Honey and Potatoes

di Iceberg
(/viewuser.php?uid=285594)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3 ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.

Din, don, dan. Le campane suonano a lutto.
Din, don, dan. Suonano ancora. 
Din, don, dan. E ancora.
Ed io sono sola, in mezzo ad una strada buia. È notte, ma non ci sono stelle. Mi giro intorno, ma non trovo nemmeno la luna. Eppure, intorno a me, riesco a distinguere delle case scure, trasandate e apparentemente vuote. Il cuore inizia a martellarmi in petto. Seguo il rintoccare delle campane. Sento di dover raggiungere il posto da dove proviene questo suono. Ma mi perdo più volte. Giro a vuoto, non riesco a trovare la strada giusta. 
Din, don, dan
Corro più veloce che posso. Inizia a salirmi l’ansia. Il cuore aumenta i battiti fino a togliermi il respiro. C‘è silenzio, sento solo il rumore dei miei passi. I miei piedi che, pesanti, battono sul terreno secco. Devo trovare la chiesa. Corro ancora. La tensione cresce. Ho un brutto presentimento. Corro, ma inciampo e casco faccia a terra. Sento il suolo freddo contro la mia guancia sinistra.
Din, don, dan.
Intanto le campane continuano a suonare. Senza rendermene conto, delle lacrime iniziano a scendermi lungo il viso. Sono calde. Bruciano contro la mia pelle. Lentamente, mi lascio andare. Inizio a piangere e i singhiozzi mi assalgono. 
Din, don, dan.
Vorrei restare qui per sempre. Vorrei morire così. Le lacrime continuano a scendermi lungo il viso. Sono sola. In mezzo al nulla. 
 
Non so per quanto tempo resti così: minuti, ore, o magari giorni. Fatto sta, che quando rinvengo, sono sempre allo stesso posto. Apro gli occhi e vedo ancora buio. Il suolo sotto di me si è riscaldato. Le campane hanno smesso di suonare. Provo ad alzarmi, ma vengo colta da un giramento di testa. Quando finalmente riesco a stare seduta, inizio a battere i denti. Ho freddo, ma non so come fare per coprirmi. Mi rendo conto di indossare solo un vestito corto e senza spalline nero e un paio di scarpe con tacchi alti nere. Penso di dover entrare in una di quelle case che mi circondano, per cercare uno scialle o qualcosa di simile per coprirmi, ma escludo subito l’idea: non solo sarà buio e probabilmente le porte saranno tutte chiuse, ma poi non saprei cosa aspettarmi. E se ci fosse qualcuno lì dentro, pronto ad aggredirmi? No, decido di lasciar stare. Con fatica, mi tolgo le scarpe e cerco di alzarmi in piedi, ma sento una fitta alla caviglia destra e casco nuovamente a terra. Credo di essermela slogata. Inizio di nuovo a piangere, in preda all’ansia, non sapendo cosa fare. Cerco di ragionare, ma l’unica cosa alla quale riesco a pensare è “non vorrei essere qui”. Mi costringo a chiudere gli occhi per un secondo, cercando di mettere in ordine le idee, ma vengo colta alla sprovvista dal suono delle campane. 
Din, don, dan. Ricominciano a suonare a lutto. 
Riapro istintivamente gli occhi e mi accorgo che lo scenario è cambiato: di fronte a me, a pochi metri di distanza, c’è un edificio illuminato. E’ una chiesa. Anzi, è la chiesa. Come ho fatto a non vederla prima? Intravedo un barlume di speranza e inizio a strisciare per arrivare all’entrata. Striscio. Sono così lenta! Mentre mi muovo, altre calde lacrime iniziano a rigarmi il viso, veloci, appannandomi la vista. Ma non ho tempo da perdere.
Din, don, dan
Questo suono mi mette un’angoscia! Sono quasi arrivata. Striscio ancora, sempre più veloce. Ho il respiro affannato. Vorrei correre, ma la mia caviglia si oppone. Tra un gemito di dolore e l’altro, riesco ad arrivare all’entrata.
Din, don, dan.
Ora il suono è più vicino, più forte. Ma ciò non mi conforta. Mi aggrappo ad una colonna, mi faccio forza e mi alzo in piedi. Soffoco un urlo di dolore mordendomi una mano. Resto aggrappata alla colonna, mentre sento la caviglia pulsare. Alzo il viso e vedo di fronte a me, l’interno della chiesa. Ci sono tante candele che la illuminano e la riscaldano. Distinguo gente vestita di nero, che mi da le spalle, seduta su panche di legno scuro. Immobili. C’è totale silenzio. Si potrebbe sentir cadere uno spillo. 
