Santi di cartastraccia

di Trick
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** San Tommaso - Fui l'unico a dubitare ***
Capitolo 2: *** San Pietro - Fui l'unico a rinnegare ***
Capitolo 3: *** San Giovanni - Fui l'unico a sopravvivere ***



Capitolo 1
*** San Tommaso - Fui l'unico a dubitare ***


Note di Trick - e stavolta, fossi in voi, le leggerei davvero, perché c'è un sacco di casino in questa mini-long.
Sì, è una mini-long e per la prima volta nella mia vita è già finita, quindi conto di pubblicare in fretta gli altri due capitoli. Squilleranno gli angeli, insomma, ma sono destinata a finire la prima storia a capitoli. Urrà. Questa storia è un po' strana - e qui torniamo al fatto che vi ho suggerito di leggere le note - perché partecipa al contest "Paddy's Day - Festeggiamo San Patrizio" indetto da Ferao. Un contest vagamente allucinante, in cui veniva richiesto di... beh, San Patrizio, gente. Bisognava infilare l'Irlanda dove si poteva. E io l'ho infilata nelle tasche di Remus Lupin, poveretto, come se non avesse già abbastanza sfighe.
Suppongo sia una What-If, ma mi sa che non lo è sul serio... ho semplicemente aggiunto dettagli all'infanzia e all'adolescenza di Remus che non conosciamo. In effetti, no, ehi, non lo è per niente.
Ehm... no, okay, mi sa che ho finito. No, invece no, un attimo.
1. Le citazioni tratte dalla Bibbia o dal Vangelo non sono sempre letterali. È stata una scelta stilistica che mi auguro non arrechi offesa agli Evangelisti.
2. Non sono un'esperta d'Irlanda e irlandese, ma "och" sembrerebbe un'esclamazione gergale piuttosto dipica. Tipo il "socc'mell" dei bolognesi, ma  più nordico.
3. Il Fianna Fàil è il più importante partito repubblicano irlandese. Non mi sono informata oltre perché faccio già abbastanza fatica a capire la politica italiana, figurarsi quella irlandese.
E stavolta direi che no, non ho più altro su cui fare bla-bla-bla.


*

Santi di cartastraccia

Capitolo Uno
San Tommaso – Fui l'unico a dubitare



«Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi
e non metto il dito nel posto dei chiodi
e non metto la mano nel suo costato,
non crederò».
Giovanni, 20, 24


Branna O'Buckley era l'ultima di quattro sorelle, ma a sedici anni pesava dieci chili in meno di Edna, era alta quindici centimetri in più di Maire ed era venti volte più graziosa di Fiona.
Quando frequentavano la Saint Anthony – due piani, una latrina in un angolo del cortile di cemento e le finestre rotte – Branna spiccava fra tutte loro per sagacia e intelligenza. Eppure la madre che le aveva messe al mondo era la stessa: Gormlaith O'Buckley, la donna dal nome più assurdo e dalla fede più inviolabile di tutto il villaggio di Kinsale – la chiamavano Gora, ma mai in sua presenza.
Gora aveva gli scuri e penetranti occhi delle figlie, ma il suo viso era sempre tirato in una smorfia seria. Rigida e orgogliosa come una statua greca, rimaneva con l'enorme petto in avanti per tutta la durata della funzione domenicale, lo sguardo duro fisso su padre Conor e le figlie allineate al fianco come le mele del mercato.
Il posto immediatamente alla sua destra era riservato a Edna, la maggiore, la ragazza con la lingua biforcuta più avvelenata di Kinsale; poi c'era Maire, piccola, rotondetta e con le guance rosse e paffute come due gonfie ciliegie; subito dopo c'era Fiona, con quel suo problema di pronuncia che tutti fingevano sempre di ignorare; l'ultimo posto della panca, quello più distante dall'altare, era sempre quello di Branna.
Branna ridacchiava nel bavero del cappotto e si divertiva a scambiare mezzi sorrisi con Liam O'Keefee, il garzone del lattaio. Se Liam non era in chiesa, eccola spostare la sua attenzione su Brian Flanagan, il figlio del calzolaio, o magari sui fratelli Sheehan – ed era difficile stabilire a chi di loro stesse dedicando il proprio tempo.
Le donne di Kinsale dicevano che sarebbe finita in pasto al diavolo, e difatti Branna finì per sposare un inglese di nome John Lupin. L'assurdo avvenimento sconvolse il villaggio al punto tale che per mesi non si parlo che di lei, della sua fuga senza senno e di quell'inglese, santo cielo, che si scoprì essere perfino londinese.
Lo scalpore durò fin quando rimasero voci ad alimentarlo, ma proprio come prima o poi si spegne ogni barzelletta, anche quello venne dimenticato. Fu solo quando la videro tornare dodici anni più tardi con un ragazzino magro come uno sputo e con i capelli biondicci appiccicati alla fronte che Kinsale riprese a parlottare della sventure della povera vedova O'Buckley, di quanto grama e triste fosse stata la sua esistenza e di come avesse potuto il Signore essere tanto crudele da affibbiarle una figlia tanto incosciente da farsi ingravidare da un inglese.

*

«Och, questo ragazzino è pallido come un inglese».
Remus affondò il cucchiaio nel brodo di pecora. Non aveva un aspetto particolarmente invitante, ma il trascorrere dei mesi a Kinsale gli aveva insegnato due importantissime verità: la prima era che il pane secco riusciva ad addolcire il sapore amarognolo di tutto ciò che finiva sulla tavola; la seconda era che che non si doveva supporre che il brodo di pecora non fosse buono. Il brodo di pecora era sempre buono, a Kinsale, e ci mancava poco che sua zia Maire non ci fondasse attorno una nuova religione.
«E c'ha pure i capelli da inglese». Zia Edna aveva alzato di un'ottava il tono di voce – Remus pensò volesse essere certa di farsi sentire dai vicini.
«Anche i piedi, zia Edna?».
Le narici della donna si dilatarono e il suo labbro inferiore iniziò a tremolare. Remus alzò lo sguardo dalla colazione, si scostò la frangia dalla fronte e le regalò un sorriso innocente.
«Lo sapevi che inglesi hanno cinque dita?».
Zia Fiona si affrettò a soffocare una vaga risatina in un angolo della tovaglia. Il mestolo di zia Maire si abbatté sulla testa di Remus e il ragazzo si piegò in avanti con un'esclamazione di dolorosa sorpresa, massaggiando la parte lesa con una smorfia. I piccoli occhietti di Maire lo scrutavano severi, ma a Remus non sfuggì il sorrisetto che tentava di celare alla sorella maggiore.
«Non posso credere che questa famiglia sia giunta a questo!» sbraitò zia Edna con ammirevole dramma.
Zia Maire la liquidò con un gesto frettoloso della mano grassoccia.
«Oh, cielo, Edna, dacci un taglio. E tu finisci di mangiare in fretta o arriverai in ritardo per la Messa».
Remus ingoiò in silenzio un'altra cucchiaiata.
Prima di morire, John Lupin era stato uno dei tanti protestanti che avevano sempre rivolto molti più pensieri al lavoro, alla famiglia e al Quidditch che non a Dio. Ci pensava così poco, in effetti, che non si era mai disturbato a cercare il tempo di battezzare Remus – e di chiese e santi Branna Lupin sembrava averne avuto abbastanza da camparci per tutta la vita.
Infilare la testa nell'acquasantiera non rende per forza buoni cristiani” gli ripeteva spesso suo padre. “Vuoi cercare Dio? Cercalo dove la gente è felice”.
A Remus quel concetto schietto di religione era sempre bastato, ma quando Gora O'Buckley e le sue tre figlie avevano scoperto che non aveva ricevuto il Santo Battesimo, gli parve di essere testimone del disastro di Sodoma e Gomorra. Sua madre era rimasta appoggiata al davanzale del balcone a fumare stancamente una Rothmans senza filtro. Era stata un'altra tragedia familiare, quella: Branna di ritorno dalla Gran Bretagna con un ragazzino britannico e un pacchetto di sigarette britanniche.
Suo padre era metodista” aveva spiegato annoiata alle sorelle.
Un comunista!”.
E-Edna, p-per te t-tutti i n-non c-c-cattolici s-sono c-c-c-comunisti” aveva balbettato a fatica Fiona.
Branna aveva schioccato la lingua.
In verità in verità vi dico... chiunque non sia di Kinsale è un comunista”.
Non deridere la parola di Gesù!”.
C'era stato bisogno dell'intervento pratico e determinato di zia Maire per spegnere sul nascere il clima bellicoso che stava per divampare nella cucina. Remus era rimasto immobile sulla sua sedia ad aspettare che decidessero dove immergergli la testa, con in mano il cucchiaio e una brodaglia di pecora sotto al naso – nella cucina delle sorelle O'Buckley si entrava solo per tre motivi: mangiare, cucinare o litigare, con l'eccezione di Branna che ci andava pure a fumare le sue sigarette inglesi.
Il suo battesimo da fiero cattolico irlandese era stato un inferno: Remus era quasi affogato e aveva sputacchiato dentro l'acqua santa. Per zia Edna era stato un segno del demonio; per zia Maire la perdonabile bestemmia di un ragazzino; per zia Fiona una storiella divertente da raccontare alle amiche; per sua madre non era mai neanche capitato, perché era rimasta seduta sul sagrato della piccola chiesa a fumare; e sua nonna, Gora O'Buckley, non riusciva più ad alzarsi dal letto a causa dell'artrite alle gambe, così Remus si era potuto risparmiare i suoi sordi brontolii scontenti.
Per Remus era stato proprio come sua padre gli aveva raccontato: un po' di acqua in testa senza alcuna consapevolezza di essere in qualche modo diverso. Quella sera aveva scritto una lettera a James e Peter – gli dispiaceva tanto non poter scrivere anche a Sirius, ma Grimmauld Place era una dimora inaccessibile per ognuno dei gufi dei Malandrini. Oltretutto, Remus era obbligato a usare le poste Babbane, perché a Kinsale non c'erano Guferie e alle sue zie sarebbe venuto un infarto nel vedere l'allocco di James andare e venire dall'Inghilterra.


Caro Prongs,

fa' squillare le trombe e fa' rullare i tamburi, perché da oggi sono ufficialmente un vero cattolico di Kinsale.
Le mie zie ne sarebbero entusiaste, se solo non avessi rischiato di riempire di saliva la sorgente di Dio, condannando me e tutta la mia progenie all'eterno vagabondaggio nel limbo degli inglesi. Testuali parole di mia zia Edna (a Padfoot piacerebbe: hanno in comune lo stesso amore per il palcoscenico). Insomma, a quanto pare non dovevo sputacchiare nell'acquasantiera: avrei dovuto lasciare che il vecchio padre Conor mi ci affogasse dentro, così il Santo Padre mi avrebbe fatto beato e le mie zie sarebbero state fiere di avere il santino del proprio nipote martire accanto a quello di San Giuseppe.

A parte il mio tragicomico esordio nella vita cattolica, mi sono abituato a trovare pezzi di pecora in qualsiasi pietanza cucinata da mia zia Maire e ho affinato il mio modo di pronunciare “och”.
Mi sento sempre più irlandese.
Confido possiate aspettarvi di vedermi raggiungere King's Cross a dorso di un Lepricano e con i capelli tinti di verde.
A ogni modo, Kinsale inizia a piacermi per un sacco di intelligenti motivi.

Primo, nonna Gormlaith (ti riscrivo il suo nome per l'ennesima volta giusto nel caso tu non sia ancora stanco di deriderlo) è ancora tutt'uno con il suo materasso e la sua artrite, così ho smesso di temere che si alzasse in piena notte per salassarmi dal mio infetto sangue britannico.
Secondo, zia Edna è ancora pazza e si diletta ancora in esorcismi, ma inizio ad apprezzare la cucina di zia Maire: ogni tanto cerca di cucinare animali diversi dalla pecora, ma la pecora in salsa di pecora appoggiata su un letto di pecora resta ancora la sua pecora di battaglia (spero sarai felice di vedere quali e quanti passi da gigante sta facendo il mio umorismo irlandese).
Terzo, mia madre sta uscendo con un nuovo tizio di Cork. Questa volta è un meccanico. È un po' come un manutentore di manici di scopa, solo che aggiusta le automobili. E le automobili funzionano più o meno come dei manici di scopa, solo che non volano e tu non puoi guidarne una per nessuna ragione, Prongs.
Non chiedermelo nemmeno.
Quarto, zio Patty è riuscito a raccattarmi un lavoretto al Donegan's Inn. Hanno bisogno di un ragazzo che asciughi i boccali: l'occupazione perfetta per uno con dei polsi ridicolmente ossuti come me. Gli ha detto che sono un po' malaticcio e che ogni tanto dovrò tornare a Londra per farmi delle trasfusioni di sangue al Saint Jack Hospital.
E dire che l'Irlanda dovrebbe essere il paese delle strane creature... se solo le mie zie sapessero che danno da mangiare pecora a un Lupo Mannaro tre volte al giorno, credo cercherebbero sul serio di affogarmi nell'acquasantiera.

Och, non vedo l'ora che arrivi il primo settembre.


