In Piedi a Petto Gonfio

di Vioccia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cap. 1 ***
Capitolo 2: *** Cap. 2 ***



Capitolo 1
*** Cap. 1 ***


1997
Elisa trasse con forza l’aria dentro al petto e la buttò fuori ad occhi chiusi. La stanza profumava ancora di pandoro. Strofinò per qualche secondo le mani sulla graziosa gonna di velluto che le aveva cucito la nonna, e che sua madre era stata tanto felice e commossa di vederle addosso. Si sentiva un po’ emozionata.
«E ricorda, scandisci bene le parole. Pronuncia alla perfezione ogni singola lettera, con lo stesso tono. Tutti devono sentire quello che dici, perché non avrai possibilità di ripeterlo». Adesso guardava attenta gli occhi di nonno Libero luccicare mentre si prodigava in quel discorso. Dalla modestia dei suoi sei anni probabilmente non avrebbe saputo comprendere il fatto, ma quel bagliore aveva qualcosa di magico, che la attraeva a sé e le faceva desiderare intensamente di sfoggiarlo allo stesso modo. «Hai capito, tesoro? Sì? Questo non lo dovrai scordare mai. Nemmeno quando sarai più grande. Soprattutto quando sarai più grande. Ogni volta che vuoi parlare, fatti sentire. Forte e chiaro». La bambina annuì sorridendo e abbracciò quel signorotto alto e canuto. Sentì il calore della sua pelle mentre gli dava un bacio sulla guancia increspata dalle rughe. Che, nell’idea di Elisa, erano ovviamente proporzionali ad una somma saggezza.
Incoraggiata dal nonno, la bambina si posizionò davanti alla ventina di sedie occupate dai suoi parenti. Li guardò un attimo. Mamma e papà stavano sulla destra, in prima fila, e si tenevano per mano. Tutti e quattro i nonni erano subito in seconda fila, a guardarla radiosi. E poi zii, zie, cugini, prozii, prozie, procugini. Gente che neanche aveva mai visto. Ma che importava? Nonno Libero aveva detto che lei era una professionista. «Una talentuosa, bella, intelligente e simpatica professionista», e se l’aveva detto lui, doveva essere vero. Elisa non poteva sapere che questo in futuro l’avrebbe resa insopportabilmente vanitosa. Ma in fondo, l’unica colpa di Libero era volerle troppo bene, e lei … lei era una bambina, e i bambini non hanno bisogno di preoccuparsi di niente.
Così, quando tutti fecero silenzio, quello scricciolo, gonfiato il petto di sicurezza e autostima, cominciò a declamare a gran voce: «In Italia per 300 anni sotto i Borgia ci sono stati guerra, terrore, criminalità, spargimenti di sangue. Ma hanno prodotto Michelangelo, Leonardo, il Rinascimento. In Svizzera vivevano in amore fraterno, hanno avuto 500 anni di pace e di democrazia. E cosa hanno prodotto? L'orologio a cucù...». Tutti gli spettatori si prodigarono in una risata squillante. Elisa continuò fiera: «Cosa disse Ulisse prima di accecare Polifemo? “Occhio a non sbagliare, ragazzi!”». Di nuovo l’ilarità riempì la stanza, e la bambina notò la prozia Alberta spiegare al prozio Ludovico, nonostante fosse fieramente provvisto della licenza media, chi diavolo fosse Polifemo. Dopo la distrazione di un attimo, Elisa riprese: «Cesare al Rubicone: “Centurioni! Il DADO è tratto! Avanti, miei BRODI!”». Il tripudio. In realtà, c’erano stati diversi applausi, qualche colpo di tosse dello zio Ludovico, che non aveva capito nemmeno questa volta, ma si vergognava di chiedere ulteriori spiegazioni, e il russare di nonno Beppe, colto dalla narcolessia. Tuttavia, si sa che quando si è piccoli le proporzioni sono leggermente sfasate: ad Elisa sembrò vedere un’infinita platea stagliarsi ai piedi di uno sfarzoso palcoscenico, milioni di miliardi di milioni di miliardi di spettatori pazzi di lei. Si mise a ridere felice. In quel momento lo sentì: il bagliore di nonno Libero le bruciò le pupille e sentì il cuore scavarle prepotentemente il petto.

