Il cielo sopra la scacchiera

di Laylath
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. Il piccolo rifugio. ***
Capitolo 2: *** La scacchiera rovesciata ***
Capitolo 3: *** Alla ricerca della stella polare ***
Capitolo 4: *** La torre assediata ed il cavallo zoppo. ***
Capitolo 5: *** Una pericolosa intuizione; l'alfiere esiliato. ***
Capitolo 6: *** Il pedone e il suo re ***
Capitolo 7: *** La regina prigioniera ***
Capitolo 8: *** Ai confini della scacchiera ***
Capitolo 9: *** I legami che riportano in vita ***
Capitolo 10: *** La stella che è dentro di me ***
Capitolo 11: *** Le promesse mantenute ***
Capitolo 12: *** Un mare d'angoscia ***
Capitolo 13: *** La semplice gioia della normalità ***
Capitolo 14: *** Una specialissima alchimia ***
Capitolo 15: *** Epilogo. La preghiera di una madre ***



Capitolo 1
*** Prologo. Il piccolo rifugio. ***


Quando aveva circa dieci anni aveva organizzato un piccolo rifugio tutto per sé. Si trattava di un vecchio ripostiglio dietro la sua casa, ormai inutilizzato, contenente vecchie cianfrusaglie che nessuno si era mai occupato di buttare. Aveva impiegato una settimana per liberarlo del tutto e sistemare la vecchia serratura, ma alla fine quello era diventato il suo sancta sanctorum: vi aveva portato la maggior parte dei suoi apparecchi elettronici, creando un vero e proprio laboratorio dove avevano preso vita i suoi primi lavori importanti. Quando era lì dentro i suoi genitori sapevano che era in fase creativa e lo lasciavano in pace, limitandosi a chiamarlo quando si dimenticava di presentarsi per la cena.
Oltre che essere il suo personale laboratorio, quel vecchio ripostiglio gli piaceva per un altro motivo: c’era un lucernario, nel basso soffitto, che offriva una visuale spettacolare del cielo. Aveva perso il conto di quante notti aveva passato supino sopra una coperta a osservare le stelle, usando l’indice per tracciare linee immaginarie che formavano disegni frutto della sua ispirazione. In quel posto poteva abbandonarsi a se stesso, lasciare che la sua mente vagasse libera, senza timore di essere disturbato.
 
Guardando il pavimento in parte occupato dall’attrezzatura radio che si era portato dal quartier generale dell’Est, il sergente maggiore Kain Fury si trovò a pensare che anche quella piccola casa a Central City era diventata in qualche modo un suo rifugio.
A dire il vero era una sensazione strana avere un’appartamento tutto per sé: aveva sempre vissuto nella casa dei suoi genitori oppure nei dormitori, prima dell’Accademia e poi del Quartier Generale dell’Est. Vivere da solo, senza avere una routine imposta, se da un lato lo faceva sentire incredibilmente indipendente, dall’altro lo spaesava un po’: era strano pensare che non ci fosse nessuno insieme a lui con cui condividere il ritorno a casa e i racconti di una giornata intera.
Ma la situazione era inevitabile: da quando circa tre settimane fa si era trasferito a Central City con il Colonnello e la squadra, era apparso chiaro che non sarebbe stato possibile avere lo stretto rapporto degli anni precedenti. Qui l’alchimista di fuoco, per quanto noto, non era che un pesce in mezzo a un acquario molto grande e non poteva pretendere di avere privilegi come un ufficio solo ed esclusivamente per i suoi sottoposti.
Fury sperava che fosse solo questione di tempo. Con gli altri si vedeva durante la mensa o in altre occasioni: gli mancava da morire lo stretto cameratismo della vecchia sistemazione.
Scavalcò l’attrezzatura e si portò davanti alla piccola finestra dove era riuscito, con un po’ d’inventiva, a sistemare l’antenna delle radio. Si trovava al secondo piano e palazzi più alti coprivano la visuale della città: sollevando lo sguardo verso il cielo notturno, si accorse che le luci di Central City erano molto forti e quindi non permettevano una visuale del firmamento come quella di casa sua, o del quartier generale dell’Est.
Decisamente stava facendo parecchia difficoltà ad adattarsi alla vita della capitale; gli altri invece, bene o male, si stavano ritagliando una loro dimensione personale: il sottotenente Havoc era riuscito persino a trovarsi una ragazza in breve tempo.
Ma per lui questa città era troppo caotica e complicata, un ambiente che non mancava di metterlo a disagio.
Tuttavia questo non contava: il Colonnello aveva portato con sé l’intera squadra e loro non l’avrebbero abbandonato. Anche se il suo superiore non ne aveva mai parlato specificatamente con il gruppo, Fury sapeva che qualcosa si stava muovendo: forse aveva a che fare con l’omicidio del Tenente Colonnello Hughes, o con la questione di Scar, o magari con i fratelli Elric o tutte le cose insieme. Lo vedeva dallo sguardo di tutti quanti: questa volta si stava preparando qualcosa di veramente grosso, che avrebbe cambiato le loro vite.
Sospirando decise di andare a dormire. Era inutile arrovellarsi la testa con questioni che non poteva comprendere nella loro interezza; inoltre domani c’era bisogno di lui e della sua radio. Quella sì che era una parte che poteva comprendere: durante le missioni l’affiatamento con i suoi compagni non aveva bisogno di nessuna spiegazione.

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Capitolo 2
*** La scacchiera rovesciata ***


Non mi sento più le gambe. Mi dispiace, mi ritiro.
Quelle parole continuavano a risuonare nella testa di Fury ed avevano il potere di sconvolgerlo più del resto degli avvenimenti che si erano susseguiti in quelle giornate.
Eppure sembravano poca cosa in confronto a quanto era capitato.
Il Colonnello aveva salvato per miracolo sia lui che il tenente Hawkeye contro una creatura mostruosa che non erano riusciti a ferire minimamente, per quanto avessero scaricato su di essa i proiettili di almeno due pistole. Non ricordava di aver mai provato una così grande ansia mentre correva per aiutare il tenente, dopo aver sentito quegli spari nella radio, così come non aveva mai sentito le fiamme del Colonnello passare così vicine a lui, tanto da sentirne il calore.
Aveva visto per la prima volta due membri della sua squadra ricoverati in ospedale, salvi per miracolo dopo uno scontro disastroso contro un altro di quei mostri.  Il colonnello si era cauterizzato una ferita mostruosa con il fuoco e Havoc era stato trafitto senza pietà, con quel danno immane alla spina dorsale.
E poi, scoprire che la preda che il suo superiore stava agganciando era addirittura il Comandante Supremo, o comunque alti vertici dell’esercito…
Queste erano le cose che avrebbero dovuto sconvolgerlo: erano entrati in un tunnel in cui si poteva solo andare avanti, senza sapere quali rischi si sarebbero incontrati.
 
 
E invece erano state quelle poche parole a turbarlo tanto.
Perché avevano spezzato il gruppo.
Era profondamente sbagliato quello che era successo: Havoc era l’elemento più vitale con le sue battute, la sua faccia tosta. Nei suoi occhi non aveva mai letto una sconfitta e una rassegnazione simili: quelle di una persona che sta rinunciando a vivere.
Non doveva succedere proprio a lui.
“Ehi Fury che stai combinando qui, tutto solo?” chiese Breda avvicinandosi al tavolo della mensa dove era seduto.
“Oh, sottotenente – salutò il ragazzo – niente di particolare. Volevo solo riflettere un po’.”
“Sei spaventato per quello che è successo?”
“No… spaventato non è proprio il termine giusto” si sorprese a dire, anche se avrebbe avuto tutto il diritto ad esserlo.
“E allora cosa ti turba, ragazzo? – gli chiese ancora Breda arruffandogli i capelli. Ogni tanto i suoi compagni si lasciavano ancora andare a questi gesti nei suoi confronti – Hai lo sguardo perso e non è da te.”
“E’…è per Havoc…” mormorò, ben consapevole che Breda era il miglior amico del sottotenente e quindi era abbastanza rischioso parlare dell’argomento. Ed infatti il robusto soldato dai capelli rossi rimase per qualche secondo in silenzio, tanto che Fury iniziò a maledirsi per la sua linguaccia.
“Ascolta, – disse infine Breda, sedendosi accanto a lui – so che ora sembra che Havoc non si debba mai più riprendere da quello che è successo. E se è strano per me vederlo in queste condizioni, posso immaginare quanto lo possa essere per te, che hai sempre fatto affidamento su noi più grandi.”
Fury annuì, lieto che il sottotenente avesse dato voce ai suoi turbamenti
“Però non devi lasciarti ingannare. – continuò il suo superiore – Quel tonto del nostro sottotenente avrà mille difetti, ma non quello di arrendersi.”
“Però si è tirato fuori dal gruppo… non è più in grado di…” non riuscì a terminare la frase
“E tu ci credi davvero?- sogghignò - Andiamo, ragazzo, eppure sei con noi da tempo ormai. Pensi davvero che il Colonnello lo lascerà andare? E credi che Havoc rinunci così facilmente a tutto questo? Ai suoi compagni? Tranquillizzati, Fury, non lasciarti spaventare da frasi dette nel pieno dell’angoscia: quello stupido è così depresso solo perché gli hanno concesso solo una sigaretta al giorno.”
“Non so come farà a resistere!” si trovò a sorridere il sergente. Le parole di Breda erano state dette con tanta sicurezza che riuscì a sentirsi confortato.
“Vero? Bene, così ti voglio, soldato. Anche perché ho proprio voglia di farmi una bella partita a scacchi e non mi serve un avversario musone.”
“A scacchi?”
“Sì, se non sbaglio la scacchiera del Colonnello la dovrebbe avere Falman. Voglio proprio vedere come te la cavi.”
 
“Scacco matto!” esclamò Breda posizionando la torre davanti al suo re
“Cosa? No, un attimo! Non è possibile!”
“Una delle sconfitte più rapide di tutta la storia - commentò Falman dando una pacca amichevole sulla spalla di Fury – Le mie lezioni a East City non ti sono servite a nulla, sergente maggiore.”
“Accidenti, ora che so che sei ancora una schiappa, mi pento di non aver scommesso nemmeno una cena! – sogghignò Breda – Non me l’aspettavo che eri così ingenuo da farti fare scacco matto in nemmeno due minuti!”
“Non mi piace questo gioco” si lamentò Fury con il broncio di un bambino, suscitando le risate dei suoi compagni. Ma dopo qualche secondo non potè far a meno di unirsi a loro, lieto di questo momento di vecchio cameratismo di cui aveva proprio bisogno.
“Come penitenza almeno prepara di nuovo la scacchiera: adesso voglio sfidare un avversario più decente. – dichiarò Breda indicando Falman – Io e il maresciallo intanto andiamo a prendere un caffè per tutti.”
“Va bene, va bene” continuò a ridacchiare Fury iniziando a raccogliere i pezzi sparsi per il tavolo.
Come i due si furono allontanati, si stiracchiò e si mise a disporre i pezzi nelle loro posizioni. Per quanto avesse imparato da piccolo a giocare a scacchi e successivamente avesse ricevuto qualche lezione “di ripasso” anche da Falman, non era mai riuscito a venire a patti con questo gioco di strategia che invece era la passione di diversi suoi compagni. Non che avesse difficoltà a ricordare le regole, ma le sue mosse si rivelavano sempre inutili davanti a menti molto più affinate in quel campo come potevano essere Breda o Falman.
Però anche se faceva il broncio davanti alla sconfitta, era sempre felicissimo di passare del tempo coi suoi amici.
“Il sergente maggiore Kain Fury?” disse una voce alle sue spalle. Girandosi si trovò davanti a un ufficiale mai visto in vita sua.
“Sissignore!” si alzò in piedi, facendo il saluto.
“Sono dell’ufficio personale. Ho l’ordine di consegnarle questa disposizione nei suoi confronti” disse impassibile porgendogli una grossa busta bianca.
“Ufficio personale?” chiese, prendendo in mano il documento
“Esattamente. E’ pregato di rispettare quanto riportato nell’ordine” disse l’uomo girandosi e andando via.
Il ragazzo guardò quella figura inquietante che si allontanava, senza nemmeno aver atteso che prendesse visione del documento. L’ufficio personale? Non capiva che cosa potessero volere da lui  che era un membro del team personale del colonnello. Forse era solo qualche problematica relativa al suo recente trasferimento a Central City: a volte la burocrazia poteva fare qualche errore.
Fu quindi con relativa tranquillità che aprì la busta e prese visione del documento.
Dovette rileggerlo due volte prima di capire perfettamente le parole, perché gli sembravano inverosimili.
“Sergente maggiore Kain Fury… trasferimento immediato... Quartier Generale del Sud…” mormorò sbiancando e sedendosi di nuovo nella panca, dato che le gambe iniziavano a cedergli.
Non era possibile, ci doveva essere per forza un errore in quelle disposizioni. Non aveva alcun senso un trasferimento del genere, senza alcun preavviso, senza alcuna reale ragione.
Il panico iniziò a salire. Che doveva fare? Lui non voleva assolutamente andare in quel posto, abbandonando la sua squadra e il Colonnello.
Giusto, il colonnello: lui sicuramente avrebbe potuto far qualcosa. Non avrebbe permesso un suo allontanamento. Doveva immediatamente andare a parlargli.
Decise di aspettare Breda e Falman per esporre loro questa assurda vicenda e trovare conferma nei suoi propositi di far intervenire il loro superiore. Fu quindi con grossa sorpresa che dovette attendere più del previsto; ed infine li vide arrivare con in mano delle buste bianche pericolosamente uguali alla sua.
Che cosa stava succedendo?
“Anche tu, Fury?” chiese Falman prendendo in mano il foglio che il sergente aveva lasciato nel tavolo
“Anche voi? – chiese incredulo – Ci deve… ci deve essere un errore!”
“No, Fury. – scosse la testa Breda – Non hai ancora capito?”
“Capire cosa? Noi… noi siamo nella squadra del Colonnello. Non possono trasferirci al quartier generale del Sud”
“Del Sud? – scosse il capo Falman – No, Fury. Io sono stato trasferito al Nord e Breda ad Ovest. Ci hanno spedito in punti completamente opposti del paese”
“Non possono farlo!”
“Svegliati, ragazzo! – lo sgridò Breda – Ci siamo spinti in un terreno pericoloso e lo sai bene anche tu. Evidentemente il Colonnello era sotto controllo più di quanto credesse e ora lo vogliono privare dei suoi uomini più fidati.”
“Prima Havoc e adesso noi - confermò Falman – e oltremodo dividendoci, così che non possiamo creare problemi”
Fury scosse il capo con ostinazione e si mise a fissare il legno del tavolo, rifiutando di accettare la realtà dei fatti. Poteva accogliere l’idea di rischiare la vita contro nemici non umani, di combattere contro un sistema corrotto, ma non senza i suoi compagni accanto. Era come se gli stessero dicendo di continuare a respirare senza aria.
“A quanto pare si sono mossi più in fretta del previsto. Forse la storia di Barry ha dato più fastidio  di quanto pensassimo” mormorò Falman
Ma Fury non seguiva quei discorsi: nella mente gli era venuto un pensiero agghiacciante. Si alzò di scatto, rovesciando la scacchiera. I due compagni lo fissarono con sorpresa, mentre i pezzi si sparpagliavano nel tavolo e per terra.
“Che ti succede?” chiese Falman
“Prima Havoc – mormorò con gli occhi che si sgranavano per l’improvvisa comprensione – poi noi… e poi…”
Prese in mano il documento che gli era stato consegnato e si mise a correre come un pazzo
“Ehi Fury! Dove vai?” la voce di Breda lo chiamava.
Ma lui non si voltò nemmeno a guardarlo. Con tutta la velocità che era possibile uscì dalla mensa e  inizò una folle corsa per i corridoi del quartier generale. Sentiva lo stesso senso di ansia e di urgenza che l’aveva attanagliato quando aveva sentito quegli spari dentro le sue cuffie e, come allora, sentiva che non poteva restare fermo... doveva correre!
Perché se il nemico stava risalendo la scala fino al Colonnello, dopo Havoc, Breda, Falman e lui stesso, c’era il tenente Hawkeye.

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Capitolo 3
*** Alla ricerca della stella polare ***


L’ordine di trasferimento era così immediato che già la sera stessa si era trovato costretto a preparare le valigie.
Quello che per qualche settimana era stato il suo piccolo rifugio ora appariva dolorosamente svuotato.
Aveva passato diverse ore a risistemare le radio dato che, il giorno prima, il colonnello si era introdotto in casa e le aveva usate in maniera davvero poco ortodossa; poi si era reso conto che non le avrebbe potute portare con sé e le aveva smontate e riposte in alcune grosse scatole di cartone che avrebbe affidato a qualcuno, ma non sapeva ancora chi. Mentre finiva di sistemare l’ultima radio si trovò a sfiorare con rammarico le cuffie: negli ultimi due anni i giorni in cui non le aveva indossate si potevano contare sulle dita di una mano. Adesso non gli sarebbero servite e sarebbe stato costretto a svolgere un ruolo che non era il suo: cosa poteva aspettarlo?
Sospirando aprì la finestra per smontare l’antenna e si sorprese a guardare il cielo.
Una volta, da piccolo, in un libro di avventure aveva letto di una stella che veniva usata dai mercanti del passato per orientarsi senza bisogno di mappe. Aveva trovato l’idea molto bella ed era rimasto sorpreso quando aveva scoperto che una stella del genere esisteva davvero; il cielo gli era sempre sembrato diverso, con puntini luminosi che una notte c’erano e quella successiva no, proprio come le nuvole.
Era stato il maresciallo Falman a raccontargli della stella polare, una notte che erano appostati sopra un terrazzo ad aspettare l’inizio di una nuova missione. Il cielo era così pieno di stelle che lui aveva tirato fuori quella vecchia storia, ed era rimasto sorpreso quando l’uomo gli aveva confermato che quella stella guida esisteva davvero. L’aveva anche aiutato a individuarla nel firmamento e, per diverse notti di seguito, lui era andato fuori nel terrazzo del quartier generale a controllare se davvero fosse sempre lì a indicare il nord. E ogni volta che la trovava, sorrideva, come se una piccola magia si fosse avverata.
Adesso, dal suo appartamento di Central City, cercava disperatamente quella stella, invocando silenziosamente un aiuto per il senso di smarrimento che provava. Ma le luci della città erano sempre troppo forti e così dopo diversi minuti dovette cedere con un sospiro: la magia qui non funzionava.
Chiudendo la finestra ripensò alla scena di quella mattina. Per qualche minuto aveva sperato che l’ordine riguardasse solo loro, ma poi era arrivata un’altra busta bianca.
Da domani il tenente Riza Hawkeye prenderà servizio al Quartier Generale di Central, come assistente personale del Comandante Supremo
Come l’aveva sollevato la prima parte della frase: almeno lei sarebbe rimasta accanto al Colonnello.
Ma poi era arrivata la seconda parte e la sorpresa era stata terribile. Quell’incarico era molto più pericoloso del trasferimento in un punto qualsiasi di Amestris.
Per la prima volta in vita sua aveva visto il tenente realmente sconcertato. Quella donna l’aveva guidato nei suoi primi delicati passi all’interno della squadra del colonnello, gli era stata vicino nell’orrore della sua prima uccisione, e in qualche modo gli aveva sempre offerto un riparo emotivo, come una madre; l’orrore nei suoi occhi era l’ultima cosa che avrebbe voluto vedere.
Lei e il Colonnello erano irrimediabilmente separati, più di quanto potessero fare miglia e miglia di distanza. E proprio su di loro il controllo sarebbe stato maggiore e spietato, pronto a distruggerli al minimo errore.
In una situazione come questa, come potevano continuare a proteggersi a vicenda?
Ripensò con ansia al mostro che avevano cercato di uccidere. La mira di un cecchino provetto come il tenente non era servita a nulla contro quella creatura; decine di proiettili non l’avevano nemmeno graffiato… anzi, non era corretto: l’avevano colpito, ma si era rigenerato. E sicuramente di mostri come quello ce n’erano ancora in giro. Le fiamme del Colonnello potevano ancora salvarla ora che gli occhi erano puntati inesorabilmente su di lui?
E i suoi compagni?
Che sarebbe successo a tutti loro?
Perché ai loro nemici poteva non bastare allontanarli da Central City: i trasferimenti in zone di guerra potevano essere solo un mezzo pulito per giustificare la loro morte.
Depose l’antenna nella scatola e sigillò il coperchio con del nastro adesivo. Poi si girò verso il tavolo.
Dai bagagli che doveva portare con sè tirò fuori la sua M5. Con quella pistola aveva ucciso e spesso protetto i suoi compagni: gli era costata tanta fatica imparare a usarla. E adesso appariva così piccola di fronte alla possibilità di finire in trincea. La guerra per lui era sempre stata una remotissima possibilità: l’essere entrato giovanissimo nel team dell’alchimista di fuoco gli aveva evitato trasferimenti in zone belliche. Era stato un privilegiato, se ne rendeva perfettamente conto, ma adesso la situazione si era capovolta, trovandolo assolutamente impreparato.
Se ben ricordava solo lui e Falman non avevano mai partecipato a battaglie vere e proprie: loro erano la parte teorica della squadra, con la memoria dell’uno e la perizia tecnica dell’altro.
Da quello che sapeva con Drachma, a nord, la situazione era relativamente stabile e di recente non si erano avute battaglie. La parete di Briggs continuava a garantire incolumità a quel versante. Forse il maresciallo non sarebbe dovuto scendere nel campo di battaglia.
Ma a sud… oh, a sud c’era Aerugo: già da quando era in Accademia sapeva che lungo il confine sud c’erano continue e inesorabili lotte. A qualche mese di relativa calma seguivano sempre scontri sanguinosi e logoranti, senza che nessuno riuscisse a prevalere. Le perdite erano sempre numerose e lui sapeva bene che non sarebbe stato tenuto nelle retrovie.
Cercando di allontanare quei pensieri si girò e così facendo urtò un libro che stava in bilico sul tavolo che cadde a terra con un tonfo. Da esso uscì una fotografia e prendendola in mano sorrise: era una foto di gruppo fatta circa un anno prima in occasione di alcune esercitazioni congiunte tra il quartier generale dell’est e quello del nord.  Non si può dire che fossero presentabili: per esempio lui aveva un grosso cerotto sulla guancia destra e persino il tenente non aveva il solito aspetto ordinato e composto: infatti avevano appena terminato una competizione a squadre, vincendola. Avevano collaborato tutti come disperati e se ben ricordava lui aveva anche rischiato di soffocarsi con i fili delle cuffie quando era caduto a terra. Ma cavolo, quanto erano felici e uniti: persino il colonnello si era lasciato andare passando il braccio attorno ad Havoc e mostrando un sorriso furbo all’obbiettivo. In quel momento nessuno di loro pensava al grado: erano solo un gruppo unito, una famiglia.
L’idea di trovarsi in trincea, senza i suoi compagni, gli faceva venire un pesante senso di vuoto allo stomaco. Come poteva funzionare una squadra i cui membri erano così distanti? Come poteva fare senza le battute di Havoc, le prese in giro di Breda, i consigli di Falman? Come si sarebbe dovuto comportare senza il tenente ad approvare con lo sguardo le sue idee? E senza il Colonnello che guidava tutti quanti, infondendo determinazione con la sola presenza?
Si sentiva tremendamente dipendente da tutti loro.
No, l’essere andato a vivere da solo non significava niente: lui aveva bisogno degli altri. Aveva bisogno della sua squadra, della sua stella polare. Ma in quel momento Central City, con le sue luci troppo forti ed i suoi mostri, aveva oscurato il suo personalissimo cielo.

