Hurt me and tell me you’re mine (in ruins)

di sleepingwithghosts
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In ruins – missing moment #1 ***
Capitolo 2: *** In ruins – missing moment #2 ***



Capitolo 1
*** In ruins – missing moment #1 ***


Hurt me and tell me you’re mine.

(In ruins – missing moment #1)

 

 

Mi svegliai, combattendo con tutte le forze contro la luce che entrava dalle finestre e che mi si sparava dritta in faccia. Mi mossi lentamente, abbracciando il busto di Seth. Ero in uno di quei momenti post sbornia in cui sapevo a mala pena come mi chiamavo, ma lui, sapevo che lui era affianco a me, anche se probabilmente dormiva ancora, sfinito quanto me. Non lo sentii muoversi di un millimetro, il respiro regolare, il torace che si alzava ed abbassava lentamente. Era caldo da impazzire, e io, come al solito, ghiacciata. Tutto in me urlava “Seth, hai bisogno di Seth”. E il punto era proprio che io avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le mani, i piedi, il corpo e l’anima freddi. Quando ero triste, quando ero euforica, quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre, nonostante tutte le liti e gli insulti.

Alzai la testa e con la punta dell’indice presi a sfiorargli il viso, con delicatezza. Partii dalle sopracciglia, distese e beate come quelle di qualcuno che stava facendo un bel sogno, gli accarezzai le palpebre chiuse, non toccandole veramente e scesi verso il naso, dritto e liscio. Quando gli toccai le labbra, le dischiuse appena, scaldandomi la pelle con il suo alito. Ora sapevo che era sveglio, ma lui non aprì gli occhi, lasciandomi continuare l’esplorazione di quel volto che conoscevo bene, qualsiasi espressione assumesse. Mi avvicinai a lui e gli lasciai un bacio sul mento, pungendomi un po’ con la barba che si era fatto crescere – non avevo fatto obiezioni, perché, a quanto pareva, i miei ormoni la trovavano estremamente sexy. Fu in quel momento, comunque, che aprì gli occhi: verdi, verdissimi, come ogni mattina. (“Come ogni mattina in cui mi sveglio affianco a te”, aveva detto una volta)

«Ciao», dissi con un sorriso. Lui si avvicinò e mi baciò le labbra, nel suo modo dolce, carino e leggero. Mi strinsi un po’ a lui, giusto perché non avevo nessuna voglia di alzarmi dal letto, e lui mi cinse la vita con un braccio, avvicinandomi ancora di più.

Rimanemmo in silenzio per un tempo che mi parve infinito, ma io non mi stancavo mai di stare in silenzio insieme a Seth, perché sembrava che i nostri respiri suonassero insieme. Componevano una melodia confusa ma che in qualche strano modo aveva un’armonia, come se non fosse sbagliata. Come se noi non fossimo sbagliati.

Alzai lo sguardo e lo osservai, mentre lui osservava me. «Cosa?», chiese indagatore.

«Ho bevuto. Quanto ho bevuto?». In quei cinque mesi in cui non ci eravamo visti, avevo smesso di bere e di drogarmi, avevo davvero voglia di sparire e anche facendo quelle cose temevo di attirare l’attenzione, di espormi troppo. Quando invece ero tornata insieme a lui – non che stessimo insieme, come una coppia, ma non-esplicitamente lo eravamo, dato che avevamo solo noi stessi, pochi amici e nessuna famiglia – tutto era tornato come prima, alcol compreso. Mi faceva sentire bene, quello continuavo a ripetermi, ma sapevamo bene entrambi quando ci facesse male fisicamente (e psicologicamente). Era anche vero, che in quei momenti in cui galleggiavamo negli effetti dell’alcol, ci amavamo come non mai. In quei momenti eravamo attratti l’una dall’altra come normalmente non lo eravamo mai, e non perché non ci amassimo, non perché non ci desiderassimo, solo perché eravamo troppo concentrati nel distruggerci da soli, ognuno per contro proprio. Ed era proprio in quei momenti di massima distruzione, fatti di droga e ubriachi fradici che ci rendevamo conto di quel bisogno, del bisogno di avere quell’altra persona affianco, quell’ancora di salvezza.

Mi carezzò la guancia e chiusi gli occhi, godendomi quel contatto rovente contro lo zigomo scarno. «Mi dispiace», disse solo, e io annuii, perché lo sapevo che gli dispiaceva tanto quando dispiaceva a me. Sapevo anche quanto non gli dispiacesse, perché mi amava, mi amava così tanto da volermi sua in qualsiasi momento possibile. Anche perché io non avevo smesso di fare quello che avevo fatto in quegli anni: la troia. Sebbene fosse nata quella cosa con Seth e passassi con lui la maggior parte del mio tempo, avevo ancora una famiglia, una madre picchiata a sangue dal marito, un padre reso marcio dall’alcol e dalla sua stessa natura di bestia, che gli faceva fare quello che faceva. Portavo ancora io a casa i soldi per mangiare, con la sola differenza che poi me ne andavo, che poi tornavo a casa mia, ovvero fra le braccia e le carezze di Seth. Era casa ormai, era porto sicuro, era luce.

