Anelli di Cipolla

di Il_Club_Delle_Felci
(/viewuser.php?uid=313960)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1: Almeno non mi chiamo Aivelyna. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2: Le domeniche d'Agosto, quanta neve che cadrà! ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3: La Bella e lo Spaghetto. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4: La bambina nel pozzo. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5: Vampate poco mestruali. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6: Agente zerozerotette: Mutandafall ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7: Wilde ♥ Penis ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8: Barbie Gurdy va in Città ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9: Madonna, San Crispino, viva il vino! ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10: La triste sorte dei piccioni ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 [E.] ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1: Almeno non mi chiamo Aivelyna. ***


Anelli di cipolla 1

Disclaimer: i fatti descritti in questa storia sono puramente inventati, e ogni riferimento a cose e/o persone è puramente casuale. I personaggi della fanfitcion sono di nostra proprietà intellettuale poiché completamente fittizi, e non intendiamo offendere e/o discriminare nessuno con questa fanfiction.

Detto ciò, buona lettura!
Durrie e Donnie

Perché le cose migliori della vita,
tipo gli abbracci,
si fanno a quattro mani.

- Donnie (la seria)
 

E io ci aggiungerei
Perché le cazzate migliori

Come giocare a carte alle quattro del mattino dopo aver cantato waka waka per il paese facendosi reputazioni strane

Si fanno con la Donnie.

-Durrie :3

 

Anelli di cipolla

Capitolo 1: Almeno non mi chiamo Aivelyna.

Mi chiedo perché tanto spesso la gente confonda la solitudine con la tristezza.
Io, da sola, ci sto più che bene: non che odi l’umanità intera, sia chiaro, ma casualmentela stragrande maggioranza degli esseri umani (se non tutti) con cui sono stata obbligata ad avere rapporti umani nella mia breve vita si è rivelata poi essere una massa di stronzi o di approfittatori. O più in generale gente che avrei preferito non incontrare.
Erano le 7:45 del mattino, non riuscivo a tenere gli occhi aperti e il mio cervello iniziava a riflettere sul significato profondo delle cose.
Dico io.
Un improvviso lampo color carne e cachemere beige mi distrasse e le mie adorate e consunte cuffiette si staccarono dalle mie orecchie finendomi in grembo, la musica che continuava a vibrare con rabbia
«Mi stavi ascoltando almeno?» indagò incazzosamente il testone biondo di mio fratello senza staccare gli occhi dalla strada, la mano destra con le sue unghie eccessivamente curate ancora protese verso i miei poveri auricolari.
«…eh? »
«Sai, essendo soli in macchina e non avendo io ancora iniziato a parlare con la Mercedes, per quanto la preferisca alla tua persona, mi sa che stavo proprio parlando con te stronzetta! Ma che te lo chiedo a fare, tanto vivi nel tuo mondo fatato, tu»
Gualtiero sbuffò irritato, imboccando la circonvallazione della città.
«Una volta che mi metto d’impegno e faccio il bravo fratello maggiore che ti porta fino a scuola così non devi strisciare il tuo culo stitico su quegli stupidi autobus e tu manco mi caghi?! Mi sono alzato alle 6 per farlo, e non ci ricavo assolutamente niente!»
Dio che isterico. E che ipocrita.
Come se non fossi a conoscenza del fatto che la domenica prima aveva detto a mammyna e papyno (giuro, li chiama seriamente così, alla veneranda età di 21 anni) che mi accompagnava al liceo. E questo grande sacrificio, interpretato dai miei come un atto di grande maturità, era finalizzato solo all’ imboscamento da qualche parte con quella zoccoletta della sua nuova ragazza, Gessika (con la gi e con la kappa, perché esistono esseri umani in grado di concepire un nome simile, sappiatelo) e al conseguente allegro strusciamento prima che lei entrasse nel CFPE, ossia Centro di Formazione Professionale Estetiste.
Amabilmente soprannominato Centro Formazione Pompinare Escort, a causa del quoziente intellettivo relativamente basso e il consumo di peni pro-capite spaventosamente superiore alla soglia di guardia europea.
Come se non sapessi che il nostro leccatissimo e laccatissimo padre due giorni fa l’aveva preso da parte e gli aveva detto che «dobbiamo fare qualcosa per quella scapestrata di Evelina, rovina l’immagine della famiglia col suo modo di comportarsi in-ac-cet-ta-bi-le! Gualtiero, ti prego, lo so, lo so, non fare quella faccia, nemmeno io vorrei trascorrere tempo con lei, ma dobbiamo impegnarci tutti per farla rigare dritto. Noi siamo i De Cervis, abbiamo un cognome importante che ci impone un certo rigore comportamentale… La nobiltà sarà anche deceduta, ma il nostro prestigio no! Prova a farle capire che con questo comportamento non arriverà mai da nessuna parte, non minacciarla, prova a darle qualche contentino e ad ammorbidirla, lavoratela, e poi…»
E poi un gran bel tubo, visto che l’arrivo improvviso della governante mi aveva impedito di continuare ad origliare la sempre più interessante conversazione tra i miei sempre più schifosi parenti.
Però avevo capito il succo.
Il solito vecchio stantio succo. Evelina di qui, Evelina di là.
Sì, Evelina sarei io.
Oh che sciocca, non mi sono ancora presentata, i miei genitori mi avrebbero già rimproverato se fossero stati presenti nella mia testa (ORRORE).
Piacere, Evelina De Cervis, annacquatrice del sangue di secoli e secoli di nobili e blasonate dinastie di marchesi, professionista nella vergogna familiare, guastafeste part-time e tante altre cose buone e giuste. E sì, nella mia famiglia si ha la mania di impartire nomi tristi e desueti, ma almeno non mi chiamo Aivelyna (ogni riferimento a Gessika è puramente casuale).
Dall’occhiata funerea di Gualtiero alla guida del suo meccanico destriero –nota mentale: aggiungere “poetessa” al biglietto da visita– capii che mi ero dilungata troppo nelle mie elucubrazioni mentali, così mi schiarii la voce ruminando giusto un poco e mi decisi a infilare un paio di paroline dolci per il mio amatissimo fratellone.
«Ahem…scusa, ma non sapevo di essere tenuta a stare ad ascoltarti quando parli. Sai, solitamente la gente ascolta solo quando gli interessa ciò di cui si sta parlando, oppure gli interessa la persona che parla, capito no? Escludendo a priori che da quel vespasiano che tu ti ostini a chiamare bocca possa uscirne qualcosa che io possa ritenere vagamente intelligente od originale, rimane solo l’opzione numero due. E sì, insomma, tu non è che m’ interessi poi sto granché. Oddio, sei un bel ragazzo e tutto, buona famiglia (e qui ne avrei avute di cose da ridire) per carità, ma non sei proprio il mio tipo. E poi non hai già la ragazza?»
Sfoderai il mio migliore dei sorrisi finti, quasi soddisfatta di me stessa.
«Vai a farti fottere.»
Parlò coi denti così stretti che sembrava che il dentista gli avesse riempito la bocca di mastice.
Mi soffermai sul fatto che sarebbe stato divertente provare a incollarglieli insieme, e poi magari mettere sempre più collante, fino a tappargli del tutto la gola, facendolo soffocare lentamente.
«Volentieri, dove devo andare esattamente? Aspetta, chiedo l’indirizzo alla tua ragazza, che sicuramente ne sa molto più di me! Non ti affaticare, ti vedo già arrossato, attento che ti rovina il colorito, la chiamo io, tu pensa a guidare, non sia mai che tu ti scomodi per tale piccolezza!»
E improvvisamente il mio tentativo di rispondere con il sarcasmo che manca alla mia famiglia si trasformò in qualcosa di non ben definito, che oserei chiamare semplicemente verità.
«Eccolo qua, il promettente rampollo della dinastia De Cervis! Gualtiero, secondo del suo nome, ereditato dal nonno paterno, compiantissimo e riposi in pace amen, la personificazione del destino brillante che attende le industrie del gruppo! Mai una virgola fuori posto, così perfetto che per dormire mi sa che lo mettono nel cellophane. Che bel ragazzo, che regalissima chioma bionda, che compostezza… Come sta bene vicino a sua sorella Tosca, una top model nata, e ai suoi distinti genitori, tutti eleganti, sobri e raffinati, che famiglia perfetta, accidenti, magari si potesse imparare questa gran classe! Eh, ma bisogna nascerci così, certe cose stanno nel DNA. Ah, che persone squisite, che famiglia esemplare! Come spiegare tutto ciò? Oh ma si, ecco, basta guadare la sentita partecipazione al dolore per il funerale di quell’operaio la settimana scorsa! Ma sì, quello schiacciato da un macchinario… E noooo, non può essere stato che hanno preferito pagare cene a base di caviale dei dirigenti piuttosto che rispettare le norme di sicurezza, non è possibile per una casata di così alto lignaggio! Giurerei, anzi, sono sicura, di aver visto una sola singola lacrima solcare il volto di Tosca. È evidente che non è riuscita a contenere la commozione del momento. Puoi avere tutta l’educazione di questo mondo ma trattenere la sincera partecipazione al dolore è così difficile alla sua giovane età… E poi li hai visti? Persino vestiti a lutto sono un quadretto pittoresco! »
Mi fermai giusto per riprendere fiato, presa dalla rabbia e dall’indignazione.
Mi resi conto che forse avrei dovuto fermarmi E BASTA, ma tanto, che m’ importava. Tacere e parlare nella mia famiglia è la stessa cosa, per quanto mi riguarda.
Quindi perché non sfogarsi una volta per tutte?
«Ma no, aspetta un attimo, chi è quella lì? Aspetta, c’è una macchia scura in un angolo? Come dici? L’altra sorella? Ma che diamine stai farneticando! Quella cosa lì una De Cervis? No, è impossibile, si vede lontano un miglio che non può fare parte di quella famiglia, guardala, sembra uno straccio usato e umido buttato in mezzo alle pelli di daino! Sarà una cugina, ma molto alla lontana neh… Ma che fa? Sale in limousine con loro? Quell’essere? Non dirmi che è davvero una sorella! Sarà una domestica, una della servitù, una sguattera, più non può essere, non assomiglia nemmeno lontanamente ai suoi fratelli… Dio che volgarità, guarda, prima l’ho vista addirittura abbracciare la vedova dell’operaio, manco fossimo al mercato del pesce…tsk, mi spiace per Raffaele, ritrovarsi una figlia così… ma siamo sicuri che non l’abbiano adottata?»
Mi resi conto che stavo urlando, e piangendo, eppure la mia voce proseguì senza incrinarsi.
Almeno, non troppo.
«Lo so, preferireste tutti che io non fossi mai nata, so anche della vasectomia di papà dopo Tosca, ma ciao, sono qui, l’errore chirurgico! Il mio compito è rovinare la vostra vita perfetta, come sto andando?»
Scoppiai in una risata isterica, quasi che la consapevolezza di non essere mai stata desiderata fosse la barzelletta più spassosa di questo mondo.
Gualtiero ammutolì di fronte al mio sfogo. Non provò nemmeno a controbattere, o tantomeno a negare, perché sapeva che ogni singola parola che avevo detto era la verità.
Tirai su col naso e cercai di riprendere il controllo.
Calma, Eve, calma, è solo quello stronzo di Gualtiero. Il solito, vecchio, stronzo, Gualtiero. Non pensare che ti sei appena aperta in un qualche modo complesso con tuo fratello, pensa positivo, l’hai azzittito. È un grande risultato, no?
Pian piano questi ed altri pensieri mi restituirono la calma. A mente fredda mi accorsi che eravamo praticamente arrivati e Gualtiero stava accostando per farmi scendere davanti a quel bel palazzone antico che è il mio liceo. Bofonchiai un grazie nemmeno troppo convinta, e ricevetti un altrettanto bofonchiato prego di risposta.
E, come un’ombra, m’ immersi nella multicolore e rumorosa fiumana umana che stava accalcandosi all’entrata, sfiorando tutti e toccando nessuno.









Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 2: Le domeniche d'Agosto, quanta neve che cadrà! ***


Cap 2

Ed eccoci qua con il secondo capitolo (che è pure più corposo), in cui Evelina svela un po' più di se stessa, yay!
Fateci sapere!
Grazie a chi ha letto, ma
soprattutto un grazie enorme a Triangle_ che ha recensito il primo capitolo, speriamo gradirai e continuerai a seguirci :3
Buona lettura!
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 2: Le domeniche d'Agosto, quanta neve che cadrà!

Mangiucchiavo la penna e m’impegnavo per seguire la lezione di matematica.
Non che me ne importasse molto della matematica in sé, ma volevo almeno evitare di dover essere richiamata dalla professoressa, la signora Marconi. Un tesoro di donna, per carità, ma la matematica non me la farà mai andare giù nessuno, perché PARLIAMOCI CHIARO: a cosa serve nella vita calcolare le derivate? Dal fruttivendolo?
“Vorrei x grammi di pomodori, però li deve calcolare lei, grazie, aspetti che le do il sistema per la risoluzione!”.
Un sonoro e colossale bah.
Mentre prendevo appunti svogliatamente (o per meglio dire scrivevo lettere e numeri a caso), giusto per far sembrare che ero lontanamente attenta dal mio banco in ultima fila, qualcosa volteggiò dentro la classe dalla finestra e si posò proprio sul mio naso.
Qualcosa di bianco, freddo e pochi istanti dopo, decisamente umido.
Uno sguardo fuori dalla finestra –chiusa?
Ma come diavolo…– e una sola parola si forma nella mia testa, facendo svanire tutto il resto per un istante.
Neve.
Su tutti i tetti della città ce n'era già un sottile strato.
Era un po’ in anticipo, eravamo solo ai primi di Dicembre, ma poi lo dice anche Gigi: «Le domeniche d’Agosto, quanta neve che cadrà!» E se lo dice Gigi vuol dire che è vero.
Sì, sono una sfigatissima babba asociale che adora Gigi D’Alessio, sono pure andata ad un suo concerto. Non giudicatemi, per favore. Seriamente, no.
Un mezzo sorriso, quel sorriso sornione, storto e sghembo, così naturale che mio malgrado mi caratterizza dalla più tenera infanzia, mi affiorò spontaneo sulle labbra.
Ho sempre amato la neve, la sensazione di bianco totale, quasi che con il suo candore ripulisca il mondo dalle sue zozzerie. Mi piace stare a fissare in alto, cercare il punto da dove i singoli fiocchi hanno origine, sentire il cuore battere
troppo forte contro le costole mentre mi sento piccola e dispersa in mezzo a quei proiettili bianchi che puntano in ogni direzione e verso me. Eh sì, persino un cuore duro come il mio si sa intenerire, ogni tanto. Ma meglio che non si sappia troppo in giro, ne va della mia reputazione.
Mi accorsi che stavo sorridendo con la bocca semiaperta come un’emerita beota e mi fermai, prendendo un grande respiro.Con un certo sforzo, mi impegnai per riacquistare padronanza dei muscoli della faccia. 

Se c’è una cosa che ho imparato nei miei 17 anni e mezzo di vita è che una volta che ti metti una maschera non la puoi più togliere, ti rimane sempre incollata, in un modo o nell’altro.
Toglierla ti provoca solo sofferenza, perché l’hai indossata per talmente tanto che non sai più chi sei.
E se sei tu che te la vuoi togliere, se ne hai la grande forza, saranno gli altri a tenertela appiccicata perché i cambiamenti li spaventano, e se tu sei sempre stata la ragazza fredda e cinica che siede in fondo alla classe, sempre lo sarai.
Un battito di ciglia, e ritornai nel mio personaggio, una splendida interpretazione durata quasi una vita.
Applausi.

Passarono le ore e suonò la campanella dell’intervallo. Le sedie raschiarono contro il pavimento di quel delizioso finto marmo policromo che nasconde lo sporco, i docenti si misero a sorseggiare il caffè o a leggere il giornale, come sempre si formò la fila al bar. Gridolini di ammirazione ovunque, ragazzi e ragazze piene di speranze che chiacchieravano, si salutavano, si abbracciavano, tutto turbinava.
E io ero ferma, seduta a smangiucchiare una banana, una cuffia sì e  una no, note rabbiose in un orecchio su uno sfondo di rumore talmente forte che è uguale al silenzio.
Suonarono altre campanelle, volti adulti e affaticati si avvicendarono alla cattedra, a volte mi chiamarono. Mi alzai, risposi, mi sedetti. Un’altra campana ancora, fine della giornata.
La mattina sono l’ultima ad entrare, di pomeriggio la prima ad uscire. Lasciando l’aula, sbattei la porta aprendola.

Ripetei quel ciclo quasi quotidiano per circa un paio di settimane, prima che il mondo incominciasse a crollarmi addosso.

Desidero rivolgermi a chiunque nella propria vita abbia mai preso un autobus, ovvero la maggioranza della popolazione più o meno giovane.
Non so se anche i vecchi hanno mai preso l’autobus, quando caspita li hanno inventati? Li usavano già nel Dopoguerra?
Insomma, quello che sto cercando di dire è che per il mio modesto parere nulla al mondo, e ripeto NULLA, è più filosofico di un finestrino d’autobus, anche quelli sporchi imbrattati lerci e bisunti.
Tutti i libri di Platone sbiadiscono al confronto. Non esiste niente al mondo che faccia più riflettere di un viaggio, specialmente se da soli, in autobus, guardando fuori dal vetro, sentendosi nel contempo osservatore ed osservato. La sensazione è allo stesso tempo familiare ed aliena, va provata sulla propria pelle.
È, per chi viaggia solo in compagnia della propria mente, un’esperienza di trance, una pausa agognata ed odiata che insieme spezza e fa parte della routine quotidiana.
Forse non è davvero così, forse sono solo io che mi faccio troppi viaggi mentali (estremamente probabile), però io la penso in questo modo. L’occasione di poter riflettere è uno dei principali motivi per cui ogni giorno d’inverno mi sveglio di buon mattino per prendere un pullman claustrofobico e stipato di adolescenzialità, invece di approfittare o di Luigi l’autista di famiglia (o, come avrebbe preferito essere definito lui, da sotto i suoi baffi curatissimi, lo
chaffeur) o di uno dei “gentili” passaggi di Gualtiero il Limonatore Selvaggio.
Gli altri sono che
1) non voglio passare più tempo dello stretto necessario con qualsivoglia mio consanguineo patentato a parte forse mia sorella, che però non vivendo più con noi non può fare su e giù da Venezia ogni mattina per me
2) arrivare a scuola in Rolls Royce è decisamente
troppo, persino per una stramba come me e
3) insomma, ho sempre cercato di mantenermi in un’affidabile, normale, rassicurante, aura di banalità.

E nemmeno il penultimo giorno di scuola prima delle vacanze feci eccezione, al diavolo il freddo polare.
Quel giorno sull’autobus mi ero concentrata sul mio ultimo look, che avevo ribattezzato “quasi-maggiorenne-ribelle-style”.
Ovviamente non ero la tipa da specchietto nella borsetta, per cui sfruttai la superficie riflettente per darmi una sistemata, che tradotto dall’Eveliano sarebbe “controllare di non avere pezzi di roba incastrati tra i denti e/o nei capelli”. Fissandomi la punta del naso, che minacciava di esplodere in un brufolo, finii per incrociare inavvertitamente gli occhi, e li strinsi forte per farli raddrizzare.
Riaprii lentamente il destro, poi il sinistro, in un comportamento che mi ricordava quei leoni della savana che si vedono sempre nei documentari sulla natura.
Quando si svegliano, che aprono gli occhi con lentezza e posatezza, certi che niente può rappresentare un pericolo per loro. Beati loro.
Tornai a guardarmi nel vetro, il riflesso ingrigito e graffiato.
Non sono una di quelle ragazze lamentosissime che vanno in giro in cerca d’attenzioni flagellandosi e gridando al mondo che sono brutte, che fanno schifo, che “e guarda l’occhio storto, e la pelle brutta, e il naso enorme” o chissà che cosa d’altro. Io mi ritengo una bella ragazza. Non una top model, la figa tirata non è il mio genere, ma nemmeno un roito totale.
Ho una bella pelle, leggermente opalescente, unico vantaggio di essere figlia di una che spende l’equivalente di uno stipendio medio di operaio metalmeccanico in creme, cremine, trucchi ed estetista ogni mese.; un nasino all’insù; degli occhioni da cerbiatta di quel marroneverdegrigioazzurro che cambia a seconda del tempo. Quel giorno piovigginava e sì, erano piuttosto grigi, conclusi fissandomi bene.
Sorrisi: mi piacevano molto quando erano di quel colore, anche se ciò significava pioggia.
Tornando a me. 
Bocca ben disegnata, leggermente sottile, il cui angolo destro in quel momento era tirato leggermente all’insù; zigomi molto alti e pronunciati (mi danno quel tocco quasi di mistero, di selvaggio, e non ho la più pallida idea di da dove li ho ereditati: nella mia famiglia tutti hanno il viso lungo e sostanzialmente piatto, similare per forma e contenuto ad una patata lessa).
A coronare la scena, un taglio di capelli “guerresco”: ciuffo da un lato e rasato dall’altro, tinta rosso fuoco, anche se la leggera ricrescita dorata tradiva il già di per sé evidente colore non naturale.
Aggiustai il cappuccio della felpozza caldissima e morbidissima che spuntava fuori dalla giacca, soddisfatta del mio aspetto. Distolsi lo sguardo dallo specchio improvvisato e canticchiando nella mia testa un motivetto mi misi a studiare i miei inconsapevoli compagni di viaggio.

Quando nessuno mi conosce riesco ad essere davvero me stessa, a sorridere, persino a ridacchiare sotto i baffi: non so nemmeno io perché lo faccio. Niente traumi infantili o cazzate varie, sono così, una stronza fredda e cinica con gli altri, me stessa con me stessa, punto.
O tutto è bianco o tutto è nero.
Finché sto per i fatti miei, senza il bisogno di interagire con qualcuno in maniera personale, sono abbastanza felice.
I problemi arrivavano appena una persona mi conosce abbastanza da ricordare il mio nome.
Sulla rubrica del cellulare ho tre numeri: Casa, il take-away cinese “Il Dragone Rampante” e ToscaCell.

Casa per avvisare se sono in ritardo o cose varie.
Il cinese perché, beh, ho un subdolo debole per gli involtini primavera, e lì fanno consegne a tutti gli orari del giorno e della notte (non si sa mai quando ti può venire una crisi d’astinenza da salsa di soia).

Il numero di Tosca è un po’ l’eccezione nella mia dissociazione dalla vita sociale: credo di non averla mai odiata davvero, il che è davvero fuori da ogni mio standard possibile ed immaginabile.
Per lei provavo una sorta di affetto smorzato, di sopportazione nemmeno troppo rassegnata. Non che in compagnia sua stessi bene, però non provavo nemmeno il desiderio impellente di scappare via.
Tosca è la perfetta rampolla femmina De Cervis, bellissima e remissiva ma non sottomessa, beneducata e con il portamento di una contessina vittoriana.
Non alza la voce, non dice parolacce, a tavola mette il tovagliolo sulle ginocchia e distingue il coltello da pesce da quello da carne, quando gli vengono presentate nuove persona porge la mano e fa una piccola riverenza. China sempre il capo, non presenta obiezioni, ha sempre preso il massimo dei voti, fa volontariato, ama la musica classica, suona il violino.
Insomma, è disgustosamente perfetta.
Nonostante ciò non potevo fare a meno di
non odiarla.
Era l’unica che ogni tanto mi dimostrava una qualche forma di affetto disinteressato, sin da quando eravamo piccole, sin da quando avevo iniziato ad essere diversa. Abbiamo solo due anni di differenza, così come tra lei e Gualtiero ce n’è uno solo, siamo sostanzialmente cresciute insieme, e la sua manina bianca era sempre quella che mi aiutava ad alzarmi quando cadevo. E’ difficile per me, che sopravvivo al dolore celando le mie emozioni, ammettere che le
volevo bene. Non credo di averglielo mai detto davvero. Non l’ho mai abbracciata stringendola forte dicendole che era la mia sorellona, che avevo bisogno di lei, che era l’unica che un po’ mi capiva. Da quando avevo iniziato a maturare un po’, avevo sempre cercato il modo di dirglielo, ma ogni volta che vedevo quel suo sorriso così dolce e gentile che amava condividere con tutti il solo provare un’emozione di affetto mi spaventava, così bofonchiavo e me ne andavo senza concludere mai nulla, affossando le mani nelle tasche.
Alla fine, anche quello di provare ad avere sentimenti per mia sorella era finito nei progetti accantonati, assieme al costruire una casa per uccelli –il giardiniere aveva dato di matto-, e quello di diventare un ninja –mi ero accontentata del Jujitsu-, e avevo deciso che non era poi così importante.
Da quando se n’era andata di casa per studiare in Università, però, avevo realizzato quanto ne sentissi la mancanza. Tornava raramente, sempre per occasioni importanti, e quindi era sempre in mezzo a tutti quelli che comunque più o meno consciamente le gravitavano intorno, e non avevamo occasioni di stare sole.
Era dura ammetterlo, ma mi mancava.

