A Love You Can't Survive.

di misScarlett
(/viewuser.php?uid=135653)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** - quel genere di amore non muore mai. ***
Capitolo 3: *** - niente è più come prima. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Accesa. Spenta. Accesa. Spenta.
Accesa.
Spenta.
Si divertiva ad accendere e spegnere quell'interruttore, uno stupido interruttore della luce, con il risultato che la lampada sul comodino di quella casa si illuminava per poi tornare all'oscurità, continuamente. Ma il divertimento svanì presto, lei rimase al buio. Benchè fosse notte e all’interno di quella casa non ci fosse nessuna luce accesa ad illuminare le stanze, lei sapeva benissimo cosa aveva intorno: era seduta su un divano in pelle nera - con macchie rosse adesso, certo – e attorno stavano le due poltrone abbinate; un tavolino di cristallo al centro – con un particolare centrotavola, c’era da ammetterlo – e giornali e fogli e mappe e documenti sparsi ovunque; soprammobili rotti per terra, una televisione all’angolo, due lampade da terra ai lati. Oh, poi c’era un cadavere. Quel soprammobile macabro sul tavolino. Era stato inutile in vita, ora era utile come poggiapiedi. Non era stato un completo buco nell’acqua: se non altro aveva scoperto dove poteva trovare lui. Sarebbe stato sorpreso di trovarla viva, esattamente come allora? L’avrebbe perdonata per essere sparita per così tanto tempo? O, peggio di tutto, l’aveva dimenticata, se non sostituita? La porta si aprii lentamente, lasciando entrare uno spicchio illuminato proveniente dal corridoio adiacente.
- C’è nessuno? Josh, ci sei? Ti ho portato i…
- Josh è occupato.
Uscì allo scoperto e si piantò di fronte alla porta, osservando quella giovane che stava cercando di entrare. Era esile, bionda e con dei piccoli occhi verdi, terrorizzati. Sorrise, non voleva uccidere anche lei. Oppure sì, dipendeva da come si fossero poste le cose.
- I-io, sono passata a dargli una cosa, posso ripassare.
- Dubito che servirebbe.
La ragazza sembrava non capire, o forse era solo troppo spaventata per riuscire a farlo. Effettivamente non la si poteva biasimare: aveva di fronte una donna che apparentemente non dimostrava più di una ventina d’anni. Era magra, dalla carnagione olivastra, gli occhi scuri, tanto da sembrare neri e diabolici, dei lunghi capelli lisci e neri, delle labbra piegate in un sorriso sadico e sporche di sangue. Così come la maglia che indossava. E le sue mani. La biondina sembrava paralizzata dalla paura e non oppose resistenza quando l’altra la fissò dritta negli occhi.
- Torna a casa, dimentica tutto e esci da lì solo fra due ore.
Quella fece esattamente come le era stato detto ed ebbe salva la vita. La guardò allontanarsi, finchè non sparì dalla sua vista. Rientrò dentro quell’appartamento pieno di disordine e morte, e andò a lavarsi le mani. Le pulì accuratamente da tutto il sangue, che sparì sotto forma di acqua rossa all’interno del tubo di scarico. Poi prese la sua giacca, le chiavi della macchina di Josh e uscì di casa, diretta a Mystic Falls.
Josh Cooper era solo un povero disgraziato. Era probabilmente capitato nel posto sbagliato al momento sbagliato: vampiro novellino e per nulla prudente, era stato fin troppo facile da scovare.  L’aveva incontrato per la prima volta in un pub di Manhattan, ubriaco e mezzo fatto. Era stato facile fargli dire quanto sapeva sui vampiri della zona, compresa Katerina. Aveva scoperto con piacere che ancora fuggiva spaventata, per quanto questo aggettivo sembrava addirsi poco a lei, ma sapeva per certo che nel farlo manteneva il suo solito stile. L’aveva fatto per secoli. Sua sorella. Era difficile scegliere fra la famiglia e l’amore, ma Katerina rendeva molto semplice quella scelta. Ma non era esattamente lei che voleva trovare: era Klaus. Era convinta che trovando lei avrebbe trovato anche lui nei paraggi, ma evidentemente si sbagliava.  Ecco perché ora si stava dirigendo in quella cittadina, per ritrovarlo. La sua umanità l’aveva abbandonata per tanto tempo.
Spenta.
Come quella luce nell’appartamento che aveva appena lasciato. Aveva ucciso la sua umanità per riuscire a essere ancora forte, lucida, razionale. Per non avere emozioni, per sopravvivere. In un modo o nell’altro però, quell’umanità era tornata a farle visita, sempre più insistentemente. Il suo cuore nero come i suoi capelli aveva ripreso a battere, a riempirsi di luce un’altra volta. E mentre il vento le passava tra i capelli, mentre era alla guida di quella decappottabile nera, con il cadavere di Josh al fianco, pensò che era venuto il momento di abbandonarlo lì, in mezzo alla strada, inscenando un tragico incidente. Le piaceva fare queste cose. Poi avrebbe corso, Mystic Falls era sempre più vicina.
Lui era sempre più vicino.


