L'Emblema della Farfalla di _wayward (/viewuser.php?uid=47038)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** E gli dei risero ***
Capitolo 2: *** Porta alle tenebre ***
Capitolo 3: *** Da queste ceneri ***
Capitolo 4: *** Immagina, un poema ***
Capitolo 1 *** E gli dei risero ***
Autore:
_wayward.
Titolo:
L'Emblema della Farfalla ~
Fandom:
Originale » Fantasy.
Rating:
Giallo.
Genere:
Long fic [1/15].
Personaggi/Pairing:
Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole:
~5049.
Avvertimenti:
-
Disclaimer:
Mine ©.
Note:
[0] … And the Gods Laughed – F. Brown, 1943.
♦ Un grazie di
cu[...]ore a Sammy, grazie al quale questo racconto non si chiama Pan
di Stelle.
1) Per il prompt "pietra" dei magici Faràs
su COW–T3 #maridichallenge
2) Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è veramente vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con tanto di vocabolario e quan'altro mi venga in mente.
Introduzione:
«Ti piacerebbe racimolare un po' di
denaro?»
Due ore
dopo, Lucky era ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso
un'enorme, grandiosa avventura.
~
L'Emblema della Farfalla
Capitolo
I ~ E gli dei risero [0]
In
principio erano bestie senza coscienza di essere stati creati e senza
desiderio di scoprirne la ragione.
L'unico
scopo di una vita era conquistare territori, mangiare quanto
più
possibile, bere per ubriacarsi e sopravvivere agli inverni lottando
contro le razze priorie.
Sovrani
di ogni sesso ed origine erano sorpassati dal tempo e dalle ere: non
vi era dinastia a governare il regno ma solo la legge del
più forte.
Quando
la Regina si presentò al mondo, le carestie divoravano i
campi ed il
peccato corrodeva gli animi degli uomini privi di volontà.
Ella
non era altri che la figlia d'un pastore eppure custodiva nella sua
memoria la luce della Stella dell'Ovest dalla quale ogni anima nasce
e cade sulla terra e sapeva, ancor prima di essere Regina, di dover
intervenire per riportare la verità al cospetto del mondo.
Combattendo
per la liberazione dai Traditori del Cielo, si dimostrò
degna
d'onore ed unì, sotto il vessillo della Luce, popoli di
qualsiasi
razza.
Quando
perfino il re morente, abbagliato dalla sua grazia, abdicò
in suo
favore, Ella adottò l'Erede Bambino e le terre dei contadini
si
colmarono di frutti, le cisterne si riempirono di dolce rugiada e
perfino la magia, dimenticata a causa dell'egoismo umano,
tornò a
scorrere potente fra le vene degli Eletti.
Il
giorno dell'Incoronazione, la Regina rinunciò al proprio
nome e si
fece chiamare Thempsa, ovvero farfalla di luce, perché era
così
che, nei suoi sogni, la Stella dell'Ovest, la più lucente
fra gli
astri, l'aveva riconosciuta.
Thempsa,
la Regina – che unificò il regno e per esso si
sacrificò, morendo
nell'ultima battaglia contro gli stessi Traditori che non erano
riusciti a vederne la luce.
Il
suo corpo, martoriato dai colpi nemici, venne bruciato e le sue
ceneri sparse nel vento, sopra il mare tempestoso che dimostrava,
attraverso tuoni e tempeste, il lutto della natura nell'aver perso
Colei che, più pura, aveva camminato sul suo suolo.
Le
leggende narrano, poi, che da una nuvola, emerso un tiepido raggio di
sole, uno sciame di farfalle volò fino al Reggente ed
all'Erede
Bambino, portando con sé il rosso mantello della Regina,
perso in
battaglia e finalmente ritornato all'erede al trono. Il sangue di
Thempsa, prova della sua sofferenza e passione, aveva lasciato inciso
sopra le cuciture quello che sarebbe diventato il simbolo della
dinastia.
Lasciato
cadere ai piedi del bimbo, era il segno della bontà della
Stella
dell'Ovest che, come dono d'amore alle proprie creature, lanciava,
nelle tenebre della morte, un grido di speranza al mondo.
«A
ricordare la speranza di un popolo senza guida, che la Stella
dell'Ovest ha riportato a casa» questo venne
ricamato sul
mantello con lettere d'oro fuso, dall'orafo più famoso del
regno,
poiché erano state le parole pronunciate dalla Regina prima
dell'inizio della sua ultima battaglia.
Nessuno,
in futuro, avrebbe mai dovuto dimenticare il sacrifico di Colei che
aveva amato il suo popolo più di se stessa e che era stata
in grado,
sola, di mostrare al mondo la luce della Stella.
Quando
l'Erede Bambino divenne re, affidò il mantello alle cure
della
sontuosa Cattedrale in cui aveva vissuto – costruita per
volere
della Regina – e gli Eletti lo riposero al centro della
costruzione, spiegato contro le vetrate in modo che, ogni giorno, il
sole appena sorto avrebbe illuminato e fatto brillare le sue parole
dorate.
Nessuno
avrebbe mai dovuto dimenticare.
***
I
capelli rossicci si sporcarono di fango quando appoggiò
l'orecchio
al terreno.
Sotto
il cinguettio degli uccelli ed il fruscio del vento fra gli alberi,
si fece strada prepotente il rumore di zoccoli contro la strada
battuta e quello più attutito di due ruote che seguivano i
cavalli.
«Stanno
arrivando» mormorò, scrutando le ombre dei rami
che si stagliavano
come artigli di fronte a lui.
L'uomo
robusto poco più indietro si accarezzò la barba
scura e si limitò
a osservare il filo spesso agganciato a due tronchi opposti.
«Sei
sicuro che funzionerà?» chiese d'un tratto con
voce bassa che
nascose malamente l'incertezza.
L'altro
posizionò una fiaschetta piena di liquido denso proprio ai
lati di
un piccolo arbusto ed alzò le spalle.
«Bartr» lo chiamò,
scostando una ciocca di capelli impolverati dalla fronte.
«quante
volte ha funzionato?»
«Non
le ho contate» sbuffò Bartr per poi dargli le
spalle.
«Nemmeno
io» ammise questo. Il primo raggio di sole della giornata
andò a
colpire proprio il vetro della fiaschetta e lui si affrettò
a
nasconderla meglio. «Quante volte non ha funzionato,
allora?»
chiese comunque, dopo un paio di minuti di silenzio.
«Mai,
Nateh'n.»
Evidentemente
soddisfatto, l'altro estrasse una fionda dalla cinta e
scavalcò una
fila di cespugli. «Bene. Quindi ci sono davvero poche
probabilità
che questa sia la prima volta in cui non funzioni»
Bartr
aprì la bocca per ribattere ma la richiuse subito dopo,
spostò il
peso del corpo da un piede all'altro e poi scompigliò con
una mano i
propri capelli, stringendosi il mantello attorno alle braccia
muscolose.
Il
Nateh'n gli scoccò uno sguardo impettito. «Hai
intenzione di dirmi
cosa ti turba, Bartr, o preferisci farti investire dal nostro
prossimo bottino?»
«Ecco»
esclamò quest'ultimo senza smettere di guardare preoccupato
il
sentiero. «è proprio questo presunto bottino che
mi preoccupa. Non
ho proprio ben capito per quale motivo abbiamo deciso di fidarci di
Lucky.»
«Lucky»
nel pronunciare quel nome l'altra figura venne scossa da un fremito
ed i suoi occhi si fecero più scuri. «un giorno
ucciderò quello
stronzo, Bartr. Ma per ora mi deve un favore – oh, un grosso
favore, dal momento che ho rischiato di farmi ammazzare per
recuperare quella maledetta gallina senza nemmeno ricavarne un uovo
–
e, sì, ci fidiamo delle sue informazioni perché
ho controllato che
siano vere.»
Bartr
sbatté le palpebre.
«Carrozza
partita stamani all'alba» continuò l'altro.
«Carica. Tre guardie
più il cocchiere ed un passeggero. Probabilmente uno
spocchioso
nobile che parte per assistere ai funerali del re portandosi appresso
i cambi d'abito più eleganti e, se saremo fortunati, ci
sarà una
moglie altrettanto spocchiosa con il collo ricoperto di
gioielli.»
«Forse»
ammise Bartr.
«Esattamente.
E la faccia incredula di Lucky quando gli negherò la sua
parte e lo
appenderò alla porta della taverna legato per le caviglie
sarà la
nostra ricompensa. Un'ottima ricompensa paragonata ai rischi
che-»
Un
fruscio fra gli alberi lo fece zittire immediatamente e Bartr
scattò
verso il nascondiglio che si era precedentemente costruito. Il rumore
degli zoccoli contro il terreno si faceva sempre più forte
e,
impugnata la fionda, il Nateh'n fece cenno al compagno di stare in
silenzio ed appiattirsi contro i cespugli.
Quando
il cavallo della prima guardia entrò nella sua visuale,
piccole
pietre iridescenti furono caricate sulla fionda, pronte per essere
scagliate e la carrozza, seguita dalle altre due guardie, fu ben
preso a pochi metri da loro.
Il
Nateh'n puntò lo sguardo sulle zampe anteriori del primo
cavallo
che, senza saperlo, si stava avvicinando al filo teso da Bartr.
Ancora
un passo...
Un
raggio di sole colpì il cavaliere negli occhi e la prima
pietra
colpì con un piccolo schiocco la fronte del cocchiere,
esattamente
pochi istanti prima che lo zoccolo del cavallo rompesse il filo,
facendo esplodere la fiaschetta in una nebbia verdastra di fumo e
veleno.
Un
cavallo si impennò sulle zampe posteriori, disarcionando il
cavaliere già intontito a causa della trappola mentre la
carrozza,
senza più guida, sterzava bruscamente verso sinistra,
ribaltandosi
su se stessa.
I
due assalitori approfittarono del trambusto per colpire anche le
ultime due guardie e le osservarono cadere, impotenti, in un sonno
profondo.
Bartr
strinse l'elsa della spada che spuntava da sotto il mantello e si
fece largo nel fumo fuoriuscito dalla fiaschetta di veleno.
«Nateh'n?»
«Sono
qui» la voce del Nateh'n indicava che questi era a pochi
passi da
lui, ancora immerso nel fitto vapore verde. «La carrozza si
è
ribaltata, vado a controllare che siano tutti dormienti.»
Una
fiala vuota attraversò la sua visuale e Bartr
riuscì a prenderla al
volo per un soffio.
«Aspetta
il mio segnale» stava dicendo l'altro. «per
risucchiare la
trappola.»
L'uomo
robusto annuì con un grugnito e tagliò le funi
che tenevano i
cavalli, ancora in preda al panico, incatenati alla carrozza.
Attirato dallo sbuffo d'aria calda poco sopra la sua spalla,
intravide l'esemplare più vicino a lui rimpicciolirsi fino a
raggiungere le dimensioni di una grossa lucertola e sparire in un
bagliore bluastro dopo aver svolazzato intorno al suo braccio,
così
come gli altri svædiphan. Quelli delle guardie, evidentemente
privi
di costrizioni magiche, erano scomparsi nel momento in cui i loro
cavalieri erano caduti a terra e Bartr li immaginò
ricomparire nelle
proprie scatole di metallo prima del tempo stabilito per il ricambio:
avrebbero causato non poche perplessità ai loro stallieri.
«Svædiphan
al posto di semplici cavalli» mormorò all'ombra
chiara che si
muoveva poco lontano da lui. «Dovremo allontanarci in fretta,
una
volta finito.»
Le
uniche risposte furono i passi del Nateh'n che si avvicinavano e lo
scricchiolio di una porta, ma, proprio quando era pronto a far
scattare all'indietro il tappo della fiala, un fendente
tagliò
l'aria ed il rumore di qualcosa di pesante che cade a terra
rimbombò
nel silenzio degli alberi.
«Maledizione»
nella nebbia, la voce del compagno risultò ancora
più preoccupata.
«Bartr, apri il- ah» un altro tonfo contro il
metallo.
Bartr
fece scattare la molla della fiala ed il tappo, dalla forza che ci
mise, cadde a terra mentre lui si allontanava e la nebbia si diradava
velocemente, risucchiata dalla fialetta incantata.
«Nateh'n..?»
sguainò la spada giusto in tempo per parare un colpo diretto
alla
propria gola.
Davanti
a lui, con una mano stretta alla base del collo e l'altra all'elsa
della lama con cui aveva appena cercato di ucciderlo, un giovane uomo
dai vestiti eleganti ed i capelli chiarissimi lo fissava con
un'espressione estremamente concentrata.
«Non
c'è bisogno di usare la spada» esclamò
Bartr, indietreggiando
ancora. «Lasciatela cadere e non vi faremo del
male.»
«Dovrei
restare senza difese davanti a dei briganti?» Il giovane
strinse
maggiormente la mano vicino al collo e tentò un nuovo
affondo.
«Combattete. Se volete rubare qualcosa deprederete il mio
cadavere.»
«Non
abbiamo intenzione di uccidere nessuno» ribatté
Bartr prima di far
saettare gli occhi in cerca del compagno.
Il
giovane soffocò un'imprecazione. «Avete
già ucciso le guardie ed
il cocchiere! Come potete-» si fermò solo quando
sentì il metallo
freddo del coltello del Nateh'n premergli contro la gola e Bartr fu
rapido a fargli cadere di mano la spada con un fendente non troppo
vicino alla mano da tagliarlo ma abbastanza da costringerlo a mollare
la presa.
«Non
abbiamo ucciso nessuno, razza di bambino impertinente»
sussurrò il
Nateh'n alla sua nuca. «stanno solo dormendo.»
Il
giovane spalancò gli occhi.
«Anche
voi dovreste essere addormentato come loro, eppure non lo
siete.»
Il
Nateh'n afferrò i polsi del giovane e glieli
portò dietro la
schiena, pronto a legarli insieme, lasciando senza protezione il
ciondolo a forma di goccia che pendeva dal suo collo.
Bartr
inclinò la testa. «Opale,» disse,
portando una mano a sfiorarlo.
«deve essere incantato»
«Niente
di nuovo, no?» sbottò il giovane, strattonando le
braccia senza
successo. «Anche voi dovete averne una.»
Il
Nateh'n ghignò e strinse di più il nodo che stava
ultimando, prima
di strappargli il ciondolo dal collo per infilarlo in una tasca della
casacca verde. «Non in oro massiccio, bambino» e
quest'ultimo si
divincolò ancora. «Beh, direi che abbiamo finito.
Bartr!» urlò
rivolto al compagno che stava perquisendo la carrozza.
«Prendi
quello che c'è e passami la fiala: lo leghiamo, gli facciamo
annusare un po' di veleno e ce ne andiamo in tutta
tranquillità.»
«Aspettate,
avete intenzione di lasciarmi qui?» sussurrò il
giovane.
«Esattamente.
Dove ho messo la corda più lunga... ah, ecco. Adesso...
ouch, e
smettetela di muovervi» il Nateh'n lo trascinò di
peso fino
all'albero più vicino e fece passare la corda intorno al
tronco e
fra i polsi legati del giovane.
«Siete
dei vigliacchi!» urlò quest'ultimo, senza dargli
la soddisfazione
di stare fermo. «Come- come potete fare questo? È
un lavoro da
codardi che hanno paura di affrontare chiunque in un combattimento
serio e siete- siete-»
«Non
c'è bisogno che vi sforziate, davvero»
continuò il Nateh'n.
Gli
occhi del giovane saettarono lungo tutta la sua figura, dagli stivali
sporchi di fango al mantello scuro che gli si adagiava leggero sulle
spalle, e si spalancarono all'improvviso nel momento in cui si
posarono sulle sue orecchie, malamente nascoste dai capelli ricci.
«Come...»
sussurrò. «Come potete fare questo ai vostri
antenati che
combatterono al fianco della Regina?»
Bartr,
che nel frattempo aveva recuperato i cavalli dalla radura in cui li
avevano lasciati, lanciò al compagno un sacco pieno di
monete
recuperate dalle cinture delle guardie e sospirò nel sentire
le
parole del giovane – sembrava talmente sconvolto che gli
scappò
addirittura una risatina.
«Non
di nuovo la storia degli elfi che galoppano verso la luce, vi
prego...» imprecò il Nateh'n, sbattendosi una mano
sulla fronte per
scostarsi i capelli. «Bartr, allontaniamoci prima che decida
di
venire meno alla promessa di non uccidere nessuno.»
Quest'ultimo
ridacchiò di nuovo e salì in sella al proprio
cavallo.
«Dov'è
il vostro tanto decantato onore?» urlò ancora il
giovane, con un
ultimo, disperato, tentativo.
«L'onore
di quest'elfo-» tentò di rispondere il Nateh'n ma
l'altro lo
interruppe di nuovo.
«La
vostra razza è conosciuta in tutto il regno per questo e voi
vi
abbassate ad assalire carrozze di passaggio?»
«Bartr,
passami quella maledetta fiala» con uno svolazzo del
mantello,
l'elfo tornò sui propri passi e si accostò al
giovane.
«Non
potete lasciarmi qui» disse questo, con lo stesso tono di
voce che
avrebbe usato una madre per ammonire i propri figli.
«Invece
posso» il Nateh'n ghignò. «E vi
dirò di più; dal momento che la
vostra voce mi da sui nervi, ora cadrete in un sonno
profondo.»
«Andiamo,
Nateh'n, lascialo qui a urlare e sbrighiamoci.»
Il
compagno fissò Bartr con un sopracciglio alzato e lo sguardo
truce
cosicché questi si decise a lanciargli la fiala con il
veleno.
«Buonanotte,
'llîas.»
Appena
prima che riuscisse a togliere il tappo, il giovane girò il
capo
verso gli alberi alla sua sinistra.
Il
sibilo della freccia, totalmente inaspettato, lo colse talmente di
sorpresa che lasciò cadere il veleno per terra.
«Bartr!»
