spie di Belatona
hanno incrociato il figlio di Morzan laggiù, da
solo».
«Grazie»
disse, prendendo atto del suo tono distante.
Con un ultimo gesto,
l'elfa scostò nuovamente i lisci capelli biondi dal volto e
sparì
per sempre dalla sua vita, lasciando dietro di sé il suo
profumo
delicato.
Durza scacciò l'inevitabile senso di tristezza e
abbandono che gli scese sul cuore e tornò nella sua stanza,
non
prima di aver lasciato l'ordine di portargli il pranzo in camera. Un
pranzo dove abbondassero pane e formaggio, oltre alla solita
carne.
Si sentiva come se un'ombra che per tutta la sua vita gli
aveva pesato sulle spalle fosse svanita. Aveva finalmente accettato
la morte dei suoi cari, a quel punto non gli restava che superarla, e
c'era una sola persona che avrebbe potuto aiutarlo in tale
impresa.
Arya sobbalzò quando spalancò le porte di quercia
e
protestò con poca convinzione quando le aggredì
le labbra,
ribaltandola sul materasso. Poi chiuse gli occhi e le sue dita
affusolate si strinsero tra i suoi capelli.
Con una fiamma di
gioia feroce che gli ardeva nel petto, Durza lo Spettro
continuò a
baciare la sua ex-prigioniera, fino a che gli parve impossibile che
entrambi fossero ancora in grado di respirare.
[Arya]
Avevo
programmato ogni cosa.
Come avrei cominciato il discorso, come
Durza mi avrebbe risposto, come lo avrei lentamente portato a dirmi
tutto senza temere nessuna mia reazione.
Poi lo Spettro entrò,
travolgendomi come una tempesta e i miei pensieri sfumarono nella
nebbia, mentre un fuoco sopito si riaccendeva nelle mie membra,
bruciandole di desiderio.
Abbandonai il libro con le illustrazioni
degli strani animali e risposi con entusiasmo al bacio aggressivo di
Durza, che durò tanto a lungo da farmi dimenticare dove
fossi e cosa
fosse successo.
Quando riuscii infine a staccarlo da me mi resi
conto che stava ridendo e che i suoi occhi grondavano
felicità ed
entusiasmo. E mi contagiarono in un istante.
«Cosa mi sono
persa?» mi informai sorridendo e sfiorandogli il volto.
«Sono
tuo, Principessa». E mi raccontò dell'intera
conversazione avuta
con Alba, tutto nei minimi dettagli, senza nemmeno escludere la parte
in cui lei lo baciava.
Apprezzai la disarmante sincerità e la sua
soddisfazione nell'avere infine abbandonato il proprio passato in
vista di un nostro futuro insieme mi rese felice. In un attimo fui
certa che gli avrei perdonato tutto, ogni verità nascosta e
ogni
malefatta, purché non la ripetesse.
Mi nascosi quando arrivarono
due servi a portargli il pranzo e poi lo condividemmo fino a
spazzolare tutto il contenuto del vassoio. Era un pasto decente e
sostanzioso, il primo da giorni, e mi parve che tutto avesse un nuovo
sapore. Mangiammo distesi sul letto, mentre lo Spettro sfogliava
rapidamente il libro Le
creature
d'oltremare,
sostenendo che esistessero davvero.
Poi Durza andò a farsi un
bagno.
«L'invito è ancora valido» mi
richiamò da dietro la
porta.
Ma non lo raggiunsi e mi dissi che avrei dovuto chiedergli
un paio di indumenti da uomo una volta che fosse uscito dalla stanza.
Avevo lavato e asciugato con la magia l'abito che avevo indossato nel
viaggio da Gil'ead a Dras-Leona e anche le brache e la fascia, ma
avevo davvero nostalgia di un paio di pantaloni e di un farsetto
accollato.
Spazzolai le briciole dalla coperta e riposi il vassoio
con la caraffa d'acqua ormai vuota sul tavolinetto addossato alla
parete, tra il palchetto che ospitava il letto e la libreria.
E
poi pensai ad Alba, ammettendo infine con me stessa che tutto
ciò
che mi ha detto doveva essere la verità. Compresa la parte
riguardante mia madre. Ed ero turbata. Sia perché era dura
credere
che Islanzadi avesse davvero violato e distrutto la mente di un
essere senziente, sia perché la minaccia che Alba aveva
lasciato
allo Spettro non mi dava pace, né me ne avrebbe mai data.
Durza
riemerse dalla stanza da bagno con i capelli asciutti e solo un paio
di pantaloni addosso. Il sole d'argento pendeva all'altezza del suo
cuore, donando ancora più biancore alla sua pelle.
«Che
delusione, piccola Elfa, aspettavo davvero che qualcuno venisse a
lavarmi la schiena» disse, canzonandomi e allungandosi sul
letto,
dove recuperò nuovamente Le
creature d'oltremare.
«Chi
c'è nella mia cella adesso?»
«Dopo andrò a creare un'immagine
tua in modo da ingannare le guardie. Almeno così
potrò tenerti qui
con me».
Seguii il suo sguardo sull'immagine del cavallo con il
manto a strisce bianche e nere. «Potremmo andare a
cercarli» dissi
infine, richiamando la sua attenzione. «Dopo che il re
sarà
sconfitto potremmo pagare un equipaggio e andare oltremare. Esplorare
terre sconosciute, trovare quegli strani animali e scrivere dei
trattati.. cose così insomma».
Lo vidi sorpreso. «Mi piacerebbe
moltissimo, ma a te?»
«Se te l'ho proposto significa che l'idea
mi piace, non credi?»
Si sporse a baciare le mie labbra, ancora
secche per il lungo scambio di prima. Sentii di nuovo il sapore di
menta.
«Niente intruglio profumato, Principessa?»
Doveva
riferirsi al Nalgask. «Temo sia rimasto nella cattedrale. Ma
non
puoi permetterti di criticarmi, Spettro».
Inarcò un
sopracciglio. «Ti infastidiscono le mie labbra?»
«Sono
screpolate».
«Ho la scomoda abitudine di leccarmele, ma se mi
presti le tue posso farlo su di te». E mi morse un labbro,
gettandomi uno sguardo che mi diede i brividi.
Scostai
svogliatamente gli occhi dal suo torace pallido e mi imposi di porgli
infine le domande che mi ero preparata quella mattina.
«Devi
ancora chiarirmi ciò che mi ha detto Alba».
«Purtroppo era la
verità» ammise stringendo le labbra. «Ho
scoperto di tuo padre
solo quando me ne hai parlato tu, la mattina che siamo entrati nella
cattedrale e non volevo allontanarti da me dato che in quel momento
avevo ancora intenzione di.. sfruttarti per deporre il re. Dopo
quella notte al Covo avevo semplicemente paura che tu reagissi nel
modo sbagliato».
«Mi dispiace per la sua morte, ovviamente, ma
non ho intenzione di ripudiarti perché era tua la spada che
gli ha
mozzato la testa. Del resto non l'ho mai conosciuto e tu non sapevi
nemmeno chi fossi all'epoca».
«Non sapevo nemmeno che esistessi»
confermò. «E ora immagino di doverti una
spiegazione anche per gli
Urgali».
E così fece. E finalmente seppi perché gli Urgali
fossero al servizio dello Spettro. La notte delle terribili
verità,
nella cattedrale, Durza mi aveva semplicemente detto che gli Urgali
erano le sue spie ed avevano intercettato Brom e il Cavaliere a
Yazuac, in quel momento mi disse che in realtà stava
dominando le
loro coscienze, riducendoli a macchine votate all'obbedienza.
Mi
garantì che li avrebbe lasciati liberi dopo che il re fosse
stato
sconfitto e che a quel punto saremmo stati costretti a fuggire da
Alagaësia a gambe levate, perché quelle creature
avrebbero voluto
la sua testa.
«E io che credevo di non essere brava a farmi degli
amici».
«Tra gli uomini si dice che al peggio non c'è mai
fine,
quindi non temere, ci sono tanti altri peggiori di te e forse anche
di me».
Poi, titubante, ammise di aver permesso agli Urgali di
compiere una vera e propria strage a Yazuac, dove a detta loro non
c'erano stati sopravvissuti.
Passammo in quella maniera tutto il
pomeriggio: parlando di tutto e riposandoci. Hillr venne a bussare
alla porta, ma Durza disse di non disturbarlo fino al giorno seguente
e subito dopo andò nella mia cella per creare una mia
proiezione che
ingannasse i soldati. Quando si fece buio lo Spettro chiamò
qualcuno
a svuotare la vasca e a portargli la cena.
«Sarai costretta a
rimanere nascosta qui dentro per un po'. Tra non molto il re mi
ordinerà di portarti a Uru'baen e allora agiremo».
«Quanto?»
mi informai, un po' intimorita.
«In realtà spero ancora diverse
settimane» confessò stringendomi a sé.
Parlammo
molto più di quanto fossi abituata a fare con chiunque,
persino con
Fäolin. Parlammo fino a che le parole non servirono
più e io
riscoprii il sottile piacere di poter gettare vaghe basi del proprio
futuro con quella spensieratezza e quell’ottimismo tipico
degli
ignoranti.
Avevo sempre saputo che più si conosce la vita
più
si è consapevoli della sua crudeltà, ma avevo
quasi dimenticato
l'esistenza di quelle semplici azioni piacevoli, che, anche se
fugaci, in quel momento mi davano una gioia incalcolabile.
______________________________________________________________________________________________
Ciao a tutti ^_^
Come al solito un po' in ritardo, ma eccomi qui con il capitolo!
Non ho molto da dirvi in verità, ma ci tengo a chiarire la questione prima che mi venga sottoposta: Alba non è innamorata di Durza. Tiene molto a lui e lo considera il suo salvatore e la sua ancora, quasi un fratello, ma rimane abbastanza fredda da abbandonarlo quando si rende conto che ormai non potrà più aiutarla nei suoi scopi.
Ah e ovviamente gli strani animali che vede Arya nel libro sono zebre, giraffe ed elefanti! xD
Ultima puntualizzazione: se state cercando di orientare la storia secondo la timeline di Eragon, vi informo che mentre Durza e Arya giocano a fare i piccioncini, Brom e Eragon vagano per Dras-Leona, dopo la prima notte passata al Globo d'oro, alla ricerca di informazioni sui Ra'zac!
Vi lascio con uno schizzo della camera di Durza per meglio orientarsi :D
Alla prossima settimana! Baci a tutti,
Lalli
|
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Capitolo 30 *** Climax ***
Ciao
30.
Climax
[Hillr]
Il
siniscalco di Gil'ead si sentiva umiliato, piccolo e schiacciato come
uno scarafaggio.
Quando Alba era venuta da lui, in piena notte,
per informarlo del ritorno del suo padrone e dell'elfa, erano rimasti
svegli per un'ora intera per macchinare un piano.
Il mattino
seguente, lui avrebbe dovuto intrattenere il governatore Durza,
mentre Alba avrebbe convinto l'elfa a seguirla fuori dalla
città e
lì l'avrebbe uccisa. A quel punto l'avrebbero accusata di
essere
fuggita di sua spontanea volontà e avrebbero sostenuto che
Alba si
era lanciata al suo inseguimento per fermarla, finendo poi per
ammazzarla per difendersi da un suo comportamento aggressivo.
Non
sembrava difficile da realizzare e aveva accettato di buon grado,
anche perché quella soluzione gli avrebbe permesso di
rimanere in
qualche modo fuori dalla situazione, e quindi innocente agli occhi
del suo signore. Era decisamente un'idea migliore di quella di farsi
ammazzare pur di liberarsi di quella malefica creatura dai capelli
neri come inchiostro e occhi di un verde così improbabile da
risultare demoniaco.
Peccato che nulla fosse andato come avevano
previsto.
Aveva bloccato Durza lo Spettro -ancora in malandati
abiti da viaggio- all'ingresso delle prigioni e lo aveva tempestato
di informazioni sull'andamento dell'ordinaria amministrazione di
Gil'ead, riferendogli anche le più inutili piccolezze. Il
suo
padrone era rimasto immobile ad ascoltarlo, palesemente seccato, per
qualche minuto, ma poi aveva inclinato la testa di lato e corrugato
la fronte, per poi correre a tutta velocità in direzione
delle sue
stanze.
Se si fosse preso due minuti per riflettere avrebbe
probabilmente abbandonato il piano e si sarebbe ritirato nelle sue
stanze, ma si era ritrovato ad inseguirlo, d'istinto. Alba l'aveva
coinvolto nel dibattito per metterlo contro l'elfa e in quel momento
l'uomo si era reso conto che il suo signore era veramente infatuato
di quell'essere, più di quanto avesse immaginato. E si era
ripromesso di aprirgli gli occhi.
Ma poi Alba aveva detto qualcosa
di sbagliato e lui era fuggito come un codardo di fronte allo sguardo
vacuo e infuocato di Durza.
Era rimasto a lungo nelle sue stanze,
a piangere il suo destino crudele, che lo voleva sempre implicato in
situazioni troppo grandi, che lui non era in grado di affrontare.
Poi
aveva visto Alba scendere in cortile e le era corso dietro.
La
giovane indossava un mantello leggero e aveva i capelli biondi
stranamente sciolti sulle spalle, impegnati a coprire la parte
superiore di una sacca da viaggio stracolma.
«Alba!» l'aveva
richiamata.
E lei si era voltata, con un'espressione addolorata e
insieme risoluta stampata in volto.
Era bellissima, come al
solito, e se ne stava andando.
«Abbiamo fallito» aveva
dichiarato lei.
«E hai già rinunciato?»
«Ho parlato con
Durza e so per certo che non ci sarà una seconda occasione
per
poterci liberare dell'elfa. Per questo me ne vado: ora non ho
più
nulla da fare qui».
«E dove andrai?»
«A sud, credo. A
cercare un nuovo alleato e una nuova occasione».
La sua
affermazione era così vaga da confonderlo inevitabilmente.
«Che
genere di occasione?»
Aveva sorriso innocentemente. «So che c'è
un eremita nelle lande tra l’Helgrind e le Pianure Ardenti.
Per il
momento mi rifugerò lì. Non lo conosco, ma credo
che non
disprezzerà la mia domanda di diventare sua allieva. Se
avrai
bisogno di me potrai sempre mandare qualcuno a cercarmi».
«Mi
sfugge il perché».
«Voglio perfezionare la mia arte magica. Non
guardarmi così, mi è necessario, e potrebbe
essere utile anche a te
se in un futuro diventerai governatore di Gil'ead».
«Non lo
diventerò mai» aveva obbiettato lui. «Il
nostro signore è
immortale, lo sai».
Sempre sorridendo ampiamente, la donna si era
avvicinata a lui. «Durza non rimarrà a lungo a
Gil'ead. Non so
dirti cosa succederà esattamente, ma vedrai che in un paio
di mesi
qui ci sarà un posto vacante e, se saprai giocare bene le
tue carte,
potrai facilmente prendere il potere al posto di Durza».
«Non
tradirò mai il mio signore!» aveva esclamato,
indignato.
E
sapeva che non avrebbe mai cambiato idea, né per tutto l'oro
del
mondo, né per qualsiasi seggio governativo. Durza lo Spettro
gli
aveva salvato la vita e dato un futuro e lui non sarebbe stato
così
ingrato da dimenticarlo.
Ma Alba era scoppiata a ridere
sommessamente, coprendosi i denti bianchi con la mano.
«Non
voglio che tu lo tradisca» gli aveva sussurrato.
«Le cose stanno
cambiando, gli equilibri di Alagaësia stanno vacillando e il
re ha
un punto debole che potrebbe essere sfruttato per
sconfiggerlo».
«Non
mi starai dicendo che il nostro signore complotta contro di lui,
vero?» aveva chiesto con timore, riducendo la voce ad un
sussurro,
tanto che temette che lei non l'avrebbe nemmeno sentito.
E invece
lo sentì alla perfezione. «Nel caso fosse
così lo tradiresti?» lo
aveva provocato.
«No».
«Allora fidati di me: rimani al
servizio di Durza e mostrati disposto alla più cieca
obbedienza,
anche a rinunciare di mettere le mani sull'elfa. Tra qualche mese la
situazione può aver preso due pieghe: o il re
avrà ucciso Durza o i
Varden avranno insediato un nuovo governo. In entrambi i casi potrai
sfruttare le tue capacità e dimostrarti disposto a
collaborare,
magari scaricando tutte le colpe su Durza stesso, e sono certa che
non ti sarà negato un posto di prestigio. Dimostra che
nessuno
possiede la tua fedeltà e chiunque siederà sul
trono vorrà
accaparrarsela. In ogni caso, ti prego, avvisami di come si evolvono
gli eventi».
Un po' scosso, aveva annuito. «Va bene, ti
ringrazio».
Lei gli aveva afferrato le mani. «Allora a presto,
amico mio. Manda un messaggero a cercarmi con un qualche segno di
riconoscimento -anche una lettera con le tue sigle- e se
vedrò un
uomo vagare tra l’Helgrind e le Pianure Ardenti
saprò riceverlo e
rimandartelo qua a Gil'ead con una risposta». Si era portata
le sue
mani sul petto, all'altezza del cuore. «In me avrai sempre
una
preziosa alleata, ricordati».
E poi era corsa via, bella come un
sogno, con i capelli di seta che ondeggiavano dietro di lei. E lui
l'aveva lasciata andare, un po' a malincuore. Quella ragazza era
strana: inizialmente era stato spaventato da lei, perché
sapeva che
praticava la magia -e lo dimostrava il fatto che, nonostante la
conoscesse da vent'anni non sembrava invecchiata affatto, forse
grazie a qualche incantesimo- ma in fondo era sempre stata gentile
con lui e, dopo la fuga dell'elfa dalla sua stanza, lo aveva
avvicinato e gli aveva proposto una sorta di alleanza contro quella
creatura. E lui aveva accettato volentieri, trovando in lei una degna
confidente. In quel momento non si era sentito un traditore nei
confronti del suo signore, si era sentito l'eroe che l'avrebbe
salvato dal compiere errori di cui si sarebbe duramente pentito.
Ma
aveva fallito e ormai aveva anche perso la sua alleata.
E come se
non bastasse, Durza non aveva accettato di parlare con lui per tutto
il pomeriggio e nemmeno il mattino dopo. Sapeva che era nella sua
camera da letto con l'elfa e che lei doveva avergli detto qualcosa su
di lui. Qualcosa che il suo padrone doveva aver preso sul serio,
tanto da non volere nemmeno vederlo.
Così si rifugiò nel suo
studio, dove svolgeva i doveri di governatore in sua vece. E si mise
a riflettere sulla sua vita.
Aveva ormai superato la mezza età e
non aveva combinato assolutamente nulla. Né di buono
né di
cattivo.
Era sempre vissuto all'ombra di qualcuno: sua madre prima
e Durza lo Spettro poi. Non aveva mai potuto dimostrare a nessuno le
sue abilità e nessuno gliele aveva mai riconosciute. Certo,
il suo
signore lo aveva salvato dalla morte, ma lo aveva sempre trattato
alla stregua di un servo, nonostante facesse tanto per lui.
Praticamente governava Gil'ead al posto suo, visti i numerosi viaggi
che egli compiva per tutta Alagaësia, con brevi soste di non
più di
qualche mese nella città che gli era stata affidata dal
re.
L'umiliazione che aveva sentito per l'atteggiamento del suo
padrone si trasformò in rabbia. Ma poi la rabbia si spense e
divenne
determinazione.
Alba gli aveva detto il vero, ne era certo. Lei
non gli avrebbe mentito mai. E se Durza lo Spettro avesse davvero
abbandonato il suo seggio, allora lui avrebbe preso il suo posto e
sarebbe diventato qualcuno, finalmente. Non il figlio bastardo, non
il figlio della strega, non il leccapiedi del mostro.
Ma Hillr, il
governatore di Gil'ead.
E quelle stesse persone che avevano
condannato e arso viva sua madre avrebbero dovuto seguire i suoi
comandi e concedergli il loro rispetto.
Non doveva nemmeno tradire
il suo salvatore, doveva solo ubbidirgli e aspettare. E lui avrebbe
aspettato. Non faceva altro da quando era venuto al mondo.
[Arya]
Il
mio incubo era stato meno pesante del solito quella notte,
così
potei riposare più serenamente fino all'alba, quando Durza
si spostò
lievemente, ridestandomi.
Nonostante fossi ormai sveglia, giacqui
accanto a lui per un'altra buona mezzora, con la testa posata sulla
sua spalla nuda e la coperta imbottita sollevata fino al mento, fino
a che non sentii il suo respiro diventare più forte, segno
del suo
imminente risveglio. E in effetti lo Spettro schiuse gli occhi
cremisi un istante dopo e mi stampò prontamente un bacio
sulle
labbra.
«Apro le tende» decretò. E
scattò in piedi per
eseguire.
Scesi a mia volta dal materasso e mi stesi l'abito
stropicciato sulle cosce, lisciandolo.
«Durza che ne dici di
procurarmi un paio di pantaloni e una camicia?» domandai.
Lui
spalancò le tende, inondando la stanza della lieve luce del
sole non
ancora sorto e mi squadrò da testa a piedi.
«Così mi piaci,
Principessa».
«Non ho chiesto il tuo parere»
osservai.
«Diamine, come ho potuto credere di contare qualcosa
per te!» rispose con sarcasmo, aprendo la porta della sala da
bagno
e sparendovi all'interno.
Sentii lo sciacquio tipico di una massa
d'acqua in movimento e capii che si stava lavando il viso nel catino
incastrato sul piedistallo accanto allo specchio, che ben
conoscevo.
«Non capisco perché una donna non possa indossare
i
pantaloni, tra gli umani. Insomma sono decisamente più
pratici di
una gonna».
«Alla corte degli elfi li porti spesso?» mi
gridò
Durza dalla stanzetta.
«Poco» ammisi. «Ma sono in casa tua, non
alla corte degli elfi».
Lo Spettro si sporse dalla porta e mi
sorrise. «In ogni caso dovrò ridarti i vestiti che
avevi addosso
quando ti ho catturata, Arya. Lord Barst potrebbe avere la cattiva
idea di ricordarli e non credo che ci sia nulla di sospetto
nell'averti cambiato abiti, ma non si sa mai».
«Li hai
conservati, vuoi dire?» mi informai dubbiosa.
Annuì. «Da
qualche parte in una delle cassapanche lì dietro».
E accennò al
paravento.
Trovammo i miei vecchi vestiti -puliti- ammucchiati in
una sacca di iuta, insieme ai miei vecchi stivali. Guardai il tutto
presa da sentimenti e ricordi contrastanti: libertà, il
fuoco, le
torture, una vita così lontana che non sembrava nemmeno mia.
Durza
pareva intenzionato a lasciarmi qualche istante per me e -aperta
l'altra cassapanca- iniziò a vestirsi. Non serviva essere
esperti
per capire che gli indumenti che aveva indossato per tutto il nostro
viaggio erano di qualità di gran lunga inferiore di quelli
che stava
estraendo in quel momento: una camicia morbida e una casacca che
sembrava di velluto nero. Insieme ad un paio di stivali lucidi e
decisamente più nuovi di quelli marrone scuro che aveva
indossato
per correre. Tuttavia ad attirare la mia attenzione fu una specie di
piccola borsa che estrasse per ultima e indossò a contatto
con la
pelle.
«Cos'è?»
Lo Spettro mi guardò sorpreso, forse
credendo che fossi intenta a rimirare i miei abiti, piuttosto che
guardare lui vestirsi. Mi imbarazzai un poco e scostai gli occhi da
lui per riportarli sui miei vecchi pantaloni neri.
«Si tratta di
una protezione per il cuore, piccola Elfa. Vuoi vedere?»
Alzai lo
sguardo e lo seguii incuriosita mentre si allacciava quella che a
prima vista era sembrata una sacca, mentre in realtà doveva
essere
un cuscinetto imbottito e corazzato. Una metà andava sul
torace e
l'altra sulla schiena.
«Non mi protegge totalmente» mi informò
Durza. «Una lama potrebbe passarmi dalle clavicole o tra le
costole,
sul fianco. E decisamente non mi salverebbe da un colpo di spada ben
assestato. Ma in ogni caso potrebbe risparmiarmi una morte
idiota».
Mi alzai e sfiorai la placca corazzata, picchiettando
leggermente l'indice su di essa. «È una
precauzione saggia»
concessi. «Sei mai..?»
«Morto?» Ghignò.
«Esatto».
«No.
E non chiedermi come funzioni il processo di rigenerazione
perché
non ne ho la più pallida idea. So solo che se anche mi
spaccassero
la testa non morirei totalmente».
«Quindi non sai nemmeno quando
morirai di morte naturale?»
Scosse la testa. «Non sono nemmeno
sicuro che morirò. Credo che comunque ci sarà
qualche segnale del
mio decadimento fisico prima di ritrovarmi nel nulla».
«Sembri
ancora un uomo giovane» lo rassicurai. «Quando ti
ho visto il
giorno dopo l'agguato non ti avrei dato più di venticinque
primavere. Umane, ovviamente».
«Effettivamente dovevo avere
circa venticinque primavere quando sono diventato uno
spettro»
disse. «Mio padre sapeva contare, ma non credo che abbia mai
seguito
l'età mia e di mia sorella, quindi non ne sono
certo».
Stavo per
chiedergli di raccontarmi del suo passato e della sua famiglia, ed
ero certa che in quel momento mi avrebbe risposto, ma a quel punto
qualcuno bussò alla porta.
«Mio signore sono io» fece la voce
di Hillr.
«Non ora!» lo cacciò lo Spettro
aspramente.
«Forse
ha visto qualcosa di troppo» osservai, ricordando lo sguardo
acceso
di odio che mi aveva lanciato.
Hillr mi detestava e mi aveva più
volte minacciata. E non escludevo che si sarebbe abbassato a compiere
qualche atto avventato pur di farmi sparire dalla sua vista.
Già
sospettavo la sua complicità con Alba vista la sincronia con
cui
aveva trattenuto lo Spettro in modo che lei potesse venirmi a
parlare, da sola.
Ma forse era solo la mia immaginazione.
«Non
mi tradirà» insistette Durza.
«Nemmeno Alba doveva
tradirti».
Schioccò la lingua contro il palato.
«Sarà meglio
che faccia un discorsetto con Hillr, allora. Gli dirò di
tenere la
bocca chiusa su di te».
«E per quanto riguarda i miei abiti?»
mi informai accennando alla pila che giaceva ai miei piedi.
«Tienili
da parte. Non mi sembravano troppo malmessi e credo che dovresti
indossarli quando ci sposteremo verso Uru'baen».
«D'accordo».
Li raccolsi e li riposi nella cassapanca.
Lo Spettro finì poi di
vestirsi -indossando lo stesso mantello di pelli di serpente che
aveva indosso il giorno che aveva affrontato Lord Barst- e
uscì,
alla ricerca di Hillr. Per il resto del giorno lo vidi solo a pranzo,
quando venne in camera con un vassoio ricolmo di cibo, e all'ora di
cena, quando mi venne a prendere e mi trascinò con
sé in una stanza
poco lontana dalla sua camera da letto: il suo studio.
Era una
stanza semplice, con una grande scrivania che ospitava pile di carte
ordinate e una sola sedia, così che chiunque venisse
ricevuto fosse
costretto a rimanere in piedi.
Un candeliere con cinque candele
era posato sul tavolo, ma la luce del sole morente illuminava ancora
l'ambiente a sufficienza, nonostante l'unica e piccola
finestra.
Durza sgomberò un angolo della scrivania e vi
spostò
il vassoio contenente la cena, facendomi cenno di servirmi. Poi
occupò la sedia e picchiettò una mano sulle
proprie gambe.
«Se
vuoi ti ospito».
«Un'altra sedia, no?»
Sorrise
sinistramente. «Proprio no».
Sedetti sul tavolo, accanto al
vassoio e mi servii con appetito. Avevo passato la giornata
rispolverando gli esercizi di Rimgar e mi sentivo piuttosto
indolenzita, oltre che affamata.
«Non ti abbandonerò più per un
giorno intero» disse lo Spettro. «Credo di aver
convinto Hillr a
stare al suo posto -anche se continuerà ad odiarti
finché camperà-
e ho incaricato un uomo di mandare un messaggio a Dras-Leona: voglio
essere informato su tutto ciò che succederà,
anche se purtroppo
abbiamo perso Ditolesto».
«Ti riferisci a ciò che ti ha detto
Alba prima di andarsene?»
«Alba mi ha detto che delle spie a
Belatona hanno avvistato il figlio di Morzan. E a quanto pare
Galbatorix in persona andrà a Dras-Leona per richiamare
Tàbor
all'ordine. Non sono sicuro che sia quello il vero scopo del suo
viaggio, il re non abbandonerebbe mai il suo palazzo e la sua ricerca
se non ci fosse un valido motivo di farlo» disse.
Non ci avevo
pensato. «Hai una teoria?»
«Galbatorix sta inseguendo Murtagh,
il figlio di Morzan».
Corrugai la fronte. «Che interesse ha il
re per il figlio di Morzan?»
«Cosa sai del ragazzo?»
«Solo
che esiste e che, per quanto ne sapevo, viveva alla corte del re.
Quindi davo per scontato che fosse al suo servizio».
«Allora
lascia che ti dia qualche ragguaglio». Si accomodò
meglio sulla
sedia. «Murtagh è stato abbandonato dalla madre e
il padre è stato
ucciso..»
«.. da Brom» completai.
Fece un cenno di assenso.
«Il re non si è interessato a lui
finché non è diventato un uomo
e allora ha cercato di tirarlo dalla sua parte, ma il giovane non
è
mai stato molto convinto di una simile possibilità e alla
fine ha
cercato di fuggire».
«E ce l'ha fatta, a quanto pare. Ma non
capisco il punto».
«Sai c'è una certa.. familiarità
nell'ordine dei cavalieri».
«Cioè?»
«Che i figli di
cavalieri hanno più possibilità di diventare
cavalieri a loro
volta» specificò.
Capii il nesso e smisi di masticare per
qualche istante. Poi deglutii e tornai a parlare: «Vuole fare
schiudere le altre uova, non è vero?»
«Ne ha ancora due»
confermò. «E potrebbe dar loro una lieve
spinta».
«Con la
magia».
«Ovviamente».
«Forse avremmo dovuto cercare il
figlio di Morzan e portarlo via con noi» dissi, scoraggiata.
«Ma
come sai che andrà a Dras-Leona?»
«Non lo so. Ma è una delle
poche vere ragioni che spingerebbe il re a muoversi da Uru'baen. E
inoltre sono sicuro che la notizia dell'avvento di un nuovo cavaliere
si sta diffondendo. Un drago non passa inosservato e nemmeno i
Ra'zac. Poche parole alle persone giuste e chiunque sarebbe capace di
fare due più due».
Già. Passano i Ra'zac, poi passa un drago.
Il drago sta inseguendo i Ra'zac.
E chi non vorrebbe l'amicizia di
un giovane cavaliere, presumibilmente ancora libero da una qualsiasi
affiliazione agli schieramenti di Alagaësia?
«Il re lo
troverà?»
«Sì, se non sarà abbastanza furbo da
scappare in
tempo. Ma non escludo che si sia già aggregato al cavaliere
e al suo
drago».
«Brom non lo accetterebbe mai» lo smentii.
«Prima di
tutto perché non saprà mai se è degno
di fiducia, visti i suoi
natali e gli anni passati alla corte di Galbatorix, e poi
perché gli
attirerebbe solo ulteriori attenzioni addosso. E come hai
già detto
tu un drago non ha bisogno di essere annunciato».
Durza si ripulì
le mani su un tovagliolo di stoffa e poi le incrociò
sull'addome.
«Speriamo che non venga preso e continuiamo per la nostra
strada»
tagliò corto. «Dai a Galbatorix un altro paio di
settimane, non più
di tre in tutto, e mi ordinerà di portarti ad Uru'baen.
Forse ormai
non gli interessa avere informazioni sull'uovo -che è
decisamente
schiuso- ma potresti comunque servirgli per fare pressione sugli
elfi».
«Che le ignorerebbero» lo informai.
Posò il viso
sulla mano e mi scrutò interessato. «Quindi dicevi
sul serio quando
sostenevi che gli elfi non avrebbero ceduto di un passo nemmeno per
te che sei la loro principessa».
«Non sono l'erede al trono,
Durza, mi sembrava di avertelo spiegato».
Si strinse nelle
spalle. «Tra gli esseri umani è inconcepibile che
il figlio del
sovrano non sia anche l'erede. Tranne quando il legittimo re viene
spodestato e la sua famiglia massacrata ovviamente. E se anche fosse
rimasto un erede dei Broddring dubito che si farebbe avanti a questo
punto».
«Già» confermai, afferrando la brocca
d'acqua e
versandone un poco nel suo bicchiere, che ingollai in un
attimo.
Trovai gli occhi dello Spettro puntati sul mio collo e le
sue labbra sottili atteggiate in un lieve sorriso.
«Ti ho mai
detto che sei bella, Principessa?»
«No» replicai. «Hai detto
che sono troppo piatta per essere una donna e mi hai proposto di
tenere le curve di Alba».
Fece una smorfia. «Mi sa che già
allora mi piacessi».
«Sei uno sfacciato bugiardo».
Si alzò
dalla sedia. «E tu hai addosso un vestito di
troppo.»
«Te l'ho
detto che pantaloni e camicia sono più pratici».
Durza mi si
parò davanti e separò dolcemente le mie
ginocchia, facendosi spazio
tra le mie gambe. «Non da togliere, Piccola Elfa».
E mi scostò i
capelli su una spalla, per poi depositare baci e morsi sulla mia
pelle.
Gli strinsi il viso tra le mani e lo baciai.
«Questo
è un sì?» si accertò ridendo.
A dire il vero non ero
particolarmente entusiasta all'idea di ripetere l'intera
l'esperienza: quella notte a Dras-Leona si era rivelata
principalmente dolorosa per me, ma ricordavo anche che Durza ne era
stato felice, quindi lo avrei lasciato fare volentieri.
Gli
accarezzai il petto e sciolsi i lacci della sua casacca.
«Sì»
soffiai contro il suo collo.
«Siamo di nuovo su un tavolo, Arya.
Non preferiresti un letto stavolta?»
E senza aspettare una mia
risposta mi strinse la vita e mi tirò giù dalla
scrivania. Il
candelabro accompagnò i nostri passi nel corridoio, in
direzione
della camera da letto dello Spettro. Durza lo posò sul
tavolinetto
accanto al baldacchino e scostò le coperte dal materasso,
poi si
voltò verso di me e mi fece cenno di avvicinarmi, con un
ghigno
rapace stampato in volto.
Lo spogliai, gettando a terra la sua
casacca, la sua camicia e la protezione che aveva sul cuore,
sfiorando la sua pelle nuda, così pallida da sembrare
trasparente
contro quella scura delle mie mani. Disegnai con attenzione i
contorni del suo corpo asciutto, che avevo conosciuto, ma mai
esplorato; giocherellai con il sole d’argento e Durza mi
guardò
come un cervo dato in pasto ad un lupo, mentre la pelle d'oca gli
spuntava addosso.
Lo Spettro mi piegò sul materasso e le sue
labbra scesero indiscrete ad impossessarsi della porzione di pelle
subito sotto le clavicole. Scivolai sul letto e sprofondai nel
materasso sotto il peso del suo corpo, peso che accolsi con un
sospiro di beato abbandono.
Se nello studio la mia testa era
arrivata alle dovute conclusioni, in quel momento il mio corpo
sembrava parlare una lingua diversa. Alle carezze frettolose e ai
baci di Durza mi sentivo sciogliere, avvampare, precipitare in un
pozzo oscuro senza fondo e quelle sensazioni si facevano solo
più
intense di minuto in minuto.
Ma quando sentii le sue dita muoversi
agili sui lacci dell'abito mi sporsi bruscamente in direzione del
tavolinetto e soffiai sulle candele, spegnendole. Peccato che il
tramonto schiarisse ancora la stanza.
Lo Spettro ridacchiò,
insinuando le mani sotto di me per sciogliere i nodi sulla schiena.
«Ti vedo lo stesso, piccola Elfa».
«Allora faresti meglio a
tirare le tende» lo informai.
Mi ero guardata nuovamente allo
specchio, il giorno precedente, e avevo visto gli strati di cicatrici
che deturpavano il mio corpo. Non le avevo cancellate,
perché il
nostro piano prevedeva di usarmi come diversivo con Galbatorix, che
avrebbe sicuramente reputato strana la totale assenza di segni delle
torture subite su di me, tuttavia sapevo di non essere
particolarmente attraente in quelle condizioni.
Durza forse non le
aveva viste, la notte al Covo, e doveva averle dimenticate
perché
sussultò, non appena mi ebbe sfilato il vestito di dosso.
«Chiudo
le tende?» domandai gentilmente.
Lo Spettro mi guardò con occhi
seri e ridotti a fessure, poi si chinò su di me, si
liberò anche
della fascia e tempestò la mia pelle offesa di lenti baci
sensuali.
Restai rigida qualche istante, poi finii per
abbandonarmi alle sensazioni piacevoli della sua bocca e delle sue
mani su di me, mentre il respiro cominciava a mancarmi,
trasformandosi in lieve affanno.
Ma l'abbandono lasciò presto
spazio a qualcos’altro. Una sensazione di mancanza
incredibile che
pareva causata da quelle stesse mani e dalle labbra che
all’improvviso mi sfiorarono la spalla sinistra, seguendo il
disegno dello Yawë. Mi sembrava che in qualche modo Durza
potesse
saziare quel vuoto, ma più lo baciavo più quella
sensazione
sembrava aumentare.
Resa impaziente dalla frenesia che sentivo
montarmi dentro, mi sfilai le brache con un paio di rapidi movimenti
e lo tirai a me, accogliendolo tra le mie braccia.
Aspettai il
dolore, ma non venne. Aspettai la bella sensazione che avevo provato
la prima volta, ma le mie aspettative furono nuovamente
sconvolte.
Fui totalmente e inaspettatamente travolta dal piacere.
Gemetti sorpresa, artigliando le braccia dello Spettro e stringendo
convulsamente le gambe intorno alla sua vita.
Durza si fermò di
scatto, le mani ai lati della mia testa, e mi fissò
allarmato.
«Diamine! Ti ho fatto male?»
Ma davvero? La volta precedente mi
aveva fatto male e non si era accorto di nulla, e ora che tutto
sembrava andare bene mi guardava preoccupato.. e si riteneva anche un
abile lettore dei sentimenti altrui?
Oh, non avevo tempo per
pensare a simili sciocchezze!
«No» bisbigliai in tono quasi
supplice, spostando le mani sulla sua schiena e tirandolo bruscamente
verso il basso.
Lo Spettro cadde sui gomiti e le sue labbra
urtarono con violenza contro le mie, ma quando ricominciò a
muoversi
mi ritrovai a gemere ancora e non certo per il dolore.
Ebbi
caldo, poi freddo, poi caldo e freddo insieme, poi sparirono i suoni
e i colori e poi si mescolarono in una confusa sinestesia. Le mie
unghie troppo corte scivolarono sulla sua pelle, il mio corpo
seguì
le sue mosse e la mia mente sfiorò la sua.
E
fui sommersa da una quantità tale di sentimenti e sensazioni
che mi
parve di essere sul punto di scoppiare.
«Durza»
singhiozzai.
E poi mi sbriciolai in mille pezzi.
Dopo
giacqui senza fiato, ancora avvinghiata a lui, tremando di emozione.
Qualche minuto più tardi lo Spettro si sollevò
sui gomiti e mi
guardò con espressione teatralmente sconvolta.
«Ehi tu!» ansimò.
«Che ne hai fatto della donna algida che ho incontrato cinque
mesi
fa?»
Gli diedi un colpo sulla nuca. «Idiota».
Con un sorriso
arrogante, sprofondò di nuovo il volto nella curva della mia
spalla.
«Non mi stavo lamentando!» puntualizzò
un istante dopo,
sollevando un indice.
Scoppiai a ridere.
Quando provai ad
alzarmi, il mattino seguente, fui nuovamente trascinata giù
dalle
braccia forti di Durza, che mi spinse sotto di sé e
iniziò a
baciarmi. Inizialmente ne risi, poi finii per stringere a me il suo
corpo bollente e cedere agli stessi brividi della sera precedente.
E
lo stesso si ripeté molte volte nei giorni seguenti. Ancora,
ancora
e ancora.
Durza aveva il fuoco nelle vene e, fosse dipeso solo da
lui, mi avrebbe spinta nel suo letto non meno di una volta al giorno.
Io ero diversa e mi rendevo conto io stessa di essere più
cauta e
meno propensa a cadere nel vortice della passione, tuttavia
solitamente lo lasciavo fare e provavo comunque sensazioni molto
gradevoli, anche se non ero accecata dal desiderio. E quando ero io a
volerlo non facevo certo la preziosa e non mi facevo problemi a
cercarlo per strappargli anche solo un lungo bacio.
