Whatever Works

di viktoria
(/viewuser.php?uid=197996)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Route invernale. Dublino, 12 – 20 Marzo. ***
Capitolo 3: *** Stanchezza, Rabbia, Delusione...sei solo uno stupido. ***
Capitolo 4: *** La Guida e lo Scout si rendono utili e aiutano gli altri ***
Capitolo 5: *** ...giuro di perseguire la tutela della salute fisica e psichica e il sollievo della sofferenza ***
Capitolo 6: *** L’azione è l’ultima risorsa di quelli che non sanno sognare ***
Capitolo 7: *** L’amore altro non è che un'unica vita esaminata sotto vari punti di vista ***
Capitolo 8: *** Il primo appuntamento è una partita a poker: arriva il momento del bluf ***
Capitolo 9: *** Nessun posto è bello come casa mia ***
Capitolo 10: *** È un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo. ***
Capitolo 11: *** Il motivo se ci preoccupiamo della famiglia e non ce ne frega niente di tutti gli altri: amare tutti è troppo faticoso ***
Capitolo 12: *** Verso il diavolo puoi violare il diritto di ospitare ***
Capitolo 13: *** Se c'è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo ***
Capitolo 14: *** Non ricordo quando l'ho conosciuto. Tendo sempre a rimuovere gli eventi traumatici ***
Capitolo 15: *** A molti può accadere di ritenere che «ogni straniero è nemico». Io lo sono. ***
Capitolo 16: *** Adesso vorrei sapere chi fu il pazzo che inventò il... ***
Capitolo 17: *** Io sono cattolico, però andare a messa, secondo me, è una perdita di tempo. ***
Capitolo 18: *** Governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno ***
Capitolo 19: *** L'amore è la risposta, ma mentre aspettate la risposta, il sesso può suggerire delle ottime domande ***
Capitolo 20: *** Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare ***
Capitolo 21: *** Non c’è nessun bisogno per me di tornare a casa… ***
Capitolo 22: *** La gelosia è un misto d'amore, d'odio, d'avarizia e d'orgoglio. ***
Capitolo 23: *** È difficile parlare con un ubriaco; inutile negare, chi non ha bevuto si trova in uno stato d'inferiorità ***
Capitolo 24: *** Esame di Maturità: Una perfidia che non ha eguali nella storia delle nazioni civili. ***
Capitolo 25: *** Londra, quel grande immondezzaio in cui tutti gli sfaccendati si riversano. ***
Capitolo 26: *** Perché non qui? Perché non ora? Quale posto migliore di Parigi per sognare? ***
Capitolo 27: *** La donna sa tutto. La sorella sa di più. ***
Capitolo 28: *** In un attimo si possono incontrare centinaia di persone, uno coinvolge tutta la nostra esistenza. ***
Capitolo 29: *** La guerra e l'amore hanno molte cose in comune, prima tra queste una dichiarazione. ***
Capitolo 30: *** Bisogna vivere, cioè illudersi e pensare che tutto questo passerà ***
Capitolo 31: *** Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado. ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Image and video hosting by TinyPic


Ero ferma sulla porta di casa per tenerla aperta mentre due o tre paramedici portavano dentro il corpo quasi esanime di mio fratello.
 La testa penzoloni sul suo petto, gli occhi socchiusi e un sorriso idiota sul viso.
Avrei voluto prenderlo a schiaffi.
- Signorina O’Keeffe, dovrebbe firmare alcuni moduli. –
Un uomo attempato mi si avvicinò porgendomi una pila di documenti che io non avevo voglia di leggere.
 Lo guardai poco interessata e mi morsi il labbro un po’ troppo forte annuendo appena e indicandogli il tavolo su cui poggiarli, prima di sparire alla sua vista seguendo i paramedici nella camera di mio fratello.
Lo poggiarono sul letto e chiusero le tende.
- Signorina O’Keeffe, suo fratello ha subito un forte…shock, le consigliamo vivamente di lasciarlo riposare e di aiutarlo ad uscirne in qualsiasi modo. –
Uno dei tre, il più giovane mi sembrava, mi si avvicinò lentamente come per non spaventarmi e mi si parò davanti in modo che non vedessi il viso febbricitante di mio fratello.
Aspettava la mia risposta ma io non facevo che fissarlo proteggendomi con le braccia strette al petto. Non volevo sentire quelle cose sapevo che…
- Parlate di uno psicologo? –
Lo chiesi in un sussurro quando in realtà l’idea era di attaccarlo, di sbranarlo e di fargli chiudere la bocca.
 Mio fratello non aveva nessun problema se non un padre che lo aveva abbandonato a soli 3 anni. Vidi la sua espressione rilassarsi un po’ e mi posò una mano sulla spalla come per calmarmi, sentì che stavo tremando e mi strinse anche con l’altra mano.
- Si, se sarà necessario. –
Sgranai gli occhi e sentì che tremavo sempre più forte presa da un attacco di panico che non potevo e non volevo spiegare.
- Io… -
La voce mi tremò, sapevo che ero ad un passo dalla frattura totale, da un punto di non ritorno.
Un petto possente però mi accolse in quell’istante, fui avvolta dal caldo abbraccio dell’uomo davanti a me un attimo prima che scoppiassi a piangere disperata.

 
 
Dopo pochi minuti andarono tutti via, il paramedico mi aveva fatto accomodare sul divano del salotto dove, nel frattempo, era arrivato anche il manager di mio fratello.
Lo odiavo, ma alcune volte la sua presenza poteva rivelarsi davvero molto utile.
Firmò tutti i documenti mentre io cercavo di liberarmi del mio stato catatonico e di rendermi utile.
Quando mi lasciarono da sola con lui sentì di poter avere un crollo di nervi che mi avrebbe fatto commettere un omicidio.
Iniziò a discutere su come tenere tutto nascosto alla stampa, di come poter riprendere con le riprese il prima possibile e soprattutto di come fare per non perdere un nuovo contratto per un film di un certo Muccino.
Ero un fascio di nervi.
Eppure rimasi semplicemente in silenzio.
Avrei voluto che si preoccupasse per la vita di Johnny, che riuscisse a capire che la sua carriera non era importante e che non c’era motivo di imbottirsi di droga con quell’oca giuliva della sua ragazza.
Fortunatamente mi fece il piacere di non farsi vedere.
Evidentemente il mio odio nei suoi confronti era talmente palese che anche un’idiota come lei avrebbe potuto capirlo imparando a mantenersi a debita distanza da me.
Molto bene.
Mi alzai dal divano dove mi avevano lasciato con un post-it stretto nella mano, mi avvicinai trascinando i piedi in cucina e attaccai con una calamita il numero di telefono scritto in nero su fondo giallo al frigorifero in modo che fosse a portata di mano se ne avessimo avuto bisogno.
Lo guardai a lungo, leggendolo e rileggendolo come se avessi voluto imprimerlo bene nella mia testa, compiendo nel mentre dei gesti meccanici che portarono nella cucina un intenso odore di caffè.
- Ottima idea Maria, un po’ di caffè non potrà che farci bene. –
Sentì la sgradevole voce di Thomas alle mie spalle e dovetti lottare con me stessa per non essere volgare con lui, poteva essermi utile mentre aspettavo i miei fratelli e allora ci avrebbero pensato loro a prenderlo a pugni per me.
Presi due tazze di ceramica dalla credenza, le riempì di caffè e gliene porsi una cominciando a sorseggiare lentamente la mia pensierosa.
Come avrei fatto ad occuparmi di Jonathan adesso che avevo ottenuto un contratto di lavoro in America?
Jamie, Alan e Paul stavano tornando adesso da un tour che però non poteva essere cancellato e sarebbero rimasti solo per pochi giorni, di affidarlo a Thomas non se ne parlava neanche e tantomeno mi sarebbe passato per la testa di lasciarlo nelle mani di quella strafatta della sua fidanzata.
Dovevo pensare ad una soluzione in meno di un mese, ammesso e non concesso che entro quel mese di marzo Johnny si fosse ripreso.
Aprì gli scaffali della cucina e buttai tutto ciò che c’era di alcolico in casa, birre comprese, cominciai a buttare tutto sotto sopra per trovare la droga che ero sicura mio fratello tenesse da qualche parte.
Come avevo fatto a non riconoscerne i segni?
Li avevo avuti tutto quel tempo sotto gli occhi.
Trovai delle piccole dosi in bagno, sotto le assi del parquet della sua camera e nelle tasche di alcuni vestiti.
Sapevo che c’era dell’altro ma finché lo tenevo sotto controllo non avrebbe potuto fare nulla e avrei potuto scoprire dove la teneva nascosta.
- Vado ad una riunione, se vedi dei paparazzi o qualcosa che possa somigliare chiama la polizia, non fare entrare nessuno e rispondi al telefono solo se necessario. –
Lo guardai con stizza e gli risposi con un gesto della mano che era più che chiaro.
- Fino a prova contraria questa è casa mia ed io faccio quello che mi pare. –
Mi fulminò con lo sguardo, presi il cappotto e se lo mise senza lasciare mai il mio sguardo, con quell’aria di sfacciata superiorità che io odiavo sopra ogni altra cosa in lui.
- Dovresti preoccuparti per tuo fratello, per la sua carriera, sei una donna senza cuore che dovrebbe davvero imparare a vivere la sua vita in modo diverso. –
- Io mi preoccupo di mio fratello, non della sua carriera ma della sua vita. E’ questo che fa una sorella! –
Non rispose, si girò stizzito ed andò via senza dire un’altra parola.
Quando la porta si chiuse tornai nella sua camera guardandolo dalla porta mentre dormiva. Respirava a fatica con le braccia bucate dalle flebo e la bocca socchiusa.
Non potevo credere che mio fratello avesse tentato il suicidio una seconda volta, pensavo l’avesse capito che era inutile e che dopo non ci sarebbe stato più nulla.
 
“ non ci sarà più il dolore…”
Lo disse sotto voce, guardando fuori dalla finestra dell’ospedale di Londra circondato da mille paparazzi in cerca di notizie.
 Il suo sguardo era vuoto e privo di quella scintilla che avevo sempre creduto fosse l’anima.
“ non ci sarà più neanche la gioia…”
Aggrottò la fronte e socchiuse gli occhi che divennero tristi.
 Reena era andata via, sapeva che questa volta non sarebbe tornata e con lei erano andati via i suoi milioni, il nome di suo padre e la possibilità di una vita diversa.
Troppe cose, troppo presto.
“vedrai che passerà Johnny, troverai di meglio!”
Gli passai una mano sulla fronte e lui voltò ancora di più la testa per non farmi vedere quella lacrima solitaria che gli rigava la guancia.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Route invernale. Dublino, 12 – 20 Marzo. ***


Image and video hosting by TinyPic


-          Andrea se non ti muovi ti lasciamo qui! – gridò Giulia cercando di evitare delle parolacce poco fini in mezzo alla stazione centrale di Dublino.
Il controllore del treno ci fissava a dir poco scocciato facendo ritardare il treno per colpa della lentezza di un ragazzino troppo lamentoso.
-          Se il tuo zaino fosse pesante come il mio forse capiresti. – si lamentò Andrea salendo sul treno annaspando. Il controllore finalmente alzò la paletta, fischiò e il treno partì.
Erano stati i 3 giorni più lunghi della mia vita, eravamo partiti da Dublino la prima notte avevamo dormito a Tallaght Firhouse, presso un gruppo di scout locali, dunque niente visite turistiche o cose del genere. Poi eravamo partiti, zaini in spalla, per Cloghen, alloggiando praticamente in mezzo alla natura, con una tenda da quattro chili sulle spalle. Ancora ci spostammo verso Dungarvan e Waterford. Tutto questo a piedi, tutto questo con uno zaino di 35 kilogrammi sulle spalle, sotto il sole che stranamente aveva deciso di baciarci in un periodo in cui ci aspettavamo pioggia, senza poterci neanche lavare.
Ci sedemmo tutti sui morbidi sedili del treno e sospirammo di piacere nel sentire qualcosa di diverso dalle pietre e dalle formiche. Eravamo stanchi, abbastanza da concederci un po’ di meritato silenzio ed una dormita.
Il nostro scompartimento, benché fosse il più grande e quasi tutto vuoto, non venne occupato da nessuno tranne che da noi. Probabilmente la puzza che emanavamo dopo giorni di marcia spingeva le persone a tenersi a debita distanza da noi.
Il viaggio per Cork non fu molto lungo e le chitarre rimasero al loro posto dentro le fodere, almeno questo lo risparmiammo agli incauti viaggiatori che alla vista di uniformi e fazzolettoni non avevano deciso di prendere il treno successivo.
-        Zaini in spalla! -
Il nostro capo rise abbastanza divertito dalle nostre facce sconsolate mentre cercavamo di alzarci da quei sediolini così comodi. Scendemmo dal treno al volo non appena si fermò alla stazione, il controllore sospirò quando gli passammo accanto spintonandolo con gli zaini enormi alle nostre spalle. Sapevamo che era felice che ci togliessimo dai piedi. Avrebbe spruzzato chili di deodorante nel vagone che avevamo appena lasciato.
Quando fummo fuori dalla stazione ci mettemmo in cerchio e Antonella prese la parola.
-        Allora ragazzi, adesso noi vi lasceremo soli per gli ultimi giorni di cammino, lascerete gli zaini qui senza prendere nulla, neanche la borraccia e andrete in giro a fare servizio. Bussate alle case, cantate, vedete un po' voi. Tra 56 ore ci rivediamo qui. -
Evitammo i gridolini entusiasti togliendo lo zaino dalle spalle e salutati i capi ci mettemmo in cammino verso il centro della città
 
 
-        Ok organizziamo le pattuglie. - Giulia aveva già deciso che sarebbe stata lei a coordinarci e a nessuno dispiaceva più che a Piero. Lo guardai sottecchi e la stessa cosa fecero Andrea e Francesca. Sapevamo tutti quando fosse saccente, seccante e egocentrico quel ragazzo. Non piaceva a nessuno. - Mario, Piero e Laura hanno le chitarre quindi saranno i capi gruppo, chi trova qualcosa di grosso chiama e noi arriviamo di corsa. -
Annuimmo tutti soddisfatti più o meno di quel piano. Io e Mario avremmo voluto stare insieme almeno per tenerci compagnia mentre ci distruggevamo le mani con le solite quattro canzoni.
-        Si dorme tutti insieme quindi alle 18:00 fatevi trovare qui che decidiamo il da farsi. -
-        Sì, capo! -
La prendemmo in giro tutti insieme ridacchiando, lei rispose con una poco felice affermazione di sdegno molto colorita e si allontanò con Piero ed Eleonora. Mario mi guardò e sorrise.
-        Sì, assolutamente! -
Risposi alla sua domanda silenziosa e scoppiammo a ridere mentre cominciavamo a fare strada insieme con Andrea e Francesca al seguito.
La città era immensa ma noi sapevamo a chi chiedere. Era inutile puntare sui vagabondi messi peggio di noi sulla strada. Entrammo in qualche bar per chiedere se avessero bisogno di qualcuno per lavare i piatti o servire i tavoli ma ci risposero semplicemente di no e, offertaci una bottiglia d'acqua, ci mandarono via. Probabilmente in Irlanda, a differenza che in Italia, sfoggiare un fazzolettone e un’uniforme, non aiutava. Bussammo a qualche porta cercando qualcosa da fare, Mario e Andrea sistemarono i giardini come potevano mentre io e Francesca cantavamo sul viottolo con un cappello per terra. Quello era in assoluto il servizio più orribile che mi fosse mai capitato di fare, da sempre. Un uomo con un bellissimo cappotto ci passò accanto, ci guardò schifato e ci lanciò una banconota da 200 euro. Fino a qual momento l'avevo vista impressa solo nelle mutande della fiera di Mario che se ne vantava continuamente come se fossero la cosa più bella del mondo.
Mi bloccai e guardai quella banconota a bocca aperta, non riuscì neanche a muovermi figuriamoci parlare o continuare a suonare. Francesca spiccò un salto felino e rincorse l'uomo.
-        ehi, ehi! - la vidi che lo bloccava per un braccio e cominciava a ringraziarlo come una matta mentre quello, con la faccia sempre più scura cercava di scrollarsela di dosso. Mi alzai con calma e chiamai gli altri con una mano mostrandogli la banconota. Mi batterono la mano entrambi e si avvicinarono a Francy mentre io cercavo di ringraziare velocemente la padrona di casa che mi diede una busta con l'offerta.
-        Thank you so mutch Madame – sorrisi e lei mi ricambiò con un bellissimo sorriso di apprezzamento.
Raggiunsi i miei compagni che avevano lasciato andare via l'uomo e si avvicinavano a me tutti contenti. Io risi delle loro espressioni e risi ancora di più vedendo tutti quei soldi che avevo in mano. Avrei potuto piangere. Il sogno di Lourd era sempre più vicino.
Il resto della giornata non fruttò molto, soltanto pochi spiccioli da aggiungere alla cassa, alle sei in punto eravamo al luogo dell'appuntamento un po' sconfortati per quella giornata. Se non fosse stato per il signore elegante probabilmente noi...non avremmo concluso nulla.
Facemmo una breve verifica e chiudemmo la cassa. Prima di cena prendemmo di nuovo le chitarre e cominciammo a cantare a squarcia gola per dimenticare la brutta giornata. Era l'unica cosa davvero utile cantare.
Sentire la propria voce insieme a quella dei tuoi compagni. Compagni che provavano le stesse tue emozioni, che avevano condiviso con te 75 kilometri in salita, sotto il sole, con un peso enorme sulle spalle. Persone che non ti abbandonano mai, neanche se lo chiedi, perché sanno che sei solo scoraggiato, che non vuoi essere solo, che hai bisogno della tua comunità.
Quando si canta è sentire quella comunità tutta insieme dentro la tua voce, sapere che tutti sanno che voi siete un gruppo, un futuro Clan, un qualcosa di unico, irripetibile, speciale, un qualcosa unito indissolubilmente da un fazzolettone, da uno zaino, da degli scarponi, da un canto, da una promessa.
 
Che ognuno porti la sua gioia,
con altre gioie unire la potrà
per realizzare qualcosa di grande,
d'immenso e d'importante
e per far questo ho bisogno di te.

 
E mentre le ultime note della canzone uscivano dalle mie mani, dalle corde dolorose che mi avevano rovinato le dita, sentivo che tutta quella fatica a qualcosa era servita. Che imparare in sei mesi a suonare la chitarra solo per far felice Francesca, per poter suonare le canzoni che piacevano solo a me e lei, era stata una bella fatica. Che trasportarla, legata allo zaino, durante la strada, era stata tutta una fatica premiata dalla felicità che una sola canzone poteva portare.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Stanchezza, Rabbia, Delusione...sei solo uno stupido. ***


Image and video hosting by TinyPic


Quella sera Thomas non tornò, e neanche Paul e Alan o Jamie si fecero vedere benché mi avessero assicurato che il volo sarebbe atterrato di pomeriggio, molto presto.
Entrai in camera di Jonathan che erano ancora le otto. Lui era immobile nella stessa posizione in cui lo avevano lasciato i paramedici quella mattina. Non sembrava stare male, il suo battito, la sua pressione erano normali. Anche le sue guance avevano un colore quasi normale adesso. Prima erano gialle, adesso erano semplicemente pallidissime e prive di sentimento. Chissà cosa sarebbe stato Jhonny se quell’idiota di John non ci avesse abbandonati a noi stessi. Forse sarebbe un normalissimo ragazzo di trentacinque anni con una famiglia, una moglie, dei figli, un lavoro, una macchina utilitaria e meno soldi ma più salute.
Forse non avrebbe sofferto per una donna che amava e che lo ha abbandonato.
Forse non starebbe con Sarah, problematica quasi quanto lui.
Forse apprezzerebbe la vita.
Forse.
Gli cambiai la flebo come mi aveva ordinato il dottore che era passato nel pomeriggio e mi accertai che funzionasse bene come mi aveva spiegato. Rimasi seduta lì a fissarlo per un po’, poi mi alzai e andai in soggiorno.
Ero così stanca.
Non avevo pranzato. Non avevo neanche cenato a dire il vero e adesso stavo seduta sul divano a guardare uno squallido film di terz’ordine.
L’orologio sul caminetto segnava le undici quando mi alzai e andai a controllare che mio fratello stesse bene prima di mettermi a letto e spegnere la televisione.
Ero convinta che sarei arrivata quasi ad addormentarmi in quell’istante se non avessi sentito delle voci in strada. Non riconoscevo quello che dicevano. Sembrava un’altra lingua. Francese? No, era elegante ma non lasciva come il francese. Dei ragazzini, vestiti tutti nello stesso modo, stavano parlando animatamente tra di loro. Mi misi addosso una vestaglia e uscì dalla porta sul retro per raggiungerli e chiedergli di parlare sottovoce. Ci mancava solo una notte insonne per completare l’opera della mia autodistruzione.
-          Scusate, potete abbassare un po’ la voce. – vidi i ragazzi zittirsi e guardarmi. Una di loro arrossì leggermente benché il colorito scuro della sua pelle non mi rendesse sicura di ciò che vedevo.
-          Sì signora, ci scusi, non volevamo disturbare. – feci spallucce come per fargli intendere che capivo, che non era un problema se l’avessero fatta finita.
Uno dei tre ragazzi, il più corpulento mi fermò un attimo e in un inglese un po’ stentato mi chiede se avessi potuto dargli dell’acqua. Aggrottai la fronte senza capire e li invitai a seguirmi facendo segno loro di aspettarmi in giardino. rientrai in casa ancora stupita ma più allegra. Chissà perché ma quei ragazzi mettevano allegria con le loro facce piene di vita e di sole. il contrario di Jonathan in quel momento. Presi una bottiglia di acqua dal frigo e dei bicchieri tornando poi in giardino e porgendoli loro. L’afferrarono al volo continuando a ripetermi ringraziamenti in ogni lingua, penso, che conoscessero.
Bevvero tre litri di acqua in due secondi e poi mi assicurarono che avrebbero pensato loro allo smaltimento della bottiglia e dei bicchieri.
-          Volete altro, avete fame? – li guardai attentamente e un ragazzo con una faccia un po’ strana annuì.
-          Se ha del pane ci farebbe davvero un enorme cortesia. – la ragazza che avevo visto arrossire gli poggiò una mano sul braccio e si sporse verso di me.
-          Possiamo dormire nel suo giardino? Domani potremmo pulirlo o aiutare lei nelle faccende di casa. – tutti la guardarono come se avesse avuto un’idea geniale ed io guardai tutti loro.
-          Entrate in casa, ho due camere molto grandi da darvi e potete dormire su un letto, domani per colazione mi spiegherete chi siete. – la ragazza sorrise insieme a tutti gli altri e mi fecero tutti uno strano gesto che non capì.
Alzarono la mano, piegarono il mignolo tenendolo ben fermo con il pollice e sollevarono le tre dita in mezzo. Aggrottai la fronte e mi morsi il labbro divertita.
-          Siamo scout, siamo Italiani, siamo qui per… - fermai la ragazza chiarissima e piena di lentiggini ma con gli occhi grandi e pieni di gioia prima che cominciasse.
-          Mi interessa molto la vostra storia e sono distrutta, la racconterete domani a colazione, su, in casa adesso. – nella mia voce c’era un briciolo di rabbia che non ero riuscita a contenere.
Ero gelosa delle loro famiglie. Dei loro genitori e fratelli.
Loro non se lo fecero dire due volte. Entrarono in casa tutti contenti. Gli mostrai le stanze col bagno in camera e li invitai a lavarsi perché di certo non avevano un bell’aspetto e gli augurai la buonanotte.
Li sentì canticchiare felici canzoni che non capivo ma che avevano un ritmo più che orecchiabile e scesi le scale dalla mansarda. Sembravano un gruppo di giovani esploratori che avevano sbagliato strada. Non avevano neanche un buon odore e onestamente ero davvero curiosa di conoscere la loro storia.
Se Jonathan fosse stato sveglio sarebbe stato carino vedere le loro facce quando scendeva a petto nudo in cucina per fare colazione, probabilmente tutte e quattro le ragazze si sarebbero strozzate col latte e biscotti che avevo intenzione di preparare. Magari potevo chiedergli di preparare il pranzo il giorno dopo oltre a pulire la casa. avrei dato un offerta più che generosa e li avrei ospitati per tutti il tempo di cui avessero avuto bisogno di stare a Cork.
Sfortunatamente mi sembravano troppo piccoli perché avessi la fortuna di trovare tra loro anche un medico, ma quella sarebbe stata davvero una manna dal cielo.
Ah, se mio fratello nella sua breve vita fosse stato come quei ragazzi, pronti a darsi da fare, a rischiare, senza cercare strade più facili. Anche se non l’avessi mai ammesso a nessuno io sapevo di essere molto delusa da mio fratello e da quello che era successo.
Presi il telefono quando lo sentì vibrare sul comodino e lessi il messaggio di Paul.
 
Io e Alan siamo bloccati a Londra. Tutti i voli di oggi e domani sono stati cancellati. Cercheremo un altro modo per venire. Scusaci. Ti vogliamo bene.
 
Ed io chissà che credevo. Speravo che potessero fare in tempo per la loro prossima tappa onde evitare problemi finanziari più gravi di quelli che già avevamo in famiglia.
Li avrei spediti via io stessa a calci se avessero deciso di tornare a casa in anticipo. Avrebbero deluso migliaia di persone solo per uno stupido ragazzino che aveva deciso che la sua vita non era più importante.
Non avrei mai potuto permetterlo.
 
State tranquilli. Vi voglio bene.
 
Spensi il telefono, mi rigirai nel letto in paio di volte e mi addormentai immediatamente nel totale silenzio della casa.








Ciao a tutti, scusatemi se sono in ritardo ma gli esami mi hanno trattenuta.
allora...nessunissima paura che le cose possano andare come sembrano. non saranno affatto come sembrano anzi.
quindi.
la "scout" non salverà nessuno come nelle classiche storie da "ti salvo io".
abbiate fiducia!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** La Guida e lo Scout si rendono utili e aiutano gli altri ***


Image and video hosting by TinyPic


 
Io come sempre fui la prima ad alzarmi e non volli disturbare nessuno. Mi vestì velocemente anche se i vestiti erano rimasti umidi dopo averli lavati quella notte per cercare di eliminare il tanfo di sudore e terra che avevano assorbito in quei giorni di cammino e scesi in cucina per preparare la colazione. Era un rituale ormai, mai andare contro le tradizioni se non si voleva incorrere nella punizione divina degli altri. Sfortunatamente ci misi più del previsto perché non conoscendo la cucina non riuscivo a trovare un bel niente. Sicuramente anche la prospettiva che in un paese straniero avessero abitudini completamente differenti dalle nostre contribuì al mio ritardo. Era tutto nel posto sbagliato. Per me per lo meno.
Quando, finalmente, alle otto ebbi terminato il mio lavoro, vidi Eleonora avvicinarsi a me saltellante. Si era svegliata probabilmente per il buon odore di caffè che aveva invaso la cucina e che, non faticavo affatto a credere, aveva raggiunto anche il piano superiore.
-        Ciao Lalla, cosa hai preparato di buono? - mi baciò una guancia e mi chiese come sempre la sua tazzina di caffè che le porsi prontamente raccomandandole di non bruciarsi.
-        Latte e biscotti, la padrona di casa li aveva preparati già, ho solo dovuto cercare il caffè perché aveva preparato quella brodaglia oscena. – le raccontai come se mi stesse ascoltando. Era troppo impegnata nella compiaciuta degustazione del mio caffè che, l’estate scorsa, era stato promosso al primo posto seguito da quello di Antonella, il nostro capo, che, offesa, si era rifiutata per tutta la route di prestarci la sua caffettiera. Quindi quello era il primo cafffè serio dopo 5 giorni di cammino.
-        Quale brodaglia? - Francesca e Giulia mi vennero incontro pretendendo il loro caffè che posai sul tavolo aspettando anche i ragazzi che sarebbero stati ben più rumorosi delle mie compagne. Non risposi perché Eleonora mi precedette ripetendo tutto ciò che avevo già detto io prima. Le sorrisi grata che non mi avesse fatto parlare da sola come una pazza e cominciai ad apparecchiare la tavola mentre Giulia si lasciava cadere sulla sedia.
-        Minchia che mal di schiena, cazzo! - eccole lì le prime parole della nostra elegantissima amica. Ovviamente se non cominciava così la giornata noi non eravamo contenti. Scoppiammo tutti a ridere e lei si voltò verso di noi – cazzo ridete? Piuttosto andate a chiamare i maschi che sto morendo di fame! -
Elle non se lo fece dire due volte che scattò in piedi e andò a prendere i nostri tre valorosi moschettieri che non si erano lavati nemmeno la faccia. Solo Piero era pulitissimo, pronto a conquistare il mondo e, a detta sua, a diventare il capo supremo dell'intero universo. Ancora io non avevo ben capito se dicesse sul serio o meno ma comunque mi sembrava davvero un tipo strano.
Capelli lunghi sempre legati in una coda perché troppo disordinati per lasciarli sciolti, viso da bambino e barba leggermente cresciuta ma rada. Non aveva il suo aspetto migliore ma i giorni di cammino avevano sicuramente influito.
-        Dobbiamo chiamare la signora di ieri? - domandò sedendosi accanto a Giulia e giocherellando con un fazzoletto.
-        Non lo so, io ho preparato la colazione anche per lei comunque. - dissi, levandola dal tavolo dove avevano cominciato a prendere posto gli altri e poggiandola di lato, coperta da un fazzolettino bianco.
-        Magari sta ancora dormendo, sembrava stanca ieri sera.- costatò Andrea sistemandosi gli occhiali sul naso e facendomi segno di dargli un abbraccio. Era così tenero alcune volte. Era colpa mia se alcune volte non me la sentivo di essere dolce ed espansiva e lo ignoravo lasciandolo triste e sconsolato tutta la giornata. Le mie amiche mi avevano accusato di eccessiva freddezza alcune volte ma il contatto fisico non era proprio qualche cosa che io amassi particolarmente.
-        Va bene, noi allora mangiamo. - acconsentì Eleonora ridendo e prendendo la mia mano e quella di Piero accanto a lei.
Ci alzammo tutti per metterci in cerchio e cominciare quella giornata con una preghiera di ringraziamento per la notte passata al caldo e la colazione abbondante di quella giornata.
Quando toccammo la sedia cominciammo a mangiare famelici ridendo e scherzando come sempre. Non era per niente male un pasto seduti intorno ad un vero tavolo. Non era neanche male la certezza che niente avrebbe attaccato i nostri biscotti come ragni, formiche o grilli famelici. Non assaporavo un pasto caldo e decente da giorni ed ero stanca di tonno e simmenthal. Finimmo in un secondo e lavammo i piatti efficienti come una catena di montaggio. Come sempre. Francesca e Giulia lavavano, Piero e Andrea asciugavano, io mettevo a posto e Mario ed Eleonora pulivano per terra per le briciole che avevamo fatto. Una volta finito ci sedemmo senza sapere cosa fare, erano quasi le nove e ci sentivamo inutili.
Prendere la chitarra poi era fuori discussione vista e considerata la situazione in cui ci trovavamo.
-        Andiamo a cercare la signora?- Andrea sembrava quasi ci stesse pregando e Giulia e lui si alzarono per andare a vedere dove fosse. Tornarono tre minuti dopo seguiti da una donna con i capelli perfetti, truccata e bellissima. Facevamo quasi fatica ad associarla alla donna di ieri sera.
-        Salve ragazzi, dormito bene? - io mi alzai per farle vedere la sua colazione prima che ne preparasse altra, lei sorrise e ringraziò.
-        Benissimo grazie, il caffè è italiano, spero ti piaccia comunque.- la informammo prima che cominciasse a bere come fosse acqua il nostro caffè. Lei lo assaggiò e storse il naso leggermente disgustata.
-        È fortissimo. – costatò cerando di non sembrare troppo diretta nel dirci che non era esattamente di suo gusto.
-        Mi spiace, noi lo facciamo così, volevo fartelo assaggiare.- Elle si alzò ridacchiando. Prendendolo e bevendolo al suo posto. Quando si mise a tavola le proponemmo di assegnarci dei compiti.
-        Allora- sembrò pensarci su come se non ci fosse effettivamente nulla da fare, eppure tutti noi avevamo visto le condizioni in cui versava quella povera casa - mi servirebbe qualcuno che cucini e che pulisca casa, non troppo, solo un po' e poi...quanti anni avete?-
-        tra i 16 e i 17, lei è la più grande ne farà 18 a Dicembre – e indicarono me come se fossi una rarità per loro solo perché avevo saltato un anno. Che poi se ripensavo al motivo per cui mi trovavo là e al motivo per cui ero effettivamente la più grande, non sapevo se ridere o piangere. Guardai malissimo Francesca che mi mandò un bacino.
-        Ah, quindi non sapete nulla di medicina. - sembrava sconfitta e un po' malinconica.
-        no a dire il vero io e lei abbiamo un brevetto della croce rossa, come dei paramedici in Italia ecco, se ha bisogno di qualcosa chieda pure. - quando guardò Piero vidi una luce brillare nel suo volto e gli prese una mano.
Oh Piero, santo Dio, perché non riesci a stare zitto mai? Eh? Non volevo cimentarmi in questa “esperienza”. Io mi accontentavo di pulire casa e di cucinare!
-        Oh che bello, venite allora, vi faccio vedere. - ci prese per mano e ci portò in una stanza buia dove quasi inciampai poiché i miei occhi erano troppo abituati alla luce del sole. - lui è mio fratello, ha avuto un problema di alcol e droga e adesso sta male, dovrebbe sempre esserci qualcuno con lui ma io non posso e l'ultima infermiera che ha avuto ha cercato di vendere le foto ad una rivista. -
-        addirittura- ridacchiai divertita. La signora, ancora senza nome, si girò verso di me come se volesse mettermi a tacere ed io mi scusai vergognandomi.
-        Ci penseremo noi signora, ci metteremo d'accordo per i turni. - la rassicurò la voce di Piero e vidi che le poggiava una mano sulla spalla.
-        io posso aiutarvi, contatemi pure…per i vostri turni intendo, ok?- ci avvisò prima di portarci fuori dalla stanza
-        certo!- le rispose di nuovo il ragazzo – il primo turno adesso lo farò io e Laura farà il turno stanotte se per te va bene.- mi avvisò come se cercasse la mia conferma. Ma lui sapeva già la risposta, non potevo sottrarmi ai miei doveri.
-        si certo, anche perché mi hanno già imposto di preparare il pranzo.- lui rise come sempre e lo vidi col suo sguardo complice. Io alzai gli occhi al cielo e annuì. Sapevo cosa voleva.
Adorava la mia pasta aglio, olio e peperoncino. Io la odiavo. Pensavo fosse pasta per malati ma contento lui, contenti tutti. Per quella mattina presi solo la chitarra e suonai dato che eravamo stati lasciati soli in casa e gli altri volevano che mi riposassi per poi cucinare come si deve e prendermi cura del fratello malato della nostra salvatrice.
Ero piuttosto pensierosa.
Avevo sempre creduto che quei ragazzi con problemi non tornassero a casa ma rimanessero in delle cliniche con dei professionisti. Ero quasi sollevata che a quel poverino non fosse toccata la loro stessa fine. Di sicuro a casa, coccolato da sua sorella e adesso anche da noi sarebbe stato molto meglio.
Certo, non eravamo dottori capaci di salvare la vita, ma eravamo buoni, pieni di energia e uniti. Molto uniti adesso.
Il nostro gruppo si era creato l'estate prima dopo la route estiva. 75 km in tre giorni sotto il sole cocente e le uniche persone vicine erano loro. Adesso li consideravo la mia famiglia. Una big family un po' pazza ma bellissima e unitissima. Francesca gridò da lontano.
-        GENTE CHE SPERA!- ed io trascinai per un po' le note finali di quella canzone e cominciai a suonare gli Articolo 31 cercando di rimanere dietro alla mia amica che cantava quasi correndo. Non erano le voci a dover star dietro alla musica, era sempre stato il contrario, guai a cambiare le regole.
Continuammo così tutto il giorno, la padrona di casa, che nel corso della mattinata scoprì chiamarsi Maria, fu con noi gentilissima e ci aiutò, mandando via per un giorno alcuni camerieri che aveva in casa. Camerieri che, a volerla dire tutta, non sembravano granchè utili. A pranzo cucinai come promesso il piatto preferito di Piero che mi ringraziò riempiendomi di baci, Andrea, infastidito come sempre, lo spinse via.
-        Ha afferrato la tua gratitudine, smamma!-
Maria sembrò la più entusiasta di tutti. Mangiò tre porzioni enormi battendo persino Mario che si fermò a due e quando ne chiese ancora mi ritrovai la sua faccia delusa quando l'avvertì che purtroppo la pasta era finita.
-        Laura comunque ti conviene dormire per fare il turno di notte a mio fratello.-
Annuì e mi misi a letto addormentandomi all'istante stanca e spossata dopo giorni di cammino. Ci sarebbero voluti giorni per recuperare il sonno perduto.
 
Quando mi sentì scuotere mi svegliai quasi di soprassalto gridando. Piero mi tappò la bocca con la mano e mi guardò.
-        È il tuo turno, te la senti? Tanto non si è svegliato tutto il giorno dubito si svegli proprio di notte-
-        Sì, certo, lascia fare a me paramedico. I crocerosssini sono mille volte meglio.- Lui rise sotto i baffi e mi lasciò arrabbiata per la sua poca fiducia. Mi tirai comunque a sedere e mi misi le scarpe da ginnastica per scendere al piano di sotto.
La camera era buia come la mattina e proprio come la mattina inciampai in qualche cosa.
Cazzo che male!- mi morsi il labbro dispiaciuta di aver detto una parolaccia e mi passai una mano sul viso per non gridare. Non era certo per il fazzolettone che portavo al collo che non volevo essere volgare, ma con l’educazione bigotta e conservatrice che avevo ricevuto ritenere quelle espressioni “da evitare” era decisamente il minimo.
-        Tutto ok?- quella voce bassa e profonda mi fece prendere un infarto. Rischiai di gridare di nuovo e, per tirarmi indietro dalla possibile minaccia inattesa, sbattei contro il muro e contro il letto contemporaneamente. Lui scoppiò a ridere.
-        Tu non dovresti dormire? - lo rimproverai, forse più duramente del necessario. Sentivo il fianco bruciare a causa dello spigolo del letto che mi si era conficcato sotto le costole durante la mia performance.
-        Mi hai svegliato tu.- sentì il rumore dell'elettrocardiogramma farsi più insistente e mi avvicinai. Giusto lui era malato ed io dovevo essere buona e gentile.
-        Ok, scusami, adesso rilassati.- rimasi ferma per un secondo, il tempo che i miei occhi si abituassero al buio e quando riuscì a scovare una sedia mi ci precipitai prima di poter combinare altri disastri.
-        Senti, puoi farmi un favore? Dentro il secondo cassetto, vicino alle magliette, c'è una bustina, me la prendi per favore? - sembrava nervoso e agitato, come se fosse una questione di vita o di morte. Non sembrava neanche preoccuparsi di dissimulare quello che mi stava chiedendo.
-        Non vedo nemmeno la cassettiera, secondo te come ci arrivo al secondo cassetto?- protestai sottovoce come se mi vergognassi ad ammetterlo. Come se fosse quella la cosa più importante di quella richiesta.
-        Accendi la luce.- mi sgridò come fosse la più ovvia delle soluzioni ed io fossi la più stupida delle persone con cui avesse mai parlato.
-        Non posso, tua sorella non vuole.- lo sentì sbuffare ancor prima che finissi di parlare. La mia risposta da bambina di cinque anni di sicuro non sembrava adatta alla mia età ma lui non aveva nessun diritto di sbuffare! Che persona odiosa che era quel ragazzo.
No Laura, stai buona. Lui non è odioso, tu devi fargli capire che gli vuoi bene. È questo che hai studiato no?
-        Ok allora passami le sigarette, le vedo da qui, sono accanto a te.- rispose dopo un po’ tornando agguerrito come e più di prima. Sembrava che la sua fosse una necessità più che impellente.
-        No, non puoi fumare, ti farebbe male al cuore al momento.- ed io non avevo nessuna intenzione di cedere.
-        Non ti conosco e già ti odio!-
Non è che ci rimasi male, studiando per prendere il brevetto avevo anche sostenuto un paio di lezioni di psicologia applicata alle malattie come quella. Era il loro modo di fare per farti cedere. Ma sentirti dire ti odio nello stesso modo in cui solo poco tempo prima me l’aveva detto una persona ben più importante di lui, mi lasciò sicuramente l’amaro in bocca.
Quando risposi dopo un paio di secondi la mia voce era leggermente incrinata. Ma, schiarendomi la gola, riuscì a tornare sicura di me stessa abbastanza da non apparire debole.
-        Scusami, sono contraria all'eutanasia.-
-        E' solo una stupida sigaretta del cazzo.-
-        Il fumo uccide.-
-        Sono io che morirò, non tu, non rompere il cazzo.-
-        Ti ho già detto, stupido prepotente volgare ragazzino ignorante, che sono contraria all'eutanasia, domani sera verrà un altro ragazzo e te le farai passare da lui le tue sigarette.-
Non lo sentì ribattere. Possibile che me l'avesse data vinta? No, lo avevo ucciso. Oh cazzo, ero la responsabile di un uomo malato e adesso lo avevo ucciso.
-        Ehi, stai bene?-
Non rispose.
Ad un tratto sentì l'elettrocardiogramma zittirsi e sentì un tuffo al cuore. Stavo per piangere, reazione normalissima dopo tutto quello che avevo accumulato in quei dieci fottutissimi minuti. Che cosa dovevo fare?
-        ti prego, rispondimi, mi spiace, se mi parli ti passerò le sigarette-
La voce mi tremava per via delle lacrime che sapevo avrebbero cominciato a rigarmi le guancie appena avessi preso coscienza di quanto avevo fatto. Mi alzai in piedi traballante e mi avvicinai al letto.
-        Ehi, ragazzo?-
-        Sta zitta cazzo, me le prendo da solo.-
La voce era vicinissima, quasi davanti alla mia faccia. Mi sentì instabile sulle gambe e quasi caddi a terra. Ciò che mi salvò fu un ostacolo. Il suo petto. Era molto alto. Molto più di me di certo. Mi afferrò come fossi una bambola e mi costrinse a sedermi sul letto mentre si avvicinava alla cassettiera.
Quello stronzo mi aveva quasi provocato un infarto. Il secondo in una sera.
Mi alzai di scatto e gli rimasi alle spalle come un'ombra, quando aprì il cassetto e ne estrasse una bustina bianca la strappai veloce dalle sue mani e corsi via sbattendo qua e la per i mobili facendomi ancora più male di prima.
-        Torna qui, stupida ragazzina del cazzo!-
Era uscito dalla sua camera e mi stava seguendo. Non lo vedevo perché cercavo di scappare prima che potesse impossessarsi della sua dose. Non gridava, forse per paura di svegliare gli altri, ma la sua voce era bassa e minacciosa. Se mi avesse presa non l’avrei di sicuro passata liscia quella volta.
-        Stavi per morire per colpa di questa merda, ti proibisco di prenderne altra.-
Mi nascosi dietro il tavolo enorme e mi voltai per vedere il nemico in faccia per la prima volta. Quando lo feci mi sentì morire, di nuovo.
I capelli neri e scombinati erano uguali a come li avevo sempre immaginati. Gli occhi, color ghiaccio, mi fissavano con una scintilla di rabbia che era del tutto nuova. La rabbia di un tossico. Il petto nudo si abbassava e alzava ritmicamente come il suo respiro.
-        Dammi quella bustina porca troia o giuro che ti strozzo.-
-        Ed io griderò.-
-        Ti tapperò la bocca.-
con un bacio ti prego” Ecco che la mia stupida vocina del cazzo si faceva sentire nei momenti meno opportuni.
-        Non siamo soli in casa, tua sorella si sveglierà e verrà a salvarmi ed anche i miei compagni.-
Lo vidi calmarsi un po' alla prospettiva di non potermi uccidere e occultare il mio cadavere senza che lo scoprissero. Si passò una mano sul viso e poi fece quel suo mezzo sorriso. Quello che ti sogni la notte.
-        Facciamo così ragazzina, tu mi consegni quella cosa ed io in compenso vengo a letto con te.-
Storsi il naso quasi schifata.
No, no non rovinare tutto ti prego, è da quando ho 13 anni che ti sogno la notte non rovinare tutto.”
-        Mi spiace ma l'offerta non mi interessa.-
-        Dammela.-
-        No!-
-        Perché?-
-        perché rischi di morire cazzo!- Lo guardai negli occhi seria come non mai poggiando la bustina sul tavolo. - Non te la darò, Jonathan, e non perché io sia dispettosa, ma perché so che non dartela è meglio per te. Cosa vuoi che cambi per me se tu ti sfondi di cocaina o meno? Non mi importa. Ma pensa a tua sorella, ai tuoi fratelli e alla gente che ti vuole bene e soffrirebbe per la tua morte. Voglio aiutarti, tutti vogliamo farlo e...-
-        Sembri quello psicologo del cazzo dell'anno scorso.-
-        No, non sono una psicologa, sono una tua amica. O meglio, se non ti uccidi prima potrei diventarlo.- ero seria e mi concessi un mezzo sorriso che sperai vivamente non mostrasse quanto fossi così tremendamente scema come in effetti ero. Lui chiuse gli occhi e si poggiò al legno del tavolo davanti a lui sorridendo per metà.
-        Chissà che cazzo volete tutti da me, io non ho bisogno di amici-
-        Sì, anche io dicevo così dopo che la mia migliore amica mi ha mandata a quel paese. Torna a letto adesso, domani ne riparliamo, sei stanco.-
Lasciai la bustina sul tavolo, mi avvicinai a lui e lo costrinsi a tornare in camera e mettersi a letto. Fece i capricci come i bambini, lamentandosi che gli rompevo le palle e che non voleva che lo disturbassi più. Alla fine riuscì nell'impresa di spingerlo nel suo letto.
Probabilmente non lo fece perché effettivamente voleva ma solo perchè quella gita gli aveva tolto le poche energie che aveva recuperato dopo il suo goffo tentativo di… di fare cosa poi?
-        Per stanotte, testa di cazzo, non ti ucciderò di botte, ma domani, se lo rifarai, lo farò.- usare le parolacce era un metodo per essere più incisivi. Sembravo decisamente stupida quando le usavo, e quella sera ne avevo usate decisamente troppe per non vedere davanti agli occhi la faccia contrariata di mio padre che mi rimproverava duramente, però erano necessarie.
-        Botte?- la sua voce confusa che ripeteva la parola italiana che mi ero lasciata scappare me lo fecero sembrare ancora più piccolo. Sempre più simile ai miei cuginetti.
-        Sì, voi come le chiamate?-
-        Non lo so visto che non so di che parli.-sentivo che stava sorridendo ma non dissi altro.
Appena posò la testa sul cuscino crollò addormentato. Ricollegai tutte le flebo che si era staccato e ritornai al mio posto di guardia per quella notte.
Lo guardai dormire affascinata tutta la notte. I miei occhi si abituarono presto al buio e amai ogni momento di quella notte.
Quanto avevo sognato di incontrarlo, di fare una foto con lui e di parlargli. Come quelle ragazzine idiote che vanno dietro i propri idoli per anni. Potevo dire, con un certo orgoglio, che io i miei pensieri idioti su di lui me li ero tenuti per me benché avessi sempre ammesso di far parte di quel 99% della popolazione che ha un suo idolo famoso con cui sogna quella storia romantica da fiaba.
Jonathan Rhys Meyers era il mio.
Purtroppo non era come lo avevo sempre immaginato. Buono e gentile e stronzo solo per finta.
Era un ragazzo drogato che aveva un solo pensiero fisso e nel suo caso, benché fosse comunque un uomo ed io ritenevo che gli uomini pensassero solo al sesso, era la droga. Ed anche il fumo in base a ciò che avevo scoperto quella notte.
Però per lo meno potevo dirmi fortunata.
Adesso che sapevo che tipo di persona era sarei potuta andare avanti tranquillamente entrando a far parte di quel 1% di fortunati/e che nella loro vita avevano incontrato, come me, quello che era stato l'idolo sognato e, disillusi del loro mondo perfetto, se n'erano fatti una ragione ed erano andati avanti.





Ciao a tutti,
oggi è la vigilia e visto che ho appena istallato word nel mio portatile mi sembrava giusto inaugurare la giornata con il nuovo capitolo che tra l'altro introduce un nuovo personaggio!
E abbiamo finalmente incontrato il nostro eroe. che tanto eroe in realtà non è affatto.
non so che altro dirvi perchè siamo ancora al quarto capitolo, non si capisce molto della storia fino a qui e non voglio svelarvi nulla anche perchè a quel punto sarebbe assolutamente inutile.
auguro a tutti voi un felice natale!
Viktoria.

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** ...giuro di perseguire la tutela della salute fisica e psichica e il sollievo della sofferenza ***


Image and video hosting by TinyPic


Mi ero svegliata più tardi del previsto. Ovviamente non avevo sentito la sveglia che aveva continuato a suonare per una mezz’ora buona. Erano quelli i risultati della vita che facevamo noi. Bisognava imparare a dormire in ogni situazione possibile e immaginabile per non diventare dei morti viventi. E ancora più bravo di me era senza dubbio mio fratello. Lui non solo faceva il mio stesso lavoro ma, con la vita da attore che conduceva, doveva imparare a dormire indipendentemente dall’ora e dalla stanchezza ogni volta che aveva un minuto libero. Pensavo di scendere a dare il cambio a Laura alle prime luci del giorno ma, appena scesa dal letto mi diressi in bagno per rinfrescarmi un po’. Avevo riempito la vasca da bagno di acqua, bagnoschiuma e Sali e, lasciando cadere a terra i miei vestiti, mi ero lasciata cullare dall’acqua calda e profumata che, circondandomi, mi aveva spinto ad addormentarmi di nuovo dimenticando tutti i miei propositi. Quando riaprì gli occhi si era già fatto tardi, più di quando già non fosse, e allora, vile come non mai mi dissi che altri dieci minuti non avrebbero ucciso nessuno. Erano passate quasi due ore e mi sentivo tremendamente indolenzita.
Stavo diventando vecchia, dovevo ricordarmi di non farlo mai più.
Mi asciugai abbastanza lentamente presa dal dolce torpore del bagno appena fatto, mi vestì alla bella e meglio e scesi al piano di sotto con un vago senso di colpa, che mi faceva dolere la bocca dello stomaco, dove i miei nuovi coinquilini continuavano ad aiutarmi con un sorrisone stampato in faccia che mi metteva allegria e mi faceva capire il vero significato di amore.
O qualcosa comunque di molto simile.
Non sembravano affatto arrabbiati per il mio ritardo, come se mi fosse assolutamente dovuto.
Era bello che esistessero delle persone come loro, se non ci fossero state il mondo sarebbe pieno di gente come me e i miei fratelli.
Presi il caffè che mi avevano preparato, rigorosamente americano perché avevo deciso di “odiare” il caffè italiano così forte e amaro, e la fetta biscottata imburrata e spalmata di marmellata alle ciliegie e andai in camera di mio fratello. Stava dormendo e sembrava essere stranamente pacifico, non ricordavo di averlo mai visto così, la ragazza accanto al letto a differenza sua era sveglissima e aveva afferrato un libro dalla libreria difronte al letto di mio fratello, una delle cose a cui sembrava tenere così tanto, leggendo.
Quando aveva compiuto sei anni, a metà del suo primo anno alle elementari, aveva avuto gravi ricadute al sistema cardiovascolare dovuto all’intervento avuto tre anni prima ed era stato costretto al ricovero. Aveva passato più di sei mesi all’ospedale e quando era tornato a scuola i suoi compagnetti erano tutti più avanti di lui che ancora non sapeva ne leggere ne scrivere nulla se non il suo nome. Era stato Paul a insegnargli, avevano cominciato ad esercitarsi insieme dopo che Jonathan era tornato da scuola in lacrime dicendo che i suoi compagni non facevano che prenderlo in giro e che non sarebbe mai più tornato a scuola. Era stato bello vederli insieme a studiare, Paul si seccava spesso e gli dava dello stupido non facendo altro che spronarlo ancora di più a fare meglio.
Per ricordare ciò Paul gli regalava ogni settimana un libro, ogni settimana da quando aveva imparato a leggere, e adesso la libreria era diventata una piccola biblioteca da cui la ragazza sembrava essersi ben servita. Accanto a lei una pila di libri da una parte e dall'altra della sedia, tutti classici in lingua originale che non riuscivo a credere avesse letto in una notte. Che non riuscivo neanche a credere che avesse letto. Mi aveva sentito entrare perché si voltò verso di me e mi sorrise raggiante.
Aveva davvero un bel sorriso quella piccolina.
-        Buongiorno, dormito bene?- mi domandò cordialmente chiudendo il libro tra le mani alzandosi dalla sedia per venirmi incontro.
-        Sì, grazie. Tu come stai?-
-        Bene, pure lui sta bene. Io vado ad aiutare gli altri.- mi rispose indicando mio fratello che si capiva chiaramente stesse bene prima di sorridermi e cominciare a fare strada verso la cucina.
-        No, vai a dormire.- la fermai prima che potesse raggiungerli.
Era ovvio che fosse davvero stanchissima e non volevo che si sentisse male per colpa mia e per il bene di mio fratello. Potevo fare io dei turni più lunghi invece che dormire nella vasca da bagno come era capitato quella mattina.
Mi guardò con aria scettica come se fosse impossibile per lei non dare una mano ai suoi compagni, come se le avessi proposto l’improponibile, mise i libri al loro posto in ordine alfabetico così come probabilmente li aveva trovati e andò fuori sicuramente ad aiutare gli altri ignorando il mio suggerimento.
Mi sedetti sulla sedia che aveva lasciato libera ancora calda dopo la notte che aveva passato lì seduta a fare la “veglia” ligia al dovere assegnatole, guardando mio fratello dormire tranquillamente.
Presi il libro che stava leggendo la ragazza e che era l’unico che aveva lasciato sul comodino come se contasse di tornarlo a prendere e lo aprì, cominciando a mia volta la lettura.
Non seppi di preciso il tempo che impiegai, ma Laura spuntò dal corridoio e mi sorrise quando ero già arrivata quasi a metà libro.
-        C'è un ragazzo bello da morire di là che chiede di te, che faccio?-
-        Chi è?- domandai leggermente agitata.
Un ragazzo bellissimo che chiedeva di me? Chi? Lei fece spallucce, io mi alzai e la seguì in salotto. Jonathan era abbastanza tranquillo da poter restare solo per un paio di minuti.
Quando me lo trovai davanti per la terza volta, senza essere in ansia per mio fratello, mi resi conto di quanto potesse essere bello e affascinante il paramedico che mi aveva aiutato il primo giorno.
Aveva dei grandi occhi nocciola che mi studiavano e sorridevano, brillavano davvero in modo caldo e coinvolgente ed un sorriso sulle labbra piene e rosse che contagiava l'ambiente come quello dei miei coinquilini.
No, molto più di così in realtà perché aveva il fascino del sorriso che era diretto esclusivamente a me. Solo a me.
-        Ciao, l'idea degli scout è carina per tuo fratello.- sembrava nervoso anche se solo l’eccessiva velocità in cui mi aveva salutata lo aveva smascherato.
-        Sì, beh, li ospito fino a Domenica perché non sanno dove stare e mi danno una mano in casa. È successo qualcosa di grave?- forse mi stavo sognando quel sorriso ed era solo preoccupato per Jonathan e per il suo diligente lavoro.
-         No, no, assolutamente. Sono venuto solo per...dare un'occhiata.-
Ecco appunto.
Complimenti Marie, hai davvero una splendida immaginazione. Potresti scrivere una sceneggiatura per tuo fratello, tesoro.
Gli feci segno di seguirmi e lui scosse la testa con un sorriso tranquillo.
-        No, tranquilla, il ragazzino là fuori mi ha spiegato già tutto. Sta bene, dorme perché il suo organismo ha bisogno di recuperare ciò che ha perso per via del malessere.-
Avrei voluto chiedergli che ci facesse lì allora, di sicuro non era venuto per me, ma la sua presenza non mi disturbava, poteva pure rimanere volendo per il pranzo.
Laura cucinava bene e per tantissime persone.
Non mi ero resa conto di quando fosse teso finché non lo vidi passarsi una mano sulla fronte. Era agitato, quasi tremava e mi venne da sorridere. Molto più della semplice agitazione che gli avevo già smascherato nella voce.
-        C'è qualcosa che vuoi...chiedermi?-
-        Io? No, niente, era solo per...sì beh adesso devo andare, mi spiace. Buona fortuna con tuo fratello.-
-        Cosa?!-
Se mi ero stupita di aver pensato che fosse lì per me, mi stupì anche di più quando lo sentì biascicare quella frase strozzata. Mi stava prendendo in giro o cosa?
Lo vidi praticamente scappare e i ragazzi, che erano in giardino, si voltarono a guardarlo mentre correva via.
Quel ragazzo non era normale.
Lo pensavo io e si vedeva che lo pensavano anche loro mentre si voltavano verso di me come per chiedermi: che è successo?
Feci spallucce e tornai da mio fratello.
Lo sapessi mi sentirei sicuramente meglio.
Nel pomeriggio fui costretta ad andare ad un colloquio per organizzarci sulle date di partenza e di arrivo del tour, sulle città e sui punti di appoggio che avremmo trovato. Piero come sempre si offrì volontario per salvare il mondo. Io sorrisi vedendo gli altri alzare gli occhi al cielo e li lasciai lì appena dopo pranzo per andare all'appuntamento.
Eddy mi aveva mandato un messaggio prima che Jonathan facesse quell’atto sconsiderato che lo aveva quasi portato alla… presi un respiro profondo e mi decisi a non pensarci. In ogni caso non avevo annullato dopo aver dato la certezza della mia presenza quindi non potevo mancare. Stranamente c’era qualcosa in cui io ero la più importante!
La mia band. Il mio gruppo.
I ragazzi della band mi aspettavano già seduti in sala, li salutai, sorrisi e mi sedetti tranquillamente al mio posto.
Evidentemente era già da un po’ che mi aspettavano perché appena ebbi finito di salutare Will prese subito la parola ricapitolando quello che già si era evidentemente discusso.
-        Bene, ora che Maria è arrivata possiamo cominciare. La data di partenza è fissata per il 12 Maggio, avrete tutto il tempo per organizzarvi. Torneremo il 12 Settembre, tutta l'estate in pratica, sono solo 4 mesi, potete resistere. Non vi diremo altro, godetevi la sorpresa che vi faremo.-
Solo quattro  mesi? Per me solo quattro mesi erano praticamente una vita in una situazione come quella in cui  si trovava la mia famiglia. Io ero l’unica a prendermi cura di mio fratello e non potevo abbandonarlo a se stesso in quelle condizioni in cui si trovava.
-        Potrei portare Jonathan con me?- domandai in un attimo di follia. Il produttore mi guardò e sbuffò sonoramente. Sapevo cosa ne pensasse di mio fratello. Mi copriva e prendeva per se tutta l'attenzione.
-        No Maria, non puoi. Devi essere tu la star, non lui.-
Ecco appunto.
Non riuscivo proprio a capire come avrei fatto a lasciarlo solo per quattro mesi adesso che si trovava in quelle condizioni però almeno sapevo che non avevo solo un mese per rimetterlo nelle condizioni adatte. In quel momento il mio telefono, poggiato sul tavolo, vibrò.
 
Siamo appena arrivati a casa e l'abbiamo trovata invasa da ragazzini ululanti. Chi cazzo sono Maria? Torna presto, abbiamo fame.
 
Ogni volta mi stupivo che fosse proprio mio fratello. Si comportava da dittatore e mi faceva venire voglia di spaccargli la faccia. Ma Paul era così. Così come lo era Jamie. Uguale a tutti gli altri maschi alfa della nostra famiglia. Fortunatamente almeno Alan si era salvato dai problemi della famiglia O'Keeffe. In un momento di distrazione scrissi un messaggio velocemente e lo inviai. Non ero certa che fosse stata una riunione veloce.
 
Chiedi a Laura, è una di quei ragazzini ululanti e cucina da Dio. Sono in riunione, non rompere.
 
Come previsto non riuscimmo a finire molto presto. Dopo la riunione infatti ci invitarono a  festeggiare l'imminente tour e fummo costretti in un ristorante fino alle tre del mattino. Ero una persona abituata a bere molto ma quel giorno mi astenni. Dovevo dare il buon esempio e mi ero offerta, per resistere, di accompagnare tutti a casa in modo che potessero divertirsi.
Fumarono, bevvero e li vidi anche sniffare qualcosa. Qualcosa che sapevo fosse cocaina, ma che cosa potevo dirgli? Non fatelo?
Anche io lo avevo fatto un paio di volte e loro erano miei amici, non volevo che pensassero che ero diventata una rompiscatole da tenere lontana. Li feci fare. Risi con loro di cose talmente stupide da stupirmi che potessi mai aver riso di quelle cose.
Volevo tornare a casa.
C'erano tutti i miei fratelli, quei ragazzi da canzoni intorno al fuoco e magari chiamare anche quell'affascinante paramedico che mi aveva stupita tanto quella mattina. E delusa anche. Pensavo fosse venuto per me.
Se aveva prestato giuramento tra i tanti punti ve ne era uno che lui non stava rispettando. ...giuro di perseguire la difesa della vita, la tutela della salute fisica e psichica dell'uomo e il sollievo della sofferenza. Lui mi stava facendo impazzire e questo non aiutava.
A dire il vero non era solo colpa sua. Era colpa della situazione in generale.
Verso le tre di notte portai tutti a casa e li lasciai a letto strafatti e incapaci anche di parlare e tornai a casa.
Durante la strada verso casa mi domandavo come avevo fatto a sopportare quella vita per così tanto tempo. Ero stata molto peggio di loro, probabilmente allo stesso livello di mio fratello ma con un insano amore per la vita che quelli come noi di solito non avevano.
Proprio questo amore forse mi aveva salvata dall’autodistruzione.
Vedendo mio fratello ridotto in quel modo mi ero immaginata io nelle sue stesse condizioni e mi ero resa conto di non voler finire in quelle condizioni.
L’egoismo umano come sempre prevaleva.
Aprì la porta di casa ancora presa da tutti questi pensieri e me li trovai davanti.
Il grido della voglia di vivere, della bellezza della vita…del dono che era.
Dormivano tutti in salotto, con i materassi che avevano sceso chissà come dal piano di sopra. Anche Paul e Jamie erano rimasti in salotto ma sui divani mentre Alan, con tutta probabilità, era salito al piano di sopra per chiamare Theresa e si era addormentato nel loro letto.
Entrai in camera di Jonathan che dormiva e, quando i miei occhi si abituarono al buio, scorsi una figura addormentata sulla sedia con un libro in mano. Era tutta rannicchiata su se stessa con la guancia posata sulle ginocchia che teneva strette al petto tenendole con le braccia. La coprì con un pail e andai in camera mia a dormire.
 Ero distrutta e pensierosa.
Avevo rimproverato mio fratello di essersi comportato da stupido irresponsabile ma anche io l'avevo fatto.
Tutti noi l'avevamo fatto.
Sospirai e chiusi gli occhi per cercare, senza successo, di addormentarmi.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** L’azione è l’ultima risorsa di quelli che non sanno sognare ***


Image and video hosting by TinyPic


Era stata davvero una giornata estenuante. Ero sfinita.
Alla fine non ero riuscita a chiudere occhio come mi aveva consigliato vivamente Maria la mattina perché i miei compagni mi avevano messo una chitarra in mano e mi avevano ordinato di suonare mentre loro pulivano, ed io avevo obbedito. Bisogna sempre obbedire al gruppo, altrimenti cominciano a fare i capricci e cominci a detestarli perché non smettono più di frignare. Come i bambini.
Come Jonathan.
Avevo cucinato e avevo dovuto subire, come gli altri, una sfuriata colossale da due ragazzi che, appena arrivati, ci avevano preso per dei ladri maniaci e ci avevano quasi fatto sparare addosso dalla polizia. Di sicuro per loro non era stato il massimo tornare a casa dopo mesi di lavoro e trovare la casa piena di gente che non avevano mai visto.
Eravamo tutti quanti intenti a fare qualche lavoretto qua e la ma il primo ad essere “catturato” fu proprio Andrea, il nostro punto debole, se così possiamo dire. Aveva cominciato a gridare quando Paul lo aveva afferrato e Alan lo aveva sbattuto al muro mentre Jamie correva verso il salotto dove io e Giulia riordinavamo. Eravamo entrambe sconvolte dall’urlo di Andrea e, la faccia piena di rabbia dell’uomo che ci trovavamo di fronte non ci aiutò a rilassarci.
Cominciò a gridare in inglese qualcosa che ne io ne Giulia riuscimmo a capire. Era troppo veloce, troppo arrabbiato e il suo dialetto mi era praticamente sconosciuto.
-          sta calmo, sta calmo e parla più piano.-
avevo ancora le mani alzate come per dimostrargli che l’unica arma che avevo in mano era un panno per raccogliere la polvere. Lui mi guardò ancora più arrabbiato mentre i suoi fratello, con Andrea in ostaggio, lo raggiungevano.
-          Piano, aspettate, siamo solo delle ragazze, fateci parlare!- gli altri avevano cominciato a raggiungerci. Gli occhi dei tre si posarono principalmente su Mario e Piero. Gli unici maschi. Tralasciando noi ragazze.
-          Chi siete?- cercò di domandare con una voce più tranquilla quello che doveva essere il più grande. Alan.
-          Siamo degli scout, dei semplicissimi, stupidi e sfigati scout che non vogliono fare del male a nessuno.- avevo cominciato ad indietreggiare ed ero arrivata a sbattere contro il petto solido di Mario che mi portò subito dietro di lui.
Alan e Jamie erano ancora sull’attenti mentre Paul sembrò controllare il suo telefono e rilassarsi.
-          Chi di voi è Laura?- sentendomi chiamare in causa sbucai da dietro la spalla di Mario ancora terrorizzata. Anche Alan e Jamie guardarono il fratello come se fosse impazzito.
-          Sono io.- mormorai in preda all’ansia e alla paura che decidesse di attaccarmi. Ma avevo Mario a proteggermi, sarebbe andato tutto bene.
-          Ho una fame che sto morendo. Cosa c’è di buono per pranzo?- sorrise e anche gli altri due capirono lasciando andare il loro ostaggio e presentendosi in modo molto più cordiale rispetto all’attacco inatteso.
Alla fine Maria aveva intercesso per noi e si erano calmati imponendomi però ci cucinargli il pranzo. Quindi di nuovo ai fornelli.
A tavola, mentre noi, ancora diffidenti, li guardavamo sottecchi dal nostro piatto di pasta alla carbonara che loro sembrarono gradire parecchio visto il modo in cui lo trangugiarono, decisero di chiederci finalmente perché la casa fosse invasa di scout canterini, come ci aveva definiti Jamie.
- stavamo qui per strada a cantare quando Maria ci ha trovati mezzi morti di fame e a deciso di ospitarci in cambio di aiuto. Mi stavo occupando di vostro fratello quando avete fatto irruzione stile spie 007- spiegò il più rapidamente possibile Piero, l’unico che avesse ancora voglia di parlare. Andrea si era rifugiato al mio fianco, io accanto a Mario che non avevo mollato neanche mentre preparavo e le altre, altrettanto spaventate erano rimaste taciturne come sempre.
- ci dispiace per avervi spaventati ragazzi, ma anche noi eravamo parecchio preoccupati. Sapete Maria non ci aveva detto niente della vostra presenza e non ci aspettavamo ospiti.- Alan sembrava il più maturo dei tre. Aveva una bella voce profonda e gli stessi colori di suo fratello. Non gli somigliava per niente ad essere onesti ma era straordinariamente bello come lui.
Jamie era il più divertente dei tre. Non faceva altro che scherzare e ci aiutò a passare un pomeriggio più divertente del solito. Giulia sembrava la più presa dal ragazzo e non lo mollava un secondo ridendo di ogni battuta. Alan si era salvato dalle attenzioni di qualcuno di noi solo per la fede che portava ben in vista all’anulare.
Paul invece…Paul faceva semplicemente più paura degli altri. I capelli a spazzola marroni e gli occhi scuri non facevano proprio venire voglia di avvicinarsi a lui e di stringere amicizia e lui non sembrava il più solare dei tre.
Non trascurammo comunque i nostri doveri, loro a turno si occuparono del fratellino malato mentre noi continuavamo a lavorare come sempre.
A cena avevano chiamato una pizzeria che mi fece pentire di essermi lamentata di essere stanca. Nessuno di noi mangiò quasi nulla mentre loro sembravano super entusiasti di quella pizza dura come suola per scarpe.
Mi appuntai mentalmente di preparargli una pizza commestibile prima della nostra partenza.
Per non fargli notare che non avevamo toccato cibo cominciammo a parlare a macchinetta della nostra esperienza, ci presentammo per bene dopo aver superato il timore che quella mattina ci aveva bloccati quando loro avevano fatto lo stesso.
Loro ci avevano ascoltati poco ma non si erano accorti che avevamo buttato tutta la pizza. Sembrava uno spreco enorme ma Francesca aveva sentenziato che quello non era davvero cibo e che noi avevamo tutto il diritto di buttarlo via senza intossicarci perché a quel punto non avremmo potuto fare bene il nostro lavoro. Alla fine avevamo anche giocato a materassurf sulle scale. Un’idea ovviamente di Jamie a cui persino Alan aveva partecipato. L’unico che era rimasto seduto sul divano a guardarci era stato Paul che, dimostrandosi acido quanto il fratello che dormiva nell’altra stanza, non ci aveva risparmiato una sola delle battutine che gli passavano per la testa. Purtroppo noi eravamo troppo affamati per goderci il momento e anche troppo stanchi ed eravamo crollati addormentati immediatamente su quei materassi che adesso ingombravano quasi completamente il salotto.
Mi svegliai poco più tardi preoccupata. Era il mio turno e me ne ero dimenticata. Lo trovai seduto sul letto con un libro tra le mani. Quello che stavo leggendo quella mattina. Mi aveva tenuto il segno lo sapevo già. Ed ero consapevole che non lo avesse fatto di proposito. Se avesse saputo che ero io che avevo cominciato a leggerlo e non sua sorella probabilmente avrebbe strappato di proposito le pagine ad uno ad uno.
-        Oh la ragazzina rompipalle.- posò il libro sul comodino e mi fissò. Ero troppo stanca per ribattere e mi lasciai cadere sulla sedia stringendomi le ginocchia al petto. la stanza era luminosa questa volta e potevo vederlo benissimo in faccia mentre mi scrutava con quel suo sorriso di sfida sulle labbra perfette.
Oh Dio!
-        Mi chiamo Laura.- mi lamentai a voce così bassa che dubitavo seriamente che riuscisse a sentirmi. Ero troppo arrabbiata del fatto che pensavo fosse bellissimo per essere allegra.
-        Sì, e sei una scout che salva la vita ai ragazzi con problemi come me? Oppure semplicemente hai pensato: oh cavolo Jonathan Rhys Meyers, ora faccio l'eroina così lui si innamora di me.-
-        Onestamente, O'Keeffe? Non sei esattamente il mio tipo. O meglio, lo eri, prima che ti conoscessi. Sei perfetto finché non apri bocca.- risi tra me della mia meravigliosa battuta ma lui non sembrò apprezzarla altrettanto. Si lasciò scivolare sul letto e sbuffò. - Mi puoi passare una coperta per favore?-
-        No, devi stare sveglia, se ti copri ti addormenti.- era acido ed arrabbiato. Io sbuffai sonoramente ed incrociai le braccia al petto sempre più arrabbiata.
-        Potresti sembrare un tantino più grato del nostro aiuto.-
-        Non ve lo ha chiesto nessuno.-
-        Tua sorella non è nessuno.-
Lui non parlò più schiacciato dalla realtà delle mie parole e finalmente mi potei godere il silenzio e la pace di quella serata di fine Marzo molto più fredda rispetto ai miei standard. Mi strinsi le braccia al petto per riscaldarmi ma questo non gli fece venir voglia di passarmi una coperta. Anzi..
-        Senti, sono stanco di stare a letto, voglio passeggiare. Se mi accompagni bene, altrimenti vado da solo.- si alzò dal letto, si mise una felpa e mi guardò come se si aspettasse qualcosa.
Io volevo semplicemente starmene dentro il mio sacco a pelo a crogiolarmi nel calore del mio corpo per evitare di morire assiderata. Stavo per mettermi a piangere. Volevo le coccole io!
Mi alzai controvoglia dalla sedia, misi la camicia dell'uniforme e il maglione di lana e lo seguì in giardino. Prese un respiro profondo e sorrise. Finalmente una reazione normale che avrei potuto godermi se non fossi stata in preda all’assideramento ante mortem.
-        Che bel tepore che c'è.- io storsi il naso per niente d'accordo.
-        Da dove vengo io queste sono temperature polari, adesso ci saranno 25 gradi.- lui cominciò a passeggiare ignorandomi come sempre ed io dovetti seguirlo come se fossi la sua baby-sitter.
-        Da dove vieni tu?- mi chiese con una nota di sfottò nella voce. Chissà se l'avessi preso a pugni se sua sorella si fosse arrabbiata molto con me oppure mi sarei meritata un applauso.
Non morivo dalla voglia di fare conversazione ma forse mi avrebbe aiutato a sconfiggere il freddo. E poi non volevo essere maleducata, io.
-        Sono siciliana- risposi comunque continuando a sfregarmi le mani sulle braccia per cercare di tenermi caldo.
-        Non ti abbraccerò se è questo che ti aspetti.- mi fece presente con una nota di sfottò nella voce.
Probabilmente se non avessi capito che tipo era avrei voluto davvero stringermi tra le sue braccia, ma adesso lo conoscevo, fin troppo bene purtroppo. E mi faceva ribrezzo.
-        Non voglio che tu lo faccia.- gli risposi acida quasi quando lui e leggermente piccata. Non gli rivolsi la parola per il resto del tempo finché non rientrammo. Quando lo spinsi praticamente dentro e lo costrinsi a mettersi a letto non dissi altro che lo stretto necessario e tornai sulla sedia.
-        Buonanotte.- mi augurò come se per lui fosse un enorme sforzo.
Ah sì? Bene. Nessuno mi impone di essere gentile con te stupido ragazzino snobbetto.
Mi sistemai meglio sulla sedia e cominciai a giocare con i miei capelli mentre lo guardavo addormentarsi.
Non ricordavo più quanto tempo fosse passato.
Quella notte feci anche un bel sogno.
 
