Santi di cartastraccia di Trick (/viewuser.php?uid=21078)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** San Tommaso - Fui l'unico a dubitare ***
Capitolo 2: *** San Pietro - Fui l'unico a rinnegare ***
Capitolo 3: *** San Giovanni - Fui l'unico a sopravvivere ***
Capitolo 1 *** San Tommaso - Fui l'unico a dubitare ***
Note
di Trick - e stavolta, fossi in voi, le leggerei davvero,
perché c'è un sacco di casino in questa
mini-long.
Sì, è una mini-long e per la prima volta nella
mia vita è già
finita, quindi conto di pubblicare in fretta gli altri due
capitoli. Squilleranno gli angeli, insomma, ma sono destinata a finire
la prima storia a capitoli. Urrà. Questa storia è
un po' strana - e qui torniamo al fatto che vi ho suggerito di leggere
le note - perché partecipa al contest "Paddy's
Day - Festeggiamo San Patrizio" indetto da Ferao.
Un contest vagamente allucinante, in cui veniva richiesto di... beh,
San Patrizio, gente. Bisognava infilare l'Irlanda dove si poteva. E io
l'ho infilata nelle tasche di Remus Lupin, poveretto, come se non
avesse già abbastanza sfighe.
Suppongo sia una What-If,
ma mi sa che non lo è sul serio... ho semplicemente aggiunto
dettagli all'infanzia e all'adolescenza di Remus che non conosciamo. In
effetti, no, ehi, non lo è per niente.
Ehm... no, okay, mi sa che ho finito. No, invece no, un attimo.
1. Le citazioni tratte dalla Bibbia o dal Vangelo non sono sempre
letterali. È stata una scelta stilistica che mi auguro non
arrechi offesa agli Evangelisti.
2. Non sono un'esperta d'Irlanda e irlandese, ma "och" sembrerebbe
un'esclamazione gergale piuttosto dipica. Tipo il "socc'mell" dei
bolognesi, ma più nordico.
3. Il Fianna Fàil è il più importante
partito repubblicano irlandese. Non mi sono informata oltre
perché faccio già abbastanza fatica a capire la
politica italiana, figurarsi quella irlandese.
E stavolta direi che no, non ho più altro su cui fare
bla-bla-bla.
*
Santi
di cartastraccia
Capitolo
Uno
San
Tommaso – Fui l'unico
a dubitare
«Se
non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi
e
non metto il dito nel posto dei chiodi
e
non metto la mano nel suo costato,
non
crederò».
Giovanni,
20, 24
Branna
O'Buckley era l'ultima di quattro sorelle, ma a sedici anni pesava
dieci chili in meno di Edna, era alta quindici centimetri in
più di
Maire ed era venti volte più graziosa di Fiona.
Quando
frequentavano la Saint Anthony – due piani, una latrina in un
angolo del cortile di cemento e le finestre rotte – Branna
spiccava
fra tutte loro per sagacia e intelligenza. Eppure la madre che le
aveva messe al mondo era la stessa: Gormlaith O'Buckley, la donna dal
nome più assurdo e dalla fede più inviolabile di
tutto il villaggio
di Kinsale – la chiamavano Gora, ma mai in sua presenza.
Gora
aveva gli scuri e penetranti occhi delle figlie, ma il suo viso era
sempre tirato in una smorfia seria. Rigida e orgogliosa come una
statua greca, rimaneva con l'enorme petto in avanti per tutta la
durata della funzione domenicale, lo sguardo duro fisso su padre
Conor e le figlie allineate al fianco come le mele del mercato.
Il
posto immediatamente alla sua destra era riservato a Edna, la
maggiore, la ragazza con la lingua biforcuta più avvelenata
di
Kinsale; poi c'era Maire, piccola, rotondetta e con le guance rosse e
paffute come due gonfie ciliegie; subito dopo c'era Fiona, con quel
suo problema di pronuncia che tutti fingevano sempre di ignorare;
l'ultimo posto della panca, quello più distante dall'altare,
era
sempre quello di Branna.
Branna
ridacchiava nel bavero del cappotto e si divertiva a scambiare mezzi
sorrisi con Liam O'Keefee, il garzone del lattaio. Se Liam non era in
chiesa, eccola spostare la sua attenzione su Brian Flanagan, il
figlio del calzolaio, o magari sui fratelli Sheehan – ed era
difficile stabilire a chi di loro stesse dedicando il proprio tempo.
Le
donne di Kinsale dicevano che sarebbe finita in pasto al diavolo, e
difatti Branna finì per sposare un inglese di nome John
Lupin.
L'assurdo avvenimento sconvolse il villaggio al punto tale che per
mesi non si parlo che di lei, della sua fuga senza senno e di quell'inglese, santo cielo, che si scoprì essere perfino londinese.
Lo
scalpore durò fin quando rimasero voci ad alimentarlo, ma
proprio
come prima o poi si spegne ogni barzelletta, anche quello venne
dimenticato. Fu solo quando la videro tornare dodici anni
più tardi
con un ragazzino magro come uno sputo e con i capelli biondicci
appiccicati alla fronte che Kinsale riprese a parlottare della
sventure della povera vedova O'Buckley, di quanto grama e triste
fosse stata la sua esistenza e di come avesse potuto il Signore
essere tanto crudele da affibbiarle una figlia tanto incosciente da
farsi ingravidare da un inglese.
*
«Och,
questo ragazzino è pallido come un inglese».
Remus
affondò il cucchiaio nel brodo di pecora. Non aveva un
aspetto
particolarmente invitante, ma il trascorrere dei mesi a Kinsale gli
aveva insegnato due importantissime verità: la prima era che
il pane
secco riusciva ad addolcire il sapore amarognolo di tutto
ciò che
finiva sulla tavola; la seconda era che che non si doveva supporre
che il brodo di pecora non fosse buono. Il brodo di pecora era sempre
buono, a Kinsale, e ci mancava poco che sua zia Maire non ci fondasse
attorno una nuova religione.
«E
c'ha pure i capelli da
inglese». Zia Edna aveva alzato di un'ottava il
tono di voce
– Remus pensò volesse essere certa di farsi
sentire dai vicini.
«Anche
i piedi, zia Edna?».
Le
narici della donna si dilatarono e il suo labbro inferiore
iniziò a
tremolare. Remus alzò lo sguardo dalla colazione, si
scostò la
frangia dalla fronte e le regalò un sorriso innocente.
«Lo
sapevi che inglesi hanno cinque dita?».
Zia
Fiona si affrettò a soffocare una vaga risatina in un angolo
della
tovaglia. Il mestolo di zia Maire si abbatté sulla testa di
Remus e
il ragazzo si piegò in avanti con un'esclamazione di
dolorosa
sorpresa, massaggiando la parte lesa con una smorfia. I piccoli
occhietti di Maire lo scrutavano severi, ma a Remus non
sfuggì il
sorrisetto che tentava di celare alla sorella maggiore.
«Non
posso credere che questa famiglia sia giunta a questo!»
sbraitò zia
Edna con ammirevole dramma.
Zia
Maire la liquidò con un gesto frettoloso della mano
grassoccia.
«Oh,
cielo, Edna, dacci un taglio. E tu finisci di mangiare in fretta o
arriverai in ritardo per la Messa».
Remus
ingoiò in silenzio un'altra cucchiaiata.
Prima
di morire, John Lupin era stato uno dei tanti protestanti che avevano
sempre rivolto molti più pensieri al lavoro, alla famiglia e
al
Quidditch che non a Dio. Ci pensava così poco, in effetti,
che non
si era mai disturbato a cercare il tempo di battezzare Remus
– e di
chiese e santi Branna Lupin sembrava averne avuto abbastanza da
camparci per tutta la vita.
“ Infilare
la testa nell'acquasantiera non rende per forza buoni
cristiani”
gli ripeteva spesso suo padre. “Vuoi cercare Dio? Cercalo
dove la
gente è felice”.
A
Remus quel concetto schietto di religione era sempre bastato, ma
quando Gora O'Buckley e le sue tre figlie avevano scoperto che non
aveva ricevuto il Santo Battesimo, gli parve di essere testimone del
disastro di Sodoma e Gomorra. Sua madre era rimasta appoggiata al
davanzale del balcone a fumare stancamente una Rothmans
senza
filtro. Era stata un'altra tragedia familiare, quella: Branna di
ritorno dalla Gran Bretagna con un ragazzino britannico
e un pacchetto di sigarette britanniche.
“ Suo
padre era metodista” aveva spiegato annoiata alle sorelle.
“ Un
comunista!”.
“ E-Edna,
p-per te t-tutti i n-non c-c-cattolici s-sono
c-c-c-comunisti”
aveva balbettato a fatica Fiona.
Branna
aveva schioccato la lingua.
“ In
verità in verità vi dico... chiunque non sia di
Kinsale è un
comunista”.
“ Non
deridere la parola di Gesù!”.
C'era
stato bisogno dell'intervento pratico e determinato di zia Maire per
spegnere sul nascere il clima bellicoso che stava per divampare nella
cucina. Remus era rimasto immobile sulla sua sedia ad aspettare che
decidessero dove immergergli la testa, con in mano il cucchiaio e una
brodaglia di pecora sotto al naso – nella cucina delle
sorelle
O'Buckley si entrava solo per tre motivi: mangiare, cucinare o
litigare, con l'eccezione di Branna che ci andava pure a fumare le
sue sigarette inglesi.
Il
suo battesimo da fiero cattolico irlandese era stato un inferno:
Remus era quasi affogato e aveva sputacchiato dentro l'acqua santa.
Per zia Edna era stato un segno del demonio; per zia Maire la
perdonabile bestemmia di un ragazzino; per zia Fiona una storiella
divertente da raccontare alle amiche; per sua madre non era mai
neanche capitato, perché era rimasta seduta sul sagrato
della
piccola chiesa a fumare; e sua nonna, Gora O'Buckley, non riusciva
più ad alzarsi dal letto a causa dell'artrite alle gambe,
così
Remus si era potuto risparmiare i suoi sordi brontolii scontenti.
Per
Remus era stato proprio come sua padre gli aveva raccontato: un po'
di acqua in testa senza alcuna consapevolezza di essere in qualche
modo diverso. Quella sera aveva scritto una lettera a James e Peter
–
gli dispiaceva tanto non poter scrivere anche a Sirius, ma Grimmauld
Place era una dimora inaccessibile per ognuno dei gufi dei
Malandrini. Oltretutto, Remus era obbligato a usare le poste Babbane,
perché a Kinsale non c'erano Guferie e alle sue zie sarebbe
venuto
un infarto nel vedere l'allocco di James andare e venire
dall'Inghilterra.
Caro
Prongs,
fa'
squillare le trombe e fa' rullare i tamburi, perché da oggi
sono
ufficialmente un vero cattolico di Kinsale.
Le
mie zie ne sarebbero entusiaste, se solo non avessi rischiato di
riempire di saliva la sorgente di Dio, condannando me e tutta la mia
progenie all'eterno vagabondaggio nel limbo degli inglesi. Testuali
parole di mia zia Edna (a Padfoot piacerebbe: hanno in comune lo
stesso amore per il palcoscenico). Insomma, a quanto pare non dovevo
sputacchiare nell'acquasantiera: avrei dovuto lasciare che il vecchio
padre Conor mi ci affogasse dentro, così il Santo Padre mi
avrebbe
fatto beato e le mie zie sarebbero state fiere di avere il santino
del proprio nipote martire accanto a quello di San Giuseppe.
A
parte il mio tragicomico esordio nella vita cattolica, mi sono
abituato a trovare pezzi di pecora in qualsiasi pietanza cucinata da
mia zia Maire e ho affinato il mio modo di pronunciare
“och”.
Mi
sento sempre più irlandese.
Confido
possiate aspettarvi di vedermi raggiungere King's Cross a dorso di un
Lepricano e con i capelli tinti di verde.
A
ogni modo, Kinsale inizia a piacermi per un sacco di intelligenti
motivi.
Primo,
nonna Gormlaith (ti riscrivo il suo nome per l'ennesima volta giusto
nel caso tu non sia ancora stanco di deriderlo) è ancora
tutt'uno
con il suo materasso e la sua artrite, così ho smesso di
temere che
si alzasse in piena notte per salassarmi dal mio infetto sangue
britannico.
Secondo,
zia Edna è ancora pazza e si diletta ancora in esorcismi, ma
inizio
ad apprezzare la cucina di zia Maire: ogni tanto cerca di cucinare
animali diversi dalla pecora, ma la pecora in salsa di pecora
appoggiata su un letto di pecora resta ancora la sua pecora
di battaglia (spero sarai felice di vedere quali e quanti passi da
gigante sta facendo il mio umorismo irlandese).
Terzo,
mia madre sta uscendo con un nuovo tizio di Cork. Questa volta
è un
meccanico. È un po' come un manutentore di manici di scopa,
solo che
aggiusta le automobili. E le automobili funzionano più o
meno come
dei manici di scopa, solo che non volano e tu
non puoi guidarne una per nessuna
ragione, Prongs.
Non
chiedermelo nemmeno.
Quarto,
zio Patty è riuscito a raccattarmi un lavoretto al Donegan's
Inn.
Hanno bisogno di un ragazzo che asciughi i boccali: l'occupazione
perfetta per uno con dei polsi ridicolmente ossuti come me. Gli ha
detto che sono un po' malaticcio e che ogni tanto dovrò
tornare a
Londra per farmi delle trasfusioni di sangue al Saint Jack Hospital.
E
dire che l'Irlanda dovrebbe essere il paese delle strane creature...
se solo le mie zie sapessero che danno da mangiare pecora a un Lupo
Mannaro tre volte al giorno, credo cercherebbero sul serio di
affogarmi nell'acquasantiera.
Och,
non vedo l'ora che arrivi il primo settembre.
