Era dannatamente difficile essere suo cugino

di Lionking17
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Patroclo ***
Capitolo 2: *** Achille ***



Capitolo 1
*** Patroclo ***


 
Era fatta. Era finita.
Patroclo contrasse bruscamente le labbra, sputando un piccolo grumo di sangue represso, in un macabro sorriso. Le mani gli tremavano.
Il vero Achille avrebbe riso in faccia alla morte o, al massimo, ci avrebbe fatto amichevolmente una partita a dadi. Perché averne paura, quando si era stato il suo più spietato strumento in terra per tanti anni?
 Perché tremare come una verginella alla sua prima notte di nozze, quando si era l’unico figlio di Peleo, il comandante dei Mirmidoni, un semidio, Achille in persona?
Non vi era alcuna ragione. Se non che lui non era Achille.
Ma era pur sempre suo cugino. Gli errori non erano permessi, se eri suo cugino.
Era dannatamente difficile essere suo cugino, il suo scudiero, il pallido ragazzino, l’ombra dell’eroe.
Sentì la sabbia crepitare sotto i calzari di cuoio mentre il principe si avvicina, sempre di più, inesorabile.
Patroclo sperò che Thanatos fosse più veloce, ma raramente gli dei ascoltano le preghiere degli uomini, e quando ciò avviene, è solo fonte di guai. Il suo avversario rimase per alcuni secondi immobile.
Il ragazzo lo sentiva fremere d’indecisione. Sapeva. Sapeva che era tutto un inganno. Sapeva che non era lui, come tutti, d’altronde.
Finché, con lentezza studiata, i gambali toccarono pesantemente la sabbia intrisa di sangue. Patroclo gettò un gutturale grugnito, un gemito di protesta mentre Ettore tentava di togliergli l’elmo. Lui era un Acheo, figlio della casa di Menenzio, cugino di Achille. Non doveva lasciare che l’ignomia cadesse sul suo nome. Quanti doveri, quanti onori.
La scatola cupa e sudata, simile a una bara, che era stata fino ad allora il suo nascondiglio fu finalmente sfilata e la luce grigia delle nuvole sbucò nel suo campo visivo. Il mondo ricominciava.
Gli sembrò di poter risentire la rinsacca delle onde, il morbido frinire dell’acqua contro la sabbia.
Loro giocavano, una volta. Non lì, in un altro posto, non ricordava dove. Lui e suo cugino.
Prima che Chirone venisse a prenderli, prima che Achille diventasse Achille, prima che lui si trasformasse in Patroclo.
Erano piccoli. Due bambini. Eppure, così grandi.
Una smorfia a metà tra la rabbia e l’orrore percosse il viso armonioso del principe Ettore mentre gettava lontano da sé l’elmo, come se potesse lavar via il delitto, il sangue. Patroclo ridacchiò. Il sangue colò, fino a toccare terra.
Aveva fallito. Mai fallimento era stato così gradito. Gli veniva da ridere. Che cosa strana. Oscena, disonorevole per un guerriero. Per lui più di qualunque altro.
Lui era il cugino di Achille, non poteva permettersi certe cose. Come amare, come vivere.
Il ragazzo rise. Non si sapeva bene a chi. Al suo assassino, al cielo, agli dei forse.
In lontananza, chissà quanto lontano, il suono delle onde e del mare attirò la sua attenzione. Erano appena dei bambini quando vennero a prenderli. O almeno così gli era sempre sembrato. Dopo, dopo, tutto era cambiato. Il suo migliore amico non poteva più giocare con lui, perché era cosa da bambinelli.
Loro erano uomini, macchine da guerra, addestrate al massacro, ignari dell’esistenza di pietà e ragione. Questo gli avevano insegnato.
Ettore accarezzò lievemente i capelli del ragazzo, tentando invano di pronunciare qualche parole di conforto, ma ne esistono davvero?
E Achille non lo aveva più guardato, solo visto, e il noi era diventato un loro, il presente passato, senza più futuro. Chissà se gli sarebbe importato qualcosa.
Patroclo tentò di articolare delle sillabe, una scusa forse, una richiesta di estremo aiuto, una amicizia mai esistita.
Sentiva il rumore della rinsacca del mare e, mischiato ad esso, risa di bambini, profumo di legno e di pulito. Sentiva tutto.
Era fatta. Era finita. Aveva fallito. Qualcuno avrebbe portato la sua lancia all'amato cugino. E a lui non sarebbe importato niente. Ma era finalmente finita.
Ettore scosse mestamente la testa, chiudendo le palpebre del ragazzo.
“ Achille lo vendicherà.” Annuncio lugubre un soldato accanto a lui, quasi come una sfida al difensore del suo popolo.
“ Se davvero gli voleva bene, sarebbe stato qui, ora.”
In lontananza, due bambini biondi giocavano in riva al mare.




Ave popolo * guarda la platea deserta*
Come non detto. Questa è la prima storia su questo fandom da poco scoperto, così ho deciso di tuffarmi direttamente tra le braccia del mio caro poeta. Credo che questo lavoro si articolerà in due storie sicure, poi si vedrà. Vi ringrazio molto per essere arrivati fino a qui, per prima cosa. Vi pregherei di lasciare una recensione per migliorare o almeno per decidere di darmi all'ippica. Di sicuro otterrei risultati migliori. Buona lettura a tutti e Buona Pasqua!

