Bugie bianche

di miseichan
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Spese telefoniche ***
Capitolo 3: *** Torre e regina di cuori ***
Capitolo 4: *** Sette passerotti ***
Capitolo 5: *** Come tutte le mattine ***
Capitolo 6: *** Il Libro della Giungla ***
Capitolo 7: *** Solo una notte ***
Capitolo 8: *** Lorenzo ***
Capitolo 9: *** Il Torchio ***
Capitolo 10: *** Quando suona il citofono ***
Capitolo 11: *** Batman e Ranocchietta ***
Capitolo 12: *** Parlami di lei ***
Capitolo 13: *** La rosellina blu ***
Capitolo 14: *** Inviti ***
Capitolo 15: *** Per favore ***
Capitolo 16: *** E' una minaccia o una promessa? ***
Capitolo 17: *** Il mio problema ***
Capitolo 18: *** Apnea ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 


Bugie bianche

 

 

“E’ un pervertito!”
L’urlo colse tutti alla sprovvista. 
Dall’uscio, prorompente, si infiltrò coraggioso nell’edificio. Niente lo avrebbe fermato.
Superò il piccolo cancelletto, il corridoio stretto e affollato, il rumorio di sottofondo.
E zittì tutti.
“E ancora…” sospirò esasperato “Non è vero!”
“E’ un pervertito!”
Nuovo urlo, diverso dal precedente: più rabbioso, deciso e controllato. Traboccante condanna.
Gli occhi di tutti erano ora puntati sulla coppia che si stagliava all’entrata. 
Risaltavano, catturando invariabilmente ed ineluttabilmente l’interesse. 
Lei, che si stringeva in un piccolo accappatoio bianco con un sorriso isterico sulle labbra livide, mosse i primi esagitati passi all’interno del corridoio per dirigersi verso la scrivania più vicina. Non degnò di uno sguardo nessuno, gli occhi puntati solo sull’uomo in divisa.
“E’ un pervertito, agente.” dichiarò “Lo sbatta in galera, mi faccia questa cortesia.”
Il poliziotto, agente Silvano Ricciardi, venticinque anni di carriera alle spalle e un paio di baffi bianchi come unici peli sul volto severo, aspirò con calma dal sigaro che gli pendeva dalle labbra.
“Chi?” chiese, gli occhi neri puntati in quelli chiarissimi della ragazza “Chi è un pervertito, signorina?”
“Lui!” rispose subito lei, voltandosi lo stretto indispensabile per afferrare con due dita il colletto della camicia del ragazzo e tirarlo in avanti.
“Lui è il pervertito.”
L’agente Ricciardi annuì impercettibilmente e socchiuse le labbra sottili per soffiare un po’ di fumo. La squadrò ancora una volta, partendo dai capelli biondi e bagnati fino a giungere alle infradito grondanti acqua. 
Qualcosa nell’esame che aveva appena compiuto lo fece sorridere.
“Sei un pervertito, giovane?” domandò placidamente al ragazzo accomodatosi sul bordo della sua scrivania.
“No, agente.” scosse il capo questi, dondolando le gambe con un sorriso impertinente sulle labbra.
“Il giovane afferma il contrario.” sospirò l’agente, stringendosi nelle spalle e lasciandosi andare con fare rilassato contro lo schienale della sedia.
“Cosa?” squittì la biondina, il tono di voce che saliva lentamente  “Voi… voi…”
Si guardò attorno, scorrendo con disappunto i volti che si godevano la scena. 
“Tu.” ringhiò, puntando oltraggiata gli occhi in quelli del ragazzo “Tu sei un pervertito e lo sai benissimo.”
L’espressione di lui era l’immagine dell’innocenza più pura.
“Io?” chiese con una luce maliziosa negli occhi “Proprio per niente.”
Smise di far dondolare le gambe e sogghignò, solo per lei.
“Posso fumare, agente?” 
Senza neanche attendere un cenno di assenso, tirò fuori un pacchetto rosso e si rigirò fra le dita una sigaretta.
“Perché non torniamo a casa, ragazzina?”
Lei scosse la testa guardandolo con odio, sorda al mormorio che si stava diffondendo nella stanza.
“La devi pagare.” 
E il sorriso di lui, finalmente, scomparve.
L’agente Ricciardi spense il sigaro contro il bordo del tavolo. 
Quindi intrecciò le dita sotto il mento e, sospirando, si decise a parlare:
“Possiamo fingere che non sia successo alcunché?”
“Mi ha spiata mentre facevo la doccia!”
“Io non spiavo proprio niente!”
“E’ un pervertito!”
“La vuoi smettere di dirlo?!” ringhiò lui afferrandole le spalle.
“Non sono un pervertito.” sillabò e le parole rimbombarono nel silenzio.
L’agente Ricciardi prese un bel respiro e contemplò l’idea di accendersi un nuovo sigaro.
“Giovane,” mormorò, i baffi che vibravano “come ti chiami?”
“Matteo Fiori.” rispose lui, arrotolandosi con gesti nervosi le maniche della camicia bianca.
“E lei signorina?”
“Veronica Cristina Sandra Merogliesi.”
L’agente Ricciardi annuì appena, scrutandoli entrambi con circospezione. 
“Signorina, perché afferma che il giovane qui presente l’abbia spiata mentre faceva la doccia?”
“Perché è successo!” strillò lei, accalorandosi “Meno di venti minuti fa! Perché crede che sia venuta qui, altrimenti?”
“Signorina, si calmi, per cortesia.”
“No! No, che non mi calmo. Le sembra normale che pervertiti del genere siano ancora a piede libero? Perché diavolo non si decide a sbatterlo dietro le sbarre?!”
“Signorina, per favore.” gemette il poliziotto, girandosi con fare stanco verso il ragazzo “Tu confermi quello che ha appena detto?”
“No.”
L’agente Ricciardi si passò una mano sugli occhi.
“Siamo in fase di stallo, eh?”
Corrucciò le sopracciglia e aprì il primo cassetto della scrivania.
“Giovane, neghi che venti minuti fa la signorina fosse sotto la doccia?”
A quelle parole lui abbassò lo sguardo, puntandolo incerto sul pavimento grigio.
“Non ho detto questo.” mormorò, ignorando il sorriso vittorioso che illuminava il volto della ragazza.
“Quindi,” trasse le conclusioni il poliziotto mentre apriva una scatola di sigari “la signorina venti minuti fa era sotto la doccia. Esatto?”
“Sì.” fu la risposta data in contemporanea. 
“Io però non la stavo spiando.” aggiunse subito lui.
L’agente Ricciardi accese il sigaro: “Come fa a sapere che era sotto la doccia, allora, se non la stava spiando?”
“Lo so perché l’ho vista.” rispose il ragazzo con ovvietà, infilando le mani nelle tasche e stringendosi placidamente nelle spalle.
“Tu non mi hai vista.” sibilò lei, avvicinandoglisi minacciosamente di un passo “Tu mi hai guardata.
“E se anche fosse?” inarcò un sopracciglio “Non significa che ti stessi spiando, ragazzina. Non è reato ergo non sono un pervertito.”
“Sei un infimo…”
“Signorina, per cortesia.” la interruppe il poliziotto. 
Aspirò ancora, cercando di trarne la forza necessaria a continuare.
“E tu, giovane, si può sapere perché la guardavi?” cominciava a perdere la pazienza  “Credevo fosse una semplice lite fra piccioncini, ma se la mettiamo in questo modo… non si guardano le ragazze mentre sono sotto la doccia e che diavolo!”
“Che altro dovevo fare?!” esplose lui, allargando le braccia.
Il poliziotto strinse le labbra e lanciò un’occhiata alla ragazza.
“E’ sul serio pervertito?”
Lei alzò gli occhi al cielo e prese a strizzarsi i capelli. 
“E’ quello che sto tentando di dirle, agente. Lo sbatte dentro?”
“Qui non si sbatte nessuno da nessuna parte! – gridò il ragazzo, gli occhi neri resi ancora più scuri dall’incredulità “Come potevo non guardarla?” chiese, attirandosi diversi sguardi di biasimo che riuscirono solo ad animarlo ancor di più “Ero semplicemente uscito a fumarmi una sigaretta!” strillò, calpestando furiosamente quella che poco prima gli era caduta in terra.
“Perciò l’ha vista attraverso una finestra.”
“No. L’ho vista dal vivo.”
“Non capisco.” grugnì l’agente Ricciardi, il sigaro che si consumava come la sua pazienza.
“La doccia è sul balcone.” sussurrò la ragazza, un infradito che strusciava nervosamente sul pavimento.
Il poliziotto la fissò in silenzio. 
“Quindi tu l’hai vista mentre si faceva la doccia in balcone, giusto?”
“Sì.”
“E tu dov’eri?” insisté “ Per strada, affacciato alla finestra…”
“Sul balcone.”
Una risata grassa pervase la stanza, rimbalzando da una parete all’altra. 
L’agente Ricciardi sembrò non sentirla.
“Eri sul balcone? Il tuo balcone?”
“Sì.” confermò lui, accennando con il capo alla ragazza “Il suo balcone.”
“E no. O è il tuo o è il suo di balcone.”
“E’ lo stesso.”
Calò il silenzio mentre l’eco della risata andava lentamente svanendo. 
“E’ lo stesso?”
“Sì.”
“E tu sei uscito sul balcone.”
“Sì.”
“Il tuo balcone.”
“Sì.”
“Il balcone che è anche della signorina.”
“Sì.”
“Per fumare.”
“Sì.”
“E la signorina era sotto la doccia.”
“Sì.”
“E tu, mentre fumavi, l’hai vista.”
“Sì.”
“No!” intervenne lei con uno strillo “Non mi ha vista. Lui si è appoggiato alla ringhiera, una sigaretta fra le labbra e mi ha guardata!”
Vedendo che i due non accennavano a parlare, continuò implacabile: 
“Come fate a non capire la differenza?! Non si è scusato e non se n’è andato: è rimasto lì, come se niente fosse, a guardarmi con quei suoi occhi neri del diavolo. Con la sua dannatissima sigaretta e con quel fottutissimo sorriso! –
L’agente Ricciardi espirò e si rivolse al ragazzo.
“Una cosa ancora non mi è chiara: perché avete lo stesso balcone, voi due?”
“Perché viviamo insieme.”
“Voi due?”
“Sì.” sospirò affranto “Noi, un hacker in clausura, una escort in carriera e due topi mutanti.”
“Mi prendi per i fondelli, giovane?”
“No, agente.” negò, estraendo una nuova sigaretta dal pacchetto rosso: l’appoggiò alla labbra e cominciò a cercare l’accendino. 
“Ah, no!” sibilò lei strappandogliela via “Davanti a me tu non fumi più.”
“Signorina, per favore.”
“Per l’amor del cielo!” fronteggiò il poliziotto “Perché si comporta così? Come se io fossi la pazza e lui la povera vittima?! Non c’era lui sotto la doccia!”
“Avresti voluto, ragazzina?” chiese il ragazzo, ammiccando sorridente.
“Matteo.” lo avvertì lei, senza guardarlo.
“O avresti voluto che venissi sotto la doccia assieme a te?”
“Matteo.” lo minacciò.
“Dillo! Dillo che da quando mi hai visto con Sofia non fai che pensare a me!”
“Matteo!”
“E’ vero? Ho ragione, perché non lo ammetti?”
“Cosa? Che ero gelosa? Questo vuoi sentirti dire?! O che da quando ti ho visto fuori il bar che ti facevi non so più chi sei? O che a rigarti la moto sono stata io? Cos’è che vuoi sentirti dire?”
“Ragazzi, per favore…”
“Lo sai che ho parlato con tua madre? O non t’interessa e vuoi solo sentirti dire quanto sei bravo a letto, eh? Cos’è che vuoi sentire? Un’altra delle tue belle bugie?”
“Sono bugie bianche, ragazzina.”
“Sei solo un dannatissimo stronzo!” gridò lei, scagliandoglisi contro.
L’agente Ricciardi aspirò un’ultima volta e fece segno a due agenti di dividerli mentre spegneva il sigaro nello stesso punto in cui aveva spento quello precedente. 
Sospirando, intimò ai due ragazzi di sedersi. 
“Credo sia il caso che mi raccontiate un po’ di cose.”
Accese il terzo sigaro.
“Dall’inizio.”

 

§





 

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Capitolo 2
*** Spese telefoniche ***


 

Bugie bianche

                                                                                                 

        ≈  Spese telefoniche ≈

 

 

 

 

“Grandi magazzini Perilli. Posso esserle d’aiuto?”
“Ehm… in realtà non so se sto parlando con la persona giusta.”
“Ha sbagliato numero?”
“Siete i grandi magazzini?”
“Sì, l’ho già detto.”
“Allora il numero è giusto.”
Il silenzio aleggiò nell’aria per diversi secondi, poi la voce maschile si decise a ritentare.
“Non capisco.”
“Ah, lo so. Mi capita spesso di venire fraintesa.”
“O di non spiegarsi affatto.”
“Come, scusi?”
“No, niente.” sospirò seccato “Se il numero è quello giusto, cosa posso fare per lei?”
“Ecco, è questo il punto: non so se è con lei che devo parlare.”
Nuovo sospiro, sempre più sentito. Il sospiro di chi cerca di mantenere la calma.
“Se il numero è quello giusto, perché non prova a spiegarsi meglio?”
“Con lei?”
“Posso essere sorprendentemente utile quando voglio. Mi metta alla prova.”
Lei rise nervosamente e lui sperò che fosse un assenso.
“Proviamo.” mormorò lei prendendo coraggio “Ho trovato l’articolo qualche giorno fa.”
“Che articolo?”
Sbuffo seccato  e prolungato.
“Il vostro: quello dei grandi magazzini.”
“Il nostro?”
“Esattamente. Quello in cui si parlava delle spese telefoniche.”
Nuovo silenzio, più lungo del precedente. A romperlo, questa volta, fu lei: 
“Sa di cosa parlo?”
“Sì.”
“E sto parlando con la persona giusta?”
“Temo di sì.”
“Teme?”  
“Scherzavo.” risposta secca e palesemente forzata.
“Quindi mi aiuta?”
“Sono qui per questo.”
“Perfetto!” esclamò lei sollevata “Devo fare un regalo.”
Silenzio sostenuto, intervallato solo da qualche sporadico schiarimento di voce.
“E allora?” s’ impuntò lui.
“Devo fare un regalo.”
Sospiro. Sospiro stanco, esasperato.
“Questo l’ho capito. Necessito di altre informazioni, però, lo capisce signora? -
Breve silenzio, teso.
“Come mi ha chiamata?”
“Io…”
“Mi ha dato della signora?”
“Non…”
“Ho la voce da vecchia?” singulto disperato “Non posso avere la voce da vecchia a vent’anni!”
“Zitta!”
La voce femminile tacque improvvisamente, colta ancora una volta alla sprovvista.
“Non le ho dato della vecchia, per la miseria!” si rivoltò lui “Le ho dato della signora senza neanche rendermene conto. E’ per deferenza.”
“Quindi non ho la voce da vecchia?”
“No.” sospirò esausto lui, riprendendo a parlare timoroso “Va bene se la chiamo signorina? –
“No.”
Ci furono diversi attimi di incredulo silenzio prima che lei si decidesse a spiegarsi:
“Non mi può dare il tu?”
“Il tu?”
“Sì, il tu.” rise lei “Mi chiamo Veronica.”
“Veronica.”
“Anche tu ti chiami Veronica?”
“No.”
“Te lo devo tirar fuori con le tenaglie il nome?”
“E se non volessi dirtelo?”
La voce femminile tentennò, poi ribatté sicura e divertita:
“Potrei tenerti al telefono per ore, sai?”
“Matteo.”
“Perfetto!” si compiacque lei “Visto che abbiamo risolto alla svelta, Matteo?”
“Sì. Ora cerchiamo di concludere altrettanto alla svelta anche con il regalo che devi fare?”
“Non sei cordiale.”
“E tu sei prolissa e prepotente.”
“Siamo alla pari allora, no?” ridacchiò lei, per nulla scalfita.
“Il regalo…” le ricordò lui, insofferente.
“Ah, già. E’ per una mia amica.”
“Un passo avanti, finalmente!”
“Dici?”
“Un maglione?”
“No.”
“Una felpa?”
“No.”
“Un paio di scarpe?”
“No.”
Breve silenzio. Lo scatto di un accendino.
“Fumi?”
“Solo quando sono nervoso.” ringhiò lui, prendendo diversi lunghi respiri.
“E’ un modo non troppo sottile per dirmi che sei nervoso?”
“Possibile.”
“Nervoso per colpa mia?”
“Probabile.”
Lei rise ancora, schernendolo quasi.
“Te la prendi troppo facilmente, Matteo.”
“Un pigiama?”
“Non va bene, non li usa.”
“Non usa i pigiami?”
“No.”
“E come dorme, questa tua amica? Nuda?”
“Il più delle volte.”
Rumore di una sedia che struscia contro il pavimento.
“Mi prendi in giro?”
“Probabile.” gli fece il verso lei.
Rumore sordo. Segnale acustico ripetuto. Linea libera.
“Grandi magazzini Perilli. Posso esserle d’aiuto?”
“Mi hai chiuso il telefono in faccia!”
“Ancora tu.”
“Hai osato chiudermi il telefono in faccia!”
“Probabile.”
“Cafone.”
“Chi è permaloso, ora?” se la rise lui.
“Sempre tu.”
“Non sono d’accordo.”
“E la cosa non mi tange.”
Sospiro. Sospiro prolungato.
“Sempre decisa a fare questo regalo?”
“Devo: fra due giorni è il suo compleanno.”
“Hai qualche idea?”
“No.”
Scatto di un accendino.
“Un’altra sigaretta?!”
“Non sono fatti tuoi.”
“Sei scortese.”
“E tu fastidiosa.”
“Ma il lavoro è il tuo. Non dovresti essere più disponibile?”
“Certo.” schioccò la lingua “E tu sei una cliente. Non dovresti aiutarmi?”
Silenzio cupo.
“Ma non ho idee.” si lagnò lei, abbattuta.
“Perché hai chiamato, allora?”
“Speravo che…”
“Cosa?”
“Non lo so!” esplose irritata “E’ il tuo lavoro! Sei tu l’assistente! Fatti venire un’idea.”
Risatina nevrastenica.
“Ragazzina, sei proprio fuori, lo sai?”
“Dovrebbe essere un insulto?” s’informo lei placidamente.
“No.” sospirò il ragazzo “Qualcosa dal reparto bigiotteria?”
“No.”
“Una tuta?”
“No.”
“Aiutami.” guaì lui, facendola sorridere.
“Sto pensando, sto pensando!”
“E non puoi pensare e richiamare più tardi? Fra venti minuti mi danno il cambio.”
“Puoi resistere ancora una ventina di minuti, dai.”
“Ma la bolletta del telefono non ti spaventa?”
“E’ l’ultimo dei miei pensieri.”
Sospiro prolungato.
“Forse…”
“Forse?”
“Forse qualcosa dal reparto intimi?”
“Non lo devi domandare a me, ragazzina.”
“Infatti non te lo stavo domandando, solo proponendo.”
“Sto andando.” mormorò lui, afflitto.
“Bravo. Poi ti do un biscottino.”
“Sta’ attenta. Non provocarmi, tesorino.”
“Tesorino?”
“Divento amorevole, prima di perdere il controllo.”
“Ammirevole, davvero.” si compiacque lei “Ma non lo sai che non bisogna rivelare i propri punti deboli al nemico?”
“Non è un punto debole: è un avvertimento.” ribatté lui.
“Se lo dici tu.”
“Un reggiseno?”
“No.”
“Un paio di slip?”
“No.”
Scatto dell’accendino.
“Morirai di cancro.”
“Me ne frego.”
“E’ doloroso.”
“Ragazzina.” s’intestardì lui “In cos’altro consiste, secondo te, il reparto intimi?”
“Già è finito?”
“Intimo.” citò lui “Insieme di elementi di vestiario indossati sotto i vestiti.”
“Ah.”
“Slip e reggiseno, quindi, sei d’accordo?”
“Sì.”
“E non va bene nessuno dei due?”
“No.”
Silenzio. Diversi respiri concitati.
“Non ce la faccio più, ragazzina.”
“Ho notato. Hai un grado molto basso di sopportazione.”
“Avrei detto il contrario, ti assicuro.”
“Un completo!”
“Cosa?” chiese lui, sfibrato.  
“Un completo intimo!” s’entusiasmò lei “Non c’è qualcosa del genere?” 
“Intendi slip e reggiseno abbinati?”
“No.” lo preoccupò lei, continuando veloce “Qualcosa di sexy, ecco. Con tanto di manette, frustino e giochini erotici vari abbinati, se è possibile.”
“Stai scherzando?”
“No.”
“Vuoi un completino sexy con giochini erotici abbinati.”
“Sì.”
Breve silenzio.
“Ma che razza di amica hai?”
Risatina breve e leggera.
“Non sono fatti tuoi.” lo citò lei  “Puoi accontentarmi o no?”
“Certo che posso, ragazzina.”
Rumori di sottofondo, scatole che cadono, oggetti che si scontrano fra loro.
“Sei vivo, Matteo?”
Un respiro soffocato in risposta.
“Mi devo preoccupare?”
“Non sei d’aiuto.”
“Non sono lì.”
“Per fortuna.”
“Come?” ridacchiò lei, cercando di capire cosa stesse succedendo all’altro capo del telefono.
“Colori chiari o scuri?”
“E’ mora.”
“Quindi?” chiese lui, indifferente.
“Scuri.”
Altri rumori. Un crollo.
“Eccomi. Ci sono.”
“Vivo?”
“Sì.” respiro stanco “Viola, rosso, verde, nero…”
“Rosso.”
“Taglia?”
“Aspetta che vado a controllare.”
Brevissimo silenzio. Lo sbattere di una porta.
“Una terza.”
“Attendi.”
Rumore di carta da imballaggio.
“Completino sexy rosso con bordi neri. Taglia tre. Manette pelose rosse. Frustino nero.”
“Perfetto.”
“Sicura?”
“Tutto in busta da regalo.”
“Certamente.” esclamò lui, soddisfatto e ancora incredulo “Il tuo indirizzo?”
Tentennamento.
“A che ti serve?”
Altro tentennamento.
“Non devo inviartelo a casa?”
“No.”
Silenzio.
“Non capisco.”
“Cosa?”
“Perché non te lo devo spedire.”
“Ma perché non serve.”
Silenzio. Brevissimo.
“Continuo a non capire.”
“Vengo a prenderlo domani in mattinata.”
Silenzio. Scatto di un accendino. Imprecazione soffocata.
“Tu cosa?”
“Vengo a prenderlo domani in mattinata.”
Altra imprecazione. Meno soffocata.
“E perché hai chiamato?” ringhio furioso “Non potevi scegliere il regalo direttamente domani?”
“No.” ribatté lei  “Mi andava di chiamare.”
Rumore sordo. Segnale acustico ripetuto. Linea libera.
“Grandi magazzini Perilli. Posso esserle d’aiuto? -
“Non ci credo! Lo hai fatto di nuovo!”
“Ci conosciamo?”
“Che faccia tosta.”
“Sicura di non aver sbagliato numero?”
“Non è divertente.”
“Non sono d’accordo.”
“Non lo sei mai,  a quanto pare.”
Silenzio rilassato.
“Me lo metti da parte, il regalo?”
“Già fatto.”
Scatto di un accendino.
“Grazie.”
“E’ il mio lavoro.”
“Fumi troppo, Matteo.”
“Sei tu che m’innervosisci, ragazzina.”
Risatina.
Sospiro frustrato.
“Posso chiedere di te, domani mattina?”
“A rischio della tua incolumità.”
Uno squillo in lontananza. Una porta che sbatte.
“Credo che rischierò.”

 

§







 

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Capitolo 3
*** Torre e regina di cuori ***




Bugie bianche

                                                                                                 

        ≈  Torre e regina di cuori ≈

 

 

 

“Matteo?”
Il ragazzo si tolse le cuffie dalle orecchie con un gesto tranquillo e calcolato. 
Si aggiustò gli occhiali sul naso e squadrò la ragazza che aveva di fronte: scarpette basse tutte bianche, jeans scoloriti, giacchetta nera. Fissò gli occhi verdi in quelli azzurri della biondina e le guance coperte di lentiggini gli si infiammarono irrimediabilmente, arrivando a fare pandan con i capelli.
“Io… no.” balbettò “Io sono Simone.”
“Oh.” sorrise lei “Scusa, ho sbagliato. Sai se c’è Matteo?”
Simone annuì e gli occhiali gli scivolarono di nuovo sul naso. 
“Sì.” si costrinse a smettere di fissarla “C’è.”
“E sapresti dirmi dov’è?”
Simone annuì un’ultima volta, demoralizzato.
“Alle casse.”
“Grazie!”
Un cenno veloce con la mano e sparì in direzione dei banconi in fondo al negozio. 
C’erano tre casse, tre ragazzi diversi. 
Li soppesò, domandandosi con quale fosse giusto provare per primo; era ancora in dubbio, quando vide l’ultimo chiudere malamente il registratore e poi accendersi una sigaretta.
“Matteo!”
Al suo richiamo il ragazzo si girò incerto per osservarla. La sigaretta gli pendeva dalle labbra e, man mano che lei si avvicinava, assumeva un fare sempre più perplesso.
“Ci conosciamo?” chiese, soffiando fuori una boccata di fumo.
“Sì.”
“Sei sicura?” domandò ancora, arrotolando le maniche della camicia bianca.
“Fumi troppo.” sentenziò lei, scuotendo piano la testa “Dico sul serio.”
Matteo sgranò gli occhi e sbiancò, la sigaretta che gli sfuggiva dalle dita.
“Veronica?” mormorò incredulo. 
“Quale onore.” scherzò lei, sorridendo divertita “Ricordi persino il mio nome.”
Matteo riacquistò il controllo di sé e si affrettò a spegnere la sigaretta sul pavimento. 
“Come potrei averlo dimenticato?” chiese di rimando, il tono appena sarcastico.
“Mi fai arrossire così.” 
“Ti ho sognata stanotte.”
“Qualcosa di eccitante?” 
“Ho rivissuto la nostra telefonata.” chiuse gli occhi lui “Mai incubo è stato peggiore.”
Veronica si coprì teatralmente la bocca con le mani.
“Mio Dio.” sussurrò affranta “Stai cercando di dirmi che ieri non ti sei divertito?”
Matteo roteò gli occhi.
“E poi sono io, quello con la faccia tosta.” borbottò prima di sparire sotto la cassa.
Veronica ridacchiò e si sporse oltre il bordo per sbirciare i movimenti del ragazzo. 
“Non nasconderti Matteo, dai.” 
“Ecco a te.” scandì con fare serio lui, porgendole una busta colorata con tanto di fiocco.
“Il regalo?” chiese ingenuamente Veronica, un luccichio negli occhi azzurri.
“Proprio così.” le spinse la busta tra le mani “Il regalo che abbiamo tanto faticato a trovare, ragazzina.”
Veronica annuì e continuò a fissarlo.
“Non lo vuoi più?” 
“Certo che lo voglio.” rispose lei, incrociando le braccia sul petto.
“Qual è il problema, allora?”
“Già mi mandi via?” si imbronciò Veronica, gli occhi appena un po’ più lucidi di prima.
Matteo inarcò aggrottò le sopracciglia, squadrandola con diffidenza.
“Sei per caso scappata da una qualche clinica di cura, ragazzina?”
“Mi credi pazza?” sussurrò divertita lei.
Matteo si piegò sul bancone per accorciare le distanze.
“Lo sembri.” bisbigliò, il tono serio al punto da nascondere quasi del tutto il sarcasmo.
Veronica si allontanò, sorridendo contenta. Fissò l’espressione arcigna di lui e il sorriso si fece ancor più grande. 
“So che ti sembrerà assurdo, ma…” si bloccò, le parole troncate dalla musichetta che le proveniva dalla giacca. Frugò in fretta e furia nelle tasche, estraendo infine un piccolo cellulare nero. Osservò il numero che appariva sullo schermo e infine distolse lo sguardo.
“Dicevo… che dicevo?” chiese, l’espressione svagata.
“Non rispondi?”
Veronica scosse la testa, sospirando sollevata quando il cellulare smise di suonare. Fece per ricominciare il discorso, ma il telefonino si illuminò di nuovo ed emise un breve bip.
“Un messaggio?” s’interesso blandamente Matteo, desiderando ardentemente fumare.
Veronica annuì, l’espressione sempre più tesa via via che leggeva. Ciò che successe poi, accadde decisamente troppo velocemente per il cervello già stanco del ragazzo: la vide sbiancare, rimettere il telefono in tasca e guardarsi attorno esagitata.
“Scostati.” gli intimò lei.
“Come?”
Non fece in tempo a concludere la domanda che lei aveva già scavalcato il bancone per accovacciarsi nel vano sotto la cassa.
“Veronica.” sibilò Matteo, incenerendola con lo sguardo.
“Shh!”
“Ragazzina.” ringhiò questa volta, cercando di acciuffarla con una mano. Lei si divincolò e restò immobile sotto il bancone, proprio in mezzo alle sue gambe.
“Smettila di guardarmi!” s’intestardì Veronica, pizzicandogli un polpaccio.
Matteo sussultò, vagliando la possibilità di prenderla a calci senza indugi. Aprì la bocca per dire qualcosa, le dita fatalmente attratte dal pacchetto di sigarette poco lontano.
“Matteo! Mi servirebbe un attimo il banco, posso?”
Simone si bloccò nel gesto di scostare l’amico non appena si accorse che a fissarlo c’erano due occhi di troppo. Sussultò, il sangue che gli defluiva dalle gote. 
Arretrò piano, fissando basito la testa bionda che spuntava fra le gambe del suo amico. Avvampò di botto, prendendo a scuotere irrequieto la testa:
“Oddio, scusate! Non… non pensavo… non immaginavo!”
Corse via, sordo ai richiami di Matteo.
“Hai idea dell’impressione che dai standotene lì, vero?” soffiò Matteo, cercando ancora di acciuffare la ragazza.
“Non mi guardare!” lo rimbeccò lei e lo pizzicò per la seconda volta.
Questa volta era stato davvero molto vicino ad assestarle un calcio ben misurato, senonché  una voce roca lo distrasse. Matteo alzò gli occhi sul giovane in piedi davanti alla cassa: il fisico scultoreo, gli occhi azzurro cielo e i capelli biondi che gli si arricciavano alla base del collo. Ricordava un dannatissimo angelo.
“Posso chiederle un’informazione?” domandò il ragazzo, sorridendo beato dal suo metro e novanta di altezza.
Matteo annuì, cercando di ignorare la presenza ai suoi piedi.
“Ha per caso visto una ragazza bionda?”
Matteo tossì e scosse la testa. 
“Bionda, occhi azzurri, l’aria svampita…” tentò ancora il ragazzo, gesticolando nel mentre con la mano.
Matteo poggiò entrambi i palmi sul bancone e puntò gli occhi in quelli dell’altro. Lo fissò per un po’ senza dire niente, poi aprì il pacchetto di sigarette con una mano e prese l’accendino con un’altra.
“No, mi dispiace.” rispose, aspirando “Non ce l’ho presente.”
“Sicuro?”
Matteo si strinse nelle spalle e sul volto del biondino comparve un luminoso sorriso. 
“Strano.” mormorò senza smettere di sorridere “Ero convinto di averla vista entrare qui dentro, poco fa.”
“Si dev’essere sbagliato.”
L’altro annuì, infilando le mani nelle tasche e facendo per voltarsi. Si fermò a metà gesto.
“Quindi non l’ha vista?”
“Non l’ho vista.”
Matteo si rigirò la sigaretta fra le dita, aspettando con ansia che l’altro si voltasse. Quello invece arricciò il naso e si avvicinò di un passo al bancone.
“Sa una cosa?” gli sussurrò con una luce ammiccante negli occhi “Credo mi possa fare un favore.”
“Ah sì?”
Il biondo annuì con espressione complice.
“La prossima volta che non la vede, le può riferire che la cercavo.” disse, il tono di voce che si faceva appena più serio “E può anche spiegarle che la regina di cuori insiste per incontrarla, e che se non si decide in fretta a ripagarmi come pattuito, può anche dire addio alla torre.”
Matteo sbatté le palpebre. 
“Glielo riferisca, mi raccomando.” ripeté, dandogli finalmente le spalle e avviandosi verso l’uscita.
Matteo attese incerto un paio di minuti, quindi si piegò sui talloni per trovarsi faccia a faccia con Veronica. Incontrò gli occhioni azzurri della ragazza e si sentì perso, dimentico quasi di ciò che stava facendo. Fu questione di poco.
“Puoi spiegarmi?” sibilò, faticando a mantenere un tono basso.
Veronica si limitò a fare spallucce. 
“C’è stata una fuga di massa da qualche penitenziario e io non ne so niente, per caso?!”
Scosse la testa, scattando in piedi e tirandosi dietro pure lei.
“Basta!” esclamò, piazzandole la busta fra le mani e sospingendola al di là del bancone. 
“Così non va, capisci? Non ti reggo.” borbottò, continuando a sospingerla “Non va proprio! Non posso mettermi a discutere anche con i pazzi adesso!”
Borbottava, spingendola con una mano sulla schiena.
Borbottava e quasi non si accorse della mano che invece si posò sulla sua, di schiena.
Matteo si voltò senza davvero averne cognizione di causa. Si voltò e fissò i suoi occhioni neri e sconvolti in quelli piccoli del direttore. 
Pietrificò sul posto, togliendosi di scatto la sigaretta dalla bocca.
“Signor direttore.” mormorò, il viso tremendamente serio.
“Fiori.” mugugnò l’altro con sguardo biasimevole “Devo parlarle un attimo, posso?”
Matteo annuì, dimenticando completamente la presenza di Veronica al suo fianco.
“Ho ricevuto delle lamentele, Fiori.” riprese l’uomo “Lamentele attinenti al suo comportamento: sembra che le capiti di rispondere male, impuntarsi, deridere… oltre, cosa che ho appena notato, al fumare sul posto di lavoro.”
Matteo tenne lo sguardo basso, consapevole di come si sarebbe concluso il discorso.
“Non è questo il comportamento che richiedo ai miei dipendenti, sono perciò costretto a…”
“Ci dev’essere un errore!”
Il direttore e Matteo si voltarono in contemporanea verso Veronica e il suo disarmante sorriso: “Non può essere, glielo assicuro.” proseguì lei “Ho avuto diverse volte il piacere e l’onore di essere servita da Matteo e le posso assicurare che è sempre stato molto più che cortese, professionale e disponibile.”
L’uomo si sistemò la cravatta con espressione sorpresa.
“Davvero?” chiese, schiarendosi la voce.
“Certamente.” annuì lei, il tono sicuro e deciso.
“Ah, allora… non credo sia il caso di continuare il discorso.” mormorò l’uomo, piegando leggermente il capo ed allontanandosi poi in fretta e furia.
Veronica sorrise sorniona prima di incrociare divertita gli occhi di Matteo.
“Puoi anche ringraziarmi, eh?” scherzò “Non mi offendo, te lo assicuro.”
Il ragazzo grugnì mentre le afferrava la spalla con ben poca delicatezza per sospingerla verso la parte più interna del negozio. Si fermò solo all’altezza di una porta in legno scuro:
“Esci da qui.” sussurrò senza guardarla “Il tuo amichetto biondo ti starà sicuramente aspettando fuori.”
Veronica inarcò le sopracciglia.
“E’ l’uscita secondaria, ragazzina.” mugugnò Matteo “Così non ti vede.”
Lei ridacchiò, muovendo un passo fuori dalla porta.
“E’ il tuo modo di dire grazie?” chiese curiosa “Non sai fare di meglio?”
“Non otterrai di più.” ribatté lui, chiudendole la porta in faccia.
Si allontanò mentre le ultime parole di lei gli rimbombavano nelle orecchie:
“Ottengo sempre ciò che voglio.”

 

***

 

“Hai pranzato?”
“Sì.”
“A casa?”
“Sì.”
Veronica frugò nella borsetta nera alla ricerca del pacchetto di fazzolettini, quello con i Looney Tunes disegnati sopra. Rovistava, soprappensiero. Ci mise qualche istante a rendersi conto di quanto fosse allarmante il silenzio che si era appena venuto a creare. Sollevò lentamente lo sguardo, smettendo di agitare furiosamente le dita all’interno di quei troppi centimetri di stoffa.
“Cinzia?” chiese, preoccupata dal modo in cui l’altra la guardava.
La moretta non rispose, accavallando compunta le gambe.
“Cicì?” tentò ancora, iniziando a temere di aver mosso un passa falso.
“Balle.” sibilò Cinzia, le labbra rosso scuro atteggiate in una smorfia di disappunto.
Veronica aggrottò le sopracciglia, poggiando cautamente la borsetta sul tavolino che le divideva. Si sporse leggermente in avanti e accennò un sorrisetto.
“Hai un fazzolettino, Cicì?”
Cinzia scosse la testa, i capelli neri che le ondeggiavano attorno al viso sottile.
“Balle.” ripeté, sicura di sé. Aveva cominciato ad agitare il piede: un movimento ritmico, cadenzato, simile a quello della coda di un gatto.
“Ma che dici?”
“Dico che oggi sono stata sempre a casa.” 
Veronica sbuffò, alzando gli occhi al cielo. Arretrò di scatto, lasciandosi cadere contro lo schienale della sedia con malagrazia. Un’occhiata risentita alla brunetta, un sibilo frustrato inconsapevole.
“E va bene.” esclamò, punta sul vivo “Non ho pranzato, contenta?”
“No.” ribatté Cinzia, urtandole una gamba con il piede “No, che non sono contenta. Avevi promesso che non avresti più fatto così! Mi avevi dato la tua parola che non lo avresti più fatto! Devi mangiare, che diavolo!”
Abbassò gradualmente la voce, lo sguardo ancora tormentato. 
“Non ho alcuna intenzione di lasciarti ridurre nello stato pietoso dell’anno scorso, sono stata chiara?”
Veronica si strinse nelle spalle, un sorrisetto innocente che le incurvava le labbra. Cinzia parve spiazzata da quel cambiamento inaspettato di espressione, al punto da fermare per qualche istante il movimento oscillatorio del piede.
“Dai, Cicì.” mormorò Veronica, avvicinando la sedia al tavolo “Non ti arrabbiare.”
Cinzia serrò le labbra, restia a cedere le armi.
“Non ho pranzato solo perché non ne ho avuto il tempo.”
Inclinò la testa, un’espressione arrendevole sul volto mentre continuava: “Sono pronta a rimediare anche ora.”
“Mi hai mentito.” 
“Mi perdoni se li mangio tutti?” chiese candidamente Veronica tirando a sé il cestino pieno di grissini. Ne afferrò uno e lo avvicinò lentamente alla bocca.
Indugiava, attendendo un cenno d’assenso da parte dell’amica. 
Cinzia sospirò e le lanciò un pacchetto di fazzolettini mentre con nonchalance cambiava argomento:
“Com’è andata oggi?”
“Tu che hai fatto?” rigirò la domanda Veronica, addentando famelicamente il grissino sotto lo sguardo compiaciuto dell’altra.
“Il solito.” rispose Cinzia con un sorriso malizioso “Avevo chiesto prima io, però.”
“Giusto.” acconsentì la biondina “Che ho fatto oggi?”
“Se non lo sai tu.”
“Allora,” prese tempo Veronica “ho fatto un salto alla posta, poi sono andata al supermercato; quindi una capatina ai Grandi Magazzini e infine all’Università.”
Cinzia assottigliò lo sguardo.
“Che c’è, Cicì?”
“I Grandi Magazzini?” s’entusiasmò la brunetta “Hai preso il mio regalo, vero?”
Veronica sorrise sotto i baffi, un grissino che le pendeva dalle labbra strette.
“E se anche fosse?”
Cinzia squittì di gioia: “Cos’è?”
“Non te lo dico.” s’impuntò Veronica con un’espressione oltraggiata.
“Almeno un indizio!” 
Veronica scosse la testa, cercando invano di resistere. Non ci sarebbe riuscita e lo sapevano perfettamente entrambe. 
“E’ rosso.” le rivelò alla fine, sconfitta.
Cinzia ridacchiò entusiasta: “Rosso?”
Veronica annuì, afferrando svogliata un altro grissino: “Non ti dirò di più.” l’avvertì, puntandola con il bastoncino. Cinzia assentì, sollevando i palmi delle mani.
“Grandi Magazzini, quindi.” mormorò poi, pensierosa.
“Non riuscirai mai a capire cos’è.”  
La brunetta sorrise, una luce preoccupante nello sguardo.
“Non pensavo a quello.” sorrise divertita “Pensavo alla telefonata di cui mi raccontavi ieri sera.”
Veronica reclinò il capo all’indietro con un gemito.
“E allora?” le chiese Cinzia, ansiosa “L’hai incontrato?”
Veronica non rispose, mangiucchiando il grissino assorta. 
“L’hai incontrato!” strillò l’altra “Com’è? Che ha fatto? Ti ha insultato, è scappato?” 
“E’ stato sarcastico. Come anche al telefono, del resto. Mi crede pazza, ma non è certo una novità.”
Cinzia annuì, incitandola a proseguire.
“Ed è uno schianto.” sospirò Veronica, finendo il grissino.
“Descrizione, prego.”
“Ah, Cicì… una caramella per gli occhi, ti giuro. Capelli neri, occhioni da cucciolo, e poi... deve fare un qualche sport, ma non saprei dirti quale.”
“Bello e dannato, eh?” sogghignò “E’ più il tuo tipo, Vero, lo sai. Io preferisco quelli semplici e tranquilli.”
“Lo so, lo so.”
“Sto aspettando il ma.”
“Ma c’ha un corpo che…” s’interruppe, leccandosi le labbra.
Cinzia scoppiò a ridere: “Avevamo detto niente pensieri sconci prima delle sette!” 
“Hai ragione.” 
“Ti va un caffè?”
“Sì, assolutamente sì.” cercò un cameriere con lo sguardo. Frugò nella folla di persone, ma non individuò nemmeno una divisa.
“Devo fare da me, che dici?” chiese, ricevendo in cambio solo una scrollata di spalle.
Veronica mugugnò, afferrando distrattamente un altro grissino: “Vado a chiedere un fazzoletto al banco e cerco un cameriere.” mormorò, allontanandosi decisa.
Raggiunse la meta con non poca difficoltà e si appoggiò al legno scuro sorridendo vittoriosa. Non ricordava che ci fosse mai stata tanta ressa al Mystic. Si rivolse alla donna che versava del latte in una serie di tazze:
“Posso ordinare a lei, signora?”
“No.”
“No?” chiese confusa Veronica, non certa che il rifiuto fosse riferito alla sua domanda.
“No, non deve dirlo a me.” rispose la signora, asciugandosi le gocce di sudore dalla fronte “Guardi, non ho idea di dove siano finiti i ragazzi: sono dieci minuti che non ne vedo più neanche uno. Se ne trova qualcuno e lo rimette al lavoro fa un favore a entrambe.”
All’espressione incredula della biondina la donna sorrise di sbieco, indicandole con il capo una porta laterale.
“Provi lì.”
Veronica seguì l’indicazione e si mosse risoluta: solo quando ebbe messo piede all’interno della stanza, rimpianse di non aver avuto un briciolo in più di discrezione.
Si schiarì la gola, il pomello ancora stretto fra le dita e lo sguardo perso fra le mura di un bianco immacolato. Con la coda dell’occhio vide uno specchio e sorrise al proprio riflesso imbarazzato. 
Sobbalzò quando una delle ante private si aprì, lasciando uscire un giovane che trafficava con il cellulare. Il ragazzo alzò lo sguardo su di lei, sorpreso dalla sua presenza.
“Cosa?” chiese, inarcando un sopracciglio “C’è fila in quello delle donne?”
Veronica scosse la testa e strinse le braccia al petto, l’espressione che si induriva mentre i suoi occhi si fermavano sul grembiule verde che il giovane indossava.
“No.” sibilò “Ho sete e mi chiedevo che fine avessero fatto tutti i camerieri.”
Il ragazzo ridacchiò e cominciò a battere la mano contro le ante degli altri bagni. 
“Sentito, ragazzi?” domandò ilare “La pausa è finita!”
Un coro di protesta si levò in direzione della ragazza, convincendola che era arrivato il momento di uscire di lì. Era già fuori dalla porta quando casualmente si ricordò di aver notato una nuvoletta di fumo aleggiare sopra uno dei bagni ancora chiusi.
Tornò al tavolo e prese posto davanti ad una Cinzia immersa nella lettura.
“Devi ancora finire i grissini.” 
“Che leggi?”
Cinzia si strinse nelle spalle, sollevando appena verso di lei la copertina della rivista.
“Che fine avevi fatto?” 
“Sono andata a stanare i camerieri.”
“Quindi ora ti odiano tutti anche qui?” domandò con indifferenza.
“Sì.”
Veronica incurvò le spalle e poggiò la testa sul tavolo con un gemito soffocato che fece ridacchiare Cinzia.
“Non angosciarti: sta arrivando un cameriere ed è tutto merito tuo.”
“Cosa vi porto, signorine?”
Cinzia fece per rispondere quando improvvisamente l’amica scattò, tirandosi a sedere.
“Matteo!” esclamò Veronica sotto lo sguardo basito sia di Cinzia che del ragazzo “Stavi fumando nel bagno, tanto per cambiare.”
Le dita di lui, pallide nella stretta sulla penna, lasciarono cadere il blocchetto di fogli. 
Cinzia osservava la scena con palese divertimento. 
“Cicì, lui è Matteo.” disse Veronica, sorridente “Matteo, lei è la mia amica Cinzia.”
La brunetta allungò la mano, aspettando che il cameriere alquanto reticente gliela stringesse. Non appena le dita del ragazzo furono strette fra le sue, con un rapido movimento lo tirò a sedere sulla sedia libera di fianco alla sua. Una luce le faceva brillare gli occhi nocciola, mentre quelli atterriti del ragazzo la imploravano di lasciarlo andare. Cinzia scosse la testa.
“Matteo, eh?” chiese, rivolgendosi con fare ammiccante a Veronica “Quello dei Grandi Magazzini?”
L’altra annuì, sorridendole complice: “Avevo ragione?”
“Su tutta la linea, tesoro.” 
Matteo era sempre più a disagio, l’espressione tesa e le labbra serrate: alternò lo sguardo dall’una all’altra ragazza, chiedendosi cosa avesse fatto di male per meritare una simile punizione.
“Che numero era quella?”
Impiegò qualche istante a capire che la domanda era rivolta a lui. Inarcò un sopracciglio, non sapendo cosa rispondere. Veronica allora, sbuffando appena, imitò con le dita il gesto di fumare.
Matteo trasecolò, ricordandosi solo in quel momento del commento precedente.
“Come fai a sapere che stavo fumando in bagno?”
“Sono venuta a porre fine alla vostra pausa.” rispose lei con ovvietà “Non mi hai sentita?”
Il ragazzo sbuffò, un lamento represso, un imprecazione appena accennata.
“Avevo la musica nelle orecchie.” mugugnò “Ti pare che altrimenti sarei uscito?”
Veronica e Cinzia scoppiarono a ridere, un residuo di complicità nello sguardo. 
“Perché non ti fermi a bere un caffè con noi, Matteo?”
Il ragazzo guardò Cinzia come se avesse perso il senno proprio lì, davanti a lui. Scuotendo la testa con forza, fece per alzarsi, prontamente bloccato dalle mani di entrambe.
“Devo lavorare.” ringhiò, fulminandole con lo sguardo.
“Anche qui?” chiese scettica Veronica.
Matteo scostò la sedia quel tanto per mostrarle con frustrazione il grembiule verde.
“Tu che dici?” ribatté lui, irrisorio.
“Due lavori?” continuò lei, meravigliata “Come mai?”
“Non sono affari tuoi.”
Veronica si strinse nelle spalle, guardandolo con sufficienza:
“Volevo solo essere gentile.”
“Ah, sì?”
“Fare conversazione, sai?” occhiata impertinente “Ne sei capace?”
Il ragazzo strinse gli occhi con espressione corrucciata.
“Cosa vi porto, fanciulle?”
Veronica ridacchiò, ammiccando in direzione di Cinzia:
“Diventa amorevole prima di esplodere.” le rivelò sotto lo sguardo astioso del cameriere.
“Simpatico.” mormorò la brunetta.
“E’ scontroso.”
“Va migliorato.”
Matteo si alzò in piedi di scatto, squadrandole con furia appena trattenuta.
“Me ne vado.” soffiò il ragazzo, recuperando il blocchetto di carta.
“No, dai.” lo pregò Veronica, mentre lo afferrava per un lembo del grembiule.
“Scherzavamo.” aggiunse Cinzia “Perché domani non vieni alla mia festa?”
Veronica scosse la testa, afferrando un braccio del ragazzo e tirandolo verso di sé. Lui quasi cadde, mentre le dita della biondina continuavano a tenerlo ben stretto. Senza nemmeno sapere come, la sua penna era ora tra le dita di lei, indaffarata a scrivergli qualcosa sul palmo della mano. 
Matteo sgranò gli occhi, una muta imprecazione ancorata sulla punta della lingua.
“Cosa diavolo...?” riuscì solamente a sibilare, gli occhi azzurri di Veronica puntati nei suoi.
“E’ il mio numero.” spiegò lei, restituendogli la penna “Se ti andasse di fare un salto, chiama.”
Matteo ridacchiò, cominciando ad arretrare.
“Non credo, mi dispiace.” disse con un tono che non aveva niente di spiacente.
“Perché?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle, già lontano. Eppure, anche nel frastuono del locale, la sua risposta giunse chiara:
“Sarà solo un’impressione, ma temo che a stare in tua compagnia potrei finire male.”

 

 

 

§









 

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Capitolo 4
*** Sette passerotti ***




Bugie bianche

                                                                                                 

          ≈  Sette passerotti ≈

 

 

 

Rullo di tamburi.
Coro di aspettativa.
“Bacio!”
Unanime grido, volontà generale. Ma lei non ci stava proprio.
Veronica grugnì, un sospiro represso che le si era bloccato in gola. Fissò la bottiglia sul pavimento e desiderò che scomparisse. Chiuse gli occhi speranzosa, ma quando li riaprì la bottiglia era ancora lì. Blu, puntata su quel tipo che avrebbe dovuto baciare.
Veronica odiava il gioco della bottiglia. Oh, sì. Lo odiava.
Sollevò con reticenza lo sguardo e vide il tipo sorridere.
Stirò le labbra in un sorriso forzato e lo guardò, lasciando che il suo cervello elaborasse il viso del ragazzo: i capelli lunghi e spettinati, le labbra sottili, l’orecchino, il piercing sul sopracciglio e il piercing sul mento e il piercing sul naso. 
Lo vide piegarsi di lato per dire qualcosa a un amico e si accorse di aver dimenticato un piercing: quello sulla lingua. Arretrò mentre un brivido le percorreva la schiena.
Odiava il gioco della bottiglia. Proprio così. Lo odiava.
Non aveva alcuna intenzione di baciare quel volto bucherellato.
Non le piacevano i piercing e, assolutamente, non le piaceva lui: il tipo bucherellato di cui non ricordava il nome. Cinzia glielo aveva presentato. Gli aveva anche stretto la mano, ma il nome adesso proprio le sfuggiva. 
Veronica sospirò, chiedendosi cosa avesse fatto di male: aveva comprato il regalo, era alla festa e sorrideva. Aveva riso, si era presentata a tutti gli ospiti. 
Cordiale, amichevole, disponibile.
C’era un limite, però, e baciare gli amici di Cinzia lo oltrepassava sicuramente.
Guardò il tipo che aveva cominciato ad avvicinarsi, immaginò il bacio e inorridì: se solo avesse provato ad usare la lingua gliel’avrebbe morsa a sangue, poco ma sicuro. 
Sentiva gli occhi di tutti puntati su di sé: così, seduti in cerchio, le sembrava di far parte di una qualche setta satanica. E pensando al tipo bucherellato non poté che confermare l’idea.
Odiava il gioco della bottiglia. Esatto. Lo odiava.
Il tipo era ormai vicinissimo, mancavano pochi centimetri e avrebbe adempiuto al suo compito. Pochi centimetri e avrebbe avuto quelle labbra bucate sulle sue. 
Odiava il gioco della bottiglia. Lo aveva già detto? Lo odiava.
E in quel momento le squillò il cellulare.
Veronica saltò su. Scattò in piedi in un decimo di secondo, senza dare al tipo bucherellato nemmeno il modo di accorgersene. Uno squillo ed era in piedi. Uno squillo ed era salva. Tutto grazie a uno squillo.
Guardò il numero sullo schermo e non lo riconobbe, ma se ne infischiò.
Si scusò, perché poteva essere importante e doveva assolutamente rispondere. 
Dieci secondi e non era più in soggiorno.
“Grazie al cielo.” mormorò, appoggiandosi con la schiena alla porta appena chiusa.
Sospirando, si lasciò scivolare a terra; tirò le gambe al petto e guardò ancora una volta il numero: no, non lo conosceva davvero. Pazienza.
Chiunque fosse andava ringraziato.
“Pronto?”
Aspettò, ma non sentì alcuna risposta. Spinse ancora di più il telefonino contro l’orecchio, quasi potesse così ascoltare meglio: percepì rumori indefiniti, risate, grida.
Poco dopo l’ignoto salvatore chiuse la chiamata e lei restò immobile, il cellulare in mano.
E ora?
Iniziò a fissare intensamente il cellulare. Squilla. 
Doveva convincerlo. Squilla. Squilla. Squilla. Squilla. Squilla…
E il telefonino squillò.
Veronica sussultò, non credendo alle proprie orecchie. Stava squillando?
Guardò il numero e lo riconobbe: lo stesso di prima. 
“Pronto?”
Silenzio carico di attesa da parte di Veronica. Silenzio rumoroso dall’altra parte.
“Veronica?”
“Sì!” urlò quasi, contenta che non fosse qualcuno che stava sbagliando numero. Grazie.
“Sono Matteo.”
Veronica aprì la bocca ma non ne uscì alcun suono. Matteo? Quel Matteo?
Il Matteo commesso? Lo stesso Matteo cameriere? Quello che la credeva pazza e a cui aveva quasi inciso il proprio numero sulla mano? 
Assurdo. Non poteva essere. Assurdo. Non poteva essere.
Si riprese lentamente, accorgendosi di essere quasi caduta in stato catatonico.
“Matteo chi?”
“Quanti Matteo conosci, ragazzina?” domanda nervosa, spazientita.
“Abbastanza da chiederti quale sei.” risposta pronta, altrettanto irritata.
Sospiro agitato. Scatto di un accendino. Sorriso di Veronica.
“Quello che morirà di cancro.” mormorò il ragazzo.
Lei ridacchiò, chiudendo gli occhi e lasciando che quella voce la rapisse.
“Ah. Ora ho capito. Cosa posso fare per te, Matteo?”
“Ecco… ricordi che… ieri…”
Il divertimento di Veronica aumentò di pari passo al balbettio incoerente di lui. 
“Avevi detto che…”
“Sì?” chiese, amabilmente, incitandolo a continuare.
“Accennavi a… parlavi di…” sbuffo scocciato “Miseria nera, ragazzina, aiutami!”
Veronica sorrise, mordicchiandosi il labbro.
“No.”
Matteo ridacchiò. Una risatina isterica, nervosa, esagitata. Alla fine cedette.
“E va bene.” sospirò “Mi avevi invitato ad una festa, o sbaglio?”
“Non sbagli.”
“Posso ancora venire o l’invito è revocato?”
“Puoi venire.”
“Sicura?” sussurrò Matteo, incerto.
“Certo! Ti spiego come venire, dove sei?”
Matteo indugiò qualche istante prima di rispondere, la voce un po’ più roca del solito:
“Fuori il Mystic.”
Veronica corrucciò le labbra, la vaga impressione che stesse mentendo. Perché mai, poi?
“Va bene.” rifletté “Allora: raggiungi il cinema multisala e gira a sinistra, quindi subito a destra e, dopo il semaforo, la seconda strada sulla sinistra. Capito?”
“Sì.” accennò lui, il tono pensieroso “La strada tutte ville e palazzi?”
“Esattamente.” confermò lei “Il nostro è il palazzo con più alberi sotto. Cerca il nome Merogliesi e suona il citofono, okay?”
Le ci volle qualche istante per capacitarsi di aver chiesto conferma ad una linea libera.
Aveva riattaccato. Ancora una volta le aveva sbattuto il telefono in faccia! Che diavolo! 
Infervorata si alzò in piedi, tornando nel salone prima che le fosse possibile cambiare ancora idea. Sorrise a tutti, in particolare a Cinzia.
Erano ancora seduti sul pavimento, la bottiglia sempre in mezzo a loro. 
Senza fermarsi, proseguì fino alla cucina. Aprì il frigorifero e prese una bottiglia d’acqua; all’ultimo momento però scosse la testa, insoddisfatta:
ci voleva qualcosa di più forte. Vino.

Con dita impazienti aprì diverse mensole. Niente. 
“Dietro le fette biscottate.”
Veronica trovò la bottiglia e fece un cenno di ringraziamento a Cinzia, già pronta con due bicchieri in mano. Li riempì e lasciò il resto a portata di mano. 
“Che succede?” le chiese Cinzia, portando il bicchiere alle labbra.
Veronica fece un bel sorso prima di rispondere, incerta: “Matteo.”
Cinzia sgranò gli occhi, incredula: “Cosa?!”
“Già.” annuì, svuotando il bicchiere “Sta venendo qui.”
“Perché?”
Domanda legittima. A cui Veronica non sapeva come rispondere. 
Perché? Perché? Perché?!
Il cellulare squillò, troncandole i pensieri.
“E’ lui?”
“Sì.” 
Cinzia sorrise e prima di lasciarla sola mormorò:
“Il gioco della bottiglia aspetta te. Non metterci troppo.”
Veronica trattenne un’imprecazione e rispose. 
“Pronto?”
“Al diavolo!” brontolò lui, irritato “Scendi tu!”
Veronica boccheggiò, presa in contropiede.
“Il palazzo con più alberi sotto.” le fece il verso “Tutti questi dannati palazzi hanno alberi sotto, ragazzina! E’ notte. Non c’è differenza! Scendi tu!”
Veronica prese un bel respiro: non lo capiva quel ragazzo.
“Sei nevrastenico.” mormorò, prendendo il coraggio a due mani “O ti calmi, mi chiedi scusa e per favore, o non scendo. Sono stata chiara?”
“Come?” mugugno incredulo, quasi ringhiato.
“Hai capito.”
“Io…” imprecazione soffocata “Non ci penso proprio, ragazzina!”
“Ce la puoi fare.” ridacchiò lei, incoraggiandolo “Proviamo assieme, dai.”
Veronica attese, paziente. E poi le parole arrivarono.
“Mi dispiace. Potresti scendere e aiutarmi?”
Veronica sorrise, soddisfatta. Uscì dalla cucina, e si diresse alla porta d’ingresso. Ignorò il resto della compagnia e andò a chiamare l’ascensore.
“Non hai detto per favore.” lo schernì, mangiucchiandosi un’unghia.
L’ascensore arrivò, assieme alle maledizioni del ragazzo. 
Uscì dal palazzo e rabbrividì, colta alla sprovvista dalla ventata di aria gelida che la colpì in pieno. Guardò a destra e a sinistra, ma la strada le sembrò completamente deserta.
“Dove sei?” soffiò al vuoto, il vento che le scompigliava i capelli.
E poi vide una moto che si avvicinava. Strinse gli occhi, cercando di capire se fosse lui: individuò un puntino rosso nella notte, proprio all’altezza della bocca del pilota, e sorrise.
Benedetta sigaretta.
La moto si fermò ad un passo da lei. 
Veronica lo osservò, le braccia strette al petto per combattere il freddo e individuò il casco legato sotto il manubrio.
“Non è esattamente quella la sua funzione, sai?” ironizzò.
Matteo non rispose, stringendosi nelle spalle. Non la guardava in faccia.
Aspirò un’ultima volta e lasciò cadere la sigaretta, spegnendo il mozzicone sotto la scarpa. 
“Come mai qui?” gli chiese, cominciando a tremare.
La risposta si fece attendere. Ebbe il tempo di perlustrare la strada e di stupirsi tanto dell’assenza di persone quanto di quella di pinguini.
“Mi hai invitato.” rispose alla fine, laconico.
Veronica sospirò, combattendo la stanchezza. Non gliela dava vinta.
“Intendevo, cosa ti ha convinto?”
Lui inarcò un sopracciglio. 
“E’ successo qualcosa? Perché mi sembrava che fossi tutt’altro che incline a venire.”
“Non posso cambiare idea?” esclamò lui, punto sul vivo, voltandosi finalmente a guardarla.
La strada era immersa nella penombra, illuminata appena da qualche rado lampione, eppure lei lo vide chiaramente e lui capì di aver sbagliato. 
“Che hai combinato?” 
Gli si avvicinò rapidamente, poggiandogli una mano sotto il mento per sollevargli il viso.
Matteo la lasciò fare. 
“Cos’è successo?”
“Ho sbattuto contro un muro.” borbottò lui, arretrando di un passo.
Veronica rise, ma la preoccupazione non le sparì dal viso mentre guardava quell’occhio nero. Un muro. Era risaputa l’abilità dei muri di fare occhi neri. 
Sospirò, scuotendo la testa, affranta e divertita al tempo stesso.
“Fa male?” s’informò, gentilmente.
Matteo scosse la testa, le labbra serrate e l’espressione seria. 
Orgoglioso e testardo. Il peggio, in definitiva.
Veronica annuì, alzando un dito a sfiorargli l’alone scuro. Lui sussultò, una smorfia di sofferenza ad alterargli i lineamenti. E lei annuì ancora.
“Andiamo.” sussurrò, afferrandogli il braccio “Vediamo che posso fare.”

 

 

“Stai fermo.”
Il ragazzo si agitò sulla sedia, le labbra serrate e il respiro accelerato.
“Fermo.” ripeté lei, la mano che gli serrava la spalla.
“Mi fai male.” scandì lui, arretrando di scatto.
Veronica sorrise, la mano ferma a mezz’aria: “Ti faccio male?” 
Matteo grugnì, squadrando con astio le dita unte di lei. Annuì convinto e fece per alzarsi, ma fu prontamente bloccato: “Giuro che ti lego, se non
stai fermo.” 

All’espressione sconfortata del ragazzo sospirò, esasperata.
“E’ una pomata, per l’amor di Dio!”
“Stai infierendo.” la redarguì lui, un broncio mal celato ad increspargli le labbra. 
Veronica scosse la testa, incredula. Rimase qualche istante a fissare quel broncio adorabile, poi mosse un passo verso di lui e gli si sedette in braccio. Cavalcioni.
Matteo dischiuse le labbra, un’ombra di incredulità che gli oscurava lo sguardo. Non si mosse, quasi smise di respirare. 
Lei inclinò la testa e lo guardò innocentemente: “Posso?”
Matteo annuì impercettibilmente e lasciò che le dita di lei tornassero sul suo viso. Chiuse gli occhi, respirando a mala pena. Lasciando tutto ai sensi.
“Ti faccio male?”
Matteo accennò un sorriso, negando con fare rilassato. Non era mai stato meglio.
Sentiva le dita sottili di lei che gli carezzavano il contorno dell’occhio sinistro: attente, leggere come ali di farfalla. Si muovevano, abili e delicate. Movimenti circolari, che lentamente si allargavano. Le sentì scendere con calma e un sospiro gli sfuggì nel momento in cui si soffermarono sul suo zigomo.
“Brucia?” chiese ancora Veronica, il tono preoccupato.
“No.” mormorò lui in risposta, mentendo. Come sempre. Dov’era, in fondo, il problema?
“Sicuro?”
“Sì.” mentì ancora, senza preoccuparsene.
Le dita di lei continuarono ancora un po’ la loro corsa, coprendo ogni centimetro di pelle tumefatta. Veronica si morse il labbro, concentrata: non voleva sbagliare, premere più del dovuto. Guardò l’alone violaceo e storse il naso, irritata; era un occhio nero da dieci e lode, doveva ammetterlo: gonfio e livido. Orrendo. Doloroso.
“Un muro, quindi?” domandò, non riuscendo a frenare la lingua. Registrò subito il tendersi del corpo di lui, i muscoli che si irrigidivano. Un
tasto dolente, quasi quanto doveva esserlo l’occhio.

“Già.” categorico, sicuro, coinciso. Il tono perentorio di chi vuole chiudere un discorso.
Veronica annuì, allontanando piano la mano dal volto del ragazzo. Respirava piano, soprappensiero. Lasciò scorrere lo sguardo su quel viso: le labbra serrate, gli occhi ancora chiusi. Un alone scuro che gli sfigurava la metà sinistra della faccia, dal sopracciglio fin sotto allo zigomo. Innocuo. Ecco, come appariva in quel momento Matteo. 
Innocuo ed innocente. E lei sapeva che era assurdo.
Veronica sorrise, un sorriso finto. Il sorriso di un’illusa, pensò, pulendosi le dita su di un panno.
“Fatto?”
Lei non rispose, lasciando che il tono incerto del ragazzo aleggiasse ancora nell’aria. Non riusciva a decifrare i sentimenti che si nascondevano dietro quella domanda. E ancor meno si sentiva in grado di comprendere colui che gliel’aveva rivolta. Gentile, poi scorbutico. Galante, poi cafone.
Un ossimoro vivente. O una persona molto, molto confusa. 
Qualcuno che tenta di nascondersi dietro una maschera; una maschera di indifferenza e sfrontatezza, fatta su misura.
“Ehi?”
Matteo aprì gli occhi, lentamente, incrociando subito quelli di lei. Le sorrise, lo sguardo luminoso, ringraziandola senza sprecare parole. Non era bravo con le parole, lui. Non lo era mai stato. Studiò l’espressione diffidente della ragazza e sentì il sorriso che gli si spegneva piano.
“Qualcosa non va?” chiese, tornando serio.
Veronica continuò a non rispondere, il viso che si avvicinava al suo. Matteo si accigliò, aderendo con la schiena alla sedia. La guardò di sbieco, mentre lo strofinaccio nella mano di lei gli si poggiava delicatamente sulla fronte.
“Una goccia di sangue.” mormorò lei, a mo’ di spiegazione.
Matteo, però, quasi non la sentì. Gli occhi chiusi dal momento in cui il corpo di lei si era appoggiato al suo. Strinse i denti, cercando di controllarsi. Non si capiva. 
Odiava quella situazione. Odiava non capire cosa diavolo gli stava succedendo.
Ripensò ai pochi minuti che avevano passato insieme in ascensore, aspettando di raggiungere l’ultimo piano. Ripensò a quei secondi che non sembravano scorrere, al tempo che si era come cristallizzato. Rivide la figura di lei, rigida, tremante. E ricordò il gesto istintivo, spontaneo, con cui le aveva messo la propria giacca sulle spalle. 
E si ritrovò di nuovo in quell’ascensore.
“Sei ubriaco” un sussurro. Occhi negli occhi.
Aveva scosso la testa, una piccola bugia. Aveva sorriso senza apparente motivo e si era avvicinato a lei, inconsciamente, giusto di qualche passo. Sentiva il profumo di lei ovunque: profumo alla vaniglia. Guardava quegli occhi azzurri, dolcissimi e non riusciva più a pensare coerentemente. Aveva ragione lei, doveva essere ubriaco. 
Riaprì gli occhi e, ancora una volta, incontrò quelli di Veronica. Lo lasciavano disarmato, ogni volta di più.
“Non mi hai risposto.” mormorò senza osare muoversi di un millimetro.
“E tu mi hai mentito.” ribatté Veronica, lo strofinaccio che le scivolava di mano.
Matteo sorrise, decidendo che quel round poteva dirsi finito in parità. 
Aspettò qualche istante, attendendo che anche lei tornasse a rilassarsi. Non successe, e si costrinse a muovere un piccolo passo indietro:
“Ho fatto qualcosa che…”
Non riuscì a concludere la frase, interrotto dalla porta della cucina che veniva improvvisamente spalancata. Si voltarono entrambi verso Cinzia
che, poggiata allo stipite, li fissava divertita. 

“Ho interrotto qualcosa?” chiese, il sorriso che si accentuava.
Matteo scosse la testa, destabilizzato dalla velocità con cui Veronica si era alzata, imbarazzata dalla situazione. Con movimenti svelti e decisi posò lo strofinaccio accanto al lavandino e la pomata in una credenza laterale, poi, ripresasi, tornò a guardare l’amica:
“E’ successo qualcosa, Cicì?”
Cinzia scosse la testa, stringendosi platealmente nelle spalle.
“Oh, no.” ridacchiò “Solo, mancavate voi due. Iniziavo a chiedermi che fine aveste fatto.”
“Gli ho messo un po’ di balsamo sull’occhio.” 
Cinzia annuì, incrociando le braccia al petto. Lisciandosi quindi il vestito rosso, sentenziò:
“Raggiungeteci, appena potete.”  sorriso fugace “C’è ancora il gioco della bottiglia.”
Veronica sospirò, una smorfia sul volto. Afferrò una bottiglia dal mobile alla sua destra e l’aprì, accasciandosi su di una sedia. Matteo la fissò, occhieggiando con sospetto la bottiglia fra le sue mani.
“Che fai?” chiese nell’attimo in cui lei cominciava a riempirsi un bicchiere.
“Finisco di ubriacarmi.” rispose lei, bevendo il primo di una tanti sorsi.
Matteo lanciò un’occhiata alla porta e inarcò un sopracciglio, non convinto.
“Non sei ubriaca.”
“Mancano pochi bicchieri, non temere.” ribadì Veronica mentre lui si alzava in piedi, divertito dalla situazione. Ne studiò la figura, soffermandosi inevitabilmente sul viso di lui: su quella barbetta appena visibile che tanto la incuriosiva, e su quella cicatrice che gli solcava la tempia destra. Bianca, sottile, misteriosa.
“Come te la sei fatta?” domandò, sentendo che il vino cominciava a compiere il suo lavoro.
“Cosa?”
“Quella.” rispose Veronica, accennando col dito alla sua fronte. 
Si alzò in piedi, raggiungendolo in pochi passi e poggiando l’indice sulla cicatrice.
“Questa.” sussurrò, mentre l’ultimo sorso di vino le riscaldava la gola, sciogliendole la lingua. La risposta che ottenne non fu quella che per cui aveva chiesto.
“Non dobbiamo andare di là?” 
Veronica scosse la testa, piegando le labbra in una smorfia da bambina capricciosa.
“Non mi va.” 
Matteo ridacchiò e le tolse il bicchiere vuoto di mano. Sorrideva, apparentemente rilassato.
“Non ti va?”
“No.” scandì lei “Odio il gioco della bottiglia.” 
“Perché?”
“Non ti rispondo.” s’intestardì Veronica, fissandolo con sufficienza “Tu non mi hai risposto.”
“Ma io non sono ubriaco.” ribatté lui, il riso nella voce.
“Io non sono ubriaca.” ridacchiò Veronica. Matteo alzò gli occhi al cielo.
“Sì, lo sei.”
Veronica serrò le labbra, assottigliando lo sguardo.
“Anche tu.”
“E se anche fosse?” si strinse nelle spalle lui, prendendola per mano e tirandola verso la porta della cucina. La aprì con noncuranza, un piede già sul parquet del salone. 
Salone che affacciava su un vero e proprio appartamento da sogno: enorme, sofisticato, luminoso. Senza contare accogliente, colorato e super-accessoriato, ovviamente. 
“Restiamo qui?” chiese Veronica e Matteo si voltò appena, sorridendole di sbieco. Riprese a camminare, avvicinandosi con destrezza agli altri
ospiti. Fece per lasciare la mano di lei, ma Veronica rafforzò la stretta, avvicinando le labbra al suo orecchio:

“Non è che vuoi fare un giro turistico della casa?” gli domandò, cercando una scusa che le permettesse di allontanarsi per un altro po’. 
“No, grazie.” 
“Perché no?” chiese lei, gli occhi più lucidi del solito.
“Perché già quello che ho visto finora ha dato un duro colpo al mio amor proprio.”
Veronica sbuffò, lasciandogli la mano nel momento stesso in cui una Cinzia si faceva strada verso di loro per trascinarla verso la poltrona più vicina.
“Abbiamo interrotto il gioco quando te ne sei andata, sai?” 
“Non mi va di giocare, Cicì.” guaì Veronica.
“Lo avevi promesso.” 
“Ma io odio il gioco della bottiglia.” esclamò, alzando gli occhi al cielo.
Cinzia ridacchiò, fissandola senza alcuna pietà.
“Oh, lo so. Se la metti così, però, mi sei debitrice.”
Veronica sospirò e si guardò attorno alla ricerca di un’ultima scintilla di salvezza.
Un sorrisetto le piegò le labbra quando gli occhi di Matteo si fermarono nei suoi.
“Ho una proposta, Cicì.”

 

 

***

 

 

 “Sei bellissima.”
Morso leggero sul labbro. Respiro represso.
“Te l’ho già detto?”
Porta che si chiude. Risata che nasce, bloccandosi poi su un paio di labbra calde e appena conosciute.
Veronica sorrise, la schiena contro il legno, il corpo di Matteo contro il suo.
“No.” sussurrò, scuotendo piano la testa “Mi hai dato della pazza, in compenso.”
Matteo sorrideva, le mani ancorate su un paio di fianchi morbidi, sinuosi, che non aveva la minima intenzione di lasciar andare. Si allontanò dal viso di lei quel tanto che bastava a guardarla negli occhi.
“Una pazza bellissima.” sospirò, tornando a premere le labbra sulle sue.
Veronica non si allontanò. 
Non che avrebbe potuto. Non che lo volesse.
Allacciò le mani dietro il collo del ragazzo, tirandolo prepotentemente a sé. Fece sì che quel corpo si scontrasse con il suo, aderendovi alla perfezione. 
Chiuse gli occhi, incurante del resto.
Tutto il suo mondo si era appena ridimensionato a quel momento.
Rispose al bacio, muovendo le labbra, schiudendole appena. Sorrideva, sentendo le mani di Matteo che le carezzavano la schiena. Sospirava, sentendo come lui pian piano aumentava la pressione, spingendola ancor di più contro la porta. 
E non pensava a niente. Tranne che a lui. E a quella follia.
La loro assurda, incredibile, follia.
Quando Matteo interruppe il bacio, allontanandosi poco a poco, Veronica si ricordò di respirare. Indecisa se aprire o no gli occhi. 
Le labbra di lui la convinsero a tenerli chiusi. Serrati. 
Labbra che scendevano, questa volta. Sfiorarono per un solo secondo la bocca, passando lievi sulla guancia. Un piccolo contatto con il lobo dell’orecchio destro e poi una rapida discesa verso il collo. Sicure, decise.
Un percorso conosciuto, intrapreso con destrezza e compiuto magistralmente. Bollente.
Veronica sentì un sospiro che le forzava le labbra. Reclinò la testa all’indietro, poggiandosi contro la porta, incapace anche solo di reggersi in piedi. Il respiro accelerato, poi improvvisamente mozzo. Il cuore letteralmente impazzito.
Le sembrava di avere i sensi intorpiditi.
Le mani del ragazzo che le solleticavano la vita, le labbra che premevano sulla base del collo. Mosse piano le dita, sfiorandogli inavvertitamente la schiena. Lo sentì sussultare, sorridere e regalarle un nuovo bacio mentre, con maggiore enfasi di prima, tornava a darle fuoco. Veronica sospirò, le mani che salivano tra i capelli del ragazzo. 
Era confusa: sentiva i pensieri che le si agitavano nella testa, lottando furiosi come uccellini in gabbia. Volevano uscire, essere liberati, capiti. Lei però non ci riusciva. 
Non in quel momento. Non poteva soffermarsi a pensare, come avrebbe potuto?
Eppure i pensieri ebbero la meglio.
Iniziarono ad agitarsi ancor di più, muovendo irrequieti le ali, imponendosi.
Erano dei passerotti, pronti a spiccare il volo. Sei, sette, non di più.
Il primo risaliva ad appena un’ora prima. 
Al momento in cui aveva ceduto, accettando di riprendere il gioco della bottiglia. In realtà sorrideva, seppur un po’ nervosa. E si sentiva leggera, soddisfatta, conscia di aver appena concluso il miglior accordo della sua vita. Veronica aveva preso posto sul parquet, la bottiglia fra le mani. Aveva guardato prima Cinzia, sorridente ed emozionata. Poi Matteo, con il suo occhio nero e quel mezzo sorriso. 
Il secondo era appena un flash. 
Come uno scatto. Un’istantanea. Il momento, l’attimo esatto, in cui aveva poggiato la bottiglia sul pavimento. L’istante in cui aveva ruotato il polso, facendo sì che cominciasse finalmente a girare. 
Inesorabile, lenta, ponderata. Girava.
Il terzo erano più immagini. 
Momenti infinitesimali che si frapponevano. L’inesorabile e lento rallentare della bottiglia. L’unghia morsicata di Veronica. Il gesto calcolato di Cinzia, un colpo assestato al momento giusto. La bottiglia che si fermava. 
Il tappo puntato sull’ultimo arrivato.
Il quarto non aveva tempo.
Era il suo cuore che si fermava, sorpreso anche se non avrebbe dovuto esserlo. Era l’espressione meravigliata di Matteo. Era il coro della folla, il broncio del tipo bucherellato, il ghigno soddisfatto della festeggiata. 
Il quinto era due cose assieme. 
Il grido unanime che li incitava e il loro avvicinamento. I visi che si sfioravano senza fretta. Le labbra rasenti, i respiri incrociati, gli sguardi incatenati.
Il sesto era il più forte. 
Quello che la colpì in pieno, facendole mancare nuovamente un battito. Spezzandole il respiro. Era il bacio. L’incontro fulmineo di labbra, carponi, le mani sul parquet. I sapori che si fondevano, i sentimenti che si confondevano. E quel bacio che era per gioco, quel bacio casuale e premeditato, quel bacio che sarebbe dovuto durare pochi attimi, continuò. A lungo.
Perché non importavano più tutti gli altri. O i commenti che li riguardavano. Né il perché lo stessero facendo. Niente sembrava avere più senso. Semplicemente si stavano baciando. E quel bacio, da casto e rapido che doveva essere, rischiò di diventare esattamente il contrario.
Il settimo era l’ultimo. 
Il più recente e il più confuso. Era la fine del bacio e l’inizio del resto. C’erano loro che tornavano a sedersi, il respiro accelerato, gli sguardi accesi e gli occhi lucidi. C’era Matteo che si alzava, chiedendo dove fosse il bagno e Veronica che si offriva di mostrarglielo. 
E poi c’era il tutto.
Il continuo. Passi incerti lungo il corridoio. Matteo che si lavava le mani, guardandosi sempre allo specchio, fissando il riflesso di lei alle sue spalle.
C’erano loro, scarmigliati, confusi.
E c’era Matteo che si voltava di scatto, le mani ancora bagnate. Dita umide che stringevano senza preavviso il volto di Veronica. Labbra che si incontravano di nuovo, per la seconda volta. Labbra ardenti, impazienti, tremanti. Respiri furiosi, sorpresi, ebbri.  
Veronica avvertì quasi fisicamente l’allontanarsi del settimo passerotto. Era l’ultimo pensiero, l’ultima preoccupazione. Lo sentì volare via, liberandole la mente. E tornò contro la porta, in quella stanza che non era il bagno. La stanza in cui non sapeva nemmeno come e quando erano arrivati.
Tornò in sé, le dita fra i capelli di Matteo. Sentendosi ubriaca, di vino e di lui.
Dei suoi baci, che continuavano imperterriti, scendendo fino alla spalla. Sentì le dita di lui che le spostavano la spallina del vestito, le labbra che formavano un sorriso sulla sua pelle. Reclinò ancora la testa contro la porta, le gambe di Matteo che si incrociavano alle sue. Quando avvertì un piccolo morso sul braccio, scherzoso e pieno di desiderio, ridacchiò piano. L’ansia che saliva.
“Sei ubriaco.” mormorò, le parole che uscivano sconnesse.
Si aspettava il solito diniego, l’ennesima bugia della serata. Si sbagliava.
“Sì.” mani che salivano lungo i fianchi, raggiungendo le spalle “Di te.” 
Veronica aprì gli occhi, trovando quelli del ragazzo a pochi centimetri, nella penombra della stanza. Lo vide ansimare, le labbra rosse e gonfie, e sorrise. Lasciò andare i capelli e gli poggiò i palmi aperti sul petto. Riusciva a sentirne il respiro accelerato.
Un boccolo le cadde davanti agli occhi, oscurandole per un attimo la vista. Non ebbe il tempo di muoversi che le dita di lui erano già intervenute, allontanandolo delicatamente. 
E quello bastò.
Veronica si tuffò contro di lui, atterrando sulle sue labbra. Cominciò a muoversi, a mordicchiare. La lingua che gli sfiorava il labbro inferiore, che ne saggiava il sapore. Cioccolato, tabacco e birra.
Avrebbe volentieri approfondito il contatto, lo studio, non fosse stato per le mani di lui che giunsero a distrarla, prorompenti. Si muovevano sulla schiena, appena sotto il collo, armeggiando con la lampo del vestito. Veronica si mosse appena, cercando di andargli incontro. Poi sentì quelle stesse dita che scendevano, tirando con sé la cerniera. E capì che pensare non serviva a niente. 
Mentre la lampo continuava ad aprirsi, cominciò a cercare il contatto con la pelle di lui. Ne studiavano il vestiario, tentando inutilmente di ricordare cosa lui indossasse. L’unica cosa che le veniva in mente era la giacca che lui le aveva galantemente messo sulle spalle. 
Chissà dov’era finita.
Veronica sbuffò, sempre contro la bocca di Matteo, quando sentì che lui cercava di farle scivolare via il vestito. Lui si bloccò, temendo di aver fatto qualcosa di male. Non riusciva a vedere l’espressione della ragazza e iniziava a preoccuparsi, immobile, quando sentì le mani di lei che dai fianchi cercavano di tirargli via la felpa. 
Matteo sorrise, sollevando le braccia, lasciando che lei gliela sfilasse. Poi un fruscio catturò la sua attenzione: il rumore leggero, quasi inesistente, di un vestito che scivola per terra.
Si girò immediatamente, tornando a fissare la ragazza che aveva fra le braccia. Quel corpo bellissimo che era fra lui e la porta. Smise di respirare senza nemmeno accorgersene. 
Delle mani che si poggiavano sui suoi pettorali, spingendolo delicatamente. Matteo sgranò gli occhi, il fiato che tornava lentamente a fuoriuscirgli dalla bocca. Arretrò piano, attento, senza perdere di vista quel viso arrossato. Gli occhi che stentavano a registrare ogni cosa.
Veronica lo sospinse ancora un po’, finché le sue gambe non cozzarono contro la base del letto. Nella penombra lo vide dischiudere le labbra. Un’ultima spinta e cadeva di schiena sul materasso, un piccolo rimbalzo privo di rumore. 
Ne osservò i contorni nella poca luce a disposizione, facendo per sfiorare gli addominali con le dita, un ginocchio poggiato fra le gambe di lui. Non ebbe modo di fare alcunché: a sorpresa lui le afferrò una mano e la tirò su di sé.
E in un attimo le posizioni erano invertite: Matteo sopra, Veronica fra le sue braccia.
Sorrideva, le labbra sulle sue, mai stanco. Sempre diverso.
Piegò il viso, poggiandolo nell’incavo del collo di lei. Il profumo alla vaniglia che lo investiva in pieno, gli occhi che gli si chiudevano appena. Strusciò il naso contro quella pelle liscia, le mani ai lati del corpo della ragazza, il corpo appoggiato senza pesare su di lei. La guardava, incantato.
Veronica respirava a tratti, le mani che percorrevano i contorni delle spalle di Matteo.
Scendevano piano, le dita: incerte, caute. E poi improvvisamente spericolate. Carezzavano la schiena, giocando per tutta la colonna vertebrale. Passavano sull’addome, saltando alcune costole, solleticando i pettorali e disegnando gli addominali. Scherzavano, incuranti delle reazioni di lui, senza accorgersi dei tremiti, dei sobbalzi, dei brividi che provocavano.
E fu dopo l’ennesimo brivido che il Matteo sospirò, agitandosi improvvisamente.
Veronica lo osservò cambiare, una luce negli occhi più scuri del solito. Lo sentì tendersi, il viso che di colpo scendeva lungo il suo collo, le labbra che superavano la spalla, raggiungendo per la prima volta il seno. Vi si poggiarono con delicatezza, leggere e sensuali, mentre le dita cercavano di aprire il gancetto del reggiseno. 
E a quel punto fu il fuoco, l’anticamera dell’inferno.
Non vi era più un limite, nessuna indecisione. 
Veronica s’inarcò sotto di lui, la vista che si annebbiava, le mani che gli cingevano le spalle. Matteo non si fermò, le mani che continuavano la loro folle discesa. I denti che giocavano con la punta dei seni di lei. E lei pensò di aver raggiunto il culmine, ne era convinta; poi sentì le dita di Matteo sul bordo degli slip, carezzarle i fianchi, pronte a sfilarle l’ultimo indumento, e capì di essersi sbagliata per l’ennesima volta.
Si mosse appena, il corpo di lui che le impediva i movimenti. 
E fu con quel piccolo spostamento che avvertì cosa non andava: il tessuto che ancora avvolgeva le gambe di lui. Fece scivolare le mani fino alla vita del ragazzo, cercando il bottone dei jeans. Pochi istanti e anche la lampo era andata. 
Non si poteva più tornare indietro.
Forse fu quell’improvvisa certezza. La convinzione di aver raggiunto il punto di non ritorno.
Forse furono i jeans di Matteo che scendevano alle caviglie, seguiti a ruota dai boxer scuri.
O ancora gli slip di Veronica improvvisamente scomparsi. L’assenza di alcunché fra i loro corpi.
Il contatto pelle contro pelle.
Qualcosa. Qualcosa la fece scattare. Le labbra che si dischiudevano, una luce spaurita e tormentata che le illuminava lo sguardo, mentre quelle parole bisbigliate premevano per uscire:
“Stiamo sbagliando.” ansimò, un tremito colpevole “E’ l’alcol. Non dovremmo.”
Un sussurro sconnesso. Un lieve scuotere del capo.
Matteo si immobilizzò, gli occhi puntati in quelli della ragazza. Non sorrideva.
La guardava, il viso a pochi centimetri dal suo.
Fu un attimo e quella breve distanza venne annullata.
Le labbra che premevano su quelle di Veronica. Il corpo che si tendeva, mostrandole il suo desiderio.
“Quello che stiamo facendo,” mormorò serio, mordicchiandole il labbro inferiore “questo,” continuò, la fronte poggiata alla sua “è tutto fuorché uno sbaglio.”