Moony

*

Il loro camino era l'unico di tutta Kinsale collegato con la Metropolvere. Remus teneva un sacchetto di polvere magica ben nascosta dietro ai cassetti della biancheria, in attesa del giorno in cui qualcuna delle sue zie lo avrebbe scovato e confuso con chissà quale sostanza stupefacente. Lo usava solo il giorno prima del plenilunio, quando riempiva la borsa del misero occorrente per giacere moribondo in un letto dell'infermeria e tornava a Hogwarts.
Era l'unico studente a cui era concesso – era un caso a dir poco eccezionale, lui. Silente aveva lungamente insistito affinché Remus continuasse a sfruttare il passaggio segreto che conduceva alla Stamberga Strillante anche durante il periodo estivo. Sebbene non avesse mai capito niente di magie e sortilegi, Branna gliene era sempre stata grata.
Ogni volta che Remus compariva nell'ufficio della professoressa McGranitt, aveva sempre fra le mani una crostata ancora calda o un vasetto di marmellata fatta in casa.
Era il solo modo che aveva trovato per far parte di quella realtà che tanto assorbiva suo figlio – parlava di incantesimi, di Goblin, pozioni e di quel gruppo tutto matto con cui divideva il dormitorio, e il suo viso si accendeva sempre di gioia. Lei aveva conosciuto quel mondo diversi anni prima, quando John le aveva rivelato di essere un mago e di lavorare per l'Unità di Cattura del Ministero della Magia, e non gli aveva creduto fin quando non aveva visto le magie che sapeva fare. Ed erano vere, erano davvero magie.
Poi aveva scoperto che esistevano anche i Lupi Mannari e, suo malgrado, aveva dovuto accettarlo in fretta. Ma lei era sempre stata una donna forte e indomabile, era cresciuta nel sud dell'Irlanda e l'avevano battezzata come una cattolica d'Irlanda, ed era rimasta in piedi quando John non ce l'aveva fatta. La accusava spesso di sottovalutare la loro drammatica situazione, e probabilmente aveva ragione, perché Branna non aveva mai davvero capito cosa fosse un Lupo Mannaro. Ma capiva chi era suo figlio e tanto le era sempre bastato.
Remus è tuo figlio” gli ripeteva in continuazione, ma gli anni avevano reso John Lupin sempre più sordo ai rimproveri della moglie, fin quando per lei non fu troppo. Acciuffare Remus per una man e la valigia con l'altra era stato facile, ma aspettare nel cortile di casa con la speranza che John si alzasse dalla poltrona per fermare entrambi era stato come ricevere mille pugnalate nei reni in un solo istante.
La stretta di Remus si era fatta più decisa e lei lo aveva guardato di sottecchi. Era la copia di suo padre: aveva gli stessi capelli chiari un po' mossi, gli stessi occhi nocciola, il naso lungo e sottile e il viso minuto.
Ho sempre voluto vedere l'Irlanda” aveva detto Remus con un sorriso tirato.
Non avevano più parlato per tutto il viaggio fino alla stazione di Harrow. Fu solo quando il loro treno si fu lasciato alla spalle anche le ultime colline dell'Hertfordshire che Branna aveva trovato la forza di dire qualcosa.
Non è colpa tua”.
Remus aveva sollevato il capo dalla vecchia edizione tascabile di Cuore di tenebra e l'aveva fissata a lungo con espressione imperscrutabile. Poi aveva abbozzato una smorfia triste e aveva fatto la spallucce.
Nemmeno tua, mamma”.
E nemmeno di tuo padre”.
A quella parole Remus aveva sgranato stupito gli occhi.
Non devi pensarlo mai, Remus” aveva continuato Branna con più forza, appoggiando la propria mano sul polso del figlio. “Tuo padre è un brav'uomo... ma non tutti i bravi uomini riescono ad affrontare i calci in culo della vita”.
Io lo devo fare”.
Och, puoi giurarci” sbottò con finta allegria lei, appoggiando la nuca al sedile e socchiudendo affranta le palpebre. Si era ripetuta che forse John aveva ragione a sostenere che lei non capiva quanto davvero fosse tragica e insuperabile la situazione in cui erano precipitati. Forse era realmente lei ad essere in torto, perché di Lupi Mannari, maghi e restrizioni del Ministero della Magia non sapeva davvero nulla; ma quando aveva parlato, la sua voce era piena di forza e sicurezza. “Ma tu non sarai un brav'uomo, Remus”. Gli aveva carezzato la guancia con un sorriso di timida nostalgia. “Tu sarai un uomo straordinario”.
Erano già trascorsi quattro anni da quel giorno, e Remus era davvero diventato un piccolo ometto assennato di cui poteva dirsi ben fiera. Edna continuava a chiamarlo il ragazzo inglese, ma a vederlo camminare per le strade di Kinsale, con i capelli troppo lunghi e spettinati e le toppe cucite sui gomiti dei maglioni sformati, non lo si sarebbe distinto dagli altri adolescenti della sua età.
E Gormlaith O'Buckley giaceva nel proprio letto senza più la forza di muoversi, con il volto grigio, la pelle cadente e le dita gonfie e tremanti. La luce che filtrava dalla finestrella impolverata nella sua stanza disegnava pesanti ombre sulla sua faccia stanca, ma gli occhi neri brillavano ancora risoluti mentre fissava l'espressione rapita con cui Remus recitava i passi della Bibbia.
Sedeva sempre sul solito sgabello malmesso, ma quel giorno il caldo dell'estate soffocava più del solito e Remus indossava solo una vecchia canottiera bianca dall'aspetto frusto. Portava ancora i calzoncini corti, ma zia Maire aveva già preso qualcuno dei vecchi pantaloni di zio Patty e li stava stringendo in vista dell'autunno.
Sei tutto ossa, ragazzo” aveva dichiarato mentre prendeva la misura del suo girovita. “Och, ma in quel collegio cattolico della Scozia vi danno da mangiare?”.
«E Gesù disse loro; ‘In verità vi dico: voi che mi avete seguito nella nuova creazione, quando il figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù di Israele’». Remus sollevò appena un sopracciglio, rivolse alla nonna un’occhiata divertita e aggiunse: «Sembra un proclamo dei conservatori». Ridacchiò nel vedere l’espressione offesa lampeggiare nelle pupille di Gora e riprese la lettura. «Chiunque avrà lasciato case, o fratelli, o sorelle, o padre, o madre, o figli, o campi per il mio nome, riceverà cento volte tanto e avrà in eredità la vita eterna. Molti dei primi saranno ultimi e gli ultimi i primi. Mmh, adesso invece fa il comiziante laburista».
Le narici di Gora si dilatano appena. Remus scoppiò in una risata fragorosa e appoggiò la propria mano su quella dell’anziana donna.
«Och, nonna, stavo solo scherzando» si scusò sinceramente con un lesto sorriso innocente. «So perfettamente che Gesù vota per il Fianna Fàil».
«All'Inferno c'è un sacco di gente che scherzava troppo» borbottò stentatamente Gora. La sua voce era bassa e pastosa, e la mancanza dei denti rendeva quasi impossibile afferrare il senso di ognuna delle sue parole, ma Remus ci aveva fatto l'abitudine. Era l'unico, in effetti, capace di comprendere i suoi vaghi lamenti senza costringerla a ripetere ogni frase almeno tre volte.
Gora non glielo aveva mai confessato apertamente, ma Remus aveva l'impressione che avesse iniziato a trarre piacere dalla sua compagnia. Sfogliò nuovamente la vecchia copia della Bibbia e le domandò se ci fosse qualche brano in particolare che desiderasse ascoltare, ma lei scosse leggermente la testa e Remus si sentì libero di scegliere il suo preferito.
«Una serva si avvicinò a Pietro e gli disse: ‘Anche tu eri con Gesù il Galileo!’. Ed egli negò davanti a tutti: ‘Non conosco quell'uomo’. Giunse un'altra serva e disse: ‘Costui era con Gesù il Nazareno!’. Ma egli negò ancora: ‘’Non conosco quell'uomo’. Infine gli si accostarono altri presenti e dissero a Pietro: ‘Anche tu sei uno di loro. La tua parlata di tradisce’. Allora Pietro imprecò e giurò una terza volta: ‘Non conosco quell'uomo!’. E subito un gallo cantò». Remus tacque, d'un tratto pensieroso. «Tu hai sempre creduto in Dio, nonna?».
«Ho creduto in Dio da sempre» mormorò la donna. «Ma non sempre».
Remus alzò il viso dalla Bibbia e aggrottò confuso la fronte.
«C'è differenza?».
Parve quasi che le labbra bluastre e screpolate di Gora si fossero piegate in un lievissimo sorriso.
«Dio conosce i limiti del proprio Creato. La fede è come l'amore, come la vita, come l'uomo... e come talvolta se ne vanno loro, talvolta se ne va anche lei. Talvolta tornano, talvolta no».
«E la tua quand'è tornata?».
«La domanda più furba sarebbe stata “quando l'ho perduta”, ma tu resti sempre un inglese, e di furbizia siete sempre stati magri».
Remus schioccò la lingua come sua madre.
«Och, nonna, quanto hai ragione».
Gora rimase in silenzio per un lunghissimo momento. Dalla finestra aperta salivano i cori dei bambini che giocavano a pallone nella strada di sotto e gli strepiti delle donne che stavano stendendo il bucato fresco. Remus si godette un improvviso alito di vento che gli accarezzò la nuca sudata.
«Ho perduto la fede quando ho perduto tuo nonno» raccontò dopo un attimo di esitazione Gora. «Noi irlandesi non volevamo fare quella dannata guerra. E sai che ti dico, ragazzo? Se l'avessimo fatta fin da subito, och, saremmo stati dalla parte dei tedeschi solo per fare un torto agli inglesi». Si fermò e si schiarì la voce in un fiacco suono gutturale. «Ma poi i loro aerei hanno beccato Dublino e gli animi si sono infiammati. Tuo nonno era un vero irlandese, un vero irlandese nato a Kinsale... ed è andato a morirsene nelle dannate coste danesi, och».
Remus era a conoscenza della storia di Malachy O'Buckley, ma non l'aveva mai sentita raccontata dalla bocca sdentata di sua nonna – non l'aveva mai sentita raccontata davvero, in effetti.
È inutile che tu mi chieda di lui” era stata la risposta di sua madre. “Io non avevo nemmeno un anno, Remus, che vuoi che ricordi? Prova a chiedere a tua zia Fiona: non ha mai scordato un torto in vita sua, lei”.
Che torto, mamma?”.
Branna aveva schioccato la lingua con la sua espressione più spavalda e aveva liquidato la questione con un gesto scocciato della mano.
Och, hai quattro figlie, una moglie da sfamare e che fai, te? Vai a farti sparare dai fottuti nazisti. Bell'affare”.
Il tono della voce di Gora non suonava risentito quanto quello della figlia minore. Era più debole e incerto, ma le sue parole erano scandite da tiepida nostalgia. Remus richiuse la Bibbia, appoggiò il mento fra le mani e le rivolse un'occhiata curiosa.
«Deve essere stato crudo come l'Inferno, nonna».
Gora emise uno strano soffio ironico. La sua risata uscì dalla bocca sdentata come un vago colpo di tosse grassa.
«Per lui che è andato a morire nel culo d'Europa? Och, puoi giurarci che lo è stato. Io ero a casa a patire la fame con quattro bimbe, sì, ma l'Irlanda era piena di fame e bambini pure prima della guerra, ragazzo. E qua avevano tutti paura che Kinsale diventasse come Dublino, che passasse un caccia a farci esplodere mentre stavamo a Messa... ma non era l'Inferno, no. Tuo nonno, lui sì, che c'è andato a morire. Io no. Io ci sono solo passata accanto».
«Credevo che la fede servisse a farsi forza nei momenti più difficili» commentò seriamente Remus.
«Ed è nei momenti più difficili che ti molla».
«E ti ha mollato».
La donna annuì con blanda fiacchezza.
«Perché se ne è andato?» le chiese dopo un po'. «L'Irlanda non scese in guerra. Chi partì lo fece come volontario. Aveva quattro bambine piccole e te... perché l'ha fatto?».
Le labbra di Gora si piegarono nel primo vero sorriso che Remus le avesse mai visto fare.
«Perché era un irlandese con le palle, ragazzo. Partì dalla stazione di Cork. Quel giorno c'erano un sacco di irlandesi con le palle a prendere il treno. “Non me ne frega un accidente se quelli sparano agli inglesi” mi ha detto. “Ma che facciamo se poi perdono e i tedeschi pensano di venire pure qua? C'è mezza Dublino che brucia per colpa loro. Che facciamo, se dovesse bruciare tutta l'Irlanda?”».
«Non hai cercato di fermarlo?».
Gora schioccò la lingua contro il palato con la stessa identica arroganza con cui era solito farlo sua figlia. Remus sorrise d'istinto nel guardare gli occhi neri di sua nonna brillare fieri sul suo volto scavato. Una piacevole sensazione di calore gli inondò il petto.
«Se Dio non m'avesse fatto le tette, sarei andata con lui. Di', ragazzo, te che studi così tanto... che sarebbe successo, se avessero vinto i tedeschi? Se fossero arrivati anche qua, che ne sarebbe rimasta dell'Irlanda?».
Remus si umettò le labbra e ingoiò un fastidioso groppo di saliva.
«Niente».
«Och, niente. E lo sapevamo tutti» aggiunse con asprezza. «Te non saresti andato?».
Lui chinò la testa e sfiorò distrattamente la croce sulla copertina di pelle rovinata della Bibbia. Aveva la mente rivolta altrove, a immaginarsi il fango della Danimarca della Seconda Guerra Mondiale, l'eco delle cannonate tedesche nelle orecchie e il puzzo stantio del sudore di mille uomini terrorizzati. E poi un ricordo ben più crudo si affacciò nella sua testa.
Queste su Lord Voldemort non sono stronzate” riecheggiò la voce di Sirius. “Il Ministero può continuare a dirci che è solo un momento passeggero tutte le volte che vuole, ma questo non lo è per niente. Diavolo, dovreste sentire le cose che dice mia cugina Bellatrix a cena. Meglio prepararsi, ragazzi, perché quelli che stanno arrivando sono davvero tempi di merda”.
«Sì» sussurrò fra sé e sé.
Gora assottigliò le palpebre e scosse appena la testa. Remus alzò lo sguardo su di lei e fece un respiro profondo.
«Och, nonna, certo che sarei andato anch'io».
Le dita artritiche della vecchia si allungarono deboli fra le coperte e lui appoggiò la propria mano sulla sua. Nonostante la malattia se la stesse mangiando giorno dopo giorno con foga sempre più crescente, la stretta di Gora era salda e decisa – era quella di una donna di Kinsale.
«Hai la faccia da inglese, ma parli come un irlandese». Nei suoi occhi si era accesa un'inaspettata luce orgogliosa. «E ora va' a farti un giro, voglio riposare».
Remus annuì, si alzò in piedi e si chinò verso il comodino per riporre la Bibbia, ma Gora lo interruppe con aria seccato.
«Prendila te».
Lui si bloccò stupito. Sua nonna non era quel tipo di persona particolarmente propensa a elargire lodi e regali. E a quella Bibbia era sempre stata particolarmente affezionata. Era vecchia e puzzava di muffa, l'inchiostro era scolorito e qualche pagina si era addirittura staccata. La copertina di pelle esibiva i segni del tempo, dei tarli e di infiniti passaggi di mano in mano.
«Ma domani tornerò alla solita ora a leggertela, nonna».
«Och, certo che sì. E sarà meglio che te ne ricordi».
Remus accennò un sorriso gentile e aprì la bocca con l'intenzione di declinare l'offerta, ma Gora parve leggergli nella mente.
«Ti ho detto di prenderla. Non si sputa mai nel brodo che ti viene offerto. Io non riesco più a leggere un dannato accidente, ma tu sì» si fermò, socchiuse le palpebre con aria stremata e aggiunse al soffitto: «E ne avrai bisogno. Och, ragazzo, fidati di me. Te non ci vuoi credere, ma un giorno ne avrai più bisogno di me».