Moony
*
Il
loro camino era l'unico di tutta Kinsale collegato con la
Metropolvere. Remus teneva un sacchetto di polvere magica ben
nascosta dietro ai cassetti della biancheria, in attesa del giorno in
cui qualcuna delle sue zie lo avrebbe scovato e confuso con
chissà
quale sostanza stupefacente. Lo usava solo il giorno prima del
plenilunio, quando riempiva la borsa del misero occorrente per
giacere moribondo in un letto dell'infermeria e tornava a Hogwarts.
Era
l'unico studente a cui era concesso – era un caso a dir poco
eccezionale, lui. Silente aveva lungamente insistito
affinché Remus
continuasse a sfruttare il passaggio segreto che conduceva alla
Stamberga Strillante anche durante il periodo estivo. Sebbene non
avesse mai capito niente di magie e sortilegi, Branna gliene era
sempre stata grata.
Ogni
volta che Remus compariva nell'ufficio della professoressa McGranitt,
aveva sempre fra le mani una crostata ancora calda o un vasetto di
marmellata fatta in casa.
Era
il solo modo che aveva trovato per far parte di quella
realtà che
tanto assorbiva suo figlio – parlava di incantesimi, di
Goblin,
pozioni e di quel gruppo tutto matto con cui divideva il dormitorio,
e il suo viso si accendeva sempre di gioia. Lei aveva conosciuto quel
mondo diversi anni prima, quando John le aveva rivelato di essere un
mago e di lavorare per l'Unità di Cattura del Ministero
della Magia,
e non gli aveva creduto fin quando non aveva visto le magie che
sapeva fare. Ed erano vere, erano davvero
magie.
Poi
aveva scoperto che esistevano anche i Lupi Mannari e, suo malgrado,
aveva dovuto accettarlo in fretta. Ma lei era sempre stata una donna
forte e indomabile, era cresciuta nel sud dell'Irlanda e l'avevano
battezzata come una cattolica d'Irlanda, ed era rimasta in piedi
quando John non ce l'aveva fatta. La accusava spesso di sottovalutare
la loro drammatica situazione, e probabilmente aveva ragione,
perché
Branna non aveva mai davvero capito cosa fosse un Lupo Mannaro. Ma
capiva chi era suo figlio e tanto le era sempre bastato.
“ Remus
è tuo figlio” gli ripeteva in continuazione, ma
gli anni avevano
reso John Lupin sempre più sordo ai rimproveri della moglie,
fin
quando per lei non fu troppo. Acciuffare Remus per una man e la
valigia con l'altra era stato facile, ma aspettare nel cortile di
casa con la speranza che John si alzasse dalla poltrona per fermare
entrambi era stato come ricevere mille pugnalate nei reni in un solo
istante.
La
stretta di Remus si era fatta più decisa e lei lo aveva
guardato di
sottecchi. Era la copia di suo padre: aveva gli stessi capelli chiari
un po' mossi, gli stessi occhi nocciola, il naso lungo e sottile e il
viso minuto.
“ Ho
sempre voluto vedere l'Irlanda” aveva detto Remus con un
sorriso
tirato.
Non
avevano più parlato per tutto il viaggio fino alla stazione
di
Harrow. Fu solo quando il loro treno si fu lasciato alla spalle anche
le ultime colline dell'Hertfordshire che Branna aveva trovato la
forza di dire qualcosa.
“ Non
è colpa tua”.
Remus
aveva sollevato il capo dalla vecchia edizione tascabile di Cuore
di tenebra e l'aveva fissata a lungo con espressione
imperscrutabile. Poi aveva abbozzato una smorfia triste e aveva fatto
la spallucce.
“ Nemmeno
tua, mamma”.
“ E
nemmeno di tuo padre”.
A
quella parole Remus aveva sgranato stupito gli occhi.
“ Non
devi pensarlo mai, Remus” aveva continuato Branna con
più forza,
appoggiando la propria mano sul polso del figlio. “Tuo padre
è un
brav'uomo... ma non tutti i bravi uomini riescono ad affrontare i
calci in culo della vita”.
“ Io
lo devo fare”.
“ Och,
puoi giurarci” sbottò con finta allegria lei,
appoggiando la nuca
al sedile e socchiudendo affranta le palpebre. Si era ripetuta che
forse John aveva ragione a sostenere che lei non capiva quanto
davvero fosse tragica e insuperabile la situazione in cui erano
precipitati. Forse era realmente lei ad essere in torto,
perché di
Lupi Mannari, maghi e restrizioni del Ministero della Magia non
sapeva davvero nulla; ma quando aveva parlato, la sua voce era piena
di forza e sicurezza. “Ma tu non sarai un brav'uomo,
Remus”. Gli
aveva carezzato la guancia con un sorriso di timida nostalgia.
“Tu
sarai un uomo straordinario”.
Erano
già trascorsi quattro anni da quel giorno, e Remus era
davvero
diventato un piccolo ometto assennato di cui poteva dirsi ben fiera.
Edna continuava a chiamarlo il ragazzo inglese, ma
a vederlo
camminare per le strade di Kinsale, con i capelli troppo lunghi e
spettinati e le toppe cucite sui gomiti dei maglioni sformati, non lo
si sarebbe distinto dagli altri adolescenti della sua età.
E
Gormlaith O'Buckley giaceva nel proprio letto senza più la
forza di
muoversi, con il volto grigio, la pelle cadente e le dita gonfie e
tremanti. La luce che filtrava dalla finestrella impolverata nella
sua stanza disegnava pesanti ombre sulla sua faccia stanca, ma gli
occhi neri brillavano ancora risoluti mentre fissava l'espressione
rapita con cui Remus recitava i passi della Bibbia.
Sedeva
sempre sul solito sgabello malmesso, ma quel giorno il caldo
dell'estate soffocava più del solito e Remus indossava solo
una
vecchia canottiera bianca dall'aspetto frusto. Portava ancora i
calzoncini corti, ma zia Maire aveva già preso qualcuno dei
vecchi
pantaloni di zio Patty e li stava stringendo in vista dell'autunno.
“ Sei
tutto ossa, ragazzo” aveva dichiarato mentre prendeva la
misura del
suo girovita. “Och, ma in quel collegio
cattolico della
Scozia vi danno da mangiare?”.
«E
Gesù disse loro; ‘In verità vi dico:
voi che mi avete seguito
nella nuova creazione, quando il figlio dell’uomo
sarà seduto sul
trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a
giudicare le dodici tribù di Israele’».
Remus sollevò appena
un sopracciglio, rivolse alla nonna un’occhiata divertita e
aggiunse: «Sembra un proclamo dei conservatori».
Ridacchiò nel
vedere l’espressione offesa lampeggiare nelle pupille di Gora
e
riprese la lettura. «Chiunque avrà
lasciato case, o fratelli, o
sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome,
riceverà
cento volte tanto e avrà in eredità la vita
eterna. Molti dei primi
saranno ultimi e gli ultimi i primi. Mmh, adesso invece fa
il
comiziante laburista».
Le
narici di Gora si dilatano appena. Remus scoppiò in una
risata
fragorosa e appoggiò la propria mano su quella
dell’anziana donna.
«Och,
nonna, stavo solo scherzando» si scusò
sinceramente con un lesto
sorriso innocente. «So perfettamente che Gesù vota
per il Fianna
Fàil».
«All'Inferno
c'è un sacco di gente che scherzava troppo»
borbottò stentatamente
Gora. La sua voce era bassa e pastosa, e la mancanza dei denti
rendeva quasi impossibile afferrare il senso di ognuna delle sue
parole, ma Remus ci aveva fatto l'abitudine. Era l'unico, in effetti,
capace di comprendere i suoi vaghi lamenti senza costringerla a
ripetere ogni frase almeno tre volte.
Gora
non glielo aveva mai confessato apertamente, ma Remus aveva
l'impressione che avesse iniziato a trarre piacere dalla sua
compagnia. Sfogliò nuovamente la vecchia copia della Bibbia
e le
domandò se ci fosse qualche brano in particolare che
desiderasse
ascoltare, ma lei scosse leggermente la testa e Remus si
sentì
libero di scegliere il suo preferito.
«Una
serva si avvicinò a Pietro e gli disse: ‘Anche tu
eri con Gesù il
Galileo!’. Ed egli negò davanti a tutti:
‘Non conosco
quell'uomo’. Giunse un'altra serva e disse: ‘Costui
era con Gesù
il Nazareno!’. Ma egli negò ancora:
‘’Non conosco quell'uomo’.
Infine gli si accostarono altri presenti e dissero a Pietro:
‘Anche
tu sei uno di loro. La tua parlata di tradisce’. Allora
Pietro
imprecò e giurò una terza volta: ‘Non
conosco quell'uomo!’. E
subito un gallo cantò». Remus tacque,
d'un tratto pensieroso.
«Tu hai sempre creduto in Dio, nonna?».
«Ho
creduto in Dio da sempre»
mormorò la donna. «Ma non
sempre».
Remus
alzò il viso dalla Bibbia e aggrottò confuso la
fronte.
«C'è
differenza?».
Parve
quasi che le labbra bluastre e screpolate di Gora si fossero piegate
in un lievissimo sorriso.
«Dio
conosce i limiti del proprio Creato. La fede è come l'amore,
come la
vita, come l'uomo... e come talvolta se ne vanno loro, talvolta se ne
va anche lei. Talvolta tornano, talvolta no».
«E
la tua quand'è tornata?».
«La
domanda più furba sarebbe stata “quando l'ho
perduta”, ma tu
resti sempre un inglese, e di furbizia siete sempre stati
magri».
Remus
schioccò la lingua come sua madre.
«Och,
nonna, quanto hai ragione».
Gora
rimase in silenzio per un lunghissimo momento. Dalla finestra aperta
salivano i cori dei bambini che giocavano a pallone nella strada di
sotto e gli strepiti delle donne che stavano stendendo il bucato
fresco. Remus si godette un improvviso alito di vento che gli
accarezzò la nuca sudata.
«Ho
perduto la fede quando ho perduto tuo nonno»
raccontò dopo un
attimo di esitazione Gora. «Noi irlandesi non volevamo fare
quella
dannata guerra. E sai che ti dico, ragazzo? Se l'avessimo fatta fin
da subito, och, saremmo stati dalla parte dei
tedeschi solo
per fare un torto agli inglesi». Si fermò e si
schiarì la voce in
un fiacco suono gutturale. «Ma poi i loro aerei hanno beccato
Dublino e gli animi si sono infiammati. Tuo nonno era un vero
irlandese, un vero irlandese nato a Kinsale... ed è andato a
morirsene nelle dannate coste danesi, och».
Remus
era a conoscenza della storia di Malachy O'Buckley, ma non l'aveva
mai sentita raccontata dalla bocca sdentata di sua nonna –
non
l'aveva mai sentita raccontata davvero, in effetti.
“ È
inutile che tu mi chieda di lui” era stata la risposta di sua
madre. “Io non avevo nemmeno un anno, Remus, che vuoi che
ricordi?
Prova a chiedere a tua zia Fiona: non ha mai scordato un torto in
vita sua, lei”.
“ Che
torto, mamma?”.
Branna
aveva schioccato la lingua con la sua espressione più
spavalda e
aveva liquidato la questione con un gesto scocciato della mano.
“ Och,
hai quattro figlie, una moglie da sfamare e che fai, te? Vai a farti
sparare dai fottuti nazisti. Bell'affare”.
Il
tono della voce di Gora non suonava risentito quanto quello della
figlia minore. Era più debole e incerto, ma le sue parole
erano
scandite da tiepida nostalgia. Remus richiuse la Bibbia,
appoggiò il
mento fra le mani e le rivolse un'occhiata curiosa.
«Deve
essere stato crudo come l'Inferno, nonna».
Gora
emise uno strano soffio ironico. La sua risata uscì dalla
bocca
sdentata come un vago colpo di tosse grassa.
«Per
lui che è andato a morire nel culo d'Europa? Och,
puoi
giurarci che lo è stato. Io ero a casa a patire la fame con
quattro
bimbe, sì, ma l'Irlanda era piena di fame e bambini pure
prima della
guerra, ragazzo. E qua avevano tutti paura che Kinsale diventasse
come Dublino, che passasse un caccia a farci esplodere mentre stavamo
a Messa... ma non era l'Inferno, no. Tuo nonno, lui sì, che
c'è
andato a morire. Io no. Io ci sono solo passata accanto».
«Credevo
che la fede servisse a farsi forza nei momenti più
difficili»
commentò seriamente Remus.
«Ed
è nei momenti più difficili che ti
molla».
«E
ti ha mollato».
La
donna annuì con blanda fiacchezza.
«Perché
se ne è andato?» le chiese dopo un po'.
«L'Irlanda non scese in
guerra. Chi partì lo fece come volontario. Aveva quattro
bambine
piccole e te... perché l'ha fatto?».
Le
labbra di Gora si piegarono nel primo vero sorriso che Remus le
avesse mai visto fare.
«Perché
era un irlandese con le palle, ragazzo. Partì dalla stazione
di
Cork. Quel giorno c'erano un sacco di irlandesi con le palle a
prendere il treno. “Non me ne frega un accidente se quelli
sparano
agli inglesi” mi ha detto. “Ma che facciamo se poi
perdono e i
tedeschi pensano di venire pure qua? C'è mezza Dublino che
brucia
per colpa loro. Che facciamo, se dovesse bruciare tutta
l'Irlanda?”».
«Non
hai cercato di fermarlo?».
Gora
schioccò la lingua contro il palato con la stessa identica
arroganza
con cui era solito farlo sua figlia. Remus sorrise d'istinto nel
guardare gli occhi neri di sua nonna brillare fieri sul suo volto
scavato. Una piacevole sensazione di calore gli inondò il
petto.
«Se
Dio non m'avesse fatto le tette, sarei andata con lui. Di', ragazzo,
te che studi così tanto... che sarebbe successo, se avessero
vinto i
tedeschi? Se fossero arrivati anche qua, che ne sarebbe rimasta
dell'Irlanda?».
Remus
si umettò le labbra e ingoiò un fastidioso groppo
di saliva.
«Niente».