Din, don, dan.
È un funerale: ecco spiegato il mio abbigliamento. Mi guardo intorno, nervosa. È allora che la noto. Proprio di fronte a tutti, vicino l’altare, c’è una bara aperta. Di legno chiaro. Il cuore ricomincia a battere all’impazzata, mentre, con fatica, mi muovo per raggiungerla. Ad ogni passo gemo e rischio di ricadere. Non mi importa del dolore, sento che lì dentro c’è qualcosa di vitale importanza per me. Passo attraverso la navata principale. Non mi importa niente nemmeno della gente che potrebbe notarmi, giudicarmi, bisbigliare, o addirittura prendermi per pazza. E forse è quello che sono: pazza. Dopo quella che mi sembra un’eternità, riesco ad arrivare alla bara. Mi appoggio ad essa per riprendere fiato, poi do’ un’occhiata all’interno. Rimango shockata. Dentro di essa, c’è un corpo identico al mio. Un viso identico al mio. Una persona identica a me adagiata su un telo bianco. Non può essere. Il mio cuore perde un battito. Scossa, tento di allontanarmi. Faccio un passo indietro, ma il dolore alla caviglia mi coglie ancora alla sprovvista. Così, cado di nuovo. Evito di rialzarmi, non ne avrei la forza, e inizio a strisciare all‘indietro. Improvvisamente, voglio andarmene. Non so dove, ma voglio andare via. Mi volto verso la gente seduta. Hanno tutti qualcosa che copre loro il viso. Un momento: nessuno si è mosso da quando sono entrata. Sono rimasti tutti immobili. Con il cuore in gola, mi avvicino alla prima panca che mi capita a tiro e, sempre con grande sforzo, mi tiro su. Mi trovo di fronte ad una signora con la testa china e un grande cappello nero che le copre il viso. Avvicino lentamente una mia mano tremante a lei, mentre con l’altra mi tengo alla panca, ma lei non si muove. Allora, con uno scatto repentino, le strappo il cappello dalla testa. Sbarro gli occhi di fronte allo spettacolo che mi si para davanti: è un manichino. Ha gli occhi dipinti fissi di fronte a sé, verso il vuoto. Mi guardo intorno. Mio Dio, sono tutti manichini. Tutti. Resto immobile per qualche attimo, il tempo necessario per realizzare. Poi, urlo.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Capitolo 1
 
Il mio urlo squarcia l’aria. Ma quando riapro gli occhi, non sono nella chiesa, sono in un posto più familiare: sono nella mia stanza. Nel mio letto. Quando mi rendo conto che è stato tutto un incubo e smetto di urlare, mi sento mancare il fiato. Ci metto qualche minuto a calmarmi. A calmare l’affanno e ad asciugarmi gli occhi e un po’ del sudore che mi imperla la fronte. Sono sudata ma ho freddo. Dopo essermi ripresa, mi ricordo che, qui e adesso, non ci sarà nessuno a dirmi che va tutto bene, che è stato solo un brutto sogno. Mi accuccio perciò tra le coperte e me le stringo forte contro il corpo. È un’abitudine che ho preso da piccola, da quando papà è morto. Chiudo di nuovo gli occhi, ma non riesco a riaddormentarmi. Mi ritrovo davanti quella ragazza così simile a me e tutti quei manichini. Ma ho paura anche di riaprire gli occhi, perché temo di trovarmeli veramente davanti. Una paura stupida, ma che nel buio totale può sembrare terribile. Cerco di pensare ad altro, tento di tenermi la mente impegnata per evitare che quelle immagini mi appaiano di nuovo davanti, ma non ci riesco molto bene. Non so precisamente quando, o meglio, quanti pensieri sconnessi dopo, riesco ad addormentarmi di nuovo.