*








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Capitolo 2
*** San Pietro - Fui l'unico a rinnegare ***


Note di Trick - e stavolta non vedo il motivo di fare troppo bla-bla.
E invece sì, fregati.
1) Il Kilbeggan è una marca di whisky irlandese. Io non l'ho mai bavuto, ma a giudicare dalle lodi che riceve sulweb è quasi un suicidio assistito.
2) Secondo il Lexicon, patria di improbabili riferimenti potteriani, da qualche parte esiste sul serio un tizio di nome Argus Pyrites al servizio di Lord V. che indossava un paio di guanti bianchi. Una mezzapippa dandy, insomma. La nota del Lexicon aggiunge pure che no, non è un personaggio Canon, ma in una prima versione della Pietra Filosofale viene menzionato come l'autore di Alchemy, Ancient Art and Science. A volte mi chiedo se quelli del Lexicon abbiano una vita. Comunque, per quanto non abbia capito chi diavolo sia Argus Pyrites, l'ho rapito per i miei sporchi fini narrativi.
3) La traduzione italiana di termini come Muggleborn, Halfblood e Mudblood fa pena. La Salani non ha afferrato il concetto e ha fatto un gran minestrone. Io ho usato i termini Nato Babbano, Mezzosangue e Sanguesporco, sennò qua aggiungiamo pure le patate arrosto. Insomma, Mezzosangue non è considerata un'offesa in sè, facciamocene una ragione.



*
Santi di cartastraccia

Capitolo Due
San Pietro – Fui l'unico a rinnegare



Gesù gli disse: «In verità ti dico, proprio tu, oggi, in questa stessa notte,
prima che il gallo canti due volte mi rinnegherai tre volte».
Marco, 14, 30


Il bugigattolo in cui Remus abitava non era nemmeno lontanamente paragonabile a una casa. Era una stanza misera e umida, con la carta da parati resa verdognola dalla muffa e il linoleum del pavimento macchiato da decenni di suole di scarpe. Puzzava di freddo e di roba vecchia, le tende delle uniche due finestre erano piene di buchi di tarme, il letto stava in un angolo e una malridotta cucinetta a gas stava dall'altro. In mezzo c'erano solo un vecchio tavolino traballante, una sedia dalla paglia sfilacciata e decine di pile di libri pericolanti.
Quando il campanello suonò la prima volta, Remus non si mosse. Rimase seduto a terra, con la schiena appoggiata al bordo duro del materasso e il capo piegato all'indietro. A pochi centimetri dal suo piede, giacevano una bottiglia di Kilbeggan e un libro dalle pagine ingiallite. C'erano un paio di gocce di whisky ambrate sulla copertina logora.
Il trillo assordante del campanello risuonò di nuovo. Si udì una serie di feroci colpi alla porta, la voce tonante di Alastor Moody che imprecava, ancora il campanello, e poi la porta venne spalancata con violenza. Moody zoppicò nella stanza ed emise un roco borbottio sarcastico.
«Complimenti, Lupin. Questa porta è proprio quello che definisco “un ostacolo insormontabile”».
Le dita di Remus si strinsero attorno al collo freddo della bottiglia. Le sue labbra si piegarono appena in una smorfia sofferente.
«Abbiamo vinto la guerra» sbuffò. Sollevò il volto verso il mago più anziano e inarcò un sopracciglio. «I Mangiamorte non sono più appostati dietro la mia cassetta delle lettere. Fra l'altro, Moody... hai visto se mi è arrivata la bolletta della luce?».
Di reietti e disperati, Alastor Moody ne aveva visti tanti.
Era stato uno dei pochi sopravvissuti alla guerra contro Gellert Grindelwald e quel massacro di giovani maghi dominava ancora i suoi incubi. I compagni che avevano fatto ritorno a casa insieme a lui avevano conservato il suo stesso sguardo alienato, gli stessi nervi tesi, la stessa lingua pungente. Era il fiato della morte che era rimasto loro appiccicato addosso: eccola, la medaglia d'oro al valore. E poi era arrivato Lord Voldemort e si era preso i migliori di loro che erano resistiti. E Remus Lupin... Remus Lupin alla fine era sopravvissuto. Alastor se l'era aspettato.
Fra i giovani membri dell'Ordine della Fenice, Remus era sicuramente il più gracile. Era alto e dritto come un fuso, con i capelli biondicci arruffati fino alle spalle, le clavicole sporgenti e un velo di barba con cui cercava di sentirsi uomo. Nonostante il malsano pallore e le pesanti ombre scure sul volto, il suo sguardo era vispo e attento. Ed era cauto – più cauto di quanto non avrebbero mai potuto essere i suoi amici. Era una qualità che Moody aveva imparato ad apprezzare solo nel corso degli anni, fin quando non aveva lasciato l'audacia agli eroi caduti e si era accontentato della cautela dei sopravvissuti.
Dell'astuto ragazzino a cui Moody aveva insegnato a combattere non era rimasto che uno spettro sbiadito accovacciato ai piedi di un letto disfatto. Quello davanti a lui era probabilmente il ragazzo dall'aspetto più morto che avesse mai visto.
Remus giocherellava con la bottiglia, fissandone concentrato il contenuto che vi ondeggiava all'interno. Moody infilò le mani nelle tasche e gli rivolse un'occhiata critica.
«Se non ti rialzi in fretta, non ti rialzerai più».
«Le mie condoglianze».
«Non fare l'idiota, ragazzo». Afferrò la sedia, la ruotò di fronte a Remus e vi si lasciò cadere con solenne stanchezza. Alastor Moody apparve d'un tratto in tutta la durezza dei suoi anni. «Non sono venuto per darti una pacca sulla spalla. Nella mia vita ne ho ricevute tante, e ti giuro che mi ha fatto meno male perdere la gamba».
Una luce pericolosamente ferina attraversò gli occhi di Remus. Piantò i denti nel labbro inferiore e storse il naso con incredibile sdegno. La mano rigidamente serrata attorno al collo della bottiglia ebbe un tremito.
«Perché diavolo sei venuto?».
Il viso di Moody venne deformato da un orrendo sorriso rassegnato. Le cicatrici che gli solcavano la pelle come una raccapricciante ragnatela si storsero in sottili linee chiare. Non era il sorriso di un uomo: era il sorriso di una maschera di carne.
«Per ricordarti che sei vivo. Ero sicuro te ne saresti dimenticato. Eppure sei ancora qua, ragazzo. Mi hai fatto vedere che sai combattere come un uomo. Adesso rialzati come un uomo».
Remus non rispose. I suoi occhi non lasciarono per un solo istante i contorni distorti del volto del vecchio Auror. Poi si mosse con improvvisa rapidità, sbatté a terra la bottiglia, afferrò il libro e lo aprì con un gesto nervoso a una pagina segnata con una piega nell'angolo superiore. Il ragazzo si umettò le labbra con un'espressione di diabolica malizia e tese il piccolo volume davanti a sé. Moody riconobbe solo in quel momento la sagoma sbiadita di una croce impressa sulla copertina di pelle.
«“Beati i poveri, perché di essi è il regno dei Cieli”» sputò sdegnato Remus. «“Beati gli afflitti, perché saranno consolati”».
Moody abbassò le palpebre e soffocò un rauco borbottio stanco nella gola. Si passò una mano sul viso e scosse il capo.
«Lupin, piantala».
Ma il ragazzo non diede segno di averlo sentito. Riafferrò la bottiglia e si alzò in piedi con aria instabile, rovesciando qualche goccia di whisky sul pavimento. Reggeva la Bibbia con baldanzosa teatralità.
Ventun anni” pensò Moody con dolore. “Due in meno di quanti non ne avessi io quando ho vinto la mia prima guerra”.
«“Beati i miti perché erediteranno la terra”» continuò con enfasi crescente Remus. «“Beati gli affamati e gli assettati di giustizia, perché saranno saziati”».
Portò alle labbra la bottiglia e ne scolò un lungo sorso. Poi sollevò lo sguardo dalla Bibbia e scoccò a Moody un'occhiata tagliente. Emise uno sbuffo nauseato e gettò a terra il libro. Le vecchie pagine sibilarono l'una con l'altra mentre si ripiegavano. Remus iniziò a muoversi nella stanza come un lacero leone in gabbia. Moody non riuscì a contenere lo stupore nel sentirlo continuare a memoria quella recita fastidiosa.
«“Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia”. Tu sei mai stato misericordioso, Moody?».
«Lupin...».
Lui continuò a ignorarlo. Bevve con più foga, bevve come se non desiderasse che strozzarsi con quel whisky irlandese da due soldi e calciò brutale una pila di libri. Moody non si scompose. Remus continuò a marciare con aria invasata. I suoi occhi erano arrossati dal pianto e dalla mancanza di riposo, luccicavano di lacrime di furia e dolore che non era più in grado di trattenere. Ormai la sua voce non era che un sibilo rabbioso – e sul suo viso era comparso il fantasma del lupo che tanto disperatamente cercava di soffocare.
«“Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio”. Credi che Peter veda Dio, ora? Dimmi, Moody... credi lo veda?». Un altro sorso di whisky, un altro sputo di parole. «“Beato chi opera per la pace, perché sarà chiamato figlio di Dio”».
«Tutta questa recita te li riporterà indietro?».
Remus parve calmarsi. Si bloccò di colpo in mezzo alla stanza, deglutì a fatica, agitò la testa e si morse le labbra, ma ormai aveva le guance pallide rigate da lacrime silenziose. Pareva si stesse sciogliendo lui stesso fra i libri rovesciati e il whisky che continuava a scivolargli fra le dita. Ma poi scattò ancora con rinnovata energia, e Moody alzò davvero gli occhi al cielo nel vederlo dirigersi verso la piccola cucina e piegarsi per aprire un cassetto dal quale estrasse un pacchetto stropicciato di sigarette morbide. Remus se ne portò una alle labbra e gli lanciò d'istinto le restanti. L'altro le afferrò al volo e se le rigirò disgustato davanti a ciò che restava del suo naso.
Rothmans senza filtro”.
«Tua madre non è Babbana?» lo apostrofò grave. «Non ti ha detto che questa roba fa male?».
Il ragazzo tirò una prima isterica boccata e sbuffò divertito.
«“Beati i perseguitati a causa della giustizia, perché di essi è il Regno dei Cieli”» riprese. «Lily e James sono andati là, Moody. Lo sapevi? Io li ho visti scendere tre metri sotto terra, ma qua sembrano tutti convinti che siano andati un po' più in alto».
Moody si alzò di colpo e batté un pugno sul tavolo.
«Per la grazia di Merlino, ragazzo, ora basta!».
«Sto parlando con la grazia di Dio, non con la tua!» ruggì con folle disperazione. «“Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e vi mentiranno, dicendo ogni sorta di male contro di voi per causa mia”. Un Lupo Mannaro: questo è ciò che sono. Questo è ciò che sarò per sempre. Questo è il modo in cui la gente mi chiamerà fino alla fine dei miei giorni. Cosa ne pensi, Moody? È “a causa di Dio” che tutto questo è successo? È per questo che sono morti!?».
Fece un passo avanti e uno indietro, a destra e a sinistra, come se avesse perduto la concezione di tempo e spazio. Poi scagliò la bottiglia di Kilbeggan contro la parete opposta. Il vetro s'infranse con uno schianto acuto. Il whisky iniziò a scivolare verso il pavimento in decine di rapide gocce giallognole. All'aria già stantia della stanza si riempì l'acre aroma dell'alcol. Quell'ultimo impetuoso gesto parve svuotare Remus di tutta la sua determinazione. Si appoggiò con una mano tremante al muro e abbassò sconfitto la testa. I lunghi capelli biondicci gli coprirono il viso, ma Moody vedeva la sua schiena alzarsi e abbassarsi al ritmo del pianto.
«“Rallegratevi...”» biascicò Remus allo stremo. «“Esultate... perché grande è la vostra ricompensa nei cieli”».
Moody non si avvicinò. Rimase fermo accanto al tavolo, fissandolo singhiozzare pietosamente con la fronte appoggiata a una carta da parati ammuffita. C'erano state troppe scelte sbagliate in quella guerra, troppi errori, troppa fiducia in capacità che non erano mai state all'altezza delle aspettative... e ora tutto si concludeva lì, in un misero monolocale pregno dell'odore della sconfitta. La loro grande battaglia, le loro speranze, la loro tempra... lo spettro di ciò che di esse rimaneva era lì, accanto a un ragazzo poco più che ventenne già spezzato dalla morte e a un veterano dell'Inferno che non conosceva il modo per raddrizzarlo. Non c'era alcun modo per rimettersi davvero in piedi: traballare senza appigli era il premio di consolazione per i sopravvissuti.
Devi rialzarti, ragazzo” pregò fra sé e sé Moody. “Con Dio o senza Dio... questo non importa”.

