La forza dell'amore

di allegretto
(/viewuser.php?uid=117610)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo Due ***
Capitolo 3: *** Capitolo Tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo Cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo Sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nove ***
Capitolo 10: *** Capitolo Dieci ***
Capitolo 11: *** Capitolo Undici ***
Capitolo 12: *** Capitolo Dodici ***
Capitolo 13: *** Capitolo Tredici ***
Capitolo 14: *** Capitolo Quattordici ***
Capitolo 15: *** Capitolo Quindici ***
Capitolo 16: *** Capitolo Sedici ***
Capitolo 17: *** CApitolo Diciassette ***



Capitolo 1
*** Capitolo Uno ***


Personaggi: Oltre, ovviamente a Jensen e a Jared, compaiono al gran completo le famiglie Ackles e Padalecki, Danneel Harris e Genevieve Cortese, i produttori della serie Supernatural, gli attori Misha Collins e Jeffrey Dean Morgan, per arrivare infine a Jason Manns e Steve Carlson.

Avvertimenti: Le mogli non sono messe in un'ottica positiva. Niente di eclatante ma non fanno una bella figura. Posta idealmente nella pausa estiva tra la sesta e la settima serie, ha un andamento AU lungo il continuo della storia. Alcuni fattori possono essere cambiati in base ai vostri suggerimenti. Mi piacerebbe molto se interagiste con me su alcuni aspetti che vedremo strada facendo. Ringrazio anticipatamente quanti leggeranno, commenteranno e seguiranno questa storia. Alla fine di ogni capitolo inserirò alcune spiegazioni per quanto riguarda la legislazione americana che avrà un ruolo determinante soprattutto nei primi capitoli.

Disclaimer: Gli attori qui menzionati appartengono a loro stessi, perciò tutto quello di cui verrà scritto qui è pura fantasia (o almeno la maggior parte) e narrato solo per mio e vostro piacere.

 

 

Capitolo Uno

 

 

Jared sospirò e appoggiò la testa sulle mani mentre sua moglie continuava a lamentarsi del fatto che non fossero andati nell'Idaho dalla sua famiglia per passare parte delle vacanze estive a San Antonio, in Texas. Inoltre lei odiava quella città dove non c'era nulla da fare ed era come stare nel deserto, visto che il caldo era torrido e un sole inclemente impediva di fare una passeggiata rilassante.

Era sempre lo stesso vecchio discorso che usciva fuori tutte le volte che c'era una pausa nelle scene da filmare e Jared voleva passarle con i suoi cari.

Si morsicò la lingua per non ribattere che comunque anche i Padalecki erano la sua famiglia e in fondo erano stati in Idaho per il Ringraziamento e non vedeva i suoi genitori dall'estate precedente.

La tiritera continuava e alla fine Jared sbottò:”Se odi così tanto il Texas, perchè alla fine sei venuta?”

“Oh, si, non sarebbe stato strano per la tua famiglia se non ti avessi accompagnato?”, replicò Genevieve, sarcasticamente. “La maggior parte di loro mi odia già abbastanza, non diamogli altri argomenti per approfondire l'astio”, concluse lei.

“La mia famiglia non ti odia”, Jared ribattè, rassegnato.

Genevieve non rispose, mentre andava avanti e indietro nervosamente da un muro all'altro della loro camera da letto nella casa natale di Jared.

Prima che uno dei due esternasse la propria frustrazione, un colpo alla porta li bloccò entrambi.

“Avanti”, Jared disse.

La porta si aprì. Sull'uscio, Sherri, la madre di Jared.

Quando il figlio alzò lo sguardo per chiederle qualcosa, aggrottò le sopracciglia nel notare l'espressione preoccupata di sua mamma.

“Jared, Donna Ackles è al telefono”, Sherri lo informò. “E' agitata e ha bisogno di parlare con te adesso”

Jared annuì e si allungò per afferrare il ricevitore del telefono posto sul comodino. La madre lo fermò.

“Potresti parlarle dall'ufficio di tuo padre, magari”, esclamò, poi, con voce grave.

A Jared il cuore fece un balzo. Il tono e l'atteggiamento di sua madre lasciavano intuire che qualcosa di serio era successo. Con un cenno di assenso verso la madre, Jared corse fuori dalla sua stanza, si lanciò giù dalle scale per giungere nello studio, dove afferrò la cornetta mentre si sedeva pesantemente sulla sedia davanti alla scrivania di suo padre.

“Pronto? Donna, cosa è successo?”, chiese, immediatamente.

“Jared! Grazie al cielo, sei a casa. Tesoro, Jensen ha avuto un incidente con la macchina e noi...non sappiamo quali siano le sue condizioni”

“Santo cielo!”, Jared gridò. “Che è successo?”

Jared sentì Donna piangere. “Donna! In quale ospedale siete? Siete a Dallas?”, chiese il giovane, in preda al panico.

Donna riuscì soltanto a mormorare tra le lacrime che erano proprio in quella città.

“Cerco di arrivare lì da voi appena posso. Ok?”, disse, cercando di calmarsi in modo da pensare lucidamente.

Mentre stava parlando, accese il computer sul tavolo davanti a lui, entrò in internet per prenotare il primo volo in partenza per Dallas.

“E' al UTSMC a Dallas”, Donna cercò di dare più informazioni possibili. “Il problema è che il dottore voleva avere tutte le informazioni mediche di Jensen e si è fatto mandare via fax la cartella del medico che vi segue a Vancouver. Nel plico c'era anche l'informativa sulla privacy firmata da te come unico referente in questioni mediche. I dottori non ci hanno detto molto perchè secondo la legge lo possono dire solo a te e solo tu puoi prendere decisioni in questo ambito”

Jared gemette. Si era completamente dimenticato di quel documento.

“Ok, Donna. Prendo il volo che parte fra due ore. Atterra al DFW alle due del pomeriggio e poi dall'aeroporto prendo un taxi. Ci vediamo in ospedale”

“No, Jared, aspetta! Josh ti verrà a prendere. Farete più presto così”. Donna lo informò. “Sono felice che stai per arrivare!”

“Presto sarò lì con voi”, Jared promise. “Non ti preoccupare, Donna. Andrà tutto bene. Jensen è più forte di quello che sembra. Andrà tutto bene”, esclamò Jared, cercando di sembrare positivo per la sua interlocutrice anche se in cuor suo era spaventato da morire.

“Vado a prepararmi. Ci vediamo tra poche ore. State tranquilli”, esclamò Jared.

“Ok, grazie, Jared”, disse Donna Ackles, cercando di trattenere il pianto, sollevata dalle parole del ragazzo.

Jared posò il ricevitore e si allungò sulla sedia cercando di mettere ordine nei suoi pensieri. Poi saltò in piedi e salì su nella sua stanza e iniziò a prendere alcune magliette e un paio di jeans per metterli in uno zaino. Genevieve lo seguì nella stanza.

“Che succede?”, chiese, incuriosita da quello che stava facendo il marito.

“Jensen è rimasto ferito in un incidente d'auto”, Jared spiegò mentre velocemente prendeva alcuni effetti personali dal cassetto del comodino.

“E allora? Cosa ha a che fare questo con te?”, la moglie domandò mentre si sedeva sul letto. “Perchè devi andare là?”

Jared le lanciò un'occhiata gelida. “A parte il fatto che è un mio amico e sarebbe il minimo che possa fare, c'è il problema del documento che lui ed io abbiamo firmato a Vancouver per gestire con rapidità le emergenze e così i medici non dicono nulla ai genitori e non possono prendere decisioni, finchè non hanno parlato con me. Perciò...”

Genevieve sbuffò, annoiata. “Farlo per telefono?”, chiese, tirando fuori da una confezione di salviettine umidificate un paio di queste e passandosene una sul viso per sottolineare il fatto di essere tutta sudata.

La risposta velenosa di Jared non ci fu, perchè in quell'attimo sua madre lo informò che suo padre lo aspettava fuori in auto per portarlo all'aeroporto.

Jared annuì. “Grazie mamma”, esclamò, afferrando lo zaino e uscendo dalla stanza. Sherri lo fermò e lo abbracciò. “Chiamaci appena hai notizie e facci sapere se gli Ackles hanno bisogno di qualcosa” le disse. “Tuo padre ed io saremo là in poche ore. Telefonerò a Jeff e gli dirò di mettersi in contatto con te, se hai bisogno di delucidazioni mediche. Vai, ora. Vedrai che Jensen si rimetterà presto”, aggiunse poi la madre con le lacrime agli occhi.

Jared sorrise e fece una carezza sul volto della madre. “Grazie. Si, Jensen è forte come un toro. Eh si, servirà la consulenza di Jeff per capirci qualcosa”

Dopo un veloce bacio sulla guancia di sua mamma, Jared uscì di corsa dalla casa e si infilò nell'auto del padre.

Sherri chiuse la porta di casa e poi si diresse su al primo piano per chiedere alla nuora se volesse pranzare a casa o se preferisse accompagnarla al centro commerciale e mangiare al ristorante. La porta della camera era accostata, bussò piano prima di aprirla del tutto ma la donna si fermò sull'uscio quando vide Genevieve che stava chiudendo la sua valigia.

“Successo qualcos'altro?”, chiese sopresa la madre di Jared.

La nuora le scoccò un'occhiata gelida e poi afferrò la borsa, passandole accanto per andare verso le scale.

“Non starò qui da sola”, disse lei, mentre iniziava a scendere verso il pianterreno.

“Non mi sembra tu sia qui sola!”, esclamò la suocera, piccata.

“Oh, si certo, oltre al fatto che non farete altro che parlare tutto il tempo di Jensen e quello che accade a Dallas”, replicò lei, con astio.

Sherri prese un bel respiro profondo e cercò di controllarsi. “E' quello che accade nelle famiglie, sai. Preoccuparsi degli amici dei figli fa parte della vita di tutti i genitori!”

“Ahahah, amici! Certo, perchè Jensen è solo un amico....”, esternò sarcasticamente la donna più govane.

“Ancora con questa storia della gelosia, Genevieve? Mi sembra sia ormai un discorso chiuso, no?”, ribattè Sherri, lasciando tradire la sua rabbia.

“Oh, si. Mi ha sposato ma non è cambiato un bel nulla. Prima c'è Jensen, poi voi ed infine io, in ultima battuta”

“Bè, se tu dimostrassi un po' di attaccamento per noi, sono sicura che l'atteggiamento di Jared cambierebbe anche se, mi sembra, ti accontenti in tutto e per tutto”, sbottò Sherri, prima di andarsene.

Seduta in cucina, Sherri sentì sua nuora chiamare un taxi dal telefono di casa e poco dopo il tonfo della porta di casa le annunciò la sua partenza.

La gamba di Jared saltellava nervosamente, mentre guardava fuori dal finestrino dell'auto del padre durante la corsa verso l'aeroporto. Fu solo quando Gerry posò la mano sul ginocchio del figlio che Jared realizzò quanto velocemente andasse su e giù.

“Figliolo, mi farai un buco nel telaio dell'auto, se non la pianti!”, suo padre lo canzonò.

“Scusa, papà”, Jared esclamò. “Sono preoccupato e non vedo l'ora di arrivare a Dallas”

“E' naturale, Jared. Vedrai che andrà tutto bene”, disse il padre, cercando di essere rassicurante anche se dentro di sé sentiva la stessa angoscia del figlio.

“Stai tranquillo e appena puoi chiamaci. Ok?”, ordinò Gerry, non appena fermò l'auto davanti all'entrata del settore partenze dell'aerostazione di San Antonio.

Jared sorrise e salutò con la mano suo padre mentre si lanciava fuori dall'abitacolo. Non vedeva l'ora di essere su quell'aereo!

Sicuramente fu uno dei viaggi più lunghi che Jared avesse mai intrapreso nei suoi quasi trenta anni di vita. Non tanto per la durata del volo, non più di quarantacinque minuti, ma per l'ansia crescente che attanagliava il giovane.

Per evitare le lungaggini dell'uscita dal veivolo, Jared aveva spiegato all'hostess che doveva recarsi con urgenza in ospedale e così, non appena il portellone dell'aereo si era aperto, lui potè schizzare fuori senza indugio.

Nel momento in cui varcò le porte automatiche all'uscita del settore arrivi del DFW di Dallas, sentì un clacson rimbombare imperioso alla sua destra e quando si girò in quella direzione, scorse Josh, il fratello di Jensen, al volante di una station wagon. Con due falcate la raggiunse ed entrò dentro e senza alcun convenevolo, chiese:”Che diavolo è successo?”

Si accigliò, quando l'espressione di Josh, da lieta per aver preso a bordo Jared, si fece buia e tesa. “E' andato a piantarsi contro un albero! Ecco cosa è successo!”, Josh sbottò ad alta voce, dando una manata contro il volante.

Jared spalancò gli occhi dalla sorpresa. “Cosa ha fatto?”, gridò, portandosi una mano alla bocca per impedirsi di urlare.

Le mani di Josh sbiancarono per quanto stringeva forte il volante. “Se non fosse che è in un letto di ospedale in condizioni critiche, lo prenderei a calci!”, urlò di rimando il fratello di Jensen.

A Jared, la sua reazione parve un po' fuori dalle righe. Da quello che conosceva di lui, sia personalmente che attraverso i racconti di Jensen, sapeva che Josh era una persona calma e razionale. Semmai era Jensen che dava in escandescenze, se si arrabbiava. In quel momento, però, era furioso e per alcuni tratti assomigliava spaventosamente al fratello minore. Certo erano consanguinei ma con il Jensen furioso era meglio essere su un altro pianeta e soprattutto non essere oggetto della sua ira. Perciò intuì che ci fosse altro che facesse infuriare il giovane. E ciò lo angosciò ancora di più!

“Josh, cosa è accaduto? Calmati e spiegami. Non capisco...”, Jared esclamò, cercando di calmare l'altro.

“E' andato a sbattere contro un albero con il suo pick-up. A quanto pare andava molto veloce e dopo una curva è andato diritto, fermandosi contro questo platano”, cercò di spiegare Josh.

“Come è potuto succedere? Di solito è molto accorto quando guida Jensen!”, disse Jared, meravigliato.

Josh inspirò profondamente ed esalò lentamente e poi annunciò con voce grave: “Era ubriaco, Jay!”

Il silenzio invase l'auto. Jared inghiottì a vuoto.

“Le prime analisi dicono che aveva un tasso alcolico nel sangue spaventoso. Tre volte il limite consentito!”, spiegò, poi, Josh, cercando di abbassare il tono della voce.

“Maledizione!”, sbottò Jared, dando un pugno sul cruscotto. “A cosa stava pensando quell'idiota?”, aggiunse poi Jared.

“Appunto, non stava pensando affatto!”Josh urlò. Poi dovette accostare al ciglio della strada, perchè non era in condizioni di guidare.

“Josh, mi dispiace”, disse Jared, leggendo la preoccupazione sul viso del giovane accanto a lui. Si rendeva conto che doveva essere difficile per lui essere furioso con una persona di cui non sapevi esattamente quali erano le sue condizioni di salute, per cui dire qualcosa di spiacevole poteva poi essere difficile da sopportare in caso di condizioni avverse. Ora capiva l'atteggiamento di Josh e lo comprendeva pienamente.

Dopo alcuni istanti di silenzio, Jared chiese: “ Vuoi che guidi io?”, mettendogli poi una mano sul braccio.

Josh si riscosse dal torpore che lo aveva avvolto e disse: “No, grazie, Jared. Sono sì stanco e preoccupato ma appena ti diranno come sta quel deficiente di mio fratello, mi rilasserò un po'!”, rispose poi, rimettendo in moto l'auto e inserendosi di nuovo nel traffico caotico della città texana.

“Perchè, secondo te, aveva bevuto così tanto?”, chiese dopo un po' Jared, mentre erano fermi in coda in un sottopasso.

Josh sbuffò, frustrato. “La band di Steve Carlson aveva un concerto ieri sera”

“Merda!”, Jared borbottò. “Questo spiega tutto. Suppongo che Danneel fosse con il gruppo, vero?”

“Non lo sappiamo con certezza ma c'è da scommetterci”, Josh rispose.

“Cosa vuol dire che non lo sai? Danneel è troppo ubriaca per rispondere?”, Jared domandò stupito.

Josh serrò la mascella prima di rispondere. “Nessuno sa dove sia. E' andata a fare spese con un'amica e poi ha deciso di passare alcuni giorni da noi. Ha lasciato però il cellulare in casa ieri sera perchè era scarico, così noi non possiamo metterci in contatto con lei”

“Fammi capire: lei non sa che suo marito è ricoverato in ospedale in gravi condizioni?”, Jared esclamò, incredulo.

“Eh già!”, rispose Josh, ironico.

“Grandioso!”, ribattè, Jared, sospirando. “A proposito, la notizia non è ancora arrivata ai giornali, mi sembra, vero?”, chiese poi, di nuovo agitato.

“No. Mio padre ha cercato di mettere tutto a tacere anche se la stanza di Jensen è piantonata dalla polizia!”

“Dalla polizia?!”, lo interruppe Jared allarmato. “C'era qualcuno in auto con lui? Ci sono stati altri feriti?”, incalzò Josh.

Il fratello di Jensen non rispose, tanto era concentrato nel trovare parcheggio nell'enorme piazzale dell'ospedale. Solo quando riuscì a trovare posto alla grossa unifamiliare che guidava, Josh rispose: “Grazie al cielo in auto non c'era nessun altro, a parte Jensen. Ha, però, speronato un' altra auto, dopo aver fatto un sorpasso prima della curva e il conducente ha chiamato l'ambulanza quando si è accorto che la macchina era andata diritta invece di affrontare la curva”

Jared sospirò e si strizzò con il pollice e l'indice la base del naso “Fantastico. Ora capisco perchè è piantonato!”

“Non so se questo lo abbia denunciato o no. Ma la polizia lo può fare di ufficio”

“Già e a quel punto carriera e futuro andranno a finire nel cesso!”, ribattè Jared, sconfitto.

Josh non disse nulla. Aprì la portiera e scese dall'auto, seguito da Jared, il quale però poi rimase appoggiato alla fiancata della macchina come se il peso di quello che aveva appena appreso gli impedisse di andare avanti.

“Andiamo, Jared”, Josh disse, dandogli un buffetto sul viso. “La famiglia ti sta aspettando!”

Cinque minuti più tardi, Jared era nel mezzo di una riunione di parenti in lacrime di quella che lui considerava la sua seconda famiglia. Donna piangeva mentre lui la teneva abbracciata a sé, mentre Alan mostrava un sorriso tirato mentre stringeva la mano di Jared.

“Sono contento che tu sia arrivato, figliolo”, Alan esclamò.

“Da nessu'altra parte vorrei essere in questo momento”, Jared lo rassicurò. “Il dottore non è ancora arrivato?”

Donna cercò di trattenere le lacrime mentre si staccava da Jared. “E' stato qui quindici minuti fa . Gli abbiamo detto che eri imbottigliato nel traffico dell'ora di punta e lui ha detto che sperava tu non tardassi”

Jared si accigliò. “Non vi ha detto nulla?”

“Molto poco”, Donna replicò tristemente.

Jared le strinse la mano, “Ho detto che mi sarei occupato di questo appena arrivato e ora vado a cercare il medico. Tra poco sapremo tutto”, disse Jared, allontanandosi verso il banco accettazione. Dopo aver parlato con un'infermiera, raggiunse gli altri nel salottino e si sedette con loro su una poltrona. Non passarono neanche cinque minuti che Donna vide arrivare il medico.

“Jared, questo è il dottor Mitchell. Dottor Mitchell, questo è Jared Padalecki”, Donna disse, facendo le presentazioni.

Il dottore strinse la mano per primo. “Sono contento che sia arrivato, Mr Padalecki”

“Mi chiami Jared, per favore”, disse Jared, per accellerare la questione. “Può, per favore, dirci le condizioni di Jensen?”

Il dottor Mitchell annuì. “Certamente. Andiamo nel mio ufficio”

Jared annuì e facendo segno a ad Alan e Donna di seguirlo, si accodò al medico. Il dottore, però, si fermò non appena si accorse che i genitori di Jensen lo stavano seguendo.

“Mi dispiace, Jared”, si scusò il dottore. “La politica dell'ospedale stabilisce che io possa parlare solo con lei e non con altre persone della salute del mio paziente”

Jared, incosciamente nel camminare si era leggermente ingobbito per il peso di quella situazione, e al sentire le parole del medico, si erse in tutti i suoi quasi due metri di altezza ed esordì: “Può farci un bel falò della politica dell'ospedale! Questi sono i genitori di Jensen, la sua famiglia! Più di quello che sono io”. Lasciò passare poi alcuni istanti, per cercare di calmarsi e far comprendere al medico che poteva sembrare docile quanto un agnellino ma che era meglio non farlo arrabbiare. Poi continuò: “Capisco la vostra prassi ma io non vedo alcuna ragione per tenere all'oscuro queste persone e quindi possono benissimo venire con me a sentire quali sono le vere condizioni di salute del loro figlio!”

Il dottor Mitchell esitò un momento, prima di annuire. “E va bene. I genitori si possono unire a noi”

“Perfetto”, esclamò Jared. Poi lanciò un'occhiata a Donna ed Alan e quest'ultimo scoccò uno sguardo di ringraziamento a Jared.

“Ok. Allora io starò qui ad aspettare MacKenzie!”, sentenziò Josh, rimettendosi seduto a chiedersi dove fosse finita la sorella e perchè dovesse essere così intricata quella situazione, mentre i suoi genitori si allontanavano lungo il corridoio, per andare incontro alla verità.

Il 'Power of Attorney' è un documento legale scritto, in vigore negli Stati Uniti, che rappresenta la volontà di una persona, impossibilitata a metterla in pratica in caso di incidenti o malattie terminali o demenza, in ambito legale, economico e medico. Questa persona autorizza un'altra a prendere decisioni in vece sua ed è l'unica che può essere interpellata da medici, giudici e avvocati.

Se la persona indicata non è un genitore o un legittimo consorte, questi non possono far nulla! Questa legge è stata introdotta per evitare l'accanimento terapeutico in malati terminali o dare la possibilità alle coppie omosessuali di prendere decisioni, qualora nel loro stato non sia stato ancora approvato il matrimonio tra persone dello stesso sesso!

 

-il UTSMC è l'ospedale più efficiente a Dallas per quanto riguarda le patologie neurochirugiche e si trova a sud-ovest della città

 

- il DFW è l'aeroporto di Dallas-Fort Worth a nord-ovest dal centro della città.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Capitolo Due ***


Capitolo Due

 

Il dottor Mitchell li fece accomodare nel suo ufficio. Due poltroncine erano posizionate davanti a una scrivania e Jared lasciò che si sedessero lì i genitori di Jensen, mentre lui preferì sistemarsi su un divanetto lungo una parete. Il medico si sedette dall'altra parte e prese in mano una cartellina.

Dopo averla aperta e consultato un foglio, disse: “Jensen è stato molto fortunato. L'impatto contro l'albero è stato molto forte. La parte anteriore del suo pick-up è completamente distrutta. Perciò aver riportato alcune costole fratturate, un paio di traumi facciali dovuti all'apertura dell'airbag, un trauma cranico per aver sbattuto contro il poggia-testa e varie contusioni alle gambe può considerarsi nulla in confronto a quello che avrebbe potuto accadere in altre circostanze”

Dopo aver appoggiato la cartellina sulla scrivania e accavallato le gambe, continuò: “Abbiamo inoltre accertato che non ha danni interni”

Alan e Donna tirarono un gran sospiro di sollievo e si rilassarono un poco. Jared, invece, era rimasto impassibile.

Siamo, però, un po' preoccupati per il trauma cranico. Con la Tac abbiamo rilevato un ematoma sub durale. Appare piccolo e ben delimitato e tramite terapia dovrebbe riassorbirsi nelle prossime quarantotto ore ma non possiamo usare alcuni farmaci che aiuterebbero a eliminare il problema”, aggiunse, poi, il medico.

Perché non potete dargli questi farmaci? Non mi risulta che Jensen sia allergico a qualcosa?”, chiese Jared, il quale aveva compreso che la situazione era più complicata di quello che sembrasse a prima vista.

Per il livello di alcol nel sangue che, comunque, gli ha salvato la vita. Per ironia della sorte, è stata una fortuna che abbia avuto l'incidente.... ”, rispose il sanitario, sospirando.

In che senso gli ha salvato la vita l'essere ubriaco? Mi scusi, ma non ha senso quello che sta dicendo”, sbottò Alan,

Di solito chi subisce un incidente stradale ed è sobrio, riporta gravi danni se non addirittura la morte, perché vede arrivare il pericolo e si tende nella speranza di attutire il colpo. Una persona ubriaca, anche se può rendersi conto di quello che sta per accadere, ha i riflessi talmente tanto allentati che il suo corpo è rilassato. Si è più in grado di assorbire l'urto, se si è rilassati”, spiegò il dottor Mitchell.

Si, è vero”, concordò Jared.

Alan non disse nulla ma annuì.

Il clinico si alzò in piedi e appoggiò il fianco sinistro contro il lato del tavolo. Mise le braccia conserte e si passò la lingua sulle labbra. Si percepiva chiaramente la sua tensione.

Questo, appunto, è il problema. Vi sono dei farmaci che aiutano il sangue a diluirsi ma non possiamo usarli perché il tasso alcolico è troppo alto e...”

Mi scusi, ma l'alcol non svanisce dal sangue dopo ventiquattro ore dall'assunzione?”, chiese Donna, confusa, interrompendo il dottore.

Danna, per favore, lascialo parlare”, esclamò Alan, rivolto alla moglie. “Mi scusi. Vada pure avanti”, volgendosi al suo interlocutore.

Capisco che vostro figlio sia una celebrità e già ci sarà da affrontare la questione dell'incidente con i media e tutto quello che ruota attorno, per cui tirare fuori anche questo altro problema sarà dura, ma io non so proprio come procedere...”, esclamò, imbarazzato, il medico.

Quale altro problema, dottore?”, chiese esasperato Jared. “Non si possono attendere le quarantotto ore canoniche e poi procedere con la terapia?”

Non abbiamo tutto questo tempo. Il sangue si depura attraverso il fegato ma questo organo, purtroppo, è saturo”

Come sarebbe a dire che è saturo?”, chiese Alan, confuso.

Per metterla in chiaro, Mr Ackles, il fegato di suo figlio mostra segni di cirrosi epatica e perciò non filtra più niente. E se suo figlio non smetterà di bere, tra qualche mese avrà bisogno di un trapianto di fegato!”

Cosa sta insinuando?”, sbottò, offesa, Donna. “Mio figlio non...è ...”, cercò di dire la signora Ackles.

Mi dispiace, signora. Si, suo figlio è un alcolizzato!”, disse il medico in un soffio.

Alan saltò su dalla sedia: “Mio figlio NON è un alcolizzato!”, esclamò rabbiosamente.

Donna iniziò a piangere, mentre Jared si appoggiò completamente allo schienale del divano, chiudendo gli occhi.

Dopo un paio di minuti, trascorsi nel silenzio più assoluto, Jared si riscosse dal suo torpore e chiese al medico, il quale si era riseduto nuovamente nella sua poltrona davanti alla scrivania, se la situazione fosse reversibile.

Se smette di bere subito, penso di si. I valori del sangue sono molto alterati e magari con esami più approfonditi al fegato potremmo accertarci del reale danno al tessuto epatico, tenendo presente anche la giovane età del paziente, credo ci siano buone possibilità di uscirne bene in breve tempo”, affermò il medico, accennando a un sorriso.

E' per questo che prima ha detto che questo gli ha salvato la vita, vero?”, domandò Jared, guardando l'afflizione dei genitori di Jensen. Alan, in piedi dalla finestra, ingobbito dal peso di quella situazione, mentre Donna, seduta sulla sedia, con una mano sul viso, continuava a singhiozzare silenziosamente.

Si. Se non ci fosse stato, chissà quando ve ne sareste accorti. Non è semplice scovare un alcolista. Sì, perdono peso, hanno gli occhi arrossati e molto spesso appaiono annoiati o irascibili. Ma quanti di noi lo sono, senza essere alcolizzati in questa nostra vita così caotica?”, affermò il dottor Mitchell.

Già. Non l'avremmo mai scoperto”, mormorò Alan.

Cosa farete, allora, per la terapia?”, chiese Jared alzandosi in piedi e mettendo una mano sulla spalla della madre di Jensen, come segno di incoraggiamento.

E' per questo che volevo vederla. Deve darmi il consenso per metterlo in sedazione completa, chiamato in gergo medico 'coma farmacologico' per quarantotto ore, in modo che il sangue e il fegato si depurino senza che Jensen debba avvertire i sintomi dell'astinenza”, spiegò il medico.

Rischi?”, chiese Jared, diretto.

E' sempre un coma, anche se indotto. Con tanto di perdita di coscienza, uso del respiratore automatico, ecc. ma è l'unico modo. Non dovrebbe avere alcun danno né muscolare né a livello di sistema nervoso. Ma potrebbe anche non svegliarsi nel momento in cui lo mettessimo in condizione di farlo...E' una percentuale minima, però...”, spiegò il dottore, mentre prendeva dei fogli dalla precedente cartellina.

Questi sono i fogli che deve firmare. Se li legga, si consulti con qualche altro mio collega e me li porti firmati appena può”, continuò il sanitario, porgendo a Jared un fascio di documenti, inseriti in una busta trasparente.

Quando possiamo vederlo?”, chiese Jared, afferrando il plico.

E' in una stanza nel reparto di neurochirurgia. Dovrebbe essere in rianimazione ma abbiamo preferito metterlo in una stanza singola, come suggerito dal signor Ackles, per motivi di privacy. Perciò potete vederlo ma per pochi minuti e solo una persona per volta per non stancarlo. Non sarà molto cosciente, comunque”, rispose il medico, afferrando il ricevitore del telefono. “Ora controllo”, aggiunse, poi.

E' nella stanza 208. Fuori c'è un poliziotto in borghese che chiede i documenti, comunque”, disse, poi, dopo aver concluso la telefonata.

Dottore, mi scusi, quale è il suo consiglio per risolvere il problema dell'alcolismo?”, chiese Donna, disperata ma pratica e ben decisa a risolvere quella situazione.

Vi consiglio caldamente di cercare una clinica per disintossicare vostro figlio e seguire sedute di psicoterapia. Più presto lo farete e più presto Jensen tornerà quello di prima. Ne conosco una seria vicino a San Antonio. Se vorrete, vi aiuterò nel prendere contatto con loro”, rispose il medico, mettendo una mano sulla spalla di Donna Ackles.

Jared annuì e sorrise al medico. “Appena ho letto i documenti e capito ciò che dicono, glieli riporto e le faccio sapere cosa ho deciso”, disse poi, prima di uscire dall'ufficio.

Donna ringraziò il medico dopo aver detto che sarebbe andata a vedere come stava suo figlio, mentre Alan bofonchiò qualcosa sul reato di figlicidio, prima di uscire dalla stanza.

Nel corridoio Jared si era fermato in attesa dei genitori di Jensen. Li vide arrivare. Sembravano invecchiati di dieci anni. Come se il medico gli avesse detto che il loro figlio aveva riportato ferite inguaribili o invalidanti. Jared si sorprese a pensare che forse sarebbe stato meglio così.

Andate da Jensen. Io andrò a informare Josh e vostra figlia su dove possono trovarlo. Va bene?”, chiese il giovane, abbracciando Donna, nuovamente in lacrime.

Grazie, Jared”, Alan disse, con tono rassegnato.

Donna non disse nulla ma diede un buffetto sulla guancia di Jared e poi si unì al marito, entrando nell'ascensore.

Jared sospirò pesantemente e si passò una mano fra i capelli. Aveva la mente affollata da domande, di paure e di angosce. Aveva bisogno di calmarsi e l'unica persona che poteva farlo era in un letto di ospedale, quasi incosciente e motivo della sua preoccupazione. Si rese anche conto che se avesse visto in quel momento Jensen, gli avrebbe urlato contro tutta la sua frustrazione. Inoltre si sentiva paurosamente in colpa. In fondo lui stava quasi cinque giorni alla settimana con lui. Come aveva fatto a non accorgersi delle reali condizioni di Jensen?

Decise così di informare i propri genitori della situazione e parlare alla moglie dicendole che non sarebbe rientrato molto presto.

La madre, dopo aver appreso tutti i particolari di quella vicenda, gli disse che Genevieve se n'era andata via subito e che gli aveva lasciato un biglietto, avvertendolo che sarebbe andata nell'Idaho.

Si, immaginavo”, Jared ammise. “Cercherò di mettermi in contatto con lei. Mi dispiace, mamma che sia andata così ma gli Ackles hanno bisogno di me ora”, esclamò il giovane, con rincrescimento.

Non ti preoccupare, Jared. Concentrati su come aiutare Jensen e la sua famiglia. C'è niente che possiamo fare per loro?”, chiese Sherri.

Jared si morsicava il labbro, mentre sua madre parlava. “Si. Ho bisogno di parlare con Jeff al più presto e vorrei che papà si mettesse in contatto con Alan ma solo quando sarò riuscito a parlare con Jensen in tranquillità. Vi faccio sapere, comunque!”,

Su quale argomento, caro?”, chiese la madre.

Adesso non te lo posso dire. Devo vedere se è fattibile. Poi, papà vedrà come rendere possibile il tutto”

Sei abbastanza criptico, ma saprai bene cosa stai facendo”, esclamò sua madre. “Jeff è nel suo studio ma ha detto che se hai bisogno ti raggiunge lì in ospedale”, aggiunse poi Sherri.

Ok. Potresti, per favore, dirgli di venire al reparto di neurochirurgia, stanza 208? Dovrei fargli vedere i moduli che devo firmare e non ci capisco niente!”, chiese Jared alla madre.

Certo, tesoro. Lo chiamo subito”, rispose lei, avvertendo nella voce del figlio una nota di panico e urgenza.

Grazie, mamma. Ci sentiamo presto”, disse Jared, sollevato, prima di interrompere la conversazione.

Un'altra telefonata andava fatta ma era molto più complicata da mettere in pratica. Scorse la rubrica sul suo telefono e dopo un attimo di esitazione e un lungo sospiro, posò il dito sul numero di Jim Michaels (produttore di Supernatural) e dopo un ulteriore momento di riflessione, schiacciò l'icona della chiamata.

Ehi, Jared”, esclamò Jim, rispondendo alla chiamata. “Non pensavo di sentirti così presto! Come procedono le vacanze? Ti stai riposando?”, continuò sullo stesso tono gioviale.

Hey, Jim”, Jared lo salutò. “Ho paura che non sia una telefonata per scambiarci i progetti vacanzieri. Ti chiamo per darti un'informazione importante prima che tu la venga a sapere dai mezzi di informazione”, aggiunse Jared con voce grave.

Uh...ok...che succede Jared? Stai bene?”, chiese il produttore, resosi conto del tono del giovane.

Io sto bene”, Jared lo rassicurò “Non riguarda me ma Jensen. E' ricoverato in ospedale qui a Dallas”

Cosa è successo?”, chiese Michaels, allarmato.

Jared sospirò. Era il momento di lasciar cadere la prima bomba. “La scorsa notte è uscito di strada con la sua auto ed è andato a sbattere contro un albero”

LUI HA FATTO COSA?”, gridò nel ricevitore il produttore.

Ha perso il controllo del suo pick-up ed è finito contro un platano”, Jared spiegò con voce un po' tremolante.

Il suo interlocutore non parlò ma si sentiva chiaramente qualcuno ansimare come se stesse cercando di analizzare la notizia. “Che cosa non mi stai dicendo, Jared?”, chiese poi Michaels.

Jared chiuse gli occhi e ingoiò a vuoto. Era tempo di far cadere l'altro ordigno, ben più potente e devastante. “Jensen era ubriaco, Jim! Il tasso alcolico era tre volte il consentito”

MERDA!”, esplose il produttore. “Come ha potuto mettersi al volante quando era ubriaco!”, continuò sullo stesso tono. “Come sono le sue condizioni?”, chiese, poi, cercando di calmarsi. “E' grave?”, aggiunse, focalizzando la sua mente sul ferito e non sul colpevole di quella situazione.

Ha un ematoma subdurale e lo devono mettere in coma farmacologico per quarantotto ore per depurarlo dall'alcol, se no non possono dargli la terapia anti-coagulante”, spiegò Jared al suo capo.

Ah, accidenti!”, esclamò Jim.

Non è l'unico problema, però!”, sentenziò Jared, ormai destinato dal fato a informare gli altri del casino jenseniano.

E cosa c'è di più grave di un idiota che si è messo al volante di un'auto, ubriaco fradicio e che si è piantato contro un albero e ora versa in gravi condizioni in un letto d'ospedale?!?”, chiese, retoricamente il produttore, nuovamente urlante.

Jared non poteva che essere d'accordo con lui ma doveva essere il latore di tale notizia.

Le analisi di routine hanno accertato che Jensen è un...ha...uh, è diventato un alcolista e ha bisogno di un ricovero coatto in una clinica di recupero”, dichiarò Jared con gran fatica.

Dall'altro lato della linea vi fu un assoluto silenzio. Il giovane attese lo sfogo del suo capo. Contrasse la mascella e chiuse gli occhi. Michaels era un uomo gioviale e bonario e sopportava tutto e tutti perché amava alla follia il suo lavoro: non tollerava un paio di cose e sfortunatamente una di queste era proprio la dipendenza dall'alcol o peggio dalla droga. Perciò il venire a conoscenza che uno degli attori di punta della serie che lui finanziava era un alcolizzato non era proprio una informazione da spartire con lui.

Altre notizie così incoraggianti?”, chiese poco dopo il produttore con voce abbastanza calma.

Jared fissò il cellulare come se fosse stato posseduto. Tutto si sarebbe aspettato da lui, tranne quella reazione.

No, Jim. Mi dispiace”, farfugliò Jared, allibito.

E per quale motivo? Tu non c'entri nulla”, disse il suo interlocutore, sconfortato. “E' coinvolta la polizia?, chiese poi.

Si, è piantonato da un agente in borghese. Il padre di Jensen ha, fino adesso, messo tutto a tacere ogni informazione ma non so fino a quando tutto ciò rimarrà segreto”

Ok. Chiamerò gli altri produttori e faremo un comunicato stampa. Ti posso richiamare se avrò bisogno di particolari?”

Si, certamente. Se puoi magari mandarmene una copia via email che la faccio leggere ad Alan Ackles. Ok?”

Senz'altro. Fai i miei auguri di pronta guarigione a Jensen, dicendogli che lo aspetto qui a Los Angeles per poi prenderlo a calci per tutti gli uffici della Warner Bros...”, esclamò Michaels, con un tono a metà strada tra il serio e lo scherzoso.

Sicuro. Glielo dirò”, ribatte Jared, accennando a un sorriso.

Dopo essere andato a informare Josh e MacKenzie su dove potevano trovare il fratello, Jared, ormai svuotato di ogni energia e ricolmo di angoscia, decise di andarsi a prendere un caffè latte nella caffetteria dell'ospedale. Voleva vedere Jensen ma in quel momento era troppo arrabbiato con lui e comunque il suo amico doveva già confrontarsi con l'ira paterna e materna. Tempo per i suoi personali rimbrotti ci sarebbe stato ma più in là.

Seduto a un tavolino, con l'aria afflitta e persa chissà dove, fu trovato da Josh in cerca anche lui della bevanda nera e bollente, panacea di tutti i mali.

Mio padre mi ha detto che mi avresti spiegato tu il motivo della sua ira e del fatto che appena entrato nella stanza di Jensen si sia messo a urlare come un matto, facendo quasi venire un infarto a mio fratello”, esclamò Josh, sedendosi di fronte a Jared.

Come dargli torto!”, replicò Jared.

A mio padre o a mio fratello?”

A tuo padre! Se fossi entrato in quella stanza, avrei strangolato Jensen!”

Mi vuoi raccontare che accade, Jared?”, chiese il giovane, con crescente ansia e confusione.

Dalle analisi è risultato che tuo fratello è un alcolista e, a quanto pare, da lungo tempo, perché il suo fegato mostra segni di insufficienza epatica. In pratica se non smette subito, avrà bisogno di un trapianto di fegato tra breve!”, disse tutto d'un fiato Jared.

A Josh andò di traverso il caffè e iniziò a tossire con spasmi sempre più prolungati per tentare di non soffocare. Solo l'intervento provvidenziale di Jeff, fratello di Jared, appena entrato nella sala in cerca del consanguineo, impedì che un altro Ackles fosse ricoverato in terapia intensiva.

Dopo i convenevoli di rito e le spiegazioni varie, i tre iniziarono ad affrontare i vari problemi che la situazione imponeva in quel momento. Mentre Jeff leggeva tutti gli incartamenti medici che Jared doveva firmare, Josh chiedeva a Jared come lui non si fosse accorto del problema 'alcol' di suo fratello.

Dopo il lavoro, non ci frequentiamo più come prima. Capita di andare a qualche festa ma poi ognuno va per la sua strada e comunque sul set è sempre sobrio oppure non se ne fa accorgere!”, spiegò Jared, cercando di capire come avesse fatto in un anno a ridursi a quel modo.

Prima del matrimonio non beveva così tanto, vero?”, chiese Josh, angosciato.

Ha sempre bevuto ma solo alle feste. Durante la settimana o quando lavorava era sobrio e te lo posso giurare perché ero lì ventiquattro ore su ventiquattro”, esclamò Jared, accalorandosi nel parlare, come se tentasse di difendersi da un'accusa ben delineata.

Jared, guarda, qui nessuno ti accusa di niente”, replicò Josh, dando alcuni colpetti di incoraggiamento sulla mano di Jared, vedendo l'espressione disperata dipinta sul volto del più giovane.

Jeff tirò su la testa dai documenti che stava avidamente leggendo e scambiò un'occhiata preoccupata con Josh. Sguardi di intesa fra fratelli maggiori...Jared doveva essere tranquillo e con la mente inchiodata su quella situazione. I sensi di colpa erano deleteri.

Avrei dovuto immaginarmelo...”, ribatté Jared, affranto, mentre attorcigliava nervosamente tra le dita le ciocche di capelli, così lunghe che gli arrivavano quasi sulle spalle.

Allora, sentite”, esclamò, all'improvviso Jeff, in parte per allentare quel momento di oppressione che stava per avviluppare tutti e tre i presenti e dall'altro lato per informarli di quanto aveva appreso: “ho letto attentamente tutto quello che c'è scritto qui. Io sono solo un ortopedico ma direi che la situazione è quella descritta dal dottor Mitchell. Abbastanza grave da giustificare un coma farmacologico”

Quali rischi ci sono?”, chiese Jared, un po' più lucido e attento.

Ha una piccola percentuale di rischio, direi un cinque per cento di probabilità che si svegli con danni neuro-cerebrali e un uno per cento che non si svegli affatto”, spiegò Jeff Padalecki ma quando vide le espressioni allarmate di Josh e di Jared, si affrettò ad aggiungere: “ ma questo può succedere solo in casi eccezionali di persone anziane con precedenti ictus. Non è il caso di Jensen, ovviamente!”

Ah, bene. Allora lo firmerò”, esclamò, Jared sollevato.

Qui in ospedale conosco un ottimo neurologo. Sentiremo anche il suo parere. Lo dobbiamo vedere tra dieci minuti e così vi spiegherà la procedura del sonno artificiale. Poi Jared trarrai le tue conclusioni e insieme a Josh deciderai se firmare o meno”, spiegò Jeff con calma a suo fratello.

Josh, sei d'accordo?”, chiese qualche momento dopo al fratello più grande di Jensen.

Si, si, per me va bene. Quarantotto ore si possono gestire bene. Magari facciamo i turni per garantire che Jensen non sia mai da solo e per impedire a chicchessia di intrufolarsi nella sua stanza. Il poliziotto all'esterno della camera è coscienzioso ma potrebbe sempre far passare qualcuno che si spaccia per uno di famiglia e poi ci ritroviamo foto di Jensen intubato su ogni rotocalco scandalistico del paese”, disse Josh Ackles.

Ok, perfetto”, esclamarono all'unisono Jeff e Jared.

Josh, vuoi che sia presente quando spiegherai la situazione ai tuoi genitori?”, chiese Jeff, rivolto al fratello di Jensen.

Si, mi faresti un piacere”, rispose quello sollevato.

Bene. Allora andiamo a parlare con il neurologo. Poi Jared porterà i fogli al dottor Mitchell e noi due andremo da tuo padre e tua madre”, esclamò Jeff, alzandosi in piedi, mentre Jared finiva di bere il suo caffè-latte ormai freddo. Poi tutti e tre si avviarono verso l'uscita.

 

 

Angolo di Allegretto

Ed eccomi qui a porvi la prima domanda: chi vorreste tra gli amici e colleghi di Jensen a fare i turni di sorveglianza con le famiglie Ackles-Padalecki durante le quarantotto ore di coma farmacologico?

Seconda domanda: il periodo del sonno indotto lo volete lungo o corto? Secondo i canoni del 'hurt/comfort' tipici delle fanfiction un po' di pathos o ansia ci stanno bene ma poi bisogna vedere dove va a finire la mia immaginazione....

Come sempre ringrazio tutti quelli che leggono, recensiscono e seguono questa storia!

A presto!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Capitolo Tre ***


Capitolo 3

 

 

Jared si avvicinò alla stanza di Jensen con il cuore in tumulto ed esitò non poco nell'entrare dentro. MacKenzie gli prese la mano e lo accompagnò fino al letto di suo fratello.

Grato per quel gesto, Jared diede un bacio sulla guancia della ragazza, la quale arrossì di piacere. Poi il giovane diresse il proprio sguardo verso il suo amico: le bende che avvolgevano la testa di Jensen rendevano il suo pallore ancora più accentuato. Il viso, incorniciato dalla solita barba che si faceva crescere durante le vacanze estive per non assomigliare al suo personaggio, era pieno di tagli, dovuti all'esplosione dei finestrini durante l'impatto.

Jared notò l'espressione sofferente di Jensen, il quale esternò un pallido sorriso nel vedere accanto a sè il suo migliore amico. Ma le labbra tirate e gli occhi velati dalle lacrime erano indice di estremo disagio, inoltre Jensen cercava con piccoli e impercettibili movimenti di spostarsi ma non ci riusciva a causa del dolore lancinante alle costole fratturate.

Jared si chinò verso di lui, chiedendogli sottovoce se avesse bisogno di qualcosa.

Ho male alle gambe”, disse con immenso sforzo. “Non riesco a stare più in questa posizione”, gracchiò, finendo poi senza fiato.

Jared si girò verso Josh. “Dammi un po' una mano, Josh, per favore. Ha male alle gambe. Vediamo se riusciamo a girarlo un pochino”, esclamò Jared, in preda all'agitazione, vedendo le lacrime rotolare giù lungo le guance di Jensen.

Jared, non so se riusciamo a spostarlo!”, replicò Josh, costernato visto che non sapeva bene come fare.

Jensen guardò entrambi. Era conscio del fatto che nel momento in cui lo avessero spostato, avrebbe urlato dal dolore ma non ne poteva più di stare sulla schiena. Inoltre i calcagni gli bruciavano perché strisciavano sul lenzuolo e l'attrito era intollerabile.

In quel momento Jensen si maledisse non solo per aver guidato l'auto ubriaco fradicio ma anche per il fatto di essere sopravvissuto. Se fosse morto sul colpo, sarebbe stato tutto molto più semplice....

Mentre Jared e Josh lo stavano per afferrare dalle ascelle al fine di tirarlo un po' su, entrò l'infermiera. “Cosa state facendo?”, chiese, allarmata, rivolta ai due giovani.

Ha male alle gambe. Vogliamo spostarlo un po'. Da solo non ci riesce!”, si difese Jared.

Non potete spostarlo. Ha quattro costole fratturate. Se fate un movimento mal fatto, potete perforargli un polmone!”, replicò lei, avvicinandosi al letto. “Sono, comunque, venuta a fargli l'antidolorifico”, aggiunse poi, inserendo l'ago della siringa che teneva in mano nel raccordo della flebo e iniziando a iniettare il liquido lentamente nel tubicino che andava direttamente in vena.

E' leggero, però. Non deve interferire con gli altri farmaci”, spiegò l'infermiera. Poi vedendo l'espressione di disappunto del malato, esclamò: ”Lo so che non coprirà tutto il dolore ma lo attenuerà un po'!”

Oh, un po' di dolore non gli farà male. Lo farà riflettere sul casino che ha combinato”, esclamò Alan, che era appena rientrato nella stanza, lanciando un'occhiata di disapprovazione verso il figlio minore.

Non è il momento per affrontare questo discorso, Alan!”, Donna lo ammonì. “Vado allo spaccio a prendere qualche rivista. Avete bisogno di qualcosa?”, chiese poi la mamma di Jensen, prendendo la borsa.

Donna, per favore, prenda un paio di calzini per Jensen. Ha tutti i talloni spellati”, disse Jared, tirando su il lenzuolo e mostrando tutta la parte posteriore dei piedi di Jensen arrossata.

Senz'altro”, affermò lei. Poi andando vicino a suo figlio, gli chiese se avesse bisogno di qualcosa ma lui si era assopito.

Io vado a casa, invece. Torno più tardi. Jared, Josh, spiegate la situazione a Jensen e poi mettetevi d'accordo per i turni” ordinò ai due giovani che erano ancora accanto al letto del ferito. “Mac, quando tua mamma vuole rientrare, le dai un passaggio, per favore?, chiese poi rivolto alla figlia e prima che qualcuno potesse obiettare o dire qualcosa, era già fuori dalla porta.

Dopo l'uscita di Donna verso il negozio interno dell'ospedale e spedito Mac a prendere due caffè dai distributori automatici nell'ingresso del reparto, Jared e Josh iniziarono a parlare di quello che li avrebbe aspettati nelle successive quarantotto ore.

Cosa dovete spiegarmi?”, chiese Jensen, spalancando improvvisamente gli occhi, con voce sofferente.

Jeff si sedette accanto a lui e gli spiegò tutta la procedura.

Cosa vuol dire 'coma farmacologico'?”, domandò Jensen, confuso, faticando a tenere gli occhi aperti.

Verrai tenuto in condizioni di incoscienza, profondamente sedato, in modo che il cervello rimanga in stand-by e quindi dare il tempo al tuo organismo di pulirsi da tutto l'alcol che hai bevuto negli ultimi tempi”, spiegò Josh, guardando Jensen, con uno sguardo a metà strada tra il preoccupato e l'arrabbiato.

Ho dovuto firmare il consenso io perché in mezzo alla tua cartella clinica, dal Canada, è arrivato anche il 'modulo del consenso sulla privacy' e poi ho chiesto un altro parere assieme a mio fratello Jeff”, disse Jared, mettendogli una mano sul braccio, mentre si sedeva accanto a lui.

Jensen farfugliò qualcosa. “Cosa hai detto?”, chiese Jared, sporgendosi verso di lui.

Grazie, Jared. Mi dispiace per tutto sto casino. Sono un buono a nulla”, cercò di dire a voce un po' più alta Jensen ma lo sforzo fu immane.

Ci sarà tempo per le ramanzine, i rimbrotti e i calci in culo, fratellino!”, esclamò Josh, ironico.

Jensen sospirò. Era sicuro che suo fratello non avrebbe perso tempo a fargli la sua personale paternale nel momento in cui avrebbe lasciato l'ospedale. Sempre se suo padre non lo avesse ucciso prima!

Senti Jared c'è qualcuno dei vostri colleghi che può darci una mano qui?”, chiese Josh, dopo un po'. “Ovviamente che non vada poi in giro a raccontare particolari sulle sue condizioni”, aggiunse poi.

Guarda, direi che potrebbero esserci due o tre persone. Jim Beaver sicuro ma non credo possa lasciare sola la figlia per venire qui a Dallas; Misha Collins e forse Jeffrey Dean Morgan. Tutti gli altri credo stiano lavorando”, spiegò Jared, assorto. Aveva preso tra le sue mani il braccio destro di Jensen e glielo massaggiava con tocchi lievi ma ritmici. Sentiva che si stava un po' rilassando e così continuò a farlo.

Clif?', chiese Josh.

Ottimo cane da guardia ma in quanto a mantenere segreti, direi di no. E poi è conosciuto e ingombrante. Già il fatto che circolo io qui intorno è indice di dubbio, con Clif sarebbe palese”, disse Jared, sospirando.

Ok. Mi fido del tuo giudizio. Magari prova a contattare quelli che mi hai detto prima. Io chiamo Jason Manns e Christian Kane. Se solo uno di questi accettasse, potremmo fare dei turni più corti”, esclamò Josh, guardando l'orologio, per calcolare mentalmente il fuso orario di Los Angeles.

Dobbiamo pensare a chi farà il primo turno stasera, comunque!”, ribatté Jared.

Già. Bel problema. Io sono cotto!”, replicò Josh, sbuffando.

Perché dovete fare i turni?”, chiese Jensen, sempre con gli occhi chiusi ma cercando di muovere le gambe e lasciandosi sfuggire un lieve lamento.

Vuoi che te le massaggi un po'?”, chiese Jared, sollevando il lenzuolo.

Jensen non rispose ma annuì.

Non possono metterti in rianimazione perché lì, malati, medici, infermieri e parenti vari ti vedrebbero e sicuramente qualcuno ti riconoscerebbe. Cerchiamo di mantenere un minimo di privacy”, rispose Josh alla domanda di suo fratello. “Per cui ti terranno qua e uno di noi sarà sempre qui con te anche se dovremmo essere in due, in modo che se uno volesse andare a farsi un giro o a fumarsi una sigaretta, l'altro potrebbe stare qui”, aggiunse poi Josh, alzandosi in piedi e iniziando a girare per la stanza.

Non è ancora uscita la notizia?”, chiese Jensen, osservando di sottecchi i movimenti di Jared sulle sue gambe così indolenzite.

No, papà ha chiesto all'ospedale di mantenere la tua privacy al massimo livello e fino adesso non è trapelato nulla. Certo, non durerà a lungo...”, rispose Josh.

Ho informato Michaels e mi ha detto che, assieme agli altri produttori, faranno uscire un comunicato stampa alle sei, dove diranno che hai avuto un incidente e sei in coma farmacologico. Senza aggiungere né dove sei, né le modalità dell'incidente e poi verranno pubblicati i bollettini medici due volte al giorno”, spiegò Jared.

Jensen annuì, ormai troppo stanco e provato per parlare. Il dolore era intollerabile e si ritrovò a sperare che quel sonno artificiale arrivasse il più presto possibile.

Cerca di riposarti un po' ora, Jensen!”, ordinò suo fratello, mentre Jared rimetteva a posto le lenzuola e si sedeva accanto a lui.

In quel momento entrò Mac con i due caffè.

Pensavo fossi andata direttamente alle piantagioni di caffè in Brasile”, disse Josh ironico.

Spiritoso!”, esclamò lei, passandogli un bicchiere di cartone ricolmo di un liquido scuro e bollente. “Il distributore non funzionava. Sono andata alla caffetteria”, aggiunse poi passando l'altro a Jared, il quale la ringraziò con un cenno del capo.

Mentre Jensen sembrava più tranquillo, Josh spiegò la situazione anche alla sorella, la quale man mano che apprendeva i particolari sembrava sempre più agitata e sconvolta.

Perciò ci sarà bisogno anche del tuo aiuto nei turni. Jared chiamerà Megan così potreste stare assieme durante quelle ore. Ok?”, aggiunse suo fratello maggiore.

Va bene”, rispose la ragazza, asciugandosi le lacrime che le scendevano giù copiose dagli occhi. “Siete sicuri che non ci saranno rischi per questo coma?”, domandò poi rivolta ai due giovani.

Il neurologo contattato da mio fratello ha assicurato che i rischi sono minimi e comunque sono legati a quanto starà inattivo. Potrebbero esserci problemi al risveglio con fenomeni di amnesia o irritabilità ma tutto si risolve nel giro di poche ore. Bisogna stare tranquilli e fare quello che ci dicono i medici!”, rispose Jared, abbracciando la ragazza.

Di Danneel avete notizie?”, chiese Jensen all'improvviso.

Ma non stavi dormendo?”, lo sgridò Jared, girandosi verso di lui.

Secondo te, è possibile dormire con quattro costole fratturate? Quando inspiro è come se fossi trafitto da mille chiodi!”, rispose Jensen, con fatica e finendo quasi senza fiato.

Non parlare, Jensen!”, esclamò MacKenzie, mettendogli una mano sulle gambe.

Se avessi pensato ieri sera, ora non saresti conciato in questo modo....”, affermò aspro Josh.

Oh, ti prego non ti ci mettere anche tu. Già c'è papà che sembra un limone spremuto e rinsecchito....”, esclamò la sorella.

Tutti risero e Jensen, per lo sforzo di non farlo, andò in iperventilazione.

Oh, cacchio Josh, chiama un'infermiera!”, gridò Mac, vedendo diventare il viso del fratello sempre più rosso per lo sforzo di inalare aria, nonostante i suoi respiri fossero sempre più lunghi e profondi.

Aspetta, Josh. Serve un sacchetto. Di carta, possibilmente”, esclamò concitato Jared, vedendo Josh già con la mano sul pulsante di emergenza. Poi girò lo sguardo intorno alla stanza alla ricerca di quel particolare oggetto. Lo vide sul tavolino sotto la finestra dove stava la borsa con gli effetti personali di Jensen.

Lo prese e mise l'apertura sulla bocca e sul naso di Jensen, mormorandogli di respirare là dentro. “Non è pericoloso di per sé ma a lungo andare si irrigidiscono i muscoli del diaframma e può provocare in lui un movimento involontario alle costole che non può permettersi in questo momento. Respirando nel sacchetto mette in circolo anidride carbonica e questo lo calma e lo rilassa”, spiegò, faceva alternare la respirazione a Jensen un po' con il sacchetto e un po' senza.

Uao, sul set di Supernatural seguite corsi di medicina?”, chiese Mac impressionata.

No, ma in quelle migliaia di battute che dobbiamo studiare c'è, a volte, qualcosa di utile”, rispose Jared, ridacchiando, più tranquillo vedendo riprendere una colorazione normale al viso di Jensen.

Poco dopo tutto era calmo. Un medico era entrato per prendere alcuni parametri vitali e aveva annunciato che di lì a mezz'ora sarebbero venuti a prenderlo per effettuare la procedura. Josh chiese come mai non potevano farlo lì in camera e il medico gli spiegò che veniva effettuato in sala operatoria per poter usare la strumentazione necessaria e solo dopo che era stato stabilizzato lo avrebbero riportato in camera.

Jensen respirava abbastanza tranquillo ma era agitato.

Jen, che succede?”, chiese Jared, facendogli una carezza sul viso.

Al tocco di Jared, aprì gli occhi.

E' aumentato il dolore”, disse con voce flebile. “Danneel?”, chiese poi.

Non l'abbiamo più vista. Ha lasciato il cellulare in casa ieri sera, prima di andare al concerto di Steve. Tu non l'hai vista là?”, chiese Josh, ma poi si affrettò ad aggiungere: “Rispondimi solo con un cenno della mano destra!”

Si, l'ho vista ma poi è sparita!”, rispose a parole invece Jensen.

Josh scosse la testa con disapprovazione, sia verso il fratello che non gli obbediva sia verso la cognata.

Non si è fatta più vedere? Da ieri sera?”, domandò Jared, incredulo.

Uscirà fuori dopo il comunicato stampa, vedrai...”, ribatté Josh.

Oh, si. Reciterà la parte della povera moglie, preoccupata e straziata per la sorte del suo povero marito in fin di vita...”, disse, con enfasi, MacKenzie.

E cosa è? Via col Vento?”, bofonchiò Jensen.

No. E' Danneel Harris in Ackles”, rispose Josh, sarcastico.

Ah, giusto. Tendo a dimenticare che è un'attrice anche lei”, replicò Jensen, con un filo di voce.

Seee...attrice...”, ribatté Mac, sghignazzando.

Poi Jensen si addormentò e loro tre continuarono a parlottare fra di loro.

Nel momento in cui due infermieri stavano portando via Jensen, manovrando il suo letto con le rotelle, arrivò Donna. Rimase impalata nel corridoio, con uno sguardo smarrito vedendo quel trambusto. Ciò fece staccare Josh dal fratello per andare a confortare la madre. Jared, con gli occhi velati dalle lacrime, si sporse verso Jensen e fregandosene altamente dei barellieri, lo baciò sulle labbra. Jensen aprì leggermente le palpebre, lo fissò e gli sorrise.

Ci vediamo fra qualche giorno!”, mormorò con la voce impastata dalla sofferenza e dall'intensa emozione che aveva in quel momento.

Si. Certo. Non vedo l'ora di vedere quanto brontolerai...”, disse Jared, facendogli un ultima carezza.

Jensen alzò la mano destra verso Jared, il quale gliela afferrò e se la portò al cuore. Poi si chinò nuovamente e lo baciò sulla fronte, bisbigliando un 'ti amo' intriso di disperazione, apprensione e sentimenti repressi troppo a lungo.

La mano di Josh sulla spalla, lo costrinse a staccarsi da quel letto e a lasciare che portassero via quella persona così importante per lui. Gli occhi di Jensen non si staccarono da lui, finché non fu dentro all'ascensore.

Per evitare di scoppiare a piangere davanti a tutti, Jared scappò giù per le scale e si fermò solo nel parcheggio, dove diede libero sfogo alle lacrime.