I
due cavalli si impennarono e diedero voce ad un nitrito all'unisono,
per poi galoppare disordinatamente verso il fitto del bosco; l'elfo
vide con la coda dell'occhio il compagno stringersi il braccio e si
concentrò sui dardi infuocati che, come dal nulla, avevano
iniziato
a riversarsi contro l'intera zona.
«Maledetto
Lucky!» urlò, più a se stesso che a
qualcuno in particolare.
Tirando
a terra Bartr appena in tempo per evitare che un'altra freccia lo
colpisse, il Nateh'n si accorse di altri zoccoli contro il terreno
–
talmente vicini che capì solo in quel momento che erano
stati
avvolti nella stoffa per evitare di farsi sentire a grandi distanze
–
e l'altra carrozza entrò nella loro visuale appena un
istante dopo.
Spinse
l'altro dietro gli arbusti che avevano fatto da scudo visivo alla
loro trappola, schivando una seria pressoché infinita di
dardi che
ormai si erano conficcati persino nei corpi inerti delle guardie
addormentate. L'urlo del giovane ancora legato lo costrinse a
voltarsi in direzione della carovana.
Una
nuvola di fuoco e polvere si alzava dalle braccia dell'uomo in piedi
vicino al cocchiere e gli occhi del Nateh'n si assottigliarono mentre
la bocca si curvava in una smorfia a causa del peso di Bartr.
«L'opale,
sbrigatevi!» urlò il giovane e l'elfo, impegnato
nel cercare di
tenere sollevato Bartr, nemmeno gli diede retta.
«Slegatemi
e passatemelo!»
«Smettetela,
non avete capito che-» sbottò mentre il rumore
della carrozza in
avvicinamento e lo scoppiettio del fuoco nella nuvola che sempre
più
si addensava sopra di loro coprivano la sua stessa voce.
«Slegatemi.»
L'ordine,
tanto sicuro quanto disperato, lo costrinse a capitolare e con un
solo fendente del coltello tagliò le corde che tenevano il
giovane
stretto all'albero mentre l'altra mano, senza nemmeno rendersene
conto, si era infilata nella propria tasca ed ora stava lanciando al
ragazzo quel suo dannato ciondolo.
Si
risolse tutto in pochi secondi.
La
carrozza deviò per non andare a sbattere contro quella
precedentemente ribaltata; il mago, con un sorriso ben poco
rassicurante appena visibile sotto il cappuccio rosso sangue, si
voltò verso di loro nell'esatto momento in cui li superava
ed una
bolla azzurra li circondò di luce appena prima che la
tempesta di
fuoco si abbattesse sulle loro teste.
Un
inferno di scoppi di fuoco ed i fumi dell'incendio avvolsero l'intera
zona ma nemmeno una fiammella riuscì a penetrare l'illusione
di
stare galleggiando in mezzo alla luce e, senza volere dedicarsi al
pensiero della propria sopravvivenza, il Nateh'n spostò
l'attenzione
sulla ferita di Bartr.
Quando
il sangue smise di uscire copiosamente e lui riuscì a
medicarla,
l'incendio si stava spegnendo e la bolla era sul punto di
dissolversi.
Il
giovane era ancora in piedi davanti a loro, con i palmi rivolti verso
l'alto ed il ciondolo, completamente dorato, sospeso sopra questi.
***
Aprì
gli occhi, richiamato dalla luce soffusa intorno a lui e si
tirò a
sedere di scatto.
C'era
un fuoco, poco lontano – non uno di quelli lanciati dal mago,
notò,
tranquillizzandosi – e non era legato al tronco di un albero.
Girò
la testa per cercare una qualche traccia dei due banditi e
notò che
uno di loro, l'uomo muscoloso che pareva ricordare si chiamasse
Bartr, giaceva sotto un paio di coperte dall'altra parte del fuoco.
«Ben
svegliato, llîas»
esclamò una voce ironica poco dietro di lui e, girandosi,
vide
l'elfo dai capelli rossicci che scrutava attentamente il cielo con
espressione impassibile.
Si
stupì nel vedere le prime stelle brillare sopra di loro,
pensando
che il suo ultimo ricordo risaliva a quella mattina, quando, dopo
aver placato l'incendio, era probabilmente svenuto per lo sforzo.
«Thomas»
disse nel momento in cui il silenzio si fece troppo denso per essere
sopportato.
L'elfo
inclinò un sopracciglio e tornò a fissare gli
astri. «Thomas,
l'impertinente che non sa tenere la bocca chiusa ma, al contempo, ha
un utile aggeggino che placa una tempesta di fuoco evocata e salva la
vita ai briganti che volevano derubarlo. Il nome non suona molto bene
con quello che segue, vi devo avvertire.»
Thomas
abbassò il capo e si appoggiò le mani sulle
gambe.
«A
proposito, l'ho riposto nella vostra tasca. Anche se dubito che possa
servirvi ancora»
Frugò
dove gli era stato detto di cercare e ne tirò fuori l'opale
che, pur
essendo ancora attaccato alla catenella dorata, era ormai
completamente annerito. Thomas scacciò i pensieri che si
stavano
affollando nella sua mente, ripose il ciondolo nel sacchetto che
teneva appeso alla cintura e si decise ad interrompere il fastidioso
silenzio che si era venuto a creare.
«Voi?»
chiese infatti e l'elfo, indicato il compagno addormentato, disse
semplicemente: «Bartred. Bartr è più
veloce».
«E
voi?» ripeté allora il giovane, corrucciando le
sopracciglia.
«Non
avete certo bisogno di saperlo.»
«Se
l'ho chiesto significa che avrei piacere nel sentire il nome di colui
al quale ho salvato la vita»
L'elfo
sbuffò. «Solo perché eravamo nel raggio
d'azione della vostra
sfera magica non vuol dire che io sia in debito con voi.»
«Allora
perché non sono legato?» domandò Thomas
alzando leggermente la
voce.
«Ero
troppo stanco per farlo. Ho dovuto trascinarvi lontano dalla zona
bruciata per quasi tutto il pomeriggio» si
giustificò l'elfo, senza
cambiare espressione né distogliere lo sguardo dal cielo.
Thomas
lasciò scorrere un paio di minuti durante i quali
individuò la
propria spada in un angolo dell'accampamento improvvisato, insieme ad
un paio di borse e le redini sciolte dei due cavalli che dovevano
essere scappati durante il trambusto, poi soffiò contro il
fuoco per
far alzare le ceneri calde e disse: «È Nateh'n,
no?»
Per
la prima volta l'altro scoppiò in una fragorosa risata e
puntò gli
occhi su di lui, lasciandogli notare il verde quasi trasparente
dell'iride.
Solo
quando Thomas alzò un sopracciglio questi si decise a
spiegargli il
perché di quello scoppio improvviso di ilarità.
«Nateh'n non è il
mio nome.»
Il
giovane continuò a fissarlo.
«È
elfico» si
limitò a spiegare, tornando ad alzare la testa.
«significa “colui
che viene dalla terra di Nath [1]”.»
«Non
c'è da stupirsi» sussurrò allora
Thomas, stringendosi nella cotta
di maglia rifinita in argento quando la brezza primaverile lo colse
in pieno petto. «che uno come voi venga da quel
posto.»
L'elfo
sorrise di nuovo. «Non vengo da Nath.»
«Allora
per quale motivo vi fate chiamare in questo modo?»
sbottò il
giovane.
«Non
mi faccio chiamare in nessun modo. Bartr mi chiama Nateh'n
perché è
lì che ci siamo incontrati.»
«E
allora» sbuffò Thomas. «come vi dovrei
chiamare?»
«Non
chiamatemi.»
Abbassando
il capo, il giovane scosse la testa un paio di volte e decise di
lasciar cadere l'argomento. «Quanto distiamo da Alenea [2]
?»
«A
piedi è un po' più di mezza giornata di viaggio,
all'incirca» fu
la riposta precisa del brigante.
Il
profumo di fiori che caratterizzava la città e la vista
dell'imponente Cattedrale, il giardino interno illuminato dai raggi
del sole e da quelli delle stelle, si insinuarono prepotentemente
nella mente di Thomas e si ritrovò a mordersi il labbro
inferiore.
«Sulla seconda carrozza» esclamò ad un
tratto, portando una mano a
stringere il ciondolo d'opale attraverso la stoffa della sacca.
«c'era il mio maestro, lui... potrebbe essere in pericolo.
Devo
avvisare le guardie e tornare – esitò per una
frazione di secondo
– a casa.»
«Nessuno
vi trattiene» fece allora l'elfo, per nulla interessato alla
sorte
del suo mentore, ma l'altro alzò comunque il volto, stupito
dal
fatto che non avrebbe cercato di venderlo al mercato nero come
schiavo o ucciderlo per mettere all'asta i suoi organi.
«Davvero?»
Il
crepitio del fuoco riempì l'aria per un paio di secondi ed
il rumore
lontano di campane che battevano fra loro gli strinse lo stomaco in
una morsa che si rifiutò di comprendere.
«Se
riuscite ad entrare in città, siete libero di
restarvi» rispose
infine il Nateh'n.
«Che
significa?»
«Esattamente
quello che ho detto» si alzò improvvisamente dal
giaciglio sul
quale era seduto e, afferrato un sacchetto nero, lo tirò in
grembo a
Thomas. «Le porte sono chiuse e le guardie non lasciano
entrare
nessuno.»
L'altro
spalancò gli occhi fissi sulle bacche presenti nel
sacchetto. «Cos-
perché?»
«È
quello che ho intenzione di scoprire, 'llîas.
Ho uno sfortunato impostore da impiccare e non sarà certo un
manipolo di esaltati in divisa a fermarmi» e rise nel vedere
l'espressione infastidita del nobile.
«È
un insulto?» chiese sempre quest'ultimo, dopo una lunga pausa.
Fu
il turno del Nateh'n di alzare un sopracciglio.
«“Hìas”.
Anche prima mi avete chiamato così.»
«È
'llîas,
non hìas» e storse il naso. «Significa bambino
viziato
e siete libero
di giudicare voi se sia un insulto o la verità.»
Thomas
fece per ribattere ma un basso lamento del proprio stomaco lo
convinse ad assaggiare invece un paio di noci – pur senza
riuscire
a togliersi la convinzione che fossero avvelenate – e quando
il
Nateh'n si accucciò al fianco di Bartr, controllando la
ferita al
braccio e borbottando fra sé una serie di imprecazioni
sconnesse
contro un certo “Lucky”, capì che la
conversazione era finita.
Le
stelle della sera prima avevano lasciato il posto ad un'alba
nuvolosa, proprio sopra la sua testa.
«Continuo
a non capire perché dobbiamo legarlo.»
«Se
mi costringi a spiegartelo di nuovo giuro che lego anche te,
Bartr.»
Due
voci parlavano, sovrapponendosi l'una sull'altra e Thomas
aprì gli
occhi di scatto quando le riconobbe: ricci capelli rossi caddero
improvvisamente davanti alla sua visuale e si rese conto solo a causa
della pressione esercitata sui propri polsi delle corde che lo
legavano. Di nuovo.
«Ecco
fatto» stava mormorando contro il suo orecchio, stringendogli
le
mani dietro la schiena, il bandito elfo a cui aveva salvato la pelle
il giorno prima e che, evidentemente, non era così
riconoscente come
avrebbe dovuto essere.
Thomas
arrossì e tentò inutilmente di scostarsi, finendo
sdraiato sulla
spalla e con la braccia che gli dolevano. «Perché-
oh, ancora?»
«Oh,
ben svegliato» sorrise il Nateh'n da sopra di lui, gli stessi
abiti
logori del giorno prima e gli occhi verdi ancora più
brillanti,
nella luce mattutina.
Proprio
mentre stava per rispondere, due braccia robuste lo afferrarono per
le spalle e lo misero a sedere per terra, vicino ai rimasugli del
fuoco.
«Mi
dispiace, Thomas» disse Bartr, assicurandosi che non cadesse
di
nuovo, e lui diresse tutta la propria ira contro l'elfo.
«Avevate
detto che ero libero!»
«Lo
siete» ribatté quest'ultimo prima di posarsi una
mano al centro del
petto. «tecnicamente. In pratica, fino a quando resterete qui
da
solo con Bartr-punta-di-freccia... diciamo che le corde sono solo
un'assicurazione, d'accordo?»
Thomas
arricciò il naso. «Punta di freccia?»
«Già,
godetevi pure la compagnia dell'omone che ha paura di togliersi uno
spillo dal braccio mentre sbrigo i miei affari.»
La
pacca che colpì l'elfo sulla schiena fece sobbalzare anche
il
ragazzo.
«Non
ho paura» stava dicendo Bartr. «Solo, tu non sei
certo il miglior
medico che abbia mai conosciuto, Nateh'n.»
«Oh,
certo» quest'ultimo si allontanò di un paio di
passi e si gettò il
lungo mantello che aveva indossato anche il giorno prima sulle
spalle. «però non aspettarti che scavi una fossa
per il tuo
cadavere, quando la ferita farà infezione e morirai
dissanguato.»
«Non-»
«Va
bene» esclamò Thomas, interrompendo sul nascere la
battuta di
Bartr. «se il problema è il pericolo contro Bartr,
perché non mi
portate con voi?»
«Portarvi
con me?» l'elfo scoppiò a ridere. «Sto
andando in città, 'llîas,
e non è proprio il caso di avere un moccioso pronto a
vendermi alle
guardie in qualunque momento al seguito. Ho già qualche...
conto in
sospeso, con loro.»
«Non
venderei nessuno alle guardie» sbottò Thomas, le
sopracciglia
inarcate verso l'alto.
Bartr
si sedette poco vicino a lui e l'elfo sembrò sinceramente
stupito
per una frazione di secondo.
«Lasciate
piuttosto che ci parli» continuò il giovane.
«Le convincerò a
lasciarci entrare.»
«Non
ci riuscireste, credetemi» ribatté il Nateh'n,
riprendendo l'aria
divertita di poco prima. «Hanno chiuso fuori perfino la
baronessina
Cleomòth. Oh, avresti dovuto vedere la sua faccia, Bartr,
era rossa
come un freylin [3]
impazzito al pensiero dell'affronto che stava subendo e- ehm,
lasciamo perdere» si riscosse da quel pensiero divertente
solo
all'ennesima occhiataccia del giovane.
«Se i
cancelli sono chiusi come
dite» ribatté quest'ultimo. «non riuscirete certo ad entrare nemmeno da solo.»
Il
Nateh'n alzò le spalle e scrutò il cielo nuvoloso
senza dar peso
alle sue parole; solo un paio di minuti dopo sembrò
accorgersi che
stava ancora aspettando una sua risposta.
«I
cancelli non sono l'unico ingresso della città»
gli disse,
alternando gli occhi fra la sua figura legata sul giaciglio e le nubi
sopra di loro.
Thomas
trattenne l'ennesimo sbuffo.
«E,
fra l'altro, credetemi» sorrise di nuovo l'elfo, prima di
chinarsi a
raccogliere una manciata di terra e polvere da sistemare nella tasca
interna della casacca. «non vorreste sapere dove sono situati
gli
altri.»
***
Le
ruote della carrozza continuavano a girare velocemente sul terreno
sassoso, producendo un acuto stridio, unico suono nella valle
deserta.
«Maestro»
sussurrò una voce flebile alla figura assopita dell'uomo.
Ingombranti vestiti costosi lo avvolgevano completamente e sulla
fronte, sotto i corti capelli scuri e fra le rughe dettate dal tempo,
il cerchio dorato simbolo degli Eletti brillava alla luce dell'alba.
«Maestro»
mormorò ancora la creaturina umanoide che, da un angolo
della
carrozza, non osava avvicinarglisi ulteriormente ed i suoi occhi,
grandi e brillanti come mele mature, saettarono, scattanti, lungo
tutto il corpo del padrone. «Maestro, è appena
sorto il sole e
l'Eletto con la veste rossa ha detto di assicurarmi che foste
sveglio.»
Un
profondo sospiro si levò dall'uomo, ancora appoggiato allo
schienale
in pelle.
«Maestro»
squittì di nuovo la vocetta.
«Sono
sveglio, Nessa» esalò il Maestro e la sua voce
profonda fece
tremare la creatura di sollievo.
«Sia
ringraziata la Luce dell'Ovest che sta accompagnando il nostro
tragitto» pregò velocemente questa, prima di
porgere al Maestro una
ciotola d'acqua fredda.
Rifiutando
con un gesto lento l'acqua, il Maestro si perse ad osservare la
distesa di sabbia che scorreva velocemente oltre il vetro.
«La Luce
dell'Ovest...»
«La
ringrazierò di nuovo quando saremo arrivati a Cremysta [4]
, Maestro» fece Nessa, portandosi la ciotola d'acqua al petto
fasciato.
Un
raggio di sole entrò nell'abitacolo e si rifletté
contro l'anello
argentato che, appoggiato in grembo all'uomo, costringeva uniti i
lembi di un'ampia pergamena scura arrotolata su se stessa. Gli occhi
del Maestro, sopra le marcate occhiaie che ne caratterizzavano il
volto, si abbassarono, improvvisamente incupiti.
«La
Luce dell'Ovest» sussurrò nuovamente,
più rivolto a se stesso che
ad altri.
Nessa
inclinò il capo contro la spalla sinistra, indecisa se
intervenire o
limitarsi al silenzio, ma il Maestro non le diede il tempo di
decidere.
«Forse
non ce ne sarà bisogno.»
Quando,
il mattino dopo, la carrozza si sarebbe fermata con ultimo scossone
di fronte alle mura in pietra di Onalĩa,
la creatura sarebbe ancora stata impegnata a riflettere sul
significato di quella frase.
~
Glossario:
[1]
“Perfino i
bambini sanno minacciare, qui.
La
birra profuma di
erba fresca ma ha lo stesso sapore dell'acqua piovana e quando ti
scorre nella gola la vista ti si annebbia non tanto per l'ebbrezza
quanto per il suo pessimo gusto.