*

C'erano molte persone che Remus non si sarebbe mai aspettato di vedere davanti alla porta della casa di sua madre. Kinsale era un villaggio di poca gente, ed era tutta abituata a farsi gli interessi altrui solo in piazza. Tutti gli altri – tutti quelli che erano entrati nella vita di Remus senza mai passare per Kinsale – facevano parte di una folla di facce che non aveva programmato di rivedere.
E invece Alastor Moody era fermo sul primo gradino di pietra, con le mani infilate in un anonimo soprabito Babbano e un ridicolo cappello di feltro piegato in modo da celare l'occhio sinistro.
«Ti trovo in pessima forma, Lupin» esordì svelto, mentre si insinuava con altrettanta velocità nel piccolo ingresso. «Plenilunio alle porte?».
Totalmente spiazzato dalla sua visita, Remus rimase fermo con la mano sul pomello per qualche secondo. Quando si voltò, la sua espressione era impenetrabile.
Moody si diresse incurante nella cucina, levò il cappello e mostrò con orgoglio un orrendo occhio di un intenso azzurro che roteava in un'orbita che Remus ricordava vuota. Il ragazzo emise un verso disgustato.
«Quell'affare fa paura, Moody».
«“Malocchio”. È così che mi chiamano adesso».
«Piuttosto azzeccato» commentò sbrigativo Remus, avanzando verso il fornello a gas e spostando il bollitore dalla fiamma.
L'anziano Auror si sedette su una sedia e appoggiò il mento alla mano. A Remus non sfuggì la difficoltà con cui muoveva la gamba di legno.
Sono passati sette anni e ancora non si è abituato”.
«Non mi chiedi cosa ci faccio nella tua cucina?» sbottò sarcastico Moody.
«Scommetto che non sei qui per prendere una tazza di tè».
L'occhio magico dell'uomo si ribaltò d'un tratto all'interno del suo stesso cranio e Remus fece una smorfia ancora più nauseata.
«Ora capisco perché non ti chiamano “Bellosguardo”» scherzò con un mezzo sorriso.
«Ognuno si porta addosso le cicatrici che ha meritato» ribatté pungente. Remus non raccolse la provocazione, così Moody proseguì. «Sono qui per offrirti un lavoro».
«Ce l'ho già, un lavoro».
«Sì, me l'hanno accennato. Com'è la vita in miniera?».
«Non è una miniera, è solo un vecchio deposito di carbone».
Moody emise un lungo sbuffo stizzito.
«Uno con la tua testa che sposta a mano carriole di carbone...».
«Con la mia testa, con i miei artigli e con le mie zanne» lo corresse pacato Remus, facendo le spallucce. «Dimmi qualcosa che non so, Malocchio».
Moody infilò una mano nella tasca interna del soprabito, estrasse una pergamena giallastra ripiegata su se stessa e gliela porse. Remus la afferrò con lieve esitazione, la dispiegò e scorse rapidamente una lunga lista di nomi che non gli ricordavano nessuno che avesse conosciuto.
«Sono gli invitati alla tua festa di compleanno?».
L'uomo ignorò la sua battuta.
«Magari lo fossero. Farei meno fatica a strozzarli uno per uno».
Remus aggrottò confuso la fronte e rilesse ancora i primi nomi. “Hesper Gamp, Howland Coopey, Hamish MacFarlan”. Cercò di abbinare un viso a ognuno di essi, ma non ottenne alcun risultato.
«Chi sono?».
«Quelli rimasti fuori».
«Rimasti fuori... da dove?».
«Da Azkaban» replicò con ovvietà Moody. «Sono i quarantatré maledetti figlia di cagna che ci sono scappati. La linea ufficiale del Ministero è che abbiamo la situazione sotto controllo. La linea ufficiosa ce l'hai fra le mani».
«E dovrei conservarla per spedire gli auguri di Natale?».
L'occhio normale di Moody si assottigliò minacciosamente. Scrutò il mago più giovane con estrema attenzione, poi scosse la testa divertito e disse:
«Da quando sei diventato così sarcastico?».
«Da quando tu sei diventato così diplomatico» replicò prontamente Remus. «Avanti, Moody. Smetti di girarci attorno: cosa vuoi che faccia?».
«Il Ministero se ne è lavato la mani. Se la notizia trapelasse al di fuori del Quartier Generale degli Auror, la comunità magica andrebbe fuori di testa. Riesci a immaginarlo? Sono passati sette anni dalla sconfitta di Voldemort e c'è ancora gente che non si azzarda a pronunciare il suo nome. Credono possa rispuntargli di colpo da sotto il letto... e più il tempo trascorre, più beccare questi bastardi diventa difficile» si fermò e mostrò i palmi ruvidi con aria rassegnata. «Sei l'unico membro dell'Ordine che può farlo».
Remus inarcò un sopracciglio e gettò la pergamena sul tavolo.
«L'Ordine della Fenice esiste ancora?».
«Esisterà fin quando esisteranno Mangiamorte fuori dalle mura di Azkaban».
«E perché lo stai proponendo a me?».
Moody gli scoccò un'occhiata di fuoco.
«Non fare l'idiota, ragazzo. Sai perché».
«No, non lo so» rispose franco Remus, intrecciando le braccia al petto e guardandolo con sfida. «Eravamo in tanti, ma tu sei venuto da me. I casi sono solo due: o tutti hanno declinato la gentile offerta o tu sei disperato».
«O forse tu sei il migliore, razza di idiota».
La schiettezza feroce di quel complemento lasciò Remus senza parole. Moody non era facile agli elogi – e quando li faceva era abile a camuffarli da rimprovero. Si passò una mano fra i capelli troppo lunghi e soffiò infastidito.
«Perché non te ne occupi tu?».
«Perché tu hai bisogno di fare qualcosa di vivo più di quanto non ne abbia io. Merlino, Lupin... guardati» ringhiò con voce paternalista. «Sei lo straccio del ragazzo che sei stato un tempo».
Remus assottigliò risentito le palpebre.
«Sono ciò che la guerra mi ha reso».
«No, ragazzo» lo corresse duramente Moody, sollevando la pergamena e scuotendola con eloquenza. «Sei ciò che questi bastardi ti hanno reso. Ti hanno distrutto, ti hanno svuotato, ti hanno ammazzato... e tu hai permesso loro di farlo».
Quelle parole parvero scuotere il giovane fin nelle più torbide profondità del suo animo, ma rimase immobile come una statua. Moody lo aveva visto di rado perdere quel fare calmo e ragionevole con cui si era sempre distinto. Perfino quando era un ragazzino appena maggiorenne con la testa piena di sogni di vittorie e grandi battaglie contro le Arti Oscure sapeva essere compito come un piccolo soldatino di piombo. Erano doti che Moody apprezzava molto, ma sapeva fin troppo bene che il cuore di Remus Lupin era molto più agitato e suscettibile di quanto non si potesse credere.
Fra i suoi amici, era il più pericoloso” ricordò con triste nostalgia. Era una constatazione tremendamente vera. Moody era rimasto sconcertato nel rendersi conto che quel ragazzo pallido e ossuto era il più temibile giovane mago che avesse mai incontrato. Anche James Potter era molto talentuoso, ma era troppo nobile per sperare di vincere una guerra in cui occorreva sporcarsi le mani; al contrario, Remus vantava quella razionalità un po' cinica che divideva gli eroi dai soldati.
Moody non aveva dimenticato la prima volta in cui aveva dovuto uccidere un uomo, e di certo non lo aveva fatto nemmeno Remus. Era stata una battaglia cruenta e mortale. C'erano state esplosioni di vetri, intere strade squarciate sotto il cielo di Londra e un sacco di Babbani morti. Remus aveva combattuto al fianco di Moody. Avrebbe compiuto diciotto anni il mese successivo, ma la ferocia e la determinazione con cui aveva scagliato il suo primo Anatema Che Uccide contro un Mangiamorte non era quella di un ragazzino. Era quella di un uomo che aveva scordato l'infanzia, quella di un bambino che non l'aveva mai davvero assaporata...
Ragazzo, stai bene?” gli aveva chiesto più tardi.
Gli Obliviatori e gli Auror del Ministero della Magia affollavano ciò che restava del quartiere più a nord dell'Essex con le mani nei capelli e lo sguardo sconvolto. C'era ancora gente che correva disperata, Babbani fuori controllo e Frank Longbottom aveva appena trovato un pezzo della gamba di Benjy Fenwick. Remus era seduto sul ciglio di un marciapiede e si fissava pensieroso i palmi della mani. Quando aveva sollevato il volto, Moody si era stupito nel vedergli un'espressione tanto vuota.
Mia nonna ripeteva spesso che siamo tutti schiavi del peccato” aveva commentato con aria distratta. “Sono parole di Gesù, lo sapevi? Chiunque commette peccato è schiavo del peccato. Lo disse ai farisei che desideravano lapidare l'adultera. Se quella donna fosse capitata fra le mani di Mosè, Mosè sarebbe stato il primo a colpirla”.
Moody aveva sgranato gli occhi e lo aveva fissato come se fosse improvvisamente uscito di senno.
Non sapevo credessi in Dio”.
Remus aveva annuito piano.
Non era affatto raro imbattersi in Mezzosangue o Nati Babbani di religione protestante. Con il trascorrere dei secoli, era diventato incredibile trovare un mago o una strega ancora fedele agli antichi culti della natura, e l'ingresso di un numero sempre maggiore di figli di Babbani a Hogwarts aveva distrutto la barriera che aveva sempre diviso la magia dalla fede cristiana.
Tuttavia, c'era qualcosa di malsano in Remus, qualcosa di atipico che Moody non era mai riuscito a inquadrare... forse era a causa della sua licantropia. Era una delle tante logiche fin troppo sbagliate che il mondo non aveva voglia di scrollarsi di dosso: era un Lupo Mannaro, dopotutto. Chi avrebbe mai pensato che potesse credere in Dio?
È una storia buffa” aveva continuato a raccontare il ragazzo, e Moody non l'aveva interrotto. “Ho sputato nell'acquasantiera perché il parroco mi ci stava affogando dentro. Non so se vale come battesimo cattolico”.
Cattolico?” aveva ripetuto stupito.
Sono irlandese. Lo è mia madre, almeno”.
So che tua madre è irlandese. Non sapevo fossi cattolico”.
Dio ha ucciso un sacco di gente per liberare il popolo d'Israele”.
Moody aveva inspirato profondamente e si era cacciato entrambe le mani nelle tasche. Si era mosso un po' a disagio sui piedi, senza distogliere gli occhi da quel ragazzetto pallido e confuso. Conosceva la sensazione di smarrimento provocata dalla guerra.
Tienilo a mente: è un pensiero che potrebbe tornarti utile”.
Remus aveva scosso veemente la testa e si era guardato i palmi di nuovo.
Io lo volevo morto” aveva sputato con enfasi. “E non mi sento in colpa. Non mi sento nemmeno male. Ho ucciso un uomo e non sento niente. Sono solo... incredulo. Non credevo di riuscirci. E non sento di aver peccato contro Dio. Dovrei?”.
, aveva pensato Moody. È quello che sentii io.
Se tu non l'avessi ucciso, lui avrebbe ucciso te e poi chissà quanti altri poveri disgraziati”.
Il ragazzo aveva storto appena il naso e si era grattato la nuca. Un'ombra cupa gli aveva attraversato di colpo il viso.
Chissà se a San Pietro basterà come scusa”.
E ora, sette anni più tardi, davanti a lui c'erano i resti di un soldatino di piombo che appariva più vecchio di quanto non fosse mai davvero stato. Remus gli prese la pergamena fra le mani e la rilesse per l'ennesima volta con espressione distante ed enigmatica. Nel scorgere il dubbio e l'incertezza sul suo volto, Moody trovò la forza per sputare fuori il suo più agghiacciante timore.
«Silente crede che non sia ancora finita».
Remus alzò gli occhi. Per un attimo parvero quelli di un bambino sperduto, ma quando parlò la sua voce era forte e sicura.
«E tu gli credi?».
«È Silente» rispose con naturalezza. Apri le mani con aria interrogativa e aggiunse: «Coraggio, Lupin. Fa' la tua scelta. Da una parte hai delle carriole di carbone e dall'altra hai quarantatré cani rognosi che non aspettano altro che il ritorno del proprio padrone».
«Peccato che la parte che mi paghi sia quella con il carbone».
Moody emise un verso un po' scettico.
«Non pensavo saresti finito a dare un prezzo al tuo onore. Non tu».
Le labbra di Remus si arricciarono in un sorriso privo di gioia. Ripiegò la pergamena e la infilò nella tasca posteriore dei pantaloni, ma non disse altro.