Mi svegliai sommersa d'acqua gelida. Sentivo il freddo attraverso il maglione, la camicia e la maglietta. Aprì gli occhi di scatto e mi alzai inciampando e cadendo sul letto in cui non c'era nessuno. Mi voltai verso la risatina del ragazzo che se ne stava in piedi con una bacinella in mano.
-        La vendetta è un piatto che va gustato freddo.-
Non riuscivo ancora a credere che mi avesse buttato addosso dell'acqua gelida quando gli avevo espressamente fatto capire che per me lì c'era un freddo cane!
-        Era sia per la sigaretta che per la bustina che per il fatto che ti sei addormentata.- sorrise soddisfatto ed io scossi la testa.
Avevo a che fare con un pazzo maniaco mezzo deficiente che mi aveva appena dichiarato guerra.
-        Ok va bene, non era male questo scherzetto del cazzo...- mi levai il maglione, la camicia e la maglietta e afferrai la sua felpa sul letto infilandomela velocemente, tolsi anche i pantaloncini di velluto e i collant di lana ormai zuppi. - prestami un paio di jeans prima che mi venga la febbre.-
-        Chi ti dice che non faceva parte del piano?- sorrideva ancora. Lo scansai malamente, aprì un paio di cassetti ed afferrai un paio di jeans vecchi che mi stavano enormi.
Mi ero appena spogliata davanti al mio sogno adolescenziale, non che ne fossi ancora fuori dall’adolescenza, ma neanche da quella cotta dopo tutto, e non mi ero sentita in imbarazzo nonostante la mia non proprio perfetta forma fisica. Voglio dire sessantaquattro kilogrammi, certo non di muscoli, non erano esattamente il massimo per una ragazza alta appena un metro e sessantadue. Ma lui aveva visto donne della bellezza di Natalie Dormer, di sicuro non guardava me.
-        Spero per te che asciughi tutto entro domani o i miei capi si arrabbieranno da morire!- mugugnai a mezza voce prima di uscire in giardino e stendere la mia uniforme lasciandolo da solo in camera. I ragazzi mi guardarono seduti al tavolo a bocca aperta ma gli ignorai.
Ero nervosa.
Arrabbiata.
E chi più ne ha più ne metta.
Che ragazzino trentaquattrenne del cazzo.
Quando tornai in cucina mi sedetti al mio posto e presi la tazza di latte che avevo davanti guardandola in cagnesco e cominciando a sorseggiare il latte con i biscotti.
-        Buongiorno a tutti.- quella voce così fastidiosa mi fece venire voglia di urlare.
In realtà, adesso ne ero più che consapevole, lui si era deciso che, dopo il mio rifiuto di negargli ciò che voleva, avrebbe fatto di tutto per rovinarmi la vita. E ci stava riuscendo alla grande.
La cucina piombò nel silenzio, solo Piero rispose al saluto.
Sapevo che anche Andrea lo avrebbe riconosciuto e le ragazze, ammesso e non concesso che non sapessero chi fosse, sarebbero comunque rimaste affascinate da quel ragazzo dagli occhi di ghiaccio.
Quell'idiota.
-        C'è del latte anche per me?- si sedette a tavola nell'unico posto libero che trovò, fortunatamente abbastanza distante da me che potevo fare colazione senza averlo vicino e senza tentare di accoltellarlo con il coletto del burro.
-        No.- borbottai mentre continuavo a mangiare con calma il latte che qualcuno aveva preparato per me.
-        Ma certo, faccio io.- Francesca si alzò e gli riempì una tazza di latte e caffè prima di porgergliela con un sorriso a 54 denti. Sbuffai sonoramente e guardai Andrea che si era abbassato sul mio orecchio.
-        Che figata stiamo facendo colazione con Enrico VIII-
-        Pensa che culo...- quella mattina ero fatta solo per i borbottii. Non avevo mai avuto un risveglio peggiore di quello e non ero pronta a nessun tipo di battutina.
Mangiai in silenzio mentre gli altri si presentavano e gli facevano le moine. Moine che lui accolse volentieri senza mostrare a nessuno la parte peggiore di se stesso che invece non aveva affatto tentato di nascondere con me.
Mi alzai e levai la tazza vuota a tutti per fare la cucina e andare a riposarmi per dieci minuti.
-        Laura?- sentì la voce di Francesca dietro il mio orecchio e capì subito che non era niente di buono.
-        Dimmi Franchi.-
-        Oggi suoniamo i Queen?- aveva sfoderato la voce da bimba che faceva quando doveva estorcermi un favore.
Quella voce a cui sapeva io non sapevo resistere.
Annuì semplicemente senza dire niente, misi tutto ad asciugare e seguì gli altri in giardino prendendo la chitarra. Piero prese una sedia per il finto malato e gli disse di sedersi lì e non fare movimenti bruschi, io mi accomodai sull'erba e provai un giro di do.
-        E' scordata.- mi fece notare senza tanti complimenti.
-        Lo sento anche io, grazie.-
-        Se vuoi ti aiuto ad accordarla.- mi propose un po' più gentile di come non fosse mai stato. Io lo guardai con l'aria di chi sta guardando un pazzo.
-        Non ti farò mai toccare la mia Tuke, e neanche Ananke. Se vuoi puoi accordare la chitarra per bambini di Piero.- lui sembrò non capire e Mario alzò la testa.
-        Chi ha nominato mia figlia?- sorrisi divertita.
-        Tranquillo, sono stata io.- lo dissi un po' più forte perché potesse sentirlo e mi fece ok con il dito tornando al suo lavoro, che ormai lavoro non era più, era solo un prendersi il sole.
Dare un nome alle nostre chitarre aveva un significato.
Quando bisognava portarsele in spalla per kilometri e kilometri sotto il sole cocente di metà luglio siciliano dare un nome ad un oggetto, sentilo tuo, volergli bene come ad un “figlio”, era l’unico modo per non lasciarla in mezzo alla strada.
Quando finì di accordarla cominciai a trascinare le prime note di Crazy little thing called love. Cantammo tutti a squarciagola, anche il nuovo arrivato si unì a noi con una voce migliore di quanto non avessi mai immaginato o sentito nelle registrazioni delle sue canzoni.
Alan, Jamie e Paul si unirono a noi poco dopo mentre Maria continuava a non farsi vedere. Chissà a che ora era tornata poverina.
Paul si dimostrò davvero simpatico a differenza del suo fratellino famoso.
O forse ero solo io che adesso che avevo giurato di odiarlo davvero vedevo tutto il resto del mondo dolce e gentile al paragone.
-        Quindi oltre ad essere carina, saper cucinare ed essere una specie di dottoressa in erba suoni anche la chitarra?- io risi e sentì Jonathan ridere più forte.
-        Paul mi sa che tu non ci vedi bene. Carina?- lui lo ignorò e anche io decisi che da quel momento i suoi commenti mi sarebbero scivolati addosso come acqua.
-        Sì, ho appena imparato però.- mi giustificai prima che potesse capire quando ero scarsa.
-        Si sente.- mugugnò suo fratello seduto sulla sedia.
-        Davvero? Non l'avrei mai detto. Sei davvero brava.... magari la prossima volta che venite suoniamo insieme.- sorrisi convinta che quello fosse solo un invito di cortesia. Lo si diceva sempre quando si conoscevano nuovi amici.
La giornata comunque passò abbastanza noiosa.
Pranzo, pulizie generali, e ringraziamenti vari. Lasciammo i nostri numeri a Maria che accompagnò Alan, Jamie e Paul all'aeroporto per poter tornare al loro lavoro. I saluti erano stati veloci ma intensi. Jamie lasciò il suo numero a Giulia e le fece l’occhiolino andando via, noi ci limitammo a ridere di lei una volta che restammo soli. Quella sera facemmo anche bivacco con due ospiti d'eccezione. Alla verifica parteciparono anche loro e tutti sommersero Jonathan e Maria di domande sul loro mondo lontano anni luce dal nostro. Alla fine decidemmo di andare a letto.
-        Ehi ragazzina dove vai? Se mi capitasse qualcosa durante la notte?- lo guardai malamente mentre stavo per salire le scale.
-        Vorrebbe dire che il cielo ha accolto le mie preghiere.-
-        Devi fare il tuo dovere, forza vieni.- gli lanciai un'occhiataccia ma poi la mia mente si illuminò, sbuffai e lo seguì borbottando.
-        Fortuna che è l'ultima sera e non ti rivedrò mai più!- lui mi scoccò un'occhiata e un sorriso.
-        Ti mancherò, lo so già.- alzai un sopracciglio e lo guardai scettica facendo sparire il suo mezzo sorriso odioso.
-        E no, non credo proprio.- insistetti io entrando in camera.
Tornai a sedermi al mio posto e sospirai stringendomi le gambe al petto, lui mi tirò malamente una coperta e si mise a letto guardando il telefono sul comodino e spegnendolo.
-        Buonanotte.- mi augurò girandosi poi dall'altra parte.
-        Notte.- risposi semplicemente stringendomi le ginocchia al petto e aspettando in silenzio che si addormentasse.
Non volevo rischiare assolutamente che il mio piano andasse in fumo quindi aspettai che cominciasse ad albeggiare.
Un momento in cui il sole non è ancora spuntato ma sta già imporporando il cielo.
In cui non avrei bisogno di accendere la luce ma le forme non erano ancora assolutamente chiare.
Mi alzai in silenzio e andai in cucina. Se anche mi avesse sentito avrebbe pensato che fossi andata a preparare la colazione.
Mi misi le scarpe tirando su i jeans troppo grandi che gli avevo rubato il giorno prima, uscì in giardino e presi il tubo verde che avevamo montato tre giorni prima per irrigare meglio, aprì la trivella e tappai il buco con la mano sentendo via via la pressione dell'acqua diventare sempre più forte.
La vendetta è un piatto che va servito freddo. Aveva detto lui il giorno prima.
Entrai la pompa in camera dalla finestra e, dopo avergliela puntata addosso, tolsi la mano.
Mai stata più d’accordo.
Il getto fu più forte del previsto e lo prese in pieno. Si svegliò di soprassalto cercando di proteggersi e cadde quasi dal letto. Misi via la mia arma e lo guardai vittoriosa.
Mi resi subito conto della scintilla perversa che aveva negli occhi e scattò in piedi correndo fuori. Cominciai anche io a correre verso l'ingresso per prendere i miei vestiti e riuscì a salvarli un attimo prima che lui li afferrasse per farci chissà cosa.
-        Com'è stata la doccia stamattina cocco di mamma?- lo presi in giro ridendo. Lui mi fulminò con lo sguardo ma tutto zuppo com'era la sua occhiataccia mi faceva soltanto morire dal ridere.
Aveva i capelli neri, molto più lunghi di come li avessi mai visti nei suoi film, bagnati e appiccicati alla fronte, gli occhi azzurri mi guardavano come se potessero uccidermi.
-        Me la pagherai lo sai vero?- feci spallucce, gli diedi una pacca sulla spalla
-        Domattina sarò a casa mia al sicuro mio caro!- scoppiai a ridere e salì in camera a chiamare gli altri.
Ci preparammo velocemente e scendemmo a fare colazione. Prima del solito eravamo già pronti impeccabili nella nostra uniforme ad aspettare Maria che scese le scale dopo un po'.
-        ehi ragazzi ciao, avevo quasi scordato che era oggi, allora, vi ho preparato dei panini che sono in frigo e questa è per voi.- Passò una busta bianca ad Andrea che si sentì subito imbarazzato.
-        Grazie mille signora, non doveva, è un piacere per noi aiutarla se possiamo.-
-        Oh smammate avanti, prima che cambi idea e vi rapisca. Ci risentiremo, state tranquilli.- ci abbracciammo, la salutammo calorosamente e poi andammo via.
Jonathan non si era fatto vedere e questo era sicuramente un bene perché...chi poteva dire perché.
Però meglio così.
 
All'orario dell'appuntamento eravamo ancora soli, Andrea prese la busta e l'aprì. Dentro c’erano quasi 5 mila euro. Ci sentivamo tutti dei tremendi approfittatori e non osammo gioire di quella vincita che ci avrebbe assicurato Lourd.
Quando arrivarono i capi consegnammo a loro la busta e tornammo alla stazione.
In poco meno di 5 ore saremmo stati a casa.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** L’amore altro non è che un'unica vita esaminata sotto vari punti di vista ***


Image and video hosting by TinyPic


Ovviamente veder andare via quelli che per me erano diventati ormai come dei figli non fu affatto facile. Inoltre tornare a “combattere” giornalmente con mio fratello senza quei due santi angeli custodi che mi avevano aiutato fino a quel momento fu anche peggio. Jonathan sembrava avere un insolito caratteraccio che lo spingeva a lamentarsi di qualsiasi cosa non andasse come voleva lui. Non mi ero mai resa conto di questo lato del suo carattere. Mai fino ad adesso. Vivere gomito a gomito con lui per tutto quel tempo mi aveva fatto capire che razza di caratteraccio mio fratello avesse. Avevo quasi rivalutato quella povera donna che lo aveva sopportato per sei anni e anche quella stupida biondina che gli girava attorno nell’ultimo periodo che, dopo l’incidente, si era prontamente dissolta nel nulla. Fortunatamente quello sembrava essere l’ultimo dei problemi di mio fratello.
Quella mattina l’argomento di conversazione verteva su un nuovo attore, dal viso straordinariamente bello e giovane, che aveva ormai invaso il piccolo e grande schermo. Lo si vedeva su giornali e tutti sembravano straordinariamente interessati a ogni minimo dettaglio della vita di questo poveraccio.
Sembrava tuttavia cavarsela benissimo. ogni volta sorrideva, firmava autografi, si dimostrava gentile a tal punto da invitare un paparazzo appostato sotto casa sua a prendere un thè insieme e fare due chiacchiere piuttosto che farlo rimanere al freddo per delle foto che non avrebbero avuto nulla di eccezionale.
La stampa lo apprezzava, la gente lo apprezzava, anche a me non dispiaceva affatto e lo avrei volentieri chiamato per girare insieme il mio nuovo video.
L’unico che non sembrava d’accordo nel comune apprezzamento per il ragazzo era, ovviamente, Jonathan.
-          Anche io ero così alla sua età Maria, poi però ho capito con che razza di gente si deve avere a che fare.- io non rispondevo mai alle sue provocazioni e lo lasciavo sfogarsi. – prendi ad esempio il tuo lavoro, ti consente, nella sua semplicità, di rimanere te stessa.-
Mi morsi violentemente il labbro per non gridargli contro tutta la mia frustrazione.
Non parlavamo mai di me o del mio lavoro, di solito, quando non c’era Thomas che lo incitava a riprendersi come potrebbe fare un politico dalla televisione con le famiglie che devono riprendersi dalla crisi economica, quelle poche volte che prendeva l’argomento lo faceva solo per esaltare le sue “fatiche” e avvilire le mie.
Si lamentava di non avere abbastanza attenzioni o di averne troppo, di stare troppo male o di star troppo bene. Era come avere a che fare con un bambino.
-          Maria! Potresti ascoltarmi per favore?- mi aveva ripreso una mattina durante uno dei suoi soliti sproloqui sul mondo o su qualcos’altro di cui non mi importava onestamente niente. – quasi quasi rimpiango i due salvamondo che avevi assoldato per tenermi d’occhio, almeno loro mi davano attenzioni!-
Jonathan credeva che il tempo si fosse bloccato all’istante in cui si era sentito male e che tutto fosse cristallizzato in attesa che si riprendesse, sfortunatamente non era così. la vita continuava per tutti.
Piero e Laura erano tornati a scuola, me lo aveva scritto via mail mandandomi le foto che avevano scattato e giurando di non pubblicarle su facebook. Tuttavia non c’era nulla di male in quelle foto e diedi il mio permesso.
Thomas stava cercando in ogni modo di far andare avanti alcune trattative per non so quale ruolo in non so quale film vedendo il suo “prodotto” con una sfacciataggine da far impallidire il più bugiardo dei televenditori.
E adesso doveva continuare anche per me.
Avevo ricevuto una telefonata da Anthony, il mio batterista, che mi avvisava che il 3 Aprile avremmo avuto le prove generali prima della premiere del concerto a Dublino.
Non ero ancora riuscita a risolvere il dramma “dell’affidamento” di mio fratello ma per una sera supponevo che le prove potessero avere la precedenza su di lui.
Durante il pranzo, mentre fissava scoraggiato il suo piatto di minestra in silenzio, già c’era ovviamente stato il periodo dei capricci sul cibo che non era buono come prima, quando gli avevo ricordato che il cibo che tanto gli piaceva era quello che preparava Laura lui smise di fare commenti, mi schiarì la voce e lo guardai sperando di cogliere la sua reazione.
-          Johnny?....volevo avvisarti che stasera ho le prove con quelli del gruppo quindi devo andare a Dublino, credi di riuscire a stare a casa da solo?-
Lui non rispose. Non mosse neanche gli occhi o la testa verso di me rimase semplicemente immobile a fissare il piatto che aveva davanti a se continuando a giocare con il cucchiaio pasticciandola.
-          Potresti per favore rispondermi?- gli chiesi ben lontana dallo spazientirmi con la voce piagnucolosa e patetica di una mamma preoccupata per un bambino troppo viziato.
-          Fa quello che ti pare!- mi rispose in tono scortese alzandosi e tornando in camera sua sbattendo violentemente la porta.
Era, ovviamente, un no.
Mi passai entrambe le mani sul viso per un attimo, ero sconfortata, scoraggiata, delusa e anche un po’ arrabbiata. Perché non aveva a cuore la mia carriera come io, all’inizio, avevo a cuore la sua? Lo avevo accompagnato a centinaia di provini, avevo aspettato con lui le telefonate da parte dei produttori e adesso tutta la sua gratitudine era lì. Sparecchiai velocemente e posai le bibite in frigo chiudendo lo sportello con eccessiva foga. Il post-it che vi trovai appeso recava un numero di telefono che non ricordavo assolutamente di avere.
L’ultimo incontro non era andato alla grande, era il 19 Marzo e tutto ciò che ricordavo era la fuga precipitosa per il mio giardino. feci una smorfia che voleva essere una mezza risata e afferrai il telefono componendo quel numero. Uno squillo. Due. Tre. Al quarto sentì una voce calda e rassicurante dall’altra parte del telefono.
Calda e rassicurante?
Aveva solo detto Pronto? Ed io ero andata in brodo di giuggiole. Idiota.
-          Ciao, ragazzo paramedico, sono Maria, ti ricordi?- cercai di sembrare scherzosa e simpatica ma in realtà tutto ciò che sentì fu il suo silenzio dall’altra parte del telefono che mi fece trattenere il fiato.
-          Maria, sì, mi ricordo di te.- mi rispose quasi in un sussurro. Sembrava…imbarazzato?
-          Senti, non voglio sembrarti opportunista ma…potresti badare a mio fratello stasera, non può rimanere solo ma ho un importantissimo impegno di lavoro e avevo bisogno di una persona fidata a cui lasciarlo- lo dissi tutto d’un fiato e lo sentì sospirare come se sorridesse.
-          Non sai nemmeno il mio nome- mi fece notare ridacchiando.
-          Ma sei un paramedico, mi fido abbastanza.- lo rassicurai.
-          Non so se è il caso Maria io…- stava per dirmi di no, ovviamente e lo bloccai prima che potesse finire.
-          Ti prego, prometto che dopo ti offro una cena dove vuoi tu o ciò che vuoi, insomma ti prego!-
Ancora silenzio. Cavolo evidentemente non era un tipo molto loquace questo ragazzo. Perfetto per mio fratello che aveva solo bisogno di sparare a zero sul mondo senza stare a sentire niente e nessuno.
-          Va bene, a che ora?-
-          Puoi essere qui per le 4?- mi affrettai a chiedere prima che la mia fortuna si esaurisse e cambiasse nuovamente idea.
-          Ci sarò.-
Stavo per gridare dall’emozione, avevo già cominciato a farlo ma lui aveva messo giù a sar.., come se avesse una tremenda fretta di riattaccare. Nessun problema. Avevo risolto il primo problema della giornata. Un importante problema tra le altre cose.
Non vidi mio fratello per il resto del tempo  troppo impegnata com’ero a preparare le mie cose, vestirmi, truccarmi, cercare di dare una sistemata alla casa ora che non c’erano più i miei salvatori ad occuparsene. Quando suonarono alla porta ero stranamente pronta.
-          Arrivo!- gridai dall’anticamera aprendo la porta di casa e lasciandolo passare.
Lo ricordavo piuttosto bene e adesso, con quella camicia bianca e il giubbotto di pelle, sembrava anche più carino dei giorni passati.
- Hai tagliato i capelli, stai bene- lo salutai con un sorriso e lo invitai a seguirmi in cucina. La casa non era di certo nelle splendide condizioni in cui l’avevano lasciata prima di andare via. In pratica non assomigliava affatto alla casa che aveva visto lui l’ultima volta che era stato qui, ma cercai di non badarci troppo. Effettivamente io in realtà ero proprio quella ragazza disordinata che vedeva adesso, inutile dare false speranze.

False speranze?
Marie, tesoro, sei tu che stai immaginando un anello di fidanzamento al dito, lui era restio anche a venire!
Mantenni il mio bel sorriso anche quando bussai alla porta della camera di mio fratello per avvisarlo che adesso per me era arrivato il momento di uscire ma che non lo stavo lasciando solo. Lui, ovviamente, non mi rispose.
-          Mi dispiace da morire in anticipo se ti dovesse trattare male ma ultimamente sembra più scorbutico del solito con le persone, cerca di scusarlo e di ignorarlo soprattutto.-
Lui mi sorrise tranquillo con una certa distaccata professionalità che mi fece rabbrividire.
-          Sì, non preoccuparti, credo di capire il motivo per cui si comporta così, sarò qui se avrà bisogno di me ma gli lascerò i suoi spazi in modo che non decida di accoltellarmi.-
Avrebbe dovuto essere una battuta e probabilmente mi avrebbe anche fatta ridere se non avessi creduto che Jonathan ne fosse realmente capace.
Forse andare a quelle prove non era esattamente una buona idea.
Lui mi scrutò attentamente in viso come se avesse capito ciò che stavo per dirgli e mi indicò la porta con un dito come se volesse sbattermi fuori di casa.
Anzi, mi correggo.
Lui mi stava decisamente buttando fuori di casa.
-          Va a lavorare, e non stancarti troppo, ricorda che quando torni hai una promessa nei miei riguardi Marie.-
Marie?Mi aveva appena chiamata Marie?Sorrisi di uno smagliante sorriso a trentadue denti, lo strinsi goffamente per un istante e poi scattai via, fuori dalla porta, prima di poter cambiare idea.
Quando fui abbastanza lontana da casa da rimettere in moto il cervello mi venne finalmente da pensare.
Ogni tanto capitava anche a me.
E in preda all'ansia da palcoscenico che mi attanagliava sempre lo stomaco prima di salire sul palco questa volta c’era anche altro. Il terrore di scoprire a che genere di promessa si riferisse il mio cavaliere senza nome.





Note:
sono stata davvero crudelissima.
ho spezzato il capitolo a metà.
ma tanto sapete che domani avrete il prossimo capitolo e potete rasserenarvi.
questa due capitoli sono dedicati a Maria e al cavaliere misterioso di cui scopriremo il nome nel prossimo capitolo.
p.s. tempo fa ho scritto una storia che adesso ho deciso di riprendere se vi va di leggerla ne sarei felicissima. http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1150706&i=1

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Il primo appuntamento è una partita a poker: arriva il momento del bluf ***


Image and video hosting by TinyPic


Quando la porta si chiuse alle sue spalle la casa divenne improvvisamente tremendamente vuota. Quanto poteva essere bella e coinvolgente quella giovane donna? Maria Elenora O’Keeffe, il mio sogno ricorrente ultimamente. Mi guardai intorno ancora fermo nel salotto in cui Maria mi aveva lasciato. Era un salone molto spazioso e luminoso, il tutto arredato in chiave moderna senza nessun oggetto che stonasse con un altro. Ogni singolo pezzo di arredamento doveva valere una piccola fortuna, niente a che vedere con i mobili Ikea con cui avevo arredato i miei trentadue metri quadrati. Mi resi conto che quelle che da dentro sembravano delle vetrate a tutta parete da fuori altro non erano che l’illusione ottica della continuazione del muro. Lasciai la stanza senza soffermarmi sulle fotografie. Avevo sempre pensato che non ci fosse nulla di più privato e personale delle foto. In casa mia avevo evitato accuratamente di metterne proprio per evitare che degli ospiti, come lo ero io in quella casa, potessero mettersi a curiosare. Dal salotto, che fungeva da unico ambiente comprendente una “modesta” anticamera e delle lussuose scale che conducevano al piano di sopra, si accedeva, attraverso una porta a vetri, ad un lungo corridoio pieno di visi sorridenti alle pareti. La cucina era a metà del corridoio e, così come il salotto, fungeva da unica camera anche con una spaziosa sala da pranzo che, ne ero certo, veniva usata solo dalla famiglia per quei pasti che la gente come me consumava sul divano. Non aprì le altre porte ne mi intrufolai di sopra ma sapevo che l’ultima porta in fondo al corridoio era quella del mio scorbutico paziente. Lo avevo portato io lì la prima sera collegandogli tutti i tubicini bianchi che sarebbero serviti per tenerlo in vita.
Non volevo comunque incorrere nella sua ira e mi limitai a tornare in salotto. Mi lasciai cadere sul divano e accesi la televisione.
Il tempo si trascinava pigramente e quando finì di vedere l’ennesimo filmetto alla televisione, quasi tre ore dopo, mi decisi ad andare in cucina per mangiare qualcosa. Lui era lì, la sigaretta in mano e qualcosa da mangiare nell’altra. Lo guardai con malcelato dispiacere e mi avvicinai al frigo. Lui fece finta di non vedermi.
Sapeva che non mi sarei mai messo a fargli una scenata, se voleva fumare che fumasse pure, non era affar mio.
Ero lì per controllare che non si uccidesse, se voleva fumare io non potevo certo impedirglielo o nessuno avrebbe potuto impedire a lui di denunciarmi.
-          Quindi ti scopi mia sorella giusto?- mi domandò di punto in bianco mentre bevevo un sorso d’acqua. Era rimasto in silenzio a scrutarmi mentre recuperavo un bicchiere e mi versavo da bere e adesso cominciava ad aver voglia di fare conversazione.
Mi strozzai reso alla sprovvista e cominciai a tossire trovandomi a sputare acqua come un cretino.
-          Non ucciderti, dovresti essere qui per evitare che sia io a farlo.-
Le sue parole sarebbero potute anche risultare bonariamente affettuose se mi avesse battuto una mano sulle spalle e se le avesse pronunciate meno schifato da me e dalla situazione.
-          Io e tua sorella non facciamo sesso, mi ha solo chiesto una mano.-
Lui mi guardò come a chiedermi “ti sembro forse scemo amico?” e sollevò le mani come per mostrarsi disarmato.
-          In ogni caso me ne sbatte meno di un cazzo, fai quello che cazzo ti piace.- mi ammonì prima di spegnere la sigaretta e tornare al suo rifugio. La sua camera.
Vederlo tornare di spalle al suo rifugio mi fece venire in mente quanto solo dovesse sentirsi adesso.
I suoi fratelli non c’erano.
Presto sua sorella sarebbe partita.
Io non potevo stare sempre qui e comunque ne io ne nessun altro avremmo potuto dargli l’affetto di cui aveva bisogno.
Probabilmente era la mancanza d’affetto che lo aveva ridotto così.
Tornai da bravo amino sul divano e attesi, pazientemente, il ritorno della ragione per cui mi trovavo lì.
Rientrò tre ore più tardi, avevo visto Jonathan altre due volte fumare altre due sigarette. Non mi rivolse più la parola in ogni caso ne si premurò di alzare lo sguardo su di me che continuavo ad occupare il suo salone girovagando intorno a quelle quattro mura come un topo in gabbia.
Quando aprì la porta e si tolse il giaccone sembrava in piena forma, felice come non l’avevo mai vista prima di allora neanche quando l’avevo trovata circondata dagli scout.
-          Ciao, mio cavaliere. Allora come è andata?- mi si avvicinò felice e si gettò sul divano da cui mi ero appena alzato. Non sembrava stanca, potevo cercare di riscuotere la mia promessa.
-          Bene, tuo fratello se la cava benissimo, anche se lo lasci qualche ora da solo a casa non c’è alcun bisogno di chiamare me per tenerlo d’occhio.- ero così teso da quello che stavo per dirle che la mia voce risultò fredda e professionale perfino alle mie orecchie.
Lei mi guardò ferita ed io mi sentì un vero idiota.
-          Mi dispiace di averti disturbato, giuro che non capiterà più.- si alzò formale e dura dal divano e mi superò avvicinandosi alla porta.
Era il mio momento, o adesso o mai più.
La seguì a passo svelto e mentre lei mi apriva la porta per farmi uscire io le porsi la giacca in modo che potesse indossarla. Lei la guardò attentamente come se non riuscisse a capire.
-          Quella è la mia giacca.- mi fece notare con un mezzo sorriso.
-          Lo so, ti prego, puoi indossarla?- la mia voce si era notevolmente abbassata ed era diventata calda e carezzevole in modo quasi stucchevole. Ma io ero decisamente un ragazzo da frasi stucchevoli.
Lei mi guardò con gli occhi sgranati e senza farselo ripetere due volte, concentratissima, guardarmi negli occhi, la indossò. Io feci lo stesso in un attimo mentre lei si aggiustava la sciarpa e i capelli e la sospinsi fuori di casa dimenticandomi di Jonathan e di ogni problema che sparì completamente una volta che ebbi chiuso la porta di casa alle mie spalle. Le sorrisi rassicurante mentre le porgevo il braccio che accettò ancora evidentemente molto frastornata, salimmo in macchina e partì senza dire una parola e senza che lei mi dicesse alcun che.
Ero in ansia. Forse credeva che fossi un pazzo maniaco e stava morendo di paura.
Durante il tragitto la guardai di sottecchi due o tre volte ma ciò che colsi fu soltanto il suo sorriso che le illuminava il viso.
Quando arrivammo le aprì la portiera e aspettai che scendesse
-          E pensare che c’è chi dice che la cavalleria e morta.- ridacchiò lei prendendomi di nuovo sottobraccio.
-          Sono un uomo d’altri tempi io- scherzai aprendole la porta del locale per farla entrare.
Ci diedero un tavolo per due piuttosto riservato e quando ci fummo finalmente seduti, faccia a faccia, rimanemmo per una buona mezz’ora zitti a guardarci negli occhi.
Il silenzio però non era quello pesante ed imbarazzante che non si sa come rompere ma quello di due persone che si stanno studiando con curiosità crescente.
-          Come ti chiami?- mi chiese di punto in bianco rompendo quel momento senza rovinarlo ma se possibile rendendolo ancora più intimo.
-          Ettore.- risposi io semplicemente vedendo i suoi occhi farsi più brillanti alla mia risposta. Ne sorrisi anche io.
-          Non sei irlandese.- questa non era una domanda.
-          No, sono tedesco, mi sono trasferito qui perché era l’unico ospedale quello di Cork che mi avrebbe permesso di laurearmi in tempo.- le risposi onestamente.
-          In tempo per cosa?- chiese lei poggiando entrambi i gomiti sul tavolo e posando il mento tra le mani.
-          Per permettere a mia madre di vedere suo figlia dottore in medicina e chirurgia.- la mia voce non si incrinò come ci si potrebbe aspettare ma si indurì un tantino e divenne quella del medico che diagnostica al paziente la malattia che lo affligge. Serio e distaccato.
-          Quando sei triste, o preoccupato, la tua voce sembra perfetta per un telefilm sui medici. Mi hai appena diagnosticato un cancro Ettore-  rise.
Mi piaceva la sua risata perché era genuina. E mi piacque ancora di più in quel momento perché era una risata tutta per me, mi pregava di stare meglio, di non pensarci e di godermi la bella serata con lei. Le sue iridi verde smeraldo lampeggiarono di nuova luce quando, schiaritami la voce, le domandai:
-          Come è andata la tua giornata?-
Vidi nei suoi occhi un ombra che sparì veloce come era arrivata.
 Poi vidi il luccichio farsi più intenso fino a strabordare e diventare lacrima.
Non riuscivo davvero a capire cosa avessi potuto dire di così terribile da scatenare questa reazione.
Mi alzai di scatto e mi avvicinai alla sua sedia accovacciandomi accanto a lei e scoprendole il viso che si era presa tra le mani.
-          Non piangere Marie, ti prego non piangere. Mi spiace.- sussurrai vicinissimo al suo orecchio prima che le sue braccia non mi si legassero strette al collo.
La lasciai sfogare finché non si calmò poi cercai di guardarla di nuovo negli occhi e presi un respiro profondo per non commettere di nuovo una tremenda gaffe. Lei non parlò subito, mi fece una lieve carezza sulla guancia resa ruvida da un accenno di barba che non avevo tolto preso dalla fretta di arrivare puntuale all’appuntamento alle quattro a casa sua.
-          Puoi non scusarti per piacere? È la cosa più bella che qualcuno mi dice dal 2008.- sussurrò con la voce ancora impastata dalle lacrime.
Rimasi per un attimo sconcertato, senza fiato, in silenzio, poi, dopo che lei mi ebbe lasciato un delicato bacio sulla guancia, mi alzai per riprendere il mio posto difronte a lei.
Fu particolarmente loquace per il resto della serata, mi raccontò praticamente tutto di lei e volle sapere tutto di me.
Non smettemmo di parlare quando ci servirono da mangiare ed entrambi non toccammo quasi cibo.
Non smettemmo di parlare in macchina mentre la riaccompagnavo a casa.
Non smettemmo di parlare arrivati davanti alla porta.
-          Quindi in pratica adesso so fare solo delle uova sbattute ma ho sempre voglia di pasta!- concluse.
Ridemmo insieme per un attimo prima che lo sguardo mi cadesse sull’orologio. Era decisamente tardi.
-          Devo lasciarti andare adesso. Grazie per aver accettato il mio invito.- mugugnai sottovoce cercando di non assumere il solito tono distaccato.
-          È stato un primo appuntamento davvero bellissimo, non so come ringraziarti.-
-          Un primo che?- la interruppi praticamente prima che finisse di parlare ma ero troppo sconvolto per non reagire così.
Lei mi sorrise come se, in un certo senso, se lo aspettasse.
-          Un primo appuntamento Ettore, e la vuoi sapere una cosa anche più bella? Visto che il mio ex dice che sono una troia posso anche permettermi il lusso di fare questo.-
Si alzò piano sulla punta dei piedi e lentamente mi circondò il collo con le braccia. Ci guardammo negli occhi per un istante. Verde e nocciola. Poi lei chiuse gli occhi ed io non aspettai altro.
Quando avvertì le sue calde e morbide labbra sulle mie mi sentì felice come se avessi appena vinto il primo premio alla lotteria.
Non fu un bacio fuggente.
Fu un vero bacio, lungo, appassionato, uno di quei baci che ti lasciano il sapore dell’altro sulle labbra e ti fanno dire: questa notte lei è stata mia. Mi sorrise quando ci liberammo dalla stretta e tornò in casa.
 
Qualche ora più tardi nella solitudine della mia casetta Ikea ripensai a tutta la serata e capì che dietro al comportamento di Maria c’era ciò che nascondeva anche suo fratello, la paura di soffrire, il desiderio di essere amati, la necessità di essere capiti e ascoltati.
Sarò tutto questo per te Marie, tutto quello che vuoi.
Afferrai il telefono che avevo lasciato sul comodino e me lo rigirai tra le mani guardando il suo numero di telefono. Lo conoscevo ormai a memoria tante volte lo avevo letto quando decidi di mandarle l’ultimo segnale della giornata.
 
Buonanotte Marie.

Sarebbe bastato, lei avrebbe capito.
E sorrisi.

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Nessun posto è bello come casa mia ***


Image and video hosting by TinyPic


Erano passati quasi due mesi dall’ultima volta che avevo visto i suoi occhi. Dal vivo almeno. Poi c’erano quelle volte in cui, tanto per farmi del male, mi iniettavo dosi endovena di interviste, film e canzoni tutte con la sua brutta faccia bene in vista.
Ero davvero patetica.
Tornare alla vecchia città e alle vecchie abitudini non era mai facile. Bastava che mi allontanassi di casa un giorno che ecco che cadevo innamorata delle dolci promesse che quel luogo ameno mi sussurrava. I miei genitori erano l’unica consolazione.
Mi vennero a prendere all’aeroporto con un sorriso bellissimo sul viso e mi strinsero fortissimo come se fossi stata lontana da casa per mesi e non per giorni. Mia mamma mi stampò un dolce bacio sulla fronte e mio padre mi chiese come era andato il viaggio.
Non erano mai stati tanto apprensivi come quell’anno. Presto sarei dovuta andare all’università e sfortunatamente la nostra terra non offriva molte possibilità. In più il mio desiderio mi avrebbe addirittura portata all’estero per inseguire un sogno quindi mia madre, temendo di poter perdere gli ultimi momenti con la sua bambina, era diventata più apprensiva che mai. Non mi sentivo affatto una ragazza prossima alla maggiore età ma una bambina di sei anni che deve essere protetta.
Arrivata a casa trovai la mia camera in ordine e pulita, i vestiti che ricordavo aver lasciato in disordine sulla sedia erano al loro posto nell’armadio, in tavola c’era una bella cassatina siciliana ad aspettarmi come bentornato.
Ero fortunata. Lo sapevo e me lo ripetevo giornalmente ogni volta che la mia famiglia mi stupiva con quei dolci segni d’affetto.
Eppure, quella notte, quando andai a letto, tra le mie lenzuola, avvolta dal mio odore, tra i cuscini soffici e caldi, rimpiansi una sedia nella penombra di una camera buia al freddo di una città straniera, con un cuore di ghiaccio con cui lottare.
 
Tornare a scuola ovviamente era stato triste quasi quanto tornare a casa in quella piccola provincia siciliana. Ero seduta al mio posto, terzo banco accanto alla finestra e guardavo fuori godendomi il sole che mi batteva sul viso riscaldandomi.
Quello mi era mancato.
Accanto a me quella che era diventata la mia nuova compagna di banco dopo che la mia migliore amica mi aveva gentilmente abbandonata con un pretesto che mi aveva lasciata spiazzata per la sua banalità.
Era stato davvero un brutto periodo. Non credevo che perdere un’amicizia sarebbe stato così brutto, ma era successo.
Colpa mia forse.
O sua.
O di entrambe. Prospettiva sicuramente più probabile.
La verità era che probabilmente io ero troppo immatura per una vera amicizia. Così come lo ero per l’amore. E così come lo era anche lei che dava troppo ascolto agli altri e ascoltava troppo poco se stessa. Adesso potevo vedere solo la sua schiena che mi ricordava come mi ero resa ridicola per cercare di riconquistare il suo affetto.
Carmela aveva preso il suo posto.
Teneva lo sguardo basso, i capelli sciupati dalla poca cura, il viso struccato segnato da profonde occhiaie, vestiti sformati e fuori moda.
Non che a me importasse. Ero più un tipo per la pace nel mondo io. Ognuno poteva fare quello che voleva. Ma la mia scuola non era così e la mia classe era la portavoce per eccellenza dei valori imposti dalla massa ignorante.
-          Ciao splendore.- mi arrivò un saluto dalle mie spalle che mi portò a voltarmi e, come sempre, mi arrivò un bacio troppo vicino all’angolo delle labbra.
Dopo tanti rifiuti in ogni caso la sua costanza era assolutamente da premiere.
Dietro di noi sedeva da sempre quello che era il rappresentate d’istituto nonché Mr liceo nonché rappresentante della consulta. Primo caso di doppia elezione nella storia dell’istituto e che molto aveva fatto discutere.
Alla fine la voce del popolo che aveva gridato ai propri diritti (lo aveva fatto per far eleggere quel ragazzo ma non lo aveva fatto quando ci avevano tagliato i fondi per ogni tipo di corso pomeridiano, e non lo aveva fatto nemmeno quando la scuola aveva rifiutato le sovvenzioni Europee per i PON) aveva prevalso sul buon senso. Inutile a dirsi che non era stato certamente per le sue doti intellettuali che Danilo aveva ottenuto tutti quei voti quanto per i suoi abbaglianti occhioni azzurri ed il suo fascino da bad boy che tanto piaceva alla popolazione femminile, che purtroppo batteva quella maschile di 5 ad 1.
Affiancato dal suo immancabile “compare”, che cercava di carpire un po’ della sua popolarità cimentandosi in una disastrosa imitazione dell’originale, Danilo non era certo uno che te le mandava a dire.
-          Sai, tesoro – stava appunto dicendo alla malcapitata compagna di banco che mi era stata affiancata quell’anno. – credo che ormai la tua situazione sia davvero disperata. Sei brutta ed anche stupida!-
Probabilmente mi ero persa qualche passaggio. Non sempre infatti mi soffermavo ad ascoltarlo.
La maggior parte delle volte era fatica sprecata perché i suoi discorsi erano meravigliosamente pieni del nulla.
Infatti detto da lui quello era decisamente un insulto. Sapeva di essere bello, ma sapeva anche di non spiccare in quando ad arguzia e la maggior parte delle volte, se non in casi come quello ad esempio, cercava di non offendere mai tirando fuori la carta della stupidità.
Ma in effetti Carmela non era furba.
Innamorata cronica di chiunque le rivolgesse la parola, le sue attenzioni erano cadute adesso su di lui. Amante dei romanzi rosa sognava il ragazzo meraviglioso pronto ad amarla nonostante i suoi difetti, che tra l’altro, tratto assolutamente apprezzabile del suo carattere, sapeva perfettamente di avere.
Anche io ero come lei. Amante del rosa volevo dire. Ma fortunatamente madre natura mi aveva dato qualcosa che a lei aveva negato: un viso accettabile ed un carattere. A tutto ciò poi avevo aggiunto undici anni di nuoto agonistico che mi avevano regalato un fisico atletico ed invidiabile.
-          Vedi, io da te non mi farei fare nemmeno un pompino!- tenne a precisare prima che qualcuno potesse capire male. E quel qualcuno non ero certo io o il suo compagno ma la folla che ogni giorno si assiepava intorno ai nostri due banchi per godere della compagnia dell’adone alle mie spalle.
quando il professore entrò in classe tutti si sedettero ai loro posti e per un’ora potei godermi la tranquillità del silenzio smorzato solo dall’insistenza della poverina al mio fianco che con assiduità sconvolgente mi chiedeva di leggere e revisionare le lettere che aveva scritto al suo unico amore. (che aveva sostituito due settimane prima il suo precedente “unico amore” durato la bellezza di 42 settimane)
Io gli davo un’occhiata veloce disgustata da quella sorta di servilismo che la faceva risultare oggetto di scherno da parte di tutti. Ero diventata la sua maggiore confidente dopo che Danilo aveva confessato apertamente di volermi portare a letto e di accettare l’idea che avessi dei “valori religiosi” come una sfida.
Quindi non solo adesso dovevo sorbirmi le attenzioni indesiderate di un ninfomane ma anche tutte le attenzioni connesse al fatto che avessi attirato l’attenzione di quel belloccio.
C’erano un paio di ragazzine che mi seguivano dovunque andassi standomi letteralmente col fiato sul collo, vestendosi come me, cercando di parlare come me.
c’erano gli “amichetti” del Mr che cercavano di convincermi della sincerità dei suoi sentimenti. E poi c’erano le ragazze “Carmela” che mi chiedevano aiuto per conquistarlo.
Io, in tutto questo, volevo solo essere lasciata in pace.
Non ero mai stata la ragazza sfigata che diventava importante solo adesso. Avevo avuto il mio momento di notorietà quando l’anno prima ero stata rappresentante di istituto e  in più una delle mie migliori amiche era stata scelta come assistente stilista per Dolce & Gabbana ed era lei che mi procurava i vestiti da mettere. Nemmeno l’idea che fossi una scout aveva permesso che fossi etichettata come una sfigata.
Ma era l’ultimo anno e volevo solo studiare, diplomarmi e scappare via da quella città di merda senza perdere tempo con crisi adolescenziali come quella.
Ignorarla comunque era piuttosto difficile quindi la maggior parte delle volte cercavo di stare al gioco per poi dirle:
 -  però su questo io proprio non posso aiutarti, ascolta il tuo cuore e lui ti darà la risposta giusta e saprai cosa fare.-
Avevo sentito quella frese in un film e adesso la sfoderavo ogni volta che volevo che la gente non mi rompesse le scatole.
Durante la ricreazione finalmente potei dedicarmi alle mie amiche, quelle vere, che mi chiesero ogni dettaglio di quella rout. Io feci spallucce.
-          Stancante soprattutto, entusiasmante, divertente e…ho conosciuto Jonathan Meyers.- buttai lì sapendo di sconvolgerle, forse per sempre, dopo quella rivelazione. Loro erano le uniche con cui parlavo delle mie fisse e lui era assolutamente una fissa per me.
Lo era, prima che lo conoscessi e che rovinasse per sempre le mie fantasie adolescenziali.
-          Cosa?- mormorò Carolina, la più grande tra noi, almeno emotivamente. Lei sapeva come rimanere calma e adesso non sembrava per niente calma.
-          Ne riparliamo oggi pomeriggio ok? Venite a casa e vi racconterò ogni particolare, Josephine torna da New York e non voglio ripetermi.- scherzai facendole l’occhiolino.
Tornai al mio posto e  mi meritai uno sguardo d’odio da parte di tutte e quattro le ragazze che avevo lasciato imbambolate davanti alla finestra.
Sorrisi compiaciuta per un attimo.
 
Stavo preparando un thè alle rose che avevo acquistato a Parigi in Dicembre mentre Josephine inpiattava i biscottini al burro che aveva portato dall’America.
Josephine era l’amica di sempre. Quella che sai che c’è e con cui non hai neanche bisogno di chiedere. Io e lei eravamo tremendamente simili. Stessi occhi nocciola, stessi capelli a caschetto marroni e mossi. solo che lei era molto più carina di me.
A lei il viso a me il fisico. La giustizia divina.
L’avevo trovata a casa alle due con mia mamma che mi cucinava il pranzo. Le avevo accennato qualcosa sulla mia esperienza e adesso l’unico modo per scrollarsela di dosso era raccontarle tutto, così alla fine avevo ceduto e avevo condiviso con lei ogni istante passato in Irlanda.
Lei mi aveva ascoltata interrompendomi però ogni secondo per chiedere maggiori particolari su questo o su quello. Quando avevo finalmente finito erano già le 5 e le mie amiche stavano cominciando ad arrivare e fui costretta alla seconda manche resa almeno più dolce dei biscotti e dal thè.
-          Sei decisamente fortunata, adesso che hai sfatato il mito Meyers puoi gettarti su Rossitto.- mi invitò Alissa con un sorriso invitante.
-          Danilo non fa per me.- conclusi sparecchiando mentre Bernadetta, Betta per tutti, annuiva convinta di quell’affermazione.
-          Mica te lo devi sposare, devi solo scopartelo.- mi ricordò Josephine dall’alto della sua pudicizia. Betta arrossì subito e la interruppe.
-          Laura ha altri valori rispetto a lui, non sarebbe la cosa giusta- sentenziò mentre Jo rideva delle sue parole come se le ritenesse poco più che una barzelletta.
L’argomento sarebbe rimasto su di me per tutta la serata se non avessi fatto qualcosa. Avevo imparato che stare al centro dell’attenzione non era tutto nella vita così tornando a sedermi sbuffai sonoramente per attirare l’attenzione.
-          Comunque il signorino non merita la nostra attenzione un minuto di più. Ale com’è andata per te in uscita?- domandai in modo che anche lei potesse avere il suo spazio.
Alissa amava parlare di se stessa e a noi non dava fastidio. E poi era un buon modo per distogliere l’attenzione. Faceva anche lei, come me, parte di un gruppo scout. E anche lei, come me, era andata al campo invernale che però, ammise, non era stato per nulla emozionante come il nostro. Così cominciò a parlare, parlare, parlare, finché non fu il momento di andare via.
Le accompagnai alla porta come una brava padrona di casa, sorrisi e quando mi richiusi la porta alle spalle mi sentì di nuovo sola.
 
Ero a letto, sommersa tra le lenzuola calde con il portatile sulle ginocchia e scrivevo. Eravamo in chat con tutti i ragazzi degli scout a parlare del più e del meno chiedendoci come stavano Maria e Jonathan e con Giulia che ci rendeva partecipi dei suoi dubbi amletici
 
Giulia: Ragazzi un minuto di attenzioni, ho una domanda importante da fare.   22.40
Andrea: Spara!  22.40
Mario: Che è successo?   22.41
Francesca: Oh Giuly? Sei morta? 22.42
Giulia: E che cazzo me lo date il tempo di scrivere? 22.42
Laura: Tempo scaduto, allora? 22.43
Giulia: Allora, vi ricordate di Jamie? Bene, ho il suo numero di telefono, però lui ha il mio e non si è fatto sentire, dovrei chiamargli lo stesso? 22.44
Valentina: Rimettiti al giudizio di Laura!22.44
Laura: Al mio? Guarda che tutte le mie storie sono andate a finire male, tanto per dire. 22.45
Francesca: Ma almeno ne hai avute. 22.45
Laura: Guarda che tu stavi con Piero. 22.46
Francesca: Brutti momenti da non ricordare prego, sono ancora profondamente traumatizzata.22.47
Andrea: Bleah! 22.47
Laura: Anche Eleonora è fidanzata, da più tempo e con migliori risultati dei miei22.48
Giulia: Luigi non fa testo. Muoviti! 22.48
Laura: Io gli manderei un messaggio tanto per tastare il terreno e vedere se si ricorda, non lo spaventare con le telefonate. Sii discreta. 22.52
Mario: La signora ha parlato. 22.52
Valentina: Amen22.52
Laura: OUUUUU 22.53
Andrea: Pensavamo fossi morta! XD 22.54
Giulia:Grazie Lau! Gli chiederò il numero di Jonathan! 22.54
Laura: NO, no ti prego non farmi fare figuracce! 22.54
Mario: E Laura ci rimise la faccia! 22.55
Andrea: Vai Giuly! 22.55
Valentina: Lo voglio anche io poi, non fate le ingorde. 22.56
Francesca: Dividiamo come dei bravi fratellini! 22.56
“Giulia ha abbandonato la conversazione”
 
Avrei volentieri afferrato il computer per scagliarlo dall’altra parte della stanza. Ma mi avrebbe sentita la traditrice. Appena l’avessi avuta tra le mani le avrei fatto il solletico fino a farla svenire! Spensi senza salutare tanto ero arrabbiata e mi rifugiai sotto le coperte.
Dopo una decina di minuti mi arrivò un messaggio al telefonino che per la rabbia avevo dimenticato di spegnere. Lo afferrai malamente e lo guardai.
 
Jamie si ricordava di me! comunque si ricordava anche di te
e prima che io potessi chiedergli il numero di suo fratello lui mi ha chiesto il tuo.
 
Che palle!
Spensi il telefono senza risponderle e mi nascosi di nuovo sotto le coperte. Adesso mi stavo illudendo. Purtroppo dentro di me, da qualche parte in fondo al mio cuoricino, un parte di me era simile a Carmela, una sognatrice di romanzetti rosa che si aspettava adesso la chiamata del suo principe azzurro. Stavo lottando con quella malattia da tutta la vita ma la televisione e la letteratura non mi aiutavano. La vita non era soddisfacente come nei film, o come nei libri.
Il bellissimo non si innamorava di una ragazza normale, al massimo aspirava ad andarci a letto. Come Danilo.
Forse dopo tutto fare un po’ di esperienza con lui mi avrebbe aiutata ad uscire dal mio guscio e dalle mie aspirazioni infantili. E poi, ammesso e non concesso che avessi rivisto Lui, che figura ci facevo ad essere ancora vergine?
Ma che cavolo stai dicendo, stupida idiota?
Presi un respiro profondo e chiusi gli occhi sconvolta di aver anche solo potuto pensare una cosa tanto vile.
Quella notte, come quella precedente, dormì male.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** È un lavoro sporco, ma qualcuno deve pur farlo. ***


Image and video hosting by TinyPic


Non ero granché arrabbiato per quello che era successo la mattina in cui quei rompi coglioni di cretini vestiti da dementi erano andati via.
Ero semplicemente incuriosito.
Si beh in realtà ero anche incazzato nero e le ragioni erano talmente tante che alla fine decisi di sfogarmi sulla prima che mi veniva in mente.
Mi dissi infatti che non ero tanto infastidito perché mi importasse qualcosa di quella stupida ragazzina egocentrica di cui avevo già dimenticato il nome ma perché quella non rappresentava il target a cui quel coglione di Thomas mi aveva destinato ed io non volevo assolutamente avere a che fare con delle ragazzine dementi come le sue compagne.
Avevo telefonato al suo studio la mattina precedente e lui, con le sue solite moine da leccaculo del cazzo mi aveva assicurato che sarebbe passato il giorno dopo.
Altro punto a suo sfavore in ogni caso.
Avrei avuto più tempo per rimuginare su qualcosa che mi dava enormemente fastidio.
Dottor House in erba non faceva ormai che invadere casa mia con la scusa di doversi accertare delle mie condizioni di salute. Dopo la seconda sera che si presentava in camera mia, mentre tra l’altro stavo cercando di prepararmi per andare all’appuntamento con un altro più idiota di lui, lo avevo guardato con tanto risentimento da gelarlo sulla soglia.
-          Chiudi la porta House.- gli ordinai perentorio prima di avvicinarmi minacciosamente a lui.
A suo merito c’era da dire che non indietreggiò affatto e che la sua espressione sembrava sicura e rilassata esattamente come lo era al suo ingresso.
Bravo il piccolo chimico.
-          Ti ho già detto che non mi importa se ti scopi mia sorella, può solo farle bene per evitare di rompere i coglioni a me ogni sette secondi, ma non venire a rompere il cazzo a me ogni volta che hai voglia di sbatterti una figa perché altrimenti sarò io a sbattere la tua testa contro un muro- lo avvisai con voce innaturalmente calma per la minaccia, affatto velata, che gli avevo appena rivolto.
Ciò che più mi stupì fu il mezzo sorriso che sbocciò sulle sue labbra e che mi fece venire voglia di prenderlo a pugni.
Quel cretino.
-          Maria mi ha detto che ti sei “fissato” con una di quelle ragazzine che c’erano qui.- lasciò cadere lì, come se avesse qualcosa a che fare con il discorso che avevo cercato di ficcargli nella testa.
Alzai un sopracciglio spazientito e lui si sentì in diritto di continuare.
–  Jamie è in contatto con loro, perché non chiedi a lui il suo numero di telefono Jonathan?- mi consigliò prima di prendere la sua borsa che aveva lasciato sulla sedia e aprire la porta. – forse sei così isterico perché ti manca una fica da scopare.- mi prese in giro scimmiottando il tono in cui avevo detto anche io quelle stesse parole poco prima.
Quando richiuse la porta alle sue spalle mi venne voglia di lanciargli contro un libro.
Quel maledettissimo libro sulla mia scrivania ad esempio.
Lo presi in mano e lo guardai attentamente odiandone ogni pagina.
Mi sistemai la giacca sulle spalle, legai la sciarpa al collo e uscì di casa, senza salutare ne lui, ne mia sorella che, sorridente, gli aveva poggiato le mani sulle spalle per abbracciarlo.
cosa stupida.
Che sono stupidi!
Salì in macchina sbuffando rumorosamente e misi in moto.
La mia bellissima auto, lei sì che mi era mancata profondamente.
Quella Lamborghini grigia era stata un regalo che mi ero fatto da solo quando avevamo rotto con…lei.
Stavo molto meglio da solo.
Con la mia auto.
Dopo tutto forse non era stata la cosa peggiore che mi fosse capitata.
Arrivai allo studio di Thomas dopo neanche dieci minuti, la sigaretta in bocca mentre guidavo, una mano sul volante ed una velocità di 160 km/h in città.
Non mi importava granchè di infrangere la legge anzi, mi veniva da ridere ogni volta che prendevo una sigaretta in mano.
Io sono contraria all’eutanasia.
Non tutto il mondo gira intorno a te e alle tue stupide idee da adolescente innamorata.
Fermai la macchina davanti allo studio e salì tranquillamente ignorando le proteste della segretaria che stava cercando in tutti i modi di convincermi che non era il momento giusto e di avere la pazienza di aspettare un attimo.
Thomas mi aveva già chiesto troppi attimi per i miei gusti, la pazienza si era esaurita.
Aprì la porta dello studio e me lo ritrovai davanti a scopare con una ragazzina che poteva avere forse ventiquattro al massimo ventisei anni.
Sembrava una bambola senza sentimento, guardava altrove e cercava di trattenere le lacrime.
Non provavo pena per lei.
Di certo lui non l’aveva presa con la forza, era stata una sua scelta volontaria.
Era il modo di Thomas quello.
ti scritturava volentieri se sapevi aprire bene le gambe.
Evidentemente quella ragazzina non era molto in gamba perché appena mi vide si tirò su, si ricompose e la mandò via con un semplice.
-          Le faremo sapere.-
Tradotto per i comuni mortali:  vai a fare in culo.
La guardai con un sorriso divertito mentre si rivestiva con gli occhi bassi e usciva senza dire nulla, vergognandosi per essere stata scoperta in quell’atto di prostituzione.
Non preoccuparti tesoro, avrei potuto dirle, ho visto di peggio.
Mi sedetti tranquillamente su una delle poltroncine davanti la scrivania sgombra e aspettai che si fosse ripreso da quella sveltina, alquanto insoddisfacente a giudicare dalla sua faccia.
-          Jonathan, irruento come sempre.- sembrò rimproverarmi lui mentre rimetteva la camicia dentro i pantaloni e si risollevava la toppa.
-          Mi chiedo ogni tanto Thomas se io faccia bene a lasciare la mia carriera nelle tue mani. Sei troppo occupato con queste cose per pensare anche a me.- lo presi in giro senza quasi lasciargli terminare quello che sarebbe dovuto essere anche un saluto.
-          Un uomo deve pur sfogarsi.- mi rispose semplicemente ridendo come se cercasse la mia complicità, che non arrivò.
Ogni tanto, quando mi sentivo più generoso nei confronti del mondo, mi ritrovavo a pensare a cosa avrei fatto io a vedere mia sorella costretta a prostituirsi per cercare di avere un lavoro e mi saliva la bile in bocca.
Era assurdo che esistessero dei maiali come quello che mi stava di fronte.
Purtroppo però i momenti di bontà come quello erano piuttosto rari.
Si sedette alla scrivania dopo aver recuperato da terra una cartelletta con il mio nome sopra.
Era piuttosto spesso anche se in realtà ritenevo ci fossero tutti i contatti con i giornali che avevano scoperto del mio “incidente di percorso”.
-          Sfortunatamente non sono tutti lavori che ho per te questi.- mi confermò lui aprendo la cartelletta e sfogliando pagine e pagine senza prenderne nessuna. – però ho comunque delle buone notizie.- mi avvisò soddisfatto.
Sapevo che si aspettava che gli dimostrassi felicità, partecipazione o che so io ma onestamente non ero molto ben disposto per tutte quelle moine.
Io ero lì per una ragione ben diversa quel giorno e cercare di farlo parlare per sbollire la rabbia era solo un pretesto per non saltargli addosso e ucciderlo seduta stante.
Mi appoggiai svogliatamente alla poltrona restando a fissarlo disinteressato e quando finalmente ebbe afferrato il messaggio sospirò in soggezione e mi passò velocemente due copioni.
Roba da adolescenti ovviamente.
Il che mi riportava al motivo per cui ero lì.
-          Allora il primo è un ruolo marginale seppure ricorrerà in tutti e sette i film, ti aiuterà a non rimanere incastrato in quel ruolo. E questo invece, beh questo è il mio fiore all’occhiello.- lessi il titolo di quel suo “fiore all’occhiello del cazzo” e mi venne da vomitare.
Dracula.
Davvero?
Il massimo della banalità.
-          Pagano bene?- chiesi indifferente senza neanche leggere la trama di quei due romanzetti rosa da quattro soldi.
-          Non li avrei neanche presi in considerazione altrimenti Jonathan.- mi rispose come se fosse offeso della poca fiducia che gli stavo dando.
-          Bene.- mormorai semplicemente il mio assenso.
Thomas sorrise e prese i due copioni. Quando me ne sarei andato si sarebbe attivato per organizzare i primi incontri a cui avrei dovuto sorridere come un coglione.
In quel momento sembrava comunque felice, aveva un sorriso sornione stampato in faccia che fece spuntare un ghigno anche sul mio viso.
Stupido figlio di puttana.
-          Questi sono gli ultimi filmetti da coglione che farò Thomas, dopo, ritieniti licenziato se non riuscirai a trovarmi nulla di serio!- mi alzai mettendomi il cappotto senza guardarlo.
Non serviva, sapevo che era diventato un pezzo di ghiaccio.
-          Jonathan sei impazzito?- mormorò lui con un filo di voce.
-          No, mai stato più lucido.- risposi mettendomi anche la sciarpa.
-          Che cazzo è successo si può sapere? Collaboriamo da anni e non avevi mai dato mostra di esserti stancato di me e dei lavori che ti trovo.- mi gridò contro a quel punto arrabbiato come non lo avevo mai visto.
Io indifferente e freddo come la pietrai tirai fuori dalla mia giacca un libricino sgualcito dall’acqua, con le orecchie e delle brutte piega sulla copertina. Sembrava letto e riletto migliaia di volte.
Lui mi guardò come se si aspettasse una spiegazione oltre a quel libro che avevo sbattuto sulla sua scrivania per zittirlo.
-          Che c’è? Ti sei dato a letture impegnate?- mi prese in giro lui senza capire. Io storsi il naso come se avessi a che fare con un idiota.
Perché non capiva? Era così difficile?
-          Voglio che il target a cui si indirizzino i miei futuri film sia quello delle “adolescenti” che leggono questi libri.- gli dissi con immensa calma prima di riprenderlo e rimetterlo nella tasca della giacca.
-          Non esistono quelle adolescenti Jonathan. Quelle che esistono sono solo delle arrapate 18enni che non vogliono altro che muscoli, sesso e vampiri innamorati.- mi rispose lui questa volta più calmo con un sorriso di scherno sul viso.
Si avvicinò a me facendo il giro della scrivania con una calma surreale e mi poggiò una mano sulla spalla.
-          Quelle di cui parlo io non sono interessate a nulla di ciò che hai da dire.- a quelle parole la mia mente si allontanò lontano da lì di qualche settimana.
Sei perfetto finchè non apri bocca.
-          Si toglieranno le mutandine e te la sbatteranno in faccia lo stesso.- mi tranquillizzò tornando poi al suo posto.
Onestamente O’Keeffe non sei il mio tipo.
 
-          Torna a casa Jhonny, riposati e facciamo finta che non sia successo nulla, tranquillo.- posò i piedi sulla scrivania e mi fissò con uno sguardo da chi crede di aver già vinto.
Inutile ribadire il concetto, lo avrei fatto quando ce ne sarebbe stato bisogno.
Senza dire nulla semplicemente presi le mie cose e mi avviai alla porta.
Alcune volte credevo di aver raggiunto una grande maturità.
Era un peccato che in altri momenti quella stessa maturità sembrava andare a fare in culo.
-          Ah Jonathan.- mi fermò di nuovo quella sgradevole voce nasale che speravo di aver messo definitivamente a tacere.
Mi voltai verso di lui per capire cos’altro potesse volere da me tanto da non lasciarmi andare via lontano dalla sua schifosa faccia da schiaffi.
Quando lo guardai stava sghignazzando come un dodicenne dopo una grane scoperta. Come dopo il primo pompino.
-          Quella ragazza non esiste e se anche dovesse esistere sarebbe davvero mostruoso stare nella stessa stanza con lei.- scoppiò a ridere per quella sua considerazione io mi girai e andai via senza aggiungere altro.
La sua segretaria mi salutò con un sorriso.
-          Arrivederci signor Meyers, a presto.-
Sapevo benissimo a cosa si riferiva il suo saluto.
Una volta ci avevo scopato con quella ragazzina e non era stato nemmeno male. Ma adesso non era più nei miei interessi.
Avevo altre cose per la testa.
Ne dubito.
Avrei voluto rispondere, ma rimasi in silenzio uscendo definitivamente da quel luogo asfissiante. Ero rimasto lì solo tre quarti d’ora.
Quarantacinque minuti di sofferenza incredibile che alla fine non avevano dato i frutti sperati ma erano solo serviti a gettare le basi di quello che sarebbe successo dopo.
Forse nel duemila tredici.
Forse.
Quando salì in macchina presi di nuovo il libro malmesso tra le mani e lo guardai attentamente.
A Tale of Two Cities, Charles Dickens.
Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione.
Quella frase, sottolineata da un leggero tratto di matita, l’avevo letta e riletta fino ad impararla a memoria.
Non avevo mai osato scrivere sui libri perché Alan mi aveva detto che non si doveva.
Avevo solo sette anni allora e ciò che diceva mio fratello maggiore per me era legge.
Era lui l’uomo di casa.
Quel segno non era mio ma di una ragazzina adolescente con gli ormoni a mille, come tutte le altre.
Thomas aveva assolutamente ragione, erano tutte uguali.
E su un’altra cosa aveva stranamente ragione.
Sorrisi per metà mordendomi piano il labbro prima di partire diretto di certo non a casa, avevo bisogno di aria, di stare lontano da mia sorella e dal suo fidanzatino.
Da tutto l’amore che asfissiava la casa.
Avevo bisogno di pensare.
Quella stessa ragazzina che aveva letto il mio libro, e che quindi esisteva, era una con cui era davvero mostruoso stare nella stessa stanza.
 
Quando, quella notte, mi risvegliai ero disteso supino su un letto che non era il mio. La camera era impregnata dell’odore stantio delle stanze dei motel e del fumo delle sigarette che avevamo fumato. Avevo il corpo caldo di una ragazza sconosciuta addosso ed era stranamente calda. I capelli castani, corti, gli occhi chiusi nel sonno che ricordavo essere marroni, niente di eccezionale. Era minuta, priva sicuramente di qualsiasi predisposizione fisica allo sport. La spostai malamente e mi vestì lasciando dei soldi sul letto accanto a lei prima di ritornare a casa.

 
 
 
 
Note Autrice:
POV Meyers, ovviamente!
Mi andava di scrivere qualcosa dal suo punto di vista.
Avviso importante! Lui NON è innamorato di nessuno! (anzi sì lo è, ma solo della sua auto)
Poi niente, primo capitolo del 2013.
Auguri a tutti di buon anno.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Il motivo se ci preoccupiamo della famiglia e non ce ne frega niente di tutti gli altri: amare tutti è troppo faticoso ***


Image and video hosting by TinyPic


Avevo tutte le ragioni del mondo per essere felice.
Mio fratello stava bene e avrebbe potuto ricominciare a lavorare; Alan e Catherine aspettavano un bambino e Jamie sembrava voler mettere la testa a posto. Poco importava che lei avesse 7 anni meno di lui.
Non ero mai stata contro la differenza di età.
Tra l’altro era stato anche politicamente corretto a troncare sul nascere le fantasie sdolcinate di una ragazzina che rischiava di innamorarsi di lui.
E poi c’eralui.
L’uomo perfetto.
Ero in cucina a preparare la colazione, stavo cercando di mantenere la concentrazione per non girarmi e tornare di corsa nella mia stanza tra le sue braccia per gloriarmi dei suoi baci e delle sue carezze.
Sorrisi tra me mentre facevo il caffè e guardavo il post-it che avevo appeso al frigo la settimana prima.
 
-          Ehi sorellina, allora come va a casa?- Jamie aveva cominciato a telefonare un po’ troppo spesso per i miei gusti e cominciava a darmi un certo fastidio.
Avevo bisogno di un po’ di pace ogni tanto.
E poi sapevo benissimo perché aveva cominciato a chiamare ogni dodici ore.
Aveva bisogno di consigli, anzi meglio, aveva bisogno che cominciassi a sfruttare la laurea in psicologia che mia madre mi aveva costretta a prendere anni prima e che non mi era mai servita a nulla.
-          Stiamo bene Jamie, proprio come ieri, benissimo. cosa vuoi?- tagliai corto prima di cominciare a pelare i pomodori come mi avevano insegnato “gli italiani” prima di andare via.
Era più complicato di quanto pensassi in realtà.
Avevo sempre pensato che cucinare fosse una sciocchezza ma lo pensavo solo prima di incontrare chi della cucina ne faceva una vera e propria arte.
-          Perché chiedi a tuo fratello cosa vuole solo perché ti chiama per avere informazioni su di te e sul suo fratellino?- mi domandò tranquillamente con quel tono che vuol dire proprio tutt’altro.
Come se io non conoscessi già abbastanza i miei fratelli per non sapere i loro “vizi”.
Sentì un leggero fruscio di lenzuola e un sospiro dall’altra parte del telefono.
Lui sapeva di non dover interrompere il mio silenzio.
-          Di chi stiamo parlando Jamie?- gli domandai piano mentre lui, lo sapevo, aveva incrociato le mani dietro la nuca, sdraiato sul letto col telefono a viva voce sul comodino.
-          Di me, Marie, stiamo parlando di me- mi rispose sottovoce in un sussurro. – sono in contatto con una ragazza adorabile, troppo giovane.- rimase di nuovo in silenzio. –in realtà non credo sia neanche il mio tipo però…- di nuovo silenzio.
Era in evidente imbarazzo.
Dovevo tirarlo fuori da quella situazione?
Onestamente io mi stavo divertendo da morire nel sentirlo in imbarazzo.
Chissà se sarebbe mai successo con Paul o, meglio ancora, con Jonathan.
Sorrisi per un momento.
-          Jamie, non preoccuparti adesso della sua età o del suo carattere. Se ti piace, e se tu piaci a lei, vivitela. Dopo Wally non c’è stata nessun altra ed una seconda magari potrebbe ridarti un po’ di serenità.- gli risposi, seria e divertita allo stesso tempo, ma soprattutto felice che finalmente si fosse “sbloccato” dal suo problema Wally.
Sfortunatamente avere un fratello bello, ricco e famoso alcune volte poteva rappresentare un problema.
Per i suoi coetanei per lo meno.
Alan era troppo grande per attirare le sue coetanee.
Sua moglie poteva essere la madre di Jonathan visto comunque l’età in cui avevano avuto la loro prima bambina.
Alice era l’amore della nostra vita.
L’unica nipotina che mia madre avesse conosciuto, la prima nipotina su cui noi fratelli avevamo potuto sfogare la nostra voglia repressa di comprare giocattoli e cose stupide ed inutili.
Solo Jonathan sembrava del tutto indifferente a questa adorabile bambina dai capelli biondini e gli occhi azzurri.
Ma lui era un misantropo rompi coglioni che non apprezzava praticamente nulla.
Jamie invece era stato sempre “usato” per arrivare al fratello famoso a cui in realtà non aveva nulla da invidiare.
-          E se fosse come tutte le altre?- mi domandò lui preoccupato.
Odiavo sentire quella voce, quel tono quasi disperato che mi spingevano a comportarmi come si era sempre comportata mia madre.
Era una sorta di istinto materno che avevo sempre avuto per questo mio fratellino sfortunato costretto a vivere nell’ombra.
-          Se io dovessi scegliere tra te e lui Jamie, sceglierei sempre te.- lo rassicurai con voce dolce, leggermente velata dall’emozione di dover essere io a consolarlo quando non ne avrebbe avuto nessun bisogno se avesse avuto maggiore fiducia in se stesso. – e anche Laura credo, al massimo potrai provarci con lei per ripagare il fratellino con la sua stessa carta.- gli consigliai divertita scoppiando a ridere.
Lui, lo sentivo bene, si era tirato a sedere di scatto e aveva afferrato il telefono avvicinandolo alla bocca.
-          Cosa? Ha una cotta?- mi domandò gridando quasi al telefono.
Me lo allontanai dall’orecchio e lo rimproverai ordinandogli di abbassare la voce.
Lui si scusò velocemente e mi incoraggio a rispondere alla sua domanda velocemente.
-          No, non credo. Però è ossessionato dall’idea di vendicarsi di quel mega gavettone. Se si mettesse con te avrebbe le mani legate.- ridacchiai io finalmente avevo finito di pelare il primo pomodoro e potei passare al secondo.
-          Oh, è un peccato che non possa farlo davvero.- ridacchiò lui trattenendo le risate che avrebbe scatenato una volta chiuso il telefono. – sai com’è, tra amiche poi non avrei la possibilità con la ragazza per cui ti ho chiamata.- sorrise via telefono ed io capì.
Quindi era una di quelle scout ad aver attirato l’attenzione dell’unico fratello O’Keeffe fuori dal mondo dello spettacolo.
Ed era raro che qualcuno attirasse la sua attenzione, era troppo occupato a diffidare del mondo.
-          Va bene Jamie, adesso devo davvero andare, fammi sapere come va con la ragazza.- gli ordinai sorridendo.
-          Sarà fatto sorella.- rise anche lui.
-          Ah fratello, fatti dare il numero di Laura per favore, l’ho perso e devo chiederle un favore enorme.- gli dissi di nuovo prima di mettere giù e tornare al mio sugo.
Di cui avevo pelato ancora solo un pomodoro.
 
Mio fratello non mi deludeva mai e adesso infatti stavo guardando il post-it giallo con su scritto il numero che mi era arrivato via sms.
Non mi ero ancora convinta ad alzare la cornetta per formulare davvero quella richiesta che avrebbe cambiato la mia vita.
E non era un modo di dire.
Era esattamente la verità.
Sospirai mettendo a tavola il caffè e il latte come non ero abituata a fare prima di Marzo.
Adesso invece era un qualcosa a cui proprio non sapevo resistere.
Bevvi il mio caffè e mi diressi di nuovo in camera da letto.
Lui era ancora lì, disteso tra le coperte che gli lasciavano scoperto il petto muscoloso.
Che uomo meraviglioso che avevo, proprio io che non ero di certo una modella con i miei chiletti di troppo e che non ero neanche la più bella donna a cui lui avrebbe potuto aspirare.
Sorrisi e mi sdraiai al suo fianco prima di rendermi conto che non era affatto addormentato.
Mi guardava con gli occhi socchiusi, una mano sulla fronte e l’altra che cercò velocissima il mio fianco per stringermi a se.
Sorrisi felice e mi avvicinai al suo fianco poggiando il viso sulla sua spalla baciandogliela delicatamente fino a risalire lungo il collo, sulla guancia.
-          Ho preparato la colazione di sotto…- sussurrai contro il suo viso.
-          Hai fame?- mi domandò gentile stringendomi ancora di più fino a portarmi sopra di lui.
Mi accarezzava la schiena e i capelli ed io, che prima a dire il vero avevo avuto un certo languore, avevo dimenticato anche di aver bisogno di respirare.
-          No.- risposi prontamente baciandogli teneramente quelle splendide labbra che mi porgeva come se sapesse già che volevo farlo.
Ero decisamente una delle più fortunate del mondo.
-          Allora…- sussurrò piano contro le mie labbra afferrandomi per i fianchi e tenendomi stretta.
-          Allora?- lo incitai a continuare senza smettere di baciargli le labbra, il viso, il collo.
-          Avrei un’idea su come passare un’oretta prima di andare a lavoro.- mi invogliò dolcemente ricambiando ogni mio bacio come meglio poteva per la parte del viso che gli offrivo.
-          Mmm, potrebbe essere una buona proposta…- sussurrai piano.
Lui non se lo lasciò ripetere due volte, mi afferrò per i fianchi e mi portò sotto di se senza però pesarmi addosso.
Ero tremendamente eccitata di poter stare sotto di lui, di sentirlo eccitato contro di me.
Non era il primo ma era di sicuro l’unico con cui potevo dire con certezza di aver fatto l’amore.
E nel nostro mondo, non era una cosa da poco.
 
Quando finalmente mi rialzai dal letto e mi vestì erano già le dieci.
Sarei dovuta essere pronta già un’ora prima ma una sfortunata congiunzione astrale mi aveva impedito di realizzare i miei piani.
Una divertentissima e davvero piacevole congiunzione.
Lui era già vestito e stava riscaldando di nuovo il latte per renderlo almeno tiepido e lo rimise nelle tazze.
Lo bevvi velocemente innaffiandoci dentro i muffin che avevo preparato lontanissimi dall’essere squisiti come quelli che i nostri coinquilini ci avevano preparato il mese precedente.
Ettore fece una faccia buffissima quando diede il primo morso ma non si lamentò e continuò a mangiare.
Era apprezzabile lo sforzo che faceva per non ferire i miei sentimenti.
-          Se non ti piace non devi mangiarlo per forza.- lo invita tranquillamente avvicinandomi a lui. – dobbiamo condividere insieme un sacco di tempo e non vorrei che morissi per aver ingerito una delle porcherie che cucino.- gli ricordai con un enorme sorriso.
Vidi sbocciare sul suo viso uno splendido sorriso, molto più grande e luminoso del mio e mi sentì davvero fiera di averlo fatto sorridere.
Era un sorriso felice che mi fece guadagnare un abbraccio e un bacio adorante da quelle sue meravigliose e morbide labbra.
-          Prendetevi una stanza cazzo.- sentì sbuffare alle mie spalle prima di avvertire il rumore della sedia che si scostava e un altro sbuffo. – dov’è  la mia colazione?- ordinò tirannico come sempre.
-          Alza il tuo bel culo muscoloso e fattela da solo!- gli risposi più irritata del solito per quell’interruzione.
Mio fratello faceva uscire il lato peggiore di me.
lo vidi alzare gli occhi al cielo scocciato, alzarsi e avvicinarsi al frigo per prendere la busta del latte e i cereali.
Era già vestito quindi aveva sicuramente intenzione di uscire.
-          Dove devi andare?- gli domandai in apprensione.
Non ero ancora affatto sicura che potesse uscire di casa senza fare qualcosa di stupido.
Aveva infatti ripreso a fumare, e quello non cercava nemmeno di nasconderlo, ma ormai tra le altre cose era anche inutile che lo facesse ed io non potevo fare nulla per impedirglielo.
Ma non volevo che ricadesse nel giro della droga e con tutti i problemi a cui poteva andare incontro uscendo di casa mi sembrava la minima cosa.
Lui mi rispose con un sorriso di scherno, chiaro segno che non avrebbe risposto alla mia domanda e fece spallucce.
-          Ho bisogno di un po’ di coca e il mio pusher mi aspetta. Hai dei contanti da prestarmi? Così almeno non perdo tempo per passare in banca.- mi prese in giro, sperando che scherzasse, prima di risedersi a tavola.
Io non risposi e decisi di passare al contrattacco.
Mio fratello poteva fare il coglione quanto voleva ma io lo conoscevo meglio di chiunque altro.
Tirai su col naso pronta a scoppiare a piangere e gli diedi le spalle cercando il portafogli nella mia borsa.
Lo aprì e gli misi 200 euro sul tavolo prima di mettermi il giubbotto pronta ad andare via.
Lui continuò a tacere.
Mi avvicinai alla porta senza salutare nessuno, sapevo che Ettore stava per venirmi dietro per consolarmi e quando mi fu dietro, con un suo braccio intorno ai fianchi per sorreggermi poggiai il viso sulla sua spalla.
Quello fu abbastanza.
Eppure Jonathan rimase incredibilmente silenzioso.
In un tempo non troppo lontano si sarebbe fatto prendere dai sensi di colpa per avermi causato una crisi di pianto e mi avrebbe assicurato che mi stava solo prendendo in giro, che non voleva fare nulla di stupido.
Questa volta non lo fece.
Rimase incredibilmente in silenzio ed io, quando fui al sicuro all’interno dell’abitacolo della macchina, potei abbandonarmi allo shock di vedere mio fratello così cambiato.
Cosa ne avevano fatto del dolce fratellino premuroso che conoscevo?
Chi era quello sconosciuto che avevo lasciato in casa?
Rimasi silenziosa per tutto il viaggio, quando Ettore mi lasciò davanti allo studio lo salutai con un freddo bacio sulle labbra prima che andasse a lavoro e neanche durante le prove riuscì a dare il meglio di me.
 
Quando finirono le prove, ancora pensierosa riguardo al comportamento di mio fratello, decisi che, benchè fossi tremendamente dispiaciuta di costringere una povera innocente a dover passare del tempo con quell’uomo delle nevi, forse era l’unico modo per salvarlo.
Ero forse una cattiva sorella? No, anzi.
Forse ero una cattiva persona.
Non riuscivo a preoccuparmi per nessuno che non fosse la mia famiglia.
Ma adesso non potevo più tirarmi indietro.
Presi il telefono dalla borsa e cercai il suo  numero nella rubrica.
Quando lo trovai premetti l’avvio di chiamata e rimasi in attesa.
Rispondi.
Ti prego rispondi.
Ti prego.
-          Pronto?- sentì quella parola sconosciuta in una lingua dolce e musicale che mi fece sentire il peggior mostro del pianeta.
Ma adesso era il momento di non farsi intenerire il cuore.
Lo fai per una causa buona Maria.