[breve intro per una raccolta che ho in mente; ho pensato che l'arrivo di una persona fondamentale per Klaus, come l'unica donna che abbia mai amato, potesse essere un buon punto di partenza per una serie di racconti dedicati a lui. In questo prologo ho voluto spiegare il minimo, cercando di incuriosire ma non dare troppe informazioni. Il personaggio femminile in questione verrà svelato nel prossimo capitolo, in cui avverrà l'incontro fra lei e Klaus. Come ho già detto nella storia si tratta di una ipotetica e inventata sorella di Katherine. Spero che vi abbia incuriosito, ci terrei che mi faceste sapere, è molto importante per me! Aggiornerò con un nuovo capitolo entro il 24 marzo 2013. Alla prossima puntata! ]

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** - quel genere di amore non muore mai. ***


Si guardava intorno, osservando ogni millimetro di quella piccola cittadina. Contrariamente a Katerina, lei non c’era mai stata prima. Erano state molto diverse le loro vite, eppure anche simili per molti versi.
 
Bulgaria, 1492:
- Katerina…
Non ricevette risposta. Sentiva singhiozzi dall’altro lato della porta, ma nessuna parola. Prese il pomello della porta e lo girò lentamente, aprendola un poco.
- Vattene, Anha.
- Nostro padre ha davvero intenzione di mandarti via?
- Ti ho detto VATTENE!
Katerina ebbe una reazione brusca e si alzò dal letto sul quale era rannicchiata, guardandola con occhi pieni d’odio. Il suo abito cadde a terra dolcemente, ponendosi in contrasto con chi lo stava indossando. Dianha la guardò timorosa, il cuore in gola e gli occhi lucidi. Non sapeva dire se fosse suo quel dolore che sentiva, o fosse solo empatia nei confronti di chi aveva di fronte. Non era lei che aveva il diritto di soffrire, non in quel momento, non tanto quanto Katerina che intanto si avvicinava sempre più a lei.
- Tu non hai un solo problema, sorella. Sei la più piccola di casa, la preferita di papà, non fai mai niente che non vada. Io sono la pecora nera. Io me ne devo andare, solo perché ho avuto una figlia con qualcuno che non gli andava a genio.
- S-sei stata… imprudente.
Aveva parlato con lo sguardo basso, sentendo gli occhi di Katerina su di lei. Quasi li poteva vedere pur non guardandoli. Occhi spietati di chi aveva amato troppo ed aveva perso tutto. Deglutii, sforzandosi di trovare il coraggio di dire ciò per cui era entrata in quella stanza.
- Ho chiesto a nostro padre di poter andare con te.
 