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Capitolo 4
*** La torre assediata ed il cavallo zoppo. ***


La mattina arrivò a velocità impressionante, svegliandolo da un sonno profondo che l’aveva illuso che tutto fosse perfettamente nella norma.
Cambiandosi e finendo di preparare i bagagli, cercò di prepararsi mentalmente a quello che lo aspettava.
Una cosa in cui non era mai stato bravo erano i saluti. E sapere di avere davvero poco tempo per farli rendeva le cose molto più difficili, senza contare che non aveva ancora idea della persona a cui affidare le sue preziose apparecchiature radio.
In ogni caso aveva deciso che il primo che sarebbe andato a visitare sarebbe stato il sottotenente Havoc.
Avvicinandosi all’ospedale si chiese se questi fosse già stato informato degli ultimi avvenimenti che avevano colpito la squadra. Probabilmente ci aveva già pensato Breda: non passava giorno senza che andasse a trovare il suo amico.
“Ehi Fury, sei venuto a salutare il sottotenente?” chiese proprio il robusto soldato, attraversando il  cortile dell’edificio, verso la sua direzione. Sopra la divisa aveva un cappotto nero, uguale al suo. Ma Fury era consapevole che presto avrebbe indossato quello bianco, tipico dei soldati che combattevano a sud e ad est
“Sìssignore. Anche lei deve partire oggi, presumo.” annuì
“Sì, ma come ben sai i treni militari partono sempre di notte. Ho deciso di godermi queste ultime ore di licenza andando a farmi una mangiata come si deve, lontano dalla mensa militare. Ti vuoi unire?”
“Vorrei, signore. Ma ho effettivamente diverse cose da fare… e davvero poco tempo” disse con rammarico
“Quindi forse è il caso che ci salutiamo qui” commentò serio l’uomo dai capelli ramati
Fury trattenne il fiato nel constatare che il primo saluto sarebbe arrivato prima del previsto
“Non… non viene con me dal sottotenente Havoc?” si trovò a chiedere, speranzoso
“Ci sono appena stato. Rivedere la sua faccia così tante volte di seguito è un’esagerazione, non credi?”
“Se lo dice lei… - mormorò abbassando lo sguardo. Poi si mise sull’attenti – Allora la saluto, sottotenente.”
“Non fare l’idiota, ragazzo – sbottò Breda passandogli il braccio dietro il collo e stringendolo a sé – proprio non è il momento per questa maledetta formalità”
Fury cercò di ribattere, ma era mezzo soffocato da quella stretta così vigorosa.
“Ascoltami bene, sergente maggiore – disse a bassa voce il sottotenente – lo so che l’idea di andare in una fottuta trincea è spaventosa. E soprattutto che te la stai facendo sotto perché sarai solo, senza noi a farti da balia. Solo un’idiota non sarebbe terrorizzato. Ma, per l’amor del cielo, non lasciarti andare. Trovati ogni maledetto giorno che passì lì una ragione per andare avanti, correre ed evitare di morire. Perché sai benissimo che arriverà il momento in cui il colonnello avrà bisogno ancora di noi e ci richiamerà… tutti!”
“Sì signore” annuì il giovane sentendo la stretta si allentava. Ora poteva respirare meglio, ma fu dispiaciuto della fine di quel rude abbraccio che per una decina di secondi l’aveva protetto da quello che l’aspettava.
“Io, - continuò Breda riprendendo il suo tono normale - come ho detto ad Havoc poco fa, vado a vedere se il cibo dell’ovest è così buono come dicono. Se ne vale la pena, come finisce questa storia, un giorno ti porto ad assaggiarlo, intesi?”
“D’accordo signore” sorrise Fury
“Adesso vai da quel bestione del sottotenente: si è appena fumato la sua sigaretta giornaliera, quindi il momento è buono”
Senza aspettare risposta, gli arruffò i capelli in un ultimo gesto di saluto e poi riprese a percorrere il cortile dell’ospedale verso l’uscita. Guardando quelle spalle robuste che si allontanavano e pensando alla stretta vigorosa che aveva appena ricevuto, Fury pensò che, tra tutti i suoi compagni, Breda era quello che più si adattava alle situazioni. Sembrava che stesse per partire per una bella gita che aveva come unico scopo l’assaggio delle specialità occidentali.
Prendeva le sue paure e se le faceva scivolare addosso, usando il suo grande istinto e la sua intelligenza per districarsi in tutte le situazioni.
Era come una torre che resisteva a qualsiasi assedio la vita gli ponesse davanti.
Fury si trovò a invidiare profondamente quella stoicità.
 
La stanza di quell’ospedale gli sembrava più grande del solito ora che c’era solo Havoc ad occuparla. Quando era ricoverato anche il colonnello, ossia fino a qualche giorno prima, erano quasi sempre tutti lì e spesso la situazione sembrava quasi soffocante. Quel silenzio era davvero strano, come era strano l’odore di pulito disinfettato con un lieve pizzico del tabacco della sigaretta da poco fumata da Havoc.
Questi guardava verso la finestra, senza dire una parola; sul letto giacevano due pesi, probabilmente portati da Breda come regalo di commiato.
“Sottotenente… - chiamò Fury dopo qualche secondo che fu accanto al letto – sono venuto a salutarla”
Il biondo si girò e lo fissò in maniera strana, quasi lo stesse studiando.
“Fury, guarda il mio braccio destro… proprio all’altezza del gomito”
Il giovane impallidì capendo il punto che gli era stato richiesto di fissare. Trasse un profondo respiro mentre un brivido gli percorreva la schiena, ma proprio non riuscì a portare gli occhi a quella cosa. L’aveva evitato accuratamente ogni giorno che era andato lì.
“Dannazione! – sospirò Havoc – Un sergente maggiore, di ventuno anni, con competenze elettroniche che la maggior parte della gente si sogna… che ha ancora paura degli aghi in vena. E ti vorrebbero mandare in trincea contro Aerugo?”
“Non mi sono mai rifiutato di farmi mettere un ago, se strettamente necessario – ribattè Fury, sentendosi improvvisamente offeso – e lo sa benissimo!”
“Ti riferisci a quella volta che hanno fatto i prelievi per controlli di routine?- ridacchiò il sottotenente - E’ stato davvero divertente vederti girare lo sguardo e impallidire come un fantasma mentre il dottore di metteva l’ago in vena. Ancora un po’ e svenivi.”
“Quante volte verrò ancora preso in giro per questa storia?” sospirò
“Sempre, Fury. Non vorrai levarmi la parte più divertente dell’essere un tuo superiore… anche se per poco. Lo sai che trasferiranno anche me?”
“Davvero? – si sorprese – E dove andrà?”
“Appena sarò in condizioni più stabili mi trasferirò in un ospedale dell’est, più vicino a casa mia. E poi, come starò bene, andrò ad aiutare nel magazzino di famiglia: almeno potrò rispondere al telefono.”
“Capisco…” mormorò Fury abbassando lo sguardo sulle gambe del compagno
“No, non mi sono arreso, se è quello che stai pensando. – disse Havoc seguendo il filo dei suoi pensieri – Ma ora come ora è l’unica cosa che posso fare.”
“Forse ha ragione…”
“No, aspetta. Effettivamente posso fare anche un’altra cosa: li vedi questi pesi?”
“Sì”
“Sono venti chili ciascuno. Me li ha portati Breda per farmi stare in forma, anche se avrei preferito di gran lunga delle riviste piene di belle ragazze. Ma mi è appena venuto in mente che devo riprendere forza nelle braccia. Gli ho promesso che proteggerò questa fortezza finchè posso.”
“Davvero? – si illuminò Fury, vedendo la grinta che ben conosceva negli occhi azzurri – Sono contenta di sentirla parlare così, signore!”
“Tu fai un elenco di tutti quelli che ti daranno fastidio in trincea, sia dei nostri che dei nemici. Poi vieni a portarmelo e ti giuro che li sistemo io!” ghignò soddisfatto il sottotenente
“Lo farebbe davvero, ci scommetto” rise il ragazzo
“Che follia mandare in guerra un piccoletto come te che dovrebbe stare con le sue radio; – ammise Havoc, dopo qualche istante, arruffandogli i capelli neri, proprio come aveva fatto Breda – avrei dovuto esserci io al tuo posto. Magari si sarebbero limitati a rimandarti al quartier generale dell’est.”
“Non credo che si sarebbero limitati a questo. Tutta questa storia è una follia, sottotenente. – disse Fury con un triste sorriso – Siamo dentro a un gioco molto più grande di noi. Ma sono fiducioso che il colonnello saprà gestirlo.”
“Non solo esperto in comunicazione, ma anche uomo di pensiero… non stiamo esagerando, Fury?”
“Mi scusi, signore. Ultimamente mi capita di riflettere parecchio” ammise il sergente stringendosi nelle spalle.
“Non pensare troppo in trincea, se non a sopravvivere. Tieni conto che spesso e volentieri cambierai compagni: – gli spiegò Havoc facendosi serio – non avrai una squadra fissa, non avrai noi a guardarti le spalle. Trova l’affiatamento con te stesso, le tue gambe, il tuo istinto. Se senti che ti devi buttare a terra non chiederti perché, ma fallo.”
“Farò come dice lei, signore. Grazie per i consigli” annuì
“Mi dispiace di non poter fare altro. – ammise Havoc – Vorrei essere lì con te, ragazzo: è una situazione in cui potrei, anzi dovrei, aiutarti. Ma senza gambe è difficile”
“Farò in modo di non deluderla, signore. – promise Fury – Sopravviverò, troverò l’affiatamento con me stesso, senza fermarmi troppo a pensare. E tornerò, rendendola fiero di me”
“Fallo e giuro che smetterò di prenderti in giro per la storia degli aghi”
“Affare fatto. Adesso però devo proprio andare!” annunciò con rammarico guardando l’orologio alla parete
“Buona fortuna, sergente maggiore” tese la mano Havoc
“A presto, sottotenente” sorrise Fury stringendo quella presa così solida.
Si diresse verso la porta quando la voce di Havoc lo richiamò.
“Fury! Fammi un favore… vedi per caso qualche infermiera in giro?” chiese con urgenza
“No signore, - rispose il giovane guardando nel corridoio – vuole che ne chiami una? Si sente male?”
“Assolutamente no! – sorrise tirando fuori da sotto il cuscino una sigaretta e l’accendino – Dato che non mi hai portato nessun regalo di commiato, fammi almeno il favore di restare lì di guardia per un paio di minuti”
“Sottotenente! Avevano detto una al giorno!” protestò Fury impanicandosi, come se tutte le infermiere dell’ospedale potessero arrivare all’improvviso e scoprirli.
“E finiscila, fifone! O vuoi che ti descriva i dettagli di quando mi mettono una nuova flebo?”
“Questo è un ricatto! – protestò. Poi vide che il suo compagno lo guardava con malizia. Aveva ragione Breda: Havoc non stava certo rinunciando a vivere, altrimenti non avrebbe avuto quell’espressione così divertita. – Va bene, controllo. Ma, per l’amor del cielo, faccia in fretta!”

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Capitolo 5
*** Una pericolosa intuizione; l'alfiere esiliato. ***


Dopo la visita all’ospedale si vide costretto ad andare al Quartier Generale per sistemare la documentazione relativa al suo trasferimento e recuperare alcuni effetti personali.
Mentre si recava presso l’Ufficio Personale, gli capitò di vedere in fondo al corridoio, il Comandante Supremo King Bradley e dietro di lui il tenente Hawkeye che aveva già iniziato la sua nuova occupazione. Vederla camminare due passi dietro un uomo che non fosse il Colonnello gli sembrò così sbagliato che dovette scuotere la testa e costringersi a pensare ad altro.
Si mise quindi a studiare il Comandante Supremo che si era fermato a parlare con alcuni ufficiali.
Non aveva mai avuto occasione di vederlo così da vicino: era capitato che ogni tanto venisse nel quartier generale dell’est, in qualche visita ufficiale, ma Fury era sempre lontano o non presente, quindi non si era mai fatto un’idea precisa di quella figura semi leggendaria.
A dire il vero, mentre rideva con quelle persone, sembrò strano che proprio lui fosse a capo dei nemici che stavano affrontando: pareva solo un uomo di una certa età, ancora nel pieno delle forze, con un grande senso dell’umorismo e un notevole carisma;la sua posizione eretta sembrava così naturale e la spada che aveva alla vita appariva come la prosecuzione del suo corpo tanta era la disinvoltura con cui la portava. Non si potevano avere dubbi sul potere di quell’uomo.
Ma poi, come un ricordo che risale all’improvviso, iniziò a sentire uno strano brivido lungo la schiena. Era come se, fissandolo per diverso tempo, venisse levata la maschera che lo ricopriva. E Fury sentì la stessa spiacevole sensazione che aveva avuto quando erano iniziati i guai: ossia quando quel mostro a cui avevano sparato si era rigenerato davanti ai loro occhi.
Fu un’intuizione così improvvisa e sconvolgente che rimase inchiodato nel mezzo corridoio, con la bocca aperta e gli occhi sgranati.
A salvarlo dall’attirare l’attenzione fu lo sguardo improvviso che gli mandò il tenente Hawkeye, che evidentemente l’aveva visto lì fermo. I suoi occhi parlavano chiaro: non stare a guardarlo e vai subito via da qui!
Fury si riscosse a quel tacito comando: annuì lievemente e riprese a camminare, senza tuttavia riuscire a calmare il battito galoppante del suo cuore.
 
Le pratiche che dovette svolgere furono più lunghe del previsto e alla fine fu costretto a pranzare in mensa. In genere mangiava di buon appettito, ma questa volta si trovò a rigirare con la forchetta le vivande e toccò poco e niente.
Non riusciva a scacciare dalla mente la sgradevole sensazione che aveva provato: in genere si fidava abbastanza del suo istinto per determinate cose e sentiva di non sbagliare. Quell’uomo e il mostro lardoso avevano qualcosa in comune: gli trasmettevano un’idea di forza perversa, di inumanutà… di diversità: ecco, era quella la parola giusta.
Se da una parte il suo istinto gli diceva questo, dall’altra si rifiutava di crederci.
Forse stava esagerando. Il Comandante Supremo era probabilmente solo legato a quei mostri: si limitava a controllarli e dunque era normale che fosse “contaminato” dalla loro presenza. Sì, doveva essere così: anche perché il mostro che aveva combattuto di umano non aveva nemmeno l’aspetto. Invece King Bradley aveva una moglie e un figlio, una vita relativamente normale.
Doveva smetterla di fare voli pindarci così grossi.
Dopo aver ingoiato svogliatamente qualche boccone, avvolse in un fazzoletto la coscia di pollo che giaceva intatta nel suo piatto e decise di andare a portarla a Black Hayate.
 
Il cagnolino che aveva trovato sotto la pioggia più di un anno e mezza fa era ormai grande. Il tenente lo portava sempre con sé e lo lasciava scorrazzare nei cortili del quartier generale; nonostante non fosse il padrone ufficiale, Fury si occupava spesso e volentieri di lui e aveva sempre qualche gioco da portargli o qualche leccornia speciale. Il cane aveva una vera e propria predilezione per il suo compagno di giochi umano e ogni volta che lo vedeva faceva le feste.
Adesso Black Hayate addentava con soddisfazione la carne che il sergente gli aveva portato, utilizzando le zampe anteriori per tenere fermo il bottino.
“Mangia tanto e diventa forte. – gli disse il soldato, inginocchiandosi accanto a lui - Proteggi tutti mentre siamo via”
In fondo era contento che Black Hayate restasse accanto al tenente. Scherzando gli altri dicevano che anche lui era un membro della squadra, ma Fury lo pensava davvero. Del resto non era stato proprio questo cane a correre e mordere sul collo quella creatura, dandogli il tempo di arrivare e soccorrere il tenente?
“Sergente maggiore Fury” lo chiamò una voce
“Maresciallo Falman, non è ancora partito?” chiese alzandosi in piedi e vedendo l’uomo che si avvicinava.
“Devo restituire una cosa presa in prestito dal colonnello. - rispose l’uomo mostrando la scacchiera che teneva in mano. Poi si girò a fissare l’edificio accanto a loro e con malinconia commentò - Certo che è stato un soggiorno breve a Central City.”
Il giovane fissò il suo superiore. Era raro che il maresciallo mostrasse in maniera così evidente i suoi sentimenti. Di solito tendeva a tenere riservate le sue emozioni, anche se Fury aveva imparato che, dietro la sua apparente freddezza, era un uomo davvero sensibile e gentile. In genere era con lui che si sentiva libero di parlare dei più svariati argomenti, sapendo che avrebbe trovato un pubblico attento e comprensivo.
In fondo non era stato quell’uomo a insegnargli a trovare la stella polare?
“Sergente, sei al quartier generale del Sud?” chiese l’uomo tornando a posare lo sguardo su di lui
“Sì, completamente al suo opposto”
Ci fu un secondo di silenzio. Era dura ammettere che sarebbero stati  così lontani, più di tutti gli altri. In quegli anni, nonostante avesse con lui la maggior differenza d’età, Fury aveva sviluppato con Falman un grande affiatamento, fatto a volte di discorsi, a volte di silenzi. Forse perché i loro caratteri tendevano a essere più discreti rispetto all’esuberanza di Breda e Havoc o semplicemente perché erano due spiriti affini.
“Scommetto che farà molto freddo al quartier generale del nord. – continuò Falman. Nella sua voce, oltre alla tristezza, c’era anche una componente di scusa e Fury fu abbastanza sensibile da capirne la motivazione: mentre Breda e Havoc gli avevano dato tutti i consigli che potevano per affrontare la guerra, Falman sembrava per la prima volta essere a corto di suggerimenti e se ne sentiva chiaramente in colpa. Forse per loro due la situazione era più difficile da accettare.- Allora ci vediamo, sergente maggiore Fury” concluse
Il ragazzo decise di mostrarsi più sicuro di quanto in realtà fosse: se si fosse mostrato spaventato forse avrebbe ferito maggiormente la sensibilità del suo compagno.
“Sì, a presto” disse, facendo un perfetto saluto militare.
Black Hayate infilò il muso nella sua mano, mentre il giovane osservava il maresciallo andare via. Non come Breda e la sua inattaccabilità, ma come un uomo mandato in esilio, lontano dal mondo. Effettivamente il quartier generale del nord sembrava così lontano dal resto di Amestris, così isolato, in una zona poco abitata e fredda. No, non era quello il posto giusto per una grande mente come quella di Falman: per lui quell’esilio era davvero un duro colpo. Tuttavia anche se c’era molta rassegnazione, quell’uomo gli sembrò pronto ad affrontare anche questa prova. Esilio sì, ma con la silenziosa dignità che l’aveva sempre caratterizzato.
“Beh – sospirò tristemente, accarezzando le orecchie del cane – adesso mi restano solo due saluti da fare.”

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Capitolo 6
*** Il pedone e il suo re ***


“Colonnello, posso entrare?” chiese aprendo la porta, dato che non aveva ricevuto nessuna risposta al suo bussare.
L’ufficio era deserto e la scrivania di Mustang, davanti alle finestre, vuota. Indeciso sul da farsi, Fury mosse qualche passo nella stanza: non capiva dove potesse essere finito il suo superiore. Guardandosi distrattamente intorno, notò sulla scrivania la scacchiera che Falman aveva restituito. Era disposta per iniziare una nuova partita, con i pezzi bianchi dalla parte della sedia del colonnello e quelli neri pronti per un ipotetico avversario.
Si avvicinò fissando i due schieramenti. Torre, cavallo, alfiere, regina, re… dietro c’erano tutti i pezzi importanti, davanti i pedoni. Fury sfiorò col dito la testa tonda di uno di questi ultimi. Uno dei suoi difetti nel gioco degli scacchi e che aveva sempre timore di usare i pezzi grossi e quindi si affidava molto spesso solo ai pedoni: la regina, l’alfiere, il cavallo…gli sembravano tutti così complicati, con le loro possibilità di movimento e, soprattutto, così indispensabili che aveva sempre paura di rischiarli in mosse azzardate. E proprio per questo finiva sempre per perdere.
“Vuoi fare una partita, sergente?” chiese il colonnello posandogli una mano sulla spalla.
Fury si girò a guardarlo: non l’aveva nemmeno sentito entrare. Non aveva avuto ancora occasione di incontrarlo da quando era uscito dall’ospedale. Fisicamente non sembrava risentire delle sue dimissioni premature: del precedente scontro si vedevano soltanto le ferite sul dorso della mano destra, dove lui stesso si era inciso il cerchio alchemico per dare sfogo alle sue fiamme.
Sicuramente era tormentato dalla situazione che si era creata, ma non lo dava a vedere. Era sempre stato bravo a mascherare le sue emozioni, specie quando potevano essere segni di debolezza. Fury, come il resto della squadra, non dubitava assolutamente sui sentimenti che il colonnello provava per loro: quella sicurezza ostentata, quella determinazione, servivano a proteggere se stesso e anche i suoi subordinati.
“No signore, - rispose, mentre il colonnello lo oltrepassava e si sedeva alla scrivania – sono venuto a prendere congedo da lei”
“Eri l’unico che non era ancora passato: ti aspettavo. Quartier generale del sud, eh?”
“Esatto”
“Aerugo…”
“Sì…- mormorò. Il nome di quel paese confinante gli sembrava così pesante. Tuttavia volle mostrarsi forte e disse – Non si preoccupi, signore: anche se non sono mai stato in battaglia i sottotenenti Havoc e Breda mi hanno dato utili consigli. Mi sento pronto ad affrontare questa prova!”
Mustang lo guardò per qualche secondo e poi si concesse di sorridere
“Cerchi sempre di apparire ottimista, Fury. Anche se tu stesso stenti a credere alle tue parole”
“E’… è così evidente?” sospirò
“Sergente, se c’è una cosa che non riesci a fare è nascondere i tuoi veri pensieri. Sei troppo onesto”
“E’ vero signore, ho molta paura ad andare in quel posto da solo. – confessò – Tutti sembrano così… pronti. Io, senza gli altri, mi sento davvero un debole”
“E’ normale che ti senta spaesato e pure i tuoi compagni sono preoccupati per te. Lo so che anche Falman non è mai stato al fronte, ma tra tutti sei tu quello che non ha mai vissuto esperienze lontano dal gruppo.” sospirò il colonnello
Fury ammise la verità di quelle parole e in qualche modo si sentì profondamente colpevole, quasi fosse un peso per la squadra. Non sapendo cosa dire, tornò a muovere con l’indice la testa di un pedone bianco.
“Da quello che so non ti piace molto giocare a scacchi – riprese Mustang seguendo il suo movimento – come mai? Eppure l’intelligenza non ti manca e le regole non dovrebbero essere un problema per te”
“No signore, non sono le regole il problema. E’ che… ho sempre paura di usare i pezzi. Vorrei vincere la partita senza perdite e quindi non faccio mai mosse offensive: ma invece di ottenere risultati mi trovo sempre chiuso nell’angolo”
“Quello che dovresti difendere è il tuo re. E’ lui ad essere l'unico indispensabile per il gioco, perché è il vero obbiettivo dell’avversario.”
“Come lei in questo momento, signore?” chiese improvvisamente
Mustang alzò lo sguardo su di lui, soppesando le parole appena sentite.
“Non sei uno sciocco, Fury, e dalla tua faccia intuisco che stai capendo più cose del previsto. Ma non fare un errore madornale: questa davanti a te è una scacchiera con pezzi inanimati. Voi siete i miei uomini e non vi ritengo sacrificabili. Non credi che ci sia una bella differenza?”
“Per lei, signore e anche per me. Ma per chi è contro di noi…”
“L’unica cosa che ti deve importare è quello che pensiamo io e te. – tagliò corto Mustang – Se vuoi credere di essere sacrificabile, allora stai facendo il gioco dell’avversario.”
“Ha ragione, signore, ma in questo momento mi sento molto… impotente e inutile. Davanti a quello che abbiamo visto in questi giorni, non vedo cosa possa fare un esperto di comunicazione che per giunta verrà mandato in un posto dove la sua specializzazione non gli servirà. Come faccio a non pensare di essere davvero sacrificabile?” si sfogò.
“Inutile hai detto? Come un pedone in mezzo a pezzi forti?” chiese il colonnello riportando lo sguardo sulla scacchiera
“Credo di sì…” ammise a quell’impietoso paragone
“Adesso ti svelo una cosa, Fury – e iniziò a spostare diversi pezzi nella scacchiera. Alla fine c’era una posizione di netto svantaggio per il re bianco: pareva che lo scacco matto fosse inevitabile, anche perché molti pezzi erano stati levati dalla scacchiera – io ho vinto molte partite grazie a un pedone”
Il sergente fissò perplesso il suo superiore, mentre questi prendeva un pedone bianco che era posizionato nella penultima casella dello schieramento avversario e lo faceva arrivare in fondo.
“Guardalo: non l’ha considerato nessuno una volta che è stato allontanato dalla zona principale, – continuò Mustang – eppure è arrivato alla fine della scacchiera… e cosa succede?”
“Che viene promosso – capì Fury – e rientra in gioco un altro pezzo eliminato”
“Esatto” e prese in mano la regina bianca. La mise al posto del pedone e fu scacco matto per il re nero.
“Lascia che ti sottovalutino, Fury. – mormorò il colonnello – Lascia credere loro che sei solo una pedina e che ti hanno mangiato. Ma quando mi servirai, ragazzo mio, tu sarai di nuovo qui… e scopriranno che eri solo lontano dalla zona principale della scacchiera e lo scacco matto sarà dato da tutti i pezzi e non solo dal re.”
“Non la deluderò, signore” sorrise Fury rincuorato da quelle parole che avevano rimesso a posto i pezzi della sua anima spaventata.
“Ci conto, sergente – disse il colonnello tendendogli la mano – a quando sarà il momento”
“A quando sarà il momento, colonnello” annuì stringendo con nuova sicurezza quella mano col dorso dalla cicatrice circolare.
Si diresse verso la porta, ma all’improvviso si ricordò di una cosa
“Signore, potrebbe tenere le mie radio mentre sono a sud?” chiese speranzoso
“Quelle macchine infernali che occupano metà del tuo pavimento? – sbuffò Mustang - Non ho tanto spazio a casa e poi non saprei che farmene.”
“Ma signore! Considerando che l’altro giorno ha fatto un disastro con tutti i canali…” esclamò imbronciato
“Peggio per te che non eri in casa. – sorrise con disinvoltura Mustang - Chiedi al tenente. Tanto a te non dice mai di no.”
“Lo farò – sospirò il ragazzo con un sorriso rassegnato – Arrivederci, colonnello. Stia bene”
“Anche tu, Fury.” mormorò Mustang rigirandosi tra le mani un pedone bianco