 

§








 

 

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Capitolo 5
*** Come tutte le mattine ***




Bugie bianche

                                                                                                

     ≈  Come tutte le mattine ≈

 

 

 

“Bussano.”
Veronica si rigirò nel letto tirandosi il lenzuolo fin sopra il naso.
Gli occhi serrati, ancora in pieno dormiveglia, non prestò minimamente ascolto a quel mormorio incoerente; strusciò i piedi uno sopra l’altro, riprendendo pian piano il contatto con la realtà.
“Bussano.”
Di nuovo quel mormorio, indefinito. Stranamente vicino.
Veronica inarcò un sopracciglio, gli occhi ancora ben chiusi. Bussano?
Chi bussa? Dove? Perché?
“Cosa?” chiese allora, formulando a voce l’unica domanda che non si fosse già inutilmente e faticosamente posta.
“Bussano.” 
Veronica trattenne a stento uno sbuffo irritato: quella voce non la stava affatto aiutando a trovare le risposte che le servivano. Dannata voce. Voce. Voce? 
Fu a quel punto che le sinapsi tornarono, seppur lentamente, a funzionare: c’era una voce. Proprio lì, accanto a lei. Come di qualcuno sdraiato nel letto, accanto a lei. 
Voce, letto, lei. Veronica sgranò gli occhi e abbassò timorosamente il lenzuolo: giusto quel tanto per controllare la situazione. Oh, sì. Le sinapsi avevano funzionato. 
Chiuse gli occhi e cercò di rimuovere l’immagine che le si era appena impressa a fuoco nel cervello: il corpo di un ragazzo, a pochi centimetri da lei. Il lenzuolo gli copriva a malapena le gambe e Veronica si ritrovò basita a fissare quella schiena nuda. Non doveva guardargli il sedere, si impose.  Tossì, la saliva che rischiava di andarle di traverso.
Non poteva e non doveva guardargli il sedere, no. La faccia però era tutta un’altra storia, giusto? Così, tanto per assegnare un’identità al tizio; l’alcol e la sua immensa abilità di farti dimenticare con chi diavolo sei finito a letto. 
Poggiò una mano sul materasso e si sporse oltre la schiena di lui, avvicinandosi sempre più a quel viso che continuava ostinatamente a starsene nascosto fra i cuscini. Era quasi riuscita nell’impresa quando la mano le scivolò e finì, senza neanche sapere come, con il gomito nel fianco del ragazzo. Lui si rigirò con un gemito e spalancò gli occhi. 
 “Matteo!”
Squittì, realizzando troppe cose insieme: c’era Matteo a letto con lei, Matteo nudo, quel Matteo; e lei, oddio anche lei era nuda. Si coprì alla meglio col lenzuolo mentre flash della serata le esplodevano in testa: confusi, prepotenti e assolutamente non adatti ai minori. 
Una nuova scarica di colpi si abbatté sulla porta e Veronica ricordò cosa il ragazzo aveva mormorato fino a quel momento: bussano. 
Gemette, appoggiandosi alla testata del letto e sferrando un calcio in direzione di Matteo.
“Ehi!” si scansò lui “Ti sembra il caso?”
“Stavi dormendo.” soffiò Veronica, fulminandolo con lo sguardo. 
“Anche tu.”
“Non dovevi addormentarti! Non qui, non... così!”
“Nudo?”
Veronica alzò gli occhi al cielo e tirò un altro po’ il lenzuolo a sé, prontamente bloccata dalle mani di lui: “Ah, no. Non ti azzardare.”
Un rumore sordo risuonò nella stanza e entrambi si voltarono in direzione nella porta. 
“Era un calcio?” sussurrò Matteo con aria sconvolta “Stanno prendendo a calci la porta?”
Veronica fece per rispondere, ma un grido le tolse le parole di bocca:
“Vi decidete ad uscire?!”
Matteo perse la presa sul lenzuolo e scosse il capo senza capire: “Chi diavolo...?”
Veronica accennò un sorriso e si strinse nelle spalle. 
“Cinzia.” rispose con ovvietà nel momento stesso in cui la voce tornava a farsi sentire.
“Guardate che entro!”
Veronica sospirò e tirò a sé anche l’ultimo lembo del lenzuolo: se lo avvolse attorno a mo’ di mantello, quindi scese con un salto dal letto, incurante delle imprecazioni di Matteo. 
“E’ la mia camera!” ricominciò la voce, sempre più alta “Ve ne rendete conto?!”
Matteo assottigliò lo sguardo e mugugnando scese a sua volta dal letto; si rese conto di non avere più un lenzuolo con cui coprirsi e rischiò di inciampare nei suoi stessi piedi.
“Ragazzina.” ringhiò, sperando di ottenere un minimo di considerazione, ma lei continuò a vagare per la stanza alla ricerca di qualcosa.
“Miseriaccia nera!” sbottò allora, arrendendosi a coprirsi i genitali con un cuscino.  

“Non trovo il mio vestito.” sussurrò Veronica.
Matteo scosse la testa e indicò la porta: “La camera di Cinzia?” 
Veronica annuì e si fermò di fronte a una scrivania: “Oh!” si piegò oltre la sedia “Trovato!”
“Camera di Cinzia.” ripeté Matteo, scandalizzato “Cazzo.” mugugnò, strofinandosi sconfortato la mano libera sul viso “Cazzo, cazzo, cazzo, cazzo!”
Veronica si fermò un attimo per lanciargli un’occhiata di rimprovero.
“Non essere sboccato di prima mattina.” lo riprese, provocando un nuovo grido da fuori la porta.
“Prima mattina?” esplose la voce “Sono le nove, dannazione!”
Veronica sbuffò, girò attorno al letto e afferrò con nonchalance le mutandine che pendevano dal bordo del comò. 
“Cicì, calmati, stiamo uscendo.”
“Calmarmi?!” sbottò Cinzia, colpendo ancora una volta la porta “Vuoi che ti elenchi tutti i motivi per cui non posso assolutamente calmarmi?”
“Sentiamo.” mormorò Veronica, aprendo la porta e scoccando un sorriso tirato all’amica.
Cinzia si appoggiò allo stipite e incrociò le braccia al petto: lanciò un’occhiata al letto sfatto, a Veronica avvolta in un lenzuolo e a Matteo accasciato contro l’armadio con un cuscino a coprirlo alla meglio. 
“Punto primo,” cominciò “è la mia stanza. Stanza di cui voi due vi siete impossessati.” scoccò uno sguardo furente a entrambi e continuò “Presi dalla passione, però, non avete certo pensato di chiudere a chiave la porta.” 
“Errore nostro.” concesse Veronica.
“Mi avete sconvolto un paio di ospiti.”
“Oh.”
“Loro cercavano il bagno e hanno sbagliato stanza, voi che scusa avete?”
Cinzia inarcò un sopracciglio, aspettando una risposta che non arrivò.
Matteo alternò lo sguardo fra le due ragazze, conscio unicamente di essere nudo. Nudo, in una casa che non era la sua. Nudo, in una camera in cui non era solo. Di essere nudo, ecco. E basta.
Improvvisamente si ricordò dell’armadio che aveva alle spalle e un lampo di speranza lo attraversò: aprì la prima anta, pregando di trovare un accappatoio, una giacca, qualsiasi cosa. Ciò che vide, invece, riuscì soltanto a lasciarlo a bocca aperta. Fissò sconcertato le numerose fila di completi intimi, incapace di distogliere lo sguardo. Guardò incantato tutti i giochetti erotici, i frustini, le manette. Un arsenale in piena regola di armi di seduzione. Matteo chiuse la bocca, sconcertato. Si voltò, incredulo, squadrando con occhi nuovi l’intera stanza: le lenzuola di seta, il letto a due piazze, i tappeti eleganti. Tutto in sfumature di rosso.
Un singulto sorpreso gli risalì in gola, e entrambe le ragazze si girarono verso di lui. 
Cinzia strinse le labbra, incenerendolo con lo sguardo. Matteo balbettò qualcosa e richiuse maldestramente l’anta: “Scusa.” 
Non riuscì in alcun modo a frenare la domanda successiva, perfettamente conscio di quanto azzardata e inopportuna fosse: 
“Chi diavolo sei?”
“Una escort, deficiente.” sibilò Cinzia, entrando rapidamente nella camera e spingendolo via  dall’armadio “Ti faccio un disegnino o ci sei arrivato, finalmente?”
Matteo si limitò a sbattere le palpebre, arretrando spaurito.
“Che bel modo di cominciare la giornata.” esclamò una quarta voce, attirando a sé gli occhi dei presenti. Una figura piccola ed esile si stagliava sull’uscio: una tazza piena di latte e cereali in una mano e un cucchiaio nell’altra. La bocca piena, sorrise, esordendo con una nuova constatazione grondante giubilo:
“Meglio del cinema, vi assicuro.” ridacchiò il ragazzino, portando alla bocca un’altra cucchiaiata di cereali al cioccolato e annuendo in direzione dei tre. 
Cinzia alzò gli occhi al cielo e tornò a guardare Veronica, il tono improvvisamente dolce e controllato: “Ah, quasi me ne dimenticavo.” sorrise “Il regalo mi è piaciuto tantissimo! Credo che lo inaugurerò stasera stessa.”
Veronica ricambiò il sorriso e annuì contenta. 
“Cicì, hai per caso visto...?”
“Sulla lampada.” sospirò Cinzia. Veronica fissò con sconcerto la lampada affianco al letto e si chiese come diavolo avesse fatto il suo reggiseno a finire lassù.
“Che ha il tuo cuscino, amico?” chiese l’ultimo arrivato, rivolgendosi ad un Matteo sempre più a disagio. Tutti gli occhi si spostarono di nuovo, puntandosi questa volta sul guanciale con cui il ragazzo tentava di coprirsi.
La risposta di Matteo consistette in uno sguardo astioso, ma il ragazzino non se ne fece un problema e continuò tranquillo: “No, perché, sai…” gli sfuggì una risatina “è leggermente rigonfio.”
“E’ sempre così.” sibilò Matteo, lo sguardo puntato sul tappeto “E’ come tutte le mattine.” 
E la risatina dell’altro divenne una risata in piena regola. 
Matteo gemette esasperato e fissò quel diavolo di ragazzino: era esile, non molto alto, scuro di capelli, occhi e carnagione. Non dimostrava più di diciassette, diciotto anni. Ciò che però lasciava perplessi più di ogni altra cosa, era l’assurda somiglianza con un roditore: gli occhi grandi e le orecchie leggermente a sventola erano le prime cose che attiravano l’attenzione. Matteo lo squadrò con interesse e si chiese come fosse possibile che, nonostante ciò, avesse un aspetto sommariamente gradevole. Affascinante, quasi.
“Chi diavolo è il topo?” ringhiò senza rivolgersi a qualcuno in particolare.
Veronica lo rimproverò con lo sguardo.
“Non essere s…” cominciò, prontamente interrotta dal ragazzo.
“Non sono stato sboccato.” ribatté, sbuffando sonoramente. 
“Stavo per dire sgarbato.” sospirò lei, esasperata “Forse sarebbe stato meglio dire cafone.”
Matteo aprì la bocca per rispondere, ma il ragazzino si intromise nella conversazione, mugugnando a bocca piena: “Oh, ma io non mi offendo mica!”
Veronica scosse piano la testa, non sapendo più contro chi doveva combattere.
“Lui è Mickey.” fece le presentazioni, aspettandosi l’espressione irrisoria e beffarda che Matteo difatti subito assunse.
“Come Topolino?” chiese il ragazzo, trattenendo a stento una risata, quasi dimentico di essere ancora nudo in presenza di tre quasi sconosciuti.
“Sì.” sbuffò Veronica “Michele Geronimo. Prima lo chiamavamo Michi, ma poi qualche testa bacata l’ha ribattezzato Mickey.”
Matteo annuì, il volto ancora contratto dallo sforzo di non ridere. Lanciò un’occhiata al giovane topo e inarcò un sopracciglio, attendendo che dicesse qualcosa. Quello ricambiò lo sguardo senza sapere cosa dire o fare e alla fine, stringendosi nelle spalle, allungò la tazza in direzione di Matteo:
“Latte e cereali?”
Ignorando l’espressione incredula del ragazzo nudo e il suo secco rifiuto, Cinzia si avvicinò autorevole a Veronica e l’afferrò per un braccio, trascinandola fuori dalla stanza. 
“Dove andate?” domandò Matteo, sentendosi improvvisamente perso.
“Torniamo subito.” rispose Cinzia, spingendo Veronica oltre la porta “Rivestiti.” intimò poi al ragazzo che la guardava senza capire.
Le due percorsero i pochi metri verso la cucina senza parlare: Cinzia con dei vestiti puliti in mano e Veronica che ad ogni passo incespicava nel lenzuolo. Giunte alla meta, la brunetta si chiuse alle spalle la porta scorrevole e porse gli abiti all’amica, prendendo infine posto al tavolo.
“Non ti vesti?”
“Perché ti sei arrabbiata tanto, Cicì?” domandò Veronica, infilandosi un soffice maglione azzurro senza curarsi di indossarvi sotto anche un reggiseno. La domenica non si porta il reggiseno: è una regola non scritta.
“Perché non me lo aspettavo.”
Veronica si bloccò, i piedi sul lenzuolo e i jeans fermi alle ginocchia. 
“Cosa non ti aspettavi?” chiese, arrossendo senza volere “Ero ubriaca, Cicì.”
“Questo lo so. Tu però, non fai queste cose; neanche quando sei ubriaca. Te ne rendi conto, Vero? Capisci che questo tipo di cose tutti se le aspettano da me e mai da te?”
Veronica chiuse il bottone dei pantaloni, una mano a coprirsi gli occhi stranamente lucidi.
“Cosa ti è preso?” continuò Cinzia, il tono più dolce.
“Non lo so.”
Un sussurro: un alito sconsolato che era solo la punta dell’iceberg.
Cinzia accennò un sorriso che voleva essere di conforto e raccolse il lenzuolo da terra, piegandolo alla meglio. Un casino. Ecco in cosa erano finite: un diavolo di casino.
“Devo andare via.”
L’esclamazione decisa arrivò alle loro orecchie, seguita subito dai passi concitati che percorrevano il corridoio. Veronica aprì a metà la porta, sporgendo la testa e trovando il volto di Matteo a pochi centimetri dal suo. Arretrarono entrambi di scatto, balbettando scuse irrazionali.
“Devo andare via.” ripeté il ragazzo, indicando con un cenno del capo l’uscita.
“Non vuoi fare colazione?” chiese Michele “Abbiamo anche cornetti, merendine, succo d’arancia, limonata…”
Matteo scosse rapidamente il capo e continuò ad arretrare.
“No.”
Michele aveva già ricominciato ad elencare cibi, il tono serio e professionale di un cameriere, quando la voce di Cinzia coprì la sua.
“Non vai da nessuna parte, tu.”
Matteo spalancò gli occhi, non credendo alle proprie orecchie. Sorrise, confidando in uno scherzo:
“Come?”
“Credi di poter scappare così?” chiese Cinzia, annullando in lui quella fievole speranza “Non se ne parla proprio. Un idiota patentato, ma come hai fatto dico io?” continuò, dedicando l’ultima parte all’amica immobile al suo fianco.
“Siete tutti pazzi.” decretò Matteo, guardandoli incredulo.
“Devi ancora dirmi chi ti ha fatto quell’occhio nero.” intervenne Michele, puntando l’indice.
“Un muro, te l’ho già detto.” ringhiò Matteo.
Michele scosse la testa, l’aria saputa.
“Sai quante volte sbatto io contro i muri?” sorrise, poggiando la tazza ormai vuota sul tavolo “E ti assicuro che neanche una volta mi sono ridotto l’occhio in quelle condizioni.”
Matteo fissò il ragazzino, i baffi di latte che si era fatto e quella sua faccia da topolino. 
Il desiderio di fumare lo assalì perentorio: una sigaretta. Solo una.
A distoglierlo da quella voglia improvvisa fu un fischio. Uno strano fischio prolungato e penetrante che risuonò in tutta la casa. Si guardò attorno spaesato e con la coda dell’occhio notò lo sguardo d’intesa che si scambiarono gli altri tre.
“Vieni.” disse Cinzia, mentre Veronica e Michele già si incamminavano lungo il corridoio. Tentò di rifiutarsi, di spiegare ancora una volta quanto fosse necessario che uscisse da quella casa, ma capì dall’espressione della brunetta che sarebbe stato tutto inutile.
La seguì, passando per il salotto senza davvero vedere alcunché, entrando poi nell’ultima porta in fondo a destra: un altro bagno, più piccolo di quello in cui...  e improvvisamente, senza chiedere il permesso, i ricordi che fino a quel momento aveva tentato con tutte le sue forze di reprimere si imposero inamovibili. Immagini compromettenti. Di un letto, di una biondina e di occhi azzurri che non lasciavano i suoi. Baci irruenti. Respiri che diventavano un tutt’uno. Carezze... fermò il flusso, imponendosi di smettere di pensare. 
Una smorfia ad increspargli le labbra, indirizzò lo sguardo fuori dalla grande finestra aperta, imitando gli altri tre. Guardavano tutti verso il palazzo di fronte, assurdamente poco distante dal loro. Matteo aggrottò le sopracciglia, guardando con inattesa aspettativa la stanza di fronte: cosa diavolo stavano aspettando?
Veronica poggiò i gomiti sul bordo della finestra, sporgendosi divertita.
“Silvestro!” 
Passarono solo pochi istanti, poi, e un giovane si affacciò affannato alla finestra di fronte. Alto, scarmigliato: si accarezzava la testa pelata con una mano, un sorriso sul volto accaldato. La camicia sbottonata, il fisico atletico messo impassibilmente in mostra.
“Hai fischiato?” sorrise Veronica.
“Sì.” rispose, ancora leggermente a corto di fiato “Ho notizie fresche di giornata.”
Matteo si limitò a osservare, stentando a capire cosa stesse realmente succedendo. Girò la testa verso Michele nella speranza che questi gli desse una spiegazione.
“Chi è il tipo malmenato?”
Matteo tornò subito a guardare fuori dalla finestra.
Veronica ridacchiò, facendo sì di osservare al tempo stesso fuori e dentro il bagno.
“Lui è Matteo.” disse “Matteo, lui invece è Silvestro.”
Michele sogghignò, ammiccando in direzione del vicino:
“Sono stati a letto insieme, Bond!” gridò, divertito come mai.
“Davvero?” si stupì Silvestro senza riuscire a nascondere un sorriso.
“Sì,” continuò Michele, trattenendosi a stento dal saltellare “ubriachi persi.”
Una gomitata di Veronica gli bloccò momentaneamente le parole, ma non si lasciò scoraggiare: “E il tutto in camera di Cinzia!” aggiunse, al settimo cielo “Non ti dico le urla stamattina, Bond! Stavo per chiamarti ad assistere, ti giuro!”
Matteo era pietrificato: fissava truce il ragazzino, prendendo in considerazione l’idea di zittirlo a suon di pugni. Veronica era sbiancata, il capo che fiaccamente negava ogni cosa.
“Taci un po’, Mickey!” lo riprese a quel punto Cinzia, scuotendolo per una spalla.
Michele mise il broncio, un’ombra di colpevolezza che gli oscurava lo sguardo.
“Ho detto qualcosa che non dovevo dire?” chiese, innocentemente.
Silvestro scambiò un’occhiata complice con Michele ed entrambi scoppiarono a ridere incuranti di tutto e tutti. Veronica, rossa in faccia fino alla punta dei capelli, si appiattì contro il muro evitando a forza di incontrare gli occhi di Matteo.
Fu Cinzia, ancora una volta, a richiamare tutti all’ordine.
“Silvestro, hai qualcosa da dire sì o no?”
Il giovane, chiamato in causa, cercò rapidamente di calmarsi. 
“Certo.” balbettò “Hai ragione, scusate. Volevo dirvi che, secondo fonti sicure, l’alfiere oggi vuole venire a farvi visita.”
“Oggi?” chiesero in coro Cinzia e Veronica, guardandolo allarmate.
Silvestro annuì, ridacchiando per l’espressione basita di Matteo. Lo capiva, quel povero ragazzo. Compativa, anche. Del resto, non avrebbe augurato a nessuno di trovarsi catapultato così di botto nel mondo alquanto fuori dal comune di quei tre. Lui stesso aveva impiegato diversi mesi per entrare nell’ordine delle cose. Ora come ora, però, non riusciva a immaginare una vita senza di loro.
Matteo lo fissava senza parole. L’alfiere?
Sentì l’agitazione crescere attorno a lui e si sentì perso. L’alfiere? E Bond?
“Michele.” sbottò, attirando il più piccolo verso di sé “Perché il pelato lo chiamate Bond?” 
“Come James Bond, no?” rispose l’altro, stringendosi nelle spalle.
“Che c’entra 007, adesso?” s’intestardì Matteo, il tono di voce man mano più nervoso.
“E’ il nostro informatore.” spiegò Michele con fare cospiratorio “La nostra spia.”
Guardò Matteo, soffermandosi con espressione assorta sull’occhio malconcio, prima di domandargli: “Capito il nesso?”
Matteo annuì, accarezzandosi il mento soprappensiero.
“Siete davvero tutti pazzi.” concluse, senza esitazioni “E’ una gabbia di matti, te lo dico io!”
Un silenzio surreale seguì le parole del ragazzo.
“Silvi, amore, non vieni più?”
Un omone tutto muscoli con indosso solo i boxer, apparve inaspettatamente di fianco a Silvestro. Matteo sgranò gli occhi quando l’omone strinse la mano del dirimpettaio nella sua, facendo per tirarlo via con sé.
“Quanto tempo più o meno, Bond?” gli chiese rapidamente Veronica.
Silvestro si girò distratto verso di loro, l’espressione assente e un sorriso a illuminargli il volto.
“Come?” chiese, cercando di concentrarsi sulla conversazione.
“Quanto tempo abbiamo?” domandò di nuovo Cinzia in un sibilo spazientito.
“Trenta, quaranta minuti al massimo.” sussurrò concitato, salutandoli con un frettoloso cenno del capo. Veronica gemette: “E ora?”
Matteo continuava a guardare fuori dalla finestra, chiedendosi se per caso non fosse ancora sbronzo: “Chi era quello?” riuscì alla fine ad articolare, ottenendo in risposta solamente occhiate indifferenti.
“Chi diavolo era quello?!” esplose allora, alzando la voce senza nemmeno rendersene conto.
Le occhiate che ricevette questa volta erano sempre una volta indifferenti, a mala pena infastidite.
“Qual è il problema?” gli chiese Veronica, guardandolo storto.
“E’ uno degli amichetti di Bond.” gli spiegò Michele, pensieroso “Cavolo, non mi ricordo il nome.” sorrise, divertito da qualche ricordo “Sono troppi.”
“Amichetto?” balbettò Matteo, sbattendo ripetutamente le palpebre, incredulo.
“Dio.” sbottò Cinzia, fulminandolo “Anche omofobo, il deficiente.”
Veronica ridacchiò, stringendole l’avambraccio con solidarietà.
“Mi piace il suo nuovo soprannome.” approvò, guardando divertita un Matteo ancora sconvolto.
“Ragazze,” le richiamò Michele “non vi dimenticate dell’alfiere.”
Curioso, Matteo tornò in sé quel tanto che bastò a cogliere i successivi brandelli di conversazione.
“Voi che fate?” si affrettò a chiedere Veronica.
“Io ho una partita di calcetto.” rispose Michele, indicando con una mano i pantaloncini corti e la canottiera slargata che indossava.
“Io esco: ho un appuntamento.” continuò Cinzia, sorridente “Incontro preliminare.”
Veronica annuì appena, ipotizzando di andare all’università. Improvvisamente rabbrividì, ricordando che era domenica. Porcaccia. E lei? Lei che avrebbe fatto?
“E io?” domandò.  Chi altro le rimaneva?
“Teo!” rammentò di colpo, voltandosi verso Matteo che la fissò preoccupato.
“Come mi hai chiamato?”
“Vengo con te.” sorrise Veronica, gli occhi che brillavano “Dove andiamo?”
Matteo scosse la testa, osservandola con incredulità mentre usciva dal bagno, diretta in salotto. La raggiunse velocemente e assunse l’espressione più irremovibile che gli riusciva:   “Non usare il plurale.” borbottò mentre la ragazza afferrava una borsa abbandonata sul divano “Noi non andiamo da nessuna parte. Io vado via.”
“Certo.” approvò Veronica, mettendo la giacca “Tu vai via e io vengo con te.”

 

 

*

 

 

“Com’è che hai detto?”
Matteo uscì dall’ascensore, la faccia scura, ignorando apertamente la voce che lo seguiva.
“Se ho detto no è no.” gli fece il verso Veronica, stringendosi nella giacca con una risatina di scherno. Uscirono dal palazzo, subito investiti da una ventata di fresco e penetrante vento mattutino. Il sole faticava ad attraversare quelle nuvole che chiudevano la città in una cappa plumbea, regalando una giornata tipicamente invernale. 
Veronica rabbrividì, gli occhi resi lucidi dal freddo pungente. Reclinò appena la testa, puntando gli occhi sul balcone del loro appartamento e soffermandosi sui punti in cui a breve avrebbe sistemato le lucine di natale. Era dicembre, dopotutto: doveva anche darsi una mossa.
“Due minuti e andiamo.”
Sentì quella voce ovattata, subito seguita dallo scatto deciso di un accendino.
“E no!” sbottò, ancorando immediatamente lo sguardo in quello di Matteo. Lui non si curò di reagire: il fondoschiena poggiato contro la moto, una sigaretta accesa fra le labbra. Aspirò piano, con calma, assaporando ogni istante. Sorrise, rilasciando il fumo verso l’alto con soddisfazione.
“Fuma?”
Veronica sospirò, trovandosi di fianco l’espressione sorpresa di Michele.
“Sì.” rispose sconsolata “Troppo.”
Matteo fece spallucce e sorrise ad entrambi, prima di fissare con venerazione la sigaretta.
“Non potevo resistere.” mormorò serio.
Michele annuì con fare comprensivo.
“E’ un desiderio insopprimibile.” concordò con un sorriso strano “Ti brucia dentro.”
Matteo inarcò un sopracciglio, la sigaretta a pochi centimetri dalle labbra, immobile.
“Non temere,” continuò Michele, le labbra che si piegavano in un sogghigno “smettere è facilissimo: lo so perché l’ho fatto almeno un migliaio di volte.” si avvicinò e con un gesto rapido gli sfilò il filtro dalle dita. Un cenno del capo e si allontanò, il borsone a tracolla che gli urtava la gamba e la sigaretta di Matteo in bocca. 
Veronica ridacchiò, aspettando la reazione di Matteo.
“Cos’è successo?” chiese lui, guardando incredulo la propria mano ancora a mezz’aria.
“Mickey.” 
“Lui…”
“Ti ha fregato la sigaretta.” concluse al suo posto Veronica “Colpa tua che l’hai provocato: non ne fumava una da quasi due settimane.”
Matteo lanciò un’ultima occhiata alla figura che andava facendosi sempre più piccola: i contorni che sfocavano in un sottile strato di nebbia, un arabesco di fumo a segnarne il passaggio.
“Sicura che quella casa riesca a contenere la pazzia di tutti e tre?” chiese caustico.
“Stanotte ha sopportato anche la tua, figurati.” rispose a tono Veronica. Lui scosse la testa, la forza di continuare il battibecco che scemava lentamente.
“Mettilo.” disse, porgendole il casco.
Lei inarcò un sopracciglio: “E tu?” 
Matteo si strinse nelle spalle, l’espressione serafica. Salì a cavalcioni della moto, iniziando a togliere il cavalletto e girandosi poi indolente verso la ragazza ancora immobile.
“Ti decidi o facciamo notte?”
“Sicuro?”
Matteo ghignò, facendole segno con il dito di avvicinarsi e prendendole il casco dalle mani. Con poca delicatezza glielo mise in testa, schiacciando quella massa ribelle di lucenti riccioli dorati. Si piegò verso di lei, chiudendole la cinghia ben stretta sotto il mento.
“Soddisfatto?” domandò Veronica, spazientita.
“Quasi.” mormorò, il respiro che le solleticava la guancia, una mano che correva ad afferrare quella fredda di lei. La strinse, il pollice che si muoveva carezzandola inconsapevolmente.
Veronica sussultò: “Cosa...?”
Uno strattone del braccio di lui e si ritrovò seduta sulla moto, malferma, il respiro che faticava ad uscire dai polmoni. Si sporse appena, cercando furiosa di incontrare gli occhi del ragazzo.
“Tieniti.” soffiò Matteo, accendendo il motore con un gesto repentino.
Veronica annuì ubbidiente, ma non fece in tempo a realizzare davvero le sue parole che la moto era scattata in avanti sorprendendola e mozzandole il fiato. Destabilizzata cinse la vita di Matteo con un braccio, il corpo che aderiva alla schiena del ragazzo. Pochi attimi e anche l’altro braccio si era stretto ai fianchi di lui.
Lasciò andare il respiro e cercò di rilassarsi; poggiò la testa sulla spalla di Matteo,  così da ripararsi il più possibile dal vento. E senza neanche rendersene conto cominciò a godersi la corsa, davvero. La velocità, il silenzio, il senso di vuoto... no, non di vuoto. C’era Matteo, solido e caldo; e c’era il senso di pace che la riempiva man mano che si stringeva a lui. 
Non si rese conto dello scorrere del tempo, persa in un groviglio di sentimenti su cui non voleva soffermarsi. Si era distratta al punto tale da accorgersi di non essere più in movimento con diversi minuti di ritardo. Si allontanò con uno scatto da Matteo e arretrò sul sedile quel tanto che bastava a far muovere anche lui. 
Sorridente, Veronica si voltò verso Matteo in cerca del suo sguardo, di una qualche sua spiegazione. Si accorse con sgomento del fatto che era già sceso dalla moto, l’espressione seria e fin troppo tesa.
“Che succede?” gli chiese, guardando attentamente lui e la lunga fila di locali anonimi che avevano davanti.
“Niente.” rispose il ragazzo, le mani spinte a fondo nelle tasche dei jeans “Devo fare una cosa.”
“Cosa?” 
Veronica cercò inutilmente di orientarsi: possibile che non conoscesse per niente quella zona della città?
“Non sono affari tuoi.” sibilò Matteo, lapidario come al solito.
Le diede le spalle, avviandosi verso l’entrata del locale più lontano, rigorosamente senza insegna. Veronica sospirò, posando con cura il casco vicino al marciapiede.
“Resta lì.” aggiunse Matteo, perentorio, prima di sparire oltre la porta in legno scuro.
Veronica strinse gli occhi, innervosita dalla situazione: non le era mai piaciuto essere messa in disparte, figurarsi essere lasciata a far da guardia ad una moto quando sembrava di essere in Siberia. Avesse almeno potuto fare un pupazzo di neve poteva anche andare, ma così no.
Riuscì a mantenersi buona per qualcosa come una manciata di secondi, poi con un salto deciso scese dalla moto, incamminandosi verso quell’anonima porta. Aveva un aspetto trascurato: il legno era molto rovinato, graffiato in alcuni punti, deformato in altri. Nonostante tutto però, aveva un fascino inaspettato.
E Veronica doveva aprirla. Lei doveva entrare. 
Dannatissima curiosità.
Fu questione di attimi. Un pensiero all’avvertimento di Matteo, un’occhiata alla moto nera e la porta che veniva aperta da una pallida manina. Veronica socchiuse gli occhi, cercando di abituarsi a quel nuovo ambiente, a quella luce soffusa: scuro, ecco come appariva il tutto. Scuro e fumoso.
Perfetto per Matteo, si disse, muovendo i primi passi all’interno del locale.
Lo spazio era poco, impregnato dall’odore di alcol e tabacco. Girò su se stessa, osservando il lungo bancone sulla sinistra: chiaro, lucidissimo, proprio come quelli che si vedevano in televisione. Il resto del locale era occupato da una serie di tavoli sparsi in un ordine confuso, apparentemente casuale.
“Ragazzina.”
Veronica le sentì nello stesso momento: la voce che le sibilava nell’orecchio e la mano che le stringeva saldamente il polso. Non trasalì questa volta, riconoscendo da subito Matteo. Si voltò a guardarlo raggiante, il sorriso per niente scalfito dall’espressione furiosa di lui. 
“Mi piace.” sussurrò sincera “Mi piace da morire.”
“Ti avevo detto di restare fuori.” ringhiò Matteo, spazientito ogni attimo di più.
“Avevi anche detto che non mi avresti portato con te.” gli ricordò candidamente lei.
Matteo indurì lo sguardo, contrariato.
“Se ti avessi detto di entrare saresti rimasta fuori, non è vero?”
Veronica si strinse nelle spalle, agitando appena il polso come a rammentargli di starlo ancora stringendo. Matteo non la degnò più di uno sguardo, esasperato; senza lasciarla andare s’incamminò verso l’uscita, attraversando il bar semi deserto.
“Non c’è quasi nessuno.” mormorò lei, seguendolo con noncuranza.
“Sono le dieci di mattina, ragazzina.”
Veronica fece per ribattere ma le parole le si bloccarono in gola, spente sul nascere dal paio di occhi che le si era improvvisamente puntato addosso. Matteo si era fermato, schiarendosi la voce per attirare l’attenzione dell’uomo dietro il bancone. Quello in risposta sollevò il volto prima concentrato su un bicchiere scheggiato, mostrando due occhi piccoli, quasi completamente neri. Erano nascosti tetramente da folte sopracciglia, a loro volta oscurate da una frangia di lunghi capelli scuri.
“Pietro.”
“Matteo.” 
Veronica arretrò di un passo, prendendo in considerazione l’idea di nascondersi dietro Matteo. Non che quell’uomo non la ispirasse, certo, solo aveva più l’aria da evaso di galera che da professore di religione. Lo guardò, seriamente convinta che fosse l’uomo più peloso che avesse mai visto. 
“Problemi?” chiese l’uomo, poggiando le mani aperte sul bancone.
Peli sulle nocche, notò Veronica.
“Stasera non posso venire.” rispose Matteo, coinciso.
“Ancora?” s’imbronciò l’uomo, arricciando le labbra con disappunto.
Peli sulle labbra. Un paio di baffi decisamente invidiabile.
“Un impegno che non posso rimandare.”
“Quando recuperi?” domandò l’altro, carezzandosi pensoso il mento prominente.
Peli sul mento. Una barba da far invidia a Babbo Natale.
“Venerdì sera.”
“Andata.” accordò infine l’uomo, riprendendo a lucidare il bicchiere: movimenti rigidi, semplici. Di chi non fa altro dalla mattina alla sera.
Matteo annuì appena, facendo per avviarsi verso l’uscita, un sospiro di sollievo che già gli premeva contro le labbra. Sospiro che venne dispettosamente bloccato sul nascere. 
Colpa di un cigolio, colpa della porta che venne aperta dal fondo del locale. Soprattutto, colpa del ragazzo che ne uscì, chiudendosi la patta.
“Matteo!” lo chiamò subito questi “Quale onore.”
Veronica rallentò il passo, aspettandosi che Matteo facesse lo stesso. Lui, invece, sembrò deciso a fare il contrario. Veronica si guardò un secondo alle spalle, incrociando il ghigno del giovane.
“Ma come, non saluti nemmeno?” continuò quello, ridacchiando “Lei è la tua nuova ragazza?”
Matteo non reagì, la mano già sulla maniglia. 
“Cos’è, fai collezione adesso?” domandò imperterrito il ragazzo, la voce sempre più roca “Niente male davvero, ti faccio i miei complimenti. Hai ottimo gusto.”
La maniglia venne abbassato con uno scatto deciso, quasi brutale.
Veronica non fiatò, confusa da quel susseguirsi di frasi mirate a colpire duramente Matteo. Per provocarlo, per farlo reagire. Cosa che non successe.
Pochi secondi e furono all’esterno, all’aria aperta: lontani dalle parole di quel ragazzo, dal suo tono cattivo, da quella voce roca e maligna. 
“Non è un posto per te.”
Veronica si riscosse, incrociando lo sguardo turbato di Matteo.
Fece per rispondere, punta sul vivo. Si zittì, però, intimorita dall’espressione del ragazzo.
“Hai capito, ragazzina?” continuò Matteo, grave “Non ci devi più mettere piede.”
Veronica si massaggiò le braccia, pensando che non era il caso di mettersi a discutere. Accennò un sorriso e cambiò argomento: “Lavori anche qui?”
“Sì.”
“E sono tre.” mormorò Veronica, contando sulle dita “Grandi Magazzini, Mystic e questo...” si guardò alle spalle, quasi sperando che comparisse un’insegna dal nulla “… Anonimo, mh?”
Matteo si avviò in direzione della moto.
“Non sono affari tuoi.” sibilò in risposta.
“Diventi ripetitivo, Teo.”
Il ragazzo si bloccò, le chiavi a pochi centimetri dal pannello di accensione.
“Come mi hai chiamato?” domandò, la voce piatta.
“Teo.” rispose Veronica, sorridendo angelicamente “Non ti piace?”
Matteo si girò, le sopracciglia aggrottate e le labbra piegate in modo strano. Come se stesse ancora decidendo fra il riso e il ringhio. Fece tintinnare le chiavi fra le dita e scosse la testa, deciso.
“No.” categorico, lapidario.
“Ma come?” rise Veronica, prendendo il casco che lui le porgeva “A me piace tanto, invece.”
Il ragazzo montò in sella, un gomito sul manubrio e una luce maliziosa negli occhi.
“Va bene, quindi, se io ti chiamo Ronnie?” le chiese, strafottente.
“Ronnie?” s’adombro lei, chiudendo la cinghia del casco “Ronnie… facciamo Teo per Ronnie?”
Matteo si sporse, tirandola a sé. Abbassò la visiera scura con due dita e inarcò un sopracciglio.
“Teo per Ronnie?” domandò, completamente perso.
“Sì.” concordò lei, salendogli dietro “Tu accetti che io ti chiami Teo e io mi lascio chiamare Ronnie.”
Matteo sbuffò, chiudendo gli occhi esasperato.
“Li fai la notte questi ragionamenti, ragazzina?”
Veronica sorrise, abbracciandogli la vita e incontrando il suo sguardo nello specchietto retrovisore.
“Stanotte veramente ho fatto altro.” mormorò, la voce che scendeva di tono.
Non sorrideva più, il respiro controllato e lo sguardo attento.
“Veronica.” iniziò Matteo, un colorito decisamente pallido, la voce tremante “Ronnie…” continuò, prendendo palesemente tempo. Accese il motore, togliendo il cavalletto, gli occhi che cercavano di sfuggire a quelli della ragazza. Non vi riuscirono.
“Ti porto a casa?” domandò alla fine, smettendo anche solo di provare a intavolare il discorso.
Veronica si tirò un po’ in dietro, delusa.
“No.” borbottò, mettendo il muso “Ora devi farti perdonare.”
“Come?” chiese Matteo, fingendosi basito “Perdonare per cosa, poi?”
Veronica incrociò i suoi occhi solo per un secondo. Bastò.
“Cosa vuoi?” domandò Matteo, il corpo teso come una corda di violino.
“Mi fai guidare?”
Ci furono parecchi attimi di silenzio, il vento unico rumore che rimbombava nelle orecchie. “Non se ne parla.” decise alla fine il ragazzo, facendo rombare il motore.
Scosse la testa, un chiaro e perentorio diniego. Non se ne parlava.
“Tieniti.”
E ancora una volta Veronica non se lo aspettava. Le dita che si aggrappavano d’istinto alla giacca di Matteo, gli occhi spalancati, il fiato che si mozzava in petto. Non se ne parlava.
“Matteo.” mormorò, sul punto di fermarlo, di chiedergli di riportarla al suo appartamento.
E tutto si fermò.
Di botto, così come era cominciato.
Il vento nelle orecchie, la sensazione assurda di star levitando. Sparirono, semplicemente, riportandola con forza alla realtà. Uno strappo deciso, una frenata improvvisa.
Veronica spalancò gli occhi, il cuore in gola per la paura. Fissò sconvolta la strada e i piedi di Matteo che reggevano in parte la moto, ancorati sull’asfalto.
“Sei impazzito?” sbottò, rifilandogli un piccolo pugno sulla spalla “Prima parti senza avvisare e poi freni neanche il moto Gp!”
Scosse la testa, ignorando il sorriso divertito di lui.
“E che cavolo…” borbottò, irritata e ancora scossa “Non si fa così. Se vuoi farmi fuori basta dirlo, ci sono modi più facili per ammazzarmi, ti assicuro.”
Matteo inarcò un sopracciglio, un fischio basso che gli usciva dalle labbra.
“Se lo avessi saputo prima.” mormorò, sarcastico, scendendo dalla moto e spostandosi dietro di lei.
Veronica lo guardò, confusa, non riuscendo minimamente a seguirlo. Sentì la moto che si inclinava, priva sia del cavalletto che della presa salda del ragazzo. Sussultò, preparandosi già all’impatto con il terreno. Impatto che non arrivò.
“Non ti sposti?”
Riaprì gli occhi che non si era nemmeno accorta di aver chiuso. Voltò la testa, incrociando gli occhi scuri e maliziosi di Matteo: teneva la moto, reggendola con una mano sul retro del sedile.
“Che stai facendo?” chiese scrutandolo, sempre più convinta che stesse dando di matto.
“Ti faccio spazio.” rispose lui, alzando gli occhi al cielo, l’espressione scocciata e cortese al tempo stesso. Una combinazione a dir poco inverosimile.
“Perché?” non poté fare a meno di domandare Veronica, incredula.
“Non volevi guidare?” chiese a sua volta Matteo, un sorrisetto sotto i baffi.
Veronica spalancò gli occhi, basita: quello proprio non se lo aspettava. Non reagì quando Matteo iniziò a ridacchiare, divertito come mai. Non mosse un muscolo quando lui, sempre ridendo, le poggiò una mano sulla schiena, sospingendola in avanti, verso il manubrio. Restò immobile mentre il ragazzo si sedeva dietro di lei, le mani che prendevano le sue, guidandole.
“Non mi dirai che hai paura.” sussurrò, il fiato che le carezzava il collo.
Veronica si riprese, un sospiro seccato che aveva il sopravvento.
“Certo che no.” sentenziò decisa “Solo non me lo aspettavo.”
“Cosa?”
“Che cedessi così facilmente.”
Matteo non rispose, poggiando il mento sulla spalla della ragazza. 
E lei non disse più niente.
Serrò le labbra, concentrandosi unicamente sul vano tentativo di controllare il respiro sempre più affannoso. Non era colpa sua. Che ci poteva fare, lei? Sbagliava lui. 
Lui che se ne stava così vicino. Troppo, decisamente troppo vicino.
“Mai guidata una moto?” chiese Matteo, annullando ogni distanza fra i loro corpi.
“Un motorino.” balbettò Veronica, le gambe strette fra quelle del ragazzo “Al liceo.” concluse, non riuscendo più a far conciliare i pensieri. Si mosse appena, scontrandosi con il petto di Matteo.
“Non cambia molto.” la rassicurò lui, stringendo maggiormente la presa sulle sue mani e sfiorandone con leggerezza le dita “Con queste freni,” spiegò, facendo sì che gli indici si soffermassero su due leve in particolare “e girando questa acceleri.” continuò, poggiando la testa sull’altra spalla.
“Sei sicuro che…” lo interruppe Veronica, la voce che tremava “E se combino un casino?”
Rabbrividì, immaginando già la moto che si sfasciava contro un muro.
“E io che ci sto a fare, qui?”
Un sorriso sornione nello specchietto, una risatina nervosa.
Una chiave che girava, un motore che partiva. E il resto fu vento.
Veronica sorrise, non riuscì a smettere neanche un secondo. Aveva l’impressione di non vedeva la strada: riusciva solo a sentire. Sentiva la velocità, la libertà e tante altre sensazioni nuove, mai sperimentate. Sentiva il sole, il vento. Non li avvertiva davvero: non scaldavano, non colpivano. Ma c’erano, sulla sua pelle, contro il suo viso. Negli occhi, a dare un senso di verità al tutto. A rendere ogni cosa reale.
Sentiva la presenza di Matteo, dietro di lei. Stretto alla sua vita, una mano a pochi centimetri dalla sua, le gambe che sfioravano le sue. E c’era quella stupida, malsana convinzione che, fintanto che c’era lui, non sarebbe successo niente di male.
“Sto andando bene?” chiese a un certo punto, le dita che inconsapevolmente allentavano la presa. Matteo la avvolse con le braccia, raddrizzando il manubrio, un tenue sorriso ad incurvargli le labbra.
“Molto.” le sussurrò all’orecchio, nascondendo poi il viso vicino al suo collo, riparandosi dal vento. Veronica rabbrividì, il naso di lui che la solleticava con un movimento lento e lineare.
“Matteo.” sfiatò, poggiando appena la testa contro quella del ragazzo “Stiamo vibrando.”
“E’ un’analogia per dire cosa, ragazzina?” chiese lui, ridacchiando pacatamente.
“Che vibriamo.” rispose Veronica, sorridendo di riflesso.
Matteo sussultò, avvertendo solo in quel momento lo squillo del cellulare. Si mosse sconnessamente, cercando a tentoni il telefonino. Qualche imprecazione soffocata e l’aggeggio apparve finalmente fra le sue mani: fissò lo schermo, irritato perché aveva appena smesso di suonare. Scuotendo la testa, borbottò:
“Cambio di rotta.”
Avvolse di nuovo Veronica fra le braccia, coprendo le mani della ragazza con le sue.
“Che stai facendo?” chiese lei, non riuscendo più a controllare la moto.
“Guido.” rispose Matteo, compiendo una rapida inversione e cominciando drasticamente ad accelerare. La velocità tenuta fino a quel momento era ormai solo un pallido ricordo.
“Ma stavo guidando io!” 
“Lo so.”
Veronica si zittì, aspettando che continuasse. 
“Devo andare a casa.” esalò alla fine lui, lo sguardo fisso sulla strada.
“Hai una casa?” 
“No, vivo sotto i ponti.” sbuffò caustico Matteo, imboccando una stradina laterale e allontanandosi sempre più dal centro cittadino. 
“Non fare l’idiota.”
“Mi adeguo alle tue domande.” sibilò il ragazzo, scoccandole una rapida occhiata.
“Chi era al telefono?” continuò Veronica, cercando di piegare un pochino le leve del freno.
“Il mio coinquilino.” rispose lui, bloccandole le dita.
“Hai anche un coinquilino?” si meravigliò la ragazza, spalancando gli occhi.
“Oh, sì.” mormorò Matteo, frenando gradatamente “E lo conosci anche.”
Veronica dischiuse le labbra, fissando il posto in cui si erano fermati.
“Lo conosco?” domandò esterrefatta, gli occhi che scorrevano la strada “E dov’è che abiti, poi?” sbottò, cercando inutilmente un qualche palazzo o anche solo una casetta. 
Scrutò le serrande sgangherate e arrugginite che si susseguivano, la campagna che si apriva a pochi metri di distanza e fu con la coda dell’occhio che notò le altalene semi distrutte un po’ più in là. 
“Proprio di fronte a te.” rispose Matteo, scendendo agilmente dalla moto.
Sistemò il cavalletto, togliendo subito dopo il casco a Veronica e porgendole una mano.
“Scendi?”
Lei ignorò la mano del ragazzo, scendendo dal lato opposto al suo. 
Socchiuse gli occhi, fissando la serranda metallizzata che aveva davanti. 
“E’ un garage.” sillabò, come se ci fosse il bisogno di spiegarlo.
“E’ casa mia.” ribatté Matteo. Batté tre volte il pugno contro la serranda, una mano che correva automaticamente alla tasca dei jeans: ci voleva una sigaretta.
Non ebbe il tempo di prenderla che la serranda si sollevò rumorosamente, lasciando uscire una testa rossa e senza fiato. Veronica s’inumidì le labbra, sforzandosi di ricordare dove lo avesse visto.
“Matteo!” sbottò il ragazzo, rifilandogli una pacca non esattamente leggera sulla spalla “Dove diavolo eri finito, si può sapere?! E’ da stamattina che ti chiamo. Non una volta che tu ti sia degnato di rispondere, porco cane!” si fermò un secondo, tentando di calmarsi.
“Simone.” mormorò Matteo in risposta, preoccupato per quella ramanzina inusuale: non succedeva mai, proprio mai, che Simone alzasse la voce.
“Non mi dire Simone! E…” tentennò un secondo, mordendosi l’interno guancia “E si può sapere cosa diamine hai fatto all’occhio, questa volta?”
Veronica ghignò, riconoscendo in quel tipetto dai capelli rossi il commesso dei Grandi Magazzini. Si schiarì la voce, cercando di attirare l’attenzione dei due ragazzi ma non vi riuscì. Matteo alzò gli occhi al cielo, sbuffando sonoramente, l’espressione altamente contrariata.
“Non è il momento!” s’inalberò, fulminandolo con gli occhi “E’ successo qualcosa piuttosto, o chiamavi solo perché ti andava di sentirmi?”
Simone ricominciò a mordersi l’interno guancia, strusciando il piede con fare pensieroso.
“Abbiamo un problema.” mugugnò alla fine senza incontrare lo sguardo di Matteo.
“Che tipo di problema?” chiese l’altro, oscurandosi sempre più in volto.
“Del tipo…” iniziò Simone, tentennando indeciso  “… del tipo che ci hanno sfrattato.”
Matteo sgranò gli occhi, arretrando confuso di un passo. Scosse la testa, cercando disperatamente di leggere sul volto del ragazzo un qualsivoglia indizio che stesse scherzando. Non lo trovò.
“Non è possibile.” sibilò, rifiutando di accettare la cosa.
“Non abbiamo pagato gli ultimi due mesi, Matt.” guaì il rosso, spalancando le braccia “Il ragioniere è passato stamattina e ci ha buttati fuori.”
Matteo crollò a sedere sulla moto, scuotendo la testa quasi per inerzia.
“Io… posso chiedere un prestito.” provò, il viso pallido e scosso.
“Ha detto che non ci vuole più vedere.” disse piano Simone, abbassando il capo e fissandosi la punta delle scarpe “Non vuole saperne più niente: tempo due giorni dobbiamo liberare il posto.”
Matteo gemette, prendendo una sigaretta con dita tremanti. L’accese, aspirando come se fosse l’unico modo per sfuggire a quello che stava succedendo.
“Cazzo.” mormorò espirando “Cazzo, cazzo, cazzo!” tirò un calcio, colpendo un sassolino solitario che fece qualche metro saltellando indisturbato.
“Come cazzo facciamo adesso, me lo dici?” esalò, la sigaretta che gli pendeva dalle labbra serrate.
“Matt.” lo richiamò l’altro, cercando di calmarlo.
“Ci siamo fottuti la casa!” sbottò Matteo, dimentico di ogni cosa.
Veronica si strinse nella giacca, abbracciandosi da sola. Alternava lo sguardo fra i due ragazzi, sentendo sulla pelle la disperazione e la frustrazione che aleggiavano nell’aria. Ora per davvero sarebbe finito a vivere sotto un ponte, pensò, chiudendo gli occhi.
“Da noi c’è posto.”
Matteo e Simone si girarono in contemporanea. Uno ricordando solo in quel momento la presenza della ragazza, l’altro venendone finalmente a conoscenza. 
La fissarono, gli sguardi vacui.
“C’è posto.” ripeté Veronica, stringendosi nelle spalle “Per entrambi.”
Matteo ridacchiò, ignorando la piccola speranza che aveva colorato il volto del suo coinquilino. Rise, di una risata isterica. Scosse la testa una sola volta e salì a cavalcioni della moto. Un’ultima tirata dalla sigaretta e accese il motore.
“No.”
Pochi secondi di silenzio seguirono quel monosillabo.
Poi, un rombo più forte dei precedenti e una sgommata che echeggiò a lungo nell’aria.
Matteo era sparito.

 

 

 

§










 

 

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Capitolo 6
*** Il Libro della Giungla ***




Bugie bianche

                                                                                                

    ≈  Il libro della giungla ≈

 

 

 

 

 

 

“Questa sarebbe tutta la tua roba?”
Veronica sorrise, sentendo per l’ennesima volta la voce stupita di Cinzia diffondersi nell’aria.
“Cicì.” la richiamò, scuotendo piano la testa.
Cinzia allargò le braccia, lasciandosi cadere sul letto e ridacchiando incredula.
“Non è certo per offenderti, Simone.” spiegò, incrociando gli occhi verdi del ragazzo “Solo mi riesce strano credere che una persona possegga così… poco, ecco.”
Simone piegò le labbra in un sorriso timido, passandosi ripetutamente una mano fra i capelli rossi. Con due dita si sistemò gli occhiali, un rossore soffuso che gli colorava le gote.
“Che altro dovrei avere?” chiese, guardando i propri scatoloni sul pavimento.
Tre. Esattamente e solamente, tre scatoloni.
“Qualcosa di più.” sbottò Cinzia, piegando le gambe contro il petto “Non credi anche tu, Vero?”
Veronica sussultò, persa nei propri pensieri. Alternò lo sguardo fra entrambi, soffermandosi poi sulle scatole in questione; le studiò, catalogandone rapidamente il contenuto: una piena di vestiti, un’altra di scartoffie e l’ultima con un computer.
“Non saprei.” borbottò, la schiena poggiata allo stipite della porta “Ognuno ha solo quello di cui ha bisogno, no?” mormorò, stringendosi nelle spalle “Perché non lo lasciamo in pace, ora, Cicì? Ha bisogno di ambientarsi.”
Cinzia alzò gli occhi al cielo, sbuffando contrariata. Simone nel frattempo aveva preso a balbettare qualche scusa, prodigandosi per non farle andare via, rosso in volto più di quanto fosse opportuno.
“No, davvero.” esclamò concitato “Non mi date alcun fastidio. Io… non so come ringraziarvi, non intendo certo cacciarvi o darvi alcun disagio…”
Veronica sorrise e gli si avvicinò, piazzandogli le mani sulle spalle per calmarlo.
“Simone,” lo chiamò, fissandolo negli occhiali appannati “respira, da bravo.”
Cinzia, di fianco a lei, ridacchiò divertita. Le piaceva quel tipetto scarlatto: le era rimasta impressa a fuoco l’espressione basita ed eccitata che gli si era dipinta in volto, entrando nel loro appartamento. Gli era caduto uno scatolone, assieme alla mandibola, e lei non era riuscita a trattenere una risata.
“Non ci dai alcun fastidio.” ripeté, per quella che probabilmente era la decima volta “La casa è grande, le stanza sono tante. Che in una ti ci stabilisci tu, a noi non cambia niente, giusto?”
Simone annuì, imitando i gesti di Veronica. 
“Soffri di asma, Simone?” domandò improvvisamente Cinzia, cominciando a frugare in uno degli scatoloni. Lui fece segno di no con il capo, osservandola curioso.
“La camera è bellissima, comunque.” sussurrò, rivolgendosi a Veronica, la gratitudine che sgorgava da ogni sillaba. Lei gli sorrise contenta, spingendolo a sedere sul letto.
“Che orrore.” sfiatò in quel momento Cinzia, sollevando con due dita un gilet violaceo “Non puoi, categoricamente, indossare questo obbrobrio. Sono stata chiara? Mai più in vita tua, Simo. Dio mio, cosa mi tocca vedere. Domani andiamo a fare un po’ di compere.”
Il rosso sgranò gli occhi, fissandola incredulo.
“Noi cosa?” chiese senza perderla di vista, mentre lei iniziava a frugare nella seconda scatola.
“Un po’ di shopping non ha mai ucciso nessuno, tranquillizzati.”
Veronica lo guardò impietosita, non sapendo come confortarlo. Lanciò un’occhiata in tralice alla brunetta, sperando che il messaggio di rimprovero le arrivasse. Cinzia, per tutta risposta, le sorrise radiosa.
“Com’è andato l’appuntamento?” si rammentò di colpo Veronica, avvertendo in lontananza il rumore della porta di casa che veniva aperta.
“Benissimo.” gioì Cinzia, gli occhi che brillavano “Ci vediamo stasera, poi ti racconto.”
La porta venne chiusa con un tonfo sordo, seguito dal contraccolpo di qualcosa che veniva gettato senza cura sul pavimento e da altri rumori mal attutiti, quindi dei passi lungo il corridoio.
“C’è un altro coinquilino?” chiese Simone, aggrottando le sopracciglia.
Le due ragazze annuirono insieme, risparmiandosi la pena di dare altre spiegazioni. Sapevano che tanto, di lì a pochissimo, le parole non sarebbero servite a niente: i fatti parlano da soli con Michele.
“Dove siete?” si lamentò una voce acuta, traboccante stanchezza “Non si pranza, oggi? Ho una fame che non ci vedo, davvero. Potrei svenire di qui a poco!”
Cinzia sospirò, scuotendo affranta la testa e allungando una mano fuori della porta per attirare l’attenzione del ragazzino. Quello emise un gemito sorpreso, non aspettandosi di trovarle nella stanza degli ospiti. Affrettò il passo, oltrepassando l’uscio con gli occhi chiusi e la testa reclinata all’indietro.
I calzoni gli scendevano, mettendo in bella mostra i boxer a quadrettoni e le ginocchia sbucciate; ai piedi aveva solo un paio di calzini che avrebbero dovuto essere bianchi ma ormai tendevano più al nero. Michele sospirò, esausto, lasciandosi scivolare lungo il muro e crollando a sedere. Le gambe divaricate, la testa poggiata interamente alla parete.
“Non mi reggo in piedi.” mugugnò, facendo una smorfia con le labbra “Non è un gioco, quello che faccio io. Non è calcio. E’ un lento sistema di suicidio.”
Veronica ridacchiò, incrociando le braccia al petto e tentando di guardarlo con rimprovero.
Perché non ci riusciva mai con quel ragazzino?
“Ti serve una doccia, Mickey.” riuscì a dire, alla fine.
“Lo so.” rispose lui “Ma non ce la faccio.” si lagnò, scuotendo la testa “Se una di voi si offrisse di accompagnarmi, tuttavia, potrei anche prendere in considerazione la cosa.”
La risata che si diffuse placidamente nella stanza colpì tutti, lasciandoli di stucco.
Era una risata contagiosa. Non era grassa, non era tagliante: era fresca, sghignazzante. Ti entrava dentro, sconvolgendoti inaspettatamente. Difficile da dimenticare, impossibile da ignorare.
Veronica e Cinzia spalancarono gli occhi, girandosi sorprese a guardare Simone. E rimasero ancora più meravigliate: basite da come sembrasse diverso, completamente trasformato da quella risata. L’espressione aperta, raggiante; gli occhi, il naso, la bocca, i capelli e persino le orecchie: ogni parte di lui sembrava star ridendo, animata da una luce che era spuntata dal nulla.
Il ragazzo timido e sottomesso, lo stesso che si aggiustava in continuazione gli occhiali, era scomparso: sostituito momentaneamente da una nuova persona, sempre con i capelli rossi, ma del tutto differente.
“Va tutto bene?” gli chiese Veronica, trovando a stento la voce, mentre la risata di Simone andava gradualmente scemando. Lui annuì, zittendosi per qualche istante. Poi incontrò gli occhi confusi e basiti di Michele e la risata eruppe nuovamente, più portentosa e favolosa di prima.
“E questo chi è?” domandò Michele, guardandosi attorno spaesato.
Cinzia inarcò un sopracciglio, un sorriso che le piegava le labbra. Possibile che solo il sentir ridere Simone le stesse facendo venire una voglia pazzesca di ridere a sua volta? Lanciò appena un’occhiata a Veronica, scossa da tremiti di ridarella e sospirò.
“Lui è Simone.” spiegò, indicandolo con una mano “Viene a vivere qui.”
“Ah.” mormorò Michele, piegando la testa pensieroso.
Simone nel frattempo si era calmato, una mano a massaggiarsi lo stomaco duramente provato. Si passò le dita fra i capelli, inginocchiandosi distrutto di fianco a Michele e porgendogli la mano.
“Scusa.” sussurrò, gli occhi umidi “Non so cosa mi è preso.”
“Simone, giusto?” rispose contento, Michele “Io sono Mickey.”
“E’ un piacere, Mickey.”
Cinzia scosse la testa, affranta, dando di gomito a Veronica.
“Un altro sbandato.” gemette, accennando con il capo a Simone “Ci mancava.” 
“Non dire così.” la riprese Veronica, guardandola in tralice.
“Se piace a Mickey non può essere altrimenti.” sentenziò Cinzia, angosciata.
“Mangiamo?” le interruppe Michele, uno sguardo supplice negli occhi.
Simone tossì, gli occhiali che gli scivolavano sul naso. 
“Non ti interessa altro?” gli chiese, guardando il ragazzino con curiosità.
“In che senso?” 
“Ti basta il mio nome?” gesticolò confuso Simone “Arrivi a casa, trovi un tipo sconosciuto che si è appena trasferito da voi e non ti importa altro a parte il suo nome?”
Michele, alzandosi faticosamente in piedi si strinse nelle spalle.
“Già.” mormorò, allungando una mano verso il rosso e tirandolo su.
“Sei strano.” sussurrò Simone, aggiustandosi gli occhiali.
“Anche tu.” concluse il più giovane, placido.
Cinzia gemette, nascondendo il viso sulla spalla di Veronica.
“Visto che avevo ragione?” chiese all’amica. Veronica sorrise, la prese a braccetto e cominciò a trascinarla verso la cucina.
“Dove andiamo?” bofonchiò Cinzia, strusciando i piedi sul parquet.
“A cucinare qualcosa.”
“Tu sei pazza. Io non ho intenzione di preparare niente: credo sarebbe il caso di lasciarli morire di fame, quei due. Faremmo un piacere al mondo.”
Veronica ghignò, aprendo il frigorifero divertita.
“Ehi!”
Grido di richiamo che percorse il corridoio, entrando fin nella cucina. Le due ragazze sospirarono, alzando sconfortate gli occhi al cielo e sporgendosi appena fuori dalla porta.
“Che c’è?” chiese Cinzia, spazientita e irritata “Stiamo lavorando per voi, che cavolo!”
Michele e Simone, fermi all’altro capo del corridoio, arretrarono di un passo.
“Non ti arrabbiare, Cicì.” si scusò il più piccolo, allargando le braccia.
L’altro sorrise, a disagio, fissando gli occhi sulla punta delle scarpe con viva attenzione.
“Si può sapere cosa c’è, adesso?” ripeté Cinzia, la voce fintamente calma.
“Squilla un cellulare.” risposero in coro i due ragazzi, indicando con il capo la stanza alle loro spalle. 
Cinzia, sempre più nervosa, s’incamminò a passo di marcia verso la camera di Simone. Afferrò la borsa e fissò il telefonino con un espressione frustrata.
“Non rispondi?”
Cinzia fulminò Simone e spense il cellulare, gettandolo poi nella borsa.
“Non sono affari tuoi.” sibilò, mentre un’altra voce, decisamente più acuta e allegra copriva la sua.
“Wow! Ma è grandioso! Fantastico! E’… è tuo?”
Veronica entrò in quel momento, un vassoio pieno di tramezzini fra le mani e un sorriso in volto a condire il tutto. Poggiò il pranzo sul letto, sedendosi sul tappeto e prendendo  un panino.
“Di chi è cosa?” domandò, fermando gli occhi sull’espressione adorante di Michele.
“Questo… questo gioiello.” mormorò il ragazzino, estraendo con dita tremanti un portatile ultimo modello da uno scatolone “Questo… no, computer non basta. Questo miracolo della tecnologia.”
Simone ridacchiò, prendendoglielo dalle mani e poggiandolo con cura sul comò al suo fianco.
“E’ mio.” disse, gli occhi ridenti “E non si tocca.”
Michele annuì, ancora fulminato, senza distogliere lo sguardo dal computer nero e luccicante e cercando di afferrare a tentoni un tramezzino. Sospirò, guardando con venerazione il ragazzo:
“Come… cosa…” scosse la testa, dando un morso al panino “E’ bellissimo, lo sai?”
Simone scrollò le spalle, servendosi a sua volta dal vassoio.
“C’è di meglio, ti assicuro.” rispose, sibillino.
“No.” sfiatò Michele, sconvolto da un’improbabile eresia “Non c’è di meglio. Non può esserci di meglio, assolutamente. E’ il meglio.”
Simone negò con il capo. Una sola volta.
“Ripeto.” mormorò sicuro “Si può avere di più.”
Uno scambio di occhiate confuse fra le ragazze. Uno scambio di occhiate di sfida fra i ragazzi.
“Cosa nascondi, Simone?” chiese Michele, ingurgitando ciò che rimaneva del panino.
L’altro in risposta scrollò ancora le spalle, crollando a sedere sul letto.
Veronica inarcò un sopracciglio, cercando l’aiuto dell’amica:
“Parlavano di computer, vero?”
“Non lo so e non mi interessa.” borbottò Cinzia “Io non ho afferrato una parola.”
“Ah!” la interruppe di nuovo Michele, afferrando un secondo panino “Occhio Nero in tutto ciò che fine ha fatto?”
Simone ridacchiò, rischiando di farsi andare un boccone di traverso.
“Occhio Nero è Matteo?” domandò, alternando lo sguardo fra i tre seduti nella stanza.
“Già.” approvò Michele, elencando poi sulle dita “Anche conosciuto come: Teo, Deficiente e Omofobo.”
Veronica lo fulminò, zittendolo all’istante.
“E’ stato sfrattato anche lui.” 
“Non ti seguo.” sentenziò Michele, corrucciando la fronte.
“Era il mio coinquilino,” intervenne Simone “e stamattina ci hanno buttati fuori.”
“Dove stavate?” s’informò il ragazzino, curioso, già al terzo panino.
“In un garage.”
“Quanto affitto arretrato?”
“Due mesi.”
Fischio ammirato, sguardo comprensivo.
“E vi hanno sfrattato.”
“Sì.”
“E tu sei venuto a stare qui.” cominciò a realizzare Michele.
“Sì.” rispose l’altro, sorridendo a Veronica “Mi ha invitato lei.”
Il ragazzino, proteso ad afferrare un quarto panino, si bloccò improvvisamente.
“Ma come?” si scandalizzò, fissando la ragazza con biasimo “E perché Matteo no? Cos’è non eravate ancora abbastanza in intimità?”
Fu la volta di Veronica di strozzarsi con il boccone, ancora del primo tramezzino. Cinzia, invece, decisamente più reattiva, colpì ripetutamente Michele con la borsa.
“Guarda se tiene mai a freno la lingua, il topo!” lo riprese, un ultimo colpo sulla spalla.
“Ho detto qualcosa che non dovevo dire?” domandò candidamente Michele, allontanandosi ghignante dalla borsetta di Cinzia.
Simone aveva assunto un’espressione interrogativa, non riuscendo a seguire il discorso. Dischiuse le labbra, facendo per chiedere spiegazioni, ma Veronica non gliene diede modo, soffiando mortificata:
“Ho invitato anche Matteo.” spiegò, l’aria truce “E’ stato lui a rifiutare.”
Il sorriso di Michele abbandonò lentamente quel volto euforico, lasciando posto ad un vago senso di comprensione. E quel senso di colpa che tanto raramente aveva effetto sul ragazzino, cominciò appena a farsi sentire.
“Cafone.” s’intromise Cinzia, spalleggiando di riflesso Veronica “Come al solito.”
“No, lui…” Veronica scosse la testa senza tuttavia sapere cosa dire. In fondo aveva ragione Cinzia, no? Lei gli aveva offerto ospitalità, mettendo a sua disposizione un appartamento, e lui come aveva reagito? Non un grazie, non un sorriso. Un secco no ed era sparito.
“Giusto.” approvò alla fine, dando un ultimo morso al panino “E’ un idiota.”
Piegò le gambe al petto, avvolgendole con le braccia. Prese un bel respiro e strinse gli occhi, un senso di nausea e rabbia che prendeva piano il sopravvento su di lei. 
“Sai che ha fatto, stamattina?” chiese, girandosi così da avere l’amica di fronte “Mi ha messa sulla moto e portata fino ad un sobborgo sconosciuto, fuori un bar che nessuno prenderebbe per tale. E’ entrato da solo, dicendomi di aspettarlo fuori. Perché il signorino doveva fare una cosa.”
“E si aspettava che tu restassi davvero fuori?” si scandalizzò Cinzia, porgendole un altro tramezzino.
“Già.” annuì Veronica, la rabbia che cresceva “Su quella stupidissima motocicletta.”
“Permettetemi.” si schiarì la voce Michele “Almeno la moto risparmiatela,” sorrise, sornione “l’ho vista stamattina e la trovo bellissima. Se potessi, ne vorrei anch’io una così. Lo stesso colore, lo stesso modello. Solo, forse, non ci attaccherei l’adesivo della pantera nera.”
Cinzia ridacchiò, alzando gli occhi al cielo incredula:
“Una pantera.” sbuffò “Altra cosa tipicamente maschile.”
Veronica approvò, intimando il silenzio a Michele con un gesto della mano.
“Io, naturalmente, sono entrata nel bar.”
“Naturalmente.” le fece il verso Michele, ammiccando in direzione di un Simone troppo concentrato sulla conversazione in atto per poterlo notare.
“E lui?” s’informo subito Cinzia, esortandola a continuare.
“Lui mi ha sgridata.” alzò la voce Veronica “Poi mi ha presa per un polso e dopo aver fatto quello che doveva mi ha trascinato fuori, senza sentire ragioni.”
“E che doveva fare, sentiamo, di tanto importante?” 
“Informare il capo di non poter lavorare stasera.”
“Lavorare?” balbettò Cinzia “Fa… fa tre lavori, il ragazzo?”
Veronica si strinse nelle spalle con indifferenza, del tutto non curante, non accorgendosi così di quanto alacremente stesse in quel momento pensando l’amica.
“Usciti di lì, accenno solo per un secondo a…” attimo di silenzio per mancanza di parole, occhiata di sbieco ai ragazzi presenti che non avrebbero dovuto essere lì “… tu sai a cosa. E per poco non mi sveniva, il deficiente. Al che, gli chiedo di farmi guidare.”
“La moto?” la interruppe Michele, sbattendo incredulo le palpebre “Tu? Ma sei negata per la guida, santo cielo! A che pensavi? Gliela volevi distruggere?!”
“Sì, la moto!” rispose sicura lei, fissandolo con aria di sfida “E ho anche guidato, per quanto ti possa riguardare la cosa.”
“E la moto è ancora intera?” domandò il ragazzino, guardandola con apprensione.
“Sì.” soffiò Veronica, innervosita “In perfette condizioni.”
“Veronica…” la chiamò Cinzia, una strana espressione in viso.
“Capirai,” sminuì la cosa Michele “ti ha aiutata Matteo, immagino.”
Veronica fece per ribattere ancora, incurante della mano di Cinzia che le scrollava una spalla, ma fu Simone questa volta a parlare, prendendo tutti in contropiede.
“Incredibile.” sfiatò attonito “Ti ha lasciato guidare la sua moto.”
Gli altri tre si bloccarono, fissando gli occhi su di lui.
“Davvero, stento a crederci.” mormorò il rosso, aggiustandosi gli occhiali “Non ha mai permesso a nessuno di portarla. Non la si può nemmeno toccare, solitamente.” aggiunse, scuotendo la testa.
Michele ridacchiò, alzando gli occhi al cielo.
“Ma dai.” si lamentò, divertito “Mi stai dicendo che anche il cafone dall’occhio nero ha un cuore ben nascosto?” accennò con il capo a Veronica “E sarebbe stata proprio lei a trovarlo?”
“Non ho detto questo.” sussurrò Simone, la voce che diventava più dura “E poi… sentite, non è tanto male come persona. Bisogna solamente conoscerlo più a fondo.”
“E tu lo conosci?” chiese Cinzia, ironica e tesa.
“No.” s’imbarazzò appena Simone “Non ho ancora avuto questo onore, ma posso assicurarvi che non è cattivo. E non è neanche un cafone. Né un deficiente o un omofobo.” concluse, scuotendo la testa ad ogni aggettivo che riteneva indebito.
“Sì.” sbuffò la brunetta, esasperata “E ora ce lo descriverai come il nuovo Gesù Cristo.”
Michele ghignò, dimentico persino del panino.
“No.” sbuffò intestardito, Simone “Solo, non trovo giuste le cose che avete detto.”
Si aggiustò ancora una volta gli occhiali rotondi, l’espressione pensosa:
“E’ orgoglioso, certo, e anche scontroso, sarcastico, fastidioso.” elencò sulle dita “Il più delle volte si comporta in modo sfrontato, inopportuno e supponente, lo ammetto. Non è certo la dolcezza fatta a persona e, per carità, è impossibile tirargli fuori di bocca qualcosa che si avvicini anche soltanto lontanamente alla verità. Non mostra mai i suoi reali sentimenti e…”
Cinzia lo bloccò, incredula.
“E hai osato dire che non concordavi con noi?” s’insospettì “Lo stai descrivendo peggio di quanto non abbiamo o avremmo potuto fare, porca miseria.”
“Non mi hai lasciato finire.” borbottò Simone “Ci sarà pur stato un qualche motivo se ho diviso casa con lui per più di un anno, no?”
“Chiamatela casa…” ridacchiò Michele, afferrando al volo l’ultimo tramezzino sul vassoio.
“Non sarà niente di speciale, ma con me è sempre stato leale e disponibile oltre ogni aspettativa. Certo, se gli chiedi qualcosa risponde di no. Bruscamente e con una faccia da schiaffi. Poi, però, non si capisce il perché, fa sempre di tutto per aiutare gli altri. E sa ascoltare. E comprende le persone come pochi.”
“Rimane un maschilista cafone con uno stupido adesivo sulla moto.” sussurrò Cinzia, guardando con la coda dell’occhio Veronica e facendo per alzarsi in piedi.
“E’ Bagheera.” mormorò in ultimo Simone, gli occhi bassi “La pantera de Il Libro della Giungla
E la scena si bloccò, quasi paralizzò.
Cinzia in piedi, una mano tesa verso Veronica. Simone seduto ai piedi del comò. Michele appoggiato al muro. 
“Bagheera?” sillabò Cinzia senza riuscire a distogliere lo sguardo dal ragazzo.
Un solo cenno con il capo, breve. Un assenso atteso e quasi non voluto.
Cinzia gemette, un sentimento di frustrazione che la assaliva prepotente. Non sopportava quando le cose si mettevano in quel modo, quando non andavano come voleva lei. 
“Vieni?” esortò Veronica, chiudendo gli occhi nervosa “Devo parlarti un attimo.”
Veronica strinse la mano dell’amica e si lasciò tirare in piedi, pronta a seguirla, le parole di Simone che le rimbombavano nelle orecchie.
Il Libro della Giungla.” rifletté Michele, assorto “E’ quello con l’elefantino?”
“L’elefantino è Dumbo, idiota.” lo riprese Cinzia, trascinando Veronica fuori della stanza.
“Scusa tanto, eh!” le arrivò all’orecchio l’urlo del ragazzino “Non ho una grande cultura in quanto a cartoni della Disney. Grazie a te sono ferrato in tutt’altra filmografia!”
Cinzia scosse la testa, ignorandolo e fiondandosi in cucina. Si chiuse la porta alle spalle e crollò sulla sedia più vicina, il volto seppellito nelle mani. Ora, la parte più difficile.
“Ah, la cucina.” mormorò Veronica, poggiandosi al piano in marmo “Devo ancora capire perché veniamo qui a fare i discorsi più intimi e importanti.”
Nessuna risposta. 
“Perché non è una conversazione di piacere quella che stiamo per affrontare, vero?”
“Matteo.” buttò lì Cinzia, mostrando finalmente il viso tremendamente serio.
“E’ un cafone.” scherzò Veronica, cercando di alleggerire il momento.
“Non mi torna.”
“Cosa?”
“Ci sono troppi…” sospiro affaticato “… troppi particolari discordanti, troppe cose che non tornano.”
“Tipo?”
“L’occhio nero.” cominciò Cinzia “Non è stato un muro.”
“No.” confermò Veronica “Piuttosto un pugno.”
“E non ti interessa sapere di chi?” la incitò l’altra “E ancor di più, perché?”
“Non sono fatti miei, Cicì.”
“Dici?”
“Lo conosco da poco.”
“E ci sei già stata a letto.”
“Non significa niente.”
Cinzia rise, sarcastica. Veronica arrossì.
“Grandissima balla.” commentò Cinzia “Tu vuoi conoscerlo meglio, o sbaglio? Ti piace, per qualche motivo sicuramente sbagliatissimo, ma ti piace.” 
“Non mi piace.”
“Non mentire con me, Vero.” 
“Non mi deve piacere.”
“Ecco.” approvò Cinzia “Su questo potrei essere d’accordo: perché fuma come un turco, perché è sboccato, sfrontato, cafone. Perché ha una stupidissima moto e vive, no pardon, viveva in un garage. Perché è il tipico ragazzo cattivo e tormentato. Il bello e dannato che non dovrebbe piacerti.”
Veronica chiuse gli occhi, scivolando piano fino a toccare il pavimento.
“Tuttavia…” sospirò ancora l’amica “… tuttavia, ci sono delle cose che non tornano. E sai quanto odi non avere l’intera situazione sotto controllo. Non torna che con te, diverse volte, sia stato così gentile. Non torna che ti abbia fatto portare la sua moto, quando non la fa toccare a nessuno. Non torna che non sia scappato a gambe levate stamattina. E ancora. I lavori: tre, porco cane. Com’è possibile che uno che fa tre lavori e divide un garage con un amico non riesca a pagare l’affitto?”
Breve silenzio. 
“Che ci fa con tutti quei soldi? Droga, alcol, gioco d’azzardo?” sputò fra i denti Cinzia, a corto di idee e sempre più sotto pressione “Oppure, tanto per cambiare, un diamine di segreto di cui non ci è dato venire a conoscenza. Di ipotesi favorevoli, però, non me ne vengono in mente.”
“Cicì…”
“Come?” sbottò la brunetta, battendo un pugno sul tavolo “Come ti fa a piacere un caso perso del genere? Perché te li vai a scegliere sempre così complicati, me lo spieghi?”
“E’ dolce.” sussurrò Veronica.
“Quando?” chiese l’altra, sarcastica “Nel letto, dove voleva ed è riuscito a portarti subito?”
Veronica scosse la testa, sorridendo appena.
“Sempre.”
Cinzia inarcò un sopracciglio.
“Al telefono, la prima volta. Poi ai Magazzini. E qui, naturalmente, prima e dopo il letto.”
“E stamattina?” domandò Cinzia, incoraggiandola un tantino.
“Anche.” sorrise di più Veronica “Quando mi ha fatto guidare… non so neanche come spiegartelo.”
La brunetta sospirò, abbandonandosi contro lo schienale della sedia.
“Poi però se ne esce con certe cose…” si lamentò, alludendo al rifiuto ingrato e sgarbato.
“… come soffrisse di sdoppiamento della personalità.” concluse Veronica, scherzando incerta.
“E a te questo immagino affascini ulteriormente.”
“Non è uno psicopatico, Cicì.” sussurrò Veronica, alzando gli occhi al cielo.
“Per poco.”

 

 

*

 

 

 

“Okay, aggiungiamo anche questo alla lista.”
Cinzia sospirò con espressione scocciata mentre si avvicinava al frigorifero.
Con una penna aggiunse il titolo di un altro film alla lista che andava allungandosi ogni minuto di più.
“Quello con i pesci, invece, come si chiama?” chiese Michele, pensieroso.
“La Sirenetta?” propose Veronica, entrando nel bagno e aprendo l’acqua calda.
“No.” mugugnò Michele, uno spazzolino verde in bocca e un rivolo di dentifricio sul bordo del labbro inferiore “Non era quello.”
Cinzia ridacchiò, facendosi spazio a gomitate fra i due e alzandosi sulle punte per riuscire a guardarsi allo specchio. Si aggiustò la coda di cavallo, si passò un dito sui denti bianchissimi e sorrise serena.
“Buonanotte.” disse, placidamente.
“Come?” saltò su Veronica, sorpresa “Davvero vai già a letto?”
“A dormire?” s’interessò Michele, ammiccante e divertito.
“Sì.” rispose la brunetta, indicando con un ampio gesto la tenuta da casa che indossava “Sono stanca, stasera. Abbiamo ospiti, un ragazzino rompiscatole sempre attivo e un dramma in corso con la principessina qui presente. Di conseguenza, me ne vado a letto.”
“Ma dai…” si lamentò Veronica, afferrandola per un braccio “Stai ancora un po’ con noi.”
Cinzia scosse la testa sorridente, una spazzola magicamente apparsale fra le mani.
“Tanto vi state preparando per la nanna anche voi, o sbaglio?”
Accennò con il capo al pigiama con Snoopy di Michele, alludendo poi al rituale di lavarsi i denti che il ragazzino aveva come radicato nel dna. Si girò quindi verso Veronica, studiando con calma prima i suoi pantaloni neri: soffici e slabbrati, poi la felpa azzurra, di tre taglie più grande di lei.
“Vorreste farmi credere che state per uscire?” domandò allora, sarcastica.
“Il film…” brontolò Michele, sputacchiando dentifricio.
“Che vuole, ora?” sfiatò Cinzia, alzando gli occhi al cielo e lanciando la spazzola all’amica.
“Ha cambiato discorso ed è tornato al film coi pesci.”
Il ragazzino sorrise, incontrando lo sguardo delle due attraverso lo specchio e piegandosi subito dopo sul lavandino per riempirsi la bocca di acqua fredda. Adorava farle arrabbiare.
“Simone.” chiamò Cinzia, muovendo un passo fuori dal bagno.
Non fu necessario allontanarsi più di tanto che il ragazzo apparve davanti a loro con una scivolata.
“Amo questo parquet.” mormorò, lo sguardo adorante fisso sui calzini pelosi che portava ai piedi.
“Wow.” esalarono in contemporanea gli occupanti del bagno, sorpresi dal giovane ospite: sembrava un’unica macchia rossa. I capelli, le lentiggini, i vestiti ed i calzini.
“E’ un pigiama…” biascicò Veronica, indugiando basita “… rosso.”
“E’ il mio colore preferito.” affermò il ragazzo, aggiustandosi gli occhiali.
“Lo avevo intuito.” ridacchiò Michele, sciacquandosi la faccia.
“E mi trovi d’accordo, ti assicuro. Così, però, Simo…” sorrise Cinzia “… sembri una fragola gigante.”
Michele scoppiò a ridere, riempiendo lo specchio di goccioline d’acqua.
“Ignorali.” sentenziò Veronica, prendendolo sottobraccio e avviandosi verso il salotto “Hanno poche distrazioni, poverini, bisogna capirli.”
“Mi avete chiamato?” balbettò Simone, guardando ogni tanto i due che li seguivano.
Veronica lo spinse a sedere sul divano e annuì, accovacciandosi sulla poltrona.
“Il film con i pesci, qual è?” domandò alla fine Michele, l’espressione seria.
“Che pesci?”
“Quelli nel film.”
“Che film?”
“Lo abbiamo chiesto a te.”
Simone sgranò gli occhi, inarcando le sopracciglia con espressione persa. Scosse la testa, incerto.
“Non vi seguo più.” mormorò.
“E’ comprensibile.” approvò Cinzia, seduta in bilico sul bracciolo della poltrona “Il signorino qui presente ha deciso improvvisamente di volersi fare una cultura in quanto a cartoni Disney.”
“Sono rimasto indietro, sai com’è.” s’intromise Michele, esibendosi in una scivolata fino alla cucina, afferrando il foglio attaccato al frigorifero e tornando indietro “Abbiamo già messo sulla lista Il Libro della Giungla, La Bella e la Bestia, Aladdin, Gli Aristogatti e Dumbo.
“Ora vuole aggiungere anche il film con i pesci.” 
“La Sirenetta?” chiese Simone, faticando a stargli dietro.
Michele scosse la testa, crollando sul tappeto.
Alla ricerca di Nemo.” intervenne una quarta voce, sicura e ilare, facendoli sussultare sorpresi.
“Esatto!” si entusiasmò Michele, azionandosi per cercare una penna.
A Simone scappò un gridolino di spavento e Cinzia sorrise, alzandosi prontamente per andare incontro a Silvestro. Il giovane, in pantaloni neri e camicia bianca, allargò le braccia per mostrarle le due cravatte che stringeva fra le mani:
“Rossa o blu, Cicì?” le domandò, fermandosi a pochi passi dalla ragazza.
“Rossa, decisamente.” rise lei, stringendola fra le dita e mettendola attorno al collo di lui “Non c’è nemmeno da chiederlo, dovresti saperlo.”
Silvestro annuì, scambiando un’occhiata con Simone, scusandosi con un sorriso.
“Non volevo spaventarti, ragazzo.” ridacchiò, piegandosi per facilitare il lavoro a Cinzia.
“Lui…” balbettò Simone, ancora pallido  “… lui da dove è sbucato fuori?”
“E’ Silvestro, il dirimpettaio.” spiegò Veronica “Hai saltato un passaggio, Cicì.”
Cinzia sbuffò, cominciando dall’inizio. 
“Sbuca sempre dal bagno piccolo.” continuò Michele, mordicchiando il cappuccio di una penna.
“Ed è normale?” domandò Simone, basito.
Gli altri tre si presero a mala pena la briga di annuire.
“Chi è il fortunato stasera, Bond?” s’informò Cinzia, dando un’ultima aggiustatina al nodo.
“Giovanni.” rispose Silvestro, sorridente.
“Il medico?” rifletté Michele, aggrottando le sopracciglia.
“No.” lo corresse Veronica “Il pittore.”
“Nemmeno.” intervenne Cinzia “E’ il camionista.”
Silvestro sogghignò, cominciando ad arretrare verso il bagno e scuotendo la testa.
“Sbagliato tutti e tre.” rise “E’ nuovo, fa il cantante.”
Un coro sorpreso e ammirato sorse dai quattro ragazzi, facendo illuminare ancora di più Silvestro.
“Divertiti, allora.” gli sorrise Veronica, soddisfatta.
“E voi dormite bene.” annuì lui, rivolgendole poi una strana occhiata.
“Che c’è?” chiese lei senza capire.
Silvestro sospirò, un piede già oltre la porta. Incrociò lo sguardo con la ragazza e sorrise appena:
“C’è un randagio di sotto, principessa.” mormorò, prima di sparire con un ultimo saluto.
Veronica aggrottò le sopracciglia, una strana sensazione che le strisciava nel petto. Rimase con gli occhi fissi sul punto in cui era sparito Silvestro.
“Randagio?” chiese, la voce atona, senza rivolgersi a nessuno in particolar modo.
“Biagio!” eruppe improvvisamente Michele, un sorriso a trentadue denti “Aggiungo anche Lilli e il vagabondo alla lista, che dite?” Ridacchiò, prendendo a scrivere “Sì, cominciamo a guardarli da domani, tutti presenti mi raccomando.” 
“Mickey, dacci un taglio.” sibilò Cinzia, guardandolo di sbieco “Vero, che intendeva dire?”
“E io che ne so.” s’innervosì Veronica “Vado a vedere, a questo punto.”
“Vengo anch’io?” s’intromise ancora Michele, alternando lo sguardo fra le due ragazze.
“Credi che…” mormorò Cinzia, senza finire la frase.
“Non lo so.” 
“E se fosse…”
“Non lo so!” soffiò agitata, indossando maldestramente il cappotto.
“Va bene.” si arrese Cinzia, lanciandole un mazzo di chiavi “Vai e chiudiamo la faccenda.”
Veronica annuì, il mormorio dei ragazzi a far da sottofondo al tramestio dei propri pensieri confusi. Aprì la porta, un cenno di saluto all’amica e uscì dall’appartamento. Scese le scale confusa, la mente annebbiata. Veronica sospirò, nervosa ed irritata. Per quale assurdo motivo si sentiva talmente agitata? Scosse la testa, insultandosi da sola. 
Borbottava ancora, gli occhi bassi, quando i piedi le si bloccarono sul marciapiede. 
Sarebbe stato impossibile non vederlo: proprio lì, nello stesso punto della sera prima; sotto lo stesso lampione, illuminato dalla stessa luce fioca.
Sorrise, Veronica, inconsciamente. Se lo aspettava, inutile smentirlo: le parole di Silvestro erano state chiare, per quanto potesse sembrare strano. O almeno, lo erano state per lei.
Chi altri si aspettava di trovare, in fondo, se non Matteo? 
Mosse un piccolo passo, stringendosi nella giacca e sospirò.
“Scusa.”
Veronica trasalì, presa in contropiede da quella misera parola.
Sgranò gli occhi, fissandoli sulla figura di lui. Aveva sentito bene? Doveva farsi controllare l’udito, sicuramente.
“Mi dispiace.” mormorò ancora la voce, roca “Davvero.”
“Di cosa?” chiese Veronica.
Matteo sospirò, passandosi una mano fra i capelli.
“Di essermi comportato da stronzo.”
“E’ il tuo essere.” ribatté lei, stringendosi nelle spalle “Non puoi farci niente.”
Matteo ridacchiò, nascondendo il volto fra le mani, scosso da uno strano singhiozzo.
Veronica strinse gli occhi, incredula. Era strano. Tutto. Ed era decisamente sbagliato.
C’era qualcosa di diverso, un qualcosa che proprio non doveva esserci. Perché stonava con il resto, con l’immagine che Veronica aveva di lui. Era Matteo ad essere differente.
Erano quei piccoli particolari di lui ad essere errati: la voce seria, pentita, amareggiata; il tremore diffuso, quasi invisibile, che lo scuoteva assieme a quell’unico singhiozzo. 
Veronica arretrò di un passo, scuotendo la testa.
“Matteo.” mormorò, la gola improvvisamente secca “Io… non devi scusarti.”
Aveva detto la prima cosa che le era venuta in mente, colpita da quelle novità. Stupita da come la facesse soffrire il vederlo in quello stato. Perché? Per quale maledettissimo motivo il sentirlo parlare a quel modo accendeva unicamente in lei il desiderio insopprimibile di abbracciarlo?!  
“Vuoi…”
Veronica non fece in tempo a concludere la domanda. Non vi riuscì, bloccata da lui.
Fermata dallo scatto che aveva avuto, dal suo repentino movimento: si era alzato in piedi e si era girato, fissando su di lei gli occhi nerissimi. Brillanti di rabbia.
“Non devo scusarmi?” cominciò il ragazzo, il tono basso e vibrante “Non devo?!”
Scosse il capo, serrando i denti con forza. 
“Uno stronzo.” biascicò, inclinando appena la testa di lato “Ecco cosa sono: uno stronzo. Lo so io e lo sai benissimo anche tu. E’ il mio essere, no?”
Veronica fece per negare, riconoscendo le proprie parole uscire dalla bocca del ragazzo.
Scherzava, porca miseria. Scherzava quando lo aveva detto. Perché, invece, lui lo affermava con tanta sicurezza? 
“E’ di dominio pubblico, ormai.” continuò Matteo “Perché allora tu ti comporti così con me?”
“Io…” un balbettio incoerente, il farfugliare di chi è appena riuscito a vedere per bene il volto del suo interlocutore “Matteo…”
“Sei accomodante.” sembrò accusarla lui, tremante di frustrazione “Perché? Come ti è saltato in mente di offrirmi di venire a casa tua, me lo spieghi?! Cosa ti passa per la testa?”
Veronica strinse gli occhi, il leggero nervosismo che cresceva fin troppo velocemente.
“Si chiama gentilezza.” soffiò, avvicinandosi appena “La conosci o ti è del tutto nuova? Essere gentili e disponibili con il prossimo. Sai cosa vuol dire? Mai provato?”
Un moto di sorpresa passò sul volto del ragazzo mentre lei continuava, inarrestabile:
“E’ il mio essere, che ci vuoi fare?” ridacchiò, sarcastica “Se assisto ad uno sfratto, se conosco anche solo un poco le persone che hanno appena perso la casa… se queste persone non hanno un altro posto dove andare e rischiano di dover passare la notte sotto un ponte… ecco, in questi casi, ammesso e concesso che abbia dello spazio in cui ospitarle, lo faccio!”
“Lo vedi?” sussurrò Matteo, un sorriso ad increspargli le labbra “Sono uno stronzo, ti faccio sempre arrabbiare.” si scompigliò i capelli, fissando gli occhi sul marciapiede.
“Tu non sei uno stronzo.” ribatté Veronica, spazientita “Tu fai lo stronzo.”
Lo sguardo di lui tornò a sollevarsi mentre l’affermazione della ragazza che ancora aleggiava nell’aria.
“C’è ancora…” cominciò Matteo, la voce che si incrinava “C’è ancora un po’ di spazio libero?”
Veronica non rispose, annullando inaspettatamente la distanza fra di loro e poggiando due dita sotto il mento del ragazzo. Gli alzò il volto, incurante del mugolio infastidito di lui.
“E questo?” domandò, gli occhi immobili sul suo labbro tagliato “Sempre un muro?”
Matteo si scostò appena, la mano che correva a coprire la bocca.
“Non è niente.” mugugnò.
“A me non sembra un niente.” ribatté acida Veronica “A me sembra un labbro rotto.”
“Niente…”
“Il solito muro?”
“Niente.”
“Un altro, non mi dire.” sarcasmo pesante “In cemento o in mattoni?”
Matteo la scrutò, truce. Veronica resse il suo sguardo, attendendo una risposta; la preoccupazione malamente celata dietro un misto di rabbia e frustrazione.
“Me lo sono fatto da solo.” borbottò allora lui, infilando a forza le mani nelle tasche.
“Sei impossibile.” sbraitò la biondina, dandogli uno spintone “Perché menti? Non puoi provare a…”
“No.” la interruppe Matteo “Non posso.”
E Veronica tacque.
Chiuse la bocca, la mente che ancora faticava a realizzare l’inaspettata sincerità del ragazzo. 
“Andiamo.” sussurrò, abbassando lo sguardo.
“Come?”
Veronica avvertì la sua confusione, la sentì chiaramente, eppure non si girò.
Non lo degnò più di un’occhiata: semplicemente non ci riusciva. Camminò, silenziosa, fino all’ascensore. Ignorò i tentativi di Matteo di fermarla e fu solo davanti al pulsante già rosso che si bloccò, incerta. E ora?
“Che succede?”
Sussultò, il fiato caldo di lui che le solleticava lievemente il collo.
“Prendiamo l’ascensore?” chiese allora, poggiandosi con una mano al muro, gli occhi fissi sul pulsante improvvisamente verde.
“Perché non dovremmo?” ribatté lui, sempre più vicino.
Veronica sentì un brivido percorrerle la schiena mentre il ragazzo avvicinava le labbra al suo orecchio:
“Sicura che l’invito sia ancora valido?”
Un campanello d’allarme suonò nella testa di Veronica, ovattato, coperto probabilmente dal battito furioso e forsennato del suo cuore. Perché non suonavano più forte quei dannati campanelli?
“Sì.” rispose, celando alla perfezione il tremore della voce.
Spalancò la porta dell’ascensore e vi entrò di slancio, tirandosi dietro Matteo.
“Che piano, ragazzina?”
“Sempre lo stesso, idiota.” ringhiò, chiudendo gli occhi per qualche istante. Inspirò diverse volte, ennesimo errore della serata: riconobbe subito quel profumo, il suo. Un miscuglio assurdamente perfetto al suo olfatto, avvolgente, terribilmente ammaliante. Si sentì una stupida. Masochista, ecco. E cos’altro?
“Abbiamo chiuso il discorso?”
Trasalì di nuovo, peggio di prima. Perché questa volta non era stato solo il fiato del ragazzo ad accarezzarla, ma anche le sue mani. Non si era minimamente accorta dei suoi movimenti e trovarselo dietro di colpo, le dita a sfiorarle i fianchi, era stato destabilizzante.
Non rispose e lui continuò, il tono basso.
“Fine? Ci abbiamo messo un punto?”
“No.” sussurrò Veronica, gli occhi ancora chiusi “Non ci abbiamo messo un punto. Diciamo più un punto e virgola.” stese le labbra in un sorriso nervoso, nascondendo la delusione “Ti concedo una tregua, niente di più.”
“Quindi riprenderemo il discorso?”
“Esattamente.”
“E perché dovremmo farlo?” riprese Matteo, un accenno di contrarietà nella voce.
“Perché mi interessano molto i muri.” sibilò Veronica, un flash del labbro spaccato di lui che la costringeva ad aprire gli occhi “Ti dispiace?”
Si voltò, mordicchiando nervosamente l’interno guancia, consapevole di doverlo fronteggiare.
“Solo per una notte.” soffiò Matteo, incrociando finalmente lo sguardo di lei.
Veronica schiuse le labbra, non capendo. Con la coda dell’occhio scorse la tabella alla sua destra, realizzando che erano arrivati e anche da un bel po’. Non disse niente.
“Solo stanotte.” ripeté Matteo, uno strano sorriso sul volto.