Sono
già stato
derubato tre volte, da quando sono arrivato – perfino dal
proprietario della locanda in cui alloggio che, quando ho scoperto il
furto, ha indicato come scusa la “forza
dell'abitudine” – e la
scorsa settimana ho incontrato una donna elegante, nella taverna
della Città Superiore, con lunghi capelli lucenti, occhi da
cerbiatta ed uno stemma regale al dito. Ha continuato a sorridermi
per tutta la serata e, dopo essere finiti abbracciati l'uno all'altra
sul retro della taverna, ha preteso di essere pagata! Quando,
allibito per la cifra da lei richiesta, mi sono rifiutato da darle
quei soldi, mi ha colpito alla testa ed è fuggita
assicurandosi di
prelevare diverse monete dalle mie tasche. Ed era una nobildonna,
capite? [...]
Dicono
che a Nath
siano tutti ladri, eppure nessuno specifica mai che le loro vittime
sono solo ed unicamente gli stranieri.”
Tratto
da “Annotazioni
di un furfante truffato”,
di Tarson
Ja'Toundh.
[2]
“[...] e quando i suoi occhi si riempiranno della luce della
Cattedrale e le sue narici del profumo dei fiori che circondano
Alenea,
solo allora il viandante capirà di essere finalmente a
casa.”
Cantico
della Luce dell'Ovest,
settantaduesimo verso.
[3]
“Sono poche le armi che possono fermare un freylin.
Con le tre fila di corna sotto il mento e gli zoccoli, pesanti, che
battono sul terreno, solo pochi forestieri possono vantarsi –
o
ringraziare la Stella – nel raccontare di lui e della sua
pelle
rossa, rilucente sotto il cocente sole del deserto, mentre si
avvicina in corsa pronto a caricare la sua preda.”
Dal
quindicesimo
volume del catalogo “Survive or Surrender”
di Saciv
Saamoi, avventuriero del deserto.
[4]
“Se la vista
di Alenea riesce ad evocare il profumo dei fiori di lavanda e delle
violette, l'unico odore che caratterizza Cremysta
è quello
dei soldi.
Non
c'è famiglia
che non abbia almeno un membro mercante di mestiere e, da quando il
tredicesimo re ha deciso di eleggere la città capitale e la
gioventù
della nobiltà dell'Impero vi si è trasferita di
massa, risulta
impossibile ignorare, camminando per le strade, le urla degli
acquirenti che contrattano su qualsiasi prezzo.”
L'Enciclopedia
del Buon Mercante, Ihnes Llepoiska.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Porta alle tenebre ***
Autore:
_wayward.
Titolo:
L'Emblema della Farfalla ~
Fandom:
Originale » Fantasy.
Rating:
Giallo.
Genere:
Long fic [2/15].
Personaggi/Pairing:
Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole:
~4721.
Avvertimenti:
-
Disclaimer:
Mine ©.
Note:
[0] Gateway
to Darkness
– F. Brown, 1949.
1) Per il prompt "fisso" dei magici
Faràs su COW–T3 #maridichallenge
Introduzione:
«Ti
piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era
ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme,
grandiosa avventura.
~
L'Emblema della Farfalla
Capitolo
II ~ Porta alle tenebre [0]
C'erano
tre uomini nel vicolo.
Il
Nateh'n si costrinse contro il muro dietro alla taverna, tirando il
cappuccio del mantello fin davanti agli occhi e stringendo la fionda
con la mano libera.
Cercando
di nascondersi il più possibile, concentrò la sua
attenzione sul
più piccolo di loro, con sudici capelli neri, lucidi a causa
della
sporcizia, le orecchie decisamente più grandi della norma ed
un paio
di denti placcati in oro ben visibili nella bocca spalancata.
«Amici!»
gracchiava mentre sventolava una bottiglia vuota di liquore.
«Vi
offro da bere! A tutti vo- ouch» il calcio che ricevette alla
gamba
lo fece crollare a terra a sputare sangue e saliva.
«Non
siamo tuoi amici» ribatté uno degli altri uomini,
con un'ascia da
battaglia in bella vista sotto il mantello scuro.
«Ma
come?» sibilò quello a terra, portandosi la
bottiglia sotto il naso
per annusarne l'odore. «Io-- sono stato io ad indicarvi il
colpo
migliore della... della-- della vostra lurida vita!»
Tentò
di alzarsi ma la mano pesante di colui che aveva parlato prima lo
costrinse di nuovo sulla strada.
«Quale
colpo?» sussurrò improvvisamente il
terzo uomo, rimasto finora
nell'ombra dell'insegna del locale.
Il
Nateh'n si sporse un poco dalla sua posizione per vederne meglio il
volto ma non riuscì che a scorgere la forma del cappuccio
marrone
che gli copriva la nuca.
«Il--
il colpo...» l'altro scoppiò improvvisamente in
una risata isterica
e divenne evidente a tutti che era palesemente ubriaco. «--il
colpo
che... ah! Quel colpo!»
«Lascialo
perdere, Ouf. Non ci darà nulla di più che la
soddisfazione di
vederlo gemere contro il pavimento» disse l'uomo con il
cappuccio,
carezzando il fodero della propria spada.
«Non
quest'oggi, forse» mormorò fra i denti digrignati
colui che era
stato chiamato Ouf, prima di afferrare l'ubriaco per il bavero della
veste e sollevarlo di scatto. «Ascoltami bene,
carogna.»
Il
sibilo con cui Ouf pronunciò quell'appellativo
rimbombò nella
strada vuota e la bottiglia che l'uomo teneva ancora in mano cadde a
terra, infrangendosi in più di mille pezzi.
«Non
c'era nulla ad attenderci nel luogo da te indicato: né
carrozza né
tanto meno quel cadavere che ci avevi promesso»
continuò. «Così
ora siamo costretti ad anticipare una parte del piano che avrei
personalmente preferito mettere in atto il più tardi
possibile.»
L'ubriaco
boccheggiò, pendendo dalle sue parole.
«E
noi ci aspettiamo che tu ci ripaghi del tempo che abbiamo perso,
delle nostre aspettative infrante e di tutti questi intoppi. Avevi
promesso oro, denaro e riconoscimento, carogna da quattro soldi, ed
è
quello che dovrai darci, mi hai capito?»
L'uomo
ridacchiò per un breve istante, per poi balbettare qualcosa
di
incomprensibile in risposta ed annuire con il capo.
«Bene»
replicò il terzo, estraendo il pugnale dalla cinta e
l'ubriaco
impallidì. «E noi ti lasceremo andare, vivo,
perché
sappiamo che sei un uomo di parola ma, sono sicuro che tu lo sappia,
una promessa è una promessa.»
Ouf
gli afferrò i polsi con una mano mentre con l'altra gli
tirava verso
il basso la mascella. «Nel frattempo però, ci
prendiamo questi.»
L'urlo
soffocato dell'uomo e lo zampillio del sangue dalla sua bocca
costrinsero il Nateh'n a distogliere lo sguardo e, poi, a trattenere
il respiro fino a quando non sentì più i passi
dei due mercenari
che si allontanavano.
Nel
vicolo, tremante e impiastricciato di sangue un po' ovunque,
l'ubriacone tentava di rimettersi in piedi fra i cocci di bottiglia,
senza successo. L'elfo, avvicinatosi finalmente, si prese qualche
istante per lasciare che questi percepisse la sua presenza e
scostò
con lo stivale una manciata di vetri da sotto la sua mano.
«Aiut--
aiutami-- a...» sputò praticamente l'uomo, senza
riuscire nemmeno
ad alzare il capo.
Un
corvo gracchiò sopra di loro ed il Nateh'n si
limitò ad inclinare
la testa contro la spalla per vedere meglio la situazione all'interno
della sua bocca; al posto dei due denti d'oro, che prima rilucevano
ai pochi raggi del sole, ora stava un grosso spazio vuoto, pieno di
sangue, saliva ed un liquido denso e verdastro che richiamava il
vomito.
«Sai»
storse le labbra in una smorfia. «te l'ho sempre detto che
avresti
fatto meglio a tenere la bocca chiusa.»
L'uomo
la spalancò ancora di più, boccheggiando, e
strabuzzò gli occhi.
«Mi
dispiace Lucky,» continuò il Nateh'n.
«ma questa non sembra
proprio essere la tua giornata fortunata.»
Lucky
gemette di nuovo e l'elfo lo lasciò cadere senza premura sul
letto
della stanza che era stato obbligato ad affittargli.
Il
locandiere, un uomo dall'aspetto rude e con grandi cerchi dorati
appesi alle orecchie li aveva guardati male non appena erano entrati
ma, alla vista delle monete lanciate sul bancone – prese dal
fondo
degli stivali di Lucky, si era limitato ad annuire silenziosamente,
indicandogli il piano superiore.
«Grazie,
amico-- grazie, amico mio» stava gemendo ora quello, fra un
conato
di vomito e l'altro.
«Sta'
zitto, Lucky, se non vuoi che ti cavi i denti che ti sono
rimasti»
sbottò il Nateh'n prima di tirare le tende alla finestra e
chiudere
a chiave la porta.
Lucky
borbottò qualcosa che lui decise di ignorare e si
dedicò piuttosto
al controllo della ferita al polpaccio che si era causato
impigliandosi in una trappola nelle vie sotterranee; il taglio
appariva lungo e slabbrato ed uno spiacevole formicolio aveva appena
iniziato a percorrergli tutta la gamba ma decise che avrebbe
controllato solo una volta tornato all'accampamento che la lama non
fosse stata avvelenata.
Una
risata gracchiante dell'uomo, ancora ubriaco, lo riportò
alla
situazione.
«Lucky»
esclamò infatti, tirandosi il mantello sulle spalle.
«ero qui per
appenderti alla porta della taverna per i genitali» l'uomo
sussultò
e la sua faccia sembrò ancora più tumefatta di
quanto fosse in
realtà. «... ma ti lascerò in pace,
considerato che hai già fatto
arrabbiare persone più cattive di me e Bartr, almeno per
adesso, se
mi darai una spiegazione abbastanza lunga e dettagliata di quanto
è
successo ieri.»
L'altro
si nascose fra i cuscini ma, allo sbattere delle persiane fuori dalla
finestra, tornò con lo sguardo sul Nateh'n. Era piuttosto
confuso.
«Il
colpo, Lucky. La carovana e l'attacco. E, soprattutto, l'altra
carovana» a quel punto Lucky sembrò ritrovare la
memoria e scoppiò
di nuovo a ridere, salvo poi finire per sputare un grumo di sangue
sul pavimento sporco.
«Quel
colpo!» disse, quando riuscì a riprendere fiato.
«Quel colpo che--
oh, ahah-- ooh, quel calice di birra era così- ma mi
uccideranno
se-- non hanno trovato il cadavere..? Ma-- ah-»
Il
Nateh'n fissò gli occhi su di lui, scostando di poco la
casacca
verde sul fianco, in modo da fargli intravedere il pugnale che era
attaccato alla cintura.
«Oh--
andiamo, non hai capito cosa sta succedendo?»
riuscì a domandare
Lucky, battendo una mano sul proprio ginocchio. «La
città chiusa,
la carrozza e quell'altra, e poi il mago e-»
rabbrividì. «il
mago...»
«Cosa
c'entra la città chiusa in questa storia? Lucky
questo-»
«Non
l'hai capito?» ripeté quest'ultimo.
Il
rumore di colpi leggeri contro la porta raffreddò
all'istante
l'atmosfera.
Il
Nateh'n estrasse velocemente il pugnale dalla cintura e si
portò
vicino al muro, pronto all'attacco.
«Signori?
Ho portato dell'acqua.»
Con
circospezione, l'elfo fece sbloccò la serratura e la
maniglia si
abbassò, permettendo ad una sagoma femminile di entrare
nella
stanza. Questa appoggiò velocemente un catino colmo fino
all'orlo
sulla scrivania sudicia e poi si girò ad osservare meglio i
due
mentre anche il Nateh'n faceva scorrere lo sguardo su di lei.
«Avete
bisogno di bende?»
Lucky
fece per rispondere ma l'elfo fu più veloce a dire:
«Non è
necessario.»
La
donna fece un breve inchino, i capelli scuri le caddero sul petto e
la lampada fece brillare i cerchi d'oro che le bucavano i lobi,
mentre usciva con la stessa rapidità con cui era entrata.
Non
appena la porta fu di nuovo chiusa, il Nateh'n fece scattare la
serratura.
«Parla»
intimò poi all'altro uomo. «Ora.»
Lucky
deglutì ancora. «Era un piano pe--rfetto. Serviva
qualcuno per
l'attacco e-- ah, siete arrivati voi. Perfetto.»
«Quale
piano, Lucky?» la voce dell'elfo risuonò
più bassa del solito alle
orecchie dell'ubriaco, fra le sottili mura della camera.
«Già,
già- quale piano? Non ti sei
accorto di quello che sta per succedere? Era perfetto e--»
Lucky si
fermò, come se avesse appena colto un particolare di prima
importanza. «Tu... sei vivo.»
Il
Nateh'n alzò un sopracciglio.
«Sei
vivo. Ecco cosa non funziona è che-- e allora anche lui...
Oh, per
la luce della Stella,adesso capisco perché...»
«Lui?»
mormorò l'elfo prima di studiare attentamente il contenuto
della
sacca che l'uomo aveva lasciato cadere quando erano entrati.
«Intendi
che quella trappola era solo una scusa per uccidere quel moccioso che
si atteggia a principino?»
Lucky
lo fissò a metà fra il divertito e lo stupito.
«È
solo un bamboccio biondo» continuò il Nateh'n, per
nulla convinto.
«Di chi è figlio per meritarsi così
tanta attenzione?»
«Non
lo sai?» rise con tutto il fiato che gli era rimasto in gola.
«Del
re, elfo.»
***
Bartr
occhieggiò il cielo con aria preoccupata.
Il
sole stava per tramontare, le provviste di cibo già misere
scarseggiavano ed il Nateh'n non era ancora tornato dalla
città.
Lasciò
cadere quindi lo sguardo sul ragazzo disteso sopra la sua sacca da
viaggio, con le mani ancora legate dietro la schiena e la testa persa
fa chissà quali pensieri – forse maledizioni nei
confronti del suo
compagno.
Ridacchiò
e scosse la testa.
«Non
è crudele come sembra, sai?»
Thomas
non sollevò nemmeno le palpebre. «Se lo dite
voi...» rispose in un
sottile borbottio che cessò solo quando il brigante,
avvicinatosi in
lunghe ma lente falcate, ebbe tagliato la corda che teneva uniti i
suoi polsi.
Il
ragazzo si sollevò a sedere ed inclinò la testa
mentre lui tornava
a lucidare il proprio arco. «Perché l'avete
fatto?»
«Siete
stato in quella posizione tutto il giorno» fece spallucce
Bartr.
Thomas
continuò a fissarlo interrogativo.
«Avevo
promesso che non vi avrei slegato fino al tramonto, non è
colpa mia
se lui non è ancora tornato.»
«Voi
non siete per davvero un brigante» disse d'un tratto l'altro,
dopo
un lungo silenzio, e fu il turno di Bartr di stupirsi.
«Intendo
dire, non lo siete sempre stato, vero?»
«Ah!»
sghignazzò l'uomo. «Immagino che la vera domanda
sia cosa ci fa un
gentiluomo come me insieme ad un elfo cattivo ed
approfittatore.»
Thomas
abbassò lo sguardo e si grattò la nuca.
«Non si può dire che sia
propriamente gentile...» fece, più rivolto a se
stesso che
all'altro.
«Non
fatevi ingannare dalle apparenze. Io, ad esempio, sono sempre stato
un ladro.»
«Che
tipo di ladro?»
«Di
quelli che rubano» rispose Bartr con sarcasmo.
«Volevo fare
l'addestratore di sgrunge [1]
ma mi serviva un capitale iniziale per comprarne uno»
continuò,
all'occhiata stralunata di Thomas. «così mi
è stato proposto un
affare interessante. Ho capito dopo il mio primo furto che ad essere
ladro avrei avuto una paga decisamente migliore.»
Nonostante
la disapprovazione, il ragazzo non poté fare a meno di
sorridere.
«Questo però non spiega come vi siete
incontrati.»
«Nateh'n
mi ha salvato la vita.»
Le
sopracciglia di Thomas svettarono in alto.
«È
la verità in fondo alla lunga storia»
ribatté Bartr. «ma non
chiedeteglielo. Probabilmente vi risponderebbe che non era sua
intenzione o qualcosa del genere.»
Il
ragazzo scosse la testa e piegò le ginocchia per alzarsi
quando una
dolorosa fitta alla schiena lo costrinse a sdraiarsi di nuovo.
«Dolori?»
«Un
po'» ammise, di gran lunga più rilassato nei
confronti della
situazione rispetto a quella mattina.
«Vi
offrirei una pomata» esclamò Bartr, poco prima di
stringere il
braccio bendato al petto e sospirare profondamente. «ma temo
di
averla consumata tutta.»
«Il
vostro braccio» ricordò lui. «La punta
della freccia è davvero
ancora impigliata nella carne?»
«Solo
una scheggia, in realtà. Ma ci farò
l'abitudine» rispose
prontamente Bartr.
Thomas
si massaggiò lentamente i polsi senza distogliere lo sguardo
dall'imponente uomo seduto sul tronco tagliato di una betulla, per
ponderare le proprie parole.
Nonostante
la stazza, il naso più grande del normale e la folta barba
scura che
gli nascondeva il mento, l'intera figura di Bartred non aveva nulla
del bandito. Un fazzoletto a quadri legato intorno al collo lo
rendeva più simile, in effetti, ad uno di quegli allevatori
che
arrivavano periodicamente alla Cattedrale per portare i propri
animali migliori da immolare sull'altare della Stella.
«Potrei...»
fece infine. «potrei darci io un'occhiata. Non sono molto
bravo ma,
forse...»
«Non
offendetevi se non sono ansioso di sottopormi al vostro
esame.»
Il
ragazzo corrucciò le sopracciglia.
«Non
che abbia qualcosa contro di voi» fu svelto a dire Bartr.
«Nateh'n
mi ha raccontato che vi devo la vita ma preferisco tenermi la mia
punta di freccia. Va bene così.»