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Capitolo 7
*** La regina prigioniera ***


“No, Black Hayate! Non camminare in mezzo, rischi di farmi cadere!” esclamò Fury mentre il cane gli faceva le feste correndogli tra le gambe.
“Hayate a cuccia! - il tenente Hawkeye chiuse la porta e richiamò all’ordine l’esuberanza del suo animale. – Poggia pure tutto in quell’angolo, Fury. Ci sono tutte le scatole?”
“Sì, queste erano le ultime due” confermò il sergente posando sul pavimento le ultime delle sei scatole che contenevano le sue preziose radio.
“Farò in modo che questo piccolo monello non ci giochi; – promise la donna – so quanto ci tieni”
“Sono sicuro che si comporterà benissimo, vero bello?” sorrise Fury prendendo in braccio il suo amico peloso e ricevendo entusiastiche leccate sulla guancia.
“Hai tempo per una tazza di cioccolata? – chiese il tenente – Credo che manchino ancora alcune ore alla tua partenza”
“Mi piacerebbe – annuì Fury guardando l’orologio – Ma non vorrei disturbarla troppo. E’ appena tornata a casa da lavoro, prendendosi anche il disturbo di aiutarmi con le radio… sarà di certo stanca”
“Stai tranquillo, non mi disturbi affatto, sergente. Siediti mentre preparo tutto quanto”
 
Mentre l’odore di cioccolata iniziava a penetrargli nelle narici, il giovane soldato osservò la stanza che fungeva da soggiorno e che era collegata alla stretta cucina dove  si trovava il tenente. Era piccola ed essenziale, con un tavolo e alcune sedie al centro e un altro mobile con il telefono e altri pochi arredi. Spartana, come la padrona di casa, ma non mancava di infondere una sensazione d’accoglienza.
Black Hayate si era arrampicato sulle sue ginocchia e si era beatamente acciambellato nel suo grembo, nonostante fosse ormai così grande che ci stava appena.
“Ah, che indisciplinato – disse il tenente rientrando col vassio che posò nel tavolo – Quando vede te qualsiasi buona maniera sparisce.”
“Ma no, signora. – sorrise Fury grattando il cane dietro l’orecchio e provocando uggiolati di soddisfazione – a me non dispiace affatto!”
“Gli hai di nuovo dato da mangiare qualcosa fuori dai pasti, vero?”
“Io? Ehr… forse” arrossì colpevolmente
“Ecco perché era così felice di vederti… più del solito, s’intende”
“Non si arrabbi, tenente. Lo prenda come… un piccolo regalo di commiato” disse lui cercando di aggirare il rimprovero.
“Già, di commiato…”
La donna non aggiunse altro, ma si limitò a passargli la tazza di cioccolata calda.
Sorseggiandola in silenzio Fury osservò il suo superiore: nonostante indossasse l’uniforme, vederla in un ambiente casalingo le conferiva un aspetto più rilassato. Come se tutta la tensione e la preoccupazione sparissero in quella tazza di cioccolata e in quel cane bianco e nero che scondinzolava tranquillo.
Non sembrava la persona che quella mattina l’aveva ammutolito con quello sguardo urgente.
“Come è andato il suo primo giorno, signora?” chiese per rompere quel silenzio
“Non c’è male – ammise lei – di certo è più impegnativo di essere l’assistente del colonnello, ma mi ci abituerò.”
“E’ stato… insomma, è stata trattata bene?”
“Sì, sergente. Non ti preoccupare.” sorrise
Non sembrava spaventata da quanto succedeva: come se quel nuovo incarico fosse la cosa più normale del mondo. Come faceva a restare insensibile alla sensazione che quell’uomo doveva provocare per forza anche in lei?
“Fury – lo riscosse la donna che ora la fissava con attenzione – stamattina che cosa hai visto che ti ha turbato tanto?”
Il ragazzo fissò la sua cioccolata, cercando le parole adatte per non far trasparire le sue ansie. Ma poi si ricordò del commento del colonnello a proposito della sua incapacità di mentire e quindi si sentì obbligato ad essere schietto.
“Mi ha turbato il fatto di vederla dietro un uomo che non sia il colonnello. – iniziò – Vederla al servizio di una persona che è probabilmente il nostro nemico più pericoloso. Tenente, io… perché nel guardare quell’uomo ho avuto la stessa sensazione che ho provato davanti a quel mostro che voleva ucciderci?”
“Certo, mi aspettavo che avresti intuito. – sospirò la donna – Hai visto da vicino quell’homunculus che ci ha aggredito ed è una sensazione che non puoi dimenticare. Però vorrei che tenessi il silenzio in proposito.”
“Allora il Comandante Supremo…” iniziò a voce più alta del solito
“Fury, basta. Ti ho chiesto di tenere il silenzio.” gli disse con pacatezza ma con un tono che non ammetteva repliche
“Basta?! – esclamò sconvolto sbattendo la tazza sul tavolo – Tenente! Lei non può stare al servizio di un hom…”
“Ho detto basta, sergente maggiore!” lo ammonì
In oltre tre anni che la conosceva non era mai stata così brusca nei suoi confronti. E lui stesso non aveva mai osato rivolgersi in quel modo a un suo superiore.
Black Hayate intuì l’improvvisa tensione e scese dalle sue ginocchia, emettendo un guaito perplesso.
“M… mi perdoni signora, – arrossì – non mi sarei mai dovuto permettere di usare questi toni”
“Fury, scusa. – disse lei dopo una decina di interminabili secondi – Non volevo sgridarti in questo modo, davvero. Ma devi capire che la situazione è davvero delicata. Quello che hai scoperto potrebbe metterti in pericolo più di quanto non lo sia già e questa è l’ultima cosa che voglio.”
“Perché per loro io non sono che una pedina…”
“Esatto: a me e al colonnello tengono sotto stretta sorveglianza e se ci lasciano vivi vuol dire che abbiamo una qualche importanza nei loro giochi. Sono perfettamente consapevole di essere un ostaggio nelle loro mani per tenere buono il colonnello… ma se per me è così, non posso dimenticare che Havoc è vivo per miracolo e non per la loro misericordia. C’è il concreto rischio che per te non si farebbero scrupoli. Meglio che credano che tu non sappia.”
“E cosa possiamo fare?”
“Per ora assecondarli. Io continuerò ad essere l’assistente del Comandante Supremo e approfitterò della situazione per controllarlo. Tu vai a sud e cerca di resistere e di vivere, tenendo per te quello che hai capito.”
“Tenente, non ha paura di stare così vicino a quell’uomo?” chiese, sorpreso da quelle parole così pratiche
La donna lo guardò e dopo qualche secondo sorrise
“Certo che ne ho, soldato. A dire il vero, non credo di essere mai stata così spaventata.” ammise tristemente lasciando trasparire dagli occhi castani la profonda angoscia che realmente provava.
Fury non seppe che dire. Si sentiva un idiota per la domanda che aveva fatto e ora cercava in tutti i modi parole per poterla consolare, sollevare da quella paura che doveva attanagliarle il cuore. Lei sapeva che sarebbe stata più sola rispetto a tutti loro.
Poi capì cosa poteva fare e si alzò.
“Si ricorda la notte precedente la mia prima missione? Quando ero terrorizzato all’idea di poter sparare a una persona?” chiese, portandosi accanto a lei
“Certo – annuì – eri così confuso. All’epoca eri appena diciottenne. Sei troppo grande perché io ti tenga ancora la mano, non credi?” sorrise
“Non era proprio questo che intendevo” ribattè Fury prendendole le mani e stringendole, come aveva fatto lei anni prima per tranquillizzare un ragazzo spaventato. Si era ricordato di come quel gesto gli aveva dato conforto e ora voleva cercare di trasmettere le medesime sensazioni alla donna che stava davanti a lui, consapevole prigioniera di nemici così potenti.
Per i primi istanti le mani del tenente restarono rigide nella sua stretta, ma poi si abbandonarono a quel contatto, così umano e così necessario. Come due bambini che al buio si stringono le mani per farsi coraggio e allontanare gli incubi della notte. Perché la consapevolezza di non essere soli nell’affrontare l’oscurità era forse il più grande conforto che potevano provare.
“E’ vero, ormai sono grande – disse timidamente – ed è giusto che sia il mio turno di dare conforto a lei, signora. Credo che, in determinate situazioni, non si sia mai troppo adulti per certi gesti.”
“Mio piccolo soldato…” sorrise il tenente
“Adesso devo proprio andare” dichiarò, ricambiando il sorriso e lasciando la presa con gentilezza.
“Buon viaggio – disse lei alzandosi dalla sedia e accompagnandolo verso la porta, seguita da Black Hayate – e promettimi di fare attenzione.”
“Lo farò, signora.”
La donna posò una mano sulla maniglia, ma poi la ritrasse e lo guardò
“Fury, tu non sei mai stato in un campo di battaglia…” iniziò
Il soldato ebbe un sospiro tremante mentre il pensiero di quello a cui andava incontro tornava a presentarsi. Involontariamente cercò lo sguardo del suo superiore, invocando un soccorso che tutti gli altri suoi compagni e il colonnello non gli avrebbero mai potuto dare.
Ci fu un attimo di esitazione. Poi la mano destra della donna salì ad accarezzare i capelli neri, non con il rude affetto di Breda o Havoc, ma con una delicatezza estrema, quasi avesse paura di fargli male.
“So che gli altri ti avranno sicuramente riempito di consigli e forse te ne dovrei dare anche io. – mormorò – Ma… proprio come tre anni fa, non posso preparati né proteggerti da quello che sarai costretto a vivere, e non puoi nemmeno immaginare quanto la cosa mi faccia sentire impotente”
Il soldato chiuse gli occhi, aggrappandosi a quelle carezze che cercavano di confortarlo per quanto lo aspettava
“E’ così orribile… come quando ho ucciso la prima volta?” si trovò a chiedere in un sussurrò
Lei non rispose, ma smise di accarezzargli i capelli, inducendolo ad aprire gli occhi
“Ti posso chiedere un enorme favore, mio piccolo soldato?” gli chiese alla fine
“Ma certo…” mormorò il ragazzo arrossendo
“Non lasciare che quello che sarai costretto a vivere ti distrugga, ti prego. – chiese, fissandolo con profonda, dolce, tristezza - Non permettere che l’orrore abbia la meglio su di te, Fury. Dimmi che lo farai.”
Il giovane resse quello sguardo, capendo che il tenente gli chiedeva qualcosa di più, rispetto agli altri suoi compagni: gli chiedeva di restare integro in una maniera molto più profonda. E forse era molto più difficile da fare, rispetto al sopravvivere fisicamente.
“Lo farò, signora – annuì solennemente dopo qualche secondo. E poi sorrise - E quando il colonnello avrà bisogno di noi… torneremo, tutti quanti. E la nostra squadra vincerà, come ha sempre fatto: tutti insieme.” dichiarò
“La nostra squadra insieme… sì, hai ragione” disse la donna
Gli occhi castani erano limpidi e non c’erano più la paura e l’angoscia che per qualche minuto li aveva oscurati. Con un tenero sorriso gli prese la testa tra le mani e depose un lieve bacio sulla fronte.
“Arrivederci, piccolo soldato. Tieni fede a quanto mi hai promesso” lo salutò lasciandolo andare
“Arrivederci, tenente” salutò Fury.

Uscendo dal palazzo e dirigendosi verso la stazione si sentì fiero di se stesso per essere riuscito a confortare la donna. Era sinceramente convinto che tutto quello che era stato detto in quella giornata di saluti avesse unito la squadra come non mai. Anche se erano lontani il loro legame non poteva spezzarsi: era questa la loro forza.
Poi pensò all’ultima richiesta del tenente: non permettere che l’orrore abbia la meglio su di te.
Sentì l’ansia percorrergli le vene: sapeva che la guerra era una cosa tremenda e che lui era sicuramente una delle persone meno indicate per stare in un campo di battaglia.
Ma era davvero capace di distruggere una persona?
Gli tornò in mente la prima volta che aveva ucciso: solo dopo quel gesto aveva saputo riconoscere negli occhi dei suoi compagni la ferita dell’anima che si sarebbero portati dietro per sempre. Adesso aveva paura di averne intravisto una ancora più profonda negli occhi del tenente… e l’idea di subirla lo spaventò come mai era successo in vita sua.
 

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Capitolo 8
*** Ai confini della scacchiera ***


Fotcett.
Per il resto della sua vita questo nome avrebbe suscitato solo incubi.
Era la regione di confine con Aerugo e ad attraversarla non sembrava diversa da molte altre zone di Amestris. Finchè non si arrivava alla frontiera: lì il mondo finiva e iniziava l’inferno.
 
Come aveva immaginato, non aveva fatto in tempo ad arrivare al Quartier Generale del Sud, che era stato immediatamente trasferito al fronte.
Nonostante fosse giunto lì con i migliori propositi di essere forte, di non permettere a niente di intaccarlo, la situazione era diventata subito alienante: senza troppe spiegazioni gli avevano fornito l’equipaggiamento e l’avevano spedito in una grande baracca che fungeva da dormitorio. Quella per qualche giorno sarebbe stata la sua casa: era infatti un campo di preparazione, dove venivano radunati i nuovi rinforzi, le truppe fresche, per essere istruiti sulle operazioni di guerra.
Ma non era come all’Accademia, dove c’erano ragazzi con massimo tre anni di differenza che ignoravano completamente gli orrori di una battaglia. Qui c’erano soldati di ogni età ed esperienza che sapevano di essere tremendamente vicini alla morte. E questa consapevolezza era così tangibile che Fury se ne sentì quasi soffocato. Erano ben pochi quelli che si mostravano spavaldi: forse erano i più sciocchi, i più impreparati, i più spaventati; la maggior parte stava in silenzio e attendeva. Erano rari anche quelli che parlavano tra di loro: qualche commilitone che si rincontrava o soldati che avevano la fortuna di essere stati trasferiti assieme; Fury li osservava con invidia, perché iniziava a capire che avere compagni fidati in questo frangente poteva fare la differenza tra il lasciarsi andare e sopravvivere.
Ripetendosi mentalmente le parole che i suoi compagni, il colonnello e il tenente gli avevano detto, cercava di convincersi che lui non era solo, che era come se gli altri fossero con lui. Ma la realtà che stava vivendo faceva sentire il peso della separazione più di quanto avesse immaginato e ben presto si sentì più sperduto di quanto lo fosse mai stato in tutta la sua vita.
Le istruzioni che vennero loro date furono un breve ripasso delle esercitazioni fatte in Accademia. Piccole squadre di massimo cinque persone, oppure coppie di due soldati alla volta: nelle trincee non c’era spazio per gruppi numerosi.
La cosa più destabilizzante fu la mancanza di un obiettivo: non città da conquistare o nemici da respingere. Nessuno dei loro superiori disse loro che la guerra sarebbe finita nel momento in cui avrebbero vinto le forze nemiche. No, gli unici ordini furono che quelle trincee non potevano restare vuote, per non dare al nemico l’idea che avevano ceduto; e poi sparare ad ogni soldato avversario che giungeva a portata di tiro.
Era la follia più totale e la cosa più agghiacciante fu che tutti loro non avevano avuto la forza di obbiettare a questi ordini.
 
Dopo tre giorni erano stati mandati nel campo di battaglia.
Topi di laboratorio che corrono impazziti nel labirinto di cartone: ecco cosa erano diventati. La loro vita era correre disperatamente in quelle piste scavate sul terreno, evitando bombe e proiettili: si arrivava a un punto prestabilito, dove un superiore dava nuovi ordini, e si riprendeva a correre fino a quando non se ne poteva più. E a quel punto si doveva continuare o morire.
A dire il vero le occasioni di usare il fucile erano rare: c’era ben poco da sparare in quanto le truppe di Aerugo preferivano lanciare bombe e granate contro l’avversario piuttosto che mandare i propri soldati sotto tiro nemico. L’esercito di Amestris usava sì le bombe, ma pretendeva che i suoi uomini tentassero delle sortite: erano quelle le cause delle perdite maggiori perché quando si usciva dalla trincea correndo in campo aperto per raggiungere la successiva, si diventava oggetto di un tiro a segno impressionante.
Trovati ogni maledetto giorno che passì lì una ragione per andare avanti, correre ed evitare di morire.
E’ questo che aveva detto il sottotenente Breda: ma quella mattina, in una vita che sembrava lontana secoli, Fury non aveva immaginato quanto potesse essere difficile trovare una ragione per vivere in un mondo dove morire era la norma.
Dopo i primi due giorni, il suo corpo e la sua mente iniziarono a sprofondare in una sorta di inesorabile, disperata, apatia. Quell’orrore quotidiano iniziò a distruggere le sue certezze: i volti dei suoi amici, della sua famiglia, la sua radio, così come il sapore della vita divennero ricordi lontani.
Al terzo giorno, quando vide i primi morti tra i suoi commilitoni, la sua idea di non essere sacrificabile crollò del tutto.
 
Nella terza settimana, arrivò la notte in cui il baratro si aprì sotto di lui.
Nella trincea il terreno era melmoso e scivoloso per la pioggia che aveva imperversato fino a poco prima.
Fury sedeva immobile su una pozzanghera, con la schiena poggiata pesantemente contro la parete di nuda terra: aveva gli occhi chiusi, il respiro minimo. Il fucile giaceva nel suo grembo, mentre le mani, sporche di fango, erano abbandonate lungo i fianchi. Sentiva il braccio destro gonfio e percorso da uno strano torpore, ma se stava fermo non provava dolore. Forse era ferito, ma il cappotto bianco era così coperto di fango da non capire se era presente anche del sangue.
Non dormiva. Teneva gli occhi chiusi per evitare l’orrore che avrebbe visto se li avesse aperti.
Una granata ed era tutto finito: la squadra di tre soldati che correva lungo una delle trincee più esterne era stata colpita.
Se senti che ti devi buttare a terra non chiederti perché, ma fallo.
Una voce lontana e sconosciuta era riaffiorata nella mente proprio quando la granata li stava per raggiungere. Si era buttato in avanti, come se fosse stato scaraventato da una persona molto più grossa di lui, senza chiedersene il motivo. Due soldati erano morti, lui no.
La sensazione di qualcuno che si avvicinava gli fece aprire gli occhi e si guardò intorno, invano. Erano ormai ore che stava lì e dubitava che qualche squadra di soccorso sarebbe venuta a prenderlo: la notte era calata su di lui e su quei due cadaveri.
Era terribilmente vicino a loro, lo sapeva: avrebbe dovuto lasciarli lì e continuare la sua corsa, ma l’impatto della granata era stato così forte da levargli quel poco di forza che ancora aveva. Ma, soprattutto, aveva visto i corpi dei suoi compagni ed era come se l’avessero incatenato a loro.
Non sapeva nemmeno come si chiamavano: il gruppo era stato formato quella stessa mattina e lui ormai non si preoccupava più di imparare i nomi. Ne aveva cambiato già così tanti…
Le nuvole si diradarono e il chiarore della luna piena illuminò impietoso quella trincea di morte, mostrando a Fury l’orrore che aveva cercato di evitare per così tante ore.
Erano entrambi biondi e la loro carnagione chiara adesso aveva assunto il bianco della morte. Uno di loro giaceva prono sul terreno, le braccia spalancate quasi in un ultimo gesto di disperazione, la parte inferiore del corpo lacerata dalla granata. Ma era il secondo a fargli venire gli incubi: perché lo stava guardando. Al contrario del compagno, giaceva di lato con le mani che artigliavano il terreno, cercando scampo alla morte che era arrivata in un tremendo squarcio sul ventre. Il viso era rivolto verso Fury e aveva un’espressione di doloroso stupore; gli occhi azzurri erano aperti, le pupille fisse, quasi ad accusarlo: perché sei vivo?
“Mi dispiace – ansimò il ragazzo, febbricitante, rispondendo a quella domanda, spingendosi ancora di più contro la parete della trincea – non lo so perché. Ti prego… ti prego non guardarmi!”
Dopo interminabili minuti riuscì a distogliere lo sguardo da quel viso e muovendosi lentamente, quasi avesse paura di scatenare l’ira dei morti, sollevò la testa verso il cielo.
Senza nessuna luce artificiale a offuscarlo, il firmamento splendeva sopra di lui, quasi a compensare con la sua bellezza la morte che stava nella trincea. La luna era al suo culmine e non gli era mai sembrata così grande, ma lui cercava un’altra cosa.
“La stella polare – mormorò in preda al delirio – la stella polare… maresciallo per favore, non riesco più…”
Singhiozzò e abbassò lo sguardo, incapace di reggere ancora quella visione così dolorosamente bella, dove non riusciva più a trovare la stella che tanto cercava, senza nemmeno ricordarsi perché.
E davanti a lui di nuovo quegli occhi che lo fissavano. Erano così azzurri…
Avrei dovuto esserci io al tuo posto… disse il ricordo di altri occhi del medesimo colore.
“Avrei dovuto esserci io al tuo posto” ripetè Fury rivolto al cadavere.
Ma quelle parole non bastarono a far passare l’accusa in quello sguardo immobile e fu di nuovo prigioniero in attesa di giudizio. Perché non era morto?
Frammenti di voci e ricordi iniziarono a sfrecciare nella sua testa dolorante. Tante schegge appuntite che lo facevano impazzire.
Fiamme, spari, mostri…
“Vuoi fare una partita, sergente?”
Un rifugio vuoto, senza radio, scatole imballate, una scacchiera rovesciata…
“La nostra squadra… insieme…”
“Tu fai un elenco di tutti quelli che ti daranno fastidio in trincea…”
Questi occhi azzurri… loro mi stanno dando fastidio!
“Vado a vedere se il cibo dell’Ovest è così buono come dicono…”
“Scommetto che farà molto freddo al quartier generale del Nord…”
Il re bianco sotto scacco matto, tutti i pezzi a terra… un pedone lontano dal centro… la stella polare offuscata
“Trasferimento immediato… Quartier Generale del Sud…”
“Assistente personale del Comandante Supremo…”
“Sei troppo grande perché io ti tenga la mano, non credi?”
“Dimmi che lo farai… ”
“Andate tutti via!! – gridò disperato levandosi con un gesto brusco l’elmo e lanciandolo contro quella faccia che continuava a fissarlo. La colpì in pieno e finalmente gli occhi azzurri furono coperti dal grigio del metallo – Smettetela!” supplicò
Le lacrime scesero copiose, mentre il braccio destro prese a pulsare più intensamente. Le voci sparirono dalla sua testa e fu solo silenzio. Era solo, impotente, con la morte accanto a lui che gli prosciugava qualsiasi lucidità. La follia della trincea lo stava uccidendo e quell’inferno di fango, terra e sangue stava diventando la sua tomba.
L’orrore stava avendo la meglio su di lui.
Tornò a rivolgere lo sguardo al cielo, ma le lacrime gli offuscavano così tanto la vista che vide soltanto delle macchie indistinte.
Serrò gli occhi e si abbandonò su quella parete di terra umida.
“Non voglio morire… Mamma… mamma, ti prego, dove sei?” invocò sommessamente.
Continuò a chiamare quel nome fino a quando la febbre e la stanchezza non ebbero la meglio su di lui, facendolo sprofondare in un sonno carico di incubi e di terrore.
E fu in quella condizione che i soccorsi lo trovarono al sorgere del sole.