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Verso il diavolo puoi violare il diritto di ospitare ***


Image and video hosting by TinyPic


Ero costretta dalla routine quotidiana a sopportare la tremenda noia della sveglia, la scuola, i compiti, gli amici, gli scout.
Andrea.
Era diventato particolarmente insistente da quando eravamo tornati dalla route.
Io sfortunatamente non ero una persona molto socievole, anzi.
Quando qualcuno mi infastidiva facevo in modo di farglielo sapere, o almeno capire, ma proprio Andrea sembrava duro di comprendonio.
E pensare che aveva proprio quel bellissimo nome.
Qualche anno prima io e la mia ex migliore amica avevamo cominciato a scrivere una storia e il nostro bel protagonista aveva proprio quel nome.
Andrea.
 Non mi andava di ricordare che faccia avevo insistito che avesse perché mi faceva sentire ridicola però, quel nome e quel viso, dai bellissimi occhi azzurri, dallo spirito del ragazzo ribelle, dai capelli neri…sorrisi appena al ricordo di quello che era stato il motivo per cui mi ero tanto “innamorata” di Jonathan Rhys-Meyers ed il pensiero che lui non fosse per nulla simile alla mia fantasia mi rese più amara la mattinata.
Se fosse stato simile alla mia fantasia forse mi sarei sentita anche peggio perché non avrei potuto parlarne con l’unica persona che lo conosceva.
Mi morsi forte il labbro per trattenere le lacrime e tirai su col naso.
Carolina, seduta davanti a me, mi fece una carezza sul braccio percependo perfettamente ciò che stavo pensando.
Cercai di sorriderle per rassicurarla ma era un sorriso tirato.
Non riuscivo proprio a sorridere a comando.
E pensare che da piccola avevo davvero sognato di fare l’attrice.
Evidentemente non era il lavoro adatto a me.
Il resto dalla giornata lo passai lontanissimo da quelle quattro mura.
Carmela era assente e Danilo ne aveva approfittato per prendere il posto accanto al mio, avevo avuto la sua mano sulla schiena tutto il tempo che giocava con i miei capelli e continuava a blaterare qualcosa contro il mio orecchio senza che lo ascoltassi affatto.
Ecco il mio metodo per fargli capire che non ero interessata.
Ovviamente lui non sembrava arrivarci.
Probabilmente per un ragazzo bellissimo come lui abituato a dover essere lui a dire di no alle ragazze, un rifiuto non era facilmente interpretabile.
Non riusciva a cogliere il mio NO! ma gridarlo più forte era davvero impossibile.
Cosa stava pensando?
Che stessi facendo semplicemente la sostenuta per sentirmi vezzeggiata un po’ di più.
Io non avevo bisogno di essere vezzeggiata.
E se anche questo poteva sembrare da parte mia un atteggiamento da misantropa, ben venga.
Non volevo essere una di quelle ragazze facili che si buttavano a capofitto sul primo ragazzo che passava.
Nel pomeriggio mi dedicai completamente alla letteratura greca ignorando le 24 chiamate perse di Danilo, Andrea e Francesca, migliore amica di Andrea, che cercava di convincermi a fare qualcosa con quel ragazzo così perfetto che era follemente innamorato di me ecce cc ecc…citazione più o meno testuale.
Comunque dovevo ammettere di essere davvero brava ad attirare catastrofi.
Perché Andrea non aveva la faccia di Danilo?
Sarebbe stato tutto più facile.
Anche perché dubitavo davvero che il mio compagno di scout giocasse nella mia stessa squadra.. alcune volte sembrava più ragazza di me ed io non ero certo un maschiaccio.
Quando il telefono squillò con un numero sconosciuto.
Il prefisso non era neanche +39.
Non era una chiamata dall’Italia quindi quasi sicuramente si trattava di…oddio no Laura, non cominciare a pensare a cose idiote e rispondi.
-          Pronto?- non cominciare a immaginare non immaginare niente stai con i piedi per terra. Continuai a ripetermi chiudendo gli occhi nell’attesa di una risposta.
-          Ciao Laura, come stai?- quella voce femminile mi aiutò a riprendere la calma.
Brava bambina. Mi dissi mentalmente.
Avrei dovuto essere davvero felice di sentire quella voce ma non potei fare a meno di essere un briciolo delusa.
Quella giornata si era rivelata davvero orribile.
Cosa poteva andare peggio?
-          Bene, ti ringrazio, e tu?- le domandai cercando di apparire allegra.
Probabilmente lei se ne accorse perché mi rispose con un sorriso nella voce.
-          Me la cavo, anche se senza di te muoio di fame.- mi rispose scoppiando a ridere.
Ed io mi lasciai andare un pochino.
-          Ti spedirò un po’ di lasagna se vuoi.- le risposi ridacchiando e lasciandomi andare con calma su una poltrona lasciando andare per un po’ il mio fedelissimo libro di greco.
-          Perché no.- acconsentì lei prima di prendere un respiro profondo.
Poi tacque.
Non sapevo se chiedere il motivo della sua chiamata sarebbe stato maleducato ma a quel punto, se non avessi parlato io, saremmo rimasti tutti in silenzio.
-          Posso aiutarti in qualche modo Maria?- le domandai piano sperando che, nel caso le fosse sembrata una domanda maleducata, avrebbe fatto finta di nulla.
-          Sì, potresti. Ma non voglio che tu ti senta costretta ad aiutarmi solo perché sei una scout e senti il dovere di dover aiutare di gli amici.- cominciò velocemente.
scoppiai a ridere all’improvviso interrompendola.
Non capivo perché fosse così agitata ma mi metteva di buon umore sentirla in quel modo.
La sua agitazione era divertente.
-          Rilassati Maria, chiedimi quello che vuoi, prometto che se non posso te lo dico.- la rassicurai giocherellando con una ciocca di capelli.
-          Ok, quindi siediti e preparati alla botta. In realtà te l’ho già detto quando eravate qui ma era solo un accenno, questa volta sono serissima.- mi annunciò con calma.
Io rimasi zitta aspettando che sproloquiasse per i fatti suoi.
-          Ti sei seduta?- mi domandò dopo un po’.
-          Sì, Maria, mi sono seduta. Puoi continuare pure.- le assicurai cercando di non scoppiare a ridere.
-          Allora, sai che a Giugno devo cominciare un tour e dato che non vedrò Ettore per un po’ vuole portarmi in vacanza a Maggio, quindi sarebbe davvero carino se verso metà aprile…- stava per continuare ma la bloccai stupita?
-          Ettore? E chi è questo Ettore?-domandai curiosa da morire senza neanche lasciarla finire di parlare.
Lei ridacchiò.
-          Oh, scusami, sono così tesa che non ti ho detto che ho conosciuto il bellissimo paramedico strano che è venuto a casa quella mattina.- sgranai gli occhi e scattai in piedi senza riuscire ad emettere un fiato.
-          Laura?- mi richiamò dopo un po’.
-          O mio Dio!- risposi semplicemente ricordando quel bellissimo uomo che avevo visto quella mattina in casa sua. Quello strano che era corso via. – come hai potuto non dirmelo? Quel figo da morire adesso è il tuo ragazzo?- le domandai ben conoscendo la risposta.
-          Sì- mi confermò lei sorridendo divertita.
E innamorata.
Come la invidiavo.
-          Devi assolutamente andare in viaggio con lui, faccio tutto ciò che ti serve, e poi pretendo che mi racconti ogni minimo particolare!- le imposi scoppiando a ridere subito seguita dal suono allegro della sua voce.
-          Ti ringrazio Laura, metterò Jonathan su un aereo tra quattro giorni e gli imporrò di comportarsi come si deve. Ti ringrazio ancora amica mia.- mormorò piano veramente grata.
Io rimasi per un attimo stupita, con la bocca aperta, rendendomi conto di aver combinato davvero un casino assurdo.
Dove avrei messo quell’uomo meraviglioso altro un metro e ottanta cinque con due enormi occhi azzurri e i capelli neri?
Come lo avrei nascosto ai miei genitori?
Come lo avrei sopportato per tutto quel tempo?
Se non sbagliavo mi aveva accennato di dover rimanere fuori fino a fine settembre.
Tutta l’estate.
Cazzo.
Ormai non potevo più tirarmi indietro però e rovinare la felicità che gli sentivo nella voce.
Era mia amica.
Lei mi considerava sua amica e io dovevo fare di tutto per renderla felice.
-          Figurati e buona fortuna con il tuo lavoro Maria. E con Ettore.- riuscì soltanto a biascicare chiudendo la chiamata.
Pochi minuti prima avevo riflettuto sulla tremenda giornata che avevo dovuto sopportare.
Tra crisi di adolescenti che vogliono sentirsi grandi, crisi di cuore, amicizie finite e futuri cuori infranti.
Adesso tutto quello che avevo passato l’intera giornata mi sembrava la cosa più semplice del mondo perché presto avrei dovuto pensare ad una catastrofe ancora più grande.
Se avevo creduto che quello fosse un uragano, questo era decisamente uno tsunami.
E non avrei avuto proprio nessuno ad aiutarmi questa volta.
Mi passai una mano tra i capelli e mi buttai a letto disperata.
Avrei dovuto parlarne il prima possibile con mia madre e mio padre per prepararli al terribile avvenimento sperando che avessero reagito nel modo migliore possibile.
Missione impossibile.
 
 
A cena rimasi in silenzio per un po’, giocherellando con il cibo che avevo nel piatto.
-          Che hai mangiato a merenda Laura che adesso non hai fame?- mi domandò mia madre con un sorriso amabile in viso.
Alzai lo sguardo su di lei e avevo una faccia così preoccupata che non poté fare a meno di preoccuparsi.
Sospirai sentendola fare congetture su qualsiasi cosa.
Non ero stata mai abbattuta davanti a loro neanche quando piangevo disperata nella mia stanza perché non capivo per quale motivo la mia migliore amica fosse arrabbiata con me.
sorrisi appena e la invitai a calmarsi quando il fiume di congetture continuarono.
-          Mamma, mamma rilassati. Sto bene, solo che ho fatto una promessa ad un’amica che non posso mantenere e adesso non so che fare.- sussurrai piano con gli occhi lucidi pronta a scoppiare a piangere.
Avrei tanto voluto aiutarla in realtà, perché volevo anche rivederlo.
Ma non volevo farlo allo stesso tempo.
E non potevo tra le altre cose.
-          Di che promessa si parla tesoro?- mi domandò piano passandomi una mano tra i capelli mio padre.
-          Di aiutare suo fratello ospitandolo qui per un po’.- gli risposi io piano. – è un ragazzo che ha avuto un sacco di problemi e lei deve partire per lavoro e non lo può portare con se.- spiegai piano.
-          E non lo può lasciare ai suoi amici o ai suoi genitori?- mi rispose prontamente mio padre cominciando un po’ ad innervosirsi.
-          Non hanno più i genitori, sua madre è morta e suo padre li ha abbandonati quando aveva solo tre anni.- spiegai con un filo di voce sapendo che si sarebbe sicuramente arrabbiato. – e non sono sicura che Maria abbia degli amici, il suo lavoro la tiene troppo spesso lontana da casa.-
Mio padre mi guardò dall’alto al basso e tornò a mangiare.
-          Sei d’esame quest’anno Laura, non voglio che ti distragga, non puoi aiutarla, chiamale e diglielo.- mi rispose lui.
Non ebbi il coraggio di rispondere nulla, abbassai ancora di più lo sguardo, mi scusai e mi rifugiai in camera mia buttandomi a letto.
Non l’avrei visto.
Avrei tradito la fiducia di Maria che era così felice di poter passare del tempo con Ettore.
Che patetica che ero.
Mi ero ripromessa di non farmi prendere dalle fantasie ed invece lo avevo fatto.
Che deficiente che ero.
Sospirai e mi rifugiai sotto le coperte nascondendo la testa sotto il cuscino singhiozzando piano.
Ero quasi sul punto di addormentarmi quando sentì la porta aprirsi ed il letto abbassarsi sotto il peso di qualcuno.
-          Va bene, possiamo ospitarlo per un po’, Laura, non preoccuparti. Sta tranquilla per la tua amica. Però devi giurarmi che ti impegnerai per la maturità.- mi rispose mia madre sorridendomi piano. – e soprattutto adesso ti alzi e vieni di la a mangiare.-
Io sgranai gli occhi incerta se buttarmi tra le sue braccia o mettermi a gridare correndo per il corridoio.
Ero tremendamente felice.
E riuscivo perfettamente a realizzarne il motivo.
-          Grazie, prometto che non mi impedirà di studiare, anzi, lo costringerò ad aiutarmi.- le sorrisi asciugandomi gli occhi con una mano.
-          Non fare la tiranna altrimenti tra te e tuo padre quel poverino scapperà via.- mi consigliò ridacchiando anche io risi battendo le mani e cominciai a mangiare con appetito l’ottima cena che mi aveva preparato mia madre.
 
 
L’indomani a scuola ero particolarmente felice.
Si, ero decisamente una stupida bambinetta, ma almeno era qualcosa che sapevo solo io.
Risi tra me durante la spiegazione di greco classico e il professore, insieme ai miei compagni, si voltò verso di me.
-          Laura, ho detto qualcosa che ti ha fatto ridere?- mi domandò ridendo a sua volta.
Era una fortuna che il mio professore di Latino e Greco fosse abbastanza paziente e molto spesso annoiato più di noi delle sue stesse lezioni.
Ci permetteva di poterci distrarre ogni tanto a patto di mantenere il silenzio.
Ovviamente scoppiare a ridere in mezzo alla lezione era motivo di distrazione per tutta la classe e anche per lui che fu piuttosto felice di intavolare una discussione per scoprire il motivo della mia allegria.
Alla fine, sorridendo appena imbarazzata, ammisi:
-          Sono piuttosto felice perché ho ricevuto una bella notizia in casa.- conclusi in modo che la lezione, dopo venti minuti buoni, potesse tornare sull’argomento della lezione.
Le mie amiche mi guardarono e sorrisero anche loro, Caro in special modo, che mi diede una pacca sulla mano.
Il segno che fosse tanto felice quanto anche io lo ero.
 


Note Autrice
lo so che in dodici capitoli siamo ancora qui ma me la prendo con molta calma promettendovi che aggiornerò ogni mercoledì o giovedì a seconda degli impegni e ogni weekend anche due volte, perchè onestamente io sono più curiosa di voi di sapere cosa ne pensate.
quindi, motivo in più per farmi sapere davvero cosa ne pensate e lasciare una piccola piccola piccola recenzione.
ringrazio star per essere una lettrice così attenta e per avermi lasciato sempre una traccia del suo passaggio!*-*

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Se c'è una possibilità che varie cose vadano male, quella che causa il danno maggiore sarà la prima a farlo ***


Image and video hosting by TinyPic


Mi ero ripromessa di parlare di tutto con mio fratello, di spiegargli che io avrei dovuto lavorare e che non volevo lasciarlo solo. avevo preso i biglietti su internet, il biglietto a dire il vero. Lo tenevo adesso in mano e leggevo e rileggevo i dati che c’erano impressi sopra.
 
Dublino, Irlanda (DUB) – Catania, Fontanarossa.
Jonathan Micheal O’Keeffe
 
Mi sentivo un mostro a costringerlo a passare la pasqua lontano da casa, sapendo inoltre che lui non era esattamente il tipo solare che stringeva molte amicizie. Speravo che almeno sarebbero stati cordiali e ospitali come lo erano stati quei ragazzi. Giocherellavo ancora con il biglietto quando sentì qualcuno schiarirsi la voce alle mie spalle. Nascosi immediatamente il biglietto dietro la schiena e lo guardai preoccupata rendendomi conto solo dopo un po’ che si trattava solo di Ettore.
-          Marie, sei così sulle spine che si capisce che stai “escogitando” qualcosa.- mi fece alzare, si accomodò sulla mia sedia e mi fece sedere sulle sue gambe accarezzandomi la schiena con una mano per cercare di farmi rilassare.
-          Non so come dirglielo Ettore. Si arrabbierà, mi odierà e farà qualcosa di molto stupido. Come posso fargli una cosa del genere?- mormorai continuando a guardare i biglietti.
-          Capirà Marie.- sussurrò dopo un attimo di silenzio stringendomi piano a se.
Rimasi un attimo immobile tra le sue braccia pensierosa meditando su ciò che sarebbe potuto accadere se mio fratello non l’avesse presa bene. Non mi avrebbe parlato mai più, la famiglia si sarebbe frantumata. Un singhiozzo mi squarciò il petto e mi rifugiai meglio tra le sue braccia nascondendo il viso contro il suo collo. Le sue carezze mi impedirono di scoppiare a piangere ma i singhiozzi non si fermarono e fui costretta a respirare profondamente per calmarmi.
-          Non piangere piccola mia, andrà tutto bene, tutto bene. Jonathan capirà.- sussurrò contro il mio orecchio baciandomelo piano.
-          Stasera a cena gli dirò tutto, non voglio che pensi che sono un mostro, voglio che abbia il tempo per abituarsi all’idea.- sussurrai pianissimo.
-          Marie, non credere che ne sarà felice, non lo sarà. Si arrabbierà, dirà di odiarti e non si abituerà in quattro giorni all’idea di stare lontano da casa per mesi. Ma gli piacerà dopo. Quei ragazzi lo aiuteranno e starà bene, dobbiamo solo avere fiducia.-
-          E sperare.- conclusi io prendendo un respiro profondo ben sapendo che in realtà era l’UNICA cosa che potevamo fare.
 
Non riuscì a cucinare niente di commestibile per quella sera, sia perché feci praticamente tardissimo alle prove, sia perché avevo completamente bruciato la zuppa.
Quella era una ricetta tutta mia, sarei dovuta riuscire a prepararla decentemente, ed invece no.
L’originale colore verde era diventato un marroncino tendente al nero che non mi fece venire neanche voglia di assaggiarla per controllare.
Ettore non c’era.
Mi aveva pregato di farlo restare per potermi dare manforte in caso di necessità o scleri eccessivi da parte di mio fratello ma lo avevo pregato di lasciarci da soli.
Volevo che si sfogasse come meglio credeva, dopo tutto non avrebbe mai potuto dirmi cattiverie che non meritavo.
Mi stavo comportando da stronza.
Quando ritornò a casa puzzava di fumo come una ciminiera. Prima ancora di vederlo apparire sulla porta del salotto in cui mi trovavo avevo avvertito l’odore di nicotina che aveva impregnato addosso.
Era stato sicuramente a qualche “incontro di lavoro”. Sapevo perfettamente di cosa stavamo parlando. Thomas, la sua cerchia di amichetti e sesso.
Spensi la televisione lanciando un’occhiata all’orologio sul tavolino davanti al divano.
Mezzanotte e mezza.
 Dovevo essermi addormentata per non essere morta di fame.
-          Ciao, sei ancora sveglia?- mi domandò senza troppa gentilezza togliendosi il cappotto che lo copriva e scoprendo degli abiti informali.
-          Sei stato al pub quindi.- dedussi rispondendomi da sola alla domanda che non aveva ricevuto risposta quella mattina. Incredibile come nel giro di 24 ore le cose fossero degenerate.
Jonathan non mi rispose e si diresse in cucina cercando qualcosa a mangiare nel frigo.
-          C’è la pizza nel forno.- lo avvisai prendendole entrambe e mettendole a tavola, senza apparecchiare, con gli spicchi già tagliati.
Lui mi guardò perplesso sedendosi a tavola. Non era un mistero per nessuno dei miei fratelli che avessi un grande appetito. Ogni volta che loro tornavano tardi sapevano di non trovare la loro porzione perché di certo l’avevo già mangiata io insieme alla mia. Quella volta era diverso.
La tensione mi aveva chiuso lo stomaco onestamente.
Ci mettemmo entrambi a tavola e cominciammo a mangiare in silenzio, dopo che ebbi finito il primo quarto non riuscì più a trattenermi.
-          Ti devo dire una cosa Jhonny.- lo avvisai di botto.
Lui non smise mi mangiare il trancio di pizza che aveva in mano e non mi guardò nemmeno. Finì di masticare con molta calma e sbuffò.
-          Lo so.- mi rispose semplicemente dando poi un altro morso.
Temporeggiai più tempo che potei. Bevvi un sorso di pepsi e finì di mangiare il trancio di pizza che avevo preso in mano prima di pulirmi le mani e la bocca con un tovagliolo, il tutto con estrema calma e perizia, e cominciare a parlare.
-          A giugno comincia il mio tour e questa volta non mi è permesso di portarti con me…-cominciai lentamente ma con voce chiara.
-          Non ho dodici anni Maria, non c’è nessun bisogno che mi porti con te.- mi rispose immediatamente seccato.
-          Non sei in grado di rimanere da solo Jonathan, non dopo quello che è successo.- gli feci presente senza alzare la voce ma mantenendo la calma.
-          Quindi che farai? Mi metterai alle costole il tuo fidanzato?- mi domandò acido come un sorso di limone. Anzi, forse di più.
-          No. lui lavora, non può occuparsi solo di te come fosse la tua balia.- risposi piano.
Lui rimase in silenzio senza capire. sapevo che stava facendo due calcoli su quale potesse essere la conclusione a quella strana conversazione.
Io no.
Ettore no.
Paul, Alan e Jamie no.
Chi altri?
mi alzai lentamente da tavola e andai in salotto dove avevo lasciato la mia borsa, frugai dentro per un momento prima di prendere la fotocopia che avevo guardato tutto il pomeriggio e, preso un respiro profondo tornai in cucina.
Lui era ancora seduto a tavola ma aveva smesso di mangiare. Mi guardava con i suoi occhi freddi come il ghiaccio in attesa.
Appoggiai semplicemente il biglietto davanti a lui rimanendo in piedi contro il muro aspettando la sua reazione.
Mio fratello afferrò quel pezzo di carta, lo lesse velocemente e poi lo strappò, lentamente, in minuscoli pezzettini tornando a mangiare.
-          Jonathan, ti prego, cerca di essere ragionevole.- lo pregai con un filo di voce dopo un lungo momento di silenzio.
Evidentemente invocare ragionevolezza in quel momento era praticamente una follia. Io ero la prima persona a non essere stata ragionevole.
-          Ragionevole Maria? Ragionevole?- ripeté dopo essere scattato in piedi. Aveva perso tutta la calma che contraddistingueva normalmente mio fratello e adesso stava proprio gridando.
-          Mi stai dando questo…coso come a dirmi che altro non sono se non un pacco! Un peso di cui ti devi liberare, un idiota così coglione da non essere in grado di rimanere solo a casa come se avessi dieci anni. Di cosa ti preoccupi Maria? Che riprovi a fare ciò in cui ho fallito una volta? Pensa che bello se ci riuscissi, ti saresti risparmiata i 745 euro di biglietto aereo per spedirmi chissà dove.- mi disse senza interrompersi un  momento, senza smettere di gridare. Era rosso in viso e si stava avvicinando a me stringendo i pugni lungo i fianchi. – dove mi stai mandando Maria? In un centro di recupero cristiano? Credi che mi faccia bene stare con altri “piccoli santi crescono” come quelli che sono stati qui?- mi sputò in faccia lanciandomi i coriandoli del biglietto che teneva stretto in pugno. – io non ti avrei mai chiesto di venire con te o di rinunciare alla tua carriera, ti avrei solo chiesto di non sentirti mamma per un fottutissimo minuto! Mamma è morta! Tu non sei lei!- continuò sempre più arrabbiato prima di allontanarsi velocemente da me.
Rimasi per un attimo in silenzio senza respirare, sconvolta, appiattita contro il muro in posizione di difesa come se avessi paura che da un momento all’altro Jonathan potesse attaccarmi e farmi del male. Ma era mio fratello, non mi avrebbe fatto del male.
-          Se non vuoi andare non sei costretto Jonathan, questa cosa non è importante, pensavo solo che…- stavo per dire potesse farti bene ma non mi lasciò finire perché si voltò verso di me con gli occhi carichi di odio e risentimento.
-          Non pensare Maria, chiedi il parere degli altri prima di decidere della loro vita.- mi rispose acido e velenoso in un sibilo.
Sparecchiò velocemente e non rabbia buttando praticamente anche le posate ma non dissi nulla. Appallottolò la tovaglia e la infilò in un cassetto.
-          E ci vado Maria, sta tranquilla che ci vado. E quando torno, quando tutto questo schifo sarà finito e tornerò a casa, tu farai le valigie e te ne andrai perché questa è casa mia, la mamma l’ha lasciata a me, ed io non voglio più vivere sotto il tuo stesso tetto.- mi annunciò prima di sparire dalla cucina e salire in camera mia.
Lo seguì con le lacrime agli occhi, lui afferrò la valigia da sotto il mio letto e la riempì con tutti i miei vestiti, quelli che rimasero li infilò come meglio poteva in alcuni borsoni.
-          Jonathan, è tardi, non so dove andare.- sussurrai piano mentre mi spingeva fuori dalla mia camera, giù dalle scale trascinando la valigia ed i borsoni.
-          Non è un problema mio, fuori di qui, stronza.- urlò di nuovo apprendo la porta e gettando tutto in strada, chiavi della macchina comprese, dopo di che sbatté violentemente la porta lasciandomi in mezzo alla strada in pantofole.
Presi tutte le mie cose, salì in macchina e partì. Non sapevo dove andare, non sapevo se Ettore fosse ancora sveglio ma mi decisi a chiamarlo perché non potevo rimanere in macchina a gelare.
-          Pronto?- rispose dopo vari squilli con la voce un po’ assonnata.
-          Ettore, posso venire a stare da te? Sono appena stata buttata fuori di casa.- mormorai in un sussurro cercando di non scoppiare a piangere. Lui rimase in silenzio per un paio di secondi poi sospirò.
-          Certo Marie, vieni pure qui, mi dispiace.- mi rispose con voce calda, davvero dispiaciuto.
-          Non fa nulla, sto bene.- mentì prima di partire verso casa sua.
Avrei avuto un posto caldo in cui stare, una persona che mi amava e troppe cose a cui pensare. Non ci dissimo nulla, lasciai i bagagli in salotto e rimanemmo sul letto, io ancora vestita, abbracciati, in silenzio, a farci conforto a vicenda.
Mio fratello era un adolescente ferito. Mi dispiaceva di esserne la causa ma, nonostante tutto, ero ancora fermamente convinta di aver fatto il suo bene.
 
 
 
Note Autrice:
allora, forse devo spiegare come sono andate temporalmente le cose.
La mattina jonathan ha dimostrato di non avere un “cuore” così Marie, non si sa per quale motivo, ha chiamato Laura per spedirglielo stile pacco postale. Tornato a casa da una giornata con gli “amici” il poveraccio a ricevuto la notizia bomba.
Questo è quanto.
È un capitolo breve perché è solo di passaggio. Dal prossimo in poi abbandoniamo l’Irlanda per tornare tutti in Italia.
p.s. tenete bene a mente che la lista delle persone di cui vendicarsi aumenta.

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Non ricordo quando l'ho conosciuto. Tendo sempre a rimuovere gli eventi traumatici ***


Image and video hosting by TinyPic


Avrei tanto voluto andarci da sola all’aeroporto. Probabilmente sarebbe stato anche meno imbarazzante, o forse anche di più visto il silenzio imbarazzante che sarebbe calato, altro che il gelo prima delle interrogazioni, quello sarebbe stato mille volte peggio. Quindi non opposi una grande resistenza quando Caro e Betta, le uniche patentate del nostro gruppo, si offrirono di accompagnarmi a Catania. Mio padre lavorava e mi aveva consigliato di chiamare e dirgli di prendere un taxi o l’autobus ma alla fine avevo trovato una soluzione meno maleducata. Ero seduta davanti, accanto a Betta che ciarlava del più e del meno e con Caro dietro che, in silenzio, studiava ogni più piccolo particolare della mia faccia.
-          Betta, sta zitta un attimo per piacere.- le ordinò quando fu chiaro che era solo isterica a causa del discorso Alessio che avevamo appena preso.
Non ero pronta a crisi isteriche altrui, stavo per avere la mia personale crisi di nervi e non potevo fronteggiarne due in quello specifico frangente. Presi un respiro profondo e cercai senza successo di sorridere.
-          Lui mi odia Caro, che cosa ci facciamo qui? Perché ho accettato cavolo?! Non sono pronta ad averlo a casa sette giorni su sette. E poi abbiamo un solo bagno!- era stato un fiume di parole, ero talmente tanto preoccupata di quanto stava per avvenire che non riuscivo a mantenere un briciolo di dignità neanche a pagarla.
-          Ti preoccupi davvero dell’idea di avere un solo bagno?- mi chiese Betta stupefatta.
-          Non farti prendere dal panico.- rimbeccò subito Carolina. – siamo adolescenti, crediamo che tutto il mondo ci odi, ma lui è troppo grande per mettersi ad odiare una ragazzina non credi?- mi domandò in quella che voleva sicuramente essere una domanda retorica.
Io non ne sarei così sicura. Quello è più adolescente di me.
Pensai senza però dar voce ai miei ulteriori timori. La macchina sfrecciava a 90 n autostrada, limite massimo per chi aveva preso la patente da meno di un anno e Betta non aveva ancora mai infranto una sola legge della strada.
Mi chiedevo come avrebbe reagito vedendolo. Lei dichiarava di non amare i bei ragazzi ma di preferire un genere un po’ panciuto, basso e possibilmente anche, e qui si sfiorava il ridicolo, peloso. Anche a pensarlo sarebbe potuta sembrare un’idea ridicola a chiunque eppure quella ragazza esisteva davvero ed era seduta accanto a me in quel momento e il famoso Alessio, cotta che la perseguitava da due anni, nonché suo migliore amico, nonché fedele devoto che trovava in lei il confessore per ogni nuovo amore che aveva, psicologa e spalla su cui piangere. E poi lei veniva a piangere da noi ovviamente turbata che quel ragazzo, a cui aveva lasciato praticamente un milione di segni sparsi come mollichine lungo la strada e che lui non aveva colto neanche per sbaglio, fosse così scemo da non capire.
Stavo ancora crogiolandomi in quei pensieri quando imboccammo l’uscita per l’aeroporto. Eravamo sfortunatamente già in ritardo a causa della stupida professoressa di italiano che non capiva che il suono dell’ultima campanella voleva dire la fine delle lezioni. Lei, incurante, continuava sempre a spiegare per almeno un quarto d’ora.
Fortunatamente nel giro di tre settimane sarebbero arrivate le meritatissime vacanze di pasqua. Che avrei passato a casa. Non da sola sfortunatamente, con il mio peggiore incubo a perseguitarmi.
-          Comunque…- mi riscosse Caro mettendomi il suo i-phone davanti e mostrandomi l’immagine del ragazzo mano nella mano con una ragazza. – a quanto pare preferisce le more. La sua ex è mora, e tutte le sue storielle sono tutte more. Hai una chance allora.-
Alzai gli occhi al cielo esasperata e mi morsi il labbro per non gridare tutta la mia frustrazione.
-          Caro, non voglio essere il suo tipo, e comunque dici che 17 anni di differenza bastino a non fare di me il suo tipo?- le domandai come se la risposta fosse già più che evidente.
-          No.-  mi rispose lei come se nulla fosse facendomi l’occhiolino.
Lo sapevo che preferiva le more, figuriamoci, c’era stato un periodo in cui, mi vergognavo ancora a parlarne, lo avevo seguito praticamente ovunque alla ricerca di informazioni sul suo conto. Ovunque però era una parolona.
Su internet.
Cancellando subito la cronologia nel caso a qualcuno fosse venuto in mente di ficcanasare tra le mie cose.
Lasciammo la macchina in un parcheggio custodito proprio davanti agli arrivi e scendemmo tutte e tre. Betta mi aveva proposto di lasciarmi la davanti e di aspettarmi in macchina ma, pur di non rimanere sola, mi ero offerta di pagarle il parcheggio. Quindi, giubbotti messi, luci spente, finestrini alzati, trucco e parrucco sistemato scendemmo dall’auto camminando piuttosto velocemente per coprire quella breve distanza. Era tardissimo e sperai vivamente che stesse ancora aspettando le valigie o che l’aero avesse fatto ritardo durante lo scalo a Parigi. Eravamo tutte e tre lontanissime dall’essere al massimo della nostra forma ma almeno le grandi capacità di make-up artist di Bernadetta ci avevano salvato dal sembrare delle mummie. La mia buona stella per una volta mi sorrise e entrammo all’aeroporto mentre lo speaker annunciava l’arrivo, con mezz’ora di ritardo, del volo da Parigi. Impossibile tra l’altro che non fosse quello. A Catania, sfortunatamente, benchè prendesse il nome di aeroporto internazionale, arrivavano due voli soli da Parigi, il martedì ed il giovedì. Doveva essere stata davvero un’impresa per Marie trovare il volo con così poco preavviso. E carissimo anche.
Ci sedemmo tutte e tre sulle sediolina davanti all’uscita, braccia incrociate al petto, a parlare dei compiti che ci aspettavano per l’indomani.
-          Spero di riuscire a studiare anche se non ne sono sicura visto che deve almeno far finta di essere una buona padrona di casa.- mormorai scocciata. – mia madre sta prendendo la cosa troppo seriamente, oggi sembra che a casa ci sia il pranzo della domenica.-
-          Oh, almeno non sarai costretta alla pasta con la lenticchia come me.- mi prese in giro Betta.
-          La preferirei di gran lunga.- sbottai ed entrambe, accanto a me come angeli custodi, scoppiarono a ridere.
-          Ma zitta che non ci crede nessuno!- mi presero bonareamente in giro per poi costringere anche me ad unirmi al loro divertimento.
Dopo un quarto d’ora non si vedeva ancora nessuno e stavamo cominciando a morire di fame. Erano già quasi le tre e mezza e se non avessi distratto Caro avrebbe cominciato a fare i capricci. Alcune volte poteva dimostrarsi davvero adulta e matura ma, altre volte, soprattutto quando più affamata ed irritabile, cominciava a comportarsi come una bimba e non volevo che fosse proprio quello il caso. Mi alzai subito prendendo la borsa e mi avvicinai al bar accanto all’uscita, non c’era praticamente nessuno, erano tutti a casa per il pranzo e quando mi avvicinai al bancone la signorina mi sorrise felice di poter fare qualcosa.
-          Ciao, cosa posso darti?- mi domandò gentilmente.
-          Un panino prosciutto e svizzero per favore.- le risposi mentre lo prendeva e lo piastrava.
Lasciai i soldi sul posacenere alla cassa e quando fu pronto me lo consegnò e mi salutò con estrema gentilezza mentre uscivo dalle porte scorrevoli in vetro. Caro, che aveva ben capito adesso cosa ero andata a fare, mi sorrideva raggiante dalla sua sedia e mi tese le braccia.
Era così facile farla contenta, era un piacere per me ogni volta.
Improvvisamente però il panino sparì dalle mie mani.
Ero stata così distratta dalla felicità della mia amica da non accorgermi che accanto a me adesso c’era un ragazzo 23 centimetri più alto di me, con un trolley da viaggio come bagaglio a mano e null’altro. I capelli scombinati come sempre e la faccia leggermente stravolta dal viaggio ma sempre bellissima.
-          Ogni tanto allora fai anche tu qualcosa di utile, brava rompipalle. Avevo una fame da lupi.- furono queste le sue prima parole, neanche un miserabile grazie altro che le mille feste che mi avrebbe fatto la mia amica appena ricevuto il panino.
-          Non era per te!- protestai a mezza voce mentre vedevo la mia compagna partire a passo di carica verso di lui per reclamare il suo pasto. Carolina arrabbiata era spaventosa un po’ per tutti, Carolina arrabbiata ed affamata poi era un  mostro mitologico con cui era meglio non avere a che fare.
-          No, infatti, non era per te, era per me!- gli sputò subito addosso porgendogli la mano per farsi ridare il panino.
Lui la guardò come se non gli importasse nulla e le strinse la mano con noncuranza.
-          Piacere Jonathan.- si presentò per poi risponderle con un sorriso. – ma ovviamente questo lo sai già.- precisò con sarcasmo. Un sarcasmo che non capivo se fosse diretto solo a me o a lei o a entrambe.
-          Sì, lo so già, le storie sulla tua coglionaggine hanno già fatto il giro d’Europa.- gli rispose acida lei. – dammi ciò che è mio ladro!-
-          Oh Dio, ma che ho fatto per meritarmi questo?- lo sentì mormorare prima di guardarmi con fare svogliato. – allora andiamo?- mi domandò.
Stava inimicandosi per sempre la ragazza davanti a lui. Di solito lei provava per tutti una certa simpatia per il semplice fatto che fossimo tutti della stessa specie umana, ma una volta persa la sua simpatia e soprattutto qualora se la si fosse fatta nemica, era ormai la più feroce delle tue avversarie. Non ero sicura che quell’adolescente potesse farcela contro di lei.
-          No, tu mi ascolti bene adesso perché dovremo sopportarci per un po’ e se vuoi evitare che io ti uccida seduta stante è bene mettere in chiaro subito dei concetti base. Uno. Sei a casa nostra qui e cerchi di comportarti in modo educato. Due. Non si tocca ciò che è degli altri. Tre…- la risata del ragazzo al mio fianco la fece tacere improvvisamente.
-          Tre.- continuò lui per lei imitando e beffeggiando il suo tono. – devi aiutarci quando avremo bisogno di te.- concluse lui. Ero quasi sicura che non fosse quella la regola numero tre di Carolina.
-          Cosa?- fece lei smarrita cercando di capire se stesse parlando con una persona sana di mente o meno. – no, non è necessario, ce la caviamo da soli. È la tua coscienza che deve spingerti ad aiutare la gente.- concluse lei come se stesse parlando con un deficiente.
-          Bene, allora la mia coscienza deve aver preso il sopravvento su di me.- riprese lui beffeggiando ancora una volta il suo tono. – di sicuro un panino in meno ti aiuterà a buttare giù tutti i kili in eccesso che ti porti dietro.- concluse questa volta con un tono di scherno che mi fece annichilire.
Mi sentivo tremendamente a pezzi io che non ero stata la destinataria di quella bruttissima sortita, non osavo immaginare come stesse lei che a proposito di peso in eccesso aveva sempre sofferto parecchio per chi, senza alcun tatto, le faceva notare che forse sarebbe stato meglio se si fosse messa a dieta.
La mia faccia era corrugata in una smorfia di sofferenza come quella di Betta che, ne ero certa, avrebbe potuto cominciare a piangere da un momento all’altro.
Carolina semplicemente si girò e fece strada verso la macchina, Betta accanto a lei ed io poco dietro con il mio ospite accanto che finiva il panino e ne buttava via il fazzoletto. Caricò le valigie in macchina e poi chiese a Betta le chiavi.
-          Voglio arrivare a casa prima che faccia notte e poi voi sarete troppo occupate a cercare di consolare la vostra amichetta dopo la cattiveria dell’orco cattivo.- le ricordò.
A quel punto Betta lo guardò con tutta la compassione di cui era capace e gli lasciò cadere le chiavi della macchina nella mano salendo sul sedile posteriore accanto a Caro. Io ripresi il posto che avevo avuto all’andata lasciando le due, migliori amiche dal primo liceo, a parlare. Parlava soprattutto Betta, in italiano quindi Jonathan era completamente escluso dalla conversazione, e cercava di assicurarle che quello altro non era che un ragazzo con gravi problemi che altro non sapeva fare se non attaccare per difendersi.
-          Magari avrebbe tanto voluto che quel gesto così gentile fosse per lui e rendendosi conto poi che non lo era si è sentito in dovere di difendersi. Aveva solo paura!- sussurrò lei coccolandosi l’amica con un’incredibile dolcezza.
Anche la mia migliore amica, un giorno, molto tempo prima, mi aveva consolata in quel modo. Sospirai profondamente e tenni lo sguardo basso dando ogni tanto informazioni allo stupido attore irlandese alla guida. Lui sembrava non rendersi conto di quanto cattivo potesse essere stato ed io non me la sentivo di rimproverarlo e diventare oggetto dei suoi attacchi isterici come lo era stata la mia compagna poco prima. Per cui rimanemmo in religioso silenzio finchè non arrivò davanti casa mia.
-          È qui, fermati.- lo avvisai indicando il palazzo rosa salmone che ci trovavamo sulla destra.
Lui lanciò un’occhiata distratta al palazzo e accostò. Scese dalla macchina e recuperò le sue valigie lasciando poi sul sedile una banconota a 100 euro. Sbuffai mentre la macchina andava via.
-          Non l’hanno fatto per i tuoi soldi. Lo hanno fatto perché volevano essere gentili.- gli feci notare senza poter impedire ad un po’ di risentimento di trapelare dalla mia voce.
-          Ed io le ho ringraziate.- concluse lui semplicemente mentre gli tenevo aperto il cancelletto ed entrava.
Ero stata così occupata ad essere arrabbiata con lui che non mi ero resa conto che stavo per salire in ascensore con lui e che in meno di 3 minuti sarebbe stato definitivamente in casa mia. In che condizioni era la mia camera? Mi affidai alla bontà di mia madre e sperai che l’avesse riordinata per me perché io non avevo fatto nemmeno il letto. Quando arrivammo sul pianerottolo suonai il campanello e mio padre venne ad aprire.
Evidentemente quello che vide non era quello che si aspettava perché si ammutolì e dopo tre secondi mi lanciò un’occhiata omicida che avrebbe potuto sbriciolarmi.
-          Cosa non gli avevi detto?- mi domandò con un filo di voce il ragazzo al mio fianco entrando in casa.
-          Non lo so.- sussurrai io facendomi piccola piccola.
Anche la faccia di mia madre fece trasparire tutto ciò che stava pensando. Prima la meraviglia, poi la rabbia che si abbatté su di me come una furia alla prima frase che pronunciò.
-          Accompagna il tuo amico di là, poi io e te facciamo io conti.- mi avvisò.
Stavo ancora cercando di capire cosa avesse potuto farli arrabbiare così tanto quando mi ritrovai davanti alla porta chiusa della mia camera. Cavolo.
Mi morsi il labbro, presi un respiro profondo e aprì la porta.
La camera era perfettamente ordinata, il letto rifatto, i vestiti sparsi in giro e le scarpe sparite. Sorrisi tra me ringraziando mentalmente mia madre e gli feci segno di entrare.
Il letto, al centro della stanza, era ad una sola piazza. Odiavo avere ospiti proprio per quello.
-          Spiegami un po’, dormiamo insieme?- mi domandò cercando di trattenere lo sdegno e anche le risa.
-          No, tu dormi qui, da solo.- mi avvicinai all’armadio bianco a muro e aprì le due ante superiori che erano state liberate da me e mio padre qualche giorno prima. – questi sono per te, quelli sotto sono miei, il bagno è la porta accanto, è solo uno purtroppo.- mi guardai intorno a disagio.
Ringraziai il cielo che non fosse più di un rosa sgargiante come prima e che le pareti fossero invece di un azzurro cielo con la testata del letto simile ad un campo di papaveri fiorito. Mia madre era stata bravissima.
-          Questo è quanto, adesso andiamo a pranzo.- lo invitai riaccompagnandolo in cucina dove i miei si erano già seduti a tavola.
Mi sedetti al mio solito posto a destra di mio padre e accanto a me prese posto Jonathan. Mi faceva ancora strano chiamarlo così. Era come se facesse di lui una persona come le altre. Mio padre lo guardava con fare minaccioso mentre mia madre serviva la sua lasagna. Il formaggio filante si sciolse sul piatto e gli occhi del mio vicino, benchè non volesse darlo a vedere, si illuminarono.
-          Grazie.- mormorò sottovoce quando tutti cominciammo a mangiare. Io avevo lo stomaco chiuso.
-          Che hai mangiato a merenda Laura?- mi chiese mia madre affatto gentile.
Cercai di sorridere inutilmente e cominciai a mangiare sforzandomi di non vomitare tanto ero nervosa. Fortunatamente mia madre fu più che soddisfatta di tutti i complimenti che il suo ospite si stava prodigando  farle e ben presto la rabbia sbollì, mio padre invece era sempre più arrabbiato ma rimaneva in silenzio. Fu un pranzo lungo. Dopo la lasagna mia madre servì le cotolette con contorno di patatine fritte, la parmigiana e qualche salume e formaggio come contorno. Dopo di chè uscì i dolci. Le aveva comprati nella mia pasticceria preferita. Una di quelle poco in perché facevano dolci enormi che somigliavano tanto a quelli che potevi fare a casa, niente di scenografico. Ma dare un morso ad uno di quei dolci era orgasmico, ne ero certa anche se non avevo mai avuto un orgasmo.
C’erano cassatine e cannoli siciliani, diplomatici e babbà, di quelli con due “b”.  Jonathan mangiò tutto quello che gli veniva offerto senza tenere per nulla alla linea come avevo creduto indispensabile per uno come lui. La malattia comunque lo aveva molto debilitato se anche avesse preso un paio di chili non gli avrebbe fatto che bene. Dopo pranzo me ne andai in salone a studiare cercando di concentrarmi sui miei paradigmi di greco piuttosto che sul ragazzo nell’altra stanza.

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** A molti può accadere di ritenere che «ogni straniero è nemico». Io lo sono. ***


Image and video hosting by TinyPic


Avevo già capito, appena sceso dall’aereo, che da quel momento in poi sarebbe cominciato il mio inferno personale fatto di grida, gente troppo “espansiva” e milioni di problemi. Avevo chiamato Thomas per avvertirlo di quel piccolo spostamento e lui mi aveva assicurato che avrebbe pensato ad ogni cosa. Probabilmente l’idea dell’imminente licenziamento lo aveva smosso a fare meglio il suo lavoro.
-          Cercherò di occuparmi anche della ragazzina così tua sorella non avrà nulla di cui lamentarsi.- aveva tenuto a precisare quando, ancora nella relativa calma di Parigi, gli avevo fatto sapere la disgrazia.
Non preoccuparti della ragazzina, ci penserò io a lei. Avevo pensato con una smorfia divertita.
L’unico motivo per cui avevo accettato tutto quello non era affatto quello che si poteva credere. Non era per mia sorella e per il suo lavoro, per mio fratello e la sua tranquillità familiare, né per nessun altra ragione. Era solo per me e per i miei motivi. Ero fondamentalmente una persona molto egoista io.
Sapevo perfettamente, o per lo meno grazie ad alcune reminiscenze di quei momenti di lucidità e di maturità che la mia mente aveva, che, essendo quella solo una ragazzina insignificante, sarebbe stato da parte mia alquanto immaturo e stupido un certo comportamento, ma nella tranquillità della mia camera, dopo aver sbattuto fuori di casa mia sorella, mi era sembrato un buon motivo per partire. Quale altra occasione avrei avuto? Probabilmente nessuna. Valeva assolutamente la pena di coglierla al volo.
Era quasi l’ora di pranzo quando il mio aereo, in ritardo, atterrò all’aeroporto internazionale, che di internazionale aveva solo il nome, di Catania. Avevo viaggiato molto per il mio lavoro e mai mi era capitato di trovarmi davanti una così piccola struttura. Erano atterrati infatti due voli quasi contemporaneamente e ci eravamo trovati stipati in una minuscola saletta con quattro soli rulli per i bagagli che arrivarono con una lentezza allucinante. Ero rimasto seduto su una poltroncina lì vicino, gli occhiali scuri calati sul naso certo tuttavia che in quel posto dovesse ancora arrivare la televisione satellitare e che fossero ancora fermi ai film in bianco e nero degli anni 50. Non avrei dovuto avere un bagaglio da aspettare ma alla fine avevo deciso di imbarcare quello che avevo preso come bagaglio a mano. Il motivo era semplice: mi sarei evitato la lunga attesa per i bagagli e l’eventuale rischio di smarrimento se lo avessi tenuto con me ma non mi andava di uscire subito. Era un altro di quei comportamenti immaturi che il mio cervello di tanto in tanto registrava e mi faceva notare rimproverandomi ma di cui non mi importava molto. Ammesso e non concesso che qualcuno mi fosse venuto a prendere non si sarebbe scomodato ad aspettare un po’ di più.
Quando alla fine i primi bagagli cominciarono ad arrivare, lasciata smaltire un po’ di confusione, mi alzai per recuperare il mio bagaglio che scorreva pigro sul nastro trasportatore. Me lo misi in spalla e uscì da una piccola porta scorrevole che portava ad un altrettanto piccola sala d’attesa.
Di sicuro non avrei avuto problemi a scorgere i miei futuri carcerieri che fingevano di aspettarmi felici e contenti. Dubitavo che fossero troppo felici e contenti di avere un 34enne con problemi di alcol, droga e fumo in giro per casa “attorno” alla loro piccola bambina scout.
Quando individuai la massa castana e scombinata dei suoi capelli non mi stupì affatto che sorridesse. Tranne i rari momenti in cui mi rivolgeva la parola l’avevo sempre vista sorridere. Aveva in mano quello che aveva l’impressione di essere un panino e mi ricordai di avere fame. Avevo preso solo un caffè al bar quella mattina prima di partire e adesso erano quasi le tre del pomeriggio. Di sicuro quel gesto così carino non era affatto per me e, seguendo il suo sguardo verso due ragazze forse più grandi di lei, quella gentilezza era proprio per loro. Tanto meglio.
Le arrivai alle spalle velocemente e afferrai il panino al volo prima che arrivasse nelle mani di quella che a giudicare dalla stazza non me ne avrebbe fatto assaggiare di sicuro neanche un pezzetto.
La legge del più forte mia cara.
Sapevo già di dover affrontare una dura e spietata lotta per il possesso del bene quindi, armato di tutta la mia buona volontà per essere il più gentile possibile ed evitare che i miei piani fossero spiattellati subito all’aeroporto, mi rifugiai dietro un sorrisetto beffardo e affrontai quella che voleva sicuramente sembrare una dura persecutrice del male.
Come poteva non essere tale un’amichetta della scout salvavite?
 
Mi estraniai praticamente per tutto il tempo, non ricordavo nemmeno più di aver litigato con loro finchè non mi ritrovai davanti la faccia dapprima gentile e cordiale e poi scura e minacciosa di quello che doveva essere il padre della bambinetta al mio fianco. Evidentemente c’era qualcosa che aveva omesso. Non credevo di aver scritto in faccia la parola drogato e non avevo addosso quella puzza di fumo che avrebbe potuto scatenare una rissa al mio arrivo, eppure l’occhiata omicida che la rompipalle si guadagnò, e che avrei appoggiato in ogni caso, ben felice che la mia presenza cominciasse fin da subito a causarle problemi, mi fece venire il dubbio che non sapessero del mio arrivo.
Dubbio che però venne ben presto scacciato dalla quantità enorme di cibo che mi presentarono davanti. Cibo di altro tipo rispetto a quello che ero solito mangiare.
Non ero abituato infatti alle sole schifezze che si cucinavano a casa mia. Andavo parecchie volte in ristoranti di lusso che servivano miseri piatti vuoti eppure parecchio buoni. Ma quello che mi veniva servito adesso era tutta un’altra storia. Piatti pieni, fumanti, buoni e saporiti, tipici italiani che mi spinsero, per una volta, a finire tutto ciò che mi veniva offerto.
Avevo sofferto anche di anoressia per un certo periodo della mia vita e non avevo mai amato il cibo. Anzi. Tendevo a non finire mai ciò che mi veniva servito sia perché la maggior parte delle volte era immangiabile, sia perché onestamente non mi andava.
Quella volta fu assolutamente un’eccezione.
Quando mi alzai da tavola e fui invitato a disfare i bagagli mi ritrovai per la seconda volta, in quella che doveva essere la cameretta di Laura. Era la cosa più fanciullesca che avessi mai visto. Ben lontana dall’assomigliare alla camera di una donna quasi diciottenne. Si vedeva che era sua madre a riordinarle gli abiti, si capiva anche, perfettamente che quella maniacale pulizia e quel senso assoluto dell’ordine non fossero affatto suoi. Era inquietante pensare che fosse ancora così “piccola”. Ma ciò di sicuro non avrebbe fatto fallire i miei pieni e la stanchezza fisica che quel viaggio mi aveva lasciato addosso mi aiutavano senza ombra di dubbio a rimanere concentrato sui miei scopi.
Mi avvicinai alla libreria e rimasi a guardare quella che doveva essere invece una disposizione tutta sua. I libri da bambini erano disposti ben ordinati negli scaffali in fondo, accanto a Geronimo Stilton facevano mostra di se anche libretti per bambini che davano l’impressione di non essere lì dallo stesso tempo dei primi. Speravo davvero che fosse un momento ormai passato. Più in alto i classici greci e latini facevano bella mostra di se benché probabilmente avesse cercato di occultarne alcuni per evitare di sembrare la secchiona che certamente era. I suoi libri preferiti erano i più maltrattati, molto più di quello che avevo in tasca. Medea di Euripide, Cime Tempestose, Il profumo di Suskind, Les Miserables. Afferrai quest’ultimo mattone che anche io avevo allegato alla mia biblioteca personale e lo aprì. Era in lingua originale e mi domandai se davvero lo avesse letto. Le migliaia di annotazioni a piè di pagina mi fecero dedurre di sì.
Sfortunatamente per lei tutto quello non me ne fece avere affatto una buona opinione. Alla mia già scarsa simpatia nei suoi confronti si aggiunse anche l’idea di una persona noiosa, saccente e piena di se non appena si fossero sfiorati argomenti di quel tipo. Sarebbe stata una lunga lotta. I libri di scuola non erano maltrattati come i suoi preferiti ma nemmeno avevano un grande ordine nella libreria. Ammassati in un angolo, con vari foglietti volanti sparsi qui e lì mi fecero venire in mente i miei anni di liceo. I migliori tra l’altro. Era stato in quel periodo che la mia carriera aveva avuto inizio.
Presi la valigia da terra e la poggiai sul letto, l’aprì e cominciai a sistemare le cose nell’armadio. Avevo portato davvero poco perchè avevo deciso di spedire il resto che sarebbe arrivato nel giro di qualche giorno. Mentre “ordinavo” le mie cose feci una lista di ciò che avevo capito e che mi sarebbe stato utile:
 

  1. Due di quelle che si proclamano migliori amiche mi odiano.
  2. A giudicare delle foto appese alle pareti devo conquistarmi ancora l’antipatia di tre persone.
  3. I suoi genitori non si aspettavano me.
  4. È vergine e probabilmente ama le storie stile harmony come ogni altra adolescente. Prova di ciò il libro della Bronte.
 
L’ultimo punto rendeva tutto un po’ più complicato ma, per lo meno, avevo tre punti a mio favore. Già alle quattro rimanemmo a casa da soli. Lei non sembrava intenzionata ad uscire dal salone e nella solitudine del primo pomeriggio decisi di dedicarmi ad una doccia calda per lenire la stanchezza del viaggio e dell’idea di essere rinchiuso lì.
Uscì dalla stanza con le mani in tasca dopo un’oretta buona e lei era ancora nel salone, sui libri come un topo di biblioteca, gli occhiali sul naso e le labbra tra i denti. non poteva esserci nulla di così importante per il giorno successivo che la spingesse a non alzare neanche gli occhi dal libro che aveva davanti.
-          Senti, ho bisogno di un auto.- cominciai prima che lei mi interrompesse alzando una mano per zittirmi. Zittirmi? Alzai un sopracciglio irritato ma mi decisi a non sputarle addosso tutto il mio veleno per il semplice fatto che poi avrei dovuto intavolare una discussione che non volevo prendere.
Quando alzò gli occhi dal libro, probabilmente dopo aver finito il paragrafo, mi fissò un secondo come se cercasse di mettermi a fuoco.
-          Noi abbiamo solo un’auto, mio padre fa il rappresentate, non credo te la possa prestare.- mi rispose semplicemente tornando sui libri.
-          Usciamo, vado a comprarmela.- le risposi semplicemente. Lei scoppiò a ridere.
-          Ti vuoi comprare un’auto…così?- mi domandò con una nota di ironia nella voce senza però guardarmi. Alzai gli occhi al cielo, andai in camera a prendere il cappotto e il portafogli e mi diressi all’ingresso.
-          A stasera.- la salutai semplicemente prima di aprire la porta ed uscire sul pianerottolo spoglio in cui si affacciavano altre due porte blindate oltre a quella da cui ero uscito io, ancora aperta, per chiamare l’ascensore.
Due minuti dopo lei era accanto a me, il giubbotto addosso, i capelli in disordine e un muso che le arrivava a terra. Chiuse la porta a chiave e salì con me sull’ascensore. Onestamente mi aspettavo che mi seguisse anche perché da solo non sapevo minimamente dove andare. Fortunatamente le adolescenti in crisi ormonale erano facilissime da prevedere.
Non smise nemmeno per un attimo di ignorarmi mentre, a piedi, mi faceva strada per una piccola viuzza secondaria che portava in un’ampia piazza in cui svettava, poco più che ridotta ad un rudere, una vecchia chiesa di cui la mia mediocre guida non mi informò neanche del nome. Ma sorvolai. Non ero lì in gita turistica. Adesso quello a cui dovevo pensare era una macchina con cui potermi rendere indipendente in quella sporca, umida e calda città nel bacino del mediterraneo. Continuammo a camminare per le strade sporche e grigie per dieci minuti prima che si fermasse vicino a tante altre persone, sedendosi stancamente su un muretto. Probabilmente, beanchè non ci fosse nessuna indicazione che lo facesse intendere, quella doveva essere una fermata per gli autobus.
In che luogo tremendo ero arrivato?
Mi appoggiai sul muretto accanto alla mia aguzzina e mi calai meglio gli occhiali scuri sul naso.
Non fu una di quelle attese veloci a cui si è abituati nelle grandi città. Venti minuti dopo ancora non c’era traccia del mezzo che avrebbe dovuto portarci chissà dove e tutti i silenziosi passanti che si erano affollati sul quel muretto avevano cominciato a parlare vivacemente tra di loro assaggiando del cibo che non avevo visto da dove fosse arrivato. Sembrava una surreale situazione da telefilm su cui non volli indagare ulteriormente.
Probabilmente il mio riservato modo di fare o forse la mia faccia da “straniero” tenne abbastanza lontana quella massa di sciattoni annoiati nullafacenti e neanche l’unica di quel gruppo che avrebbe potuto tirarmi in ballo lo fece. Lo trovai come minimo gentile da parte sua.
Dopo trenta minuti i più giovani erano seduti comodamente a terra e avevano lasciato ai più anziani il loro posto sui muretti. La discussione, prima affrontata in massa, si era distribuita in gruppetti più piccoli che continuavano ad utilizzare un tono di voce decisamente troppo alto.
Fuori da tutto questo io incrociai semplicemente le braccia al petto e chiusi gli occhi cominciando  canticchiare qualcosa tra me e me. cantare aiutava a non pensare, a estraniarsi. In quel momento ne avevo un enorme bisogno.
-          O’Keeffe tu che fai resti lì?- sentì all’improvviso una voce farsi strada tra i miei pensieri e colpirmi in pieno.
O’Keeffe.
Nessuno mi chiamava più così da quando avevo cambiato il mio nome. Al massimo utilizzavano il cognome di mia madre. Ero rimasto Jonathan O’Keeffe solo all’anagrafe e dovevo fare i conti con quello solo nelle rare occasioni in cui dovevo occuparmi in prima persona della noiosa burocrazia che lasciavo volentieri agli altri. La fulminai con lo sguardò e senza risponderle la seguì su quel vecchio trabiccolo maleodorante.
Quando, dieci minuti dopo, la ragazzina si alzò, il conducente fermò l’autobus in mezzo alla strada senza preoccuparsi che non ci fosse nessuna fermata segnalata. mi chiamò con la mano e scendemmo. La lunga strada mal asfaltata costava da una parte di una lunga fila di showroom per auto e dalla parte opposta di campi dedicati all’agricoltura. Era in un certo senso affascinante, ridicolo e spaventoso.
-          Spero che tu non debba anche vagliare le diverse possibilità. L’autista mi ha detto che tra quindici minuti passa di nuovo di qui e si ferma per riprenderci quindi sbrigati!- mi apostrofò con quella dolcezza che ormai avevo capito di dovermi aspettare da lei.
-          Sì zuccherino.- la presi in giro divertito dando un’occhiata alle diverse insegne.
Non avevo bisogno di perdere tempo a “vagliare le diverse possibilità”. Da quando avevo fatto 21 anni avevo sempre avuto un solo tipo di macchina. Le mani in tasca, un mezzo sorriso in faccia mi diressi, senza spiegarle dove come aveva fatto lei usciti di casa, verso il famoso stemma del concessionario di auto che preferivo. Lei mi tallonava.
-          Allora.- l’afferrai per il braccio portandomela accanto e la guardai negli occhi dopo essermi tolto gli occhiali da sole che portavo. – credi di riuscire a tradurre per me due semplici paroline?- le domandai cominciando a camminare.
Avevamo superato il cancello argentato del concessionario e mi stavo avvicinando alla porta a vetri. Lei mi sorrise quasi gentilmente. Stavo per illudermi che per una volta volesse collaborare prima che mi desse una gomitata impostata sullo sterno facendomi perdere la presa dal suo braccio.
-          Se anche prima avevo una vaga intenzione di collaborare adesso quest’idea mi è proprio passata di mente!- mi rispose con malcelato risentimento.
-          È così che giochiamo saputella? Va bene!- biascicai afferrandole il braccio in una presa se possibile più salda di prima trascinandola dietro di me.
Per un momento non disse nulla. Probabilmente era troppo impegnata a rimettere insieme le idee per dire qualcosa. Favorito da quel momento di debolezza entrai nel concessionario e una ragazza, carina ma troppo volgare, venne ad accoglierci con un enorme sorriso salutandoci in una lingua che non conoscevo e a cui non potevo rispondere. Lei però continuava a fissarmi, la ragazzina al mio fianco era ancora intenta a cercare, troppo debolmente per far sembrare reale il suo tentativo di liberarsi dalla mia presa. Le diedi un buffetto che sarebbe parso affettuoso, invece che derisorio qual era, ad un occhio esterno e gli occhi grigio verdi della “commessa” che ci aveva accolti si spostarono per la prima volta sulla massa disordinata di capelli della mia compagna che continuava a tenere il viso rivolto verso la morsa della mia mano sul suo braccio.
-          Ehilà…- la chiamò infatti quella che doveva sicuramente credersi una femme fatale in confronto alla ragazzina dalla faccia arrabbiata accanto a me.
Si scambiarono una serie di battute poi ci fece segno di seguirla in una stanza più appartata dove si trovava un uomo sulla cinquantina che stava parlando al telefono. Quando ci vide mise subito giù e ci indicò le due sedie davanti alla sua scrivania.
-          La mia collaboratrice mi ha detto che lei è inglese signore, posso essere io di qualche aiuto?- mi domandò in inglese con un pesante accento italiano. Non feci il pignolo precisando che non ero uno stupido damerino inglese ma un irlandese abbastanza fiero del suo paese e gli sorrisi piuttosto cordiale per i miei standard.
-          Cercavo una BMW serie 6, pago in contanti ma ho necessità di un auto di cortesia che vi renderò non appena mi consegnerete l’auto.- tagliai corto mettendo sul tavolo le mie richieste.
-          Spocchioso!- sentì mormorare a mezza voce accanto a me. L’uomo sgranò leggermente gli occhi e tornò a farsi serio.
-          Non c’è nessun problema signore, vado a prenderle i documenti da firmare e le chiavi dell’auto che le daremo in comodato. La sua auto sarà qui in una settimana e mezza massimo.- mi assicurò con un sorriso di pura gioia prima che uscisse dall’ufficio.
Rimasi per un attimo in silenzio disturbato dall’enormità di tempo che avrei dovuto aspettare ma sorridendo della mia prossima libertà.
-          Dovresti essere contenta anche tu.- esclamai dopo un po’ ancora preso nella mia esaltazione. – non dovremo prendere l’autobus al ritorno.- le feci notare quando finalmente aveva rivolto il viso verso di me.
-          Ma dovrò rimanere chiusa nel tuo stesso abitacolo oltre che nella stessa casa con te e questo non mi rende per nulla contenta.- mi rispose con le labbra strette.
Ero ancora troppo entusiasta per il mio nuovo acquisto per badare troppo ai suoi capricci da tredicenne. Rimasi a guardarla per un attimo divertito dalla sua espressione che, pur essendo arrabbiata, mi ricordava tremendamente quella di un marshmellow. Avvicinai un dito al suo viso e le sollevai un angolo delle labbra con calma, meritandomi un colpo sulla mano per allontanarmi. Mi appoggiai di nuovo alla scomoda sediolina su cui ci avevano fatto accomodare e sorrisi guardando davanti a me la scrivania disordinata dell’uomo.
-          Quando sorridi sei più carina.-


Capitolo piccolino e di passaggio. niente di che per la trama ma mi andava di calare Jonathan nella relativa calma dell'atmosfera siciliana.
non so se questa settimana potrò esserci. in caso, sfortunatamente, ci sentiremo mercoledì 31. spero comunque di poter aggiornare la storia :)
grazie mille a chi passa 10 minuti a leggere :)

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Adesso vorrei sapere chi fu il pazzo che inventò il... ***


Image and video hosting by TinyPic


Dato che domani non ci sarò e non sarò presente neanche la prossima settimana, non volevo lasciarvi senza nulla per troppo tempo e aggiorno oggi. sono o non sono magnanima? XD
spero che il capitolo vi piaccia. a me piace <3 soprattutto la fine! XD




Erano passate tre settimane da quando quella nostra breve gita gli era valso il primo posto dell’uomo più odiato del mondo nella mia scala degli uomini più odiati. Per tantissimo tempo Lavinio Giuliano, odioso compagno di classe, aveva occupato il gradino più alto del podio ma adesso le cose erano cambiate. Ero seduta su una stupida macchina di lusso, per i miei standard, lo zaino sulle ginocchia e il viso rivolto verso il finestrino per non perdermi nel viso del mio autoeletto tassista. Mi chiedevo per quale motivo avessi deciso di accettare il suo aiuto.
Quella mattina, una mattina di quasi due settimane prima, con i miei, eravamo rimasti a piedi con l’auto prima ancora di uscire dal vialetto di casa. La nostra vecchia auto, un mese prima di compiere i suoi 15 anni, ci aveva abbandonati. Mi ero seduta, sconsolata, sui gradini dell’ingresso mentre mio padre spingeva dentro la macchina per posarla in garage in attesa che un suo amico, meccanico, la rimettesse in sesto. L’odioso ospite che aveva invaso la mia camera e la mia privacy mi era passato accanto, indifferente e aveva afferrato il mio zaino.
-          Ehi!- gli avevo gridato contro seguendolo. – dai non mi va di litigare adesso, sto per saltare il compito di…-
-          Greco. Ed io non voglio dovermi sorbire i tuoi ennesimi isterismi quindi ti accompagno io.- aveva concluso al mio posto interrompendo il mio tono lamentoso con sufficienza.
-          Potresti sembrare gentile ogni tanto sai?- lo sgridai continuando a seguirlo verso la sua auto.
-          Ti sto facendo un favore, saputella, potresti sembrare gentile ogni tanto sai?- mi scimmiottò lui salendo in macchina.
Quel giorno, grazie a lui, potei fare il mio bravo compitino.
Ciò che non avevo previsto e che si proponesse di accompagnarmi sempre dato che, per tornare a Catania, dove “lavorava”, doveva comunque passare difronte all’unico istituto classico della città. Oh santo Dio, perché il mondo cospirava contro di me? io stessa in realtà cospiravo contro me stessa.
La prima volta che mi aveva accompagnata infatti avevo passato tutto il tragitto a guardarlo mentre continuava a fissare la strada con un’attenzione che non avrei mai creduto avesse.
Purtroppo poi, come era prevedibile, era tornato se stesso.
-          So di essere meraviglioso, rompiscatole, però potresti anche smetterla di fissarmi o non riuscirai più a negare di non essere innamorata di me.- mi prese in giro divertito.
Quella mattina, ultimo giorno di scuola prima delle vacanze di pasqua, non riuscivo proprio ad essere felice. Non lo ero mai quando stavo vicino a lui e la cosa ultimamente succedeva piuttosto spesso.
Motivo in più per detestarlo, oltre al suo ego gigantesco, era anche il comportamento che mio padre mi riservava a causa della sua presenza. Qualche giorno dopo il suo arrivo infatti la rabbia di mio padre era rimasta lì, immutata, pronto a fulminarmi ogni volta che aprivo bocca.
Una sera ero entrata nel suo studio immensamente turbata.
-          Papà, possiamo parlare?- domandai con un filo di voce, lui non mi guardò.
-          Devi dirmi altre bugie?- domandò lui con la voce carica di risentimento.
-          Bugie? Che bugie ti ho detto?- domandai pronta a scoppiare a piangere.
-          Nella tua stanza c’è un uomo di 35 anni Laura, non un ragazzino bisognoso d’aiuto! Un uomo! Un uomo che per quanto vedo è un drogato che potrebbe svegliarsi la notte e sgozzarci tutti, che potrebbe farti chissà cosa, un uomo che io non avrei mai permesso entrasse in casa mia se tu fossi stata onesta con me!- mi aveva gridato contro tutta la sua preoccupazione di padre ed io, annichilita, non avevo avuto il coraggio di rispondere nulla.
-          Mi dispiace papà, non credevo fosse importante.- sussurrai piano.
-          Stai zitta.- mi rispose con un gesto della mano facendomi segno di uscire.- ti sei giocata la mia fiducia Laura, ne riparliamo dopo gli esami.- rispose burbero tornando al suo lavoro.
 
 
Come ogni mattina quello stupido attore si fermò davanti al cancello d’ingresso imitando quei genitori apprensivi dei ragazzini del primo anno che devono accertarsi che i loro pargoli arrivassero sani e salvi fino all’ingresso appena due metri più avanti. Sapevo che a lui poco importava della  mia incolumità fisica e tutto ciò che gli interessava era mostrare il suo “meraviglioso” bolide che troppi gli invidiavano. Anche il mio professore di Greco. Mi chiedevo se ci fosse un modo per svegliare nei ragazzi quella parte di cervello che evidentemente era rimasta atrofizzata alla puerile età di 4 anni.
Anche quel giorno, come due settimane prima, scesi dall’auto, ritrovandomi circondata da sguardi curiosi di ragazzini e docenti che cercavano ancora di capire chi ci fosse alla guida di quel veicolo. Grazie a dio per lo meno aveva avuto la brillante idea di capire di dover rimanere in macchina perché altrimenti oltre ai maschi che sbavavano sopra la sua auto ci sarebbero state anche uno stuolo di ragazzine adoranti ed il suo ego e la mia psiche non ne avevano proprio alcun bisogno.
Arrivata in classe le mie amiche mi salutarono abbastanza freddamente lasciandomi tra le grinfie di Danilo che adesso, attirato anche dal fascino dell’auto su cui arrivavo, sembrava essersi fatto ogni giorno più insistente. Mi abbracciava, mi baciava, mi aveva rubato anche involontariamente qualche bacio sulle labbra davanti al mio professore che adesso non faceva altro che ricordarmi quanto potessimo essere carini insieme facendo le nostre sconcerie fuori da un aula scolastica.
Oh dio.
Durante le sei ore di lezione come sempre mi lasciai prendere dai ricordi.
Non avevo più sentito Maria ma ogni sera, come se fosse il mio personale diario, le scrivevo una mail per raccontarle la giornata. Mi soffermavo soprattutto su suo fratello anche se non sapevo molto. L’ultima praticamente altro non era che uno sfogo sul perché fosse così misantropo.
Dopo aver infatti litigato con Caro ed essersi guadagnato il suo odio, aveva conosciuto, durante un normalissimo venerdì sera con gli amici, l’intero gruppetto di amiche. La mia ex migliore amica, Josephine e Ale. Quest’ultima era stata la sua vittima designata.
Già a inizio serata, dopo averle semplicemente stretto la mano, aveva deciso, a pelle, che l’avrebbe odiata. Lo capivo della sua espressione. Nella mia idiozia infatti ogni momento passato insieme, anche mentre litigavamo furiosamente per un nonnulla (l’ultima volta oggetto della nostra disputa era stato un cecio caduto dal MIO piatto e finito in mezzo tra i nostri di cui lui rivendicava il possesso), lo passavo a studiare le sue espressioni distinguendo la vera rabbia dallo sfottò ironico. Quando aveva stretto la mano ad Ale l’aveva subito odiata.
Sfortunatamente neanche lei è esattamente il tipo di persona più adorabile del mondo. Tendeva ogni qual volta ne avesse l’occasione a parlare di se stessa, interrompeva spesso gli altri per parlare di se e non faceva che vantarsi dei suoi grandi successi nello studio e nello sport. Quel giorno poi era particolarmente frustrante anche per noi che la conoscevamo bene e che eravamo abituati a tutto ciò. Tirata a lustro come se stesse andando ad un gran galà mi aveva fatto venire il dubbio che lo avesse fatto per il mio ospite. Anche la serie di moine che si era premurata di fargli tutta la sera mi avevano fatto pensare alla prospettiva. Mi dispiaceva quasi un po’ che lui non ricambiasse il suo “desiderio di fare amicizia”.
La goccia che aveva fatto traboccare il vaso però era stata data dall’egocentrismo della mia amica. Josephine, l’unica che sembrava invece fare quasi simpatia al vecchiaccio rompipalle, gli aveva chiesto di raccontare qualche aneddoto sul suo lavoro. Mentre raccontava Alyssia aveva avuto la brillante idea di infilarsi nel discorso, con poco successo, continuando a parlare del “dietro le quinte” dei suoi noiosi e stupidi saggi di danza. Jonathan ad un certo punto si era voltato verso di lei, l’aveva guardata, e aveva sbottato stanco:
-          Mi dai un premio se fingo che la cosa m'interessi?!- per una volta avrei voluto dargli il cinque.
L’aria di sufficienza con cui la guardava la spinse a rimanere in silenzio per il resto della serata.
Sfortunatamente non doveva esserle sfuggita la mia espressione compiaciuta di approvazione perché non mi parlava molto da allora.
Ritornai nel tempo presente quando suonò la prima campanella.
Facendo un rapido calcolo comunque si era di fatto inimicato due delle mie cinque migliori amiche.
Quattro escludendo la mia ex migliore amica.
 
Quando uscì da scuola la macchina era lì, pigra e pulitissima, ad attendermi. Mi lanciai subito dentro salutandolo con uno svogliato – ciao.- che si sarebbe fatto bastare.
-          Senti, tua madre mi ha detto che è in campagna da sua sorella, mi ha chiesto di chiederti se andiamo lì o se mangiamo a casa e li raggiungiamo dopo, chiamale, e dille che questa è l’ultima volta che faccio da centralino.- sbuffò scocciato. Io presi il telefonino dallo zaino e composi il numero.
-          Anche la prima se vogliamo essere sinceri.- mugugnai portandomi il telefono all’orecchio.
-          Ti sbagli, l’altro ieri tu mi hai detto di chiamarle per dirle che non tornavi a casa.- mi rispose tamburellando nervosamente con le dita contro lo sterzo guardando fuori.
-          Ma tu non l’hai fatto e lei si è incazzata con me.- alzai gli occhi al cielo irritata. Ricordavo fin troppo bene quel giorno. Avevo trovato il telefono di mia madre spento ed era stata un’emergenza. Dovevo ricordarmi che lui non era affidabile.
-          Io non sono il tuo centralino.- ripeté scandendo bene ogni sillaba.
-          Hai ragione in quel caso serviresti a qualcosa. Attento a non renderti utile mi raccomando.- gli feci il verso riprendendo un passato litigio, dal quale ero uscita vittoriosa, in cui si discuteva dell’utilità del suo lavoro nel mondo. Resosi conto di ciò alla fine mi ha convinto del fatto che facesse anche lui delle cose utili nella sua vita. Cose che in realtà non esistevano.
-          In questo momento farti da taxy mi rende utile.- tenne a farmi notare sodisfatto di se stesso.
-          Pronto?- rispose allo stesso tempo mia madre.
-          Mamy, sono appena uscita, senti, io direi che torniamo a casa, poso la cartella, mi cambio così mi metto in tuta e veniamo ok?- le proposi. – cucino un po’ di pasta con la salsa.- la informai prima di lasciarla rispondere.
-          Va bene, salite verso che ora?-
-          Quattro più o meno. Dopo pranzo.- conclusi. Ci salutammo e, tempo della breve telefonata con mia madre eravamo già arrivati a casa.
 