*

Remus aveva sempre pensato che Dublino fosse una città meravigliosa sotto tantissimi aspetti, solo che lui capitava sempre in quelle più schifose. Erano quelle in cui gli scarichi fognari avevano dei problemi e si rigettavano in strada quando pioveva. E quella era Dublino, e a Dublino pioveva davvero tanto.
Dio ha fatto l'Irlanda per poterci vendere gli ombrelli” ripeteva spesso Branna Lupin. Con il trascorrere degli anni, Remus aveva fatto sua quella citazione. Pioveva pure quel giorno: l'acqua scendeva dalle grondaie dei palazzi popolari del quartiere industriale e formava fangose pozzanghere accanto ai marciapiedi. I pantaloni scuri di Remus erano inzaccherati fino a metà polpaccio.
Maledisse l'assenza del proprio mantello. Era frusto e rattoppato con decine di pezze differenti, ma perlomeno lo avrebbe tenuto asciutto. Peccato solo che Dublino non fosse abbastanza magica per sopportare la presenza di un mago incappucciato. In compenso, sembrava abbastanza infame per nascondere uno dei quarantatré Mangiamorte ufficiosamente scappati dal proprio processo davanti al Wizengamot.
Argus Pyrites era il quindicesimo nome della lista che Remus conservava gelosamente fra le ultime pagine della Bibbia che un tempo era appartenuta a Gormlaith O'Buckley. A Remus erano servite intere settimane per rintracciarlo, ma la fitta rete di derelitti e disgraziati che affollavano i bassifondi non l'aveva mai tradito. Moody gli aveva insegnato bene quali nervi scuotere. “Sei un Lupo Mannaro, ragazzo. Non piangerci sopra e sfrutta il timore che puoi incutere a quella feccia di ladri e fattucchiere”.
Willy Wimple era quello con la lingua più sciolta e l'alito più nauseante di tutti.
Lo cerchi nel paese sbagliato, Lupin. Dicono sia scappato in Irlanda”.
Dicono anche che l'Irlanda sia un paese grande, Willy”.
Il macilento ricettatore si era stretto nelle spalle ossute e si era passato una mano fra i corti capelli rossicci.
Eh, che ti posso dire? Questo è quello che so”.
Dollymount, ecco dove si era rintanato Pyrites con tutto ciò che era rimasto del suo conto alla Gringott. Remus aveva trovato piuttosto ironico il fatto che uno degli ultimi sostenitori di Lord Voldemort si stesse nascondendo in uno dei quartieri Babbani più miseri di Dublino. Ma, dopotutto, lui era una Creatura Oscura che dava la caccia ai Mangiamorte su ordine di un Auror visionario con un occhio solo – c'era ironia nascosta un po' dappertutto.
Pyrites uscì da una piccola porta dalla vernice scrostata che si affacciava in un viottolo secondario. In una mano reggeva l' ombrello e nell'altra la spazzatura. Sogghignando sotto i baffi, Remus si affrettò ad attraversare la strada. Fece scivolare la bacchetta fuori dalla manica della camicia sinistra e si insinuò alle sue spalle.
«Pessima giornata, eh?» disse con voce roca.
Preso in contropiede, il Mangiamorte sobbalzò e si voltò spaventato. Fissò per qualche istante Remus, ma non lo riconobbe. Pyrites aveva una faccia squadrata e rubizza, con due grosse labbra sporgenti e gli occhi ravvicinati. Era stato uno dei più sanguinari uomini al servizio di Lord Voldemort: ora sembrava solo un uomo sciupato con un brutto viso cavallino. Gettò il sacco della spazzatura e alzò il mento con aria sospettosa.
«Che diavolo vuoi?».
«Ti porto i saluti di Edgar Bones e dei suoi figli morti».
Il colore scivolò via dal viso di Pyrites. Lasciò cadere l'ombrello e tentò di sfrecciare nella direzione opposta, ma a Remus fu sufficiente un pigro movimento della bacchetta per atterrarlo fra le pozzanghere. L'uomo si contorse a terra, si rigirò sulla schiena e lo guardò con crescente terrore. Boccheggiava e squittiva come un piccolo topo in trappola. I suoi occhi si spalancarono nel vedere il volto cereo di Remus.
«R-Remus Lupin...» pigolò. Scosse il capo con veemenza, senza distogliere lo sguardo atterrito dalla punta della sua bacchetta.
Remus inarcò sarcastico un sopracciglio.
«Mi aspettavi?».
Pyrites si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«I-io... io non c'entro niente con quella storia. Io so cosa stai facendo...».
«E cosa sto facendo?».
«So di Hesper...» lo accusò con decisione. Per un attimo parve tornare il presuntuoso mago era stato un tempo. «Hesper Gamp. L'hanno trovato morta nel suo appartamento».
L'espressione di Remus era gelida e impietosa. Schioccò la lingua e inclinò appena il capo. Un ciuffo di capelli bagnati gli scivolò sulla fronte.
«Non era il suo appartamento. Era l'appartamento di una Babbana di nome Betty Dorkins. Aveva due figli, tre nipoti e un'adorabile femmina di Yorkshire di nome Coco».
«L'hai ammazzata».
«Chi? L'adorabile Coco?» replicò con pungente umorismo Remus. «No, è sparita. Temo che Hesper Gamp se la sia mangiata».
La gloria perduta guizzò d'improvviso negli occhi di Pyrites. Storse con disprezzo il grosso naso e scandì ancora:
«E tu hai ammazzato lei. Dimmi, Lupin, quale dannata carogna del Ministero ti ha sguinzagliato in giro per la Gran Bretagna? Credevo aveste tutti le mani pulite, laggiù».
Remus scoppiò in un'amara risata.
«Ti sembro un impiegato ministeriale? Il Dipartimento per il Controllo e la Regolarizzazione delle Creature Oscure muore dalla voglia di mettere le mani anche su di me».
«Ma tu lavori per loro».
«Io lavoro per me. Lavoro per la gente come Betty Dorkins. Lavoro per la gente come Edgar Bones» negò con un piglio di furioso orgoglio. «Lavoro per riconsegnare ognuno di voi all'inferno che continua a sputarvi fuori».
«Che bestia piena di onore».
Remus si stupì della velocità con Pyrites si lanciò sull'ombrello abbandonato ai suoi piedi. Ne staccò l'impugnatura ricurva, rivelando una piccola e storta bacchetta magica. Tutto parve muoversi a rallentatore – o forse era solo la percezione di Remus, forse dipendeva tutto dal fatto che se lo era aspettato. Forse era semplicemente la forza dell'abitudine.
La bocca di Pyrites si aprì per scandire la maledizione e nella mente di Remus riapparvero i profili ormai dimenticati dei volti dei piccoli Bones, riversi nel soggiorno con le morbide guance ancora rigate di lacrime. C'era stato anche Argus Pyrites, quella notte. Era il Mangiamorte che aveva evocato il Marchio Nero dopo il tremendo assassinio.
Un lampo di luce verde illuminò il vicolo buio, esplodendo nelle pozzanghere e dipingendo labili ombre smeraldine sul volto impassibile di Remus. Pyrites era un cadavere ancora prima di sprofondare sul ciglio del marciapiede. Remus rimase per qualche minuto immobile sotto la pioggia fredda, fissando con aria vaga il corpo dell'uomo. Moody non ne sarebbe stato particolarmente lieto, ma quello era lo scotto da pagare per poter consegnare al Ministero i quarantatré ex-Mangiamorte. Remus era un uomo paziente, ma trovava piuttosto irritante quando non riusciva a convincerli entro i primi due minuti a seguirlo al Ministero.
C'erano taglie sulle teste di ognuno di loro in attesa di essere riscosse da oltre sette anni. Da morti valevano un po' meno, ma Remus non aveva mai posseduto abbastanza denaro per imparare a interessarsi di guadagni e investimenti.
Devo ucciderli?” aveva domandato a Moody con impietosa franchezza.
Il vecchio Auror lo aveva guardato con tetra serietà e aveva sbottato:
Fa' quello che vuoi”.
Agitò la bacchetta a mezz'aria ed Evocò la vecchia Bibbia di sua nonna. La aprì all'ultima pagina, dispiegò la pergamena di Moody e cancellò il nome di Argus Pyrites dalla lista.
Solo altri ventotto” contò mentalmente. La sua attenzione ricadde per la millesima volta sulla stropicciata fotografia magica che non aveva mai avuto il coraggio di gettare via.
All'epoca aveva quindici anni e credeva che Hogwarts e i Malandrini fossero un'istituzione immortale. Erano tutti e quattro seduti sui gradini della capanna di Hagrid. James portava gli occhiali storti sul lungo naso, il suo sorriso era vivace e beffardo, e aveva il braccio di Sirius attorno al collo. Quello sfoggiava un'espressione spavalda sul bel viso elegante e i capelli lunghi ricadevano scompigliati sulle spalle. Peter si mordicchiava le unghie e ridacchiava sotto i baffi delle loro battute, scrutando dal basso verso l'alto con aria ammirata... e poi c'era lui, con un mezzo sorriso un po' timido, un sopracciglio appena inarcato e un grosso libro di Aritmanzia stretto fra le braccia. Remus sollevò la fotografia e la rigirò. La sgangherata calligrafia di James non era ancora sbiadita del tutto.
Fatto il misfatto.
Remus ripeté mentalmente quella frase per parecchi secondi – era un rito, ormai, era il suo personale modo di chiedere perdono a chiunque fosse stato incaricato di ascoltarlo.
«“Colui che colpisce un uomo causandone la morte, sarà messo lui stesso a morte”» recitò fra i denti. Ricacciò la fotografia e la pergamena all'interno della Bibbia e ispirò profondamente. “Amen”.
Mentre si allontanava sotto la pioggia, tuttavia, realizzò che l'unico a essere sopravvissuto era quello che più di tutti aveva trovato la forza di colpire  altri uomini.

*

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Capitolo 3
*** San Giovanni - Fui l'unico a sopravvivere ***


Note di Trick - nessun bla-bla, questa volta. Soltanto un grazie di cuore a tutti quelli che hanno letto e apprezzato questa mini-long.
1) Credevate che riuscissi a evitare i bla-bla? Siete troppo ottimisti. I tre capitoli che hanno composto questa storia prendono nome da tre santi (ma dai?) e io suppongo che voi sappiate chi siano (poi non so) perché non sono proprio San Teocrazio o Santa Ermenegilda, insomma, qua si parla di gente famosa. Sono San Tommaso, quello che ha infilato il dito nel costato di Gesù perché "se non vedo, non credo"; San Pietro, il furbastro che ha rinnegato Gesù subito dopo il suo arresto; infine, ecco San Giovanni, e adesso il bla-bla ve lo faccio sul serio, così non si può dire che non abbia studiato l'argomento. Secondo non troppo accertati studi cristiani, San Giovanni è l'ultimo degli Apostoli a morire - anzi, sembra addirittura l'unico a non subire alcun martirio e a raggiungere una veneranda età. San Giovanni Fortunello, in pratica.