 

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Capitolo 9
*** I legami che riportano in vita ***


Quando riprese i sensi la prima cosa che percepì fu la coperta sopra di lui. Man mano che la consapevolezza del suo corpo tornava, si accorse di essere sdraiato su di un letto, con un morbido cuscino sotto la sua testa. Non era la dura branda dove si buttava ogni sera che poteva passare lontano dalla trincea.
Dove si trovava?
“Ah, ti sei svegliato! – esclamò una voce accanto a lui – Quando ti hanno portato qui eri in preda a un delirio tale che ti hanno dovuto sedare.”
Girando la testa, nonostante la vista sfocata per la mancanza degli occhiali, scoprì che a parlare era stato un uomo, sulla trentina, sdraiato su un letto e con una gamba ingessata: aveva i capelli neri e sottili e stava fumando una sigaretta. Per qualche secondo Fury pensò che c’era qualche cosa di strano in quell’uomo: non capiva se la sigaretta o i capelli del colore sbagliato.
“Dove…?” chiese debolmente accorgendosi di avere la gola fastidiosamente secca.
“Nell’ospedale di Senna, a una trentina di chilometri dall’inferno della guerra. Fai come me e goditela finchè puoi, prima che ci rimandino in battaglia” dichiarò lo sconosciuto con un secco sorriso.
Sentendo la parola ospedale, il giovane si portò istintivamente la mano sinistra al braccio destro e si accorse che era fasciato. Il senso di torpore e di gonfiore era notevolmente diminuito, ma ora poteva sentire piccole fitte di dolore.
Una leggera brezza entrò da una finestra aperta e si sentì il cinguettio di alcuni uccellini.
Era tornato nel mondo dei vivi, ma tutto gli sembrava così fuori posto che decise di chiudere di nuovo gli occhi e tornare nel misericordioso oblio che l’aveva colto durante quella notte in trincea.
 
“Il gonfiore dovuto all’infezione sta diminuendo. E’ un buon segno: vuol dire che le schegge che ti hanno ferito il braccio sono state tutte rimosse. – spiegò il medico mentre un’infermiera gli cambiava la fasciatura – Ti terremo sotto antibiotici per ancora cinque giorni per scongiurare qualsiasi ricaduta, così anche le contusioni minori avranno tempo di stabilizzarsi”
Fury annuì debolmente mentre sedeva sul letto e sentiva quelle mani gentili ed esperte sul suo braccio.
Dopo il primo giorno di totale smarrimento, le voci dei dottori l’avevano in parte risvegliato dall’apatia in cui era piombato. Gli avevano raccontato che era stato trovato svenuto da una squadra di soccorsi che faceva il giro delle trincee alla ricerca dei dispersi: era privo di sensi e in preda a una forte febbre. L’avevano portato all’ospedale da campo ma, data la carenza di posti letto, si era deciso di trasferirlo nella vicina città di Senna. Qui era rimasto un altro giorno in preda al delirio prima che i medicinali iniziassero a fare effetto.
Stava osservando la porta dal quale il medico era appena uscito, quando il suo compagno di stanza disse
“Infermiera, le dispiace se fumo?”
“Avevo detto solo una al giorno, soldato! – lo rimproverò la ragazza – Questa mi pare la seconda”
“E’ la prima, lo giuro. E poi al giovanotto non sembra dare fastidio, vero?”
Fury si girò a fissare l’uomo che si accendeva la sigaretta e dava un tiro soddisfatto. Subito all’odore di disinfettante della stanza si aggiunse quello del tabacco: un qualcosa di familiare che lo fece in qualche modo rilassare.
“Certi pazienti sono davvero incontrollabili. – sospirò l’infermiera, finendo la medicazione. Poi si rivolse a Fury – Bene, qui ho finito: adesso ti attacco la flebo di antibiotici e ti lascio in pace.”
Lui la osservò con occhi vacui mentre collegava il tubo alla boccetta di liquido appesa a un gancio accanto al letto. Nel vedere l’ago, ebbe la sensazione di aver dimenticato qualcosa di estremamente importante. Il contatto del cotone bagnato di disinfettante sul braccio lo fece sussultare.
“E’… è proprio…necessario?” si ritrovò a dire
“Cosa? – chiese la donna – Non mi dire che ti spaventano gli aghi, soldato. Guarda, non vedi che ho già fatto?”
Abbassando lo sguardo sul suo braccio e vedendo l’ago infilato nella vena, sentì un leggero brivido attraversargli la schiena. Si appoggiò al cuscino e trasse un profondo respiro.
“Ah, a proposito! – continuò l’infermiera tirando fuori un bigliettino dalla tasca del camice – Pare che abbiano tentato di mettersi in contatto con te. Tieni, in questo foglio c’è un numero di telefono a cui hanno detto di chiamare agli orari scritti in basso. Direi che domani puoi provare a scendere da questo letto, dato che non hai più la febbre”
 
Quelle cifre sul foglietto di carta non gli dicevano nulla. Rilesse più volte anche gli orari, ma nemmeno quelli gli fornirono qualche indizio utile.
Da una parte si diceva che doveva incuriosirsi, porsi delle domande.
Ma la trincea l’aveva obbligato ad eliminare qualsiasi forma di pensiero e a ridursi a puri automatismi e gesti istintivi. La mente non doveva intervenire perché poteva rallentarlo.
Adesso, nella tranquillità dell’ospedale, avrebbe potuto riflettere, ricordare: ma riprendere a pensare voleva dire fare i conti con l’orrore… era meglio lasciar scivolare tutto nell’indifferenza.
All’ora indicata si diresse verso i telefoni, come se avesse ricevuto un ordine, e compose il numero
“Pronto? Qui quartier militare di Pendleton. Con chi parlo?”
Pendleton? Quel nome non gli diceva nulla.
“Mi… mi è stato detto di chiamare”
“Ah si? Scusa, ma chi saresti?”
“Sergente maggiore Kain Fury”
“Ah… aspetta! Credo di aver capito. Ehi, qualcuno vada a chiamare il sottotenente. Tu attendi in linea.”
Il sottotenente? Trattenne il fiato mentre le gambe iniziarono a tremargli e fu costretto ad aggrapparsi con forza al tavolo su cui stava il telefono.
“Fammi passare, scemo! E’ urgente! – disse una voce seccata che si faceva sempre più vicina  – Fury! Fury, dannazione! Che fine avevi fatto!?”
“Sottotenente Breda!” singhiozzò mentre tutti i ricordi, i sentimenti, le emozioni che aveva obliato uscivano prepotenti e invadevano ogni fibra del suo essere, riportandolo con forza alla vita.
“E’ da settimane che cerco di contattarti! Porca miseria, sergente! Potevi sprecarti di far sapere ai tuoi compagni che stavi bene! – sbottò la voce – Eravamo tutti in pensiero! Giuro che ti prenderei per quei tuoi stupidi capelli dritti e ti sbatterei la testa contro il muro!”
“Mi dispiace, – pianse – giuro che mi dispiace!”
“Smettila di piangere. – disse Breda in tono più tranquillo - Non sono arrabbiato... ero solo in pensiero. Ho saputo che sei in ospedale. Che è successo?”
“Io ci ho provato – disse Fury cercando di controllare le lacrime – Ho fatto come ha detto lei, ho cercato una ragione… una maledetta ragione ogni giorno. Ma non è…”
“Non è facile, lo so. Come stai? Sei ferito gravemente?”
“Io… io no. Solo delle schegge e qualche livido. Ma… signore… gli altri sono morti e io ero lì… ero lì per tutto quel tempo e non ho potuto fare niente! – singhiozzò sfogando il terrore di quelle interminabili ore – E i loro occhi mi accusavano… perché io ero vivo! Ci sarei… ci sarei dovuto essere io al loro posto!”
“Oh porca… - sospirò la voce di Breda – Kain, ascoltami. Va tutto bene. Non è colpa tua. Non dovevi essere al loro posto, non c’è accusa che possa essere rivolta contro di te. Purtroppo è la realtà della trincea: la morte prende alcuni e lascia altri. Non cercare una giustizia in questo. Ma tu sei vivo… e questo è importante, per me e per gli altri. Per il colonnello, il tenente, Falman e Havoc… per le persone che ami.”
“Le persone che amo…” mormorò
“Pensa a loro, ragazzo. Pensa a casa tua, ai tuoi genitori. Pensa che prima o poi questa storia finirà.”
“Io…”
“Hai ventuno anni, sergente. Hai tutta la vita davanti. – dichiarò la voce – Non permettere a quell’orrore di avere la meglio su di te”
“Come ha detto il tenente…” sussurrò sorpreso
“Eh?”
“Niente. Io… signore che… che devo fare?” chiese pendendo da quella voce come un assetato davanti a una borraccia tesa
“Andare avanti. Quando ti rimanderanno in quella maledetta guerra ripeti a te stesso che quei bastardi non ti avranno mai. Corri, reagisci, ma non perdere il contatto con la realtà, non dimenticare. Ricordi cosa hai promesso al colonnello?”
“Ho promesso…” esitò
“Avanti, soldato, non aver paura di dirlo”
“Ho promesso che quando avrebbe avuto bisogno di me, io ci sarei stato.”
“Appunto. E possiamo deluderlo?” dalla voce si capiva che stava facendo uno dei suoi sorrisi sarcastici
“No… non possiamo”
“Bravo ragazzo. Senti, non posso stare molto al telefono. Puoi chiamarmi almeno una volta alla settimana? Giusto per sapere che sei vivo”
“Nel fronte non ci sono telefoni…”
“Ma sto parlando con il vero Kain Fury? No… perché queste frase lui non la direbbe mai.”
“Ha ragione signore – ammise lui, mentre una parte della sua mente iniziava, di propria iniziativa, a macinare piano piano l’idea di un sistema per collegarsi alle linee – non ci avevo pensato”
“Si vede che sei proprio in convalescenza. Cerca di riprenderti, ragazzo! Adesso chiamo Falman, anche lui era preocupatissimo per te!”
“Mi dispiace, davvero… sono stato bravo solo a farvi stare in pensiero.”
“Lascia perdere. Adesso segui il mio consiglio: chiama a casa. Ascolta la voce di tua madre, non potrà farti che bene.”
“Si, signore”
“Ah, un’ultima cosa. Ti ricordi che dovevo provare il cibo dell’Ovest?”
“Si”
“Beh, a quanto pare ne vale davvero la pena, Fury. Te lo devo proprio far assaggiare!”
“Va bene signore – riuscì a sorridere – La terrò informato, promesso!”
“Ci conto!”
 
Come riattaccò dovette restare diversi minuti con gli occhi chiusi, respirando profondamente. Il ritorno improvviso al mondo, grazie alla voce di Breda, era stato così devastante che dovette riprendersi. Come una radio che è stata usata male per diverso tempo e finalmente torna a funzionare correttamente ed i circuiti hanno di nuovo il giusto flusso di energia. Proprio questa energia scorreva di nuovo nelle sue vene, ricordandogli chi era e perché era lì.
Era arrivato davvero vicino al baratro: stava per cadere nel gioco del nemico.
Se vuoi credere di essere sacrificabile, allora stai facendo il gioco dell’avversario.
Le parole del Colonnello gli risuonavano nella testa. Si sentiva uno sciocco: aveva rischiato di venire meno alla sua promessa; era stato vicino a deludere le aspettative che riponevano in lui. Perché lo scacco matto doveva essere dato da tutti i membri della squadra.
Come aveva potuto rischiare di commettere un errore così imperdonabile che poteva costare la vita a tutti quanti?
“Io non sono sacrificabile” disse a se stesso
E doveva vivere perché al momento giusto il suo aiuto sarebbe servito.
Ma anche e soprattutto perché lo doveva alle persone che amava.
Riprese il telefono e compose un altro numero.
“Pronto?” rispose la voce di colei che aveva invocato quando era allo stremo
“Ciao mamma” salutò, cercando di controllare la commozione
“Kain! Ciao tesoro! Come stai?”
Fury guardò un attimo il suo braccio destro
“Bene, mamma. – rispose dopo un secondo di esitazione – E tu e papà?”
“Tutto bene, caro. Tuo padre è andato in paese, che peccato! Gli avrebbe fatto davvero piacere sentirti!”
“Mi dispiace… è una chiamata improvvisa.” La voce di sua madre gli sembrava un balsamo fresco spalmato su delle ferite doloranti: sarebbe rimasto ore a sentirla.
“Ma tu puoi chiamare sempre, tesoro! Del resto non abbiamo installato il telefono proprio per sentirti più spesso? Ma racconta, come ti trovi a Central City? Da quando ti sei trasferito lì ti avrò sentito solo due volte.”
“E’… è tutto molto grande – disse arrossendo per la bugia. Non aveva la forza di dirle che non era più nella capitale, ma in piena guerra – Diciamo che è tutto diverso…”
“Tesoro, cosa c’è?” chiese la voce in tono gentile dopo qualche secondo di silenzio
“Niente, mamma, davvero” mormorò, pur sapendo che lei aveva già capito tutto: riusciva a immaginarsi persino la sua espressione con il solito sorriso paziente e comprensivo.
“Non sei mai stato bravo a dire bugie, Kain” sospirò
“Mamma… è che… - non poteva dirle che era in un ospedale dopo essere stato ferito al fronte. Ma non poteva nemmeno dire una menzogna che non sarebbe mai stata creduta. – E’ che purtroppo la mia squadra è stata momentaneamente separata… e mi sento spaesato” e questa era una realtà che sotto un certo punto di vista faceva più male della guerra.
“Capisco. Piccolo mio, lo so che sei estremamente legato ai tuoi amici… ma come hai detto tu è una cosa temporanea, no?”
“Sì… fino a nuovo ordine da parte del colonnello”
“Vedrai che non potrà fare a meno di voi per molto! Da quello che mi hai sempre raccontato, non riuscite a stare lontani per tanto tempo: siete così uniti. Un giorno me li devi proprio presentare, questi tuoi meravigliosi compagni”
“Appena questa storia finirà. Te lo prometto” sorrise lui
“Spero che tu possa venire a trovarci presto! Quando stavi a East City potevi tornare a casa più spesso. Mi manchi, piccolo mio.”
“Mi manchi anche tu, non sai quanto. – sospirò rendendosi conto di quanto fosse vero - Ma prometto che cercherò di chiamarti più frequentemente”
“Fallo, caro. Ti conosco, e so che in situazioni difficili tendi a chiuderti in te stesso, quando invece parlare e sfogarti ti farebbe bene. Io sono qui per questo, e lo sai. Mi dispiace solo di dovermi limitare alle parole e non poter essere lì ad abbracciarti. Ma forse ti metterei in imbarazzo”
“Non penso. In questo momento il tuo abbraccio è la cosa che vorrei di più al mondo” mormorò
“Oh, tesoro…”dalla voce si capiva che stava trattenendo anche lei le lacrime
“Mamma…”
“Dimmi”
“Grazie”
“Grazie di cosa?”
“Di esserci anche quando tutto sembra andare… per il verso sbagliato” disse mentre una singola lacrima gli colava sulla guancia.
“Beh, una madre serve anche a questo, non credi? Sarò sempre qui per te, pulcino mio, ogni volta che ne avrai bisogno, lo sai. Quindi promettimi che ora starai più tranquillo.”
“Va bene, te lo prometto. Purtroppo non posso stare molto al telefono… salutami tanto papà. Vi voglio bene, tantissimo bene!”
“Anche noi, Kain. A presto!”
 
“Allora, ragazzo, sei riuscito a fare quella chiamata?” chiese il suo compagno di stanza
Fury annuì mentre si rimetteva a letto. Adesso quella camera di ospedale gli appariva diversa, non sterile e settica, ma carica di luce con la finestra aperta che dava su un giardino alberato.
Il rumore degli alberi mossi dal vento, la luce del giorno, i colori… tutto sembrava essere tornato al suo posto.
Non permettere che l’orrore abbia la meglio su di te, Fury… Tieni fede a quanto mi hai promesso.
La voce del tenente risuonò limpida nella sua testa, non più come un ricordo sconosciuto che lo faceva impazzire. Adesso era legata a un volto, a un momento specifico… a qualcosa di estremamente importante.
“Gliel’ho promesso, tenente. – sussurrò con un sorriso – Non accadrà di nuovo.”
“Hai detto qualcosa?” chiese l’uomo del letto accanto
“Niente – rispose Fury – solo una cosa che mi era tornata in mente. E’ molto che sei ricoverato?”
“Una settimana – ammise il tipo dando una lieve pacca alla gamba ingessata – ma ne avrò per parecchio, mi sa. Ehi, vedo che sei loquace! Forse eri solo stordito dai farmaci… sai giocare a carte?”
“A carte? Dipende dal gioco” si sorprese Fury
“Nessun problema – rise prendendo un mazzo di carte dal comodino – direi che abbiamo abbastanza tempo libero. Ero stufo di fare solitari… forza, vieni qui. Vediamo come te la cavi a poker. A proposito, non so nemmeno come ti chiami”
Fury ebbe un attimo di esitazione, ricordandosi di come evitasse, ormai, di imparare i nomi di persone che probabilmente sarebbero passate nella sua vita come un soffio di vento. Ma quelli erano i pensieri di una pedina sacrificabile, e lui non lo era più… anzi non lo era mai stato
“Mi chiamo Fury. Sergente Maggiore Kain Fury”
“Un pari grado eh? Io mi chiamo Brook… Sergente Maggiore Alan Brook. E adesso, smezza giovanotto!”

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Capitolo 10
*** La stella che è dentro di me ***


“Allora era in squadra con te da due giorni?” chiese il militare seduto nel tavolo davanti a lui.
“Si, signore. – rispose Fury con lo sguardo basso – Il suo nome era Thomas Lyod, credo che fosse giunto al fronte la settimana scorsa.”
“Fammi controllare – disse l’uomo sfogliando un grande volume davanti a sé. Fury lo osservò e vide al suo interno un elenco infinito di nomi – Sì, eccolo… effettivamente era giunto qui più o meno una settimana fa. Meno male che hai dato informazioni abbastanza specifiche… spesso devo ricorrere al numero di matricola del braccialetto di riconoscimento, ma poi ripescarlo nell’elenco richiede sempre tempo. Comunque aspetta un minuto – continuò alzandosi – approfitto della tua presenza così porti alcuni documenti all’ospedale di campo”
“All’ospedale di campo?”
“Sì. Ti conviene far vedere quei tagli che hai in viso. Torno subito”
Fury si toccò la guancia e si rese conto di avere un taglio che prese subito a bruciargli. Non si era nemmeno reso conto di essersi ferito, seppur in maniera lieve: forse quando era caduto.
Ancora una volta una granata, ancora una volta l’istinto di buttarsi a terra. Havoc gli aveva davvero salvato la vita con quelle parole dette in ospedale: aveva imparato a dare retta al suo corpo senza pensarci una frazione di secondo. Era almeno tre o quattro volte che una caduta lo salvava da danni grossi.
Purtroppo il suo compagno non era stato così fortunato. Quando si era girato per incitarlo a correre, dopo che la bomba era esplosa così vicino a loro, aveva visto che non c’era niente da fare.
Ancora un altro…- pensò con amarezza.
Ma dopo quell’orribile notte, nessun cadavere l’aveva più imprigionato. Adesso, quando capiva che non poteva fare nulla, continuava la sua corsa spinto ad andare più veloce dalla rabbia e giurando a se stesso che non l’avrebbero mai preso. Per se stesso, per le persone che amava.
Girò il libro su cui l’impiegato militare aveva cercato il nome di Thomas. Quel registro era un elenco dei soldati, seguendo il loro ordine d’arrivo al fronte. Pagine e pagine di nomi, una lista infinita… centinaia e centinaia. Nome, cognome, grado, matricola e data d’arrivo… e troppo spesso accanto la scritta “deceduto”, a volte accompagnata dalla motivazione, e la data di morte.
Fury torno indietro alla data in cui era giunto al fronte più di cinque mesi prima. L’elenco degli arrivi occupava almeno due pagine: il suo nome era uno dei pochi senza la scritta deceduto accanto.
“Cerchi qualcuno di tua conoscenza?” chiese il militare rientrando
“No, signore – disse Fury rimettendo il libro nel corretto verso – volevo solo…”
“Da quanto sei qui al fronte?” chiese dandogli i documenti
“Cinque mesi e mezza” sospirò
“Beh, forse tra qualche settimana riuscirai a ottenere un congedo. Da quello che so dovrebbero arrivare nuovi rinforzi e sarà possibile fare dei cambi.”
“Capisco. Grazie signore, porto i documenti all’ospedale come mi ha chiesto.”
 