Per la prima volta ci ritrovammo in casa, consapevoli di dovere, volenti o nolenti, condividere la stessa stanza. Posai la cartella su una sedia, mi tolsi il maglione e presi subito l’acqua per la pasta. Lui era ancora in cucina e mi osservava. Non mi ero mai sentita nervosa ai fornelli, anzi. Di solito cucinare mi rilassava dopo troppe ore di studio. Si era seduto svogliatamente sul divano mentre io prendevo dalla dispensa una bottiglia di passata e la versavo in padella con un po’ d’acqua, poi mi voltai verso di lui e lo guardai con un sopracciglio alzato.
-          Hai intenzione di rimanere lì a fissarmi?- gli domandai dopo un po’. Non aveva smesso di guardarmi ma non accennava a dire nulla né, tanto meno, ad alzarsi per darmi una mano.
-          Sì, perché no?- mi domandò lui di rimando con un sorrisetto sul viso. Che faccia da schiaffi che aveva ogni tanto.
-          Perché potresti dare una mano.- gli feci notare prendendo un cucchiaio di legno dal cassetto e mescolando la salsa che cominciava a cuocere. Coprì la padella col suo coperchio e lo sentì ridere.
-          Ma qui in Sicilia non funziona che la donna cucina e serve l’uomo?- mi prese in giro mettendosi ancora più comodo sul divano.
-          Sì, certo.- acconsentì io con una faccia seria prima di sorridere divertita della sua espressione incuriosita. -Nell’ottocento.- precisai prima di uscire la tovaglia dal cassetto e tirargliela. -Adesso alzati e apparecchia.-
-          Non mi va.- mugugnò irritato lanciandomela addosso.
-          Non fare i capricci, muoviti.- gli ordinai poggiandola sul tavolo e “buttando” la pasta nell’acqua che ormai era giunta ad ebollizione.
-          Guarda che da questa angolazione sei molto più sexy…- mi stuzzicò con quella sua incredibile voce sexy. Quella da film o da scena di seduzione.
Dovevo tenere la calma.
Che figura ci avrei fatto se mi fossi sciolta come un cioccolatino al sole?
-          Non mi farai venire voglia di non averti attorno O’Keeffe, non finchè sarai l’unico a potermi dare una mano.- rimbeccai trovando una voce più ferma e convinta di quanto non avessi mai creduto di poter avere.
Ero fierissima di me.
Lo sentì sbuffare e mi voltai verso di lui mentre si alzava pigramente dal divano, si stiracchiava con assoluta calma sollevando le braccia e scoprendo leggermente i muscoli perfetti del basso ventre. Alcune volte, alcuni gesti, lo rendevano così “umano” e al tempo stesso così seducente che avrei desiderato da morire abbracciarlo, toccarlo e… la maglietta era ritornata al suo posto coprendogli gli addominali e adesso, con un’espressione che era un misto tra divertimento e qualcos’altro, mi fissava con quei suoi occhi di ghiaccio che potevano sembrare spaventosi alcune volte. Quel giorno non lo erano, erano caldi quasi nella loro freddezza.
Mi ero bloccata con il cucchiaio di legno in mano, leggermente sporco di salsa che gocciolava sul pavimento.
-          Che stai facendo?-
-          Eh?- domandai stranita tornando alla realtà. Sbattei ripetutamente le palpebre e mi guardai attorno smarrita.
-          Ho tutto questo fascino?- mi prese in giro avvicinandosi.
-          Il tuo egocentrismo alcune volte mi prende impreparata. Eppure dovrei averci fatto l’abitudine.- risposi cercando di darmi un tono quando però era ormai evidente che mi avesse colta in fallo a sbavagli dietro.
-          Oh non preoccuparti, abbiamo mesi per farti abituare…Lorie.- mi rispose lui sempre più vicino, sapevo che era quasi dietro di me, eppure quel nome mi fece voltare di scatto reggendo il cucchiaio come un’arma.
-          Lorie?- lo rimproverai con rabbia. Aveva dimenticato il mio nome? Sul serio? Dopo un mese che vivevamo sotto lo stesso tetto.
-          Che c’è, vuoi che continui a chiamarti rompipalle? Mi spiace non mi diverte più.- mi guardò stranito come se fossi impazzita e poi sorrise divertito prendendomi in giro con lo sguardo.
-          E che sarebbe Lorie?- incalzai io un po’ più calma. Cosa avevo fatto di buono per meritarmi un nome “normale”?
-          Un soprannome?- domandò lui come se la cosa fosse normale e lo dovesse spiegare a una deficiente. Io storsi il naso.
-          E da dove è uscito?- chiesi ormai tanto per intestardirmi sull’argomento. Anche se avrei preferito che mi chiamasse col mio nome.
-          Lora, Lorie.- spiegò semplicemente facendo spallucce e sistemando la tovaglia sul tavolo.
-          Ti ho detto che il mio nome si pronuncia Laura, non Lora!- gli spiegai per l’ennesima volta guardandolo mentre sembrava così... a suo agio. Prese le posate nel cassetto e i piatti mentre scolavo la pasta.
-          Oh e che palle! Laura…suona male detto con il mio accento.- precisò dopo aver provato un paio di volte, e dopo quest’affermazione continuava a ripetere –Laura- cercando di pronunciarlo bene.
-          Impara allora.- gli suggerì unendo la pasta alla salsa che c’era in padella.
-          Lorie mi sembra più che sufficiente e se non ti piace te lo farai piacere.- prese l’acqua dal frigo, mise i piatti pieni sul tavolo e mi scostò la sedia per farmi accomodare. Lo guardai attentamente e poi sbuffai per finta alzando gli occhi al cielo e facendogli il verso.
-          Oh e che palle!- conclusi io sedendomi a tavola. Lui scoppiò a ridere e si accomodò al posto di mio padre mentre io avevo preso quello di mia madre.
Non metterti a fare pensieri scemi che non hai più dodici anni. Mi invitò la parte matura di me.
Lui fissò la pasta attentamente e prese la forchetta avvolgendoci gli spaghetti.
-          Se dovessi morire voglio essere cremato.- mi pregò con una faccia da condannato a morte.
-          Occulterò il tuo cadavere e lo getterò nella spazzatura.- gli risposi con una punta di acidità.
Lui tornò sulla pasta, alzò la forchetta, lo sentì mormorare una preghiera e la assaggiò. La masticò talmente lentamente che mi accorsi di trattenere il fiato solo quando sentì di aver bisogno di respirare, alla fine deglutì e mi guardo con espressione seria.
-          Fanno schifo ma poteva andare peggio.- concluse.
Schifo?
Detto da uno che non era neanche italiano era un vero e proprio insulto. L’assaggiai velocemente. Mi ero dimenticata il sale però non era cattiva. Era al dente e la salsa era buona. Lo guardai male e lui sorrise angelico.
-          La prossima volta cucinerai tu allora.- gli proposi mostrandogli la lingua.
-          Affare fatto, ti farò assaggiare delle prelibatezze che non potrai dimenticare mai più, sweetie.- mi rispose lui facendomi l’occhiolino.
Mangiammo in silenzio, poi mi alzai, sparecchiai e presi due cioccolatini che poggiai sul tavolo.
-          Non hai potuto mettere il cianuro nella pasta e lo hai messo qui?- mi domandò lui guardando il cioccolatino diffidente.
-          No, perché rischierei di morire anche io.- mormorai prendendo in mano i due cioccolatini. – facciamo un gioco.- proposi con un sorriso. – allora, ho due cioccolatini no?- lui alzò un sopracciglio come a prendermi in giro. – gioca!- lo rimproverai.
-          Sì, hai due cioccolatini.- mi rispose come se fossi scema.
-          Sono entrambi di due gusti diversi, uno è nella mia mano destra e uno nella sinistra quale scegli?- gli domandai soddisfatta che stesse collaborando.
-          Quello meno sciolto.- mi rispose ridacchiando.
-          Cretino! Dai rispondi.- lo incitai mettendogli le mani sotto il naso.
Toccò la mia mano sinistra e l’aprii mostrandogli il cioccolatino che gli spettava, lo prese e lo guardò. La carta era verde mentre la mia era blu. Io ero più fiduciosa di lui, aprì la confezione e lo mangiai. Lui mi guardò aspettando qualcosa.
-          Che c’è?- gli chiesi con la bocca piena.
-          Com’era?- mi domandò circospetto.
-          Al cioccolato, secondo te com’era?- risi – forza dai mangialo!-lo incoraggiai. Lui aprì la scatolina e diede un morso al cioccolatino, lo masticò e fece una smorfia disgustata.
-          Che c’è?- gli chiesi di nuovo.
-          È alla menta.- si lamentò come un bambino. Io scoppiai a ridere facendo sciogliere sul palato il mio cioccolatino al latte.
-          Capita che non sia granchè.- gli risposi dandogli una pacca sulla spalla. – hai scelto tu tra l’altro.- gli ricordai ridacchiando.
-          Non è giusto, adesso ne voglio uno buono anche io.- si lamentò.
-          Non puoi, è uno solo a pranzo.- gli risposi facendo spallucce.
-          Ah sì? va bene, rimediamo subito.- si alzò da tavola spostando la sedia facendola strisciare per terra, si accostò alla mia sedia spostandola in modo che gli stessi di fronte e si abbassò su di me afferrandomi il mento con una mano e costringendomi a sollevarlo verso di lui.
Non ero sicura di essere pienamente me stessa eppure, quando sentì la sua bocca sulla mia ero perfettamente in grado di dire dove mi trovavo. in paradiso.
Topos letterario di qualsiasi sognatrice romantica.
Sentì le sue labbra caldissime e morbide forzare leggermente le mie che erano rimaste immobili, sentì il suo fiato in bocca e, dopo anni in cui mi ero sempre domandata che sapore avesse Jonathan Meyers, adesso lo sapevo, sapeva di cioccolato e menta.
Sorrisi leggermente e sentì la sua mano stringersi sulla mia guancia e la sua lingua sfiorarmi il palato.
Quando si allontanò sorrideva vittorioso.
-          Il tuo cioccolatino era più buono del mio.- mi fece notare prima di uscire dalla cucina.
Ero rimasta ad occhi sbarrati, le braccia inerti contro  fianchi e le labbra socchiuse. Mi aveva appena baciata? Davvero?
Mi passai la lingua sul palato e il mio cioccolatino non c’era più.
 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Io sono cattolico, però andare a messa, secondo me, è una perdita di tempo. ***


Image and video hosting by TinyPic


-          Quindi in poche parole questo è il nostro piano a lungo termine, abbiamo contattato voi perché ci sembrava la scelta più adatta visto il vostro…possiamo chiamarlo background?- domandò l’uomo in giacca e cravatta che mi guardava con assoluta calma e con una faccia da schiaffi che avevo odiato dal primo momento in cui avevo messo piede in quella stanza.
Sembrava fiducioso.
Alla scrivania in mogano in fondo alla stanza ben arredata di quel vecchio palazzo della piccola città italiana in cui ero finito era seduto un uomo più ansiano ma con una faccia ben più rassicurante del novellino che mi trovavo di fronte. Incontri di lavoro. Così li aveva chiamati Paul, mio fratello. Dopo aver licenziato ufficiosamente Paul avevo avuto un certo bisogno di cominciare a guardarmi in giro. Sei mesi e finalmente quel coglione sarebbe stato fuori  dalla mia vita. Adesso  tutto stava nel non trovare un nuovo coglione. Non ero sicuro di poter resistere. Mi sistemai meglio sulla poltrona dove mi avevano fatto accomodare giocherellando con un braccialetto dimenticato sulla mia auto. Lo guardai attentamente come se mi aspettassi che aggiungesse altro e quando non lo fece sbuffai infastidito.
-          Io onestamente non ho capito in che modo il vostro piano possa essere coerente con il mio profitto.- conclusi semplicemente potandomi il ciondolo davanti agli occhi dietro potevo vedere distintamente la faccia del mio interlocutore farsi scura, poi sbiancò e cominciò a balbettare come un deficiente.
-          Beh signore, noi siamo convinti che la strada perseguita fin ora non sia del tutto errata ma…-
-          Nessun ma. Se mi fosse andato bene non avrei bisogno di voi adesso. Cristo santo perché sono preso talmente sottogamba che mi vengono mandati coglioni come te?- mormorai dopo averlo interrotto bruscamente. Era sempre più a disagio.
Cercò di dire qualcosa ma tutto ciò che riuscì ad ottenere fu che mi indisponessi di più. Guardai svogliatamente l’orologio. Le dodici e mezza. Ancora una mezz’oretta e poi lo avrei mandato a fare in culo senza tanti problemi. Tra l’altro avevo la mente troppo lontana da lì in quel momento e la mancanza di interessanti argomenti di conversazione non aiutava affatto.
Mi alzai dalla sedia prima di quanto pensassi, mi feci scivolare la mano con il gioiello nella tasca dei jeans e gli sorrisi sfacciato.
-          Senti, non mi interessa ciò che mi “vendi”. Saresti scadente anche come venditore porta a porta figurati se riusciresti a procurarmi un buon contratto di lavoro.- gli diedi una pacca sulla spalla. – lavoraci su ok?- gli consigliai aprendo la porta.
-          Kevin, per favore, lascia da soli me ed il signor Meyers.- la voce del vecchio, ben più profonda, seria ed impostata di quanto credessi, mi spinse a voltarmi.
La scena fu quasi commovente. Il ragazzino, quasi in lacrime, aveva ripreso le sue cose ed era pronto ad uscire di scena, testa basta, un saluto appena accennato a mezze labbra. Io lo guardai con aria di superiorità, ne ero consapevole, mentre lasciava la stanza. Il vecchio si era intanto alzato dal suo posto e si era avvicinato ad un tavolo con delle bottiglie di vetro.
-          Si accomodi signor Meyers, la prego.- mi invitò cordiale ma risoluto. Io alzai un sopracciglio e non mi mossi, non avevo tempo da perdere. – le ruberò solo altri dieci minuti.- mi rassicurò porgendomi un bicchiere adesso riempito.
Mi avvicinai lentamente senza lasciare per un attimo il suo sguardo e presi il bicchiere dalle sue mani poggiandolo sulla scrivania. Lui guardò il bicchiere e poi di nuovo me.
-          Preferisco essere pienamente in me quando concludo trattative importanti.- spiegai tranquillamente.
-          Sono felice che prenda la cosa sul serio.- concluse lui sbottonandosi la giacca e andando a sedersi di nuovo al suo posto. – si accomodi.- mi invitò cortese.
Mi sedetti svogliatamente sapendo che sarebbe stata una perdita di tempo. Sapevo che di sicuro le idee di Kevin venivano in realtà dall’alto.
-          Ho capito perfettamente le sue richieste. Capisco il suo desiderio di darsi ad un cinema più…possiamo chiamarlo serio? Ci arriveremo. Purtroppo lei è stato troppo vicino all’obiettivo giocandosi tutto con il suo sconsiderato comportamento e adesso è tutto da ricostruire se non di più.- mi fece notare con falso rammarico nella voce. – dia del suo meglio in questo nuovo progetto televisivo ma non firmi per troppe stagioni. Non siamo tutti l’Aniston. Le troverò qualcosa al più presto.-
-          Non mi metterò nelle vostre mani solo per una promessa e delle belle parole.- gli feci notare incrociando le braccia al petto.
-          Le sto offrendo un servizio gratuito e una prova della mia serietà. Le farò avere al più presto mie notizie per un futuro contratto di lavoro come da lei richiesto e allora…l’accoglieremo a braccia aperte.- concluse prima di alzarsi e porgermi la mano.
-          Sarò io a farmi sentire, signor Hennington.- conclusi io.
Guardai riluttante la sua mano per un attimo. Era tutto tremendamente conveniente così. Talmente tanto che non riuscivo davvero a credere che potesse essere tutto vero. Mi alzai a mia volta e, benché riluttante, gli strinsi la mano. Avevo ancora quel tremendo difetto che mi spingeva a fidarmi delle persone.
 
Quando uscì da lì mi sentì…sollevato. Il giorno seguente sarebbe stata Pasqua ed era la prima volta che trascorrevo le vacanze lontano dai miei familiari, in esilio. Non avevo neanche la più pallida idea di quali sarebbero state adesso le vacanze per me. Laura aveva smesso di parlarmi come faceva di solito, il giorno seguente a quel bacio mi era sembrata sospettosa e all’erta e l’idea che adesso fosse in vacanza l’agitava, troppo tempo da passare con me supponevo. Così, dopo aver chiamato la sua amica grassa dell’aeroporto, si era praticamente trasferita a casa loro. Non la vedevo da cinque giorni e l’aria a casa era parecchio pensate con suo padre che non faceva che lanciarmi occhiate di fuoco. In ogni caso ammettere che la mia aguzzina mi mancasse non era una buona idea quindi affrontai il momento a modo mio. Cercai un buon bar. Quella città, sprovvista praticamente di ogni servizio, ero invece fin troppo fornita di pub super affollati e trovarne uno non fu affatto difficile, si trovava in quello che una volta Lorie aveva definito il “centro storico” della città, nonché l’unico posto in cui ci fosse un minimo di vita dopo le otto di sera. Ero seduto al bar, avevo incontrato una ragazza carina, aveva dei bei capelli castani che le arrivavano quasi in vita e un pesante trucco nero che le cerchiava gli occhi chiari. Peccato. Non ero un amante degli occhi chiari ma il suo aspetto mediterraneo comunque copriva un po’ quel suo “difetto”. Inoltre, onestamente, non avevo nessuna intenzione di rimanere a guardarla negli occhi tutta la sera.
-          Sai giurerei di averti già visto da qualche parte ma in questo momento proprio non riesco a focalizzare la tua faccia.- mi stava dicendo dopo l’ennesimo bicchiere. Non ero sicuro che fosse davvero ubriaca, quello che le avevo visto ordinare era un semplice gin tonic.
-          Ho una faccia comune.- fu la mia semplice risposta.
Fortunatamente quella ragazza era troppo occupata a sembrare una gatta morta per continuare l’argomento, avevo la sua mano sui miei jeans, vicinissima al cavallo dei pantaloni e giocherellava con le dita. Era abbastanza sensuale se non si considerava la sua volgarità.
-          Senti, c’è piuttosto caldo, che ne diresti se…- si era avvicinata ancora, sentivo il suo alito sul collo e, prima che potesse baciarmi, lei stessa si alzò dalla sedia prendendomi una mano e tirandomi per farmi alzare.
La segui fuori dal locale tra le piccole viuzze dell’isolotto. Girò l’angolo e mi spinse contro il muro saltandomi praticamente addosso. Non era affatto male l’iniziativa nelle donne, non era ciò che preferivo ma poteva andare per una volta.
Le afferrai le cosce tra le mani mentre le sue di mani cominciarono a sbottonarmi i pantaloni e si insinuarono dentro. In quel momento, mentre avevo praticamente la sua lingua in bocca e le sue mani dentro le mutande, squillò il telefono. Sempre qualcuno che rompeva le palle nella mia vita.
-          Vaffanculo!- mormorai sulla sua bocca lasciandola scendere a terra e prendendo il telefono dalla tasca dopo essermi ricomposto.
-          Pronto?- risposi arrabbiato contro il telefono mentre facevo segno alla ragazza di aspettare un attimo.
-          Jonathan dove sei?- la voce dall’altra parte del telefono sembrava quasi più arrabbiata della mia eppure mi fece ridere.
-          Oh, senti un po’ chi si  fa sentire, allora sei viva!- la presi in giro con un po’ di acidità. Avevo ancora il braccialetto perduto nella tasca. Lo aveva cercato come una disperata, mi aveva anche mandato un milione di messaggi per chiedermi se l’avessi ritrovato. No, mia cara, continua a cercare.
-          Sì, io lo sono, tu non lo sarai domani se tra dieci minuti non sei all’appuntamento.- mi rispose sempre più arrabbiata. Eravamo arrivati a quella confidenza forse? Come si permetteva? Ma di che stava parlando poi? Sbuffai scocciato.
-          Senti, ho da fare, non posso perdere il mio tempo dietro i tuoi…-
-          Jonathan! Me lo avevi promesso, ti prego!- mi interruppe con quella voce acuta da bambina che mi faceva venire i nervi ma a cui non riuscivo proprio a dire di no.
Rimasi in silenzio per un attimo guardando la ragazza davanti a me che si stava indisponendo, le braccia strette al petto e le labbra chiuse in una linea. Davvero volevo passare la notte con lei? No. avevo voglia di litigare un po’ forse…
-          Dammi 5 minuti, sono già qui.- risposi alla fine chiudendo il telefono. Guardai lo schermo per un attimo e mi nacque una smorfia sul viso che fece indisporre da morire la mia compagna.
-          Che cosa?- mi chiese arrabbiata.
-          Mi spiace, avevo un appuntamento e l’ho dimenticato.- risposi semplicemente sistemandomi e rimettendo il telefono in tasca.
-          La tua fidanzata non sarà felice di vedermi.- mi minacciò lei con sguardo serio.
Mi voltai indifferente uscendo dalla piccola stradina in cui mi aveva portato cercando la strada principale che mi avrebbe portato all’appuntamento.
-          Non le importa niente, siamo in una relazione aperta.- scherzai prima di lasciarla lì definitivamente.
 
 
Quando arrivai mi ritrovai davanti un gruppo di sei ragazze tre delle quali con quell’orrenda uniforme che avevo visto già quando un gruppo di piccoli indiani aveva invaso casa mia. una di loro, la saputella saccente che ero riuscito a mettere a tacere dopo il suo tremendo tentativo di seduzione, portava un fazzolettone al collo diverso da Laura e dalla sua amica, quella che a differenza dell’altra, non parlava quasi mai.
-          Ciao.- salutai avvicinandomi lanciando un’occhiata alla mia rompipalle personale, un’occhiata che ricambiò.
-          Ciao.- rispose semplicemente prima che anche le altre mi salutassero, più o meno felici di vedermi.
Sorrisi apertamente alla ragazzina americana che aveva conquistato la mia simpatia qualche tempo prima e, mentre ci incamminammo verso chissà quale squallido buco, rimasi accanto a lei.
-          Allora bell’attore, come va la vita?- mi domandò lei allegra.
-          Andrebbe molto meglio senza quella rompipalle della tua migliore amica che mi stressa la vita.- le risposi contraccambiando la sua allegria con un sorriso.
-          Oh il suo spirito da crocerossina non potrebbe mai lasciarti perdere proprio ora, anche se tu non fossi il suo sogno erotico da quando ha 12 anni.- mi rispose lei in un attimo di sincerità.
L’attimo dopo si rese conto della clamorosa gaffe. Sgranò gli occhi e sbiancò, guardando preoccupata la sua amica che, davanti al gruppo, era poggiata ad un portone marrone a cui erano ferme anche la cicciona e la sua amichetta col nome storpiato. Un angolo delle mie labbra si sollevò quasi immediatamente in un mezzo sorriso.
-          Senti io…non avrei proprio…-
-          Non fa nulla, non ho sentito niente.- le risposi immediatamente interrompendo il suo balbettio imbarazzato.
Anche se non avessi capito da solo il fatto che, ora come ora, era sicuramente attratta da me, adesso avevo le prove evidenti che quando ci eravamo conosciuti lei mi conosceva già, ed era già attratta da me. quel bacio non le era affatto dispiaciuto come voleva dare a vedere.
No, conclusione sbagliata.
Quel dettaglio rendeva sicuramente il mio obiettivo molto più facile da raggiungere di prima.
Obiettivo.
C’era ancora un obiettivo?
-          Un giorno magari mi servirà sapere cosa sognava.- risposi semplicemente vago sperando che lei capisse.
Capì.
Un sorriso enorme le illuminò il viso, si morse il labbro per non correre dalla sua amichetta a dirglielo e guardò dritto davanti a se con un’espressione concentrata oltre il normale.
Oh il mondo adolescenziale, così tenero e prevedibile.
Arrivammo davanti una piccola chiesa, stretta in una piccola stradina che la rendeva meravigliosamente pittoresca. Non avrei mai voluto ammettere quanto fosse incredibilmente bello e fortunatamente la presenza di un gruppetto a me noto mi aiutò a rivalutare la mia prima impressione.
-          Lauraaa!!- sentì gridare dall’alto degli scalini. Il ragazzo in carne che suonava la chitarra a casa mia sventolò la mano in segno di saluto mentre quello effeminato le correva incontro ad abbracciarla.
Le ragazze si unirono subito al gruppo e qualcuno più coraggioso salutò anche me. la ragazza alta con i capelli chiari che sembrava un telefilm si avvicinò e mi sorrise.
-          Ciao Jonathan, allora, come stai?- mi domandò gentile.
-          Mi stai domandando se mi drogo ancora?- le chiesi io evitando di sembrare troppo duro condendo il tutto con un sorriso gentile.
-          Sì, anche.- rispose prontamente lei ridendo.
-          No, non ho trovato nessuno che mi vendesse roba buona qui.- aggiunsi allora io tranquillamente.
Piero, quell’altro ragazzino che faceva i turni con la rompipalle, mi diede un’amichevole pacca sulla spalla e mi sorrise. Alzai un sopracciglio cercando di spiegarmi quell’atteggiamento. Eravamo amici forse? Gli avevo fatto credere che fosse così?
-          Come va?- mi domandò di nuovo quell’altro ragazzino. Oh dio, sarebbe stata davvero una lunga nottata.
Laura si avvicinò di corsa e trascinò via Piero mormorando delle scuse ed entrarono in chiesa. La ragazzina telefilm alzò gli occhi al cielo e sbuffò.
-          Piero è una di quelle persone che ti fanno credere che sia sbagliato punire penalmente l’omicidio.- mormorò prima di sorridermi di nuovo e farmi segno di seguirla dentro.
Entrammo in chiesa lentamente ben lontani dal mantenere quel rigoroso silenzio che le luci spente e gli ornamenti viola avrebbero dovuto suggerire e cominciammo a prendere posto. Laura, Piero e il ragazzo in carne, Mario, erano già seduti e stavano accordando le chitarre, mi avvicinai a loro lentamente con le mani in tasca e li guardai.
-          È scordata.- la presi in giro sedendomi al suo fianco mentre, abbassata sullo strumento, cercava di trovare la nota.
-          Lo sento che è sco…- stava cominciando a dire quando, forse, le venne in mente quella situazione analoga che avevamo già vissuto. La sua risatina smorzata me lo confermò.
La messa iniziò qualche minuto dopo, posarono le chitarre contro il muro pronti a riprenderle al momento opportuno. Non andavo a messa dal…funerale di mia madre nel 2008. Era in qualche modo triste ritornarci adesso. E anche stancante. La messa di Pasqua era in assoluto la più tremenda e la messa di Pasqua, in italiano, non era lontana dal rappresentare il mio inferno personale.
Dopo neanche la prima lettura cominciavo a sentirmi stanco, facevo fatica a tenere gli occhi aperti e incrociai le braccia al petto per evitare di sporgermi troppo in avanti. Evidentemente a qualcuno importava molto meno che a me farsi vedere disinteressata. Ad un tratto infatti, quando ero ormai vicino a prendere sonno, sentì un colpo al braccio sinistro. Alzai la testa di scatto e la voltai verso di lei che era crollata addormentata contro di me. la scrollai malamente costringendola a svegliarsi.
-          Ehi tu, non hai nessunissimo diritto di addormentarti! È una tua idea se siamo tutti qui!- le ricordai prendendole il mento tra le mani con le dita fredde. Strabuzzo gli occhi e mi fissò assonnata.
-          Cosa?- domandò con un filo di voce.
-          Non dormire, io dovrei dormire, non tu.- ripetei sibilante guardandola negli occhi che nonostante tutto stavano per chiudersi di nuovo.
-          Oh ti prego, fammi le coccole!- la sentì mormore piano mentre si buttava di nuovo contro il mio fianco e mi abbracciava come poteva nascondendosi sotto il mio giubbotto aperto.
-          Scordatelo.- mugugnai come un vecchio bisbetico incrociando le braccia al petto a mia volta. Mi addormentai dopo cinque minuti.
 
Un’ora esatta dopo il suono della campana, le luci che si accendevano e le chitarre contro il mio orecchio cospirarono per svegliarmi. Mi tirai su di scatto mentre tutta la chiesa intonava a squarcia gola un canto festoso. Quando finì tutti si sedettero ma il mormorio non cessò. Tutti si baciavano e stringevano e la mia occhiata di disgusto alla ragazza di fronte a me dovette bastare per tenermi lontano da questo rituale che non capivo. Anche la traditrice accanto a me si voltò e allargò le braccia per abbracciarmi.
-          Che cosa stai facendo?- la fermai prima che potesse farlo e la linciai con lo sguardo.
-          Ti faccio gli auguri, fatti abbracciare.- mi rispose cercando di liberarsi dalla presa delle mie mani intorno ai suoi polsi per raggiungere il suo obiettivo.
-          Non provarci, facciamoci gli auguri da qui ok?- le diedi un frettoloso bacio sulla fronte e la feci voltare verso Mario che la abbracciò di slancio baciandole entrambe le guance con trasporto.
Perché dovevano sempre esagerare con le loro dimostrazioni d’affetto?
 
Finita la messa ci ritrovammo tutti in un grande atrio dietro la chiesa che era stato adibito a buffet. C’erano cornetti caldi, altri dolci, uova di pasqua e uova sode. Alle due del mattino. Le ragazze erano sparite lasciandomi in balia di Piero e il ragazzo effeminato che mi ricordò chiamarsi Andrea che non facevano altro che punzecchiarsi come due fidanzatini innamorati e Mario che mi elencava tutte le prelibatezze che avrei dovuto assaggiare. Quando il buffet fu aperto delle altre nemmeno l’ombra. Assaggiai tutto ciò che Mario mi porgeva e ad un certo punto ero fermamente convinto di poter vomitare.
-          Dico davvero sono sazio, grazie.- dissi rifiutando l’ennesimo dolce che mi stava porgendo.
-          Ehi! Siete davvero bellissime. Siete proprio una del classico voi!- mi voltai in direzione degli sguardi ammirati degli altri tre e mi ritrovai davanti le ragazze, con abiti diversi, truccate e ben pettinate.
-          Allora sei una ragazza.- mi rivolsi a Laura con le braccia incrociate al petto apprezzando silenziosamente lo spettacolo.
Non avevo mai notato che rientrasse perfettamente nei miei canoni di bellezza, era bassina, con la pelle scura dai tratti mediterranei, castana con gli occhi scuri, profondi e, truccati come in quel momento, piuttosto seducenti. Aveva perfino un bel fisico nonostante forse i chiletti di troppo. Eppure quell’aria paffuta poteva essere quasi tenera. Si reggeva sopra degli stivaletti neri alla caviglia che sembravano troppo alti per lei e da sotto il trench si vedeva l’orlo di un abitino nero lungo poco sotto il ginocchio.
-          C’è chi dice così.- mi rispose, perfettamente consapevole che quella sera era lei ad essere bellissima, lei a dover attirare l’attenzione.
Piegò le labbra rosse in un sorriso e mi lasciò lì seguendo le sue compagne per elargire auguri di qua e di là.
La serata passò relativamente tranquilla, c’erano altri ragazzi della mia età con cui mi ero soffermato a parlare. Ero talmente colpito che facessero tutti dei lavori normali come il commesso o il segretario che quando mi dissero anche di essere tutti sposati con dei figli pensai di aver raggiunto definitivamente lo stato di shock. Com’era possibile? Alcuni di loro erano anche più piccoli di me.
-          In realtà è facile.- mi rispose uno quando gli chiesi come faceva a non morire soffocato con la sua vita. – il mio lavoro è effettivamente uno schifo e ho una laurea in ingegneria che per adesso è poco più che carta straccia ma ho una moglie che amo da morire e amo tornare a casa di sera per cena e vederla quando mi sorride e dice di amarmi. E amo i miei figli, credo di amarli più di quanto io possa amare me stesso e mi ricordano che in questo mondo io non sono nulla e che nonostante ciò ho potuto fare qualcosa di meraviglioso come loro.- cercava di spiegarmi come un devoto che parla del suo Dio. – vedi, se anche fossi l’uomo più fallito del mondo sentirei lo stesso di essere il migliore per aver aiutato una donna come Valentina a mettere al mondo Chiara e Francesco.-
Lo guardai ancora per qualche minuto come se mi aspettassi di vederlo scoppiare a ridere e dirmi che mi prendeva per il culo. Avevo visto tante coppie sposate e il matrimonio per me era stato sempre qualcosa che non crea affatto un legame d’amore, anzi. E i figli. Loro erano la tomba dell’amore per eccellenza, senza remore. Nessun uomo voleva volontariamente un figlio. Eppure quello con cui stavo parlando adesso sembrava fermamente convinto di ciò che diceva.
Quando, con una Laura al fianco barcollante e malsicura sulle sue scarpe, lasciammo la festa, ero ancora perso in quei pensieri. Erano quasi le sei del mattino e stava per albeggiare. Ad un tratto lei si fermò.
-          Basta non ce la faccio più!- si lamentò come una bambina. Il rossetto dalle labbra se n’era andato e il trucco negli occhi era molto più leggero.
-          Che vuoi fare, rimani qui?- le domandai mettendo le mani in tasca e guardandola divertito.
-          Prendimi in braccio per favore.- mi pregò porgendomi le braccia. Alzai un sopracciglio come se credessi che fosse follia da parte sua credere che fosse possibile.
-          Cammina, al massimo levati le scarpe.- le suggerì indifferente continuando a camminare. Dopo un po’ mi resi conto che non mi seguiva. – allora?- le chiesi voltandomi verso di lei che non si era mossa di un passo. – guarda che sono capace di tornare a casa anche senza di te.- le feci notare indifferente.
Non rispose.
Tornai indietro lentamente verso di lei sbuffando sonoramente infastidito e la guardai attentamente negli occhi. Che cosa voleva da me quella ragazzina? Ad un tratto, sentì un rumore di flash e un mormorio che divenne sempre più acuto. Mi voltai e li vidi. Il mio incubo peggiore mi aveva trovato.
E con quello ero davvero finito all’inferno.
-          Corri!- le ordinai tirandola per un braccio.
Lei inciampò e ci mancò davvero poco che non si spezzasse una caviglia, stava per scoppiare a piangere e sembrava spaventata.
-          Oh fottiti stupida ragazzina!-
La presi in braccio prima che si sfracellasse al suolo e mi allontanai velocemente da lì nascondendomi dentro un portone aperto aspettando che se ne fossero andati, poi sospirai. Non ero pronto a vedere delle foto spiattellate in prima pagina, stavo bene in quella sorta di anonimato. Chi cazzo aveva chiamato i giornalisti? Di sicuro non erano arrivati in quel borgo dimenticato da dio e dagli uomini da soli.
-          Fanculo.- mormorai guardandola mentre, ancora scombussolata e assonnata, se ne stava seduta sui gradini dell’ingresso di quella casa massaggiandosi la caviglia scalza. Mi avvicinai a lei lentamente e mi accovacciai – fatto molto male?- le domandai cercando di essere gentile. Mi faceva un po’ pena in fin dei conti. Era solo una ragazzina e ogni tanto dovevo ricordarmelo. Lei scosse la testa.
-          Solo un po’.- rispose semplicemente. guardai la sua caviglia cercando di valutare il danno. Probabilmente era solo una distorsione ma gradì lo stesso che non mi stesse gridando in faccia dandomi la colpa per il suo incidente. Mi addolcì ancora un po’.
-          Torniamo a casa Lorie.- le offrì piano, aiutandola ad alzarsi in piedi. Traballò e arricciò il naso in una smorfia di dolore quando poggiò la caviglia a terra. – mi spiace.- sussurrai piano caricandomela in spalla.
Lei non rispose.
Le avvolsi le ginocchia con le braccia e la portai in macchina mentre, distrutta, si addormentava contro la mia schiena con le braccia legate intorno a mio collo.

 
Note Autrice:
voglio ringraziare, prima di tutto, le mie fedeli rencensitrici (credete si possa dire) senza cui probabilmente mi sarei già arresa nella stesura di questa storia :)
sono davvero felicissima ogni volta che posso leggere ciò che mi scrivete!
poi ringrazio anche chi non recensisce ma segue comunque la storia (giuro che se mi lasciate un commentino piccolo piccolo mi fareste davvero davvero felice)
poi, che altro dire, niente, volevo solo ringraziare.
p.s. io non ci ho ancora pensato ma voi come avete immaginato Laura?

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Governare una famiglia è poco meno difficile che governare un regno ***


Image and video hosting by TinyPic


Ero in quel dolcissimo momento di dormiveglia che mi rendeva la giornata migliore.
Era il momento che preferivo, quello stato di dormiveglia in cui altro non sei se non te stessa sotto la coltre morbida delle coperte, pronta ad un’altra rilassante giornata in onore del dolce far niente. Quando mi stiracchiai per valutare i danni della notte sullo scomodo letto che era diventato il mio da quando l’ospite insopportabile aveva invaso i miei spazi mi resi conto che, in realtà, stavo benissimo.
Mi sentivo riposata come mai era successo in quel mese in cui Jonathan Meyers, con il suo ingombrante ego, era entrato nella mia vita. Aprì gli occhi e mi tirai a sedere di scatto.
Non ero nel salone, nel divano letto che avevo utilizzato per tutto quel tempo. Ero nella mia stanzetta, ancora con il vestito nero della sera prima, nel mio letto, con tanto di coperte rimboccate. Oh la mamma è sempre la mamma.
Tirai fuori la mano dalle coperte e me la passai sul viso, qualcosa mi sbatte contro il naso e mi feci male. Guardai il bracciale al mio polso e quasi mi misi a gridare dalla commozione. Il mio braccialetto. Quello che mi aveva regalato lei quando ancora eravamo amiche. Sorrisi e mi alzai andando in bagno prendendo i vestiti che avevo già preparato il giorno prima.
I legins comodi ed una camicetta rosa antico. Era pasqua, meglio vestirsi comodi e poi…pancia mia fatti capanna! Mi lavai con estrema calma accarezzandomi la cute con le dita. Non mi sentivo così rilassata e ben disposta da parecchio.
Quando fui pronta andai in cucina. I miei non erano in casa.
Da bravi podisti, entrambi erano usciti molto presto per i soliti 21 kilometri pre-festività che si sarebbero protratti ulteriormente per il caffè, gli auguri e le prime torte e colombe. Preparai il caffè e, come onore alla bella giornata che era cominciata, lo portai a quell’insopportabile egocentrico nell’altra stanza.
Dopo il rinvenimento del bracciale perduto, la cui sparizione non era stata segnalata a mia madre perché perdere un oggetto da trecento euro mi sarebbe valsa una sfuriata di dimensioni titaniche, avevo il sospetto che il merito per quella bella dormita non fosse di mia madre.
Non soltanto almeno.
La porta era socchiusa. L’aprì piano e mi accostai al letto. In un attimo la stanza cominciò a profumare di caffè.
Lo posai sul tavolino e, imbarazzata dalle sue spalle nude, mi decisi a svegliarlo. Speravo vivamente che sotto almeno avesse i pantaloni del pigiama. Lo scossi piano cercando di svegliarlo e quando la sua unica risposta fu quella di girarsi dall’altra parte lo afferrai per il braccio e lo scrollai meglio.
-          Sono le dieci, alzati, tra un’ora dobbiamo essere fuori!- bonjour finesse. Mi rimproverai da sola per il mio tono di voce troppo alto e le mie maniere brusche.
Quel poverino dopo tutto aveva dovuto sopportare una notte intera in quel letto da schifo e non meritava pure la mia dose di acido di mattina presto. Sarebbe stato abbastanza intrattabile per i fatti suoi dopo una nottataccia come quella, non dovevo essere io a mettergli il carico da novanta. Quindi ci riprovai.
Mi sedetti sul letto e gli accarezzai i capelli con la mano. In realtà quella non era la mia volontà di essere gentile, era il mio inconscio. Sorrisi tra me e mi abbassai su di lui lasciandogli un bacio sul collo. Aveva un odore buonissimo, non avevo mai notato che usasse del profumo ma era ovvio per un attore. Gli diedi un altro bacio vicino all’orecchio e un braccio inatteso mi stese direttamente sul letto e mi ritrovai il suo viso vicinissimo che mi fissava con i suoi occhi di ghiaccio.
-          Che…diavolo stai facendo?- mi domandò per nulla gentile.
-          Io…- arrossì di botto e cercai di liberarmi dalla sua presa che mi teneva bloccata al letto.
-          Tu stavi cercando di fare cosa?- mi domandò indispettito. – a me sembrava un tentativo di…seduzione?- chiese come fosse schifato.
-          No!- gridai senza più voce. – no, io ho portato il caffè.- risposi semplicemente sempre più imbarazzata. – è sul tavolino.- aggiunsi cercando di liberarmi della sua presa senza troppa convinzione e senza riuscire a non guardarlo negli occhi.
Continuò a guardarmi per un momento che mi sembrò lunghissimo. Non sembrava affatto intenzionato a mollare la presa e temetti davvero per un momento, anzi sperai per un momento, che potesse baciarmi di nuovo come aveva fatto durante quel pranzo di qualche giorno prima.
Non lo fece.
Dopo un attimo si alzò dal letto e prese la tazzina dal tavolino, la bevve silenziosamente uscendo dalla stanza diretto in bagno probabilmente. Ero ancora sdraiata a letto, con il fiatone e la sua faccia ancora davanti agli occhi. Si poteva essere così belli di mattina presto? Mi rotolai sul letto e afferrai il cuscino tra le braccia. Il mio cuscino. Lo avevo da anni e quando ero più piccola lo portavo con me ovunque. Adesso aveva il suo odore. Un buonissimo odore. Sorrisi piano ancora più imbarazzata e mi alzai dal letto andando in cucina. Apparecchiai con lo sguardo basso e lo sentì alle mie spalle mentre versavo il latte nelle tazze.
Si sedette a tavola in silenzio e afferrò un biscotto portandoselo in bocca. Forse per questa volta potevo mettere da parte l’imbarazzo e ringraziarlo per la sua discrezione. Ero stata proprio una cogliona. Ogni tanto dovevo farmi venire la geniale idea di non seguire la parte adolescenziale che era in me.
Tu sei un’adolescente. Mi ricordò la molesta vocina nella mia mente.
-          Allora è questo che devo aspettarmi adesso? Sei così pazza da programmare attacchi a sorpresa a poveri ragazzi che vogliono dormire?-
Ovviamente lui non aveva tutto il buon senso che gli avevo erroneamente attribuito. Arrossi di botto e quasi mi affogai con i cereali che stavo mangiando.
-          Io…volevo solo essere gentile e portarti del caffè.- mormorai soltanto.
-          Ero già sveglio grazie alle tue urla contro il mio orecchio, la seconda parte non era necessaria…- mi fece notare nascondendo una risata nella tazza.
-          Cosa?- domandai incredula. Se tutto quello era successo lo doveva solo al fatto che credevo stesse dormendo e volevo essere gentile. Mi feci mentalmente un appunto: mai più essere gentile con Jonathan O’Keeffe.
Mai più essere gentile con Jonathan Rhys-Mayers a tuo modo.
Bevve in silenzio il suo latte e prese un altro biscotto. Fortunatamente non sembrava essere interessato a continuare quella conversazione con me. una suoneria simpatica e allegra invase la cucina. Lo vidi armeggiare sotto il tavolo e tirò fuori il suo telefono.
-          Pronto?- rispose mandando giù l’ultimo boccone. Rimase in silenzio per un attimo poi sbuffò e alzò gli occhi al cielo spazientito. Era divertente quando la sua ira non era diretta a me.
-          Oh quindi sai leggere?- domandò con fare provocatorio. Con chi stava parlando?
-          No, non l’ho ancora comprato.- dall’altra parte la voce era sempre più insistente e il ragazzo difronte a me sempre più irritato. Ad un tratto lo interruppe sbuffando. – senti Thomas, non ho tempo da perdere con te adesso quindi, con tutto il rispetto, infilati i tuoi complimenti su per il culo e non rompere i coglioni!- concluse in bellezza mettendo giù.
Decisamente divertente.
Cercai di trattenere una risata alzandomi e sparecchiando velocemente la tavola. Lui mi guardava mangiando l’ennesimo biscotto.
-          Cosa ti fa ridere?- mi domandò dopo un po’ mentre facevo la cucina.
-          Tu.- risposi semplicemente.
-          Io?- domandò di nuovo avvicinandosi e poggiandosi al piano cucina.
-          Sì, tu. Voglio dire quando sei arrabbiato e cominci a sparare a zero su tutti mi fai ridere.- aggiunsi cercando di non sbuffargli a ridere in faccia mentre mi guardava con un sopracciglio alzato.
-          Sai che sei proprio scema alcune volte?- mi chiese per nulla gentile. Questa volta fu più forte di me. scoppiai a ridere piegandomi in due per tenermi la pancia e poggiai la fronte sullo sportello del lavello. – fanculo va, sei più cogliona di Thomas tu!- concluse lui andando a sedersi sul divano.
Cercai di ricompormi mentre sistemavo le ultime cose e prendevo la scopa sul balcone.
-          Chi è Thomas?- domandai mentre lui era intento a giocare col suo telefono.
-          Il mio manager.- rispose semplicemente.
-          E che voleva?- gli chiesi di nuovo tanto per fare conversazione.
-          Complimentarsi.- rispose enigmatico continuando a prestare più attenzione al suo telefono che a me.
-          Perché?- incalzai io.
-          Senti, ma che vuoi? Sembri una di quelle giornaliste in cerca di scoop.- mi fece notare irritato.
-          No, sono quella che ti ha preparato la colazione e che sta riordinando senza che tu le abbia domandato se avesse bisogno d’aiuto e sarebbe davvero felice di fare quattro chiacchere per non sentirsi troppo cenerentola.- gli risposi piccata posando il mio attrezzo da lavoro.
-          Cenerentola era una principessa bellissima, dolce e simpatica…- borbottò lui a mezza voce. – non potresti assomigliarle nemmeno volendo.- mi punzecchio cattivo.
-          Fottiti O’Keeffe.-
 
Alla fine eravamo riusciti ad uscire di casa. Mia madre mi aveva chiamata per avvisarmi di cominciare a fare strada e di passare a prendere la torta che aveva ordinato giorni prima nella mia pasticceria preferita e mi ero dimostrata più che felice di farle il favore che mi chiedeva. Presi una banconota dalla mensola e indossai il mio cappottino mentre un ticchettio nervoso sul pavimento mi faceva venire i nervi.
La pasticceria di cui parlava si trovava dall’altra parte della città ma era un piacere immenso per me entrarvi. Il bancone era praticamente pieno di ogni sorta di dolce e oltre ad essere artisticamente bellissimi erano anche assurdamente buoni.
-          Salve.- salutai educatamente seguita dal mio tassista che, con le mani in tasca e gli occhiali da sole sul naso, tutto faceva fuorchè non attirare l’attenzione su di se. Discrezione zero avrei dovuto chiamarlo.
-          Ciao Laura, la torta è pronta.- mi avvisò la commessa vedendomi. Fece il giro del bancone e la tirò fuori dal frigo mostrandomela. Era perfettamente glassata e gli occhi mi brillarono.
-          Perfetto…- mormorai tra me sorridente.
-          Lorie, ti va un caffè e una cassatina?- mi propose una voce. Mi voltai verso di lui sbalordita. Lo aveva detto davvero o ero stata io ad idealizzare la figura perfetta dell’uomo che sognavo da bambina e adesso avevo le allucinazioni?
-          Che?- dio certe volte facevo proprio la figura della cogliona. Se mi fossi impegnata non mi sarebbe venuto così bene.
Lui si sollevò dal suo attento studio dei dolci in vetrina e si avvicinò.
-          Cerca di concentrarti Lorie, adesso ti do un compito facile facile ok? Vai verso quel grande bancone laggiù ed ordina due caffè mentre io prendo i dolci ok?- si era alzato gli occhiali da sole e mi parlava come se avessi cinque anni. Dio che odio!
Mi allontanai fingendomi offesa, anche se in realtà un po’ lo ero, e salutai Marco che, sorridente, mi preparò i caffè che gli avevo chiesto. Ticchettavo nervosamente con le dita sul bancone di marmo e mi voltai pronta a dirgliene quattro quando, pronti i caffè, lui sembrava essere andato a recuperare i dolcini a casa. Quello che vidi mi piacque anche meno dell’attesa.
Stava pagando.
Non volevo che pagasse.
Anni di lotte femministe al grido di: marciam suffragette noi andavano in fumo proprio per quel motivo e per le persone che, come me, ritenevano che fosse il gesto più carino e cavalleresco del mondo.
+10 punti per l’attore.
-100 per me.
Si avvicinò, riposto il portafogli nella tasca, con il mio dolcino in mano, mi ringraziò (chissà per quale motivo) e diede un morso all’enorme cannolo che aveva in mano.
Rimasi in silenzio per tutto il tempo assaporando il gusto dolce della glassa di zucchero e della pasta reale del mio dolce, bevvi il mio caffè amaro e, soltanto quando tornammo in macchina, con la torta sulle gambe, rossa in viso per la vergogna, guardai fuori dal finestrino e dissi:
-          Io…credo di doverti ringraziare.- cominciai piano pronta a ritirare tutto qualora avesse cominciato con le sue stupide battutine.
-          È un piacere.- rispose invece lui, semplicemente, lasciandomi a bocca aperta. Mi voltai verso di lui guardandolo attentamente e alzai un sopracciglio.
-          Tutto qui?- chiesi sconcertata.
-          Tutto qui cosa?- domandò lui a sua volta divertito.
-          Niente battutine?- cominciai io dubbiosa. Non era un atteggiamento normale.
-          No.- tagliò corto lui.
-          Neanche una?- incalzai. Cominciavo a preoccuparmi che in qualche modo stesse male.
-          No.- le sue rispose monosillabiche non mi aiutavano a rilassarmi riguardo le sue condizioni di salute. Era così criptico alcune volte.
-          Ah.-
-          Ho comunque trentaquattro anni Lorie, anche se alcune volte tendo a dimenticarmelo e ad abbassarmi a discutere con una ragazzina scema come te.-
Ecco appunto.
Scoppiai a ridere più tranquilla di quella sua battuta alla..Jonathan Meyers e gli diedi un pizzicotto sul braccio.
 
Quando mi resi conto che eravamo quasi arrivati a destinazione, grazie al navigatore della macchina e non certo alle mie incredibili doti orientative, erano già passati settantadue lunghissimi minuti in cui mi ero sentita subissare da insulti da parte di mia madre, di mio cugino e del cretino che, dopo un mese, ancora non capiva una parola di italiano. Insomma non era mica colpa mia se non riuscivo a spiegargli come arrivare in villetta da mia zia e neanche se avevo interpretato male le indicazioni che mi erano state date. Alla fine, lo scienziato, aveva optato per il navigatore.
-          Non potevi pensarci prima?- lo avevo rimproverato arrabbiata.
La sua occhiataccia di fuoco mi spinse a tacere. Adesso però, che mi era sbollita la rabbia e anche lui sembrava più tranquillo, mi spinsi ad un atto di profonda magnanimità.
-          Mi sento in dovere di avvertirti che la mia famiglia è un po’…particolare.- cominciai evasiva. Lui non rispose e aspettò che continuassi. – mia zia è una persona con una mentalità un po’ retrograda e mia madre ha omesso la tua età per fare in modo che fossi invitato per la domenica di pasqua. Sai nessuno crede davvero…-
-          Che sono il povero ragazzo in difficoltà e che tu sei la buona samaritana che lo aiuta?- tentò di indovinare lui quando mi sentì tentennare per l’ennesima volta. – scusa se te lo dico ma anche io avrei difficoltà a crederci.-
-          Sì beh, il fatto è che crederà che io e te stiamo insieme…- buttai lì semplicemente.
-          Sì, probabile.- concluse lui con un mezzo sorrisetto fastidioso.
-          Poi però tranquillo perché noteranno la mia volontà di farti cadere in un pozzo con un masso legato alla caviglia e capiranno le mie vere intenzioni.- conclusi parecchio piccata, chissà perché, della sua risposta.
-          Prima o dopo aver notato il fatto che mi graviti attorno?- rispose lui prontamente dandomi un buffetto sul ginocchio.
Gli scacciai via la mano e lo fulminai con lo sguardo. Fortunatamente, o sfortunatamente a seconda dei punti di vista, eravamo arrivati.
 
Non avevo voglia di scendere, fuori sembrava esserci un brutto vento fastidioso e dentro la macchina, al caldo, seduta sul morbido sedile dell’auto di lusso che aveva comprato quell’uomo stavo davvero benissimo.
Lui aprì la portiera e come faceva sempre, si stiracchiò languido tirando su la maglietta che portava. Mi morsi il labbro e scesi dall’auto divenuta ormai polarmente fredda proprio come tutto il resto. La mia cuginetta di appena cinque anni mi venne incontro di corsa con le braccia aperte.
-          Lalla!- gridò forte facendo un salto tra le mie braccia che avevo aperto per afferrarla. La alzai in alto ridendo della sua voce cristallina che mostrava il suo apprezzamento.
-          Ciao nana.- la salutai riempiendola di baci.
Ginevra era la prima della terza generazione. L’avevo sempre vista così e a mia cugina era piaciuta l’idea che fosse a tutti gli effetti la primogenita del futuro della nostra famiglia. La lasciai scendere e corse subito via dietro a Nerone, un grande pastore tedesco nero, che intanto stava cercando di scappare alle torture di quella piccola peste che non faceva altro che tirargli la coda, le orecchie e a salirgli addosso come fosse un cavallino. La faccia di Meyers mi fece un tantinello infuriare.
-          Perché hai quell’espressione schifata?- gli domandai irritata.
Lui non mi guardò ne tanto meno mi rispose, semplicemente si calò gli occhiali da sole sul naso e mi fece segno di procedere. Non ero decisamente pronta a quello. Mi stampai in faccia un sorriso a cui non credevo affatto ed entrai nel garage adibito a forno. Le donne stavano impastando il pane e le pizze, gli uomini accendevano il fuoco e la brace pronti ad arrostire le vivande acquistate i giorni precedenti. Li guardai tutti per un momento mentre tenevo la torta in mano, poi mia zia mi vide.
-          Lauretta gioia della zia, che stai facendo sulla porta? Vieni.- mi salutò gentile facendomi segno con le mani sporche di farina. Io sorrisi mi avvicinai e le baciai le guance.
-          Ho portato la torta…- stavo cominciando mostrando il vassoio che tenevo in mano.
-          Pippo! Metti questa cosa nel frigo!- gridò lei rivolta a suo marito. Lui, con la sua faccia calma, segnata dal sole battente di chi lavorava nei campi, arrivò con la sua espressione tranquilla e un sorriso amichevole. Mi salutò piano e prese la torta portandola dentro.
-          Sì…zia, devo presentarti il mio amico, quello che sta da noi per un po’.- gli feci segno di avvicinarsi con una mano. Era rimasto fino ad allora vicino alla porta come se fosse pronto alla fuga. – zia, lui è Jonathan. Jonathan lei è mia zia Sebastiana.- li presentai velocemente.
Quando mia zia sollevò il viso verso di lui la sua faccia si rabbuiò tanto che in confronto all’espressione che aveva fatto mio padre la prima volta che l’aveva vista mi sembrava che piuttosto che uccidere solo me avrebbe voluto uccidere sua sorella, ergo mia madre, me e anche quell’uomo che si ritrovava davanti e che non assomigliava affatto al ragazzo delle sue fantasia.
-          Perché tua madre mi ha detto che era un amico a cui stavi dando una mano?- mi domandò lei arrabbiata.
-          Perché lo è.- ammisi io semplicemente.
-          Mandalo a fare l’uomo con gli altri uomini e tu datti da fare che due braccia giovani a impastare ci servono pure.- mi ordinò perentoria.
Mi allontanai da lì il più velocemente possibile e andai a posare le giacche seguita da lui che sembrava divertito da morire.
-          Non sorridere sbruffoncello, mi stai dando un’infinità di problemi tu.- mormorai abbattuta.
-          Ne sono lieto.- tagliò corto lui ridendo.
-          Mia zia vuole che impasti il pane, in pratica sono costretta ai lavori forzati per colpa tua mentre tu stai lì a fare il macio e mangiare la carne calda della brace.- mi lamentai di nuovo mettendo il muso.
-          Un po’ di lavoro non può fare nulla di male ad una scansafatiche come te.- mi fece notare lui sistemandosi i capelli allo specchio.
-          Narciso smettila di rimirarti.- lo punzecchiai spingendolo fuori dalla stanza.
Il resto della giornata fu esattamente come lo immaginavo io. Fui messa a fare tutti i lavori più faticosi come punizione per quella che secondo mia zia era stata la bugia del secolo che mi aveva  permesso di portare il fidanzato trentaquattrenne pronto a violare la mia virtù. Mi persi la carne appena tolta dal fuoco, le parti migliori dell’agnello e la prima fetta di lasagna. E già a metà giornata ero praticamente distrutta. Il pranzo poi fu una cosa di una bruttezza epocale.
-          Allora, Jonathan giusto? Da quanto tempo stai con mia cugina?- domandò d’un tratto quel traditore di mio cugino. 33 anni buttati nel cesso. Li avessero dati ad un carcerato adesso sarebbe fuori.
-          Insieme? In realtà ancora è una relazione aperta.- rispose quello con un mezzo sorriso.
-          Relazione aperta? Che sarebbe che tu scopi con chi vuoi e anche lei oppure che tu scopi con chi vuoi e lei spera che torni a casa?-
-          Noi non stiamo insieme Lucio, quindi non c’è nessun tipo di relazione aperta.- lo interruppi quando la cosa stava diventando fastidiosa. A quel punto però si unì un amico di sua sorella.
-          Quanti anni hai?- domandò con la bocca piena di pasta.
-          Trentaquattro.- ripose quello educatamente. Non c’era da fidarsi di lui quando rispondeva educatamente.
-          Quindi…se i calcoli non sono sbagliati, lei adesso ha l’età che avevi tu quando lei è nata?- domandò. Ma non era una vera domanda, era più un’insinuazione.
-          Noi non stiamo insieme.- cercai di dire ancora, alzando un po’ la voce.
-          Sì, esatto. Tra l’altro io a diciassette anni non ero più neanche vergine. Anzi.- scherzò lui ridendo e suscitando il riso anche in mio cugino e nei suoi amici.
-          Beh si, chi di noi lo era?- scherzarono dando di gomito come degli scimpanzè.
-          La vogliamo finire?- chiesi io sempre più irritata.
-          Laura, siamo curiosi di conoscere il tuo ragazzo, fa la brava.- mi ammonì mia cugina che tornando a guardarlo riprese l’interrogatorio. – che lavoro fai?-
-          Sono nello spettacolo.- disse lui evasivo. Io lo guardai con un’espressione di vittoria. Ah sì? Fai il vago però poi sputtani me davanti a tutti? Bene.
-          È uno stupido attore da quattro soldi con problemi di alcol e droga. Ha fatto i tudor Cristina, tu li vedevi se non sbaglio. Comunque adesso deve girare il solito filmetto sui vampiri. Lui il veleno in bocca lo ha, poco ma sicuro.- conclusi ad alta voce in modo che mi sentissero tutti chiaramente.
Per un attimo calò il silenzio. Poi un mormorio smorzato invase la sala, poi tutti cominciarono a sommergerlo di domande.
-          Cosa stai girando adesso?-
-          Sei tu quello che ha fatto il film di Allen con quella bomba sexy di Scarlett Johansson?-
-          È davvero figa come sembra?-
-          Come facevi tutte le scene di nudo nei tudor?-
-          Com’è essere un attore?-
-          I paparazzi ti seguono spesso?-
Non mi aspettavo che succedesse tutto quello. In un attimo Jonathan assunse un’espressione corrucciata e mi lanciò un occhiata che mi fece sentire tremendamente in colpa, poi interruppe le domande alzando la mano.
-          Un telefilm che non è nulla di che, andrò a Londra a metà Luglio per cominciare. Essere un attore alcune volte può essere stancante anche perché bisogna essere praticamente mille persone diverse e…rischi di perderti per strada. Perdere te stesso intendo…- a quel discorso così complicato tutti avevano smesso di ascoltarlo e adesso ero rimasta solo io, al suo fianco, ferma a guardarlo. Lui aveva sorriso di sbieco senza notare che io lo stavo ancora guardando e aveva ripreso a mangiare con calma.
-          Poi lo hai ritrovato?- domandai assorta.
Lui si fermò con la forchetta a mezz’aria. Si voltò lentamente verso di me e mi guardò negli occhi attentamente.
-          Ti interessa davvero?- chiese incerto.
Io annuì.
Lui sospirò, poggiò la forchetta sul piatto e dopo essersi piegato in avanti, come se fosse per lui uno sforzo immane pensarci, sospirò profondamente e si appoggiò allo schienale della sedia in vimini passando una mano sullo schienale della mia e voltandosi solo un po’ per potermi guardare.
-          Non lo so. Prima di cominciare questo lavoro ero la persona meno sicura del mondo, ero troppo magro, malaticcio e speravo sempre di poter essere diverso, migliore.- mi raccontò piano, come se se ne vergognasse, con una smorfia sul viso. - Poi sono diventato qualcuno. Avevo delle fan come te, gente a cui piacevo. Solo che per piacere a quella gente non potevo più fare le cose di prima.- concluse passandosi una mano sul mento coperto di barba.
-          E ti piacciono le cose che fai ora?- incalzai sperando che quel momento di sincerità non fosse già finito.
-          Non molto ma non ho molta scelta. O lo fai o sei fuori.-
-          Non ti chiedi mai come sarebbe stata la tua vita se non fossi diventato Jonathan Rhys-Meyers?-
-          Ogni giorno.- concluse lasciandolo pensieroso.
Io rimasi in silenzio rispettando il suo momento di riflessione abbassai lo sguardo sul mio piatto di pasta e lo immagai in una casa di Cork, insicuro e sconosciuto. Mi saresti piaciuto un sacco lo stesso O’Keeffe.
-          grazie.- mormorò ad un tratto contro i miei capelli sfiorandomi la punta dell’orecchio con le labbra. Non sapevo bene per cosa ma arrossì e mi coprì le labbra con la mano sorridendo.
-          E voi due volete farci credere che non state insieme? Ma vai a cagare Laura.- sbottò mio cugino irritato prima di tornarne a strafogarsi di cibo.
Mi alzai di scatto dalla posizione in cui mi ero ritrovata e il mio vicino, lentamente, si era allontanato da me con un mezzo sorriso sulle labbra.
-          Ti ho detto che io e lui non stiamo insieme! Anzi la maggior parte delle volte vorrei ucciderlo…-
-          L’odio è un sentimento molto passionale non te l’hanno detto?-
-          La tua frase e trita e ritrita non te l’hanno detto?- lo presi in giro imitando e beffeggiando il suo tono di voce. La giornata si sarebbe rivelata ancora molto lunga, ma ancora più lunga evidentemente sarebbe stata la mia pasquetta.
Era già difficile gestire la mandria dei propri familiari imbufaliti, lo sarebbe stato molto di più gestire i miei compagni di classe e di scout ne ero quasi certa.


 
Note Autrice:
il capitolo è davvero, davvero lunghissimo quindi l'ho diviso a metà. ringrazio come sempre chi mi ha lasciato una recensione e sono felice che ci sia una nuova lettrice *-*
ma ciao!!
allora, il capitolo non era affatto pensato così, anzi. tutta la parte centrale (che sarà pubblicata nel prossimo ciappi, domani) non c'era proprio. però mentre lo ricontrollavo, aggiungi di qua, aggiungi di là ci è uscito e basta. quindi ormai è capitato.
spero vi sia piaciuto intanto fino a qui perchè il resto a me piace anche di più :)
p.s. qualcuna di voi se la cava con la grafica?

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** L'amore è la risposta, ma mentre aspettate la risposta, il sesso può suggerire delle ottime domande ***


Image and video hosting by TinyPic


Dormimmo tutti in campagna da mia zia, io fui invitata a dividere la stanza con mia cugina Alessandra, l’unica ancora non sposata, e Jonathan fu spedito in una delle camere sul cortile insieme al fidanzato di mia cugina. Sua madre sapeva che lei e Peppe, ovviamente, avevano già avuto rapporti sessuali ma non voleva che avvenissero sotto il suo stesso tetto.
- Mamma ma Peppe non parla l’inglese, che faranno tutta la notte?- si lamentò mia cugina indifferente che alla sua età avrebbe dovuto essere la ragazza matura che accetta la decisione silenziosamente.
Al massimo avrei dovuto essere io a lamentarmi, ma grazie a Dio non avevo voglia di dormire con lui.
- Dormiranno mia cara, a meno che stare con voi non sia tutta una montatura.- insinuò mia zia scatenando sia la mia ira che quella di mia cugina.
- Lui non è gay!- sbottò infatti arrabbiata e rossa in viso.
- Io e lui non stiamo insieme!- gridai io sovrastando quasi la sua voce.
Mia zia ci guardò con sufficienza e ci mandò a letto completamente indifferente alle nostre chiacchiere.
- È assurdo.- si stata ancora lamentando mia cugina.
Io ero già in pigiama seduta sul letto che mi pettinavo i capelli per rilassarmi. Lì non c’erano televisioni quindi al massimo l’unico divertimenti poteva essere quello di leggere. Sfortunatamente mia cugina pretendeva la mia attenzione.
- Ho trent’anni e devo ancora dormire in un’altra stanza. È inaccettabile.- si lamentava camminando avanti e indietro per la camera.
- Tua madre è solo apprensiva.- cercai di tranquillizzarla per convincerla a venire a letto. Non ero mai stata così stanca dopo la domenica di pasqua. Non avevo mai lavorato tanto in vita mia.
- Mia madre è pazza.- precisò lei sempre più nervosa.
Si affacciò dalla finestra, cercò di parlare con Peppe che si trovava proprio sotto la nostra finestra ma senza riuscirci.
- Cavolo non mi sente.- si lamentò allontanandosi dal davanzale.
- Allora perché non vai da lui?- posai la spazzola sul comodino e cominciai farmi una treccia lentamente. Infondo non credevo che scendere un attimo per parlare fosse reato.
- Hai ragione.- esclamò lei sorridendo. Era facile farla felice almeno. Così quando sarebbe tornata saremmo andati tutti a letto a riposare.- coprimi.-
Sbuffai sonoramente alzandomi dal letto e avvicinandomi allo specchio per completare la treccia che mi scendeva sulla spalla. I pantaloni grigi della tuta che avevo deciso di usare come pigiama da quando Meyers era a casa mia erano di una scomodità assurda. Per quella sera forse sarei potuta tornare al pigiama di flanella senza che importasse a nessuno. Frugai nello zaino e tirai fuori il mio pigiamino azzurro e verde, morbido e comodo, e lo indossai prima di tornare alla finestra per controllare. Era decisamente troppo tempo quello che coprirla. Se fosse venuto qualcuno per controllare e non l’avesse trovata?
Fortunatamente mia cugina non era poi così stupida come credevo. La porta si aprì proprio mentre stavo cercando di chiamarla dalla finestra.
- Grazie a Dio. Ok, adesso che hai parlato con Peppe andiamo a letto.- le dissi voltandomi verso di lei.
Ovviamente non era mia cugina.
- Che hai detto?- mi domandò il mio incubo personale fatto realtà chiudendo la porta alle sue spalle e avvicinandosi al letto.
- Che ci fai tu qui?- quasi gridai cercando di nascondermi dietro qualunque cosa pur di nascondere il mio tremendo pigiama. Oh che palle per una sera!
- Stanno facendo sesso non voglio assistere ne partecipare.- mi comunicò lui scostando le lenzuola dal letto e sdraiandosi tranquillamente recuperando il libro che aveva poggiato sul comodino.
- Che stai facendo?- lo rimproverai aggrottando la fronte.
- Sono stanco, leggere mi rilassa.- spiegò semplicemente calandosi una montatura nera sul naso.
- Quello è il mio letto Jonathan.- gli feci notare piccata.
- E io dove dormo?- mi domandò con una punta di acidità nella voce.
- Non sono fatti miei, dormi a terra.- gli risposi con la voce ancora imbarazzata per essere stata vista in quel modo.
- Scordatelo.- mi rispose semplicemente tornando al suo libro.
- E io dove dormo?- piagnucolai stringendomi le braccia al petto e avvicinandomi dimentica del problema flanella.
- Cos’è ti vergogni anche a dividere un letto a due piazze? Sta tranquilla. Fidati il tuo pigiama è anti sesso al massimo.-
- Ehi, è comodo! Antipatico.- sbottai infilandomi sotto le coperte e voltandomi dall’altro lato.
- Perché tu sei simpatica?- mi domandò ironicamente trattenendo una stupida risata inopportuna.
- Notte O’Keeffe.- lo zittii io spegnendo la luce.
Per un attimo ci fu silenzio poi lo sentì sbuffare irritato. Chiuse il libro, lo sentivo, e lo posò sul comodino.
- Se non la riaccendi non vedrò il pigiamone anti sesso e potrei attaccarti.- mi prese in giro senza alcuna simpatia.
- Sono stanca, voglio dormire.- bofonchiai stropicciandomi gli occhi con una mano.
- E io voglio leggere.- incalzò lui totalmente indifferente. Che galantuomo.
- L’interruttore della luce è dalla mia parte del letto.- gli feci notare sbadigliando piano.
Mi sentì afferrare per i fianchi, sollevare e quando mi tirai a sedere per capire che diavolo era successo la luce si riaccese ed io ero dall’altra parte del letto tutta avvolta nelle coperte. Sbattei gli occhi un paio di volte mentre lui si allungava per recuperare il libro adesso sul mio comodino, lo afferrai al volo e lo nascosi dentro il pigiama.
- Ho detto che adesso si dorme.- sentenziai scocciata facendogli la linguaccia.
- Guarda che sono un uomo Lorie.- mi fece notare alzando un sopracciglio come se fossi totalmente scema.
- E allora?- domandai non riuscendo davvero a capire.
- Se non mi dai il mio libro me lo riprenderò da solo.- mi avvisò cominciando ad avvicinarsi.
- Stai indietro!- lo avvisai sgranando gli occhi. Di solito quando i miei compagni di classe facevano di quei giochi finivo sempre col farmi qualche livido.
- Dammi il mio libro!- mi ordinò prima di afferrarmi per le ginocchia e trascinarmi sotto di lui.
Stavo per cominciare a gridare ma mi tappò la bocca con la mano cercando di alzarmi la maglietta sformata del pigiama alla ricerca del suo libro.
- Aiuto…- riuscì a biascicare contro la sua mano.
- Dammi ciò che è mio ti ho detto.- ordinò di nuovo bloccandomi le gambe che cercavano di divincolarsi con il suo peso.
Gli leccai la mano ma tutto ciò che ottenni fu che si fermò e mi guardò divertito.
- Sei seria? Pensavo che mi mordessi invece mi lecchi?-
- Di solito funziona.- cercai di dire mentre la sua mano ancora non mollava la presa.
- Davvero?- domandò stranito. Io annuì poi ripresi a divincolarmi e a pregarlo, o almeno cercare di pregarlo, di lasciarmi andare.
Quando capì che quel metodo non funzionava, tenendomi sempre bloccate le gambe col suo corpo, mi fece mettere seduta togliendomi completamente la maglietta. Sgranai gli occhi presa alla sprovvista e smisi di muovermi e di parlare. Ero nuda, quasi nuda, davanti a lui. Non dormivo mai col reggiseno la notte. Betta diceva che non aiutava il seno a crescere ed io ne avevo bisogno. A quel punto non gli importava più così tanto del libro che era scivolato sul letto tra le sue gambe. Mi stava guardando e non aveva la sua solita espressione sbruffona o pronta a deridermi. Sembrava…ammirato?
Sogna Lauretta. Mi rimproverò la mia vocina interiore.
Eppure, anche se morivo di imbarazzo, non riuscivo a gridargli contro di togliersi, non riuscivo a coprirmi anche se mi aveva lasciato una mano e stringeva solo un polso con una presa così leggera che sapevo di potermi tirare indietro. La mano che teneva premuta sulla mia bocca era scivolata lungo il mio fianco e sentivo le sue dita premute in vita. Aveva la mano calda e umida per la mia saliva e mi stringeva sempre più forte. Mi stava guardando ancora, attentamente. Quando finalmente tornò al mio viso una scintilla gli passò negli occhi. Mi schiacciò sul letto pesandomi addosso e le sue labbra si impossessarono fameliche delle mie. Non assomigliava neanche un po’ a quel bacio leggero che mi aveva dato nella mia cucina. Era un bacio lento, profondo e passionale. Aveva il sapore della nicotina e le sue mani erano scese velocissime al mio corpo.
Corpo che aveva risposto prontamente a quella domanda tradendomi miseramente.
Non gli negai le mie labbra anzi, gli strinsi le braccia al collo e gli passai una mano tra i capelli tirandoglieli indietro. Mi assecondò allontanandosi un po’ ma tutto ciò che feci, invece di sputargli in un occhio, fu di togliergli gli occhiali e di lasciarli sul comodino.
- Non ti piacciono?- mi domandò piano.
Non riuscivo a rispondere.
Lui sorrise tornando alle mie labbra e, afferratemi le mani le portò sul suo petto nudo, solido e caldo aiutandole a scendere sempre più giù dove sentivo il bordo dei pantaloni. Anche le sue mani avevano trovato i miei e aveva cominciato a tirarli giù. Le mutandine, quelle le avevo. Quando i miei pantaloni erano abbastanza bassi tornò a poggiarsi su di me. non aveva lasciato le mie labbra per un attimo, mi aveva tenuta avvinta e distratta con la sua lingua e le sue mani. Quando sentì premere la sua eccitazione contro di me, tra le mie gambe, però tornai lucida.
- Che…che…-mormorai cercando di riprendere fiato e di allontanarmi da lui. Avevo una delle sue mani vicinissime al seno e stava per accarezzarlo.
Probabilmente le sue mani esperte mi avrebbero aiutato a non pensare. Mi avrebbe fatto passare una bella serata e tutto il resto e non sarebbe stata affatto male come prima volta ma…non era il momento.
- No…- sussurrai piano senza che lui lo sentisse. Avevo la sua tempia contro la bocca mentre lentamente mi baciava il collo e si avvicinava con la bocca al mio capezzolo turgido per il freddo e… qualcos'altro.
- No!- gridai più forte quando mi baciò il seno. Scattai a sedere e lui si tirò immediatamente indietro.
Avevo gli occhi sgranati e lo guardavo mentre, in ginocchio sul letto, tra le mie gambe, con i capelli in disordine e gli occhi brillanti, mi guardava.
Mi alzai velocemente recuperando i miei vestiti e uscì di corsa da quella stanza nascondendomi da qualche parte.

L’indomani già all'alba eravamo in piedi a fare ricotta. Io ero ancora distrutta per le fatiche del giorno prima ed era bello vedere sgobbare un po’ anche gli altri adesso. Ovviamente le ore piccole della notte prima non mi avevano aiutata a recuperare le forze. Mi ero spalmata infatti su degli ammassi di paglia e avevo sonnecchiato fin quando non erano arrivate le mie amiche che gentili come sempre, si proposero di aiutare con la difficile impresa della preparazione della ricotta. Io non volevo tornare di là, non volevo immischiarmi. Se loro erano così volenterose che facessero pure. Io mi occupai di dare il benvenuto ai miei compagni che arrivarono, uno dopo l’altro e si posizionarono vicino ai calderoni. Presto Jonathan fu sostituito nelle sue fatiche da giovani volenterosi che volevano dare il meglio di se e fare bella figura. Purtroppo quello gli avrebbe lasciato del tempo per poter rivangare quanto successo la sera prima. Non ne volevo parlare mai più. Volevo far finta che non fosse successo.
- Bravi, così i fidanzatini posso stare un po’ insieme.- aveva approvato mio cugino che adesso cominciava davvero a darmi sui nervi.
Mi tenni a debita distanza cercando sempre di essere presa in discussioni con questo o con quel compagno e quando arrivò Danilo fortunatamente non dovetti neanche sforzarmi. Mi stava addosso come una zecca con quei suoi occhi blu e i capelli scombinati. Ero cavalleresco in modo ridicolo, appiccicoso e fastidioso ma non mi lamentai accettando tutto di buon grado pur di far passare dalla mente della mia famiglia quelle sciocche idee che si erano fatti il giorno prima.
E soprattutto liberare la mia mente dall’idea delle sue mani che mi toccavano.
Mi ero comportata come una ragazza facile e poi come una pischella che scappa via in preda alla paura.
Purtroppo, come previsto, le cose mi sfuggirono di mano. Eravamo tutti seduti fuori in cerchio e stavamo cercando un gioco da fare per ammazzare il tempo.
- Che ne dite del gioco della bottiglia?- propose una ragazza.
- Troppo statico, poi ci annoiamo. Che ne dite di acchiappa acchiappa?- propose un altro.
- Scordatelo, voi maschi diventate sempre violenti.- intervenne un’altra.
- Ok. Un misto che ne dite? Nascondino.- decise alla fine Danilo e ovviamente nessuno osò contraddire la sua proposta. Che persone stupide alcune volte potevano dimostrarsi.
Ci alzammo tutti quando lui stesso si propose per fare la conta e venire poi a cercarci e tutti corsero via velocemente. Mi nascosi nel garage, sotto il forno, coperta dalla barra in metallo che doveva essere usata per tappare la bocca del forno una volta pulito per bene. Era un buon nascondiglio il mio ma non avevo valutato che lui stava facendo quel gioco proprio per tanare me. quando scostò la barra del forno uscì fuori di corsa cercando di raggiungere l’obbiettivo ma lui mi afferrò prima portandomi contro il muro. Ero rinchiusa dalle sue braccia e il suo corpo premeva contro il mio. Ero ansante per la corsa e il suo corpo, di certo più minuto di quello della notte precedente, non mi aiutavano a non pensare. Anzi. E mi facevano sentire ancora più troia
- Levati.- gli ordinai poco convincente.
- Stai davvero con quel ragazzo?- mi domandò lui togliendomi una ciocca di capelli dal viso.
- No.- risposi velocemente.
- Sei sicura? Dimostramelo.- mi sfidò.
- Io non devo dimostrarti nulla Danilo, lasciami andare.- gli ordinai di nuovo spingendolo via con le braccia.
- Stai con me allora, proviamoci. Fai felice me e ti liberi di un enorme peso, e la tua famiglia la smetterà di dire che state insieme.-
O ma per me possono continuare tranquillamente. Rispose una parte molto idiota del mio cervello. Dopo ieri sarebbe stata l’unica cosa che avrebbe evitato a me stessa di sentirsi una facile.
L’altra parte valutava seriamente la possibilità.
Un’altra ancora sperava che questo servisse in un modo o nell’altro a fare ricapitare quello che era stato l’evento.
Alla fine, rimasta immobile senza dire una parola, avevo dato via libera alla sua bocca.