Era anche buio. Lo era quando mi picchiava perché troppo fatto, e io me ne rendevo conto e tacevo, come aveva fatto in tutti quegli anni mia madre, maledicendomi perché c’era la consapevolezza in me di dover scappare, non fare la sua stessa fine, ma anche quella che lo amavo, e senza di lui non avrei saputo dove andare, cosa fare. C’era la consapevolezza anche che lui, senza di me, non sarebbe stato più niente, e lo vedevo nei suoi occhi dopo avermi sbattuto addosso al muro con forza, quando abbassava il volto e mi chiedeva scusa sussurrandomelo sul petto.

Appoggiai il naso sul suo petto. «Non importa».

«Esci oggi?».

Annuii. «Ho da fare». Ero solita non ricordargli tutte le volte in cui andavo a fare i pompini agli altri ragazzi, e sapevo che apprezzava il fatto, lo capivo da come mi guardava e poi sbuffava. Gli baciai l’ombelico e lo sentii irrigidirsi. Chiusi gli occhi e presi un respiro. «Dobbiamo di nuovo tornare sull’argomento?».

«Lo sai quanto mi faccia schifo».

Avrei voluto ribattere che non sapeva quanto schifo facesse a me, ma mi morsi il labbro per tacere. «Ti prego», soffiai.

«Fai come vuoi». Dicendolo si alzò dal letto e andò in bagno, lasciandomi con la faccia premuta sulle lenzuola calde. Lo odiavo quando faceva così. L’avrei preso a schiaffi. Gli avrei urlato dietro le peggiori cose, pentendomene cinque minuti dopo.

Ritornò, io ancora nella stessa posizione, e mi mise una mano su una coscia. «Mi spiace».

«Lo so».

«Mi fa davvero schifo».

«Lo so, ma se non lo faccio non mangiamo e non mangiano i miei, dato che mamma al lavoro non ci va proprio più». Mi guardò, e si coprì lo sguardo triste con le mani, nascondendosi il volto in esse, nascondendolo da me. «Seth, guardami», dissi avvicinandolo a me. «So quanto ti stai impegnando a cercare un lavoro, so che lo troverai perché sei intelligente e bello e qualcuno ti vorrà assumere, prima o poi. Forse dovresti cercare in uno di quei club dove fanno gli spogliarelli», scherzai. Mi guardò incuriosito, con un sorriso sulle labbra. Io tornai seria. «Sto scherzando, ovviamente». Scoppiò a ridere e ne fui felice, mi aggrappai su di lui e gli stampai un bacio. «Che c’è da mangiare in casa? Muoio di fame», mugugnai sulle sue labbra.

«Mio fratello deve aver fatto la spesa, andiamo a vedere in cucina». Mi prese per mano, e cominciammo un’altra giornata nello stesso modo di tutte le altre giornate: insieme ma tristi, insieme ma stanchi. Insieme. Stanchi. Vuoti. In attesa.

 

Non avevo chiesto a Seth di venirmi a prendere a scuola per ovvi motivi, ma quello stronzo che mi ero scopata nel bagno mi aveva fatto davvero male e io avevo solo voglia di arrivare il prima possibile a casa e buttarmi fra le lenzuola del suo letto. Camminavo a stento, quindi decisi di prendere la metro, invece di farmi tutta la strada fino a casa del fratello di Seth a piedi. Avrei speso un po’ dei soldi appena guadagnati per il biglietto, ma andava bene così. Quando scesi le scale mobili, però, mi bloccai, perché in lontananza vidi Seth. E sapevo che era lui, perché quella era la sua felpa, quelle le sue braccia, quelle le sue spalle.  Lentamente mi avvicinai, cercando di non farmi vedere perché stava discutendo animatamente con un tizio che non aveva un’aria familiare. Almeno per me, dato che Seth continuava a chiamarlo “amico”, anche se non sembrava per niente in amicizia. Il ragazzo, piuttosto, aveva un’aria incazzata.

«Lo so che ti devo dei soldi, ma ne ho davvero bisogno».

«Niente grana, niente roba, mi dispiace».

«Ti pagherò presto, ho trovato un lavoro», disse Seth sbattendo le ciglia.

«Davvero?», chiese il ragazzo, che non sapeva se credergli o no.