Thomas
scosse la testa ed infilò lentamente una mano nel sacchetto
che
teneva legato in vita più per la forza dell'abitudine che
per altro:
il ciondolo, completamente opaco, era ancora al suo posto. Era la
stessa pietra a forma di goccia che gli era sembrata così
brillante,
la sera prima di partire, poggiata quasi casualmente sulla sua
scrivania a bearsi e risplendere del sole che attraversava le
colorate vetrate della Cattedrale eppure, ora, di quello splendore
non rimaneva alcuna traccia.
Un
ululato risuonò poco lontano, nel fitto degli alberi e fu di
nuovo
Bartr ad interrompere il silenzio fra loro.
«Stavate
andando a Cremysta, vero? Sono passate una decina di carrozze su
quello stesso pezzo di strada, non molto prima della vostra»
specificò di fronte all'espressione sbigottita del ragazzo.
«Immagino che il funerale di un re sia un evento che nessuno
nobile
abbia voglia di perdere.»
Thomas
abbassò il capo. Tre tramonti – tre giorni e tre
notti di viaggio
– era il tempo stimato più volte dal Maestro per
raggiungere la
capitale, senza intoppi di alcun genere, ma ormai non sarebbe
arrivato in tempo nemmeno a dorso di un Efyo
[2].
Cercò,
scavando nel profondo dei propri sentimenti, di trovare il giusto
rimorso che un figlio dovrebbe provare nel mancare alla cerimonia
funebre in onore del padre, eppure, al centro del proprio petto,
rimbombava soltanto il debole “oh” che era uscito
dalle sue
labbra quando la notizia della morte del re gli era stata recapitata.
«Mi
dispiace per questo contrattempo» esclamò Bartr
quando lo vide
incupirsi all'improvviso.
«No»
ribatté lui. «Tanto non era una cerimonia a cui
tenessi davvero
partecipare.»
Il
brigante inclinò il capo e lo osservò con
un'espressione profonda,
alla ricerca di qualcosa che Thomas non seppe identificare, poi,
decidendo probabilmente di credere alle sue parole, tornò
alla
lucidatura dell'arco.
«Comunque
sia andata, penso che a quest'ora il responsabile dell'attacco sia
morto.»
«Sapete
chi è stato?»
Bartr
inclinò le labbra in una smorfia. «Un insulto alla
razza umana:
puzzolente, perennemente ubriaco ed esperto di brigantaggio il cui
reddito massimo è sempre stato una manciata di monete.
È stato lui
ad indicarci la vostra carrozza. Io avevo suggerito di non fidarsi di
lui. Non di nuovo. Oh, spero solo che non lo
impicchi per
davvero sopra la porta della locanda» borbottò a
denti stretti e
Thomas trattenne uno sbuffo all'immagine che si era venuta a creare
della peggiore feccia di Alenea.
Aveva
visitato una locanda, una volta.
Era
talmente piccolo da potersi infilare nel sacco destinato ai semi da
trasportare fino alla campagna poco fuori la città e
così aveva
fatto, in un impeto di curiosità e di avventura in cui
già si
vedeva vagare per strade lastricate d'oro, a giocare con coetanei
dagli occhi grandi e lentiggini sul naso, elogiato dai passanti per
la sua gentilezza e le buone maniere. Era sceso, tappandosi le narici
a causa dell'odore acre che permeava l'aria in quella zona, alla
prima fermata della carrozza e si era intrufolato subito per
nascondersi dalle guardie cittadine in un edificio pericolante che,
visto dall'esterno, aveva tutta l'aria di essere disabitato.
L'odore
era aumentato non appena si era chiuso la porta alle spalle.
Uomini
e donne vestiti di stracci si ammassavano intorno ad un bancone,
alcuni attaccati alla canna di vecchie bottiglie di vino ed altri, ai
lati di un grande tavolo, insultavano la Stella, colpevole di non
avergli suggerito le carte degli avversari. Dall'alto soffitto
pendevano ragnatele ovunque ed in un angolo il raccapricciante
disegno stilizzato di un uomo impiccato riprendeva il nome che
svettava sull'insegna fuori dall'edificio.
Mentre
correva nella direzione della Cattedrale, visibile da tutta la
città,
era inciampato nei suoi stessi passi ed era finito contro le gambe
del Maestro, uscito in gran fretta alla sua ricerca. Accertatosi che
non era ferito – tutt'al più spaventato
– il Maestro l'aveva
stretto a sé, cimentandosi in una lunga ramanzina su quanto
fosse
pericoloso, per lui, visitare altri luoghi prima del momento
opportuno. Thomas, mordendosi il labbro inferiore, aveva infine
annuito lentamente e non era più uscito dalla Cattedrale.
Non
fino ad allora.
***
Il
pugnale sfregò contro la giugulare di Lucky ed un rivolo di
sangue
andò ad aggiungersi a quello che macchiava già i
suoi vestiti.
«Parla,
Lucky.»
Il
tono dell'elfo non era per nulla simile a quello ironico che aveva
usato fino ad allora e l'altro deglutì, senza
però riuscire ad
allontanarsi dalla lama.
«Era
perfetto» iniziò, gli spasmi dell'alcool
sostituiti dal freddo
pungente della paura. «Avreste dovuto morire tutti,
specialmente
lui. I mercenari... ai mercenari avevano promesso gli effetti
personali. Avrebbero dovuto portare indietro il corpo. La colpa
sarebbe andata ai briganti, un attacco sventato purtroppo troppo
tardi per salvare la vita al principe. Che peccato.»
Il
Nateh'n inclinò la testa. «E tu cosa c'entri in
tutto questo? Cosa
c'entriamo io e Bartr?»
«Oh,
non era un mio il piano è-- ah, solo loro» rise
alla grossa, i
buchi sanguinanti lasciati al posto dei denti dorati in bella vista.
«Io dovevo trovare i briganti giusti. Qualcuno facilmente
incolpabile, abbastanza famoso per le sue malefatte un po' ovunque,
qualcuno specializzato nell'attacco alle carrozze in viaggio e
disposto ad attaccare quella giusta senza avere la
possibilità di
notare gli stemmi reali.»
«La
trappola di nebbia...» intuì l'elfo e Lucky
annuì freneticamente.
«Hanno
chiesto a me perché conosco non solo i migliori
furfanti»
ridacchiò. «ma anche i loro metodi. Dovevo trovare
qualcuno
esattamente come voi, qualcuno che avrebbe causato una grossa
sfiducia nei confronti un'antica e importante razza. O magari
due.»
«Di
cosa stai parlando?» la mano che impugnava il pugnale spinse
ancora
di più contro la gola di Lucky che si esibì in un
gracchiante
lamento attutito.
«Lo
sanno tutti, sai?» il suo tono era ormai disperato.
«Lo capiscono,
quando vedono le tue trappole e quella fionda maledetta-- sarebbe
stato il pretesto perfetto ma ora, ora... oh.»
Il
Nateh'n lo lasciò cadere all'indietro, contro la testiera
del letto,
e si allontanò di un paio di passi.
«Un
colpo di stato» sussurrò fra i denti.
«Ci hai fatto finire nel bel
mezzo di un colpo di stato.»
«Niente
di personale, elfo» gracchiò Lucky, circondandosi
la nuca con le
braccia.
La
voce del Nateh'n rimbombò nella camera dopo una manciata di
secondi
in cui l'unico rumore era stato il respiro rauco del furfante.
«Lucky»
disse e l'interessato girò la testa, puntandola oltre la
finestra
oscurata dalle tende. Solo uno spiraglio di luce rossastra, proprio
nel punto in cui i due lembi delle tende si univano, lasciava
intravedere gli edifici adiacenti.
Il
Nateh'n rinfoderò il pugnale e fissò gli occhi
verdi su di lui.
«Dimmi chi, Lucky. Chi sta dietro tutto questo?»
L'uomo
incurvò gli angoli delle labbra verso l'alto.
«Temo che dovrai
capirlo da s-»
Il
sorriso di Lucky si riempì di sangue.
«Lucky!»
Il
Nateh'n si gettò a terra di fianco al letto ed
urtò il comodino
mentre un'altra freccia, rompendo ciò che rimaneva della
finestra,
si infilava nel legno della scrivania, esattamente dov'era lui
qualche secondo prima. Si girò e riuscì solo a
vedere un lembo di
stoffa verde, strappato dalla sua casacca ed ora impigliato nella
freccia, che subito un nuovo sibilo gli sfrecciò
pericolosamente
vicino alle orecchie.
Oltre
le tende ormai squarciate, il secondo uomo che aveva minacciato Lucky
nel vicolo – con ancora il cappuccio a nascondergli il viso
–
puntava una balestra verso di lui.
Un'altra
freccia scoccò e l'elfo si lanciò contro la
porta, sfondandola per
la foga e cadendoci sopra. Rotolò sulla sinistra e si
sforzò di
tirarsi in piedi ignorando il dolore sordo al polpaccio, per iniziare
a correre lungo il corridoio scuro.
Il
rumore di un piatto infranto contro il pavimento lo fece fermare
proprio in cima alle rampe di scale.
«L'elfo
dai capelli rossi. Primo piano, quinta stanza» stava dicendo
la
donna con gli anelli alle orecchie, indicando un punto oltre la sua
spalla.
«Dannazione.»
L'altro
mercenario, Ouf, salutò la sua imprecazione con un ghigno
mentre lui
riprendeva a correre, stavolta nella direzione opposta.
Andò
a sbattere contro un paio di persone che uscivano dalle proprie
camere per capire cosa fosse stato tutto quel trambusto e, non appena
percepì la corsa pesante del mercenario dietro di lui,
sorpassò un
uomo in accappatoio ed entrò nella sua camera, chiudendone
la porta
a chiave.
Una
prostituta nuda, in piedi accanto al letto, urlò ma lui la
ignorò e
si fiondò verso la finestra già spalancata.
Si
lasciò sfuggire l'ennesima bestemmia che fu coperta dagli
strilli
della donna: non c'era nulla su cui potesse saltare se non il canale
di scolo dell'acqua che stava ad un paio di metri di distanza,
proprio sull'edificio di fronte. «Oh, merda...»
Il
colpo dell'ascia contro la porta, avvertito per prima dalla
prostituta che corse a nascondersi in bagno, lo fece indietreggiare
di tre passi dalla finestra.
«Non
andrai lontano» la calma del mercenario oltre il legno gli
fece
capire che, davvero, aveva i secondi contati e sentì
distintamente
una voce nelle orecchie – guarda caso con lo stesso timbro di
Bartr
– che gli domandava se preferiva morire squartato da un'ascia
oppure sfracellato contro il lastricato.
Nel
dubbio, decise che avrebbe che avrebbe optato per la seconda.
Quando
i piedi sfiorarono il terreno, non riuscì ad evitare di
finire in
ginocchio.
Aveva
i palmi delle mani scorticati nel tentativo di afferrare il canale di
scolo che, come aveva immaginato poco prima di saltare, non aveva
retto il suo peso e si era staccato dalla casa per poi schiantarsi a
pochi passi da dove lui era invece riuscito ad atterrare.
Facendo
uno sforzo immane per alzarsi da terra, il Nateh'n notò che
una
nuova striatura rossa gli impiastricciava la gamba fino alla
caviglia.
Si
trascinò fin dietro l'angolo di un edificio e solo quando,
con la
schiena premuta contro il muro, si azzardò a guardare verso
il primo
piano della locanda, vide che Ouf, ora dietro alla finestra
spalancata, si stava allontanando lentamente, voltandogli le spalle.
Lui
riprese a camminare nella direzione opposta.
Troppo
concentrato sui propri passi per evitare di rovinare per terra, si
limitò a seguire la strada ciottolata, appoggiandosi ogni
tanto ai
sacchi della spazzatura per riacquistare l'equilibrio e controllare
che nessuno lo stesse seguendo.
I
mercenari erano due, si fermò a ragionare quando un'anziana
con uno
scialle rossastro gli passò accanto. In quelle condizioni
non
sarebbe mai riuscito a seminarli, a meno che loro non avessero deciso
di lasciarlo andare o, prospettiva meno allettante, di tendergli una
trappola più avanti.
Svoltò
in una strada secondaria a sinistra e continuò a camminare
in tutta
fretta fino a che qualcuno non gli andò a sbattere contro.
Allarmato
per non averlo nemmeno avvertito, portò d'abitudine una mano
alla
cintura, in cerca della fionda e spalancò gli occhi.
La
baronessina Cleomòth sbuffò infastidita di fronte
al suo silenzio.
«Certo, non scusatevi nemmeno, elfo, mi raccomando.»
«Baronessa,
non ho tempo adesso» balbettò il Nateh'n,
allontanandosi di un paio
di passi e stringendo spasmodicamente lo spazio vuoto contro la
coscia sinistra, nascosto dal lembo strappato della casacca, di
solito occupato dalla fionda.
Una
candela si accese nella sua mente.
Sotto
il pezzo di stoffa rimasto alla locanda...
«Come-
VOI!?»
gracchiò la
baronessina e l'elfo si morse la lingua, provando a distanziarla
ulteriormente se non ché lei si aggrappò al suo
braccio,
strattonandolo per tenerlo fermo.
«Voi,
ah! Ora mi restituirete le mie perle, se non volete che vi consegni
alle guardie.»
«Quali
perle?» tentò il Nateh'n, senza risultare per
niente convincente.
«Temo che mi abbiate scambiato per qualcun
aargh-ltro.»
L'elfo
si portò la mani sinistra intorno al polso opposto e
constatò solo
in quel momento che non riusciva a muoverlo senza incorrere in fitte
lancinanti.
«...
oh» mormorò la baronessina alla vista del sangue
sulla gamba.
«Siete sudicio!»
«Perspicace.»
«Come
osate?!» squillò allora quella, mollandogli il
braccio solo per
tirargli uno schiaffo in pieno volto.
Il
rumore dell'impatto contro la sua guancia spaventò un paio
di corvi
lì vicino ed un movimento sul tetto accanto alla strada
attirò
l'attenzione del Nateh'n.
«Vi
ho perfino permesso di cogliere il mio fiore...» si stava
lamentando
Cleomòth mentre, a pochi metri sopra di loro, il mercenario
incappucciato li teneva sotto tiro.
L'elfo
deglutì ed abbracciò la baronessina.
«Ma
che state..?»
«State
zitta, se ci tenete alla vita.»
Lei
smise di respirare; la lama del coltello le sfiorava la schiena.
«Che
cosa volete da me? Non ho altre perle ora»
sussurrò contro il suo
orecchio.
«Zitta»
mormorò nuovamente il Nateh'n e lei ubbidì.
Improvvisando
una strana danza – in cui la baronessina stava sempre davanti
alla
balestra – lui la fece volteggiare fino all'incrocio
successivo per
poi spingerla malamente in un vicolo.
«Vi
prego, lasciatemi andare!»
Lui
rinfoderò il pugnale e si voltò verso la viuzza
che si biforcava
ulteriormente a pochi metri da loro.
«Dove
siamo?» sussurrò, più rivolto a se
stesso che a qualcuno in
particolare.
«Di
fronte alla Cattedrale» rispose prontamente
Cleomòth. «Seguite
questa stradina e vi ci troverete davanti, ora lasciatemi andare, vi
prego.»
La
baronessa cadde malamente per terra quando lui, ricordando il
passaggio che dall'impianto acquifero sul retro della Cattedrale
arrivava fino poco fuori città, la spinse di lato ed
iniziò a
correre – per quanto la propria gamba potesse sopportare
– verso
il centro di Alenea.
Si
fermò a nemmeno dieci passi di distanza e si
voltò di nuovo verso
la baronessina, ora in piedi e tremante, contro il muro: solo in quel
momento l'immagine di lei che poche ore prima inveiva contro le
guardie cittadine affinché la lasciassero entrare, con i
contorni
sfocati a causa del dolore, si accese nella sua mente.
«Pensavo
avessero chiuso i cancelli» fece con una sfumatura
interrogativa
nella voce.
Lei
singhiozzò e rispose velocemente: «Li hanno
riaperti meno di un'ora
fa. Ma non fanno passare né cavalli né carrozze.
Io stavo tornando
a casa.»
Il
Nateh'n, però, aveva smesso di ascoltarla. Avrebbe dovuto
essere
probabilmente sollevato – niente viaggi nelle fogne per
uscire
dalla città – ma la stessa sensazione allarmante
di poco prima gli
suggeriva, lanciando un segnale di pericolo imminente, che la
riapertura dei cancelli cittadini non fosse affatto una buona
notizia.
«Vi
prego» gracchiò ancora Cleomòth.
«non uccidetemi.»
Ma
lui aveva già deciso il prossimo passo e, stando attento a
camminare
in punti in cui risultasse poco visibile dai tetti circostanti,
riprese la lenta corsa verso la Cattedrale.
Il
sole era ormai calato del tutto e la Stella dell'Ovest, la
più
luminosa fra gli astri così come la prima ad apparire, gli
fece da
faro nelle tenebre della sera. [3]
~
Glossario:
[1]
“Lo sgrunge
lo fissò con i suoi occhietti infossati e scrollò
l'immenso corpo
sporco di fango.
«Scommetto
che ora
sai di che parlo, eh?» chiese colui che prima era stato uno
sgrunge
a sua volta e che ora, invece, era l'uomo in piedi di fronte a lui.
«Passi la vita a rotolarti nel fango e non hai nemmeno la
possibilità di vedere il cielo.»
Il
possente animale
emise un flebile lamento.
«Oh,
sono sicuro
che tu abbia capito ma preferisco rimanere uomo ancora per un altro
po'.»
Detto
questo, l'uomo
si incamminò verso il villaggio e l'allevatore crudele
restò
tramutato in una di quelle creature che aveva impunemente maltrattato
per il resto della sua vita.
Non
vide mai più il
cielo.”
Tratto
da “Venti
favole senza morale (più una)”, raccolte
da Tsegh M. Mirborr.
[2]
“So che sono
estinti da anni, Martin, ma credimi quando ti dico che ne ho visto
uno.