Era stato diverse volte all’ospedale da campo in quei mesi, fortunatamente per ferite superficiali che necessitavano solo di essere pulite e bendate. Il giorno dopo era sempre a combattere.
Quel posto faceva veramente un brutto effetto: non era come gli ospedali civili, così puliti e silenziosi anche nelle corsie con diversi pazienti. No, in un ospedale da campo in un fronte di combattimento come quello con Aerugo, non c’era tempo per pensare a creare un ambiente tranquillo e pulito: qui ogni secondo poteva fare la differenza tra la vita e la morte di un ferito. Decine e decine di soldati stavano nella stessa grande stanza, i più fortunati in duri letti, altri seduti sul pavimento o su giacigli di fortuna. Ogni tanto c’era qualche momento di relativa tranquillità, con un numero di pazienti accettabile e pochi casi gravi: ma quasi sempre bastava una settimana per spezzare quella tregua e far di nuovo giungere una fiumana di feriti di tutte le tipologie. E purtroppo diversi non uscivano vivi da quel posto.
Percorrere quella lunga sala, con letti da entrambe le parti, era come attraversare un girone infernale, con anime di dannati che invocavano, bestemmiavano, osservavano, morivano. E soprattutto si chiedevano chi eri e perché eri vivo e sano.
I medici e le infermiere che lavoravano in quell’inferno avevano ben poco della pacata gentilezza di quelli dell’ospedale di Senna. Qui si era spesso costretti a interventi decisi, tenendo fermo il paziente per procedere con operazioni al limite della sopportazione: ultimamente non c’era tempo di trasferire un ferito grave in un ospedale con sale operatorie attrezzate, come era successo per lui. Fortunatamente, quando Fury entrò, notò con sollievo che la situazione era affollata, ma tranquilla.
“Come ti posso aiutare?” disse una donna di mezz’età dal viso stanco
“Mi è stato chiesto di consegnare questi documenti, signora – disse Fury – E poi, se è possibile…” si indicò i tagli in viso
“Oh bene, sono le autorizzazioni ai rifornimenti di medicinali che aspettavamo. – disse lei sfogliandoli. Poi alzò lo sguardo – Oh, quei tagli dici? Vieni, te li disinfetto e ti metto dei cerotti”
 
“Ecco qua, ragazzo” dichiarò la donna mettendo il secondo grosso cerotto bianco sulla fronte.
“Grazie mille, sign…” non terminò la frase perché delle urla strazianti irrupperò nella grande sala.
“Presto! Venite ad aiutarci! – esclamò un soldato ricorperto di polvere e sangue – una granata ha preso in pieno due squadre!”
“Oh cavolo! Questa calma stava durando troppo” sbottò la donna correndo verso i feriti che arrivavano barcollanti e trasportati da altri soldati.
Fury esitò solo un istante e poi li raggiunse, aiutando a trasportare quei soldati nei pochi letti disponibili. Cercava di stare calmo, mentre i medici gridavano disposizioni e i feriti gemevano e urlavano. In pochi secondi si era creato un caos di sangue, urla e dolore.
Dopo che ebbe aiutato a sistemare i feriti, non potè fare altro che spostarsi di lato e osservare passivamente i medici che si davano da fare correndo da un letto all’altro. I loro ordini alle infermiere erano secchi e urgenti e lasciavano intuire che per diversi casi la situazione era davvero disperata. Fury aveva intravisto le ferite di alcuni di loro: non avevano speranza.
“Come sarebbe a dire che non potete fare nulla?!” eclamò una voce, furiosa
“Soldato, mi dispiace. Ma la ferita del tuo compagno non lascia scampo” rispose quella di un medico
“Ma non vedete che è cosciente? Significa che…”
“Sì, lo so che è cosciente. – continuò il medico - Ma la granata gli ha lacerato il ventre, non possiamo intervenire in alcun modo. Adesso fammi andare da chi posso ancora aiutare”
Fury spostò lo sguardo verso quella scena. A giacere su un letto zuppo di sangue era un soldato forse della sua stessa età: stava supino premendo con le mani quella che doveva essere la giacca della divisa e che fungeva da improvvisato tampone per una ferita al ventre. Il viso era pallido e dagli occhi castani scendevano disperate lacrime: era perfettamente cosciente di quello che stava succedendo, del fatto che stava morendo.
Accanto a lui, in piedi vi era un altro soldato, sporco di sangue, con il viso rosso e collerico. Continuava a sbraitare contro i medici e contro questa maledetta guerra, tanto che alcuni suoi commilitoni furono costretti a prenderlo per le braccia e portarlo via.
Fury riportò la sua attenzione al giovane morente, lasciato da solo, e con discrezione si avvicinò al letto.
“Ciao” disse sedendosi di lato, incurante del sangue
Il giovane si girò verso di lui, guardandolo incredulo e terrorizzato
“Sto morendo… – balbettò con voce spaventata – E’ vero quello che dicono? Sto morendo?”
“Ssh, va tutto bene – mormorò posandogli la mano sulla fronte sudata – Non ascoltare quello che dicono.”
“Ma tu chi sei?”
“Un soldato, come te – sorrise delicatamente, lisciandogli i capelli sporchi – mi chiamo Kain, e tu?”
“Will…”
“Ti fa molto male la ferita?” chiese, pur conoscendo già la risposta
“A… a dire il vero… no. Ma… sento tanto… tanto freddo” singhiozzò
“Presto passerà tutto, Will – gli disse – Non pensarci… volgi la tua mente ad altro”
“C’è stato quel botto assordante… e poi quella polvere e le urla… ma io. Io non ho sentito dolore… perché non… Dio, non voglio morire!” pianse
Fury lo lasciò sfogare per qualche secondo, indeciso su cosa dirgli. Non era giusto che passasse quegli ultimi minuti di agonia da solo, pensando alla morte
“Sai che cos’è la stella polare?” chiese alla fine
“La stella… polare?” mormorò il giovane volgendo gli increduli occhi castani su di lui – N… no”
“Devi sapere che da piccolo mi piaceva sempre guardare il cielo – iniziò sommessamente, quasi stesse raccontando ad un bambino la favola della buonanotte – e pensavo che le stelle fossero tutte diverse tra di loro. Ogni notte il firmamento era così diverso, così grande… faceva anche un po’ paura.
Poi un giorno ho letto una storia: parlava di alcuni mercanti che si erano persi nel grande deserto ad Est. Tutto sembrava sempre uguale e dopo tanti giorni, senza trovare alcuna pista, erano terrorizzati perché non sapevano più come tornare alle loro case, alle loro famiglie."
“E cosa è successo?” mormorò il ragazzo che ora gli prestava tutta la sua attenzione
“Incontrarono un vecchio saggio che viveva in un oasi. Egli offrì loro ospitalità nella sua tenda e gli insegnò uno dei grandi segreti del cielo: la stella polare. E’davvero speciale e brilla più delle altre: una volta che impari a riconoscerla sai che indica sempre il nord e avrai sempre un punto di riferimento. Anche quando sei senza speranza e ti trovi in posti sconosciuti, hai questa guida meravigliosa”
“Ed esiste davvero?” chiese con un singhiozzo Will
“Sì, Will – sorrise Fury asciugandogli con l’indice una lacrima che colava sulla guancia – Una delle persone a me più care, una notte me l’ha mostrata insegnandomi come trovarla. Pensa che per sicurezza, le notti dopo sono andato a vedere se riuscivo a individuarla… e così è stato. E’ sempre lì: come una magia.”
“Ad indicare il nord?” la voce era sempre più debole, ma lo sguardo sembrava più sereno e sollevato. Ormai restava poco ed il giovane non stava più pensando alla morte.
“Sì, a indicare il nord. Ma sai, Will, ho scoperto una cosa molto più importante… ciascuno di noi ha una stella polare dentro di sé. Ci indica la strada da seguire, aiutandoci quando le situazioni sono veramente difficili e tutto sembra andare male: ci fa capire che non siamo mai soli.”
“Credi che anche io…”
“Chiudi gli occhi – gli consigliò coprendoglieli col palmo della mano – e pensa al viso di tua madre”
“Lo vedo” bisbigliò lui dopo qualche secondo
“E’ come se fosse qui con te, adesso. A dirti che va tutto bene, che gli incubi sono lontani… che il dolore sta sparendo. E’ la tua stella polare… e ti sta chiamando, riportando a casa, via dall’orrore e dalla paura. Sei con lei, adesso: l’incubo è finito.”
Il soldato bisbigliò qualcosa e il suo respiro si fece più tranquillo. Dopo qualche minuto smise del tutto e Fury gli levò la mano dal viso: aveva un’espressione serena, quasi stesse dormendo dopo una lunga, logorante marcia.
Si alzò con tristezza e vide che davanti a lui c’era l’infermiera che poco prima l’aveva curato. Aveva gli occhi lucidi
“E’ stato molto bello quello che hai fatto per questo ragazzo” mormorò
“Non mi sembrava giusto lasciarlo solo” rispose Fury con un sospiro
“Lo so, ma in un ospedale di guerra questi gesti sono davvero rari. A volte ci dimentichiamo che… siamo esseri umani”
“Io ho promesso a una persona importante che non l’avrei dimenticato. – sorrise Fury – Non rinuncio a me stesso”
“Quella persona sarà molto fiera di te – sorrise di rimando la donna – Adesso vai, a lui ci penso io”
 
Due notti dopo l’aria frizzante d’inizio primavera scosse i capelli neri di un soldato che si muoveva solitario. Aveva con sé lo zaino e il fucile, pronto a partire per una nuova missione. Scivolò silenziosamente lontano dalle baracche che fungevano da dormitori, allontanandosi da quel fronte insanguinato che gli aveva ferito l’anima.
Kain Fury era ufficialmente un disertore.
Quando fu a distanza di sicurezza si concesse di pensare a quanto lo aspettava: homunculus, cerchi di trasmutazione intorno al paese, il colpo di Stato, forse la fine del mondo.
Il giorno della promessa
Era quella la voce che era strisciata su tutta Amestris, unendo persone che non si erano mai conosciute, ma disposte a combattere per salvare il paese. Perché si trattava di questo: non il comandante supremo, ma qualcuno di più pericoloso che considerava l’intera specie umana come una mera risorsa per i suoi scopi.
Ma nessuno di loro era sacrificabile.
“Io non sono sacrificabile, nessuna delle persone che amo lo è” disse a voce alta.
Girandosi per l’ultima volta verso il fronte, ripensò a quella lontana notte in cui due occhi azzurri l’avevano fissato per ore, facendogli sempre la stessa domanda: perché sei vivo?
Adesso sapeva la risposta e la dichiarò a chiare parole nella sua mente e nella sua anima
Io vivo per le persone che amo: perché voglio rivedere il sorriso dei miei genitori;
perché ho promesso ad un mio amico di andare con lui ad assaggiare il cibo occidentale;
perché devo dimostrare ad un altro che non ho più paura degli aghi, e renderlo fiero di me;
perché devo sentire da una persona a me cara quanto è fredda la  parete di Briggs e fargli sapere che ho trovato la stella polare che è dentro di me;
perché voglio sorridere a una donna che è come una seconda madre e dirle che non mi sono perso, voglio stringerle ancora le mani e farle capire che non siamo da soli contro l’oscurita.
Io vivo perché ho promesso al colonnello che quando avrebbe avuto bisogno di me, sarei tornato.
Vivo perché lo scacco matto viene dato da tutti i pezzi. Perché la mia squadra vincerà come ha sempre fatto: tutti insieme!
Alzò lo sguardo al cielo: quella notte non c’erano nuvole e il firmamento brillava splendido come non  mai.
Fury individuò subito la stella polare e sorrise, tendendo l’indice verso la sua direzione, quasi a sfiorarla. Era lì, come sempre… a guidarlo verso nord.
Ma adesso sapeva che a portarlo in quella direzione era sopratutto un’altra stella, dentro di lui: e brillava per le sue motivazioni, per le persone che amava, per le promesse che avrebbe mantenuto.

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Capitolo 11
*** Le promesse mantenute ***


Central City sembrava così diversa di prima mattina: silenziosa e con le strade deserte, restia a svegliarsi quasi fosse consapevole che quel giorno si sarebbero verificati eventi che l’avrebbero cambiata totalmente.
Fury percorreva le strade di periferia cercando di tenersi nascosto. Si rendeva perfettamente conto di dare nell’occhio con lo zaino e il suo cappotto, teoricamente bianco, pieno di fango, macchie e strappi; per non parlare dei suoi capelli sporchi e arruffati e del viso tirato e con quei due vistosi cerotti.
Era stata una settimana di viaggio estenuante: purtroppo la sua nuova condizione di disertore non gli aveva permesso di prendere le vie più rapide e agevoli ed era dovuto ricorrere a strade secondarie e orari a volte improponibili; diversa parte del percorso era stato costretto a farla a piedi.
Essere giunto a Central City gli sembrava un sogno che si avverava: lui e i suoi compagni erano più vicini che mai. La squadra era in qualche modo riunita.
Certo, il sottotenente Havoc ormai era distante ad est, in parte al sicuro da quanto stava per succedere. Ma Fury sapeva che il suo biondo compagno era vicino a loro, come era stato vicino a lui in quella dannata trincea, anche se per il primo periodo non se n’era reso conto. Aveva combattuto con lui e per lui.
Con questo pensiero arrivò al posto dell’appuntamento: un vecchio capannone in disuso in una zona periferica della città. Tirò fuori la sua M5 e aprì un lieve spiraglio nel grosso portone: sembrava tutto deserto, in regola. La prudenza gli fece fare un rapido giro di perlustrazione, ma pareva che nessuno ci avesse messo piede da mesi. Si concesse un sospiro di sollievo e si sedette sul pavimento, poggiando la schiena su una grossa cassa di legno.
Era ancora presto per l’incontro, fissato nel pomeriggio. Tirò fuori dal suo zaino il panino che gli era avanzato dalla sera precedente e fece una rapida colazione. Negli ultimi giorni erano pochi i pasti decenti che aveva potuto fare ed era sicuro che in tutti quei mesi aveva perso parecchio peso. Non si guardava allo specchio da un sacco di tempo, ma forse era meglio così.
Con un sospiro si strinse nel cappotto e decise di prendersi qualche ora di sonno: il colonnello avrebbe avuto bisogno di uomini freschi e lui aveva decisamente bisogno di dormire.
 
Erano le due del pomeriggio quando Riza Hawkeye arrivò davanti al capannone. Sapeva di essere in anticipo, ma si era data un certo margine di tempo per depistare eventuali nemici.
Fortunatamente Black Hayate non dava segni di irriquietezza e sembrava che la situazione fosse sotto controllo. Tuttavia, dopo qualche secondo che furono davanti all’ingresso, il cane iniziò a grattare con impazienza alla porta emettendo uggiolati.
“Cosa c’è?” mormorò il tenente accarezzando la testa dell’animale.
Prese la pistola e aprì delicatante uno spiraglio nell’ingresso, pronta a fare fuoco. Black Hayate, appena riuscì a passare, corse come un matto all’interno dell’edificio: non sembrava arrabbiato, ma solo incredibilimente eccitato.
“Hayate!” lo chiamò la donna con un bisbiglio, ma il suo animale sembrava fuori controllo.
Chiudendo la porta alle sue spalle, si mise a seguirlo finchè non lo vide scomparire dietro una cassa.
“Si può sapere cosa…” iniziò, ma poi si inginocchio per bloccare il cane che stava entusiasticamente tirando con i denti la manica del cappotto di Fury.
“Sssh, buono! – sussurrò il tenente – Non fare troppo rumore”
Il cane sembrò finalmente reagire al comando della sua padrona e si calmò, limitandosi a sdraiarsi con soddisfazione accanto al suo compagno di giochi umano, profondamente addormentato, e a leccargli la mano.
Riza rimase in ginocchio accanto a Fury, notando con dolore come la guerra avesse lasciato dei profondi segni sul viso del soldato. Non erano i due grossi cerotti, ma la sua espressione nel dormire che non riusciva ad essere del tutto rilassata ma con una lieve angoscia: la stessa che aveva lei quando a Ishbar si addormentava consapevole che il giorno dopo sarebbe riniziato tutto daccapo.
“E’ tutto finito, piccolo soldato - sussurrò con delicatezza – Non sei più in quel posto di morte”
Posò il palmo della mano su quella guancia pallida e sporca e quasi d’istinto, il giovane inclinò la testa verso quel contatto, emettendo un lieve mormorio.
“Sssh, da bravo, puoi ancora dormire – mormorò accarezzandolo sulla tempia – Non aver paura, ci sono io a proteggerti”
Avrebbe voluto indurlo a sdraiarsi, ma aveva timore che muovendolo troppo da quella posizione seduta l’avrebbe svegliato, privandolo di sonno prezioso. Si sedette accanto a lui e gli fece posare la testa sulla sua spalla per evitare che ciondolasse troppo facendosi venire un brutto torcicollo. Vide che Black Hayate si era accucciato tra loro due e con pazienza si dispose ad aspettare, assaporando quella profonda, inaspettata quiete prima della tempesta.
 
Fury aprì gli occhi dopo circa un’ora. In un primo momento sentì che la sua testa poggiava su qualcosa di morbido e pensò al suo zaino: si strofinò leggermente contro quel tessuto ma ebbe la strana sensazione che ci fosse qualcosa di diverso.
“Ben svegliato, sergente maggiore” disse una voce accanto a lui.
Guardando verso il basso vide Black Hayate sdraiato con il muso sopra la sua gamba. Improvvisamente gli arrivò l’intuizione e alzò la testa.
“Tenente! – esclamò arrossendo e rendendosi conto che aveva dormito appoggiato alla sua spalla – Io… io… mi scusi! Non mi sono reso conto…”
“Stai tranquillo, Fury – sorrise la donna stiracchiandosi – eri così esausto che non ho voluto svegliarti prima del tempo.”
“Sì, ma ho dormito sulla sua spalla… non è una cosa che avrei dovuto…”
“E’ tutto a posto, davvero. Con la testa a ciondoloni rischiavi un torcicollo”
“Non mi sono accorto di niente: ero proprio fuori combattimento” sospirò rassegnato
“Eri semplicemente stanco, dopo tutto quello che hai passato – disse il tenente con tono pratico. Poi lo guardo e sorrise – Sono felice che tu sia sano e salvo”
“Sono felice pure io di vederla, signora. – sorrise lui di rimando, poggiandosi di nuovo contro la cassa – E’ come le avevo detto: quando il colonnello ci avrebbe richiamati saremo stati di nuovo tutti insieme”
“Eh sì”
I loro occhi si incontrarono e Fury si sottopose a quello sguardo indagatore che scrutava la sua anima. Sapeva benissimo che il tenente stava cercando di capire se lui aveva mantenuto la sua promessa.
“I primi tempi – disse, senza smettere di guardarla – ho creduto che non ce l’avrei mai fatta. Era come essere perduto in un limbo di dolore che ti fa dimenticare il motivo stesso per cui vivi”
“Oh Fury…” sospirò lei
“Sei lì, in quella trincea, a chiederti se le prossime ore saranno le ultime, se la prossima granata ucciderà anche te. E la cosa terribile è che dopo un po’ non te ne importa nemmeno… in fondo è un modo come un altro per far smettere quella follia. Ne muoiono tanti accanto a te, cosa avresti tu di speciale per essere graziato?”
Il tenente lo guardava con gli occhi lucidi. Fury si chiese per un attimo se era il caso di smettere, ma se c’era una persona che aveva il diritto di conoscere quanto fosse profonda la sua ferita, quella era Riza Hawkeye. Ma non perché cercava in lei qualche conforto, o qualche miracolosa guarigione da quell’orrore: in fondo lui aveva vissuto la guerra da soldato di trincea, lei da tiratore scelto. Semplicemente era a lei che aveva promesso di non farsi annientare dall’orrore.
La donna gli prese la mano e disse
“Non sei mai stato sacrificabile” mormorò
“Adesso lo so… ma ho dovuto toccare il fondo prima di capirlo. – confessò, ricambiando la stretta e ripensando a quella notte di mesi prima e a quegli occhi azzurri che lo fissavano – E’ dura dirlo, ma stavo per venire meno alla promessa, signora. E’ stato grazie al sottotenente Breda che sono tornato alla vita… sentire una voce amica al telefono dopo settimane di trincea è stato come rinascere.”
“E’ perché siamo una squadra, Fury. L’hai detto tu stesso che vinciamo sempre insieme”
“Già. – sorrise – E da quel momento ho capito che non ero sacrificabile: non potevo fare un torto alle persone che amo e che voglio proteggere. Ho capito che stavo rischiando di morire, non solo fisicamente, ma anche in un modo più orribile, quello contro cui lei mi aveva messo in guardia. Stavo dando per scontata la morte delle persone intorno a me.”
Black Hayate si svegliò e vedendo che era desto pure Fury abbaiò felice e gli saltò in grembo.
Sorridendo il sergente accarezzò con la mano libera le orecchie del cane e disse
“Siamo soldati, è vero… ma siamo prima di tutto persone. E come tali proviamo sentimenti e abbiamo bisogno l’uno dell’altro, anche nei momenti peggiori. Non è giusto evitare di ricordare i nomi dei tuoi commilitoni solo perché da un momento all’altro potresti perderli; non è giusto lasciare un soldato a morire da solo, perché non c’è più niente da fare. Non è giusto rinunciare a me stesso… solo perché nella trincea è più facile dimenticare e lasciarsi andare. Io… io voglio continuare ad essere felice. E lo so che forse sembrano parole sconsiderate di fronte a tutti quelli che sono morti… ma forse è un torto più grande nei confronti della vita che ho ancora e che condivido con le persone che amo”
Black Hayate abbaiò con entusiasmo, quasi ad approvare le sue parole.
“Oh Fury, grazie davvero – mormorò il tenente prendendo la sua testa bruna tra le mani e posando la fronte contro la sua – hai mantenuto la promessa, piccolo soldato… e non sai che sollievo mi hai dato con queste parole”
Fury mormorò qualcosa, imbarazzato per quel gesto così improvviso. Per fortuna Black Hayate venne in suo soccorso spingendo con impazienza il muso tra le teste dei due umani, desideroso di attenzioni.
“E’ letteralmente impazzito come ha sentito il tuo odore” dichiarò il tenente alzandosi in piedi
“Anche io ho sentito la tua mancanza, piccolo – sorrise Fury alzandosi a sua volta con il cane in braccio – E scommetto che hai fatto buona guardia a tutti quanti!”
“E’ stata la migliore guardia del corpo che potessi mai volere”
“Signora – chiamò il sergente lasciando scendere il cane – è andato tutto bene? In questi mesi ho potuto parlare solo col sottotenente Breda e qualche volta con il maresciallo Falman… insomma, sapevo che eravate tutti vivi, ma…”
“E’ andato tutto bene – lo rassicurò – non è stato facile nemmeno per me e per il colonnello, ma ce la siamo cavata. In fondo non siamo mai stati veramente soli.”
Fury sorrise intuendo il sottinteso di quelle parole.
“E’ quasi ora di muoversi, vero?” chiese infine prendendo lo zaino
“Sì, manca ancora Breda e siamo pronti ad andare”
In quel momento sentirono un rumore e si girarono verso l’ingresso, mentre il tenente metteva mano alla pistola. Ma subito sorrisero quando videro la robusta figura del sottotenente che entrava, quasi evocata dalle loro parole.
“Sottotenente!” esclamò Fury con gioia, correndo incontro al compagno.
“Dannazione, ragazzo, sei proprio impresentabile – sghignazzò Breda arruffandogli i capelli – avresti bisogno di una bella doccia”
“Non ne ho avuto occasione!” sorrise il sergente alzando le spalle
“Questa volta passi – annuì l’uomo prendendolo per il mento e fissandolo – Niente di grave questi due cerotti, vero?”
“Solo tagli superficiali”
“Ottimo. Allora signora, - si rivolse alla donna che li aveva raggiunti – è un piacere rivederti”
Riza sorrise mentre si sistemava la giacca e prendeva in mano il fucile
“Domani le cose si metteranno in moto – disse – Facciamo ciò che dobbiamo, sottotenente Breda, sergente Fury…”
“Smettila con questa storia del sottotenente – sorrise Breda – Adesso sono solo un normale disertore”
Fury sospirò a quell’affermazione: adesso iniziavano i guai grossi
“Le cose si fanno torbide” esclamò rassegnato.
Riza si voltò verso di lui e sorrise
“Quando sarà tutto finito, il colonnello dovrà prendersi le sue responsabilità”
Fury non potè fare a meno di ricambiare il sorriso, pensando che iniziava la vera missione: adesso era quasi tutto a posto in quanto era con i suoi compagni e avrebbe agito insieme a loro, come era giusto che fosse.
Tre disertori e un cane uscirono dal capannone per andare a incontrare il loro re.
 