*
Santi di cartastraccia

Capitolo Tre
San Giovanni – Fui l'unico a sopravvivere



«Scrivo a voi, giovani, perché avete vinto il maligno».
Atti di Giovanni, 2, 13


Sapeva che svuotare la stanza che aveva occupato al numero dodici di Grimmauld Place sarebbe stato difficile, ma aveva dovuto varcare la soglia dell'ingresso per rendersi conto di quanto lo sarebbe stato davvero.
Era sempre stato un posto tetro, Grimmauld Place. Lo era perfino nei racconti di Sirius, quando tutti loro frequentavano Hogwarts e c'era ancora il tempo e la voglia di ridere delle teste mozzate degli elfi e delle smanie di grandezza dei Black.
Attraversando con passo felpato lo stretto androne principale, Remus si rese conto che la breve permanenza dell'Ordine della Fenice non era stata in grado di rendere quel posto meno lugubre. Perfino la cenciosa carta da parati sembrava odorare di cose morte e cose dimenticate. E quella volta, quella dannata volta, c'era perfino l'eco della risata canina di Sirius a rimbombare fra la polvere.
Remus cercò di raggiungere le scale senza fermarsi davanti al grande soggiorno.
Quante sere aveva trascorso seduto davanti al camino in compagnia di Sirius e di una delle bottiglie della nobile riserva di suo padre? Centinaia, forse – a pensarci meglio, si disse, forse avevano trascorso insieme ognuna di quelle sere. Forse avevano preferito non lasciarsene sfuggire nemmeno una perché avevano capito quanto potesse essere facile perderle tutte in un colpo solo.
Remus iniziò a risalire i gradini di legno. Perfino il loro lamentoso scricchiolare suonava come un elogio funebre.
«Avrei potuto pensarci io» lo raggiunse la voce flebile di Tonks.
«Hai lasciato il San Mungo contro il parere dei Guaritori» la ammonì lui. “E contro il mio” aggiunse mentalmente. «Non dovresti nemmeno pensare di sottoporti a simili sforzi».
Lei lo seguì in silenzio fino al primo piano. Remus rimase qualche istante in mezzo al corridoio e si voltò per lanciarle un'occhiata inquisitoria. Tonks recava ancora tutti i segni della battaglia nell'Ufficio dei Misteri. Pesanti ombre scure si allargavano sul suo viso pallido e per quanto cercasse di nasconderlo, zoppicava ancora vistosamente. Non aveva ancora beneficiato del tutto dell'effetto delle Pozioni Cura-Ferite con cui l'avevano rimesta in sesto al San Mungo e il suo sopracciglio sinistro era diviso in due da un taglio che aveva appena iniziato a cicatrizzarsi.
«Da solo non ce l'avresti fatta» esordì lei con franchezza, trattenendo a stento una smorfia nell'appoggiare la gamba dolorante sull'ultimo gradino.
«Ho fatto più cose da solo di quante tu non possa immaginare».
«E ne è valsa la pena?» replicò lei con un sorriso triste. «Io direi di no».
Rimase a guardarla mentre gli voltava le spalle e si dirigeva con cautela verso la sua stanza. Paragonata agli altri Auror che aveva avuto modo di conoscere nel corso degli anni, Tonks era davvero una cosetta minuscola. Le punte dei suoi capelli colorati raggiungevano appena l'altezza delle spalle di Remus. E poi aveva i polsi sottili, i fianchi stretti, le gambe magre come quelle di una cavalletta e le mani piccole e lisce come quelle di una ragazzina... la veste da Auror che sfoggiava con tanto orgoglio la faceva apparire molto più simile a un soldatino giocattolo.
Il ricordo del sapore delle sue labbra appoggiate contro le proprie lo metteva ancora a disagio. Aveva sperato di trovare il momento giusto per parlare con lei di quella sconveniente situazione, ma il mondo era cascato addosso a entrambi e non gli era rimasto nemmeno il fiato nel petto.
Quando l'aveva vista soccombere ai colpi di Bellatrix Lestrange aveva provato la più lancinante paura della sua vita – non se ne era accorto fino a quel momento, fino a quando non l'aveva immaginata perduta, e poi ogni cosa era esplosa, Sirius era morto e si era trascinato all'inferno un pezzo di ognuno di loro.
Si era fatto tutto un po' troppo difficile.
Aveva creduto che il tempo dei baci e dei sorrisi rubati potesse arrivare anche per lui. Se ne era quasi illuso, e quando aveva sfiorato la guancia arrossata di Tonks era arrivato a sfiorare la vera felicità per la prima volta in vent'anni... ma tutto gli scivolava sempre fra le dita. Era stato uno sciocco a scordarsene.
«Oh, Tosca... il pavimento è sotto a tutti questi libri?» fu il drammatico brontolio della ragazza davanti alla porta della sua stanza.
Remus si appoggiò allo stipite e si guardò intorno. Alte pile di libri ingombravano gli angoli della stanza, circondavano la scarpiera, ricoprivano la consolle accanto alla finestra e si impennavano pericolosamente ai piedi del letto. A qualche passo dalla porta c'era un grande acquario vuoto e impolverato, e c'erano dei libri allineati perfino al suo interno. Tonks si voltò per rivolgergli un'occhiata sconcertata e lui fece le spallucce con aria rassegnata.
«Mi piace leggere».
«Questo lo so... ma perché non ti sei preso una libreria?».
«Mancanza di abitudine, presumo».
«Abitudine?» ripeté lei con la fonte aggrottata.
«Le librerie costano, Ninfadora.
Tonks fece un sospiro rassegnato, ma nei suoi occhi balenò un guizzo affettuoso. Si avvicinò al letto, spalancò le braccia come un angelo e vi si lasciò cadere sopra a peso morto. Rimase ferma a osservare il soffitto per qualche secondo. Remus provò l'impulso di sedersi accanto a lei, ma fu lesto a metterlo a tacere. La sua vicinanza lo stordiva, lo rendeva inerme, istintivo... e lui odiava essere istintivo.
«So che è un momento di merda per te, per me e per tutto il resto del globo... ma se non parliamo di quello che è successo, mi esploderà la testa. Ripulire i resti del mio cervello da tutti questi libri potrebbe essere un compito noiosissimo per te».
Remus socchiuse le palpebre con aria stremata. Avrebbe dovuto immaginare che lei non sarebbe stata disposta a gettare alla spalle quel dannato bacio. Tacevano entrambi, ma condividevano la stessa sconcertante sensazione di aver mosso le pedine troppo in fretta. C'era un intero burrone di paure e incertezze a un centimetro dalle punte dei loro piedi, una guerra fuori dalla finestra e un intero esercito di psicopatici in attesa di strappare le viscere di entrambi.
«Non credo sia il momento migliore per parlarne».
Tonks emise un verso sarcastico e intrecciò le mani dietro la nuca.
«Oh, beh... vorrà dire che ci metteremo comodi e aspetteremo che questo schifo finisca. Ma ho come l'impressione che questa guerra ci mangerà uno alla volta, sai?».
«Questa volta non è come l'ultima volta. Siamo più--».
«--preparati, attrezzati, addestrati...» gli fece il verso lei. Il tono cinico che vibrava nella sua voce lo fece rabbrividire. «Lo siamo davvero, Remus?».
Non ebbe più la forza di mentire nemmeno a se stesso. Si avvicinò al letto, si sedette sul bordo opposto al lato sul quale lei giaceva supina e si coricò al suo fianco. Scrutò le chiazze umide del soffitto per qualche secondo e negò con un sospiro rassegnato.
«Siamo fottuti».
Tonks voltò il capo verso di lui e fece una smorfia beffarda.
«È la prima volta in cui ti sento dire una parolaccia e tu la sprechi articolando la risposta più schifosa e apocalittica che potessi darmi... buon Dio, Remus, ogni tanto dovresti mentire».
Lui si passò una mano fra i capelli e arricciò le labbra in un vago sogghigno.
«Non tirare in mezzo Dio e i suoi santi... si arrabbiano facilmente».
«Come fai a saperlo?».
«“Colpì ogni primogenito della terra d'Egitto”» citò lentamente. «Una creatura piuttosto rancorosa, Dio».
«Però ha liberato il popolo d'Israele dopo secoli di schiavitù».
«Per poi farli sterminare per tutto il resto del tempo libero che aveva gentilmente donato loro».
Tonks si sollevò appena, appoggiò il volto al palmo della mano e si mordicchiò confusa l'interno della guancia. I suoi occhi scuri divennero due sottili linee inquisitorie.
«Mi avevi detto di essere stato battezzato in una chiesa cattolica».
«Un battesimo irlandese farebbe barcollare perfino la fede di Gesù Cristo».
«Questa è blasfemia».
«No, questa è una constatazione. Avrebbero dovuto aggiungerla al Vangelo».
Tonks soffiò divertita.
«Dal Vangelo secondo Remus Lupin: “Non battezzate i vostri figli in Irlanda o cresceranno come dei buddisti con la sindrome d'abbandono”».
«Io non sono buddista» replicò con voce neutra. «E non ho la sindrome d'abbandono». “Eppure sei solo” aggiunse mentalmente.
Ed ecco che il passato tornava a inondargli con prepotenza la mente. Era sempre così, rapido e doloroso. James sghignazzava nei suoi ricordi come un eterno adolescente e scambiava pacche sulle spalle con Sirius. Non era il vecchio spettro che si era riconsegnato alla prigionia di Grimmauld Place, non era quell'uomo derelitto che sorrideva come un teschio... no, era Padfoot, era il quindicenne rampollo dei Black con i capelli neri troppo lunghi e il sarcasmo troppo perfido. Il paffuto Peter era ancora Peter, ancora Wormtail, e lui, Remus, era davvero convinto che i Malandrini fossero destinati a durare per l'eternità.
Sarebbe stata un'eternità meravigliosa. Avrebbero potuto organizzare scherzi e scappatelle nelle cucine, infilarsi di soppiatto a Hogsmeade, cercare invano di infilarsi nei dormitori delle ragazze e mai nessuna guerra sarebbe venuta a reclamare la loro gioventù. Sarebbe stato per sempre il prefetto Lupin, solo Moony, solo il ragazzino macilento cresciuto da un piccolo esercito di donne O'Buckley irlandesi che di tanto in tanto scandiva “och” senza rendersene conto.
E Lily avrebbe inseguito James e Sirius, avrebbe riservato loro le più colorite minacce – ma quelle per James sarebbero sempre state un poco peggiori – e alla fine si sarebbero arresi e avrebbero chiesto scusa con gli occhi bassi e la labbra arricciate come due bambini. Lily ne avrebbe riso, avrebbe riso di cuore, e Remus avrebbe riso con lei, perché qualunque uomo avrebbe riso insieme a Lily. E sì... sì, Remus sarebbe stato un uomo. Non umano, magari... ma un uomo, quello sì, quello avrebbe potuto esserlo sul serio.
La stiracchiata allegria sul pallido viso di Tonks lasciò spazio a un'espressione rigidamente severa. Parve intuire la natura dell'improvviso silenzio di Remus, perché si fece più stretta a lui e gli appoggiò la mano sul petto. Lui socchiuse ancora gli occhi e si conficcò i denti nel labbro inferiore.
«È tutto sbagliato» mormorò con voce roca.
«Che cosa?».
«Tutto ciò che è accaduto è sbagliato» insisté ancora. Il suo tono suonava incerto. Sotto le palpebre chiuse gli occhi iniziarono a bruciare. «James e Lily, Sirius... e io sono qua. Sono qua e non ne conosco il motivo».
Tonks prese ad accarezzargli piano i capelli. Il bacio che posò sulla sua fronte parve leggero come un alito di vento primaverile.
«Abbiamo bisogno di te più che mai, Remus. L'Ordine ha bisogno di te... Harry ha bisogno di te.».
«Nessuno ha bisogno di me».
Lei alzò un sopracciglio con eloquenza.
«Mio padre ha sempre detto che gli uomini migliori sono proprio quelli che pensano di non servire a niente».
Lo sguardo di Remus si fece d'un tratto tagliente.
«Io non sono un uomo».
«“Sono Remus Lupin, il sanguinario Lupo Mannaro dell'Ordine della Fenice”» gli fece il verso con insofferenza Tonks. «“Sono una feroce Creatura Oscura che divora vergini e bambini, lo sterminatore più temuto da ogni mago o strega della Gran Bretagna”. Di', è questo che vuoi sentire? Vuoi che ti dica la verità. Eccola: sei un idiota» la sua voce si era accesa con una note esasperata. I suoi occhi scuri parevano scintillare. «“Nessuno ha bisogno di me”, “io non sono un uomo”... vaffanculo, Remus. Se ti ostini a dire di essere un mostro, la gente ti riterrà un mostro per tutto il resto della tua vita».
Remus si alzò di scatto a sedere con stizza. Sentiva la rabbia e l'indignazione montargli nel petto, eppure c'era una piccola parte della sua testa che sapeva chi dei due aveva davvero ragione. Era la coscienza che si faceva trascinare dall'eco delle voci di Sirius e James, dalla risata di Lily, dal ricordo di una pacca sulla spalla e una fotografia scattata ai piedi della capanna di Hagrid.
Tu non sei un mostro, Moony”. E lui lo sapeva, lo sapeva davvero: quando veniva paragonato a Fenrir Greyback scoppiava come una furia, umiliato e rancoroso; e Dolores Umbridge, l'Unità di Cattura, suo padre... Remus detestava ognuno di loro. Il mostro era soltanto ciò che loro desideravano lui fosse. “Hai solo un piccolo problema peloso, amico”. Non era un mostro, non lo era mai stato. Aveva sempre combattuto contro i propri istinti, aveva trattenuto artigli, zanne e ferocia dentro di sé per tutti quegli anni, si era fatto a brandelli da solo, plenilunio dopo plenilunio, perché l'idea di poter diventare una bestia era più terrificante della morte stessa. “Och, ragazzo” scherzava spesso sua madre. “Tutti gli irlandesi sono dei mostri. Mai metterti contro di loro, perché l'Irlanda gli ha insegnato a mordere”.
Lui mordeva come un irlandese battezzato a metà, come un mago che non ricordava di essere mai stato umano, come un Lupo Mannaro che non conosceva il sapore della carne di un altro uomo... mordeva la vita a metà, saltellando da una parte all'altra senza trovare il proprio posto nel mondo.
Ma negare era più facile. Ostinarsi e battere i piedi, chinare il capo e sopportare, alzare la spalle e scuotere la testa era facile. Trovare l'orgoglio di gridare al mondo: “Io sono un Lupo Mannaro e vengo a reclamare il mio diritto alla vita”... quello era impossibile. Significava combattere da solo una guerra contro tutti.
«Tu non sai cosa vuol dire essere me».
«No, non ne ho idea» replicò con schietta sincerità Tonks. Sembrava diventata improvvisamente più adulta e matura di quanto non avesse mai cercato di apparire. I suoi capelli rosa cicca stonavano con la fiera gravità del suo volto. «Ma so cosa vuol dire essere me. So cosa vuol dire essere la figlia di una donna che agli occhi della comunità magica rimarrà per sempre una Black. La sorella della più dannata Mangiamorte fra le fila di Lord Voldemort, della moglie di un Mangiamorte, cugina di altri Mangiamorte, traditori e bastardi». Storse il naso con un fremito d'ira e fece un profondo respiro. «Io sono un'Auror... ho sempre desiderato poter diventare un'Auror, ho sputato l'anima per diventare un'Auror, ma al Ministero la voce che si sussurra non cambia mai. Giorno dopo giorno, anno dopo anno... credono che non li possa sentire, ma non è vero. “Sua madre è una Black”» sputò l'ultima parola con enorme disgusto. «“Non combinerà niente di buono. I suoi parenti sono dei Mangiamorte... e tutti gli altri sono solo dei Babbani”. E sai, Remus... molti ritengono sia meglio avere il Marchio Nero sull'avambraccio piuttosto che non avere la bacchetta fra le mani».
Lui la guardò a lungo. Aveva degli occhi meravigliosi, limpidi e vivaci, ma in quel momento brillavano di cupa tristezza. Remus si rese conto di non avere mai avuto la più pallida idea di quale fosse il loro vero colore. Non sapeva nemmeno come fossero in realtà i suoi capelli – e dire che li avevi visti rosa, verdi, blu. Quello che stava guardando avrebbe potuto essere il volto di una giovane donna che non esisteva, ma la sua angoscia era genuina. Lo erano le lacrime che stava ricacciando indietro, le labbra strette, i pugni serrati.
Era vera.
In una situazione diversa avrebbe replicato che non c'era alcuna analogia fra la sua situazione e la propria. “La discendente di una lunga dinastia di assassini e figli di puttana che ha potuto scegliere cosa fare della propria vita. Io non ho mai potuto scegliere nemmeno il colore dei miei vestiti”. Eppure le parole gli restarono annodate in gola come un'indistricabile matassa di lana.
Sapeva che avvicinarsi a lei era uno sbaglio di cui si sarebbe pentito, ma la baciò ugualmente.