 
In uno stato di semicoscienza, sento la sveglia suonare. All’inizio ci faccio poco caso, ma poi mi sveglio abbastanza da riuscire ad associare il suono all’oggetto. Muovo lentamente il braccio in modo quasi meccanico e sbatto la mano sulla sveglia sul comodino, che smette immediatamente di darmi fastidio. Mi sento tanto stanca da non riuscire ad aprire nemmeno gli occhi, perciò mi concedo qualche altro minuto di riposo. Evidentemente, però, calcolo male i tempi, perché quando finalmente mi decido ad alzarmi, sono le nove e mezza. -Merda!- borbotto ancora mezza assonnata. Mi strofino gli occhi e, senza nemmeno fare colazione, mi vesto velocemente ed esco di casa. Arrivo a lavoro alle 10 meno 10 e, fuori l’ufficio, trovo il mio capo che, vedendomi arrivare, mi viene incontro. E’ un uomo di mezza età, basso, con la fronte larga e rugosa e i capelli brizzolati. Di certo, non è uno di quei supermodelli alti, biondi e con gli occhi azzurri.
-Dove diamine eri finita? Dovevi essere qui come minimo due ore fa! Tra…- si ferma per guardare l’orologio che ha al polso e poi torna a guardarmi -…tra 10 minuti hai una riunione! Su, su, sbrigati o farai tardi!- mi urla contro. 
Sempre il solito gentiluomo. Dio, quanto può essere irritante! Poi si gira e corre verso un’altra dipendente che, vedendolo arrivare, alza gli occhi al cielo. Sorrido, compatendola. Ma non ho tempo da perdere, perciò corro in ufficio a posare le mie cose, nel corridoio tra il mio ufficio e la sala riunioni prendo un caffè al primo distributore che mi capita a tiro e lo bevo tutto d’un sorso, senza nemmeno zuccherarlo. Butto il bicchierino nel cestino appena fuori la porta della sala riunioni, mi ricompongo ed entro.
 
Quando, due ore e mezza dopo, esco da quella stessa porta, sono sfinita. Ho solo voglia di andare a casa. Di andare a dormire. Ma questo pensiero mi ricorda il sogno che ho fatto stanotte e cambio idea. Decido che è inutile che mi prenda un giorno di riposo per nulla. Mentre ci penso, alle mie spalle sento di nuovo la voce del mio capo.
-Signorina Key! Signorina Key, si fermi!-
Mi blocco, alzo gli occhi al cielo e faccio un respiro profondo. Poi, mi volto, accennando un sorriso. 
-Buongiorno, signor Wein.-
-Signorina Key, non succeda mai più che arrivi tardi a lavoro e senza avvisare, per giunta. Mai più, intesi? O si gioca il posto- mi punta l’indice contro. Fisso quel dito con una voglia matta di strapparglielo a morsi, ma poi sposto nuovamente lo sguardo sul suo viso.
-Certamente, mi scusi.-
Mi volto, faccio una smorfia, e riprendo la mia strada. 
Che insolente! È la prima volta che arrivo tardi senza avvisare in un anno e mezzo, a differenza di quella sua assistente, e si permette anche di farmi la partaccia! Stringo i pugni e, a passo deciso, mi dirigo alla mensa. Quando, però, passo davanti l’ascensore, non mi accorgo che qualcuno sta uscendo da lì e lo investo. 
Mi volto e borbotto uno -scusi- . Sto per riprendere la mia strada, quando realizzo che di fronte a me c’è un ragazzo che mi fissa e che ha decine di fogli sparsi ai piedi. Incrocio per un solo momento i suoi occhi, ma basta per imbarazzarmi.
-Oddio, scusi…- ripeto con più convinzione e mi abbasso per raccogliere i fogli. Sento le guance accaldarsi. Lui non si muove e, quando mi rialzo, lo trovo nella stessa posizione. Gli porgo i fogli e lo guardo, per capire che gli prende. Ha dei bellissimi occhi verde chiaro, dei capelli biondo cenere che gli ricadono sulla fronte in modo disordinato e una spruzzata di lentiggini sulle guance. È più alto di me di cinque centimetri, più o meno, anche se, dal viso, sembra più piccolo di età e mi fissa.  Non l‘ho mai visto in giro. Probabilmente è uno nuovo. 
-Mi dispiace, io…non volevo…scusi…- abbasso la testa, imbarazzata.