Pensare a quel giorno non era mai piacevole. Per tanti anni era stata convinta che Katerina fosse solo un’anima incompresa e sola. Avevano solo un anno di differenza, eppure un abisso le separava. Le aveva voluto bene, era comunque sua sorella. Era andata con lei a Londra, voleva sostenerla e aiutarla, ma tutto quello che Katerina aveva fatto era stato solo allontanarla sempre di più. Nemmeno la maggiore delle Petrova seppe mai perché il loro padre avesse lasciato andare entrambe le figlie in Inghilterra, ma Anha lo sapeva bene. Nemmeno lei aveva capito subito, ma poi aveva trovato la ragione. I Petrova erano sempre stati una famiglia nobile e con una reputazione da mantenere, una buona reputazione. Tutto ciò che essi facevano era sempre attentamente studiato per fare in modo di ottenere il massimo successo presso la società, con il minimo sforzo. Le due sorelle erano le sole figlie avute, nonostante più e vani tentativi di avere un primogenito maschio. Katerina era la maggiore, ma anche la più debole. La sua salute cagionevole la costringeva spesso a stare a casa e a letto per lunghi periodi, mentre Dianha era più forte fisicamente, il che le permetteva di partecipare assiduamente alla vita mondana che era stata progettata per lei. Le rare volte in cui Katerina era più in forze del solito faceva di testa sua, cercando in tutti i modi di recuperare quel tempo perduto al chiuso, abusando della sua libertà. Anha sapeva tutto quello che faceva, poiché Katerina solitamente le raccontava ciò che le accadeva. Era stato così che aveva conosciuto il giovane Nikolaj, e se ne era innamorata. Era un ragazzo di campagna che lavorava per loro padre, e bazzicava spesso nelle loro tenute. La piccola Petrova aveva subito ammonito Katerina e l’aveva pregata di fare attenzione, ma non era stata ascoltata. Fu così che la loro storia andò avanti per mesi e mesi, finché non giunse un’inaspettata gravidanza. La cosa potè essere nascosta solo i primi mesi, giustificando i vari malesseri con la solita debolezza di Katerina; ma poi fu impossibile nasconderlo, tanto più che Katerina non voleva sentire ragioni quando le si proponevano modi in cui avrebbe potuto perdere il bambino. Così, loro padre era venuto a scoprire tutto. Ricordare la rabbia e le scenate di quel giorno in cui tutto fu svelato faceva ancora male. Dianha era persa nei suoi pensieri tanto da non vedere più cosa c’era intorno a lei.
 
Suo padre aveva i palmi delle mani poggiati al tavolo di quel sontuoso soggiorno, incapace di alzare lo sguardo. Dianha lo guardava, esitante, indecisa se avvicinarsi, parlare o andarsene. Non fece nessuna delle tre cose: stette solo ferma lì, a osservarlo.
- Tu sapevi, Dianhochka, non è così?
Sembrava calmo. L’aveva persino chiamata in quel modo affettuoso che le riservava spesso. Ciò la fece sentire ancora più in colpa, sebbene sapesse che suo padre non aveva quell’intenzione. Voleva solo capire, e lei glielo doveva.
- Sì, padre.
Lui annuì, lentamente, facendo un profondissimo respiro. Sembrava che anche compiere una cosa così naturale come respirare gli costasse fatica, in quel momento. Sollevò la testa, guardandola negli occhi.
- Non posso permettere che tua sorella rimanga qui. Verrebbe additata come una meretrice, una donna dai facili costumi. Avrebbe una vita impossibile, Anha. E io non voglio questo per lei.
La ragazzina spalancò gli occhioni verdi, già intuendo cosa voleva fare suo padre, qual era la sua decisione. E per quanto dentro di sé sapesse che era l’unica possibile, la spaventava.
- Devo mandarla via, in Inghilterra.
- Ma… Ma, padre, voi…
- Non ho altra scelta. Katerina non mi lascia altre possibilità.
- Vi prego!
Suo padre scosse la testa, visibilmente amareggiato, ma troppo orgoglioso per dimostrare del tutto le sue emozioni.
- Fatemi andare con lei, allora.
 