Lo Spettro
rimaneva con me per molte ore e un giorno mi portò anche
fuori dalle
mura interne di Gil'ead, dandomi sembianze diverse e facendomi
indossare un mantello, ovviamente. Mi accompagnò da uno
speziale e
mi lasciò comprare l'occorrente per fabbricare dell'altro
Nasgalk.
Fu in quell'occasione che ricordai delle spie dei Vardem
che sapevo avere una base o due in città. Non dissi nulla a
Durza,
sia perché non vedevo come la cosa potesse ormai
interessarlo, sia
perché mi sentivo ancora molto vincolata all'organizzazione
ribelle
e non volevo rivelare nulla che avevo giurato di tenere per me.
Nemmeno a quello che ormai era diventato il mio compagno.
Allo
stesso tempo la farsa della mia prigionia andava avanti, e non era
raro che Durza restasse qualche ora nelle segrete, a fingere di
torturare la mia immagine-specchio, mentre io rimanevo nelle sue
stanze a praticare esercizi di Rimgar ed esercitarmi con Ren.
Tre
giorni dopo il nostro rientro a Gil'ead, fui assalita nuovamente da
una di quelle visioni ad occhi aperti, che già due volte mi
aveva
presa, a Dras-Leona. Vidi nuovamente il drago e il giovane cavaliere,
ma il volto sfocato del ragazzo era inondato di lacrime e chiazzato
di sangue.
Durza non seppe aiutarmi, ma era palesemente sollevato
che la visione mostrasse i due ancora in piena libertà e non
sotto
il dominio del sovrano. Sempre che quelle immagini corrispondessero
al vero.
I miei incubi notturni non erano scomparsi, anche se si
erano fatti meno violenti e almeno quel problema divenne di
importanza più marginale.
Ma l'idillio non poteva durare,
ovviamente.
Una settimana dopo il nostro arrivo a Gil'ead vidi
Durza sobbalzare al mio fianco e portarsi una mano al petto.
«Arya»
soffiò con voce allarmata.
Guardai il medaglione che stringeva
tra le dita e l'espressione affaticata che aveva in volto.
«No..»
«Non può essere che il re»
gracchiò. «Devi
andartene».
«Dove..?»
«No aspetta.. resta qui. Io vado di
là». E si trascinò in direzione della
sala da bagno.
«Posso
fare qualcosa?» mi offrii angosciata, seguendolo
istintivamente.
Lo
Spettro si appoggiò allo stipite della porta. «Se
senti il re
ordinarmi esplicitamente di farti del male..»
Scossi
violentemente la testa.
«..scappa» concluse lui. «Corri fino a
che non sarai arrivata in un posto sicuro. E non fermarti fino ad
allora».
«Durza..»
«Non fare la sciocca e non buttare via
la tua vita» mi rimbrottò bruscamente.
E poi scomparve dietro la
porta, tirandosela dietro con violenza.
Mi afflosciai contro il
muro, tremando, e mi lasciai scivolare a terra, imponendomi di
rimanere concentrata sui suoni provenienti dal muro dietro alla mia
schiena.
«Mio Signore» fece Durza, con un tono deferente che
non
gli apparteneva.
«Non ho tue notizie da mesi, Durza» gli rispose
una voce persuasiva almeno quanto lo era stata la sua durante gli
interrogatori.
Solo che essa non era fredda, suadente e
pericolosa, ma calda, gioviale, familiare e paterna.
Rassicurante.
Non era la voce di un pazzo e assassino.
«Ho
dato per scontato che non avrei dovuto contattarti se non avessi
avuto novità da darti».
«Quindi deduco che la situazione sia
rimasta invariata, nonostante le mie
raccomandazioni».
Raccomandazioni incise a sangue nella carne
di Durza?
«Effettivamente sì, mio re».
«Oramai non è
più così importante. Credo che tu abbia sentito
le voci, dico
bene?»
«Qualcuno mormora che un nuovo cavaliere calpesti il
suolo di Alagaësia» disse lo Spettro quietamente.
«Ed è così.
I Ra'zac si sono scontrati con lui, appena fuori da Dras-Leona, ma
alla fine se lo sono fatto sfuggire. Tuttavia, se il loro racconto
non sbaglia, pare che Brom sia rimasto gravemente ferito nello
scontro».
Brom?
«Questa è una buona notizia».
«Non lo è
abbastanza!» fece Galbatorix severamente. «Murtagh
è stato visto
con loro: a quanto pare ha provveduto lui stesso a liberarli e si
è
unito al cavaliere».
«Desideri che mandi gli Urgali a cercarli,
mio signore?»
«No. Gli Urgali saranno molto utili ai nostri
scopi, ma seminerebbero il panico più totale nel cuore
dell'Impero.
Tuttavia ti ordino di convogliarli a sud, tra Uru'baen e il deserto
di Hadarac, dove potranno intercettare i tre nel caso cercassero di
raggiungere i Varden».
Sobbalzai. Il re come sapeva dei Varden?
Sapeva forse dove fosse collocata la fortezza sotterranea del Farthen
Dur? O forse sapeva solo di voci, che sostenevano che i ribelli si
trovassero a ovest?
«Come comandi» rispose Durza prontamente.
«E
ora dovremo affrontare la questione dell'elfa.» Rabbrividii.
«Manderò alcuni uomini della mia scorta personale
a Gil'ead. Ti
accompagneranno fino ad Uru'baen e ti aiuteranno a sorvegliare la
prigioniera».
«Non è necessario» osservò lo
Spettro
umilmente. «Non è in grado di nuocermi in alcun
modo».
«Lo
spero bene per te. Ma voglio avere la certezza che Varden, Elfi o
umani non si metteranno in mezzo. Una parte del drappello che
verrà
si fermerà a Gil'ead».
«Non abbiamo bisogno di altri uomini a
Gil'ead».
«Il cavaliere è ancora in circolazione, Durza, e
io
non ho intenzione di lasciarlo a piede libero un giorno di
più.
Potrebbe andare a nord, a sud o a est e cercare rifugio tra Elfi,
surdani o Varden e io non posso permetterlo. Ogni città
abbastanza
rilevante da essere segnata su una mappa avrà un drappello
di uomini
informati sul giovane e sul suo drago tra le sue mura, così
da poter
agire dove altri esiterebbero. Questi soldati hanno ricevuto miei
precisi ordini e quindi ti prego di non contraddirli, come
già
facesti pochi mesi fa con Lord Barst».
«Ai tuoi
comandi».
«Raduna i tuoi Urgali dalle terre del nord e conducili
verso sud, ma senza fare tagliare loro il territorio di
Alagaësia».
«Ordinerò loro di proseguire lungo la linea del
deserto di Hadarc fino al punto che hai stabilito».
«Eccellente.
Tra circa una settimana il drappello sarà a Gil'ead. A quel
punto
lascerò che scada il tempo che ti avevo promesso per
strappare
qualcosa alla prigioniera, ma tra non più di tre settimane,
se non
avrai ottenuto risultati, dovrai condurla a
Uru'baen».
«Certamente».
«Aspetto presto tuo notizie,
allora. Non vorrei vedermi costretto a punirti di nuovo per la tua
leggerezza».
Ci fu un lungo silenzio. «Non ho dimenticato la tua
lezione. Farò del mio meglio, hai la mia parola».
«Lo so».
E
poi probabilmente chiuse il contatto.
Restai raggomitolata a terra
per parecchi secondi, incerta, poi mi alzai cautamente e azzardai
qualche passo verso la porta. Durza ne uscì e
cercò rifugio tra le
mie braccia.
«È andato tutto per il meglio» lo
rassicurai
dolcemente.
«Non avevo così tanta paura da decenni»
confessò.
E poi rise, cercando probabilmente di sciogliere la tensione che
entrambi avevamo addosso dopo quei pochi minuti di contatto con il
re.
Una domanda sbagliata avrebbe potuto mandare all'aria i nostri
piani, invece il sovrano pareva ancora fidarsi di lui, nonostante
disprezzasse evidentemente la sua incapacità di togliermi
informazioni.
«Manteniamo integro il nostro piano?» mi
accertai.
«Direi di sì. Ordinerò agli Urgali di
radunarsi
intorno a Gil'ead e solo quando saranno tutti qui li manderò
verso
sud. Non voglio che il cavaliere finisca nelle mani del re, piuttosto
è meglio che raggiunga i Varden».
«A proposito dei
Varden..»
«So cosa stai per chiedermi» mi precedette.
«E ti
rispondo subito: sì, abbiamo delle spie. Sono due individui
ambigui,
Galbatorix li chiama i Gemelli».
«Li conosco» dissi,
freddamente.
«Non pensarci adesso. Una volta ucciso il re potrai
fare una soffiata ai Varden e ci penseranno loro a farli morire
male».
«Suppongo di sì» concessi. «Ma
quanto sa il re del
loro covo?» non riuscii a trattenermi dal chiedere.
Durza fissò
gli occhi di brace nei miei. «Sa tutto, Arya. Se volesse
potrebbe
attaccarli in qualsiasi momento e distruggerli. Anche io ho delle
mappe delle gallerie sotterranee dei nani nel mio studio, magari non
tutte, ma quelle sufficienti per arrivare al Farthen Dur sì.
Sono
informazioni che possediamo da parecchi anni. A quanto pare Ajihad
è
molto diffidente nei confronti dei Gemelli, ma loro riescono comunque
ad ottenere parecchie informazioni».
«Perché non me l'hai detto
prima?»
Si strinse nelle spalle. «Non ci ho neanche pensato, a
dire il vero. E poi meno penso ai Varden e al loro capo meglio sto.
Magari ho rinunciato a farlo a pezzi, ma questo non significa che mi
stia simpatico».
«No, certo» feci, addolcendo il tono.
E
pensai automaticamente a ciò che io non gli avevo detto sui
ribelli.
In fondo era giusto che tra di noi rimanesse un argomento intoccato,
almeno fino alla sconfitta totale del re. Del resto, finché
fosse
stato sotto il suo controllo, Durza non avrebbe nemmeno potuto
garantirmi il silenzio sui miei segreti.
Sul filo di quel
ragionamento mi raccapezzai di qualcosa che Galbatorix avrebbe potuto
facilmente notare e reputare sospetto.
«Devo avere ferite
recenti» dissi. «Il re crede che tu stia
continuando a torturarmi e
sarebbe alquanto insolito presentarmi al suo cospetto con vecchie
cicatrici ormai guarite».
L'espressione già cupa di Durza si
fece funerea. «Io non ti toccherò mai
più con un ferro, Arya. E
questo posso giurartelo».
«Ma devi, e lo sai. O dovrò farlo da
sola e sarà solo più difficile».
Tentennò. «In ogni caso non
ora. Abbiamo ancora una settimana prima che arrivi il drappello
promesso dal re. Quando saranno qui sarò costretto a
riportarti
nella cella per evitare di venire scoperti e lì ti..
farò qualche
segno».
«Va bene così».
«Tra una settimana..»
«Abbiamo
ancora tempo» constatai.
Poi gli sorrisi e cercai le sue labbra
ruvide.
E invece la settimana passò con la rapidità di un
sogno, che si interruppe con un brusco risveglio.
Gli uomini
preannunciati da Galbatorix arrivarono nel primo pomeriggio, un paio
di giorni oltre alla settimana stabilita dal re.
Io e Durza
eravamo pronti e, quando una pattuglia rientrò annunciando
l'arrivo
di venti soldati con le uniformi delle fiamme imperiali addosso, lo
Spettro mi accompagnò nei sotterranei.
Avevo indossato nuovamente
i miei vecchi abiti neri, ma ero ovviamente stata costretta a
lasciare la mia spada, Ren, e il mio arco a Durza, che li avrebbe
riposti nell'armeria per non destare sospetti, seppur con l'ordine
esplicito che nessuno li toccasse. Mi aveva inoltre procurato una
fascetta di cuoio per fermare i miei capelli come lo erano la notte
della mia cattura.
Lo Spettro congedò le guardie e io, che mi ero
celata sotto un incantesimo che respingeva la luce, rendendomi
invisibile ad occhi umani, lo seguii in quella che era stata la mia
cella. Non vi entravo da più di due mesi e la vista delle
pareti
spoglie, umide e prive di finestre mi catapultò indietro nel
tempo,
a ricordi decisamente spiacevoli, che cercai disperatamente di
sopprimere in fretta prima che mi travolgessero.
Durza afferrò le
mie mani e fissò i miei occhi per qualche istante.
«Inizia la
recita, allora» disse tristemente.
Annuii, assumendo un cipiglio
determinato. «Ci vediamo più tardi».
Avevamo stabilito che lo
Spettro sarebbe venuto a prelevarmi dalla mia cella come aveva fatto
nelle ultime settimane con la mia immagine-specchio e mi avrebbe
portata con sé nella stanza delle torture, dove avrebbe
dovuto
procurarmi nuovamente ferite simili a quelle di qualche mese prima. E
avremmo ovviamente sfruttato il tempo insieme anche per parlare delle
ultime novità, di cui avrebbe dovuto tenermi informata. La
notte
avremmo lasciato una mia immagine nella cella, mentre io avrei
riposato nel suo letto, dove avrebbe potuto riscuotermi. Al mattino,
fingendo di andare a prelevarmi per torturarmi, mi avrebbe riportata
nelle segrete.
Ci separammo a malincuore e dopo qualche minuto
sentii le guardie prendere posizione davanti alla porta. Era una
situazione strana. I soldati lì fuori erano convinti di
avermi
sorvegliata ininterrottamente anche per gli ultimi mesi, mentre in
realtà io avevo viaggiato per Alagaësia insieme al
loro padrone e
passato le ultime settimane nelle sue stanze.
Tornare a sentire
voci e respiri oltre alla massiccia porta di legno era.. Irreale.
E
non mi ero ancora resa conto di ciò che avrei dovuto
nuovamente
subire di lì a poche ore, al più tardi il giorno
seguente.
Arrotolai le maniche del farsetto e della camicia e contemplai le
brutte cicatrici stratificate.
Ricordavo il dolore alla perfezione
e ogni più piccola parte di me si ribellava strenuamente
all'idea di
sottopormi volontariamente allo stesso trattamento che mi aveva
spinta sull'orlo della pazzia, solo pochi mesi prima.
Ma era
necessario. E sarebbe stato solo per poche settimane.
Dopo, con
una buona dose di fortuna, avrei assistito alla caduta di Galbatorix,
per la quale combattevo da più di settant'anni. Poi avrei
abbandonato Alagaësia nel caos e sarei fuggita.
Ma forse sarei
anche riuscita a temporeggiare, convincere Durza a prendere false
sembianze e a seguire anche la sua rinascita, l'instaurazione di un
governo equilibrato e il risorgere dell'antico ordine dei
cavalieri.
O forse no, ma non era importante. Non avrei rischiato
la vita del mio amante solo per il gusto di vedere compiuta l'opera a
cui avevo partecipato con tanto entusiasmo. Ero fiduciosa: morto il
re e annullata la misteriosa fonte del suo potere, gli uomini
sarebbero riusciti a ristabilirsi con al massimo qualche scaramuccia
e gli elfi avrebbero ottenuto probabilmente un patto vantaggioso per
essere almeno lasciati in pace, anche grazie all'appoggio dei
Varden.
Sedetti sul pagliericcio e chiusi gli occhi.
Sarebbe
andato tutto bene e io avrei cominciato una nuova vita, ricca di
avventure e amore e entusiasmo, lontano da tutto ciò di
bello e
brutto che mi era successo in Alagaësia.
Quella stessa sera non
riuscii a mangiare il pane col formaggio che lo Spettro mi porgeva,
colta dalla nausea e da una strana emozione che somigliava
terribilmente a terrore per il futuro.
Quella notte strinsi a me
Durza come se potesse dissolversi tra le mie mani.
______________________________________________________________________________________________
Salve a tutti! ^_^
In questo capitolo succede di tutto e di più e vi lascio solo due commenti:
-Per chi cerca sempre collegamenti con Eragon: la visione di Arya del cavaliere con il volto bagnato di lacrime e sangue corrisponde alla notte della morte di Brom. In seguito passano due settimane e sappiamo bene che Saphira, Eragon e Murtagh si muovono per Alagaësia, sfiorando Uru'baen e avvicinandosi a Gil'ead, alla ricerca di qualcuno che possa condurli dai Varden. Vi arriveranno tra una settimana abbondante e da lì ne parliamo al prossimo capitolo..
-Le guardie mandate da Galbatorix sono plausibili perché Durza litiga con il loro capitano dopo la cattura di Eragon, il quale sostiene di non volere disubbidire agli ordini del re, quindi suppongo che non fosse alle dipendenze dello spettro ma avesse ricevuto ordini diretti dal sovrano.
Vi lascio e ci vediamo alla prossima! ;)
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Capitolo 31 *** Tutto precipita ***
Ciao
31.
Tutto precipita
Nei
giorni che seguirono io e Durza ci impegnammo per rendere la storia
della mia prigionia il più credibile possibile agli occhi
dei nuovi
arrivati. Le guardie erano arrivate in città in pompa magna
e il
loro capitano aveva subito chiesto di essere ricevuto da Durza
affinché potessero accordarsi per inserire una decina dei
suoi
uomini nei turni di guardia sulle mura, in modo da poter svolgere il
compito per il quale il re li aveva spediti a Gil'ead.
Cinque di
loro presero posto fisso davanti alla mia cella, sostituendo gli
uomini dello Spettro e aprendo lo spioncino per sbirciare all'interno
molto più spesso di quanto fossi abituata. Sgattaiolare via
con
Durza si fece ogni notte più difficile, e altrettanto
difficile era
sostituirmi alla mia immagine ogni mattino perché non era
raro che
il capitano si affacciasse curioso alla porta e seguisse la
processione fino alla stanza delle torture con i suoi uomini.
Le
torture. Durza cominciò con l'accarezzarmi lo sterno con un
ferro
arroventato, nel punto dove aveva fatto sparire le mie cicatrici
affinché non risultassero evidenti dallo scollo dell'abito,
quando
eravamo a Dras-Leona. Il dolore era sopportabile e lo Spettro si
premurava di guarirmele ogni sera, almeno in parte.
Ma sapevo che
prima o poi avrebbe dovuto cominciare a procurarmi vere ferite,
sanguinanti e d'impatto, che potessero risultare soddisfacenti agli
occhi di Galbatorix, se e quando avesse deciso di vedere fino a che
punto si erano spinte le torture del suo secondo.
Tre giorni dopo
ci rendemmo conto che indossavo ancora l'anello di ametiste e che
forse era il caso di togliermelo, dato che ufficialmente era una
droga a sopprimere i miei poteri, che in realtà erano
liberi. Lo
consegnai a Durza e lui se lo mise al collo insieme al ciondolo del
sole.
«I miei spiriti vorrebbero farti ancora del male»
aveva
ammesso lo Spettro il giorno prima, con un'espressione di vergogna
così penosa in volto, che mi ero sentita il dovere di
consolarlo,
nonostante fossi io la possibile vittima della rabbia di quelle
creature.
«Questo olio ricorda vagamente l'odore della tua
pelle»
disse lui in quel momento, riportandomi al presente.
Lasciai
scivolare le dita tra i suoi capelli fradici e gli massaggiai
delicatamente la testa. Eravamo entrambi immersi nel piacevole calore
della sua vasca, la sua schiena contro il mio petto, e ci stavamo
godendo qualche istante rilassante prima di coricarci. Fuori era
notte fonda e solo una fioca candela illuminava la sala da bagno.
Al
tocco delle mie mani, lo Spettro chiuse gli occhi e reclinò
il capo
all'indietro, tirando un respiro appena più profondo dei
precedenti.
«Aghi di pino?» mi informai incuriosita, annusando
l'essenza che aveva appena versato nell'acqua.
«Qualcosa del
genere» mugugnò.
E per qualche minuto restammo in silenzio.
«Hai
appeso i manifesti con le immagini del cavaliere?» domandai,
cambiando discorso.
Anche quelli erano stati una sorpresa: li
avevano portati i soldati mandati dal re, ammucchiati in grandi
casse, con l'ordine di distribuirli per Gil'ead e villaggi limitrofi.
Le pergamene raffiguravano, con dettagli piuttosto precisi, il viso
di un giovane dall'aria seria e composta e dovevano essere state
realizzate seguendo le descrizioni fatte dai Ra'zac, che avevano
affrontato personalmente il cavaliere a Dras-Leona. A chi lo avesse
catturato o avesse fornito informazioni utili alla cattura erano
promessi mille pezzi d'oro, a detta di Durza una fortuna. Tuttavia
non era citato un drago o la vera natura del giovane, lo si
denunciava solo per “crimini contro la corona e il regno
intero”.
Durza me ne aveva portato uno affinché potessi vederlo
e io avevo constatato che si trattava dello stesso volto che vedevo
talvolta in quelle visioni così realistiche che mi
strappavano
bruscamente alla realtà. Ma di lui sapevo solo che si
chiamava
Eragon, che aveva i capelli castani e che l'ultima volta che l'avevo
visto stava soffrendo immensamente. Il perché di quella
strana
connessione che sembravo avere con lui restava inspiegato, anche se
sospettavo dipendesse in qualche modo dal legame che mio malgrado
avevo creato con il drago di zaffiro, che a lungo avevo portato con
me, attraversando Alagaësia.
«Ci hanno pensato i soldati del re»
mi rispose lo Spettro, con voce impastata. «Li hanno appesi
ad ogni
incrocio e ad ogni locanda, ma si sono anche presi l'impegno di fare
annunci orali al popolo, dato che buona parte di loro non sa leggere.
In ogni caso non vedo perché il cavaliere dovrebbe passare
di qui.
Se ha avuto un pizzico di buon senso ormai sarà
già nel Surda o tra
i Varden».
«Su questo le tue spie non sono state molto utili»
osservai.
Effettivamente aveva ricevuto informazioni da Dras-Leona
solo pochi giorni dopo lo scambio avuto con Galbatorix e dagli
informatori aveva saputo che due individui avevano lasciato la
città
a cavallo, con tutte le guardie cittadine alle calcagna. Ma a quanto
pareva erano riusciti a cavarsela e a lasciare la città,
peccato che
nessuno sapesse dire che direzione avessero preso.
«Non
prendertela con le mie spie, Elfa» borbottò, le
palpebre ancora
chiuse.
Continuai a massaggiargli le tempie. «E gli Urgali?»
«Li
ho richiamati e credo che già da domattina farò
partire un primo
drappello in direzione del deserto di Hadarac, con l'ordine di
catturare il cavaliere. Tuttavia dirò loro di non correre
troppo,
così non gli saranno di ostacolo nemmeno per
sbaglio».
«Ottimo»
decretai, baciandogli la nuca e stringendo le braccia intorno al suo
collo.
Durza mi scoccò uno sguardo malizioso da sopra la spalla
sinistra e si voltò totalmente nella mia direzione.
Scostai le
sue mani quando le strinse sui miei seni. «Mi da
fastidio»
ammisi.
Non ribatté e si limitò a spostarle altrove.
Per
quella notte non ci pensai più, ma il giorno seguente, dopo
che lo
Spettro mi ebbe lasciata nella mia cella, mi sedetti sul pagliericcio
e mi misi a fare un paio di calcoli.
Era da diversi giorni che
sentivo il seno gonfio e cominciai a chiedermi se per caso non stesse
per venirmi il ciclo. L'ultima volta risaliva a un bel po' di tempo
prima, forse un paio d'anni, mentre ero ad Ellesméra. Ero
abituata a
simili salti: a causa dei numerosi e pesanti sforzi fisici a cui
sottoponevo il mio corpo, il mio sangue mensile non era mai stato
regolare e probabilmente non lo sarebbe mai stato fino a che non mi
fossi decisa a condurre una vita più tranquilla, vita che
effettivamente avevo condotto negli ultimi mesi, nei quali avevo
drasticamente ridotto i miei allenamenti per ovvi motivi.
Avrei
dovuto usare un paio di incantesimi o chiedere a Durza degli
stracci.
Nel pomeriggio, cominciarono le vere e
proprie torture,
con lame ed uncini. Io e il mio alleato litigammo per ore
sull'argomento: Durza voleva applicarmi un incantesimo che mi avrebbe
privata delle sensazioni fisiche e quindi anche del dolore, io non
volevo perché sapevo che la pratica rientrava nella sfera
della
magia nera e io ne ero terribilmente spaventata, anche se non lo
avrei mai ammesso.
Alla fine l'ebbi vinta io e nei giorni che
seguirono mi spogliai del farsetto e dei pantaloni, così che
le
ferite potessero prendere piede in tutto il mio corpo.
Lo Spettro
non riprese le torture più estreme come le frustate
perché il
nostro vero e unico scopo era creare il più alto numero di
segni
possibili su di me, in modo che il re non capisse subito che c'era
qualcosa che non andava e lasciasse a Durza il tempo di fare
ciò che
doveva fare. E che io ancora non potevo sapere.
Riprendemmo, a
ritmi ovviamente più leggeri, i tempi che aveva adottato
quando io
ero ancora l'uccellino da fare cantare. E nonostante il dolore fosse
palesemente meno intenso, più calcolato e di breve durata,
ricominciai ad essere terrorizzata da quella stanza e dai suoi
strumenti. Non chiesi mai allo Spettro di fermarsi nel bel mezzo
dell'opera, ma mi lasciai spesso sfuggire gemiti di dolore e piccole
grida.
Smettemmo anche di giacere insieme, come
avremmo potuto
fare altrimenti? Io ero dolorante in numerose parti del corpo e non
era raro che rabbrividissi alla sola vista delle sue mani sulla mia
pelle, nonostante sapessi benissimo che non lo stava facendo
volentieri -o almeno non la parte di lui che mi piaceva tanto,
perché
ero certa che gli spiriti dentro di lui stessero esultando. Durza,
dal canto suo, faticava a torturarmi di giorno e prendere in
considerazione l'idea di amarmi la notte, così non lo fece e
io non
cercai di persuaderlo altrimenti.
Continuammo però a perdere il
respiro in lunghi baci, a dormire insieme e ad affrontare i miei
incubi.
Sopportai con tutta la forza d'animo che era rimasta
dentro di me, dicendomi che un giorno avrei trovato il coraggio di
guardarmi indietro e valutare con serenità quei brutti
momenti.
Così
come prima o poi avrei trovato il coraggio di dire a Durza che
portavo in grembo suo figlio.
Impiegai parecchi giorni prima di
riuscire ad ammettere a me stessa la verità, ma ad un certo
punto
divenne talmente ineluttabile che mi ritrovai a farci i conti per
forza. Il mio seno era fastidiosamente gonfio, ma il sangue non
veniva; e certamente non era immaginazione il flebile battito che
sentii provenire dal mio ventre il giorno che mi decisi a fare un
incantesimo per ampliare i suoni alle mie orecchie. Il battito lento,
incerto e caparbio di un cuoricino.
Incredibile.
Certo, le
occasioni in cui sarebbe potuta avvenire una cosa del genere erano
state molteplici nelle ultime, intense, settimane della mia vita, ma
in una sola occasione non avevo preso provvedimenti affinché
la vita
non potesse germogliare nel mio ventre, ed era la notte a Dras-Leona,
al Covo Segreto, quando non potevo ancora usare la magia. Tuttavia io
ero poco fertile, visti i miei natali, e non ero nemmeno certa che
Durza potesse avere figli, visti i mutamenti che gli spiriti avevano
operato sul suo corpo.
Quante probabilità c'erano che succedesse
una cosa del genere?
Eppure era successo e io non sapevo come
fosse meglio comportarmi. Se guardavo sia ai canoni degli uomini, sia
a quelli degli elfi, l'unica soluzione possibile pareva quella di
procurarsi le erbe giuste, bere un decotto e liberarmi del problema
ancora prima che divenisse tale. Io stessa ero stata educata a
considerare i figli come la più grande delle
rarità e come tale un
dono preziosissimo di cui prendersi cura con il massimo impegno e
dedizione, il frutto di un'unione stabile, serena e presumibilmente
duratura.
E nel rapporto tra me e Durza non vi era nulla di
simile: la nostra era una passione sbocciata con la rapidità
di una
stagione e al momento le nostre possibilità per il futuro
non erano
esattamente rosee. Non avrei messo al mondo una creatura solo per
vederla soffrire, tuttavia qualcosa mi diceva che non avrei mai e poi
mai trovato la forza di liberarmene.
Così lasciai passare altri
minuti, altre ore, altri giorni. E arrivai alla conclusione che
semplicemente non potevo prendere decisioni in quel momento. Sapevo
che se volevo mettere fine alla questione avrei dovuto farlo entro i
primi tre mesi dal concepimento e, se tutto andava come doveva, in
poche settimane tutto si sarebbe risolto: io e Durza saremmo stati
liberi o morti. E allora -se si fosse verificata la prima opzione,
ovviamente- ne avrei parlato con lui e avremmo preso una decisione.
Fino a quel momento avrei lasciato che il bambino crescesse dentro di
me, e vissuto la mia vita come se nulla fosse successo. Del resto una
buona percentuale di gravidanze finiva entro le prime dodici
settimane a causa di aborti spontanei e non era certo che lo stesso
non sarebbe capitato anche a me.
Mentre il mio corpo tornava
ad essere una selva di tagli ed escoriazioni e il mio compagno mi
faceva notare che avevo gli occhi più luminosi del solito, i
giorni
si tradussero in una settimana. E si avvicinò
ineluttabilmente il
giorno in cui avremmo dovuto lasciare Gil'ead per incamminarci vero
Uru'baen.
Ma ovviamente nulla poteva andare come avevamo previsto,
e una mattino -subito prima dell'alba- Durza si presentò al
mio
cospetto con gli occhi felini spalancati e un lieve tremore diffuso
in tutto il corpo.
«Il figlio di Morzan è qui»
gracchiò.
«Chi!?» esclamai, scattando in piedi
così
rapidamente che rischiai di alzarmi da terra.
«Shht» mi zittì,
posandomi una mano sulla bocca. Poi mi portò nella stanza
delle
torture e la sigillò con la magia. «La mia catena
di spie funziona
molto peggio da quando non c'è più il suo
capitano»
sospirò.
«Chi?»
Alzò un sopracciglio. «Alba,
Principessa».
«Ovvio, scusami» borbottai, spalmandomi una mano
sul volto.
«Sei stanca? Vuoi che ti guarisca qualche ferita?»
si
informò con premura, passando una mano gentile tra i miei
capelli.
Stirai un sorriso. «No, ma dimmi del figlio di Morzan,
ti prego».
Mi baciò fugacemente, poi riprese il discorso.
«Era
qui qualche ora fa, ma la notizia mi è giunta un po' tardi
purtroppo. A quanto pare era solo, ma non escludo che il cavaliere e
Brom lo stiano aspettando fuori Gil'ead».
«Mi sembra improbabile
che lo abbiano preso con loro. E in ogni caso cosa ci farebbero
qui?»
imprecai a denti stretti.
«Speravo me lo dicessi tu a dire il
vero».
«Mi spiace deluderti, ma non ne ho la più pallida
idea».
«Forse dovresti andare a parlare con loro» disse
esitante, socchiudendo gli occhi.
«Io?»
Rise amaramente. «Io
no di certo».
«Il massimo che potrei fare a questo punto è
mandarli nella Du Weldenvarden, sperando che prima o poi una
pattuglia di elfi li trovi, il tutto prima che incontrino pericoli
che non saprebbero affrontare».
«Credo che sarebbe comunque
meglio che proporre loro di seguirci ad Uru'baen. Se il nostro piano
fallisse Galbatorix ci guadagnerebbe un cavaliere e allora sarebbe un
problema ancora più serio».
«Sei diventato altruista» osservai
stringendogli affettuosamente la mano.
«Si chiama odio sconfinato
per il re, piccola elfa» ribatté con un ghigno.
«E da qui
all'altruismo c'è una bella voragine. Comunque se sei
d'accordo
stanotte..»
Si bloccò al suono di passi affrettati che si
avvicinavano.
«Mio signore!» gridò Hillr, battendo con
forza i
pugni sulla porta. «Mio signore si tratta di una questione
urgente!»
Durza mi spinse dietro di sé e sciolse l'incantesimo
che bloccava la porta, permettendo al siniscalco di entrare
precipitosamente nella stanza.
L'uomo aveva le guance arrossate
come per una grande eccitazione e gli occhi sgranati, come a seguito
di un grande spavento.
«Mio signore un drappello di Urgali chiede
di vederti. Loro hanno.. lo hanno preso».
«Preso chi?»
Ma il
rumore di altri passi impedì ad Hillr di rispondergli.
Un uomo
dalla corta barba curata si precipitò nella stanza e, dopo
uno
sbrigativo inchino nella direzione di Durza, chiese: «Sono
vere le
voci?»
«Non so di cosa tu stia parlando capitano», rispose
lo
Spettro con studiata indifferenza, «ma se lascerai al mio
secondo il
tempo di mettermene al corrente forse potrò
risponderti».
L'uomo
chinò il capo e fece un rispettoso passo indietro, ma era
palesemente inquieto e impaziente. Ne approfittai per sedermi sul
tavolo di pietra e assumere un'aria imbambolata, tipica di qualcuno
sotto effetto di droghe o al limite delle proprie forze fisiche.
Anche se non credevo che qualcuno dei presenti avesse anche solo un
minimo interesse per me, erano tutti concentrati su altro.
Hillr
si portò una mano al petto ed estrasse un pezzo di
pergamena.
«L'hanno consegnata gli Urgali ad una delle guardie delle
porte
esterne e hanno aggiunto che il ragazzo ricercato è stato
preso, ma
non i suoi compagni».
Il mio cuore prese a battere più forte
mentre registravo le parole di Hillr e guardavo le dita bianche del
mio amato svolgere con lentezza la pergamena e decifrare con
altrettanta calma la lingua aspra che vi era vergata.
«Allora?»
fece il capitano, dondolandosi su i talloni.
«Hai sentito Hillr,
capitano. I miei Urgali hanno preso il cavaliere, ma non il suo
drago. Qui c'è scritto che aspettano sulle sponde del lago
che
qualcuno vada a prelevare il prigioniero. A quanto pare lo hanno
tramortito».
«Andremo io e i miei uomini!» esclamò
egli. «Il
re ci ha mandati qui per questo ed è nostro compito
suppongo».
Durza
non poté fare altro che annuire. «Portatelo qui,
dovrà essere
drogato prima di affrontare qualunque viaggio alla capitale. E in
ogni caso tra qualche giorno metà del vostro drappello
dovrà
seguirmi con la prigioniera». E fece un gesto spazientito
nella mia
direzione.
Il capitano fece un'altra rapida riverenza. «Dopo
dovrò parlarti anche di questo. Ora col tuo permesso vado a
prendere
il cavaliere».
E senza aspettare una risposta corse via, con la
velocità che gli permetteva una cotta di maglia,
ovviamente.
«Hillr», fece lo Spettro in un sussurro,
«assicurati
che il prigioniero venga effettivamente portato qui, nelle segrete. E
poi al suo ritorno riferisci al capitano che sarò lieto di
conferire
con lui nel mio studio, domattina dopo il sorgere del sole».
Hillr
deglutì, si inchinò e uscì chiudendo
la porta dietro di
sé.
«Dannazione» sibilò Durza, sbattendo
violentemente i pugni
chiusi accanto a me, sul tavolo di pietra.
«Hanno preso il
cavaliere» sentenziai.
«Quelli erano i loro ultimi ordini, solo
che non mi aspettavo di trovarmelo alle porte di casa mia, quello
sciocco!»
Che diavolo aveva in mente Brom? Avrebbe dovuto portare
Eragon al sicuro tra i Varden o tra gli Elfi, non dritto nella
città
più militarizzata dell'impero. E al momento circondata da
pattuglie
di Urgali.
«Ma il drago è libero» sussurrai.
«Non per
molto» fu la cupa risposta. «Basterà
minacciare di morte il suo
cavaliere e lui volerà al castello di Galbatorix di sua
spontanea
volontà».
Ovviamente. Nulla era andato secondo i nostri piani. E
se da un lato avevamo ancora una buona possibilità di
uccidere il
re, dall'altra il rischio di rinforzarlo di un nuovo alleato si era
fatto incombente.
Con la sensazione di panico che andava
aumentando esponenzialmente dentro di me, gettai le braccia al collo
niveo di Durza e cercai la sua bocca.
«N-non è che possiamo
andare nella tua stanza?» balbettai, con la voce che tremava
vergognosamente.
E una volta lì chiusi le tende, spensi le
candele e ricominciai a baciarlo, a cercare la sua pelle e l'oblio,
ignorando il bruciore delle ferite che si aprivano e sporcavano di
sangue le lenzuola di seta del suo letto.
Giacemmo svegli per
lunghe ore, stretti l'uno all'altra senza osare sciogliere la presa
nemmeno per un istante.
«Mio..» sussurrò lui. Poi interruppe il
discorso e lo riprese parecchi minuti dopo. «Mio padre si
chiamava
Urien ed era nato nel Surda. I suoi genitori erano mercanti ed erano
ormai sull'orlo della disgrazia quando lui divenne uomo, quindi
decise di dare una nuova spinta all'attività di famiglia
aprendo un
commercio con le tribù del deserto di Hadarc.
Passò parecchie
settimane nella tenda del mercante con cui avrebbe dovuto chiudere
l'affare e si innamorò della figlia, Damali. L'uomo gli
concesse la
sua mano solo perché Damali era già incinta e
l'onta rischiava di
abbattersi anche sul resto della sua famiglia se la figlia avesse
dato alla luce un bastardo. Così Urien e Damali si
costruirono una
capanna tutta loro e qualche mese dopo nacqui io. Mi chiamarono
Carsaib. Mio padre riuscì a dare il via ad un commercio e
mandò del
denaro nel Surda per sostenere i genitori, che tuttavia non rivide
mai più. Il mio primo fratello nacque morto, ma i veri guai
cominciarono diversi anni dopo la nascita di Rahi, mia sorella: il
padre di Damali morì e il fratello prese il suo posto negli
affari,
rifiutando però di avere a che fare con Urien, che reputava
uno
straniero e disprezzava. Così fu la mia famiglia a cadere in
disgrazia. Mio padre si indebitò fino al collo e quando i
suoi
creditori vennero a pretendere il loro pagamento, egli dovette
ammettere di non aver mai posseduto il denaro per poterli ripagare.
Lo chiamarono spergiuro e la mia intera famiglia venne bandita dalla
tribù. Non ci uccisero, ma da un certo punto di vista
ciò che
fecero fu anche peggio: un piccolo gruppo, solo nel deserto, non
può
che soccombere sotto le forze dei briganti che vi si aggirano. Ed in
effetti fu così. Una notte mi allontanai dal nostro piccolo
campo e
tornai solo quando sentii delle grida. Mio padre era a terra e il suo
sangue macchiava la sabbia, mia madre stava urlando, ma smise presto
e mia sorella venne violentata e poi portata via in fin di vita. Io
credo.. spero che fosse già morta».
Non lo interruppi mai e
continuai imperterrita ad accarezzargli i capelli, anche quando smise
di parlare e tacque per un tempo tanto lungo che credetti non volesse
più ricominciare. Eppure lo fece.
«Non intervenni perché avevo
paura e non volevo morire, ma sarei morto comunque se un uomo
speciale non avesse incrociato la mia strada. Si chiamava Haeg e ai
miei occhi era un mago potentissimo. Egli era venuto nel deserto per
stare solo in meditazione e migliorare le proprie capacità,
ma si
imbatté in un ragazzo cencioso ed ebbe pietà di
me. Mi portò con
sé e dopo qualche anno cominciò ad educarmi
all'uso della magia. Mi
piaceva, mi affascinava e avevo un dono naturale, tuttavia il mio
maestro mi continuava a ripetere di non essere avventato con essa
perché avrebbe potuto trasformarmi in un mostro. Il dolore
per la
perdita dei miei familiari scemò lentamente e
passò così un altro
pugno di anni. In quel lasso di tempo Haeg divenne come un padre per
me e io fui come un figlio per lui. Mi chiamava il ratto del
deserto».
«Ecco perché il Ratto» osservai
delicatamente. «Mi
hai detto che ti si adattava come soprannome, a Dras-Leona».
«Già,
mai soprannome fu più adeguato di quello. Mi chiamava
così perché
correvo veloce sulle dune e mi orientavo d'istinto in quelle lande,
cosa che lui riusciva a fare solo con la magia. Eravamo una bella
squadra, ma poi tutto è finito. Ci hanno attaccato dei
briganti e io
sono certo che fossero gli stessi uomini che avevano già
ucciso la
mia famiglia, non è facile dimenticare i volti di qualcuno
che ti ha
fatto così male. Haeg li ricacciò e protesse
entrambi con la magia,
ma consumò molta energia, troppa. Quando provai a
passargliene un
po' della mia il suo cuore aveva già smesso di battere e non
riuscii.. a svegliarlo. La notte dopo ero accecato dal dolore, non
avrei potuto sopportarlo un istante di più, così
evocai gli
spiriti, inseguii i banditi e li uccisi. Tutti loro. Ma prima di
morire, uno mi disse che la sua discendenza era viva, nascosta in una
delle tribù del deserto. Così mi ripromisi che
sarei andato a
cercare i suoi figli e avrei ucciso anche loro..»