La mia sorellona.

La corsa di quel giorno non era particolarmente affollata, giusto qualche studente e i soliti immigrati pieni di borse e pacchi che da soli occupavano tre posti a sedere. Qualche piercing e tanto conformismo. Fissai con odio il gruppo di primine seduto nei posti a quattro, davanti. E quando dico con odio dico con odio vero.
Erano così
insopportabili. Le si sentiva sin dal fondo della vettura che urlavano e blateravano con quelle loro vocine stridule.
Stavano parlando di sesso, a quanto pareva.
«No ma perché c’è sì io…c’è lo so che ho 13 anni ma mi sento pronta…c’è oramai sono adulta, sono matura, posso prendermi la responsabilità…e poi c’è bellalì, tra me e Luca è straseria zie…c’è stiamo insieme da 4 mesi ormai, siamo strapresi, ieri sera mi ha postato un cuore in Bacheca su Facebook!»

Dei del cielo.
Senza parole.
Sapevo che era andato qualcosa storto con alcune delle nuove leve, ma non pensavo che si toccassero tali livelli di squallore morale e sociale. Va bene tutto, ma a 13 anni non puoi avere peni infilati in ogni buco e pensare di essere normale! Ero totalmente scioccata, evidentemente era passato troppo tempo dall’ultima volta che avevo origliato conversazioni di pubescenti così idiot… –ahem- diversamente intelligenti. Superato lo shock, ripresi a fissarle decisamente male. Con quel loro vociare e quegli effluvi di scadente profumo Hollister iperdolce mi stavano causando una leggera nausea. Immaginai, con scrupolosità, che il mio sguardo potesse penetrare quei cranietti sottosviluppati, passare attraverso pelle ed ossa per raggiungere il cuore pulsante della loro psiche, il cervellino. Immaginai di avventurarmi tra i tessuti e i fluidi corporei, fino a vederla, eccola lì, l’arteria silviana, il vaso principale che veicola sangue al sistema nervoso centrale.
Le scienze, al contrario della matematica, mi piacevano eccome.
Se ci fosse stato un modo per spezzare delicatamente una parete sanguigna, la vittima inconsapevole sarebbe morta nel giro di poco. Oppure si sarebbe ritrovata un aneurisma ticchettante come una bomba ad orologeria nella testa, e niente l’avrebbe potuta salvare.  La gente quando pensa ad uccidere, pensa sempre ad armi, veleno, esplosioni…
Basterebbe un’incisione microscopica nel punto giusto, e anche il più forte degli uomini cadrebbe come una marionetta coi fili tagliati.
Intanto l’autobus aveva quasi raggiunto la mia fermata, quindi agguantai la cartella e feci per scendere. Con la coda dell’occhio, vidi una ragazza biondissima che piagnucolava sommessamente nel posto vicino all’uscita.
Non so perché lo feci.
Frugai nella tasca e ne trassi un fazzoletto di stoffa, di quelli vecchio stile, leggermente spiegazzato, e glielo porsi.
«È pulito, giuro.»
La ragazza non fece in tempo ad alzare lo sguardo che ero già scesa dal pullman.
«…hey…g-grazie…»
Guardai il suo profilo allontanarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 3: La Bella e lo Spaghetto. ***


Anelli di cipolla 3

Ed eccoci di nuovo qua, con il terzo capitolo!
Curiosi di sapere dove vive Evelina? Se si, benissimo **
E se no pazienza, qua comandiamo noi e.e
Iniziamo ad entrare nella routine di Eve...godiamocela, perché non durerà tanto!
Buona lettura!
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 3: La Bella e lo Spaghetto.


Chissà perché stava piangendo.
Non l’avevo mai vista sul bus prima, il che era strano perché sembrava una studentessa, anche se non avevo proprio notato se avesse una cartella o qualcosa.
E di solito gli studenti sono abbastanza regolari nelle tratte.
Forse era un’universitaria, per loro gli orari variano molto. Poteva averne benissimo l’età, le avrei dato la mia o un anno in più, ma non aveva quell’aria da finta-sofisticata che di solito hanno le matricole.
Più che altro sembrava un cucciolo di qualcosa di molto tenero e peloso abbandonato nel bosco. Anche se lei non era pelosa. Almeno credo, magari sotto il cappotto nascondeva un manto animale.
Magari piangeva perché il dottore le aveva appena detto che il pelo l’avrebbe lentamente ricoperta tutta, e a causa di ciò non avrebbe mai potuto realizzare il suo sogno di diventare una modella di successo.
Ok, con tutta probabilità era solo una tizia qualunque che aveva perso l’autobus prima e aveva preso il successivo, ovvero il mio.
Perché cazzo ci stavo ancora pensando?
Cavai l’iPod fuori dalla tasca, spensi Gigi (amore tesoro, è solo un addio momentaneo, ricordatelo!) e cercai qualcosa per impedirmi di pensare. Un po’ di Green Day vecchio stile, giusto per gradire.
Un bel basso calcato sulle note ci voleva proprio.


Do you have the time

To listen to me whine

About nothing and everything

All at once

I am one of those

Melodramatic fools

Neurotic to the bone

No doubt about it

….

Citofonai al portone di casa mia, o per meglio dire, della mia pacchianissima villa, con il suono tacitamente concordato. Un bip lungo e incazzato, seguito da due corti.
Beeeeeep bep bep.
Da dentro mi fu aperto immediatamente, probabilmente dalla governante, senza nemmeno il bisogno di chiedere chi fossi.
Percorsi lentamente il viale d’ingresso buttando un’occhiata al praticello solitamente curatissimo, che arrancava sotto la gelata, la torba brulla che aspettava solo di accogliere una nuova nascita.
Il giardino, enorme e assolutamente sproporzionato rispetto alla casa, era una delle poche cose rimaste praticamente invariate dall’epoca della costruzione della villa risalente al tardo Cinquecento.
Aveva un gusto semplice ma elegante, anche se più che un giardino era un vero e proprio parco. Era calmo e silenzioso, animato solo dai suoni della natura.
Tutt’intorno all’edificio principale cresceva una siepe sempreverde bassa, della stessa specie di quella che correva a ridosso del muro di cinta coi mattoni di cotto a vista, alternandosi con degli alberi a fusto sottile tipo betulle. Nella zona antistante la casa c’era un prato inframmezzato da aiuole di fiori colorati e cespugli profumati, separate da sentierini di mattonelle che confluivano ad un grazioso gazebo bianco di ferro battuto, che copriva il piccolo pozzo che originariamente serviva la casa.
Mia madre ovviamente aveva provveduto a rovinare quell’idiliaca perfezione mettendoci a forza un set completo di orripilanti nani da giardino a grandezza naturale, e diverse “opere” d’arte moderna che secondo me assomigliavano a ciò che rimane di un’auto dopo un frontale particolarmente violento con un tir, e che di notte erano fottutamente inquietanti.
Il lato est era la dimora di Mildred, l’arcigna governante inglese: lì sorgeva infatti la piccola casupola in cui viveva, collegata alla casa con un passaggio coperto. Nella zona circostante aveva creato un orto rigoglioso e produttivo che innaffiava con l’acqua del fiume poco distante, e che delimitava la proprietà dal lato nord.
Nessuno aveva mai capito perché lei fosse così amorevole con delle piante quando era così severa con i bambini.
Probabilmente era perché le piante non parlavano e il massimo che potevano fare era crescere storte.
In ogni caso, il suo pollice verde produceva ogni sorta di frutta e verdura, che poi utilizzava nella nostra cucina. L’orticello era stato anche il posto preferito di Tosca, che prima di partire per gli studi dava sempre una mano alla vecchia che per via dell’età faceva sempre più fatica a sgobbare china sulle piante. Da quando se n’era andata nessuno le aveva più dato una mano, ma d’altronde lei non aveva nemmeno chiesto aiuto. Nessuno si sarebbe mai sognato di entrare nella piccola recinzione di Mildred senza essere invitato.
Sul retro, confinato dal fiumiciattolo, c'era un piccolo boschetto ombroso di pini e abeti che degradava fino ad un piccolo approdo naturale, nel cui centro si apriva uno spazio quasi perfettamente circolare di circa un sei metri di diametro contornato con delle grandi rocce chiare disposte ad intervalli regolari, incastonate nel terreno. Spesso, negli afosi pomeriggi estivi, mi si poteva facilmente individuare completamente svaccata su un’amaca arancione e rossa che montavo ogni anno all’inizio della bella stagione, a leggere o studiare o anche semplicemente a rilassarmi, all’ombra fresca e al caldo suono delle cicale.
Purtroppo era inverno, e l’estate era solo una speranza lontana.
Le cameriere sapevano fin troppo bene che ero troppo pigra per cercare il mazzo di chiavi dentro la borsa, per cui trovai anche la porta aperta, le chiavi ancora infilate nella toppa interna. Le girai prima di togliermi le scarpe e infilarmi direttamente nella mia zona sicura, la mia accogliente Tana. Mia madre vorrebbe che la chiamassi “i miei appartamenti” ma alla fine è una bella camera grande con un bagno e un piccolo balcone. Non mi sto assolutamente lamentando del bagno o del balcone, so per certo che molta gente letteralmente ucciderebbe per avere anche solo uno dei due, ma mia madre ha la leggera (e con leggera intendo rasentante la paranoia) tendenza ad ingigantire tutto a dismisura. Però comunque sono consapevole che ho una gran bella fortuna ad avere nei miei “appartamenti” un raffinatissimo orinatoio con doccia e vasca, decisamente comodo; anche perché se non ce l’avessi, non oso immaginare cosa potrebbe succedere di mattina in casa mia.
La lotta con gli spazzoloni del cesso non sarebbe un’opzione poi così remota conoscendo quanto è manesco e stronzo Gualty, specie se si tratta di affari intimi.
Lo stronzo ce l’ha sempre avuta con me perché è uno stitico assurdo, mentre io, anche se donna, sono regolare e tiro lo sciacquone che è un piacere.
Avendo riflettuto fin troppo sui problemi di regolarità di Gualtiero, sfilai la tracolla, la gettai alla bell’e meglio sul mobiletto di fianco alla scrivania e mi buttai a peso morto sul letto.
«Cheppalle» sospirai.
Era un “cheppalle” generico, rivolto al mondo, rivolto a nessuno, probabilmente rivolto a me e alla mia vita decisamente cheppallosa.
Il mio pensiero tornò, di nuovo, a quella ragazza. Una lampadina a basso consumo s’ illuminò nella mia testa. Stavo continuando a pensarci perché, cacchio, io quella l’avevo già vista.
Ma dove? Accidenti, memoria bacata, funziona una buona volta!
Ero totalmente sicura di averla già incontrata, ma non mi ricordavo assolutamente in che occasione, anche se una sensazione dietro la nuca mi diceva che era successo recentemente.
Paga di aver trovato una spiegazione più o meno logica al perchè quel viso mi stava oramai ossessionando da un tremendo quarto d’ora, mi tirai su dalle coperte e m’infilai a fare una doccia veloce prima di pranzare.
Sarò anche una De Cervis, ma Educazione Fisica al mattino dona il delicato odore di una formaggella di capra stagionata pure a me.
Due ore della mia vita passate a correre e sudare dietro una palla da basket che nessuno aveva mai voglia di passarmi, nonostante fossi una delle cestiste più brave a dispetto della mia proverbiale bassezza. Un mio tiro era un canestro quasi assicurato, ma le amicizie prevalevano sulla strategia di gioco ed erano sempre le stesse tre-quattro che si passavano la palla a vicenda ridendo come oche.
Mai detto che adoro il foie gras?
Io comunque i miei buoni voti ce li avevo, e mi stava bene così.
Mi spogliai velocemente per potermi infilare al volo sotto il getto d’acqua calda e vaporosa, sfuggendo così dal gelo polare che riusciva a infilarsi addirittura attraverso la finestra appena appena socchiusa. Quell’inverno era uno dei più rigidi di cui io avessi mai avuto memoria.
Rovesci improvvisi e violenti, il vento che s’alzava tutto d’un tratto e temporali che scoppiavano dal nulla. Un freddo assurdo, in barba all’effetto serra.
La cosa strana era che il clima era così imprevedibile solo nella mia zona; anche già solo a Milano il tempo era sì freddo, ma molto più normale. La stampa nazionale parlava di una stramba situazione atmosferica, causata dall’incrocio di due correnti, una proveniente dal Nord Europa e una dall’Africa, che si erano incontrate proprio nel capoluogo orobico.
Ma una perturbazione non dura mai così tanto quanto stava durando quell’anno, né è così circoscritta in un unico luogo.
Forse questi segni avrebbero dovuto farmi intuire già da prima quello che sarebbe poi successo di lì a poco.
Per ora mi godevo il calore che mi colava lungo il corpo come un grosso gatto acciambellato davanti ad un camino.
Scesi da basso strofinandomi vigorosamente i capelli con l’asciugamano, tentando di non sgocciolare troppo in giro e saltellando sulle scale, un gradino sì e uno no.
La casa era pervasa da un delizioso odorino di pasta al ragù e, sniff, funghi.
Me fame, uga uga.
Spalancai la porta dell’assurdamente enorme sala da pranzo e la trovai vuota. Anche oggi avrei pranzato sola. Bene.
Anche se non potevo fare a meno di sentirmi inquietatamente osservata dai ritratti alle pareti.
Perché secondo i miei un paio di martìri di santi appesi dove si mangia rallegrano l’ambiente. Anche se i màrtiri – uno San Sebastiano e l’altro non ricordo – erano il minore dei mali, il peggio era il mezzobusto in marmo di mio nonno Gualtiero, arcigno e rugoso come una prugna secca, che se ne stava su una mezza colonna di granito posizionato sotto l’arazzo con lo stemma di famiglia. Mi era stato narrato che quell’arazzo era la copia settecentesca dell’originale medievale, fatta realizzare dal conte Gervasio de Cervis nei primi anni del secolo, e che era stata recuperata da un museo tramite il pagamento di una cospicua somma di denaro da parte del mio bisnonno, Evaldo.
Sì, siamo una famiglia dai nomi alquanto strani.
Arrivai a tavola con una mezza scivolata sul parquet, e mi sedetti decisamente affamata. Ci mancava poco che iniziassi a battere le posate sul tavolo invocando la pappa. Subito arrivò Giulia, l’ultima cameriera che avevamo assunto, reggendo il piatto. Una ventiqualcosenne solerte e solare, molto puntuale e precisa in tutto, la classica brava ragazza. Anche perché se non lo fosse stata non avrebbe mai ottenuto il lavoro. In ogni caso, era mille volte meglio di quella che occupava il suo posto prima di lei, una donna sporca e antipatica che aveva finito per cercare di rubarci l’argenteria.
Aspettai che mi appoggiasse il piatto davanti e la ringraziai per bene, come si conviene. Essere strani ed asociali NON è una buona scusa per essere maleducati, accidenti. In una cosa concordo con la mia psicopatica madre: un po’ più di galateo potrebbe davvero salvare il mondo. Pensai che se ne sarebbe andata silenziosamente, come suo solito, e invece rimase.
«Signorina Evelina, permette un istante?»
«Dimmi pure Giulia!», risposi portando alla bocca una generosa forchettata di spaghetti. Deliziosamente sugosi.
«Il signor Raffaele mi ha pregato di avvisarla che stasera rientrerà la signorina Tosca, e gradirebbe che fosse presente alla cena per riaccogliere sua sorella», disse con tono educatamente monocorde.
«Certo Giulia, dì a mio padre che ci sarò certamente!»
Come ho già detto, mi fa sempre piacere rivedere Tosca.
«Perfetto, signorina.»
La guardai, masticando lentamente. E un pensiero si formò nella mia testa, si vede che quel giorno ero particolarmente in stato di grazia.
Giulia non mi aveva conosciuto nei miei periodi peggiori. Giulia non sapeva quasi nulla di me, se non che le era assolutamente vietato fare le pulizie alla mia collezione di minerali e gemme perché avevo il terrore che si rovinassero. Giulia era una ragazza simpatica e sveglia, sapevo che oltre che a lavorare da noi stava terminando una laurea in Medicina e che il suo sogno era di diventare veterinaria. Giulia era una presenza nuova nella casa, ancora parzialmente all’oscuro dei suoi conflitti interni. Giulia era una ragazza semplice, si notava che si sforzava per parlare in quella maniera così antiquata e formale, probabilmente le era stato detto da Mildred, il terrore dei bambini anche già cresciuti, di esprimersi così.
Giulia poteva…poteva essermi amica. O per lo meno diventare mia alleata.
«Signorina Evelina…?» evidentemente il mio sguardo l’aveva messa a disagio.
Decisi di buttarmi.
«Giulia, per favore, dammi del tu, sono più piccola di te, è davvero strano sentirsi dare del lei da una che minimo minimo è alta il doppio! Sono bassa non perché sia vecchia e curva e quindi degna di rispetto, ma perché sono giovane e nana! E siccome, lasciamelo dire, sei davvero una brava cameriera, temo che resterai tra queste quattro mura ancora per molto tempo, e se non ti disturba vorrei che tu ti prendessi un po’ di confidenza!»
«Va bene, Evelina.» Giulia rise per il tono scanzonato con cui lo dissi, e non potei fare a meno di sorriderle in ricambio.
Quando sorrideva le si increspavano gli angoli degli occhi.
«Prenditene di più, chiamami Eve, dai!» Le strizzai l’occhio, dimostrando più coraggio e spirito d’avventura di quanto pensavo fossi capace
«Bene, Eve, riferisco a suo…a tuo padre che stasera ci sei allora?»
«Certo, non vedo perché non dovrei esserci…ma sai come mai Tosca se ne ritorna a casa così senza preavviso? Doveva tornare tra qualche giorno. Sai, per Natale.»
«Il signor Raffaele non mi ha detto nulla, se non ciò che ti ho già riferito. Non ne ho idea.»
«È che mi pare strano, tutto qui. Vabbé sarà stato solo un cambio di programma, nulla di grave», replicai. Anche se lo dissi più a me stessa che altro.
Notai che aveva una smorfia strana, come se stesse per scoppiare a ridere, e quindi la guardai, un punto interrogativo scritto in faccia.
«Ti lascio al ragù, sembra che tu ne sia molto presa!» disse ridacchiando, cercando inutilmente di trattenersi per darsi un contegno.
«Perché dici così?»
«Ehm, ecco, hai un po’ sbrodolato su tutta la maglia…»
Guardai giù, avevo due macchie rosse enormi e colanti che spiccavano nettamente sulla camicia bianca. Cazzo. Mentre parlavo avevo la forchetta a mezz’aria, con un bel po’ di spaghetti arrotolati intorno, e gesticolando distrattamente avevo sparso sugo manco fosse acqua benedetta.
Cazzo.
Pensai che Giulia avrebbe creduto che fossi una ritardata quasi maggiorenne e ancora incapace di mangiare senza sporcarsi tutta.
Cazzo duevolte.
Con mia piacevole sorpresa, mi resi conto che lo sguardo divertito nei suoi occhi non era di scherno, né di compatimento.
Non stava ridendo di me, stava ridendo con me. E questo mi fece semplicemente stare bene.
«Vieni qui Giuly, che ti do un bell’abbraccio sugoso!»
Saltai in piedi, a momenti rovesciando la sedia, e cercai di abbracciarla, per sporcarla con la mia camicia oramai rovinata.
«Ti prego no, ho l’uniforme addosso! Ti prego no! Aiuto, salvatemi, mi vuole uccidere!»
Non volevo causarle guai con Mildred, che alla vista di un’uniforme macchiata l’avrebbe senza dubbio cazziata abbondantemente, per cui mi fermai senza però smettere di ridacchiare e mi risiedetti, un’allegria in cuore che non provavo da molto, troppo tempo.
«Hey scusami, io però ora devo proprio andare a fare il bucato…buon appetito Evelina!»
«Eve, per favore. Evelina è un nome terribilmente da vecchia signora scontrosa» la corressi.
«Ok, buon appetito, Eve
«Grazie mille Giulia, uhm, buon bucato?»
«Jay.»
«Come scusa?»
«Jay. I miei amici mi chiamano Jay.»



 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 4: La bambina nel pozzo. ***


Anelli di cipolla 4

Ed eccoci qua di nuovo con un altro capitolo.
Questa volta il "ritardo" è colpa della Durrie che non è riuscita a betare prima, e che chiede venia.

Le cene di famiglia sono un classico quando ritorna un parente, no?
Ecco, nemmeno Eve e i suoi fanno eccezione.

Buona lettura!

Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 4: La bambina nel pozzo.