Tornò al presente con corpo e mente, spezzando il filo dei ricordi che si facevano sempre più vividi, fino a poco prima. Sentì il sole sulla pelle e si stupì di quanto fosse piacevole sentire quel calore avvolgente. Aveva vissuto nell’oscurità per anni, di proposito. Osservò stupita i suoi capelli brillare alla luce, con riflessi ramati che aveva dimenticato. Ricordò il giorno prima, quando al buio era apparsa a quella ragazza bionda. Doveva aver pensato di essere di fronte alla donna meno umana che avesse mai visto in vita sua, e forse aveva ragione. Ma era il buio che aveva ingannato la vista della ragazza: Dianha in realtà era una donna bellissima, anche se non aveva mai superato Katerina in quanto a fascino. Anha aveva dei capelli castani, un castano anche piuttosto anonimo, se non fosse per il fatto che andavano schiarendosi in un biondo scuro più vicino alle punte. Il suo viso era meno spigoloso di quello della sorella, il suo fisico meno esile. La sola cosa che possedeva e che amava davvero di sé erano i suoi occhi: verdi, un verde molto scuro con pagliuzze dorate. Per molti anni erano stati talmente spenti da sembrare neri, certo, ma era solo un inganno.
Camminava sul marciapiede di quella che sembrava essere la via principale della cittadina. Poche persone si aggiravano da quelle parti, visi puliti e facce sorridenti che parevano del tutto ignare di ciò che Mystic Falls aveva visto in tanti anni di vita. Dianha sapeva tutto, si era informata molto accuratamente, e oltretutto la storia le era sempre piaciuta. Si ritrovò di fronte a quello che doveva essere il principale – se non l’unico – locale del posto, il Mystic Grill, e vi entrò. La porta scricchiolò quando si richiuse alle sue spalle, lasciando davanti a sé, mille sguardi che la osservavano curiosi. Bastò una sua occhiata generale per farli sparire tutti. Si avvicinò con uno strano sorriso al bancone, dietro al quale un biondino con la faccia angelica era intento a pulire bicchieri e tazzine da caffè. Dianha si sedette su uno sgabello e iniziò a studiarlo.
- Vai alla Robert E. Lee?
Lo colse di sorpresa. Matt Donovan alzò lo sguardo, sospettoso. A Mystic Falls non arrivava più nessuno per puro caso: ormai l’aveva imparato bene. La guardò, cercando di scorgere qualche segnale che gli facesse capire chi si trovava di fronte. Non riusciva a vedere niente di male in lei, ma non si fidava comunque.
- Perché, tu chi sei?
Lei si arrotolò una ciocca di capelli attorno al dito. Cercò di apparire il più innocente possibile, ma sapeva che le veniva un tantino difficile. Aveva perso l’innocenza da troppo tempo per ricordarsi com’era averla.
- Nessuno di importante, mi chiedevo se saremmo stati compagni di scuola.
Era del tutto intenzionata a far credere che si sarebbe trasferita lì, anche se non era sicura che avrebbe finito davvero per farlo. Sarebbe dipeso tutto dalla piega che avrebbero preso gli eventi. Si lasciava trasportare da essi, come sempre. Il ragazzo parve sorpreso ancora una volta.
- Bhè, allora immagino di sì. Sono Matt.
Cercava di fare il gentile, probabilmente l’avrebbe aiutato a capirci qualcosa in più. Sorrise amabilmente e le tese la mano, con quel fare cordiale che gli apparteneva talmente tanto che nessuno avrebbe pensato il contrario. Lei gliela strinse.
- Dianna.
Aveva inglesizzato il suo nome esattamente come Katerina aveva fatto con il suo. Doveva ammettere che Katherine suonava decisamente meglio di Dianna, ma non le importava poi un granché, in fondo. La porta scricchiolò di nuovo, all’improvviso, come se fosse stata aperta bruscamente. Qualche sguardo si levò anche quella volta, ma solo per qualche secondo. Quello di Anha non fu tra quelli. Ma sentì subito dei passi fin troppo familiari avvicinarsi. Matt lasciò la sua mano e si voltò verso la persona che si stava avvicinando. I passi si frenarono, lo sguardo di Dianha non si era ancora spostato, ma anzi, si abbassò. Sentiva gli occhi di Klaus sul suo volto, li sentiva come se le stessero bruciando il viso.
Si voltò, infine.
E c’erano i suoi occhi blu a fissarla. C’era lui che sembrava non aver alcuna difesa.
E c’era lei.
Erano lì entrambi.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** - niente è più come prima. ***


Nessuna azione sembrava essere quella giusta. Nessuna mossa impediva alla Regina di non essere uccisa da una delle pedine del Re. Lei non vedeva altro che gli occhi di lui, due pozze d'acqua limpida in cui non si specchiava da troppo tempo. Sembravano passare eternità, sembravano fermarsi tutti i cuori di coloro che avevano intorno. C'erano solo loro due, come era stato molto tempo prima.