Lui mi strappa i fogli di mano e mi sussurra tra i denti: -La prossima volta stia più attenta.- Mi si gela il sangue nelle vene. Gelo. Ecco cosa sento. Rialzo la testa, ma lui non c’è più. Stringo i denti e riprendo la mia strada. Perfetto. Lacrime di rabbia mi appannano la vista. Magnifico, non potevo chiedere di meglio per iniziare la settimana. Entro in mensa, ma mi è passata la fame. Prendo solo una mela rossa dal cesto della frutta, mi siedo ad un tavolo vuoto e inizio a mordicchiarla. Fisso il grande orologio sulla parete di fronte a me. È l’una. Non stacco lo sguardo da lì. Il muoversi della lancetta dei secondi mi rilassa. Uno, due, tre. Uno, due, tre. 
-Jillian-
Uno, due, tre. 
-Jillian..-
Uno, due, tre.
-JILLIAN!-
Abbasso lo sguardo annoiata e mi trovo davanti Ian, un collega. O meglio, il collega. È l’unico che mi rispetti davvero qui dentro.
-T-tutto bene?- mi fissa scandalizzato.
-Certo- rispondo fredda.
Continua a guardarmi come se fossi una pazza appena uscita da un manicomio. Per qualche assurda ragione, la sua faccia mi diverte, ma non riesco a far arrivare l’emozione alle mie labbra, che restano fisse in una posa annoiata.
-Posso?- mi chiede, poggiando il suo vassoio sul tavolo di fronte a me.
Faccio spallucce e ritorno a fissare la lancetta.
Uno, due, tre. Uno, due, tre.
Si schiarisce la voce. -Sicura di stare bene?-
Sbuffo.
-Si, certo, non è nulla di importante- dico a voce bassa.
Uno, due, tre. Uno, due, tre.
Non si decide a distogliere lo sguardo da me: mi fissa insistentemente. 
Uno, due, tre.
Non è stato difficile, immagino, capire che ci fosse qualcosa che non andasse in me. Soprattutto per lui, che mi conosce come le sue tasche. Forse ha capito anche cosa.
-Allora, come è andata la riunione?-
Uno, due, tre.
Ingoio un pezzo di mela. -Beh, alla grande.- rispondo senza distogliere lo sguardo dall’enorme orologio. Non sono mai stata brava a mentire, ma sinceramente ora non mi importa. Resta in silenzio e con la coda dell’occhio noto che continua a fissarmi senza decidersi nemmeno ad iniziare a mangiare.
Abbasso lo sguardo e fisso i miei occhi nei suoi. Sono di un azzurro chiaro e il suo occhio destro ha, vicino la pupilla, una piccola ma per niente insignificante macchiolina marrone. Non parlo, ma nel mio silenzio c’è la mia muta richiesta d’aiuto. Continuo a fissarlo fino a che altre lacrime mi appannano la vista. Ma queste non scenderanno per le mie guance, no. Non glielo permetterò. Abbasso la testa, sussurro uno -scusa-, prendo il mio vassoio e, quasi correndo, vado a svuotarlo nell’apposito cesto. Mi sento le gambe molli. Poi, esco dalla mensa. 
Nel corridoio, incontro il signor Wein. Mi guarda di sottecchi, ma decido di non farci caso. Arrivata in ufficio, mi chiudo la porta alle spalle, sospiro e mi metto subito al lavoro. 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Capitolo 2
 
Quando rialzo lo sguardo da tutte quelle carte che mi ingombrano la scrivania, sono già le tre e mezza. Sono distrutta. Mi massaggio le tempie tentando di alleviarmi il mal di testa, senza riuscirci. Allora mi alzo e decido che è ora di tornare a casa. Raccolgo le mie cose ed esco dall’ufficio. Appena fuori la porta, incontro di nuovo il mio capo. Non mi lascia un attimo di tregua, oggi: ovunque mi giri, c’è sempre lui pronto a rimproverarmi per ogni mio piccolo fallo.
-Signorina, dove crede di andare? Il suo turno..- inizia lui, ma non ho né la voglia né la forza di ascoltarlo in questo momento: lo evito ed esco sulla strada. Ho i nervi a pezzi sul serio. Sento la testa che pulsa e non riesco a ragionare, così mi accascio sul marciapiede con la testa tra le gambe, sperando che il malore svanisca; ciò non accade e decido di andare di filato a casa. Faccio per rialzarmi, quando, di fronte a me, trovo Ian. Ricasco sul marciapiede per la sorpresa, mentre abbasso lo sguardo imbarazzata. 
-Jillian..-sussurra.
Non ho la forza di rispondere. Mi porge la mano e mi aiuta a rialzarmi. 