 

 

§







 

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Capitolo 7
*** Solo una notte ***




Bugie bianche

                                                                                                

     ≈ Solo una notte ≈

 

 

 

 

 

“Solo stanotte?” mormorò Veronica, il fiato corto.
Matteo annuì, avvicinandosi ancora di un passo: “Una notte…” sussurrò in prossimità dell’orecchio di lei “… già domani cerco un altro posto dove stare.”
E Veronica ringhiò.
“Sei uno stronzo!” sbottò, spintonandolo con forza. Cercò di allontanarlo, il cuore fermo in gola, le mani che premevano sul petto di lui senza tuttavia riuscire a spostarlo di un millimetro.
Matteo spalancò gli occhi fingendo sorpresa, per niente scalfito dalle spinte di lei.
“Cosa… che ho fatto?” domandò, un sorriso che gli si allargava in volto “Mi sono espresso male? Cosa avevi capito, sentiamo? Hai pensato a male, ammettilo.” ridacchiò, annullando quasi del tutto lo spazio che li divideva.
“Vai a quel paese!” sbraitò Veronica, rossa in volto. 
Non riusciva più a pensare coerentemente,  improperi e maledizioni che le si accavallavano nella testa. E tutto per colpa di quel…
“Mi ci hanno mandato tante volte ma non sono mai giunto a destinazione.”
E i colpi si fermarono. Così come le grida. Così come ogni cosa.
Veronica si bloccò, le mani ancorate alle spalle di Matteo, il respiro sempre più affaticato.
“Non c’è problema.” mormorò, smettendo di agitarsi “Se vuoi ti ci accompagno io.”
Sorrise appena, incrociando lo sguardo sorpreso del ragazzo. Si alzò sulle punte dei piedi, facendo sì di annullare almeno in parte la differenza di altezza fra di loro. E prese un bel respiro. Vide Matteo chiudere gli occhi e piegarsi verso di lei, un’espressione pacifica sul volto. E Veronica sogghignò, sgusciando rapida fuori dalla stretta non voluta e da quell’ascensore improvvisamente troppo caldo.
“Lo vedi?” gli chiese, avviandosi verso la porta dell’appartamento “Non mi ascolti mai. Ti sembrava forse che il mio fosse un amorevole invito a socializzare ancora?”
“Piccola vipera.” soffiò Matteo, fermandosi dietro di lei. Veronica aveva già infilato le chiavi nella toppa, quando una mano si strinse attorno alla sua, bloccandola.
“Non farlo più.” borbottò il ragazzo “Non giocare così con me.” 
“Lo hai fatto prima tu.”
“Non credevo di riuscirci.” sospirò lui, allontanando la mano dalla sua.
“Nemmeno io.” ribatté Veronica, la voce piatta, aprendo finalmente la porta ed invitandolo con un cenno ad entrare. Matteo ciondolò sull’uscio solo qualche istante, poi ubbidì, gli occhi scuri fissi sul parquet: “Sicura che ci sia spazio?” domandò a voce bassa.
Veronica sospirò, appendendo le chiavi al lato della porta: “Sì, non preoccuparti.”
“Okay.”
Matteo si tolse la giacca, poggiandola con attenzione sul divano più vicino. 
Era strano: assurdo, quasi, che non si sentisse alcun rumore. 
“Non c’è nessuno?” chiese inquieto “Siamo soli?”
Si voltò dopo qualche istante, innervosito dalla mancata risposta e con sgomento si accorse dell’assenza di Veronica. Fece per chiamarla, irritato, ma la voce non voleva saperne di uscire. Storse le labbra, procurandosi unicamente una fitta di dolore improvvisa.
“E le tue cose?”
Trasalì, cercando il punto da cui proveniva la voce. Fu Veronica ad aiutarlo, muovendo qualche passo fuori dalla cucina. Lo squadrava, l’espressione interrogativa.
“Che fine avevi fatto?” balbettò Matteo, lasciandosi cadere sulla poltrona.
Lei non rispose, incrociando le braccia sul petto e continuando a scrutarlo con aspettativa.
“Poco e niente.” mormorò il ragazzo, stropicciandosi gli occhi con le dita “Ho poco e niente. E ho lasciato tutto in un posto. Credevo di poter restare lì ma…” sospirò, scuotendo il capo.
“Puntini sospensivi.” borbottò Veronica “Facci caso: le nostre conversazioni si concludono sempre o con un punto e virgola o con i puntini sospensivi.”
“Non che ne abbiamo avute poi tante di conversazioni.”
Veronica si strinse nelle spalle, sfilandosi le pantofole dai piedi e restando a piedi scalzi. Si avviò per il corridoio, superando Matteo e facendogli cenno di seguirla. Lui lo fece, in silenzio, mantenendo una certa distanza fra di loro. Si fermarono a metà strada.
“La camera di Michele.” sussurrò Veronica, indicandogli la prima porta sulla sinistra “La mia,” continuò, accennando alla seconda “e quella di Cinzia.” concluse, mostrandogli la terza.
Prese un bel respiro, mal celando un sorriso istintivo: “Dovresti ricordarla bene.” mormorò, senza dargli modo di rispondere e passando ad elencare le porte alla loro destra.
“Nella prima abbiamo sistemato Simone. Le altre sono libere.” si strinse nelle spalle, allontanandosi appena “Liberissimo. Puoi prenderne una tutta per te, dividerne una con Simone, impiccarti… mi è del tutto indifferente, ti assicuro.”
Matteo annuì, le dita infilate nei passanti del jeans.
“Ti serve altro?” gli domandò Veronica, nascondendo uno sbadiglio con la mano.
“No.” rispose Matteo, cercando invano di comprendere l’espressione di lei “Grazie.”
Veronica dischiuse le labbra, in contemporanea con l’aprirsi di una porta di fianco a loro. Si voltarono insieme, fissando la figura che si delineava nella luce. Un’unica, indefinita, macchia scarlatta.
“Oh!” esclamò Simone, le dita che smettevano di giocherellare con le grandi cuffie che aveva attorno al collo “Avevo sentito dei rumori, ma non ero sicuro.” mugugnò, incerto “Volevo solo controllare, scusate se vi ho interrotti.”
Veronica sorrise, scuotendo la testa con noncuranza: “Non è niente, Simo.”
Il ragazzo annuì, alternando lo sguardo fra i due e fermandolo alla fine su Matteo. 
L’espressione spaurita venne prontamente sostituita da un sorriso sollevato: “Che bello vederti, Matt.” sospirò, allungando una mano che venne subito stretta dall’altro in una presa amichevole.
“Già ti mancavo?” ridacchiò Matteo, leggermente teso.
Simone annuì cauto, accennando con il capo alla stanza dietro di sé: “Ti va di… ?”
Veronica li osservò: studiò lo scambio di sguardi, chiedendosi quante parole fossero state pronunciate senza bisogno della voce e sorrise, quasi soddisfatta di averli riuniti. Stavano così bene insieme… e se fossero stati gay lei avrebbe avuto sicuramente parecchi problemi in meno.
“Certo.” approvò alla fine di un discorso inesistente Matteo “Ti raggiungo fra poco.”
Simone annuì, rimettendosi le cuffie: “Buona notte.” li salutò, rientrando in camera e chiudendo la porta. Veronica non si mosse, fissando stancamente l’uscio chiuso. Era ora di andare a dormire.
“Quindi tutto bene.” mormorò, reprimendo un nuovo sbadiglio.
Matteo annuì, aggrottando al contempo la fronte: “Ci sono anche gli altri, allora.” 
Veronica si guardò attorno, annuendo senza capire:
“Perché non avrebbero dovuto esserci?” chiese interdetta.
“Perché c’è troppo silenzio!” esclamò Matteo, irrequieto. Allargò le braccia, alzando gli occhi al cielo: “Mi spieghi com’è possibile? O cosa diavolo succede in questa casa?”
Veronica stese le labbra in un ultimo, stanco sorriso: “Lo capirai da te. E’ questione di abitudine.”
Il ragazzo inarcò le sopracciglia, esasperato: “Abitudine a cosa?” 
“‘notte Teo.” ridacchiò lei, dandogli le spalle e agitando appena la mano nella sua direzione “Dormi bene.” sussurrò, chiudendosi in camera senza far rumore.  
E sempre in silenzio si buttò sul letto, abbracciando convulsamente il cuscino. Che andasse al diavolo. Lui e quel suo dannatissimo profumo.
Cercò di calmarsi: respiri profondi, lenti, ponderati. Sorrise fra se e se, chiedendosi per quale motivo quella tecnica che non aveva mai funzionato fino a quel momento avrebbe dovuto funzionare proprio ora. Gemette, rigirandosi più volte senza trovare una posizione che la soddisfacesse.
E fu fra un lamento e l’altro che sentì quei rumori. Sospetti, inappropriati. Rumori che non avrebbe dovuto sentire. Allontanò il cuscino, mettendosi a sedere e decise di andare a controllare prima ancora di rendersene conto.
Sgusciò fuori dalla stanza, percorrendo il corridoio in pochi rapidi passi. L’aveva vista subito la luce: fioca ma sufficiente ad attirarla in cucina. Individuò il frigorifero aperto e scosse la testa, sbuffando in modo impercettibile mentre si appoggiava allo stipite della porta. Signore, aveva bisogno di forza.
Osservò la figura di Matteo mettersi in ginocchio e aprire il congelatore, il frigorifero ancora aperto. Forza. Forza e pazienza.
Inarcò un sopracciglio mentre il ragazzo infilava il capo all’interno del freezer, cercando qualcosa con assiduità. La ricerca sembrò avere scarsi risultati: Matteo mugugnò qualcosa, facendo per alzarsi in piedi; e nel farlo sbatté la testa contro l’anta sempre aperta del frigo. 
Veronica sentì le imprecazioni soffocate che seguirono e strinse le labbra, tentando con ardore di non scoppiare a ridere. Non sarebbe stato carino: infierire su un povero fanciullo già acciaccato di per sé; avrebbe influito negativamente sul suo karma, si disse. 
Eppure la risata eruppe: improvvisa, fragrante e intrattenibile. Matteo sgranò gli occhi, fissandola con risentimento: “Ragazzina,” soffiò, carezzandosi il punto contuso “che hai tanto da ridere?”
Veronica scosse la testa, non trovando le parole ma solo altre risatine convulse.
“Il ghiaccio.” ringhiò Matteo, incrociando le braccia al petto “Mi serve del ghiaccio.”
“Ghiaccio.” approvò lei, avvicinandosi, il viso arrossato “… non abbiamo del ghiaccio.”
“Com’è possibile?!” s’intestardì il ragazzo, una smorfia di dolore a contrargli il volto.
“Mickey.” spiegò lei, stringendosi nelle spalle e riprendendo fiato “Gli piace masticarlo.”
“E lo ha masticato tutto?”
“Lo ha finito oggi.” sorrise Veronica “Davanti alla tv.”
Matteo alzò gli occhi al cielo, esasperato: “Mi si sta gonfiando.” borbottò, la voce che gli usciva a stento. Veronica inarcò un sopracciglio, l’espressione di nuovo seria: “Come?” chiese, la luce del congelatore a colorarle il viso bizzarramente. 
“Il labbro, Ronnie.” sorrise malizioso lui, rilassando le spalle “Pulsa in maniera spaventosa: ci vuole del ghiaccio o domattina sarà inguardabile.”
E lei annuì, distogliendo poco dopo gli occhi da quelli di Matteo: rimise la testa nel freezer, le mani che si muovevano esperte e decise. Ne uscì una manciata di secondi dopo, chiudendo l’anta con un piccolo tonfo. Allungò la mano piena nella sua direzione e sorrise, ironica e altezzosa: “Piselli congelati.” sussurrò, un ghigno sulle labbra “Vanno bene lo stesso?”
“Sono sicuro di sì.” sorrise Matteo, afferrando il pacchetto colorato e portandoselo alla bocca. Lo poggiò sul labbro, mentre una smorfia rubava il posto al  sorriso.
“Cosa c’è lì fuori?”
Veronica seguì lo sguardo di Matteo, superando la cucina e guardando fuori dalla finestra:
“Il terrazzo.” rispose poi, stringendosi nelle spalle.
Annuirono entrambi, non sapendo bene cosa fare. Persi, decisamente smarriti.
“Usciamo?”
E lei smise di annuire. “Come?”
Matteo non aveva smesso, anzi, accentuò il movimento del capo: “Sul terrazzo.” mormorò, deciso.
“Siamo in Dicembre.” balbettò Veronica, scuotendo la testa.
“Lo so.”
“Ci saranno sì e no dodici gradi, lì fuori.” continuò la biondina, incredula.
“Anche di meno.” concordò lui, muovendo appena il pacco di piselli sulla bocca.
E Veronica non trovò più niente da ribattere.
“Aspetta.” disse, sparendo in direzione del salotto. 
Matteo sospirò, chiudendo gli occhi per qualche istante. Non si aspettava di vederla tornare: non per uscire in terrazzo. Con lui. A Dicembre e con meno di dodici gradi. 
No e basta.
“Eccomi.”
Sussultò, spalancando gli occhi. Li fissò sulla figura che era appena riapparsa: bloccato su di lei, lei che sorrideva, una coperta di pile stretta fra le mani e un cappello calcato in testa.
Continuò a guardarla mentre attraversava la cucina e poi la seguì, fuori. Rabbrividì quando una folata di vento lo colpì in pieno.
“E tu che volevi il ghiaccio.” ridacchiò Veronica, afferrandolo per un braccio e tirandolo verso di sé. Non si vedeva granché: la luna era nascosta da cupe nuvole nere, così come le stelle, già rare da trovarsi. Solo le luci della città sotto di loro, evanescenti e rarefatte, rischiaravano lo spazio circostante. Matteo si lasciò trascinare, sedendosi al suo fianco, la schiena poggiata al muro più vicino. Non si mosse, non proferì parola, a stento respirò: aspettò che Veronica stendesse la coperta su entrambi, rimboccandola con cura. Quindi riprese aria.
“E’ bellissimo.” mormorò.
“Se lo dici tu.” rispose lei, stringendosi nelle spalle, le mani fra le gambe per avere un po’ di calore.
Matteo socchiuse gli occhi, reclinando il capo all’indietro. Cosa, cosa sbagliava con quella ragazza?
“Veronica.” sussurrò “Veronica e poi?”
“Merogliesi.” disse lei, annullando del tutto la distanza fra i loro corpi “Troppo freddo.” borbottò, a mo’ di spiegazione, ignorando lo sguardo di lui.
“Merogliesi come i Merogliesi delle pompe funebri?” chiese Matteo “Merogliesi il miliardario?”
“Mio padre.”
Matteo annuì, chiudendo finalmente gli occhi: “Così almeno si spiega l’appartamento.”
“Troppo grande?.” s’informò Veronica, curiosa.
“Troppo grande, bello, costoso. Troppo tutto. Troppo troppo.”
Ci volle qualche secondo, riempito solamente dai tenui rumori della strada, prima che lei sussurrasse: “Il fatto che mio padre abbia i soldi,” cominciò, poggiando indolente il capo sulla spalla di Matteo “il fatto che lui sia pieno di soldi, non significa per forza che debba esserlo anch’io.”
“Hai appena affermato un controsenso.” ribatté Matteo, allontanando i piselli dal labbro.
“Potrei anche non avere un buon rapporto con lui.”
“In tal caso non si spiegherebbe l’appartamento.”
Veronica prese un bel respiro, chiudendo gli occhi a sua volta:
“Non potrebbe essere che Cinzia o Michele siano ricchi?” chiese, la voce impastata.
“Non direi.” rispose Matteo, il sorriso nella voce “Più che altro, mi sembra improbabile. Per quanto lei possa essere una brava escort e per quanto lui… cosa farebbe il topo?”
“Smettila.” soffiò Veronica, il tono duro “Non devi fare così.” lo riprese, irritata, sollevandosi per guardarlo negli occhi “Non puoi permetterti di criticare persone che non conosci. Sono i miei migliori amici, Matteo. Le persone a cui tengo di più e non riesco a sopportare che qualcuno le insulti, anche solo velatamente.”
Matteo fece per alzare le mani in segno di scuse, uno sguardo contrito ad illuminargli gli occhi, ma lei non gli diede il tempo di aprire bocca, riprendendo subito e con maggiore decisione:
“Non sai niente di loro.” sibilò, lo sguardo truce “E quando non si conosce il passato di qualcuno è una terribile sconsideratezza azzardare giudizi. Soprattutto in mia presenza.”
“Scusami.” riuscì finalmente a sussurrare lui, poggiandole le mani sulle braccia “Davvero, scusami. Non intendevo offendere nessuno. E’… è la stanchezza, Ronnie, mi dispiace.”
Veronica annuì, placandosi di colpo. Merito forse del tocco di Matteo, o del suono che aveva il suo nuovo soprannome sulle labbra del ragazzo. Qualunque cosa fosse, ebbe il potere di farla annuire, un mezzo sorriso sulla bocca. Tornò ad appoggiarsi a lui, la testa che trovava di nuovo un posto perfetto nell’incavo della sua spalla. Avrebbe chiuso lì la conversazione, ma come sempre, niente va mai come dovrebbe andare. 
“La pantera?” chiese, senza spostarsi di un millimetro “E’ vero che è Bagheera?”
“Simone.” sospirò Matteo, il petto che sussultava scosso da una tenue risatina “La rana dalla bocca larga, lo chiamo io. Non gli si può dire niente che la notizia vola.”
“Bagheera?”
“Ti sconsiglio vivamente di rivelargli un segreto.”
“Bagheera?”
“Farà una brutta fine, prima o poi, Pel di Carota.”
“Bagheera?”
“Bagheera.” si arrese Matteo, poggiando a sua volta il capo su quello di Veronica.
“Come mai?”
“Storia vecchia.”
“Ho tempo.”
“Non è il caso.” borbottò lui, scuotendo la testa “Risale alla mia infanzia.”
“Ho tempo.”
“Io però non ho voglia.”
Veronica aprì appena un po’ gli occhi, lasciando perdere, conscia di non dover tirare troppo la corda.
“Non mi dici mai niente.” si lamentò, dimentica del pensiero di pochi istanti prima.
“Nemmeno tu.”
“Ad esempio?” chiesero in contemporaneo, guardandosi negli occhi con aria di sfida.
“L’occhio, il labbro, lo sfratto, Bagheera.” elencò lei, contando anche sulle dita.
“L’alfiere, la regina di cuori, le pompe funebri, i tuoi amici.” le fece il verso Matteo.
E rimasero tutti e due in silenzio, senza parole.
Non era facile, non quando i punti deboli e più delicati venivano esposti così: senza preavviso, di notte, quando la distanza era troppo poca e i respiri accavallati non facevano altro che confondere le idee. Forse era il freddo, o il buio. Forse era il profumo di vaniglia, oppure l’assenza di fumo…
“Tregua?”
“Un punto e virgola?”
Si fissarono, le labbra livide chi per il freddo e chi per altre, ignote, motivazioni.
“Andata.” sussurro impercettibile.
Tornarono ad acquietarsi, calmi in modo quasi improbabile.
“Sai una cosa, Teo?” chiese Veronica, accucciandosi contro il suo petto.
“Cosa?”
“Ho sempre pensato che mancasse una cosa, qui fuori.”
Matteo aspettò. Attese che continuasse, rimboccando nel frattempo le coperte su di lei. Le tirò fino al collo, strusciandoci poi sotto. Sospirò, avvolgendola con un braccio e chiudendo gli occhi.
“Una doccia.” sussurrò Veronica, seria.
“Sul terrazzo?” chiese Matteo, il sonno ad impastargli la voce.
“Già, una doccia.” approvò lei “Hai idea di come sarebbe carino?”
“Fare la doccia qui fuori?” borbottò il ragazzo, pensieroso.
“Sì.”
Matteo sorrise, un’immagine che gli si proponeva nella mente.
“Hai ragione.” disse “Si può fare.”
“Dici?” sorrise lei, reprimendo uno sbadiglio.
“Certo.”
Veronica non disse niente, gli occhi che le si chiudevano. Ma non poteva dormire ancora: sapeva che non era finita. Mancava qualcosa…
Mancava una battuta.
“E’ implicito che la inaugureremo insieme, eh, Ronnie?”
Ecco, si compiacque lei.
Era finita.

 

*

 

 

“Veronica.”
Era stato un sussurro, niente di più.
Non il primo, nemmeno il decimo: era il ventiduesimo. 
Matteo sospirò, dandole un colpetto con il gomito: aveva messo da parte la gentilezza, sperando così di ottenere una qualche reazione. Niente da fare.
Grugnì, poggiandole il palmo della mano su un fianco: la pizzicò, le fece il solletico. Nessuna reazione.
Gemette, reclinando il capo all’indietro e chiudendo gli occhi. Ancora poco e avrebbe cominciato ad urlare. Si inumidì le labbra, irrigidendosi maggiormente per il dolore che si procurò, ma era nulla in confronto al terrore che lo attanagliava in quel momento. Cercò di distrarsi, immobile; e ci stava anche riuscendo, quando quel suono pacato cominciò a diffondersi nella casa.
La prima cosa che vide furono i piedi, scalzi, con le unghie dipinte di rosso. Subito dopo poté godere della visione del corpo della ragazza, coperto unicamente da un aderente completo intimo.
“Sono le sette.”
“L’ho scelto io.”
Si zittirono entrambi, guardandosi perplessi.
Cinzia inarcò un sopracciglio, reprimendo uno sbadiglio. Si aggiustò i capelli, tranquilla e riposata.
Matteo assottigliò lo sguardo, cercando di non guardare altro che il viso di lei.
“Dormito bene?” domandò Cinzia, piegando il capo per osservare meglio la scena.
“Benissimo.” confermò lui, un briciolo di esasperazione nella voce “Non si sveglia.”
“Che hai detto prima?”
“Che l’ho scelto io.”
“Cosa?”
“Il completino che indossi.” ghignò Matteo, concedendosi una lunga occhiata all’indumento.
“Sei un porco.” sibilò lei, trattenendo un sorriso “Un porco con un ottimo gusto.”
“Ti ringrazio.”
“Sono le sette.” sospirò Cinzia, dandogli le spalle “In piedi, pigroni!”
“Cinzia!” chiamò Matteo, alzando la voce “Non si sveglia, Cinzia!”
La ragazza, sparita nella cucina, si affacciò appena, l’espressione scocciata:
“Soffia sul collo.”
Il giovane aprì la bocca per dire qualcosa, ma non riuscì ad emettere alcun suono. Si voltò verso la biondina, fissandole sconcertato il collo: doveva soffiare? Cinzia gli passò di nuovo affianco, una fetta biscottata in una mano e un bicchiere di aranciata nell’altra:
“Che aspetti?”
Matteo la fulminò con lo sguardo, stringendo i denti.
“Devo soffiare?!”
“Neanche i cannoni la svegliano, altrimenti.” annuì la ragazza, convinta.
“Ho notato.” borbottò Matteo, incenerendo entrambe “Perché non soffi tu?”
“Non ho dormito io con lei.” affermò Cinzia con ovvietà, incamminandosi verso il bagno “Per ben due volte.” aggiunse, chiudendosi la porta alle spalle.
“Non abbiamo dormito insieme.” sbottò il ragazzo, gemendo per l’inutilità delle proprie parole.
Chiudendo gli occhi, conscio di non poter fare altrimenti, si piegò verso Veronica. Avvicinò la bocca al collo di lei, il cervello che, impazzito, gli mandava immagini confuse di vampiri e gesti impulsivi.
Soffiò, delicatamente, poco sotto l’orecchio di lei. E quel soffio leggero riuscì in ciò che non avevano fatto estenuanti richiami, pizzichi, solletico e calci ben assestati. Veronica sorrise, mugolando suoni incomprensibili. Si strinse maggiormente a Matteo, sistemandosi meglio: le gambe aggrovigliate con le sue, il volto nascosto sulla spalla di lui e un braccio a circondargli il petto.
“Ronnie.” sussurrò Matteo, cercando con tutte le sue forze di ignorare il corpo della ragazza. E Veronica spalancò gli occhi, fissandolo come se avesse appena annunciato l’imminente fine del mondo. Schiuse le labbra, realizzando poco alla volta la posizione compromettente in cui si trovava.
Liberò il giovane dall’abbraccio, tentando inutilmente di mettere più spazio fra di loro.
“Siamo sul divano.” biascicò incredula “Insieme.”
“Sì.”
“Perché siamo sul divano?”
“E’ quello che ci chiedevamo tutti, ti assicuro.” ghignò Michele, accecandoli con un flash sospetto.
Veronica serrò gli occhi, cercando con difficoltà di liberare le gambe dal groviglio in cui erano. E fu uno squittio a farglieli riaprire di scatto: Michele allontanò la macchina fotografica e sorrise ancor di più, avvicinandosi di un passo al divano. Ridacchiò, scuotendo piano il capo:
“Ecco dov’era finito.” esclamò estasiato “Vado a preparargli la colazione.” mormorò, sbadigliando.
“Cos’è?” piagnucolò Matteo, accennando all’animale con espressione sofferente.
“Perché siamo sul divano?”
“Cos’è?!”
“Il divano?!”
Matteo sospirò, raccogliendo le forze. Non aveva speranze di vincere con lei.
“Ti sei addormentata mentre eravamo fuori.” spiegò “Così ti ho portata dentro.”
“Sul divano.” s’insospettì lei “Perché non il letto?”
“Era più vicino.”
“E perché tu sei qui?”
“Non lo so!” esclamò il ragazzo, sconsolato “Non lo so, davvero. Mi sono svegliato qui, con te che mi stringevi neanche fossi il tuo orsetto di peluche e quell’essere ai piedi!” si sollevò sui gomiti, riducendo lo spazio che li divideva “Mi dici che cos’è, per favore?” soffiò, fissandola negli occhi.
“Mouse.” balbettò Veronica “E’ Mouse.”
“Chi… cos’è Mouse?”
“Il mio topolino.” rispose candidamente Michele, sedendosi sul pavimento a gambe incrociate, una tazza di latte e cereali in mano “Gli ho preparato la colazione, fra un po’ se ne va, tranquillo.”
“Il tuo topo?” sbottò Matteo “Quello non è un topo!”
Guardò l’animale: una massa soffice di pelo bianco e nero, enorme, grande quanto il suo pugno senza contare le orecchie che erano due antenne satellitari. Lo aveva fissato per quasi venti minuti, ridendo sotto i baffi, Matteo ne era convinto. Più lui cercava di scostarsi, finendo irrimediabilmente per stringersi a Veronica, più l’essere peloso si avvicinava e gli si poggiava contro la gamba. Odiava i roditori.
“Ti assicuro che è un topo.” sorrise Veronica, prendendolo in mano.
Lo reggeva tranquillamente, carezzandolo con affetto: il presunto roditore socchiuse gli occhietti, soddisfatto. Veronica lo avvicinò a Matteo, poggiandoglielo di colpo sul petto: il giovane gemette, facendo per scuoterselo di dosso, ma la ragazza non glielo permise. Gli prese una mano, sistemandola poi sul pelo dell’animale: lo fissò, sfidandolo a muoversi.
“Fate amicizia."
“No.” mugolò Matteo “Non è un topo.”
“E’ un topo.”
“E’ troppo grande.”
“E’ un topo.”
“Mi guarda.” soffiò Matteo “E ride sotto i baffi.”
“E’ un topo simpatico.”
“Sembra che capisca cosa succede e che mi voglia prendere in giro.”
“E’ un topo intelligente.” sospirò Veronica “Anche più di una parte dei presenti.”
Matteo sospirò, vinto. Doveva cedere le armi.
Fissò la propria mano immobile sul dorso dell’animale. L’orrore iniziale si tramutò lentamente in sorpresa mentre le dita affondavano nel soffice pelo. Il ragazzo inclinò il capo, osservando quelle orecchie che sembravano imitare e seguire ogni suo movimento.
“E’ morbidissimo.” sussurrò, incredulo.
E Veronica sorrise, annuendo contenta, divertita dall’espressione di lui.
“Ora che vi siete conosciuti,” approvò Michele, afferrando il topo “andiamo a fare colazione Mouse, si sta facendo tardi.”
“Sei in ritardo, Mickey.” borbottò Veronica, cercando di alzarsi.
“Sono in perfetto orario.” ribatté lui, sparendo nella cucina.
“Fammi capire.” fece Matteo, stringendo un braccio della ragazza “Il topo si chiama Mouse e il padroncino è Mickey?”
“Già.” sospirò lei, alzando gli occhi al cielo “Stai attento.”
“A cosa?” chiese il ragazzo, esilarato.
“Il troppo ridere potrebbe portarti a scontrarti con un altro muro a breve.”
“Oh, ma dai!” sbottò lui, alzandosi e tirando in piedi anche lei “Mouse e Mickey! Mickey Mouse! Ma come si fa? Sono… sono cose da pazzi.”
Veronica si lasciò sfuggire un sorriso, scuotendo lievemente il capo: fissò il ragazzo e il sorriso le morì sulle labbra. Guardava i vestiti sgualciti, i jeans bassi, la felpa tutta storta; scrutava quel viso svagato, il riso che si rifletteva dalle labbra contuse agli occhioni scuri. Cercava di trovarvi qualcosa di errato, un minimo segno che vi fosse uno sbaglio, che non fosse così. Perché non era possibile che a farle quell’effetto fosse lui: con i capelli inguardabili, arruffati e scarmigliati; lui con un alone nero attorno all’occhio e uno ancora più scuro dentro di sé. Veronica abbassò lo sguardo, tormentandosi le mani.
“Che c’è?”
Sussultò, sfuggendo i suoi occhi, facendo per allontanarsi.
“Che ho fatto questa volta?” domandò ancora Matteo, fermandola, stringendole un polso.
“Niente.” sillabò lei, liberandosi dalla stretta del ragazzo e fulminandolo, severa.
Matteo arretrò, sollevando le mani. E Veronica abbassò le difese.
“Dormito bene?” chiese lui, provando un’ultima volta.
“Sì.” sussurrò la biondina, un vago rossore a colorarle le guance.
“Se mai avessi ancora bisogno di un orsacchiotto…”
Lo spalancarsi della porta del bagno gli troncò la frase, facendo girare entrambi verso una Cinzia truccata e profumata che li scrutava con disapprovazione blandamente ostentata:
“La smettiamo con queste romanticherie di prima mattina?” sbottò, fissandoli con aria torva “Vi ricordo che è giornata lavorativa, non avete tempo per tornare a rotolarvi fra le lenzuola.”
“Chi è che si rotola?” biascicò Simone, uscendo in quel momento dalla sua stanza.
Cinzia inarcò un sopracciglio, le braccia incrociate sul petto, la lingua già pronta a scattare.
Simone osservò un attimo la scena, lo sbadiglio che gli moriva penosamente in gola alla vista della brunetta in intimo; s’infiammò, divenendo rosso quanto il pigiama, gli occhi che correvano a fissare il pavimento in legno. Matteo sbuffò, sospingendolo brutalmente verso la cucina:
“Nessuno si rotola con nessuno.” soffiò, lapidario, seguito dalla risata sarcastica di Cinzia.
Veronica li guardò sparire, chiedendosi se avrebbe mai trovato il coraggio di alzare lo sguardo per incontrare quello dell’amica. Fu lei a risolvere la situazione, avvicinandosi in pochi passi e fermandosi davanti a Veronica, le mani ancorate saldamente sui fianchi.
“Che combini?”
“Niente.” esalò, alzando timorosa gli occhi.
“Sembravi un koala in calore.”
“Cicì!” scattò Veronica, colpita da quella sentenza che andava dritta al sodo come sempre.
“E’ vero.” fece l’altra, stringendosi nelle spalle “E lui non sembrava affatto infastidito.”
“Davvero?”
Cinzia sorrise, aspettandosi quella domanda. Veronica si strinse nelle spalle: era inutile e decisamente troppo presto per continuare con la farsa del non mi interessa niente.
“Davvero. Sembrava più che altro concentrato nell’intento di non far svegliare qualcun altro.”
All’espressione interrogativa dell’amica, Cinzia rispose brontolando:
“Qualcuno dei piani bassi.” sospirò, alzando gli occhi al cielo “Lo stesso qualcuno che a quanto pare si sveglia tutte le mattine. E in particolar modo le mattine in cui ci sei tu nelle vicinanze.”
Veronica non riuscì a reprimere un sorriso, malamente imitato dalle labbra dell’amica.
“Stai attenta, Vero.” mormorò, un lampo di preoccupazione che le passava negli occhi scuri.
“Sì, mamma.” ridacchiò “Non stare in ansia per me.” aggiunse, scoccandole un tenero bacetto sulla guancia.
“Come se potessi fare altrimenti.” sospirò Cinzia, scuotendo il capo e chiudendosi in camera.
Veronica sorrise, i pensieri che, irriverenti, convergevano tutti sull’amichetto dei piani bassi.
“Sono le sette e ventinove.” scandì Michele, passandole in fretta accanto “Svegliamoci, Bella Addormentata.” ghignò “Sì, ho deciso che dobbiamo vedere anche questo.”
“Come vai a scuola?”
“Se faccio in tempo, con Giacomo.” si strinse nelle spalle il ragazzino.
“Cerca di fare in tempo.” lo redarguì Veronica, affacciandosi dalla porta della sua stanza.
Michele finse un’espressione offesa, infilandosi maldestramente una felpa arancione: tirò su il cappuccio, lanciandole un’occhiata preoccupata.
“Cosa…?” Veronica sgranò gli occhi “Oh! Il compito di fisica.”
“Tanto vale che glielo consegni in bianco” mugugnò Michele, sconsolato.
“No.” gli si avvicinò “Non dire così. Andrà bene.”
“Come no.”
“Sei un genio della matematica, Mickey.”
“Questo non implica che capisca la fisica.” spiegò il ragazzino.
Veronica si mordicchiò il labbro, esitante: “E se va male?”
“Sono cazzi.”
“E io, poi, non devo essere sboccato di prima mattina.” intervenne Matteo, inarcando divertito un sopracciglio. Entrò nella stanza, incurante, osservando con sguardo clinico il disordine che regnava sovrano: raggiunse sorprendentemente incolume la scrivania, frugando tra i fogli con curiosità.
“Qualcuno che ti possa aiutare?”
“Solo copiando posso combinare qualcosa, Vero.” sospirò lui, afferrando uno zaino multicolore. Vi scagliò dentro libri, fogli, oggetti vari non meglio identificati. Si accostò a Matteo, togliendogli la calcolatrice di mano e gettandola nello zainetto: “Come va l’occhio, amico?”
“Meglio. Qual è il problema?”
“La fisica.”
“Brutta bestia.” approvò Matteo, grave “Ti può far comodo una mano?”
“Capisci la fisica?”
“Abbastanza.”
Michele lo fissò, esitante, diffidente quasi quanto Veronica alle sue spalle. 
Matteo sorrise, svagato:
“Se hai problemi,” disse, passandosi una mano sull’avambraccio “vai in bagno e chiamami, vedo se posso aiutarti.”
“Sul serio?” boccheggiò il ragazzino, incredulo.
“Certo.” sorrise Matteo, prendendo un foglietto e una penna dalla scrivania “Questo,” mormorò, scribacchiando qualcosa “è il mio numero.”
Michele sgranò gli occhi, afferrando il piccolo pezzo di carta; fece per dire qualcosa ma un fischio acuto lo frenò. Al fischiò seguì la voce di Silvestro, perfettamente udibile:
“E’ arrivato Giacomo!” il fievole eco di un clacson li raggiunse “Muoviti, Mickey!”
“Devo andare.” sorrise il ragazzino “Grazie ancora.” ghignò, assestando una pacca sulla spalla di Matteo. Un bacio veloce sulla guancia di Veronica e corse fuori, lo zaino in una mano e il numero del ragazzo nell’altra. Veronica, le braccia incrociate sul petto, fissò truce Matteo:
“Tu capiresti qualcosa di fisica?”
“Non sono un’ameba, sai?”
“Non ho…” sospirò lei “Non ho mai detto che sei scemo, ma…”
“Bugiarda.” sorrise lui, un’occhiata veloce all’orologio “A che anno è Michele?”
“L’ultimo.” disse Veronica, un lampo che le passava negli occhi; un lampo che sembrava tanto orgoglio, notò Matteo, senza capire. “Spero per te che tu riesca veramente ad aiutarlo.” aggiunse lei, uscendo dalla camera sovrappensiero.
Matteo la seguì con lo sguardo, una serie di domande che gli si affollavano nella mente. 
Scosse il capo, in contemporanea con la porta del bagno che si chiudeva dietro di lei, sperando che la curiosità si spegnesse così come era nata. Non doveva farsi coinvolgere. 
Non erano fatti suoi.
Cosa diavolo gli prendeva?
“Lavori stamattina?”
Matteo annuì, osservando di sbieco l’amico. Simone lo prese a braccetto, trascinandolo in camera con sé: “Dove hai dormito?” chiese, bevendo un altro sorso dalla tazza che stringeva fra le mani.
“Qui.”
Rischiò di strozzarsi, Simone.
“Non avevamo deciso che avresti diviso la camera con me?”
“Infatti.” confermò Matteo.
“Ma…”
“Mi sono addormentato sul divano.”
Simone annuì, grattandosi il naso e sistemandosi gli occhiali.
“Stavo pensando di cercare un altro posto, Simo.”
“Perché?”
Matteo si strinse nelle spalle, esasperato come al solito dalla pacatezza dell’altro.
“Non lo so.” borbottò “Io… porto sempre guai, lo sai. Non vorrei dare fastidio.”
“Ti hanno invitato loro.”
“Non mi conoscono.”
“A me è sembrato il contrario.”
Matteo sospirò, chiudendo gli occhi. Doveva andarsene.
“C’è spazio, Matt.” ricominciò Simone “Tanto spazio. E’ un posto fantastico, pulito. Sono brave persone, certo particolari, ma chi non lo è? E pagheremo, è naturale.”
“Non abbiamo soldi.”
“Appena li avremo.” si corresse Simone “E’ naturale.”
Matteo agitò una mano come per scacciare una mosca. Simone represse un sorriso, riconoscendo quelli che erano i segni di una resa. Non disse niente, limitandosi a fare spallucce. Aveva vinto.
“Vado a lavarmi.” borbottò Matteo, dandogli le spalle.
Entrò nel bagno più piccolo e si abbassò la zip dei jeans; stava per sbottonarli quando, casualmente, si voltò verso la finestra: incontrò due paia d’occhi che lo fissavano, esilarati. Arretrò di scatto, una risata che partiva dai due che lo guardavano:
“Non ti fermare, dai!” esclamò il biondino, sorridendo languido.
“Scusalo.” ridacchiò Silvestro, carezzandosi la pelata e continuando a sciacquarsi le mani “Matteo, lui è Giovanni. Giovanni, Matteo.”
Il biondino fece il gesto di sollevarsi un cappello immaginario. Matteo arretrò ancora.
“E’ un piacere conoscerti.”
“Non altrettanto.” soffiò Matteo, stringendo i denti.
Con un cenno del capo li salutò, uscendo rapidamente dal bagno: si scontrò con Simone, spazzolino in mano, che lo fissò senza capire.
“Problemi?” chiese Simone. 
Un sorrisetto gli incurvò le labbra quando le risatine lo raggiunsero, fioche. Matteo si scurì in volto, procedendo a lunghi passi per il corridoio: “No.” sbraitò, riuscendo unicamente a far allargare il sorriso di Simone “Ti lascio il bagno.”
Il rosso si strinse nelle spalle, guardandolo mentre apriva la porta dell’altro bagno. Rispose al saluto dei due giovani dirimpettai e, lavandosi i denti, intrattenne svagato una conversazione. Non sentì l’urlo. Semplicemente, non lo sentì.
“Matteo!”
“Sì.” annuì lui, prendendo posto davanti allo specchio “E’ il mio nome, brava.”
Veronica aprì la bocca, un nuovo grido che le solleticava la gola.
“Sei pazzo?” domandò, il timbro di voce fin troppo acuto “No, dimmelo ti prego, che diavolo ci fai qui?!”
“Mi devo fare la barba, ragazzina.”
“Ci sono io in bagno!” sbraitò la biondina, l’acqua che continuava a scorrere “Sai cosa significa occupato? E’ un modo come un altro per dire che non puoi entrare. Soprattutto se io sono sotto la doccia, porca di quella miseriaccia!”
“Non scaldarti tanto.” sospirò lui, piegandosi per frugare nei mobiletti bianchi “C’è un rasoio da queste parti, Ronnie?”
“Non chiamarmi Ronnie!” gridò “Esci fuori!”
Matteo sbuffò, alzandosi, un rasoio blu stretto nella destra.
“Qual è il problema?”
“Stai scherzando, vero?” sibilò lei “Lo spero per te.”
Vedendo che non accennava a spiccicare parola, continuò, furente:
“Sono sotto la doccia.”
“Ho notato.” annuì il ragazzo.
Le pareti di vetro della doccia, trasparenti, erano opache per via del vapore: incontrò gli occhioni azzurri della ragazza e si strinse nelle spalle, fingendo noncuranza.
“Ripeto, non scandalizzarti così.” sorrise, girandosi e dandole le spalle “Siamo pur sempre coinquilini, no? Non sarà l’ultima volta.”
“Che entri in bagno mentre ci sono io?”
“No.” ghignò Matteo, bagnando il rasoio e spalmandosi la schiuma sul viso “Che ti guardo mentre fai la doccia, ragazzina.”
L’urlo che seguì era rabbia pura. La boccetta di shampoo mancò l’orecchio del ragazzo di pochissimi millimetri, andando a schiantarsi con lo specchio nel quale si stava guardando.
“Stai attenta.” mormorò lui, calmissimo, incontrando lo sguardo di Veronica riflesso nello specchio “Ti cola il balsamo negli occhi.”
Si aspettava altre grida, eppure non arrivarono. Matteo aggrottò le sopracciglia, cercando di scorgere l’espressione di lei: si era zittita, riprendendo a lavarsi con apparente serenità. Calma.
Era quello, esattamente, a spaventarlo.
“Tutto bene?” chiese, sospettoso, una smorfia sul volto mentre si radeva il mento “Bruciano gli occhi, per caso?”
Veronica non rispose, chiudendo piano il getto dell’acqua.
“Io vado.” giunse la voce di Cinzia da fuori la porta “Cercate di fare un po’ meno rumore, voi due, lì dentro. Non siamo in un bordello, ragazzi.”
Matteo fece per dire qualcosa, ma il suono della porta d’ingresso che si chiudeva lo fece desistere.
“Mi passi un asciugamano, Teo?”
Si girò, preso in contropiede, trovandosi a fronteggiare il sorriso beffardo di Veronica: un braccio fuori della doccia, il palmo della mano aperto verso l’alto, in attesa.
“Certo.” balbettò, allungandole un panno bianco.
La biondina lo prese, portandoselo malamente a coprire il petto. Uscì dalla doccia, un asciugamano decisamente troppo piccolo addosso. Matteo si girò, dandole di nuovo le spalle: non parlava più.
Veronica represse un sorriso, chiedendosi se almeno respirasse.
Si pettinò i capelli, lasciandoli sciolti sulle spalle. Fece per aggiustare l’asciugamano, riuscendo unicamente a scoprire maggiormente le cosce. Si avvicinò al lavandino, i piedi scalzi, spintonando gentilmente Matteo e posizionandosi a sua volta davanti allo specchio.
“Che fai?” chiese lui, la mano bloccata a mezz’aria.
“Mi lavo i denti.” rispose Veronica, piegandosi contro di lui per raggiungere lo spazzolino.
“E’ necessario?”
Veronica inarcò un sopracciglio, l’espressione sorpresa.
“Direi di sì.” mormorò, spremendo il dentifricio a menta “Ti disturbo, per caso?”
Matteo serrò la mascella, negando impercettibilmente.
“Non hai fatto colazione.”
“Non la faccio, di solito.”
“E’ il pasto più importante.” sentenziò lui, guardando ovunque tranne che verso di lei.
“Sì, papà.” lo canzonò Veronica, un rivolo bianco all’angolo delle labbra rosse.
Matteo continuò a radersi, l’occhio che troppo spesso deviava a sinistra, verso di lei.
Avrebbe perso, su tutta la linea. Ne fu certo quando sentì il cuore che mancava un battito.
“Ti scende…” balbettò, chiudendo per un istante gli occhi “Ti scende l’asciugamano.”
Veronica annuì appena, senza affrettarsi ad aggiustarlo: si piegò sul lavandino, riempiendo la bocca d’acqua per sciacquarsi. I capelli che sfioravano la mano di lui, l’asciugamano che decisamente non era al suo posto. Si tirò su con calma, stringendo il nodo del panno e inclinando il capo verso di lui.
“Hai mancato questo angolino.” soffiò, sfiorandogli la parte alta della mascella.
Incrociò gli occhi di Matteo, soddisfatta, e si avvicinò ancora di un passo. Pochi centimetri, solo pochi centimetri a separarli. Veronica lo guardò, dal basso in alto, sorridendo prima di calpestargli con forza il piede.
“E non entrare più in bagno quando ci sono io.” sibilò, uscendo rapida, un profumo di vaniglia unica scia dietro di sé. Ignorò il mugolio di protesta, per niente scalfita dalle parole che seguirono: “Piccola vipera sfrontata!”
Veronica incrociò Simone in corridoio, sorridendogli luminosa. 
Lui rispose al saluto, aggrottando le sopracciglia quando le urla di Matteo lo raggiunsero. Guardò Veronica, lo sguardo interrogativo.
Lei ammiccò, superandolo tranquillamente.
“Stiamo facendo amicizia.”

 

 

§







 

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Capitolo 8
*** Lorenzo ***




Bugie bianche

                                                                                                

        ≈ Lorenzo ≈

 

 

“Sei seria?”
“Ti sembra che stia scherzando?”
Il ragazzo si accarezzò il pizzetto, guardandola con attenzione. Alla fine sentenziò, trattenendo a stento un sorriso che rischiava di tramutarsi presto in risate convulse:
“Non puoi essere seria.”
“Non potrei essere più seria, Daniele!” esclamò lei, fulminandolo con lo sguardo “Mi ha aggredito un piccione. Mi dici cosa ci trovi di tanto divertente?”
Daniele la fissò cercando di capire fino a che punto poteva spingersi oltre. Lo aiutò lei.
“Stai attento.” minacciò “Un passo falso e ti taglio il codino.”
Il ragazzo sospirò, smettendo un attimo di camminare. Veronica lo imitò, bloccandosi di fronte a lui.
Daniele svettava sopra di lei di buoni dieci centimetri. Era particolare, certo: il pizzetto, il codino... anche l’orecchino e il piercing contribuivano a dargli l’aspetto da cattivo ragazzo.
L’esatto contrario di quello che era: Veronica non aveva mai conosciuto persona più buona.
“Okay.” borbottò Daniele, prendendola a braccetto e ricominciando a camminare “Spiega.”
“Non è difficile.” s’innervosì lei “Stavo per attraversare la strada quando questo piccione mi ha aggredito.”
“Piccione?”
“Sì.”
“In che modo aggrediscono i piccioni?”
La domanda era stata posta con tono serio, eppure Veronica distinse senza difficoltà le note di profondo sarcasmo che il ragazzo aveva tentato di nascondere. Daniele, accorgendosi del nervosismo crescente, cercò di rimediare:
“E’ una domanda attinente.” spiegò “Pura curiosità, cucciola.”
“Non chiamarmi cucciola quando mi prendi in giro.”
“Non ti sto prendendo in giro.”
Veronica inarcò un sopracciglio, guardandolo in cagnesco: “Ridi e sei morto.”
Daniele sollevò le mani, facendole segno di proseguire.
“Stavo per attraversare quando questo piccione spicca il volo.” sospirò, aggiustandosi i capelli “Inizia volando raso terra e lentamente, molto, molto lentamente, si alza. Io resto tranquilla, dicendomi che non c’è pericolo: si alzerà abbastanza da non venirmi addosso. Perché sì, puntava diritto a me. Resto immobile fino a che non è a meno di un metro dalla mia faccia.”
Veronica si interruppe un secondo, scrutando il volto senza espressione dell’amico.
“All’ultimo istante mi piego sulle ginocchia.” aspetta ancora un attimo “Dovevo farlo, capisci? Mi avrebbe sbattuto contro, altrimenti, quel dannato piccione! Mi piego per evitarlo! Il colmo? Oltre il danno, la beffa: tutta la gente che era nei paraggi mi guarda, fissandomi come se fossi pazza. E io mi metto a urlare: ma perché, non lo avete visto il piccione?!
Veronica gemette mentre con la coda dell’occhio continuava ad osservare un Daniele inespressivo. Quando scorse il fremito che gli percorreva la gola, si arrese:
“Ridi.” concesse “Ridi, altrimenti ti scoppia un embolo.”
E il ragazzo rise di cuore, come non faceva da tempo. Dovettero fermarsi per non rischiare che si affogasse: sul ciglio della strada, lui piegato in due e lei con il capo leggermente rovesciato all’indietro e gli occhi puntati al cielo.
“Hai finito?”
Daniele annuì, rimettendosi a stento in posizione eretta. Bastò una fugace occhiata all’espressione della ragazza per farlo cominciare nuovamente a ridere, peggio di prima se possibile. Veronica si guardò attorno provando un briciolo d’imbarazzo: si strinse nelle spalle, rispondendo silenziosamente alle occhiate interrogative dei passanti. Gli concesse un altro paio di minuti prima di spintonarlo malamente; gli pizzicò il braccio più volte, sperando di placare le risate, invano.
Quando si fu calmato a sufficienza, gli rivolse un’occhiata risentita.
“Non è colpa mia.” brontolò “Chi altri poteva imbattersi nell’unico pennuto che impiega tempo a carburare?”
Daniele singhiozzò, passandosi una mano sul volto e stringendola di slancio in un abbraccio: “Hai ragione, cucciola.”
“Accondiscese lui come si fa con i pazzi.”
Veronica si lasciò stringere, cercando di non inalare l’odore di ospedale. Dopo un po’ lo allontanò, sbottonandogli il cappotto scuro con espressione indagatrice:
“Che fai?” cercò di svicolare lui, senza successo.
Lei gli aprì il cappotto, rivelando il camice azzurro che il ragazzo indossava.
“Devi tornare a lavoro?” sbottò incredula “Credevo avresti pranzato con me!”
Daniele si strinse nelle spalle, colpevole.
“Mi hanno affibbiato anche il turno pomeridiano, mi spiace.”
“Ti spiace?!”
Il ragazzo fece per aprire bocca ma lei lo interruppe:
“Mi hai chiamata,” elencò “ti ho raggiunto all’incrocio, abbiamo percorso mezzo isolato e…”
Fu in quel momento che si accorse dell’ospedale alla fine della strada.
“Brutto manipolatore che non sei altro.” soffiò Veronica, colpita.
“Così abbiamo passeggiato.”
“E ti ho riaccompagnato a lavoro!” sbuffò lei, ancora incredula “Mi abbandoni, ora?”
Daniele le diede un buffetto con la mano inguantata.
“Non te la prendere, dai.”
“Come faccio a non prendermela?” si offese lei “Il mio infermiere…”
“Specializzando.” la corresse come sempre.
“Il mio specializzando m’invita a pranzo…”
“Non l’ho mai detto.”
“Passeggia con me, ride a mie spese e alla fine mi lascia mangiare da sola.”
Daniele finse di sbuffare, una nuvoletta grigia che si formava davanti a loro, evanescente.
“Sei un mostro.”
“Non ci pensare più, cucciola.” ridacchiò lui “Com’è andata all’università? A parte il piccione, è chiaro.”
“A parte il piccione?” rifletté Veronica, imbronciata “Bene.”
“Puoi pranzare alla mensa dell’ospedale.”
“Sola?” lo rimbrottò, sperando di convincerlo “Tu proprio non puoi farmi compagnia?”
Daniele scosse il capo, sinceramente dispiaciuto. Stava per dire qualcosa quando gli suonò il cellulare: lo strinse a fatica fra le dita, cercando di non farlo scivolare e rispose, allontanandosi di pochi passi da Veronica. Lei lo osservò, pensando velocemente: prese il telefonino, scorrendo rapidamente le chiamate ricevute e senza aspettare più, premette il tasto verde. Aspettò: uno, due, tre squilli e poi…
“Pronto?”
“Sei libero a pranzo?”
“Chi… ragazzina?”
“Non hai risposto, Teo.” sorrise lei “Sei libero a pranzo? Adesso, per essere precisi.”
“Non credo… io… che hai in mente?”
“Hai presente l’ospedale?” s’informò “Il San Louise.” aggiunse, meditabonda.
“Sì?”
“Alla mensa fra dieci minuti?”
Matteo rimase in silenzio per un po’, facendole quasi temere che fosse caduta la linea.
“Sono in via Giotto.”
“Allora sei vicino!” si compiacque lei “Vieni, dai. Non mi piace mangiare da sola e un mio amico mi ha dato buca.”
“La cosa non mi sorprende.” scherzò lui, continuando in fretta, prima che la ragazza potesse replicare “Verrei, sai, ma mi fa ancora male il piede.”
Veronica strinse le labbra, reprimendo a stento un sorriso.
“Te lo meritavi.” sentenziò “Ora non fare il prezioso e muoviti.”
“Arrivo.” mormorò lui, chiudendo la chiamata.
Veronica sorrise, avvicinandosi all’amico ancora al telefono: gli girò attorno, tirandogli giocosamente il codino. Quello alzò gli occhi al cielo, esasperato e si affrettò ad attaccare.
“Andiamo.” sussurrò accelerando verso l’ospedale.
“Chi era?” chiese Veronica, accorgendosi immediatamente del nervosismo di Daniele.
“Nessuno.”
Lei sospirò, riuscendo con difficoltà a stargli dietro.
“Ancora Marina?”
Daniele non rispose, ma un tremito impercettibile del labbro fu sufficiente.
“Non mi va che ti faccia soffrire così, Danny.” mormorò, aggrappandosi al suo braccio “Perché non cambi numero?”
“Non servirebbe a niente.”
“Vuoi che le parli io?” si offrì Veronica, cercandone invano lo sguardo.
“No.” rispose Daniele, tentando di sorridere in maniera convincente “Grazie, ma no.”
Erano arrivati. Aprì la porta, aspettando che lei entrasse: vedendo che indugiava la sospinse appena, delicatamente, sorridendo ancora.
“Non preoccuparti, cucciola.”
“Mi preoccupo sì, se continui ad avere a che fare con quella… megera.”
Daniele ridacchiò, facendola sedere ad un tavolino minuscolo in fondo alla sala.
“Megera.” ponderò “Mi piace.”
Veronica sorrise, pregandolo con gli occhi di sedersi lì con lei.
“Non posso.” ripeté lui, scuotendo il capo, il codino che ondeggiava “Siediti, sta buona e mangia.”
Quando il ragazzo la fulminò, lei non poté fare a meno di rispondergli con una linguaccia.
“Mangia.” la redarguì lui “Altrimenti Cinzia se la prende con me.”
“Fila via, specializzando da strapazzo.” borbottò Veronica, assestandogli una pacca su una chiappa.
Daniele sparì oltre una porta a vetri; lei non fece in tempo a girarsi che Matteo prese posto sulla sedia di fronte alla sua: un ghigno sul volto mentre la fissava malizioso.
“Mi piace come modo di salutare.” disse “Perché non cominciamo a farlo anche fra noi?”
“Ben arrivato.” sorrise lei, ignorando la frase precedente “Tutto bene?”
“Benissimo, tu?”
Veronica si strinse nelle spalle, indicando con il capo dove potevano prendere da mangiare:
“Assalto di un piccione a parte, perfettamente.”
Impiegarono poco più di dieci minuti a riempirsi i vassoi: quando riuscirono finalmente a tornare al tavolo, Veronica estrasse le posate dalla busta di plastica e lo guardò con aria interrogativa.
“Profumi di cloro.” affermò, punzecchiandolo “Adoro l’odore del cloro.”
“Non annusarmi.” si finse oltraggiato Matteo, ripresosi dopo un istante di sorpresa.
“Perché profumi di cloro?”
“Mi ha chiamato Michele, qualche ora fa.”
Veronica sbuffò, mangiando un po’ di macedonia. Come, come si faceva a sopportarlo?
“Perché cambi discorso?” borbottò frustrata “Sei incredibile! Neanche ti avessi chiesto quanto è lungo il tuo…”
“Ragazzina!”
“Vedi?” ghignò lei, divertita dalla sua reazione “Non ti si può chiedere niente.”
Matteo la squadrò in silenzio per un po’, fissandola stralunato, poi assottigliò lo sguardo e sfoderò un sorriso che non preannunciava niente di buono:
“Okay.” mormorò “Vogliamo metterla su questo piano? Una domanda a testa. Bisogna rispondere per poter domandare ancora. Se non rispondi… penitenza.”
Veronica ridacchiò, alzando gli occhi al cielo:
“Neanche i bambini all’asilo sono tanto infantili.” sorrise “Ci sto.”
“Sono un cavaliere,” sussurrò Matteo, avvicinando la sedia a quella della ragazza “prego.”
“Comincio io?” si entusiasmò Veronica, divertita “Benissimo. Che voleva Mickey?”
“Aiuto con la fisica.”
Veronica s’imbronciò, riuscendo quasi ad assestargli una gomitata.
“E continua, per la miseria!” sbottò “Ho iniziato con una domanda facile: avevi persino accennato tu all’argomento, prima!”
“Hai ragione.” rise il ragazzo, scusandosi con gli occhi “Mi ha letto qualcosa come tre problemi in meno di venti secondi.” ridacchiò, scuotendo il capo “E sono riuscito a risolverli. A quanto pare ricordo ancora le basi, il resto è venuto da sé.”
Veronica sorrise, palesemente sollevata: “Per fortuna. Se questo compito va bene, dovrebbe…”
“Tocca a me.” la interruppe Matteo, impaziente come mai “Perché stai mangiando la macedonia?”
“Non capisco la domanda.”
Il ragazzo portò un pezzo di carne alla bocca, indicando il pollo che era in un piatto davanti a lei: “Hai il primo e anche il secondo,” mormorò “perché inizi con la frutta?”
Lei si strinse nelle spalle, meditando sulla domanda, indecisa:
“Non saprei.” rispose poi, sincera “La frutta è uno dei miei cibi preferiti. Credo… credo di aver sempre cominciato dall’ultimo. Sono la parte migliore, sai com’è: nel timore che mi sazi prima, così, li mangio subito.”
Matteo annuì, ancora perplesso. Sconsolato, alla fine, sorrise.
“Il cloro.” tornò alla carica Veronica.
“Prego?”
“Perché?” sbuffò la biondina, palesemente esasperata “Perché profumi di cloro?”
“Sono stato in piscina.”
“Perché?”
Matteo sorrise arguto, agitando la forchetta davanti a sé: “Una domanda alla volta, ragazzina.”  sogghignò “Tocca a me.”
Ci pensò su per un attimo e poi chiese: “Chi ti ha dato buca?”
“Daniele.”
“Chi è Daniele?”
Veronica sorrise serafica, inarcando un sopracciglio con espressione saputa: Matteo la fissò sconcertato, consapevole di essere caduto in pieno nella trappola. Lei annuì, finendo la macedonia: “Una domanda a testa, Teo, non imbrogliare.”
Rideva sotto i baffi, Veronica: “Torniamo al cloro. Che facevi in piscina?”
“Do qualche lezione.” mormorò Matteo “Per arrotondare, sai com’è.”
“E a quanti siamo, di grazia?”
“Di che cosa?”
“Di lavori.”
Il silenzio calò, solo per un fuggevole attimo.
“E io che credevo che tre fossero tanti.”
“Il mio è un caso a parte.”
“Oh, lo so.” sussurrò lei, divertita “Me ne sto rendendo conto.”
“Ora, lasciando correre per un po’ i miei innumerevoli lavori.” divagò Matteo “Ti chiederei ancora di Daniele, eppure un’altra domanda mi sorge spontanea.”
Veronica attese in silenzio, poi, rendendosi conto che non giungeva alcun quesito, si schiarì la voce: “Allora?”
“Sai nuotare, ragazzina?”
E Veronica quasi si strozzò con l’acqua.
“Ma che domande sono?!” singhiozzò, il tono stridulo “Certo che so nuotare.”
“Io dico di no.” affermò lui, sicuro “Scommettiamo?”
“Ma… che ti viene in mente?”
Matteo osservò il volto di lei, ogni minima sfumatura, soffermandosi con particolar interesse sul rossore diffuso delle gote.  Aveva notato qualcosa, non avrebbe saputo dire cosa, eppure avrebbe scommesso davvero che non sapesse nuotare.
“Puoi giurare di saper nuotare?” chiese con una semplicità disarmante.
E la risposta non arrivò.
“Sai nuotare, ragazzina?”
Matteo sospirò, alzando gli occhi al cielo.
“Galleggi, almeno?”
La cosiddetta goccia che fa traboccare il vaso.
“Quanto sei fastidioso!” sbottò lei “Lo sai, di essere impossibile? Lo sai, ne sei quantomeno consapevole? No, non so nuotare. No, no, no. No! Va bene?”
Gli occhi del ragazzo erano spalancati, increduli per quella sfuriata gratuita.
“Non volevo.” mormorò dispiaciuto “Non credevo fosse un tasto dolente, Ronnie, scusa.”
“Non chiedere scusa, al diavolo, non è un tasto dolente, non è niente.”
“Stai gridando.”
“Non sto gridando!”
E si rese conto di aver alzato la voce.
“Non stavo gridando.” ripeté, un sussurro appena.
“Ti faccio sempre innervosire.” constatò Matteo “Un’abilità innata.”
Lo sguardo truce di lei lo incenerì, strappandogli un sorriso imbarazzato. 
“Se vuoi, posso insegnarti.”
“Cosa?”
“A nuotare.” sorrise lui “O almeno a galleggiare.”
“Vai al diavolo, Matteo.”
Il ragazzo ridacchiò, toccandole un braccio: “Sono serio.” disse “Quando vuoi: è facile riconoscermi, sai? Credo di essere l’unico ad avere il costume di Superman.”
Furono gli occhi di Veronica, questa volta, a spalancarsi: “Di Superman?” mormorò basita, il sorriso nello sguardo “Veramente?”
La domanda successiva venne istintiva, quasi come i gesti che seguirono, inaspettati:
“Lo indossi ora?” chiese curiosa “Adesso?”
E le mani, prima ancora del secondo quesito, erano già scese ad afferrare il bordo dei pantaloni della tuta del ragazzo. Matteo aveva la bocca piena, un’espressione di terrore che gli dilagava in viso.
“Devo.” ghignò Veronica, incurante delle proteste silenziose di lui “Devo assolutamente vederlo!”
Un mugugno indefinito sfuggì al ragazzo, i denti che masticavano forsennatamente.
“Ragazzina.” riuscì ad articolare “Molla i miei pantaloni!”
“Non ci penso proprio.”
Gli occhi di entrambi erano puntati sulle mani di lei: le dita artigliate ai bordi della tuta, pronte ad allargare l’indumento quel tanto che bastava per dare un’occhiata veloce.
Non ci fu il tempo di dire altro: i pensieri si erano tradotti in gesti e gli occhi di Veronica fissavano già il costume blu adorno dell’inconfondibile stemma del supereroe.
“Com’è lo spettacolo?”
Le dita rilasciarono di colpo i bordi del pantalone, mentre la molla tornava rapidamente a stringersi e schioccava malefica e dolorosa attorno alla vita del ragazzo. Matteo mugolò, imprecando fra i denti e squadrando Veronica con odio. Lei non se ne accorse, lo immaginò, voltata in direzione di chi aveva parlato: un metro e novanta di vestiti firmati, candidi sorrisi e occhi azzurri.
“Sempre ben occupata, eh, principessa?”
Veronica non rispose, limitandosi a osservare il ragazzo che si avvicinava, prendendo posto al tavolo e sistemandosi allegramente fra di loro.
“Ha almeno qualcosa sotto?” continuò il giovane, lanciando un’occhiata ad un Matteo confuso e ancora un tantino sofferente.
“Vuoi controllare, per caso?”
Il biondo sorrise, apparentemente soddisfatto dalla frecciatina di Veronica. Scosse la testa, bevendo dal bicchiere della ragazza e guardando i due alternativamente; infine si soffermò su di lei: “Sai che diventa sempre più difficile trovarti, principessa?”
“Me ne dispiaccio.”
“Oh, non farlo.” continuò, ignorando e rispondendo al sarcasmo “Come vedi alla fine ci incontriamo comunque.”
Veronica gli strappò il bicchiere di mano, seccata. 
“Lorenzo, ti pregherei di arrivare al punto.”
“Con calma, per favore.” ridacchiò lui, gli occhi che brillavano “Immagino che il tuo giovane amico, qui, ti abbia riferito il mio messaggio, vero?”
Matteo sussultò, ritrovandosi inaspettatamente ad incontrare lo sguardo del nuovo arrivato. E fu solo in quel momento che lo riconobbe, trasalendo ancora una volta. Come aveva fatto a non riconoscerlo subito? Era il tipo dei Magazzini, il pazzo che… Matteo assottigliò lo sguardo, notando qualcosa in quel viso che lo sconcertò. Scorse le chiare lentiggini, il neo all’angolo dell’occhio, la cicatrice sul mento, ricercando inutilmente quel qualcosa.
Lo aveva perso.
“Lorenzo.” ripeté Veronica in un soffio “Stringi.”
“Una cena.”
E Veronica lasciò cadere la forchetta.
“Mi hai detto tu di stringere.”
“Non così tanto.”
“Una cena, stasera.”
“No.”
“Sì.”
Ci fu una lotta silenziosa, fatta di occhiate oblique e sorrisi tutt’altro che amichevoli.
Matteo osservava, estraneo, chiedendosi se fosse il caso di distrarli un’altra volta con il costume di Superman.
“Una cena, stasera, al Torchio.”
“E’ lunedì, Lorenzo.”
“Ne sono consapevole.”
“Non si fanno le cene di lunedì.”
“Vorresti rimandare a sabato?” chiese lui, candidamente.
Veronica non rispose e Lorenzo sorrise leziosamente: “O stasera o ricorro alle maniere brutali.”
“Davvero?” rise lei, incurante, dandogli un buffetto sulla mano “Sarebbero?”
“Che noia.” sbuffò Lorenzo, quieto “Non mi va di tornare alla Regina, ma se proprio devo...”
“Non lo faresti.”
“Scommettiamo?”
E non sorridevano più.
“Avevamo consolidato una sottospecie di tregua, o sbaglio?”
Lorenzo si strinse nelle spalle, guardandola con aria di sfida. Veronica sibilò fra i denti, scocciata come solo con lui accadeva. 
“Fammi capire.” sbuffò, avvicinandosi minacciosa al biondo “Staresti dicendo che se non organizzo la cena stasera è guerra aperta?”
“Esattamente.” approvò Lorenzo, svagato “Del resto non mi dispiacerebbe più di tanto: ci si annoia, ultimamente, alla Reggia. Sarà che manchi tu.”
Veronica reclinò il capo all’indietro, esasperata.
“Ricordi la nostra ultima tregua?”
“No.”
“Alle medie, se non erro.” mormorò Lorenzo, sovrappensiero “Non durò a lungo: sicuramente meno di questa attuale… Ricordi come andò a finire?”
“Guerra aperta.” rispose Veronica, cedendo alla memoria.
“Esattamente.”
“Distrussi tutte le tue riproduzioni in scala di modellini aerei.”
“E io feci un falò con le tue preziose bambole di pezza.”
Matteo li osservò sorridersi vicendevolmente, un segno di affetto che passava sul volto di entrambi. E fu in quel momento che sobbalzò, incredulo. 
Aveva trovato ciò che stava cercando.
“Fratelli.” sussurrò, la voce strozzata.
Attonito, fisso i quattro occhi di un identico blu che si voltavano verso di lui.
“Tutto bene, Teo?” gli chiese Veronica, non capendo “Che hai detto?”
“Sei pallido.” decretò il biondo, scrutandolo “Un po’ d’acqua?”
Matteo scosse il capo con frenesia, indicandoli alternativamente come un ossesso, cercando le parole. Gli sembrava di aver improvvisamente perso la voce.
“Siete fratelli!” riuscì ad articolare alla fine, pentendosi subito delle proprie parole.
Cosa gli era passato per la testa? Tutta colpa di quella ragazzina, dei suoi occhi e del costume che continuava imperterrito ad indossare. 
Colpa della molla dei pantaloni, colpa dello spilungone biondo.
“Perché, non lo sapeva?” ridacchiò incredulo Lorenzo.
E i pensieri di Matteo frenarono di botto. Con tanto di sgommata e tracce scure sull’asfalto.
“No.” borbottò Veronica, assestando una gomitata al fratello “Non lo sapeva.”
“Che assurdità.” roteò gli occhi Lorenzo “Come si fa a non vedere che siamo gemelli?”
Matteo sbatté le palpebre più volte, chiedendosi se fosse il caso di prendersi a schiaffi da solo. Già, come si faceva a non vedere che erano fratelli? E gemelli per lo più?!
“Gemelli?” balbettò, inumidendosi le labbra.
Non ottenne risposta. 
I due consanguinei si scambiavano occhiate complici, apparentemente ignari della sua presenza. Veronica aveva smesso di mangiare, frugando indolente nella tasca del fratello.
“E’ un po’ tardo, il ragazzo?”
“No.”
“Perché pranzi con lui?”
“Non sono fatti tuoi.” sbuffò Veronica, appropriandosi di un pacchetto di gomme.
“Per la cena?”
Veronica lo scrutò, adombrandosi di fronte al suo sguardo supplichevole. Una ciocca chiara che gli cadeva sul naso, gli occhi incatenati ai suoi, l’espressione studiata e comprovata da cucciolo bastonato.
“Non sarete solamente voi due.”
“Non me lo aspettavo.”
“Verrò anch’io.”
“Ne ero certo.”
“E Michele e Daniele e Silvestro, se vuole.”
“Anche il tonto qui, per quanto mi concerne, può aggregarsi.”
Veronica gli fece una linguaccia, guardandolo di sbieco.
“Lui è Matteo.” 
Lorenzo, ricordando forse solo in quel momento di non essersi ancora presentato, si sporse verso di lui e gli strinse saldamente una mano.
“Matteo.” mormorò, fra il serio e il faceto “E’ un piacere conoscerti. Io sono Lorenzo, il fratello di Veronica. Fratello gemello, nel caso non ti fosse ancora chiaro.”
L’espressione di Matteo era vacua, priva di alcuna emozione. Lorenzo storse il naso, deluso:
“Cosa?” chiese, rivolgendosi alla sorella “Vuole che gli guardi anch’io nei pantaloni?”
Forse fu l’ultima frase o la rabbia che colorò il viso di Veronica, nemmeno lui seppe cosa lo risvegliò. Eppure scattò, storcendo il naso a sua volta e fissando astioso Lorenzo.
“No.” ringhiò “E’ seccato perché la biondina non lo fa più.”
Al rossore irato di poco prima, sul volto di Veronica se ne aggiunse uno imbarazzato. Si coprì gli occhi con le mani, stanca di quel pranzo a dir poco estenuante. Ignorò ciò che accadde al tavolo nei minuti successivi e s’impegnò a ritrovare la calma che aveva perso disperatamente.
“Ora.” disse, riemergendo dal rifugio estemporaneo “Vediamo di porre fine al supplizio.”
Scrutò i due ragazzi, stanca.
“Lorenzo.” chiamò, tentata dall’idea di afferrarlo per un orecchio “Ci liberi della tua presenza?”
“Di già?” si lamentò quello, divertito.
“O sui tuoi piedi o sospinto dalla suola della mia scarpa, come preferisci.”
“Per quanto mi alletti la seconda, principessa.” sorrise “Credo me ne andrò solo, per preservare i pantaloni, non per altro.”
Si alzò, svettando in tutta la sua bellezza. Sorrise sornione a Matteo, scoccando poi un rapido bacio sulla guancia della sorella. Li guardò un’ultima volta, gli occhi che brillavano:
“Vado.” affermò “Potete anche tornare a sbirciarvi nelle braghe, ragazzi.”
Veronica non si girò per guardarlo uscire. Fissò Matteo, cercando di capire cosa gli frullasse nella testa: non sembrava divertito, non sembrava arrabbiato. Non sembrava niente ed era questo il problema.
“Vuoi che dia un’altra occhiata a Superman?”
“Come ho fatto a non capire che eravate gemelli?”
Lei si strinse nelle spalle, sorridendogli calorosamente.
“Non è che sia così palese.”
“Ma per favore!” scattò il ragazzo “Siete due gocce d’acqua. Cos’è, vi hanno fatti con lo stampino?”
“Matteo…”
“Non farmi Matteo e Matteo, sono un idiota. Un tonto, anche leggermente tardo, come dice il tuo caro fratellino. Che poi tanto ino non è, anzi. Che fa, li raggiunge i due metri, il ragazzo?”
Veronica sospirò, scuotendo il capo.
“No.” disse “E’ solo un metro e novanta.”
“Capirai.”
“Un metro e novanta di stupidità, Teo.”
“Stai cercando di rabbonirmi?” s’imbronciò Matteo, tormentando le briciole sulla tovaglia.
“Sto cercando di distrarti.”
E a quelle parole lasciò perdere le briciole, concentrandosi sulla biondina.
“Perché?”
“Perché devo convincerti a venire alla cena di stasera.”

 

 

 

§

 




 

 

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Capitolo 9
*** Il Torchio ***





Bugie bianche

                                                                                                

         ≈ Il Torchio ≈

 

 

 

“Non se ne parla.”
“Dobbiamo.”
“Non credo proprio.”
Veronica sospirò, passandosi esasperata una mano fra i capelli: non ce la faceva più. 
“Cicì.” sibilò minacciosa “Sai quanto me che non abbiamo altra scelta.”
Tu potrai anche non averne.” rispose lei, incrociando le braccia “Io non vengo.”
Veronica lanciò un’occhiata all’orologio: le otto e dieci. La serata non era neanche cominciata, constatò con sgomento, e lei già non ce la faceva più. 
“Cinzia.” eruppe, il tono di voce che si alzava “E’ solo una cena, per la miseria!”
“Una cena a cui io non voglio partecipare!”
“Credi che a me vada?”
Si zittirono entrambe, il respiro accelerato. Veronica fece per riprendere ancora una volta l’amica quando quella ebbe uno scatto improvviso: in un lampo raggiunse la porta e la spalancò, uscendo dalla stanza a rotta di collo.
“Cinzia!” gridò, lanciandosi immediatamente all’inseguimento.
L’altra non aveva fatto in tempo a percorrere interamente il corridoio che Veronica l’aveva raggiunta, agguantandola alle spalle: le saltò addosso, portando entrambe a rovinare disastrosamente a terra.
“E’ solo una cena.” ringhiò Veronica, accostandosi all’orecchio della brunetta.
“E io non voglio venire!” scalciò Cinzia, cominciando a dimenarsi sotto il peso dell’amica.
Silvestro passò loro affianco in quel momento, l’espressione seria e concentrata: le osservava con aria critica, carezzandosi sovrappensiero la pelata. Si poggiò con la schiena al muro, scuotendo il capo:
“Ritengo siate giunte ad un punto di stallo.” decretò, sorridendo serafico.
Cinzia prese ad agitarsi maggiormente, riuscendo per un istante ad invertire le posizioni: non ebbe il tempo di adagiarsi per bene cavalcioni su Veronica che quella rivoltò nuovamente la situazione, inchiodandola sul parquet. Le serrò i polsi, buttando indietro il capo per allontanare i capelli.
“Dobbiamo tenercelo buono.” sussurrò, fissando seria Cinzia.
“Perché?”
“Si annoia.” rispose Veronica, alzando gli occhi al soffitto “Lo sai che diventa pericoloso quando si annoia.”
Cinzia si morse un labbro, considerando ciò che aveva appena sentito con costernazione.
“Credevo lo avessimo distratto.” borbottò scura in volto “Che fine ha fatto il cane?”
“Non lo so.” sbuffò Veronica “Forse lo ha mangiato, forse lo ha beccato mentre stava per addentargli una scarpa e…”
Non terminò la frase che la porta d’ingresso si aprì, interrompendola. Alzò appena lo sguardo, incontrando quello estasiato di Michele. Il ragazzino irruppe nel salotto, fissandole ammaliato.
“Rissa?” chiese, non aspettando risposta “Non muovetevi.”
E sparì, fiondandosi in camera sua. A chiudere la porta d’ingresso fu qualcun altro però: le due ragazze sorrisero all’amico di Michele, per niente scalfite.
“Buonasera.” salutò quello, sedendosi apparentemente indifferente sul divano.
“Lui è Giovanni.” affermò Michele, fermandosi al fianco di Silvestro con una videocamera in mano. Veronica ignorò per un momento Silvestro, allontanò dalla mente Giovanni e cercò con tutta se stessa di fingere che non ci fosse nessuna videocamera puntata su di sé: fissò Cinzia, l’espressione assorta.
“Una cena, Cicì.” mormorò, allentando appena la presa sui polsi.
Cinzia fece per annuire, attendendo un minimo cedimento da parte di Veronica: fu l’entrata in scena di Simone a servirglielo su di un piatto d’argento. Il rosso uscì dalla sua camera, accorgendosi con qualche istante di ritardo della scena che si svolgeva in corridoio: un urletto di sorpresa gli sfuggì dalle labbra e fu proprio quell’urletto a distrarre Veronica.
Cinzia sorrise trionfante, avvolgendo le gambe attorno alla vita dell’amica e costringendola con il proprio peso a rotolare sotto di sé.
“Ti siedi accanto a me.”
Veronica, dapprima sconcertata, si affrettò ad annuire.
“Non ci lasci soli un solo istante.” continuò Cinzia, dettando le condizioni “Al minimo segno di pericolo ti…”
“Che diavolo sta succedendo?!”
Cinzia si zittì, sospirando e chiudendo gli occhi. Ad entrare nell’appartamento questa volta era stato Matteo: la mano ancora sul pomello, una busta bianca ai suoi piedi, la bocca spalancata.
“Possibile che questo posto sia sempre così affollato?” si lamentò Cinzia mente il caos, semplicemente, dilagava.
“Una rissa!”
“State bene, ragazze?”
“E’ della cena con l’alfiere, che parlavate?”
“Mi spiegate che sta succedendo?”
Veronica gemette, portandosi le mani sugli occhi. Guardò con aria supplichevole Cinzia sopra di lei e la pregò con gli occhi di prendere in mano la situazione. E l’amica lo fece.
Cinzia si alzò in piedi, le mani che correvano ad ancorarsi saldamente sui fianchi: si schiarì la voce, riuscendo miracolosamente a riportare il silenzio nell’appartamento. Tutti gli occhi saettarono verso di lei, scontrandosi con la sua espressione da mamma arrabbiata.
La reazione che ottenne fu quella che ci si aspetta da dei figli colpevoli: abbassarono tutti lo sguardo, ridotti al silenzio. Veronica trattenne a stento un sorriso, afferrando la mano della ragazza e alzandosi a sua volta.
“La videocamera.” cominciò Cinzia, perentoria, il palmo della mano aperto in direzione di Michele. Il ragazzino si esibì in un’espressione sgomenta e implorante assieme, invano: la videocamera fu allora riposta nella mano di Cinzia che sorrise, soddisfatta.
“Simone.” continuò, squadrando il giovane “Hai deciso di venire alla cena?”
Il ragazzo arrossì, conscio di indossare unicamente i boxer e una camicia sgualcita aperta. Annuì, facendo per dire qualcosa. Cinzia lo bloccò con un gesto della mano.
“Abbiamo venti minuti.” disse, a mo’ di avviso generale.
Simone fu il primo a riscuotersi, affrettandosi incespicando verso la sua camera. Michele, subito dopo, esortato dallo sguardo di Cinzia, lasciò il corridoio borbottando frasi sconnesse.
“Silvestro, tu vieni?”
L’uomo sorrise, scuotendo tristemente il capo e staccandosi dal muro.
“Non posso.” mormorò “Mi dispiace, ma sono di ronda.”
“Di ronda?” domandò Matteo, sconcertato.
“Sono un poliziotto.” sorrise Silvestro, l’aria sorniona.
Matteo annuì, leggermente più pallido: abbassò lo sguardo, afferrando la busta che aveva ai piedi e sparendo rapidamente in cucina. Silvestro ridacchiò, chiedendosi come mai quella reazione non lo sorprendesse più di tanto. Un cenno del capo, un fatuo sorriso e anche lui abbandonò il salotto. Cinzia sospirò, lasciando cadere le braccia lungo i fianchi.
Restava solo Giovanni.
Veronica lo stava già squadrando da un po’ e a stento riusciva a celare la sorpresa: Giovanni era enorme. I capelli cortissimi, tagliati alla marine; il viso era quadrato, quasi piatto: gli occhi piccoli, scuri e il naso leggermente storto. Ricordava stranamente un pitbull. 
“Sei il Giovanni di cui Mickey ci parla sempre?” chiese timidamente Cinzia, avvicinandosi di un passo. Lo osservava con un misto d’incredulità e gaiezza: il ragazzo era tanto più sorprendente quanto messo a confronto con il piccolo ed esile Michele. Difficile immaginare che effetto facessero vicini. 
“Immagino di sì.” rispose il ragazzo “Non ci sono altri Giovanni in classe.” continuò, stirando le labbra in quello che doveva essere un sorriso.
Michele spuntò in quel momento dalla camera: scalzo, i pantaloni fermi alle ginocchia, chiamò l’amico con gli occhi, esortandolo a raggiungerlo. Quello annuì, tornando poi a fissare le ragazze.
“Anche di voi parla sempre, sapete?” disse, abbassando lo sguardo sulle proprie ginocchia: solo allora Veronica notò l’essere peloso che vi si era sistemato comodamente sopra.
Cinzia balbettò qualcosa, facendo per prendere immediatamente il roditore ma Giovanni la bloccò; prese il topo nelle enormi mani e sorrise, adagiandoselo tranquillamente sulla spalla.
“Devo dire che non avete deluso le mie aspettative.” affermò il ragazzo, avviandosi verso la stanza di Michele a passi lenti e cadenzati. Mouse perfettamente in equilibrio sulla spalla, a mo’ di pappagallo.
“Vieni anche tu alla cena?” si azzardò a chiedere Veronica, ancora scossa.
“No, grazie.” rispose Giovanni senza voltarsi “A momenti deve passare a prendermi mio padre.”
Prima di chiudersi la porta alle spalle le guardò sorridendo un’ultima volta.
“Vedrò di tornare il prima possibile.”
Cinzia sospirò non appena l’uscio fu chiuso, passandosi una mano sulla fronte:
“Se non sono pazzi, non li vogliamo.” borbottò, incredula, cercando lo sguardo dell’amica.
Veronica era già lontana, diretta ovviamente verso la cucina: entrò a passi felpati, fermandosi solo nelle vicinanze del ragazzo. Lo osservò, chino sul lavandino, mentre riempiva senza fretta vari contenitori per il ghiaccio. 
“Teo.” lo chiamò lei “Che fai?”
“Faccio in modo che non manchi più il ghiaccio.”
Veronica annuì, mordicchiandosi il labbro.
“Tu perché ti prendevi a capelli con Cinzia?” le chiese il ragazzo, alzando gli occhi su di lei.
“Futili questioni.” mormorò la biondina, stringendosi nelle spalle.
“Lo fate spesso?”
“Un paio di volte la settimana.”
“C’è un calendario fisso?”
Veronica sorrise, scuotendo la testa. Il ragazzo non si avvide del lampo di serietà che le era passato nello sguardo: i giochi erano finiti. 
“Vieni alla cena?”
“Non so.” sospirò lui, puntando gli occhi sul pavimento “Non sono sicuro che sia una buona idea, non mi sento esattamente a mio agio e…”
“Viene anche Simone.”
“… davvero non credo sia una buona idea. Potrei combinare qualche guaio e…”
“Offre mio fratello, naturalmente.”
“… non è una questione di soldi. O almeno non solo di quello. Ronnie, non credo che…”
Veronica annullò lo spazio che li separava; con due dita gli sollevò il mento, incatenando lo sguardo del ragazzo con naturalezza:
“Vieni.” sussurrò “Per favore.”
E Matteo annuì, incapace di fare altrimenti. Sbatté le palpebre, accennando un sorriso.
“Vado a vestirmi.” mormorò, allontanandosi a malincuore.
Veronica seguì il suo esempio, catapultandosi nella stanza di Cinzia: la trovò già vestita, avvolta in un semplice abito rosso che le arrivava al ginocchio. Seduta di fronte allo specchio, una matita nera in mano.
“Lo hai convinto?” chiese, osservando appena il sorriso che si dipingeva sul volto di Veronica.
“Sì.” si chiuse la porta alle spalle “Devi prestarmi il vestito nero, Cicì.”
Cinzia aveva posato la matita, il mascara che magicamente le era comparso fra le dita, ma a quelle parole si voltò.
“Che hai in mente?”
“Siamo finiti a letto insieme, sabato notte.”
“Lo so.” concordò Cinzia, osservandola mentre si lasciava cadere sul materasso “Eravate nel mio letto.” aggiunse, a mo’ di spiegazione  “Hai intenzione di fare il bis, stasera?”
Veronica sospirò, chiudendo forzatamente gli occhi.
“Mi piace.”  sussurrò “Te l’ho già detto, Cicì, quanto diavolo mi piace?”
L’altra non rispose, aspettando che continuasse.
“Mi piace, forse anche troppo. Non posso più aspettare, lo capisci?”
Veronica si tirò a sedere, fissando uno sguardo stralunato in quello dell’amica:
“Non sei sempre tu a dire che bisogna battere il ferro finché è caldo?”
Cinzia sospirò, scuotendo lentamente il capo.
“Questo è un caso un po’ diverso, tesoro.”
“E quindi che devo fare?”
Cinzia si alzò in piedi, avvicinandosi all’armadio con passo sicuro. Cominciò a frugare tra i vestiti, commentando altezzosa:
“Puoi avere qualsiasi ragazzo tu voglia, lo sai?”
Non ottenendo risposta si voltò, ancorando lo sguardo di Veronica.
“Puoi avere chiunque.”
“Non ne sono tanto sicura, Cicì.” 
Cinzia tornò a cercare nell’armadio: ne uscì di lì a poco con un vestito corto e azzurro; lo avvicinò al viso di Veronica, notando con soddisfazione che il celeste era lo stesso degli occhi di lei.
“Io sì.”