«Scusi, signorina Louise, mi saprebbe cortesemente dire che cosa diamine è questa poltiglia marrone-giallastro che mi ha appena messo nel piatto? E soprattutto, cosa sono quelle cose verdi che ci galleggiano dentro?»
La cameriera aveva finito il giro della tavola imbandita e, servendomi per ultima come da consuetudine –sentivo ancora la mia vecchia istitutrice che starnazzava «prima il capofamiglia, poi sua moglie, poi i figli in ordine di età!»–mi aveva appena rovesciato una specie di zuppa dalla consistenza sospettosamente simile alla diarrea nella fondina.
E io avevo lo stomaco che già faticava a dir poco a contenere tutto quel delizioso cibo francese che avevo già mangiato. 
«Sacrebleu, Evelinà! È fricassée au tourain, non ti ricordi di quando l’hai mangiata dai nonni su a Poitiers, qualche estate fa?» rispose mia madre al posto della cameriera.
«Mà, probabilmente ho rimosso l’episodio per riuscire a dormire la notte.»
Come avrò occasioni infinite di ripetere, la mia boccaccia sarcastica è decisamente troppo larga, e soprattutto inappropriata.
Mia madre si fermò, con la mascella semipendente di lato e gli occhi azzurri letteralmente ghiacciati, le nocche che sbiancarono pian piano strette intorno alla cuillière d’argent.
Mio padre e Tosca interruppero bruscamente le loro chiacchiere leggere sulla vita universitaria e Gualtiero deglutì rumorosamente, teso.
Sulla tavolata era improvvisamente calato un inquietante silenzio di tomba (non che prima ci fosse tanto rumore), ed ero certa che ora si sarebbe potuta sentire una mosca che si scaccolava in un angolo della stanza.
La vocina nella mia testa rise, compiaciuta. La zittii con un pensiero violento, l’equivalente psichico di un gancio ben assestato, quando capii cosa mi aveva fatto fare.
Di nuovo.
Si mette male per la nostra eroina. Prepararsi all’esplosione. 3, 2, 1….
«Effettivamente ha un aspetto davvero orribile, però sforzati di mangiarla, che Louise si è impegnata tanto a cucinarla!» 
«Non me ne frega un cazzo dei tuoi rimpr…aspetta aspetta cosa hai detto?»
Mi aveva preso in contropiede.
«Che in ogni caso è meglio che la mangi, almeno per rispetto al lavoro di Louise! E non dire cazzo, per piacere.»
Freeeena frena frena. Chi era quel mostro dall’aspetto gentile che aveva preso il posto della mia stronzissima madre, Madame Lisotte Marie Angeline Geneviève de Poitou-Montmayeur? Chi cavolo era quella persona che non mi stava sclerando dietro perché avevo insultato un piatto di haute cuisine? La cosa non aveva nessun senso, nessuno.
Avevo detto “cazzo” a tavola e non mi aveva ancora tirato un ceffone di quelli dei suoi, stronzi, appesantiti da tutti i suoi anelli. Avevo più o meno insinuato che la cucina francese facesse schifo ed ero ancora integra.
«Wo.»
«Come scusa?»
«Uhm, no nulla. Beh, grazie mille.» Aggiunsi rivolta alla cameriera, che assentì con un cenno del capo, impassibile.
Avrei tanto voluto che ci fosse stata Giulia di turno in quel momento.
La situazione era decisamente troppo strana, quindi cercai una distrazione.
«Uhm, Tosh, che mi racconti dall’università?»
Mi parve che stesse fissando mia madre come se fosse appena sopravvissuta ad un disastro nucleare. Si girò rapida verso di me quando le parlai, ogni traccia di un qualsiasi sguardo strano -che probabilmente mi ero immaginata- sparita, sostituita dal più caldo dei sorrisi. 
Ancora una volta, non potei fare a meno di sorriderle.
«Oh, beh, che dire di nuovo? Potrei dirti che ho appena passato un esame con trenta e lode, ma non penso che ti sorprenderesti più di tanto!» rise, coinvolgendo tutta la tavolata, calorosa ed unita come non lo era mai stata.
Era vero, lei era sempre stata una tale secchiona che non ci si sorprendeva più di nulla, sarebbe stato a dir poco sconvolgente sapere che aveva preso un ventotto.
«E invece tu, Eve, tieni alto l’onore di famiglia scolasticamente parlando?»
Lei era l’unica De Cervis che aveva accettato di usare il mio classico nomignolo, nonostante tutti quanti fossero perfettamente a conoscenza di quanto odiassi il nome completo.
«Possiamo dire che nell’ultima verifica di filosofia su Socrate, sapevo di non sapere, ecco.»
Quel freddo venerdì di Dicembre era un giorno veramente fausto ed eccezionale.
Lei rise di gusto buttando indietro la chioma bionda e perfetta, gli occhi verdi e limpidi che mandavano lampi di allegria. Mio padre abbozzò un sorriso, mia madre palesemente non afferrò la battuta sull’aforisma socratico ma ridacchiò comunque per non essere da meno, e persino Gualtiero alzò gli occhi al cielo divertito.
Tosh riprese. «In ogni caso, occhio che se mi finisci come l’anno scorso che ti hanno rimandata in matematica potrei decidere di non portarti più nessun regalo», aggiunse facendomi l’occhiolino.
«Regali? Chi ha parlato di regali? Che regali?» 
Ommioddio, la parola regalo mi mandava in estasi diretta, specie se veniva dalla bocca di mia sorella.
Dotata di una carta di credito pressoché infinita, e maniaca dei negozietti minuscoli iperspecializzati e delle aste d’antichità come era lei, ogni suo regalo era un piccolo tesoro al di là del suo valore effettivo.
Indimenticabile l’anno in cui mi aveva regalato un pugnale da cerimonia risalente al Medioevo, con l’elsa di ebano e cuoio, la guardia in foglia d’oro tutta cesellata a motivi floreali, e un cristallo di ematite (la mia pietra preferita) incastonata nel pomolo. Ero letteralmente impazzita dalla felicità, e l’arma fece subito bella mostra di sé al posto d’onore nella libreria in camera mia, ben conservata nel fodero originale ma perfettamente restaurato. Unica pecca era una tacca a forma di cuneo su uno dei fili della lama, ma ciò gli donava solo quell’aria da “stravissuto” che mi faceva andare indietro nei secoli ogni volta che la sfioravo col pollice.
«Calma, ti posso dire solo che c’è un pacchettino blu e verde con un bigliettino con una E scritta sopra che ti aspetta sotto l’albero, ma devi aspettare Natale per aprirlo!»
«Posso aprirlo quando è Natale con fuso orario australiano?»
«Eh no, aspetti la mezzanotte del 24 come tutti, nessuna eccezione nemmeno per te!»
La conversazione a tavola procedette di buon grado per una ventina di minuti, si mangiava, si parlava del più e del meno. Ma si sa, tutto è destinato a crollare nella mia vita.
«Siamo di buon umore oggi, neh, signorina?»
La domanda, innocentissima, veniva dalla voce profonda di mio padre, un omaccione di due metri con le spalle larghe come un armadio, che però manteneva sempre un comportamento così impassibile ed educato da farlo sembrare più fragile di quanto non fosse in realtà. 
La sua domanda, teoricamente retorica, aveva una sfumatura strana, come se gli interessasse sapere se ero davvero di buon umore.
«Non so, oggi ho visto una ragazza sull’autobus che piangeva, e le ho dato il mio fazzoletto. Forse è il karma che mi ripaga per la mia buona azione!»
Ignoro ancora oggi perché glielo dissi, ma quel giorno doveva essere davvero incredibilmente fuori dal normale, probabilmente un allineamento del Sole. La mia famiglia mi voleva bene, ero felice e potevo essere tranquillamente me stessa.
«Non avrai mica dato il tuo fazzoletto di lino coi ricami in seta ad una perfetta sconosciuta?» saltò su incazzatissima mia madre, e stava per aggiungere altro quando la manona di Raffaele le prese la spalla e la strinse, rapida, e con gli occhi le disse “no”. Mia madre si portò una mano alla bocca, quasi che avesse detto qualcosa di troppo, e mi fissò impaurita.
Non capii il suo sguardo, ma persi ogni illusione che poteva essermi cresciuta dentro.
«Beh, in fondo, Eve, hai fatto bene, bisogna essere gentili coi meno fortunati.»
Si sentiva che ogni parola faticava ad uscirle dalla gola, talmente erano false. Sentii che avrebbe voluto farmi la predica, ma si trattenne, voleva riportare l’allegria su quella tavola.
Mi avevano ingannato, non sapevo perché, ignoravo cosa mi nascondessero, ma mi avevano dato l’illusione di poter essere felice con loro per poi strapparmela brutalmente di mano.
Ormai tutto era rovinato, uno specchio incrinato, eravamo di nuovo alla solita tensione tra i due capi del tavolo ma subito Gualtiero, e dico Gualtiero, cercò di ricomporlo.
«Dimmi, Evelina, come sta andando quella ricerca di storia a cui stai lavorando?»
«Bene.»
Non ci cascai più. L’idillio era svanito, l’incanto spezzato. Cercai di trattenermi dal fare qualsiasi cosa. Sentivo la loro falsità che mi macchiava la pelle. Ritornai al mio solito cocciuto mutismo.
«E cosa hai fatto oggi a scuola, dai?»
«Niente.»
Ero solo così delusa da loro, probabilmente stavano solo cercando di rabbonirmi per riuscire a passare un Natale felice come famiglia, darmi dei regali costosi e pensare di comprarsi così il mio affetto.
L’ennesima fottuta illusione di una felicità che non mi apparteneva. La ricchezza in cui sono cresciuta non racconta il disagio che ho dentro.
Questa è solo una volta come tante, mi dicevo, una volta delle tante in cui io tornavo indietro.

Tornavo quella bambina bionda, con il vestitino e le treccine e le scarpine, che giocava nel grande giardino ombroso di casa sua una mattina d’estate.
Tornavo quella bambina che giocava sul bordo del pozzo, che scivolava, che batteva la testa sul fondo asciutto da anni.
Tornavo quella bambina si svegliava dopo chissà quanto, che piangeva e urlava finché poteva, finché ne aveva la forza, ma che nessuno era lì per sentire.

Tornavo quella bambina che avevano tirato fuori dal pozzo per miracolo dopo quasi otto ore, quando finalmente qualcuno si era accorto della sua assenza.
Tornavo quella bambina che si era salvata perché il giardiniere stava potando le piante vicino al gazebo, e aveva sentito un suo lamento.
Tornavo quella bambina che non capiva perché nessuno si era chiesto dove fosse, visto che non era venuta a pranzo e nessuno l’aveva più vista dopo la colazione.
Tornavo quella bambina che sentiva di sfuggita il suono dell’ambulanza, aveva perso troppo sangue, la vita che le stava scivolando via.
Tornavo quella bambina che era sopravvissuta.
Ma quel giorno, dentro di me, qualcosa si era rotto, e non si era mai più aggiustato.

Credo si chiamasse fiducia, o forse amore per la famiglia.

Avevo l’impellente desiderio di alzarmi da tavola, non so quanto avrei tollerato ancora di stare in mezzo a loro.
Tosca mi guardava preoccupata, sapeva che ero a tanto così dal mettermi ad urlare. Ma non lo feci. Strinsi forte il coltello della carne, perdendomi nella luminosità argentata che splendeva ogni volta che la lama riuscita a catturare la luce delle lampade.
Mi concentrai sulla superficie del metallo. Era così lucido che rifletteva i miei occhi, che in quel momento erano di un grigio freddo.
Sentii che qualcuno parlava, non ascoltai nemmeno, le nocche che sbiancavano per la forza della presa.
«Ne ho abbastanza di tu che ti comporti così, cazzo!»
Era Gualtiero questo, che, bravo figlio di sua madre, era totalmente stizzito dalla mia assenza di comunicazione.
«Problemi?»
Gualtiero, caro Gualtiero, lo sai che ci sono sfide che non puoi vincere, non con me.
«Senti, stronzetta, almeno le tue cazzo di turbe tienitele per te, a qui nessuno gliene fotte un cazzo se hai la sindrome premestruale o che cazzo ne so io, almeno fingi di essere educata un minimo, cristo santo! Ti rendi conto che ci stai rovinando la vita? Cavolo, noi potremmo essere la famiglia perfetta, ma NO, ci devi essere tu, la stracazzo di pecora nera di turno, che ci rovina sempre tutto.»
«Gualtiero, ricomponiti.»
Il tono di mio padre era tagliente, a denti stretti, carico di un’urgenza che non compresi.
«No, non mi ricompongo un bel niente, perché mi sono rotto di dover sopportare sempre che quella lì faccia il bello e il cattivo tempo! Noi abbiamo il diritto ad essere felici, e lei ce lo porta sempre via, e ora lo dico e ora lo ripeto, no, papyno, non me ne fotte delle conseguenze, io sono stufo!»
Si era alzato in piedi, appoggiandosi con le mani al tavolo, e stava praticamente urlando come una checca isterica, nonostante tutti cercassero di farlo sedere, di farlo ragionare, di farlo stare zitto.
Continuava a parlare e ad insultarmi, ma oramai afferravo solo pezzi di frase.
«Inutile…»
«…senza futuro…»
«…peso per tutti noi.»
Ero fuori dal mio corpo, completamente estranea alla vicenda. Non riuscivo nemmeno a percepire chiaramente la rabbia che provavo, mi arrivava in sordina. Io ero nel mio mondo, uno spazio bianco infinito e desolato, senza cielo né terra. Coglievo appena quello che i miei che dicevano a mio fratello, guardavo ma non vedevo davvero Tosca che si copriva la bocca con la mano. Sentii sfrigolare qualcosa, puzza di bruciato.
Non parlai. La tensione mi stava logorando, dovevo fare qualcosa per spezzarla.
 Agii d’istinto.
Mi alzai, piantai il coltello di punta nel tavolo, con violenza, lacerando la tovaglia. La lama rimase conficcata a fondo nel legno, tremando leggermente.
Scappai.
Fuori dalla sala iniziai a correre. Sulle scale stavo praticamente volando.
Intravidi appena appena la figura di Giulia al lato del mio campo visivo, una domanda senza voce sulle labbra, che cercava di fermarmi.
La ignorai, e tirai dritto. Entrai in camera mia e sbattei la porta della camera con tanta violenza da far tremare il muro.
Mi ci appoggiai, cercando di calmare i primi singhiozzi che stavano iniziando a scuotermi. Lentamente, scivolai in basso lungo la parete, arrivando a sbattere il culo per terra, la testa tra le gambe.

Che.
Cazzo.
Avevo.
Appena.

Fatto.

Le lacrime seguirono presto i singhiozzi. Piansi per un tempo indefinito, non capivo più nulla. Piansi per me, egoisticamente. Perché Gualtiero aveva ragione, ero sempre io col mio carattere di merda, quella che rovinava tutto. A tentoni, resa cieca dalle lacrime, afferrai un pacco di fazzoletti dalla borsa che avevo mollato lì quando ero tornata da scuola, e cercai di soffiare via il dolore assieme al moccio.
Una fitta improvvisa in mezzo agli occhi. Passai il dorso della mano sotto il naso.
Sangue.
Fantastico, davvero, un momento eccezionale per uno dei miei soliti attacchi di epistassi. 
Cercai di alzarmi per andare a cercare un altro pacchetto, ma alla fine optai per trascinarmi letteralmente fino al bagno e mi sedetti sulla tazza del cesso, col coperchio chiuso.
La testa buttata indietro, la schiena appoggiata al muro piastrellato gelido, una mano a premere il naso per arrestare l’emorragia, anche se ad essere obiettivi i continui singhiozzi non aiutavano affatto. Stavo una vera merda. Abbassai un po’ il capo, evitando accuratamente di guardarmi nello specchio alla parete. Non avevo proprio voglia di vedermi in quello stato, che immaginavo non fosse la mia forma migliore. Ero fuori di me. Non respiravo, aspiravo aria con un gorgoglìo, non avevo ossigeno al cervello. Dopo un po’ iniziai a calmarmi, lo stomaco smise di dirmi che ero una deficiente, le lacrime si seccarono, gli spasmi si tranquillizzavano e il sangue si coagulò, lasciandomi solo un sapore di terra e metallo e perdita in bocca.

Non so esattamente come, ma riuscii a sfilarmi la maglia e i pantaloni, a mettermi il pigiama, e a infilarmi a letto. Non avevo né la voglia né la forza di pensare. Mi sentivo semplicemente vuota. Il dolore se n’era andato e aveva lasciato il nulla dietro di sé. Iniziai a fissare l’affresco sul soffitto, un pantheon di dei greci un po’ sbiadito, e per distrarmi iniziai ad identificarli.
Quello i calzari alati è Mercurio, quello con l’elmo e l’abito nero è Ade, quella con la coppa è Ebe, quella con l’arco è Artemide...il sonno stava finalmente accogliendo il mio oblio.
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, strappandomi dal dormiveglia. 
«Hey…posso entrare?»
Era Tosca.

«Entra.»
Parlare mi fece raschiare la gola, il suono della mia voce era orribile.
Cercai di darmi una sistemata, ma sapevo che ero pesta, rossa e gonfia, per cui mi limitai a scostarmi il ciuffo dal viso e a tirarmi su dai cuscini.

Tosca aprì la porta, rimanendo sulla soglia, in controluce. Era in pigiama pure lei, solo che al contrario di me sembrava uscita dalle pagine patinate di una rivista di moda, anche se era viola e la maglia aveva stampato un orsacchiotto con la scritta “Abbracciami forte”.
«Vorrei chiederti come stai, ma ho idea che sarebbe una domanda alquanto stupida», disse, abbozzando un sorriso amaro.
Non risposi.
«E, insomma, non mi sembra giusto che tu debba soffrire così tanto. Ci sono io per te, ok? Sempre, anche quando sto a Venezia, ci tengo che tu lo sappia, ecco.»

Si passò una mano tra i capelli, timidamente. Continuai a fissarla in silenzio.
«Senti, piuttosto, vuoi un po’ di compagnia per dormire stanotte? Non me la sento di lasciarti sola…d’altronde sono la tua sorellona, è a questo che servo, no?»
Sorrise, anche se aveva gli occhi lucidi.
Non ci fu bisogno che le dicessi nulla. 
Non feci a tempo a scostare le coperte per farla entrare nel letto che lei aveva già chiuso la porta, piano.

Non mi fece altre domande, sapeva che non ero in condizioni di parlare.
Si infilò sotto il piumone con me, e mi offrì il suo abbraccio caldo e protettivo. Mi appoggiai contro il suo seno morbido, esausta, mentre lei mi cantava una dolce ninna nanna, accarezzandomi la testa.
E il sonno, finalmente, mi vinse.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo 5: Vampate poco mestruali. ***


Anelli di cipolla 5

Buonasera a chiunque! :D
Ecocci qua con un capitolo-svolta.
Curiosi? E allora non avete che da leggere!
Sempre un mega grazie e tante caramelle a RITA_RBS, a cui dedichiamo il capitolo:3
Sei un tesoro di essera!

Buona lettura!

Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 5: Vampate poco mestruali.

Aprii gli occhi e mi tirai su di scatto, respirando come se fossi appena riemersa da un’apnea lunga una vita.
Tosca dormiva beatamente nel mio letto, l’innocenza fatta persona, appoggiata su un fianco. Aveva un braccio piegato sotto la testa mentre l’altro rimaneva steso, e fino a poco prima mi stava abbracciando.
Gemette appena e si aggiustò tra le coperte, e per un attimo temetti di averla svegliata. Contai fino a dieci rimanendo perfettamente immobile, ma non si mosse più.
Non ricordavo.
Cosa ci faceva mia sorella qui, non doveva essere ancora via per l’università?
E in ogni caso, che diamine ci faceva nel mio letto alle –buttai uno sguardo all’orologio sul comò– 2:34 di notte?
Poi, ricordai.
La memoria mi colpì come uno schiaffo in pieno visto, togliendomi il respiro appena ritrovato. Mi morsi l’interno morbido della guancia, soffocando il singulto che sentivo nascere dentro il petto con un grido senza voce. Mi alzai, non avrei tollerato di stare ferma un secondo di più, andai alla finestra e la spalancai, uscendo sulla terrazza vestita solo con un pigiamino di flanella nella gelida notte di dicembre.
Come se allontanandomi da lei sarei riuscita ad allontanarmi dal ciò che era successo poche ore prima.
Il vento fece gonfiare rabbiose le tende, che proiettarono ombre spettrali nella luce fioca.
Cosa avevo fatto? Come avevo potuto reagire così?
Eppure ero stata io, io e solo io a piantare quel coltello con violenza nel tavolo
con quelle mani (che stavo guardando con orrore).
Io, e non una mia controfigura. Perché cascavo sempre in quelle situazioni di merda?
Sentii le lacrime salirmi agli occhi. Immediatamente mi piantai le unghie nel palmo della mano per non piangere –tecnica collaudata negli anni– e il famigliare bruciore lieve nelle palme mi distrasse dal dolore più profondo che mi squassava dentro.
Rabbrividii per il freddo violento, ma fui grata al vento perché mi stava aiutando a calmarmi e a raffreddare il mio corpo sudato.
Dai, in fondo non è che abbia fatto chissà cosa. Ho solo piantato un coltello nel tavolo dopo che mio fratello mi ha praticamente detto che mi odia e che rovino la vita a tutti. C’è di peggio no?
Sospirai.
Strinsi ancora più forte le dita, affondandole forte e un improvviso rumore
mi distrasse dai miei pensieri ingarbugliati.
Plik.
Mi ero tagliata con le unghie, e una gocciolina solitaria era sgocciolata sulle piastrelle di cotto.
«Merda», dissi a denti stretti, aggiungendo altre imprecazioni sottovoce. La falce di luna contornata da un cielo buio e senza stelle non mi consentiva di valutare bene l’entità del danno, cosi coprii la mano con l’altra cercando di non sporcare in giro e corsi in bagno per medicarmi.
Alla luce dalla lampadina elettrica la situazione si rivelò meno preoccupante di quanto pensassi, giusto degli innocui e piccoli segnetti rossi a forma di mezzaluna che sanguinavano appena, anche se bruciavano terribilmente come quegli tagli odiosi che ti fai con la carta.
Stringendo i denti, seppellii i segni della mia frustrazione sotto un abbondante giro di garza.
Chiudendo l’anta dello sportello dei medicinali il vetro sulla parte esterna mi restituì un’immagine aliena, quella di una ragazza che sembrava una vecchia.
Sgonfia, pallida e a macchie rosse, gli occhi sfuggenti, vuoti e cisposi, il labbro viola e gonfio, la pelle tesa sulle ossa che premevano per sbucare fuori.
Non ce la feci a controllarmi nello specchio più grande, pochi centimetri più a destra.
Cercai di togliermi quell’immagine dal viso lavandomelo e asciugandomelo fino a quando la pelle non iniziò a tirare, ma non controllai il risultato.
Non ne ebbi il coraggio, ancora una volta.
Gli specchi tendono a mettermi leggermente a disagio.
Almeno l’acqua era fresca e mi aiutò a raffreddarmi, perché stavo letteralmente bollendo, molto probabilmente a causa di un po’ di febbre dovuta allo stress.
Non sapendo proprio che fare ritornai in camera, mi tolsi la maglia del pigiama ormai fradicia di sudore, mi sedetti sul bordo del letto (rimanendo in reggiseno e pantaloni) e mi concentrai sul volto serafico di Tosh che riposava accanto a me.
Era così bella anche così, anche con la bavetta al lato della bocca, anche se i suoi capelli erano spettinati e buttati completamente a caso sul cuscino.
E, per renderle giustizia, sarebbe stato meglio dire erano i capei d’oro a l’aura sparsi,
come scrisse il buon vecchio Petrarca.
Effettivamente non sarebbe stato difficile immaginarla come una donzella medievale degna delle lodi di un grande poeta, o addirittura di una schiera di principi e nobili, che lei avrebbe fatto tutti felici con la sola forza della sua presenza senza però mai concedersi a nessuno, quasi che avesse temuto di spezzare il cuore a tutti gli altri.
Lei era così. Così buona, così...perfetta.
«Sarebbe tutto più facile se io fossi come te, sai? Ti sei presa i geni migliori in famiglia.», mormorai.
Giuro che per un attimo la vidi sorridere, quasi che mi avesse sentito.
Era così buona che era venuta a consolare la sua sorellina che aveva solo fatto un’altra delle sue solite cazzate.
Non so nemmeno io perché mi comporto così, lo faccio e basta, senza riflettere. Sono stupida ed impulsiva, ecco tutto, anche se so che non sono giustificabile.
Sospirai.
Madonna, ma che caldo non faceva? Mi passai il dorso della mano sulla fronte, che stava grondando di sudore.
Ascoltai le sensazioni che il mio corpo mi trasmetteva. La mia temperatura era sicuramente altissima, avevo un caldo della miseria nonostante il gelo che entrava dalla finestra che avevo lasciato socchiusa, per cui decisi di controllare a quanto ammontava la mia temperatura. Tornai ancora una volta in bagno a vedere se recuperavo un termometro tra le cianfrusaglie che avevo nella cesta accanto al lavabo. Trovai solo uno di quei vecchi modelli con la colonnina che devi tenere sotto l’ascella per qualche minuto, quindi mi appollaiai sul lavandino e scrutai il buio per far passare il tempo.
Mi sfilai l’aggeggio da sotto il braccio e avvicinai il viso per vedere dove era la tacca.
52°C.
«Ma che cazz…»
Non era umanamente possibile, sarei dovuta essere già morta.
«Avrà sbagliato il termometro…beh, è vecchio, probabilmente è tarato male…»
Se non fossi stata così concentrata dal vapore caldo che vedevo levarsi dalle mie dita sudaticce e dalla tacca di mercurio che lentamente scendeva raffreddata dall’ambiente (ma che comunque indicava ancora 47°C) forse l’avrei vista arrivare.
Forse mi sarei spostata, avrei reagito, l’avrei parato, avrei urlato, avrei fatto qualsiasi cosa, invece di rimanere semplicemente paralizzata.
Forse avrei evitato che mia sorella, un ghigno demoniaco stampato in viso, mi pugnalasse a tradimento con quello stesso regalo che mi aveva fatto qualche anno prima.
Fissai l’elsa del pugnale che mi spuntava dal petto, tra le costole, ancora stretta dalla mano diafana di Tosca.
Non sapevo cosa pensare.
Non riuscivo a pensare.
Mi afflosciai.
Il termometro cadde, spaccandosi in mille pezzi, il mercurio prese a scorrermi intorno ai piedi, subito Tosca mollò la presa dall’impugnatura al volo e mi tirò su per le spalle, abbracciandomi.
Si avvicinò al mio orecchio destro, leccandolo e mordendolo in una maniera oscena, mettendo in mostra una chiostra di denti sottili e appuntiti, gialli, e una lingua guizzante e biforcuta, da serpente.
Le sue parole mi arrivarono flebili, nella nebbia rossastra che mi stava calando nel cervello.
«Questo te lo meriti per avermi rubato ciò che era mio di diritto, puttana!»
Strappò la lama via dal mio petto, tirandosi dietro un pezzo di me.
Urlai come non avevo mai urlato in vita mia.