Note Autrice:
allora, tutto quello che leggete qui, tranne la parte finale con gli amici che mi era utile per la trama, non c'era. poi però buttando giù due parole per integrarle alla fine precipitosa del primo pezzo ci è uscito tutto quello che avete letto.
non era calcolato e ho deciso di lasciarla per questo. perchè è venuta senza che fosse messa in conto (motivo er cui dovrò cambiare molte cose nel resto della trama ed ero già arriata al 30esimo capitolo) -.- comunque.
spero vi sia piaciuto nonostante il fuori programma :)

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Il lavoro è il rifugio di coloro che non hanno nulla di meglio da fare ***


Image and video hosting by TinyPic


Ok, lei stava con un ragazzo. E allora?
forse il problema era che si era messa con quel ragazzo qualche ora dopo che aveva quasi fatto sesso con me. ma stava scherzando?
Stavo facendo il check-in per partire ed ero ancora parecchio irritato. Non tanto per il gesto in se. Insomma lei poteva fare quello che le pareva. Voleva un ragazzo? Tanto piacere. Però in breve non si era comportata affatto bene, in linea generale. Credevo davvero che…
Sbuffai bloccando il flusso dei miei pensieri quando l’hostess di terra prese il mio biglietto e la carta di identità e sorridendo mi augurò buon viaggio. Salì a bordo del velivolo e presi posto.
Sarebbe stato un volo lungo e, nella fretta di partire e con i mille pensieri che mi ronzavano in testa, avevo dimenticato di portare il carica batterie del pc. Computer fuori uso in pratica. Avrei dovuto trovarmi un altro passatempo per evitare di ripensare a quando, il giorno prima, uscendo per andare ad avvertirli che il dolce era servito, l’avevo trovata schiacciata contro il muro con quel ragazzino borioso premuto addosso. C’era una tensione sessuale nei movimenti e nelle mani di quel cretino che mi ero sentito in dovere di toglierglielo di dosso. Insomma lei è solo una bambina che cazzo. Ovviamente quello che avevo fatto io la sera prima, e su cui mi ero ripromesso di non tornare mai più, non era la stessa cosa. Io non avevo davvero cattive intenzioni. L’avevo fatta andare via immediatamente. Lui non sembrava il tipo da farla andare via.
Sfortunatamente per una volta che cercavo di fare qualcosa di “magnanino” questo non veniva apprezzato. Mi ero ritrovato infatti per un attimo il suo sguardo furioso addosso e un attimo dopo aveva cominciato a gridarmi contro che se per una volta mi fossi fatto i cazzi miei avrei sicuramente vissuto meglio ed anche lei sarebbe stata più contenta.
Era una vera fortuna che io non fossi proprio il tipo da gesti simili perché se ogni volta avessi dovuto ricevere quel trattamento sarebbe stato davvero orribile.
In ogni caso credevo fosse quello il motivo per cui mi sentivo tanto irritabile e da quel momento non le avevo più rivolto la parola. Adesso stava a lei alzare la cornetta del telefono e chiamare per chiedere scusa. Anzi per implorare umilmente il mio perdono.
Il volo era decollato da venticinque minuti, probabilmente non eravamo arrivati neanche a Roma ancora ed io già ero ansioso di scendere. In alta quota il telefono non prende.
Sgranai gli occhi a quel ridicolo pensiero e mi diedi del coglione da solo. dovevo cercare di mettere delle regole ferree al mio subconscio.
Primo tra queste era l’evitare a tutti i costi gli scleri inutili.
Secondo era smettere di sembrare un adolescente innamorato.
Sapevo che non si trattava di quello ma solo del mio orgoglio ferito. Una ragazza che poteva e doveva volere me in realtà voleva un altro ragazzo. Duro colpo per uno come me. specie quando hai già avuto un assaggio e sei rimasto con quella fame, con quel desiderio di scoperta che ti farebbe saltare addosso a quella ragazzina ogni volta che ti irrita per il semplice gusto di tapparle la bocca con un’attività più seria. Chissà come sarebbe stato avere sotto di me il suo corpo morbido e caldo, lontano da quei corpi scheletrici e costantemente freddi delle modelle che si erano alternate nel mio letto. Ne avevo avuto un assaggio e mi era piaciuto. Ma non era abbastanza.
Adesso che avevo altri pensieri più gradevoli e nuovi orizzonti da scoprire riuscivo a pensare anche a Reena Hammer senza farmi venire stupide crisi.
Lei era stata l’unica donna che potevo dire di aver amato. Mi aveva praticamente accompagnato per una parte della mia vita, mi aveva aperto innumerevoli strade e mi aveva dato affetto in un momento in cui credevo fosse impossibile. Eppure dovevo anche tenere in conto che era lei a comprarmi la droga, lei che faceva il bello e il cattivo tempo con i suoi soldi. Era su quello che girava tutta la nostra relazione e le sue principali preoccupazioni. I soldi.
Non si era mai preoccupata di chiedermi cosa ne pensassi io. Non si era mai chiesta se mi piacesse quello che stavo facendo. Lei mi offriva la strada che riteneva giusta, io dovevo semplicemente imboccarla e ringraziarla per avermela mostrata.
Ero stato grato, quella domenica di pasqua, che quella ragazzina indisponente, in qualche modo somigliante alla mia ex piena di soldi e allo stesso tempo così diversa, si fosse interessata della mia vita.
E ti piacciono le cose che fai ora?
Era stata una domanda così facile. Così spontanea. Non era nulla di eccezionale, probabilmente semplice curiosità, ma almeno l’aveva fatta. Per una frazione di secondo le era importata la mia opinione come persona, come suo commensale e non come attore, come numero o come share e percentuale di gradimento.
In un attimo mi era sembrata anche la ragazza più bella che mi fossi mai trovato davanti e mi ero dato mentalmente del coglione per non aver capito quanto fosse straordinariamente incredibile. Ripensandoci adesso, seduto su quell’aereo con tutta quella gente intorno, mi rendevo conto che le mie emozioni erano profondamente influenzate dall’esperienza di mio padre, dalla storia del divorzio e dalla morte di mia madre. Quello strizza cervelli del cazzo da cui mi avevano spedito l’aveva chiamata dipendenza affettiva da carenza. Per spiegarla in termini più facili in pratica tendevo ad attaccarmi convulsamente a chiunque mi dimostrasse affetto perché nessuno me ne aveva mai dato. Cazzate.
Di solito mi tenevo ben lontano dalle manifestazioni d’affetto troppo enfatiche. Non mi andava che le persone mi rimanessero appiccicate addosso come cozze. Però mi aveva fatto piacere quel suo interessamento pacato.
Quando il segnale delle cinture si riaccese mi resi conto di essere arrivato a Londra, e di non aver pensato ad altro per tutto il viaggio. Quella sera avrei dovuto prendere seri provvedimenti.
 
Londra era una grande città. Ci avevo vissuto per qualche tempo e la ricordavo perfettamente. Era un posto che mi piaceva. Non avevo mai avuto la sensazione di “tornare a casa” quando arrivavo, anche se avevo davvero comprato un appartamento sulle rive del Tamigi, un appartamento piccolo, che adesso mi appariva enorme se paragonato alla casa in cui avevo vissuto per un mese con altre tre persone. Una grande vetrata mostrava il London eye e su quel magnifico panorama andavo a dormire tutte le notti su un letto grande e comodo. Avevo anche una compagnia con cui uscire. Degli amici possiamo dire. Ma in quel momento dovevo pensare al mio lavoro. Lasciai la valigia in salotto ed uscì di casa senza guardarmi intorno recandomi subito sul luogo dell’appuntamento. Mi ero sempre ripromesso di partire il giorno prima dell’impegno da affrontare almeno ma quella volta, con le impellenti vacanze di pasqua, le cose erano andate in maniera un tantino differente. Un capannone prefabbricato degli studios fuori dalla città mi aspettava e un intero cast con cui avrei dovuto condividere mesi di lavoro. Entrai mostrando il mio documento di identità e due omoni in nero mi accompagnarono in un salottino in cui sedevano già tre uomini elegantemente vestiti, tutti più anziani di me, e due donne, una delle quali mia coetanea che raccontava della sua esperienza di viaggio.
-          In ogni caso odio gli aerei, affatto comodi.-
-          Sono il mezzo più veloce.- fece notare un signore distinto canuto ma rassicurante.
-          Me ne rendo conto ma un viaggio transoceanico in nave è più comodo.- concluse quella ridendo tranquilla.
-          Oh Jonathan, ciao.- mi salutò un uomo, l’unico che avessi già conosciuto, entrando da una porta laterale che non avevo notato. Era il regista. Lo avevo incontrato al cast quasi un anno prima. – sei arrivato, così puoi cominciare a conoscere i tuoi colleghi.-
Gli altri intanto si erano voltati verso di me e mi squadravano incuriositi. Probabilmente dovevo aver fatto molta notizia nei mesi precedenti.
Sorrisi e gli strinsi la mano che mi porgeva salutandolo cordiale. La ragazza che aveva parlato prima si alzò e venne ad abbracciarmi. Feci una fatica enorme a non spingerla via prima che potesse avvicinarsi e stringermi ma, l’attore che era in me, era entrato in azione. Ero a lavoro.
-          Ciao, io sarò la tua lady.- si presentò senza neanche dirmi il suo nome. Mi sorrise felice.
-          Sono felice di conoscerti.- le risposi – io sarò il tuo vampiro succhiasangue a quanto pare.-
-          Un vampiro molto sexy.- mi rispose lei ammiccando.
Almeno sapevo già che fare quella notte.
Le sorrisi e passai a conoscere il resto della troup. Mi strinsero tutti cordialmente la mano, scambiammo quattro chiacchere imbarazzate aspettando gli altri. Jessica, come seppi poi che si chiamava la ragazza chiacchierona, non più di una certa ragazzina snervante che avevo messo a tacere per sempre, ma comunque piuttosto fastidiosa, non faceva che starmi addosso.
-          Chi manca Bobby?- domandò un uomo, il più asiano a quanto pareva, quello che aveva maggiore confidenza col regista.
-          Il nostro Van Helsing, mi aveva detto che veniva dall’Italia, credo che abbia fatto ritardo. Quel paese alcune volte fa proprio schifo.- rispose semplicemente.
Tenni per me l’idea che anche io venivo dall’Italia, che non ero in ritardo e che peggio del culo del mondo in cui ero finito quel ragazzo non poteva essere. E poi l’Italia non era tanto male. Rimasi comunque in silenzio mentre gli altri concordavano.
-          Le italiane però sono niente male.- rispose una voce maschile dall’accento francese alle mie spalle.
-          Concordo.- risposi quasi involontariamente mentre tutti si alzavano e si avvicinavano a salutare.
Nessuno mi sentì, grazie al cielo.
Il nuovo arrivato era niente male anche lui. Era uno di quei visi che mi immaginavo benissimo alle pareti delle cameretta che abitavo da un mesetto a quella parte. Alto, forse solo un po’ meno di me, capelli neri, lasciati crescere intorno al viso e tirati indietro con del gel, occhi blu. Damerino francese. Indossava una camicia blu e dei pantaloni scuri che me lo fecero riconoscere subito, sembrava uscito dalla pubblicità di Scorsese che aveva invaso le televisioni di tutto il mondo. Davvero quel ragazzo aveva la faccia da cacciatore di vampiri? Evidentemente sì.
Ci risedemmo di nuovo dopo i vari convenevoli e lo vedemmo sorridere apertamente guardandoci uno per uno con quell’inquietante cicatrice sulla guancia che dal vivo tutto era meno che affascinante. Nel contesto comunque aveva quella faccia rassicurante da bravo bambino che sapevo piaceva tanto alle ragazza.
Jessica però non era Laura.
Ben lontana dall’essere attirata dal fascino francese del ragazzo che sedeva nella poltrona di pelle vicino al caminetto non si era allontanata dal mio fianco nemmeno un momento. Era davvero estenuante essere l’oggetto di attenzioni di una donna così.
-          Allora, cosa hai fatto di bello per le vacanze francese?- gli domandò il regista avvicinandosi a lui e dandogli una pacca amichevole sulla spalla.
-          Italia, Sicilia.- rispose semplicemente quello come se fosse la più logica delle risposte e come se lasciasse intendere tutto il resto.
-          Taormina?- chiese il vecchio canuto che avevo capito chiamarsi Mark.
-          Anche.- rispose quello con un mezzo sorriso malizioso.
-          Spero che tu abbia preso le adeguate precauzioni, non vorrei scandali su ragazze incinte che rivendicano la tua paternità.- lo prese in giro Robert.
-          Sono stato attento, e poi non sono mai stato due volte con la stessa ragazza proprio per non lasciare dietro tracce del mio passaggio.- spiegò quello ridendo.
Quello mi lasciò pensieroso. Tranne la breve parentesi, per altro finita anche male, con la turista in quel vicolo, non avevo avuto nessun tipo di “incontro” durante la mia gita. Ero in astinenza forzata a causa della casa dove vivevo, della bambina che mi stava dietro come un segugio e…del fatto che non avevo nemmeno cercato a dire il vero.
Potevo classificare quella di domenica come quel tipo di incontro? No. se fosse successo davvero qualcosa mi sarei ritrovato dietro una ragazzina che aveva avuto la sua prima volta.
Non sarebbe stato piacevole.
-          Le turiste poi non chiedono quasi mai numeri di telefono.- notai io ancora perso nei miei pensieri con la bottiglia di birra che Robert mi aveva offerto in mano.
-          Già.- acconsentì lui. – le “donne indigene” non sono quasi mai disposte a non sapere quasi il tuo nome prima del sesso. Una volta ero a Catania e una ragazza mi ha proposto di conoscere i suoi genitori, sapevo solo che si chiamava Rita e che portava una quinta.- scherzò lui provocando l’ilarità di tutti.
Io non ridevo.
Conoscendo Laura, la sua famiglia, le sue amiche, avevo capito che quella era la loro mentalità e l’avevo associato a qualcosa di molesto ma inevitabile. Non mi faceva ridere l’idea che la donna mediterranea fosse esattamente il mio tipo e non potevo averla senza impegnarmi con un anello di fidanzamento se non volevo rischiare di prendermi l’HIV con una prostituta.
Il francese mi fissava.
-          Ho letto sui giornali che anche tu hai passato le vacanze in Sicilia e ti sei anche divertito.- mi comunicò come se volesse per forza disturbarmi dai miei pensieri.
-          Cosa? Suoi giornali?- domandai io mettendomi dritto sul divano e allontanando Jessica non troppo gentilmente.
-          Sì, c’erano delle foto con una ragazza, sei riuscito a scopartela dopo solo una messa?- domandò incuriosito.
Ma che cazzo...?!
-          Ehi francese che fai leggi i giornali di gossip?- lo prese in giro Mark.
-          No, ci mancherebbe, lo aveva una ragazza con cui sono stato…domenica.- rispose dopo averci pensato su.
A quel punto capii.
-          Comunque ero solo interessato a sapere se aveva funzionato perché una volta ci ho provato ma poi siamo arrivati solo in prima base e io non ho più quindici anni.- spiegò lui quando vide che non rispondevo.
-          Puntare alle brave ragazze lascia sempre a bocca asciutta.- conclusi semplicemente io quando realizzai che ormai non avrei potuto tirarmi indietro dal rispondere.
Lui sorrise di nuovo mostrando la fossetta inquietante.
-          Però sono le brave ragazze quelle che si portano all’altare.- fece notare lui guardandomi ma dando l’impressione di rivolgersi a tutti.
-          Sono troppo giovane.- risposi semplicemente. lui sollevò un sopracciglio e mi fissò incredulo. Avevo trentaquattro anni, trentacinque a Luglio. Ero decisamente troppo giovane per un matrimonio e dei figli.
-          Dici?- domandò lui rispondendo anche ai miei pensieri.
Gli sorrisi cercando di apparire gentile ma in realtà non mi piaceva. Non era niente di particolare, in realtà non mi piacevano quasi mai i miei colleghi di lavoro. Gente troppo lontana dalla realtà, pronta a pugnalarti alle spalle. Lui poi sembrava più frivolo di tutti gli altri messi insieme. Ed era anche francese. Non aveva molti punti a suo favore c’era da dire. Un po’ come me. questo non avrebbe dovuto farmelo risultare simpatico?
In ogni caso quell’appuntamento andò relativamente bene, ci conoscemmo tutti, ci vennero dati i copioni per i primi episodi e poi fummo congedati. Prossimo appuntamento a Luglio. Avrei avuto tutto il tempo per non perdermi la crisi esami di maturità ed esserne investito. Perché ovviamente sarei stato il suo capro espiatorio per tutto. Lo sapevo e non mi disturbava.
Ero appena uscito dal capannone, camminavo lentamente per il vialetto per raggiungere la mia auto giocherellando con le chiavi.
-          Jonathan!- mi chiamò una voce femminile che avevo avuto accanto all’orecchio praticamente tutto il tempo.
-          Jessica.- mi voltai lentamente verso di lei e le rivolsi un sorriso lascivo.
Non andavo pazzo per i suoi modi un tantino invadenti però le esperienze del francese mi avevano lasciato l’amaro in bocca. Mi ero rammollito parecchio nell’ultimo periodo dovevo decisamente cercare di recuperare. Lei mi si avvicinò ancheggiando e mi posò una mano sul braccio.
-          Pensavo che potremmo provare un po’ insieme, abbiamo tantissime scene in comune e potremmo conoscerci meglio.- mi propose ammiccano.
-          Mi piacciono le tue idee lady. Vieni, ho la macchina giusto là in fondo.- le risposi cercando di non apparire troppo annoiato. Lei mi afferrò il braccio, sorrise e mi seguì.
 
Era stata davvero una lunga serata, ero ancora a letto disteso a pancia in su con un braccio dietro la nuca. Lei era distesa a letto ancora con il fiatone e i seni, grandi e rifatti, ben esposti. Non aveva capito che i seni di cui andava tanto fiera non mi facevano ne caldo e ne freddo. Ne avevo visti a centinaia, tutti uguali tra le altre cose. Come vedere una mela finta in un negozio di mobili esposta in un centrotavola. Non è una grande emozione, non attira l’attenzione di nessuno. È solo decorativo. Come lei del resto. Avevamo scambiato due parole nel tragitto per arrivare a casa. Non mi sembrava una persona molto sveglia. In un certo momento mi era apparsa anche un tantino stupida. Con la recitazione non se la cavava meglio. Avevo avuto modo di conoscere Scarlett. Quella donna era un concentrato micidiale di sex-appeal, intelligenza e bravura. Se non fosse stata bionda sarebbe stata la donna dei miei sogni. Lei era una delle poche che conoscevo che aveva fatto carriera per la sua testa. Quella che adesso mi trovavo davanti non faceva di certo parte di quella scarsa percentuale di donne. Evidentemente Jessica aveva trovato la persona giusta a cui darla.
A suo favore c’era da dire che per quanto riguarda quel tipo di lavoro sicuramente ci sapeva fare eccome.
-          È stato davvero…- si era girata verso di me e si stava avvicinando. La fermai prima che potesse toccarmi di nuovo con quelle unghia finte.
-          Meraviglioso?- le suggerì io per farla continuare. Era ancora colpita per essere stata fermata. La mia mano stringeva i suoi polsi in una stretta ferrea. – niente abbracci dopo sesso, non fanno per me.- le spiegai semplicemente spingendola via e alzandomi dal letto.
-          Non è gentile da parte tua.- mi fece notare lei mettendosi di lato e tenendosi la testa con una mano.
-          Non ti avevo promesso di esserlo.- le ricordai prendendo i miei vestiti e preparandomi ad una doccia rilassante.
-          Deduco di non essere invitata per la notte.- concluse lei con un sorriso malizioso di chi invece pensa proprio a tutt’altro.
-          Esatto.- confermai invece io facendo sparire il suo sorriso. Presi i pantaloni dal pavimento e estrassi il portafogli dalla testa lo aprì e le porsi una banconota. – chiama un taxy, non posso riaccompagnarti.- l’avvisai prima di rientrare in bagno.
Sapevo perfettamente che uscendo non l’avrei rivista. In ogni modo l’indomani avrei avuto presto il volo che mi avrebbe riportato in quella cittadina dimenticata da Dio.
Perché stavo tornando indietro? Se adesso le avessi telefonato per dirle che tornavo a casa, a Dublino, di certo non avrebbe preso un aereo per venirmi a riprendere per i capelli. I suoi genitori sarebbero stato più felici e le sue amiche avrebbero smesso di non telefonarle solo perché inevitabilmente invitare lei voleva dire invitare me.
Mi sedetti sul bordo del letto.
Forse era la scelta migliore. L’indomani avrei preso un volo per Dublino e sarei tornato a casa mia, alla mia vita, alla tranquillità e al sesso che infondo mi era mancato.
Sorrisi tra me soddisfatto della mia decisione. Dopo la doccia le avrei mandato un messaggio.
Entrai in bagno e, aperto il getto d’acqua bollente, mi infilai sotto di essere chiudendo gli occhi mentre mi scorreva addosso togliendomi di dosso la stanchezza, la rabbia, il sesso.
Era una sensazione piacevole come di mani che ti accarezzavano.
Quando finì mi misi a letto con i capelli ancora bagnati profondamente rilassato.
 
 
-          Jonathan…- sentì sussurrare contro il mio orecchio. Era un mormorio soffocato dalla stanchezza. Sorrisi piano piegando un braccio dietro di me per afferrare i suoi fianchi e avere il suo corpo sopra il mio.
-          Non sei stanca?- sussurrai a mia volta come se non volessi disturbarla dal suo intorpidimento. Aveva i capelli bagnati e mi cadevano sul mio viso. Non riuscivo a vederla bene in viso in quel modo, mi sentivo profondamente disturbato nella relativa pace di quel momento idilliaco.
-          Sì, però mi sei mancato.- rispose piano posandomi le labbra sul collo. Era fredda, come sempre. La strinsi di più tra le braccia per scaldarla e cercai le sue labbra. Lei mi si negava.
-          Perché allora non mi baci?- le domandai con una nota di delusione nella voce. Le passai la mano calda sul viso, i capelli però non volevano saperne di tornare al loro posto.
-          Hai un odore diverso.- mormorò. La sua voce, il suo tono mi spezzarono il cuore.
-          Cosa?- domandai piano accarezzandole la schiena. Era nuda. Così eccitante.
-          Perché sei stato con lei?- mi chiese triste. Lei chi? Lei Jessica? Come sapeva lei di Jessica? – io non sono abbastanza per te?- domandò di nuovo. Sentivo le sue lacrime calde bagnarmi le dita della mano che tenevo sul suo viso.
-          È stato un attimo di debolezza, tu non eri mia.- sussurrai per discolparsi. Adesso lo era, era mia. l’avrei sposata. Avremmo avuto dei figli. Una bella casa. Una bella vita.
-          Non tradirmi mai più.- sussurrò lei avvicinandosi al mio viso ancora di più. Sentivo il suo respiro sulle labbra ma non aveva nessun odore.
-          No, mai più.- le risposi piano.
-          Dimmelo.- ordinò con voce perentoria strusciandosi provocante su di me. non potevo resisterle ancora per molto, doveva essere mia. l’afferrai per i fianchi spingendola contro il mio desiderio. Sentiva quanto la volevo? Quanto fossi suo? Suo. Ero diventato anche io un ragazzino. O forse lo ero sempre stato. – dimmelo ti prego Jhonny.- ripeté con urgenza. Non c’era nessun bisogno che lei me lo ordinasse. Volevo dirglielo con tutto me stesso. Volevo che lo sapesse con un’urgenza che mi fece capire di non averglielo mai detto. Lei meritava di sapere. Lei doveva sapere.
-          Ti amo.- sussurrai. Finalmente potei vedere il suo viso senza il fastidio dei capelli. Gli occhi castani le brillavano di luce e i capelli, adesso asciutti, erano in un composto disordine intorno al suo volto. Si abbassò su di me. sapevo che stava per baciarmi. Non aspettavo altro che quel momento ma…
 
Il telefono squillò.
Tutti i migliori film dovrebbero finire con un telefono che squilla. Proprio come i sogni. Mi tirai a sedere di scatto. ero ancora eccitato da quel sogno traditore. Da quell’incubo. Sì. Decisamente di nient’altro si era trattato se non di un incubo. Sbuffai e afferrai il telefono sul comodino. Staccai la sveglia e mi alzai. Non dovevo prendere nessun volo ma la sera prima ero così stanco da aver dimenticato di deselezionarla. Tanto meglio. Non aveva interrotto nulla di importante.
Mi vestì velocemente, mi lavai la faccia e presi la giacca mettendomela. Uscì di casa velocemente diretto al solito bar, dai soliti amici. Salì in macchina e guidai per le strade di Londra dove tutti rispettavano la legge. Era rilassante tornare alla civiltà.
Li trovai lì, come sempre. Jeffries, Max, Allie e Peter. Seduti al solito tavolo con il solito caffè da quindici anni. Sorrisi e mi sedetti al mio posto. Si voltarono verso di me senza riconoscermi pronti a sbranarmi vivo. Nessuno poteva sedersi nel posto di uno di noi. Quando Allie mi riconobbe scoppiò in un grido. Come sempre. Mi buttò le braccia al collo e scoppiò a piangere. Evidentemente a loro la notizia del mio tentato omicidio era arrivata.
-          Smettila Allie, sono qui. Piangi per me in questo modo quando sarò sottoterra.- le suggerì scherzando.
Non fu la sola a salutarmi in modo più affettuoso del solito. Dovetti comunque stare in silenzio e sopportare il loro affetto. Non potevo respingerli quando avevano bisogno del contatto fisico per assicurarsi che stessi bene. Il sogno di quella notte mi aiutò. Lei avrei voluto sentirla vicina.
Era solo un sogno. Mi ricordai rimproverandomi per quella follia improvvisa che mi era passata per la mente.
-          Sentite, se la finite con tutto questo vi offro da mangiare.- li presi in giro e Max prontamente rise.
-          Nessuno lo trattenga. Il bancone lo aspetta.- mi rassicurò. Io scoppiai a ridere e mi alzai.
-          Approfittatore.- lo accusai ridendo. Lui fece spallucce.
Il bancone era sempre lo stesso. Passare un po’ di tempo lì mi avrebbe fatto più che bene.
Non l’hai avvisata. Ti aspetterà all’aeroporto. Mi disse la mia coscienza. Non mi importa. Risposi io. Con che faccia l’avrei rivista dopo averla sognata nuda? Dopo averle detto…?!
-          Sei pezzi.- ordinai con calma, presi il portafogli dalla tasca e pagai, poi tornai al tavolo dove loro mi aspettavano ansiosi.
-          Forza grande attore racconta. Dove sei stato di bello?- mi domandò Jeff afferrando la sua e prendendone un morso.
-          Da nessuna parte.- risposi semplicemente.
-          Dalle foto non sembrava che tu non fossi da nessuna parte.- mi prese in giro Paul uscendo un giornale dalla tasca e buttandolo in mezzo al tavolo.
La foto ritraeva me con una ragazza in braccio. Aveva il viso piegato contro il mio petto e non si vedeva. Sembravo un gigante buono che porta in salvo la principessa. Era una bella foto. Sorrisi tra me e aprì il giornale. C’era un’altra foto, lei era in piedi e stava per cadere, la tenevo per il braccio mentre cercava di afferrarsi a me. sembrava sempre così? Era come se fossi la sua sola ancora di salvezza, in ogni foto.
-          Sono venute bene.- scherzai pensando però davvero quello che dicevo. Posai il giornale sul tavolo e presi il caffè. Gli altri mi guardavano sbalorditi. – che c’è?- domandai.
-          O mio dio.- gridò Allie sgranando gli occhi.
-          Che c’è?- domandai di nuovo irritato.
-          Ti sei innamorato?- mi chiese lei con gli occhi che le luccicavano.
-          Non dire stronzate, se lo fossi adesso tornerei a casa.- la informai alzando un sopracciglio.
-          Ma lei è in Italia, non a Dublino.- mi fece notare Max nella sua saggezza.
Perché io che avevo detto? Aggrottai la fronte per un attimo pensieroso poi sgranai gli occhi. Dovevo mandarle subito un messaggio per avvertirla che non sarei tornato.
Infilai una mano nella tasca interna della giacca e tirai fuori il telefono. Poi sentì un rumore sordo.
Qualcosa cadde a terra.
Un libricino dalla copertina consumata dalle pagine piegate, dagli appunti a matita a piè di pagina. Il mio libro. Il suo libro. Mi corresse quella fastidiosa voce. Lo presi e aprì una pagina a caso. C’era una frase sottolineata.
<< non c’è nessun bisogno per me di tornare a casa Lev, per me casa è dove sei tu. >>
 
Tre ore dopo ero di nuovo sotto la cappa di umido di una torrida giornata primaverile siciliana bloccato in quell’aeroporto che era il culo del mondo.
Uscì dalla stanza del ritiro bagagli e mi ritrovai nella sala in cui ero arrivato la prima volta. Allora c’era lei con le sue amichette, questa volta era solo mezzogiorno e mezzo quindi probabilmente era ancora a scuola. Non aveva chiamato per chiedere scusa. A dire il vero non aveva chiamato affatto. Però onestamente ero stanco di essere arrabbiato con lei in silenzio. Volevo essere arrabbiato con lei parlandole, litigando. Con la valigia in mano attraversai tutto l’atrio e uscì nel parcheggio dove la mia macchina mi aspettava. Sorrisi piano.
-          Jonathan…-  mi venne di nuovo in mente il mio incubo della sera prima. Mi voltai e trovai un panino ad attendermi.


avete ragione da vendere se direte che sto diventando sentimentale e smielata ma quando ho scritto questo capitolo ero nel mio momento fiorellini rosa.
e poi sono in generale in un momento fiorellini rosa perchè questo san valentino si prospetta un gran bel san valentino :)
ok basta.
ditemi che ne pensate e siate brutali, come sempre...u.u
vi adoro :) 
viki

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Non c’è nessun bisogno per me di tornare a casa… ***


Image and video hosting by TinyPic


Era colpa mia, tutta colpa mia. come avevo potuto fare una scemenza simile? Adesso non potevo neanche lamentarmi se mi ritrovavo con un maniaco che mi telefonava anche all’una di notte per controllare che stessi bene e un uomo, l’uomo dei miei sogni, che non mi rivolgeva neanche la parola. Ero decisamente la più grande idiota che il mondo avesse mai avuto il piacere di vedere.
Ero seduta in classe, al mio posto, le vacanze di pasqua erano finite, sfortunatamente, ed io mi sentivo depressa come non mai. Il primo giorno di scuola dopo quella settimana avevo trovato sul banco un mazzo di sei rose rosse e un bigliettino. La pessima grafia mi fece subito capire di chi fosse il regalo indesiderato.
« sei giorni insieme, i migliori della mia vita. »
Mi prendi forse in giro coglione? Ti ho chiuso il telefono in faccia almeno dodici volte! La nostra non è neanche una relazione. Solo un fottuto bacio dato per ripicca. Si può essere tanto dementi da non capirlo?
Mi veniva da piangere. Presi i fiori e prima che il mio professore di greco potesse vederli per ricamarci sopra li sistemai malamente sotto il banco.
La mia compagna di banco ormai mi odiava, era definitivo.
-           Amore mio.- sentì gridare. Mi voltai di scatto spaventata e mi ritrovai un paio di labbra appiccicose sulle mie e la sua lingua che faceva forza per infilarsi nella mia bocca.
-           Danilo! Vogliamo farlo fuori dall’istituto scolastico questo intervento?- lo prese in giro il mio professore che era appena entrato in classe.
Perfetto.
Chiusi gli occhi, mi passai una mano sulla bocca e maledissi l’intera specie maschile.
Portavano solo problemi ecco la verità. Adesso nascondere i fiori non era più necessario. Eppure avrei dovuto pazientemente aspettare. Non volevo fare scenate. Volevo che fosse una cosa epica ma che me lo avrebbe soltanto tenuto sufficientemente lontano e mi facesse tornare ad essere una triste, facilmente eccitabile, ragazza single che sbava dietro al suo maledettamente bello coinquilino costretto ai domiciliari. Sorrisi tra me mentre progettavo la mia vendetta contro il ragazzo alle mie spalle.
Quel pomeriggio sarebbe tornato. Si era portato la macchina per partire quindi avrei potuto prendere l’autobus. Ma era la cosa giusta? Magari non voleva vedermi.
Non mi aveva nemmeno salutata prima di andare via e dopo la scenata che gli avevo fatto inutilmente quando mi aveva tolto di dosso le manacce appiccicose di Danilo ne aveva tutte le ragioni. Mi stava aiutando. Io ero stata anche felice che mi avesse aiutato. Era una cosa molto stile principe azzurro delle favole. Però in realtà ero arrabbiata proprio per questo. Lui non era il principe azzurro delle favole, doveva smettere di illudermi. Mi sfuggì un respiro profondo che fece voltare Caro.
Maledizione.
Mi aspettava l’interrogatorio Gamba.
Se c’era una cosa che Carolina Gamba avrebbe fatto da grande quella era sicuramente l’avvocato. Quando inscenava i suoi interrogatoria stile CSI era anche divertente stare a guardare mentre la persona sotto le sue grinfie era costretta a svelare i suoi più piccoli segreti. Il problema sorgeva quando ero io a capitare sotto le sue grinfie. E quella volta, inevitabilmente, sarebbe toccata a me. non prima però di aver concluso il mio piano.
Quando suonò la terza campanella, quella della ricreazione, mi alzai lentamente dal mio posto e mi appoggiai al termosifone incrociando le braccia al petto. Danilo si avvicinò subito avvolgendomi le braccia intorno alla vita e stringendomi a se.
-          Sai amore, pensavo che magari oggi potrei venire a casa tua per passare un po’ di tempo insieme.- sussurrò contro il mio orecchio facendomi ben capire le sue intenzioni.
-          Sai, amore.- lo presi in giro io con un tono acido che lo fece allontanare un po’ – pensavo che magari da oggi potresti  toglierti dalle palle!- gridai contro di lui sbattendogli i suoi fiori in faccia con tanto di bigliettino. – ho fatto voto di castità fino al matrimonio!- lo avvisai prima di uscire dalla classe e raggiungere le mie compagne alla macchinetta del caffè.
Loro ovviamente erano lì ad aspettarmi e mi meritai anche una grande standing ovation per le “palle” che avevo dimostrato a maltrattare il bulletto della scuola. Ovviamente la mia ribellione non sarebbe passata impunita ma non mi importava granchè, onestamente.
Caro mi guardò e mi fece segno di sedermi, immediatamente. Purtroppo non potei far altro che obbedire. Mi sedetti sul bordo della finestra e la guardai negli occhi.
-          Ti ho sentita sospirare.- cominciò lei come se fosse chissà quale grave colpa commessa.
-          Eh già.- mormorai io cercando di trattenere le risate.
-          Oggi torna.- non capivo se lo sapesse, se glielo avessi detto io o se lo avesse dedotto semplicemente da un misero sospiro.
-          Ero arrabbiata- cercai di svincolarmi dalla domanda come meglio potei. – sai tutte le attenzioni di Danilo non facevano proprio per me.- mormorai irritata.
-          Non sviare il punto ragazzina.- mi ordinò lei. – ha chiamato?- domandò prudente.
-          No.- risposi io onestamente sospirando e mettendo il muso.
No, non aveva chiamato. E si che aveva parecchie cose di cui scusarmi.
-          Avresti parecchie cose di cui scusarti, perché non gli hai chiamato?- la voce di Betta prese la mia battuta e la stravolse completamente. Io avevo molte cose di cui scusarmi.
-          Non interrompermi tu!- le ordinò Caro prima di tornare a me. – che intenzioni hai?-
-          Di rendermi ridicola finchè posso stando a rimirarlo mentre mi invade casa.- ammisi in tutta la mia ridicola onestà. Oh mio dio che persona mediocre che ero.
-          Quindi hai lasciato Danilo per lui?- domandò lei di nuovo.
Me l’ero fatta anche io questa domanda.
Nei migliori, o peggiori a seconda dei punti di vista, romanzi rosa, si vedevano sempre scene di gelosia tra i protagonisti. se fossi stata solo un po’ meno realista probabilmente mi sarei impelagata in qualcosa più grande di me. perché la storia della gelosia non funzionava mai. Era inutile sventolargli davanti un ragazzo se a lui non gli importava un cavolo di me. tanto valeva rimanere nella mia miserabile condizione di fan devota che se lo guarda da lontano e che, ogni tanto, viene degnata di miseri momenti di considerazione.
-          Non per lui, per me. la mia dignità era calpestata da Danilo e dal suo ego.- le feci presente mordendomi il labbro.
Caro mi fissò attentamente, prese il portafogli e mi porse 10 euro. Li guardai per un attimo sbalordita e poi tornai di nuovo su di lei. Perché quei soldi?
-          Voglio che prendi l’autobus adesso, che vai all’aeroporto a prenderlo e gli salti addosso come vorresti fare perché tutta questa storia sta davvero diventando ridicola.- mi fece presente. – insomma a pasqua vi gravitavate intorno e quella scenata? Sembrava il fidanzatino geloso di turno.- ovviamente la parte infantile di Carolina aveva ripreso il sopravvento su di lei. Sbuffai sonoramente e le diedi un buffetto sul naso.
-          Caro, sveglia. Quelli sono libri, non esiste nulla di tutto ciò nella realtà. Il nostro primo bacio non è stato neanche uno di quei momenti idilliaci da film in cui poi lui si rende conto di amare la protagonista bruttina.- sbottai liberandomi di tutto ciò che provavo. – mi ha infilato la lingua in bocca solo per rubarmi un cioccolatino!- sbottai io arrabbiata. Quando sollevai lo sguardo avevano tutte e quattro sgranato gli occhi.
-          Lui…- cominciò Betta profondamente colpita.
-          …ti ha…- continuò Ale. Di nuovo quella scena ridicola? Ma non si stancavano mai?
-          …baciata?- finì Caro in fibrillazione cominciando a saltare di gioia come una scema. Perché erano mia amiche? Avrei dovuto uscire con gente sana di mente.
-          Non fatene un caso di stato, vi ho detto che non è stato niente di magico stile harmony ok?-
ah no? mi rimproverò la mia voce interiore. Ci avevo fantasticato giorni interi e adesso venivo a raccontare una balla simile. È solo per loro. Mi dissi.
Caro mi infilò la banconota nel reggiseno e mi fissò con sguardo adirato.
-          Non ti sto nemmeno a sentire.- mi avvisò con fare minaccioso. – tu andrai all’aeroporto e gli dirai almeno quello che hai fatto con Danilo, se non ti salta addosso hai il diritto di non continuare ma se lo fa tu ti abbassi le mutande e la smetti di comportarti come Betta!- concluse. – tanto lo so che stai andando regolarmente dall’estetista nell’eventualità, non venirmi a raccontare storie.- mi prese in giro afferrandomi per il braccio e trascinandomi in classe.
Afferrò la mia cartella, ci infilarono dentro le mie cose e, permesso fatto, alle undici fui fuori dalla scuola, sull’autobus che mi stava portando al mio disastroso appuntamento con la morte.
 
Ero arrivata puntualissima ma il volo portava un certo ritardo. Come sempre. Mi sedetti sulle stesse sedioline in cui lo avevamo aspettato la prima volta con Betta e Caro. Questa volta ero molto più nervosa. Non riuscivo a stare ferma nella sedia. Mi alzai. Mi risedetti. Cominciai a passeggiare avanti e indietro. Mi venne fame. Erano quasi le dodici e mezza. Forse… mi diressi a quel bar dove ero entrata quasi un mese prima. C’era la stessa commessa alla cassa che mi salutò con lo stesso sorriso.
-          Ciao, posso darti qualcosa?- mi domandò.
Anche io come la prima voltai sorrisi e presi lo stesso panino e una bottiglietta d’acqua per me. lo feci incartare e pagai. Mi sentivo ridicola e fuori luogo. Che cosa cavolo stavo facendo? E se non fosse venuto? E se avesse deciso di rimanere a Londra? Lui ne era capace? Quando uscì dal bar c’erano già alcuni passeggeri del volo da Londra che cominciavano ad uscire. Vederlo fu vergognosamente facile. Lo seguì a passo svelto chiedendo permesso alla folla che si rivedeva dopo tanto tempo. Era bello vedere gli arrivi all’aeroporto. Era emozionante in un certo qual modo. Ma adesso avevo le mie priorità, non potevo fermarmi.
-          Jonathan…- lo chiamai quando fui abbastanza vicina da non dover gridare.
Lui si voltò lentamente, sembrava riluttante. Oh no. perché ero lì? Non potevo aspettare che finisse la scuola? Lo avrei rivisto benissimo a casa e sarebbe stato uguale.
-          Ciao.- mi salutò senza particolare trasporto quando si voltò verso di me. non aveva gli occhiali da sole e i suoi occhi chiarissimi mi erano mancati. Sorrisi e gli mostrai il panino.
-          Guarda un po’? non sono stata brava?- domandai scherzando porgendoglielo. Lui lo afferrò con sguardo critico.
-          Saresti stata anche più brava se ti fossi degnata di chiamare. Hai parecchie cose per cui scusarti no?- mi domandò senza scherzare affatto.
Lo aveva detto Betta solo un paio d’ore prima. Adesso anche lui. Forse era vero. E io non volevo litigare. Volevo fare pace e possibilmente ricevere un abbraccio o…un bacio magari?
-          mi dispiace per averti dato addosso, so che volevi aiutarmi ma ero arrabbiata.- cercai di spiegare semplicemente arrossendo.
-          Cosa?- domandò lui sgranando gli occhi. Evidentemente lo avevo colto di sorpresa. Non si aspettava che gli chiedessi scusa davvero?
-          Che ne dici di parlarne in macchina? Oppure vuoi delle scuse pubbliche in conferenza stampa?- lo presi in giro incrociando le braccia al petto. Lui, per una volta, sorrise sincero.
Diede un morso al panino e mi fece strada verso la sua macchina.
-          Chi ti ha accompagnata?- mi domandò quando fummo finalmente arrivati in macchina.
-          Sono venuta con l’autobus.- risposi semplicemente aspettando che mettesse la valigia nel bagagliaio.
-          Certo che il tuo ragazzo è proprio un gentlemen a farti venire con l’autobus.- mi punzecchio un po’ più arrabbiato di quanto mi aspettassi per una semplice battuta.
-          Non c’è l’ho un fidanzato.- risposi arrossendo e salendo in macchina per nascondermi dall’occhiata che mi avrebbe lanciato. Non ero pronto all’occhiata.
Passarono un paio di minuti prima che salisse anche lui in macchina, ero riuscita a calmarmi dalla tempesta ormonale che mi aveva colto in pieno.
-          Che fine ha fatto il ninfomane?- mi domandò acido.
-          Non è il mio tipo.- risposi velocemente.
-          Ah no?- chiese lui mettendo in moto e partendo.
-          No, preferisco…- mi bloccai prima di poter completare la frase e inguaiarmi per sempre mostrando ai quattro venti le mie ossessioni.
-          Cosa? Cosa preferisci?- domandò lui incalzando quando era chiaro che non avrei completato la mia infelice sortita.
-          I francesi.- scherzai meritandomi però un’occhiataccia tremenda da parte sua, come se avessi fatto la più tremenda delle confessioni. Non aggiunsi altro.
Il resto del viaggio fu silenzioso e imbarazzante. Non avevo fatto tutto ciò che mi aveva consigliato Carolina ma la situazione non si era messa come credevamo. O meglio io avevo reso tutto troppo difficile.
Non era il momento.
 
A casa ci aspettava un pranzetto davvero niente male. Non dissi a mia madre che ero andata a prenderlo all’aeroporto e neanche a mio padre che, calmatosi un po’ quando Jonathan non c’era, si era fatto ancora più scuro quella mattina. Forse il lavoro, forse io, forse lui. Forse tutte e tre le cose.
Lui si alzò per primo da tavola prendendo la sua valigia, scusandosi e andando in camera. Quando anche io mi alzai da tavola andai nel salone e mi sedetti al tavolo da pranzo per cominciare a studiare. Sulla pila dei miei libri faceva bella mostra di se un libricino sciupato che non ricordavo. Lo aprì. Era in inglese. Lo avevo letto. Lo sfogliai e riconobbi gli appunti con la ma grafia e ricordai. Il mio libro. Il suo libro.
Sorrisi.
Sulla prima pagina c’era un appunto in italiano, scritto con una bella grafia composta seppure chiaramente maschile.
« Non c’è nessun bisogno per me di tornare a casa Lorie, per me casa è dove sei tu. »
Il mio cuore perse un battito. Era per me. lo aveva scritto lui? Quando? Era un regalo? Sorrisi di nuovo anche di più se possibile.
Quella dedica era meglio di qualsiasi dichiarazione d’amore.



Note Autrice:
è un capitolo davvero corto questo ma è solo di passaggio.
ci saranno capitoli in cui dovrete leggere la bellezza di sette pagine tranquille! u.u mi farò perdonare.
tutto qui.
se c'è qualcosa che volete dirmi, qualsiasi cosa, anche che vi fa schifo, vi prego, fatelo.
rigrazio chi mi lascia sempre una traccio del suo passaggio :) mi fa stare molto meglio

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** La gelosia è un misto d'amore, d'odio, d'avarizia e d'orgoglio. ***


Image and video hosting by TinyPic


Il mese di maggio e anche quello di giugno lo avevo passato praticamente da sola con i miei adorati libri. Anzi, non proprio da sola. Tenevo sempre quel piccolo libricino accanto e ogni volta che mi sentivo stanca, depressa e pronta al suicidio ne leggevo una pagina.
Sarebbero bastate tre settimane soltanto e poi sarei potuta andare dove volevo. Per altre tre settimane. Avevo praticamente una scaletta fittissima di impegni da Giugno fino alla mia laurea praticamente e la maggior parte degli impegni avevano il titolo in grassetto corsivo sottolineato maiuscolo STUDIO.
Avevo detto addio praticamente a tutto ciò che mi rendeva una persona umana e non vedevo l’ora che quel brutto momento finisse. Mio padre si era offerto di prestarmi il suo studio e stavo rintanata là dentro stile Leopardi praticamente diciotto ore al giorno. Non uscivo neanche per mangiare se non quando ero costretta da mia madre e anche allora non riuscivo a mettere nello stomaco più di tre o quattro forchettate di pasta. Fattore positivo: stavo dimagrendo. Avevo perso in poco più di un mese dieci dei miei chiletti in eccesso e, quando ne avrei avuto l’occasione, indossato un vestito, avrei ringraziato tutta quella situazione di merda.
Il caso Meyers era passato in proscrizione. Lui non c’era quasi mai. Dei suoi amici erano arrivati da Londra a fine mese e da quel momento praticamente non era quasi mai tornato a casa. Tanto meglio. Avevo delle occhiaie pazzesche e non ero la più dolce delle creature. Avrei potuto sbranare una persona solo se mi avesse risposto in modo diverso da quello che mi aspettavo. Lui, che di solito amava passare il suo tempo a contraddirmi e farmi arrabbiare, sarebbe stato sicuramente la mia vittima immolata per un sacrificio umano a qualche dio pagano.
Sarebbe stato un vero peccato.
In ogni caso, mentre studiavo greco, latino, italiano, matematica, fisica e altre mille stupide ed inutili materie del cazzo ero anche impegnata nello studio super folle per i test di medicina che avrei dovuto affrontare a settembre. Mia madre non era d’accordo.
Non era contraria all’idea di medicina in se. Fosse stato per quello anzi anche lei riteneva che fosse la scelta più saggia. Il problema per lei stava nel fatto che mi fossi tanto intestardita con quell’idea di medicina che non avevo pensato ad altro.
-          Sai Laura, l’altro ieri su internet valutavo la possibilità di provare i test per lingue o diritto. Sarebbe un buon modo per sfruttare la tua grande conoscenza delle lingue straniere no?- mi aveva proposto lei gentilmente.
Lo sguardo che le lanciai da sotto gli occhiali mentre mettevo in bocca l’ennesima mollica di pane era paragonabile a quello che mio padre aveva lanciato a me la prima volta che aveva visto Jonathan.
-          Certo, sarebbe una possibilità.- mormorai cercando di non gridarle addosso tutto il mio disprezzo. – lo sarebbe se fosse la mia passione ma non lo è, quindi non se ne fa nulla.- conclusi semplicemente alzandomi da tavola, togliendo le mie cose e tornando nello studio di mio padre.
Fu l’ultima volta in cui si prese l’argomento.
Adesso però, a tre settimane dagli esami, non riuscivo a fare a meno di vedere tutto nero. E se mia madre avesse avuto ragione? Se non fossi entrata a medicina? Che avrei fatto? Biologia era fuori discussione. Perdere un anno e non avere la certezza di entrare il successivo era troppo rischioso per me che non avevo grandi disponibilità economiche. Giurisprudenza era altrettanto improponibile. Ci sarebbe stata quella grande competizione col mio ricco cuginastro che non mi avrebbe permesso di godermela appieno. E poi io non volevo fare l’avvocato. Non volevo mentire o trovare sotterfugi. Volevo salvare vite umane. Volevo rendermi utile. Anche Jonathan col suo stupido lavoro era più utile di un avvocato. Scossi la testa cercando di liberarmi da quei pensieri negativi, sospirai e tornai, disperata, sui libri. Non volevo pensare a cose negative. C’erano troppe cose negative a cui pensare altrimenti.
Comunque mia madre ormai la sua decisione l’aveva presa. Se proprio volevo fare medicina l’avrei fatta in accademia. A pensarci bene e a mente fredda quello mi rendeva l’idea di studiare medicina un po’ meno piacevole ma comunque non del tutto schifosa. Non mi importava di allontanarmi da casa. Non c’era niente che mi tenesse legato alla vita fuori da lì che non avrei già perso dopo gli esami anche senza bisogno che mi rinchiudessi in qualche campo di concentramento.
C’ero ricascata. Riecco i pensieri orribili che mi venivano in mente a causa di tutto lo stress. Sospirai stanca e, armata di buona volontà, mi alzai prendendo in mano il libro di letteratura greca, mi misi davanti allo specchio e cominciai a ripetere.

-          Isocrate nacque ad Atene nel 436 a.C., suo padre Teodoro era un ricco cittadino che…-
 
 Pov Jonathan
Sapevo che quella era senza dubbio un’idea di Allie, Max non avrebbe mai fatto una simile incursione solo per “passare un po’ di tempo insieme” non c’era mai stata questa grande necessità nel nostro gruppo. Ci vedevamo quando io ero a Londra o quando mi invitavano per eventi eccezionali. Di certo non era mai capitato che mi seguissero in una cittadina dispersa e dimenticata da Dio solo per vedermi.
Ma dai Allie, perché non hai inventato una scusa migliore sull’aereo?
Purtroppo a quel punto non mi ero più potuto tirare indietro, in ogni caso erano qui e dovevo sopportarmeli.  E non erano soli.
Peter e Jeff arrivarono qualche giorno dopo e si presentarono al ristorante dell’albergo dove stavamo pranzando con un sorriso da schiaffi.
-          Ciao ragazzi, scusate il ritardo ma il lavoro ci ha trattenuti.- spiegò sorridendo a dando una pacca affettuosa sulla spalla di Max che sembrava deliziato da quel piatto di pasta che si ritrovava davanti.
Io avevo mangiato di meglio. E questo, tra le altre cose, mi irritava.
Sarei potuto essere a casa, a mangiare un piatto di pasta davvero delizioso e invece ero lì, con quei quattro cretini che non mi avevano ancora spiegato che cazzo fossero venuti a fare.
-          Figurati, non aspettiamo nessun altro?- domandai burbero mentre loro si accomodavano a tavola. Sembravano tremendamente a loro agio, beati loro.
Nessuno mi rispose.
-          Questa città è carinissima, oggi siamo stati a mare e abbiamo dei biglietti per domani per delle rappresentazioni classiche…- stava raccontando Allie tutta contenta ai nuovi arrivati.
In realtà non ero molto interessato alle loro chiacchere. Da quando ero tornato, quasi due mesi prima, non l’avevo praticamente più vista. Forse l’idea di quel regalo non era stata il massimo. Il fatto che avesse lasciato il suo ragazzo non voleva dire affatto che l’avesse fatto per me, anzi. Forse semplicemente non voleva averne di ragazzi.
Chissà se stava bene. Doveva essere presa dallo studio per la maturità. Avrei voluto darle una mano se quei quattro non avessero invaso la calma della mia quotidianità con la loro visita.
Senza ragione tra l’altro.
-          Allora Jonathan hai sentito Maria?- mi domandò Jeffrie. Lui aveva sempre avuto una cotta clamorosa per mia sorella Marie e, nonostante avesse saputo del suo ragazzo paramedico, non sembrava desistere dai suoi sentimenti. Apprezzabile.
-          No, siamo ancora sul piede di guerra. Quando vorrà chiamerà lei, per implorare il mio perdono tra l’altro.- mormorai irritato. Non ero più abituato a parlare di mia sorella. All’inizio Laura mi aveva chiesto di parlarle poi, dopo che le avevo dato rispostacce un paio di volte, aveva smesso.
-          Ok, scusami, non irritarti più di quanto tu già non lo sia.- mi invitò lui ridendo.
-          È perché la ragazza del giornale non si è fatta viva. Neanche una chiamata o un messaggio.- spiegò Allie rivelando la sua teoria e anche il vero motivo per cui si trovava lì adesso. Mi stava controllando.
-          Oh, brutto segno.- mormorò Peter. – però potresti chiamarle tu.- mi fece notare cercando di sembrare comprensivo.
Santo dio!
-          Ti ringrazio ma non ho davvero bisogno dei tuoi consigli.- gli risposi prendendo un altro boccone di quella pasta un po’ scotta. Avevo un palato troppo sopraffino ormai. Sarebbe stato un dramma tornare a Dublino.
-          Senti, sappiamo che sei un attore e quello che vuoi ma anche noi abbiamo a che fare con le ragazze.- mi fece notare Max comprensivo come sempre.
-          Già. E se vogliamo dirla tutta io sono anche quello che tra noi se la cava meglio.- aggiunse Peter meritandosi il linciaggio da parte di tutti i presenti. Che cosa? Ci credevano davvero a quello che diceva?
-          Ragazzi davvero vi ringrazio ma non è necessario tutto questo.- insistetti alzando leggermente il tono di voce.
-          No, davvero Jonathan, io sono anche una ragazza e ti assicuro che se le chiami non sembrerai affatto disperato, anzi. Infondo spetterebbe agli uomini chiamare. Magari lei è disperata perché tu non le chiami.- cominciò a sproloquiare e tutti cominciarono a commentare dandole ragione.
-          Ok, finitela!- gridai alla fine. La mia pazienza non era granché ma loro avevano davvero rotto il cazzo adesso. – non ho bisogno di chiamarla perché sto a casa sua ok? Lei dorme nella stanza difronte alla mia e se volessi dovrei solo bussare. Ma dato che voi siete venuti qui per rompere le palle e lei sta studiando per gli esami non la vedo praticamente da quando sono tornato.- conclusi.
 Era un po’ di gossip che volevano? Bene li avrei accontentati.
E delusi anche, credevo. Perché non avevo poi tutte queste gran cose da raccontare.
Non dissero nulla, mi guardavano con gli occhi spalancati mentre il cameriere portava via i piatti e ci portava velocemente i secondi. Guardai la cotoletta nel piatto ancora nel silenzio generale e storsi il naso disgustato.
-          Quindi…è una studentessa universitaria?- mi domandò Jeffrie con un chiaro rimprovero nella voce.
-          No.- risposi io tranquillante sentendo il generale sospiro di sollievo dei miei compagni. Quello era assolutamente divertente. – ha 17 anni, deve ancora prendersi il diploma.- precisai cercando di soffocare una risata nel bicchiere d’acqua che stavo bevendo.
-          Cazzo.- sentì dire a Max, il più serio tra noi che se ne esce con quelle brutte parole? Lo guardai sottecchi divertito tagliando la carne che avevo nel piatto.
-          Sai che è minorenne e che potrebbero arrestarti o denunciarti o che so io? E tu sei un personaggio di spettacolo non credo  passa permettertelo. Tua sorella lo sa? O se lo sapesse le verrebbe un infarto. Una diciassettenne. Sei pazzo. E poi questa ragazzina che vive con te…sembra la classica puttanella di…- alzai lo sguardo dal piatto e lei si zittì.
Dovevo averla guardata davvero malissimo perché mi sentivo arrabbiato e offeso per lei.
-          Non stiamo insieme, Allie. È una ragazza a cui proprio Marie a chiesto il favore di ospitarmi finchè non ritorna dal suo tour. E sai perché le ha chiesto di farlo?- le domandai tranquillamente – perché è una fervente cattolica che ritengo abbia fatto voto di castità fino al matrimonio.- conclusi tornando al piatto.
Sapevo che gli altri non erano soddisfatti della risposta. Non capivo per quale motivo fossero venuti. Secondo la base di alcune foto apparse su un giornale? Ne erano apparse di foto sui giornali a decine ma non si erano mai scomodati a fare un viaggio così lungo. Forse lo avevano fatto solo perché questa volta la metà era una tranquilla città Italiana di interesse turistico e sul mare.
-          Quindi sei davvero innamorato…- mormorò lei sbalordita in un sussurro. Gli altri non avevano aperto più bocca dopo la scenata di isterismo di Allison.
-          Cavolo Allie, ma quanti anni hai 15?- le domandai alzando gli occhi al cielo. – non sono innamorato di lei, ve ne avrei parlato, solo non la odio ok? Potrebbe essere mia amica.- conclusi semplicemente sperando che il discorso fosse messo da parte. – allora oggi pomeriggio mare?- proposi per distrarli.
Per un attimo rimasero tutti zitti a fissarmi poi Jeffrie mi salvò.
-          Sì, ovvio. Dopo tre ore in volo un bel bagno ci vuole.-
 
 
Tornai a casa quel pomeriggio molto tardi dopo che mi ebbero strappato la promessa di vederci quella sera alla hall del loro albergo per poter andare in un pub. Che palle. Ero stanco, volevo solo dormire. Mi aveva aperto la porta sua madre. Sua madre era una persona simpatica. Aveva appena compiuto quarantacinque anni e dimostrava esattamente l’età che aveva. Gli occhi grandi e buoni e un bel sorriso. Ero l’unica in quella casa che mi trattava davvero bene. Le sorrisi in segno di ringraziamento quando mi aprì la porta e mi diressi verso il bagno. Avevo bisogno di una doccia.
Una ragazza mi passò accanto nel corridoio. Non era alta ma era molto magra e non mi guardò nemmeno.
Simpatica. Un’amica di Laura ovviamente. Aveva anche gli stessi…sgranai gli occhi quando, dopo qualche secondo, come un idiota, realizzai che non aveva gli stessi capelli. Era lei.
-          Lorie?- la chiamai sbalordito voltandomi indietro. Da quanto tempo non la vedevo? Eppure abitavamo nella stessa casa.
Lei si voltò seccata. Aveva delle profonde occhiaie, i capelli più scombinati del solito e le guance solcate. Ma che aveva fatto, aveva smesso di mangiare? Mi guardò con un sopracciglio alzato aspettando che continuassi.
-          Sembri malata.- le feci notare preoccupato. Perché dovevo preoccuparmi di lei? Che fregava a me?
-          Ma come, non sto bene così? Avevi detto che ero grassa.- mi sputò contro più acida del solito.
Non è vero. Non avevo mai detto che era grassa. A me onestamente lei piaceva anche di più com’era prima.
-          Sembri la gattara pazza dei Simpson.- scherzai divertito ridacchiando. – anzi il fantasma malaticcio della gattara pazza dei Simpson.-
Vidi il suo viso farsi scuso. Aggrottò la fronte e cominciò a tremarle il labbro. Aggrottai la fronte a quell’immagine pietosa che avevo davanti e alzai le mani in segno di resa.
-          Adesso non ti metterai mica a piangere vero?- domandai seccatamente incrociando le braccia al petto.
Lei aveva già gli occhi lucidi e si era voltata per andare via. Non riuscì a resistere a quell’immagine di tristezza e solitudine. Perché Jonathan non ti fai i cazzi tuoi?
-          Non piangere, non piangere stai buona, stavo scherzando.- mi avvicinai di qualche passo e le passai una mano tra i capelli annodati. Sembrava che non li pettinasse da una vita.
-          Sono terribile lo so, sono stanca, non ce la faccio più, voglio che tutto questo finisca.- piagnucolò cercando a forza di trattenere le lacrime.
-          Senti, fatti una doccia, vestiti e andiamo fuori, ci sono quei miei amici di cui ti parlavo che vogliono divertirsi un po’, anche tu ne hai bisogno. Sembrerai molto meno terribile dopo una doccia e un po’ di trucco.- scherzai parlandole pianissimo e passandole le mani sul viso per scostarle i capelli.
Aveva ancora gli occhi lucidi e si mordeva il labbro per evitare di scoppiare a piangere disperata. Le sorrisi rassicurante e le indicai il bagno.
-          Per una sera puoi permetterti di mettere da parte i libri e se anche mi dicessi di no ti porterei fuori a forza.- la minacciai spingendola verso la porta chiusa.
-          Prendimi i vestiti nell’armadio.- mi ordinò lei con la voce ancora spezzata dal pianto frenato e si infilò dentro.
Per una volta non mi lamentai del fatto che dimenticava che non fossi il suo cameriere e entrai in camera. Aprì l’anta dell’armadio e tirai fuori un paio di jeans evidentemente enormi per lei. Di sicuro non aveva avuto tempo per poter fare compre. Ci avremmo pensato. Tirai fuori un paio di leggins blu scuro che erano nascosti sotto uno strato enorme di vestiti. Erano una quattordici anni ma sicuramente le sarebbero stati bene. Una maglietta che invece le sarebbe stata enorme e un paio di ballerine. Se li sarebbe fatti piacere. Li lasciai fuori dalla porta e bussai prima di tornare in camera.
 
Dopo un’oretta eravamo in macchina. Non stava malissimo anche se sembrava che i vestiti che aveva addosso li avesse rubati a sua madre. Non parlava e sapevo che stava pensando alla scuola.
-          Hai mai bevuto?- le domandai mentre, a piedi, entravamo nel centro storico per raggiungere l’albergo dei miei amici.
-          Certo che ho bevuto.- mi rispose affatto seccata, sembrava totalmente disinteressata all’argomento.
-          Intendo seriamente da essere sbronza.- le feci notare con un mezzo sorrisetto divertito. Non mi sembrava proprio il tipo da bevuta lei. Il silenzio me lo confermò. Che carina la bimba.
-          Sì, una volta.- interruppe con quelle tre parole i miei pensieri facendomi voltare verso di lei. Ah. – ma è stato orribile ho pianto tutto il tempo e non riuscivo a vomitare.- raccontò cercando questa volta di trattenere le risate.
-          Potresti riprovare. Di solito la prima volta va sempre tutto male.- le feci notare divertito. La mia prima sbronza neanche me la ricordavo.
-          Domani devo studiare non posso stare piegata sul water tutto il giorno.- mi rispose lei sorridendomi. – però è carino da parte tua preoccuparti.- apprezzò con un sorriso enorme.
Sbuffai come se mi scocciasse un po’ tutto quello zucchero e quel miele. In realtà non mi dava fastidio. Non più di tanto almeno. Tamburellai con le dita sul volente e per un po’ tacqui. Poi, sbuffando, dissi:
-          Te lo avevo detto che sei più carina quando sorridi.- le feci notare gentile. Troppo gentile. Ma perché mi stavo riducendo così? Quella ragazza rischiava di castrarmi. - Anche se sei troppo magra.- la blandì cercando di darmi un tono.
-          Uno zucchero come sempre.- mi rimproverò lei ridacchiando.
I miei amici mi aspettavano nella hall. Allie era vestita in modo molto simile alla ragazza al mio fianco solo che i vestiti erano della taglia giusta. Max e Jeffrie avevano già cominciato a bare e Peter non si vedeva. Quando entrammo tutti e tre si voltarono verso di me.
-          Sei in ritardo Rhys-Meyers. Di ventitré minuti anche. Quale ragione valida hai per aver spinto Peter ad andare a prendere una birra dal mini-bar?- mi domandò Allie ridendo.
-          Non è colpa mia.- mi difesi mostrando le mani proclamandomi innocente. – è rimasta chiusa tre ore in bagno e mi ha fatto fare tardi.- risposi semplicemente a discapito della mia compagna.
-          È rimasta? Stiamo parlando della ragazzina minorenne di cui sei inn…- Allie aveva già cominciato a straparlare e non era neanche ubbriaca. Fortunatamente Lorie la interruppe.
-          Sono io scusate. Non volevo fargli fare tardi ma avevo un necessario bisogno di trucco stasera.- si stava scusando. Aveva quel sorriso da: già ti voglio bene, tu devi volermi bene, che avrebbe conquistato chiunque.
Allison la stava guardando critica ma non poté fermare un sorriso che le illuminò il viso.
-          Figurati, perdonata. Noi donne abbiamo i nostri tempi si sa. Io sono Allison, piacere di conoscerti.- si presentò cordiale porgendole la mano.
-          Laura.- disse quella a sua volta stringendogliela.
Peter intanto stava uscendo dall’ascensore e non teneva di certo in mano una birra ma una fiaschetta che probabilmente conteneva del rum. Ci andava da subito giù pensante. Max e Jeffrie si erano avvicinati e si erano presentati. E stavano chiacchierando amabilmente tutti sorrisi e risatine.
-          Ehilà bell’attore sei arrivato. Allora andiamo adesso che voglio cominciare a bere?- domandò ad alta voce facendosi largo nel gruppetto. Quando incrociò la testa ricciuta di Laura si bloccò. – e tu chi sei?- chiese per nulla gentile.
Lei sfoderò il suo solito sorriso gentile e imbarazzato che riservava agli estranei per farli cadere ai suoi piedi e gli porse la mano.
-          Laura.- ripeté per l’ennesima volta. Quello rimase per un attimo diffidente poi si aprì in un sorriso e l’abbracciò.
Prima che potessi fare nulla per toglierglielo di dosso Max l’aveva già liberata dalla presa del mio amico e le sorrideva.
-          Scusalo, lui è sempre un po’ troppo espansivo.- le spiegò mettendo le mani in tasca.
-          Figurati, ti ringrazio Maximillian.- rispose lei sollevando appena gli angoli delle labbra.
-          Chiamami Max.-
Chiamami stronzo. Mi venne immediatamente in mente mordendomi il labbro e lanciandogli un’occhiataccia che non colse. Era troppo impegnato a spogliarla con gli occhi per pensare a me.

Allie mi prese a braccetto e uscì fuori dall’albergo cominciando a parlare e chiedendomi di portarli in un bel pub. Perché non chiedeva a Laura? Era lei che abitava qui da sempre, non io. Invece la lasciò dietro con Max mentre Jeffrie e Peter stavano con noi e valutavano i pro e i contro del mare.
 
 Pov Laura
Uscire non era stata affatto una cattiva idea. Eravamo appena entrati in un pub in cui di solito io non ero abituata ad andare perché si riunivano i ragazzi più grandi, come quelli con cui ero uscita quella sera del resto. Eppure non ero affatto eccitata all’idea di essere in quel bar. Per lo meno non quando lo ero all’idea del ragazzo carinissimo con cui stavo parlando adesso. Lui si era seduto a capotavola da una parte ed io avevo preso il posto accanto al suo ad angolo. Alla mia destra c’era quel ragazzo gentile che doveva chiamarsi Joffreis, Jeffre o qualcosa di simile. Difronte a me l’unica ragazza di quel gruppo di amici. Una bambolina bionda con due profondi occhi azzurri e un fisico invidiabile. Accanto a lei Jonathan. Chissà se erano davvero intimi come sembrava. Lei gli stava attaccata addosso senza lasciarlo andare neanche un secondo e se non ci fosse stato quel ragazzo carino a tenermi occupata la mente probabilmente avrei fatto la parte della ragazzina gelosa. Il ragazzo troppo espansivo era al bancone a prendere da bere e quando torno si sedette capotavola dall’altra parte del tavolo.
-          Allora, anche se Laura è minorenne per stasera chiudiamo un occhio noi ragazzi grandi e responsabili e le diamo una birra che si farà bastare per tutta la serata ok?- propose lui scoppiando a ridere prima di bar passare strisciando la bottiglia per tutto il tavolo. L’afferrai al volo e gli sorrisi divertita.
-          Sei davvero magnanimo.- scherzai mentre lui assumeva un espressone seria e mi faceva un cenno col capo.
-          Lo so, ma non preoccuparti non c’è nessun bisogno che tu mi ringrazi.- mi rassicurò scherzando con me anche lui e atteggiandosi a signore feudale. Scoppiai a ridere e lui con me.
-          Allora Laura in cosa devi diplomarti?- mi domandò Max attirando di nuovo la mia attenzione e bevendo un sorso della sua birra.
-          Classico.- risposi semplicemente storcendo il naso. – non è stata una scelta saggia.-
-          Non ci sono scelte saggie a scuola.- mi rispose lui facendo spallucce.
-          Già.- acconsentì io con un sospiro.
-          Basta parlare di scuola adesso. Raccontami qualcosa di te…- mi propose.
In questo momento sto facendo uno sforzo sovraumano per non strangolare la biondina che si sta spalmando sul mio Jonathan come una gatta morta e non vorrei proprio essere qui con tutti voi. Pensai tra me in una frazione di secondo prima di sorridere e rispondere seriamente:
-          a dire il vero non c’è niente di entusiasmante da raccontare. Tra poco avrò gli esami e dopo dovrò studiare ancora per i test di ammissione a medicina.- conclusi in breve.
-          Wow dottoressa sexy ci piace.- scherzò lui ridacchiando. Io arrossì leggermente.
-          E tu invece?- chiesi velocemente per cambiare discorso.
-          Sono un avvocato penalista a Londra, l’unico di questi sbarbateli che ha un lavoro serio.- mi rispose ridendo senza essere davvero duro contro i suoi compagni. Avvocato? Davvero? Lo guardai per un attimo sperando che non si fosse notata tutto il mio disprezzo verso di lui.
-          Potresti evitare di dare così chiaramente l’impressione di volergli saltare addosso Lorie?- i miei pensieri furono interrotti da quel rimprovero durissimo che arrivava dall’uomo dagli occhi di ghiaccio davanti a me.
evidentemente non si vedeva il disprezzo. Sorrisi, alzai la birra ormai vuota e poi guardai Peter.
-          Che ne dici di essere magnanimo una seconda volta, mio signore?- domandai ridendo mentre lui mi fissava divertito.
-          Tu sei assolutamente una donna da sposare.- scherzò lui porgendomi un altro drink ben più forte della birra. – Max amico, buona fortuna.- annunciò alzando il suo bicchiere e brindando con l’amico.
Quello non fu affatto il secondo e ultimo bicchiere della serata.

