Hurt me and tell me you’re mine (in ruins) di sleepingwithghosts (/viewuser.php?uid=163505)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In ruins – missing moment #1 ***
Capitolo 2: *** In ruins – missing moment #2 ***
Capitolo 1 *** In ruins – missing moment #1 ***
Hurt me and tell me you’re mine.
(In ruins – missing moment #1)
Mi
svegliai, combattendo con tutte le forze contro la luce che entrava
dalle
finestre e che mi si sparava dritta in faccia. Mi mossi lentamente,
abbracciando il busto di Seth. Ero in uno di quei momenti post sbornia
in cui
sapevo a mala pena come mi chiamavo, ma lui, sapevo che lui era
affianco a me,
anche se probabilmente dormiva ancora, sfinito quanto me. Non lo sentii
muoversi di un millimetro, il respiro regolare, il torace che si alzava
ed
abbassava lentamente. Era caldo da impazzire, e io, come al solito,
ghiacciata.
Tutto in me urlava “Seth, hai bisogno di Seth”. E
il punto era proprio che io
avevo bisogno di lui per sopravvivere. Per sopravvivere quando avevo le
mani, i
piedi, il corpo e l’anima freddi. Quando ero triste, quando
ero euforica,
quando cadevo e non riuscivo ad alzarmi. Lui era affianco a me, sempre,
nonostante
tutte le liti e gli insulti.
Alzai
la testa e con la punta dell’indice presi a sfiorargli il
viso, con delicatezza.
Partii dalle sopracciglia, distese e beate come quelle di qualcuno che
stava
facendo un bel sogno, gli accarezzai le palpebre chiuse, non toccandole
veramente e scesi verso il naso, dritto e liscio. Quando gli toccai le
labbra,
le dischiuse appena, scaldandomi la pelle con il suo alito. Ora sapevo
che era
sveglio, ma lui non aprì gli occhi, lasciandomi continuare
l’esplorazione di
quel volto che conoscevo bene, qualsiasi espressione assumesse. Mi
avvicinai a
lui e gli lasciai un bacio sul mento, pungendomi un po’ con
la barba che si era
fatto crescere – non avevo fatto obiezioni,
perché, a quanto pareva, i miei ormoni
la trovavano estremamente sexy. Fu in quel momento, comunque, che
aprì gli
occhi: verdi, verdissimi, come ogni mattina. (“Come
ogni mattina in cui mi sveglio affianco a te”, aveva detto
una
volta)
«Ciao»,
dissi con un sorriso. Lui si avvicinò e mi baciò
le labbra, nel suo modo dolce,
carino e leggero. Mi strinsi un po’ a lui, giusto
perché non avevo nessuna
voglia di alzarmi dal letto, e lui mi cinse la vita con un braccio,
avvicinandomi ancora di più.
Rimanemmo
in silenzio per un tempo che mi parve infinito, ma io non mi stancavo
mai di
stare in silenzio insieme a Seth, perché sembrava che i
nostri respiri
suonassero insieme. Componevano una melodia confusa ma che in qualche
strano
modo aveva un’armonia, come se non fosse sbagliata. Come se
noi non fossimo
sbagliati.
Alzai
lo sguardo e lo osservai, mentre lui osservava me.
«Cosa?», chiese indagatore.
«Ho
bevuto. Quanto ho bevuto?». In quei cinque mesi in cui non ci
eravamo visti,
avevo smesso di bere e di drogarmi, avevo davvero voglia di sparire e
anche
facendo quelle cose temevo di attirare l’attenzione, di
espormi troppo. Quando invece
ero tornata insieme a lui – non che stessimo
insieme, come una coppia, ma non-esplicitamente lo eravamo,
dato che
avevamo solo noi stessi, pochi amici e nessuna famiglia –
tutto era tornato
come prima, alcol compreso. Mi faceva sentire bene, quello continuavo a
ripetermi, ma sapevamo bene entrambi quando ci facesse male fisicamente
(e
psicologicamente). Era anche vero, che in quei momenti in cui
galleggiavamo
negli effetti dell’alcol, ci amavamo come non mai. In quei
momenti eravamo
attratti l’una dall’altra come normalmente non lo
eravamo mai, e non perché non
ci amassimo, non perché non ci desiderassimo, solo
perché eravamo troppo
concentrati nel distruggerci da soli, ognuno per contro proprio. Ed era
proprio
in quei momenti di massima distruzione, fatti di droga e ubriachi
fradici che
ci rendevamo conto di quel bisogno, del
bisogno di avere quell’altra persona affianco,
quell’ancora di salvezza.