«Davvero». Dopo qualche istante il tizio estrasse una cartina dalla tasca e la consegnò a Seth, che gli diede un abbraccio per nulla affettuoso con un sorriso, prima che l’altro se ne andasse. Senza droga e senza soldi.

Mi avvicinai ancora, fermandomi a qualche passo di distanza da lui, aspettando che si accorgesse di me. Vidi invece che prendeva la pasticca dal piccolo sacchetto di plastica e se la metteva sulla lingua.

«Hei», dissi spingendo le mani tremanti in tasca, per evitare che le vedesse.

«Evie? Che ci fai qui?», domandò subito, avvicinandomi a sé e cingendomi la vita con le braccia.

«Torno a casa».

«In metro?». Scrollai le spalle, incapace di guardarlo negli occhi. Stavo soffrendo troppo e se mi avesse guardato negli occhi se ne sarebbe reso contro. O forse no, con quell’acido in corpo. Lo sentii sospirare. «Hai visto, vero?».

Annuii. Avevo visto eccome. Mi alzò il viso con una mano, disegnandomi dei cerchi con il pollice sul mento. «Mi dispiace».

«Sì, ti credo», dissi con tono di arresa guardandolo negli occhi per poi allontanandomi da lui, trattenendo le lacrime per il dolore. E non solo il dolore fisico, ma quello che lui mi stava facendo provare.

«Dove vai?», chiese fermandomi per un braccio.

«A casa,vado a casa».

«Perché sei incazzata adesso?».

Mi girai verso di lui e lo guardai dritto negli occhi, i miei ormai lucidi. «Sono incazzate perché non capisco il motivo di quell’acido. Capisco quando lo facciamo per divertirci insieme, quando vogliamo staccare la spina un po’, ma ora? Ora che senso ha Seth? Sei così infelice?». Avrei tanto voluto chiedergli se era infelice con me, ma mi morsi la lingua per ammutolirmi. Se ne rimase zitto. Mi divincolai sentendo il rumore dell’arrivo della metro e salii, incurante di Seth e dei suoi casini. Ovviamente salì anche lui, sedendosi nel sedile affianco a me. Io continuavo a guardare fuori dal finestrino i muri scuri sfrecciarmi affianco e lui continuava a starsene zitto e a guardarmi ogni tanto, per assicurarsi che non stessi piangendo.

Scendemmo alla fermata vicino casa e non mi voltai a guardarlo finché non chiuse la porta alle nostre spalle, sbattendola forte. Ormai l’acido stava facendo effetto, e io sapevo benissimo che in quel momento lui era nel sul paradiso personale, a vederci draghi parlanti o chissà cosa. Lo accompagnai al divano e feci per andarmene quando lui mi fermò mettendomi una mano sul sedere. «Rimani qui, dai», biascicò lentamente, a fatica.

Mi defilai e mi chiusi in bagno perché il dolore stava diventando insopportabile e io non sapevo come farlo andare via. Mi feci una doccia, indossai biancheria pulita e mi distesi a letto, le cosce strette per contenere il dolore, gli occhi chiusi per contenere le lacrime che da lì a poco sarebbero scese.

Mi svegliai, un tempo indefinito dopo, sentendo qualcosa cadere nell’altra stanza, quella in cui c’era Seth strafatto. Raggiunsi la stanza e lo vidi immobile a guardare il pavimento, un bicchiere di vetro rotto ai suoi piedi. Mi avvicinai a lui, abbassandomi per raccoglierlo, ignorando il suo stato di trance, ma un pezzo di vetro mi si conficcò sulla mano, facendomi imprecare. Mentre sciacquavo la mano sanguinante sotto il lavandino, sentii le mani di Seth appoggiarsi sui miei fianchi, la sua bocca baciarmi il collo.

«Non ora Seth», protestai.

«Mi puoi dire che cazzo hai oggi?» fu la sua risposta irritata.

Mi girai verso di lui, i volti a pochi centimetri di distanza. «Vuoi davvero sapere cos’ho, Seth? Hai dei debiti per la droga e non mi è ancora chiaro se sia una cifra alta e per quale cazzo di motivo ti droghi. Ho un maledettissimo pezzo di vetro in una mano perché tu non sai nemmeno impugnare un bicchiere, e ciliegina sulla torta, potrei avere una fottuta malattia venerea!», sbottai, esausta.

I suoi occhi mi guardavano inespressivi, come se il suo cervello stesse metabolizzando quello che avevo appena detto. Era così infatti, e lo sapevo bene, ma in quel momento ero troppo arrabbiata per pensarci. «Vaffanculo».