Mi svegliai, urlando come una dannata.
Le mie mani corsero al costato.
Nessun buco, niente sangue. Alzai la maglia, la pelle era integra e ben tesa sulle ossa e pulsava al ritmo del mio cuore impazzito.
Controllai la camera, nessuna traccia di sangue, nemmeno la garza sulla mano.
Era stato solo un fottuto incubo.
Mi girai, ma vidi che ero sola nel letto: si vedeva ancora l’impronta di mia sorella, dove aveva dormito, e pensai che probabilmente si era svegliata e vedendomi ancora addormentata aveva deciso di tornarsene in camera sua.
Guardai l’orologio. Le 2:34 di notte.
Cazzo.
E se fosse stato un altro sogno?
Pizzicarmi sarebbe stato inutile, nel sogno precedente mi ero fatta male in abbondanza, ma non mi ero svegliata che quando…quando Tosca mi aveva pugnalato a morte.
Rabbrividii.
Corsi sul balcone, presa da un’idea. Guardai il cielo. La luna risplendeva al suo posto, piena e benigna, circondata da un cielo sfumato e punteggiato di stelle. Non so perché, ma ciò mi convinse che dovevo essere davvero sveglia, perché rispetto al mio incubo, dove il cielo mi era parso strano, orribile e innaturale, qui mi sembrava perfettamente normale. E poi, facendo due conti, mi ricordai che quel giorno la luna doveva essere necessariamente piena. Mi fidai a chiamare questa nuova situazione realtà, anche perché non avevo altre alternative.
Realizzai di avere un freddo cane, col pigiamino di flanella e a piedi nudi sul balcone, frugando ogni dubbio. Di certo “qui” non superavo il 37°C.
Mi ributtai sotto le coperte, per scaldarmi un po’, ma lo stomaco, con un brontolio, mi ricordò che non avevo finito di cenare.
Zampettai fino all’armadio in punta di piedi, tirai fuori un vecchio pullover e scesi in cucina, dove mi concedetti uno spuntino veloce a base di pane e salame (sì, alle quasi 3 di notte), e finii per decidere di sbattermi sul divano a guardare televisione scadente, visto che di rischiare un altro incubo non se ne parlava proprio. Col volume al minimo, non avrei disturbato nessuno. Mi appallottolai dentro una coperta lasciata malamente sul sofà da chissà chi e recuperai il telecomando.
Il pensiero delle altre persone che vivevano in quella casa mi fece venire un groppo in gola.
Il problema era che, in ogni caso, quelle cose che mi aveva detto Gualtiero le pensavo anche io, al di là della cattiveria esagerata che ci aveva messo nel dirle.
Mi autocolpevolizzai, ripromettendomi di chiedere scusa al più presto. Di rimediare in qualche modo, insomma.
Un rumore improvviso, come di una porta chiusa, fece scattare i miei nervi già iperstressati, distogliendomi dai miei ragionamenti.
Spensi il televisore al volo e mi accucciai in un angolo, dietro la legna del camino, ringraziando di aver già sistemato ogni resto della mia merenda. Avevo il bisogno di passare non vista anche da un eventuale altro visitatore notturno del frigorifero come me, non ero pronta per parlare.
Sentii un inaspettato rumore di scarpe, invece delle ciabatte o dei piedi nudi che mi aspettavo. Per un istante temetti fossero entrati i ladri, e invece vidi Tosca e Gualtiero, vestiti con abiti pesanti, guanti sciarpa e cappello, passare. Osservando meglio notai mio padre che stava tenendo loro aperta la porta sul retro del salotto, e che faceva segno con l’indice davanti alla bocca di non fare rumore.
Gualty però rientrò subito.
«Prendo qualcosa per un fuoco, non voglio congelarmi le chiappe»
Gualtiero si avvicinò alla catasta di legna e prese una bracciata di ciocchi dalla cima.
Mi feci piccola piccola e desiderai fortemente di essere invisibile, approfittando al massimo della mia bassa statura per stringermi più che potevo nello spazietto buio e angusto tra il mucchio di legna da ardere, impilata su un’elegante base di peltro, e il muro.
Sbuffando per il peso della legna, Gualtiero si allontanò, chiudendo la porta con il piede. Sentii la serratura girare due volte, ma rimasi nascosta finché i miei familiari non divennero delle figure indistinte che si dirigevano verso nord. Allora saltai in piedi, e mi precipitai su dalle scale per riuscire a seguirli dalle finestre dell’ultimo piano. Erano ormai al margine degli alberi, ad accompagnarli c’erano due bagliori che si vedevano appena appena, evidentemente erano i cellulari usati come torce per non inciampare in eventuali ostacoli. Stavano entrando nel bosco e, a meno che non avessero avuto intenzione di guadare il fiumiciattolo, c’era solo un posto dove sarebbero potuti andare.
E c’era solo un posto dove io li avrei seguiti.
Ritornai in camera emi infilai direttamente nella tuta da sci che era blu scuro per spiccare sulla neve, e quindi ottima per nascondersi al buio. Mi misi un paio di stivali bassi, un cappello di lana, e mi calai dal balcone sfruttando la scala di corda che avevo attaccato dentro al parapetto in seconda media, per riuscire a scappare in giardino nonostante il confino forzato che mi era stato imposto dopo che avevo accidentalmente fatto male un mio compagno di classe.
Accidentalmente il mio pugno era finito sulla sua faccia, ecco tutto.
Recuperai il vantaggio che avevo dato loro correndo silenziosamente nell’erba curata, imprecando ogni volta che un pezzo di ghiaccio mi scrocchiava sotto i piedi.

Arrivai al cerchio di pietre in un paio di minuti, ma rimasi nascosta tra gli alberi, approfittando di un provvidenziale ramo basso per issarmi ad un paio di metri d’altezza per poter osservare meglio.
Per osservare meglio Gualtiero che dava prova delle sue non-abilità da boyscout, fallendo una dozzina di volte prima di riuscire  ad incendiare con uno Zippo un ramo di pino trovato per terra, che a sua volta usò per dar fuoco a quei ciocchi che aveva preso in salotto poco prima. Cavolo, ce ne vuole di coraggio per cercare di usare un ramo verde ed umido per accendere un falò!
Nonostante la sua evidente imbranataggine creò in quattro e quattr’otto un bel fuocherello a pochi passi da una delle pietre più grandi, 
sopra cui poi si sedette soffiandosi sulle dita.
Nessuno parlava, nessuno voleva iniziare.
Fu Tosca, la timida Tosca, a prendere per prima la parola, con le tenere guance arrossate dal freddo nonostante il cappellino di lana calato fin sopra gli occhi e la sciarpona tirata su fino al naso.
«Papà, Gualty…non possiamo continuare a nasconderglielo all’infinito. Evelina deve sapere, e deve sapere tutto, o non potrei mai perdonarmi la sua morte»

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo 6: Agente zerozerotette: Mutandafall ***


Anelli di cipolla 6

Buonsalve!
Ecocci qua con un nuovo capitolo, e io Durrie chiedo tremendamente perdono perchè non sono riuscita a betare prima, T_T
Leggendo scoprirete cosa cavolo stanno tramando i parenti di Eve.
Fateci sapere, pliz!
Un bacione,
Durrie e Donnie

Ah, per RITA_RBS.
C'è un camion di muffin e amore fuori dalla porta di casa tua da parte della Durrie, <3
Capitolo obviamente dedicato a te!

Anelli di cipolla

Capitolo 6: Agente zerozerotette: Mutandafall 

Sgranai gli occhi per la sorpresa, ma non osai muovere un singolo muscolo, forzandomi all’immobilità più totale.
Visto che stavano parlando di me era meglio che non mi scoprissero, così cercai di confondermi il più possibile tra le ombre.
La luna che brillava come un faro sopra di noi non aiutava affatto, ma fortunatamente nessuno aveva ancora guardato verso il mio albero.
Le parole “Evelina” e “morte” rimasero sospese nell’aria buia della notte per un lungo, terribile istante, avviluppandosi al silenzio glaciale che dominava la scena e scomparendo come condensa, trascinate via dal vento che arrivò spazzando improvviso tra gli alberi, tanto che mi dovetti stringere un po’ più forte al tronco per non perdere l’equilibrio. Un po’ di aghi caddero a terra, volteggiando, fino a posarsi nel dolce sottobosco ghiacciato.
Perché sarei dovuta morire? Cosa dovevo sapere? Di che parlava Tosca?
Ero così maledettamente curiosa che riuscii a dimenticare la tristezza che avevo provato poco prima e puntai bene i piedi sul ramo sotto di me, invece di darmela a gambe come forse avrei dovuto.
Morivo dalla voglia di capire cosa diamine stava succedendo, nella mia vita avevo sempre avuto la sensazione che tutti mi nascondessero qualcosa e, finalmente, potevo avere l’occasione, irripetibile di svelare l’arcano.
Il vento spirava fischiando, muoveva la foglie e rimbalzava tra gli alberi coprendo persino il rumore del mio respiro raschiante.
Nessuno parlava.
Tosca doveva aver toccato un argomento delicato, ma la sua espressione decisa non ammetteva repliche: credeva in quello che aveva detto e non avrebbe lasciato che nessuno la contestasse.
Avrei solo gradito molto sapere di che cavolo stavano parlando.
«Tosca, dolce Tosca…» mio padre prese la parola, i begli occhi verdi incredibilmente tristi e pieni di compassione, accarezzandole una guancia con il dorso delle dita.
Trovai la cosa assursamente viscida.
«Tu daresti uno zaino pieno di tritolo ad un dinamitardo? Glielo daresti? Magari con le istruzioni di come posizionarlo in un asilo pieno di bambini...»
La compassione aveva lasciato il posto ad una durezza senza precedenti, la mano accarezzante divenne un pugno serrato a pochi centimetri dal suo viso.
«Papà, lo sai benissimo che non è la stess…»
«E invece sì che lo è! Ti rendi conto di che razza di squilibrata è tua sorella? Hai una vaga idea di cosa potrebbe combinare? Non stiamo parlando di robetta da poco conto, stiamo parlando di un sangue incredibile, come non è da generazioni!» ora stava quasi ringhiando, cercando a fatica di usare un tono di voce basso. Aveva detto la parola “sangue” come se si riferisse ad un nome proprio, con una maiuscola sottintesa.
Gualtiero annuì concordando con mio padre, muovendo la testa con stizzita violenza, come un cane fedele o come uno di quei cosi di plastica con il testone ed il collo a molla che si mettono sul cruscotto delle auto, e che ad ogni buca o curva iniziano ad ondeggiare come forsennati. Boing boing.
Fece come per aprire la bocca per dire qualcosa ma poi la chiuse di scatto, e lasciò che fosse mio padre a continuare.
Finalmente qualcosa di vagamente intelligente da parte sua.
«Saresti dovuta essere tu quella incaricata di portare questo fardello! Mi ricordo il giorno preciso in cui sei nata, oh sì, quel bel giorno di primavera, quasi vent’anni fa... Eri piccola nella tua tutina bianca e verde, con quegli occhioni enormi, verdi come un pascolo, con le pagliuzze dorate... Come aveva detto tua nonna? Un prato verde pieno di fiori gialli, ecco cosa aveva detto, vero. E quell’infinito amore che hai sempre avuto, eri tu la predestinata… Eri perfetta, saresti dovuta essere te, cazzo!»
Il suo sguardo era perso, perso in un passato oramai perduto.
Non ci stavo capendo proprio un emerito e candido nulla, davvero, ma mio padre, Raffaele Maria De Cervis, aveva detto una parolaccia.
Qundi le cose dovevano essere più gravi di quanto pensassi, l’ultima volta che l’avevo sentito dire “cazzo” era stato quando aveva scoperto che il suo segretario era riuscito a trafugare dei documenti compromettenti dalla sua cassaforte nel suo ufficio in azienda e stava per consegnarli alla polizia. Di quel tizio non si aveva avuto più nessuna notizia.
«Colpa mia non è, non sono stata io a fidarmi della vasectomia e ad accidentalmente procreare per la terza volta!»
Ahia.
Tosh, quell’”accidentale” fa male, molto male.
«E comunque, lei esiste e io le voglio bene in quanto tale, per quanto la sua nascita vi stia sulle palle. Lei è sangue del nostro sangue e per questo non possiamo che cercare di salvarla, in primis da sé stessa. Vi riempite la bocca con parole sull’importanza della famiglia, ma poi quando si tratta di difendere ogni suo singolo componente agite così. Ipocriti.»
Sarei voluta volare giù volentieri dall’albero per abbracciarla, ma mi trattenni, limitandomi a rivolgerle un silenzioso ringraziamento mentale.
«Nessuno poteva prevedere che quel cavolo di chirurgo svizzero pagato fior di franchi per i suoi servizi e il suo silenzio avrebbe finito per rivelarsi un incompetente totale! Cosa ne potevo io »
«Ma fammi il favore, papà, lo sai anche tu che »
Gualtiero, oramai rimasto zitto e buono troppo a lungo per i suoi standard, esplose sovrastando ogni voce.
«Preservativi, papyno, preservativi! Sono cose che insegnano al più basilare corso di educazione sessuale, Dio!  Con tutta la testa quadra che mi fai perché il mio primo figlio non venga da quella zoccola di Gessika, avresti potuto pensarci un po’ di più anche te! Accidenti, non avresti, anzi, non avremmo, avuto nessun tipo di problema! Se avessi saputo tenerti il cazzo nelle mutande ora io e Tosca saremmo stati una bellissima coppia di amorevoli fratelli, saremmo stati il brillante futuro del Gruppo Farmaceutico De Cervis, avremmo portato avanti il nostro destino, le nostre intere vite senza intoppi, e pensa ad una casa senza Evelina che rompe i coglioni tutto il giorno con la sua cazzo di stramberia e quella sua merda di fissazione ad essere un’emarginata sociale! No, dovevi condannare la famiglia alla sconfitta e a congelarsi il culo a discutere di lei qua fuori stanotte!»
Ero così disgustata dall’idea di sesso tra genitori –brrrr, sesso tra genitori– che non sentii quasi i suoi insulti stizziti, e li ignorai classificandoli nell’archivio “offese fratelliche” (perchè dire fraterne significherebbe indicare quegli insulti detti con amore tra fratello o sorella, e quelli non erano di certo amorevoli). Un cassetto nell’archivio della mente che oramai straripava mogiamente di roba.
Ma c’era una cosa che non potevo ignorare.
Il tema di fondo della discussione.
Che a quanto pareva nessuno voleva pronunciare, che doveva essere un piano che a quanto pare io nascendo avevo rovinato.
E questo l’avevo lievemente intuito.
Ma esattamente quale piano? Cosa avevo rubato a Tosca?
Interrogativi su interrogativi, e io ci capivo sempre di meno. La cosa era a dir poco frustrante.
Mio padre era rosso di rabbia, la barbetta triangolare brizzolata che fremeva sul mento, come la vela di una nave in mezzo alla tempesta. Potevo contare i battiti del suo cuore guardando la vena pulsare sulla tempia sinistra.
«Ragazzi, non stiamo qui a discutere. Siamo qui per un motivo, e come ha detto giustamente Gualty, ci stiamo congelando il deretano. Per cui facciamo ciò che siamo venuti a fare e torniamocene nei nostri letti» Cosìrispose mio padre, con un briciolo di quello che se fossi stata parte del gruppetto avrei definito buonsenso.
All’idea di un letto caldo tutti deposero le armi, abbandonando ogni litigio, gli sguardi colpevoli che evitavano apposta di incrociarsi solo per un istante.
«Tosca, l’hai portato?»
«Eccerto che l’ho portato.»
Tosca estrasse dalla tasca interna della giacca qualcosa avvolto dentro un panno (o forse una maglia) e glielo porse. Mio padre lo svolse, rivelando un pugnale con l’elsa scintillante e il fodero di cuoio.
Il mio pugnale.
La mia mente recuperò l’ultima immagine della libreria in camera mia che avevo in memoria, risalente a prima di scendere a fare il mio spuntino di mezzanotte che mezzanotte non era. E no, il pugnale non c’era. Inconsciamente avevo registrato la sua mancanza, ma ero troppo sconvolta e affamata per notare un dettaglio di così poca importanza. Prima nel sogno, ora nella realtà: quel pugnale era sempre stato presente nella mia quotidianità, da quando mi era stato regalato, ma non aveva mai avuto una così grande importanza nella mia vita. Era sempre stato solo un bel soprammobile molto affilato, ma nel giro di poche ore tutto sembrava aver preso a ruotargli intorno. Il ricordo di Tosca che mi pugnalava a morte era ancora vivido, ma non potevo certo collegare quella figura esile tremante di freddo con quella mostruosità che mi aveva assalito in sogno. In ogni caso, restai guardinga, osservando ogni suo movimento, aspettandomi quasi che me lo potesse lanciare contro da un momento all’altro.
Altre domande: ora, che cosa ci volevano fare? Perché proprio il mio? Mi era stato donato per un motivo preciso?
Mi stavo seriamente stancando di tutti quei quesiti ai quali non sapevo rispondere, mi sentivo come durante l’ultima interrogazione di greco per cui avevo studiato tutto per filo e per segno, ma durante la quale la profe era andata a chiedermi quel paragrafetto secondario che avevo ignorato. Avevo rimediato un 6 tirato.
No, non c’entra niente con ora, ma era stata una delle mie più grandi realizzazioni di vita. E boh, era un ricordo felice.
Il pugnale dominava ancora la scena, nella grande mano di mio padre che nel frattempo si era chinato a passare la lama nel fuocherello creato poco prima da Gualty.
Lo passò e ripassò finché i fili di questa non iniziarono a brillare di una tenue luce rossastra, appena accennata. Soddisfatto della lama rovente, si spostò al centro del cerchio di pietre e, tenendolo con due mani con la punta rivolta verso il basso, con un gran fare cerimonioso si era inginocchiato a terra e aveva disegnato una figura strana e complicata sul terreno.
Si trattava di una specie di cerchio arabescato con un doppio bordo, decorato da tacche e segni, con dentro una specie di glifo dalle linee massicce, contornato da altri due segni più piccoli. Non riuscii distinguere bene così lontana com’ero, erano forse delle spirali, o dei cerchi con dentro qualcosa.
Passò l’arma a Gualtiero, il quale aggiunse un'altra parte alla figura, con segni di diversa natura, linee curve e sinuose. Fu subito imitato da Tosca, ma non vidi bene cosa tracciò perché, dalla mia posizione, la schiena di mio fratello copriva in parte il suo lavoro. Notai che lei fece molta più fatica degli altri, perché il coltello si era un po’ raffreddato. Dovevano aver scaldato la lama per riuscire ad incidere più facilmente il terreno ghiacciato, conclusi.
Ma in ogni caso a cosa gli serviva? La gente non ruba pugnali per incidere terreni ghiacciati di notte. O almeno la gente normale. La cosa era totalmente fuori di testa, ma aveva un che di inquietantemente serio e composto che mi fece tenere i sensi all’erta per tutta la durata di quella specie di cerimonia.
Terminato il disegno, Tosca si passò la lama sul palmo sinistro, ovviamente dopo averla pulita dal terriccio incrostato, aprendo una strada cremisi tra il pollice e l’indice. Fece gocciolare un po’ di sangue sopra il segno che aveva tracciato, e poi passò l’arma a mio padre, che fece lo stesso, e poi a finire a mio fratello, che li imitò e conficcò con violenza il pugnale nel centro del cerchio, dove i tre glifi si incontravano.
Si presero per mano intorno a quella specie di altare improvvisato, rimanendo in silenzio per cinque minuti abbondanti, gli occhi serrati e la fronte corrucciata, come se stessero sollevando un carico pesante. Respiravano affannosamente.
Stavo giusto per decidere che probabilmente si erano congelati in quella bizzarra posizione quando improvvisamente mia sorella cacciò un mugolio soffocato, di gola, e i tre si riscossero dal torpore tutti insieme, come se avessero preso la scossa.
Giurerei di aver visto, nello stesso istante, l’ematite del pomolo spandere una luce rossastra tutt’intorno.
Probabilmente era stato solo il riflesso della fiamma.
Gualtiero fu il primo ad allontanarsi, ciondolante, tenendosi lo stomaco attraverso la giacca come se stesse per rimettere, ed effettivamente ne aveva tutto l’aspetto. Aveva le guance scavate e gli occhi cerchiati di rosso, la pelle orribilmente pallida e una generale aria malsana che non gli vedevo addosso dai tempi di quell’influenza intestinale particolarmente violenta che si era preso in seconda media.
Gli altri non erano messi meglio, persino Tosca aveva perso le sue solite guance color pesca matura, anche se sembrava stare un po’ meglio degli altri due. Si chinò, aiutata gentilmente da mio padre che la sospingeva con una mano sulla schiena, strappò il pugnale da terra e lo pulì di nuovo, facendolo risplendere alla luna, prima di rimetterlo nel panno, che ora avevo identificato con una vecchia maglia che era solita usare per fare ginnastica al liceo. Spensero il fuoco buttando i resti a casaccio in mezzo agli alberi e spargendo le ceneri coi piedi, cancellando  rapidamente ogni segno di quel bizzarro rituale in modo da non lasciare tracce, e si diressero verso casa, camminando piano come se fossero stanchi morti.
E probabilmente lo erano.
Erano quasi le quattro di notte oramai!
Quando furono a distanza di sicurezza, scesi tranquilla dall’albero con un piccolo salto e mi fermai a pulirmi le mani sporche di corteccia sui pantaloni, riflettendo e cercando di interpretare ciò che avevo appena visto.
Ovviamente non trovai una singola spiegazione logica.
Stavo per avvicinarmi al punto dove avevano fatto quella cosa strana di incidere, tagliarsi e prendersi per mano quando un pensiero mi folgorò, e meno male: se Tosca aveva preso il mio pugnale nella maniera più furtiva possibile, ovvero mentre dormivo, altrettanto furtivamente l’avrebbe rimesso a posto, non appena ne avesse avuto l’occasione.
E quale modo più furtivo di riportarlo mentre la tua inconsapevole sorellina sta ronfando, ignara di ciò che le succede intorno? Se poi si sa che ho il sonno pesante...
Le mie gambe iniziarono a correre ancora prima di finire di formulare il pensiero. Corsi come una dannata, evitando la loro strada girando intorno alla casa, sperando che nessuno dalle finestre mi potesse vedere mentre balzavo oltre i nani da giardino, pericolosamente esposta alle luci del vialetto. Sperai che la mia velocità sostenuta sulla via più lunga battesse la loro camminata tranquilla sulla strada più corta. Mi fiondai su per la scala di corda, tirandomela dietro, e mi infilai sotto le coperte ancora completamente vestita, scarponi e tuta.
Appena in tempo.
La porta si aprii e io assunsi l’espressione dormiente più rilassata che riuscii a trovare. Senti il tocco leggero che poggiava qualcosa sulla libreria, e un fruscio quando si diresse verso di me. Resistetti alla tentazione di aprire gli occhi. Mi sforzai di rimanere immobile, calcando appena il respiro in modo da produrre un russare lieve. Non dovetti nemmeno fingere troppo, avevo ancora il fiatone per la fuga precipitosa.
Tosca mi accarezzò e mi baciò la fronte, e sentii le sue labbra fredde e morbide sfiorarmi la pelle mentre sussurrava una frase, quasi impercettibilmente.
«Non ti meriti nulla di tutto ciò, oh no…»
Ma forse me l’ero solo immaginato.
Chiuse la porta, e rimasi finalmente sola.


***

Troppi eventi senza spiegazione.

L’amore infinito di mia sorella.
La mia furia sconosciuta. 
Porte che sbattono.
Qualcosa di antico.
Una via buia.
Sangue.
Coltelli.
Luce.
Eve.

Io.