L'attesa fu snervante. Una parte di loro nel corridoio davanti alle porte blu che conducevano all'area delle sale operatorie e l'altra in un salottino lì vicino. Jared, nell'anticamera con Josh e Jeff, aveva telefonato sia a Misha Collins che a Jim Beaver. Entrambi si erano dichiarati liberi da ogni impegno e disponibili ad aiutare. L'unico problema era la figlia di Jim, in quanto non sapeva a chi lasciarla. Perciò Josh aveva detto di portarla lì da loro. Sarebbe stata con sua moglie e i suoi figli. Jim e Misha avrebbero preso il primo aereo in partenza da Los Angeles e sarebbero arrivati in serata a Dallas.

Nella sala di attesa campeggiava un grosso televisore a cristalli liquidi, attaccato al muro. Era acceso su un canale texano che forniva notizie ventiquattrore su ventiquattrore. Aveva l'audio molto basso ma quando alle sei e un quarto una giornalista interruppe la trasmissione di un dibattito politico, per annunciare che era arrivata una notizia in studio, il nome 'Jensen Ackles' si sentì chiaramente. Donna scoppiò in lacrime e corse fuori dalla stanza e poco ci mancò che facesse la stessa fine anche Jared.

Poco dopo ripresero le trasmissioni, ma nella striscia collocata in basso nel televisore dove scorrevano le notizie, si poteva leggere chiaramente questo messaggio: 'Il noto attore Jensen Ackles, star dello show Supernatural, è rimasto vittima di un incidente stradale ed è ora in coma farmacologico a seguito di un trauma cranico. Non si hanno ancora notizie precise sulle dinamiche dell'accaduto né dove sia ricoverato'

Dieci minuti dopo l'uscita del comunicato, il cellulare di Jared divenne bollente. Tutti cercavano di contattarlo per avere notizie. Dovette allontanarsi per poter parlare liberamente e avere un minimo di tranquillità.

Quando rientrò nel salottino, Josh esclamò: “Alla faccia dell'essere richiesto, Jared. Ci mancava che ti chiamasse il Presidente ed eravamo a posto”

Fidati, manca proprio Obama e poi hanno telefonato tutti!”, replicò lui, sedendosi di schianto su una seggiola che cigolò sinistramente. “Oltre tutto ho anche il cellulare scarico. Non mi sono ricordato di portarmi il caricatore a dietro, maledizione!”

Si, quei telefoni lì durano poco. Quanto rimpiango quelli di dieci anni fa. Erano indistruttibili e duravano una settimana”, esclamò Jeff, sospirando.

Chiedo a Mac di andare a casa a prendere anche il mio. Anche io sono quasi agli sgoccioli”, disse Josh, uscendo dalla sala.

Come ti senti?”, chiese poi Jeff a suo fratello.

Mi sembra di vivere in un incubo. Vorrei svegliarmi ma non ci riesco. Mi...mi sento svuotato da ogni energia e non credo di riuscire a reggere tutta questa tensione”, rispose Jared, prendendosi il viso tra le mani.

Quando lo porteranno in camera, andrai a casa a dormire. Vedrai che domani mattina, ti sentirai meglio!”, esclamò Jeff, mettendogli una mano sulla spalla. “Andrà tutto bene. Jensen è forte come un toro!”, aggiunse poi, abbracciandolo.

Intorno alle sette uscì fuori il dottor Mitchell. Il suo viso era stanco ma non appena vide Jared e Jeff sorrise. Entrambi i giovani si rilassarono di colpo.

Tutto bene. La procedura è stata portata a termine. Abbiamo ridotto l'energia al cervello. La sedazione è stata effettuata con Propofol che usiamo per l'anestesia generale. Perciò, nel momento in cui ridurremo la posologia, il paziente si risveglierà. Questo lo faremo abbastanza spesso per verificare le varie funzioni ma anche per controllare il riassorbimento dell'ematoma subdurale che, vi ricordo, è sempre presente”, spiegò il medico, non appena anche i genitori di Jensen si unirono al crocicchio di persone nell'anticamera delle sale operatorie.

Quando lo trasferite?”, chiese Donna, ansiosa di poter rivedere suo figlio.

Tra un paio di ore. Non appena saranno spostati tutti i macchinari nella stanza, su in neuro-chirurgia”

Quanto dovrebbe durare questo coma indotto?”, domandò Alan.

Dipende da quanto ci metterà l'ematoma a riassorbirsi e il fegato di Jensen a ripulirsi. Noi usiamo periodi di quarantotto ore come riferimento perché è verso la fine di questo periodo in cui noi abbassiamo il livello dei barbiturici che vengono usati per la sedazione. Quindi non posso dirlo a priori, purtroppo. Dipende dal metabolismo di suo figlio”, spiegò il medico molto pazientemente.

Barbiturici? Quindi droghe?”, chiese Josh, confuso. “Non è pericoloso? E comunque non andrà ad aggravare la situazione della dipendenza di mio fratello?”

Dipende da quanti giorni rimarrà in stato d'incoscienza. Cioè quanto sarà l'ammontare del farmaco accumulato nel suo organismo”, rispose il medico. “State tranquilli. E' una procedura che facciamo tutti i giorni e in pazienti di tutte le età e condizioni di salute. Jensen ha sì qualche problema a livello epatico, ma è giovane e forte. Abbiamo parlato di rischi, ma sono remoti”, affermò il dottore vedendo la preoccupazione nei volti dei parenti e amici del suo paziente. “Io sono a vostra disposizione per qualsiasi dubbio voi abbiate. Io farò sempre riferimento a Jared”, disse il dottore, rivolgendo lo sguardo verso il giovane più alto dei presenti, “ma voi potete fermarmi o venirmi a cercare per qualsiasi chiarimento. Va bene?”, concesse poi l'uomo in camice azzurro.

Tutti annuirono, mentre il medico ritornava nel settore operatorio.

Josh abbracciò sua mamma, mentre Jared cercava di confortare Alan, parlandogli sottovoce.

Il distributore automatico di bevande calde fece gli straordinari in quelle due ore di attesa snervante.

Dovranno ricoverare anche me per depurarmi il fegato, dopo aver bevuto questa schifezza che sgorga da quella macchina infernale”, dichiarò Jeff, trangugiando, per l'ennesima volta, un sorso di caffè nero da un bicchiere di plastica.

A che ora arrivano Jim e Misha?”, chiese Josh, avvicinandosi a Jeff e a Jared, nel salottino dove c'era il televisore acceso sulla rete informativa con la stessa angosciante e ripetitiva frase nella striscia nella parte inferiore dello schermo.

Alle undici”, rispose Jared, controllando il telefono, per vedere se erano arrivati altri messaggi. Per fortuna, Mac li aveva riforniti di ricaricatori e ogni presa elettrica era stata presidiata durante quelle ore.

Li vado a prendere io. Saranno stanchi, però. Chi fa il primo turno?”, chiese Josh, passandosi una mano sugli occhi arrossati.

Sta arrivando Megan. Ci stiamo noi due fino a domani mattina”, esclamò MacKenzie, passando loro delle fette di torta di mele che aveva portato da casa.

Ottimo. Poi domani facciamo un piano di battaglia!”, esclamò Josh, sollevato.

Prenderò qualche giorno di ferie. Così posso dare una mano anche io”, dichiarò Jeff.

Grazie per la tua disponibilità”, affermò, Josh, grato per la presenza del giovane.

Figurati. Jensen è come se fosse mio fratello e lo stesso vale per te”, replicò Jeff, dando una pacca sulla spalla di Josh.

Alle nove un'infermiera li avvisò che Jensen era stato portato nella sua camera e che uno di loro poteva vederlo. Tutti abbandonarono quella postazione per riversarsi nel reparto al secondo piano.

I primi a entrare furono Josh e Jared. Donna disse loro che avrebbe aspettato di entrare. Era ancora troppo sconvolta e preferiva vederlo l'indomani mattina, più riposata e rilassata. Alan non disse nulla ma annuì sentendo le parole della moglie.

Quando Jared fece il suo ingresso nella stanza e vide Jensen circondato da tutti quei macchinari, con quel tubo che gli usciva dalla bocca e sentendo il rumore ritmato del respiratore automatico, ebbe un violento capogiro e solo la salda presa di Josh sul suo braccio evitò che cadesse lungo disteso a terra.

Lo so, Jared. Anche a me fa impressione ma è indotto dai medici e vedrai che presto lo avremo di nuovo fra i piedi a rompere le scatole”, esclamò, calmo, Josh. “Anche a me turba vederlo in quello stato, ma so che è per il suo bene!”, aggiunse poi, dando un buffetto affettuoso sulla guancia del più giovane.

Jared annuì senza proferire parola. Il suo sguardo era fisso su tutti quei tubi che entravano e uscivano dal corpo di Jensen e quando si avvicinò a lui, anche il tracciato dell'elettrocardiogramma lo emozionò. A fatica ricacciò indietro le lacrime.

Dopo averlo baciato sulla fronte e avergli sussurrato alcune parole, uscì fuori dalla stanza. Là fuori trovò sua sorella minore, Megan, appena arrivata da San Antonio. La abbracciò ma non disse nulla. Voleva andare a casa e stare un po' da solo. Quella giornata era stata lunga ed esasperante. Tutta la sua esistenza era cambiata in quelle ore. Se in passato si era arreso senza combattere, ora era determinato a lottare per quello che riteneva essere fondamentale per la sua vita. Quando Jensen si fosse ristabilito, Jared lo avrebbe convinto a seguire quell'esistenza che avevano entrambi rinnegato per accontentare tutti gli altri. Mentre andava verso casa Ackles nell'auto di Alan, benedisse quell'incidente. Forse era proprio quello che aveva cercato Jensen. La soluzione ai suoi problemi. Si augurò solo che quella situazione non peggiorasse ulteriormente.

 

Angolo di Allegretto

Lo so, è un capitolo particolarmente angosciante. Ma doveva essere fatto così, secondo me. Qui i sentimenti sono molto importanti.

Mi è stato chiesto di essere piuttosto accorta per quanto riguardava la terminologia medica e sono stata contenta di aver esaudito questa richiesta. Ho consultato alcuni tomi sulla terapia neurologica e tempestato di domande alcuni medici. Spero di essere stata esauriente. Comunque altri particolari verranno svelati con il proseguo della storia.

Questa volta ho un solo quesito da porvi:

  • come volete che venga svolto il ruolo dei 'nostri' guardiani? Un ruolo passivo, ovvero passare il tempo a chiacchierare e magari svelare particolari sulla storia d'amore tra Jensen e Jared oppure un ruolo attivo, tipo impedire fisicamente l'irruzione di qualche paparazzo nella stanza di Jensen?

Come sempre ringrazio sentitamente quanti hanno letto e recensito questa storia. Soprattutto tutte voi che avete risposto alle mie domande e datomi preziosi consigli. Vi invito a farlo sempre più numerose.

A presto!!

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Capitolo Quattro ***


Capitolo Quattro

 

Misha, Jim, sono contento siate potuti venire qui con così poco preavviso a darci una mano!”, esclamò Josh andando incontro ai due uomini, nel parcheggio dell'aeroporto internazionale di Dallas.

Ma scherzi? Jensen non è un semplice collega. Per un amico, questo e altro!”, esclamò Misha, stringendo la mano al fratello di Jensen.

Jensen è come un figlio per me, perciò è naturale che io sia qui, anche se ho dovuto alterare i miei progetti estivi, ma per lui e la vostra famiglia vale il sacrificio!”, dichiarò Jim, con solennità.

Josh lo abbracciò, commosso.

Questa è Maddie, Josh. Mia figlia. All'inizio è chiusa e riservata poi quando capisce di avere un uditorio consapevole, non starà zitta un attimo”, aggiunse Jim, spingendo in avanti una recalcitrante ragazzina che cercava di stare dietro al padre. “Perciò approfittate di questo momento”, aggiunse Jim, mettendo un braccio sulle spalle della figlia.

Ciao, Maddie. Benvenuta!”, esclamò Josh alla piccola, la quale sorrise timidamente.

Si vede che siete fratelli tu e Jensen. Vi assomigliate molto!”, esclamò lei.

Vorrei che mi assomigliasse un po' di più nel carattere”, replicò lui, sospirando, mentre metteva le valigie dei suoi ospiti nel bagagliaio.

Come sta quello sciagurato?”, chiese Jim, mentre si sedeva dietro con sua figlia.

Si, hai ragione. Proprio uno sciagurato”, rispose Josh, entrando in macchina. “Non bene. E' in coma farmacologico a causa del danno epatico. Ci hanno detto che forse ci vorranno più di quarantotto ore....Vederlo in quelle condizioni è sconvolgente”, aggiunse poi, sconsolato.

Immagino”, disse Misha, seduto accanto a Josh. Guardava fuori dal finestrino le luci notturne della caotica città texana. “Come l'ha presa Jared?”, chiese poi.

Uh, male. Proprio male. Povero ragazzo”, rispose Josh.

Misha e Jim scrollarono la testa, dispiaciuti.

La strada a scorrimento veloce che collegava l'aeroporto alla centro della città era trafficata anche alle undici di notte. Molte auto erano dirette ai numerosi locali della zona dei night-club e alcuni di loro avevano un'andatura non propriamente esemplare. La mente di Josh iniziò a focalizzarsi su quello che era successo a suo fratello e ovviamente quello fece aumentare il suo nervosismo. Decise di spiegare ai suoi ospiti la loro sistemazione per distogliere la sua mente da quei pensieri negativi.

Per il vostro soggiorno mia madre ha insistito perché Maddie stia da lei.”, esclamò Josh, ad un certo punto. “Ha requisito una casa di fronte alla sua. E' di una sua amica la quale ora è in Europa con il marito. Così avete un posto dove riposarvi fra un turno e l'altro e sicuramente non dovrete tirare a sorte per il letto. Di giorno Maddie starà con mia moglie e i miei figli, così non si annoierà”, aggiunse.

Tua moglie non sta aspettando un bambino?”, chiese Misha, mentre controllava le email sul suo telefono.

Si, il terzo, ma è una donna abituata a lavorare fino a quasi al giorno del parto. A volte devo fingere di arrabbiarmi per farla un po' riposare”, ghignò Josh.

Una donna eccezionale. La mia non fa altro che lamentarsi”, sospirò l'attore più giovane.

Ah, giusto. Anche voi avrete presto un bimbo”, esclamò Josh. “Quando dovrebbe nascere?”

Metà settembre”, rispose Misha. “E il tuo?”, chiese poi.

Più o meno lo stesso periodo!”, rispose l'altro.

Ah, bene. A proposito di mogli...Danneel?”, domandò, nuovamente, Misha.

Quella donna è una sciagura...non si è ancora palesata”, dichiarò Josh, oscurandosi in volto al pensiero della cognata.

So che non l'apprezzi, Josh, ma non è malvagia come sembra. Per certi versi è il meglio che poteva capitare a Jensen...”, esclamò con convinzione Jim.

Sarà ma una moglie dovrebbe stare accanto al proprio marito in questi casi”, replicò il fratello di Jensen.

Lo so ma lei non è proprio ma moglie nel senso vero e proprio del termine...li lega l'affetto, l'amicizia ma null'altro e poi Jensen non è facile da gestire...lo togli dalla sua routine e lui schizza”, disse Jim, quasi sovrappensiero.

Già, a volte quando litigano loro due, Jensen mi fa paura”, replicò Misha.

Cosa cercate di dirmi?”, chiese Josh, confuso, voltandosi verso i suoi interlocutori. La sua mossa, però, causò quasi un tamponamento. Il giovane riuscì a frenare in tempo per evitare di andare a sbattere contro un'altra auto. “Idiota, stai attento! Come guidi?”, urlò poi, verso l'altro guidatore, mostrando così la sua stanchezza e angoscia.

Si, Danneel cerca di amministrarlo senza farlo irritare e di solito ci riesce abbastanza bene. Lei e Jared fanno un lavoro egregio e a volte non so proprio come facciano a sopportarlo per quanto sia rompiscatole”, rispose Misha, chiedendosi quanto ancora fosse lontana la casa degli Ackles, preoccupato per la guida un po' sventata di Josh.

Forse è così e sono il primo a dire che con mio fratello ci vuole qualcuno che si sappia imporre ma lei è stata troppo arrendevole, gli ha fatto fare quello che voleva e non si è neanche degnata di avvertire la famiglia che suo marito stava mettendo a repentaglio la sua vita, perché si è accorto che la scelta fatta non lo rendeva felice!”, esclamò in crescendo Josh, fino quasi a urlare.

Jim lanciò un'occhiata angosciata a Misha attraverso lo specchietto retrovisore e poi mise una mano sulla spalla di Josh: “Adesso ci siamo noi. Vedrai che tutti insieme troviamo una soluzione!”, esclamò, poi, cercando di essere il più rassicurante possibile.

Il giovane non disse nulla ma annuì. Poco dopo imboccarono il vialetto della casa paterna di Jensen e dopo aver fermato, Josh scese dall'auto e scusandosi, entrò in casa, lasciando Jim e Misha da soli a domandarsi se lo stato d'animo degli altri fosse così o peggio.

Furono raggiunti da Donna ed Alan che li fecero accomodare in casa, continuando a ringraziarli per aver accettato il loro invito.

Il mattino dopo vi fu una riunione informativa fra tutti quelli che avrebbero partecipato ai turni. Dopo gli abbracci e i saluti fra Jared e i suoi colleghi, Alan, incaricato di tenere la contabilità dei componenti dei turni e degli orari, informò tutti che le persone disponibili erano otto compreso lui stesso, tralasciando la moglie che sarebbe rimasta a casa a coordinare le vettovaglie.

I gruppi sono quattro. Quindi turni di sei ore. Poi uno può andarci prima o dopo. Non ha importanza. Basta che in camera ci sia sempre qualcuno”, spiegò Alan, facendo vedere uno schema a forma di tabella che aveva fatto con il computer. “Jeff, grazie per aver deciso di restare e consumare i tuoi giorni di ferie qui con noi! Lo apprezziamo molto!”, dichiarò poi commosso. Jeff annuì, anche lui con gli occhi lucidi.

Mia moglie ha suggerito di non fare coppie fisse, in modo che si possa poter passare il tempo chiacchierando fra di noi e viene meglio se le persone sono diverse. Siete d'accordo?”, riprese il decano della famiglia Ackles.

Tutti annuirono.

Bene. In ospedale c'è ora mia figlia Mac con la sorella di Jared, Megan. Tra poco potremo andare Jared ed io, per rilevarle e vedere se i medici devono riferire qualcosa. Alle due, Jim e Jeff e alle otto Misha e Josh”, disse Alan, continuando a consultare lo schema che poi consegnò a ognuno di loro.

Se Misha e mio figlio non sono troppo stanchi, stasera possono rimanere in ospedale fino alle sei di domani mattina, quando Jim ed io li sostituiremo. Se no dico a Megan e a Mac di fare di nuovo la notte”, concluse Alan.

Si. Non c'è problema, papà”, esclamò Josh. Poi rivolto a Misha: “Per te va bene?”

Si, si, nessun problema”, rispose quello, annuendo convinto.

Mezz'ora dopo Alan e Jared erano al capezzale di Jensen.

La notte era passata tranquilla, li informarono le ragazze, le quali erano stanche per la notte insonne ma serene per l'andamento della situazione.

Jared si allontanò per andare a parlare con i medici, mentre Alan spiegava alla figlia e a Megan la faccenda dei turni.

Ok, papà. Va bene”, lo rassicurò Mac, “Senti, ogni tanto entrano delle infermiere per controllare le flebo, i tubi e i monitor. Benché ce lo chiedano sempre e a volte in malo modo, una di noi è stata sempre qui dentro. Non si sa mai. Cercate di farlo anche voi. Non fatevi buttare fuori. Potrebbero sempre tirare fuori un cellulare e scattare alcune foto”, aggiunse, poi, finendo di bere lo caffè che le aveva portato Jared.

Una di loro era tutta eccitata perché doveva cambiare il pannolone a Jensen...pensa un po'...replicò, sdegnata, Megan.

Pannolone?”, chiese Jared, sorpreso, appena rientrato nella stanza.

Ebbene si. Ehehe, ho fatto due foto appena sono rimasta sola. Così quando rompe, lo minaccio di pubblicarle sulla rete!”, ghignò la sorella di Jensen.

Idea interessante, Mac. Lo farò anche io”, sghignazzò Jared, avvicinandosi al letto.

L'espressione di Jensen era calma. Jared notò che era stato sbarbato e i suoi lineamenti apparivano ancora più giovanili del solito. Le lentiggini spiccavano come stelle in un cielo notturno completamente terso.

Il ritmo del respiratore faceva muovere il tubo che fuoriusciva dalla sua bocca e anche se era legato da una parte con una striscia di nastro adesivo, quello si spostava comunque come se avesse avuto vita propria. Era ipnotizzante e dava l'impressione che Jensen dovesse svegliarsi da un momento all'altro.

Jared osservò tutti i tracciati sui monitor e anche se non capiva nulla di quanto significassero, era lieto di vederli. Le linee verticali, diagonali e orizzontali del cuore e dell'encefalo continuavano imperterrite a essere rilevate e i bollini verdi accanto ad esse erano meglio di un toccasana.

Non sapendo bene cosa fare, gli mise a posto il lenzuolo e la leggera coperta che lo ricoprivano, poi gli tastò le mani. Erano tiepide. Accarezzò le dita e giocò per un po' con la sua fede: di oro giallo, semplice. Erano andati insieme a comprarla, dopo che quella ufficiale l'aveva persa sul set. E si era chiesto tante volte se quella originale, di Cartier modellata a mano e comprata dal fratello, testimone di nozze, con inciso il nome di Danneel e la data del matrimonio, l'avesse persa veramente o l'avesse gettata via in uno scatto d'ira.

Rimase lì finché Alan non rientrò nella stanza dopo aver accompagnato le ragazze giù fino all'entrata. Gli mise una mano sulla spalla e lo scosse leggermente. Gli aveva portato del caffè-latte e un pacchetto di biscotti.

Non hai fatto colazione stamattina e Jensen dice sempre che ne fai una piuttosto corposa”, disse Alan, sedendosi dall'altra parte del letto di suo figlio.

Jared annuì in segno di ringraziamento e bevve con sollievo un sorso di quella bevanda.

Poco dopo Alan ricevette la telefonata di sua moglie che lo avvisava che stava per abbattersi un ciclone sull'ospedale. L'uomo sbuffò innervosito e borbottò qualcosa di incomprensibile. Pochi minuti più tardi, la quiete fu interrotta da una porta spalancata all'improvviso e una Danneel tutta scarmigliata e urlante, si riversò nella stanza.

Perché sono dovuta venirlo a sapere dalla televisione che Jensen aveva avuto un incidente?”, tuonò la donna, avvicinandosi al letto di Jensen, senza degnare di uno sguardo i due uomini. Poi rivolse la sua attenzione verso il marito, assumendo un'espressione preoccupata e contrita. Jared e Alan si chiesero se fosse dovuto alle sue qualità di attrice o fosse un sentimento genuino.

Cosa è questa storia del documento sulla privacy di cui mi ha parlato Donna? Sono sua moglie e solo io posso autorizzare gli interventi medici”, chiese a Jared, poi, risentita.

No. Quel documento è fatto proprio per evitare queste situazioni. Io sono sempre raggiungibile, tu no”, esclamò Jared, alzandosi in piedi di scatto.

Oh, Jensen sa sempre dove sono”, ribatté lei acida.

Magari Jensen aveva altro a cui pensare che non il luogo dove potessi essere”, esclamò Alan, sbuffando. “Vado a fare un giro, Jared”, aggiunse il padre di Jensen, non nascondendo il suo nervosismo.

Tua suocera ti ha spiegato la situazione?”, chiese Jared alla moglie di Jensen, mentre finiva di bere il suo caffè-latte.

Si”, rispose lei, facendo una carezza sul volto addormentato del marito. “Glielo avevo detto che, secondo me, beveva troppo”, aggiunse lei, commossa.

Fare qualcosa, no?”, domandò, ironicamente, Jared.

Sai, benissimo che far fare qualcosa a Jensen su cui lui non sia d'accordo, è impossibile, Jared!”, rispose lei, divertita.

Certo ma potevi avvisarmi!”, replicò lui, lanciandole un'occhiata di fuoco.

Sei con lui nove mesi all'anno!...forse eri tu che dovevi dartela, no?”, ribatté lei, tentando di difendersi. “Lo vedo solo nei fine-settimana quando rientra a Los Angeles e ciò non accade sempre, comunque. A parte il tempo in cui dorme, il resto lo passa con Steve, Jason e gli altri amici a giocare a golf o andare ai party”, aggiunse, poi, sedendosi accanto al letto.

Appunto. Vuoi dirmi che non si ubriacava alle feste? Dirgli di smettere, no?””, urlò Jared, esasperato.

Ma stiamo parlando dello stesso Jensen?”, sbottò lei, incredula. “Quello che conosco io è capace di sbatterti il cellulare nel cesso o di tirarmi qualche vaso di cristallo addosso, solo per il fatto di dirgli cosa deve o non deve fare!”, continuò sullo stesso tono la donna. “Eh lo sai benissimo, Jared! Sei stato testimone svariate volte della sua collera sia verso di me che nei tuoi confronti!”, concluse poi.

Si, lo so. Tollerante ma fino a un certo punto”, ammise Jared.

Negli ultimi tempi il termine 'tolleranza' non era più nel suo vocabolario...”, mormorò Danneel, guardando Jensen con uno sguardo a metà tra l'affettuoso e l'irato.

Comunque questa conversazione lascia il tempo che trova! Sei venuta per rimanere e dare una mano o hai intenzione di sparire come al tuo solito?”, chiese, acido, Jared.

Devo tornare a Los Angeles. Ho un'audizione domani”, rispose lei, sottovoce.

Chissà perché non sono sorpreso”, disse Jared, sospirando.

Jensen è impazzito per farmi avere questa opportunità. Non andarci sarebbe scortese nei suoi confronti”, ribatté lei.

Certo, Danneel, certo”

Sempre la solita gelosia, vero, Jared?”, esclamò lei ironica.

Non è una questione di gelosia, Danneel. E' buon senso. Sei sua moglie. Questo è il tuo posto!”, replicò il giovane, scandendo ogni parola e sottolineandole con un colpo di dita sulla superficie del tavolo accanto a sé. “E cosa dirai alla stampa quando si accorgeranno che sei a migliaia di chilometri a fare l'attrice e lui, in fin di vita, in Texas?”, continuò con lo stesso tono Jared.

Dirò loro la verità!”

Certo, la tua verità, finché non andrà a modificare le opinioni dei produttori dello show per cui devi fare l'audizione”, replicò il giovane, serio.

Appena ho finito di fare la prova e sistemato i cani, prendo un aereo e torno qui”, disse lei, tornando a guardare Jensen.

Fai pure con comodo...”, replicò Jared, facendo un gesto stizzoso con la mano. “Sei sempre la solita, Dani. Ti avevo avvertita il giorno del vostro matrimonio che dovevi tenerlo d'occhio. Si è intestardito nel percorrere questa strada e io sapevo che era quella sbagliata!”, sbottò Jared.

Mi sembra che sia stato tu a sposarti per primo, Jared”, ribatte lei. “Tu gli hai detto che eri innamorato di Genevieve. Non puoi ora rimangiarti le tue parole”, continuò lei, in tono di accusa.

L'ho fatto per non farlo soffrire”, mormorò Jared, con la voce intrisa di lacrime.

Bel piano, Jared. Vedi ora dove siamo”, replicò lei.

Gli avevo detto che per lui avrei fatto coming-out ma non ha voluto. Ripeteva che la sua famiglia non lo avrebbe più voluto vedere. Non avrebbe sopportato un atto del genere”, esclamò Jared. “Neanche per me”, aggiunse poi, lasciandosi travolgere dall'emozione.

Ormai è inutile. Il danno è fatto....”, replicò Danneel, anche lei sull'orlo delle lacrime.

Dovrà andare in una clinica di disintossicazione, quando uscirà dall'ospedale”, disse Jared, dopo essersi asciugato gli occhi e soffiato il naso.

Ahaha, non ci andrà!”, replicò lei, ridendo apertamente.

Lo costringerò. Ho la procura io. Se non vuole, firmerò io al suo posto!”, esclamò Jared, risoluto.

Non te lo perdonerà mai, Jared!”, ribatté lei, incredula.

Meglio così!”, rispose lui, affranto.

E poi non risolverà nulla. Tornerà a bere quando uscirà da lì. Ormai è così. Niente e nessuno può fargli cambiare idea”, aggiunse lei.

No. Lotterò fino all'ultimo perché ciò non avvenga!”, sbottò Jared.

Povero illuso. Tu lo hai portato a questo punto e tu devi assumerti le tue responsabilità!”

Ah! Come se tu fossi innocente, vero? Chi è che lo portava a tutte quelle feste dove l'alcol scorre a fiumi? Chi?”, urlò Jared, dando una manata sul tavolo.

Un bip insistente iniziò a fuoriuscire da uno dei monitor che rilevava il tracciato elettrocardiografico e una lucina rossa lampeggiava accanto al display del conteggio dei battiti cardiaci. Jared e Danneel rimasero pietrificati. Dopo un attimo si spalancò la porta di botto e un medico e un'infermiera entrarono, intimando loro di uscire all'istante. Jared esitò un attimo, poi fece cenno a Danneel di rimanere dentro, replicando al medico che li aveva di nuovo invitati ad uscire, il fatto della privacy e della necessità che ci fosse sempre qualcuno di loro presenti. Detto ciò, uscì sentendo ancora quel rumore insistente dell'accelerazione cardiaca.

Che è successo? Ho visto correre nella stanza dei medici!”, chiese Alan, dopo aver raggiunto Jared di corsa.

E' aumentato il battito cardiaco!”, rispose Jared, sedendosi di schianto sulla sedia nel corridoio con espressione affranta.

Poco dopo uscì il medico. “Le persone in coma, soprattutto quello indotto, hanno sì le facoltà cerebrali rallentate ma sono in grado di percepire cambiamenti di umore fra le persone che sono accanto a loro. Se voi litigate, loro lo capiscono e partecipano alla discussione alterando i loro parametri vitali”, spiegò il dottore, finendo di scrivere qualcosa in una cartella plastificata. “Perciò la prossima volta, se dovete discutere, fatelo fuori di qui!”, concluse, poi, perentorio, chiudendo di scatto il lembo superiore del fascicolo.

Si, mi scusi, ha ragione”, si scusò Jared. “E' tutto a posto adesso?”, chiese poi, ansioso.

Si, si, tutto a posto. Abbiamo inserito un antiaritmico”, rispose il medico, appena fu raggiunto dall'infermiera. Poi entrambi si allontanarono.

Stavate litigando!?”, chiese Alan, con un tono a metà tra il sorpreso, l'adirato e il rassegnato.

Due galli nel pollaio...”, mormorò poi, entrando nella stanza.

Jared sorrise, riconoscendo la frase di Jensen che usava per definire il suo amico e sua moglie quando si contendevano l'amore della loro vita.

Spero che il tuo pallore sia imputabile alla vergogna per aver causato tale trambusto!”, esclamò Alan rivolgendosi a Danneel, la quale appariva sconvolta.

No, non è per questo, Alan. Vederlo in quelle condizioni è scioccante. Così inanimato da sembrare una bambola”, ribatté lei, scrollando la testa. “Non la prenderà bene quando si sveglierà e avrà appreso come ha perso la sua intimità!”

Tuo marito rischierà di perdere qualcosa d'altro, se non metterà la testa a posto!”, borbottò Alan, in tono vagamente minaccioso, guardando suo figlio dormire tranquillo.

Come farete a farlo ricoverare in una clinica?”, chiese lei, ironica.

Un modo lo troveremo. Stai tranquilla. Con le buone o con le cattive. L'ho riportato sulla retta via già una volta e quindi non vedo perché non ci possa riuscire anche adesso”, disse l'uomo convinto.

Non è più un ragazzino. Ha più di trentanni, ormai!”, ribatté lei, secca.

Jensen è mio figlio e lo conosco bene. So quali tasti spingere per farlo ragionare e sa che se non lo fa, ci sono poche altre alternative”, replicò lui, risoluto.

Ripeto, è un uomo. Forse ora capisco perché a diciotto anni è scappato di casa per andare a Los Angeles...”, ribatté lei, amara.

Jensen non è fuggito! Cosa dici? Taci che fai più bella figura”, sbottò Alan, facendo un cenno di stizza con la mano, prima di uscire velocemente dalla stanza.

Quella donna! All'esasperazione ti porta!”, esclamò il padre di Jensen rivolto a Jared, il quale era un po' confuso per esserselo trovato davanti quasi improvvisamente.

Andiamo a fare un giro, Alan. Un po' di aria fresca ci farà bene ed eviterà uno spargimento di sangue”, affermò Jared, alzandosi in piedi e prendendo a braccetto quell'uomo così stanco.

Alan annuì e sospirò. “Non so dove trovi la forza di essere sempre così gioviale, mio caro figliolo!”

La mia forza è in quella stanza e finché rimarrà in vita, io vedrò sempre tutto positivo e roseo!”, replicò il giovane, avviandosi lungo il corridoio, assieme al padre di Jensen.

Angolo di Allegretto

 

Per prima cosa ringrazio di cuore tutti quelli che hanno letto e recensito i capitoli precedenti. Mi hanno fatto molto piacere i vostri suggerimenti e commenti. In una storia così complessa e articolata avrò bisogno di tutto il vostro aiuto. Ho seguito i vostri consigli e delineerò i comprimari con un ruolo misto, sia passivo e attivo, tali da non offuscare i reali protagonisti di questa vicenda: Jared e Jensen.

Questa volta le mie domande sono:

Vi piacerebbe che inserissi qualche flashback di Jared durante la narrazione dell'amore contrastato tra i nostri due ragazzi?

Vorreste che Danneel rimanesse o se ne andasse? E se rimanesse, quale atteggiamento vorreste che avesse?

A presto!!

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Capitolo Cinque ***


Capitolo Cinque

 

Se uno non faceva proprio caso all'odore di antisettico che aleggiava nell'aria poteva benissimo pensare di essere in un albergo piuttosto che in un ospedale. Le tinte uniformi sulle pareti, i quadri con soggetti naturalistici, le passatoie dal colore grigiastro e la mobilia scarna ma funzionale davano l'impressione di un ambiente elegante e allo stesso tempo informale e pratico; un albergo, appunto. Questi erano i pensieri di Jared mentre attraversava l'imponente atrio del nosocomio. Le vetrate schermavano i raggi solari ma permettevano di vedere chiaramente al di fuori le caratteristiche della tipica giornata texana: calda e secca. Un leggero venticello muoveva le fronde degli alberi, costituenti la parte integrante del giardino che circondava il monoblocco principale, e Jared sapeva che non avrebbe trovato fresco all'esterno ma fu colto dall'impulso di uscire fuori per sottrarsi a tutta quella angoscia.

Passando davanti al banco centrale dell'accettazione ebbe la consapevolezza di essere seguito da una serie di sguardi interessati da parte del personale medico ed infermieristico. Segno inequivocabile che nelle successive ore quella calma irreale sul fronte dei fans sarebbe scomparsa con tutte le implicazioni del caso.

Sospirò sconfitto. “Alan, vado un po' fuori. Viene con me?”, chiese all'improvviso al suo accompagnatore.

L'uomo più anziano annuì e lo seguì. Poco dopo erano seduti su una panchina di legno sotto l'ombra di una magnolia, cercando di rilassarsi un po'.

Jared, ho bisogno di sapere perché mio figlio si è ridotto in queste condizioni e solo tu me lo puoi spiegare!”, esclamò Alan, ad un certo punto, girandosi a guardare l'uomo più giovane.

Sapevo che prima o poi me lo avrebbe chiesto...”, sospirò Jared.

Un'espressione dolorosa apparve sul volto del padre di Jensen. In quel momento Jared si accorse che era proprio quello che voleva: un confronto con la persona responsabile di quell'immane caos che era diventata la sua vita.

Aspettavo che me lo dicessi tu...”, ribatté Alan.

Ha ragione ma non è facile parlare di ciò”, replicò Jared, cercando di mettersi comodo sulla panca di legno.

Quando ha iniziato a bere?”, chiese Alan.

Da quando l'ho conosciuto la prima volta, mi ha sempre dato l'impressione di un ragazzo a cui non piacesse l'alcol, quindi a parte qualche birra dopo il lavoro o guardando lo sport in televisione e qualche whisky alle feste del cast e della produzione, l'ho visto raramente ubriaco a tal punto da non reggersi in piedi”, spiegò Jared.

Allora quando le cose hanno iniziato a cambiare?”, domandò il padre di Jensen.

Dovrebbe saperlo, Alan!”, sbottò Jared.

Immaginavo. La decisione, però, l'avete presa solo voi due...”, rispose l'uomo, un po' infastidito.

Era l'unica possibile. Tutti ci stavano addosso, compreso le nostre famiglie e quindi, Alan, anche lei è responsabile quanto me”, esclamò Jared, freddamente.

Non abbiamo mai imposto nulla a nostro figlio. Tutto quello che ha deciso lo ha fatto per conto suo! E se avesse voluto, avrebbe potuto andare anche contro di no!”, replicò l'uomo più anziano, convinto,

Ahahah, Jensen andare contro il volere della propria famiglia!?”, ghignò ironico Jared,

Mio figlio non è mai stato un debole!”, replicò Alan, dando un colpo all'impiantito della panchina.

Si, infatti. Ma non sopporta l'imposizione altrui e se non riesce a vedere una via di fuga, allora si butta a capofitto nel lavoro oppure cerca un modo che gli consenta di tirare avanti senza pensare a ciò che lo rende così infelice”

Quindi è iniziato nel momento in cui avete deciso di sposarvi, giusto?”, domandò Alan, sconfitto.

Si, più o meno. Non c'era altra scelta e per non farlo soffrire, gli ho detto che mi ero innamorato di Genevieve e che la volevo sposare. Continuare quella relazione in modo clandestino ci avrebbe rovinato, perciò quello era l'unica possibilità. Entrambi sposati e con la carriera intatta!”, ammise Jared. “Abbiamo smesso di frequentarci all'inizio della registrazione della sesta serie, ognuno andando dalle rispettive mogli nel fine-settimana”, continuò Jared.

Quindi non hai potuto più controllarlo, vero?”

No. Ho cercato di avvisare la moglie ma mi sono sentito dire che ero tragico. Poi Jason ha iniziato a raccontarmi delle feste a Los Angeles. Party dove la tequila scorre a fiumi...”

Tequila? Brutta cosa! Quanti amici si sono rovinati in quel modo”, esclamò Alan, rabbuiandosi in volto.

Già. A Jensen piace molto fare le gare a chi ne regge di più. L'ho visto una sola volta e mi è bastato. E' stato male per due giorni ed è dovuto stare a casa di Steve perché non riusciva a stare in posizione verticale!”, disse Jared, passandosi una mano sugli occhi, come se volesse cancellare quella visione così angosciante per lui. “Eravamo ancora assieme quando è successo e così gli avevo detto che se voleva rimanere con me, non avrebbe dovuto più ripetere un gioco simile. E così è stato....ma poi io non ero più lì a sorvegliarlo”, aggiunse, sconsolato.

Quando era un ragazzino ha passato un periodo di eccessi. Frequentava una brutta compagnia. Aveva anche rubato in un negozio di articoli sportivi per farsi vedere quanto fosse un duro. Si vantava di avere una famiglia che gli lasciava piena libertà. Era vero, poteva andare e venire quando voleva a suo piacimento, in cambio di un ottimo profitto scolastico. E così è stato finché non ha compiuto sedici anni e ha preso la patente. Da lì sono iniziati i guai...”, affermò Alan.

Si me lo ha raccontato. Non è fiero di quel periodo”, disse Jared, mentre si guardava in giro. Delle risate provenivano da una panca vicino a loro e si ritrovò a desiderare ardentemente di poter tornare a ridere di gioia anche lui in futuro.

A stento lo abbiamo recuperato e speravo che avesse imparato la lezione ma, a quanto pare, mi sbagliavo!”, replicò Alan, alzandosi in piedi. “Vado a prendere qualcosa da mangiare al self-service. Vuoi qualcosa, Jared?”, chiese Alan.

Una Diet Coke, grazie”, rispose Jared, allungando le gambe, intorpidite. “Andrò a vedere se in camera è tutto a posto. Ci troviamo qui fra mezz'ora. Ok?”, aggiunse, poi, alzandosi anche lui.

Alan annuì e si avviò verso l'ingresso dell'ospedale, mentre Jared si diresse verso l'ascensore posto all'esterno.

Trovò Danneel mezza addormentata con la testa appoggiata alle proprie braccia sul materasso accanto alla gamba destra di Jensen, mentre lui dormiva placidamente.

Tutto tranquillo?”, chiese, avvicinandosi al letto.

Si, si. Sono venute a lavarlo e a cambiarlo. Tutto a posto”, rispose lei un po' confusa. “Vuoi qualcosa dai distributori automatici o vuoi che vada a prenderti qualcosa alla caffetteria?”, chiese, lui, cercando di essere gentile.

No, grazie. Rimango qui con lui. Alle quattro ho il volo per Los Angeles”, replicò lei, guardando l'orologio.

Ah, pensavo saresti rientrata domani in tempo per l'audizione!”, esclamò lui, un po' sorpreso.

Devo fare un sacco di cose: andare dal parrucchiere, dall'estetista e comprarmi un vestito”, rispose lei, evasiva.

Giusto. Tutte cose che si fanno con un marito in coma...”, replicò lui, sarcastico.

Non iniziare, Jared. Lo sai che con me non attacca il tuo risentimento, vero?”, ribatté lei, riavviandosi i capelli con le mani.

Lui la guardò con odio, poi si chinò a baciare Jensen sulle labbra, gesto a uso e consumo di Danneel, la quale lo guardò con rabbia, e uscii dalla stanza senza degnarla di uno sguardo, augurandosi che il momento della sua partenza arrivasse in breve tempo in modo da non dover dividere Jensen con quella strega di moglie che si ritrovava. Sospirando pesantemente si allontanò da quella camera, anche se sentiva come un dolore fisico lo stare distante da colui che rappresentava il centro del suo universo.

Poco dopo si ritrovò con Alan sulla solita panchina al riparo dagli implacabili raggi solari texani.

Ritengo mio figlio abbastanza stupido per essersi cacciato in questo guaio, ma so cosa si può trovare a queste feste, oltre la tequila. Mi devo preoccupare anche di questo, Jared?”, chiese Alan, passando la bibita al giovane, dopo aver appreso che suo figlio era tranquillo.

No”, rispose perentorio Jared. “Non ha mai fatto uso di droga Jensen e mai lo farà!”, dichiarò Jared “Neanche una fumata di marijuana?”, chiese Alan, dubbioso.

No, sono sicuro. Jensen porta sempre al collo la collanina con il ciondolo che aveva regalato a quel suo amico quando ha compiuto diciotto anni e poi è morto travolto dall'auto guidata da uno strafatto che poi si è piantato contro un muro!”, rispose Jared. “La tiene per ricordarsi come è morto e quanto gli fosse affezionato!”, aggiunse, poi, commosso.

Alan annuì al ricordo di quel ragazzo, morto prematuramente. “Già, era un bravo ragazzo. Aveva contribuito anche lui a riportare Jensen sulla retta via. Travolto da un' auto guidata da un drogato, morto poi sul colpo. Avevano trovato un biglietto in auto. Si era suicidato per via di una storia d'amore finita male...”, spiegò Alan, fermandosi però all'improvviso, impallidendo. “Tu pensi che volesse fare la stessa cosa anche Jensen?”, chiese, poi, con voce affranta. Il pallore si accentuò ancora di più e il padre di Jensen iniziò a sudare copiosamente e a manifestare un certo affanno.

Jared allungò di scatto la mano che stringeva la lattina, ancora fredda, e la pose sulla fronte dell'uomo più anziano e contemporaneamente iniziò a guardarsi intorno alla ricerca di un camice blu. Alan Ackles stava avendo più o meno gli stessi sintomi che aveva avuto suo padre quando gli era venuto l'infarto.

Alan, si calmi o si farà venire un colpo!”, esclamò Jared alzandosi in piedi e iniziando a massaggiargli la schiena. “Jensen non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Sicuramente ha perso il controllo dell'auto! Ne sono sicuro!”, affermò Jared, cercando di essere più convincente possibile, anche se in cuor suo sapeva che vi poteva essere anche una minima possibilità. La disperazione ti può far arrivare anche a queste estreme conseguenze!

Grazie, Jared”, disse Alan, grato per quelle parole. “Ne sono sicuro anche io”, disse poi, alcuni minuti dopo, mentre riprendeva colore in viso.

Jensen mi ha raccontato che è stato quel fatto a farlo decidere di andare a Los Angeles”, esclamò Jared, dopo un po'.

Mia moglie era convinta che tra Jensen e Jimmy ci fosse qualcosa ma mio figlio lo ha sempre negato. Della sua omosessualità lo abbiamo sempre sospettato ma Jensen lo ha ammesso solo quando la vostra storia è diventata seria. Non ne abbiamo mai parlato apertamente e comunque gli altri parenti non sanno nulla, nemmeno mia madre che è ancora viva”, spiegò Alan.

Jared annuì.

Aveva già preso la decisione di accettare la proposta del talent-scout che l'aveva avvicinato l'anno prima a una sua rappresentazione teatrale della scuola. Ero io che mi opponevo. Sapevo che mio figlio era troppo fragile e chiuso per quel mondo di pescecani che è Hollywood. La sua omosessualità latente, o così la definivamo mia moglie ed io, ne faceva un bersaglio eccellente”, continuò Alan. “Pensavo che il mio esempio fosse sufficiente per impedirgli di andare via. Io non avevo raccolto le lusinghe di quel mondo dorato. Avevo preferito rimanere qui, studiare e lavorare per il cinema ma in altri ambiti. Dal giorno in cui è morto Jim, Jensen si è chiuso in un assordante silenzio e dopo aver dato gli esami finali, se ne è andato senza neanche partecipare alla consegna dei diplomi”, concluse l'uomo più anziano, un po' provato per quella spiegazione così difficile da dividere con il giovane che era stato il compagno di suo figlio per oltre due anni e che se avesse continuato a esserlo, lui non sarebbe stato seduto su quella panchina così dura all'esterno di un ospedale, mentre suo figlio giaceva in coma all'interno.

Lei è sempre stato più supportivo con Jensen per quanto riguarda il discorso dell'omosessualità, rispetto a mio padre, ma in pratica lo avete ostacolato comunque e forse più di quello che hanno fatto i miei genitori”, esclamò Jared, secco.

Molti miei amici sono gay. Li ho sempre trattati come persone di tutto rispetto, senza giudicare o criticare. Il mondo dello spettacolo è un altro discorso. Ti preclude molte strade. Non volevo accadesse a mio figlio!”, esclamò Alan con ardore.

Quindi la disapprovazione era l'unica strada?”, chiese Jared, sbigottito.

Io non l'ho mai disapprovato. Forse mia moglie può aver calcato la mano sul concetto della delusione di non poter fare un matrimonio in chiesa o di aver un nipotino come le altre signore della nostra congregazione religiosa. A volte è dura con lui su questo argomento ma..”, replicò Alan, cercando di giustificare il suo operato e quello della moglie.

Mi vuol dire che non avete mai fatto pressioni su di lui?”, chiese Jared incredulo.

Alan si passò la lingua sulle labbra e si strisciò le mani sudate sui pantaloni. Era imbarazzato e cercava di sottrarsi a quel fuoco di fila di domande da parte di quel giovane che, volente o nolente, era entrato nella vita della sua famiglia.

Io sono più tollerante, mia moglie lo è di meno. Lei è nelle associazioni di volontariato della nostra chiesa e noi battisti, non vediamo di buon occhio gli omosessuali. Sarebbe stato imbarazzante per lei, per noi, se la storia fosse uscita fuori”, cercò di giustificarsi Alan.

Lo so. Jensen me lo ha spiegato quando gli ho detto che avrei preferito fare 'coming out' per la mia bisessualità piuttosto che sposare Genevieve”, replicò Jared, sbuffando.

Forse non saremmo in questa situazione”, ammise, a quel punto, Alan.

Jensen mi disse che non sarebbe mai uscito allo scoperto, non solo per la sua famiglia, per il rischio di far morire di crepacuore la sua nonna paterna, ma anche per la sua carriera e io mi sono adeguato”, esclamò Jared con la voce incrinata.

Jensen non ha ancora capito cosa sia importante per lui”, esclamò Alan, all'improvviso, come se avesse compreso solo in quel momento chi era, in realtà, suo figlio.

Se lo avesse appoggiato prima, invece di criticarlo...”, sbottò Jared, incredulo davanti a tale confessione. “Le uniche cose che gli ripete sempre sono 'la carriera e la famiglia' Non può negarlo, Alan!”, aggiunse sullo stesso tono.

Hai ragione, Jared. Jensen mi ha sempre temuto. Sono l'unica persona che riesce a imporsi su di lui. Quando l'ho minacciato di disconoscerlo come figlio se avesse continuato la relazione con te, ha scelto di schierarsi dalla mia parte piuttosto che incorrere nella mia furia”, ribatté Alan, sconsolato.

Con la vista annebbiata dall'ira, Jared guardava con astio quell'uomo seduto sulla panchina, con un atteggiamento consono solo a un indiziato di omicidio che aveva appena ammesso la propria colpa. Non si sentiva, però, sollevato da tale confessione. La sua angoscia e rabbia lo stavano per sopraffare. Non era nel suo stile picchiare le persone, men che meno quelle più vecchie di lui, ma in quel momento lo avrebbe preso a pugni. Forse era meglio allontanarsi un po'.

Vado da Jensen”, esclamò Jared, voltandosi di scatto e allontanandosi. Giunto quasi dall'ascensore, si sentì richiamare indietro da Alan. Si girò lentamente, vedendo il padre di Jensen a metà strada tra la panchina e il luogo dove era lui. Il suo viso, stravolto dalla consapevolezza del danno arrecato al figlio e all'uomo che si trovava davanti, era inondato dalle lacrime. “Per quello che valgono le mie parole, Jared ti chiedo perdono. Ammetto la mia colpa. So di aver fatto pressioni su mio figlio. Pensavo di agire per il meglio...”

Jared annuì ma non proferì parola. Se avesse parlato, avrebbe potuto dire cose che, in seguito, avrebbe potuto pentirsi. Non appena si aprirono le porte dell'ascensore, vi entrò di corsa e schiacciò il pulsante del piano dove era ricoverato Jensen.

Nel corridoio incontrò Jim dai distributori automatici dove stava prendendo dell'acqua fresca. Si scambiarono due convenevoli e poi Jared proseguì per la stanza, dove trovò suo fratello che stava leggendo una rivista di automobili accanto al letto di Jensen.

Ciao, Jeff. Danneel?”, chiese sorpreso, non vedendola da nessuna parte.

E' andata via, non appena siamo arrivati noi. Ci aveva chiamati affinché arrivassimo un po' prima in modo che riuscisse a prendere il volo delle quattro”, rispose il fratello maggiore di Jared. “Mi sembri un po' stanco, Jared. Sarà meglio che vai un po' a riposare. Oggi è una giornata particolarmente calda. Non vorrei che ti ammalassi anche tu. Alan?”, aggiunse, poi, osservando bene il fratello minore che appariva particolarmente scarmigliato e sudato.

E' giù nel giardino”, rispose evasivo il giovane, con lo sguardo piantato su Jensen. “Posso rimanere un po' solo con lui?”, chiese poi a suo fratello, con la voce incrinata, indicando quella figura inanimata sul letto.

Jeff si alzò e andò vicino Jared. “Tutto bene, fratellino?”, lo apostrofò, un po' preoccupato.

Jared annuì, grato per quella dimostrazione di affetto da parte del fratello.

Non sono riuscito a stare un po' con lui....solo questo....”, mormorò, sentendo il bisogno fisico di toccare Jensen.

Jeff non disse nulla ma fece una leggera carezza sulla spalla del fratello, prima di uscire dalla stanza.

Non appena fu solo, Jared si sedette accanto a Jensen e scoppiò a piangere, mormorando dapprima parole incomprensibili e poi via via sempre più intelligibili: “Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace...”

Quando si fu un po' calmato, si rese conto che il profumo che sentiva e che lo faceva inebriare era il dopobarba di Jensen: un misto di agrumi e chiodi di garofano e ciò lo riportò indietro con i ricordi all'ultima volta che si erano baciati, a quel giorno di inizio marzo del 2010, pochi giorni dopo il proprio matrimonio, quando Jensen aveva liberato la casa di Vancouver dai propri effetti personali.

 

Da circa un'ora Jensen era nella sua camera al piano di sotto a finire di riempire gli scatoloni con gli ultimi oggetti che ancora erano rimasti nella stanza. Jared non sentiva alcun rumore e decise così di scendere a dare un'occhiata. Inconsciamente non fece alcun rumore nel scendere le scale e si avvicinò molto lentamente alla porta che era socchiusa. Da lì osservò colui che era stato il centro del suo mondo negli ultimi due anni e dal quale ormai si era staccato definitivamente e ciò gli causava ancora un dolore indicibile.

Jensen sorseggiava il caffè dalla sua tazza preferita e guardava fuori dalla finestra. Era assorto, perso nei suoi pensieri. Probabilmente stava ricordando i bei periodi passati nel giardino; i barbecue con gli amici, le corse con i cani, le partite di football o anche quei semplici momenti quando restavano a guardare le stelle sdraiati nell'erba uno accanto all'altro.

Nella stanza cinque scatoloni erano già completati. In cima ad essi campeggiava la calligrafia ordinata di Jensen: libri, DVD, fotografie, riviste, soprammobili. In pratica quella stanza era diventata il ripostiglio di tutto ciò che aveva accumulato in quei due anni, in quanto poco dopo il suo trasferimento in quella casa, loro due avevano deciso di dormire nello stesso letto. Solo quando le loro fidanzate erano presenti, ognuno di loro assumeva il ruolo che la società pretendeva da ambedue.

Stai bene?”, chiese Jared, a quella figura, immobile davanti alla finestra.

Jensen si girò a guardarlo. Non rispose ma la risposta albergava nitida sul suo volto. No, non stava bene affatto e non provava minimamente a fingere che lo fosse. Non poteva, perché il motivo del suo malessere era appena entrato nella stanza.

Jensen era stanco di fingere. Stanco di giocare al ruolo di migliore amico davanti alle loro fans. Voleva sentire il sapore delle sue labbra sulle proprie, percepire la pienezza di lui dentro di sé, abbandonarsi al suo abbraccio e alla sua sicurezza. Era esausto di volere ciò che aveva perso per sempre. Quello che aveva lì ogni giorno ma che non poteva raggiungere. Non ce la faceva più a stare accanto a lui.

Jared vide tutto ciò attraverso i suoi occhi e si sentì tremendamente triste.

Non devi farlo”, Jared esclamò, fermo sul ciglio della porta, appoggiato allo stipite.

La sua voce incrinata dalla paura e da un vago senso di supplica diede a Jensen l'urgenza di finire al più presto e di andarsene velocemente.

Jen, non devi andare!”, ripeté Jared.

Jared, ne abbiamo già parlato!”

No, non lo avevano fatto, ma nel momento in cui Jared gli aveva detto che si era innamorato di Genevieve, Jensen aveva compreso che la loro storia era finita e conclusa e non aveva senso rimanere ancora là.

Si, ma ancora penso che non dovresti andartene. La casa è grande”

Non grande abbastanza”, Jensen replicò, guardando ancora fuori dalla finestra, la voce impastata e udibile a malapena. Poi aggiunse: “Non più, oramai!”

Non la sentiva più sua, non più come il suo 'rifugio'

Jared sospirò: un pesante e tormentato respiro e Jensen sentì una pugnalata di rabbia attanagliargli lo stomaco. Lui non era quello che aveva troncato quella loro sottile e fragile ma intensa relazione per legarsi a una persona solo perché lui gli aveva detto che non sarebbe mai uscito allo scoperto. Jensen avrebbe voluto continuare nella finzione perseguendo la strada del matrimonio di convenienza per stare assieme alla persona che amava. Jared non aveva accettato perché non avrebbe sopportato tale tensione. Jensen si era sentito tradito ma allo stesso tempo responsabile perché aveva lottato troppo poco. Aveva lasciato andare Jared troppo facilmente.

Sotto lo sguardo scrutatore di Jared, Jensen afferrò un'altra scatola e iniziò a riempirla di altre foto che erano appese sui muri di quella stanza.

Non vedi l'ora di andartene, vero?”, esclamò Jared, calcando sulla parola 'andartene' quasi fosse una sentenza di morte.

Ciò ferì profondamente Jensen: “Non è come sembra”, mormorò, continuando, imperterrito, a infilare portafotografie nella scatola. Una, in particolare, lo costrinse a fermarsi. Loro due con i loro cani sul set di Supernatural. Uno di quei rari momenti in cui Jared riusciva a stare fermo in posa. Inconsciamente Jensen passò le punta delle dita sul viso sorridente di Jared e alzò lo sguardo verso di lui.

O forse lo è”, disse, con amarezza. 'Noi due non esistiamo più e quindi è inutile stare qui. Sento come se non riuscissi a respirare...come se tutti questi ricordi mi stessero per soffocare....come se la tua vicinanza, il tuo odore onnipresente mi annientassero', pensò poi, non avendo il coraggio di pronunciare quelle parole a voce alta.

Jared annuì lentamente mentre si avvicinava a Jensen. “Lo vedo che non stai bene e ne sono dispiaciuto”

Starò bene”

Davvero?”

Si”

Quando?”

'Quando divorzierai. Quando tu tornerai da me. Per favore, Signore fai tornare tutto come prima', pensò Jensen, mentre rispondeva come un automa che sarebbe stato bene appena uscito da quella casa.

Jared si accorse degli occhi lucidi e del tremore alle mani dell'altro.

Jensen, sono...odio vederti così. So che è colpa mia. Ma...sono ancora tuo amico e a me importa di te. E io vorrei...Vorrei che ci fosse qualcosa di più di quello che posso fare ora...Sei sicuro che io non possa fare qualcosa d'altro?”

Jensen sbatté le palpebre e iniziò a iperventilare. Jared si era tutto a un tratto avvicinato. Troppo vicino. Caldo e familiare, odorante di bagno schiuma di frutti tropicali e di dentifricio alla menta. I suoi capelli ancora umidi e tirati indietro che gli davano un'aria di estrema vulnerabilità. Era bellissimo. E Jensen non era forte abbastanza. Tutti i suoi muri protettivi stavano tremando, crollando rovinosamente a terra.

Perché nessuno si era preso la briga di avvisarlo che nel cast di Supernatural ci sarebbe stato qualcuno di cui si sarebbe follemente innamorato? Perché non aveva avuto le palle per fare quello che gli aveva chiesto? Perché si era arreso così facilmente e lo aveva consegnato a quella donna?

Jen, cosa vuoi che faccia?, Jared domandò, in tono supplicante.

'Non lasciarmi andare via', pensò Jensen. Poi disse a voce alta: “Onestamente? Nulla. Tu non puoi più darmi quello che io voglio. Ormai è troppo tardi! Tu appartieni a tua moglie. No, non c'è più niente che tu possa fare!”

Io non appartengo a lei. Sei tu quello che vorrei aver vicino...”, Jared replicò, avvicinandosi ancora di più all'altro e mettendogli una mano sul braccio.

Direi che la tua scelta dica diversamente”, ribatté Jensen, cercando di non farsi venire un altro attacco di panico.

Immaginavo che fossi d'accordo con me. Potevi dirmelo che...”

Ti ho lasciato percorrere quel sentiero perché, in fondo, ero io quello che non voleva fare il grande passo, perciò come potevo criticare la tua scelta?”, esclamò Jensen, stremato. “Rimane il fatto che potevi seguire la linea che avevo tracciato io”, aggiunse, poi, con un filo di voce.

E' vero ma non avrei mai retto alla pressione”, replicò Jared.

Ma non c'è stato questo problema. Ti sei innamorato dell'attrice con cui lavoravamo sul set. Dimmi cosa ha lei che io non ho?”, chiese, poi, mostrando la sua gelosia.

Jared non disse nulla.

Lei è bellissima, dolce, sexy e....donna!” E' questo che fa la differenza, Jared?”, chiese Jensen, con amarezza. Poi alzò lo sguardo, incontrando gli occhi di Jared, i quali erano ricolmi di colpa.

Jensen si rese conto che non era l'unico che stava male. Entrambi erano in quello stato. E Jared, forse, era quello messo peggio. Jensen aveva sempre pensato che il sacrificio maggiore lo aveva fatto lui. Per assecondare famiglia e carriera aveva rinunciato all'amore della sua vita. In quel momento, percepiva altro provenire da Jared.

Jensen...io volevo vivere una vita senza finzione...con te sarebbe stata quella la strada e io non me la sentivo...mi dispiace...”, cercò di spiegare Jared, con gran fatica.

Lo so. L'ho sempre saputo. Così puoi essere con lei senza nasconderti! D'altronde non potevi fare altrimenti”, replicò l'altro.

Ti avevo detto che per te sarei uscito allo scoperto. Era una cosa che mi terrorizzava altamente ma per te lo avrei fatto”, esclamò Jared, avanzando di un passo verso Jensen.

Lo so. Lo so. Non potevo. Non dopo le minacce di mio padre. Se dice una cosa del genere, so per esperienza che la mette in pratica. E non me la sono sentita di mettermi contro di lui”, ammise Jensen, con lo sguardo a terra.

Jared, ormai a un passo dall'altro, allungò le mani e le posò sul viso dell'altro. Il dopobarba di Jensen, così speziato, lo mandò in confusione. Lo voleva e lo voleva in quell'istante.

Jensen, con la schiena contro la libreria, non aveva via di scampo. Vide il desiderio sul volto di Jared ma non voleva dargliela vinta.