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** È difficile parlare con un ubriaco; inutile negare, chi non ha bevuto si trova in uno stato d'inferiorità ***


-          In ogni caso questa mi sembra davvero, davvero una bella serata.- scoppiò a ridere senza motivo nascondendo il viso contro la spalla di Max.
Avevamo lasciato il locale dopo qualche bicchiere ma Peter, non contento, aveva acquistato una bottiglia di scotch che era finita nelle mani di Laura che non l’aveva lasciata fino a finirla. Adesso era totalmente ubriaca. E tremendamente buffa.
Si alzò di scatto dalla panchina dove si era seduta. Eravamo finiti in una piccola piazza vicino all’hotel dei miei amici. Sembrava quasi una terrazza che dava sul mare. Si appoggiò alla ringhiera e lo guardò ridendo.
-          È un vero peccato che tu sia uno stupido avvocato del cazzo, potresti anche piacermi.- gli disse con immensa sfacciataggine facendo scoppiare tutti noi a ridere. Tutti tranne Max, visto che per lui il suo lavoro era la migliore delle conquiste.
-          Cos’ha il mio lavoro che non va?- anche lui, da come parlava e da come si muoveva per raggiungerla, non doveva essere completamente sobrio.
-          Il tuo lavoro consiste tutto nel mentire. Non mi piace. Io sono del tipo che dice le cose come stanno.- rispose togliendoselo di dosso con le poche forze che aveva.
Già di suo non era esattamente una ragazza di quelle palestrate con chissà quale forza nelle braccia. Tutto il peso in meno adesso, la mancanza di cibo e tutto lo stress l’avevano indebolita anche di più.
-          E a proposito di questo…- aveva ricominciando ridacchiando e avvicinandosi a me che ero rimasto in disparte, una mano infilata nella tasca dei jeans trattenendo a stento la voglia di prendere il telefono e farle un video e nell’altra una sigaretta che era quasi finita. – tu sei davvero, davvero un coglione Jonathan Rhys-Meyers.- sentenziò accompagnando quelle parole con un gesto della testa.
Vino veritas?
Mi morsi il labbro per non fare commenti mentre Allie, solo leggermente brilla, l’afferrava per mano e saliva in piedi sulla panchina.
-          Fateci un video! Poi mandalo a Maria così vede che siamo più brave di lei.- scherzò prendendo il telefono e mettendo la base di una canzone che non conoscevo.
Jeffries si era alzato in piedi, aveva preso il telefono e aveva cominciato a riprenderle mentre strillavano come delle pazze le parole di una canzone che, ammesso che l’avessi conosciuta, non sarei mai riuscito a capire tanto erano storpiate. L’una con la sua voce per nulla melodiosa, l’altra con il suo accento italiano e la voce impastata dall’alcol e dalla stanchezza. Cercai di non ridere come invece stavano facendo gli altri tre. Max sembrava aver dimenticato l’offesa subita e, salito sulla panchina aveva cominciato  a cantare anche lui, un’altra canzone però, afferrando Lorie alla vita e stringendosela addosso. Mi morsi il labbro sempre più forte mentre Peter si univa al trio dall’altra parte e mi accesi l’ennesima sigaretta. Mi ero quasi dimenticato quanto fosse rilassante fumare.
La gente cominciava a fermarsi e a guardare. Non era una buona cosa per me.
Mi avvicinai velocemente e li guardai severamente strappando il telefono di mano ad Allie che sembrava divertirsi un mondo. Mi guardò con occhi assassini e mi fulminò malamente con lo sguardo.
-          Non è per nulla carino da parte tua lo sai?- mi rispose scendendo dalla panchina e cominciando a inseguirmi e a saltarmi addosso per cercare di riprendersi l’oggetto che stringevo in mano, troppo in alto perché potesse arrivarci.
-          Sì, lo so. Però adesso basta, è tardi e dobbiamo tutti tornare a casa.- le feci presente invitando gli altri sulla panchina a scendere.
Peter e Max non erano troppo sbronzi per non darmi retta e non capire il motivo del mio comportamento, così mi ascoltarono e si diedero un tono. Certo, non era il loro momento serietà migliore ma poteva andare.
-          Non mi va, voglio cantare ancora, ci stavamo divertendo.- rispose invece quella piccoletta totalmente andata mettendo il muso e incrociando le braccia al petto.
Max scoppiò a ridere e, prendendola in braccio, la tirò giù di lì. Lei lanciò un grido e per un attimo, solo per un attimo, dopo aver capito le intenzioni che aveva Max, mi venne voglia di prenderlo, di buttarlo a mare e fargli rinfrescare le idee. Le sue labbra infatti arrivarono velocissime per bloccare le sue grida chiudendogliele con un bacio. Per un attimo quella rimase in silenzio poi, sospirando sonoramente, lo allontanò e gli sventolò il dito davanti la faccia.
-          Non si fa così.- gli fece notare assumendo un atteggiamento da maestrina che mi fece sorridere. Mi dispiaceva un po’ per lui quasi. – si fa così.- mormorò prima di avventarsi su di lui in un bacio molto più spinto di quello che si era riservato il mio amico.
Quello fu decisamente troppo anche per la mia enorme buona volontà. Mi avvicinai a loro velocemente.
-          Lasciala andare Maximillian.- gli ordinai. La sua risposta fu solo un dito che si alzava per invitarmi ad aspettare un attimo. Io non avevo un attimo.
Dopo aver afferrato il braccio di Max che la teneva stretta e averglielo portato in una posizione decisamente innaturale, lo costrinsi a lasciarla andare e, la smorfia di dolore e il lamento che gli uscirono dalle labbra lo fecero anche allontanare da lei. La lasciò andare di colpo facendola quasi cadere a terra. L’afferrai per le spalle un attimo prima che cadesse malamente e potesse ferirsi davvero.
-          Cazzo Jonathan mi hai fatto male.- si lamentò quello massaggiandosi il braccio.
-          Ti avevo detto di lasciarla anche con le buone.- gli feci presente io prima di afferrare lei per un braccio e trattenerla.
-          Dai Johnny, ci stiamo solo divertendo.- scherzò Jeffries posando il telefono e avvicinandosi a noi.
-          Bene, potete continuare pure, noi però andiamo via.- risposi semplicemente salutandoli in modo veloce e sbrigativo e andando via con la ragazzina al mio fianco che mi seguiva sui piedi malsicuri.
-          Sai cosa Meyers? Sei davvero un rompipalle te l’ho già detto?- mi apostrofò lei mettendo il muso e giocando con le dita che la tenevano per il braccio trascinandola.
-          Sì, lo hai già detto un paio di volte.- le risposi tranquillamente.
-          Dovresti fare qualcosa a riguardo.- mi consigliò prima di scoppiare a ridere e lasciarsi cadere a terra. Cercai di ammorbidirle la caduta tirandola su per il braccio per cui la tenevo ma finì lo stesso a terra.
-          Farò qualcosa a riguardo però ora alzati e torniamo a casa.- le ordinai cercando di aiutarla ad alzarsi.
Non faceva altro che ridere. L’afferrai per le spalle tirandola su di peso e lei si afferrò alle mie spalle senza lasciarmi andare. Mi finì addosso e mi sbilanciò un po’ indietro. Santo cielo ma chi me lo aveva fatto fare?
-          Oh, hai un odore davvero buonissimo.- sussurrò contro il mio collo sorridendo poi piano. Mi lasciò un bacio vicino l’orecchio e mi passò la lingua sulla mandibola. – hai anche un buon sapore.- concluse a  quel punto scoppiando a ridere.
Mi tirai indietro e, circondandole la vita con un braccio, l’aiutai a mettere un piede davanti all’altro per raggiungere la macchina. Sua madre mi avrebbe voluto uccidere, suo padre probabilmente avrebbe compiuto il crimine e si sarebbe disfatto del mio cadavere raccontando alla sua piccina di esserselo sognato. Forse tornare a casa non era una buona idea. Certo che neanche sequestrarla mi sembrava un’idea così geniale.
Mi fermai in uno spiazzo e la feci sedere sui gradini di una chiesa. Una delle tante in quella città. Probabilmente c’erano più chiese che persone. Le presi il telefono dalla borsa e la guardai.
-          Laura, stammi a sentire.- lei mi guardò negli occhi cercando di non scoppiare a ridere. – devi darmi il numero di una delle tue migliori amiche adesso ok?-
Lei scoppiò in una risata che si trasformò quasi subito in un pianto disperato. Si accucciò sui gradini continuando a piangere e stringendosi le ginocchia al petto.
-          Non puoi chiamarla, non puoi, lei non è più mia amica.- singhiozzò riprendendo a piangere.
Ecco cosa intendeva quando parlava di crisi disperata da sbronza. Del tutto normale. Sbuffai e mi abbassai su di lei.
-          Lorie, stammi a sentire, devi darmi quel numero.- le ordinai cercando però di essere gentile allo stesso tempo.
-          Lei mi odia. Dice che non vuole più essere la mia migliore amica, siamo solo amiche. Eppure io le voglio così bene. Perché non me ne vuole? Sono una persona così orribile? Sono orribile vero?- mi domandò alzandosi solo per potermi guardare negli occhi.
-          No, Lorie, non sei orribile però…-
-          Allora perché non mi vuole parlare più? Perché non sono sua amica? Che ho fatto? Mi manca così tanto. Era la mia migliore amica. Mi sento così sola adesso.- sussurrò continuando a piangere.
Era davvero disperata, non c’era in lei nessun segno che la facesse sembrare l’esagerazione di una sbronza, era un dolore profondo che mi fece sentire triste quanto lei. Sola.
Anche io sono solo Lorie. Siamo soli insieme. Non piangere. Avrei voluto dirglielo ma non lo feci. Mi alzai e cercai nella rubrica un nome che mi fosse familiare.
Betta.
Il nome storpiato di quella ragazzina. Poteva andare. Non guardai l’ora, era un’emergenza e avrebbero capito. Premetti l’avvio di chiamata e attesi. Squillò quasi fino alla fine prima che una voce impastata dal sonno mi rispondesse.
-          Lollo, che c’è?- rispose quella dall’altra parte.
-          Eh…tu sei Betta giusto? Ciao, sono Jonathan.- un po’ mi pentì di non essere stato gentile con loro fin dall’inizio. A quel punto sarebbe stato più facile.
-          Che vuoi?- mi domandò infatti lei per niente gentile.
-          Senti, Lorie è praticamente in coma etilico e non posso portarla a casa così, potresti chiamare sua madre dirle che vi siete incrociate e che dorme da te?- le domandai velocemente sentendo quella agitarsi dall’altra parte del telefono.
-          Lorie? Chi è Lorie?- domandò agitata.
-          Laura, Lollo o come cazzo la chiamate voi.- risposi indisponendomi. Non poteva semplicemente dire sì e basta?
-          In coma etilico? Che è successo? Dove siete? Sta bene? Passamela!- mi aveva sommerso di domande, una dopo l’altra, alla fine si era bloccata con un ordine perentorio.
-          È in lacrime perché…oh beh non sono affari tuoi. Ha bevuto un po’ e sua madre non sarebbe felice di vederla così quindi adesso mi fai il favore che ti ho chiesto?- le domandai acido mordendomi il labbro per non inveirle contro.
Rimase per un attimo in silenzio come se avesse bisogno di pensarci. Poi la sentì sospirare.
-          Ci penso io.- mormorò piano. – sapevo che tu non era una cosa buona per lei.- mormorò mettendo giù.
Ringraziai mentalmente la ragazzina dal nome storpiato e rimisi il telefono dentro la borsa di Laura, poi mi abbassai su di lei e le passai una mano sui capelli.
-          Lorie, adesso andiamo a dormire ok? Domani andrà tutto bene.- le promisi aiutandola ad alzarsi.
Quando fu in piedi mi guardò, con gli occhi ancora lucidi per le lacrime, e mi sorrise per metà.
-          Sei così gentile oggi con me. perché non sei sempre così?- mi domandò prima di ridacchiare piano e aggrapparsi al mio fianco. – sai che c’è Meyers? Il vero disastro è che mi piaci tanto. Davvero tanto. E tu sei così criptico.- scoppiò a ridere con ancora qualche lacrima che le rigava il suo bel visino.
-          Stai straparlando.- la rimproverai.
Davanti a noi l’insegna di un piccolo bed and breakfast. Entrai tenendola al mio fianco e mi avvicinai alla hall. Un signore stava lì giocando al computer in silenzio. Quando mi vide scattò in piedi e mi sorrise.
-          Salve signore posso esserle d’aiuto?- domandò cortese. La ragazza al mio fianco scoppiò a ridere meritandosi un’occhiataccia dal signore davanti a me.
-          Guarda che carino. Sembri Winnie Pooh.- gridò lei tra le risa sporgendosi sul bancone per cercare di raggiungerlo. L’afferrai per la vita mentre l’uomo faceva un passo indietro spaventato. – carino, davvero carino.- continuò lei. – certo non sei bello come lui, ma mica tutti siamo lui no?- scherzò lei prima di voltarsi verso di me e prendermi il mento tra le dita.
L’allontanai piano tornando al mio interlocutore.
-          Una doppia per favore.- gli domandai gentilmente prima che lui si voltasse e prendesse i moduli per la registrazione.
Laura intanto cercava ancora di giocare con me punzecchiandomi come una bambina. Mi passò una mano sulla guancia ridacchiando piano e sbuffò al mio ennesimo rifiuto.
-          Perché non giochi con me?- mormorò seccata mentre il signore mi dava dei fogli da firmare, mi consegnava la chiave e prendeva il mio documento.
-          Ha bisogno di qualcosa signore per…la sua fidanzata?- mi domandò gentilmente con fare preoccupato.
-          No, la ringrazio.- risposi io spingendola via.
-          Ciao ciao Winnie Pooh, buona notte.- gli augurò lei mentre la trascinavo via per il corridoio verso l’ascensore. – lo sai che l’ascensore e il posto dove capitano più adulteri? Si accende la scintilla dicono. Proviamo?- domandò lei ridacchiando e, abbracciatomi, cercava di baciarmi.
-          No, non proviamo affatto.- le risposi scendendo al nostro piano.
Correva per il corridoio come una bambina di cinque anni mentre io raggiungevo la camera e aprivo la porta. Entrò di corsa come una pazza superandomi ridendo e gridando: - ti ho battuto, adesso devi fare penitenza.- chiusi la porta davvero stanco di quella serata. Lei si buttò a letto e sorrise.
-          Levati le scarpe sul letto Lorie!- le ordinai.
Lei le fece volare dall’altra parte e si tolse anche la maglietta e i leggins rimanendo sul letto in intimo. Perché diventava improvvisamente così aperta? E perché io ero così coglione?
Non riuscivo infatti a fare a meno di guardarla.
Era davvero bellissima anche così magra. Non era un cambiamento eccessivo. Non era ancora l’ossuta ragazza da passerella. Doveva ancora essere morbida e calda…sembrava la ragazza del mio sogno in quel momento.
-          Ti piaccio?- sussurrò un po’ timorosa guardandomi dalla sua posizione sul letto. Era inginocchiata sulle coperte le braccia lungo i fianchi, il respiro accelerato.
-          Sì, mi piaci.- le risposi. Lei mi rispose con un bellissimo sorriso e si morse il labbro scendendo dal letto.
-          Anche tu mi piaci.- mi informò.
Mi prese per mano quando fu abbastanza vicina e mi trascinò a letto. In realtà io non stavo opponendo nessunissima resistenza. Ero completamente in balia dei suoi occhi e del suo corpo. Alcune volte ero davvero un coglione.
-          Lorie io credo che tu sia…- stavo cominciando ma lei si era già abbassata su di me e mi aveva baciato.
Probabilmente era la cosa più audace del mondo per lei.
Il bacio più casto del mondo per me, la cosa più stupida, per lei era il gesto più incredibile e sconsiderato. Avevo baciato così tanta gente io. Attrici bellissime, donne di successo, Reena. E le avevo baciate in modi molto più seri. Avevo sentito il loro sapore, la loro saliva. Quella volta sentivo solo le sue labbra, non la stavo toccando con le mani, non ero nudo e non stava cercando di farmi eccitare. Era addosso a me con un’innocenza fanciullesca e cercava di sentirmi vicino solo con quel bacio.
-          Ti fa sentire meno sola?- le domandai quando si fu allontanata un po’.
Era ancora sdraiata sopra di me ma sembrava non accorgersene. Mi teneva per il colletto come se avessi potuto andarmene. Scosse la testa e mi fece una carezza sulla guancia. Aveva la mano fredda. Come nel mio sogno.
-          Sì, e a te piacciono le cose che fai ora?- mi domandò. Era la stessa domanda che mi aveva fatto per pasqua quando, sobria, si era interessata della mia vita per la prima volta.
-          Ti interessa davvero?- le domandai a mia volta sbalordito. Era ubriaca. Che le importava di quello adesso? Come poteva non piacermi?
-          Non voglio che tu ti senta costretto, non voglio che tu perda te stesso. Voglio che tu possa ritrovarlo…- sussurrò era la stessa situazione del mio sogno. Volevo che mi baciasse ma non lo faceva.
Le passai una mano sul fianco. Mi sembrava di violarla soltanto toccandola. Cosa non ha fatto questa carne? Cosa non ha visto? Devo essere io? Sono nel posto giusto? Sono quello giusto? È il momento giusto?
Troppe domande.
Mi sentivo dilaniato in due.
Da una parte avrei potuto sbatterla sotto di me e farle ciò che volevo. Lei non mi avrebbe fermato e non ci sarebbe voluto altro. Mi sarei vendicato perfettamente per tutto ciò che mi aveva fatto.
Cosa mi aveva fatto poi? Per quattro schizzi meritava di essere oltraggiata in quel modo?
Non siamo nell’ottocento Jonathan. Mi ricordai da solo vergognandomi quasi di aver potuto pensare una cosa del genere.
Che cosa ero diventato? L’orsacchiotto di quella ragazzina?
Eppure la maggior parte di me mi gridava di stringerla al petto e di lasciarla dormire. Avrebbe smaltito la sbornia e l’indomani non avrebbe ricordato nulla.
Goditi la serata Jonathan, pensa a come potrebbe essere se tu non fossi il coglione che sei e potessi avere una ragazza come lei. Se potessi avere lei. Pensaci mentre dorme, mentre le rubi dei baci che da sveglia non ti darebbe mai.
Evidentemente io stesso non ero il primo sostenitore di me stesso.
Mi passò entrambe le mani sul viso e mi baciò ancora una, due, tre, quattro volte. Mi baciò tutto il viso, mi coccolò come se fossi l’unico essere umano al mondo per cui valesse la pena di sprecare baci e carezze. E io non protestai. Mi feci abbracciare e baciare, e risposi ad ogni bacio.
-          Puoi chiamarmi per nome?- le domandai ad un tratto. Lei sembrava farsi sempre più stanca, mi accarezzava i capelli o la guancia, mi posava un bacio sul viso e si poggiava sul mio petto.
-          Cosa?- domandò sfiorandomi la barba del mento, accarezzandola piano.
-          Chiamami per nome ti prego.- sussurrai prendendole la mano e baciandole piano il palmo e ogni dito.
Lei si tirò su un pochino e mi guardò negli occhi sorridendo appena. Erano quasi verdi adesso, e piccoli e lucidi. Mi guardò con un affetto enorme che credevo di non meritare.
-          Jonathan…- sussurrò piano prima di sfiorarmi di nuovo le labbra con le sue.
Sorrisi tra me, felice che stesse passando quella serata con me e di non essere nella sua mente nessun altro. Soddisfatto che quell’affetto fosse per me. soltanto per me. sospirai e, prendendola in braccio, la feci scivolare piano al mio fianco sotto le coperte.
-          No.- mugolò lei preoccupata, cercò di voltarsi verso di me  ma le lenzuola la tenevano ferma. Sorrisi e l’aiutai a girarsi verso di me e le scostai i capelli dal viso. Sembrava che stesse per piangere. – non andartene.- sussurrò piano.
-          Non me ne vado, però adesso dormi un po’, ti prego.- le proposi stringendola al petto.
-          Voglio farti le coccole.- sussurrò lei.
-          Lascia che sia io a fartele adesso, quando…- mi bloccai. Stavo per dire quando ti sveglierai ma dubitavo che quando si fosse svegliata sarebbe stata felice di riprendere da dove avevamo lasciato. – quando vorrai riprenderemo da dove ti sei dovuta fermare ok?- le proposi dandole un ultimo bacio prima che, sfinita, si addormentasse tra le mie braccia.
 
La mattina dopo mi alzai presto. Lei era ancora tra le mie braccia nascosta contro il mio petto con il viso contro il mio collo. Mi alzai dal letto ancora vestito, mi passai una mano tra i capelli e, dopo essermi lavato la faccia e averle lasciato un messaggio e una tazza di caffè amaro uscì da quella piccola stanza e andai a vedere come stavano i miei amici. Lei avrebbe avuto bisogno di un momento di privacy per potersi fare una doccia, bere quel caffè e riprendersi un po’. E io non volevo che mi gridasse contro perché temeva che l’avessi toccata.
Quando salì in camera Jeffries era già sveglio. Lui aveva bevuto meno di tutti la sera prima. Solo un po’ più di me ma comunque era rimasto abbastanza sobrio, solo un po’ allegro. Mi venne ad aprire lui infatti, avvisandomi che stavano tutti bene. Peter mi salutò divertito.
-          Allora, ti sei dato da fare stanotte?- mi domandò con un’allusione affatto velata. Gli lanciai un’occhiataccia.
-          No, ho cercato di evitare che si gettasse giù da un ponte.- risposi per nulla divertito. – come sta Allie?- domandai ricordando che lei era la più brilla di tutti loro.
-          Dorme quindi vuol dire che l’ha presa abbastanza bene dopo tutto.- rispose Peter tornando alla sua colazione in camera.
Max, seduto al tavolino difronte a Peter, non mi aveva neanche rivolto la parola.
-          Ciao Max.- lo salutai allora io tranquillamente dandogli una pacca sulla spalla. Lui mi afferrò malamente il braccio stringendolo e conficcandogli le unghia. Sembrava una ragazza alcune volte.
-          Ciao amico.- sputò lui prima di lasciarmi andare e spingermi indietro.
Ero rimasto per un momento sbalordito da quel comportamento e non mi ero reso conto che sia Peter che Jeffries avevano lasciato il salottino per rifugiarsi in un luogo più sicuro.
-          C’è qualche problema?- gli domandai con cattiveria afferrandolo per una spalla e costringendolo a girarsi verso di me.
-          Sei tu il problema Meyers!- mi sputò quello in faccia alzandosi di scatto dalla sedia.
-          Io?- domandai di nuovo alzando un sopracciglio senza indietreggiare di un passo davanti alla sua ira per me inspiegabile.
-          Avevo dei programmi ieri sera. I ragazzi lo avevano capito. Avevo marcato il territorio capisci?- mi spiegò con larghi movimenti delle mani. – tu ti sei messo in mezzo, non si fa così amico. Lei era così fatta che sarebbe venuta con me comunque.-
Ah, ecco di cosa stavamo parlando. Mi sfuggì un sorriso divertito.
-          Dai Max, finiscila. Giuro che ho apprezzato il vostro piano e avete tutte le ragioni del mondo. Lo posso ammettere benissimo adesso…-
-          Non stiamo parlando di te!- gridò quello arrabbiato. – stiamo parlando di me e di quella ragazza ok?-
Lo guardai come se mi trovassi di fronte un mostro. Ma che cosa stava dicendo? Era forse impazzito?
-          Quella ragazza Max? ha diciassette anni.- gli feci notare disgustato.
-          E allora?- mi domandò.
-          È illegale.- insistetti sempre più alterato.
-          Io so cosa è illegale Jonathan, non serve che spieghi ad un avvocato cosa è illegale!- gridò di nuovo infuriato. – e non credo che tu sia in una posizione migliore della mia, Meyers!- sputò inviperito.
La sua rabbia mi indispose ancora di più. Avevo vissuto anni bui nella mia vita. Ero stato trattenuto anche in carcere per qualche mese a causa di atti di violenza. Lui stava mandando a puttane anni di psicoterapia in pochi minuti. Lo afferrai per il colletto stringendo i denti. lo sollevai leggermente da terra e lo strattonai diverse volte.
-          Noi siamo amici, Max- pronunciai il suo nome come il peggiore degli insulti. – quindi sarò magnanimo e ti darò un suggerimento. Non-toccare-quella-ragazza!- sibilai tra i denti dandogli un’altra scrollatina.
Lui si liberò dalla mia presa e mi spinse via.
-          E perché non dovrei? Perché me lo ordini tu?- mi sfidò.
-          Perché lei è mia, e se tu provi solo ad avvicinarti ti spezzo le dita e se l’avvertimento non servirà a farti desistere di spezzerò un altro piccolo ossicino che non guarisce. Capisci?- conclusi utilizzando un tono derisorio di sfida che non ammetteva repliche.
Lo spinsi via un’ultima volta quando aveva cercato di avvicinarsi di nuovo e, girandogli le spalle, ero andato via, indifferente alle sue proteste.

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Esame di Maturità: Una perfidia che non ha eguali nella storia delle nazioni civili. ***


Entrai in quella stanza d’albergo che era quasi mattina. La sera prima avevo fatto ciò che mi era stato chiesto, contro voglia, eppure lo avevo fatto. Non mi piaceva raccontare bugie e la madre di Laura non sembrava nemmeno averci creduto.

Ricordai con amarezza la sua voce quando mi chiedeva se almeno Jonathan sarebbe tornato a casa.

- Non saprei, forse no Graziella, non è venuto con noi. Non abbiamo un gran bel rapporto con lui.- le avevo risposto sinceramente.

- Già. Non capisco se possa rappresentare un problema per Laura…- mormorò preoccupata per la sua bambina.

Cosa avrei potuto dirle? Che era il più grande problema che Lollo avesse mai avuto? Più di qualsiasi altro ragazzo o amica o chicchessia.

Non credo le faccia bene, lei è troppo innamorata di lui per vedere razionalmente la persona che è.- risposi io prima di sospirare. – comunque…- ecco lì che cominciava la bugia, io non ero brava, mia sorella Paola, mia gemella, mi invitò a continuare.

- Comunque?- mi invogliò Graziella, la mamma di Laura, dall’altra parte del telefono.

Non riuscivo a parlare. Paola mi prese il telefono di mano e si schiarì la voce. Fortunatamente al telefono non c’era nessuna differenza tra la mia e la sua.

- Comunque per stasera puoi stare tranquilla. Al massimo devi preoccuparti dei calzini sporchi che mia sorella lascia per casa.- scherzò lei.

Sentì una risata smorzata dall’altra parte dell’apparecchio. Dopo che si furono scambiate la buona notte mia sorella mise giù e tornò a dormire.

L’indomani mi svegliai molto presto. Anzi, a dire il vero non ero riuscita a chiudere occhio. Avevo pensato alla mia amica in balia di quel delinquente.

Ero uscita con la macchina chiedendo a Paola di coprirmi, e sapevo che l’avrebbe fatto anche solo per avere maggiori informazioni sulla storia della mia amica che ormai tutti seguivano con malato interesse, e avevo raggiunto il centro storico della città dove, la sera prima, avevo capito che si trovavano.

Quando trovai l’albergo in cui si trovava, oggetto di non facile ricerca, eppure le mie incredibili doti di pianto a comando erano servite per farmi dire dai responsabili alla hall che la notte precedente nessuno si era registrato improvvisamente chiedendo una stanza per una sola notte, avevo pianto disperatamente anche con il receptionist dell’albergo dove avevo capito fossero alloggiati, mostrando questa volta una migliore performance delle precedenti, una specie di Winnie the Pooh inquietante che mi aveva avvertita che la ragazza che aveva visto la sera prima non era in buone condizioni.

- Purtroppo io non ho il permesso di mandare via nessuno ma quell’uomo con quella ragazzina, mi ha fatto una certa impressione.-

Alla fine mi aveva dato la chiave della camera in cui l’aveva portata il “ragazzo”. Lei era a letto, sotto le coperte, tutta rannicchiata in se stessa. Da sola. Sul tavolo c’era un biglietto scritto con una grafia elegante in una carta intestata all’albergo.

Quello stronzo l’aveva lasciata sola. Voleva risparmiarsi la parte più brutta forse? Chissà cosa le aveva fatto durante la notte. Presi il bigliettino e lo lessi.

« Fatti una doccia, bevi questo caffè e se hai bisogno di me chiamami subito, sono da Allie. Jonathan »

Non abbiamo più bisogno dei tuoi servizi coglione!

Pensai prendendo il foglietto e buttandolo via. Il caffè lì accanto era ancora tiepido. Non doveva essere andato via da molto. Lo presi e lo buttai nel lavello. Stupido caffè americano, a che poteva servire? Presi la mia borsa e uscì a comprare ciò che veramente avrebbe potuto aiutarla.

Mentre mi occupavo di acquistare ciò che avrebbe potuto rivelarsi utile nelle prossime ore presi il telefono dalla borsa e chiamai Carolina che, squillante, rispose al telefono.

- Ho bisogno di te, Lollo ha avuto un problema con Jonathan Meyers.- mormorai mentre entravo in farmacia.

- Arrivo.- aveva risposto lei mettendo giù.

 

Pov Laura.

Quando mi svegliai e sollevai la testa dal cuscino un conato di vomito mi salì alla bocca e fui costretta a correre in bagno. Il problema principale stava nel fatto che non fossi più a casa mia. la stanza in cui mi trovavo era grande, luminosa, e sentivo il rumore del mare come se ci fossi sopra. La tremenda sensazione che fossi su una nave mi invase lo stomaco. Caddi in ginocchio a terra a causa di un forte capogiro e vomitai anche l’anima.

Quando sentì di non poter vomitare altro mi rannicchiai per terra contro la moquette.

- Jonathan.- sussurrai piano in cerca di aiuto. Ricordavo di essere andata via con lui e i suoi amici dal bar e poi…poi nulla.

Evidentemente però in quel momento non c’era. ero sola con un tremendo dolore alla testa, una nausea degna di un mal di mare con corrente forza nove e sentivo freddo. Ero nuda con solo l’intimo addosso. Che cosa avevo fatto quella sera? Cosa mi era saltato in mente? Scoppiai a piangere disperatamente senza sapere cosa fare quando la porta della camera si aprì e ne entrò un odore di caffè che mi colpì in viso facendomi rimettere di nuovo.

- Oh no, Lollo!- sentì mormorare in un suono strozzato.

Una mano mi teneva i capelli e l’altra era stretta alla mia vita, mentre altre due mi facevano alzare e mi portavano in bagno.

Non ero sola allora. Forse le avevo chiamate per farmi aiutare. Carolina e Betta cercavano di aiutarmi come potevano. Prima mi costrinsero sotto l’acqua ghiacciata della doccia, poi mi imbottirono di caffè.

Nei film avevo sempre visto che il caffè aiutava a superare la sbornia, a me non procurò altro che altri problemi che mi tenevano attaccata al gabinetto. Quindi dopo un po’ le mie amiche smisero di propormelo.

In realtà di quella mattina non ricordo molto, solo delle loro premure per farmi riprendere e la tremenda esperienza post sbronza. Se è terribile la prima lo sarà sempre. Perché mi ero fatta convincere da quell’idiota di Jonathan a bere? Ringraziai mentalmente dio per avermi dato delle amiche come loro che sprecavano così una giornata di studio solo per me, per farmi riprendere, per aiutarmi, per evitare chissà quale crollo emotivo che si aspettavano da un momento all’altro. In realtà, quando parecchie ore dopo, ritrovai il mio equilibrio interiore ero quasi certa di stare bene. Ero a stomaco vuoto dalla sera prima ma avevo vomitato tutto ciò che era passato dal mio stomaco nelle ultime dodici ore. Succhi gastrici compresi. Di sicuro non potevo dire di non essere riuscita a vomitare questa volta.

Le mie compagne mi portarono via quasi subito dopo avermi asciugata e rivestita e adesso me ne stavo sul divano di casa di Betta a guardare il soffitto con Paola seduta poco lontano che si faceva delle grasse risate.

- Sai cosa? Spero almeno che stanotte tu ti sia scopata quel figo che abita a casa tua, perché se ti sei lasciata scappare la possibilità sei una scema.- e poi ricominciava a ridere. Un po’ per la situazione un po’ per la mia faccia.

In effetti non dovevo essere proprio quello che si chiama un bello spettacolo. Non riuscivo a muovere la testa ne a parlare quindi dovevo sorbirmi le angherie di quella stronza ragazzina indisponente che mi stava a fissare senza muoversi. L’avrei presa volentieri a calci nelle gengive se fossi stata nel pieno delle mie forze. Il pensiero mi fece ridere e un altro conato di vomito mi impedì di continuare su quella strada. Qualcosa di utile sarebbe stato, forse, cercare di ricostruire le dinamiche che, la sera prima, mi avevano portata in quella stanza d’albergo. E a quella disastrosa situazione anche.

Ricordavo di essere stata in quel pub e di aver bevuto più di un paio di birre. Ricordo di essere uscita da lì sulle spalle di Max che rideva divertito e mi faceva da cavallino. Ricordo di… no, non ricordo altro. Forse avevo pianto ma non ne ero certa. Ero certa di aver sentito un caldo tremendo.

Forse per questo mi ero svegliata nuda.

Era stato Max a portarmi in quell’albergo? E mia madre? E Betta come mi aveva trovato?

Mentre Paola continuava a fissarmi e scattare foto sceme da mettere su facebook io cercavo di riprendermi per recuperare la facoltà di parola e poter chiedere spiegazioni alle mie eroine. Per ora però tutto ciò che potevo fare era cercare di non vomitare l’anima sul pavimento del salotto di casa della mia amica.

 

Qualche ora dopo le cose cominciarono ad andare sensibilmente meglio. Ero seduta sul divano con una zuppa calda in grembo e ascoltavo le mie amiche che mi raccontavano della pessima cera in cui mi avevano trovata la mattina, riversa nel mio stesso vomito.

- Vi prego ragazze, sto cercando di mandar giù qualcosa!- le sgridai facendole ridere piano entrambe prima di domandarmi scusa e di lasciarmi mangiare.

- Comunque sono felice che adesso stai bene, mi hai fatta preoccupare.- aveva concluso Betta sorridendomi e coccolandomi con la stessa dolcezza e affetto di una mamma con i suoi figli.

Le sorrisi e mandai giù un'altra cucchiaiata di quella insana brodaglia disgustosa che però sembrava coccolarmi il mio stomaco scombussolato.

- Cosa c’è dentro?- domandai quando fui sicura che non sarebbe risalita.

- Ogni tipo di verdura che avevo a casa.- mi rispose lei comprensiva.

Morivo dalla curiosità di porle tutte le mie domande ma non volevo sembrare irriconoscente e sgarbata quindi cercai non ignorare tutto e subissarla di domande su tutto ciò che mi passava per la mente. Anche se ormai il pensiero di mia madre era diventato fin troppo invadente.

- Lei sa che sei qui, solo che crede che tu lo sia da stanotte dopo che ci siamo incontrare in Ortigia.- mi rispose Caro come se avesse sentito i miei pensieri e mi stesse rispondendo.

La guardai con immensa gratitudine e una lacrima mi rigò la guancia.

Entrambe sapevano che quella lacrima non era dovuta alla tristezza. Ero solo felice di avere delle amiche come loro.

- Ero con Jonathan e con i suoi amici…- ricordai piano sperando che qualcuna di loro sapesse darmi una risposta.


- Lui mi ha chiamata ieri notte dicendomi di chiamare tua madre e coprirti perché eri sbronza.- mi rispose Betta arrabbiata. – dovresti frequentare compagnie migliori.- mi consigliò lei.


- Non che abbia molta scelta visto che lui sta a casa mia.- mormorai piccata come se mi fossi sentita punta da quel commento.

In realtà lo ero. Avrei tanto voluto che le mie amiche andassero d’accordo con lui. Avrei voluto che anche lui fosse stato gentile con loro in modo da evitarmi tanta sofferenza e tanti problemi.

- Come sono finita in albergo?- domandai poi facendole un sorriso di scuse

- Lui ti ha lasciato là, stamattina c’era un biglietto con scritto sono da Allie. Cos’è un bar?- mi chiese lei dopo aver risposto alla mia domanda.

Se mi avesse dato un pugno nello stomaco avrebbe fatto male nello stesso modo.

Mi alzai di corsa dal divano e mi chiusi in bagno dove vomitai per l’ennesima volta. Ma questa volta oltre alla zuppa, ai succhi gastrici e all’alcol c’era anche il dolore e la delusione.

Lui non poteva perdere tempo, non poteva riaccompagnarmi a casa, doveva andare da Allie che lo aspettava per dargli ciò di cui aveva bisogno. Era molto più facile lasciarmi in un albergo vicino a quello della bella biondina dagli occhi azzurro ghiaccio.

Mi lasciai cadere sul pavimento e singhiozzai.

Se anche quella notte fossi stata così fatta da dargliela effettivamente non era servito a nulla. Mi sentivo il cuore spezzato come un bimba.

Ma che mi aspettavo? Lui era un uomo. Un uomo meraviglioso con dei grandi occhi azzurri profondi e terrificanti. Era un uomo ricco e problematico. Era un uomo che io avevo trattato male e poi bene e poi di nuovo male. Era un uomo che stava giocando con me. voleva solo prendermi in giro perché mi vedeva piccola e indifesa.

E lo ero in realtà. Perché lo avevo già fatto entrare. Mi stava già facendo male nel profondo.

Cosa può darle una donna come Allison che una ragazzina come me non può dargli?

La lista si aprirebbe con un punto chiave che è il sesso e si chiuderebbe con meno importanti ma pur sempre necessari fondamentali punti. La bellezza, la capacità di adattarsi a lui e ai suoi ambienti, i soldi, lo stile. Lei sembrava una modella appena uscita da vanity fair e sarebbe stata benissimo nelle copertine dei giornali accanto a lui, lo avrebbe affiancato benissimo sui red carpet a cui avrebbe dovuto partecipare e poi, una volta soli nella loro camera d’albergo, lo avrebbe fatto sfogare come piaceva a lui.

Mi persi nel sapore dei ricordi. Il gusto delle sue labbra e il suo corpo sotto le mie mani. Chissà come doveva essere averlo dentro di se… sospirai a mi lasciai andare sul pavimento.

Guardavo il soffitto in silenziosa contemplazione.

Io, probabilmente, non l’avrei mai scoperto.

 

19 Giugno 2012.

Entrai in quella grande stanza che per tutto l’anno mi era apparsa piccola e confortevole. Adesso credevo che ci fosse un girono dell’inferno molto simile. Tre banchi erano schierati sul fondo. Una sedia davanti a undici persone che ti fissavano mentre entravi e ti accomodavi davanti a loro. Presi un respiro profondo, la sacca che avevo preparato, ed entrai.

- Cerca di sembrare sicura e determinata.- mi aveva consigliato mia madre.

- Rispondi ad ogni domanda anche se devi un po’ arrampicarti sugli specchi.- aggiunse mio cugino.

- Non farti vedere spaventata ad una domanda.- intervenne una mia compagna che aveva appena finito il suo esame.

Sì, chiarissimo. Dissi a me stessa senza credere ad una parola. Mio padre, davanti alla porta dell’aula, mi guardava con gli occhi un po’ lucidi di commozione. Io lo guardai a mia volta. Erano stati mesi difficili per noi. Il nostro rapporto si era molto raffreddato e lui sembrava guardarmi in modo differente da prima. Più serio e distaccato. Quella volta sembrava voler fare un’eccezione. Mi posò una mano sulla spalla e mi diede un bacio in fronte.

- Divertiti.- mi augurò semplicemente.

Lui sosteneva che il liceo altro non fosse che divertimento e che ogni cosa che si faceva doveva essere presa per quello che era. un meraviglioso gioco che faceva parte di un progetto più grande. “prendilo sul serio, segui le regole e dai il massimo. Stai sicura che non potrai non vincere.” Diceva sempre lui sorridendomi e dandomi forza. Ultimamente non lo aveva più fatto. Ero felice che per quel giorno avesse deciso di mettere da parte le ostilità.

Era stato un periodo molto difficile per me.

Dopo quella tremenda e dolorosa esperienza non avevo più parlato con Jonathan. Lo evitavo come la peste e, quelle poche volte che lo incrociavo, mi voltavo dalla parte opposta ignorandolo e tornando al mio lavoro, allo studio. Le prime volte aveva cercato di chiedermene il motivo ma alla mia sgarbataggine e alla mia cattiveria aveva risposto con il silenzio. Finalmente sembrava aver capito che non volevo averlo semplicemente più tra i piedi. Che andasse a spaccarsi la testa dove voleva, non doveva più coinvolgere me.

Voleva fumare? Che fumasse.

Voleva drogarsi? Io non lo avrei certo fermato.

Basta che mi lasciasse fuori da tutto questo.

Non mi ero mai sentita tanto svilita nella mia dignità come quando avevo realizzato che mi aveva smollata in una stanza d’albergo per stare con la sua fidanzatina troietta. Fidanzatina poi un cazzo. Io se fossi stata la sua fidanzata mi sarei fatta carico di lui invece che lasciarlo con una sconosciuta. Le era solo una vagina ambulante e lui, ovviamente, invece di prendersi il peso di una minorenne ubriaca, aveva preferito ricercare altrove i piaceri che desiderava.

- Devi ringraziarlo che non ti abbia fatto chissà cosa nel sonno allora.- aveva cercato di sdrammatizzare Caro, durante un pomeriggio di studi passato insieme, senza riuscirci.

- Già sì, mi sento proprio in vena di ringraziamenti.- avevo risposto cercando di non mostrarmi ferita com’ero effettivamente.

Mi accomodai sulla sedia davanti la commissione. Sorrisi e misi sui banchi un bel vassoio ricco di dolci sorridendo allegra.

- Buongiorno.- salutai gentilmente.

Per prima cosa cominciarono a elencarmi i voti dei compiti. Non avevo nessuna eccellenza ma almeno non avevo fatto errori troppo assurdi nella terza prova e meritai un sorriso da parte dei miei professori che mi dissero di stare tranquilla.

– per cominciare vi prego, prendetene pure uno.- consigliai indicando i dolci quando toccò a me parlare.

Tutti i miei professori sorrisero gentili e presero un dolce, tutti tranne il presidente di commissione. Già lo odiavo. Uno stronzo fascista di merda!

Cercai di sorridergli senza che lui rispondesse in alcun modo.

- Vuole cominciare signorina o rimaniamo qui a degustare dolcetti tutto il tempo?- mi domandò quello incrociando le braccia al petto.

Un cinquantenne, senza capelli, con una pancia tanto grande da poterci poggiare sopra il vassoio che avevo portato, osava rifiutare il mio dolcino? Va bene.

- Comincerò subito da quello che io ritengo essere il più delizioso dei piaceri.- sorrisi e guardai il mio professore di greco. – il cibo.- conclusi benchè la mia forma fisica in quel momento non sembrava essere d’accordo con me.

- Davvero? Sembri un po’ sottopeso.- mi fece notare quell’uomo con disgusto.

- Lo stress degli esami.- risposi semplicemente.

I professori intervennero per farmi iniziare. Parlai per molto tempo passando da una materia all’altra con facilità e pertinenza. Il vecchio rimase zitto mentre i miei professori continuavano ad annuire senza intervenire.

- Parlami della teoria della relatività.- mi bloccò quell’uomo mentre stavo discutendo della possibilità di cercare il piacere assoluto.

Rimasi per un attimo spiazzata da quella domanda che in quel momento, impegnata in discorsi filosofici, non mi aspettavo di ricevere.

- In fisica, con il termine relatività si fa riferimento genericamente alle trasformazioni matematiche che devono essere applicate alle descrizioni dei fenomeni nel passaggio tra due sistemi di riferimento in moto relativo. L'espressione teoria della relatività è usata per riferirsi alla teoria della relatività speciale e generale che Einstein ha elaborato tra il 1905 e il 1913, le quali hanno come elemento fondante il principio di relatività secondo cui le leggi fisiche sono le stesse per tutti i sistemi di riferimento.-

Conclusi convinta di aver dato la più esauriente risposta per il quesito che mi aveva formulato. Evidentemente non sembrava contento.

- Sì. E poi?- domandò lui annoiato.

E poi? Poi che cosa? Pensai io facendomi prendere dal panico. Subito le parole di mio padre mi vennero in mente e mi bloccarono. No. niente panico. Lui non conta niente Laura, sono i tuoi professori quelli a cui devi dimostrare di essere capace e competente.

- Poi nulla, questo è tutto ciò che so.- risposi sfidandolo con lo sguardo.

- Bene.- rispose quello senza scomporsi più di tanto.

L’esame continuò per altri cinque o dieci minuti poi mi invitarono ad andarmene. Mi alzai dalla sedia, presi il mio vassoio e cercai di non scoppiare a piangere.

Il presidente di commissione si alzò e mi porse la mano.

- Arrivederci signorina.- mi salutò con tono di sfida. Aveva intenzione di bocciarmi? Davvero?

Gli porsi la mano e gliela strinsi tremante mordendomi il labbro.

- Arrivederci.- risposi a mia volta mentre quello mi degnava di un sorriso.

- Complimenti.- concluse prima di riprendere l’espressione da culo che aveva avuto per tutto l’esame e tornare a sedersi al suo posto. – i dolci li lasci qui così possiamo addolcire un po’ il resto della giornata.- mi invitò.

Sorrisi di un sorriso ampio e coinvolgente, posai di lato il vassoio e la borraccia con il thè freddo che avevo preparato. Cercai di non saltare addosso a quello stupido fascista non tanto male per ringraziarlo e mi voltai.

Quello che vidi mi piacque e lo odiai allo stesso tempo. Andrea, Francesca, Mario, Valentina, Giulia, Eleonora e Piero erano tutto lì che mi guardavano e applaudirono quando uscì dalla classe saltandomi addosso.

- Brava bambina!- mi dissero divertiti riempiendomi di baci e di complimenti.

Anche i miei capi erano lì che mi fecero i complimenti abbracciandomi. Ero ufficialmente diplomata.

Ed ero anche l’ultima del mio gruppo di amiche ad aver sostenuto l’esame.

Durante l’anno avevamo tanto sognato quel momento e adesso che finalmente era arrivato ci sentivano cariche di aspettative e di gioia. Adesso ci aspettava un mese di relax in vacanza chissà dove. I nostri genitori ci avevano organizzato un viaggio che sarebbe stato sicuramente una favola. L’ultimo insieme tra l’altro.

Comunque adesso ero troppo presa dalla visione mistica davanti a me per pensare al mio viaggio della maturità. Lui era lì. Era venuto. I capelli scombinati, gli occhi azzurrissimi cerchiati da lievi occhiaie rossicce. Segno che non stava andando tutto bene come avrebbe dovuto. Avrei dovuto preoccuparmi. In realtà ero preoccupata, ma rimasi in silenzio sperando che fosse una visione e che scomparisse. Lui invece si avvicinò, le mani in tasca come sempre.

- Complimenti.- mi disse senza un particolare trasporto.

- Grazie.- risposi guardandolo e valutando velocemente le sue condizioni di salute.

Non erano buone.

Presi il suo polso avvicinandomi la mano al naso e annusai le sue dita. Facevano una puzza tremenda di fumo e qualcos’altro. Mi misi l’anulare in bocca e il sapore orrendo della coca mi invase la bocca. Sapevo che era quella perché una volta un mio compagno di classe me l’aveva fatta assaggiare.

- La coca si assaggia per vedere se è buona prima di ficcarsela su per il naso.- mi aveva fatto presente lui.

Io non me l’ero mai ficcata su per il naso.

- Che stai facendo Jonathan?- gli domandai in un sussurro.

- Non sono cazzi tuoi.- mi rispose lui fulminandomi con lo sguardo e tirando via la mano malamente.

- Sì che lo sono.- gli risposi.

- Non mi sembrava che lo pensassi in questi giorni.- mi fece notare con cattiveria malcelata.

Era arrabbiato. Potevo capirlo ma non giustificarlo per ciò che stava facendo.

Non risposi nulla e lo guardai negli occhi sperando che quello fosse abbastanza per fargli capire ciò che pensavo di lui e di quello che stava combinando.

- Devo andare a Londra per lavoro. Se ti interessa tanto puoi venire con me.- mi propose con un tono di voce più calmo e pronto alla discussione di quanto non fosse sembrato prima.

Era un invito. Lui stava invitando me ad andare a Londra con lui?

Probabilmente se non fosse successo nulla tre settimane prima avrei accettato di buon grado, anzi, sarei stata felicissima di andarci. Ma immaginavo che a Londra ci fosse altro oltre il lavoro e che quell’altro fosse una ragazza bionda sai grani occhi azzurri.

- Non posso, devo andare con le mie compagne.- risposi semplicemente cercando di non sembrare seccata.

- Dove?- chiese lui lapidario nuovamente arrabbiato.

- Non lo so.- risposi onestamente.

-Quando torni?- mi domandò con più urgenza.

- A metà Agosto.- risposi di nuovo. – e poi a te che frega?- gli domandai incrociando le braccia al petto piccata.

Lui mi guardò con gli occhi che brillavano di rabbia. Vedevo che se avesse potuto mi avrebbe volentieri picchiata anche. Ma non lo fece. Mio padre e mia madre mi guardavano dalle sue spalle. I miei compagni e le mie amiche erano pronti a saltargli addosso e ucciderlo.

Pian piano la rabbia però cedette il passo alla tristezza, alla frustrazione, alla delusione. Avrei voluto sporgermi verso di lui e abbracciarlo stretto, dirgli che andava tutto bene. Ma non lo feci perché avevo troppa paura di essere respinta.

- Me lo chiedo spesso anche io.- rispose sfiduciato con un gran sospiro che mi strinse il cuore.

Non aggiunse altro semplicemente si voltò e si allontanò, le mani in tasca, senza salutare nessuno.

Potevo lasciarlo andare via così? No. non potevo. Aveva bisogno di aiuto adesso più che mai ed io, vile, ferita per una sciocchezza, lo stavo facendo andare via senza fare nulla.

Era colpa sua se non voleva stare con una ragazzina come me?

- Laura, muoviti, la nostra sorpresa ci aspetta qua sotto ed io sto morendo dalla curiosità!- gridarono le mie amiche ridendo.

Scendemmo le scale di corsa, io un po’ meno eccitata delle altre e molto più abbattuta per quello che era appena successo. In cortile ci attendeva una macchina e un ragazzo, davvero carino, appoggiato ad essa. Le altre gridarono entusiaste.

- Ciao.- ci salutò il ragazzo cortese. – io sono Mattia, sarò il vostro autista, guida turistica e tutore legale molto maturo per questo viaggio.- ci annunciò facendoci l’occhiolino e ridendo.

Io non dissi nulla. Le mie compagne erano super eccitate. I nostri genitori ci dissero di aver pensato a tutti, che Mattia era al corrente e di lasciarci solo guidare da lui. Salimmo in macchina dopo vari saluti e andammo via pronte a partire per quella strana avventura.

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Londra, quel grande immondezzaio in cui tutti gli sfaccendati si riversano. ***


Era stato un viaggio piuttosto sofferto. Non credevo che l’avrei fatto davvero da solo questa volta. Ero convinto che il suo isterismo, il suo essere così arrabbiata con me, fosse dovuto allo studio e alla fatica, non pensavo che fosse davvero arrabbiata con me. che poi che motivo aveva di esserlo? Era lei che non aveva chiamato, che aveva preferito chiamare le sue amiche piuttosto che me. sapevo che era stata male, lo immaginavo, avrei potuto aiutarla. Avrei voluto farlo a dire il vero. Chissà perché a lei non sembrava interessare affatto l’idea. Ero rimasto a guardare il suo esame come un cretino affascinato dalla capacità che aveva di non prendere a pugni quel coglione che era stato scelto come presidente di commissione. Sembrava che lo trattasse come…trattava me, accondiscendente come con un bambino. ero rimasto in silenzio, vicino alla porta, ad ascoltare il timbro della sua voce riuscendo a capire davvero poco. Eppure ormai qualcosa la capivo e, se mi fossi impegnato, sarei anche riuscito a mettere due parole in fila. Soggetto, verbo, complemento. Quando si era alzata aveva un bel sorriso in viso che non credevo di averle mai visto. Era tesa, emozionata, felice, arrabbiata per tutto quel pubblico. Tutti i ragazzini in gonnella che avevo già conosciuto si erano presentati al suo esame, seduti diligentemente in fondo avevano assistito all’esame sorridenti e compiaciuti della loro amica. Qualcuno di loro si era anche profuso in troppo esplicite dimostrazioni d’affetto. Quel ragazzino che avevo sempre creduto fosse gay forse non lo era poi tanto come credevo.

Tornare a Londra non mi era mai pesato tanto.

Mi ero anche lasciato andare agli istinti più bassi.

Ma era stato solo una volta, solo un misero ritorno di fiamma che si era spento immediatamente. In realtà avevo capito che essere quello cosciente era più divertente. Se fossi stato fatto e ubriaco non avrei ricordato quella che avevo creduto fosse una dichiarazione bella e buona. Evidentemente comunque quel lato di lei era ben nascosto sotto coltre di innumerevoli contraddizioni che non volevano accennare a lasciarla stare. O forse era lei che ci si aggrappava disperatamente.

La città mi sembrò particolarmente grigia. I miei amici erano venuti via con me e, all’aeroporto, ci salutammo. Avevo un appuntamento quella sera stessa e, con la promessa di risentirci, ci separammo.

- Non prendertela troppo, è solo una ragazzina, dalle tempo.- mi invitò Allie mentre mi stringeva dolcemente al petto.

- Non capisco perché tu ti sia tanto fissata con questa storia Allie, non capisci che è solo frutto della tua mente malata?- scherzai dandole un buffetto tra i capelli.

Lei mi guardò alzando un sopracciglio e sorrise provocante. Che cosa stava facendo adesso? Mi poggiò le mani sulle spalle e si avvicinò un po’.

- Davvero? Solo questo?- mi domandò con un filo di voce guardandomi con i suoi grandi occhioni languidi.

Non le risposi. Lei non se lo fece ripetere due volte, si alzò in punta di piedi e si avvicinò al mio viso. Non sarebbe stata la prima volta che ci baciavamo. La nostra relazione era cominciata come scopamici dopo la mia rottura con Reena. Al tempo non ero ancora pronto per una relazione seria e lei era l’unica che sembrava essere disposta a darmi solo quello che cercavo. Sesso e nessuna complicazione.

Un attimo prima però che le sue labbra raggiungessero l’obiettivo mi vidi davanti altri occhi, altre labbra e altri modi di fare. Mi tirai indietro e rischiai quasi di farla cadere a terra. Riprese l’equilibrio da sola tenendosi alle mie spalle.

- E non venirmi a dire che sono solo le mie fantasie da adolescente innamorata, testa di cazzo.- mi prese in giro lei scoppiando a ridere.

Mi baciò la guancia e andò via subito dopo gli altri. Io scesi nel parcheggio coperto sotto l’aeroporto. La mia macchina era sempre lì ad attendermi. Lucida e brillante come quella che avevo lasciato in Italia meno di tre ore prima.

Solo che quella aveva un buon odore di… mi impedì volontariamente di dire una cazzata così grande, salì in macchina e mi diressi verso gli studi.

Questa volta ad essere in ritardo ero io. La troupe era tutta lì ad aspettare il mio arrivo. Il regista, gli attori, quella rottura di coglioni di Jessica che mi venne incontro saltandomi addosso e sorridendo.

- Sei arrivato finalmente. Ti stavamo aspettando.- mi disse Capitan ovvio sbattendo i suoi occhi chiari in quello che forse doveva essere un gesto seducente ma che provocò in me solo un grande disprezzo per quell’ochetta facile.

Colpa mia che c’ero andato a letto.

Il regista mi si avvicinò e mi diede comprensivo una pacca sulla spalla.

- I voli italiani sono sempre in ritardo, non preoccuparti, lo sappiamo. Adesso che possiamo cominciare direi di cominciare dall’inizio che ne dite?- domandò lui dopo avermi spedito al trucco.

Avevano cominciato dalle scene in cui la mia presenza non era richiesta per poi fermarsi ad aspettare. Tutte le riprese notturne in ambiente storico per le prime puntate si sarebbero svolte quella sera. Jessica era già pronta quando mi avvicinai a lei con quel suo vestitino dal bustino stretto strappato e malridotto. Io mi sentivo un idiota anche se non era peggio dei vestiti a cui ero stato costretto per i Tudor.

Fortunatamente la tortura finì in fretta. Onestamente non ero nella migliore predisposizione d’animo per quella sera. Volevo solo mettermi a letto e pensare a quanto potessi essere stato coglione, chiamare Allie, o Jessica anche, e scopare tutta la santissima notte.

Nei camerini, mentre mi toglievo dalla faccia i chili di trucco che mi avevano spalmato, giocherellavo col telefono in silenzio, meditabondo.

- Allora, aspetti una chiamata?- mi chiese il mio vicino di postazione.

Un ragazzo più giovane di me, quel ragazzo ritardatario del primo giorno, il francese con la cicatrice inquietante. Lo guardai dallo specchio fissandolo negli occhi. Erano inquietantemente blu, spaventosi come la cicatrice. Mi vennero subito in mente delle frasi di una conversazione passata.

- No. Io preferisco…i francesi.-

Com’era scontata alcune volte. Come se li immaginava? Tutti dei perfettini del cazzo con i capelli inamidati, la camicia alla moda e snob? Era questo quello a cui aspirava?

E poi quel modo che avevano di parlare, sembrava che non riuscissero ad aprire la bocca.

- No.- risposi velocemente senza perdermi in chiacchiere.

I suoi occhi mi guardarono per un attimo indagatori, poi il suo telefono squillò. Quando rispose cominciò a parlare in quella sua lingua piena di accenti mosci e noiosi, di inflessioni alla fine della parola che mi facevano venire il voltastomaco.

Di sicuro doveva essere una telefonata romantica perché aveva sfoderato la voce suadente da film che non credevo che le donne potessero ritenere vera. Era ovvio che stesse recitando una parte. Una parte per cui non provava nemmeno una grande emozione tra l’altro. Se avesse dovuto interpretarla al cinema non ci avrebbe creduto nessuno che era un innamorato speranzoso di tornare casa dalla sua amata. Evidentemente la sua vita era più scadente di un film di serie B.

Quando tornai con gli occhi sullo specchio vidi il mio telefono illuminarsi. Lo presi svogliatamente e aprì il messaggio da un numero sconosciuto.

«Spero che il viaggio sia andato bene, ti prego non fare niente di stupido. Buon lavoro.»

avrei potuto pensare che fosse mia sorella, uno dei miei fratelli, chiunque. Ma sapevo che non era chiunque. Mi portai involontariamente l’anulare alle labbra. Che voleva adesso da me? si sentiva in colpa perché non era riuscita a tenermi sotto il suo controllo?

E che si aspettava adesso da me, che le rispondessi? Non volevo risponderle, volevo che mi lasciasse in pace. Però forse avrei dovuto risponderle, farle sapere che doveva stare tranquilla e godersi la vacanza.

- Se non stavi aspettando niente devi proprio dirmi come fai perché io non riesco a fingere così bene.- mi disse il compagno al mio fianco.

Alzai lo sguardo dal telefono e lo fissai nello specchio.

- È un’amica.- risposi semplicemente.

- Un’amicizia finita male?- mi domandò lui mostrando una seria curiosità e un vivo interesse per ciò che avevo da dirgli.

- Un’amicizia asfissiante.- ammisi invece di sbottare “fatti i cazzi tuoi” come avrei voluto fare.

- Oh mi è capitato che un’amica avesse creduto chissà che e se alimenti i suoi sogni fidati, non finirà bene per nessuno.- mi suggerì.

La verità era che lei non era affatto mia amica, anzi. Non rientrava proprio in nessuna categoria. Famiglia, amicizia, lavoro. Niente. Avrei saputo io dove collocarla in quel momento ma non sembrava una cosa fattibile evidentemente a nessuno se non a me.

Tornai alla realtà quando la porta venne chiusa. Adesso eravamo solo io e lui nella stanza.

- A dire il vero io non ho chiesto il tuo parere.- mi ero lasciato andare già troppo e non avevo voglia di fare “nuove amicizie” spiattellando la mia vita ad uno sconosciuto.

- Ed io te lo do lo stesso…- rispose lui ridendo piano con un sorriso che avrebbe forse dovuto sembrarmi simpatico.

- Grazie.- lo presi in giro senza nessun tipo di vero coinvolgimento o gratitudine.

Rimase in silenzio guardando davanti a se. Prese il telefono e lo guardò attento per un po’ prima di spegnerlo.

- Allora come si chiama?- mi domandò dopo. Ed io che credevo che riuscisse a stare zitto e non farsi i fatti miei.

- Non riesci proprio a farti i fatti tuoi eh?- gli chiesi io con una smorfia che voleva sembrare un sorriso.

- Sono francese è nella mia natura.- mi rispose quello. Non sapevo che i francesi fossero degli impiccioni e probabilmente il fatto che fosse il primo francese che incontravo mi aveva evitato sgradevoli conoscenze. O forse era l’idea di una bella storia romantica ad attirarlo.

- Non era solo una legenda quella sul vostro romanticismo?- gli chiesi io indifferente.

- Forse.- rispose quello alzando gli occhi al cielo fingendo un’espressione misteriosa. -Ma io sono di Parigi, lì niente è leggenda.- concluse cercando una frase ad effetto.

- neanche il gobbo?- domandai. Seguire gli studi di Laura mi aveva dato una certa cultura. Di sicuro prima non sapevo che Notre Dame de Paris fosse un’opera di Victor Hugo, ne conoscevo la trama che aveva ispirato film, musical e cartoni.

Non ero mai stato bravo a scuola e non mi ero mai interessato di nulla che non mi capitasse sotto mano.

- Forse quello si.- scherzò il francese. Io non risposi, onestamente non avevo voglia di continuare quella conversazione. Fu lui, come sempre, a darmi la sua opinione a riguardo. - portala a Parigi.- mi suggerì dopo alcuni minuti.

Credevo che avesse smesso di parlare di questo invece sembrava non demordere dalla sua intenzione di avere informazioni.

- cosa?- domandai dopo un attimo preso alla sprovvista.

- a tutte le donne piace Parigi.- mi informò come se fosse un’informazione certa che tutti sapevano tranne me.

- senti amico…- cominciai io sbuffando sonoramente. Lui mi interruppe.

- non siamo amici no? me lo hai fatto capire piuttosto bene.- domandò prima di mettermi davanti al mio comportamento antipatico. Allora non ero poi così capace di fingere simpatia. Meglio.

- allora perché questi consigli?- gli chiesi come a dirgli: “allora sta zitto e non rompere le palle, francese.”

- perché sono buono.- mi rispose lui sorridendo allo specchio e mettendo ancora una volta in evidenza la fossetta inquietante alla guancia.

Buono. A Lorie uno buono sarebbe piaciuto senza dubbio. Buono, francese…il suo tipo ideale in pratica.

- Avrei troppa concorrenza.- cercai di scherzarci su per togliermi dalle scatole la sua insistenza.

- oh non tutti i francesi sono come me.- rimasi per un attimo basito dal fatto che sembrava avermi letto nel pensiero.

Era una mia impressione? Ero solo influenzato da un pensiero malato? Lui mi sorrise con fare complice come se ancora una volta sapesse cosa stessi pensando.

- in cosa sei laureato?- gli domandai con tono di voce assolutamente neutro.

- psicologia.- mi rispose lui rendendo chiare molte cose su quella nostra conversazione.

- e cosa hai capito fino ad ora?- domandai seriamente preoccupato e incuriosito anche.

- che lei è una a cui piace la Francia e i francesi, a cui piacciono i bravi ragazzi romantici e che ti ha rifiutato spezzandoti il cuore, per questo hai cercato di ritornare alle vecchie abitudini. Ma sai anche che tornando alle vecchie abitudini la deluderesti e non vuoi rischiare di giocarti tutte le tue carte.- mi elencò con una precisione incredibile che mi spinse a distogliere lo sguardo da lui. - mi sbaglio forse?- chiese dopo un attimo ben conoscendo in realtà la mia risposta.

- almeno puoi dire di non essertela comprata questa laurea.- acconsentì con un briciolo di stizza nella voce. – anche se parecchi punti sono campati in aria.-

- già, ti ringrazio.- mi rispose con un sorriso nella voce.

- comunque non mi sembra uno scambio equo no?- cercai di fargli notare per nascondere la stizza da una parte e l’imbarazzo dall’altra.

- mi stai chiedendo qualcosa su di me?- domandò lui facendosi un po’ restio.

- non sembri molto preso…della ragazza al telefono.- gli feci notare indicando il telefono che aveva posato sulla mensola davanti a lui.

- ah lei. È dieci anni più grande di me e cominciano a pesarmi. Lei però è troppo innamorata e l’idea del matrimonio e dei figli le impediscono di capire che le cose non funzionano più.- raccontò francamente lasciandomi strabiliato.

Perché mi stava raccontando la sua vita? C’era qualcosa che non andava in lui.

- perché non la lasci?- gli feci notare come fosse tutta un’ovvietà. Mi sentivo comunque in dovere di rispondergli dopo quell’atto di sincerità.

- perché ho visto la donna della mia vita e so che non posso averla quindi tanto vale che resto dove sono, non mi piace rischiare.- scherzò con un sorriso amaro che non mi fece credere molto alle sue parole. Comunque non mi immischiai. Facesse ciò che credeva. - credi che io sia pazzo vero?-

- non mi interessa, la vita è tua.- gli risposi onestamente.

- la verità è che se avessi avuto il coraggio di alzarmi e di andarle a chiedere come si chiamava, se avessi parlato con lei quel giorno, forse oggi non sarei qui a fingere di amare una donna da cui non sono nemmeno più attratto.- sembrava perso nei suoi ricordi di quella ragazza che immaginai alta, magra e bellissima. Una ragazza tra l’altro che a quanto pareva lui neanche conosceva.

- credo che tu abbia bisogno urgente di un analista.- gli feci notare rimanendo indifferente a quelle che sembravano davvero, per lui, delle pene d’amore.

- credo anche io. Ma sai com’è non mi fido del giudizio degli altri quando conosco da solo i miei problemi.- scherzò tornando al sorriso di prima abbandonando l’espressione afflitta che lo aveva preso durante i suoi ricordi.

Mi alzai dalla sedia, mi infilai il maglione che portavo quando ero arrivato e il cappotto. La serata per me sarebbe stata piuttosto noiosa come in quel momento. Mi sistemai la sciarpa.

- forse un giorno tornerò lì e la cercherò. Non è una grande città, perché non dovrei ritrovarla?- aveva continuato a raccontare tornando serio mentre io mi preparavo ad andare via.

- a te non importa molto vero?- mi domandò quando capì che non gli avrei risposto in alcun modo.

Mi voltai verso di lui e gli lanciai un’occhiata profonda e un mezzo sorriso di compassione.

- non sono uno strizza cervelli e non ho nessuna fortuna con le donne, credo che i miei consigli valgano meno di zero.- risposi semplicemente prima di andare via.

 

Ero quasi arrivato a casa quando sentì il mio telefono squillare nella tasca dei jeans. Lo presi tenendo il volante con una mano sola e me lo portai all’orecchio premendo il tasto di avvio chiamata. Ero ancora stranamente preso dalla conversazione con quel francese. Chissà se me lo fossi fatto amico e lo avessi fatto parlare con lei avrebbe potuto darmi informazioni utili circa la follia di quella donna che non riuscivo proprio a capire.

- pronto?- risposi ancora preso da questo genere di pensieri con un tono di voce calmo e rilassato.

- Jhonny, amico, ciao!- la voce dall’altro capo del telefono fece finire ogni mia buona intenzione.

- Thomas.- lo salutai semplicemente mutando completamente tonalità. Ero a dir poco scocciato e lo avrei mandato volentieri a fare in culo ma, la mia parte matura e responsabile, mi diceva di tenerlo buono.

- Allora, amico, come va?- mi domandò allegro dandomi sui nervi talmente tanto che dovetti mordermi la lingua per non mandarlo a fare in culo.

- Fino a pochi minuti fa tutto bene. Che vuoi?- domandai sgarbatamente sbuffando.

- Ehi, è così che si risponde ad un amico?- mi chiese lui ridendo come un ragazzino che vuole punzecchiare il suo migliore amico.

- Siamo amici?- incalzai acido mettendolo subito a tacere. Lui però evidente era troppo stupido per demordere da quella sua sceneggiata di amico del cuore.

- Certo che lo siamo! E a proposito di questo, ringrazia il tuo amico.- mi ordinò. Se lo avessi avuto davanti lo avrei volentieri preso a schiaffi.

- Per aver deciso di non rompere più?- domandai speranzoso senza però perdere il tono mordace di chi avrebbe avuto voglia di scaricargli addosso tutta la sua frustrazione per la carriera distrutta. Non che fosse solo colpa sua, però di certo non aveva aiutato affatto avere quell’incompetente come manager.

- Perché ti ha trovato un nuovo lavoro meglio di qualsiasi altro.- mi annunciò con lo stesso tono che aveva usato per annunciarmi il film di Allen.

- Ti ascolto.- che quella fosse la volta buona che riacquistasse credito?

- Allora, tieniti forte, stiamo parlando di un colpaccio, mi chiedo io stesso come abbia fatto a recuperare un simile contratto. Ma beh, ci sono riuscito.- cominciò a sproloquiare mettendo alla prova la mia già scarsissima pazienza.

- Andiamo al sodo Thomas, non ho intenzione di stare qui a sentirti adulare.- gli ordinai perentorio mettendo il telefono vivavoce posandolo sul sedile del passeggero.

- Ok, ok. Allora, dopo le foto apparse sui giornali il centralino ha cominciato a squillare come un pazzo, è stata una genialata da parte tua chiamare i paparazzi.- aveva ripreso a girare intorno all’argomento segno che evidentemente quel contratto di lavoro non era sicuramente al pari dei precedenti.

- Thomas!- lo ripresi con un velo di malcelata cattiveria nella voce. Quell’uomo riusciva a tirare fuori il peggio di me.

- Ok, scusa. Comunque un certo Luca Lucini o qualcosa del genere mi ha contattato per un ruolo in un film. Ti mando la trama per mail.- Luca Lucini? Perché quel nome non mi diceva nulla di buono?

- Chi sarebbe questo Luca?- domandai sperando che non si trattasse di uno sventurato regista in erba bisognoso di attenzioni e di fama.

- Un regista, ha fatto dei film importanti in Italia.- mi avvisò lui. Questo già li rendeva meno importanti visto che tutti i film italiani degni di essere visti erano già passati alla storia.

- Ti faccio sapere.- gli risposi semplicemente.

- Oh si, tranquillo. Tanto è un ruolo così importante che ho già accettato per te.- mi avvisò.

- Come?- domandai con voce incredula.

Avevo sempre saputo che Thomas non era sveglio e intelligente ma non lo facevo tanto stupido. Probabilmente dopo la minaccia di licenziamento aveva capito che per lui non era un buon periodo e credeva che inguaiarmi in quel modo fosse la soluzione.

- Beh, era un’occasione che non potevi lasciarti sfuggire.- cercò di spiegare frenato dalla mia ira.

- Senti, ti richiamo.- lo avvisai prima di chiudergli il telefono in faccia.

Accostai sul margine della strada e presi il telefono facendo una breve ricerca. Come volevasi dimostrare quel Luca Lucini non era un regista serio per nulla. Aveva diretto un solo film degno di nota: tre metri sopra il cielo. Già il titolo non lasciava presagire nulla di buono.

A quel punto non mi rimaneva molta scelta. Ero con le spalle al muro e, anche se non avessi voluto farlo, e di certo non era quello il caso, non mi rimanevano altre possibilità. Presi il telefono e feci una rapida chiamata. Avevo il numero registrato e non dovette squillare neanche molto a lungo prima che la voce professionale di una donna mi rispondesse dall’altra parte del telefono.

- Salve, sono Jonathan Rhys-Meyers.- mi presentai con molta calma. – cercavo il signor Hennington.- avvisai con una voce bassa e professionale.

- Signor Rhys-Meyers, attendavamo la sua chiamata.- mi rispose una voce immediatamente dopo che la segretaria ebbe inoltrato la chiamata. Chissà se era sempre questo il trattamento riservato ai “clienti” o se era tutta una tattica.

- Vogliamo parlare d’affari?- domandai con impazienza.

- Mi raggiunga al mio studio a Londra.- mi consigliò dandomi l’indirizzo e terminando la chiamata.

 

Il luogo in cui fui accolto era un elegante ufficio in un altrettanto elegante palazzo di vetro che dava sul Tamigi. La segretaria, la stessa donna con cui avevo parlato al telefono, era una donna di mezza età elegante e professionale che mi fece accomodare immediatamente. Il signor Hennington, con un semplice completo gessato grigio, stava seduto alla scrivania con il telefono all’orecchio che discuteva, professionalmente, di lavoro, rilanciando ogni offerta che gli arrivava dall’altra parte.

- Non sono soddisfatto di queste condizioni signor Jefferson, mi farò sentire.- concluse semplicemente quando mi vide alzandosi dalla sua scrivania e mettendo giù.

- Signor Meyers. Che piacere vederla.- sorrise gentilmente e mi porse una mano che gli strinsi con vigore.

- Posso dire la stessa cosa.- gli assicurai cordialmente ma distaccato. Quell’uomo sembrava sapere il fatto suo e mi metteva una certa calma.

- Prego, si accomodi.- mi invitò con cautela.

Mi sedetti sulla poltrona in pelle davanti alla scrivania in legno ordinata e pulita. Lui si avvicinò ad un archivio e, con estrema facilità, estrasse un fascicolo piuttosto consistente. Si sedette sbottonandosi la giacca.

- Dunque.- cominciò con calma aprendo il fascicolo al cui interno intravidi un mio curriculum e delle foto. - mi trovo nella meravigliosa situazione di poterle proporre un numero piuttosto consistete di possibilità di scelta.- mi avvisò con una certa fiducia in se stesso e con parecchia soddisfazione -dia un’occhiata.- mi invitò porgendomi il fascicolo.

All’interno c’erano le foto apparse sui giornali e anche delle informazioni personali riguardanti il luogo in cui mi trovavo e la situazione.

- È stato lei a chiamare i paparazzi vero?- domandai sfogliando le pagine.

- Sì.- ammise tranquillamente. – si sta comportando davvero benissimo e tutta questa storia della ragazzina italiana può essere ben sfruttata.- mi avvisò tranquillamente.

Sfogliai le pagine davanti a me. c’erano due o tre contratti per parti di poca importanza in film con cast tra i migliori al mondo. Infondo al fascicolo poi, un nuovo contratto, il più consistente. Lessi velocemente la trama e le caratteristiche del mio personaggio prima di alzare lo sguardo sull’uomo davanti a me.

Mi guardava con soddisfazione sapendo già come avrei reagito.

- Dove devo firmare?- domandai chiudendo il fascicolo estraendo dal taschino la penna.

- Sarà un piacere lavorare per lei signor Rhys-Meyers.-

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** Perché non qui? Perché non ora? Quale posto migliore di Parigi per sognare? ***


Avevo gli occhi chiusi, assaporavo la bellezza di quel tiepido sole di metà Luglio e mi lasciavo andare all’immaginazione. Eravamo arrivati a Nizza qualche giorno dopo gli esami, dopo aver fatto tappa a Caserta, Roma e Firenze. Mattia era un tizio davvero simpatico e le mie compagne sembravano adorarlo. Aveva i capelli scuri e gli occhi nocciola, il tipo perfetto per la mia ex migliore amica, che lo guardava con gli occhi sognanti di un’adolescente innamorata. Chissà se anche io guardavo così…lui. Sorrisi di nuovo con il sole che mi baciava il viso. Il rumore delle onde del mare che si infrangeva sul bagnasciuga mi faceva da ninnananna. Era un momento davvero meraviglioso.

- Lollo! Vieni in acqua, è bellissimo!- mi gridò Betta ridendo, tenendosi alle spalle di Carolina che la tirò di nuovo in acqua per un tuffo.

Risi con loro per quella felicità meritata. Mi alzai dalla mia tovaglia e mi avvicinai al bagnasciuga. Le mie amiche e il nostro autista sbarra guida turistica, in acqua, si godevano i giochi tra amici.

- Dai Lollo!- gridò Caro.

Avrei voluto dirle che io non ero Lollo, ero Lorie. Che Lorie mi piaceva. Ma non volevo deludere Betta. Lo aveva scelto lei quel soprannome, sarebbe rimasta molto delusa se le avessi detto che non mi piaceva e ne preferivo un altro.

Mi avvicinai all’acqua immergendo le punte dei piedi. Era tremendamente fredda per il mio corpo assuefatto dai raggi del sole. Rabbrividì e mi portai le mani alla pancia per coprirmi. Sentivo così tanto freddo che non riuscivo a non tremare.

- Dai insetto stecco, buttati!- mi incitarono le ragazze.

- L’acqua è gelida!- mi lamentai io facendo un passo indietro.

Delle braccia forti mi presero da dietro tenendomi in alto. La mia mente fece un volo pindarico con la fantasia facendomi rivivere una situazione analoga verificatasi lo scorso Aprile. La domenica di pasqua. Quando mi resi conto che le braccia che mi tenevano non erano abbastanza forti, che ero molto più in basso e che gli occhi che mi fissavano ridenti erano di un caldo colore nocciola rimasi a dir poco delusa. Dovevo ricordarmi di mettere un freno alla mia fantasia.

Ero stata io a scegliere quel viaggio. Non me ne pentivo era ovvio, però ogni volta che ci pensavo la prospettiva Londra mi metteva un po’ di tristezza.

Chissà come sarebbe stato passare del tempo con lui, da soli, senza nessun papà geloso che ti controlla costantemente e nessuna compagna iperprotettiva.

Quando le braccia che mi tenevano mi lasciarono andare, caddi nell’acqua fredda del golfo di Nizza. Il freddo mi aiutò a riflettere come si doveva sulla prospettiva che avevo davanti.

Lui mi aveva lasciata sola mezza morta in una camera d’albergo per fare sesso con un’altra. Non era esattamente il gesto di un ragazzo con cui passare del tempo in una capitale Europea lontano da casa e da chiunque potesse proteggermi.

Se mi fosse successo qualcosa e mi avesse abbandonata in mezzo ad una strada per correre dietro a qualche altra ragazza?

Questo ovviamente mi faceva sentire anche peggio per un’altra, terribile, verità.

Io ero piccola.

E non per modo di dire o secondo un luogo comune. Io avevo bisogno di protezione, ero una ragazzina inesperta cresciuta in una piccola città dove il peggio che poteva succedere era di arrivare tardi a scuola o litigare per un’assemblea d’istituto capitata nell’unico giorno della settimana in cui non si fa un cazzo. In una grande città come Londra sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa ma non ci sarebbero state le mie amiche a proteggermi.

Riemersi dall’acqua passandomi entrambe le mani sui capelli mentre quelle, lentamente, mi si avvicinavano pronte a chissà quale scherzo.

Cercai di scappare via ma Mattia mi teneva ferma e Caro e Ale erano ormai arrivate pronte a torturarmi con i loro scherzi.

Scoppiai a ridere senza sapere perché presa da un’improvvisa euforia e gioia. Loro risero con me e il resto della giornata passo tra scherzi e giochi.

 

Tornati in albergo mi buttai sul letto uscendo dalla borsa il mio fedelissimo Rino, diminutivo di computerino. Il mio pc portatile regalatomi da mia nonna per il diploma. Ero davvero fiera di lui. Non era certo un Mac di ultima generazione. Era una cosa un po’ più economica di una marca meno famosa ma era veloce, efficiente e a me bastava e avanzava. Mentre le altre cominciavano a preparare i vestiti per la sera io mi diedi a facebook. Quando aprì la pagina mi comparvero davanti 99 notifiche e 22 messaggi di posta. Cavolo. Josephine era arrabbiata perché non mi stavo facendo sentire e mi chiedeva in che modo sarei andata al compleanno.

Compleanno? Che compleanno? Lessi i suoi messaggi velocemente, ignorai le notifiche e aprì la mia posta elettronica. Oltre ai milioni di messaggi dovuti a facebook c’era una mail.

 

Maria O’Keeffe.

Cazzo. Aveva visto suo fratello? Si era accorta che non ero stata capace di prendermi cura di lui?

 

Da: Maria O’Keeffe.

A: Laura Caruso.

Data: 19 Luglio 2012

Oggetto: Compleanno

 

Laura ciao,

so che sei stata impegnata con gli esami di maturità spero che siano andati bene.

Probabilmente sai già che io e Jonathan non siamo proprio in buoni rapporti ultimamente però ho deciso che visto che tra una settimana è il suo compleanno avrei potuto mettere da parte le incomprensioni e organizzargli una bella festa a sorpresa.

Ovviamente la tua presenza è gradita (per non dire necessaria).

Dammi conferma, ditemi quanti siete e da dove partite. Ti manderò i biglietti al più presto.

Un bacio enorme.

Marie.

 

Oh. Guardai la data nel mio computer. Era già il 20 luglio e il compleanno di Jonathan sarebbe stato sette giorni dopo. Avrei dovuto parlarne con le ragazze comunque.

Alzai il naso dal computer e le guardai.

- Marie, la sorella di Jonathan, ci ha appena invitato al suo compleanno.- le avvisai con un mezzo sorriso.

- Quando sarà?- domandò Ale giocherellando con il telecomando e facendo zapping alla ricerca di qualsiasi cosa per passare il tempo.

- Tra sette giorni.- risposi mentre Caro e Betta, sulla porta del bagno, mi guardavano preoccupata.

- Non credo che riusciremo ad arrivare a Dublino.- mi fece presente la prima pettinandosi i capelli bagnati con le mani.

- È disposta a mandarci i biglietti aerei.- risposi cercando di evitare la voce pietosa di chi sta davvero supplicando. Non potevo cadere così in basso.

- Per tutte?- domandò Betta spegnendo il phon con cui stava asciugandosi i capelli.

- Sì.- annunciai prontamente rispondendole con un sorriso appena accennato.

Caro uscì dal bagno e si sedette sul letto accanto a me poggiandomi una mano sulla spalla.

- Ma tu vuoi andarci?- mi chiese seriamente guardandomi negli occhi per leggervi la risposta.

Volevo dire di no, che non mi importava, ma la verità era che volevo essere lì per il suo compleanno sperando che per quella sera sarei stata così bella da catturare su di me tutte le attenzioni del bell’attore irlandese che tanto odiavo.

- Sì.- risposi onestamente nascondendo il viso girandolo dall’altra parte.

- Allora ci andremo.- sentenziò la più matura tra noi invitandomi a rispondere a quella mail che avevo ricevuto.

 

Da: Laura Caruso

A: Maria O’Keeffe

Data: 20 Luglio 2012

Oggetto: Re: Compleanno

 

Ciao Marie,

gli esami sono andati bene ti ringrazio.

Adesso sono nel pieno del mio viaggio maturità con le mie amiche.

In questo momento siamo a Nizza ma già domani siamo in partenza e contiamo di essere a Parigi per il 22. Per te è un problema prenotare sei biglietti Parigi-Dublino?

Baci.

Laura.

 

Da: Maria O’Keeffe.

A: Laura Caruso.

Data: 20 Luglio 2012

Oggetto: Re: Re: Compleanno

 

Oh, sono felice che tu possa venire. Nessun problema. Vi prenoto il volo per il 26 sera così il 27 mattina andiamo a fare shopping in centro e mi racconti come è andata la vita in questi mesi.

Marie

 

p.s. ho già pensato a tutto per i tuoi compagni di scout, a giovedì!

 

L’efficienza fatta persona. Ovviamente.

Arrivammo a Parigi qualche giorno dopo. Avevamo passato lì tre settimane in Ottobre ma non ci sarebbe mai stato nulla che ci potesse dare noia in quella città meravigliosa.

Io avevo la mente un po’ troppo lontana da lì però e le mie amiche se ne accorsero subito.

- Sapete cosa? Quasi quasi non ci vengo a quello stupido compleanno. Tra l’altro non ho nulla da mettere.- mormorai sconfortata mentre passeggiavamo sugli Champs-Elysées.

Pessima idea come scusa da usare con la carta di credito della mamma di Caro in tasca e il negozio Gucci in fondo alla strada. Forse l’antipatia che provavano nei confronti di Jonathan avrebbe potuto aiutarmi.

- Scordatelo, noi ci andremo e tu sarai splendida!- oppure quell’antipatia poteva avere esattamente l’effetto opposto a quello desiderato.

- Esattamente. Sarà fantastico conoscere qualche bel figo della madonna e saltargli addosso.- convenne Ale annuendo.

- E poi i vestiti non sono un problema per noi giusto?- domandò Betta prendendomi sotto braccio.

- Giusto!- convennero le altre in coro trascinandomi come fossi una bambola.

Il resto della giornata passò unicamente per negozi. Non negozi normale sia chiaro. Non sono una di quelle lagne di donna che disprezzano i bei negozi. Semplicemente non mi piace entrare in luoghi in cui un solo capo costi quanto lo stipendio mensile di mio padre.

Betta era in estasi, continuava a parlare con il fashion stylist del negozio per scegliermi un abito e sembravano essere diventati grandi amici.

- Oh no Pierre, il rosso è troppo banale!- stava ribattendo la mia amica all’ennesimo vestito che le veniva proposto. Esattamente. Veniva prima proposto a lei, poi, se proprio volevo dare il mio parere bene, altrimenti meglio ancora.

- Ma è il suo colore, è evidente.- ribatté il ragazza nel suo francese troppo effeminato ad un ottava decisamente irraggiungibile.