«Il resto lo
conosco» lo interruppi, depositandogli un bacio sulla testa.
«Scusa.
Volevo che ci fosse qualcun altro a conoscere la verità
prima..
prima di tutto» fece flebilmente.
Lo abbracciai e in quel momento
fui certa che nessun gesto e nessuna parola sarebbe mai riuscito a
trasmettergli anche solo un minimo di ciò che provavo per
lui.
Toccai la sua mente e, ottenutone l'accesso, vi riversai il mio
affetto, le mie insicurezze, la mia pena, la gratitudine per essersi
infine aperto in quel modo con me.
In risposta tornò a baciarmi e
ricambiò la mia stretta.
Un pensiero balenò fugacemente nella
mia mente: forse avrei dovuto dirgli della creatura che custodivo
dentro di me. Una parte di me mi diceva che l'idea di un figlio lo
avrebbe reso felice, ma sapevo che l'idea di un figlio in quello
specifico momento lo avrebbe terrorizzato a morte, almeno un
millesimo di quanto terrorizzava me.
Così tacqui e sprecai
probabilmente l'ultima occasione ideale per comunicargli la
notizia.
«Che cosa significa il tuo nome, Durza?»
«Nulla. Lo
scelsero i miei spiriti per me e io decisi di mantenerlo,
perché
racchiudeva al suo interno i motivi che mi hanno spinto ad evocarli
con tanta avventatezza».
«Cioé?»
«Sono le iniziali dei
miei cari, Arya. La “D” per Damali, mia madre; la
“U” per
Urien, mio padre; la “R” per Rahi, mia sorella; la
“Z” per
Ziya, il mio fratellino nato morto; La “A” sta per
Haeg, anche se
si scrive con la “H”. immagino che gli spiriti non
lo sapessero»
concluse con una risatina.
Restammo svegli ancora un poco, poi
cedemmo al sonno e ci risvegliammo all'alba del giorno
seguente.
Durza mi guardò con un sorriso sornione a scoprire i
denti aguzzi. «Non hai avuto gli incubi».
«No» risposi con
leggerezza.
Poi lo Spettro mi lasciò riposare nel suo letto e si
rivestì per andare a parlare con il capitano delle guardie
mandate
da Galbatorix.
Ritornò da me con l'umore decisamente
peggiorato.
«Il re ha dato ordine di partire tra due giorni. E ha
ordinato di trovare un modo per fare sì che tu non possa
essere
salvata da nessuno, così i suoi uomini hanno portato del
Skilna
Bragh con loro e dovrà esserti somministrato ogni giorno. Se
qualcuno provasse ad intercettarti ti ucciderebbe se non
avrà con sé
il giusto antidoto».
Mi massaggiai le tempie. «Non conosco
questo veleno, che genere di antidoto devo prendere?»
«Nettare
di Thuvion, si ricava dalla Fricai Andlat».
«Credevo non
crescesse nelle terre degli uomini» osservai.
«Sì, ma l'ultima
persona che te ne ha procurato una boccetta ne coltivava una buona
partita e il re lo sa, talvolta se ne fa anche pervenire un po' per
le sue spie; so che lo assumono se ritengono opportuno mettere fine
alla loro vita pur di non finire in mani nemiche».
Di nuovo Alba.
Quell'elfa sembrava destinata a rimanere nella mia vita in un modo o
nell'altro.
«Quando devo cominciare?» domandai.
Lo Spettro
sollevò una mano e notai solo in quel momento che stringeva
una
fialetta tra le dita.
«In teoria da oggi, ma puoi aspettare anche
il giorno della partenza, basterà che tu finga di fronte ai
soldati
del re».
Gliela strappai di mano e la bevvi d'un sorso. «Vediamo
di non fallire a causa di stupidi dettagli traditori».
Solo dopo
qualche istante mi ritrovai a chiedermi se per caso il veleno non
avrebbe finito per nuocere al bambino.
Un sorriso orgoglioso
comparve sul suo volto. «Non sono sicuro di volerti lasciare
andare
dal re».
«Nemmeno io sono sicura di volerti lasciare andare ad
affrontare la fonte del suo potere».
«Mancano pochi giorni
ormai. Se vuoi tirarti indietro sei ancora in tempo per
farlo».
Scossi la testa. «Sai che non lo farò».
E non lo
feci.
Più tardi, quando entrai
nella mia cella insieme allo
Spettro, dovetti affrettarmi a riprendere la mia corporeità
e lui a
fare sparire la mia copia perché il capitano delle guardie
si
affacciò subito dopo.
«Capitano..» lo salutò Durza con
malcelato sarcasmo, afferrandomi un braccio e tirandomi nuovamente
nel corridoio.
Il cavaliere era stato sistemato in una cella
vicina alla stanza delle torture, sul lato opposto alla mia,
così
che le sue sbarre si affacciavano sulle strade di Gil'ead e non sul
cortile interno. Gettai una rapida occhiata allo spioncino quando vi
passai davanti, ma non riuscii a vederlo. Avrei voluto entrare e
scrutarlo dal vivo, dopo tutte quelle sfocate visioni che avevo avuto
di lui. Senza contare che avevo trasportato per anni il drago che lo
aveva reso cavaliere e nei suoi confronti mi sentivo curiosa come
solo una madre doveva essere.
Durza si chiuse la porta alle spalle
prima che chiunque potesse anche solo pensare di entrare e per un
paio di ore mi procurò nuove ferite, ferite che tuttavia si
premurò
di non lasciare sanguinanti.
Stava per aprire la porta e condurmi
nuovamente nella mia cella, quando ebbi un capogiro.
«Durza non
mi..»
Ma non riuscii a concludere la frase perché gli occhi mi
si chiusero e il cervello mi si annebbiò.
Mi risvegliai nella mia
cella, distesa sul pagliericcio. La testa mi doleva come se avessi
appena ricevuto una bastonata sulla nuca e non appena aprii gli occhi
fui costretta ad alzarmi a sedere, a vomitare sul pavimento.
Qualcuno
mi scostò i capelli dal volto. «Arya?»
Sentii il profumo di
menta e capii in un istante chi fosse il mio interlocutore.
«Sono
svenuta» dissi in tono di scuse.
«Mi dispiace, è stata colpa
del veleno. Ti ho fatto bere l'antidoto, ma il capitano ha insistito
affinché te ne venisse somministrata una nuova dose mentre
eri
ancora incosciente».
«Io sto bene» lo rassicurai. «Dimmi di
tutto il resto».
«Quegli idioti credevano di averti ucciso, con
il loro veleno. Mi hanno suggerito di non torturarti più
fino al per
i prossimi due giorni e credo che darò ascolto al loro
consiglio».
Mi guardò con attenzione. «Dopodomani dobbiamo
partire,
Principessa».
Sorrisi lievemente. «Ti bacerei, ma non mi pare il
caso» dissi, accennando al contenuto del mio stomaco, che
giaceva
dalla parte opposta del pagliericcio dove era inginocchiato lo
Spettro.
Gli strappai un sorriso. «Vuoi bere?»
E mi porse
dell'acqua ancora prima di sentire la mia risposta. Bevvi con
piacere, ripulendomi la bocca e inumidendo la gola, che sentivo
riarsa.
«Ho un piano» mi informò poi.
Gli feci spazio sul
pagliericcio e Durza sedette vicino a me.
«Voglio parlare con il
cavaliere. Non posso spiegargli nulla di tutto il nostro piano,
è
troppo rischioso, ma forse potrei riuscire a cavargli di bocca
qualche informazione utile per ottenere segretamente la sua
fedeltà
contro Galbatorix».
«I soldati di Galbatorix avranno ricevuto
ordini specifici, e in ogni caso non so se valga la pena rischiare.
Ormai non puoi risparmiare al ragazzo un bel viaggio ad Uru'baen, ma
coinvolgerlo direttamente.. Mi stai proponendo di mandarlo al
macello».
«Il re è nella capitale e qui comando io. Il
capitano
non mi rifiuterà un colloquio con il giovane se
saprò insistere in
modo convincente». Fece una smorfia crudele. «E per
quanto riguarda
la salute del ragazzo, credevo che fosse il piano dei Varden quello
di mandarlo al macello contro Galbatorix».
Feci un cenno vago.
«Prima si pensava di educarlo».
«Non sarebbe bastato. Lasciami
fare, ormai ci stiamo giocando il tutto per tutto ed è
meglio un
cavaliere morto che uno schierato con Galbatorix».
Sospirai. «Hai
ragione».
«Ora devo andare. E temo di doverti lasciare qui
stanotte».
«D'accordo» mormorai quietamente, ma probabilmente
non riuscii a nascondere la mia delusione e il mio dispiacere
perché
lo Spettro si chinò a baciarmi lo zigomo e poi a morsicarmi
la punta
dell'orecchio destro.
«Le guardie sono inquiete» si
giustificò.
«E spero che quello di stanotte fosse solo il primo di una
lunga
serie di riposi sereni».
«Sicuramente sì. Vai pure, buona
notte».
«Torno domani sera» mi assicurò.
«Non sparire».
Gli
scompigliai i capelli rossi. «Mi trovi qui».
Ed effettivamente i
miei incubi non tornarono nemmeno quella notte, così ne
approfittai
per prolungare il mio riposo fino alle più tarde ore del
mattino
seguente.
Il pomeriggio stesso udii Durza
bisticciare con il
capitano, ma probabilmente ebbe la meglio perché una porta
si aprì
cigolando. Non sentii la conversazione che teneva con il cavaliere,
anzi non sentii proprio nulla; probabilmente aveva insonorizzato la
stanza.
Ma tornò, come mi aveva promesso, la sera stessa,
seguendo il vassoio di cibo contenente la mia cena, che non riuscii a
mangiare. L'odore della cipolla mi dava seriamente la nausea.
Lo
Spettro -come spesso succedeva nelle ultime settimane- mi parve
allarmato e turbato.
Mi raccontò del breve scambio avuto con il
cavaliere e si soffermò con particolare attenzione sul suo
presunto
vero nome: Du Sùndavar Freohr. Morte delle ombre.
«Ti ha
mentito» decretai con sicurezza. «Un vero nome
è molto più lungo
di così, descrivere l'intera essenza di un individuo non si
può
fare in meno di sei o sette parole».
Durza camminò inquieto
davanti a me. «Mi sembrava sincero. E le ombre sono i miei
spiriti.
È quella.. era quella la loro forma quando li ho evocati. E
se il
suo destino è uccidere le ombre, allora significa che
ucciderà
anche me».
Mi alzai in piedi. «Nessuno ti ucciderà, tanto
meno
un giovane cavaliere inesperto. Non ci sono riuscita io e, fidati,
non ci riuscirà nemmeno lui. In ogni caso sono quasi sicura
che ti
abbia detto una menzogna: droghe o no nessuno rivelerebbe
un'informazione di un tale calibro con così tanta
leggerezza,
nemmeno il più stolto degli uomini».
«Mi hai convinto»
sussurrò afferrando le mie mani e baciandole.
«Tutto a posto?»
gridò una voce dall'esterno, che riconobbi come quella del
capitano.
Il mio compagno alzò gli occhi al cielo in un gesto
esasperato. «Sì! Mi accerto che il veleno non le
stia nuocendo e
arrivo, capitano, non è necessario che tu ti preoccupi del
mio
benessere».
Soffocai una risata nel palmo della mano e restai ad
ascoltare i passi dell'uomo, che si allontanavano su per le
scale.
«Sarà meglio che vada»
borbottò. «Pensi di cavartela
con i tuoi incubi?»
«Non li ho avuti nemmeno la scorsa notte»
lo informai con ottimismo.
«Allora ci vediamo domani, quando
verrò a prenderti per partire».
Mi sollevò il mento e mi baciò
sulle labbra.
Una profonda inquietudine mi investì, facendomi
tremare le gambe e accelerare il battito del cuore.
«Ci vediamo
domani» ripetei, quasi a cercare di convincermi da sola.
E lo
baciai una seconda volta.
Durza scoprì i denti aguzzi in un
sorriso, una luce quasi tenera negli occhi di sangue.
Se solo
avessi avuto una minima idea di quello che sarebbe successo da
lì a
poche ore lo avrei supplicato di restare, avrei baciato altre mille
volte le sue labbra crudeli, scompigliato un'ultima volta i suoi
capelli e confessato senza esitazioni il piccolo segreto che celavo
nel mio ventre.
Ma non lo sapevo, come avrei potuto? Così lo
lasciai andare e presi a mia volta a camminare avanti e indietro
davanti alla porta della mia cella, troppo agitata per pensare di
dormire o coricarmi.
Il primo rumore fu quello dei soldati in
corsa. Il secondo il rumore di passi vicino alle scale e il sibilo di
un arco, poi voci concitate e passi frettolosi nella direzione della
mia cella.
Cominciò a girarmi la testa e un forte bruciore mi
assalì il cervello.
Il veleno! Non di nuovo.
Con fatica
immane, cercai la coscienza di Durza.
«Aiutami!»
Poi
vidi il volto di Eragon davanti a me, lo riconobbi all'istante e fui
certa che non si trattasse di una visione. Lui mi guardò con
una
strana consapevolezza negli occhi castani, come se fossi un amico
ritrovato dopo tanto tempo e ormai irriconoscibile.
E poi tutto
divenne nero.
Ripresi una vaga coscienza di me quando sentii
un calore rassicurante accarezzarmi diversi punti del corpo. Capii
che qualcuno mi stava guarendo dalle ferite delle ultime settimane,
ma mi isolai rapidamente dalle voci.
Non sapevo esattamente cosa
stesse succedendo, ma una cosa era certa: non ero più a
Gil'ead e
sicuramente non ero sotto la custodia di Durza. E avevo del Skilna
Bragh in corpo.
Dando per scontato che le voci intorno a me
appartenessero al cavaliere e al figlio di Morzan e che i due non
avessero intenzione di farmi del male, mi rifugiai nei meandri della
mia mente, riducendo al minimo le mie attività vitali,
consapevole
che un respiro troppo profondo avrebbe potuto rubarmi minuti di vita,
sotto l'effetto del veleno.
Era difficile non pensare a nulla
quando tante cose facevano a pugni nella mia testa, ma con fatica
disumana riuscii a staccarmene. Durza sarebbe venuto a prendermi, ne
ero certa, nel frattempo dovevo solo sopravvivere.
L'intrusione
di una mente sconosciuta nella mia mi costrinse a reagire. Attaccai
lo sconosciuto con ferocia fino a che non mi resi conto che si
trattava di Eragon stesso, che si dichiarò mio amico
nell'antica
lingua.
Un poco sorpresa, gli lasciai lo spazio necessario per
riprendersi e toccai con circospezione la sua mente. Una vita breve,
grandi dolori e un futuro ancora incerto. Questo colsi di lui in quei
pochi secondi.
Poi mi resi conto di sapere troppo, di tutto.
Probabilmente il giovane credeva di avermi appena salvato la vita e
di avermi strappata dalle grinfie di uno Spettro crudele -e entrambe
le cose erano in parte vere- e io non volevo contraddirlo. Non avevo
tempo di chiedergli nulla, né di cosa fosse successo,
né di cosa mi
aspettasse, potevo solo condurlo dai Varden e farmi salvare la vita.
Spiegare un'alleanza con Durza lo Spettro avrebbe richiesto ore, se
non giorni.
Così feci l'ingenua e mi affrettai a mettergli tra le
mani tutte le informazioni necessarie per raggiungere Tronjiheim,
sperando che il giovane non avesse teso tranelli nel pronunciare il
suo giuramento. Tuttavia la sua conoscenza dell'antica lingua mi
pareva così scarna da far perdere spessore a quest'ultima
ipotesi.
Ma che ne era stato di Durza?
Di ciò che successe
i giorni dopo io ricevetti solo racconti postumi.
Mi risvegliai in
una stanza soffocante, circondata da un pugno di persone che si
affaccendavano intorno a me, pronunciando incantesimi per purificare
il mio sangue.
Avrei potuto guarirmi da sola, ma non riuscivo a
trovare la forza per sollevare la testa dal giaciglio e le mie labbra
erano gonfie, la mia gola secca e la mia lingua impastata.
Poi
arrivò qualcuno e capii che la sua presenza non doveva
essere
gradita perché cercarono di ricacciarlo.
«Fate come volete, ma
se volete che gli Elfi tornino a darvi il loro appoggio dovrete
restituire loro la loro ambasciatrice, possibilmente viva».
La
voce era decisamente femminile, squillante, vagamente ironica e
giungeva familiare alle mie orecchie, tuttavia sul momento non
riuscii a stabilire chi ne fosse la proprietaria.
Altre mani
leggere sfiorarono il mio corpo, altre parole nell'antica lingua
danzarono lievissime nell'aria. Chiunque fosse l'intrusa sapeva
quello che stava facendo e lo stava facendo bene. Tuttavia, quando le
sue dita indugiarono sul mio ventre le sentii tremare.
Non ero
pronta all'ansia divorante che si impossessò di me non
appena
realizzai che la maga stava sfiorando il punto in cui cresceva il mio
bambino. Recuperate un poco di forze, mi affrettai a scacciarla,
balbettando qualche sconnessa parola dettata dal panico,
probabilmente chiedendo se la mia creatura stesse bene o fosse
rimasta vittima del veleno. Schiusi gli occhi appiccicati e intravidi
vagamente il profilo di una donna con una spropositata massa di
riccioli ad incorniciarle il volto.
«Slytha» rantolò,
allarmata.
E fui nuovamente fuori gioco.
______________________________________________________________________________________________
Ciaaaao :D
Prima che mi uccidiate lasciate che vi dia le mie giustificazioni: Immagino che la scelta di far rimanere Arya incinta sarà accolta con controversie. Forse è scontato e banale, effettivamente, ma non ho resistito alla tentazione di analizzare una possibile gravidanza di un elfo e di porre la questione del sangue misto elfa/spettro che avrà la creatura, se nascerà. Dico SE perché in realtà non ho ancora deciso del suo destino, quindi potrebbe benissimo finire -come ha già detto Arya- in un aborto spontaneo o in un bambino/a dai capelli rigorosamente rossi ;)
Vedremo..
Per quanto riguarda il resto del capitolo: Eragon è arrivato e si è portato via l'elfa dalla prigione, come previsto dalla trama. Avevo già premesso che nella mia narrazione avrei seguito gli elementi del Ciclo dell'Eredità con semi-coerenza e quindi eccoci qua! Spero non vi dispiacciano le descrizioni frettolose che troverete d'ora in poi per quanto riguarda gli eventi già ampiamente descritti da Paolini: non voglio ricreare una copia dei suoi libri, ma intessere trame sotterranee. Quindi troverete d'ora in poi interi capitoli riassunti in poche frasi, magari alcuni salti.. Insomma troverete scene "inedite" e alcuni pezzi ripresi frettolosamente dal punto di vista di Arya, ma non una ridescrizione accurata o diventerei decisamente noiosa e anche una plagiatrice. Spero di essermi fatta capire :')
Un'ultima e ahimé infelice informazione: sarò costretta ad aggiornare i capitoli ogni due settimane per il prossimo periodo. Non so dirvi esattamente fino a quando, ma almeno fino a metà febbraio; perdonatemi ma iniziano le sessioni di esami, e che esami! Non posso purtroppo caplestare i miei studi per questa fanfiction (perché per scrivere un solo capitolo impiego una media di dodici ore, sappiatelo), quindi vi chiedo un po' di pazienza, anche perché, per essere più precisa, dovrò riprendere un attimo in mano "Eldest", poi "Brisingr" e poi "Inheritance" ^_^
Un enorme bacio a tutti e ci vediamo (sigh) tra due settimane!
Lalli
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Capitolo 32 *** Morte delle Ombre ***
Ciao
32.
Morte delle Ombre
[Durza]
Il
dolore era partito tra gli occhi, dove la freccia si era conficcata,
e poi si era rapidamente diffuso e ramificato in tutto il corpo,
strappandogli le membra in mille frammenti e annullando la sua
coscienza.
Si era ritrovato nel buio più totale, annichilito come
il primo giorno che gli Spiriti si erano fusi alla sua coscienza. Non
riusciva a pensare, a parlare, non riusciva nemmeno a sentire il
proprio corpo.
Era solo nero e sussurri. I sussurri rabbiosi delle
tre entità che lo avevano accompagnato e guidato per gran
parte
della sua vita, i suoi più intimi amici e alleati e i suoi
più
grandi e oscuri nemici.
La prima cosa che tornò a sentire furono
le proprie mani, poi la sensibilità tornò alle
braccia, al torace e
da lì alla testa e agli arti inferiori. Il suo corpo
bruciava, come
invaso dalle fiamme.
Durza aprì gli occhi con un gemito di dolore
e se li trovò feriti dalla luce del sole, che entrava
prepotentemente da un buco sul soffitto. Si guardò intorno e
riconobbe subito l'ambiente spartano del refettorio, così
come
riconobbe il mucchio di abiti che giacevano sparsi a terra accanto a
lui. Solo a quel punto si rese conto di essere completamente nudo e
si affrettò a recuperare i propri vestiti e ad indossarli.
Trovò la
sua spada e il suo mantello, e quando afferrò la catena con
il sole
d'argento e vide il luccichio violetto dell'anello di ametiste
ricordò tutto ciò che era accaduto, con una
chiarezza quasi
violenta: il cavaliere era riuscito ad ingannarlo e il suo amico lo
aveva colto di sorpresa, colpendolo alla testa. Era stato ucciso per
la prima volta in vita sua e il ritorno era stato terribilmente
doloroso, più di qualsiasi dolore mai provato prima.
Un'ondata di
furia cieca lo investì da testa a piedi, facendolo tremare
violentemente e acuendo il bruciante mal di capo che sentiva da
quando aveva ripreso coscienza di sé. Gli Spiriti gli
parlavano di
violenza, dell'inebriante odore del sangue, del potere che dava
vedere la luce lasciare gli occhi di un essere vivente.
Arya.
Doveva trovare Arya. Lei lo avrebbe aiutato a metterli a tacere,
almeno un poco.
Ma il cavaliere se l'era portata via. Aveva
sentito il suo richiamo di aiuto ed era accorso il prima possibile,
tuttavia aveva bloccato gli intrusi solo nel refettorio, dove aveva
visto la sua donna riversa a terra accanto al giovane. E poi il
figlio di Morzan l'aveva colpito.
Puntellandosi alla propria
spada, quella preziosa lama che decenni prima aveva rubato ai
briganti che avevano ucciso Haeg, si alzò in piedi e
inclinò la
testa di lato, concentrandosi sui suoni. Effettivamente regnava un
silenzio innaturale: nessun suono proveniente dalle caserme, non
dalle carceri, non dal cortile esterno. Solo avvicinandosi alla
cucina cominciò a sentire delle voci, voci che si spensero
bruscamente quando spalancò la porta.
«Dove sono finiti tutti?»
domandò, la voce tesa dall'ira.
Gli risposero sguardi
stupefatti.
«I soldati sono usciti per inseguire il prigioniero
fuggito, mio signore» rispose uno dei cuochi. «Ieri
notte c'era un
drago qui.. Hanno detto che eri morto».
«So cosa è successo
ieri notte» lo freddò. «Hillr
è ancora qui?»
«Sì, mio
signore».
«Vai a cercarlo e mandalo nel mio studio
immediatamente».
Si accasciò sull'unica sedia della sua
scrivania e subito rievocò la sera in cui Arya si era seduta
sopra
di essa.
Sentì un vuoto scavargli lo stomaco quando
realizzò di
avere nuovamente perduto una persona cara, nonostante avesse ormai il
potere sufficiente per opporsi a buona parte delle forze in
Alagaësia. L'unica, sostanziale differenza alla quale si
aggrappò
disperatamente, era che il cavaliere non avrebbe mai fatto del male
ad Arya, non ne avrebbe avuto alcun interesse e inoltre il suo drago
avrebbe dovuto riconoscerla come la sua custode. O forse no?
Forse
l'avrebbero punita per essersi alleata di uno Spettro, se lei fosse
stata così avventata da rivelarlo.
E per di più aveva un veleno
mortale nel sangue.
Si tirò i capelli, poi rovesciò la testa
all'indietro e lanciò un grido di rabbia, che decisamente
non lo
aiutò a migliorare il suo mal di testa.
Doveva andare a prendere
Arya. La amava, la amava davvero come non aveva mai amato nessuno in
vita sua e non se la sarebbe lasciata strappare senza fare nulla.
Avevano dei progetti, dei sogni, e non avrebbe permesso a nessuno
-tanto meno a un giovane cavaliere arrogante- di
infrangerli.
Finalmente udì i passi di Hillr nel corridoio e
stava per uscire dalla stanza e scuoterlo fino a che non gli avesse
detto tutto ciò che stava accadendo, ma poi capì
che i passi
appartenevano a due persone.
Così cercò di rilassarsi e non fare
trapelare la propria inquietudine, si accomodò sulla sedia e
incrociò le mani davanti a sé.
L'uomo che accompagnava Hillr era
il capitano delle guardie mandate del re e aveva gli occhi iniettati
di sangue e il viso di un giallo malsano.
«Mio signore» fece
Hillr, inchinandosi.
Il capitano si limitò a fargli un cenno e ad
avanzare a grandi passi fino all'orlo della sua scrivania.
«Abbiamo
trovato i tuoi abiti e le tue armi a terra nel refettorio e credevamo
che il cavaliere ti avesse ucciso, ma sono felice di vedere che sei
tornato. Il cavaliere ci è scappato e si è
portato l'elfa con sé,
senza contare che alcuni dei miei uomini hanno riconosciuto il
giovane che li accompagnava come un altro ricercato: Murtagh, il
figlio di Morzan. Sappiamo che si stanno dirigendo a sud e buona
parte dei soldati d'istanza a Gil'ead li sta inseguendo».
Durza
immagazzinò le informazioni del capitano e capì
dal suo tono
scoraggiato che non credeva che sarebbero mai riusciti a recuperare i
fuggitivi. Ma in effetti non avevano preso in considerazione una
seconda risorsa: gli Urgali. Urgali che effettivamente erano rimasti
privi di direttive per.. quanto tempo era passato? Lo
domandò ai
suoi interlocutori.
«Sono passate circa dodici ore da quando il
drago è entrato, sfasciando il soffitto del
refettorio» rispose
prontamente il capitano, con precisione militare.
«Avete notizie
degli Urgali?»
«Dispersi. Alcuni di loro hanno cominciato a
lanciarsi in scaramucce lungo le sponde del lago Leona e io ho
ordinato ai soldati di stare loro lontani. So che eri tu il loro
comandante e che non avrebbero risposto ad altri che a te»
disse
vagamente.
Probabilmente il re gli aveva dato alcune informazioni,
ma non aveva specificato come Durza fosse riuscito a dominare quelle
creature. E gli Urgali si erano ovviamente svicolati dal suo
controllo quando lui era.. morto? Sì, in fondo era davvero
morto,
anche solo per una dozzina di ore.
«Bene, signori», disse, «io
credo che andrò a fare valere di nuovo la mia
autorità sugli
Urgali, poi credo che li seguirò alle calcagna dei
fuggitivi».
E
recupererò Arya e la terrò al sicuro fino a che
non mi sarò
liberato dell'autorità che Galbatorix ha su di me.
Il
capitano non si azzardò a toccarlo ma gli fece capire che
intendeva
fermarlo muovendo un lieve passo di fronte a lui. «Dobbiamo
fare
rapporto al re, entrambi. Quindi pensavo che potresti usare la tua
magia e contattarlo o presto lo farà lui e sarà
più infuriato che
mai» disse in tono pratico.
Per la prima volta dopo la breve
permanenza del suo manipolo a Gil'ead, Durza provò un moto
di
simpatia per il capitano. E per di più aveva anche ragione:
ormai
non poteva più andare ad Uru'baen, non senza una buona
motivazione,
e aveva perso il suo diversivo.
«Hillr rimani nei paraggi, dopo
dovrò parlare anche con te» disse, congedandolo.
L'uomo uscì e
lo Spettro fece cenno al capitano di avvicinarsi allo specchio che
aveva appeso alla parete vicino alla scrivania. Gli spiegò
brevemente cosa sarebbe successo e l'uomo ne approfittò per
ravvivarsi i capelli e riassettarsi la barba.
Senza preoccuparsi
troppo del suo aspetto, Durza aprì una comunicazione diretta
con
Galbatorix, che comparve sulla superficie liscia dello specchio pochi
minuti dopo.
Lasciò parlare il capitano, anche se la sua arte
oratoria era decisamente inferiore alla sua. Vide l'espressione del
sovrano deformarsi sotto i suoi occhi e passare dal pacato e paterno
all'iroso, fino a che non sollevò una mano e
bloccò i patetici
tentativi del capitano di spiegargli che i suoi uomini sarebbero
sicuramente riusciti a recuperare i prigionieri e il figlio di
Morzan.
«Io mi sono fidato ciecamente di entrambi, eppure
entrambi avete duramente deluso le mie aspettative. I vostri
rispettivi compiti erano talmente facili, di così piccola
entità
rispetto a tutto ciò che io ho fatto per voi, che il vostro
fallimento risulta come un'offesa alla mia persona e alla mia
autorità. Entrambi sarete responsabili del recupero di tutti
i
prigionieri che avete lasciato scioccamente fuggire e vi consiglio di
non presentarvi più davanti a me o alla mia corte fino a che
non li
avrete nelle vostre mani. Mi dite che si stanno spostando verso sud,
ebbene Geerten, tu continua a tallonarli con gli uomini, tu Durza li
seguirai con gli Urgali. Ora capitano ti prego di lasciare la stanza
in cui vi trovate e di ricordare le mie parole: sarai accolto come un
eroe se porterai a me quei pericolosi criminali, in caso contrario
l'onta dell'insubordinazione si abbatterà su di te e sulla
tua
famiglia, i tuoi figli non troveranno mogli e la tua progenie
finirà
nell'ombra».
Il capitano Geerten si inchinò con le lacrime agli
occhi e lasciò la stanza, decisamente determinato ad
ubbidire agli
ordini del suo signore.
«Durza» fece il sovrano, con tono di
rimprovero. «Ti sei fatto prendere in giro da un ragazzino e
dalla
sua banda di scapestrati».
Faticò parecchio a chinare il capo e
a dire, con tono dimesso: «Mi dispiace».
«Sai che ormai non
basta più. Questa era la tua terza occasione, non credo che
ne avrai
una quarta. Dopo che questa storia sarà finita sarai dimesso
dal tuo
ruolo di governatore e integrato nell'esercito. Credo che fanteria
potrebbe andare».
Teoricamente avrebbe dovuto sentirsi umiliato
dalle nuove disposizioni del suo signore, ma ovviamente non lo era.
Non quando l'unica immagine che aveva davanti agli occhi era quella
di Arya, sulla prua di una nave, con i capelli corvini scompigliati
dalla brezza marina e gli occhi verdi che lo fissavano con
affetto.
Non sarebbe diventato un semplice soldato di fanteria,
avrebbe ucciso l'uomo che voleva vantare diritti di vita o di morte
su di lui e poi sarebbe fuggito con la donna più bella che
si
potesse desiderare.
«Come comandi, mio re» si costrinse a
rispondere.
«C'è forse qualcosa che mi stai nascondendo?
Qualunque cosa sia ti ordino di mettermene immediatamente al
corrente» fece il sovrano in tono volitivo.
Con suo estremo
stupore, nessuna morsa gli strinse la mente, la sua lingua non si
mosse contro la sua volontà, le labbra non si schiusero a
rivelare
tutte quelle verità che gli avrebbero procurato una morte
certa e
pressoché immediata.
Impiegò qualche istante, ma alla fine capì:
il suo vero nome era cambiato. Forse grazie ad Arya, forse grazie
alla sua momentanea morte, forse grazie ad entrambe, ma non sentiva
più nessun obbligo, nessuna costrizione, niente che lo
legasse a
quello che per un secolo era stato il suo padrone.
Si inchinò,
per nascondere il ghigno che andava sbocciando sulle sue labbra.
«Ti
assicuro, mio re, che non ti nascondo nulla. Farò
ciò che mi hai
ordinato e seguirò le orme dei fuggitivi con i miei Urgali.
I Kull
corrono parecchio più veloci di un semplice umano e sono
certo che
riusciremo a raggiungerli molto prima che raggiungano i Varden, il
Surda o qualunque rifugio possano trovare a sud. Dammi un paio di
settimane e vedrai che te li consegnerò
personalmente».
Il re
parve pensieroso. «Mi stai chiedendo di darti la tua quarta
possibilità?»
«Sì» mentì prontamente.
«E sia! Ma voglio
uno sforzo in più da te, Durza. Finora i Varden non sono
stati nulla
più di una seccatura, una piccola falla in una diga
perfetta, ma ora
la falla si sta ingrandendo e io non posso permettere che tutto
crolli. Per farla breve: dopo che avrai catturato i fuggitivi voglio
che tu continui la tua marcia fino al covo dei Varden e li distruggi.
Non ti sarà difficile dato che hai nelle tue mani tutte le
informazioni che ti servono. Hai conservato le carte che ti feci
pervenire un anno fa, non è vero?»
«Certamente».
«Allora
fanne buon uso. Gli ordini sono semplici: attacca i Varden, coglili
di sorpresa e uccidi tutti, dal neonato in fasce al vecchio senza
denti. Ogni singolo essere vivente sotto la montagna è un
nemico.
Per quanto riguarda Ajihad.. non ho intenzione di trattare, quindi
fa' di lui ciò che desideri, purché non resti in
vita. Ti
contatterò non appena avrò parlato con i Gemelli
e manderò a te e
agli Urgali un piano più preciso per l'attacco. Mi
raccomando, non
deludermi o saprò come fartela pagare».
Ed annullò la magia che
permetteva di comunicare con lui.
Durza dovette lottare per lunghi
minuti contro gli Spiriti, che scalpitavano eccitati alla sola idea
di sangue e morte, sopratutto della morte di Ajihad. Del resto lui
che colpa ne avrebbe avuto? Poteva salvare Arya, lasciarla
incosciente un paio di giorni e sfruttare il tempo per uccidere
finalmente l'uomo che inseguiva da decenni. A lei avrebbe poi detto
di essere ancora sotto l'influenza di Galbatorix e di non avere avuto
scelta.
Ne avrebbe sofferto, forse, ma lo avrebbe sicuramente
giustificato e perdonato una volta che il re fosse morto. Ma lui?
Poteva vivere ancora di menzogne?
Ma
non tentare di ingannarmi con finte promesse o ti giuro sulla mia
vita e su quanto ho di più caro in questo mondo che non
avrai mai e
poi mai il mio perdono. A quel punto avresti creato la tua
più
acerrima nemica, per di più custode di parecchi dei tuoi
segreti.
Si
strinse la testa tra le mani e la scosse violentemente. No, non
l'avrebbe mai fatto, non se il rischio era di perdere la prima vera
persona importante dopo un secolo di aridità.
Tuttavia gli
Spiriti non furono così rapidi a demordere e, per tutta la
giornata,
fu vittima di spaventosi sbalzi d'umore a causa dei violenti impulsi
che le creature diffondevano nella sua coscienza. Pareva che l'intera
operazione di morte e rinascita li avesse rafforzati.
Parlò con
Hillr e gli affidò il comando della città fino a
che non fosse
tornato -rendendosi conto lui stesso che probabilmente non sarebbe
tornato affatto- poi richiamò gli Urgali all'ordine e
passò loro
secchi comandi, radunando i primi squadroni di Kull, che avrebbe
mandato il prima possibile alle calcagna dei fuggitivi, con l'ordine
di catturarli ma non fare del male a nessuno di loro.
I
preparativi gli richiesero più tempo di quanto avesse
previsto,
forse perché recuperare il controllo sugli Urgali si era
rivelato
piuttosto complicato. Si ritrovò, a un'ora dalla mezzanotte,
a
mangiare di malavoglia la cena fredda e a trascinarsi verso il suo
letto. Era stanchissimo e si chiese se per caso non avesse
sottovalutato il prezzo della rigenerazione, tuttavia non appena si
coricò capì che il riposo non sarebbe giunto con
tanta
facilità.
Aveva diviso quel letto con Arya, c'era ancora il suo
odore tra le lenzuola e lei era chissà dove, con un
pericolosissimo
veleno in corpo, affidata alle sbadate cure di un ragazzino. Se mai
l'avesse rivista, viva e vegeta, si sarebbe chinato a baciarle i
piedi.
Accese una candela e, preso il pugnale Luna, iniziò ad
incidere distrattamente la testiera del letto. Non aveva una grafia
particolarmente gradevole, era troppo fitta e spigolosa, ma era
abbastanza abile ad incidere il legno, lo aveva fatto spesso quando
era un ragazzo. Scrisse il nome dell'elfa, piccolo e rassicurante, e
poi incise una barca, così ricca di dettagli da sembrare che
fosse
stata imprigionata nel legno. Poi si addormentò, il pugnale
ancora
in mano, abbandonandosi a sogni agitati.
[Arya]
«Vi
ringrazio molto per le vostre cure, ma ora vorrei alzarmi»
dissi
spazientita, rivolgendomi al nutrito gruppetto di guaritori che mi
circondava. In realtà mi sentivo stanca e svuotata da ogni
vigore,
tuttavia volevo assolutamente muovermi e tornare pienamente alla vita
dopo oltre una settimana di coma.
«Non sottovalutare gli effetti
del veleno e delle ferite, hai subito molto».
Già, avevo subito
molto. Eppure si erano premurati di cancellare dal mio corpo ogni
singola cicatrice, lasciando la mia pelle innaturalmente liscia, come
non lo era dalla mia prima missione diplomatica tra i Varden.
«E
gradirei riavere i miei abiti» li informai, scrutando con
occhio
critico la bianca camicia da notte che mi copriva dal collo alle
caviglie.
Una donna abbandonò la stanza per eseguire, ma gli
altri si affrettarono ad esortarmi al riposo non appena gettai i
piedi oltre al pagliericcio per scendere a terra. Sembrava che, dopo
avermi creduta morta e aver perso l'appoggio di mia madre, temessero
di vedermi cadere in briciole sotto i loro occhi.
Sentii la porta
aprirsi e diedi per scontato che fosse tornata la donna che era
andata a prendere i miei vestiti, ma quando alzai gli occhi
individuai la figura di una donna bassina, dai folti capelli castani
e ricci.
«Angela!» la rimproverò qualcuno,
«Non sei
autorizzata a stare qui».
Ma lei mi guardò in viso e avanzò
dritta nella mia direzione.
La riconobbi immediatamente e la sua
immagine si sovrappose a quella sfocata che avevo visto durante la
mia guarigione.
«Venerabile!» esclamai, inchinandomi
precipitosamente davanti a lei.
Sorrise affabile e fece cenno a
tutti gli stupefatti guaritori di lasciare la stanza. Lo fecero,
forse troppo sconvolti dalla mia eccessiva deferenza per riuscire a
ribattere in modo soddisfacente. Solo allora l'espressione di Angela
si deformò e assunse contorni terribili.
«Arya Dröttningu di
Ellesméra. Mi ricordo molto bene di te. Quanti anni sono
passati
dall'ultima volta che ho fatto visita a tua madre? Quaranta?
Cinquanta?»
«Credo circa cinquanta» risposi incassando le
spalle, un poco spaventata dal suo atteggiamento brusco.
«Bene,
sappi che le sue ultime decisioni mi hanno parecchio indisposta, ma
immagino che di questo dovrà informarti Ajihad.. Come ormai
avrai
intuito sono stata io a guarirti dal veleno, l'antidoto stava agendo
troppo lentamente e il tuo sangue doveva essere depurato».
Annuii.
«Ti ringrazio».
«E il tuo bambino sta bene». Era
un'affermazione.
«Lo so» risposi, impreparata e allo stesso
tempo consapevole di non poterle mentire.
«Ora voglio sapere chi,
come e quando. No il come risparmiamelo, per favore, credo di sapere
come si svolgano questo genere di cose».
Tentennai, poi feci un
altro piccolo inchino. «Temo di non poterti rispondere,
Venerabile».
«Arya non voglio costringerti e tanto meno violare
l'intimità della tua mente, quindi farai meglio a
rispondermi con la
massima sincerità» mi intimò,
arrotolandosi con noncuranza un
ricciolo intorno al dito indice.