-…vieni, ti riaccompagno a casa- continua guidandomi verso la sua auto. 
Non proferisco parola per tutto il viaggio verso casa: mi appoggio al sedile e chiudo gli occhi. Ian ha il buon senso di non accendere la radio. 
Dopo nemmeno cinque minuti, sento la macchina che si ferma. Non ho voglia di uscire dall’abitacolo caldo, ma non ho scelta. Riapro gli occhi e noto che, anche se ha il viso rivolto alla strada, Ian mi squadra di sottecchi. Ha le mani fisse sul volante, come in attesa di ripartire. Sto per aprire la portiera, quando mi blocco e mi giro verso di lui. 
Non so come dirglielo, ma veramente vorrei che restasse con me per oggi. Mi mordo il labbro arrossendo, cercando le parole giuste da usare, senza trovarle. Rassegnata, mi rigiro verso la portiera, quando è lui a parlare.
-Che ne diresti se mi offrissi un caffè? Se non ti va, posso andare..-
Mi rigiro verso di lui quasi sorridendo e mi accorgo che ha allentato la presa sullo sterzo ed è in procinto di spegnere il motore dell’auto. Annuisco e scendo dalla macchina, felice del fatto che riesca sempre a capirmi al volo. Recupero le chiavi sotto lo zerbino e apro la porta. Per prima cosa, poso il giubbino sull’appendiabiti e mi dirigo in bagno, verso il mobiletto dei medicinali. Prendo una compressa e spero che il mal di testa passi presto. Vado velocemente in cucina e dopo aver fatto cadere più caffè di quanto ne abbia messo nella macchina apposita, riesco a mettere il tutto sul fuoco. Il tempo di prendere due tazzine e di versarci un po’ di zucchero all’interno che il caffè è già pronto. Torno in salotto, dove trovo Ian seduto sul divano e gli porgo la sua tazzina. Bevo tutto d’un sorso e, dopo aver recuperato l’unica coperta presente in casa, mi accoccolo vicino lui. 
-Grazie- sussurro. 
Chiudo gli occhi per un po’ e quando li riapro il mal di testa è passato. Mi giro verso Ian e mi accorgo che si è addormentato. Mi alzo lentamente, cercando di non fare rumore, prendo le tazzine di caffè vuote dal tavolino di fronte il divano e vado a controllare l’orario all‘orologio a muro in cucina: sono quasi le sei del pomeriggio. Anche se è molto presto, decido di iniziare a pensare cosa cucinare, per poter fare qualcosa di carino per Ian e, lo ammetto, per non pensare troppo ai disastri che ho combinato stamattina. Mi lego i capelli, prendo il mio unico libro di ricette e inizio a sfogliarlo. Purtroppo, mi accorgo che in casa non ho molto con cui arrangiarmi, così decido che forse sia meglio ordinare una pizza. Proprio mentre sto posando il libro di ricette sulla libreria vicino la finestra, sento una voce dietro di me: -Rinunci di già?-
Sobbalzo, facendo cadere il libro a terra con un gran tonfo. Arrossisco violentemente mentre mi chino per riprenderlo. -Io…ehm…- Lo sento avvicinarsi. 
-Peccato…- sussurra. Avvampo, mentre vengo preceduta da Ian che, più veloce di me, prende il libro e lo ripone nello scaffale sbagliato; però, a dir la verità, in questo momento faccio più caso al suo viso, che è a pochi centimetri dal mio, che al libro. Sento il mio cuore perdere un battito e poi accelerare il suo ritmo, mentre abbasso la testa, arrossisco e mi allontano un po’. 
-Mmh…- Guarda l’orologio a muro di fronte a sé, mentre io rialzo lo sguardo su di lui confusa.  -Che ne dici se andassimo a cena fuori? Conosco un posto dove si mangia bene, qui vicino e, a dire il vero, credo di essere ancora troppo giovane per morire avvelenato da te…- Mi dice sorridendo. 
Io avvampo, sbalordita. -Tu…- Prendo un cuscino dalla sedia di fronte a me e glielo lancio contro. Sorrido, mentre lui realizza ciò che ho appena fatto e nei suoi occhi vedo crescere la voglia di vendicarsi. Corro nella mia stanza da letto e mi chiudo dentro.