2011
Il calendario appeso storto al muro, il pianoforte impolverato, il quadro di un pittore sconosciuto, un mucchio di vestiti. Il calendario appeso storto al muro, il pianoforte impolverato, il quadro di un pittore sconosciuto, un mucchio di vestiti. Il calendario appeso storto al … insomma, stava girando in tondo. Non riusciva a stare ferma, appena si bloccava sentiva le gambe pulsare, e percepiva il bisogno fisico di ricominciare a muoversi. «Elisa, piantala, mi stai mettendo ansia». L’attesa in camerino era sempre la parte peggiore. E se si fosse dimenticata le battute? Se fosse inciampata salendo sul palco? Se si fosse incartata mentre parlava? Lanciò un’occhiata a Beatrice. «Giuro che se non la pianti ti rompo le gambe». Allora Elisa si sedette con pesantezza su una rumorosa sedia di legno. Sbuffò. Non riusciva a stare calma come lei. Non in momenti come quello.
Pochi istanti più tardi, era ora di salire. Ora di andare in scena. Il momento della verità. Beatrice andò per prima, nonostante dovesse entrare dopo Elisa. Quest’ultima chiuse con delicatezza la porta e si avvicinò alla quinta,  lasciandosi alle spalle l’altra ragazza. Chiuse gli occhi nella semioscurità, inspirò forte ed espirò lentamente. Guardò sotto ai suoi piedi il legno del palco vibrare alle battute e ai movimenti degli attori già in scena. Come se anche lui si divertisse e si appassionasse, ogni volta come fosse la prima. Beatrice le mise le mani sulle spalle, scrollandole un poco. Elisa la guardò e le sorrise. La tensione se n’era andata del tutto.
Era il momento: avanzò sotto i riflettori. Sentì il calore della luce artificiale sul viso. Cominciò a parlare e ad autocorreggersi mentalmente. Alza la voce. Tieni ferme le mani. Scandisci. Hai sputato, pazienza, i bravi attori sputano sempre. Ti sta tremando una gamba, calmati. Ho detto calmati e blocca quella gamba porca di quella … Applausi. Appena uscita dalla scena sorrise e sospirò. Rimase appostata nel buio per gli ingressi seguenti. Un ragazzo in attesa dietro la quinta a fianco le diede un colpetto al braccio e sussurrò: «Sei stata bravissima, ti brillano gli occhi quando reciti».

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Capitolo 2
*** Cap. 2 ***


La biblioteca era il luogo più inconcludente dell’universo. Anche per questo Elisa e Beatrice, intente a preparare gli esami estivi, non lasciavano passare una mattina senza andare lì a “studiare”. Quella mattina in particolare, Elisa non riusciva a non pensare ai brividi della sera precedente, alle risate e agli applausi. Leggeva le stesse frasi per svariati minuti, senza capirne il significato. Sottolineava a matita quelle con parole in grassetto, senza assimilare assolutamente nulla. «Odio questa materia». Beatrice alzò la testa dai libri, con sguardo interrogativo. Lei era sempre a suo agio, ovunque la mettessi. Doveva studiare? Studiava anche per delle ore. Doveva vedere un film? Non aveva fatto una piega nemmeno con la versione integrale di “Via col vento”. Aveva sonno? Una volta si era addormentata in piedi, appoggiata ad un albero. «Che materia è?». Elisa guardò per un secondo il libro, sconsolata. «Glottologia». «Che?!», Beatrice aveva esclamato con così tanto fervore da attirare gli sguardi del resto della saletta. Insomma, di quelli che a studiare ci stavano provando sul serio. Nell’istante seguente, la pancia di Elisa brontolò di fame così rumorosamente da far girare tutte le teste un’altra volta, stupite. Le due disgraziate risero. «Pausa?»
Appena uscite dalla biblioteca Beatrice disse: «Ti amo quando usi quella parola». Elisa sorrise e porse il volto al sole estivo, che quel giorno era a dir poco soffocante. Si sedettero al bar di fronte, due caffè macchiati e due brioche, come al solito. In silenzio, bevendo e mangiando, osservarono passare per la via gli elementi peggiori che Ravenna potesse offrire loro. Dolci vecchietti dalle movenze estremamente lente, signore di mezza età insaccate in vestiti decisamente troppo aderenti, bande di maschiacci preadolescenti urlanti e bestemmianti, ragazzine costrette in abiti, come dire, da donne di facili costumi.
«Ma le mutande ce le hanno almeno?», chiese Elisa ridendo. Beatrice sorrise rimproverandola: «Non fare la ravennate pettegola». Elisa alzò le sopracciglia: «Ma io sono una ravennate pettegola!»
«Che fai oggi?». Fece scorrere il dito sulla tazzina. «Pensavo che se voglio continuare a mangiare come una vacca senza ingrassare, devo iniziare a fare un po’ di tapis-roulant. Tra l’altro, è un po’ la metafora della mia vita: corro come una scema e resto sempre nello stesso punto ».
Naturalmente, Elisa era già consapevole del fatto che il suo rapporto con l’attività fisica, quel giorno e molti altri a venire, sarebbe rimasto mentale. Si era buttata sulla frase ad effetto solo per irritare Beatrice, che le tirò addosso due bustine di zucchero. «Idiota».
La mattinata proseguì in questo modo: tornarono in biblioteca, si sedettero, lasciarono passare indicativamente 17 minuti di “studio”, si alzarono, decisero di passare la giornata seguente al mare, e se ne andarono nelle rispettive case.