***

 

La sveglia mi riportò alla realtà. Rotolai fuori dal letto, trascinandomi dietro il piumone, e atterrai sul parquet agitando un braccio a tentoni per spegnere quella stramaledetta sveglia che da quasi cinque anni mi svegliava ogni santa mattina alle 6:30 per andare a scuola.
Santo Iddio.
Inutile dire che la odiavo, ma quella mattina specialmente. Avevo dormito sì e no due ore e mezza.
Guardai verso le mie gambe e realizzai che alla fin fine mi ero addormentata mentre avevo ancora su la mia improvvisata tenuta da agente segreto. Me la strappai di dosso, lottando con la zip incastrata, e subito i miei muscoli protestarono, provati dalla mancanza di sonno. Alla fine mi liberai, e cercai di prepararmi il più in fredda possibile. Vidi che la cartella era rimasta sfatta e, brontolando, ci buttai dentro qualche libro a casaccio. Era un sabato, e ovviamente non avevo idea di che cavolo di materie avrei avuto. Quasi tre mesi di scuola e non avevo ancora ben capito l’orario.
Andai sul sicuro, latino certamente, greco pure.
Il classico era una grande ed immensa palla. Ah, fisica, giusto!
Oh. Santa. Merda. La verifica di fisica. Quella verifica che valeva la differenza tra il quattro e il cinque-e-mezzo-ma-dai-ti-metto-sei.
Non avevo aperto libro, ero fisicamente fottuta. (E nonostante questo riuscivo comunque a pensare battute penose nella mia testa.)
Però sorrisi.
Sorrisi del mio solito e sclerato dialogo interiore, delle mie preoccupazioni.

A volte era bello essere normale.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo 7: Wilde ♥ Penis ***


Anelli di cipolla 7

Buonasera/giorno!

Scusate del ritardo che, indovinate un po', è colpa della Durrie.

[Che vi manda amore e caramelle e tante gioie calcistiche. Il Real è ai quarti di finale e il Milan è terzo e lalalalala, Durrie è felice. :3]

Ecco a voi un nuovo pezzo di casa di Eve, non avete che da leggere!

Un immenso abbraccio a RITA_RBS che non ne manca mezzo.
Condividerai la dedica di questo capitolo con Anna__Ira e LadyVamp, benvenute a bordo girls!

*Durrie abbraccia tutte e distribuisce ghirlande di fiori della serie Benvenuti In Crociera Alle Hawaii*

Buona lettura!

Durrie e Donnie


Anelli di cipolla

Capitolo 7


 

Tutto incominciò con un semplice colpo di tosse.
Cough.

Doveva essermi entrata un po’ di polvere in bocca, sentivo qualcosa che raschiava sulla gola.
Un altro. Cough cough.
Un attimo prima ero lì che ascoltavo musica nella piccola biblioteca nell’ala Est, i piedi rigorosamente appoggiati sul tavolino da caffè, e quello dopo stavo letteralmente sputando un polmone.
Mi piegai in due, cercando di fermare gli spasmi al costato, che continuavano a spingere fuori più aria di quanta ne riuscissi a respirare.
Provai a stringermi la gola reggendomi al bracciolo, per cercare di far passare il fastidio, annaspando. Ma questo non cessava.
Iniziò a girarmi la testa per la mancanza d’ossigeno, e poco dopo l’attacco finì d’improvviso, tanto rapidamente come era iniziato.
Ero rossa e senza fiato, sentivo la fronte che mi pulsava terribilmente.
«Stupido, stupido tempo di merda! Pure la tosse adesso…» borbottai, e recuperai la matita che mi era caduta di mano nell’agitazione del momento.
Mi risistemai sulla poltroncina, riprendendo da dove mi ero fermata, facendo qualche colpetto con la gola per scacciare gli ultimi residui di fastidio.
Avevo in mano un semplice blocco per appunti ad anelli, aperto su una pagina su cui campeggiavano tre omini stilizzati che dovevano essere Tosha, Gualty e mio padre disegnati attorno ad un cerchio.
Stavo pian piano riempiendolo con i pochi e confusi dettagli che mi ricordavo di quella spastica notte.
Ero a buon punto, e più della metà della pagina era riempita con linee solide e dritte come fusi davanti a mio padre, e con curve delicate come i giochi di spuma sul pelo dell’acqua davanti a Gualty.
La terza parte rimaneva vuota, e per quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare cosa ci potesse andare. Rinunciai e ci disegnai un grosso punto di domanda, che ripassai più volte, sovrappensiero. La Tosha stilizzata sembrava guardarmi con scherno.
Le cancellai la faccia con il gommino.
Chiusi il blocco e lo tirai di malavoglia sul tavolino, allungandomi all’indietro, scazzata. Arricciai il labbro superiore all’insù e ci posai la matita, tenendola in equilibrio tra la bocca e il naso. Mi concessi un sospiro esasperato e serrai gli occhi, cercando di fare mente locale per la milionesima volta.
Erano passate quasi due settimane, ma io non avevo ancora trovato una spiegazione ragionevole per cosa era successo.
La prima cosa che avevo fatto, finita la scuola, era stata prendere il pugnale e cacciarlo nel profondo del cassetto dei calzini, appallottolandolo dentro una canottiera.
Meno lo vedevo meglio era.
Tutto era semplicemente, banalmente, troppo strano per avere un qualsiasi senso.
Dalla mia avevo pochi elementi, quasi nulli: due fratelli e un genitore con un grosso segreto –che non conoscevo–, un pugnale antico –che non capivo a cosa servisse-, un simbolo, per di più incompleto –di cui ignoravo il significato– e strani presagi della mia morte –che mi apriva solo nuovi e più stressanti dubbi.
Sbuffai di nuovo, passandomi il pollice e l’indice in mezzo alle sopracciglia, pizzicandomi il naso cercando di alleviare il mal di testa che mi stava montando dentro. Che immensa rottura di palle.
Non riuscivo nemmeno a godermi le vacanze di Natale talmente ero ossessionata da questi pensieri.
«Che streeeeeeeeeees» sussurrai a me stessa, quasi per esorcizzarlo.
Mi tirai in piedi e mi misi ad esplorare tra i libri, per distrarmi, dedicando ad ognuno di loro una carezza sulla costa con la punta dell’indice.
Mollai la presa sulla matita, e me la feci cadere in mano. Sotto il polpastrello sentivo ora cuoio, ora pelle, ora semplice carta, ora sovracopertine plastificate.
Guardai fuori, la neve aveva abbandonato la violenza delle settimane precedenti e ora cadeva dolcemente, così poca che quasi non attaccava in terra.

La biblioteca era una deliziosa stanza ottogonale, con un soffitto alto ed arioso con una copertura di vetro a cupola, divisa in tre anelli concentrici, a loro volta ciascuno diviso in otto settori che partivano dagli spigoli dei muri e che arrivavano fino al bordo del pezzo centrale, in un cerchio perfetto. Il tutto era tenuto insieme da delle barre curve di un qualche metallo, ferro o acciaio.
La biblioteca si estendeva in altezza su due piani e mezzo, ed era la stanza più alta di tutta la casa, e anzi in assoluto la più alta che avessi mai visto in un’abitazione privata.
Dava quasi le vertigini osservare gli scaffali di mogano scuro straripanti di libri che arrivavano in sostanza fino al soffitto, coprendo quasi tutti i lati dell’ottagono, fermandosi solo sul lato che ospitava una vetrata a tutta parete stretta e lunga, che fino a pochi anni prima era stata decorata con diverse orribili raffigurazioni settecentesche di scene della Passione di Cristo.
Fortunatamente, una grandinata estiva particolarmente violenta le aveva frantumate e danneggiate in diversi punti, e allora il senso estetico di mia madre –sempre sia lodato– l’aveva voluto far rifare con semplici motivi geometrici e floreali sui toni del beige e del verde, dando un’aria più felice a tutto l’ambiente.
Gli scaffali altissimi erano eleganti, dalle forme semplici e poco elaborate, anche se dal bordo inferiore spuntavano decorazioni a forma di solide zampe di leone con le unghie intarsiate di avorio, e in cima avevano un piccolo timpano triangolare contornato da dei delicati ricci d’ebano. Erano una di quelle cose che quando le vedi pensi che niente potrebbe distruggerle, che danno quell’idea di solidità assoluta e antica. Il muro sotto quasi non si vedeva, ma da quei ritagli che si intuivano tra un timpano e l’altro era di un bianco un po’ sporco, che ben si sposava con la morbida moquette panna che ricopriva tutta l’area. La stanza, da un capo all’altro, misurava circa un 4 metri, e dentro c’erano quattro poltrone imbottite con lo schienale alto di un elegante color cuoio rossiccio, disposte intorno ad un tavolino basso, di mogano anch’esso, impreziosito da intagli di un legno più chiaro che non avevo idea di cosa fosse.
Non è che mi intenda troppo di legni, oh.
I colori calmi e il silenzio assoluto che si respiravano lì non mi erano mai piaciuti troppo, trovavo il posto troppo alto, troppo elegante, troppo pretenzioso e troppo sobrio insieme, ma non mi fidavo più della Tana. Non sapevo nemmeno io perché, probabilmente era una certa presenza nel cassetto dei calzini che mi spiava.
Mi sa che avrei fatto meglio a sbarazzarmene e far finta di nulla.
Risospirai. Tirai fuori dallo scaffale il pesante libro su cui la mia mano, inconsciamente, si era fermata.
Era uno di quelli più vecchi, rilegati in cuoio, a mano probabilmente, un po’ cadente e sgualcito a dire il vero, con il bordo delle pagine spolverato d’oro, e d’oro erano anche le lettere impresse nella pelle tenera sulla copertina e sulla costa. Lo presi in mano, seguendo il titolo inciso, con il dito.
Evangeliario de la spectabilissima familia De Cervis.
Oddio.
Dal titolo sembrava un pallosissimo libro di preghiere, abbastanza vecchio da stare in un museo. Era anche tristemente tipico di mio padre e del suo nostalgico gusto per il passato. La copertina era un po’ sgualcita e graffiata, l’angolo in alto a destra sembrava quasi semibruciato. Feci per rimettere il libro a posto ma qualcosa mi spinse a sfogliarlo, così, per curiosità. Era ancora più vecchio di quanto le sue condizioni avessero potuto farmi intuire. Era stato decisamente scritto a mano, in una grafia spigolosa e molto fitta, con i capilettere miniati; le pagine erano molto più spesse di normali fogli di carta, erano grosse e ruvide, per cui ebbi il sospetto che fosse pergamena.
Eks.
Quel tomo una volta era stato un gregge di pecore.
Comunque, chiunque l’avesse redatto, aveva fatto un ottimo lavoro: ogni lettera d’ inizio capitolo era riccamente decorata con inchiostro d’oro, sullo sfondo di un rettangolo verde, probabilmente per cercare di riprendere i colori araldici del nostro stemma. Ogni tanto si vedevano scene di santi e madonne a tutta pagina, catturati in un’espressione serafica, ritratti con colori che un tempo dovevano essere stati vivaci, ma che col tempo erano sbiaditi molto, specialmente i blu e i rossi. Da metà in poi, il libro era molto rovinato, e i segni di bruciature si facevano più evidenti, tanto da coprire in parte il testo. Quasi in fondo si vedevano i segni di un paio di pagine strappate via senza troppi riguardi.
Che libro inutile.
Avrebbe avuto molto più senso in un museo, altroché! Lo chiusi di scatto, scazzata, ma nel farlo mi rimase in mano la copertina, che aveva deciso proprio in quel momento di divorziare dalle pagine dopo chissà quante centinaia di anni, facendole cadere e sparpagliare al suolo. In quello stesso preciso istante sentii dei passi pesanti che riecheggiavano sul parquet del corridoio.
Cazzocazzocazzo, qualcuno stava arrivando.
Spaventata, le raccolsi e le reinfilai dentro al volo, senza nemmeno badare all’ordine, e lo ributtai così ricomposto alla bell’e meglio nella sua mensola, sperando che non si notasse che era tutto scompigliato e storto.
O almeno che nessuno se ne accorgesse.
In quel momento la porticciola della biblioteca, incassata tra gli scaffali, si aprì, e Gualtiero entrò con un libro in mano.
Feci la prima cosa che mi venne in mente, ovvero prendere in mano un libro a caso, aprirlo e infilarci il naso, fingendo di leggerlo. Mi stavo cagando sotto così tanto che non riuscivo nemmeno a mettere a fuoco le linee. Se Gualtiero avesse scoperto che avevo praticamente distrutto un antico libro di famiglia sarebbero stati cazzi amari.
«Che ci fai qui, Evelina?»
«Sto leggendo, non si vede?» sollevai il libro come ad enfatizzare la verità innegabile delle mie parole, appoggiandomi allo scaffale con nonchalance, come se quella fosse stata una posizione comodissima per leggere. Altroché, lo spigolo che avevo puntato nella schiena mi faceva sentire proprio a mio agio, davvero.
Sostenni lo sguardo con fierezza.
«Sai leggere al contrario?»
«Eh?»
«Sai leggere al contrario?»
«No, perché me lo chiedi?»
«Perché concordo sul fatto che Il Ritratto di Dorian Gray sia un grande libro ricco di significati nascosti e di allegorie, che va letto da diverse prospettive, ma per lo meno nel suo verso giusto, non credi?»
Mi accorsi che nella fretta avevo preso in mano il libro al contrario. Cazzo.
«Uhm…è che…ehm…» cervello, accidenti, lavora, lavora, criceto in prognosi riservata che corri su una ruota nella mia mente, dì qualcosa, qualsiasi cosa.
«Io…io ecco…stavo…stavo…stavo solo vedendo se era vero che nelle illustrazioni originali dell’opera Wilde aveva fatto inserire volutamente dei segni fallici nascosti nei dettagli.»
L’avevo detto davvero? Per favore, ditemi di no.
«Falli? Intendi…peni?» Gualtiero alzò un sopracciglio.
Merda, l’avevo detto davvero.
«Ah-a.» In quel momento desideravo ardentemente che il pavimento si aprisse e m’inghiottisse nelle viscere della terra, per poi non sputarmi fuori mai più.
«Peni nascosti nell’edizione originale di un libro di Wilde?»
«Esatto. Sai che Wilde era uno strano, no?»
«E dove hai saputo questa cosa?»
«Internet.»
«Tu ti fidi di Internet?»
«No, per questo controllavo. Giravo il libro per vedere se al rovescio ne individuavo uno, guarda, tipo qui, in questo fogliame.»
Nella sfiga, la mia buona stella aveva fatto sì che io aprissi il libro proprio su una pagina con un’illustrazione, così potei fare il gesto plateale di indicare a caso in un punto particolarmente intricato della stampa ottocentesca.
«Ah, trovato nulla?»
«No, niente peni. Se ne trovo ti avviso, ok?»
«Sei strana forte. Hey..»
«Sì?»
«Nah, nulla.» mise a posto il libro che aveva in mano –Carrie, di Stephen King– su uno degli scaffali a mezz’altezza, inerpicandosi sulla scala di ferro battuto.
Mi affrettai a girare il libro e a fingere assoluto interesse per un’altra pagina, facendo scudo all’Evangelario rovinato con il mio corpo e non perdendo d’occhio i movimenti di mio fratello, che con tutta tranquillità scese dalla scala e si avvicinò alla porta, guardandomi come se fossi pazza.
Cosa che poi probabilmente ero.
All’ultimo momento si fermò, appoggiando una mano sullo stipite e dandomi la schiena.
«Evelina, ti aspettiamo a pranzo tra poco, ok?»
«’kay…»
Stranamente gentile da parte sua.
«Quindi non fare tardi, per una volta sii educata e arriva in orario!» aggiunse sbattendo la porta.
Come volevasi dimostrare. Certe cose non cambiano mai.
Aspettai un attimo, trattenendo il respiro, giusto per non rischiare che tornasse indietro per qualche motivo nella stanza, poi non resistetti più e mi ributtai sul codice miniato.
Ok. I danni sembravano meno gravi ora che non avevo più il fiato di nessuno sul collo.
La colla, che Dio sa solo di che parte schifosa di animale era fatta, aveva ceduto totalmente dalla costa, e il sottile filo che legava i pezzi tra loro si era praticamente disintegrato col tempo.
Fortunatamente i singoli fascicoletti cuciti insieme nel mezzo sembravano reggere ancora, e ciò mi avrebbe risparmiato dal riordinare tutto pagina per pagina.
Ovviamente non c’era un indice o dei numeri vicino ai bordi, così cercai di ricostruire l’ordine valutando il grado delle abbruciacchiature sull’angolo destro.
Fortunatamente erano solo sette pacchi di fogli, di cui uno, il primo, era rimasto miracolosamente incollato alla copertina, per cui alla fine riuscii a risistemare tutto in fretta. Mi frugai nei pantaloni e guardai il mio orologio da taschino, pensando che dopo pranzo probabilmente avrei avuto il tempo necessario di recuperare un ago, del filo e tanto SuperAttack per dare il tocco finale al mio improvvisato restauro. Superata la fase dell’ansia, tornai alla poltrona e mi sedetti, perché mi stava iniziando a girare la testa.
Mi succedeva spesso in quei giorni, supportando la mia teoria che diceva che di lì a poco mi sarebbe venuta un’influenza coi fiocchi.
Avevo ancora un bel po’ di tempo prima di pranzare, così presi in mano il blocco, girai pagina e iniziai a fare uno schizzo. Ne sentivo il bisogno.
Ci misi dentro tutto quello che avevo dentro, in una specie di trance.
C’erano la rabbia che mi accompagnava da quando ricordavo, la paura, la tristezza, ma anche la grande gioia dei piccoli momenti.
Tosca, sette anni, che mi tira una palla di neve, fa una faccia buffa, ride e scappa via.
Il sapore della cioccolata con la panna.
La prima volta che avevo visto il mare.
Il sorriso di mio zio Michelangelo e i suoi dolci occhi marroni, la sua barbetta ispida che mi solleticava le guance, poco prima di morire.
I tramonti solitari nel boschetto, intrecciando coroncine di fiori da regalare al fiume, e tante altre piccole cose, che, semplicemente, erano valse la pena di essere vissute.

Posai la matita.
Una singola lacrima mi solcò la guancia. Una sola, che valse mille battiti di cuore.

Stavo guardando un mio ritratto, perfettamente diviso a metà. Da un lato avevo i capelli lunghi, mossi, come non li portavo più da anni.
Sorridevo, l’occhio mi sembrava fuori proporzione, troppo grande, ma non importava, perché il mio sguardo contava più di tutto il resto. Le mie iridi erano profondità chiare e limpide, senza nessun’ombra in agguato. Capii che le proporzioni in realtà erano perfette, perché mi ero disegnata com’ero quando ero ancora una bambina. Mi ero disegnata com’ero quando ero ancora felice, prima di cadere nel pozzo della disperazione e nell’odio. Mi ero disegnata nella mia innocenza perduta.
La parte destra era speculare e a dir poco spaventosa. Così maledettamente precisa da sembrare uno specchio.
I capelli quasi rasati, le borse sotto gli occhi, la bocca che disegnava una piega dura e amara.
E poi c’era quello sguardo, un risucchio di dolore e…
«Wow, certo che disegni bene!»
Mi riscossi. Giulia mi era spuntata da dietro la spalla, appoggiandosi col mento allo schienale dalla poltroncina.
«Oh, ciao Jay.»
Mi asciugai rapidamente gli occhi con la manica, felice che non potesse guardarmi in faccia. Mi girai e le rivolsi un sorriso sincero.
Ovviamente indossava quella sua deliziosa uniforme e aveva un piumino per la polvere vecchio stile in mano, nascosto dietro la schiena, come se fosse la coda di una papera.
«Ti ho disturbato? Scusami…» disse sbatacchiando le ciglia lunghe, ma intanto sorrideva maliziosa. Dio, era dannatamente tenera quando faceva così.
«No no, tranquilla, stavo solo…scarabocchiando.»
«A me non sembra uno scarabocchio, sai? Hai talento.» mi appoggiò una mano sulla spalla, timidamente. Mi guardò dritto negli occhi, chiedendo la mia approvazione per quel gesto un po’ troppo personale. Mantenni il sorriso, il suo tocco mi andava bene, anzi.
Rimanemmo a guardarci per un po’, senza dire una parola. Più mi perdevo nei suoi occhi ambrati, più vedevo il suo sorriso allargarci, e sapevo che il mio faceva lo stesso.
«Beh, però io devo lavorare, non ho tutto il tuo tempo da perdere!» esclamò di scatto, tirandosi su e facendomi il solletico sotto il naso con il piumino.
«Ti da fastidio se rimango qui? Ho altri scarabocchi da fare, se vossignoria concede!»
Scherzare con lei era semplicemente così facile…
«Al massimo se devi passare l’aspirapolvere alzo i piedi, non ti preoccupare!»
«Allora mi sa che non hai visto abbastanza bene il fantastico piumino anteguerra che mi ha dato Mildred!»
A sottolineare il fatto, me lo passò di nuovo in faccia.
«Con questo non ci pulisci i pavimenti, ma i mobili e le facce di ragazzine  sfrontate!»
Ridendo, si staccò dalla poltrona e si arrampicò sulla scala, arrivando fino in cima per iniziare a pulire il bordo superiore.
Salendo, i suoi fianchi ancheggiavano ritmicamente, e, dal mio punto di vista, la gonna nera lasciava ben poco all’immaginazione.
Deglutii forte. Avevo la gola incredibilmente secca.
Radunai velocemente le mie cose e scappai via senza dire una parola, chiudendomi la porta alle spalle.
Mi strinsi il blocco al petto, appoggiandomi per un attimo alla porta chiusa.
Una pendola lontana nella casa suonò l’una.

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo 8: Barbie Gurdy va in Città ***


Anelli di cipolla 8

Buonasera!
Ecocci qua con il capitolo otto.
Fateci sapere!
Un iper bacio e grazie a chi recensisce sempre <3 (se volete i cuoricini anche voi, RECENSITE! ù_ù)
Un bacione,
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 8

Stavo arrancando sulle mura di Città Alta, trascinando i piedi sotto il peso della custodia rigida della mia ghironda.
Sì, ho detto ghironda.
Esiste davvero, giuro, non è uno scherzo, al massimo è una beffa del destino, di pessimo gusto aggiungerei.
Sin da quando eravamo molto piccoli, tipo quattro o cinque anni, i nostri genitori avevano tanto voluto che io e i miei fratelli imparassimo a suonare uno strumento musicale, per “coltivare il nostro spirito artistico e sensibile” e tante cavolate immani sui generis. La scelta per me era ricaduta su quella specie di coso, quella sottospecie di mandolino obeso senza manico e a manovella, un fottuto aggeggio medievale che nessuno suona più da secoli.
Perché chiamare la tua bambina Evelina e farle suonare una ghironda non potrà che aiutarla a socializzare, giusto?
Così mentre Tosca e Gualtiero iniziavano a strimpellare Mozart o Bach rispettivamente col violino e col corno inglese io imparavo canti popolari irlandesi del tardo Duecento, con uno strumento che in inglese ha l’affascinante nome di hurdy gurdy.
Cheppalle.
Mi tastai le tasche alla ricerca del pacchetto di tabacco, delle cartine e dei filtri, quindi iniziai a rollarmi una sigaretta mentre camminavo, destreggiandomi la tracolla della custodia. Chiusi la cartina con una leggera leccata, pregustandone il sapore con punta della lingua, e voilà, una sigaretta perfetta, pronta in meno di cinque minuti.
Avevo proprio una bella mano per fare quei cosi, notai compiaciuta di me stessa.
Feci scattare l’accendino, ma questo mi rispose con appena una scintilla deboluccia, e non ci fu verso di tirargli fuori nemmeno una fiammella minuscola.
Lo scossi più e più volte, inutilmente.
Morto.
Mugugnai un «Merde», gettandolo con violenza in un cestino lungo il marciapiede.
Misi via il mio capolavoro d’artigianato malandrino nel profondo delle tasche, inutilizzabile. Avevo seriamente bisogno di un po’ di tabacco per calmarmi prima di passare un’ora e passa a sentirmi dire mi confondevo sempre con il ritmo e che le mie dita non erano ancora abbastanza veloci nonostante fossero anni che studiassi quello strumento. Quel vecchio demente del mio maestro ancora credeva che a me importasse qualcosa della sua stupida stupida musica del cazzo.
Che illuso.
Mi guardai attorno per un po’, ma ovviamente in quel preciso momento nessuno che si vedesse fumare nei paraggi, solo famigliole allegre, coppiette insulse e jogger salutisti.
Rinunciai alla sigaretta e optai per una cicca, ma non mi diede nemmeno lontanamente la stessa soddisfazione.
Quel giorno ero particolarmente scazzata, persino per i miei standard, avevo l’umore sotto le scarpe, o meglio, sotto la suola degli anfibiozzi zavorrati che lottavano per regalarmi preziosi centimetri in più verso l’alto. Con quelli, diedi un calcio ad un provvidenziale sassolino, che ruzzolò in strada, finendo in mezzo alle ruote di una macchina che passava di lì.