Deve
essere uscito dall'acqua nel momento in cui mi sono voltato verso il
sentiero e ne ho percepito la presenza solo grazie all'infrangersi di
alcuni schizzi contro il suo corpo.
Stava
ritto sulle due zampe anteriori – identiche a quelle di un
cavallo
–, proprio al centro del lago, il corto pelo grigio
scintillava
come un raggio di sole intrappolato in uno specchio e la sua coda...
ah!, la sua coda, Martin, era molto più grossa di quanto tu
possa
mai immaginare.
Si
snodava semplicemente, partendo dal dorso privo di zampe posteriori,
e lo avvolgeva in una spirale d'aria fresca fino a coprire
più di
metà della superficie del lago.
Non
puoi immaginare il mio stupore – e la mia delusione!
– quando lui
si immerse di nuovo nelle acque. [...]
Ti
ricordi le leggende che ci raccontavano quando eravamo piccini, sul
fatto che gli Efyo altro non siano che le schegge
in cui si
spezza un tornado quando arriva al culmine della sua
velocità di
rotazione?
Non
aspettare il mio ritorno, Martin, perché
cavalcherò il vento.”
Dalle
ultime righe de “Una lunga lettera”
di L. E. Carvym
– pubblicata dal fratello Martin un anno dopo la
sua scomparsa.
[3]
“[...] e la
Stella dell'Ovest disse: «Costruirete la
mia Cattedrale nel
punto in cui, alzando lo sguardo al cielo, sarò esattamente
sopra di
voi».”
Cantico
della Luce dell'Ovest, ventisettesimo verso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Da queste ceneri ***
Autore:
_wayward.
Titolo:
L'Emblema della Farfalla ~
Fandom:
Originale » Fantasy.
Rating:
Giallo.
Genere:
Long fic [3/15].
Personaggi/Pairing:
Il Nateh'n, Thomas, Bartred.
Parole:
~4633.
Avvertimenti:
-
Disclaimer:
Mine ©.
Note:
[0] From
These Ashes
– F. Brown, 1950.
1) Per il prompt "viaggio” dei magici
Faràs su COW–T3 #maridichallenge
Introduzione:
«Ti
piacerebbe racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era
ancora vivo ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme,
grandiosa avventura.
~
L'Emblema della Farfalla
Capitolo
III ~ Da queste ceneri [0]
La
Cattedrale irradiava magnificenza attraverso la densa
oscurità che
invece l'avvolgeva.
Non
era certo la prima volta che la vedeva e, anche se aveva soggiornato
ad Alenea per un lungo periodo ancor prima di dirigersi verso Nath,
non riuscì a resistere all'impulso di lanciarle uno sguardo
rapito.
Sulle
immense vetrate che ne ricoprivano quasi l'intera superficie la
solita, piccola scintilla [1]
dorata volava rapidamente, rendendo i contorni di ciascuna delle
figure rappresentate luminescenti.
Il
Nateh'n lasciò che la smorfia di dolore che aveva sul viso
si
trasformasse in un lieve sorriso: nessun luogo era permeato dalla
stessa atmosfera che si trovava alla Cattedrale, né il
santuario di
pietra sulla vetta di Picco d'Asca, né le placide acque
sacre del
Ganell, a sud di Ilmìat.
Neppure
il fascino proibito della città di Rovér
– con l'enorme facciata
di ghiaccio dell'Ambasciata, proprio sopra gli scogli frastagliati
che si affacciavano sul mare Svænsyv
– sarebbe mai riuscita ad eguagliare la magnificenza
dell'imponente
costruzione al cui centro, secondo le leggende, era custodito il
rosso mantello della Regina.
Il
miagolio di un gatto selvatico lo riscosse dai propri ricordi e gli
fece alzare gli occhi verso i tetti delle abitazioni circostanti; non
era possibile che il mercenario l'avesse seguito saltando da un tetto
all'altro così come sembrava improbabile che un uomo
riuscisse a
stare in equilibrio sopra le guglie che ricoprivano il tetto della
Cattedrale senza essere visto, eppure il Nateh'n non riusciva a
togliersi la fastidiosa sensazione di pericolo che gli lanciava il
proprio stomaco.
Attraversò
velocemente la piazza, dovendosi appoggiare più volte alle
statue di
marmo che le facevano da guardiani per non cadere, e si
acquattò
contro il muro quando un ragazzetto, ridente e senza scarpe, gli
passò accanto correndo verso la direzione opposta.
Nell'angolo
sud-ovest, la Cattedrale era collegata attraverso un ponte
sopraelevato di un paio di metri all'edificio in cui alloggiavano gli
Eletti e l'elfo rimase stupito dal non trovarvi le guardie che di
solito sorvegliavano il passaggio: perfino il portone che dava
ingresso agli alloggi era chiuso.
Il
Nateh'n corrucciò le sopracciglia, si sporse verso l'altro
per avere
conferma dell'effettiva mancanza di guardie prima di passare sotto il
ponte e, una volta giunto proprio di fronte ad una delle vetrate
inferiori, sbirciò all'interno.
Solo
un paio di candele illuminavano le tre navate laterali, oltre alla
luce naturale della notte che filtrava attraverso il lucernario
sull'alto soffitto, la scintilla si muoveva veloce entro le vetrate
nel lato opposto della Cattedrale ed il suo bagliore era appena
sufficiente per rischiarare l'arazzo sul muro centrale, raffigurante
la Regina prima della sua ultima battaglia, ed il leone intagliato
sulla lunga colonna orizzontale che divideva l'abside dai corridoi.
Stava
per voltarsi e dirigersi verso l'ingresso dell'impianto acquifero
–
una porticina in legno a dieci passi di distanza che arrivava a
malapena all'altezza delle sue ginocchia – quando un
movimento
improvviso lo costrinse ad assottigliare gli occhi.
La
sagoma scura, fin troppo armata per essere un Eletto, si
voltò verso
l'ingresso della Cattedrale, lasciando che la luce lunare si
riflettesse sulla lama dell'ascia che portava con sé.
«Fossi
in te, mi allontanerei in fretta.»
Il
Nateh'n trattenne il fiato e si girò lentamente verso il
mercenario
incappucciato, facendo scivolare una mano verso la cintura e...
«Cercavi
questa?»
Strinse
lo spazio vuoto sotto la casacca.
La
sua fionda, legno chiaro ed elastici di felce, roteava veloce intorno
al polso dell'uomo e l'elfo socchiuse gli occhi: anche se le ombre
della notte ne nascondevano i tratti, avrebbe riconosciuto la sua
voce fin sotto all'oceano.
«Cézras»
mormorò, cercando il suo sguardo.
«Ęlanhecγnn.»
Il
mercenario fece
un passo verso di lui, si portò le mani alla nuca e
lasciò che il
cappuccio gli ricadesse sulle spalle.
«Non
è il mio
nome» ribatté il Nateh'n prima di rendersi conto
che il sangue
aveva iniziato a pulsare più velocemente contro la sua pelle.
L'occhio
di vetro
brillò per un istante, sul volto di Cézras, ed il
suo sorriso si
distorse in un ghigno sinistro mentre il rumore del mare in tempesta
avvolgeva entrambi. Dalla nuca ora rasata, al tempo del ricordo si
diramava una chioma di folti capelli scuri e gli occhi dell'uomo
erano entrambi più blu del fondale marino.
Un
urlo soffocato
rimbombò nella mente dell'elfo.
«Cosa
vuoi?»
Cézras
rise con
voce rauca. «C'è sempre solo una cosa che voglio,
lo sai.»
«Lo
so» fece il
Nateh'n, puntando lo sguardo sulle chiazze nere che gli macchiavano
la pelle proprio nel punto in cui il collo veniva ricoperto dalla
divisa grigia che aveva sempre portato.
La
bambina piangeva
nello scafo della nave e lui si conficcò le unghie nel palmo
della
mano che ancora riusciva a muovere pur di farla smettere.
«Hai
ancora quei
brutti incubi, Ęlanhe?»
«Quali
incubi?»
alzò gli angoli delle labbra in un sorriso freddo.
Cézras
si avvicinò
ancora senza smettere di fissarlo e il Nateh'n rabbrividì
impercettibilmente quando un tuffo nell'acqua emerse dalla nebbia dei
ricordi.
«Cosa
vuoi?»
chiese di nuovo.
«Ti
aiuterò a
scappare» disse, indicando con un cenno del mento l'altro
mercenario
ancora chinato oltre le vetrate della Cattedrale. L'elfo si
girò;
Ouf non poteva sentirli ma la costatazione non impedì ad un
nuovo
brivido di risalirgli la schiena.
«Perché
dovrei
fidarmi?» sussurrò, forse più rivolto a
se stesso che all'altro.
«In
nome della
nostra vecchia amicizia?» ghignò Cézras.
Il
Nateh'n sobbalzò
e fece un passo a sua volta mentre irrigidiva la mascella.
«Quale
amicizia?»
La
scintilla disegnò
i contorni delle figure alle sue spalle: una luce fioca
illuminò il
volto del mercenario poco prima che questi si girasse verso gli
alloggi degli Eletti.
«Non
mi servi a
nulla morto» ribatté, serio, lisciandosi la divisa
sulle cosce. «Né
a me, né ai miei capi. Non ora,
perlomeno.»
«Ah
si? E chi sono
i tuoi capi?»
Anche
senza vederlo,
l'elfo percepì il sogghigno sulla sua bocca. «Ti
vogliono morto. È
importante conoscere i loro nomi?»
«Saprei
da chi devo
scappare.»
La
risata dell'uomo,
aspra e gracchiante, lo colse di sorpresa e nel momento in cui si
voltò di profilo – nascondendo alla sua vista
l'occhio di vetro,
completamente bianco – la mano del Nateh'n si
serrò intorno al
manico del coltello.
«Nella
via dietro
il condotto dell'acqua, di fronte alle stanze di esercitazione degli
Eletti, è legato un cavallo» esclamò
improvvisamente Cézras.
«Prendilo, esci in fretta dai cancelli e non ti preoccupare
di non
essere visto: stiamo preparando dei ritratti da spedire in tutto il
regno.»
L'elfo
assottigliò
gli occhi.
«Perché
me lo stai
dicendo?»
«Te
l'ho già
detto» sorrise l'altro. «Ci servi vivo ancora per
un po'.»
Le
parole di Lucky,
le poche che era riuscito a cavargli prima di vederlo morire, lo
portarono alla giusta intuizione. «Vi serve un capro
espiatorio.»
Cézras
non lo degnò
di uno sguardo.
«Qualcuno
a cui
addossare le responsabilità dello scoppio di una
guerra» rincarò
ed a quel punto l'altro sorrise.
«A
quanto pare sei
uno dei fortunati» e accarezzò il legno liscio
della sua fionda.
«D'accordo»
esalò
il Nateh'n dopo una lunga pausa. «Dammi la mia fionda e me ne
andrò
esattamente come mi hai chiesto di fare.»
«Non
penso tu abbia
capito» mormorò il mercenario ancor prima che lui
tendesse una mano
verso l'arma. «La mia non è un'offerta che puoi
declinare e restare
vivo» lanciò un'occhiata significativa al sangue
che aveva creato
dei grumi sopra il taglio sulla sua gamba. «Puoi decidere di
scappare attraverso il condotto acquifero come volevi fare e
decretare la tua morte, subito.
Oppure
puoi
stipulare un patto.»
Il
Nateh'n inclinò
leggermente il capo.
«Prendi
quel
cavallo e vattene. Nessuno ti torcerà un capello, nessuno ti
seguirà. Torna a qualunque sia il punto del bosco da cui sei
partito
e convinci il principe ad arrivare alle porte di Cremysta.»
«Cosa
ti fa pensare
che sappia dov'è?»
«Sarebbe
già
rientrato in città, altrimenti.»
«Cosa
ci guadagnate
voi a lasciarmi andare?» domandò a quel punto
l'elfo, arretrando
impercettibilmente verso il condotto acquifero.
Cézras
sorrise.
«Oltre ad un colpevole perfetto? La morte
dell'Erede.»
«Fantastico»
rispose con sarcasmo. «Cosa ci guadagno io, invece?»
«La
possibilità di
ottenere la pietà del capo una volta che avrà
ucciso il principe.»
Il
Nateh'n serrò le
labbra.
«Non
mi pare che tu
abbia molta scelta, Ęlanhecγnn.»
Le
piccole rughe
intorno agli occhi dell'uomo, tratti che prima non aveva notato
–
proprio perché erano inesistenti, quando ancora era abituato
a
sentire quel nome – ora erano solchi profondi sulla sua
pelle,
simili alle colline di sabbia che si creano nel deserto dopo il
passaggio di un temporale.
Il
fresco vento che
veniva dal mare gli scompigliò i capelli mentre gli dava le
spalle
e, incerto sulle proprie gambe come se il dolore e la stanchezza
fossero tornati a gravare su di lui solo in quel momento, si
allontanò di tre passi. Poi si morse la lingua e strinse le
dita
attorno al polso dolorante ma non riuscì ad impedire al
proprio
corpo di voltarsi di scatto.
«Cosa
ti fa essere
così sicuro da credere che, varcati i cancelli di Alenea,
non
scapperò il più lontano possibile?»
Il
sibilo di una
miccia che si accende lanciò riflessi baluginanti
sull'occhio bianco
del mercenario e le ombre sul suo volto, causate dall'improvvisa
luce, trasformarono il suo ghigno nelle fauci aperte di un animale.
Gli
occhi del
Nateh'n volarono all'origine della fiamma – poco
più alta di una
decina di centimetri, proprio al centro della Cattedrale – e
si
spalancarono all'istante.
Il
silenzio della
notte venne infranto dai piccoli scoppiettii dell'arazzo che prendeva
fuoco e dai passi pesanti di Ouf che rimbombavano, da qualche parte
oltre le vetrate; la scintilla, intrappolata nel vetro, si muoveva
come impazzita ed iniziò ad emettere strilli acuti che ad
orecchie
umane sarebbero sembrati solo poco più alti di un qualsiasi
mormorio
soffocato.
«Come
ti ho già
detto» sussurrò Cézras prima di
estrarre la balestra, legare ad
una freccia la sua fionda e puntarla contro le figure rappresentate
dietro di lui. «mi allontanerei il più in fretta
possibile.»
Nel
frastuono che
seguì, il Nateh'n non ebbe il tempo di accorgersi che la sua
domanda
non aveva ricevuto alcuna risposta.
***
Nessa
strinse la
pergamena arrotolata che reggeva con le braccia ossute al petto e
squittì spaventata quando uno degli uomini con il cappuccio
rosso la
spinse in avanti.
Gli
Incappucciati
non le piacevano.
I
loro mantelli –
del colore del sangue, le faceva notare la sua coscienza –
gli
svolazzavano intorno quando camminavano ma, nonostante la premura che
mettevano nel nascondere le loro fattezze, Nessa aveva capito.
Lei
era più bassa
di qualsiasi umano ed arrivava a stento alla metà coscia di
una
donna adulta: la stoffa rossa calata sul volto non impediva alla
creaturina di vedere i loro visi ed era per questo che ne era
così
spaventata. Tatuaggi scuri li ricoprivano quasi interamente e,
seppure i loro incantesimi li indicassero come Eletti, nessun cerchio
d'oro risplendeva sulle loro fronti.
Nessa
aveva letto
fin troppe volte il Cantico della Luce dell'Ovest
per non
intuire le loro origini.
Lisciò
con il dorso
della mano l'anello argentato che teneva la pergamena arrotolata e
provò un moto d'orgoglio salirle agli occhi; il Maestro
l'aveva
investita di tutta la sua fiducia nell'incaricarla di consegnare
l'oggetto prezioso personalmente nelle mani dell'uomo a cui gli
Incappucciati la stavano conducendo.
Nessa
chinò il
volto paffuto a terra proprio a causa della loro presenza: certo,
avrebbe preferito di gran lunga che fosse il Maestro a camminare
accanto a lei ma comprendeva i motivi che l'avevano spinto a fare
scendere soltanto lei – e due piccoli gruppi di quegli uomini
con
il cappuccio – alla cittadella portuale di Onalĩa per poter
proseguire senza soste il viaggio verso Cremysta.
«Segui
i loro
ordini, Nessa, e quando l'avrai consegnata, un'altra carrozza vi
porterà alla Capitale» le aveva detto, prima che
la carrozza
ripartisse verso i campi che si stagliavano all'orizzonte, e
così
lei avrebbe fatto. Quando era rimasta sola con loro, poi, i gruppi si
erano divisi; solo un ristretto manipolo, così aveva capito,
l'avrebbe accompagnata alla sua meta.
Il
lontano rumore
delle campane sulle torrette poste fuori dalla città le
fecero
alzare gli enormi occhi al cielo perché, completamente
circondata
dalle gambe degli Eletti e dai loro mantelli rossi, era l'unica cosa
che potesse vedere veramente anche se, a giudicare dal silenzio che
permeava la città, era facile intuire quanto i suoi abitanti
fossero
ben poco inclini ad uscire di casa senza la sicurezza della luce
solare.
Sorrise
leggermente,
stando bene attenta a non lasciare scivolare la pergamena scura, e
sgambettò più in fretta per seguire il passo
della sua scorta
quando vide con piacere il primo raggio di sole della giornata
saettare veloce fra le stelle del mattino fino a ché, con
grande
sorpresa da parte sua, i mantelli rossi non smisero di svolazzare.
Ferma
poco dietro i
primi due Incappucciati, Nessa udì prima i colpi pesanti
contro il
legno e, qualche minuto dopo, una voce assonnata rispondere da oltre
la porta.
«Apra»
disse
soltanto la voce di una donna nascosta sotto il cappuccio e la
serratura scattò non appena ebbe finito di parlare.
Un
anziano signore,
con grossi bassi sotto il naso ed una cuffia da notte ancora sul
capo, spalancò la porta e si fece da parte per farli entrare.