Il giorno dopo un furgone dei gelati procedeva ad alta velocità per le vie di Central City. Ma al posto di gelati trasportava un intero arsenale, un gruppo di disertori, un ostaggio e un cane.
Fury non potè far a meno di pensare che una scena del genere non poteva che avvenire con il colonnello.
Finalmente si sentiva al suo posto, con i suoi compagni, a fare qualcosa in cui credeva veramente.
Assieme al colonnello aveva ritrovato quella determinazione inossidabile che gli faceva salire l’adrenalina: la stanchezza gli era completamente sparita e si sentiva lucido e vigile, pronto a qualsiasi azione. Vedere il tenente di nuovo accanto al suo superiore era stata la ciliegina sulla torta: era quello il posto di Riza Hawkeye, non dietro all’homunculus King Bradley.
A proposito del comandante supremo, il suo sguardo si spostò verso la signora Bradley: ecco, forse quella era l’unica parte che gli dispiaceva davvero. Si capiva perfettamente che quella donna non c’entrava nulla con gli homunculus e che era totalmente ignara dei complotti sul paese. A Fury aveva fatto male vedere la paura nei suoi occhi: era sicuro che doveva essere una persona molto dolce e gentile e non meritava tutto questo.
“Fury, ho subito bisogno di un collegamento telefonico!” disse Mustang dal sedile di davanti, girandosi verso il restro del furgone
“Cosa? - sbiancò il sergente maggiore, rinsanvendo dai suoi pensieri – Ma signore, non ho niente con cui…”
“Ho detto che mi serve un collegamento” disse per la seconda volta il colonnello. Poi si girò, come se gli avesse ordinato la cosa più normale del mondo.
“Non… - balbettò Fury guardandosi intorno tra tutte le casse delle munizioni che stavano in quel furgone - … io non posso…” cercò disperatamente lo sguardo di Breda, ma ottenne solo un sorriso divertito
“Beh, ragazzo, questa è materia tua. – disse Breda – Io non ti posso proprio aiutare”
“Tieni sergente! – disse improvvisamente Rebecca, l’amica del tenente, gettandogli una grossa borsa – forse questa fa al caso tuo”
“Ma è una radio da campo! – si illuminò Fury – Funziona?”
“Ah non lo so… l’ho caricata all’ultimo pensando che poteva fare comodo.”
Al ragazzo tremavano le mani mentre tirava fuori dalla borsa quell’apparecchio. Erano mesi che non toccava più le sue amate radio, ma gli sembrava una vita. Emise un sospiro ansioso, chiedendosi se fosse ancora in grado di far funzionare quelle macchine, se le sue mani erano ancora in grado di fare quei lavori così delicati e sensibili.
“E’ quello per cui sei nato, – gli disse il tenente, girandosi verso di lui – non puoi averlo dimenticato. Ricordi che mi hai detto? Che non hai rinunciato a te stesso”
Fury annuì lievemente, trasse un lungo respiro e poi prese in mano la situazione
“Il segnale c’è ancora – annunciò iniziando ad accendere i vari meccanismi – ma devo assolutamente trovare una nuova sintonizzazione. Ho bisogno di un… di un… ehm, qualcuno ha un…” il suo sguardo cadde sulla signora Bradley
“Signora – chiese inginocchiandosi accanto a lei – potrebbe essere così gentile da prestarmi quella spilla che indossa?”
La donna lo fissò con aria interrogativa e a Fury ricordò sua madre, quando lui le chiedeva qualche attrezzo, come una forchetta o un ago da cucire che usava per i suoi esperimenti di elettronica. Fu quindi con naturalezza che le rivolse un sorriso carico di aspettativa.
La signora Bradley esitò per un istante e poi si slacciò la spilla, porgendogliela con mano tremante.
“Grazie mille, signora. Le prometto che gliela restituisco appena finisco!” esclamò.
Tornò quindi a lavorare alla radio:
 “Devo cambiare questi contatti… sottotenente, per favore, può passarmi quel pezzo di fil di ferro?”
“Allora Fury, come procede?” chiese il colonnello girandosi di nuovo.
“Cinque minuti e avrà la sua linea signore – disse subito senza distogliere l’attenzione dal lavoro che stava eseguendo – ma dobbiamo andare dove c’è un palo dell’elettricità. E’ necessario fare il collegamento da lì.”
“Perfetto. Hai sentito sottotenente Ross? Sai dove andare?”
“Certo colonnello!”
 
“Allora, come mi collegherò ci sarà solo da comporre il numero” disse Fury porgendo al sottotenente Ross la cornetta. Poi si avvicinò al palo dell’elettricità e dalla piccola cabina che stava alla base prese un grosso cavo e una strana cintura.
Mentre se la sistemava il colonnello si avvicinò a lui.
“Mesi in trincea non ti hanno fatto perdere il tuo talento, eh Fury?”
“A quanto pare no, signore” ammise sistemandosi in vita la cintura e assicurandola con un gancio al palo.
“Mi ricordo che tempo fa un sergente di mia conoscenza stava piagnucolando sull’utilità che poteva avere un esperto di comunicazione in una storia così grande” disse con un significativo sorriso.
Fury stava per iniziare l’arrampicata ma si fermò con un piede già piantato contro il palo.
“Sono stato uno sciocco, signore… - ammise rispondendo al sorriso – ma come vede sono arrivato in fondo alla scacchiera e ora posso dare il mio contributo allo scacco matto, come promesso.”
“Ah – annuì Mustang – ma un pedone non è un pezzo inutile?”
“Nessun pezzo è inutile o sacrificabile, signore: – dichiarò il sergente – e se mi hanno sottovalutato, tanto peggio per loro e meglio per noi.”
“Molto bene. – concluse il colonnello dandogli una pacca sulla spalla - Adesso procurami il collegamento radio”
“Subito!”
Facendo leva sugli appigli, si arrampicò con l’agilità di una scimmia fino alla cima del palo. Si concesse un secondo per assaporare la brezza fresca che gli investiva il viso e poi armeggiò con i cavi e alcune prese. Dopo qualche istante fece un cenno positivo e scese a raggiungere i suoi compagni.
Come si avvicinò al colonnello gli vide fare una faccia strana
“Havoc?” esclamò il suo superiore
Fury trattenne il respiro e per un attimo credette di essersi immaginato quel nome. Ma poi vide che anche Breda aveva la stessa espressione stupita: era proprio Havoc al telefono.
Dopo un secondo un sorriso gli apparve nel viso: adesso la squadra era davvero insieme.
“Ti pagherò appena ce l’avrò fatta. Aprimi un conto!” disse il colonnello
 
Finito il collegamento, mentre gli altri decidevano sul da farsi, provvide a smontare i cavi e a portare la radio dentro il furgone. All’interno vide la signora Bradley, seduta in un angolo con lo sguardo basso.
“Tenga signora – disse, avvicinandosi e porgendole la spilla – è stata veramente gentile a prestarmela”
La donna prese in mano il monile e sospirò
“Cosa accadrà adesso?” chiese
“Non lo so – ammise Fury – ma… vorrei davvero che lei credesse alle mie parole: il colonnello non le farebbe mai del male.”
“Credi che mio marito e mio figlio…” non riuscì a proseguire la frase e si mise il viso tra le mani.
A Fury si strinse il cuore nel vedere quella donna straziarsi per due homunculus che l’avevano usata in quel modo. Pensò a sua madre e all’amore infinito che provava per lui e per suo padre e l’idea che sentimenti simili potessero essere sfruttati così biecamente lo fece infuriare.
Si costrinse a ingoiare la rabbia e si inginocchio davanti a lei
“Posso immaginare la sua preoccupazione – mormorò – Ma sono sicuro che in questo momento anche suo marito e suo figlio saranno in pensiero per lei e certamente vorrebbero che fosse forte.”
La signora abbassò le mani e lo guardò con le lacrime agli occhi
“Glielo dico perché non vorrei mai vedere mia madre in queste condizioni… - continuò - vorrei che si facesse coraggio, per favore”
“E tua madre lo sa che sei qui, ridotto in questo modo?” gli chiese la donna sfiorandogli uno dei cerotti
“No - ammise Fury abbassando lo sguardo – non volevo si preocupasse…”
La signora sospirò
“Hai ragione, loro… loro mi chiederebbero di essere forte. Soprattutto Selim… oddio quanto vorrei che fosse qui per stringerlo a me! Il mio bambino!” singhiozzò
Fury si sedette accanto a lei e le passò un braccio attorno alle spalle, lasciandola sfogare
 “Andrà tutto bene, glielo prometto…” mormorò dopo qualche minuto
“Dopo che hanno tentato di ucciderci tutti… non dovresti fare certe promesse” disse tristemente
“Io invece voglio prometterlo… e farò di tutto per mantenere quanto detto”
“Si vede che sei un bravo ragazzo. – dichiarò la signora con un sorriso tirato – E’ da molto che non vedi tua madre?”
“Quasi un anno, ormai” sospirò Fury
“Quando tutto finirà, se andrà bene come dici… promettimi che andrai da lei e… e l’abbraccerai come solo un figlio può fare. Sono certa che anche se non le hai detto nulla, sarà stata molto preoccupata per te”
“Molto probabile, signora. E le prometto che appena posso tornerò a casa e farò quanto mi ha chiesto” sorrise

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Capitolo 12
*** Un mare d'angoscia ***


Quando tiri via una pellicina dall’unghia a volte ti fai davvero male, ma non ti chiedi mai se la parte di pelle che ti stai staccando provi dolore.
Forse era successa una cosa simile in quei tremendi momenti in cui quella cosa nera era penetrata nell’edificio, sommergendolo. Non capiva nemmeno se era annegato, soffocato… morto.
Cercò un battito di cuore che non esisteva, voleva muovere mani e braccia, vedere, toccare sentire, ma non c’era più niente di tutto questo: non aveva più forma che potesse essere percepita. Era solo pura energia.
Energia, risorsa, sacrificio.
Questi concetti una volta gli sarebbero risuonati in testa, ma ora, privo di corpo, lo imprigionavano in un incredibile e potente vortice di disperazione e angoscia.
Voleva pensare ai suoi compagni, a quello che stava succedendo, ma era come chiedere a una pellicina staccata dal dito di provare ancora la sensazione di far parte del corpo. Non ne aveva più la facoltà, poteva solo stare in balia di una potenza più forte di lui che aspettava di prosciugarlo, consumarlo, sacrificarlo.
Abbiamo fallito… è finita!
Voleva piangere, gridare, disperarsi… sbattere i pugni a terra. Ma non poteva, non c’era nulla: solo un dolore che non poteva nemmeno sentire suo, perché apparteneva a decine di milioni di anime attorno a lui. Perché adesso era solo anima… e una goccia in mezzo all’oceano non può sperare di essere sentita.
I ricordi della sua vita iniziavano a sparire: come se fosse proibito avere una propria individualità. C’era solo sofferenza e angoscia, uguale e indistinta per tutti. Non vedeva, ma percepiva che intorno a lui non c’era via di scampo. Anche se solo a livello di intuizione, sapeva di essere parte di una cascata di energia che stava per essere trascinata.
Avrebbe voluto opporsi, per l’ultimo ricordo di pericolo che gli rimaneva, ma era come cercare di evitare di nascere. Si era sentito così quando le contrazioni di sua madre l’avevano spinto fuori dal grembo per farlo venire alla luce quella sera di…? Di quando…?
La forza trascinatrice ebbe la meglio su qualsiasi opposizione avesse potuto tentare e fu scaraventato fuori da quell’oceano di anime.
Stava per essere consumato, lo sapeva, ma forse… almeno quel senso di soffocante angoscia sarebbe terminato, assieme al resto del mondo.
 
Che cos’era adesso quella strana esigenza?
Tum.
Ecco, adesso andava meglio, ma non doveva smettere…
Tum… tum
Forse aveva capito… doveva continuare, ad intervalli regolari
Tum… tum… tum
Come il battito del cuore.
Emise un sospiro di sollievo.
Sospiro? Stava respirando?
La consapevolezza del suo corpo ritornò di colpo: sentì il freddo pavimento sotto la sua guancia, il fastidioso prurito dovuto ai capelli sporchi, i cerotti sulla fronte e sulla guancia che gli tiravano leggermente la pelle.
Provò a emettere un verso, nemmeno una parola, solo un breve mormorio.
Ma era proprio la sua voce, non poteva sbagliarsi.
Aprì gli occhi e vide il corridoio deserto dove si trovava fino a quando quell’onda nera era arrivata, travolgendolo.
Era il corridoio della sede di Radio Capital, la radio di Central City.
Ma sì, era venuto lì con Breda e gli altri per far parlare la signora Bradley alla radio, cercando di convincere i cittadini della bontà delle loro azioni… poi l’edificio era stato circondato. Se ben ricordava era giunta voce che era tornato il comandante supremo.
“Una volta che Bradley avrà ripreso il comando…”
“Potremmo essere distrutti immediatamente.”
“Anche se sua moglie è qui?”
“Credi che quella gente nutra sentimenti del genere?”
Il dialogo che aveva avuto qualche ora prima con il sottotenente Ross gli tornò in mente insieme a tutte le sgradevoli sensazioni che aveva provato in quelle ultime ore. Aver dovuto girare le spalle ai soldati di Briggs, non sapere che fine avessero fatto il tenente e il colonnello… e poi quel raggio azzurro fuoriuscito dal quartier generale. Una trasmutazione alchemica?
Nuovi frammenti di dialogo… questa volta con Breda
“Siamo ufficialmente dalla parte del comandante supremo e per ora non corriamo rischi. Non dovrebbero attaccarci, non ancora”
“Abbiamo accusato Briggs… ma loro non sono nostri nemici”
“Se non lo facevo forse saremmo tutti morti in questo momento. Non credere che mi abbia fatto piacere”
“Tra i soldati di Briggs c’è il maresciallo Falman”
“Fury… dannazione, non credere che non ci abbia pensato. Come ho pensato al fatto che loro sono nostri amici. Ma dobbiamo guadagnare tempo… uccidere prima noi o prima quelli di Briggs non penso che importi loro qualcosa”
“Lo faranno lo stesso, vero?”
“Sì Fury, lo faranno… e se non moriremo per mano dei soldati di Central… beh, c’è anche quella storia del cerchio di trasmutazione intorno al paese. A quel punto non credo che importi da che parte staremo”
“Crede che il colonnello…”
“Lo spero… ma, sarò sincero ragazzo. Non avrei nessun dubbio se fosse una qualsiasi altra missione: ma ci sono cose che… sono davvero troppo grosse, forse anche per lui”
“E’… è davvero angosciante dover attendere senza sapere quello che succederà”

Ecco… angoscia! Il sentimento che gli aveva bruciato la mente e l’anima per tutte quelle ore e che poi si era trasformato in un mare di disperazione. Adesso aveva finito di ardere così forte, ma l’aveva lasciato completamente sfinito.
Sapeva di essere sdraiato sul pavimento, ma non aveva proprio voglia di alzarsi… tutto il peso degli ultimi mesi lo teneva schiacciato a terra. Era così difficile ed estenuante anche solo pensare a tutto quello che stava succedendo.
“Fury! Ragazzo!” lo chiamo la voce di Breda
“Signore…” mormorò sollevando leggermente la testa, mentre il compagno lo raggiungeva, leggermente barcollante
“Stai bene?” gli chiese lasciandosi cadere in ginocchio accanto a lui
“Credo di sì… e lei?”
“Più o meno. Ce la fai a sederti?”
“Ci provo… – disse accettando la mano che gli veniva offerta – Ma che è successo?”
“Non lo so – ammise il sottotenente turbato – però se siamo tornati nei nostri corpi… perché è questo che è stato vero?”
Fury scosse la testa, non sapendo cosa rispondere. Poi si poggiò sulla spalla dell’uomo
“Ehi, giovanotto, tutto bene?” gli chiese Breda posandogli la mano in testa
“Vorrei solo che finisse. – mormorò stancamente Fury – Vorrei che fossimo di nuovo tutti insieme, senza homunculus, cerchi di trasmutazione, fine del mondo… che questo senso di angoscia che ci ha tormentato in queste ore se ne andasse per sempre. Vorrei svegliarmi e scoprire che questi mesi sono stati solo un folle incubo… troppo grande per tutti noi.” la sua voce era al limite del pianto.
“Ti capisco – disse il compagno arruffandogli con gentilezza i capelli sporchi – Ma ti chiedo di resistere ancora per qualche ora. Ho la netta sensazione che siamo alla resa dei conti, lì al quartier generale: portiamo a termine quanto promesso al colonnello. Lo so che tu sei quello più stremato di tutti noi, ma… coraggio, piccolo, un ultimo sforzo”
“Per il colonnello” mormorò il ragazzo alzandosi pesantemente in piedi, incitato dall’amico
“Ottimo… vieni, torniamo nella sala di registrazione. Come tutto sarà finito ti farai una bella dormita e vedrai che andrà meglio.”
Andrà meglio… continua a ripetertelo. Ce la devi fare… solo per poco ancora. Devo… continuare a crederci.

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Capitolo 13
*** La semplice gioia della normalità ***


La sveglia iniziò a suonare prepotentemente nel comodino accanto al letto.
Fury da sotto le coperte tirò fuori un braccio e cercò a tentoni quel maledetto apparecchio che l’aveva svegliato così crudelmente. Dopo qualche tentativo lo trovò e lo spense per poi riappallotolarsi su se stesso e riprendere a dormire.
Ma dopo dieci secondi un bolide di circa cinque chili gli arrivò dritto sopra lo stomaco e le coperte iniziarono ad essere tirate.
“Va bene! Va bene! – borbottò portando la testa fuori da quel groviglio – Sono sveglio, sei contento?”
Black Hayate si sedette sopra il suo petto, iniziando a leccargli affettuosamente il mento. Con una risatina Fury lo abbracciò e si ridistese sul cuscino, concedendosi ancora qualche minuto di riposo.
“Ci pensi? – chiese rivolto al cane – sono già passate due settimane…”
A volte non gli sembrava vero che tutto era finito.
Dopo che le loro anime erano tornate nei corpi, perché era successo davvero questo, avevano dovuto attendere ancora alcune ore prima che le truppe di Central City levassero l’assedio alla sede della radio. Anche se era sfinito, ricordava che aveva avuto un’ultima forte scarica di adrenalina quando Breda gli aveva detto che era il momento di andare a cercare i loro compagni.
E poi tutto quel disastro e quei morti e feriti nel quartier generale: quando aveva visto il tenente in barella e sanguinante per quella ferita al collo era quasi scoppiato in lacrime e solo il forte pizzico che Breda gli aveva dato al braccio l’aveva fatto resistere. E la ciecità del colonnello? Anche quello era stato un duro colpo, nonostante il suo superiore non mostrasse il minimo tentennamento, mentre veniva accompagnato in ospedale e anzi, iniziasse già a dar loro nuove disposizioni.
“Ma per lo meno non ci sono state solo scene brutte…” sospirò mentre il cane gli infilava il muso nel colletto della maglietta, annusandogli la spalla.
Mentre con Breda prendeva commiato dal sottotenente Ross, che stava tornando ad aiutare il maggiore Amstrong, si era girato e aveva visto un gruppo di soldati di Briggs: tra di loro spiccava per altezza un uomo dai capelli bianchi e neri, col viso magro e gli occhi allungati. Falman si era girato verso di lui, probabilmente attratto dal suo sguardo, e aveva sorriso. Sì, forse quell’abbraccio a tre, con lui mezzo soffocato tra Falman e Breda era stata la cosa più bella che avesse mai provato negli ultimi tempi. Rideva e piangeva allo stesso tempo, senza dire niente, senza chiedere a Falman che cosa era successo mentre erano separati. Sapevano che ci sarebbe stato tempo: in quel momento l’unica cosa che importava era sentirsi di nuovo uniti in quel meraviglioso, dannato, unico senso di fratellanza e cameratismo che avevano creato in anni di lavoro assieme.
“Va bene, direi che è il momento di alzarsi. Altrimenti rischio di fare tardi!” dichiarò sedendosi nel letto e facendo scendere il cane sul pavimento. Si stiracchiò, prese gli occhiali dal comodino e si alzò, pronto ad inziare la giornata.
Dopo la doccia si sistemò i capelli dritti passandoci le dita leggermente bagnate. Finalmente guardarsi allo specchio non era più sconvolgente come due settimane fa. Non aveva più i cerotti, il viso era pulito e rilassato, senza occhiaie e senza più quella magrezza che mal si adattava a lui; i capelli erano stati tagliati e ora erano di nuovo gestibili. Decisamente un’altra persona rispetto a quando era tornato nel suo appartamento, all’alba del giorno dopo la vittoria, praticamente sostenuto da Breda, e si era buttato nel suo letto del tutto vestito e senza nemmeno levarsi gli occhiali.
Uscito dal bagno, indossò i pantaloni, la camicia e la giacca: in ospedale non era il caso di indossare la divisa.
Sulla sua scrivania c’erano diversi libri che si era procurato la sera prima e che avrebbe dovuto portare al colonnello.
Prese dall’armadio uno zaino azzurro, che usava ai tempi della scuola e si girò verso Black Hayate che lo fissava incuriosito.
“Oggi ho una missione speciale da compiere: – gli disse – mi dai una mano?”
 
“Buongiorno, signore. Stamattina è più mattiniero del solito!” lo salutò l’infermiera alla reception
“Buongiorno! – rispose Fury – Ehm, sì dobbiamo lavorare parecchio!”
“Vedo che anche oggi ha un bel carico di libri. Addirittura uno zaino! Le serve una mano?”
“Cosa?! – esclamò sbiancando – No! No… volevo dire… grazie mille ma ce la faccio da solo!”
Senza aspettare risposta si avviò per il corridoio, con il viso rovente. Rischiò per due volte di far cadere la pila di libri che portava, provocando risatine delle infermiere sui corridoi.
“Stai calmo, stai calmo – mormorò – andrà tutto bene”
Finalmente giunse alla stanza dove erano ricoverati il colonnello e il tenente. Impossibilitato a bussare, con una manovra ormai collaudata riuscì a portare il gomito alla maniglia e ad aprire.
“Buongiorno, Fury” lo salutò il tenente.
Ma invece di rispodere subito il ragazzo si affrettò verso il punto del pavimento dove stavano gli altri libri, accumulati lì nel corso dei giorni, e dopo aver poggiato quelli appena portati corse a chiudere la porta, guardandosi attorno con aria circospetta.
“Ma che ti succede?” chiese la donna
“Perché? Che è successo, sergente?” chiese il colonnello dal suo letto girando il volto verso di lui. Come erano strani quegli occhi grigi per la cecità… Fortunatamente tra qualche giorno sarebbero guariti, grazie alla pietra filosofale, e sarebbero tornati scuri e carichi di quel magnetismo che era capace di intrappolare Fury sin da quando aveva conosciuto il suo superiore anni prima.
“Niente di particolare” rispose il giovane imbarazzato, rinsavendo dai suoi pensieri, levandosi lo zaino dalle spalle e tenendolo stretto tra le braccia
“No? – sorrise il tenente con aria indulgente – E allora perché sei così mattiniero e soprattutto hai l’aria di uno che l’ha appena fatta grossa?”
“Ma siamo sicuri di parlare con il vero Fury?” chiese il colonnello
“Oh sì. Ha la faccia di quando viene coinvolto da Havoc e Breda in qualche follia e poi ha paura di essere scoperto”
“Havoc non è qui… che cosa ti ha fatto fare Breda?” chiese il colonnello mettendosi a braccia conserte.
“Veramente niente, signore. – scosse la testa Fury. Poi si sedette accanto al tenente – L’iniziativa è solo mia e forse non avrei dovuto, però…”
Armeggiò con i lacci dello zaino, che sembrava stranamente vivo tra le sue mani, e subito un muso bianco e nero sgusciò fuori.
“Piano! Piano! – esclamò mentre il cane impazziva di gioia nel rivedere la padrona e cercava di uscire dallo zaino – Aspetta che ti aiuto… e attento a non far male con le zampe”
Il tenente scoppiò a ridere e abbracciò il suo cane
“Spero che questi guaiti li stia facendo Black Hayate e non tu, Fury” disse il colonnello
“Sì, è proprio lui – rispose il tenente – adesso capisco perché eri così a disagio quando sei entrato. Non si possono portare animali in ospedale”
“Lo so… però Hayate sentiva la sua mancanza, signora – disse Fury con un sorriso imbarazzato – E ho pensato che uno strappo alla regola si poteva fare!”
“Proprio tipico di te, sergente” ridacchiò il colonnello
“E’ stato un gesto davvero gentile. – sorrise lei – Grazie davvero”
Il sergente arrossì e guardò felice quell’incontro tra cane e padrona. Nonostante avesse ancora il collo fasciato, il viso della donna aveva un colorito sano e lo sguardo era finalmente sereno: vederla in quelle condizioni era un grande sollievo.
Lei e il colonnello avevano affrontato delle dure prove nei sotterranei del quartier generale e Fury era sicuro che di diverse cose non avrebbero parlato mai con i loro sottoposti. Ma era altrettanto sicuro che, nonostante tutto, il legame tra quei due era sempre forte, forse ancora di più e la cosa non poteva che confortarlo.
Le sue riflessioni furono interrotte dalla porta che si apriva.
“Buongiorno capo!” salutò Breda entrando insieme a Falman
“Ehi Fury, sei mattiniero oggi” disse Falman
“Dovevo accompagnare un visitatore clandestino” ammise il ragazzo accennando all’animale accucciato tra le braccia del tenente.
“Che… che ci fa lui qui!?” esclamò Breda spostandosi all’angolo opposto della stanza
“Volevo portarlo al tenente, è da due settimane che non lo vede” rispose innocentemente
“Va bene… ma tenetelo lontano da me! Chiaro?”
“Che cos’è questo odore, Breda?” chiese il colonnello
“Ah sì. La colazione per tutti… certo, se qualcuno non vuole queste focacce appena uscite dal negozio, non mi offendo, sia chiaro!”
“Decisamente meglio dei pasti dell’ospedale – sorrise Mustang – e per studiare ho bisogno di essere in forma. Dammene una!”
“Certo capo! E invece questa doppia è per te, Fury… devi ancora riprendere qualche chilo, ragazzo. Mangia e riempiti: il magro della squadra è Falman, non tu!”
Fury addentò con soddisfazione la focaccia, gustandosi quell’esplosione calda di sapori. Nell’ultima settimana stava divorando tutto come un lupo: finalmente aveva la possibilità di fare pasti decenti e il sottotenente Breda si era autonominato “supervisore della sua dieta rigenerativa”.
“Bene, adesso possiamo iniziare. Fury hai portato i libri che ti avevo chiesto?”
“Certo, signore! Ho preso dalla biblioteca tutto il materiale relativo all’economia di Ishbar, come voleva.”
 