-Fregato!- urlo per farglielo sentire e percepisco la sua risata oltre la porta. Mi lancio subito alla ricerca di un abito da sera decente. Ne trovo uno blu scuro tra un mucchio di panni vecchi e decido che può andare bene. Vado nel bagno adiacente alla camera a sistemarmi, vestirmi e truccarmi e quando esco e mi guardo allo specchio vicino la porta, non mi riconosco: ho legato i capelli castano chiaro lunghi fino ai fianchi in una coda di cavallo alta sulla testa con un fiocco argentato, in tinta con la pochette contenente il portafogli e il cellulare. Non amo molto truccarmi, anche se il mio bagno trabocca di cosmetici, quindi ho messo solo il correttore per coprire parte delle occhiaie e del fard per conferire alla mia pelle chiara un po’ di colorito; infine ho indossato una collana con una finta perla agganciata e un braccialetto simile d’argento. Ammetto che quel vestito mi sta bene: non ha le spalline e scende fluido fino alle ginocchia. Mi infilo delle scarpe col tacco non troppo alto dello stesso blu del vestito, prendo uno scialle nero e raggiungo Ian in salotto. Mi appoggio allo stipite della porta e lo guardo interessarsi all’unico quadro che ho appeso alla parete, appena sopra il divano. Fissa minuziosamente il paesaggio rappresentato da Adriaan van Stalbermt, quasi volesse immergercisi, come fa sempre quando viene a casa mia. Mi schiarisco la voce, facendolo sobbalzare e mi avvicino a lui.
A dir la verità, non sono un’appassionata d‘arte: mio padre lo era. Voleva per forza far appassionare anche me, perciò mi regalava in continuazione quadri su quadri. Sento nascermi un groppo in gola, mentre i ricordi di mio padre mi tornano in mente prepotenti. In silenzio, prendo a braccetto Ian e insieme ci dirigiamo fuori. La prima cosa che sento appena uscita dalla porta è l’acqua, che inizia subito a inumidirmi i capelli. Alzo le testa e noto che ha iniziato a piovigginare e che il sole è già tramontato.
Entro nuovamente nella BMW di Ian, il quale questa volta si azzarda ad accendere la radio e far partire un CD di Ed Sheeran a basso volume. Chiudo gli occhi e per un attimo mi abbandono a quella sensazione di pace che mi assale.

*spazio autrice*

Mi intrometto per poter ringraziare tutti coloro che leggono, in particolar modo Jane Austen che recensisce e inmylife_ che è sempre la prima a leggere ciò che scrivo e a consigliarmi. Grazie!

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo 3 ***


Capitolo 3
 
Din, don, dan. Questo suono mi sembra familiare.
Din, don, dan. Perché?
Din, don, dan. Apro gli occhi; all’inizio non riesco a distinguere nulla intorno a me. È tutto nero, buio.
Din, don, dan. I miei occhi iniziano ad abituarsi all’oscurità: dove mi trovo? Sembrerebbe una stanza. Si, è decisamente una stanza: metto a fuoco un armadio alla mia destra, una piccola porta di fronte a me, un tavolo piccolo e quadrato alla mia sinistra e una lampada su di esso. Mi metto seduta e mi accorgo che sotto di me c’è un letto singolo. Ma dove sono? Come sono arrivata fin qui?
Din, don, dan. Sobbalzo. Qui dentro fa molto freddo e sento un odore strano: somiglia all’odore di miele misto a quello… delle patate. Sento un rumore fuori la porta: sono dei passi. Merda. Mi giro intorno spaesata, pensando a cosa fare; mi alzo in piedi e per poco non urlo per il dolore che sento alla caviglia. Cado a terra e noto che ho la caviglia destra fasciata. Inizio a ricordare e immagini confuse mi si affacciano nella testa: una strada, il buio, un suono di campane, una chiesa, un corpo in una bara e… dei manichini. Mi tengo la testa con le mani. Che succede? Devo essere sicuramente nello stesso posto dell’altra volta, ma perché non sono in strada? E dall’”altra volta” quanto tempo è trascorso? E i vestiti… c’è qualcosa che non va: dov’è finito il mio vestito da funerale? Cosa è questa specie di…di camicia da notte a pois? 