La sera prima avevo litigato di nuovo con la mia allegra famigliola, questa volta in merito a ciò che avrei dovuto fare durante le vacanze di Pasqua.
Loro ovviamente avevano già programmato tutto senza consultarmi e avevano deciso che mi avrebbero spedito, come tutti gli anni da troppo tempo oramai, vicino a Yate, in una specie di pallosissimo college cattolico femminile inglese per ragazze ricche, dove avrei dovuto passare le mie due settimane di pausa dalla scuola a sbattermi a studiare come riuscire a chiedere al maggiordomo il the delle cinque con perfetto accento British, dividendo la camera con due altre spocchiosissime ragazze straniere iperviziate e bulimiche.
No grazie.
Io volevo solo stare tranquilla e dedicarmi ai miei hobby, magari dipingere un po’ all’aperto in giardino, staccare dallo stress del liceo, e soprattutto non dover sottostare ai dettami delle suore che dirigevano il collegio. Specialmente perché la badessa mi aveva preso in leggera antipatia da quando, durante il discorso alla cena di gala del terzo anno che avevo passato lì, che verteva su i valori che tutte noi giovini rampolle di famiglie importanti avremmo dovuto apprendere e trasmettere, avevo detto –o per meglio dire urlato dall’altro capo della tavolata di circa cinquanta persone– che se avessero voluto davvero insegnarci qualcosa di utile e di realmente nobile invece di farci studiare araldica o imparare a ricamare e fare la riverenza o cazzate del genere, avrebbero dovuto mandarci a sgobbare alla mensa dei poveri della città vicina. Quella sarebbe stata una vera lezione di vita.
Avevo anche visto degli sguardi comprensivi e anche ammirati tra le altre suore, ma al solito nessuno aveva preso le mie parti.
Le altre ragazze avevano ridacchiato, sadiche, nascondendo "educatamente" i ghigni divertiti dietro i tovaglioli di lino ricamato. A causa si ciò, avevo passato il resto della “vacanza” a pulire le scuderie ogni volta che avevo un momento libero, e la punizione ironicamente era stata meglio della vacanza stessa: pulire le poste erano un’ottima alternativa allo stare seduta in un angolo
nella sala comune del dormitorio in silenzio, nel più totale imbarazzo, mentre tutte le altre spettegolavano su questa o quella cantante o attrice.
E poi i cavalli lì erano proprio delle magnifiche bestie.

Ma tornando a noi.
Quando a cena avevo obbiettato che, cavolo, avrebbero almeno potuto chiedere il mio parere prima di decidere per me, mia madre era saltata su blaterando qualcosa rispetto del fatto che molte ragazze avrebbero ucciso per avere le opportunità che avevo io, e che dovevo esser loro grata per tutto quello che mi davano, e che dovevo un po’ imparare ad accettare di ubbidire a ciò che i miei genitori mi dicevano o non sarei andata molto in là nella vita, e che per una volta potevo semplicemente dire “grazie” e chinare il capo.
Anche se mi sfugge quale sia il tipo di ragazza che ucciderebbe per imparare a suonare la ghironda.
Tosca era già tornata da qualche giorno al suo appartamento a Venezia, così nessuno aveva ovviamente preso le mie parti.
Non ne potevo più di quelle situazioni, io ormai stavo letteralmente contando i giorni che mi separavano dalla maggiore età. Non vedevo l’ora di prendere e andarmene da quella gabbia dorata, per girare il mondo in motoslitta o ritirarmi in un monastero sull’Himalaya, non avevo ancora deciso bene.
Ok, ammetto che sono un po’ tanto ipocrita, che ho sempre avuto tutto e non mi è mai andato bene niente, però mi è sempre mancata la cosa più importante.
Che tutt’oggi non ho ancora capito cosa sia, credo sia uno di quei nomi astratti che la gente insiste ad usare per parlare di sentimenti troppo profondi per essere espressi a parole.
Mi sentivo (e alla fin fine ero) solo una piccola macchia di sporco sullo specchio lucidissimo della mia famiglia, un’incrostazione fastidiosa sulla loro patina di perfezione.
Sì, Tosca mi voleva bene, ma istintivamente finiva per stare sempre coi suoi simili, e non gliene facevo una colpa: nemmeno io avrei voluto stare con me stessa, spesso.
In ogni caso non le volevo male né la biasimavo, da lei non avrei potuto pretendere di più.
Specie negli ultimi tempi. Nonostante la storia dell’università e tutto, mi ero sentita sempre più legata a lei, e avevo capito che avrei dovuto approfittare prima della sua candida presenza, invece di accorgermene quando lei ormai non c’era più sempre per me.
Perché mi sveglio sempre troppo tardi? Forse se mi fossi rapportata a lei (e di conseguenza alla mia famiglia) in modo diverso ora sarei una persona totalmente differente, chi lo sa, magari sarei stata una persona felice…
Escludendo futili speculazioni, unica compagna fissa di tutta la mia vita, sempre fedele, è stata la Rabbia.
Quella vecchia amica che mi prendeva per mano e finiva sempre per risucchiarmi nel suo allettante, oscuro abbraccio di tenebra. A volte m’immaginavo di riuscire a vederla, di poterle dare un corpo, e la sua figura coincideva sempre con la mia, solo in una versione senza colori e volumi, se non un rosso sanguigno e travolgente nelle iridi che ardevano come le fiamme dell’inferno, da cui molto probabilmente proveniva la Rabbia stessa. Quando piangevo mi sembrava di sentire la sua risata riecheggiare nel mio stesso grido. Ogni lacrima che versavo, per lei era fonte di gioia assoluta, eppure non riuscivo a dirle mai addio. La sua presenza e forza spesso era l’unica cosa alla quale potevo appoggiarmi, per cui mi ero da tempo arresa alla sua silenziosa compagnia, sentirla agitarsi nel mio petto ormai era una vecchia abitudine.

Fanculo, avevo davvero bisogno di una sigaretta, e subito.

Purtroppo intanto ero arrivata sotto la casa del maestro.
Dlin dlan dlon.
Pure il campanello che faceva la scala fino al Mi doveva avere, quel vecchio del cazzo.
Il riflesso nel vetro opaco della porta mi restituì una ragazza accigliata, arruffata, pallida e stanca. Scostai il ciuffo ondulato dagli occhi con la mano libera. Avevo i capelli troppo lunghi, era un bel po’ che non li tagliavo, e mi sembrava che fossero cresciuti ad una velocità assurda, ma non me ne importava più di tanto, anche se c’era una netta ricrescita bionda che spiccava come un faro alla base.
Erano poche le cose di cui m’importava davvero, ultimamente.
Un clack  secco e la porta finalmente si aprì, così salii i pochi gradini e tirai dritta per il corridoio, infilandomi nella laboratorio del vecchio liutaio.
Qualunque superficie disponibile era completamente occupata e coperta da una quantità di oggetti a dir poco assurda: spartiti, strumenti per intagliare, casse di risonanza da finire, bei pannelli di legno appena sbozzati, violini finiti appesi con amorevole cura alle pareti. Mi feci largo tra un contrabbasso a cui mancava solo la laccatura e uno sgabello, per arrivare alla piccola porta celeste che dava sulla camera in cui il vecchio insegnava da anni le basi della sua arte a viziatissimi bambini con le dita grasse.
E a me, che mi ero convinta di non rientrare nella categoria sopracitata.
Finché fossi stata minorenne, i miei mi avrebbero obbligato ad andare da lui tutte le settimane, ogni martedì e giovedì per circa due o tre ore. Altro motivo più che valido per desiderare con sempre più forza il mio diciottesimo compleanno.
Se il laboratorio era un caos totale e poco illuminato, la sala delle prove metteva quasi ansia per quanto era spoglia e perfetta. Era una stanza a forma di ferro di cavallo e con le pareti di legno leggero,  ricoperte di drappeggi, per favorire l’acustica. Il lato piano si schiudeva con un’ampia vetrata, che si affacciava su un bellissimo panorama di Città Bassa, che appariva ora avvolta in una nebbia leggera. Il pavimento era in moquette verde acqua, c’era un pianoforte in un angolo, e due sgabelli, di cui uno occupato dal culo rachitico del mio insegnante.
«Sei in ritardo, come al solito.»
Non c’era rimprovero, solo un sottile divertimento sotto quelle sopracciglia scarmigliate.
«No Lucio, sono in orario, come al solito. Sono le 16 spaccate.»
«Ma io ti avevo detto 15:45 settimana scorsa, sai?», ridacchiò.

Odiavo quel giochino.
Ogni volta, ogni santa lezione mi diceva che avevo sbagliato orario, e da piccola tipo le prime due volte ci ero anche cascata, mi ero sentita in supercolpa e gli avevo persino chiesto scusa, ma erano già anni che non sprecavo più nemmeno energie per controbattere.
Assentii senza dire una parola, giusto per dargli il solito contentino.
Mi sorrise sornione, incoraggiandomi con la mano verso la custodia, quindi tirai fuori la ghironda e, sulle note inadeguatamente gioiose di una ballata di tanto tempo fa, iniziai le mie due ore d’inferno bisettimanale.

 

***

«Evelina, concentrati. Dopo il ritornello, cosa devi fare?»
«Uhm, continuare a girare la cavolo di manovella e suonare altre note a caso?»
«Sempre acida, neh, la ragazza?», sorrise guardandomi dall’alto in basso, paternalmente. «Ora riprendi dall’inizio, salta le battute di pausa, voglio sentire bene che fai vibrare quegli acuti come sai fare tu, dacci dentro col polso che male non ti fai.»
«’mkay.»
Aveva ragione, ce la potevo benissimo fare, quell’inno di guerra dell’anno mille era nelle mie corde. Normalmente, l’avrei eseguito tutto senza problemi, se solo fossi riuscita a fare calma nel mio cervello in tempesta, ero solo troppo terribilmente incacchiata col mondo in generale per riuscire a metterci la concentrazione necessaria.
Inspira, espira.
Metti la cera, togli la cera. Dai che ce la fai, dai che ce la fai.
L’hai suonata a casa e ti veniva, ora devi solo dire alle mani di rifare esattamente come ieri.
Se arrivi dritta fino alla fine, te ne puoi tornare a casa.
Corrucciata, riprovai per la centesima volta il brano, le dita che scorrevano velocissime sulla tastiera in ebano e amaranto.  Ok Eve, ce la stai facendo. Arriva alla fine e per oggi avrai finito, non dimenticartelo.
All’improvviso, sentii come uno schiocco, come quello che fa una corda tesa che alla fine cede sotto la forza che la tira, e un gran calore mi pervase le mani.
Chiusi gli occhi e m’isolai da ogni cosa a parte la musica, dimenticai il mondo, c’era solo il suono.
Stavo andando davvero alla grande, sentivo il ritmo che mi cresceva nelle vene, seguendo i miei battiti impazziti. La canzone era pulsante, celtica, sapeva di boschi che probabilmente non c’erano più.
Sapeva di battaglia, di rabbia, di vittoria, della terra inzuppata del sangue dei nemici.
Decisi di abbandonarmi alle note, agli arpeggi delicati e alla musica stessa.
Stavo volando nella canzone, ne ero parte, al punto che non distinguevo più chi stava suonando cosa. Rabbia si agitò nel profondo del mio essere, tendendosi e avviluppandosi alle immagini che io stessa andavo evocando. Iniziai ad imprimere una rotazione più forte, seguendo l’allegro con brio. Il ritmo cresceva e cresceva, finché non raggiunsi il culmine.
Ero così ipnotizzata dalla mia stessa musica che stavo grondando di sudore dall’emozione, una gocciolina solitaria mi solcò la tempia, finendo sulla tastiera.
Arrivai al fortissimo delle ultime due note, poi silenzio, totale.
Una doppia linea verticale a fine spartito, una barriera troppo scarna per contenere il fiume di note che la precedeva.
Il calore alle mani se ne andò, rapido come se n’era arrivato, lasciandomele ghiacciate e rigide. Mi riscossi, stranita, e guardai il maestro, una muta domanda dipinta in faccia.
Mi fece un cenno d’assenso, accompagnato da una pacca sulle spalle, quindi senza dire una parola impacchettai le mie cose e mi alzai, intimorita dalla forza di ciò avevo appena suonato, che era arrivato a farmi vibrare le corde dell’anima come poche cose prima d’ora.
Ero già sulla porta, quando le sue parole mi raggiunsero, fermandomi.
«Hai così tanto dentro, fallo uscire, io sono qui per questo. La musica non ti può tradire, perché sei tu che la governi, Evelina, sei tu che le dici cosa deve tirare fuori dal tuo io. La musica è solo una forma d’espressione, e io so che tu hai tante cose da esprimere, oggi mi sa che per la prima volta in tanto tempo, hai davvero imparato qualcosa in una mia lezione. Hai imparato a fidarti delle tue capacità, e non vale solo per la ghironda. Tu sei una che può fare di tutto, Evelina»
La sua voce bassa e roca, calda, mi fece venire un principio di groppo alla gola. Riuscivo a sentire la sua voce sorridere.
«Per la prossima volta sarebbe carino che tu mi scrivessi una breve partitura, qualsiasi cosa tu voglia, così iniziamo a lavorare sugli arrangiamenti timbrici. Ah, e dovresti proprio smettere di fumare, vedo che ti manca un po’ il fiato e respiri male. Ci vediamo settimana prossima, stessa ora.»
Gli davo ancora le spalle, ma seppi che mi stava facendo l’occhiolino.
Intimorita, lasciai la casa sbattendo la porta, non prima di aver approfittato di un piccolo cannello ossidrico, malamente abbandonato su uno dei tavoli del laboratorio, per accendermi, finalmente, una meritata sigaretta.
Fuori mi aspettava un meraviglioso tramonto.
Il sole bassissimo all’orizzonte accendeva la nebbia che avvolgeva il paesaggio sotto di me con mille sfumature rosse e arancioni, e un venticello sottile spirava alle mie spalle, scombinandomi i capelli e sollevando gli angoli del mio bel cappotto beige. Un grande senso di solitudine mi pervase.
Ora che avevo smesso di suonare mi sentivo sola, in quella città così più grande di me. Il fumo che avevo in bocca veniva catturato dalla corrente giocosa, volando giù dalle mura e si disperdeva nel nulla, unendosi allo scarico delle automobili e al fumo dai comignoli, volteggiando senza sosta.
Vidi che il mio autobus era già lì alla fermata, così dopo una leggera imprecazione affrettai il passo per attraversare la strada e raggiungerlo prima che partisse.
Non avevo proprio voglia di aspettare in pensilina al freddo.
Così corsi, agitando la mano per richiamare l’attenzione dell’autista.

 

Nulla avrebbe potuto prepararmi a quel terribile rumore di freni.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo 9: Madonna, San Crispino, viva il vino! ***


Anelli di cipolla 9

TA DAAAAA!
Alla fine la beta che non beta ha betato, ed eccovi qua il capitolo 9.
Dedicato a LadyVamp che credo abbia cambiato nome ma ssssssh, la Durrie ti porge un camion di caramelle :3

Fateci sapere!

Un bacione,
Durrie e Donnie

Anelli di cipolla

Capitolo 9

 

 

La sigaretta mi cadde dalle dita, mentre mi ritrovavo, impotente, a fissare i fari di una piccola utilitaria che stava sopraggiungendo ben oltre il limite di velocità di quella stradina stretta e tortuosa.
Per istinto serrai gli occhi, appallottolandomi a terra e dando le spalle alla morte, aspettando l’inevitabile impatto.

Che non arrivò.

 
Boom.

 
Ci fu un gran boato, e non saprei dire che cosa sia successo esattamente poi, il solo richiamare alla memoria l’episodio mi costa una fatica immensa nel casino sfuocato che ho in testa, è come quando si ricordano alcune immagini di un sogno, ma non appena si prova a raccontarlo tutto si confonde.
So solo che un attimo prima ero in mezzo alla strada aspettando di morire, e quello dopo ero sul marciapiede dal lato opposto, ammaccata e sanguinante ma ancora decisamente viva.

 L’unico ricordo che avevo (e tutt’ora ho) di quei momenti interminabili è il dolore, il dolore bruciante, allo sterno, al braccio destro, e soprattutto alla parte alta della schiena, fin quasi sulle spalle, quel tipo di 
dolore che ti fa desiderare di non essere mai sopravvissuto per non dover essere lì ad affrontarlo.

 Strinsi i denti e urlai, e mi dimenai quando mani aliene cercarono di tenermi ferma.

La mia carne viva era impietosamente esposta all’aria e alla polvere, la mia voce non aveva più tracce di nulla di umano, avevo la vista annebbiata da una spessa cortina di sangue, e di sangue erano sporche le mani che cercavano inutilmente di dissiparla, mentre ogni singola vena del mio corpo ardeva come se dentro mi scorresse piombo liquido. Distinguevo la sagoma di qualcosa di grosso e in fiamme a poca distanza da me, accartocciato contro un albero, e in mezzo ad un coro cacofonico di voci concitate e sconosciute, svenni, temendo di non svegliarmi mai più.

***

Beep. Beep. Beep.

Wow, certo che tutto era davvero tanto bianco.

Beep. Beep. Beep.

Avevo il naso secco, l’aria sapeva di sterile e di disinfettante.

Beep. Beep. Beep.

Provai a muovermi, ma sentii solo qualcosa che pungeva nell’incavo del braccio.
Beep. Beep. Beep.

«Hey, si è mossa!»
«Evelina? Evelina?!?»

Un altro beep.
Ricrollai.

 

***

 

Madonna. Madonna santissima. Santa Cunegonda, Sant’Adalberto, San Francesco, Santa Rita da Cascia, credo esista un San Gervasio, San Silvestro, San Crispino (viva il vino per tutti!), Santi tutti quei poveri martiri morti che stanno in cielo, mettici un Cristo Compagnone che male mai non fa, Dio onnipotente, Spirito Santo, e direi Amen. 

Che mal di testa non avevo.

Aprii gli occhi a fatica, cercando di mettere a fuoco il soffitto bianchissimo e accecante, estraneo e mai visto prima.

Cercai di identificare l’ambiente, alla ricerca di spiegazioni.
Una stanza abbastanza quadrata, le pareti dipinte di un bianco oscenamente pulito, un elegante divanetto beige dall’aria terribilmente scomoda, una porta scorrevole in legno scuro che conduceva a quello che intuii essere un piccolo bagno. Gli orribili quadri pseudo-post-impressionisti alle pareti mi fecero definitivamente capire che mi trovavo in una camera d’ospedale, nel caso il fatto che il mio battito fosse monitorato da uno scocciantissimo beep non me l’avesse già fatto intuire.
Come in ogni ospedale che si rispetti, tutto era semplicemente troppo bianco, iperluminoso.
Quella fottuta luce mi stava marchiando a fuoco le retine. Cristo, vedevo un milione di cazzo di macchioline colorate.
Mi lamentai a mezza voce, sistemandomi nel letto dando giusto un colpetto d’anca per rigirarmi, ma il movimento mi causò una sensazione terribile alla schiena, come se al posto della pelle avessi avuto della gomma tesa. Mugolai. Subito qualcuno che non avevo visto, notato il mio gesto, mi afferrò il braccio destro, chiamando il mio nome con insistente disperazione. Il velo opaco che avevo nel cervello si dissolse leggermente, e mi ritrovai a fissare gli occhioni verdi di mia sorella, rossi e gonfi di lacrime.

«Ciao….Tosh…» tirai le labbra secchissime in un debole sorriso, ma le mie parole si fermarono a metà in gola, uscendo più come un rantolo spezzato che come suono di senso compiuto. Ricrollai sui cuscini per lo sforzo che ciò mi aveva richiesto, sbattendo di continuo gli occhi per non perdere di nuovo il contatto con la realtà.

Dio santo, ma cosa diavolo mi era successo?

«Eve, ti prego, non ti affaticare, Dio quanto ci hai fatto preoccupare! Stai giù e non sforzarti, sei ancora sotto sedativi!»
«Per favore…acqua...»
Subito prese un bicchiere dal comodino vicino al letto, tolse una bottiglietta dal minifrigor e lo riempì all’orlo. Ma le mani le tremavano al punto che molte gocce finirono in terra prima che lei me lo accostasse alla bocca. Bevetti avidamente il liquido fresco, che scese dolce come ambrosia nella mia gola piagata. Finito quello, ne chiesi un altro con lo sguardo, e dopo aver svuotato anche quello, riprovai a dire qualcosa, schiarendomi ripetutamente la gola.
«Cosa…cosa…successo?»
Odiai profondamente la debolezza che risuonò comunque nella mia voce.
Tosca non mi rispose, o almeno non subito.
La vidi giochicchiare con la sua collanina con lo stemma di famiglia in oro e smeraldi, un regalo che ci aveva fatto nostra nonna poco prima di andarsene.
La mia doveva essere da qualche parte in camera mia, chissà dove. Non mi era mai piaciuta molto, troppo pacchiana, ma la sua sembrava essere stata forgiata apposta per appoggiarsi delicatamente nell’incavo della sua pallida clavicola. Era bellissima, una divinità greca triste e riflessiva.

Cavolo, perché mia sorella sembra pronta per una sfilata di moda anche quando ha la faccia pesta? Io nella mia forma migliore sembro una che hanno buttato fuori a calci in culo da un salone di bellezza a metà trattamento. 