 

*

 

 

 

“Che ha detto Daniele?”
“Non può venire.”
“Lavora?”
Veronica negò con il capo, uno sguardo che diceva più di mille parole.
“Non avrà ripreso a vedersi con la megera?” scattò Cinzia, ottenendo solo una scrollata di spalle. Veronica espirò pesantemente, guardandola con aspettativa.
“Quanti siamo, escludendo Silvestro e Daniele?”
“Tu e il tuo caro fratellino.” contò Cinzia “Mickey, Simone ed io. E Matteo.”
Non l’aveva fatto apposta a lasciarlo per ultimo: se ne accorse quando era troppo tardi e se ne pentì subito; mordendosi il labbro tentò di rimediare.
“Tranquilla che ora arriva.” mormorò “Non è così, Simone?”
Il ragazzo, immerso in una fitta conversazione con Michele, si voltò con un po’ di ritardo.
“Certo.” approvò “Stavamo scendendo insieme quando gli è squillato il telefono. E’ rimasto indietro ma era già pronto. Non tarderà ancora molto.”
Veronica sorrise, fingendo una calma che non aveva.
Si guardò attorno, chiedendosi se si potesse sedere: la sala era quasi vuota. Del resto, non poteva essere altrimenti di lunedì sera: vi erano solo alcune coppiette, un gruppo di uomini stranieri e una comitiva di ragazzini che sembrava stessero festeggiando un compleanno.
Lorenzo si avvicinò in quel momento, un sorriso splendente a illuminargli il viso.
“Ho ordinato un giro di antipasti e qualche aperitivo.” annunciò, fissando con adorazione Cinzia “Ci avviciniamo al tavolo?”
Le ragazze sorrisero, seguendolo verso il fondo della sala: un lungo tavolo li attendeva, vicinissimo al grande camino in pietra. Veronica restò in piedi, accostandosi al fuoco e aprendo le mani per ricevere maggior calore possibile. Osservò i tentativi di conversazione di Lorenzo con Cinzia, le risate degli altri due ragazzi: tentava di distrarsi, di non far caso alle lancette che correvano sfrenate.
“Vuole?”
Sussultò, accorgendosi solo in quel momento del cameriere: sorrise, afferrando uno dei bicchieri che l’uomo porgeva su un piccolo vassoio. Strinse il flute fra le dita, notando il tremore della mano dovuto alla tensione. Era un bellissimo bicchiere, pensò, studiandone la linea elegante e sinuosa.
Agitò il liquido ambrato, avvicinando il vetro alle labbra. Ne bevve un lungo sorso, afferrò con l’altra mano uno stuzzicadenti, quindi infilzò con grazia un’oliva. Ne mangiò tre di seguito, nervosa, osservando ripetutamente l’entrata.
Matteo non arrivava.
Ruotò delicatamente il bicchiere, giocando con il liquido chiaro. 
Matteo non arrivava, un ritardo non più indifferente.
Bevve un altro sorso, piccolo. Assaporò lentamente la bevanda, facendola scorrere piano in gola.
E Matteo arrivò.
Entrò e non chiuse la porta, piegandosi appena sulle ginocchia. Sembrava avesse il fiatone. Veronica non poté trattenersi dal sorridere mentre cercava inutilmente di incontrare lo sguardo del ragazzo.
“Non è solo.”
Sentì le parole che Cinzia le aveva sussurrato all’orecchio, eppure ci mise un po’ a realizzarle: aveva visto la ragazza entrata subito dopo di lui, l’aveva guardata senza degnarla d’attenzione. Veronica aveva alzato una mano, facendo segno a lui: non si aspettava minimamente che la ragazza lo seguisse fino al tavolo. Ancor di meno si aspettava che lei lo prendesse a braccetto, sorridente.
“Buonasera.” disse Matteo, la voce strana “Scusate il ritardo.”
Veronica giocava con il bicchiere, intontita.
“Ho dovuto correre alla stazione per prendere Sofia.” continuò, accennando con il capo alla ragazza al suo fianco “Lei è Sofia.”
Veronica lo aveva intuito, il bicchiere che s’immobilizzava nella sua mano, eppure l’ultima parte della frase sperò di averla solamente immaginata. Pregò che fosse un errore.
Sentiva l’ultima parte della presentazione che le rimbombava nelle orecchie, implacabile.
“Lei è Sofia,” aveva detto il bastardo “la mia ragazza.”
E il bicchiere le era caduto di mano.
Veronica schizzò rapidamente all’indietro, nel tentativo di schivare i pezzetti di vetro. Un cameriere accorse, scopa alla mano, e i cocci sparirono così: in pochi minuti, silenziosamente, come se non ci fossero stati. Peccato, pensò Veronica, che non possa fare lo stesso con quelli del mio cuore.
Non aveva mai avuto un’esperienza paranormale. In quel momento, però, si disse, non poteva essere altrimenti: era come se non fosse più nel suo corpo; sembrava che l’anima l’avesse abbandonata, uscendone silenziosa e allontanandosi.
Veronica era seduta a quel tavolo: Cinzia da un lato, Michele dall’altro e Sofia di fronte.
Veronica li vedeva, li sentiva. Com’era possibile?
Osservava, ascoltava, ma non era davvero lì. Non era con loro. Recepiva le informazioni che spedite la trapassavano come punte di coltello e si chiedeva perché. Dove fosse l’errore. Cosa ci fosse di tanto sbagliato in lei. Sentiva la mano di Cinzia sulla coscia, immobile, calda: notò che a ogni contrazione di quella mano corrispondeva uno spasmo del suo cuore.
Quanti ancora ne avrebbe potuti sopportare?
Sofia era una bella ragazza: bionda, alta, con un paio di occhi verdi che non si poteva fare a meno di guardare. I capelli erano ricci, indomiti, le arrivavano a metà schiena. Camminava languidamente, con leggiadria: aveva fatto anni e anni di danza classica; adorava anche fare yoga, ginnastica ritmica e tanti altri sport di cui Veronica non sapeva nemmeno l’esistenza. Aveva una voce dolce, pacata, come se non fosse solita gridare: aveva mai alzato la voce, quella ragazza?
“Altro vino?”
Quell’unica domanda raggiunse immediatamente Veronica: annuì, bevendo quasi spasmodicamente.
Studiava legge, Sofia. Aveva già cominciato un tirocinio presso uno dei migliori avvocati della città. Aspirava ad aprire un ufficio tutto suo. Così aveva conosciuto Matteo, non è vero? In tribunale. In aula o in corridoio? Sofia non lo ricordava perfettamente. Avrebbe continuato con il ricordo, ma qualcuno l’aveva prontamente bloccata. Aveva la mamma francese, Sofia. Parlava correntemente tre lingue. E risentiva ancora dell’accento francese: s’individuava facilmente nella cadenza del parlato. Pronunciava anche il nome del ragazzo, alla francese: soffermandosi sulla sillaba finale più di quanto fosse dovuto. Mattèo. Non è ottima la carne, Mattèo? Vuoi del vino, Mattèo?
Aveva ventidue anni, Sofia. Due più di Veronica, due meno di Matteo.
Frequentava legge, ma questo lo aveva già detto. Amava i cani, ne aveva due: un pastore tedesco e un doberman. Enormi, sì, lo sapeva: ma erano due cuccioloni semplicemente adorabili. Anche i gatti le piacevano, sì, ma non poteva averne: i cani ci avrebbero giocato troppo. E rideva.
Una risata breve, flautata: sembrava lo scampanellio di delicate campane. Potevano essere delicate le campane? Veronica non lo sapeva. Veronica non rideva.
Perché non ridi, Mattèo? Qualcosa non va?
Non aveva nei Sofia. Non un graffio, non un punto nero su quel viso così grazioso.
Da quanto tempo frequentava Matteo? Veronica non aveva idea di chi avesse fatto la domanda; per qualche strano motivo avrebbe scommesso su Lorenzo. Le parole la raggiungevano come un lontano eco, in ritardo. Avrebbe voluto che quella risposta in particolare si perdesse per la strada. 
E’ quasi un anno ormai, non è vero, Mattèo?
Un anno. Dodici mesi. Trecentosessantacinque giorni. Quanti minuti? Ma a chi importava?
Veronica voleva tapparsi le orecchie, infilarci dentro i fazzoletti e cominciare a canticchiare come una bambina. Non ce la faceva più ad ascoltare. Possibile che parlasse sempre Sofia? O era lei a sentire solo quella voce? Quanto ancora doveva sopportare?
Vieni a casa mia dopo, amorino?
Veronica si alzò, la sedia che strusciava rumorosamente sul pavimento. Aveva interrotto una frase della ragazza, lo sapeva. Non avevano finito di parlare, lo sapeva. Non avevano ancora saputo come mai Matteo era andato a prenderla alla stazione. Non avevano ancora avuto modo di commentare con lei i muri contro cui il ragazzo sbatteva né lo sfratto che lo aveva lasciato senza un tetto né l’improvvisa decisione in seguito alla quale lui e il suo coinquilino si erano trasferiti a casa di Veronica.
Non ne avevano parlato, non ne avevano discusso. Lei probabilmente non ne sapeva niente.
A Veronica non importava. Voleva solo allontanarsi il più possibile.
Non si sente bene, Mattèo?
Veronica si scusò a mezza voce, sorpresa di averla ancora, quella voce. A passi malfermi raggiunse il bagno, barricandocisi dentro. Si appoggiò con le mani al ripiano, di fronte allo specchio: osservò il proprio volto, complimentandosi con se stessa. Era proprio bella, quella maschera.
Una facciata perfetta, incolore, inespressiva. Granitica e glaciale.
Quando avrebbe potuto smettere di fingere?
Veronica sentì gli occhi che le pungevano pericolosamente: pizzicavano, bruciavano e non era un bene.
Poteva smettere adesso?
La porta si aprì e Veronica vide riflessa nello specchio l’immagine di Cinzia. Sorrise, incapace di muoversi. Poteva smettere?
La prima lacrima scese veloce, nel momento stesso in cui la testa di Veronica trovò un provvidenziale appoggio sulla spalla di Cinzia. E a quella ne seguirono tante, troppe altre. 
Correvano, bagnandole il viso.
Aveva smesso.
Veronica singhiozzò, aggrappandosi con tutte le forze all’amica. La strinse, lasciandosi abbracciare. Continuava a non sentire niente: era come essere avvolti completamente nell’ovatta. Nessun rumore.
Le mani di Cinzia le carezzavano la schiena, i capelli e fu un po’ alla volta che Veronica tornò in sé: il primo suono che riuscì ad avvertire fu il mormorio confortante dell’altra; tentava di calmarla, ripetendo che andava tutto bene, che sarebbe andato tutto bene.
“Lo sapevi?”
Cinzia scosse la testa, negando a bassa voce. No, certo che non lo sapeva. Come poteva saperlo?
“Ha la ragazza.” singhiozzò Veronica, allontanandosi appena “Ha la ragazza.”
Cinzia annuì, il cuore che si stringeva.
“Sofia.” guaì Veronica, liberandosi dall’abbraccio dell’amica e appoggiandosi nuovamente al ripiano bianco, le lacrime che non smettevano di scendere.
Cinzia le si avvicinò, portandole dolcemente una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
“Faccia di chiulo.” sussurrò, sorridendo “Facciamo onore a Kristin Scott Thomas.”
Un sorriso tremante apparve per un istante anche sul viso di Veronica, sparendo di lì a poco.
“Faccia di chiulo.” ripeté, annuendo incerta.
Non appena nuove lacrime intrapresero la discesa per le gote della ragazza, Cinzia scosse la testa, raddrizzando le spalle con sicurezza. Si allontanò lo stretto necessario a prendere più carta possibile e tornò al fianco di Veronica: cominciò ad asciugarle gli occhi, pulendo il mascara che si era sciolto.
“Ora devi smetterla.” intimò, sollevandole il mento e incatenandone lo sguardo umido.
Cinzia aveva un modo tutto suo di consolare le persone e Veronica lo sapeva; questo, tuttavia, non se lo aspettava. 
“Devi smetterla di piangere.” ripeté “Basta lacrime, tesoro, okay?”
Veronica avrebbe voluto ubbidire, desiderava accontentarla, ma come poteva?
Non riusciva a smettere. Non poteva decidere così, no?
“Devi farmi questo favore, Veronica.” disse Cinzia, sorridendole incoraggiante “Devi mettere da parte per un attimo le lacrime e tirare fuori le unghie.”
Scorgendo l’espressione sconsolata dell’altra, Cinzia continuò.
“Sai perché?”
Veronica scosse il capo, persa.
“Perché Matteo è un bastardo ed è ancora lì fuori. Perché tu adesso devi uscire con me e devi farlo a testa alta. Perché un essere di quella pasta non merita in alcun modo le tue lacrime.”
Cinzia continuò ad asciugare le guance dell’amica; i singhiozzi si placarono poco a poco, le lacrime diminuirono.
“Devi concentrarti sulla rabbia, tesoro.” sussurrò Cinzia “Stringi i denti e fammi vedere gli artigli.”
“E’ un bastardo.” mormorò Veronica, alzando il capo.
“Lo so.”
“Un lurido bastardo.” continuò, asciugandosi gli occhi con le mani “Lo castrerò.”
“Puoi fargli quello che ti pare, per quanto mi riguarda.”
“Evirarlo.” sussurrò Veronica, pensosa “Dici che sarebbe abbastanza?”
“Ti presto le cesoie.” rispose Cinzia, sorridendo e stringendosi nelle spalle con noncuranza.
“Gli taglierò…”
Veronica non terminò la frase, interrotta dal cigolio di una delle cabine alle loro spalle: la porta si aprì lentamente, lasciandone uscire una bimbetta di meno di dieci anni; quella sollevò gli occhioni spauriti sulle due ragazze, la gonna del vestitino ancora alzata, e si affrettò verso l’uscita del bagno.
La porta si era appena chiusa alle spalle della bambina che qualcuno bussò, schiudendola incerto: “E’ permesso?”
Il cuore di Veronica ebbe un nuovo spasmo, più doloroso, se possibile, di quelli precedenti.
Si appoggiò bruscamente al braccio dell’amica, gemendo mentre il terrore le attanagliava lo stomaco: “E’ lui.”
“Veronica.” intimò Cinzia, guardandola fissa “Gli artigli, mi raccomando.”
La porta si aprì mentre Cinzia pronunciava quella frase, il volto di Matteo che faceva capolino. La frase non era ancora stata finita che una saponetta volava in direzione del ragazzo.
“Ecco.” approvò Cinzia, sorridendo dell’espressione sorpresa di Matteo “Vedo che hai capito il concetto.”
Alla prima saponetta ne seguirono rapide altre due, accompagnate dall’urlo inarticolato di Veronica.
Matteo, sgomento, si affrettò ad entrare.
“La smetti?” soffiò, scansando l’ultima saponetta “Stai tentando di colpirmi?”
Veronica sorrise in maniera inquietante, squadrandolo con odio.
“Esci.”
Matteo scosse il capo, avvicinandosi ancora.
“Devo parlarti.” disse, l’espressione seria “Cinzia, potresti lasciarci soli un attimo?”
“No.”
“Cinzia, per favore.”
“Non ci penso proprio.” rise sarcastica.
Veronica emise un breve sospiro, lasciando cadere la saponetta che stringeva nel palmo della mano, pronta ad essere lanciata: scambiò un breve sguardo con l’amica, accennando alla porta.
Cinzia annuì, tesa, per niente convinta. Si avviò verso l’uscita a passo di marcia, fulminando il ragazzo con lo sguardo. Nel passargli accanto indugiò un istante più del necessario: “Sei uno stronzo.” sibilò “Non credere che sia finita.”
Matteo aspettò che fosse uscita, prima di rivolgersi a Veronica, soppesando le parole.
“Mi hai fatto preoccupare.” disse, tastando il terreno.
“Perché mai?” chiese lei, inarcando un sopracciglio, genuinamente sorpresa.
“Veronica.” mormorò “Non hai detto una parola per tutta la cena e… diavolo, eri pallida come uno straccio. Non mi sarei meravigliato se fossi stramazzata a terra da un momento all’altro.”
Lei non rispose, guardandolo come se lo vedesse per la prima volta; sospirò, agitata. Non ce la faceva: non poteva restare lì un minuto di più. Deviando lo sguardo si allontanò, scansandolo.
Matteo inizialmente non reagì, poi di scatto le afferrò il braccio, fermandola.
“Aspetta.” disse, impaziente, tirandola indietro.
Veronica lo squadrò con odio, liberandosi immediatamente dalla stretta e uscendo dal bagno. Non tornò nella sala ristorante, proseguì lungo il corridoio, senza meta; entrò nella prima porta: le cucine.
Il tramestio confuso la accolse confortante. Veronica chiuse gli occhi, lasciandosi avvolgere dalla confusione di camerieri, tavoli, impasti e cuochi. Profumi che si accavallavano, acqua scrosciante. In pochi la guardarono, per niente interessati, quasi che quell’intrusione non pesasse a nessuno; le occhiate aumentarono appena quando la porta si spalancò nuovamente, lasciando entrare un Matteo decisamente esagitato:
“Dov’è il problema?” chiese, l’espressione febbrile “Cosa c’è che non va?”
Veronica non rispose, guardandolo come se non lo vedesse.
“Sono venuto alla cena.” continuò lui “Non era questo che volevi?”
“Sì.” rispose lei, ancora assente, riuscendo unicamente a farlo imbestialire.
Veronica sorrise: non era lei, quella che avrebbe dovuto essere arrabbiata?
“Cos’è che ho sbagliato?” alzò la voce Matteo, allargando le braccia impotente.
Veronica si appoggiò al bancone dietro di lei, lo fissò per un attimo in silenzio; poi s’inumidì le labbra, assottigliando lo sguardo:
“Hai la ragazza, Matteo.”
Il ragazzo annuì, recalcitrante: “Sì.”
“Hai la ragazza.” ripeté Veronica, il tono piatto, ovvio. Non c’era altro da aggiungere.
“E’ questo il problema?” chiese lui, come se non se lo aspettasse.
Veronica pensò che in quel momento la voglia di ucciderlo era scemata. Lo osservò chiudere gli occhi e riaprirli. No, ora non avrebbe avuto la forza di ammazzarlo. Certo, dipendeva da cosa avrebbe detto.
Matteo questo lo sapeva?
“Ho la ragazza.”  affermò “E allora? Cos’è che ti da fastidio, me lo spieghi?”
Era cosciente di star blaterando?
“Mi dà fastidio…” cominciò Veronica, stentando a credere di doverglielo anche spiegare “Mi dà fastidio…” continuò, accalorandosi, alzando parola dopo parola il tono di voce “Mi dà fastidio che meno di due giorni fa tu sia venuto a letto con me quando hai la ragazza! Mi dà fastidio che tu non me lo abbia detto, che tu abbia fatto finta di niente, che tu mi abbia illus…”
Veronica s’interruppe, riprendendo lentamente fiato. La maschera, si ricordò. Dov’era finita quella dannatissima maschera?
“Stai con Sofia da un anno, Matteo.”
Il ragazzo fece un gesto che sembrava molto un’alzata di spalle. Possibile?
“E allora?” chiese “Tutto il tuo problema è che abbiamo fatto sesso?”
Veronica arretrò di un passo, rimpiangendo di aver perso la maschera nel bagno.
“E’ il sesso il tuo problema, ragazzina?” ringhiò lui, avvicinandosi.
Veronica lo guardò, incredula. Lo conosceva, quel ragazzo?
“Non puoi prendertela tanto per l’avventura di una notte, lo sai?”
Sì, pensò Veronica, lo conosceva.
Quel ragazzo era lo stesso per cui si era presa una cotta, sentendone soltanto la voce.
Lo stesso che aveva baciato, sentendo i fuochi d’artificio.
Lo stesso con cui era andata a letto la sera stessa, con cui si era svegliata, con cui era andata in moto.
Sempre lo stesso con cui era uscita in terrazza, che aveva abbracciato come un peluche.
Sfortunatamente era lui, sempre lo stesso stronzo.
Quel ragazzo che ora avrebbe volentieri ucciso.
“Bastardo.”
Matteo capì di aver esagerato. Lo intuì sentendo il sussurro di lei.
Certo, anche un idiota avrebbe afferrato il concetto, con un piatto che gli volava accanto all’orecchio.
“Muori.” ringhiò Veronica, incenerendolo con lo sguardo.
La mano della ragazza tastava alla cieca sul bancone: fu con soddisfazione che le dita si strinsero su un uovo. E l’uovo volò, seguendo il piatto e riuscendo in ciò che non aveva fatto il primo: colpì il ragazzo sulla spalla, frantumandosi e colando quieto. Veronica lanciò di tutto, qualsiasi cosa in cui la mano incappasse andava bene: fragole, bicchieri, posate e cibo. Sua nonna lo diceva sempre, pensò: tutto fa brodo. E Veronica si fidava ciecamente della nonna.
Stavano dando spettacolo: sentiva gli occhi di tutti puntati sulla scena, eppure non le importava. Il gioco non durò che per pochi minuti: attimi in cui a nessuno passò per la testa di bloccare il lancio di oggetti. Non una persona che accorresse in difesa del ragazzo.
Veronica alla fine prese fiato, respirando con calma. Qualcuno le porse uno strofinaccio e lei lo accettò con un sorriso, pulendosi le mani sporche di tuorlo, farina e troppe altre cose.
Sorrise anche a Matteo, rimpiangendo di non avere una macchina fotografica con sé.
Restituì lo straccio, ravvivandosi i capelli. Notò con piacere di non avere più gli occhi umidi.
“Ora me ne vado.”

 

 

 

§ 





 

 

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Capitolo 10
*** Quando suona il citofono ***




Bugie bianche

                                                                                                

       ≈ Quando suona il citofono ≈

 

 

Veronica era chiusa in bagno.
Il citofono suonava.
Michele e Simone chiacchieravano sul divano.
Il citofono suonava ancora.
Silvestro era entrato da poco nella stanza: accovacciato sulla poltrona, si introdusse facilmente nella conversazione dei due ragazzi. Necessitava spiegazioni che non gli furono negate.
Il citofono continuava a suonare.
Cinzia li osservò, masticando nervosamente una gomma e attorcigliandosi una ciocca di capelli attorno al dito. Con l’altra mano accarezzava Mouse, appollaiato sul mobile scuro. 
Era rilassante, quell’esserino peloso: un perfetto antistress. Cinzia si sentiva stressata.
Il citofono si era zittito.
Gli occupanti della casa se ne accorsero con un po’ di ritardo, com’è normale che sia. 
Quando un rumore s’insinua nel cervello, ripetendosi a lungo e ancora e ancora… quando si ha un rumore del genere in casa, s’impiegano poi diversi secondi per accorgersi della sua assenza. 
Si zittirono, guardandosi attorno sorpresi; la mano di Cinzia si era fermata, anche i suoi denti avevano smesso di masticare. Il tutto non durò più di tre minuti.
Il citofono suonò.
E i ragazzi ricominciarono a parlare e Cinzia ad accarezzare il topo. Fece un palloncino con la gomma. Cercava di svuotare la mente, le voci degli altri che le scorrevano rapide attorno senza disturbarla; sentiva ogni tanto qualche parola, ma non si dava la briga di connetterle.
Sofia, uova, Lorenzo, farina… urla, strilli, strepiti… uova.
Cinzia inspirò a fondo, sbattendo ripetutamente le palpebre e forzandosi a tornare alla realtà. Superò i ragazzi, la voce delusa di Silvestro che le giungeva soffice all’orecchio: Diavolo, dovevo venire… Cinzia entrò nel bagno senza bussare.
Il citofono suonava.
Veronica era seduta sul tappetino della doccia, le gambe strette al petto, le spalle curve: aveva le cuffie dell’ipod nelle orecchie e si dondolava piano, lontana. Cinzia si avvicinò con calma, sedendosi di fianco all’amica.
“Veronica.” chiamò, senza essere sentita.
Tolse le cuffie dalle orecchie dell’altra e le sollevò il mento, cercando quegli occhi spenti, ormai privi di lacrime: sembrava non ne avesse più da versare.
“Tesoro,” mormorò Cinzia “parlami.”
“Che devo dirti?” chiese Veronica, la voce roca.
“Dov’è finita la rabbia?”
“Temo di averla lanciata insieme alle uova.”
Cinzia sorrise: “Quindi non ne hai più?”
“Non so.” sussurrò Veronica “Puoi farlo salire e vediamo se me n’è rimasta ancora qualche briciola.”
Cinzia scosse la testa, corrucciando le labbra.
“Ci avevo sperato, sai?” fece Veronica “Sono una stupida. Quanti castelli immaginari mi sono costruita in meno di due giorni, Cicì?”
“Non sei una stupida.”
“Invece sì.”
Cinzia sospirò, prendendosi la testa fra le mani.
“Non hai colpe.” ringhiò senza sollevare il capo “E’ lui che ha sbagliato tutto, è lui che non ha la minima idea di quante cazzate abbia commesso. Tu… tu hai reagito in maniera sorprendente, tesoro.”
“Gli ho lanciato contro di tutto.” sembrò ricordare solo in quel momento Veronica.
“Non avrei saputo fare di meglio.” sorrise orgogliosa Cinzia “Forse, dico forse, ci sarebbe stato bene anche un calcio all’inguine prima di uscire dalla scena.”
E sorrisero, insieme.
“Continua a bussare?” domandò Veronica, soffiandosi il naso con un po’ di carta igienica.
Cinzia annuì, aggrottando le sopracciglia: “Posso scendere?”
“No, Cicì.”
“Per favore.” la pregò “Non lo uccido, promesso.”
Veronica scosse ancora la testa, facendo per alzarsi in piedi; Cinzia la fermò, non ancora soddisfatta: “Sicura di star bene?”
“Certo.” affermò l’altra “Non preoccuparti, Cicì.”
“Mi sono preoccupata sì.” borbottò Cinzia “Eri terribilmente pallida all’inizio, dopo che ti era caduto il bicchiere. A tavola, poi, non parliamone nemmeno. Persino Lorenzo ha dato segni di allarme. Se lui si è impensierito, figurati io.”
“Mi spiace.”
Cinzia scosse la testa, appoggiandosi alla vasca. Lanciò una rapida occhiata all’amica, pensando che sì, lo avrebbe ucciso volentieri.
“Posso rispondergli?” chiese Veronica, sorprendendola.
Erano più di quaranta minuti che il citofono suonava.
“Vuoi?”
“Certo che voglio.”
Cinzia ne studiò l’espressione: “E se per qualche motivo, come sembra capitare sempre, ti ritrovi a scendere da lui?”
Veronica si alzò in piedi, stringendosi nelle spalle.
“Almeno,” sospirò Cinzia “chiama se ti serve una mano per occultare il cadavere.”
“Lo farò.” 
Uscirono dal bagno insieme, il silenzio che piombava nell’appartamento. Veronica sentì tre paia d’occhi che le si puntavano insistentemente addosso: sorrise nel vano tentativo di rasserenarli e inclinò il capo, attendendo che dicessero qualcosa.
“Tutto bene?”
Era stato Silvestro a parlare, l’espressione preoccupata. Veronica si avvicinò alla poltrona, sedendosi per un istante sul bracciolo e poggiando la mano sulla spalla dell’uomo.
“Mai stata meglio.” rispose “Tu come mai hai finito così presto?”
“Ho avuto l’impressione che fosse opportuno tornare a casa.”
Il citofono suonò.
Veronica saltò in piedi, avvicinandosi rapida al diabolico aggeggio: prese in mano il ricevitore e lo portò all’orecchio. Inspirò, preparandosi a urlare tutte le cose che aveva solamente pensato nel bagno: si sentiva eccitata all’idea. Anzi, non stava più nella pelle.
“La smetti, brutto idiota?” cominciò, i toni ancora apparentemente pacati “Con quale diritto credi di poter continuare a rompere il…”
Veronica si fermò nel bel mezzo dell’invettiva: quella che sentì non era la voce che si aspettava. Non la voce di Matteo, bensì quella di una donna.
“Sono la signora Geronimo.” diceva la voce “Sei Cinzia? O Veronica? Io… vorrei vedere Michele.”
Veronica ingoiò a vuoto, serrando gli occhi e stringendo il citofono con tutte le sue forze.
Cinzia capì immediatamente che qualcosa non andava: fece un cenno impercettibile a Silvestro che, a sua volta, si avvicinò. 
“Arrivo.” sussurrò Veronica nel citofono, la voce strozzata.
Si voltò verso gli altri due, l’espressione terrea: afferrò il cappotto che Cinzia le porgeva e tentò di sorridere. 
“Scendo io.”
Cinzia annuì, lanciando un’occhiata veloce a Michele.
“Vuoi che venga anch’io?”
“No, Cicì.”
L’altra annuì, cercando con lo sguardo il topo peloso: ecco, si sentiva di nuovo stressata.
“E se ti accompagnassi io?” propose Silvestro.
Veronica scosse la testa, ferma. La situazione era già delicata: la presenza furiosa di Silvestro rischiava solo di far peggiorare le cose. 
Lasciò l’appartamento e scese le scale sovrappensiero. Una volta fuori dal palazzo si guardò attorno, registrando rapidamente i particolari: la moto, parcheggiata al solito posto; una macchia scura, probabilmente Matteo, ferma dall’altra parte della strada; e una signora, minuta, poco distante da lei. La donna si avvicinò, le mani affondate nelle tasche.
“Veronica, giusto?” chiese con voce rauca.
Veronica annuì, studiando la figura che aveva davanti: se non ricordava male, avrebbe dovuto avere all’incirca una quarantina d’anni, ma ne dimostrava più di cinquanta. I capelli erano sporchi, legati in una coda bassa; il viso, affatto curato, era pieno di piccole rughe. Aveva le spalle curve, come se non avesse abbastanza forza da reggersi in piedi.
“Vorrei vedere Michele.” ripeté la donna, puntando gli occhi scuri in quelli di Veronica. 
“Non credo sia una buona idea, signora.”
“Perché?” chiese quella, avvicinandosi di un passo “Perché non volete che lo veda?”
Veronica indietreggiò, stringendosi automaticamente nel cappotto.
“Sapete meglio di me che sarebbe un errore, signora.”
“No!” gridò la donna “Non è così. Io… sto smettendo, davvero. Ho quasi smesso, davvero.”
Cacciò le mani dalle tasche e Veronica le fissò, senza espressione. Tremavano.
“Voglio vederlo.” gemette ancora “Non potete impedirmelo, non potete!”
Veronica inizialmente non capì: vide la donna zittirsi, continuando soltanto a scuotere piano il capo mentre si allontanava, lentamente, distrutta. 
Non aveva visto Matteo attraversare e non si era accorta di come si era avvicinato sempre più, agitato. Era rimasto in silenzio, limitandosi a fermarsi al fianco di lei. 
Una minaccia silenziosa.
“Chi era?” domandò infine, quando la donna era ormai solo un puntino indefinito alla fine della strada.
“La signora Geronimo.” rispose lei, laconica.
Si girò e stancamente cominciò ad allontanarsi.
“Veronica.” chiamò Matteo “Veronica, chi era?”
“Ti ho risposto.”
“Non è vero.”
Lei sospirò, girandosi di scatto, seccata: “Cosa vuoi sapere?”
“Chi era?”
“Con che diritto, Matteo?” si arrabbiò “Chi credi di essere? Siamo perfetti estranei, te ne rendi conto? Perché mai dovrei spiegarti? Per quale motivo dovrebbe interessarti?!”
Matteo si avvicinò, respirando profondamente.
“Te l’ho chiesto io, di spiegarmelo.” sussurrò “Se l’ho fatto, significa che m’interessa.”
“Era la signora Geronimo.” ripeté lei, esausta “La madre di Michele.”
Matteo lanciò un’occhiata al fondo della strada ormai deserto.
“Beve?” chiese, un tono che non aveva niente di interrogativo “Si droga?”
“Beve.” confermò Veronica, poco sorpresa dal fatto che lui lo avesse intuito. Il tremore delle mani, sicuramente.
“Perché…” cominciò il ragazzo, interrompendosi “Immagino non ti vada di raccontarmi.”
Veronica sorrise glaciale.
“Raccontarti?” rise “Perché dovrei?”
“Perché no?”
E il sorriso si spense, abbandonando il volto della ragazza. Al suo posto comparve invece una specie di triste maschera inespressiva. Cominciò a parlare con una voce così lieve e delicata che Matteo temette di starla solo immaginando.
“La madre di Michele beve, chiaramente. Lo fa da che lui riesca a ricordare. Anche il padre beve. L’unica differenza è che lui, dopo qualche bicchiere, inizia a innervosirsi. Da lì al picchiare la moglie il passo è piccolissimo. Michele era un bambino e guardava, impotente.”
Veronica s’interruppe un secondo, la maschera che rischiava di cadere.
“Che altro poteva fare? Ha assistito inerme fino a qualche anno fa. Tre, forse quattro… sì, quattro. Aveva dodici anni quando smise di restare in un angolo: cercò di opporsi, per proteggere la madre. E lo sai cosa ottenne?”
Matteo restò in silenzio, la mascella serrata.
“Cominciò a prenderle lui: un ragazzino. Un bambino. Dio, non so quante volte… Non hai idea, non puoi avere la minima idea di come lo trovammo.”
Veronica scosse il capo, tirando su con il naso.
“Era conciato peggio di te.” sussurrò, accennando con il capo a Matteo “Malridotto dentro e fuori, affamato, disperato. Sedici anni di martirio, ti rendi conto? Era scappato da casa, quando Cinzia ed io lo incontrammo, per strada. Ma prima di quello? Si era sacrificato per salvare la madre, capisci? Quale madre può… come si può assistere immobili al pestaggio di un figlio? Ti sembra umano? Lui si fa avanti per proteggere lei, quella donna, e lei ha continuato a bere.”
Fu un singhiozzo a interromperla, questa volta. Un unico singhiozzo.
“Vive con noi da poco più di un anno.”
“Gli avete fatto delle domande?” chiese Matteo “Perciò sapete tutto?”
“No.” sorrise pallida lei “Non gli abbiamo chiesto niente. Lo abbiamo accolto e basta. Sai com’è, aveva gli occhi dolci. Occhi buoni. Con lui non mi sono sbagliata.” si strinse nelle spalle “Ovviamente non sono infallibile, vedi il tuo caso: ho accolto anche te perché hai gli occhi buoni e guarda cosa ho combinato.”
Matteo ignorò l’ultima frase, le labbra che cominciavano a diventare livide per il freddo.
“Se non gli avete chiesto niente…”
“Aveva solo bisogno di affetto, Matteo. Non sapeva nemmeno cosa fosse. Aveva bisogno di un posto che potesse finalmente chiamare casa. Tempo tre mesi e aveva ricominciato ad andare a scuola, con ottimi risultati. Sei mesi e usciva la sera, rideva. Otto mesi e scherzava con noi, legato ormai a doppio filo. Un anno e poco più ed è come lo hai conosciuto. E’ stato lui a raccontarci ogni cosa, una sera. Non ho idea del perché lo abbia fatto; immagino che tutti abbiano bisogno di scaricare il proprio fardello presto o tardi.”
Rimasero in silenzio per un po’, senza guardarsi.
“E’ la prima volta che la madre…”
“No.” borbottò Veronica “Ha già provato altre volte: dice che sta smettendo di bere, mente. Vuole vederlo, nemmeno lei sa il perché. Pochi mesi fa Michele l’ha seguita, tornando con lei e fermandosi solo per un pomeriggio. Si è fatto vivo la sera: metà faccia coperta di sangue. Silvestro è diventato una bestia: voleva arrestarli. E’ stato Michele a fermarlo. Non credo che se accadesse di nuovo riuscirebbe ancora a bloccarlo.”
Veronica rabbrividì mentre anche le ultime forze l’abbandonavano: si girò, pronta a tornare a casa, e sentì i passi di Matteo dietro di sé.
“Tanto per sapere,” lo udì mormorare “Devo cercarmi un altro posto per dormire?”
“No.” sospirò Veronica “Solo, cerca di stare il più possibile lontano da me.”

 

 

*

 

 

Matteo trasalì, scorgendo la figura seduta con le spalle al muro. 
Era entrato in cucina sovrappensiero, il bisogno di fumare ormai impellente.
Aveva pensato di uscire in terrazza per dieci minuti, non di più: giusto il tempo di una sigaretta veloce, forse due. Non più di tre, promesso.
Era appena uscito, quando l’occhio gli cadde sulla sinistra. A rischiarare la scena c’erano solo le luci di Natale: intermittenti, sparpagliate un po’ ovunque. Matteo arretrò in silenzio, dimentico della sua sigaretta. Tornò in casa, cerando Veronica.
La trovò raggomitolata su una poltrona, gli occhi chiusi. Fu lei a parlare, battendolo sul tempo: “Una cosa ti avevo chiesto.” sibilò “Quale parte del più lontano possibile da me non ti è chiara?”
“Vieni in terrazza.”
Veronica inarcò un sopracciglio, guardandolo incredula. 
Matteo scosse il capo.
“Non è per me.” sussurrò, l’espressione seria. Fu qualcosa nel suo sguardo a convincerla: Veronica uscì sul balcone, tesa, senza sapere cosa aspettarsi. Fra il momento in cui vide la figura seduta per terra e quello in cui si inginocchiò al fianco di Michele non passarono che pochi secondi: “Mickey!” sussurrò “Che fai qui fuori?”
Il ragazzo non rispose, tirando su con il naso e scuotendo mollemente la testa.
Le spalle poggiate al muro, le gambe strette al petto: si dondolava piano, fissando un punto di fronte a sé senza tuttavia vederlo per davvero. Mouse, la piccola palla di pelo, gli stava accoccolato sul petto: il muso dell’animale proteso verso il collo del ragazzo. Mickey aveva le dita di una mano affondate nel pelo dell’animale, come a trarne rassicurazione.
“Mickey,” lo chiamò di nuovo Veronica “è successo qualcosa?”
“Era lei, vero?”
La voce gli era uscita a stento, strozzata. Non guardava Veronica, forse non aveva nemmeno visto Matteo. Semplicemente, fissava il nulla.
Matteo era immobile sull’uscio: osservava, incapace di andarsene. Voleva solo fumare.
Si aspettava che alla domanda del ragazzo Veronica rispondesse con una bugia: lui ci era talmente abituato che non avrebbe saputo fare altrimenti. Incredulo, la sentì dire la verità, il desiderio di una sigaretta che passava ancora una volta in secondo piano.
“Sì.” sussurrò la ragazza “Era lei. Voleva vederti e io l’ho mandata via.”
“Ha smesso, secondo te?”
Matteo provò l’impulso di arretrare, di sparire: qualsiasi cosa pur di allontanarsi da tutto quel dolore. Ora mentirà, si disse. Non continuerà a dire la verità, non quando una piccola bugia bianca può fare molto meno male. Invece no.
“No.” fece lei, chiudendo gli occhi per un istante. Prese la mano libera di Michele e la strinse nelle sue, scuotendo impercettibilmente la testa: “No, non credo abbia smesso.”
“Già.” commentò il ragazzino, amaro “Perché avrebbe dovuto farlo, giusto?”
Matteo vide Veronica rabbrividire, notando solo in quel momento che era uscita senza giacca. 
“Sto sbagliando secondo te?” chiese Michele, incrociando per la prima volta lo sguardo malinconico di lei “Dovrei tornare da loro? Dovrei continuare a…”
“A fare cosa, Mickey?” sospirò Veronica senza lasciargli la mano “A farti picchiare? No, non credo dovresti farlo. Non dovresti tornare lì, non da loro.”
“Sono i miei…”
“Mickey,” gemette lei, avvicinando il viso al suo “se lui dovesse alzare anche solo un dito su di te, Silvestro non lo fermerebbe più nessuno, lo sai?”
Michele non disse niente. Fu lei a continuare.
“Non mi è mai piaciuto disinfettarti le ferite.” mormorò “Soffrivi tu e soffrivo io. Non ho alcuna intenzione di farlo ancora, non se è possibile evitarlo. Vuoi andare a trovarli? Ci andremo insieme. Non è una situazione che puoi affrontare da solo.”
“Lo so.” singhiozzò piano il ragazzino, cercando di distogliere lo sguardo. Veronica non glielo permise.
“Se non vuoi che Silvestro ti aiuti con la legge,” sussurrò “lasciati almeno aiutare da noi, così come possiamo.” accennò un tenue sorriso “Sai che Cinzia può tutto.”
Michele annuì, cercando di sorridere a sua volta; fu allora che vide Matteo avvicinarsi cautamente e togliersi la giacca per poggiarla sulle spalle di Veronica. Lei quasi non se ne accorse.
“Vai a letto, Vero.”  bisbigliò Michele, dandole un colpetto con la mano.
Lei scosse il capo, accennando a mettersi più comoda, ma lui non glielo permise.
“Vai.” ripeté convinto “Si gela, è tardi e non ho intenzione di buttarmi di sotto.”
“Vieni anche tu.” propose allora lei, alzandosi e allungandogli una mano.
“Mi serve ancora un minuto.” negò Michele “Vengo fra poco, promesso.” 
Veronica annuì, arrendendosi e rientrando in casa. Michele chiuse gli occhi, reclinando il capo all’indietro con un sospiro. Quando li riaprì le lucine erano spente. Ne rimaneva solo una, minuscola e tutta rossa, che presto riconobbe come la sigaretta di Matteo.
“Ancora qui?” lo apostrofò, la voce dura.
Matteo ignorò la rabbia con cui era stata posta la domanda e si avvicinò di qualche passo:
“Sigaretta?”  domandò.
“No.”
Matteo ripose il pacchetto nella tasca dei pantaloni.
“Ce l’hai con me?” si sorprese a chiedergli, le parole che uscivano spontaneamente.
“Non dovrei?” 
“Non so.” mugugnò Matteo “A te cosa avrei fatto di male?”
“A me niente.”
“E allora?”
“Hai ferito Veronica, stronzo.”
Matteo si irrigidì. “Piano con le parole.” 
“Cos’è, una minaccia?” rise Michele “Sei uno stronzo, Matteo. Lo so io, lo sai tu, lo sanno tutti. Il problema è che l’unica a soffrire di più per la scoperta è stata Veronica. L’hai ferita, te ne rendi conto?” aprì gli occhi, fissandoli duramente in quelli del ragazzo “Capisci adesso perché ce l’ho con te o ancora non ti è chiaro? Non puoi farle del male e aspettarti che a me stia bene. Avercela con te è il minimo che possa fare.”
“Tutto perché sono andato a letto con lei?”
Michele sospirò.
“Perché fai così?” chiese “Perché fingi di essere ancora più bastardo di quanto tu non sia? Qual è lo scopo? Spiegami.”
“Non c’è uno scopo.” sussurrò fievolmente Matteo “Non c’è.”
“Perché fingere, allora?”
“Perché non so fare altrimenti.”
Michele chiuse gli occhi, il respiro che rallentava. 
“Me ne dai una?”
Matteo sussultò, sorpreso: vide le dita di Michele tese verso di sé e si affrettò a cancellare la distanza rimanente. Si accoccolò contro la ringhiera e gli porse una sigaretta, prendendone un’altra per sé: le accese entrambe, suggellando quella che sembrava tanto una tregua.
“Mi stai compatendo?” chiese a un certo punto Michele “Se è così ti prego di smetterla. Non mi va per niente di essere commiserato.”
“Compatirti?” sussurrò Matteo, aspirando piano “Perché dovrei?”
“Vorresti farmi credere che Veronica non ti ha raccontato niente?” 
“Che cosa doveva raccontarmi?” borbottò l’altro “E poi, parliamo della stessa bionda che desidera rendermi sterile a vita? Credi davvero che mi parli ancora?”
Michele accennò un sorriso, osservando l’immagine di Matteo attraverso le pallide nuvolette di fumo: cercava di scorgere un segno sul suo viso, qualcosa che indicasse una menzogna. Matteo sapeva dire le bugie: era una capacità innata che migliorava molto se la causa era buona. Ora come ora, non avrebbe potuto esserci motivo migliore per mentire.
“Quando sbatti contro i tuoi muri,” bisbigliò alla fine Michele, chiudendo gli occhi, stanco di cercare qualcosa che in fin dei conti non voleva trovare “resti sempre impassibile?”
Matteo assottigliò lo sguardo, schiarendosi la gola: “No.” mormorò “Quasi mai.”
“Davvero?”
“Certo. Perché, tu sì?”
Michele scosse la testa, serrando le labbra. Matteo respirò piano e si sforzò di continuare.
“Una volta,” cominciò “mi hanno dato un pugno sul naso. Non un pugno qualsiasi, eh. Una cannonata. Faceva tanto male che ho temuto mi avessero rotto il setto. Ho visto le stelle.”
Sbuffò, aggiungendo lentamente: “Ecco, in quel momento credo di aver guaito come un cane. Uggiolato senza vergogna.”
“Era rotto, il naso?”
Matteo negò, la mano destra che saliva istintivamente a sfiorare le narici.
“Persi tanto di quel sangue...” mugugnò, alzando gli occhi al cielo “Ma non era rotto. A rompersi poi, fu la mascella del pugno di ferro.”
Michele sorrise, le dita che affondavano più saldamente nel pelo di Mouse.
“Una volta,” sussurrò “mi hanno dato un calcio nello stomaco. Forte, davvero davvero forte.” lanciò un’occhiata a Matteo e fu l’assenza di reazione in quest’ultimo a dargli il coraggio di proseguire “Credo di non aver mai provato tanto dolore. Iniziai a tossire, arrivai a sputare sangue: non riuscivo a respirare. Ero letteralmente piegato in due. E così, piegato in due e con il sangue in bocca, cominciai ad elencare tutti i santi del calendario. Uno dopo l’altro, dal primo all’ultimo.”
La sigaretta si era consumata fra le dita di Matteo senza che lui se ne accorgesse. 
“Chi è stato, Mickey?” chiese, conscio di essere in errore. 
“Nessuno.” rispose Michele.
Matteo annuì, lasciando correre. 
“Come mai hai paura dei topi?” 
“Non mi fanno paura.” rispose automaticamente Matteo, consapevole tuttavia di essere il più distante possibile da Mouse.
“Lo capisco subito, sai?” mormorò Michele “Ne hai una paura nera.”
“Se anche fosse?”
“Niente.” si strinse nelle spalle l’altro “Mi chiedevo come mai.”
Matteo restò in silenzio, domandandosi se fosse il caso di accendersi la terza sigaretta. 
“Hai presente Indiana Jones?” chiese dopo un bel po’.
“Quale dei tanti?” sorrise Michele, di nuovo attento.
“Quello in cui si scopre il perché della paura di Jones per i serpenti.”
“Certo. E’ quando Indiana cade nel vagone del treno, no?”
Matteo annuì, inumidendosi le labbra.
“Il vagone era pieno di serpenti, ricordi?”
“Che ti è successo, sei caduto in una gabbia di topi?”
“Quasi.” mugugnò Matteo “Trovammo un tombino aperto a bordo strada: la scala era lì, in bella mostra. La curiosità era troppa. Potevamo mai non scendere?” sorrise a Michele “Tu che avresti fatto?”
“Sarei sceso.”
“E noi scendemmo. Sapevamo di essere nelle fogne; ci aspettavamo di tutto: cadaveri, alligatori, tesori ignoti, persino ai fantasmi eravamo preparati. Non ai topi, però.”
Il volto di Matteo si contrasse mentre un sorriso strano gli incurvava le labbra.
“Quanti topi! Non finivano più: erano ovunque. Piccoli, senza pelo, le code lunghissime e gli occhietti rossi. I denti, poi: terrificanti. Non hai idea di quanti incubi abbiano popolato quei piccoli demoni.”
Michele osservò l’espressione di Matteo e si morse il labbro con forza.
“Stai cercando di non ridere?” 
Michele negò con il capo, il labbro che tremava convulso.
Matteo sospirò e il ragazzino scoppiò a ridere.
“Ridi, ridi.” brontolò “Avrei voluto vedere te in quel tombino.”
“Scusa.” mormorò Michele, asciugandosi gli occhi umidi.
“Erano orrendi.” 
“Ci credo. Mouse però non è così.”
Matteo fissò il topo gigante.
“Mouse non è piccolo, non è senza pelo, non ha gli occhi rossi.” elencò Michele, facendo ruotare l’animale sul palmo della mano “E’ un’unica enorme palla di pelo pucciosa e coccolosa.”
Matteo sorrise.
“Puccioso e coccoloso.” ripeté Michele, avvicinandogli la palla “Vedilo come se fosse un enorme porcellino d’india.”
Il dito di Matteo si avvicinò incerto al neo-porcellino, affondando nella pelliccia senza far rumore. Quasi si aspettava che la palla cominciasse a vibrare e far le fusa. Mouse mosse il naso, i baffi che si agitavano: studiò il dito che lo disturbava e decise che non era poi tanto fastidioso. Seguì quel dito e, una zampetta dopo l’altra, si arrampicò in grembo a Matteo. 
Noi chi?”
“Come?”
“Hai parlato al plurale.” mormorò Mickey “Entrammo nel tombino, ci aspettavamo, trovammo… tu e chi?”
Matteo sorrise, scuotendo lentamente la testa. 
“Nessuno.”

 

*

 

 

 

“Cavolo, così non vale però.”
Veronica aggrottò le sopracciglia, avvertendo silenziosamente l’amico. Lui neanche se ne accorse: le labbra corrucciate, tutto indaffarato a sistemarsi il codino con una mano e a chiudersi la giacca con l’altra. Borbottò qualcosa d’indefinito, spingendo al contempo la ragazza ad attraversare per entrare nell’affollata villa comunale:
“Se dici così mi fai pentire di non essere venuto.”
Veronica sospirò, incrociando le braccia al petto sia per il nervosismo che per il freddo.
“Si può sapere tu da che parte stai?”
“Dalla tua, naturalmente.” scattò Daniele “Gli avrei tirato contro di tutto. Gli avrei lanciato addosso persino te!”
Veronica s’irrigidì: quando l’amico scherzava in quel modo c’era qualcosa che non andava. 
“Che c’è?” chiese, la voce talmente lieve da essere a mala pena udibile.
Non era abbastanza per Daniele.
“Che hai detto, scusa?” domandò lui, lasciandosi cadere sulla prima panchina.
“Ti ho chiesto cosa c’è che non va.” sbottò lei, fermandoglisi di fronte “Illuminami, o grande infermiere…”
“Specializzando.”
“… o grande specializzando, cos’è che non ho capito?”
Daniele ridacchiò, sinceramente divertito.
“Veronica,” cominciò, puntellando i gomiti sulle ginocchia “studi psicologia, giusto?”
Lei lo fulminò con lo sguardo, tentata di sbattergli ripetutamente in testa il tomo su Freud che portava in borsa. Daniele, intuendo cosa frullasse nella mente dell’amica, si affrettò a sollevare le mani a mo’ di resa: “Te lo chiedo,” aggiunse velocemente “perché fino ad oggi hai ampiamente dimostrato le tue capacità. Ho sempre invidiato la tua abilità nel capire le persone, lo sai. Eppure…”
“Eppure?”
“Eppure con questo Matteo mi sembra che tu abbia perso i tuoi superpoteri.”
Veronica s’imbronciò, preparandosi al peggio: “In che senso?”
“Nel senso che è come se non riuscissi minimamente a capirlo.”
“Stai scherzando?” sbottò lei “Non si può capirlo! Anche Freud avrebbe deposto le armi implorando che gli fosse concesso di ucciderlo! E’… solo Dio può capirlo, forse, e anche lui si chiede cosa abbia sbagliato nel processo.”
“Quale processo?” s’intromise divertito Daniele, prendendola in contropiede.
“Non lo so.” sospirò distrutta Veronica, crollando a sedere al suo fianco “Continua, dai.”
“Dicevo: per qualche strano motivo non riesci a capirlo neanche tu. Forse i tuoi poteri sono distorti dagli ormoni che impazziti ti urlano di saltargli addosso, non so, certo è che…”
“Punto primo,” ringhiò la ragazza, piantandogli l’indice nella spalla “i miei ormoni non sono usciti di senno e non mi urlano alcunché.”
“Io credo che ormai siano talmente disperati da star organizzando uno sciopero di massa.”
“Daniele, ti prego, arriva al punto.”
“Il punto, il punto… perché con te non si può mai divagare in santa pace?”
“Devo chiederti perché siamo qui, o ti decidi a concludere?”
Il ragazzo sorrise, colpito come sempre dall’acume dell’amica.
“Non c’è nessun punto, cucciola.” mormorò “Solo, ti chiedo di non giudicarlo mentre sei in piena crisi emotiva. Vuoi ucciderlo? Benissimo, ma aspetta qualche giorno. Vuoi stuprarlo? Benissimo, ma di nuovo, non essere precipitosa. Non sei sempre stata tu a ripetermi che non si può giudicare dalle apparenze? Com’è che dicevi, eh? Non giudicare mai un libro dalla copertina, Danny.”
Veronica non fiatò, le idee che si rincorrevano e abbattevano vicendevolmente.
“Sicura di non star facendo proprio questo, cucciola? Lo hai aperto il libro, almeno?”
Daniele aveva dato il colpo di grazia. 
“Sì.” borbottò alla fine “Sì, che l’ho aperto quel dannatissimo libro. Già alla prima pagina sembrava star gridando al lettore di lasciar perdere. Che non era il caso, ha tentato di farlo capire in tutti i modi, io non gli ho dato retta, però. Fa quattro lavori, il ragazzo. Quattro almeno sono quelli che ho avuto modo di scoprire; se il numero sale, ti farò sapere. Fuma che neanche una ciminiera. Capisce la fisica, certo, ma credo sia l’unica cosa positiva e, sinceramente, non so proprio cosa farmene.”
Veronica riprese fiato, scuotendo malamente il capo.
“Ah, già.” aggiunse poi “Va a letto con la prima che capita, ma è convenientemente accoppiato con una francesina che aspira a fare l’avvocato. Ho per caso dimenticato qualcosa?”
“Di respirare.”
Veronica lo fulminò con lo sguardo senza pensarci due volte.
“Consideriamo ogni cosa, okay?” mormorò Daniele “Hai detto che fa quattro lavori, giusto? Perché allora è a casa tua, cucciola?”
“Lo hanno sfrattato.”
“E com’è possibile, se fa quattro lavori?”
Veronica rabbrividì, sentendo in quelle parole l’eco della conversazione che aveva avuto con Cinzia: Ci sono troppi particolari discordanti, troppe cose che non tornano. L’occhio nero non è stato un muro. Non torna che con te, diverse volte, sia stato così gentile. Non torna che ti abbia fatto portare la sua moto, quando non la fa toccare a nessuno. Non torna che non sia scappato a gambe levate stamattina. E ancora. I lavori. Tre, porco cane. Com’è possibile che uno che fa tre lavori e divide un garage con un amico non riesca a pagare l’affitto?
Veronica sbuffò, prendendosi la testa fra le mani. Daniele sorrise, carezzandosi pensoso il pizzetto: lo faceva sempre quando sentiva di star toccando i tasti giusti.
“Che c’è, cucciola?” chiese conscio di aver vinto.
“Perché mi ripetete sempre le stesse cose?” gemette lei, sconfortata “E’ difficile, Danny.”
“Cosa?”
“Avere a che fare con una persona che non riesco a capire.”
“E pensare che a noi comuni mortali capita tutti i giorni.” 
“Come si fa, in questi casi?”
“Si vive giorno per giorno.” sospirò lui “Si cerca di essere oggettivi, si studiano i segnali che l’altro ti manda anche senza rendersene conto e si cerca di fare due più due.”
“Con Matteo temo che due più due farebbe cinque.”
Daniele si strinse nelle spalle, pronto a ripetere il concetto: “Non correre. Ha sbagliato, ma è pur sempre umano, no?”
“Certo.” approvò Veronica “Gli stronzi, è risaputo, sono una razza umana, no?”
“Si parla di uomini?”
Veronica sussultò, girandosi di scatto verso la nuova arrivata: la guardò incredula e poi tornò a fissare Daniele, la mano che correva ad afferrargli brutalmente il codino.
“Ringrazia che non ho con me un paio di forbici.” soffiò, scrutandolo con rabbia “Hai davvero ripreso a vederti con la megera?”
“La megera è qui che ascolta.” cantilenò la ragazza, piazzandosi di fronte alla panchina con un sorriso che andava da un orecchio all’altro  “Sono arrivata in tempo, Dani?”
Daniele annuì, sorridendole a sua volta, cercando al contempo di liberare i capelli dalla stretta ferrea di Veronica: “Mi lasceresti andare?” mugolò, guardandola speranzoso.
Lei liberò i capelli, sospirando sconfortata: “Con te è inutile parlare.” sentenziò, ignorando il ragazzo e rivolgendo tutta la sua attenzione alla piccola inattesa disturbatrice.
“Marina.” salutò, glaciale.
“Veronica.” rispose l’altra, allegra “Mi odi ancora tanto?”
“Cosa te lo ha fatto intuire, di grazia?”
Marina ridacchiò, scuotendo appena il capo con aria svagata. Era minuscola, Marina.
Ricordava tanto un piccolo elfo. Raggiungeva a stento il metro e sessanta, leggera come una piuma. Il viso sottile, perfetto: gli occhi enormi e dolcissimi. Un sorriso che riusciva a scaldarti il cuore.
Marina aveva sempre la testa fra le nuvole, svagata come una bambinetta, e tuttavia sapeva essere seria e irremovibile all’occorrenza. Quando camminava, lo faceva con tanti piccoli saltelli, come se danzasse; persino le parole che pronunciava sembravano piroettare con lei: cantilenanti, armoniose. Una fatina spensierata, ecco cos’era: capace di stregare al primo sguardo e avvincerti a sé, pericolosamente e irrimediabilmente.
Proprio per questo, probabilmente, Veronica la odiava tanto: era stato così facile affezionarsi a lei. Talmente semplice da rendere impossibile, poi, credere che fosse stata la piccolissima Marina a spezzare il cuore di Daniele. 
Eppure i fatti parlavano chiaro: la fatina lo aveva tradito.
Marina si era fatta beccare da Daniele nel bel mezzo di un amplesso con il suo compagno di stanza e il ragazzo ne era uscito distrutto: lui, il gigante buono con il pizzetto, l’orecchino e il piercing, aveva voltato le spalle a quella scena che non si meritava ed era scappato via più veloce che poteva.
Daniele raramente s’innamorava e, ovviamente, si era lasciato sedurre proprio dalla persona sbagliata. Veronica aveva impiegato qualcosa come otto settimane per far dimenticare Marina a Daniele, e ora se la ritrovava davanti, sorriso smagliante sempre presente. 
Veronica strinse i denti, decisa a distruggerla: se Daniele non era capace di difendersi, ci avrebbe pensato lei.
“Perché è di nuovo qui?” domandò senza lasciar trapelare la rabbia.
“Ci siamo accordati per prendere un caffè insieme.” riuscì ad articolare Daniele, lo sguardo ancorato sul selciato. Non aveva mai notato come fossero carini i ciottoli ghiacciati.
Veronica sbuffò, alzandosi in piedi e piazzandosi di fronte a Marina.
“Con che coraggio ti presenti?”
“Daniele mi ha detto che saresti stata un po’ scontrosa.” sorrise lei “Del resto, sono sicura che riuscirai a perdonarmi.”
“Perdonarti?” ghignò Veronica, sarcastica.
“Ho sbagliato, è vero.” sospirò Marina “Quando l’ho capito mi sono sentita malissimo. Così ho chiesto a Dani un’altra possibilità, e lui ha accettato. Mi ha perdonato, no?”
Veronica assottigliò lo sguardo, fremente: “Tu non sei pentita. Tu non hai capito un bel niente.”
“Ti ho detto che sono stata malissimo.”
“Quando?” inarcò un sopracciglio Veronica, sovrastandola “Una settimana fa? Sai di essere andata a letto con il suo coinquilino quasi quattro mesi fa? Sono tempi diversi, non trovi?”
“E’ stato un errore.”
“Non mi dire, ti è casualmente caduto addosso?”
Forse avrebbe dovuto intervenire, rifletté Daniele. 
Sarebbe stato il caso di dire qualcosa, di raccontare a Veronica della telefonata ricevuta dal suo coinquilino: di come il cretino aveva parlato di alcol e droga, spiegando che a un certo punto non ci avevano capito più niente e che era stato lui a fare tutto. Daniele certo sapeva che per fare sesso bisogna essere in due. Marina qualcosa doveva aver pur fatto. Un po’ il Natale alle porte, però, un po’ il solo fatto che era della sua fatina che stavano parlando, aveva deciso di darle un’altra possibilità.
La cosa difficile era farlo capire a Veronica prima che cominciasse a prenderla a schiaffi.
“Devo cominciare a raccontare della mia nottata con Matteo in questi termini, sai?”
“Matteo?” saltò su Marina “E’ lo stesso di cui mi parlavi sempre, Dani?”
E Daniele cambiò idea, cominciando a progettare una rapida ritirata. Sentì due paia d’occhi che gli si puntavano addosso e rabbrividì, desiderando scomparire.
“Le hai parlato del mio coinquilino dal gene dominante della stronzaggine?” s’insospettì Veronica, guardando alternativamente entrambi in cagnesco.
“Certo che no.” fece Daniele, una piccola aureola che sembrava dipingerglisi in testa.
“Il Matteo che fuma sempre anche quando c’è il cartello di divieto, giusto, Dani?” chiese ancora Marina, il sopracciglio che s’inarcava sfuggente.
Veronica le si affiancò, le braccia conserte: “E’ il mio Matteo?” domandò, sempre più confusa.
Marina non capiva: “Il tuo Matteo è quello che fuma in ospedale?”
Daniele sospirò, chiudendo gli occhi.
“Sempre, sempre casini.” borbottò, sentendo di starsi scavando la fossa “Okay, ora basta: immagino che affermare che stiate parlando di Mattei diversi sia inutile, vero?”
Veronica gli si avvicinò, abbassando la voce.
“Conosci Matteo? Che c’entra con l’ospedale?”
Marina aveva fatto per aprire la bocca ma Daniele fu rapido nel bloccarla: le si posizionò davanti, una richiesta chiara nello sguardo. Non parlare. Marina ubbidì.
“Non posso dirti niente, cucciola.”
“Come sarebbe? Che scherzi sono?”
“Non ci pensare, va bene? E’ come se non lo conoscessi.”
“Ma lo conosci?”
Daniele tentennò. “Sì e no.”
“Che diavolo sta succedendo?” sbottò Veronica “Marina, neanche tu mi dici qualcosa?”
Marina le si avvicinò, fissandola con i suoi occhioni.
“Mi hai perdonato?”
“No.” sussurrò Veronica, un velo di tristezza che le oscurava lo sguardo.
“Tranquilla.” sorrise l’altra, alzandosi sulle punte e scoccando tre bacetti sulle guance “Non ho alcuna intenzione di dartela vinta.”
Marina afferrò la mano di Daniele, tirandolo piano.
“Andiamo a berci quel caffè, su.”
E il ragazzo la seguì, docile come un cucciolo.

 

 

 

§







 

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Capitolo 11
*** Batman e Ranocchietta ***




Bugie bianche

                                                                                                

       ≈ Batman e Ranocchietta ≈

 

 

 

 

Veronica adorava le docce.
Rapide o eterne che fossero riuscivano a scioglierle i muscoli e liberarle la mente.
Quando alla fine, con un briciolo di dispiacere, spense il getto di acqua calda, si accorse che l’accappatoio bianco non era più al suo posto. Mancavano all’appello anche gli tutti gli asciugamani. 
Gemette, maledicendo silenziosamente il colpevole. Dannato ragazzino.
Sulle punte dei piedi raggiunse la porta del bagno, schiudendola di poco: sbirciò fuori, ma non vide nessuno. Aspettò qualche minuto, le orecchie tese e pronte a captare il minimo rumore. Non sentì niente e, preso coraggio, si mosse velocemente.
Era arrivata a metà corridoio quando una serie di espressioni sorprese la fece trasalire.
Veronica sgranò gli occhi, spostando con orrore lo sguardo all’interno della camera di Michele: la porta era aperta e tre giovani la fissavano a bocca aperta. Un ringhio frustrato le sfuggì dalle labbra mentre correva a chiudersi in camera: ne uscì in un lampo, un vestitino qualunque a coprirla.
“Tu.” sibilò, avvicinandosi minacciosa a Michele “Quante volte ti abbiamo ripetuto di riportare gli asciugamani in bagno? Quante?”
Il ragazzino la scansò, un sorriso che gli attraversava la faccia: “Non te la prendere, dai.” si scusò “Ieri me ne sono proprio dimenticato. Comunque non abbiamo visto niente.”
“Ero nuda!”
“Non ce ne siamo accorti, davvero.” ribadì lui, accennando con il capo agli astanti.
Veronica sembrò ricordarsi solo in quel momento degli altri. 
“Avevo detto che sarei tornato.” le sorrise Giovanni, placido “Devo dire che non me ne sono pentito. Verrò ogni volta che posso, Mickey.” terminò entusiasta. 
Michele si era acquattato ai piedi del letto, pronto a scappare se fosse stato necessario. 
Veronica però non lo guardava più, lo sguardo fisso sul terzo spettatore.
“Non dici niente?” gli chiese, il piede scalzo che batteva ritmicamente sul pavimento.
“Non credo sia il caso.” rispose Matteo, affabile.
Veronica annuì, approvando la condotta prudente del ragazzo: “Che fate qui?” domandò, squadrando con aria sospettosa i libri aperti.
“Studiamo.” risposero i tre in coro.
“No, sul serio.” ridacchiò lei “Che state facendo?”
I ragazzi si scambiarono un’occhiata, poi Michele chiese: “Sai che ore sono, Vero?”
“No.” gli occhi di lei si spalancarono “Che ore sono?”
“Le sei e mezza.”
Veronica sussultò, incredula: “Cavolo. Ho perso la cognizione del tempo!”
“Cinzia e Simone sono usciti assieme. Qualcosa che aveva a che fare con lo shopping, credo. Lui non era esattamente l’immagine della felicità.”
“E voi?”
“Studiamo, davvero.” rise Matteo “Fisica: li ho visti in difficoltà e mi sono offerto di dare una mano. Tu perché non ci prepari uno spuntino?”
“Non ci penso proprio.” decretò uscendo dalla stanza “Divertitevi, voialtri.”
Quando sentì una mano che le si posava lieve sulla spalla, ripeté, senza voltarsi: “Non vi preparo niente, Mickey. Arrangiatevi.”
“Perché scappi sempre?”
Veronica si girò di scatto, fulminando il ragazzo con lo sguardo: “Il patto era che saresti restato lontano.”
“Allora non mi sta più bene.”
“Prego?” scattò lei, gelida.
“Non doveva andare così, ragazzina.”
Veronica alzò gli occhi al cielo, gli voltò le spalle e a lunghi passi uscì dall’appartamento, diretta all’ascensore. Il dito che già premeva sul pulsante del piano terra. 
“Non è finita -
Veronica fissò incredula la mano che bloccò le porte all’ultimo istante: Matteo entrò e le si piazzò di fronte.
“Sei impazzito? Che fai, ora, m’insegui?”
“Sei tu che non resti ferma, ragazzina. Hai visto che scappi sempre?”
“Cos’è che vuoi?” sbottò Veronica, avvicinandoglisi di un passo “Che altro c’è che non va?”
Matteo si appiattì contro la parete, il sangue che defluiva dal viso mentre gli occhi si affrettavano a guardare altrove. Respirò, osservando con vivo interesse il soffitto del cubicolo.
“Cosa?” sbuffò Veronica “Ora t’infastidisce la mia vicinanza?”
“No.” sospirò Matteo, chiudendo gli occhi “Ma non indossi intimo e io sono pur sempre un uomo.”
La ragazza si allontanò di un passo, scocciata, le braccia che correvano a coprire il petto.
Fissò la tabella con i numeri: non mancava molto, per fortuna. Due piani, uno… terra. 
Sentirono il campanello e sorrisero, grati di essere arrivati. Si girarono verso le porte e attesero. E attesero ancora. E…
“Perché non si aprono?”
Matteo si strinse nelle spalle: cercò di ignorare il tono di allarme di lei e si avvicinò alle porte chiuse. Sbirciò nella minuscola fessura e borbottò: “Siamo arrivati.”
“Questo lo sapevo già.”
Matteo picchiò con il palmo contro l’uscita chiusa e sospirò: “Siamo bloccati.”
Veronica gemette, premendo l’indice sul pulsante rosso; fra quanto li avrebbero tirati fuori da lì?
“Hai visto Buried?” chiese Matteo, il capo leggermente inclinato “Il film sull’uomo che si sveglia in una bara: era stato sepolto vivo.” spiegò il ragazzo “Ecco, mi sento tanto così.”
“In una bara o sepolto vivo?”
“In una bara.” decise Matteo “Proprio come Ryan Reynolds.”
Veronica annuì, scrutandolo con sufficienza: “Peccato che qui con me ci sia tu e non lui.”
“Cominciamo con il sarcasmo?” domandò lui, seccato “Se è così avvertimi perché necessito di una sigaretta, nel caso.”
Matteo fece anche per prenderne una e mostrarla alla ragazza; il gesto fu prontamente intercettato da Veronica che gli artigliò il polso, strappandogli la sigaretta dalle dita.
“Ti sei bevuto il cervello?” sbottò “Siamo rinchiusi in un cubicolo di meno di due metri e vorresti metterti a fumare?”
“Ne ho bisogno.”
“Non credo proprio.”
“Profumi di pesca.”
Veronica lasciò il polso di colpo e si allontanò appena, scrollando le spalle.
“Ho finito lo shampoo alla vaniglia.”
“E’ buono anche a pesca.”
“Smettila.” si allontanò ancora lei, evitando di guardarlo.
“Hai i capelli bagnati.” sospirò Matteo.
Veronica si strinse nelle spalle e la risposta le morì in gola quando lui cominciò a sfilarsi la felpa nera. “Che diavolo fai?” lo apostrofò con voce strozzata.
“Avvolgili qui dentro e strofinali.” fece Matteo “Cerca di non prenderti una polmonite, ragazzina.”
“No. Così te la buschi tu la polmonite, idiota.”
“Io sono asciutto.” ribatté il ragazzo “E ho la canottiera.” aggiunse, indicando la leggerissima canotta bianca che indossava. 
Veronica non aveva ancora preso la felpa, così Matteo le si posizionò davanti, cercando di convincerla: “Butta i capelli in avanti, Ronnie.” mormorò, quasi supplichevole.
E lei ubbidì, rovesciando i capelli fra le sue mani: Matteo cominciò a sfregarli nella felpa, attento a non tirare troppo. Continuò per un paio di minuti, quindi le fece cenno di rialzarsi.
Veronica scrutò l’espressione ilare di lui e sospirò, abbattuta: “Lo so, sembro Maga Magò.”
“Maga Magò?” ridacchiò Matteo “Chi è?”
Lei si guardò allo specchio, cercando inutilmente di sistemarli almeno un po’.
Matteo le stava alle spalle, in canotta, la felpa fra le mani: “Stai benissimo.” disse, porgendole ancora una volta l’indumento.
“Cosa?” si girò lei “Non ti sei ancora stancato?”
“Mettila.”
Veronica non se la sentì di opporre resistenza: infilò la felpa, nuotandoci quasi dentro.
“Ti sta un po’ larga.” sorrise lui.
“E’ comodissima, però.” mormorò lei, in quello che poteva essere un vaghissimo ringraziamento. Matteo lo sapeva; fece per dire qualcosa e fu a quel punto che la campanella suonò di nuovo. Le porte si spalancarono ed erano di nuovo all’ultimo piano.       
Uscirono quasi correndo dall’ascensore e si separarono senza degnarsi di uno sguardo.
Matteo fuggì lungo il corridoio e Veronica si affrettò a entrare in cucina.
“Nuovo look?”
Cinzia sorrideva, osservandola sinceramente divertita.
“Fa molto selvaggio, sai?” continuò “Devo provarlo.”
Veronica la ignorò, sedendosi al tavolo di fronte a lei: Cinzia stava facendo le parole crociate. 
“Sono rimasta chiusa in ascensore con Matteo.”
Cinzia si strinse nelle spalle, indifferente.
“C’era il cartello, giù, non lo hai visto? Dice che possono capitare dei guasti, ma non c’è pericolo.”
“Mi ha vista nuda, Cicì.”
“Di nuovo?” fece Cinzia, ironica “A quante siamo, ormai?”
“Mi ha asciugato i capelli con la sua felpa.”
E Cinzia smise di fare le parole crociate. Sollevò lo sguardo su Veronica, sorpresa.
“Che ha fatto?” chiese, incredula.
“Ero scappata mezza nuda.” spiegò Veronica “Ero in sottoveste, senza intimo e con i capelli bagnati.”
“Ed eravate chiusi in uno spazio vitale di meno di tre metri. Mi complimento, tesoro. Tu sì che sai come far impazzire un uomo.”
“Mi ha solo asciugato i capelli, Cicì.”
“Per favore.” sbuffò Cinzia, agitando la mano come per scacciare una mosca “Quanto avete retto senza saltarvi addosso?”
“Non ci siamo saltati addosso, Cicì.” mormorò Veronica, laconica, lo sguardo assente.
“Non capisco a che gioco stiate giocando.” sospirò Cinzia, lasciando cadere la matita sul tavolo “Lo vuoi oppure no, Vero?”
“Non lo voglio.” rispose Veronica, ma lo disse troppo in fretta.
“Ah, no?” 
“Lo dici come se dipendesse da me.” 
Cinzia avvicinò la sedia alla sua: “Facciamo così.” disse “Prenditi un giorno, due, aspetta anche una settimana se vuoi. Poi, però, deciditi. Se è la sua testa che vuoi, perfetto: è esattamente ciò che voglio anch’io. Se, invece, desideri lui… lui tutto intero e non a pezzettini; in quel caso, tesoro, devi darti una mossa. Il ferro va battuto finché è caldo, ricordi?”
Veronica scosse la testa, alzandosi in piedi: era convinta di aver già preso la sua decisione.
Lo voleva a pezzettini.
Uscì dalla cucina, camminando lentamente per il salotto. A pezzettini.
Sentì un cellulare che vibrava. 
Si avvicinò al telefonino abbandonato sulla cassapanca. A pezzettini.
Osservò lo schermo luminoso, leggendo il nome che vi brillava a intermittenza: Sofia.
Sentì una stretta allo stomaco e chiuse gli occhi.
A pezzettini?
Veronica si piegò sul cellulare, agendo d’impulso.
Non si rese conto di aver appena dimostrato a se stessa che la decisione presa era un’altra.
Semplicemente, agì sul momento e premette il pulsante.
Ignora chiamata.

 

 

*

 

“Hai ignorato la chiamata?”
Veronica si strinse nelle spalle.
Daniele la fissava sconcertato, l’espressione inebetita. Nella sua troppa bontà, gli riusciva difficile persino immaginare un gesto del genere. L’attenzione di Veronica, tuttavia, non era per lui ma per la fatina che continuava a portare con sé.
Veronica aveva tentato d’ignorarla, di fingere che lei non fosse lì.
Ogni sforzo, tuttavia, era risultato inutile: Marina non passava in alcun modo inosservata. Durante il normale resoconto di Veronica non aveva aperto bocca, limitandosi unicamente ad ascoltare. Anche nel silenzio, però, era stata eloquente come mai.
Tutta la sorpresa, il turbamento e la critica che Daniele sembrava esternare venivano come riflessi inversamente dal viso di Marina; se da una parte, quindi, quel silenzio loquace l’aveva ampiamente ripagata, dall’altra Veronica si era sentita sempre più seccata: semplicemente perché non riusciva ad odiarla con tutto il cuore. Era impossibile farlo, ammise con rimpianto.
“Hai sbagliato, secondo me, cucciola.” borbottò Daniele, scuotendo il capo, il codino che ondeggiava a tempo “Il cellulare non era tuo, in fondo. Ma non solo per quello, sai? Cioè, non è tanto il gesto, quanto ciò che significa: è come se tu avessi deciso di metterti in mezzo e...”
Il ragazzo s’interruppe, conscio di non essere minimamente ascoltato: si erano fermati a bordo strada, sul corso principale. Le vetrine ormai già tutte addobbate, luminose e natalizie, portavano istintivamente a sorridere. Daniele sfregò le mani l’una contro l’altra, osservando con vivo interesse lo scambio non verbale che le due ragazze stavano avendo. Impossibile capirle.
Sorrise, prendendo in considerazione l’idea di tagliarsi il pizzetto e chiedendosi nel mentre quanto tempo fosse ancora necessario affinché tornassero a saltellare insieme come due invasate guardando Ian Somerhalder alla televisione. Cosa aveva poi lui di tanto speciale da meritarsi tante urla?
“Parla.” sospirò Veronica, gli occhi che non lasciavano quelli di Marina. L’altra sorrise trionfante, l’espressione che purtroppo non lasciava presagire niente di buono.
“Ti piace.” cominciò Marina “Questo è chiaro. Lui non è certo il ragazzo più facile o alla mano della Terra, e anche questo era assodato. Specialmente da quanto mi ha detto Daniele…”
Veronica provò ad aprire bocca, avida d’informazioni, ma fu subito fermata dal dito alzato di Marina e dall’espressione perentoria del ragazzo. Si zittì, accontentandosi di ascoltare il resto: “Non è un cioccolatino, dicevo. Ha dei difetti e sono tanti. Tu, però, non ti arrendi: è come se l’entrata in scena di Sofia ti avesse reso ancora più determinata. E io approvo. Approvo in pieno.”
Daniele spalancò gli occhi, basito: “Approvi? Come sarebbe?”
“Sarebbe che io avrei fatto lo stesso, facendomi molti meno problemi.”
Veronica sorrise, mentre Marina continuava: “Il telefono, tanto per cominciare, io glielo avrei buttato dalla finestra.”
“Non credo alle mie orecchie.” sussurrò Daniele.
“Oh, amore.” lo carezzò lei “Non hai idea di quanti cellulari abbia distrutto per molto meno.”
Daniele non trovò nulla da dire.
“Poi.” ricominciò Marina “Chiusa in ascensore con lui mezza nuda? Neanche a chiedere, per favore, ma stuprarlo no? Perché farsi tanti problemi, su? Ci sarebbe voluto poco e vi sareste subito…”
“E’ fidanzato, Marina.” la interruppe Veronica, il tono meno antipatico di quanto avrebbe voluto.
“Ah, già.” s’incupì la fatina “Il problema principale quindi è lei: devi liberartene.”
“Uccidendola?”
“Non per forza.” s’impensierì Marina “Devi solo neutralizzarla.”
“Dovrei avere qualche dardo al sonnifero, se vi interessa.” scherzò Daniele, ricevendo un’occhiataccia in risposta. 
“Non è il momento di fare dello spirito, amore.” soffiò Marina, autorevole.
“Non credo sia il caso di…” cominciò Veronica, interrotta poi dallo squillo del cellulare; guardò l’ora e si rese conto di essere in ritardo. 
“Devo andare, ragazzi, scusate.” sussurrò concitata “Avevo dimenticato l’appuntamento con Cinzia.”
“Non desistere, Vero, mi raccomando!” le gridò dietro Marina, aggrappata a Daniele a mo’ di koala “Non te ne sei accorta ma hai già vinto la partita!”
Veronica non poté fare a meno di sorridere.

 

 

*

 

 

“Sono distrutta.” sospirò Veronica, prendendo posto.
“Ti lamenti troppo.” rispose Cinzia, le dita che giocavano con il pompon rosso del cappello.
“Dici?” sorrise Veronica “Allora non mi faccio scrupoli e continuo: non ho ancora iniziato a fare i regali, ti rendi conto? Sono in ritardo indicibile.”
“Non me lo dire.” borbottò Cinzia, porgendole un menù  “Avrei dovuto cominciare oggi.”
“E invece?”
“Ho accompagnato Simone al centro commerciale.”
“Ancora? Non eravate già usciti ieri?”
“Sì.”
Scorgendo l’espressione sconsolata dell’amica, Veronica non poté trattenersi dal sorridere:
“E’ un caso perso?”
“Mi sorprende che sappia vestirsi!” sbottò Cinzia “Per fortuna qualcuno gli ha spiegato che le mutande vanno messe sotto i pantaloni.”
“Oh, dai, povero ragazzo.”
“Lo hai visto?” continuò imperterrita “Hai visto con che pigiama dorme?”
“E’ rosso, sì, ma non farne un dramma, Cicì.”
“Non è solo rosso.” provò a ribattere, fermandosi come se all’improvviso fosse rimasta a corto di parole “Lasciamo perdere.”
“Dovresti essere contenta.”
“Di cosa?”
“Hai finalmente trovato un bambolotto, no?” ridacchiò Veronica, cercando di attirare l’attenzione di un cameriere. Riuscire nell’impresa, in quel locale, sembrava impossibile. 
“E anche un bel bambolotto, sai?” sospirò Cinzia.
Veronica non prestò attenzione a quell’ultima frase, ancora impegnata nella ricerca di un cameriere: diavolo, aveva bisogno di un caffè. Sussultò, girandosi di scatto verso il vetro poco lontano: “Avevo sentito un ticchettio sospetto.” brontolò.
“Qualcuno ti chiama.” mormorò divertita Cinzia, scrutando il ragazzo al di là del vetro.
Lorenzo, carico di buste colorate, continuò a battere il dito sulla vetrata.
“Ha anche urgenza, questo qualcuno.” ridacchiò Cinzia, divertita dalla fretta che il biondo emanava.
“Vado?”
“Credo dovresti andare, sì.” 
Veronica si alzò, afferrando la giacca con palese fastidio.
“Mi da sui nervi lo spilungone.”
Cinzia si voltò, alzando lo sguardo sul cameriere apparso al suo fianco.
“Quale miracolo.” commentò sarcastica “E comunque, per lo spilungone, non credo tu sia nella posizione adatta per dare giudizi.”
“Vorresti dire che a te non da sui nervi?” sbuffò Matteo, sedendosi al posto di Veronica “Sbaglio, o hai tentato la fuga pur di evitare la cena di lunedì?”
Cinzia lo fulminò, irritata: “Non parlo con te.”
“No?”chiese lui, sorpreso “Cribbio, devo star impazzendo: ero convinto di aver sentito la tua voce. Niente più che insulti, sia chiaro, ma sembrava proprio la tua.”
“Un caffè e una cioccolata calda.” ordinò Cinzia senza guardarlo “Vengo qui per le bevande, non certo per l’intrattenimento.”
Matteo annotò rapidamente sul suo taccuino. Fece per alzarsi, ma cambiò idea e tornò a poggiare la schiena contro la sedia; guardava fuori dalla finestra con mesto interesse. 
Osservava i due biondi sul marciapiede, immersi in un’animata conversazione; lui, una caramella gommosa rossa che gli pendeva dalle labbra, indicava alternativamente le diverse buste sparpagliate attorno a sé: lanciava poi un’occhiata interrogativa a lei che, appropriatasi della caramella gommosa, commentava divertita.
“Credevo non si parlassero.”
Cinzia si strinse nelle spalle.
“Si vogliono un gran bene, in fin dei conti.” mormorò, incontrando lo sguardo di Matteo.
“Amore fraterno?” ghignò sarcastico.
“Non ho detto amore, ma del resto, tu cosa ne vuoi sapere?”
“Perché non volevi venire alla cena?”
“Così.” sospirò Cinzia “Inizia ad essere difficile sopportare le avance di Lorenzo.”
Matteo schiuse le labbra, sinceramente sorpreso: “Ci prova con te?”
“Certo.” ridacchiò lei. 
“Perché?”
“Si annoia, forse.” mormorò Cinzia, apparentemente non interessata all’argomento.
Lanciarono entrambi un’occhiata fuori dalla finestra sui due ancora indaffarati: alcune buste aperte, molti fiocchi per terra, una caramella blu fra le labbra di Lorenzo.
“E lui a te non piace?” s’informò Matteo, incuriosito.
“Certo che mi piace.” rise schietta Cinzia “O almeno, chiariamoci, mi piace ciò che offre. Del resto, cosa gli manca? Alto, biondo, atletico. Anche istruito, educato e ricco, non si potrebbe chiedere di più.”
Matteo non disse niente, lasciandola continuare.
“Studia ingegneria.” mormorò in ultimo, guardando al di là del vetro: la caramella blu ora la stava mordicchiando Veronica.
“Perché non esci con lui, allora?” 
“Veronica non vuole.”
“Veronica non vuole?” ripeté, credendo, sperando forse, che scherzasse.
“Già.” rispose Cinzia, per niente scalfita.
“Non capisco.” ammise il ragazzo, guardando la caramella verde che Lorenzo stava succhiando e chiedendosi quanti altri colori avesse ancora.
“Non è difficile: secondo Veronica non è il ragazzo giusto per me.”
“E tu che dici?”
“Che devo dire?”
Matteo si protese verso di lei: “Secondo Veronica non devi uscire con Lorenzo e a te sta bene? Quello che pensa lei è legge? Non capisco, Cinzia, sul serio. Se tu vuoi…”
“Io non voglio. Ho solo detto che il ragazzo non è un cattivo partito. Non ne sono innamorata, non provo niente per lui; non so cosa accadrebbe se davvero ci provassimo, non ne ho idea. Per questo, visto che Veronica ha detto no, io mi adeguo.”
Vedendo la sorpresa ancora viva negli occhi del ragazzo, Cinzia continuò: “Non me lo ha imposto, Matteo. Non mi ha vietato né ordinato niente. Lo ha solo detto, sussurrato, un’unica volta. Se lo avesse bisbigliato chiunque altro gli avrei riso in faccia. Ma Veronica non è chiunque altro.”
“E se…”
“Cambia argomento, Matteo.” sibilò Cinzia “Oppure, meglio ancora, vai a prepararmi una cioccolata.”
Matteo fece per ribattere, ma qualcosa lo distrasse: si voltò, attirato dal movimento, e guardò Veronica tentare di strappare una caramella arancione dalle labbra del fratello mentre lui stringeva i denti, opponendo resistenza. Non riuscì a trattenere un sorriso.
“Dio, che coppia.” sospirò Cinzia, osservando di sottecchi Matteo.
Perché in quel momento non si stava comportando da stronzo? Perché doveva rendere le cose tanto difficili? Come le sarebbe piaciuto poter andare da Veronica e affermare, sicura: avevo ragione, te li scegli sempre sbagliati. E invece no.
“Hai anche tu dei consanguinei di cui non sono a conoscenza?” le chiese Matteo, riscuotendola.
“Una sorella. E tu?”
“L’ho chiesto prima io.”
“E io ti ho risposto.”
“Non hai finito.” sorrise lui, cominciando a mordere il tappo della penna “Più piccola, più grande…”
“Più piccola.”
Matteo inarcò un sopracciglio, incerto: “Sei di poche parole.” mormorò cauto. 
“Diana.” sospirò Cinzia “Ha undici anni e non ci vediamo spesso.”
“Perché?”
“Dieci anni di differenza sono tanti, Matteo.” mugugnò “Non abbiamo molti punti di contatto.”
Captando l’esitazione di lui continuò, recalcitrante: “L’estate scorsa eravamo in spiaggia.” raccontò, a mo’ di esempio “Era tardi, quasi il tramonto: un ragazzo passa davanti a noi, correndo in riva al mare con il cane a guinzaglio.”
Cinzia sorrise al ricordo: “Li osservammo in silenzio; poi lei ha commentato, angelica: hai visto che bel cane, Cicì? Scodinzolava che è un amore. Io non dissi niente e sai perché? Perché io, invece, pensavo: Hai visto che bel padrone? C’ha un didietro che è un amore.”
Matteo ridacchiò, sinceramente divertito.
“Oh, dai.” rise lui “E dove sarebbe il problema? Avete punti di vista diversi.”
“No.” lo corresse lei “Guardiamo proprio cose diverse.”
Matteo scosse appena la testa: “Illuminami, ti prego.”
“Non voglio rovinarla, Matteo.”
“Rovinarla? Cinzia, con te come modello non potrà che venir su nel migliore dei modi.”
Cinzia non disse niente, non sorrise, non mosse un solo muscolo: semplicemente, lo fissò chiedendosi chi diavolo fosse. Era sul punto di chiedergli le generalità quando Veronica comparve alle spalle del ragazzo: il naso arrossato, una caramella viola in mano.
“Ancora niente caffè, Cicì?” 
Anche Matteo si girò verso di lei e Veronica sorrise ancor di più.
“Lo hai preso in ostaggio?”
“No.” ghignò lui “Sono spiacente ma ho finito il mio turno.”
Cinzia continuò a non muovere un muscolo.
“Te ne vai quindi?” chiese Veronica mentre lui si alzava, togliendosi il grembiule verde.
“Sì, ti dispiace?”
“Certo.” rispose lei, facendo bloccare per un momento il ragazzo “Così non riuscirò mai a bermi un caffè.”
Matteo scosse la testa e lanciò il taccuino a un cameriere di passaggio: “Contenta?”
Veronica annuì, sedendosi soddisfatta, la caramella quasi finita. Matteo le lanciò un’ultima occhiata, arretrando di un passo: “Fammi vedere la lingua.”
“Cosa?” balbettò lei, senza capire.
“La lingua.” ripeté Matteo “Un attimo solo.”
“In cosa ti cimenti, adesso?” gli chiese lei, rapida.
“Non sono fatti tuoi.”
“E io non ti faccio vedere la lingua.”
Cinzia dovette applicarsi molto per non muovere un muscolo anche questa volta.
“Vado in piscina.” sospirò Matteo “Finisco alle nove.”
Veronica, sorridente, gli fece una linguaccia.
Matteo osservò compiaciuto i diversi colori che aveva assunto: dal verde all’arancione, passando per il blu. Salutò entrambe con un cenno del capo e si allontanò.
Quando arrivarono il caffè e la cioccolata, Veronica non riuscì più a trattenersi:
“Perché era seduto qui?”
“Non sapevo avesse finito il turno.” rispose Cinzia “Ho ordinato a lui.”
“E…”
“Abbiamo parlato.” 
“Davvero? Non volevi… cavolo, non ricordo neanche più cosa volevi fargli, tante ne hai dette.”
“Non è così male.”
A quelle parole Veronica si preoccupò sul serio: “Ti senti bene, Cicì?” chiese, impensierita.
“Certo.” s’impuntò Cinzia, nervosa “Tu e Lorenzo, piuttosto, possibile che ogni volta che state assieme regrediate all’infanzia? Le caramelle gommose, Vero?”
Veronica fece spallucce, cacciando per l’appunto una caramella gialla dalla tasca.
“Mi ricordano il Natale.” sorrise, alzandosi in piedi “E poi, sono una tradizione.” 
“Dove vai?” 
Veronica abbottonò il cappotto, avvolgendo anche la sciarpa azzurra attorno al collo: avvertiva uno strano pizzicore alla gola, non voleva peggiorare la situazione. Guardò Cinzia e sorrise: “In piscina.”
L’altra inarcò un sopracciglio, arricciando le labbra: “Ah, sì?” si limitò a chiedere “Quella comunale?”
Veronica annuì, infilando le mani nelle tasche e attendendo una qualche replica. 
Cinzia, sorprendentemente, continuò a sorridere placida.
“Divertiti.”