- Ma non possiamo risultare scontati ricordi? E poi non cercavo un abito lungo, è troppo formale.- costatò Betta prendendo l’abito tra le mani e rigirandolo.

- Un abitino corto però la farebbe sembrare più piccola della sua già tenera età.- la informò lui. L’idea di sembrare più piccola mi infastidiva molto più dell’idea di apparire troppo elegante.

- Anche questo è vero.- accondiscese lei incrociando le braccia al petto e girovagando per il negozio alla ricerca dell’abito perfetto.

- Ricordatevi che vorrei che fosse abbastanza stretto, giusto per far capire che ho perso qualche chiletto.- li informai con la mia vestaglietta in satin nero seduta al mio posto per non disturbarli. Nessuno dei due mi diede retta più dello stretto necessario.

- Facciamo così, facciamo un abito corto e molto aderente rosso.- concluse Pierre mostrando un abito alla mia amica.

- Con una profonda scollatura posteriore.- aggiunse quella tirandone fuori un altro.

I miei occhi si illuminarono guardando lo splendido abito che la mia amica teneva in mano. E anche il ragazzo sembrò guardarlo come se fosse sfuggita a lui quell’ovvietà.

-Sono d’accordo.- concluse posando il suo capo e andando in magazzino a prendere la mia taglia.

Uscì dal camerino dopo alcuni minuti, sentivo la schiena completamente scoperta e benché davanti fosse molto accollato per evitare che scivolasse, sentivo di essere quasi completamente nuda. Era poco più lungo del mio ginocchio, leggermente svasato ma comunque aderente, una piccola meraviglia della moda, senza ombra di dubbio. Le scarpe che Pierre mi aveva consigliato di indossare poi erano un piccolo gioiello di stile. Alte, molto alte, ed elegantemente decorate con cristalli che sperai fossero solo Swarovski.

- Hai una forma del viso semplicemente stupenda, li alzerai e farai un bel trucco molto leggero per mettere in evidenza i tuoi punti forti, e a quel punto ti scoperei anche io.- mi avvisò baciandomi entrambe le guance e allontanandosi per preparare la cassa.

- Ragazze, fermatelo, non sapete neanche quanto costa!-

- Certo che lo sappiamo, tranquilla è una cosa che in cinque ci possiamo permettere.- mi avvisò Caro continuando a guardare in giro.

- In sei.- precisò Mattia che era rimasto seduto in silenzio tutti il tempo senza dire alcunché. –voglio dire se va male io comunque sono disponibile a tirarti su di morale.- mi assicurò facendomi l’occhiolino.

- Oh…cavolo, vi ringrazio.- mormorai mordendomi il labbro emozionata prima di essere rispedita nel camerino per potermi cambiare.

Chiaramente non era una cosa che avrei potuto permettermi. Solo le scarpe costavano novecentocinquanta euro. L’abito altri seicento. Tra l’altro i millecinquecento euro del totale erano anche parecchio scontati dalla gentilezza di Pierre e dall’amicizia che era nata con Betta.

- Tesoro, tu hai un gran futuro nella moda. Ti prego, scambiamoci i numeri, se dovesse capitarmi qualcosa di interessante tra le mani vorrei davvero poterti chiamare.- sorrise gentile e Betta, felice oltre l’inverosimile, gli saltò addosso abbracciandolo.

- Oh ti ringrazio, ti ringrazio tantissimo!- cominciò a dire.

Pierre cercò di riportarla con i piedi per terra e sorridente le diede i suoi numeri e la sua mail mentre Betta, con le mani tremanti, cercava di scrivergli il suo numero sul palmare che le aveva passato.

- Ci vediamo Bettina.- la salutò alla fine mentre noi andavamo via..

 

Il Louvre, rue des Tuileries, Notre-Dame, Musèe d’Orsay, la Tour Eiffel…erano tutte cose che avevamo visto per mesi, cose meravigliose che tuttavia avrei volentieri continuato a vedere per sempre. Quanto c’era di magico in quella città? Quanto c’era di vero? Sapevo che Parigi non era tutta quella. Non era soltanto le strade per i turisti, era anche la periferia, i clochard che cercavano di sopravvivere al freddo durante l’inverno. Era la Parigi magica delle favole e la Parigi tetra dei Miserabili di Victor Hugo.

Chissà come sarebbe stata la Parigi magica al fianco della persona che si ama.

Ci godemmo tutte il viaggio e dover lasciare Parigi così presto in un modo o nell’altro ci dispiacque. In ogni caso, anche se non ci fosse stato quel compleanno, saremmo state dirette a Londra. Adesso invece la meta era Dublino, un abito da capogiro e una brutta figura assicurata.

- Sai cosa? Sono un tantino sconfortata dall’idea di questo compleanno.- sussurrò piano al mio fianco la mia ex migliore amica. Ogni tanto, quando capitava per forza, succedeva anche a lei di dover stare per forza vicina a me.

- Perché?- domandai cerando di fingermi indifferente.

- Perché ho l’impressione che…avremo dei problemi.- concluse lei guardandomi sottecchi.

il mio problema sei tu amica mia.” pensai amaramente voltandomi a guardarmi.

- Anche io.- ammisi sospirando dopo un attimo in cui lei aveva anche ceduto e si era voltata verso il suo finestrino.

- Cosa?- mormorò sgranando gli occhi e tornando a me.

- Lui non è il tipo che…non si butterà tra le mie braccia solo per un bel vestito.- confermai dicendo per la prima volta ad alta voce quelle che erano state le mie paure per giorni.

- Credi stia con qualcun’altra?- mi domandò pianissimo con una certa curiosità. Dov’era la mia amica? Quella con cui avevo condiviso quattro anni della mia vita?

- Sì.- conclusi semplicemente senza voler fare tutta quella conversazione.

- Allora perché vuoi andare a quel compleanno?- mi domandò senza demordere.

Rimasi in silenzio cercando di capire se lo volesse sapere per il mio bene o semplicemente perché era curiosa e voleva parlarne con quella sua amichetta, Silvia, che era tanto interessata a Jonathan. Ma tanto quale era il problema? Sapeva comunque tutto di me rispetto a quelle cose che avevo avuto la brillante idea di rivelarle in quattro anni. Com’ero stata scema. E com’ero scema ancora adesso a provare nostalgia per la sua amicizia.

- Perché so che sarebbe stupido da parte mia credere che non stia con nessuno, perché io sono piccola, lui è grande, io sono una ragazzina che non sa fare molto, lui è un attore, mio padre è disoccupato, lui prima stava con la figlia di Ruby Hammer. Sono una serie di piccole cose.- conclusi mordendomi il labbro. Sapevo che quello sarebbe stato abbastanza per lei e non avrebbe più rotto le scatole fino alla fine del viaggio.

Se non costretta infatti non era di quelle persone che morivano dalla voglia di fare conversazione con me.

- Capisco.- concluse infatti rimanendo poi in silenzio. -comunque probabilmente ci sono un sacco di attori bellissimi e magari anche della nostra età non credi?!- finì alla fine con quella frase che forse voleva essere rassicurante o semplicemente vuota e cattiva come era diventata lei.

Non risposi. Non credevo che ci fosse davvero una risposta degna a quella che voleva essere qualcosa che in realtà io non avevo neanche capito bene. Se fosse successo prima del Giugno precedente l’avrei capita al volo e ci saremmo tutte fatte una bella risata, invece non avevo proprio nulla da dire.

Speravo solo che i miei peggiori timori non si fossero mai rivelati realtà.

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** La donna sa tutto. La sorella sa di più. ***


Ero all’aeroporto da quindici minuti ed ero sola perché Ettore e i miei fratelli erano rimasti a casa con Jonathan e il clan Italiano che era già arrivato. Nessuno sapeva che avevo invitato anche la ragazzina “rompipalle” e le sue amiche.

Non ero del tutto certa che Ettore non lo avesse capito perché non aveva fatto domande quando avevo preso il suo pick-up ed ero uscita di casa di corsa.

- Io sto andando a casa di tuo fratello.- mi aveva avvisato afferrandomi al volo prima che uscissi dalla porta e baciandomi con dolcezza. – guida con prudenza.- mi raccomandò lasciandomi andare.

Ma Ettore era un caso particolare. Lui mi amava in un modo in cui non mi ero mai sentita amata. Non mi pesava più non vivere a casa di mia madre, casa che era stata mia da sempre e che adesso era di mio fratello. Neanche la freddezza di mio fratello mi aveva compito particolarmente. Che senso aveva sentirsi colpiti da un misantropo che ti odia? È del tutto normale, odia il mondo.

Forse mi avrebbe odiata un po’ di più dopo la sua festa di compleanno. Di sicuro non aveva avuto una bella faccia di sorpresa quando aveva aperto la porta e si era ritrovato davanti quel gruppetto di ragazzi.

- Che cazzo..?!-

- Sorpresa!- gridarono quelli felici tirando coriandoli e stelle filanti che si erano portati da casa.

La faccia di mio fratello non era riuscita a frenare il loro entusiasmo e avevano comunque fatto una festicciola di Benvenuto sia a se stessi che a mio fratello.

- Dov’è quella scema di Laura? È una sua idea vero?- domandò seccato guardandosi intorno come se si aspettasse di vedersela spuntare davanti, era pronto a rimproverarla anche.

- A dire il vero no, lei non è nemmeno venuta con noi.- gli rispose Giulia, una ragazzina che si era attaccata subito a Jamie. Forse era lei la ragazza di cui mi aveva parlato a Marzo.

Erano rimasti in contatto?

- È ancora in viaggio con le sue amiche.- lo informò Piero che sembrava essere ben informato su tutto il mondo.

Mio fratello non disse assolutamente nulla semplicemente rimase con Paul, Jamie e Alan a parlare tutta la sera. Stranamente anche Ettore era riuscito a non farsi mandare a fare in culo dal veleno che mio fratello riservava a quasi tutti. I ragazzi per un po’ cercarono di coinvolgerlo poi alla fine continuarono a divertirsi per i fatti loro.

Adesso io me ne stavo tranquillamente seduta su una sediolina dell’aeroporto con il telefono tra le mani.

« allora come sta andando con mio fratello? » gli domandai sperando che Ettore leggesse la domanda con indifferente simpatia e non con l’urgenza che avevo.

« poteva andare peggio in fin dei conti »

« che vorrebbe dire? » risposi solo pochi secondi dopo.

«che non ha ancora dato di matto anche se quando i ragazzi alzano la voce li guarda come se fosse capace di alzarsi e ucciderli tutti. »

« evitagli di commettere un omicidio » sapevo che mio fratello era un tipo irascibile e soprattutto sapevo che non apprezzava la confusione però quei ragazzi erano stati come degli angeli custodi, per me e per lui.

« uno?! »

« TI PREGO! » quando lessi il suo messaggio non mi importò nulla di sembrare disperata. In realtà lo ero, quindi, avanti tutta Marie.

« Farò del mio meglio »

« grazie » risposi semplicemente bloccando i tasti e infilando il telefono in tasca.

Mi alzai quando annunciarono che il volo da Parigi era arrivato. Mi avvicinai all’uscita degli arrivi e aspettai in silenzio con le braccia incrociate al petto.

Il gruppetto che uscì era formato da cinque ragazze allegre, abbronzate e spensierate, in compagnia di un ragazzo più grande che le controllava a vista. Avevano due valigie a testa quindi ero felice di essere venuta con il pick-up di Ettore. Sorrisi quando incontrai lo sguardo della mia eroina personale.

Lasciò le valigie e corse verso di me abbracciandomi stretta, abbraccio che ricambiai più che volentieri. Le sue amiche intanto, recuperati i suoi bagagli, si erano avvicinate.

- Ciao, io sono Maria O’Keeffe.- mi presentai gentilmente porgendo le mani a tutte loro.

- Io sono Carolina.- si presentò la prima, una ragazza alta, la più alta del gruppo, la pelle chiara anche se abbronzata e i capelli neri.

- Io sono Alyssia.- aggiunse un’altra al suo fianco, bianca di carnagione più della prima, anche se scurissime rispetto agli standard Irlandesi e dai capelli castani chiari, forse un po’ bruciati da una possibile permanente che spiegava il motivo per cui li sistemava con la mano ogni secondo.

- Io sono Betta.- la ragazza che aveva parlato era la più bassa, aveva lunghi capelli biondi e grandi occhi color miele. Sembrava la dolcezza fatta persona.

- Io sono Bens, Benedetta.- l’ultima aveva la voce di chi, mielosa fino all’inverosimile, voleva a tutti i costi fare buona impressione. Aveva i capelli corti e neri e delle belle labbra carnose. Carnose come il fisico di tutte loro Laura esclusa.

Volevo rassicurare tutte loro con i miei migliori propositi.

- È un piacere conoscere tutte voi. Mi spiace se non ricorderò i vostri nomi.- le avvisai con un sorriso enorme e abbracciandole tutte una alla volta.

- Io sono Mattia posso sapere dove posso affittare un’auto?- mi salutò il ragazzo che era con loro con quel brutto accento italiano che nelle ragazza non dava troppo fastidio.

- Ve la presterà mio fratello.- lo rassicurai velocemente.

- E in quale albergo staremo? Non abbiamo grandi disponibilità economiche.- mi domandò di nuovo con un leggero tono di diffidenza.

- Starete a casa di mio fratello Jamie che ha deciso di rimanere a casa di mio fratello.- li rassicurai con un mezzo sorriso tranquillo.

- Davvero?- domandò Laura al mio fianco poggiandomi una mano sul braccio.

Mi voltai verso di lei prendendo la valigia piccola che aveva con se e feci cenno ad ognuno di loro di seguirmi.

- Sì, sembra che abbiano qualche tresca in corso.- le risposi con un mezzo sorrisetto complice avviandomi all’uscita più vicina.

- Oh, quindi sono rimasti in contatto.- dedusse con un mezzo sorriso. Era proprio una ragazza carina, mi chiedevo come facesse mio fratello a non andare d’accordo con lei.

- Lo sapevi?- le domandai sbalordita.

- Sì. Quando posso vederle?- mi domandò trepidante di sapere ogni particolare sulla mia esperienza e soprattutto su quella storia con Jamie

- Domani, adesso è già tardi quindi mangiate e andate a riposare. Domani shopping tutte insieme.- l’avvisai.

- A che ora sarà la festa?- domandò Bens mentre Mattia caricava le valigie sul pick-up

- Alle nove cominceranno ad arrivare ma il red carpet durerà un po’- comunicai loro mentre salivo in macchina.

Tutte loro si guardarono negli occhi terrorizzate. Non si aspettavamo forse che ci sarebbero state star e personaggi famosi? Il red carpet, con tanto di fotografi e giornalisti, era praticamente un must per ogni compleanno da star degno di nota. Anche se personalmente io lo odiavo e, sospettavo, anche mio fratello non lo trovava piacevole

- il che?- domandò Laura in preda al terrore sentendo gli occhi delle sue amiche su di me.

- oddio non vi avevo avvisate?- domandai con il senso di colpa che mi stava attanagliando. Come avevo potuto dimenticare di dirglielo? Povere ragazze non avevano portato niente di adatto?

- no.- gridò Betta in preda al panico.

- domani, lo shopping. Giuro che mi farò perdonare.- la rassicurai con un sorriso gentile che sperai sortisse un buon effetto sulle mie nuove compagne.

Partì lentamente cercando di parlare d’altro mentre le accompagnavo a casa di mio fratello.

 

Quando entrai nella casa dove abitavo da quando mio fratello mi aveva sbattuta fuori Ettore era già lì, ai fornelli, che preparava la cena.

- Ehi.-

- Ciao.- lo salutai avvicinandomi a lui.

Mi baciò velocemente prima di tornare alla padella che teneva in mano.

- Apparecchi per favore?-

- Certo…- convenni prendendo la tovaglia e i piatti e posandoli a tavola. –allora com’è andata con mio fratello?-

- Nessun morto finché c’ero io.- mi comunicò vittorioso portando a tavola un bel vassoio pieno di prelibatezze.

- Bene, grazie.- gli dissi guardandolo con gli occhi che, ne ero consapevole, stavano luccicandomi.

Mi capitava ogni volta che lo guardavo, stavo diventando ridicola.

- Prego.- mi rispose lui sorridendo e sedendosi a tavola.

Cominciammo a mangiare la splendida cena che aveva preparato il mio perfetto fidanzato paramedico e sorrisi guardandolo mentre si preoccupava che qualcosa non mi piacesse. Dopo un po’ tornò sull’argomento Jonathan. Da quando avevamo litigato raccoglievo informazioni su di lui solo da Ettore che sapevo mi ometteva tanti particolari.

- Stasera Alan, Jamie e Paul gli hanno organizzato una festa tra ragazzi, io e Alan non eravamo invitati.- scherzò lui ridendo.

- Perché?- domandai dopo un attimo.

Pensavo che fosse dovuto al fatto he fosse una festa tra fratelli ma Alan era nostro fratello. Lui comunque non sarebbe andato ma non invitarlo mi sembrava proprio una carognata.

- Marie, me lo hai chiesto davvero?- mi domandò alzando un sopracciglio.

- Oddio! Anche Jamie non dovrebbe andare allora.- sbottai arrabbiata.

- No, la storia con l’italiana non può andare, lei è troppo piccola e stupida.- rispose lui alzando le mani in segno di scuse quando capì che stavo per rimproverarlo.

- Anche se è piccola e forse un po’ immatura questo non da a mio fratello il diritto di usarla.- gli feci presente. – anche tu usi le donne?- gli domandai severa.

- Io sto con te, non con donne.- mi rispose lui con una mezza smorfia adorabile. La sua risposta di certo avrebbe meritato un premio.

In generale probabilmente non avrei mai potuto incontrare un ragazzo migliore. Mi ero sempre disperata perché ero convinta che l’unico ragazzo per me potesse essere come mio padre e che mi avrebbe abbandonata come aveva fatto con mamma. A quindici anni avevo chiesto ad Alan di sposarmi perché era esattamente il principe azzurro dei miei sogni. Adesso che avevo Ettore, il ragazzo normale, con la testa sulle spalle, un lavoro, una futura laurea in medicina, una casa e dei progetti, che mi amava, capivo che non potevo sperare in nulla di meglio.

- Cosa c’è in programma per domani?- mi domandò lui mentre, sdraiati sul divano fingevamo di vedere un film tra un bacio e l’altro.

- Ah domani! Devo andare a fare shopping con le ragazze di mattina perché avevo dimenticato di avvertirle che c’è il red carpet. Ci vediamo alle sedici dal parrucchiere ok? Dobbiamo essere al locale alle venti per sistemare tutto.- lo avvisai elencando gli impegni più importanti.

- A che ora devo passare dal sarto?- mi domandò diligente.

- Devi andare a casa di Alan alle dodici. Ci saranno i miei fratelli e andrete insieme.- lo avvisai.

- Ok, capo.- mi rispose ridacchiando baciandomi prima che potessi ribattere e rimproverarlo bonariamente.

 

 

Giravamo per negozi da ore ormai. Io non amavo lo shopping ma con loro non fu poi tanto male. Betta era un’ottima esperta di moda e non ci fu bisogno che io intervenissi mai per suggerire di non acquistare un capo. Ci pensava lei, da amica, a dire che un vestito non andava affatto bene.

- Sembri 10 kili in più. Nelle foto sembreranno venti. Fidati, tu non vuoi quel vestito.- stava cercando di convincere la ragazza dai lunghi capelli neri dell’inadeguatezza di un abito di cui sembrava essere innamorata.

- Ma a me piace.- si lamentò lei.

- Allora compralo e fa brutta figura che vuoi che ti dica?- le rispose la sua amica facendo spallucce e correndo ad aiutare un’altra delle ragazza.

Alla fine, fortunatamente, si convinse della veridicità dei consigli di Betta e lo posò. A ora di pranzo tutte le ragazze avevano comprato ciò che serviva per la sera e sarebbero state splendide senza ombra di dubbio.

- Laura tu non hai bisogno di nulla?- le domandai quando ormai tutte avevano il loro vestito e almeno due buste a testa.

Lei mi sorrise gentile, con quel suo bel sorriso e scosse la testa.

- Le mie amiche e Mattia mi hanno regalato un bel vestito a Parigi, metterò quello.- mi rispose semplicemente.

- Sei sicura sia adatto?- le domandai aggrottando la fronte.

Era rimasta seduta tutto il tempo su una sedia, vicino la mia, silenziosa, persa chissà dove con la mente. Mio fratello doveva averle dato parecchio filo da torcere poverina. Avrei voluto chiedere anche a lei se sapeva qualcosa su di lui. Di certo era la più informata. Ma non era il caso.

- Sì, mi ha aiutata Betta.- mi rassicurò. E servì davvero a farmi sentire meglio.

Quella ragazza aveva senza dubbio grandi potenzialità nel campo della moda.

Durante il pranzo ci accontentammo di un fast-food. Non mangiavo in uno di quei posti dall’84 e ritornarci era davvero un’esperienza. Mia madre li odiava, preferiva spendere un po’ di più ma portarci in un ristorante piuttosto. Ma le ragazze sembravano adorarlo.

- Allora Giulia, come sta andando con Jamie?- Laura era seduta accanto a me e Giulia aveva preso posto a sua volta accanto a lei.

Le aveva rivolto la domanda pianissimo e forse solo io le sentì perché ero rimasta in silenzio mentre tutte chiacchieravano tra loro animatamente.

- Bene, mi piace un sacco e credo di piacergli anche io.- rispose la ragazza. Io mi sentì un mostro. Sapevo quello che sapevo e non l’avvisavo di stare lontana da quel mostro di mio fratello?

Fatti i fatti tuoi Maria O’Keeffe. Mi gridò una vocina nella mente. Magari Jamie aveva detto così solo per fare bella figura con i suoi stupidi fratelli.

- Sei pronta per stasera?- le domandò ancora più piano. – ne avete parlato?- continuò quasi contro il suo orecchio.

- Sì, ieri. Dice che non dobbiamo farlo per forza se non sono pronta ma dopo il dolore di una ceretta totale sono più che pronta.- scherzò lei ridendo piano.

- Così capisci che cosa ho provato!- la prese in giro Laura dando di gomito.

- Beh per Jonathan ne valeva la pena no?-

Evitai di voltarmi di scatto verso la ragazzina al mio fianco? Che cosa? Aveva fatto sesso con mio fratello? Perché? Io credevo che fosse una di quelle ragazze perfette pronte ad aiutare gli altri invece si era lasciata coinvolgere in quella sordida uscita.

- Giulia fidati, Jonathan è l’ultima persona per cui lo farei! Al massimo potrei pensare di farla a lui tanto per farlo soffrire un po’.- scherzò su facendo ridere anche la sua amica.

Tirai un sospiro di sollievo. Ovviamente Laura non era quel tipo di ragazza. Era più il tipo che faceva il suo lavoro in silenzio anche se si trattava di un ragazzo misantropo e rompipalle che avrebbe voluto punire carnalmente. Sorrisi tra me mangiando una patatina.

- Ma lui sta con qualcuno ora?- le domandò Giulia pianissimo. La cosa interessava parecchio anche me.

- Sì, una biondina Londinese che è stata da noi per un po’.- rispose Laura con stizza. Forse la biondina non era proprio la sua migliore amica.

Biondina. Bionda? Mio fratello. A mio fratello non piacciono le bionde come è possibile che sia la sua nuova ragazza?

- È carina?- domandò di nuovo la ragazza.

- Molto.- rispose quella con un sospiro probabilmente anche con un po’ di invidia del tutto normale.

Doveva essere qualche ex collega di mio fratello che aveva deciso di approfittare del momento di notorietà che gli avrebbe portato il suo compleanno. Niente di preoccupante. Normale amministrazione quindi.

Alle quattro eravamo dal parrucchiere già con la testa in acqua.

Oliver, il mio parrucchiere personale, era venuto da New York, dove il mio tour era in pausa, per potersi occupare dei miei capelli e di quelli delle mie amiche. La squadra al suo seguito era composta da estetiste professioniste che si occuparono delle nostre mani e di tutto ciò che c’era da fare.

Le ragazze chiacchieravano tra loro in italiano ma non mi sentivo estromessa dalla conversazione. Avevo imparato quella lingua grazie a Ettore. Sua madre infatti era italiana e fin da bambino è stato abituato a questa lingua. Mi piace che mi parli in italiano. È così sexy. Ed io sono parecchio brava ad apprendere. Chissà se anche Jhonny aveva imparato la lingua o si era rifiutato di farlo.

- Allora tesoro, come facciamo i capelli?- mi domandò Oliver ravvivandomi la chiamo asciutta.

- Ho un abito lungo color avorio e delle scarpe azzurro molto chiaro.- lo avvisai accompagnando le mie parole con delle mosse che gli spiegassero il genere di abito.

Lungo, a sirena, con dei richiami alle onde sul corpetto.

- Oh mio dio splendido…- mormorò lui applaudendo piano.

- È molto…marino.- conclusi io sorridendo soddisfatta.

- So esattamente cosa ci vuole per te.- mi rispose facendomi l’occhiolino.

Mentre mi aggiustava i capelli imprigionandoli in complicatissime trecce in un’incredibile acconciatura, guardava le ragazze nel suo locale.

- Sono italiane vero? Come strillano.- scherzò lui ridendo.

- Sì, italiane. La ragazzina che sta lavando i capelli è quella che sta aiutando mio fratello.- lo informai permettendogli di associare un volto ad un nome. Avevo parlato molto di lei in tour a tutti.

La guardò dallo specchio e si abbassò su di me.

- Guarda che non è affatto in carne.- mi fece notare.

- Lo so, è molto dimagrita dall’ultima volta che l’ho vista.- spiegai semplicemente guardando il telefono.

- Tutta l’attività fisica che le fa fare tuo fratello?- mi domandò.

- Può essere.- conclusi distratta mentre controllavo la mia posta elettronica.

- E tu sei d’accordo?- mi domandò allibito.

- Non sono mai riuscita a frenare mio fratello in vita mia, anche se interferissi adesso non credo mi ascolterebbe.- gli comunicai.

- Ma quanti anni ha?-

- 17.- risposi lapidaria sorridendo al messaggio di Ettore che mi avvisava che era tutto pronto ed era fantastico al locale e che adesso stava arrivando.

- E non ti sembra che tuo fratello sia troppo grande per lei? Potrebbero arrestarlo?-

- Cosa?- domandai tornando finalmente alla realtà.

- Beh sì. Tuo fratello ha trentacinque anni non credo sia legale che stia con una minorenne no?- mi chiese con apprensione nella voce. Non mi ero accorta che stavamo parlando di una sua fidanzata.

- Mio fratello sta con una minorenne?- cercai di non gridare mentre mi mettevo seduta meglio sulla sedia e lo guardavo dallo specchio.

- Me lo hai detto tu!- mi avvisò allibito.

- Non è vero!- gridai a quell’accusa col cuore che mi scoppiava nel petto. Laura non aveva precisato l’età della bionda.

- È allora che ci fa con quella ragazza?- mi chiese Olivier indicando col mento Laura.

- Ah!- sospirai tranquillizzandomi - non quel genere di attività fisica, te lo assicuro.- lo rassicurai rassicurandomi a mia volta.

 

Ettore arrivò dopo pochi minuti sorridente. Aveva i capelli tagliati di fresco ed era davvero bellissimo. Avrei voluto alzarmi ma ero ancora sotto le sapienti mani del mio amico fedele. Lui si avvicinò e Olivier lo minacciò con la spazzola.

- Se ti avvicini e rovini il mio capolavoro cristo santo ti acceco con una delle mie forbici!- lo minaccio

- Vengo in pace.- rispose Ettore ridendo e accovacciandosi accanto alla mia sedia.

- Ciao.- lo salutai con un mezzo sorriso.

- Ciao.- rispose lui sorridendo apertamente con quel suo modo meraviglioso di fare. –allora chi devo portare con me?- mi domandò accarezzandomi la mano. Stavo per saltargli addosso e tanti saluti all’acconciatura.

- Le ragazze che stanno in casa di Jonathan.- lo avvisai indicando le ragazze già pronte all’uscita. -Sei con Mattia?- gli domandai agitata.

- Sì.- mi rispose alzando un sopracciglio.

- Come hai spiegato chi è ai miei fratelli?- chiesi ancora.

- Un amico.- rispose lui sempre più sospettoso. – perché non vuoi che sappiano che Laura è qui?- mi domandò dopo un attimo.

- Tu come fai a saperlo?- gridai guardandolo.

Lui aggrottò la fronte e fece scorrere lo sguardo sul posto al mio fianco dove il mio angelo aveva preso posto chiacchierando con la ragazza che le stava facendo le mani come se fossero amiche da una vita.

- Ah.- mormorai per essere stata scoperta.

- Allora?- incalzò lui.

- Quando non l’ha vista quando è arrivato sembrava esserci rimasto male che non ci fosse. Voglio solo tenerlo un po’ sulle spine.- risposi facendo spallucce.

- E poi?- mi invitò lui a continuare.

Mi mossi sulla sedia nervosa meritandomi un colpetto di spazzole sulla testa. Ero stata scoperta? Forse, forse no. ma con Ettore che senso aveva mentire?

- Ho paura che si arrabbi che sia qui. Non voleva vedere i ragazzi che ha visto mesi fa. Se avessero litigato come penso e non volesse vederla ci metterebbe un attimo ad andare via.- confessai col cuore piccolo piccolo.

- Credi che vedendola stasera se vuole andare via non lo farà?- mi domandò lui.

- No, non davanti ai giornalisti comunque. Sorriderà e farà il suo dovere. Poi stasera me ne occuperò.- risposi semplicemente mentre lui si alzava, mi baciava piano e scappava da Olivier che gli gridava dietro minacce brandendo la spazzola.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** In un attimo si possono incontrare centinaia di persone, uno coinvolge tutta la nostra esistenza. ***


Stavo tremando. Davvero.

Eravamo ormai in macchina, i capelli perfettamente acconciati grazie alle sapienti mani di Millie, la parrucchiera che si era occupata di me. era un ragazza venticinquenne che amava Jonathan e che mi aveva chiesto di raccontarle tutto su di lui.

- Guarda che è un rompiscatole, non è proprio come lo si sogna.- le raccontai io alzando gli occhi al cielo e ridacchiando.

- Ma il mio sogno non è mica quello di parlarci.- precisò lei facendomi l’occhiolino. –magari stasera sarai così fortunata da realizzare il mio sogno.-

- Non credo.- tagliai corto non riuscendo a non pensare alle sue labbra sul mio seno.

no, Laura!” mi rimproverai prendendo un respiro profondo. Non dovevo trasgredire le regole ferree che mi ero autoimposta.

Il suo lavoro comunque era stato davvero eccellente. Non mi ero mai vista tanto bella in tutta la mia vita nemmeno per il mio compleanno quando mi affidavo ad un parrucchiere e alla mia estetista. Non ero mai stata truccata così.

Non era qualcosa in particolare, era tutto il trucco in se. L’ombretto negli occhi infatti era molto leggero per accompagnare l’abito importante e l’acconciatura e solo le labbra erano state valorizzate molto. La il viso che vedevo riflesso nello specchio non sembrava nemmeno il mio tanto era perfetto. Sarebbe stato un dramma struccarsi.

- Bacialo anche per me ti prego!- mi aveva domandato implorante Millie baciandomi la guancia prima che uscissi dal locale in cui eravamo arrivate nel pomeriggio presto. Erano già le sei e mezza.

Lo avrei fatto con piacere se ne avessi avuto la possibilità.

Ci fecero scendere davanti all’ingresso. Il tutto era circondato da transenne e dai flash abbaglianti dei paparazzi che erano accorso in molti per quell’occasione. Era davvero una cosa ridicola per me.

- Ok, sei pronta?- sussurrò una voce al mio fianco.

Io annuì a Marie e la guardai mentre si allontanava sorridente per raggiungere Ettore e fare il suo ingresso. Erano davvero bellissimi. Si guardavano in quel modo che avevano due persone innamorate. Si cercavano sempre. Era l’amore che avrei tanto voluto avere anche io al mio fianco.

Noi entrammo da sole. Io e le mie amiche insieme. Sorridemmo un po’ ma in tutto andammo avanti lisce. Nessuno ci fermò per chiederci delle foto. Ovvio, non eravamo nessuno noi. La sala era splendidamente curata. I miei compagni erano già là seduti ad un tavolo che c’era stato destinato. Mario, Piero e Andrea mi vennero incontro entusiasti.

- Laura, sei bellissima. Ciao.- mi salutò sorridente abbracciandomi stretta Mario. – non ci siamo visti quando siete arrivate?- mi domandò mentre anche gli altri mi salutavano.

- Sembri davvero una fotomodella.- mi ricordò Andrea prima che potessi parlare.

- Grazie.- sussurrai sorridente. – siamo arrivate ieri sera tardi e stiamo a casa di Jamie.-

- Il fidanzato di Giulia?- domandò Piero abbracciandomi.

- Sì.- ammisi io sorridente toccandogli i capelli perfettamente legati e sistemati. – Olivier te li ha concessi lunghi?- domandai sorridendogli.

- Sì, ma solo grazie a Paul che era favorevole.- ammise lui. –non avrei mai permesso che li tagliassero comunque.- concluse con un’espressione seria.

Ci sedemmo tutte al tavolo mentre la sala si riempiva di gente dello spettacolo e donne bellissime. Betta era in crisi profonda così come ognuna di noi. Comunque non avevo speso una piccola fortuna per rimanere seduta tutta la sera. Mi alzai da tavola e le guardai.

- Andiamo a cercare Jonathan per fargli gli auguri?- domandai sperando che qualcuno di buona volontà mi seguisse. Si alzò solo Andrea e Mario fece lo stesso dopo che lo pregai un po’.

Camminammo tra la folla alla ricerca del festeggiato.

- Guarda Colin Farrel!- mi fece notare Andrea indicandolo.

- Guarda Alex O’Connell.- mi chiamò dall’altra parte Mario.

- Si chiama Luke Forde.- lo riprese Andrea stizzito.

Io cominciavo a sentirmi confusa. Mi aggrappai al fianco di Andrea che mi accompagnò silenziosamente lì dove eravamo effettivamente diretti.

- Ciao Jonathan, auguri.- lo salutò Mario coprendomi col suo corpo mentre gli porgeva la mano libera.

- Grazie.- sentì semplicemente rispondere mentre Andrea faceva la stessa cosa dall’altra parte.

- Divertitevi.- ci augurò semplicemente prima di girarsi pronto ad andare via.

- Non vuoi neanche che ti faccia gli auguri?- lo presi in giro facendomi largo tra i due ragazzi che mi avevano rubato la scena tenendo il fuggiasco per un braccio.

Dovetti fare due passi avanti per non cadere perché nonostante tutto aveva continuato indifferente a camminare.

- Ehi, O’Keeffe!- lo richiamai. A quel punto, finalmente, si fermò. Lo vidi voltarsi di scatto con la fronte aggrottata e mi fissò interrogativo.

- Che ci fai tu qui?- mi domandò con una punta di acidità nella voce.

- Che vuol dire che ci faccio qui?- domandai io a mio volta togliendo il braccio e guardandolo leggermente colpita. – ci ha invitati tua sorella.- conclusi in un sussurro.

- Anche tu?- chiese alzando un sopracciglio. Io annuii incapace di dire alcunché.

- Ti spiace?- domandai piano in risposta.

- Non dovevi essere in viaggio?- mi fece notare.

- Sì, però non potevo rifiutare l’invito.- scherzai cercando, con scarsi risultati, di sorridere. Sentivo che mi stava scoppiando il cuore nel petto.

- Oh sì che potevi ce la saremmo cavati comunque.- rispose semplicemente.

Guardandolo sembrava che stesse bene. Aveva un bel colorito naturale, niente occhiaie rossicce o cose del genere. Faceva anche un buon profumo. Ma il trucco, che aveva fatto miracoli sul mio viso, probabilmente nel suo era anche meglio.

- Sì, lo vedo che te la stai cavando.- acconsentì con un mezzo sorriso. – sono felice che sia così. Il lavoro va bene?-

- Sì, sì, tutto bene.- tagliò corto lui.

- Sei ancora arrabbiato per Londra?- domandai mordendomi il labbro. – i miei non mi avrebbero mai fatta venire comunque.- gli feci notare sotto voce.

- Laura non potrebbe fregarmene meno di Londra e del tuo rifiuto ok? Mi infastidisce che tu abbia pensato di dover venire conciata così.- mi apostrofò crudelmente facendomi fare un passo indietro mortificata.

- Comunque non c’era nessun bisogno di mascherarsi in questo modo.- mi fece presente continuando acidamente alzando un angolo delle labbra

- Cosa?- biascicai io cominciando ad arrossire.- di che parli?- domandai subito cercando di darmi un tono. Ovviamente non servì a molto.

- Del trucco che ti sei fatta spalmare sulla faccia.- mi fece notare lui passandomi il pollice sulla guancia e mostrandomi lo strato bello spesso che gli era rimasto sul dito.

- non ti piace?- domandai in un sussurro cercando di apparire indifferente.

- Sembri una prostituta.- concluse lui indifferente mettendo le mani in tasca e guardando altrove mentre io mi ripetevo di non scoppiare in lacrime. – goditi la serata.- mi auguro da bravo stronzo qual era.

Mi voltai e mi allontanai velocemente da lì a passo di carica. Mario e Andrea non c’erano più e trovare il tavolo era davvero un’impresa. Non volevo sembrare una scema davanti a tutta quella gente ma davvero non riuscivo a controllare la delusione.

- se scoppi a piangere gli darai di che parlare per mesi.- mi suggerì una voce contro l’orecchio.

Ero seduta su un divanetto in pelle nero su cui mi ero lasciata cadere perché mi sembrava il posto più vicino in cui fermarmi e aspettare che qualcuno di mia conoscenza passasse a prendermi. Avevo però disturbato a quanto pareva qualcuno che aveva sicuramente più diritto di me di stare lì.

- Non sto piangendo.- sbottai acida prima di sospirare e voltarmi dalla parte opposto a quell’osservatore indiscreto.

- Sì?- mi domandò lui cercando di non ridere.

- Sì.- confermai sempre più seccata. Mi voltai verso di lui e me lo ritrova davanti in tutta la sua sconvolgente bellezza. Non parlavo di qualcosa da: oh sì, carino. Era proprio uno di quelli a cui si salta addosso dopo 10 minuti.

- Allora mi spiace di aver pensato male di te.- concluse passando un braccio dietro lo schienale del divanetto poggiandosi meglio e sollevando un angolo delle labbra in un sorriso. Aveva un sorriso davvero carino. E aveva una faccia conosciuta.

- Ci conosciamo?- domandai sedendomi meglio e voltandomi verso di lui.

- Non credo, però possiamo rimediare. Io sono Gaspard.- si presentò porgendomi la mano.

Ah ecco perché lo conoscevo. Era un attore.

Gaspard Ulliel, con l’atteggiamento da attore e tutto il resto. Era bello quasi quanto nell’immaginario. Non credevo che fosse così poco photoshoppato. Era una bella sorpresa.

- Laura.- mi presentai a mia volta stringendogli la mano che mi porgeva. - sei francese.- precisai con quella frase scontata che lo fece sorridere.

- Sì.- ammise con dell’ironia nella voce come stesse per dire: “allora sei brava, Sherlock.”

- Io parlo francese.- affermai di nuovo come a spiegare la mia infelice battuta. Lo dissi in francese con quel tremendo accento italiano che sapevo di avere.

- È davvero bello incontrare qualcuno che parla la mia lingua.- rispose lui in francese con quella voce profonda che ti aspetteresti da un film. - anche se non è francese di nazionalità.- precisò lui con un sorriso che mostrò la fossetta che aveva nella guancia. Era una fossetta davvero molto carina, niente da ridire a riguardo.

- Sì, mi spiace.- mormorai io arrossendo e sorridendo in modo il più cordiale possibile.

Avevano aumentato il rumore della musica ma lui era rimasto sempre alla stessa distanza e non aveva aumentato il tono di voce. Facevo non poca fatica ad interpretare le sue parole.

- Oh a me no.- rispose semplicemente. O almeno io credetti di aver sentito questo. – di dove sei?- mi domandò cordialmente.

- Sono italiana.- gli risposi tornando all’inglese sollevando lo sguardo dalla sua mano che aveva appoggiato sul divanetto nello spazio tra me e lui come a tenere le distante.

- Di dove?- domandò di nuovo con insistenza. – ti prego, il tuo francese è davvero carino.-

In realtà ero troppo impegnata a cercare di interpretare i suoi movimenti per poter pensare anche a quello che stava chiedendomi. Mi stava tenendo a distanza, questo era ovvio, ma perché? Aveva paura che lo attaccassi? Ma erano tutti uguali gli attori? Non lo avrei attaccato, dopo l’esperienza Meyers non sarei mai più andata dietro ad un ragazzo se non fosse stato lui a provarci per primo.

- Una piccola città in Sicilia, non credo che la conosci.- tagliai corto allontanandomi un po’.

Lo vidi aggrottare la fronte e rimanere immobile per un secondo prima di avvicinarsi lui stesso.

- Proviamo.- scherzò non contento evidentemente della mia risposta. quel ragazzo assomigliava tantissimo nei modi al mio incubo personale da cui ero appena stata maltrattata.

Possibile che fossero tutti uguali? Assomigliava anche a quel ragazzo che una mattina avevo visto seduto al bar con Betta e che aveva attirato la mia attenzione per i suoi atteggiamenti simili a quelli di Jonathan. Risposi frettolosamente biascicando il nome della città.

- Ho passato lì un paio di giorni prima delle vacanze di pasqua. Davvero una città carina.- rispose lui attirando di nuovo su di se la mia attenzione.

- Davvero?- domandai rivolgendo il viso verso di lui e rimanendo a debita distanza. Lui era straordinariamente vicino adesso. Si fidava che non lo attaccassi?

- Già.- confermò con un mezzo sorriso.

- Eri con una ragazza?- domandai involontariamente meritandomi un’occhiata da parte sua che sembrava volermi leggere dentro. Si era avvicinato ancora, adesso quasi sussurrava ma lo sentivo lo stesso.

- Avevi un cappottino rosso?- mi domandò a sua volta dando prova di ricordarsi addirittura di me.

Mi allontanai un po’ e lo guardai con un enorme sorriso. Io sapevo di non sbagliarmi.

- Sei il ragazzo del bar!- esclamai strappandogli un enorme sorriso.

 

Ero appena uscita dal bar, in bocca avevo ancora quel buon sapore di caffè amaro che adoravo la domenica mattina presto, al mio fianco Betta che mi chiedeva come fosse andata la settimana e se mi stessi già preparando per i prossimi compiti in classe. Erano le vacanze di pasqua. Era il sabato di pasqua. Perché quelle domande? Non riuscivo a concentrarmi bene. Mi mancava. Ogni volta che non gli stavo attorno mi mancava. Che scema. Non riuscivo a non pensare a quel bacio, ai suoi occhi visti da vicino, al suo sapore. Per una volta quello del caffè non mi sembrava più granché. Avrei voluto un altro sapore, di cioccolato, fumo e libidine. Arrossì. Lo sapevo perché improvvisamente in quella fredda mattina di Aprile mi sentì le guance infiammate. Calde. Risi tra me. Mi voltai verso di lei sorridendole appena, stretta nel cappottino rosso che aveva scelto per me tremando come una foglia a causa del leggero vestitino blu. Lei con la moda ci sapeva fare. Ogni volta che mi vestiva, come fossi la sua bambola, mi sentivo bellissima e molto più sicura di me. che potere enorme che aveva quella ragazza.

- Non sono ancora…- prima che potessi finire la frase incrociai gli occhi blu di un ragazzo seduto ad un tavolino.

Erano dei begli occhi. Profondi e rassicuranti. Il contrasto con la camicia bianca era sconvolgente. Un turista. Francese probabilmente. I francesi avevano quella mascella pronunciata e sexy. Non lo stavo guardando più. Avevo altri occhi davanti, degli occhi chiari, di ghiaccio. Un paio di labbra spesse, morbide, un buon sapore in bocca. Lui non aveva gli occhi rassicuranti e non mi guardava mai con curiosità come quel turista. Di solito era disprezzo o derisione.

Ci eravamo allontanate di qualche passo. Quando realizzai che anche lui mi aveva guardata come se mi stesse studiando. Il mio incubo mi distraeva sempre dalla realtà e finivo per perdermi dei dettagli essenziali. Non era la prima volta quella che accadeva. Mi voltai di nuovo indietro e lui era ancora lì a guardarmi. Allora non lo avevo immaginato.

- Betta, guarda quel ragazzo, non ha qualcosa di tremendamente familiare?- le domandai scrollandola piano per il braccio.

Lei si interruppe. Stava parlando e non l’avevo ascoltata. Mi dispiaceva. Ero davvero un’amica tremenda. Forse Jonathan non aveva tutti i torti. Neanche la migliore amica che mi aveva abbandonata in un angolino. Chissà se glielo avessi detto, magari l’avrebbe trovata simpatica e avrebbe smesso di litigare con le mie amiche.

Lei si voltò, lo guardò mentre ancora lui guardava me. poi arrivò una ragazza, straniera anche lei, non sembrava francese ma chi poteva dirlo. Aveva un vestito leggero leggermente alzato dietro a mostrare una porzione troppo generosa di coscia. Probabilmente lo pensavo solo io. Benchè cercassi di liberarmi della retrograda mentalità del sud io ero la tipica ragazza del sud con i suoi stereotipi e i suoi pregiudizi. Povera ragazza, neanche la conoscevo e già la mia mente l’aveva etichettata.

Puttana.

Si sedette e gli poggiò una mano sul braccio. Non sembrava nulla di volgare quello. Sembrava il gesto di una qualsiasi ragazza. Lui aveva smesso di guardarmi, di studiarmi come se fossi un quadro in un museo, e adesso parlava con la sua compagna.

- Non mi sembra di conoscerlo, forse ha una faccia comune. Si vede lontano un miglio che è francese.- rispose la mia amica alla mia domanda. E così mi riportò con i piedi per terra mentre la mia mente continuava a cercare una possibile soluzione a quel rebus. Possibile che lo conoscessi? Forse no. forse semplicemente Betta aveva ragione.

- Sì.- acconsentì io mentre tornavamo a camminare e ci allontanavamo.

Ci eravamo fermate e non me ne ero neanche resa conto.

La sensazione di aver avuto davanti un volto conosciuto non mi abbandonò mai. Forse era uno di quei ragazzi che avevo conosciuto a Parigi durante il mio stage lavorativo di quell’estate. Forse lo avevo visto su facebook tra gli amici del mio corrispondente francese. Forse…

Quando, nella tranquillità della mia camera, ripensai a quell’episodio, mi resi conto che somigliava a qualcuno. Era per quel motivo che lo avevo guardato, me lo ricordava. Era bello, non quanto lui però, e aveva lo stesso, affatto discreto, atteggiamento.

 

 

Erano passati parecchi minuti. Forse anche delle ore perché ci eravamo resi conto ad un tratto che erano tutti seduti e mangiavano silenziosamente. Lui mi stava vicinissimo, avevo le sue labbra quasi contro il viso e il suo braccio dietro la schiena. Quando sollevavo il viso per guardarlo o lo abbassavo per nascondere una risata i miei capelli gli sfioravano il viso o il petto.

- Davvero non hai mai lasciato l’Europa?- mi stava chiedendo adesso giocherellando con una ciocca dei miei capelli che erano sfuggiti all’acconciatura.

- Sì, te lo giuro.- ammisi io passandomi una mano sul viso.

- Potremmo andarci insieme qualche volta.- mi invitò con un tono bassissimo di voce contro il mio orecchio.

- Non temi che possano fare qualche foto che finisca sul giornale?- domandai allontanandomi appena ma lui mi bloccò con una mano sulla schiena.

- No. non mi importa.- completò semplicemente avvicinandosi di nuovo.

Alzai il viso puntandolo dietro di lui meditabonda. Quanto sarei stata tremendamente felice di quel momento se non l’avessi conosciuto al compleanno di Jonathan. Sarei stata felice ogni oltre misura se l’avessi conosciuto prima. Ma non riuscivo ad essere pienamente felice.

- Non ti ho chiesto come conosci il festeggiato.- cercai di deviare sorridendogli apertamente e meritandomi un sorriso che mostrò la sua bella fossetta.

- Lavoriamo insieme ad un progetto a Londra.- rispose vago.

- A sei anche tu nel cast di Dracula?-

- Sì.- ammise aggrottando appena la fronte ma sempre con un certo sorriso. – come fai a sapere di quel film?-

- Me ne ha parlato lui tra una sfuriata e l’altra.- gli raccontai facendo spallucce sulla difensiva.

- Come lo conosci tu?- mi domandò lasciando trapelare una certa curiosità.

- Siamo amici.- risposi vaga a mia volta.

- Davvero? Ha degli amici?- domandò scoppiando a ridere. Aveva una bella risata. Non dovevano essere grandi amici dopo tutto, anzi sembrava proprio che Gaspard sembrava non credere che quell’uomo potesse avere degli amici.

- Sì, ma pochi.- risposi facendo spallucce. – è parecchio selettivo nei suoi affetti.- conclusi semplicemente.

- Chissà com’è la ragazza che gli piace…- mormorò come se parlasse tra se.

- È bionda.- risposi io leggermente avvelenata. – alta, magra, bella come una fotomodella e con due grandi occhi azzurri.- conclusi stringendo le labbra.

lui si voltò verso la sala seguendo il mio sguardo al tavolo in cui sedevano i cinque ragazzi che avevo conosciuto a casa mia. Allie mi stava guardando, anzi mi stava fulminando con lo sguardo.

- Neanche lei sembra essere molto felice di vederti.- costatò Gaspard guardandola.

- Già.- acconsentii io indifferente tornando a guardarlo e sorridendo tranquilla. – fortuna che non me ne importa nulla.- conclusi facendo spallucce.

- Hai fame?- mi domandò poi lasciando la biondina che invece sapevo stava ancora guardando noi.

- Non molta a dire il vero, però credo di dover tornare a tavola, le mie compagne si staranno chiedendo dove sono.- gli risposi alzandomi dal divanetto nero.

- Mi devi un ballo ricordi?- mi domandò alzandomi a sua volta.

- Anche due.- acconsentii io sorridendogli. –dopo cena.- conclusi passandogli una mano sulla spalla.

L’avevo sollevata per accarezzargli la guancia e sentire la consistenza della sua pelle e sentire sotto le dita la fossetta. Fortunatamente ero riuscita a fermarmi prima e gli avevo solo fatto una carezza sulla guancia. Sorrise gentile e mi allontanai tornando al mio tavolo. Sentivo ancora gli occhi di Gaspard addosso e anche lo sguardo di Allie.

Le mie compagne erano sedute a guardarmi con i piatti mezzi vuoti davanti. Quando mi sedetti applaudirono felici e mi fecero i complimenti.

- Hai parlato per tre ore con Gaspard Ulliel, come è stato?- mi domandarono cinguettando soddisfatte.

- Interessante. Ha una bella voce.- raccontai semplicemente prendendo una forchettata di riso.

- Sembrava volesse saltarti addosso.- mi fece notare Caro. – io gli sarei saltata addosso immediatamente.-

- Io ho dato quest’impressione?- domandai curiosa.

- No, sei stata brava a cercare di scappare dalle sue attenzioni.- mi rispose Benny facendomi l’occhiolino. Non volevo il suo occhiolino onestamente. Era la cosa più falsa del mondo.

- Sei di un culo assurdo!- mi fece notare Ale. – io lo amo, ho visto tutti i suoi film. E tu lo incontri una sera e lui sembra innamorato perso di te.-

- Non è la prima volta.- risposi prendendo un altro boccone.

- Cosa?- mi domandarono tutte incredule.

- Era il ragazzo che avevamo visto al bar per pasqua.- ricordai a Betta che aggrottò la fronte.

- Non lo ricordo.- rispose semplicemente aggrottando la fronte cercando di ricordare.

- Quello carino che ti avevo detto somigliava a qualcuno e ti mi hai detto che era solo un francese come un miliardo di altri.- cercai di ricordarle aggrottando la fronte.

- Niente, mi spiace ho il vuoto.- rispose lei facendo spallucce e provocando un mio sorriso rassegnato.

- Va bene fa niente, comunque è quello lì.- conclusi semplicemente prima che le mie compagne interrompessero le loro risatine a sfottò dirette a me e Betta e si raddrizzassero sulla sedia come punte dagli spilli.

- C’è il raggio di sole.- sussurrò Betta un po’ troppo forte provocandosi una gomitata.

- Quest’uomo provoca la mia bile ogni volta che lo vedo.- mormorò Ale in ricordo forse a quella vecchia battuta un sabato a casa mia.

- Lo prenderei a calci nelle gengive.- acconsentì Caro. Il suo odio era del tutto giustificato assolutamente.

Abbassai lo sguardo sul piatto che avevo di fronte quasi completamente intatto e dovetti trattenermi a stento quando sentì la sua mano sullo schienale della mia sedia.

- Ciao a tutte. Laura, balliamo?- domandò senza essere per nulla gentile.

Comunque era arrabbiato.

Aveva cominciato a chiamarmi Lorie già da un po’ ed era rimasto un sostenitore di quel nome ogni volta che non era troppo arrabbiato per non rispondermi male. Evidentemente era arrabbiato.

- Sì, perché no.- mormorai alzandomi da tavola con calma.

Mi aveva poggiato la mano sulla schiena nuda. Era fredda e asciutta. L’ultima volta che lo aveva fatto era leggermente umida della mia saliva. Mi imposi di trattenermi e, stringendomi le labbra tra i denti, presa la sua mano, lo seguì al centro della pista.






Note Autore:
salve ragazze.
non sono molto convinta di questo capitolo quindi mi interessa davvero molto il vostro parere riguardo a ciò che abbiamo scoperto.
fatemi sapere onestamente mi raccomando e grazie per il tempo che mi dedicate :)

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** La guerra e l'amore hanno molte cose in comune, prima tra queste una dichiarazione. ***


Mi aveva presa tra le braccia con molta calma annullando quasi del tutto la distanza tra me e lui. Avevo la mano destra schiacciata tra il mio petto ed il suo e lo sentivo alzarsi e abbassarsi ritmicamente come il suo respiro. Sembrava calmo. Forse era stata solo una mia cattiva impressione quella che fosse agitato. Mi teneva l’altra mano in una morsa ferrea che mi avrebbe impedito di liberarmi anche se lo avessi voluto. Quello mi dimostrava che non sbagliavo a credere che fosse agitato.

- Ti stai divertendo- mi domandò acido guardando oltre la mia testa e impedendo a me ogni possibile movimento che mi permettesse di guardarlo.

- Sì, grazie.- risposi altrettanto acida dopo aver cercato in ogni modo di allontanarmi dal suo petto.

- Lo vedo.- costatò semplicemente stringendo se possibile anche di più.

Non risposi nulla. Quella dimostrazione di forza non meritava parole di nessun tipo. Anzi. Avrei voluto mandarlo a cagare, dirgli che non ero il suo giocattolo a piacimento ma mi risparmiai l’inutile scenata. Onestamente mi era oscuro il motivo del suo comportamento.

- Lui non mi piace.- mi confessò candidamente senza rallentare la presa o mostrarsi in qualche modo affettuoso o gentile.

- Neanche tu piaci a lui.- gli feci presente semplicemente.

- Sembra che sia pronto a toglierti i vestiti anche qui stesso davanti a tutti.- mi fece notare sbuffando disgustato. Che c’era di male se mi trovava attraente?

- Non so di che parli.- risposi semplicemente indifferente.

- Parlo del francese.- rispose irritato alzando un po’ il tono di voce.

- Non gridarmi contro l’orecchio!- lo rimproverai dandogli un colpo sul petto cercando di allontanarlo. Missione fallita miseramente.

- Lui ha già una ragazza.- mi rivelò abbassando la voce e avvicinandosi al mio orecchio.

- Non mi importa Jonathan, non me lo devo sposare.- gli risposi allontanando il viso.

- È borioso, pieno di se, saccente, egocentrico, egoista e…- lo bloccai scoppiando a ridere. Era più forte di me alcune volte resistere allo spasso che rappresentava per me quel ragazzo.

- Stiamo ancora parlando di lui o siamo tornati a parlare di te, come sempre?- domandai candidamente meritandomi un’occhiataccia di fuoco.

Adesso riuscivo a vederlo bene in viso. Mi aveva scostata appena e si era abbassato su di me puntandomi i suoi occhi azzurri come il ghiaccio contro facendomi rabbrividire.

- Lo stai facendo per farmi arrabbiare?- mi domandò in un sussurro.

- Come?- domandai io seriamente colpita da quella domanda.

- Non voglio che ti stia appiccicato ok? Pensi di fare qualcosa in proposito?- mi chiese tagliando il discorso. Si era abbassato su di me ed era ad un passo dal mio naso.

Lo guardai per un istante negli occhi. Bastava che mi muovessi di mezzo millimetro e lo avrei potuto baciare, lì, davanti a tutti. Ma non riuscivo a muovermi cavolo.

- Vuoi baciarmi?- sussurrò lui quando era evidente che non gli avrei risposto.

Scossi la testa in un modo che rendeva incomprensibile la mia risposta. sì o no Laura? Decidi.

- Se vuoi puoi baciarmi Lorie, io voglio che tu mi baci.- sussurrò passandomi la mano sulla schiena.

- No, non voglio farlo.- menti a me stessa scostando lo sguardo.

- Perché?- mi domandò lui abbassando ancora di più la voce.

- Lo stai facendo solo perché trovi antipatico Gaspard. È una sfida tra uomini a chi fa pipì più lontano. A me questo gioco non piace Johnny.- risposi velocemente fermandomi solo a quel punto per riprendere fiato. – una donna, ogni tanto, ha bisogno di sentirsi speciale perché è lei, anche se non ci fosse nessuno a volerla oltre quell’uomo.- sussurrai imbarazzata per il discorso assurdo che stavo facendo.

- Devo farti una lista di tutte le volte in cui mi ha rifiutato?- mi rimproverò lui arrabbiato.

- Tu mi fai proposte carine solo quando sai che sono praticamente impossibilitata a dire di sì- gli feci presente esasperata. – sembra che tu lo faccia di proposito per farti dire di no.- conclusi cercando di nuovo di liberarmi della sua presa. – vuoi sapere perché non voglio baciarti qui?- gli domandai quando era chiaro che non mi avrebbe lasciata andare senza un motivo valido. – perché Gaspard mi piace. È carino, simpatico, francese, raffinato ed elegante. Sembra pendere dalle mie labbra e non è criptico come te.- conclusi riuscendo a liberare una mano. – noi siamo quasi finiti a letto insieme e il massimo che posso dire è che mi hai regalato un libro che poteva farmi credere un milione di belle cose che non ho più visto nella realtà.- gli ricordai sentendo la sua mano allentare la presa dalla mia.

- Io non volevo che…- cercò di parlare ma lo interruppi con un cenno della mano.

- Non importa. Posso anche aver travisato le tue intenzioni, è probabile anzi.- acconsentì facendo spallucce nell’ammettere la mia ossessione. – lui è disposto ad un impegno più…duraturo.- confessai a malincuore. – anche se non sono affatto interessata alle sue moine non vuol dire che sono disposta ad accontentarmi dei tuoi attacchi di testa quando potrei avere un uomo così.- conclusi allontanandomi di un passo.

Jonathan mi afferrò per entrambe le braccia e mi riportò nella stessa posizione da cui ero riuscita a liberarmi con tanta fatica.

- Sai una cosa rompipalle?! Non ho capito una parola del tuo discorso confuso e senza senso.- ammise lui innervosito. – fammi capire…- cominciò guardandomi attentamente negli occhi agitato. – tu vuoi stare con me. ti piacciono i miei modi e ti è piaciuto il mio regalo giusto?- domandò alzando un sopracciglio.

- Contrattabile.- risposi io facendo spallucce.

- No, niente del genere, dì solo sì o no!- controbatté lui nervosamente spingendomi a guardarlo negli occhi.

- Sì.- risposi controvoglia dopo un attimo mordendomi la lingua.

- Però pensi che lui sia più serio e ben disposto.- tentò di capire lui.

- Sì.- ammisi per la seconda volta guardando altrove.

- Non solo sei vanesia ed egocentrica, ma sei anche dotata di una genuina grossolanità.- mi rimproverò seccamente. Con parecchia rabbia e rancore.

Rimasi parecchio colpita dalle sue parole. Sembrava davvero molto arrabbiato. Alzai appena lo sguardo su di lui che adesso mi guardava con gli occhi ridotti a due fessure.

- Come?- domandai incredula alzando un sopracciglio. Ma che gli era preso?

- Io non sono quello spocchioso francese, non ti farò nessun tipo di promessa e non mi impegnerò in modo duraturo con te.- mi avvisò con la voce grave e seria di chi sta avanzando una proposta importante. -Devi scegliere di buttarti.- concluse guardandomi seriamente negli occhi facendomi gelare.

- Tutta la mia vita adesso è un enorme punto interrogativo- costatai mostrandomi in tutta la mia insicurezza. Non si parlava solo di lui ma anche della scuola, degli amici, della famiglia. Stava per cambiare tutto per me. - non credo di essere pronta ad aggiungerne un altro enorme come te.-

- Allora mi spiace ma non posso proprio aiutarti. La mia proposta è questa: prendere o lasciare.- concluse semplicemente sospirando è lasciandomi andare le mani.

- È un ultimatum?- domandai lasciando scivolare il braccio che stava ancora a mezz'aria lungo il fianco, inerte.

- Chiamalo come ti pare Lorie.- concluse lui mordendosi il labbro.

- Che poi…- ripresi io aggrottando la fronte colpita. – di che stiamo parlando Jonathan?- domandai meritandomi una sua stupenda espressione basita.

- Come?- quella era la mia battuta per quella sera e lui adesso me l’aveva rubata.

- Io non capisco di che stiamo parlando.- ammisi semplicemente facendo spallucce. – io credevo che…-

- Tu sei un’idiota!- sbottò lui indispettito e arrabbiato. –sai che ti dico? Che probabilmente hai ragione, il francese è proprio il tipo perfetto per te.-

- Ma che ti prende adesso? Ho solo fatto una domanda.- gli ricordai afferrandogli la mano con cui aveva cominciato a gesticolare.

Quella era una nuova abitudine tutta italiana. Ne ero piuttosto fiera.

- Una domanda che dimostra tutta la tua idiozia!- concluse lui irritato guardandomi negli occhi con risentimento e sottraendo la sua mano dalla mia presa con uno scatto furioso. – buon proseguimento di serata.- mi augurò voltandosi e andando via a passo svento, seriamente irritato.

Lo stavo ancora guardando. La fronte aggrottata per lo stupore di quella reazione improvvisa, un milione e mezzo di domande che mi passavano per la testa senza riuscire a rispondermi. Non riuscivo ad interpretare quel suo comportamento e non riuscivo a capire se facesse sul serio.

- Amicizie selettive eh?- scherzò una voce alle mie spalle spingendomi a tornare alla realtà.

Ero rimasta ferma, bloccata al centro della pista, le braccia lungo i fianchi e una voglia incredibile di andare a prendere a schiaffi quel ragazzino, uomo, impertinente e antipatico. Mi voltai appena solo con la testa per capire da chi venisse quella voce. Anche se in realtà lo sapevo. Lo aveva detto in un francese morbido e seducente e quella sera c’era solo una persona di mia conoscenza che parlasse in francese.

- Dovrei cominciare anche io.- ammisi tornando a guardare il punto in cui era sparito tra la folla degli invitati che i pugni chiusi e le braccia lungo i fianchi come me.

L’uomo dietro di me mi si accostò e mi prese la mano portandosela sulla spalla mentre io ero ancora in preda alla rabbia contro quell’antipatico trentacinquenne. Mi costrinse quasi a voltarmi verso di lui distogliendo i miei pensieri dalla sfuriata appena ricevuta. Una genuina grossolanità? Solo perché mi ero persa un passaggio della sua follia? Ma quella povera Allie doveva pure subirsi la sua follia o era una mia prerogativa? Quasi quasi mi faceva pena.

- Mi dovevi un ballo ricordi?- mi domandò sollevando un angolo delle labbra mostrando la sua fossetta.

- Sì, scusami. Ero un tantino presa dalla mia idiozia.- scherzai con una punta di amarezza nella voce.

- Perché sei idiota?- mi domandò lui cercando di rimanere serio ma con veramente scarsissimi risultati.

- Non lo so.- ammisi facendo spallucce. –probabilmente è andata male con Allie e adesso ha deciso di sfogarsi sulla poveretta di turno.- conclusi io facendo spallucce.

Avrei voluto girarmi e andargli dietro. Perché dopo tutto io non ci volevo stare tra le braccia di quel ragazzo perfetto dalla camicia perfetta e dai gemelli in oro bianco che erano tanto sexy. Il blu dei suoi occhi non era quello che piaceva a me e neanche i suoi capelli perfettamente in ordine. Non avrei potuto passarci le mani in mezzo, mi sarebbe sembrato male rovinargli i capelli. Jonathan aveva i soliti capelli un po’ disordinati anche se corti, anche se era il suo compleanno. Aveva la barba sistemata eppure dava sempre l’impressione di essere un po’ trasandata. Gaspard davanti a me aveva il viso perfettamente liscio. Doveva essere morbido.

Sì, lo è.

Costatai dopo aver involontariamente sollevato entrambe le mani che avevo poggiato sulle sue spalle per passargliele sul viso in una carezza che partì dalla tempia per arrivare al mento circondandogli il viso perfetto. Per lo meno non era truccato come sembrava e come mi aspettavo. Ripresi il movimento solo con la mano destra verso la sua fossetta sul viso. Fu lui a fermare la mia mano quando le dita sfiorarono il solco quasi invisibile adesso che i suoi lineamenti erano seri e distesi.

- Non ha nessuna storia romantica questa cicatrice.- ammise lui amaramente stringendo la mano che teneva ancora contro il viso.

- Però ti ha reso famoso lo stesso.- mormorai io ancora rapita da quella situazione.

- Dicono che abbia un non so che di…sexy.- rispose lui con una smorfia nella voce come se non fosse del tutto convinto di quello che stava dicendo.

- Sexy.- ripetei io sotto voce piegando leggermente la testa di lato e avvicinandomi ulteriormente.

- Non ti piace?- mi domandò lui aggrottando la fronte.

- Che importa?- chiesi semplicemente sollevando gli angoli delle labbra in un sorriso di circostanza togliendo la mano dal suo viso.

- Te lo sto chiedendo. Vuol dire che mi importa.- rispose lui facendosi serio accarezzandomi la schiena con le dita fredde. Dalla base fino alla nuca provocandomi un brivido di piacere.

Corpo traditore.

- Non potrei immaginarti senza.- risposi con semplicità meritandomi con quella risposta un sorriso che gli illuminò gli occhi.

Se c’era qualcosa di positivo in quel ragazzo, qualcosa facilmente comprensibile che me lo fece risultare immediatamente simpatico, era il suo carattere. Per descriverlo bastava prendere l’esempio Rhys-Meyers e capovolgerlo. Tutto l’opposto.

Mi maledii mentalmente una terza volta. Perché ogni volta che parlavo di qualcuno dovevo subito paragonarlo a lui? Dovevo decisamente finirla. Ogni persona era completamente svincolata da quell’incubo ambulante e ricorrente di Meyers.

- Quanti anni hai?- mi domandò dopo un attimo continuando a tenermi una mano dietro la nuca e l’altra alla base della schiena come fossi una bambola da tenere dritta. Non sapevo se ritenerlo un bel gesto o meno. Comunque dava un certo senso di protezione che non era male.

- Diciassette.- risposi semplicemente. chissà come mai a tutti sembrava interessare così tanto la mia età.

- Cavolo, sei proprio piccina, come una bambolina.- scherzò lui sorridendo. –chariote (*bambolina).- ripeté divertito provocando in me una smorfia.

- Tu quanti anni hai grand’uomo?- gli domandai alzando un sopracciglio il segno di sfida.

- Più di te.- mi rispose semplicemente passandomi una mano sulla guancia con infinita gentilezza.

- Avevi già fatto sesso quando sono nata?- domandai con una punta di acidità nella voce anche se il mio tono in francese risultava alle mio orecchio dolce e smielato oltre ogni immaginazione.

- No, non ancora. Avevo solo dieci anni quando sei nata.- mi rispose svelando il mistero della sua età.

- Quindi hai solo ventisette anni, sai che mi credevo.- risposi io ridacchiando prendendolo affettuosamente in giro.

- Non ti sembrano tanti?- mi domandò lui scettico.

- No.- risposi io semplicemente – anche se in effetti hai l’età per sposarti e mettere su famiglia.- lo presi in giro. – una moglie, dei figli, un cane. Un’utilitaria.- conclusi alzando gli occhi con falsa spensieratezza.

A me, dalla mia famiglia, era stato sempre detto che quello era il raggiungimento di un obbiettivo importante, la costruzione di una famiglia, e che non c’era nulla di male. Ma ero ancora troppo piccola per non vedere tutto quello come la tomba perpetua della propria vita.

- Ne parli come fosse una cosa tremenda.- costatò lui con pochissimo senso critico.

- non voglio prendere l’argomento.- deviai semplicemente quando avvertii nella sua voce un tono di rimprovero.

Non mi andava di imbarcarmi in quell’ostico argomento da cui non sarei uscita forse mai più. Tra l’altro non volevo nemmeno prendere argomenti seri perché non era proprio il caso ne la situazione.

Sentì una mano poggiarsi sul mio braccio scoperto. Una mano calda che riconobbi subito. Mi voltai togliendo la mano dalla spalla del mio compagno con cui occupavo il centro della pista da ballo e vidi gli occhi castani della mia amica dai capelli corti e dalle labbra a cuore.

- Dobbiamo tornare a casa.- mi avvertì semplicemente toccando il suo orologio come se volesse avvertirmi dell’orario.

- Sì, arrivo.- risposi togliendo anche l’altro braccio.

Lui aveva solo liberato la mia nuca dalla sua presa mentre l’altra mano rimaneva ferma alla base della mia schiena. La mia compagna teneva ancora lo sguardo basso e balbettava un saluto che neanche io riuscii a capire bene.

- Oh Gaspard lei è Benedetta. Bens, lui è Gaspard.- li presentai semplicemente con un cenno della mano mentre la mia compagna gli porgeva la mano senza sollevare lo sguardo.

Allora la mia migliore amica non era sparita del tutto, c’era ancora una parte di lei in quella ragazza, anche se era nascosta molto in fondo.

- Ciao Benedetta, è davvero un immenso piacere conoscerti.- la salutò lui stringendo la sua mano con una certa affettuosità.

Lei rispose biascicando qualcosa di incomprensibile e tornando a guardare altrove. Prima verso il nostro tavolo da cui tutti si erano ormai alzati mettendo il cappotto, poi verso la pista alle nostre spalle.

- Che cosa è successo?- mi domandò lui quando era evidente che Bens fosse troppo occupata a ricordarsi di respirare per rispondere.

- Dobbiamo andare.- risposi io sorridendo compiaciuta dalla scoperta fatta.

- Ti accompagno io- mi promise lui tornando poi alla mia compagna - non preoccupatevi se stavate aspettando lei, andate pure.- la rassicurò il ragazzo sfoderando il migliore dei suoi sorrisi.

Lei rispose con un’espressione corrucciata e preoccupata. Preoccupata per me? davvero? Poi gli sorrise complice e sorrise anche a me.

- Cerca di riportarla tutta intera.- gli raccomandò come avrebbe potuto fare mia madre o mio padre dopo avermi accompagnato una festa a cui avevo assicurato di tornare con qualcuno dei miei compagni.

- Sarò prudente.- promise lui continuando a sorridere.

- E comunque fa che sia a casa ad un’ora decente ok?- lo rimproverò questa volta prima di sorridere, stringergli la mano e tornare al tavolo delle ragazze dopo avermi dato un frettoloso bacio sulla guancia.

La guardai allontanarsi nascondendo il viso contro la mano imbarazzata. Alcune volte sapevano davvero come mettermi in imbarazzo. E pensare che avevo quasi creduto che lo avesse fatto solo per gentilezza. Era un modo come un altro per farmi capire che le cose erano cambiate da quando eravamo amiche. Presi un respiro profondo e sfortunatamente non riuscii a concentrarmi il resto della serata.

 

Ero seduta sul sedile della sua auto stretta nel mio elegante cappottino nero con la borsetta sulle ginocchia. Fuori era buio pesto e l’orologio del cruscotto segnava che erano quasi le tre del mattino. Non avrei avuto molto tempo per riposare ma onestamente non ero sicura di riuscirci. Il caso Gaspard, il caso migliori amiche stronze, il caso Meyers. In quel momento però il ragazzo francese seduto al mio fianco doveva avere la priorità. Era stato di una gentilezza sconvolgente. Era stato con me praticamente tutta la sera, non avevamo fatto che parlare e mi aveva chiesto quante più cose possibili. Scuola, esami, prospettive per il futuro, famiglia, ex fidanzati. Anche io avevo scoperto parecchie cose sul suo conto ma ricordavo davvero poco e comunque non avevo indagato troppo quando lui rispondeva in modo criptico. Chissà se aveva capito che si trattava disinteresse o l’aveva preso come discrezione. Io non ero affatto una persona discreta. Se volevo sapere una cosa ero disposta a fare le peggiori brutte figure pur di saperla. Anche pregare se c’era bisogno.

- Grazie.- mormorai sorridendo appena e arrossendo voltando appena il viso verso di lui che mi guardava con l’angolo delle labbra sollevate.

- È stato un piacere.- rispose semplicemente mentre aprivo la portiera.

Scesi dall’auto mentre lui richiudeva il suo sportello con un tonfo sordo e, con le mani in tasca, si avvicinava a me che stavo per chiudere la portiera dell’auto.

- Quando torni a casa?- mi domandò mentre si avvicinava.

- Domani pomeriggio ho il volo alle sei.- risposi semplicemente salendo sul marciapiede.

- Hai bisogno di un passaggio per andare in aeroporto?- domandò lui gentile come sempre. Io mi morsi il labbro e scossi piano la testa.

- Non torno da sola.- credo. Aggiunsi parlando più a me stessa che a lui in realtà.

- Torni con Jonathan?- chiese lui aggrottando leggermente la fronte. Sembrava contrariato. Non volevo che si contrariasse proprio a fine serata.

- Anche se potrebbe sempre non essere così, non sono sicura che abbia preso il volo per domani.- aggiunsi velocemente. – se avessi bisogno di un passaggio…-

- Chiamami.- completò la frase per me sfoderando un nuovo sorriso anche più luminoso dei precedenti.

Non potei fare a meno che sorridere divertita e incrociare le braccia al petto fingendomi offesa. Era divertente farlo perché vedevo i suoi occhi brillare di divertimento. Non avevo mai visto nessuno divertirsi tanto con i miei capricci da bambina. Era appagante come minimo.

- La cavalleria francese non vorrebbe che sia l’uomo a chiamare la donna dopo la prima uscita?- domandai fingendomi piccata.

- Forse.- rispose lui fingendosi pensieroso.

- Allora vuoi scaricare a me l’onere perché non vorresti risentirmi e speri che io perda il numero di telefono? O me lo stai dando sbagliato?- lo presi in giro divertita provocando la sua risata coinvolgente.

Non riuscii a trattenermi anche io dallo scoppiare a ridere e appoggiai la fronte sul suo petto e una mano sulla sua spalla scossa dalle sue stesse risate.

- No, non è sbagliato.- mi rassicurò prendendo dalla tasca della giacca un bigliettino da visita e scrivendo con una penna un altro numero di telefono. – e che di solito deve richiamare quello meno interessato dei due.- mi informò lui sollevando lo sguardo su di me quando ebbe finito di scrivere e porgendomi il biglietto.

- Come mai tre numeri?- domandai io guardando il bigliettino.

- Quei due sono i numeri del lavoro, diciamo così. L’altro è il mio telefono personale. Mi trovi sempre a quel numero, quando hai bisogno…- mi informò distogliendo lo sguardo.

Non avevo ben capito la sua precedente battuta ma dopo questa affermazione non riuscì a fare a meno di arrossire e distogliere lo sguardo a mia volta. Avevo una voglia immensa di scappare via velocemente da quella brutta situazione che si era creata.

- Grazie.- ripetei per la seconda volta infilando il bigliettino in borsa e prendendo il vialetto di casa verso la porta.

Dopo aver suonato, voltatami per vedere la sua macchina andare via e salutarlo un’ultima volta con la mano, me lo trovai invece di fronte, vicinissimo più di quanto non lo fossimo stati tutta la sera. Si abbassò su di me con una lentezza estenuante mentre io allontanavo il viso per sottrarmi a qualsiasi contatto indesiderato. Purtroppo lo spazio fino alla porta non era infinito. La mia testa batté contro la superficie in legno e le sue labbra trovarono l’angolo delle mie con troppa facilità.

- Ho dimenticato di augurarti la buonanotte.- si giustificò lui prima di sorridere e allontanarsi leggermente dal mio viso. –Bonne nuit, ma chariote.- mi salutò dolcemente prima di voltarsi e andare via.

La porta di casa finalmente si aprì ed io mi infilai dentro tremante. Non era stato un vero bacio. Aveva solo sfiorato molto discretamente l’angolo delle mie labbra. Un errore di percorso, ci eravamo erroneamente scontrati, avrei potuto sostenere se a qualcuno fosse importato. Le mie amiche invece mi circondarono impazienti di ricevere tutti i particolari della serata.

- Forza, non farti pregare, qualche particolare?- mi domandò Caro curiosa seduta a gambe incrociate sul letto.

- Che vuoi che ti dica? Che è fidanzato?!- scherzai ricordando fin troppo bene le poche parole che avevo scambiato quella sera con il festeggiato.

- Davvero?! Cavolo non l’avrei mai detto.- asserì lei aggrottando la fronte pensierosa. – sembrava così preso da te.- continuò a sognare lei.