*

Fenrir Greyback non avrebbe mai riconosciuto il figlio di John Lupin nel lacero straniero che era arrivato nei bassifondi di Dock Road, ma Remus non avrebbe mai scordato il fetore del suo alito. Era rimasto appiccicato addosso ai suoi peggiori incubi per quasi trent'anni, insieme ai suoi famelici occhiacci gialli e al lento incedere delle zampe nel fango. E le zanne, gli artigli, l'acuto dolore dei denti che affondavano nella sua carne... e la pioggia di Durham che scivolava sul suo piccolo viso, il sangue che gli riempiva la gola, sua madre che gridava nell'oscurità e urla distanti e allarmate di gente che correva e si trascinava in strada per capire cosa fosse accaduto.
E Fenrir doveva essere ancora lì, protetto dai bassi boschi della piccola contea a scrutare con gioia animalesca il risultato del proprio lavoro. Remus era la sua vittoria, la sua vendetta, ed era di nuovo davanti a lui, con una camicia lercia e stracciata e la barba incolta incrostata di terriccio.
Il suo volto era stanco e pallido, ma i suoi occhi lampeggiavano di vivida attenzione. Teneva una mano sprofondata in una delle tasche dei vecchi jeans che aveva indossato e l'altra stretta alla cinghia di una logora tracolla di pelle.
Pioveva così tanto che la tesa del cappello che indossava si era appesantita d'acqua e continuava a piegarsi e a inondargli la faccia di acqua. Remus rimaneva tuttavia rigidamente immobile davanti a Fenrir. Il suo era stato un battesimo da blasfemi e aveva sputato nell'acquasantiera, ma era sempre per metà un irlandese di Kinsale – e sua zia Maire diceva che l'unica cosa che a Kinsale non sarebbe mai finita era la pioggia. E il brodo di pecora.
«Sei l'irlandese che chiamano O'Buckley?».
Remus schioccò distratto la lingua. Gli tornò in mente sua madre: ripeteva lo stesso gesto fra una Rothmans e l'altra. Cosa avrebbe detto nel vedere il proprio unico figlio cercare di abbindolare il licantropo che aveva distrutto loro la vita? “Cercherebbe di prenderlo a sberle” si disse. “E poi prenderebbe a sberle me”.
«Och, dipende da chi lo cerca».
Aveva strascicato con forza le vocali. Erano anni che non risentiva la propria voce calcare con tanta decisione sull'accento della costa meridionale. Il tempo trascorso in Inghilterra non gli aveva lasciato molto del retaggio affibbiatogli dalle donne O'Buckley, ma parte di quella strana parlata non lo avrebbe mai abbandonato del tutto. La gente non se ne accorgeva subito. Perfino Kingsley, che aveva detto di avere una nonna di Cork, si era stupito di scoprire che Remus aveva trascorso in Irlanda buona parte della sua vita. “Un mezzo irlandese battezzato a metà”.
«Lo cerco io».
«Allora temo proprio di non conoscere nessun O'Buckley».
Greyback fece una smorfia.
«Ti ho già visto da qualche parte».
Nonostante fosse piuttosto a disagio e sentisse la situazione sfuggirgli fra le mani sempre più in fretta, Remus si limitò a mostrare i palmi.
«Il mondo è pieno di irlandesi che non stanno in Irlanda e pare abbiano tutti la stessa faccia».
«Non tutti gli irlandesi sono dei Lupi Mannari. E non tutti i dannati Lupi Mannari si chiamano Malachy O'Buckley».
Remus si chiese quanto fosse saggio aggiungere una menzogna a un'altra menzogna. “Speriamo ci sia un santo protettore dei bugiardi che abbia voglia di darmi una mano”.
«Sono io».
Il pugno di Greyback arrivò così rapido e brutale da non lasciargli nemmeno il tempo di arretrare. Lo schianto delle nocche sul suo zigomo fu terribile. Colto totalmente alla sprovvista, Remus si piegò in avanti e portò una mano al viso, tenendo d'istinto il capo alzato per controllare che non sopraggiungessero altri colpi. Si lasciò sfuggire un roco grido di dolore e un'imprecazione fra i denti, e non riuscì a schivare nemmeno il violento calcio che parve trapassargli lo stomaco. Boccheggiò privo di fiato e cadde in ginocchio nelle pozzanghere. La tracolla gli sfuggì dalla spalla e la consunta Bibbia di Gora O'Buckley scivolò fuori.
Greyback ne fu talmente incuriosito da commettere l'errore di chinarsi. Remus colse l'occasione al balzo: estrasse la bacchetta con un gesto fulmineo e gliela puntò alla gola.
«Non un respiro o giuro su Dio che ti ammazzo, figlio di puttana».
Si rialzò in piedi con fatica, facendo cautela a ogni movimento del licantropo. La testa gli doleva terribilmente e lo sterno sembrava in procinto di esplodere, ma nei suoi occhi brillava un feroce odio. Era tutto per Fenrir Greyback, per l'infanzia che gli aveva strappato, per l'adolescenza che era stato costretto a rubare con la punta delle dita, per tutto il resto di una vita di stenti e miseria, per Tonks che aveva dovuto abbandonare in mezzo a una guerra che non sembrava destinata a finire... era l'odio di un'intera esistenza vissuta a metà.
«Remus Lupin...» sibilò con rabbia Greyback. «Dovevo immaginarlo».
«Non sei mai stato dotato di particolare immaginazione».
Gli occhi gialli di Greyback brillavano di inumano disgusto. Digrignava i denti come una bestia affamata e dalla sua gola risaliva un basso ringhio, ma non sembrava intenzionato a chinare la testa davanti al proprio avversario. Sollevò le mani in segno di resa, ma la sua espressione era beffarda e malefica.
«Avanti, ragazzo... uccidimi».
Il suo fiato puzzava di carogne e fumo stantio, ma Remus restò impassibile. Le loro ombre si allungavano tremolanti alla luce dei lampioni. Erano diverse come l'alba e il tramonto. “Io sono un uomo”. Greyback inclinò appena la testa. La pioggia aveva schiacciato i suoi lunghi capelli grigi davanti alla fronte alta e scarna.
«Uccidimi, Remus Lupin. Liberati di me».
«Io non sono come te».
«Lo sei sempre stato».
E dopo aver digiunato quaranta giorni e quaranta notti, Gesù ebbe fame” recitò mentalmente. La mano che stringeva la bacchetta fu scossa da un tremito impercettibile. Sarebbe stato così facile... così pratico... aveva già ucciso, dopotutto. Non era certo di essere sopravvissuto alla guerra, ma non poteva dire di non esserci cresciuto in mezzo. E quella era una guerra – la sua guerra, quella che era costretto a fronteggiare da quando era solo un bambino. La morte di Fenrir Greyback avrebbe rappresentato la fine del proprio Inferno. Niente più notti insonni, niente più paure remote tornate a disturbare il suo riposo... la formula dell'Anatema Che Uccide fremeva sulla punta della sua lingua. “La luna piena non smetterà di sorgere. Io resterò un Lupo Mannaro e a ogni mese sarà come se nulla fosse cambiato”.
«Silente pensa di averti addomesticato, eh?». Greyback si passò la lingua sulla labbra. «Ti ha infilato addosso una veste da dannato mago... ma non lo sei, Remus. Non lo sarai mai».
«È questo il motivo per cui stai scodinzolando ai piedi di Lord Voldemort?» lo rimbeccò con sfrontata ironia. «Vuoi una vestaglia? E dopo che farai? Indosserai una cuffia e un paio di occhialetti e andrai in giro a mangiare bambine con il cappuccio di rosso?».
L'orrenda bocca di Greyback si distorse in un raccapricciante sogghigno.
«O forse assaggerò quella graziosa strega dai capelli rosa che ti porti a letto».
Fu come essere essere stritolato nella morsa di un Acromantula. Le parole di Greyback gli squarciarono la pelle e si insinuarono nel suo torace, serrandosi attorno allo stomaco, ai reni e ai polmoni. Cedette ancora al ricordo della notte in cui le zanne del Lupo Mannaro erano sprofondate nel suo fianco e per un istante fu di nuovo un bambino terrorizzato.
Ripulire i resti del mio cervello potrebbe rivelarsi noiosissimo” riecheggiò nella sua testa. La risata e il sapore delle labbra di Tonks erano il peggior predatore che gli avesse mai dato la caccia. Rideva con brio, lanciava battute scanzonate e afferrava la vita a piene mani. Ma era giovane, era irruente, era un fiume in piena che quella guerra avrebbe potuto fermare in un battito di ciglia. Mentre la immaginava crollare con la gola squarciata fra le braccia di Fenrir Greyback, si sentì pervaso da una rabbia cieca e indomabile. La maledizione gli sfuggì dalle labbra prima ancora di rendersi conto di cosa stesse facendo.
«Crucio!».
La notte si riempì delle grida di dolore del Lupo Mannaro. Fu il suo turno di crollare in ginocchio, lercio e umiliato. Rotolò sulla schiena in preda a lancinanti sofferenze. Remus non abbassò la bacchetta. I suoi occhi erano folli, la sua mente annebbiata. “Uccidilo!” si disse. “Uccidilo ora! Uccidilo adesso!”, ma gli ordini di Silente non erano quelli.
Remus avrebbe dovuto mescolarsi fra i licantropi, convincerli a scendere in battaglia contro Lord Voldemort, mostrarsi migliore. Ma era così facile stare in piedi davanti alla creatura che gli aveva distrutto la vita, fissandola gemere e dimenarsi alla luce stiracchiata dei lampioni...
Tu non sarai un brav'uomo, Remus. Tu sarai un uomo straordinario”.
Indietreggiò di colpo e osservò stranito la sagoma spezzata di Greyback. Si osservò una mano come se non potesse credere che facesse parte del proprio corpo. “Io sono un uomo. Io sono un uomo. Buon Dio, io sono un uomo”.
Raccolse la Bibbia e osservò la croce sulla copertina di pelle con sguardo vago e distante.
Disse Satana: «Sei sei Figlio di Dio, gettati, poiché sta scritto: il Signore darà ordini ai suoi Angeli affinché non abbia a urtare contro un sasso il tuo piede». Ma Gesù disse: «Non tenterai il Signore Dio tuo»”.
Remus socchiuse gli occhi. La pioggia scendeva dal suo viso e svaniva nella barba incolta portandosi dietro lacrime di furia e vergogna.
Dio mio, Dio mio... perché mi hai abbandonato?”.