Mi
carezzò la guancia e chiusi gli occhi, godendomi quel
contatto rovente contro
lo zigomo scarno. «Mi dispiace», disse solo, e io
annuii, perché lo sapevo che
gli dispiaceva tanto quando dispiaceva a me. Sapevo anche quanto non
gli
dispiacesse, perché mi amava, mi amava così tanto
da volermi sua in qualsiasi
momento possibile. Anche perché io non avevo smesso di fare
quello che avevo
fatto in quegli anni: la troia. Sebbene fosse nata quella cosa con Seth e passassi con lui la
maggior parte del mio tempo,
avevo ancora una famiglia, una madre picchiata a sangue dal marito, un
padre
reso marcio dall’alcol e dalla sua stessa natura di bestia,
che gli faceva fare
quello che faceva. Portavo ancora io a casa i soldi per mangiare, con
la sola
differenza che poi me ne andavo, che poi tornavo a
casa mia, ovvero fra le braccia e le carezze di Seth. Era
casa
ormai, era porto sicuro, era luce.
Era
anche buio. Lo era quando mi picchiava perché troppo fatto,
e io me ne rendevo
conto e tacevo, come aveva fatto in tutti quegli anni mia madre,
maledicendomi perché
c’era la consapevolezza in me di dover scappare, non fare la
sua stessa fine,
ma anche quella che lo amavo, e senza di lui non avrei saputo dove
andare, cosa
fare. C’era la consapevolezza anche che lui, senza di me, non
sarebbe stato più
niente, e lo vedevo nei suoi occhi dopo avermi sbattuto addosso al muro
con
forza, quando abbassava il volto e mi chiedeva scusa sussurrandomelo
sul petto.
Appoggiai
il naso sul suo petto. «Non importa».
«Esci
oggi?».
Annuii.
«Ho da fare». Ero solita non ricordargli tutte le
volte in cui andavo a fare i
pompini agli altri ragazzi, e sapevo che apprezzava il fatto, lo capivo
da come
mi guardava e poi sbuffava. Gli baciai l’ombelico e lo sentii
irrigidirsi. Chiusi
gli occhi e presi un respiro. «Dobbiamo di nuovo tornare
sull’argomento?».
«Lo
sai quanto mi faccia schifo».
Avrei
voluto ribattere che non sapeva quanto schifo facesse a me, ma mi morsi
il
labbro per tacere. «Ti prego», soffiai.
«Fai
come vuoi». Dicendolo si alzò dal letto e
andò in bagno, lasciandomi con la
faccia premuta sulle lenzuola calde. Lo odiavo quando faceva
così. L’avrei
preso a schiaffi. Gli avrei urlato dietro le peggiori cose,
pentendomene cinque
minuti dopo.
Ritornò,
io ancora nella stessa posizione, e mi mise una mano su una coscia.
«Mi spiace».
«Lo
so».
«Mi
fa davvero schifo».
«Lo
so, ma se non lo faccio non mangiamo e non mangiano i miei, dato che
mamma al
lavoro non ci va proprio più». Mi
guardò, e si coprì lo sguardo triste con le
mani, nascondendosi il volto in esse, nascondendolo da me.
«Seth, guardami»,
dissi avvicinandolo a me. «So quanto ti stai impegnando a
cercare un lavoro, so
che lo troverai perché sei intelligente e bello e qualcuno
ti vorrà assumere,
prima o poi. Forse dovresti cercare in uno di quei club dove fanno gli
spogliarelli»,
scherzai. Mi guardò incuriosito, con un sorriso sulle
labbra. Io tornai seria. «Sto
scherzando, ovviamente». Scoppiò a ridere e ne fui
felice, mi aggrappai su di
lui e gli stampai un bacio. «Che c’è da
mangiare in casa? Muoio di fame»,
mugugnai sulle sue labbra.
«Mio
fratello deve aver fatto la spesa, andiamo a vedere in
cucina». Mi prese per
mano, e cominciammo un’altra giornata nello stesso modo di
tutte le altre
giornate: insieme ma tristi, insieme ma stanchi. Insieme. Stanchi.
Vuoti. In attesa.
Non
avevo chiesto a Seth di venirmi a prendere a scuola per ovvi motivi, ma
quello
stronzo che mi ero scopata nel bagno mi aveva fatto davvero male e io
avevo
solo voglia di arrivare il prima possibile a casa e buttarmi fra le
lenzuola
del suo letto. Camminavo a stento,
quindi
decisi di prendere la metro, invece di farmi tutta la strada fino a
casa del
fratello di Seth a piedi. Avrei speso un po’ dei soldi appena
guadagnati per il
biglietto, ma andava bene così. Quando scesi le scale
mobili, però, mi bloccai,
perché in lontananza vidi Seth. E sapevo che era lui,
perché quella era la sua
felpa, quelle le sue braccia, quelle le sue spalle. Lentamente
mi avvicinai, cercando di non farmi
vedere perché stava discutendo animatamente con un tizio che
non aveva un’aria
familiare. Almeno per me, dato che Seth continuava a chiamarlo
“amico”, anche
se non sembrava per niente in amicizia. Il ragazzo, piuttosto, aveva
un’aria
incazzata.
«Lo
so che ti devo dei soldi, ma ne ho davvero bisogno».
«Niente
grana, niente roba, mi dispiace».
«Ti
pagherò presto, ho trovato un lavoro», disse Seth
sbattendo le ciglia.