  

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Capitolo 2
*** Achille ***


Achille aspettava. Che cosa strana.
Sembrava quasi un ossimoro, un controsenso, due parole che si prendevano a pugni. Perché lui non aspettava.
Lui agiva. Lui coglieva, carpiva l’attimo della battaglia, quel secondo in cui le armate erano fuse insieme come due lottatori, dove ormai i soldati erano tutti uguali, tutti della stessa fazioni, tutti appartenenti alla morte. I vessilli erano impolverati, le casacche con i loro bei colori sgargianti insanguinate. Impossibile distinguere l’amico dal rivale, il salvatore dall’ucciso.
Allora perché gli sembrava tanto un attesa, quella?
 Il guerriero biondo scosse violentemente la testa, calciando via la coperte che ne ricopriva il corpo solcato da cicatrici. Lui non aspettava. Lui … lui stava semplicemente attendendo il momento finale, in cui la sua presenza sarebbe stata più richiesta, il suo aiuto più percepito, la sua gloria più grande.
Allora, perché aveva inviato Patroclo? Il comandante uscì dalla tenda, ritrovandosi nel campo dei Mirmidoni, vuoto. Il piano prevedeva che lui rimanesse nascosto finché la battaglia non si fosse conclusa. Che cosa sciocca.
Lui non si nascondeva. Lui colpiva. Achille camminò pesantemente lungo la spiaggia, il vento che a tratti recava i rumori del combattimento, le urla dei morenti, i pianti degli sconfitti.
Achille, il grande Achille, provò a ripercorrere il percorso che lui e l’amico compivano tutti i giorni da lì a dieci anni. Il corridoio tra le tende, le mura di legno e sabbia erette dagli Achei, la piana sterminata, le buche, dove avevano ucciso un paio di figli di Priamo, il fiume Scamandro, i sentieri, le spiaggette, i lavatoi abbandonati, fino alle porte di Ilio, la grande città, succosa e desiderabile come una donna e altrettanto volubile. Scappava sempre, eppure li desiderava troppo nel suo talamo. E loro l’avrebbero posseduta, oh sì.
Il Pelide cercava di calcolare il tempo, i secondi, i movimenti, quasi i nemici che si paravano di fronte a Xanto e Baio. Non avrebbe mai ammesso di essere preoccupato. Mai. Eppure.
Patroclo era troppo dolce, troppo ingenuo per quella guerra. In teoria, lui era il maggiore. Lui doveva essere il più forte, il più arguto o, semplicemente, il più. Così non era stato fin da bambino.
Achille era sempre stato il più bravo nella corsa, alla cavallina; la sua vista più acuta ricercava con sicurezza le conchiglie sul fondo marino. Quando erano diventati grandi, Chirone tesseva le lodi del minore mentre il cugino veniva messo da parte.
Tacitamente, tutti credevano che Patroclo sarebbe stato il suo scudiero, il suo secondo, perché, a onor del vero, Patroclo era sempre secondo in ogni competizione e primo dove non vi era l’amico. Solo in una cosa, il maggiore eccelleva: la cetra. Per carità, le dita di Achille scorrevano leggiadre sulle corde di trini di cavallo e la sua voce potente e operosa esplodeva nell’aria della sera. Ma se la voce di Achille era la forza bruta, vigorosa, superba, quella di Patroclo appariva pacata, armoniosa, divina. Il canto che scorreva dalle due dita si destreggiava tra le fronde degli alberi e il canticchiare degli uccellini, che si sentivano quasi superati, e rispondeva a quel suono  delicato e armonizzato. Era il gorgheggio dell’usignolo comparato alle trombe della battaglia. Il piè veloce non vi aveva mai dato molto peso.
Il canto paragonato all’abilità delle armi? Ma per favore. Patroclo era decisamente troppo debole per quella guerra, la guerra per eccellenza. Allora perché lo aveva inviato?
Il giovane calciò via una sassolino e un altro ancora. Patroclo non sarebbe mai dovuto andare, non avrebbe mai dovuto permetterglielo.
Era lui il capo dei Mirmidoni, non l’umile ed efebico Patroclo.
Achille era il re, non l’imberbe cugino.
Lui si doveva far carico della guerra, non il pacato e garbato amico.
 Il leone va alla guerra, l’usignolo ne tesse le lodi.
Il sole cuoce e comanda gli uomini, la luna esiste solo per aumentarne la gloria. Allora perché?
In lontananza una lancia trovò il povero usignolo. Il suo canto crebbe, gorgheggiò, fino a morire con lui, trasparente filo di vita reciso dal caos. Ancora più lontano un cocchiere corse, frustò i cavalli divini. Una notizia doveva recare. L’usignolo era morto. E con lui, il cuore del leone.   

Ehilà! Sono appena adesso tornata da Londra e l'ispirazione mi ha colto senza possibilità di rimpianto. Ecco a voi un altro pezzo di storia, Sono così felice che qualcuno,TheAkaiBookFrog, e già il fatto che qualcuno si sia sorbito una parte della storia mi ha mandato letteralmente in brodo di giuggiole, per cui, che voi lo vogliate o no, io continuerò questa raccolta. Esatto ve la dovrete sorbire * schiva pomodori e uova* e se volete espressamente sopprimere il mio umore, o spedirlo in paradiso, ci sono le recensioni, grazie mille a tutti! Buona Pasqua!

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