Sento la porta aprirsi e vengo immediatamente abbagliata da una luce proveniente dall’esterno. Mi rannicchio col cuore che batte a mille, pregando che colui o colei che abbia aperto la porta non si sia accorto di me. Tengo gli occhi chiusi fin quando non sento la porta richiudersi e una voce melodiosa chiedere: -Ehi? Tutto bene?-
Rialzo lentamente la testa, confusa e trovo inginocchiato di fronte a me un ragazzo più o meno della mia stessa statura; le prime cose che mi saltano all’occhio sono il suo abbigliamento decisamente molto fuori dal normale, i suoi occhi grandi e le sue orecchie a punta. A primo impatto, mi viene da ridere, ma guardandolo bene in viso mi accorgo che è molto preoccupato e non posso fare a meno di arrossire: ringrazio il cielo per l’oscurità della stanza che impedisce allo sconosciuto di notarlo. Annuisco, mi rialzo a fatica e mi metto nuovamente a sedere sul letto mentre il ragazzino va ad accendere l’unica fonte di luce della stanza, la lampada, che emana una luce bianca e soffusa. Non so sinceramente quale parte del mio corpo o della mia mente mi spinga a fidarmi di lui, fatto sta che da quando è entrato nella stanza sono stata pervasa da una certa tranquillità, come se fosse una persona che conosco da tempo e di cui mi fido. Continuo a guardare lo sconosciuto mentre apre l’armadio, preleva da un cassetto una fascia bianca e torna da me; è allora che rimango stupita da ciò che la luce aveva nascosto: ha degli occhi di un colore misto tra il castano e il verde, una frangetta che sembra quasi accarezzargli la fronte fino alle sopracciglia, dei capelli rossicci, ondulati e lunghi fino alle spalle e una specie di piccolo tatuaggio sulla guancia sinistra, che a primo impatto sembra un insieme confuso di rami, ma osservandolo meglio, si nota la forma di una “j”. Il suo abbigliamento è a dir poco… stravagante: porta una salopette a strisce marrone chiaro e scuro con sotto una maglietta a maniche corte grigia e delle scarpe chiuse marroni con i lacci neri.
-Vediamo un po’ come va..- dice tra sé e sé.
Mi toglie la fascia che avevo attorcigliata intorno al piede e noto uno strano rigonfiamento violaceo all’altezza della caviglia. Alzo lo sguardo spaventata sul viso dello sconosciuto, quasi non avessi mai visto una cosa simile; torno a guardare la mia caviglia e ho davvero la nausea. 
-Allora, io sono Johna… Tu?- mi domanda con la sua voce melodiosa.
Rialzo lo sguardo sul suo viso: è ancora concentrato a stringere la fascia. In quel momento, ho la sensazione che lui sappia già tutto di me e che stia soltanto cercando di distrarmi, ma rispondo comunque: - J-Jillian…- sussurro.
-Jillian…- riprende lui -bel nome. Quanti anni hai?-
-Venti tra un mese-
-Wow- esclama. 
Mi schiarisco la voce: -E tu?-
Lo vedo irrigidirsi: si blocca, letteralmente. Resta immobile per un attimo, quasi non si aspettasse una domanda simile. Poi, come se niente fosse, ritorna normale e finisce di fasciarmi il piede. 
-Su, non è nulla di grave.- dice, tentando di sviare il discorso mentre ripone il resto della fascia al suo posto.
-Io te ne do intorno ai 18-20- riprendo io, imperterrita.
Johna si gira verso di me con aria confusa.
-Di anni, intendo…- aggiungo sottovoce.
Sospira tornando verso di me.
-Si, ho 20 anni…Ora ti puoi alzare, per favore? Voglio vedere se riesci a camminare- Mi tende le mani e io, ancora spossata, mi aggrappo a lui e mi tiro su. Mi sfugge un gemito di dolore mentre sposto tutto il peso del mio corpo sulla gamba sana.
-Prova a muovere un passo.-mi suggerisce Johna.
Senza pensarci due volte, provo a zoppicare per arrivare al tavolino con la lampada che ora ho di fronte. Un passo, due passi.. 
-Jillian…- 
Tre passi; non faccio caso a quella strana voce che mi chiama. Quattro passi…
-Jill, siamo arrivati…-
Cinque passi; cosa? Mi volto indietro e vedo Johna che mi guarda con un’aria quasi soddisfatta; non è sua la voce, non è melodiosa…
-Jill…-
Non ho nemmeno il tempo di compiere il sesto passo, che cado a terra e l’oscurità mi avvolge.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1596554