*

La Stamberga Strillante era un posto chiuso e soffocante, e l'aria era resa rancida da secoli di polvere lasciata ad accumularsi. A ogni passo di Tonks vaghe nuvolette grige si sollevavano dal pavimento. Si muoveva con cautela attraverso lo stretto corridoio, sorreggendosi con una mano alla parete e tenendo l'altra davanti al volto, con la punta della bacchetta illuminata come unica guida. Il suo piede inciampò in ciò che restava di un vecchio tappetto consunto e cadde a terra.
«Porca puttana!» imprecò con rabbia mentre si rialzava. «Invece di uno stupido zerbino, io avrei comprato un lampadario!».
Abbassò piano la maniglia di ottone. La porta si aprì con un lamentoso cigolio. Fu felice di trovare la stanza piacevolmente illuminata da un paio di fiamme galleggianti. Non l'avrebbe mai definito un posto confortevole, ma perlomeno avrebbe avuto la possibilità di guardare dove metteva i piedi.
Remus era accucciato ai piedi del letto con le braccia appoggiate alle ginocchia piegate e una Bibbia aperta fra le mani.
Madama Chips le aveva riferito di averlo visto sgattaiolare fuori dall'infermeria prima che riuscisse a controllare che stesse bene.
È un incosciente” si era lamentata con gli occhi arrossati dal pianto e un fazzoletto umido stretto fra le dita tremanti. “È sempre stato un incosciente... ha preso un sacco di botte, stasera, e abbiamo bisogno di lui, e invece se ne va senza nemmeno la decenza di farsi visitare. Beh, perlomeno sappiamo che non ha le gambe rotte”.
Alla Stamberga Strillante, Tonks” aveva mormorato con un filo di voce Hermione, seduta su un alto sgabello di legno in un angolo dell'infermeria. Ron annuì in silenzio. “C'è un passaggio segreto sotto il Platano Picchiatore. Il professor Lupin deve essere andato là”.
Come fai a saperlo?”.
La ragazza aveva indicato con aria distratta una delle finestre che si affacciavano sul gigantesco parco di Hogwarts. Il maestoso albero si intravedeva appena nella nebbia dell'alba.
I rami sono fermi. Qualcuno è scivolato da poco fra le radici”.
Tonks osservò Remus con più attenzione. Aveva gli occhi cercati da ombre più scure di quanto non avesse mai avuto, era sinistramente più pallido e il sottile rigolo di sangue che si era rifiutato di farsi medicare si era ormai incrostato sulla sua tempia. Il suo sguardo era spento.
La giovane si passò una mano fra i capelli grigio topo, fece un lungo sospiro rassegnato, si avvicinò a lui e lasciò cadere sul materasso la sacca che Madama Chips aveva riempito di bende e pozioni. “Gli rimetta a posto la testa, signorina Tonks, o sarò io a staccargliela di netto”.
«Madama Chips era preoccupata. Sei fuggito prima che potesse metterti le mani addosso».
Lui fece una leggera smorfia.
«Suona come una minaccia».
«Lo è» replicò schietta lei, stringendo fra le mani un pacco di garze e una boccetta piena di un liquido verdastro.
«Tieni quella roba lontano da me» la ammonì in fretta.
«Non fare il bambino: è solo essenza di Dittamo».
«Viene sciolto insieme all'Aconito».
«Non in quantità sufficiente per ucciderti».
«Ma in quantità sufficiente per darmi più dolore che giovamento». Remus frappose un indice fra di loro e aggiunse: «Sono un Lupo Mannaro, non--».
«Davvero?» lo interruppe con pesante sarcasmo Tonks, inginocchiandosi accanto a lui e avvicinando al suo viso una piccola pezzuola umida. «Non l'avevo capito».
Tentò di spostarle la mano con espressione intimorita, ma la ragazza fu più lesta e gli afferrò rudemente il polso.
«È solo acqua, Remus» lo rassicurò esasperata. «Acqua. Non è certo mia intenzione attentare alla tua lieta esistenza da licantropo disadattato».
«Io non--».
Le parole di Remus si trasformarono in un soffio di dolore. Tonks premette con più decisione sulla ferita, con le labbra arricciate in un'espressione compiaciuta.
«Fa male».
«Non lo dubito».
«Ti stai divertendo?» le chiese con un'occhiata inquisitoria. «È il tuo personale modo di vendicarti per come ho... ahi! Accidenti, brucia troppo per poter essere “solo acqua”».
«Apri le orecchie, razza di idiota: non sono venuta qui per farti da balia. Hai la testa più dura che abbia mai visto e Merlino mi è testimone, ma al momento non mi pare messa granché bene, quindi piantala e lasciati medicare» sbuffò indispettita. Poi inclinò appena la testa e inarcò con eloquenza un sopracciglio . «Inoltre... di cosa dovrei vendicarmi?».
«Per amor di Godric, Ninfadora, non ricominciare».
«Tu stavi ricominciando, non io. E prima che tu aggiunga qualcosa, Remus, mi dispiace... ma sono troppo giovane, troppo ricca e troppo indifesa per te». Nonostante la malevola ironia, il suo tocco si era fatto più delicato. «Per non contare il fatto che sei noioso e pedante».
Remus non interferì oltre con i tentativi di Tonks di sistemargli la tempia. Se ne rimase fermo con il capo basso, deciso a evitare lo sguardo inquisitore della giovane. La pezza era solo appena inumidita, ma a contatto con la pelle sembrava gelida e tagliente. O forse erano le mani di Tonks, forse era la mesta consapevolezza di averla accanto senza poterla davvero sfiorare. Forse era la sensazione raggelante del mondo che crollava sulla loro testa.
«Buon Dio... non posso credere che Silente sia morto».
Tonks impietrì davanti alla sua lapidaria osservazione. La mano le ricadde sul grembo, le spalle sottili s'incurvarono sotto il peso di un'altra battaglia perduta. I suoi occhi scuri si velarono di rassegnazione, le labbra si strinsero in una linea tirata e ritornò la bambina confusa che essere stata un tempo, quando nessuno aveva desiderio di spiegarle la guerra. Eppure lei capiva da sola, perché come avrebbe potuto non sentire il pianto spaventato della madre dall'altra parte della parete?
Tonks aprì la bocca per dire qualcosa, ma la sua attenzione venne richiamata dalle pagine della Bibbia che Remus teneva ancora fra le mani.
«Ehi, non è inglese».
«È gaelico».
In un primo momento sembrò confusa. Poi schioccò le dita a mezz'aria e alzò gli occhi al cielo.
«Avevo dimenticato che sei cresciuto in Irlanda».
«In realtà non ho mai parlato molto in gaelico» negò candidamente lui. Davanti all'espressione perplessa di Tonks aggiunse: «È una lingua che sta facendo il suo decorso. Ormai si arrangia un mezzo inglese che metta d'accordo tutti. L'unica donna che ho conosciuto che si è sempre rifiutata di parlarlo è stata mia nonna. Lo conosceva, ma non voleva usarlo. Questa Bibbia apparteneva a lei». Fece un tiepido sorriso. «Sai, non credo gli saresti piaciuta».
«Perché?».
«Perché a mia nonna non piaceva nessuno» ridacchiò. «Stessa pasta con cui è fatta mia zia Edna, ma un po' meno stupida. Fa esorcismi in cucina... o almeno lo fa quando zia Maire non è impegnata a cucinare pecora. Sei mai stata nel sud dell'Irlanda?».
Sorridendo appena, Tonks scosse il capo.
«E ti piace la testa di pecora?».
Lei emise un verso disgustato e Remus scoppiò in una blanda risatina.
«Ricordami di non portati mai a Kinsale. Mia zia Maire ha ucciso per molto meno...» commentò teatralmente. «E zia Edna brandirebbe un santino di Santa Cecilia nella speranza di lenire il peccato di fornicazione».
Questa volta Tonks scoppiò in una risata sguaiata. Il tempo sembrò fermarsi di colpo e indietreggiare fino all'anno prima, quando tutti insieme trascorrevano intere serate nel soggiorno di Grimmauld Place. Sirius si divertiva a lanciarsi in dettagliate cronistorie degli anni dei Malandrini, e in un paio di occasioni si era spinto talmente oltre che Remus lo aveva colpito in testa con un gigantesco libro di Antiche Rune. Bill raccontava barzellette sconce lontano dalle orecchie delle madre e Kingsley divertiva ognuno di loro con gli imbarazzanti resoconti dell'addestramento tutto ruzzolate e parolacce di Tonks... era il tempo in cui quella guerra da combattere non li aveva ancora piegati davvero. Quello in cui l'avevano sottovalutata per l'ennesima volta.
«Ma io e te non abbiamo fornicato» commentò con un sopracciglio alzato.
«La tua coscia è a dieci centimetri dal mio fianco: per mia zia Edna questo fa di me un filisteo e di te una meretrice» replicò con ironia Remus. «Potresti avere qualche speranza di fare colpo su mia zia Fiona, ma balbetta troppo perfino per conversare del tempo».
«Farei un brutta impressiona anche su tua madre?».
«Scherzi? Indossi scarponi da uomo e imprechi con originale trivialità...». Le rivolse un'occhiata di profondo affetto e sorrise. «Ti adorerebbe».
«Sembra una famiglia divertente».
«È l'ultimo aggettivo con cui mi sognerei di definirla».
Lei accennò un'altra risata. Il silenzio scivolò ancora fra di loro e si fece più teso e soffocante. Spezzare l'aria rancida della Stamberga con quel vago guizzo di allegria non era servito a niente. La pesantezza di ciò che era accaduto si insinuò prepotente fra di loro, e nessuno sembrò sapere cosa dire. C'era troppo da dire, dopotutto. C'era la morte di Silente da superare in fretta, o la guerra avrebbe superato in fretta loro; c'era il caos della battaglia, c'era il tradimento di Severus Piton che aleggiava come un'ombra sulle cenere di tutto ciò in cui avevano creduto; e c'erano loro, seduti l'uno accanto all'altra in una casa infestata dai fantasmi di una vita passata senza più parole nella gola.
Tonks posò la propria mano su quella di Remus e intrecciò le dita alle sue. Lui non reagì, ma abbassò lo sguardo per notare quanto fossero diverse. Le dita di Tonks sembravano sottili lingue pallide e la sua carnagione era chiara e delicata; quelle di Remus erano screpolate e ruvide al tocco.
«Dimmi qualcosa in gaelico» propose improvvisamente lei.
Remus arrangiò un mezzo sorriso imbarazzato e ci pensò su qualche secondo. Quando parlò, la sua voce era poco più alta di un sussurro.
«Tá brón orm».
«Cosa significa?».
«Perdonami».
Tonks lo scrutò a lungo con espressione impenetrabile. Si morse agitata il labbro inferiore, sospirò e appoggiò la testa nell'incavo della sua spalla. Remus la circondò con un braccio e iniziò a giocherellare assente con i suoi capelli. Fra le sue dita, le ciocche iniziarono a tingersi di un brillante rosa.
«Non ti si può odiare...» commentò sfinita la ragazza. «Dico sul serio, Remus. Uno ci prova fino in fondo, a odiarti e a prenderti a calci in culo, ma alla fine non funziona mai».
«Sono ancora convinto che non ne otterremo niente di buono» la ignorò con voce roca. «Sono ancora convinto che sia un errore, continuo a non poterti offrire nulla e probabilmente il Ministero cercherà di seppellire entrambi ad Azkaban, e senza Silente...». Si passò una mano sul viso e scosse il capo. «Quasi di certo la guerra è perduta».
«Perlomeno ti è rimasto un po' di ottimismo».
«Mi rimane il tuo». Le baciò lieve la fronte e rimase fermo, con gli occhi serrati e un'ombra disperata sul volto segnato. «Sei l'unica cosa che non ho ancora perso... l'unica cosa di cui ho bisogno».
«Vinceremo noi» mormorò con feroce decisione Tonks. «Non mi importa come e non mi importa quando... ma vinceremo. Ce la faremo. Andrà tutto bene».
Le credette.
Credette alla sua determinazione, credette al suo profumo, credette alla stretta sicura delle sua dita. Tonks conservava l'incredibile potere di afferrare per lo stomaco la gente e trascinarla in piedi. Era dirompente come una cascata, era semplice e limpida come l'alba che si stava affacciando alle finestre. Baciarla era come baciare la speranza, era come stringere la vita stessa senza timore che potesse sfuggire come sabbia fra le dita. Forse Remus non era mai stato davvero umano, forse non era inglese, forse non era irlandese; forse era sempre stato un mostro o forse non lo era mai stato e non se ne era mai accorto; forse non aveva mai creduto in Dio o forse si era solo accontentato di credere di poter credere... ma nulla ormai importava.
Era lì, era con lei, e il resto del mondo non poteva toccarli.
«Andrà tutto bene».
Le avrebbe creduto fino alla fine.


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