Inghilterra, 1495:
- E' MIA SORELLA!
- Lo so, Anha.
- Allora perché? Perché vuoi impedirmi di andare a cercarla? E' convinta che tu abbia ucciso la nostra famiglia, quando... quando sappiamo bene che... che non è così.
Il pianto ruppe la sua voce, sbriciolandola. Dianha si portò il viso tra le mani, incapace di pensare al disastro che era la sua famiglia, o perlomeno ciò che ne restava. Katerina. Era lei che teneva la sola scintilla di speranza che Dianha voleva riavere. Si sentì avvolgere da un abbraccio, l'unico che in quel momento potesse accettare. Si strinse a Klaus, in un sacro silenzio. Tra le sue braccia si sentiva perfettamente al sicuro. Nonostante gli anni fossero davvero passati, per lei, era ancora la stessa bambina di qualche anno prima, la stessa diciassettenne che era arrivata a Londra con la sorella maggiore. Quell'unica sorella che aveva perso per sempre, in più modi. Ne aveva perduto l'affetto, la fiducia, l'umanità. Perché Katerina non era più quella che aveva sempre conosciuto, era solo una donna spietata che scivolava in un abisso di odio e rancore, cibandosi di sangue come avrebbe voluto cibarsi di vendetta. Era Katherine Pierce, adesso. E Dianha Petrova non aveva più niente da spartire con lei. Voleva solo ritrovare qualcuno in quella donna, qualcuno che era certo ci fosse ancora. Sciolse l'abbraccio, staccandosi dolcemente e guardandolo negli occhi, con un sorriso triste.
- Non vorrei mai scegliere tra lei e te, Nik. Ma sono costretta a farlo.
Klaus fece un respiro profondo, distogliendo lo sguardo e allontanandosi a grandi passi da lei. Lei i cui occhi erano diventati la cosa più preziosa che avesse, le cui labbra fossero ormai l'unica cosa che desiderasse. Lei, così umana da renderlo debole.
- Ti ucciderà. Non è più chi conoscevi, Dianha.
- Ed è colpa mia.
- Non potevi prevedere ciò che è accaduto.
- E' solo colpa mia! Tu, tu ti sei preso ogni colpa, dovrai convivere con il suo odio per tutta la vita, per colpa mia! - Non sono io a essere in pericolo.
- Appunto per questo ti sto chiedendo di trasformarmi, Nik! Ti prego...

C'era stato un periodo in cui era stata davvero convinta che per Katherine ci fosse qualche speranza. Che la Katerina che conosceva si sarebbe fatta viva prima o poi, che sarebbe tornata da lei, che avrebbe lasciato quella vita fatta di oscurità e brutalità per ricominciarne un'altra, insieme. Ma il Fato aveva ben altri piani per loro due. Incapace di controllare il suo lato più nero, Dianha si era trasformata in un mostro assai peggiore di quello che era diventata sua sorella. La sensazione di onnipotenza l'aveva del tutto disorientata, tanto da farle abbandonare Klaus da un giorno all'altro. Trovare Katerina era ancora un piano nei momenti in cui necessitava di una complice, ma non c'era altro sotto. Perciò erano passati i giorni, i mesi, gli anni, i secoli. Una eterna ventenne che faceva tutto ciò che avrebbe voluto fare senza un solo problema al mondo. Perlomeno era questo ciò che credeva, non accorgendosi che il problema era proprio lei. Lei e il suo fare libertino che la rendeva la persona forse più inconsapevolmente infelice di tutta la Terra. Lei, che come sua sorella aveva perso la sua identità originaria, ma senza abbracciarne un'altra. Era Sharon un giorno, era Georgia un altro. Era stata Amy, Rachel, Elizabeth, Jane, Norah, Phyllis. Era stata tutte e non era stata nessuno. Aveva spezzato cuori e si era cibata di essi. Aveva gettato disordini e caos ovunque andasse. Aveva ferito, aveva torturato, aveva ucciso. Tutto da sola, senza ricordarsi di quella candida ragazzina che era stata, senza ricordarsi nemmeno che proprio l'amore l'aveva spinta a diventare un mostro. Un mostro che credeva di riuscire a controllare.
Non fu così. Girò di città in città, percorse tutta l'Inghilterra, poi l'Europa, sbarcando infine in America, agli inizi del XIX secolo. Non teneva particolarmente a inserirsi nella società, preferendo restarne ai margini. Ma decise di osare di più con il suo arrivo in America, ammaliando questo e quello affinché si fingessero suoi servi e inventandosi una bella storia che la presentasse come una giovane nobildonna dell'alta società inglese. Divenne Dianna Peterson. Ci si potrebbe vedere un primo tentativo di riavvicinarsi alla sua umanità, un cercare di riappropriarsi di quell'anima che aveva abbandonato da tanto, tantissimo tempo. Oppure si potrebbe realizzare come lei stesse solo cercando ancora una volta di dimostrare di essere tutto quello che voleva essere, capace di ottenere tutto ciò che voleva, persino di sfidare sua sorella, scimmiottandole l'inglesizzazione del nome. Così si era - per così dire - trovata una sistemazione, ignara che proprio questo avrebbe riportato a galla pensieri sepolti da secoli.