Elisa sentì l’aria della mattina, frizzante, prima che il sole si alzasse. Non aveva ancora aperto le palpebre al mondo, si limitava a girarsi e rigirarsi sul materasso, caldo della sua presenza. Quando constatò definitivamente che non sarebbe riuscita a riaddormentarsi, sollevò le spalle e guardò la sveglia: mancavano due ore prima che Beatrice passasse a prenderla. Sbuffò, consapevole che la carenza di sonno sarebbe tornata a farsi sentire in giornata. Si mise a sedere sul bordo del materasso. Sgranchì il collo, si prese la testa fra le mani e restò qualche secondo a fissare le curiose fantasie del tappeto. Da piccola riusciva a vederci le più disparate scene: mostri dalle fauci spalancate, fiori di forme improbabili, calderoni fumanti di sostanze misteriose. Ora vedeva solo un mucchio di ghirigori, comprati al mercato da sua madre e liberati dalla polvere che li impregnava circa una volta ogni mese e mezzo. Che tristezza sentirsi vecchi a vent’anni.
Uscì dalla camera e controllò se i suoi genitori fossero già al lavoro. Non un rumore uscì dalle stanze. Elisa si preparò una tazzina di caffè e recuperò dal doppio fondo del suo cassetto un pacchetto di sigarette accuratamente nascosto. Si piazzò in terrazza, seduta sulla sedia di vimini che suo nonno adorava, con i piedi prepotentemente poggiati sul tavolo. Bevve il caffè in un solo sorso, notando che riusciva finalmente a non contrarre il viso in una smorfia a causa della mancanza di zucchero. Da qualche mese, era l’unico accorgimento che aveva preso ai fini di iniziare una dieta. Accese la sigaretta assaporando il fumo, guardandolo uscire dalle sue narici ed insinuarsi nell’aria aperta della mattina, scomparendo. Diede altre due boccate, poi prese in mano la sigaretta e la osservò, mentre il fuoco sottile e luminoso bruciava la carta e il tabacco. Sotto alla terrazza, sulla strada, un ragazzino stava in piedi, fissandola insistentemente dal basso. Il primo pensiero di Elisa fu il rischio che fosse del quartiere, e che in qualche modo la voce del suo vizio si spargesse fino ai suoi genitori. Tuttavia, non l’aveva mai visto in giro. Era piuttosto esile, e magro. Non molto alto, probabilmente di appena una decina d’anni. Aveva i capelli a spazzola, biondi e brillanti, e mentre la fissava non mostrava una vera e propria espressione sul volto. Non sorrideva, e non era imbronciato. Sembrava quasi ipnotizzato, incantato a guardare la ragazza, allo stesso modo in cui la ragazza poco prima si era fatta catturare dalla sigaretta, che lentamente si consumava fra le sue dita. In quel momento il citofono squillò, rompendo violentemente quell’afoso incantesimo. Era Beatrice, in pauroso anticipo. «Io vorrei farmi una doccia» la avvertì Elisa. «Prima di andare al mare? Non ha molto senso…» replicò Beatrice, che subito dopo la guardò dall’alto in basso, inspirando rumorosamente. «In effetti puzzi un po’ di fumo». Elisa allargò le braccia, avviandosi al bagno. «Aspetta Eli,» Beatrice la fermò, «lasciami almeno le sigarette!» Elisa sorrise, scuotendo la testa. Uscì di nuovo in terrazza, indicò il pacchetto all’amica e le intimò di rimanere a fumare lì fuori, se non voleva essere vittima della sua furia omicida. Poi, prima di rientrare, diede un’occhiata alla strada. Il ragazzino era scomparso.
Probabilmente era questo che le impediva, con sua estrema felicità, di iniziare a fumare costantemente: non riusciva a sopportare di puzzare. La puzza di fumo la percepiva diversamente da qualsiasi altro cattivo odore. Era più pesante, malaticcia. Le faceva pensare allo smog, all’inquinamento, al tumore. Mentre si faceva la doccia, chiuse un attimo gli occhi, sentendo l’acqua scorrerle sul corpo. Pensò a chi potesse essere quel ragazzetto, se fosse figlio di nuovi vicini, se stesse gironzolando da solo lontano da casa, esposto ai pericoli della strada. Si riscosse immediatamente, passandosi entrambe le mani lungo il capo, fino al collo, scoperto dai capelli corti. Doveva andare al mare, non aveva voglia di pensare a quanti pedofili potessero esserci a Ravenna.

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