«Och,
niente. E lo sapevamo tutti» aggiunse con asprezza.
«Te non saresti
andato?».
Lui
chinò la testa e sfiorò distrattamente la croce
sulla copertina di
pelle rovinata della Bibbia. Aveva la mente rivolta altrove, a
immaginarsi il fango della Danimarca della Seconda Guerra Mondiale,
l'eco delle cannonate tedesche nelle orecchie e il puzzo stantio del
sudore di mille uomini terrorizzati. E poi un ricordo ben
più crudo
si affacciò nella sua testa.
“ Queste
su Lord Voldemort non sono stronzate” riecheggiò
la voce di
Sirius. “Il Ministero può continuare a dirci che
è solo un
momento passeggero tutte le volte che vuole, ma questo non lo
è per
niente. Diavolo, dovreste sentire le cose che dice mia cugina
Bellatrix a cena. Meglio prepararsi, ragazzi, perché quelli
che
stanno arrivando sono davvero tempi di merda”.
«Sì»
sussurrò fra sé e sé.
Gora
assottigliò le palpebre e scosse appena la testa. Remus
alzò lo
sguardo su di lei e fece un respiro profondo.
«Och,
nonna, certo che sarei andato anch'io».
Le
dita artritiche della vecchia si allungarono deboli fra le coperte e
lui appoggiò la propria mano sulla sua. Nonostante la
malattia se la
stesse mangiando giorno dopo giorno con foga sempre più
crescente,
la stretta di Gora era salda e decisa – era quella di una
donna di
Kinsale.
«Hai
la faccia da inglese, ma parli come un irlandese». Nei suoi
occhi si
era accesa un'inaspettata luce orgogliosa. «E ora va' a farti
un
giro, voglio riposare».
Remus
annuì, si alzò in piedi e si chinò
verso il comodino per riporre
la Bibbia, ma Gora lo interruppe con aria seccato.
«Prendila
te».
Lui
si bloccò stupito. Sua nonna non era quel tipo di persona
particolarmente propensa a elargire lodi e regali. E a quella Bibbia
era sempre stata particolarmente affezionata. Era vecchia e puzzava
di muffa, l'inchiostro era scolorito e qualche pagina si era
addirittura staccata. La copertina di pelle esibiva i segni del
tempo, dei tarli e di infiniti passaggi di mano in mano.
«Ma
domani tornerò alla solita ora a leggertela,
nonna».
«Och,
certo che sì. E sarà meglio che te ne
ricordi».
Remus
accennò un sorriso gentile e aprì la bocca con
l'intenzione di
declinare l'offerta, ma Gora parve leggergli nella mente.
«Ti
ho detto di prenderla. Non si sputa mai nel brodo che ti viene
offerto. Io non riesco più a leggere un dannato accidente,
ma tu sì»
si fermò, socchiuse le palpebre con aria stremata e aggiunse
al
soffitto: «E ne avrai bisogno. Och,
ragazzo, fidati di me. Te
non ci vuoi credere, ma un giorno ne avrai più bisogno di
me».
*
|
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Capitolo 2 *** San Pietro - Fui l'unico a rinnegare ***
Note di Trick - e stavolta non vedo il motivo di fare troppo bla-bla.
E invece sì, fregati.
1) Il Kilbeggan è una marca di whisky irlandese. Io non l'ho
mai bavuto, ma a giudicare dalle lodi che riceve sulweb è
quasi un suicidio assistito.
2) Secondo il Lexicon, patria di improbabili riferimenti potteriani, da
qualche parte esiste sul serio un tizio di nome Argus Pyrites al
servizio di Lord V. che indossava un paio di guanti bianchi. Una
mezzapippa dandy, insomma. La nota del Lexicon aggiunge pure che no,
non è un personaggio Canon, ma in una prima versione della
Pietra Filosofale viene menzionato come l'autore di Alchemy, Ancient Art and Science.
A volte mi chiedo se quelli del Lexicon abbiano una vita. Comunque, per
quanto non abbia capito chi diavolo sia Argus Pyrites, l'ho rapito per
i miei sporchi fini narrativi.
3) La traduzione italiana di termini come Muggleborn, Halfblood e
Mudblood fa
pena. La Salani non ha afferrato il concetto e ha fatto un gran
minestrone. Io ho usato i termini Nato
Babbano, Mezzosangue
e Sanguesporco, sennò qua aggiungiamo pure le
patate arrosto. Insomma, Mezzosangue non è considerata
un'offesa in sè, facciamocene una ragione.
*
Santi
di cartastraccia
Capitolo
Due
San
Pietro – Fui l'unico a
rinnegare
Gesù
gli disse: «In verità ti dico, proprio tu, oggi,
in questa stessa
notte,
prima
che il gallo canti due volte mi rinnegherai tre volte».
Marco,
14, 30
Il
bugigattolo in cui Remus abitava non era nemmeno lontanamente
paragonabile a una casa. Era una stanza misera e umida, con la carta
da parati resa verdognola dalla muffa e il linoleum del pavimento
macchiato da decenni di suole di scarpe. Puzzava di freddo e di roba
vecchia, le tende delle uniche due finestre erano piene di buchi di
tarme, il letto stava in un angolo e una malridotta cucinetta a gas
stava dall'altro. In mezzo c'erano solo un vecchio tavolino
traballante, una sedia dalla paglia sfilacciata e decine di pile di
libri pericolanti.
Quando
il campanello suonò la prima volta, Remus non si mosse.
Rimase
seduto a terra, con la schiena appoggiata al bordo duro del materasso
e il capo piegato all'indietro. A pochi centimetri dal suo piede,
giacevano una bottiglia di Kilbeggan e un libro dalle pagine
ingiallite. C'erano un paio di gocce di whisky ambrate sulla
copertina logora.
Il
trillo assordante del campanello risuonò di nuovo. Si
udì una serie
di feroci colpi alla porta, la voce tonante di Alastor Moody che
imprecava, ancora il campanello, e poi la porta venne spalancata con
violenza. Moody zoppicò nella stanza ed emise un roco
borbottio
sarcastico.
«Complimenti,
Lupin. Questa porta è proprio quello che definisco
“un ostacolo
insormontabile”».
Le
dita di Remus si strinsero attorno al collo freddo della bottiglia.
Le sue labbra si piegarono appena in una smorfia sofferente.
«Abbiamo
vinto la guerra» sbuffò. Sollevò il
volto verso il mago più
anziano e inarcò un sopracciglio. «I Mangiamorte
non sono più
appostati dietro la mia cassetta delle lettere. Fra l'altro, Moody...
hai visto se mi è arrivata la bolletta della
luce?».
Di
reietti e disperati, Alastor Moody ne aveva visti tanti.
Era
stato uno dei pochi sopravvissuti alla guerra contro Gellert
Grindelwald e quel massacro di giovani maghi dominava ancora i suoi
incubi. I compagni che avevano fatto ritorno a casa insieme a lui
avevano conservato il suo stesso sguardo alienato, gli stessi nervi
tesi, la stessa lingua pungente. Era il fiato della morte che era
rimasto loro appiccicato addosso: eccola, la medaglia d'oro al
valore. E poi era arrivato Lord Voldemort e si era preso i migliori
di loro che erano resistiti. E Remus Lupin... Remus Lupin alla fine
era sopravvissuto. Alastor se l'era aspettato.
Fra
i giovani membri dell'Ordine della Fenice, Remus era sicuramente il
più gracile. Era alto e dritto come un fuso, con i capelli
biondicci
arruffati fino alle spalle, le clavicole sporgenti e un velo di barba
con cui cercava di sentirsi uomo. Nonostante il malsano pallore e le
pesanti ombre scure sul volto, il suo sguardo era vispo e attento. Ed
era cauto – più cauto di quanto non avrebbero mai
potuto essere i
suoi amici. Era una qualità che Moody aveva imparato ad
apprezzare
solo nel corso degli anni, fin quando non aveva lasciato l'audacia
agli eroi caduti e si era accontentato della cautela dei
sopravvissuti.
Dell'astuto
ragazzino a cui Moody aveva insegnato a combattere non era rimasto
che uno spettro sbiadito accovacciato ai piedi di un letto disfatto.
Quello davanti a lui era probabilmente il ragazzo dall'aspetto
più
morto che avesse mai visto.
Remus
giocherellava con la bottiglia, fissandone concentrato il contenuto
che vi ondeggiava all'interno. Moody infilò le mani nelle
tasche e
gli rivolse un'occhiata critica.
«Se
non ti rialzi in fretta, non ti rialzerai più».
«Le
mie condoglianze».
«Non
fare l'idiota, ragazzo». Afferrò la sedia, la
ruotò di fronte a
Remus e vi si lasciò cadere con solenne stanchezza. Alastor
Moody
apparve d'un tratto in tutta la durezza dei suoi anni. «Non
sono
venuto per darti una pacca sulla spalla. Nella mia vita ne ho
ricevute tante, e ti giuro che mi ha fatto meno male perdere la
gamba».
Una
luce pericolosamente ferina attraversò gli occhi di Remus.
Piantò i
denti nel labbro inferiore e storse il naso con incredibile sdegno.
La mano rigidamente serrata attorno al collo della bottiglia ebbe un
tremito.
«Perché
diavolo sei venuto?».
Il
viso di Moody venne deformato da un orrendo sorriso rassegnato. Le
cicatrici che gli solcavano la pelle come una raccapricciante
ragnatela si storsero in sottili linee chiare. Non era il sorriso di
un uomo: era il sorriso di una maschera di carne.
«Per
ricordarti che sei vivo. Ero sicuro te ne saresti dimenticato. Eppure
sei ancora qua, ragazzo. Mi hai fatto vedere che sai combattere
come un uomo. Adesso rialzati come un
uomo».
Remus
non rispose. I suoi occhi non lasciarono per un solo istante i
contorni distorti del volto del vecchio Auror. Poi si mosse con
improvvisa rapidità, sbatté a terra la bottiglia,
afferrò il libro
e lo aprì con un gesto nervoso a una pagina segnata con una
piega
nell'angolo superiore. Il ragazzo si umettò le labbra con
un'espressione di diabolica malizia e tese il piccolo volume davanti
a sé. Moody riconobbe solo in quel momento la sagoma
sbiadita di una
croce impressa sulla copertina di pelle.
«“Beati
i poveri, perché di essi è il regno dei
Cieli”» sputò sdegnato
Remus. «“Beati gli afflitti, perché
saranno consolati”».
Moody
abbassò le palpebre e soffocò un rauco borbottio
stanco nella gola.
Si passò una mano sul viso e scosse il capo.
«Lupin,
piantala».
Ma
il ragazzo non diede segno di averlo sentito. Riafferrò la
bottiglia
e si alzò in piedi con aria instabile, rovesciando qualche
goccia di
whisky sul pavimento. Reggeva la Bibbia con baldanzosa
teatralità.
“ Ventun
anni” pensò Moody con dolore. “Due in
meno di quanti non ne
avessi io quando ho vinto la mia prima guerra”.
«“Beati
i miti perché erediteranno la terra”»
continuò con enfasi
crescente Remus. «“Beati gli affamati e gli
assettati di
giustizia, perché saranno saziati”».
Portò
alle labbra la bottiglia e ne scolò un lungo sorso. Poi
sollevò lo
sguardo dalla Bibbia e scoccò a Moody un'occhiata tagliente.
Emise
uno sbuffo nauseato e gettò a terra il libro. Le vecchie
pagine
sibilarono l'una con l'altra mentre si ripiegavano. Remus
iniziò a
muoversi nella stanza come un lacero leone in gabbia. Moody non
riuscì a contenere lo stupore nel sentirlo continuare a
memoria
quella recita fastidiosa.
«“Beati
i misericordiosi, perché troveranno misericordia”.
Tu sei mai
stato misericordioso, Moody?».
«Lupin...».
Lui
continuò a ignorarlo. Bevve con più foga, bevve
come se non
desiderasse che strozzarsi con quel whisky irlandese da due soldi e
calciò brutale una pila di libri. Moody non si scompose.
Remus
continuò a marciare con aria invasata. I suoi occhi erano
arrossati
dal pianto e dalla mancanza di riposo, luccicavano di lacrime di
furia e dolore che non era più in grado di trattenere. Ormai
la sua
voce non era che un sibilo rabbioso – e sul suo viso era
comparso
il fantasma del lupo che tanto disperatamente cercava di soffocare.
«“Beati
i puri di cuore, perché vedranno Dio”. Credi che
Peter veda Dio,
ora? Dimmi, Moody... credi lo veda?». Un altro sorso di
whisky, un
altro sputo di parole. «“Beato chi opera per la
pace, perché sarà
chiamato figlio di Dio”».
«Tutta
questa recita te li riporterà indietro?».
Remus
parve calmarsi. Si bloccò di colpo in mezzo alla stanza,
deglutì a
fatica, agitò la testa e si morse le labbra, ma ormai aveva
le
guance pallide rigate da lacrime silenziose. Pareva si stesse
sciogliendo lui stesso fra i libri rovesciati e il whisky che
continuava a scivolargli fra le dita. Ma poi scattò ancora
con
rinnovata energia, e Moody alzò davvero gli occhi al cielo
nel
vederlo dirigersi verso la piccola cucina e piegarsi per aprire un
cassetto dal quale estrasse un pacchetto stropicciato di sigarette
morbide. Remus se ne portò una alle labbra e gli
lanciò d'istinto
le restanti. L'altro le afferrò al volo e se le
rigirò disgustato
davanti a ciò che restava del suo naso.
“ Rothmans
senza filtro”.
«Tua
madre non è Babbana?» lo apostrofò
grave. «Non ti ha detto che
questa roba fa male?».
Il
ragazzo tirò una prima isterica boccata e sbuffò
divertito.
«“Beati
i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi
è il Regno
dei Cieli”» riprese. «Lily e James sono
andati là, Moody. Lo
sapevi? Io li ho visti scendere tre metri sotto terra, ma qua
sembrano tutti convinti che siano andati un po' più in
alto».