Si tormentò l’interno della guancia, e alla fine, non troppo convinta, mi spiegò, fissando un punto lontano: «Hai avuto un incidente. Stavi attraversando la strada sulle Mura quando una macchina è arrivata andando oltre il limite di velocità, ti ha investito, e poi ha sbattuto contro un albero e ha preso fuoco. Fortunatamente sei riuscita a buttarti in qualche modo di lato e non ti ha tirato sotto del tutto, ma hai picchiato la testa contro marciapiede e sei svenuta, e come se non bastasse in qualche modo le scintille dell’urto ti hanno raggiunto e i tuoi vestiti sono andati subito a fuoco. Dei passanti ti hanno spento, per così dire, hanno subito chiamato il 118 e ti hanno portato in ospedale dove i medici sono riusciti a fermare l’emorragia, ma hai avuto una commozione celebrale, per cui non ti spaventare se le cose ti appaiono confuse o ti ricordi cose strane, è normale…eri tutta piena di sangue, pensavo che ti avremmo perso…i medici dicevano che non erano certi che il tuo cervello non avrebbe riportato danni permanenti…»
Ora mi aveva preso la mano, e io la stringevo con tutta la (poca) forza che avevo, e trovai ironico il fatto che fossi io a consolare lei, quando ero io quella in un letto d’ospedale con tubi infilati in ogni dove.
«Su…su…sorellona…ho la testa…troppo dura!» ridacchiai, anche se il movimento mi causò un dolore indicibile allo sterno, strozzandomi il respiro.
Tosca alzò lo sguardo, le labbra tremanti e il naso colante.
«Ehm, Tosha, ti scende…la candela, uhm.»
Mi guardò. Sorrise, ormai sull’orlo del pianto più assoluto.
«Eve…Eve…io ho pensato di perderti, cazzo!» esplose, abbracciandomi forte e schiacciandomi l’ago della flebo a fondo nella carne.
Ma non me ne importava, evidentemente ero così piena di antidolorifici che quasi nemmeno me ne accorso, perché potevo dirmi felice lì, tra le braccia di mia sorella.
Non c’era nessun altro posto nel quale avrei voluto essere in quel momento. Riuscii a mantenere la voce salda per dire una frase, una sola, prima di scoppiare a piangere pure io.
«Tosca…ti voglio…bene.»
Ecco, l’avevo detto, le paroline magiche, che da anni mi portavo sulle labbra ma a cui non ero mai riuscita a far spiccare il volo.
Mi guardò.
«Lo so. Non me l’avevi mai detto prima, ma l’ho sempre saputo, deficiente che non sei altro!» rise tirando su col naso, gli occhi ormai a livello cascate del Niagara.
Mi abbracciò più forte. La mia felicità non poteva essere più assoluta, ma proprio quel momento perfetto entrarono Gualtiero e mia madre, mezzo correndo, preceduti da un’infermiera in uniforme impeccabile con le lettere CDC elegantemente ricamate con filo dorato sul taschino.
CDC, ovvero Clinica De Cervis.
Ma certo, come avevo fatto a non capirlo subito? Ovviamente dopo il Pronto Soccorso mi avevano dirottato dall’ospedale pubblico alla clinica privata gestita dalla società di papà.
Vabbè, non ero nelle condizioni di sindacare, anche perché improvvisamente mi ritrovai completamente immersa in un turbine di piume e strass dal quale spuntava la testa di mia madre, che iniziò a mormorarmi qualcosa in francese stretto, piagnucolando, mentre l’infermiera cercava di tirarla indietro spiegandole che ero ancora debole ed era meglio lasciarmi recuperare le forze in pace. Io strinsi l’abbraccio. Fanculo l’infermiera, per la prima volta da anni mia madre mi stava mostrando affetto, e me lo volevo godere fino in fondo.
Mi sciolsi nelle sue braccia calde e solide, respirando forte il suo solito Chanel n°5, era troppo tempo che non lo annusavo…
Alla fine si staccò, soffiandosi il naso con un fazzoletto tirato fuori dalla sua immensa borsa e rimase a fissarmi, in pena, mormorando una litania in francese nella quale io sono totalmente sicura di aver sentito chiaramente la parola “baguette”, mentre chiedeva informazioni su come stavo e se avevo bisogno di qualcosa.
O per lo meno ciò fu quello che capii, il mio francese era piuttosto maccheronico, perchè per ripicca contro di lei mi ero sempre rifiutata di impararlo.
Forse avrei dovuto riconsiderare la mia posizione…
Gualtiero si avvicinò di qualche passo, ma non osò sfiorarmi. Rimase guardingo, lanciando un’occhiata verso la porta quasi che stesse valutando in quanto tempo sarebbe riuscito ad uscire e mettersi in salvo. Alla fine abbandonò i piani di fuga e mi rivolse un «Hey, come stai?» un po’ smunto, che nonostante tutto non risultò troppo sgradevole per i suoi standard.
Mossi appena le dita delle mani e dei piedi, contandole con cura e assicurandomi di avercele ancora tutte.
Tutte e venti erano al loro posto, quindi azzardai di rispondergli un bene, mezzo coperto da un violento accesso di tosse.
Anche se improvvisamente il mondo sembrava aver preso a volermi bene, il mio corpo sembrava odiarmi profondamente. Il mio involucro fisico non voleva rispondere a quello che gli dicevo, e mentre la mia famiglia mi raccontava più e più volte con dovizia di dettagli ciò che mi era successo e cosa mi avevano operato e cosa avrei dovuto fare per la riabilitazione, io continuavo solo a pensare a quelle bende che mi fasciavano il torace, immaginando quali ferite si nascondessero al di sotto. A quanto pareva mi avevano dovuto togliere un bel po’ di schegge di macchina e albero dalla carne, mi ero ustionata il 24% del corpo (schiena e spalle), mi erano andati a fuoco quasi tutti i capelli e avevo perso moltissimo sangue, ma a parte quello potevo considerarmi fortunata ad avere ancora tutti i pezzi più o meno al loro posto. L’infermiera, che era stata tutto il tempo a guardare monitor e prendere appunti dopo avermi sentito il polso, spiegò gentilmente alla mia famigliola che ero troppo affaticata per reggere altre visite, ed effettivamente non riuscivo a connettere bene le parole, per quanto mi sforzassi.
Quando infilò l’ago di liquido blu nella sacca della flebo, il ghiaccio che sentii nelle vene fu solo una benedizione…

 

Passai ancora un mese e mezzo circa nella clinica per riprendermi del tutto dall’incidente, e più giorni passavano più provavo il desiderio impellente di andarmene.
Quel posto faceva davvero schifo, quando facevo il mio giro quotidiano nel parco, ovviamente scortata da un infermiere pronto a soccorrermi nel caso avessi avuto un crollo (e anche pronto a impedirmi di scappare, suppongo), vedevo solo vecchi con la faccia tirata e rifatta, madri di plastica col seno vuoto, bambini viziati che si sentivano eroi mentre mostravano la cicatrice dell’appendicite.
Avevo pian piano cominciato ad abituarmi al fatto che non riuscivo più a muovere bene le spalle per via dell’ustione, e avevo coperto i pochi ciuffi biondi e spelacchiati che stavano tutti dritti in testa con una parrucca a boccoli assurdamente arancioni, ma i segni peggiori ce li avevo dentro.
Spesso, la notte, gli incubi mi tormentavano fino a farmi temere il momento in cui avrei chiuso gli occhi, e non c’erano pillole che tenessero.
Nascondevo i sonniferi sotto la lingua per poi sputarli via subito dopo, non mi avrebbero fatto dormire, non mi avrebbero fatto incontrare i mostri che dimoravano nel mio inconscio, no, non quella notte.
E nemmeno quella dopo, e così la successiva, non quando la veglia era così dolce.
Non dormivo, ma quando ero sveglia mi tenevo occupata e mi rilassavo, quindi riuscivo a reggere abbastanza bene.
Avevo solo dei conti in sospeso con la mia stessa mente, ecco.
Rabbia veniva a farmi visita più del solito, mi seguiva ovunque, mi pedinava, ma non urlava, non rideva sguaiatamente; mi seguiva in silenzio, quasi che avesse coscienza che ci saremmo presto dovute dire addio. Nonostante tutto, ero molto più felice della mia solita media scazzaggine andante.

Tosca aveva iniziato a seguire le lezioni universitarie per corrispondenza per potermi stare vicino, e ogni giorno veniva a trovarmi per tutto l’orario delle visite, spesso portandosi dietro mia madre, e in qualche modo noi tre insieme recuperammo diciassette anni e mezzo di affetto mancato in quei lunghi pomeriggi invernali passati a chiacchierare davanti ad una tazza di un buon the.
Il mio fisico era piagato, ma la mia mente era stata raramente così felice.
Potevo sopportare di riuscire a camminare solo per poco prima di stancarmi e di passare notti in bianco per non sognare mostri se ciò avrebbe voluto dire riacquistare una famiglia.
L’incidente ci aveva riunito, riuscivo persino a stare a meno di due metri da Gualtiero senza sentire il desiderio impellente di sputargli in un occhio.
La maggioranza delle volte almeno.
Persino con mio padre le cose andavano meglio, oddio, dire che ci volevamo bene sarebbe stata un’esagerazione, ma ci eravamo rassegnati l’uno all’esistenza dell’altro, e in fondo era meglio così che odiarsi inutilmente. Quando uscii dalla clinica, un mese e mezzo dopo, mi sentivo una persona nuova.

Mi sentivo pronta a ricominciare la mia vita, e a riscriverla come un lungo epilogo gioioso a una storia tragica e violenta.
Ero rinata, morta nel fisico per rinascere spiritualmente. E cazzarola, parlavo come una fottuta hippie.

Ma si sa, con me le cose belle non durano mai a lungo…

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo 10: La triste sorte dei piccioni ***


Capitolo 10 GIUNGIAMO DALLA MORTE PER CRETINAGGINE, MA VOI NON SAPRETE PERCHE'. MUHAHAHAHAHA.

E per festeggiare come si deve, eccovi il capitolo 10.
Let's read! :3
As usual, grazie a chi ci recensisce e segue nonostante i ritardi ^^'
(colpa della Beta, obvio)
Un bacione,
Durrie e Donnie

Ah, e giusto perchè siamo un'associazione a delinquere culturale: oggi è la festa di Baron Samedi, Loa che attende le anime dei defunti durante il loro passaggio nell'aldilà.
(voodoo time, yay XD)

Anelli di cipolla

Capitolo 10

 

 

Mattina.

L’aria frizzante mi accarezzava la pelle in mille onde pungenti, soffermandosi poi a giocare allegramente tra le tende arancioni e crema della mia finestra. 
Mi ero appena alzata, erano più o meno le 6:45 del mattino, un’alba stupenda tingeva di rosso e rosa il cielo, dovevo ancora prepararmi per scuola e già non vedevo l’ora di sentire la campanella che ci avrebbe mandato tutti a casa. 
La sveglia tipica di una liceale media.
Ah dolce, dolce normalità. 
Magari fosse stato solo quello, magari fosse stato tutto così semplice…


Mi ero svegliata da un bel po’, gli occhi fissi sulla volta del soffitto, cercando una qualche traccia di comprensione negli sguardi vuoti degli dei dell’affresco. 
A volte mi sembrava di cogliere un qualche brillio compassionevole, ma non appena mi distraevo anche solo una frazione di secondo quelle espressioni ieratiche alle quali ero tanto abituata si trasformavano in ghigni feroci, in volti distorti dall’odio e dalla collera.

Mi sa proprio che qualcuno li avrebbe fatti presto ridipingere.

Mi stropicciai la faccia con la mano, grugnendo con la mia tipica finesse, e infine mi decisi a muovere il culo per prepararmi ad affrontare la giornata. 
Evvaaaaaai
.
Balzai in piedi con un brio che non mi apparteneva e mi buttai a capofitto nell’armadio per cercare qualcosa che potesse adattarsi al mio umore pigro. 
Riemersi con una bracciata di maglie, un due/tre paia di pantaloni e qualche maglione, che buttai senza troppi crismi sul letto ancora sfatto, sbuffando. 
Iniziai a disincastrarmi dal pigiama, nel mentre valutando cosa avrei potuto indossare quel giorno.
Uff, la moda non è proprio mai stato il mio forte, fosse per me jeans e maglietta andrebbero bene sempre e comunque, ma guai a uscire vestita sciattamente con mia madre nei paraggi.
Sarebbe stata capace di farmi saltare scuola per condannarmi allo shopping forzato. 
Per casualità mi scappò uno sguardo allo specchio che stava dentro l’anta del mio immenso guardaroba, e inconsciamente mi soffermai a lungo a fissare la fasciatura candida che mi stringeva le spalle in un premuroso e sterile abbraccio. Rabbia si avvicinò da un angolo, una strana espressione sul viso incolore.
«Buongiorno anche a te, cara»,  dissi istintivamente, senza rifletterci sopra. 
Fantastico. 
Ora non solo vedevo cose inesistenti, ma ci parlavo pure. Tanto valeva.
«Sto uscendo pazza, vero Rabbia? Sto letteralmente andando fuori di capoccia, stress post traumatico codesto egregio par di palle» 
Per tutta risposta Rabbia inclinò la testa.
Sospirai. 
«Sai una cosa? Fanculo. Dài, almeno renditi utile e sii una di quelle allucinazioni che ti aiutano a scegliere cosa indossare per essere abbastanza scollata da non sembrare una suora sul pinguino andante, ma nemmeno troppo zoccolosa con le tette di fuori. Ah, e deve coprire tutti queste bende del cavolo, per cui niente robe che lasciano scoperte le spalle»


Sì, diosanto, le spalle.
Non ne potevo più degli sguardi delle mie compagne di classe, delle domande chiocciate rivolte più per curiosità che per reale interesse, di gente che fino al giorno prima non ti cagava che iniziava a preoccuparsi di te e della tua salute, che ti trattava come se fossi fatta di porcellana.
Per non parlare della prima volta che avevo dovuto spogliarmi per educazione fisica dopo l’incidente (perché a quanto pare anche se passi l’ora seduta devi cambiarti lo stesso, non ho mai ben capito se per supportare moralmente i tuoi compagni sudanti o che): quando mi ero tolta la maglietta avevo sentito un accorato coretto di “oh” di stupore alla vista delle fasciature che mi coprivano tutto il torso e buona parte della schiena. Avevo preso le mie cose e mi ero andata a cambiare nel bagno, come di solito fanno le ragazze grasse che non vogliono sbandierare la loro cellulite davanti alle cosce anoressiche delle loro compagne bulimiche o ai fisici sportivi delle immancabili atlete.
E avevo pianto in silenzio, giusto un po’.
Solo un pochino, seduta sopra il coperchio del water, smocciolando nella carta igienica, per fare strisciare un po’ fuori la frustrazione che provavo dentro. 
E quella era stata una delle prime volte in cui Rabbia mi era apparsa una vera amica. Non aveva né riso né ghignato né urlato. Era semplicemente rimasta lì, a fissarmi in silenzio con quei suoi occhietti fiammeggianti, e aveva teso la sua mano nera verso di me, come per aiutarmi a tirarmi in piedi. Io ovviamente non ero riuscita a stringerla, ma in qualche modo il gesto mi aveva consolato, e avevo trovato la forza sufficiente per uscire dal bagno e affrontare la classe a testa alta.
Mi ero giustificata con un «Se avessi mangiato anche tu quello che ho mangiato io ieri mi sa che ci saresti direttamente morta dentro quel bagno» e mi ero seduta sulla panchina addossata al bordo assieme ad una ragazza coi crampi mestruali, come se fossi una normale ragazza che sta seduta durante l’ora di sport con i suoi normali compagni di classe in un normale liceo. Avevo anche chiacchierato un po’ con l’altra inferma del giorno, commentato un paio di deretani decisamente carini e ripassato letteratura italiana.
Normalissimo.
Solo che io vedevo una ragazza in più di tutti gli altri, seduta immobile in cima alla spalliera, totalmente incurante delle palle che a volte le volavano vicinissimo. Sembrava perennemente in ombra, nonostante le luci della palestra. La profe non la richiamava, nessuno apparte me la notava.

Sbuffai, e mi guardai nello specchio, due grucce in mano, Rabbia al mio fianco.
«Che ne dici? Meglio la camicia blu o il top quello a righe?»

Scesi per fare colazione con un ritardo epico, facendomi tutte le scale di culo sul corrimano e afferrando al volo una fetta biscottata con burro e marmellata tristemente abbandonata sul tavolo del cucinino.
Me la ficcai in bocca, trangugiandola mentre armeggiavo con la cerniera del giubbetto che, cavolo, non voleva proprio collaborare, in corpo la sensazione che più mi sbrigavo più l’autobus era un miraggio. Porconando in sanscrito mi fiondai fuori dall’ingresso sgambando nelle scarpe mezze slacciate, correndo come una dannata verso il cancello.
Inciampai.
Caddi come una demente totale sul selciato, salvandomi di poco la faccia. Mi rialzai, le cicatrici non del tutto guarite che protestavano, con la tremenda sensazione che i nani da giardino mi avessero visto e che ora stessero ridendo di me. Così tirai al più vicino un calcio per farlo cadere, giusto per sicurezza, per assicurarmi che non lo raccontasse a nessuno. Fu in quel momento che qualcuno alle mie spalle urlò. 
«Serve un passaggio?»
Gualtiero stava appoggiato con disinvoltura allo stipite, facendo roteare le chiavi dell’auto attorno all’anulare, la giacca di pelle maròn piegata sottobraccio. In quel momento però mi sembrava più un’apparizione angelica che altro.


«Non avrei mai creduto di arrivare a dirlo in tutta la mia vita, ma potrei amarti, sai?»


«Non ti ci abituare, è solo che devo passare a ritirare dei documenti a Bergamo e diciamo che il tuo bus è passato alla fermata» controllò l’orologio al polso «due minuti fa, se è in orario.»


«Sei odioso quando fai così il precisino, sai?»
«Oh che smemorato che sono, cosa stavo facendo? Di sicuro non stavo offrendo uno strappo ad una sorella così ingrata come te, giusto?»


«Amorevole fratello, per il sangue che ci unisce, porteresti questo culo che soffre ancora tanto le botte dell’incidente fino ad un luogo dove egli potrà abbeverarsi al fiume della conoscenza?»


«Non sei male ad adulare, che ne dici se intanto che guido continui?»


Si avviò verso il garage, o per meglio dire la rimessa, e io gli trotterellai allegramente dietro.


«Per quello dovresti come minimo accompagnarmi per tutto il tour di Gigi d’Alessio, ogni singola tappa, e procurarmi un pass per il backstage»


«Sono occasionalmente gentile, non sordo, e tantomeno masochista»

Ok, l’inferno si era definitivamente congelato.
Mio fratello. Mio fratello Gualtiero De Cervis stava facendo battute di spirito vagamente ironiche e senza alcuna traccia di stronzaggine. 
Schiantarmi contro una macchina era stata probabilmente una delle idee più geniali che io avessi mai avuto, davvero. Incubi notturni e il mio inquietante spettro incolore che mi perseguitavano di notte e di giorno a parte, stavo fottutamente bene. 
A scuola avevo causato abbastanza pena nei solitamente frigidi cuori dei miei compagni di classe, e anche se non andavamo a braccetto ballando la polka chiamandoci “amici del cuore”, comunque riuscivo a scambiare qualche parola ogni tanto senza ringhiar loro contro. La mia ultima teoria era che la botta in testa che avevo presto mi aveva in qualche modo compromesso l’area del cervello responsabile dell’astio e dell’odio, e cavolo se la cosa mi andava bene!
Ero passata da un polo negativo e pessimista ad uno positivo e decisamente più allegro. 
Essere pseudo schiantate su un marciapiede da un’auto ha i suoi impensabili aspetti positivi, tipo tuo fratello che mette in moto sorridendoti con calore.
E il baluginio sinistro nei suoi occhi è solo un’illusione, ovviamente…


«Insomma, possiamo dire che tu stia recuperando bene, no?»


«Uhm, sì, c’è, va meglio sì dai, ecco»


Non appena passato il cancello, Gualtiero aveva iniziato a tempestarmi di domande. Un quarto grado che per quanto cordiale e gioviale (insomma, è di GUALTIERO che stiamo parlando), mi stava mettendo decisamente a disagio. 
Va bene preoccuparsi, però insomma, mi aveva sempre ignorato per un decennio, iniziare a fregarsene così all’improvviso solo perchè mi ero quasi ammazzata non era l'apoteosi dell'amore fraterno, ecco.

«Cos’è, non hai voglia di parlare con me?»


«Nah, è che sono un po’ stressata, sai, ho una verifica…»


«Vuoi che ti faccia saltare? Ti firmo io la giustifica!»


Ok, questo era decisamente troppo strano.
Rabbia si sporse da sopra il tettuccio, dove stava viaggiando saldamente ancorata, per infilare la testa nel rettangolo di vetro che mi divideva dall’aria pungente della strada, quasi ad assicurarsi che tutto stesse andando bene. La fissai negli occhi, rimproverandola senza parole, finché non si decise a ritrarsi al suo posto. Rimasi a guardare fuori, fortunatamente eravamo praticamente arrivati, così il silenzio imbarazzante non durò oltre lo strettamente necessario. Mentre uscivo dall’auto, Gualtiero mi ripeté la sua offerta, ma rifiutai con cortesia provando, con un sorrisino timido, a convincerlo che non c’era bisogno che facesse così l’apprensivo. A quel punto ogni forma di gentilezza sparì, mi guardò di sbieco dal posto di guida e non appena chiusi la portiera partì in sgommata, lasciando due strisciate fumanti sull’asfalto ingrigito.

Meno male che siamo noi donne quelle col ciclo.

***

"Re…re… respirare, ad occhi chiusi, prova a farlo anche tu. La mia ragione si farà sentire. È ciò che conta, non c’è niente di più… oh Gigi solo tu dai queste emozioni!"

«EVELINADECERVIS!»


Scattai in piedi, strappata via con violenza dai miei sogni erotici su Gigi.


«Sissignora, profe signora, mi dica!»


Orco. Mi ero addormentata di nuovo in classe. Si notava tanto che non dormivo ‘sto granché la notte?


«Dal preside, ORA.»


«Non stavo facendo nulla di male, non stavo disturbando nessuno, cosa ho fatto?»


«Stavi dormendo, nella MIA ORA. Tu-non-ti-devi-permettere, hai capito?»
Riuscivo a vedere le sillabe che si snocciolavano per l’aria, il naso della Bondavalli che fremeva ad ogni parola che esalava fuori dalle sue labbra pseudoultracentenarie.


«Professoressa, non stavo dormendo, glielo…glielo giuro! Stavo…stavo facendo riposare gli occhi!»


«Ah sì? Cosa sapresti commentarmi in merito alla spiegazione, allora?»


«Uuuuuuuhm…»


Eve, questo è il momento di tirarsi fuori dai guai con la classe che ti è propria. Veloce, pensa, cosa stava spiegando?


Con la coda dell’occhio vidi il ragazzo ciccione che mi sedeva vicino stava scribacchiando qualcosa sul mio banco alla velocità della luce.


NO!  TREN GITA GE


«Ma lei non stava assolutamente spiegando, profe, come faccio a commentare qualcosa sul fatto che ci stava dicendo a che ora è il treno che dobbiamo prendere per andare in gita al museo oceanografico di Genova?»


Sperai enormemente di aver azzeccato.


La Bondavalli mi fissò con gli occhi più stretti che una persona possa umanamente avere, ma non ebbe nulla da controbattere. 
L’avevo fregata anche questa volta. Realizzai di essere ancora dritta in piedi quindi mi sedetti, svaccandomi giusto un po’ sulla schiena, ostentando una superiorità e una tranquillità che non provavo in quel momento.


La vecchia riprese a fare lezione, riservandomi ancora giusto un paio di occhiatacce ogni tanto.


Mi girai verso il ciccio salvatore, che ricordai corrispondere al nome di Marcello Beretta, per ringraziarlo per il suo gesto d’aiuto.
Presi la matita e scrissi subito sotto le sue parole. Grazie. Hai salvato il mio culo, ti devo un favore!
Mi sorrise timidamente, ma vedevo che stava sudando. Evidentemente l’emozione di opporsi al potere aveva causato il surriscaldamento del pingue strato di lardo che lo ricopriva, e che ora iniziava a colare dall’attaccatura di quel cespuglio di unti ricci dal color castano anonimo. 
Mi rispose subito.
Dovere. Quella è una stronza, e lo sanno tutti che ce l’ha su con te per la storia della macchinetta.
Sorrisi. 
In quel momento suonò la campanella, così impacchettai veloce le mie cose. «In ogni caso ti devo un favore, Beretta. E non scherzo, penso che anche chi sparla di me sappia che sono di parola!» 
Gli battei una virile pacca sulla spalla, ma lui non se l’aspettava e si sbilanciò in avanti. Si aggiustò gli occhiali che gli erano così scivolati dal naso e si congedò.


«Va bene, ciao Evelina…a domani?»


Non ho la più pallida idea del perché quel saluto così innocente mi parve una domanda d’importanza filosofica.


Uscendo, mi ritrovai immersa nel più grande ed immenso stormo di piccioni che io avessi mai visto nella mia breve ma intensa vita. Peggio di Piazza San Marco a Venezia e Piazza Duomo a Milano combinate insieme durante il raduno annuale dei piccioni malvagi con piani per la conquista del mondo.


Giusto fuori dal portone dell’istituto c’era una distesa di topi volanti, tutti sull’attenti, che occupavano ogni centimetro disponibile, un tappeto tubante così fitto che non si riusciva quasi a vedere la pavimentazione sottostante. Metà dei miei compagni di scuola se ne erano già andati, molti stavano scattando foto dell’inusuale assemblamento col cellulare, ridendo e pregustando i “mi piace” che avrebbero ricevuto su Facebook entro poco. Un gruppetto di ragazze discuteva la proposta di chiamare il TG5 per dare la giusta copertura mediatica all’avvenimento, «Tanto la Parodi non ci impiega nemmeno troppo ad arrivare». I maschi si gettavano impavidi nel mezzo del mucchio cercando di pestarne più che potevano, le femmine facevano gran scena di aver paura e schifo sperando di suscitare l’empatia o la pena dei prodi maschi sopracitati, forse aspettandosi che da un momento all’altro il loro principe azzurro sarebbe spuntato fuori tra uno di loro per salvarle da quei mostri orribili per poi portarle in braccio fino al loro castello incantato. 
Il risultato d’insieme era che da una parte c’erano bambini dementi con un’igiene alquanto discutibile, dall’altra zoccolette con aspirazioni romantiche oltremodo sopravvalutate.
Tutti quelli con un minimo di cervello se ne erano semplicemente andati, e io mi apprestavo a seguire il loro saggio esempio.