Sapevo che dietro all'ingannevole
aspetto della minuta, indifesa e spensierata umana Angela l'Erborista
si celava un essere dai vasti poteri, dalla saggezza sconfinata e
dalla vita ancor più lunga di quella di qualsiasi elfo.
Nessuno
nella Du Weldenvarden sapeva a quale razza appartenesse quella che
noi chiamavamo la Venerabile, ma era citata nelle nostre cronache
più
antiche e non di rado faceva visita ai nostri regnanti, cambiando
nome e aspetto nel corso dei millenni. Sapevamo solo che si occupava
di mantenere intatti gli equilibri e, per quanto crudele potesse
sembrare, ciò che faceva era sempre mirato al bene supremo
di
Alagaësia stessa.
Così, in soggezione di fronte alla sua
autorità e al suo cipiglio, mi fissai le mani e mi imposi di
rivelarle almeno parte della verità. Lei mi avrebbe
sicuramente
consigliata su come agire, senza impormi soluzioni che sapeva fuori
dalle mie capacità, sia morali che fisiche.
«Porto in grembo il
figlio di Durza lo Spettro» sussurrai. E dirlo ad alta voce
fu come
accettarne finalmente l'esistenza.
Mi fece un cenno. «Lo avevo
intuito. Ieri ho dovuto addormentarti o qualcuno avrebbe finito per
crederti una traditrice: continuavi a balbettare il nome dello
Spettro e a chiedere quando sarebbe arrivato e in che condizioni
fosse il suo amabile figlioletto. Posso?» fece con
inaspettata
gentilezza, toccando il braccio che avevo avvolto intorno alla mia
vita.
Feci cadere il braccio con un poco di timore e lasciai che
bisbigliasse qualche parola per poter vedere sotto la mia carne, un
incantesimo difficilissimo e che lei sembrava svolgere con assoluta
noncuranza.
«Sei settimane?» domandò poi.
«Ormai sette»
risposi automaticamente.
Annuì pensierosa. «Ancora non si vede
nulla. Lo sai vero che se vuoi prendere delle erbe ti manca poco
tempo?»
Deglutii. «Lo so».
La consapevolezza che brillò nei
suoi occhi scuri mi fece intendere che aveva intuito buona parte
della verità.
«Allora facciamo così: se sarai abbastanza
intelligente e vorrai scrivere la parola fine a questa storia,
cercami con la mente e io ti indicherò il posto dove
trovarmi. Ti
darò io le erbe giuste.» Alzò un indice
con aria ammonitrice. «Se
parli al Du Vrangr Gata della mia posizione ti ammazzo, ma non credo
che lo farai, dico bene?»
Decisamente no. Quella strana setta di
stregoni aveva avuto l'insana abitudine di importunarmi i primi anni
che avevo preso in custodia l'uovo, ma era bastata una sfuriata di
impatto per far passare loro la voglia. Angela, invece, preferiva che
la portata dei suoi poteri restasse nell'ombra. Lo aveva sempre fatto
tra gli uomini, così da potersi muovere più
liberamente intorno a
loro.
«Se invece preferisci scegliere la strada più
difficile,
allora sarà meglio che tu non dica nulla a nessuno o
perderesti
tutto il tuo rispetto e la tua credibilità. Certo, potresti
sempre
dire che si è trattato di una violenza e che non hai
mischiato il
tuo sangue a quello di uno Spettro, ma in ogni caso sarai guardata
con sospetto se sceglierai di tenere il bambino, anche se
ufficialmente non sarebbe colpa tua. Applica qualche incantesimo su
di te in modo che nessuno con l'udito superiore a quello di un umano
-come uno della tua razza- possa udire il battito del suo cuore o
percepire la sua coscienza, quando si potrà
percepire». Mi guardò
dritta negli occhi. «Non voglio sapere nient'altro, ma ti
conviene
anche ricordare che per sei mesi sei stata prigioniera di uno Spettro
crudele e sanguinario, che ti ha torturata fino a ridurti in fin di
vita pur di strapparti informazioni da dare al re. Quindi vedi di non
fare commenti inopportuni quando Ajihad verrà a parlarti. A
nessuno
piacciono gli Spettri e a me e ad Ajihad non piace Durza lo Spettro
in particolare, chiaro?»
«Sono fedele alla causa dei Varden» mi
sentii il dovere di specificare.
Rise. «Di questo non ne ho mai
dubitato, sei una delle più convinte qui dentro e non credo
che la
tua fedeltà abbia subito un simile cambiamento in
così pochi mesi,
tuttavia ti consiglio di seguire alla lettera ciò che ti ho
detto».
«Durza è..»
«Ti ho detto che non voglio sapere
nulla» mi interruppe. «Fatti però almeno
un paio di domande e
ricorda che non sempre ciò che vedi corrisponde alla
verità. Sappi
che in me hai incontrato una persona comprensiva, ma se provassi a
spiegare a qualcun altro ciò che hai provato a spiegare a
me,
probabilmente saresti uccisa senza una minima esitazione. Nessun elfo
si è mai alleato ad uno Spettro, unito a lui e ancor meno
avuto un
figlio con lui».
Sapeva parecchio, era indubbio, ma mi aveva
anche lasciato intendere che il mio segreto sarebbe stato al
sicuro.
«Seguirò i tuoi consigli, Venerabile».
«Perfetto!»
esclamò allegramente, battendo le mani. «Sai tu
sei molto utile a
questa ribellione e sarebbe un peccato perderti, ne risentiremmo
parecchio. Ti prego però, non appena sarai al cospetto di
tua madre,
di convincerla a cambiare idea, dato che sei decisamente viva. Ah, ed
evita di dirle ciò che ti è accaduto per favore.
Scegli una
versione ufficiale e mantienila con tutte le persone con cui
parlerai, non credo di doverti spiegare cosa è meglio
evitare di
dire e cosa no. Ora ti saluto, suppongo ci vedremo
presto!»
«Aspetta!» la bloccai, angosciata. «Tu
sai cosa
succederà? Cosa devo aspettarmi da questo bambino? La natura
del
padre lo..?»
Fece un gesto frivolo con la mano. «Non posso
risponderti. Nella mia lunga esperienza non si è mai
verificata una
cosa simile, ma sono quasi sicura che tuo figlio non nascerà
influenzato dagli Spiriti che possiedono Durza, se è questo
che
intendi. Un gran bell'esempio di quanto le azioni dei genitori non
dovrebbero influenzare la prole, non credi? Bene, se deciderai di
essere intelligente sai cosa fare. Ti farei le congratulazioni, ma
qualcosa mi dice che non è il caso».
Detto questo mi strizzò
l'occhio e se ne andò, lasciando entrare i guaritori che
aveva
cacciato fuori pochi minuti prima. Mi vennero restituiti i miei abiti
e portato del cibo, che consumai con avidità, poi riuscii
finalmente
a mandare via tutti i miei molesti salvatori e a restare sola per
qualche ora, così da rimettere in ordine le idee.
Non sapevo
nulla di Durza, non potevo né divinarlo né
contattarlo e se avessi
parlato a qualcuno di ciò che era accaduto tra noi mi
avrebbero
rapidamente bollata come traditrice. Nessuno avrebbe creduto alla mia
storia e nessuno avrebbe giustificato la mia alleanza con uno
Spettro, mi sarei solo compromessa. E non era il caso che succedesse
una cosa simile, non prima di avere la totale certezza della morte di
Galbatorix.
A quel punto non ero più così certa che Durza
sarebbe venuto a prendermi. Mi fidavo di lui, continuavo a fidarmi
nonostante Angela mi avesse fatto notare che poteva avermi presa in
giro, ma dovevo agire cautamente, parlare con Ajihad, con il
cavaliere, recuperare la mia posizione e poi trovare il momento
giusto per allontanarmi e cercare lo Spettro.
Era già un miracolo
che Eragon non avesse trovato un paio di incongruenze, quando mi
aveva salvata a Gil'ead: avevo i vestiti e i capelli puliti quando mi
aveva recuperata dalla mia cella, ed ero certa che la mia pelle
avesse ancora l'odore dell'olio da bagno che Durza versava sempre
nella vasca. E non era esattamente normale occuparsi dell'igiene dei
prigionieri fino a tal punto. Fortunatamente la mia pulizia era
decisamente degenerata durante i giorni di viaggio che erano
trascorsi per arrivare a Tronjheim, tanto che mi era stato fatto un
bagno mentre ero incosciente e mi avevano anche lavato e rammendato i
vestiti.
Nessuno sospettava nulla e mai lo avrebbe fatto se fossi
stata abbastanza prudente.
Nasuada venne a trovarmi nel
pomeriggio, trascinando con sé una ventata di curiosa
allegria. La
conoscevo appena, ma era impossibile non volerle bene e rispettarla,
nonostante la giovanissima età: era gentile, fiera,
indipendente,
scaltra e conosceva i Varden e la loro organizzazione almeno quanto
Ajihad. La perfetta figlia di suo padre.
«Mio padre vorrebbe
parlare con te non appena ti sentirai meglio» mi disse.
«Allora
puoi dirgli che quando desidera può farmi chiamare, mi sento
in
perfetta forma ormai».
«Sei sicura? Non sono passati ancora due
giorni completi da quando ti è stato somministrato
l'antidoto e mio
padre ha intenzione di farti domande che potrebbero rivelarsi
piuttosto spiacevoli».
«So cosa vuole chiedermi Ajihad e io sono
pronta a rispondergli». Esitai. «Il cavaliere e il
suo drago stanno
bene?»
«Benissimo, direi. Si sono ripresi in fretta e hanno
manifestato l'intenzione di seguire il cammino che il patto tra elfi
e uomini aveva previsto. Mio padre li farà esaminare
domattina e
scriverà una lettera per la regina Islanzadi, che dovrai
consegnare
a lei quando tornerai ad Ellesméra con i due».
Chinò il capo.
«Avrei un'altra triste notizia per te, ti prego di non dire a
mio
padre che te l'ho comunicata o si arrabbierà, ma mi sembra
giusto
che tu la sappia adesso, prima di dover ripercorrere tutti i mesi di
sofferenze che hai passato».
«Dimmi pure».
«Si tratta di
Brom. È morto».
Oh.
«Mi dispiace, so che vi conoscevate e
che avevate preso insieme gli accordi per dividere l'uovo tra elfi e
uomini. Cioè, non lo ricordo ovviamente, ma so che
è così»
concluse con un lieve sorriso.
Brom, morto. Avevo origliato la
conversazione tra Durza e Galbatorix e avevo sentito che Brom era
rimasto ferito dai Ra'zac, tuttavia non credevo che fosse..
«Questa
è una grave perdita per i Varden» dissi con voce
grave. Non lo
conoscevo benissimo, Brom, ma ricordavo bene il giorno che era venuto
da me a chiedermi di addossarmi anche l'incarico di custode
dell'uovo, insieme a quello di ambasciatrice. Mi riteneva l'unica
persona adatta e la più imparziale tra le due razze.
La giovane
annuì. «Anche mio padre ne è rimasto
molto colpito».
Nasuada
si mosse inquieta sullo sgabello e capii che non vedeva l'ora di
andarsene, ma allo stesso tempo non voleva apparire maleducata.
Probabilmente aveva altre cose da fare.
«Ti ringrazio per la
visita» la congedai.
«Figurati, rimettiti presto. Ora credo che
andrò a trovare Murtagh, il figlio di Morzan. Devo portargli
i tuoi
saluti? È stato lui ad aiutare te ed Eragon a fuggire da
Gil'ead».
Feci un cenno di assenso, poi la ragazza mi salutò e
mi disse che avrebbe mandato suo padre da me entro un paio
d'ore.
Ajihad venne, accompagnato da Rothgar,
ed entrambi
stettero a sentire il mio succinto racconto, accomodandosi sugli
sgabelli di fortuna accanto al mio pagliericcio.
Mi concentrai sui
primi tre mesi di prigionia e feci un resoconto piuttosto dettagliato
di ciò che avevo subito in quel primo periodo, fingendo che
il tutto
si fosse prolungato anche per i tre mesi seguenti. Evitai ovviamente
di parlare di eventuali visioni, di Alba, dei baci -inizialmente
umilianti- che Durza aveva lasciato sulla mia pelle.
A sua volta
Ajihad fece a me e a Rothgar un breve riassunto delle disavventure
vissute dal cavaliere, incastrando alla perfezione il racconto nel
mio. Feci finta di nulla quando parlò di Gal, l'uomo che
aveva
mandato a cercare Brom e che probabilmente era stato intercettato
dall'Impero. Da Durza a dire la verità, che era poi stato
costretto
a riferire le sue scoperte a Galbatorix. Ma non volevo sminuire
ulteriormente il mio compagno di fronte al suo più acerrimo
nemico e
in ogni caso era un'informazione irrilevante. Ce n'era un'altra che
era di importanza ben maggiore.
«Mentre ero prigioniera dello
Spettro l'ho sentito parlare delle spie che avevano dato al sovrano
le informazioni necessarie per intercettare me e gli altri
custodi».
«Spie?» fece Ajihad con espressione dura.
«I
Gemelli, parlava di loro. E non credo che ci siano molte persone con
cui confondersi all'interno del Farthen Dur» dissi con
convinzione.
Rothgar aggrottò le folte sopracciglia. «Non mi
sono mai piaciuti quei tuoi stregoni Ajihad, mi sembrano due viscidi
rettili. E per di più sono al di sopra di ogni controllo,
dato che
sono loro a scrutare le menti degli altri. È lo stesso
problema che
si è verificato con i cavalieri dei draghi: chi controlla i
controllori?»
«Potrei farlo io» mi offrii.
Capii di aver
commesso uno sbaglio quando il capo dei Varden liquidò la
questione
con un brusco gesto. «Se permettete ciò che
riguarda gli uomini è
sotto il mio controllo. Rispetto entrambi, la vostra
autorità e la
vostra razza, ma non voglio che nessuno di voi si immischi nelle
faccende che sono sotto la mia autorità. Arya, probabilmente
lo
Spettro ti ha ingannata e in ogni caso non posso esserne
sicuro».
Feci un cenno di assenso. «Come desideri. Ma ti prego
di tenere gli occhi aperti e di moderare la tua fiducia nei loro
confronti. È un consiglio in quanto tua alleata, non un
tentativo di
prevaricare la tua autorità».
«E io ti ringrazio del saggio
consiglio. Non mi fido di nessuno al di sopra di me stesso e
terrò
d'occhio i Gemelli anche se sono certo della loro innocenza».
«E
lascerai che il cavaliere mi segua ad Ellesméra?»
mi
accertai.
«Brom è morto e il patto stabiliva questo, quindi
da
parte mia non incontrerai resistenza. Tuttavia dovrai stare molto
attenta, perché il giovane cavaliere -oltre ad essere
piuttosto
incosciente- è anche parecchio ingenuo. Mi ha riferito di
essersi
scontrato con Durza, a Gil'ead e ha detto che Murtagh, il figlio di
Morzan, l'ha ucciso».
Il mio cuore perse un battito.
«Ma non
è possibile, perché a quanto pare il giovane lo
ha solamente
colpito in fronte e che io sappia gli Spettri non possono morire, a
meno che non ricevano un colpo dritto al cuore».
Rothgar annuì
con l'aria di chi è sicuro di ciò che ha appena
sentito e io mi
ricordai appena in tempo di respirare.
«Ora il giovane cavaliere
ha un nemico che lo odia profondamente» fece il re dei nani.
«Non
passa tanto in fretta l'umiliazione di una sconfitta, specie ad una
creatura fatta d'odio».
«Lo so fin troppo bene» fu la replica
di Ajihad. «Durza è un avversario
temibile».
Ed
estremamente testardo e orgoglioso.
Aggiunsi tra me.
«Vi è un'ultima questione di cui vorrei
metterti al corrente, Arya. Rothgar sa già tutto e anche
Eragon,
così non mi resta che dirla anche a te e pregarti di non
riferirla a
terzi, non voglio che il panico dilaghi a Tronjheim».
Aspettò che
annuissi poi proseguì: «Questo pezzo di pergamena
è stato
sottratto ad uno degli Urgali che ha cercato di sbarrare la strada ad
Eragon. Si tratta di un comunicato mandato da Galbatorix in persona e
pare riferirsi ad un futuro attacco. Non sappiamo ancora che posto
sia questa Ithrö Zhada, ma deve trovarsi tra queste montagne e
temiamo un attacco, anche se per il momento il Farthen Dur non
è
stato ancora scoperto».
«Ho già mandato dei ricognitori nelle
gallerie» intervenne Rothgar. «Se ci saranno
movimenti anomali lo
sapremo immediatamente».
Annuii nuovamente e fui colta da
sentimenti contrastanti quando seppi che Durza era annoverato tra i
possibili comandanti. Certo, significava che era vivo, ma significava
anche che stava muovendo un esercito di Urgali in direzione del
Farthen Dur e ricordavo bene che possedeva mappe dettagliate delle
gallerie sotto la montagna.
Cosa aveva intenzione di fare,
esattamente?
I due rimasero per qualche altro minuto, ma,
trovandomi improvvisamente chiusa in un ostinato mutismo,
abbandonarono la stanza, lasciandomi con la sgradevole sensazione di
stare combattendo la più dura battaglia della mia vita.
Dormii
parecchio quella notte, ormai libera dagli incubi che mi avevano
tormentata negli ultimi mesi. Il giorno seguente, sentendomi molto
meglio, decisi di andare ad assistere all'esame che il cavaliere
avrebbe subito; gli dovevo un ringraziamento o la mia scortesia
avrebbe decisamente dato nell'occhio, senza contare che ero curiosa
di conoscere finalmente il ragazzo che era più volte apparso
nelle
mie visioni e il drago che lo aveva reso cavaliere.
Non restai
particolarmente sconvolta quando vidi che erano i Gemelli i giudici
per quanto riguardava le abilità magiche del giovane. Era
prevedibile, dato che erano i più abili maghi tra i Varden.
Me ne
stetti in un angolo, non vista, a guardarlo passare con abbastanza
disinvoltura da un incantesimo all'altro. Indubbiamente Brom era
stato un ottimo maestro per lui ed Eragon non sembrava cavarsela
male, per essere un umano.
Più volte i miei occhi scivolarono su
Saphira, ammirando la bellissima e maestosa creatura, nata dall'uovo
che avevo conservato con tanta cura per quasi vent'anni. Le sue
squame catturavano la luce in modo ammaliante, rilucendo di un colore
che pareva leggermente più chiaro di quello che era stato il
suo
uovo, più acquoso.
Mi riscossi dalle mie contemplazioni quando
udii uno dei Gemelli chiedere ad Eragon di evocare l'essenza
dell'argento. A quel punto non ci vidi più e, incurante
degli
sguardi sospettosi e guardinghi degli uomini intorno a me, avanzai
nel piccolo gruppetto e li rimproverai aspramente, guadagnandomi le
loro espressioni timorose.
Eragon mi guardò e riconobbi lo stesso
sguardo che mi aveva lanciato la notte che mi aveva strappata dalla
mia cella, a Gil'ead, lo sguardo di qualcuno che sembrava
riconoscermi, ma non conoscermi.
Vidi che il qualche modo il mio
intervento non era piaciuto agli uomini intorno a me, ma li ignorai
e, attirato Eragon verso il centro del campo, rivendicai un duello
con lui.
Perché lo feci? Volevo sondare le sue abilità
fisiche,
scoprire che guerriero aveva forgiato Brom, che genere di cavaliere
fosse nato insieme al drago dell'uovo di zaffiro, quale giovane
inesperto era riuscito a mettere Durza alle strette, fino ad
ucciderlo, anche se solo temporaneamente. Mi guidava un misto di
rabbia, irritazione, curiosità e aspettativa.
Eragon e Saphira
erano pur sempre la possibilità che aspettavamo da anni per
sconfiggere Galbatorix e io avevo fortemente contribuito alla loro
creazione, anche solo sbagliando l'incantesimo che avrebbe dovuto
portare l'uovo a Brom e che invece -come mi aveva riferito Ajihad-
avevo mandato a lui.
Eragon era debole e lento come ogni essere
umano, ma aveva molta fantasia e uno stile di combattimento piuttosto
flessibile. Sembrava capace di adattarsi in qualche modo alle mie
capacità, anche se non riusciva a raggiungerle.
Probabilmente era il
miglior spadaccino umano che avessi mai fronteggiato e rimasi
abbastanza soddisfatta da quell'incontro e anche gli uomini intorno a
noi, a giudicare dai complimenti che fecero al giovane. Nessuno mi
disse nulla ovviamente e, una volta catturata l'attenzione di drago e
cavaliere, mi allontanai dalla piccola folla con lui e Saphira e li
ringraziai per ciò che avevano fatto.
Eragon mi disse di avermi
vista in sogno, come una visione, e io mi limitai ad accennargli
vagamente agli strani eventi che mi erano accaduti negli ultimi mesi.
Era chiaro che il ragazzo non aveva la minima idea di che cosa
fossero e non avevo intenzione di attirare ulteriori attenzioni su di
me.
Mi congedai dai miei “salvatori” non appena mi fu
possibile farlo senza apparire scortese e mi ritirai nella stanza che
mi era stata assegnata.
Non avevo voglia di passare altro tempo in
compagnia, quello era ancora il mondo che avevo scelto, quello in cui
ero cresciuta e quello per cui avevo combattuto, tuttavia io ero
cambiata. Durza mi mancava come se mi avessero sottratto un arto ed
ero sinceramente preoccupata per ciò che avrei dovuto fare
da quel
momento in poi.
Lo Spettro si era rigenerato, dato che non lo
avevano ucciso definitivamente. Ma come? E sopratutto: chi era l'uomo
che era tornato? Era lo stesso che avevo lasciato con la promessa di
rivederci il giorno dopo? O i suoi spiriti avevano nuovamente preso
il sopravvento, come la notte che li aveva evocati?
Non sapevo
nulla sulla materia, e nessuno poteva fornirmi ragguagli.
Cosa
dovevo fare? Rischiare tutto e lasciare i Varden senza un
perché,
per lanciarmi nella cieca e pericolosa ricerca dell'uomo che amavo,
ma non ero più certa che ricambiasse, non sembrava la
migliore delle
idee che avevo mai avuto fino a quel momento. Se non lo avessi
trovato, o peggio, se avessi trovato uno Spettro sanguinario che mi
vedeva come l'ennesima delle sue vittime, a quel punto avrei solo
sprecato tempo ed energie che avrei potuto convogliare più
facilmente nei miei antichi obiettivi: deporre Galbatorix.
Eppure
allo stesso tempo non potevo fingere che gli ultimi sei mesi non
fossero mai passati. Ne avevo la prova schiacciante nel ticchettio
sempre più forte e sicuro che proveniva da dentro di me, il
battito
sempre più forte del cuore di nostro figlio.
Dovevo prendere una
decisione.
Tuttavia fui sollevata dall'arduo compito il giorno
seguente, quando un nano si presentò alla mia porta, ancora
prima
dell'alba, dicendomi che Ajihad voleva vedermi con urgenza.
Fui
condotta in biblioteca, dove presto mi ritrovai coinvolta in un
incontro con Ajihad, Jörmundur, Orik, Eragon e Saphira.
«Un
esercito di Urgali si trova ad un giorno di marcia da qui»
disse il
capo dei Varden.
Non dissi nulla. C'era da aspettarselo visto il
precedente messaggio intercettato ad un Urgali, in cui si accennava
solo vagamente ad un futuro attacco a Tronjheim. Io poi sapevo che
l'impero conosceva buona parte dei cunicoli dei nani e poteva
raggiungere il covo dei Varden con facilità.
Per le ore
seguenti aiutai i nani a fare crollare innumerevoli tunnel
sotterranei, così da costringere l'armata a convergere sotto
Tronjheim, dove le truppe dei Varden avrebbero potuto tenerli a bada.
Un fiume di gente si riversò all'esterno della
città, in direzione
delle gallerie che avrebbero permesso loro di lasciare il Farthen Dur
ed essere scortati nel Surda in caso di sconfitta. Riconobbi
sopratutto molti bambini, vecchi e donne. Mi chiesi per l'ennesima
volta perché gli uomini non pensassero mai a mettere un'arma
in mano
alle loro figlie e spose, ma sapevo che il problema aveva radici
troppo profonde nella loro cultura: gli uomini era previsto facessero
lavori di fatica e le donne era previsto che si prendessero cura di
loro e dei loro figli. Donne guerriere erano una rarità
assoluta
nella loro società prevalentemente maschilista.
Riuscii a
procurarmi almeno una giubba corazzata da mettere sopra ai miei
pratici abiti da viaggio e sedetti insieme al battaglione a cui mi
ero unita, quello dove c'erano anche Eragon e Saphira.
Quella
battaglia era un incognito per tutti, ma non avrei permesso che
succedesse nulla di male al cavaliere e al suo drago. Avrei tenuto la
mente aperta e cercato la coscienza di Durza e, nel caso l'avessi
trovata, lo avrei raggiunto immediatamente e avrei fatto il possibile
perché lui ritirasse le truppe. Sempre che non fosse sotto
l'ordine
diretto del re, ovviamente. A quel punto l'unica cosa che avrei
potuto fare davvero era colpirlo mortalmente alla testa e metterlo
nuovamente fuori gioco per.. quanto? Non sapevo quante ore, o quanti
giorni impiegasse uno Spettro per rigenerarsi, ma se fossero state
anche solo due ore probabilmente sarebbero bastate per ricacciare le
litigiose bande di Urgali.
Mi imposi di respirare con calma e
rallentare il battito del mio cuore agitato. Non potevo fare altro
che aspettare, vegliare su quel giovane gentile e irrispettoso che
era Eragon e sulla pacata creatura che lo accompagnava.
Approfittai
della lunga attesa per rinnovare gli incantesimi di protezione su di
me, intensificandoli sproporzionatamente nel punto in cui cresceva la
mia creatura. Anche quella era una preoccupazione tutta nuova, non
ero abituata ad essere cauta nell'espormi al pericolo e mi sembrava
che in qualche modo la mia vita mi fosse stata sottratta. Non era
più
una questione solo mia, c'era qualcun altro in gioco.
Fui io a
risvegliare i miei compagni, poche ore dopo, quando le prime grida
rimbombarono nel sottosuolo e gli esploratori dei nani riemersero per
comunicare la notizia dell'avanzata degli Urgali. A quanto pareva non
c'erano uomini dell'esercito imperiale insieme a loro e questo mi
fermò ulteriormente nella convinzione che avrei trovato lo
Spettro
-volente o nolente- al comando delle loro fila.
Finii quasi subito
le frecce e mi lasciai assorbire dallo scontro armato, troppo
concentrata nel guardare con sgomento quanti Urgali stesse vomitando
la terra per poter espandere la mia coscienza per non più di
qualche
miglio. Di Durza nessuna traccia.
E per i Varden e i loro alleati
si stava mettendo veramente male.
La voce profonda di Saphira mi
sfiorò la mente: «I
Gemelli hanno contattato Eragon. Dicono che ci sono rumori
provenienti da sotto Tronjheim,
forse gli Urgali stanno aprendo un tunnel sotto la città.
Vogliono
che andiamo a bloccarli».
Mi
guardai intorno ed individuai drago e cavaliere con la coda
nell'occhio.
«I
Gemelli?» chiesi,
improvvisamente sospettosa.
«Ajihad
li ha incaricati di supervisionare la battaglia e uno di loro
è
sopra Isidar Mithrim».
Poi
il drago atterrò davanti a me, schiacciando con la sua mole
diversi
Urgali ed io afferrai istintivamente la mano di Eragon, issandomi in
sella dietro di lui e tenendo saldamente la spada nella mano
sinistra.
Non mi fidavo affatto dei Gemelli, ma era meglio non
ignorare le loro parole, magari stavano semplicemente ubbidendo ad
ordine di Ajihad.
Sobbalzai sentendo Saphira ruggire di dolore: un
Urgali l’aveva colpita sul petto. Ci alzammo in volo e vidi
lo
stesso mostro alzare la sua arma, pronto a scagliarla. Mi affrettai
ad evocare la mia magia e a colpirlo.
Volammo
via dal campo di battaglia, piuttosto instabili.
«Sta bene?»
domandai a Eragon, strillando per farmi sentire e evitando di
guardare sotto di me. Non avevo mai volato a dorso di drago e volevo
evitare reazioni impreviste da parte del mio corpo.
«L’armatura
è schiacciata verso l’interno, le da
fastidio». La sua voce vibrò
di preoccupazione per il suo drago. Mi fece quasi tenerezza.
«Resterò
io con Saphira quando atterreremo» mi offrii. «E
quando l’avrò
liberata dall’armatura, ti raggiungerò».
Così
mi accerterò che la convocazione non sia una trappola.
«Grazie»
disse lui, un’espressione di puro sollievo in volto.
Ma quando
arrivammo su Isidar Mithrim, dove avremmo dovuto trovare almeno uno
dei Gemelli, di loro non c'era traccia.
Eragon si accertò
rapidamente della condizioni di Saphira, prima di borbottare un:
«Buona fortuna», e correre via.
Lo chiamai, invano. Stupido!
Eravamo in cima a Vol Turin, la scala infinita, avrebbe almeno dovuto
farsi portare alla base di Tronjheim. Come avrebbe fatto a
scendere?
Sbuffai, avrebbe aspettato. Il mio compito era liberare
la dragonessa e mi accinsi a farlo con delicatezza, sperando di non
farle troppo male. Scostai le placche metalliche
dell’armatura,
lentamente.
«Arya»
mi richiamò all’improvviso lei. «Eragon
è sceso con lo scivolo. È arrivato
illeso».
Che
incosciente.
Mentre incastravo le dita tra la seconda placca del
pettorale e le squame di Saphira, espansi di nuovo la mente, alla
ricerca dei Gemelli. E invece percepii Durza.
«Durza!»
esclamai automaticamente, dimenticando per un attimo che sicuramente
non poteva sentirmi da quell'altezza.
«Eragon
lo ha detto anche a me! Sbrigati a liberarmi, lo sta affrontando da
solo e non ha possibilità!»
Il
cavaliere lo stava affrontando. Durza. Il mio Durza.
Saphira
era allarmata almeno quanto me e un
senso di angoscia mi serrò la gola, impedendomi quasi di
respirare.
Presi a liberare l'armatura con ansia febbrile, senza più
preoccuparmi se la cosa fosse dolorosa per lei o meno.
La mia
mente era volta ad un unico pensiero: Non avrei lasciato che nessuno
dei due uccidesse l’altro.
Perché uno era il primo cavaliere
libero da un secolo, e l’altro era l'uomo con cui avevo
deciso di
vivere una buona fetta della mia vita, l’unica persona al
mondo che
sarebbe mai stata in grado di rendermi veramente felice. E io non
potevo permettermi di perderlo, o avrei perso una non indifferente
parte di me stessa.
«Dobbiamo aiutarlo!» gridai, senza capire
bene neanche io a chi mi riferissi.
Saphira pensò ovviamente che
parlassi del suo cavaliere e mi mandò un'immagine mentale
che doveva
corrispondere alla condizione di Eragon in quel momento. Una gran
brutta condizione.
Strappai l'ultima placca dal suo torace e mi
guardai intorno, consapevole di avere solo pochi istanti per prendere
una decisione.
E la presi. Richiamai il mio potere e colpii la
pietra sotto di me, saltando contemporaneamente in groppa a Saphira.
La dragonessa si tuffò in picchiata, eruttando una fiammata
gialla e
azzurra. Strinsi le cosce sui suoi fianchi per non essere sbalzata
via e boccheggiai, travolta dal calore del suo fuoco. Mi prese una
fortissima sensazione di vertigine, che mi chiuse la bocca dello
stomaco e mi riempì la testa d'aria, ma riuscii a riprendere
il
controllo di me stessa in misura sufficiente a pronunciare un
incantesimo per controllare la caduta dei frammenti di Isidar
Mithrim, o altrimenti il mio intento di salvare Durza ed Eragon
sarebbe fallito comunque
Intravidi subito le figure dei due
combattenti. Eragon era accucciato a terra e mi guardava con gli
occhi di chi vede un’apparizione, il volto rigato di lacrime
e un
lago di sangue che si allargava intorno a lui.
Durza era di spalle
e continuava ad ignorare la pressione della mia mente sulla sua,
tuttavia si voltò anche lui, quasi lentamente, i capelli
rossi
schiacciati sotto un elmo nero.
Il tempo parve dilatarsi, mentre
il suo viso trasfigurato in una maschera di disprezzo si alzava nella
mia direzione. Vidi i suoi occhi ricolmi di sangue, odio e follia, lo
stesso sguardo che gli avevo visto ogni volta che era stato in balia
dei suoi Spiriti.
Alzò una mano e per un attimo fui certa che
sarei stata uccisa dal mio stesso compagno. Tuttavia lo Spettro ebbe
una piccola, impercettibile, esitazione. I suoi occhi si schiarirono
e la sua voce si riversò, fredda e carezzevole, nella mia
mente.
«Arya»,
disse.
In
quella situazione quasi sospesa, il bagliore rosso della spada di
Eragon mi parve quasi accecante.
Il cavaliere si scagliò in
avanti.
E colpì Durza proprio al centro del torace, dove la
placca di metallo che portava sicuramente sotto l'armatura avrebbe
potuto salvarlo da molte ferite. Ma non da un colpo diretto.
In un
attimo fu tutto finito: Durza urlò e fissò
sconvolto la lama
conficcata nel suo petto, poi la sua pelle si fece trasparente e poi
polvere, che svanì nel nulla. Restai a fissare tre ombre
-unico
resto del suo corpo- che volteggiavano verso l'alto,
attonita.
Saphira atterrò e io scivolai giù dal suo dorso,
circondata da una sensazione di irrealtà. La magia che
nell'ultimo
tratto della discesa aveva sostenuto i frammenti di Isidar Mithrim
sfuggì al mio controllo e una parte di essi si
fracassò a terra con
un gran baccano, distruggendosi in frammenti ancora più
piccoli.
Vidi a malapena Saphira intenta a proteggere Eragon sotto la sua ala,
poi una grossa scheggia si conficcò nel mio braccio destro,
così in
profondità da toccarmi l'osso.
La tolsi quasi distrattamente, ma
la stilettata di dolore non poté distrarmi dall'abisso di
orrore nel
quale stavo lentamente sprofondando. Caddi in ginocchio davanti agli
abiti di Durza e un violenta convulsione mi scosse tutto il corpo,
trasformando il mio respiro in brevi spasmi.
A terra davanti a me
c'erano la sua armatura, il suo elmo, il suo mantello di pelli di
serpente. Riconobbi il pallore della sua spada e lo scintillio
dell'incisione sul pomolo di Luna, sfiorai il medaglione con il sole
e le lisce pietre quadrate dell'anello di ametiste. Poi da una
piccola bisaccia mi giunse un pungente odore di menta.
Qualcuno si
inginocchiò accanto a me e mi afferrò le spalle.
«Arya
devi guarirti prima di morire dissanguata» disse Angela,
mettendomi
tra le mani una borraccia e costringendomi a berne un sorso.
La
mia gola rimase secca e il sangue continuò a fluire copioso
dalla
mia ferita al braccio, bagnandomi di liquido caldo i
pantaloni.
Strisciai di una iarda all'indietro. A Durza non
avrebbe certo fatto piacere se gli avessi macchiato il prezioso
mantello, gli piaceva molto. Ricordavo che lo indossava il giorno in
cui mi aveva protetta da Lord Barst, la prima volta che avevo sentito
il profumo della sua pelle. Magari lo avrebbe indossato anche il
giorno della nostra partenza.
«Arya» mi richiamò Angela con un
tono dolce e insieme conciliante che mi colpì come una
stilettata.
«No» rantolai. E mi venne un conato, ma non
vomitai.
«Sei qui da parecchi minuti e hai perso molto sangue.
Guarisciti e poi aiutami a guarire Eragon, ti va? Se lui morisse
Galbatorix resterebbe sul suo trono per sempre e non è
questo ciò
che vuoi, giusto?»
«No» ripetei in tono assente, la gola e il
cuore dolorosamente serrati in una morsa.
Con un paio di schiaffi
ben assestati sul mio viso, Angela la Venerabile mi tirò in
piedi e
mi trascinò fino al punto in cui giaceva Eragon, riverso
sulla
schiena e immerso nel suo stesso sangue. Angela lo voltò con
delicatezza e rinnovò l'ordine di guarirmi il braccio.
Lo feci,
pronunciando la formula con fatica immane, come se avessi della
polvere in bocca. A soffocarmi.
Poi la aiutai effettivamente a
guarire Eragon, limitandomi a rimarginare i tessuti e dimenticandomi
per un breve attimo di dove fossi. Quasi non notai che Saphira stava
fornendo sia me che Angela di nuove energie, né mi accorsi
della
folla di persone che andava radunandosi intorno a noi.
«Basta
così» disse lei ad un certo punto. «Al
resto ci penseranno le mie
erbe».
Mi ripiombò tutto addosso e per un attimo fui certa che
sarei morta anche io.
«Venerabile, ti prego..» uccidimi.
Angela
sorrise con leggerezza. «Sarà meglio che tu dia
una mano con gli
altri feriti. Puoi salvare molti di loro da una morte certa, lo sai,
ed è tuo dovere farlo. Quando ti sentirai così
stanca da non
riuscire nemmeno a ricordare il tuo nome, allora potrai cercare una
branda e sono sicura che riuscirai a dormire».
Oh sì, salvare
vite. Lo facevo da decenni, ma non sempre riuscivo a salvare
tutti.
«Prendo io le sue cose» aggiunse, guidandomi al
seguito
degli uomini che avevano sollevato Eragon e lo stavano portando via.
Saphira mi seguì, gli occhi fissi sulla figura del
cavaliere.
Arrivammo in un edificio dove, nelle ore seguenti, i
feriti si moltiplicarono come funghi. Gli ultimi arrivati
annunciarono gioiosi la vittoria e la cacciata degli Urgali,
mostrando entusiasmo persino con me, che di solito ero allontanata e
guardata con sospetto.
Ajihad arrivò per ultimo e venne dritto
nella mia direzione, implorandomi di sanare le sue ferite,
così da
poter inseguire gli Urgali nei tunnel con un drappello e scacciarli
definitivamente dalla montagna.
«Sono vere le voci?» mi chiese
poi, le nere sopracciglia unite in un'unica linea.
«Angela è con
Eragon» riuscii solo a balbettare.
«E tu sei sfinita. Dovresti
riposarti. Puoi portarmi da lui?» aggiunse poi, notando che
persistevo nel mio mutismo.
Lo accompagnai alle scale e poi cercai
la stanza in cui era stato deposto il cavaliere qualche ora prima.
Angela uscì nel preciso istante in cui io e Ajihad arrivammo
davanti
alla porta e, con un gesto grave e solenne, porse al capo dei Varden
una lunga spada sottile, incrostata di sangue, con un graffio lungo
la lama.
Ajihad sgranò gli occhi e fissò l'arma per
diversi
secondi. «Lui è morto?»
«Morto per sempre» confermò
Angela.
Gli occhi scuri dell'uomo si riempirono di lacrime, che
scivolarono lungo l'ovale del suo viso. In qualsiasi altra occasione
mi sarei stupita per l'avvenimento, ma in quel momento lo osservai
impassibile e con disinteresse.
«Nadara è vendicata» ringhiò,
sigillando le palpebre e prendendo in mano la spada.
Sapevo che
Nadara era la madre di Nasuada e che era morta prima che Ajihad si
unisse ai Varden.
«La farò fondere» aggiunse Ajihad.
«Eragon
ha ucciso lo Spettro, spetterebbe a lui la decisione»
osservò
Angela.
«Sono certo che approverebbe. Il ragazzo sta bene?»
La
donna tentennò. «Sì, meglio»
rispose poi, laconica.
«Se hai
altri oggetti dello Spettro manderò Jörmundur a
prenderli. Vanno
bruciati e distrutti».
E detto questo scese le scale di corsa,
dimenticando l'intento di accertarsi di persona delle condizioni di
Eragon.
«Arya dammi la tua spada e i tuoi pugnali, se ne
hai» mi
riscosse la Venerabile.
Le porsi Ren, con tutto il fodero, senza
neanche perdere il mio tempo a farmi delle domande.
«Ricordi il
tuo nome?» domandò, abbozzando un sorriso.
«No» ma
il suo sì.
«Bene».
Abbassò la voce. «Allora ricordati anche che il
tuo bambino ha
sette settimane, è grande come un lampone, ma ha
già gli occhi
quasi formati e il suo cuore pompa il sangue nel suo corpo. E si sta
anche muovendo, solo che tu non puoi sentirlo. Tra poche settimane
potrai percepire la sua coscienza».
Non ricordo il tragitto, ma
sono certa che sprofondai in un sonno senza sogni, forse indottomi da
Angela stessa.