Moody
si alzò di colpo e batté un pugno sul tavolo.
«Per
la grazia di Merlino, ragazzo, ora basta!».
«Sto
parlando con la grazia di Dio, non con la
tua!» ruggì con
folle disperazione. «“Beati voi quando vi
insulteranno, vi
perseguiteranno e vi mentiranno, dicendo ogni sorta di male contro di
voi per causa mia”. Un Lupo Mannaro: questo è
ciò che sono.
Questo è ciò che sarò per sempre.
Questo è il modo in cui la
gente mi chiamerà fino alla fine dei miei giorni. Cosa ne
pensi,
Moody? È “a causa di Dio”
che tutto questo è successo? È
per questo che sono morti!?».
Fece
un passo avanti e uno indietro, a destra e a sinistra, come se avesse
perduto la concezione di tempo e spazio. Poi scagliò la
bottiglia di
Kilbeggan contro la parete opposta. Il vetro s'infranse con uno
schianto acuto. Il whisky iniziò a scivolare verso il
pavimento in
decine di rapide gocce giallognole. All'aria già stantia
della
stanza si riempì l'acre aroma dell'alcol. Quell'ultimo
impetuoso
gesto parve svuotare Remus di tutta la sua determinazione. Si
appoggiò con una mano tremante al muro e abbassò
sconfitto la
testa. I lunghi capelli biondicci gli coprirono il viso, ma Moody
vedeva la sua schiena alzarsi e abbassarsi al ritmo del pianto.
«“Rallegratevi...”»
biascicò Remus allo stremo.
«“Esultate... perché grande
è
la vostra ricompensa nei cieli”».
Moody
non si avvicinò. Rimase fermo accanto al tavolo, fissandolo
singhiozzare pietosamente con la fronte appoggiata a una carta da
parati ammuffita. C'erano state troppe scelte sbagliate in quella
guerra, troppi errori, troppa fiducia in capacità che non
erano mai
state all'altezza delle aspettative... e ora tutto si concludeva
lì,
in un misero monolocale pregno dell'odore della sconfitta. La loro
grande battaglia, le loro speranze, la loro tempra... lo spettro di
ciò che di esse rimaneva era lì, accanto a un
ragazzo poco più che
ventenne già spezzato dalla morte e a un veterano
dell'Inferno che
non conosceva il modo per raddrizzarlo. Non c'era alcun modo per
rimettersi davvero in piedi: traballare senza appigli era il premio
di consolazione per i sopravvissuti.
“ Devi
rialzarti, ragazzo” pregò fra sé e
sé Moody. “Con Dio o senza
Dio... questo non importa”.
*
C'erano
molte persone che Remus non si sarebbe mai aspettato di vedere
davanti alla porta della casa di sua madre. Kinsale era un villaggio
di poca gente, ed era tutta abituata a farsi gli interessi altrui
solo in piazza. Tutti gli altri – tutti quelli che erano
entrati
nella vita di Remus senza mai passare per Kinsale – facevano
parte
di una folla di facce che non aveva programmato di rivedere.
E
invece Alastor Moody era fermo sul primo gradino di pietra, con le
mani infilate in un anonimo soprabito Babbano e un ridicolo cappello
di feltro piegato in modo da celare l'occhio sinistro.
«Ti
trovo in pessima forma, Lupin» esordì svelto,
mentre si insinuava
con altrettanta velocità nel piccolo ingresso.
«Plenilunio alle
porte?».
Totalmente
spiazzato dalla sua visita, Remus rimase fermo con la mano sul
pomello per qualche secondo. Quando si voltò, la sua
espressione era
impenetrabile.
Moody
si diresse incurante nella cucina, levò il cappello e
mostrò con
orgoglio un orrendo occhio di un intenso azzurro che roteava in
un'orbita che Remus ricordava vuota. Il ragazzo emise un verso
disgustato.
«Quell'affare
fa paura, Moody».
«“Malocchio”.
È così che mi chiamano adesso».
«Piuttosto
azzeccato» commentò sbrigativo Remus, avanzando
verso il fornello a
gas e spostando il bollitore dalla fiamma.
L'anziano
Auror si sedette su una sedia e appoggiò il mento alla mano.
A Remus
non sfuggì la difficoltà con cui muoveva la gamba
di legno.
“ Sono
passati sette anni e ancora non si è abituato”.
«Non
mi chiedi cosa ci faccio nella tua cucina?» sbottò
sarcastico
Moody.
«Scommetto
che non sei qui per prendere una tazza di tè».
L'occhio
magico dell'uomo si ribaltò d'un tratto all'interno del suo
stesso
cranio e Remus fece una smorfia ancora più nauseata.
«Ora
capisco perché non ti chiamano
“Bellosguardo”» scherzò con un
mezzo sorriso.
«Ognuno
si porta addosso le cicatrici che ha meritato»
ribatté pungente.
Remus non raccolse la provocazione, così Moody
proseguì. «Sono qui
per offrirti un lavoro».
«Ce
l'ho già, un lavoro».
«Sì,
me l'hanno accennato. Com'è la vita in miniera?».
«Non
è una miniera, è solo un vecchio deposito di
carbone».
Moody
emise un lungo sbuffo stizzito.
«Uno
con la tua testa che sposta a mano carriole di carbone...».
«Con
la mia testa, con i miei artigli e con le mie zanne» lo
corresse
pacato Remus, facendo le spallucce. «Dimmi qualcosa che non
so,
Malocchio».
Moody
infilò una mano nella tasca interna del soprabito, estrasse
una
pergamena giallastra ripiegata su se stessa e gliela porse. Remus la
afferrò con lieve esitazione, la dispiegò e
scorse rapidamente una
lunga lista di nomi che non gli ricordavano nessuno che avesse
conosciuto.
«Sono
gli invitati alla tua festa di compleanno?».
L'uomo
ignorò la sua battuta.
«Magari
lo fossero. Farei meno fatica a strozzarli uno per uno».
Remus
aggrottò confuso la fronte e rilesse ancora i primi nomi.
“Hesper
Gamp, Howland Coopey, Hamish MacFarlan”. Cercò di
abbinare un viso
a ognuno di essi, ma non ottenne alcun risultato.
«Chi
sono?».
«Quelli
rimasti fuori».
«Rimasti
fuori... da dove?».
«Da
Azkaban» replicò con ovvietà Moody.
«Sono i quarantatré
maledetti figlia di cagna che ci sono scappati. La linea ufficiale
del Ministero è che abbiamo la situazione sotto controllo.
La linea
ufficiosa ce l'hai fra le mani».
«E
dovrei conservarla per spedire gli auguri di Natale?».
L'occhio
normale di Moody si assottigliò minacciosamente.
Scrutò il mago più
giovane con estrema attenzione, poi scosse la testa divertito e
disse:
«Da
quando sei diventato così sarcastico?».
«Da
quando tu sei diventato così diplomatico»
replicò prontamente
Remus. «Avanti, Moody. Smetti di girarci attorno: cosa vuoi
che
faccia?».
«Il
Ministero se ne è lavato la mani. Se la notizia trapelasse
al di
fuori del Quartier Generale degli Auror, la comunità magica
andrebbe
fuori di testa. Riesci a immaginarlo? Sono passati sette anni dalla
sconfitta di Voldemort e c'è ancora gente che non si azzarda
a
pronunciare il suo nome. Credono possa rispuntargli di colpo da sotto
il letto... e più il tempo trascorre, più beccare
questi bastardi
diventa difficile» si fermò e mostrò i
palmi ruvidi con aria
rassegnata. «Sei l'unico membro dell'Ordine che
può farlo».
Remus
inarcò un sopracciglio e gettò la pergamena sul
tavolo.
«L'Ordine
della Fenice esiste ancora?».
«Esisterà
fin quando esisteranno Mangiamorte fuori dalle mura di
Azkaban».
«E
perché lo stai proponendo a me?».
Moody
gli scoccò un'occhiata di fuoco.
«Non
fare l'idiota, ragazzo. Sai
perché».
«No,
non lo so» rispose franco Remus, intrecciando le braccia al
petto e
guardandolo con sfida. «Eravamo in tanti, ma tu sei venuto da
me. I
casi sono solo due: o tutti hanno declinato la gentile offerta o tu
sei disperato».
«O
forse tu sei il migliore, razza di idiota».
La
schiettezza feroce di quel complemento lasciò Remus senza
parole.
Moody non era facile agli elogi – e quando li faceva era
abile a
camuffarli da rimprovero. Si passò una mano fra i capelli
troppo
lunghi e soffiò infastidito.
«Perché
non te ne occupi tu?».
«Perché
tu hai bisogno di fare qualcosa di vivo più di quanto non ne
abbia
io. Merlino, Lupin... guardati»
ringhiò con voce
paternalista. «Sei lo straccio del ragazzo che sei stato un
tempo».
Remus
assottigliò risentito le palpebre.
«Sono
ciò che la guerra mi ha reso».
«No,
ragazzo» lo corresse duramente Moody, sollevando la pergamena
e
scuotendola con eloquenza. «Sei ciò che questi
bastardi ti hanno
reso. Ti hanno distrutto, ti hanno svuotato, ti hanno ammazzato...
e tu hai permesso loro di farlo».
Quelle
parole parvero scuotere il giovane fin nelle più torbide
profondità
del suo animo, ma rimase immobile come una statua. Moody lo aveva
visto di rado perdere quel fare calmo e ragionevole con cui si era
sempre distinto. Perfino quando era un ragazzino appena maggiorenne
con la testa piena di sogni di vittorie e grandi battaglie contro le
Arti Oscure sapeva essere compito come un piccolo soldatino di
piombo. Erano doti che Moody apprezzava molto, ma sapeva fin troppo
bene che il cuore di Remus Lupin era molto più agitato e
suscettibile di quanto non si potesse credere.
“ Fra
i suoi amici, era il più pericoloso”
ricordò con triste
nostalgia. Era una constatazione tremendamente vera. Moody era
rimasto sconcertato nel rendersi conto che quel ragazzo pallido e
ossuto era il più temibile giovane mago che avesse mai
incontrato.
Anche James Potter era molto talentuoso, ma era troppo nobile per
sperare di vincere una guerra in cui occorreva sporcarsi le mani; al
contrario, Remus vantava quella razionalità un po' cinica
che
divideva gli eroi dai soldati.
Moody
non aveva dimenticato la prima volta in cui aveva dovuto uccidere un
uomo, e di certo non lo aveva fatto nemmeno Remus. Era stata una
battaglia cruenta e mortale. C'erano state esplosioni di vetri,
intere strade squarciate sotto il cielo di Londra e un sacco di
Babbani morti. Remus aveva combattuto al fianco di Moody. Avrebbe
compiuto diciotto anni il mese successivo, ma la ferocia e la
determinazione con cui aveva scagliato il suo primo Anatema Che
Uccide contro un Mangiamorte non era quella di un ragazzino. Era
quella di un uomo che aveva scordato l'infanzia, quella di un bambino
che non l'aveva mai davvero assaporata...
“ Ragazzo,
stai bene?” gli aveva chiesto più tardi.
Gli
Obliviatori e gli Auror del Ministero della Magia affollavano
ciò
che restava del quartiere più a nord dell'Essex con le mani
nei
capelli e lo sguardo sconvolto. C'era ancora gente che correva
disperata, Babbani fuori controllo e Frank Longbottom aveva appena
trovato un pezzo della gamba di Benjy Fenwick. Remus era seduto sul
ciglio di un marciapiede e si fissava pensieroso i palmi della mani.
Quando aveva sollevato il volto, Moody si era stupito nel vedergli
un'espressione tanto vuota.
“ Mia
nonna ripeteva spesso che siamo tutti schiavi del peccato”
aveva
commentato con aria distratta. “Sono parole di
Gesù, lo sapevi?
Chiunque commette peccato è schiavo del peccato.
Lo disse ai
farisei che desideravano lapidare l'adultera. Se quella donna fosse
capitata fra le mani di Mosè, Mosè sarebbe stato
il primo a
colpirla”.
Moody
aveva sgranato gli occhi e lo aveva fissato come se fosse
improvvisamente uscito di senno.
“ Non
sapevo credessi in Dio”.
Remus
aveva annuito piano.
Non
era affatto raro imbattersi in Mezzosangue o Nati Babbani di
religione protestante. Con il trascorrere dei secoli, era diventato
incredibile trovare un mago o una strega ancora fedele agli antichi
culti della natura, e l'ingresso di un numero sempre maggiore di
figli di Babbani a Hogwarts aveva distrutto la barriera che aveva
sempre diviso la magia dalla fede cristiana.
Tuttavia,
c'era qualcosa di malsano in Remus, qualcosa di atipico che Moody non
era mai riuscito a inquadrare... forse era a causa della sua
licantropia. Era una delle tante logiche fin troppo sbagliate che il
mondo non aveva voglia di scrollarsi di dosso: era un Lupo Mannaro,
dopotutto. Chi avrebbe mai pensato che potesse credere in Dio?
“ È
una storia buffa” aveva continuato a raccontare il ragazzo, e
Moody
non l'aveva interrotto. “Ho sputato nell'acquasantiera
perché il
parroco mi ci stava affogando dentro. Non so se vale come battesimo
cattolico”.
“ Cattolico?”
aveva ripetuto stupito.
“ Sono
irlandese. Lo è mia madre, almeno”.
“ So
che tua madre è irlandese. Non sapevo fossi
cattolico”.
“ Dio
ha ucciso un sacco di gente per liberare il popolo d'Israele”.
Moody
aveva inspirato profondamente e si era cacciato entrambe le mani
nelle tasche. Si era mosso un po' a disagio sui piedi, senza
distogliere gli occhi da quel ragazzetto pallido e confuso. Conosceva
la sensazione di smarrimento provocata dalla guerra.
“ Tienilo
a mente: è un pensiero che potrebbe tornarti
utile”.
Remus
aveva scosso veemente la testa e si era guardato i palmi di nuovo.