Sai cosa vorrei adesso?”, sbottò, improvvisamente, spingendo Jared indietro, mettendogli le mani sul torace. “Vorrei che per una volta fossi veramente sincero con me e mi dicessi se veramente sei innamorato di tua moglie o lo sei ancora di me! Io percepisco altro nei tuoi occhi e non è proprio un pensiero casto quello che gira nel tuo cervello in questo momento!”, aggiunse, poi, dando un altro colpo contro Jared.”Tu hai detto che eri innamorato di tua moglie ma tutte le volte che ti ho vicino, vedo altro nel tuo sguardo. Mi merito di sapere la verità”, continuando a tempestare di colpi l'altro, il quale si lasciava picchiare senza rispondere.

Ogni. Dannata. Volta. Che. Mi. Guardi. Jared. Vedo. Altro”, ogni parola, sottolineata con un colpo.

Nessuna reazione da Jared. Era là in piedi davanti a Jensen incapace di parlare.

Grandioso. Come pensi io possa sposarmi fra qualche mese. Come?”, gridò Jensen. “Perché tu vuoi ancora che noi due stiamo insieme, vero? Tu mi vuoi ancora!”

Jared distolse lo sguardo ma le lacrime iniziarono a scendere giù lungo le guance, copiose. Guardò in basso, sperando che si aprisse un baratro dove cadere per nascondere la sua colpa.

Maledizione a mio padre! A Genevieve! A te e soprattutto a me!”, sbottò Jensen, spingendo via Jared con un poderoso colpo ma Jared improvvisamente lo abbrancò con le braccia e lo abbracciò forte, quasi facendogli mancare il respiro.

Jensen”, mormorò a pochi centimetri dal viso dell'altro, il quale rabbrividì, tradito dal suo stesso corpo.

Jared...no...questo...non va bene!”, cercò di sottrarsi Jensen dalla morsa dell'altro e anche dal desiderio di lui. Sapeva benissimo quanto potesse essere forte Jared ma tentò lo stesso.

L'altro lo guardò intensamente.

Jensen si rese conto che quello era quello che voleva di più in assoluto. Un'ultima volta in quella casa. Nella loro casa. Toccarlo e baciarlo. Lo voleva con ogni fibra del suo corpo.

Il bacio fu la diretta conseguenza di quella situazione. Violento, passionale, troppo a lungo nascosto, voluto. La punta della lingua insinuata tra i denti di Jensen, il quale aveva le mani sotto la maglietta dell'altro e le mani di Jared a slacciare il bottone dei jeans di Jensen.

Improvvisamente Jensen realizzò cosa stavano per fare. Non era quello che voleva. Non voleva che Jared tradisse la moglie. Neanche per lui. Si staccò da Jared, il quale lo lasciò andare, non prima di averlo baciato nuovamente, teneramente sulle labbra. Era il bacio dell'addio.

Vorrei che me lo avessi detto. Avrei lottato per convincerti a seguire quello che voleva fare io. Ci sarei stato io ad aiutarti a reggere la tensione”, esclamò Jensen, con la voce impastata dalle lacrime, mentre con le dita tremanti si abbottonò i pantaloni e si tirò giù la maglietta, cercando di recuperare un po' di contegno.

Verrò domani a prendere le altre scatole...”, esclamò, cercando di non dare libero sfogo ai singhiozzi che ormai facevano capolino dal suo essere.

Jensen..Jen...”, la voce di Jared si spezzò. Allungò una mano e con il pollice cercò di asciugare le lacrime che sgorgavano da quelle pozze di verde smeraldo così ricolme di infelicità.

Non piangere. Dio, per favore, non voglio vederti così...”, Jared lo implorò.

Più parlava con quel tono e più le lacrime sgorgavano dai suoi occhi e più si sentiva male. Dolore quasi fisico.

Non posso. Devo andare”, Jensen gridò, uscendo di corsa dalla stanza, lontano da Jared e dalla sua presenza.

Il 'Jensen, ti amo e ti amerò per sempre!' si sparse per la casa, mentre lui correva su per le scale di quel luogo che aveva significato così tanto per lui e soprattutto da quella persona a cui aveva voluto bene.

Mentre la macchina sgommava via impetuosa, Jared si lasciò travolgere dal pianto.

 

Con il viso inondato di lacrime, le proprie mani strette su quella di Jensen, continuava a mormorare quello che gli aveva detto quel giorno, mentre Jensen fuggiva via da quella casa. Si rendeva conto che, in quel momento, era pronto a buttare tutta la sua vita alle ortiche per Jensen. Solo che aveva timore che quella situazione avrebbe potuto prendere una piega che non gli avrebbe permesso di perseguire quella scelta. Aveva la sensazione che avrebbe dovuto usare quel potere che gli dava la procura legale per costringerlo ad andare in clinica. E quel gesto Jensen non glielo avrebbe mai perdonato!

 

Angolo di Allegretto

Molte delle informazioni inerenti la vita di Jensen sono vere. Sono tratte dalle sue interviste o durante i vari panel alle conventions. (La morte dell'amico; la catenina che ha sempre al collo; il furto e il periodo buio dei suoi sedici anni, ecc.)

Capitolo molto intenso e pieno di pathos. Cercherò di inserire poi qualche flashback più leggero. Ve lo prometto!

Come sempre ringrazio di cuore coloro che mi seguono, leggono e commentano questa storia. Ho deciso di pubblicare questo capitolo in segno di ringraziamento per il vostro supporto e per augurare Buona Pasqua a tutti voi!

Questa volta nessuna domanda ma ho cercato di seguire i vostri suggerimenti. Aspetto con gioia ogni vostra indicazione e consiglio.

A presto!!

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Capitolo Sei ***


Capitolo Sei

 

Il mattino dopo la cucina di casa Ackles assomigliava a una di quelle viste negli sceneggiati in costume sull'epoca vittoriana dove camerieri, cuoche e sguattere si affaccendavano alacremente per preparare colazione e pranzo ai propri padroni di casa.

La cuoca, una donna anziana e burbera (la nonna paterna di Jensen) sfornava torte alle mele, salsiccia alla piastra e uova strapazzate a ripetizione, mentre una serie di camerieri improvvisati (Donna e Alan Ackles) cercavano di servire i propri ospiti in modo adeguato, mantenendo anche la conversazione focalizzata su un argomento di interesse comune: la salute e la privacy del loro figlio minore.

Misha e Josh raccontarono i particolari della notte appena trascorsa, dove tutto era stato tranquillo, anche se al momento del cambio con le ragazze, queste avevano riferito di aver visto nel parcheggio alcuni furgoni appartenenti a televisioni locali. Per fortuna, nessuno le aveva riconosciute ed erano riuscite ad arrivare in camera senza nessun problema. Misha, per precauzione, era andato giù nel parcheggio sotterraneo ed aveva aspettato Josh che recuperasse l'auto da quello esterno e lo prendesse a bordo.

E se si intrufolassero anche in quello?”, borbottò Jim, assaporando le salsicce. “Signora Beth, le sue pietanze sono una cannonata!”, esclamò poi verso la baldanzosa ottuagenaria affaccendata ai fornelli.

Ci caleremo dalla finestra!”, rispose Misha, sorridendo.

Bè, tu potresti anche farcela, io userò i condotti dell'aria condizionata. Più agevoli per la mia età...”, ribatté, ghignando, Jim.

Anche Jared si unì ai commensali, i quali cercarono di farlo partecipe della loro conversazione, ma rimase in silenzio per tutto il tempo e sempre dando un'occhiata al cellulare in attesa di avere notizie fresche dall'ospedale. Il fatto che mangiasse anche poco fu motivo di preoccupazione da parte dei suoi colleghi e amici. Mamma e Nonna Ackles lo spronarono a mangiare qualcosa di più di due miseri toast e una forchettata di uova prese dal piatto di Misha.

Ma non prenderle dal loro piatto, Jared! Te ne metto un po' in uno tutto per te, se le vuoi!”, lo redarguì bonariamente Donna.

Oh, ci sono abituato, signora. Il suo lo divora in cinque secondi netti e poi inizia a mangiare quello nei piatti degli altri, se quelli non sono altrettanto veloci e non puoi fare resistenza. Non si può discutere con un' alce affamata!”, replicò Misha, suscitando l'ilarità di tutti e strappando un mezzo sorriso a Jared.

Subito dopo colazione, mentre gli altri sparecchiavano e aiutavano nonna Beth a riempire la lavastoviglie, Jared si chiuse nello studio con Alan e suo figlio Josh. Un pensiero lo aveva tenuto sveglio quella notte e doveva a tutti i costi mettervi riparo. Appena la porta si chiuse dietro di loro, Jared informò i suoi due interlocutori del suo timore che Danneel, approfittando della situazione, accedesse al conto in banca di Jensen, di cui aveva la doppia firma, e prelevasse tutto il contante o spendesse oltre la sua metà in vestiti e altre amenità.

Come possiamo fare, Jared?”, chiese Alan, passandosi una mano sul viso stanco e tirato.

Ho chiesto a mio padre di stilare una dichiarazione legale da inoltrare alla banca con cui si blocca la carta di credito e il conto oltre una certa cifra. Ho bisogno di sapere, però, l'ammontare del conto e se è cambiato qualcosa in questo ultimo anno. Jensen ed io non abbiamo più parlato di questi argomenti”, rispose il giovane, sedendosi su una poltrona con un'espressione preoccupata.

Chiamo il suo commercialista e appena ho le informazioni che mi hai chiesto, ti avverto. Poi andiamo in ospedale. Va bene?”, disse Alan, prendendo la rubrica e iniziando a sfogliarla.

Jared annuì.

Io vado a dormire. Se ci sono novità o problemi, chiamatemi. Ok?”, disse Josh, sbadigliando, mentre si avviava alla porta.

Mezz'ora dopo Alan disponeva di tutte le informazioni richieste. Jared aveva appena terminato di rispondere a un paio di telefonate con i produttori e con il suo agente. Sbuffò innervosito, rientrando nella stanza. Ognuno era preoccupato per il proprio tornaconto, mentre a lui non interessava minimamente di quanto la CW o la WB potessero perdere in immagine da quella situazione. A lui stava a cuore solo che Jensen si rimettesse in salute e al più presto.

Problemi?”, chiese Alan, vedendo l'espressione rabbuiata sul viso del giovane.

No, no, Alan. Niente che riguardi Jensen!”, rispose Jared, mettendo il cellulare in tasca.

Ah, ok. Però Jared vorrei che ti confidassi con me. Se c'è qualcosa che ti tormenta o se ti stressano per questa situazione, ti prego, sfogati pure con me. Non tenerti tutto dentro. Magari posso esserti utile. Quel circo mediatico lo conosco fin troppo bene!”, esclamò Alan, alzandosi in piedi, per mettere a posto alcuni documenti.

Jared annuì, grato per quella dimostrazione di affetto.

Grazie, Alan. Lo apprezzo molto”, rispose, regalando un sorriso meno tirato del solito.

Bene. Allora il commercialista mi ha riferito che l'unico modo per intaccare il denaro in comune è quello attraverso la due carte che danno accesso al conto: l'accordo tra Jensen e Danneel era che lui si sarebbe occupato della manutenzione della casa, delle auto, più lo stipendio del giardiniere. Lei, invece, si sarebbe occupata dello stipendio della governante, la spesa quotidiana, l'abbigliamento, le bollette e le altre necessità. Ognuno metteva metà dello stipendio settimanale guadagnato e chi prendeva la parte dell'altro, doveva rifonderla entro la fine del mese”, spiegò Alan, guardando un foglietto dove aveva preso appunti, risedendosi alla propria scrivania.

Quanto c'è sul conto?”, chiese Jared.

Ventimila dollari”, rispose Alan. “Jensen aveva versato quindicimila dollari il giorno prima dell'incidente”, aggiunse poi, assorto. “Anche se gli ultimi prelievi erano stati di Danneel....”, concluse, sottovoce.

Jensen ha un altro conto, no?”, domandò Jared, volendo una conferma di quanto lui sapeva già.

Si. Ha il conto assieme a noi presso una banca qui in città”, rispose Alan. “E inoltre ha il portfolio azionario della società che gestisce insieme a un suo amico avvocato, sempre qui a Dallas”.

Jared annuì. Erano tutte informazioni di cui lui era a conoscenza.

Tutto il resto è vincolato a nome suo, vero? Anche la casa di Los Angeles?”, Jared continuò il suo personale interrogatorio.

Alan annuì. “Si. Secondo gli accordi per-matrimoniali, però, la casa andrebbe a lei, sia in caso di divorzio sia nel caso più funesto”, esclamò Alan, inghiottendo a vuoto quando pronunciò l'ultima frase.

Jared si prese la base del naso tra le dita, chiuse gli occhi e sospirò. Poi si avvicinò alla finestra e guardò fuori. Il prato verde ben curato, le aiuole di campanule blu che rasserenavano lo spirito e qualche albero di limone decoravano il giardino della villetta dei genitori di Jensen. Si ricordava quando entrambi avevano girato per quasi due mesi i dintorni di Richardson e Dallas per comprare quella casa l'estate tra la prima e la seconda serie di Supernatural. Con il rinnovo Jensen aveva potuto regalare una casa nuova ai suoi genitori. Ripensò a quanto si erano divertiti a farlo, pensando che un giorno avrebbero potuto cercare la loro dimora. Sospirò, cercando di ricacciare indietro le lacrime che iniziavano a far capolino dai suoi occhi. Doveva rimanere lucido e smetterla di far vagare la sua memoria. Quei ricordi erano troppo dolorosi per lui.

Ok. Allora il problema è solo della banca di Los Angeles dove hanno il conto in comune. Chiamo mio padre, così può scrivere il documento per bloccare la parte di Jensen”, disse Jared, con voce un po' incrinata.

Se vuoi posso chiamarlo io ed evitarti così questa dolorosa incombenza. Va bene?”, esclamò Alan, al quale non era sfuggito il tono sofferto con cui aveva parlato Jared.

Si, grazie Alan”, disse Jared, prima di uscire dallo studio per andarsi a rifugiare in camera e sfogare un po' del suo dolore.

La calma regnava in casa Ackles: Alan, seduto al tavolo di cucina a bersi l'ennesima tazza di caffè, sua moglie a svuotare la lavastoviglie, sua madre intenta a pelare patate, tutti gli altri a dormire o impegnati in incombenze varie. Un bip sullo smartphone di Alan lo avvertì che aveva ricevuto una mail.

E' arrivato il documento per la banca compilato da Jerry Padalecki. Appena scende Jared glielo faccio firmare così lo consegno all'avvocato di Jensen”, esclamò l'uomo, rivolto alla moglie.

Dispiace pensare che possa approfittarsene”, esclamò poi, quasi sovrappensiero.

Non mi è mai piaciuta quella donna, lo sai, e non mi meraviglierebbe se tornasse a Dallas solo perché non ha avuto accesso al conto di Jensen”, affermò Donna, chiudendo con troppa forza uno sportello della credenza.

In una delle vostre frequenti liti, Jensen te l'aveva detto che se si fosse sposato lo avrebbe fatto con quella ragazza. Perciò mettiti il cuore in pace. Sicuramente è il meglio che potesse trovare, data la situazione!”, replicò la suocera di Donna.

Quale situazione, mamma Beth?”, ribatté Donna, esasperata.

Neghi ancora dopo tutti questi anni, figlia mia?”, domandò, sorpresa, la vecchia signora.

Non saremmo in questa situazione se a mio nipote fosse stata data un po' di credibilità...”, aggiunse poi, sorniona.

Di cosa stai parlando, mamma?”, chiese Alan, allarmato.

Vecchia sì, demente no”, rispose, sibillina.

Non capisco. Cosa sta insinuando, Beth?”, replicò Donna, guardando dapprima la suocera e poi il marito.

Quel giovane, Jared, è sempre stato più di un amico, più di un fratello per Jensen. Inutili tutte le scuse che avete sempre tirato fuori per giustificare il comportamento di mio nipote. Non ho mai detto nulla perché gli voglio bene, ma...”, borbottò l'anziana donna, alzandosi in piedi e andando dall'acquaio per sciacquare le patate.

In quel momento entrò Jared in cucina con un'espressione rabbuiata in volto.

Che succede, Jared?”, chiese Donna, allarmata.

Clif mi ha appena chiamato, avvisandomi che i siti dei fans sanno dove è ricoverato Jensen. In pratica il passaggio dell'uragano Danneel, ieri, ha attirato l'attenzione. Mi ha detto che quando è arrivata al banco accettazione dell'ospedale ha fatto sì che il suo cognome da sposata rimbombasse per tutto l'atrio”, rispose lui, affranto. “E, purtroppo, i media seguono i fans o viceversa”, aggiunse, poi, funereo.

Grandioso”, sbottò Alan. “Forse, a questo punto servirà anche Clif...”, disse poi rivolto a Jared.

L'altro non parlò, immerso nei suoi pensieri. Si sedette anche lui accanto all'uomo più anziano e sospirò. Improvvisamente si sentì sull'orlo delle lacrime. Tutto quello che voleva in quel momento era che entrasse Jensen e dopo avergli messo le mani sulle spalle, gli sussurrasse che tutto sarebbe andato bene.

Sentiva lo sguardo teso dei genitori di Jensen su di lui. Alan gli mise una mano sul braccio. Jared alzò lo sguardo verso quelle persone che inconsciamente riteneva responsabili per tutto quello che stava accadendo ma nei loro occhi vide soltanto angoscia verso il loro figlio e affetto nei suoi confronti. Jared esalò un lungo respiro e infine esclamò: “A proposito Alan, scuse accettate!”

L'espressione dell'uomo si rasserenò e dopo avergli dato qualche pacca affettuosa, si alzò in piedi e annunciò: “Inoltro la lettere di tuo padre all'avvocato e poi andiamo in ospedale”

Mentre stavano per salire in auto, Jared ricevette l'ennesima telefonata. Intenzionato a non rispondere, diede una distratta occhiata allo schermo del cellulare e quando vide chi era il chiamante non poté far altro che rispondere.

Dottor Mitchell, mi dica”, esclamò Jared, con il cuore in gola, suscitando l'attenzione immediata dei coniugi Ackles.

Jared, quando potrebbe essere qui nel mio studio?”, chiese il medico, con una nota di urgenza nella voce.

Sto per mettermi in viaggio”, rispose Jared, annotando mentalmente il tono impaziente del clinico.

Ci sono problemi, dottor Mitchell?”, chiese il giovane.

Si, il fegato di Jensen stenta a depurarsi e pensavamo di allungare il periodo di coma di altre quarantotto ore. Tra quanto sarà qui?”

Jared ingoiò a vuoto. “Tra trenta-quaranta minuti. Dipende dal traffico sulla superstrada”, esclamò Jared, guardando l'orologio.

Va bene. La mia equipe ed io la aspettiamo, così le esponiamo tutti i parametri e risponderemo a tutte le sue domande. A dopo. Grazie”, replicò il medico, prima di interrompere la comunicazione.

Il viaggio fino al centro di Dallas fu taciturno e neanche mezz'ora dopo Alan, dopo aver imboccato alcune strade secondarie, parcheggiava nel seminterrato. Il parcheggio esterno del nosocomio era congestionato da furgoni con le paraboliche sul tetto di tutte le televisioni locali e del Texas e qualcuna nazionale. Alan riuscì a imboccare la rampa di accesso al livello sotterraneo e la guardia all'ingresso disse loro che da lì non sarebbe passato nessuno, se non autorizzato. Entrambi gli uomini nell'auto annuirono sollevati anche se erano consci che i giornalisti o paparazzi che fossero, se avessero voluto entrare, ci sarebbero riusciti.

Per evitare ogni possibile interferenza, le autorità ospedaliere avevano emesso un bollettino medico dove campeggiava la notizia che Jensen era ricoverato in rianimazione ed era in condizioni stabili ma gravi e sempre in coma. Senza specificare che questo fosse farmacologico e soprattutto che la rianimazione fosse da tutt'altra parte, rispetto alla neurochirurgia dove realmente era il malato.

Dopo una veloce visita a Jensen, il quale dormiva pacifico, ignaro di tutto quel trambusto, Jared andò nello studio di Mitchell. Alan lo informò che non se la sentiva di accompagnarlo. Sarebbe rimasto nella stanza con le ragazze e suo figlio. Jared annuì. Se avesse potuto, sarebbe rimasto anche lui lì con loro.

Nello studio trovò il medico assieme all'epatologo e al neurologo che completavano l'equipe che aveva in cura Jensen.

La trasformazione dell'alcol in lipidi, zuccheri o acqua avviene nel fegato con l'uso di un enzima, il quale, lentamente, procede la sua opera, soprattutto nel convertire l'etanolo in zucchero. Se le cellule epatiche sono già compromesse, questo processo rallenta ancora di più fino quasi a fermarsi. E se il fegato non riesce a trasformare l'alcol questo viene espulso attraverso il sudore e le urine”, spiegò il medico esperto in materia.

Purtroppo il corpo di Jensen continua ad espellere alcol e ciò vuol dire che il suo fegato non è ancora in grado di metabolizzarlo. I valori dei trigliceridi e delle lipoproteine nel sangue sono ancora elevati e ovviamente le scorte del glucosio sono ridotte mentre la produzione e l'accumulo di composti acidi sono molto elevati e hanno causato un abbassamento del Ph del sangue e una grave acidosi metabolica”, continuò a spiegare l'internista.

I termini medici erano abbastanza oscuri per Jared ma quello che gli parve chiaro erano le condizioni ancora critiche di Jensen. Cercava di ascoltare con attenzione ma la sua ansia crescente gli faceva deviare la mente su tutte quelle implicazioni che sarebbero scaturite con un coma indotto più lungo.

Capisco che tutti questi termini possano sconcertarla ma sono necessari per comprendere la situazione”, disse il dottor Mitchell, vedendo l'espressione smarrita del giovane.

Si, si, ho compreso benissimo ma vorrei conoscere le conseguenze di uno stato vegetativo più lungo”, ribatté il giovane, ansioso.

Più tempo passa nell'immobilità e più lunga sarà la riabilitazione ma noi speriamo che non sia così lunga da poter compromettere il suo stato fisico in modo permanente”, dissero i medici, cercando di essere positivi.

Jared accennò a un sorriso ma non si sentiva per niente tranquillo. Decise, però, di tralasciare per quel momento le sue inquietudini e di tornare velocemente in camera di Jensen e dai suoi cari. Firmò le carte che autorizzavano l'allungamento del coma indotto e discusse brevemente sul contenuto del successivo bollettino medico che sarebbe stato emesso per la stampa. Dopo di che si diresse verso il blocco di neurochirurgia. Gli era stato concesso un tesserino magnetico che gli permetteva di muoversi attraverso i passaggi riservati al personale in modo da sottrarsi agli sguardi morbosi della gente.

Purtroppo il suo cellulare non aveva smesso un attimo di vibrare nel taschino dei suoi jeans. Non poteva spegnerlo. Doveva mantenere un minimo di comunicazione con il mondo esterno. Lo estrasse per vedere chi lo stesse cercando. A parte i soliti giornalisti, bloggers e conoscenti, una persona spiccava per le numerose chiamate. Mentre stava per inoltrare la telefonata verso quell'interlocutore, il simbolo della chiamata in entrata spiccò sullo schermo.

Gomez, qual buon vento?”, scherzò Jared con voce alquanto lugubre.

Hey, Jared, come è la situazione?”, chiese lei, garbata ma con una nota di preoccupazione nella voce.

Quello che sai, purtroppo”, rispose lui, angosciato.

Si, immaginavo. Volevo avvisarti che sto per prendere un aereo da Los Angeles per Dallas. La WB mi ha incaricata di occuparmi della sua e vostra immagine. Ho, però, un paio di domande da farti, così, in base alle tue risposte, studierò una strategia durante il volo. Hai tempo ora?”, chiese Chico Gomez, la responsabile delle pubbliche relazioni della CW, la rete che metteva in onda Supernatural, e di conseguenza della Warner Bros, proprietaria dei diritti della serie televisiva.

Jared guardò l'orologio. Erano quasi le undici. Avrebbe voluto passare un po' di tempo con Jensen, prima dell'arrivo del cambio e del dover spiegare a tutti lo sviluppo degli eventi. Ci mancava anche la PR...Sospirò e dichiarò: “Si, dai, dieci minuti te li posso dedicare...”

A meno che non vieni a prendermi all'aeroporto e durante il tragitto fino all'ospedale, possiamo parlare con tranquillità. Che ne dici?”, fece lei, conciliante.

No, no, grazie Gomez, non voglio spostarmi da qua. Fammi tutte le domande che vuoi adesso”, rispose lui, in preda al panico.

“”Ok, ok, Jared. Tranquillo”, esclamò la responsabile delle pubbliche relazioni della produzione, avvertendo la paura nel tono di Jared. “Senti, Michaels ha detto che Jensen era ubriaco quando è andato a sbattere e che ora è piantonato dalla polizia. Puoi confermare?”

Non è piantonato. Fuori dalla porta c'è solo una guardia giurata dell'ospedale per impedire che qualcuno non autorizzato entri nella camera”, rispose Jared, un po' irritato.

Bene. Si mormora che il coma sia indotto e non causato direttamente dall'incidente. Tu sai il motivo?”

A questa domanda ti risponderò solo quando arriverai qui”, rispose, lui con cautela.

Un silenzio irreale pervase la linea. “Ok, va bene. Nessun problema, Jared”, disse lei, lentamente, come se stesse scrivendo o assimilando le sue risposte. “Danneel mi ha detto che era stato a un concerto prima dell'incidente e lei ha insinuato che il motivo dell'incidente potesse essere stato un loro litigio. Hanno intenzione di divorziare? Ne sai qualcosa?”

E perché mai hai parlato con Danneel?”, sbottò Jared che iniziava ad arrabbiarsi per tutte quelle domande senza fondamento.

Bè, Jared è sempre sua moglie, no?”, replicò lei, stizzita.

Si, certo, ma non è di certo una fonte attendibile. E poi sono io che ho la procura e non Danneel...”, ribatté il giovane, acido.

Si, mi ha detto anche quello e non ho capito il motivo. Me lo dovrai spiegare...”, disse lei, con un tono inquisitorio. “Mi sembra che abbiate fatto qualcosa di poco chiaro Jensen e tu, nonostante che fossimo stati chiari che voi due non dovevate più frequentarvi”, aggiunse lei, irritata.

Quando arriverai, ti spiegherò tutto”, esclamò lui. “Non c'è nulla di misterioso, Gomez. Ora devo andare. Mi raccomando, non stare a sforzarti a trovare qualche complotto da parte nostra ma piuttosto a impedire che i fans e tutto il circo mediatico che si sta organizzando in questo momento metta a repentaglio la privacy di Jensen e della sua famiglia”, sbottò Jared, prima di interrompere la conversazione.

Al suo rientro in camera fu accolto da un mix di odori, tra cui disinfettante e dopo-barba di Jensen e il suo sguardo fu deliziato da un mazzo di peonie dai mille colori che stavano in un vaso sul tavolino accanto al muro.

Lo hanno appena lavato e cambiato. Ho dato una mano alle infermiere a tenerlo mentre gli frizionavano la schiena dove aveva tutta la pelle arrossata”, esclamò Mac, seduta accanto al letto del fratello.

Già. Più durerà questo malefico coma e più dovremo poi affrontare le conseguenze di questo prolungato stato di immobilità”, esclamò Jared, avvicinandosi al letto.

I lineamenti erano sereni, come se stesse sognando chissà quali mondi fatati, immerso tra principesse, gnomi e folletti.

Chi li ha mandati quei fiori così belli? Sono quelli preferiti da Jensen”, chiese, poi, chinandosi ad annusarli e poi, scegliendone uno dai petali color Borgogna, lo sfilò dal mazzo e lo appoggiò sul cuscino accanto alla testa di Jensen.

Si, è per questo che li ho tenuti qui. Ne stanno arrivando un sacco e li facciamo mettere nella cappella o negli uffici delle infermiere o dei medici. Poi ho letto il biglietto e ho capito il motivo della scelta”, rispose la ragazza, tendendo una busta verso Jared.

All'interno vi era un biglietto:

Guarisci presto, Jensen, così potrò liberamente prenderti a sberle appena starai meglio!”

Jeffrey Dean Morgan

Ahaha, si solo Morgan poteva saperlo che questi fiori sono i preferiti di Jensen!”, esclamò Jared, inserendo il foglietto nella busta e poi mettendo il tutto in tasca.

E come mai?”, chiese Mac, curiosa.

Storia lunga”, borbottò Jared, con un'espressione meditabonda.

Bè, non è che abbiamo molto da fare qui”, ribatté Mac, togliendo inesistenti pilucchi sul copriletto che avvolgeva il corpo del fratello.

Il giovane annuì: “A proposito, dove è mia sorella?”, chiese Jared, accorgendosi solo in quel momento dell'assenza di Megan.

E' andata con mio padre nel reparto pediatrico a consegnare le decine di peluche che stanno arrivando qui”, rispose Mac, sospirando.

Anche i peluche!”, esclamò Jared, sconcertato.

E non solo quelli....credo che questo non sia niente, comunque. Sui social network la notizia è di dominio pubblico...”

Sta arrivando Chico Gomez, pubblicitaria della WB. Con lei studieremo qualcosa, magari una raccolta fondi per il reparto pediatrico o per i parenti dei pazienti in coma”, esclamò Jared, al quale era venuta quell'idea in quel momento.

Uh, si. Bella idea, Jared. A Jensen piacerà sicuramente!”, affermò Mac, entusiasta.

Jared sorrise e fece una carezza sulla fronte di Jensen. Se fosse stato da solo, si sarebbe sdraiato accanto a lui. Ne aveva così bisogno di quel contatto....

Rimasero per un po' nel silenzio più assoluto, fatta eccezione per il ritmico rumore del respiratore e i bip rassicuranti dei vari tracciati. Jared osservò tutti quei macchinari e si accorse che tra le varie flebo sopra il letto vi erano alcune sacche con dentro una sostanza semi-densa biancastra. Sicuramente proteine per alimentarlo. Si sorprese a pensare se gli stessero trasfondendo anche della caffeina. Jensen non viveva se non riusciva bere sei o sette tazzoni di caffè nero bollente al mattino. Come quella volta quando si erano incontrati per la prima volta negli uffici della Warner Bros....

Vederti sorridere in questi giorni è motivo di gioia per me”, disse ad un certo punto MacKenzie.

Si stavo pensando a quando ci siamo conosciuti a Los Angeles”, ammise lui.

Racconta, ti prego, così tengo a bada la mia ansia”, replicò la ragazza, la quale aveva il viso corrucciato dalla tensione.

Jared annuì. “Il giorno non me lo ricordo più ma so che era il febbraio del 2005. Il mio agente mi aveva mandato all'audizione per un nuovo telefilm e avevo già fatto un provino per la parte del protagonista più giovane. Quel giorno dovevo fare una prova con l'attore che era stato scelto per la parte del fratello maggiore. Sapevo solo che si chiamava Ackles perché il nome non l'avevo capito bene e aveva quattro anni più di me”, iniziò a spiegare Jared, sedendosi accanto al letto e mettendo le gambe accavallate per sistemarsi comodo.

Quando arrivai agli studios della WB, una delle segretarie mi disse che Jensen era già arrivato ed era in uno dei salottini a provare la scena che avremmo recitato assieme...”

Già al tuo primo giorno eri in ritardo?”, ghignò Mac.

Bè, io non sono mai arrivato puntuale, perciò...”, rispose Jared, ridendo, guardando di sottecchi Jensen per paura che se ne uscisse con qualcuna delle sue battute pungenti sul suo ritardo cronico.

Nell'avvicinarmi alla stanza iniziai a sentirmi accaldato e ansioso: non per l'audizione, in pratica mi avevano assicurato che la parte era mia, ma perché stavo per incontrare un collega con cui avrei dovuto lavorare a stretto contatto per qualche mese e cercare di andare abbastanza d'accordo per avere il consenso di andare avanti nella serie e magari anche il rinnovo”, spiegò Jared, agitandosi sulla sedia, al ricordo di quanto fosse nervoso quel giorno.

Un conto è un film dove devi girare un complessivo di trenta minuti di scene nell'arco di tutta la rappresentazione o magari la piccola parte che avevo in 'Una mamma per amica' dove non c'era tanta interazione fra gli attori. Qui si trattava di una serie dove ero protagonista con un altro tizio e basta. E se non mi fossi trovato bene con lui? E se fosse stato antipatico?”, narrava Jared, con il viso teso nel descrivere le sue sensazioni di quel giorno.

Magari ti fosse stato antipatico...?”, esclamò la giovane, continuando a ridere.

In quel mentre entrò Megan. Era esausta. Si accasciò su una sedia accanto al tavolino e appoggiò la testa al muro. “Continuate pure a parlare. Ho un mal di testa feroce...”, esclamò, chiudendo gli occhi. “Tuo padre”, aggiunse rivolta a Mac, “è andato a prendermi delle aspirine”

Vuoi che ti vada a prendere qualcosa da bere ai distributori?”, chiese Jared alla sorella, accennandosi ad alzarsi.

No, no, Jared, grazie. Tranquillo. Ho parlato fino adesso con una moltitudine di persone. Sono stravolta. Continuate a fare quello che facevate quando sono entrata”, rispose lei, sempre con gli occhi chiusi, mentre cercava di rilassarsi.

Ok, stavo raccontando a Mac di quando ho incontrato per la prima volta Jensen”, disse rivolto alla sorella. “Allora stavo per entrare in quella stanza. Ero in preda al panico. Ansimavo come se avessi corso la maratona. Lui era seduto su un divanetto con dei fogli in mano. Camicia nera, senza cravatta, pantaloni color cachi aderenti e scarpe sportive. Quando lui si girò a guardarmi con quei suoi occhioni verdi, io ebbi un mancamento. Era come se mi fossi trovato in un museo italiano davanti a una statua di un dio greco. Rimasi lì come un idiota, con la bocca semi-aperta e uno sguardo completamente ebete”, disse Jared, arrossendo al ricordo.

Lui si alzò in piedi e venne verso di me, allungandomi la mano destra in segno di saluto. Cercai di darmi un contegno e mi avvicinai per stringergliela ma quando fu a pochi passi da me, mi resi conto che io ero cotto di lui!”, ridacchiò imbarazzato Jared.

Di già?”, chiese Megan, ora più attenta al racconto del fratello.

Hai presente il 'colpo di fulmine'? Ebbene mi ero innamorato perdutamente di quel giovane nel momento in cui lui si era girato a guardarmi!”, rispose lui, chinandosi ad appoggiare la propria fronte sul braccio di Jensen.

E poi?”, lo incalzò Mac.

Si presentò: “Ciao, sono Jensen Ackles. A quanto pare dovremo recitare assieme la parte di due fratelli. Spero tu mi sopporterai. So essere particolarmente noioso, a volte!”, esclamò Jensen, guardandolo dritto negli occhi.

Piacere di conoscerti. Sono Jared Padalecki. Oh, anche io non sono immune a turbe psichiche”, rispose Jared, ancora scombussolato dall'essere così vicino a quel meraviglioso ragazzo.

Sai mica dove posso trovare del caffè decente? Quello datomi dalla segretaria prima era acido fenico e io, se non bevo un litro di caffè prima di iniziare a recitare, non riesco a calarmi nella parte”, affermò Jensen, passandosi le mani sudate sui pantaloni.

Qui agli studios? Mah, forse da Ed. Non so se possiamo allontanarci, però”

Lo chiediamo al cerbero all'entrata. Prima mi ha detto che sono tutti in ritardo. Vieni!”, esclamò Jensen, facendomi segno di seguirlo.

Jared continuava a raccontare alle due ragazze ma in pratica riviveva quei momenti con estrema malinconia.

La segretaria ci disse che Kripke era appena arrivato e quindi non potevamo allontanarci. Perciò telefonai al servizio di catering che riforniva il set di 'Una mamma per amica' chiedendogli di portare su un paio di tazze del suo caffè. Poco dopo un estasiato Jensen sorseggiava rapito quel liquido nero bollente mentre io ero in paradiso per averlo reso felice”

Cosa che hai continuato a fare per tutti questi anni”, mormorò Mac, guardando con emozione Jared che toccava le dita di Jensen come se fossero state le reliquie di un santo.

Entrammo subito in sintonia. Leggemmo e ci esercitammo in quella stanza come se avessimo lavorato assieme da anni e quando ci chiamarono dentro, la recitammo quasi a memoria e mi rimase impressa l'espressione di Kripke e Manners che ci guardavano come se fossimo stati degli alieni”, disse Jared, con gli occhi lucidi.

Dopo la prova andammo a berci una birra insieme e iniziammo a raccontarci l'un l'altro particolari della nostra vita. Lui ammise che aveva fatto una ricerca su di me su Google e quando aveva appreso che anche io ero texano aveva fatto salti di gioia. Eravamo increduli nell'apprendere su quante cose eravamo simili. Era tutto un'esclamazione di meraviglia sia da una parte che dall'altra”, continuò a raccontare Jared.

Ovviamente l'unica cosa che avete taciuto era l'inclinazione sessuale...”, mormorò Megan, strizzando l'occhio in modo complice a Mac.

Jared avvampò. “Certo perché al tuo collega tu confesseresti di essere bisex e soprattutto che ti sei innamorato di lui nel momento stesso in cui gli hai messo gli occhi addosso? E poi lo vedevo che flirtava con la cameriera e con tutte le donne che si accorgevano di lui”, ribatté il giovane, dopo aver lanciato uno sguardo di fuoco alla sorella che rideva senza ritegno.

Certo che no...”, ghignò Megan, suscitando il riso anche di Mackenzie.

Quando ti sei accorto che anche lui nutriva il tuo stesso sentimento?”, chiese la sorella di Jensen.

Sembrerà strano ma non me ne sono accorto. Ero troppo occupato a nascondere i miei sentimenti, finché una persona non ci ha costretto ad affrontare questo discorso!”, rispose Jared.

Ah, si? E chi è stato?”, chiese Mac, ma poi seguendo lo sguardo di Jared capì chi fosse stato il responsabile. Jared aveva preso in mano la peonia che era accanto al viso di Jensen e la stava annusando.

Jeffrey Dean Morgan?”, chiese Mac, stupita.

Si, proprio lui. E' grazie a Jeffrey se siamo diventati una coppia e lui ci ha aiutati a dipanare la rete intricata dei nostri sentimenti”, ammise Jared. “Stavamo girando la puntata numero venti della prima serie. Con Jeff avevamo già lavorato in due puntate e ci eravamo trovati bene. Nonostante che non ci fosse così tanta differenza di età tra di noi, si era dimostrato molto paterno e ci aveva difeso qualche volta dalle angherie di qualche regista o dalle pignolerie di Manners. Un giorno ci disse che aveva bisogno di parlare con noi due in separata sede e visto che aveva molte conoscenze tra registi e produttori, pensammo subito che, forse, poteva sapere qualcosa sul rinnovo della serie. Andammo a cena insieme in una pausa delle riprese in un ristorante di Vancouver dotato di piccole stanze dove cenare in tranquillità. Stavamo gustando una meravigliosa bistecca al sangue, quando decise di sganciare la bomba:

Vi siete mai accorti voi due di come vi guardate l'un l'altro, quando pensate che l'oggetto del vostro interesse è impegnato in altra attività?”, esclamò Jeffrey, guardando i due giovani colleghi.

Jensen e Jared, dapprima strabuzzarono gli occhi, poi impallidirono e infine a Jared andò di traverso il vino che stava bevendo, mentre Jensen assumeva in volto il colore del foliage autunnale canadese.

Ma cosa ti salta in mente, Jeff?”, esclamò Jensen, mettendosi sulla difensiva. “Guardare? Lui? E in che modo?”, continuò Jensen, ironico, scrollando la testa.

Jeff accennò a un sorriso sornione, come di un gatto che ha catturato un topo da lungo tempo braccato. Poi tirò fuori dalla tasca il suo cellulare e dopo aver scorso la galleria delle sue foto, ne scelse una dove Jensen guardava rapito Jared mentre veniva truccato prima di filmare una scena. Girò lo schermo e fece vedere la foto ad entrambi.

Ora non verrete mica a dirmi che così si guardano due uomini etero, vero?”, chiese l'attore più anziano ai due attoniti colleghi più giovani.

Cosa stai insinuando, Morgan?”, chiese Jensen, alzandosi in piedi e gettando il tovagliolo a terra.

Jeffrey lo ignorò e si girò ad osservare Jared. Aveva ripreso a respirare normalmente e continuava a guardare la foto sul telefono.

Ce ne sono altre?”, chiese poi, titubante il giovane rivolto all'attore più anziano.

Jared, non vorrai mica dar credito a queste sciocchezze, vero?”, lo ammonì Jensen,

Jared non rispose. Aspettò l'assenso di Jeff e iniziò a passare il dito sullo schermo per sfogliare l'album digitale.

Che stupido sono stato!”, esclamò poi, dopo alcuni minuti. “Non me ne sono accorto proprio!”

Ma di cosa parli? Accorto di cosa?”, chiese Jensen, con una nota di panico nella voce.

Jeff attese che ci fosse l'auspicata spiegazione di entrambi. La pacatezza di Jared e l'angoscia di Jensen equivalevano per lui ad una ammissione.

Io torno in albergo! Quando vi sarà passata la voglia di fare gli stupidi, mi avvisate!”, esclamò Jensen, afferrando la giacca dal portamantello.

Aspetta, Jensen”, lo richiamò Jared, alzandosi in piedi. Il tono era stato perentorio e Jensen si fermò proprio sul ciglio della porta.

Jared, con due falcate, lo raggiunse e gli mise una mano sulla spalla. Il tocco gentile lo fece girare e si ritrovò davanti quel gigante di cui ormai conosceva ogni singolo pensiero. Jensen non lo avrebbe mai ammesso ma se n'era perdutamente innamorato e Jared ne fu convinto quando poté guardarlo direttamente negli occhi. Sapeva, però, che non lo avrebbe mai confessato apertamente a meno che non fosse stato tradito dal proprio corpo.

Quindi fu per questo motivo che lo spinse verso il muro e infischiandosene del fatto che Jeff fosse presente, lo baciò sulle labbra. Jensen si divincolò come un gatto preso in braccio e spinse via Jared: “Che diamine stai facendo, Jared?”, urlò, poi, inorridito, passandosi, disgustato, una mano sulla bocca per pulirsi. Jared avanzò nuovamente verso di lui, appoggiò entrambe le mani sul muro, intrappolandolo e poi gli disse: “Per quanto andrai avanti a fingere, Jensen?”

Fingere? Cosa, Jared?”, chiese Jensen, non accennando, però, a togliersi da quella scomoda posizione.

I tuoi sentimenti verso di me!”, rispose Jared, accarezzando il viso dell'altro.

Il bel colore rosso delle querce canadesi nel mese di novembre tornò a tinteggiare le gote di Jensen. “Sei il mio migliore amico...”, farfugliò poi.

Oh, si, molto di più di questo, Jensen, molto di più..”

Non è vero. Io non sono come tu dici. Ho una ragazza e ne potrei avere a centinaia, se volessi!”, tentò di difendersi.

Ah, si? E che mi dici allora di quello strano rigonfiamento nelle tue parti basse?”, ghignò Jared.

Il lampo d'ira negli occhi di Jensen lo fulminò e Jared riconobbe lo sguardo di Dean quando era furioso e stava per prendere a pugni qualcuno, così si preparò mentalmente a incassare la sventola che stava per arrivargli ma non fu minimamente predisposto a quello che invece fece Jensen.

Con le mani gli afferrò la testa, la avvicinò a sé e lo baciò con trasporto.

Jeffrey Dean Morgan esalò un sospiro di soddisfazione e si congratulò con se stesso. Prese il suo telefono, il giaccone e passando accanto ai due giovani intenti ad esplorarsi a vicenda le cavità della bocca, esclamò: “Quando avrete finito di fare quello che state facendo, cercatevi una stanza!”

Poi chiuse delicatamente la porta e passando accanto al maitre gli disse di non disturbare i due attori i quali stavano provando una scena fondamentale per il finale del telefilm. Detto ciò, uscì dal ristorante, ridacchiando.

 

Angolo di Allegretto

 

Chiedo venia per il ritardo abissale con cui posto questo capitolo. Ho così unito due capitoli in modo da soddisfare in parte alcune vostre richieste. Ringrazio sentitamente tutti quelli che seguono, leggono e recensiscono questa storia.

Vorrei descrivere una scena nella quale Jared legge ad alta voce a Jensen, ancora addormentato, alcuni passi da un libro. Secondo voi, quale libro potrebbe testimoniare il loro amore contrastato e pieno di sentimento?

Grazie mille. A presto!!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Capitolo Sette ***


Capitolo Sette

 

Suzanne Gomez era la responsabile delle pubbliche relazioni del canale che trasmetteva Supernatural negli Stati Uniti ma rappresentava anche gli interessi della Warner Bros detentrice dei diritti della serie. Donna piacente, di origini messicane, era conosciuta nel suo ambiente per essere coriacea a tal punto da riuscire a tenere testa ai capricci degli attori più problematici.

Jared l'aspettava nella caffetteria e quando la vide arrivare ne ammirò i vestiti eleganti ma al tempo stesso sportivi. Una borsa di ridotte dimensioni ma contenente sicuramente un'agenda e un I-Phone completava il quadro della donna in carriera aperta a ogni compromesso e a ogni risoluzione possibile. Il suo volto tradiva, però, una certa tensione.

“Ciao, Jared. Come stai?”, esclamò lei, sedendosi davanti a lui.

“Diciamo bene. Vuoi qualcosa da bere?”, chiese lui, gentile.

“Si, grazie. Un'acqua tonica. Si muore dal caldo. Ora capisco Jensen quando si lamenta sempre del freddo di Vancouver”, esclamò lei, tirando fuori dalla sua borsa un'agenda rilegata in pelle e un Iphone, ultimo modello.

Quel gesto strappò un sorriso a Jared.

“Come sta Jensen? Ci sono novità?”, chiese lei, dopo che lui aveva fatto l'ordinazione per lei e un caffè-latte per se stesso.

“Prima di rispondere alle tue domande, vorrei sapere quanto ne sai su questa storia?”, chiese lui, curioso di conoscere quanto fosse trapelato all'esterno.

“Uhm, so che Jensen si è schiantato contro un albero con la sua macchina, perché era ubriaco in seguito a un litigio con sua moglie ed ora è in coma a seguito delle ferite riportate”, affermò lei, sicura.

“Da dove hai appreso queste notizie?”, chiese Jared, con un espressione attonita dipinta sul volto.

“Qualcosa da Michaels o da persone che conosco che vivono qui a Dallas e altre in internet da quelle che si chiamano fonti sicure. Perché?”, chiese lei, sconcertata dalla reazione di Jared.

“In pratica quasi tutto quello che hai detto tu non corrisponde a verità!”

“Ma figurati! E cosa sarebbe falso?”

“Bè, intanto non c'è stato alcuno litigio con Danneel e il coma è stato indotto per uno scopo ben preciso”, replicò Jared.

“Indotto? In che senso?”, chiese lei, bloccandosi, mentre stava per scrivere nell'agenda.

Jared le raccontò brevemente quanto era accaduto e l'espressione di curiosità dell'addetta alle pubbliche relazioni passò ben presto a quella di stupore e incredulità.

“Michaels mi ha detto che è arrivato in ospedale già in coma”, esclamò, poi, meravigliata che il produttore le avesse detto qualcosa di falso. “E per quale motivo mi avrebbe mentito?”

“Diciamo che era una mezza verità...”, spiegò Jared, sorseggiando la sua bevanda..

“In che senso?”

“Tu sei vincolata al silenzio professionale, vero?”, chiese Jared, ignorando la sua domanda.

“Si, certo, Jared. Ahaha, se no ormai la vostra storia la saprebbero anche su Marte”, rispose lei, ridacchiando.

“Ah, bè, con tutti i forum e i blog sparsi per il web, non c'è quasi più niente che gli altri non abbiamo intuito”, ammise lui, ghignando.

“Appunto, sono illazioni”, affermò lei, risoluta. Era suo compito intorpidire le acque e confondere i fans, cercando di coprire le mosse false dei due attori. “Allora, Jared, spiegami tutto!”, esclamò poi la donna, pronta con penna a scatto in mano e una bella pagina bianca dell'agenda da colmare con la sua minuta scrittura.

“Il problema di Jensen è l'alcol e questo è stato evidenziato dalle analisi che hanno sancito l'alcolismo cronico”, dichiarò Jared, con tono grave. “Di conseguenza il coma è indotto per permettere all'organismo di Jensen di depurarsi per poi potergli somministrare i farmaci adatti a far assorbire l'ematoma”, continuò il giovane a spiegare.

“Vuoi dirmi che i medici hanno posto Jensen in coma perché è talmente intossicato da non poter assumere alcun medicinale?”, chiese lei, attonita.

“Bingo!”, rispose lui, trionfante.

Suzanne non si capacitava della situazione.

“Sapevo che era diventato un forte bevitore ed è per questo che gli avevamo suggerito di non guidare qui negli Stati Uniti per evitare ogni infrazione legata all'alcol e che gli avrebbe impedito di rientrare in Canada ma che fosse così compromesso non me lo sarei mai immaginato”, esclamò lei, passandosi una mano sugli occhi, come per scacciare il fantasma del fallimento. “E il motivo di tale peggioramento?”, domandò poi nel tentativo di capire tale situazione.

“Così per sgravare la mia coscienza, potrei dire che la causa primaria sei stata tu. I tuoi divieti, i tuoi consigli forzosi e la strada obbligata che il network ci ha imposto hanno causato tutto ciò”, rispose Jared, affranto. “Questo non mi consola per niente. Avrei dovuto lottare e convincerlo a non perseguire questi suggerimenti”, aggiunse. Poi nell'appoggiarsi allo schienale della sedia, sbuffò e chiuse gli occhi.

Passarono alcuni minuti di silenzio. Jared, abbandonato sulla sedia, con le gambe allungate e la mano a coprire il volto in segno di esaurimento fisico e mentale, mentre Suzanne scriveva qualcosa nell'agenda con gran fervore.

L'atmosfera nella caffetteria era tranquilla. L'aria condizionata faceva gli straordinari per rendere l'ambiente fresco e poco umido mentre fuori il sole era alto e al massimo della potenza. Chi poteva restava a lungo seduto ai tavolini, ma alcuni di loro erano più interessati a quei due giovani in fondo alla sala piuttosto che al timore del colpo di calore al di fuori di quel luogo rinfrescante.

La donna si guardò intorno e si rese conto dell'audience. Dovevano sbrigarsi a uscire da lì anche se aveva bisogno di altri particolari prima di delineare una strategia.

“Jared, bisognerà prendere provvedimenti quando lui si sveglierà dal coma”, esclamò lei sottovoce, scrollando il braccio del giovane.

“Ovvio. Jensen dovrà andare in una clinica a disintossicarsi!”, replicò lui, sedendosi un po' più composto e guardando in viso la pubblicitaria, la quale sgranò gli occhi dalla sorpresa.

“Clinica? Disintossicarsi?”, esclamò, poi, retoricamente. “Ma ciò non è assolutamente possibile. Tra meno di due mesi dovete tornare a filmare e poi come potrei giustificare una decisione del genere?”, aggiunse, poi, quasi ansimando.

“Ahaha, sinceramente a me non frega un accidente sul come farai a sbrogliare questa matassa. So solo una cosa. Jensen è un alcolista e volente o nolente dovrà confrontarsi con le sue paure!”, esclamò Jared a bassa voce con fervore.

L'espressione della pubblicitaria era di puro sgomento. Si poteva benissimo leggere nel suo sguardo il tentativo di trovare una soluzione che non scontentasse nessuno e soprattutto non causasse danni economici agli enti che rappresentava in quel momento.

“Bel casino!”, ammise lei, dopo alcuni momenti di riflessione.

“Si, dovrai mettere in atto tutte le tue strategie da PR agguerrita”, dichiarò Jared, alzandosi in piedi.

Le annuì, non sapendo bene se quello che aveva detto l'attore fosse stato pronunciato con ironia o meno.

“Posso vedere Jensen?”, chiese poi Suzanne, dopo aver riposto l'agenda e l'Iphone nella borsa.

“Bè, non c'è molto da vedere ma se è indispensabile, ti accompagno su”, esclamò Jared, estraendo una banconota da 10 dollari e alcuni spiccioli dal portafogli e lasciandoli sul tavolino.

Nel percorrere i corridoi interni dell'ospedale a Jared tornarono alla mente tutti gli incontri fatti con quella donna e i loro agenti negli uffici della produzione a Los Angeles e a Vancouver, per studiare le strategie di immagine in modo da schermare la loro relazione e non arrecare danno alla serie televisiva incentrata su due fratelli.

Avevano accettato tutto quello imposto, suggerito, consigliato loro. 'Troppo supinamente', pensò Jared. E questo pensiero era quello che più lo tormentava in quei giorni. Non aveva lottato o comunque lo aveva fatto troppo debolmente. Se solo avesse...

Entrando nella camera Suzanne rimase annichilita davanti alla vista di quell'uomo inerte, con la testa fasciata da bende cerulee, il respiratore automatico, le flebo, i monitor con le loro lucine intermittenti e quei suoni sinistri che emettevano gli altoparlanti.

“Ooooh...”, le sfuggì di bocca, avvicinandosi al letto, portandosi una mano sul viso in segno di sgomento.

Nella stanza erano presenti Jeff ed Alan, i quali si alzarono in piedi non appena la dipendente della WB entrò dentro. La conoscevano bene entrambi. Era stata a tutti e due i matrimoni e aveva contribuito non poco alla creazione di quel mondo perfetto ma falso e irreale, causa primordiale di quanto era successo.

“Signor Ackles, coraggio! Vedrà che andrà tutto bene. Jensen tornerà quel ragazzo forte e intraprendente che era prima!”, esclamò la donna, stringendo la mano all'uomo. “Se posso aiutarla in qualche modo, me lo faccia sapere immediatamente”, aggiunse, poi. Alan annuì, ricambiando la stretta. “Se potesse evitare la divulgazione di notizie, sarebbe fantastico!”, esclamò Alan, sospirando.

“Cercherò ma sarà difficile! Soprattutto quando Jensen entrerà in clinica...”, mormorò lei, rivolgendo lo sguardo verso il letto. “Vedrà che troverò una tattica”, promise poi voltandosi verso il padre di Jensen.

“Va bene. Ti accompagno giù!”, esclamò Jared, facendo un cenno di saluto ai due uomini e aprendo la porta per far uscire la donna, la quale parve sollevata di lasciare quella camera.

Nell'ascensore in discesa verso l'uscita, l'atmosfera era pesante. Suzanne Gomez era impegnata a cercare di focalizzare i suoi pensieri, ma la sua mente era rivolta al corpo inerte di Jensen e a quello che significava per tutti quanti. Emise un paio di sospiri, molto lunghi e sofferti e a un tratto tirò su lo sguardo verso Jared. Solo a quel punto si rese conto di quanto stesse male l'altro. I suoi occhi velati di tristezza e paura la colpirono quanto un pugno diretto al mento.

“Scusami Jared. Avrei dovuto immaginare la tua pena per questa situazione!”, esclamò lei, mettendogli una mano sul braccio.

Lui sussultò al contatto. “Non ti preoccupare. So che hai altro di cui occuparti...”, replicò lui, asciutto, uscendo fuori dalla cabina.

Lei non disse nulla. Lo seguì dalle porte automatiche, fermandosi accanto a lui.

“Diremo che Jensen avrà bisogno di un periodo di riabilitazione fisica dopo l'incidente, perciò cercherò una clinica dove si possa fare quello, oltre la disintossicazione”, affermò lei, subito dopo.

“Dovremo aspettare cosa dirà il giudice, prima”, replicò Jared, dubbioso.

“Giusto. Ho bisogno di parlare con l'avvocato di Jensen, così potrò rendermi conto della situazione legale. Dammi il suo numero, per favore”, ribatté lei, tirando fuori il suo cellulare.

“Te lo manderò via email più tardi. Ora non ce l'ho qui con me”, esclamò Jared, iniziando a irritarsi. Voleva tornare da Jensen e inoltre già aveva sopportato a stento quella donna in passato, in quel momento proprio non la reggeva per niente.

“Jared, so che sei qui per aiutare la famiglia di Jensen e così fanno anche i tuoi colleghi ma passi troppo tempo in ospedale; dai adito a chiacchiere. Fai venire qui Genevieve e il tempo che passi nel nosocomio, negli ambienti comuni devi avere lei al suo fianco”, ordinò Suzanne, guardando quell' uomo così alto, forte e affascinante dall'esterno ma tremendamente fragile e insicuro all'interno.

“Non verrà mai qui. Lei odia il Texas!”, sbottò lui incredulo.

“Un assegno con quattro zeri le farà cambiare idea”, dichiarò la pubblicitaria pratica. “Sarà qui entro stasera, Jared”, disse lei perentoria.

Jared sbuffò e diede una manata contro lo stipite in acciaio della struttura, suscitando l'attenzione delle persone che entravano e uscivano.

“Non la voglio qui! Sarebbe d'intralcio e darebbe fastidio agli altri. Non puoi costringermi, Gomez”, esclamò poi con tono alterato.

“Hai firmato un contratto, Jared! Odio dirtelo ma non ci puoi fare nulla”, replicò lei, decisa. “Quando sei in pubblico, deve esserci anche lei” aggiunse, inflessibile, prima di andarsene.

A Jared gli si strinse la gola ed ebbe la sensazione di stare per soffocare. Cercò di darsi un contegno per non attirare sguardi indiscreti e ritornò velocemente in camera.

Là a Jeff non sfuggì l'espressione smarrita del fratello. Il suo solito velo di tristezza che lo aveva contraddistinto in quei giorni si era trasformato in qualcosa di più cupo e ciò lo preoccupò non poco. Pensò subito a Jensen. Forse i medici lo avevano informato di qualche cambiamento in negativo.

“Jared? Che succede? Qualcosa su Jensen?” chiese il fratello maggiore andando incontro al minore.

“No. La Gomez vuole che dica a mia moglie di venire qui. Serve la cortina fumogena...”, rispose Jared andandosi a sedere accanto al letto di Jensen.

“Ah, per un attimo mi hai fatto preoccupare. Pensavo ci fossero cattive notizie sulle sue condizioni”, esclamò Jeff indicando il malato ed esalando un sospiro di sollievo.

“Non ti rendi conto che avere Genevieve qui è peggio di una sciagura?”, ribatté Jared esasperato alzando la voce.

“E cosa potrà mai fare? Rompere le scatole? Ormai ci dovresti essere abituato e poi le dai la tua carta di credito e vedrai che tacerà all'istante”, replicò Jeff, dando una pacca affettuosa sulle spalle del suo 'piccolo' fratello.

“E' facile per te...”, mormorò Jared, mettendo il broncio.

“Ci siamo noi qui. Fare tanto la smielosa le conviene poco...”, disse Jeff, convinto. “Comunque tra poco te ne vai a casa. Non ti voglio qui a struggerti per nulla. Hai bisogno di staccare la spina”, aggiunse poi, allacciandosi il marsupio in vita. “Vado a prendere una boccata d'aria e ti lascio un po' qui da solo con Jensen. Poi vai dagli Ackles a riposarti”

Dopo l'uscita del fratello, Jared cercò di rilassarsi. Mise una poltrona parallela al letto di Jensen, si sedette, allungò le gambe su un'altra sedia, mise una mano sul torace dell'uomo accanto a sé e cercò di sincronizzare il suo respiro con quello del respiratore automatico.

Così lo trovò Jeff mezz'ora dopo. Ghignò silenziosamente al vedere Jared addormentato accanto alla persona più importante della sua vita. Lo lasciò dormire a lungo. Si assicurò che le infermiere o i dottori non lo svegliassero, nonostante le loro manovre attorno al malato ma fu abbastanza chiaro che nessuno lo avrebbe mai svegliato, tanto era stanco e provato.

Verso le sei, quando Jim e Misha si palesarono per il cambio, di comune accordo fecero un po' di trambusto nella stanza per scuotere il giovane dal mondo dei sogni in cui si era rifugiato.

Quattro paia di occhi lo scrutavano quando il giovane aprì i suoi. Era rilassato e per un attimo ebbe un moto di confusione non riconoscendo né il luogo né la motivazione per cui era là e in quella posizione.

“Hai dormito bene, bell'addormentato nel bosco?”, chiese Jim, passandogli un bicchiere di caffè caldo, proveniente dal thermos, appena portato da casa.

Jared sorrise, poi si stiracchiò in stile felino e si alzò. “Magnificamente, grazie!”, rispose, mentre metteva a posto la sedia. “Sapete mica, se c'è una biblioteca qui in ospedale?”, chiese poi agli astanti.

“Si, è al primo piano. Più che altro ci sono riviste e postazioni internet ma ci sono anche libri”, rispose Alan, mentre raccoglieva la sua roba. “Ma se ti serve un libro, adesso andiamo in centro al WalMart, a comprare alcune cose per Jensen e per mia moglie e lì hanno un reparto libreria ben fornito”

“Ah, ottimo”, rispose Jared, chinandosi a baciare Jensen sulla fronte. “Ci vediamo domani, Jen. Ti porterò qualcosa che ti piacerà sicuramente. Sono stato sciocco a non pensarci prima”, aggiunse, poi, sussurrando e facendogli una carezza sul viso liscio e ricolmo di lentiggini del giovane.

Dopo aver salutato gli amici e colleghi, Alan, Jeff e Jared lasciarono l'ospedale. Guidava Jared, ben riposato dopo la dormita, e sicuramente bisognava essere calmi e razionali per sopravvivere al caos dell'ora di punta sulla superstrada che correva attorno a Dallas.