Solo quando mi risvegliai capii il senso delle sue
azioni. Se fossi stata solo io e avessi avuto Ren con me avrei
faticato parecchio a resistere alla tentazione di piantarmela nel
cuore.
______________________________________________________________________________________________
Ehilà ciao! :D
Mi sono presa il mio tempo per questo capitolo, perché mi sembrava importante incastrare tutti i fatti in modo da spiegare il comportamento di Arya nei prossimi mesi, oltre a presentare un po' la nostra Angela, quindi è uscito parecchio lunghino, spero mi perdonerete!
Siamo arrivati alla fine di “Eragon” e, come da copione, Durza ci ha lasciati (dopo anni dalla prima lettura piango ancora, sigh). Inizialmente era previsto che Arya adagiasse i frammenti di Isidar Mithrim a terra e cadesse svenuta alla vista degli abiti dello Spettro afflosciati a terra, ma poi mi sono detta che la cosa sembrava fin troppo facile, no? E in una vena di puro sadismo ho deciso di farle vivere da cosciente anche le ore che seguono il lutto. È inutile specificare che la poveretta non ha ancora ben realizzato cosa sia successo al suo uomo, nonostante sia avvenuto sotto i suoi occhi.
In una prima versione era anche previsto che Durza e Arya avessero un breve scambio di pensieri prima della sua morte, il classico “ti amo” e “aspettiamo un bambino”, ma poi mi sono resa conto che i tempi della narrazione erano troppo stretti e che sarebbe diventato troppo melodrammatico, quindi mi sono limitata ad un “Arya” di addio. Quindi Durza non ha nemmeno saputo di suo figlio ed è morto prima di poter dire nulla T_T
Aiuto la mia storia mi fa soffrire troppo!
Tuuuuttavia non è ancora finita e vi informo che avremo altri interessanti colpi di scena da qui alla fine ;)
Mi sono persa anche il 24, che era il secondo compleanno di questa storia (mi vergogno un sacco di non averla ancora finita, sappiatelo) e vi ringrazio tanto per il contributo grande o piccolo che date o avete dato alla sua crescita, significa molto per me ^_^
Con il cuore che sanguina, vi saluto e vi informo che dovrò fare nuovamente un salto di settimana. Spero davvero che sia l'ultima volta che succede una cosa del genere.
Enormi baci a tutti voi,
Lalli
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Capitolo 33 *** Morte e Vita ***
Ciao
33.
Morte e Vita
Non
ebbi il tempo materiale di realizzare quanto fosse accaduto
perché
tre giorni dopo Ajihad venne ucciso e il giorno seguente Nasuada
assunse il ruolo di capo dei Varden.
I bruschi cambiamenti
politici che si svolsero in quei pochi giorni mi lasciarono
lievemente spaesata per la loro rapidità e allo stesso tempo
mi
costrinsero a tornare ad essere l'ambasciatrice della mia gente.
Fredda, concentrata sul bene superiore e disposta a tutto.
L'unico
breve momento in cui ero riuscita ad abbandonarmi al panico
più
totale era stato il mattino dopo la battaglia del Farthen Dur, quando
Jörmundur era venuto a chiamarmi per analizzare gli oggetti
appartenuti a Durza. Voleva sapere se celassero dei malefici e non si
fidava della rassicurazioni che già Angela gli aveva dato.
Nessun
maleficio. Durza non aveva mai stregato le sue armi, lo sapevo alla
perfezione.
Avevo sfiorato nuovamente l'impugnatura di Luna,
annusato la menta nella sua bisaccia e rigirato tra le mani il
piccolo scudo che teneva legato al petto, sul cuore.
Una
maledettissima protezione che non era servita a nulla.
Avevo
rassicurato Jörmundur con voce gentile, mentre un vuoto
sconfinato
si scavava nel mio petto, come se una pietra avesse preso il posto
del cuore.
Ma non avevo pianto.
Come potevo?
Le persone
intorno a me chinavano il capo in segno di rispetto e ammirazione per
la mia coraggiosa resistenza e gioivano della morte del mio aguzzino.
Eragon era diventato Ammazzaspettri e io sapevo che non avrebbe mai e
poi mai avuto l'onore di portare un simile titolo se non fosse stato
per il mio prezioso aiuto.
Così mi ero limitata a prendere la
catena alla quale erano appesi il sole d'argento di Durza e l'anello
di ametiste e l'avevo gettata sul fondo della mia bisaccia, non
vista. Poi avevo dovuto assistere al rogo dei suoi abiti e della sua
bisaccia, abbandonati in una pira di corpi Urgali. L'odore di menta
aveva rinfrescato leggermente quello nauseante della carne bruciata,
più di quanto avesse fatto il finocchio che gli uomini
usavano
gettare sulle braci.
Jörmundur avevo poi preso in custodia
l'armatura dello Spettro, il suo elmo, il suo scudo e la protezione
che aveva sul cuore. Avevo chiesto di tenere Luna per me. Mi era
stato concesso, ovviamente, accompagnato da uno sguardo deferente.
Lo
avevo seppellito sotto un cumulo di pietre, mentre una parte di me mi
urlava scioccamente di conservarlo al meglio per quando il suo
proprietario fosse venuto a riprenderlo.
Ero stata costretta a
fasciarmi il braccio perché la mia guarigione era stata
troppo
frettolosa e imprecisa e dovevo avere subito un qualche danno
all'osso, anche solo una piccola crepa. Sanata quella ferita, molte
altre continuavano a scavarmi l'animo senza che nessuno potesse anche
solo pensare di guarirle.
Avevo aiutato la Venerabile ad
analizzare le ferite del cavaliere e a rimarginale, ero andata a
salutarlo non appena si era risvegliato, avevo aiutato a spostare i
corpi morti degli Urgali con la magia, mi ero scusata infinite volte
con Rothgar per avere distrutto la sua bellissima pietra.. Ah e avevo
placato l'ira di Ajihad non appena aveva trovato la figlia sul campo
di battaglia, vestita da arciere e china a soccorrere il figlio di
Morzan.
Mi ero trascinata dall'alba al tramonto in tutta
Tronjheim, tenendo il corpo così occupato da non lasciare
spazio
alla mente di agire e di concentrarsi su ciò che veramente
era
successo, su cosa e quanto avessi perso in un solo istante.
Dopo
la morte di Ajihad -avvenuta sotto i miei occhi- ero anche corsa alla
ricerca del giovane Murtagh, che era sparito con i Gemelli. Avrei
pensato che si fosse trattato di un loro trucco, ma avevo trovato
brandelli degli abiti del figlio di Morzan vicino ad un precipizio e
a quel punto era divenuto ovvio che i tre dovevano essere stati
gettati sul fondo da una banda di Urgali, come ultimo atto scellerato
durante la fuga.
In seguito alla nomina ufficiale di
Nasuada mi
ritrovai immersa in un clima di gioia e cordoglio insieme e mi resi
conto di non sentirmi parte né dell'uno né
dell'altro.
Continuavo
a ripetermi che il re era ancora vivo e io ero ancora l'ambasciatrice
degli elfi; era mio dovere prendere in mano le redini della mia vita
ed esercitare il mio ruolo in favore dell'alleanza. Dovevo andare ad
Ellesméra e convincere mia madre a concedere nuovamente il
suo
appoggio ai Varden o sarebbero stati spacciati.
Sembrava che gli
ultimi sei mesi della mia vita fossero stati spazzati via in un
lampo, tanto che spesso mi ritrovai a chiedermi se non fosse stato
tutto un terribile e bellissimo sogno. Ero davvero stata prigioniera
di Durza? Avevamo davvero viaggiato insieme fino a Dras-Leona,
stringendo una fragile alleanza contro il re?
Ci eravamo davvero
amati? Davvero avevamo progettato insieme un futuro?
Il macigno
sul petto mi diceva che sì, era tutto reale.
E che era tutto
finito.
Ciò che cresceva nel mio ventre confermava che era stato
reale, ma suggeriva che tanto doveva ancora cominciare. Ascoltare il
lieve e regolare battito del cuore del figlio di Durza divenne quasi
un rito giornaliero per me, mi ricordava che io ero viva, che altri
erano vivi, che la vita non era finita per tutti.
Angela la
Venerabile mi aveva caldamente consigliato di sbarazzarmene
perché
non impacciasse il mio ruolo all'interno della ribellione. Forse
sarebbe stato più facile. Persino gli elfi avrebbero capito
la mia
riprovevole azione: per la mia razza le nuove nascite erano sacre, ma
non c'erano precedenti di sangue di uno spettro e di un elfo
mischiati in una sola creatura e il fatto li avrebbe spaventati tanto
da ritenere quasi necessario quel tipo di provvedimento.
Tuttavia
non volevo.
Forse era una delle decisioni più irrazionali che
avessi mai preso da quando ero venuta al mondo, ma non avevo il
coraggio e le forze di agire altrimenti. Non volevo diventare madre,
non ero pronta, non sarei mai stata capace e il mio bambino non aveva
futuro. Però c'era un pezzetto di Durza in lui e liberarmene
sarebbe
stato come uccidere Durza stesso, di nuovo.
E io ero stanca di
morte.
Così non feci nulla.
In parte dolorosamente lucida e in
parte ancora confinata in una bolla di apatia, mi chiusi in me
stessa, evitando sempre di più la compagnia delle persone
che mi
circondavano. Mi sentivo fuori posto in mezzo a loro, monca e
inadeguata; mi sembrava che ciascuno di loro potesse guardarmi e
leggere sul mio volto tutto ciò che era successo tra me e
Durza,
svelando così quello che era diventato il nostro segreto.
E avevo
tutta l'intenzione di farlo rimanere tale.
Stando sola avrei
potuto essere me stessa -e forse anche sciogliere il nodo che mi
serrava la gola in lacrime bollenti- ma non ne ebbi mai il tempo.
C'erano mille cose da fare, da organizzare, da decidere.. I miei
doveri divennero la mia prigione e la presenza degli altri
acuì
sempre più la mia solitudine.
Fui convocata da Nasuada e
insieme a lei progettai a tavolino il viaggio che avrebbe portato me,
Eragon, Saphira e Orik ad Ellesméra. Il nuovo capo dei
Varden parve
allarmarsi non appena realizzò che per arrivare ad
Ellesméra
avremmo impiegato un mese, se non di più, ma poi non
poté fare
altro che approvare. Il suo progetto di muovere l'intera popolazione
del Farthen Dur nel Surda era molto rischioso e privarsi tanto a
lungo della presenza del cavaliere doveva spaventarla dato che Eragon
era una buona protezione per lei e per i Varden -specie da quando le
aveva giurato fedeltà- ma senza un'educazione completa non
sarebbe
stato altro che l'ombra di ciò che sarebbe potuto diventare.
In
qualche modo Nasuada mi diede forza. Mi sentivo vicina a lei:
entrambe avevamo perso qualcuno di molto caro e molto vicino ed
entrambe dovevamo fingere che nulla fosse successo perché
qualcosa
di più grande richiedeva tutte le nostre energie per
compiersi. La
sua forza e la sua tenacia erano decisamente ammirabili per una
giovane umana.
«Tornerò a darti il mio aiuto non appena Eragon e
Saphira si saranno ambientati ad Ellesméra»
promisi.
Lei annuì
con decisione. «Ci troverai tutti sani e salvi ad
Aberon».
Così,
due giorni dopo la morte di Ajihad, io e la mia piccola compagnia
partimmo in direzione della Du Weldenvarden.
Casa,
finalmente.
Eppure ero certa che non sarei stata a casa mai più,
non finché Durza non fosse tornato a prendermi.
Arrivammo ad
Ellesméra dopo un mese di viaggio.
Non incontrammo ostacoli
particolarmente rilevanti, ma non riuscii ad evitare l'ennesimo
scontro con il sacerdote dei Quan, Gannel, anche se fu relativamente
breve. Ormai la loro religione mi sembrava innocua se paragonata con
quella dell'Helgrind, il semplice vaneggiamento di un popolo
credulone paragonato ad una setta di folli assassini. Inoltre non
potevo ignorare la loro gentilezza nell'aver fatto dono ad Eragon di
un ciondolo che l'avrebbe protetto da chiunque volesse divinarlo, con
le stesse funzioni che aveva il sole d'argento che aveva portato
Durza e che non avevo ancora trovato il coraggio di recuperare dal
fondo della mia bisaccia.
Se da un lato nessuno ostacolò mai la
nostra marcia, mi resi presto conto che Eragon il cavaliere e Saphira
la dragonessa attiravano guai come i cadaveri attirano le mosche. Nel
giro di poco più di un mese i due avevano indisposto il
Consiglio
degli anziani dei Varden, avevano giurato fedeltà a Nasuada
e poi
avevano accettato la fratellanza di Rothgar senza chiedere il suo
permesso, un membro del clan Az Sweldn Rak Anhuin aveva dichiarato
aperta ostilità nei loro confronti e durante la navigazione
i due si
erano scontrati con un Fanghur, rischiando seriamente di farsi
male.
Senza contare la sconfinata e spesso indiscreta curiosità
del ragazzo: faceva domande a tutti e in quantità quasi
preoccupante, come un bambino che scopre il mondo. Mi chiese di me,
della mia famiglia, di Glenwing e di Fäolin. Risposi a buona
parte
delle domande cercando di non apparire scortese, anche se
probabilmente risultavo molto evasiva nelle mie spiegazioni.
La
verità era che non volevo passare mai troppo tempo con
Eragon
Ammazzaspettri: in parte mi faceva tenerezza e accendeva la mia
simpatia e un istinto di protezione, dall'altra aveva ucciso l'uomo
che avevo amato con tutta me stessa. Non ero ancora riuscita ad
ammettere pienamente di avere avuto un ruolo di rilevanza capitale
nella sua morte, così scaricai tutto il mio rancore su
Eragon,
trattandolo con freddezza e distanza. La mia parte razionale sapeva
che
non era né colpa sua né mia, eppure sentivo il
bisogno quasi fisico
di individuare un colpevole di tutto quel malessere che mi marciva
dentro.
E nonostante ciò ero preoccupata per la sua ferita. Morto
Durza era morta anche la misteriosa possibilità di uccidere
Galbatorix che portava con sé e il ragazzo ormai era
nuovamente
necessario ai ribelli, tuttavia non poteva certamente combattere in
quelle condizioni.
Il giorno che mi chiese: «Cosa mi ha fatto lo
Spettro?» non potei fare altro che controllare la sua ferita,
stabilire che tutto sembrava in ordine e scuotere la testa
sconsolata.
Che
hai fatto,
Durza? Di quale oscuro maleficio hai impregnato le sue ossa?
Questi
miei pensieri mi portarono ad un comportamento quasi bipolare nei
suoi confronti e sia lui che Saphira finirono per accorgersi che
qualcosa non andava in me.
E una sera, mentre insegnavo loro i
fondamenti delle regole della buona educazione elfica, Eragon mi
esplicitò la loro preoccupazione per il mio benessere.
«Ho
paura» risposi semplicemente.
E in due parole riassunsi tutto il
turbamento delle ultime settimane. Avevo paura perché Durza
mi aveva
lasciata sola, perché una vita cresceva nel mio corpo,
perché
l'enorme segreto che stavo celando al mondo mi stava uccidendo,
perché il re era nuovamente irraggiungibile e imbattuto,
perché si
avvicinava il giorno in cui sarei tornata tra la mia gente e avrei
dovuto mentire nuovamente a tutti senza poterlo realmente fare,
perché avrei dovuto affrontare mia madre dopo tutti i danni
che
aveva causato ai Varden.
Sapevo, da quello che mi avevano detto
gli elfi della pattuglia di confine, che avrei trovato mia madre in
condizioni pietose.
«Nessuno riusciva più a divinarti, quindi
abbiamo dato per scontato che tu fossi ormai scivolata nelle ombre.
Islanzadi Dröttning ha molto sofferto quando ha saputo della
tua
morte. Si è chiusa come un riccio, rifiutando cibo e acqua
per
giorni. Abbiamo creduto che avremmo perso anche la nostra regina,
oltre alla nostra ambasciatrice» mi aveva raccontato
Narì.
Tuttavia
non mi sarei mai aspettata di ritrovarmi con le braccia magre di mia
madre strette intorno al collo e di sentirle chiedermi scusa per le
sue azioni passate, per di più davanti a tutti i consiglieri
della
sua corte.
Ne rimasi basita, infastidita e anche un poco offesa.
Sarebbe bastato fingere di morire settant'anni prima per ottenere
l'amore e il rispetto della mia genitrice? E si aspettava anche che
io fingessi di dimenticare gli aspri rimproveri, gli sguardi
indifferenti, l'immensa solitudine che avevo provato il giorno in cui
mi aveva bandita dalla mia stessa casa, costringendomi a cantarmene
una tutta mia?
La regina mi afferrò le mani. «Arya io ti voglio
bene. Tu sei tutta la mia famiglia. Vai se devi, ma a meno che tu non
voglia rinnegarmi, vorrei riconciliarmi con te» disse in tono
melodioso.
Dovetti trattenere una risposta sgarbata, dato che non
ero certo io quella che per prima l'aveva rinnegata, ma un lieve
guizzo dei suoi grandi occhi neri mi portò a guardarmi
intorno.
Intorno a me, seduti sui loro scranni, con le nobili fronti
corrugate, i consiglieri ci guardavano con intensità, in
palese
attesa di una mia risposta.
E capii immediatamente di non potermi
permettere una risposta sbagliata.
«No, madre. Non me ne andrò»
sputai fuori a fatica, senza sbilanciarmi in un vero e proprio
perdono.
E mi costrinsi a ricambiarla quando lei mi
abbracciò.
Dopo aver letto la lettera di Nasuada e aver
dichiarato riaperta l'alleanza con i Varden, Islanzadi tornò
a
concentrarsi su di me e mi pose la domanda per la quale mi ero tanto
preparata nell'ultimo mese. Mi accinsi a ripercorrere i primi mesi
della mia prigionia, impassibile, celando invece gli ultimi, come
avevo già fatto con Ajihad e Rothgar.
Däthedr si alzò
addirittura dal suo scranno e mi rivolse parole gentili, che
rischiarono pericolosamente di incrinare il muro di fermezza che
avevo costruito intorno al mio cuore instabile. Lui era stato uno dei
miei pochi veri amici ad Ellesméra, insieme a Glenwing,
Fäolin e
Rhunön e ritrovarlo, dopo tutte le persone care che avevo
perso, fu
come trovare una scialuppa inaspettata in una nave che affonda.
Il
discorso tra me e mia madre era tutt'altro che concluso e me lo
dimostrò quando, dopo il banchetto dato in onore dei nostri
ospiti,
mi guidò con sé nelle sue stanze, dove
preparò un tè per entrambe
e mi invitò a sedermi. Desideravo solo ritirarmi in una
stanza tutta
mia, con delle pareti a dividermi dal resto del mondo, ma non potevo
certo sottrarmi ad un colloquio con la mia regina.
Islanzadi mi
disse che mi aveva fatto preparare la mia vecchia stanza lì
nel
palazzo di Tialdrì e che avrei potuto trascorrere
lì tutto il tempo
che desideravo.
«Puoi non credermi, figlia mia, ma sono davvero
spiacente per tutto il dolore che ti ho causato in passato»
proseguì
poi.
«Mi hai praticamente costretta a concederti il mio perdono
di fronte ai consiglieri. Mi è difficile credere alle tue
parole
quando cerchi di ottenere subdolamente ciò che dovresti
riguadagnarti».
Islanzadi assunse un'espressione sconcertata,
forse colpita dalla mia schiettezza, ma poi si affrettò a
farla
sparire dal suo volto, a favore di una più rilassata.
«Cosa farai
ora, Arya?»
«Aspetterò qualche settimana, giusto per
assicurarmi che Eragon e Saphira si trovino a loro agio ad
Ellesméra
e con Oromis e Glaedr, e poi tornerò dai Varden,
com'è mio dovere.
Nasuada sta spostando tutti i ribelli nel Surda e le ho promesso che
sarei tornata a darle il mio aiuto il prima possibile».
«C'è
ancora quell'organizzazione di maghi dilettanti a
proteggerla?»
domandò mia madre, lievemente sprezzante.
Esitai qualche istante.
«Ho incontrato la Venerabile durante la battaglia del Farthen
Dur».
A quell'informazione parve riscuotersi. «Avresti potuto
invitarla qui, ormai saranno cinque decenni che non viene a farci
visita».
«Ha espresso lei stessa l'intenzione di stare vicina a
Nasuada, e io ho pensato che sarebbe stata in ottime mani».
Non
era stato così semplice in realtà. Angela era
venuta a parlarmi il
giorno prima della partenza per Ellesméra e mi aveva chiesto
se
avessi preso una decisione in merito a mio figlio. Saputa la mia
risposta, aveva dichiarato di sentirsi combattuta e di non sapere se
seguire me nella Du Weldenvarden o Nasuada nel Surda.
«Entrambe
avete qualcosa di parecchio interessante in progetto» aveva
detto.
«Ma credo che resterò con la figlia di Ajihad,
sarò molto più
utile qui. Te ricordati le mie raccomandazioni» aveva
aggiunto
gettando un'occhiata al mio addome. «Mi sento terribilmente
vecchia
quando dispenso consigli agli elfi!»
E con una sonora risata se
n'era andata, augurandomi la buona notte.
«Molto saggio da parte
sua. Lei sa sempre cosa fare» stava dicendo Islanzadi.
La
sbirciai discretamente. Era decisamente più magra di quanto
la
ricordassi e i suoi occhi nerissimi sembravano più spenti.
Le
credevo, per quanto riguardava la sua preoccupazione nei miei
confronti, ma non ero sicura di potermi affidare completamente a lei,
non dopo l'eccessiva fragilità che aveva dimostrato negli
ultimi
mesi. Ma l'odio e il disprezzo che avevo provato nei suoi confronti
andava lentamente scemando, trasformandosi in pena, e il mio astio si
era sciolto, tanto che non sentivo più il bisogno di fare la
sostenuta di fronte a lei, anzi, sentivo quasi il dovere di non
parlare di nulla che potesse farla soffrire ulteriormente.
Però
c'era almeno una domanda che bruciava sulla mia lingua da troppo
tempo.
«Madre conosci un'elfa di nome Aiedail?»
Per la terza
volta da quando avevamo cominciato quella conversazione, la regina
perse la sua aria regale a favore di un'espressione sconvolta e
persino spaventata.
«Non pronunciamo il suo nome da quasi un
secolo» disse in tono faticosamente controllato.
«Come hai saputo
della sua esistenza?»
«Lo Spettro non si è limitato a
torturarmi, ha passato anche lunghe ore a parlarmi per cercare di
persuadermi». Tu
mi piaci, Elfa.
«E ha detto di avere incontrato Aiedail diversi anni fa.
Prima di
andarsene per sempre lei gli ha raccontato la sua storia, una storia
che ha te come protagonista».
Era una frase un poco zoppicante,
ma era l'unica che potessi dire senza mentire. Volevo far passare
l'idea che Alba fosse morta, non so spiegarmi per quale motivo, forse
perché non volevo che mia madre si allarmasse, ma di sicuro
fui
ricompensata per la mia prudenza, diversi mesi dopo.
Islanzadi mi
rispose con cautela. «Ciò di cui parli, figlia
mia, è il primo dei
molti errori da me commessi da quando sono salita al trono nodoso.
Tuo padre era morto da pochi decenni e io non ero ancora riuscita a
superare la sua dipartita quando scoprii, quasi per sbaglio, una di
noi intenta a praticare arti oscure. Quando la interrogai circa le
sue intenzioni, ella non cercò nemmeno di celarmele e mi
confessò
di stare lavorando ad un incantesimo per riportare in vita la
gemella, morta durante la battaglia di Ilirea. La sua follia mi fu
evidente fin da subito, così la imprigionai e la sottoposi
al
giudizio segreto dei miei consiglieri. La maggior parte di loro
avrebbe voluto tenerla semplicemente d'occhio e prendersi cura di
lei, ma poi dovettero tutti sottostare alla mia crudele decisione. Io
avevo cercato disperatamente di convivere con la morte del mio
compagno per quella che mi era sembrata un'eternità, avevo
resistito
ad ogni possibile tentazione e avevo assunto le redini del regno. E
mentre io facevo tutto quello c'era qualcuno che aveva osato pensare
di poter recuperare una persona cara. Forse fui così dura
con lei
perché in fondo aveva avuto il coraggio di fare
ciò che io avrei
tanto voluto tentare, ma che avevo evitato per codardia».
«Non è
una giustificazione» dissi, chiedendomi allo stesso tempo
come
avrebbe reagito se avesse saputo che la sua unica figlia si era
innamorata dell'uomo che aveva ucciso il suo compagno, mischiando
infine il sangue di Evandar con quello di Durza lo Spettro.
La
regina mi guardò con occhi umidi. «Non lo
è. Ma perdere il tuo
compagno significa perdere una persona fondamentale, è quasi
come
perdere un figlio. Evandar era l'elfo con il quale mi ero sentita in
sintonia perfetta, colui che avevo scelto, colui che mi avrebbe
sostenuta in tutto.. Non credo di potertelo spiegare, figlia mia.
Quando lo proverai allora lo saprai».
Serrai i denti e battei
rapidamente le palpebre per dissipare le lacrime.
«Perché hai
tenuto il segreto per tutti questi anni?»
«Inizialmente temevo
che un simile episodio potesse minare la mia autorità sugli
elfi, in
seguito sia io che i miei consiglieri abbiamo ritenuto inutile
rendere pubblica la questione. Aiedail non aveva amici, aveva
allontanato tutti dopo la morte della gemella, e nessuno si
è mai
posto domande sulla sua scomparsa. Probabilmente hanno creduto che si
sia trasferita ad Osilon o in qualunque altra città della Du
Weldenvarden. Deve essersi nascosta per tutti questi anni e aver
recuperato parte delle sue memorie prima di morire. Sia io che i
consiglieri portiamo ancora sulle spalle il peso delle nostre
colpe»
concluse chinando il capo. «Questo mi svaluta ulteriormente
ai tuoi
occhi?»
«Non preoccuparti di questo madre» svicolai, non
potendo mentirle apertamente.
«Vorrei che tu ed io passassimo più
tempo insieme da domani in poi». Mi sorrise.
«Vorrei che
diventassimo la famiglia che a causa mia non siamo mai state».
Mi
irrigidii un poco. «Non è tanto facile per
me».
«Lo so e mi
dispiace. Ho sempre scaricato troppe pressioni su di te. Volevo che
tu diventassi come tuo padre e prendessi il mio posto sul trono
nodoso, non mi sono mai sentita pienamente in grado di occuparlo,
mentre tu avresti la tempera giusta per un simile ruolo, lo hai
dimostrato con la tua impossibile resistenza».
«Non voglio più
parlare del passato. Prima hai garantito ad Orik e ad Eragon che
avresti nuovamente accordato il tuo aiuto ai Varden, ora io ti chiedo
di mantenere la parola data».
«Ho tutta l'intenzione di farlo.
Già da domani i fabbri si metteranno all'opera e l'esercito
elfico
sarà pienamente riformato. Sono più di cento anni
che siamo qui
nascosti al sicuro e voglio che tu sappia che i nostri movimenti
saranno lenti e cauti, non perché siamo dei codardi, ma
perché non
ci siamo ancora ripresi dalle perdite subite ad Ilirea. La nostra
razza rischia sempre di più l'estinzione».
«Ed è questo a
turbarti?»
«Questo e molte altre cose, ma manterrò il mio
impegno».
Annuii. «Avrei un'ultima domanda per te».
«Si
tratta di Fäolin e Glenwing non è vero?»
intuì lei, guardandomi
tristemente negli occhi.
«Hanno avuto una loro cerimonia di
addio?»
«Sì, Arya. La pattuglia di Osilon ha portato ad
Ellesméra i loro corpi trasfigurati dalle fiamme. Abbiamo
cantato
dei fiori su di loro. Se vuoi domani incaricherò qualcuno di
accompagnarti nel loro luogo di fioritura».
«Ti ringrazio»
dissi, in evidente tono di commiato. «Buona notte
madre».
Islanzadi
parve sul punto di alzarsi ed abbracciarmi, ma dovette cambiare idea
perché spense il movimento sul nascere. «Mi sono
messa in contatto
con Glaedr e Oromis e mi hanno riferito che domani mattina, non
appena Eragon e Saphira si saranno svegliati, verranno a prenderli
per cominciare immediatamente con le loro lezioni. Vorrei che tu ci
fossi, Eragon e Saphira potrebbero sentirsi più a loro agio
con te
nei paraggi, dato che ti conoscono un poco».
«Certo madre,
verrò».
«Mando qualcuno a chiamarti un paio d'ore prima
dell'alba».
«Verrò direttamente sotto l'albero a loro
assegnato, non c'è bisogno che tu mi mandi a
chiamare».
«D'accordo.
Buona notte figlia mia. Sono immensamente felice che tu sia a casa al
sicuro, anche se solo per poche settimane». E mi sorrise.
Le feci
un cenno e sparii oltre la porta, per poi raggiungere quasi
automaticamente la mia stanza, dove entrai con un sospiro di
sollievo. L'ambiente mi era quasi estraneo, dopo tanti anni passati
fuori dal palazzo, ma riconobbi alcuni dei miei oggetti personali,
che mia madre doveva aver fatto trasportare lì, ormai sicura
che mi
sarei trattenuta sotto il suo stesso tetto.
Quando
lo proverai lo saprai.
Tirai
un respiro appena più forte.
Era passato un mese e pochi giorni.
Era un tempo brevissimo paragonato ai lunghi anni che mi aspettavano,
ed effettivamente era passato fin troppo rapidamente, come se il
tempo si ribellasse al significato che io volevo imporgli: per me
tutto si era fermato nel momento in cui avevo sentito l'urlo
grondante di dolore di Durza, quando Eragon gli aveva trapassato il
cuore, eppure da quel momento il sole aveva continuato il suo corso,
la primavera era esplosa in tutto il suo splendore, Nasuada doveva
avere ormai raggiunto il Surda con tutti i Varden al seguito e
chissà
quanti altri eventi si erano scatenati in tutta Alagaësia.
A
nessuno importava della sua scomparsa, mentre io avevo perso il conto
delle volte che mi ero voltata, a cercare i capelli rossi di Durza,
pronta a ridere ad una sua battuta; delle volte che avevo desiderato
poter scaricare i miei turbamenti sulle sue labbra; delle volte che
avevo lottato contro il sonno, terrorizzata all'idea di incontrare il
suo volto e la sua voce nei miei ormai regolari sogni elfici; delle
volte che mi ero svegliata, sentendo il vuoto dato dalla mancanza
delle sue dita sotto al mio cuore; delle volte che avevo aspettato
che qualcosa mi dimostrasse che era effettivamente morto per
sempre.
E le dimostrazioni erano arrivate, lentamente, poche al
giorno. Ma in quel momento parvero scaricarsi sulle mie spalle con
violenza inaudita, quasi piegandomi a terra.
Mi spogliai e mi
concessi un bagno tiepido, nel vano tentativo di calmarmi e mantenere
salda e lucida la mia mente. Sciolsi gli incantesimi che avevo
applicato sul mio corpo e scrutai per lunghi minuti la lieve
rotondità che ormai deformava il mio ventre altrimenti
piatto, poi
allungai un delicato tentacolo mentale per percepire la semplice
coscienza con la quale potevo già mettermi in contatto da
diverse
settimane. Non lo facevo spesso, sia perché temevo di
nuocere alla
coscienza del mio bambino, sia perché non vi era nulla di
interessante da esplorare, se non la sua semplice esistenza.
Il
mio tempo era scaduto. Il bambino sarebbe probabilmente sopravvissuto
e ormai era troppo tardi per avvelenarlo con delle erbe. Non avevo
propriamente deciso di tenerlo, mi ero limitata a non
ucciderlo.
Forse in futuro me ne sarei pentita, perché nemmeno
gli elfi sono esenti dalle problematiche che una gravidanza comporta,
come l'appesantimento e l'impaccio dei movimenti, ma avrei continuato
a fare il mio dovere nei limiti del possibile, nascondendo alla mia
gente la presenza della mia creatura con gli stessi incantesimi che
avevo applicato su me stessa prima di raggiungere la Du
Weldenvarden.
Ma non mi ero ancora posta il problema di cosa avrei
fatto con mio figlio, una volta che fosse nato. Come potevo prendermi
cura di lui, da sola e nella mia complicata situazione? Sarei stata
una madre ancora peggiore di Islanzadi, senza dubbio. Forse avrei
potuto abbandonarlo in un villaggio umano e lasciare che qualcun
altro se ne prendesse cura, ma non ero certa che gli uomini sarebbero
mai riusciti ad accettare un neonato con le orecchie appuntite e
magari anche gli occhi rossi come braci ardenti. E nemmeno gli elfi,
come anche nani, urgali e gatti mannari.
Non avevo le forze per
pensarci, era troppo presto.
«Elfa
farmi diventare padre così all'improvviso è stato
un gran brutto
colpo!»
Durza era veramente diventato padre all'improvviso, ma non avevo
potuto vedere la sua espressione nel venire a conoscenza della
notizia. Quella vera.
Mi asciugai e indossai una veste da notte
che era stata messa a mia disposizione sopra il materasso. Poi
realizzai all'improvviso che era la prima volta da più di un
mese
che ero veramente sola, non minacciata dall'imminente arrivo di
qualcuno, con quattro muri a nascondermi nel loro
abbraccio.
Durza.
Durante il viaggio fino ad Ellesméra ero
passata dalla negazione del fatto alla rabbia irragionevole nei
confronti di Eragon. Poi avevo tentato di spiegarmi che ciò
che era
successo era stato che un caso, un terribile incrocio di coincidenze
e di parole taciute, non colpa mia, non di Eragon, non di Durza.
Mi
ero semplicemente lasciata prendere in giro da me stessa. Avevo
sempre creduto di essere una persona solitaria, di poter vivere con
me stessa per il resto della mia vita, mantenendo così
stabile il
fragile equilibrio che avevo costruito dopo che mia madre mi aveva
cacciata. Avevo creduto di amare Fäolin perché lui
era incluso in
quell'equilibrio, non lo turbava, non lo incrinava, anzi, mi aiutava
a regolarizzarlo.
Poi avevo imparato ad amare e comprendere il suo
assassino e mio aguzzino, la prima vera persona con la quale mi ero
sentita pienamente me stessa, senza limiti e senza freni. Per lui mi
ero dovuta mettere in gioco, ero stata costretta a dubitare di
tutto.. e a stravolgere quell'equilibrio sul quale avevo fatto tanto
affidamento.
E tra le sue braccia avevo vissuto pienamente, per la
prima volta da sempre, concedendo ad una buona parte di me di
abbandonarsi alla sua rassicurante presenza, di fondersi con lui.
Con
la sua morte quella parte di me non mi era stata restituita e in quel
momento mi sembrava di non potere mai e poi mai recuperarla. Se
guardavo al mio futuro vedevo solo una grigia vita di doveri e nobili
ideali, vuota e arida.
Il groppo che mi stava stringendo la gola
si fece insopportabile.
Insonorizzai la mia stanza.
Durza mi
avrebbe certamente chiesto se per caso volessi stare da sola con lui,
con un ghigno sfottente stampato in volto e gli occhi ardenti di
affetto e desiderio.
Mi raggomitolai sul letto vuoto e freddo.
E
scoppiai a piangere con una forza che nemmeno sospettavo potesse
ancora celarsi dentro di me, il corpo squassato da singhiozzi
così
profondi e frequenti da lasciarmi ansante. Mi coprii gli occhi con le
mani e lasciai che le lacrime colassero sulla mia pelle e sulle mie
labbra, cariche di tutta l'amarezza e la disperazione che si era
accumulata sul mio cuore.
Durza era morto.
Non avrei mai più
sentito la sua voce, baciato le sue labbra sempre ruvide,
scompigliato i suoi capelli rossi e stretto le sue mani. Non l'avrei
mai più rimproverato per i suoi commenti inadeguati, mai
più
sfidato a un duello con le spade, mai più strappato al
controllo dei
suoi spiriti, mai più condiviso i miei pensieri e i miei
sogni con
lui.
Non avrei mai potuto vivere con lui la gioia di tenere tra
le braccia nostro figlio, non saremmo mai partiti alla ricerca di
posti meravigliosi, non avremmo mai scoperto come potesse essere una
vita normale insieme, non avrei mai potuto vedere sciogliersi le
ombre del suo passato dai suoi occhi.
Durza era morto.
Prima
che ci fosse concessa un vera occasione di amarci e dimenticare gli
errori del passato, era morto.
E non c'era incantesimo, non c'era
sforzo, non c'era abilità alla quale poter far riferimento
per
cambiare l'ordine delle cose. Ero impotente. E sola. Lo sarei stata
per sempre.
Non dormii quella notte. Alternai momenti di
dolore cocente a momenti di totale indifferenza e passai di
conseguenza ore sommersa dal pianto e dalla disperazione e ore a
fissare il vuoto.
Il mattino seguente ero esausta e svuotata di
ogni emozione. La gola mi bruciava per il pianto e le grida che avevo
lasciato libere e la sensazione non si estinse nemmeno quando mi
concessi un grande bicchiere d'acqua per placare il singhiozzo che
era sopraggiunto.
Era quasi l'alba, così mi costrinsi ad uscire
dal bozzolo della mia sofferenza e mi lavai il volto con acqua
fresca, provvedendo poi a cancellare i segni del mio sfogo con la
magia. Con il cuore in gola, applicai nuovamente gli incantesimi al
mio ventre, poi indossai morbidi e puliti abiti elfici e riposi con
cura quelli di pelle sul fondo della cassapanca, insieme alla
cintura. La piccola bisaccia che vi era agganciata si aprì e
sparse
il suo contenuto a terra. Sobbalzai alla vista del sole d'argento e
dell'anello di ametiste, mi ero totalmente dimenticata della loro
esistenza da quando Eragon aveva ricevuto il suo ciondolo a forma di
martello e la loro vista minò il debole sforzo appena
compiuto per
incastrare tra loro le schegge in cui si era frantumato il mio
cuore.
Li raccolsi con mani tremanti e li riposi nella
cassettiera, ben nascosti sotto i vestiti di pelle, serrando la
mascella per mantenere un contegno e non scoppiare nuovamente in
lacrime. E lì li avrei lasciati fino alla mia partenza per
il Surda,
quasi un mese dopo.
Mia madre non mancò di irritarmi con i suoi
comportamenti sciocchi nemmeno quella mattina, minando seriamente la
flebile fiducia che le avevo concesso la sera precedente.
Fortunatamente, dopo che Eragon e Saphira si furono allontanati con i
loro maestri, Däthedr mi invitò immediatamente a
seguirlo per
raggiungere i fiori di Glenwing e Fäolin, così non
dovetti
affrontarla nuovamente, non subito almeno.
Io e Däthedr
camminammo per un paio d'ore prima di raggiungere la radura aperta
dove le piante potessero crescere, perché nessun albero
sarebbe mai
riuscita a sopravvivere sotto i giganti di Ellesméra, dove
il sole
non poteva raggiungerli. Per i primi minuti restammo in silenzio e io
ne approfittai per riassaporare gli scorci familiari della
città e
della foresta limitrofa.
Una parte di me, quella più istintiva,
gioiva del mio ritorno ad Ellesméra,
non c'era un posto simile in nessun angolo di Alagaësia e il
mio
sangue aveva sempre sentito il richiamo ammaliante della mia terra.
D'altra parte ingannare gli uomini era infinitamente più
semplice
che ingannare gli elfi e non potevo assolutamente permettermi di fare
passi falsi finché camminavo tra la mia gente.
Sapevo che avrei
dovuto lasciare la Du Weldenvarden il prima possibile, ma sul momento
mi godetti tutte le sue meraviglie, lasciando che mi riempissero gli
occhi e l'anima. Non volevo passare mai più una notte
simile, era
stata probabilmente la più orribile della mia vita. Non mi
ero mai
sentita così annichilita, impotente e incapace come nel
momento in
cui avevo realizzato che non c'era rimedio per ciò che era
accaduto
nel Fathen Dur.
I morti sono irrecuperabili e sono il più grande
tormento dei vivi.
Däthedr
mi parlò a lungo di ciò che era successo nella Du
Weldenvarden,
mettendomi al passo con ciò che avevo perso negli ultimi sei
mesi.
«Mi spiace per ciò che è successo ieri
al cospetto di noi
consiglieri» disse infine, con una morbida nota di
indignazione.
«Non hai colpe per le azioni patetiche di mia
madre» risposi senza mezzi termini.
L'elfo tacque a lungo prima
di rispondermi. «Non l'hai vista quando ha saputo del tuo
rapimento.
Ha cominciato a rivivere solo quando le è giunta voce che ti
stavi
avvicinando ad Ellesméra. Non sarebbe mai riuscita a
superare anche
la tua morte, dopo quella di Evandar».