“ Io
lo volevo morto” aveva sputato con enfasi. “E non
mi sento in
colpa. Non mi sento nemmeno male. Ho ucciso un uomo e non sento
niente. Sono solo... incredulo.
Non credevo di
riuscirci. E non sento di aver peccato contro Dio. Dovrei?”.
Sì,
aveva pensato Moody. È quello che
sentii io.
“ Se
tu non l'avessi ucciso, lui avrebbe ucciso te e poi chissà
quanti
altri poveri disgraziati”.
Il
ragazzo aveva storto appena il naso e si era grattato la nuca.
Un'ombra cupa gli aveva attraversato di colpo il viso.
“ Chissà
se a San Pietro basterà come scusa”.
E
ora, sette anni più tardi, davanti a lui c'erano i resti di
un
soldatino di piombo che appariva più vecchio di quanto non
fosse mai
davvero stato. Remus gli prese la pergamena fra le mani e la rilesse
per l'ennesima volta con espressione distante ed enigmatica. Nel
scorgere il dubbio e l'incertezza sul suo volto, Moody trovò
la
forza per sputare fuori il suo più agghiacciante timore.
«Silente
crede che non sia ancora finita».
Remus
alzò gli occhi. Per un attimo parvero quelli di un bambino
sperduto,
ma quando parlò la sua voce era forte e sicura.
«E
tu gli credi?».
«È
Silente» rispose con naturalezza. Apri le mani con aria
interrogativa e aggiunse: «Coraggio, Lupin. Fa' la tua
scelta. Da
una parte hai delle carriole di carbone e dall'altra hai
quarantatré
cani rognosi che non aspettano altro che il ritorno del proprio
padrone».
«Peccato
che la parte che mi paghi sia quella con il carbone».
Moody
emise un verso un po' scettico.
«Non
pensavo saresti finito a dare un prezzo al tuo onore. Non
tu».
Le
labbra di Remus si arricciarono in un sorriso privo di gioia.
Ripiegò
la pergamena e la infilò nella tasca posteriore dei
pantaloni, ma
non disse altro.
*
Remus
aveva sempre pensato che Dublino fosse una città
meravigliosa sotto
tantissimi aspetti, solo che lui capitava sempre in quelle
più
schifose. Erano quelle in cui gli scarichi fognari avevano dei
problemi e si rigettavano in strada quando pioveva. E quella era
Dublino, e a Dublino pioveva davvero tanto.
“ Dio
ha fatto l'Irlanda per poterci vendere gli ombrelli” ripeteva
spesso Branna Lupin. Con il trascorrere degli anni, Remus aveva fatto
sua quella citazione. Pioveva pure quel giorno: l'acqua scendeva
dalle grondaie dei palazzi popolari del quartiere industriale e
formava fangose pozzanghere accanto ai marciapiedi. I pantaloni scuri
di Remus erano inzaccherati fino a metà polpaccio.
Maledisse
l'assenza del proprio mantello. Era frusto e rattoppato con decine di
pezze differenti, ma perlomeno lo avrebbe tenuto asciutto. Peccato
solo che Dublino non fosse abbastanza magica per sopportare la
presenza di un mago incappucciato. In compenso, sembrava abbastanza
infame per nascondere uno dei quarantatré Mangiamorte
ufficiosamente
scappati dal proprio processo davanti al Wizengamot.
Argus
Pyrites era il quindicesimo nome della lista che Remus conservava
gelosamente fra le ultime pagine della Bibbia che un tempo era
appartenuta a Gormlaith O'Buckley. A Remus erano servite intere
settimane per rintracciarlo, ma la fitta rete di derelitti e
disgraziati che affollavano i bassifondi non l'aveva mai tradito.
Moody gli aveva insegnato bene quali nervi scuotere. “Sei un
Lupo
Mannaro, ragazzo. Non piangerci sopra e sfrutta il timore che puoi
incutere a quella feccia di ladri e fattucchiere”.
Willy
Wimple era quello con la lingua più sciolta e l'alito
più nauseante
di tutti.
“ Lo
cerchi nel paese sbagliato, Lupin. Dicono sia scappato in
Irlanda”.
“ Dicono
anche che l'Irlanda sia un paese grande,
Willy”.
Il
macilento ricettatore si era stretto nelle spalle ossute e si era
passato una mano fra i corti capelli rossicci.
“ Eh,
che ti posso dire? Questo è quello che so”.
Dollymount,
ecco dove si era rintanato Pyrites con tutto ciò che era
rimasto del
suo conto alla Gringott. Remus aveva trovato piuttosto ironico il
fatto che uno degli ultimi sostenitori di Lord Voldemort si stesse
nascondendo in uno dei quartieri Babbani più miseri di
Dublino. Ma,
dopotutto, lui era una Creatura Oscura che dava la caccia ai
Mangiamorte su ordine di un Auror visionario con un occhio solo
–
c'era ironia nascosta un po' dappertutto.
Pyrites
uscì da una piccola porta dalla vernice scrostata che si
affacciava
in un viottolo secondario. In una mano reggeva l' ombrello e
nell'altra la spazzatura. Sogghignando sotto i baffi, Remus si
affrettò ad attraversare la strada. Fece scivolare la
bacchetta
fuori dalla manica della camicia sinistra e si insinuò alle
sue
spalle.
«Pessima
giornata, eh?» disse con voce roca.
Preso
in contropiede, il Mangiamorte sobbalzò e si
voltò spaventato.
Fissò per qualche istante Remus, ma non lo riconobbe.
Pyrites aveva
una faccia squadrata e rubizza, con due grosse labbra sporgenti e gli
occhi ravvicinati. Era stato uno dei più sanguinari uomini
al
servizio di Lord Voldemort: ora sembrava solo un uomo sciupato con un
brutto viso cavallino. Gettò il sacco della spazzatura e
alzò il
mento con aria sospettosa.
«Che
diavolo vuoi?».
«Ti
porto i saluti di Edgar Bones e dei suoi figli morti».
Il
colore scivolò via dal viso di Pyrites. Lasciò
cadere l'ombrello e
tentò di sfrecciare nella direzione opposta, ma a Remus fu
sufficiente un pigro movimento della bacchetta per atterrarlo fra le
pozzanghere. L'uomo si contorse a terra, si rigirò sulla
schiena e
lo guardò con crescente terrore. Boccheggiava e squittiva
come un
piccolo topo in trappola. I suoi occhi si spalancarono nel vedere il
volto cereo di Remus.
«R-Remus
Lupin...» pigolò. Scosse il capo con veemenza,
senza distogliere lo
sguardo atterrito dalla punta della sua bacchetta.
Remus
inarcò sarcastico un sopracciglio.
«Mi
aspettavi?».
Pyrites
si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«I-io...
io non c'entro niente con quella storia. Io so cosa
stai
facendo...».
«E
cosa sto facendo?».
«So
di Hesper...» lo accusò con decisione. Per un
attimo parve tornare
il presuntuoso mago era stato un tempo. «Hesper Gamp. L'hanno
trovato morta nel suo appartamento».
L'espressione
di Remus era gelida e impietosa. Schioccò la lingua e
inclinò
appena il capo. Un ciuffo di capelli bagnati gli scivolò
sulla
fronte.
«Non
era il suo appartamento. Era l'appartamento di una Babbana di nome
Betty Dorkins. Aveva due figli, tre nipoti e un'adorabile femmina di
Yorkshire di nome Coco».
«L'hai
ammazzata».
«Chi?
L'adorabile Coco?» replicò con pungente umorismo
Remus. «No, è
sparita. Temo che Hesper Gamp se la sia mangiata».
La
gloria perduta guizzò d'improvviso negli occhi di Pyrites.
Storse
con disprezzo il grosso naso e scandì ancora:
«E
tu hai ammazzato lei. Dimmi, Lupin, quale dannata carogna del
Ministero ti ha sguinzagliato in giro per la Gran Bretagna? Credevo
aveste tutti le mani pulite, laggiù».
Remus
scoppiò in un'amara risata.
«Ti
sembro un impiegato ministeriale? Il Dipartimento per il Controllo e
la Regolarizzazione delle Creature Oscure muore
dalla voglia
di mettere le mani anche su di me».
«Ma
tu lavori per loro».
«Io
lavoro per me. Lavoro per la gente come Betty
Dorkins.
Lavoro per la gente come Edgar Bones»
negò con un piglio di
furioso orgoglio. «Lavoro per riconsegnare ognuno di voi
all'inferno
che continua a sputarvi fuori».
«Che
bestia piena di onore».
Remus
si stupì della velocità con Pyrites si
lanciò sull'ombrello
abbandonato ai suoi piedi. Ne staccò l'impugnatura ricurva,
rivelando una piccola e storta bacchetta magica. Tutto parve muoversi
a rallentatore – o forse era solo la percezione di Remus,
forse
dipendeva tutto dal fatto che se lo era aspettato. Forse era
semplicemente la forza dell'abitudine.
La
bocca di Pyrites si aprì per scandire la maledizione e nella
mente
di Remus riapparvero i profili ormai dimenticati dei volti dei
piccoli Bones, riversi nel soggiorno con le morbide guance ancora
rigate di lacrime. C'era stato anche Argus Pyrites, quella notte. Era
il Mangiamorte che aveva evocato il Marchio Nero dopo il tremendo
assassinio.
Un
lampo di luce verde illuminò il vicolo buio, esplodendo
nelle
pozzanghere e dipingendo labili ombre smeraldine sul volto
impassibile di Remus. Pyrites era un cadavere ancora prima di
sprofondare sul ciglio del marciapiede. Remus rimase per qualche
minuto immobile sotto la pioggia fredda, fissando con aria vaga il
corpo dell'uomo. Moody non ne sarebbe stato particolarmente lieto, ma
quello era lo scotto da pagare per poter consegnare al Ministero i
quarantatré ex-Mangiamorte. Remus era un uomo paziente, ma
trovava
piuttosto irritante quando non riusciva a convincerli entro i primi
due minuti a seguirlo al Ministero.
C'erano
taglie sulle teste di ognuno di loro in attesa di essere riscosse da
oltre sette anni. Da morti valevano un po' meno, ma Remus non aveva
mai posseduto abbastanza denaro per imparare a interessarsi di
guadagni e investimenti.
“ Devo
ucciderli?” aveva domandato a Moody con impietosa franchezza.
Il
vecchio Auror lo aveva guardato con tetra serietà e aveva
sbottato:
“ Fa'
quello che vuoi”.
Agitò
la bacchetta a mezz'aria ed Evocò la vecchia Bibbia di sua
nonna. La
aprì all'ultima pagina, dispiegò la pergamena di
Moody e cancellò
il nome di Argus Pyrites dalla lista.
“ Solo
altri ventotto” contò mentalmente. La sua
attenzione ricadde per
la millesima volta sulla stropicciata fotografia magica che non aveva
mai avuto il coraggio di gettare via.
All'epoca
aveva quindici anni e credeva che Hogwarts e i Malandrini fossero
un'istituzione immortale. Erano tutti e quattro seduti sui gradini
della capanna di Hagrid. James portava gli occhiali storti sul lungo
naso, il suo sorriso era vivace e beffardo, e aveva il braccio di
Sirius attorno al collo. Quello sfoggiava un'espressione spavalda sul
bel viso elegante e i capelli lunghi ricadevano scompigliati sulle
spalle. Peter si mordicchiava le unghie e ridacchiava sotto i baffi
delle loro battute, scrutando dal basso verso l'alto con aria
ammirata... e poi c'era lui, con un mezzo sorriso un po' timido, un
sopracciglio appena inarcato e un grosso libro di Aritmanzia stretto
fra le braccia. Remus sollevò la fotografia e la
rigirò. La
sgangherata calligrafia di James non era ancora sbiadita del tutto.
Fatto
il misfatto.
Remus
ripeté mentalmente quella frase per parecchi secondi
– era un
rito, ormai, era il suo personale modo di chiedere perdono a chiunque
fosse stato incaricato di ascoltarlo.
«“Colui
che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo lui
stesso a
morte”» recitò fra i denti.
Ricacciò la fotografia e la
pergamena all'interno della Bibbia e ispirò profondamente.
“Amen”.
Mentre
si allontanava sotto la pioggia, tuttavia, realizzò
che l'unico a essere sopravvissuto era quello che più di
tutti aveva trovato la forza di colpire altri uomini.
*
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Capitolo 3 *** San Giovanni - Fui l'unico a sopravvivere ***
Note
di Trick - nessun bla-bla, questa
volta. Soltanto un grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto e
apprezzato questa mini-long.
1) Credevate che riuscissi a evitare i bla-bla? Siete
troppo ottimisti. I tre capitoli che hanno composto questa storia
prendono nome da tre santi (ma dai?) e io suppongo che voi sappiate chi
siano (poi non so) perché non sono proprio San Teocrazio o
Santa Ermenegilda, insomma, qua si parla di gente famosa. Sono San
Tommaso, quello che ha infilato il dito nel costato di Gesù
perché "se non vedo, non credo"; San Pietro, il furbastro
che ha rinnegato Gesù subito dopo il suo arresto; infine,
ecco San Giovanni, e adesso il bla-bla
ve lo faccio sul serio, così non si può dire che
non abbia studiato l'argomento. Secondo non troppo accertati studi
cristiani, San Giovanni è l'ultimo degli Apostoli a morire -
anzi, sembra addirittura l'unico a non subire alcun martirio e a
raggiungere una veneranda età. San Giovanni Fortunello, in
pratica.
*
Santi
di cartastraccia
Capitolo
Tre
San
Giovanni – Fui l'unico
a sopravvivere
«Scrivo
a voi, giovani, perché avete vinto il maligno».
Atti
di Giovanni, 2, 13
Sapeva
che svuotare la stanza che aveva occupato al numero dodici di
Grimmauld Place sarebbe stato difficile, ma aveva dovuto varcare la
soglia dell'ingresso per rendersi conto di quanto
lo sarebbe
stato davvero.