 

*

 

 

“Le corsie 7, 8 e 9 a quest’ora sono le più libere.”
Veronica, infradito ai piedi e accappatoio, osservava il piccolo uomo che aveva di fronte e annuiva.
“Può cominciare con quelle, provi e veda come si trova.” stava dicendo, i baffi corti che vibravano “Se poi decide o crede di aver bisogno di un istruttore privato…”
Veronica scosse la testa, interrompendolo con un sorriso: “Oggi sicuramente no, non si preoccupi.”
L’omino approvò, sorridendo a sua volta: “Nel caso in cui cambi idea...”
“… glielo farò sapere, naturalmente.” finì per lui, muovendo qualche passo verso la porta di accesso alle piscine. L’odore di cloro la investì in pieno, così come lo sciabordio dell’acqua e le risate soffuse.
Ciabattò fino alle panchine: si tolse l’accappatoio, riponendolo con cura; quindi si incamminò lungo il bordo delle piscine, osservando l’acqua con diffidenza: che cosa le era saltato in testa di fare, rifletté, sempre più preoccupata. Stava per fare retromarcia quando notò una pila di salvagente: vi si avvicinò cauta, scrutandoli con occhio critico.
“Non ti piacciono?”
Veronica vide per primi i piedi della bimba: piccoli e bagnati. Alzò lo sguardo su di lei, sorridendo: “Non ne ancora trovato uno che mi convinca.” rispose, meditabonda.
“Vuoi il mio?” chiese la piccola, indicando con il dito verso l’acqua bassa.
Veronica si voltò, seguendo il dito della bambina: una ciambella enorme a forma di rana galleggiava poco lontano. Era una ranocchia sorridente, con due occhioni neri ed enormi. 
Bellissima.
“Me la daresti?” chiese, subito interessata.
“Sì, tanto sto andando via.” rise la bambina, chinandosi per prendere la ranocchia.
Veronica la ringraziò e la osservò sgambettare via. Si rigirò la rana fra le mani e si avvicinò piano alla vasca numero 9. Prese posto sul bordo, le dita dei piedi che sfioravano timide l’acqua.
La ranocchia, insostituibile, al suo fianco. 
Si guardò attorno, cercando l’istruttore che in realtà avrebbe voluto tutto per sé. 
Intero, non a pezzettini. 
“Veronica?”
Si girò e sbatté il naso contro due gambe grondanti acqua ferme accanto a sé.
“Ti sei fatta male?”
Scosse la testa e fissò il ragazzo che le sorrideva con fare rassicurante. Guardò il fisico allenato, gli occhi grigi, tendenti al verde, e solo quando arrivò ai capelli rossi lo riconobbe:
“Simone!” esclamò sconcertata “Non ti avevo riconosciuto.”
“Per gli occhiali?” si stupì lui “Li tolgo quando devo nuotare.”
Veronica nicchiò con il capo, ritenendo inutile spiegargli che no, non era per gli occhiali: solo, non lo aveva mai visto in costume e non aveva avuto modo di vedere che bel… E anche un bel bambolotto, sai? Ricordò improvvisamente la frase di Cinzia e le sfuggì un sorriso. 
“Non sapevo frequentassi questa piscina.” disse Simone, sfregandosi i capelli fra le mani.
“Già.” mormorò Veronica “Nemmeno io.”
Il ragazzo assunse un’espressione confusa, guardandola di sottecchi: “Posso fare qualcosa per te?” chiese, premuroso.
“Oh, no, grazie. Stai andando via?”
Simone annuì, lanciando un’occhiata all’uscita: “Ho promesso a Mickey che ci saremmo visti per…”
“Scusa, Simone.” lo interruppe lei, pensando a tutt’altro “Hai per caso visto Matteo?”
Percependo una certa reticenza da parte del ragazzo, Veronica continuò, sempre più in imbarazzo: “Aveva detto che indossava sempre un costume di superman.” spiegò “Non riesco a trovarlo, però.”
Il rosso sembrò avere un’illuminazione improvvisa, il capo che annuiva rapido: “L’ho macchiato io il costume di superman.” disse “Ieri ci ho versato sopra del caffè, così ha dovuto mettere per forza quello con batman.”
Simone indicò con il dito la parte opposta della piscina, in fondo alla corsia 8: “E’ lì, lo vedi? L’ho lasciato che parlava con Sofia.”
“Oh.” 
“Sofia viene spesso qui.” aggiunse Simone “E’ un’ottima nuotatrice.”
Veronica lo aveva intuito da sé: l’ottima nuotatrice si stava infatti esibendo in un perfetto tuffo carpiato all’indietro che le fece contrarre lo stomaco. Invidia, forse?
“Ti piace, non è vero?”
Veronica sussultò, sorpresa dalla domanda: “Sofia?” esclamò “Non direi proprio.”
“Mi riferivo a Matteo.”
Veronica arrossì fino ai capelli; balbettò qualcosa, scuotendo impacciata la testa. No, ma cosa diceva? Lei avere una cotta per Matteo? Che assurdità, per cortesia.
“Lo avevo intuito.” mormorò Simone, sedendosi al suo fianco “Sai, non sono affari in cui dovrei impicciarmi, però Matteo è…”
“Il tuo migliore amico?” Simone annuì, deciso.
“Sì, credo di sì.” rifletté “Se mai dovessi finire in prigione…”
“Perché mai dovresti?” intervenne lei, sorpresa dal tono per niente scherzoso del ragazzo.
“Ho detto se mai. Ecco, in quel caso credo che chiamerei Matteo.”
“Non avrebbe i soldi per pagarti la cauzione.”
“Non è per i soldi. E’ perché è l’unico di cui mi fido davvero.”
“Gran bella scelta.” borbottò Veronica.
Simone non replicò. Restò in silenzio per un po’ e quando si voltò di nuovo verso di lei aveva un’espressione autorevole che Veronica non gli aveva mai visto:
“Cerca di non farlo soffrire.” 
“Io?” sbottò Veronica “Hai idea di cosa lui abbia fatto a me?”
“Sì.” sospirò Simone “So cos’ha fatto e sono pienamente consapevole di quali livelli possa raggiungere la sua idiozia. Me ne dispiaccio, sul serio. Nonostante ciò ti chiedo di stare attenta.”
“Attenta? Simone io…”
“Fa lo sbruffone.” insistette lui “Si finge forte, indistruttibile, persino stronzo. Non lo è, Veronica. Ti assicuro, proprio non lo è. In parte, forse, ma sicuramente non più di tanto.”
“Cosa potrei mai fargli io, me lo spieghi? Non riuscirei nemmeno a scalfirlo.”
Simone si alzò in piedi, l’ombra di un sorriso: “Ci sei già riuscita.”
Veronica sentì le labbra del ragazzo che le premevano sulla testa, in segno di saluto. 
Non lo guardò uscire: continuò a fissare Matteo, senza minimamente sapere cosa fare.
Con attenzione lasciò lentamente scivolare la ciambella a rana in acqua; ancora più lentamente e con ancora più attenzione, lasciò scivolare se stessa nella ciambella. Ancorò le braccia al pallone, aggrappandovisi forte. Per nessun motivo avrebbe lasciato andare la ranocchia.
Nuotò. O almeno galleggiò, attraverso la piscina. Non riusciva quasi a credere di essere in acqua: l’ultima volta che era entrata in una piscina? Non riusciva a ricordarlo. Forse, proprio quella volta in cui…
“Ehi.” scattò una voce femminile “Non si attraversano così le corsie.”
Veronica si voltò, l’espressione mortificata: “Mi sono distratta, scusi tanto.” cominciò, prima di incrociare lo sguardo sorpreso di Sofia. 
Sofia le sorrise, riconoscendola subito:
“Veronica, giusto?” chiese, gli occhi attenti e curiosi.
“Sì.” rispose Veronica, sforzandosi di sorridere “Sofia?” chiese poi, fingendo incertezza.
“Sì!” s’entusiasmò l’altra “Che coincidenza! Come stai?”
“Bene, grazie. Tu?”
“Oh, benissimo!” fece Sofia “Mi è dispiaciuto per l’altra sera. So che hai avuto un impegno urgente, ma è stato un peccato. Avremmo potuto concludere la cena assieme.”
Veronica non disse niente, chiedendosi cosa mai gli altri avessero detto a Sofia; che scusa aveva trovato Matteo, poi, per giustificare la tenuta con cui si era ripresentato a tavola?
“Veronica?”
Sofia la riportò bruscamente alla realtà: “Come?”
“Ti ho chiesto quando potremo rifarlo.” sorrise Sofia, cordiale.
“La cena?”
“O quello che preferisci.” si strinse nelle spalle Sofia “Mi sono trovata benissimo con voi e mi piacerebbe riprovare, tu che dici?”
Veronica si chiedeva invece perché mai la francesina dovesse essere così gentile: se solo fosse stata una vipera, ecco, sarebbe stato tutto molto più facile. Visto che Sofia attendeva ancora una replica, Veronica si limitò ad annuire: certo, perché no?
Questa volta avrebbe anche potuto portarsi le uova in borsa, così, per fare prima.
Veronica sospirò, guardandosi velocemente attorno: era stata una pessima idea. Doveva andarsene. Il più presto possibile.
“Sofia.” mormorò, infilando le unghie nella sua ranocchia “Io devo andare.”
“Perché?”
“Così ti libero la corsia.” borbottò la prima cosa che le venne in mente.
“Oh, no.” sorrise la francesina “Stavo andando via: ho già fatto le mie due ore giornaliere.”
Due ore, Veronica. Giornaliere.
“Resta pure e…” Sofia guardò la ciambella di Veronica con l’espressione di chi non ha idea di cosa sta guardando “… e divertiti!” concluse, sorridendo più di prima.
Salì la piccola scaletta e aveva già cominciato a sculettare lungo il bordo della vasca quando di colpo tornò indietro, euforica. Fissò Veronica, impaziente: “Avevo quasi dimenticato di dirti una cosa.” eruppe, contenta “C’è anche Matteo qui, lo sapevi?”
Veronica tentò di fermarla, di frenare quel perfetto vulcano francese, ma non ebbe modo di aprire bocca che Sofia era già scattata: “Corro a chiamarlo, aspetta qui!”
Veronica la vide afferrare il polso di Matteo per trascinarlo con sé. Lei a piedi, lui a nuoto.
“Mattèo.” rise Sofia a pochi passi da Veronica “Guarda un po’ chi ho incontrato!”
Matteo guardò l’enorme ciambella verde che aveva di fronte e aggrottò le sopracciglia, chiedendosi chi si fosse nascosto dietro la testa della rana: a quel punto un occhio blu fece lentamente capolino, fissandolo mortificato.
“Veronica?”
“Visto?” ridacchiò Sofia “Non è una magnifica coincidenza?”
Matteo annuì, avvicinandosi al bordo della vasca e alla francesina: “Vai via?” le chiese, coinciso. Sofia annuì, inginocchiandosi per arrivare all’altezza di Matteo: “Ti mancherò, vero?”
Veronica avrebbe voluto sentire la risposta, ma non le arrivò niente: vide solo il bacio che si scambiarono e bastò quello a farle stringere brutalmente il cuore. Diavolo.
Cercò di allontanarsi, dando le spalle a quella scena obbrobriosa. Perché aveva guardato? Avrebbe dovuto chiudere gli occhi come si fa durante i film dell’orrore, che stupida. 
Serrarli e sprofondare al contempo. Affogare.
“Dove vai?”
Veronica ignorò la domanda.
“Ragazzina?”
Continuo ad allontanarsi, un dolore sordo al petto.
“Ranocchietta, perché scappi?”
Non avrebbe voluto fermarsi, non lo fece. Fu qualcos’altro a bloccarla: una mano che aveva afferrato la sua ciambella e che non sembrava minimamente intenzionata a lasciarla andare.
“Che vuoi?!” sbottò, fissando Matteo con ira.
Il ragazzo sembrò non notare la sua rabbia: si limitò ad osservarla nell’insieme; la rana verde, il costumino, lo sguardo spaurito. E Matteo si avvicinò ancora, poggiando gli avambracci sulla sua ciambella, un sorriso sornione ad illuminargli il volto.
“Sei una ranocchietta magnifica, devo ammetterlo.”
Veronica sgranò gli occhi, sentendo improvvisamente quegli ormoni di cui le aveva parlato Daniele. Ecco, avevano cominciato a ballare, lo sentiva.
“Non è vero.” borbottò, il cuore impazzito “Io non nuoto due ore ogni giorno, non so fare tuffi carpiati all’indietro e non ti chiamo nemmeno con la giusta inflessione… non so fare niente, io…”
Matteo aveva assottigliato lo sguardo, afferrando il tutto con un po’ di ritardo. Poggiò delicatamente l’indice sulle labbra di Veronica e le fermò, zittendola con classe. Certo, lei avrebbe preferito un altro modo, meno elegante: un giorno o l’altro glielo avrebbe spiegato di sicuro.
“Respira, ranocchietta.” mormorò Matteo, sfiorandole una gamba con il piede.
E gli ormoni di Veronica cominciarono a fare la ola.
“Respirerò meglio se mi lasci andare.” riuscì ad articolare, scostando il dito di lui.
“Perché dovrei?”
Veronica si guardò attorno nella piscina ormai quasi vuota. Doveva andarsene: al diavolo Marina, al diavolo Cinzia, al diavolo Simone e al diavolo anche Matteo. Soprattutto Matteo.
“Ho nuotato abbastanza.” disse, cercando ancora di sfuggirgli. Niente da fare.
“Nuotato?” inarcò un sopracciglio lui “Cos’è, mi prendi in giro?”
“Voglio andare via, Matteo.” sospirò, guardandolo negli occhi. E capì di aver commesso un errore. Gli occhioni neri di lui le trapassarono il cuore, congelando per un attimo il battito prima impazzito; poi diedero fuoco a tutto, indiscriminatamente. Veronica guardò i capelli neri, gocciolanti, che gli ricadevano disordinati sulla fronte; le goccioline d’acqua, quelle stupende e fortunatissime gocce, che percorrevano il collo del ragazzo, le spalle e giù, lungo il torace. Cavolo.
E gli ormoni avevano acceso gli accendini, ondeggiando lentamente.
“Non vuoi neanche nuotare un po’ con me?” chiese Matteo, abbassando la voce “Anche galleggiare mi va bene, ranocchietta.”
Le avesse chiesto di prendersi a schiaffi, Veronica avrebbe risposto di sì.
Le avesse chiesto di trasferirsi in Antartide, Veronica avrebbe risposto di sì.
Le avesse chiesto di uscire di lì adesso, nudi, Veronica avrebbe risposto ancora di sì.
Le aveva chiesto di nuotare, però, e a quello Veronica non poteva rispondere di sì.
“Matteo, no.” sussurrò, sgranando gli occhi “Non posso…”
“Ci sono io.”
E gli ormoni cominciarono a sbavare.
Veronica lo osservò avvicinarsi un altro po’, stringere la ciambella e fare per alzarla. Con un singulto si artigliò alla ranocchietta, le nocche sbiancate, ricordando la promessa che aveva fatto: non avrebbe abbandonato la ciambella. Niente l’avrebbe convinta, niente.
“Ci sono io, Ronnie.” mormorò Matteo, allargandole dolcemente le dita “Ti ho fatto da peluche, non posso farti da ciambella?”
Veronica lasciò andare la ranocchia, quasi senza accorgersene. Diamine, in fondo Matteo non era un niente.
Si rese conto di non avere più la ciambella solo quando la vide volare sopra la sua testa.
Con uno scatto si aggrappò al ragazzo, le mani che gli si legavano al collo.
E gli ormoni rischiavano di affogare, ormai.
“Stai tremando.” sorrise Matteo, poggiandole le mani sui fianchi. 
“Io non tremo.” soffiò lei, il volto che correva a nascondersi sulla spalla del ragazzo “Fammi uscire, però, così ne sono sicura.”
“Non ci penso proprio.” ridacchiò Matteo, cominciando piano a nuotare “Voglio farti provare una cosa.”
Veronica scosse la testa, cercando con i piedi il pavimento. Quando non lo trovò per poco non le sfuggì un grido: “Matteo,” ansimò, rischiando di conficcare le unghie nelle spalla del ragazzo “non ci tocco.”
“Lo so.” rispose Matteo, angelico “Non devi toccare per fare quella cosa di cui ti parlavo.”
“Ma io non voglio farla.” gemette Veronica, sconsolata.
Il ragazzo si fermò in quel momento, attendendo che lei si decidesse a rialzare il viso: Veronica lo fece, scoprendosi nel bel mezzo della grande piscina. Dove non toccava. E ora?
“Matteo.” ripeté, fingendosi calma “Voglio uscire.”
“No.”
Veronica s’incaponì, irritata, e allacciò le gambe attorno alla vita del ragazzo.
Lui sorrise, poggiando le mani sotto le sue cosce per sostenerla meglio.
Gli ormoni avrebbero avuto bisogno di un defibrillatore.
“Voglio che provi a fare il morto.” bisbigliò Matteo, fissandola divertito. Veronica scosse la testa, negando furiosamente: “Non ci penso proprio!” scattò, pietrificandosi.
Matteo se ne accorse, il pollice che accennava una lieve carezza sulla coscia: credeva forse di calmarla, facendo così? Sapeva di star decimando i suoi poveri ormoni? 
Diavolo, sarebbe stato uno sterminio.
“Di cos’è che hai paura?” le chiese il ragazzo, senza ottenere risposta “Qualche trauma infantile?” continuò, provando a tentoni. Un minuscolo tremito del labbro di lei gli confermò la seconda ipotesi. Matteo sospirò, temendo di star sbagliando a forzarla. 
C’era lui, però, no? Non sarebbe successo niente. Non poteva succederle niente.
“Ronnie.” la chiamò, cercando di farle aprire gli occhi “Non sono la tua ciambella?”
“Lo sei.” sussurrò lei, gli occhi ancora chiusi “Per questo dovresti portarmi fuori di qui.”
“Prima fai il morto.”
“No.” gemette Veronica “Ho paura.” masticò poi con evidente sforzo.
“Lo so.” sorrise Matteo “Sono qui per questo.”
Aprì gli occhi lentamente, pronta a cambiare idea all’ultimo secondo. Guardandolo, però, si disse che non era il caso di perdersi un solo istante di quello spettacolo. Lasciò andare la presa dal suo collo un po’ alla volta, incredula di starlo facendo per davvero. Sentì la mano di Matteo posizionarsi al centro della schiena, mantenendola saldamente. Le labbra livide, per il freddo e per la paura, si ritrovò dalla vita in su poggiata sulla superficie dell’acqua: era la mano di Matteo a tenerla su.
“Ora,” sussurrò lui “devi sciogliere le gambe.”
“No.”
“Sì.” rispose Matteo, sorridendo per infonderle coraggio. Con le dita dell’altra mano le solleticò scherzosamente la palma del piede, spingendola ad aprire le gambe; al momento giusto si spostò, fermandosi al fianco di Veronica: una mano sotto la sua schiena, l’altra a stringerle la mano.
“Abbiamo fatto?” chiese lei, timorosa.
“No.” mormorò Matteo “Devo ancora lasciarti andare.”
Gli occhi di Veronica riflessero la paura che l’attanagliò, improvvisa. 
Matteo, aspettandoselo, continuò a parlare con fare rilassante: “Ti fidi di me?”
Veronica non sapeva cosa rispondere. 
Il cervello fu il primo a farlo e la sua risposta fu no: assolutamente no. Mai e poi mai. 
Poi fu la volta del cuore e la sua risposta fu sì. Di slancio, inconsciamente.
Un pareggiò, pensò Veronica. 
Infine, non voluti, risposero gli ormoni: e loro gridarono sì.
Matteo scostò la mano da sotto la sua schiena, lasciandola. Non si allontanò di un solo passo, però, l’altra mano ancora stretta in quella di Veronica. E lei non si mosse. 
Restò ferma perché galleggiava. Diamine, sì: galleggiava! Un sorriso si dipinse sulle labbra di Veronica, mentre un po’ di colore tornava finalmente ad illuminarle il volto pallido.
“Bravissima.” le sussurrò all’orecchio; e un istante dopo la attirò precipitosamente a sé: un braccio dietro la schiena e l’altro sotto le gambe. Rise, lasciandole appoggiare la testa sulla sua spalla. Veronica allacciò di nuovo le mani attorno al collo del ragazzo e si lasciò reggere senza timore. Erano andati. Gli ormoni erano andati. 
Quando la mano di Matteo toccò il muretto, si fermò, respirando sul collo di lei: voleva dire qualcosa, Veronica lo aveva capito; lei però non aveva nessuna fretta.
“Matteo!”
Veronica chiuse gli occhi, rimangiando l’imprecazione. 
Un ragazzo tentava di attirare la loro attenzione, agitandosi dal lato opposto della piscina. “Vieni o no?” gridò.
Matteo non rispose, abbassando invece lo sguardo su di lei: “Vieni?”
Veronica inarcò un sopracciglio: “Dove?”
Matteo sorrise.
“Ti fidi di me?”
Conoscevano entrambi la risposta.

 

 

 

§ 








 

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Capitolo 12
*** Parlami di lei ***





Bugie bianche

                                                                                                

            ≈ Parlami di lei ≈

 

 

 

“Immagino che chiedere ancora sarebbe inutile.”
“Immagini bene.”
Veronica sospirò, arrendendosi al silenzio.
“Profumi di cloro.” sussurrò, stringendo di più la mano di Matteo. Il pollice di lui la carezzò lieve, lasciandole intuire un sorriso che non poteva vedere. Già, non si vedeva niente. 
“Anche tu.” rispose Matteo “Piccola ranocchia.” aggiunse poi, avvicinandola a sé con uno strattone.
“Smettila.” lo rimbrottò lei, finendogli contro: non vedeva niente, lo aveva già detto?
“Perché?” fece Matteo “Mi piace tanto.”
“Cosa?”
Lui sembrò pensarci su un attimo, svagato: “Ranocchietta.” decise alla fine, fermandosi.
Veronica smise di sgridarlo: era un uomo, in fondo, ed è risaputo che non bisogna indossare ciambelle verdi a forma di rana davanti a un uomo. Ne va della dignità della donna in questione.
Perché, si chiese poi, lei una dignità l’aveva ancora?
“Ora c’è una discesa.” la informò Matteo.
Veronica inarcò un sopracciglio: ricordandosi in ritardo che lui non poteva vederlo.
“Mi dici dove diavolo…”
“No.” la interruppe subito lui, intraprendendo la discesa “Stai attenta e segui i miei passi.”
“Te lo ha mai detto nessuno,” cominciò Veronica, sarcastica “che scendere scarpate in piena notte non è un’attività ricreativa esattamente sicura?”
Matteo ridacchiò, scorgendo una mano alzata in lontananza: “Ci siamo quasi.” sussurrò.
“E’ una mia impressione, o si fa sempre più buio?” bisbigliò Veronica.
“Stiamo entrando in una grotta.” spiegò lui “Fra un po’ tornerà la luce.” le assicurò.
Veronica non seppe cosa ribattere: tutto si aspettava fuorché la grotta. Dove diamine erano andati a cacciarsi? 
“Ah.” bisbigliò a un tratto lei “Mi ero quasi dimenticata di commentare il…”
Matteo sorrise, divertito dallo stupore che si era dipinto sul viso della ragazza. Veronica si fermò, lo sguardo fisso davanti a sé, incapace di muovere un altro passo.
“Ti piace?” chiese Matteo.
Veronica si limitò ad annuire.
Erano in una grotta enorme, fiocamente illuminata. Osservò i giochi di luci ed ombre e si lasciò trascinare da Matteo, incantata. Più si addentravano e più persona spuntavano: una ventina, forse raggiungevano anche i trenta; appartati un po’ ovunque, intenti nelle più disparate attività. Qualche altro passo e un nuovo, inaspettato, rumore attirò l’attenzione di Veronica: “E’ acqua?” chiese, alludendo allo sciabordio sospetto.
Matteo girò l’angolo e indicò un’appartata conca d’acqua: sotto il livello della terra, grande, ben nascosto, semplicemente incantevole. Veronica si girò, allarmata, accorgendosi per puro caso dell’assenza della mano di Matteo nella propria: lo trovò a pochi passi, a torso nudo, intento ad abbassarsi i jeans. 
Sgranò gli occhi, sconcertata: “Che ti prende, ora?” saltò su, mentre lui poggiava gli abiti su uno spuntone roccioso.
“Ho voglia di farmi un bagno.” rispose Matteo, candidamente.
“Hai passato il pomeriggio in piscina.” soffiò Veronica, mentre uno spiffero gelido la raggiungeva maligno.
“Non è la stessa cosa.” ridacchiò il ragazzo, avvicinandosi cauto, un ghigno affatto rassicurante in volto. Le poggiò le mani sulle spalle e cominciò a toglierle il cappotto: “Vieni con me.” sussurrò, carezzevole.
Veronica restò un attimo interdetta, tentata di spegnere il cervello e tuffarsi così, sul momento. Poi il freddo ebbe la meglio sull’impeto del cuore: “Si gela.” sussurrò, sorridendo con le labbra livide “E non sono ancora pronta a morire di ipotermia, ma grazie lo stesso per l’offerta. A luglio potrei anche accettarla, non si sa mai.”
“E’ calda, ranocchietta.” sorrise Matteo, strusciandole il naso sulla spalla “Fammi compagnia.”
“Calda?” balbettò Veronica, poggiandosi al suo braccio per mantenere un qualche equilibrio “Come… non può essere calda, Teo.”
Mentre lo diceva, si accorse del vapore. Aveva notato che l’aria era strana, quasi rarefatta, ma non era riuscita a capirne il motivo fino ad allora: vide il vapore che, impalpabile, si alzava dallo specchio d’acqua.
Veronica ignorò i tentativi del ragazzo di spogliarla e, incerta, si sfilò una scarpa: avvicinò l’alluce al bordo della vasca e ve lo immerse, curiosa. Si ritrasse, stupita, scontrandosi con il petto di Matteo: “E’ calda.” esclamò.
“Non mi dire.” sospirò lui, alzando gli occhi al cielo “Ora mi lasci finire il lavoro?” chiese, afferrando i bordi del maglione. Una questione di attimi, poi, ed erano immersi fino al collo.
“Si tocca.” sussurrò Veronica, confortata. 
“Peccato.” s’imbronciò Matteo, attirandola a sé “Mi piacevi molto in versione koala.”
“Non stringevo troppo?” sorrise lei, allacciandogli le gambe attorno alla vita.
Matteo le poggiò una mano sul fianco, carezzandola piano. “Assolutamente no.”
Quando sollevò lo sguardo, però, incontrò due occhi azzurri spauriti e confusi. Schiuse le labbra, l’impressione di essersi perso qualcosa: “Tutto bene?” chiese, la voce stranamente incerta.
Veronica distolse lo sguardo.
“Ronnie?”
Era stato poco più di un sussurro.
Matteo la fissava senza capire: cosa diavolo era successo?
“Parlami di Sofia.” disse Veronica.
Matteo sentì le parole, ma la sua attenzione era tutta per il tono di lei: lontano, estraneo, non suo.
“Come?” 
“Il costume.” sbottò Veronica, lo sguardo fisso sul petto di Matteo.
Lui prese un bel respiro. Non sarebbe stato semplice.
“Che costume, ragazzina?” soffiò, alzandole fermamente il mento per guardare quegli occhi inaspettatamente timidi e allarmati.
“Il tuo, stupido idiota.” mugugnò Veronica, premendo improvvisamente entrambe le mani contro il suo petto “Il tuo dannatissimo costume di Batman!”
Tirò su con il naso, scuotendo il capo, l’espressione frustrata: “Non doveva essere nero, fra l’altro: io me lo aspettavo blu. E lo cercavo blu. Sì, perché tu avevi detto che lo avevi di Superman. E quindi io cercavo e mi aspettavo un costume blu e rosso di Superman. E invece non lo trovavo. Poi incontro il bambolotto. Mi dice che ne devo cercare uno nero. Per colpa del caffè, del succo o di non so che cosa. Nero di Batman. E io lo cerco nero. Ma incappo in qualcosa di bianco, di dannatamente bianco. In quella sgualdrina francesina che non sa neanche pronunciare il tuo diavolo di nome e che…”
Veronica si bloccò, il respiro accelerato. Prese diversi profondi respiri.
Ignorò l’espressione di Matteo, non la calcolò nemmeno. E riprese:
“… Perché poi i supereroi? Me lo devi spiegare, sai? Sempre qualcosa che finisce in man. Cos’è, il complesso del Dio? O hai avuto qualche problema da bambino? Troppi cartoni? Forse troppi fumetti. O sei caduto dal seggiolone? Probabilmente anche lei è caduta. Ripetutamente. Lei tutta bianca, tutta bella, tutta perfetta. Lei che fa i carpiati. Lei che dice Mattèo. Ti spiace se dico anche io Mattèo? O ti piace? Se vuoi dico a tutti di chiamarti così: sono brava nel passaparola. Certo, Mickey nel campo è imbattibile, ma se lo coinvolgo in meno di due giorni lo sa l’intera città…”
Matteo sentì le gambe di Veronica aprirsi nel tentativo di allontanarsi. 
Strinse le mani attorno alle caviglie di lei, bloccandola. La fissava, ascoltando quell’incomprensibile fiumana di parole. Percepiva la confusione e la paura nello sguardo di lei, e non aveva la più pallida idea di cosa fare.
“… E posso far sapere a tutti anche cos’ho appena scoperto. Ho scoperto di avere degli ormoni: tanti, troppi. E vogliono sempre averla vinta loro, sai? Daniele, del resto, aveva ragione. Non che abbia la minima intenzione di farglielo sapere. Specialmente adesso che si è rimesso con la pestifera fatina. Chissà che non sia una qualche parente del candido cigno che ti accompagna. E ti abbraccia. E ti bacia. E torniamo a lei. Alla stronza che…”
“Placati.”
Veronica si zittì, sussultando a quella semplice parola. S’inumidì distrattamente le labbra, la bocca secca. Si accorse solo in quel momento della stretta ferrea attorno alle proprie caviglie. Fissò Matteo, la sua espressione seria e controllata.
Veronica lesse la muta domanda sulle labbra di lui. Cosa?
Le sembrò di sentire il battito del suo cuore sotto le dita: sorrise, pensando al luogo in cui erano, alla posizione in cui si trovavano. Era un momento perfetto. Unico. E lei? Lei era letteralmente uscita fuori di testa. Il ricovero ormai non si poteva più rimandare. 
Perché?
E la risposta le venne spontanea, lampante. Era lapalissiano, in fondo, no? Perché lei era Veronica Cristina Sandra Merogliesi. Perché sì, si trovava in un certo posto e a un certo contatto ravvicinato con un ragazzo, ma quel tale ragazzo era fidanzato e lei non una troia.
Sorrise appena, stupendosi della propria eleganza. Sovrappensiero si corresse: troia era troppo volgare; non era una meretrice.
Guardò Matteo, giudicando sommariamente ciò che si perdeva: tanto. Sospirò. 
In alcuni casi, soppesò, era meglio comportarsi da cattiva ragazza. Avrebbe potuto ignorare ogni cosa: ciò che sapeva di lui, la presenza di quel dannato fantasma bianco fra di loro, tutto. E farlo suo. Morderlo, anche.
“Parlami di Sofia.” mormorò invece, la voce tremante e lo sguardo fermo.
Matteo la squadrò incredulo, convinto di star sentendo l’eco di quello che era stato l’inizio del delirio. Le poggiò delicatamente la mano sulle labbra, timoroso di essere investito da una nuova valanga di parole che non avrebbe saputo in alcun modo gestire. Socchiuse gli occhi, una mano ancora serrata attorno alla caviglia di lei. Non doveva allontanarsi.
“Sofia?” bisbigliò, il volto leggermente pallido, la voce stranita.
Veronica annuì, mordicchiando le dita di lui. Matteo liberò quelle labbra soffici, scosso.
“Non voglio parlare di Sofia.”
“Perché?”
“Perché non voglio.”
“Guarda,” ghignò Veronica “sarebbe bastata una parola di meno.”
Lui s’imbronciò, perdendo di nuovo il filo del discorso. Perché con lei era sempre così?
“Potevi limitarti ad un perché no, Matteo. Sarebbe stato molto più infantile, molto più da te.” 
“Che ti prende, Ronnie?” sussurrò, aumentando la stretta attorno alla caviglia.
“Che mi prende?” ripeté Veronica “Mi prende che sei stronzo!”
L’affermazione terminò con un grido. Breve, acuto: semplicemente terribile.
“Parlami di lei, ti ho detto.”
“No.”
“Raccontami come vi siete conosciuti, spiegami cosa ti piace di lei, perché la ami…”
“Ronnie.” mormorò Matteo, cercando di arginare la catastrofe imminente, attirandola a sé come se le probabilità di salvezza aumentassero con la vicinanza.
“… perché la ami, non è così?” lo aggredì lei “E’ la tua ragazza, certo che la ami. Raccontami, ti prego, cosa le piace, di cosa ha paura. Le sai queste cose di lei, non è vero?”
“Veronica.” provò ancora Matteo “Veronica, smettila.”
E quel breve ammonimento ebbe decisamente l’effetto contrario: quel tono inesorabile e duro diventò improvvisamente spietato, la voce che smetteva di essere contenuta per raggiungere i livelli più alti.
“E’ la tua ragazza!” gridò Veronica, livida “Tu stai con lei, con lei, con lei! Con Sofia, la biondissima avvocatessa francese. Sofia. Non con me, te ne rendi conto?”
“Ragazzina.” ringhiò Matteo, lasciandola andare di colpo.
“Hai qualche problema, Teo? Confidati con me, forza.” sibilò lei, caustica, guardandolo irriverente dal basso in alto. 
“Stai esagerando, ragazzina.”
“Io?” rise, Veronica, senza alcuna allegria “Io sto esagerando, sì, forse hai ragione.” borbottò, un’espressione seria e contrita. “Voglio rammentarti una cosa, Teo.” mormorò poi “E’ successa più di quattro giorni fa, però, non vorrei ti fosse già passata di mente. Eravamo ad una festa assieme, sai? A casa mia. Ti dice qualcosa tutto ciò, o ti sto raccontando una storia nuova?”
Il volto di Matteo non mostrava alcuna espressione. 
“Siamo finiti a letto insieme, sai Teo?” continuò lei, implacabile, avvicinandosi di un passo “Tu ed io. A rotolarci fra le lenzuola, se preferisci. O ancora… abbiamo giocato al dottore, abbiamo ripassato la parte pratica dell’anatomia, abbiamo… no, mi fermo qui, altrimenti rischio di cadere nel volgare. Se vuoi, però, uso le parole tecniche: abbiamo fatto sesso. Sesso.”
Veronica sospirò, abbassando lo sguardo e la voce: “Mi piacerebbe dire che abbiamo fatto l’amore. Mi piacerebbe un sacco, sai? Ma non lo farò. Non lo farò perché non posso e sarebbe un’immane bugia. Perché non si può fare l’amore con qualcuno se questo qualcuno è fidanzato, Teo. Te lo ha mai insegnato nessuno?”
Matteo non rispose, non la guardò. Sembrava non respirasse neanche.
“E quindi,” riprese Veronica “abbiamo fatto solo del banalissimo e dannatissimo sesso. C’è una cosa, tuttavia, che mi tormenta, Teo. Cinque paroline che proprio tu ti sei fatto scappare. Le ricordi, almeno quelle?”
Matteo fece per voltarle le spalle e Veronica sembrò non vederci più, accecata dalla rabbia. Lo afferrò per un braccio, rifilandogli un calcio sullo stinco.
“Sei completamente impazzita?” sbottò lui.
“Le ricordi sì o no, Teo?” sbraitò Veronica, spintonandolo “Ricordi di aver detto: è tutto, fuorché uno sbaglio? Lo ricordi?!”
“Sì, dannazione! Lo ricordo!” urlò a sua volta Matteo, agguantandole un braccio per fermarla “E sai una cosa, ragazzina?” sibilò poi, squadrandola furioso “Lo penso tuttora.” 
Veronica sbiancò, il fiato e le parole che venivano a mancarle. 
Lo guardò come se lo vedesse per la prima volta.
“Tu…” sussurrò, bloccandosi subito dopo con uno strano groppo in gola. Paura? Pazzia in eccesso, più probabilmente. Cercò di liberare il braccio dalla presa di Matteo.
“Tu sei del tutto fuori!” strillò incredula “Fuori come un balcone, Teo! Un passo ancora e arrivi sulla luna! Tu lo pensi tuttora? Tu credi che non sia stato uno sbaglio?”
Veronica si passò la mano libera fra i capelli, spossata, imprecando sottovoce. Con uno scatto nervoso e repentino si allontanò da lui: l’espressione biasimevole che si assume con un cucciolo quando fa un dispetto. La sensazione di star rimproverando un cane aumentò non appena incontrò gli occhi feriti del ragazzo. Una fitta le trapassò il petto ma continuò, imperterrita:
“Uno sbaglio, Matteo, è qualcosa che non si deve fare. Uno sbaglio è tradire qualcuno. Uno sbaglio è andare a letto con una ragazza quando invece si sta assieme ad un’altra.” elencò, il tono avvilito e stremato “L’essere venuto a letto con me mentre eri già impegnato è stato uno sbaglio a priori.”
Il ragazzo scosse impercettibilmente il capo.
“Uno sbaglio” mormorò “è qualcosa che non si vorrebbe fare. E’ qualcosa che non si rifarebbe. E’ qualcosa di cui subito dopo, in seguito e per sempre ci si pente.”
Lentamente rialzò il mento, cercando lo sguardo di lei e incatenandolo prima di concludere: “Per me non è stata nessuna di queste cose.” disse “Per me, quindi, non è stato uno sbaglio.”
Veronica sussultò: “Sul serio?” bisbigliò, le braccia abbandonate lungo i fianchi, immobili.
“Sì.”
Lei sorrise per un solo istante. Un sorriso fatuo, quasi etereo.
“Allora sei completamente pazzo!” strillò indemoniata “Ti manca qualche rotella, te ne rendi conto?”
“A me?!” gridò lui in risposta “Sei tu la lunatica, ragazzina!”
“Lo rifaresti? La tradiresti di nuovo?!”
“Possibile che senti solo quello che vuoi sentire?”
“E’ quello che hai detto!”
“Ho detto anche altre cose!”
“Tutte totalmente folli, porco cane!”
“Sei tu che travisi ogni singola parola!”
Un fischio acuto e prolungato li interruppe, troncando le frasi di entrambi. Si fece spazio fra di loro, riportandoli brutalmente alla realtà: in quella grotta, nella conca d’acqua calda.
Si guardarono attorno, il respiro affannato, accorgendosi quasi per caso del capannello di persone che si era formato attorno a loro. 
Il fischio divenne irregolare, intramezzato da una risatina convulsa e apparentemente irrefrenabile. Un ragazzo si stava facendo largo verso di loro: lentamente si tolse le dita di bocca e sorrise, senza perderli di vista nemmeno per un attimo. 
Si fermò a pochi passi, sogghignando:
“Break.” decretò “Fine primo inning, ragazzi.”
Il silenzio già pesante sembrò diventare insopportabile. La tensione era palpabile, in modo quasi doloroso. Matteo sospirò, passandosi entrambe le mani sul volto. Stirò le labbra in quello che doveva essere un sorriso e che apparve invece come una smorfia.
“Ciao Don.” mormorò lugubre.
Veronica, il respiro accelerato, bramava una rapida via di fuga: qualsiasi cosa pur di allontanarsi da lui il più possibile. 
Quando il saluto di Matteo le giunse alle orecchie si voltò verso l’ultimo arrivato: indossava solo un paio di jeans ormai del tutto fradici. Una bottiglia di champagne in mano, un sorriso luminoso stampato in faccia. I capelli e gli occhi erano chiarissimi, anomalamente chiari: doveva essere del nord, pensò Veronica. Norvegia, Svezia, Scandinavia... qualcosa del genere.
“In mancanza di un’adeguata presentazione da parte del mio disattento amico permetti che ci pensi da solo: io sono Donatello, per gli amici Don. Con chi ho l’onore di...”
“Vedi di non rompere stasera, Don.” s’intromise la voce sorda di Matteo, interrompendolo “Perché non ci lasci soli, così possiamo riprendere da dove eravamo rimasti?”
Il sopracciglio biondo di Donatello s’inarco mentre il suo sorriso diventava ironico.
“Dici?” chiese, passandosi lentamente la punta della lingua sulle labbra “Così da finire di scannarvi in santa pace?”
“Esattamente.”
“Non sparare stronzate, cortesemente, Matt.” sorrise serafico Donatello, per niente scalfito “Perché invece non mi presenti la tua amica?”
Matteo scosse la testa.
“No. Non tutto ti riguarda, sai?”
“Certo.” acconsentì il ragazzo, placido “Probabilmente non mi riguardavano neanche tutte le belle informazione che prima avete tanto gentilmente quanto incautamente sbandierato ai quattro venti. Eppure non credo sia il caso di farmi crescere un’aureola e fingere di non aver sentito alcunché.”
Veronica osservò entrambi: la posizione tesa di uno e quella apparentemente calmissima dell’altro e decise che la situazione non le piaceva per niente. Non gradiva il senso di controllo che Donatello sembrava emanare né il modo forbito e provocatorio con cui si esprimeva. 
“Sono Veronica.” disse, ponendosi fra i due e tendendogli una mano. Le dita tremavano appena, a riprova del nervosismo che da troppo tentava di tenere a bada.
La stretta di Donatello fu salda, avvolgente. Voleva essere rassicurante, sicuramente.
“Donatello, Veronica.” sussurrò Matteo “Veronica, Donatello.”
“In ritardo come sempre, Matt.” sorrise il biondo senza distogliere lo sguardo da quello di Veronica.
“Donatello Tartigro.” specificò Matteo, sfiorando il braccio di Veronica, avvicinandosi appena “Il ragazzo con il maggiore numero di agganci che io conosca. Se mai avessi  bisogno di un favore, di qualsiasi genere, non esitare a contattare Don. Conosce tutti e quasi nessuno lo conosce.”
L’ultima frase suonò come una nota dolente, riecheggiando ambiguamente nell’aria.
Donatello sembrò non notarla: sfoggiando un sorriso smagliante mimò il gesto di togliersi un cappello e porse un biglietto umido a Veronica.
“Umilmente al vostro servizio, madame.” sussurrò, stringendo subito dopo le dita di lei.
Fece per attirarla a sé quando Matteo mosse minaccioso un passo in avanti, poggiando entrambe le mani sulle spalle di Veronica. 
“Resta al tuo posto, Don.”
“Te la rubo solo per qualche minuto, promesso.” sorrise quello senza lasciare la mano di Veronica.
“Non è il caso.”
Donatello rise, guardando Matteo come si fa con un bambino che è in errore ma ancora non lo sa: “Non sei nella posizione di giocare a fare il geloso, giovane Fiori.”
Quando le mani di Matteo la lasciarono andare, lei provò lo strano e inopportuno desiderio di schiaffeggiarlo brutalmente.
“Ti va una fetta di torta, Veronica?”
Seguì il ragazzo fino a un divanetto poco distante e con la coda dell’occhio notò Matteo posizionarsi in un angolo della conca da cui non li avrebbe persi di vista un solo istante.
Non fece in tempo a sedersi che Donatello le avvolse le spalle in una coperta colorata.
“Non vorrei prendessi freddo.” le sorrise, porgendole un piattino pieno di torta al cioccolato “Ho avuto l’impressione che fra Matteo e te non scorresse buon sangue.”
Veronica accettò il dolce e non aprì bocca, stranita dal fulmineo cambio di discorso.
“Sbaglio, forse?” mormorò Donatello.
“Voi e questi sbagli!” sibilò nervosa “Siete sempre in errore e sai qual è il peggio? Che non lo capite neanche. Bisogna spiegarvelo, passo dopo passo.”
“Noi?” domandò Donatello, inarcando cauto un sopracciglio.
“Voi.” ripeté Veronica, annuendo decisa “Voi uomini. Voi trogloditi. Voi… animali.”
“Permettimi di dissentire.” provò il ragazzo, subito interrotto dall’espressione furibonda di lei. Veronica lo trapassò da parte a parte, gli occhi che lanciavano scintille.
“Dissentire? Proprio tu?!”
Donatello non provò nemmeno a controbattere, lasciandola fare.
“Tu che origli le conversazioni private.” sputò Veronica “Tu che minacci velatamente, elargisci biglietti da visita fradici, ti fingi innocuo quando chiaramente non lo sei e conosci tutti anche se nessuno ti conosce.” concluse, citando le parole di Matteo.
“Sarei di un diverso avviso, madame.” sorrise tranquillo Donatello “Tanto per cominciare non mi permetto di origliare alcunché. E non ho origliato, a meno che non lo abbiano fatto anche tutti gli altri occupanti della grotta.”
Veronica arrossì appena, ricordando quanto avesse trovato liberatorio e gratificante il gridare a pieni polmoni, del tutto incurante di dove e con chi si trovassero.
“Non minaccio.” continuò Donatello “O almeno, e questo ti deve bastare, non ho minacciato te. Per i biglietti da visita: sono mortificato se l’effetto bagnato non ti soddisfa, ma devi capire che non avevo preso in considerazione l’idea di fare un bagno.”
“Perché lo hai fatto, allora?” chiese Veronica, incapace di restare in silenzio.
“Per evitare, come ho già sottolineato, che vi scannaste a vicenda.”
Veronica non commentò, limitandosi a mangiare un pezzetto di torta.
“Per l’essere innocuo, poi.” meditò il biondo “Sono sufficientemente convinto che nessuno in realtà lo sia.”
Donatello fece dondolare la forchetta, inclinando leggermente il capo.
“Concludendo, l’ultima frase non ti appartiene, permettimi quindi di non commentare qualcosa su cui non sei informata a sufficienza.”
Veronica si strinse nelle spalle e gli indicò il dolce che lui ancora non aveva toccato.
“E’ una torta eccezionale.”
A quelle parole il ragazzo non riuscì a nascondere un moto di sorpresa; guardò lei, quindi la torta e infine scoppiò a ridere.
Veronica si morse il labbro, cercando qualcos’altro da dire: “Donatello.” mormorò infine “Un nome altisonante.”
“Altisonante?” sorrise lui, più rilassato “Sì, mia madre apprezzava infinitamente l’arte. Ha chiamato me Donatello, mio fratello Michelangelo e il cane Raffaello.”
“E’ un bel nome.” 
Lui restò in silenzio per un po’, lasciandola mangiare in pace. 
Quando Veronica, alla fine, poggiò la forchetta nel piatto ormai vuoto, mormorò:
“Mi piaci.”
Lei sussultò, assottigliando lo sguardo: “Prego?”
“Mi piaci.” ripeté Donatello “Chiunque tenga testa al giovane Fiori a quel modo merita tutto il mio rispetto. E tu gliele hai date di santa ragione, gioia.”
“Non ho fatto niente del genere.”
“Non mi riferivo a ferite visibili ad occhio nudo.”
“Non capisco.”
“Tu non lo hai picchiato, tesoro. Non tanto, almeno.” aggiunse con un ghigno “Tu gli hai lanciato delle frecciatine, probabilmente più dolorose dei pugni. E frecciatine di quel genere possono andare a segno solo se le persone in questione si conoscono a sufficienza, non so se mi spiego.”
Veronica non aprì bocca e Donatello continuò:
“E’ tanto, troppo probabilmente, che Matteo non conosce a sufficienza qualcuno.”
“Sofia…” tentò Veronica.
“Io non conosco nessuna Sofia.”
E Veronica non seppe più che dire. 
“Sai, credo possa fargli solo bene qualcuno che gli urla contro di tanto in tanto.” le sorrise Donatello “Se quel qualcuno sei tu, poi, meglio ancora. Ci sai fare, devo ammetterlo.”
Veronica guardò con la coda dell’occhio la conca alle sue spalle e la prima cosa che individuò fu una nuvoletta di fumo. Sospirò, chiedendosi da dove diavolo avesse cacciato la sigaretta.
“Anche a lui fa bene urlare, del resto.” meditò Donatello, sovrappensiero “E’ un modo di sfogarsi, no? E il giovane Fiori non gridava da un bel po’.”
“E’ un’allusione a qualcos’altro?” chiese Veronica, stanca, non riuscendo più a seguirlo.
“No.” rispose il ragazzo, aggrottando le sopracciglia confuso “Davvero non alzava la voce da un bel po’. Parlava, ringhiava, sibilava… grugniti, anche. Modi di esprimersi molto più consoni agli animali che agli uomini, per quanto mi riguarda.”
“Come lo conosci?”
“Tu come lo conosci?”
“L’ho chiesto prima io.”
“Ma io non ho intenzione di rispondere.” ridacchiò Donatello, incrociando le braccia.
“Infantile. Siete dei bambini.”
“Il siete è sempre riferito all’intero genere maschile?”
“Esattamente.”
“Non lo conosco in senso biblico, se può farti piacere.”
“Capirai.” si strinse nelle spalle Veronica “Meglio te di qualche altra sgualdrina. Almeno immaginare voi due assieme potrebbe rivelarsi eccitante.”
“Hai un lato perverso.” mormorò Donatello senza tuttavia scomporsi minimamente.
“Ci convivo.”
“E’ diverso.” disse lui, cambiando improvvisamente discorso.
“Diverso da… ?”
Il silenzio calò nuovamente, avvolgendoli misterioso.
“Diverso da quando, Don?” domandò ancora, un’impercettibile preghiera nella voce “E’ successo qualcosa? Cosa?”
“Per essere così sveglia credevo che almeno quella l’avessi notata, sai?”
Veronica non fiatò, non riuscendo a capire. Lo fissò, spronandolo a continuare.
“Sbaglio o lo hai visto nudo già diverse volte?”
Donatello si era alzato, porgendole silenzioso una mano. Lei fissava quelle dita aperte senza riuscire davvero a vederle. 
“Dobbiamo andare.”
Sentì le parole, ma ciò che avvertì davvero fu il tono colmo di agitazione.
“Dobbiamo andare, Ronnie.”
Si voltò, trovando Matteo in piedi dietro di lei. Donatello richiuse la mano, salutando entrambi con un breve cenno del capo e sparendo in meno di un minuto.
“Cosa?” chiese, la gola secca, fissandolo con timore.
“Ora.” comandò lui, afferrandole saldamente un braccio e trascinandola con fare deciso.
Veronica strinse la coperta che le stava sfuggendo dalle dita, lanciando occhiate sorprese attorno a sé: il luogo si stava svuotando ad una velocità impressionante. Silenziosamente, ordinatamente. 
“Che succede?” farfugliò, arrancando verso l’uscita.
“Stiamo andando via.”
“Perché?”
Il suono di una sirena squarciò il silenzio della notte.
Si bloccarono, appena fuori la grotta, acquattandosi nel primo anfratto. Veronica sospirò.
“Polizia?”
“Sì.”
“La grotta non è un luogo pubblico?”
“No.”
“Tu non hai i miei vestiti, vero?”
Il silenzio che seguì fu peggio di qualsiasi risposta.
“Starai scherzando.” mormorò Veronica, incredula.
“Non ho neanche i miei, ragazzina.” soffiò Matteo “Non ho fatto in tempo a prenderli.”
“E se tornassimo a recuperarli?”
“Non sono più lì, qualcuno avrà pensato a toglierli.”
Matteo riprese a camminare, tirandola con fare impaziente.
“Naturalmente non potevi essere tu quel qualcuno.” sputò lei, muovendosi a tentoni.
“Non credo sia il momento più opportuno per litigare.”
A bloccare la risposta di Veronica non fu il suono imperioso della sua voce, bensì quello fievole dei suoi denti che battevano: gli si avvicinò istintivamente, senza una parola, e lo coprì alla meglio con la coperta che aveva.
La presa della mano di lui s’ingentilì all’istante mentre un piccolo sospiro di sollievo gli sfuggiva dalle labbra che, Veronica era sicura, dovevano essere livide. 
Durante il viaggio di ritorno chiuse gli occhi, cercando di addormentarsi, sperando di zittire i pensieri. Non ci riuscì: forse la colpa era del freddo, pensò. Chissà se da qualche parte c’erano dei pinguini. Adorava i pinguini: erano talmente dolci e simpatici. Loro così neri: sembrava indossassero un frac. Chissà se anche i pinguini sentivano freddo come lo sentiva lei. Chissà se anche i pinguini battevano i denti come faceva Matteo, o se fumavano quanto lui. Chissà da dove diavolo aveva cacciato quella sigaretta, Matteo, mentre era in acqua…
“Siamo arrivati.”
Veronica aprì gli occhi con un certo sforzo. Diamine, aveva cominciato a blaterare anche mentalmente.
“Ragazzina.” la chiamò ancora Matteo “Siamo arrivati.”
Veronica annuì, liberando la vita del ragazzo dalla stretta in cui lo aveva costretto: sfiorò appena la pelle gelida, scendendo dalla moto. Per reggersi in piedi dovette ricorrere al braccio che lui già aveva allungato, prevedendo che le gambe non le avrebbero retto.
“Sei livida.”
“E tu batti i denti.”
“Non è vero.” fece lui, serrando la mascella mentre l’ennesimo tremito palesava la bugia.
Veronica annuì, lo prese per mano e lo trascinò verso l’entrata del palazzo.
Aveva già stretto le dita attorno alla maniglia quando un pensiero l’assalì; lo strascico della tremenda constatazione le si dovette leggere in viso perché una smorfia di uguale dolore si dipinse sul volto di Matteo.
“Niente chiavi?”
Veronica non rispose, spostandosi con fare disperato verso la zona dei citofoni: attaccò il dito sul pulsante dell’ultimo piano e non lo staccò se non dopo diverse manciate di secondi.
“Non rispondono.” mugolò, prossima ad una crisi isterica.
“Sicura che siano in casa?”
“Come potrei esserlo?!” sbraitò, alzando gli occhi al cielo, esasperata.
Matteo si tastò il costume, forse convinto di indossare i pantaloni.
“Non mi dire.” rise greve lei, facendogli il verso “Niente sigarette?”
“Calma.” fece il ragazzo “Niente panico.”
“Certo.” annuì lei “Del resto non ce n’è motivo: dovremmo ancora essere sopra lo zero. Non abbiamo i telefonini, ma dov’è il problema? Possiamo sempre saltarci addosso e darci dentro come conigli. E’ un modo come un altro per non morire congelati, no? Oppure…”
“Un portiere.” la interruppe Matteo “Non dovrebbe esserci un portiere in un cavolo di palazzo?”
Veronica annuì mentre si affrettava a premere un diverso bottoncino.
Dopo pochi istanti rispose una voce ruvida e decisamente infastidita. Angelica.
“Signor Crocco.” esultò Veronica, gli occhi umidi “Sono Veronica Merogliesi, mi scuso infinitamente per l’ora ma ho perso le chiavi, non è che sarebbe così gentile da aprirmi il portone?”
Un sospiro frustrato uscì dal microfono, fortunatamente seguito dallo scatto della porta che si apriva. Matteo in un attimo fu dentro, seguito a ruota da Veronica. Si accasciarono sulla scala, i corpi tremanti e le labbra viola.
“Stai bene?” le chiese, portando le mani a coppa contro la bocca e soffiandoci dentro.
“Nel limite del possibile.” rispose lei, sfregando la coperta contro le braccia.
Una gola si schiarì poco sopra di loro: sollevarono lo sguardo in tempo per vedere il volto di un anziano signore sparire dietro una porta. L’eco delle sue biasimevoli parole li raggiunse, soffuso: “Questi giovani d’oggi si divertono a girare nudi ovunque.”
Veronica chiuse gli occhi e quando li riaprì Matteo era in piedi, un sorriso sbilenco sulle labbra: “Facciamo le scale?”
“Certo.” approvò, seguendolo di buon grado.
“Se non sono in casa?” chiese Matteo, un paio di scalini sopra di lei.
“Ci accampiamo sul pianerottolo.”
Un grugnito segnalò il consenso del ragazzo.
“E se sono in casa?”
“Li torturiamo lentamente per averci costretto a svegliare Crocco.”
Nuovo grugnito, più sentito.
“Ronnie…”
Veronica sollevò lo sguardo e la bocca del ragazzo premette improvvisa sulla sua. Una manciata di secondi, niente di più. Pochi secondi e tutto era finito.
“Volevo ridarti colore alle labbra.” sussurrò Matteo, avvolgendola meglio nella coperta.
La porta dell’appartamento si aprì, lo sguardo sorpreso di Simone che si fermava su di loro: “Ci era sembrato di sentire il citofono.” balbettò, confuso.
“Vi era sembrato?!” s’imbestialì Veronica, entrando a passo di marcia in casa.
“Starai scherzando!” scoppiò Matteo, rifilandogli un pesante manrovescio sulla spalla.
“No, davvero, non eravamo sicuri.” mormorò Simone, alternando intimorito lo sguardo tra i due.
“Dove sono gli altri?”
Simone indicò il divano: Michele era seduto fra Cinzia e Silvestro e tutti e tre, gli occhi umidi, si passavano una scatola di clinex. Veronica sussultò, preoccupata.
“E’ successo qualcosa?” chiese.
“No.” scosse il capo Simone, rigirandosi un fazzoletto fra le dita “Voi piuttosto?”
Matteo scosse il capo e indicò a sua volta il divano.
“Che hanno?” 
“Ma niente.” rispose Simone, stringendosi nelle spalle e indicando il televisore “E’ appena morto Mufasa.”
Tirò su con il naso: “Film del genere non sono adatti ai bambini.”
Veronica e Matteo si scambiarono uno sguardo sconcertato, decidendo tacitamente che la cosa migliore da fare era disinteressarsi dell’intera situazione. Attraversarono in fretta il salotto, ignorando le esclamazioni di stupore che si sollevarono nei pressi del divano, e si chiusero nelle rispettive camere. 
Veronica aprì l’armadio, indossando rapidamente un paio di pantaloni e la felpa più calda e pelosa che le riuscì di trovare.
“Veronica!” 
“Dimmi, Cicì”
Dimmi, Cicì?!” gridò quasi l’altra, le mani sui fianchi “Cosa diamine vi è successo, si può sapere?”
“Niente.” mormorò Veronica, la stanchezza che l’assaliva traditrice, togliendole ogni forza.
Niente?! Sono le due e mezza, lo sai? Di notte, tesoro. E rientrate in costume, quasi morti dal freddo… e non rispondevate al cellulare… e…”
Veronica si lasciò cadere a peso morto sul letto: Cinzia aveva sbollito la rabbia, presto soppiantata da semplice e pura preoccupazione. Dietro di lei spuntavano la faccia svagata di Michele e quella allegra di Silvestro: Veronica sorrise ad entrambi, socchiudendo appena gli occhi per riposarsi: “Il film?” 
Cinzia non rispose, a corto di parole; Michele rimediò subito, fiondandosi nella camera:
“Bellissimo, Vero!” ridacchiò “E avresti dovuto vedere Cicì come piangeva! Certo anche con Bambi non è stata da meno.” sorrise, guardando l’amica con affetto “E avreste dovuto esserci anche tu e quel pazzo di Matteo. Che fine avevate fatto? Volevamo aspettarvi, ma poi, per far smettere Cicì di preoccuparsi abbiamo deciso di cominciare senza di voi. Non ti spiace, vero?”
Veronica scosse la testa, carezzandogli distrattamente un braccio: “La lista è ancora lunga, no?”
“Naturalmente. E agli altri non potrete mancare.”
“Qualcosa ti preoccupa?” le chiese Silvestro, osservandola attentamente con un sorriso sbilenco.
“No.” mormorò lei in risposta “Non credo, almeno.”
Qualcosa le frullava in testa, ma non sapeva cosa di preciso. Era un leggero picchiettio che tentava di richiamare la sua attenzione, quasi impercettibile.
“Mi brucia la gola.”  disse, parlando fra se e se, una mano che andava a stringersi attorno al collo. Sentì il sospiro che scappò ad entrambi i ragazzi mentre una fiumana di rimproveri sgorgava dalle labbra di Cinzia. 
“… la gola ti pizzicava già a pranzo, cara la mia signorina. In questi casi sai, tesoro, non è esattamente consigliabile andarsene in giro con addosso solo un misero costume…”
Il picchiettio. Ritmico. E poi il nome le saltò chiaro davanti agli occhi: Donatello. A lui era dovuto quell’ennesimo fastidio. A lui. Ma perché?
“… e la sciarpa? Ti eri premurata anche di prendere la sciarpa! Che fine ha fatto, eh? …”
Qualcosa che aveva detto. Qualcosa che…
Per essere così sveglia credevo che almeno quella l’avessi notata, tesoro.
Veronica trasalì visibilmente mentre la frase del ragazzo le rimbombava nelle orecchie. 
Cosa non aveva notato? Si passò una mano sugli occhi, sollevata se non altro dal silenzio che, inatteso, era calato nella stanza. Doveva notare qualcosa? Avrebbe dovuto, notare qualcosa? Cosa?
Sbaglio o lo hai visto nudo già diverse volte?
Veronica si mise a sedere, le mani che si stringevano a pugno così violentemente da far impallidire le nocche: sorda ai richiami degli amici si fiondò nella camera di Simone che, seduto sul letto, la osservò entrare come una furia. Fu un riflesso, probabilmente, ma uscì dalla stanza prima ancora che lei fosse arrivata a fronteggiare Matteo: la porta si chiuse silenziosamente, senza il minimo rumore.
Veronica osservò il ragazzo: le dava le spalle, un paio di jeans e una camicia azzurra, si stava infilando un maglione nero; era ancora a metà del gesto quando lei gli girò attorno, piazzandoglisi di fronte.
“Veronica?” chiese lui, solo gli occhi che facevano capolino dal collo del maglione.
“Spogliati.”
Matteo abbassò un po’ la maglia, cercando di prendere aria: “Scusa?”
“Spogliati.”
Fece per replicare ma la ragazza non gliene diede modo: con mani abili gli sfilò il maglione, passando subito dopo alla camicia; era già a buon punto quando le mani di lui la fermarono: “Che stai facendo?” chiese, preoccupato dallo sguardo concentrato di lei.
“Ti spoglio.” rispose Veronica, liberando le dita dalla sua stretta e riprendendo da dove era rimasta. Sbaglio o lo hai visto nudo già diverse volte?
Altri due bottoni erano stati liberati nonostante le rimostranze di Matteo.
Per essere così sveglia credevo che almeno quella l’avessi notata, tesoro.
Non fu necessario aprire l’ultimo bottone.
Credevo che almeno quella l’avessi notata, tesoro.
Veronica lasciò vagare lo sguardo sul petto del ragazzo, il capo leggermente piegato.
Matteo non emetteva più un fiato, immobile, i muscoli contratti. La pelle era chiara, ma non pallida quanto quella. Quella. La cicatrice, diafana e sottile, che gli attraversava il petto. Quella. La cicatrice che andava dalla spalla destra fin giù al fianco sinistro. Quella. La cicatrice di cui, per quanto assurdo potesse sembrare, non si era mai accorta. Quella. Quella. Quella. … Quella.
Veronica avrebbe voluto dire qualcosa, qualunque cosa, ma si accorse di aver perso la voce.
Letteralmente.

 

 

 

§






 

 

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Capitolo 13
*** La rosellina blu ***




Bugie bianche

                                                                                                

          ≈ La rosellina blu ≈

 

 

“Non lasciarli dormire fino a tardi.”
Michele annuì, la testa infilata nella dispensa.
“E assicurati che prendano lo sciroppo.” aggiunse Silvestro, sistemando la pistola nella fondina.
“Certo.” acconsentì Michele, riapparendo con una scatola di biscotti in mano.
“Entrambi.”
“Come?” farfugliò, sputacchiando briciole di biscotto.
“Devono prenderlo tutti e due lo sciroppo.” ripeté Silvestro, paziente.
“Certo.”
“E quanti più bicchieri di aranciata riesci a rifilargli, meglio è.”
Michele si prese a mala pena la briga di annuire,  gli occhi che brillavano di felicità mentre apriva un barattolo di Nutella.
“Mi hai sentito?” 
“Certo.” 
“Non devono uscire di casa, non devono uscire in balcone, non devono…”
“Per quanto mi riguarda,” s’intromise Cinzia, saltellando su un piede, l’altra scarpa ancora in mano “è sufficiente che al mio ritorno non ci sia sangue sui mobili.”
Michele smise di masticare, guardandola di sbieco. Ingoiò, sospirando sconsolato: “Questo è chiedere troppo.” fece, scuotendo deciso il capo “Non faccio miracoli, io.”
Cinzia si infilò la scarpa rossa, inarcando un sopracciglio con espressione indecifrabile:
“Preferisci andare a scuola?” domandò, le labbra che si piegavano in un sorriso saccente.
“No.” sbottò Michele “Forse.” aggiunse, pensoso “Sì.” sentenziò alla fine.
Cinzia incrociò le braccia al petto.
“Stai scherzando, ragazzino?”
“No.” ghignò Michele, imitando la postura di lei “Dopo quello che è successo ieri notte tu speri che io riesca a far sì che non si uccidano a vicenda? E’ assurdo, Cicì.”
“Non è successo niente ieri notte.” brontolò Cinzia, alzando gli occhi al cielo.
“Niente?” chiesero in contemporanea gli altri due, basiti.
“Veronica è andata in camera di Matteo.”
“E gli ha chiesto, o meglio ordinato, di spogliarsi.”
“Già.” mugugnò Silvestro “Ammetto di aver pensato a male.”
Cinzia lo fulminò con lo sguardo: “E non è successo altro.” 
“Cicì!” saltò su il ragazzino, facendo cadere un biscotto “Qualcosa deve essere successo.”
“Noi non abbiamo sentito niente, Mickey.”
“Sentito, Cicì, sentito! Con l’orecchio attaccato ad una porta si sente, non si vede.”
“Non è successo niente, ti dico.”
“E come faresti a saperlo?” s’impuntò Michele, risentito.
Silvestro ridacchiò.
“Sono ancora vivi entrambi, o sbaglio?”
“Chi dovrebbe essere morto?” sorrise Simone, entrando in cucina e appropriandosi veloce di una manciata di biscotti “ ‘giorno a tutti.” aggiunse, infilandone altri in tasca.
“I due malati.” sospirò Cinzia.
“Oh.” fece lui, cominciando a riempire l’altra tasca “Anch’io avevo pensato al peggio, sinceramente, per questo sono scappato. Era zona di guerra.”
“Perché… che stai facendo?” balbettò la brunetta, massaggiandosi stancamente le tempie.
Simone sollevò lo sguardo: “Prendo la merenda.” rispose con ovvietà.
Michele approvò con un cenno del capo, poi, squadrandolo con fare incerto, domandò:
“Simo, tu sai cos’è successo ieri notte nella zona di guerra?”
Silvestro smise di guardare il cellulare, l’espressione interessata: “Non eri con noi ad origliare.” mormorò, pensando fra se e se “Cosa sai?”
“Credo che lei se ne sia accorta.” fece spallucce Simone.
“Si sia accorta di cosa?”
“Della cicatrice.”
Cinzia inspirò con forza dal naso: “Quale cicatrice?”
“Quella di Matteo.” rispose il ragazzo “Ce l’ha sul petto, possibile che nessuno l’abbia notata? Non è neanche così piccola, eh? Gli attraversa quasi tutto il torace, diamine.”
Sgranocchiando un altro biscotto continuò, pensoso: “Certo, devo ammettere che se non si osserva con attenzione potrebbe passare inosservata… è davvero molto, molto chiara.”
“Veronica ha visto la cicatrice?” sibilò Cinzia, avvicinandosi a Simone.
Lui annuì, gli occhi pieni di confusione: “Sì.” balbettò “Sì, credo di sì.”
“Come se l’è fatta, Simone?” soffiò Cinzia, costringendolo ad arretrare.
“Io non lo so.”
“Bugiardo.”
“Non lo so.” sollevò le mani “Davvero non lo so.”
“Con me le bugie non funzionano, Simone.” ringhiò lei “Tendo a diventare brutale.”
Simone scosse velocemente la testa e arretrò fino alla porta con espressione addolorata.
“Non posso.”
Un frettoloso cenno di saluto e si defilò dall’appartamento.
Cinzia respirò piano, cercando di calmarsi. 
“Lui sa.” 
Michele e Silvestro si limitarono ad annuire.
“Devo andare.” mormorò il poliziotto, carezzandosi la pelata.
“Anche io.” fece Cinzia, lisciandosi il vestito e sistemandosi le calze.
Michele sospirò, immergendo l’indice nella Nutella per poi portarlo con aria pensosa alle labbra: “Chiamate ogni tanto, e se non dovesse rispondere nessuno, allertate la polizia.”
“Sono io la polizia.” ridacchiò Silvestro.
“E allora corri.” sibilò il ragazzo, serio “Con i rinforzi, mi raccomando.”
Cinzia roteò gli occhi, esasperata: “Vedrò di mandarti qualche aiuto, va bene?”
Michele annuì, per niente tranquillo, guardandoli uscire dalla porta e desiderando di poter fare altrettanto. Sussultò, un biscotto che rischiava di andargli di traverso, quando sentì dei passi in corridoio.
“E no.” si lagnò, la bocca piena di Nutella “Sono solo le otto, che diavolo.” 
La testa di Matteo comparve nel vano della porta: l’espressione ancora assonnata, due occhiaie non troppo vistose e il naso decisamente arrossato.
“Buongiorno.” salutò Michele “Come ti senti?”
Matteo scosse lentamente il capo e entrò in cucina: pantaloni di tuta, una maglietta rossa a mezze maniche e, chicca finale, calzini borgogna pelosi ai piedi.
“Te li sei fatti prestare da Simone?” ammiccò Michele, sorridente.
Matteo si lasciò cadere su una sedia e, senza commentare, sollevò i piedi mostrando la parte inferiore dei calzini: un gruppo di renne che bevevano birra sotto un piede e un Babbo Natale che flirtava con la Befana sotto l’altro. La risata di Michele si diffuse soffice, ravvivando l’ambiente: “Sono spettacolari, sul serio.”  
Matteo annuì, passandosi ripetutamente le dita fra i capelli.
“Sei sveglio, Matt?” 
“Credo.” sussurrò l’altro, concentrandosi realmente sul quesito  “Che ore sono?”
“Le otto e dodici.”
“Ah, sì?” inclinò il capo Matteo “E tu che ci fai qui? Non c’è scuola, oggi?”
“Potrei chiederti la stessa cosa. Non c’è lavoro, oggi?”
“Non sto bene.”
Uno starnuto seguì il borbottio di Matteo, e poi un altro e un altro ancora.
“No.” approvò Michele “Non stai bene.”
Il ragazzino si alzò in piedi, muovendosi rapido per la cucina, indaffarato e preciso:
“Questo per la gola.” disse, porgendogli una bottiglia di sciroppo “Questa per il mal di testa.” e gli mise in mano una pillola bianca “Questo per le vitamine.” e gli sistemò davanti un bicchiere di aranciata pieno fino all’orlo.
Si fermò un attimo, le mani sui fianchi, riflettendo: “Prima di prendere qualsiasi cosa, però, devi mangiare.” decise, piazzando i biscotti di fronte a Matteo. 
Vedendo che non accennava a prenderne alcuno, s’imbronciò, incrociando le braccia: “Sono pronto a farteli ingoiare a forza.”
Matteo assottigliò lo sguardo, ponderando la situazione. Quando Michele abbozzò un passo verso di lui, però, si affrettò a prendere un biscotto: “Sei brutale.” 
“Senti chi parla.” 
Dopo tre biscotti, Matteo ingoiò la pillola, sorseggiò lo sciroppo e fissò serio il succo d’arancia: quello proprio non gli era mai piaciuto.
“Lo devi bere.” gli arrivò la voce di Michele, decisa.
“Non lo voglio.”
“Lo devi bere.”
“Non mi piace.” mugolò Matteo, massaggiandosi la fronte “Non lo voglio.”
“Lo devi bere.”
“E’ questo che devi fare? Perciò non sei a scuola? Devi farmi da balia?”
Matteo fece per continuare ma fu interrotto da una nuova serie di starnuti.
“Credi di non averne bisogno?”
“Sto bene.” mugugnò Matteo, l’espressione esausta, un fazzoletto sbrindellato in mano e gli occhi lucidi “Davvero.” starnutì “Sto…” colpo di tosse “… bene.”
“Sembri in punto di morte.” commentò con noncuranza Michele, guardandolo appena.
L’altro annuì, tirando su con il naso e poggiando la testa sul tavolo: “Fa caldo.” sussurrò, la voce ovattata “Non fa caldo?”
“E’ la temperatura giusta.” sospirò Michele, sconfortato “Fammi sentire se hai la febbre.”
Gli poggiò la mano sulla fronte e aspettò.
“Allora?”
Michele scostò le dita e le guardò, confuso: “Allora cosa?”
“Ho la febbre, sì o no?”
“E io che ne so?” borbottò Michele, allontanandosi “Non ho mai capito come funziona questo giochino, giuro… ci ho provato.” concluse, stringendosi nelle spalle.
Matteo roteò gli occhi, guardandosi attorno con pigrizia: “Puoi anche andare, lo sai?”
“Dove?” chiese l’altro, inarcando un sopracciglio “E non essere volgare, cortesemente.”
“Perché pensi sempre a male, eh?” sospirò Matteo “Intendevo che puoi anche uscire di casa. So badare a me stesso, non è di questo che ti devi preoccupare.”
“Non devo uscire.”
“Sicuro? Non ti va di fare una passeggiata, di fare un po’ di compere, di incontrare qualche bella ragazzina e semmai darci anche un po’ d…”
“Tu non hai dato un’occhiata al tempo, non è vero?” lo interruppe Michele, allungando il braccio dietro di sé e scostando le tendine dalla finestra. Un lampo squarciò l’uniforme massa di nuvole nere in quel preciso istante, seguito da un tuono che fece tremare la casa.
“Ah.” commentò semplicemente Matteo.
“Per le spese.” fece Michele “Sono sempre in ritardo, se ti riferivi ai regali di Natale: non voglio certo migliorare quest’anno. E per le ragazze: chi ti dice che...”
“Mangi per tre, Mickey.” borbottò Matteo, il volto nascosto fra le braccia “Eppure sei paurosamente e ingiustamente magro. Ci deve essere una spiegazione, no? Un modo in cui bruci le calorie.”
“E tu pensi che io…?”
“Assolutamente.”
“Non…”
“Te lo hanno già fatto il discorso sulla cicogna, o quello sull’ape e i fiori o come diamine era?”
“Sai che ho diciassette anni, non è vero?”
“Lo prendo per un sì.” sorrise Matteo “Quindi ti dai da fare, ragazzino?”
“Non ho detto questo.”
“Ma dai! Raccontami qualcosa, intrattienimi!” sospirò “Sono malato, no?”
“Oh, sì.” ghignò Michele.
“Non mi racconterai niente, non è vero?”
“Non c’è niente da raccontare.”
“Al diavolo.” mormorò Matteo “Queste mura fra un po’ non riusciranno più a reggere le bugie.”
“E in gran parte, permettimi, hai contribuito anche tu.”
“Io?! Che grandissima sciocchezza!”
Michele ridacchiò, scuotendo il capo incredulo: “Ti ascolti quando parli?”
“No. Il più delle volte no. Mi trovo noioso.”
“Gli altri non la pensano allo stesso modo, ti assicuro.”
“Perché Cinzia fa la escort?” chiese di colpo Matteo, sollevando lo sguardo.
“Simone quando ha cominciato a giocare a fare l’hacker?”
“Veronica che problemi ha con la famiglia?”
“E quel tuo misero taglietto sul petto?”
Si squadrarono senza fiatare, tesi, le espressioni serie. 
Fu Matteo, alla fine, a distogliere lo sguardo:
“Programmi per oggi?”
“Cartoni della Disney, così ti rimetti in pari.” rispose Michele “Oppure puoi aiutarmi con la fisica, così da far rimettere in pari me. O ancora, non so, una bella partita a carte.” un sorriso cauto gli si dipinse in volto “Niente, in poche parole, che includa l’uso delle mani, di oggetti appuntiti, taglienti o anche solo un po’ pericolosi. Cinzia non vuole sangue sui mobili.”
Matteo sospirò e chiuse di nuovo gli occhi.

 

~

 

“Chi chiami?”
Cinzia prese elegantemente posto sulla sedia, i piedi poggiati sulla scrivania si Silvestro.
“Ho promesso di mandargli qualche aiuto, no?” disse, un tenue sorriso sulle labbra. 
Silvestro non sorrise.
“Non hai intenzione di peggiorare la situazione, vero, Cicì?”
Cinzia inarcò le sopracciglia, ostentando l’innocenza più pura. 
“Come potrei mai farlo, Bond?”
Silvestro sospirò, chiudendo gli occhi. Non si presagiva niente di buono.

 

 

Un mugolio schiuse le labbra del ragazzo.
Estasi. Puro piacere.
Sorrideva, il capo reclinato all’indietro sul cuscino, gli occhi chiusi e il collo scoperto.
“Mi devo fermare?” chiese una voce dolce, ammaliante.
“Non dirlo neanche per scherzo.” mormorò lui, fra il serio e il faceto, stringendola di più a sé, con possessione. Le catturò le labbra, ricominciando quel gioco di cui non si sarebbe mai stancato.
“Hai tempi di ripresa incredibilmente veloci.” sospirò lei, mordicchiandogli il labbro e spostandosi pian piano: una scia calda, dalla tempia, lungo la guancia, fino al collo. Sapeva come baciare, dove soffiare, quando succhiare. Era brava, lei. Bravissima, anzi. 
“Merito tuo.” riuscì a stento ad articolare il ragazzo.
“Dovremmo alzarci, lo sai?” chiese Marina, sollevando il capo e inclinandolo verso destra.
“Dici?” sussurrò Daniele, afferrandole il polso e facendola cadere sul suo petto “Vuoi alzarti?” gemette, carezzandole i capelli e lasciando che i loro respiri si accordassero.
“Non ho detto questo.” sorrise lei, incontrandone lo sguardo, gli occhi luminosi e lucidi.
“Bene.” mormorò il ragazzo, la bocca di nuovo sulla sua “Perché non ne ho la minima intenzione.”
Un fondersi di risate, nasi che si scontravano, un rincorrersi di dita sulla pelle calda, nuda.
“Lo senti?” domandò Marina, il viso nascosto sul petto di Daniele.
“Cosa?” ammiccò lui “Che è il momento di ricominciare?”
“No.”
Marina si sollevò sui gomiti, l’espressione assorta: “Qualcosa vibra.”
“Mmm.” mormorò Daniele, strusciando il naso contro il braccio di lei.
“Dani.” lo chiamò lei “Sul serio qualcosa sta vibrando.”
Daniele si accigliò, cercando di concentrarsi, di tornare in sé quel tanto che bastava per capire dove si trovasse. La stanza era avvolta nell’oscurità, ma lievissima luce proveniva dai piedi del letto. Sporse il braccio, la mano che frugava nei mucchi di vestiti: riemerse di lì a poco, il cellulare stretto fra le dita. 
Guardò il numero solo per un secondo, quindi con un sospiro decise di rispondere.
“Non è il momento, Cicì.”
“Scontrosi già di prima mattina?” ridacchiò la voce all’altro capo del telefono “Riprova.”
“Cinzia.” ringhiò Daniele, impedendo qualsiasi movimento a Marina.
“Cosa?” fece lei “Non mi dirai che ti ho disturbato, Danny? Che avete oggi, non ci va più nessuno a lavoro?”
“Cinzia!” sbottò il ragazzo, la risata divertita di Marina che gli solleticava il petto.
“Fammi indovinare.” sussurrò Cinzia “Sei in compagnia, dottore? Mi piacerebbe sperare di una sconosciuta qualsiasi, ma immagino si tratti invece della megera, non è vero?”
“Conto fino a dieci, Cinzia, poi attacco.”
“Come siamo suscettibili.”
“Dieci.”
“I vostri programmi, quindi? Restare a letto a fare cose vietate ai minori?”
“Nove.”
“E lei? Non frequentava qualcosa come il conservatorio o non so che?”
“Otto.”
“E l’ospedale, lasci perdere anche quello?”
“Sette.”
“Silvestro si sta divertendo come un pazzo, sai? Anche se credo stia parteggiando per te.”
“Sei.”
“Veronica ieri è tornata alle due.”
“Cinque.”
“Mezza nuda, dopo aver fatto un salutare giretto in moto con Matteo.”
“Quattro.”
“Sono restati a casa tutti e due, con Michele che prova a tenerli a bada.”
“Tre.”
“Passate da loro, appena riuscite a districarvi dalle lenzuola, mi raccomando.”
“Due.”
“Visitali anche, se non ti dispiace e se sono ancora vivi.”
“Uno?”
Cinzia ghignò, soddisfatta. Sorridendo sibilò nel microfono.
“Ci ho messo meno di dieci secondi, caro il mio dottore.”