Che fosse stata un’idea sbagliata, mandarlo a fanculo, lo scoprii pochi istanti dopo, quando lo sentii entrare nella camera da letto in cui mi ero rifugiata di nuovo. «Lasciami in pace, ti prego lasciami in pace», dissi esausta.

Ma lui si avvicinò e mi strinse il viso con forza con le sue mani. Mi fece male, ma tacqui, continuando a guardarlo sperando ritrovasse la ragione. «Vedi che cosa significa fare la puttana? Ti ho sempre detto di smettere di farlo, Evie!»

«Mi stai facendo male», sussurrai.

«Bene, te lo meriti». Fece scontrare le sue labbra con le mie, e mi morse un labbro facendomi gemere. Inserì la lingua nella mia bocca, e mi baciò con prepotenza, continuando a premere con le mani sulla mia mascella. Faceva un male cane, quindi appena ci riuscii, fui io a mordergli il labbro e ridurglielo in sangue. Si staccò immediatamente da me, e io riuscii ad alzarmi e ad allontanarmi da lui.

Sapevo bene che prima o poi sarebbe tornato abbastanza cosciente da chiedere scusa, ma ora, nei suoi occhi, non vedevo nient’altro se non la rabbia, la delusione e la follia. Sapevo bene che era la droga, a fare quell’effetto, ma io ero troppo stanca per combattere, troppo stanca per ragionare, troppo spaventata per non fare qualsiasi cosa se non urlargli contro. «Devi smetterla cazzo! Sto male okay? Non so che cosa mi sono presa ma mi fa male. Ho preso la metro perché avrei fatto prima e perché camminare mi uccideva, perché sapevo che a casa ci saresti stato tu pronto ad abbracciarmi o portarmi da un medico. E invece con che cosa mi ritrovo, eh? Con una brutta copia di Seth fatto, aggressivo e che non vede l’ora di scoparmi. Vaffanculo, vai davvero a farti fottere e cercati un’altra persona con cui fare i tuoi giochetti da schizzato di mente, perché io mi sono rotta». Avevo le lacrime agli occhi come ogni volta che litigavamo, ma presi la sua felpa abbandonata ai piedi del letto e mi incamminai verso la porta. Volevo scappare da lui, da quella merda. Volevo scappare da me, soprattutto. Con la mano sulla maniglia lo sentii dietro di me. Sussurrò un debole «scusa» e mi attirò a sé, cingendomi la vita con le braccia. Mi appoggiai contro di lui, le lacrime che scendevano mentre fissavo la porta da cui volevo ancora fuggire per non tornare mai più. Ma non sapevo dove andare, non avrei saputo dove andare, perché tutto attorno a me era malato, era sbagliato, mi faceva soffrire e io ero solo una ragazzina di diciassette anni che era dovuta crescere troppo in fretta per cercare di sopravvivere. Cercare, perché dai risultati non ci stava riuscendo.

«Mi dispiace Evie», disse Seth al mio orecchio. «Con quella roba non mi controllo, lo sai». Non riuscii a rispondere, feci sono un movimento del capo dettato soprattutto dal singhiozzo che non ero riuscita a trattenere fra le labbra. Mi fece girare, ora lo guardavo negli occhi. «Scusami».

Sapevo che l’avrei perdonato, in quel momento e altre mille volte. Lo sapevo, era scritto nel mio dna che avrei amato quel ragazzo per tutta la mia vita, nonostante le nostre vite desolate, il male che ci facevamo, la droga, le botte. Sapevo che anche lui mi amava, e non so come, ma me lo facevo bastare sempre. Gli posai una mano sulla guancia. «Vai a dormire un po’, poi andiamo dal medico».

«Mi spiace averti chiamata puttana». Mi strinsi nelle spalle e lui appoggiò la fronte alla mia. «Sono innamorato di te, Evie e questo neanche la droga può farmelo dimenticare».

Avrei tanto voluto dirgli che l’aveva dimenticato, quando mi aveva chiamato puttana, perché io mi ero sentita morire dentro, come tutte le altre volte che l’aveva fatto, ma annuii e lo baciai sulle labbra per scacciare quella voglia di scappare dalla mia mente che stava urlando, stava urlando di andarmene via da quella vita, ma io rimanevo incollata a terra, spinta verso al suolo da tutti il fardello che portavo sulle spalle. Niente tregua per me, Evie Mcdonnell, mai.

 

 

 

 

 

Coff coff.

Io vi avevo avvisati che non sarei  riuscita a staccarmi da Evie e Seth molto presto, e infatti ecco qui. Questo è un missing moment di quegli anni di cui vi ho parlato molto velocemente nell’epilogo, quegli anni in cui hanno vissuto insieme e si sono fatti del male. Ho intenzione di scrivere più di un episodio, quindi questo è solo il primo. Spero la cosa vi faccia piacere, perché a me scrivere di loro piace così tanto che non so se riuscirò mai a smettere.
Fatemi sapere che cosa ne pensate, anche se dubito che qualcuno leggerà questa cosa malsana.
Deborah.