Mia madre era debole, non
era colpa sua, ma era così. Non volevo e non dovevo
assolutamente
emulare il suo comportamento, nonostante ci fossero molti punti in
comune nelle nostre rispettive storie.
«Ha ancora l'appoggio del
consiglio?» domandai, cominciando a capire la situazione.
«Molti
di noi non hanno preso bene la sua reazione nei confronti dei Varden.
La reputavamo sciocca e impulsiva, dettata dal dolore più
che dalla
ragione».
«Perché effettivamente è
così» lo rassicurai.
«Rischia di perdere il suo ruolo?»
«No, Arya. Nessuno la vorrà
deporre fino a che Galbatorix non sarà sconfitto, sempre che
non
mostri altre pericolose debolezze ovviamente». Mi rivolse un
sorriso
gentile. «Molti hanno fatto il tuo nome come auspicabile
successore
di Islanzadi».
Scossi la testa. «Te più di tutti gli altri
consiglieri sai benissimo che non è il ruolo che
desidero».
«Lo
so bene, ma forse prima o poi cambierai idea. Tua madre ti ha
indicata come sua erede, hai l'appoggio del consiglio e le buone
qualità di una regina. Se ti sottraessi al compito
getteresti la
corte nel caos».
Aprii e chiusi le mani, a disagio. Conversare
nell'antica lingua era diventato quasi difficile per me, dopo mesi
passati a mentire con disinvoltura nella lingua degli uomini e non
ero abituata a sentire Däthedr ripetermi le stesse parole che
per
anni erano state solo sulla bocca di mia madre. Non volevo ulteriori
complicazioni e non volevo lasciare un margine di
possibilità per
coloro che volevano vedermi sul trono nodoso, un giorno.
«Non
voglio diventare regina» dissi con sicurezza.
«Voglio solo essere
sicura che l'autorità di mia madre non sia indebolita in
questo
momento, voglio sapere se gli elfi risponderanno alla sua chiamata
quando ordinerà loro di marciare su Uru'baen».
«Puoi stare
certa che risponderanno. Siamo rimasti nascosti per un secolo, ma
tutti noi ricordiamo il dolore delle perdite causate dalla battaglia
di Ilirea e siamo pronti a vendicarci».
«Mi dispiace, tendo a
dimenticare le vostre sofferenze. Io non ho vissuto come voi quei
giorni».
«Hai perso un padre» mi fece notare.
«Non ho avuto
il tempo di conoscerlo».
Sorrise. «Quanto rimarrai ad
Ellesméra?»
«Solo un paio di settimane».
«Tua madre non ti
ha ancora parlato dell'Agaetì Blödhren,
vero?»
Increspai la
fronte. «Cade quest'anno?»
«E proprio in questo periodo. È un
evento che si verifica abbastanza raramente, non credo che dovresti
perderti il tuo primo».
Del
resto potrebbe anche essere l'ultimo.
«Potrei
rimanere una settimana in più» abbozzai.
«Forse dovremmo anche
nominare un'altra scorta per te. Islanzadi Dröttning sarebbe
certamente più tranquilla se non viaggiassi sola fino al
Surda,
quando dovrai partire».
«Non ne avrò bisogno» dissi, fin
troppo precipitosamente. «Non sono più la custode
dell'uovo e
quando ero ambasciatrice viaggiavo spesso da sola».
Non avevo
bisogno di una scorta, non volevo altri due elfi a prendere il posto
di Glenwing e Fäolin e a rendere il mio viaggio un ulteriore
momento
di tensione. Gli elfi erano quelli che potevano più
facilmente
scoprire il mio segreto e non volevo portarmi il rischio con me.
«La
questione sarà sottoposta al consiglio» disse
Däthedr gravemente.
«Nessuno vuole che si replichi ciò che ti
è già successo. Anche
se adesso Durza lo Spettro è morto e non c'è
nessuno potente come
lui tra gli sgherri di Galbatorix, potresti comunque incontrare
avversari temibili».
Mi arresi. «So che queste decisioni
spettano al consiglio, ma vi prego di non farvi influenzare dal
passato. Quella notte siamo stati incauti e una cosa del genere non
si ripeterà mai più».
«Terremo conto della tua opinione» mi
assicurò Däthedr.
Mi lasciò in una valle ricolma di
fiori.
«Abbiamo cantato i fiori per Glenwing e Fäolin
insieme a
quelli dei caduti della battaglia Ilirea. Ritenevamo che meritassero
un simile onore e le loro famiglie hanno accettato».
E detto
questo Däthedr si affrettò ad indicarmi le
targhette di legno con
le graziose incisioni dei loro nomi e tornò rapidamente a
palazzo,
dove avrebbe avuto una riunione con Islanzadi e i consiglieri di
lì
a poche ore.
Guardai la pervinca dedicata a Fäolin e le campanule
dedicate a Glenwing e li trovai molto appropriati, anche se mi
dispiacque non essere stata presente alla cerimonia di addio. Erano
molto rare nella nostra foresta e non avevo mai assistito a nessuna,
nonostante sapessi le modalità: il corpo veniva sepolto
nella nuda
terra e su di esso veniva cantato un fiore, un arbusto o un albero
che ricordasse il defunto, così che esso potesse crescere
sfruttando
i suoi resti. Altri lasciavano istruzioni affinché
il loro corpo venisse bruciato e le ceneri sparse al vento o sulle
rive di un fiume. Qualcuno suonava, qualcuno cantava, si leggeva una
poesia o dedicava una memoria e poi si lasciava una piccola targhetta
con il nome del defunto inciso sopra.
Avrei tanto voluto che anche
a Durza fosse stata concessa una cerimonia, anche semplice, qualcosa
di più della sepoltura di Luna sotto un mucchio di pietre
grezze.
Restai
davanti ai loro fiori per tutto il pomeriggio e mi mossi verso
Ellesméra solo quando il sole era ormai tramontato.
Riflettei a
lungo su quante persone avessi perso in così breve tempo,
del resto
non erano passati neanche otto mesi da quando, in un momento di
lucidità nel bel mezzo del terrore, avevo usato tutte le mie
energie
per mandare a Brom l'uovo di Saphira. Avevo perso il mio amico
fraterno Fäolin, il mio più affidabile
accompagnatore Glenwing,
Durza e anche Ajihad. In pochi mesi mi ero vista spazzare via tutti
coloro che in qualche modo avevo considerato i pilastri portanti
della mia esistenza.
Chi mi rimaneva ormai? Mia madre, la donna
che in passato mi aveva ripudiata? O forse Däthedr, il mio
vecchio
amico ormai convinto che il mio posto fosse sul trono nodoso? O
Rhunön, la rozza e anziana elfa che non vedevo da un paio
d'anni?
Meditai per molte ore, piansi ancora alcune lacrime
silenziose e verso sera mi sentivo decisamente più
rilassata,
leggera e libera. Il dolore per i morti non era svanito, ma in
qualche modo si era sfogato.
Dietro sua insistenza, cenai con mia
madre, che mi informò dei primi preparativi della festa
dell'Agaetì
Blödhren, ai quali sarebbero seguiti immediatamente quelli
dell'esercito elfico, che si sarebbe messo in marcia in non
più di
un mese. Il tavolo della sala dei banchetti era terribilmente
ridicolo quando eravamo solo io e lei a consumare i pasti.
Rettangolare e lunghissimo, eravamo sedute ai suoi due capi, ad
almeno tre iarde l’una dall’altra.
«Vorrei che tu rimanessi
per la Celebrazione e vorrei che ti prendessi l'impegno di mostrare
Ellesméra ad Eragon e Saphira. Fa' vedere loro tutte le
nostre
meraviglie e falli innamorare della nostra foresta. Se il re
sarà
mai sconfitto grazie a loro, allora avranno più
autorità loro due
di tutti i regnanti di Alagaësia messi insieme e la loro
amicizia
potrebbe risultarci molto vantaggiosa» mi disse lei.
Acconsentii
senza fare storie e mi impegnai ad andare a prenderli la sera
seguente, dopo la loro lezione con Glaedr e Oromis.
Tre
settimane dopo lasciai Ellesméra in direzione di Aberon, con
l'accorata benedizione di mia madre e dell'intero consiglio,
sola.
Molte cose erano accadute in quei pochi giorni e non tutte
esattamente piacevoli.
Il rapporto con mia madre rimaneva
piuttosto ambiguo: lei insisteva nel comportarsi come se non mi
avesse mai fatto nulla di male in vita sua e io continuavo in parte a
disprezzare certi suoi atteggiamenti. Però le volevo bene e
cercavo
di non ferirla con affermazioni fuori luogo e di ubbidirle in quanto
mia regina.
Avevo passato molte ore sui fiori di Fäolin e
Glenwing e ripreso i contatti con Rhunön, la mia vecchia
nutrice e
amica. Era probabilmente l'elfa più vecchia della foresta ed
era
l'unica abitante della Du Weldenvarden abbastanza schietta da
sostenere che gli elfi erano cambiati in peggio dal loro patto con i
draghi.
«Ricordo ancora quando gli elfi facevano altro con le
loro spose, oltre a guardare le stelle» era solita
borbottare, non
appena si accennava alla carenza di nascite nel nostro popolo.
Avevo
persino scritto una poesia per l'Agaetì Blodhren. Parlava di
vita e
di morte, ovviamente. Avrei potuto fare di meglio, ma il mio animo
non riusciva a concentrarsi su temi diversi in quei momenti.
Se
quelli erano stati aspetti positivi, Eragon si era prontamente
impegnato a fare crollare il mio castello di semi-serenità,
insistendo, a più riprese, in uno sbadato e zoppicante
corteggiamento, che mi aveva mandata su tutte le furie.
Gli avevo
concesso la mia simpatia e la mia amicizia, ed era stata davvero
dura, considerato il ruolo capitale che aveva avuto nella morte del
mio uomo. Ma se io gli avevo dato un dito, lui si era affrettato a
cercare di prendermi l'intero braccio, comportandosi come un bambino
capriccioso quando l'avevo rifiutato la seconda volta.
«Sei
crudele» aveva detto.
Cosa avrei dovuto fare? Essere
accondiscendente e assecondarlo solo perché mi aveva
“salvato la
vita” ed era l'unica e ultima possibilità per i
ribelli?
No,
avevo una dignità. Ed ero troppo innamorata di Durza per
poter anche
solo pensare ad una cosa simile.
Senza contare che l'idea in sé
non mi attirava per niente: Eragon aveva visto e fatto molto, era
vero, ma era tanto troppo giovane. Nessuna elfa della mia
età
avrebbe mai accettato un sedicenne come compagno, c'era troppa
distanza di maturità e di pensiero.
Eragon era.. un ragazzino
gentile e curioso e lo consideravo a malapena un amico, nulla di
più.
Il sentimento che diceva di provare per me non poteva essere amore,
infatuazione forse, ma non amore. Del resto ero la prima della mia
razza che avesse visto e doveva averlo colpito il mio aspetto,
considerato particolare tra gli uomini, ma ero certa che nel giro di
pochi mesi gli sarebbe passata. Gli umani compiono evoluzioni a
velocità vertiginosa e lo stesso sarebbe accaduto anche a
lui.
Mia
madre non si era dimostrata molto soddisfatta del mio comportamento,
quando aveva saputo del Fairth da Oromis: mi aveva lasciato intendere
che avrei dovuto accettare il corteggiamento del cavaliere senza
distrarlo eccessivamente dal suo addestramento. Per lei si trattava
di un ennesimo trucco per legarlo ulteriormente al destino degli
elfi, ma trovandomi indisposta a soddisfare le sue richieste non
aveva insistito e mi aveva semplicemente raccomandato di essere
cortese e delicata nei suoi confronti.
Così lo avevo perdonato,
aveva insistito, e io avevo lasciato Ellesméra senza nemmeno
salutarlo. Non era esattamente il tipo di atteggiamento che gli elfi
avrebbero definito educato, ma andare da lui mi pareva un poco
incauto: poteva sembrare che lo incoraggiassi e non volevo
assolutamente far passare quell'idea.
Il consiglio aveva stabilito
che sarei partita sola dato che gli elfi servivano, attivi e
concentrati, nella Du Weldenvarden, dove iniziavamo a prepararci per
la guerra, forgiando armi e protezioni e occupando i campi di
allenamento.
Io avevo riempito uno zaino di provviste, legato il
mio arco e la mia spada sulla schiena e mi ero procurata un cavallo,
ansiosa di allontanarmi dalla capitale degli elfi. Sia per evitare di
perderlo sia perché la sua funzione poteva tornarmi utile,
indossai
il medaglione di Durza sotto i vestiti, sul cuore.
Ad Osilon avevo
cambiato la mia cavalcatura con una più fresca e nel giro di
due
settimane a tappe forzate avevo raggiunto Aberon. Da lì ero
dovuta
tornare sui miei passi perché la corte di re Orrin era vuota
e i
suoi dignitari mi avevano informata che l'esercito del Surda, unito a
quello dei Varden, si era appena spostato verso nord. A quanto pareva
una spia aveva riferito di un grande esercito con le insegne
imperiali in movimento in direzione delle Pianure ardenti.
Nasuada
mi accolse con gioia sincera e mi disse di aver già mandato
un
messaggero a Osilon -la nostra città più vicina
al confine della
foresta e quindi più accessibile per gli umani- con la
richiesta di
far tornare Eragon al più presto, in previsione
dell'imminente
battaglia. Fu in quell'occasione che incontrai Elva, la bambina che
sapevo accidentalmente maledetta dal Cavaliere e che per le sue
capacità era ormai chiamata la Veggente.
La piccola -che non
doveva avere più di cinque mesi effettivi ma dimostrava
almeno
cinque anni- era spaventosa, una creatura grottesca e inquietante,
dai grandissimi occhi viola, penetranti ancor più di quelli
di
Durza. Quando incontrarono i miei seppi in un istante che Elva
sarebbe stata capace, con poche parole, di frantumare il mio
autocontrollo e farmi scoppiare in lacrime come una bambina.
Angela
la Venerabile confermò i miei timori quando andai nella sua
tenda
per presentarle gli omaggi di mia madre. La bambina aveva un dono
terribile e insieme indispensabile e al momento lo aveva messo al
servizio di Nasuada, che aveva già salvato da un tentativo
di
omicidio.
«Quando quel miserabile tontolo di Eragon farà
vedere
la sua brutta faccia da queste parti non credo che gli
risparmierò
una strigliata come si deve, cavaliere di drago o no!»
esclamò lei
con la voce vibrante d'ira.
«Non fargli del male, Venerabile» la
rabbonii. «Eragon ci servirà contro Galbatorix e
sono certa che
avrà fatto notevoli progressi sotto la guida dei suoi
maestri ad
Ellesméra, non compirà mai più un
simile errore e sicuramente non
era sua intenzione maledire la bambina».
«Non c'è alcun bisogno
di celarmi la loro identità, Arya» mi disse lei,
sedendosi su una
comoda sedia a dondolo e cominciando un lavoro a maglia.
«Conosco
bene sia Oromis che Galedr, uso ancora le ossa della zampa che perse
in battaglia per fare le mie predizioni».
«Non lo sapevo»
ammisi.
«Tu come stai invece?» mi domandò,
guardandomi di
sfuggita da sotto le ciglia e continuando a lavorare agilmente a
maglia, come un ragno che tesse la sua tela.
«Bene» risposi e
ringraziai la lingua degli uomini per l'elasticità di
concetti che
permetteva.
«Tutto, tutto bene?»
«Un incantesimo cela il mio
ventre anche ora, Venerabile, altrimenti potresti vederne il primo
gonfiore» finii per mormorare, conscia che la domanda di
Angela
fosse sempre stata mirata a quello, non tanto alla mia
salute.
Inizialmente parve un poco infastidita, ma poi mi rivolse
un mezzo sorriso. «Sono davvero curiosa di sapere come
sarà».
Mi
mossi a disagio sullo sgabello su cui mi ero accomodata, sentendomi
quasi oggetto di un suo studio e dopo pochi minuti mi congedai,
cercando di non apparire troppo scortese.
Nasuada mi aveva fatto
preparare una tenda, così mi accomodai sul giaciglio, non
prima di
aver consegnato il mio cavallo elfico alla cura degli
stallieri.
Presa una ciotola d'acqua, mi trattenni qualche minuto
per contattare Däthedr e informarlo sulla presente situazione
dei
Varden. L'elfo mi ricontattò poche ore dopo, informandomi
che era
riuscito a penetrare gli scudi che il re doveva aver applicato sulla
sua armata, impedendoci di usare la cristallomanzia su di essa.
Aggiunse che Eragon e Saphira sarebbero rimasti ad Ellesméra
fino a
che non fosse giunto il messaggero di Nasuada, per ovvi motivi:
sfruttare ogni istante rimasto per insegnare ai due più
nozioni
possibili in previsione della battaglia. Non era escluso che il re
stesso scendesse in campo, del resto.
Non potei dire nulla a
Nasuada di quel mio scambio con gli elfi, ovviamente, o avrebbe
considerato i nostri sotterfugi un tradimento bello e buono.
Ero
stanchissima, ma dovetti sopportare altri tre giorni di stretta
marcia prima che fosse posto un accampamento definito, ai confini
delle Pianure Ardenti. Portavo in grembo mio figlio già da
più di
quattro mesi e gli sforzi fisici a cui mi ero sottoposta mi
lasciarono esausta.
Sette giorni dopo Däthedr mi disse che Eragon
e Saphira erano partiti il giorno prima, insieme ad Orik, in
direzione di Aberon.
Il mio bambino aveva ormai diciannove
settimane, mi mettevo regolarmente in contatto con la sua coscienza e
ormai sapevo che lui riconosceva la mia voce quando gli parlavo,
ricambiandomi con sensazioni mentali ambigue che il più
delle volte
interpretai come affetto.
Quella stessa notte lo sentii muoversi
per la prima volta dentro di me e rimasi sveglia, con gli occhi
spalancati e le mani strette intorno al ventre, combattuta tra
stupore, gioia, sollievo e cupo terrore.
______________________________________________________________________________________________
Saaaalve :D
Come avrete notato i tempi sono parecchio accelerati e in un solo capitolo abbiamo ripercorso quasi tutti gli avvenimenti di Eldest. Conto di continuare su questo ritmo per non fare diventare questa storia un noioso “l'ho già sentito”!
Intanto che ci sono ne approfitto per mettervi al corrente delle terribili difficoltà che sto incontrando nel rispettare le tempistiche dei libri: è tristemente evidente che Paolini non ha tenuto conto di quando la sua storia è iniziata e degli avvenimenti che lui stesso vi ha inserito. Elain ad esempio: è incinta di cinque mesi all'inizio di Eldest eppure partorisce solo all'inizio di Inheritance !
Nel frattempo Eragon sembra passare mesi su mesi ad Ellesméra per il suo addestramento con Oromis e Glaedr, mentre non POSSONO essere più di due, anzi, devono essere di meno o Elain sarebbe incinta di otto mesi alla fine di Eldest e quindi tutte le vicende di Brisingr dovrebbero svolgersi in non più di un mese!
Senza contare l'ambigua frase di Trianna alla fine di Eldest : “Tu pratichi la magia da meno di due anni”. Certo che sì tesoro, Saphira ha si è no dieci mesi! Grrr
Stento a credere che i tempi possano essere coerenti, ma intanto mi sto rileggendo il libro, quindi cercherò di far quadrare il tutto, vi prego di perdonare eventuali imprecisioni che magari mi rivedrò costretta a correggere nel prossimo capitolo, ma purtroppo non sono riuscita a finire Brisingr prima della pubblicazione di questo.
Aggiungo che la stesura degli ultimi capitoli è stata accompagnata dall'ascolto ossessivo di questa meravigliosa e cupa canzone, che vi metto sotto nel caso vi venisse voglia di ascoltarla, a me da i brividi ogni volta! **
City
of the Dead
Grazie del supporto, grossi baci a tutti e ci vediamo domenica prossima ;)
Lalli
|
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Capitolo 34 *** Fantasmi ***
Ciao
34.
Fantasmi
Nemmeno
una settimana dopo tutte le nostre certezze e le nostre speranze
vacillavano in precario equilibrio.
La battaglia delle Pianure
Ardenti si era conclusa molto più positivamente di quanto
avessimo
prospettato, ma un problema ben maggiore pendeva sui nostri capi:
Murtagh. Il figlio di Morzan, che io stessa mi ero affrettata a
giudicare morto -forse troppo accecata dal dolore per poter compiere
una ricerca più accurata sul momento- era ricomparso, vivo e
vegeto,
in groppa ad un drago rosso e con le insegne di Galbatorix.
E come
se non bastasse, aveva rivelato ad Eragon informazioni che sarebbero
state meglio sepolte con i morti.
Il giovane cavaliere aveva
reagito come chiunque dei Varden avrebbe fatto se avesse saputo di
avere Morzan come padre: si era sentito sporco, prigioniero di un
legame di sangue che avrebbe voluto recidere con tutto il proprio
cuore e al quale non sarebbe mai e poi mai riuscito a sottrarsi.
Sia
io che Nasuada avevamo cercato di rassicurarlo circa la sua vera
natura e, dallo sguardo grato che Eragon ci aveva restituito, era
ovvio che avesse apprezzato il nostro gesto, tuttavia non avrebbe mai
smesso di rimuginare sulla questione e c'era poco che potessimo fare
per quello.
Forse il desiderio di fuggire da se stesso, forse
sincera lealtà verso il cugino, forse le braci sopite della
sete di
vendetta lo portarono, il giorno dopo la battaglia, a presentarsi nel
padiglione di Nasuada, a chiederle il permesso di partire alla volta
dell'Helgrind con Roran, per liberare la sua fidanzata
Katrina.
Ottenne il permesso solo grazie all'intervento molto
convincente di Saphira e partì in groppa alla dragonessa il
giorno
dopo, accompagnato ovviamente dal burbero cugino.
Non mi offrii di
andare con loro. In primo luogo non ero certa che Saphira -nel
viaggio di ritorno- sarebbe riuscita a portare quattro persone sul
suo dorso, nonostante fosse cresciuta ancora dai giorni del Farthen
Dur; poi mi sembrava che quella spedizione fosse più un
affare di
famiglia che un vero e proprio atto per indebolire l'Impero.
Avrei
voluto dire molte cose ad Eragon: parlargli dei Sacerdoti, dei loro
riti, dei loro pericolosi cerchi di pietre di ametista.. Ma
ovviamente non potevo, così mi limitai ad augurargli buona
fortuna,
con la certezza che in ogni caso, con le sue capacità ormai
elfiche,
sarebbe certamente riuscito a cavarsela contro i Ra'zac e i
Lethrblaka, anche senza il mio aiuto.
Nasuada odiava ammetterlo ma
era nervosa per quel suo allontanamento, così brusco,
inaspettato e
persino incosciente.
«Speriamo che non gli succeda nulla di male»
borbottò, quando mi convocò al suo cospetto.
Le sue guardie, i
Falchineri, erano schierate all'esterno della sua tenda, pronte ad
entrare al minimo cenno di pericolo. Pochi avevano apprezzato la sua
decisione di includere gli Urgali tra le fila dei Varden, ma io non
ci trovavo nulla di male, per il momento. Era ovvio che prima o poi
gli Urgali avrebbero creato problemi, era nella loro cultura, ma
finché la guerra non fosse finita la loro forza sarebbe
stata
contenuta. E Nasuada era riuscita ad alleggerire il sospetto degli
uomini includendo i mostri tra le sue stesse guardie. Nemmeno per
quello avevo qualcosa in contrario, anche se il loro odore mi
disgustava.
«Hai visto le abilità di Eragon e i cambiamenti
che
i draghi hanno operato su di lui: si è ridotto drasticamente
il
numero di creature in Alagaësia capaci di opporsi al suo
potere
ormai» dissi, con l'intento di rassicurarla.
«Tu e gli elfi ne
sareste ancora capaci?»
«Noi elfi conosciamo bene la magia,
Nasuada, ma i cavalieri dei draghi ne hanno affinato alcuni aspetti e
custodiscono gelosamente i loro segreti. Sono certa che i maestri di
Eragon hanno saputo metterlo a parte di questi segreti».
Nasuada
mi concesse una smorfia indulgente. «Non mi direte mai di chi
si
tratta, vero? Sia tu che Eragon diventate improvvisamente schivi
quando finiamo per parlare del suo addestramento».
Le feci un
cenno col capo. «Non sta a me risponderti, ma suppongo che tu
mi
abbia chiamata per un'altra ragione».
Il capo dei Varden si
riscosse e per un attimo parve quasi infastidita all'idea di pormi la
domanda che seguì: «Potresti insegnarmi le formule
di saluto che
usate tra gli elfi?»
Aggrottai la fronte. «Certamente» risposi
poi.
«So che devono arrivare degli stregoni esponenti del tuo
popolo e vorrei mostrare loro che non sono completamente ignorante
delle vostre tradizioni».
«Capisco» dissi. «Del resto si
tratta del primo vero incontro tra le nostre razze sul territorio di
Alagaësia da oltre un secolo».
Annuì. «Vediamo di renderlo un
evento memorabile e non una pubblica manifestazione della mia
incapacità».
Mi strappò un sorriso. Erano poche le cose in cui
Nasuada era incapace, pur essendo un'umana.
Poi la conversazione
si spostò sulle truppe degli elfi e sulla loro situazione
nelle
terre a nord di Alagaësia. Le riferii che ormai ero in
contatto
giornaliero con la mia gente perché avevano abbandonato le
profondità della foresta e che si stavano raggruppando nei
pressi di
Ceunon, che avrebbero attaccato in pochi giorni. Da Ceuron le truppe
elfiche si sarebbero mosse serpeggiando verso sud, occupando tutte le
città imperiali che li separavano da Uru'baen.
«Mi hai
assicurato che l'esercito di tua madre sarà in grado di
sottomettere
tutte quelle città, ma sono preoccupata. In fondo sono
parecchie e
immagino sarà difficile tenerle a bada anche dopo averle
assediate»
disse Nasuada.
Intuii le vere ragioni della sua preoccupazione
quando notai che si stava asciugando i palmi sudati contro la gonna
dell'abito.
«Non faremo del male agli uomini se non sarà
necessario, lo sai» le risposi con la voce più
rassicurante che
riuscii a modulare. «La mia gente è molto potente,
molto più degli
umani o dei loro maghi e per loro sarà più facile
di quanto tu
creda occupare le città rapidamente e tenere a bada gli
abitanti.
Coloro che vorranno unirsi al tuo esercito saranno mandati verso sud,
mentre gli altri saranno contenuti con degli incantesimi all'interno
delle loro città».
Nasuada mi parve leggermente in imbarazzo.
«Non dubito di voi né della vostra
abilità, Arya, ma temo un
intervento di Murtagh e Castigo, sia qui tra i Varden che tra gli
elfi».
«L'esercito di Islanzadi sarà in grado di
respingerli,
forse non di sconfiggerli o catturarli, ma di respingerli
sì».
La
giovane si aggiustò dietro all'orecchio una ciocca di
capelli
scivolata alla semplice acconciatura. «Se ne avranno
l'occasione lo
uccideranno?» chiese duramente.
«Sì» risposi, chiedendomi se
per caso non avessi sottovalutato la simpatia che Nasuada aveva detto
di provare per Murtagh.
Ma il capo dei Varden non mostrò alcuna
tenerezza, quando rispose con un semplice e secco:
«Bene».
Purtroppo
non fui presente al momento del fatidico incontro tra elfi e uomini.
Saphira tornò all'accampamento pochi giorni dopo e
riversò in me
tutta la sua preoccupazione per l'avventata decisione di Eragon di
rimanere indietro a distruggere l'ultimo dei Ra'zac.
La sua
angoscia era fortissima e, come scoprii con un pizzico di sorpresa,
anche la mia. Non ero solo preoccupata per il Cavaliere, ero
preoccupata per Eragon, il giovane e ingenuo ragazzo che portava
sulle spalle un peso immenso, che mai nessuno sarebbe stato in grado
di condividere totalmente con lui, neanche Saphira.
Ricordai in un
attimo l'espressione disgustata che aveva assunto quando aveva detto
di essere figlio di Morzan e la visione del giovane con un pugnale
piantato nel cuore o una corda stretta intorno al collo mi
riempì
gli occhi. Eragon poteva davvero compiere un gesto estremo? Era umano
e quindi più volubile di un elfo, nonostante ne avesse ormai
il
corpo, e negli ultimi giorni era stato schiacciato da molte
pressioni.
Presi la mia decisione ancora prima di ragionarla.
Strinsi le stringhe degli stivali, mi alzai in punta di piedi per far
scricchiolare le caviglie e mi misi a correre in direzione
dell'Helgrind, ben decisa a raggiungere Eragon e a riportarlo sano e
salvo sotto le ali della sua dragonessa.
Una volta lontana
dall'accampamento dei Varden, modificai il mio aspetto, assumendo
quello che Durza mi aveva costruito quando eravamo partiti da
Gil'ead, e quella notte stessa, prima di prendermi qualche ora di
riposo, sottrassi un vestito verde alla grassa moglie di un bovaro.
Dovetti aggiustarlo un po' con la magia perché mi pendeva
addosso
come un mucchio di stracci, ma fui contenta che la donna avesse una
corporatura massiccia o, con la mia pancia ormai prominente, non
sarei mai riuscita a indossarlo.
Mi sfilai anche la collana di
Durza e la annodai al polso, coperta dalla manica dell'abito, poi fui
costretta ad applicare nuovamente gli incantesimi che nascondevano la
mia condizione e proteggevano il mio bambino. Dopo aver informato
Däthedr della mia posizione ero sfinita, ma mi trattenni
qualche
altro minuto ad ascoltare il battito del cuore di mio figlio e a
sussurrargli qualche parola dolce.
Dovevo smettere di andare a
cercarmi i guai, visto il profondo attaccamento che essi sembravano
provare nei miei confronti. Se avessi continuato a mettere in
pericolo la mia vita in quel modo avrei finito per perdere anche
l'ultima traccia di Durza che era rimasta in Alagaësia.
E doveva
esserci un numero limitato di traumi che una persona può
subire
prima di uscire completamente di senno.
Il bambino si mosse. Non
lo faceva spesso e ogni volta il mio cuore sobbalzava con
lui.
Trovai Eragon la sera seguente.
L'incontro fu un incredibile
frutto del caso: avevo deciso di passare la notte ad Agrod'est
perché
ero stanca e avevo bisogno di un pasto sostanzioso e di un letto
morbido dopo una notte all'addiaccio -e il conseguente mal di
schiena- e Eragon era invece stato costretto ad entrare in
città
perché se avesse proseguito sarebbe parso sospetto, dato che
qualcuno lo aveva visto. Sapevo che si trovava non troppo lontano da
lì, lo avevo percepito dai sussurri degli alberi e dagli
elementari
pensieri degli animali, tuttavia fui sinceramente sorpresa quando me
lo ritrovai davanti, nella sala centrale della locanda.
Il
cavaliere a prima vista sembrava stare bene, ma capii da ciò
che mi
disse sul padre di Katrina, un certo Sloan, che in lui si agitavano
conflitti di natura morale molto seri, che lo avevano portato a
mettere a rischio la sua stessa vita pur di fare ciò che sul
momento
gli era sembrata la cosa più giusta. Gli risposi con una
certa
distanza, ma una parte di me condivideva il suo disgusto per
l'ingrato compito che ci era stato affidato: quello di uccidere e
perdere una parte di noi stessi in ogni vita stroncata.
La
sensazione si era acuita in me da quando anche Durza aveva
abbracciato il vuoto e, nonostante continuassi a ripetermi che ormai
avevo superato il dolore, esso aveva cambiato una parte di me che
tuttavia non potevo assecondare, non ancora.
Quando però, dopo un
giorno di corsa e uno oscurato dallo scontro con una pattuglia ci
fermammo per la notte, sentii le mie riserve vacillare. Forse era la
stanchezza o forse il mal di schiena, ulteriormente peggiorato dopo
un'altra notte all'addiaccio e le ore di corsa e di marcia veloce. Io
potevo fingere che, nonostante aspettassi un bambino, nulla fosse
cambiato, ma il mio corpo si era appesantito e avrebbe continuato a
farlo anche nei mesi seguenti, fino a rendere impensabile l'impresa
che avevo appena compiuto.
Le mie ossa scricchiolarono quando mi
mossi e la testa mi si fece pesante. Capii che il mio corpo aveva
bisogno di qualcosa di più nutriente delle misere radici che
io e
Eragon avevamo consumato negli ultimi giorni. L'indomani sarei andata
alla cucina dell'accampamento dei Varden e avrei chiesto un
sostanzioso pasto completo.
Quella notte però, nel silenzio
totale e con le difese abbassate a causa della stanchezza, mi lasciai
andare in confidenze che mai avrei pensato di poter fare a Eragon.
Non gli dissi tutto ovviamente, anzi come al solito fui costretta a
limitare i miei racconti a ciò che ufficialmente era
accaduto, ma
comunque fu la prima persona a cui parlai seriamente di Fäolin
e di
ciò che avevo provato per la sua perdita.
Nella mia incoscienza,
scrissi anche alcuni frammenti della dodicesima verità nella
sabbia.
La ricordavo ancora alla perfezione dato che era rimasta un mistero
per me, e gli ultimi accenni ai Ra'zac e all'Helgrind avevano
rivangato i freschi ricordi che avevo della mia visita a Dras-Leona e
agli Avvoltoi. Sembrava passato un millennio.
L'arrivo di uno
stormo di spiriti mi salvò dall'amarezza e dalla tristezza,
lasciandomi con una sensazione di beata malinconia quando mi coricai
per prendermi qualche ora di scomodo sonno sulla terra dura. Il
giglio che Eragon aveva fatto sbocciare per me e che gli spiriti
avevano modificato con la loro magia sembrava splendere di luce
propria, anche se doveva essere un effetto del fioco bagliore
lunare.
Prima di addormentarmi pensai che, in un'altra vita,
Eragon sarebbe potuto diventare per me ciò che era stato
Fäolin: un
amico sincero.
Come
dodicesima Verità Egli proibì il contatto anche
solo più lontano
con l'Illusionista, l'enigmatico, il protettore dell'equilibrio, il
multiforme che trova la vita nella morte e che non teme alcun male;
colui che cammina attraverso le porte. Il dio che solitario che, alla
deriva sul mare del tempo, vaga da sponda a sponda, custode delle
leggi delle stelle.
Se
quella notte i miei pensieri si erano distrattamente mossi alle
settimane che avevo passato a Dras-Leona, qualcos'altro successe due
giorni dopo, qualcosa che mi fece seriamente dubitare della posizione
scettica che avevo sempre preso sulla concezione del destino.
Era
pomeriggio e stavo tornando dal recinto dove avevo lasciato il mio
cavallo elfico, quando passai davanti alle tende dei civili che si
occupavano del mantenimento dell'esercito, quella che Nasuada
chiamava “la guerra delle retrovie”. Erano cuochi,
stallieri,
fabbri, calzolai, artigiani, prostitute, lavandaie e molti altri,
praticamente una piccola città.
Non era certo la prima volta che
passavo in mezzo a loro e non era certo la prima volta che mi
guardavano con sospetto e timore, ma quel giorno i miei occhi si
posarono pigramente su una donna dai capelli neri, intenta ad
affilare un pugnale, seduta su un ceppo davanti alla sua tenda.
I
suoi occhi scuri si alzarono su di me non appena le passai accanto.
Grandi, inquieti, indagatori. Sembravano occhi di un lupo
braccato.
Hai
uno strano accento.
Il
cuore mi balzò in gola, ma riuscii a dominarmi abbastanza da
non
lanciare un grido. Mi affrettai a scostare lo sguardo e ad
allontanarmi. Doveva essere una visione, o un'incredibile
somiglianza. Non poteva essere vero, non poteva essere lei.
Lei
era morta o forse fuggita. E in entrambi i casi non l'avrei mai
più
rivista.
Eppure..
Stavo diventando pazza?
«Tu!» esclamò
qualcuno alle mie spalle.
Mi voltai, sentendo cadere su di me il
peso incredibile di un piano già scritto, un libro del quale
non
conoscevo le pagine.
Augyra, la donna dagli occhi di lupo, quella
che avevo lasciato a morire ai piedi dell'Helgrind, mi guardava
palesemente sorpresa e sconvolta, forse anche spaventata. Quasi
quanto lo ero io.
Mi afferrò un braccio. «Tu!»
esclamò di
nuovo.
Vidi chiaramente le cicatrici che le catene le avevano
lasciato intorno ai polsi, scoperte dal vestito troppo corto.
«Ci
conosciamo?»
Mi scrutò in volto e fu chiaro che mi aveva
riconosciuta e che non sarei mai riuscita a convincerla del
contrario. Probabilmente qualche ricordo era riemerso dopo
ciò che
Durza le aveva fatto, e quel qualcosa non doveva essere piacevole.
Inoltre si era rivolta a me prima di essere trascinata via in
processione, mi aveva implorata di ucciderla e risparmiarle una
dipartita ben peggiore. Sì, non era un fatto semplice da
dimenticare, probabilmente comparivo ancora nei suoi peggiori incubi,
quelli che ti fanno svegliare urlando e ti fanno gioire di vivere
nella crudele realtà.
«Bitr. È così che ti facevi chiamare,
vero?»
Bitr.
Cosa
voleva fare? Denunciarmi a Nasuada e a tutti i Varden? Poteva farlo,
ma nessuno le avrebbe creduto. Io ero l'eroina sopravvissuta sei mesi
nelle grinfie di uno spettro, non un'ex monaca di Dras-Leona.
«Temo
che tu mi abbia confusa con qualcun altro. Il mio nome è
Arya,
ambasciatrice degli elfi».
Tanto valeva darsi un po' di toni,
magari l'avrei spaventata.
Vidi qualcuno fermarsi alle sue spalle
e mi resi conto che il nostro scambio non era passato inosservato.
Gli uomini intorno a noi continuavano le loro attività ma ci
gettavano occhiate fugaci.
Riconobbi anche la giovane donna che
sussultò sentendo le mie parole: era la giovane che avevo
visto
allontanarsi nella notte in direzione dell'Helgrind, la ragazza che
Durza aveva incontrato e che aveva detto di essere un fabbro. Ad una
prima occhiata ai suoi bicipiti, nessuno l'avrebbe
contraddetta.
Mantenni la mia attenzione sulla donna dagli occhi
di lupo, che incrociò le braccia al petto e
indurì il viso,
apparentemente per nulla spaventata.
«Non mi inganni. Ti
riconoscerei tra mille. Non so cosa mi abbia fatto il tuo amico dai
capelli rossi, ma è passato un mese prima che riuscissi a
ricordarmi
di voi, anche se ho precisa memoria di averti chiesto aiuto il giorno
in cui mi hanno trascinata al loro altare sotto l'Helgrind. Mi
avrebbero uccisa se Cantalama non fosse venuta a salvarmi».
Annuì
in direzione della giovane donna alle sue spalle.
Quelle due
sembravano fantasmi, tornati dal passato per tormentarmi, tanto che
per un attimo mi chiesi se non stessi sognando ad occhi aperti.
«Così
sei un'elfa? Cosa ci facevi nella cattedrale? Sicuramente non eri
parte di una fazione interventista del Surda, vero?»
proseguì
Augyra abbassando la voce.
Scossi la testa con espressione
indulgente. «Ribadisco che stai sbagliando persona. Se non ti
dispiace sono attesa altrove».
Mi sbarrò nuovamente la strada.
«Dov'è finito il tuo compagno?»
È
morto.
«Non ho un compagno. Lasciami passare ora o dovrò
fare ricorso alla
magia. Stai farneticando».
La ragazza la strattonò per un
braccio. «Ti prego Au.. Occhi di lupo! Prima il cavaliere,
adesso
lei, non puoi calpestare l'autorità di queste
persone» le
bisbigliò, ma ovviamente sentii nitidamente le sue parole.
«Ti
ricordi dell'uomo dai capelli rossi di cui mi hai parlato, Cantalama?
Quello che ti aveva spaventata?» chiese l'altra fissandomi
negli
occhi. «Era insieme a costei a Dras-Leona e stavano entrambi
spiando
i Sacerdoti. Ora vorrei capire perché».
Tacqui per qualche lungo
istante e sciolsi la presa convulsa della sua mano, che era tornata a
serrarsi intorno al mio braccio.
Augyra non mollò. «Ti prego,
voglio solo sapere se hai scoperto qualcosa. Magari potrei darti
qualche informazione in cambio» insistette.
Esitai, un po' troppo
a lungo.
«Se mi giuri che proseguiremo ognuna sulla propria
strada senza fare inciampare l'altra..» dissi, quasi di
malavoglia.
I suoi grandi occhi si illuminarono di consapevolezza.
«Te lo giuro sul mio onore» mormorò
solennemente. «Ora seguimi,
non è prudente parlare qui fuori».