“Va bene, riportalo a casa. E niente più visite clandestine: tanto staremo qui solo per qualche giorno ancora” sospirò il tenente, quella sera, ridando il cane a Fury
“Non lo farò più, tenente… mi scusi ancora” sospirò a sua volta il sergente aprendo lo zaino per far rientrare la bestiola.
“Non posso credere che abbiamo fatto una simile figuraccia…” borbottò il colonnello dal suo letto
“E’ colpa di questo cretino! Ma io dico, che cosa porti il cane sapendo che io odio queste bestie!?” esclamò Breda
“Ci siamo fatti riconoscere. - mormorò Falman - Spero che l’infermiera non si sia arrabbiata troppo”
“Arrabbiata!? Secondo te? – chiese ironicamente Mustang – Una bellissima infermiera, perché dalla voce si capiva chiaramente, entra qui per portare il pranzo e voi rovinate tutto con questo casino.”
“Non volevo vedesse Hayate…” iniziò Fury
“E così lo prendi e lo porti proprio vicino a me?!” si infuriò Breda
“Perché volevo nasconderlo in mezzo ai libri… ma lei era proprio lì accanto”
E l’ovvia conseguenza era stata che Breda aveva cacciato un urlo degno di altra causa, buttando per aria i volumi che aveva in mano e facendo urlare anche l’infermiera che aveva fatto cadere il vassoio. Falman aveva cercato di riprenderlo al volo, con il concreto risultato di rovesciare il suo contenuto addosso alla ragazza. Il tutto mentre Black Hayate approfittava della confusione per sgusciare via dalle braccia di uno sconcertatissimo Fury e correre fuori nel corridoio, scatenando il caos in metà ospedale.
“Chiedo scusa a tutti” balbettò il giovane
“Forza, andate… - ordinò il colonnello – prima che vi dia fuoco! E meno male che non c’è anche Havoc… altrimenti quell’imbecille non avrebbe fatto altro che aumentare il danno”
“Colonnello, non si agiti troppo: le ricordo che è in ospedale e deve stare calmo”
“Tenente, per favore… non ti ci mettere anche tu!”
 
“Dannazione! Non prendere mai più iniziative, Fury! Sei un pericolo pubblico!” sbottò Breda prima di afferrare il bicchiere e mandare giù una sorsata di vino
“Volevo solo fare una sorpresa al tenente. – si scusò Fury per l’ennesima volta fissando imbarazzato il suo bicchiere d’acqua – Proprio l’altro giorno aveva chieso di Black Hayate e si capiva che sentiva la sua mancanza”
“A Briggs per una cosa del genere, il generale Amstrong ti avrebbe fatto a fette con la spada” dichiarò Falman
“Vuol dire la sorella del maggiore? Quella donna che ho intravisto al quartier generale?” sbiancò il sergente ricordando quegli occhi di ghiaccio e soprattutto quella spada affilata.
“Quella secondo me farebbe a fette anche il colonnello, anche se lui tirasse fuori tutto il suo fascino” annuì Breda
“Chissà cosa penserebbe il sottotenente Havoc di lei. -  si chiese Fury – Del resto una volta ha avuto una spiacevole disavventura con la sorella minore del maggiore, vi ricordate?”
“Quel cretino è stato fidanzato anche con un homunculus… - sogghignò Breda – ma forse il generale non ha abbastanza tette per lui”
Risero di gusto, mentre la cameriera del locale portava un vassoio carico di roba da mangiare
“Accidenti! – esclamò Fury mentre gli occhi gli brillavano – Questo cibo dell’ovest sembra davvero eccezionale come diceva, signore!”
“Vero? Per fortuna qui a Central ho scoperto questo ristorante gestito da una famiglia originaria di West City. Buona cena, signori.”
“Devo ammettere che non è affatto male” ammise Falman addentando un boccone
“Dovremo portarci anche Havoc quando arriverà qui” dichiarò Breda
“Giusto! Che meraviglia, non mi sembra vero! Tra qualche giorno saremo di nuovo tutti insieme – sorrise Fury poggiandosi sullo schienale della sedia – e Havoc e il colonnello guariranno! Non finirò mai di ringraziare il dottor Marcoh e la sua pietra filosofale per questo miracolo!”
“Ti è mancata la squadra, eh piccolo?” sorrise Breda
“Non può immaginare quanto! – arrossì il ragazzo – E soprattutto sono felice che tutta questa storia di mostri, cerchi di trasmutazione e quanto altro sia finalmente finita! Tutto è tornato alla normalità”
“Alla normalità… Beh di certo alcune cose cambieranno. – disse Falman con uno strano sorriso – Per come stanno le cose penso, anzi sono certo, che presto il colonnello diventerà generale dell’Est. Il vecchio Grumman sarà Comandante Supremo, ma solo per qualche anno. Poi sarà una vera lotta di potere tra Amstrong e Mustang”
“E tu da che parte starai, Falman?” chiese Breda
“Eh? – esclamò Fury – ma che domande sono? Maresciallo…”
“Sottotenente, prego” corresse l’interessato
“Sottotenente, mi scusi. Insomma lei fa parte del nostro team, non c’è nemmeno bisogno di chiederlo… vero?”
“Beh, ammetto che il generale Amstrong mi ha proposto di continuare a prestare servizio a Briggs”
“Capisco” borbottò Breda
Fury abbassò lo sguardo sul tavolo
“Ma noi… hanno fatto di tutto per separarci e adesso che è finalmente tornato tutto a posto…”
“Ho rifiutato, infatti” disse Falman
“Sul serio?” esclamò Fury
“Uomo coraggioso. E la donna non ti ha tagliato in due con la sua lama?”
“Ho corso il rischio. Ma se davvero tra qualche anno dovrò dare il mio sostegno a uno dei due per diventare comandante supremo, questo sarà il colonnello. Dopo vedrò cosa fare.”
“Wah! Meno male, signore – sospirò Fury – per un secondo ho avuto paura che lei avesse perso di vista la stella polare!”
“Ma che cosa stai delirando?” chiese Breda addentando un pezzo di carne
“Lascia stare sottotenente – sorrise Falman – credo di aver capito che cosa intendesse il sergente. Concordo Fury, la stella polare non sempre porta a nord.”
“Nord… stella polare… bah, pensate invece che presto torneremo ad Est. Appena sarà in piedi, il capo diventerà generale e noi dovremo aiutarlo con la questione di Ishbar. I libri che stiamo studiando saranno ben poco in confronto al lavoro che ci sarà da fare… si tratta di rimediare a più di dieci anni di guerra e odio.”
“East City, che meraviglia! – disse Fury con gli occhi che brillavano di aspettativa – Ve lo immaginate? Al massimo tra qualche mese saremo a casa!”
“Sai già cosa farai appena arrivato?” chiese Falman
“Riprenderò possesso della mia scrivania e rimetterò le mie radio dove è giusto che stiano – rise il ragazzo - …e poi prenderò un paio di giorni di congedo”
“Ah si?”
“Sì, devo fare una cosa molto importante. – stette in silenzio per qualche secondo e poi prese il bicchiere e lo sollevò –  Alla nostra squadra, alla nostra amicizia… Alla semplice gioia della normalità!” esclamò
Falman e Breda lo osservarono e poi con un sorriso presero i bicchieri e toccarono il suo
“Alla squadra e all’amicizia! Alla semplice gioia della normalità!” dissero in coro

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Capitolo 14
*** Una specialissima alchimia ***


Qualche mattina dopo il cortile dell’ospedale era più tranquillo del solito. In genere c’era un viavai di pazienti e visitatori, ma in quel momento non stava passando nessuno. Si vedevano solo due soldati, seduti su una panchina.
“Perché non siamo andati anche noi a prendere il sottotenente Havoc alla stazione?” si lamentò Fury con il broncio.
“Breda è più che sufficiente. – gli rispose Falman seduto a braccia conserte – Noi aspetteremo qui il loro arrivo e quello del dottor Marcoh”
Il ragazzo fissò l’acciottolato del giardino dell’ospedale per qualche secondo e poi alzò lo sguardo verso l’edificio, nel punto dove c’era la camera del colonnello.
“Cosa pensa che gli stia dicendo il generale Grumman?” chiese pensieroso. La visita del generale quella mattina era stata del tutto inaspettata: il colonnello aveva chiesto loro di uscire e questo voleva dire che le questioni che si dovevano trattare erano davvero importanti.
“Secondo me quello che ti ho detto qualche sera fa – disse Falman guardando anche lui verso quella direzione – Credo che il colonnello stia per diventare generale dell’est.”
“Ma può diventarlo? – chiese il giovane riflettendo – Fra colonnello e generale ci sono diversi gradi di mezzo”
“In condizioni normali è ovvio che il colonnello dovrebbe avere prima altre promozioni. Ma, considerato quanto è successo, non penso che possano venire fatte opposizioni per questo salto di carriera… in fondo il suo contributo alla battaglia finale è stato enorme”
Fury annuì sorridendo, rassicurato dalle parole di Falman.
Era veramente felice di aver di nuovo la quieta compagnia del suo compagno. Stare seduto con lui su quella panchina a godere di quella soleggiata mattina primaverile lo faceva sentire tranquillo e rilassato. Alzando gli occhi al cielo domandò
“E’ molto diverso il cielo a Briggs?”
“Il cielo è sempre lo stesso, Fury – gli spiegò l’uomo – cambia solo il posto dove stai tu. Però devo ammettere che tra quelle montagne innevate assume una purezza tutta particolare. E’ come se fosse incontaminato”
“Un giorno vorrei proprio vederla la famosa parete di Briggs. E’ così enorme come dicono?”
“Sono certo che ti lascerebbe a bocca aperta.”
“Però vorrei solo vederla: non mi piacciono i posti troppo freddi. E, da quello che mi ha detto, Briggs è esageratamente freddo” affermò con decisione il giovane
Falman ridacchiò e gli diede un colpetto sulla spalla
“Un soldato piccolino come te farebbe fatica con tutta quella neve: è meglio tenerti al caldo. Però ti prometto che un giorno ti porterò a visitare quel posto, magari in primavera quando fa meno freddo”
“Davvero lo farà, signore?” esclamò Fury con gli occhi che gli brillavano per l’emozione
“Certamente…”
Avrebbe anche aggiunto altro, ma scattò improvvisamente in piedi e si mise sull’attenti. Fury guardò in avanti e imitò subito il suo compagno, mentre il generale Grumman usciva dall’ospedale accompagnato da diversi soldati tra cui il tenente Hawkeye.
Proprio la donna, dopo aver scortato l’uomo per metà cortile si staccò dal gruppo e andò a raggiungere i due colleghi.
“E’ andato tutto bene, signora?” chiese Fury come si fu accostata a loro
“E’ tutto a posto, sergente. Non c’è nulla di cui preoccuparsi”
“Ma cosa si sono detti il generale e il colonnello?”
“Questo non lo so. Io ero fuori dalla stanza, assieme al resto della scorta; – sorrise - ma a prescindere da quello che succederà noi dobbiamo essere pronti a fare quello che ci ordinerà il colonnello, capito?”
“Certo, signora”
Rivedere il tenente in divisa dopo tanto tempo faceva sicuramente un certo effetto. L’ultima volta era stato quando si erano salutati prima che lui partisse per Fotcett e allora c’era tanta tensione nella sua persona. Adesso era tornata la figura autorevole e rassicurante di sempre, nonostante la leggera fasciatura che si vedeva sporgere dal colletto della divisa.
“Signora, posso chiederle una cosa?” domandò perplesso
“Dimmi pure”
“Perché non chiede al dottor Marcoh di guarire del tutto anche la sua ferita?”
La donna lo fissò sorpresa e poi sorrise
“La pietra filosofale per quanto potente ha comunque dei limiti e non potrà essere usata per sempre. – spiegò – Come puoi vedere per la mia ferita è bastata la comune medicina. Preferisco che guarisca da sola e che il potere della pietra venga usato per chi ne ha davvero bisogno, come Havoc o il colonnello”
Fury stava per ribattere, ma Falman disse
“E a proposito di Havoc, eccolo lì assieme a Breda”
Il sergente girò lo sguardo verso i cancelli dell’ospedale e si illuminò felice.
“Sottotenente!” esclamò correndo verso i due che avanzavano
“Ehi, Fury! – sorrise Havoc dalla sedia a rotelle, stringendogli la mano – Allora, ragazzo, ne hai di cose da raccontarmi, vero?”
“Tantissime, signore!” annuì con entusiamo il giovane, mentre venivano raggiunti da Falman e dal tenente.
“Bentornato, sottotenente Havoc” sorrise la donna
“Salve, signora – salutò il biondo accendendosi una sigaretta e mostrando il suo sorriso furbo – Mi si dice che il colonnello ha bisogno di me, e quindi eccomi qui pronto a riprendere servizio”
“Non hai perso tempo. Sei venuto già in divisa” commentò Falman
“Beh, le infermiere saranno pur soggette al fascino di un militare, no?”
“Mi dispiace per te – esclamò Breda – ma con il colonnello in pigiama non hai nessuna possibilità”
La faccia di Havoc fu così comica che tutti scoppiarono a ridere.
Ridendo, Fury pensò che l’aria primaverile era davvero adatta ad incorniciare quel quadro così idilliaco: si respirava finalmente un clima sereno, come le tante volte che avevano scherzato durante le pause dal lavoro. Adesso Central City gli sembrava meno ostile del previsto.
 
“Crede che farà male?” mormorò il ragazzo rivolto a Falman.
Stava osservando con apprensione il dottor Marcoh che tastava la schiena di Havoc, steso prono sul letto che fino a due giorni prima aveva ospitato il tenente
“Non credo… altrimenti avrebbe come minimo avvisato” ammise il suo compagno
“Bene, ho individuato la lesione – annunciò il medico dal volto sfregiato annuendo e prendendo il mano la pietra rossa. Poi si rivolse ad Havoc – Ora rilassati”
“Come vuole, dottore”
Fury era incerto se osservare o meno la scena, timoroso di vedere qualcosa che lo impressionasse. Ma prima che potesse prendere una decisione, vide che dalle mani del dottore veniva sprigionata una luce rossa e calda: ne rimase così affascinato che trattenne il fiato mentre Marcoh posava con delicatezza quella luce sulla schiena di Havoc.
Fu questione di nemmeno cinque secondi e poi il bagliore smise.
“Ho finito” disse il medico annuendo.
“Cosa? – si stupì Havoc – Ma non ho sentito nulla”
“Provare per credere, soldato. Muovi le gambe”
Havoc lanciò uno sguardo scettico al dottore e provò a muovere gli arti inferiori. Fu un gesto esitante, ma la gamba destra si piegò, seguita dalla sinistra.
“Oh merda… ha funzionato davvero!” esclamò sorpreso rotolando su se stesso e sedendosi nel letto. Nello stupore generale si alzò in piedi, appoggiandosi alla testiera del letto.
“Non è necessario esitare così – disse Marcoh – sei completamente guarito”
“Ah si?” chiese distrattamente l’uomo muovendosi per la stanza e accorgendosi che era vero. Arrischiò anche a saltare lievemente sul posto e non accadde nulla.
“Wah! – esclamò Fury rompendo quel silenzio – Signore! E’ guarito davvero!”
Havoc lo guardò sorpreso, come se il ragazzo gli avesse appena rivelato la più grande verità del mondo. Poi rise e si accostò a lui.
“Ho bisogno di un’ultima prova! – e prima che qualcuno potesse dire o fare qualcosa, lo prese per la vita e con una rapido movimento lo sollevò sopra la sua testa con un solo braccio, tenendolo per lo stomaco – Allora sergente! Come ci si sente a guardare il mondo da una prospettiva così alta, eh?”
“Sottotenente, no!” esclamò il tenente accostandosi a lui con le mani protese verso Fury, seguita immediatamente da Falman
“Che cosa sta facendo quello scemo?” gli fece eco Mustang dal suo letto, intuendo la follia che si stava consumando
“Niente capo! – sghignazzò Breda – Havoc ha appena deciso di far provare a Fury l’ebrezza del volo. Come va lassù, ragazzo?”
“Mi mettà giù, per favore!” supplicò Fury annaspando e trovando appoggio per le mani sulla testa bionda del suo superiore
“Beh, se sollevare un nanetto come te e non mi crea problemi di cedimento, direi che sono guarito davvero! – ridacchiò Havoc, alzando lo sguardo su di lui – E poi di che ti preoccupi Fury, ti farei mai cadere?”
Fury smise di agitarsi e incontrò quegli occhi azzurri e luminosi. I due rimasero in silenzio ad osservarsi per qualche breve istante e alla fine Fury sorrise.
“Non mi farebbe mai cadere, signore. Però… sto seriamente rischiando di rigettare su di lei la colazione, se non la smette di premere sul mio stomaco!”
“Cosa? - esclamò Havoc inorridendo e affrettandosi a farlo scendere – Non ci provare!”
Quell’ultima scena provocò le risate generali di tutti quanti, e alla fine il colonnello disse
“Bene, è una scena che ho evitato volentieri di vedere!”
“Come promesso ho guarito prima il suo uomo – disse Marcoh, facendosi serio e rivolgendosi a Mustang – Adesso le ridarò la vista, colonnello: così potrà adempiere a quanto promesso”
Il militare annuì e anche tutti i suoi uomini si fecero seri.
Per un tacito accordo, un feeling fortissimo, mentre il bagliore rosso della pietra filosofale splendeva davanti al viso del colonnello, tutti i suoi uomini si misero in riga davanti a lui, posizionandosi sull’attenti.
Osservarono con meraviglia il colonnello che teneva le palpebre abbassate. Poi si girò verso di loro e le sollevò lentamente. Gli occhi scurissimi si posarono su ciascuno di loro, orgogliosi e determinati; e c’era implicito l’ordine a cui avrebbero sempre obbedito: seguitemi.
“La sua squadra è pronta a qualsiasi azione, signore!” esclamò il tenente facendo un perfetto saluto, imitata immediatamente da tutti gli altri.
Mustang annuì, come se quella fosse la più normale giornata d’ufficio. Poi si rivolse al dottor Marcoh con un sorriso.
“Non si preoccupi dottore: la mia squadra mi aiuterà a ricostruire Ishbar… e io non potrei chiedere un sostegno migliore”
 
Il sole stava iniziando a calare dolcemente, tingendo il cielo della sera di un caldo rosa.
Mentre aspettava gli altri, Fury, seduto sulla stessa panchina di quella mattina, osservava dolcemente un passerotto che mangiava alcune briciole a pochi centimetri da lui. C’erano voluti diversi minuti prima che l’uccellino accettasse di avvicinarsi così tanto al soldato, ma alla fine si era convinto e si era messo a zampettare accanto alla sua gamba, sempre più vicino.
“Per favore, non ti spaventare… va bene?” mormorò il giovane, prendendo un'altra manciata di briciole dal fazzoletto che aveva in grembo. Le sistemò nel palmo della mano che portò, con mosse lente, davanti all’uccellino. Sulle prime il volatile fece un leggero balzo indietro e cinguettò perplesso.
Poi, con timidezza, avanzò verso quell’umano così gentile e provò a dare lievi beccate alle briciole più sporgenti dal palmo.
Quando si convinse a salire sul palmo della mano, Fury trattenne il fiato per la meraviglia e non osò muoversi, temendo di spezzare quel momento incredibile…
“Sergente  maggiore a rapporto!” gridò una voce immediatamente dietro di lui.
L’uccellino volò via con un frullare frenetico d’ali e il giovane fece un balzo in avanti con il cuore che gli saltava in gola. Si alzò in piedi e si mise sull’attenti con il battito a mille e rimase sconcertato nel vedere Havoc che aggirava la panchina e scoppiava a ridere.
“Sottotenente…” sospirò rassegnato
“Hai la faccia di uno che ha perso almeno dieci anni di vita, Fury. Adoro prenderti di sorpresa” rise l’uomo lasciandosi cadere a sedere sulla panchina e pulendola dalle briciole col palmo della mano.
“Sì, ma a furia di levarmi anni di vita ad ogni scherzo, rischio di morire giovane” ribattè Fury raccogliendo il fazzoletto da terra e mettendoselo in tasca.
“Non credo. Hai la pelle dura, sergente – disse Havoc facendosi tranquillo e tirando fuori il pacchetto di sigarette – più dura del previsto, a quanto ho saputo”
Fury si sedette accanto al suo superiore e annuì
“Ha parlato con il tenente e con il sottotenente Breda, vero?”
“Con loro e anche con il colonnello e con Falman… ho voluto sentire tutti i punti di vista su di te”
“Davvero?”
“Certo, ragazzino. – ammise il biondo fissandolo con serietà – Quando ti dissi che avrei voluto essere lì in trincea ad aiutarti non scherzavo. In fondo ti ho insegnato io a tenere in mano decentemente una pistola, no?”
Fury non potè far a meno di tornare col pensiero al cadavere con gli occhi azzurri. Gli occhi di Havoc avevano proprio lo stesso colore, ma erano così diversi… così vivi e rassicuranti, nella loro sfacciataggine.
“Le avevo promesso che l’avrei resa fiera di me, signore” mormorò
“E l’hai fatto… anche se hai rischiato un po’ all’inzio, vero?”
“Adesso che non può più per gli aghi, mi prenderà in giro per quando sono scoppiato a piangere al telefono con il sottotenente Breda, vero?”
“No – sorrise Havoc arruffandogli i capelli con quella mano che sapeva di tabacco – Ringrazio il cielo che tu abbia pianto. Nella mia esperienza ho visto soldati che non sono riusciti a reagire come hai fatto… non hanno avuto la forza di versare lacrime, di tornare ad essere vivi.”
Fury non seppe cosa dire e fissò il cielo.
“La possibilità che ti chiudessi malamente in te stesso era la cosa che mi spaventava di più  - continuò il ragazzo biondo facendo un profondo tiro con la sigaretta – Non posso dimenticarmi di quanto eri timido e riservato quando sei entrato in squadra…”
“Signore, è anche vero che non le stavo proprio simpatico all’inizio…”
“Vuoi stare zitto?! – esclamò Havoc – Per una volta che cerco di fare un discorso serio!”
“Mi scusi!” arrossì il sergente
“Ora ho perso il filo… dannazione.”
“Il mio ingresso in squadra?” suggerì Fury
“Ah sì… beh arrivi tu con tutte le tue rondelline, le tue radio, la tua secchionaggine del cavolo. Mister “ho completato l’Accademia in un solo anno invece che in due”. E’ vero: non ti ho reso le prime settimane facili, lo ammetto… ma il carattere timido, peggio di un coniglio, non me lo sono inventato io.”
Fury non disse niente, temendo una nuova sfuriata. Sapeva che Havoc stava cercando di esprimere i suoi sentimenti e la cosa ovviamente gli riusciva difficile. In genere per lui l’amicizia si dimostrava con le battute o con gesti ecclatanti come quello di stamattina: affrontare argomenti seri non era facile. Tuttavia vedendo che ormai il biondo era bloccato, si arrischiò a parlare
“Una cosa che mi ha sconvolto è che, eccetto rari casi, nella trincea non ci sono amicizie. – iniziò – Solo qualcuno che si ritrova o che viene trasferito insieme. Io… avrei voluto che ci fosse lei con me, signore, forse più di tutti gli altri lei avrebbe saputo...”
“Ti avrei coperto le spalle più degli altri, lo so. Avrei fatto in modo che reggessi meglio l’impatto con quella follia.” ammise Havoc
“Sarebbe stato sempre orribile… però…” era difficile trovare le parole senza rischiare di scatenare qualche battuta.
“Però avresti avuto la mia spalla su cui poggiarti e questa è una bella differenza… vero, fratellino?”
Fury annuì a quelle parole, arrossendo lievemente per quel “fratellino”.
Ma in fondo che cosa erano loro se non fratelli? Falman gli avrebbe sempre indicato la stella polare, Breda gli avrebbe sempre arruffato i capelli e Havoc l’avrebbe sempre sollevato da terra, senza farlo mai cadere. Una volta aveva detto al tenente che in fondo loro erano come una famiglia… ed Havoc era senza dubbio un perfetto fratello maggiore.
“Ecco il colonnello con gli altri” lo avvisò quest’ultimo alzandosi in piedi, mentre il resto della squadra si avvicinava a loro.
“Ci dispiace interrompere questo magico idillio” esclamò Breda
“Al diavolo, ciccione. Avevo un paio di cose da dire al sergente, tutto qui.”
“E dai ragazzi, è tutto a posto!” annaspò Fury mettendosi tra loro due
“Mi mancavano queste scene – disse sarcastico Mustang sistemandosi meglio la divisa – se avete finito di fare gli idioti potremmo anche andare via da questo posto. Ne ho avuto abbastanza di stare in quel letto.”
“Quali sono le disposizioni, signore?” chiese Falman mentre si avviavano
“Rimaniamo qui a Central per una quindicina di giorni ancora – iniziò Mustang – giusto il tempo di far insediare il nuovo Comandante Supremo Grumman… e di ricevere la nomina come generale dell’Est”
“Congratulazioni, signore!” sorrise Havoc
“Dopodichè – continuò il bruno, come se quella nomina fosse più che scontata – torniamo al quartier generale ad East City. Ci sono molte cose da fare e non possiamo perdere tempo: la questione di Ishbar per prima.”
E iniziò a sciorinare una serie di disposizioni alle quali tutti annuivano all’unisono. Faceva davvero uno strano effetto vedere queste scene al di fuori di edifici militari.
“Però, prima di tutto, – concluse il quasi generale dell’est – siccome mi sento buono, ho deciso che stasera andiamo tutti a cena in questo fantomatico ristorante di specialità dell’ovest di cui si parla tanto. E per ringraziarvi dell’ottimo lavoro svolto in questa missione… pagherò io”
“Questa me la devo segnare, capo!” esclamò Breda
“Lei è un grande, colonnello! Poter di nuovo camminare mi ha fatto venire una gran fame!” gli fece eco Havoc
“E’ molto gentile da parte sua” disse formalmente Falman
“Sì! Che bello! Andiamo a mangiare tutti insieme!” esclamò Fury
“Andiamo Breda, facci strada” sospirò il colonnello
 