 
Ps: non rovinatevi l’idea di Seth e dell’amore che prova per Evie, imparerete solo a conoscerlo meglio, anche quando lui da del suo peggio.

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Capitolo 2
*** In ruins – missing moment #2 ***


Hurt me and tell me you’re mine.

(In ruins – missing moment #2)

 



« Evie, amore, metti giù quella pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava appena. Impugnai meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio, partisse un colpo

 

 

 Camminavamo tenendoci per mano – era stato lui, a stringermela, quando stavo per perdermi fra la folla – e guardando le bancarelle al lato della strada. Ce ne stavo in silenzio, a osservare intorno a noi abiti vintage e braccialetti fatti a mano, con la luce grigiastra del cielo a colpirci dritta in faccia.

Eravamo usciti di casa dopo che lui aveva proposto una passeggiata e io avevo alzato le spalle, in segno di assenso. Mi aveva dato un bacio veloce sulla guancia ed era sgusciato in bagno, a prepararsi, per poi lasciare il posto a me. Si sentiva nell’aria che qualcosa non andava, che eravamo sfiniti, ma non avevamo più nemmeno la forza per parlarne, quindi tacevamo. Dopo essermi lavata i denti e sistemata i capelli, entrai in camera – che in realtà era il salotto, dato che il nostro letto era anche il nostro divano, e nell’unico armadio della stanza c’erano vestiti e tazzine per la colazione – e mi svestii, sentendo il suo sguardo fisso sulla schiena. Indossai una gonna corta nera, che mi fasciava le cosce perché molto aderente, una sua maglia bianca con una stampa infilata dentro, il giubbino di pelle nera, e degli stivali che stavano larghi sulle caviglie, e una volta finito mi guardai allo specchio incrociando il suoi occhi. « Andiamo? ». Annuì soltanto, aprendomi la porta e seguendomi giù per le scale. Da quel momento non avevamo più aperto bocca, neanche per proferire qualche monosillabo.

« Mangiamo qualcosa? Hai fame? » chiese dopo un po’, indicandomi con la testa la vetrina di un bar nell’angolo non troppo affollato.

« Okay. »

Entrammo, sedendoci in un tavolino vuoto, e presi un cappuccino, sorvolando quando Seth disse che forse era il caso che mangiassi qualcosa con uno sguardo che di carino e dolce aveva ben poco. Appoggiando il bicchiere alle labbra, poco dopo, pensai che in quei momenti io e lui non ci amavamo per niente. Non poteva essere amore, quella cosa che c’era fra di noi. Non c’era nulla, nei nostri sguardi, nelle nostre parole dette a fatica e nei nostri movimenti, che avesse potuto suggerire a qualcuno quell’amore che provavamo l’una per l’altro. Ma forse, pensai, noi non ci amiamo nemmeno più. Lo pensavo spesso nei momenti successivi alle discussioni, o la notte quando non riuscivo a dormire, sentendo il suo braccio lascivo attorno alla mia vita, come a stringermi senza forza. Pensavo spesso che quello non poteva essere amore, perché mi faceva soffrire troppo e ci stava distruggendo lentamente. E io sapevo bene che tutto non era come le favole, me ne ero resa conto più o meno dieci anni prima, ma ancora un po’ ci speravo che le cose si sarebbero potute sistemare, almeno con Seth, che sapeva tutto di me; almeno con lui, che mi capiva, mi ascoltava e diceva di amarmi.

Il punto era che ormai si era stancato di ascoltarmi e amarmi pure lui, come avevano fatto tutti nella mia vita, e il mio progetto di salvarlo e cercare di sopravvivere stava lentamente naufragando nel mare delle delusioni che di giorno in giorno mi si allargava dentro.

« Hai detto che non hai fame, e va bene, ma almeno potresti bere quel caffè e non fare finta? » disse interrompendo il flusso dei miei pensieri. Alzai gli occhi e poi li riabbassai, continuando a giocare con la bevanda, lo stomaco chiuso. Lo sentii sbuffare sonoramente, ma mi imposi di non scattare, di non mettermi ad urlare e soprattutto di non piangere. « Lo so che sei arrabbiata con me, e ne hai tutte le ragioni, ma risolverò tutto, te lo prometto. »

Lo guardai, ripensando ai giorni precedenti. Una sera se ne era tornato a casa, mentre io studiavo accovacciata nel letto per il compito di fisica del giorno successivo, mordicchiando la penna con cui prendevo appunti facendo schemi poco comprensibili pure a me su un quadernino, con un sorriso sulle labbra che mi aveva stupido. « Che succede? » avevo chiesto senza nemmeno salutarlo.