“Poi mi lamento di Los Angeles....”, bofonchiò ad un certo punto Jared, quando uno gli tagliò la strada. “Ma non è vietato andare a zig-zag da una corsia all'altra. In California ti radiano la patente!”, urlò poi fuori dal finestrino verso quel guidatore spericolato.

“Qui è permesso tutto, tranne l'omicidio!”, esclamò Alan, sospirando.

“Già. D'altronde ad Huntsville devono pur dar da lavorare alle persone”, mormorò Jeff.

“Mah, un business come tanti”, aggiunse Jared, ben conscio delle idee repubblicane e conservatrici di Alan. Aveva impiegato anni a far cambiare idea a Jensen e a farlo schierare dalla parte dei democratici. In Texas non solo vi era la pena di morte, ma era negato anche l'aborto se non a scopo terapeutico, anche se ostacolato anche quello, per non parlare delle unioni omosessuali viste peggio di un omicidio. Esisteva ancora la legge che vietava a due gay di farsi vedere in pubblico. Jensen era cresciuto con quelle tare ideologiche e parte delle sue paure risiedevano proprio nella sua infanzia.

Il parcheggio del Wal-Mart era quasi pieno. Il rischio di essere riconosciuto era alto ma Jared declinò l'invito di rimanere in auto; aveva bisogno di comprare qualcosa di cui gli era venuta l'ispirazione durante il suo sonnellino.

“Ok. Jeff vai con Jared. Sai cosa devi prendere. Io vado a cercare quello che mi ha chiesto Donna. Ci vediamo qui tra un'ora. Ci fossero problemi, ci sentiamo via messaggio”, disse il padre di Jensen, prima di allontanarsi.

“Cosa dobbiamo prendere per Jensen?”, chiese Jared, mentre indossava i suoi Ray-Ban scuri e si calcava sulla testa un cappellino nero dalla tesa abbastanza lunga da coprirgli il volto.

Suo fratello scoppiò a ridere. “Jared, l'unico modo per passare inosservato è quello di tagliarti le gambe!”

Jared lanciò un'occhiataccia a Jeff ma la sua espressione ilare lo costrinse anche lui a esternare il suo riso.

“E un'altra cosa, Jay. Non ridere! La tua risata è riconosciuta a livello internazionale!”, ghignò, allontanandosi.

“Biancheria intima, due pigiami e due tute per quando si sveglierà e inizierà a fare fisioterapia. Qui ha poco e comunque non adatto a un ospedale o così dice sua madre...”, rispose suo fratello, mentre varcavano le porte automatiche del complesso e venivano piacevolmente aggrediti dall'aria condizionata in stile Groenlandia.

Jared sogghignò al pensiero di uno dei pigiami di Jensen, dove sulla maglietta campeggiava la foto del Sam della sesta serie mentre stava facendo gli addominali appeso a un'asta e la scritta

Sono tutto tuo! 'No, non era proprio adatta per un ospedale', sospirò Jared, sconsolato.

“Che misure porta Jensen?”, chiese Jeff, mentre controllava la lista che gli aveva consegnato Alan.

“Di solito la XL ma forse ora indossa la L. Cerca colori neutri o scuri. Niente di sgargiante. Non prendere magliette della pelle. Non ne usa. Semmai qualche T-shirt andrà bene. E i boxer scegli quelli neri, azzurri o bianchi. Nessun disegno o scritta”, spiegò Jared, mentre osservava con attenzione un grande display riportante l'ubicazione dei vari reparti.

“In che senso 'prendigli'?”, chiese Jeff, sorpreso. “Non vieni con me?”

“No, vado laggiù”, indicò Jared un punto non meglio identificato dell'immenso complesso. “Ci vediamo dopo”, aggiunse poi, allontanandosi a grande falcate verso la sua agognata meta.

Jeff scrollò le spalle. Sapeva per esperienza che quando suo fratello si metteva in testa qualcosa era impossibile fargli cambiare idea a meno che non si volesse ingaggiare una rissa. E in quel luogo e in quel momento non era proprio il caso.

Cercò di ricordarsi tutto quello che gli aveva detto prima sulle taglie e colori preferiti di Jensen. Diamine, avrebbe dovuto occuparsene Jared. In fondo era lui quello che lo conosceva meglio e ciò era dovuto alla loro assidua frequentazione nei sei anni precedenti passati insieme. Suo fratello minore peggiorava sempre di più, nonostante stesse per compiere trenta anni, fosse sposato da più di un anno e che amministrasse con oculatezza un patrimonio milionario. No, era ancora dominato dai suoi ardori adolescenziali. Non imputava alcun misfatto al fratello ma rabbrividì al pensiero che avrebbe potuto mandare al diavolo la sua luminosa carriera se solo Jensen gli avesse detto di farlo.

Sbuffò mentre riempiva il carrello di pigiami, magliette, biancheria intima delle taglie e dei colori indicatigli dal fratello. Si rendeva conto però che vedere Jared felice era per lui più importante di qualsiasi decisione suo fratello avesse preso.

Nel frattempo Jared aveva trovato quello di cui bramava da quando si era svegliato dal suo pisolino. Dopo aver artigliato una edizione di 'Romeo e Giulietta' e una di 'Cime tempestose', iniziò a scrutare i dorsi dei libri contenuti nello scaffale della narrativa. Campeggiavano autori come Nicholas Sparks e Rosamunde Pilcher. Era talmente tanto assorto che non si accorse che il commesso lo aveva avvicinato. “Ha bisogno di un consiglio?”, gli chiese costui.

Jared, dapprima sussultò, sorpreso. Poi si girò a vedere chi fosse il suo interlocutore. Un uomo sulla quarantina in giacca e cravatta blu e il simbolo del grande magazzino che campeggiava sulla camicia bianca. Jared si rilassò immediatamente.

“Sto cercando un libro in particolare. Mi ricordo vagamente la trama. So che è di Nicholas Sparks. Ho visto, però, solo il film”, rispose Jared, riprendendo a scrutare il dorso delle decine di libri scritti da quell'autore specializzato in romanzi d'amore.

“Hm, cosa si ricorda della trama del film?”, chiese l'addetto, afferrando l'Ipad sulla sua scrivania per accedere al catalogo.

“Si, parlava di una donna che trovava una bottiglia con dentro una lettera su una spiaggia”, rispose il giovane, continuando a guardare le copertine variopinte.

“Ah, si ho capito! Si intitola 'Le parole che non ti ho detto'”, affermò subito dopo l'uomo, sorridendo. “Gran bel libro”, aggiunse poi, mentre cercava il volume in questione sullo scaffale.

“Già. Nel film ho adorato la recitazione di Kevin Costner. Alla fine ero in lacrime”, mormorò Jared, riandando indietro con la memoria a quella sera invernale di due anni prima quando lui e Jensen avevano visto quel DVD insieme a letto sotto le coperte, mentre fuori infuriava un forte acquazzone.

“Eh, tutte le volte che lo vedo, finisco anche io a piangere come una fontana...”, replicò il commesso, sfiorando con un dito l'immagine dei due protagonisti sul risvolto del libro, passandolo poi al cliente.

“Ehm, cerco qualcosa del genere”, esclamò Jared, guardando il volume.

“Di solito Sparks è letto dalle donne ma non è disdegnato da noi uomini”, replicò l'assistente alle vendite, osservando con attenzione il giovane davanti a lui.

“Preferisco i saggi o i romanzi storici ma a volte leggo anche questo tipo di libri, magari assieme a mia moglie”, replicò Jared, assorto. Si ricordava l'ultima volta che aveva letto un libro di Danielle Steel, o meglio lo aveva recitato ad alta voce, durante le pause tra una scena all'altra, a un semi-addormentato Jensen, il quale via via si era appassionato alla storia.

“Libri della Steel, ne avete?”, chiese poi, cercando anche quel particolare libro.

“Ahaha, ci vorrebbe solo un piano per contenerli tutti! Comunque si, qualcosa lo abbiamo. Dovrebbe andare alla 'Constellation', la libreria nel centro di Dallas. Lì, li troverebbe tutti!”, rispose il commesso, accedendo di nuovo al catalogo on-line.

“Eh, se entro là dentro, non esco più!”, replicò Jared, ridendo. E la sua risata, forte e cristallina rimbombò per tutto il reparto. Alcune persone si girarono a guardarlo. Jeff lo avrebbe subito redarguito e Jensen si sarebbe arrabbiato. 'Avete ragione. Sono incorreggibile!', pensò immediatamente Jared, accorgendosi del pericolo.

“Qualche titolo in particolare per la Steel?”, chiese il commesso.

“Daddy”, rispose pronto Jared.

“Ah, si. La storia di tre uomini e di tre generazioni in un romanzo davvero toccante e avvincente”, replicò l'assistente, scorrendo i titoli sullo schermo del piccolo computer.

“Si, eccolo! Ottima scelta anche questa”, aggiunse poi, andando verso un altro scaffale e afferrando un altro volume.

Jared si irrigidì, quando vide due ragazze avvicinarsi a lui. Ridevano sommessamente e lo guardavano imbarazzate. Una di loro aveva il cellulare in mano. Si girò verso il commesso e stava per dirgli che non avrebbe preso nulla, perché doveva scappare via, quando quest'ultimo gli disse, indicandogli una porta dietro di lui:” Mr Padalecki, quello è il mio ufficio. Vada là dentro, così le porto tutti i libri che mi ha chiesto e potrà pagare direttamente con la carta di credito e allontanarsi senza alcun disturbo”

Senza dire una parola, esterrefatto, obbedì al dipendente del grande magazzino e si rifugiò con sollievo nella stanza indicatagli dal suo salvatore.

Dopo essere stato raggiunto dal responsabile del settore libri del Wal-Mart, grande ammiratore dei fratelli Winchester, ed essersi congratulato con lui per averlo salvato da un'orda di ragazzine, saldò il suo conto e inoltre acquistò anche un taccuino dove poter annotare i suoi pensieri mentre passava il suo tempo al capezzale di Jensen ma abbastanza agevole da poter essere riposto nella tasca posteriore dei suoi jeans, al riparo da sguardi indiscreti. La scelta cadde su un Moleskine di pelle nero con elastico e penna incorporata. Jared non vedeva l'ora di vergare quelle pagine color avorio con le sue riflessioni che solo Jensen avrebbe potuto leggere, quando si sarebbe svegliato.

Per ringraziare della sua premura e gentilezza, donò all'impiegato un'edizione di lusso di un libro di Sparks che aveva comprato per se stesso e gliela autografò con dedica nelle prime pagine e mentre firmava, pensava con tristezza che ben poche volte nella sua vita professionale era stato trattato con così tanto rispetto. Si ripromise di tornare in quel reparto con Jensen.

Dopo aver raggiunto il fratello nel parcheggio del complesso commerciale e aver visionato tutti gli acquisti fatti da quest'ultimo, mentre aspettavano l'arrivo di Alan, gli raccontò quanto era successo. Anche Jeff fu lieto che il fratello fosse riuscito a scampare all'assalto delle fans. “Non so proprio come facciate a resistere a tutto ciò. All'inizio può sembrare eccitante ma a lungo andare è solo snervante”, osservò Jeff, mentre andava incontro al padre di Alan carico di pacchi.

“Si, è vero, ma d'altronde loro sono quelle che fanno sì che noi attori possiamo vivere lussuosamente”, replicò Jared, dopo aver messo al corrente anche l'uomo più anziano.

“Jared, dove stai andando?”, esclamò poco dopo Jeff, accorgendosi che il fratello aveva imboccato l'entrata sbagliata della superstrada.

“Sto andando dall'ospedale. Voglio passare un attimo da Jensen”, rispose il giovane, impegnato a immettersi nella corsia giusta.

“Jensen? Ci sei stato tutto il giorno! Adesso al prossimo varco, esci e ti inserisci dall'altra parte per andare a Richardson. Hai capito!”, sbottò Jeff, adirato. “Hai bisogno di riposarti e di mangiare. A Jensen servi in forma!, aggiunse, poi, vedendo che suo fratello non accennava a nessuna reazione.

“Mi hai sentito, Jared?”

“Cinque minuti”, sussurrò l'altro, accelerando sulla corsia di sorpasso, saltando l'uscita indicatagli dal fratello.

“Ahaha, sembrate proprio i miei due figli”, ridacchiò Alan, seduto sul sedile posteriore.

“Grrr”, grugnì Jeff, assestando una sberla sul braccio di Jared, il quale ghignò apertamente. “Ora sembravi Dean...”

“E meno male che non sono uno degli sceneggiatori, Jared!”, bofonchiò Jeff, minaccioso.

Dieci minuti dopo Jared fu lasciato davanti all'entrata posteriore dell'ospedale, armato con il quadernetto nero e il libro di Sparks 'Le parole che non ti ho detto'. Dopo aver convinto Jim e Misha a lasciarlo un po' solo con Jensen, il giovane si sedette accanto al letto e iniziò a leggere le prime pagine del libro. La sua voce chiara e tonante si sparse per la stanza. La sua frequentazione ai corsi di dizione, svolta ai tempi del liceo, faceva sì che pronunciasse le parole con esatta intonazione. Era come se fosse stato a teatro a recitare sul palco la storia della propria vita. Unica nota diversa era il cambio, consapevole o meno, del genere dei sostantivi, aggettivi e pronomi che leggeva: tutto al maschile era!

La lettura della prima lettera, quella trovata da Theresa sulla spiaggia nella bottiglia fu un momento molto intenso per Jared, dovette più volte fermarsi e poi riprendere:

Mio caro Jensen,

mi manchi, amore, come sempre, ma oggi è più dura del solito, perché il mare ha cantato per me, e la canzone era quella della nostra vita insieme...”

Giunto al termine di quella interpretazione, si ritrovò provato da quell'esperienza: sudore copioso misto a lacrime inondava il suo viso e un'espressione di profonda tristezza ammantava i suoi occhi, rossi e irritati.

Jim e Misha arrivarono mentre lui si stava asciugando la faccia, dopo aver tentato invano di non far trapelare loro alcunché.

“Ragazzo, tu hai bisogno di dormire!”, sentenziò Jim, con espressione truce. “Ti ammalerai, se continuerai a venire qui e a struggerti in questo modo”, aggiunse poi, cercando di mantenere un certo distacco, anche se era preoccupato per quella situazione. Voleva bene a quei due 'idioti', come amava definirli il suo personaggio e il suo sentimento era molto simile a quello di Bobby.

“Domani stai a casa o potrei anche arrabbiarmi”, esclamò infine, usando il tono basso e gorgogliante di Bobby.

Ciò strappò un sorriso a Jared. “Si, zio Bobby. Farò come dici tu!”, replicò, sornione.

Jim e Misha si guardarono dubbiosi. Entrambi erano convinti che niente e nessuno avrebbe potuto impedire a Jared di frequentare quella specifica stanza di ospedale.

Durante il tragitto in taxi verso casa Ackles, Jared trascorse il tempo a scrivere sul suo taccuino le impressioni di quei giorni così difficili. Una frase lo aveva angustiato nelle ultime ore. Apparteneva a 'Cime Tempestose' di Emily Bronte. Dopo una breve ricerca su internet dal suo Iphone, esultò trionfante, quando la trovò. In fondo se la ricordava quasi tutta.

Il mio pensiero principale nella vita è lui. Se tutto il resto perisse e lui restasse, io continuerei ad essere; e, se tutto il resto persistesse e lui venisse annientato, l'universo mi diverrebbe estraneo; non mi sembrerebbe di esserne parte. Il mio amore per lui è simile alle rocce eterne ai piedi degli alberi; fonti di poca gioia visibile, ma necessarie. Io sono lui, lui è sempre, sempre nella mia mente, non come un piacere, così come io non sono sempre un piacere per me, ma come il mio stesso essere; dunque, una nostra separazione è impossibile”

La ricopiò minuziosamente e in bella grafia, nonostante il movimento dell'auto. Rispecchiava esattamente come si sentiva lui in quel momento. Si riteneva responsabile di quella situazione e niente e nessuno gli avrebbe fatto cambiare opinione.

 

Angolo di Allegretto

Inutile dirvi quanto sia dispiaciuta per avervi fatto aspettare così tanto tempo per l'aggiornamento! In questi mesi non sono stata bene e i miei problemi di salute non si sono risolti ancora ma ho cercato di scrivere più capitoli possibile per poter pubblicare con cadenza settimanale.

Ringrazio di cuore quanti hanno letto e commentato questa storia. Anche io, come voi, mi sono commossa nel vedere, nella mia immaginazione, lo struggimento di Jared e di tutte le persone che lo circondano. In questo capitolo, in particolare, ringrazio chi mi ha consigliato quali libri inserire e chi mi ha dato suggerimenti utili alla sua stesura che ha subito numerose variazioni.

Infine, vi chiedo se volete sapere quello che scrive Jared dalla sua viva voce o volete che sia Jensen a svelarvelo quando farà il periodo di riabilitazione?

Grazie ancora a tutti per la pazienza. A presto!!

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Capitolo Otto

 

“Mi scusi, ma chi è lei?”, chiese Misha, mentre rientrava nella stanza dell'ospedale di Dallas dove era ricoverato il suo amico e collega Jensen Ackles.

La domanda gli era sorta spontanea non appena aveva messo piede nella camera, dopo aver preso una bottiglietta di acqua fredda dal distributore in corridoio. Ormai conosceva tutto il personale medico e paramedico e l'accordo tra la famiglia Ackles e la direzione del nosocomio era proprio quello di non cambiare nessuno di quelli che si occupavano di quell'illustre malato per evitare fughe di notizie.

Mentre aspettava una risposta da quella che sembrava essere un'infermiera, visto l'abbigliamento indossato, scoccò un'occhiata veloce al suo amico Jim Beaver, in servizio di 'guardia' anche lui, che dormiva su una poltrona accanto al letto dove giaceva, inerte, Jensen. Nella stanza sembrava tutto in ordine. Sul tavolino i loro cellulari e Ipad facevano ancora mostra di loro ma quella strana sensazione non lo aveva abbandonato.

La ragazza non sembrava impacciata nei suoi movimenti: auscultava il polso del paziente e annotava i parametri vitali su una cartellina senza tradire alcuna emozione.

“Sostituisco Ms Jones che non sta bene. Sono Jennifer Miller”, si presentò lei, mentre aggiustava il flusso delle flebo appese sopra il letto di Jensen.

“Mi dispiace ma dovevo essere certo che lei fosse un'infermeria”, esclamò un po' imbarazzato Misha Collins.

“Si capisco. Non si preoccupi, Mr Collins. So quello che state facendo qui ed è encomiabile”, esclamò la giovane, prima di avvicinarsi alla porta.

“E' comunque tutto a posto?”, chiese poi l'attore sedendosi sulla sua poltrona.

“Si ma ha un po' la pressione alta, anche se è ancora tollerabile. Domani mattina i medici saranno più precisi in merito”, rispose lei, prima di uscire.

Quando Jim si svegliò per dare il cambio a Misha, quest'ultimo lo informò del cambiamento ma invece di addormentarsi rimase sveglio e iniziò a passeggiare per la stanza innervosendo Jim.

“Misha, per l'amor del cielo, che ti prende? Stai un po' fermo!”, sbottò ad un certo punto l'attore più anziano.

“Ho una strana sensazione...”, mormorò l'altro, fermandosi un attimo dal suo girare in tondo.

“Quale sensazione?, chiese Jim, guardandolo di sbieco.

“Un po' le condizioni di Jensen, la paura che prima o poi collassi anche Jared, il timore che la serie venga cancellata....un po' tutto messo insieme.....”, rispose Misha, tamburellando le dita sul tavolino al quale era appoggiato.

“Umpf, sei troppo pessimista e comunque ora non ci puoi fare molto. Devi solo riposare e soprattutto non stressare me”, borbottò Jim, alzandosi in piedi, non prima di aver rimboccato il lenzuolo sotto il materasso e aver spostato un piede di Jensen con delicatezza. “Vai a vedere se la caffetteria è aperta e guarda se trovi qualcosa di dolce per placare il mio nervosismo....”, esclamò poi rivolto al più giovane.

Misha non disse nulla ma annuì. Prese portafoglio e cellulare e uscì dalla stanza. Nello svoltare nel corridoio ebbe la sensazione di aver visto un lembo di cappa bianca svolazzare dietro l'angolo come se ci fosse stato qualcuno a origliare dalla porta. Sorrise fra sé e si diede dello stupido. Leggere libri di Sir Arthur Conan Doyle non lo aiutavano affatto a stare tranquillo.

Sapeva che Jim aveva ragione ma quell'inquietudine lo tormentava. I produttori erano stati chiari: avrebbero girato anche senza Jensen per un anno intero, un po' come era stato fatto con Duchovny in X-Files ma la problematica era se Jared sarebbe stato disponibile a farlo senza Jensen. E quella possibilità non era tanto remota, purtroppo.

Anche a notte fonda l'ospedale non era del tutto deserto: dal banco dell'accettazione si sentiva un confuso chiacchiericcio e la caffetteria era aperta per offrire a medici e pazienti un pasto caldo a tutte le ore.

Sul piazzale antistante l'entrata stazionavano ancora i camion di alcune troupe televisive e su un lato del muro perimetrale campeggiava un lungo striscione colorato con la scritta: “Guarisci presto, Jensen. I tuoi fans!”

Collins era certo che nel momento in cui si fosse svegliato il suo amico, il primo istinto sarebbe stato quello di sottrarsi al più presto a tutta quella curiosità.

Dopo aver bevuto l'ennesima tazza di caffè e mangiato un'ottima ciambella alla cannella, ne prese due per il suo collega e rifece a ritroso il percorso fino al reparto di neuro-chirurgia dove era ricoverato Jensen. Giunto nel corridoio si accorse subito che qualcosa non andava: la porta della camera era aperta, lampeggiava la lucina di emergenza sopra la porta e si sentivano voci agitate. Si mise a correre.

“Ma le ho detto che quando sono uscito dal bagno, c'era un'infermiera qui che girava attorno al letto del signor Ackles. Ho pensato che fosse quella nuova....”, esclamò un agitato Jim a un medico che stava controllando i macchinari. L'attore più anziano lanciò un'occhiata spaventata a Misha il quale stentava a capire cosa fosse successo.

“Che è accaduto?”, chiese poi, cercando di capire.

“A quanto pare non c'è un'infermiera nuova, Misha!”, rispose Jim.

“Come sarebbe a dire che non c'è? Io l'ho vista, qui, prima!”, ribatté concitato l'attore più giovane.

Si guardò attorno e vide che non mancava nulla dei loro effetti personali. “E mi sembrava proprio una professionista”, aggiunse poi, sovrappensiero.

Il medico stava scarabocchiando qualcosa su una cartellina e trascrivendo alcuni numeri. “Sembra tutto a posto. Se gli avesse dato qualcosa, a quest'ora avremmo avuto un cambiamento nelle condizioni del malato ma per fortuna questo non è avvenuto”, esclamò il medico sollevato.

“Quella donna mi ha detto che aveva la pressione alta. E' vero o lo ha detto solo per confondermi?”, chiese Misha, in preda all'agitazione.

“Si, è un po' alta ma è abbastanza normale data la situazione. Certo bisogna avere un minimo di conoscenza medica e soprattutto bisogna conoscere queste macchine per sapere cosa e dove guardare. Mi sembra strano, comunque”, rispose il dottore, finendo di annotare gli ultimi numeri.

In quel mentre, due membri della sicurezza interna, con le loro divise blu e un distintivo sui cui spiccava la parola 'security' si palesarono davanti agli astanti. Uno di loro aveva un camice bianco su un braccio. “Lo abbiamo trovato”, indicando il capo di vestiario “sulle scale di emergenza che conducono nel garage. Recava un cartellino con stampigliato sopra il nome 'J. Miller'”, spiegò poi.

“Cavolo. Quello era il nome che ha dato quella”, esclamò Misha, affranto.

“Avresti dovuto controllare nella sala delle infermiere”, lo redarguì Jim.

“Lo so. Hai ragione, mi sono fatto fregare. Ma sembrava in tutto e per tutto un'infermiera!”, replicò, sconfortato l'altro, continuando a passeggiare nervosamente per la stanza.

“Dovremmo chiamare Gomez”, bofonchiò Beaver. “Se quella pazza ha fatto delle foto, siamo spacciati!”, aggiunse poi, guardando con tenerezza Jensen, immobile nel suo letto ed ignaro di tutto quel dramma.

Uno dei agenti ricevette una telefonata e uscì dalla stanza, lasciando gli altri nell'incertezza.

“Se la vedesse, l'intrusa, la riconoscerebbe?”, chiese poi quello, rientrando nella stanza.

“Si, certo. Me la ricordo piuttosto bene”, rispose, convinto, Misha.

“Bene, allora venga con noi!”, replicò l'agente, tenendo aperta la porta per far uscire l'attore più giovane.

“Jim, chiama Suzanne e raccontale quello che è successo”, esclamò Misha prima di uscire.

Poi, mentre saliva in ascensore all'ultimo piano del complesso ospedaliero, si ritrovò a pensare che nella sua vita aveva fatto molte esperienze e la carriera di attore lo aveva messo in condizione di adattarsi a ogni evenienza, ma quello di essere il testimone chiave in un'indagine criminosa reale, gli mancava proprio.

“Mr Collins, le facciamo vedere ora quattro ragazze. Sono nel corridoio. Una di loro potrebbe essere quella che ha visto lei precedentemente”, spiegò un funzionario dell'amministrazione. “Se la riconosco, che succederà?”, chiese Misha, allarmato.

“Bè, chiamiamo la polizia per farla arrestare, ovvio!”, rispose il suo interlocutore, guardandolo un po' stupito per la domanda posta.

“Arrestare? Ma....ma.....”, replicò Misha incerto. “Era solo una fan....e se non ha fatto alcuna foto l'arresto mi pare eccessivo....”

Come se gli avesse letto nel pensiero, la PR della CW lo chiamò proprio in quel momento. “Misha, sono Suzanne. Cosa succede?”, interloquì lei, bruscamente.

“Sono negli uffici dell'amministrazione e mi hanno detto che dovrò fare un riconoscimento fra quattro donne e se tra queste c'è l'intrusa, la dovrò denunciare in modo che loro la possano far arrestare. Mi spieghi cosa devo fare?”, spiegò Misha, un po' agitato.

“Se la riconosci, non dire nulla”, affermò lei, decisa.

“Ah, bene. La pensi come me. E se avesse fatto delle foto o peggio un video?”

“Faremo un accordo con lei per evitare ulteriore pubblicità. Se l'arrestano si alzerà un polverone biblico e già adesso ci sono troppi fans che girano qui a Dallas...”, spiegò lei.

Misha non replicò ma non si meravigliò più di tanto. Sapeva, per esperienza, che le strategie pubblicitarie non seguivano alcuna logica.

“Quando passi davanti a lei, fai in modo che si accorga che tu l'hai riconosciuta ma che non hai intenzione di denunciarla. Ok?”, disse lei.

“E come faccio?”

“Sei un attore. Improvvisa!”, rispose lei, ridacchiando.

“Guarda se riesci a farti dare il suo numero di telefono, così poi la contatto per sapere cosa ha fatto mentre era da sola con Jensen e sa qualcosa di compromettente”, aggiunse poi.

“Ah si, certo. Con il dono della telepatia le chiedo anche che numero di scarpe porta”, sbottò l'attore, ironico.

“Misha, per favore, sii serio per una volta!”, replicò lei, infastidita. “Fai come ti ho detto. Grazie!”, esclamò, prima di interrompere la comunicazione.

I fatti andarono proprio nel modo auspicato dall'addetta alle pubbliche relazioni. Misha riconobbe la ragazza ma non la denunciò, facendole capire che il fatto era voluto. Non solo quello, ma riuscì anche a dirle che l'avrebbe incontrata nel garage. Mentalmente si assegnò l''Oscar per la recitazione!

“Mr Collins, non so come ringraziarla. Mi dispiace di averla coinvolta. Come mai non mi ha denunciata?”, chiese la giovane, ancora timorosa ma assai curiosa, quando si incontrarono nel garage.

“Ordine dei piani alti della CW”, rispose l'attore, tirando fuori il suo cellulare per accedere all'agenda interna. “Ho bisogno del tuo numero di telefono o di una tua email, così la signorina Gomez potrò contattarti e farti un paio di domande”, aggiunse poi.

Dopo che lei ebbe adempiuto a quanto richiesto, lui le chiese: “ Toglimi una curiosità: sei un'infermiera?”

“No, no, ma studio medicina a Houston”, rispose lei, sorpresa. “Come mai?”, aggiunse poi.

“Eh, mi avevi proprio ingannato”, rispose Misha, copiando il numero all'interno del blocco note. “Hai per caso fatto foto o girato video a Jensen?”

“No, non ho fatto nulla. Sono rimasta scioccata a vederlo in quelle condizioni. Quando sei entrato nella stanza, mi hai impedito di scoppiare in lacrime. Un conto è vederlo durante il telefilm, un conto è la realtà. Come è possibile ridursi in quello stato. Come!?”, rispose lei, gesticolando con tono arrabbiato.

“Avrei dovuto darmela quando mi hai detto quella frase sul fatto che stavamo facendo qualcosa di encomiabile. Solo una fan avrebbe potuto saperlo!”

“Si, secondo me il vostro aiuto è fondamentale!”

“Professionalmente, come ti è sembrato il nostro malato?”, chiese Misha, augurandosi che la ragazza non avesse capito la vera natura del coma.

“Ma dai farmaci sembra che l'ematoma subdurale faccia fatica ad essere assorbito, ma credo ci siano danni anche al fegato. Speriamo sia solo una contusione e non altro...”, rispose lei, passandosi una mano sul viso, come se volesse cancellare quella visione dalla sua memoria.

“Va bene. Ora passo il tuo numero alla responsabile pubblicitaria. Aspetta la sua telefonata e poi lei ti dirà cosa fare e cosa dire e mi raccomando dì alle altre di non tentare più un'azione del genere. La prossima volta non saremo così teneri. E se si fosse svegliato Beaver, altro che un Bobby incazzato avresti visto....”

“Si, grazie, Mr Collins. E' stato un vero tesoro”, esclamò lei, sollevata. Poi, prima di allontanarsi, si sporse verso di lui e lo baciò di sfuggita sulla guancia, scappando via subito dopo.

Misha, colto alla sprovvista, non fece o disse nulla. C'era abituato all'irruenza delle sue fans e non aveva mai contrastato la loro passione.

La giornata filò via liscia senza alcuna sorpresa. Fu posta una guardia nel corridoio e davanti alle scale di emergenza e coloro che erano sprovvisti di pass autorizzati, condotti fuori dalla struttura.

Verso le sette di sera Jared fu convocato nello studio di Mitchell. Non ne era sorpreso. Le novantasei ore stavano per scadere e sperava che quanto gli dovesse dire il medico responsabile fosse proprio il prossimo risveglio di Jensen. Era allo stremo delle forze psico-fisiche.

Dopo i convenevoli di rito e lo scambio di informazioni sull'incredibile fatto accaduto la notte prima , il medico iniziò a spiegare la situazione.

“Oggi sono scaduti i quattro giorni stabiliti. Il quadro non è molto migliorato ma riteniamo che altri due giorni potrebbero essere difficoltosi da recuperare poi dal punto di vista muscolare e articolare. Perciò abbiamo optato per un risveglio graduale. Potrebbe volerci un giorno o due in modo da dare tempo all'organismo del nostro paziente di abituarsi al ritorno alla realtà, mantenendolo semi-incosciente per non indurlo ad accelerare la sua smania di tornare a casa troppo presto. L'impazienza, in questo caso, è deleteria”

“Cosa intende per risveglio graduale?”, chiese Jared, un po' confuso.

“Vuol dire che i farmaci che lo tengono in sedazione saranno diminuiti lentamente e potrebbe risultare un po' disorientato e poi via via sempre più agitato nel momento in cui la sua mente si aprirà all'esterno”, illustrò il neurologo, presente all'incontro.

“Per quanto riguarda l'ematoma?”, domandò Jared.

“Sempre da domani mattina verranno infusi i fluidificanti e comunque un po' si è ridotto da solo da quando è diminuita la pressione endocranica a seguito della cessazione delle attività cerebrali superiori”, rispose l'esperto in materia.

“Ah, allora sono ottime notizie. Informo la famiglia!”, esclamò Jared, tirando un sospiro di sollievo.

“Le ricordo che sarà un ritorno alla normalità lento. Lo spieghi a tutti. Di non allarmarsi se all'inizio sarà disorientato. Tenete presente che appena sarà lucido, inizieranno i problemi”, ribadirono, quasi in coro, i medici.

Jared era nuovamente confuso. 'Perché continuavano a ribadire questa questione del risveglio lento?'

“Quanto ci vorrà per un risveglio completo?”, chiese nuovamente.

“Diciamo che potremmo stilare un'ipotetica tabella di marcia”, rispose Mitchell, prendendo un foglio e iniziando a fare lo schizzo di uno schema.

“Domani sera, verso quest'ora, toglieremo il respiratore automatico se saranno presenti alcuni stimoli volontari e poi ci vorranno altre dodici ore per avere una ripresa autonoma. Ve ne renderete conto da soli, perché inizierà a muovere gli arti da solo, arrivando perfino a togliersi le flebo e a voler scendere dal letto. Saranno giornate molto intense per voi. E per non aggravare la situazione epatica non potremo intervenire con i calmanti, purtroppo!”

“Ah bene, la quiete prima della tempesta”, esclamò Jared, a metà tra il divertito e il preoccupato.

“Perché pensate avrà questa reazione?”, chiese poi il giovane, ripensando a tutto quello che gli avevano detto i medici.

“Jared, al momento del risveglio completo sarà passata esattamente una settimana dall'ultima volta che aveva bevuto. Sarà in astinenza e per un forte bevitore come Jensen sarà un delirio non poterlo fare. Non potrete perderlo d'occhio e la sua rabbia sarà ai massimi livelli”, rispose un altro medico presente ma che fino a quel momento non aveva detto una sola parola. A Jared era stato presentato come dottor Bates.

“Mr Padalecki, capisco che Le sia passato di mente questa problematica ma è ben presente nella nostra strategia”, aggiunse il medico. “Sono uno psichiatra e cercherò di supportare Lei e i familiari di Jensen. Non sarà affatto facile!”

“Ah”, sbottò Jared. In effetti al concetto dell'astinenza non aveva minimamente pensato. “Giusto. Quindi dovremmo lottare contro la sua voglia di alcol?”, chiese, allarmato.

“Dopo sette giorni il suo organismo dovrebbe aver superato la fase critica ma non è detto che la sua mente gli mandi segnali diversi. Questo lo irriterà fortemente. Tenga presente che è per questo motivo che abbiamo deciso di effettuare un risveglio lento. Di solito il ritorno alla normalità è automatico quando non vengono più infusi i sedativi. Nei pazienti giovani vengono tolti nell'immediato, nel nostro caso verranno diminuiti a scalare anche per monitorare l'ematoma cerebrale”, spiegò il neurologo pacato, cercando di calmare il giovane davanti a lui, in evidente agitazione.

La successiva mezz'ora Jared la passò su una panca di legno all'interno della cappella dell'ospedale. Mentre cercava un luogo calmo e silenzioso si era ritrovato in quel luogo e solo quando era riuscito a calmarsi e a riaprire gli occhi, dopo aver rivolto una preghiera silenziosa a Dio, si ritrovò seduto sotto un dipinto di San Michele e questo lo fece sorridere e rilassare un poco.

“Forse era meglio farlo dormire ancora un po'”, sbottò Josh, quando Jared, tornato in camera, lo informò di tutti quei particolari.

“Alla luce di tutte queste informazioni, avremmo davvero bisogno noi di 48 ore di calma. Non so se riuscirò a tenere testa a mio figlio nel momento in cui si sveglierà!”, sospirò, stanco, Alan.

“Dovremo chiedere ad altri un aiuto”, esclamò Jared, sedendosi su una sedia e con lo sguardo fisso al corpo inerte di Jensen.

Sapeva quanto poteva essere ingestibile il malumore di Jensen. Figuriamoci la sua ira...In più in quei giorni si sentiva particolarmente irascibile per la presenza di Genevieve. Si lamentava in continuazione del caldo, dell'odore di disinfettante, della noia, della gente che la scrutava con curiosità morbosa. Insomma, una piaga”

“Piano di battaglia? Maria santa, qui ci servirebbe Eisenhower”, replicò Josh, passandosi una mano sul volto. “Avremmo bisogno di forze fresche. Qualcuno dei tuoi colleghi ti ha detto se ci può raggiungere?”, chiese, poi, rivolto a Jared.

“Si, Mark Sheppard aveva accennato al fatto che poteva essere libero nel fine-settimana o forse potrei richiedere a Jeffrey Morgan”, rispose Jared, mentre scorreva la lista messaggi sul cellulare.

“Allora contattali per favore. Con la defezione di tuo fratello, siamo scoperti. Ovviamente lui deve tornare a lavorare, però avrei preferito rimanesse qui”, aggiunse il fratello di Jensen, sconsolato.

“Si, lo so. Tu e lui avete legato molto in questi giorni. Avete creato la 'lega dei fratelli maggiori'”, esclamò Jared, ridacchiando.

“E io che credevo che essere padre fosse così difficile. Stare dietro a voi due”, replicò Josh, indicando suo fratello minore e Jared “è peggio!”

Jared sorrise ma non disse nulla. Era conscio che se non avesse avuto l'appoggio incondizionato della famiglia di Jensen, lì non avrebbe potuto starci, delega o non delega.

Dopo essersi concesso un'ora di relax accanto al 'suo' Jensen e avergli letto alcune pagine del libro di Sparks, immaginandosi a passeggiare con lui sulla spiaggia sabbiosa del North Carolina, fu raggiunto dalla moglie che spezzò quell'incantesimo. Reclamò a gran voce di tornare in albergo, visto che era annoiata a morte e che quelle attività di beneficenza che erano state organizzate dalle due famiglie erano stancanti.

“Eh bè, incartare pelouches è molto affaticante...”, bofonchiò Jared, mentre raccoglieva il suo marsupio.

“Ma io stasera cosa faccio da sola in albergo, poi?”, piagnucolò Genevieve.

“Ti guarderai un film alla televisione, ti farai un bagno caldo rilassante e poi andrai a dormire. Cioè quello che fai tutte le sere, no?”, replicò lui, ironico. “Oppure puoi venire anche tu ad aiutare Donna a preparare la cena oppure tornare qui e tenere compagnia a Mac e a tua cognata”, sbottò poi, sentendo lo sbuffo annoiato della moglie.

“Uh, che quadretto eccitante!”, ribatté lei. “E poi, perché io devo stare qui a rompermi, quando Danneel se ne può stare a Los Angeles?”

“Lei sta lavorando! Cosa che tu non fai....”, disse Jared, ironico, stupendosi non poco di sentire la propria voce mentre difendeva Danneel. “E poi, prima o poi, anche lei ci raggiungerà!”, aggiunse.

“Lavorare...Si, certo. Qualche particina in film di serie zeta. Piuttosto marcisco dalla noia....”, esclamò lei, afferrando la borsa e andando verso la porta.

In quell'attimo entrarono MacKenzie e Megan. Stavano ridendo e le loro espressioni si smorzarono immediatamente non appena percepirono la tensione fra Jared e Genevieve.

Mac chiese, preoccupata, rivolgendo il suo sguardo al fratello immobile nel letto:”Problemi?”

“No, no, tranquilla, Mac!”, rispose Jared, facendole una carezza sul viso.

Le due giovani tirarono un sospiro di sollievo e fecero un cenno di saluto alla moglie di Jared, la quale aveva assunto un'espressione di malcelata sopportazione.

“Vi farebbe piacere se più tardi, dopo una doccia e un pasto veloce, vi raggiungessi qui a tenervi compagnia?”, chiese Genevieve, con un tono da condannato a morte. Sperava in cuor suo che le due ragazze le avrebbero risposto che non era necessaria la sua presenza. Ma, probabilmente, per farle un torto, le risposero che ne sarebbero state entusiaste.

“Grazie, Genevieve. Allora ti aspettiamo”, replicò Megan, dopo aver abbracciato il fratello mentre stava uscendo.

Dopo essersi sistemate e aver commentato positivamente la decisione della moglie di Jared, rivolsero la loro attenzione al malato colmandolo di parole affettuose e raccontandogli cosa stava accadendo nella casa paterna, come se fosse stato cosciente. Se lo fosse stato, si sarebbe fatto delle grandi risate. Quella casa assomigliava tanto a un manicomio.

Casa Ackles era una fucina culinaria. L'improvviso aroma di cannella e noci pekan avvolse Jared non appena entrò nell'ingresso e il desiderio di gustare una fetta di torta lo indusse a dirigersi direttamente in cucina come se fosse stato in trance. Era disposto a mostrare il suo famoso sguardo da 'cane bastonato' quando si ritrovò davanti sua madre.

“Mamma?!?”, esclamò sorpreso.

“Tesoro!”, ribatté lei, abbracciandolo con trasporto. “Oh, come sei sciupato, figlio mio. Vieni che ti faccio una tazza di tè con una bella fetta di torta alle noci”, esclamò lei, spingendo Jared verso il tavolo.

Il giovane non si fece pregare. Si sedette ed aspettò in religioso silenzio di potersi rifocillare.

Scambiò qualche chiacchiera con la madre, la quale era accorsa in aiuto dell'amica Donna.

“Dover nutrire e occuparsi dei miei tre figli è un compito gravoso. Donna ha altri problemi in questo momento”, esclamò lei, servendogli una generosa porzione di torta, guarnita di panna.

“E' per questo motivo che Genevieve è in albergo in questo momento. Per non dare altro lavoro a questa fantastica famiglia”, replicò Jared, mentre osservava, interessato, i ripiani in formica della cucina ricolmi di sformati, crostate e torte dolci varie.

“Genevieve? Oh, signore. E cosa ci fa lei qui?”, esclamò la donna, sorpresa. “Non mi hai detto nulla!”, lo redarguì bonariamente, mentre versava dell'acqua calda in una tazza con lo stemma del Texas sopra. Poi sfasciò una bustina di tè forte e la immerse nel liquido. “Immagino che l'ammontare del tuo credito in banca sia il motivo della sua venuta, vero?”, aggiunse poi, mentre tagliava una generosa porzione della torta e la serviva al figlio, il quale seguiva tutti quei gesti con gli occhi scintillanti.

Jared fece un gesto con la mano come se volesse rispondere ma era troppo impegnato nel gustare quella squisitezza.

“E' sconveniente che io giri solo per l'ospedale...secondo la Gomez”, rispose, dopo aver sorseggiato un po' di tè.

“Ah, quella Gomez...”, replicò lei, sbuffando.

“Appunto”, ribatté lui, raccogliendo le ultime briciole.

Il trillo del suo cellulare lo distolse dal ricordo dell'ultima volta in cui aveva mangiato una fetta di quella particolare torta con Jensen. Non fece caso al nome del chiamante sul display, per cui fu una sorpresa per lui sentire quella voce.

“Jared, scusami, sono all'aeroporto. Non ci sono taxi in questo momento. Mi verresti a prendere?”

 

Angolo di Allegretto

Nonostante tutto e tutti cerco di aggiornare il più velocemente possibile. Tengo molto a questa storia e soprattutto a voi che continuate a seguirmi e a recensire. Grazie di cuore a tutti voi!

Questa volta vi domando: “Chi vorreste che fosse la persona che ha chiamato Jared al cellulare nell'ultima frase del capitolo?”

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Capitolo Nove ***


Capitolo Nove

 

 

“Mi avevi detto che non sapevi se saresti riuscito a venire”, esclamò Jared, afferrando il trolley per metterlo nel vano portabagagli della station wagon del fratello di Jensen.

“Ma cosa c'è dentro? Perché pesa così tanto?”, chiese, poi, soppesando il tutto con una smorfia.

“Due mazze da baseball in puro legno di frassino”, rispose l'interlocutore.

Jared alzò la testa e lo guardò interrogativamente, senza proferire parola.

“Una per darla in testa a Jensen. L'altra, per prenderti a bastonate, visto che non ti sei accorto di come si era ridotto lui”

“Ahaha, divertente!”, replicò Jared, accennando a un sorrisino ironico, non sapendo se l'amico stesse scherzando o meno, visto la sua espressione seria.

“Ti ricordo che l'ematoma non si è ancora riassorbito, perciò la testa di Jensen è ancora off-limits e comunque dovrai metterti in fila per chiedergli spiegazioni: prima ci sono Alan e Josh!”, aggiunse, infine, entrando in macchina.

“Ah, allora aspetterò il mio turno...”, ribatté l'altro, ghignando.

“La mamma di Jensen ha insistito perché tu vada da loro a dormire. Perciò se avevi prenotato da qualche parte, ti conviene disdire”, disse Jared, immettendosi nel caotico traffico notturno di Dallas.

“Si, si, lo so. Sono già stato istruito in tal senso, quando ho chiamato casa Ackles stamattina”, ribatté il compagno di viaggio.

“Non mi hai ancora detto cosa ci fai qui”

“Nel momento in cui Alan mi ha riferito che eravate a corto di aiutanti, ho lasciato un biglietto a Hilarie e sono andato subito in aeroporto. La carta 'American Express Gold' ha il potere di farti apparire un aereo davanti, quando ne hai bisogno”, rispose quello, cercando di trovare una posizione più comoda sul sedile.

“Sono contento che tu sia riuscito a venire. Ci sarà bisogno di un po' di autorità nei prossimi giorni. Dovremo tenere a bada l'astinenza di Jensen, finché non andrà in clinica, e non so neanche se accetterà mai di andarci....”, replicò Jared, con tono preoccupato.

“Vedrò di sfoggiare tutto il mio repertorio sui sergenti maggiori dei marines, allora”, dichiarò l'amico, sospirando. “E dimmi, tu come stai?”, chiese, poi. “Non dirmi 'bene' perché non è vero e si vede lontano un miglio!”

“Appunto. Non proprio bene... Tu, cosa ne pensi?”

“Mm, sensi di colpa a profusione, di cui il 75% sono reali, livelli di testosterone altissimi, rabbia repressa e nervosismo da battitore all'ultimo secondo dell'ultimo inning”, rispose l'altro, ironico.

“Già, disanima perfetta!”

“Sempre detto che dovevo intraprendere la carriera del psico-terapeuta....”, borbottò l'amico.

Il resto del viaggio fino a Richardson continuò nel più assoluto silenzio. I due occupanti dell'auto erano immersi nei loro pensieri che percorrevano binari paralleli ma a velocità diverse. Più lenti e misurati quelli di Jared, intrisi di aspettativa per l'imminente risveglio di Jensen ma dilaniati dal timore di come avrebbe reagito al suo ritorno alla normalità; più rapidi e scattanti quelli dell'amico che non vedeva l'ora di rendersi utile al pari dei suoi amici e colleghi, conscio, però, delle insidie del caso in questione.

In casa Ackles, Alan era in ansiosa attesa dalla finestra e quando vide la macchina di Josh entrare nel vialetto, fece uno scatto verso la porta e da lì all'esterno.

“Signor Morgan! Che piacere! Sapesse quanto sono contento che lei sia qui”, esclamò, andando incontro a quell'uomo che lo avrebbe aiutato a contrastare suo figlio.

“Niente signor...per carità...Morgan è più che sufficiente....”, esclamò imbarazzato Jeffrey Dean Morgan, stringendo la mano ad Alan.

“Ah, allora perfetto. Mi chiami Alan e siamo a posto”, ricambiando la forte stretta di mano dell'altro.

 

Durante la riunione mattutina le battute salaci si sprecarono tra Beaver, Morgan e Collins. Soprattutto i primi due si scatenarono ampiamente, rendendo l'atmosfera più leggera. Perfino Jared sfoggiò la sua rinomata risata un paio di volte. Comunque fu deciso che da quel momento i turni sarebbero diventati da otto ore ciascuno con tre persone presenti, in modo da garantire massimo controllo sul malato ma anche ampia possibilità di farsi una passeggiata e svagarsi un po'. E venne anche studiata l'opportunità di avere nel turno una persona di 'polso' che potesse impedire a Jensen di dare in escandescenze.

“Ahahah, cerberi”, ridacchiò MacKenzie guardando la lavagna bianca, posta nello studio del padre, recante una tabella con la suddivisione dei turni. “Nome proprio adatto”, aggiunse, poi, mentre la ricopiava sulla sua agenda.

“Alan, Morgan, Josh. Coloro che dovranno domare il drago”, sentenziò Jared, entrando nella stanza e porgendo una tazza di caffè caldo alla ragazza.

“Speriamo che tuo fratello riesca a farsi dare ancora qualche giorno libero. Quei tre non riusciranno a reggere così per tanto tempo”, affermò lei, accettando con gratitudine quella bevanda calda. “Non ho mai bevuto così tanto caffè da quando è iniziata tutta questa storia. Ho paura che prima o poi mi trasformerò in un distributore automatico”, ghignò, poi, continuando a fissare lo schema.

“Secondo me come cerbero, ci stava bene anche Jim, meglio di mio fratello. Mah...vedremo”, affermò Jared.

“Si anche secondo me, ma se lui non vuole prendersi questa responsabilità, e non gli do torto comunque....”, disse lei.

Jared non replicò. Stava guardando delle foto su un ripiano della libreria. Momenti spensierati della famiglia Ackles: i figli in tenerà età, foto dei fratelli accanto a una culla con un neonato all'interno...

“Sei tu, Mac?”, chiese Jared indicando la foto alla ragazza.

“Dove?”, chiese lei, mentre riponeva la sua agenda nella borsa.

“Qui nella culla in mezzo a Jensen e Josh”, rispose Jared, indicando la foto dei due bimbi.

“Si, appena nata”

“Oh, che sguardo serio che avevano qui”

“Già. Si erano calati perfettamente nella parte dei fratelli maggiori”, spiegò lei.

“Tu hai legato di più con Jensen, però”

“Si, era più paziente e comunque anche lui, essendo quello di mezzo subiva i rimbrotti del più grande e voleva fare qualcosa di diverso. Credo che ci sia ampiamente riuscito. Josh è una sicurezza ma è troppo autoritario. A volte temevo di più una sgridata da parte sua che non una da mio padre”, spiegò lei, rimettendo a posto la cornice.

“Quindi quando litigano quei due fanno scintille, vero?”, chiese Jared, curioso.

“Scintille? Ahaha, una vera e propria tempesta di tuoni e fulmini. Ti auguro di non esserne mai testimone”, rispose lei, rabbuiandosi in viso.

A Jared quelle parole fecero una gran brutta impressione, mentre si accingeva ad andare in ospedale assieme a Jim e a Morgan. Sapeva, per esperienza, che imporsi su Jensen era molto difficile e che spesso avevano avuto litigi piuttosto veementi, anche se vigeva il tacito accordo di non alzare le mani uno contro l'altro, ben sapendo che, visto la stazza di entrambi, avrebbero potuto farsi male. Di ciò non era tanto sicuro per quanto riguardava Jensen e suo fratello.

In ospedale Josh accolse Morgan con grande gioia e gli spiegò tutta la procedura, mentre Jared andava a cercare il personale medico e paramedico per avere un resoconto della notte appena passata. Beaver ascoltava le impressioni di Donna che aveva passato la prima notte al capezzale del figlio.

Non appena Morgan fu solo nella stanza, si sedette accanto al suo giovane collega ed amico e iniziò il suo personale monologo:” Cosa mi combini, Jensen? Cosa ti è girato di farci uno scherzetto del genere? Halloween è tra cinque mesi...E poi causare tutto questo trambusto alla tua famiglia....e Jared....oh, se vedessi quel povero ragazzo. Mi verrebbe proprio voglia di prenderti a mazzate in testa....oh, già non lo posso fare...peccato...ma non ti ho detto tante volte di chiamarmi, quando ti sentivi depresso?”, esclamò, retoricamente, in crescendo. E per sottolineare quello che stava dicendo, diede un calcio al letto.

Quello scossone provocò un movimento involontario al braccio del malato che si mosse e poi guardando il monitor cardiologico, Morgan si accorse che il battito di Jensen era accelerato. “Va bene, va bene, ho capito. Cercherò di trattenermi, finché sei ancora attaccato alle macchine, ma non appena ti sveglierai, te ne dirò quattro...”, terminò il soliloquio l'attore più anziano, sedendosi sulla poltrona e iniziando a sfogliare una rivista di auto d'epoca.

Il pomeriggio passò lento e sonnacchioso. Al cambio della guardia si ritrovarono in sei a chiacchierare allegramente attorno al malato, quando furono aspramente redarguiti da una capo-sala che sembrava un feldmaresciallo nazista. A quasi tutti gli astanti passò per la mente di ingaggiarla come infermiera privata per Jensen: con lei, difficilmente, sarebbe riuscito a 'farla 'franca'.

Morgan si dichiarò disponibile per rimanere fino a sera e così anche Jared. Beaver, invece, tornò a casa in quanto aveva promesso alla figlia di portarla a fare spese.

Si fecero sempre più frequenti i movimenti degli arti di Jensen, dapprima involontari poi sempre più coordinati e legati a smorfie del viso o mugolii di dolore nel cercare di cambiare posizione. I sedativi erano stati ridotti di un quarto e i risultati erano evidenti.

Attorno alle dieci, mentre chi era subentrato per la notte, si stava ancora sistemando, notò dei movimenti abbastanza coordinati del paziente e ognuno di loro si fece più guardingo e cessò ogni attività.

 

Jensen udì improvvisamente un brusio attorno a sé. Tentò di aprire gli occhi ma le palpebre erano ancora troppo pesanti. Sentiva qualcosa di ingombrante nella gola; non gli impediva di respirare ma era una presenza poco gradevole. Decise di stare lì a godersi quelle voci che sapeva di conoscere ma a cui non riusciva a dare un nome. Dopo un po' si riprese di nuovo dal torpore che lo aveva avvolto precedentemente. Non aveva idea di quanto tempo fosse passato, in quanto quella unità di misura non era calcolabile dal suo cervello in quel momento. Spalancò un occhio per cercare di comprendere dove fosse. Un tentativo di alzare una mano per tastare quello strano aggeggio che aveva in bocca fu stroncato sul nascere. Allora alzò l'altro braccio e riuscì ad arrivare a toccare un lungo tubo che terminava fra le sue labbra. Il solo movimento lo spossò assai, facendolo di nuovo ricadere nell'oblio.

Successivamente aprì entrambi gli occhi nel disorientamento più totale. La luce della lampada sul tavolino lo ferì oltre misura e dovette sbattere le palpebre più volte per abituarsi al chiarore. Vide, per prima cosa, i quadrati di polistirolo nel soffitto, le pareti bianche attorno a sé e girando lo sguardo verso sinistra incontrò lo sguardo meravigliato di un essere che gli diede l'immediata consapevolezza di essere in Paradiso: Castiel! Costui gli toccò la mano e gli fece una carezza sul viso e sentì distintamente la sua voce esclamare: “Bentornato!”

Confuso a dismisura, Jensen si chiese da dove fosse tornato. Poi si girò verso destra per vedere a chi stesse parlando il suo angelo preferito e tutte le sue certezze crollarono a terra in mille pezzi. Il re dell'Inferno lo guardava con il suo sorriso sornione, pronto ad esternare una delle sue battute sagaci. Si agitò immediatamente e subito dopo udì un pigolio intermittente e incessante provenire da un lato del suo corpo. Non gli rimase altro che richiudere gli occhi e lasciarsi andare.

 

“Ha aperto gli occhi e prima ha guardato me, poi Mark e infine quella malefica macchina ha iniziato a fischiare”, esclamò Misha, impaurito, mentre la stanza si riempiva di medici, infermieri e macchinari di emergenza.

“La pressione è troppo alta e ha avuto un episodio tachicardico”, esclamò un dottore, ordinando al personale paramedico di somministrargli un betabloccante per normalizzare il battito.

“Il tracciato, però, è buono. Forse il risveglio è stato troppo brusco. Lasciamo la quota degli anestetici inalterata, per ora manteniamo il respiratore. Se si dovesse risvegliare più tranquillamente in seguito, lo stubiamo, in modo da lasciarlo respirare da solo e dargli tempo di recuperare un po' di autonomia”, spiegò il dottor Mitchell, appena arrivato dopo essere stato avvertito dal dispositivo di emergenza che si azionava quando entrambi i tracciati cardiaci e pressori scattavano a livelli di guardia. Osservò in silenzio il tutto e concordò con l'altro medico la strategia farmaceutica migliore. Prima di lasciare la stanza informò i due giovani che avrebbe avvisato lui Jared dell'accaduto.

Qualche minuto dopo Mark spiegò l'accaduto a Josh, appena arrivato per il turno notturno, gli avvenimenti, aggiungendo poi che sembrava quasi che Jensen si fosse spaventato vedendo lui accanto al letto. “Aveva gli occhi sbarrati quando mi ha visto!”

“Non vorrei che nella sua confusione mentale abbia pensato che io fossi Cass e tu Crowley!”, esclamò Misha, esalando un sospiro di stanchezza.

“Si probabilmente è andata così!”, dichiarò Mark, convinto.

Mezz'ora dopo piombò in ospedale Jared.

Mark e Misha erano fuori a fare quattro chiacchiere con alcune ragazze, quando videro un taxi fermarsi davanti all'entrata principale dell'ospedale.

“L'alce è arrivata!”, sentenziò Mark Sheppard con il suo inconfondibile accento inglese e ciò fece scoppiare in una risata tutte le fans che circondavano i due attori.

“Come sta?”, esclamò il giovane a Josh, non appena mise piede nella stanza.

“Non ti avevo detto di rimanere a casa, Jared?”, lo redarguì quello di rimando.

Jared lo fulminò con lo sguardo, poi assunse un'espressione difensiva. “Secondo te, avrei potuto stare a guardare la televisione seduto sul divano a mangiare noccioline?”, chiese, poi, ironico, mentre si sedeva accanto a Jensen.

“E' tutto a posto. Sta bene. E' calmo. Perciò tra dieci minuti te ne torni a casa a dormire!”, sentenziò il figlio maggiore degli Ackles.

Jared annuì ma non disse nulla.

Un'ora dopo Josh dava segni di impazienza. Passeggiava nervosamente avanti e indietro, mentre Misha leggeva un saggio sulla meditazione orientale, Mark giocava a un solitario sul suo Ipad e Jared cercava di risolvere un intricato Sudoku su un giornalino scovato chissà dove. Mark esasperato saltò su e propose al suo collega e a Josh di accompagnarlo nella caffetteria a divorare qualche fetta di torte alla mele. Entrambi acconsentirono, lasciando campo libero a Jared.

 

“Era scritta con la penna stilografica. Nell'angolo in alto a destra c'era il disegno di una vecchia nave, con le vele spiegate al vento.

Cara Theresa,

potrai perdonarmi?

In un mondo che comprendo di rado, i venti del destino soffiano quando meno ce lo aspettiamo. A volte hanno la furia di un uragano, a volte sono lievi come brezze. Ma non si possono negare, perché spesso portano un futuro impossibile da ignorare. Tu”, e qui la voce di colui che stava leggendo si incrinò, poi esalò un paio di sospiri e alla fine continuò a leggere anche se con difficoltà, alterando alcune parole, “mio caro, sei il vento che non mi aspettavo, il vento che ha soffiato più forte di quanto potessi immaginare. Tu sei il mio destino, Jensen. Il mio presente e il mio futuro e mi sono accorto che sei la cosa più importante che ho al mondo”, Jared finì di leggere e poi chiuse di scatto il libro, incapace a continuare. Si lasciò andare giù verso lo schienale della poltrona e chiuse gli occhi. Era sfinito.

Il tocco lieve sulla sua mano sinistra gli provocò un'ondata di brividi e di eccitazione. Solo un evento avrebbe potuto suscitare tale emozione. Aprì gli occhi di scatto e vide Jensen, sveglio, che lo guardava. Il suo sguardo era confuso ma allo stesso tempo lasciava trasparire una gioia e una contentezza unica.

All'improvviso la sua mano si alzò e andò diritta al respiratore: fece un primo tentativo di parlare, ma gli fu impossibile, poi afferrò il tubo e cercò di tirarlo via.

Jared cercò di tenergli le mani ferme e allo stesso tempo di suonare il campanello per far arrivare le infermiere. Era troppo lontano.

“Jensen, stai fermo. Ora chiamo qualcuno così ti tolgono il respiratore”, esclamò trafelato Jared.

Visto che non riusciva né a tenere ferme le mani, né ad arrivare al campanello, Jared pensò che l'unica chance era quella di staccare un cavo dal monitor e sperare nel miracolo.

Un suono alto e acuto si sparse per la stanza e sicuramente per tutto il piano. La squadra di emergenza piombò nella camera, mentre Jared ancora lottava con le mani di Jensen che, nonostante la condizione di infermità totale da quasi dieci giorni, dimostravano una forza assai notevole.

Dopo avergli tolto il tubo endotracheale e avergli somministrato un blando calmante, Jensen tornò a dormire.

A Jared fu intimato di andare a casa da un furente Josh, il quale non riuscì minimamente a schiodare il giovane da quel letto e soprattutto dal mollare la presa della mano del paziente. Così si accontentò di stringere un misero patto con lui: Jared se ne sarebbe andato soltanto se Jensen si fosse svegliato e l'avesse riconosciuto senza agitarsi. Probabilmente Josh acconsentì più per la stanchezza che per altro, visto la futile richiesta avanzata da Jared.

Le ore passarono lente e noiose. Essere in quattro aveva i suoi vantaggi: due in camera e gli altri a zonzo per l'ospedale; una manna per le fans e il personale medico e paramedico.