«Davvero?»,
chiese il ragazzo, che non sapeva se credergli o no.
«Davvero».
Dopo qualche istante il tizio estrasse una cartina dalla tasca e la
consegnò a
Seth, che gli diede un abbraccio per nulla affettuoso con un sorriso,
prima che
l’altro se ne andasse. Senza droga e senza soldi.
Mi
avvicinai ancora, fermandomi a qualche passo di distanza da lui,
aspettando che
si accorgesse di me. Vidi invece che prendeva la pasticca dal piccolo
sacchetto
di plastica e se la metteva sulla lingua.
«Hei»,
dissi spingendo le mani tremanti in tasca, per evitare che le vedesse.
«Evie?
Che ci fai qui?», domandò subito, avvicinandomi a
sé e cingendomi la vita con
le braccia.
«Torno
a casa».
«In
metro?». Scrollai le spalle, incapace di guardarlo negli
occhi. Stavo soffrendo
troppo e se mi avesse guardato negli occhi se ne sarebbe reso contro. O
forse
no, con quell’acido in corpo. Lo sentii sospirare.
«Hai visto, vero?».
Annuii.
Avevo visto eccome. Mi alzò il viso con una mano,
disegnandomi dei cerchi con
il pollice sul mento. «Mi dispiace».
«Sì,
ti credo», dissi con tono di arresa guardandolo negli occhi
per poi allontanandomi
da lui, trattenendo le lacrime per il dolore. E non solo il dolore
fisico, ma
quello che lui mi stava facendo provare.
«Dove
vai?», chiese fermandomi per un braccio.
«A
casa,vado a casa».
«Perché
sei incazzata adesso?».
Mi
girai verso di lui e lo guardai dritto negli occhi, i miei ormai
lucidi. «Sono
incazzate perché non capisco il motivo di
quell’acido. Capisco quando lo
facciamo per divertirci insieme, quando vogliamo staccare la spina un
po’, ma
ora? Ora che senso ha Seth? Sei così infelice?».
Avrei tanto voluto chiedergli
se era infelice con me, ma mi morsi la lingua per ammutolirmi. Se ne
rimase
zitto. Mi divincolai sentendo il rumore dell’arrivo della
metro e salii,
incurante di Seth e dei suoi casini. Ovviamente salì anche
lui, sedendosi nel sedile
affianco a me. Io continuavo a guardare fuori dal finestrino i muri
scuri
sfrecciarmi affianco e lui continuava a starsene zitto e a guardarmi
ogni
tanto, per assicurarsi che non stessi piangendo.
Scendemmo
alla fermata vicino casa e non mi voltai a guardarlo finché
non chiuse la porta
alle nostre spalle, sbattendola forte. Ormai l’acido stava
facendo effetto, e
io sapevo benissimo che in quel momento lui era nel sul paradiso
personale, a
vederci draghi parlanti o chissà cosa. Lo accompagnai al
divano e feci per
andarmene quando lui mi fermò mettendomi una mano sul
sedere. «Rimani qui, dai»,
biascicò lentamente, a fatica.
Mi
defilai e mi chiusi in bagno perché il dolore stava
diventando insopportabile e
io non sapevo come farlo andare via. Mi feci una doccia, indossai
biancheria
pulita e mi distesi a letto, le cosce strette per contenere il dolore,
gli
occhi chiusi per contenere le lacrime che da lì a poco
sarebbero scese.
Mi
svegliai, un tempo indefinito dopo, sentendo qualcosa cadere
nell’altra stanza,
quella in cui c’era Seth strafatto. Raggiunsi la stanza e lo
vidi immobile a
guardare il pavimento, un bicchiere di vetro rotto ai suoi piedi. Mi
avvicinai
a lui, abbassandomi per raccoglierlo, ignorando il suo stato di trance,
ma un
pezzo di vetro mi si conficcò sulla mano, facendomi
imprecare. Mentre sciacquavo
la mano sanguinante sotto il lavandino, sentii le mani di Seth
appoggiarsi sui
miei fianchi, la sua bocca baciarmi il collo.
«Non
ora Seth», protestai.
«Mi
puoi dire che cazzo hai oggi?» fu la sua risposta irritata.
Mi
girai verso di lui, i volti a pochi centimetri di distanza.
«Vuoi davvero
sapere cos’ho, Seth? Hai dei debiti per la droga e non mi
è ancora chiaro se
sia una cifra alta e per quale cazzo di motivo ti droghi. Ho un
maledettissimo
pezzo di vetro in una mano perché tu non sai nemmeno
impugnare un bicchiere, e
ciliegina sulla torta, potrei avere una fottuta malattia
venerea!», sbottai,
esausta.
I
suoi occhi mi guardavano inespressivi, come se il suo cervello stesse
metabolizzando quello che avevo appena detto. Era così
infatti, e lo sapevo
bene, ma in quel momento ero troppo arrabbiata per pensarci.
«Vaffanculo».