Era
sempre stato un posto tetro, Grimmauld Place. Lo era perfino nei
racconti di Sirius, quando tutti loro frequentavano Hogwarts e c'era
ancora il tempo e la voglia di ridere delle teste mozzate degli elfi
e delle smanie di grandezza dei Black.
Attraversando
con passo felpato lo stretto androne principale, Remus si rese conto
che la breve permanenza dell'Ordine della Fenice non era stata in
grado di rendere quel posto meno lugubre. Perfino la cenciosa carta
da parati sembrava odorare di cose morte e cose dimenticate. E quella
volta, quella dannata volta, c'era perfino l'eco
della risata
canina di Sirius a rimbombare fra la polvere.
Remus
cercò di raggiungere le scale senza fermarsi davanti al
grande
soggiorno.
Quante
sere aveva trascorso seduto davanti al camino in compagnia di Sirius
e di una delle bottiglie della nobile riserva di suo padre?
Centinaia, forse – a pensarci meglio, si disse, forse avevano
trascorso insieme ognuna di quelle sere. Forse avevano preferito non
lasciarsene sfuggire nemmeno una perché avevano capito
quanto
potesse essere facile perderle tutte in un colpo solo.
Remus
iniziò a risalire i gradini di legno. Perfino il loro
lamentoso
scricchiolare suonava come un elogio funebre.
«Avrei
potuto pensarci io» lo raggiunse la voce flebile di Tonks.
«Hai
lasciato il San Mungo contro il parere dei Guaritori» la
ammonì
lui. “E contro il mio” aggiunse mentalmente.
«Non dovresti
nemmeno pensare di sottoporti a simili
sforzi».
Lei
lo seguì in silenzio fino al primo piano. Remus rimase
qualche
istante in mezzo al corridoio e si voltò per lanciarle
un'occhiata
inquisitoria. Tonks recava ancora tutti i segni della battaglia
nell'Ufficio dei Misteri. Pesanti ombre scure si allargavano sul suo
viso pallido e per quanto cercasse di nasconderlo, zoppicava ancora
vistosamente. Non aveva ancora beneficiato del tutto dell'effetto
delle Pozioni Cura-Ferite con cui l'avevano rimesta in sesto al San
Mungo e il suo sopracciglio sinistro era diviso in due da un taglio
che aveva appena iniziato a cicatrizzarsi.
«Da
solo non ce l'avresti fatta» esordì lei con
franchezza, trattenendo
a stento una smorfia nell'appoggiare la gamba dolorante sull'ultimo
gradino.
«Ho
fatto più cose da solo di quante tu non possa
immaginare».
«E
ne è valsa la pena?» replicò lei con un
sorriso triste. «Io direi
di no».
Rimase
a guardarla mentre gli voltava le spalle e si dirigeva con cautela
verso la sua stanza. Paragonata agli altri Auror che aveva avuto modo
di conoscere nel corso degli anni, Tonks era davvero una cosetta
minuscola. Le punte dei suoi capelli colorati raggiungevano appena
l'altezza delle spalle di Remus. E poi aveva i polsi sottili, i
fianchi stretti, le gambe magre come quelle di una cavalletta e le
mani piccole e lisce come quelle di una ragazzina... la veste da
Auror che sfoggiava con tanto orgoglio la faceva apparire molto
più
simile a un soldatino giocattolo.
Il
ricordo del sapore delle sue labbra appoggiate contro le proprie lo
metteva ancora a disagio. Aveva sperato di trovare il momento giusto
per parlare con lei di quella sconveniente situazione, ma il mondo
era cascato addosso a entrambi e non gli era rimasto nemmeno il fiato
nel petto.
Quando
l'aveva vista soccombere ai colpi di Bellatrix Lestrange aveva
provato la più lancinante paura della sua vita –
non se ne era
accorto fino a quel momento, fino a quando non l'aveva immaginata
perduta, e poi ogni cosa era esplosa, Sirius era
morto e si
era trascinato all'inferno un pezzo di ognuno di loro.
Si
era fatto tutto un po' troppo difficile.
Aveva
creduto che il tempo dei baci e dei sorrisi rubati potesse arrivare
anche per lui. Se ne era quasi illuso, e quando aveva sfiorato la
guancia arrossata di Tonks era arrivato a sfiorare la vera
felicità
per la prima volta in vent'anni... ma tutto gli scivolava sempre fra
le dita. Era stato uno sciocco a scordarsene.
«Oh,
Tosca... il pavimento è sotto a tutti questi
libri?» fu il
drammatico brontolio della ragazza davanti alla porta della sua
stanza.
Remus
si appoggiò allo stipite e si guardò intorno.
Alte pile di libri
ingombravano gli angoli della stanza, circondavano la scarpiera,
ricoprivano la consolle accanto alla finestra e si impennavano
pericolosamente ai piedi del letto. A qualche passo dalla porta c'era
un grande acquario vuoto e impolverato, e c'erano dei libri allineati
perfino al suo interno. Tonks si voltò per rivolgergli
un'occhiata
sconcertata e lui fece le spallucce con aria rassegnata.
«Mi
piace leggere».
«Questo
lo so... ma perché non ti sei preso una
libreria?».
«Mancanza
di abitudine, presumo».
«Abitudine?»
ripeté lei con la fonte aggrottata.
«Le
librerie costano, Ninfadora.
Tonks
fece un sospiro rassegnato, ma nei suoi occhi balenò un
guizzo
affettuoso. Si avvicinò al letto, spalancò le
braccia come un
angelo e vi si lasciò cadere sopra a peso morto. Rimase
ferma a
osservare il soffitto per qualche secondo. Remus provò
l'impulso di
sedersi accanto a lei, ma fu lesto a metterlo a tacere. La sua
vicinanza lo stordiva, lo rendeva inerme, istintivo... e lui odiava
essere istintivo.
«So
che è un momento di merda per te, per me e per tutto il
resto del
globo... ma se non parliamo di quello che è successo, mi
esploderà
la testa. Ripulire i resti del mio cervello da tutti questi libri
potrebbe essere un compito noiosissimo per te».
Remus
socchiuse le palpebre con aria stremata. Avrebbe dovuto immaginare
che lei non sarebbe stata disposta a gettare alla spalle quel dannato
bacio. Tacevano entrambi, ma condividevano la stessa sconcertante
sensazione di aver mosso le pedine troppo in fretta. C'era un intero
burrone di paure e incertezze a un centimetro dalle punte dei loro
piedi, una guerra fuori dalla finestra e un intero esercito di
psicopatici in attesa di strappare le viscere di entrambi.
«Non
credo sia il momento migliore per parlarne».
Tonks
emise un verso sarcastico e intrecciò le mani dietro la nuca.
«Oh,
beh... vorrà dire che ci metteremo comodi e aspetteremo che
questo
schifo finisca. Ma ho come l'impressione che questa guerra ci
mangerà
uno alla volta, sai?».
«Questa
volta non è come l'ultima volta. Siamo
più--».
«--preparati,
attrezzati, addestrati...» gli fece il
verso lei. Il tono
cinico che vibrava nella sua voce lo fece rabbrividire. «Lo
siamo
davvero, Remus?».
Non
ebbe più la forza di mentire nemmeno a se stesso. Si
avvicinò al
letto, si sedette sul bordo opposto al lato sul quale lei giaceva
supina e si coricò al suo fianco. Scrutò le
chiazze umide del
soffitto per qualche secondo e negò con un sospiro
rassegnato.
«Siamo
fottuti».
Tonks
voltò il capo verso di lui e fece una smorfia beffarda.
«È
la prima volta in cui ti sento dire una parolaccia e tu la sprechi
articolando la risposta più schifosa e apocalittica che
potessi
darmi... buon Dio, Remus, ogni tanto dovresti mentire».
Lui
si passò una mano fra i capelli e arricciò le
labbra in un vago
sogghigno.
«Non
tirare in mezzo Dio e i suoi santi... si arrabbiano
facilmente».
«Come
fai a saperlo?».
«“Colpì
ogni primogenito della terra d'Egitto”»
citò lentamente. «Una
creatura piuttosto rancorosa, Dio».
«Però
ha liberato il popolo d'Israele dopo secoli di
schiavitù».
«Per
poi farli sterminare per tutto il resto del tempo libero che aveva
gentilmente donato loro».
Tonks
si sollevò appena, appoggiò il volto al palmo
della mano e si
mordicchiò confusa l'interno della guancia. I suoi occhi
scuri
divennero due sottili linee inquisitorie.
«Mi
avevi detto di essere stato battezzato in una chiesa
cattolica».
«Un
battesimo irlandese farebbe barcollare perfino la fede di
Gesù
Cristo».
«Questa
è blasfemia».
«No,
questa è una constatazione. Avrebbero dovuto aggiungerla al
Vangelo».
Tonks
soffiò divertita.
«Dal
Vangelo secondo Remus Lupin: “Non battezzate i vostri figli
in
Irlanda o cresceranno come dei buddisti con la sindrome
d'abbandono”».
«Io
non sono buddista» replicò con voce neutra.
«E non ho la sindrome
d'abbandono». “Eppure sei solo” aggiunse
mentalmente.
Ed
ecco che il passato tornava a inondargli con prepotenza la mente. Era
sempre così, rapido e doloroso. James sghignazzava nei suoi
ricordi
come un eterno adolescente e scambiava pacche sulle spalle con
Sirius. Non era il vecchio spettro che si era riconsegnato alla
prigionia di Grimmauld Place, non era quell'uomo derelitto che
sorrideva come un teschio... no, era Padfoot, era
il
quindicenne rampollo dei Black con i capelli neri troppo lunghi e il
sarcasmo troppo perfido. Il paffuto Peter era ancora Peter, ancora
Wormtail, e lui, Remus, era davvero convinto che i
Malandrini
fossero destinati a durare per l'eternità.
Sarebbe
stata un'eternità meravigliosa. Avrebbero potuto organizzare
scherzi
e scappatelle nelle cucine, infilarsi di soppiatto a Hogsmeade,
cercare invano di infilarsi nei dormitori delle ragazze e mai nessuna
guerra sarebbe venuta a reclamare la loro gioventù. Sarebbe
stato
per sempre il prefetto Lupin, solo Moony, solo il
ragazzino
macilento cresciuto da un piccolo esercito di donne O'Buckley
irlandesi che di tanto in tanto scandiva “och”
senza rendersene
conto.
E
Lily avrebbe inseguito James e Sirius, avrebbe riservato loro le
più
colorite minacce – ma quelle per James sarebbero sempre state
un
poco peggiori – e alla fine si sarebbero arresi e avrebbero
chiesto
scusa con gli occhi bassi e la labbra arricciate come due bambini.
Lily ne avrebbe riso, avrebbe riso di cuore, e Remus avrebbe riso con
lei, perché qualunque uomo avrebbe riso insieme a Lily. E
sì... sì,
Remus sarebbe stato un uomo. Non umano, magari... ma un uomo, quello
sì, quello avrebbe potuto esserlo sul serio.
La
stiracchiata allegria sul pallido viso di Tonks lasciò
spazio a
un'espressione rigidamente severa. Parve intuire la natura
dell'improvviso silenzio di Remus, perché si fece
più stretta a lui
e gli appoggiò la mano sul petto. Lui socchiuse ancora gli
occhi e
si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«È
tutto sbagliato» mormorò con voce roca.
«Che
cosa?».
«Tutto
ciò che è accaduto è
sbagliato» insisté ancora. Il suo tono
suonava incerto. Sotto le palpebre chiuse gli occhi iniziarono a
bruciare. «James e Lily, Sirius... e io
sono qua. Sono qua e
non ne conosco il motivo».
Tonks
prese ad accarezzargli piano i capelli. Il bacio che posò
sulla sua
fronte parve leggero come un alito di vento primaverile.
«Abbiamo
bisogno di te più che mai, Remus. L'Ordine ha bisogno di
te... Harry
ha bisogno di te.».
«Nessuno
ha bisogno di me».
Lei
alzò un sopracciglio con eloquenza.
«Mio
padre ha sempre detto che gli uomini migliori sono proprio quelli che
pensano di non servire a niente».
Lo
sguardo di Remus si fece d'un tratto tagliente.
«Io
non sono un uomo».
«“Sono
Remus Lupin, il sanguinario Lupo Mannaro dell'Ordine della
Fenice”»
gli fece il verso con insofferenza Tonks. «“Sono
una feroce
Creatura Oscura che divora vergini e bambini, lo sterminatore
più
temuto da ogni mago o strega della Gran Bretagna”. Di',
è questo
che vuoi sentire? Vuoi che ti dica la verità. Eccola: sei un
idiota»
la sua voce si era accesa con una note esasperata. I suoi occhi scuri
parevano scintillare. «“Nessuno ha bisogno di
me”, “io non
sono un uomo”... vaffanculo, Remus. Se ti
ostini a dire di
essere un mostro, la gente ti riterrà un mostro per tutto il
resto
della tua vita».
Remus
si alzò di scatto a sedere con stizza. Sentiva la rabbia e
l'indignazione montargli nel petto, eppure c'era una piccola parte
della sua testa che sapeva chi dei due aveva
davvero ragione.
Era la coscienza che si faceva trascinare dall'eco delle voci di
Sirius e James, dalla risata di Lily, dal ricordo di una pacca sulla
spalla e una fotografia scattata ai piedi della capanna di Hagrid.
“ Tu
non sei un mostro, Moony”. E lui lo sapeva, lo sapeva davvero:
quando veniva paragonato a Fenrir Greyback scoppiava come una furia,
umiliato e rancoroso; e Dolores Umbridge, l'Unità di
Cattura, suo
padre... Remus detestava ognuno di loro. Il mostro era
soltanto
ciò che loro desideravano lui fosse. “Hai solo un
piccolo problema
peloso, amico”. Non era un mostro, non lo era mai stato.
Aveva
sempre combattuto contro i propri istinti, aveva trattenuto artigli,
zanne e ferocia dentro di sé per tutti quegli anni, si era
fatto a
brandelli da solo, plenilunio dopo plenilunio, perché l'idea
di
poter diventare una bestia era più terrificante della morte
stessa.