 

~

 

“Secondo principio della dinamica?”
“Non è nel programma.”
“Non puoi non saperlo!” sbottò Matteo, sfogliando alacremente le pagine e piazzando poi il libro di fronte a Michele “Leggi e impara.”
“Certo.” annuì il ragazzino, allungando le dita oltre il tomo di fisica e afferrando un mazzo di carte rosse “E se invece…”
“Cos’è una trasformazione adiabatica?”
“… un pokerino, Matt, ti prego.”
“La fisica era tra le alternative, o sbaglio?”
“Ho sbagliato io.” mugugnò Michele, seccato “Preferisci la Sirenetta?”
“Cos’è, una minaccia?”
“Anche un ricatto, volendo.” 
“Non è un film per te, sai?”
“La Sirenetta?”
“Certo.” si soffiò il naso Matteo “Hai idea di quanti messaggi subliminali contenga?”
“Stai scherzando, vero?”
“No.”
“Parliamo di un cartone Disney.”
“Lo so.”
“Se ti scandalizza tanto possiamo sempre guardarci i Segreti di Brokeback Mountain.”
Matteo assottigliò lo sguardo:  “Non ne hai una versione al femminile?”
“No, mi spiace.” 
“A questo punto, forse è meglio…”
Un lieve rumore di passi lo interruppe, facendolo voltare verso la porta; per prima cosa videro i piedi scalzi, infreddoliti: camminava sulle punte, silenziosa. Veronica entrò in cucina, i capelli arruffati e gli occhi così lucidi che sembrava stesse a stento trattenendo le lacrime. Indossava solo una canotta nera con il logo di una squadra di basket disegnato sul davanti, di due o tre taglie più grande.
“Buongiorno.” mormorò Matteo, senza smettere di guardarla “Come…”
“Sei pazza, Vero? – saltò su Michele, raggiungendola in pochi passi “Non puoi andartene in giro così…” borbottò, uscendo dalla cucina “…con questo freddo…” lo sentirono mormorare “… e nel tuo stato, poi!” continuò a lamentarsi, rientrando veloce, una felpa in una mano e un paio di pantofole nell’altra “Mettile.” disse, perentorio.
Veronica sorrise, divertita dal tono del ragazzino: infilò i piedi nelle scarpe e indossò la felpa blu. Matteo osservava la scena con occhio critico.
“Perché sempre vestiti più grandi di te?” chiese, la penna che tamburellava con fare nervoso sul bordo del tavolo “Sono di qualche ex? Che fai, te li conservi a mo’ di premio?”
Michele inarcò un sopracciglio, l’ombra di un sorriso che si faceva strada sulle sue labbra: un accenno non tanto celato di gelosia prorompente? Il sorriso si tramutò in un ghigno divertito mentre Veronica, l’espressione indifferente e vagamente seccata, allungava un braccio verso l’alto, il palmo della mano rivolto verso il basso, a indicare l’altezza di qualcuno… un qualcuno parecchio alto.
“Lorenzo?” domandò di scatto Matteo “Sono di tuo fratello?” specificò, il tono di voce che tradiva un certo sollievo.
Veronica annuì, carezzandosi la gola con la mano: lanciò un’occhiata a Michele, fulminea.
“Che c’è?” fece il ragazzino, colto di sorpresa. Veronica ripeté il gesto.
“Ti fa male la gola!” Michele sgranò gli occhi, fiondandosi fuori dalla cucina e tornando con una sciarpa in mano: girò più volte attorno alla biondina, avvolgendogliela attorno al collo. 
“E ora?” mormorò “Non so che dirti. Lo sciroppo, sicuramente, o prima l’antibiotico? E se non fosse un semplice mal di gola? E’ normale che ti sia andata via anche la voce? Non è che dovrei chiamare un dottore? E se fosse qualcosa di più grave?”
“E’ un mal di gola, per l’amor del cielo.” rise Matteo, interrompendo sicuro lo sproloquio del ragazzino e lanciando un’occhiata a Veronica “Sta benissimo, bruciore a parte, e che per un po’ stia in silenzio credo non dispiaccia a nessuno.”
Veronica roteò gli occhi, indecisa su quale gestaccio fosse più appropriato dedicargli. 
Michele cacciò un gridolino: “Ho trovato un termometro!” eruppe, sinceramente sorpreso da tanta abilità e bravura.
Ignorando l’espressione contrariata di Veronica, le accorciò la manica della felpa blu e le posizionò il termometro sotto il braccio.
“Sta buona.” mormorò Michele, stringendo il cellulare il mano e concentrandosi sull’ora “Quanto tempo dobbiamo aspettare?” chiese poi, meditabondo “No, non preoccuparti, ci penso io.”
Veronica scosse il capo, divertita: con un movimento fluido si alzò, facendo segno al ragazzino di stare attento; si avvicinò al volto arrossato di Matteo e, chinandosi appena, poggiò le labbra chiuse sulla fronte di lui: pochi attimi e si risollevò, fissando Michele. 
Indicò il tavolo e, preso un foglio e una penna, annotò velocemente la temperatura del ragazzo: 38,2.
“Ha la febbre, allora!” esclamò, scontento di sé, Michele “E ora?”
Sparì nuovamente dalla cucina.
Veronica si sentì tirare per il polso, con forza, e si ritrovò seduta sulle ginocchia di Matteo.
“Sicura di aver misurato bene?” le chiese il ragazzo “Non vuoi ricontrollare?”
Veronica serrò le labbra, cercando di alzarsi, ma lui non glielo permise.
“Sai che mi piace un sacco, questa situazione?” continuò Matteo “Tu che non puoi parlare, stare in casa, tu che non parli, la pioggia, tu che non dici una parola, il topino che si fa prendere da crisi di panico, tu…” mormorò ancora, il capo leggermente inclinato “… che mi ascolti in silenzio.”
Un brivido percorse la schiena della ragazza e Matteo se ne accorse: con un gesto deciso cominciò a tirarle giù la manica della felpa. Verso la fine che si bloccò, fissando assorto il polso di Veronica: “E queste?” domandò, passando il dito su alcune linee più chiare, esili cicatrici che si allungavano anche lungo il dorso della mano della ragazza “Come te le sei fatte?”
Un momento di silenzio seguì la sua domanda.
Poi le mani di Veronica si serrarono attorno alla sua gola.

 

~

 

“Non rispondono.”
Cinzia si strinse nelle spalle, dando poco peso al commento di Silvestro.
“Non dovrebbero ancora essere morti.” mormorò, controllando l’ora.
“Michele aveva detto…” cominciò il poliziotto.
“Quel ragazzino tende troppo al drammatico.” lo interruppe Cinzia con un sospiro, componendo un altro numero.
Silvestro gemette, osservandola mentre portava il telefono all’orecchio.
“Cos’hai in mente, Cicì?” chiese, timoroso della risposta.
“Niente.”
“Non è una buona idea agitare le acque, sai? Non quando sono già in tempesta.”
“Lo so.” sorrise lei “Per questo ho deciso di giocarci solo un pochino.”
“Cinzia.” la richiamò Silvestro, fra l’incredulo e il preoccupato.
“Io sono diretta, lo sai, Bond.” fece spallucce Cinzia “E credo che in questo particolare caso bisogni girare il coltello nella piaga. Ripetutamente.”

 

~

 

“Pronto?”
“Sono Cinzia.” fece una voce stranamente allegra “Ti disturbo?”
“Cinzia?”
“L’unica e inimitabile.”
“No.” respiro accelerato “Certo che non disturbi.”
“Che facevi?”
“Stavo… andando all’università.”
Un silenzio incerto aleggiò per qualche istante.
“Non mentire con me, Lorenzo.” sorrise Cinzia “Sai benissimo che non funziona mai.”
“So anche che qualsiasi cosa stessi facendo non sono esattamente affari tuoi, tesoro.”
“Oh, ora ti riconosco!” si compiacque lei “Cosa? Ti ho colto di sorpresa?”
“Non sapevo neanche avessi il mio numero.”
“Ah, ma io ho infinite risorse, non dimenticarlo.”
“Posso fare qualcosa per te, Cinzia?”
Un nuovo silenzio, più breve del precedente.
“C’è qualche problema?”
“No, niente di grave.” spiegò lei, tentennante “Veronica e Matteo sono entrambi a casa con raffreddore e probabile febbre, così mi chiedevo se ti andasse di andare a salutarli.”
“Salutarli o controllarli?”
“Diciamo tutte e due le cose.”
“Rischio più di trovarli morti o a letto insieme?”
“Non saprei.” mormorò Cinzia “Veronica è senza voce, quindi conoscendola non sarà esattamente di ottimo umore. Però, quando sta insieme a quell’idiota per qualche assurdo motivo non fa mai ciò che normalmente farebbe, per cui…”
“Entrerò a occhi chiusi.”
“Ottima scelta.”
Lorenzo sorrise, il telefono ancora vicino all’orecchio sebbene la chiamata fosse stata chiusa. Con un sospiro guardò la ragazza sotto di sé.
“Scusa, dolcezza.” sussurrò, mordendole giocosamente un labbro “Dove eravamo rimasti?”

 

~

 

“Fermi!”
Michele fissò Veronica che, arpionata saldamente alla schiena di Matteo, non si era ancora stancata di tempestarlo di botte. Lui mugugnava frasi sconnesse, cercando inutilmente di scrollarsela di dosso.
“Ragazzi, dico sul serio.” tuonò il ragazzino “Non siete nelle condizioni di… non è il momento!”
Matteo nemmeno lo sentì.
Chiuse gli occhi, decidendo di cambiare tattica: si mosse rapido, avvicinandosi al divano e lasciandosi cadere di schiena; Veronica si ritrovò bloccata sotto di lui, incredula, la bocca spalancata in un muto grido.
“Ti decidi a stare ferma, ragazzina?” ringhiò Matteo girandosi per salirle a cavalcioni “Che problema hai?”
Veronica cominciò a scalciare.
“Smettila!” sbottò Matteo rovinando a terra, scompostamente, con lei. Veronica gli si sedette sul torace, una mano a stringergli il collo: lanciò una rapida occhiata oltre la stanza, a un Michele ormai rassegnato, quasi a chiedergli il permesso di strozzarlo.
Quello sussultò, non aspettandosi di essere chiamato in causa, e scosse la testa.
“No, se permetti non credo che strangolarlo sia la soluzione migliore.”
Veronica inarcò un sopracciglio, un sorriso che minacciava di ammorbidirle l’espressione.
“Finirebbe tutto troppo velocemente, Vero.” continuò Michele “Ho messo a fare i popcorn, mi dovete qualcosa di più.”
Veronica fece per annuire quando si sentì sollevare da terra.
“Non credere che finisca qui, ragazzina.” mugugnò Matteo, gettandosela in spalla. 
Ignorò i piccoli pugni che si abbattevano sulla sua schiena e si incamminò verso la camera da letto: aprì la porta con un calcio, lasciò cadere Veronica sul materasso e restò in piedi, immobile, a meno di un metro da lei.
“Visto che basta così poco a dare il via a una rissa,” mormorò “ne intuisco che qualcosa ti turba.” un ghignò gli piegò le labbra mentre si ispezionava la spalla, fissando il punto in cui era certo sarebbe uscito un livido “E questo qualcosa ha a che fare con me, per caso?”
Veronica si sollevò, reggendosi sui gomiti, e lo squadrò. 
Osservò quel perfetto idiota, chiedendosi come fosse possibile che esistessero ancora esemplari dotati di così poco cervello. Prese diversi respiri, cercando di regolarizzare il respiro e di ignorare il dolore alla testa; la gola bruciava maledettamente e la febbre, molto probabilmente, stava salendo.
“Sicura di star bene?”
La voce di Matteo la raggiunse ovattata. Aprì gli occhi e se lo ritrovò davanti, piegato su di lei, un fondo di preoccupazione ben nascosto sotto la solita faccia da schiaffi.
Veronica annuì e la stanza cominciò a girare. Chiuse gli occhi e allacciò le braccia attorno al collo di Matteo nella speranza che le vertigini diminuissero. Lentamente, dopo un tempo indefinito, sollevò le palpebre e notò la foto sul comodino: una spiaggia, un gruppo di persone e Matteo, inconfondibile, al centro della scena; indossava un semplice costume rosso, abbronzato come lei non lo aveva mai visto. Istintivamente si concentrò sul petto del ragazzo: liscio, perfetto, senza alcuna cicatrice.
Veronica lasciò andare il collo di Matteo, girò la foto e lesse la data segnata a matita: 18 luglio 2009. Due anni fa.
Due anni fa, Matteo non aveva ancora la cicatrice.
Veronica sollevò lo sguardo e incontrò quello tesissimo di Matteo che arretrava verso la porta. Sorrise, alzandosi in piedi. Pochi attimi e gli si lanciò contro, facendo sbattere entrambi contro la porta.
Michele sentì il tonfo e sorrise, la ciotola di popcorn in mano. Fece per raggiungerli quando sentì il campanello. Aprì la porta, infastidito dall’interruzione. 
“Popcorn?” sorrise Lorenzo, entrando in casa e prendendogli la ciotola “Sì, grazie.”
“Che ci fai qui?” si stupì Michele, cominciando a chiudere la porta. 
Lorenzo, la bocca piena di popcorn, lo bloccò con un gesto della mano proprio quando Daniele e Marina apparvero sull’uscio.
“Sono vivi?” domandò subito Daniele.
Lorenzo scrollò le spalle, guardandosi attorno: “Non vedo sangue.” 
“Ciao, Mickey!” esclamò Marina, gettandogli le braccia al collo.
Michele si esibì in un pallido sorriso, ricambiando fiaccamente la stretta: “Marina.” mormorò incerto “Che… piacere, rivederti.”
La ragazza sorrise, scompigliandogli i capelli: “Mi farò perdonare anche da te, non temere.”
Una serie di rumori molto poco rassicuranti li raggiunse.
“Non che abbia qualcosa contro i convenevoli.” esordì allora Lorenzo “Tuttavia, forse è il caso di intervenire prima che distruggano la casa.”
Daniele annuì, carezzandosi il pizzetto: mosse un primo passo lungo il corridoio, ma un tonfo più forte degli altri lo interruppe, seguito dallo schianto della porta che si apriva di botto, sbattendo contro il muro. Veronica e Matteo rovinarono a terra, aggrovigliati.
Michele guaì, eccitato, afferrando una manciata di popcorn dalla ciotola che Lorenzo gli porgeva.
Veronica nel frattempo era riuscita ad avere la meglio su Matteo, la bocca che si chiudeva attorno alla spalla del ragazzo.
“Non mordere, ragazzina!” sbottò, rovesciando per l’ennesima volta la situazione.
Veronica, con la coda dell’occhio, notò il piccolo pubblico e si fermò, sorpresa.
“Ti sei arresa?” ghignò Matteo, mal interpretando.
Veronica tornò a fissarlo, un lampo di furore negli occhi: piegò la gamba, gli rifilò un calcio sulla coscia e cercò di sgusciare via da lui, prontamente bloccata. 
E fu a quel punto che si sentì sollevare da terra. Per la seconda volta.
Accadde tutto molto velocemente: senza sapere come si ritrovò stretta fra le braccia del fratello, diversi metri a dividerla da Matteo, bloccato da Daniele. Sospirò, cercando di riprendere fiato. Stanca.
Chiuse gli occhi, grata di avere un solido appoggio dietro di sé: rilasciò il capo contro la spalla di Lorenzo e sorrise appena quando sentì la fresca mano di lui che le si poggiava sulla fronte.
“Michele.” sentì una voce chiamare “La Tachipirina, subito.”
Si lasciò trascinare e annuì sollevata quando avvertì i cuscini del divano sotto di sé. 
Socchiuse gli occhi, individuando dopo vari tentativi la figura di Matteo, abbandonata sulla poltrona. 
“E’ alta, amore?” era una voce diversa questa volta, musicale. Femminile, forse?
“Parecchio, sì.” rispose qualcuno, dandole un minuscolo buffetto sulla guancia “Siete due pazzi, lo sai, cucciola?”
Veronica cercò di annuire ma non era sicura di esserci riuscita. 
“Posso imbottirti di medicine, vero cucciola?”
Veronica sospirò, la testa che si faceva sempre più pesante.
Qualsiasi cosa, pensò.
Qualsiasi cosa, pur di smettere di pensare.

 

 

*

 

 

“Buongiorno.”
Veronica socchiuse gli occhi, la testa che pulsava.
“No, forse dovrei dire buonanotte.” la voce maschile trasudava calma, gentilezza, e in quel momento anche un minimo di incertezza “Oppure, non saprei, esiste il buona mattina?”
Veronica cercò di mettere a fuoco la stanza, se stessa o quantomeno il proprietario della voce. Non era facile.
Cercò di mettersi a sedere ma una mano, salda, la bloccò: “No, cucciola.” 
Veronica finalmente riuscì a inquadrare Daniele: sorrideva, blandamente divertito.
Erano sul divano: lui seduto e lei sdraiata, la testa sulle sue gambe.
“Come ti senti?” chiese Daniele, lanciando uno sguardo veloce al televisore.
Veronica si limitò ad annuire.
“Guardavo questa sottospecie di telefilm.” mormorò Daniele “Il Vampiro del Diario o una cosa del genere.” sbuffò, giocando col telecomando “Non capisco perché tu e Marina impazziate tanto per quel Damon. Non è questo chissà che, capisci? E’ il solito ragazzo cattivo che, guarda caso, diventa anche buono di tanto in tanto. Cioè, a questo punto non è meglio quel Klaus?”
Veronica lo ascoltava, distratta. 
“Se fossi gay ci proverei sicuramente con Klaus.” proseguì Daniele “O con Elijah, forse. Certo…” sembrò riflettere “… se fosse Damon a provarci con me, allora.”
Veronica chiuse gli occhi, sospirando e irrigidendosi subito per il dolore alla gola. 
Daniele si zittì, girandosi verso di lei: una mano già pronta sulla fronte della ragazza.
“La febbre è scesa, cucciola.” sussurrò accorato “La gola fa ancora male?”
Veronica si strinse nelle spalle e mise a fuoco l’orologio di Daniele; sussultò, incredula.
“Sono le tre.” annuì il ragazzo “Te l’ho detto che ti avrei imbottita di medicine, ricordi?”
Veronica scosse la testa e Daniele ridacchiando continuò: “Quando stavi per svenire fra le braccia di tuo fratello, dopo aver giocato alla lotta con quel tuo degno compare.”
A quel punto, sullo schermo, qualcuno si tolse la camicia.
“Passano un sacco di tempo mezzi nudi, eh?” meditò Daniele, impensierito “Dovrei ricominciare ad andare in palestra, mi sa.” 
Veronica roteò gli occhi e gesticolò qualcosa. Daniele la guardò con espressione persa.
“Non ho capito un bel niente.”
Veronica sospirò, afferrandogli il mento con due dita. Lo fissò negli occhi, quindi allargò le braccia come ad avvolgere l’intero appartamento. E Daniele, per puro miracolo, capì.
“Gli altri!” esclamò, felice come un bimbo “Vuoi sapere dove sono gli altri!”
Veronica gli scoccò un bacio sulla fronte.
“Dunque.” cominciò il ragazzo, concentrandosi “Cinzia è tornata per prima: ha girato un po’ per casa e poi si è chiusa in camera. Non vorrei sbagliare, ma ho avuto l’impressione di sentire dei colpi di frusta.”
Veronica annuì impercettibilmente, spronandolo a continuare.
“Simone è arrivato dopo: aveva un portatile in mano ed è corso in camera. Michele lo ha seguito e sono ore che non escono da lì.” Daniele si accarezzò il pizzetto, l’espressione pensosa “Tuo fratello si è dissolto nel nulla non appena hai perso i sensi. Non si è più fatto vivo da allora e non ho idea di dove possa essere.”
Una biondina comparve sullo schermo e Daniele si distrasse, lo sguardo assente. Veronica gli pizzicò il fianco, inviperita.
“Certo che sei intrattabile, senza voce.” mugugnò il ragazzo “Chi ho dimenticato? Marina? E’ in cucina: sta preparando non so quale drink, doverosamente pieno di alcol, che ha detto ti avrebbe fatto bene. E Matteo.”
Daniele indicò la poltrona e Veronica si voltò, sorpresa. Matteo si mimetizzava bene: sepolto sotto strati e strati di coperte, di lui si riuscivano a stento a intravedere i capelli.
“Ancora non si è svegliato. Non vorrei aver esagerato con le dosi…”
Fu l’accenno alle medicine a far scattare la scintilla nella mente di Veronica.
E’ lo stesso di cui mi parlavi sempre, Dani?
“Che hai, cucciola?”
Il Matteo che fuma sempre anche quando c’è il cartello di divieto, giusto, Dani?
“Non mi piace quell’espressione, Vero. Non promette mai niente di buono.”
Veronica si piegò su di lui, sfilandogli una scarpa: prese la mira, puntando alla porta della cucina, quindi la lanciò aspettando che, precisa, centrasse il bersaglio. Marina apparve di lì a poco, una bottiglia in una mano e un bicchiere nell’altra: “Mi avete chiamata?” 
“Non lo so.” mormorò Daniele che, incredulo, osservava i gesti di Veronica.
“Lo so, tesoro.” annuì Marina, avvicinandosi e poggiando le spalle alla libreria.
“Cosa sai?”
Marina incrociò le gambe, scuotendo delusa il capo in direzione del ragazzo: “Quanto tu sia idiota.”
“Io?” trasecolò lui “Perché?”
“Lo ha detto Veronica.”
“Quando?”
“Ora.” sospirò Marina, tornando a guardare i gesti della ragazza “Lo so, tesoro, lo so.”
Daniele le fissò, totalmente perso: “Mi stai prendendo in giro? Non è divertente.”
“Ah, Dani, come devo fare con te?” sussurrò lei, riservandogli un sorriso amorevole “Sei un uomo, amore, non preoccuparti troppo.”
“Che c’entra ora di che sesso sono?”
Marina stava per rispondergli quando un nuovo gesto di Veronica la bloccò, facendola scoppiare a ridere: “Tendenze gay, amore? Non lo avrei mai detto: ti piace Klaus? Come fai a preferirlo a Damon, per l’amor del cielo?”
Daniele spalancò la bocca, basito, negli occhi un lampo di paura.
“Tu.” balbettò “… te lo ha detto lei? Lei?!”
Marina annuì, stringendosi nelle spalle.
“Veronica non può parlare! Come hai fatto? Dov’è il trucco, eh?!”
“Daniele.” sospirò la ragazza, paziente “A differenza di voi uomini che tendete a non afferrare anche il concetto più elementare, noi donne riusciamo a capirci anche solo con uno sguardo.”
A riprova di ciò, Veronica la fissò seria, gesticolando per qualche istante.
“Ti ha consigliato di prepararti, Dani.” tradusse Marina.
Daniele assunse un’espressione terrorizzata mentre Veronica, sfuggendogli abilmente, si inginocchiava affianco alla poltrona. 
“No.” sussurrò inutilmente Daniele, il tono supplichevole.
Veronica lo ignorò e, spietata, infilò le mani fredde sotto la maglia di Matteo. 
“Cosa diavolo…?!” 
Matteo scattò a sedere, gli occhi spalancati e lo sguardo allucinato; si guardò attorno, un brivido che ancora gli percorreva la schiena.
“Che ore sono?” chiese con voce roca “Sembra notte.”
Veronica sorrise e sollevò tre dita.
“Le tre?” ripeté lui, incredulo “Di notte.” realizzò poi, annuendo “Torniamo a dormire?”
A quel commento la biondina scosse appena il capo, guardandolo con commiserazione.
“Devo preoccuparmi, ragazzina?”
Veronica si girò appena, gesticolando, e un’altra ragazza comparve subito, fermandosi di fronte a lui: “Io sono Marina.” esclamò “E’ un piacere conoscerti, finalmente! Ho sentito parlare di te in tutti i modi possibili. Sono leggermente confusa, infatti, ma cercherò di farmi un’idea mia, tranquillo.”
“Piacere mio.” mormorò incerto Matteo, guardandola di sottecchi.
Marina, però, non lo ascoltava più: osservava i gesti di Veronica e scuoteva il capo, a metà fra il riso e il rimprovero.  
“Sei crudele, alle volte.” commentò Marina. 
Veronica alzò gli occhi al cielo e riprese a gesticolare.
“Che sta succedendo?” intervenne a quel punto Matteo, sconcertato.
“Chiacchierano.” gli rispose una voce maschile, cogliendolo totalmente di sorpresa.
“Chi…?” cominciò a chiedere, accorgendosi solo in quel momento del ragazzo che sedeva sul divano: nella penombra non riuscì a scorgerne i tratti.
“Non possono star chiacchierando.” borbottò allora “Veronica non ha voce.”
“Già.” approvò l’altro “Ma sono donne e a quanto pare ci riescono perfettamente anche senza.”
Senza preavviso la luce venne accesa: Matteo, mezzo accecato, scorse il viso di Daniele e trasalì penosamente. “Devo andare.” sussultò, facendo per alzarsi. 
Una mano gli arpionò saldamente la spalla, bloccandolo: “Non ci provare neanche.”
Matteo fissò le due: Veronica, che lo aveva fermato, e Marina, che aveva parlato. 
“Non prendi in giro nessuno.” affermò Marina, decisa.
“Ce l’hai con me?” chiese Matteo.
“Veronica crede che tu sia un idiota.” sorrise dolcemente lei.
“Temo di aver perso il filo del discorso.”
“Tu conosci Daniele!”
“Io non…” spalancò gli occhi, un’illuminazione improvvisa “Stai parlando al posto di Veronica?!”
“Sì.” continuò a sorridergli Marina “E lei è convinta che tu conosca Daniele.”
“Chi è Daniele?”
“Il mio ragazzo. Quello sul divano che si gode la vista di uomini mezzi nudi.”
“Non lo conosco.”
“Lei dice di sì. E aggiunge diversi epiteti che preferisco lasciare alla tua immaginazione.”
“Non lo conosco!”
Matteo scambiò un veloce sguardo con Daniele, si alzò e prese ad arretrare.
“Sentite, questa situazione è a dir poco inquietante.” mormorò Matteo “Vorrei mangiare qualcosa, lavarmi anche. E non ho mai visto prima lo sp…”
Veronica serrò le dita attorno al braccio di Marina.
“Specializzando?” terminò per lui Marina.
Matteo scosse frustrato la testa e sparì in cucina senza un’altra parola.
Veronica strinse Marina in un mezzo abbraccio di muto ringraziamento.
“Oh.” 
Marina ricambiò la stretta: “E’ sempre un piacere, tesoro. Continui da sola o ti servo ancora?”
Veronica rifiutò l’aiuto e corse in cucina, chiudendosi la porta alle spalle.
“Che vuoi ancora, ragazzina?” borbottò Matteo, riemergendo dalla credenza con un pacco di caramelle gommose stretto fra le mani “Non ti è bastato il giochino di poco fa?”
Un orsetto giallo venne decapitato dagli impietosi incisivi del ragazzo: “Credevo che senza voce non avresti dato troppo fastidio, ma a quanto pare mi sbagliavo: hai trovato il modo di parlare lo stesso. Eppure, sai qual è la cosa più buffa?”
La suoneria di un cellulare si diffuse nell’aria, irrispettosa. Matteo, cellulare alla mano, abbandonò la confezione di caramelle nelle braccia di Veronica.
Lei sospirò, osservandolo scivolare silenziosamente fino al bagno. 
Lasciò cadere il sacchetto di caramelle, convincendosi ad andare a letto: si sarebbe raggomitolata sotto le coperte, il cuscino fra le braccia. Superò il due che bisbigliavano sul divano, ignorando ogni cosa. O almeno tentando di farlo.
Fino all’altezza del bagno riuscì nell’intento. Poi la voce di Matteo la raggiunse e i propositi andarono a farsi benedire. Avrebbe fatto finta di niente, avrebbe proseguito, imperterrita e determinata, non fosse stato per il tono: un’inclinazione nella voce di Matteo che non aveva mai sentito. Fredda, granitica. Stanca.
La voce di chi è allo stremo e non è disposto ad ammetterlo nemmeno a se stesso.
“La devi smettere.” lo sentì sibilare.
Veronica indugiò fuori la porta, immobile.
“Lasciala perdere, okay? E’ un’oca, una biondina insulsa.”
Insulsa.
Una parola che fece male quanto una stilettata.
“Parla troppo e riesce a mandarti in fumo il cervello in meno di cinque minuti.”
Biondina insulsa. Oca.
“E’ meglio perderla che trovarla.”
Biondina insulsa. Oca. Parla troppo.
Veronica arretrò, lo sguardo appannato. Ecco. Ecco perché non bisogna mai origliare le conversazioni altrui, si disse. Chiuse gli occhi, chiedendosi dove diavolo fosse finita tutta l’aria. Si allontanò velocemente da quel bagno, avvicinandosi istintivamente all’uscita.
Poggiò la schiena al muro e lo sguardo le cadde sul portachiavi di Cinzia, appeso all’ingresso: una rosa blu con delle gocce di rugiada. Senza pensare, strinse le dita attorno alla piccola rosa. Non fece tintinnare le chiavi, non fece il minimo rumore. Sgusciò fuori dall’appartamento e scese le scale con la testa pesante e il cuore in subbuglio. 
Non pensava, Veronica. Finalmente non pensava.
Uscì dal portone, i piedi che automaticamente la portavano verso la moto. 
Si rigirò la rosa fra le dita, quindi strinse una chiave a caso.
Biondina insulsa.
Poggiò la punta della chiave sul fianco della moto, odiando quella voce.
Insulsa.
Cominciò a strusciare la chiave, imponendosi di non pensare.

 

 

 

 

Veronica si rigirò nel letto, cercando senza fretta di riemergere dal cumulo di coperte in cui si era nascosta. 
“Ben svegliata.”
Spalancò gli occhi e si vide Cinzia accoccolata sul letto, un mazzo di chiavi in mano.
Veronica sospirò, fissando la sua rosa blu fra le dita dell’amica. 
“Sono le otto. Di sera.” la informò Cinzia “Ti invidio, sai? Tutto il giorno a letto, con quell’amore di specializzando che ti porta le medicine e quel mostriciattolo di ragazzino che ti intrattiene.”
Veronica inarcò un sopracciglio.
“Ancora niente voce, eh?”
Cinzia annuì, lanciando le chiavi in aria e riacciuffandole al volo.
“Hai fatto qualcos’altro di interessante? Nessun guaio con l’idiota?”
Veronica si strinse nelle spalle, alzò le coperte e fece cenno all’amica di sistemarsi accanto a lei. Lì, al calduccio, lontane da tutto e tutti.
“E’ strano.” mormorò Cinzia dopo un po’ “Un giorno vi azzuffate e quello dopo neanche vi incrociate?”
Veronica intrecciò le dita con quelle di Cinzia.
“Sai, si dice che l’amore è bello perché litigarello.” citò Cinzia “Per quanto mi riguarda, però, voi due vi divertite decisamente troppo a stuzzicarvi a vicenda. Fra non molto uno dei due si farà male sul serio, tesoro.”
Veronica assottigliò lo sguardo, un pensiero che la colpiva prepotentemente.
“Per questo vorrei che...” Cinzia s’interruppe, fissando sconcertata l’espressione determinata di Veronica “Cosa?” chiese, osservandola mentre sgusciava fuori dal letto e apriva l’armadio “Che stai facendo? Quando ho detto che vi stuzzicate troppo non ti stavo incitando a farlo ancora di più, sai?”
Veronica afferrò a caso delle calze e un vestito. 
“Non puoi uscire, Vero.” Cinzia comparve al suo fianco “Non stai ancora bene.”
Per tutta risposta Veronica agguantò un paio di guanti e una sciarpa, la più pesante che riuscì a trovare: le sventolò davanti al volto dell’amica che, sospirando, roteò gli occhi.
“Che hai in mente?” domandò “Diamine, quanto detesto questa situazione! Odio non sentire la tua voce. Non so cosa diavolo hai combinato stanotte, non so cos’è successo con quell’idiota patentato, non so niente!”
Veronica strinse la mano di Cinzia, interrogandola con uno sguardo.
“Sì, certo che sono con te.” sbuffò Cinzia, sorridendo impercettibilmente.
Veronica aumentò la stretta e accennò con il capo alla porta.
“Visto che proprio dobbiamo andare,” mormorò Cinzia, l’espressione seria “ti avverto: porto le cesoie.”

 

~

 

“Mi piace.”
Michele annuì, accomodandosi meglio. 
L’atmosfera era quella giusta: cori di risate, sottofondo musicale, tintinnio di bicchieri; sì, davvero niente male.
Michele guardò le due ragazze e sospirò: “Tutto bene?”
Nessuna risposta.
Decise di provare il tutto per tutto: “Ho preso quattro in filosofia, oggi.”
Nessuna reazione. Michele sorrise soddisfatto.
“Non è stata colpa mia, però: è la prof. che non capisce niente.” continuò tranquillo “Io le stavo solo spiegando la mia teoria secondo cui tutti i filosofi, mentre si perdevano nelle loro elucubrazioni mentali, erano completamente fumati.”
Quando lo sguardo assente di Cinzia incontrò il suo, provò un’ultima cosa: “Mi chiedevo, Cicì,” azzardò “non è che mi lasceresti dare un’occhiata nel tuo armadio dei giocattoli? Sai com’è, per vedere se trovo qualcosa di…”
A zittire Michele fu uno sguardo di fuoco. Quello di Matteo.
Il ragazzo era sbucato da dietro il bancone, due boccali di birra fra le mani e un sorriso di apparenza sulle labbra. Per puro caso i suoi occhi avevano incontrato quelli di Mickey e il sorriso era scomparso in un attimo.
Matteo poggiò i due boccali su un tavolo a caso e marciò fino a loro: “Che ci fate qui?”
“Avevamo voglia di una birra.” rispose Michele, tentando un sorriso.
“Non qui.” ringhiò Matteo, scuotendo il capo seccamente “Ovunque ma non qui.”
“Oh, dai.” si lamentò il ragazzino “Non ti daremo fastidio, promesso.”
Matteo serrò la mascella. 
“Cinzia.” chiamò, glaciale “Verresti un attimo, per favore?”
Cinzia si alzò, le labbra corrucciate; prima di seguire Matteo, però, si girò verso Michele. 
“Il quattro dovrai recuperarlo.” gli intimò “Per i filosofi fumati dobbiamo approfondire il discorso, ma ti assicuro che non ne uscirà niente di buono. E per i giochini” concluse, sorridente e temibile “se metti piede in camera mia, ne va della tua incolumità.”
Raggiunse Matteo e sbuffò.
“Su, non ho tutta la sera.”
“Ho come l’impressione che tu ce l’abbia con me.”
“E se anche fosse?”
“Perché?”
“Ci deve essere per forza un perché?” sibilò Cinzia “Non posso essere arrabbiata e basta?”
“Non abbiamo tempo.” sospirò Matteo, passandosi le mani sul viso. 
Cinzia fece spallucce e si appoggiò al bancone, composta.
“Dovete andare via.”
“Non prendo ordini da nessuno.”
“Cinzia, non sto scherzando. Davvero, dovete andarvene. Per favore.”
Le ultime due parole furono quelle magiche: Cinzia smise di giocare.
“Che ti prende?”
“Niente.” grugnì il ragazzo, esasperato “Non so neanch’io cosa diavolo mi prende. So soltanto che preferirei sapervi fuori di qui, il prima possibile. Non chiedermi il perché, non lo so. E’ strano, ma…”
Parlando, si era girato per indicare il loro tavolo e un lampo di terrore gli passò negli occhi, lasciandolo senza fiato: “Dov’è Veronica?” abbaiò in direzione di Michele.
Michele sussultò: “Non lo so.” balbettò “Le stavo raccontando di come urlavi stamattina, quando hai trovato la moto graffiata e si è alzata. Credo sia andata al bagno.”
E Matteo si eclissò.

 

~

 

Veronica si guardò allo specchio.
Le mani strette al lavandino, fissava la propria immagine riflessa chiedendosi cosa le fosse successo. Aveva graffiato la moto a un ragazzo. Lei. Veronica Cristina Sandra Merogliesi. Proprio lei.
Veronica si guardava allo specchio e non si riconosceva.
Da quando in qua era sufficiente un ragazzo per sconvolgerla in quel modo? 
Mai prima di lui.
Veronica chiuse gli occhi, avvolgendo meglio la sciarpa attorno al collo. 
Una stupida, ecco cos’era. No. Non una stupida, aspetta. Un’oca. Un’insulsa biondina
Veronica riaprì gli occhi, lentamente, e incontrò lo sguardo del ragazzo.
Si voltò di scatto, sorpresa. Inclinò il capo di lato, accennando un pallido sorrido che il giovane ricambiò generosamente.
“Ciao.” fece lui, avvicinandosi di un passo “Ti ricordi di me?”
Veronica era incerta: aveva l’impressione di averlo già visto, eppure non riusciva a focalizzarlo. Scosse piano la testa, stringendosi nelle spalle. E lui sorrise, ancora di più.
“Domenica.” disse “Mi sarei presentato volentieri, se Matteo non fosse scappato via in quel modo.”
Veronica annuì, rammentando: il ragazzo che era uscito dal bagno, chiudendosi la patta. 
Annuì, muovendo qualche passo verso l’uscita. Quando provò ad aprire la porta, però, la porta non si mosse di un millimetro. Sollevò lo sguardo e vide una mano, quella del ragazzo, poggiata sul legno.
“Hai fretta?” chiese la voce alle sue spalle “Non puoi aspettare un altro po’?”
Lei scosse la testa, gli occhi ancora fissi sulla porta, le dita ancorate al pomello. La mano del ragazzo le strinse la spalla, costringendola a girarsi.
“Insisto.” disse lui, incrociando lo sguardo di Veronica “Aspetta.”
La spinse verso il muro, fermandosi di fronte a lei; Veronica provò a sgusciare via, ma lui la fermò senza problemi. E lei non riuscì più a contenere la paura.
“Fammi compagnia per un po’.” 
Veronica serrò i pugni.
“Sbaglio o sei senza voce, dolcezza?” rise il ragazzo, mandandola nel panico.
Spalancò gli occhi, alzando con forza un ginocchio. Lo voleva colpire, in qualunque modo. Lo voleva picchiare. Castrare. Lui si allontanò di scatto, guardandola divertito.
“Ah! Non si fa!”
Veronica si lanciò in direzione della porta e lui l’afferrò da dietro, bloccandole le braccia.
“Ferma e senza voce.” le sussurrò in un orecchio “Perfetto, no?”
Veronica tremò sotto il tocco di quella mano, gli occhi che pizzicavano. Provò ancora a scalciare, disperata. Non poteva, non doveva, dargliela vinta. 
E poi, di colpo, non sentì più niente.
“Ragazzina?”
Veronica non sentiva niente. Non c’era più quella mano, non era più bloccata.
“Ronnie?”
Non c’era più quella mano.
“Ronnie, ti prego.”
Veronica aprì gli occhi, incontrando uno sguardo più disperato del suo.
“Ora andiamo via.” 
Matteo la prese in braccio, e lei lo lasciò fare.

 

 

“Ronnie.”
Veronica non rispondeva, assente. 
“Ronnie.” mormorò Matteo, accovacciandosi ai piedi del divano “Ragazzina, guardami.”
Veronica sembrò non sentirlo nemmeno.
E lui alzò la voce, un brivido che gli percorreva la schiena.
“Veronica!” 
Le sollevò il mento, incrociando quegli occhi azzurri. Li trovò grandi, lucidi e pieni di paura.
“E’ finita.” disse, la voce ridotta a un sussurro.
Veronica sbatté le palpebre, accorgendosi in quel momento della mano di Matteo nella sua.
“Hai capito?” ripeté lui “Finita.”
E Veronica annuì appena, una lacrima che le scendeva lungo la guancia.
“Finita.”
Veronica annuì ancora, un singhiozzo che le toglieva il respiro. 
Matteo la sollevò di peso, accomodandosi sul divano e stringendola fra le braccia. 
Lei gli si abbarbicò addosso: la testa affondata nell’incavo del collo, le mani serrate sul suo maglione. Quando i singhiozzi aumentarono non poté far altro che rafforzare la stretta. 
“Finita.” mormorò di nuovo, con voce malferma.
Chiuse gli occhi, imponendosi di restare calmo. 
L’attirò ancora più a sé, sussurrando parole senza senso: dolcemente, sperando di calmarla. Cercando di fermare quel pianto che lo stava uccidendo, lacrima dopo lacrima.
Lentamente, i singhiozzi diminuirono, le mani allentarono la presa e Veronica, con gentilezza, sciolse l’abbraccio. 
Matteo provò a sorriderle, la voce che gli veniva a mancare proprio nel momento meno opportuno. Lei continuò ad allontanarsi, i piedi che toccavano terra: le mani del ragazzo non l’avevano lasciata, impercettibili ma presenti. Le sfioravano i fianchi, attente, temendo forse che le gambe non l’avrebbero retta. 
Veronica arretrò di un passo, le braccia strette al petto e Matteo la lasciò andare. 
La guardò andare via, impotente. Maledicendosi per non aver detto niente, per non aver fatto niente. Restò bloccato. Perso.
E poi scattò, correndo quasi, fiondandosi sul balcone. L’accendino già in mano, portò la sigaretta alle labbra e aspirò, l’impressione di riuscire finalmente a respirare.
Reclinò il capo all’indietro e soffiò fra i denti la prima boccata di fumo. Finalmente.
“Eravate proprio un bel quadretto.”
Matteo non trasalì, non reagì neanche. 
Lo aveva visto entrare in casa e poi sparire, silenziosissimo.
Come la cosa non lo aveva urtato prima, non lo toccò nemmeno in quel momento: non mentre aveva una sigaretta fra le mani e un po’ di fumo in gola. Salutò Lorenzo con un breve cenno del capo e aspirò.
“E’ la prima volta che lo vedo.” disse Lorenzo, indicando un Babbo Natale appeso alla ringhiera, chiaramente ubriaco e in procinto di cadere “Di chi è stata l’idea?”
“Se vuoi colpirmi,” sussurrò Matteo senza guardarlo “posso capirlo.”
Lorenzo inarcò un sopracciglio.
“Mi stai dando il permesso?” gli chiese, il riso nella voce.
“Ho detto che lo capisco.” soffiò il ragazzo, allontanando la sigaretta dalle labbra con uno scatto nervoso “Sei venuto per questo, no?”
“No.” 
Lorenzo scosse debolmente la testa, passandosi più volte le mani sul viso.
“Ero convinto di doverti ringraziare.” continuò, atono “Non sei stato tu a mettere in atto il tempestivo salvataggio? Non sei stato tu” il tono divenne tagliente “a fermare quel sudicio bastardo?”
Matteo incrociò lo sguardo furente del ragazzo e chiuse gli occhi.
“Ho rischiato...” gli si spezzò la voce “...di arrivare troppo tardi.” 
“Non è successo.”
“E’ stata colpa mia.” 
“Non a quanto mi risulta.”
“Io…”
“L’unica cosa che potei rimproverarti” lo interruppe Lorenzo “è di non averlo ucciso.”
Matteo sospirò, la sigaretta che gli si consumava fra le dita.
Lorenzo si appoggiò alla ringhiera, il sorriso che gli si congelava sulle labbra: “Come sta?”
“Non lo so.” deglutì Matteo “Davvero non ne ho idea.”
Lasciò vagare lo sguardo, passando dalle lucine intermittenti al Babbo Natale ubriaco e fermandosi, in ultimo, sull’angolo più buio.
Si girò verso Lorenzo, lo sguardo acceso, e sorrise.
“Devi aiutarmi.”

 

 

 

§








 

 

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Capitolo 14
*** Inviti ***




Bugie bianche

                                                                                                

          ≈ Inviti ≈

 

 

Tremava?
Veronica si stiracchiò e confermò la prima ipotesi: sì, il letto stava tremando.
Socchiuse gli occhi, curiosa, per cercarne la causa. Osservò Lorenzo, seduto in poltrona con le gambe appoggiate al suo letto, e si focalizzò sul suo piede che irrequieto, continuava ad agitarsi. Si girò su un fianco e, cautamente, lo bloccò fra i suoi. 
Lorenzo sollevò lo sguardo e accennò un sorriso che non riuscì a riflettersi negli occhi.
 “Alcune le avevo proprio dimenticate.” mormorò, indicando il vecchio album di fotografie che stava oziosamente sfogliando.
Ruotò la sedia così che anche lei potesse guardare: “Questa te la ricordi?”
Un bambino fradicio dall’espressione sconsolata: gli occhioni azzurri spalancati e i capelli tutti arruffati; ad abbracciarlo, inginocchiata al suo fianco, un’esile bimbetta bionda. 
“Ero caduto nella fontana della piazza e…” Lorenzo ridacchiò al ricordo “… e non riuscivo più ad uscirne. Andai nel panico.”
Sorrise, lo sguardo fisso sulla foto: “Tu mi tirasti fuori, prendendomi per i capelli, e mi abbracciasti. Giusto il tempo di riprendere fiato che cominciasti a scuotermi, furiosa: volevi sapere chi mi aveva spinto nella fontana.”
Lanciò una breve occhiata alla sorella: “Anzi, no, tu mi imponevi di dirti chi avesse osato fare una cosa del genere. Quasi mi dispiacque non avere nessuno da incolpare.” 
Lorenzo sospirò e chiuse l’album. Lo stava posando quando, inaspettata, una domanda gli salì alle labbra: “Alla fine hai imparato a nuotare, non è vero, principessa?”
Veronica decise che ne aveva abbastanza. 
“Crepa.”
“Ti è tornata la voce!” saltò su Lorenzo, gli occhi spalancati.
“Posso...” si schiarì la gola, tossendo un paio di volte “Posso alzarmi, adesso?”
“No.”
Veronica gli lanciò uno sguardo incredulo. Lui scosse la testa e si alzò in piedi: percorse avanti e indietro lo spazio del tappeto, i denti che tormentavano l’interno guancia. 
E lo sguardo di Veronica divenne preoccupato.
“Tutto bene, Lori?”
“Lo stai chiedendo tu a me?” non fu più di un sussurro, un gelido sussurro “Assurdo, non trovi? Dovrebbe essere il contrario. Sono ore, ore, che cerco le parole giuste.”
“Hai passato qui la notte?”
“La cosa peggiore è che io quali siano le parole giuste non l’ho mai saputo.” continuò lui, ignorandola “Non ho idea di cosa sia giusto dire né tantomeno fare. Non so consolarti come farebbe Cinzia, o farti ridere come farebbe Michele; non saprei fare nemmeno quello che ha fatto Matteo, qualsiasi cosa sia stata. Sono inutile.”
Veronica chiuse gli occhi, grata di avere di nuovo la voce. Lorenzo poche volte entrava in crisi, ancora più raramente per sciocchezze come quella, ma in ogni caso, quando succedeva, bisognava correre immediatamente ai ripari. 
“Che razza di fratello sono?” bisbigliò lui, sedendosi sul bordo del letto.
Veronica non attese di più, affrettandosi a colmare le distanze per abbracciarlo da dietro.
“Come fai a metterti in testa certe scemenze?” gli chiese, poggiando la testa sulla sua spalla “Sei il mio fratello preferito.”
“Sono il tuo unico fratello.” mugugnò Lorenzo, ma Veronica finse di non sentirlo.
“Mi conosci e mi capisci meglio di chiunque altro. Possiamo evitarci, insultarci, urlare quanto ci pare, ma sappiamo entrambi perfettamente che non cambierà nulla: quando c’è un problema siamo pronti a intervenire. O almeno, tu lo sei sempre stato.”
Abbassò la voce, appena un sussurro: “Non mi hai mai lasciata sola, Lorenzo.”
“Non l’ho ancora ucciso.” 
Veronica guardò la mano di Lorenzo stringere la sua e non sentì il bisogno di chiedere ulteriori spiegazioni. 
“Non mi hai ancora detto come stai.” mormorò lui senza lasciarla andare.
“Bene.”
“Bugia.” si girò a guardarla “Dovresti saperlo che con il fratello migliore del mondo le bugie non funzionano.”
“Non ho mai usato la parola mondo.
“Credevo fosse implicito.”
“No.”
“Nel senso che non sono il migliore del mondo?”
“Esattamente.”
“Mi piazzo almeno al secondo posto?”
“Oh.” ridacchiò Veronica lasciandolo andare “Proprio no.”
“Come?” mise il broncio Lorenzo “E a che diavolo di posto sono, si può sapere?”
Un timido bussare mise fine alla conversazione e il viso di Matteo apparve oltre l’uscio.
“Disturbo?”
“Certo che no.” rispose Lorenzo, alzandosi “Stavo giusto andando via.”
“Dove vai?” 
Lorenzo scosse il capo e le scoccò un bacio sulla fronte.
“Divertitevi!” concluse, sospingendo Matteo all’interno della stanza.
“Ti è tornata la voce.” esclamò Matteo in contemporanea.
“Già.”
“Mi è mancata.”
“Dicevi il contrario.” 
“Mentivo.”
Veronica guardò il suo fievole sorriso e non seppe più che dire.
“Come stai, Ronnie?”
“Non ti ci mettere anche tu.” borbottò lei “Bene. Sto bene.”
“Non sai mentire, ragazzina.”
Veronica alzò gli occhi al cielo: “Non hai idea di quanto tu e Lorenzo vi assomigliate.”
Matteo assunse un’espressione indignata e lei annuì, convinta.
“Oh, sì. Probabilmente è per questo che ti dà sui nervi.”
Quando Matteo fece per avvicinarsi ancora, Veronica gli poggiò una mano sul petto.
“No.” scosse la testa “Lontano.”
Lui inclinò il capo, sorpreso, e Veronica arretrò: “Non mi sono ancora lavata i denti, Teo.”
Matteo accennò un sorriso.
“Non mi hai ancora risposto.”
“L’ho fatto.”
“Come stai?”
“Basta, Teo.”
“Come stai, ragazzina?”
Veronica chiuse gli occhi. 
“Come credi che stia?” sussurrò “Mi sento uno schifo. Mi sento sporca. Continuo a sentire la mano di quel bastardo e... so che non è successo niente, ma...” si bloccò, cercando di riprendere fiato “Ho avuto una gran paura. Tanta, tanta paura.”
Matteo le sfiorò la guancia con la mano e lei crollò. 
“Non mi lasciava andare e io non potevo nemmeno gridare.” bisbigliò, non fidandosi più della sua stessa voce “Non riuscivo a fare niente, non potevo... e lui lo sapeva.”
Si ritrovò di nuovo fra le braccia di Matteo e, finalmente, respirò. 
Con calma, concentrandosi unicamente sul battito del cuore di lui. 
“Mi dispiace.” lo sentì mormorare “Non hai idea di quanto mi dispiaccia.”
“E di cosa?”
“Ragazzina, io...”
“Tu sei arrivato appena in tempo. Non ti basta?”
“No.”
Veronica si allontanò, l’espressione confusa.
Il sorriso di lui, impaziente ed emozionato, non le schiarì certamente le idee.
“Cosa...?”
“Posso farti una sorpresa?”
Matteo non attese risposta: le sgusciò alle spalle, coprendole gli occhi con le mani.
Veronica non si mosse.
“Dai, ragazzina, non farti pregare.” sussurrò divertito “Andiamo?”
“Non credo che…” si sentì tirare in piedi “Dove?” si arrese.
“Non lontano.” 
Veronica si lasciò guidare, passo dopo passo. 
Si fermarono solo un attimo e Veronica sentì qualcosa di caldo avvolgerle il collo.
“Una sciarpa.” le spiegò lui, riprendendo a camminare “Non sia mai che tu perda di nuovo la voce, no?”
“E perché dovrei… ?”
La domanda le morì in gola quando l’aria fresca la investì in pieno. 
“Siamo arrivati.”
“Sul balcone?” sorrise lei.
“Sì.” mormorò Matteo “Pronta?”
Veronica annuì e la mano di lui smise di coprirle gli occhi.
Fu a quel punto che la vide. Il sorriso le si congelò sulle labbra, affievolendosi pian piano.
“Non ti piace?”
Quasi non lo sentì.
Veronica schiuse le labbra, lo sguardo fisso nell’angolo più lontano: lì, dove adesso c’era una doccia.
“Le pareti sono in vetro.” sentì Matteo dire “Così non entra il freddo. L’attacco per l’acqua c’era già, non ho dovuto…”
Sai una cosa, Teo?
“…c’è un pulsante, poi. Se vuoi…” strusciava il piede, Matteo, nervoso “… i vetri si possono opacizzare, così da fuori non è possibile vedere e…”
Ho sempre pensato che mancasse una cosa, qui fuori.
“…naturalmente tuo fratello mi ha aiutato.”
Una doccia.
“E’ merito suo se…”
Una doccia.  Hai idea di come sarebbe carino?
“…e a montarla. Devi ringraziare anche lui.”
Si può fare.
“Non ti piace, Ronnie?”
Si può fare.
Veronica sfiorò dolcemente il vetro con due dita.
E’ implicito che la inaugureremo insieme, eh, Ronnie?
“Ho sbagliato?”
Veronica si girò, scrutandolo, chiedendosi come aveva fatto a innamorarsi di un idiota.
Come se fosse possibile non amare quell’idiota.
E gli saltò addosso, di slancio.
Lo abbracciò con trasporto, i piedi che non toccavano terra, il viso affondato nell’incavo del suo collo: “Grazie.” sussurrò.
Matteo ricambiò la stretta leggermente in ritardo.
“Quindi ti piace?”
“Sì. Sì che mi piace, brutto idiota! Poteva essere altrimenti?”
Gli baciò la spalla e tornò con i piedi per terra.
“Te ne sei ricordato.” mormorò infine.
“Speravo ti tirasse un po’ su di morale.”
“Oh, sono convinto che tu sia riuscito nell’intento.”
Lorenzo sorrise a entrambi, guardandoli palesemente divertito.
“Non eri andato via?” 
Lorenzo si strinse nelle spalle e accennò ai panni puliti che indossava: “Mi sono cambiato, sai com’è. Ho passato la notte su una sedia.”
“Poltrona.” lo corresse Veronica  “Una poltrona estremamente comoda.”
“Piuttosto,” sbuffò Lorenzo “Il tuttofare qui, mi ha incluso nella costruzione della doccia o si è preso tutto il merito?”
Non aveva ancora finito di parlare che le braccia della ragazza strinsero anche lui. 
Lui sgranò gli occhi, ritraendosi appena: “Chiedevo solo.” sogghignò “Non esageriamo con le smancerie, lo sai che non ci sono abituato.”
Veronica lo spintonò, nascondendo un sorriso divertito.
“Colazione?” chiese, superandolo per entrare in cucina.
“Veramente, avevo in mente qualcos’altro.”

 

~

  

“Cinzia?”
Lei sussultò, girandosi sorpresa: “Simone!” sorrise “Che ci fai qui?”
“Lavoro qui, lo sai, no?” arrossì il ragazzo, carezzandosi il collo con una mano.
“Oh, lo so! Ma credevo che il sabato fosse il tuo giorno libero.”
“Ho preso il turno di Matteo.” 
“Ne vale la pena?” 
“Come?”
“Vale la pena di darsi tanto da fare per quella tua sottospecie di amico?”
“Sì.” rispose Simone, sicuro “E’ un amico.”
Cinzia sollevò una camicia da notte rossa e gliela mostrò: “Che te ne pare?”
“Molto… molto carina.” balbettò lui, arrossendo di nuovo.
“No, non sono convinta.” ricominciò a cercare fra le stampelle.
“Come sta?”
“Chi?”
“Veronica. Ho saputo di ieri sera.”
“Oh.”
Cinzia si fermò un attimo, inclinando il capo, un velo di tristezza negli occhi scuri.
“Volevo restare con lei, stamattina.” mormorò “Quei due, però, mi hanno letteralmente cacciata di casa. Così eccomi qui, alla ricerca di un nuovo completino sexy.”
“Chi sono quei due?” domandò, passandosi una mano sul viso. Cercando di ignorare come stessero bene in una frase le parole Cinzia e completino sexy.
“Matteo e Lorenzo.” 
“Cinzia…”
“Questo come ti sembra?” li interruppe lei, mostrandogli un due pezzi nero di pizzo.
“E’… bello.”
“Solo bello?”
“Molto bello.” bisbigliò Simone, le labbra secche.
Cinzia annuì, soddisfatta: “Nero o rosso?”
“Rosso.” 
“Hai ragione. Lo provo subito.”
Simone si guardò i piedi, indeciso sul da farsi; poi sentì la domanda e trasalì, preso alla sprovvista. Completamente alla sprovvista.
“Dove hai passato la notte, Simo?”
“Come… te ne sei accorta?”
“Che non eri in casa?” ridacchiò Cinzia “Certo che sì: non ti sei lamentato.”
La porta si era leggermente aperta, lasciando intravedere la schiena nuda di Cinzia: Simone arretrò di scatto, costringendosi a chiudere gli occhi.
“Non credo di seguirti.” mormorò, la gola secca.
“Sempre quei due” cominciò a spiegare lei “Hanno fatto un baccano infernale per tutta la notte, sul terrazzo. Per costruire una doccia. Una doccia, capisci?”
“Perché… perché hanno costruito una doccia sul terrazzo?”
“Ah, non lo so. Non ho chiesto e non m’interessa. Volevo solo dormire: ho passato tre quarti d’ora a cercare i tappi per le orecchie.”
“Li hai trovati alla fine?”
“Sì.” sorrise Cinzia, guardandosi allo specchio con occhio critico “Non mi hai risposto.”
“Non credo… non credo di poterlo fare, mi dispiace.”
Simone sentì il cigolio della porta e si girò, spalancando gli occhi alla vista di lei.
Cinzia indossava solamente il coordinato rosso, con i bordini neri: assolutamente perfetto.
Per alcuni istanti Simone non riuscì a distogliere lo sguardo; poi, con uno scatto nervoso, le voltò le spalle, il volto in fiamme: “Cinzia!”
“Cosa?” chiese lei “Non ti piace? Ne provo uno diverso?”
“No, no!” balbettò Simone “E’ bellissimo… ti sta benissimo! Io solo… non credevo che…”
Cinzia ridacchiò e rientrò nel camerino per cambiarsi.
“Hai detto qualcosa?” chiese, rivestendosi, convinta di aver sentito qualcosa.
“No.” fece Simone “Sì. No.” batté un pugno sulla parete, serrando gli occhi “Sì.”
“Ti ascolto.” sorrise Cinzia, abbottonando i jeans, curiosa.
“Volevo sapere se… no, niente.”
“Dai, Simo.” sussurrò lei, uscendo con un gran sorriso “Guarda che non mordo.”
“E’ una sciocchezza, ignorami.”
“Non voglio farlo.”
Simone arrossì per l’ennesima volta.
“Ti va di passare del tempo con me qualche volta?” le chiese d’un fiato.
Cinzia inclinò il capo, confusa, il sorriso che sbiadiva. 
“Mi stai chiedendo di uscire?”
Lui scosse il capo, aggiustandosi gli occhiali con dita tremanti: “Ti ho detto che era una sciocchezza. Ignorami, davvero. Fai finta che non abbia parlato.”
“Simone, io…” sospirò, scuotendo impercettibilmente il capo “… non credo sia una buona idea, devi scusarmi, ma davvero non credo che finirebbe bene.”
Simone aveva cominciato ad arretrare e, quando Cinzia smise di parlare, uscì dal reparto quasi correndo. Cinzia alzò gli occhi al cielo. 
“Simone, aspetta!” gemette, seguendolo preoccupata “Simone, per favore!”
“No, no.” scosse il capo lui, cominciando a piegare alcune magliette “Ho sbagliato io a chiedere.”
Cinzia guardò quel concentrato si insicurezze e dolcezza e sentì il cuore che le si stringeva.
Al diavolo.
“Perché me lo hai chiesto?”
Simone fece spallucce, trovando a stento il coraggio di guardarla negli occhi.
“Volevo farlo.” avvampò “Mi piaci.”
Le labbra di Cinzia si piegarono in un sorriso: da sole, di loro spontanea volontà. 
“Va bene.” mormorò, scoccando un bacio sulla guancia del ragazzo “Usciamo.”

 

 

Una giravolta, due, tre.
Veronica sorrise, le braccia allargate, fermandosi lentamente.
“Contenta?”
“E’ bellissimo.” annuì lei, guardandosi attorno soddisfatta “Non credevo aprisse prima di metà dicembre.” aggiunse, aggrappandosi al braccio del fratello.
Lorenzo si strinse nelle spalle, sorridendole a sua volta: “Purtroppo non posso prendermi il merito anche di questo.” 
“Adoro pattinare.” mormorò, allontanandosi di qualche metro per poi tornare indietro a tutta velocità “E questa pista è la mia preferita.”
Lorenzo cercò di scansarsi ma non fu abbastanza lesto. 
“Scusa.” mugugnò la ragazza “Ti ho fatto male?”
“Non troppo.” la tirò in piedi “Non hai intenzione di recuperare Matteo?” 
Veronica  girò su se stessa, gli occhi sgranati: “Che fine ha fatto?” 
“Fermo a bordo campo.” ghignò Lorenzo, indicandole il giovane piegato in due in un angolo della pista ghiacciata “Ci pensi tu?”
“Sì.” sorrise Veronica, slittando già verso di lui “E tu?” aggiunse poi, già lontana.
“Mi fermo per un po’ al bar. Ho voglia di qualcosa di forte.”
Lei sospirò e si fermò con grazia davanti a Matteo:
“Tutto bene, Teo?”
“No.” mugugnò quello, sollevando il viso, le mani sulle ginocchia “Forse è meglio se mi siedo su una panchina, sai? Va bene anche così?”
“Certo.” rispose lei, preoccupata “Sicuro di star bene? Posso fare qualcosa?”
“No, no, tranquilla.” scosse il capo lui “E’ la cosa migliore, però, ne sono convinto.”
“Teo.” cominciò Veronica, squadrandolo con le mani sui fianchi mentre il ragazzo, accovacciato, si affaccendava cercando di allontanarsi dal ghiaccio “Tu sai pattinare, vero?”
“Ho mai detto una cosa del genere, ragazzina?”
La risata di lei lo bloccò, un broncio a piegargli le labbra. Socchiuse gli occhi, irritato, trattenendosi dallo sputare qualche frase al vetriolo. Non era il momento.
“Non sai pattinare!” esclamò lei, fra l’incredulo e l’esilarato “Perché non lo hai detto prima?”
“Non c’è stata occasione.”
“Dici?”
Matteo alzò gli occhi al cielo, girandosi verso di lei non senza difficoltà.
“Eri entusiasta all’idea.” disse semplicemente “Non mi andava di deluderti.”
“Oh.” mormorò lei, la risata che smetteva di colpo.
Veronica lo fissò, il cuore che le si stringeva: “Ci penso io.” sussurrò, decisa, afferrando entrambe le mani del ragazzo. Lo tirò verso di sé, costringendolo a rimettersi in piedi.
“No!” biascicò Matteo, scuotendo il capo con forza “No, Ronnie, no! Sono sempre stato negato sul ghiaccio, davvero. Non è il caso, non è assolutamente il caso! Rischio di rompermi qualcosa, me lo sento, qualcosa di importante. Lasciami andare!”
Lei sorrideva, per niente scalfita:  “Assolutamente no.”
“Ragazzina, ti ordino di lasciarmi. Subito. Ora. Immediatamente.”
Veronica frenò, lasciando che Matteo le sbattesse contro, costretto ad aggrapparsi a lei per mantenere l’equilibrio. Inarcò un sopracciglio.
“Io mi sono fidata.” sussurrò, le dita ancora intrecciate alle sue. 
Lui non si mosse, pietrificato: “Come, scusa?”
“In piscina.” continuò la ragazza “Mi sono lasciata andare, per te. Mi sono fidata, Teo.”
“Non è la stessa cosa.” mormorò lui, lo sguardo implorante.
“Oh, per favore!” rise la biondina, sospingendolo appena, facendolo scivolare piano.
Matteo s’irrigidì, le labbra che impallidivano: “Ragazzina…”
“Ti fidi di me?”
I rumori in sottofondo quasi scomparirono mentre lei attendeva una risposta. E poi, riluttante ma sincero, il monosillabo arrivò.
“Sì.”
“Perfetto.” sussurrò lei, facendo un leggero scatto all’indietro.
Pattinava all’indietro, trascinando Matteo con cautela.
“Rilassati, Teo.” ridacchiò “E’ solo ghiaccio, lo sai? Una caduta non ti ucciderebbe.”
“Odio cadere.” 
Veronica sbuffò. “Hai idea di quante volte al giorno cada io?”
“Non è la stessa cosa.”
“Non controbatto solo perché ho l’impressione che il terrore rallenti il tuo neurone. E poverino, lui è già lento di per sé.” 
“Abbiamo finito?”
“No.”
“Ascolta…”
“Rilassati.” lo interruppe lei “E piega un po’ le ginocchia.”
Stranamente Matteo ubbidì, zittendosi senza opporre alcuna resistenza.
“Ora muovi il piede destro, verso di me… sì, così.”
“Vedi che ci riesci?” sussurrò, soddisfatta.
Incrociarono lo sguardo, un sorriso che nasceva sulle labbra di entrambi.
“Ora il sinistro, Teo. Allunga anche un po’ il passo.”
Matteo scrutava i pattini con diffidenza, ancora non convinto.
“Sto pattinando?”
“Sì.” ridacchiò lei, inclinando il capo, un ciuffo biondo che le ricadeva su un occhio “E sei anche bravo, sai?”
“Lo dici solo per…” lasciò la frase a metà, Matteo, la mano destra che lasciava quella della ragazza. Corse sicura alla fronte di lei, scostando il ciuffo ribelle e arrotolandolo attorno a un dito.
“Che ne dici di una bella doccia, dopo?”
“Tu sei completamente pazzo.” rise Veronica, un timido rossore a tingerle le guance.
“No, euforico direi.” ghignò lui “Ho appena imparato a pattinare, non so se mi spiego.”
“Ringrazia la tua insegnante, allora.”
“Volevo farlo con una doccia calda.”
Si guardarono: il fiato corto, parole bloccate sulla punta della lingua.
E fu a quel punto che caddero.
Insieme, rovinosamente. Scontrandosi di colpo con il ghiaccio, un unico gemito sorpreso.
“Ahi.” mugugnò lui, braccia e gambe aggrovigliate a quelle di lei “E’ duro.”
“Il ghiaccio?” ghignò lei, guardandolo maliziosa.
“Odio cadere.” ripeté Matteo, sollevandosi appena “Ti sei fatta male?”
“Sicuramente più di te.” sorrise Veronica.
“Dici?”
“Non sei un peso piuma, sai?”
“Grazie per aver attutito l’atterraggio, allora.”
“Non c’è di che.”
Il ciuffo ribelle, sfuggito alla presa di Matteo, era di nuovo fuori posto: lui lo scostò e le dita indugiarono sulla tempia della ragazza, procedendo in quella che sembrava una carezza.
“Sei colorata.”
“Colorata?” 
“Sì.” annuì lui “E colorata sei anche tremendamente carina.”
“Siete caduti o tentavate ancora di scannarvi?”
Sussultarono entrambi, guardando verso l’alto.
“Don!” esclamarono, cercando di sciogliere le gambe.
“Salve.” sorrise il ragazzo, palesemente divertito dai loro tentativi di rimettersi in piedi.
Matteo riuscì a mettersi a cavalcioni di Veronica.
“Piace anche a te pattinare?” chiese lei, cercando di non arrossire.
Matteo si alzò e con un solo abile movimento tirò anche lei in piedi. Veronica si resse a lui, le guance che andavano a fuoco.
“Tantissimo.” rispose infine Donatello, squadrandoli con fare interessato “Ho fatto aprire appositamente la pista un po’ in anticipo.”
“Sei stato tu? Come…?”
“Non chiedere.” le consigliò Matteo, avvolgendole i fianchi con le braccia e poggiando il mento sulla sua spalla.
Lei lo lasciò fare, sempre più colorata. 
“Ehi.” mormorò lui “Non muoverti. Non ho alcuna intenzione di cadere di nuovo.”
“Dai che è stato divertente.” 
“Per chi guardava, sicuramente.” ridacchiò Donatello “Vi trovo benissimo, ad ogni modo.” 
Veronica sentì che Matteo s’irrigidiva poco a poco, di riflesso. Avvertì le labbra del ragazzo che si avvicinavano al suo orecchio, leggere: “Perché non lo salutiamo, Ronnie?”
“Sarebbe scortese.” sussurrò lei in risposta, cercando di passare inosservata.
Donatello sorrise sinceramente divertito: “Volete che mi allontani, così discutete in santa pace? Non c’è problema se…”
“Perché non vieni a cena da noi, stasera?” chiese d’improvviso Veronica, facendo sussultare entrambi i ragazzi. Sorrise, leggermente a disagio, attendendo una risposta.
“Da voi?” ripeté confuso il biondino “Come sarebbe da voi?”
“Be’, sì.” fece la ragazza “Matteo e Simone sono venuti a stare da noi quando…”
“Non lo sapevo.” inclinò il capo Donatello, l’espressione ben poco rassicurante di un gatto che ha appena tolto ogni via di uscita a un povero, piccolo topo.
“Quindi accetti?”
“Naturalmente!” allargò il sorriso “Mi chiami tu più tardi, così ci accordiamo?”
Veronica annuì, chiedendosi vagamente che fine poteva aver fatto il suo biglietto da visita.
“A stasera!” salutò Donatello, allontanandosi con grazia “E’ sempre un piacere!”
Lei continuò ad osservarlo mentre pattinava via, uscendo dalla pista: le braccia di Matteo ancora allacciate ai suoi fianchi, immobili. Cercò di girarsi per incontrare il suo sguardo ma la presa del ragazzo era ferrea. 
Lui avvicinò il capo, le labbra ancora poggiate all’orecchio di lei.
“Dimmi che non è appena successo quello che è appena successo.” mormorò “Ti prego.”
“Matteo.” gemette Veronica, mortificata “Non potevo fare altrimenti!”
“Sì, invece.” grugnì lui “Potevi dirgli arrivederci! O meglio ancora, a non più rivederci!”
“Sarebbe stato scortese e lo sai anche tu. E poi è solo una cena.”
“No!” guaì il ragazzo “Tu non capisci. Non puoi capire. Saranno guai, guai, guai… terribili guai.”
“Non essere catastrofico, per cortesia.” sorrise lei, scuotendolo appena.
“Quanto scommetti, ragazzina?”
“Una doccia.” ridacchiò Veronica, girandosi fra le sue braccia.
Matteo la fissò negli occhi, un sorriso che gli affiorava sulle labbra, intrattenibile.
“Una doccia sul terrazzo?”
“Sì, sul terrazzo.” ghignò lei “Se vinco io, ti guardo.” le brillavano gli occhi, l’espressione angelica “Seduta comodamente e con i popcorn.”
“Se invece vinco io.” ribatté candidamente il ragazzo “La inauguriamo assieme.”
Veronica ridacchiò, scuotendo la testa divertita: lo strinse ancora più forte, scoccandogli un rapido bacetto all’angolo della bocca. 
“Vincerò, ragazzina.”

 

 

“Si sente bene, signorina?”
La ragazza annuì, incerta, continuando a fissare un punto preciso all’interno della pista.
Donatello squadrò prima la ragazza, preoccupato, quindi seguì lo sguardo di lei.
“C’è qualcosa che non va?” chiese, gentile, i pattini in spalla.
“Se anche rispondessi di sì?” domandò a sua volta la ragazza, la voce roca, addolorata.
“Non si sa mai.” accennò un sorriso Donatello, avvicinandosi “Potrei fare qualcosa.”
Lei distolse lo sguardo dalla pista e incontrò gli occhi chiari del ragazzo.
“Non c’è niente che non va.” rispose, proponendogli un sorriso niente affatto convincente.
“Se lo dice lei.” si strinse nelle spalle il biondino, porgendole la mano “Donatello.”
Lei lo fissò con sguardo confuso.
“Sofia.”
Il sorriso di lui si allargò, illuminandogli lo sguardo.
“Sofia.” ripeté Donatello senza lasciarle la mano “Un bellissimo nome.”
La biondina sorrise appena, cauta, gli occhi verdi leggermente umidi.
“Devo andare.” bisbigliò, lanciando un’ultima dolorosa occhiata alla pista di ghiaccio.
Donatello seguì nuovamente il suo sguardo e mormorò, pronto: “No, per favore. Lascia almeno che ti offra qualcosa.”
Sofia scosse il capo, declinando silenziosamente l’offerta.
“Insisto. Solo un drink, rapido e indolore.”
“Non credo sia il caso…”
“Non più di cinque minuti, promesso.”
E Sofia annuì, incapace di rifiutare ancora. Annuì, stanca, gli occhi ormai asciutti.
Donatello sorrise, guidandola verso il bar.
Sorrideva, gli occhi puntati sulla pista, lì dove erano fermi quelli di Sofia.
Dove una coppia si abbracciava.
Lì, dove aveva accettato un invito a cena.

 

§








 

 

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Capitolo 15
*** Per favore ***




Bugie bianche

                                                                                                

        ≈ Per favore ≈



 

 