Seth, ancora vicino alla porta, si avvicinò a me, abbassandomi sulle ginocchia per guardarmi meglio. « Ho trovato un lavoro. » Lo abbracciai soltanto, incrociando le braccia al suo collo e stringendolo a me. « Domani sera ho il primo turno di prova, poi vedranno se assumermi oppure no. » mi sussurrò in un orecchio.

« Dove? »

« In un locale, a portare bibite e cibo ai tavoli. » Con la consapevolezza che avrei dovuto stare da sola in quel letto aspettando con ansia il suo ritorno, gli lasciai un bacio sulla guancia, e lui mi disse solo « grazie ».

Avevo passato il resto della giornata a studiare, lui seduto vicino a me a leggere Gente di Dublino. Ogni tanto la sua mano si posava sulla mia pelle, e mi accarezzava. Ogni tanto mi attirava a sé per baciarmi e sorridere un po’.

Quando della fisica non ce la facevo proprio più, chiusi il libro e mi distesi affianco a lui, facendo aderire il suo fianco a me. Si voltò a guardarmi, con un sopracciglio alzato. « Se non prendi il massimo dei voti tu, dopo tutte queste ore di studio, non lo farà nessuno. » Sorrisi: la scuola era l’unica costante positiva della mia vita, e andava bene così. Avevo imparato a non ubriacarmi e a non sballarmi troppo prima dei compiti, per rimanere lucida e svolgerli a meglio, poi, tutti gli altri giorni mi limitavo a vegetare sui banchi di scuola, ascoltando quando ce la facevo e fingendo di ascoltare quando ero in qualche pianeta parallelo.

« Lo spero. »

« Vieni qui » disse posando il libro e avvicinandomi a sé, per baciarmi più intensamente di prima. Mi spostai, a cavalcioni su di lui, i pantaloncini corti del pigiama che si schiacciavano attorno alle cosce. Infilai le mani nei suoi capelli nello stesso momento in cui lui, con le sue, mi posizionava meglio su di sé, tenendomi per i fianchi. Si staccò dalle mie labbra, cominciando a lasciarmi dei baci soffici sul collo, sul mento, sulle guance, per poi scendere di nuovo, e dopo aver abbassato le coppe del reggiseno, lasciarmi un succhiotto appena sopra al seno. Nei suoi occhi, che mi capitava spesso di fermarmi ad osservare, mentre lui mi dava piacere, vedevo la passione che provava a toccarmi, il benessere. Non riuscivo a capire – o meglio, non me lo ricordavo – se nei suoi occhi ci fosse sempre stata quell’espressione. Non riuscivo a ricordare se quando ancora mi amava, avesse quello sguardo, o se nelle sue iridi ci fosse qualcosa di diverso. Un gemito che mi sfuggì dalle labbra premute sulla sua spalla, cacciò in fretta quel pensiero infelice.

Scesi più giù, prima sfilandogli la maglia e poi aprendogli ad uno ad uno i bottoni dei jeans, sentendo il suo respiro affannoso nelle orecchie. Alzò il bacino, che aderì con il mio provocandoci una scossa, per facilitarmi il compito di sfilargli i pantaloni. Poco dopo mi tolse la maglia del pigiama e mi sfilò il reggiseno, lasciandolo scivolare fra di noi.

Dopo quel giorni in libreria, quando ci eravamo detto che ci amavamo, avevo cercato di vedere il sesso con Seth in un altro modo dal sesso con gli altri ragazzi – o con mio padre. Mi ero imposta, inconsciamente, che con lui non era sesso, che con lui io facevo l’amore. Solo con lui. E lo dovevo ammettere, che era stato bello, per un po’, lasciarsi amare da lui. Perché sembrava sempre che il suo tocco non volesse violarmi, ma solo conoscermi. Perché sembrava sempre che il mio corpo, il modo in cui io lo facevo stare in quei momenti, gli procurassero gioia, e non solo piacere fisico. E allora sì, avevo pensato che con lui io facevo ogni volta l’amore, e non il sesso, anche quando in realtà l’unica cosa che facevamo era sbatterci in ogni superficie piana, ancora vestiti per metà, con la droga in corpo e i cervelli in un altro mondo.