“Och, ragazzo” scherzava spesso sua madre.
“Tutti gli irlandesi
sono dei mostri. Mai metterti contro di loro, perché
l'Irlanda gli
ha insegnato a mordere”.
Lui
mordeva come un irlandese battezzato a metà, come un mago
che non
ricordava di essere mai stato umano, come un Lupo Mannaro che non
conosceva il sapore della carne di un altro uomo... mordeva la vita a
metà, saltellando da una parte all'altra senza trovare il
proprio
posto nel mondo.
Ma
negare era più facile. Ostinarsi e battere i piedi, chinare
il capo
e sopportare, alzare la spalle e scuotere la testa era facile.
Trovare l'orgoglio di gridare al mondo: “Io sono un Lupo
Mannaro e
vengo a reclamare il mio diritto alla vita”... quello era
impossibile. Significava combattere da solo una guerra contro tutti.
«Tu
non sai cosa vuol dire essere me».
«No,
non ne ho idea» replicò con schietta
sincerità Tonks. Sembrava
diventata improvvisamente più adulta e matura di quanto non
avesse
mai cercato di apparire. I suoi capelli rosa cicca stonavano con la
fiera gravità del suo volto. «Ma so cosa vuol dire
essere me.
So cosa vuol dire essere la figlia di una donna che agli occhi della
comunità magica rimarrà per sempre una Black. La
sorella della più
dannata Mangiamorte fra le fila di Lord Voldemort, della moglie
di
un Mangiamorte, cugina di altri Mangiamorte,
traditori e
bastardi». Storse il naso con un fremito d'ira e fece un
profondo
respiro. «Io sono un'Auror... ho sempre desiderato poter
diventare
un'Auror, ho sputato l'anima per diventare un'Auror, ma al Ministero
la voce che si sussurra non cambia mai. Giorno dopo giorno, anno dopo
anno... credono che non li possa sentire, ma non è vero.
“Sua
madre è una Black”» sputò
l'ultima parola con enorme disgusto.
«“Non combinerà niente di buono. I suoi
parenti sono dei
Mangiamorte... e tutti gli altri sono solo dei Babbani”.
E
sai, Remus... molti ritengono sia meglio avere il Marchio Nero
sull'avambraccio piuttosto che non avere la bacchetta fra le
mani».
Lui
la guardò a lungo. Aveva degli occhi meravigliosi, limpidi e
vivaci,
ma in quel momento brillavano di cupa tristezza. Remus si rese conto
di non avere mai avuto la più pallida idea di quale fosse il
loro
vero colore. Non sapeva nemmeno come fossero in realtà i
suoi
capelli – e dire che li avevi visti rosa, verdi, blu. Quello
che
stava guardando avrebbe potuto essere il volto di una giovane donna
che non esisteva, ma la sua angoscia era genuina. Lo erano le lacrime
che stava ricacciando indietro, le labbra strette, i pugni serrati.
Era
vera.
In
una situazione diversa avrebbe replicato che non c'era alcuna
analogia fra la sua situazione e la propria. “La discendente
di una
lunga dinastia di assassini e figli di puttana che ha potuto
scegliere cosa fare della propria vita. Io non ho mai potuto
scegliere nemmeno il colore dei miei vestiti”. Eppure le
parole gli
restarono annodate in gola come un'indistricabile matassa di lana.
Sapeva
che avvicinarsi a lei era uno sbaglio di cui si sarebbe pentito, ma
la baciò ugualmente.
*
Fenrir
Greyback non avrebbe mai riconosciuto il figlio di John Lupin nel
lacero straniero che era arrivato nei bassifondi di Dock Road, ma
Remus non avrebbe mai scordato il fetore del suo alito. Era rimasto
appiccicato addosso ai suoi peggiori incubi per quasi trent'anni,
insieme ai suoi famelici occhiacci gialli e al lento incedere delle
zampe nel fango. E le zanne, gli artigli, l'acuto dolore dei denti
che affondavano nella sua carne... e la pioggia di Durham che
scivolava sul suo piccolo viso, il sangue che gli riempiva la gola,
sua madre che gridava nell'oscurità e urla distanti e
allarmate di
gente che correva e si trascinava in strada per capire cosa fosse
accaduto.
E
Fenrir doveva essere ancora lì, protetto dai bassi boschi
della
piccola contea a scrutare con gioia animalesca il risultato del
proprio lavoro. Remus era la sua vittoria, la sua vendetta, ed era di
nuovo davanti a lui, con una camicia lercia e stracciata e la barba
incolta incrostata di terriccio.
Il
suo volto era stanco e pallido, ma i suoi occhi lampeggiavano di
vivida attenzione. Teneva una mano sprofondata in una delle tasche
dei vecchi jeans che aveva indossato e l'altra stretta alla cinghia
di una logora tracolla di pelle.
Pioveva
così tanto che la tesa del cappello che indossava si era
appesantita
d'acqua e continuava a piegarsi e a inondargli la faccia di acqua.
Remus rimaneva tuttavia rigidamente immobile davanti a Fenrir. Il suo
era stato un battesimo da blasfemi e aveva sputato
nell'acquasantiera, ma era sempre per metà un irlandese di
Kinsale –
e sua zia Maire diceva che l'unica cosa che a Kinsale non sarebbe mai
finita era la pioggia. E il brodo di pecora.
«Sei
l'irlandese che chiamano O'Buckley?».
Remus
schioccò distratto la lingua. Gli tornò in mente
sua madre:
ripeteva lo stesso gesto fra una Rothmans e
l'altra. Cosa
avrebbe detto nel vedere il proprio unico figlio cercare di
abbindolare il licantropo che aveva distrutto loro la vita?
“Cercherebbe di prenderlo a sberle” si disse.
“E poi
prenderebbe a sberle me”.
«Och,
dipende da chi lo cerca».
Aveva
strascicato con forza le vocali. Erano anni che non risentiva la
propria voce calcare con tanta decisione sull'accento della costa
meridionale. Il tempo trascorso in Inghilterra non gli aveva lasciato
molto del retaggio affibbiatogli dalle donne O'Buckley, ma parte di
quella strana parlata non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. La
gente non se ne accorgeva subito. Perfino Kingsley, che aveva detto
di avere una nonna di Cork, si era stupito di scoprire che Remus
aveva trascorso in Irlanda buona parte della sua vita. “Un
mezzo
irlandese battezzato a metà”.
«Lo
cerco io».
«Allora
temo proprio di non conoscere nessun O'Buckley».
Greyback
fece una smorfia.
«Ti
ho già visto da qualche parte».
Nonostante
fosse piuttosto a disagio e sentisse la situazione sfuggirgli fra le
mani sempre più in fretta, Remus si limitò a
mostrare i palmi.
«Il
mondo è pieno di irlandesi che non stanno in Irlanda e pare
abbiano
tutti la stessa faccia».
«Non
tutti gli irlandesi sono dei Lupi Mannari. E non tutti i dannati Lupi
Mannari si chiamano Malachy O'Buckley».
Remus
si chiese quanto fosse saggio aggiungere una menzogna a un'altra
menzogna. “Speriamo ci sia un santo protettore dei bugiardi
che
abbia voglia di darmi una mano”.
«Sono
io».
Il
pugno di Greyback arrivò così rapido e brutale da
non lasciargli
nemmeno il tempo di arretrare. Lo schianto delle nocche sul suo
zigomo fu terribile. Colto totalmente alla sprovvista, Remus si
piegò
in avanti e portò una mano al viso, tenendo d'istinto il
capo alzato
per controllare che non sopraggiungessero altri colpi. Si
lasciò
sfuggire un roco grido di dolore e un'imprecazione fra i denti, e non
riuscì a schivare nemmeno il violento calcio che parve
trapassargli
lo stomaco. Boccheggiò privo di fiato e cadde in ginocchio
nelle
pozzanghere. La tracolla gli sfuggì dalla spalla e la
consunta
Bibbia di Gora O'Buckley scivolò fuori.
Greyback
ne fu talmente incuriosito da commettere l'errore di chinarsi. Remus
colse l'occasione al balzo: estrasse la bacchetta con un gesto
fulmineo e gliela puntò alla gola.
«Non
un respiro o giuro su Dio che ti ammazzo, figlio di puttana».
Si
rialzò in piedi con fatica, facendo cautela a ogni movimento
del
licantropo. La testa gli doleva terribilmente e lo sterno sembrava in
procinto di esplodere, ma nei suoi occhi brillava un feroce odio. Era
tutto per Fenrir Greyback, per l'infanzia che gli aveva strappato,
per l'adolescenza che era stato costretto a rubare con la punta delle
dita, per tutto il resto di una vita di stenti e miseria, per Tonks
che aveva dovuto abbandonare in mezzo a una guerra che non sembrava
destinata a finire... era l'odio di un'intera esistenza vissuta a
metà.
«Remus
Lupin...» sibilò con rabbia Greyback.
«Dovevo immaginarlo».
«Non
sei mai stato dotato di particolare immaginazione».
Gli
occhi gialli di Greyback brillavano di inumano disgusto. Digrignava i
denti come una bestia affamata e dalla sua gola risaliva un basso
ringhio, ma non sembrava intenzionato a chinare la testa davanti al
proprio avversario. Sollevò le mani in segno di resa, ma la
sua
espressione era beffarda e malefica.
«Avanti,
ragazzo... uccidimi».
Il
suo fiato puzzava di carogne e fumo stantio, ma Remus restò
impassibile. Le loro ombre si allungavano tremolanti alla luce dei
lampioni. Erano diverse come l'alba e il tramonto. “Io sono
un
uomo”. Greyback inclinò appena la testa. La
pioggia aveva
schiacciato i suoi lunghi capelli grigi davanti alla fronte alta e
scarna.
«Uccidimi,
Remus Lupin. Liberati di me».
«Io
non sono come te».
«Lo
sei sempre stato».
“ E
dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, Gesù
ebbe
fame” recitò mentalmente. La mano che
stringeva la bacchetta
fu scossa da un tremito impercettibile. Sarebbe stato così
facile... così pratico...
aveva già ucciso, dopotutto.
Non era certo di essere sopravvissuto alla guerra, ma non poteva dire
di non esserci cresciuto in mezzo. E quella era una guerra –
la sua
guerra, quella che era costretto a fronteggiare da quando era
solo un bambino. La morte di Fenrir Greyback avrebbe rappresentato la
fine del proprio Inferno. Niente più notti insonni, niente
più
paure remote tornate a disturbare il suo riposo... la formula
dell'Anatema Che Uccide fremeva sulla punta della sua lingua.
“La
luna piena non smetterà di sorgere. Io resterò un
Lupo Mannaro e a
ogni mese sarà come se nulla fosse cambiato”.
«Silente
pensa di averti addomesticato, eh?». Greyback si
passò la lingua
sulla labbra. «Ti ha infilato addosso una veste da dannato mago...
ma non lo sei, Remus. Non lo sarai mai».
«È
questo il motivo per cui stai scodinzolando ai piedi di Lord
Voldemort?» lo rimbeccò con sfrontata ironia.
«Vuoi una vestaglia?
E dopo che farai? Indosserai una cuffia e un paio di occhialetti e
andrai in giro a mangiare bambine con il cappuccio di rosso?».
L'orrenda
bocca di Greyback si distorse in un raccapricciante sogghigno.
«O
forse assaggerò quella graziosa strega dai capelli rosa che
ti porti
a letto».
Fu
come essere essere stritolato nella morsa di un Acromantula. Le
parole di Greyback gli squarciarono la pelle e si insinuarono nel suo
torace, serrandosi attorno allo stomaco, ai reni e ai polmoni.
Cedette ancora al ricordo della notte in cui le zanne del Lupo
Mannaro erano sprofondate nel suo fianco e per un istante fu di nuovo
un bambino terrorizzato.
“ Ripulire
i resti del mio cervello potrebbe rivelarsi noiosissimo”
riecheggiò
nella sua testa. La risata e il sapore delle labbra di Tonks erano il
peggior predatore che gli avesse mai dato la caccia. Rideva con brio,
lanciava battute scanzonate e afferrava la vita a piene mani. Ma era
giovane, era irruente, era un fiume in piena che quella guerra
avrebbe potuto fermare in un battito di ciglia. Mentre la immaginava
crollare con la gola squarciata fra le braccia di Fenrir Greyback, si
sentì pervaso da una rabbia cieca e indomabile. La
maledizione gli
sfuggì dalle labbra prima ancora di rendersi conto di cosa
stesse
facendo.
«Crucio!».
La
notte si riempì delle grida di dolore del Lupo Mannaro. Fu
il suo
turno di crollare in ginocchio, lercio e umiliato. Rotolò
sulla
schiena in preda a lancinanti sofferenze. Remus non abbassò
la
bacchetta. I suoi occhi erano folli, la sua mente annebbiata.
“Uccidilo!” si disse. “Uccidilo ora!
Uccidilo adesso!”, ma
gli ordini di Silente non erano quelli.
Remus
avrebbe dovuto mescolarsi fra i licantropi, convincerli
a
scendere in battaglia contro Lord Voldemort, mostrarsi migliore.
Ma era così facile stare in piedi davanti alla creatura che
gli
aveva distrutto la vita, fissandola gemere e dimenarsi alla luce
stiracchiata dei lampioni...
“ Tu
non sarai un brav'uomo, Remus. Tu sarai un uomo straordinario”.
Indietreggiò
di colpo e osservò stranito la sagoma spezzata di Greyback.
Si
osservò una mano come se non potesse credere che facesse
parte del
proprio corpo. “Io sono un uomo. Io sono un uomo. Buon Dio,
io sono
un uomo”.
Raccolse
la Bibbia e osservò la croce sulla copertina di pelle con
sguardo
vago e distante.