Jared avrebbe voluto essere sempre solo con Jensen, per poter leggere il libro, scrivere il diario, tenergli solo la mano o sussurragli paroline dolci. Visto la sua irrequietezza, gli altri lo accontentarono e fu lasciato solo spesso. Non appena i tre si eclissarono, sfoderò il suo libro dalla borsa porta-computer, si sistemò comodamente nella poltrona, posizionando la lampada in modo che facesse luce solo sulle pagine del libro e non sul viso addormentato di Jensen.

 

“Mi sbagliavo, eccome, ignorando ciò che era ovvio, e tu supplico di perdonarmi. Come un viaggiatore prudente, cercavo di proteggermi dal vento, e invece perdevo la mia anima. Sono stato uno sciocco a ignorare il mio destino, ma anche gli sciocchi hanno dei sentimenti e mi sono accorto che sei la cosa più importante che ho al mondo”

 

“Mm, non ti facevo così mieloso”, una voce gracchiante echeggiò nel silenzio della stanza.

Jared sussultò. Abbassò il libro di scatto e cercò nella penombra di guardare verso il malato.

Un paio di occhi color smeraldo erano spalancati per cercare di capire dove si trovasse e chi avesse davanti.

“Jensen, finalmente, ti sei svegliato. Come ti senti?”, esclamò poi, stringendogli una mano.

“Uhm, Jensen?”, chiese dubbioso quello. “E chi è?”, aggiunse poi, confuso.

Jared comprese. Mosse il fascio di luce verso di sé in modo che Jensen potesse vederlo in viso. E quel movimento suscitò nell'altro una reazione.

“Tu non sei Sam. Dove è mio fratello?”, chiese Jensen, iniziando ad agitarsi. “Sammy??”, urlò ad un certo punto.

Il non essersi fatto la barba da più di una settimana aveva trasformato Jared in un montanaro e quell'immagine non corrispondeva affatto al pulito e netto Sam Winchester. In quel momento entrarono gli altri tre. Josh passò dalla gioia nel vedere il fratello sveglio alla preoccupazione per il suo stato di agitazione, alla rabbia quando comprese che l'altro voleva alzarsi e tentava di togliersi le flebo.

“Dove vuoi andare, Jensen?”, sbottò suo fratello maggiore.

Quello borbottò di rimando che voleva andare a casa.

“Bè, tra qualche giorno ci andrai. Ora mettiti giù e rilassati”, ordinò il fratello maggiore cercando di far stendere il minore.

Jensen, non molto convinto, fece quanto ordinato. Quell'uomo così autoritario non lo conosceva, anche se aveva qualcosa di familiare. Probabilmente era un cacciatore, amico di suo padre. E comunque accettò di rimettersi a letto solo perché Crowley lo guardava fisso con quell'espressione così ipnotizzante da farti rimescolare le budella. Solo John Winchester poteva causargli una simile reazione. Decise così, per il momento, di cercare di dormire ancora un po'. Era stanco e gli facevano male le costole. Sicuramente aveva avuto uno scontro con qualche creature soprannaturale se era ridotto in quel modo. Tempo per accertare l'accaduto lo avrebbe trovato il mattino dopo, perciò il giovane si lasciò cullare dalle spire di Morfeo.

Il giorno dopo passò abbastanza velocemente. Jensen alternava momenti di veglia a momenti di sonno profondo. Quando era sveglio, continuava a confondere la realtà con la finzione e lo psichiatra aveva consigliato loro di assecondarlo per evitare inutili e pericolose frizioni.

Il secondo giorno era stato stabilito dai medici che i sedativi sarebbero stati ulteriormente abbassati, per cui quando Jensen si svegliò, si sentì la testa meno annebbiata del solito. La prima cosa che percepì fu il dolore al costato e la seconda fu l'inebriante aroma di caffè appena fatto.

“Caffè? Datemi del caffè, vi prego!”, sussurrò verso i due uomini che erano nella stanza in quel momento.

Uno di loro si girò, gli sorrise e gli disse: “No, non puoi bere caffè ancora. Se vuoi, ti vado a prendere una tazza di tè, va bene?”

“Tè? Bleah...Non posso prendere un sorso dalla tua tazza, papà?”, chiese Jensen, speranzoso, cercando di imitare l'espressione da cucciolo indifeso di Sam.

Al sentire, però, la parola 'papà', si girò anche l'altro uomo presente nella stanza, il quale disse: “Jensen, il caffè non puoi berlo ora....”

“Jensen? Ma mi dite chi è 'sto qui? Io mi chiamo Dean. Perché continuate a chiamarmi in quel modo? Io mi chiamo Dean. Perché mi continuate a chiamare Jensen! In che mondo parallelo sono capitato?”, sbuffò il giovane, scalciando il lenzuolo.

“Oh, adesso ti calmi, poi semmai ti spieghiamo come è la situazione!”, lo apostrofò Alan, avvicinandosi a suo figlio con il viso contratto dalla tensione.

Jensen lo guardò come se fosse stato un demone, mormorando perfino 'Christus' così per essere sicuro, poi spostò lo sguardo verso quello che considerava il suo vero padre, il quale però non disse nulla e per il giovane fu un vero mistero. John Winchester non si sarebbe mai fatto perdere un occasione per redarguirlo. Decise così che era meglio sdraiarsi e tornare nel mondo dei sogni.

Uno scossone al letto lo svegliò di soprassalto. Spalancò gli occhi impaurito ma quello che vide non era il soffitto bianco e le immancabili flebo che penzolavano al di sopra della sua testa. Era in uno spazio ristretto, dalle pareti di acciaio troppo vicine a lui. Si sentì soffocare.

Una mano planò sulla sua spalla. Un tocco lieve, gentile che lo calmò immediatamente. Un profumo di legno di sandalo lo colpì alle narici, facendolo inebriare. Alzò il viso, per cercare colui che aveva avuto il potere di ridargli quella pace interiore che bramava da giorni. Due occhi color nocciola lo guardavano con infinita dolcezza. Lo sguardo di qualcuno che ti sta dicendo che sei al sicuro.

“Siamo in ascensore, Jensen. Ti stiamo portando a fare la Tac. Stai tranquillo!”, esclamò Jared, toccando con l'altra mano la testa del giovane, cercando di togliere alcune gocce di sudore che gli imperlavano la fronte.

Jensen annuì, rilassandosi immediatamente.

Poco dopo, sentì qualcuno che diceva di aspettare. Jared si accostò al letto e lo accarezzò sulla guancia. I loro sguardi si incrociarono. Un'altra muta conversazione fra loro due, fatta di promesse, richieste di scuse, perdoni concessi e amore perenne. Jared era al colmo della felicità. Sapeva che colui che era sdraiato, ormai si rendeva conto di chi realmente fosse e non stava rifiutando il contatto.

“Finalmente ti sei fatto la barba!”, esclamò Jensen, ridacchiando. “Sembravi un barbone”

“Non è che nei giorni scorsi abbia avuto molto tempo per me e poi tu dormivi, perciò non aveva senso farmi bello per qualcuno che non poteva apprezzare il gesto”, rispose l'altro, sorridendo. “Ah, a proposito, adesso sai chi sono io, vero?”, chiese, poi, sperando di non dover più recitare.

“E chi dovresti essere, se non...”, cercò di rispondere Jensen, ma in quell'attimo due barellieri uscirono fuori dalla stanza, afferrarono il letto e lo spinsero dentro.

Jared osservò il tutto con disappunto. Avrebbe voluto sapere ma doveva ancora attendere.

“Signore, aspetti!”, esclamò una voce imperiosa dietro di lui, facendolo fermare.

“Si?”, domando Jared, girandosi.

“Il giovane della Tac ha insistito per farle avere questo”, rispose un infermiere, tendendo un bigliettino a Jared.

“Grazie”, ribatté Jared, afferrando il pezzo di carta.

Mentre aspettava l'ascensore, aprì il foglietto ripiegato in quattro parti. Vi era scritto:

Il tuo Jensen e ti amo alla follia!”

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Capitolo Dieci ***


Capitolo Dieci

 

“Allora l'ematoma si è sciolto completamente, per cui da oggi pomeriggio verrà fatto scendere dal letto, potrà andare in bagno da solo e domani mattina iniziare la fisioterapia”, annunciò il dottor Mitchell un'ora dopo nel suo studio a Jared e Alan.

I due annuirono, sollevati.

“Quanto ci vorrà per la dimissione?”, chiese Alan.

“Direi tre o quattro giorni. Il ragazzo è in buona forma, nonostante tutto. Il fegato ha recuperato bene e ora deve solo mangiare cibo nutriente e sano, mettere su peso e fare tanta attività fisica”, rispose il medico, mentre sfogliava la cartella clinica di Jensen. “Ovviamente il recupero sarà ottimale se non introdurrà più alcol nel sistema”, aggiunse poi, alzando la testa verso gli astanti.

“Certo. Il problema sarà farglielo capire!”, replicò Jared, dubbioso.

“Bè, credo che sia nel suo interesse fare una vita sana”, ribatté Mitchell.

“Ha qualche consiglio sul fattore astinenza?”, domandò Alan.

“Direi di osservare il suo comportamento. Dieci giorni sono sufficienti per superare la fase critica. Lo farò anche valutare dallo psichiatra. Domani pomeriggio avrà un colloquio con lui e poi mi farà sapere le sue conclusioni”, spiegò il medico. “Come vi sembra, comunque?”, chiese, poi, scrivendo qualcosa nella sua agenda.

“Sinceramente è meno confuso ora. Ha iniziato a riconoscere le persone e a distinguerle da quelle reali a quelle di finzione. Ha, però, scatti d'ira. Per ora gestibili...”, rispose Alan, sospirando.

“Immagino. Continuate a essere presenti, a non fargli mancare l'appoggio e a mantenere una salda presa nei suoi confronti anche quando ha questi episodi di alterazione psichica. Capisco che siate stanchi e provati da questo periodo così stressante, ma se gli lascerete campo libero, se ne approfitterà immediatamente”, spiegò lo specialista. “Comunque domani il dottor Bates sarà più specifico e nel momento in cui avrò le sue valutazioni, vi chiamerò immediatamente”, concluse, alzandosi in piedi e andando verso i due uomini.

“Grazie, dottore. Il suo aiuto è stato fondamentale”, esclamò Alan, con gratitudine.

“Sono sempre qui a vostra disposizione”, replicò il medico, stringendo loro la mano.

 

Con grande fatica per il dolore alle giunture e alle costole, le infermiere erano riuscite a far sedere Jensen su una poltrona accanto al letto. Si sentiva vecchio, decrepito, dolorante e infinitamente triste. Gli altri cercavano di farlo ridere, gli avevano raccontato le peripezie in quelle lunghe giornate al suo capezzale, della tirannia delle donne in casa Ackles e della lotta incessante contro i fans.

Era riuscito a stare in piedi cinque minuti davanti alla finestra per salutare le decine di ammiratori che in quei giorni avevano dimostrato il loro affetto stazionando davanti all'ospedale. Aveva visto gli striscioni con frasi benauguranti, i palloncini colorati attaccati alle cancellate. Gli aveva fatto un gran piacere, ma in quel momento avrebbe preferito starsene da solo. Preferibilmente con Jared.

Quel lusso gli venne concesso solo verso sera. Era stata una giornata pesante. Tutte quelle attenzioni lo avevano stancato enormemente. Inoltre non aveva fatto altro che litigare con il padre, il quale gli imponeva di bere e mangiare quando lui non ne aveva voglia. Aveva bisogno di un po' di quella tenerezza e sentimento che solo Jared sapeva dargli.

“Jay, lo hai finito di leggere il libro che mi hai letto, mentre dormivo?”, chiese Jensen, mentre Jared stava leggendo le pagine sportive dei giornali, per informarlo di tutti gli eventi che aveva perso da quando era in ospedale.

Jared sbarrò gli occhi per la sorpresa e disse:”Non pensavo te lo saresti ricordato!”

“Mi ricordo che poco dopo essermi svegliato la prima volta, stavi leggendo qualcosa. Erano parole intrise di glucosio, però era bello starti a sentire!”, replicò Jensen, ridendo.

“Sono rimaste le ultime pagine. Vuoi che lo finisca?”, chiese Jared, afferrando la borsa dove teneva il portatile.

“Si, ti prego”, rispose Jensen, con gli occhi illuminati dall'attesa.

 

“Scendeva la sera e il cielo grigio si faceva rapidamente più scuro. Pur avendola riletta un migliaio di volte, la lettera continuava a suscitare in lei i medesimi sentimenti della prima volta”, iniziò a leggere Jared, non appena aveva fatto vedere la copertina del libro a Jensen. La sua voce calda e profonda andò a riempire ogni spazio libero nella testa di Jensen, calmandolo immediatamente e permettendogli di rilassarsi mentre era seduto nella poltrona con la testa appoggiata allo schienale e lo sguardo rivolto verso il suo interlocutore. Chiuse gli occhi e assaporò ogni parola.

“L'anno prima quei sentimenti avevano accompagnato ogni istante della sua vita”, continuò a leggere Jared.

“Un anno fa...”, mormorò Jensen, sorridendo ma poi quando Jared si girò a guardalo interrogativo, gli fece cenno di continuare. Voleva ancora assaporare quel momento così estatico il più a lungo possibile.

“Seduta sulla spiaggia, Theresa provò ancora una volta a immaginare Garrett mentre scriveva quella lettera. Passò un dito sulle parole, sfiorando la carta e sapendo che la sua mano si era posata su quel punto”

Jensen inghiottì a vuoto. Gli occhi gli si riempirono di lacrime. Allungò una mano, fino ad arrivare a toccare il braccio dell'altro.

Jared, che aveva visto il movimento, scostò una mano dal libro e la afferrò con una salda presa. Accennò a un sorriso e riprese a leggere.

Poco dopo Jensen si addormentò, felice.

 

“Mm, invece di migliorare....sembri mio nonno quando gli venne l'ictus”, esclamò Jeffrey Dean Morgan, cercando di svegliare il dormiente qualche ora dopo. “Hai, perfino, la bava...”, aggiunse, poi, pulendosi la mano sul pigiama dell'infermo.

“Ora ho capito perché ti danno sempre le parti da stronzo”, bofonchiò il giovane destandosi e guardando l'amico in modo non molto amichevole.

“Su, su, nonnetto, devi mangiare”, replicò Morgan, raddrizzando Jensen e mettendogli un tovagliolo di carta sotto il mento.

“Non ho fame”, sentenziò l'altro.

“Ahaha, bella battuta. Non solo mangerai tutto il brodo di pollo ma anche le verdurine bollite e le mele cotte”, replicò l'attore più anziano, sedendosi accanto a lui, sistemandogli la tovaglietta e il piatto sul tavolo e porgendogli il cucchiaio.

“Io voglio una bistecca al sangue e una birra gelata...altro che mele cotte...”, ribatté l'altro, serio.

“Certo Jensen, certo. La birra è proprio indicata. D'ora in poi te la puoi scordare e vederla in cartolina”, dichiarò Morgan, prendendo una cucchiaiata di brodo e porgendola al giovane, il quale fece un gesto inequivocabile.

“Ce l'hai presente il sergente maggiore Hartman nel film “Full Metal Jacket?”, chiese quello, guardandolo dritto negli occhi e con un tono gorgogliante assai simile a quello usato per impersonare John Winchester.

“Bè, sai oltre a urlare, non è che puoi far altro...”, rispose Jensen, tentando di metterla sullo scherzo,

“Se fossi in te, smetterei di fare il buffone, di irritarmi e inizierei a mangiare. Così, sai, per non dover vedere cosa potrei fare, oltre che ad urlare...”, aggiunse, rimettendo il cucchiaio in mano a Jensen.

“Sei così antipatico anche con i tuoi figli, Morgan”, chiese Jensen, mettendo il broncio.

“Non ce n'è bisogno. Sanno che quando dico una cosa, è quella. Mangia Jensen. Freddo il brodo è disgustoso”, rispose quello, dando un buffetto alla gamba del giovane.

Quando arrivarono Jared e Josh, Jensen stava mangiando le mele cotte. A lui le mele piacevano molto ma solo quelle al naturale. Quella pappetta tiepida era orrenda ed era palese, visto le sue eloquenti smorfie.

“Morgan, perché la tua produzione filma a Miami e non a Vancouver? Ci fossi stato tu....”, esclamò Jared, a metà tra il divertito e il serio, estasiato nel vedere Jensen così docile.

“Già, ma bastava un colpo di telefono e avrei passato qualche fine-settimana in più con voi”, affermò l'amico, mentre toglieva il tovagliolo a Jensen, non prima di avergli pulito la bocca.

“Ora ho capito perché Kripke ti ha dato la parte...”, esclamò Josh, dando un biscotto alle noci a suo fratello il quale lo artigliò famelico.

“Ehehe, voleva me a tutti i costi. Diceva che avevo un certo non so che nel fare il padre ai due Winchester...”

“E aveva ragione. Credo che il tuo personaggio sia il più odiato in assoluto. Al confronto Zaccaria era un simpaticone...”, disse Jensen, tirando per la manica suo fratello per avere un altro biscotto.

“Motivo per cui non vado alle conventions. Le fans mi ucciderebbero nel sonno”, esclamò, ridacchiando, Morgan.

“Tu non vai a quegli eventi perché chiedi un sacco di soldi”, esclamò Jared, passando l'agognato dolce al bimbetto troppo cresciuto seduto in poltrona.

“Anche...”, replicò, l'attore più anziano, ammiccando a Jensen.

“Va bene. Ora andiamo a fare due passi”, disse, con enfasi, Josh, dando una pacca sulla spalla a Jensen e facendo segno a Morgan di aiutarlo a tirare su l'infermo.

“Andiamo? Dove?”, chiese, spaventato, Jensen,

“In corridoio, Jensen. E dove, se no?”, replicò quello, aggiustandogli il pigiama che si era arrotolato su.

“Attento! Mi fai male! Le costole!”, piagnucolò Jensen.

“Le costole te le farei mangiare...”, replicò Josh, facendogli indossare una felpa aperta sul davanti.

“Ho caldo!”, piagnucolò il minore.

“In corridoio l'aria condizionata è stile Polo Nord. Ti prendi un accidente”, ribatté il maggiore, senza scomporsi.

“Bene. Siamo proprio una bella squadra, noi due. Vero, Josh?”, esclamò Morgan, compiaciuto.

“Si, finché non ne avrò le tasche piene di voi...”, disse Jensen, in piedi in mezzo a Josh e Jared, in precario equilibrio.

“Appunto, finché non ti rompo io se non farai quello che ti dico”, replicò Josh, sottovoce. “Vai piano, Jensen, non devi fare la maratona di New York. Solo un paio di passi per digerire”, aggiunse, sorreggendo il fratello.

“Digerire? E cosa?”, ridacchiò il minore, il quale giunse dalla porta assai provato e fradicio di sudore.

Le infermiere andarono in estasi a vederlo camminare nel corridoio. Si sentivano gridolini di eccitazione e frasi di incitamento per tutto il reparto. Furono necessari tre soste per arrivare alla sala d'aspetto e altrettante per tornare indietro. Un'impresa ardua per il malato e i suoi accompagnatori ma ogni passo che faceva in più, Jensen si sentiva meglio e spronato dagli altri, fece il percorso inverso con più baldanza.

Eccitazione che si smorzò in Jensen, quando fu travolto da Danneel, la quale era corsa incontro al marito in lacrime per l'emozione, visto che non pensava proprio di trovarlo già in piedi,

“Si, lo so, non sono morto. Mi dispiace. Non erediti nulla”, esclamò Jensen, infastidito dalla sceneggiata della moglie.

“Deficiente!”, esclamò lei, baciandolo sulla guancia. “Sono contenta di vederti in piedi!”

“Ok. Ora te ne puoi tornare a Los Angeles”, replicò lui, di rimando.

“Dani, non ci fare caso. L'acidità è stellare oggi!”, esclamò Josh, strattonando un po' il fratello.

“Vedo...”, disse lei. “Hai mangiato qualche limone, oggi?”, chiese lei.

“No, purtroppo, no, ma appena potrò, li userò per bermi qualche bicchiere di tequila”, replicò lui, passandosi la lingua sulle labbra, pregustando l'aroma alcolico.

“Devi passare sul mio cadavere, prima”, biascico Jared.

Jensen si girò a guardarlo. Si fissarono per alcuni istanti. La risposta pronta di Jensen si smorzò fino a scomparire. Era Jared. Non avrebbe mai fatto nulla di male contro di lui. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello. Punto. Sarebbe bastato riprendere la solita routine con lui e tutto si sarebbe sistemato. In quel momento Jensen avrebbe dato qualsiasi cosa per potersi bere un bel whisky liscio. Lo bramava ardentemente.

 

Il giorno dopo Alan, Jim e Danneel si armarono di santa pazienza e giunsero all'ospedale per affrontare la nuova giornata e le nuove sfide che sicuramente Jensen aveva in serbo per loro. Jensen era seduto in poltrona vestito con una tuta blu e impaziente di andare in palestra. Aveva voglia di recuperare in fretta in modo da tornare alla sua solita routine, continuare le ferie e tornare a Vancouver al suo lavoro. Perciò non appena Alan e Jim gli proposero di accompagnarlo, saltò su pieno di energie. Se lo vedevano così, lo avrebbero mandato a casa più presto.

Nella sala della fisioterapia, vi erano altri giovani, molti reduci da incidenti stradali, alcuni svegliatisi da lunghi periodi di coma. A Jensen fecero una grande impressione. Avevano grandi limitazioni fisiche ma si impegnavano con molta volontà. In paragone lui non aveva nulla e quindi evitò di lamentarsi più di tanto. Un ragazzo era reduce da un incidente provocato da un guidatore ubriaco e a lui ricordò il suo amico delle superiori. Mentre riandava indietro con la memoria, si rese conto che anche lui avrebbe potuto causare danni fisici a qualcuno, si ritenne fortunato a non averlo fatto e si ripromise che da quel momento in poi non si sarebbe più messo al volante in quelle condizioni.

Trenta minuti dopo, con tutte le articolazioni dolenti e i muscoli induriti dallo sforzo fisico, giunse in camera con il fiatone e quasi in lacrime. Non volle essere aiutato da nessuno e si accasciò sul letto, stravolto. Per distrarsi dal dolore, fece una lista di tutto quello che avrebbe fatto una volta che fosse uscito dall'ospedale. Per prima cosa si sarebbe rimesso con Jared. Lui era l'unico che lo aveva appoggiato in quei giorni e sarebbe stato sempre dalla sua parte. Avrebbe continuato la finzione del matrimonio, ma era stufo di vivere a quel modo, stanco di fingere quali erano i suoi sentimenti per Jared e infastidito dal dover mentire ai suoi fans. Se la Gomez si fosse opposta, avrebbe sempre potuto minacciare lei o il network di non voler più lavorare alla serie. Sapeva fino a che punto poteva spingersi.

“Ora che sei tornato nel pieno delle tue facoltà mentali, potresti togliere il veto sulle nostre carte di credito?”, chiese Danneel, mentre gli toglieva le scarpe da ginnastica.

“Ah, non sapevo le avessero bloccate”, rispose lui, meravigliato. “Chi lo ha fatto?”

“Jared. In pratica quel documento che avete firmato, gli dà il potere di vita o di morte su di te”, spiegò lei, sconsolata.

“Eh ora. Non esagerare”, esclamò lui.

“Fidati. E' proprio così. Potrebbe anche farti interdire, se lo volesse....”, ribatté lei, instillandogli il dubbio.

“Jared? Non lo farebbe mai. Non farebbe nulla di male contro di me. Non si lascerebbe mai coinvolgere o convincere”, affermò, con convinzione, Jensen.

“Ne sei sicuro?”, chiese lei, guardandolo fisso.

“Si, certissimo. Ma se così non fosse, e spero che ciò non accada mai, sarebbe un discorso chiuso per me”, replicò lui, con enfasi.

 

Il dottor Bates era un uomo minuto, di mezza età, con i capelli brizzolati e qualsiasi cosa di tragico accadesse attorno a lui, non si scomponeva mai. Attitudine fondamentale nel suo lavoro, visto che aveva a che fare con il mondo delle malattie mentali e delle alterazioni psichiche. Solo in due occasioni mostrava all'esterno la propria paura od eccitazione, ossia quando assisteva alle partite di football oppure quando aveva la fortuna di imbattersi in un personaggio celebre, soprattutto in uno dei suoi idoli cinematografici o televisivi. Ebbene si, ancora alla sua veneranda età, esternava comportamenti adolescenziali davanti a uno dei suoi attori preferiti. E Jensen Ackles era, sicuramente, il suo idolo in quel momento.

A lui era stato chiesto di tracciare un completo profilo psicologico sul paziente per verificare quali fossero state le sue reali intenzioni prima dell'incidente, per saggiare il suo equilibrio mentale e verificare i presupposti di un suo ricovero in un centro di rieducazione. Se i suoi test fossero stati negativi, non sarebbe stato necessario seguire alcuna terapia farmacologica o richiedere supporto psichiatrico.

Due ore dopo lo specialista era praticamente certo che l'equilibrio mentale del giovane appena esaminato fosse precario e se avesse messo per iscritto i suoi timori, il signor Ackles sarebbe finito in un centro di salute mentale. In pratica la sua libertà personale non sarebbe più esistita. Ma, per ingraziarselo e assicurarsi di poter accedere al set quando voleva e sbandierare questa opportunità a tutti i suoi amici, strinse un accordo con lui: benché fosse palese che era un alcolizzato patologico con tendenze suicide, avrebbe dichiarato la sua sanità mentale oscurata soltanto da forte stress e da una depressione transitoria.

Ritenendosi altamente fortunato di aver trovato un così grande fan della serie, Jensen fu ben felice di acconsentire al patto e firmò alcune dichiarazioni che permettevano al dottor Bates libero accesso agli studios di Vancouver durante le riprese della sesta serie e firmò anche alcuni autografi personali al medico indicanti la loro amicizia e conoscenza.

Il dottor Mitchell lesse con attenzione la relazione finale dello psichiatra e anche se non era così ottimista come lo era il suo collega, decise che la dimissione sarebbe avvenuta nei due giorni successivi, sicuro che la riabilitazione sarebbe continuata a casa e nella clinica dove Jensen sarebbe stato ricoverato.

Telefonò così a Jared e lo mise al corrente delle sue decisioni, rimarcando il fatto che dovesse essere tenuto costantemente sotto controllo. Jared ne fu lieto ma allo stesso tempo sconvolto. Il ritorno alla normalità lo atterriva oltre misura.

 

La sera prima della dimissione, la famiglia Ackles organizzò un grande barbecue all'aperto per ringraziare quanti si erano prodigati per aiutare il loro figlio. All'interno della casa, su ogni superficie disponibile, vi erano vassoi, piatti di portata e cabaret ricolmi di ogni succulenta ricetta del Texas da dove i colleghi e amici di Jensen potevano servirsi all'infinito. Tutti continuavano a ripetere che lo avevano fatto per il bene di Jensen, della sua famiglia e che non si poteva fare diversamente, anche perché in passato Jensen si era reso disponibile nei loro confronti.

Nello studio di Alan Ackles andava avanti da due ore una riunione per concordare una strategia tra la produzione della serie televisiva e il network che lo trasmetteva negli Usa tutto in teleconferenza tra i vari componenti e la materia dibattuta era principalmente il recupero dell'immagine dell'attore nel momento in cui sarebbe stato palese che il ricovero in clinica sarebbe stato per alcolismo e non per i postumi dell'incidente.

Jared, suo fratello Jeff e Josh rientrarono a casa dall'ospedale. Dopo aver svuotato l'auto da borse e sacchetti ricolmi di oggetti accumulatisi durante la degenza, si diressero in cucina per dissetarsi.

“Come sta Jensen?”, chiese Donna al suo vero figlio e agli altri due acquisiti.

“Bene. Adesso cammina da solo, senza aiuto. Si stanca, però, facilmente”, rispose Jared, mentre distribuiva agli altri due giovani una bottiglia di birra per uno.

“E soprattutto rompe!”, esclamò Josh, svitando il tappo e poi bevendo una lunga sorsata della bevanda gelata.

“E ciò non mi sorprende...”, replicò Donna, sfornando una teglia di torta salata al bacon e spinaci che fece venire l'acquolina in bocca ai tre giovani assai affamati.

“Immagino. Avete provato a introdurre il discorso 'clinica' con lui?”, chiese la signora Ackles, con un tono di voce abbastanza tremolante.

“Quella parola lo agita ancora di più. Non vuole sentire quel termine. Ha provato stamattina Danneel a introdurre la questione e credo che la sua nuova pettinatura sia dovuta all'urlo emesso da Jensen”, ghignò Josh, osservando sua cognata in giardino mentre parlava con Jim Beaver e sua figlia.

“Non oso immaginare domani quando dovremo affrontare questo discorso. Volente o nolente, secondo me, dovrà andarci!”, esclamò Donna angosciata, sedendosi di schianto su una sedia.

“Mamma? Ti senti bene?”, chiese Josh, andandole vicino, preoccupato.

“Si, caro, sono solo stanca. Tutta questa situazione mi ha logorata”, rispose lei, cercando di riprendersi in fretta. Non voleva aggiungere altre preoccupazioni alla sua famiglia.

Josh e Jeff si allontanarono per andare incontro alle loro rispettive mogli e figli appena arrivati. Anche Jared stava per lasciare la cucina, dopo essersi accertato che Donna Ackles si fosse ripresa ma lei lo fermò con una mano sul braccio. “Jared, la tua paura è palese, sai?”

“Già. Sono molto preoccupato per domani”, rispose il giovane, passandosi una mano sul viso. “Jensen, non si rende conto di quello che è successo. Dice che ora è a posto. Ha imparato la lezione e che non berrà più una goccia d'alcol ma io sono terrorizzato. Temo che quando ritornerà alla sua routine quotidiana, riprenderà a bere e la prossima volta non sarà così fortunato!”, esclamò Jared, depresso, sedendosi davanti alla mamma di Jensen,

“Hai proprio ragione!”, replicò lei, affranta.

“Domani sarà una giornata infernale!”, aggiunse, poi, facendo una carezza sul viso del giovane davanti a lui con gli occhi velati dalle lacrime.

In quel momento Alan entrò nella stanza. Fece un cenno alla moglie e poi mise una mano sulla spalla di Jared.

“Vieni con me, per favore, nello studio?”, chiese l'uomo con voce grave.

Jared si girò a guardarlo e notò quanto fosse invecchiato quell'uomo in quei giorni. Due solchi profondi attraversavano la sua fronte e i suoi occhi erano ancor più incavati, rispetto a qualche ora prima. Annuì e si alzò prontamente. La sua espressione si rabbuiò immediatamente. Qualcosa di grave era accaduta, visto l'alterazione dei lineamenti del padre di Jensen.

Nello studio Jared vide, oltre a Josh e a suo fratello Jeff, un uomo. Era l'avvocato di Jensen. Lo conosceva di vista. Lo aveva incontrato qualche volta quando Jensen aveva avuto bisogno di firmare documenti o transazioni inerenti ai documenti matrimoniali o immobiliari. Il tizio, sulla quarantina, biondo, alto e muscoloso, era vestito con un completo di lino blu e una camicia a righe azzurrina. Trasudava efficienza e competenza ma anche una certa tensione. Era accanto alla scrivania del padre di Jensen e stava digitando qualcosa su una tastiera di un costoso ultimo modello di portatile della Apple. Alzò gli occhi verso di lui, non appena Jared entrò nella stanza.

“Mr Pierce, buona sera!”, esclamò, sorpreso il giovane. Era convinto che l'avrebbe sicuramente visto dopo la dimissione di Jensen e non prima.

“Mr Padalecki”, rispose quello, in segno di saluto.

Jared si voltò ad osservare le espressioni di Josh e di suo fratello. I loro sguardi non erano il ritratto della felicità ma era chiaro che ne sapevano tanto quanto lui. Il suo stomaco, in risposta, si contrasse all'improvviso, suscitando nel giovane una sensazione di forte dolore e scatenando un'ondata di nausea. Si sedette su una sedia, prese una caramella alla menta da una scatola di cristallo posta su una mensola di una libreria, la scartò e se la mise in bocca nella speranza che gli calmasse il bruciore di stomaco.

“Sono venuto qui per avvertirvi che dovrete nominare un penalista e che io non potrò assumere la difesa di Jensen”, spiegò l'avvocato.

“Penalista?”, esclamò Josh, sorpreso.

“Si, ho appena parlato con il procuratore capo di Dallas. E' stato emesso un mandato di comparizione davanti al giudice per dopodomani”, affermò l'avvocato, tirando fuori un foglio da una cartellina.

“Ma questo lo sapevamo già!”, esclamò Jared che non capiva cosa stesse accadendo.

“Lascialo parlare, Jared!”, lo ammonì Jeff.

“Si, capisco la tua confusione”, disse l'avvocato, rivolto a Jared. “Ma è cambiata l'imputazione”, aggiunse poi. E ciò determinò, se possibile, ancora più attenzione da parte dei tre giovani presenti nella stanza. “Jensen è stato accusato, oltre che per la guida in stato di ebbrezza, anche di tentato omicidio”, terminò, infine, la sua spiegazione.

“TENTATO OMICIDIO!”, esclamarono all'unisono i tre giovani, alzandosi in piedi.

“L'uomo che guidava la macchina speronata da Jensen ha sporto denuncia per avere l'indennizzo, previsto dalla legge, e riparare l'auto. Il perito della contea ha svolto le sue indagini e sul paraurti e la fiancata di quest'auto sono state trovate tracce della vernice del pick-up di Jensen e alcuni danni sono compatibili con quelli occorsi durante lo scontro.”, spiegò l'avvocato, estraendo dalla sua valigetta alcuni incartamenti. “Se volete qui ci sono le foto dei due mezzi coinvolti”, disse, poi, mostrandole agli astanti e poi poggiandole sulla scrivania.

“Cosa rischia, avvocato?”, chiese Josh, risedendosi sulla sedia.

“Se ritenuto colpevole, la condanna può arrivare a dieci anni di carcere. Come sapete, lo stato del Texas non tollera i reati di negligenza, come la guida sotto effetto dell'alcol o peggio degli stupefacenti. Li considera alla stregua di quello dell'omicidio se vi sono coinvolte delle persone”, dichiarò il legale. “Per fortuna, quell'uomo non si è fatto nulla!”, aggiunse poi con sollievo.

“Si può fare un accordo?”, chiese Jared, in preda a una forte agitazione.

“Si. Il procuratore mi è sembrato disponibile. Sarà accordato un risarcimento per la persona coinvolta. A Jensen sarà ritirata la patente per sei mesi su tutto il territorio federale e 'sine die' su quello texano e dovrà andare in una clinica di recupero statale al più presto possibile”, rispose il signor Pierce.

“Jensen non accetterà mai di andare in clinica. Men che meno in una statale!”, esclamò Jared.

“Allora andrà in prigione!”, replicò l'avvocato.

“Prigione?”, esclamò Alan, impallidendo.

“Si, finché non accetterà di farsi ricoverare in un luogo adatto per disintossicarsi”

“Conoscendolo, piuttosto che andare in quel luogo, si farà rinchiudere in una cella”, disse Jared, affranto.

“Non si può fare nulla?”, chiese Josh all'avvocato.

“Se si dovesse arrivare a questi punti, si dovrà chiedere a un giudice di emettere una sentenza di interdizione, dichiarando Jensen incapace di intendere e volere e chi detiene la delega, potrà firmare un atto per farlo ricoverare in modo coatto”, rispose l'avvocato.

“Ho io la delega”, disse Jared, con un filo di voce.

“Allora sarà lei che dovrà costringerlo a fare quello che lui non vuole!”, esclamò il legale.

“Non me lo perdonerà mai!”, esclamò Jared, tra le lacrime.

“Probabilmente ma gli salverai la vita!”, replicò Josh, abbracciandolo.

“E un giorno, vedrai, se ne renderà conto e te ne sarà grato per sempre”, disse Alan, commosso, mettendogli una mano sulla spalla.

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

 

Approfitto dell'occasione per augurare un Sereno Natale a tutti quelli che hanno la pazienza di aspettare i miei aggiornamenti e a quanti leggono e recensiscono questa storia. Vi prometto che l'undicesimo capitolo lo pubblicherò entro la fine dell'anno, cogliendo così l'opportunità per farvi gli auguri di Buon Anno! Grazie a tutti!!

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** Capitolo Undici ***


Capitolo Undici

 

Il giorno della dimissione dall'ospedale finalmente arrivò e Jensen era impaziente di tornare a casa e programmare la rimanenza delle sue vacanze estive prima di tornare a Vancouver e al lavoro. In quegli ultimi giorni la sua mente era stata un vulcano di idee e progetti e la sua irrequietezza era cresciuta a dismisura. Era stufo di tutte quelle attenzioni da parte di medici, infermieri, parenti ed amici. Voleva tornare alla sua solita vita!

Quella mattina la sua insofferenza era andata a cozzare con l'infermiera, colpevole di avergli portato il caffè d'orzo, bevanda imbevibile secondo i canoni jenseniani. Il vassoio con la sua colazione era finito in terra e stava ancora inveendo, quando suo padre era entrato nella stanza.

“Jensen Ross Ackles, cosa ti ha preso?”, esclamò, rimanendo impalato sull'uscio, osservando il figlio, seduto sul letto, con il volto irato e i capelli scarmigliati, le lenzuola macchiate di succo d'arancia e il pavimento costellato dalla rimanente colazione, mentre una infermiera affranta e imbarazzata cercava di pulire quel caos.

“Cavolo, papà. Non lo so. Tutti mi trattano come se fossi un deficiente!”, rispose il giovane, con tono lamentoso. “Anche se non faccio colazione adesso, la farò quando arrivo a casa, no?”, aggiunse, poi, rivolto alla ragazza nella sua non più candida divisa ospedaliera.

“Si, certo, ma non c'è bisogno che ti comporti come un bambino di cinque anni oppure considerandoti tale, potrei decidere di trattarti come devono essere educati i bimbi di quell'età!”, ribatté Alan, perentorio, sottolineando la frase col tirando su le maniche della camicia.

Jensen avvampò alle parole del padre. Abbassò la testa e non proferì parola, avendo anche colto il sorriso ironico della ragazza che ora veniva aiutata e consolata dal padre.

Quando la stanza fu rimessa a posto, Donna e Mackenzie poterono entrare e consegnare a Jensen un borsone con dentro alcuni abiti per cambiarsi. Jared gli offrì il suo aiuto per vestirsi, visto che le costole fratturate gli impedivano di muoversi con una certa autonomia.

“Voglio andare a casa!”, esclamò Jensen, appoggiato a Jared, mentre questo gli toglieva la giacca del pigiama.

“Eh, ora ci andiamo!”, replicò Jared, il quale aveva una tensione e un tormento interiore immane. Era consapevole che quelli erano gli ultimi momenti di serenità fra loro due. Nel momento in cui Jensen fosse venuto a conoscenza dell'accordo fra lui e il giudice non gli avrebbe più rivolto la parola.

“No, non hai capito. Voglio tornare a Vancouver...”, Jensen mormorò, tirando su con il naso.

“E' tardi, Jensen. Dovevi pensarci prima...”, Jared replicò, inserendo un braccio per volta nella maniche della camicia.

“Lo so, Jared. Lo so...”, ribatté Jensen, trasalendo per il dolore, quando Jared finì di abbottonare la camicia. “Se potessi, tornerei indietro...”, sussurrò Jensen, respirando a fatica.

“Ora non pensarci. L'importante è che tu stia bene...”, ribatté Jared, infilandogli i jeans, mentre Jensen era seduto sul letto.

Quando fu pronto, Jared aprì la porta e fece segno ad Alan e Donna di entrare nuovamente nella stanza. Questi erano seguiti da due persone: una fu riconosciuta immediatamente da Jensen nella persona del suo avvocato, mentre l'altro non lo aveva mai visto. L'espressione seria dei suoi e la tensione sul viso di Jared gli fecero capire che quella giornata stava peggiorando sempre di più.

“Jensen, sono felice che tu stia meglio!”, lo salutò Pierce, dopo che si erano stretti la mano.

“Grazie, Tom. Di qualsiasi cosa tu debba parlarmi, possiamo farlo a casa?”, Jensen disse, alzandosi in piedi con l'intenzione di uscire dalla camera.

Tom si girò a guardare l'altro uomo che stava dietro di lui e scosse la testa. “Ho paura di no, Jensen”, esclamò, indicando il tipo in giacca e cravatta dall'aria seria e compita che era avanzato verso il letto di Jensen.

“Questo è Brian Pratchett. E' l'assistente del giudice Snow, quello che è assegnato al tuo caso”, spiegò il legale di Jensen.

“Il mio caso?”, Jensen domandò sorpreso. “Quale caso?”

“Posso?”, Pratchett intervenne.

Appena Tom fece un accenno di assenso, l'assistente appoggiò la valigetta sul letto, la aprì e tirò fuori alcuni documenti e li passò a Jensen, il quale li prese anche se non sapeva cosa fossero o cosa farsene.

“Mr Ackles, lei ha causato un incidente stradale che ha provocato la distruzione della sua auto, il danneggiamento di una proprietà della contea e...

“Proprietà della contea?”, chiese Jensen, stupito.

“Un platano che dovrà essere abbattuto”, rispose il funzionario.

“Ahahah, certo un platano, ahahahah”, esclamò divertito il giovane.

“Oltre al fatto che è accusato di guida in stato di ebbrezza, è emerso che nella sua condotta alterata abbia coinvolto un'altra persona, la quale non ha riportato nessun danno fisico ma reclama il pagamento dei danni materiali e di conseguenza, dopo aver sporto denuncia, la sua posizione si è fatta più difficile”, spiegò, con tono grave, il signor Pratchett.

“Se è una questioni di soldi, non c'è problema. Pagherò quello che devo!”, Jensen disse, sbuffando, allungando i fogli verso suo padre.

“Jensen, questo non è un teatro di posa. Questo avviene solo a Hollywood e non hai la condiscendenza che potresti ottenere a Los Angeles. Sei a Dallas, Texas. Qui i reati contro le persone sono tenuti in gran considerazione...”, dichiarò, con enfasi, Tom Pierce.

“E allora?”, chiese Jensen che non vedeva dove fosse il problema.

“Il giudice Snow ha una cattiva opinione nei confronti di quelli che causano incidenti perché si mettono al volante ubriachi. Nonostante sia il tuo primo reato è rimasto più o meno sulle sue posizioni e nonostante ieri sia rimasto quasi tutto il pomeriggio a trattare assieme al signor Pratchett, la proposta migliore che ne è scaturita è stata quella di centoventi giorni di cella, risarcimento danni per la contea e la persona coinvolta di cinquantamila dollari e il pagamento della multa di duemilacinquecento dollari”, affermò l'avvocato di Jensen.

“Prigione? Voi siete matti! Tra un mese devo tornare a Vancouver a lavorare!”, urlò Jensen , sbiancando e portandosi le mani al viso in segno di disperazione.

Tom annuì, posando una mano sul braccio di Jensen. “Lo so, Jensen. E' su queste basi che sono riuscito a strappare un accordo con il giudice. Rimane invariata la parte pecuniaria ma sarebbe disposto a sorvolare sulla detenzione, revocandoti però la patente per sei mesi sul territorio federale e dovrai seguire un programma di riabilitazione dalla dipendenza alcolica”

“Ah, ok. Perfetto. Dove devo firmare?”, chiese Jensen improvvisamente tutto trillante di energia.

Jared scambiò un'occhiata con Alan e Donna ma nessuno di loro si era mosso o aveva proferito parola. Aspettavano soltanto quello che l'avvocato aveva in serbo per il loro recalcitrante figlio.

“Gli alcolisti anonimi ci sono anche a Vancouver”, aggiunse, poi, Jensen, riprendendo di nuovo i fogli dalle mani del padre e iniziando a scorrerli.

Tom si schiarì la voce: “Ho paura che il giudice non intendesse quello, Jensen. L'unico modo per non scontare i sei mesi di prigione è quello che tu venga internato in una clinica di recupero amministrato dallo stato del Texas e il programma minimo è quello delle otto settimane”, dichiarò Pierce, sganciando l'ordigno nucleare.

“OTTO SETTIMANE??”, Jensen sbottò, gridando, dopo alcuni istanti di silenzio. “Ma è oltre il periodo di pausa che ho a disposizione prima che inizino le riprese della nuova stagione!”, continuò poi, sullo stesso tono, guardandosi intorno e poi fissando Jared, dal quale sperava arrivasse un aiuto.

La delusione di vedere che neanche lui interveniva, gli fece accrescere il livello di rabbia. “Che cacchio vi siete messi in testa tutti quanti?”, urlò, sbattendo i fogli in terra e dirigendosi verso la porta.

“Jensen, non aggravare la tua posizione!”, lo ammonì l'avvocato.

Quello, però, aveva già aperto la porta. Due uomini in uniforme color sabbia, di cui si riconosceva perfettamente il distintivo di sceriffo della contea, gli sbarrarono la strada.

“Mr Ackles? Jensen Ackles? Lei non può lasciare la stanza da solo. Sono lo sceriffo Melville e questo è il mio vice. Johnson. Può essere soltanto accompagnato alla prigione di stato o alla clinica Mayer, assegnatala dal giudice Snow”, esclamò uno di loro due, sbarrandogli l'uscita.

“Non ci posso credere! Vi siete messi d'accordo!”, sbottò Jensen, guardando con rabbia tutti gli astanti.

“Se esce di qui senza il mio permesso, le verrà aggiunta anche l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale e a quel punto avrà modo di conoscere tutti i comfort della prigione di contea per lungo tempo!”, esclamò Pratchett.

“Jensen torna qui e siediti sul letto!”, ordinò, perentorio, Alan Ackles.

“Papà?!”, esclamò il figlio, con un tono a metà tra il lamentoso e l'allibito.

“Fai come ti ho detto!”, replicò l'uomo.

Jensen continuò a fissare i due uomini in uniforme come se davanti a lui fossero comparsi due dinosauri, poi si girò a guardare Jared, il quale aveva il viso contratto dalla tensione ma lo sguardo triste come non mai e quando vide comparire un timido sorriso sul viso di quello che considerava l'unica persona a cui importasse veramente qualcosa di lui, si girò e si diresse verso il letto dove si sedette, sconfitto.

“Possiamo portarlo a casa?”, chiese Alan, dopo alcuni istanti.

“Si. Domani mattina alle otto questi due signori lo verranno a prelevare per la destinazione che avrà deciso di scegliere. Devo informare il giudice. Potrebbe emettere un'ordinanza per la cauzione, anche se mi pare che il signor Ackles”, indicando il padre di Jensen “sia in grado di imporsi su suo figlio e quindi non ci sia il rischio di una fuga”, rispose l'assistente giudiziario.

“Non gioverebbe alla sua carriera farlo diventare un reato federale”, aggiunse poi, guardando Jensen.

“Grazie, Signor Pratchett”, disse Alan con gratitudine, stringendogli la mano.

“La chiamo stasera per farle sapere cosa abbiamo deciso”, dichiarò Pierce.

“Perfetto”, replicò il funzionario, prima di allontanarsi.

Fu seguito comunque dall'avvocato di Jensen che parlò anche ai due ufficiali della contea.

“Bene. Allora possiamo andare a casa, ora!”, disse Donna, con voce un po' tremolante ma sollevata.

Jensen non disse nulla ma guardò sua madre con un'espressione incredula. Poi si alzò dal letto e passò davanti a tutti uscendo fuori dalla stanza dove lo attendeva l'infermiera con l'immancabile sedia a rotelle, tipica degli ospedali americani, per i pazienti appena dimessi. Passando accanto al bancone dell'accettazione, vide Jared parlare con il dottor Mitchell mentre firmava moduli e prendeva ricette.

Seduto davanti nell'auto del padre, attese l'arrivo di Jared. Era incapace di formulare un solo pensiero. Non si capacitava di quello che era successo. Avevano ordito una trappola contro di lui ma piuttosto che dargliela vinta, si sarebbe fatto sei mesi di cella. Lui non era un alcolizzato. Se voleva poteva smettere di bere in qualsiasi momento. Non era di certo quello un problema. Se fosse ritornato alla sua routine normale, sarebbe tornato quella persona razionale che era prima del matrimonio. Già quella maledetta decisione gli aveva rovinato la vita.

Alan stava aspettando Jared nell'atrio dell'ospedale. Lo vide arrivare con un fascio di fogli in mano. “Dobbiamo passare da un drugstore per prendere alcuni farmaci”, disse il giovane, raggiungendolo.

“Ok. Immaginavo”, disse lui. “Direi che fino adesso è andata come avevamo previsto”, aggiunse, poi, Alan.

“Per adesso, si. Aspettiamo la sua reazione che prima o poi ci esternerà”, esclamò Jared.

“Conoscendolo, ci delizierà non appena metterà piede in casa!”

“Gli altri sono là?”, chiese Jared.

“Si, si. Ci stanno aspettando!”, rispose Alan.

“Bene. Abbiamo bisogno dell'aiuto di tutti!”, esclamò Jared, sospirando. “Alan, mi dia le chiavi. Guido io. Lei è troppo provato per farlo. E poi se ci sono io accanto a lui, è meglio!”

“Ok. Grazie, Jared. Se non ci fossi stato tu non so proprio come avremmo fatto!”, ribatté Alan, con gratitudine.

Per tutto il viaggio Jensen non disse una parola. Non rispose quando Jared gli chiese se avesse bisogno di qualcosa, prima di scendere dall'auto, per andare ad acquistare le medicine. Era chiuso nel suo mutismo iroso. Continuava, ostinatamente a guardare davanti a sé senza dar segno di aver inteso la domanda o di voler interagire con il mondo esterno. La sua rabbia aumentava sempre di più al pensiero di come la sua vita sarebbe cambiata e tutto ciò perché nessuno della sua famiglia e neanche Jared si erano minimamente opposti a quella decisione.

Jared si accorse, però, che, mentre usciva dal negozio, Jensen aveva lo sguardo verso la porta del drugstore, come se lo aspettasse. Distolse subito lo sguardo ma l'intenzione era manifesta. Jared si augurò di avere tempo quella sera per riuscire a parlare con lui.

Nel momento in cui Jared imboccò il vialetto e fermò l'auto, Jensen uscì fuori dall'auto, sbattendo la portiera e andando ad aspettare con impazienza dalla porta di casa che sua madre arrivasse ad aprirla. Una volta che fu fatto ciò, mentre sottolineava l'avvicinarsi di Donna sbattendo un piede a terra, Jensen entrò in casa dirigendosi nel soggiorno. Aspettò che tutti fossero entrati e poi sbottò ad alta voce: “Non ci posso credere! Perché cazzo non siete intervenuti?”. Poi dando un calcio alla sedia, continuò: “Che cazzo pensava il giudice quando ha parlato di abuso di alcol. Non sono un alcolizzato!”

“I medici dicono altro”, esclamò Donna, sospirando.

“Quella sera avevo bevuto, tanto. E' vero. Ma non sono un ubriacone. Posso smettere quando voglio!”, ribatté il giovane, sedendosi di schianto su una sedia e sbattendo una mano sul tavolo.

“E' proprio quando uno dice che può smettere quando vuole che la dipendenza è arrivata al punto di non ritorno!”, affermò Alan.

Jared si era tenuto in disparte. Era nell'ingresso. Voleva che ci fosse un confronto fra Jensen e la sua famiglia, in modo che risultasse chiaro che loro non c'entrassero nulla.

“Non ho bisogno di andare in una clinica per disintossicarmi!”, sbottò Jensen. “E potete fare quello che volete ma non ci andrò!”, continuò con lo stesso tono.

“E invece è quello che accadrà, Jensen!”, esclamò sua madre.

“Col cazzo!”, urlò quello di rimando, lanciando un soprammobile verso la madre, la quale per fortuna, fu largamente mancata dal corpo contundente.

“Adesso basta, Jensen!”, Alan ordinò perentorio, avvicinandosi a suo figlio. “Solo perché sei furibondo, non ti dà il diritto di parlare e agire così verso tua madre!”, lo redarguì poi, furioso.

Jensen sbuffò. “Tanto non me ne frega un tubo di quel che cazzo dice quella...”, aggiunse, poi, a bassa voce ma non così tanto da non essere sentita da suo padre.

Ed inevitabile fu lo schiaffo. Il bruciore sulla guancia destra sortì l'effetto contrario. Invece di calmarsi, Jensen si alzò in piedi, scontrandosi con suo padre, in piedi davanti a lui.

“Che succede qui?”, chiese Josh, comparendo nel vano della porta.

“Tuo fratello ha qualche problema a rendersi conto che comportarsi come un poppante ha delle conseguenze dolorose....”, rispose Alan, sempre con gli occhi piantati in quelli di suo figlio, il quale non accennava minimamente a spostarsi.

“Sempre il solito, vero, Jensen?”, chiese, retoricamente, Josh affiancandosi a suo fratello minore.

Quella presenza, accanto a lui, lo distolse un po' dall'esternare la sua ira nei confronti del padre, il quale riuscì ad allontanarsi da lui e ad andarsi a sedere sul divano.

“Mamma, ci vai a prendere tre belle tazze di caffè caldo, per favore?”, chiese poi il figlio maggiore, cercando di stemperare un po' la tensione e dare il tempo a sua madre di riaversi dallo shock, visto che era pallida e tremante.

“Si, certamente, Josh. Preparo anche qualche fetta di pane tostato...”, disse lei, uscendo dalla stanza.

“Comunque sempre meglio che fare sei mesi di carcere...due mesi passano in fretta”, disse Alan, cercando di far ragionare suo figlio minore. “E poi sai cosa direbbero i media se scegliessi quella strada...”

“Sai a me quanto mi frega di quello che dicono i giornalisti...”, replicò Jensen, mentre guardava fuori dalla finestra e si massaggiava la guancia arrossata.

“Questo è un dépliant della struttura scelta dal giudice. Dacci un'occhiata e poi ne parliamo...”, disse Josh, passandogli un cartoncino ripiegato in tre parti con foto e descrizione della clinica.

“Vedo che avete già deciso...”, sbuffò Jensen, facendo una smorfia nell'afferrare quello che gli stava passando suo fratello. “Ma sarò io a dare l'ultima parola...”, aggiunse poi, andandosi a sedere in una poltrona.

“Noi non abbiamo deciso nulla. Sei tu che ti sei cacciato in questo casino, bisogna far buon viso a cattivo gioco...”, mormorò Josh, guardando suo fratello intento a guardare il dépliant con un'espressione schifata in volto, mentre suo padre appariva stanco e sfiduciato.

“Ah, nessun visitatore, nessuna telefonata per le prime cinque settimane”, esclamò Jensen gettando a terra la brochure. “E quale è la differenza tra questo e la prigione?”, urlò, poi, rialzandosi in piedi.

“Vuoi proprio che te lo dica?”, chiese Josh, iniziando a perdere la pazienza.

“Si. E quale sarebbe, sapientone?”, sbottò Jensen, sfidando il fratello.

“Almeno nella clinica nessuno farà a gara per contendersi un pezzo del tuo culo!”, sbottò Josh.

“Santo cielo! Josh!”, gridò la madre entrando nel soggiorno, scandalizzata.

“Scusa, mamma. Ma se non ci arriva da solo, questo è l'unico modo che ho per farglielo capire”, si scusò il figlio maggiore andando incontro a Donna e prendendole il vassoio che stava trasportando ricolmo di tazze e con il bricco pieno di caffè. Dietro di lei Jared ne portava un altro con il pane tostato e la marmellata.

“Non so se te ne sei accorto Jensen, ma stiamo tutti cercando di aiutarti!”, aggiunse poi suo fratello maggiore.

“Boh, a me non sembra proprio. Voi qui dentro pensate che io abbia un problema che però a me non pare di averlo”, replicò Jensen, scuotendo la testa, dopo essersi alzato per prendere una tazza. La riempì di caffè nero bollente e poi con quella si diresse verso il mobile bar.

Ognuno si girò a guardarlo. Lui, imperterrito, aprì uno sportello e afferrò la bottiglia del whisky. Josh si materializzò accanto a lui. “Posa quella bottiglia, Jensen!”, gli ordinò con voce calma e risoluta.

Josh, leggermente più alto di suo fratello e con un dieci chili di muscoli in più dovuti alle sue partitelle settimanali di football con i suoi amici, rappresentava ben più di una minaccia per Jensen. Da ragazzi erano capitate alcune scazzottate fra loro due e Jensen era sempre stato quello che era capitolato. Jensen sapeva a priori che l'aver imparato alcune mosse di kung-fu sul set, non sarebbe servito a molto contro di lui.. Si irrigidì ma continuò nella sua azione di sfida. Svitò il tappo del Jack Daniel...

“Ti ho detto di posare la bottiglia!”, sibilò Josh, avvicinandosi ancora di più a suo fratello.

“Se no che fai?”, chiese Jensen, ridacchiando, mentre afferrava il collo della bottiglia per versarsi un po' di liquido ambrato nella tazza del suo caffè, appoggiata sul ripiano davanti allo sportello.

Josh non rispose ma prese la bottiglia dalla parte inferiore e con uno strattone la tolse dalle mani di suo fratello e l'appoggiò sul ripiano.

Jensen non ci vide più dalla rabbia. Prese la bottiglia e la scaraventò a terra. “Se non la posso bere io, non la beve nessuno!”, esclamò poi, girandosi verso lo sportello aperto e allungando una mano verso un'altra bottiglia di liquore.

Il rumore di vetri infranti e la voce irosa di Jensen aveva fatto accorrere Jared e gli altri ma si fermarono quando Alan fece segno loro che Josh aveva tutto sotto controllo.

“Tocca quella bottiglia e ti prendo a pugni!”, Josh esclamò, dando uno spintone a suo fratello.

“Oh, si, certo....”, replicò Jensen, mettendo la mano su una bottiglia di rum.

Il tutto avvenne nel giro di pochi secondi: la mano di sinistra di Josh si abbatté sulla testa di Jensen, mentre con la destra prendeva la bottiglia e la posava sul mobile. Jensen non accettò il tutto supinamente. Tentò di dare una spallata al fratello, per assicurarsi una via di fuga, e poi gli mollò un destro in faccia. Jensen non aveva però calcolato la debolezza del suo tono muscolare e il dolore ancora presente alle sue costole, così il tutto risultò essere abbastanza lento.

Infatti Josh schivò il pugno e mise a segno il proprio che centrò Jensen in pieno viso, facendolo cadere di schianto sul pavimento.

Urlarono tutti. A Josh di tirare su suo fratello disteso in terra con un maschera di sangue sul volto e all'altro di smettere di tirare calci e di proferire minacce al fratello maggiore sul fatto che, se gli avesse rotto il naso, gli avrebbe cambiato i connotati.

“Donna, vada a prendere del ghiaccio, per favore”, chiese Jared, inginocchiandosi accanto a Jensen .

“Non mi toccare!”, farfugliò Jensen, cercando di mettersi seduto.

“Ah, si, genio. Allora tirati su da solo, se ci riesci!”, esclamò il giovane, anche lui ormai al limite della sopportazione.

Jensen non rispose ma con fatica si rialzò in piedi.

“Per me sei morto, Josh! Da questo momento non esisti più!”, urlò, rivolto a suo fratello.

Poi andò nell'ingresso, afferrò le chiavi dell'auto del padre e si avvicinò alla porta di casa.

“Tu lo sai che non posso lasciarti fare una cosa del genere, vero?”, esclamò Jared, seguendolo.

“Non stiamo girando un episodio di Supernatural, Jared. Perciò andrò dove mi pare e piace e tu no me lo impedirai”, replicò Jensen, aprendo la porta.

“No, non è Supernatural ma l'epilogo è scontato. E visto che le hai prese da tuo padre e da tuo fratello, ora è il mio turno...”, ribatté Jared, avvicinandosi a lui.

“Si, appunto. Tu che le prendi e non io...Di solito è Dean che si impone su Sam e non viceversa”

Intanto Jared era riuscito a mettersi tra Jensen e la macchina.

“Jared, togliti di lì. Non voglio farti del male...”

“Ahaha, questo è proprio da vedere...”

“Jensen, torna in casa!”, esclamò Alan alle spalle di Jensen. “Non farmi arrabbiare. Stai sanguinando e non riusciresti a fare neanche mezzo metro conciato in quel modo e poi sei senza patente. Se ti ferma la polizia, finisci a Huntsville per il resto dei tuoi giorni”, aggiunse, perentorio, il padre.

“Siete tutti contro di me. Anche tu, Jared. Non me lo sarei mai aspettato da te. Sei sempre stato dalla mia parte. Sempre!”, mormorò Jensen, con la voce incrinata, mentre cercava con la manica della felpa di tamponarsi l'emorragia dal naso.

“Sono sempre stato con te”, disse Jared, in lacrime, andando verso di lui e abbracciandolo. “Nella buona e nella cattiva sorte, nella gioia e nel dolore”, aggiunse, poi, tenendolo stretto.

Affranto, scosso dai singhiozzi, impossibilitato a respirare per via del naso intasato dal sangue e dal muco, si lasciò portare in casa docilmente da Jared e dal padre. Dopo essere stato ripulito, rifocillato e aver preso qualche calmante, fu messo a letto e il pomeriggio passò nella calma più assoluta.

“Mac, per favore, avverti Jensen che la cena è pronta. Se vuole può venire giù a mangiare con noi ma se non se la sente, gli porto un vassoio in camera”, disse Donna a sua figlia.

“Si, certo, mamma”, rispose lei, salendo al piano di sopra.

Poco dopo si sentì qualcuno che sbatteva delle porte al piano di sopra e poi scendeva le scale di corsa.

“Mamma!! Papà!! Presto, correte. Jensen, non è nella sua stanza”, esclamò Mackenzie, entrando trafelata in cucina.

“Come non è nella sua stanza! Hai guardato in bagno?”, chiese lei, allarmata.

“Si, ho guardato dappertutto. Jensen non è in casa...”

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

Secondo voi, dove è finito Jensen?

Ringrazio, come sempre, quanti hanno la pazienza di aspettare l'aggiornamento dei miei capitoli e tutti quelli che lasciano un commento, a me sempre gradito, in qualsiasi forma esso sia. Inoltre, colgo l'occasione di farvi i miei auguri di una 'Buona Befana!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Capitolo Dodici ***


Capitolo Dodici

 

“Un caffè forte e ristretto per lei, signore”, esclamò una cameriera, comparsa all'improvviso davanti al separé più appartato di tutto il night-club.

Jensen, sprofondato in una densa nebbia alcolica, fatta di torpore, allucinazioni estatiche e senso di stordimento, si riscosse quanto bastava per alzare lo sguardo su di essa e sul tazzone bianco che reggeva in mano dal quale fuoriusciva un fumo denso e biancastro.

“Io non ho ordinato nessun maledetto caffè”, biascicò, distogliendo velocemente lo sguardo.

“Lo ha fatto quel signore laggiù”, spiegò lei, indicando una figura indistinta appoggiata al bancone del bar.

“Se lo può tenere”, mormorò Jensen, infastidito.

“Mi ha detto di riferirle che se non lo beve di sua spontanea volontà, verrà qui a cacciarglielo giù in gola personalmente”, ribatté lei, ridacchiando.

Quelle parole arrivarono a fatica al cervello del giovane, il quale, però, riconobbe lo stile dell'enunciato e ciò suscitò in lui una risata alquanto isterica.

“Va bè, lo lasci qui e se ne vada”, replicò poi il giovane, con tono più conciliante.

Lei fece quanto richiesto e se ne andò, dirigendosi verso colui che le aveva dato 50 dollari per compiere quell'ardua missione. Gli riferì che il cliente non era intenzionato a bere quella bevanda scura che gli aveva consegnato e che appariva, senza alcun dubbio, ubriaco fradicio.

L'uomo non fece alcun commento. Sbuffò e afferrò il cellulare. Compose un numero e dopo alcuni secondi bofonchiò qualcosa e interruppe subito dopo la conversazione. Fatto ciò, ordinò un altro succo di ananas e si accinse ad aspettare l'evoluzione degli eventi.

La bottiglia di whisky di forma rettangolare con l'inconfondibile etichetta nera a lettere bianche era quasi vuota. Rimaneva soltanto un dito o forse due di liquido ambrato e lo sguardo annebbiato di Jensen era fisso sul quel contenuto da un po' di tempo. Sapeva che quella quantità non avrebbe alterato più di tanto il suo stato ma era consapevole che nel momento in cui avesse bevuto anche quegli ultimi centilitri, avrebbe dovuto fare una scelta: o ordinare un'altra bottiglia o chiamare un taxi per farsi portare a casa. La prima opportunità sembrava allettante in quanto scevra da ogni responsabilità e problemi da affrontare; la seconda era più faticosa e pericolosa. Era conscio però che se avesse attaccato a scolarsi una seconda dose, non sarebbe mai arrivato a casa con le proprie gambe.

Perso nelle sue elucubrazioni, alzò lo sguardo annebbiato e scorse l'uomo dalla barba brizzolata che lo fissava da lontano. Jensen si rese conto che costui non gli avrebbe mai permesso di ordinare una seconda bottiglia di Jack Daniels e lui non avrebbe mai avuto la forza per imporgli la sua volontà. Non capiva il motivo per cui se ne rimanesse così calmo e tranquillo a bersi il suo succo, senza averlo già preso di peso e portato a casa.

Forse pensava che tale azione avrebbe scatenato in lui una reazione violenta e per evitare guai peggiori, aspettava che gli passasse parte della sbornia. Ghignò sommessamente. Gli ci sarebbero volute ben dodici ore per smaltire i postumi di quella bottiglia di superalcolico e tutte le dosi di tequila ingurgitate prima e perciò aspettare una o due ore in quel locale era pura illusione.

E poi non aveva proprio voglia di tornare a casa e sorbirsi i rimbrotti del padre, gli sguardi feriti della madre e i pugni del fratello. Piuttosto avrebbe smaltito la sbornia al freddo e all'umido di qualche vicolo lì vicino.

Poi, mentre pensava a tutte quelle persone che si erano alternate al suo capezzale in quei giorni, una in particolare gli diede una stretta al cuore. In fondo era colpa sua se si era ridotto in quel modo, anche se la scelta era stata ponderata da entrambe le parti. La sua mente vagò a quel 27 febbraio dell'anno prima e avvertì ancora tutta la sua amarezza e tristezza provata quel giorno.

 

Jensen stava fissando la cravatta di Jared, anche se non aveva bisogno di alcun aggiustamento, ma era una scusa per far qualcosa e smettere di tremare come una foglia, quando Jared sbottò: “Io penso di amare solo te”

Jensen non replicò. Le sue mani scesero lungo le spalle di Jared e presero a togliere via pilucchi inesistenti dalla giacca nera del vestito del futuro sposo. “Taci. Stai per sposarti tra dieci minuti”, lo ammonì.

Jared scosse la testa: “Io...io non penso di riuscirci, Jensen. Ti amo. Lo so ormai da tanto tempo e anche se voglio bene a Genevieve, non posso sposarla. Ascoltami...”

No, ascoltami tu! Abbiamo già fatto questo discorso”, Jensen disse, scrollandolo lievemente. “Sei nervoso perché stai per convolare a nozze. E' normale. Ma tu non sei più innamorato di me. Tu ami quella bella donna che ti sta aspettando e che ti renderà felice. Quello che abbiamo avuto noi due è stato un bellissimo intermezzo che non può durare, a meno che non vogliamo buttare via la carriera, così faticosamente costruita, e amareggiare le nostre famiglie. Perciò, sii uomo, smettila di piagnucolare e fai il tuo dovere!”, aggiunse poi, cercando di esser convincente.

E allora perché tremi?”, chiese Jared, sornione.

Jensen alzò lo sguardo e lo guardò intensamente. “Perché solo voi due potevate scegliere di sposarvi nell'Idaho a febbraio e per giunta in mezzo alla neve!”, rispose Jensen, cercando di essere spiritoso.

Fondamentalmente era vero. In quel momento aveva freddo e avrebbe dato chissà cosa per poter indossare un piumino e un berretto di lana, ma era conscio che la realtà era ben diversa.

Non fingere con me, Jensen! Ti conosco troppo bene!”, esclamò Jared, ricambiando l'occhiata.

E allora? Cosa pensi sia il motivo del mio tremore?”

Non ci vuole un genio, sai? Il tuo stato emotivo è quello di chi sta assistendo alla pena capitale del proprio innamorato...”, replicò Jared, esalando un sospiro.

Eh ora, non esagerare. Il patibolo....”, sbuffò Jensen, accennando a un sorriso.

E se ci fossimo sbagliati? E se le nostre paure, le nostre incertezze ci stessero portando su una strada senza uscita?”, chiese Jared, con voce sofferente.

Prima di arrivare a questo passo ci abbiamo pensato a lungo. Ne abbiamo parlato fino allo sfinimento. Io potevo continuare nella finzione, tu no. Tu volevi uscire allo scoperto e io no. Siamo pari. Non dobbiamo incolparci di nulla e vivere le nostre vite, consci di aver avuto una parentesi meravigliosa che altri non hanno mai avuto”, replicò Jensen, con lo sguardo perso nel vuoto. “Io vorrei....”, si interruppe poi.

Tu, cosa, Jensen?” Jared chiese, facendo una carezza sul viso dell'altro.

Jensen si passò una mano sugli occhi e poi sulla bocca. “Io vorrei tornare indietro e rivivere ogni istante che ho passato con te. Dovrò, invece, dividerti con una donna ma mi ritengo fortunato perché comunque per cinque giorni alla settimana e nove mesi all'anno potrò vederti e usufruire della tua amicizia”, rispose in un sussurro e con gli occhi inondati di lacrime.

Siamo ancora in tempo, Jensen. Basta una sola tua parola, un solo tuo gesto....”, Jared esclamò, appoggiando la sua fronte su quella dell'uomo davanti a lui e per un momento stettero in quella posizione, respirando la stessa aria.

No. Ormai è troppo tardi. Tu non darai un dolore simile a Genevieve e alle due famiglie che sono convenute qui per questo gioioso evento!”, affermò Jensen, risoluto, scostandosi da Jared.

Quando nascerà il tuo primo figlio, mi ringrazierai, Jared!”, aggiunse poi.

Jared annuì e stette in silenzio per lungo tempo. Jensen andò alla finestra e guardò giù nello spiazzo che divideva l'albergo dalla tensostruttura che era stata eretta per creare l'ambiente idoneo allo svolgimento della funzione. Il bianco incandescente della neve lo abbagliava e feriva i suoi occhi. Non tutte le lacrime che ciò causava erano, però, da imputare a quella causa.

Jared sapeva che quello che aveva detto Jensen era vero. Non potevano andare avanti in quel modo. Jensen non sarebbe mai uscito allo scoperto e Jared odiava dividersi tra Jensen e Genevieve. Non avrebbe retto a lungo nella menzogna. Perciò quella era l'unica strada percorribile: troncare quel magnifico legame che lo legava all'unico amore che lo rendeva felice e vivere un'altra vita. Una più consona alla sua immagine da uomo di copertina.

Jensen, poi, vide il fratello di Jared e suo testimone, fare cenno a Jensen di portare giù lo sposo. Jensen annuì e sorrise quando vide quell'altro che indicava l'orologio e faceva l'eloquente gesto di chiedere dove fosse finito.

Jeff chiede se sei pronto?”, chiese Jensen, girandosi a guardare Jared.

Si, lo sono”, ammise l'uomo più giovane, alzandosi in piedi e lisciandosi i pantaloni.

Ok. Allora andiamo!”, disse Jensen, facendo segno a Jeff di avvisare gli altri che stavano per arrivare.

Si avviarono all'unisono verso la porta, ma Jared si fermò di colpo. Si girò verso Jensen e lo baciò. “Ti amo, Jensen. Ti amerò per tutta la vita e quando vorrai tornare da me, ti accoglierò a braccia aperte!”

Jensen rimase fermo. Non si ribellò al gesto dell'altro ma non lo ricambiò. Non poteva. Se lo avesse fatto, non sarebbero mai usciti da quella camera. “Ti amo anche io. Lo sai. Sarà così per sempre!”, replicò con gran sforzo.

Poi fece un passo avanti e mentre Jared si spostava da un lato, aprì la porta e gli fece cenno di uscire.

Scesero le scale, emersero all'esterno e si ritrovarono sul selciato appena ripulito dalla neve che cadeva copiosa e insieme si avviarono verso l'improvvisata chiesa.

Jensen si schierò con gli altri testimoni a lato di Jared, mentre l'altro si posizionava accanto all'officiante e a suo fratello e pochi istanti dopo la marcia nuziale irruppe nella sala mentre una nuvola di velo, raso e orchidee bianche si muoveva lungo il corridoio creato dalle sedie dove erano seduti gli ospiti.

Jensen distolse lo sguardo e scelse di fissare i suoi occhi su Jared, ben sapendo che nessuno lo avrebbe notato, visto che tutti guardavano la sposa e si immaginò una scena simile con loro due come protagonisti.

Solo in un momento di lucida follia avrebbe permesso ciò, solo nel momento in cui avrebbe capito che la sua vita valeva meno di niente, allora avrebbe rotto ogni indugio e avrebbe confessato, pubblicamente, il suo amore per quell'uomo che, in quel momento, accoglieva con commozione la donna con cui aveva accettato di dividere la propria vita. In quel momento Jared si allontanava per sempre da lui!

 

Pensando di essere nuovamente in preda alle allucinazioni, vide avanzare verso di lui quel giovane alto, con i capelli lunghi e il volto da eterno bambino, di cui si era perdutamente innamorato subito dopo avergli stretto la mano quasi cinque anni e mezzo prima nella sede della Warner Bros a Los Angeles. La sua visione si sedette davanti a lui e lo guardò con estrema infelicità.

“Sei contento ora che sei riuscito ad annegare la tua tristezza nell'alcol?”, chiese Jared, mentre sistemava le sue lunghe gambe sotto il tavolino.

Jensen, stupito, lo guardò come se davanti a lui fosse comparso un fantasma. Tentò di ricomporsi, cercando di assumere un'espressione intelligente, nonostante i fumi dell'alcol e i potenziali postumi della sbornia che iniziavano a farsi largo all'interno del suo organismo.

“Tristezza? No, hai capito male. Bevo per trovare la felicità”, replicò lui, afferrando la bottiglia.

“Ah si. La felicità. Certo!”, lo canzonò Jared, allungando le braccia davanti a sé per poi intrecciare le dita.

“Si! Perché ti sembra così strano?”, replicò Jensen, versandosi le ultime gocce del whisky.

“Di solito si beve per dimenticare...”, mormorò Jared, sentendosi stranamente inquieto.

“Io bevo per rivivere i momenti felici che ho avuto quando stavo con te”, ribatté Jensen, dopo aver scolato, con un gesto repentino il bicchiere.

“E da quando ti serve un'alterazione della mente per poter essere felice?”, chiese Jared, aspro.

“Da quando hai deciso di rovinare tutto sposandoti con Genevieve e piantandomi in asso!”, rispose Jensen, dopo aver assimilato quel liquido bruciante ingoiato poco prima.

“Sempre con questa storia, eh?”, sbottò Jared, sbuffando subito dopo.

“E' la verità. Nient'altro che la verità...”

“La tua verità”, replicò l'altro. “Tu volevi vivere nella finzione, io volevo qualcosa di reale”, aggiunse Jared, perentorio.

“Comunque, perché sei qui?”, chiese Jensen, cercando di sviare il discorso.

“Secondo te?”, rispose l'altro, retoricamente.

Jensen sospirò. Era inutile rispondere. “A casa non ci torno!”, sentenziò Jensen.

“Tra quattro ore la polizia si presenterà a casa dei tuoi genitori e se non sarai là ad accoglierli, tu diventerai un caso federale”, replicò Jared quasi rassegnato.

“Non mi importa. Non mi interessa nulla di quello che mi accadrà”, ribatté Jensen, passandosi una mano fra i capelli, unti e arruffati. “Se non posso stare con te, la mia vita non ha senso”

“Basterebbe che tu dichiarassi ciò pubblicamente e io...”, tentò di dire Jared, ma venne interrotto bruscamente da Jensen che alzò di scatto la testa e sbottò: “E tu cosa faresti, Jared? Cosa? Davvero, pensi di fare la paternale a me?”

“Sei tu che non hai voluto!”, replicò Jared, dando una manata sul tavolino.

“Facile buttare la colpa su di me!”, esclama Jensen, cercando di alzarsi in piedi. “Sarebbe bastato andare da un giornalista e rendere pubblico il tutto!”, aggiunse poi, rendendosi conto che la stazione eretta non era di sua pertinenza e lasciandosi cadere sulla sedia.

“E non mi avresti più parlato! Che senso avrebbe avuto? O insieme o niente!”, replicò Jared, ritraendo la mano dopo averla offerta a Jensen che l'aveva rifiutata.

“Poi avrei capito...”, ammise Jensen, sottovoce.

“Jensen, sii obbiettivo, per favore!”, esclamò Jared, girandosi a guardare l'orologio dietro al bancone.

“Sono le cinque. Cosa vuoi fare? Qui stanno per chiudere!”, aggiunse poi, sospirando.

“Te l'ho detto. A casa non ci vengo”

“Ti ci porteremo di peso!”, disse Jared, a metà tra il divertito e il serio.

“Ahahah, divertente!”, replicò l'altro mettendo le braccia conserte sul tavolo e appoggiandovi sopra la testa. “Ubriaco si, arreso no!”, sentenziò poi.

“Non vedo altre alternative”, disse Jared, alzandosi in piedi e scrollando la testa in direzione dell'uomo, in ansiosa aspettativa, dal bancone.

L'uomo brizzolato sospirò. Si grattò la barba dal colore sale e pepe e assunse un'espressione assorta. Il barman gli aveva concesso altri dieci minuti per convincere quel recalcitrante giovane a lasciare il locale, poi avrebbe chiamato i 'buttafuori'. Così si avvide che l'unica possibilità era quella di fare alcune telefonate. Scelse un paio di interlocutori sulla rubrica e quando uno di loro trovò qualcosa di assennato da fare, accennò a un sorriso. Poi fece un cenno a Jared, in modo che lo raggiungesse immediatamente.

“Cosa ha partorito la tua mente diabolica?”, chiese Jared, non appena arrivò accanto al collega. Non gli era sfuggito il ghigno sul suo volto.

“Una volta tanto Collins ha esternato un'idea geniale”, esclamò Jeffrey Dean Morgan. “Allora ce ne andiamo subito. Il barman chiama due suoi scagnozzi, i quali sbattono fuori il figliuolo. Prima però bisogna ripulire il ragazzo da soldi, cellulare e carte di credito”, spiegò, Morgan, pagando, all'uomo dietro al bancone, la sua ordinazione. Poi vedendo l'espressione sbigottita di Jared, continuò a parlare: “Se non avrà nulla addosso, non potrà allontanarsi di molto. Sicuramente si rintanerà in qualche vicolo, in attesa dell'alba. Noi lo seguiamo, lo infiliamo in macchina e lo portiamo a casa”

Jared lo guardò, come se davanti a lui fosse apparso il profeta Isaia. Ebbe l'impressione di stare vivendo in un sogno o di stare recitando in qualche film di infima produzione.

“Ti ha dato di volta al cervello?”, chiese, attonito. “Non siamo in un film di gangster, Jeffrey! E poi è ubriaco fradicio, è vero. Ma non è così fuori combattimento come vuole farsi vedere. Se lo prendono due tizi per sbatterlo fuori, non accetterà mai di buon grado. Lotterà e si farà male ed è tanto stupido da correre rischi seri!”, esclamò Jared, spaventato dalle implicazioni.

“Bè, intanto, ho detto al titolare di dire ai suoi uomini di trattarlo con delicatezza e se dovesse ribellarsi, un paio di ceffoni non gli faranno di certo male, anzi....”, replicò Morgan, alzandosi in piedi. “Ora vai da lui e fatti dare il portafogli con la scusa che deve pagare quello che ha trangugiato e cercagli il telefono e i documenti”, disse l'uomo, stiracchiandosi, dopo le ore passate nell'inattività più completa.

“E come dovrei fare senza che lui si accorga che gli sto portando via la sua roba?”, chiese Jared, incredulo. “Te l'ho detto. E' ancora bello vispo, il ragazzo!”, aggiunse poi, girandosi a guardare Jensen, che sembrava stesse dormendo.

“Non credo tu abbia bisogno di spiegazioni su come tastarlo o spogliarlo, vero, Jared?”, chiese Jeffrey, ammiccando.

Jared avvampò.

“Bene. Vedo che hai compreso la situazione. Vai e procedi!”, intimò, perentoriamente, l'attore più anziano.

“E cosa devo fare? Una scena di 'Queer as Folk'?”, sbottò quello più giovane, in preda all'imbarazzo e alla paura.

“Jared, fai quello che vuoi ma basta che lo fai alla svelta e senza spargimenti di sangue. Capito?”, rispose Jeffrey, guardando l'orologio e poi l'espressione sempre più seccata del titolare del locale.

Jared tornò sui suoi passi e si avvicinò a Jensen con aria mesta, quasi stesse per andare a svegliare un orso nella sua tana.

Non gli piaceva affatto doverlo ingannare ma in effetti non c'erano alternative.

“Jen, devi andare in bagno?”, gli chiese, mentre lo scrollava per svegliarlo.

“Mmh, si, forse”, balbettò l'altro, destandosi con fatica. “Perché?, chiese poi, cercando di mettere a fuoco colui che cercava di tirarlo su.

“Bè, sono ore che sei seduto qui a bere. Immagino tu abbia bisogno di cambiare l'acqua alle olive”, rispose Jared, ridendo.

Jensen non fece alcun commento. Si mise in piedi con difficoltà, aggrappandosi più volte all'altro che riusci a trattenerlo su con la forza.

“Ti ci accompagno io. Mi sembra tu non sia in grado di muovere neanche un passo”, aggiunse poi, mettendo un braccio sotto l'ascella dell'altro per sorreggerlo.

“Umh, non sono così messo male!”, esclamò, offeso, Jensen.

“Ah, no?”, chiese Jared, lasciandolo andare improvvisamente. “Allora, vediamo un po', genio?”, lo canzonò, vedendolo barcollare e prima che questo finisse in terra, lo afferrò al volo. “Ottima dimostrazione, Jensen!”, aggiunse poi, stringendolo a sé.

Con grande fatica giunsero nei bagni e Jared lasciò Jensen davanti agli orinatoi, scostandosi un poco, ma non molto lontano, in modo da intervenire subito se quello avesse avuto un giramento di testa.

Jensen rimase fermo immobile ad osservare quei servizi igienici, domandandosi cosa dovesse fare.

Jared gli lesse nel pensiero. “Ahahah, non mi dire che non ti ricordi più come si fa”

“Si...no...cioè...ho la nausea e sono un po' stordito”, biascicò quello, tentando di far arrivare una mano alla cerniera dei jeans.

“Ha ragione Morgan. Un paio di sberle sarebbero utili”, sentenziò Jared, avvicinandosi a Jensen.

“Jeffrey Dean Morgan risolverebbe sempre tutto con i pugni. Per questo va così d'accordo con mio fratello”, mormorò Jensen, lasciandosi sbottonare i pantaloni.

“Quando fai così, è inutile qualsiasi altra soluzione...”, sentenziò Jared, tirando giù l'elastico dei boxer dell'altro per facilitargli l'operazione.

“Ora procedi da solo o devo tirartelo anche fuori?”, domandò Jared, con un filo di voce, sentendosi assai accaldato.

“E da come ansimi, non sarebbe un cattiva idea se lo prendessi in mano tu...”, mormorò Jensen, con un tono a metà tra il lascivo e il divertito.

Jared non rispose. Alzò le mani, mettendosi sulla difensiva, e si allontanò, controllandolo sempre, mentre quello portava a termine il difficoltoso compito. Lo guardò di sottecchi. Le lentiggini sul suo volto erano quanto mai evidenti, la barba che incorniciava il suo viso era ispida e dal colore rossastro come le querce canadesi in autunno, i suoi occhi erano pozze di acqua cristallina nel mare invernale. Improvvisamente si rese conto che stava iperventilando e non era proprio quello che serviva in quel momento.

Poi, quando erano ormai giunti dalla porta, Jensen vomitò. Un profondo e sconquassante conato fu il preludio alla lava incessante che proruppe dalla bocca per poi riversarsi su se stesso e sul malcapitato Jared che non aveva fatto a tempo a scostarsi.

“Maledizione, Jensen!!”, urlò il giovane, inorridito.

“Eh, non l'ho fatto mica apposta”, bofonchiò l'altro, tentando di non lasciarsi sopraffare da un'altra ondata di nausea.

Il quarto d'ora successivo passò tra grugniti ed imprecazioni. I primi emessi da un rabbioso Jensen che non voleva essere pulito, né essere trattato da deficiente, e le seconde esternate da Jared, il quale fece una fatica tremenda a rendere presentabile l'altro e se stesso.

Il lavoro, però, fu fruttuoso. Intanto a Jared passarono i bollenti bollori, poi riuscì a togliere la batteria dal cellulare di Jensen e tutte le carte di credito e documenti, infine anche il contante fu occultato nelle sue tasche, oltre al resto.

Fuori dal bagno stazionavano due figuri, di corporatura imponente e dallo sguardo arcigno, condizione indispensabile per svolgere la mansione di 'buttafuori' anche se sulle loro magliette campeggiava la scritta più rassicurante di 'staff', i quali presero in consegna Jensen non appena Jared lo accompagnò fuori dai bagni.

Jensen si lasciò condurre all'esterno senza fare resistenza e, a parte qualche scrollone e spinta rude, guadagnò la libertà senza alcun danno fisico. Non appena fu all'esterno afferrò il cellulare per chiamare un taxi. Sarebbe andato da un suo vecchio amico delle superiori con il quale era rimasto in contatto; avrebbe smaltito la sbronza e poi avrebbe affittato un auto per andare in Canada. Conosceva alcuni posti dove passare il confine senza alcun controllo.

Dopo aver tentato un paio di volte di riavviare il telefono che non dava segni di vita, si accorse, con amarezza, che era privo di batteria. Dopo di che fu naturale accertarsi di essere privo di documenti e di contante. Maledisse mentalmente Jared che lo aveva ingannato così facilmente e iniziò a cercare di schiarirsi la mente per trovare una soluzione nel più breve tempo possibile.

Nel frattempo due persone rilassate e con aria sorniona uscivano dalla porta principale del night-club e si dirigevano verso un pick-up posteggiato dall'altra parte della strada. Appena si sistemarono sui sedili, fecero un paio di telefonate e si accinsero ad aspettare almeno una mezz'ora per dar tempo al loro amico di trovarsi un bel posticino in qualche vicolo, per poi andarlo a scovare e portarlo a casa.

Jensen, entrato in modalità Dean, aveva già trovato una soluzione e stava avviandosi verso la parte più vecchia del quartiere. Cercava un negozio in particolare, aperto ventiquattro ore su ventiquattro, dove avrebbe risolto tutti i suoi problemi per i successivi giorni. Tentò di assumere la camminata guardinga ma sicura di tutti quelli che popolavano le strade di quella parte malfamata di Dallas. Si congratulò con se stesso per aver indossato la felpa quel giorno e così si tirò su il cappuccio e con la barba incolta, i vestiti stazzonati e sporchi, nessuno lo avrebbe riconosciuto per un attore assai famoso e miliardario.

In effetti Jared e Morgan che stavano cercando un essere tremante e spaventato nei vicoli, non lo avrebbero degnato di uno sguardo. Quando si accorsero che nelle viuzze laterali non era in nessun posto, iniziarono a pattugliare le strade centrali del quartiere ma mai si sarebbero aspettati mentre transitavano davanti a un negozio dalle vetrine sudicie di trovarci dentro Jensen. Era un rigattiere e fu un male per quei due a non pensare cosa avrebbe potuto fare un disperato Dean senza soldi e documenti.

Quello era un banco di pegni e Jensen lo conosceva bene. Lì molto spesso durante gli anni dell'adolescenza aveva venduto piccoli oggetti raccolti qua e là per ottenere i soldi da spendere in alcolici per le feste tipiche di quell'età spensierata. Così dopo aver ottenuto trecento dollari per il suo orologio Burberry che in realtà ne valeva più di mille e quasi quattrocento per la sua fede di Cartier che valeva una cifra a quattro zeri, uscì dal negozio tutto gongolante, pregustando quei tre giorni di riposo assoluto dal suo amico e poi il lungo viaggio fino a Vancouver. Sul marciapiede si appartò un po' nell'attesa del taxi che aveva fatto chiamare dal tizio con cui aveva ingaggiato una dura battaglia per strappare quella cifra assai scandalosa dalla sua vendita, ma che in realtà non avrebbe potuto ottenere altro. Non con qualcosa che avrebbe potuto avere una provenienza illegale e senza documenti. L'attesa non fu lunga e mentre stava pensando a come avrebbe potuto gestire quella somma prima di arrivare nella terra delle querce rosse, non si accorse che l'auto che si era fermata accanto a lui non era quella di un'auto pubblica.

“Mani in vista! Sei in arresto!”, esclamò un uomo in divisa, avvicinandosi a lui.

Jensen alzò lo sguardo verso il poliziotto, sorpreso.

“In arresto? Perché? Cosa avrei fatto?”, chiese, confuso.

“Sei in arresto per rapina a mano armata, aggressione, vendita di refurtiva! Finalmente ti abbiamo preso. Hai finito di aggredire uomini ricchi e ridurli in fin di vita per portar via loro orologi e oggetti d'oro”, rispose un altro agente sceso dall'auto con in mano una pistola e intimando a Jensen di appoggiare le mani sul cofano della macchina per farsi perquisire.

“Hai il diritto di rimanere in silenzio. Qualsiasi cosa dirai potrà essere usata contro di te in tribunale. Hai il diritto di parlare con un avvocato in qualsiasi momento prima, durante e dopo l'arresto. Se non puoi permetterti un avvocato te ne verrà affidato uno d'ufficio”, recitò l'agente la litania delle garanzie costituzionali a difesa di ogni cittadino americano, mentre l'altro poliziotto ammanettava un sempre più spaventato Jensen.

Costui si era reso conto che senza documenti poteva benissimo passare per un delinquente qualsiasi e si augurò di poter presto parlare con il proprio avvocato e risolvere quella situazione così ingarbugliata. Mai come in quel momento avvertì l'urgenza di parlare con suo padre o suo fratello.

Dall'altra parte della strada due persone osservavano quella scena impotenti. Inevitabile fu il ricorso di uno dei due al telefono per avvertire Alan e Josh di precipitarsi al comando della polizia di contea, mentre l'altro non riusciva a staccare gli occhi dall'arrestato che veniva spinto in macchina senza tante cerimonie da due ufficiali di polizia, i quali pensavano di aver portato a termine l'arresto dell'anno. Lo era ma non in quel senso, pensò Jared.

“Jared, tranquillo. Vedrai che risolviamo anche questa”, esclamò Morgan, scorgendo grosse lacrime che scivolavano giù lungo il viso del giovane, mettendo via il cellulare e accendendo il potente motore dell'auto per tornare a Richardson e delineare un nuovo piano di battaglia.

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

Chiedo venia per il ritardo ma ho dovuto riscrivere il capitolo, su suggerimento di qualcuno di voi, in quanto mancava un momento di condivisione tra Jensen e Jared, una parentesi delicata e spensierata tra loro due, prima dell'acme e poi della parte finale. E in effetti, avevate proprio ragione. Spero di pubblicare il prossimo entro la fine del mese di marzo e finire il tutto entro aprile. Uno speciale ringraziamento per tutti quelli che forniscono questi preziosi consigli ma anche per quelli che leggono, recensiscono e soprattutto aspettano. Grazie mille. A presto!!

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Capitolo Tredici ***


Capitolo Tredici

 

 

 

Jensen era seduto sul sedile posteriore di una Dodge Colt bianca con le insegne della polizia di Dallas. In quel momento il suo mal di testa era lancinante e la luce del sole gli faceva lacrimare gli occhi, ma almeno non aveva ammorbato l'aria con la puzza del suo vomito.

I due agenti non avevano parlato molto. Erano entrambi corpulenti e questo era bastato a Jensen a togliergli ogni velleità di resistenza. Docilmente si era lasciato spingere nell'auto senza tante cerimonie. L'unico dolore percepibile era quello delle sue costole doloranti.

L'edificio che ospitava il comando della polizia era una costruzione a due piani di mattoni rossi abbastanza anonima, se non fosse stato per la scritta a lettere cubitali posta sopra la porta d'ingresso. Jensen aveva provato a dire che non era lui quello che aveva compiuto le aggressioni e che se avessero fatto una semplice ricerca su Google si sarebbero resi conto dell'errore commesso.

Uno degli agenti, ridacchiando, gli aveva detto che la sua identità l'avrebbero trovata nell'archivio della polizia perché sicuramente quello non era il primo crimine compiuto. Dopo un po' aveva rinunciato. Tanto era ricercato comunque e sicuramente la loro delusione sarebbe durata poco quando si fossero accorti chi era realmente quell'uomo incappucciato.

L'auto aggirò l'edificio e imboccò una rampa che li portò a un parcheggio sopraelevato pieno di veicoli e utilitarie simili alla Colt. Scese un po' barcollante e ansimando per l'improvviso sbalzo di temperatura tra l'aria condizionata dell'auto e la calura texana all'esterno, si appoggiò al cofano dell'auto. I due agenti, per nulla spaventati dal suo mancamento, lo strattonarono affinché si rimettesse in piedi al più presto.

Attraverso un ascensore, giunse al secondo piano della palazzina. Lo fecero accomodare in una stanza dalle pareti dipinte di verde e senza finestre. Gli spostarono le braccia, ormai intorpidite, da dietro la schiena sul davanti e lo agganciarono a un anello posto sotto il tavolo, in modo che potesse alzarsi in piedi ma non spostarsi in alcuna direzione. Gli chiesero se volesse una tazza di caffè e lui annuì elargendo un sorriso tirato. In quel momento avrebbe voluto un'aspirina, un gabinetto e un letto. Lasciato solo, si guardò un po' intorno. L'arredamento era assai scarno: un tavolo, due sedie di plastica e null'altro, fatta eccezione per un blocco di fogli bianchi e una matita posti sulla superficie liscia del ripiano davanti a lui.

Per far passare il tempo, tentò di ricordarsi tutti i vari particolari sull'arresto e sui suoi diritti costituzionali facendo riferimento ai copioni imparati durante le riprese di Supernatural o degli altri film o telefilm in cui aveva recitato. Cercò di consolarsi vedendo il lato positivo della situazione: aveva l'opportunità di osservare da vicino il funzionamento del sistema giudiziario americano. Magari gli sarebbe stato utile se avesse avuto la fortuna di recitare in un ruolo drammatico, sempre se fosse uscito indenne da quella situazione.

Aveva già avuto l'occasione di visitare una stazione di polizia anni addietro, ma quella volta era stato molto diverso. Aveva solo sedici anni e vi era stato accompagnato da suo fratello, quando aveva scoperto nel suo armadio una racchetta da tennis in fibra di vetro, rubata qualche giorno prima in un negozio di articoli sportivi assieme ad alcuni suoi compagni di scuola. Era stata una bravata e comunque compiuta nella proprietà di uno di loro ma aveva dovuto ammettere il proprio 'crimine' e a quanto pare aveva avuto fortuna, visto che il furto era stato denunciato e le telecamere avevano immortalato lui e i suoi complici. Inoltre stava per essere emesso un mandato di arresto a suo nome. Se non fosse stato per le insistenze e minacce di suo fratello, lo avrebbero incriminato.

Si ricordava ancora l'umiliazione di aspettare i suoi genitori per essere rilasciato e non aveva provato mai tanta vergogna quando aveva scorto l'aria mortificata sul viso di suo padre e l'espressione ferita della madre. In quel momento aveva faticato molto per non scoppiare a piangere e ogni volta che ci ripensava gli tornava il magone.

Fu distratto dai suoi ricordi dall'apertura della porta, attraverso la quale entrò un uomo vestito con un completo di cotone bluette e una camicia bianca aperta senza cravatta. Aveva la pistola agganciata alla cintura e un cartellino appeso al taschino della giacca che riportava il nome di K. Pinker e la qualifica di Detective della polizia di Dallas. Costui si sedette al tavolo, aprendo una cartellina piena di fogli e iniziò a sfogliarli, come se stesse cercando qualcosa.

“Grazie al cielo”, esclamò Jensen, sollevato.

“Per cosa?”

“Finalmente si muove qualcuno. Ho bisogno di andare in bagno e non voglio stare tutto il giorno qui dentro!”, rispose il giovane, alzandosi in piedi per sgranchirsi le gambe.

“Ti dispiace sederti, per favore?”, ordinò l'agente, brusco.

Jensen obbedì, a malincuore.

“Sono il detective Kim Pinker”, si presentò l'uomo. Poi prese un foglio dal fascicolo e lo mise davanti a Jensen. “Nome completo, data di nascita, residenza e professione”, ordinò, poi, passando una penna a Jensen.

“Non sono quello che credete di aver arrestato!”, esclamò Jensen, guardando il modulo davanti a sé, il quale recava l'intestazione della Contea di Dallas.

“Tu riempi gli spazi con i dati che pensi siano i tuoi. Poi vedremo chi ha ragione o meno”, replicò calmo l'agente, non prima di intimargli di scrivere.

Jensen sospirò e iniziò a compilare il foglio con i suoi dati:

Jensen Ackles

nato a Dallas il 01/03/1978

residente a Los Angeles

Professione: attore presso la Warner Bros, Los Angeles

Il detective lesse con disgusto quei dati. “Divertente. Davvero esilarante”, esclamò, alzandosi in piedi.

“Oh si, davvero. Mi farò anche io quattro risate quando capirete il grosso abbaglio che avete preso”, replicò Jensen, sicuro di sé.

L'atteggiamento spavaldo dell'accusato spiazzò un poco l'investigatore, il quale aveva notato alcuni particolari non proprio consoni a un delinquente di quella specie. Uscito in corridoio, notò un certo trambusto. Non ci fece caso più di tanto e si diresse alla sua scrivania per vedere a chi corrispondessero quei dati, quando si imbatté in una sua collega.

“Ahaha, ma pensa... All'entrata c'è uno stuolo di avvocati che affermano che abbiamo arrestato l'attore che fa quella serie sui fenomeni soprannaturali”, gli disse lei, con espressione divertita. “Quanto vorrei che fosse vero!”, aggiunse poi, sospirando. “Mia figlia ha la stanza tappezzata dai suoi posters”

“Come si chiama?”, chiese il detective, roso dal sospetto.

“Jensen Ackles”, rispose lei, sicura. “Perché”', chiese, poi.

“Lo conosci bene?”, chiese lui, con una certa urgenza.

“Si, certo. Lo guardo anche io il telefilm”, rispose lei. “Ma cosa ti prende?”, chiese poi lei, confusa.

“Per favore, porteresti una tazza di caffè caldo nella stanza degli interrogatori numero 5?”, domandò Pinker, senza aggiungere altro. Se quello era realmente chi diceva di essere, la collega lo avrebbe riconosciuto subito. Lui, purtroppo, non aveva tempo per seguire le serie televisive, pensò amaramente, seguendo la collega con lo sguardo mentre rovesciava del caffè caldo da una brocca in una tazza di plastica e si dirigeva verso le stanze degli interrogatori.

L'agente che uscì subito dopo sembrava stesse avendo un infarto. Il suo viso arrossato, la fronte imperlata di sudore, il respiro affannoso e l'espressione sofferente faceva propendere per questa soluzione per chi se la fosse trovata di fronte. Ma per Pinker fu la risposta al suo dilemma. Fu immediatamente circondata da un crocicchio di persone preoccupate e quando la cortina divenne impraticabile, il detective Pinker fendette la folla con un bicchiere d'acqua per rianimare la povera donna, reduce dall'incontro più importante della sua vita.

“Se avessi un minimo di forza, ti strangolerei con le mie mani!”, esclamò la poliziotta, con un filo di voce, prendendo il bicchiere dalle mani del collega. “Anche se te ne sarò grata per l'eternità!”

“Avevo un dubbio e tu lo hai risolto!”, ribatté lui, serafico. “Ma ti ha fatto così tanto effetto, vederlo?”, domandò poi lui, stupito dalla reazione della donna.

“Tu non sai cosa vuol dire vedere in carne ed ossa Jensen Ackles! E poi se ti bacia....”, rispose lei, avvampando al solo pensiero. “Oggi ho avuto la conferma che il mio cuore è forte e sano”, ridacchiò la detective, ancora ansante per l'emozione.

Accertata la vera identità dell'arrestato, l'investigatore contattò il suo superiore per spiegargli l'accaduto e iniziare le pratiche di rilascio al più presto, soprattutto per limitare al massimo l'entità della querela che sicuramente i suoi costosi avvocati avrebbero emesso subito dopo aver lasciato il distretto di polizia.

Mentre attendeva di essere messo in comunicazione con il capitano Greyson, cercò qualche informazione su questa serie di cui le aveva parlato la sua collega ed entrò in Internet. Un avviso di ricerca federale campeggiava sul suo desktop e per abitudine, cliccò là, prima di avviare una ricerca.

Lo lesse con febbrile attenzione man mano che scorreva le parole e un largo sorriso gli incorniciò il viso. Non era un pericoloso criminale alla ricerca di refurtiva, non con una manicure professionale, capi di vestiario firmati e non usurati a tal punto dal pensare che li avesse presi in un negozio di seconda mano e un atteggiamento spavaldo di chi sa di essere in una botte di ferro. No, non lo era. Piuttosto un alcolizzato e un pericolo pubblico al volante della sua macchina! E ciò lo rese molto felice!

“Abbiamo accertato la sua identità. Ci scusiamo per il disagio, Mr Ackles”, esclamò il capitano Greyson, entrando nella stanza degli interrogatori, seguito dal detective Pinker, offrendo una tazza di caffè bollente a un sonnacchioso Jensen.

“Alleluia!”, replicò quello, rianimatosi immediatamente. Si stiracchiò poi, facendo tintinnare le catene che lo tenevano legato al tavolo. “Eh, allora, slegatemi subito!”

“No, direi proprio di no”, ribatté il detective, sedendosi calmo e aprendo la solita cartellina.

“E perché mai? Non sono l'uomo che cercavate, pertanto me ne posso anche andare!”, urlò di rimando Jensen, dando un violento strattone alle manette.

“Certo, lei non è accusato di aggressione e rapina, ma è comunque ricercato per un reato federale, perciò non cambia nulla. Anzi, per certi versi, la situazione si è complicata”, spiegò il capitano, cancellando la prima imputazione e scrivendo la seconda su un foglio.

“Voglio il mio avvocato!”, gridò l'imputato.

“Si, certamente. Sono qui fuori e presto li potrà vedere”, disse il detective, passando dei fogli a Jensen e una penna. “Per favore, li compili e l'ultimo lo legga ad alta voce”, sentenziò Pinker.

“Non firmo nulla se non me lo dice il mio legale”, ribatté quello, lanciando in terra la penna.

“Va bene. Nessun problema”, replicò l'agente, calmo.

“Jensen Ackles, lei è accusato di guida in stato di ebbrezza, danneggiamento di proprietà della contea e di terzi, evasione dai domiciliari e guida senza patente”, lesse l'investigatore, scandendo bene le parole. Poi vedendo l'altro che stava per replicare, si affrettò a leggere i diritti costituzionali dell'accusato. Dopo di ciò, chiese: “Ha capito tutto?”

Jensen, che nel frattempo si era seduto, annuì, sconfitto.

“Ottimo. Tra poco, potrà parlare con il suo avvocato. Beva il caffè, finché è caldo e poi un agente la accompagnerà al bagno”, disse il capitano, scambiando un'occhiata di complicità con il proprio sottoposto, prima di uscire.

Non dovette aspettare molto. Dopo aver potuto espletare i suoi bisogni fisiologici, fu accompagnato lungo un corridoio tinteggiato allo stesso modo della sala interrogatori e alquanto lugubre fino a una porta. Jensen, rassegnato a sorbirsi un sermone infarcito di termini legali e consigli più o meno condivisibili, entrò nella stanza con un espressione da condannato a morte. Sempre non ritenendo che il suo caso non fosse così complesso, si stupì alquanto quando si trovò davanti tre persone in luogo di uno solo. Due li conosceva e uno no. Rimase fermo e immobile, non appena la guardia lo spinse dentro, prima di chiudere la porta.

I tre rimasero seduti a un tavolo e lo guardarono fisso. Tom, il suo avvocato, si alzò in piedi e gli andò incontro. “Jensen, ti senti bene? Ti hanno trattato bene?”, chiese preoccupato, vedendo l'espressione confusa del giovane.

“Si, tutto a posto”, rispose lui.

“Bene. Allora vieni a sederti cosa ti spieghiamo la situazione”, aggiunse poi, facendogli segno di accostarsi al tavolo.

Sempre senza proferire parola, Jensen si sedette di fronte all'altra persona che conosceva bene. Il suo sguardo, colmo di disapprovazione e rabbia repressa, era torvo. Jensen si sentì nuovamente un sedicenne appena colto in fallo e ciò non lo rassicurò per niente.

“Jensen, lui è Jack Tomphson”, disse Pierce, presentando un uomo brizzolato e dal viso rubicondo che era seduto dal lato più corto del tavolo. “E' l'esperto di diritto penale che ti seguirà in aula durante l'udienza del giudice”, spiegò poi, mentre Jensen e l'altro avvocato si stringevano la mano.

“Perché un penalista?”, chiese Jensen, sorpreso.

“Perché le cazzate che hai fatto sono reati penali!”, urlò Josh, dando una manata sul tavolo e facendo sussultare tutti quanti per lo spavento.

“Josh, per favore, mi avevi assicurato che non avresti urlato o fatto gesti inconsulti!”, lo redarguì Tom.

“Si, scusami, ma vedo che costui”, ribatté il giovane, indicando il fratello minore “ha di nuovo lasciato il senno sulla Luna”

“Martedì prossimo c'è l'udienza. Jack è riuscito a fare un accordo con il procuratore. Mi sembra ottimo e anche la tua famiglia è di questa opinione”, spiegò il civilista, dopo aver fatto un gesto di calma a Josh. “Adesso te lo illustrerà e tu potrai fare tutte le domande che vuoi. Va bene?”, aggiunse poi.

Jensen annuì, ma la sua espressione diffidente era il preludio al suo diniego. Sapeva già quali erano i termini di quell'accordo.

Josh si era alzato in piedi e stava controllando messaggi ed email sul suo cellulare, appoggiato alla parete da dove sbirciava verso suo fratello. Jensen era seduto rigido sulla sedia, un po' per le costole doloranti e un po' per la tensione del momento. Avvertì il bisogno impellente di bere un goccio di whisky ma si sarebbe accontentato dell'ennesimo caffè.

“Sapete, per caso, se posso bere del caffè?”, chiese, poi, cercando poi di trovare una posizione comoda, elargendo alcune smorfie.

“Si, certo. Lo vado a prendere per tutti, mentre voi due parlate”, esclamò Pierce, andando dalla porta. Bussò sullo stipite, attirando l'attenzione della guardia, la quale lo fece uscire.

Dopo di ciò, Tomphson prese la parola. Aveva una parlata cantilenante, tipica della Georgia, quasi ipnotizzante e Jensen faticò molto a rimanere concentrato, mentre questo spiegava il caos madornale in cui si era ficcato. Però non appena pronunciò un numero, Jensen fu subito attento.

“Tre mesi?”, sbottò all'improvviso. “Scordatevelo!”, aggiunse, nello stesso tono irato.

“Allora farai trenta giorni di cella nel carcere della contea e ti rimarrà la fedina penale sporca!”, replicò Josh, avvicinandosi, minacciosamente, al fratello.

“Neanche morto! Non potete costringermi!”, ribatté l'altro, senza scomporsi.

“Ahaha, poi voglio proprio vedere come farai ad andare in Canada....”, sentenziò ironico Josh.

“E allora mi ritirerò dalle scene e andrò a studiare all'università!”, urlò, di rimando, Jensen.

“Ti rendi conto delle stronzate che stai dicendo?”

“Non puoi giudicare la mia vita, senza sapere quali siano le mie priorità e le mie esperienze. Io, in clinica, non ci vado. Punto. So cosa avviene là dentro. Alcuni miei amici ci sono andati e non serve a nulla. Quando sono usciti, sono tornati a drogarsi un'altra volta!”, disse Jensen, alzandosi in piedi.

“E poi sarò intontito tutto il giorno. Tante chiacchiere e tanti psicofarmaci. Almeno in carcere sarò lucido e in grado di difendermi da solo....”, aggiunse, poi.

“Difenderti? Certo, quando ne avrai quattro addosso! Voglio proprio vedere come farai”, replicò, furente, Josh.

“Signori!”, esclamò, perentorio, l'avvocato Pierce, aprendo la porta. “Vi si sente dal corridoio”

“IO.NON.ANDRÒ.IN.CLINICA.PUNTO!”, sentenziò Jensen, scandendo ogni singola parola con la voce e con l'indice puntato sul tavolo, rivolto a suo fratello.

“E allora arrangiati!”, replicò Josh, dando uno spintone a Jensen e subito allontanandosi da lui.

Pierce riuscì a impedire a Jensen di rispondere fisicamente al fratello e lo costrinse a sedersi.

“Bevi il tuo caffè e prendi queste pillole. Hai saltato la tua terapia farmacologica!” aggiunse poi, mettendo nel palmo della mano del giovane una selezione di pastiglie di diversi colori e forme.

Per cinque minuti regnò la calma. Jensen inghiottì i suoi farmaci e gli altri sorseggiarono il loro ennesimo intruglio liquido.

“Jensen, prenditi qualche giorno per decidere. Tanto fino a martedì dovrai stare in cella. Vedi come è l'ambiente e se puoi reggere a un mese là dentro”, disse, pacato, l'avvocato penalista. “Tieni presente che il giudice potrebbe cambiare i termini dell'accordo e aumentare i giorni di carcerazione. Potresti ritrovarti a dover scontare tutti i centottanta giorni previsti dal codice penale texano”, continuò, poi.

“Va bene. Vedremo martedì mattina. Se sarà così, mi adeguerò”, rispose Jensen, alzandosi in piedi e andando verso la porta.

“Ti abbiamo portato una borsa con i tuoi effetti personali, un po' di biancheria pulita per cambiarti, i tuoi farmaci. Se hai bisogno di qualcosa, ricordarti che puoi richiedere la presenza del tuo avvocato a qualsiasi ora del giorno e della notte e lo puoi dire a ogni guardia che incontri, mentre sei là dentro”, disse Pierce, guardando negli occhi Jensen. Vide un misto di paura, esaltazione e incoscienza. “Mi raccomando, questa è vita vera e quelli saranno criminali veri. Se sarai in difficoltà, cerca i secondini. Il direttore è stato avvisato ma non può essere ovunque; inoltre se ci saranno guai peggiori, l'unica arma a loro disposizione è quella di metterti in isolamento. Di certo, non possono isolare cinquecento detenuti solo per te...”

Detto questo uscirono tutti e tre, lasciando Jensen da solo a rimurginare su tutto quello che era successo nelle ultime ventiquattro ore. Poco dopo un agente lo scortò a un ascensore per andare di sotto. Effettuato il rituale delle impronte attraverso uno scanner digitale, assai veloce e impersonale, fu scortato lungo un corridoio fiancheggiato da celle su entrambi i lati. Erano cubicoli più o meno quadrati: la parete che dava sul corridoio era costituita solo da sbarre, in modo che ogni angolo del locale fosse chiaramente visibile all'esterno. Attraverso le inferriate Jensen vide che ogni cella aveva una cuccetta di metallo fissata al muro, un gabinetto e un lavandino d'acciaio. Le pareti e le cuccette erano dipinte dallo stesso insulso colore che si poteva ammirare al piano superiore. Il wc non aveva né coperchio né asse.

La guardia si fermò davanti a una cella e la aprì, facendo segno a Jensen di entrare. Non obbedì subito. Rimase immobile a guardare la desolazione di quel luogo. Non c'era la minima privacy. Neanche per espletare un semplice bisogno corporale. Avrebbe dovuto farlo davanti a tutti. Pensò che quello sarebbe stato lo scoglio più duro di tutta la detenzione. Lui, così schivo, si ritrovava alla mercé di tutti. Jensen ingoiò a vuoto e poi lentamente entrò dentro, sentendo il clangore del cancello di ferro, chiuso con violenza, e, il tintinnio delle chiavi, una contro l'altra, mentre la guardia assicurava la porta a doppia mandata.

La notte Jensen non chiuse occhio. In preda a forte nausea e a conati di vomito che gli squassavano il petto passò quelle ore nella miseria più nera. Le celle si erano riempite man mano che la sera cedeva il posto alla notte. In parte erano ubriachi molesti e alcune prostitute che, dapprima inveivano contro tutto e tutti e poi, accortesi della sua presenza, benedicevano il fato per essere capitate in quel luogo. Un paio erano brutti ceffi di cui uno tutto lordato di sangue, il quale non aveva fatto altro che urlare bestemmie e parolacce per tutta la notte. Per fortuna nella sua cella non era stato messo nessuno. Sicuramente il suo avvocato aveva elargito qualche mazzetta per evitare tale eventualità.

Al mattino era riuscito a trangugiare solo un pezzo di pane tostato, mentre il solo olezzo di uova fritte, gli aveva innescato una nausea terribile. Appena salito sul pullman che lo avrebbe condotto alla prigione della contea, gli venne in mente un episodio di Supernatural, girato nella seconda stagione, dove i fratelli Winchester si facevano rinchiudere in una prigione per dare la caccia a un fantasma. Cercò allora di entrare in 'modalità Dean'. Molto spesso aveva usato questo espediente quando doveva confrontarsi con tutte quelle fobie che gli affollavano la mente quotidianamente. Si sentì più sicuro e spavaldo. In fondo erano solo quattro giorni, prima di arrivare all'udienza: doveva stare zitto, cercare di sembrare meno attraente di quello che era e non rispondere alle provocazioni di chicchessia. In quel momento avrebbe tanto voluto la presenza del 'suo' Sam o di qualsiasi altro viso amico, ma si accontentò di riviverlo nella sua mente.

 

A Richardson si alternavano momenti di inquietudine, paura, sgomento e ilarità isterica. Donna Ackles aveva avuto un malore nel momento in cui il marito aveva appreso da Morgan l'arresto di Jensen, Solo il ricorso a forti sedativi aveva permesso alla signora di riposare tranquilla. Danneel non si era scomposta più di tanto ma il segnale della sua irrequietezza era dovuto al ricorso costante di quadrati di cioccolato al latte farcita alle nocciole. Josh aveva commentato in modo ironico che tanto non avrebbe più lavorato nel mondo del cinema, visto che il marito era caduto in disgrazia.

Mentre si susseguivano riunioni tra avvocati della famiglia, quelli del network e della produzione, Jared cercava di non lasciarsi travolgere da attacchi di panico, assai inutili e controproducenti.

La parola chiave in quelle ore era 'tutela legale', ovvero quel documento che avrebbe sancito l'impossibilità di intendere e volere da parte di Jensen e il ricorso a un tutore che avrebbe preso, in vece sua, tutte le decisioni. Unica strada percorribile ma senza via d'uscita. Era conscio che la sua vita, così come era trascorsa in quei ultimi sei anni, sarebbe cambiata inesorabilmente. Ora capiva perché all'uomo non era dato conoscere il proprio futuro. La conoscenza di ciò avrebbe reso il presente ingestibile! E benché tutti gli dicessero quanto fosse importante quell'atto, lui era sempre meno convinto di ciò.

L'unico aspetto che potesse essere convincente ai suoi occhi era la cancellazione del reato penale e quindi il ritorno al suo lavoro e alla vita di sempre. Forse quello valeva di più della loro amicizia o qualsiasi altra cosa ci fosse fra loro due.

I colleghi e amici di Jensen si sentivano impotenti. Non potevano aiutare Jared e tanto meno Jensen, rinchiuso in un carcere in attesa dell'udienza che avrebbe deciso il suo futuro. Avrebbero dovuto tornarsene alle loro rispettive case e lasciare il tutto in mano ad avvocati e al linguaggio legale.

Perciò, quando arrivò la notizia che Jensen, appena giunto alla prigione di North Pond, si era trovato nei guai, la proposta dell'avvocato Pierce fu accolta con una gioia irrefrenabile, quasi fuori luogo.

“Voi non siete normali”, esclamò Pierce, al vedere tanti volti illuminati dall'entusiasmo.

“Essere pazzi è un requisito fondamentale per essere assunti nel cast di Supernatural?”, chiese, poi, dopo aver illustrato il piano al limite dell'impossibile.

Tutti risero con la consapevolezza di sentirsi tutti come in una grande famiglia.

“Allora, Pierce, ripeti un po' cosa ti ha detto il procuratore”, lo incalzò Morgan, dopo aver rifornito tutti quanti con una birra gelata, unico conforto contro la calura texana.

“Come pensavamo, nel momento in cui è arrivato Jensen nel perimetro carcerario, si è scatenata la corsa di tutti i detenuti nel contendersi la preziosa 'merce'”, spiegò l'avvocato, sospirando. Ciò scatenò un improvviso brivido a tutti quanti. E la birra gelata non ne era la responsabile!

“Perciò si è trovato nel mezzo di una rissa, dove con un po' di buon senso è riuscito a non farsi male e a chiedere protezione alle guardie che comunque erano già state allertate”, continuò il legale, davanti a un audience silenziosa, a parte qualche imprecazione sottovoce.

“Non è che i secondini abbiano fatto chissà cosa: hanno sedato la rissa e rinchiuso in cella Jensen ma almeno hanno impedito che la situazione degenerasse”, aggiunse , prima di bere una lunga sorsata di acqua fresca da un bicchiere colmo di cubetti di ghiaccio. Poi, dopo essersi asciugato il sudore dalla fronte, continuò: “Ora abbiamo pensato che se ci fosse qualcuno che proteggesse Jensen all'interno della prigione si potrebbe arrivare a martedì senza tanti patemi d'animo. E a quanto pare anche il procuratore è di questa opinione. Per cui entro le quattro devo trovare due persone che possano svolgere questo servizio di baby-sitter e a loro sarà fornita una storia di copertura per non destare sospetti”

“Non si possono assumere due guardie del corpo?”, chiese Josh, dubbioso.

“Si, ci avevo pensato. Ma non credo sia la soluzione migliore. Le persone che mandiamo là devono avere la completa fiducia di Jensen, in modo che accetti tutti quello che dicano senza questionare”, rispose Pierce, ristorandosi nuovamente con l'acqua.

“Di conseguenza avete un'ora anche meno, per fornirmi i due nomi di questi temerari. Direi che possano essere eliminati dalla lista Josh, il quale assomiglia troppo a Jensen, Jared, perché se no ci vorrebbero i body-guard anche per lui”, affermò l'avvocato, accennando a un sorriso, “e forse anche Misha per gli stessi motivi”, concluse poi, osservando la delusione sul volto dell'attore in versione 'angelica'.

“Eh, non rimangono molti nomi da mettere su quella lista”, bofonchiò Josh, il quale non capiva bene il motivo della sua esclusione.

“Il procuratore è stato categorico. Darà l'assenso solo a due persone che possano assicurare una protezione a Jensen e che riescano a imporsi su di lui senza problemi. Dovranno far intendere a tutti che quel figliolo è affar loro e nessuno dovrà immischiarsi. Perciò servono due tipi che si possano spacciare per boss e e che abbiano la capacità di recitare un ruolo da duro, in modo che tutti gli stiano alla larga”, affermò risoluto l'avvocato, prima di uscire dalla stanza.

“Ah, meno di un'ora per trovare due persone che abbiano il fegato di andare volontariamente in un carcere in mezzo a dei criminali e le palle per difendere Jensen da qualsiasi malintenzionato...”, bofonchiò Misha, finendo di bere la sua birra, ormai calda.

“Per non parlare del 'container' di pazienza che ci vorrà per tenere a bada Jensen...”, replicò Beaver, sospirando.

“Ahaha, i quaranta minuti più lunghi della nostra vita”, ribatté Morgan, rientrando nella stanza con una tazza di caffè in mano.

 

Jensen, seduto su una panca nel cortile della prigione di contea, si rese conto di come si fossero sentiti i primi cristiani quando venivano gettati nelle arene sotto lo sguardo famelico dei leoni. Avrebbe voluto farsi una corsetta per sgranchirsi le gambe oppure alzarsi e guardare al di là della rete la valle che si stendeva sul lato occidentale della costruzione carceraria, ma era impossibile. Purtroppo ogni suo movimento era osservato da centinaia di occhi che bramavano una sola cosa: lui!

Inghiottì a vuoto. Era stato proprio un incosciente. Non lo avrebbe mai ammesso ma in quel momento, mentre tremava, nonostante i quaranta gradi, avrebbe firmato qualsiasi cosa per sottrarsi a quell'incubo. Con la coda dell'occhio vide arrivare un altro trasporto detenuti. Altri potenziali pretendenti che si aggiungevano alla lista. Grandioso!

Quelli che si erano azzuffati, quando lui era arrivato, erano stati rinchiusi in isolamento. Mentre li conducevano via, gli avevano mimato che lo avrebbero ucciso, una volta tornati liberi. Sperava, così, in cuor suo, che quella detenzione forzata durasse fino a martedì.

L'ora d'aria stava per terminare. Sarebbe tornato in cella a leggere uno dei libri che sua madre gli aveva messo nel borsone con i suoi effetti personali. 'Furore' di Steinbeck era proprio il libro indicato per quel frangente. Aspettò che si svuotasse parzialmente il cortile, prima di avvicinarsi al cancello. Mentre si accingeva a farlo, diede un'occhiata ai nuovi detenuti che erano schierati accanto al pullman che li aveva condotti lì e per poco non gli venne un accidente. Due tizi, ammiccanti, gli avevano rivolto un fugace ma alquanto eloquente sorriso. Cosa ci facevano Morgan e Sheppard lì?

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

Per cominciare, auguro a tutti i miei lettori una Buona e Serena Pasqua! Ringrazio tutti quelli che mi seguono, leggono e recensiscono questa storia e sopportano i miei tempi lunghi di pubblicazione. Come al solito, mi sono fatta prendere la mano dalla trama e mi sono dilungata, come penso vi siate accorti. Vorrei sapere se siete d'accordo oppure volete un accorciamento delle vicende e una conclusione più veloce.

Grazie a tutti!

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Capitolo Quattordici ***


Capitolo 14

 

In carcere ci sono alcune regole non scritte che è bene assimilare all'istante per evitare guai peggiori e Jensen le imparò subito mentre era in coda alla mensa. Intanto l'aver chiesto protezione alle guardie non era stato un bel biglietto da visita: se si aveva qualche problema con un altro detenuto lo si doveva risolvere da soli. Facile a dirsi ma non a farsi. Quando si è oggetto di bramosia da parte di centinaia di uomini non si può stare lì a ponderare cosa sia meglio fare o dire. In quel momento l'unica ancora di salvezza era stato il secondino. E così i suoi compagni di clausura lo prendevano in giro, mentre avanzava lungo l'interminabile fila per arrivare al vassoio e da lì all'addetto che doveva servire le pietanze.

Non aveva più rivisto né Mark né Jeffrey da quando erano arrivati nel pomeriggio. Era sicuro di non aver avuto le allucinazioni. Erano loro e sapeva anche il motivo della loro presenza. Sicuramente non erano là per aver compiuto qualche reato.

“Di cosa sei accusato?”, gli chiese, sottovoce, un ragazzo accanto a lui.

“Sono evaso dai domiciliari”, rispose Jensen, evasivo. “E tu?”

Un'altra regola era quella di non chiedere mai a qualcuno quel che aveva fatto, ma quello che l'autorità giudiziaria ti imputava di aver fatto. Così eri nella condizione di rispondere, senza peraltro ammettere nulla.

“Mah, furto con scasso”, rispose quello, sospirando. “Anche se la refurtiva non l'hanno trovata, mi hanno arrestato lo stesso”

“Come ti chiami?, gli domandò l'altro, guardandolo con insistenza. “Ci siamo già incontrati, per caso? Mi sei familiare...”

“Jensen”, rispose, mentre avanzava di un passo, verso l'agognata meta. Aveva fame, nonostante la nausea che ormai non lo abbandonava mai. Aveva ponderato molto se mentire sul suo nome oppure no. Negli Usa, Jensen era un cognome abbastanza diffuso, tipico di chi era originario della Danimarca o della penisola scandinava. Come nome proprio era una rarità. Era sicuro di essere l'unico ad avere quel privilegio. Se avesse avuto un nome comune avrebbe potuto passare inosservato ma allo stesso tempo era orgoglioso di quel tratto distintivo. Inconsciamente sperava che qualcuno lo riconoscesse per quell'attore che interpretava Dean Winchester. Avesse avuto un decimo del coraggio del suo personaggio, non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla.

“Ah, sei tu quello che ha causato la rissa stamattina”, esclamò il ragazzo, osservandolo attentamente. “Mi chiamo Jack e ti do un consiglio: trovati un protettore al più presto o verrai usato come sputacchiera da tutti”, disse, serio.

“Protettore? Sputacchiera?”, domandò, inorridito, Jensen. Nonostante i crampi allo stomaco per la fame, ebbe un improvvisa repulsione per il cibo.

“Ti spiego dopo. Vieniti a sedere vicino a me. Ti tengo il posto”, gli sussurrò poi.

Con un cabaret in acciaio suddiviso in tanti scomparti, ricolmi di fagioli in salsa, patate al forno, budino al cioccolato, tre fette di pane tostato, un cartone da un quarto di latte intero, Jensen si accinse a cercare tra la marea di tavoli e teste, Jack. Mentre scrutava le varie persone intravide, quasi in fondo a una delle file, i due compari. Entrambi con la barba lunga e l'aria stanca e scocciata, sembravano proprio due avanzi di galera. Distolse subito lo sguardo e altrettanto fecero loro, ma l'occhiata che si scambiarono valeva più della parola: siamo qui, stai tranquillo!

Piazzato in mezzo al refettorio, imbambolato a pensare a come sarebbero riusciti i due amici a difenderlo, se a malapena potevano guardarsi e soprattutto se gli stavano così lontano, non si accorse del silenzio improvviso che era calato nella mensa. Si sentì tirare per un lembo del blusotto blu che indossava, sopra la tuta arancione, emblema del carcerato in attesa di giudizio.

"Forse se ti siedi, è meglio!”, esclamò Jack, seduto accanto a un posto vuoto, lungo uno dei lati di una tavolata di dieci paia di occhi fissi su di lui.

“Certo che sembri proprio l'ape regina. Neanche entrasse Jennifer Lopez susciterebbe tanto interesse....”, esclamò un uomo sulla sessantina che si presentò come Brown.

Jensen lo guardò come se avesse visto un alieno. Stonava non poco una persona così anziana là dentro. La media dell'età era più o meno di trenta anni e più della metà dei presenti erano di pelle nera.

“Ah, si? Non pensavo di essere così interessante”, replicò Jensen, iniziando a mangiare una pietanza a base di legumi.

“Sei nuovo dell'ambiente, spaventato, giovane e di bell'aspetto. In pratica hai tatuato in fronte la scritta 'sputacchiera'”, spiegò Brown.

“Vorrei proprio sapere cosa vuol dire quel termine lì?”, sospirò Jensen, bevendo un sorso di latte.

“In pratica esprime il concetto che possono fare tutto quello che vogliono con il tuo corpo, tanto vali meno di uno sputo”, sentenziò Jack, ricevendo occhiate di approvazione da parte degli astanti.

Jensen smise di masticare e guardò con orrore colui che aveva parlato. Per la seconda volta in poche volte sentì l'impellente bisogno di firmare un certo documento.

“E come si fa a non fare questa brutta fine?”, chiese poi, con un filo di voce.

“Trovandoti un protettore. Semplice”, rispose l'uomo più anziano, trangugiando una sorsata di Coca-Cola.

“Non sapevo si potesse bere quella bevanda qui”, ribattè, sorpreso, Jensen, dopo essersi ripreso dallo shock, suscitatogli dalla parola incriminata.

“Se si hanno i soldi qui dentro, si può fare una vita da nababbi”, spiegò Brown, scartando il cellophan che conteneva una crostatina al cioccolato. “La mia condanna è a vita e cerco di avere tutti i comforts come se fossi a casa mia”

“Come faccio a sapere se il protettore che mi reclama, è meglio o peggio di un altro?”, chiese Jensen, affascinato da quell'uomo così pacifico e calmo, nonostante quell'ambiente saturo di violenza e rancore.

“Ah, non sei tu a scegliere, ma loro!”, rispose Jack, indicando i compagni di reclusione. “ E ho paura che saranno tanti i contendenti, visto che si accettano già le scommesse”, aggiunse poi, ingoiando un boccone della merendina.

“Comunque il primo che si presenta qui e ti reclama come 'suo' è quello che dovrà poi battersi con tutti gli altri per tenerti. E chi vincerà dovrà fare altrettanto con gli altri pretendenti”, spiegò, infine.

“Ah, bene. Sono in una botte di ferro. Quando avranno finito di litigarsi fra di loro, io sarò già andato via”, replicò Jensen, pensando di essere al sicuro.

“Si, certo. Ovviamente a ogni 'nuovo' protettore dovrai dare prova della tua gratitudine nei suoi confronti”, sogghignò Brown, strizzando un occhio nella direzione di un sconvolto Jensen.

Dopo questa sconfortante chiacchierata, Jensen ritornò nella sua cella. Il suo compagno era un tipo mingherlino, dai muscoli possenti e dall'apparente età di vent'anni. Aveva le braccia piene di tatuaggi, di cui molti con tematiche demoniache. Per fortuna non era minimamente interessato a lui, perciò potè sdraiarsi nella sua cuccetta e leggere in pace il suo libro sulla Grande Depressione Americana. Mancava ancora un'ora alla chiusura definitiva delle celle per la notte e gli altri detenuti erano nella sala comune, dotata di televisore, riviste e libri da leggere, scacchiere per dama e scacchi e se non avesse avuto così paura, a Jensen sarebbe piaciuto fare una partita con quelle pedine a forma di torre e cavalli. Quel gioco gliel'aveva insegnato Jared. Lui, mago della matematica e dei giochi di logica, si era impegnato tanto a spiegargli le mosse e le strategie di quel gioco millenario e Jensen gliene era grato. Avrebbe voluto giocare una partita e far finta che il suo avversario fosse Jared, così per sentirsi più sicuro anche solo con il pensiero. Ci fosse stato Jared con lui, tutto sarebbe stato diverso.

Si rannicchiò nella cuccetta. Aveva freddo, era scosso da brividi. Sapeva che non era febbre dovuta a un malanno. Era solo il suo organismo che reclamava alcool. Da oltre ventiquattro ore non assumeva alcun alcolico e ciò gli iniziava a causare i primi sintomi da astinenza. Aveva già provato in passato a disintossicarsi da solo ma non c'era riuscito. Combattere quel demone dentro di lui che lo ipnotizzava a tal punto da pensare che la bottiglia del whisky fosse l'unica soluzione per tutti i suoi problemi, era impossibile!

Si avvolse nella coperta, mettendo anche la testa sotto quel ruvido tessuto e cercò di calmarsi. Fece alcuni respiri lunghi e lenti, cercando anche di respingere il senso di nausea che minacciava di travolgerlo da un momento all'altro. Impegnato in ciò, non si accorse che qualcuno era entrato nella cella. Solo quando si sentì scrollare per una spalla, smise di tremare e rimase in ascolto.

“Jensen! Jensen! Sono Mark. Esci fuori dalla tana, dai!”, proruppe una voce, dall'inconfondibile accento britannico.

Sconcertato, il giovane emerse dal groviglio di lenzuola e coperte e si ritrovò davanti il faccione barbuto dell'amico. L'espressione sollevata e il sorriso benevolo incoraggiarono Jensen ad uscire fuori dal suo bozzolo.

“Senti, domani mattina in refettorio, Morgan verrà a reclamarti come 'sua proprietà' e io cercherò di diventare il paladino della tua integrità”, spiegò Sheppard, inginocchiandosi a lato del letto, in modo da parlare sottovoce.

Jensen sgranò gli occhi al sentire tale piano. “Non è pericoloso per voi due?”, chiese, a fatica

“A Jeff hanno dato un'identità da boss mafioso e perciò non fa altro che recitare il suo personaggio e lo fa maledettamente bene”, rispose Mark, ghignando, ripensando al collega, impegnato in una recitazione da primato.

“A chi è venuta questa brillante idea?”, chiese Jensen, cercando di non rendere tanto evidente il suo tremore.

“Era l'unica cosa che potessimo fare oppure avresti dovuto stare per quattro giorni in isolamento. Non so cosa preferisci, ma io cercherei di stare lontano da una stanza piccola e soffocante dove trascorrere tutto il tempo”, rispose Mark, osservando con preoccupazione il tremito incontrollato dell'amico.

“Adesso io vado. Tra poco c'è l'appello e poi chiudono le celle. Hai bisogno di qualcosa?”, domandò poi Mark, ben sapendo di cosa avesse bisogno in quel momento Jensen,

“No, grazie. Non credo tu abbia sotto mano una bottiglia di bourbon...”, esclamò Jensen, sospirando, rintanandosi sotto le coltri.

Il mattino seguente il refettorio era permeato da una strana aria eletrizzata; tutti erano in aspettativa di qualcosa di eclatante che avrebbe distratto tutti gli abitanti e fatto chiacchierare per un po' i residenti di quello strano complesso abitativo.

Jensen, in coda, non riusciva a stare fermo. Saltellava prima su un piede e poi sull'altro, facendo così irritare i suoi compagni di attesa. Inoltre ogni cinque secondi si girava a guardare verso il fondo della sala, in direzione dell'entrata, alla ricerca dei suoi amici. Poi, mentre stava contrattando una porzione in più di uova strapazzate con l'inserviente, assai parsimonioso, percepì qualcosa di sinistro aleggiare nel refettorio, come se tutti avessero smesso di respirare. L'addetto alla mensa davanti a lui spalancò gli occhi dalla sorpresa guardando qualcosa dietro Jensen.

Gli si rizzarono i corti capelli sulla nuca, non appena intuì di avere accanto a sé una persona diversa da colui che lo aveva preceduto prima nella fila. Lo riconobbe subito, però. La sua costosa acqua di colonia all'essenza di pino che Jensen gli aveva comprato in Italia lo aveva identificato e ciò contribuì non poco a calmarlo. Un sussurro rapido gli disse di reggergli il gioco.

Così, quando Morgan gli si affiancò, gli afferrò la mano destra e la tirò fino ad afferrare la fodera della tasca dei pantaloni che penzolava fuori. Gesto inequivocabile, nelle carceri americane, per indicare la sottomissione di un detenuto nei confronti di un altro.

Jensen, dapprima riluttante e poi via via sempre più incline ad avvicinarsi per la forte stretta alla mano, alla fine cedette con una gran smorfia di dolore dipinta in volto.

Morgan, soddisfatto, elargì un gran sorriso di trionfo a tutti gli astanti e dopo essersi dotato di vassoio, se lo fece riempire con tutto il necessario per una abbondante colazione, spingendo poi Jensen, il quale aveva un'espressione assai abbattuta, verso un tavolo vuoto.

“Una recitazione da Oscar!”, mormorò Jeffrey, mentre si sedeva davanti al suo protetto.

“Spero tu non prentenda una dimostrazione più plateale di quella messa in scena prima”, replicò Jensen , con lo sguardo fisso nel piatto.

“Dipenderà dalle circostanze”, ribattè il collega, sornione. “Ora mangia o ti viene tutto freddo”, aggiunse poi, alzando di un ottava la voce, per far sentire agli altri il suo tono autoritario.

“In che senso?”, chiese Jensen, a disagio. “Tutti devono sapere che sei di mia proprietà e che, volente o nolente, devi fare quello che ti dico io e se non lo fai, ci saranno delle conseguenze”, spiegò Morgan, finendo di mangiare le salsicce.

“Un po' meno criptico, no?”, chiese Jensen, non capendo bene cosa volesse intendere il suo collega.

“Hai presente quando ti si blocca il cellulare?”, domandò Jeffrey, fissando Jensen. “Lo insulti, lo scrolli e poi, con mala grazia, gli stacchi la batteria”, continuò. “Questo è il trattamento che riserviamo agli oggetti che riteniamo più utili e preziosi. In questo momento tu sei il mio giocattolo preferito o meglio dobbiamo farlo credere agli altri, perciò, se non ubbidisci o no ti atteggi da concubina, mi devo arrabbiare”, concluse, con enfasi, l'attore più anziano.

“Stai scherzando, vero?”, chiese Jensen allibito.

“Il piano è questo”, rispose l'altro. “E comunque è la fine che faresti se né io né Mark riusciremo a tenerti alla larga da tutti quelli che non ti perdono di vista nemmeno per un istante”

“Continuo a non capire”, bofonchiò Jensen, sospirando.

“Ora mangia, poi ti spiego”, ordinò Morgan, perentorio.

Nel carcere della contea di Dallas solo i detenuti già passati in giudicato potevano lavorare; tutti gli altri dovevano far passare il tempo passeggiando in cortile durante le due ore di aria concesse, una all'esterno in cortile durante il pomeriggio e una all'interno dopo cena, oppure fare pesi in palestra, leggere libri in biblioteca e soprattutto stare alla larga dalle bande di latinos o neri che spadroneggiavano nelle prigione.

Perciò Jensen e Morgan scelsero di andare fuori e usufruire dell'ora d'aria per stare un po' da soli. Si sedettero su una panca di legno, nel posto più ombreggiato dello spiazzo a godersi un po' di fresco.

Jensen aveva seguito l'amico sempre tenendo la mano stretta alla fodera della tasca dei pantaloni e con un atteggiamento più remissivo che era riuscito a trovare nel suo essere.

“Allora spiegami un po' cosa avete escogitato tu e Mark”, disse Jensen, sedendosi sulla panchina.

“Mah, non c'erano molte alternative. Abbiamo pensato che uno di noi due doveva essere il cattivo e l'altro il buono, gli altri ti avrebbero lasciato stare. L'altra possibilità era quella di fare una gara per possederti ma avevamo paura che si potesse inserire una terza persona e soffiarti via. Perciò io sarò il despota che ti maltratta e Mark quello che ti salverà”, spiegò Morgan, con una mano davanti alla bocca per evitare di essere compreso da qualcuno in lontananza.

“Despota? Maltratta?”, chiese Jensen, perplesso. “Fammi capire. Io mi ribello a te, tu mi tratti male e io mi rifugio tra le braccia di Mark?”, aggiunse poi, incredulo. “Cosa è? Beautiful?”, sbottò poi, attonito.

Morgan ridacchiò. “In effetti suona proprio così!”

“Per quanto questa commedia andrà avanti fra noi due?”, chiese, poi, Jensen.

“Un paio di giorni. Mi sono fatto spostare nella tua cella. La transazione fra me e il capo delle guardie è stata fatta in pubblico e la busta con i soldi l'hanno vista tutti. La mia copertura è quella di un boss del narcotraffico a Miami e so come muovermi in quell'ambito, grazie alla serie di cui sono protagonista”, spiegò Morgan, guardandosi attorno.

“Quindi nessuno dovrebbe tentare di portarti via da te? Giusto?”, domandò Jensen, speranzoso.

“No, teoricamente no. Ma non sarà una passeggiata, Jensen. All'esterno dovrò essere spietato quanto loro. L'unica consolazione che hai è che io ti sono amico e ho a cuore la tua integrità morale e fisica”, rispose Morgan, guardandolo fisso in volto.

Jensen anuì, sollevato. “L'unica cosa che mi sfugge è quella della tua severità verso di me. Cosa dovrei fare per suscitare la tua ira?”

“E qui sorge il problema”, sospirò Morgan.

“In che senso?”

“Far finta o no?”

“Ma ci sei o ci fai? Mi vuoi dare una spiegazione plausibile?”, urlò Jensen, alzandosi in piedi.

Lo schiaffo fu rapido e bruciante. Jensen, sorpreso dal gesto dell'amico, si passò la mano sulla guancia sinistra, arrossata e dolorante per il colpo ricevuto. Tutti si erano girati a guardarli.

Morgan, impassibile, gli fece segno di sedersi. Jensen ubbidì subito.

“Hai compreso ora?”, gli chiese, poi, sottovoce.

“Perfettamente”, rispose l'altro. “Quindi mi prenderai a sberle per due giorni?”, aggiunse, poi, sospirando.

“Ehehe, a quanto pare. Non ti fanno male comunque. Fa tutto parte della tua terapia. Vedo che sei nel pieno dell'astinenza”, spiegò Jeffrey, calmo.

“Spiritoso. Spero sia l'unica parte reale del nostro fantasioso rapporto”, esclamò Jensen, ancora traumatizzato dal violento ed inaspettato gesto del suo collega.

“Eh, già. Stasera dovremo mettere in scena la rappresentazione del povero ragazzo seviziato dal bruto di turno. Quindi cerca di calarti già nella parte così mi rendi il lavoro meno complicato e faticoso”

“Faticoso?”, chiese, ironico, Jensen. “Sarò io che dovrò agitarmi, urlare e invocare pietà, mentre tu starai a leggere nella tua branda...”, continuò, sullo stesso tono, il giovane.

Morgan elargì un sorrisino beffardo e si alzò in piedi. “Ora andiamo a fare un giro per far vedere quanto sei dolce e zuccheroso!”, disse poi, ghignando.

Il pomeriggio passò liscio e senza traumi. A cena, con abile strategia, Morgan dirottò se stesso e Jensen verso il tavolo dove era seduto Mark. Qust'ultimo doveva recitare il ruolo di un uomo facoltoso ma caduto in disgrazia per frode fiscale, coriaceo ma dal cuore tenero e paladino dei diritti umani il quale, davanti ai soprusi del molestatore, avrebbe dovuto prendere le parti del giovane indifeso e sottrarlo alle sue violenze.

Jensen aveva anche il problema di dover tenere a bada gli effetti assai fastidiosi della sua astinenza: brividi intensi di freddo, mal di testa, tremori e vertigini. Il più pericoloso era l'aggressività. Bastava un nonnulla ed esplodeva all'istante. Quindi il suo nervosismo era palese e quella genuinità era molto utile in quel frangente, anche se la motivazione era un'altra. Ciò però, accentuava lo scontro con il suo 'protettore'. Erano d'accordo che a ogni moto di ribellione in pubblico Morgan poteva colpirlo, se possibile senza eccedere nella violenza ma cercando di far apparire il tutto il più reale possibile.

La mansuetudine e l'obbedienza non erano qualità eccelse nel carattere di Jensen ma di essere usato come punging ball non era proprio nelle sue intenzioni in quel momento. Aveva concordato un moto di ribellione durante il pasto serale, per suscitare l'attenzione di Mark, e inscenare il contrasto tra i due 'suoi' protettori.

Ognuno avrebbe recitato a braccio, ma il primo passo era stato già definito. Morgan avrebbe palpeggiato platealmente Jensen nelle zone intime e al suo rifiuto lo avrebbe punito davanti a tutti.

Quello che rendeva Jensen così nervoso era l'essere al centro dell'attenzione in quel contesto e in quel modo. Aveva cercato di dissuadere Morgan ma era stato invano e in realtà ne condivideva la scelta e la tempistica, solo che non era tanto entusiasa di esserne lui il protagonista.

“Se non rallenti il battito cardiaco, rischi un infarto!”, mormorò Jeffrey a un sempre più agitato Jensen. “Stai tranquillo, su!”

“Facile per te. Sono io quello che le prende davanti a tutti. Anche una semplice sberla può essere umiliante assai”, bofonchiò Jensen, tentando di finire di mangiare un hamburger.

“Mah, pensavo a qualcosa di più eclatante di un semplice schiaffo”, esclamò Jeffrey, evasivo.

Jensen sgranò gli occhi e lo guardò a bocca aperta. L'espressione sul viso dell'attore più anziano era indecifrabile e per questo pericolosa. Con la barba lunga e brizzolata, gli occhi arrossati e stanchi, sembrava proprio John Winchester e quella visione mandò nel panico Jensen.

“Cosa ti frulla per la mente, amico? Non credo tu possa prendermi a calci e pugni qui dentro. Le guardie non te lo permetterebbero e finiresti in isolamento!”, esclamò, poi, cercando di capire quali fossero le sue vere intenzioni.

“Appunto, ma l'impronta della mia mano può tatuare altre parti del tuo corpo...”, rispose l'amico sibillino.

Jensen smise di respirare. Aprì la bocca per replicare ma non ci riuscì. Poi, alcuni secondi dopo, si riscosse un pochino anche se guardava l'altro come se gli si fosse parato davanti un fantasma.

“Tu, le tue mani sul mio fondoschiena non ce le metti...”, gracchiò Jensen, al quale gli si era azzerata la salivazione.

“Si, lo so quello è territorio jarediano”, replicò Morgan, facendo così avvampare Jensen, “ma una piccola intromissione non sarà giudicata male dal nostro comune amico. E poi non posso fare altro. Anzi, questo è l'unico modo per suscitare pietà negli altri detenuti. Certi atteggiamenti non sono ammissibili in carcere se fatti in pubblico!”, spiegò Morgan a un sempre più allibito Jensen.

 

“Non vorrai davvero sculacciarmi, vero?”, chiese il più giovane fra i due, con un filo di voce.

“Sarà più scena che altro, Jensen. Fai finta di essere Dean che ha fatto incazzare John e sarà tutto più semplice”, rispose Jeff, finendo di bere il suo succo di mela.

“John Winchester non punirebbe mai così uno dei suoi figli, men che meno Dean!”, mormorò Jensen, contrariato.

“Infatti a John bastava uno sguardo per essere ubbidito ma credo che qualche rinforzo ogni tanto lo elargisse anche sotto forma di sculacciata!”, replicò Morgan, perentorio.

“Finisci di mangiare, Ackles. A me quelli magri non piacciono,,,”, esclamò, ad alta voce, Morgan.

Mentre stava per finire di mangiare gli ultimi bocconi di purea di patate, Jensen vide un cenno di intesa fra Mark e Jeff e il suo cuore accellerò il ritmo.

“Va bene. Possiamo andarcene a dormire”, sentenziò Morgan, alzandosi in piedi. “Tirati su, dai. Non fare il finto tonto”, esclamò, poi, strattonando per un braccio, il recalcitrante Jensen, Questo lo fulminò con lo sguardo ma si alzò in piedi abbastanza velocemente.

“Ah, stasera, vediamo un po' se questo culetto potrà soddisfarmi per bene”, esclamò Morgan, toccandogli il didietro con enfasi e in modo plateale. Jensen scattò immediamente, spingendolo via con violenza.

Morgan fu fulmineo. Lo prese per un braccio, alzò un piede sulla sedia, lo girò contro la sua gamba e lo spinse giù con l'altra mano, mentre con la destra lo colpì alcune volte con forza sulle natiche a mano aperta.

La scena suscitò indignazione da parte degli astanti. Alcuni risolini imbarazzati si sparsero per la sala ma erano più evidenti i commenti irosi e indignati. Quel tipo di violenza gratuita non era tollerata da quegli uomini coriacei e rotti a ogni esperienza criminale. Magari erano capaci di punirti per un torto subito pugnalandoti con coltelli aritigianali o a prenderti a calci e a pugni fino a renderti un ammasso sanguinante, ma punizioni corporali di quel tipo andavano fatte nel chiuso della propria cella o comunque al riparo da sguardi altrui. Jensen si tirò su con il volto in fiamme, tenne gli occhi bassi per evitare di vedere le occhiate di pietà da parte degli altri detenuti.

C'era ben poco da recitare in quel momento. L'odio che provava era genuino. Se avesse potuto, avrebbe spaccato la faccia a Morgan. Gli aveva fatto male in modo inatteso. Avrebbe voluto che ci fosse Jared a difenderlo e il solo suo pensiero gli fece scappare un singhiozzo che trattenne a stento.

Si avvicinò comunque a Morgan, gli afferrò la fodera della tasca e lo seguì docilmente. Passando accanto a Mark questi gli fece un sorrisino di compatimento e poi afferrò per un braccio Jeff tirandolo verso di sé.

“Le tue perversioni sei pregato di farle nella tua cella. Noi non vogliamo assistere a ciò. E poi, lascia in pace questo giovanotto. Non mi sembra che sia consenziente!”, lo apostrò, indignato.

Nel frattempo altri si erano avvicinati e molti annuivano alle parole di Mark.

“Se non vuoi vedere, ti giri dall'altra parte. E comunque non sono affari tuoi!”, replicò l'altro di rimando.

Stavano uno di fronte all'altro. Molti vicini fra di loro ed emanavano una forte tensione. “I tuoi giochetti sadici a noi non piacciono!”, esclamò Mark, prendendo per il bavero Jeff.

Jensen, con la coda dell'occhio, vide un secondino avvicinarsi e bisbigliò ai due contendenti ciò che stava per accadere.

“Ti tengo d'occhio, comunque!”, esclamò Mark, arretrando di un passo.

Morgan non disse nulla, trascinò via Jensen in malo modo, quasi travolgendo quanti si erano avvicinati a loro. Il ritorno in cella fu veloce e silenzioso. Quando furono al sicuro, Jensen afferrò Jeffrey e lo sbattè contro il muro.

“Non azzardarti mai più a toccarmi in quel modo o la prossima volta ti spacco la faccia! Hai capito?”, gli gridò contro, ricacciandolo contro il muro.

Morgan non disse nulla. Lasciò che il giovane si sfogasse. L'umiliazione era stata grande ma non aveva potuto fare diversamente.

Jensen lo lasciò andare. Per cercare di calmarsi, fece avanti e indietro dalla minuscola finestra alla porta un paio di volte, mentre Mark si era seduto sulla sua branda. Non era spaventato dalla reazione del giovane ma aveva timore che se avesse fatto qualche gesto inconsulto, quello lo avrebbe potuto scambiare per un'aggressione fisica e innescare qualche risposta inadeguata. Aspettò che si arrampicasse sulla propria branda per potersi muovere liberamente.

Sistemò la sua roba, si diede una rinfrescata e ogni tanto dava un'occhiata al dormiente sdraiato prono nella cuccetta superiore. Con il fornelletto elettrico (unico lusso concesso) in dotazione, preparò due tazze di caffè solubile e dopo aver bagnato e strizzato un lembo di un asciugamano, si avvicinò al compagno di sventure.

“Dai, lo so, che non stai dormendo. Sei arrabbiato con me. Hai ragione ma non potevo fare altrimenti. E poi non ti ho fatto male. E' stata tutta scena”, esclamò, scrollandolo gentilmente.

“E lo sarà stata per te. Io ho sentito dolore”, bofonchiò Jensen, con la testa sprofondata nel cuscino.

“Se ti giri verso di me, ti rinfresco un po' il viso e poi ti bevi una tazza di caffè caldo”, gli disse in tono paterno.

“Caffè?”, mormorò l'altro, interessato.

“Si, ho anche due biscotti al cioccolato presi al distributore nell'area comune”

La parola 'cioccolato' fu decisiva. Lentamente il giovane si girò verso il più anziano, il quale gli sorrise con affetto. Poi gli passò l'asciugamano per detergergli un po' il viso, ancora accaldato per il pianto e la collera.

“Dove lo hai infilato il tuo doppio, stronzo e sadico?”, gli domandò Jensen mentre si asciugava la faccia.

“Lo tengo nascosto. Non ti preoccupare. Qui in cella ha il sopravvento il mio lato umano e caricatevole”, rispose, mentre gli passava la tazza con il caffè.

“Ah, bene. Buono a sapersi”, replicò Jensen, mentre assaporava la scura bevanda calda.

“Riesci a stare seduto sul letto?”, gli chiese Morgan, aprendo la confezione di biscotti.

Jensen fece segno di no con la testa.

“Ma ti fa ancora male il fondoschiena?”, chiese Morgan, incredulo, mentre gli passava i dolci. “Jensen, davvero, è impossibile che ti abbia fatto male. Ti ho colpito con la punta delle dita. I miei figli ridono quando li punisco in quel modo”, aggiunse poi, ridacchiando.

“E si vede che ci sono abituati...”, bofonchiò l'altro, massaggiandosi con una mano il didietro.

Iniziò poi a sgranocchiarsi il biscotto con evidente soddisfazione. “Devo, per caso, mettermi un paracolpi al sedere domani o pensi che la pantomima odierna abbia sortito i suoi effetti?”, chiese poi, ammiccando.

“Non lo so. Mark è ancora un po' preoccupato. C'è la doccia domani mattina. Teme che qualcuno si possa inserire nella questione. Tu stai vicino a me e comunque ci sarà anche lui a tenerci d'occhio. Vedrai che tutto andrà bene”, rispose Morgan, cercando di essere ottimista anche se in cuor suo aveva una fifa tremenda.

Per fortuna il giorno dopo tutto andò liscio. Jensen rimase attaccato come una cozza al suo protettore e Mark li tenne sotto controllo. Il pomeriggio scorse lento e soffocante. Jensen decise di rimanere in cella a leggere, mentre i suoi due amici passeggiavano lungo l'assolato cortile, ognuno per conto loro.

Ma era la quiete prima della tempesta...

Già dal mattino dopo, Jensen si rese conto che l'atmosfera era cambiata. In refettorio la parola predominante era Supernatural e tutti lo guardavano con rinnovato interesse che andava al di là del desiderio lussurioso. Vide nelle espressioni dei suoi compagni di detenzione lampi di interesse puramente economico.

Uno di loro afferrò per una manica Morgan e lo attirò verso di sé. “I detenuti appena arrivati non possono avere privilegi, a meno che questi non siano approvati dal consiglio interno. Perciò devi avere la nostra autorizzazione se vuoi solazzarti con 'carne fresca' e comunque questa andrà prima usata da noi”, esclamò un energumeno, di chiara origine portoricana, con evidente disprezzo.

Morgan ingoiò a vuoto. Quello di cui aveva avuto timore, si stava materializzando in quel momento. Iniziò a contare mentalmente quante ore mancassero all'udienza di martedì. Cercando di non farsi vedere spaventato da quelle parole, si allontanò con calma trascinandosi appresso un timoroso Jensen, il quale continuava a chiedere cosa avrebbero fatto in quel frangente.

All'apertura pomeridiana delle celle, Morgan si eclissò, lasciando nell'incertezza più totale Jensen. Avrebbe voluto andare a cercare Mark ma sapeva che non era una mossa furba, anche se avrebbe potuto dire che voleva chiedergli aiuto. Avrebbe dovuto uscire fuori dalla sua cella e percorrere tutto il corridoio per arrivare alla cella dell'amico. Diede un paio di volte una sbirciata fuori ma troppa gente ingombrava il passaggio. Decise così di rimanere dentro ed evitare guai peggiori.

Morgan tornò poco prima delle cinque, in tempo per la chiusura delle celle. Non disse una parola ma si capiva perfettamente che era teso e preoccupato. Alle sette comunicò a Jensen che insieme sarebbero andati nell'area comune a parlare con i capi del consiglio dei detenuti. Morgan aveva accarezzato l'idea di non andarci affatto e far finta di nulla ma sapeva che non era un buon piano. Perciò fu costretto ad andare all'appuntamento e costrinse Jensen a seguirlo.

Nell'area comune del blocco si stava formando un crocicchio di persone, tutti in ansiosa aspettativa. Tra questi Jensen riconobbe il grosso portoricano che li aveva fermati precedentemente e fu proprio costui quello più infervorato nel discorso ma lui era troppo lontano per capire di cosa stessero parlando. L'attesa fu lunga e snervante. Avrebbe voluto dar man forte al suo amico ma sapeva che doveva recitare la parte dell'umile e sottomesso. Mark lo teneva d'occhio ma non poteva avvicinare neanche lui.

Quando ormai aveva perso ogni speranza, la riunione si sciolse e ognuno tornò alle proprie faccende. La sua espressione era indecifrabile. Fece segno ai due compari di seguirlo nei bagni. Dopo essersi accertato che non vi era nessuno, spiegò loro la situazione.

“Allora cosa ti hanno detto?”, chiese Mark, impaziente.

“Dapprima volevano che gli consegnassi Jensen questa sera per potersi un po' divertire. Al mio rifiuto allora hanno preteso soldi, tanti soldi che qui non ho e loro lo sanno, ovviamente. Entro le nove devo consegnare cinquemila dollari, anche sotto forma di oro o oggetti preziosi”, rispose, sconsolato.

L'espressione di Jensen era di terrore puro, mentre Mark era sconcertato..

“Non possiamo chiamare uno dei miei avvocati e spiegargli il problema?”, chiese Jensen, nervoso.

“Si, potremmo farlo ma mi è stato chiaramente vietato di parlare con le guardie e tu sai benissimo che se vuoi conferire con i tuoi legali, devi prima chiedere a loro”, rispose Morgan, mentre si grattava la barba, pensoso.

“Ho paura che dovremo chiedere aiuto ai detenuti comuni”, esclamò Mark.

“E come? Per me di certo nessuno vorrà intercedere...”, replicò Jeff, afflitto.

“Diremo loro la verità!”, sentenziò Mark.

“Bavo! Così mi venderanno subito al miglior offerente”, sbottò Jensen, guardando allibito il suo collega.

“Il mio compagno di cella è un bravo uomo. Lo conosco da solo due giorni ma mi sembra onesto e di buon cuore e tutti lo rispettano e chiedono a lui consigli e favori”, spiegò Mark.

“E' un ergastolano, Sheppard. Come fai a fidarti di lui?”, chiese Jensen, allibito.

“E allora? Puoi essere anche un assassino ma non per questo una cattiva persona. E poi è stato incastrato e gli ho promesso che, quando uscirò di qui, gli manderò uno dei migliori avvocati di Dallas per farlo uscire almeno sulla parola”, rispose Morgan, un po' alterato.

“Come al solito voi inglesi siete tutti altruisti, vero?”, sbottò Jensen, parandosi davanti al suo collega con fare minaccioso. “Il vostro ideale di moralità è quello dell'età vittoriana. I poveri erano in quella condizioni perchè erano pigri e non perchè vivevano in condizioni igieniche pessime e in città con le fogne a cielo aperto”

“Non farti fregare dalle tue origini texane e repubblicane, Jensen”, replicò Mark, calmo, nonostante la tensione crescente sul viso del suo interlocutore. “Hai sempre detto che non la pensavi come tuo padre. Non tutti gli assassini sono da camera a gas!”

“Non sono mai stato repubblicano e sono contrario alla pena di morte ma non mi fido di chi uccide a sangue freddo!”

Morgan, vedendo che la situazione stava degenerando, si frappose fra i due contendenti e spingendo via Jensen, esclamò: “Mark, va bene. Facciamo come dici tu. Mi sembra che non abbiamo altra scelta. Come intendi procedere?”

“Seguitemi”, replicò il britannico, dirigendosi verso il blocco delle celle.

“Ah, si, tanto si tratta della mia di pellaccia, mica la vostra....”, mormorò Jensen, suscitando occhiate minacciose da parte di Jeffrey e Mark.

“Brown, possiamo parlarti un momento?”, domandò Mark, avvicinandosi ad un uomo anziano, mentre stava appartato in un angolo della sala comune.

Quello annuì. Spostò poi lo sguardo verso Morgan e Jensen e non apparve sorpreso, come era naturale pensare che fosse, vedendo l'atteggiamento non deferente del più giovane verso il suo padrone. Non proferì parola e salì su per le scale, verso la sua cella. Giunti al secondo piano, entrò dentro e si sedette sull'unica sedia in dotazione. Morgan rimase fuori, in posizione più defilata, quasi sulla porta per non intralciare il collega ma anche preoccupato dalla reazione del detenuto più anziano. Se non accettava di aiutarli, erano fregati. O meglio, lo era Jensen!

Dopo che Brown ebbe fatto un cenno a Mark, questo iniziò a parlare. Lo ascoltò senza interromperlo, annuendo un paio di volte e scuotendo il capo altrettante volte. Al termine del monologo, calò il silenzio. Il compagno di cella di Mark era pensieroso. Si stropicciava le mani con lo sguardo perso nel vuoto. Jensen si alzò in piedi e iniziò a saltellare sui piedi. Morgan, fuori sul ballatoio, guardava lungo il corridoio di ferro che fungeva da raccordo con le celle e il cortile interno del braccio.

“Sinceramente avevo capito che non eravate quello che pretendevate di essere. Quello che mi ha lasciato interdetto è stata la sceneggiata in sala mensa l'altra sera. Era molto realistica, ma ora capisco il motivo. Siete attori e anche molto bravi”, esclamò, dopo un breve periodo di riflessione.

“Visto che mancano dieci minuti alle nove e quindi alla chiusura definitiva, garantirò io per voi. Vanto una serie di favori da quella gente, perciò non avete nulla da temere”, aggiunse poi.

“Questo tuo intervento basterà?”, chiese Jensen, dubbioso.

“Sono venti anni che sono qui. L'anzianità in questi posti ha il suo peso ed è rispettata anche da quei pivelli che si credono chissà che cosa. Perciò ti posso assicurare che finché starete qui, non vi sarà fatto alcun male”, rispose l'anziano detenuto con determinazione.

“Ti ringrazio Brown e ovviamente il tuo contributo sarà largamente ricompensato, a partire dalla nomina di un avvocato penalista che possa farti avere la libertà condizionata e perché no, la revoca della tua condanna”, esclamò Mark, grato e supportato anche dagli altri due amici.

Il giorno dopo passò nella calma più totale. Era come se Jensen e gli altri fossero in una campana di vetro, dove tutti li potessero guardare ma non toccare. Ovunque andassero mensa, sala comune, cortile e biblioteca erano additati e chiacchierati ma nessuno di azzardò a interloquire con loro né tanto meno a toccarli.

In Jensen, che non doveva più recitare la parte del sottomesso, si era fatta strada nella sua mente, la certezza che se il giudice lo avesse condannato a scontare tutta la pena in carcere, lui avrebbe potuto rimanere là dentro, sotto la protezione di Brown, senza dover accettare di andare in clinica.

Le ultime ore prima dell'udienza furono piene di aspettativa per Jensen e quando lasciò la casa circondariale su un pulmino con i suoi due compagni di avventura, non rivolse un addio a quei muraglioni alti e fortificati, bensì un arrivederci a presto!

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

In questo capitolo sono presenti alcune tematiche forti. Ho cercato di essere più evasiva possibile, per evitare di dover aumentare il rating della storia e impedire così la lettura da parte di tutti. Se vi dovessero disturbare questi particolari, avvertitemi che li modifico o li cambio del tutto.

La maggior parte dei riferimenti carcerari sono presi dalla visione di una serie televisiva 'Prison Break', già conclusa da alcuni anni, che sto riguardando di nuovo. (la consiglio vivamente a chi non l'avesse mai vista prima. Guarda caso, racconta la storia di due fratelli)

Jeffrey Dean Morgan è stato protagonista di 'Magic City', dove recita la parte di un boss della mafia a Miami.(consiglio anche questa serie)

Dal prossimo capitolo, rientro nella narrazione originaria che avevo previsto all'inizio e quindi ne prevedo ancora due o tre al massimo prima della conclusione della storia.

Ringrazio come sempre coloro che mi seguono, commentano e leggono questa fan-fiction e soprattutto sono grata a coloro che sopportano i lunghi tempi di pubblicazione. Grazie mille e a presto!!

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Capitolo Quindici ***


Capitolo Quindici

 

 

L'aria era irrespirabile, quando Jared scese dall'auto davanti al tribunale di Dallas. Non solo già alle dieci del mattino la temperatura era vicina ai quaranta gradi ma quel giorno l'umidità avrebbe fatto invidia a quella percepita in Cambogia. Come se stesse respirando acqua, pensò Jared passandosi un fazzoletto sul viso grondante di sudore. E la sua agitazione non migliorava affatto la copiosa perdita di liquidi del suo corpo.

Fu affiancato dal padre e dal fratello di Jensen e insieme si avviarono verso la scalinata che li avrebbe portati a varcare la soglia dell'imponente edificio della procura statale ma si fermarono bruscamente. Una mezza dozzina di giornalisti e fotografi stazionavano sui gradini e quando riconobbero Jared gli si affollarono tutti intorno, iniziando a bombardarlo di domande.

“Quale sarà il verdetto, Mr Padalecki? Andrà in clinica Jensen Ackles? Verrà estromesso dalla serie, Jensen?”

Pierce uscì fuori di corsa e cercò di creare un varco per permettere loro di guadagnare il più in fretta possibile l'atrio del palazzo di giustizia e sottrarsi a quell'orda di maniaci della notizia a tutti i costi. Giunti al riparo, si sedettero su alcune panche di marmo, cercando di calmarsi. Nell'attendere di essere convocati dagli avvocati della difesa non restò altro che dare un'occhiata ai dipinti appesi al muro raffiguranti i procuratori del passato o ad alcuni arazzi riportanti scene storiche sull'indipendenza del Texas. Nel frattempo Alan aveva ricevuto una telefonata da Morgan, il quale, assieme a Sheppard, stava facendo ritorno a Dallas dopo i quattro giorni passati nella prigione della contea. Il racconto aveva rasserenato molto l'anziano genitore che poi aveva ragguagliato i suoi compagni.

Dopo un breve cenno di Pierce, si accodarono ai componenti dello studio legale e li seguirono in una saletta del primo piano. Là, l'avvocato civilista illustrò come si sarebbe svolta l'udienza e cosa avrebbe detto il giudice. A Jared premeva sapere se Jensen fosse già nell'edificio e se avesse potuto vederlo.

“Si, il trasferimento è avvenuto circa due ore fa. Tra poco dovrei incontrarlo per gli ultimi ragguagli”, spiegò l'avvocato.

“Posso venire anche io?”, chiese Jared, speranzoso.

“Teoricamente no, ma guardo se posso farti passare come uno dei miei assistenti”, rispose il legale, mentre scorreva la lista dei suoi sottoposti.

Mentre Jared e Pierce stavano camminando lungo un corridoio, entrambi pensavano alla stessa persona, però con aspettative diverse: il primo sperava ardentemente in un Jensen, spaurito e tremante, voglioso di essere rassicurato e impaziente di andare in clinica; il secondo temeva che l'aggiunta del 'Corpo Volontario della Croce Rossa' non avesse sortito gli effetti sperati, non perché non avesse protetto a dovere la merce preziosa, ma piuttosto l'avesse resa più forte e baldanzosa.

Bastò un'occhiata a Pierce per avere conferma dei suoi timori. A parte un leggero tremito alle mani, il viso e la postura del giovane indicavano una persona calma e tranquilla. Jensen e Jared, dopo un primo momento di smarrimento e incredulità, si abbracciarono e stettero in quella posizione per alcuni momenti. Pierce li lasciò fare, poi con un leggero colpo di tosse richiamò la loro attenzione.

“Allora Jensen come sono andati questi quattro giorni?”, chiese, poi, facendo cenno loro di sedersi.

“Bene. Anzi, sono proprio pronto a farmi tutti e tre i mesi che mi darà il giudice”, esclamò lui sicuro, tra gli sguardi increduli di Jared e quelli rassegnati di Pierce.

“Vuoi tornare là dentro?”, chiese Jared, allibito.

“Si, si, ho chi mi protegge e so come è l'ambiente. Perciò posso benissimo restare là”, affermò con convinzione Jensen.

“Ma devi disintossicarti!”, insistette Jared, prendendolo per un braccio.

“Ah, lo posso fare benissimo dietro le sbarre e senza il ricorso dei psico-farmaci”, replicò Jensen, allontanandosi da lui.

“Non ci riuscirai! Non in un luogo dove puoi procurarti qualsiasi cosa, se puoi pagare!”, ribatté Jared, esasperato. “Non te lo permetterò, Jensen!”, aggiunse, poi, avanzando verso di lui e afferrandolo per le spalle. “Non lascerò che ti distruggi, come ho fatto in questi anni. Non farò più finta di niente, perciò tu andrai in clinica e volente o nolente ti depurerai dall'alcol e diventerai una persona responsabile!”, sentenziò Jared.

“Non ti azzardare ad intrometterti nella mia vita, Jared!”, esplose Jensen, spingendolo via in malo modo, tanto che Jared, scontrandosi con una sedia, stava quasi per cadere.

“Signori, per favore, comportiamoci da persone civili”, li redarguì l'avvocato.

Dopo alcuni minuti di silenzio assoluto, carico di tensione, durante i quali Jensen si era appoggiato a una finestra e guardava di fuori e Jared si era seduto tenendosi la testa fra le mani, quest'ultimo si alzò e si avvicinò a Jensen.

“Intromettermi nella tua vita?”, domandò Jared, in tono ferito. “Tu non sai cosa stai dicendo, Jensen!”, aggiunge, poi. “Io sono la tua vita!”, affermò, infine, tentando di abbracciarlo.

Jensen si divincolò dalle sue forti braccia e lo spinse via.

“Jensen, sei confuso. Lo capisco. L'astinenza, la paura, la tensione, tutto sta alterando il tuo essere. Comprendo tutto, ma non venirmi a dire che vuoi tornare là dentro perché non ti credo. E' una pessima recitazione la tua”

Jensen alzò le spalle e fece una smorfia di disgusto, ma rimase fermo davanti a Jared. Quest'ultimo tento di accarezzarlo sul viso ma Jensen urlò: “Lasciami stare!”

“Non permetterò che tu butti via così la tua vita”, ribadì Jared, risoluto.

“A te interessa solo che io torni a lavorare, così non perderai il tuo stipendio...”, disse Jensen, andando verso l'avvocato, al quale chiese quanto sarebbe durata l'udienza.

Pierce gli rispose che sarebbe durata al massimo quindici minuti, doveva solo dire al giudice dove voleva scontare la pena e di non parlare se non direttamente interrogato. Jensen annuì e andò verso la porta, senza degnare di una sola occhiata Jared.

Il difensore aprì la porta e fece un cenno a un poliziotto che il colloquio era finito e che il prigioniero poteva essere scortato alle celle in attesa dell'udienza.

Jared rimase seduto su una sedia con lo sguardo perso nel vuoto, poi si alzò e andò verso l'uscita ma Pierce lo bloccò. “Voglio che tu legga attentamente questo documento e poi mi dica se sei d'accordo oppure no”, esclamò, porgendogli un foglio.

Jared lo lesse con attenzione e annuì.

“Ottimo. Allora firmalo”, replicò Pierce, porgendogli la sua Marker argentata.

Jared, senza esitazioni, appose la sua firma e uscì dalla stanza quasi di corsa.

Jensen tornò nella cella comune dilaniato da una miriade di sensazioni, una in contrapposizione all'altra. La più eclatante fu quella della delusione: mai si sarebbe aspettato tale atteggiamento in Jared. Lui sempre così remissivo nei suoi confronti, ora si schierava apertamente contro di lui. Sicuramente suo padre lo aveva convinto ad agire in quel modo.

Erano quasi le dodici quando iniziarono a prelevare i prigionieri dalle gabbie. Jensen fu ammanettato e scortato al piano superiore.

Fu fatto entrare in quella che sembrava una cappella di una delle tante congregazioni protestanti sparse per il paese. Le pareti erano dipinte di verde da terra fino ad una riga nera che correva all'altezza della vita; al di sopra era tutto color crema.

Il pavimento era coperto da una moquette verde e c'erano nove file di panche di legno chiaro che sembravano banchi di chiesa. Nell'ultima fila sedevano il padre e il fratello di Jensen.

Suo padre sedeva impettito con un'espressione neutra. Mentre Josh aveva accennato a un timido sorriso verso il fratello minore, Alan non aveva neanche fatto quello sforzo.

Fu fatto sedere sulla prima fila di panche accanto ad altri detenuti. Davanti a sé molti avvocati tra cui il suo. Non c'erano molto visitatori, giusto i suoi parenti e pochi altri.

In quel mentre entrò anche Jared e si andò a sedere affianco ai due Ackles e il più anziano lo consolò con una pacca sul braccio. Aveva il viso arrossato e gli occhi lucidi e un'infinita tristezza sul volto. Jensen seppe in quell'istante quale sarebbe stato il suo futuro. Lo fissò per qualche istante con uno sguardo fiammeggiante e poi si girò verso lo scranno del giudice. In cuor suo non volle crederci e finché non avesse visto con i propri occhi quel tradimento, non avrebbe perso la speranza!

Entrò il giudice. Era un uomo sui cinquanta anni, bianco, con i capelli brizzolati e un'espressione distesa ma arcigna. Indossava una toga nera e aveva con sé una bottiglietta di acqua minerale che posò sulla scrivania.

Jensen cercò di interpretare la sua gestualità per comprendere che tipo fosse. Era crudele o benevolo? Avrebbe rispettato l'accordo o avrebbe tenuto conto degli ultimi sviluppi e quindi aumentato la pena?

Il giudice osservò la fila dei detenuti e disse: “Buongiorno. Sono qui per esaminare i rilasci su cauzione e gli accordi per la detenzione alternativa”

Aveva la voce bassa e profonda. La pronuncia era perfetta, quasi senza accento. Forse non era originario del Texas, pensò Jensen.

“Avete tutti ricevuto la descrizione delle accuse?”, chiese, poi, guardando la fila degli uomini vestiti con le loro tute arancioni, tipiche di coloro che erano in attesa di giudizio.

Tutti annuirono, compreso Jensen.

Poi proseguì: “Quando sentite pronunciare il vostro nome, vi alzate e andate a mettervi accanto al vostro difensore. Potrete parlare solo se interrogati”

Una donna, seduta a lato del togato, probabilmente un cancelliere, sfogliò un registro e annunciò ad alta voce: “Mark Cassidy”

Costui, un giovane bianco con la barba incolta e lo sguardo assonnato, si alzò e affiancò un uomo che non lo degnò neanche di uno sguardo. Un avvocato d'ufficio, sicuramente. Costui disse che l'imputato viveva con la madre, malata terminale, bisognosa di cure e lavorava in un fast-fodro. Era un drogato con precedenti penali come il furto con scasso. Stessa imputazione di quella volta.

Il giudice lo osservò con intensità e poi dichiarò che la cauzione era di venticinquemila dollari e quindi ne avrebbe dovuto pagare solo duemilacinquecento, ovvero il solito dieci per cento. A Jensen sembrò una decisione clemente e questo gli diede speranza nel pensare che anche a lui potesse essere riservata la stessa sorte.

“Jensen Ackles”, esclamò, all'improvviso, il cancelliere.

Jensen si alzò in piedi e raggiunse Pierce.

“Lei è accusato di guida in stato di ebbrezza, danneggiamento di proprietà statale e di terzi, evasione dai domiciliari, guida senza patente”, lesse il giudice da una cartellina, con tono piatto.

“Come si dichiara?”, chiese, poi, alzando lo sguardo e osservando il giovane con severità.

“Colpevole, Vostro Onore”, rispose Jensen.

“Bene. Ammettere la colpa è già il primo passo verso l'espiazione”, affermò il giudice, sfogliando nuovamente tra i fogli davanti a lui. “E' consapevole che qui in Texas questi reati sono gravi?”

“Si, Vostro Onore. Non intendo, però, ripetere tali fatti. Glielo posso assicurare”, replicò Jensen, con un tono e un'espressione sincera.

“Ne sono certo, anche perché a quel punto verrà gettato in prigione e buttata via la chiave senza appello”, ribatté il giudice, ammiccando. “Ora ascolterò per cinque minuti le tesi della Procura e poi ne darò facoltà alla Difesa, infine enuncerò la mia decisione”, esclamò il magistrato, facendo segno al procuratore di iniziare la sua replica.

“Grazie Vostro Onore. Sarò breve e coinciso. La procura dello Stato vuole il risarcimento per i danni subiti, per sé e per la parte lesa, vuole assicurarsi che tali reati non accadano più e che l'accusato possa ritornare alla sua vita normale in salute e dopo l'espiazione di una congrua pena, ovvero il massimo previsto per questo reato. Siamo favorevoli a concedergli la facoltà di trascorrere tale periodo in un centro di disintossicazione statale. Per quanto riguarda le sanzioni legate all'uso del veicolo sul territorio dello stato, proponiamo il ritiro della patente per cinque anni e due anni in quello federale. Abbiamo concluso, Vostro Onore”, terminò il titolare dell'accusa sedendosi al suo posto.

Il giudice annuì meditabondo e dopo aver scritto alcune annotazioni su un foglio davanti a lui, fece un cenno alla controparte di iniziare la requisitoria.

“Grazie, Vostro Onore. Jensen Ackles è un uomo di successo. Attore brillante, regista, marito e figlio amato. Come tutti i rappresentanti del mondo dorato di Hollywood si è lasciato travolgere dalla celebrità, dal denaro e dal lusso e ha smarrito la dritta via. Con questo, noi non lo giustifichiamo ma possiamo soltanto indicargli come ritornare a essere un uomo stimato e rispettato, oltre a essere ligio alle leggi.

“La sua famiglia, il cui padre e fratello maggiore sono presenti in aula oggi, non lo ha mai abbandonato e intende seguirlo e supportarlo fino alla completa guarigione, assieme alla vasta cerchia di preziosi amici, di cui un rappresentante è oggi qui con noi”, continuò l'avvocato, indicando le tre persone sedute in fondo alla sala “ e lo aiuteranno lungo questo arduo cammino”, continuò poi.

“Invochiamo la clemenza della corte, partendo dal presupposto che tutti possiamo smarrire la via maestra e ci è concesso, in virtù del concetto che sbagliare è umano, sperare in una seconda possibilità. Ho finito, Vostro Onore”, terminò Pierce, sedendosi al suo posto.

Il giudice Snow aveva ascoltato con molta attenzione le parole dell'avvocato difensore, aveva osservato i volti dei parenti stretti del giovane e dell'amico, analizzato le loro reazioni al discorso del titolare della difesa e si era sorpreso un paio di volte nel notare l'intensa emozione sul volto del più giovane convenuto tra quelli che appoggiavano l'accusato.

“Jensen Ackles”, esclamò il giudice e ciò fece scattare in piedi Pierce e con qualche attimo di ritardo il suo cliente, un po' timoroso.

“Questa corte vorrebbe essere severa nei suoi riguardi, ribadendo che i suoi reati sono abbastanza gravi in questo stato, soprattutto quelle leggi infrante di cui lei dovrebbe esserne a conoscenza in quanto nato qui a Dallas e fino all'età di diciotto anni fruitore dei diritti e doveri del Texas e ciò mi porta a pensare che i soldi, la fama e il successo facciano passare in secondo piano tutto ciò che sia legale e giusto.

“Mi rendo però conto che lei, impersonando un giovane che tiene alla propria famiglia e lotta contro il male, sia un simbolo positivo per i giovani e Dio sa solo di quanto i nostri ragazzi abbiano bisogno di questo. Quindi più presto tornerà ad impersonare quel giovane cacciatore di demoni e meglio sarà per tutti. Perciò mi atterrò al primo accordo fatto dal suo avvocato con la procura prima che lei prendesse la sciagurata decisione di andarsene a spasso per la città senza patente e probabilmente ubriaco”, concluse il giudice, riordinando le carte. Poi aggiunse, sottovoce: ”Per quel reato, lei ha già fatto quattro giorni di reclusione e sono più che sufficienti, per uno abituato al lusso dei grandi alberghi”

Jensen, impalato accanto al suo avvocato, aveva la testa confusa. Aveva capito più o meno il succo del lungo discorso e si era meravigliato che si fosse preso la briga di andarsi a leggere la trama del telefilm, ma non ricordava assolutamente quali fossero i dettagli di quel primo compromesso. Aveva barlumi di rimembranza su quanto gli era stato detto all'ospedale, ma quel giorno era rimasto troppo sconvolto da quello che era successo per poter ricordare qualcosa. Lo aveva tranquillizzato, però, il sospiro di sollievo e il sorriso di Pierce esternato quando il giudice aveva pronunciato quelle parole.

“Questa corte la condanna a 90 giorni di reclusione nella casa penale di North Pond, tramutabili in altrettanti giorni di ricovero in una clinica statale per disintossicarsi dall'abuso di alcol. Dovrà pagare 3000 dollari di ammenda per risarcire lo stato e sarà quantificato un ammontare per il indennizzare la parte civile lesa. Le verrà ritirata la patente per cinque anni all'interno dei confini texani e per due anni sul territorio federale.

“Per rientrarne in possesso dovrà sostenere un esame teorico-pratico e avrà un periodo di prova di almeno un anno”, dichiarò, con fermezza, leggendo da un documento. Poi si tolse gli occhiali, alzò il viso e piantò i suoi occhi in quelli di Jensen. “Le è tutto chiaro?”, chiese, poi.

Jensen, intimorito da quello sguardo così penetrante, annuì lentamente. Pierce lo toccò su un gomito e gli disse sottovoce di esternare con la voce il suo assenso.

“Si, Vostro Onore”, gracchiò allora Jensen, con voce tremolante.

“Ottimo”, replicò il togato. “Ora mi deve dire cosa vuole fare: andare a North Pond per novanta giorni o essere ricoverato in una clinica statale?”, chiese, poi, sempre con il tono usato in precedenza.

Tutti gli astanti ai quali stava a cuore il benessere di Jensen trattennero il fiato. Il momento della verità era arrivato. Alan aveva la fronte imperlata di sudore, nonostante un robusto ventilatore facesse volteggiare le pale sul soffitto e smuovesse l'aria con efficacia. Josh continuava a inghiottire a vuoto, cercando di liberarsi la gola da un grumo che gliela ostruiva e gli impediva di respirare bene. A Jared tremavano le mani. Era un tremito incontrollato. Non sapeva dove metterle o come fermare quella spirale di terrore che gli stava invadendo il corpo. Pierce aveva messo già una mano su una cartellina, posta in cima a una pila di fogli che aveva messo davanti a sé.

Jensen, conscio di quanto stava per dire e indifferente alla reazione che avrebbe suscitato la sua decisione, affermò con sicurezza: “North Pond, Vostro Onore!”

Un singulto scappò dalle labbra di Jared, il quale si portò una mano alla bocca per evitare di gridare. Alan si alzò lentamente dalla panca, diede una stretta alla spalla di Jared e senza dire una sola parola uscì dalla sala, mestamente.

Il giudice strabuzzò gli occhi. Non credeva alle proprie orecchie. Chiunque altro avrebbe fatto salti di gioia a non dover finire in quel girone infernale del penitenziario di contea. Poi osservò lo strazio dei convenuti, l'uscita del padre affranto e la compostezza e relativa calma dell'avvocato difensore. Aveva un asso nella manica e stava per esibirlo.

“Vostro Onore, vorrei porre alla attenzione della corte questo documento. Posso avvicinarmi?”, chiese Pierce, mostrando un foglio.

Jensen cercò in tutti i modi di prendere possesso di quel pezzo di carta ma l'avvocato, ovviamente, non glielo permise. Il siparietto tra loro due divertì un poco il giudice, il quale intuì la vera natura della tranquillità del difensore.

Fece, perciò, segno a un agente di mettersi a lato del condannato in modo che si calmasse. A Jensen tale mossa non piacque affatto ma si sedette composto.

“Vostro Onore, questa è la procura che dà la facoltà al tutore di Jensen Ackles di agire in vece sua quando lui non sia in grado di farlo e secondo questo atto firmato dal medico che lo ha avuto in cura all'ospedale di Dallas”, spiegò Pierce, sottovoce, mostrando un secondo foglio al giudice. “il signor Ackles è in preda a una forte astinenza alcolica per cui non sarebbe in grado di intendere e volere con lucidità”, concluse il difensore.

Il magistrato prese i due fogli e li studiò con attenzione, poi li passò al procuratore che fece altrettanto. “Va bene. Potete accomodarvi”, esclamò Snow, tenendo fra le mani il modulo compilato e firmato da chi aveva assunto la procura.

“Jared Padalecki, lei è stato nominato da questa corte l'amministratore legale di Jensen Ackles, il quale viene dichiarato 'incapace di intendere e volere' in modo temporaneo. Accetta l'incarico?”, chiese il giudice, rivolgendosi verso un giovane, seduto sulla panca, palesemente nervoso e sull'orlo di una crisi di panico.

Jared, ormai in uno stato di isterismo incontrollato, si alzò in piedi e dopo aver chiuso gli occhi e sospirato sconfitto, rispose: “Si, Vostro Onore”

Jensen scattò in piedi immediatamente: “Maledetto bastardo!”, urlò in direzione di Jared. “Ti sei fatto abbindolare dalla mia famiglia. Meno male che dicevi che volevi solo il mio bene! Spero ti possa venire un colpo e rimanerci secco”, continuò, cercando di dirigersi verso Jared.

“Ordine! Ordine!”, gridava il giudice, picchiando con il martelletto su un piccolo ceppo di legno posto sulla sua scrivania.

“Come puoi farmi rinchiudere là dentro? Come?”, urlò, cercando di divincolarsi tra due agenti di polizia che cercavano di tenerlo fermo.

Jensen fu costretto a sedersi con la forza e solo con la presenza di altri poliziotti e di un manganello spuntato fuori all'improvviso, si calmò.

“La avverto, signor Ackles. Se darà di nuovo in escandescenze in questa aula le aggiungerò anche l'imputazione di 'oltraggio alla corte' e quindi a trenta giorni in più di reclusione e a mille dollari di ammenda”, affermò il giudice Snow, ad alta voce.

Jensen sbuffò ma non disse nulla. Della multa non gliene importava nulla ma un mese in più poteva far saltare il suo contratto con la Warner Bros. Niente però gli avrebbe impedito di spaccare la faccia a quel traditore appena ne avesse avuto l'occasione, fuori da quel tribunale.

“Riformulo la domanda fatta precedentemente: sceglie la reclusione a North Pond o in una clinica statale?”, chiese il giudice, rivolto a Jared.

Colui che doveva rispondere lanciò un'occhiata fugace a Jensen che stava dall'altra parte della sala, colui per cui il suo cuore batteva in ogni momento della giornata, alla sua unica ragione di vita. Poi, anche se Jensen aveva il capo chino e costretto ad ascoltare le sue parole e ben sapendo di andare contro la sua volontà e che ciò avrebbe sancito la fine della loro amicizia e il tramonto definitivo del sogno di poter tornare insieme, rispose con un filo di voce: “Clinica statale, Vostro Onore!”

Jensen rimase immobile ma non per questo avrebbe accettato supinamente quella decisione; era abbastanza intelligente da capire che quella non era la sede appropriata per sfogare la sua rabbia.

“Benissimo. Il procuratore le fornirà una lista di siti dover poter condurre la disintossicazione. Invito le parti a trovare la sede entro stasera per evitare ulteriori conseguenze”, sentenziò il giudice.

“Grazie, Vostro Onore!”, disse l'avvocato difensore, sollevato. “Un'ultima richiesta, se me lo consente”, aggiunse poi.

Il giudice fece il gesto di procedere.

“Potremmo dare la possibilità al signor Ackles di andare a casa stasera e poi domani mattina recarsi in clinica con calma?”

“Se il procuratore è d'accordo e il tutore si impegna a consegnarlo senza indugi entro le dodici di domani mattina, per me va bene”, dichiarò il giudice, poi si rivolse al giovane, seduto al banco della difesa: “Spero signor Ackles di non rivederla più in un'aula di giustizia, perché sarò meno clemente la prossima volta”, affermò il togato, prima di allontanarsi.

Jensen fu scortato nelle celle di detenzione provvisoria ad aspettare la convocazione del suo avvocato, quando quello avrebbe avuto la lista in mano. Fu scortato da ben quattro agenti e non degnò neanche di uno sguardo nessuno. Tenne gli occhi bassi e lo sguardo fisso.

Non appena aveva pronunciato quelle parole così pesanti, Jared era corso fuori dall'aula alla ricerca di un angolo privato dove poter sfogare quelle lacrime che stavano tracimando dai suoi occhi. Non trovò di meglio che rifugiarsi nei bagni, dove, dopo essersi accertato che non vi fossero occhi indiscreti, diede libero sfogo alla sua frustrazione. Sapeva che un giorno Jensen gli avrebbe riconosciuto l'alto valore del suo gesto ma in quel momento gli pesavano come macigni sul cuore quelle parole pronunciate in aula, dette sicuramente più per la rabbia che per coerenza.

Sapeva, per esperienza, che chi arrivava a maledire qualcuno durante uno sfogo di rabbia, in fondo al suo animo era consapevole di quello che diceva e che una parte del proprio essere era intriso di cattiveria, ma Jensen era un'anima pura e mai e poi mai avrebbe pensato a quelle cose. Si sentiva soffocare in quello spazio angusto, perciò si ritrovò all'esterno e per fortuna passò da una porta laterale, visto che sulla scalinata stazionavano ancora alcuni giornalisti. Decise così di camminare, anche se la calura estiva era intensa e il sole implacabile. Si ritrovò seduto su una panchina nel parco principale della città. Rivide l'espressione ferita sul viso di Jensen tramutarsi in odio; riascoltò le sue parole ed ebbe l'impressione che dita gelide si chiudessero intorno al suo cuore e lo stringessero in una morsa sempre più potente.

Jensen era incredulo. Aveva un disperato bisogno di bere, alcolici ovviamente. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per bere anche solo una goccia di birra o di whisky. La testa gli stava per scoppiare. Aveva l'emicrania da ore e andava sempre peggio, per non parlare della nausea e del tremore che ormai si era impadronito di tutto il suo corpo. La zona delle celle risuonava di urla e risate. Quella cacofonia di rumori gli impediva di pensare, di analizzare cosa era accaduto in quell'aula e gli aumentava il malessere.

Intanto si era accorto che era ancora innamorato di Jared o meglio non aveva mai smesso di esserlo. Aveva solo accantonato la questione, dopo l'ultimatum del network per il quale loro lavoravano. Nell'attimo in cui Jared aveva preso la decisione di decidere al posto suo, quel sentimento era morto. Defunto, per sempre. In quell'attimo le loro esistenze erano cambiate in modo radicale e lui capiva di non essere ancora riuscito ad assorbire e a valutare ciò che era accaduto. Il tradimento di Jared era qualcosa di inspiegabile.

Le ore trascorsero lentamente e man mano che il pomeriggio diradava nella sera, Jensen rimase l'unico fruitore della guardina giudiziaria. Aveva pranzato con un tramezzino e una lattina di Coca-cola e aveva in tutti i modi cercato di farsi portare una birra, corrompendo agenti e funzionari ma nessuno cedette, anche se lo conoscevano bene e sapevano che poteva pagare ogni cifra pronunciata per arrivare all'agognato liquido amarognolo.

Alle sei fu accompagnato nell'ufficio dei colloqui con gli avvocati e vi trovò Pierce da solo.

“Spero che ti sia calmato. A momenti mandavi tutto all'aria. Meno male che c'era il giudice Snow, notoriamente considerato un 'bonaccione'”, lo redarguì Pierce, indicandogli una sedia dove sedersi.

“Nomina pilotata?”, chiese Jensen, ammiccando.

“Non faccio quelle cose. La corruzione è un boomerang in questi ambienti. Ti si ritorce sempre contro. Siamo solo stati fortunati”, rispose l'avvocato un po' risentito.

“Delle quattro cliniche che erano sulla lista, ne abbiamo scelto una, consona al tuo status e che offre servizi di qualità. Ha già accolto altre celebrità come David Duchovny”, spiegò il difensore, allungando alcuni fogli stampati dal computer che illustravano le meraviglie del resort 'Blue Sky'.

“A me non interessa. Io avevo già fatto la mia scelta”, esclamò Jensen, buttando a terra i pezzi di carta.

“Dovrai darti una calmata. Dove stai andando non tollerano certe scenate”, sbottò Pierce.

Jensen accusò il colpo e tirò su gli incartamenti finiti sul pavimento.

“Hai sentito il giudice? Ti ha concesso la possibilità di trascorrere la notte a casa. Ad Austin devi esserci entro le dodici di domani mattina. Andrai con i tuoi genitori ma ti seguirò anche io. Devo firmare dei documenti”, dichiarò Pierce, ignorando il gesto di Jensen, mettendo gli ultimi documenti nella sua valigetta e chiudendo la serratura a scatto.

Jensen non disse nulla. Fece spallucce con aria scocciata e si alzò dalla sedia.

“Promettimi una cosa, però?”, chiese il difensore, avvicinandosi al giovane. Jensen fece un cenno con la testa per invitarlo ad andare avanti, “Non metterai piede fuori da casa tua finché non dovrai uscire domani mattina. Siamo intesi?”

Jensen annuì.

Pierce lo osservò attentamente. Sembrava sincero. “Se ciò dovesse accadere, ti cercherai un altro avvocato. D'accordo?”

Il giovane annuì nuovamente.

“Desidererei sentire la tua voce. Credo di essermelo guadagnato in fin dei conti, no?”, chiese retoricamente Pierce, risentito dall'atteggiamento del suo cliente ma che considerava anche suo amico

“Va bene, Tom. Ho capito. Non sono stupido fino al punto da non capire che se ne sono uscito abbastanza indenne lo devo a te”, esclamò Jensen, riconoscente. “Rimane il fatto che hai contribuito però a fregarmi e non credo perdonerò mai Jared per quello che mi ha fatto!”, aggiunse poi, con lo sguardo irato.

“Jared ti ha salvato la vita. Ora non comprendi ma tra qualche mese capirai”, replicò l'avvocato, avvicinandosi alla porta.

“Non credo proprio”, replicò Jensen, sicuro.

Il viaggio verso Richardson avvenne nel silenzio più assoluto. Jensen aveva preteso che lo accompagnasse Pierce da solo. Non avrebbe passato neanche cinque minuti in compagnia di Jared o di suo fratello Josh. Non con quei continui sguardi di disapprovazione che gli lanciavano continuamente.

Giunto a casa, si diresse immediatamente in camera sua, in quanto sapeva benissimo che avvicinarsi

al mobile bar gli sarebbe stato impedito a tutti i costi. Solo dopo aver sentito chiudere violentemente la sua porta, tutti si rilassarono.

Fu preparata la cena e MacKenzie si arrischiò ad andare a bussare alla porta della camera di suo fratello per chiedergli se volesse mangiare con loro ma ottenne una risposta negativa con tono lugubre. Non acconsentì neanche che gli venisse servita in camera.

Donna non prese bene quella decisione ma poteva fare ben poco. Se non voleva mangiare, peggio per lui, pensò mentre serviva la cena ai suoi ospiti.

Jared era consumato dalla voglia di andare da lui e di fargli capire che non aveva avuto altra scelta, che nessuno gliela aveva imposta e che riteneva di essere nel giusto. Mangiò poco e poi chiese se poteva andare a coricarsi nella stanza di Mac. Donna gli disse che poteva fare quello che voleva e cercò di confortarlo facendogli una carezza sul viso, quando aveva captato l'infinita tristezza nei suoi occhi. “Se hai bisogno di parlare, io ci sono”, esclamò lei, prima che lui uscisse dalla sala da pranzo.

Lui annuì e mormorò un breve ma intenso “Grazie”

Passando accanto alla porta della camera di Jensen, percepì la televisione accesa. Non era alto il volume ma riuscì a decifrare che si trattava di un canale sportivo e che stava trasmettendo una partita di football con i Dallas Cowboy. Gli venne ancora di più il magone ripensando al passato: erano soliti vedere insieme la partita, facendo un tifo chiassoso per la propria squadra e inveendo contro gli avversari. Avrebbe dato qualsiasi cosa per poter entrare in quella stanza e potersi sdraiare accanto a Jensen. Si sentiva in quel momento l'uomo più infelice della Terra.

Il mattino dopo scese molto presto in cucina a farsi un po' di caffè prima che tutti gli altri si riversassero per la casa. Là trovò Morgan e Jensen. Il secondo lasciò la stanza appena lui vi mise piede. Morgan rimase seduto al tavolo, sorseggiando dalla propria tazza.

“Immagino cosa ti abbia detto su di me...”, borbottò Jared, versandosi anche lui la bevanda nera fumante in una tazza.

“Più che altro abbiamo parlato di quanto sia stato stupido e irresponsabile...”, ribatté Morgan, allungandosi per prendere un altro biscotto alle noci pekan.

“Eh bè, quello era sottinteso ma lui non capisce. Si comporta come un bambino capriccioso!”

“Ahahah, le mie stesse parole. Vorrei proprio tornare a North Pond per terminare quello che avevo iniziato là....”

“Per fortuna andrà in clinica, ma anche quello non lo comprende”, sussurrò Jared, sedendosi davanti al suo amico.

“Jared, lo capirà. Fra qualche mese, ti chiederà scusa e sarà tutto come prima. Conosco la terapia che fanno fare in quelle cliniche. Gli inculcano il concetto di chiedere perdono e di rendersi disponibili verso chi hanno offeso”, spiegò Morgan.

“Spero gli ficchino in testa anche un po' di saggezza. Non sarebbe male”

“Non credo facciano miracoli, però!”, ghignò Morgan, afferrando un altro biscotto.

Jared accennò a un sorriso.

“Non c'eri ieri sera a cena. Dove sei andato?”, gli chiese, tanto per fare un po' di conversazione.

“Mark ed io abbiamo assaporato la libertà andando fuori a cena in un ristorante messicano e poi avevamo un debito da saldare”, rispose l'attore più anziano. “Volevamo andare in albergo ma io avevo dimenticato il trolley qui e così siamo passati di qui per le due. Meno male che lo abbiamo fatto, comunque”, continuò.

“E come mai?”, chiese Jared, stupito.

“Abbiamo beccato Jensen che si stava scolando un paio di birre in giardino”, rispose Morgan, sospirando. “Te l'ho detto avrei voluto essere a North Pond in quel momento...”

“Poi mi spiegherai cosa è successo nel carcere della contea”, esclamò Jared, dubbioso.

“Si, prima o poi lo racconterò. Non ne vado fiero ma forse è l'unico modo per far capire a quel testone quanto sia deficiente ”, ribatté lui, sibillino.

Non appena la cucina iniziò a riempirsi di persone alla ricerca di caffè fresco, Jared preferì salire nella stanza e prepararsi per il viaggio. Dopo mezz'ora Josh iniziò a chiamare a gran voce coloro che dovevano affrontare le ultime miglia per arrivare ad Austin e quando tutti avevano già preso posto in auto e lui, il designato autista, tamburellando le dita sul cruscotto, impaziente, in attesa del fratello minore, stava per scendere dalla macchina per andarlo a prendere e portarlo giù con la forza, lo vide uscire dalla porta di casa con un borsone a tracolla.

“Alla buon'ora, Jensen! Tra un po' tramonta il sole”, esclamò, irato, fulminandolo con lo sguardo.

“Eh bè, potevi venire a vedere dove fossi finito...”, replicò lui, asciutto.

“Certo, se venivo a cercarti, alla clinica ci arrivavi con qualche dente in meno”, sibilò Josh, mettendo in moto.

Donna e Alan sul sedile posteriore non fecero commenti ma i loro sguardi erano eloquenti. Peggio di così non poteva andare.

Jared salì in auto con Pierce e salutando MacKenzie e gli altri con un cenno del capo, si accinse a intraprendere quel viaggio così lungo e tormentato.

Le autostrade texane sono un incubo e il traffico, benché sempre caotico e abbastanza congestionato, era scorrevole quella mattina, merito delle otto corsie per direzione e le ampie carreggiate. L'ora di punta mattutina era appena terminata e complice la giornata uggiosa, l'avvicinamento ad Austin risultò essere tranquillo e veloce, nonostante il ritardo precedentemente accumulato.

Nell'auto degli Ackles il silenzio permeava ogni spazio ed era stato interrotto solo da Donna quando aveva fatto girare le sue caramelle alla menta. All'uscita della superstrada verso la periferia della capitale del Texas, Josh aveva rallentato, fino a quasi fermarsi, per attendere l'arrivo dell'auto dell'avvocato e alle occhiate interrogative di Jensen, il fratello maggiore non aveva dato risposta. Quando furono superati dalla BMW di Pierce, Jensen sbuffò mentre Josh rimetteva in moto il Suv sogghignando in modo diabolico.

Josh smise subito quando sentì suo fratello minore tendersi per il nervosismo e la rabbia che covava dentro di lui. Lo conosceva bene e sapeva perfettamente che se quell'ira fosse esplosa, quella giornata non si sarebbe conclusa bene per ognuno di loro.

Grazie al navigatore installato sull'auto di suo padre, Josh trovò con facilità il viale di accesso alla clinica e mentre lo percorreva, sentiva sua madre esprimere giudizi positivi. Alan esternò speranza che nessuno tra giornalisti o fotografi avessero trovato quel luogo.

“Guarda Jensen, potrai finalmente leggere tutti quei libri che dici sempre di non avere mai tempo di fare, sotto quegli alberi, seduto sulle panchine o sdraiato sul prato!”, esclamò Donna, entusiasta.

Jensen roteò gli occhi e non rispose. In quel momento voleva solo un'unica cosa: affrontare Jared e riversargli addosso tutta la sua amarezza e delusione. Scese dall'auto e andò verso il bagagliaio posteriore, aspettando Josh che lo aprisse per prendere il suo borsone di cuoio. Sua madre gli diede un trolley dove disse di aver riposto i pigiami e le tute che aveva all'ospedale, insieme ad altra biancheria, aggiungendo che gli sarebbe servita sicuramente.

Jensen si mise la tracolla della borsa attorno al collo e afferrò il manico del trolley e riconoscente diede un buffetto al viso di sua madre, la quale elargì un sorriso affettuoso a quel suo figlio così sfortunato. Avrebbe potuto essere felice: era famoso, guadagnava molti soldi, faceva un lavoro che gli piaceva molto, era sposato con una bella ragazza. Non lo era, non lo era mai stato tranne che per pochi anni durante i quali era stato con Jared, fino al momento in cui il network, per il quale entrambi lavoravano, aveva imposto loro di troncare ogni tipo di relazione omosessuale e di condurre una vita etero ed avere dei figli, pena la rescissione del contratto. Jared era disposto a lasciare tutto e uscire allo scoperto, Jensen non se l'era sentita. Aveva preferito la carriera alla felicità. E questo era il frutto di quella scelta, pensò Donna, guardando suo figlio mentre si avviava verso l'entrata della struttura.

In quel momento arrivò un taxi. Tutti si girarono a vedere chi stesse arrivando e si augurarono che non fosse qualche giornalista disposto a tutto pur di avere una foto scoop. Josh e Jared si avvicinarono minacciosamente all'auto ma si fermarono quando si aprì lo sportello posteriore. Ne scese una donna, fasciata in un raffinato abito di seta bianca di Chanel, completato da scarpe e borsa di vernice nera e un cappello di paglia che sembrava assolutamente fuori luogo ma era graziosissimo.

Rimasero tutti allibiti. Mai e poi mai si sarebbero aspettati di trovarsi di fronte a Danneel.

“Dani! Che ci fai qui?”, chiese Jensen, infastidito.

“Bè, non potevo di certo perdermi questo momento. Sono sempre tua moglie, no?”, replicò lei, mettendosi sulle punte dei piedi per baciare suo marito.

“Certo, soprattutto quando è il momento di pagare da Chanel che ti ricordi chi è tuo marito, vero?”, ribatté lui, allontanandola.

“Non è vero!”, esclamò lei, rattristata dall'atteggiamento di Jensen.

“Cosa vuoi Danneel?”, chiese Alan, esplicito.

“Ah, vedo da chi ha preso le maniere da gentiluomo Jensen”, rispose lei, sarcastica. “Non posso essere qui per supportare mio marito in questa difficile giornata per lui?”, chiese lei, risentita.

“No!”, esclamarono in coro Josh e Alan Ackles.

Lei esternò un'espressione offesa, mettendo il broncio. “Quanto dovrai stare qui dentro?”, chiese poi lei rivolta solo a Jensen ed ignorando gli altri.

“Tre mesi”, rispose lui, con un sussurro.

“TRE MESI?”, sbottò lei, ad alta voce. “E io come faccio?”, aggiunse, poi, lasciandosi travolgere dall'ansia.

“Eh, per tre mesi non succede nulla. Se hai paura a stare da sola, puoi sempre andare a stare dai miei genitori”, rispose Jensen, accennando a un sorrisetto ironico.

“Non è che ha a che fare con i conti bloccati?”, chiese Donna, sospettosa.

Danneel si affrettò a negare ma il lieve rossore sulle sue guance l'aveva tradita.

“Mr Ackles? Jensen Ackles?”, chiese un uomo con un camice bianco.

Jensen si svoltò e si trovò davanti a un giovane, più o meno della sua età, con un caldo e amichevole sorriso dipinto in volto.

“Sono il dottor Thompson. Il suo terapista e capo dello staff medico che la seguirà nei prossimi mesi. Piacere di conoscerla”, si presentò e allungò la mano destra per farsela stringere dal suo paziente in segno di saluto.

Jensen gliela strinse, più per un riflesso condizionato che per puro gesto di cortesia. Il dottor Thompson poté facilmente vedere il marcato disinteresse negli occhi del giovane.

“Se è pronto, compiliamo i moduli per l'ammissione, così ne inviamo una copia alla procura di Dallas”, spiegò lui, tenendo aperta la porta per farlo passare.

“I familiari possono attendere qui. Il vostro congiunto potrà salutarvi non appena avrà terminato la parte burocratica”, continuò il terapista, impedendo a Donna di seguire suo figlio.

“Mr Padalacki?”, chiese poi consultando un foglio davanti a sé.

“Padalecki, ma mi chiami pure Jared. E' più semplice così”, rispose il giovane, con tono lieve, avanzando verso il dottore.

“Bene, Jared. Mi segua. Anche lei dovrà compilare i documenti e firmarli”

Jensen lanciò un'occhiata di odio verso di lui e si scostò di scatto per farlo passare, andando a sbattere contro il muro. Lo psicologo intuì che fra loro due c'era dell'astio ma non disse nulla. Tutto ciò, però, sarebbe stato utile durante le future sedute di psicoterapia con il suo nuovo paziente.

“Le va bene una relazione dettagliata su Mr Ackles una volta alla settimana?”, chiese il medico, rivolto al tutore di Jensen, dopo aver compilato gli spazi inerenti ai dati anagrafici del paziente.

Jared alzò gli occhi e guardò Jensen, seduto su una poltrona poco distante da loro. Stava guardando fuori. I viali alberati erano invitanti, Lì si potevano fare lunghe passeggiate tra il fresco degli alberi e assaporare quella tranquillità che a Jensen era mancata in quegli ultimi tempi.

“Si, va benissimo”, rispose poi, distogliendo lo sguardo.

“Per quanto riguarda le misure di contenzione, e purtroppo potrebbero essere necessarie se non collaborasse a pieno alla terapia, possiamo avere carta bianca oppure vuole inserire delle limitazioni?”, chiese Thompson, un po' nervoso. Quella parte era sempre un po' complessa per i familiari. “Ovviamente sarà informato immediatamente”, aggiunse, poi, premuroso.

Jared lo guardò stranito. “Quali misure di contenzione?”, chiese poi, ansioso.

“Mah, niente di eclatante. Dosi doppie di psico-farmaci oppure blanda contenzione a letto o in poltrona. Cose così...”

“Ah, bè, se non si può fare in un altro modo...”, replicò Jared, non sapendo bene cosa dire. Non si era proprio aspettato quel risvolto.

“Eh, noi dobbiamo disintossicarlo con le buone o con le cattive e non mi sembra molto propenso a seguire le direttive, a quanto vedo”, ribatté Thompson, preoccupato per l'atteggiamento del suo paziente.

“Si, non è una persona molto facile da rapportarsi. Soprattutto se si fa sopraffare dall'ira”, affermò Jared, anche lui pensieroso. Conosceva molto bene il caratteraccio di Jensen. A volte era proprio irascibile.

“Ah, allora va bene. Metta una firma qui dove mi autorizza a usare forme di coercizione fisica, in caso di bisogno”, disse il dottore, facendo segno a Jared dove apporre la sua firma.

Completata quella fase furono concessi a Jensen cinque minuti per salutare tutti i familiari. Un inserviente gli aveva preso i bagagli, portandoli nella sua stanza.

Jared era già uscito fuori e stava parlando con Alan e Josh di quella questione che era sorta al momento delle firme, quando fu afferrato per una spalla e girato di scatto, trovandosi davanti un furente Jensen.

“Sporco bastardo traditore! Come hai osato vendermi in questo modo!”, urlò, spintonandolo via. “Non vedevi l'ora di liberarti di me, vero?”, continuò Jensen, dando manate contro il petto di Jared che impotente si lasciava sospingere verso il centro del cortile.

“Jensen...”, mormorò Jared.

“Lo sai perfettamente cosa succederà quando mi rifiuterò di prendere quelle dannate pillole che mi intontiranno come un ebete. Hai firmato per farmi rinchiudere e per farmi maltrattare come e quanto vogliono!”, sbraitò come un indemoniato. “Che razza di uomo può fare questo al suo migliore amico?”, rincarò la dose.

“Il tipo che vuole solo il tuo bene, Jensen”, Jared tentò un autodifesa. “Te l'ho detto prima. Questa volta non starò da una parte a vederti distruggere la tua vita e la tua carriera”

“Ah, lo sapevo. La mia carriera....certo ti interessa solo questo...”

“Non è come pensi tu. Ti voglio bene, Jensen, ma non posso lasciare che annienti tutto questo”, replicò Jared.

La rabbia di Jensen esplose all'udire quelle parole e prima che qualcuno potesse fermarlo, alzò un pugno e colpì con violenza Jared in pieno volto. Il giovane quasi perse l'equilibrio per la violenza del colpo ma riuscì con uno scatto della schiena a non cadere, portandosi però le mani al viso.

“JENSEN!”, gridò Alan, correndo verso suo figlio, afferrandolo per le spalle e scrollandolo. “Cosa stai facendo? Ti dà di volta il cervello?”, gridò.

Jensen si divincolò dalla stretta del padre e si riavvicinò di nuovo a Jared, il quale si teneva una mano sulla parte sinistra della faccia.

“Non voglio più vederti! Ti odio per quello che mi hai fatto. Non appena potrò, chiamerò i produttori e rescinderò il contratto. Così staremo a vedere cosa farai senza di me”, urlò come un forsennato.

Donna Ackles scoppiò a piangere. Era l'epilogo di tutta quella dolorosa vicenda e lei non sopportava di vedere suo figlio dare in escandescenze proprio verso colui che considerava l'unica persona che fosse in grado di renderlo felice.

Per fortuna due infermieri uscirono fuori sul piazzale, attirati dalle urla, e acchiapparono Jensen portandolo all'interno della struttura. Jensen si lasciò guidare senza opporre resistenza.

Agli astanti non rimase altro che andarsene e riprendere la loro vita come se quel triste finale non fosse mai accaduto, anche se era difficile da dimenticare.

Qualcuno aveva sistemato gli oggetti personali di Jensen nell'armadio della sua camera e provveduto a togliere tutto ciò potesse essere usato come arma impropria. Fu trovato un quaderno tra i suoi effetti e fu consegnato al dottor Thompson.

Era fasciato con una carta color avorio e disegnata e colorata artigianalmente, raffigurante un arcobaleno. Sulla prima pagina c'era scritto: Ti amo e sarà sempre così, qualsiasi cosa tu farai o dirai e qui ci sono i motivi per cui sono arrivato alla conclusione che la mia vita è vuota senza di te!

Tuo, Jared.

Il dottore lo sfogliò brevemente e poi lo ripose in una cartellina con il nome Ackles nel suo archivio. “Meno male, se lo avesse trovato ora lo avrebbe distrutto e con esso tutta la sua vita”, borbottò, chiudendo a chiave il cassetto.

Riteneva quello un caso assai complesso ma aveva un'arma in più per arrivare alla guarigione. Quel diario lo avrebbe aiutato a sbrogliare quell'intricata matassa!

 

____________________________________________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

E' stato un capitolo assai difficile da scrivere. Un po' per le mie limitazioni fisiche e un po' per quello che dovevo descrivere. L'ho fatto abbastanza lungo in modo da essere considerato quasi come se ne fossero due assieme.

Ho fatto delle ricerche sulle cliniche americane per la disintossicazione e quelle in Texas sono quelle più coercitive. Sono basate sia sulla psicoterapia, sia sulla somministrazione di psico-farmaci più o meno forti e sulla contenzione fisica.

Penso di riuscire a terminare la storia nei prossimi due capitoli e vi assicuro che saranno molto più sereni e romantici. Attendo come sempre i vostri consigli e suggerimenti che cerco di inserire nella storia (come quello di far avere il diario di Jared a Jensen tramite la madre).

Ringrazio con grande piacere e riconoscenza quanti hanno la pazienza di aspettare i miei aggiornamenti ritardatari, ormai arrivati ad ere geologiche. Vi voglio bene!

 

 

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Capitolo Sedici ***


Capitolo Sedici

 

Quello che odiava di più Jensen di quell'intero mese appena passato nella clinica, erano i lunghi periodi di silenzio o di meditazione imposti dal suo terapeuta durante le sedute di gruppo. I pazienti dovevano stare seduti a terra con le gambe incrociate nella semioscurità, tenere gli occhi chiusi e cercare la pace interiore. Poi ascoltavano una voce suadente che li conduceva in un mondo fatto di luce e fantasia, dove dovevano immaginarsi una scena idilliaca e rilassare così ogni parte del loro corpo.

Jensen si metteva in posizione come gli altri, e fin lì tutto bene, ma dietro le palpebre abbassate pensava a come dovesse essere la trama di Supernatural senza Dean e cosa avrebbe detto ai produttori il giorno in cui avrebbe potuto parlare con loro.

I primi giorni erano stati devastanti: i rigidi orari, le regole di comportamento, la gentilezza melliflua del personale e i rimbrotti paternalistici dei medici lo avevano portato al limite della rottura. La lotta del suo corpo privato dall'alcol rendeva il tutto ancora più complicato.

Sapeva perfettamente che era un atteggiamento sbagliato in quanto rimediava solo un aumento delle dosi dei psicofarmaci somministrati ma non poteva farci nulla. Era ancora troppo arrabbiato e l'astinenza iniziava a dargli il tormento.

Di quel periodo ricordava poco: una confusione di uomini in divisa bianca, stanze enormi dove la voce rimbombava e un'atmosfera piena di schemi di pensiero: cosa dire, cosa fare e dove andare. Lui abituato ad agire di sua spontanea volontà, era la punizione peggiore. Sentiva sempre un senso di orribile ansietà come quando arrivava tardi a un appuntamento. Tutta la sua vita era stata una rigida sequela di regole morali e comportamentali. Si era illuso che andare via da casa potesse davvero spianargli la strada al suo volere. Ben presto si era reso conto che si era liberato dal rigido controllo della madre, per cadere nelle grinfie dei produttori. Dalla padella alla brace!

Comunque gli unici momenti in cui era veramente felice lì in clinica era quando poteva leggere. La biblioteca era ben fornita e aveva trovato molti best-seller a cui non aveva potuto dedicare la giusta attenzione. Il trascorrere del tempo leggendo, gli impediva di pensare al passato e a recriminare su quello che avrebbe dovuto o potuto fare ma che non aveva avuto la volontà di modificare.

Poi la rabbia verso la sua famiglia era scemata ed era stata accantonata in un angolino del suo cervello. La terapia del 'dieci passi' seguita dall'Associazione degli Alcolisti Anonimi' aveva iniziato a fargli vedere come era la vita di quanti gli stavano intorno e gli volevano bene. Sentire anche le storie degli altri lo stavano aiutando a comprendere che tutto sommato era lui a essere quello fortunato. Ammettere davanti a dei perfetti sconosciuti che lui era un alcolizzato era stata dura ma dopo averlo fatto, si era sentito meglio. Come se si fosse tolto un peso. Lui beveva perché non poteva alterare la sua vita. Non aveva avuto il coraggio di farlo e ora ne pagava le conseguenze.

Quando aveva riferito ciò al suo terapeuta, questi gli aveva detto che era sulla retta via, ma lui non si sentiva su quella strada. Proprio per niente.

L'unico impedimento al miglioramento definitivo però era legato a una sola parola: Jared!

Il terapista aveva provato, dopo alcune settimane, a reintrodurre quel nome incriminato ma aveva raccolto solo scoppi d'ira, fino ad arrivare alla distruzione del suo ufficio. Jensen lo aveva pagato a caro prezzo quel gesto: era stato rinchiuso per due giorni in una stanza imbottita vestito solo da un camice aperto sulla schiena e le braccia chiuse in una specie di camicia di forza. Ma la soddisfazione di distruggere oggetti a caso e poter sfogare la sua frustrazione gli provocava ancora una certa ilarità.

Con il passare del tempo si era calmato. La privazione dall'alcol era più sopportabile e iniziava a interessarsi al mondo circostante. La terapia motivazionale del centro lo stava indirizzando verso quel lato oscuro della sua mente dove erano seppelliti i suoi sensi di colpa silenziati dal consumo smodato dell'alcol. Anche il mettersi 'nei panni' degli altri lo stava aiutando a capire cosa avevano provato i suoi genitori e amici in quel periodo. Iniziava così a sentire rimorso ripensando a quanto si fossero preoccupati i suoi, anche se erano in parte responsabili del suo tracollo.

Nell'ultima seduta la svolta. “Ho sognato Jared ieri sera”, ammette Jensen, con voce tremolante.

“Bene. Cosa hai provato?, chiede, il dottor Thompson.

“Non so. Un misto tra irritazione e affetto”, risponde il suo paziente.

“Ottimo. Ciò deve essere il percorso di guarigione”, ribatte lo psicologo, soddisfatto.

 

Il secondo mese di permanenza nella clinica per il recupero della dipendenza da droghe o alcol offre a Jensen nuove terapie occupazionali, alcune noiose come le tecniche di rilassamento, lo yoga e altre più interessanti come il giardinaggio o l'ora d'aria in giardino.

Premettendo che Jensen non distingue una rosa da una margherita, rimane il fatto che può passare due ore al giorno all'aperto. Con l'aiuto di una terapista gentile e affabile e l'appoggio di un giardiniere anziano ed esperto, Jensen inizia ad appassionarsi ai vari fiori e alle varie tecniche per curarle.

Questo migliora nettamente il suo umore e il comportamento e permette al suo nome di risalire velocemente nella lista degli ospiti più meritevoli, conquistandosi così dosi doppie di dessert e più tempo per leggere in giardino. Fanno grande mostra di sé in refettorio e nel soggiorno grandi cartelloni con su scritto la graduatoria dei nomi dei pazienti: i primi tre in paradiso, gli ultimi tre all'inferno. Puntualità, educazione, decoro personale quelli più importanti. Jensen si rende conto che molte di quelle attitudini non erano state più seguite da lui negli ultimi tempi: spesso collerico, trasandato e maleducato. Ora il suo nome campeggia su tutti questi poster.

Osservando quelli appena entrati nel centro per il loro periodo di cura, molti sono strafottenti, indolenti ed iracondi. Scontato pensare che fosse così anche lui appena arrivato. Ciò gli causa imbarazzo e vergogna. Si rende conto che provando tali sentimenti, la guarigione è vicina.

 

I trenta giorni di sobrietà vengono celebrati con una grande festa. Sembrerebbe un traguardo semplice da raggiungere ma per un alcolizzato non lo è affatto e per Jensen andare in giro con la spilletta della meta conquistata è motivo di grande orgoglio. Le occhiate di invidia di quelli appena entrati è un modo per andare avanti fino alla meta.

Non credo lo ammetterà mai, ma Jensen si sente bene con se stesso e inizia a divertirsi dopo tanto tempo.

 

Quando mi hai chiesto se avessi voluto passare il resto della mia vita con te, io ti ho risposto che ti avrei amato per sempre, nonostante tutto e tutti. Era vero e ho continuato a farlo per tutti questi anni. Ora vedendoti lì, inerme, indifeso ed ignaro del tuo dramma, ti dico che sei tutto per me e non posso immaginare la mia esistenza senza di te.

 

Legge con lentezza il dottor Thompson, scandendo ogni parola come se stia recitando qualche formula magica e di sottecchi osserva il suo paziente e poi termina senza dire una parola. Si toglie gli occhiali da lettura e li appoggia sul tavolino accanto a lui assieme a un quadernetto dalla copertina colorata da un bell'arcobaleno.

Jensen è confuso. Non capisce. E' un modo diverso di iniziare il loro colloquio giornaliero. Ha instaurato con il suo terapeuta un bel rapporto. Attende con impazienza questo incontro tutte le mattine dopo colazione ma oggi è tutto diverso. Si sente agitato e disorientato.

Poi come se niente fosse, il suo terapeuta riprende la solita routine sul chiedergli come abbia dormito, cosa abbia sognato, ecc. Jensen tira un sospiro di sollievo e risponde alle domande.

Il giorno dopo stessa scena: Jensen si siede sulla poltroncina davanti al suo psicologo e quello, dopo aver inforcato gli occhiali, inizia a leggere dal suo libretto.

 

Per la maggior parte della mia vita, ho sempre avuto paura di esternare il mio vero Io e perciò ho creduto di non essere degno dell'amore di nessuno. Ma poi ho conosciuto te ed è cambiato tutto. Ho capito che se riuscivi tu a vedere del buono in me allora forse anche io potevo farlo. La verità è che in molti modi che saprai mai tu mi hai salvato. E' per questa ragione e per molte altre, prometto di esserti eternamente fedele e di onorarti finché morte non ci separi”

 

Il silenzio riempie la stanza. A Jensen batte forte il cuore e gli si è imperlata la fronte di sudore. Forse ha compreso il motivo di tutta quella pantomima ma non vuole darla vinta al suo terapeuta. Lui non implorerà di poter leggere da solo quelle pagine.

Michael sospira. Sa che sarà una battaglia lunga e difficile. Non cederà facilmente ma alla fine l'ansia di possedere quelle paginette e potersele coccolare nei momenti di malinconia, lo porterà inevitabilmente a fare il primo passo, cosciente o meno di quella scelta.

Il sabato e la domenica non ci sono sedute di terapia, per cui Jensen e Michael devono attendere due lunghe giornate prima di rivedersi. Le attività tengono il giovane occupato, anche se la domenica pomeriggio, aperta ai familiari di chi ha passato già sessanta giorni alla clinica, acuisce la sua solitudine. Quella notte dorme poco e male.

Non appena viene fatto accomodare nello studio di Michael quella mattina, Jensen si siede velocemente sulla poltrona ma si accorge che il suo terapeuta non ha nulla in mano. È occhiali, né taccuino. E infatti Michael inizia con le solite domande. Jensen risponde evasivamente con un filo di voce. La sua delusione traspare da ogni suo poro. Al termine dell'approccio terapeutico individuale, Jensen esce dallo studio particolarmente sconfortato.

Il dottor Thompson si siede alla sua scrivania con un sorrisino sornione stampato in viso. E' proprio quello che vuole da lui. Il suo atteggiamento vale più di tutte le parole contenute nei saggi di psichiatria. L'unico pericolo è che la frustrazione a Jensen non crei problemi comportamentali. Per questo avverte il personale della clinica del particolare esperimento e si augura che il ragazzo dia finalmente segno di maturità e tolleranza all'ansia. Se così sarà, la guarigione e il ritorno alla normalità sarà sempre più vicina.

Il giorno seguente Michael viene informato che il suo paziente è stato particolarmente scorbutico ma comunque entro certi limiti e non è incorso in nessuna sanzione. Decide così di premiarlo, leggendogli un altro pezzo dal misterioso libriccino.

 

Non dubitai mai dell'impressione che avevo avuto la prima volta che ci siamo conosciuti. Amavo quasi tutto di te. La gentilezza, l'intelligenza, la generosità, il modo in cui tenevi in considerazione le mie opinioni e ti interessavi a quello che pensavo, dicevo e facevo. Il modo in cui, quando avevo un problema, di sederti accanto a me, mettendomi una mano sul ginocchio, spronandomi a parlarne, senza cercare di risolverlo per me, mi dava una sicurezza mai avuta prima. Amavo la passione che tu nutrivi per il nostro lavoro ed ero convinto che, se al mondo c'è una giustizia, un giorno tu avresti ottenuto grandi risultati.

 

Michael alza lo sguardo verso il suo paziente. Gli occhi di Jensen sono inondati di lacrime. Vorrebbe parlare ma ha la bocca e la gola privi di saliva.

“Te ne leggerò un altro pezzo domani. Va bene?”, esclama Michael, alzandosi in piedi.

Jensen annuisce, incapace di parlare. Vorrebbe chiedere la conferma dei suoi dubbi al suo terapeuta ma non osa chiarirlo. Vorrebbe dire mettere a nudo tutte le sue difese, ammettere quanto sia stato stupido e quanto si sia sbagliato. E' ancora molto duro compiere questo passo!

Il giorni si susseguono tra un pagina del libretto e una seduta normale. La lettura dal libercolo lasciano Jensen malinconico e triste...

Ormai si avvicina sempre di più la domenica in cui riceverà la visita dei suoi genitori e Jensen avverte una serie di sentimenti, di cui alcuni in contrasto. Ansia, trepidazione, paura, speranza: cercare il perdono e ottenerlo sono gli aspetti più ansiogeni per il giovane nell'attesa snervante della domenica.

Dopo le attività di svago serale, un torneo a Monopoli, Jensen torna in camera sua. La stanza occupata solo da lui, è stata un lusso nei primi tempi, quando non voleva parlare con nessuno e quando provava imbarazzo per gli effetti devastanti della sua astinenza, ma ora vorrebbe dividerla con qualcuno con cui chiacchierare, condividere ansie e paure. Lo si può fare durante la terapia di gruppo durante il giorno ma le ore notturne, a volte, sono lunghe e tediose. Dovrà avere pazienza. Ancora trenta giorni e quella tortura finirà!

Appena varcata la soglia, il suo sguardo cade sul suo comodino dove giace quel quaderno che aveva visto tra le mani del suo terapeuta.

Si siede sul letto e con le mani tremolanti lo afferra. Accarezza la copertina disegnata con un colorato arcobaleno. Lo annusa ed esala un sospiro. Un sorriso accende il suo sguardo.

Lo sfoglia. E' un diario.

Riconosce subito la calligrafia di Jared e ciò gli causa un'intensa emozione. Calde e grosse lacrime solcano il suo viso, finendo sulle pagine e per evitare di sgualcirle, le asciuga con una mano prima e poi con un fazzoletto, faticosamente cercato nelle sue tasche.

Lo sfoglia con attenzione, quasi fosse una reliquia. Vede molte foto dei primi anni in cui recitavano insieme nella serie Supernatural e altre lungo quegli anni così intensi, a volte entusiasmanti e altri drammatici, fino ad arrivare a quell'ospedale a Dallas.

I sonniferi non gli danno il tempo di approfondire quello che c'è scritto, si addormenta con il suo libercolo appoggiato sul torace, sul suo cuore, gonfio di speranza, malinconia e struggimento. Per la prima volta dopo tanto tempo sente che il futuro non è così buio come negli ultimi tempi!

 

________________________________________________________________________________

Angolo di Allegretto

 

Questo ultimo anno è stato molto complicato per me ma ho sempre avuto il pensiero di ritornare a scrivere e aggiornare questa storia che tanto vi era piaciuta e sono lieta di essere riuscita a farlo. Entro il 31 dicembre pubblicherò gli ultimi due capitoli. Ringrazio quanti hanno continuato a leggere questo racconto e spero possa piacervi il finale. Auguri di Buone Feste a tutti voi!

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** CApitolo Diciassette ***


Capitolo Diciassette

E' quasi sera e Jared si sta rilassando sul divano dopo una breve corsa con i suoi cani nei viali alberati delle colline sopra Los Angeles. Dopo aver preso una bottiglietta d'acqua fresca dal frigorifero, la stappa e la beve lentamente. Poi prende il telecomando, accende la televisione e scorre tutti i canali fino ad arrivare a quelli sportivi, allungando le gambe sul tavolino di cristallo davanti a lui.
“Non vai a farti la doccia, Jared?, chiede Genevieve, arricciando il naso, sentendo gli effluvi acri provenienti dal marito, ancora fradicio di sudore, seduta su una poltrona di fronte al divano.
“Ora mi riposo un po', poi vado in bagno. Sono stanco!”, risponde il giovane, stizzito.
“Stanco di che? Non fai nulla dalla mattina alla sera?!”, sbotta lei, alzandosi in piedi. 
Jared non risponde. Continua a saltellare da un canale all'altro. Improvvisamente un ping risuona nel soggiorno. Jared molla subito il telecomando, infila una mano nella tasca dei pantaloni e tira fuori il cellulare.
“Ah be', si, a parte lo stare tutto il giorno incollato a quell'affare”, sbuffa Genevieve.
“Sono esaurito per dover affrontare tutte le conventions da solo e dover mentire ai fans sulle reali condizioni di Jensen”, replica lui, rispondendo velocemente a una mail.
“Solo? E io chi sono?”, grida lei. 
“Oh, si, tu mi accompagni. E' vero! Ma sei lì solo per pavoneggiarti con il bel spilungone unicamente per farti invidiare da tutte le ragazze che sono a quegli incontri”, risponde Jared, bevendo un'altra sorsata di acqua. “E poi cosa vuoi che faccia? Dirgli la verità?”, aggiunge, poi. Jared si sta arrabbiando. E' proprio stufo di questi continui rimbrotti. “Comunque cosa vuoi? Mi sembra che tu faccia una vita dove non ti manca nulla...”, sbotta, sbattendo la bottiglietta sul tavolino.
“Qual è il mio problema? Adesso ti dico quale è il mio problema. Sei tu! Non facciamo nulla insieme. Dovevamo andare due settimane da mia madre a Sun Valley ma non ci siamo andati perché tu sei impegnato a girare il paese per questi incontri. E se non ti accompagno, poi vengo criticata dalle tue fans perché ti lascio da solo. Poi mi hai promesso che mi avresti accompagnato a San Francisco da mia sorella, ma no, non si può, ci sono gli incontri con i produttori. E ogni dannato momento sei lì a controllare il cellulare, a rispondere al telefono, le email. Di notte, di giorno. Sempre lì a parlare delle condizioni di Jensen. Diavolo, vai fino in bagno con lo smartphone!”, esclama in crescendo lei.
Jared si alza e va verso finestra. Si gira a guardarla e la fulmina con lo sguardo. Non è che non abbia ragione, anzi. Ma è il modo con cui si atteggia. Da martire. E lui non sopporta questo modo di essere.
“Ti avevo detto di andare da tua madre e che poi ti avrei raggiunto. Non c'è bisogno che tu stia qui e non è necessario che viaggiamo insieme. Potresti essere al fresco a Sun Valley tra i tuoi amici, invece di stare qui al caldo e a romperti le scatole. Non hanno senso i tuoi lamenti. E poi continui a non capire che la vita di agi e lussi che stai vivendo ora, dipende esclusivamente dalle condizioni di Jensen. Se lui non torna a lavorare o i produttori non vogliono più continuare con lui, la serie non va avanti e oggigiorno trovare un ruolo da protagonista così ben pagato è quasi un'utopia!”, cerca di spiegare con calma. “Così, scusami, se non sono al tuo fianco ventiquattrore su ventiquattro ma se vuoi continuare a usare le carta American Express Gold, questo è il sacrificio che devi fare”, aggiunge, poi, sarcastico.
Lei sbuffa. 
“E non mi venire a dire che non hai bisogno dei miei soldi, perché i vestiti che ti compri con il piffero che potresti permetterteli con quello che ti passerebbe tua madre!”, aggiunge, poi, Jared.
“Non sono così stronza. Se ti ho sposato è perché il miei sentimenti erano reali”, replica lei, abbattuta.
“Sentimenti a cinque zeri...”, ribatte lui a fil di voce.
“E poi bisognerebbe discutere sul vero motivo per cui tu mi hai sposato.”, afferma lei, incanalandosi in quella che si sta trasformando in una litigata con i fiocchi.
“Oh si, si vede che ti sei laureata a pieni voti in arte drammatica...allora cosa vuoi? Lo scontro? La lite? Il divorzio?”, urla lui, dando un calcio al divano.
Prima che lei possa rispondere, il cellulare di Jared suona. Lui lo afferra e preme il tasto di accettazione della chiamata e vede Genevieve alzare in alto le braccia per la frustrazione e uscire di corsa dalla stanza.
“Pronto?”
“Jared, tesoro, sono Donna. Donna Ackles”
“Ciao, Donna. Come vanno le cose”, la saluta lui.
“Ecco. Appunto. E' questo il motivo per cui ti ho chiamato! Siamo andati a trovare Jensen oggi”, lo informa lei.
“Si? E come lo hai trovato? Ti sembrava in salute?, chiede Jared, eccitato.
“Ahahah, calma, Jared. Ora ti dico tutto. Mi sembra stiano  facendo un ottimo lavoro lì alla clinica. E' ingrassato. E' calmo e rilassato e soprattutto ha passato tutto il tempo a scusarsi per il suo comportamento e a implorare di perdonarlo”, Jared percepisce la felicità nella voce di Donna. 
“E' fantastico, Donna. Sono felice di sentire che i rapporti medici mandatimi dalla clinica erano veritieri. Avevo paura che stessero ingigantendo troppo i miglioramenti di Jensen”
“Credo abbia imparato la lezione, il mio cucciolo”, replica Donna, con la voce colma di emozione.
Jared ghigna. “Non lasciarti scappare quel nomignolo davanti a lui. Sai quanto lo odi”
Donna ridacchia. “Lo so, ma oggi non ha battuto ciglio quando l'ho abbracciato e gliel'ho sussurrato all'orecchio. E' uno dei pochi privilegi che abbiamo noi mamme. Trattare i nostri figli ormai vecchi e con i capelli bianchi come se avessero due o tre anni”, replica lei, estasiata.
“Comunque volevo anche farti sapere che ha chiesto  di te e vuole vederti”, aggiunge poi, parlando in modo quasi timoroso.
“Ah, si?”, chiede lui, sorpreso. “Vuole davvero vedermi ancora?”
“Si. Ha chiesto quasi fin dall'inizio come stavi, cosa facevi, cosa dicevi, eccetera, eccetera. Quasi un monologo di domande con un solo soggetto! Tu!”, esclama con enfasi Donna. “ Vuole vederti per scusarsi con te e sembrava realmente contrito per quello che è successo  l'ultima volta che vi siete visti e vuole parlarti per mettere tutto a posto”, aggiunge. Poi si ferma e aspetta di sentire la reazione di Jared. Ma quando sente che la pausa si protrae, allora riprende: “Jared, se tu preferisci non andarlo a trovare...”
“No, Donna, non è che non voglio andare da lui, ma sono sorpreso di sapere che voglia vedermi dopo quello che mi aveva detto l'ultima volta”
“Capisco Jared, ma devi fidarti di me. Mio figlio è cambiato. In meglio, finalmente. Andarlo a trovare, sarebbe meglio per voi due”
Jared sospira. Ha paura ma andrà comunque. Aspettare non avrebbe senso. “Donna, mi faresti un favore? Chiama la clinica e dì loro che domenica prossima lo andrò a trovare”
“Ma, certamente, caro. Non c'è problema. Un'ultima cosa, però, Jared. Ho bisogno di sapere se...mmh...bè, magari non lo sai neanche tu...”, Donna tenta di spiegare con gran sforzo, 
Jared, incuriosito, chiede: “Che succede Donna?”
“Oh, mariasanta. Che situazione!”, sbotta lei. “Jared, hai, per caso, più visto o sentito Danneel da quando l'hai vista qui?”
Jared, sorpreso, dalla richiesta, risponde subito. “No, Donna, assolutamente no. Almeno non direttamente. Ho incontrato Jason la settimana scorsa e ricevuto un paio di mail da Steve negli ultimi tempi. Perché? Cosa ha combinato di nuovo?”
“Ci sono giunte alcune voci che stia vendendo alcuni oggetti su Ebay e volevo sapere se tu ne sapevi qualcosa e comunque Jensen vuole parlare con lei”
“Ok, Donna. Cercherò di informarmi. Quando torno dalla clinica, vi vengo a trovare così vi aggiornerò sugli sviluppi. Non mi fermerò a lungo. Giusto un paio d'ore e poi tornerò a Los Angeles”
“Non ti preoccupare, Jared. Potrai fermarti qui a dormire prima di ripartire per la California. Ma non è così urgente. Possiamo anche sentirci per telefono”
“Donna, tranquilla! Mi fa piacere. Davvero. Per voi ci sono e ci sarò sempre”, esclama Jared, risoluto.
“Grazie Jared. Sei impagabile. Chiamo subito la clinica e li avverto. Fai buon viaggio. Ci vediamo domenica prossima”, Donna conclude la conversazione. 
Jared rimane fermo, impalato, nel centro della stanza, pensando alle parole della madre di Jensen. 'Così lui ha chiesto di me. Vuole vedermi' Il suo cuore batte all'impazzata. Vorrebbe che fosse già passata una settimana. Due sentimenti però lo torturano: è ansioso di vedere il suo amico, il non aver potuto parlare con lui per due mesi è stato peggio di una tortura. In passato, quando non potevano vedersi, si messagiavano ogni cinque minuti, anche solo per dirsi 'ciao'. Dall'altra parte quello che Jensen ha detto l'ultima volta, pesa come un macigno è ciò lo spaventa più di ogni altra cosa. Potrebbe, nel vederlo dal vero, davanti a sé, riprovare quell'odio sentito prima? Lo avevano ferito quelle parole, è vero. Sa anche che Jensen non intendeva proprio quello, che era stata una reazione a tutto quello che era accaduto. Ma tant'è il timore rimane...
Mentre il suo cervello ripensaa ciò, Jared va verso il computer e inizia a fare la procedura per prenotare il volo ad Austin. Passerà la settimana dai suoi genitori e poi andrà alla clinica. Solo il calore familiare potrà calmarlo. Mentre inveisce sottovoce contro il fuso orario che fgli arà perdere quasi una giornata per andare dai suoi, Genevieve fa la sua comparsa nel salone.
“Parti di nuovo?”, chiede, sedendosi in un poltrona. “Lasciami indovinare...devi vedere di nuovo gli Ackles?”
“Solo uno, questa volta”, Jared replica. “Jensen ha chiesto di vedermi”
“E, ovviamente, tu molli tutto e tutti e corri da lui. Non è vero?”
Jared sospira e cerca di non ribattere. E' stanco di litigare.
“Eh, già. Una scimmia ammaestrata sei!”, sbotta lei. “Basta che quelli schiocchino le dita e tu, puff, sei già lì”, continua lei sullo stesso tono.
“Basta! Finiscila!”, tuona lui, alzandosi in piedi. “Non lo sento da due mesi. Mi manca e quindi andrò a trovarlo, che ti piaccia o meno. Puoi aspettarmi qui, venire con me o andare da tua madre”
“Ti avverto Jared. Se te ne vai, tu potresti rimpiangere questa scelta”, Genevieve lo minaccia. “Sono stufa di dover sempre dividerti con Jensen e la famiglia Ackles o anche peggio, dover dividerti con Jensen e una stanza piena di fans. Tu pensi solo a lui e al lavoro., Io non esisto”, grida lei, sbattendo in terra un vaso di cristallo, dono di nozze.
Jared, abituato ai suoi scatti d'ira, non batte ciglio. Sale in camera sua, mette alcuni indumenti in un borsone, afferra alcuni effetti personali e se li mette in tasca.
Genevieve lo ha seguito. Lui apre la valigetta porta-computer e tira fuori una busta. “ Ci sono tre copie dell'atto di divorzio qui. Firmali tutti e tre e mandali via mail al tuo avvocato. Pensaci bene. Prenditi tutto il tempo che ti occorre. Io non ho fretta. Tieniti la casa. A me non serve. Tanto c'è l'accordo pre-matrimoniale che garantisce i tuoi diritti”, esclama lui, calmo.
“Ma bene”, replica lei palesemente scioccata. “Butti via tutto ciò su cui abbiamo lavorato in questi anni. E come pensi di spiegarlo alla tua famiglia?”
“Neanche cinque minuti fa, mi hai detto che se me andavo, mi avresti chiesto il divorzio. Bene, ti ho evitato la fatica di fare questa scelta. Sono stufo di litigare sempre con te su ogni cosa”, Jared replica stancamente.
“Sinceramente pensavo che avresti capito prima o poi che questo matrimonio era una 'facciata'. Quindi non so bene cosa ti aspettassi da me...Per non parlare di come tu ti sei comportata con le fans o i miei colleghi. E comunque hai firmato una dichiarazione di riservatezza e se non vuoi perdere i soldi, ti consiglio di stare zitta. Ma, ovviamente, non sei così stupida, avevi capito tutto dall'inizio”, continua il giovane, caricando il tono della voce sulla parola 'stupida'
Lei accusa il colpo ma è troppo orgogliosa per dargliela vinta. “Non pensavo che la serie sarebbe andata avanti ancora molto e sinceramente credevo che la tua infatuazione verso Jensen fosse solo una trovata pubblicitaria”, replica lei , con tono incredulo. 
Jared scoppia a ridere. La sua classica risata rimbombante. “Ahaha, pensavi che sarei rimasto seduto sul divano a girarmi i pollici dopo che Supernatural fosse finito? Sono un attore, Genevieve. Sarei andato ovunque per poter lavorare.. E per quello che per me le fans vengono prima di tutto. Sono loro che mi danno la possibilità di vivere così”, esclama, allargando le braccia a indicare la casa e il lusso che lo circonda.
“Va bene, allora”, Genevieve urla. “Torna a vivere con la tua mammina. Torna dal tuo Jensen, che non ci ha pensato due volte a respingerti. Lo farà ancora e tu ti ritroverai con un pugno di mosche in mano”, gli predice lei, continuando a gettare a terra tutte le suppellettili che la circondano. 
Jared sente ribollire la rabbia dentro di sé. Sa che se non uscirà velocemente da quella casa potrebbe pentirsene in futuro. 
E' finita, Gen. Sarà più facile se accetterai la cosa. Firma quei fogli e riprenditi la tua vita. Sai bene quanto me che è quello che vogliamo entrambi”
Jared apre la porta, prende i suoi cani, il borsone e la valigetta e chiude piano la porta, trasalendo però al suono di vetri infranti e oggetti scagliati contro la porta.
Si dirige verso il suo pick-up e dopo aver sistemato le sue cose e i suoi animali, parte, sgommando via, senza rivolgere no sguardo indietro. 

Una settimana è volata via e finalmente giunge la domenica. Jared, impaziente, per tutta la mattinata, giunge al centro di recupero nel primo pomeriggio. Entro a passo sostenuto nella hall della clinica e sorride alla segretaria e dopo aver letto il nome sulla targhetta appesa al camice, la saluta cordialmente.
“Buongiorno, Sheila. Sono qui per visitare Jensen Ackles”
La ragazza alza gli occhi dalla tastiera dove sta scrivendo e gli dice di aspettare un attimo, mentre solleva il ricevitore e parla brevemente con qualcuno.
“Il dottor Thompson la raggiunge subito, signor Padalecki. Nel frattempo può accomodarsi là nella sala d'aspetto”, gli dice lei subito dopo, indicando una serie di divanetti e poltroncine davanti alla sua postazione. 
Jared annuisce e si dirige verso il salottino. Qualche minuto dopo viene raggiunto dal terapeuta di Jensen. 
“Allora come sta il ragazzo?”, chiede  Jared, ansioso. 
Il medico sorride e annuisce. “Sta facendo grandi progressi. E' un ragazzo intelligente che ha capito i propri sbagli e sa che se vuole riacquistare la fiducia delle persone care, deve impegnarsi da ora in poi”
Jared esala un sospiro di contentezza. “Starà bene anche quando uscirà di qui? I produttori della serie sono preoccupati per una possibile ricaduta e quindi vogliono delle garanzie”
“Garanzie non ce ne sono, Jared. Non posso essere sicuro al cento per cento che Jensen non sprofonderà più in questo baratro ma se saranno superati tutti quegli ostacoli che gli impedivano una vita serena, allora potrei sbilanciarmi”
“Tra quanto uscirà?”, chiede Jared, poco dopo.
“Due settimane. Gli diremo dove recarsi per seguire gli incontri dell'Anonima Alcolisti, sia a Los Angeles che a Vancouver. Là troverà tutori che lo seguiranno e gli forniremo una lista di terapeuti.
 Io rimarrò comunque sempre a sua disposizione”, spiega il medico. “Ora vada e si goda alcune ore in sua compagnia. Vedrà da sé i miglioramenti”, aggiunge poi, prima di allontanarsi verso il suo studio.
“Dottore?”, lo richiama Jared. 
“Si?”, si gira lui, sorpreso.
Jared esista un istante. “Jensen riuscirà a ritornare nel mondo reale con tutto quello che ne consegue?”, chiede lui, preoccupato.
“Secondo me, è pronto. Ha compreso i suoi errori e sa quanto bene gli vogliano le persone intorno a lui. Certo la ricaduta può essere dietro l'angolo ma io credo che Lei, Jared, possa essere l'ago della bilancia”, risponde lui, con un sorriso benevolo.
“E io cosa potrei mai fare?”
“Oh, Lei potrà fare molto!”, lo rassicura il dottore. “Sia suo amico e confidente. Deve avere qualcuno con dividere le sue ansie e che possa capirlo anche solo con uno sguardo”, replica il dottor Thompson.
Jared è interdetto. “Ma questo io l'ho sempre fatto e non è mai servito a nulla. Come potrebbe essere utile ora?”
“Si fidi di me, Jared. Jensen fa grande affidamento su di Lei e vuole cambiare la sua vita in un modo che non lo spinga più nel baratro in cui si è cacciato. E' disponibile, Jared?”
Jared non risponde subito. Sa quante parole e gesti siano stati fatti invano con Jensen negli ultimi anni e quanto ciò li abbia allontanati l'uno dall'altro. Ma se lui è veramente cambiato allora si immergerà nella nuova sfida con rinnovata energia ed entusiasmo. “Si, accetto la sfida”, risponde poi, con enfasi.
“Perfetto. In questo modo so che si sistemerà tutto e ora vada così Jensen le parlerà di come ha già iniziato il suo percorso di cambiamento”, esclama lo psicologo, prima di allontanarsi. 

______________________________________________________________________________
 Angolo di Allegretto
Eccomi qui con il penultimo capitolo. Ancora un paio di giorni e pubblicherò l'ultimo. Grazie a tutti quelli che leggono, recensiscono e seguono questa storia. Buon Anno a tutti! 



Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1628854