Ricordai, mentre sentivo che Seth spostava la mia biancheria con una mano, quella volta in cui mi ero presa quell’infezione del diavolo. Per un periodo non eccessivamente lungo, ma nemmeno tanto breve, il medico mi aveva tassativamente proibito di fare sesso. Quello mi aveva inevitabilmente portato a dare di matto: ero arrivata a pensare che Seth mi tenesse con sé solo per sfogare i suoi bisogni di ragazzo ancora adolescente su di me. Si rivelò invece uno dei periodi più belli della nostra non-storia. Era sempre prudente con me, e stava sempre bene attento a non superare i limiti stabiliti dal medico e da quell’infezione. In quel periodo mi sentii amata da Seth come poi, non mi sentii più. E forse era solo che sembrava tutto più dolce e tenero, come se avessi una vita normale, e forse era che non si drogava per non eccedere, e forse erano solo tante piccole coincidenze, ma mi sentivo bene, con tutta quella dolcezza che mi dava.

In quel momento sul divano, mentre mi si sconnetteva il cervello nell’esatto istante in cui Seth infilava due dita dentro la mia eccitazione, sentivo che forse, fra di noi, ci sarebbe potuto essere ancora un po’ di quell’amore che continuavamo a sussurrarci nelle orecchie. Che noi, io diciassette anni, lui diciannove appena compiuti, non avevamo ancora distrutto le nostre vite del tutto, che c’era ancora un minimo di speranza per noi. Per il nostro amore malato, anche.

Mi lascia trasportare da Seth in un posto in cui nulla faceva più male, anche se sapevo bene che stavo mentendo, perché piansi le lacrime che mi stagnavano negli occhi da giorni quando oramai eravamo così uniti da apparire una cosa sola. Non capivo mai se lui se ne accorgeva, quando piangevo mentre facevamo l’amore, e spesso non capivo nemmeno perché piangevo, ma seppi comunque che quel pomeriggio, sul divano di casa nostra, quella che pagavamo con i soldi che riuscivo a guadagnare io, con quelli che Seth riusciva a racimolare in modi che non sapevo, e con quelli che ci passava suo fratello, quando ci beccava a mangiare cereali, sentì le mie lacrime bagnargli la spalla e colargli giù sulla schiena, perché rabbrividì e mi strinse più forte, dicendomi all’orecchio che mi amava, che mi amava, che mi amava, ripetendolo come un mantra mentre eravamo uno perso nell’altra.

Mi addormentai sfinita, risvegliandomi in piena notte in un letto vuoto se non di un biglietto “ Sono dovuto scappare. Torno presto. Ti amo, Seth “. E mi scese una lacrima, forse qualcuna in più di una, e mi riaddormentai con un gusto amaro sulle labbra e un peso sullo stomaco.

 

La sera successiva, quella in cui avrebbe provato il nuovo lavoro, mi lasciò seduta sul divano ad ascoltare un cd che aveva portato a casa il pomeriggio, dicendo che ci aveva masterizzato delle canzoni che mi sarebbero piaciute sicuramente. E io le ascoltai, le ascoltai sentendo ogni parola scagliarsi addosso alla mia pelle, ferirmi e portarmi sollievo contemporaneamente. Ma il dolore era troppo forte, e io non riuscivo a contenerlo. Chiusi gli occhi e ingoiai il groppo creatosi alla gola. Non devi tagliarti di nuovo, l’hai promesso, ricordi? Niente più segni freschi sulle cosce, sulle caviglie, sulle braccia. Gliel’hai promesso. E fu così che evitai di sentire davvero il dolore. Fu così che mi nascosi sotto le lenzuola fine tremando, e abbandonandomi alla stanchezza.

Ore dopo, al ritorno di Seth avrei sentito il rumore di un cassetto chiudersi, il materasso abbassarsi al mio fianco e delle labbra baciarmi le palpebre. « Mi dispiace, troverò qualcos’altro. » Puzzava così tanto d’alcol che continuai a far finta di dormire, perché non ce l’avrei fatta a sopportare niente quella sera, con il mare che mi stava dentro in tempesta, in burrasca, la marea alta, pronto a fuoriuscire, pronto a sommergermi.

Era così, che ci eravamo trovati in quel bar a guardarci e a non amarci. « Non sono arrabbiata, Seth. »

« Sì, certo, come no. »

« Sì, Seth, io non sono arrabbiata con te, sono delusa. Dovevi servire delle stupide bevande ai tavoli, come cazzo hai fatto a non farti assumere? »

Spostò lo sguardo al bicchiere, e dopo aver bevuto un sorso della birra che stringeva – erano le dieci di mattina, cristo – disse « Mi è sfuggito tutto di male, ho bevuto un po’ troppo con degli amici che mi erano venuti a trovare. »

« Tu non hai amici. » mi ritrovai a dire, con un tono strozzato. Poi mi resi conto di quali amici parlasse: quelli della stazione, quelli della droga. « Quegli amici, Seth? »

« Sì. »

Mi alzai, lasciando il cappuccino sul tavolo, e stringendomi le braccia al petto mentre correvo fuori dal locale. Sentii Seth dietro di me, che mi seguiva, ma fu subito fermato poiché non aveva ancora pagato il conto. Corsi velocemente, confondendomi fra la folla, prendendo la metro e, arrivata a casa sbattendo forte la porta dietro di me, gli occhi pieni di lacrime. Poi ricordai il rumore del cassetto aperto e chiuso da Seth durante la notte. Mi ricordai di quel particolare e lo aprì trovandoci dentro quello che non avrei mai pensato di trovare.