Philadelphia, Pennsylvania, 1823:
- Miss Peterson, quale piacere! Temevo che non sareste mai giunta.
Quelle visite di cortesia tra vicini non le erano mai andate a genio, ma il signor Wharton era il sindaco, lì a Philadelphia, nonché la persona più importante di tutta la città. Perciò un invito da parte sua non era certo da rifiutare. La domestica l'aveva accompagnata fino al padrone di casa, che come sempre l'aveva accolta con gran gioia.
- Perdonate il mio imperdonabile ritardo, Mr. Wharton. Sono stata spiacevolmente trattenuta da affari... di famiglia.
Sorrise, pensando ironicamente che non era del tutto falsa, la sua affermazione. Le era giunta notizia che una certa Katherine Pierce fosse arrivata al porto di Huntington, nel West Virginia, ma non erano fonti così certe da poterci dare credito. Era qualche anno che aveva iniziato a disseminare spie in giro per il mondo, solo per trovare Katerina. Anche per questo era andata a quella festa. Tra tanti ospiti d'onore avrebbe certamente trovato qualche importante comandante di Marina a cui estorcere informazioni.
- L'importante è che siate presente ora! Venite, voglio presentarvi una persona.
Le offrì il braccio, al quale Dianna si affidò con un misto di curiosità e sospetto, chiedendosi chi potesse meritare tanta attenzione da doverle essere presentato in quel medesimo istante. Robert Wharton la accompagnava attraverso la sala, parlandole di questo uomo misterioso.
- E' arrivato qui in città questa mattina stessa, e subito si è diretto qua, per questioni d'affari con cui non voglio tediarvi. Un uomo davvero rispettabile e dai principi morali ineccepibili, da quanto ho potuto cogliere. Un vero uomo d'onore. Ho pensato subito che avreste avuto molto in comune, dal momento che arrivate entrambi dalla cara vecchia Madrepatria.
Quell'insieme di qualità, poste tutte insieme, la spaventarono. Aveva conosciuto una persona che non avrebbe potuto essere descritta meglio di così, ma non era affatto una di quelle che avrebbe voluto incontrare. I suoi timori si concretizzarono non appena il cortese sorriso dell'uomo non le apparve di fronte, insieme a tutta la sua figura.
- Sono lieto di presentarvi il signor Elijah Mikaelson, colui di cui vi parlavo. Mr. Mikaelson, lei è Miss Dianna Peterson, una cara amica.
- E' come se ci conoscessimo già, Miss... Peterson.

Sotto le forme di Elijah il passato arrivò come una tormenta, un vento gelido che la svegliò dal torpore in cui era rimasta. Era da quel giorno che la sua umanità aveva iniziato a farsi sentire, sebbene ci volle un altro secolo prima che lei smettesse di combatterla. E non era stato facile. Niente era stato facile, e in certi momenti dimenticare di essere stati umani era l'unica cosa semplice, l'unica cosa che sembrava valesse la pena fare. Ma ora, di fronte a Klaus, non sembrava esserci stata cosa più sbagliata. Erano trascorsi secondi, istanti, battiti di ciglia, mentre quei pensieri le passavano la mente come treni in corsa. Scese dallo sgabello sul quale era seduta, ma non fece un passo che gli uomini di Klaus le furono di fronte, bloccandole la vista e il passaggio. Erano novellini, ma non semplici vampiri. Si accorse subito che in loro c'era più di una maledizione. Erano ibridi, poteva esserne certa.
- Non un altro passo.
- Il vostro padrone non vi ha dato ordine di attaccarmi, o sbaglio? Tornate a cuccia.
- Non ne ha bisogno. La tua presenza non gli era gradita, non abbiamo bisogno di sapere altro.
Burattini nelle sue mani. Ne aveva visto decine di persone così. Eppure quella constatazione le fece male, tanto male che abbassò la testa e rimase in silenzio per un attimo. La risollevò subito quando i due presero leggermente le distanze da lei.
- Non farti vedere molto in giro, chi non piace a Klaus non piace nemmeno a noi.
Uno sguardo colmo d'odio riempì gli occhi di Anha, che li fissò entrambi come se volesse ucciderli lì, di fronte a tutti.
- Se sapeste chi sono parlereste diversamente. Tu uccidimi e ti assicuro che sarà l'ultima cosa che farai.
Era certa che Klaus l'avrebbe protetta, e per questo guardò oltre i due mastini. Lui l'avrebbe protetta.
Peccato che non fosse più lì.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1706614