L’urlo rimbombò.
Per tutta la casa, inarrestabile. Un ululato di dolore.
“Il mio piede!” tuonò Matteo, massaggiando la parte contusa “Mi hai… mi hai quasi tranciato le dita, porca di quella miseria!”
Veronica inarcò un sopracciglio, le braccia disinvoltamente incrociate sul petto.
“Sentiamo.” sorrise, divertita dalla danza saltellante del ragazzo “Per quale motivo, di grazia, eri appostato dietro la mia porta?”
“Non ero appostato.” ringhiò lui, poggiando cautamente il piede scalzo sul pavimento.
“Allora era destino che ti tranciassi le dita con la porta.” si strinse nelle spalle lei, avviandosi in direzione della cucina “Non trovi?”
Matteo si morse un labbro, trattenendo a forza la rispostaccia già pronta.
La seguì, recalcitrante e zoppicante, sospirando esasperato.
“Immagino sia inutile pregarti ancora di annullare la cena, vero?”
“Immagini benissimo.” annuì Veronica “Tanto più che ho già chiamato Don: sarà qui fra poco più di un’ora, credo.”
Matteo si fermò, appoggiandosi all’uscio con aria stanca.
“Non hai idea di cosa stai innescando, ragazzina.” borbottò, osservandola frustrato.
Veronica aprì l’armadio, noncurante.
“Servizio blu o verde?” chiese, lanciandogli un’occhiata veloce.
“Non mi ascolti proprio quando parlo, eh?”
“E’ diverso.” lo corresse lei “Ascolto e ignoro ciò che non mi interessa.”
“Io ti interesso?”
La risposta si fece attendere un po’.
“Blu o verde, Teo?” chiese alla fine Veronica senza guardarlo.
Lui ruotò gli occhi, stringendosi nelle spalle e allontanandosi subito dopo.
Veronica si poggiò al ripiano e chiuse gli occhi: “Aspetta!” borbottò poi, seguendolo con aria inviperita. Matteo era già sulla porta, il giubbotto in una mano e le chiavi nell’altra: si voltò appena, guardandola con sufficienza.
“Che vuoi, ragazzina?” chiese, stringendo le dita attorno alla maniglia.
“Dove stai andando?” lo squadrò lei, assottigliando lo sguardo.
“A fare un giro in moto.”
“Oh, no.” ghignò la ragazza, scuotendo il capo “Non credo proprio.”
“Me lo vorresti impedire?” 
“Certo che sì.” annuì lei “Devi aiutare me.”
“Non credo proprio.” le fece il verso, agitando le chiavi “Non sono io che ho organizzato la cena e non sarò io ad apparecchiare la tavola.”
“Teo.”
“In questo particolare caso, devi capirmi, sarebbe come scavarmi la fossa da solo.”
“Matteo.”
“Non ho alcuna intenzione quindi di prendere la vanga in mano.” continuò lui, non cogliendo l’espressione sempre più frustrata della ragazza “Per il colore, poi, forse è meglio il blu.”
Aveva appena finito di parlare, le labbra ancora dischiuse, quando Veronica scattò: si tuffò verso di lui, rapida, sfilandogli il mazzo di chiavi dalle dita. 
Arretrò disinvolta, poggiando le spalle al muro.
“Dicevi?”
“Starai scherzando.” sibilò Matteo, scrutandola incredulo.
“E io che mi sono sempre definita una persona seria.” mise il broncio la biondina, giocando con le chiavi.
“Sono mie.”
“E allora?” si strinse nelle spalle “Il ciò che è mio è tuo, dov’è finito?”
“Non c’è mai stato.” ringhiò lui, avvicinandosi di un passo “Ti stai confondendo ragazzina, quella è la parte che viene dopo il matrimonio.”
“Oh.” annuì contrita Veronica “Forse hai ragione.” continuò, lanciando le chiavi in aria e riafferrandole al volo “Devo averlo scambiato con il sesso, perdonami.”
“Non capisco a che gioco stai giocando.”
“Nemmeno io.” sorrise lei, abbassando lo sguardo verso i piedi del ragazzo “Avevi per caso intenzione di uscire senza scarpe? Cos’è, una nuova moda?”
Matteo non rispose, l’espressione che si induriva, sempre più tesa: “Dammi le chiavi.”
“Non ci penso proprio.”
“Dammi le chiavi, adesso.” scandì, avvicinandosi ancora.
“Altrimenti?”
Appena il tempo di inarcare un sopracciglio con aria di sfida che Matteo, con una finta, tentò inutilmente di bloccarle il polso. Veronica esibì un sorriso vittorioso, sgusciando di lato.
“Non sarà così facile, mio caro.” ghignò, scappando in cucina.
“Non è il momento di giocare!” proruppe lui, inseguendola esasperato.
“E io che stavo per proporti di passare al nascondino.” scosse il capo Veronica, l’espressione delusa, mentre girava attorno al tavolo “Preferisci forse mosca cieca?” ridacchiò, muovendosi guardinga.
“Le chiavi.” ringhiò Matteo, fermo a un angolo del tavolo “Adesso.”
“No.” fece lei, tranquilla.
“Ragazzina.”
“Sì?”
E Matteo si lanciò sul tavolo, cercando di agguantarla. La risata cristallina della ragazza si diffuse nella sala, lieve, riecheggiando appena mentre lei si fiondava sul terrazzo. Matteo la seguì, le labbra talmente serrate da far sospettare che vi fosse un sorriso nascosto dietro. Si fermò, il respiro accelerato, fissandola.
“E ora?” chiese, accennando alla mano che lei sporgeva oltre la ringhiera “Cosa hai intenzione di fare?”
“Tu cosa proponi?” 
“Una doccia?”
Veronica sorrise, gli occhi che istintivamente saettavano verso l’angolo del balcone. Fu il sogghigno che lesse nell’espressione di lui a farle scuotere la testa, sadica.
“E se le lasciassi cadere?” domandò, facendo dondolare le chiavi con semplicità.
“Non lo faresti mai.”
“Mettimi alla prova.” lo provocò, le chiavi che compivano una giravolta più ardita.
“Le posso sempre recuperare.”
“E’ buio.”
“Esistono le torce.”
“No.” si strinse nelle spalle “Non ne abbiamo.”
“Veronica.” mormorò lui, avvicinandosi cautamente.
“Puoi sempre recuperarle domani, però.” aggiunse “Alla luce del sole.”
“Dammi quelle maledette chiavi!” scoppiò Matteo, catapultandosi contro la ragazza. Le finì addosso: i respiri troncati dalla sorpresa dell’impatto, gli occhi spalancati. E nel silenzio che si era venuto a creare, quel piccolo, minuscolo rumore non passò inosservato. 
Chiusero gli occhi, il fiato trattenuto rilasciato sotto forma di sospiro.
Veronica poggiò la fronte sul petto di Matteo, le labbra piegate in una smorfia.
“Sono cadute.” sussurrò mortificata “Scusami.”
“Non fa niente.” scosse il capo lui “Scusami tu, non so cosa mi è…”
Aveva lasciato la frase in sospeso, il corpo che aderiva maggiormente a quello di Veronica. 
La ragazza socchiuse gli occhi, curiosa, cercando di capire cos’altro fosse appena successo: Matteo si sporgeva oltre di lei, attento.
“Qualcosa non va?” bisbigliò, girandosi a sua volta e scrutando oltre la ringhiera.
Fu in quel momento che vide le chiavi: incastrate nella barba del Babbo Natale ubriaco.
“No!” esclamò, dando immediatamente le spalle al pupazzo “Non se ne parla proprio!”
“Non si parla di cosa?” chiese Matteo, gli occhioni grandi e puri, ingenui.
“Tu a cosa stavi pensando?”
“Chi ti dice che stessi pensando a qualcosa?”
Veronica sbuffò, cercando di allontanarsi: Matteo la bloccò, inchiodandola alla ringhiera.
“Dove vai?”
“Dentro.” rispose lei, lapidaria “Devo ancora apparecchiare, sai?”
“Le chiavi ce le ha Babbo Natale.”
“Lo so.”
“Le hai fatte cadere tu.”
“Lo so.”
“E tu le riprenderai.” concluse Matteo, sfoderando un sorriso smagliante.
“Ti sei per caso bevuto il cervello?” sbottò la ragazza fulminandolo “Come diavolo dovrei fare a riprenderle, sentiamo?”
Lui assottigliò lo sguardo, pensieroso: si sporse ancora un po’, cercando di calcolare la distanza.
“Soffri di vertigini?” 
“No... ma no.”
“No a cosa?”
Veronica incrociò le braccia, seccata: “Ricominciamo?”
“Ti mantengo io.”
“Come?”
“Tu ti sporgi oltre la ringhiera.” spiegò Matteo, pratico “Io ti mantengo le gambe, così puoi allungarti quanto vuoi… e prendi le chiavi! Facile, no?”
“Hai fumato qualcosa, vero? Si spiegherebbe anche il desiderio di uscire senza scarpe.”
“Oh, dai! Si può fare, Ronnie: gioco di squadra.”
“Squadra un cavolo!” s’impuntò lei “Schiantarmi al suolo non è uno dei miei progetti più prossimi.”
“Ho detto che ti mantengo io.”
“Sai che consolazione.”
“Non ti lascerei mai cadere.” sorrise lui “Lo sai.”
“Teo…”
“Mettimi alla prova.”
Veronica sospirò, le mani che andavano a coprirle gli occhi, un gemito che le sfuggiva dalle labbra.
“Se cado lo sai cosa ti faccio?” chiese, la voce bassissima.
“A rigor di logica, veramente, se cadi non potresti farmi niente per un bel po’ di tempo.”
“Mi stai spronando a buttarti di sotto?”
“No.” ridacchiò Matteo “No, davvero, farò il buono.”
Lei allontanò le mani dal viso, scrutandolo guardinga.
“Non puoi proprio aspettare finché non arriva qualcun altro?”
“Non è stato qualcun altro a far cadere le chiavi.”
Veronica gli mostrò la lingua. “Va bene.”
Si sporse appena, impaurita, cercando di allungare il più possibile la mano: non sfiorava neanche il cappello di Babbo Natale. Sospirò, facendo per girarsi e dichiararsi sconfitta, quando si sentì sollevare di colpo: squittì, gli occhi sgranati, il cuore che batteva a mille per lo spavento. Matteo le abbracciava le gambe, alzandola senza sforzo.
“Prova ora, ragazzina.” ridacchiò, avvicinandola alle sbarre di ferro.
“Sei pazzo!” sbraitò lei, scalciando “Rimettimi subito a terra!”
“Avevi dato il tuo consenso o sbaglio?”
“Tu avevi detto che mi avresti mantenuta!”
“E cosa ti sembra che stia facendo, eh?” 
“Mi sembra che tu stia cercando di uccidermi!”
Matteo aumentò la stretta attorno alle sue gambe mentre la voce si faceva più calma e rassicurante.
“Non ti lascio cadere, capito? Smettila di agitarti.” mormorò “E recupera quelle dannate chiavi.”
Seguì un momento di silenzio in cui entrambi fissarono Babbo Natale, poi lei sussurrò:
“Reggimi, okay?”
Non attese risposta, sporgendosi per bene e allungandosi senza problemi fino al pupazzo malefico: i capelli che le cadevano sul viso, la sensazione di avere tutto il sangue che scorreva nel senso sbagliato… Veronica sorrise, appurando che sì, una cosa del genere non l’aveva mai fatta. A testa in giù dal balcone dell’ultimo piano? Quando si dice una nuova esperienza...
I muscoli tesi per quel filo di terrore che non avrebbe potuto in alcun modo scacciare, le dita che ansiose si stingevano attorno all’anello d’acciaio delle chiavi. 
“Prese!”
Matteo sorrise e la presa sulle gambe della ragazza si allentò infinitesimamente: Veronica cacciò un grido strozzato e il sorriso del ragazzo divenne risata.
Con un solo movimento rimise Veronica in piedi, gli occhi ancora accesi per il divertimento e una perfetta faccia da schiaffi: lei lo trapassò con lo sguardo, incredula. 
“Sei… sei un cretino!” decise alla fine, assestandogli un calcio sotto il ginocchio “Figlio di…”
Matteo si accarezzò lo stinco: “Oh, dai, è stato divertente!”
“Divertente?!” sibilò lei “Mi stavi facendo cadere!”
“Ho finto di farti cadere, Ronnie.” mormorò, un buffetto lieve sulla guancia arrossata della ragazza.
“Credi di star migliorando la situazione?”
“Ti sei spaventata?” sorrise lui, piegando il capo da un lato.
“Ero…” prese fiato, la mascella serrata “Ero appesa a testa in giù dall’ultimo piano!”
“Per recuperare le mie chiavi.” approvò Matteo, annuendo semiserio.
“Le chiavi, sì.” sussurrò Veronica, fissando improvvisamente l’attenzione su di esse “Le volevi, no?”
Lui intuì di star cadendo in una trappola, ma annuì ugualmente.
“Eccole, Teo.” ghignò, piombandogli addosso “Tutte per te.”
Cominciò a punzecchiarlo con la punta della chiave: il fianco, la pancia, la spalla… sempre più velocemente, sempre meno duramente. Quand’è che la rabbia aveva ceduto il posto allo spasso non avrebbe saputo dirlo con esattezza; l’unica cosa certa era che aveva appena fatto una clamorosa scoperta: Matteo soffriva il solletico.
E rotolarono in cucina fra risa e guaiti. Non sentirono il citofono, non si accorsero della porta che si apriva. 
“Basta.” ansimò Matteo, contorcendosi per sfuggire alla presa di lei “Pietà.”
Veronica, a cavalcioni, si fermò per ponderare la richiesta: pietà? Le dita ferme sui fianchi del ragazzo, il volto alla distanza di un respiro.
“Decisamente no.” decretò alla fine, la risata di Teo ancora nelle orecchie. Con uno scatto piegò la testa dall’altra parte, i capelli che obbedienti si spostavano, e fu a quel punto che con la coda dell’occhio percepì un movimento anomalo: deviò lo sguardo dal sorriso di Matteo e pietrificò.
Fermi nell’ingresso, attoniti, erano in due.
Veronica balzò in piedi, le mani che tentavano goffamente di rassettare la gonna del vestito.
“Siete…” balbettò, le guance purpuree “… siete già qui.” sfiatò come se ogni singola parola fosse impossibile da pronunciare. Cercò di ignorare il corpo di Matteo ancora steso sul pavimento e sorrise falsamente al fratello.
“Gentile da parte tua farlo entrare.” sibilò.
Lorenzo sorrise a sua volta, stringendosi impercettibilmente nelle spalle.
“Mi hai dato tu le chiavi, principessa.”
“Non è vero.” ringhiò lei, stringendo le mani l’una nell’altra per impedirsi gesti inconsulti “Posso offrirvi qualcosa da bere? Non è ancora pronto ma…”
“Abbiamo per caso interrotto qualcosa?” la interruppe Lorenzo.
“No.” borbottò Veronica, fissando Matteo e spronandolo silenziosamente ad alzarsi “Certo che no.”
Matteo guardava il soffitto, disinteressato al resto. Forse anche un po’ deluso?
“Aranciata, allora?” domandò Veronica, tesa, squadrando con un velo di preoccupazione la figura sorridente di Donatello. 
“Oppure the, o acqua… o preferite passare già agli alcolici?” 
Lorenzo fortunatamente sbloccò la situazione dirigendosi in cucina con passo sicuro. Prima di sparire lanciò un’occhiata veloce a Donatello: “E’ stato un piacere conoscerti, comunque. Situazione imbarazzante a parte.”
Veronica sospirò e, scavalcato Matteo, si avvicinò all’ospite.
“Mio fratello.” mormorò a mo’ di spiegazione “Scusalo.”
“E di cosa?” sorrise Donatello, togliendosi la giacca “E’ stato gentile. Ero rimasto fuori, sai? Non rispondeva nessuno al citofono.”
“Oh.” arrossì lei, abbassando lo sguardo “Non… non lo abbiamo sentito.”
“Immaginavo.” annuì lui, piegando le maniche della camicia fino ai gomiti “Allora. Posso aiutare?”
Non aveva finito di parlare che il citofono squillò, facendo trasalire tutti. Dalla cucina provenne un tonfo e le basse imprecazioni di Lorenzo, quindi Veronica si affrettò a rispondere, aprendo il portone.
“E’ Cinzia.” disse, il tono sollevato “Ora c’è qualche possibilità che stasera si possa mangiare.”
“Ah, Veronica.” bisbigliò Donatello, affiancandosi alla ragazza “Ho invitato qualcuno, so che è all’ultimo momento ma è un problema?”
Lei a stento lo sentì, il viso che già si sporgeva oltre la porta in attesa dell’arrivo di Cinzia.
“No, no nessun problema.” rispose frettolosamente, una muta imprecazione ferma sulla punta della lingua.
E in quel momento Cinzia comparve sulle scale, ridente, seguita da Simone. Facevano gli scalini due a due, già senza fiato, le voci che si accavallavano: Veronica si scansò appena in tempo, tirandosi dietro Donatello.
La porta si spalancò di colpo lasciando entrare i due allo stremo delle forze: la brunetta esultò, spintonando giocosamente il ragazzo. Lui scosse la testa, le mani sulle ginocchia, e sollevò faticosamente un dito.
“E’ parità.” sfiatò, sfilandosi gli occhiali, un sorriso smagliante a illuminargli il volto.
“Parità?” gli fece il verso lei, incredula “Ho vinto alla grande!”
Simone ridacchiò, rimettendo gli occhiali e guardandola fisso: Cinzia smise di ridere, il sorriso che si velava di imbarazzo. Piegò il capo, riprendendo fiato. E lui abbassò gli occhi, annuendo.
“Hai vinto tu.” fece, arruffandosi i capelli rossi.
Sulla scena calò un silenzio strano: dolce, in qualche modo. Rilassato. 
Poi Lorenzo uscì dalla cucina.
“Che si mangia, gente?” chiese, addentando un panino improvvisato “Sto morendo di fame.”
Scavalcò Matteo e si avviò in direzione del divano.
“C’è anche lui.” sospirò Cinzia.
Veronica spinse Donatello davanti all’amica.
“Lui è Donatello.” mormorò, rapida  “Donatello, lei è Cinzia: la mia coinquilina.”
“Enchanté.” sussurrò il giovane, afferrando la mano di lei. Cinzia ritirò le dita, le labbra piegate in un sorriso saputo mentre arretrava verso la cucina:
“No, grazie. Di serpi ne conosco a sufficienza.”
Veronica ridacchiò, rivolgendo un sorriso di scuse al ragazzo.
“Scherzava, Don.” disse “Scherzava, naturalmente.”
Simone nascose il sorriso dietro a una mano e si avvicinò, gli occhi fissi su Matteo.
“Che ha?” bisbigliò all’orecchio della biondina.
“Stupidità in stadio avanzato.” rispose lei altrettanto sottovoce per poi indicare prontamente Donatello “Lui è Simone, altro mio coinquilino.” 
Il rosso scosse la testa e accennò un sorriso poco convinto.
“Come sempre non è un piacere, Don.” mormorò, ricevendo un rapido cenno in risposta.
Veronica si accigliò e decise che preferiva non sapere.
Donatello si spostò in salotto e si sistemò sul divano, di fianco a Lorenzo, concentrandosi a sua volta sulla partita. Simone si piegò su Matteo e gli bisbigliò qualcosa.
Fu questione di attimi che si alzarono entrambi, mormorando qualche scusa e un torniamo subito ben poco credibile: percorsero il corridoio a passo di marcia e si chiusero in camera, la porta che sbatteva.
Veronica inarcò le sopracciglia, cercando una remota spiegazione che purtroppo non ebbe il tempo di trovare: la mano di Cinzia la afferrò per il gomito e la trascinò in cucina senza mezze misure.
“Ho sentito Daniele.” cominciò, accendendo il fornello grande e piazzandoci sopra una pentola piena d’ acqua “Non ce la fanno a venire: credo abbiano altro da fare.” ghignò, sistemando il coperchio “E per altro sai bene cosa intendo: fra l’ospedale e lei che fa… cosa fa?, gli resta poco tempo per sdraiarsi assieme come si deve.”
“Matteo mi ha appesa a testa in giù dal balcone.” sussurrò Veronica, riempiendosi un bicchiere di the.
“Carino.” annuì l’amica “Divertente?”
“Abbastanza.”
“Vertigini?”
“No. Finché non ha finto di farmi cadere.”
“Tipico.”
Veronica svuotò il bicchiere e lo passò a Cinzia nuovamente pieno.
“Simone mi ha chiesto di uscire.” buttò lì poi, dando subito le spalle all’altra e aprendo il frigorifero.
“Simon… davvero?” esclamò, prontamente zittita da Cinzia “Scusa, scusa, scusa!” ridusse la voce a un sussurro “E tu? Hai accettato?”
Quando lei non rispose Veronica le si avvicinò, circondandole i fianchi con le braccia.
Mugolò, saltellando sulle punte dei piedi.
“Cicì!” guaì impaziente “Gli hai detto sì?”
Dopo qualche secondo Cinzia annuì impercettibilmente e Veronica non trattenne uno squittio di gioia.
“E’ fantastico!” esultò, scuotendo l’amica “E’ così carino, Cicì! E così dolce e… sorrideva come mai, hai visto? Tutto merito tuo e… non avrete già…!”
“Shh.” la zittì Cinzia, un sorriso divertito a illuminarle gli occhi “Il citofono. Apri, sarà Mickey.”
Veronica corse alla porta: aprì senza neanche chiedere chi fosse e tornò come un fulmine in cucina. Saltellò: “Come, quando, dove?!”
“Ai Grandi Magazzini.” rispose Cinzia, scuotendo appena il capo “Mi stavo provando dei completini quando…”
“Quando…?!”
Ma gli occhi di Cinzia non erano più puntati nei suoi: fissavano la porta, leggermente sgranati. E Veronica sospirò, girandosi di malavoglia. 
“Posso?”
lei.
Per poco Veronica non crollò a terra.
“Sofia?” biascicò, l’espressione di chi ha appena visto un fantasma. Forse sarebbe stato meglio.
La biondina si chiuse attenta la porta alle spalle, sorrise contenta e corse in direzione della padrona di casa. La abbracciò di slancio.
“Che bello rivederti!” gioì, stritolando l’altra “Hai visto che alla fine siamo riuscite a vederci?”
“Sì.” balbettò lei “Ma… cosa ci fai qui? Ti ha invitata Matteo?”
Sofia la liberò dall’abbraccio, confusa.
“Mattèo? No. Non sento Mattèo da…” scosse la testa “Mi ha invitata Donatello.”
“Donatello?”
Il diretto interessato comparve sull’uscio.
“Sì?”
“Eccoti.” sorrise Sofia, avvicinandosi al ragazzo e scoccandogli un bacio sulla guancia “L’ho conosciuto questa mattina, sapete? E… è stato un caso.” spiegò “Parlava di questa cena ed è uscito fuori il tuo nome, Veronica. Così ho accettato l’invito! Sembrava incredibile, sai? Ma vi conoscevate e io volevo rivederti, così…”
Donatello sorrideva, sornione, una mano poggiata sulla spalla della francesina.
“Ti avevo detto, no, che avevo invitato qualcuno?”
“Certo.” mormorò Veronica, le dita che stringevano l’avambraccio di Cinzia.
“Pura casualità, poi, che tu conoscessi già Sofia.” sorriso smagliante. Da schiaffi.
“Ci credo.” fece lei, le unghie che penetravano l’avambraccio dell’amica.
“Perché, se posso, hai pensato a Matteo?”
Oh, sì. Lo avrebbe preso a schiaffi.
“Giusto.” si accigliò la francesina “Come mai hai pensato a Mattèo?”
E Cinzia sfilò il braccio dalla presa di Veronica.
“Andiamo di là, vi va?” chiese agli ospiti “E porto gli alcolici, credo sia decisamente arrivato il momento.”
Cinzia sospinse Sofia verso il salotto, trattenendosi dallo spingerci Donatello con un calcio.
Mentre si avvicinavano al divano Lorenzo si alzò, lo sguardo sempre fisso sullo schermo, e porse la mano alla nuova arrivata: “Piacere.” mormorò, totalmente assente.
Sofia ridacchiò, dando di gomito a Veronica: “Gli uomini e lo sport.”
Un tonfo provenne dal corridoio.
“C’è qualcun altro?” chiese la francesina, sorridente.
“Nessuno di… nessuno di importante.”
“Come? Non ho intenzione di essere maleducata: vado a salutare e…”
“Non ce n’è bisogno!” esclamò Veronica, fermandosi di fronte a Sofia.
“Ha ragione lei.” approvò Donatello “Non è necessario che ti scomodi: li chiamo io.”
Lorenzo imprecò in direzione dello schermo.
“Simone!” chiamò Donatello.
La porta si aprì poco dopo, il ciuffo rosso del ragazzo che faceva capolino.
“Arriviamo subito,” stava mormorando quando, trasalendo, incappò nella figura di Sofia; e la porta gli sfuggì di mano, aprendosi completamente. Al suo fianco comparve Matteo, l’espressione scocciata che in un istante divenne traumatizzata: aprì la bocca più volte, richiudendola con scatti nervosi. Mosse un passo indietro e infine si decise a uscire, l’impressione di starsi dirigendo al patibolo: la francesina lo fissava, incredula.
“Mattèo?” chiese, come per accertarsene “Che ci fai anche tu qui?”
“Aspetta di mangiare.” mugugnò Lorenzo, gli occhi che non perdevano di vista il pallone “Come dargli torto.”
Matteo annuì.
“Oh, ma che bella sorpresa!” gioì la ragazza, gettandogli le braccia al collo e baciandolo sulle labbra.
Veronica distolse lo sguardo.
“Sono in ritardo?”
Dal bagno giunse Silvestro, infreddolito: “Qual è il punteggio?”
“Una schifezza. Meglio per te se non lo sai.” rispose Lorenzo.
Silvestro scorse con lo sguardo i presenti, vagamente sorpreso: “Oh. Buonasera a tutti.”
Un ultimo veloce sorriso e puntò diritto al televisore.
“Un altro coinquilino?” chiese Donatello, il tono angelico.
“No,” mormorò distrattamente Silvestro “arrivo dal palazzo di fronte.”
“Mmm.” annuì Donatello “Mi sembrava di ricordare che qui l’ultimo arrivato fosse Simone.”
Silvestro aggrottò le sopracciglia, gli occhi che saettavano in direzione di Matteo: scorse la sua espressione tormentata e sospirò, sconsolato. 
“Hai deciso di nuovo di andartene?” gli chiese, la lingua più veloce del cervello.
Il silenzio calò di nuovo e, questa volta, era tutto tranne che piacevole. Lorenzo alzò il volume della telecronaca e, mordicchiandosi le unghie, implorò al rigore.
“Andartene?”
Sofia si era allontanata di un passo da Matteo, fissandolo improvvisamente seria.
“Andartene in che senso, Mattèo?”
“In nessun senso.”
“In che senso?” sillabò Sofia, l’indice teso che si poggiava sul petto di lui.
“Ho detto in nessun senso.” ripeté il ragazzo, ma lei non lo ascoltava.
Il tono basso ma ugualmente udibile sibilò: “Sono giorni che non ti fai sentire.”
“Sono stato occupato, mi dispiace.”
“E non rispondi al cellulare.”
“Probabilmente non l’ho sentito.”
“E al garage non c’è mai nessuno.”
“Non so che dirti, io…”
“Da quando abiti qui?”
“Non da molt…”
E si accorse troppo tardi di essere pateticamente caduto in trappola.
Sofia tremò di rabbia.
“Abiti qui?!” ringhiò, la voce che si alzava di livello.
“Sofia, te lo avrei detto.”
“Quando?” gridò la ragazza, lo sguardo allucinato “Quand’è che me lo avresti detto?”
“Dov’è il problema?” alzò a sua volta il tono Matteo.
“Il problema?”
“Già.” borbottò lui “Dov’è il problema?! Non sei contenta che abbia ancora un tetto sopra la testa? Preferivi sapermi sotto qualche ponte, eh?”
“Ma ti ascolti quando parli?” sibilò Sofia “Senti le cazzate che dici?”
“Che voglio un tetto sulla testa? Non mi sembra una sciocchezza, sai? Tanto più che è dicembre, tesoro.”
“Non mi hai detto niente!”
“Te lo avrei detto!”
“Mi riferisco al prima! A quando non sapevi dove andare!”
“Sofia io…”
“Sofia un bel niente! Ho anch’io una casa, porca miseria! Perché non sei venuto da me?!”
“Non volevo…”
“Cosa? Cosa non volevi, sentiamo? Coinvolgere la tua ragazza nella tua vita?!”
Matteo non rispose, respirando frustrato.
Fu con uno scatto che afferrò Simone per il bavero e lo trascinò con sé.
“Andiamo a prendere una boccata d’aria.” sibilò, ignorando le urla di Sofia e chiudendosi la porta alle spalle. Scese le scale di corsa, uscendo nell’aria fredda della notte senza neanche una giacca indosso. Camminò avanti e indietro, forsennatamente. Movimenti agitati, dettati dalla rabbia.
“Matteo.”
Rabbia e risentimento.
“Non dirmi Matteo.” ringhiò all’amico “Glielo avrei detto.”
Delusione e frustrazione.
“Matteo.”
“E’ lei che non capisce.” mugugnò, allontanandosi di qualche altro passo “Non potevo spiegarglielo così… non avrebbe approvato. Lo avrebbe detto a loro.”
Paura e determinazione.
“Matteo.”
“E non posso permetterlo, lo sai vero?” scosse il capo, i denti che mordevano il labbro “Non posso.”
Una speranza che diventava sempre più fievole.
“Matt.”
Una speranza che non voleva saperne di morire.
“Cosa?” abbaiò, gli occhi serrati e la mente ottenebrata “Cosa c’è?!”
“Non è Michele, quello?”
E Matteo si fermò, smettendo di dare le spalle a Simone e seguendo lo sguardo del ragazzo. Si erano allontanati di parecchi metri dal portone del palazzo e proprio lì, confuse nella penombra, c’erano due figure.
Una più minuta, le spalle rivolte alla porta, e sì, sembrava proprio il loro piccolo topo d’appartamento. Fece per annuire, Matteo, dando ragione a Simone.
Stava per farlo, quando finalmente capì il perché del tono preoccupato dell’amico.
Successe tutto troppo velocemente: l’altra figura, quella che non aveva proprio calcolato, si gettò su Michele. Veloce, così veloce da non dare modo a Matteo di capire cosa diavolo fosse successo. Troppo veloce.
Semplicemente, Michele crollò a terra. Senza un suono.
Partì correndo: senza pensare, riflettere, considerare. Volò verso Michele.
“Ehi!”
Scansò l’altro, piegandosi sul ragazzino: “Ehi, ehi, ehi!”
Vide Michele sorridere, senza motivo. Un sorrisetto ironico, di pura sorpresa. 
“Stai bene?”
Michele annuì impercettibilmente, cercando di mettersi a sedere: un braccio piegato sullo stomaco, una mano a tamponare l’angolo della bocca. Annuì, accettando l’aiuto dell’altro che con cautela lo tirò su.
Lo aveva appena rimesso in piedi quando sentì una mano che gli si poggiava sulla spalla, rude. Le dita gli serrarono la scapola, facendolo girare verso la strada; Matteo si voltò, squadrando l’uomo che aveva davanti: poco più di un metro e settanta, robusto, il viso coperto da una barba incolta e scura. I piccoli occhi neri trasudavano cattiveria e, in quel momento, ubriachezza.
“Togliti di mezzo.” biasciò l’uomo, cercando di allontanarlo.
Matteo puntò i piedi, lo sguardo che si induriva. Piegò le labbra in un sorriso tirato.
“Il signor Geronimo, immagino.”
“Ho detto togliti.” ringhiò quello “Non sono affari che ti riguardano.”
Cercò di spintonarlo ancora, ma riuscì a spostare Matteo solo di qualche centimetro. 
“Non ci penso proprio.”
“Come?”  il tono si era alzato, traballante, minaccioso.
Matteo si spostò di poco: quel tanto che bastava a posizionarsi proprio davanti a Michele.
“Non ci penso proprio.” ripeté, scandendo le parole, calmo.
“Spostati, cazzo!” sbraitò l’uomo, la mano che si abbatteva impietosa sul volto di Matteo “E tu vieni subito qui, piccolo bastardo!” continuò, furioso, il fiato corto. Cercò di avvicinarsi a Michele ma venne prontamente bloccato e spinto all’indietro, questa volta senza alcuna attenzione. 
“Michele.” sussurrò Matteo, girandosi appena e includendo nell’occhiata anche Simone, poco lontano “Entra nel palazzo, per favore. Arrivo subito.”
Sospinse senza forza il ragazzino e tornò a guardare la strada, ogni briciolo di compassione evaporato.
“Non ci sono parole per descriverla – sibilò, il tono meno calmo che trasudava ripugnanza.
“E’ mio figlio.” ribatté quello, avvicinandosi di un passo.
“Oh, no.” scosse il capo Matteo, il ghigno di prima che tornava a farsi vedere “Non lo è.”
“Con chi credi di star parlando, eh?” rise lui, spintonando il ragazzo, la mano sempre ferma sulla sua spalla. Matteo abbassò lo sguardo su quella mano, su quelle dita… e vide le tracce di sangue. Gli afferrò il braccio e lo girò con forza, piegandolo, mentre l’uomo cacciava un grido improvviso.
L’urlo di chi non si aspetta una reazione.
“Parlo con un bastardo di prima categoria.” ringhiò Matteo senza lasciare la presa e sospingendo l’uomo attraverso la strada “Parlo con uno stronzo che merita di passare il resto della sua esistenza in prigione.”
Un ultimo spintone e fece sbattere il petto dell’uomo contro il muro: “Non ti far più vedere.”
“Faccio quello che mi par…” rantolò lui, gli occhi stravolti.
Matteo aumentò la stretta, il viso che si induriva: “No. Tu non ti farai più vedere.”
Quello non disse niente, crollando lentamente in ginocchio: “Se ti rifai vivo, se ti avvicini ancora una volta a Michele…”
Matteo lasciò la minaccia a metà, l’espressione schifata. Si allontanò, l’impressione che il pacchetto di sigarette che aveva in tasca fosse diventato incandescente. Non poteva fumare. Non era il momento.
Arrancò fino alla porta e premette il pugno contro il vetro: l’uscio venne spalancato, lasciandolo entrare. Si accorse con sgomento del cambiamento di temperatura, lo zigomo che cominciava a pulsare. Guardò i due ragazzi fermi di fronte a lui e sospirò, la mano che andava istintivamente a tamponare un rivolo di sangue sulla guancia; si avvicinò a Michele, le dita che gli agguantavano il mento, sollevandoglielo: sul lato destro della mascella cominciava già a crearsi un alone scuro, mentre il labbro inferiore, tumefatto, faceva presagire il peggio. Matteo allontanò la mano, gli occhi che si chiudevano solo per pochi istanti.
“Che ci facevi con lui?” chiese, un semplice bisbiglio.
Michele sgranò gli occhi e arretrò di un passo. Scosse il capo, gli occhi velati di lacrime e sviò lo sguardo con furia: “Vado di sopra.”  mugugnò.
“Michele, ti ho fatto una domanda.” ribatté Matteo mentre il ragazzino cominciava già a salire gli scalini due a due. Non si girò neanche, svoltando l’angolo; la risposta giunse flebile e sentita: “Fottiti!”
Matteo scalciò contro il muro, senza sapere cos’altro fare. 
“Forse,” mormorò Simone, sfilandosi gli occhiali e cominciando a pulirli meticolosamente con il bordo della camicia azzurra “dico forse, non lo hai affrontato nel modo migliore.”
“Ero preoccupato!” sbraitò l’altro, fissandolo in cagnesco “Mi ha fatto spaventare, quel dannato ragazzino! Hai visto quando è crollato a terra?! Perché diamine era ancora con quel grandissimo pezzo di…”
“E’ pur sempre suo padre, Matt.” sussurrò Simone, inforcando cautamente gli occhiali.
Matteo non disse niente, il respiro che lentamente rallentava.
“La sua famiglia. Ricordi quella minuscola speranza che fa di tutto per non spegnersi?”
Le dita del ragazzo frugarono forsennatamente nella tasca dei jeans, tirandone fuori una sola sigaretta: Matteo la rigirò nel palmo della mano, finendo per sistemarla fra le labbra, spenta.
“Andiamo.” mormorò, lo sguardo basso “Ci riprovo.”
Simone annuì, un sorrisetto che si rifletteva timido negli occhi grigi.
Sul pianerottolo dell’ultimo piano rimbombavano dei colpi cadenzati, soffocati, seguiti da imprecazioni varie. Matteo sospirò, preparandosi al peggio: erano quasi le undici e la serata non accennava a migliorare.
Prese un bel respiro e aprì la porta che nessuno si era preso la briga di chiudere.
Silvestro, l’espressione furiosa, tempestava di pugni la porta della camera di Michele, spronandolo a farlo entrare. Veronica gli si parò davanti, il pollice stretto fra le labbra mentre mordicchiava accanitamente l’unghia chiara.
“Cosa diavolo è successo?” 
Matteo fissò quei due enormi occhi blu e decise che non poteva affrontare anche lei. Non al momento. La superò, scivolando nella cucina e inginocchiandosi davanti al congelatore: ne tirò fuori un sacchetto di piselli congelati.
“Era sangue quello che aveva sul viso?” guaì Veronica, dietro di lui “Perché è corso in camera? Cos’è successo?”
Matteo poggiò i piselli sul bordo del lavandino e afferrò uno strofinaccio pulito: lo inumidì con l’acqua fredda e lo strizzò, quindi ripeté la stessa manovra. Veronica passò all’unghia dell’indice.
“E’ sangue quello che hai sul viso?” gemette “… cos’è successo?”
Matteo sospirò, guardandosi rapidamente attorno: “Disinfettante.” mormorò, assente.
Cinzia, appostata sull’uscio, si volatilizzò. Al suo posto arrivò Sofia.
“Teo.” sussurrò Veronica, piazzandoglisi di fronte e catturandone finalmente lo sguardo perso “Posso fare qualcosa? Qualsiasi cosa.”
Lui piegò le labbra in quello che probabilmente voleva essere un sorriso.
Scosse la testa, poggiandole le mani sulle spalle: “Tranquilla.” bisbigliò “Va tutto bene. Ci penso io.”
Cinzia rispuntò in quel momento, una boccetta di disinfettante in una mano e qualche batuffolo di ovatta nell’altra: li porse a Matteo senza una parola. 
Lui prese tutto, vi aggiunse i piselli e lo strofinaccio, quindi si avviò lungo il corridoio; passò accanto a Sofia senza vederla.
Si fermò accanto a Silvestro: i colpi erano meno duri e frequenti, più disperati. Si girò verso Matteo e lo fulminò, irritato.
“Cosa? Sei pronto a scardinarla?”
Matteo socchiuse gli occhi, sospirando piano: “Scusami.” mormorò “E’ una questione fra me e lui.”
“Non è vero.” sbottò Silvestro “C’entra anche quello, ne sono sicuro.”
“Silvestro…”
“Mi ero ripromesso che mai… non sarebbe dovuto succedere ancora.” sussurrò coprendosi il volto con le mani “Lo arresterò.”
“Silvestro, per favore.” 
“Non finisce qui. Assolutamente.”
Matteo annuì: “Concordo con te.” disse “Ora però lasciami provare, okay?”
Silvestro si allontanò, sedendosi teso sul bordo del bracciolo del divano.
“Michele.” sussurrò Matteo, battendo timidamente le nocche sull’uscio “Sono io.”
Nessuna risposta.
“Mi dispiace per prima.” continuò, poggiando la fronte sul legno.
Niente.
“Possiamo parlare?”
Silenzio.
“Per favore.” mormorò, stimando di non aver mai usato quella parola tante volte in una sola serata.
Neanche in un mese, veramente.
Picchiò un’ultima volta con la mano sull’uscio e chiuse gli occhi, sconfitto.
La chiave girò nella serratura, lasciandolo entrare.

 

~

 

Veronica guardò Matteo chiudersi la porta alla spalle e sospirò, sollevata.
“E’ colpa tua.”
Si girò, stanca, l’impressione che le forze la stessero abbandonando.
“Come, scusa?”
Sofia era ferma accanto a lei, dritta e severa, lo sguardo accusatore.
“Come ti permetti di… è il mio ragazzo.” fece, il tono tanto incredulo quanto offeso. 
“Non so a cosa ti riferisci.” mugugnò, cercando di allontanarsi.
La mano di lei la bloccò, serrandole il polso.
“A come lo guardi, ecco a cosa mi riferisco.”
“Non lo guardo in alcun modo, Sofia.”
“Lo guardi come una donna innamorata.”
“Non è vero.” negò Veronica, lo sguardo che tuttavia non reggeva quello della francesina.
“Oh, sì. Sì che è vero. Quello che non capisco è come tu possa farlo in quanto persona.”
“Sofia…”
“Dov’è finita la solidarietà femminile?” le chiese, fissandola truce “Se fossi stata tu. Se fossi stata tu ad avere un ragazzo e vedessi un’altra che ci prova con lui, che lo guarda come lo guardi tu… come ti sentiresti?”
“Ti sei fatta un’idea sbagliata, Sofia.”
“Certo.” ghignò lei, sarcastica “Come quella volta al ristorante, o come…”
Un telefonino cominciò a squillare, facendo girare entrambe per un attimo.
“Stai sbagliando, davvero.” mormorò Veronica, fissando il cellulare. Era quello di Matteo.
“…o come questa mattina, sulla pista di ghiaccio.” soffiò Sofia “Continuo a sbagliare?”
Veronica non rispose, voltandosi di scatto in direzione della suoneria che aumentava di volume: lo afferrò di slancio, portandolo all’orecchio per pura disperazione. 
“Pronto?”
Come?” la voce era femminile, incredula, quasi non si aspettasse di ottenere risposta “Io… io… mio Dio, è incredibile. C’è… c’è Matteo? Posso parlargli?”
“Mi dispiace, non adesso.” rispose Veronica, scuotendo impercettibilmente il capo.
“Non è lì?” chiese la voce, accorata “Ma sta bene, non è vero?”
“Sì, certo che sta bene.” mormorò “E’ solo occupato… gli dico che ha chiamato?”
“Oh, credo… temo sarebbe inutile.” ridacchiò angosciata la voce “Può, però, riferirgli un messaggio?”
“Certo, nessun problema.”
“Gli dica che… che mi dispiace. Che ci dispiace. Sono mesi che proviamo a contattarlo, glielo dica, va bene? Siamo pronti ad aiutarlo, a qualsiasi costo. Solo… solo, si faccia sentire, va bene?”
Veronica non capiva, ormai totalmente persa. “Signorina, io…”
“Signora.” la interruppe la voce “E gli dica… che la mamma gli vuole sempre bene.”
Veronica restò a corto di parole.
“Va bene?”
“Va bene.”

 

§








 

 

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Capitolo 16
*** E' una minaccia o una promessa? ***




Bugie bianche

                                                                                                

            ≈ E’ una minaccia o una promessa? ≈

 

 


 

“Fammi vedere.”
Matteo si chiuse la porta alle spalle, guardandosi cautamente attorno: la luce era spenta e dalla finestra aperta entrava una fievole brezza.
“Michele, dai.” mormorò, poggiando le cose sul mobile più vicino “Vieni qui.”
Il ragazzino gli dava le spalle: le braccia strette al petto, sbatteva senza forza la fronte contro l’armadio; piano, seguendo un ritmo cadenzato: uno, due e poi ancora. Di nuovo.
Matteo si avvicinò con passo felpato, senza realmente sapere come comportarsi: sfiorò la spalla del ragazzo e quello si allontanò di scatto, come ustionato dal semplice tocco.
Senza una parola si fermò davanti alla finestra, immobile.
Matteo sospirò e si lasciò cadere sul bordo del letto: non aveva la più pallida idea di cosa fare. E se fosse riuscito soltanto a peggiorare la situazione?
“Michele...” mormorò, pesando ogni parola “Mi dispiace per prima. Non so cosa mi è preso, davvero.” continuò “Ero solo… spaventato, credo.”
Michele continuò a non muoversi, una spalla appoggiata al muro e lo sguardo perso nella notte.
“Spaventato per te.”
Matteo ascoltò il proprio respiro rimbombare nel silenzio e si lasciò cadere all’indietro sul materasso, le braccia piegate sul viso. Si sentiva stanco, fin nelle ossa.
Sussultò quando qualcosa di soffice e peloso strusciò contro il suo ginocchio, risalendo piano fino al suo petto. Gli occhi spalancati, osservò nella penombra quella non tanto piccola palla di pelo che lo fissava, l’espressione concentrata.
Poteva un topo avere un’espressione concentrata? Matteo trattenne il fiato mentre Mouse gli si appollaiava sul torace: e ora? Lo doveva lasciar stare? No, no, no. Non poteva… non poteva restare lì. Era meglio se lo faceva cadere, girandosi lentamente semmai: così non si sarebbe fatto male. Stava per ruotare su se stesso quando una voce lo fece trasalire, il cuore che gli saliva in gola.
“Perché...” bisbigliò Michele “Perché non parliamo di qualcos’altro?”
Matteo restò immobile, il timore che un qualsiasi movimento potesse intaccare la già precaria situazione.
“Del tipo?”
“Non saprei.” si strinse nelle spalle Michele “Quello che vuoi.”
“Okay.” mormorò Matteo, inclinando il capo quel tanto che bastava per osservare il ragazzino: era ancora lì, di fronte alla finestra; l’unica differenza era che adesso il piede destro si muoveva, cincischiando con un pallone.
“Che hai fatto stamattina?”
“Una partita di calcetto.”
“Dove?”
“Pochi chilometri dopo…” s’interruppe un attimo, prendendo un respiro profondo “… dopo il mercato all’aperto. Ci sono delle indicazioni se guardi bene.”
Scrollò le spalle per un motivo non ben definito, il pallone che gli rotolava sul piede, risalendo fino al ginocchio: “Hai mai giocato a calcio?”
“Certo.” sorrise Matteo “Chi non l’ha fatto?”
“Io.” sussurrò Michele “Prima di venire qui.”
“Non avevi mai giocato?”
“Mai.” annuì “E’ stato Silvestro a farmi provare per la prima volta.”
“Come…” tentennò, indeciso, timoroso di superare un limite non ben delineato “Come vi siete conosciuti?”
“I primi giorni qui ero un fantasma.” mormorò il ragazzino “Non parlavo, non mi facevo vedere: passavo più tempo possibile da solo, non sopportavo… gli sguardi degli altri. Il modo in cui credevo mi fissassero: quel misto di pietà e commiserazione.”
Matteo non fiatò, attendendo che continuasse. Sperando che lo facesse.
“Poi… non ricordo neanche il perché, ma decisi di cambiare. Radicalmente.”
Una risatina scosse il ragazzo, un velo di amarezza che sembrava calare su di lui.
“Avevo toccato il fondo in un modo e decisi, stupidamente, di provare a toccarlo ancora… diversamente. Così ho conosciuto Silvestro. Nel modo più assurdo che si possa pensare.”
“Hai provato a baciarlo?”
“Non ho detto di aver cambiato sponda.” borbottò Michele, scuotendo il capo.
“Non…”
“Mi arrestò per oltraggio al pubblico pudore.”
Il ragazzino si girò senza fretta, la schiena che si appoggiava all’anta della finestra: un sorrisetto gli incurvava appena le labbra, divertito.
“Oltraggio al pubblico pudore?” ripeté Matteo, gli occhi sgranati “Stai scherzando?”
“Oh, no.” ridacchiò Michele “L’ho conosciuto così: un’approfondita chiacchierata attraverso le sbarre.”
“Ti ha arrestato?!”
“Esattamente.”
“Perché?”
“Te l’ho detto.”
“No, intendo: perché? Cosa diavolo stavi facendo?”
“Non te lo dico.”
“Ma io voglio saperlo!” saltò su Matteo, il topo che rovinava sul materasso “Sono curioso adesso.”
“Non te lo dico lo stesso.”
“Michele, dai, non fare il bambino.”
“Sei bravo a calcio?” chiese invece il ragazzino, il pallone che rotolava fino al letto.
“Io… non mi lamento.” si strinse nelle spalle Matteo, fermandolo “E tu?”
“Abbastanza.”
“Ti piace?” piegò il capo, attento “Ti diverti?”
“Sì.” mormorò Michele “Tanto.”
“La prossima partita?”
“Domani.”
“Siete instancabili.” sorrise Matteo, alzandosi in piedi per sgranchirsi le gambe.
“Perché me lo hai chiesto?” domandò Michele, avvicinandosi piano.
“Così.”
Michele sospirò, sedendosi sul bordo del materasso: Mouse gli si avvicinò immediatamente, il muso che gli sfiorava le dita. Matteo prese lo strofinaccio in mano, attendendo un minimo segno che gli desse il via libera. 
Non si sarebbe mosso senza quel gesto.
“Potrei venire a vedere la partita.” mormorò, giocando con la pezza, il piede che strusciava sul pavimento.
Si sentì lo scatto di un interruttore e la luce di una lampada da comodino illuminò fiocamente la stanza. Matteo si sentì più leggero.
Il via libera. Bontà divina, aveva avuto il via libera.
“Posso?” chiese, inginocchiandosi di fronte a Michele.
Lui annuì, chiuse gli occhi e reclinò il capo all’indietro. 
“Verresti davvero?” sussurrò poi, l’espressione che non lasciava trasparire alcuna emozione.
“Certo.” rispose Matteo “Sempre che trovi il campo.”
“Puoi venire con me.”
“Allora non ci sono problemi.” sorrise, forzatamente, la mascella serrata mentre osservava lo scempio che era quel piccolo viso: il labbro tumefatto, un brutto taglio sulla guancia, il mento scorticato. Passò gentilmente la stoffa sui tagli, ripulendoli dal sangue. Attento a non procurargli troppo dolore.
“Non guardarmi così.” bisbigliò Michele, scostandosi appena.
Matteo incrociò quegli occhi scuri e abbassò i suoi.
Non sopportavo gli sguardi degli altri, quel misto di pietà e commiserazione. 
Li rialzò subito dopo, serio e distaccato.
“Così come?” chiese, sfacciato.
Michele ghignò, ruotando gli occhi: “Sei incredibile.” sussurrò, sbuffando.
“Fammi finire, dai.” fece Matteo, versando un po’ di disinfettante sull’angolo della pezza.
“Sai che anche tu non…”
“Cosa?”
“…qui.” mormorò il ragazzino, un’espressione contrita mentre indicava lo zigomo dell’altro “Ti ha colpito.” aggiunse, la voce che si incrinava, lo sguardo già lontano.
“Non è niente.” rispose subito Matteo “Michele, davvero, non è niente.”
“Ha colpito anche te.” sussurrò lui, senza ascoltarlo, quasi stentasse a credere alle proprie parole “Non so… devo aver sbagliato qualcosa. Non doveva succedere più.”
“Non è colpa tua.” lo scosse Matteo, cercando di attirare la sua attenzione “Non è mai stata colpa tua.”
Gli occhi scuri di Michele sembravano grandissimi: immensi nella loro dolcezza, stracolmi di sgomento e confusione. Umidi, velati da lacrime che cercava con tutto se stesso di trattenere.
“Deve essere colpa mia, lo capisci?” sibilò fra i denti “Come lo spieghi, altrimenti?”
Matteo osservò con la coda dell’occhio Mouse, immobile sotto le dita del padrone. Poi studiò quelle dita: ceree e tremanti. Infine passò al viso del ragazzo. Lo vide traboccante di rabbia, eppure sotto tutto quel rancore: lì, a contatto con l’odio, si scontrò con una disperazione che non seppe fronteggiare.
Una disperazione che sentiva troppo sua.
“Sai che forse non ricordo neanche più come si calcia un pallone?” mormorò allora, il fiato corto, sdraiandosi di fianco al ragazzo. Piegò un braccio sugli occhi, in trepida attesa.
Poi sentì il materasso incurvarsi, un corpo che lo sfiorava appena. 
E Michele gli rispose.

 

 

Uscì con passo felpato.
Chiuse la porta dietro di sé con la massima cura possibile.
Il corridoio era avvolto nella penombra: adocchiò la porta della sua camera e si incamminò. Passo dopo passo, silenzioso e agile come una spia. O come un cretino, pensò, stringendo le dita attorno alla maniglia.
Aveva già dischiuso la porta, quando sentì delle dita arpionargli la caviglia.
E trasalì. Peggio di un cretino. Senza neanche riuscire a trattenere un grido di spavento.
“Ma che sei scemo?” sbottò la ragazza, lasciando andare immediatamente la caviglia di Matteo “Perché hai gridato, Teo?!”
“Mi hai fatto perdere dieci anni di vita.” riprese fiato lui, una mano sul cuore “Perché… perché sei seduta per terra, si può sapere?” borbottò, entrando finalmente in camera.
“Aspettavo te.” rispose Veronica con ovvietà, alzandosi in piedi e seguendo il ragazzo.
Matteo accese la luce, quindi con una fretta apparentemente improvvisa si diresse alla finestra per spalancarla.
“Devo fumare.” soffiò, aprendo il pacchetto con impazienza.
“Fai pure.” si strinse nelle spalle Veronica, avvicinandosi all’interruttore della luce e regolandola in modo che fosse poco più che soffusa: gli occhi iniziavano a farle male.
“Non sapevo che…” mormorò Matteo, sorpreso, accennando alla gradazione di luminosità.
“Non lasciarmi sulle spine, Teo.” lo interruppe lei, sedendosi rigida su uno dei due letti “Cosa… che ti ha detto? Cos’è successo? Come sta?”
“Dorme.”
“Non ti ho chiesto questo.”
Matteo sospirò, agitando nervosamente la sigaretta che stringeva fra due dita.”
“Dammi tregua, okay?”
“E comunque…” soffiò Veronica sdraiandosi con un braccio piegato dietro il capo “Urli come una ragazzina.”
“Due.”
Veronica inarcò un sopracciglio, ben lontana dal capire il perché di quell’affermazione: lui ghignò, spegnendo il mozzicone di sigaretta sul davanzale e prendendone subito un’altra. 
Annuendo all’espressione corrucciata e contrariata della biondina sibilò:
“Con la tua battutina mi hai appena concesso una seconda sigaretta.”
“Opportunista.” lo accusò lei, imbronciandosi “Guarda che è vero: sembravi una ragazzina spaventata.”
“Attenta.” ridacchiò Matteo, aspirando con calma “Stai per concedermene una terza.”
Veronica sbuffò, rigirandosi seccata nel letto. Chiuse gli occhi per qualche minuto, riposando la mente: non durò molto. Sapevano entrambi che non sarebbe stato possibile.
“Dov’è Simone?” chiese infatti, fissando il ragazzo con aspettativa “Credevo fosse tornato.”
“Non torna.” borbottò dopo un po’ Matteo.
“Perché?”
“Ha da fare.” si strinse nelle spalle lui, espirando soddisfatto e appena più rilassato.
“Cosa?”
All’ennesima domanda roteò gli occhi, fulminandola.
“Non ti sembra di star esagerando?”
“Sei tu.” si lamentò lei “Cos’è, ti diverti a fare il criptico? Sono domande semplici, le mie, sai?”
“Non sono dello stesso parere.”
“Facciamo così.” si tirò a sedere Veronica “Tu dammi qualche informazione in più e io ti lascio fumare una terza sigaretta.”
Matteo ridacchiò, scuotendo il capo.
“Sono liberissimo di fumarla, ragazzina.” le fece notare “Non ho bisogno della tua approvazione.”
“Allora parliamo di Michele.” fece lei, alzandosi in piedi e raggiungendolo nei pressi della finestra. Matteo si irrigidì, deviando repentinamente lo sguardo e aspirando un’ultima, intensa boccata.
“Sta lavorando a un progetto.” mormorò, rigirandosi il pacchetto bianco fra le mani, teso.
“Simone?”
“Già.”
“Che progetto?” si avvicinò ancora la ragazza, afferrando il pacchetto di sigarette al volo.
“No comment.”
Veronica prese una sigaretta, muovendola invitante davanti al viso di Matteo.
“Perché dorme fuori?”
“Quando si mettono a lavorare su qualcosa tendono a perdere la cognizione del tempo.”
“Lui e… ?”
“Altri ragazzi.” sbottò Matteo, sfilandole di mano la sigaretta.
“E va bene. Passiamo a Michele.”
“Perché non lasciamo perdere?” provò lui “Dorme, gli ho…”
“Simone mi ha raccontato cosa è successo giù.” lo interruppe Veronica.
“So che non dovevo…” biascicò Matteo, a corto di parole “Ma lui...”
“Grazie.”
E restò zitto. Grazie?
La fissò, cercando la minima traccia di ironia, rabbia o accusa senza tuttavia riuscire a trovarla. Veronica accennò un sorriso, sfiorandogli il braccio con le dita.
“Grazie, davvero.”
“Non ho fatto niente.” si schernì subito lui, allontanandosi appena.
“Hai fatto più di quanto…”
“Non ho fatto niente!” la interruppe nuovamente Matteo, il tono di voce più alto “Niente, capito?!”
“No.” sussurrò lei, squadrandolo confusa “Non ti capisco. Lo hai aiutato, Teo.”
“E chi non lo avrebbe fatto?” sbottò ancora il ragazzo, la mascella serrata e l’espressione sempre più irata.
“Devo essermi persa qualcosa.”
“Chi non sarebbe intervenuto mentre un bastardo di quel genere colpiva un ragazzino?!”
“Temo che il tuo neurone abbia assorbito troppo fumo, Teo.” bisbigliò lei, assottigliando lo sguardo.
“Quello che ho fatto… anche in camera,” si passò una mano fra i capelli, inquieto, la sigaretta ancora spenta fra le dita “gli ho solo disinfettato il viso, capisci? L’esterno. Le ferite. Chiunque poteva farlo.”
Veronica non disse niente, faticando dietro al flusso di parole di lui.
“Per il resto, per la parte meno in vista, ecco: non ho potuto fare niente.”
“Non era compito tuo.” mormorò lei, scuotendo il capo.
“Invece sì!” sbraitò Matteo “Mi ha chiesto aiuto! Si era aperto: poco ma lo aveva fatto! E io l’ho ignorato!”
“Non è colpa tua.” provò ancora Veronica, avvicinandosi di un passo.
“Sì! Come fai a non capirlo?! Avrei dovuto dire qualcosa, fare qualcosa: dovevo aiutarlo! E non ci sono riuscito! Perché il solo intuire quanto grande fosse il dolore che provava… non sono in grado di reggere anche la sua disperazione, dannazione!”
“Nessuno ti ha chiesto di farlo!” sbottò Veronica, arrendendosi all’agitazione del momento.
“Michele!” ribatté Matteo “Lui me lo ha chiesto! E io gli ho girato le spalle!”
“Non puoi salvare tutti!” gridò lei, accalorandosi “Non puoi salvare tutti, lo capisci?!”
Si fissarono in silenzio, inaspettatamente senza parole: il fiato corto, gli occhi lucidi. 
La sigaretta fra le dita di Matteo cadde sul tappeto, abbandonata, e la misera distanza che li separava venne annientata: le mani del ragazzo strinsero il viso di Veronica mentre le labbra si scontravano, avide.
Un bacio improvviso, senza senso. Un bacio dettato dall’istinto, dal bisogno, dal cuore.
La rabbia, la paura e il risentimento sbiadirono, lontani ricordi spodestati dalla passione del momento. Veronica schiuse le labbra, un sospiro che non poteva trattenere. 
“Che stiamo facendo?” sussurrò, gli occhi ancora chiusi.
Le mani di lui scesero piano, indugiando sul collo, fermandosi sui fianchi.
“Non lo so.”
La strinse fra le braccia, le labbra che scivolavano lungo la guancia in una scia bollente sulla pelle.
E’ colpa tua.
Un bacio sulla spalla, le dita che allontanavano la stoffa cercando disperatamente la pelle nuda.
A come lo guardi, ecco a cosa mi riferisco.
Veronica reclinò il capo all’indietro, un brivido che le percorreva rapido la schiena mentre le mani di Matteo si intrufolavano sotto la maglietta: disegnavano arabeschi sottili, perfetti.
Lo guardi come una donna innamorata.
Sfiorarono il gancetto del reggiseno nel momento stesso in cui i suoi denti le solleticarono il collo.
Se fossi stata tu.
Sentiva il respiro di Matteo carezzarle la pelle, i pensieri che ormai diventavano inafferrabili.
Se fossi stata tu ad avere un ragazzo e vedessi un’altra che ci prova con lui…
Matteo cominciò a sollevarle la maglia, inginocchiandosi di fronte a lei.
…che lo guarda come lo guardi tu…
Poggiò le labbra sulla sua pancia, dolce, risalendo lentamente.
Come ti sentiresti?
“Smettila.” sussurrò Veronica, le dita che stringevano le spalle del ragazzo cercando di allontanarlo.
Matteo le baciò un fianco, le mani ferme sulla sua schiena.
Come ti sentiresti?
“Smettila!” gemette ancora, allontanandosi a sua volta.
Matteo spalancò gli occhi, il respiro accelerato, osservandola senza capire: Veronica era ferma poco più in là, una mano a coprirle la bocca, lo sguardo appannato da lacrime non ancora versate.
“Ho sbagliato qualcosa?” bisbigliò, alzandosi in piedi e cercando di avvicinarla.
Veronica annuì, scossa da un leggero tremore mentre si abbassava la maglietta.
“Non sono una…” balbettò, scuotendo con forza la testa “Hai una ragazza! Perché… perché mi fai questo?”
Serrò la mascella, gli occhi puntati sul pavimento, le braccia strette al petto.
“Io non lo so.” sussurrò Matteo, la voce rotta “Mi dispiace, ragazzina, davvero.”
E Veronica sollevò il capo, perché quel soprannome non aveva mai avuto un’inclinazione tanto dolce fra le sue labbra. Scrutò l’espressione persa del ragazzo e sentì di non poter reggere un istante di più.
“Meglio che vada via.” mormorò, facendo per girarsi.
“No.”
Era stato un bisbiglio, quasi inudibile.
“Perché no?” chiese, il tono involontariamente caustico. Perché farsi ancora del male?
“Non ti va di… restare?”
Veronica scosse il capo, cercando con tutta se stessa di non incrociare lo sguardo di Matteo.
Non ci riuscì.
“Resta.”
Negò ancora, muovendo un passo all’indietro. Lui però coprì subito la distanza.
“Resta.” ripeté, stringendole una mano, attirandola delicatamente verso uno dei letti. E Veronica non trovò la forza di opporsi. Si lasciò trascinare, osservandolo con sguardo assente mentre scostava le coperte e si gettava sul materasso, rimbalzando appena. Restò immobile, in piedi. E Matteo le scoccò un pallido sorriso.
“Non vieni?” chiese, intrecciando le dita con le sue e invitandola, senza pressioni.
Veronica chiuse gli occhi, reprimendo un sospiro: si infilò nel letto, la schiena che aderiva al petto di lui. Il braccio del ragazzo la avvolse mentre le coperte ricoprivano entrambi.
“E ora?” domandò lei, le gambe che si legavano a quelle di Matteo “Che stiamo facendo?”
Lui la strinse maggiormente a sé, la fronte poggiata alla sua spalla.
“Dormiamo.”

 

 

“Pronto?”
“Mi devi un favore.” affermò la voce, sicura.
“Chi…?” tentennò Donatello, allontanando il telefono dall’orecchio per controllare il numero a cui aveva risposto “Veronica?!” esclamò subito dopo, un sorriso che gli incurvava le labbra.
“Sì.” sospirò lei “E ripeto: mi devi un favore.”
“Perché mai?”
“Non ti sei divertito a sufficienza ieri sera?”
La risata soffice del ragazzo precedette la risposta svagata.
“Sì, devo ammetterlo: è stato interessante.”
“Anche per me.” accondiscese lei “Non credevo nascondessi un così gran paio di corna sotto quei bei capelli chiari, Don.”
“Non sono tanto grandi, dai.”
“Hai ragione.” soffiò Veronica “Di più.”
“Avevo solo voglia di smuovere un po’ la situazione.” si giustificò lui “Mi sembrava che foste in un punto di stallo, così ho provato a fare qualcosa per aiutarvi.”
“Hai una strana concezione del verbo aiutare, temo.”
Donatello non rispose, lasciando a Veronica il tempo di riordinare le idee.
“Perché lo hai fatto, Don?” domandò, sinceramente curiosa.
“Mi piacete.” sussurrò il ragazzo.
“Chi?”
“Tu e Matteo.”
“Nel senso…” borbottò la biondina “… che ti piacerebbe fare una cosa a tre?”
Donatello scoppiò a ridere. “Smettila.” sospirò “Sono serio.”
Questa volta fu Veronica a non rispondere, attendendo impaziente che lui continuasse.
“Mi piacete, basta.” fece Donatello “Ho semplicemente cercato di aiutarvi.”
“Fingerò di crederci.”
Veronica girò il volante, svoltando rapidamente a destra.
“Allora, visto che ci tieni tanto a dare una mano: dov’è Matteo?”
“E’ questo il favore che ti devo?”
“No, questa è solo una parte.” sussurrò lei “Il resto lo riscuoto in seguito.”
“E’ successo qualcos’altro di cui non sono a conoscenza?”
“Non sono affari tuoi.”
“Oh, su… come pretendi che ti aiuti, altrimenti?”
“Dicendomi dov’è.”
“Hai controllato bene in casa?” ridacchiò Donatello “Sicura che non stia giocando a nascondino?”
“Sono in periferia.” sibilò lei “Dove devo andare, Don?”
“Sei a piedi?” chiese subito il ragazzo, un fondo di preoccupazione appena percepibile.
“No, in macchina.” sospirò Veronica, esasperata “Dove devo andare?”
“Non sapevo avessi la macchina.”
“Non cambiare discorso, Don.”
“Si può sapere perché lo cerchi?” sorrise lui “Deve aver combinato qualcosa, no?”
“No!”
“Veronica…”
“Gli devo solo parlare, Don!” esclamò lei “Ho pensato che…”
“Cosa?”
“Non posso pretendere che qualcuno sia totalmente sincero con me quando io stessa non lo sono, no?”
“E vuoi essere totalmente sincera con lui proprio stamattina?”
“Sì.”
“Questo, perché…?”
“Nasconde qualcosa, Don.” mormorò Veronica “Vorrei solo sapere cosa.”
Donatello restò in silenzio, lasciandola di nuovo sola nell’abitacolo dell’auto.
“Tu sai cos’è che nasconde, vero?” provò ancora la ragazza.
“Superato l’incrocio grande svolta a destra dopo la rosticceria e accosta di fronte alla scuola media.” rispose lui, il tono assente “Da lì prosegui a piedi, lo troverai.”
“Don?”
“Non posso dirti niente, mi dispiace.” sussurrò il ragazzo “Non posso.”
E chiuse la chiamata.
Veronica gettò il cellulare sul sedile del passeggero, contrariata, facendo rapidamente inversione e tornando all’incrocio di cui aveva parlato Donatello. Seguì le istruzioni ricevute, il volto contratto: odiava, odiava con tutto il cuore quella situazione. E non sapeva neanche con chi fosse più giusto prendersela.
Parcheggiò di fronte alla scuola media, tirò il freno a mano e spense la macchina.
Sganciò la cintura, poggiando la testa al sedile per qualche secondo: gli occhi chiusi, respirò piano. Doveva calmarsi.
Scese, sbattendo senza pensare lo sportello: al diavolo, non si sarebbe calmata!
Camminava da un po’, vagando per stradine deserte, quando sentì quelle voci: non lontane, basse, cospiratorie. Tentennò, indecisa se continuare o meno.
Fece per girarsi e tornare alla macchina.
“Allora? Va bene oppure no?”
Matteo?
Pietrificò, la voce del ragazzo che le rimbombava nelle orecchie.
“Non ho tutta la mattina, gente.”
Poggiò la mano contro il muro, l’impressione che dì li a poco avrebbe avuto bisogno di qualcosa a cui tenersi.
Si sporse appena, gli occhi che scrutavano avidi oltre il muro: lì, dietro l’angolo. 
“Sta per scadere il tempo, ragazzi.” mormorò, agitando leggermente la busta che teneva fra le dita.
Erano in tre di fronte a lui: non li aveva mai visti; non fu su di loro che focalizzò l’attenzione, ma sulla busta. O meglio, sulla polvere bianca che conteneva.
Non poteva essere.
Mosse un altro passo, malferma sulle gambe. Quello ci mancava… droga.
“Anche?!” sbottò, non riuscendo a trattenersi.
Scattarono tutti, girandosi verso di lei.
“Che ci fai qui?” ringhiò Matteo, assottigliando lo sguardo.
Che andasse a farsi fottere.
“Ora sono io il problema?” esclamò indignata “Perché non torniamo a te, invece? C’è altro che devo sapere? Non sarai per caso un trans?”
Matteo fece un cenno agli altri tre e si mosse verso di lei, il capo basso.
“Non è il momento, ragazzina.”
“Ho notato.” annuì lei “Sei nel bel mezzo di una transazione importante, o stavate per farvi tutti assieme?”
Matteo le poggiò una mano sulla spalla, portandola nuovamente oltre l’angolo: lontana da sguardi indiscreti.
“Poi ci sarebbe stata un’orgia?”
“Vai a casa.”
“Stavano per arrivare le ragazze o devo tornare all’ipotesi del trans? –
“Veronica, devi andartene.” sussurrò, il tono piatto, calmo, assente.
E lei si sentì infiammare.
“No!” sbraitò, spintonandolo con quanta forza aveva “Perché… perché diavolo sei così?!”
“Veronica…”
“Devo assolutamente tornare all’ipotesi di prima.” soffiò la ragazza “Perché se tu in realtà fossi una donna si spiegherebbero parecchie cose, capisci?”
Matteo si guardò ansiosamente alle spalle, cercando al contempo di costringerla ad indietreggiare.
“Non è che sei anche nei tuoi giorni del mese, per caso?”
“Stai delirando-”
“Perché in questo modo si spiegherebbero i tuoi continui sbalzi d’umore, le tue crisi… l’impressione che dai di soffrire di personalità multiple. E’ una malattia, sai? E tu non sembri tanto normale, devo dirtelo.”
“Vai a casa.”
Veronica strinse le mani a pugno, tese lungo i fianchi.
“E smettila di allontanarmi sempre!” gridò, il pugno destro che partiva in direzione del viso di Matteo senza che lei nemmeno se ne rendesse pienamente conto.
E Matteo si scansò, istintivamente, piegandosi leggermente di lato.
La mano di Veronica si scontrò con il muro, brutalmente, lasciando entrambi sconcertati mentre un silenzio basito scendeva sulla scena. Il ragazzo schiuse le labbra, gli occhi spalancati.
“Cosa diavolo è successo?” chiese, il tono incredulo.
Lei non disse niente, i denti che torturavano la guancia pur di impedire al minimo gemito di farsi sentire.
“Non volevo scostarmi.” balbettò Matteo “Davvero, non l’ho fatto apposta.” provò ancora, cercando invano di afferrare la mano della ragazza: lei arretrò, chiudendo gli occhi umidi.
“Resto fermo questa volta.” tentò il ragazzo “Riprova, dai.”
“Crepa.” sibilò Veronica, sollevando lentamente la mano tremante.
“Fammi vedere.” sbottò Matteo, raggiungendola immediatamente e serrandole il polso: le nocche erano tutte scorticate, un po’ di sangue a imbrattare la pelle.
“Basta…” balbettò, scuotendo piano il capo “Basta metterci un po’ di ghiaccio e… e una semplice fasciatura.”
“Va bene.”
“Non volevo, ragazzina.”
“Va bene.”
Matteo sollevò lo sguardo, incontrando quello assente di lei: non vi era più rabbia, in quegli occhi. Niente più risentimento, accusa o insinuazione. L’unica cosa presente era la delusione. E lui si sentì morire dentro.
“Vai a casa, Ronnie.”
Veronica liberò la mano dalla presa del ragazzo e gli diede le spalle. Si era già allontanata di qualche passo quando il sussurro lo raggiunse, esile.
“Non posso guidare.”
Matteo inarcò un sopracciglio, sperando di aver capito male.
“Come?”
Veronica sospirò, costringendosi a ripetere quelle parole che le costavano tanta fatica.
“Non posso guidare.”
“Allora aspetta.” mormorò lui, arretrando quel tanto che bastava per fare un cenno agli altri ragazzi “Dopo. Ti riaccompagno dopo in moto.”
“La macchina.” sibilò Veronica “Non posso lasciare qui la macchina.”
Matteo cambiò espressione. Fu una trasformazione impercettibile, eppure lei la notò. Era la prima volta che vedeva quell’emozione insinuarsi sul suo volto: il terrore. Prese a scuotere convulsamente la testa, arretrando ancora, quasi sentisse il bisogno fisico di fuggire.
“Non posso.” gemette “Cerca… trova un altro modo, allora.”
Lo sguardo lontano, perso in qualche luogo che a lei non era dato conoscere. Schiuse ancora le labbra come per dire qualcosa ma cambiò improvvisamente idea, decidendo che forse non era il caso: le rivolse un minuscolo cenno e scomparve oltre l’angolo.
Lasciandola lì, nel vicolo: il cuore più in pezzi della mano.  

 

 

“Perché non mi ripeti cosa è successo?”
Veronica sospirò, poggiandosi senza forze al muro. Chiuse gli occhi per un attimo, l’impressione di non poter sopportare un secondo di più il palese divertimento dell’amico.
“Te l’ho già detto, Danny.”
“Lo so.” ridacchiò quello “Voglio risentirlo, però.”
Trascinò una sedia accanto al lettino bianco e prese posto di fronte alla ragazza, un sorriso enorme in viso: “Ti prego.” 
“La mia mano è entrata in collisione con un muro.” sibilò Veronica, lo sguardo basso.
“Così?” chiese Daniele “Improvvisamente? Senza un motivo, senza un perché?”
“Già: le andava così.” soffiò la ragazza “Qualcosa da ridire?”
“Assolutamente no. Solo…”
“Cosa?!” scattò Veronica, facendo per alzarsi senza tuttavia riuscire a sfuggire alla presa dell’amico.
“Mickey mi ha raccontato una versione diversa, tutto qui.”
“Quel piccolo traditore… dovrei tagliargli la lingua, sai?” sbuffò, incrociando le braccia “Lo farò a breve.”
“E’ stata una casualità, cucciola, ti assicuro.”
Veronica ruotò gli occhi, attendendo in silenzio. Daniele sorrise e continuò.
“Mi ha chiamato per invitarmi alla partita di questa sera.”
“Un’altra? Non si stancano mai, quei ragazzini?”
“E mentre parlavamo, casualmente, mi ha chiesto cosa pensassi della tua mano.”
Lo sguardo di Daniele si fece appena più serio, quasi preoccupato.
“E io non sapevo niente della tua mano.” sibilò, un’ombra di accusa nella voce.
“Ci avrà pensato il topastro a illuminarti, no?” si strinse nelle spalle lei.
“Infatti.” annuì Daniele “Avrei preferito fossi stata tu, però, cucciola.
Veronica non disse niente, deviando lo sguardo, assente.
“Avresti dovuto sentire come rideva.” mormorò allora il ragazzo, alzandole il mento.
“Chi?” bisbigliò lei, le labbra imbronciate.
“Michele.”
“Che ti ha detto?”
“E’ dispiaciuto.” cominciò Daniele “Sperava che le cose fossero andate diversamente, capisci?”
“No. Non hai detto che rideva?”
“Sì e no.”
“Non ho tutto il giorno, Danny.”
“Sperava che Matteo fosse un licantropo.”
Veronica inarcò un sopracciglio, lo sguardo spento.
“Mio Dio.” mormorò “Sapevo che le facoltà mentali di quel ragazzino erano basse, ma non credevo fino a…”
“Dai che era bellina.” ridacchiò Daniele, interrompendola.
“Peccato, allora.” ringhiò la ragazza, fissandolo con occhi duri, delusi “Lui non ha provato a baciarmi e io non l’ho schiaffeggiato. Non mi sono rotta la mano e no, non abbiamo a che fare con un dannato licantropo!”
“Fammi vedere la mano.”
Lei sospirò, scuotendo piano la testa.
“Non è niente, Danny, davvero.” accennò un sorriso tirato “Ci ho già pensato io.”
“Sì, mi ha detto anche questo Mickey.”
“Ti ho già accennato al mio progetto di strappargli la lingua?”
“Per questo ti ho fatto venire qui.”
“Guarda che non gliel’ho ancora tirata via, eh.”
Daniele sospirò, ruotando pigramente gli occhi e allungando le dita per afferrarle il polso.
“Questa è la tua fasciatura?”
“Un capolavoro, non trovi?” annuì Veronica, piegando il capo di lato come per osservarla meglio.
“Sono fazzoletti.” mugugnò Daniele, scrutando sconcertato l’ammasso di carta.
“Profumati, però.”
E gli sfuggì una risatina, infrangendo la facciata biasimevole che si era costruito.
“Fazzoletti.” borbottò, togliendoli piano, uno a uno.
Veronica sorrise, chiudendo di nuovo gli occhi e lasciandolo fare.
Daniele sciacquò nuovamente le nocche sbucciate, disinfettò i graffi più profondi e infine, con cura, vi avvolse attorno una garza bianca. Morbida.
“Non è profumata, mi dispiace.” sussurrò, restituendole la mano.
“Non fa nulla.” fece lei, guardandolo con gratitudine “Ho come l’impressione che sia lo stesso una fasciatura migliore della mia.”
“Quando vuoi.” sorrise il ragazzo, sincero.
C’era qualcosa, però, in quello sguardo. Qualcosa di non detto che cercava di venire a galla, di farsi sentire.
“Devi dirmi qualcosa, Danny?” chiese Veronica, confusa.
“Non lo so.” biascicò Daniele, dondolandosi sulla sedia “Forse.”
“Qualcosa di brutto?”
“Non so neanche questo.”
Veronica si zittì, fissandolo senza capire: il ragazzo si era allungato all’indietro, le dita a stringere il pomello della porta. Apparentemente combattuto. Fu poi con una smorfia che aprì di scatto la porta, tornando a sedersi correttamente: l’espressione lontana. Sfuggì lo sguardo dell’amica, fissando il pavimento.
“Probabilmente sto sbagliando, cucciola.” sussurrò, torcendosi le mani.
“Non capisco.”
“Quasi sicuramente non dovevo farlo, lo so.” continuò “Non potevo farne a meno, però.”
“Continuo a non capire.”
“Se ho solo peggiorato la situazione spero riuscirai a perdonarmi.”
“Sai cosa?” bisbigliò Veronica, piegandosi verso Daniele “Forse stai passando troppo tempo con Mickey.”
Sorrise, la ragazza, lanciando distratta un’occhiata fuori dalla porta: un corridoio bianco, sterile, piatto come quello di un qualsiasi ospedale. Non le erano mai piaciuti: troppo tristi, secondo lei. Stava per scuotere Daniele, uno sberleffo già pronto sulla punta della lingua, quando lo vide.
“Non…” mormorò, arretrando appena.
Si era aperta una porta dall’altra parte del corridoio: niente di straordinario. Non fosse stato per il ragazzo che ne uscì, l’espressione talmente distante da sembrare inesistente: lui.
Lo stesso lui che ormai sembrava essere ovunque, in qualunque momento. Il lui che non la lasciava in pace.
Veronica fissò Matteo. Un Matteo che sembrava l’ombra di se stesso mentre si chiudeva la porta alle spalle. Non la vide, non vide niente. Si allontanò lungo il corridoio, una sigaretta che si spegneva fra le dita.
Restò immobile, gli occhi che faticavano ad allontanarsi dal punto in cui fino a un attimo prima c’era lui.
Abbassò lo sguardo, carezzando assente la fasciatura nuova. E poi guardò Daniele.
“Quando…” mormorò, sorridendo con difficoltà “Quando e se questa storia finirà…”
Daniele sollevò il viso, attento, l’incertezza negli occhi.
“…riuscirai a rimettermi insieme con la tua bella garza?”

 

 

*

 

 

“Buonasera anche a te, principessa.”
Veronica sbuffò, chiudendo malamente la portiera.
“Non è una buonasera.” borbottò, aggiustandosi i capelli.
Lorenzo sorrise, avviando la macchina e guardandola con la coda dell’occhio.
“Sei di umore radioso.” commentò “Non mi ringrazi neanche?”
“Devo ringraziarti?”
“Ti sto accompagnando al campetto, no?”
Veronica sospirò, allacciandosi la cintura e facendogli segno di partire.
“Non sono stata io a chiedertelo.” ribatté, inarcando un sopracciglio chiaro “Da chi ti sei fatto incastrare, sentiamo?”
“Michele.” borbottò Lorenzo, lo sguardo fisso davanti a sé “Quel ragazzino è diabolico.”
“Come?” ridacchiò la ragazza “Credevo che peggiore di te non ci fosse nessuno.”
“Gli ho chiesto informazioni sulla tua mano.”
Veronica strinse le labbra, le braccia incrociate al petto.
“Farsi gli affari propri sembra un’usanza ormai andata in disuso.” mugugnò, guardando fuori dal finestrino con aria assente.
“Se fosse stato qualcuno.” fremette Lorenzo, le mani serrate attorno al manubrio “Se fosse stato qualcuno a provare a farti del male…”
“Non è stato qualcuno!” sbottò Veronica, spintonandolo delicatamente.
“Lo so, lo so.” mormorò lui, accennando un sorriso “Questo Michele me lo ha detto.”
“E allora?”
“E allora mi ha detto solo questo!” fece Lorenzo, fermandosi a un semaforo “Ha detto che ti sei fatta del male da sola ma non mi ha detto come o perché!”
Veronica inarcò le sopracciglia, arricciando le labbra.
“Davvero non ti ha detto altro?” chiese senza riuscire a nascondere la sorpresa.
Lui sbuffò qualche parola inarticolata e poi biascicò: “Temeva per la sua lingua.”
E Veronica sorrise, sinceramente divertita.
“Bravo ragazzo.” 
“Io però voglio saperlo!” si lagnò il ragazzo, mettendo su il broncio.
“Ah, no.” s’impuntò lei.
Lorenzo fece per ribattere ma lei fu più veloce a cambiare argomento.
“E come ha fatto a convincerti?”
“Non lo so.” si strinse nelle spalle Lorenzo “Davvero non so come ho fatto a cedere.”
“Non sarà che ti ci stai affezionando?”
“A chi?” si scandalizzò il ragazzo, rallentando “Non ti starai riferendo a quella sottospecie di mostriciattolo che vi ostinate a tenere in casa vostra?”
Veronica scosse il capo, reclinando il sedile all’indietro. Abbassò il volume della radio e mormorò: “Come va all’università?”
Lorenzo le lanciò un’occhiata veloce, aggrottando appena le sopracciglia.
“Normale.” bisbigliò in risposta “Sicura che vada tutto bene, principessa?”
“Eri con qualcuno prima?” domandò lei a bruciapelo, deviando lo sguardo repentinamente.
“Io…” Lorenzo si voltò confuso “Mi sono perso qualcosa?”
“Stai uscendo con qualcuna, Lori?” chiese ancora Veronica “Hai scoperto di essere gay? Stai provando qualcosa di nuovo?”
“Mi stai facendo preoccupare.”
“Non mi dici mai niente.”
“Abbiamo sempre fatto così.”
“Lo so.” sospirò lei “Solo mi chiedevo se ultimamente ci fosse qualche novità.”
Lorenzo fece spallucce, i denti che mordicchiavano un labbro.
“Ero con Serena.”
“Capisco.” fece Veronica, sollevando una mano e mostrando un tanga rosa “E’ suo questo, perciò?”
La macchina sbandò lievemente mentre il ragazzo si sporgeva verso di lei per afferrare frettolosamente gli slip; li infilò nella tasca del giubbotto e fulminò la sorella.
“Piccola vipera.” sibilò, accostando poco dopo “Che ti prende, si può sapere?”
“Niente.” ridacchiò la biondina “E’ che mi chiedevo a chi appartenessero, tutto qui.”
“Serena, credo!” sbottò il ragazzo.
“Credo?”
Lorenzo si massaggiò le palpebre, scuotendo impercettibilmente il capo.
“Potrebbero essere anche di Caterina, non ricordo bene.”
“Rassicurante.” annuì la sorella “Continui con le tue ragazze usa e getta, allora.”
“Non sono usa e getta, Veronica.”
“No, hai ragione.” commentò causticamente lei “Non si dice più così, si dice da una notte e via.”
“Perché fai così?” si voltò Lorenzo “Cosa c’è che non va?”
Veronica scosse il capo, una mano a coprire la bocca.
“E’ colpa di Matteo?”
E lei si lasciò sfuggire un singhiozzo frustrato.
“Perché pensate che abbia sempre tutto a che fare con lui?” 
“Perché ultimamente, guarda caso, è così.”
“Questa volta non lo è!”
“No?”
“No! Mi sto preoccupando per te!” fece lei, accalorandosi “Tu che non riesci a stare per più di un giorno con la stessa ragazza!”
Lorenzo provò a dire qualcosa ma lei lo bloccò, continuando: “Non sei più un ragazzino, lo sai?”
“Non credo che…”
“Non sarebbe il caso di mettere un po’ la testa a posto?”
“Che tu ne dica e dica.” brontolò lui, contrariato “Matteo c’entra sicuramente in questa discussione. E me la pagherà cara, stanne certa.”
“Vedi?! Non riesci a concentrarti! Non ci provi nemmeno! Pensi solo a come…”
“Mi vorrei concentrare, Veronica, lo vorrei!” esplose improvvisamente “E ci ho provato, dannazione! Se non ci sono riuscito è soltanto colpa tua!”
Lorenzo arretrò appena, il capo reclinato all’indietro, contro il finestrino.
“Non capisco.” balbettò Veronica, poggiando delicatamente la mano sul ginocchio del ragazzo.
“E’ colpa tua.” soffiò lui, scostandole la mano “O non sei stata tu a dire a Cinzia di starmi lontana?”
Gli occhi blu del giovane, tanto simili a quelli di lei, erano freddi come da tanto tempo non li vedeva. Gelidi, come aveva sperato di non doverli più vedere.
“L’ho fatto per te.” sussurrò la ragazza.
“Non mi sembra di avertelo mai chiesto.” ribatté lui, lapidario.
“Non sei pronto.” balbettò Veronica “Lo sai anche tu.”
“Cosa…” esclamò Lorenzo “…cosa dovrei sapere? Non so come andrebbe! Non lo so perché tu non mi hai dato modo di provarci!”
“Non potevo!” alzò la voce lei “Non potevo permettere che le facessi del male! Non a lei!”
“Come sai che le avrei fatto del male?!”
“E’ quello che fai! Perché con lei avrebbe dovuto essere diverso?!”
“Perché le persone cambiano, dannazione! O almeno possono farlo per qualcuno!”
Veronica assottigliò lo sguardo, scuotendo impercettibilmente la testa.
“No.” sussurrò “Non è così. Dimmi perché... dimmi perché dovresti cambiare per lei.”
“Ti ascolti quando parli?”
“Sì!” sbottò Veronica “E parlo perché ti conosco! So che tu sei interessato a Cinzia solamente perché è stata la prima a dirti di no! La tua è solo una caccia.”
Lorenzo non rispose, limitandosi a rimettere in moto.
“Non puoi saperlo.” disse infine, il tono piatto “E non mi hai permesso di provarti il contrario.”

 

 

“Ammettilo, dai.”
Michele ruotò gli occhi, continuando a palleggiare con aria indifferente.
“Non ho freddo, Matt.” sospirò, il sorriso nella voce.
“Non ti credo.” borbottò l’altro, scuotendo il capo con disappunto “E’ impossibile che tu non stia morendo di freddo, Mickey. Che ti costa ammetterlo, eh?”
“Mi costa perché direi una bugia.” ridacchiò il ragazzino “Ti assicuro che sto bene.”
“Indossi dei pantaloncini.” mugugnò Matteo, soffiandogli del fumo in faccia “E una dannata canottiera.”
“Ne sono cosciente, sì.” rispose sarcastico Michele, sfilandogli la sigaretta dalle dita.
“Ehi!” scattò quello, cercando invano di riprenderla “Brutto…”
“Posso interrompervi, ragazzi?”
Si voltarono entrambi, leggermente sorpresi.
Michele fissò l’uomo e dischiuse le labbra, lasciando cadere la sigaretta sotto lo sguardo oltraggiato di Matteo.
“Silvestro!” esclamò poi il ragazzino, trovando finalmente la voce “Credevo non saresti venuto.”
“Non mi sarei perso la partita per nulla al mondo.” sorrise lui, inclinando il capo di lato, indugiando appena.
“Devo… posso parlarti per un attimo?” chiese, l’espressione seria “Per favore.”
Michele annuì, fermando il pallone e tirandolo ai piedi di Matteo.
“Andiamo.” mormorò, allontanandosi di qualche passo al fianco di Silvestro.
Si fermarono poco lontano, lo stretto necessario per avere un po’ di privacy; si guardavano attorno, a disagio, lo sguardo che inevitabilmente si fermava sull’espressione rilassata di Matteo che giocava con la palla.
“Cosa dovevi dirmi?” domandò allora il ragazzino, strusciando il piede sull’erba.
“Io… in realtà non lo so.”
“Dovrei allenarmi ancora un po’.” fece Michele, gli occhi fissi in un punto non ben preciso.
Il sussurrò arrivò poco dopo, fievole come un alito di vento.
“Mi dispiace, Mickey.”
Silvestro si passò la mano sulla testa, gli occhi chiusi.
“Mi dispiace, non puoi immaginare quanto.” continuò, il tono incerto ma sincero “Ho sbagliato, lo so. Non dovevo reagire come ho fatto, me ne rendo conto. Ma devi capirmi…”
Sollevò lo sguardo, fermandolo in quello spaurito del ragazzino.
“Non potrei mai perdonarmi, lo sai, se ti succedesse qualcosa?”
“Non sarebbe colpa tua…” 
“Sì che lo sarebbe!” sbottò Silvestro “Sono io il poliziotto. Io sono la legge. E’ compito mio proteggerti!”
“Non dal mio stesso padre, però.”
“Anche!” soffiò l’uomo “Anche da tuo padre, Mickey. Perché non mi permetti di farlo?”
“Non puoi…” balbettò il ragazzino, scuotendo frustrato il capo “Non puoi capire.”
“Cosa? Cosa non posso capire?”
Silvestro sospirò, le mani che stringevano le spalle di Michele.
“Hai la minima idea di quanto mi faccia male vederti soffrire, eh?”
“Non è facile neanche per me.” fece lui, caustico.
“Lo so. Per questo voglio aiutarti, piccola peste. Se solo tu…”
“Non volevi scusarti prima, Bond?”
“Mi sono già scusato.”
“Non andare oltre, allora.” supplicò Michele, poggiando una mano su quella di Silvestro “Sei qui ed è questo l’importante. Non roviniamo la serata, okay?”
Silvestro restò in silenzio per qualche attimo, le labbra serrate. Deviò lo sguardo, frenando l’irritazione.
“Lo sai che…” mormorò, inumidendosi le labbra “Lo sai che Matteo non è affatto male?”
A ringraziarlo dello sforzo bastò il sorriso luminoso del ragazzino che, girandosi di scatto, annuì vivacemente: “Cavoli.” borbottò “E’ vero!”
Si avvicinò saltellando a Matteo e lo spintonò scherzosamente.
“Perché non me lo hai detto?!” esclamò, fulminandolo.
“Cosa?”
“Che sei bravo a calcio.”
“Non sono bravo.” si strinse nelle spalle lui, facendo per prendere un’altra sigaretta.
“Concordo.” s’intromise Silvestro, sorridente “Perché non giochi anche tu?”

 

 

“Eccoli!”
Cinzia scattò in piedi, avvicinandosi rapidamente ai nuovi arrivati: gettò le braccia al collo di Veronica e l’attirò a sé. La biondina non oppose alcuna resistenza, pronta al peggio.
“Problemi, Cicì?” bisbigliò all’orecchio dell’amica.
“Io no. Tu piuttosto: sei pallida, tesoro.”
“Piccolo diverbio con Lorenzo.”
Cinzia la lasciò andare, scrutando rapidamente anche l’espressione tesa del gemello biondo. Fissò entrambi, le braccia incrociate e le labbra corrucciate.
“Vi va di parlarne?” chiese poi, inarcando un sopracciglio scuro.
La risposta fu corale.
“No.”
“Bene.” annuì Cinzia “Almeno su questo siete d’accordo.”
“Ci siete tutti, Cicì?” domandò Veronica, cambiando prontamente discorso.
“Sì.”
“E dove sono questi tutti?” borbottò Lorenzo, gli occhi che scandagliavano il luogo alla ricerca di un bar.
“Michele, Silvestro e Matteo sono in campo. Simone e Donatello sono sugli spalti, mentre Daniele e Marina li ho avvistati l’ultima volta sotto gli spalti.”
Veronica la fissava sconcertata; Cinzia sorrise, prendendola a braccetto.
“Quale parte ti ha sconvolta di più, tesoro?”
“Donatello?” balbettò la biondina “Che ci fa qui?”
“Oh, non me lo chiedere.” ghignò Cinzia “Siamo arrivati e la serpe era già qui.”
“E Matteo…”
“Sì, c’è anche lui.” sospirò lei, aggrottando le sopracciglia “Lo sai, vero, che ho sempre le cesoie pronte?”
“Non è il caso, Cicì.”
“E quand’è il caso?” s’informò Cinzia “Cos’altro devi scoprire perché arrivi il momento di castrarlo?”
“Novità con Simone?” provò a cambiare argomento Veronica, il cuore che perdeva un battito non appena si accorse della sciocchezza appena commessa: Lorenzo le aveva affiancate, l’espressione assente.
Alle parole della sorella, però, sembrò rianimarsi miracolosamente.
“Simone?” chiese, le labbra che si piegavano in un sorriso niente affatto rassicurante.
“Lo conosci, no?” sorrise a sua volta Cinzia, fissandolo senza capire.
“Certo.” annuì il ragazzo, prendendo a sua volta Veronica a braccetto “Solo, non ho capito la domanda.”
Veronica rabbrividì, sentendosi accerchiata. Era decisamente in una terribile posizione.
“Forse perché non dovevi capirla.” ribatté la brunetta, fulminandolo con lo sguardo.
“Non dovevo?”
“No.” continuò Cinzia “Come non dovevi ascoltarla. E’ una conversazione privata, Lorenzo.”
“Dovete perdonarmi, allora.” sorrise il giovane, piegando il capo “Non me lo avevate detto.”
“Credevo fossi abbastanza arguto da intuirlo da solo.”
“Ci sono delle novità con Simone, Cinzia?”
“Assolutamente no.”
“Eppure la mia sorellina non credo abbia parlato a sproposito.”
Veronica sussultò, cercando di liberarsi dalla presa di entrambi.
“Ragazzi.” tentò “Per cortesia, la partita sta per iniziare. Perché non ci andiamo a sedere sugli spalti e, una volta tanto, ci comportiamo da persone civili? Così, sapete, per provare. Non vi va di vedere come ci si sente?”
“Non è così divertente essere normali, sai?” fece Lorenzo, rispondendo alla sorella.
Gli occhi, però, erano fissi in quelli di Cinzia.
“La normalità è una forma di pazzia.” sussurrò la ragazza, le braccia strette al petto.
“I pazzi osano dove gli altri temono.” bisbigliò il biondo, avvicinandosi a Cinzia, le labbra tremanti.
Veronica, gli occhi sgranati, si frappose tra i due: “Andiamoci a sedere.” mormorò decisa.
“In silenzio.” aggiunse “Mi state spaventando.”

 

~

 

“Ti diverti ancora con i tuoi bei giochetti?”
Simone si guardò attorno a disagio, gli occhi che chiedevano silenziosamente scusa agli astanti: “Il fatto che io ti stia ignorando non implica che tu debba continuare a parlare, lo sai, Donatello?”
“Oh, lo so.” ghignò quello “E’ solo che mi piace.”
“Cosa?”
“Parlare.” sorrise il giovane “E’ un’arte in via d’estinzione.”
“Per fortuna ci sei tu a tenerla in vita, giusto?”
Il sorriso di Donatello si accentuò, sinceramente divertito e i tratti di Simone si indurirono di riflesso.
“Mi dai fastidio.”
“Lo avevo notato, sì.” approvò il biondo “Posso chiedertene il motivo?”
“No.” ribatté l’altro, lapidario.
“Come mai? –
Simone sbuffò, ruotando gli occhi e serrando i pugni.
“Vai al diavolo, Don.”
“Non hai risposto alla domanda.”
Una folata di vento fece rabbrividire entrambi, le mani che correvano nelle tasche in cerca di riparo.
“Matteo si è messo i pantaloncini.” balbettò Simone, incredulo.
“Non cambiare discorso, da bravo.” mormorò Donatello “Continui a giocare con il fuoco?”
“Se anche lo stessi facendo non sarebbero in alcun modo affaracci tuoi!” sbottò il rosso, fulminandolo.
Diverse persone si girarono a guardarli, curiose, spingendo i due a sorridere con fare accomodante.
“Non essere così teso, Simone.” bisbigliò fra i denti Donatello, il capo inclinato.
“Io sono teso quanto mi pare.”
“Va bene. Posso almeno sapere come mai?”
Il silenzio che seguì fu una risposta adeguata, ma non si lasciò scoraggiare.
“Oh, su.” mormorò, dando di gomito a Simone “So di non essere un santo, ma non ricordo di averti fatto nulla di male… almeno credo. Mi sbaglio?”
“Tu sai.” fremette quello, evitando di guardarlo “Tu sai tutto.”
“Non proprio tutto, certo…”
“Tu sai tutto di me, tutto di tutti.” continuò Simone “E sai tutto di Matteo.”
Questa volta Donatello non rispose, le labbra serrate.
“Avevi e hai i mezzi per aiutarlo e nonostante ciò non hai mai fatto alcunché!” sibilò il ragazzo “Non provi un minimo senso di colpa? Non ti senti male, non capisci che… tu potevi, Don! Tu…”
“Non mi ha mai chiesto aiuto.” sussurrò Donatello, il tono piatto.
“E’ di Matteo che parliamo! Lui non chiede aiuto!” ringhiò Simone.
“Lo so.” ribatté il biondo, assottigliando lo sguardo “Senti, avrei voluto...”
“Tu…” rise Simone “Tu avresti voluto? Come mai mi è così difficile crederlo?”
“Non potevo in quel momento, Simo.” sussurrò Donatello “Non ho sempre avuto la disponibilità…”
“Credevo tu potessi sempre.” mormorò gelido Simone.
“No. Posso anche atteggiarmi a Dio, ma ricorda che non lo sono.”
Simone si passò le mani sul viso, sospirando sconfortato.
“Basta.” borbottò “Non mi va di parlarne, okay? Basta così.”
“Qualcosa non va?”
I due ragazzi sollevarono gli occhi in contemporanea, distratti dalla voce di Cinzia.
“Avete visto che spettacolo Matteo con i pantaloncini?” ridacchiò lei, sarcastica.
“Bisognerebbe immortalare il momento.” sorrise Simone, facendole posto accanto a sé.
“Già fatto.” mormorò Lorenzo, comparendo in quel momento alle spalle di Cinzia “Ne farò un poster.”
“Tutto bene, voi due?” domandò Veronica, sedendosi con un sospiro “Si percepiva un po’ di tensione.”
“Assolutamente.” affermarono in coro, annuendo sicuri.
“Chiacchieravamo amabilmente.” aggiunse Donatello, porgendole un sacchetto bianco “Gradisci?”
Veronica scosse il capo, gli occhi che cercavano inutilmente quelli del fratello.
“Tesoro?” la chiamò Cinzia, prendendola a braccetto “Sicura di non volerne parlare?”
“Non c’è niente di cui parlare. Hai visto Simone, piuttosto?”
“Cosa?”
“Si è illuminato, Cicì.” la sospinse Veronica “Sorride come uno scemo.” continuò “Su, dagli qualcosa per cui sorridere davvero.”
Cinzia le lasciò andare il braccio, la mano che si poggiava leggera sul braccio del ragazzo: “Per quel tempo che dovevamo passare assieme?” sussurrò, un sorrisetto sulle labbra.
Simone sussultò, avvampando in un secondo.
“Io…” balbettò, gli occhi sgranati “…il tempo...”
“Che ne dici di domani?” propose Cinzia, inclinando il capo di lato.
Simone abbassò lo sguardo, fissandolo sulla mano di lei ancora ferma sul suo ginocchio. Provò l’assurda e forte tentazione di coprirla con la propria. 
Alzò gli occhi, pronto a incontrare quelli di lei, e invece ne incrociò un paio blu. Gelidi, ecco com’erano. Il volto di Lorenzo era inespressivo.
“Vieni con me.” mugugnò, alzandosi in piedi e tirando in piedi anche Cinzia.
Lei rischiò di inciampare nei propri piedi, basita; fissò il biondo e sfiatò, incredula: “Che diavolo ti prende?”
“Andiamo.” ripeté Lorenzo, cominciando a scendere le scalinate.
“Non ci penso proprio!” sbottò Cinzia, tentando invano di impuntarsi.
Lui non calcolò minimamente le proteste di lei, continuando a scendere e trascinandola con sé. Si fermò solo una volta arrivato ai piedi delle gradinate.
“Hai intenzione di uscire con quattr’occhi?”
“Si chiama Simone.” sibilò Cinzia, infastidita, facendo per allontanarsi.
Lorenzo la bloccò, le dita che stringevano il polso della ragazza.
“Non mi interessa come si chiama.” ringhiò, lo sguardo duro “Vorrei solo capire perché a lui hai detto di sì e a me non sei disposta a concedere neanche una possibilità.”
“Stavi origliando?” domandò lei, inarcando un sopracciglio “Non si fa, lo sai?”
“Eravate seduti sotto di me.” ribatté lui, il tono di ovvietà.
“Non significa che…”
“Esci con me.” la interruppe Lorenzo, allentando lentamente la presa sul polso di lei.
“No.”
“Perché?”
“Perché no.” fece Cinzia, l’irritante sensazione di regredire non appena si trovava a stretto contatto con lui.
“Non posso farti cambiare idea in alcun modo?” sussurrò Lorenzo, le dita che scivolavano giù, intrecciandosi con quelle della ragazza. 
Cinzia sentì un brivido lungo la schiena e s’impose di non chiudere gli occhi.

 

 

“Devi essere più sicuro, Simo.” commentò Veronica, ammiccando sorridente.
“Io… non…” balbettò lui, le gote che si imporporavano di nuovo.
“Simone.” lo richiamò la ragazza “Ti ha già detto di sì, il peggio è passato.”
“Non è vero.” fece il rosso, gli occhi sgranati “Può sempre cambiare idea, no?”
“Cinzia non è il tipo che cambia idea facilmente.”
“Ma… se lo facesse?”
Veronica sbuffò, ruotando gli occhi con fare esasperato.
“Tu comincia ad acquistare maggiore sicurezza.” fece, rimbrottandolo “Tira fuori la voce.”
“E’ solo con lei che…”
“Perdi gli attributi?”
La risata di Donatello fece girare entrambi, un lampo di dispetto che passava negli occhi di lei. “Ridi?” sibilò, fissandolo dura.
“Non posso?”
“No.”
Il biondo sorrise, allargando le braccia.
“Stai dicendo che anche io non ho gli attributi?”
“Sto dicendo che non hai il diritto di ridere.” fece lei “O vorresti farmi credere che i tuoi modi principeschi funzionano con le ragazze?”
“Non ho bisogno di farti credere niente.” sussurrò Donatello, la voce roca.
“Basta, per favore.” biascicò Simone, la voce coperta da un’ovazione improvvisa.
Si alzarono, cercando di vedere oltre le teste degli altri.
“Cosa…?”
“Ha segnato.” farfugliò Veronica, incredula.
“Chi?” fece Donatello, scostando malamente un ragazzino che gli impediva di vedere il campo.
“Matteo!” esclamò Simone, estasiato, uno strano sorriso sulle labbra.
“Ha segnato.” ripeté Veronica, la voce ancora incerta.
“Matteo ha segnato!” urlò Simone, esaltato, dando di gomito a Donatello.
Fu in quel momento che Veronica sentì un altro grido, stranamente familiare. Si voltò, confusa, individuando Lorenzo ai piedi delle gradinate: in ginocchio, gemente, letteralmente piegato in due.
Iniziò a scendere, sgomitando per raggiungere il fratello.
“Cos’è successo?!” scattò, mentre Cinzia le compariva improvvisamente al fianco.
“Io non lo so.” balbettò la ragazza “Mi si è alzato il ginocchio.”
“Come?” si stupì Veronica, un sorrisetto che le nasceva istintivo “Gli hai dato una ginocchiata?”
Lorenzo grugnì, rovinando di lato, le mani a coprirsi gli attributi.
“Nei gioielli di famiglia, Cicì?” pigolò la biondina, nascondendo il sorriso dietro la mano.
“Mi è scappato il ginocchio, davvero!” piagnucolò quella “E’ stata una reazione spontanea.”
“Che è stato spontaneo lo capisco.” ridacchiò Veronica “A volte sorge la voglia anche a me, sai?”
Cinzia guaì, coprendosi la bocca con le mani e inginocchiandosi nei pressi di Lorenzo.
“Va meglio?” sussurrò, una mano sulla guancia del ragazzo.
Lui alzò gli occhi al cielo, scuotendo impercettibilmente il capo.
“Mi dispiace.” mormorò Cinzia “Scusa, scusa, scusa.”
Lorenzo si voltò di pochissimi centimetri, lo stretto necessario a spostare le labbra: le poggiò lievemente sulla mano della ragazza, lasciandovi un bacio. 
Cinzia sorrise, gli occhi lucidi: “Scusa.” bisbigliò ancora, un’ultima volta.
Veronica arretrò lentamente, disorientata, l’impressione di essere nel luogo sbagliato al momento sbagliato.
Fece rapidamente dietrofront, battendo in ritirata verso il retro delle gradinate e fuggendovi sotto: camminò fino a quando non furono delle risatine convulse a bloccarla. Notò le due figure appostate poco più avanti e si irrigidì, temendo di essere sul punto di disturbare qualcun altro; si ricordò per caso delle parole di Cinzia: …mentre Daniele e Marina li ho avvistati l’ultima volta sotto gli spalti.
Incerta, mosse un altro passo, assottigliando lo sguardo.
“Daniele?” bisbigliò, la voce troppo bassa per essere sentita.
Ritentò, alzando il tono. E le due figure si girarono, le risate rotte a metà, entrando in una zona di penombra.
Veronica sorrise, riconoscendo finalmente l’amico.
“Grazie al cielo almeno voi siete normali, stasera – sospirò, sinceramente sollevata.
“Qualche problema, cucciola? –
“Non ne hai idea.” borbottò. 
Marina ondeggiò, appoggiandosi al braccio di Daniele, e si lasciò andare in una risatina liberatoria. 
“E’ ubriaca?” chiese Veronica, inclinando il capo per compiere un’accurata diagnosi.
“Oh, sì.” sorrise Daniele “Ubriaca fradicia.”
La risata di entrambi fu coperta da una nuova ovazione.
Si affrettarono verso il campo, il sorriso sulle labbra.
“Hanno segnato!” gridò qualcuno, giubilante.
“La squadra in casa?” s’informò rapidamente Veronica.
L’uomo alla sua destra rise, piegandosi verso di lei per sovrastare il rumore circostante.
“Certo che sì!” esclamò “Fiori ha segnato di nuovo!”
Veronica scosse il capo, incredula. Matteo? Matteo aveva segnato di nuovo?
“Ne è sicur…” si bloccò, assalita da un pensiero improvviso.
Lo aveva chiamato Fiori? Come… come faceva a conoscere il cognome di Matteo?
Come faceva a conoscere Matteo?!
“Mi scusi.” fece, arricciando le labbra “Come… conosce quel ragazzo?”
“Certo!” sorrise l’uomo “Due, forse tre anni fa, era una promessa, quel giovane. Poi...”
L’uomo continuava a parlare ma lei non sentiva più niente. Accennò un sorriso tirato, il capo che annuiva automaticamente mentre i piedi si affrettavano a portarla via.
Lontano da lì, dalle urla, dal campo.
Lontano da lui.