Che
fosse stata un’idea sbagliata, mandarlo a fanculo, lo scoprii
pochi istanti
dopo, quando lo sentii entrare nella camera da letto in cui mi ero
rifugiata di
nuovo. «Lasciami in pace, ti prego lasciami in
pace», dissi esausta.
Ma
lui si avvicinò e mi strinse il viso con forza con le sue
mani. Mi fece male,
ma tacqui, continuando a guardarlo sperando ritrovasse la ragione.
«Vedi che
cosa significa fare la puttana? Ti ho sempre detto di smettere di
farlo, Evie!»
«Mi
stai facendo male», sussurrai.
«Bene,
te lo meriti». Fece scontrare le sue labbra con le mie, e mi
morse un labbro
facendomi gemere. Inserì la lingua nella mia bocca, e mi
baciò con prepotenza,
continuando a premere con le mani sulla mia mascella. Faceva un male
cane,
quindi appena ci riuscii, fui io a mordergli il labbro e ridurglielo in
sangue.
Si staccò immediatamente da me, e io riuscii ad alzarmi e ad
allontanarmi da
lui.
Sapevo
bene che prima o poi sarebbe tornato abbastanza cosciente da chiedere
scusa, ma
ora, nei suoi occhi, non vedevo nient’altro se non la rabbia,
la delusione e la
follia. Sapevo bene che era la droga, a fare quell’effetto,
ma io ero troppo
stanca per combattere, troppo stanca per ragionare, troppo spaventata
per non
fare qualsiasi cosa se non urlargli contro. «Devi smetterla
cazzo! Sto male
okay? Non so che cosa mi sono presa ma mi fa male. Ho preso la metro
perché avrei
fatto prima e perché camminare mi uccideva,
perché sapevo che a casa ci saresti
stato tu pronto ad abbracciarmi o portarmi da un medico. E invece con
che cosa
mi ritrovo, eh? Con una brutta copia di Seth fatto, aggressivo e che
non vede l’ora
di scoparmi. Vaffanculo, vai davvero a farti fottere e cercati
un’altra persona
con cui fare i tuoi giochetti da schizzato di mente, perché
io mi sono rotta». Avevo
le lacrime agli occhi come ogni volta che litigavamo, ma presi la sua
felpa
abbandonata ai piedi del letto e mi incamminai verso la porta. Volevo
scappare
da lui, da quella merda. Volevo scappare da me, soprattutto. Con la
mano sulla
maniglia lo sentii dietro di me. Sussurrò un debole
«scusa» e mi attirò a sé,
cingendomi la vita con le braccia. Mi appoggiai contro di lui, le
lacrime che
scendevano mentre fissavo la porta da cui volevo ancora fuggire per non
tornare
mai più. Ma non sapevo dove andare, non avrei saputo dove
andare, perché tutto
attorno a me era malato, era sbagliato, mi faceva soffrire e io ero
solo una
ragazzina di diciassette anni che era dovuta crescere troppo in fretta
per
cercare di sopravvivere. Cercare, perché dai risultati non
ci stava riuscendo.
«Mi
dispiace Evie», disse Seth al mio orecchio. «Con
quella roba non mi controllo,
lo sai». Non riuscii a rispondere, feci sono un movimento del
capo dettato
soprattutto dal singhiozzo che non ero riuscita a trattenere fra le
labbra. Mi fece
girare, ora lo guardavo negli occhi. «Scusami».
Sapevo
che l’avrei perdonato, in quel momento e altre mille volte.
Lo sapevo, era
scritto nel mio dna che avrei amato quel ragazzo per tutta la mia vita,
nonostante le nostre vite desolate, il male che ci facevamo, la droga,
le
botte. Sapevo che anche lui mi amava, e non so come, ma me lo facevo
bastare
sempre. Gli posai una mano sulla guancia. «Vai a dormire un
po’, poi andiamo
dal medico».
«Mi
spiace averti chiamata puttana». Mi strinsi nelle spalle e
lui appoggiò la
fronte alla mia. «Sono innamorato di te, Evie e questo
neanche la droga può
farmelo dimenticare».
Avrei
tanto voluto dirgli che l’aveva dimenticato, quando mi aveva
chiamato puttana, perché
io mi ero sentita morire dentro, come tutte le altre volte che
l’aveva fatto,
ma annuii e lo baciai sulle labbra per scacciare quella voglia di
scappare
dalla mia mente che stava urlando, stava urlando di andarmene via da
quella
vita, ma io rimanevo incollata a terra, spinta verso al suolo da tutti
il
fardello che portavo sulle spalle. Niente tregua per me, Evie
Mcdonnell, mai.
Coff
coff.
Io
vi avevo avvisati che non sarei riuscita
a staccarmi da Evie e Seth molto presto, e infatti ecco qui. Questo
è un
missing moment di quegli anni di cui vi ho parlato molto velocemente
nell’epilogo,
quegli anni in cui hanno vissuto insieme e si sono fatti del male. Ho
intenzione di scrivere più di un episodio, quindi questo
è solo il primo. Spero
la cosa vi faccia piacere, perché a me scrivere di loro
piace così tanto che
non so se riuscirò mai a smettere.
Fatemi
sapere che cosa ne pensate, anche se dubito che qualcuno
leggerà questa cosa
malsana.
Deborah.
Ps:
non rovinatevi l’idea di Seth e dell’amore che
prova per Evie, imparerete solo
a conoscerlo meglio, anche quando lui da del suo peggio.
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Capitolo 2 *** In ruins – missing moment #2 ***
Hurt me and tell me you’re mine.
(In
ruins – missing moment #2)
«
Evie, amore, metti giù
quella
pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava
appena. Impugnai
meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio,
partisse un colpo
Camminavamo
tenendoci per mano – era stato lui, a stringermela, quando
stavo per perdermi
fra la folla – e guardando le bancarelle al lato della
strada. Ce ne stavo in
silenzio, a osservare intorno a noi abiti vintage e braccialetti fatti
a mano,
con la luce grigiastra del cielo a colpirci dritta in faccia.
Eravamo
usciti di casa dopo che lui aveva proposto una passeggiata e io avevo
alzato le
spalle, in segno di assenso. Mi aveva dato un bacio veloce sulla
guancia ed era
sgusciato in bagno, a prepararsi, per poi lasciare il posto a me. Si
sentiva
nell’aria che qualcosa non andava, che eravamo sfiniti, ma
non avevamo più
nemmeno la forza per parlarne, quindi tacevamo. Dopo essermi lavata i
denti e
sistemata i capelli, entrai in camera – che in
realtà era il salotto, dato che
il nostro letto era anche il nostro divano, e nell’unico
armadio della stanza c’erano
vestiti e tazzine per la colazione – e mi svestii, sentendo
il suo sguardo
fisso sulla schiena. Indossai una gonna corta nera, che mi fasciava le
cosce perché
molto aderente, una sua maglia bianca con una stampa infilata dentro,
il
giubbino di pelle nera, e degli stivali che stavano larghi sulle
caviglie, e una
volta finito mi guardai allo specchio incrociando il suoi occhi.
« Andiamo? ».
Annuì soltanto, aprendomi la porta e seguendomi
giù per le scale. Da quel
momento non avevamo più aperto bocca, neanche per proferire
qualche
monosillabo.
«
Mangiamo qualcosa? Hai fame? » chiese dopo un po’,
indicandomi con la testa la
vetrina di un bar nell’angolo non troppo affollato.
«
Okay. »
Entrammo,
sedendoci in un tavolino vuoto, e presi un cappuccino, sorvolando
quando Seth
disse che forse era il caso che mangiassi qualcosa con uno sguardo che
di
carino e dolce aveva ben poco. Appoggiando il bicchiere alle labbra,
poco dopo,
pensai che in quei momenti io e lui non ci amavamo per niente. Non
poteva
essere amore, quella cosa che c’era fra di noi. Non
c’era nulla, nei nostri
sguardi, nelle nostre parole dette a fatica e nei nostri movimenti, che
avesse
potuto suggerire a qualcuno quell’amore che provavamo
l’una per l’altro. Ma
forse, pensai, noi non ci amiamo
nemmeno più. Lo pensavo spesso nei momenti
successivi alle discussioni, o la notte quando non riuscivo a dormire,
sentendo
il suo braccio lascivo attorno alla mia vita, come a stringermi senza
forza. Pensavo
spesso che quello non poteva
essere
amore, perché mi faceva soffrire troppo e ci stava
distruggendo lentamente. E io
sapevo bene che tutto non era come le favole, me ne ero resa conto
più o meno
dieci anni prima, ma ancora un po’ ci speravo che le cose si
sarebbero potute
sistemare, almeno con Seth, che sapeva tutto di me; almeno con lui, che
mi
capiva, mi ascoltava e diceva di amarmi.
Il
punto era che ormai si era stancato di ascoltarmi e amarmi pure lui,
come
avevano fatto tutti nella mia vita, e il mio progetto di salvarlo e
cercare di
sopravvivere stava lentamente naufragando nel mare delle delusioni che
di
giorno in giorno mi si allargava dentro.
«
Hai detto che non hai fame, e va bene, ma almeno potresti bere quel
caffè e non
fare finta? »
disse interrompendo il flusso dei miei pensieri. Alzai gli occhi e poi
li
riabbassai, continuando a giocare con la bevanda, lo stomaco chiuso. Lo
sentii
sbuffare sonoramente, ma mi imposi di non scattare, di non mettermi ad
urlare e
soprattutto di non piangere. «
Lo so che sei arrabbiata con me, e ne
hai tutte le ragioni, ma risolverò tutto, te lo prometto. »
Lo
guardai, ripensando ai giorni precedenti. Una sera se ne era tornato a
casa,
mentre io studiavo accovacciata nel letto per il compito di fisica del
giorno
successivo, mordicchiando la penna con cui prendevo appunti facendo
schemi poco
comprensibili pure a me su un quadernino, con un sorriso sulle labbra
che mi
aveva stupido. « Che succede? » avevo chiesto senza
nemmeno salutarlo.
Seth,
ancora vicino alla porta, si avvicinò a me, abbassandomi
sulle ginocchia per
guardarmi meglio. « Ho trovato un lavoro. » Lo
abbracciai soltanto, incrociando
le braccia al suo collo e stringendolo a me. « Domani sera ho
il primo turno di
prova, poi vedranno se assumermi oppure no. » mi
sussurrò in un orecchio.
«
Dove? »
«
In un locale, a portare bibite e cibo ai tavoli. » Con la
consapevolezza che
avrei dovuto stare da sola in quel letto aspettando con ansia il suo
ritorno,
gli lasciai un bacio sulla guancia, e lui mi disse solo «
grazie ».
Avevo
passato il resto della giornata a studiare, lui seduto vicino a me a
leggere Gente di Dublino. Ogni
tanto la sua mano
si posava sulla mia pelle, e mi accarezzava. Ogni tanto mi attirava a
sé per
baciarmi e sorridere un po’.
Quando
della fisica non ce la facevo proprio più, chiusi il libro e
mi distesi
affianco a lui, facendo aderire il suo fianco a me. Si voltò
a guardarmi, con
un sopracciglio alzato. «
Se non prendi il massimo dei voti tu,
dopo tutte queste ore di studio, non lo farà nessuno. »
Sorrisi: la scuola era l’unica costante positiva della mia
vita, e andava bene
così. Avevo imparato a non ubriacarmi e a non sballarmi
troppo prima dei
compiti, per rimanere lucida e svolgerli a meglio, poi, tutti gli altri
giorni
mi limitavo a vegetare sui banchi di scuola, ascoltando quando ce la
facevo e
fingendo di ascoltare quando ero in qualche pianeta parallelo.
«
Lo spero. »
«
Vieni qui »
disse posando il libro e avvicinandomi a sé, per baciarmi
più intensamente di
prima. Mi spostai, a cavalcioni su di lui, i pantaloncini corti del
pigiama che
si schiacciavano attorno alle cosce. Infilai le mani nei suoi capelli
nello
stesso momento in cui lui, con le sue, mi posizionava meglio su di
sé,
tenendomi per i fianchi. Si staccò dalle mie labbra,
cominciando a lasciarmi dei
baci soffici sul collo, sul mento, sulle guance, per poi scendere di
nuovo, e
dopo aver abbassato le coppe del reggiseno, lasciarmi un succhiotto
appena
sopra al seno. Nei suoi occhi, che mi capitava spesso di fermarmi ad
osservare,
mentre lui mi dava piacere, vedevo la passione che provava a toccarmi,
il
benessere. Non riuscivo a capire – o meglio, non me lo
ricordavo – se nei suoi
occhi ci fosse sempre stata quell’espressione. Non riuscivo a
ricordare se
quando ancora mi amava, avesse quello sguardo, o se nelle sue iridi ci
fosse
qualcosa di diverso. Un gemito che mi sfuggì dalle labbra
premute sulla sua
spalla, cacciò in fretta quel pensiero infelice.
Scesi
più giù, prima sfilandogli la maglia e poi
aprendogli ad uno ad uno i bottoni
dei jeans, sentendo il suo respiro affannoso nelle orecchie.
Alzò il bacino,
che aderì con il mio provocandoci una scossa, per
facilitarmi il compito di
sfilargli i pantaloni. Poco dopo mi tolse la maglia del pigiama e mi
sfilò il
reggiseno, lasciandolo scivolare fra di noi.
Dopo
quel giorni in libreria, quando ci eravamo detto che ci amavamo, avevo
cercato
di vedere il sesso con Seth in un altro modo dal sesso con gli altri
ragazzi –
o con mio padre. Mi ero imposta, inconsciamente, che con lui non era
sesso, che
con lui io facevo l’amore. Solo con lui. E lo dovevo
ammettere, che era stato
bello, per un po’, lasciarsi amare da lui. Perché
sembrava sempre che il suo
tocco non volesse violarmi, ma solo conoscermi. Perché
sembrava sempre che il
mio corpo, il modo in cui io lo facevo stare in quei momenti, gli
procurassero
gioia, e non solo piacere fisico. E allora sì, avevo pensato
che con lui io
facevo ogni volta l’amore, e non il sesso, anche quando in
realtà l’unica cosa
che facevamo era sbatterci in ogni superficie piana, ancora vestiti per
metà,
con la droga in corpo e i cervelli in un altro mondo.
Ricordai,
mentre sentivo che Seth spostava la mia biancheria con una mano, quella
volta
in cui mi ero presa quell’infezione del diavolo. Per un
periodo non
eccessivamente lungo, ma nemmeno tanto breve, il medico mi aveva
tassativamente
proibito di fare sesso. Quello mi aveva inevitabilmente portato a dare
di
matto: ero arrivata a pensare che Seth mi tenesse con sé
solo per sfogare i
suoi bisogni di ragazzo ancora adolescente su di me. Si
rivelò invece uno dei
periodi più belli della nostra non-storia. Era sempre
prudente con me, e stava
sempre bene attento a non superare i limiti stabiliti dal medico e da
quell’infezione.
In quel periodo mi sentii amata da Seth come poi, non mi sentii
più. E forse
era solo che sembrava tutto più dolce e tenero, come se
avessi una vita
normale, e forse era che non si drogava per non eccedere, e forse erano
solo
tante piccole coincidenze, ma mi sentivo bene, con tutta quella
dolcezza che mi
dava.
In
quel momento sul divano, mentre mi si sconnetteva il cervello
nell’esatto
istante in cui Seth infilava due dita dentro la mia eccitazione,
sentivo che
forse, fra di noi, ci sarebbe potuto essere ancora un po’ di
quell’amore che
continuavamo a sussurrarci nelle orecchie. Che noi, io diciassette
anni, lui diciannove
appena compiuti, non avevamo ancora distrutto le nostre vite del tutto,
che c’era
ancora un minimo di speranza per noi. Per il nostro amore malato,
anche.
Mi
lascia trasportare da Seth in un posto in cui nulla faceva
più male, anche se
sapevo bene che stavo mentendo, perché piansi le lacrime che
mi stagnavano
negli occhi da giorni quando oramai eravamo così uniti da
apparire una cosa
sola. Non capivo mai se lui se ne accorgeva, quando piangevo mentre
facevamo l’amore,
e spesso non capivo nemmeno perché piangevo, ma seppi
comunque che quel
pomeriggio, sul divano di casa nostra, quella che pagavamo con i soldi
che
riuscivo a guadagnare io, con quelli che Seth riusciva a racimolare in
modi che
non sapevo, e con quelli che ci passava suo fratello, quando ci beccava
a
mangiare cereali, sentì le mie lacrime bagnargli la spalla e
colargli giù sulla
schiena, perché rabbrividì e mi strinse
più forte, dicendomi all’orecchio che
mi amava, che mi amava, che mi amava, ripetendolo come un mantra mentre
eravamo
uno perso nell’altra.
Mi
addormentai sfinita, risvegliandomi in piena notte in un letto vuoto se
non di
un biglietto “ Sono dovuto scappare. Torno presto. Ti amo,
Seth “. E mi scese
una lacrima, forse qualcuna in più di una, e mi
riaddormentai con un gusto
amaro sulle labbra e un peso sullo stomaco.
La
sera successiva, quella in cui avrebbe provato il nuovo lavoro, mi
lasciò
seduta sul divano ad ascoltare un cd che aveva portato a casa il
pomeriggio,
dicendo che ci aveva masterizzato delle canzoni che mi sarebbero
piaciute
sicuramente. E io le ascoltai, le ascoltai sentendo ogni parola
scagliarsi
addosso alla mia pelle, ferirmi e portarmi sollievo contemporaneamente.
Ma il
dolore era troppo forte, e io non riuscivo a contenerlo. Chiusi gli
occhi e
ingoiai il groppo creatosi alla gola. Non
devi tagliarti di nuovo, l’hai promesso, ricordi? Niente
più segni freschi
sulle cosce, sulle caviglie, sulle braccia. Gliel’hai
promesso. E fu così
che evitai di sentire davvero il
dolore. Fu così che mi nascosi sotto le lenzuola fine
tremando, e
abbandonandomi alla stanchezza.
Ore
dopo, al ritorno di Seth avrei sentito il rumore di un cassetto
chiudersi, il
materasso abbassarsi al mio fianco e delle labbra baciarmi le palpebre.
«
Mi dispiace, troverò qualcos’altro. »
Puzzava così tanto d’alcol
che continuai a far finta di dormire, perché non ce
l’avrei fatta a sopportare
niente quella sera, con il mare che mi stava dentro in tempesta, in
burrasca,
la marea alta, pronto a fuoriuscire, pronto a sommergermi.
Era
così, che ci eravamo trovati in quel bar a guardarci e a non
amarci. «
Non sono arrabbiata, Seth. »
«
Sì, certo, come no. »
«
Sì, Seth, io non sono arrabbiata con te, sono delusa. Dovevi
servire delle
stupide bevande ai tavoli, come cazzo hai fatto a non farti assumere? »
Spostò
lo sguardo al bicchiere, e dopo aver bevuto un sorso della birra che
stringeva –
erano le dieci di mattina, cristo – disse «
Mi è sfuggito tutto di
male, ho bevuto un po’ troppo con degli amici che mi erano
venuti a trovare. »
«
Tu non hai amici. »
mi ritrovai a dire, con un tono
strozzato. Poi mi resi conto di quali amici parlasse: quelli della
stazione,
quelli della droga. «
Quegli amici, Seth? »
«
Sì. »
Mi
alzai, lasciando il cappuccino sul tavolo, e stringendomi le braccia al
petto
mentre correvo fuori dal locale. Sentii Seth dietro di me, che mi
seguiva, ma
fu subito fermato poiché non aveva ancora pagato il conto.
Corsi velocemente,
confondendomi fra la folla, prendendo la metro e, arrivata a casa
sbattendo
forte la porta dietro di me, gli occhi pieni di lacrime. Poi ricordai
il rumore
del cassetto aperto e chiuso da Seth durante la notte. Mi ricordai di
quel
particolare e lo aprì trovandoci dentro quello che non avrei
mai pensato di
trovare.
«
Evie, amore, metti giù
quella
pistola, per favore? » disse Seth, la voce che gli tremava
appena. Impugnai
meglio l’arma per paura mi scivolasse dalle mani, o peggio,
partisse un colpo.
Ma
forse sarebbe stato giusto. Forse sarebbe stato giusto eliminare
uno di quei problemi che mi stavano facendo impazzire.
«
Mi metti voglia di morire, Seth. »
glielo dissi così, con
le lacrime in gola.
«
Ti prego, parliamo. »
«
Parlare? Non facciamo altro che parlare dalla mattina alla sera. Non
facciamo
altro che parlare di cazzate. »
Pensavo
che quella cosa che vedevo nei suoi occhi fosse paura. Pensavo che
sicuramente
c’era anche nei miei occhi la stessa cosa strana. «
Non mi ami più? »
Deglutii.
« No, sei tu che non mi ami più. Sei tu quello che
mi fa del male, che mi scopa
come si fossi davvero una puttana, che tiene una pistola in casa per
non si sa
quale ragione, che si ubriaca mentre lavora e quel lavoro, di cui ha
disperatamente bisogno, lo perde. Sei tu Seth, sei tu. »
«
Stronzate! » urlò, e fece un passo verso di me.
Impugnai più stretta l’arma,
ormai ero sicura di avere dei segni rossi sulle mani. «
Perché cazzo ti sei messa
in testa che io non ti amo più, vuoi spiegarmelo? »
«
Sei strafatto tutte le volte che mi tocchi. »
«
Cazzate. »
«
Sì, dico solo cazzate io, vero? Sono una pazza troia che
dice solo stronzate,
hai ragione tu! »
Mi
si avvicinò, tanto che la pistola quasi gli toccava il
petto. Rimase a
guardarmi, silenzioso, il respiro accelerato. « Io ti amo,
Evie. Ti amo come se
fossi il mio ossigeno e nel mondo non ce ne fosse più
nell’aria. Ti amo perché nonostante
tutte le stronzate che faccio, sei ancora qui. Ti amo perché
sei l’unica cosa
che rimane, perché i miei genitori sono morti, di mio
fratello non me ne frega
un cazzo, degli amici nemmeno. Mi drogo perché soffro.
Soffro a vedere che tu,
con me, stai male. E lo so che è solo colpa mia, so che ti
metto voglia di
morire, ma se tu muori Evie, se tu non ci sei più a questo
mondo, io vengo con
te. Non aspetto altro, io non aspetto altro che rimanere sempre con te,
senza
tutto questo dolore. »
Le
lacrime mi scesero dagli occhi, e fui costretta ad aprire un
po’ la bocca per
tornare a respirare. Seth si avvicinò e mi prese la pistola
dalle mani,
riponendola di nuovo nel cassetto alle mie spalle, per poi tornare
davanti a
me, gli occhi spaventati.
Ero
sicura che sarei morta per quel dolore che sentivo premermi contro le
ossa,
riempirmi. Perché quando qualcosa comincia a fare così male non
c’è niente da fare, non c’è
più niente di vivo in te,
non c’è più niente che abbia voglia di
continuare a sperare che un giorno andrà
tutto bene. Perdi la speranza perché ormai hai perso anche
te. Ti sei persa e
non riesci a trovarti, non riesci a trovarti da nessuna parte, anche se
ti
chiami, anche se ti cerchi in tutte quelle stanze oscure che hai nella
mente,
facendo un sospiro di sollievo vedendoti rannicchiata a tremare. Ma non
ti
trovi in nessuna stanza buia, non ti trovi proprio più.
Sentivo
la fine di me e Seth ogni volta che i suoi occhi si posavano di me,
sentivo
franarmi dentro, sentivo che quelle sue mani che tanto amavo non
sarebbero
riuscite a salvarmi mai più.
Soprattutto,
comunque, sentii la mia fine quando mi buttai fra le sue braccia,
quell’oceano
che avevo dentro che mi sommergeva, gli occhi sbarrati davanti a me, e
le mie
mani che cercavano le sue, perché si rifiutavano di smettere
di sperare. Come
quando stai annegando e il tuo corpo ti porta a respirare a pieni
polmoni, per
aiutarti, per salvarti, senza sapere che in realtà si sta
uccidendo da solo.
Ispirazione
che mi esce da tutti i pori.
Niente,
non credo ci sia molto da dire, questo capitolo si commenta da solo.
Fatemi
sapere se siete ancora vivi da qualche parte, grazie.
Love, Deborah.
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