Nessa,
sospinta da
uno dei due Incappucciati che stavano alle sue spalle, si
intrufolò
silenziosa nella dimora dell'uomo ed attese trattenendo il fiato
finché la porta non venne di nuovo chiusa.
«Royal
Roguen»
esclamò la stessa Eletta di prima e lui sussultò
leggermente.
«Come
conoscete il
mio nome?» mormorò l'ometto, sfilando la cuffia
dalla propria nuca.
Lei
lo ignorò.
«Dicono
che siate
il miglior orafo dell'Impero e, se questo è vero, gradiremmo
la
vostra collaborazione.»
I
baffi di Royal
Roguen tremarono. «In cosa, se posso chiedere?»
In
quel momento,
mentre Nessa era impegnata ad osservare le piccole fiamme delle
candele che danzavano nella penombra sopra un tavolo sul fondo della
stanza, l'Incappucciato al suo fianco la spinse di nuovo e lei
scattò
in avanti, più attenta che mai, fino a porgere la pergamena
fra le
mani del signore.
«Ehm,
grazie» fece
lui non appena la creatura, dopo un buffo inchino, fu tornata al
proprio posto ed alzò lo sguardo sui presenti.
Nessuno
parlò.
Sospirando
nervoso,
Royal Roguen si diresse verso il proprio tavolo da lavoro e,
inforcati un paio di piccoli occhiali dalla montatura in corno,
sfilò
l'anello d'argento dalla pergamena e la srotolò.
Un
piccolo pezzo di
stoffa scuro, piegato attentamente, scivolò da essa e cadde
sul
tavolo ma nessuno, a parte Nessa, sembrò farci caso.
Il
signore, invece,
afferrò una delle candele lì vicino e la
avvicinò alla lettera,
iniziando a leggere ciò che vi era scritto. I suoi baffi
fremettero
mentre gli occhi, dietro il vetro degli occhiali, scorrevano
velocemente sulla pergamena, rincorrendo le lettere d'inchiostro che,
grazie alla fiammella, Nessa intravedeva dietro il foglio. Gli
Incappucciati, immobili nei loro mantelli rossi, stettero in silenzio
per tutta la durata della lettura e lei li imitò,
limitandosi ad
accarezzare distrattamente il laccio blu stretto sui propri gomiti.
Il
Maestro sembrava
così giovane quando gliel'aveva legato, inginocchiandolesi
di
fronte, così tanto tempo prima che la creatura non era
sicura di
ricordare l'affetto che aveva provato nei suoi confronti.
«Ricordati
sempre a chi appartieni, Nessa» le aveva sussurrato e lei,
pavoneggiandosi inconsciamente davanti agli altri rotsie [2]
del mercato, aveva giurato eterna fedeltà al Maestro.
Avrebbe sempre
indovinato i suoi desideri – gli aveva detto in un mormorio
eccitato –, così era e sarebbe sempre stato
finché il Maestro
avesse voluto tenerla con lui.
L'espressione
del
Maestro, quel giorno...
Nessa
sbatté le
palpebre all'espressione estremamente stupita che si stava venendo a
creare sul volto di Royal Roguen; le sopracciglia inarcate sulla
fronte e la bocca un poco spalancata, l'uomo abbassò la
pergamena
senza lasciarsi scappare il minimo suono. La posò con
cautela sul
tavolo e solo a quel punto dedicò piena attenzione a
ciò che ne era
caduto quando aveva iniziato a leggere.
Alzò
gli occhi
sugli Incappucciati, come a chiedere loro la prossima mossa, ma
nessuno rispose alla sua tacita domanda così, preso
finalmente un
respiro, si decise a sfiorare la sua superficie con la punta della
dita.
Nessa
inclinò la
testa e, quando lui sollevò un lembo della stoffa, i suoi
occhi si
spalancarono ed uno squittio involontario le uscì dalle
labbra,
subito coperte dai propri palmi.
«Per
la Luce--!»
esclamò Royal Roguen, coprendosi anch'egli la bocca con
l'altra
mano.
Il
lembo di stoffa
tagliato a forma rettangolare, lungo quanto un avambraccio, pendeva
delicatamente dalla sua presa e le due lettere dorate ricamate sopra
riflettevano la luce delle candele ignorando l'emozione che stavano
causando a chi le osservava.
«Ditemi
che è una
copia» gemette ad un tratto l'uomo.
La
donna che aveva
parlato prima fece un passo avanti, si liberò del cappuccio,
lasciando che le stesse candele illuminassero la fitta rete di
tatuaggi disegnati sul suo volto, e Royal Roguen arretrò
velocemente. Urtò la sedia e storse la bocca spalancata
mentre Nessa
si stringeva con uno spasmo le spalle.
«Che
la Stella ci
aiuti» sussurrò lui, questa volta con voce
talmente bassa che la
creatura, spaventata com'era, credette di essersela immaginata mentre
gli altri Incappucciati avanzavano dello stesso passo.
Nessuno
di loro
parlò.
***
Fumo
denso si levava
all'orizzonte insieme al sole.
Bartr
stava seduto
sopra un ramo spezzato, esattamente di fronte alle braci del fuoco
che la sera prima aveva acceso. Thomas, qualche passo più in
là, si
era addormentato a notte inoltrata appoggiato al tronco di una
betulla mentre lui non ci sarebbe riuscito nemmeno se se lo fosse
imposto.
Con
gli occhi
puntati in direzione di Alenea, osservava il grigio spettrale di un
incendio non ancora domato salire veloce verso il cielo, sperando
soltanto che il Nateh'n fosse già in viaggio per tornare
all'accampamento.
Era
raro che lui e
il suo compagno, da quando erano diventati tali, si separassero per
più di un paio di giorni ma lo era ancora di più
che l'elfo
decidesse di viaggiare la notte, specialmente sapendo di dover
attraversare una foresta che, seppure conoscesse come le proprie
tasche, comportava sempre un margine elevato di rischi quindi non
avrebbe dovuto attendere il suo arrivo prima di quella sera,
eppure...
Il
giovane nobile si
mosse appena, sfregando la guancia contro la ruvida corteccia
dell'albero, e corrucciò le sopracciglia quando un timido
raggio di
sole fece capolino fra i rami circostanti. Mugugnò qualcosa
d'incomprensibile e spalancò gli occhi per iniziare a
guardarsi
intorno con espressione piuttosto confusa; solo quando
incrociò la
figura di Bartr – mantello sfilacciato e barba compresa
– tornò
ad appoggiare la schiena al tronco.
«Ben
svegliato»
gli disse il brigante e Thomas abbozzò un sorriso assonnato.
Bartr
lo vide con la
coda dell'occhio stropicciarsi le palpebre con il dorso delle mani e
solo una manciata di minuti dopo, sbadigliando sonoramente, il
ragazzo andò a sedersi accanto a lui.
«Non
è ancora
tornato?» fu la prima cosa che gli chiese.
Bartr
scosse la
testa in segno di diniego.
«Ascoltate»
fece
Thomas, riempiendo il silenzio che si era venuto a creare.
«Penso
che dovremmo tornare in città. Spiegherò io alle
guardie cosa è
successo, non dovete preoccuparvi»
«Non
credo sarebbe
una buona idea» rispose Bartr e, allo sguardo interrogativo
del
giovane, si limitò ad indicare con il mento il fumo lontano.
Thomas
schizzò in
piedi e domandò con un fil di voce: «Un
incendio?».
«Bello
grosso»
rispose l'altro.
«Nel
bosco?»
Bartr
negò
nuovamente. «È troppo lontano. Viene da
Alenea.»
La
mano di Thomas si
strinse intorno alla sacca in cui teneva l'opale e lui si riscosse
solo nel sentire la pietra fredda sul proprio palmo, poi, mordendosi
il labbro inferiore, fece un passo in avanti.
«Devo
tornare...»
Il
mercenario non
capì cosa volesse dire perché, improvvisamente,
il rumore di
quattro zoccoli sul terreno era arrivato alle sue orecchie; anch'esso
proveniva dalla direzione della città.
Scattò
verso
l'arco, poggiato poco lontano dai resti del fuoco, e lanciò
la spada
pregiata al suo legittimo proprietario che, accortosi dello stesso
suono, si nascose dietro un arbusto. Bartr lo imitò,
tendendo una
freccia con il braccio sano e reggendo l'arco con l'altro.
Il
rumore,
frattanto, si faceva sempre più vicini a loro.
Non
c'erano
cambiamenti nell'andamento del cavallo, notò Bartr in quel
momento,
quindi chiunque stesse arrivando non era qualcuno che poteva essersi
perso ma, piuttosto, che conosceva bene l'ubicazione del fortuito
accampamento.
Pregò
che fosse il
Nateh'n.
Quando
il cavallo
entrò nel loro campo visivo, iniziarono a pensare entrambi
che fosse
solo: nessun fantino stava sul suo dorso. L'animale passò
dunque in
mezzo allo spiazzo, si impennò per un istante quando
posò uno
zoccolo sulle braci – qualcosa di pesante cadde dal lato del
cavallo che non vedevano, nell'azione – e continuò
la sua falcata
in mezzo alla foresta.
Accanto
al fuoco, il
Nateh'n si rialzò barcollante, imprecò e cadde di
nuovo. Bartr
lasciò cadere l'arco e corse verso di lui.
«Ma
che diamine hai
combinato?» gli urlò quando arrivò
sufficientemente vicino da
notare le sue condizioni.
Il
Nateh'n – tutta
la gamba impiastricciata di sangue, una spalla che sporgeva in
maniera innaturale, il polso stretto nella mano sinistra, numerosi
taglietti sul volto, foglie di qualsiasi tipo fra i capelli e
l'impronta di tre delle cinque dita della contessina ancora ben
visibili sulla guancia – lo fissò con evidenti
intenzioni omicide.
«D'accordo»
mormorò Bartr per poi spostarlo di peso sopra il tronco cavo
lì
vicino. «Prima siediti»
«Certo,
come se
sedermi mi rimettesse a posto tutt- ahi!, no, non
toccarmi la
spall- AAAAH!»
«Era
uscita
dall'incavo» si giustificò ed il Nateh'n,
mordendosi la lingua, si
accasciò sul posto.
Fu
la voce di
Thomas, dopo un lungo silenzio, a riscuoterlo dall'incoscienza.
«Avete
visto
l'incendio?»
L'elfo
sussultò ma
tenne il viso rivolto al terreno.
«Da
dove è
partito?» chiese ancora il ragazzo.
Questa
volta alzò
lo sguardo e lo posò su un punto poco sopra i suoi occhi.
Thomas
sostenne l'analisi ma, cercando di apparire del tutto calmo, si
appiattì con la mano i capelli biondi che gli cadevano sulla
fronte.
Dopo
un tempo che
parve interminabile, il Nateh'n si alzò sulle proprie gambe
e si
allontanò, instabile, di un paio di passi. «Bartr,
raccogli le tue
cose, ce ne andiamo.»
L'altro
brigante
corrucciò le sopracciglia. «Dove credi di poter
andare in quelle
condizioni, scusa?» gli domandò e, come per
confermare
involontariamente le sue parole, il Nateh'n si lasciò
scappare un
gemito quando si chinò per raccogliere la sacca delle
provviste
appoggiata ai sassi del fuoco. Si girò in direzione di Bartr
e fece
per ribattere quando Thomas gli si mise davanti.
«Da
dove è partito
l'incendio?»
Il
canto di un
allodola riempì il vuoto seguente alla sua domanda ma il
ragazzo non
desistette e, serrando le labbra in una linea sottile, si
avvicinò
fino a che avrebbe potuto contare le poche lentiggini sul quel viso
sporco di terriccio ed erba. Gli occhi verdi lo fissavano quasi
brillando, nella tiepida luce mattutina, con aria di sfida e Thomas
capì, dai rapidi sguardi che lanciava al cerchio dorato
simbolo
degli Eletti, nascosto dai propri capelli, che l'elfo sapeva.
Fu
tentato di
portarsi di nuovo la mano alla fronte ma si trattenne e, anzi, fece
un ulteriore passo in avanti; ancora qualche centimetro ed i loro
nasi avrebbero potuto sfiorarsi.
«Avete
qualcosa da
dire?» sussurrò il Nateh'n, inarcando gli angoli
delle labbra in un
sorriso camuffato dal dolore.
Thomas
rabbrividì e
nemmeno sentì il richiamo di Bartr alle loro spalle.
«Ho bisogno di
saperlo» gli sussurrò a testa alta, invece.
«Da dove è partito
l'incendio?»
«Dalla
Cattedrale»
Il sorriso dal suo volto era sparito ed ora lo guardava con un
espressione impassibile. «vostra maestà»
ammiccò con un
sussurro alla sua fronte e Thomas si allontanò di scatto.
«La
Cattedrale è
bruciata?!» esclamò Bartr ad alta voce.
Il
Nateh'n sospirò
e si scostò i capelli dagli occhi con uno sbuffo, per poi
voltarsi
in direzione di Alenea: il fumo, denso e scuro, non aveva ancora
smesso di salire al cielo.
«Cattedrale,
stanze
degli Eletti, forse anche le case più vicine»
mormorò senza
particolare inflessione nella voce prima di lasciarsi cadere sul
tronco cavo.
«Per
la Stella...»
il bisbigliò di Bartr venne coperto dal fruscio della
casacca verde
del Nateh'n che veniva lanciata a terra mentre lui tirava fuori dal
sacchetto contenente le bacche una manciata abbondante di piccoli
frutti rossastri.
Senza
curarsi degli
altri due, alzò lo sguardo solo dopo un lungo sorso dalla
borraccia.
«Bartr, prendi la map-- ehi..! EHI!, 'llîas,
dove pensate di
andare?»
«Thomas!»
«Siete
uno stupido
se pensate di poter cambiare la situazione!» gli
urlò dietro il
Nateh'n, poco prima che il ragazzo potesse sparire oltre il folto
degli alberi. Thomas si fermò e Bartr vide la sua mano
stringersi
intorno all'elsa della spada.
«Non
potete fare
nulla, ormai.»
Fu
un attimo e si
girò di nuovo verso di loro. Nemmeno una decina di secondi
dopo la
sua lama sfiorava la gola del Nateh'n e Bartr puntava il proprio arco
alla sua schiena.
L'elfo
non batté
ciglio.
«Perché
non siete
rimasto?!» sbraitò il ragazzo, il cerchio giallo
sulla sua fronte
brillava leggermente di luce propria.
«Abbassa
l'arco,
Bartr.»
Il
compagno esitò
ma, alla fine, riavvicinò la corda all'asta di legno senza
scoccare
alcuna freccia.
«Come
avete potuto
permettere che accadesse una cosa simile?» inferì
ancora il ragazzo
ma la sua voce, dall'urlo che era stata, andava scemando.
«Mi
avrebbero
ucciso» rispose il Nateh'n, posando il palmo della mano sopra
la
parte piatta della spada. Thomas schiuse di nuovo le labbra ma lui fu
più veloce a continuare. «e uccideranno anche voi
se tornerete.»
«Non–»
«Lo
faranno»
spinse la lama verso il basso e si alzò in piedi facendo
forza sulla
gamba sana. «Avreste già dovuto essere morto. E
così Bartr e io.»
Thomas
indietreggiò
di un passo, lasciando che la punta della spada strisciasse sul
terreno e Bartr scelse quel momento per avanzare. «A chi mai
dovrebbe interessare la nostra morte? Lucky?»
«Lucky
è morto»
ed il viso del Nateh'n sembrò improvvisamente più
stanco.
«L'hai
ucciso
davvero?» domandò Bartr,
posandogli una mano
sull'avambraccio.
«Av-
aah, la
spalla, Bartr!»
«Oh,
scusa.»
Il
Nateh'n tossì un
paio di volte. «Avrei voluto» esclamò
quando il dolore si fece più
debole. «La situazione è più complicata
di quanto sembra. Lucky
era solo una pedina e qualcuno l'ha ucciso prima di me. Quanto
avrei voluto essere io...»
Bartred
lo fissò
impaziente ma la voce dell'altro ragazzo arrivò prima della
sua.
«Chi erano gli uomini incappucciati sulla seconda
carrozza?»
Il
Nateh'n alzò lo
sguardo verso di lui e si stupì di trovare i suoi occhi
chiari
ancora puntati su di lui ma, proprio dal lampo di intuizione che vi
vide attraverso, seppe che aveva capito.
«Non
lo so»
ammise, ignorando il sopracciglio inarcato del proprio compagno.
«Mercenari, forse.»
«Erano
Eletti. Non
ci sono Eletti al di fuori della Cattedrale.»
«Già...»
l'elfo
si passò la lingua sulle labbra, l'espressione
improvvisamente
livida, con il volto a fissare qualcosa che stava proprio dietro le
spalle di Thomas, poi incurvò il busto verso il basso.
«A quanto
pare vi sbagliate.»
«Cosa
c'entra
questo, adesso?» chiese titubante Bartr, girando la testa
prima
nella direzione dell'uno e poi dell'altro.
«La
domanda è
un'altra» ghignò a quel punto il Nateh'n ed il
ragazzo arretrò
ancora, impercettibilmente. «Perché è
raro che le rivoluzioni
scoppino senza alcun motivo e forse faremmo bene a chiedere all'Erede
perché qualcuno sia disposto ad ucciderlo, piuttosto che
averlo come
re.»
«All'Erede...?»
un paio di occhi castani si puntarono improvvisamente sulla figura
che, in disparte, impugnava ancora la spada. «Oh.»
«Già,
Bartr.»
«...
vostra
maestà?»
Il
sorriso dell'elfo
si allargò.
~
Glossario:
[1]
“È una
pratica estremamente barbara.
Nessuna
creatura meriterebbe mai di essere rinchiusa all'interno del vetro di
finestre e lampade al fine di illuminare la sera o creare pacchiani
effetti luminescenti, tanto meno le scintille.
Quanto
alla loro
presunta pericolosità, sosteniamo che queste creaturine
dalla
morfologia probabilmente umana – seppure non visibile a causa
della
loro luce – siano, se lasciate libere, assolutamente innocue.