“ Disse
Satana: «Sei sei Figlio di Dio, gettati, poiché
sta scritto: il
Signore darà ordini ai suoi Angeli affinché non
abbia a urtare
contro un sasso il tuo piede». Ma Gesù disse:
«Non tenterai il
Signore Dio tuo»”.
Remus
socchiuse gli occhi. La pioggia scendeva dal suo viso e svaniva nella
barba incolta portandosi dietro lacrime di furia e vergogna.
“ Dio
mio, Dio mio... perché mi hai abbandonato?”.
*
La
Stamberga Strillante era un posto chiuso e soffocante, e l'aria era
resa rancida da secoli di polvere lasciata ad accumularsi. A ogni
passo di Tonks vaghe nuvolette grige si sollevavano dal pavimento. Si
muoveva con cautela attraverso lo stretto corridoio, sorreggendosi
con una mano alla parete e tenendo l'altra davanti al volto, con la
punta della bacchetta illuminata come unica guida. Il suo piede
inciampò in ciò che restava di un vecchio
tappetto consunto e cadde
a terra.
«Porca
puttana!» imprecò con rabbia mentre si rialzava.
«Invece di uno
stupido zerbino, io avrei comprato un lampadario!».
Abbassò
piano la maniglia di ottone. La porta si aprì con un
lamentoso
cigolio. Fu felice di trovare la stanza piacevolmente illuminata da
un paio di fiamme galleggianti. Non l'avrebbe mai definito un posto
confortevole, ma perlomeno avrebbe avuto la possibilità di
guardare
dove metteva i piedi.
Remus
era accucciato ai piedi del letto con le braccia appoggiate alle
ginocchia piegate e una Bibbia aperta fra le mani.
Madama
Chips le aveva riferito di averlo visto sgattaiolare fuori
dall'infermeria prima che riuscisse a controllare che stesse bene.
“ È
un incosciente” si era lamentata con gli occhi arrossati dal
pianto
e un fazzoletto umido stretto fra le dita tremanti.
“È sempre
stato un incosciente... ha preso un sacco di botte, stasera, e
abbiamo bisogno di lui, e invece se ne va senza nemmeno la decenza di
farsi visitare. Beh, perlomeno sappiamo che non ha le gambe
rotte”.
“ Alla
Stamberga Strillante, Tonks” aveva mormorato con un filo di
voce
Hermione, seduta su un alto sgabello di legno in un angolo
dell'infermeria. Ron annuì in silenzio.
“C'è un passaggio segreto
sotto il Platano Picchiatore. Il professor Lupin deve essere andato
là”.
“ Come
fai a saperlo?”.
La
ragazza aveva indicato con aria distratta una delle finestre che si
affacciavano sul gigantesco parco di Hogwarts. Il maestoso albero si
intravedeva appena nella nebbia dell'alba.
“ I
rami sono fermi. Qualcuno è scivolato da poco fra le
radici”.
Tonks
osservò Remus con più attenzione. Aveva gli occhi
cercati da ombre
più scure di quanto non avesse mai avuto, era sinistramente
più
pallido e il sottile rigolo di sangue che si era rifiutato di farsi
medicare si era ormai incrostato sulla sua tempia. Il suo sguardo era
spento.
La
giovane si passò una mano fra i capelli grigio topo, fece un
lungo
sospiro rassegnato, si avvicinò a lui e lasciò
cadere sul materasso
la sacca che Madama Chips aveva riempito di bende e pozioni.
“Gli
rimetta a posto la testa, signorina Tonks, o sarò io a
staccargliela
di netto”.
«Madama
Chips era preoccupata. Sei fuggito prima che potesse metterti le mani
addosso».
Lui
fece una leggera smorfia.
«Suona
come una minaccia».
«Lo
è» replicò schietta lei, stringendo fra
le mani un pacco di garze
e una boccetta piena di un liquido verdastro.
«Tieni
quella roba lontano da me» la ammonì in fretta.
«Non
fare il bambino: è solo essenza di Dittamo».
«Viene
sciolto insieme all'Aconito».
«Non
in quantità sufficiente per ucciderti».
«Ma
in quantità sufficiente per darmi più dolore che
giovamento».
Remus frappose un indice fra di loro e aggiunse: «Sono un
Lupo
Mannaro, non--».
«Davvero?»
lo interruppe con pesante sarcasmo Tonks, inginocchiandosi accanto a
lui e avvicinando al suo viso una piccola pezzuola umida.
«Non
l'avevo capito».
Tentò
di spostarle la mano con espressione intimorita, ma la ragazza fu
più
lesta e gli afferrò rudemente il polso.
«È
solo acqua, Remus» lo rassicurò esasperata.
«Acqua. Non è
certo mia intenzione attentare alla tua lieta esistenza da licantropo
disadattato».
«Io
non--».
Le
parole di Remus si trasformarono in un soffio di dolore. Tonks
premette con più decisione sulla ferita, con le labbra
arricciate in
un'espressione compiaciuta.
«Fa
male».
«Non
lo dubito».
«Ti
stai divertendo?» le chiese con un'occhiata inquisitoria.
«È il
tuo personale modo di vendicarti per come ho... ahi!
Accidenti, brucia troppo per poter essere “solo
acqua”».
«Apri
le orecchie, razza di idiota: non sono venuta qui per farti da balia.
Hai la testa più dura che abbia mai visto e Merlino mi
è testimone,
ma al momento non mi pare messa granché bene, quindi piantala
e lasciati medicare» sbuffò indispettita. Poi
inclinò appena la
testa e inarcò con eloquenza un sopracciglio .
«Inoltre... di cosa
dovrei vendicarmi?».
«Per
amor di Godric, Ninfadora, non ricominciare».
«Tu
stavi ricominciando, non io. E prima che tu aggiunga qualcosa, Remus,
mi dispiace... ma sono troppo giovane, troppo ricca e troppo indifesa
per te». Nonostante la malevola ironia, il suo tocco si era
fatto
più delicato. «Per non contare il fatto che sei
noioso e pedante».
Remus
non interferì oltre con i tentativi di Tonks di sistemargli
la
tempia. Se ne rimase fermo con il capo basso, deciso a evitare lo
sguardo inquisitore della giovane. La pezza era solo appena
inumidita, ma a contatto con la pelle sembrava gelida e tagliente. O
forse erano le mani di Tonks, forse era la mesta consapevolezza di
averla accanto senza poterla davvero sfiorare. Forse era la
sensazione raggelante del mondo che crollava sulla loro testa.
«Buon
Dio... non posso credere che Silente sia morto».
Tonks
impietrì davanti alla sua lapidaria osservazione. La mano le
ricadde
sul grembo, le spalle sottili s'incurvarono sotto il peso di un'altra
battaglia perduta. I suoi occhi scuri si velarono di rassegnazione,
le labbra si strinsero in una linea tirata e ritornò la
bambina
confusa che essere stata un tempo, quando nessuno aveva desiderio di
spiegarle la guerra. Eppure lei capiva da sola, perché come
avrebbe
potuto non sentire il pianto spaventato della madre dall'altra parte
della parete?
Tonks
aprì la bocca per dire qualcosa, ma la sua attenzione venne
richiamata dalle pagine della Bibbia che Remus teneva ancora fra le
mani.
«Ehi,
non è inglese».
«È
gaelico».
In
un primo momento sembrò confusa. Poi schioccò le
dita a mezz'aria e
alzò gli occhi al cielo.
«Avevo
dimenticato che sei cresciuto in Irlanda».
«In
realtà non ho mai parlato molto in gaelico»
negò candidamente lui.
Davanti all'espressione perplessa di Tonks aggiunse:
«È una lingua
che sta facendo il suo decorso. Ormai si arrangia un mezzo inglese
che metta d'accordo tutti. L'unica donna che ho conosciuto che si
è
sempre rifiutata di parlarlo è stata mia nonna. Lo
conosceva, ma non
voleva usarlo. Questa Bibbia apparteneva a lei». Fece un
tiepido
sorriso. «Sai, non credo gli saresti piaciuta».
«Perché?».
«Perché
a mia nonna non piaceva nessuno» ridacchiò.
«Stessa pasta con cui
è fatta mia zia Edna, ma un po' meno stupida. Fa esorcismi
in
cucina... o almeno lo fa quando zia Maire non è impegnata a
cucinare
pecora. Sei mai stata nel sud dell'Irlanda?».
Sorridendo
appena, Tonks scosse il capo.
«E
ti piace la testa di pecora?».
Lei
emise un verso disgustato e Remus scoppiò in una blanda
risatina.
«Ricordami
di non portati mai a Kinsale. Mia zia Maire ha ucciso per molto
meno...» commentò teatralmente. «E zia
Edna brandirebbe un santino
di Santa Cecilia nella speranza di lenire il peccato di
fornicazione».
Questa
volta Tonks scoppiò in una risata sguaiata. Il tempo
sembrò
fermarsi di colpo e indietreggiare fino all'anno prima, quando tutti
insieme trascorrevano intere serate nel soggiorno di Grimmauld Place.
Sirius si divertiva a lanciarsi in dettagliate cronistorie degli anni
dei Malandrini, e in un paio di occasioni si era spinto talmente
oltre che Remus lo aveva colpito in testa con un gigantesco libro di
Antiche Rune. Bill raccontava barzellette sconce lontano dalle
orecchie delle madre e Kingsley divertiva ognuno di loro con gli
imbarazzanti resoconti dell'addestramento tutto ruzzolate e parolacce
di Tonks... era il tempo in cui quella guerra da combattere non li
aveva ancora piegati davvero. Quello in cui l'avevano sottovalutata
per l'ennesima volta.
«Ma
io e te non abbiamo fornicato» commentò con un
sopracciglio alzato.
«La
tua coscia è a dieci centimetri dal mio fianco: per mia zia
Edna
questo fa di me un filisteo e di te una meretrice»
replicò con
ironia Remus. «Potresti avere qualche speranza di fare colpo
su mia
zia Fiona, ma balbetta troppo perfino per conversare del
tempo».
«Farei
un brutta impressiona anche su tua madre?».
«Scherzi?
Indossi scarponi da uomo e imprechi con originale
trivialità...».
Le rivolse un'occhiata di profondo affetto e sorrise. «Ti
adorerebbe».
«Sembra
una famiglia divertente».
«È
l'ultimo aggettivo con cui mi sognerei di definirla».
Lei
accennò un'altra risata. Il silenzio scivolò
ancora fra di loro e
si fece più teso e soffocante. Spezzare l'aria rancida della
Stamberga con quel vago guizzo di allegria non era servito a niente.
La pesantezza di ciò che era accaduto si insinuò
prepotente fra di
loro, e nessuno sembrò sapere cosa dire. C'era troppo da
dire,
dopotutto. C'era la morte di Silente da superare in fretta, o la
guerra avrebbe superato in fretta loro; c'era il caos della
battaglia, c'era il tradimento di Severus Piton che aleggiava come
un'ombra sulle cenere di tutto ciò in cui avevano creduto; e
c'erano
loro, seduti l'uno accanto all'altra in una casa infestata dai
fantasmi di una vita passata senza più parole nella gola.
Tonks
posò la propria mano su quella di Remus e
intrecciò le dita alle
sue. Lui non reagì, ma abbassò lo sguardo per
notare quanto fossero
diverse. Le dita di Tonks sembravano sottili lingue pallide e la sua
carnagione era chiara e delicata; quelle di Remus erano screpolate e
ruvide al tocco.
«Dimmi
qualcosa in gaelico» propose improvvisamente lei.
Remus
arrangiò un mezzo sorriso imbarazzato e ci pensò
su qualche
secondo. Quando parlò, la sua voce era poco più
alta di un
sussurro.
«Tá
brón orm».
«Cosa
significa?».
«Perdonami».
Tonks
lo scrutò a lungo con espressione impenetrabile. Si morse
agitata il
labbro inferiore, sospirò e appoggiò la testa
nell'incavo della sua
spalla. Remus la circondò con un braccio e iniziò
a giocherellare
assente con i suoi capelli. Fra le sue dita, le ciocche iniziarono a
tingersi di un brillante rosa.
«Non
ti si può odiare...» commentò sfinita
la ragazza. «Dico sul
serio, Remus. Uno ci prova fino in fondo, a odiarti e a prenderti a
calci in culo, ma alla fine non funziona mai».
«Sono
ancora convinto che non ne otterremo niente di buono» la
ignorò con
voce roca. «Sono ancora convinto che sia un errore, continuo
a non
poterti offrire nulla e probabilmente il Ministero cercherà
di
seppellire entrambi ad Azkaban, e senza Silente...». Si
passò una
mano sul viso e scosse il capo. «Quasi di certo la guerra
è
perduta».
«Perlomeno
ti è rimasto un po' di ottimismo».
«Mi
rimane il tuo». Le baciò lieve la fronte e rimase
fermo, con gli
occhi serrati e un'ombra disperata sul volto segnato. «Sei
l'unica
cosa che non ho ancora perso... l'unica cosa di cui ho
bisogno».
«Vinceremo
noi» mormorò con feroce decisione Tonks.
«Non mi importa come e
non mi importa quando... ma vinceremo. Ce la faremo. Andrà
tutto
bene».
Le
credette.
Credette
alla sua determinazione, credette al suo profumo, credette alla
stretta sicura delle sua dita. Tonks conservava l'incredibile potere
di afferrare per lo stomaco la gente e trascinarla in piedi. Era
dirompente come una cascata, era semplice e limpida come l'alba che
si stava affacciando alle finestre. Baciarla era come baciare la
speranza, era come stringere la vita stessa senza timore che potesse
sfuggire come sabbia fra le dita. Forse Remus non era mai stato
davvero umano, forse non era inglese, forse non era irlandese; forse
era sempre stato un mostro o forse non lo era mai stato e non se ne
era mai accorto; forse non aveva mai creduto in Dio o forse si era
solo accontentato di credere di poter credere... ma nulla ormai
importava.
Era
lì, era con lei, e il resto del mondo non poteva toccarli.
«Andrà
tutto bene».
Le
avrebbe creduto fino alla fine.
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