 

~

 

Non sentì alcun rumore.
Le sembrava di essere in una bolla di sapone: esclusa, distante. Sola.
Sentì l’acqua calda scorrerle sulla pelle e sorrise. La schiuma soffice sparsa un po’ ovunque e quelle bollicine, quasi invisibili, che volavano prive di meta… sorrise, l’impressione che in nessun altro luogo sarebbe stata bene come si sentiva ora.
Non sentì alcun rumore.
Non si accorse della porta che si apriva né della figura che usciva in balcone.
Ignorava completamente la presenza del ragazzo che, invece, sembrava tutt’altro che indifferente a lei: si appoggiò alla ringhiera, i muscoli che si rilassavano.
Ancora accaldato, un rivolo di sudore che scendeva sulla tempia sinistra. Una camicia pulita, chiara, con i primi due bottoni aperti. 
Matteo accese la sigaretta e aspirò, soddisfatto: “Sai?” mormorò, annuendo fra sé e sé “E’ vero.”
Veronica sussultò, la bottiglietta di shampoo tra le mani. Si voltò di scatto, un grido sulla punta della lingua.
“E’ stata proprio un’ottima idea quella della doccia sul balcone.”
Il giovane inspirò profondamente, gli occhi fissi in quelli sgranati della ragazza.
La bottiglietta di shampoo cadde, rovesciando parte del contenuto, mentre un grido frustrato ruppe il silenzio.
“Vattene!”
Matteo inarcò le sopracciglia, allontanando appena la sigaretta.
“Chi?” chiese, guardandosi attorno con aria interrogativa “Io?!” esclamò poi, l’espressione angelica.
“Brutto…”
Veronica sibilò qualcosa, troppo concitatamente perché il ragazzo potesse riuscire a capirla. Assottigliò lo sguardo.
“Va via, Matteo, o giuro che te la faccio pagare.” ringhiò, furiosa.
“Perché dovrei?” sorrise il giovane “Non ti va un po’ di compagnia?”
Veronica non rispose, la mano che furtiva afferrava un asciugamano bianco appeso fuori dalla doccia.
“Che poi…” continuò Matteo “Sbaglio o c’è una certa scommessa…”
Continuò a fissare la ragazza, un ghigno sulle labbra. Lei, avvolta in un asciugamano, si avvicinò di un passo.
“Non dovevamo inaugurarla assieme, Ronnie?” sussurrò Matteo, piegando interrogativo il capo.
Veronica gli si fermò di fronte, strappandogli la sigaretta dalle labbra e spegnendola sulla ringhiera: “Ora me la paghi, Teo.” bisbigliò sorridente.
“E’ una minaccia o una promessa?”

 

 

 

§









 

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Capitolo 17
*** Il mio problema ***




Bugie bianche

                                                                                                

       ≈ Il mio problema ≈

 

 

 

 

L’agente Ricciardi espirò e si rivolse al ragazzo.
“Una cosa ancora non mi è chiara: perché avete lo stesso balcone, voi due?”
“Perché viviamo insieme.”
“Voi due?”
“Sì.” sospirò affranto “Noi, un hacker in clausura, una escort in carriera e due topi mutanti.”
“Mi prendi per i fondelli, giovane?”
“No, agente.” negò, estraendo una nuova sigaretta dal pacchetto rosso: l’appoggiò alla labbra e cominciò a cercare l’accendino. 
“Ah, no!” sibilò lei strappandogliela via “Davanti a me tu non fumi più.”
“Signorina, per favore.”
“Per l’amor del cielo!” fronteggiò il poliziotto “Perché si comporta così? Come se io fossi la pazza e lui la povera vittima?! Non c’era lui sotto la doccia!”
“Avresti voluto, ragazzina?” chiese il ragazzo, ammiccando sorridente.
“Matteo.” lo avvertì lei, senza guardarlo.
“O avresti voluto che venissi sotto la doccia assieme a te?”
“Matteo.” lo minacciò.
“Dillo! Dillo che da quando mi hai visto con Sofia non fai che pensare a me!”
“Matteo!”
“E’ vero? Ho ragione, perché non lo ammetti?”
“Cosa? Che ero gelosa? Questo vuoi sentirti dire?! O che da quando ti ho visto fuori il bar che ti facevi non so più chi sei? O che a rigarti la moto sono stata io? Cos’è che vuoi sentirti dire?”
“Ragazzi, per favore…”
“Lo sai che ho parlato con tua madre? O non t’interessa e vuoi solo sentirti dire quanto sei bravo a letto, eh? Cos’è che vuoi sentire? Un’altra delle tue belle bugie?”
“Sono bugie bianche, ragazzina.”
“Sei solo un dannatissimo stronzo!” gridò lei, scagliandoglisi contro.
L’agente Ricciardi aspirò un’ultima volta e fece segno a due agenti di dividerli mentre spegneva il sigaro nello stesso punto in cui aveva spento quello precedente. 
Sospirando, intimò ai due ragazzi di sedersi. 
“Credo sia il caso che mi raccontiate un po’ di cose.”
Accese il terzo sigaro.
“Dall’inizio.”

 

 

~

 

 

Silvestro sospirò, carezzandosi la pelata.
Fissò i due giovani e prese un bel respiro, profondo, cercando di riordinare le idee.
“Io torno sopra.” disse, sentendosi come un padre che sgrida i figli “Voi non vi muovete, non vi uccidete, non fate… niente! Va bene?” arretrò di un passo, incerto “Salgo a parlare con Silvano.”
Pensò al collega, alla sua espressione tra il furioso e l’esilarato, al suo sigaro… e si pentì di essere accorso. Silvestro li squadrò un’ultima volta, il timore di commettere un terribile errore nel lasciarli soli. Scosse il capo con frustrazione e cominciò a salire le scale.
Veronica si strinse ancor di più nella coperta, facendo sì che solamente il naso e gli occhi fuoriuscissero. Respirava piano, il cervello appannato… poteva un cervello essere appannato? Forse no. Forse era il neurone ad essersi perso in qualche meandro della sua mente. Ma la sua mente aveva meandri?
Veronica non aveva mai immaginato la propria mente come un labirinto. Si chiese se quello fosse il momento giusto per immaginare qualsiasi cosa sotto forma di labirinto.
Probabilmente no. Non era il momento giusto. Cosa avrebbe dovuto fare, allora?
“Teo?”
Veronica sussultò, spaventandosi da sola. Chiuse gli occhi, dondolandosi lentamente. 
“Teo, mi dispiace.” sussurrò ancora, la lingua più veloce del cervello.
A dire il vero, ora come ora, aveva la netta impressione di non averlo più un cervello.
Veronica si prese la testa fra le mani, smettendo di fissare le spalle del ragazzo. Perché faceva così, eh?! Perché continuava a farsi coinvolgere? Non aveva ancora imparato la lezione? Continuava, imperterrita, a farsi compromettere. 
A farsi piacere i ragazzi, quelli sbagliati soprattutto. Quel tipo di ragazzi che lei sapeva fin dall’inizio non sarebbe andato bene, non per lei almeno. Quelli che non sono del tutto normali. Quei ragazzi particolari, diversi: con qualche problema, anche, se possibile.
Quei ragazzi che vale la pena di conoscere, che ti incuriosiscono. Che ti fanno arrossire, palpitare. Sempre quel tipo di ragazzo che ti fa diventare volgare, che tira fuori un lato di te che tu stesso non conoscevi.
Matteo, insomma. Matteo riassumeva tutti questi tipi di ragazzi.
Matteo era quel tipo di ragazzo.
Probabilmente soffriva di un disturbo della personalità multipla. Dipendente dalle sigarette. Chiuso, aggrappato disperatamente alla sua facciata da duro. Desideroso di silenzio, di solitudine. Speranzoso, anche. Con un cuore grande di cui sembra vergognarsi.
Bello. Bello e non cosciente di esserlo. O forse, cosciente. Cosciente ma che finge di non esserlo. E gli piacevano i segreti. No, più probabilmente era pedinato dai segreti. Intrappolato in essi. Come lei.
Inopportuno, testardo, malizioso. Traditore.
Lei era una traditrice?
“Teo.” chiamò ancora, la voce bassissima.
Veronica sospirò, serrando gli occhi per frenare le lacrime. Non era il momento, si ripeté.
Guardò Matteo e fremette.
“Crepa, brutto stronzo.” sibilò, saltando in piedi.
Non era mai stata brava ad ascoltare gli altri, figurarsi se stessa. Che fosse o meno il momento giusto avrebbe agito, fatto qualcosa. Semplicemente perché sentiva di doverlo fare. Perché erano lì, soli.
“Ti rendi conto della situazione in cui siamo?” ringhiò ancora, avvicinandosi in pochi passi al ragazzo.
Matteo le dava le spalle, apparentemente indifferente. Forse nemmeno l’ascoltava.
“Non siamo in un dannato telefilm, Teo. Non è un gioco, questo.” continuò Veronica, le nocche pallide serrate sulla coperta “Non possiamo andare avanti così, a furia di bugie.”
“Sono tutte bugie bianche, ragazzina.” sussurrò lui.
“Bugie bianche?” chiese lei, incerta, continuando a fissargli la schiena rigida.
“Bianche. Innocenti, okay?”
“Una bugia non può essere innocente.” commentò Veronica.
“Può, invece.” sbottò lui, voltandosi di scatto “E’ buona, innocente, se detta a fin di bene.”
“E quando mai una bugia è detta a fin di bene?!”
“Quando la si dice per non ferire una persona. Quando la verità sarebbe troppo… troppo!”
“Mentendo peggiori solo la situazione!”
“No!” alzò la voce Matteo “No! Se mentendo proteggi gli altri, ogni omissione è giustificata.”
Veronica arretrò di un passo, la mano destra a coprirle gli occhi.
“Non hai idea di ciò che stai dicendo.”
“O forse tu non hai idea di quanto la verità possa far male.”
“Sai… sai cosa? Forse è a te che fa troppo male.”
“Come?”
“Sei tu stesso a non voler sentire la verità. Hai paura di affrontarla!”
“Non ho paura.”
“Sei un bambino, Teo.”
“Ho detto che non ho paura!” sfiatò, rosso in volto, la mano destra che tastava disperata i jeans alla ricerca di un pacchetto di sigarette.
“Certo.” approvò lei, annuendo “Sei terrorizzato.”
“Ragazzina, smettila.”
“Dov’è il problema, eh? La droga, i tuoi genitori, l’avvocatessa francese…?”
“Basta.”
E Veronica si zittì, riprendendo fiato.
Squadrò il viso tirato di Matteo, la posa rigida: arretrò di un passo ancora, fermandosi con le spalle poggiate al muro. Sospirò, abbassando lo sguardo chiaro.
“Ti sei circondato di bugie.” mormorò dopo un po’, attendendo una reazione.
Lui scrollò le spalle, chiudendo gli occhi e spingendo a fondo le mani nelle tasche.
“Hai creato un muro così alto, così invalicabile, che nemmeno tu sai più come superarlo. Sei bloccato, te ne rendi conto? Una menzogna dopo l’altra, un mattone dopo l’altro… e ora, Teo? Che facciamo, adesso?”
“Non c’è un noi.” sussurrò lui. Poche parole che riuscirono comunque a ferirla a dovere.
“Va bene. Cosa fai, adesso?”
“Niente. Perché dovrei fare qualcosa?”
“Perché è una situazione inaccettabile, almeno per me. E dovrebbe esserlo anche per te. Non sei stanco? Non hai voglia di assaporare un pizzico di normalità? Di libertà?”
Matteo non rispose, dandole definitivamente le spalle.
“Ricordi almeno come ci si sente, eh?” continuò lei, imperterrita “Senza dover essere costretti a mentire, a ricordare ogni singola menzogna detta, ogni più piccolo inganno.”
“Non ho bisogno di questo.”
“Di una vita normale?”
Il sospiro di Matteo riempì l’aria, talmente duro da sembrare un rantolo.
Si voltò piano, fissandola inespressivo: “Se sono in questa situazione è solo colpa mia.”
Veronica scosse il capo, piegando le labbra pallide in un debole sorriso: vedeva la disperazione negli occhi di lui, prorompente, salire lentamente in superficie. Inarrestabile.
“E se anche fosse?” sussurrò “Non credi di meritare una seconda possibilità?”
“Diamine, ragazzina…” sfiatò lui, reclinando la testa all’indietro “E’ un discorso totalmente privo di senso.”
“Le parole devono per forza avere un significato, Teo.”
“Lo credevo anch’io.” annuì Matteo “Almeno fino a quando non ho incontrato te.”
Veronica si alzò in piedi, percorrendo svogliatamente la stanza, fermandosi vicino alla scrivania: “Lo stesso vale per te.” disse “Confondi sempre le acque.”
“Oh, non rigirare la situazione. E’ impossibile fare un discorso coerente con te.”
“E’ quello che vuoi?” inarcò un sopracciglio la biondina “Va bene, parliamo. Con coerenza.”
“Non… non intendevo adesso.” si tirò indietro Matteo.
“Quando, allora? Siamo bloccati qui, soli. Quale posto migliore di una centrale di polizia, ti prego.”
“Non adesso.” ripeté lui, facendo per allontanarsi.
“Vieni qui, Teo.” lo chiamò Veronica, il sorriso nella voce “Guarda che cosa ho trovato.”
Matteo assottigliò lo sguardo, la sensazione che fosse una trappola. Veronica stava frugando nei cassetti, gli occhi accesi dal divertimento e una strana espressione in viso.
Avrebbe voluto declinare l’offerta, eppure la curiosità vinse, facendolo avvicinare alla scrivania: “Cosa?” domandò, piegandosi anch’egli sul cassetto aperto dalla ragazza.
Il rumore metallico che seguì a quelle parole rimbombò nella stanza, cogliendo uno solo dei due impreparato.
“Un paio di manette.” rispose Veronica, imperturbabile “Non le trovi carine?”
Matteo mosse la mano destra, piano, quel tanto che bastava ad osservare l’anello di ferro che gli circondava il polso: annuì, appurando di essere incatenato alla scrivania.
Guardò un attimo Veronica, un secondo solamente, e provò l’impulso di ucciderla.
“Aprile.” sibilò, calmo, sedendosi sul bordo della scrivania.
“E se non mi andasse di farlo?” ghignò lei, rigirandosi la piccola chiavi fra le mani.
Matteo non disse niente, non ci riuscì. Sentiva il sangue salirgli rapidamente alla testa ed era perfettamente cosciente di quanto la cosa fosse negativa per entrambi.
“Oppure.” considerò la biondina “Pensa se la perdessi… potrei convincere Silvestro a far sparire qualsiasi duplicato, lo sai?”
“E mi lasceresti qui incatenato a vita?” sospirò lui, inarcando un sopracciglio.
“Certo che no.” fece Veronica “Solo fino a quando non ti deciderai a parlare con me.”
“Cosa stiamo facendo adesso, ragazzina?”
“Perdendo tempo.”
“E di cosa vuoi parlare?”
“Ecco.” meditò lei “Direi che prima, di sopra, abbiamo toccato qualche punto dolente.”
“Abbiamo? Hai fatto tutto tu.”
“In ogni caso…”
Ad interromperla furono le dita di lui che fulminee artigliarono la coperta, tirandola a sé: Veronica rischiò di inciampare, ritrovandosi subito dopo a pochi millimetri da Matteo. Lui le poggiò una mano sulla schiena.
“Dammi quella chiave.” ringhiò, impedendole di allontanarsi “Subito.”
“Non hai l’impressione di un déjà vu?”
Veronica sollevò il braccio destro, la chiave stretta fra due dita: chiuse gli occhi, reclinò il capo all’indietro e la lanciò via.
Il tintinnio sul pavimento echeggiò per un po’, inesorabile. E Matteo la liberò.
“Oh, dai.” lo riprese lei, carezzandogli i capelli “Non mettere il broncio, adesso.”
“Fottiti.”
“E non diventarmi volgare.” lo pizzicò su un fianco, assottigliando lo sguardo.
“Non mi va di parlare.”
“Sicuro?” lo fissò, le mani ferme sulle sue ginocchia “Non c’è una cosa, di tutte quelle che ho detto prima, che abbia minimamente stimolato la tua curiosità?”
“Perché mi hai portato qui, ragazzina?”
Veronica arretrò di un passo, incerta.
“Non capisco la domanda.”
“Cos’è che ti ha fatto scattare? Cos’è successo?”
“Oltre te che mi fissavi sotto la doccia, intendi?”
“Sai che ho ragione. Qual è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso?”
“Niente, Teo.” si strinse nelle spalle lei, fingendo noncuranza “Mi andava solo di fare un salto alla polizia, sai com’è… e di gridare un po’ al vento i fatti nostri, così per passare meglio la nottata.”
“Non mi stavo facendo.” sussurrò il ragazzo, abbassando lo sguardo.
“Come?”
“Non mi stavo drogando, ragazzina, okay?”
Veronica schiuse le labbra, inclinando il capo: “Continuo a non avere idea di chi tu sia, però.” mormorò mesta.
“E credi di essere l’unica?” saltò su, lui “Io cosa dovrei dire? Non ti sei per caso fatta sfuggire di essere stata tu a rigarmi la moto?!”
“Sì. Sono stata io. Dopo che ti ho sentito parlare al telefono e…”
“Hai rigato la mia moto.” ripeté Matteo, incredulo, cercando di assimilare la notizia.
“E tu hai detto che sono un’oca!” gridò lei, spintonandolo.
“Quand’è che avrei detto una cosa del genere?”
“Al telefono! Hai detto che sono un’oca, una biondina insulsa, che parlo troppo!”
Matteo sbiancò, aprendo la bocca senza tuttavia riuscire ad emettere alcun suono. Scosse il capo, cercando inutilmente di fermare la fiumana di insulti che provenivano dalla ragazza.
“Insulsa?! Perché? Perché devi dire cose del genere? Non sopporti le biondine insulse? Le oche? Benissimo, ma allora spiegami per quale diavolo di motivo continui a rendermi la vita impossibile!”
“Non ho mai detto quelle cose, ragazzina.”
“Ti ho sentito io, con le mie orecchie! Smettila di riempirmi di bugie!”
“Non le ho mai pensate, allora!” esclamò lui, gesticolando nervoso.
Veronica si zittì un attimo, cercando di riprendere fiato. Si passò le mani sugli occhi e sospirò, mesta.
“Mi sta venendo il mal di tesa, Teo.” sussurrò, sedendosi al fianco del ragazzo “Rallentiamo, okay?”
“Erano bugie anche quelle.” rispose lui, guardandola negli occhi “Parlavo con Nicola.”
“Chi è Nicola?”
“Lo stronzo che… quello del bar, ragazzina.”
“Oh.” fece lei, aggrottando le sopracciglia, tentando di raccogliere le idee “Quindi tu…”
“Cercavo di dissuaderlo, di fargli cambiare idea. Si era fissato e io… non sapevo che altro fare. Non mi andava che ti avesse guardata, che pensasse a te, che mi parlasse e chiedesse di te. Lo avevo sempre considerato un cretino, ma dopo quello che…”
“Non avevo capito.” provò a interromperlo lei, sfiorandogli una mano.
“Per questo non volevo avere a che fare con te! Per questo non dovevi venire nel bar!”
Veronica sgranò gli occhi, il tono di Matteo che si alzava. Scosse il capo, fissandolo dura.
“Ora non te la prendere con me!”
“Non mi ascolti mai!” soffiò il ragazzo “Se solo non fossi venuta quella sera…”
“Dovevo fartela pagare!”
“Perché?!” gridò lui, abbassando subito dopo la voce “Perché non possiamo semplicemente ignorarci?”
“E’ questo che vuoi?” deglutì Veronica, deviando lo sguardo.
“Lo preferirei al caos che stiamo generando.”
Si alzarono in piedi assieme, allontanandosi l’uno dall’altra di qualche centimetro.
“Io ho provato a farlo, va bene?” sussurrò la biondina “Volevo farlo.”
“E perché non lo hai fatto?”
Lo sguardo blu della ragazza divenne improvvisamente di ghiaccio, imperscrutabile.
“Sai di non poter dare tutta la colpa a me, vero?” sibilò “Sei stato tu in piscina a…”
“Eri stata tu a venire, però.”
“E nella grotta? Mi ci hai portata tu!”
“Non ti sei certo rifiutata, vorrei farti notare.”
“Sei tu quello con la ragazza, che diavolo!” sbraitò Veronica “Sei tu a non dover cedere! Io dovrei starti lontana ma tu dovresti sforzarti il doppio!”
“Perché? Perché non posso semplicemente stare anche con te?”
Matteo boccheggiò, scuotendo convulsamente la testa.
“Non intendevo… mi sono espresso male.” tentò, crollando nuovamente sulla scrivania.
“Stai proponendo un harem?” inarcò un sopracciglio lei, sarcastica.
“No.” borbottò Matteo “Sto dicendo che non è un male se… parliamo.”
“E per parlare intendi quello che abbiamo fatto in camera di Cinzia?”
“No. Intendo solo… stare un po’ assieme, va bene?”
Veronica sbuffò, mordendosi un labbro con forza.
“E invece è male, lo capisci? E’ male. Per te, per me e anche per Sofia. Come puoi farle questo?”
“Farle cosa? Non le sto facendo alcunché!”
“L’hai già tradita una volta!”
“E non succederà ancora!” sbottò lui, il pugno che faceva tremare il tavolo.
“Bene.” annuì Veronica calma “E’ a questo punto che cominci a fare del male a me.”
Matteo non rispose, fissandola con espressione confusa.
“Quando la tradisci, ferisci lei. Appena non lo fai, ferisci me. Per tutto il tempo, infine, fai male a te stesso.”
“Io non… credo di essermi perso.” sussurrò il ragazzo, gli occhi neri resi ancora più scuri dalla stanchezza.
“Oh, mio dio!” ansimò la biondina, incredula “Come fate voi uomini ad essere talmente ciechi?”
Si avvicinò a Matteo, un dito fermo nella sua direzione.
“Come fai a pensare che da parte mia non ci sia… sentimento? Perché credi che sia così difficile ignorarti, mettere una fine a tutto? Non ci riesco. Non è nelle mie facoltà, lo capisci? Ed è anche colpa tua!”
“Non immaginavo che…”
“Certo. Perché è normale rotolarsi nelle coperte con un perfetto sconosciuto, no?”
“Eravamo ubriachi!” fece lui, allargando le braccia.
“E cosa c’entra?”
“Diavolo, ragazzina: credevo fosse tutto un gioco per te!”
Veronica si girò, esasperata, dandogli repentinamente le spalle. Si passò le mani sul viso, gli occhi chiusi nel disperato tentativo di fermare l’appropinquarsi delle lacrime. Doveva reagire.
“Crepa.” sibilò, scagliandoglisi contro.
Matteo non ebbe il tempo di reagire che uno schiaffo lo raggiunse, fulmineo, dietro la testa.
Spalancò gli occhi, sorpreso, pochi attimi prima che Veronica cominciasse a riempirlo di pugni: piccoli, quasi inesistenti. Pugni sul petto, sulle braccia, accompagnati da improperi e maledizioni. Insulti che non aveva mai sentito.
“Ferma, ferma… che cosa ti prende, si può sapere?” esclamò, cercando di bloccarle le mani.
Si agitò, tentando di muoversi ma ogni volta impedito dalle manette. Riuscì solamente a circondarle i fianchi con un braccio, attirandola a sé.
“Vuoi smetterla, cortesemente?” l’apostrofò, fissandola stralunato.
E Veronica si accasciò sul suo petto, permettendogli di respirare. Poggiò il mento sulla sua spalla, calma.
“Grazie.” ansimò lui, socchiudendo gli occhi.
Poi i denti si strinsero sulla sua spalla.
“Dai!” gridò il ragazzo, gemendo per il dolore “Sei una bestia!”
“Lo vedi?” annuì lei, accennando un sorriso “Siamo proprio fatti l’uno per l’altra.”

 

~

 

“Cicì?”
Cinzia trasalì, una mano che correva all’altezza del cuore. Immobile, reclinò il capo all’indietro: “Mi hai spaventata.” mormorò, accostando il portone alle sue spalle.
“Scusa.”
“E non chiamarmi a quel modo.” soffiò, percorrendo l’atrio del palazzo totalmente avvolto dalle tenebre.
“Cicì?” chiese la voce, divertita.
“Sì.” annuì lei “Non lo hai mai fatto, non così.”
“E dove sarebbe il problema?”
Cinzia sospirò, avvicinandosi alle scale: fissò la figura scura e assottigliò lo sguardo, tesa.
“Cosa vuoi, adesso?”
“Parlare.”
“E’ tardi, Lorenzo.” scosse la testa “E non ne ho voglia.”
Cominciò a salire gli scalini, incurante di lui che la seguiva in silenzio.
Fu la mano del ragazzo a fermarla, stringendosi attorno al suo polso. Cinzia si voltò, fingendo noncuranza.
“Che c’è, insomma?” sbottò, dura “Ti ho già fatto le mie scuse per la ginocchiata.”
“Non dovevi essere tu a scusarti.” sussurrò lui, spingendola delicatamente con le spalle contro la ringhiera.
“Invece sì.” ripeté Cinzia “Ho agito senza pensare e mi dispiace.”
Lorenzo sospirò, liberandole il polso e passandosi le mani sul volto pallido.
“Qualunque cosa tu abbia pensato…”
“Non ho pensato.” negò lei, facendo per salire nuovamente.
“Non era mio.” sibilò il ragazzo, costringendola a fermarsi “Dicevo sul serio quando…”
“Quando mi chiedevi una possibilità?!” ringhiò Cinzia, spintonandolo “Avevi un tanga nella tasca del giubbotto, Lorenzo! Un tanga! Non ho pensato che fosse tuo, se la cosa può rassicurare la tua ridicola virilità. Ho semplicemente ipotizzato che appartenesse a una qualsiasi ragazza e che…”
L’indice del ragazzo si poggiò sulle labbra di lei, tremando impercettibilmente.
Si piegò verso Cinzia, baciandola di slancio: che fosse per zittirla, per tirarsi fuori da una conversazione che non gli andava di affrontare  o semplicemente perché era ciò che più di tutto voleva fare.
La baciò, incurante di ogni cosa al di fuori di loro. Assaporò quella bocca che per tanto tempo non aveva fatto altro che immaginare, sognare. E si lasciò trascinare dall’impeto di passione che a stento riconosceva proprio.
Le mani di Cinzia, aperte sul suo petto, cercarono di allontanarlo: si lasciò spingere via, di poco, però. Quel tanto che bastava a schiudere le labbra:
“Mi dispiace.” sussurrò, avvolgendo i fianchi della ragazza.
Cinzia scosse il capo, provando ancora a liberarsi.
“Scusa.” bisbigliò Lorenzo “Scusa, scusa, scusa, scusa.”
E lei smise di spingerlo via. Sospirò, poggiando la fronte sul petto di lui.
“Non ho parole per farti capire quanto mi dispiaccia, Cinzia.” mormorò il ragazzo “Sono pronto a chiederti scusa all’infinito se vuoi. Il tanga non era mio e non è importante di chi fosse, perché lei non aveva importanza. Non per me, lo capisci? Mi dispiace. Di tutto.”
Sfiorò i capelli corti di lei, le dita che leggere giocavano con le punte lisce: poggiò le labbra sulla testa di Cinzia e chiuse gli occhi, sperando che quel momento non finisse mai.
“Non va bene.” ruppe il silenzio la ragazza.
Lorenzo sussultò, forzandosi per non arretrare. Si schiarì la gola, la mano che indugiava sul fianco di lei: “Cosa non va bene?” domandò, timoroso della risposta.
“Questo.” rispose Cinzia, la voce ferma, allontanandosi da lui “Tutto questo.”
“Cinzia…”
“Non funziona così, va bene?” continuò lei, liberandosi dalla presa del ragazzo “Non puoi credere né tantomeno pensare che… io non mi comporto in questo modo.”
Lorenzo le alzò il mento con due dita, cercandone lo sguardo. E gli occhi nocciola si fermarono nei suoi.
“Domani ho un appuntamento con Simone.” ribadì Cinzia.
“No.” sibilò lui “Tu non vai da nessuna parte.”
La ragazza sorrise, il divertimento che si rifletteva nello sguardo.
“Ah, Lorenzo mio.” sospirò Cinzia, cominciando a salire le scale “Io vado dove mi pare.”
“Perché fai così?” le gridò dietro lui, inseguendola.
“Smettila.” scandì lei “Vai a casa, è tardi.”
“Io vado dove mi pare.” le fece il verso Lorenzo, salendo due scalini alla volta e raggiungendola in poco tempo.
“Non in casa mia, in ogni caso.” sillabò Cinzia, fulminandolo senza fermarsi.
“Mi accamperò sul pianerottolo.”
“E’ una minaccia?” ridacchiò lei, cominciando l’ultima rampa “Stai attento, giovane, potrebbe venirmi l’idea di spingerti di sotto.”
“Spingermi di sotto?” chiese Lorenzo, alzando il capo con fare ironico.
“Sì.” annuì Cinzia “Vuoi provare? Un bel volo per le scale.”
“E’ il tuo modo per chiedere il bacio della buona notte?”
Cinzia frugò nella borsa, estraendone le chiavi velocemente; Lorenzo arrivò poco dopo, affannato, sventolando un tanga con la mano.
“E’ questo il problema? Tutto qui?” sbottò “E’ tutta colpa di un dannatissimo tanga?”
“Veronica ha sempre creduto che tu fossi provvisto di soli due neuroni, lo sai?” sibilò la ragazza, camminando a marcia indietro verso la porta “Perché diavolo non li convinci a fare una fottutissima sinapsi?!”
“Vedi?” fece lui, un inspiegabile sorriso a fior di labbra “Mi fai impazzire anche quando mi insulti.”
Cinzia scosse la testa, incredula.
“Non sei ubriaco, vero?”
“Dimmelo tu.” ghignò lui.
“Vai a farti fott…”
“Ehi!” la interruppe il ragazzo, accennando con il capo alle spalle di lei.
Cinzia si voltò di scatto, senza capire: fissò la figura appostata davanti alla porta e si fermò, basita.
“Sofia?” balbettò, cercando di focalizzare la situazione “Che ci fai qui?”
“Matteo!” esclamò lei, l’espressione sconvolta “Che fine ha fatto, si può sapere? Non riesco a contattarlo! Non risponde, non so se ha ricevuto i messaggi! Non è qui, non trovo Simone, non…”
“Sofia!” le si avvicinò prontamente Cinzia, affrettandosi ad aprire la porta “Entra, dai. Che succede?”
“Succede che devo parlare con Matteo!” affermò la biondina, tormentandosi le mani e guardandosi attorno con fare perso.
Lorenzo era entrato dopo di loro, accendendo la luce e socchiudendo la porta.
“E’ andato via poco dopo la fine della partita.” disse, alternando lo sguardo fra le due “Possiamo riferirgli noi un messaggio?”
“No!” strillò quasi Sofia, le mani che arruffavano i capelli già scomposti “No! Devo parlargli io!”
Cinzia cercò di calmarla, spingendola a sedersi.
“Vedrai che tornerà a momenti, su.” mormorò “Non fare così.”
Lorenzo si avvicinò alla brunetta, afferrandola per le spalle e sussurrandole all’orecchio:
“Certo che non sei il meglio a consolare.”
“Sto combattendo l’impulso di buttare lei giù per le scale.” sibilò Cinzia in risposta, allontanandosi da Sofia.
“Oh, ma povera ragazza.” ghignò lui, guardandola di sbieco.
“La povera ragazza sta indirettamente facendo soffrire tua sorella.”
“E tu stai direttamente facendo soffrire me.”
Cinzia sollevò lo sguardo, colpita dal cambiamento di tono che aveva appena subito la conversazione.
Fissò Lorenzo, cercando delle parole che non le venivano in alcun modo. Dischiuse le labbra, pronta a parlare, quando la porta dell’appartamene venne spalancata di colpo.
Simone entrò come una furia, il volto trasfigurato dalla rabbia: non sembrava nemmeno lui. Ansimava appena, gli occhiali di traverso e lo sguardo allucinato.
“Sei una stronza!”

 

 

“Sarà la quinta volta che mi vibra il cellulare, ragazzina.”
“Non potrebbe importarmene di meno.” si strinse nelle spalle Veronica, seduta sulle ginocchia di lui.
“Perché non fai la brava e cerchi quella piccola e graziosa chiave e…”
“Se non ti stavi drogando...” mormorò lei, interrompendolo “Ho paura di chiedertelo, ma… spacciavi?”
Matteo non rispose, passandosi la mano libera sugli occhi.
“Non è che abbia tutta questa voglia di risponderti, sai?”
“Sei uno spacciatore, Teo?”
Veronica si girò appena, cercando lo sguardo di lui: incrociò quegli occhi neri e tentò di non lasciarseli sfuggire. Lui sospirò, scuotendo esasperato il capo.
“Ho bisogno di fumare, dannazione.” borbottò, continuando prima che lei potesse dire alcunché “E sì, stavo spacciando. E allora? Dov’è il problema, sentiamo?”
“Dov’è il problema?” gli fece il verso Veronica “E’ questo il problema! Si può sapere perché?!”
“Forse perché ne ho bisogno.” ringhiò il ragazzo “Non ti è mai passato per la testa che qualcuno possa aver bisogno di soldi, eh?!”
“Soldi?” saltò su lei “Ma sei fai non so quanti lavori! Che balle racconti?!”
“La verità!” scattò Matteo “Una volta tanto che lo faccio e nemmeno va bene! Racconto la verità! Ho bisogno di soldi e quello è il modo più rapido che ho trovato per ottenerli!”
“E i muri…”
Il balbettio incoerente della ragazza lo spinse ad abbassare il tono.
“Alcuni dei clienti.” sussurrò, sfiorando quello che era stato un occhio nero “Alle volte possono diventare un pochino violenti, sai com’è.”
“Perché ti servono i soldi, allora?!” sbottò lei, subito dopo “Se non è per la droga, io non…”
“Non ti sembra di aver fatto abbastanza domande?” la interruppe Matteo, lo sguardo improvvisamente duro.
“Non è che tu abbia esattamente risposto a tutte.”
“Vediamo tu come ti comporti, invece.” disse, facendola scivolare giù dalle sue gambe “Forse ho sentito male, ma sbaglio o hai affermato, urlato più che altro, di aver parlato con mia madre?”
La voce di Matteo si era andata affievolendo sul finire della domanda, come bloccata nella gola. Veronica si seppellì nella coperta, nascondendosi totalmente alla vista di lui.
“Potrei aver risposto al tuo cellulare.” sussurrò, arretrando di qualche passo, incerta.
“Tu che cosa?” ringhiò il ragazzo, il tintinnio delle manette che venivano tirate.
“Eri occupato in quel momento.” provò lei “Con Michele, mi sembra. E io ero sovrappensiero, e ho risposto, e mi dispiace… ma era tua madre! Aveva una voce tanto dolce, Teo! E dispiaciuta!”
“Non dovevi rispondere!” sbottò Matteo, incredulo “E non dovevi parlare con lei!”
“Diceva che non riusciva mai a contattarti!” singhiozzò quasi la ragazza, liberando dalla coperta solo gli occhi lucidi “E ha accennato qualcosa del tipo che vogliono aiutarti.”
“Tu non capisci…” soffiò lui, la mano sulla bocca, lo sguardo abbacinato.   
“E le dispiace.” sussurrò ancora Veronica “Non so di cosa, ma le dispiace.”
Matteo chiuse gli occhi, respirando piano, con difficoltà.
“Non sai in cosa ti stai immischiando.”
“No, hai ragione.” approvò lei, decisa “Vorrei saperlo, però, okay? Mi piacerebbe.”
“A me no.”
E il cellulare vibrò di nuovo.
“E va bene!” sbottò la biondina, stanca “Rispondi! Vedi chi è che rompe anche a quest’ora!”
“A parte te, vorrai dire.” borbottò lui, portando rapidamente il telefonino all’orecchio.
Seguì una serie di mormorii, grugniti e borbottii che Veronica non riuscì minimamente ad interpretare. Il viso di Matteo, però, cambiava espressione ogni due secondi: da una semplice confusione allo shock puro.
“Liberami!” esclamò poco dopo, chiudendo la chiamata con mano tremante “Liberami, ragazzina, dobbiamo andare! Adesso!”
Veronica sgranò gli occhi, non riuscendo a capire il repentino cambio di rotta.
“Dove?” balbettò, tastando il pavimento alla ricerca della chiave.
Matteo scivolò giù dalla scrivania, più esangue di quanto non fosse un attimo prima.
“All’ospedale.” biascicò, l’espressione assente.
La chiave appena trovata per poco non scivolò dalle dita della ragazza.
“Come?”
“Era… era Daniele.” sussurrò lui, disattento “Dobbiamo andare.”
Veronica aprì le manette, scuotendolo per un braccio.
“Il mio Daniele?! Qualcuno non si è sentito bene? Che succede, Teo?” sfiatò, sempre più in ansia.
Lui la fissò, lo sguardo appannato.
“Forse… forse sta per svegliarsi.”

 

 

Il dito tremante di Simone era puntato contro Cinzia.
Lei, pallida, lo fissava senza riuscire a capire. Stronza? Ce l’aveva davvero con lei?
“Tu!” sibilò il rosso, fremente, avvicinandosi di un passo. Scosse il capo, lo sguardo che diventava appena appena lucido, sconfortato.
E dei passi risuonarono sulle scale, incredibilmente frettolosi.
Michele si fiondò nella stanza, piegato in due dall’affanno.
“Io non lo sapevo!” esclamò, gli occhi ancora più grandi del normale “Credevo lo sapesse!”
Il ragazzino osservò la situazione, scuotendo disperato il capo.
“Giuro!” gemette “Credevo lo sapesse…”
E Simone reclinò il capo all’indietro, chiudendo gli occhi per un solo secondo, il tono che si faceva ancora più impietoso mentre formulava una nuova accusa: “Sei una putt…” 
“Attento alle parole.” lo fermò subito Lorenzo, frapponendosi tra i due.
“Non sto parlando con te.” lo spinse di lato Simone, fissando una Cinzia sempre più scossa.
“Non me lo hai detto.” sibilò, rivolto alla ragazza che finalmente cominciava a capire “Come hai potuto?”
“Cinzia mi dispiace.” s’intromise la vocetta di Michele, tremante e traboccante dispiacere.
Lei scosse una mano nella sua direzione, cercando di fargli capire che non era colpa sua. Perché, in fondo, era vero: era stata lei a sbagliare.
“Cos’è che stavi dicendo, Simo?” chiese, raddrizzando le spalle e ostentando una sicurezza che non aveva.
“Che sei una sporca…”
Questa volta Lorenzo non usò più le buone maniere, la mano destra che correva a stringere la spalla del ragazzo. Lo fissò, implacabile.
“Ripeto.” ringhiò “Attento alle parole. Molto, molto attento.”
“Attento un cacchio!” si ribellò il rosso “E’ una prostituta! Non ci sono altre parole!”
“Simone.” mormorò Cinzia, la voce rotta.
“Non parlarmi più.” soffiò il ragazzo, liberandosi malamente dalla presa di Lorenzo “Credevo… credevo di conoscerti almeno un pochino. E poi… mio Dio, che schifo!”
Continuarono a fissarsi: gli occhi di lei pieni di lacrime e quelli di lui accesi da una rabbia che probabilmente non avevano conosciuto prima di allora.
Cinzia piegò il capo, soffocando un singhiozzo: si voltò, dandogli le spalle e allontanandosi di un passo.
“Non hai il diritto di parlarle così.” lo apostrofò Lorenzo, serrando le labbra.
“Ho il diritto di dire quello che mi pare!” sbottò Simone in risposta “Mi ha preso in giro fino a ora!”
“Non l’ho fatto!” urlò lei, girandosi di scatto “Non puoi prendertela solo con me!”
“Non faccio il gigolò io!” tenne duro Simone.
Cinzia si avvicinò, furente quanto scossa.
“Non puoi giudicarmi.” sibilò, scuotendo il capo impercettibilmente.
“Non ho alcuna intenzione di farlo.” sollevò il mento lui “Sto solo commentando la realtà.”
E partì lo schiaffo. Forte.
“Da che pulpito…” borbottò Cinzia, le labbra tremanti, ritirando la mano.
“Io non mento.” rispose Simone, le dita a sfiorare la guancia lesa.
“Nemmeno io.”
Fu la voce di Sofia, insicura, a farsi sentire nel silenzio appena calato.
“Io… Simone, ti prego, dov’è Matteo?”
Il ragazzo ci mise qualche attimo a metterla a fuoco, sbattendo più volte le palpebre.
“Matteo?” fece poi, ancora confuso “Non lo so. Io… non lo so. Perché?”
“Hanno chiamato.” sussurrò Sofia, abbracciandosi da sola “Dall’ospedale.”
I due si guardarono, ritrovandosi all’istante. Lo dissero insieme, dando voce allo stesso, fulminante, pensiero: “Giovanni.”

 

*

 

“Hai fatto?”
Cominciò a saltellare nervoso sul posto, i denti che mordevano impulsivamente il labbro.
“Finito?” chiese ancora, ansioso “Posso girarmi?”
Aspettò qualche secondo, il respiro sempre più affannoso. Poi sbuffò contrariato.
“Guarda che mi volto!” esclamò impaziente “Capito, cucciola?”
Daniele sospirò, passandosi le mani sul viso con fare stanco.
Quando ancora una volta non ottenne risposta cominciò lentamente a girare su se stesso, incerto. E poi la vide: completamente vestita. Sorrise, sinceramente sollevato. Non era pronto a vedere la sua migliore amica nuda. Probabilmente sarebbe stato un colpo troppo duro per il suo già instabile equilibrio mentale.
“Stai benissimo con il mio cambio, sai?” commentò, carezzandosi sovrappensiero il pizzetto “Oh sì, il blu ti dona proprio. Così fai tanto Meredith Grey,” continuò “non hai mai preso in considerazione la carriera di specializzando, cucciola?”
Veronica continuava a non rispondere, lo sguardo assente e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni azzurri troppo grandi per lei. I capelli si erano quasi asciugati del tutto: incorniciavano un volto decisamente più cereo del normale, segnato dalla stanchezza.
Daniele si avvicinò cautamente, fermandosi di fronte a lei, l’espressione improvvisamente seria: “Non fare così, Vero.” mormorò “Mi spaventi, dai. Dì qualcosa.”
Lei scosse il capo, le labbra che tremavano impercettibilmente.
“Non ti riconosco!” sbottò Daniele, afferrandole di getto una mano e stringendola fra le sue “Questa non è la Veronica che conosco! Lei non avrebbe mai lasciato entrare Matteo da solo in quella stanza! Lei ora non se ne starebbe qui, in silenzio, senza fare niente… reagirebbe, lei.”
“Reagire?” biascicò dopo un po’ Veronica, cogliendolo di sorpresa.
Agitò la mano, liberandola dalla presa del ragazzo e sollevò il mento, un lampo indignato e deciso che le attraversava gli occhi chiari.
“Sai perché non posso reagire?” sibilò “Perché se lo facessi dovrei prendermela con te: con uno dei miei più cari amici! Con te che non mi dici cosa diavolo sta succedendo in quella stanza! Tu! Tu, tu sempre e maledettamente tu! Tu che menti affermando di non conoscere Matteo! E poi lo chiami! Chiami lui! Per cosa?! Cosa sta succedendo, cosa?!”
Un singhiozzo frustrato le scosse le spalle mentre sollevava lo sguardo al soffitto, cercando con tutta se stessa di non cedere alle lacrime: non poteva, non in quel momento.
“Perché nessuno mi parla? Segreti, segreti, tanti di quei segreti da riempirci un libro, Danny. E Teo li spaccia per bugie bianche, e tu fingi di non conoscerli… e alla fine dei conti? L’unica a non sapere davvero niente sono io. L’unica scema. E continuo a cercare di capirci qualcosa, di restare vicina a tutti voi… a quale scopo? Perché diavolo sono così autolesionista?! Vuoi sapere una cosa?”
Daniele scosse il capo, le mani che tentavano inutilmente di afferrare quelle iperattive di lei mentre continuava a parlare:  “Non mi interessa più. Non voglio sapere.” 
Si alzò dal lettino, le dita che sfioravano in segno di saluto il braccio del ragazzo.
Daniele chiuse gli occhi, il rumore della porta che si chiudeva alle sue spalle e l’ultima frase di Veronica che gli rimbombava assordante nelle orecchie.
“Ho chiuso.”

 

~

 

“Cosa le porto?”
Veronica sollevò stancamente lo sguardo dal tavolo, incontrando due occhi ancora più esausti dei suoi: era un ragazzino minuscolo, probabilmente in piena fase adolescenziale. Apparecchio ai denti, acne prorompente e un paio di cuffie che pendevano dal collo della felpa. Ah, e gomma da masticare in bocca.
“Un caffè, grazie.” sussurrò, tornando a poggiare la testa sulle braccia.
Le piaceva quella posizione: le permetteva di escludere tutto, ogni cosa. Scomparivano la caffetteria, i tavoli vuoti, la notte che sembrava voler forzare le finestre e avvolgerla con la sua tristezza. Avrebbe voluto dirle che non c’era bisogno di sforzarsi tanto, che non era necessario un vento così forte a sferzare i vetri: la tristezza già l’aveva raggiunta, no? Non ci stava sguazzando dentro da un bel po’ in quel mare di malinconia e incertezza?
Percepì il profumo del caffè in anticipo: schiuse appena le palpebre, osservando il ragazzino che poggiava delicatamente il bicchiere sul tavolo e poi prendeva posto su una sedia di fianco alla sua.
Veronica inarcò un sopracciglio e lui rispose con un’alzata di spalle:
“Non c’è nessun altro a quest’ora.” borbottò, estraendo il cellulare dalla tasca.
Veronica annuì e chiuse di nuovo gli occhi, beandosi del silenzio che li circondava. Sentiva i pensieri che scemavano, allontanandosi con deferenza, quasi avessero capito che era inutile continuare a ronzare in giro: non c’era altro da fare. 
Il suo neurone più funzionante aveva oramai alzato bandiera bianca e gli altri, diligenti, avevano seguito il suo esempio. Fine.
E poi sentì un rumore improvviso, stridente: una sedia che graffiava il pavimento, strusciando senza pietà. Impiegò qualche istante a far diradare la nebbia e a mettere a fuoco Michele, appollaiato sulla sedia di fronte alla sua, dall’altra parte del tavolo. Sbatté più volte le palpebre, velocemente, cercando di capire se e per quanto aveva dormito. Lanciò un’occhiata fuori dalla finestra e vide lo stesso buio di poco prima.
“Ho combinato un casino, Vero.” sbottò Michele, attirando a forza la sua attenzione.
Veronica cercò di annuire, il capo troppo pesante: il bicchiere di caffè si avvicinò alla sua mano, spinto da una forza invisibile. Il passo successivo fu capire che quella forza invisibile era l’adolescente che l’aveva servita, ancora seduto affianco a lei, lo sguardo comprensivo. Non meno confusa, bevve avidamente un sorso.
“Non mi interessa, Mickey.” sussurrò, la bevanda calda che le solleticava la gola.
Gli occhi già grandi del ragazzino divennero immensi.
“Co… come non ti interessa?” balbettò incredulo “Devi ascoltarmi!”
“No.” ribatté lei, continuando a bere “Ho deciso di chiamarmi fuori. Non vedo, non sento, non parlo… come le tre scimmie, hai presente? Fate finta che io non esista più.”
Michele si sporse in avanti sul tavolo, assottigliando lo sguardo.
“Tu non sei una scimmia.” fremette “E devi ascoltarmi.”
“No.”
“Veronica!”
“Ho detto no.”
Un mugolio frustrato gli sfuggì dalle labbra: “Ma… ho combinato davvero un casino, Vero! E c’entra Simone. E Cicì. E lo sai che io odio fare guai del genere, ma non lo faccio volontariamente, davvero! Lo giuro! Non so com’è possibile, capisci?”
Veronica restò impassibile, le parole del ragazzino che le facevano vibrare una corda che conosceva bene. 
“Mi devi aiutare.” provò ancora Michele “Non vuoi… non vuoi aiutarmi?”
Lei deviò lo sguardo, allontanandolo da quello disperato del suo piccolo coinquilino: girò il viso, imbattendosi nell’espressione attenta del cameriere. Non era realmente sorpreso o interessato alla faccenda. Semplicemente osservava. In silenzio.
E Veronica non riuscì a trovarvi alcunché di male. Lei non faceva più parte del giro: se lui voleva farsi avanti e prendere il suo posto, prego.
Quando tornò a guardare davanti a sé, Michele era sparito. Scomparso nel nulla.
Veronica sospirò, incrociando di nuovo le braccia sul tavolo e poggiandovi la testa: voleva dormire, okay? Era possibile o doveva chiedere un permesso speciale anche per quello? Chiuse gli occhi, la nebbia silenziosa di prima che tornava a confonderle le idee, avvolgendola delicatamente. E poi successe. Di nuovo.
Lo stesso rumore improvviso e stridente. La medesima, dannata sedia di prima. Provò a ignorare la cosa, ma socchiudere un occhio fu più forte di lei: nonostante il ciuffo di capelli biondi che le oscurava al visuale lo vide ugualmente. Un metro e novanta di stupidità che continuava ad affermare di condividere il suo stesso patrimonio genetico.
“Non hai idea di cos’è successo.” ringhiò Lorenzo, appropriandosi del suo bicchiere di caffè.
Veronica sollevò il capo con indolenza, sbattendo piano le palpebre.
“Simone.” borbottò il fratello “Dovrei pestarlo, sai? Come… come si è permesso? Chi diamine crede di essere? Non ha il diritto di comportarsi così, giusto?”
Quasi si strozzò con il caffè, tanta l’enfasi che metteva in quello che stava dicendo. Posò il bicchiere e la fissò: “Mi stai ascoltando?” chiese serio.
E lei scosse la testa.
“E’ importante!” sbottò allora Lorenzo, stralunato “Simone ha…”
“Non mi interessa.” lo interruppe Veronica “Non andare avanti, fermati qui. Non mi interessa, non lo voglio sapere, non sono più fatti miei.”
“Stai delirando.”
“Davvero. Non mi interessa.”
Lorenzo si sporse verso la sorella, incatenandone lo sguardo: “Che diavolo ti prende, si può sapere? Non puoi disinteressarti di tutto così di colpo, lo sai?”
“Perché non potrei, eh?”
“Perché non è una telenovela alla televisione. Non puoi premere un bottone e spegnere tutto. Non puoi. Perché è di noi che si tratta, hai capito? Di noi. Facciamo parte di te come tu fai parte di noi.”
Veronica deviò lo sguardo, reprimendo un gemito.
“Guardami.” fece Lorenzo.
Lei non ubbidì e fu il fratello ad afferrarle il mento con due dita, voltandole gentilmente il capo: “Non so cosa ti prenda, davvero.” mormorò, le sopracciglia aggrottate “Non è così che funziona, però. Almeno non per te. Non sei il tipo che scappa alla prima difficoltà, principessa.”
“E’ la milionesima difficoltà, Lori!” esclamò Veronica, rossa in viso “Non la prima, okay? L’ennesima! Sono stanca. Tanto, ma tanto stanca. E non voglio saperne più niente.”
Lorenzo le lasciò andare il mento, tornando a sedersi con un sospiro sconfortato.
Lei si sfregò gli occhi, bevendo l’ultimo sorso di caffè: “Mi… mi accompagni a casa?”
“No.”
Un nuovo bicchiere di caffè le comparve improvvisamente fra le mani, ma lei non fece in tempo a degnare di un solo sguardo il cameriere che Lorenzo cominciò a parlare.
“Non ti accompagno da nessuna parte.” fece “E sai perché? Perché sono convinto che poi te ne pentiresti amaramente.”
“Di cosa? Di cosa dovrei pentirmi?!”
“Di aver abbandonato tutti e tutto. Non sei così. Non ne sei capace.”
“Lorenzo senti…”
Lui scosse la testa, il ciuffo biondo che gli copriva un occhio.
“Non ne sei capace.” mormorò ancora, guardandosi attorno “Scommettiamo?”
Veronica trovava sempre più difficile seguire il discorso, l’effetto della caffeina che tardava a farsi sentire.
“Scommetto che fra meno di dieci… cinque minuti non sarai più in grado di ostentare quest’atteggiamento menefreghista. Ci stai?”
Lei schiuse le labbra per dire qualcosa ma Lorenzo si era già alzato in piedi, un sorriso da Stregatto a piegargli le labbra. Si piegò leggermente verso l’orecchio della sorella e, prima di sparire, ripeté: “Non ne sei capace.”
Veronica non fiatò, limitandosi a ingurgitare altro caffè. Fu con la coda dell’occhio che colse quel movimento. Lo stesso movimento che probabilmente aveva notato anche Lorenzo: Cinzia. Cinzia che percorreva sbandando il corridoio, avvicinandosi sempre più all’entrata della caffetteria.
Al diavolo. Cos’era, una congiura? Una specie di staffetta? Uno alla volta, uno dopo l’altro, pronti più che mai a farle saltare gli ultimi nervi che le restavano?!
Il suo sospiro si fuse con quello del cameriere seduto al suo fianco. Si guardarono. Lui annuì, masticando: “C’è movimento.”
E Veronica si passò una mano fra i capelli.
Questa volta la sedia non fece rumore: la brunetta prese posto senza farla minimamente strusciare per terra. Cinzia la fissò, lo sguardo indecifrabile. E poi sospirò a sua volta.
“Racconta.” disse, bevendo un sorso dal bicchiere dell’amica.
“Come?” balbettò Veronica in risposta, presa completamente in contropiede.
“Racconta.” ripeté Cinzia, annuendo seria “Cos’è successo? Come ti senti? Che ti ha detto? Cosa non ti ha detto? Altre bugie?”
“Io…”
“E perché indossi la divisa da ospedale di Daniele?”
Veronica si riappropriò del bicchiere, rimpiangendo l’assenza di alcool nella bevanda.
Cinzia si preoccupava per lei, chiedeva di lei, pensava a lei. Prima che a se stessa. Al diavolo. Non poteva darla vinta così a Lorenzo.
“Ehi.” la richiamò l’amica “Racconta, dai. Sfogati, Vero.”
Chiuse gli occhi, scuotendo mestamente il capo. Mai scommettere contro Lorenzo. Mai.
“Cicì.” sussurrò, un groppo in gola “Che ti è successo?”
L’altra sgranò gli occhi, arretrando istintivamente: “Come?”
Veronica si sporse per afferrarle saldamente una mano: “Sei sconvolta, tesoro.” mormorò, la preoccupazione che aumentava.
“Io…” fece Cinzia, mordendosi un labbro “Io stavo interrogando te, Vero. Com’è che abbiamo cambiato così discorso, eh? Racconta prima tu, dai.”
“Cicì.” insisté Veronica, sicura di sé e sempre più inquieta “Parla.”
Quella ruotò gli occhi, ostentando un’indifferenza niente affatto credibile. Poi Veronica rafforzò la stretta sulla mano dell’amica e lo sguardo della brunetta si riempì di lacrime, irrefrenabili: “Simone.” singhiozzò, sdraiandosi quasi sul tavolo pur di riuscire a nascondere almeno in parte il viso “Lui, lui mi ha dato della puttana, capisci? Ha scoperto tutto… anche se non ho idea di come sia possibile che non l’abbia capito prima e…” un singhiozzo convulso le scosse le spalle, spezzandole la voce “… ha detto tante cose brutte, Vero. Erano come tante pugnalate, okay? Una dopo l’altra. Una più a fondo dell’altra.”
Veronica si alzò, aggirando il tavolino senza tuttavia lasciare la mano di Cinzia: la sollevò con delicatezza, quel tanto che bastava affinché potesse sedersi sulle sue ginocchia. E l’abbracciò. Con tutta la forza che aveva.
“E’ uno stronzo, Cicì.” sussurrò, continuando a ripeterlo, carezzandole i capelli e stringendola a sé “E’ un ragazzo. E’ sua prerogativa essere stronzo, no? Non può essere altrimenti. E’ nella sua natura.”
Cinzia continuava a piangere, scuotendo leggermente il capo contro il petto dell’amica.
“No, no…” borbottava “… avevamo un appuntamento, noi.”
“Vuoi che lo castri?” chiese Veronica, scostandole i capelli dal viso “Prendo in prestito le tue cesoie e…”
Non riuscì a continuare la frase, colpita da quello che lesse negli occhi dell’altra. 
“Lui… lui ti piace davvero.”
Cinzia non rispose. Più di mille parole in quel silenzio.
“Oddio.” scandì piano la biondina, rafforzando la presa “Ti piace proprio.”
“Io…” tirò su col naso Cinzia “… è dolce. Non avevo mai avuto a che fare con qualcuno così dolce, sai? E’… è come una fragola gigante, Vero. Ricoperta di cioccolato e con la punta di panna montata.”
“Non è che è solo fame la tua?” cercò di scherzare Veronica, inutilmente.
“E’ dolce. E attento. E timido all’inverosimile. E… ascolta, ride, dice cose che non riesco minimamente a capire e… so che ti sembrerò pazza ma davvero, davvero mi ero affezionata all’idea che…”
Le mancò la voce, un nuovo singhiozzo che le toglieva il respiro: “E poi stasera. Urla. E… tutte quelle pugnalate, io…”
Veronica la tirò di nuovo a sé. Il neurone più efficiente, seppur di malavoglia, ritirò la bandiera bianca.
Non ne sei capace.
Mai. Mai scommettere con Lorenzo. Non ne sei capace.
Di ignorare il dolore di Cinzia? No, certo che non ne era capace. E se questo voleva dire perdere una stupida scommessa, ben venga. 
Non ne sei capace. E se voleva dire rientrare nei giochi, va bene.
Fino a un certo punto, però.
Solo per ciò che riguardava Cinzia. Il che forse includeva privare la fragolina rossa degli attributi, ecco, ma non per altro. Per nient’altro. Solo per lei. Per Cinzia.
Non ne sei capace.
“Ci penso io, Cicì.” sussurrò, scoccandole un bacio sui capelli “Ci penso io adesso, okay?”

 

~

 

Veronica percorse il corridoio a passo di marcia.
Implacabile.
Si fermò di fronte a quella porta. La porta. E bussò. Probabilmente quasi abbatté.
“Simone esci!” sbraitò, senza fermarsi “So che sei lì dentro, lurida fragola, esci immediatamente!”
L’infermiera seduta dietro il bancone all’angolo fece per alzarsi, uno sguardo inviperito e le braccia incrociate, quando la porta si schiuse appena, mostrando due occhi grigi e una zazzera rossa.
“Ve… Veronica?” sussurrò il ragazzo, gli occhiali che rischiavano di scivolargli dal naso.
Lei ghignò, scuotendo leggermente il capo e afferrando repentinamente il bavero della maglia di Simone: “Ma no!” esclamò “Sono Babbo Natale, spero mi perdonerai per il leggero anticipo!”
“Ascolta, non credo sia il caso di…” tentò lui, il fiato che gli mancava per la presa ferrea della ragazza.
Veronica smise di sorridere, trascinandolo in corridoio. Per un solo istante, un misero, infinitesimale attimo, intravide anche Matteo. E Sofia. Vicini. Nella stanza.
Non ne sei capace.
La porta si chiuse alle spalle di Simone e lei sbatté le palpebre per rimuovere quell’immagine decisamente non appropriata. Fastidiosa, anzi. Insopportabile, perché no.
“Cosa diavolo ti è preso?” ringhiò Veronica, spingendolo con le spalle contro il muro.
“A me?” balbettò Simone, gli occhi sempre più sgranati “Sicura di… di star parlando con la persona giusta? Non è che… non è che vuoi che ti chiami Matteo, per caso?”
“No!” sbottò Veronica “E’ con te che sono furiosa non con Matteo!”
Lui sembrò rimpicciolire, abbassandosi all’altezza di lei, l’espressione tesa: “Abbassa la voce.” bisbigliò “E’ un ospedale, dai.”
“Tu.” riprese lei in un ringhio “Sei arrivato da noi che sembravi Bambi. Un povero, vulnerabile cucciolo rosso e smarrito. Senza voce. Sbaglio?”
“Non capisco dove tu voglia arrivare.” ribatté Simone, lo sguardo più serio.
“Non avevi voce, Simone.” continuò lei “E quand’è che decidi di tirarla fuori, eh?”
“Non eri presente.”
Si era risollevato, aggiustandosi gli occhiali.
“Le hai gridato contro.” fremette Veronica, controllando a stento la rabbia “Contro Cinzia!”
“Mi ha mentito!” fece lui, il tono acuto “Mi ha mentito!” scandì ancora, tremante.
“Non è vero!”
“Sì!” sbottò “Sì che lo ha fatto. Senza pensarci due volte. Avevo tutto il diritto di arrabbiarmi, che diavolo! E non ho detto nulla che non rispecchiasse la realtà, porca miseria!”
“Incredibile…” si allontanò appena Veronica, lasciandolo andare “Tu non hai idea. Non hai la più pallida idea di quanto fragile sia quella ragazza.”
“Fragile?” ripeté Simone, sarcastico “A me è sembrata tutto fuorché fragile.”
“Non la conosci.” sibilò lei “Non la conosci nemmeno un po’, non hai il minimo diritto di emettere giudizi.”
Il ragazzo fece per dire qualcosa ma Veronica lo precedette, fulminandolo con lo sguardo.
“Come se tu, poi, fossi l’emblema della sincerità.”
“Prego?”
“Accusi lei di aver mentito. E tu?” si avvicinò di nuovo, un’espressione di sfida “Sei stato sincero, tu?”
“Non ho mai mentito.”
“Neanche una bugia bianca?”
E a Simone caddero gli occhiali. Si chinò in fretta e furia per riappropriarsene, le dita incerte.
“Dove hai passato le ultime notti, Simone?” continuò Veronica, implacabile.
“A casa di amici.”
“Una specie di pigiama party?” provò lei “O qualcosa di più simile a un’orgia?”
“Co… cosa?! Che dici? Io non… non sono gay!”
“Non l’ho mai detto.”
Simone non si rialzò, preferendo restare seduto sul pavimento, la testa poggiata sulle ginocchia strette al petto: “Non potevo parlarvene, okay?” disse “Ora forse… presto. Se tutto si risolve per il meglio.”
“Non dirmi che anche tu sei invischiato nel giro della droga.” borbottò lei, scivolando a sedere al suo fianco.
Lui sollevò il viso, sinceramente sorpreso: “Sai di Matt?”
“Cos’è,” mormorò Veronica annuendo “siete in affari assieme?”
“No, certo che no.”
“Prostituzione anche tu? Porno?” tentò ancora “Sei arrabbiato con Cinzia perché volevi avere l’esclusiva?”
“Non è divertente.”
Per un po’ nessuno disse alcunché. Restarono in silenzio, gli sguardi persi, i pensieri confusi. Poi Veronica gli rifilò una gomitata nello stomaco, precisa e penetrante.
“Te la meritavi.” sussurrò, a mo’ di spiegazione “Ed è solo l’inizio.”
Lui si piegò in avanti, improvvisamente a corto di fiato. E lei sorrise vagamente, scuotendo piano il capo: “Sai cosa?” mormorò, poggiandogli una mano sulla spalla “Non sei male, dopotutto. Devi solo far funzionare meglio quel tuo cervellino. Hai sbagliato. E presto o tardi te ne renderai conto. Spero per te presto.”
Veronica si alzò in piedi, le dita che arruffavano i capelli di Simone con un po’ troppa forza:
“Neanche tu sei un santo. Nessuno è perfetto. E tutti hanno dei segreti, più o meno brutti. Sbaglio?”
Simone non disse niente, ancora piegato in due. Lei si strinse per le spalle, facendo per allontanarsi: “Chiedile scusa.” aggiunse, muovendo i primi passi.
Non fece in tempo a percorrere un metro, però, che quella porta si aprì: una mano ne uscì, agguantandola per la manica senza troppe premure. Veronica si voltò, sinceramente meravigliata e incontrò un paio di occhi neri.
“Teo?” sfiatò, presa in contropiede.
Lui annuì, lanciando solo una veloce occhiata in direzione di Simone.
“Vieni dentro.” disse, la voce roca, tornando a fissarla con determinazione.
“Come?”
“Vieni dentro.” ripeté lui, attirandola a sé senza darle il tempo di realizzare la frase. Lei quasi gli sbatté contro, inciampando miseramente nei suoi stessi piedi: riuscì a reggersi in piedi per pura fortuna, incredula.
“Sofia, ci lasceresti soli, per favore?”
Sentì il pavimento che le tremava sotto i piedi. Aveva… stava davvero cacciando Sofia?
Sollevò lo sguardo, bisognosa di accertarsi della situazione. 
“Hai bisogno di qualcosa, Mattèo?” domandò la francesina, avviandosi di malavoglia in direzione della porta.
“No, grazie.”
“Sicuro?”
Lui neanche rispose. E Sofia uscì dalla stanza, lasciandoli soli. In quella stanza d’ospedale. La stanza.
“Devo parlarti.”
“Con me?” balbettò Veronica, timorosa anche solo di guardarlo in faccia “Sei sicuro?”
“Ti dona il blu, te l’ho mai detto?”
Okay. Sollevò di scatto lo sguardo, scandagliando l’espressione di lui.
Si avvicinò, poggiandogli una mano sulla fronte: “Sicuro di non avere la febbre?”
Matteo le prese la mano, stringendola fra le sue e sorridendo. Sì, sorridendo. Non ghignando.
Sorridendo.
Oh, mio Dio. Sorrideva. Matteo era in grado di sorridere!
Veronica quasi si sentì svenire, il cuore che accelerava e decelerava senza alcun controllo. Diamine.
“Ti mette in risalto gli occhi.” continuò lui “Non che abbiano bisogno di essere resi più belli.”
“Mi stai spaventando, davvero.”
“Voglio solo parlarti.”
“Forse dovrei chiamare qualcuno.”
“Ragazzina,” la fermò Matteo, le mani che si ancoravano sulle spalle di lei “voglio parlare con te.”
Veronica annuì appena, scuotendo subito dopo il capo.
E Matteo rise.
La miseriaccia nera, rise. Spaventandola a morte.
“Forse sta impazzendo.” mormorò Veronica fra se e se, il tono di voce basso. Eppure lui udì ugualmente il commento e cominciò a ridere più forte. Una risata calda, coinvolgente, rassicurante.
Una risata di cui era facile, troppo facile, innamorarsi.
Veronica lo fissò, le labbra dischiuse per la sorpresa e il capo leggermente inclinato di lato: rilassato, ecco come appariva. Un’espressione serena che non aveva ancora mai visto.
Le labbra stirate in un sorriso, gli occhi ridenti e luminosi. Era come se emanasse luce. 
Inquietante, sì. Fottutamente inquietante.
“Sai dove siamo, non è vero?” chiese lei, prendendogli il viso fra le mani.
“Certo.” annuì Matteo, ruotando il volto quel tanto che bastava a lasciarle un bacio sul palmo “In ospedale.”
Veronica si sforzò di ignorare il punto in cui lui l’aveva baciata e provò ancora.
“Matteo…”
“Siamo in ospedale,” fece lui, sicuro, interrompendola “nella camera di mio fratello.”

 

~

 

Simone si reggeva la testa fra le mani.
Respirava piano, cercando di riportare il battito ad un ritmo normale. Brutta, brutta gomitata davvero.
Sentiva ancora le parole di Veronica rimbombargli nelle orecchie, qualcosa di molto simile ad un senso di colpa che cominciava a farsi sentire lì: nel punto in cui lei lo aveva colpito. 
Che fosse tutto programmato?
“Non ha senso, giusto?” mormorò “Io sono dalla parte del giusto, no?”
Sofia al suo fianco sussultò, guardandolo di sbieco.
“Ho ragione io. E’ lei che ha sbagliato. Io sono completamente dalla parte del giusto, giusto? Giusto?!”
“Vuoi sapere cosa sarebbe giusto, Simo?” sibilò lei, alzandosi in piedi a fatica “Che tutti voi uomini spariste dalla faccia della terra. Perché non ne fate una giusta, in realtà. Sbagliate. Una volta dopo l’altra. Sempre.”
“Noi non…”
“Voi sbagliate sperando che noi donne riusciremo a ignorare i vostri errori. O a perdonarli. O a dimenticarli. Quando non è possibile, perché ce lo rendete sempre più difficile. E ci ferite, sempre. Ma sai cosa?”
Simone rimpicciolì, la tremenda impressione che tutte le donne ce l’avessero con lui.
Chi altro lo avrebbe sgridato? L’infermiera? Le lanciò un’occhiata e gli sembrò più inviperita di quanto già non fosse. Sì, probabilmente gli avrebbe urlato contro anche lei.
“Mi sono stancata di subire. Alla prossima cazzata che fate non rispondo più di me. Chiaro? Che sia tu, un illustre sconosciuto o quell’emerito deficiente del tuo amico. Non mi interessa.”
Sofia si allontanò i capelli dal viso, un’espressione dura negli occhi.
Simone non fece in tempo ad aprire bocca che lei già si era defilata, il picchiettio dei tacchi che rimbalzava sulle pareti bianche e spoglie. Lui sospirò, internamente sollevato. Meno donne aveva attorno in quel momento meglio era, decisamente. Lanciò una rapida occhiata per il corridoio, terrorizzato all’idea di vederne arrivare qualcun’altra: e se Cinzia gli fosse passata davanti? Cosa avrebbe potuto fare?
Forse, cominciò a ponderare, poteva provare a mimetizzarsi con il muro. Oppure, poteva chiedere asilo politico all’infermiera e usare lei come scudo umano se la situazione lo avesse reso necessario. O ancora…
Fu con un po’ di ritardo che sentì i passi. Troppo concentrato sulle diverse opzioni, non ci aveva fatto caso. E non erano i tacchi di Sofia, di questo era sicuro. E sollevato.
Gli occhi socchiusi, guardò intimorito chi arrivava dal fondo del corridoio: a stento trattenne un sospiro nel momento in cui riconobbe Michele. Solo lui. Il piccolo, adorabile Mickey. Sorrise, reclinando il capo contro il muro e facendogli segno di avvicinarsi.
“Non sai che paura mi hai fatto.” disse “Temevo fosse qualche altra componente del genere femminile pronta a farmi la pelle, ti giuro. Oddio, Mickey, ho bisogno di supporto morale.”
Michele lo aveva raggiunto: se ne stava in piedi, rigido come una statua.
“Non è certo da me che lo avrai.” sibilò gelido.
Simone non disse niente, le labbra dischiuse per la sorpresa.
“Come hai potuto… come hai potuto, Simo?” balbettò il ragazzino, la voce tremante.
Le labbra strette, pallide, tremanti anch’esse. Simone sbatté le palpebre, incredulo.
“Non capisco.” sussurrò, scuotendo il capo e allungando le dita verso Michele. Lui si scansò, un lampo furioso che gli attraversava lo sguardo.
“Hai insultato Cinzia.” lo assalì “Cosa diavolo ti è passato per la testa?!”
“Michele, ascolta…”
“Non ascolto un bel niente! Sei un bastardo! Un lurido bastardo!” inveì il ragazzino “E non capisci niente! Non capisci assolutamente niente! Hai idea di… hai idea…” si fermò, cercando di riprendere fiato “No. Non ne hai la più pallida idea. Hai semplicemente dato aria alla bocca.”
“Michele…”
“Ti credevo mio amico.”
Simone non ribatté, incapace di emettere il minimo suono.
“Ci credevo, davvero. E volevo aiutarti.” scosse il capo, arretrando ancora “Poi tu...”
“Mi dispiace.” mormorò Simone, sollevando a stento lo sguardo.
“Non mi interessa.”
“Non fare così, ti prego.” lo supplicò Simone “Non anche tu.”
Quando fece per alzarsi, Michele si allontanò ancora di più, ricominciando a camminare come se Simone non lo avesse fermato. Come se non fosse successo niente.
Come se non avesse incontrato nessuno.
“Mickey…” lo chiamò un’ultima volta, disperato.
“Vai al diavolo.”

 

~

 

“Tuo… tuo fratello?”
Veronica quasi perse l’equilibrio, l’impressione che l’onda d’urto provocata da quell’ultima affermazione fosse tanto forte da gettarla per terra. Fratello?
“Da quand’è che hai un fratello?” balbettò, guardandosi velocemente in giro.
Se anche Matteo rispose lei non lo sentì.
Fissava il letto bianco. Quel letto a cui non aveva prestato la minima attenzione entrando, troppo concentrata sul repentino cambiamento di personalità di Matteo. Del giovane Fiori.
Giovane Fiori.
Donatello lo aveva chiamato così. Giovane Fiori. Come a voler implicare l’esistenza anche di un Fiori più grande. Non il padre. No. Il fratello. Un fratello maggiore.
Veronica sbatté più volte le palpebre, incredula. Era stata cieca? Quanti altri indizi aveva avuto, eh
“Ronnie?”
Ignorò il richiamo. Ignorò le mani di lui che le massaggiavano le spalle. Ignorò.
“Fratello.” ripeté più che altro a se stessa “Fratello.”
E fissò il ragazzo nel letto. Due, tre anni più grande di Matteo, forse?
I capelli scuri, leggermente spettinati. La barba fatta. Le stesse labbra del fratello. Fratello.
Aveva gli occhi chiusi, il respiro quasi impercettibile. Fratello.
Il lenzuolo bianco lo copriva fino al petto, rimboccato con cura. Fratello.
“Non sei figlio unico?”
Matteo ridacchiò, forzandola a girarsi verso di lui: “Tu che dici?” chiese, un sorriso smagliante “Ti piace?”
“Chi?”
“Giovanni!” esclamò Matteo, il sorriso se possibile ancor più luminoso “Ti piace?”
“Tuo… tuo fratello?”
“Ho come l’impressione che tu non abbia ancora digerito l’informazione, ragazzina.”
“Tu hai un fratello.” ripeté lei, a riprova di ciò che lui aveva appena detto “Un fratello che si chiama Giovanni. Giovanni è tuo fratello.”
“Sì.” approvò Matteo “Quale che sia l’ordine delle parole la verità è sempre la stessa.”
“Tu mi stai dicendo la verità.”
“E’ una domanda?” fece lui, leggermente confuso.
“No.”
Veronica smise di guardarlo, la mente appannata dai denti brillanti di lui. Dal suo sorriso splendente. Da quella dannatissima felicità contagiosa che sembrava sprizzare da tutti i pori, anche dalle orecchie.
“La verità, Ronnie.” mormorò Matteo, sollevandole il mento “Niente più bugie.”
“Perché ora?”
“Perché non ora?”
Veronica deviò ancora una volta lo sguardo, intontita. Diede le spalle a Matteo, avvicinandosi al letto. E inclinò il capo, guardando Giovanni: “E’ bello.” sussurrò, sorridendo appena.
“Più di me?” le bisbigliò Matteo all’orecchio, abbracciandola da dietro.
“Cos’ha che non va?”
“E’ in coma.”
Lei annuì, poggiando una mano sopra quella di Matteo. E la strinse.
“Non mi hai risposto.” continuò lui “E’ più bello di me, sì o no?”
“Mi dispiace, Teo.”
“Perché è più bello di me?”
“Mi dispiace, davvero.”
“C’è stato un miglioramento.” fece lui, stringendole a sua volta la mano “Un miglioramento, capisci?”
Veronica riusciva a sentire la gioia che traboccava da quelle parole, una felicità travolgente. Voltò il capo, di poco, quel tanto che bastava a scoccargli un bacio sulla guancia.
Matteo chiuse gli occhi, aumentando la presa attorno alla vita di lei: “Gli saresti piaciuta.” disse, correggendosi subito dopo “Gli piacerai sicuramente.”
Se la rivoltò fra le braccia, fissandola con due occhi sveglissimi: “Ti adorerà.” affermò “Tu, con la tua sfacciataggine, le tue folli idee, i tuoi impossibili modi di fare…”
“Da quanto tempo è qui?”
“Un anno. Poco più di un anno. Un anno e mezzo.”
“Un anno e mezzo?”
Matteo annuì, chiudendo gli occhi per un istante. Solo per un attimo.
“Mi dispiace.” bisbigliò Veronica, una mano che saliva a carezzargli la guancia.
“Non mi hai ancora risposto.” fece lui, un timido sorriso che gli illuminava di nuovo il volto.
“Ho dimenticato la domanda.”
“E’ più bello di me?”
“No.” sussurrò lei, la fronte che si appoggiava contro la sua “Assolutamente no.”

 

~

 

“Michele?”
Lui rallentò, malvolentieri, aspettando che fosse l’altro a raggiungerlo.
“Ehi, finalmente ti ho trovato!” esclamò Silvestro, sollevato “Siete scomparsi tutti, che diavolo! Non ho idea di cosa stia succedendo, non uno di voi che risponda al cellulare, nemmeno un…”
Si fermò, la voce che gli veniva meno mentre si rendeva conto che qualcosa non andava: assottigliò lo sguardo, chiedendosi se fosse colpa della scarsa illuminazione di quel particolare corridoio o se realmente le spalle del ragazzino fossero scosse da un leggero tremore. Mosse qualche passo, posizionandosi di fronte a Michele.
E ammutolì.
“Ehi.” sussurrò, a corto di parole “Cosa… cos’è successo?”
Michele distolse lo sguardo, una mano che correva a coprirgli le labbra.
“Non… non capisco.” mormorò Silvestro, carezzandosi la pelata, ancora stordito. Non era abituato a vederlo in quelle condizioni, non quando non c’entravano i suoi genitori.
L’ultima volta che aveva visto quell’espressione sul volto di Michele, all’ospedale gli avevano dovuto mettere dieci punti. 
Silvestro fece per avvicinarsi, incerto. E Michele arretrò.
“Ti va… ti va di parlare?”
Lui scosse la testa.
“Lo sai che io sono qui, vero?” chiese ancora “Che ci sono sempre. In ogni momento. Per qualsiasi cosa.”
Michele reclinò il capo all’indietro, gli occhi chiusi con forza.
“Ci sono per te, Mickey. Sempre.”
“Perché dovresti?” sussurrò il ragazzino, la voce roca “Eh, perché?”
“Perché sì.”
“Eri arrabbiato con me.” fece, costringendosi a guardarlo “Non ti ho aperto la porta. Non ti ho ascoltato. Come fai a non avercela ancora con me? Perché non sei più arrabbiato?! Dovresti!”
“Non sono arrabbiato.” ribatté Silvestro, calmo “Lo sono stato, è vero, ma non significa niente e tu dovresti saperlo. Come fai a dubitare ancora di certe cose, eh, ragazzino?”
“Sono abituato così!” sbottò Michele “Sono abituato a non fidarmi, okay? Perché lo so che prima o poi anche tu mi volterai le spalle, lasciandomi da solo. Perché sono io ad essere sbagliato. Sono io che ho qualcosa che non va, a quanto pare. E sbaglio sempre. Una volta dopo l’altra. E…”
Silvestro non lo lasciò continuare, tirandolo a sé con vigore, le braccia che lo stringevano con tutta la forza che aveva. Soffocandolo quasi. Contro il suo petto, togliendogli il respiro.
In un primo momento lo sentì irrigidirsi per la sorpresa, confuso, impreparato. Poi anche le ultime forze lo abbandonarono e si lasciò andare fra le sue braccia.
E allora lo strinse ancor di più.
“Non c’è qualcosa che non va in te.” sussurrò.
Michele si agitò appena, come per negare con il capo. Un sussulto che gli scuoteva le spalle.
“Non rimarrai solo, ragazzino.” mormorò ancora, il tono fermo.
“Invece sì.” singhiozzò lui “Ho combinato un casino, Bond. Un casino enorme. Cicì mi odierà a morte. E anche Veronica. E tu… ed è tutta colpa mia. Tutta mia. Non sono buono a niente. Tutta mia…”
“Smettila.” fece Silvestro, chiudendo gli occhi “Io non ti odio.”
“Lo farai, lo farai…”
“Non è vero, Mickey, no. Ti devi calmare, va bene? Sei stanco e non…”
“E’ tutta colpa mia, Bond.”
“Non hai fatto niente.”
“Li ho fatti litigare!” si agitò lui, cercando inutilmente di divincolarsi “Litigare, non capisci?! Come… come con mamma e papà! Come…”
Gli mancò il fiato, un lampo di terrore che gli attraversava lo sguardo: “Come mamma e papà.”
Silvestro non disse niente, afferrandolo saldamente per le spalle e fissandolo negli occhi: “Basta.” sussurrò “Ora andiamo a casa. Insieme. E ci beviamo una camomilla.”
“No, no. Dobbiamo…”
“Andare a casa.”

 

~

 

“Mi fai impazzire, lo sai?”
Veronica sorrise appena, cercando di non lasciarsi attraversare da quello sguardo. Uno sguardo che era troppo.
“In negativo, immagino.” mormorò, provando ad allontanarsi, anche solo di un passo.
“Certo che in negativo.” rispose Matteo, serrando ancora di più la presa attorno alla vita della ragazza “Come potrebbe essere altrimenti? Tu con i tuoi sbalzi di umore, le tue domande impertinenti…”
“Il problema quindi sarei solo io, eh?”
“Sì.” sorrise lui, lasciandola senza fiato “Sei il mio problema.”
Non fece in tempo ad aprire bocca: non riuscì nemmeno a sbattere le palpebre, niente. Fu questione di un attimo e le labbra di Matteo si poggiarono sulle sue, irruente.
Non fece in tempo a pensare, a realizzare cosa stesse accadendo: non riuscì a far altro che ricambiare il bacio. Con tutta se stessa. Perché se anche una parte di lei continuava a urlare che era sbagliato, era una parte che in quel momento non aveva la più piccola possibilità di vittoria. Perché era di un bacio di Matteo che si stava parlando. Lui. 
Lui e quelle sue dannatissime labbra che sembrava non poter in alcun modo evitare.
“Un problema, eh?” sussurrò, stringendosi il più possibile al ragazzo, le mani che si allacciavano dietro il suo collo, le dita che piano salivano fra i suoi capelli.
“No, ragazzina.” rispose a stento lui, mordicchiandole il labbro “Non un problema. Il mio problema.”
Veronica annuì, la vaga impressione che fosse una risposta accettabile. 
Matteo ridacchiò, scuotendo impercettibilmente il capo: “L’ho detto che mi fai impazzire.”
“Stiamo sbagliando, Teo.” fece lei, cercando di riprendere fiato.
“Ah, sì? A me non sembra.”
Arretrò, impedendogli di avvicinarsi di nuovo: “Non qui, Teo.”
“Perché?”
“C’è tuo fratello nel letto!” esclamò Veronica, il tono leggermente stridulo “Tuo fratello. Nel letto.”
“Lo so.”
E gli occhi di lei si dilatarono, come se solo in quel momento avesse realizzato qualcosa di molto importante: “Non sei in te.” disse, poggiandogli le mani sul petto, ferme.
“Non sono… certo che sono in me!”
“No! No, no, no, no! Tu sei sconvolto! Tu…”
“Non sono sconvolto! Sono felice, al settimo cielo, Ronnie!”
“Tu sorridevi! E ridevi!”
“Tutti modi di esternare gioia, vorrei farti notare.”
“Ti brillano gli occhi, Teo.”
“Questo anche perché sto guardando te.”
E Veronica arretrò di scatto, negando con fare caparbio. Negando, negando, negando.
“Ti sei aperto,” borbottò “stavi parlando e…”
“Sto bene.” la fermò lui, allargando le braccia “Sto benissimo.”
“Stai bene?”
“Sì.”
“Sei… sei in te?” chiese ancora, allontanandosi con una mano i capelli dal viso “Totalmente in te?”
“Più in me di quanto non lo sia mai stato.”
“E tuo fratello?”
Matteo si strinse nelle spalle, avvicinandosi lentamente: “Dovrà abituarsi ad assistere a spettacoli del genere, non credi?”
“Teo!”
“Cosa?” ghignò lui, costringendola ad arretrare fino alla porta “Non sei d’accordo?”
E quando le labbra di lui le solleticarono il collo non riuscì a far altro che annuire. Sì. Sì, era d’accordo. Le dita, come guidate da una forza sconosciuta, tornarono docili fra i suoi capelli. E lo lasciò fare.
Reclinò il capo all’indietro, contro la porta, contenta che ci fosse qualcosa a cui appoggiarsi: qualcosa che le impedisse di cadere. Sorrise, solleticandogli le labbra con la lingua: “Sei pazzo.” mormorò “Totalmente pazzo.”
“Allora siamo perfetti insieme, no?” ribatté Matteo, le mani che veloci scendevano sotto le cosce di lei.
La sollevò, continuando a baciarla con tutto il fiato che aveva. Senza perdersi un respiro. Come se non avesse mai fatto altro. Come se non avesse mai sognato altro.
Veronica fece leva sulle sue spalle, la gambe che gli si chiudevano attorno alla vita. Le mani scesero lentamente, scivolando caute nel colletto della camicia di lui, carezzandogli le spalle calde. E sorrise, incapace di fare altro.
“Quindi…” sussurrò Matteo “… dici che qui non sarebbe giusto?”
“Non saprei.” scherzò lei, mordicchiandogli il lobo dell’orecchio “Probabilmente no.”
“E dove vorresti…”
Non riuscì a concludere la frase.
Aveva sentito qualcosa. Un battere. Forte.
Non era stato il suo cuore, ne era quasi certo. Era stato qualcos’altro. Qualcun altro.
“Hai sentito?” bisbigliò, il fiato corto “Hai sentito anche tu?”
“Hanno bussato.”
“Sei sicura?” gemette lui “Proprio a questa porta?”
Veronica gli rifilò uno schiaffo dietro la testa.
“Fammi scendere, fammi scendere!” sussurrò concitatamente, lo sguardo allucinato.
Matteo le liberò le gambe, attento che non perdesse l’equilibrio. Si fissarono per un momento, frastornati, per poi allontanarsi di scatto l’uno dall’altro. Senza fiatare.
Esattamente un attimo prima che la porta venisse aperta con forza.
Sofia li guardava, senza palare. L’espressione assente mentre osservava la scena che aveva davanti agli occhi: lui che si aggiustava la camicia, lei che cercava di pettinarsi i capelli. Insieme.
Incrociò le braccia, poggiando una spalla contro lo stipite della porta, l’aria rilassata. E osservava. Le labbra rosse e gonfie di entrambi. Gli occhi sfuggenti e luminosi. I respiri corti. Osservava.
“Va tutto bene?” chiese, premurosa, accennando un sorriso incerto.
Annuirono entrambi, senza guardarsi. Senza guardarla.
Lui che tossiva, dandole le spalle. Lei che fissava il pavimento, le dita premute sulle labbra.
Osservava.
“Verreste un istante fuori, per cortesia?” domandò, il tono gentile, lanciando un’occhiata veloce a Giovanni.
“Fuori?” mormorò Veronica, azzardandosi a guardarla per un secondo.
Sofia annuì, accennando con il capo in direzione del corridoio: “Non ci metterò molto, promesso.”
Vedendo che non accennavano a muoversi inclinò il capo, divertita: “Qualcosa non va, forse?”
“Niente.” risposero i due all’unisono, affrettandosi a uscire dalla stanza. