The Famiglia Vongola Rebirth

di Mad dy ness Zalk909192
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** La Famiglia Vidal e l'inizio della fine ***
Capitolo 3: *** Qualcosa di nuovo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Capofamiglia della famiglia Bovino
Castello Ducale, Bovino, Foggia 
Massima urgenza di recapito
 
 
Il corriere aveva portato la missiva trafelato, probabilmente aveva corso come un disperato sotto minaccia di… qualcuno.
Il Boss della famiglia Bovino lesse il destinatario e rabbrividì, capendo immediatamente che non era indirizzata a lui, ma al Capofamiglia.
Apparentemente, e per la gente normale, erano la stessa persona, ma non era così.
Lui non era che un presta volto, sebbene in pochi lo sapessero, e tale sarebbe restato per il resto della sua vita.
Era vecchio, ormai, il povero presta volto di nome Mario Miceli, e anche stanco di ricevere lettere non per sé stesso. E anche di riferire sempre e solo ordini a nome di qualcun altro, spacciandoli per suoi.
Ma era la mafia, lui ci era invischiato dentro fino al collo e tutto sommato non era così male, il trattamento che gli era riservano in quanto Boss Mafioso, sebbene ogni mestiere avesse le proprie difficoltà.
Prese la missiva senza aprirla e la nascose in un cassetto della sua scrivania, congedando freddolosamente il fattorino, un omuncolo di poco conto, che mai aveva visto prima.
-Puoi andare, ora. La leggerò più tardi.-
Tremando come una foglia, evidentemente aveva captato il suo sguardo pensoso scambiandolo per minaccioso, si affrettò verso la porta della stanza davanti a cui un uomo pelato, braccio destro del Boss-prestavolto ufficiale della Famiglia Bovino, si premurò di tenere aperta.
Miceli congedò anche lui, distrattamente, e Signor Pelata uscì in silenzio dalla porta senza proferir parola.
Rimasto solo, Miceli chiamò con l’interfono una stanza precisa del castello e subito la parete alla sua destra si sollevò per lasciar entrare un giovano uomo dai folti e voluminosi capelli neri, un occhio chiuso e un’aria scanzonata.
-Mario! Che piacere! …c’è qualcosa per me?-
Mario Miceli era sempre stupefatto ogni qualvolta avesse modo di osservare il Capofamiglia Bovino. E si vedevano spesso per discutere della Famiglia e di… altro.
Considerava assurdo che una persona così potesse essere non solo il vero Boss dei Bovino, ma anche l’uomo a capo della Resistenza, il corpo di affiliati singoli che combatteva la dittatura della Famiglia Mitillo.
Era, inoltre, disdicevole che un Boss Mafioso non indossasse un completo, che portasse un paio di corna finte sul cranio e che vestisse continuamente camice pezzate.
-Lambo…- Mario Miceli fece fatica a utilizzare quel nome, ma così gli era stato imposto anni ed anni prima, non poteva che obbedire, fedele al suo Boss; -…c’è una missiva dal…- Fu interrotto con un sorriso posato e una strizzata d’occhio; -…dal Liechtenstein, immagino!-
Miceli sospirò; -Sì, Boss… almeno così pare. E’ indirizzata al Capofamiglia.-
-Ottimo! Passamela, allora, non vedo l’ora di leggerla!-
Ci fu tensione nell’aria. Lambo sapeva che Mario non vedeva l’ora di sapere cosa succedesse nel Liechtenstein e nella parte di Castello in cui anche a lui era stato vietato l’ingresso, ma Mario stesso si stava trattenendo, come ogni volta, dal ficcare il naso in questioni che magari gli riguardavano anche, ma che non avrebbero dovuto interessarlo minimamente.
Lambo prese la lettera continuando a sorridere e tornò oltre il passaggio nella parete, chiudendoselo alle spalle salutando distratto con una mano.
Aveva fretta di leggere il contenuto e anche se all’apparenza poteva non sembrare, non stava più nella pelle.
Dopo mesi e mesi di silenzio, Hibari-san tornava a farsi vivo, quella era di sicuro la sua scrittura.
Sperò soltanto che portasse buone notizie per la loro causa.
 
 
Sono sullo Sue tracce, devo partire al più presto per l’Inghilterra.
Alte probabilità di successo.
Hibari Kyouya
 
 
Lambo rischiò di mettersi a saltellare dalla gioia. Presto sarebbe tutto finito, presto l’avrebbero trovato e tutto sarebbe rinato.
Almeno questa era la sua speranza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Yamamoto parò il colpo diretto al suo stomaco con facilità, e rimpianse il tempo in cui Superbi Squalo era ancora considerato l’Imperatore della Spada, il Capitano della Squadra Assassina Varia.
Si apprestò ad attaccare, rapido, e la sua katana di legno andò a scontrarsi con la spada d’allenamento dell’altro.
Erano cambiate davvero molte cose.
Parò un altro colpo e si portò sulla difensiva, permettendo a Squalo di attaccare e a sé stesso di divagare con la mente. Disgraziatamente, dopo la perdita della memoria, Squalo aveva perso anche buona parte delle esperienze accumulate nel tempo. Era uno spettacolo pietoso, per chi aveva combattuto con il “Vecchio“ Squalo.
Parò una stoccata frontale e continuò imperterrito a parare colpo su colpo senza troppa fatica.
Tsuna era morto. Tsunayoshi Sawada, Decimo Boss della Famiglia Vongola, era stato ucciso in un’imboscata della Famiglia Gigliola oramai sette anni prima e tutto, da quel momento, si era fatto più complicato, il gioco della mafia, quel colossale gdr che si era inventato quel piccolo mascalzone di Reborn, aveva smesso di piacergli.
Quasi perse l’equilibrio, ma con un sorriso trovò il tempo i scusarsi con Squalo per la propria disattenzione che, frustrato, si lanciò contro di lui con rinnovato vigore e un urlo degno della sua fama di collerico.
Quei capelli gli ricordavano, in qualche modo, quelli di un suo amico, di un suo rivale: Gokudera Hayato, un’altra vittima di quella guerra insensata che, dopo sette anni di “regno” da parte di Tsuna, era sfociata in episodi violenti, aperte contestazioni sull’operato dei Vongola e si era poi conclusa con la morte di Tsuna e, data l’assenza di eredi, l’assegnazione del titolo di Vongola Boss a Gokudera Hayato.
Superfluo da dire: Gokudera non era adatto ad essere il successore di Tsuna, provvisorio o meno, ma dopo tutto ciò che era successo… Gokudera era l’unico con un minimo di predisposizione al comando, almeno all’apparenza.
Fu un disastro totale.
Gokudera Hayato era impazzito, non aveva elaborato il lutto, era morto dentro. 
La sua fiamma si era ritorta contro di lui e, incapace ad attivarla per qualcuno che non fosse il suo Decimo, tantomeno per sé stesso, l’aveva dilaniato dall’interno, la Distruzione si era impossessata di lui.
Presto la situazione era degenerata, da guerriglia si era passati a una guerra aperta… E poco importava quanti calmanti o ansiolitici Gokudera si facesse prescrivere dal Shamal, poco importava in quanti tenessero a lui. Decimo era morto, e lui, questo, non poteva accettarlo.
Gokudera cercava lo scontro, cercava di vendicare il suo boss, cercava la morte.
Parata, attacco, parata, parata e attacco. Lo schema che stava usando Squalo era troppo semplice.
Glielo disse ridendo, scatenando nuovamente la frustrazione di un uomo che non era che un’ombra del sé stesso di pochi anni prima. 
Subito dopo incominciò a piovere, un acquazzone estivo come è raro vederne, ai giorni d’oggi.
Anche Yamamoto non capiva se fosse semplice acqua o fossero lacrime, mentre col sorriso disarmava Squalo e gli diceva di tornare all’albergo in cui erano alleggiati prima di morire affogati.
Morti ce n’erano stati abbastanza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Erbivori. Ed erano due, contro ogni previsione ragionevole.
Hibari non era stato granché accomodante.
Dopo appena una chiaccherata coi genitori, andata per nulla a buon fine, non aveva fatto altro che attendere due giorni in albergo per far calmare le acque e mettere a tacere la polizia locale. Poi si era diretto verso la casa fuori mano nella campagne attorno ad Oxford, aveva narcotizzato i due e li aveva messi su un’auto diretta all’aeroporto più vicino. I documenti falsi erano già pronti, era sicuro che non avrebbe avuto problemi alla dogana, e uno strano senso di calma si era finalmente impossessato di lui. 
Ancora pochi anni e avrebbe portato a termine la sua promessa, li avrebbe svezzati e poi sarebbe potuto tornare a Nanimori, a casa.
Seduto sull’aereo, i due ancora addormentati, guardò fuori dal finestrino.
Presto sarebbero cambiate molte cose, e lui non teneva particolarmente a restare in Europa quando sarebbero effettivamente cambiate.
Ma c’era ancora tempo, e c’era qualcuno che aveva ancora bisogno del so aiuto.
Non l’avrebbe mai ammesso, ma da quando era un ragazzino era cambiato, e anche se considerava erbivori la maggior parte delle persone di sua conoscenza, sentiva di dover fare qualcosa.
Non gli importava granché, ma se la famiglia Vongola era caduta, era anche colpa sua.
La premessa era stata di fare il possibile per ripristinarla a dovere, e lo stava facendo. 
Anzi, a suo avviso… e guardò i due erbivori, maschio e femmina, che dormivano beati poco più in là… aveva già fatto anche troppo.
Trovare i discendenti di un ceppo secondario della famiglia Sawada era stato un lavoro lungo, noioso e stressante che gli aveva fatto perdere due anni di vita.
Un prezzo anche troppo alto per essere tranquillo con la propria coscienza.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Questo è solo un piccolo incipit, un po’ confusionario e nato in medias res, e di questo mi dolgo un po’.
Per capire del tutto è necessario attendere il secondo capitolo, sempre e solo se questo vi abbia incuriosito abbastanza da aver voglia di leggere il seguito.
Premetto che per me scrivere una cosa… così, per me, è davvero difficile.
Questa è una cosa nata per gioco, una fic che non doveva essere tale, ma che mi è sfuggita di mano ed è venuta fuori, a livello di idee, completamente da sola. 
Sì, potrebbe essere l’ennesima e scontata fan fiction su un’ipotetica nuova Gnerazione Vongoloide, e probabilmente lo è, ma spero che quest’idea nata in autonomia sia anche solo di poco fuor dalle righe, tanto da non essere bollata come “banale” o “scontata da fare schifo”.
Mille personaggi e questo, per me, è un problema e  una maledizione, dato che io per prima solitamente non leggo fic con OC presenti.
Ma non importa, rendere Angst un manga come Reborn è un’impresa in cui mi cimento volentieri.
Avverto inoltre che non ho idea di quando riuscirò a pubblicare il primo vero capitolo della storia, ovvero il prossimo, né tanto meno se i miei aggiornamenti saranno regolari o meno.
Anzi, di sicuro non lo saranno.
Ma spero di riuscire a cavare un ragno dal buco.
A presto!
[…almeno si spera…]

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Capitolo 2
*** La Famiglia Vidal e l'inizio della fine ***


Si chiamavano Claire e Lawrence Cooper, avevano i tratti tipici degli irlandesi, pelle ed occhi chiarissimi e capelli rossi, ma vivevano nelle campagne intorno ad Oxford. Hibari trattenne un’imprecazione al pensiero che i genitori, lei docente universitario e lui impiegato ai piani alti di una multinazionale sotto il controllo della Famiglia Mitillo, avrebbero cercato di smuovere mari e monti pur di riaverli. Potevano sognarselo. Nel momento in cui si fossero ritrovati, i sicari della Famiglia Mitillo sarebbero già stati pronti ad ucciderli tutti e quattro:
Anche se era stato rapido, non potevano non essersi resi conto che uno dei superstiti della Decima Famiglia  avesse fatto sparire due bambini senza un apparente motivo logico. Avrebbero fatto a ritroso le sue stesse ricerche e le notizie così rivelate avrebbero scatenato il panico tra le loro file, facendo così tornare in auge le rappresaglie violente a discapito dei superstiti del vecchio “regno” Vongola. O a discapito di quelli abbastanza stupidi da lasciarsi scoprire simpatizzanti alla Resistenza.
La Resistenza era, comunque, nata per quel momento, per creare diversivi tali da permettere all’Erede di prendere coscienza di sé e di rivendicare il proprio posto nella mafia una volta giunto il momento opportuno, riportando tutto a una situazione più giusta e meno inumana.
Li guardò di nuovo entrambi e si disgustò da quanto sembrassero deboli erbivori privi di spina dorsale, nonché di quanto lui avrebbe dovuto perderci tempo.
Odiava Dino per l promessa che era riuscito a strappargli, avrebbe dovuto non farsi invischiare in tutto quel caos. In più, paradossalmente, ora doveva restare lontano da Nanimori per poterla difendere, cosa che gli creava un senso d’irritazione persistente.
Si perse a guardare fuori dal finestrino della macchina su cui si trovavano.
Accanto a lui un tizio di Villa Vidal stava guidando impeccabile e compunto, all’apparenza immensamente preoccupato. Anche se era difficile stabilire se lo fosse per il dover fare da autista a lui o se terrorizzato all’idea di fare ritorno a qual luogo.
Gli venne quasi da ridere pensando a Villa Vidal, un luogo di terrore e sangue nascosto da una facciata letteralmente principesca.
Sarebbe stata una buona palestra di vita per i due erbivori.
 
 
 
 
 
Villa Vidal era una casa padronale di piccole dimensioni in cui una giovane coppia di sposi, con figlio, viveva e in cui amava organizzare strabilianti e provocatori balli e feste, riprendendo alla lontana le mode d’uso nei festini libertini di fine ‘700.
Un ambiente esclusivo.
Il signore e la signora Vidal erano conosciuti nel mondo intero per essere, sì eccessivi e sopra le righe, ma soprattutto per la loro bellezza e il loro buongusto, e per la loro smodata, quanto di dubbia provenienza, fortuna.
Viktor Vidal era il loro primogenito, di sei anni, e sebbene non avesse l’aria di svogliata leggerezza del padre o l’abbagliante e luminosa bellezza di entrambi i genitori, aveva preso senza dubbio l’innata eleganza di sua madre, la grazia perfetta nei movimenti e la compostezza che suo padre, sebbene Principe, non possedeva di natura.
Sua madre, Sua Grazia la Marchesa Marianne Costance Vidal, era però reclusa nei suoi appartamenti da qualche tempo, vittima di una malattia di cui non ci è dato sapere la diagnosi, e, per il dolore, suo marito il Principe aveva a malincuore abolito ogni comparsa pubblica per poter restare più vicino all’amatissima moglie e al piccolo Principino, sicuramente bisognoso della presenza paterna.
La notizia aveva lasciato delusi e depressi gli habitué della Villa, ma non aveva poi creato chissà quale scompiglio. Forse qualche casinò rimpianse uno dei suoi migliori giocatori, ma anche fosse stato, nessuno ne parlò.
Come per ogni cosa di questo mondo, comunque appaia, per sapere la verità basta scavare sapendo dove farlo:
Villa Vidal, in verità, non era altro che un enorme complesso di strutture indipendenti l’una all’altra che si nascondeva alla vista tra i boschi sul confine tra il Liechtenstein e la Svizzera;
La “Villa” era il covo del più strapagato sicario del mondo mafioso, l’ex guardiano della Tempesta dell’ormai smembrata Squadra Assassina Varia, Belphegor.
Se qualcuno avesse però l’orecchio ancor più fino e molta voglia di vederci chiaro, potrebbe scoprire anche altro, qualcosa di ancora più di nascosto e segreto: Villa Vidal era il cuore pulsante del movimento contro l’egemonia della Famiglia Mitillo, della Resistenza che faceva riferimento direttamente a Lambo Bovino.
Vero era che Belphegor fosse sposato e avesse un figlio di nome Viktor Vidal; era falso che la moglie fosse malata: La Marchesa era morta da qualche anno per mano del marito.
Qualcuno l’aveva definita una follia, cosa che in effetti era, altri un capriccio, ma solo i servi avvezzi all’aria malsana che si respirava in quel luogo sapevano, però, distinguere una disgrazia da un omicidio.
Era stato il caso, era stata una fatalità, un mero destino, un fatto che non poteva essere altro se non un brutto incidente.
Chi aveva ripulito il bagno dal sangue, l’ormai ex dama di compagnia di Marianne, di nome Carlotta, aveva riferito piangendo a tutta la servitù di come fosse ridotta la dolce padrona dopo essere passata sotto le lame del Principe, per poi concludere, con un singhiozzo; -Lo dicevo sempre, a Sua Grazia, di non entrare mai quando il Principe era intento a rasarsi il viso!- E la cosa si era conclusa così.
Se il barbiere personale del Principe non si fosse buscato quella brutta influenza intestinale, se la Marchesa non fosse entrata, se il Principe Belphegor stesso non si fosse tagliato, o anche solo non si fosse accorto del suo sangue… Insomma, era una fatalità vera e propria, non poteva essere colpa di nessuno, la morte di Marianne non poteva essere evitata in alcun modo, e la vita continuò.
Viktor, dal canto suo, era abituato a veder sparire nel nulla servi e domestici almeno ogni settimana, e sua madre… beh, gli mancava moltissimo, ma quello era un dolore che un pomeriggio passato a giocare a “nascondino-killer” con suo padre poteva fargli dimenticare per giorni.
Quando la macchina nera guidata da Hugo uscì dal Tunnel, tappa obbligata per raggiungere e lasciare il primo agglomerato di edifici oltre la villetta di facciata, Viktor fu il primo ad accorgersene e, delicato ma rapido, scesa dall’altalena ignorando Carlotta, ora retrocessa a sua cameriera a tempo pieno, per correre davanti all’auto in procinto di arrestare la sua corsa davanti all’edificio più grande.
-Hugo! Sei tornato!-
Si accorse di aver fatto qualcosa di sbagliato, o quantomeno inopportuno, quando vide che l’uomo portava una divisa da autista e conservava un’espressione preoccupata e concentrata.
-Non ora, Signorino.- Si affrettò quindi dalla parte opposta dell’auto e spalancò compunto la portiera del passeggero, addirittura inchinandosi appena; -Bentornato Signor Hibari.-
Viktor venne raggiunto da Carlotta in quel momento, la quale, evidentemente riconosciuto l’ospite inatteso, si affrettò ad inchinarsi con un volto molto sorpreso ed anche arrossato.
-Si.. Signor Hibari, cosa… cosa la porta fin qui?-
La voce le tremava appena, carica di ammirazione per quell’uomo che agli occhi di un bambino come Viktor aveva di interessante solo i lineamenti asiatici, non molto comuni.
Uscito dalla macchina in quel momento, Hibari non degnò di uno sguardo la donna e si volse con passo calmo alle portiere posteriori dell’auto e, una alla volta, le spalancò per caricarsi letteralmente in spalla due piccoli corpi, come fossero sacchi di sabbia.
“Altri cadaveri?” fu il pensiero di Viktor; “…o magari dormono? Sarebbe bello poter giocare con qualcuno di diverso da Jessica!”
Fissò l’insolito quadretto dell’uomo con i due sacchi dai capelli rossissimi.
A quella vista Carlotta sussultò lasciandosi scappare un piccolo urletto e, senza aggiungere altro, filò verso la scalinata che portava alla struttura principale, come se avesse qualcosa di molto importante da fare.
-Tu… la mia macchina. Ora.-
Hugo diventò bianco come un cadavere e dopo un rapidissimo inchino rientrò in macchina e si diresse di fretta verso i garage sotterranei del complesso.
Quel… quel tizio, anche se in un modo del tutto differente, somigliava spaventosamente a suo padre.
Non si rese conto di essere rimasto solo e che, dimenticando ogni buona educazione principesca, si era soffermato a fissare la scena che gli si parava di fronte.
-Erbivoro… Ti conviene tornare da dove sei venuto.-
Hibari l’aveva infatti notato e, stizzito e infastidito, non si era potuto esimere da quella velata minaccia, che traspariva prepotente dalle sue parole.
Viktor non si fece però intimidire. Ne aveva ricevute così tante, di minacce, vivendo in quella casa, che una così poco diretta non lo poteva spaventare.
Immobili uno di fronte all’altro non si mossero di un passo e non preferirono parola per almeno un minuto, finché Hibari non si mosse per posizionare nell’aiuola lì accanto i due sacchi di patate che si portava appresso, decidendo di dimenticare l’insolenza del bambino con l’indifferenza.
In più sentiva delle urla provenire sia dalla casa che dai garage. Che luogo orrendamente caotico.
La voce di Viktor lo distrasse dai suoi pensieri; -Sono due cadaveri?-
Candido ed innocente, Hibari gli concesse una risposta assottigliando gli occhi, studiandolo; -No.-
La risposta doveva evidentemente aver soddisfatto il Principino, che scattò istantaneamente verso una delle strutture laterali che si affacciavano su quel giardinetto inglese, sparendo oltre la prima porta in pochissimi attimi.
Hibari aveva visto raramente tanta velocità e accortezza nei movimenti, in un bambino così piccolo.
Sbadigliò, decretando così il suo sostanziale disinteresse, e continuò ad attendere il suo fuoristrada.
Evidentemente, dopo due anni di assenza e senza mai comunicare in quella sede notizie dei suoi spostamenti, pareva che tutti l’avessero dimenticato e si fossero limitati ad accatastare in malo modo, dimenticati, i suoi averi.
Con l’età adulta, però, era diventato paziente e decise di concedere ancora due minuti per la preparazione dei veicolo, prima di mordere ogni domestico a morte. Lui lo voleva lucido.
Come aveva supposto, il suo ritorno aveva lasciato tutti basiti ed impreparati, e l’assenza di Belphegor non aveva aiutato a mantenere l’ordine. Aveva domestici vivaci, quando lui e le sue lame mortali non erano nei paraggi.
Ogni tipo di salamelecco gli fu rivolto ed ogni invito ad accomodarsi nel salotto di casa fu prontamente rifiutato di malagrazia.
Il Defender giunse davanti a lui guidato da Hugo con due ulteriori minuti di ritardo, e appena riuscì a depositarvi dentro i due bambini che si portava dietro e a sedersi al posto di guida, sigillò le portiere e si preparò a quindici minuti di sentieri sterrati che l’avrebbero portato all’edificio più lontano ed isolato. 
Casa? Non esattamente. 
Più un luogo di ricerca e sviluppo dislocato dalla sua organizzazione a Nanimori, un surrogato di rifugio o di ritiro quando il soggiorno in Italia si faceva sempre più pesante, noioso e… lungo.
Era stanco, il viaggio era stato lungo e con i due pesi morti per nulla piacevole.
Non fece che issarsi sotto braccio i due gemelli, che di questo si trattava, buttarli in due letti in due stanze polverose del cottage per poi togliersi giacca, camicia e cravatta entrando nella sua stanza. Chiuse a chiave la porta e si buttò nel letto.
Non si accorse che era l’unica stanza perfettamente pulita ed in ordine, lui non faceva caso a questo genere di cose.
Si addormentò nelle lenzuola che profumavano ancora di fresco e fino a che qualcosa non l’avrebbe svegliato avrebbe dormito come un sasso.
A tutto il resto, ovvero i due bambini ancora drogati che dormivano da dieci ore, avrebbe pensato… in un altro momento.
 
 
 
 
 
Solitamente Claire Cooper si svegliava con le urla di sua madre, esasperata dal loro perenne svegliarsi all’ultimo secondo prima di andare a scuola.
A poco valevano i suoi primi richiami non violenti, a cui sia lei che il fratello solitamente rispondevano con grugniti e che, puntualmente, venivano ignorati.
Al che si alzava frastornata e faceva a gara col fratello per chi avesse potuto per primo occupare il bagno, mentre al piano di sotto sua madre continuava a borbottare inviperita.
Solitamente vinceva Lawrence, e lei andava sbuffando verso la cucina per mangiare di corsa qualcosa. Beh, solitamente lui usciva di casa affamato e pettinato, lei a pancia piena e coi capelli in disordine.
Quella mattina, invece, qualcosa era diverso.
Non si ricordava di preciso cos’avesse fatto la sera prima, ma si rese conto presto che quello non poteva essere il suo letto e che stava dormendo sopra ad un copriletto spesso e senza cuscino.
Si svegliò mettendosi seduta di scatto e ad occhi e bocca palancati si guardò attorno.
Quella non era casa sua.
Dov’era finita? Che era successo?
Dov’era Lawrence?
Non c’era, osservò guardandosi attorno frenetica. Non poteva non essere con lei, facevano sempre tutto insieme!
Passò qualche secondo a guardarsi attorno, molto perplessa e un po’ intimorita.
L’arredamento trasudava stantio, la polvere era onnipresente, dalla finestra si intravedeva un bosco fitto e la stanza puzzava di chiuso.
-Law…- la voce le uscì tremolante. Si stava facendo prendere dal panico.
-Law! Lawrence! Dove sei?!-
Da lontano le rispose la voce del fratello; -Ancora cinque minuti…-
Era soffocata e scomposta, ma sufficiente a rassicurare un po’ la bambina.
Non era da sola, non era senza Law, era già qualcosa. 
Subito dopo, un urlo squarciò il silenzio innaturale in cui si trovava;
-Aaaah! DOVE DIAVOLO SONO?!-
Ecco, quello furbo se n’era accorto.
Si alzò un po’ tremante dal letto e barcollando, come se non avesse dormito affatto e avesse ancora sonno, andò verso la porta della camera, che non era stata chiusa.
Fece appena in tempo ad uscire nel corridoio che alla sua sinistra un fulmine rosso le urtò la spalla.
Tale fulmine arrestò la sua corsa e la guardò col labbro inferiore tra i denti, una sguardo da cane bastonato e il terrore negli occhi chiari.
La sua fotocopia, perché la differenza di sesso non aveva toccato i loro lineamenti, almeno non ancora, si mise a piangere dopo aver biascicato un “Cla”. In quell’attimo si abbracciarono trovandosi a terra a piangere in preda al panico vero e proprio.
-Cla, Cla! Ho guardato fuori dalla finestra e… e… e siamo in un bosco!- singhiozzava; -Lo so! Dov’è la mamma?-
-Mamma! MAMMA!-
Non fu la loro madre ad aprire una delle porte cinque porte che davano sul corridoio, non aveva i capelli castani, ma neri, non era una donna e non era felice di vederli.
-Voi due… se non la piantate di fare chiasso vi morderò a morte.-
Frase pronunciata in una lingua che non capirono affatto.
Si misero a gridare terrorizzati stringendosi forte, senza capire assolutamente nulla di ciò che gli stava succedendo.
Loro volevano solo vedere i loro genitori e tornare a casa!
 
Hibari, svegliato dalle urla e dal pianto isterico, aveva capito con orrore che doveva alzarsi e fare in modo che non cercassero di scappare andando a finire tra le fauci di un orso.
Se uno dei due non fosse stato l’Erede si sarebbe limitato ad accompagnarli il più vicino possibile all’orso in questione.
Appena sveglio non si accorse di parlare in giapponese e quando il pianto si trasformò in urla disperate, rettificò in un inglese impeccabile; -Se non la piantate vi mordo a morte!-
In risposta giunse il silenzio.
Con soddisfazione passò oltre i due gemelli, che si erano congelati sul posto, per andare verso la cucina sperando di trovare qualche cosa da mettere sotto i denti.
Hibird, da sopra la sua testa, cinguettò qualcosa e si alzò in volo andando davanti agli occhi sbarrati ed increduli dei due. 
Se Claire non se ne accorse fu solo perché stava ancora fissando la schiena di quell’uomo che li aveva liquidati con una dose di terrore e lo classificò come “persona pericolosa”, Law rimase a bocca aperta due volte nel vedere un pulcino volare e posarsi sulla sua spalla.
Scattò con un urletto contro la parete, e Hibird, sbalzato via dal suo appoggio, girovagò sopra la sua testa continuando a cinguettargli nelle orecchie.
Ad ognuno il proprio problema.
Si guardarono in faccia, Lawrence e Claire, e rimasero fermi dove si trovavano cercando di asciugarsi le lacrime, ma senza troppo successo. Qualche singhiozzo scappava. Era assurdo, era terribile, chi era quel mostro?
Sì, perché era un mostro di sicuro!
-Voi due erbivori, venite di qui.-
Si guardarono di nuovo; “Erbivori?”, si alzarono e si presero per mano, incamminandosi lentamente per il corridoio.
Almeno era inglese, la lingua che stava parlando quel tipo, e non una strana lingua mai sentita.
In fondo al corridoio trovarono una stanza molto ampia, divisa in due da un arco, a sinistra un’ampia cucina e a destra un salotto, tutto minimalista e spoglio.
Lawrence singhiozzò e per poco anche Claire non lo seguì a ruota, ma vennero interrotti da un’altra frase dell’uomo che vestito con un paio di pantaloni e una camicia abbottonata malamente sorseggiava qualcosa da una tazza, squadrandoli dall’alto al basso.
Hibari pensava, ragionava velocemente. Doveva convincerli che erano lì per qualche motivo e quel motivo doveva essere tanto valido da non dar loro idee strane come il voler scappare. Non voleva assolutamente anche quella seccatura.
Poi li guardò in faccia, ancora con il moccio al naso e i denti da latte. 
Dalla paura non si sarebbero avvicinati al bosco nemmeno sotto tortura.
-Da oggi vivrete qui. Il bosco è pieno di orsi e lupi, non vi conviene tentare di scappare. Ora andate nelle vostre stanze e aspettate che io vi chiami. Le finestre sono chiuse, tutte, potete muovervi per la casa ma vi chiuderò dentro a chiave. Se quando torno ho visto che avete tentato di scappare vi morderò a morte.-
Hibari appoggiò la tazza al tavolo, li scavalcò letteralmente mentre passava per la porta della stanza, andò a vestirsi, chiuse la porta sul retro a chiave, si chiuse alle spalle la porta principale in fondo al corridoio e sparì mentre i due bambini si guardavano smarriti negli occhi, ancora con l’uccellino giallo che svolazzava per la stanza cantando… cantando?
Strabuzzarono gli occhi, e distraendosi riuscirono a calmarsi appena.
-Credi… credi che ci farà del male?-
Claire non seppe che rispondere al fratello e si limitò a fissare Hibird, che tranquillo svolazzava e cantava cose di cui non afferrava il significato.
Ma cantava sul serio?
-Non lo so… Ma credo sia meglio fare come dice…-
Strinse forse la mano di Lawrence in cerca di conforto e dopo poco, quando il fuoristrada di Hibari sparì oltre la prima macchia d’alberi, continuò a guardasi attorno cercando di capire cose fosse successo.
-Dici che siamo stati rapiti?-
La voce di Lawrence e le sue parole la fecero sobbalzare ad occhi sgranati, ma ancora non disse una parola.
-Papà ci verrà a prendere, vero?-
Anche a questo non poteva e non sapeva rispondere.
L’unica cosa che potevano fare era aspettare.
Ispezionarono la casa, un cottage di montagna in pietra e legno, trovando libero accesso alla stanza in cui aveva dormito Claire, due bagni e alla grande stanza in cui si trovavano quando Hibari se n‘era andato. Era grandissima e divisa in due da un‘arcata decorativa: da una parte cucina dall‘altra salotto. Le altre stanze, due in tutto, erano chiuse a chiave e memori del tono dell’uomo misterioso non si azzardarono nemmeno a tentare due volte l’ingresso.
Finestre e porte serrate, imposte però spalancate. 
Piagnucolarono un po’ seduti sul divano finché presi dallo sfinimento non si addormentarono, uno ridosso all’altro. Avevano pianto, si erano sfogati, si sentivano persi e soli… Lawrence, addormentandosi, pensò che fosse tutto un sogno e che al suo risveglio si sarebbe trovato nella sua stanza, con sua madre che urlava di scendere per la colazione.
Sì, doveva essere così.
 
 
 
 
 
-Due? Cosa vuol dire due? Che diavolo significa?-
-Significa che erano in due, sono due gemelli, entrambi eredi di Giotto. Fine.-
I due uomini si stava guardando di sottecchi in una stanza buia nel complesso più interno di Villa Vidal.
-Quindi?-
Lancia accavallò le gambe prendendo in mano il suo bicchiere di vino rosso. Da quel momento in poi che aveva intenzione di fare Hibari?
-Quindi sono costretto dalle circostanze a continuare la mia ultima missione in questo mondo di merda. Devo solo addestrarli entrambi.-
Lancia rischiò di soffocarsi col vino.
-Prego?-
Hibari si voltò verso di lui dopo essere stato voltato verso la finestra per quell’ultima battuta.
-Resterò qui finché non saranno in grado di combattere e non me ne potrò tornare in Giappone.-
Lancia lo fissò in tralice. Hibari che addestrava qualcuno?
-Hai intenzione di tenerli al Cottage con te?-
A Hibari venne un moto di disgusto improvviso. Non ci aveva pensato.
-Se non posso farne a meno sì.-
Lancia si alzò dalla poltrona e si diresse verso la sua scrivania, aprì un cassetto e strappò un foglio di carta da un blocco, ci scrisse qualcosa e, sempre sotto l’occhio indagatore di Hibari, glielo tese; -Fa’ vedere questo a Hugo. Avrai bisogno di una ristrutturazione del Cottage.-
Hibari resistette ai conati di vomito e gli prese dalle mani il foglio con sgarbo.
Uscì senza dire una parola dalla stanza.
Gli erbivori in casa e pure un obbligo di ristrutturazione del suo Cottage.
Odiò Dino con tutte le sue forze, si fece scrocchiare il collo e rimase per un attimo seduto al posto di guida del Defender.
Aveva voglia di qualcuno da pestare a sangue. 
Mi se in moto e tornò verso la residenza principale e non di facciata.
Era già passata un’ora da quando aveva lasciato i marmocchi da soli.
-Chissenefrega.- Fu la sua risposta a voce alta a quel pensiero.
Avesse potuto, sarebbe andato da Dino a reclamare la sua dose di sangue e violenza.
 
 
 
Questo fu il loro primo benvenuto a casa. La loro nuova casa.
Villa Vidal era ormai diventata una loro necessità, anche se ancora non lo sapevano, e nulla potevano fare per cambiare le cose, ormai in mano a qualcosa di terribilmente grande, che trascendeva la stessa mafia.
Era il loro destino, e presto se ne sarebbero accorti.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Grazie della lettura!
Ebbene, ringrazio Lushia per la recensione e per tutto il sostegno su skype!
Per il resto… Enjoy the moment.
Tra non molto, informo già da ora, ci sarà uno stacco temporale brusco e prepotente, non posso sopportare l’idea di continuare a parlare di marmocchi e ho così tante cose da dire che se mi metto a trascrivere a questo ritmo pure la loro infanzia non mi basterà una vita per concludere.
Se mai troverò un’idea accettabile per una conclusione accettabile.
Sono emozionata dai miei stessi personaggi, non devo essere molto sana.
Qui si vede Viktor, viene citata Jessica e si vede Lancia. Inoltre anche Hugo e Carlotta avranno una funzione più o meno importante, anche se magari non di spicco. Di sicuro presto comparirà Belphegor.
Ah. In tal proposito…
La cosiddetta “Famiglia Vidal”, o meglio chi ne è rimasto, è una branca di manicomio presa e trapiantata sulle Alpi.
Pace.
Beh… vedremo [perché non lo so manco io] come si evolverà tutto questo andando avanti!
A presto!
[…si spera…]
 

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Capitolo 3
*** Qualcosa di nuovo ***


Caro diario,
In qualità di nuovo diario (il tuo predecessore è finito in una delle scatole da scarpe che giacciono sotto la mia scrivania) scriverò una breve presentazione e un rapido riassunto di “me”.
Ho quattordici anni, capelli rossi lunghi e fini, occhi azzurri e qualche lentiggine…
 
Claire mordicchiò la penna che aveva in mano, poi ricominciò a scrivere;
 
…e un fratello scemo che si chiama Lawrence.
Io mi chiamo Claire Cooper ed entrambi siamo stati rapiti da casa nostra, in Inghilterra, circa sette anni fa. Sono sette anni che siamo qui, nella nostra nuova casa, Villa Vidal.
 
“Sette anni qui…” Si guardò attorno. Sembrava passato molto meno tempo.
 
Da allora non ho visto che questa immensa tenuta ed i suoi abitanti. Conosco il mondo tramite i ricordi di quando ero più piccola, pochi e confusi, i libri, il televisore, internet e le lezioni di attualità del Prof Fernand. Sono stata educata, istruita ed addestrata dai migliori, a detta di tutti. Sarà. Non mi sento molto diversa dal resto dei miei coetanei. Anche se non ne conosco molti.
 
Addestrata… non era del tutto esatto, si trovò a pensare. I suoi tonfa erano infatti nascosti in mezzo ai suoi asciugamani in bagno e mai avrebbe ammesso a Hibari di aver imparato a usarli a un buon livello guardandolo allenarsi in terrazza dalla finestra di camera sua. Di nascosto. Da autodidatta. Lei lo odiava, Hibari. Forse.
 
In ogni caso, l’inizio della nostra vita qui fu a dir poco burrascoso, Law ed io non abbiamo fatto altro che piangere per giorni, mentre eravamo sballottati per il cottage per le ristrutturazioni della casa. Ancora oggi credo che il nome “Cottage della Nuvola”, però, sia estremamente romantico.
 
“Non fosse per la presenza di Hibari.” Sbuffò e riprese a scrivere di nuovo.
 
Dicevo? Oh, sì. All’inizio vivere qui fu un inferno.
Hibari, il nostro rapitore e mentore (e mia nemesi da quando ho avuto il coraggio di parlargli guardandolo in faccia), quasi non apriva bocca, non ci ha mai detto nulla se non ordini secchi che noi eseguivamo per paura. Hibari FA paura.
Beh, è stato tutto così per circa uno o due mesi, poi nella nostra vita è arrivata Carlotta, santa donna, che ha avuto la forza di tirare qualche schiaffo morale a quell’arrogante e che ci ha creato attorno un po’ di stabilità. In più Hibari è partito e per tre anni non si è fatto vivo, le cose non potevano che migliorare esponenzialmente.
Anche se non ricordo il perché fosse partito… e soprattutto non ricordo come Carlotta si sia imposta, so solo che è una donna da stimare per avercela fatta.
Carlotta è un po’ come una madre, per tutti noi, ha una forza straordinaria.
 
I perse a ricordare la prima volta che l’aveva vista, in divisa da cameriera, gonna lunga e blu notte, maniche a sbuffo, grembiule bianco. Era smontata dal quad sicura di sé, aveva salito le scale di pietra, aveva attraversato la terrazza e aveva bussato con decisione alla porta d’ingresso.
L’aveva vista dalla finestra di camera sua e aveva sentito quasi fin da subito i suoi strepiti, e quasi di sicuro improperi, per Hibari. 
Peccato solo che all’epoca non conoscesse l’italiano, o avrebbe saputo cosa si erano detti.
Dopo pochi attimi, comunque, Hibari se n’era andato sbattendo la porta sul retro e lei aveva fatto capolino dalla porta della loro stanza appena arredata e aveva sorriso.
 
Carlotta ci ha insegnato a leggere e a scrivere, ci ha insegnato l’italiano e un po’ di tedesco, facendo sì che io potessi mettere le mani sui libri disseminati per casa. 
 
Carlotta era la sua migliore amica.
 
Ma non è il momento di sperticarsi il lodi per lei!
 
Tese l’orecchio lasciando in sospensione la penna, sperando di avere ancora un po’ di pace prima dell’arrivo di Lawrence e dei suoi amici, perennemente in cerca di adrenalina e di guai.
Ma il pomeriggio di lettura e scrittura era destinato a finire entro pochi minuti e se ne rese conto quando un colpo di fucile e qualche risata non la raggiunsero dalla finestra.
Sospirò, chiuse a chiave il diario in un cassetto, prese un libro dal comodino e con un piccolo sorriso uscì e si appostò sul ballatoio che circondava il piano e che metteva in comunicazione, al contempo, la terrazza e il porticato sul retro.
-Claire! Claire!- 
“Ecco lo scemo”; il suo sorriso si allargò, per poi afflosciarsi quando le carcasse di due fagiani strette fra le sue mani.
Odiava la caccia.
Beh, pensò che almeno il giorno dopo avrebbero mangiato un buono stufato.
-Due in un colpo solo! Law è stato grande!-
Claire spostò lo sguardo sulla ragazza alla destra del fratello e, come sempre, si trovò a pensare di quanto fosse una discendente diretta di un’amazzone, donna guerriera fin nel midollo.
Jessica, si chiamava, due anni più di loro, capelli mossi e neri come la pece. Ed era selvatica, selvaggia, violenta, sboccata, irriverente, perennemente fuoriposto in ogni ambiente e dalla femminilità prorompente nonostante tutto.
In definitiva, era una bestia.
Ed era illogica.
Si era mai vista una cacciatrice di fagiani con addosso un tubino vertiginosamente corto in pelle nera?! 
-Grande!- Rispose comunque con entusiasmo, per loro era importante.
Sentì Jessica ridere sguaiatamente, evidentemente era di ottimo umore, ma  il primo che raggiunse la terrazza su cui si era spostata per andar loro incontro fu Viktor.
Il sorriso le scomparì del tutto dal viso.
Viktor era strano. Anche troppo, riusciva sempre a metterla a disagio.
Quel giorno aveva cacciato due conigli e non c’era traccia di alcun proiettile. No, Viktor Vidal usava solo e soltanto i suoi due pugnali, ed era così perfetto e preciso da non aver sporcato di sangue nemmeno il pelo degli animaletti, che sarebbero potuti sembrare ancora vivi, non fosse per i loro movimenti innaturali dovuti al loro essere trascinati di malagrazia appesi a una spalla.
Odiava i cadaveri degli animali. E delle persone. Ne aveva visti alcuni e… e non le piacevano. Le urtavano il sistema nervoso.
Viktor la stava guardando con la solita espressione seria. Tredici anni e nessuno scatto emotivo da neoadolescente, nessuna reazione esagerata… tutto questo da quando aveva intrapreso la carriera del killer, tre anni prima.
Viktor sicuramente, pensava con un misto di terrore e ammirazione macabra Claire, aveva le caratteristiche che nel passato gli avrebbero fatto guadagnare un titolo che il tempo aveva cancellato.
Era indubbio: Viktor possedeva il Varia Quality e non c’era cosa che potesse inquietarla più di quella consapevolezza.
Nemmeno Jessica, figlia di Xanxus, Ex Boss dei Varia, aveva il Varia Quality, a suo avviso. E per quanto la giudicasse rozza e anche un po’ antipatica, non la riteneva affatto negativa. Era vivace e allegra, mentre Viktor…
Viktor no. Non ai suoi occhi. Non poteva essere positivo.
 
-Buongiorno Claire…- anche i suoi toni sempre tranquilli le mettevano i brividi.
-Ciao, Viktor.- gli rispose stringendosi al petto la sua versione integrale del Paradise Lost di Milton in lingua.
Se solo fossero stati entrambi in grado di comunicare apertamente, avrebbero probabilmente scoperto di condividere alcuni interessi e che entrambi avrebbero potuto chiaccherare piacevolmente, l’uno potendo così distanziarsi dal casino degli altri due e l’altra sentendosi meno sola. 
Viktor, a ragione, si sentiva però costantemente giudicato dalla ragazza e lei non riusciva ad andare oltre la prima sensazione che provava guardandolo.
Non potevano comunicare, almeno finché uno dei due non avrebbe deciso di rompere il loro tacito accordo di quieto vivere.
 
Viktor, in quel momento, avrebbe voluto chiedere a Claire che edizione del Paradiso Perduto avesse tra le mani e l’avrebbe volentieri portata a vedere la sua collezione di manoscritti. Ma non sentiva il bisogno di farlo, e soprattutto mai l’avrebbe costretta a passare del tempo in sua compagnia.
L’atmosfera, in quei brevi attimi, si fece tesa e gelida, ma i due restanti bisonti, Law e Jess, non ci fecero caso, arrivando sulla terrazza in una profusione di risate e sghignazzamenti.
Claire spostò il suo sguardo e sorrise a trentadue denti, incapace di nascondere la propria gioia nel non essere più in quella casa da sola. 
Amava la solitudine… Ma quando era troppa, era troppa.  Un intero pomeriggio era sufficiente!
Law si avvicinò correndo e le mise in mano i due fagiani continuando a correre e varcando la porta di casa.
Claire lo guardò male, si aspettava più considerazione, e in contemporanea, di scatto, allontanò i fagiani dal libro con la mano sinistra. Il sangue! Il sangue aveva rischiato di sporcare la copertina!
Viktor le prese il libro di mano e le sorrise placido; -Libro salvo.-
Claire arrossì dalla vergona e gli ristrappò il libro di mano fuggendo a braccia spalancate per evitare che cadaveri e libro entrassero in collisione.
Maledetto Viktor, la prendeva anche in giro!
Fuori, Jessica aveva assistito alla scena e stava ridendo con rinnovato vigore, quasi ululando. 
-Ti va sempre buca con quella, eh?- Viktor la guardò assottigliando lo sguardo. 
-Non ho nessuna mira nei suoi confronti, Jess, e lo sai bene.-
-Ahahahaha. Lo so, lo so, ma è sempre così divertente vedere come si trova a disagio con un assassino che…-
Si interruppe. Aveva parlato troppo.
Viktor la guardò malamente e non aggiunse altro, glaciandola sul posto per poi dirigersi ad ampie falcate oltre la porta del cottage. 
Lui un assassino? Sì, era vero. Ma non quando era a casa. A casa, lì a Villa Vidal, si era impegnato tempo prima a non uccidere nessuno. E odiava che la gente, anzi i suoi unici amici, gli ricordassero cosa fosse al di fuori della tenuta. 
Entrò in casa subito seguito da Jessica, all’improvviso ombrosa, e si diresse a passo svelto verso il soggiorno, in cui Lawrence si era già messo a trafficare con le sue consolle.
Con un filo di disgusto notò che non si era lavato le mani dal terriccio di cui si erano sporcate, ma si gettò comunque noncurante sul grande divano lì accanto, gettando poco elegantemente le scarpe in giro per la stanza. 
In fondo quella non era casa sua e poco gli importava di seguire le norme del galateo.
-Che vuoi fare?- si interessò appena.
-Non ti pare ovvio? Tattica!-
Viktor roteò gli occhi, ma dentro di sé sorrise. La tattica, l’unica cosa in cui quello scemo di Lawrence aveva, ogni tanto, speranza di batterlo.
Scrocchiò il collo e si preparò a giocare. Sarebbe stata una serata lunga, se Lawrence aveva intenzione di fare sul serio.
 
Claire preparò loro da mangiare, in assenza di Carlotta che aveva il divieto del Principe di andare al Cottage quando lui e i suoi amici erano lì, e poi ritirò nella sua camera. 
Riprese il suo diario in mano, lesse quanto aveva scritto quel pomeriggio… e poi lo richiuse a chiave nel cassetto. Non ne aveva più voglia, di scrivere.
Dal soggiorno arrivava il tipico caos dei tre e lei… lei non era fatta per tutto quel caos, per quel rumore assordante e per i videogiochi sparatutto. Tattica la chiamavano… Ma per favore.
Avrebbe voluto qualcuno con cui parlare di… di arte, di libri, di musica, di cose normali, non del modo migliore per sparare con un fucile ad alta precisione contro uno stormo di fagiani o le modalità per uccidere rapidamente un orso.
Quando Viktor, l’anno prima, era tornato al corpo principale della tenuta ricoperto di sangue di orso si era spaventata così tanto… e lui a lamentarsi perché si era sporcato.
No, non ero possibile che quella fosse una vita normale, quella villa non era un luogo normale, niente era normale, nella sua vita, da quando era lì!
Si raggomitolò nel letto e pregò che fosse un sogno durato anche troppo, pregò, l’indomani, di trovarsi nel letto di un ospedale con sua madre che le diceva che era entrata in come dopo un incidente d’auto.
Ma non era così. Non era la prima volta che pregava in un risveglio del genere, ormai sapeva anche fin troppo bene quale fosse la realtà.
L’unica cosa che le importava, era che Lawrence fosse felice. E lui lo ero, lui si era adattato meglio. Forse perché era un maschio, i maschi avevano meno scrupoli morali. Almeno quelli che conosceva lei.
Il giorno dopo era sabato.
Si coprì la faccia col cuscino e soffocò un singhiozzo.
Sabato voleva dire allenamento con Hibari. Sarebbe arrivato per l’ora di pranzo e li avrebbe fatti combattere l’uno contro l’altro.
Oppure li avrebbe costretti ad attivare le fiamme e a simulare uno scontro contro di lui.
Sperò fosse quell’ultima opzione, avrebbe almeno potuto sfogarsi contro di lui.
Rotolò nel letto altre due o tre volte, pensando che era davvero troppo sola. Aveva bisogno di qualcuno con cui condividere tutto quel disastro e Carlotta aveva già le sue mille cose da fare.
Avrebbe fatto meglio ad andare a dormire e non pensare. Era davvero una pessima serata per rimanere sveglia.
Si alzò, si infilò meccanicamente il pigiama e si tirò poi le coperte fin sugli occhi, costringendosi a rimanere ferma e a non pensare.
No, non era serata per pensare, quella.
 
 
 
 
 
Viktor montò sul suo quad, il metodo più facile per girovagare per i terreni della tenuta sui suoi sentieri spesso mal tracciati, e tornò a casa abbastanza presto, quella notte. Non aveva intenzione di tardare troppo, suo padre sarebbe tornato la mattina dopo e lui doveva anche prepararsi per un viaggio di qualche giorno verso Monaco. Aveva ricevuto un incarico pochi giorni prima ed era già tutto pronto. Anche quella volta si sarebbe finto il figlio di un imprenditore arricchito con lo spaccio di droga, una delle sue coperture più usate. La sua marionetta era già sul posto, lui avrebbe solo dovuto raggiungerlo e svolgere il lavoro indisturbato.
Sospirò buttando sul letto la giacca bianca e scompigliandosi i capelli biondo cenere mentre apriva la finestra. Si sedette sul davanzale e, in barba agli ammonimenti di Carlotta, fumò una sigaretta.
Non si sentiva affatto un bambino, di sicuro non si sentiva un tredicenne. 
Vivere con il costante terrore di poter essere ucciso dal suo stesso padre, per sbaglio o meno faceva poca differenza, l’aveva fatto crescere in fretta.
Ricordava ancora il momento in cui aveva ucciso il suo primo obiettivo.
L’obiettivo gliel’aveva affidato lo stesso Bel che, ridente nel suo modo sardonico, gli aveva promesso due pugnali se fosse riuscito a uccidere Gabriel, l’ultimo servo arrivato.
L’aveva fatto. Aveva aspettato la notte, era entrato negli appartamenti della servitù e con un filo da pesca l’aveva strangolato.
A malapena i suoi compagni di camerata si erano accorti del fatto che qualcuno fosse entrato nella stanza.
L’aveva fatto per dimostrare a suo padre che lui era qualcuno e che poteva possedere quei pugnali. Erano sempre stati in una teca nella sala di rappresentanza e da quel momento… furono suoi.
Dopo l’adrenalina e l’euforia iniziale, si era reso però conto di ciò che aveva fatto ed era scappato.
Per giorni l’avevano cercato, i servi, e per giorni lui era sopravvissuto senza farsi trovare. Ettari ed ettari di bosco per nascondersi. Sarebbe potuto sparire e nessuno l’avrebbe più trovato.
Poi si era lasciato trovare. I suoi piedi l’avevano portato vicinissimo al Cottage della Nuvola e Lawrence era quasi letteralmente inciampato su di lui.
Law aveva un anno in più e si conoscevano da quattro anni… Ma fu quello il momento in cui diventarono amici davvero.
Ricordava ancora le sue parole, pronunciate dopo esserlo stato a sentire silenzioso e avergli fatto vedere il frutto del suo assassinio. 
“E’ stato per lavoro, no? Questo è lavoro, non è essere una cattiva persona, no?”
Scosse il capo, buttò il mozzicone nel buio con uno scatto rapidissimo e chiuse la finestra altrettanto in fretta.
Era cresciuto, sapeva che quelle parole avevano una logica che faceva acqua da tutte le parti, ma in quel momento gli erano sembrate le parole perfette per esprimere quello che sentiva e per… giustificarsi.
Avrebbe continuato a pensare che tra l’essere un omicida, un killer e un assassino ci fosse differenza.
Lui era un killer. Era un sicario pagato per uccidere, non per avere scrupoli morali.
Inoltre… una parte di sé, una grande parte di sé, amava uccidere. Anzi, lui stesso era consapevole di quanto l’omicidio potesse essere arte pura. Non amava molto l’atto di uccidere in sé, non gli importava di togliere la vita a qualcuno. La cosa che amava del suo lavoro era il renderlo perfetto.
Era questo ad oscurare i suoi sensi di colpa la maggior parte del tempo, la consapevolezza di essere il migliore, anche più di suo padre, troppo appariscente.
Si gettò nel letto vestito e si addormentò sereno e col sorriso sulle labbra.
Lui era semplicemente qualcuno che amava il proprio lavoro, in definitiva.
 
 
 
 
 
Mattino, ore 9.30, sveglia generale al Cottage della Nuvola.
Una donna entrò in casa e posò il suo soprabito all’attaccapanni nel corridoio, andò in cucina e si armò di mestolo e coperchio d’alluminio.
Silenziosa, riattraversò il corridoio di volata e senza esitare spalancò la porta vicina all’ingresso e si mise a fare del casino sbattendo le sue armi.
-Svegliarsi al mattino, gente!-
La prima cosa che vide Claire aprendo gli occhi per il trambusto fu il sorriso di Carlotta che si divertiva a spadellare a meno di un metro dalle orecchie di Lawrence e Jessica, addormentati come al solito nel letto del fratello. 
Jessica si alzò, senza espressione, si diresse verso il bagno adiacente alla camera scansando la cameriera e sparì. Lawrence cercò di resistere ancora qualche minuti tra le lenzuola prima di mettersi seduto con lo sguardo perso nel vuoto.
A quel punto il casino infernale venne arrestato e Carlotta uscì soddisfatta dalla stanza.
Anche quel giorno era fatta.
Raggiunse nuovamente la cucina, mise via il mestolo ed avviò la colazione.
Non c’erano bisogno di altre parole, era una routine consolidata, la loro.
I due fratelli Cooper rimasero con le orecchie tese. 
Sentirono lo sciacquone, il filo d’acqua del lavandino, la porta che si apriva e…
-Bagno mio!-
Claire, più vicina alla porta, non riuscì comunque ad ottenere la precedenza su quel maledetto gabinetto!
Non era possibile, tutte le sacrosante mattine! Eppure non era meno veloce di quello scemo!
Oramai in corridoio, con la porta del bagno chiusa a un centimetro da suo naso, borbottò qualcosa e si incamminò verso la cucina strascicando le pantofole.
Pantofole. Lei si metteva le pantofole prima di correre, ecco cosa la rallentava!
Si sedette al tavolo della cucina con un grugnito scomposto.
-Ah, Claire! Siamo sempre tutti simpatici al mattino, eh?-
Sollevò gli occhi su Carlotta. Il suo sorriso e la sua ironia erano sempre contagiosi.
-Sì, quanto lo può essere un…-
-Un tronco in culo.-
-Io avrei preferito concludere con “cactus su per il naso“, Jess.-
Si voltò verso il divano, su cui Jessica era stravaccata scomposta a guardare a bocca aperta un documentario sui mostri degli abissi, primo programma disponibile all’accensione della tv.
-Come vuoi. Ma tronco su per il culo rende meglio l’idea.-
-Hai già provato?- Claire la guardò malissimo. Quanto la odiava al mattino.
Jessica non raccolse la provocazione, troppo concentrata su uno strano pesce dall’aria inquietante.
O forse non l’aveva proprio sentita.
Claire tornò a sbuffare contro il suo piatto ancora vuoto.
Aveva bisogno di una doccia.
Poi ricordò che era sabato. Sabato. Ritorno di Hibari imminente. Obbligo di attrezzarsi con voglia di vivere e di pestarlo a sangue.
Sulla voglia di vivere ci avrebbe lavorato quando il bacon e le uova sarebbero state nel piatto, la voglia di pestarlo era un istinto che non avrebbe comunque né potuto né voluto sopprimere.
Jessica e Lawrence la raggiunsero al tavolo e mangiarono in fretta. Se nel weekend il resto del mondo riposava, per loro era solo l’inizio delle fatiche forzate.
-Bene! Lawrence, Smocchia, ci si becca sul campo, magari! Ah! Carlotta! Sempre in allerta, non si sa mai quando un frusta attorno alla caviglia possa farti inciampare!-
Eccola. L’amazzone aveva ucciso e mangiato la sua bacon-preda ed era tornata di buon umore. E di nuovo un po’ più simpatica. 
La sedicenne prese dal tavolino vicino alla porta sul retro le sue fruste e si incamminò senza aggiungere altro verso la scalinata posteriore, inforcò la moto da cross e sparì nella foresta in massimo un minuto di tempo.
Il cervello rallentato dal risveglio di Lawrence a stento si accorse della cosa, troppo concentrato a cercare di mangiare senza addormentarsi sul piatto. In fondo avevano tutti la consapevolezza di essere lì dov’erano e che da lì, per quanto la tenuta fosse immensa, non si sarebbero mossi. Un saluto in più o in meno non faceva differenza.
 
 
 
Carlotta li lasciò in balia di loro stessi presto, quella mattina, col ritorno di Hibari doveva rassettare il Cottage e organizzare un’accoglienza da manuale per il Principe Belphegor, anche lui sulla via di casa.
Inoltre doveva anche organizzare le cose per la partenza del Principino Viktor per la sua nuova missione, e a malincuore salutò i ragazzi.
Claire si sentì di nuovo sola al mondo. 
Poi guardò Lawrence. No, non era affatto sola. 
Lei voleva bene a Lawrence esattamente come lui ne voleva a lei, lo sapeva. Era solo che… che Law, con i suoi amici, non sentiva il bisogno di trattarla troppo bene.
Anche se questo la feriva, non dubita affatto dell’affetto che suo fratello nutriva per lei. Non avrebbe mai potuto, lo sentiva. Il loro era un legame estremamente forte e affermato col tempo. 
Appena uscita Carlotta, infatti, la sua espressione si fece più viva e guardandola di sottecchi si preparò a caricarla per buttarla sul letto e farle il solletico.
Lui sapeva sempre quando lei si sentiva male, sapeva quando era il momento di fare lo scemo e quale quello in cui abbracciarla in silenzio. Farle il solletico per farla ridere era solo uno dei modi che aveva per risollevarle il morale.
Ruzzolarono per il pavimento della loro stanza ridendo come matti e facendo cadere la metà dell’ammasso di vestiti che abbandonavano sempre sulla scrivania, perennemente inutilizzata, del ragazzo.
Tra di loro, soli, non c’era mai bisogno di inutili parole, non c’era bisogno di dimostrare qualcosa. Erano… erano sempre gli stessi, le avevano passate tutte, e avrebbero continuato a farlo. 
Loro erano i gemelli Cooper, se insieme niente e nessuno avrebbe mai potuto distruggerli.
Si spintonarono ancora ridendo per la scalinata e andarono a prendere i loro quad.
Misero in moto e si diressero a gran velocità verso il Campo d’addestramento, dove sapevano che Hibari sarebbe arrivato in capo a un’ora.
Sapevano anche che da quel giorno avrebbero iniziato ad allenarsi separati ed erano un po’ preoccupati. Non avevano mai combattuto da soli, non… non avevano mai fatto nulla ognuno per gli affari propri, insomma.
Si guardarono in faccia mentre il vento scompigliava i loro capelli lunghi e rossi, sferzando i loro visi così simili.
Annuirono l’uno rivolto verso l’altro.
A che serviva parlare, quando ci si poteva capire con uno sguardo?
Sarebbe andato tutto bene.
Doveva andare tutto bene.
 
Quello che non sapevano era che qualcosa sarebbe cambiato davvero e che niente sarebbe andato tutto per il verso giusto.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Gah!
Ringrazio nuovamente Lushia [ <3 ] e ringrazio anche le anime che, me l’ha detto il contatore di efp, hanno letto la storia!
A parte questo…
ALLELUJA, ci siamo!
Spero che tutta questa fic non sia troppo confusionaria da seguire! >_<
Nel prossimo capitolo… Dirò solo questo; Fiamme, Pioggia e cannuccia blu! 
A presto!
[Sempre si spera…]

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