Andai nella sua tenda. So
perfettamente cosa mi spinse a farlo: curiosità, desiderio
di
riallacciare un contatto con quella parte della mia vita che avevo
ormai perduto e anche prudenza. Non sapevo chi fossero quelle due, ma
Augyra aveva dato prova di sapere come comportarsi con me e Durza,
quindi non era una semplice popolana. Ed ero abbastanza sicura che
nemmeno la ragazza fosse un semplice fabbro. Era il caso di
accertarmi che quelle due non fossero pericolose per i Varden.
Non
temevo un attacco da parte loro ed ero sicura che in ogni caso sarei
riuscita a difendermi, così come sarei riuscita a metterle
entrambe
a tacere nel caso avessero mostrato il desiderio di parlare a
qualcuno di troppo di ciò che era accaduto a Dras-Leona.
Insomma non
avevo nulla da perdere.
Augyra sedette su una stuoia a mi fece
cenno di accomodarmi su un'altra, mentre la ragazza portava dentro il
ceppo e si sedeva su di esso.
«Allora?» fece la donna dagli
occhi di lupo, rompendo il lungo silenzio. «Cosa facevi a
Dras-Leona?»
«Lavoravo per conto dei Varden» risposi
immediatamente. Non era esattamente una bugia, stavo veramente agendo
per la causa dei ribelli anche se ero in compagnia di uno Spettro.
«E
cosa stavi cercando?»
«Una via per neutralizzare il potere di
Galbatorix, ma nessuno dovrà sapere della mia missione o
sarò
costretta a uccidervi entrambe».
«L'avete trovata?» fu
l'indifferente risposta.
«Purtroppo no e siamo stati costretti a
lasciare la città con tutti i sacerdoti alle
calcagna».
«Quindi
avete rovinato la mia missione per poi fallire anche voi?»
fece con
una risatina amara.
Ignorai l'accusa. «Tu cosa stavi
cercando?»
«Come te ho un nemico da sconfiggere, anche se meno
pericoloso. Cercavo qualche documentazione che mi fornisse ulteriori
informazioni sui Ra'zac» rispose, con palese reticenza.
«Avrai
certamente saputo che i Ra'zac sono stati uccisi da Eragon
Ammazzaspettri».
Le rughe sul suo volto si infittirono.
«Purtroppo le persone per cui lavoro sono abbastanza convinte
che
Galbatorix e forse anche gli stessi Sacerdoti conservino ancora delle
uova di quelle creature».
«Per chi lavori?» domandai a quel
punto.
«Non posso dirtelo» fece severamente.
«Siamo una specie
di gruppo ribelle».
«Come i Varden» intervenne Cantalama.
«Ma
combattiamo con la penna invece che con la spada» riprese
Occhi di
Lupo.
Feci un sorriso mesto, ricordando il modo in cui aveva
premuto il coltello da cucina sulla gola di Durza.
«Qual'è la
vostra posizione nei confronti dei Varden?»
«Per ora ci offrono
protezione e questo ci basta. Ma non sarebbe la prima volta che uno
di noi fornisce l'informazione giusta al momento giusto, permettendo
ai Varden di fare progressi contro Galbatorix. Non siamo vostri
nemici, anzi, in questo vogliamo aiutarvi».
«Quindi siete una
specie di setta segreta? Perché mi dici queste cose se
dovrebbe
essere un segreto?»
Chi rivela segreti che non dovresti sapere di
solito sa che non avrai modo di rivelarli a nessuno.
Augyra si
morse le labbra. «Non lo so. Voglio essere sincera con te:
nonostante ciò che mi hai fatto, mi ispiri fiducia. Il tuo
amico no,
non ispirerebbe fiducia neanche con una corona di fiori in testa, ma
tu hai l'aria di qualcuno che sa quello che fa e lo fa
responsabilmente. Magari potresti anche aiutarmi».
«Non so nulla
dei Ra'zac e di un'eventuale collezione di uova, non vedo come
potrei».
«I Varden arriveranno a Dras-Leona prima o poi, per
questo io e Cantalama siamo rimaste qui» fece, massaggiandosi
i
polsi piagati. «I Sacerdoti me la pagheranno per
ciò che hanno
fatto. Una donna qui tra i Varden mi ha promesso il suo aiuto, ma non
credo che sarebbe capace di fare molto contro di
loro».
«Chi?»
«Angela l'indovina. Ha letto il futuro a me e
a Cantalama su delle ossa di drago».
La ragazza sorrise con aria
sognante, come se fosse un bel ricordo.
Io mi feci seria. Se la
Venerabile aveva offerto il suo aiuto alle due donne sicuramente non
le attendeva un futuro da lavandaie.
«Sarà un aiuto più
prezioso di quanto pensi» finii per dire.
Augyra mi fissò
nuovamente, soffermandosi qualche istante in più sulle mie
orecchie.
«L'avevo detto che avevi uno accento particolare. Non avrei
mai
sospettato che fossi un'elfa, ma avevi qualcosa di strano. Anche il
tuo amico aveva qualcosa di strano. La notte che sono venuta a
trovarvi nella cattedrale stavo morendo di paura».
«Avrei potuto
ucciderti con un gesto» dissi, con studiata indifferenza.
«E
lui?»
«Era un mago umano del Surda. È morto nella
battaglia
delle Pianure Ardenti».
La bugia salì alle mie labbra con
estrema facilità. Sapevo che i capelli rossi erano una
caratteristica comune tra gli uomini del Surda e sapevo di non
poterle spiegare la vera natura di Durza senza scatenare il
panico.
Sia lei che Cantalama trattennero un sospiro di sollievo,
poi mi fecero le condoglianze di circostanza.
Gli occhi di Augyra
mi attiravano come un magnete, ma mi sforzai di concentrarmi sulla
ragazza, per una volta. Aveva un aspetto anonimo: altezza media,
corporatura media, bellezza media. Persino i suoi capelli erano di
lunghezza media e castani, un colore molto diffuso tra gli uomini.
Avrei dovuto guardarla tre volte prima di notarla in mezzo ad una
folla, dato che la sua unica particolarità erano i muscoli
delle
braccia.
«Tu chi saresti invece?» la apostrofai.
Lei quasi
sobbalzò e le si imporporarono le guance, anche se rimase
pacata nel
tono e nell'atteggiamento, in uno scarso tentativo di
autocontrollo.
«Il mio nome non ti direbbe nulla, ambasciatrice
degli elfi, e non posso svelarti la mia identità o metterei
in
pericolo la mia stessa vita».
Era lo stesso che avevo fatto io
tra i Varden nel nascondere la mia identità di figlia della
regina,
ma non riuscivo ad immaginarmi chi potesse essere la giovane.
«Io
vi ho detto il mio nome e mi sono rivelata, sarebbe corretto che
faceste lo stesso» osservai.
«Io mi chiamo davvero Augyra» fece
la donna. «E lei si chiama Athala. Ma di noi non saprai
nient'altro».
«Siete entrambe parte di quella setta?»
«Ho
parlato di un gruppo, non di una setta, ma sì, ci siamo
dentro
entrambe. Cantalama è entrata dopo ciò che
è accaduto a
Dras-Leona, mentre io vi sono implicata da quando avevo non
più di
dieci primavere».
«Cosa è accaduto a Dras-Leona?»
Sospirò
pesantemente. «Non te lo dirò».
«Allora temo di non poter fare
nulla per voi» conclusi alzandomi con studiata lentezza.
Le due
mi guardarono incerte. Non si fidavano di me, ovviamente, come io non
mi fidavo di loro, ma c'era un ambiguo legame tra di noi. Eravamo
schierate contro gli stessi nemici ed eravamo dalla stessa parte, ma
su due sentieri separati. Ed era evidente che nessuna di noi sarebbe
mai riuscita a rischiare di dire altro.
Mi inginocchiai davanti ad
Augyra e le afferrai entrambe le mani. «Mi dispiace per
ciò che hai
dovuto subire a causa mia e del mio compagno. Abbiamo fatto tutto
ciò
che era necessario per portare a termine la nostra missione, credo
che tu possa capire».
«Capisco» fu la secca risposta. «La
vostra missione sembra più importante di quanto fosse la
mia,
tuttavia a causa dell'incantesimo del rosso ho fallito. E forse avrei
potuto salvare parecchie vite se fossi riuscita a distruggere le uova
di quelle creature. Forse a te non importa, perché sei
un'elfa, ma
noi umani temiamo i Ra'zac come la morte e ti reputo responsabile di
ogni essere umano che finirà sotto gli artigli della loro
prole, in
futuro».
«Questo è un debito che non potrò mai
saldare, non
finché il mio primario obiettivo sarà realizzato.
Alla morte di
Galbatorix, se pensate di avere bisogno del mio aiuto, sarò
lieta di
fornirvelo».
Augyra fece un cenno di assenso. «Sono affari che
riguardano noi e le persone per cui lavoriamo. Non potremmo mai
coinvolgerti senza prima chiedere il loro permesso, ma sono certa che
ce lo darebbero, una volta dimostrata la tua
utilità».
«In ogni
caso la sconfitta del re potrebbe avvenire anche tra anni, o non
avvenire proprio» sentenziai, alzandomi in piedi.
«Sono certa
che ci rivedremo, prima o poi. E allora ti ricorderò la tua
promessa».
«Proposta» la corressi infastidita. «Mi
prendo la
libertà di poter cambiare idea. Nemmeno io so cosa mi
attende, il
mio futuro è una fitta nebbia impenetrabile».
Augyra annuì e
Cantalama mi fece un timido cenno di saluto. Capii solo in quel
momento quanto la mia presenza l'avesse imbarazzata, per l'intera
durata del colloquio.
Per un attimo pensai di presentarmi alla
tenda di Angela e chiederle conferma del racconto delle due
misteriose donne, oltre che a indagare sulla loro identità.
Eppure
sapevo benissimo che l'indovina non avrebbe mai accettato di
condividere con me segreti che appartenevano ad altri, così
rinunciai e andai a svolgere qualche posizione di Rimgar nella mia
tenda.
Il giorno seguente, la cavalleria di re Orrin si
scontrò con il primo drappello di quelli che da quel giorno
in poi
sarebbero stati chiamati “I morti che ridono”, ma
io mi tenni
lontano dalla battaglia, unendomi agli stregoni elfi che mia madre
aveva mandato dalla Du Weldenvarden affinché proteggessero
Eragon.
Di solito stavo alla larga da loro, sia perché avevano la
scomoda abitudine di chiamarmi con l'epiteto Dröttningu, che
mi
rimandava inesorabilmente al mio lignaggio, sia perché
temevo che
qualcuno di loro potesse in qualche modo venire a sapere del mio
bambino. Ero quasi convinta di averlo nascosto con tutti gli
incantesimi necessari al caso, ma mi trovavo in compagnia di elfi
molto più vecchi di me e di conseguenza molto più
esperti nelle
sottigliezze della magia. Non potevo mai essere certa che il mio
segreto fosse al sicuro.
Lo scontro con Murtagh impiegò parecchie
energie da parte mia e dei miei compagni, ma Eragon e Saphira non
riuscirono a catturare il giovane e Castigo, purtroppo, ma solo a
metterli in fuga, consegnando loro la preziosa informazione che anche
il proprio vero nome può essere cambiato.
Mentre seguivo il
matrimonio tra Roran e Katrina con un sorriso lieto e nostalgico
sulle labbra, sperai che drago e cavaliere fossero in grado di
volgere a loro vantaggio quella piccola, preziosa scoperta.
Nasuada
aveva fornito una dote alla giovane sposa e il rito fu piuttosto
semplice, anche se molto sentito. Dopo le terribili perdite subite
nel pomeriggio, la cerimonia ebbe il potere di sollevare i
cuori.
Chissà quanti dei presenti sapevano che Katrina era
incinta. Chiunque avesse gettato un'occhiata appena più
attenta al
suo addome e avesse ampliato i suoni alle proprie orecchie avrebbe
potuto facilmente intuire che il bambino doveva avere ormai superato
i tre mesi. Secondo la tradizione degli uomini era considerato
disdicevole per una donna giacere con un uomo al quale non fosse
stata precedentemente unita in matrimonio e ai miei occhi fu evidente
che l'affrettato sposalizio dei due aveva come scopo quello di
preservare l'onore della ragazza, oltre che a sancire l'amore sincero
che provava per Roran.
Più tardi fui trattenuta
nella tenda di
Nasuada, la quale mi chiese se avessi informazioni sulla posizione
dell'esercito di mia madre.
«Non ho notizie diverse da quelle che
ti ho dato quattro ore fa, Nasuada» dissi con un pizzico di
divertimento.
La figlia di Ajihad era rimasta molto colpita
dall'incredibile rapidità con cui gli elfi si erano mossi a
nord di
Alagaësia. In poco più di una settimana Ceunon e
tutti i villaggi
dell'estremo nord erano caduti sotto il controllo del mio popolo. Un
drappello era stato mandato ad impossessarsi di Narda, mentre il
resto dell'esercito puntava a Yazuac e Daret, alle quali sarebbe
seguita Gil'ead.
Il capo dei Varden sembrava temere che la guerra
finisse prima ancora che il suo esercito riuscisse ad assediare le
città del centro.
«Allora rinnovo il desiderio di essere
tempestivamente informata di come procede l'esercito di
Islanzadi»
fece lei con un'espressione di finta colpa in volto.
Da quando gli
elfi avevano abbandonato il cuore della Du Weldenvarden, lasciandosi
l'incantesimo che la isolava alle spalle, avevo contatti quasi
giornalieri con mia madre o con Däthedr, che mi tenevano
aggiornata
praticamente di ogni loro mossa e io restituivo loro il favore,
facendo un rapporto sui movimenti dei Varden.
«In realtà ti ho
chiamata per un'altra ragione. Vorrei conoscere la tua opinione in
merito ad un piano che vorrei sottoporre ad Eragon domani».
«Prego»
dissi, desiderando con tutto il cuore di potermi finalmente stendere
dopo quella lunga giornata.
Nasuada mi parlò della sua idea di
mandare Eragon alla Rocca di Bregan e poi nel Farthen Dur, ad
assistere e possibilmente a influenzare l'elezione del nuovo sovrano
dei nani, che si trascinava ormai da un paio di settimane dopo la
brusca morte di Rothgar nella battaglia delle Pianure Ardenti. Il
capo dei Varden sperava che Orik sarebbe riuscito ad ottenere il
titolo, perché sicuramente avrebbe mantenuto il supporto
dell'esercito dei nani ai Varden, ma temeva anche che un capoclan
avverso alla nostra causa potesse prendere il potere.
«E vorresti
il mio parere?» domandai dubbiosa. Nasuada non era il tipo
che
cambia idea facilmente.
La giovane annuì. «Se avremo una fortuna
sfacciata Eragon potrà andare e tornare in poco
più di una
settimana, ma avrei bisogno di qualcuno che possa prendere il suo
posto in groppa a Saphira nel caso Castigo e Murtagh comparissero di
nuovo all'orizzonte».
Chiaro. «Da sola non avrò speranze contro
quei due».
«Gli elfi non potranno seguire Eragon nel Farthen Dur
o qualcuno sospetterebbe del suo allontanamento, quindi rimarrebbero
qui ad aiutarti».
Alzai un sopracciglio. «Hai intenzione di
nascondere ai Varden l'assenza del Cavaliere?»
«Non si potrebbe
fare con la magia?»
«Sì, ma è inutile che ti dica che
è un
piano molto azzardato. Io sono abile con la magia ma non sono Eragon,
non ho seguito il suo addestramento e non sarei altrettanto abile a
volare con Saphira». E
non voglio uccidere mio figlio in uno scontro contro il figlio di
Morzan e il suo drago.
«Dopo
la sconfitta di oggi suppongo che Murtagh e Castigo non torneranno
tanto presto. Se sei disposta a fare ciò che ti ho chiesto e
se
credi di non mettere in estremo pericolo la vita tua e degli altri
stregoni, domani lo proporrò ad Eragon».
«Sono disposta, ma
sono un po' preoccupata».
Assunse un'espressione determinata.
«Temo che sia necessario».
«E allora hai il mio
appoggio».
«Grazie infinite, Arya. Credo di aver perso il conto
degli infiniti servigi che hai reso ai Varden».
«Spero solo che
il tuo piano funzioni».
«Prima di lasciarti andare c'è un'altra
cosa di cui vorrei parlarti..»
E mi raccontò di un vecchio che
Eragon aveva incontrato poche ore prima. Un uomo apparentemente
impazzito che sembrava aver assunto la strana capacità di
vedere
l'energia, sia quella vitale delle persone che quella contenuta
nell'anello e nella cintura di Eragon.
Aveva poi aggiunto che
Murtagh bruciava non di luce propria ma di una riflessa dall'esterno.
Altri lo illuminavano.
«Altri lo illuminavano» ripetei
confusa.
«Potrebbero essere i deliri di un vecchio ferito, ma
è
strano che quell'uomo abbia anche indovinato il legame di sangue tra
Eragon e Murtagh. Credi che possa avere qualche capacità
particolare?»
«Non ho mai sentito parlare di un fenomeno del
genere» ammisi. «Ma potrei andare a trovare
quell'uomo e chiedergli
spiegazioni».
«Potrebbe alludere alla fonte del potere infinito
di Galbatorix?» chiese Nasuada, non senza trepidazione.
«È
possibile» concessi.
Certo avrebbe confermato quel poco che Durza
era riuscito a dirmi sull'argomento. Mi aveva sempre fatto capire che
la forza del sovrano non dipendesse da lui e, viste le
capacità
magiche di Murtagh, era plausibile che avesse condiviso il segreto
con il suo nuovo servo.
Salutai Nasuada e mi ripromisi di
approfondire la questione, il giorno dopo.
Tuttavia quando mi
presentai alla tenda che mi era stata indicata dal capo dei Varden e
chiesi del bizzarro uomo cieco senza la gamba sinistra, mi dissero
che il poveretto era morto durante la notte.
«Una storia
incredibile» mi disse la guaritrice. «Non
riuscivamo a capire come
fosse diventato improvvisamente cieco e come fosse riuscito a
sopravvivere alle terribili ferite. Il nostro stupore è
cresciuto
ulteriormente quando ci siamo resi conto che l'uomo stava guarendo a
velocità incredibile, senza l'aiuto di incantesimi. Poi
stamane
l'abbiamo trovato disteso sul suo giaciglio, con gli occhi spalancati
sotto la benda e un sorriso beato in volto».
Ebbi un brivido
gelido.
Misteriose guarigioni? Anche io avevo avuto un'esperienza
molto simile, a Gil'ead, quando Durza aveva improvvisamente trovato
il mio corpo sanato da graffi sanguinanti e lividi, però non
ero
morta misteriosamente il giorno seguente.
Non avevamo mai scoperto
chi fosse il mio misterioso guaritore, ma poteva anche essere stata
Alba, magari seguendo una sua contorta idea per eliminarmi.
Però
c'era anche la questione degli incubi..
Troppi misteri oscuravano
ancora il mio recente passato, incluse Cantalama e Occhi di lupo, ma
non potevo sprecare il mio tempo a rimuginare in ciò che non
potevo
risolvere, avrei solo aumentato esponenzialmente la mia
irritazione.
Eragon partì accompagnato da Nar Garzhvog in
direzione della Rocca di Bergan, come previsto da Nasuada.
I
giorni della sua assenza furono ricchi di nervosismo e tensione. Ogni
volta che si vedevano -o sembrava di vedere- Murtagh e Castigo
all'orizzonte, il panico dilagava nell'accampamento e sopratutto tra
me, gli elfi e Nasuada.
Non fummo attaccati ed Eragon riuscì
nella sua missione, mettendo a rischio la sua vita, ma risolvendo la
faida con l'Az Sweldn Rak Anhuin e portando Orik sul trono. Tutto
sommato la campagna dei Varden procedeva con mosse avventate e
insperati successi, non tanto per l'imponenza del suo esercito o
l'abilità dei suoi guerrieri e strateghi.
Tuttavia non era ancora
finita. Eragon e Saphira volarono in direzione di Ellesméra
per
parlare con Oromis e Glaedr di un qualcosa che a quanto pareva
avrebbe permesso loro di capire l'origine del potere di Galbatorix e
forse anche come privarlo di esso.
Sentivo un cerchio chiudersi
ineluttabilmente intorno a me, come se i pochi avvenimenti dei sei
mesi passati con Durza stessero tracciando qualcosa di molto
più
grande, come piccoli semi che crescono vertiginosamente in alberi
imponenti. Sarei morta piuttosto che dirlo ad alta voce, ma avevo di
nuovo paura. Tanta.
Tre giorni dopo la partenza di Saphira e
Eragon dal Farthen Dur, Nasuada diede ordine di muovere l'esercito in
direzione di Feister, dove i due avrebbero dovuto raggiungerci il
prima possibile. Speravamo prima che iniziasse l'assedio, ma in caso
contrario avremmo attaccato senza di loro.
Con addosso la
stanchezza dell'insonne, sommata a quella della gravidanza, mi
accinsi a preparare i miei bagagli per la trasferta.
Riposi nello
zaino i miei vestiti di ricambio e arrotolai le coperte, poi mi misi
all'opera per smontare la tenda e raccogliere le varie componenti in
una sacca.
«Puoi caricarli sul mio carro, ambasciatrice» fece
una voce femminile dal pesante accento surdano alle mie spalle.
Mi
voltai, reggendo lo zaino e le coperte in una mano e la sacca in
un'altra, ma quando incontrai il viso della mia interlocutrice li
lasciai cadere immediatamente a terra, afferrando repentinamente Ren
al loro posto.
«Qualcosa non va, Principessa Arya?» mi chiese
Alba con un sorriso serpentino, chinandosi a raccogliere le mie cose
da terra e caricandole su un carro.
Un altro fantasma del passato
tornava a tormentarmi. Forse era troppo tardi, forse ero già
precipitata nel baratro della follia.
Mi tremarono le mani. «Cosa
ci fai qui?» sibilai.
Alba si toccò i capelli biondi intrecciati
sul capo e spense il sorriso in un'espressione di cupa minaccia.
«Ti
stavo cercando».
______________________________________________________________________________________________
Saaaaalve a tutti! :D
Anche in questo capitolo ho fatto le corse! Abbiamo superato gli eventi di Eldest e ormai siamo verso la fine di Brisingr!
Faccio un po' fatica a seguire un ritmo così incalzante, lo ammetto, non sono molto abituata xD
Come era ovvio, Arya si ritrova faccia a faccia con Cantalama e Occhi di lupo. I loro nomi -Augyra e Athala- li ho inventati, dato che nel Ciclo non erano neanche accennati (per caso si nota che mi piacciono i nomi femminili che iniziano per 'A'? :')
Comunque ho elaborato una mia teoria sull'identità delle due donne e ve la proporrò prossimamente, nel frattempo vi invito, se non l'avete già fatto, a leggere la lettera di Jeod inserita nell'edizione deluxe di Inheritance. La trovate tradotta qui →
La
vita di Alagaësia dopo Inheritance
Alba! La mia Alba! Non potevo ovviamente farla sparire nel nulla e per me è bello ritrovarla, spero non dispiaccia dato il ruolo non esattamente marginale che svolgerà nel futuro di Arya ^_^
Ultimo ma non da ultimo: ho appena iniziato a rileggere Inheritance. Ora, io sono notoriamente una mangialibri, ma non una scrittrice, quindi non sono sicura di riuscire a preparare il prossimo capitolo e al contempo mettermi in pari con la lettura entro domenica prossima. Ve lo dico per rispetto: rischio di ritardare la pubblicazione del capitolo di qualche giorno, quindi se domenica prossima non trovate il capitolo rassegnatevi al fatto che prima di martedì non lo vedrete ._______.
Vi avevo promesso che i ritardi erano finiti, ma preferisco farvi attendere piuttosto che tirare via tutto, scusate! >.<
Grazie per la comprensione, baci,
Lalli
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Capitolo 35 *** Arya Ammazzaspettri ***
Ciao
35.
Arya Ammazzaspettri
Ti
stavo cercando.
Sollevai
la spada all'altezza delle sue clavicole, ma Alba la
abbassò,
spingendo le dita sulla parte piatta della lama, con una
rapidità
che l'avrebbe certamente smascherata se solo qualcuno si fosse
soffermato a guardarci. Peccato che tutti fossero impegnati a
prepararsi per la partenza.
«Sono disarmata», fece lei con
pacatezza, «non sarebbe molto corretto da parte
tua».
Strinsi la
presa su Ren, ma la tenni puntata a terra.
«Cosa vuoi?»
domandai, esausta e guardinga insieme.
Fece un cenno in direzione
del carro alle sue spalle. «Ordina al tuo cavallo di seguire
il
carro e siedi con me sulla panca. Devo davvero condurlo io».
«Non
mi fido di te».
«Non ti ucciderò e non ti farò del
male, non
oggi» disse, nell'antica lingua.
«Se qualcuno mi vedesse su un
carro con una donna potrebbe farsi delle domande».
«Allora
rinfodera la spada, lascia arco e frecce insieme alle tue cose e
indossa un mantello con cappuccio, così se morirai di caldo
non
dovrò sporcarmi le mani» fu la replica grondante
di bile.
Poi
Alba si voltò e scomparve nella parte anteriore del carro.
Le
gambe mi cedettero e caddi tremando nella polvere. Volevo scappare,
andare il più lontano possibile e fuggire dall'elfa che mia
madre
aveva condannato alla rovina e che avevo creduto ormai fuori dalla
mia vita.
Cosa voleva veramente?
Era venuta per avere
finalmente la sua vendetta? Sapeva della sua morte?
Probabilmente
sì. E probabilmente le dovevo almeno un racconto della
dipartita di
Durza, dato che nessuno meglio di me sarebbe stato in grado di
rievocarla.
Conficcai Ren nel terreno asciutto e feci forza su di
essa per alzarmi da terra, poi la rinfoderai e mi chinai a scrollare
la terra dalle ginocchia. Il bambino scalciò e io raggiunsi
la sua
mente con immagini rassicuranti di ruscelli e giardini -piccole
anticipazioni sul mondo- mentre il resto della mia mente sostava su
visioni di sangue e cadaveri e morti che che tornano alla vita.
Alba
non parve particolarmente sorpresa quando sedetti sulla nuda panca di
legno accanto a lei, senza mantello e con la spada tra le mani, ma
strinse la presa sulle redini, in un atteggiamento che tradiva
tensione.
«Mammina come sta?» domandò con sarcasmo.
«Sai di
lui?»
«Sì».
«Per questo sei qui?»
«Anche» rispose
dopo parecchi istanti.
«Come lo hai saputo?»
«Voci. Per
tutti questi mesi sono rimasta confinata in un luogo piuttosto
isolato, tra le pianure ardenti e l'Helgrind, ma eserciti in
movimento non passano inosservati nemmeno se stai giocando a fare
l'eremita in un avamposto elfico abbandonato e alla fine ho lasciato
quella vita. Volevo sapere cosa stava succedendo in Alagaësia,
dato
che pareva ovvio che Galbatorix fosse ancora sul trono. Così
ho
offerto da bere a dei soldati ad Agrod'est, un mesetto fa, e da loro
ho saputo che un certo Eragon Ammazzaspettri, cavaliere di drago, era
apertamente schierato con i Varden e stava dando filo da torcere
all'impero». Fece una pausa e le labbra le tremarono.
«Ammazzaspettri. Non sapevo dell'esistenza di altri spettri
oltre a
Durza, in Alagaësia».
«No, infatti» dissi, con la voce roca.
Tossicchiai, a disagio per aver lasciato che il pianto mi toccasse la
gola.
«Ho intuito che si trattasse di lui» concluse.
«Ma le
sorprese non erano finite perché poco più di una
settimana dopo,
quando ero ormai decisa ad allontanarmi da Edur Ithindra, ho visto un
ragazzo avvicinarsi e aiutare Tenga nelle sue faccende».
Non
sapevo che ci fosse un avamposto elfico in rovina in quella zona e
decisamente non sapevo nulla del suo ormai unico abitante.
«Tenga?»
«Questa è un'altra storia. Comunque ho sentito che
il
giovane doveva per forza essere un cavaliere. Gli alberi frusciavano,
la terra cantava..»
«Ho capito». Doveva essere per forza
Eragon, ma il ragazzo non mi aveva mai parlato di un eremita quando
aveva fatto il resoconto del suo breve viaggio dall'Helgrind ad
Agrod'est.
«Volevo seguirlo, ma ho capito subito che si sarebbe
accorto di me e non volevo finire nei guai, non so come mi
accoglierebbero gli elfi se venissero a sapere che sono ancora
viva».
«Ho detto a mia madre che sei morta» dissi
automaticamente.
Alba sollevò le sottili sopracciglia bionde. «A
cosa devo la gentilezza?»
«Istinto di conservazione».
Rise.
La carovana partì e lei sussurrò alcuni comandi
nell'antica lingua
ai cavalli che trainavano il carro, che si allinearono docilmente in
fila dietro agli altri. La presa delle sue dita sulle briglie rimase
convulsa.
«Sono venuta direttamente dai Varden e a quel punto ho
visto te». Mi gettò un'occhiata di sbieco.
«Parlavi e ti muovevi
tra le alte sfere, poi un gruppo di stregoni elfici ti ronzava sempre
intorno, quindi ho preferito non avvicinarti. Mi sono intromessa tra
i servitori dei Varden e ho assunto qualche incarico in cucina, poi
mi hanno assegnato il carro per questa zona, sotto mia
richiesta».
Scoppiò a ridere. «Insomma non vedevo l'ora di
ritrovarti».
«Cosa
vuoi?»
«Non è ovvio?»
«Se sei tra i Varden da almeno un
paio di settimane allora saprai già alla perfezione gli
eventi della
battaglia del Farthen Dur».
«Se lo hai amato almeno un millesimo
di quanto gli hai fatto credere, allora ricomincia il racconto. E fa'
in modo che sia una storia capace di spezzare i cuori»
comandò
imperiosamente. E per un attimo mi parve di rivedere nei suoi occhi
azzurri la stessa scintilla di follia che li aveva accesi il giorno
in cui mi aveva affrontata a Gil'ead.
Mi scostai leggermente da
lei e mi resi conto solo in quell'istante di avere la braccia strette
addosso, quasi a voler proteggere il mio bambino dal crudo e spoglio
racconto della morte di suo padre.
Spostai le mani sulle ginocchia
e, ispirata una generosa boccata d'aria calda, feci un rapido
resoconto dei piani miei e di Durza per sconfiggere il re e
dell'intrusione inaspettata di Eragon, per passare infine alla morte
inutile e sfortunata del mio uomo. Ovviamente non accennai neanche
lontanamente al figlio dello Spettro.
Alba aveva gli occhi
grondanti di lacrime, ma la sua voce non vacillò quando
parlò.
«Tutto qui? Dopo due secoli di tormenti e sofferenze gli hai
dato
l'illusione di avere trovato l'amore e la felicità e poi hai
permesso che lo uccidessero sotto i tuoi occhi?»
«Non ho potuto
fare nulla, è successo tutto troppo in fretta. Io stessa ho
impiegato più di un mese per realizzare ciò che
era accaduto»
ammisi funerea.
«E adesso sei la guardia del corpo del suo
assassino?»
«Inutile che ti spieghi che non è stata colpa di
Eragon».
«E di chi sarebbe allora?» mi provocò,
con l'ira di
chi non può accettare ciò che ha sentito.
«Tua? Mia? Di
Durza?»
«Nessuno» gracchiai. Poi mi fermai
perché mi sentivo
sul punto di scoppiare nuovamente in lacrime ed ero certa che il mio
cuore non avrebbe mai sopportato un'altra rottura.
Alba fece
scivolare le dita sottili tra i capelli e rimase immobile, fissandosi
i piedi, con la mascella serrata al punto che sentii i suoi denti
scricchiolare.
Aveva sempre le sembianze di una giovane umana -non
l'avevo mai vista con il suo vero aspetto- ma in quel momento
sembrava così schiacciata dal dolore da dimostrare almeno
duecento
anni, nonostante il volto privo di rughe.
«Così.. così tutto
nella tua vita è tornato come prima, come se lui non fosse
mai
esistito» sputò alla fine.
Non le risposi. Sapevo che la rabbia
le stava ribollendo nelle vene e le stava avvelenando i pensieri,
esattamente com'era successo a me subito dopo la battaglia del
Farthen Dur. Sapevo che le sue parole erano dettate da essa e non
corrispondevano alla verità, ma quella dura accusa mi
colpì come
una stoccata e una parte di me si riconobbe colpevole delle sue
insinuazioni.
Effettivamente la mia vita era ricominciata
esattamente dallo stesso punto in cui si era interrotta, senza
cambiamenti visibili da chiunque mi guardasse dall'esterno, o almeno
speravo.
L'unica differenza stava nel fatto che nel giro di poco
più di tre mesi sarei diventata madre, se non fossi rimasta
uccisa
prima.
«Ho la mia missione» mi giustificai debolmente.
«Se
abbandonassi anche quella avrei perso l'ultimo antidoto alla
disperazione».
«E funziona?»
«A volte» dissi
vagamente.
Nei minuti seguenti Alba parve riprendersi. Il suo
volto leggermente chiazzato di rosso riprese il regolare colorito,
arrossato dal sole, e le lacrime si ritirarono dai suoi occhi, anche
se rimasero leggermente lucidi. L'elfa drizzò la schiena e
lasciò
vagare lo sguardo intorno a sé.
«Rimango con i Varden» mi
comunicò.
«Per uccidermi?»
«Forse più avanti. Ma l'unica
cosa che posso fare per Durza ormai è collaborare
affinché il suo
più acerrimo nemico venga sconfitto».
«I morti non ti
ringrazieranno per le tue azioni» osservai amaramente.
«Lui non
tornerà, non tornerà mai
più».
«Cosa sai di me?» domandò di
punto in bianco.
«Islanzadi mi ha detto tutto ciò che sapeva del
tuo caso. E anche Durza».
«Allora sai cosa stavo facendo quando
tua madre mi ha cacciata» disse, lapidaria.
«Non con lui, ti
prego» la supplicai senza ritegno.
Alba mi guardò con serietà
assoluta. «Dovevate passare la vita insieme se non sbaglio. O
erano
solo favole?»
Scossi la testa e sentii le lacrime lasciare i miei
occhi e bagnarmi gli zigomi. «Sappiamo entrambe che non
riusciresti
mai a riportarlo indietro identico a com'era quando è..
quando è
morto. Io non voglio la sua ombra, non voglio un'illusione, non
voglio un frammento dell'uomo che era. Voglio tornare indietro nel
tempo e spingerlo di quei pochi pollici che lo avrebbero salvato
quando Eragon si è lanciato in avanti per colpirlo. Ma
è un
incantesimo fuori dalla mia portata, forse anche fuori da quella di
Galbatorix e sarebbe..»
«Sbagliato?» suggerì lei pensierosa.
«Molto elfico da parte tua».
«Non fare sciocchezze, d'accordo?»
la invitai, asciugandomi le lacrime con un rapido movimento.
Non
mi lasciò con la sicurezza di una promessa, ma scosse le
spalle in
un gesto di noncuranza. «Per ora mi basta non farmi ammazzare
dagli
elfi».
«Allora faresti meglio a tornare ovunque tu fossi prima
di venire qui. I dodici stregoni che seguono Eragon sono i
più
potenti della Du Weldenvarden e nel caso ti individuassero
probabilmente avresti parecchie domande a cui rispondere. Inoltre
entro un mese l'esercito di Islanzadi si unirà ai Varden;
mia madre
è pentita di ciò che ha fatto, ma non credo che
reagirebbe bene se
ti vedesse viva e vegeta».
«Vorrei tanto sapere come ha reagito
quando hai tentato di spiegarle che sei diventata l'amante di Durza
lo Spettro» disse con sarcasmo; sapeva perfettamente che non
avevo
detto nulla a nessuno di quella storia. «In ogni caso non
tornerò
da Tenga. Credo che per il momento mi abbia insegnato
abbastanza».
«Chi sarebbe costui?»
Fece un sorrisetto. «Non
è facile indovinarlo suppongo. Vorrei avere una risposta
certa, ma
non ce l'ho. È abilissimo con ogni sottigliezza della magia
e non ho
mai conosciuto nessuno che fosse al suo livello, tuttavia sembra un
innocuo vecchietto un po' fuori di testa; parla di secoli fa come se
fossero passati appena pochi giorni e a volte è
così concentrato
nelle sue ricerche da dimenticarsi di mangiare. Credo che sia per
quello che mi ha accettata volentieri come sua apprendista: gli serve
qualcuno che lo riporti con i piedi per terra, ogni tanto».
Oh.
Decisamente non era umano, ma non avevo mai sentito parlare di lui
quindi sicuramente non era un'elfo.
Non ero certa di volere
approfondire la questione, tutti i misteri che si addensavano nella
mia mente mi stavano indisponendo. Mi sembrava che le mie certezze
non fossero che deboli pretese, in confronto.
«Avrei una teoria,
ma dovrei verificarla» proseguì Alba.
«È in momenti come questi
che mi mancano le biblioteche di Ellesméra, anche se darei
un
braccio per poter visitare quella di Galbatorix».
Mi irrigidii e
Alba ne rise, sguaiatamente, riprendendo la luce folle negli
occhi.
«Possibile che tu non abbia mai pensato di guardare oltre
al tuo naso? Davvero Durza ha rinunciato a tutto per stare con una
donna noiosa come te?» mi provocò, con
risentimento.
«Durza non
ha rinunciato a niente. Era con le spalle al muro e aveva appena
scoperto di non potersi impossessare del potere di Galbatorix ma di
doverlo distruggere. A quel punto pretendere il trono, osteggiato
dagli elfi e da tutte razze mortali sarebbe stato un suicidio, quindi
ha preferito l'idea di una fuga con un'algida principessa elfica,
sì»
risposi con altrettanto veleno. «Piuttosto..»
«Non so da cosa
derivi il potere del re, se è questo che stai per
chiedermi» mi
anticipò.
Mi crollarono le spalle. «Ovviamente no» sospirai.
Poi pensai ad Eragon e sperai che avesse risolto almeno quel mistero
e che potesse mettermene a parte.
«Però il figlio di Morzan deve
saperlo, giusto?» insinuò Alba.
«Murtagh? Suppongo di sì visto
l'enorme potere di cui ha dato prova».
«Tra i Varden serpeggia
la voce che il suo drago sia stato costretto a schiudersi con un
sortilegio».
«Questo non lo so, ma è certo che Galbatorix ha
agito sulla crescita di Castigo, accelerandola. E ha anche potenziato
le capacità fisiche di Murtagh».
«Dare forza e agilità è
relativamente semplice, agire sulla crescita carne è tutta
un'altra
cosa. Si dovrebbe conoscere l'anatomia di un drago meglio della
propria».
«Galbatorix ha le conoscenze, allora».
I suoi
occhi si accesero nuovamente di bramosia e capii che stava ancora
pensando alla biblioteca del re.
«Se tieni alla tua vita faresti
meglio a tornare alla torre di Tenga» la avvisai, desiderosa
di non
prolungare oltre quel colloquio.
«Vuoi liberarti di me? Non mi
stupisce, ma non ci riuscirai».
«Dico sul serio».
«Anche
io».
«Come preferisci. Ti saluto». Scivolai sulla panca,
verso
l'esterno, ma la mano di Alba si strinse sulla mia camicia,
trattenendomi.
«Mi sembra inutile minacciarti, principessina, ma
non si sa mai. Il nostro colloquio rimane un segreto, la mia
esistenza rimane un segreto e a quel punto anche quello che
è
successo tra te e Durza rimane un segreto. Chiaro?»
sussurrò
minacciosa.
«Non prenderti gioco di me, non ce n'era alcun
bisogno» ringhiai. «Ma te prova ad ostacolare i
Varden o a fare del
male a mia madre e vedrai che l'idea di dire al mondo che ho amato
Durza lo Spettro non mi sembrerà così
penosa».
L'espressione di
Alba crebbe di intensità. «Io non dimentico. Forse
per ora
risparmierò la tua vita, perché non è
poi così inutile per questa
gente, ma se lo faccio è solo per permettere la sconfitta di
Galbatorix e lasciare riposare Durza in pace, ovunque sia. Quando
tutto questo sarà finito io e te avremo una faccenda da
risolvere».
«Non vedo l'ora» risposi spavalda, mentre una fitta
di preoccupazione mi attanagliava lo stomaco.
Recuperai i miei
bagagli e il mio cavallo e mi allontanai dallo sguardo feroce
dell'elfa, sperando con tutto il cuore che non facesse danni tra i
Varden o avrei dovuto rivelare alla mia gente una parte della storia
che avevo custodito per me fino a quel momento e che avrei voluto
restasse un segreto per sempre.