Io personalmente odio i piccioni, fosse per me li ucciderei tutti, non risparmierei nemmeno i cuccioli –dubbio amletico: i piccoli di uccello possono essere definiti cuccioli?- li farei sparire dalla faccia della terra. Mi avviai per la mia via, tranquilla, ma non potei resistere dal canticchiare Povia: «…più o meno come fa un piccione…la la laaa» mentre ne prendevo a calci un paio per aprirmi una strada in mezzo a quelle ali grigie. La triste sorte dei piccioni: tutti li odiano, tutti li schifano, tutti li pestano, nessuno che si preoccupi mai per loro.
Però in prima battuta sono loro che si fanno odiare e schifare: se non fossero così inutili e fastidiosi magari qualcuno ce li avrebbe anche in simpatia.


Inaspettatamente, la cosa mi fece riflettere assai.
Fanculai i miei pensieri filosofici e non appena un piccione mi si avvicinò troppo alla gamba, gli tirai una sanissima pedata.
E fu allora che lo vidi andare a fuoco.
«Alla faccia di fare come il piccione!» urlai.


Saltai indietro, spaventatissima. Una rapida sequenza d’immagini mi fulminò le retine.

Scintilla.

Calore.

Fuoco.

Dolore.

Iniziai a correre.


Non sapevo dove stavo scappando, ma c’erano pochi dubbi sul da cosa.
Le mie gambe continuarono, non si fermarono, incuranti delle proteste dei miei polmoni da accanita fumatrice.
Alla fine rallentai il passo, col fiatone e la faccia appiccicaticcia di sudore, la parrucca storta in testa. 
Porcaccia la merda. 
Per colpa di qualche coglione che si era divertito ad incendiare piccioni io avevo appena fanculato un mese buono di terapia per lo stress post traumatico.

Grazie, davvero.

Mi riaggiustai i capelli, e cercai di orientarmi.


Non appena realizzai dove ero, la mascella mi cadde più o meno all’altezza delle ginocchia.


Ero sulle Mura. Vicino alle strisce pedonali. Vicino alla fermata dell’autobus. Vicino ad un ceppo tagliato da poco, con evidenti segni di bruciature su ogni lato.


A volte il destino esagera con l’ironia, davvero. Scappare dai ricordi per solo ritrovarcisi ancora più invischiati dentro.
Fantastico, semplicemente fantastico.
Rassegnata da cause di forza maggiore, attraversai la strada -controllando tremila volte a destra e a sinistra prima di osare fare un solo passo- e andai a sedermi a gambe incrociate sul tronco tagliato, abbandonando la cartella appoggiata ad una radice.
Rimasi lì qualche minuto, pensando a cose senza senso, finché una voce, un po’ esitante, un po’ felice e un po’ stupenda mi raggiunse.

«Hey, ciao!»

Non dimenticherò mai quel ciao e tutte le cose alle quali mi portò.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo 11 [E.] ***


11 ...
PERDONO. PER FAVORE NON PICCHIATEMI. PLIS. DEVO VIVERE PER VEDERE IL MONDO (?) U_U
Vi giuro, avevo betato, LO AVEVO FATTO, ma il mio pc ha detto che no, e ha cancellato tutto.
Perché ovviamente la colpa del ritardo è della Beta che Betare non fa ù.ù

And so. Son due mesi che non aggiorniamo, siete autorizzati a chiedere la nostra fustigazione nella pubblica piazza D: ENJOY!

Durrie e Donnie

Ah. Nel prossimo capitolo una gustosa sorpresa, dico solo occhio al finale. :3


Anelli di cipolla

Capitolo 11 [E.]

Ora. Permettetemi una parentesi, breve per quanto possibile, su come i miei occhi si affacciano a questo mondo.
So che non gliene frega nulla a nessuno, ma questa è la mia storia, quindi zitti e muti, se non volete ascoltare siete perfettamente liberi di andarvene, ci sono mille e più mille vite raccontate migliori della mia, che ha solo un unico pregio che emerge in un oceano di difetti: è unica e irripetibile.

Ecco, nonostante il mio apparentemente inscalfibile cinismo, io credo nell’amore. 
Mettiamolo in chiaro subito, è la premessa per capire chi ero in quel momento, in quel grigio pomeriggio d’inverno, per capire chi era quella ragazza appena scappata da uno stormo di piccioni inferociti e in fiamme, mentre sedeva sul luogo della sua quasi-morte, ed è necessario per capire cosa le è successo poi. 
Sono una ragazza piena di contraddizioni, so essere una grandissima stronza, non sono affatto una persona dall’animo gentile, di certo non sono quella che si mette ad annusare fiorellini sospirando per qualcuno, occasionalmente amo passare accanto alle coppiette scabrose intente a ficcarsi la lingua in bocca a vicenda in pubblico e quindi appiccicare le cicca  tra i capelli o di lei o di lui a seconda di chi fa più rumorini di risucchio, ma sono anche un’inguaribile romantica.

Ho attraversato la preadolescenza a suon di Cime Tempestose, Piccole Donne e compagnia bella che mi sussurravano in testa dolci promesse d’amore nella fresca brezza primaverile, mio malgrado lo ero, e lo sono tutt’ora.
Non m’importava il finale, tragico o maestoso che fosse, io mi sedevo, leggevo, e mi lasciavo sballottare tra le onde di una passione che non sapevo nemmeno cosa fosse. E devo ringraziare davvero la biblioteca di famiglia che mi fornì quei capolavori, perchè il mio primo impatto letterario con l'amore era stato piuttosto traumatizzante. 
Era da poco passata a miglior vita mia nonna (che San Crispino e l'allegra compagnia l'abbiano in gloria), e avevo poco più di sette anni. 
Gironzolando nella sua stanza, prima che venisse svuotata e adibita a quella che ora è la sala di canto lirico della mia genitrice, trovai, nascosta dietro ad una tendina di pacchianissimo raso a stampe floreali, una pila di librettini fucsia, e presa dalla gioia dell'insperata scoperta me ne portai un paio nella Tana, e iniziai a cimentarmi nella lettura. 
Ricordo perfettamente che mi sentii molto una Robin Hood, per quel mio "furto", tra virgolette, perchè non credo si possa davvero definire così. 
Signori miei, esiste mai qualcosa di più difficile di rubare degli Harmony ad una nonna deceduta (che San Crispino la protegga)?
Se mai trovaste risposta vi prego di farlo sapere alla me di sette anni. C'è da dire che se ai tempi avessi saputo che diavolo fosse un "Harmony" molto probabilmente mi sarei tenuta alla larga da quella robaccia immonda.
Inutile dire che non ci capii davvero troppo. La mia mente innocente non comprendeva cosa dovevano fare un uccello e una topa che giocavano al dottore, nella mia testa era una scena tipo "Ospedale dei Pelouche".
Ma poi, grazie al cielo e a un po' di fortuna, incontrai l'amore dei Romanzi con la R maiuscola, vedi Piccole Donne, Cime Tempestose et similia.
All’inizio leggevo una parola alla volta, confondendomi nelle frasi e tornando più volte sui miei passi, fuorviata ora da un termine con un significato difficile, ora da una subordinata particolarmente insidiosa. Non ci volle molto perché la pila dei libri poggiati sul tavolino iniziasse a scendere più velocemente. Mi ricordo, vedo la scena come se l’avessi davanti agli occhi ora in questo preciso istante, io che mi piazzo sulla quella poltroncina bordò, la più consunta della biblioteca, quella dove era solita sedere la nonna (che San Crispino eccetera eccetera) prima di morire. 
Io che mi metto lì, fuori dal mondo, coi capelli biondi– quanto erano lunghi! – stretti in una treccia senza pietà che immancabilmente finiva per disfarsi prima della fine della giornata.

Mi ricordo che la mia prima vera volta in quella biblioteca era capitata quasi per caso, un piccolo aiutino dal karma. 
Dopo l’ennesimo pianto di bimba, ero in cerca di un posto dove nessuno mi avrebbe potuto gridare contro. Avevo sentito dire da qualche parte che nelle biblioteche bisogna stare zitti e fare il meno rumore possibile, così mi pareva perfettamente logico andare a nascondermi lì. 
Mi ero aggrappata alla maniglia con tutte le mie forze, e finalmente ero riuscita a smuovere le vecchie parti metalliche arrugginite, troppo dure per le mie manine grassottelle. 
A quei tempi la biblioteca non aveva ancora subito il restyling post-grandinata da parte di mia madre, ed era ancora una stanza buia e piena di cigolii, le pareti esponevano una tonalità di biancogrigio più scura e antica, e invece della la moquette c’era uno spesso tappeto persiano intessuto con polvere e acari millenari. 
Nessuno, nessuno sarebbe mai venuto a cercarmi lì.
Mi ero guardata intorno, chiudendomi la porta alle spalle, e avevo iniziato a cercare. Non sapevo cosa, ma stavo cercando.
E poi li avevo visti.
Libri, libri ovunque, pareti stipate di preziose parole stampate per sempre. Ne avevo visti molti di libri, ma mai così tanti diversi nello stesso posto.
Certo, ero stata qualche volta nelle librerie, ma lì erano raggruppati in serie, divisi per forma colore e dimensioni tutti uguali, tante copie della stessa storia.
Lì no, lì ciascuno era unico a sé stesso, irripetibile ed eccezionale in quel piccolo universo delle dimensioni di una stanza.
Mi affascinavano.
Passavo le dita sulle coste dei volumi, afferrando i titoli che mi attraevano, poggiandoli in un’alta catasta sopra il tavolino basso finché non ce n’erano un numero che reputavo sufficiente; allora ne sceglievo uno a caso e rimanevo lì a leggere, finché non lo finivo, spendendo ore e ore in quella bellissima stanza solitaria.

Una volta Tosha aveva obiettato che avrei anche prendere andare avanti a leggere in cameretta, ma io le avevo risposto che così sarebbe stato come guardare un leone in gabbia allo zoo rispetto a vederlo correre libero nella Savana. I libri sono animali pericolosi, predatori delle menti e dei cuori, e vanno rispettati lasciandoli vivere indisturbati nel loro territorio di caccia. A meno che non si trattino di Harmony, ovvio.
Fu tra quelle migliaia di pagine - alcune odorose e ingiallite, altre bianche e chimiche - che trovai l’amore. Notavo che, chi più chi meno, la maggioranza degli autori cercava di dare una definizione a quella parola così astratta ma così concreta, “amore”; ci provavano con le loro storie, con le loro riflessioni, anche con delle strane cose tutte ingarbugliate piene dia capo che scoprii successivamente chiamarsi “poesie”.
Così ci provai anch’io.

Cercai sul dizionario, ma lo trovai inconcludente, sterile.
Chiesi a mio fratello, e mi rise in faccia.
Chiesi a mia sorella, e non mi ricordo esattamente cosa rispose, era qualcosa che aveva a che fare con delle bambole e dei cavalli, ma non saprei richiamare alla mente con precisione cosa.
Chiesi alla mamma, e lei mi sbuffò contro, dicendo «Quando avrai le mestruazioni ne riparleremo, va bene chérie?» Da lì ovviamente seguì la mia domanda «Cosa vuol dire “mestruazioni”?», alla quale mia madre si sottrasse adducendo come scusa un impegno inderogabile dall’estetista e mandandomi a far merenda con la cameriera.

A mio padre non lo chiesi, perché a pelle sapevo che lui avrebbe potuto darmi la risposta che stavo cercando.
Così continuai a interrogarmi, per anni e anni, senza che passasse giorno, o quasi, che non pensassi a quella parola così impalpabile ma così densa e pregna.
Iniziai a costruirmi una definizione, totalmente astratta, piena di buchi e d’imprecisioni ma composta di tante minuscole idee impilate apparentemente a casaccio, tante piccole convinzioni che si accumulavano nella mia mente in attesa che io dessi loro un senso.
Leggevo dell’amore degli altri e mettevo insieme i pezzi del mio, in attesa che arrivasse davvero.
Osservavo le persone per le strade, e prendevo note mentali su ogni dettaglio, mentre il mio cuore rimaneva indifferente e freddo come la Luna.
Spesso l’amore era stato dolore, mancanza, erano solo pensieri di seta rossa e velluto nero intessuti di schegge di vetro affilato. Bellissimi all’apparenza, non appena osavo sfiorarli mi facevo male e dovevo ritrarre la mano, sanguinante di lacrime. L’amore, in primis quello per la famiglia, mi aveva quasi sempre causato solo un dolore infinito, un oblio grigio e ovattato, era una luce lontana in fondo ad una strada infinita, Dio visto dal fondo più nero dell’Inferno. 
Il mio cuore ghiacciato e rabbioso era troppo distante dalla luce per sciogliersi, riusciva solo ad intravedere un riflesso, un barlume fioco, inconsistente.
Però non ho smesso di crederci, e non penso che lo ripeterò mai abbastanza.
Credo in quell’amore che ti tiene sveglia di notte, che ti attanaglia il cuore come in una morsa strettissima che però ha il tocco delicato delle ali di una farfalla.
Credo in quei gesti assurdi, in quei baci rubati contro un portone nel cuore della notte, credo nelle lacrime calde che solo gli amanti sanno versare, credo nella liberazione di un tocco condiviso sotto un lenzuolo. 
Credo nei brividi su per la spina dorsale, credo negli odori, nei sapori, negli sguardi. 
Io non credo però nell’amore a prima vista, proprio no.
Non ci ho mai creduto né mai ci crederò in vita mia. I colpi di fulmine sono solo delle emerite stronzate, mere invenzioni poetiche e retoriche che servono a far sospirare ragazzine gonfie di ormoni, sono dei bigliettini accartocciati che trovi dentro l’involucro di una famosa marca di cioccolatini che non citerò per non fare pubblicità occulta (ma tanto si è capito che sono i buonissimi Baci Perugina, compra Baci Perugina! Compra compra compra COMPRA!).
Non mi sembra possibile che due persone che a malapena sono coscienti l’una dell’esistenza dell’altra possano amarsi.
L’amore è fatto di condivisione, di ricordi costruiti insieme, non può essere ridotto e imploso all’effimerità di un singolo attimo, l’amore è uno sguardo verso il futuro, non uno spazzare di ciglia, l’amore non sta in un singolo battito di cuore. Semplicemente è una cosa troppo complicata, che richiede tempo e dedizione, è la cosa più bella cui un animo umano possa aspirare, e non voglio perdermi in metafore, poeti e scrittori si sono spellati le mani per descriverlo, e sicuramente l’hanno fatto infinitamente meglio di me, e ancora non sono riusciti a definirlo. 
Dicevo, io non credo nell’amore a prima vista, ma non saprei come definire altrimenti ciò che accadde quel freddo pomeriggio d’inverno.
Non saprei che altre parole usare per spiegare come il mio piccolo mondo cambiò improvvisamente centro di gravità.

Sipario.

Mi girai lentamente, sbirciando di sottecchi, senza sapere esattamente chi o cosa aspettarmi alla fonte di quel timido richiamo.
Mi ritrovai a fissare una ragazza della mia età o forse poco più grande, assurdamente alta e assurdamente bionda, che torreggiava flessuosamente dietro di me, lo sguardo speranzoso dietro degli eleganti occhiali da vista con la montatura beigina di forse-corno che incorniciavano occhi così chiari da sembrare completamente bianchi, ma che invece ad un esame più attento risultavano di un azzurro incredibile, del colore del ghiaccio artico più pulito ed incontaminato, più scuro verso il bordo dell’iride e più evanescente attorno alla pupilla limpida e nerissima.
Aveva anche una minuscola macchia marrone scuro nel sinistro, notai.  
Era la ragazza più chiara che avessi mai visto, pallida e con il naso leggermente all’insù punteggiato di lentiggini timide come bucaneve, le labbra che quasi scomparivano talmente erano sottili e poco delineate, tese in un sorriso irresistibile.
Era, senza ombra di dubbio, la ragazza più bella che avessi mai visto. 
Persi un battito, solo uno, poi il mio cuore iniziò a pompare come se avessi appena finito una maratona. 
Ma sono io o qui improvvisamente fa un caldo della misera?
«Ciao», risposi, sforzandomi di mantenere un tono neutro e di non squittire come un topo davanti ad un enorme pezzo di formaggio. 
Wow, Eve, che grande eloquio. Ah, e se la smettessi di tremare come un’ossessa sarebbe cosa buona e giusta, grazie, sembra che hai il Parkinson. 
Strinsi forte le mani l’una nell’altra, intrecciando le dita, sperando che Lei non notasse il mio evidente stato di non-tranquillità, o che lo riconducesse alla sorpresa.
«Già, ciao»
Anche Lei non scherzava però.
Potrei giurare che l’imbarazzo di quel momento era una cortina impalpabile tra noi due, incrinata solo dal suono del mio cuore che stava pompando all’impazzata sangue in ogni – e con “ogni” intendo ogni, ci siamo capiti vero? – angolo recondito del mio corpo.
Rabbia spuntò da un punto imprecisato dietro la ragazza e inclinò la testa di lato con quella sua posa assurdamente inquietante che avevo imparato voler dire «Tutto bene?» ma la ignorai, non riuscivo proprio a distogliere lo sguardo da Lei.
Lei mi guardava, io la guardavo. Avevo la bocca totalmente impastata, la lingua sembrava troppo grossa per stare tra i denti. 
Silenzio. 
Ti prego, fighissima sconosciuta, dì qualcosa, qualsiasi cosa, non sono in grado di gestire rapporti umani, ti prego ti prego. 
Silenzio. 
Ero quasi al punto di scappare via piangendo sulla mia imbranataggine sociale quando lei scoppiò a ridere.
Dapprima sobbalzando leggermente con le spalle, una risata nervosa e imbarazzata, ma poi esplose. Aveva una risata cristallina, sguaiatamente educata e contagiosa, che mi fece immediatamente spuntare un mezzo sorriso in bilico sull’angolo della bocca.
Si piegò in due, reggendosi lo stomaco con le mani, le lacrime agli occhi per quanto stava ridendo, e si lasciò coprire la faccia dai lunghi capelli biondi, più biondi persino di quelli di Tosha, lucidi e lisci, una cascata di fili dell’oro più fine mai visto sulla faccia della terra.
Dovetti trattenermi con tutta la mia volontà per non allungare la mano e accarezzarli.
Invece, me ne stavo letteralmente in estasi contemplativa, mentre una risatina semi-isterica mi sgorgava incontrollabilmente dalla gola. 
Vidi che quando sorrideva le spuntava un’adorabile fossetta nella guancia sinistra. 
Aveva una leggera cicatrice sul mento.
Le sue ciglia erano lunghissime. 
Non aveva un filo di trucco. 
Aveva i denti piccoli e perfetti, coi canini leggermente sporgenti, un po’ vampireschi. 
Ai lobi le brillavano dei brillanti semplici, azzurrini, che le risaltavano ancora di più gli occhi. 
Notai tutti questi dettagli nel giro di un nanosecondo, ammaliata.
«Oh, che situazione assurda! Oh mio Dio, scusami!» disse in qualche modo tra una risata e l’altra «chissà cosa mi è venuto in mente di arrivare così a caso a romperti, ma ti ho riconosciuto da lontano ed era un sacco che ti stavo cercando e…»
«Come? Mi stavi cercando?» 
Fa niente, sei così bella che mi va bene anche se sei una stalker psicopatica, davvero. Anche se non hai molto della stalker, hai più dell’angelo custode, sai?
«Beh sì, non ti ricordi di me?» 
No, non mi ricordo di te, mi sarei ricordata di una bellezza così mozzafiato, accidenti, avrei assunto un investigatore privato e mezza squadra di SWAT per ritrovarti, sei la cosa più bella che abbia mai visto nella mia vita, ti conosco da nemmeno 5 minuti e mi svenerei seduta stante per sentirti ridere ancora una volta, così potrei morire felice.
«No, scusami tanto, dovrei?»
«Aspetta un secondo, solo un secondo!» esclamò, come se avesse risolto un’equazione difficilissima. 
Tutto il tempo che vuoi, però lasciati guardare, no, non coprirti il viso! Perché ti togli gli occhiali e ti raccogli i capelli con la mano?
«Così che mi dici?» 
All’improvviso cambiò espressione, da radiosa divenne cupa, chinò il capo e contrasse i suoi lineamenti perfetti in una smorfia di dolore e pianto, tirando appena appena su col naso.
La guardai. 
«Ma porca…SEI QUELLA DELL’AUTOBUS! QUELLA DEL FAZZOLETTO!»
Persino i miei pensieri tacquero, di fronte a tale rivelazione. 
Porca puttana. 
Pooooorca puttana.
Ero senza parole! Come avevo fatto a non riconoscerla, e soprattutto, come avevo fatto a non accorgermi di quanto era bella la prima volta che l’avevo vista?
«Indovinato!»
Mi prese delicatamente per il gomito, sorridendomi.
Per favore, puoi non lasciarlo mai più?
«Ed ora per premiare la tua abilità investigativa, posso offrirti una cioccolata calda con taaanta panna? O un caffè? Un the? Quello che vuoi, ma così almeno stiamo al caldo mentre parliamo, ti va?»
«Sicuro»
Lingua, tu in teoria dovresti muoverti per parlare. Fai il tuo lavoro, cazzo.
La mia risposta secca e sterile la fece rimanere un po’ male, notai con crescente preoccupazione, così cercai di sbloccarmi come si fa con le finestre vecchie che s‘incollano alla cornice. Bisogna dargli uno strattone violento e senza pietà per farle muovere.
«Cioè, volevo dire, sicuro, non c’è nulla che mi farebbe più felice, davvero, adoro la cioccolata, ne mangerei a quintalate, anzi una volta ne ho fatto indigestione e sono stata malissimo, ho passato delle ore a lamentarmi sul cesso finché i miei hanno deciso che non ne potevano più e mi hanno portato in ospedale a fare la lavanda gastrica. Cioè, però io ero felice, perché, eh, cioccolata!»
Certo, perché non le racconti anche di quella volta che hai avuto la diarrea alle elementari? O della verruca sotto il ditone del piede? Eve, sei una gran testa di merda, te l’ha mai detto nessuno? 
Fortunatamente per me sorrise alla penosissima battuta-che-non-era-una-battuta e mi rispose:
«Bene, allora, cioccolato vuoi e cioccolata avrai! Mi porga il braccio signorina E-DI-CI, che la porto ad un bel baretto qua vicino che fanno una cioccolata che mmm ti manda in paradiso! E la panna, oh, la panna!»
In paradiso ci sono già, sai? E tu sei minimo una cherubina.
«Ah, a proposito, posso sapere per cosa stanno quelle iniziali? Sono il tuo nome vero?»
«Yup, Evelina, Evelina De Cervis. 
Ma per favore, chiamami Eve, abbiamo già condiviso un sugamoccio, siamo in confidenza ormai!»
Oh yeah, Eve-sex-symbol-sciupafemmine time, vai così baby!
Nonostante la battuta penosa riuscii a farla ridere ancora una volta. Ero in estasi totale.
«Certamente! Per di qua, conosco una scorciatoia!»
Iniziò a tirarmi come fanno quei cagnolini minuscoli che scodinzolando ti portano dove vogliono, non perché abbiano tanta forza ma perché manca proprio il cuore di trattenerli.
«Hey, ma scusa un secondo, io però non so nemmeno come ti chiami!»
Voglio il nome del mio angelo, così avrò qualcosa da sussurrare la notte.
Si fermò di botto, con una mezza giravolta mi venne davanti e si piegò in avanti, finendo a pochi centimetri dalla mia pelle accaldata. Si tirò su gli occhiali con l’indice, e mi guardò fisso, quasi che stesse considerando di non rispondere alla mia domanda.
Ridacchiò, battendosi il dorso della mano sulla fronte, teatralmente.
«Oh, che sbadata assurda che sono! Chiedo venia!»
Registrai un lieve accento straniero non meglio definibile, forse russo o giù di lì, nella sua voce calda. 
Argh, sexy, tremendamente sexy. 
A sorpresa mi stampò un bacione enorme sulla guancia.
«Piacere, sono Erica, Erica Kusshniriuk, piacerissimo di conoscerti!»

Erica.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1568509