Le
leggende a proposito della loro capacità di far scomparire
chiunque
con un solo tocco non sono mai state confermate e rimangono, appunto,
solo leggende.”
Dal
“Manifesto
sull'uso
improprio della magia”
redatto da G. R. Jowlink.
[2]
“Il rotsie
indicò il proprio petto con le lunghe dita arcuate e tu
vedesti il
grande e vivo fiore giallo – che pulsava proprio sopra il suo
cuore
– sibilare lentamente. I due velenosi sfilacciamenti rosa che
poco
prima avevano ucciso il tuo compagno fuoriuscirono dal centro del
fiore e si allungarono verso di te ma, con un movimento veloce,
facesti in modo che le funi che vi avevano portato all'interno della
grotta si attorcigliassero attorno alla vita della creatura.
[...]
Con
il petto
fasciato, il rotsie ti giurò fedeltà
eterna.”
Tratto
da “Creature
addomesticate” di Phortesi Caphrolini.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Immagina, un poema ***
Autore:
_wayward.
Titolo:
L'Emblema della Farfalla ~
Fandom:
Originale »
Fantasy.
Rating:
Giallo.
Genere:
Long fic [4/15].
Personaggi/Pairing:
Il Nateh'n, Thomas, Bartred, Aera.
Parole:
~4659.
Avvertimenti:
-
Disclaimer:
Mine ©.
Note:
[0]
Imagine, a poem
– F. Brown, 1955.
1)
Non so a quanti possa effettivamente interessare, ma, dal momento che
l'intero universo che fa da sfondo a questa storia è
veramente
vasto, ho creato un livejournal con lo scopo di raccogliere tutto il
materiale che si accumula di capitolo in capitolo. Su the_emblem
potrete trovare curiosità, aggiornamenti, un glossario con
tanto di
vocabolario e quan'altro mi venga in mente.
Introduzione:
«Ti
piacerebbe
racimolare un po' di denaro?»
Due ore dopo, Lucky era ancora vivo
ed il Nateh'n si stava incamminando verso un'enorme, grandiosa
avventura.
~
L'Emblema della Farfalla
Capitolo
IV ~ Immagina, un poema [0]
Avevano
camminato in silenzio per tutto il giorno.
Thomas
si strinse nelle spalle e rimpianse, nel freddo vento che si era
levato da almeno un paio d'ore, il non aver accettato il mantello che
Bartr gli aveva offerto quella mattina. Poi lo sguardo penetrante del
Nateh'n spezzò i suoi pensieri e lui riportò le
braccia lungo i
fianchi, ad accarezzare l'elsa della propria spada che oscillava
lievemente a tempo con il suo passo.
Bartr,
subito dietro all'elfo che, pur zoppicando, si ostinava ad avanzare,
gli lanciò un'occhiata preoccupata che Thomas
tentò di ignorare.
Era
stato Bartr ad avere insistito pur di accompagnarlo quantomeno fino
al porto di Onalĩa,
quella mattina – dopo essersi inginocchiato di fronte a lui
ed
avergli promesso di aiutarlo a raggiungere la capitale con qualsiasi
mezzo. Il Nateh'n a quel punto si era alzato, sempre barcollante, e,
il sorriso gelato sul volto, aveva detto al compagno: «Fa'
come
vuoi».
Quando,
raccolte un paio di sacche dall'accampamento, l'elfo aveva fatto per
andarsene, Bartr lo aveva fermato stringendogli l'avambraccio.
«Che
cosa stai facendo?»
«Me
ne vado» aveva detto l'altro.
«Non
possiamo certo andarcene così.»
«Può
venire anche lui, se vuole» una smorfia era nata sul volto
del
Nateh'n. «Sono sicuro che si troverà bene a Nath.
O da qualche
parte vicino al Ganell.»
Bartr
aveva scosso la testa. «Dobbiamo aiutarlo.»
«No,
non dobbiamo» e si era fatto
più distante. «Tu vuoi
farlo, non vedo perché questo dovrebbe
coinvolgere anche me.»
«Che
cosa ti prende?» aveva chiesto Bartr, alzando le folte
sopracciglia.
Il
Nateh'n aveva serrato la mascella ed il suo sguardo si era posato su
di lui.
Poi
avevano iniziato a parlare fra di loro, ma, seppure impegnato nella
conversazione, l'elfo non aveva smesso di fissarlo. Thomas era
riuscito a sostenere i suoi occhi che, implacabili, cercavano quasi
di oltrepassargli l'anima stessa e, infine, proprio dal verde
limpido di quell'iride, fra una parola ed un'imprecazione verso il
proprio compagno, aveva intravisto qualcosa.
L'odio
ed il rimpianto si erano schiantati su di lui con una forza che, se
colto impreparato, l'avrebbe fatto indietreggiare.
Con
il mento alzato verso l'alto, il fumo che saliva dalla Cattedrale
alle spalle e gli occhi del Nateh'n ad accusarlo di crimini mai
commessi, Thomas si era sentito l'essere più miserabile del
regno.
***
L'unica
cosa che Aera ricordava era il suo sorriso.
Non
che l'avesse realmente visto di persona, certo, ma sua madre gliene
aveva parlato così tante volte che l'immagine che si era
costruito
era ormai impressa nella sua memoria come se fosse un effettivo
ricordo.
Ogni
tanto, Aera usciva sotto la pioggia – perché era
l'unico momento
in cui la balia era troppo impegnata a raccogliere l'acqua piovana
che filtrava attraverso i buchi del tetto per tenerlo d'occhio
– e
correva fino alla biblioteca vicino al porto. Se l'unica guardia
lì
posta era il vecchio Aldebrani, allora riusciva a sgusciare furtivo
sotto fra le sue gambe ed a rifugiarsi in qualche angolo buio, con
l'unico conforto dell'unico libro che amasse e del ticchettio della
pioggia sul vetro delle finestre.
Aera
non sapeva leggere – la balia faceva di tutto, giorno per
giorno,
al fine di insegnargli a “diventare un buon
partito”, anche se
questo per lui non suscitava un grande interesse e tanto più
dal
momento che aveva ancora qualche dubbio su cosa essere un
buon
partito volesse significare. Nonostante questo,
però, si
impegnava a seguire con il piccolo dito spesso sporco di fango le
lettere scure sulla pagina, osservava con diligenza le varie immagini
ed annuiva, per dare enfasi alla narrazione, quando raggiungeva un
punto particolarmente ostico in cui proprio non riusciva a ricordare
la storia.
Era
questo uno dei motivi per cui Aera amava quel libro dalla copertina
logora e malconcia: sua madre gliel'aveva letto così tante
volte,
quando era più piccolo, che avrebbe potuto forse recitarlo a
memoria.
L'altro,
invece, arrivava nel momento in cui il bambino girava l'ultima
pagina.
Il
ritratto sfocato di un uomo dai capelli biondi, con l'armatura ben
lucidata ed il cerchio d'oro sulla fronte, il più luminoso
che Aera
avesse mai visto, gli sorrideva attraverso la polvere.
Spesso
accarezzava il foglio con la punta dell'indice, tracciando contorni
del suo viso, dagli occhi chiari fino al mento, e cercando di
ricordare la voce di sua madre quando ancora non era costretta a
letto, schiacciata dalla malattia.
«Tuo
padre è un eroe» gli raccontava, cullandolo
dolcemente davanti al
camino. Le lacrime le scivolavano sulle guance senza che lei facesse
nulla per fermarle. «Non dimenticarlo mai.»
Aera
non voleva dimenticare ma era difficile ricordare qualcuno che non
aveva mai conosciuto.
Quando
la madre si era ammalata e la balia era diventata la persona
più
influente nella sua vita, quest'ultima aveva iniziato a plagiarlo con
ben altri tipi di storie.
A
volte Aera entrava silenziosamente nella camera della madre, le
prendeva la mano e qualche lacrima scendeva veloce lungo le sue
guance.
«Lui
non mi ha dimenticato» sussurrava contro le lenzuola bianche,
negando le parole della balia in un solo singhiozzo, ma, nelle notti
più fredde, nemmeno i sospiri confortevoli della madre
riuscivano a
farglielo credere.
Poi
erano arrivati.
Pioveva.
Aera
aveva visto i loro mantelli rossi svolazzare, bagnati, nell'aria
tiepida della sera; aveva capito dove fossero diretti ed aveva avuto
paura. Si era nascosto dietro il cesto di frutta che la signora Llin
lasciava ogni giorno fuori dalla porta della propria casa.
Aveva
visto, spaventato, la balia che apriva la porta in seguito al loro
bussare e, quando loro si erano spinti dentro la casa, Aera aveva
sobbalzato così forte che il cesto si era rovesciato.
L'avevano
visto, la balia gli aveva gridato qualcosa e lui non aveva saputo far
altro che iniziare a correre verso la direzione opposta, senza mai
guardarsi indietro.
Solo
quella notte, infreddolito ed ancora terrorizzato dai passi pesanti
dei loro stivali sulla strada battuta, aveva avuto il coraggio di
tornare.
Si
era affacciato alla finestra e, dopo aver appurato che la casa fosse
vuota, vi si era praticamente buttato dentro.
La
balia, con un grosso livido nero sotto l'occhio destro, era seduta in
silenzio sulla sedia su cui si appoggiava Aera da piccolo, per
ascoltare i racconti della madre.
Quando
aveva messo piedi nella stanza, la donna aveva alzato lo sguardo e
gli aveva fatto cenno di avvicinarsi, abbracciandolo poi come mai, in
otto anni di conoscenza, aveva fatto.
Dietro
di lei, il letto era vuoto.
***
Thomas
scivolò sopra una foglia particolarmente bagnata e cadde con
le
ginocchia sul terreno roccioso.
«Ouch.»
Accidenti
a quell'elfo.
Singhiozzò
quando si accorse che con la torcia stava per appiccare fuoco ad un
arbusto lì vicino.
L'aveva
legato, saccheggiato – salvo poi restituito le poche cose
preziose
che effettivamente aveva –, legato di nuovo e, se fosse stato
per
lui, l'avrebbe lasciato in quello stato fino al suo ritorno.
Si
supponeva che dovesse essere lui, Thomas, e non l'altro ad avere il
diritto di mostrarsi offeso.
A
quanto pareva, invece, doveva esserci qualche regola non scritta
nella cultura elfica che sanciva il contrario.
Thomas
sospirò e si fece forza per tornare in piedi –
cercando di tenere
la torcia sufficientemente lontana da qualsiasi elemento
infiammabile.
Quando
era tramontato il sole, senza dire nemmeno una parola, l'elfo aveva
lasciato cadere una delle due sacche che trasportava ai piedi di una
quercia. Poi, scambiando un'occhiata d'intesa con Bartr, si era
allontanato verso la direzione opposta da cui erano arrivati.
Thomas
aveva fatto per seguirlo ma l'altro uomo gli aveva posato una mano
sulla spalla e, scuotendo la testa, gli aveva chiesto aiuto nel
montare l'accampamento.
L'elfo
non era tornato nemmeno per cenare.
«Non
è colpa vostra» l'aveva rassicurato Bartr,
divorando quelle che
sembravano essere intestina di cervo molto, molto attorcigliate fra
loro.
Lui
non aveva potuto far altro che annuire mentre non riusciva ad
ordinare in alcun modo i pensieri che gli vorticavano in testa.
Poco
tempo dopo, Bartr aveva lanciato l'ultimo ceppo di legno nel fuoco e
gli aveva augurato buona notte.
Thomas
aveva provato a dormire, davvero – e non che fosse comunque
facile,
con i rumori della foresta a tenerlo sveglio ed il forte russare
dell'altro uomo poco distante da lui – ma qualsiasi tentativo
di
trovare una posizione comoda portava con sé nuovi pensieri e
nuove
preoccupazioni.
Ogni
volta che chiudeva gli occhi, il fumo che saliva lento nel cielo di
quel mattino di stagliava contro le sue palpebre.
Thomas
aveva deciso di rimandare il momento in cui riflettere sugli eventi
degli ultimi giorni.
Non
poteva, semplicemente; almeno non ora dal momento che non sembrava
affatto reale.
La
Cattedrale in fiamme, il Maestro rapito, un colpo di stato.
In
sé, covava ancora la speranza che fosse tutto un incubo dal
quale
potersi risvegliare al più presto: prima del prossimo passo
nel buio
della foresta, si sarebbe risvegliato nel proprio letto, avrebbe
fatto colazione, sarebbe sceso in cortile ad allenarsi con la spada e
gli altri Eletti gli avrebbero lanciato i soliti sguardi sprezzanti.
Avrebbe poi pranzato da solo, nell'immensa sala che era riservata
agli eredi al trono, perché nessuno dei suoi fratelli
–
fratellastri, come gli ricordavano ogni sfortunata volta in cui si
incontravano nei corridoio – si fermava mai ad aspettare il
suo
arrivo, oppure con il Maestro, ancora troppo concentrato sui suoi
studi per offrirgli un'adeguata compagnia ma quantomeno non sarebbe
stato soltanto il rumore delle sue posate a risuonare nell'ambiente.
Se
anche solo si fermava a pensare che tutti loro, dagli Eletti alle
guardie e dai sacerdoti ai suoi fratelli, potevano essere morti...
Una
nuova caduta interruppe i suoi pensieri ma questa volta dovette
poggiare la mani per terra onde evitare di sbattere la faccia.
La
torcia, che aveva lasciato andare istintivamente, rotolò
vicino ad
un cespuglio in fiore che prese fuoco all'istante.
Mordendosi
il labbro inferiore per non urlare dalla frustrazione, Thomas
soffocò
la fiamma con i guanti prima che potesse ridurre tutta la vegetazione
attorno a lui in un mucchio di cenere.
Seguire
l'elfo gli era sembrata un'idea valida, quando si era rassegnato
all'insonnia; solo ora ne vedeva i lati negativi. Non solo non aveva
tenuto contro del buio e del suo pessimo senso d'orientamento ma
nemmeno del fatto che, anche ammesso l'avesse infine trovato davvero,
cosa mai avrebbe potuto trarre da uno come lui?
Quando
finalmente anche l'ultima lingua di fuoco si fu spenta, Thomas si
lasciò cadere all'indietro.
Nemmeno
le stelle sopra di lui, quelle poche che si intravedevano attraverso
la fitta coltre degli alberi, gli diedero il conforto di cui aveva
bisogno.
«State
cercando di dare fuoco all'intera foresta?»
La
voce ironica a pochi passi da lui lo colse talmente di sorpresa che
sobbalzò, portando la mano all'elsa della spada –
salvo poi
ricordarsi che l'aveva lasciata all'accampamento in favore del
pugnale che gli aveva offerto Bartr. Non ebbe comunque bisogno di
rispondere perché, una manciata di secondi dopo, una soffice
luce
blu illuminò un paio di stivali di fronte a lui.
Thomas
sollevò lo sguardo per incontrare gli occhi del Nateh'n ma
questo si
era già voltato per incamminarsi in mezzo agli arbusti.
«Non
ho intenzione di aspettarvi.»
Senza
farselo ripetere, Thomas si ritrovò a seguire la flebile
luce
attraverso la foresta.
C'era
un fiume, lì vicino.
Thomas
conosceva le mappe geografiche di tutto il regno a memoria e sapeva
che il Lliuto divideva la strada fra Alenea ed Onalĩa
esattamente a metà, ma questo non l'aveva certo aiutato ad
orientarsi meglio né a notare il rumore dell'acqua che
scorreva.
Quando
arrivarono in uno spiazzo erboso accanto al quale una conca sulla
parete del fiume aveva creato un piccolo laghetto più simile
ad una
grossa pozzanghera che ad altro, il Nateh'n lasciò cadere
dei pezzi
di legno vicino alle braci di un fuoco ormai spento.
La
luce blu che teneva in mano, che altri non era che un sasso
fluorescente, si spense al contatto con una delle tasche dell'elfo ma
la luna, piena, era perfettamente visibile in quel punto della
foresta e la sua luce era più che sufficiente.
Poco
più in là, la casacca bagnata che aveva indossato
era appesa al
ramo di un albero.
«Le
braci sono ancora calde» disse il Nateh'n senza rivolgergli
alcuno
sguardo e Thomas si avvicinò titubante, osservandolo mentre
frugava
all'interno della propria sacca, prima di sedersi accanto al
focolaio.
L'elfo
zoppicava ancora, anche se tentava di non darlo a vedere; estrasse un
involucro di pelle e poi delle foglie scure dalla tasca, per
lasciarsi cadere con un mugugno soffocato a pochi passi da lui.
«Sembra
una tagliola per vllyne [1]
»
mormorò Thomas quando l'altro sollevò la stoffa
che gli copriva il
polpaccio.
Il
Nateh'n fece una smorfia. «È
una tagliola per vllyne.»
Il
taglio partiva da dietro il ginocchio ed arrivava fino alla caviglia,
seguendo un percorso visibilmente dentellato lungo il quale la pelle
era stata lacerata in più punti, probabilmente nel tentativo
di
liberarsi dalla presa.
Thomas
lasciò che cadesse di nuovo il silenzio mentre l'altro
passava
delicatamente le erbe sulla ferita slabbrata. Una volta, con un
esemplare cucinato servito nel proprio piatto, il Maestro gli aveva
spiegato il senso delle trappole che veniva piazzate dappertutto: dal
momento che il vllyne era estremamente bravo a liberarsene, anche se
poi perdevano talmente tanto sangue da morire comunque poco lontano
dalla tagliola, i cacciatori avevano dato inizio ad una competizione
al termine della quale vinceva colui che aveva catturato l'animale
senza lasciarlo scappare.
I
segni netti e quasi geometrici sulla carne cotta, gli aveva mostrato
il Maestro, indicavano infatti che la trappola aveva ucciso il vllyne
all'istante e che questi non aveva avuto nemmeno il tempo di
dimenarsi.
Ottime
carni, aveva aggiunto il Maestro ma Thomas, pur facendosi
forza
per ignorare il conato di vomito che gli saliva dallo stomaco, non
era riuscito a mangiarle.