- Quindi non c’è stato niente?-

- Già, ha insistito tanto per riaccompagnarti che credevamo almeno che ci fosse un bacio…o che so io.- concordarono Betta e Bens annuendo vicendevolmente e dandosi manforte.

- Ha provato a baciarmi…ma niente di fatto in realtà.- conclusi io prima che potessero lanciarsi in chissà quali congetture.

- Sai cosa? Secondo me lo ha spaventato il tuo atteggiamento quando ballavi con Jonathan Meyers.- spiegò Caro incrociando le braccia al petto.

- Perché?- domandai io seriamente curiosa delle nuove congetture che avevano fatto per un ballo di due minuti esatti.

- Beh sembrava che ti volevi attaccare a lui e non staccarti più, ad un certo punto pensavamo che lo avresti baciato. Ti avvicinavi ogni secondo un po’ di più e ad un certo punto eravate così.- concluse unendo le mani e intrecciandole per sottolineare meglio l’idea.

- Non che lui sembrasse disgustato dal fatto che tu lo stessi assalendo…- concluse Ale parlando per la prima volta. – a me non fa più tanta antipatia…- cercò di dire prima di essere interrotta dalle altre.

- Sì, però adesso non diciamo cazzate eh? Gaspard sembra il principe azzurro delle favole. Che vuoi di meglio Laura?- mi domandò Caro cominciando ad agitarsi per l’emozione.

- Non credo che il principe azzurro delle favole avesse un’altra principessa prima di incontrare Biancaneve.- cercai di spiegarle io ridacchiando.

- Errori di percorso.- tagliò corto lei appoggiata dalle altre due sue comari mentre Ale appoggiava me. grazie al cielo qualcuno che sembrava ragionare.

Comunque non mi lasciarono addormentare prima che, sbuffando sonoramente, non ammisi che sì, Gaspard Ulliel era l’uomo dei sogni, il principe che ogni bambina si aspetta da grande.

Quella notte però io sognai due occhi celesti, ghiacciati e arrabbiati, che mi giudicavano. Sognai un viso più maturo, dei capelli più corti e un vero bacio.

Un sapore di nicotina, menta e cioccolata.

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Bisogna vivere, cioè illudersi e pensare che tutto questo passerà ***


Nonostante la notte in bianco, o forse proprio a causa dei brutti sogni che avevano deciso di tenermi sveglia, già in mattinata ero scesa in cucina e avevo cominciato a cucinare qualcosa. Cucinare dolci mi rilassava e mi aiutava a non pensare. Se non fossi stata attenta avrei rimesso tutti chili persi durante gli esami con una facilità sconvolgente. Quindi mi ripromisi di preparare quel dolce per i miei compagni che erano ancora a letto e di farlo trovare loro per la colazione ma girai a me stessa di non toccarne nemmeno un pezzettino. Ero così demoralizzata in quel momento che se non avessi ben fissato un obiettivo sarei finita col mangiarla tutta la ciambella. Avevo aperto il frigo recuperando le uova, il burro e la farina doppio 0. Presi anche il latte e lo sbattitore e, trovato finalmente anche il caffè, misi su la caffettiera tanto per preparare qualcosa anche per me.

Mentre la caffettiera borbottava sul fuoco cominciai a sbattere l’impasto per la ciambella aggiungendo anche al composto, una volta omogenea, anche parecchio cacao. Il cacao rendeva tutto migliore.

Forse se avessi fatto trovare a mister criptico una tazza di cioccolata calda sarebbe finito col rilassare la sua mente e darmi un po’ di tregua. Non che mi desse fastidio essere la sua valvola di sfogo ma ecco ogni tanto sarebbe stato carino se il suo atteggiamento fosse stato più simile a quello di Gaspard nei miei riguardi.

Versai in una pentolina un po’ di latte e lo misi sul fuoco, accanto al caffè che aveva cominciato ad uscire e, spento il fuoco, aspettando che fosse completamente fuori, infornai la mia ciambella. La casa era ancora nel completo silenzio segno che stavano dormendo tutti.

Ogni tanto mi ritrovavo a pensare che quell’era fosse sbagliata per me. io ero una ragazza da anni ottanta, una di quelle che ha bisogno di occuparsi di una casa. Non che mi piacesse pulire, a me piaceva solo sporcare e fare dolci, però nel XXI secolo era strana una ragazzina che si svegliava presto per preparare la colazione.

Tornai al latte che stava ormai bollendo, aggiunsi il cacao e cominciai a mescolare con forza affinché si sciogliesse bene. Un rumore alle mie spalle mi fece voltare di scatto brandendo il frustino come un arma. Davanti a me stava una bellissima ragazza con dei lunghi capelli castani che le arrivavano in vita, pieni di riccioli morbidi che le ricadevano sulle spalle. La pelle era chiara e perfetta e sul suo viso facevano bella mostra di se due grandi occhi azzurri e un piccolo neo poco sopra il labbro. Mi guardò aggrottando la fronte e sospirò.

- Scusami, non volevo disturbarti.- mi disse poggiando la sua giacca e la borsa sul tavolo e posando a terra le scarpe per metterle.

Indossava ancora gli abiti eleganti con cui probabilmente era stata al compleanno la sera precedente. Presi la caffettiera e versai una tazzina poggiandola sul tavolo.

- Figurati.- risposi semplicemente con un sorriso indicandogli con un cenno del capo la tazzina. – per te, è senza zucchero, ne vuoi?- domandai tranquillamente tornando alla cioccolata.

- No, ti ringrazio, perfetto così.- rispose lei prendendo la tazzina e sfoderando un meraviglioso sorriso con la sua perfetta dentatura bianca.

Perché la natura doveva fare gente come me e poi gente come lei? Non mi sembrava una cosa giusta. Per lo meno ci fosse un po’ di equità in qualcosa. Cosa sapevo fare io che lei non sapeva fare meglio? Sicuramente nulla di importante.

- Sono Laura.- mi presentai mentre beveva il caffè.

- Jessica.- rispose lei sorridendomi con la sua dentatura perfetta.

- Sei un’amica di Paul?- domandai sapendo già perfettamente la risposta. però comunque sarebbe stato interessante capire la sua risposta.

- Chi è Paul?- domandò lei con una meravigliosa espressione vuota. Forse c’era qualcosa in cui io ero più brava.

- Il fratello di Jonathan.- risposi io continuando con il mio lavoro finchè non vidi che il cioccolato si era perfettamente addensato o potei spegnere il fuoco e lasciarlo riscaldare in santa pace.

- Non lo conosco. Ho passato la notte con Johnny.- mi informò lei senza che io le avessi in realtà domandato nulla. Mi sedetti davanti a lei prendendomi il viso tra le mani con calma mentre aspettavo che la ciambella fosse pronta.

- Davvero?- domandai affatto curiosa guardando la torta nel forno che si gonfiava lentamente grazie all’effetto del lievito vanigliato.

- Sì. Certo il dopo sesso è davvero il peggiore che io abbia provato ma ne vale assolutamente la pena.- mi raccontò lei incrociando le mani sotto il viso e poggiando i gomiti sul tavolo.

Mi voltai incuriosita verso di lei a quell’affermazione che mi sfatava praticamente l’ennesimo mito legato a quell’attore al piano di sopra.

- Non è bravo a letto?- domandai io cercando di soffocare quella malsana curiosità.

- Scherzi?- domandò lei scettica alzando un sopracciglio. Si stava chiedendo se fossi stupida lo capivo chiaramente da come mi guardava. – è il migliore che abbia provato fino ad ora, solo che appena ha finito ti invita ad andartene.- raccontò lei ridendo.

- Beh tu sei qui, è mattina, quindi avete passato la notte insieme.- costatai alzandomi e avvicinandomi al forno controllando se la mia creazione fosse pronta.

- Sì, lo so, ma fidati per riuscirci ho dovuto dare fondo a tutte le mie energie e comunque mi ha spedita fuori appena gli sono venuta a noia.- scherzò lei che sembrava tranquillissima del trattamento ricevuto.

La guardai alzando un sopracciglio a mia volta come aveva fatto lei poco prima. Come poteva non essere schifata da quella situazione? Si era venduta per del sesso e poi era stata sbattuta via senza avere neanche il tempo di riprendere fiato. E poi sul serio? Ne avevano avuto per tutta la notte? C’era qualcosa che non andava in quei due. Di sicuro c’era qualcosa di incredibilmente squallido in tutto quello che non poteva essere negato per nulla al mondo.

Lei si alzò tranquillamente dalla sedia passandosi una mano tra i capelli perfetti e mettendo la giacca mentre io mi alzavo a mia volta per spegnere il forno e tirare la ciambella fuori poggiandola sul piano cucina.

- Ti ringrazio ancora per il caffè…come hai detto che ti chiami?- mi domandò di nuovo lei guardandomi incuriosita.

- Laura.- ripetei leggermente seccata. – è stato un piacere Jessica.- risposi io sottolineando il suo nome che invece ricordavo perfettamente.

Quando uscì dalla porta tornai a guardare la mia ciambella pensierosa. Non ero stata gelosa del racconto di Jessica mentre me lo esponeva felice e contenta, adesso però, ripensandoci, mi chiedevo con quante ragazze fosse stato a Siracusa e ringraziai mentalmente la buona stella che quella domenica di pasqua mi aveva spinto ad alzarmi da quel letto e fuggire in un’altra stanza.

La mia bigotta educazione cristiana mi aveva spinto a pensare al sesso come qualcosa che fosse romantica e unica. Forse avevano contribuito anche i romanzetti rosa che leggevo quando ero più piccola. In ogni caso ero ancora fermamente convinta che il sesso, la prima volta in particolar modo, dovesse essere qualcosa di “speciale” ed essere stata sul punto di cederla generosamente ad un tipo che “o me la dai tutta la notte o te ne torni a casa a piedi” mi faceva capire quanto i miei ormoni fossero sul punto di cedere. Perché parlando seriamente io ero molto, molto attratta da lui. A quel punto non mi risultava nemmeno difficile ammettere che ne fossi, almeno un po’, innamorata. Ma mi rendevo anche conto che ero molto innamorata delle mie fantasia romantiche e che lui era lontano mille miglia da quelle fantasia rosa.

Adesso mi trovavo davanti ad un enorme bivio che avrei dovuto imboccare, volente o nolente.

Scegliere il punto interrogativo Meyers e sperare che andasse bene, aggiungendo un altro, immenso interrogativo alla mia attuale condizione che ne era già piena ricominciando così un nuovo capitolo riscrivendo tutto dalla A alla Z?

Oppure affidarsi alle sapienti quando gentili mani del principe azzurro sul cavallo bianco che sembra essere lì per aiutarti a superare tutti i tuoi problemi?

- Buongiorno!- quella voce allegra mi fece voltare di scatto e, nella mia idiozia, mi lasciai sfuggire anche un gridolino spaventato.

Pov. Maria

La festa la sera prima era andata a dir poco benissimo. ero felice che fosse tutto merito mio e che anche Jonathan si fosse comportato così bene. La mattina seguente mi ero svegliata particolarmente presto proprio per poter vedere cosa dicevano i giornali sull’argomento. Ero passata per questo motivo immediatamente da un giornalaio e avevo comprato tutti i giornali di gossip disponibili. Tutti parlavano della festa e c’erano immagini di mio fratello sorridente, più o meno, e rilassato.

Appena ero arrivata a casa di mia madre, dopo aver aperto la porta con le chiavi che ancora possedevo, un buon odore di caffè e cioccolata mi aveva investito e fatto sorridere. Si vedeva che c’era una mano femminile in casa e, arrivata in cucina, non mi stupii di trovarci Laura intenta alla preparazione di qualcosa. Sul tavolo faceva bella mostra di se una ciambella al cioccolato affiancata da una crema che sperai andasse dentro. Quella ragazza meritava tutto il mio amore. Se fossi stata un uomo probabilmente l’avrei sposata subito, senza pensarci.

- Buongiorno!- la salutai allegra sedendomi su uno sgabello davanti al tavolo.

Lei si voltò sgranando gli occhi, pallida in viso, lanciando un gridolino spaventato.

- Scusami.- mi affrettai a dirle alzando le mani per mostrarmi disarmata. – non volevo metterti paura, sono solo felice di vederti.- mi giustificai mettendo la borsa sul tavolo.

- Figurati.- rispose velocemente lei passandosi una mano sul viso. – sono troppo nervosa ultimamente.- scherzò prendendo la ciambella e tagliandola a metà.

- Comunque vengo con dei giornali, li leggiamo insieme?- domandai eccitata prendendo le riviste che avevo infilato in borsa.

- Tu leggi mentre io condisco la torta.- mi propose avvicinandosi al frigo e prendendo della panna fresca che non sapevo di avere. – hai del rum?- mi domandò mentre prendeva una ciotola dallo scaffale.

- Sì, aspetta.- mi alzai dalla mia postazione ed entrai in salotto dove tre ragazzi dormivano raggomitolati sul divano.

Presi la bottiglia dal piano bar costruito nell’angolo della grande stanza, presi un bicchiere e tornai in cucina chiudendo la porta cercando di fare il meno rumore possibile per non svegliarli. Poggiai il tutto sul piano di lavoro e tornai al mio posto mentre Laura mi ringraziava.

- Allora.- mi schiarii la voce mentre lei metteva un po’ di rum in un bicchiere e lo infilava nel microonde. La guardai sottecchi stupita ma continuai nella lettura. – “ieri sera, 27 Luglio, il fascinoso attore irlandese che sarà il protagonista di una nuova serie tv incentrata sul vampiro più celebre del cinema e della letteratura, Jonathan Rhys-Meyers, rimasto sotto i riflettori per anni a causa dei suoi problemi con alcol e droga, torna adesso alla ribalta, più calmo e controllato che mai. Con uno splendido sorriso l’attore ha accettato di parlare ai nostri microfoni. « Sono piuttosto tranquillo adesso. I mesi di riabilitazione mi hanno fatto davvero bene e il nuovo lavoro mi terrà impegnato per un po’.» ha annunciato il giovane che è comparso da solo il giorno del suo compleanno. Niente fiamme all’orizzonte anche se a fine serata sembra aver lasciato la festa con la sua futura compagna sul set Dracula.”- smisi di leggere e storsi il naso.

Ero felice che parlassero bene di mio fratello e che nelle foto apparse sul giornale lui sembrasse così tranquillo e ben disposto, ma non mi piaceva che si facesse già vedere in giro con un’altra ragazza. Questo avrebbe potuto attirare vecchie amicizie.

La ragazza davanti a me intanto stava riempiendo la torta con la crema al cioccolato che aveva preparato e con la panna che aveva montato un attimo prima.

- Che ne pensi?- domandai guardando le foto su quella rivista.

- Che è un bene che a loro sembri che stia meglio.- rispose semplicemente richiudendo la ciambella e mettendo della panna anche sul coperchio.

- A loro sembri?- domandai aggrottando la fronte.

- È ovvio che ci sta provando, sono felice che lo stia facendo e sono fiera di lui ma questo non vuol dire che sia guarito. Cosa credono che esiste una bacchetta magica per tutto questo?- domandò spazientita mettendo la torta in frigo e passando un panno umido sul tavolo.

- Sì, per loro è tutto facile. Ma in realtà non gli importa ciò che è ma ciò che sembra.- le spiegai semplicemente cercando di essere il più chiara e comprensiva possibile.

- Oh allora sta benissimo davvero.- rispose lei piccata mordendosi il labbro e dandomi le spalle per fare la cucina.

- Puoi lasciare tutto lì. Più tardi verrà una signora che si occupa della casa.- l’avvisai tranquillamente. – piuttosto vieni che ci sei anche tu qui.- la invitai prendendo una seconda rivista.

Lei aggrottò la fronte e le mostrai l’immagine in copertina. Accanto ad una foto sorridente di mio fratello faceva bella mostra di se una foto di un certo attore francese a me sconosciuto che la teneva per mano e sembrava volerla proteggere dai flash dei paparazzi.

- Chi è questo ragazzo?- domandai accompagnando le parole con un ampio sorriso.

Lei sgranò gli occhi colpita e si avvicinò facendo il giro del tavolo velocemente e piazzandosi al mio fianco mentre aprivo la rivista e cercavo la pagina dedicatagli.

- “Venerdì 27 Luglio, dopo la festa di compleanno dell’attore irlandese Jonathan Rhys-Meyers, abbiamo avuto il piacere di vedere il bel modello francese, Gaspard Ulliel (27 anni), impegnato ormai da tempo con Jordane Crantelle, stilista conosciuta sul set della pubblicità per il noto profumo Chanel, di quasi quindici anni più grande di lui, al fianco di una ragazza che sembra più adatta della ormai attempata Crantelle che compirà 42 anni il prossimo 6 Settembre. La giovane, di cui non sappiamo sfortunatamente nulla, era anche lei invitata al compleanno e si è allontanata con il nostro Ulliel.”- alzai lo sguardo su di lei osservandola con un’aria compiaciuta mentre lei arrossiva vistosamente e si passava una mano sulla guancia.

- Dio su quel giornale sembra tutto molto più serio di quanto fosse in realtà. Ci siamo solo trovati bene a parlare perché conosco il francese.- mormorò lei imbarazzata guardando le foto in cui era venuta davvero bene in fin dei conti.

- Sei venuta bene.- l’avvisai chiudendo la rivista, posandola sul tavolo e passando alla seguente.

- Sì, beh, vado a vestirmi e chiamo gli altri così facciamo colazione.- biascicò lei correndo su per le scale.

La guardai andare via ridacchiando e tornai alla lettura. Tutte le riviste che avevo comprato si sentivano in dovere di precisare con chi mio fratello avesse lasciato la festa a fine serata e, anche se precisavano che lo vedevano molto meglio, si aspettavano una ricaduta. Che gente.

In realtà avrei dovuto saperlo e avrei dovuto smettere di stupirmi. Loro erano così, c’era poco da fare. Amavano vedere la gente crollare e i miglioramenti non erano divertenti. La buona salute non vendeva giornali. La malattia e il tentato suicidio sì. Ero così sovrappensiero che non mi ero accorta dei rumori intorno a me, quando sentì una mano sulla spalla gelida mi voltai di scatto trovandomi il viso contratto di mio fratello davanti agli occhi.

In effetti sembrava proprio in salute. Aveva preso peso da quando era partito, i capelli erano un po’ più lunghi e sul viso pieno spiccavano due grandi occhi azzurri brillanti di vita. Sembrava anche più bello di quanto già non fosse quando era partito.

- Che ci fai tu qui?- mi domandò acidamente spezzando quel momento idilliaco in cui me lo ero immaginato in buona salute.

Se avesse avuto la bella idea di stare in silenzio per altri dieci secondi probabilmente mi sarei anche alzata per abbracciarlo stretto e l’avrei riempito di teneri baci. Era mio fratello dopo tutto. Ricordavo tutto di lui, le cose belle e quelle meno belle, e anche se era uno stronzo di dimensioni colossali gli volevo un bene totale e assoluto che non si meritava affatto. Lo guardai per un attimo prima di tornare alle mie riviste.

- Sono venuta a fare colazione. Mi piace il caffè italiano.- risposi semplicemente sfogliando il magazine che avevo in mano.

- Ti sei data al gossip?- mi domandò senza perdere il suo orribile atteggiamento da schiaffi e avvicinandosi al piano cucina dove la caffettiera faceva bella mostra di se.

Aprì il coperchio, lo guardò per un secondo e poi si riempì una tazzina bevendolo lentamente senza zucchero.

- Mi sto interessando alla tua carriera come mi ha consigliato il tuo caro amico Thomas.- scherzai alzando un sopracciglio. – ti sei dato al caffè italiano?-

- Non è mio amico.- precisò afferrando le riviste che avevo posato sul tavolo dandogli un’occhiata veloce. –in Italia se lo vuoi c’è questo. Sai com’è, vivo in una tirannide, la democrazia per me è solo un ricordo lontano.- precisò probabilmente per farmi sentire in colpa ad averlo spedito così lontano da casa.

- Mi spiace che tu ti stia trovando tanto male…- mormorai abbassando lo sguardo.

- Non ho detto questo.- mi interruppe perentorio aprendo la rivista che teneva in mano.

Mio fratello non aveva mai letto una rivista di quel genere, anche se parlava di lui. Quando lo vidi così attento a quello che aveva davanti mi sollevai dallo sgabello reggendomi al tavolo e osservai la pagina che sembrava leggere con tanta attenzione.

- È venuta bene vero?- domandai con un mezzo sorriso divertito.

- Cosa?- domandò lui indifferente alzando la testa dalla rivista.

- Laura.- risposi tornando a leggere un’altra rivista che presi dalla borsa.

- Sarebbe venuta meglio se non avesse fatto la gatta morta con il francese.- rispose lui piccato.

- Guarda che a me sembra lui che si sta avvinghiando a lei non viceversa.- mormorai guardando la foto in cui il ragazzo incombeva su di lei che sembrava una preda che cerca di fuggire dal suo assalitore.

Lui non rispose, chiuse la rivista e la tirò di nuovo dalla mia parte di tavolo aprendo il frigo. Uno scaffale era completamente occupato dalla bella torta che la ragazza aveva appena finito di preparare. Jonathan rimase per un attimo con lo sportello del frigo aperto poi si voltò verso di me.

- Ma che avete fatto voi due stanotte? Una lezione di cucina?- mi domandò irritato.

- Io non ho fatto nulla, sono appena arrivata, sto a casa di Ettore da quando mi hai sbattuta fuori di casa. Tutto frutto delle manine della tua tiranna.- lo presi in giro divertita ma anche un po’ offesa ripensando al giorno in cui ero stata sbattuta malamente fuori di casa.

Mio fratello non rispose e, chiuso il frigorifero, ritornò verso le scale.

- Ah Johnny, quando tornate in Italia?- domandai io voltandomi per guardarlo.

- Torniamo?- domandò colpito.

- Tu e Laura…- precisai aggrottando la fronte.

Il fatto che non lo aveva tenuto in conto non era un buon segno. Sbuffò facendo spallucce e tornando al piano di sopra.

- Chiedi a lei, io ho bisogno di una doccia.- rispose semplicemente.

Mentre lui risaliva le scale Laura le scendeva. Li guardai scontrarsi e guardarsi per un attimo senza che nessuno dei due accennasse a mettersi di lato per far passare l’altro. Ad un tratto ebbi quasi l’impressione che avrebbero potuto afferrarsi a vicenda e baciarsi. Poi però Laura si mise da parte e Jonathan risalì verso la sua camera.

La guardai mentre tornava a sedersi accanto a me e mi schiari la gola fingendo di non averli visti.

- Oh Laura, senti chiedevo prima a mio fratello…- mentre stavo per completare la domanda altre ragazze di cui non ricordavo il nome entrarono in cucina salutandomi cordialmente.

Si sedettero tutte a tavola e aspettarono pazientemente che tutti arrivassero.

- Cosa dicevi Marie?- mi domandò Laura tornando a guardarmi.

- Ah sì, chiedevo a Jonathan quando tornate a casa.- riformulai mentre i tre ragazzi, ormai scegli, uscivano dal salone e si avvicinavano a noi per salutare.

Evidentemente non era la mia giornata per ricevere una risposta a quella domanda. Laura li spedì di sopra a cambiarsi e tra risate e bacetti finalmente decisero di darle ascolto.

- Comunque io parto oggi pomeriggio, domani devo essere a Livorno per dei test di ammissione all’università. Tuo fratello non lo so, non ne abbiamo parlato.- rispose facendo spallucce e tornando a sedersi.

Le sue amiche cercarono di trattenersi dal commentare. Non capivo se erano favorevoli al loro allontanamento o contrarie. Una delle quattro sembrava la meno interessata di tutta e rimaneva con lo sguardo rivolto altrove. Laura si alzò sorridendo.

- Betta ho preparato il caffè per te.- esordì prendendo la caffettiera in mano.

Io sgranai gli occhi tappandomi la bocca con una mano al ricordo di mio fratello che svuotava la caffettiera. Laura aprì il coperchio e sgranò gli occhi. Alzò involontariamente forse lo sguardo su di me ma io scossi la testa. Lei sospirò e rimise il caffè sul fuoco.

- Jonathan.- non sapevo se fosse una costatazione della realtà o se lo avesse visto spuntare dalle scale e lo stesse salutando.

- Che c’è?- domandò lui sedendosi dall’altro lato del tavolo salutando le ragazze con un gesto del capo.

- Hai finito tu il caffè.- lo rimproverò lei.

- Che c’è era già prenotato?- la punzecchiò cercando di non scoppiare a ridere.

- Sei dispettoso come…- non riuscì a trovare una metafora che rendesse la sua idea e sbuffò spazientita mentre lui scoppiava a ridere.

- Ti ho fatto un favore, si era freddato tanto.- rispose lui cercando di calmare le risate.

Le ragazze sedute al tavolo rimasero indifferenti mentre io guardavo quella scena familiare sentendomi a casa di due sposini che si fanno i dispetti tra loro in un modo intimo e affettuoso. Aggrottai la fronte e guardai Jonathan.

- Laura mi diceva che parte oggi pomeriggio per Livorno.- lo avvisai pretendendo la sua attenzione che però non arrivò.

Non distolse l’attenzione del lavoro ai fornelli della ragazza neanche un istante.

- Ok, allora anche io oggi pomeriggio parto.- concluse semplicemente lui.

Dalle ragazze non arrivò neanche una parola. Laura servì il caffè e in quel momento cominciarono ad arrivare gli altri.

 

 

Quel pomeriggio, dopo aver salutato mio fratello e averlo visto partire insieme alla mia eroina personale, andai fuori con Alice, la moglie di mio fratello Alan incinta all’ottavo mese, per occuparmi dei preparativi per la nascita. Mancavano ancora molte cose da comprare e il tempo stava per scadere.

- Alan ha già preparato la borsa per l’ospedale.- mi rivelò Alice ridendo dell’apprensione di suo marito.

- Lui è sempre stato quello con la testa sulle spalle. L’unico tra noi.- ammisi semplicemente guardando una bellissima tutina bianca.

- Anche tu ormai non sei da meno.- mi fece notare lei.

Per la sua prima gravidanza in effetti non l’avevo aiutata quasi per niente. Non mi piacevano i bambini e poco mi importava di questa prossima nascita. Questa volta era diverso. Ero davvero felicissima che stesse arrivando un nuovo nipotino.

- Può essere, merito di Ettore.- ammisi divertita scoppiando a ridere.

- Alan dice che anche Jonathan sta mettendo la testa apposto.- mi rivelò lei mentre ci avvicinavamo alla cassa per pagare le tutine e le bavette acquistate.

- Jonathan?- domandai stupita pensando alla parentesi Jessica nei giornali.

- Sì.- ammise lei ridacchiando. – mi ha detto che suo fratello è molto preso da una ragazza e che contano di vederlo tornare ben presto sulla retta via.- mi raccontò lei imitando la voce di Alan e provocando in me delle sane risate.

- Ti sei fatta dire di chi parlavano?- domandai seriamente curiosa.

In effetti mio fratello parlava molto soprattutto con Alan, era sempre stato il suo confessore in qualche modo e come parlava con il fratello maggiore non aveva mai fatto con nessun’altro di noi.

- No e quando ho indagato lui mi ha detto che non avrebbe tradito la fiducia di suo fratello.- continuò Alice.

- Quindi lui lo sa.- esclamai sconvolta che ci fosse addirittura un nome.

- Sì, certo che lo sa!- rispose Alice annuendo convinta.

- Deve essere qualcosa di serio allora.- costatai aggrottando la fronte.

- Non saprei dirti, tutto ciò che so è questo.- ammise semplicemente. – oh guarda quel ciuccio!- esclamò felice correndo verso la sua nuova scoperta.

Io ero troppo impegnata a pensare a mio fratello che finalmente faceva sul serio con qualcuno. La prima persona a cui avevo pensato era stata la ragazza con cui era stato fotografato sui giornali. In realtà mi rendevo conto benissimo che non poteva essere lei. Mio fratello era una persona molto protettiva, molto più di quell’attore francese che avevo visto nelle foto con Laura. Jonathan più che proteggerla dai flash l’avrebbe protetta dai paparazzi stessi. E non avrebbe mai fatto nulla che avrebbe potuto fare passare quella ragazza come una storia di una notte su una rivista qualunque. Lui era uno piuttosto all’antica. Forse l’avrebbe portata a casa, avrebbe scherzato, l’avrebbe punzecchiata e poi avrebbe minacciato tutti noi di starle lontano e non farla scappare via.

Si sarebbe comportato un po’ come aveva fatto quella mattina con Laura, nascondendosi sulle scale per darle un bacio e non farsi vedere da noi. Perché quella storia sarebbe stata solo sua e di nessun altro. Forse non ce ne saremmo neanche accorti. Come con Laura.

Aspetta…

Sgranai gli occhi quando raggiunsi finalmente l’illuminazione e lasciai cadere il gioco che tenevo in mano che fece uno strano rumore di sonaglietti quando arrivò a terra.

Alice si voltò verso di me e mi guardò stupita.

- Marie, tutto bene?- mi domandò avvicinandosi preoccupata.

- Ho capito chi è la ragazza.- mormorai con un filo di voce.

- Lo sai? E chi è?- domandò mia cognata curiosa.

- Laura.-

 

 

POV Laura.

Mi ostinavo inutilmente a domandarmi per quale motivo avesse deciso di seguirmi. Non che fosse il mio principale interesse al momento, ero troppo presa dal frenare le lacrime che minacciavano di soffocarmi, però mi aiutava a non pensare a quanto ci fosse di negativo in quella partenza.

Ero seduta su una sediolina scomoda dell’aeroporto di Dublino per un volo che ci avrebbe portati a Pisa. Avevo pensato di prendere la metro lì ma ero quasi certa che l’attore al mio fianco avrebbe affittato un’auto risparmiandomi l’inconveniente. Avevo con me solo un piccolo bagaglio a mano e avevo spedito a casa la valigia grande che avevo portato con me per il viaggio di maturità. Era stato davvero tremendo lasciare Dublino.

Davanti la porta di casa, con la valigia già in mano e Jonathan che mi aiutava a caricarla in macchina, avevo guardato le mie quattro migliori amiche del liceo ferme sulla porta d’ingresso, mi guardavano in silenzio e vedevo che Ale aveva già gli occhi lucidi pronta a piangere. Betta non aveva alzato lo sguardo che teneva sul pavimento con ostinazione.

- Salutale che dobbiamo andare via.- mi invitò l’uomo al mio fianco chiudendo il cofano dell’auto su cui aveva caricato le valigie.

Mi avvicinai lentamente alle mie compagne che non si erano ancora mosse e non accennavano a farlo. Mi fermai, con le mani in tasca, quando arrivai davanti a loro, silenziosa e col cuore a pezzi.

- Allora, io vado.- sussurrai per evitare che mi si spezzasse la voce smascherando la tristezza che mi stringeva lo stomaco.

- In bocca al lupo.- rispose Bens indifferente alla mia partenza come lo sarebbe stata Maria.

Non che lei lo fosse, mi aveva abbracciata stretta facendomi promettere che sarei tornata il prima possibile e baciandomi le guance con dolcezza. Soltanto che lei non era stata la mia migliore amica per quattro anni, non avevo condiviso con lei ogni momento, ogni gioia o dolore, lei non era Bens.

- Grazie.- mormorai cercando di trattenere le lacrime.

Mi avvicinai a lei e l’abbracciai. Fu un abbraccio spento, privo di qualsiasi trasporto. Sapevo che mi sarebbe mancata comunque, forse mi sarebbe mancato di lei il ricordo che ne avevo, quello che avevo legato in quattro anni di amicizia, ma comunque mi sembrava abbastanza.

Lei sarebbe stata probabilmente quella che non avrei rivisto mai più. La settimana dopo sarebbe partita per Melbourne e chissà se ne sarebbe mai tornata.

Mi asciugai una lacrima con le dita velocemente e poi passai a Betta al suo fianco.

- Ehi grande stilista, fammi sapere quando Pierre ti chiamerà.- scherzai con la voce bassa sollevandole il viso con una mano. – e non dimenticarti di me quando sarai famosa.- sussurrai guardandola negli occhi.

Anche lei aveva gli occhi lucidi come i miei e quando l’abbracciai scoppiò definitivamente a piangere. Lei avrebbe studiato Economia a New York, non era quello il suo sogno, lo sapevamo tutti, però la moda, come per me il teatro, erano solo passioni. Non sarebbero mai diventate il nostro mestiere.

« Per poterti dedicare ad una passione devi avere un sacco di soldi.»

Così entrambe avevamo deciso di prendere una strada sicura per fare soldi.

Ci separammo a stento, le passai le mani sul viso e fui catturata dall’abbraccio stritolante di Ale. Lei non sarebbe andata molto lontano. Rispetto alle altre almeno. E avrebbe seguito il suo sogno, almeno in parte.

Ballerina con poche doti ma molta buona volontà, era riuscita ad avere un posto in una scuola di danza francese a Tolone. Lì avrebbe studiato medicina riuscendo ad evadere i test d’ingresso italiani che sono la cosa più anti costituzionale tra tutti i mali che affliggono il nostro paese.

- Fa buon viaggio, spaccali tutti, e quando ti metterai con il bell’attore francese di ieri sera chiamami e invitami a Parigi.- scherzò lei cercando di trattenere le lacrime.

- Quando ti prenderanno all’Opèra chiamami e invitami a Parigi.- le risposi io scoppiando a ridere e stringendola forte mentre piangeva disperata.

Era sempre stata la più emotiva tra noi e la sua eccessiva disperazione mi aiutava a vedere tutto sotto una luce più calma.

L’ultima fu Carolina, il mio mentore in quella brutta situazione che era stata il litigio con Bens, la risposta alla solitudine della perdita della mia migliore amica e l’unica a cui avessi raccontato tutto su quella storia. Mi dispiaceva adesso di non aver detto nulla riguardo Jonathan. Forse loro mi avrebbero potuto dare un consiglio saggio. O forse no.

Lei avrebbe fatto giurisprudenza ovviamente. Per tre anni sarebbe rimasta in Italia, a Trieste e poi per la specializzazione, avrebbe raggiunto Betta, la sua migliore amica, a New York e a quel punto, ne ero certa, non ci saremmo mai più sentite.

Mi strinse forte con quel suo modo speciale di abbracciare, mi baciò le guance e, per evitare di fare altre inutili scenate, fui io ad allontanarmi da lei e dirigermi verso la macchina mentre loro rimanevano lì, immobili, a guardarmi.

Chissà, probabilmente ero troppo emotiva ed esagerata. Forse ci saremmo riviste e quella era solo un’idea malata della mia mente, però non sarebbe più stato lo stesso, non sarebbero più state le mie migliori amiche, non sarebbero più state al mio fianco ogni giorno, non avrei più potuto contare su di loro come una presenza costante nella mia vita.

Sentivo che con quella partenza si stava chiudendo definitivamente un capitolo della mia vita.

Quanti ultimi giorni di scuola avevo visto in cinque anni? Quattro. Ragazzi allegri che festeggiavano la fine delle fatiche del liceo, spumanti e trombette, magliette personalizzate e altre idiozie varie. Chissà quante amicizie c’erano tra quelle quattro mura, chissà quanti avevano promesso di rivedersi e di rimanere amici. Noi questa promessa non l’avevamo fatta. Ci eravamo dette addio. Se fosse successo, di rimanere amiche, avremmo ringraziato per quel dono. Ma per adesso, quella pagina si chiudeva per sempre. Finiva la mia adolescenza quel giorno, finiva il liceo e i sogni che mi tenevano legata a quelle quattro ragazze. Finivano i pianti, i litigi, gli amori irrisolti, i telefilm, le risate, le gite, i sabati sera, i ritardi. Finiva tutto. La nostra amicizia anche.

Jonathan mi fermò con una mano prima che potessi superarlo per salire in macchina, aveva in mano una macchina fotografica e mi fece segno di avvicinarmi a loro. Mi passai le mani sul viso per asciugare le lacrime e tornai indietro. Mi inserì perfettamente tra loro che mi strinsero e cercarono di sorridere. ci provai anche io, con scarsi risultati.

Quando fui finalmente in macchina, diretta verso l’aeroporto, presi la macchina fotografica e guardai quella foto.

Cinque ragazze con le lacrime che le rigavano le guance, un sorriso tirato, strette le une alle altre.

Ecco cosa sarebbe rimasto.

Una foto.

 

Eravamo appena arrivati a Livorno, non ci eravamo scambiati praticamente una parola. Era rimasto in silenzio tutto il tempo ed io ero troppo depressa per parlare. La tristezza del momento era passata. Avevo smesso di piangere e i pensieri apocalittici mi avevano finalmente lasciata libera di pensare lucidamente a ciò che dovevo fare. In cima alla mia lista c’era mia madre.

Non l’avevo praticamente sentita da quando avevo lasciato casa mia per il viaggio della maturità e l’unico contatto che lei aveva con me era stato Mattia. Adesso che Mattia non era più con me spettava a me avvisarla che ero ancora viva.

Appena Jonathan ebbe affittato l’auto e si immise nel traffico serale di Livorno, presi il telefono dalla borsa e composi il numero di mia madre.

Lo prese al primo squillò.

- Finalmente ti fai sentire, ero tremendamente in pensiero, Mattia ha detto che siete partiti alle tre, perché non hai chiamato prima?- domandò senza neanche lasciarmi il tempo di parlare.

- Ciao, mamma.- la salutai io ironicamente.

- Fai meno la spiritosa Laura, allora, com’è andato il viaggio?- domandò lei pronta ad arrabbiarsi da un momento ad un altro.

- Bene, scusami se non ho chiamato prima ma lo scalo a Roma è stato veloce e non ho avuto il tempo.- risposi semplicemente sperando di tenerla calma.

- Ah sei già a Livorno?- mi domandò lei stupita.

- Sì, sono sull’autobus che mi porterà in centro.- risposi mentendo spudoratamente e meritandomi un’occhiata di rimprovero dal mio vicino.

- Perfetto. Ti ricordi dov’è l’albergo vero?- chiese lei sorridendo. Lo sentivo che era felice.

Certo, se avessi passato quei test sarei stata sistemata per il resto della mia vita. E mia madre ci credeva davvero che io potessi superarli quei test. Non aveva dubbi.

Il problema era fondamentalmente che io non volevo farli. Io volevo fare il medico. L’anno prima però, piccola e inesperta, avevo ceduto ai suoi occhioni dolci e le avevo firmato i moduli che aveva spedito per quegli stupidi test. Avevo anche passato inconsciamente delle prove che non sapevo nemmeno di aver sostenuto. Ecco il motivo della mia presenza lì. In quella squallida città dove il mare di certo non era quello di casa mia, e nemmeno il clima. Era ancora fine luglio e c’era già parecchio freddo.

- Sì mamma, lo ricordo e comunque ho la cartina che mi hai fatto tu con la quale non potrei proprio perdermi.- la rassicurai con un sorriso tirato che fortunatamente lei non avrebbe visto.

- Va bene.- rispose lei rassicurata. – senti Laura Jonathan ha intenzione di ritornare qui?- domandò lei.

- Non credo, non nell’immediato futuro almeno.- risposi guardandolo sottecchi sperando che non se ne accorgesse.

Anche se lo fece non lo diede a vedere più di tanto e rimase concentrato sulla strada. Solo poco prima, quando avevo giurato di essere sola, aveva dato mostra, da quando eravamo partiti da Cork, di aver percepito la mia presenza accanto a lui. Non capivo se fosse arrabbiato o semplicemente se fossi io ad essergli completamente indifferente. In ogni caso non avevo indagato.

- E dov’è adesso?- cercò di informarsi mia madre mostrando di essere piuttosto felice della scomparsa del ragazzo dalla nostra vita.

- A Londra, sta girando un qualche film.- risposi mantenendomi sul vago.

- Bene, sono felice per lui.- rispose prontamente mia madre. Se avessi potuto tradurla le sue parole sarebbero state. – bene, sono felice che non ti stia più intorno.-

- Sì.- confermai io semplicemente parlando un po’ più piano.

- Comunque dopo che finisci i test scendi?- domandò mia madre dando voce ai pensieri che mi avevano assillato tutto il giorno.

I test sarebbero durati una settimana, il tempo che le mie compagne avevano per tornare a casa e prepararsi a ripartire e cominciare la loro vita nelle città in cui avrebbero passati il resto della loro vita forse. Se fossi tornata a casa sarei stata sola, senza le mie amiche, senza Jonathan, in balia dei ricordi che nemmeno il mare sarebbe stato in grado di placare. Tornare a casa non mi sembrava affatto una buona idea.

- Non credo mamma, non voglio spendere altri soldi con questi voli. Credo che resterò qui e cercherò di ambientarmi ok?- risposi semplicemente cercando di indorarle un po’ una piccola amara da mandare giù.

Lei rimase per un attimo in silenzio. Forse era consapevole che da quel momento in poi avrei passato molto tempo lontana da casa a inventare scuse banali per risparmiarmi di tornare alla vecchia vita e ai vecchi ricordi. Comunque avevo l’esempio di mio cugino. Lui tornava a natale e pasqua e non sembrava essere troppo triste o malinconico. Certo, lui aveva la profondità di una pozzanghera e non avrebbe potuto mai capire cosa volesse dire provare nostalgia per qualcosa. Probabilmente non aveva mai avuto delle amiche come le mie e non poteva nemmeno capire cosa volesse dire passare del tempo lontana da loro dopo aver passato tutta l’adolescenza insieme.

Comunque non doveva essere un problema mio. Avrei fatto in modo di tornare a casa per le feste ma fino a natale non volevo sentir parlare di casa, per nessun motivo al mondo. E poi chissà come sarebbero state le cose tra cinque mesi. Sembrava un tempo infinito adesso e magari per allora avrei avuto una buona ragione per tornare a casa.

 

L’albergo in cui mi ritrovai non era di certo quello che aveva scelto mia madre per me, anzi. Era un albergo di lusso e la nostra camera era una meravigliosa suite con un’enorme letto matrimoniale. Perché non due bei lettini singoli in modo che io rimanessi lontano dalla sua ira?

Sospirai e posai la valigia per terra senza avere il coraggio di muovermi e andarmi a mettere a letto. Ero stanca, avrei avuto voglia di dormire e basta, eppure il suo mutismo mi bloccava e mi spaventava a morte.

Aveva posato la valigia accanto alla mia, l’aveva aperta e ne aveva tirato fuori un paio di pantaloni. Dopo era filato in bagno chiudendo la porta a chiave. Quando sentì l’acqua della doccia aprirsi sospirai e apri anche la mia valigia. Ne tirai fuori i pantaloni del pigiama ed una canottiera, me li infilai e mi buttai a letto. Adoravo i materassi degli alberghi, erano morbidi e spumeggianti. Ridacchiai e mi lasciai cadere sul cuscino, anch’esso morbido e chiusi gli occhi sospirando di stanchezza. Ero così comoda e stavo rilassandomi, stavo anche per addormentarmi quando all’improvviso sentì un brutto rumore sul tavolo che mi fece scattare a sedere. Era stata davvero una giornata tremenda e sentivo tutta la stanchezza del viaggio e dell’addio.

Jonathan aveva sbattuto una rivista sul tavolo e mi guardava arrabbiato. Evidentemente tutta l’indifferenza che aveva covato aveva deciso di uscire adesso. Non poteva aspettare domani?

- Che c’è?- domandai sospirando e passandomi una mano sul viso distrutta.

- Mi stavo solo chiedendo per quale cazzo di motivo il tuo bacio con quel coglione di francese è finito anche sui giornali.- sibilò arrabbiato tirandomi la rivista che mi finì in testa.

L’afferrai stranita e l’apri.

- Bacio?- mormorai stranita guardando le foto. In effetti sembrava proprio un bacio quello, anche se, potevo giurarlo, non lo era affatto.

- Allora?- mi domandò mentre ancora io stavo cercando di capire quando avessero scattato quella foto.

- Non ci stavamo baciando.- conclusi io indifferente posando il giornale sul comodino. – ti sei dato al gossip?- mi buttai di nuovo a letto ridacchiando.

- Non è divertente Laura! Non lo è affatto!- gridò lui indispettito facendomi alzare dal letto.

Era impazzito? Non aveva mai perso la pazienza fino a quel punto con me e non riuscivo a capire perché l’avesse fatto proprio adesso. Lo guardai in piedi accanto al letto aggrottando la fronte.

- Sei impazzito?- domandai stranita utilizzando un tono di voce pacato.

- No, non lo sono.- rispose stringendo le labbra arrabbiato. – cosa sei di preciso?- mi domandò sconvolto.

- Cosa sono?- gli chiesi alzando un sopracciglio sconvolta.

- Alcune volte sembri una ragazza normale, di quelle pudiche e con dei valori, poi baci chiunque come una puttana.- mi sputò contro avvicinandomi. – quale delle due sei?- mi domandò di nuovo.

- Ti ho detto che non ho baciato nessuno.- gli risposi indisponendomi. – e anche se lo avessi fatto questo non ti da il diritto di darmi della puttana.- gli ricordai cercando di mantenere la calma.

- Sei quasi stata a letto con me.- mi ricordò ritornando su un argomento che pensavo avessimo archiviato. – e meno di dodici ore dopo eri avvinghiata a quel ragazzino nano.- mi fece notare avendo questa volta tutte le ragioni del mondo.

- È stato un errore quello!- mormorai imbarazzata.

- A me non sembrava un errore visto come mi hai gridato contro subito dopo che te l’ho tolto di dosso.- mi rimproverò lui meritando tutto il mio risentimento.

- Io non parlavo di Danilo. Non è stato quello il mio errore.- lo apostrofai arrabbiata.

Lui rimase in silenzio profondamente colpito e fece un passo indietro forse involontario a causa delle mie parole per nulla gentili. Non mi importava. Mi aveva appena dato della puttana. Non potevo credere che l’avesse fatto davvero. E non potevo credere che poi venisse da me con quella faccia da martire solo perché gli avevo risposto a tono.

- Ah sì?- domandò in un sussurro, molto più calmo di prima.

- Non volevo dire questo Jonathan ma ti ricordo che mi hai lasciata in una stanza d’albergo mezza morta a sbrigarmela da sola.- se si parlava di rivangare il passato allora ben venga che anche lui fosse messo davanti alle sue colpe.

- Lasciata? Sei stata tu a non richiamare.- mi accusò incrociando le braccia al petto.

- Richiamare chi? Te ne sei andato a scopare con Allie!- gli ricordai arrabbiata.

- Guarda che nel biglietto l’ho scritto solo per farti capire dov’ero che stavo da Allie, era un invito a chiamare appena ti fossi svegliata visto che non stavo facendo niente di importante.- mi avvisò stringendo gli occhi ad una fessura. – volevo darti la tua privacy.-

- Biglietto?- domandai io aggrottando la fronte. – quale biglietto?- domandai di nuovo.

- Quello che c’era accanto al caffè.- rispose lui sempre più indisposto alzando gli occhi al cielo.

- Non c’era nessun caffè. Lo ha portato dopo Betta.- gli feci presente.

- Betta?- domandò lui alzando un sopracciglio pensieroso.

- Sì, Betta, e Caro, le uniche che mi abbiano aiutato mentre tu eri chissà dove e chissà con chi a fare chissà cosa.- lo sgridai seguendolo mentre si allontanava e andava a sedersi sul divanetto all’ingresso. – non hai niente da dire a riguardo?- gli domandai incrociando le braccia al petto e piazzandomi di fronte a lui.

- Betta, ovvio.- mormorò lui dopo un po’ accarezzandosi il mento con una mano. – le avevo chiamato io la sera prima per chiederle di coprirti con tua madre. Fidati quella sera non sono andato da nessuna parte. Mi sarei perso un bello spogliarello e una dichiarazione d’amore.- mi prese in giro lui.

Arrossì di colpo spostando lo sguardo e mi allontanai.

- Ero ubriaca, non so neanche quello che ho detto.- risposi semplicemente sedendomi su una poltrona poco lontano.

- Beh lo hai ribadito bene per pasqua.- continuò lui provocandomi di nuovo.

- Vuoi smetterla di parlarne?!- gli domandai arrabbiata aggrottando la fronte e scattando in piedi muovendomi nervosamente avanti e indietro per la stanza.

- Perché ti da tanto fastidio? Che c’è di male?- mi domandò lui alzandosi e cominciando ad alterarsi di nuovo.

- Che ti ho già detto che è stato uno sbaglio ok? Io non faccio queste cose, io non bacio degli attori conosciuti la sera stessa, io non finisco sulle riviste, io non faccio sesso con uno qualunque, io non mi ubriaco.- gridai esasperata provocando una sua occhiataccia di fuoco che mi fece raggelare il sangue.

- Io sarei uno qualunque giusto? E anche l’errore e lo sbaglio? Sono praticamente la causa di tutti i tuoi problemi Laura?- si avvicinava lentamente. – spiegami Laura, io sarei il male che ha traviato una brava ragazza allontanandola dalla retta via giusto?- domandò di nuovo sempre più arrabbiato.

- Non ho detto questo.- mormorai spaventata mentre lui mi veniva incontro sempre più arrabbiato e rosso in viso.

- Io non ti ho costretta a fare niente, se quello che hai fatto fino ad oggi con me ti è sembrato sbagliato Laura vuol dire che non hai ancora ben capito che cosa voglia dire vivere!- gridò alterato.

- E cosa vuol dire vivere Jonathan? Sfondarsi di coca fino ad ammazzarsi?- gridai a mia volta sputandogli contro.

Mi afferrò per i polsi strattonandomi malamente e costringendomi contro il muro e il suo corpo, guardandomi negli occhi arrabbiato.

- Vedi Laura, tu sai dire solo questo, ma preferisco la mia vita fatta di coca e alcol piuttosto che la tua fatta di studio e…che altro? Non c’è altro stupida idiota!- mi fece notare disgustato dalla mia vita. – tu cerchi di cambiare anche i tuoi sentimenti perché possono essere un problema.- infierì ulteriormente schiacciandomi di più contro il muro.

- Io non cerco di fare niente.- mormorai cercando di allontanarlo per quanto fosse possibile ma lui era una roccia.

- Io lo so che sei innamorata di me, si capisce, me lo hai fatto capire un’infinità di volte. Ma ogni volta che fai un passo avanti ne fai tre indietro perché hai paura che qualcosa nella tua vita vada diversamente dai tuoi progetti.- tutto ciò che diceva mi colpiva e mi faceva arrossire un po’ di più.

- Io non sono innamorata di te.- cercai di mugugnare anche se sapevo che stavo mentendo quella volta, spudoratamente.

- Non hai nemmeno avuto il coraggio di dire a tua madre che sono qui perché questo non è quello che loro si aspettano che la loro figlia perfetta faccia.- continuò ancora facendo finta di non sentirmi. – fai finta di non provare nulla per me quando mi fai scenate di gelosia per Allie, continua per la tua strada già segnata, se dovessi trovare la felicità dimmelo Laura perché allora mi sarò sbagliato e lo ammetterò. Ma tu sai che questa volta ho ragione. Non sarai felice.- concluse lasciandomi le mani e allontanandosi di scatto.

Si avvicinò alla sua valigia, prese una felpa e si infilò il cappotto che aveva lasciato su una sedia all’ingresso.

- Dove stai andando adesso?- mormorai seguendolo in silenzio, ancora spaventata.

- Non sono affari che ti riguardano.- mi apostrofò lui uscendo dalla stanza e sbattendo la porta con forza.

Rimasi al centro della stanza immobile, spaventata e preoccupata. Non perché mi facesse paura lui ma perché mi faceva paura la sua assenza. Tutto ciò che aveva detto era vero, lo sapeva lui e lo sapevo benissimo anche io. Solo una cosa era sbagliata. O meglio, l’aveva omessa.

Io avevo paura per ciò che provavo per lui, avevo paura di rimanere ferita. Non mi pentivo di ciò che avevo fatto, mi andavano bene tutti i miei errori. Ma non volevo rimanere sola nei miei errori. Volevo che ci fosse qualcuno al mio fianco quando sbagliavo e se lui non se la sentiva di farlo io non volevo costringerlo e non volevo nemmeno provare ad accontentarmi di ciò che aveva da offrirmi.

Nella mia vita avevo sempre dovuto accontentarmi, per ogni cosa. La scuola, lo sport, l’università. In amore almeno non volevo dovermi accontentare. Eppure, se non avessi accettato lui con tutti i suoi difetti e i suoi limiti, allora non avrei solo dovuto accettare i difetti e i limiti di qualcun altro, visto che ogni persona umana ha limiti e difetti, ma avrei anche dovuto accettare di avere accanto un’altra persona che non era lui.

Ero disposta ad accettare questo compromesso?

Che poi chi mi assicurava che lui volesse stare con me? i suoi colpi di testa potevano voler dire semplicemente il suo desiderio di dominare sulla mia vita. Di aver conquistato la ragazza che faceva tanto la santerellina e che poi aveva ceduto ed era stata conquistata. Se dopo una notte lui mi avesse detto – alzati e vattene- sarei rimasta ben più scottata che da un semplice compromesso.

Con questo genere di pensieri mi infilai sotto le coperte, tra le lenzuola morbide e fredde, con la mente ed il cuore pesanti ed il sonno che ormai era completamente svanito.

Quella notte, come quella precedente, non dormii affatto.

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Ti odierò, se potrò; altrimenti ti amerò mio malgrado. ***


Il giorno dopo lui non tornò, e nemmeno quello dopo ancora. Passai i due giorni prima del 31 luglio chiusa dentro quella lussuosa camera d’albergo a studiare. Mi sentivo sola in quel momento come mai in vita mia. non avevo mai passato due giorni completamente sola. Anche se fossi uscita non avrei saputo dove andare e soprattutto la solitudine che mi aspettava nelle strade di quella città sconosciuta non mi faceva venire nessuna voglia di avventurarmi chissà dove. Ero seduta al tavolo dell’ingresso, il telefono accanto e i libri davanti. Non riuscivo a non pensare a quello che mi aveva ripetuto Jonathan. Aveva ragione, era ovvio, ed ero fermamente convinta che non avesse bisogno della mia conferma per saperlo.

Quella mattina del 31 Luglio 2012 mi alzai presto. Avevo dormito da sola per l’ennesima volta, nessuno aveva chiamato e a quel punto sapevo cosa mi aspettava. Presi i libri che avevo lasciato sul tavolo dell’ingresso la sera prima, li infilai nello zainetto che avevo portato con me e strappai un foglio da un quaderno.

«Sono andata a fare i test, tornerò dopo l’una»

Scrissi velocemente con mano malsicura. Probabilmente lui non sarebbe tornato. Era stato via per due giorni senza tornare neanche a prendersi le sue cose, perché doveva farlo proprio oggi?

Perché sa che tu non ci sei. Mi ricordò la vocina nella mia testa facendomi sospirare, stanca.

Dopo aver recuperato il portafogli con i documenti e il telefono, uscì dalla stanza.

Avevo la sensazione da film di essere proiettata verso il mio futuro. Era una sensazione fondamentalmente stupida. Non aveva nulla a che vedere con la realtà. Probabilmente era solo la tensione che si trasformava in adrenalina. Mi sarebbe sicuramente stata utile durante l’esame.

Lasciai le chiavi alla reception e uscì nel grande viale Italia che costeggiava il mare. Non avrei neanche dovuto prendere l’autobus, avrei camminato su quel marciapiede affiancato dalla battigia, riflettendo su quello che avrei potuto guadagnare una volta superati i test di ammissione, e ciò che invece avrei sicuramente perso.

Avrei avuto un lavoro sicuro in un’Italia in cui ormai di sicuro c’era solo la morte. Avrei avuto uno stipendio che un giorno mi avrebbe permesso di condurre una vita tranquilla, di dare ai miei figli tutte le comodità di cui avevano bisogno. Avrei… presi un respiro profondo riempiendo i polmoni di quell’acre odore salmastro che adoravo.

Fine dei privilegi.

Non c’era altro di buono in quello che stavo per fare.

Avrei dovuto vivere secondo leggi ferree che mi avrebbero impedito di perseguire qualsiasi sogno che non avesse a che fare con i loro scopi. Sarei tornata a casa solo due volte l’anno. La mia vita sarebbe stata legata esclusivamente a loro senza nessun modo di riscattare la mia felicità. Non avrei più rivisto Jonathan.

Tutto quello era ciò che certamente avrei perso.

Non sarei mai stata un’attrice. Non sarei mai andata a studiare al DAMS. Non avrei avuto una relazione normale come qualsiasi altra mia coetanea. Non avrei potuto avere delle mie idee. Ed io ero una persona che di idee ne aveva davvero tante.

Forse l’idea di mia madre non era proprio da scartare. Giurisprudenza infondo, per quanto fosse male, mi avrebbe dato l’opportunità di avere una vita abbastanza normale.

Avevo camminato per oltre cento numeri civici. Dal 195 al 72 di Viale Italia. Adesso ero lì, davanti a me il grande palazzo che mi avrebbe ospitata per quelle tre ore.

Quando entrai dal portone in legno delle guardie mi si avvicinarono e mi chiesero i documenti. Aprì lo zaino e, estratto il portafogli, mostrai la carta d’identità ad uno dei due che la prese e si recò in una stanza vicina lasciandomi in compagnia dell’altro che era con lui di guardia. Mi guardava come se avesse voluto dirmi qualcosa. Forse se avesse potuto mi avrebbe consigliato di scappare via lontano e non tornare. Forse avrebbe detto ciò che mi aveva già detto Jonathan qualche giorno prima. L’uomo che si era allontanato tornò restituendomi il mio documento e dandomi un'etichetta da mettere alla giacca per poter essere facilmente riconoscibile. Sopra c’era il mio nome e la scritta grande, in rosso, STUDENTE. Misi il portafogli nello zaino mentre l’uomo, con calma, mi spiegava dove andare.

- Devi salire le prime scale che troverai sulla tua destra, poi segui il corridoio fino alla fine c’è una grande porta grigia aperta.- mi avvisò con fare professionale.

- Grazie.- mormorai terrorizzata avviandomi lungo il corridoio.

Le informazioni erano state davvero precise e tra l’altro non era neanche così difficile seguire gli altri ragazzi che erano arrivati qualche minuto prima di me.

Una ragazza dai lunghi capelli neri legati in una treccia mi si affiancò mentre salivo le scale lentamente. Lei sembrava avere fretta di arrivare. Io invece mi gustavo gli ultimi momenti di libertà.

Entrammo nella grande sala insieme. Mostrammo il cartellino identificativo e ci vennero consegnate delle buste gialle sigillate.

- Non apritele fin quando non vi verrà detto.- ci ordinarono. – adesso prendete posto.- concluse l’uomo più anziano tra i cinque presenti che ci indicò la grande sala piena già di molti ragazzi.

Ci sedemmo vicine, in silenzio. Lei sembrava piena di brio, felice, pronta e desiderosa di iniziare. Io stavo per scoppiare a piangere.

- Io sono Renata.- si presentò lei ad un tratto stanca di rimanere in silenzio.

Mi porse educatamente la mano e gliela strinsi. Aveva gli occhi azzurri e brillanti, la pelle chiara senza traccia di trucco ed era straordinariamente bella. Quando mi capitava di conoscere quel genere di ragazze mi veniva in mente l’ingiustizia del mondo.

- Laura.- mi presentai a mia volta rivolgendole un mezzo sorriso tirato.

- Allora sei pronta?- mi domandò mostrandomi tutta la sua felicità. Insensata.

- Sono preparata.- la corressi come se la differenza tra i due termini fosse di importanza vitale.

In effetti non erano la stessa cosa. Io non ero pronta, affatto.

- Io non vedo l’ora.- rispose lei stringendo le mani che sbatterono tra loro provocando un leggero rumore.

I cinque alla cattedra cercarono di smorzare i mormorii che erano nati all’interno della sala e tutti tacquero. Anche la mia vicina.

Io non mi sentivo così in vena di chiacchiere quel giorno. Avrei voluto un abbraccio piuttosto, una rassicurazione. Invece non avrei potuto aspettarmi nulla di tutto ciò.

- Allora, come mai sei qui?- mi domandò dopo un po’ dimentica dell’ordine di non parlare imposto dai cinque.

- Perché è il lavoro più sicuro.- risposi con un briciolo di cinismo.

- Cosa? No, l’accademia non si può affrontare in questo modo.- mi rispose come se avessi appena detto la più grande eresia del mondo.

- E come si affronta allora?- domandai io voltandomi appena verso di lei.

- Devi amarla.- rispose semplicemente con un mezzo sorriso. – devi sapere che per te non può esserci altro. Devi essere certa che nella vita non potresti aspirare a nulla di meglio perché davvero non c’è nulla di meglio.- aggiunse lei infervorata.

- Davvero tu credi non ci sia nulla di meglio?- le chiesi scettica alzando un sopracciglio. – voglio dire sei bellissima, lo saprai da te, e se sei qui sei anche intelligente e brava nello sport. Allora perché credi che per te non possa esserci altro?- rincarai aggrottando la fronte senza capire.

- Perché è così Laura.- rispose lei convinta. – questo è il mio destino e nulla può rendermi felice come stare qui.-

Rimasi in silenzio con lo sguardo perso nel vuoto incapace di capire o forse non volendo nemmeno farlo davvero. Lei, la bellissima ragazza al mio fianco, sapeva che quello era il suo destino. Non credeva di esagerare? Il destino era una cosa enorme. Qualcosa che ti lega ad un'altra per sempre.

- E tu? Cosa credi che possa renderti felice più di qualsiasi altra?- mi domandò in un sussurro prima che l’uomo che ci aveva dato i plichi chiusi davanti a noi si schiarisse la gola per richiamare la nostra attenzione.

- Silenzio, per favore. Sono le ore 9:52, tra otto minuti le porte verranno chiuse e saranno riaperte al termine della prova.- ci avvisò con tono grave. – la prova durerà ottanta minuti, più un ora per gli accertamenti, alle ore 13 potrete andare via.- continuò serio mentre la stanza era piombata nel silenzio.

I quattro uomini che erano stati fino a quel momento accanto a lui cominciarono a camminare tra i banchi guardandoci, uno per uno.

- Adesso potete aprire i plichi davanti a voi.- ordinò l’oratore. – chi non si sente in grado di proseguire è pregato di allontanarsi dalla stanza.- finì perentorio andando a sedersi al suo posto indifferente.

Cosa mi avrebbe fatta felice? Stare con lui probabilmente.

Fare medicina.

Fare teatro.

Tornare a casa.

Tornare al liceo.

Stare con le mie amiche.

Chiusi gli occhi e aprì il plico davanti a me estraendone dieci fogli ben rilegati. L’intestazione sul dorso mi fece venire un brivido freddo sulla schiena.

“Accademia navale della Marina Militare Italiana”

Voltai pagina cercando di non pensarci. Le domande erano facili. Niente di impossibile per nessun campo, anzi. La maggior parte delle cose era ben al di sotto di quelle che mi aspettavo e la cultura generale si avvicinava moltissimo a notizie di gossip da rivista di terz’ordine. Non sembrava nulla di serio come volevano far credere con tutta quella disciplina che regnava. Sicuramente l’avrei superato quel test. Avrei reso mia madre orgogliosa di me e mio padre avrebbe accantonato l’atteggiamento che aveva nei miei confronti da quando Jonathan era arrivato a casa la prima volta. Eppure in un momento mi vidi in uniforme, una domenica mattina all’alba, con la pioggia che mi bagnava i capelli tenuti legati sotto il capello. Piegare il capo davanti ai generale, sfilare come una cretina il due giugno davanti a quei fantocci che erano i nostri capi politici.

Guardai un attimo Renata al mio fianco che aveva già cominciato a scrivere frenetica su un foglietto per i calcoli che avevamo ricevuto insieme al test. Probabilmente anche lei sarebbe passata. Saremmo state compagne in quella brutta avventura e forse saremmo state anche amiche.

Presi il foglietto con quella tremenda intestazione e lo rimisi nella busta gialla in cui mi era stato consegnato.

Mi alzai dal mio posto prendendo lo zaino e mettendomelo sulle spalle. Renata alzò lo sguardo su di me dubbiosa.

- In bocca al lupo.- le augurai sorridendole con tutto l’amore che si poteva dimostrare per una persona appena conosciuta e il suo futuro.

- In bocca al lupo.- rispose lei nello stesso modo con gli occhi che le brillarono.

Chissà se il suo era solo un piano per liberarsi di una rivale. Per me non era stato così, anzi. Era stata per un attimo Carolina, Betta, Ale, Bens e Josephine insieme. Era stata la mia migliore amica, la mia confidente, la mia coscienza. Probabilmente avrei dovuto a lei il mio futuro da disoccupata infelice e povera ma andava bene.

Avrei dovuto a lei il resto della mia vita.

Stavo riscrivendo quello che qualcun altro aveva deciso per me.

Comminai con passo sicuro verso la cattedra. Tutti si erano voltati verso di me e mi guardavano. Posai il plico sul mobile in legno e l’uomo lo guardò prima di tornare con lo sguardo su di me.

- Ne è sicura signorina?- mi domandò tranquillamente allungando una mano pronto a prenderlo definitivamente.

- Arrivederci.- lo salutai semplicemente voltandogli le spalle e uscendo da quella stanza un secondo prima che le porte venissero chiuse.

Ripercorsi il corridoio al contrario rispetto ad un’ora prima e, consegnato il cartellino che mi avevano ordinato di mettere sulla giacca, mi allontanai per sempre dal numero 72 di Viale Italia.

 

Quando rientrai nella mia camera d’albergo avrei voluto semplicemente buttarmi a letto e riflettere sul gesto che avevo appena fatto. Mia madre e mio padre mi avrebbero uccisa. Onestamente credevo davvero di meritare la morte a quel punto.

Buttai lo zaino per terra incurante del telefono e di tutto quello che c’era dentro e mi incamminai verso la mia stanza trascinando i piedi. La valigia di Jonathan era poggiata sul letto aperta e riordinata pronta per essere chiusa. Mi guardai intorno e solo allora mi resi conto del rumore dell’acqua che scorreva in bagno. La porta era aperta. Mi avvicinai lentamente e lo trovai con dei jeans e una camicia leggera davanti allo specchio che si rasava. Era una bella immagine davvero. Lui non si voltò per guardarmi continuò a fare quello che stava facendo senza dar prova di essersi accorto della mia presenza.

- Ciao.- lo salutai con un tono bassissimo di voce senza ricevere da lui nessun tipo di risposta.

Incrociai le braccia al petto e mi poggiai allo stipite della porta del bagno continuando a guardarlo.

- Non mi chiedi come è andata?- domandai gentilmente cercando di attirare la sua attenzione.

- Non mi interessa.- rispose semplicemente mentre ripuliva il rasoio che stava utilizzando.

- Io vorrei che tu me lo domandassi.- risposi parlando a bassa voce torturandomi le costole con le dita.

- Sono le dieci e un quarto. Mi avevi detto che saresti tornata all’una. Il che vuol dire che la prova è andata più che bene. Brava.- rispose atono lavandosi la faccia.

Prese la crema che aveva usato per rasarsi e il resto del materiale e posò tutto in valigia superandomi senza neanche dar mostra di essere interessato. La chiuse e bloccò le lampo con un piccolo lucchetto.

- Dove vai?- domandai aggrottando la fronte seguendolo mentre si tirava giù le maniche della camicia.

- A Londra. Devo lavorare.- rispose semplicemente. almeno non aveva risposto che non erano affari miei. Avrei dovuto essergli grata.

- Torni da Allie?- domandai vergognandomi per quella domanda. Alzai lo sguardo quando vidi che lui aveva puntato il suo su di me.

- Laura, non farmi diventare crudele.- sussurrò a denti stretti mettendo a terra la valigia avvicinandosi all’ingresso.

Prese il cappotto e se lo mise sistemandosi davanti allo specchio con calma. La parte coraggiosa di me si chiedeva che cosa stessi aspettando. Se fosse uscito da quella porta sarebbe stato praticamente inutile aver rinunciato a quel futuro certo solo perché volevo seguire i miei sogni. A prendersi in giro potevo affermare che parlavo solo della libertà che l’accademia mi avrebbe negato ma poi, a voler essere proprio sinceri, almeno con me stessa, dovevo ammettere che era anche per stare con lui che non volevo andare in accademia. Volevo che sapesse che lo sapevo che aveva ragione. Forse, se proprio quel giorno fosse uscito da quella porta, avrei dovuto fare in modo che lo sapesse che ero profondamente presa da lui. Che non ero una prostituta. Che quella domenica di pasqua io non mi ero trovata quasi a fare sesso con lui perché mi ero lasciata prendere dal caldo primaverile o dallo scirocco. Io l’avevo fatto perché provavo un sentimento forte per lui. Perché ero un’adolescente innamorata.

- Ho consegnato in bianco.- non avrei voluto dirlo ma, mentre questi pensieri mi intasavano la mente, lui aveva aperto la porta della stanza e stava andando via senza salutare.

Si voltò verso di me aggrottano la fronte pronto a studiare la mia espressione per capire se mentissi o meno. Richiuse la porta facendomi sospirare di sollievo. Mi stava dando la possibilità di parlare. Era più di quanto avessi potuto sperare.

- Sono tornata così presto perché non l’ho neanche cominciato il test.- precisai abbassando lo sguardo. Avevo ancora le braccia incrociate al petto, stretta al punto che facevo davvero fatica a respirare.

- Perché?- domandò lui piano rimanendo immobile poco lontano dalla porta. Se avesse steso il braccio avrebbe potuto aprirla senza problemi.

- Perché non era ciò che volevo.- risposi in un attimo di profonda sincerità.

Per un attimo calò il silenzio. Lui non parlava, io non riuscivo neanche ad alzare lo sguardo e sentivo tutta la convinzione che mi aveva spinto a fare quel gesto venire meno. I capelli mi caddero sul viso mentre gli occhi mi si riempivano di lacrime.

Il parquet del pavimento, che avevo studiato per un po’, adesso mi appariva sfocato e sentivo la necessità di asciugare le lacrime che minacciavano di scendere.

- Adesso che farai?- domandò lui alla fine spezzando quel terribile silenzio che mi aveva dato il tempo di pensare lucidamente alla mia follia.

Questa volta fui io a rimanere in silenzio. Immobile al mio posto cercai di ricacciare indietro le lacrime e di bloccare i singhiozzi che minacciavano di smascherarmi.

- Laura?- mi chiamò lui dopo un attimo quando aveva ormai capito che non gli avrei risposto.

L’avevo sentito avvicinarsi di qualche passo. Adesso era più vicino a me e se avessi alzato un po’ il viso avrei trovato davanti agli occhi umidi il suo petto. Vedevo anche così le sue scarpe nere.

- Non lo so.- ammisi dopo un attimo credendo che la voce non mi avrebbe più tradita. Mi sbagliavo sfortunatamente. La voce mi tremò e si spezzò nei punti sbagliati.

Si avvicinò ancora e mi afferrò il mento tra le dita costringendomi a guardarlo. Una lacrima sfuggì al mio controllo e mi rigò la guancia cadendo sulla sua mano. Lo vidi sgranare gli occhi. Mi passò le dita calde sul viso cercando di catturare le lacrime indisciplinate che avevano cominciato a scendere involontarie.

- Perché lo hai fatto se adesso ci stai male?- mi domandò con la fronte aggrottata e le labbra strette.

Era così dolorosamente bello. Perché non poteva essere vera la tristezza che sembrava aver dipinta in viso? Perché non poteva essere tutto esattamente come sembrava essere?

- Perché non ci volevo andare io.- mormorai cercando di frenare le lacrime che invece adesso scendevano anche più di prima.

- Allora adesso perché piangi?- mi domandò sempre più confuso e…preoccupato? Era preoccupato? Per me? ti prego fa che sia preoccupato.

- Perché non so cosa fare.- biascicai cercando di liberarmi dalla sua presa.

Fece resistenza per un attimo poi mi lasciò andare. Mi sedetti sul bordo del tavolo su cui avevo studiato quei due giorni di solitudine. Mi passai le mani sul viso con forza per asciugare le lacrime che avevano cominciato a seccarsi sulle guance.

- Non posso tornare a casa adesso. Sono una delusione enorme per i miei genitori. Io volevo solo che il mio papà fosse fiero di me.- ormai stavo piangendo di nuovo più di prima.

Mi presi il viso tra le mani e non riuscì più a frenare i singhiozzi.

Sentì le sue mani sui miei polsi fare una leggera pressione per togliermi le mani dal viso e, dopo avermi liberata dalla mia presa, mi strinse, inaspettatamente, contro il suo petto, portandomi le braccia intorno alle spalle e lasciando le mie di braccia, inerti, intorno al suo collo.

Per un attimo non compresi. Lui non era quello che non voleva che la gente lo abbracciasse? Ci avevo provato una volta e mi aveva spinta via. Ora era addirittura lui ad abbracciare me e mi sentii sicura e protetta.

Piansi sulla sua spalla nascondendo il viso contro il suo collo. Piangevo per lo stress accumulato in quei giorni, per la solitudine, per la tristezza, per aver tradito le aspettative, per non essere stata all’altezza. Per non avere futuro.

Quando riuscii finalmente a calmarmi un po’ e solo i singhiozzi mi scuotevano di tanto in tanto, calmata dalle carezze che ricevevo alla schiena e tra i capelli, mi dissi che ormai era inutile piangere e che quello che potevo fare era riscattare me stessa in un altro modo.

Rimasi stretta a lui in silenzio, passandogli una mano sul collo accarezzandoglielo piano fino alla nuca. Se proprio non l’avessi più rivisto tanto valeva godersi il momento.

- Sai qual è il secondo motivo per cui l’ho fatto?- domandai piano sospirando contro il suo collo.

- Quale?- chiese allontanandosi un po’ e passandomi entrambe le mani sul viso per asciugarlo dalle lacrime.

- A me piace viaggiare, mi piace vedere il mondo da turista, mi piace svegliarmi la mattina in un albergo, possibilmente non da sola.- mormorai distogliendo lo sguardo dai suoi occhi chiari e indagatori.

- A Londra io non sto in albergo.- mi rispose lui ridacchiando divertito. – però volendo possiamo rimediare.- continuò.

- Londra?- chiesi io aggrottando la fronte.

Lui mi guardò e non rispose subito. Mi stava studiando come se si chiedesse quanto stessi scherzando e quanto di vero ci fosse nelle mie parole.

- Vuoi venire con me a Londra questa volta?- domandò lui tornando serio dopo un attimo di esitazione.

- Con te a Londra?- ripetei io di nuovo per renderlo reale.

La prima volta che mi aveva fatto quest’offerta era stato il giorno del mio esame di maturità. Avevo rifiutato ma non avevo pensato ad altro tutto il tempo. Adesso che avevo la possibilità di dire si e tutte le buone ragioni per farlo mi sentivo in debito di ossigeno.

- Non deve cambiare niente se non vuoi Lorie. Siamo amici. Ho un numero infinito di stanze per gli ospiti.- mi avvisò concitato mordendosi piano il labbro.

Lo stavo facendo anche io. Mi mordicchiavo il labbro interno per non fare gesti avventati. E soprattutto per rimanere in silenzio.

- Cosa dovrebbe cambiare?- domandai io. Era il momento di confermare quello che avevo sempre pensato io o di distruggere i miei sogni adolescenziali una volta per sempre.

Doveva finirla di fare l’enigmista. L’avrei finita anche io se fosse stato sincero con me per una volta.

- Potresti accettare la proposta che ti ho fatto al mio compleanno…- costatò lui in imbarazzo.

Era adorabile imbarazzato. Gli accarezzai involontariamente il collo stringendogli le braccia dietro la nuca.

- E poi? Che ci faccio io a Londra?- in realtà era solo per tirarmela altri cinque minuti. Solo per avere il piacere di dire che ero stata io a scegliere questa volta. Che era stato lui a volere me.

- Studi. Quello che vuoi. Di certo non avremo problemi di soldi. E se non vuoi che si sappia in giro non si saprà. Sarò discreto te lo giuro.- mi rispose prendendomi per i fianchi in un momento di entusiasmo e sollevandomi leggermente per portare il mio viso all’altezza del suo.

- Non voglio una relazione aperta. Io non ci credo proprio nelle relazioni aperte.- lo informai seriamente. – non devi essere discreto, voglio che sia come a casa.- mormorai mettendo il muso.

Lui si avvicinò a me con il suo meraviglioso sorriso sulle labbra. Quello da film che ti scalda il cuore. Quello che cinque mesi prima potevo solo sognarmi la notte o cercare nelle interviste su internet. Adesso era tutto per me, lì.

- È un sì?- domandò lui ad un passo dalle mie labbra.

Sapeva ancora di menta? Probabilmente no. probabilmente non sapeva più nemmeno di cioccolato. Un leggero odore di nicotina continuava ad avvolgerlo. Però c’era anche il buon odore della sua pelle, del dopobarba, del profumo. Anche il piccolo neo che aveva sul collo e che adesso stavo sfiorando con la punta delle dita. Sorrisi tra me. Era un misto micidiale di tutto ciò che amavo.

- Hai capito che sei tu una delle ragioni per cui ho mandato a puttane il mio futuro?- domandai senza smettere di esaminarlo.

Un attimo dopo le mie labbra era troppo impegnate per parlare.

Non sapeva più di menta e cioccolato. E neanche di nicotina e caffè. Sapeva di speranza.

 

Il 31 Luglio dell’anno 2012 doveva essere il giorno dei test finali per l’accademia. Doveva essere il giorno in cui scrivevo il mio futuro. E lo fu davvero. Quel giorno gettai le basi per quella che sarebbe stata la mia vita. Stretta tra le braccia dell’uomo che amavo, con uno splendido ed incerto avvenire che sembrava sorridermi come mai prima d’allora. con un grande segreto che non sapevo come rivelare a mia madre. Il 31 Luglio sarebbe stata una data davvero difficile da dimenticare.

Nel giro di qualche anno mi sarei resa conto dell’enormità di quella data.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1412693