“Me ne sto già pentendo…” borbottò Mustang osservando i suoi sottoposti che li precedavano di una decina di metri e che sembravano pronti a combinare danni peggio di un gruppo di bambini
Il tenente che camminava accanto a lui si limitò a sorridere
“I ragazzi sono solo felici di essere tutti insieme. – disse – Per loro vuol dire molto che la squadra sia di nuovo riunita”
“Già. Sai tenente…lo so che importerà a pochi, però quei quattro avrebbero…”
“Avrebbero cosa, signore?”
“Quando ho capito che la faccenda andava oltre Scar, ho temuto per loro ogni momento. E loro avrebbero potuto fuggire via, chiedermi di tornare ad East City e io non avrei obbiettato… anzi avrei firmato loro quell’ordine senza pensarci due volte. Invece sono rimasti ad affrontare qualcosa che era decisamente troppo grande per loro e che poteva… anzi, ha seriamente rischiato di ucciderli tutti.”
“Non l’avrebbero mai lasciata, signore, lo sa bene” sorrise il tenente
“Sono stati fantastici – continuò Mustang guardando Fury che ascoltava Falman parlare, mentre Havoc e Breda ridacchiavano dandosi pacche sulle spalle – non si sono persi d’animo nemmeno quando tutto sembrava perduto. Sono rimasti uniti per quanto ci fossero distanze incredibili tra di loro: si sono confortati a vicenda, sapendo che uno era accanto all’altro… che fosse nella parete di Briggs o nelle trincee di Fotcett, che si combattesse contro Creta o contro la perdita della possibilità di camminare. Loro… tenente, loro sanno poco o niente di alchimia, eppure sono stati un perfetto cerchio alchemico”
“Signore?” lo guardò sorpresa la donna. Gli occhi neri del colonnello fissavano con meraviglia quel quartetto di militari.
“Uno a nord, uno ad ovest, uno a sud…e uno che poi è tornato ad est. Erano ai quattro angoli di Amestris, e hanno creato un cerchio di energia invisibile… una specialissima alchimia, solo per loro quattro. E noi due ne eravamo al centro, in qualche modo protetti e coinvolti.”
“Sì è vero… e quando uno aveva bisogno d’aiuto, gli altri riuscivano sempre a sostenerlo. Così è stato per Havoc quando è stato ferito e così è stato per il nostro piccolo sergente, quando la trincea lo stava per uccidere.”
“Lui è quello che mi ha fatto temere di più, ma grazie ai suoi compagni ce l’ha fatta anche questa volta. - ammise Mustang – E’ che non ha ancora ventidue anni, ma appena sarà possibile, tra un annetto, una bella promozione a maresciallo se la merita, così come promuoverò Havoc e Breda.”
“Fury è davvero maturato così tanto da quando arrivò da noi più di tre anni fa – disse il tenente – Anche quando stava per partire ed era spaventatissimo ha sempre cercato di mostrarsi coraggioso per rassicurare tutti gli altri”
“Anche se era difficile credergli… non sapeva proprio nascondere la sua paura”
“Ma, nonostante tutto, ha trovato la forza di dare conforto a me” sussurrò la donna
“Eh?”
“Pensavo che le radio di Fury sono ancora a casa mia”
“Ah sì, la sua strumentazione infernale. Beh, di certo sarà un vero piacere vederlo tornare a gingillarsi con le sue radio: – sorrise Mustang – è difficile pensare a Fury senza cuffie al collo per molto tempo, vero? E’ un po’ come pensare ad Havoc senza una sigaretta in bocca”
“O come Falman senza un libro, o Breda senza qualcosa da mangiare” rise il tenente
“Sai tenente, se ci fosse una storia che narrasse tutta questa vicenda, quei quattro sarebbero solo citati… gli uomini del grande alchimista di fuoco che ha aiutato i fratelli Elric a salvare il mondo. Probabilmente solo noi due sappiamo cosa hanno realmente passato e che coraggio incredibile hanno avuto: sono semplici soldati… eppure c’è molto da imparare da loro. Sono così dannatamente orgoglioso che siano i miei uomini”
“E allora dimostri più entusiasmo ad andare a cena con loro. E poi, insomma, non penso che si comporteranno così male, per quanto siano un po’ euforici”
“E per festeggiare: oggi facciamo ubriacare Fury!” gridò la voce di Havoc
“Cosa?!” protestò l’interessato
“Cosa dicevi a proposito del loro comportamento, tenente?” ridacchiò Mustang
“Niente, signore: – sospirò lei – mi accerterò solo che si contengano il minimo indispensabile e che non riducano il sergente come altre volte”
“Sarà una bella impresa… come quella che hanno fatto loro. - poi si rivolse al gruppo –  Ehi voi, ricordatevi che se riducete Fury a un relitto, poi dovete pensare anche rimetterlo in piedi entro domani mattina”
“A qualcuno potrebbe interessare il fatto che io non voglia bere?”
"Ovviamente no, Fury!" ridacchiò Breda

 

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Capitolo 15
*** Epilogo. La preghiera di una madre ***


Circa un mese dopo, nel primo pomeriggio, il treno si fermò alla stazione per cinque minuti. Giusto il tempo di caricare i sacchi della posta e qualche altro pacco: a quella fermata raramente scendeva qualcuno.
Ma questa volta da un vagone scese un soldato. Si guardò intorno, come a riprendere confidenza con un posto che non si vede da tanto tempo, poi si mise in spalla la sacca marrone e uscì dalla piccola stazione.
Irsukya, nemmeno settanta chilometri da East City.
Un paese di qualche centinaio di anime, diverse delle quali vivevano sparse nella campagna circostante. Nell’agglomerato di case che costituiva il paese vero e proprio stavano gli uffici, alcuni negozi, qualche pensione, ma non era un posto che richiamava la gente. La maggior parte degli estranei l’avrebbe definito monotono.
Kain Fury respirò a pieni polmoni quell’aria monotona, pulita e familiare.
Si incamminò per la strada principale, salutando di quando in quando qualche viso conosciuto e notando i pochi dettagli che erano cambiati da un anno a questa parte.
Per esempio la signora della merceria aveva cambiato la vecchia insegna verde scuro per sostituirla con una gialla; nel bar davanti alla piazza i tavolini avevano una posizione un po’ diversa… però il vecchio signor Adam, suo professore alle scuole elementari, come ogni pomeriggio, era lì a leggere il giornale.
“Buongiorno, professore!” lo salutò
“Buong…oh! Chi si vede! Ciao Kain!”
“Come sta?” domandò il ragazzo facendosi avanti
“Bene, bene… ma guardati con questa divisa sembri così grande. Mi sembra ieri che ti chiamavo alla lavagna per risolvere i problemi di matematica”
“Lei invece è sempre lo stesso, signore”
“Tutto bene nell’esercito? Sei sempre a lavorare con le tue radio, spero”
“Sì signore, tutto bene. Mi sono preso un paio di giorni di permesso: era tanto che mancavo da casa”
“Hai fatto bene. I tuoi genitori saranno molto felici. Guarda, se vai al capannone trovi tuo padre a lavorare su alcuni progetti per il vecchio ponte: ci sono passato proprio poco fa.”
“Davvero? Grazie signore, vado subito! Le auguro una buona giornata!” esclamò Fury prendendo congedo.
Il capannone era uno dei punti vitali per la piccola comunità. Si trattava di un grande edificio, appena fuori l’agglomerato di case, dove a turno tutti svolgevano qualche compito e dove in genere ci si riuniva per prendere decisioni che riguardavano il paese: un’annata andata male, l’organizzazione di qualche festa, delle riparazioni da fare. Anche Fury aveva spesso dato una mano quando era ragazzo: la sua bravura con l’elettronica era stata di grande aiuto.
 Entrato nell’edificio, si guardò intorno: dalle grandi finestre alle pareti entrava una piacevole luce che illuminava quel grande pavimento di terra battuta dove stavano diversi tavoli e panche. Con sorpresa vide che non c’era nessuno: forse erano tutti andati al vecchio ponte.
“Kain?” chiamò invece una voce dietro di lui
Il sergente si girò di scatto lasciando cadere la sacca.
“Papà!” esclamò buttando le braccia al collo del genitore.
Andrew Fury era un uomo sui quarantacinque anni, con i capelli castani con appena qualche filo di grigio, e gli occhi castani. In genere non si lasciava andare a gesti d’affetto plateali, ma in quel momento la cosa non aveva importanza e strinse a sè il figlio.
“Figlio mio – mormorò con gli occhi lucidi scostando il giovane da sè per poter guardare quel viso dai lineamenti così simili ai suoi, sebbene meno marcati – fatti vedere… un anno… un anno intero!”
“Mi dispiace, papà – rispose Fury asciugandosi una lacrima – avrei voluto venire prima.”
“Non importa, figliolo – disse l’uomo dandogli colpetti affettuosi sulla guancia – l’importante è che sei qui… anche se ti aspettavamo per domani, come ci avevi detto al telefono”
“Ho voluto farvi una sorpresa: – sorrise Fury – domani arriveranno i miei compagni. La mamma voleva tanto conoscerli”
“Sì sì, lo so. Tua madre si sta dando da fare a casa per preparare l’accoglienza per te e i tuoi amici. Sono venuto qui perché lo sai come è fatta: quando c’è qualche evento speciale non bisogna disturbarla… figurati se questo evento è il tuo ritorno”
“Credi che per me farà un’eccezione e non mi butterà fuori di casa?” ridacchiò Kain
“Ti butta fuori di casa se sa che sei rimasto qui a parlare con me invece di correre subito da lei. Fila a casa, signorino: hai già perso troppo tempo. Abbiamo diversi giorni a disposizione per parlare.”
“Sissignore! – esclamò Fury dando un ultimo abbraccio al padre e correndo fuori dal capannone – A stasera, papà!”
 
La sua casa si trovava oltre un piccolo boschetto, a circa mezz’ora di cammnino dalla città. Era stata costruita dai suoi bisnonni e poi suo nonno e suo padre l’avevano ulteriormente ampliata. La vista di quei muri bianchi e delle imposte blu scuro fece galoppare forte il cuore al sergente.
Le finestre delle camere degli ospiti erano aperte: evidentemente sua madre le stava facendo arieggiare in previsione dell’arrivo di Havoc, Breda e Falman. Anche camera sua aveva le imposte aperte: proprio davanti c’era il grande albero che spesso aveva usato per uscire clandestinamente da casa e andare in giro per la campagna a osservare le meraviglie della natura.
Chissà se nel suo piccolo rifugio personale era tutto in ordine: sarebbe dovuto andare nel cortile di dietro a controllare, ma per quello c’era tempo.
Entrò silenziosamente in casa, dopo aver lasciato la sacca fuori dalla porta. Chiuse gli occhi e respirò a pieni polmoni l’odore del pavimento di legno, della cenere del camino, della tovaglia fresca di bucato, dei fiori di campo sul vaso sopra il tavolo.
Profumo di casa… quanto l’aveva desiderato a Central City, nella trincea, nel corridoio di Radio Capital.
Ma tutto questo improvvisamente non contò più perché udì una voce femminile cantare una vecchia canzone che lui ricordava sin dai primi anni della sua vita e che l’aveva cullato tante volte mentre si addormentava.
Cercando di controllare le lacrime, si diresse verso la cucina: la porta era aperta e si fermò ad osservare la figura di spalle che armeggiava sopra il tavolo.
Ellie Fury se aveva un dono era quello di saper cucinare: suo marito diceva che Kain aveva ereditato la bravura della madre nel destreggiarsi con gli ingredienti e l’aveva applicata all’elettronica. Da piccolo Fury aveva passato ore ed ore seduto a quel tavolo ad osservarla cucinare, ad assaporare gli odori e i sapori, a bearsi della voce che gli raccontava favole, gli spiegava le ricette o semplicemente cantava come in quel momento.
La donna indossava il solito vestito azzurro, con l’immacolato grembiule bianco legato dietro. Aveva da poco superato la quarantina, ma i capelli erano nerissimi e ribelli, come quelli del figlio, raccolti in una folta treccia che cadeva sulla schiena, mentre un nastro rosa teneva quelli troppo corti dietro il viso.
“Andrew, sei tu? – chiamò improvvisamente senza girarsi e senza smettere di lavorare – Mi potresti fare un favore? Dovresti andare in dispensa e prendermi un po’ di farina: questa non mi basta. Ho le mani piene d’impasto: sai, sto facendo la torta preferita di Kain così, se domani mattina arriva senza aver fatto colazione, la troverà pronta… credi che la gradirà?”
Fury sorrise e le andò dietro abbracciandole la vita sottile e posando la guancia sulla sua
“Come potrei non gradirla?” chiese dolcemente
La donna si irrigidì e passò qualche secondo prima che riuscisse a voltarsi.
Guardandoli faccia a faccia si capiva perfettamente da chi il giovane avesse ereditato quella delicatezza infantile che spesso lo faceva sembrare più piccolo di quanto in realtà fosse. Ma il tratto che accomunava maggiormente madre e figlio erano gli occhi: identici per taglio e colore, anche se lei non portava gli occhiali.
“Ciao mamma” mormorò il soldato con la voce rotta dalla commozione, prendendole il viso tra le mani e baciandola teneramente prima in fronte e poi sulle labbra.
“Kain – mormorò lei iniziando a piangere – oddio tesoro, come sei bello”
“Tu sei bellissima, mamma, come sempre” ribattè Fury abbracciandola come solo un figlio poteva fare, come aveva promesso alla signora Bradley tempo fa… come avrebbe fatto in ogni caso.
“Bambino mio” sussurrò la donna stringendolo finalmente a sé e sporcandogli d’impasto la divisa e i capelli neri.
Rimasero stretti per diversi minuti, piangendo entrambi, godendo di quel contatto fisico che suggellava il loro strettissimo legame. Quel legame che mesi prima aveva portato un soldato a invocare la madre quando, nella trincea, la morte stava protendendo le mani su di lui e per il quale una donna, ogni sera, aveva pregato le stelle di proteggere la creatura che aveva messo al mondo con il gesto d’amore più profondo che l’umanità può concepire.
“Oddio, ma guardati: hai più farina tu addosso che la torta – constatò lei con un sorriso, quando alla fine si staccarono, asciugandosi le lacrime col grembiule,– Conviene che vai a farti un bagno caldo e a metterti qualcosa di pulito… E poi sei arrivato in anticipo, non ho pensato a niente per la cena…”
“Qualsiasi cosa andrà benissimo, quindi non iniziare a mettere sottosopra la cucina” sorrise Fury prendendo con l’indice un po’ d’impasto che aveva nella divisa e deponendolo sulla punta del naso materno
“D’accordo, – rise la donna ricambiando il gesto – ma adesso fila a lavarti, forza! Metti la divisa nel cesto della roba sporca: ci penserò dopo. Io termino di preparare qui in cucina e poi controllo se in camera tua è tutto in ordine”
“Agli ordini, mamma” annuì docilmente dandole un bacio sulla fronte
“Bentornato a casa, pulcino mio” mormorò lei posandogli la mano sulla guancia
 Con un sorriso il sergente si girò e corse verso la sua stanza
“Kain, aspetta! – gli gridò dietro sua madre mentre era già sulle scale – E i tuoi amici?”
“Arrivano domani!” rispose lui di rimando
 
Il suo piccolo rifugio era accogliente come sempre, con le sue prime radio sistemate sulle piccole mensole assieme a decine e decine di attrezzi. Quella notte però, dopo cena, non si era interessato alle apparecchiature elettroniche, ma aveva steso una coperta sul pavimento e si era sdraiato supino, con le braccia incrociate dietro la testa, ad osservare il firmamento dal lucernario sul tetto.
C’era una tranquillità così profonda… probabilmente domani con l’arrivo dei suoi compagni l’atmosfera sarebbe diventata più caotica, quindi era meglio godersi quella pace così dolce e purificante.
La porta che si apriva gli fece distogliere lo sguardo dalle stelle.
“Ciao mamma” salutò a voce bassa senza cambiare posizione
“Tuo padre è andato a dormire. – disse la donna con uno scialle di lino sopra l’abito, a proteggerla dal freddo leggero di fine primavera. – Ed io sono venuta a portarti un’altra coperta: ti conosco troppo bene e so che ci sono ottime possibilità che ti addormenti qui invece che in camera tua.”
“Grazie mamma, sei un tesoro”
“E tu invece sei uno sconsiderato… vestito così leggero. Non siamo ancora in estate, Kain Fury” lo rimproverò bonariamente inginocchiandosi accanto a lui e sistemandogli la coperta addosso.
“Ma come, torno a casa dopo tanto tempo e tu non perdi tempo a rimproverarmi?” chiese lui facendo un finto broncio
“Eh, piccolo furbo… sempre bravo a fare gli occhioni da cucciolo, vero? – chiese portandosi le mani ai fianchi. Poi sorrise – Sei davvero incorreggibile… che dici, mi ospiti un po’ nel tuo rifugio?”
Senza dire niente Fury si spostò di lato nella coperta e lasciò spazio affinchè la donna si sedesse al suo fianco. Rimasero qualche minuto a guardare le stelle, godendo della reciproca presenza, e poi lui disse
“Non riesco proprio ad immaginare un cielo senza stelle”
“Nemmeno io… le guardo ogni notte chiedendo loro di proteggerti, sin da quando sei nato”
“E quando il cielo è nuvoloso come fai?”
“Prego le stelle dentro il mio cuore” rispose con semplicità la donna, posando la mano sulla fronte del figlio e salendo ad accarezzargli i capelli.
Fury sorrise, si levò gli occhiali e si girò di fianco sistemando la testa sul suo grembo, come era solito fare sin da bambino. Forse ad un soldato quell’atteggiamento così infantile non si addiceva, ma lui non si era mai vergognato di qualsiasi gesto d’affetto nei confronti dei suoi genitori, soprattutto di sua madre
“Sono successe tante cose in quest’anno, pulcino mio, vero?” chiese la voce materna dopo qualche minuto
“Mamma, io…” disse cercando le parole giuste per iniziare.
“Kain, non c’è bisogno di dire niente, ti prego…”
Fury non ribattè: le parole di sua madre non lo sorprendevano. Se c’era una persona che poteva guardare dentro la sua anima era lei: aveva visto i suoi occhi aprirsi per la prima volta, pochi minuti dopo che era nato, illuminarsi di gioia e di curiosità mentre cresceva e scopriva il mondo. Aveva visto le paure, i piccoli grandi dispiaceri che glieli facevano diventare più cupi… e non aveva avuto difficoltà a scoprire le ferite che portava adesso e che prima non c’erano.
E poi che senso avrebbe avuto parlarle di homunculus, sangue, anime? C’erano nuove ferite e sapeva che non potevano essere curate: potevano solo essere accettate… non era necessario che lei sapesse cosa le aveva causate.
Invece lui sapeva benissimo cosa aveva provocato quelle piccole increspature nel profondo degli occhi materni e che lei cercava di nascondere con il dolce sorriso. Lei sapeva… sicuramente al telefono aveva capito immediatamente che gli stava nascondendo molte cose; ma soprattutto era il suo amore che le aveva fatto intuire che in quei mesi lui era andato più volte vicino alla morte e che angoscia e dolore l’avevano accompagnato nella sua avventura. Ma nonostante tutto non gli aveva mai fatto pesare le sue ansie, anzi l’aveva incoraggiato ed era rimasta ad attenderlo.
Questo lo fece sentire incredibilmente colpevole: provocare dolore a sua madre era la peggior cosa che potesse concepire. Avrebbe fatto di tutto per espiare questa colpa che gli pesava nel cuore, ma le uniche parole che riuscì a mormorare furono:
“Mi dispiace, mamma. Anche se non lo dici, lo so che ti sei preoccupata moltissimo per tutto questo tempo. Perdonami per averti fatto stare così in pensiero.”
Sentì la mano che gli accarezzava i capelli stringersi un attimo su una ciocca e percepì la tensione sul corpo materno: d’impulso strinse le mani sulla stoffa del vestito azzurro e si accoccolò ancora di più a lei, affondando il viso nel suo grembo, cercando in quel contatto un conforto per entrambi.
“Adesso sei a casa, al sicuro, insieme a me. Va tutto bene… non c’è niente da perdonare, tesoro mio.” sussurrò la donna rilassandosi di nuovo e posando l’altra mano sulla guancia del figlio, proprio dove, fino a qualche settimana prima, c’era il taglio.
I loro respiri tornarono normali: bastavano poche parole. Il resto veniva fatto tutto da quei semplici gesti d’amore che spazzavano via tutte le paure e i dolori che avevano passato e concedevano ad un figlio il conforto di cui aveva disperatamente bisogno.
“Mamma…” mormorò il ragazzo dopo un po’ di silenzio
“Dimmi”
“Niente… è solo che avevo voglia di chiamare il tuo nome”
Non in un momento di disperazione e d’angoscia, non nella morte di una trincea… ma adesso, nella pura e semplice gioia di saperti qui accanto a me. Perché sei tu il mio vero rifugio, la meta a cui la stella polare mi riporterà sempre.
E rimase così, con gli occhi chiusi, cullato da quelle carezze, sentendo che un profondo sonno lo stava per avvolgere: e sapeva che per la prima volta in un anno sarebbe stato incredibilmente sereno.
“Dormi tranquillo, bambino mio, – furono le ultime parole che udì prima di assopirsi  – le stelle ti proteggono sempre, anche nei momenti peggiori. In fondo, sotto questo bellissimo cielo, anche la semplice preghiera di una madre può trovare esaudimento.”

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