 

 

« Evie, amore, metti giù quella pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava appena. Impugnai meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio, partisse un colpo.

Ma forse sarebbe stato giusto. Forse sarebbe stato giusto eliminare uno di quei problemi che mi stavano facendo impazzire.

« Mi metti voglia di morire, Seth. » glielo dissi così, con le lacrime in gola.

« Ti prego, parliamo. »

« Parlare? Non facciamo altro che parlare dalla mattina alla sera. Non facciamo altro che parlare di cazzate. »

Pensavo che quella cosa che vedevo nei suoi occhi fosse paura. Pensavo che sicuramente c’era anche nei miei occhi la stessa cosa strana. « Non mi ami più? »

Deglutii. « No, sei tu che non mi ami più. Sei tu quello che mi fa del male, che mi scopa come si fossi davvero una puttana, che tiene una pistola in casa per non si sa quale ragione, che si ubriaca mentre lavora e quel lavoro, di cui ha disperatamente bisogno, lo perde. Sei tu Seth, sei tu. »

« Stronzate! » urlò, e fece un passo verso di me. Impugnai più stretta l’arma, ormai ero sicura di avere dei segni rossi sulle mani. « Perché cazzo ti sei messa in testa che io non ti amo più, vuoi spiegarmelo? »

« Sei strafatto tutte le volte che mi tocchi. »

« Cazzate. »

« Sì, dico solo cazzate io, vero? Sono una pazza troia che dice solo stronzate, hai ragione tu! »

Mi si avvicinò, tanto che la pistola quasi gli toccava il petto. Rimase a guardarmi, silenzioso, il respiro accelerato. « Io ti amo, Evie. Ti amo come se fossi il mio ossigeno e nel mondo non ce ne fosse più nell’aria. Ti amo perché nonostante tutte le stronzate che faccio, sei ancora qui. Ti amo perché sei l’unica cosa che rimane, perché i miei genitori sono morti, di mio fratello non me ne frega un cazzo, degli amici nemmeno. Mi drogo perché soffro. Soffro a vedere che tu, con me, stai male. E lo so che è solo colpa mia, so che ti metto voglia di morire, ma se tu muori Evie, se tu non ci sei più a questo mondo, io vengo con te. Non aspetto altro, io non aspetto altro che rimanere sempre con te, senza tutto questo dolore. »

Le lacrime mi scesero dagli occhi, e fui costretta ad aprire un po’ la bocca per tornare a respirare. Seth si avvicinò e mi prese la pistola dalle mani, riponendola di nuovo nel cassetto alle mie spalle, per poi tornare davanti a me, gli occhi spaventati.

Ero sicura che sarei morta per quel dolore che sentivo premermi contro le ossa, riempirmi. Perché quando qualcosa comincia a fare così male non c’è niente da fare, non c’è più niente di vivo in te, non c’è più niente che abbia voglia di continuare a sperare che un giorno andrà tutto bene. Perdi la speranza perché ormai hai perso anche te. Ti sei persa e non riesci a trovarti, non riesci a trovarti da nessuna parte, anche se ti chiami, anche se ti cerchi in tutte quelle stanze oscure che hai nella mente, facendo un sospiro di sollievo vedendoti rannicchiata a tremare. Ma non ti trovi in nessuna stanza buia, non ti trovi proprio più.

Sentivo la fine di me e Seth ogni volta che i suoi occhi si posavano di me, sentivo franarmi dentro, sentivo che quelle sue mani che tanto amavo non sarebbero riuscite a salvarmi mai più.

Soprattutto, comunque, sentii la mia fine quando mi buttai fra le sue braccia, quell’oceano che avevo dentro che mi sommergeva, gli occhi sbarrati davanti a me, e le mie mani che cercavano le sue, perché si rifiutavano di smettere di sperare. Come quando stai annegando e il tuo corpo ti porta a respirare a pieni polmoni, per aiutarti, per salvarti, senza sapere che in realtà si sta uccidendo da solo.

 

 

 

 


Ispirazione che mi esce da tutti i pori.
Niente, non credo ci sia molto da dire, questo capitolo si commenta da solo. Fatemi sapere se siete ancora vivi da qualche parte, grazie. 
Love, Deborah.

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