«Avete
bisogno di aiuto?» la sua stessa voce lo colse impreparato
nel
momento in cui uscì dalla sua gola e persino l'elfo
sembrò
sorpreso. Solo un istante, poi il solito ghigno comparve sulle sue
labbra.
«Voi?»
gli chiese con un tono che non sembrava affatto divertito.
«Cosa
potreste fare?»
Thomas
portò istintivamente una mano alla propria fronte; lui non
poteva
vederlo ma sapeva che il cerchio sulla sua fronte stava brillando.
«Potrei
aiutarvi con le bende.»
«Nient'altro?»
Thomas
esitò a rispondere – qualcosa, nel sorriso del
Nateh'n, lo
avvertiva di star giocando con il fuoco.
«Non
insegnano ai giovani Eletti alcun incantesimo di guarigione?»
La
consapevolezza che si nascondeva dietro quelle semplici parole fece
cadere di nuovo il silenzio. Lo scorrere del fiume coprì
ogni altro
rumore se non il fruscio delle foglie sulla gamba dell'elfo ed il
vento che faceva oscillare le cime degli alberi.
Il
Nateh'n fissava davanti a sé, sempre con un sorrisetto
vittorioso
sulle labbra, e Thomas, che fino a quel momento l'aveva imitato, si
girò verso di lui.
«Invece
insegnano agli elfi come lanciare un incantesimo dormiente.»
Il
sorriso sulle sue labbra scomparì ma continuò a
tenere lo sguardo
lontano.
«Evidentemente,»
la voce del Nateh'n divenne quasi un sussurro ma quanto di
più serio
Thomas avesse sentito negli ultimi giorni. «abbiamo
più cose in
comunque di quanto pensassimo.»
Sospirando,
Thomas si lasciò cadere all'indietro e chiuse gli occhi.
«Era
magia, quella con cui avete addormentato le guardie della carrozza.
Non l'effetto collaterale del fumo.»
Il
Nateh'n sbuffò. «In realtà quel fumo dovrebbe
far cadere
addormentati» asserì lentamente per poi
aggiungere, a voce talmente
bassa che Thomas non capì bene cosa volesse dire:
«... se solo
quell'imbroglione tenesse fede a quello che promette sui propri
prodotti.»
Un
ululato in lontananza riempì l'aria prima di nuove parole.
«Era
debole e si confondeva con il resto ma era magia senza alcun
dubbio»
continuò Thomas. «Si percepisce il suo sfrigolio
nell'aria come
l'elettricità prima di un temporale.»
«Così
dicono» ribatté il Nateh'n.
«Pensavo
che gli elfi non ne fossero capaci.»
«Pensavo
che ogni re dovesse per forza possederla.»
Thomas
aprì la bocca per rispondere ma non riuscì ad
emettere alcun suono.
Quando sollevò le palpebre si stupì nel trovare
un paio di occhi
che lo fissavano di rimando a nemmeno un passo da lui.
Non
si accorto che il Nateh'n si fosse sdraiato né che lo stesse
guardando.
La
luce della luna gli accarezzava la guancia rivolta verso l'alto, i
capelli erano schiacciati malamente contro il terreno e le sue
orecchie, stagliate contro il buio della foresta, sembravano ancora
più lunghe; non c'erano sorrisi ironici o di scherno sul suo
volto,
solo una profonda stanchezza dettata dagli occhi che quasi
brillavano, sotto le stelle.
«Non
dovreste andare a Cremysta.»
Thomas
sbatté le palpebre un paio di volte prima di accorgersi che
l'altro
aveva parlato: troppo concentrato nell'osservare i suoi occhi, non si
era nemmeno accorto di quando aveva mosso le labbra.
«Vi
stanno aspettando là» continuò l'elfo,
a bassa voce e senza
distogliere lo sguardo. «e non per un'accoglienza regale.
Cézras
non si fermerà fino a quando non vi avrà
ucciso.»
Un
lampo gli attraversò l'iride.
«Chi
è Cézras?»
Il
Nateh'n prese un lungo respiro prima di rispondere e la sua voce si
abbassò ancor di più. «Un
mercenario.»
Esitò.
«Era...» iniziò e Thomas si fece
più attento, capendo che
qualcosa di importante era in arrivo.
Ma
poi, senza darsi la possibilità di continuare, il Nateh'n
scosse la
testa e si voltò dalla parte opposta.
«È
qualcuno da cui è meglio scappare» e questa volta
la sua voce si
fece più risoluta.
Il
giovane fece per chiedergli di continuare ma l'altro lo interruppe
ancor prima che potesse proferir parola.
«Vi
accompagnerò da qualcuno che potrà
aiutarvi» promise l'elfo. «ma
poi le nostre strade si divideranno.»
Una
folata di vento gelido si insinuò fra loro e Thomas non
riuscì a
fare niente per rompere quella barriera che li separava.
Ancora
un volta, la conversazione era finita e non c'era nulla che potesse
essere aggiunto.
***
Le
prime luci dell'alba si riflettevano sulle guglie dorate del palazzo
reale e le urla degli abitanti di Cremysta avrebbero coperto il
rumore delle ruote contro la strada e lo scalpiccio dei cavalli di
qualsiasi carrozza.
Pecklo
aspettava di fronte alle enormi porte del palazzo ma nemmeno lui
avrebbe saputo dire se quelle erano grida dettate dalla gioia o dal
malcontento.
«Dov'è
la regina?» Un abitante malconcio cadde in ginocchio di
fronte alle
guardie. «Perché non si mostra?»
La
guardia più vicina strinse la mano intorno all'elsa della
propria
spada. «È usanza che la regina non esca dalle
proprie camere per
almeno nove giorni dalla morte del re, popolano.»
«Che
vengano mangiate dagli hooke [2],
le usanze!» urlò una voce che riuscì a
sovrastare le altre.
«Ha
ragione» esclamò di nuovo l'uomo in ginocchio.
«Abbiamo il diritto
di sapere cosa sta succedendo!»
«Vi
consiglio di ritornare fra la folla, popolano.»
«No!»
una donna si era arrampicata sullo stesso gradino in cui stava
Pecklo. «È stata la Regina Thempsa ad insegnarci a
combattere per i
nostri diritti: non lasceremo che le sue parole vengano
dimenticate!»
La
guardia sollevò la spada e Pecklo, sospirando, si
ricordò il motivo
per il quale si era ritirato come sacerdote nel palazzo reale.
Alzò
una mano e ondate di energia verdastra si diffusero nella piazza,
allontanando gli abitanti troppo vicini all'entrata. L'uomo malconcio
cadde indietro addosso ad una lavandaia.
«Per
favore, brava gente» esclamò con voce ferma,
facendosi avanti fra
il manipolo di guardie. «I vostri desideri sono nel giusto,
ma non
abbiamo la possibilità di rispondere alle vostre
domande.»
«Se
non ora,» gridò la stessa donna di prima.
«allora quando?»
«Presto»
promise Pecklo. «Ma ora non servirà a niente
radunarsi contro-»
La
mano posata rapidamente sulla sua spalla lo interruppe e persino la
folla rimase in attesa, mentre il corriere appena uscito dal palazzo
gli sussurrava qualcosa all'orecchio.
Pecklo
sospirò nuovamente.
«Bene»
rispose, a bassa voce. «Fate aprire i cancelli laterali.
Chiunque ci
sia, in quella carrozza... Non possiamo permetterci che la folla
scateni una rivolta.»
Il
corriere annuì e tornò sui propri passi.
«Brava
gente,» riprese Pecklo. «le risposte arriveranno,
ma non oggi. Oggi
è un giorno di commemorazione: i funerali del nostro amato
re
saranno celebrati nel pomeriggio e sono sicuro che nessuno di voi
abbia il desiderio di macchiare il suo ricordo con uno di spargimento
di sangue all'alba della sua morte.»
Solo
la donna di prima fece per ribattere ma qualcuno la zittì in
tempo
e, con un mormorio soffuso e l'aiuto delle guardie, la piazza
tornò
deserta – come avrebbe dovuto essere.
La
carrozza si palesò solo una manciata di minuti dopo.
Pecklo,
con un gesto, indicò i cancelli aperti del giardino interno
poi,
lasciandosi alle spalle una preghiera alla Stella, seguì le
guardie
oltre i portoni.
«Che
la Luce dell'Ovest illumini i nostri cammini.»
Pecklo
camminò rapidamente fra i corridoi illuminati ancora dalle
fiamme
delle torce appese ai muri.
Quando
arrivò di fronte alle porte per i giardini interni, si
passò una
mano sulla fronte – il simbolo degli Eletti era nascosto dai
capelli neri che andavano ingrigendosi sulle tempie – prese
un
profondo respiro e si forzò ad attraversarle.
Le
ultime stelle, oltre i maestosi alberi del cortile, sparivano
all'orizzonte ma nemmeno questo riuscì a non far infrangere
le
speranze dell'uomo, alla vista di coloro che stavano di fronte a lui.
«Maestro»
sussurrò, abbassando il capo in un saluto formale.
L'anziano,
alzando solo allora lo sguardo su di lui, chiuse gli occhi per
restituirgli al saluto.
Le
guardie della scorta avevano già iniziato a sbrigliare gli svædiphan
che scomparivano man mano, tornando immediatamente nei recinti per
loro adibiti.
Pecklo
tenne aperte le porte dietro di lui, invitando il Maestro ad entrare.
«Spero
che non siate troppo stanco per il viaggio, Maestro»
esclamò,
mentre questo lo oltrepassava. «Le vostre stanze sono
già pronte,
nel caso abbiate bisogno di riposare.»
«Ragazzo
mio,» esalò il Maestro e Pecklo non
poté nascondere un sorriso di
malinconia al ricordo dei tempi in cui egli aveva insegnato al
ragazzino che era stato. «temo che non ci sia tempo per
riposo. Non
in un giorno come questo.»
Un
soldato semplice si parò davanti a loro prima che altro
potesse
essere aggiunto.
«Maestro»
esclamò con un inchino, prima di voltarsi verso Pecklo e
ripetere il
gesto. «Primo Sacerdote. La regina ed il Consigliere Adrian
hanno
richiesto udienza con la massima priorità.»
«Pensavo
che fossimo attesi nella Sala del Consiglio per discutere con i
nobili riuniti» ribatté il sacerdote.
La
guardia non si mosse. «Con la massima priorità,
Primo.»
«Suppongo
che i nobili dovranno aspettare» sospirò Pecklo ed
il soldato si
girò per fargli strada fino alle stanze della regina. Il
Maestro,
restando in silenzio, si limitò a seguirli attraverso il
palazzo,
fermandosi occasionalmente per un breve respiro. Pecklo fu tentato di
chiedere se avesse di aiuto ma, prima ancora di poter aprire la
bocca, si rese conto di essere giunto a destinazione.
La
regina, seduta accanto alle enormi finestre della stanza matrimoniale
– la più grande e lussuosa del palazzo –
non li degnò che di
uno sguardo stanco da sopra la spalla.
I
capelli chiarissimi che le ricadevano sulle spalle ricurve la
facevano apparire ancora più vecchia di quanto non fosse e
quando
parlò la voce uscì con fatica dalla labbra secche.
«Maestro»
sussurrò e quasi immediatamente un violento attacco di tosse
le fece
portare una mano al petto.
«Vostra
maestà» salutò in rimando il Maestro
che, di fronte alla vecchia
regina, sembrava di gran lunga più giovane.
«Vostra
maestà» ripeté una voce preoccupata da
oltre la scrivania contro
la parete frontale. «Non dovreste sforzarvi così
tanto: potevo
pensare io a questa faccenda.»
La
regina si lasciò scappare un piccolo sorriso. «Ti
ringrazio,
Adrian, ma non posso rimandare i miei doveri nei confronti del
regno.»
La
Consigliera – Pecklo notò solo in quel momento che
indossava
l'armatura ufficiale della guardia cittadina –
tornò a sedersi
dietro la scrivania, senza però smettere di lanciare
occhiate
preoccupate alla regina.
«Mi
dispiace di avervi deviato dall'incontro con i nobili
riuniti»
esclamò dopo una manciata di secondi, la solita voce
autoritaria che
era aveva consigliato il re per più di quindici anni.
«Ma la regina
ed io abbiamo bisogno di risposte precise prima di
quell'incontro. Quindi--»
«Per
favore, Gladys» la voce della regina era un sussurro in
confronto a
quella di Adrian. «Ditemi che il vostro messaggero era in
errore.»
Dopo
un lungo silenzio, il Maestro parlò.
«No,
vostra maestà. Vorrei tanto potervi mentire, in queste
circostanze.»
La
regina lasciò che la testa le cadesse contro il petto ed
Adrian
chiuse gli occhi, recitando con le labbra un pezzo del Poema [3].
“La
lucente spada lasciò cadere/ terra nei capelli, volto
coperto dal
fango/ solo gli occhi del cielo potevan vedere/ e la battaglia
finì
in quell'ultimo giorno.”
«Raccontate
ogni cosa dal suo inizio, Maestro.»
Pecklo
chiuse gli occhi a sua volta.
«Tre
giorni fa sono partito insieme all'Erede ed a una piccola scorta di
soldati dalla Cattedrale di Alenea. Le due carrozze si sono
distanziate come previsto.
A
poco più di mezza giornata di viaggio, ancora nei boschi
presso la
città, degli uomini incappucciati hanno assaltato la
carrozza su cui
viaggiavo: erano Eletti ma non li avevo mai incontrati prima
né
avevano il marchio dorato sulla fronte.»
“Rosso
di sangue il dorato mantello/ rubato dai gemiti della morte arrivata/
farfalla libera dal dolce fardello/ una rosa di fuoco, leggenda era
nata.”
«Hanno
lanciato un tempesta di fuoco ma sono riuscito a completare un
incantesimo che ci ha permesso di uscire indenni dalle fiamme.
L'Erede era con loro, così come l'elfo dai capelli rossi e
l'arma
incantata» il Maestro chinò il capo e la sua voce
si spense. «Non
ha fatto nulla per evitare la tempesta.»
“Il
mondo fu tomba di tanto splendore/ le nubi piangevan i suoi passi
leggeri/ la terra tremò il suo infinito dolore/ lacrime del
Bambino,
negli occhi suoi veri.”
«La
notizia dell'incendio ci è arrivata al tramonto del terzo
giorno. È
partito dalla Cattedrale e si è diramato fino agli
appartamenti
degli Eletti: solo una decina sono sopravvissuti.»
“Poi,
fra le luci dell'alba/ scia di farfalle attraverso le colline/ il
segno e la salma/ persino sopra le correnti marine.”
«L'elfo
è stato visto scappare poco dopo.»
La
regina scosse lentamente la testa ed un altro attacco di tosse la
fece piegare.
«Gli
altri..?» persino la voce di Adrian apparì incerta.
«Nessuno
dei principi è uscito dalla Cattedrale.»
Il
sacerdote portò le mani al collo ed alzò lo
sguardo verso il
soffitto alto.
Il
suono delle campane della chiesa, esattamente di fronte al palazzo,
fece tremare i vetri mentre lo scalpiccio oltre la porta indicava
che, finalmente, la servitù si era svegliata ma niente, in
quell'istante – nemmeno il rumore della boccetta di
inchiostro che
si infranse contro il pavimento quando Adrian fece cadere ogni
oggetto dalla scrivania – poté sovrastare la
cantilena terribile
delle lacrime di una madre.
“Pregando
al tempo/ d'illuminar la sera/ sola Stella, nel vento/ dell'ora
nostra più nera.”
~
Glossario:
[1]
“Il vllyne
sorrise da sotto i baffi e fece per addentare il primo pesce caduto
dal carretto del cacciatore quando un orso gli si parò
davanti.
«Dove
hai trovato
tutti questi pesci?» gli chiese con voce grave, indicando con
gli
artigli il lago ghiacciato.
«Li
ho pescati»
esclamò senza esitazione il vllyne. «Fai un buco
nel ghiaccio ed
immergici la coda: vedrai quanti pesci abboccheranno!» e
l'orso, non
molto noto per la propria intelligenza, se ne andò per fare
come gli
era stato detto.
Così
il vllyne poté
mangiare tranquillamente il pesce che aveva rubato; poi, quando fu
sazio, tornò a trotterellare verso la foresta ma
incappò in una
delle tagliole lasciate dal cacciatore e morì.”
Tratto
da “Venti
favole senza morale (più una)”, raccolte
da Tsegh M. Mirborr.
[2]
“Non è per
vantarmi ma ho incontrato, in tutta la mia vita, ben tre hooke
e nessuno di loro mi ha ucciso.
Le
leggende li
descrivono sempre come demoni mostruosi, con corna ed artigli, pronti
ad ingannare chiunque creda alle loro parole per sbranare la loro
anima prima che questa possa ritornare nell'abbraccio della Luce
dell'Ovest.
Non
credete a tali
menzogne.
Gli
hooke non sono
altro che dolci fanciulle, il più delle volte indifese,
maltrattate
per essere più belle di molte altre.
[...]
Una di loro mi
ha spiegato un giorno che, molto tempo fa, erano adorate da noi
mortali perché possiedono il dono di avverare qualsiasi
nostro
desiderio [...].
Proprio
non capisco
tutta questa malignità nei confronti di cotal bellezza
soave!”
Tratto
da “La
ballata del cadavere vanitoso” di Flov Cetar H. P.
[3]
“Si racconta
che, esattamente cent'anni dopo la morte della Regina, nei giorni
cupi delle guerre contro la Confederazione di Elsàvon, un
giovanotto
pensieroso camminasse lungo il litorale a sud di Alenea.
Colto
improvvisamente da una divina visione, il giovane corse a casa ed
iniziò a scrivere.
Dopo
tre anni,
rimirando il lavoro più impegnativo di tutta la sua carriera
di
scrittore e poeta, Lhira Nediigate si disse soddisfatto: il Poema
– allora intitolato “Il poema della
regina” – era finalmente
ultimato.”
Dal
capitolo su
Lhira Nediigate di “Biografie non autorizzate”,
autore
ignoto.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=1630610
|