Nei due giorni seguenti sognai
ripetutamente una serie di occhi: di Alba, di mia madre, di Nasuada,
di Augyra, di Athala, di Eragon, del figlio di Morzan, del sommo
sacerdote dell'Helgrind, dei monaci che avevo conosciuto, di
Durza..
L'incubo proseguiva anche da sveglia: mi sentivo
osservata, sempre e in ogni luogo, anche nella mia tenda.
L'inquietudine che ne conseguiva mi rendeva ancora più
nervosa e,
unita alla preoccupazione per l'imminente assedio di Feister,
scatenò
a più riprese un principio di attacco di panico. Il
più delle volte
si limitò a palpitazioni che poi si placavano non appena
riuscivo a
raggiungere una momentanea calma nella meditazione, ma non era raro
che riprendessero pochi minuti dopo, non appena la sensazione di
serenità mentale si dissipava.
Forse mi avrebbe fatto bene il
supporto di qualcuno, la mia solitudine stava diventando una condanna
terribile e il fatto che fosse auto-inflitta la rendeva solo
più
insostenibile. Non sapevo quanto avrei retto, ma non volevo crollare
fisicamente e psicologicamente nello stesso istante, non prima di
avere messo fuori gioco Galbatorix.
Nel giorno e mezzo di viaggio
avevo più volte intravisto il volto minaccioso di Alba, ma
l'elfa
non mi si era più avvicinata e, dopo che l'accampamento fu
stabilito
alle porte di Feister, non la vidi più. Ne fui immensamente
felice,
ma la consapevolezza della sua presenza, così vicina a me,
mi
manteneva costantemente sull'attenti.
Triplicai le difese magiche
intorno a me, al punto che avrei potuto fare da scudo umano a
metà
dell'esercito dei Varden. Ero diventata quasi paranoica, specialmente
per quanto riguardava la salute e la protezione del mio bambino, in
costante pericolo in mezzo ad un esercito in marcia. Lo portavo in
grembo da ormai sei mesi e il suo peso cominciava ad essere un
ingombro non indifferente per me, i movimenti delle braccia erano
effettivamente più impacciati e i muscoli delle gambe
faticavano di
più a sorreggermi e a scattare nei movimenti. Con i miei
incantesimi
potevo dare agli altri l'illusione che il largo farsetto che
indossavo aderisse ad un corpo snello, ma in realtà
accarezzava una
rotondità che si faceva sempre più prominente,
tanto che fui spesso
costretta ad indossare la cintura con Ren a tracolla, perché
premeva
troppo sul ventre.
Pensai e ripensai alla possibilità di
andarmene e tornare dopo tre mesi, con un bambino al collo e il pieno
possesso del mio corpo. A quel punto avrei potuto modificare il suo
aspetto -se si fosse rivelato troppo appariscente-, affidarlo ad una
balia e continuare ad esercitare il mio ruolo senza che nessuno ne
venisse al corrente. Ma prima di tutto avrei dovuto trovare una scusa
plausibile per i mesi di assenza, e poi ero certa che se avessi
abbandonato i Varden, al mio ritorno li avrei ritrovati o vittoriosi
per le strade di Uru'baen, o ridotti a pire di cadaveri ammucchiati
nelle colline limitrofe.
L'azione dei ribelli si stava
concentrando e stava diventando sempre più pericolosa per
l'integrità dell'Impero; seguendo il piano di Nasuada,
avremmo fatto
in poche settimane ciò che ad un esercito umano -privo
dell'aiuto di
un drago- avrebbe richiesto mesi.
Non potevo andarmene, non
ancora. Avevo scoperto di amare alla follia l'incognita che cresceva
dentro di me, ma prima di essere una donna, un'amante o una madre, io
ero un soldato. E non avevo alcun diritto di abbandonare il mio posto
fino a che il mio giuramento non si fosse esaurito, anche se
significava mettere in pericolo una delle troppe vite la cui
distruzione mi avrebbe mandata in mille pezzi.
Dovevo rimanere,
almeno fino a quando non sarei diventata più un impaccio che
un
aiuto prezioso. Avevo dato tutta la mia vita per la vittoria su
Galbatorix, non sarei mai riuscita a lasciare il tutto nelle mani di
altri, non quando il cammino sembrava proseguire finalmente in
discesa.
Forte delle mie nuove difese e delle mie
vecchie
convinzioni, mi arrischiai a muovermi in prima linea anche quando
iniziò l'assedio di Feinster.
Avevamo tentato di aprire i
cancelli per tre giorni, dapprima con un semplice ariete, poi anche
con la magia, ma essi avevano beffardamente resistito ai nostri
sforzi. Il tempo stringeva e il rischio che Murtagh e Castigo
comparissero all'orizzonte di faceva sempre più reale,
così non mi
fu difficile convincere Nasuada a lasciare entrare in città
me e uno
degli elfi della scorta di Eragon per aprire la via ai Varden
dall'interno. Chiesi a Blödhgarm -il più abile
degli stregoni e
anche il miglior combattente- di accompagnarmi ed egli
acconsentì,
forse al solo scopo di impedire che venissi uccisa e scatenassi
nuovamente il folle dolore di mia madre.
Doveva essere una piccola
e rapida incursione, ma ci imbattemmo in uno spiacevole imprevisto:
tre stregoni, e anche piuttosto abili. In pochi minuti ci ritrovammo
circondati da un infinito numero di soldati imperiali, costretti a
dare il meglio di noi per sopravvivere al feroce assalto e
decisamente incapaci di fare ciò per cui ci eravamo
introdotti in
città.
Il ruggito di Saphira e il rumore sordo del battito delle
sue ali mi parvero un dono del cielo e il nodo di gelida paura che mi
si era stretto in petto si sciolse. L'inaspettato e provvidenziale
intervento della dragonessa e di Eragon, reduci dal rapido viaggio
che li aveva portati ad Ellesméra, ci salvò dalla
tragedia: i
soldati fuggirono e io riuscii finalmente ad asciugarmi il sudore
dalla fronte e scrollare le mani imbrattate di sangue.
Eragon era
tornato con una nuova e formidabile spada e una notizia che lo
rendeva molto felice e sicuro di sé: Brom era suo padre, non
Morzan.
Oromis e Glaedr gli avevano rivelato le sue origini e poi si erano
uniti all'esercito di Islanzadi, che proprio quel giorno avrebbe
attaccato Gil'ead.
Non credevo che una simile novità potesse
influire tanto sulla serenità del cavaliere, ma quando lo
vidi in
battaglia capii immediatamente che qualcosa del ragazzo che
più di
un mese prima mi aveva assillata con le sue proposte si era spento,
dando spazio ad una maggiore maturità e consapevolezza.
Dovevo
ricordarmi più spesso che non ero l'unica a soffrire in
Alagaësia,
anzi.
Con l'aiuto di Eragon e Saphira riuscimmo ad aprire i
cancelli e a permettere l'accesso ai Varden. Mi tenni un poco ai
margini dello scontro per riprendere fiato, ma poi, quando Eragon e
Saphira mi proposero di seguirli alla fortezza di Lady Lorana,
acconsentii di slancio, ansiosa di mettere fine a quel
massacro.
Mentre mi irrigidivo e mi stringevo ad Eragon e il mondo
si allontanava vorticosamente sotto i miei piedi, fui colta da una
forte sensazione di vuoto allo stomaco e mi girò la testa.
Era la
seconda volta che volavo sul dorso di Saphira e non ero ancora
avvezza a simili operazioni, quindi impiegai parecchi istanti prima
di rendermi conto che Eragon stava fissando il nulla. Quando chiesi
se andasse tutto bene, Saphira rispose dicendo che Oromis e Glaedr
stavano lottando contro Murtagh e Castigo, ma quando tentai di
indagare su come facessero a saperlo, Eragon si limitò a
dirmi che
mi avrebbe spiegato più tardi.
Non era decisamente il momento
adatto per insistere, così accettai la risposta evasiva e lo
seguii
nella torre della fortezza, dove trovammo Lady Lorana, che ci
invitò
ad avvicinarsi come se fossimo amici di vecchia data. La donna ci
mise al corrente su quanto stava accadendo davanti a noi: un gruppo
di quattro stregoni stava cercando di creare uno spettro nel corpo di
uno di loro.
La notizia mi destabilizzò. Non avevo mai pensato
che qualcuno potesse creare
uno spettro di sua spontanea volontà e solo per spargere il
caos in
un esercito nemico. Era una follia, una follia che sarebbe costata
molte vite, forse anche le nostre se non fossimo riusciti a bloccare
quei pazzi.
Aprii la bocca per dire ad Eragon che dovevamo
sbrigarci, ma il giovane sgranò gli occhi e poi si
afflosciò a
terra. Mi chinai su di lui e lo chiamai, ma né il cavaliere
né
Saphira reagirono alle mie parole; rimasero immobili, come statue di
marmo, senza battere le palpebre e respirando affannosamente. Il
panico rischiò di sopraffarmi e a quel punto sfiorai la
mente di
Eragon, ricevendone immagini e impressioni di Glaedr. Il cavaliere
tornò in sé e io lo tempestai di domande,
sorpresa e insieme
sollevata che nulla di male gli fosse accaduto.
Ma non c'era
decisamente tempo per le risposte, non in quel momento: attaccammo
uno stregone alla volta, con rapidi colpi, ma impiegammo parecchio
per uccidere il primo. E gli altri non dimostrarono alcuna intenzione
di smettere con il loro progetto.
Troppo
lenti.. siamo troppo lenti.
Riuscimmo
ad uccidere un secondo uomo, poi successe.
Vidi almeno una ventina
di punti luminosi muoversi ferocemente in direzione dell'uomo
inginocchiato a terra. Formarono un cerchio intorno a lui e si
mossero vorticosamente.
L'uomo urlò e io mi lanciai
disperatamente verso di lui, notando al contempo che sia Eragon che
Saphira sembravano avermi abbandonata e giacevano nuovamente
immobili, con gli occhi spiritati. Non ebbi il tempo di
preoccuparmene: la strega si lanciò davanti all'uomo,
intercettando
il mio colpo. Ren si conficcò nel suo petto fino all'elsa e
fui
costretta ad usare entrambe le mani -rese scivolose dal sangue- per
estrarla.
Alzai gli occhi, la spada in pugno, ed incontrai quelli
cremisi di Durza.
Erano gli stessi occhi che mi avevano spaventata
a morte, la prima volta che li avevo incrociati, gli stessi che mi
avevano fatto desiderare di morire, di non doverli mai e poi mai
rivedere. Gli stessi occhi grondanti di odio che si erano sciolti
davanti a me.
Impiegai qualche istante di troppo per riconoscere
il mio errore. Lo Spettro assestò un colpo deciso alla mia
mano
sinistra e Ren cadde a terra, tintinnando sul pavimento. Flettei i
muscoli, con l'intenzione di scattare di lato e togliermi dalla sua
portata, ma mi accorsi troppo tardi di aver sottovalutato i miei
movimenti rallentati.
Lo spettro si scagliò contro di me e mi
stordì con una gomitata sotto il mento, poi strinse le dita
bianche
intorno alla mia gola e capii con orrore che non si sarebbe fermato
fino a che non mi avesse uccisa.
L'aria smise di fluire nella mia
gola. Artigliai le mani della creatura e gli assestai una serie di
calci frenetici e disperati, ma lui non vi fece caso, anzi
cominciò
a parlare con fare sicuro e minaccioso, come se i miei gesti non
fossero più fastidiosi del ronzare di una mosca. Smisi di
agitarmi
quando mi resi conto che non avrei ottenuto nulla in quella maniera,
anzi, avrei solo accelerato la mia fine. Il sangue mi pulsò
alle
tempie e i miei pensieri cominciarono ad annebbiarsi. In un ultimo
lampo di lucidità, colpii il gomito di Varaug, indebolendolo
per un
istante e riuscendo a ispirare una frenetica boccata d'aria che mi
bruciò la gola e i polmoni. Ma la stretta tornò,
ancora più
micidiale di prima.
Per qualche istante fui nuovamente invasa dal
panico, poi riuscii a riprendermi in misura sufficiente da stringere
con forza il suo polso e spezzarlo in più parti possibili,
un'ultima
disperata azione.
Lo Spettro mi lasciò e io mi afflosciai a
terra, annaspando alla disperata ricerca d'aria e rotolando sul
pavimento per evitare il suo calcio. Riuscii ad afferrare Ren, ma lo
spettro si gettò su di me per sottrarmela, attaccandomi
addosso il
suo odore di fumo e sudore. Tremando e sentendo la testa scoppiarmi,
afferrai Ren e la calai sulla sua testa con tutta la poca forza che
mi era rimasta nelle membra.
Varaug fece per alzarsi, ma Saphira e
il suo cavaliere dovevano averlo impegnato in un duello mentale,
perché si bloccò in ginocchio.
Sentii Eragon gridare: «Ora!»
Mi
scagliai in avanti alla cieca e lo colpii al centro del petto. Lo
Spettro indietreggiò e io mi sentii morire alla vista dei
cremisi
occhi felini che mi fissavano, sgranati e smarriti. L'immagine del
suo corpo che si disfaceva si sovrappose a quella di Durza e gli
occhi mi si riempirono di lacrime. Provai ad articolare un suono, ma
la voce non mi uscì, anzi, sentii il sapore di sangue in
bocca che,
insieme al groppo di lacrime, rese praticamente impossibile l'impresa
di respirare.
Vidi nero e mi aggrappai al primo supporto che mi
ritrovai davanti, fino a che Eragon non posò una mano sulla
mia e
pronunciò un incantesimo base di guarigione. Il gonfiore che
mi
stringeva la gola diminuì e riuscii a parlare e a
ringraziarlo,
anche se fiocamente.
Avevo appena recuperato l'energia sufficiente
per stare in piedi senza reggermi allo schienale della poltrona
quando Eragon mi comunicò la notizia della morte di Oromis e
Glaedr.
Ebbi la sensazione che il terreno mi fosse stato sottratto da sotto i
piedi e mi sembrò di precipitare in un baratro nero senza
fondo e
senza vie d'uscita.
Non poteva essere.
Oromis e Glaedr
rappresentavano tutto ciò che era rimasto del vecchio mondo,
incarnavano gli ideali di libertà e sopravvivenza che
avevano
guidato gli elfi nell'ultimo secolo e sopratutto erano potenti e
capaci oltre ogni dire. Non potevano essere stati spazzati via
così,
come secche foglie autunnali.
Mi resi conto di stare piangendo
solo quando Eragon mi strinse a sé. Mi girai leggermente di
sbieco e
ricambiai automaticamente il suo abbraccio, con la sensazione che, se
lo avessi lasciato andare, avrei perso ogni contatto con la
realtà e
sarei ineluttabilmente scivolata nell'oblio.
Restammo immobili per
qualche istante e potei quasi sentire lo sforzo fisico che entrambi
stavamo compiendo per non cadere nel vortice delle lacrime e della
disperazione.
L'impresa di sconfiggere Galbatorix era sempre stata
tanto difficile da superare i limiti del possibile, ma senza Oromis e
Glaedr tutto sembrava ancora più lontano e più
irraggiungibile.
Le
spiegazioni arrivarono non più di mezzora dopo, nella cucina
di una
casa spoglia, in presenza di Nasuada.
E finalmente chiarirono un
bel po' di misteri che da mesi mi tormentavano.
Non appena il
discorso fu chiuso mi ritirai immediatamente e abbandonai l'ancora
assediata Feinster, trascinandomi stancamente in direzione della mia
tenda. Ero un guerriero, ma per quel giorno ne avevo avuta
abbastanza.
Alzai barriere protettive intorno a me non appena mi
abbandonai sulla branda e mi presi qualche minuto -e le mie ultime
risorse di energia- per rimarginare qualche ferita e controllare che
il mio bambino stesse bene. Mi resi conto con vergogna di non avere
affatto pensato alla sua condizione mentre le dita dello Spettro si
stringevano sempre di più intorno alla mia gola, troppo
impegnata a
cercare di proteggere la mia stessa vita. Non importava quanto
Islanzadi mi avesse maltrattata in passato, sicuramente sarei
diventata una madre dieci volte peggiore di lei, vista la mia
incapacità di prendermi cura di mio figlio quando era ancora
al
sicuro nel mio ventre. Scansai vigliaccamente quei pensieri,
sentendomi terribilmente inadeguata, e mi imposi di mangiare un po'
di pane per reintegrare le mie energie magiche. Forse la mia gola non
era del tutto guarita perché faticai a deglutire e dovetti
abbandonare l'idea del pane a favore della frutta. L'indomani avrei
chiesto a Blödhgarm di controllare i danni che lo Spettro
aveva
causato, per quel giorno mi sembrava già gravosa l'idea di
restare
distesa a pensare alle mille informazioni che dovevo
riordinare.
Eldunarí. Cuori dei draghi.
Un
uomo non può avere tutto quel potere dentro di
sé. Io l'ho aiutato
a piegare al suo volere il suo drago.
La
spiegazione di Eragon aveva colpito il mio cervello come una
scheggia, mettendo in atto una serie di collegamenti che avevano
finalmente chiarito le criptiche osservazioni di Durza.
I
draghi sono intrisi di magia.
Galbatorix
sedeva sul suo trono, circondato da centinaia, se non migliaia di
cuori dei cuori di drago, che gli fornivano il suo enorme e
incommensurabile potere.
E Durza aveva avuto tra le mani la
soluzione del problema, ma non aveva potuto dirmela. Ero tornata ad
una sorta di punto di partenza, ma almeno sapevo quale fosse la fonte
della superiorità del re.
Fino
ad un giorno fa avevo intenzione di uccidere il re ed impossessarmi
del suo potere, ma ora so che se voglio sconfiggerlo devo distruggere
la fonte della sua magia e non avrò più
possibilità di
recuperarla.
Distruggere
gli Eldunarí significava spegnere antiche e preziose
coscienze:
sarebbe stato un crimine terribile, pari solo a quelli commessi da
Galbatorix. Durza non aveva potuto mettermi al corrente di cosa
avrebbe dovuto fare per rendere inerme il re, ma se lo avesse fatto
probabilmente avrei cercato di fermarlo. Come aveva potuto pensare ad
una simile soluzione, così estrema e costosa? Davvero non vi
erano
alternative possibili?
Si trattava nuovamente di pesare delle vite
su una bilancia: da una parte i draghi più antichi,
dall'altra le
razze che si opponevano a Galbatorix: i nani, gli elfi, gli urgali e
buona parte degli uomini. Se nessuno lo avesse fermato, il re avrebbe
spinto tutti i suoi oppositori sull'orlo dell'estinzione, ne ero
certa, ma anche i draghi erano ormai una specie molto ridotta.
Annuii nella penombra nella mia tenda, tra me e me. Non valeva la
pena rischiare la distruzione di tre razze pur di rincorrere i
brandelli di una, anche se perdere definitivamente i draghi era
davvero terribile, specialmente dopo averne appena scoperto
l'esistenza.
In ogni caso non avrei potuto fare nulla finché non
avessi trovato nuovamente l'incantesimo -se di incantesimo si
trattava- che aveva letto Durza, la notte che eravamo fuggiti da
Dras-Leona e ci eravamo amati per la prima volta.
Inevitabilmente,
tornai a pensare ai morti. Le lacrime tornarono ad annebbiarmi la
vista e un nuovo groppo mi si strinse alla gola.
Insinuai una mano
tra i seni e strinsi nel pugno il medaglione dello Spettro. I sei
raggi del sole mi punsero la pelle e mi chiesi se per caso sarei
riuscita ad aprire delle ferite, se avessi aumentato la
stretta.
Caddi in un sonno profondo e sognai i baci di Durza, le
parole pacate di Oromis e la maestosa ferocia di Glaedr.
Il
giorno dopo avevo la gola in fiamme e, per chiedere a
Blödhgarm di
guarirmi, fui costretta a parlargli con la mente. Lo stregone era
decisamente più abile di me a manipolare la carne -viste
anche le
profonde trasformazioni che aveva imposto al suo corpo- e in pochi
minuti riuscì a guarire i lividi e le ferite interne che
avevo
sbrigativamente rimarginato il giorno prima. Mi lasciò con
il velato
ammonimento di prestare più attenzione alla mia vita in
futuro,
forse temendo una nuova reazione disperata di mia madre.
Non mi
mossi dall'accampamento per il resto del giorno. In città le
truppe
dei Varden terminavano l'assedio, ma la vittoria era già
nostra e
non ritenevo necessaria la mia presenza tra le mura di
Feinster.
Chiusa nella mia tenda, protetta e isolata con i dovuti
incantesimi, con un generoso pasto a portata di mano, cominciai a
potenziare con la magia i muscoli delle mie gambe e delle mie
braccia.
Ero giunta a quella soluzione dopo ore passate a
rimuginare e alla fine mi era parsa la soluzione più
intelligente
per non farmi uccidere da avversari che potevano contare sulla stessa
velocità degli elfi, come spettri e cavalieri di drago
accompagnati
da uno o due Eldunarí, ad esempio.
L'incantesimo era piuttosto
complicato e sopratutto sottraeva parecchia della mia ancora scarsa
energia.
Temendo di ritrovarmi improvvisamente con una forza che
non sarei stata in grado di gestire in battaglia, proseguii per
gradi, aumentandola un poco per giorno, fino a recuperare la mia
antica agilità e superarla lievemente. Mi allenai con la
spada ogni
notte, nel deserto cortile del palazzo dove ero stata alloggiata con
le alte sfere, fino ad assumete una certa dimestichezza con i nuovi
cambiamenti imposti al mio corpo.
Due giorni dopo la presa di
Feinster, Nasuada diede ordine di muovere l'esercito in direzione di
Belatona. Per evitare di incontrare Alba alla guida del carro, issai
le mie cose sulla groppa del mio cavallo e affiancai Nasuada per
tutto il tragitto. La donna parve sorpresa della mia improvvisa
socievolezza, ma ne approfittò per lanciarsi in lunghe
discussioni
di strategie di attacco e di combattimento.
«È vero che tra gli
elfi anche le donne partecipano agli scontri armati?» mi
chiese,
curiosa.
«Se tu visitassi ora la Du Weldenvarden la troveresti
praticamente deserta» risposi. «Non siamo come gli
umani e tendiamo
a considerare allo stesso livello sia i maschi che le femmine, anche
in combattimento».
Forse un poco del mio sprezzo filtrò dal tono
della mia voce, perché Nasuada mi rispose severamente:
«Non conosco
molto bene gli elfi, ma per anni non ho visto che te come unica
rappresentante del tuo popolo e confesso che da bambina ti avevo
scambiata per un uomo. Ora che finalmente ho incontrato altri
esponenti della tua razza credo di potere affermare che siete diversi
da noi, sia nel fisico che nella mente, però ho notato che
non vi è
una grande differenza di corporatura tra i vostri maschi e le vostre
femmine. Avete tutti circa la stessa altezza e le stesse proporzioni
quindi ne deduco che condividiate anche la stessa forza, mentre le
nostre donne hanno caratteristiche fisiche ben diverse dai loro
uomini e quindi sono meno adatte alla violenza e allo scontro armato.
Senza contare», continuò impietosa, «che
noi siamo molto fecondi e
non è raro che una madre si trovi circondata da due, tre o
magari
quattro figli. A quel punto cosa dovrebbe fare? Abbandonare i suoi
bambini per cercare la morte in battaglia? Noi non abbiamo il tempo
sufficiente per essere sia guerrieri che genitori. No, Arya, le
nostre donne non rifuggono le battaglie perché sono vili e
deboli,
ma perché a loro spetta il compito di creare la vita, non di
distruggerla».
Il lungo discorso del capo dei Varden, farcito di
un buon tono di rimprovero, mi colpì più di
quanto diedi a vedere.
Non avevo mai considerato i fattori che Nasuada mi aveva appena
esposto e mi vergognai della mia superficialità. Possibile
che dopo
anni che vivevo tra loro, non avessi ancora capito pienamente gli
uomini?
«Ti chiedo perdono, non volevo apparirti scortese»
mi
scusai quietamente.
Nasuada parve nuovamente incuriosita. «Voi
elfi siete circondati da un alone di mistero che inquieta i miei
soldati e mi fa mordere le dita non appena vi voltate. Sembra che
ogni vostro gesto e ogni vostra parola nasconda segreti arcani e
inconfessabili».
«Avresti dovuto fare il menestrello, figlia di
Ajihad. Le tue parole sono degne di un incantatore» la
blandii, nel
tentativo di allontanare i suoi pensieri dagli elfi e dai loro
segreti.
Sorrise, il biancore dei denti in contrasto con la pelle
scura, e abbandonò l'argomento, in un atteggiamento quasi
condiscendente.
In tre giorni arrivammo a Belatona e il
giorno
dopo attaccammo e prendemmo la città. Gli incantesimi che
avevo
applicato sulle mie membra funzionavano alla perfezione,
così io,
Arya di Ellesméra, ambasciatrice degli elfi, figlia della
regina e
Ammazzaspettri, partecipai all'assedio di Belatona, incinta di sei
mesi e ridicolmente imbottita di incantesimi di difesa.
L'assedio
terminò con rapidità sconcertante grazie alla
presenza dei maghi
elfici e di Eragon e Saphira, anche se costò parecchie vite
umane e
la dragonessa rimase ferita da Niernen, la prima Dauthadert che
avessi mai visto e probabilmente l'ultima rimasta in Alagaësia
dai
tempi della Du Fyrn Skulblaka. In compenso però riuscimmo a
tenere
la lancia per noi, un possibile futuro aiuto contro Shruikan e
Castigo.
Quello stesso giorno i gatti mannari strinsero
un'alleanza con i Varden, un evento storico e memorabile che sembrava
essere orchestrato da un dio crudele al solo scopo di riparare la
ferita data dalla perdita di Glaedr ed Oromis. Glaedr rimaneva
effettivamente chiuso in sé stesso e, al mio tentativo di
entrare in
contatto con lui, ne avevo ricevuto un flusso di dolore così
intenso
che per qualche minuto l'idea della vita aveva perso il suo fascino,
a favore di un invitante oblio.
La sensazione si era dissipata
quando, nelle ore seguenti mi ero impegnata ad assistere una donna
originaria del villaggio di Eragon, alle prese con un parto difficile
che si sarebbe certamente concluso in tragedia se non avessi
segretamente usato un paio di incantesimi per guidare la sua bambina
verso la luce. La chiamarono Speranza e il nome piacque immensamente
a tutti, me compresa, e non riuscii a trattenere un'espressione che
doveva sfiorare la commozione. La vita nella morte. Avrei dovuto
trovare un nome altrettanto significativo per mio figlio, un
giorno.
I Varden si istallarono nella conquistata Belatona,
dove rimasero a riposo per un'intera settimana, per poi incamminarsi
lentamente in direzione di Dras-Leona. Fu proprio durante quel
viaggio che Glaedr, rinchiuso nel suo guscio di dolore, emise le
prime poche parole dalla recente morte del suo cavaliere, per poi
tornare nel suo isolamento. Il suo ritorno, seppur breve, diede a me
e agli altri elfi la speranza che il vecchio drago dorato non si
sarebbe lasciato sopraffare dal dolore
Sia l'assalto a Feinster
che quello a Belatona si erano rivelati meno complicati del previsto,
specie perché né Murtagh e Castigo né
i morti che ridono avevano
fatto la loro comparsa, ma l'illusione di avere superato buona parte
degli ostacoli che si frapponevano tra noi e Uru'baen sfumò
non
appena arrivammo in vista delle mura di Dras-Leona, dove trovammo il
figlio di Morzan e il suo drago ad attenderci sulle mura, affiancati
da alcuni Sacerdoti dell'Helgrind, che riconobbi immediatamente. Ci
promisero che mai avremmo preso Dras-Leona la fangosa fino a che ci
fossero stati loro a guardarla.
Non avevo alcun motivo di dubitare
delle loro parole e loro non me ne diedero.
Nei
giorni seguenti assistetti a diversi lenti movimenti: Nasuada si
spegneva come una candela consumata davanti ai miei occhi, distrutta
e frustrata dal fermo al quale era stato costretto il suo esercito;
Islanzadi mi contattò per dirmi che Taurida era ormai nelle
mani
degli elfi e che, in capo ad una settimana, il drappello mandato a
Teirm avrebbe preso la città; Orik arrivò dopo
tre giorni, a capo
dell'esercito dei nani, e fu costretto ad unirsi a noi nella
frustrante attesa di una soluzione; e in ultimo Glaedr riemerse
vigorosamente dal suo esilio, spronato dalle sventate e ammirevoli
parole di Blödhgarm e io mi affiancai a lui nel proseguire
l'educazione ancora incompleta di Eragon.
Il legame di affetto che
mi legava al cavaliere si evolse in una traballante amicizia: da
alcuni suoi atteggiamenti, Eragon sembrava ancora infatuato di me, ma
in generale manteneva con me lo stesso atteggiamento che esibiva con
Orik o con Nasuada. Accettai la situazione così com'era e mi
impegnai a dare al giovane tutto l'aiuto possibile, anche se in certi
momenti -come quando mi disse di essere riuscito a capire chi fossi o
quando mi chiese cosa avessi intenzione di fare una volta terminata
la guerra- avrei desiderato scappare via.
Ti
vedo.
Eragon
vedeva molti aspetti del mio carattere e della mia persona,
indubbiamente, ma avrei preferito che non si spingesse oltre nella
sua conoscenza.
Più di una settimana dopo il nostro arrivo
alle porte di Dras-Leona, quando ormai il morale degli uomini
strisciava sotto i loro talloni e le scorte di cibo cominciavano
seriamente a scarseggiare, arrivò la tanto attesa soluzione.
Una
soluzione chiamata Jeod Gambelunghe.
L'erudito parlò di gallerie,
di fogne scavate sotto Dras-Leona più o meno ai tempi in cui
mio
padre Evandar era salito al trono nodoso. Guardai la mappa disegnata
da Othman -autore umano che avevo già letto in passato- e
l'immagine
si sovrappose alle fitte linee rosse di quella che mi aveva mostrato
Durza. Mentre quella dello Spettro rappresentava anche i più
piccoli
canali di scolo, quella che reggeva Jeod tracciava una semplice linea
retta, che tagliava in due la città. Sapevo che i canali di
scolo
confluivano in un grande tunnel che si gettava nel lago e sapevo che
quello stesso tunnel era arredato e colonizzato dai Sacerdoti nella
zona sotto la cattedrale, ma non avevo mai sospettato -né la
mappa
di Durza aveva posto dei dubbi- che il tunnel cominciasse
dall'esterno della città, come invece sosteneva Jeod.
Nasuada
elaborò rapidamente un piano azzardato e incerto come quelle
informazioni e io mi offrii prontamente come volontaria. La scusa
ufficiale era che volevo proteggere Eragon, in realtà avevo
anche
intenzione di mettere a frutto le mie scarne ma forse essenziali
informazioni sui Sacerdoti, sui loro ambienti sotterranei e sulle
loro Ombre.
Mi rasserenai quando la Venerabile chiese di unirsi
alla spedizione e mi dissi che avrei dovuto mettere a parte almeno
lei delle mie conoscenze. Sarebbe stato più prudente che
tutti
sapessero tutto, ma io non potevo divulgare informazioni
così
preziose fingendo che fossero piovute dal cielo.
Così, non appena
la riunione con Nasuada, Orrin, Orik ed Eragon e Saphira fu conclusa,
andai alla ricerca dell'erborista, che aveva lasciato il padiglione
appena Nasuada l'aveva accettata nell'impresa.
Raggiunsi la tenda
di Angela dopo una buona mezz'ora impiegata a chiedere dove si
trovasse, dato che non era né vicina alle tende dei
guaritori né
alle cucine, dov'era stanziata solitamente.
Non percepii alcun
suono filtrare dal tessuto, ma picchiai lo stesso contro il palo
d'ingresso per accertarmi che non ci fosse nessuno.
La mente di
Angela sfiorò la mia. «Adesso
sono impegnata, Arya».
La
sua coscienza cantava un melodia squillante e insieme cupa e
profonda, come un giullare che diventa assassino nella notte.
«Vorrei
parlarti di Dras-Leona, Venerabile»
risposi. Era ovvio che doveva aver insonorizzato la zona in modo che
i suoni non filtrassero all'esterno dato che non percepivo nemmeno il
suo respiro.
Mi aspettavo che mi scacciasse o mi facesse entrare,
così quando il triangolo di tessuto dell'ingresso di
scostò di lato
e trovai gli occhi celesti di Alba fissati nei miei, sobbalzai.
«Tu»
sputai.
«Che vuoi, Ammazzaspettri?»
Il
nomignolo mi colpì. «Immagino che le voci viaggino
veloci come il
vento».
«Più del vento, temo. La bella impresa che tu e il
cavaliere avete compiuto ha affascinato parecchio quei sempliciotti
con cui lavoro alle cucine. Probabilmente la noia di aspettare nelle
retrovie mentre l'azione si svolge altrove li sta logorando».
«Non
mi pare di averti vista, né a Feinster né a
Belatona»
osservai.
«Sono una spia, non una combattente».
Angela le
comparve improvvisamente accanto. «Entra Arya, vedo che non
sarà
necessario presentarvi».
La seguii, passando accanto all'elfa.
«La conosci?»
Angela annuì compiaciuta. «Da circa due ore, ma
la sua storia è parecchio interessante».
«Non c'è alcun
bisogno di raccontargliela, la conosce alla perfezione» fece
Alba
con voce strascicata, chiudendo la tenda e accomodandosi su un
piccolo sgabello che somigliava più ad un poggiapiedi.
La
Venerabile mi fece cenno di prendere la sua sedia a dondolo, ed
insistette quando rifiutai, scoccando un'occhiata significativa alla
mia pancia e al cuscino posato a terra.
Finii per assecondarla, ma
non mi sfuggì l'espressione perplessa di Alba nell'assistere
alla
muta discussione.
Angela sedette sul cuscino a gambe incrociate,
ritta come un fusto. Era più bassa di me e anche di Alba,
eppure,
nonostante l'espressione svagata, emanava più
autorità e saggezza
di noi due messe insieme. E non eravamo esattamente due elfe
qualunque.
«Ho intercettato una presenza interessante negli
ultimi giorni, ma quando ho individuato la fonte non mi sarei mai
aspettata di trovarmi faccia a faccia con un'elfa nera» fece
lei
allegramente. «Islanzadi non mi ha mai detto nulla riguardo a
tutto
ciò».
«Non l'aveva detto nemmeno a sua figlia» disse
Alba,
ricolma di disprezzo.
«E come vi sareste conosciute voi due?»
indagò Angela vivacemente, gli occhi nocciola ardenti di
curiosità.
Guardai Alba, impassibile, e lei mi restituì uno
sguardo leggermente meno composto, quasi spaventato.
«Credo sia
meglio non dirtelo, Venerabile» risposi per entrambe.
«Ti basti
sapere che il nostro incontro non è stato dei più
piacevoli e che
non scorre buon sangue tra di noi».
«Io la odio» puntualizzò
la bionda.
«Non mi stupirei se diventaste buone amiche, un
giorno» cinguettò Angela e parve quasi seccata
quando si rese conto
di aver abbandonato il lavoro a maglia sul tavolo accanto a
me.
Glielo porsi, attenda a non sfilare l'operato dall'ago.
«Venerabile, volevo che tu sapessi qualcosa prima di stasera,
ma non
parlerò di fronte a lei, non mi fido». E annuii in
direzione di
Alba.
L'indovina prese i ferri con piacere e iniziò subito a
lavorare quello che sarebbe probabilmente diventato un copri-spalle,
vista l'ampiezza dei punti. «Non credo che tu possa dirmi
qualcosa
che già non so, Älfa. Come ho già detto
di fronte a Nasuada e agli
altri, ho una faccenda di lunga data in sospeso con i Sacerdoti,
specialmente con Abracham. Quelli come me proprio non gli
piacciono»
concluse con uno sbuffo seccato.
Sbirciai Alba, a disagio e
preoccupata dalla sua presenza e da ciò che avrebbe potuto
carpire
sulla segretissima missione alla cattedrale. «Io ho
incontrato
brevemente Abracham, circa sei mesi fa» mormorai infine.
L'elfa
si irrigidì e Angela parve sorpresa. «Conosci la
struttura della
cattedrale?»
«Una parte» ammisi cautamente. «Quella
subito
sotto l'altare».
«Nasuada ed Eragon lo sanno?»
«Ho
preferito non dirlo per ovvi motivi».
«Ma lo dici a me».
«Tu
sai più di chiunque altro, Venerabile».
Alba scattò in piedi.
«Cosa significa tutto ciò?»
«Nulla di rilevante» fu la rapida
risposta di Angela. «Quando
saremo là sotto faremo in modo che tu guidi la spedizione o
mi dia
indicazioni con la mente»
aggiunse col pensiero.
«Era
quello che ero venuta a proporti»
assentii, sollevata. Prolungando il contatto con la sua mente, le
trasmisi brevemente altre immagini: le Ombre, i cerchi di ametiste, i
poteri dei Sacerdoti. Sentii stupore e anche soddisfazione provenire
da lei, poi un odio antico e a lungo celato sfiorò i confini
della
mia coscienza, facendomi tremare di terrore.
L'indovina si ritirò
e Alba mi tirò i capelli. «Cosa mi stai
nascondendo,
maledetta..?»
«Ferma lì!» esclamò
l'erborista. «Le brutte
parole sono insopportabili, non trovate? Ci sono tanti modi
fantasiosi ed eleganti per offendere, senza dover ricorrere a
banalità».
Parlò senza alzare gli occhi dal suo lavoro, con un
certo brio, eppure riuscì in quel modo a fermare l'azione
della mia
nemica.
Scacciai la mano di Alba e riassestai la fascetta di pelle
sulla fronte. «Vado a riposarmi» dissi, alzandomi
in piedi.
«Tu
rimani a farmi compagnia, Älfa?» domandò
Angela candidamente.
«Hai
detto che non avevi intenzione di ingannarmi, Venerabile»
sibilò
Alba bloccandomi la strada, con l'espressione di un animale
ferito.
Non mi stupì il fatto che l'elfa conoscesse il nomignolo
che la mia gente attribuiva all'erborista. Poteva negare di esserlo,
ma era cresciuta tra gli elfi.
«E io non dico quasi mai bugie.
Siedi: devi finire di parlarmi di quel pazzo scatenato di
Tenga».
Approfittando della sua esitazione, superai Alba e
guadagnai l'uscita della tenda.
«Scoprirò il tuo segreto,
principessina» soffiò lei tra i denti.
Con il cuore che batteva
accelerato contro le costole, corsi tra le tende fino a quando non mi
fui allontanata di una distanza che reputai sufficiente. Una donna
castana mi fissò con gli occhi accusatori di Alba, ma essi
cambiarono colore -diventando di un pallido verde- non appena
strizzai i miei.
Pazza. Stavo diventando pazza.
Raggiunsi i
recinti dei cavalli e mi appoggiai alla staccionata con i gomiti,
inspirando ed espirando lentamente dalla bocca. La terra sotto i miei
piedi sembrava imbrattata di sangue ed impiegai qualche minuto per
realizzare che si trattava semplicemente dell'ombra gettata dal
legno. Serrai le palpebre.
Calma.
Rievocai i giardini di
Tialdarí,
illuminati dalla luna e dai bagliori delle lucciole in una notte di
mezza estate.
Poi cercai la coscienza di mio figlio e mi beai
delle caotiche sensazioni e impressioni mentali che mi trasmise non
appena presi a canticchiare una semplice nenia.
Quando riaprii gli
occhi il sangue era sparito e nessuno sguardo minaccioso prese spazio
nei volti delle persone che incontrai nel tragitto fino alla mia
tenda.
Dovevo mantenere la calma e la lucidità. In poche ore,
dopo sei mesi di gioie e sofferenze, sarei tornata alla cattedrale
dov'era sbocciato l'amore tra me e Durza. E non avrei dovuto
permettere a niente e nessuno di distrarmi dal vero obiettivo: aprire
i cancelli di Dras-Leona e permettere ai Varden di conquistarla.
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Ehilà
bbelle persone! ;)
Vi ringrazio per la pazienza e mi scuso per il
ritardo! Adesso sono in pari con Iheritance e non dovrei più
avere
problemi!
Le solite note a pie' pagina: mi sono presa un momento
per descrivere lo scontro con Varaug a Feinster perché mi
sembrava
significativo per Arya come persona, ma non mi sono dilungata
eccessivamente ^_^
La discussione tra Nasuada e Arya durante il
viaggio per Belatona mi premeva molto: durante il Ciclo l'elfa dice a
più riprese che le donne umane sono deboli ecc. La cosa mi
ha sempre
irritata, quindi mi sembrava giusto dare a Nasuada il compito di
difendere il suo popolo, alé!
Direi che non ho altro da
aggiungere, ci vediamo domenica alla Cattedrale di Dras-Leona! :)
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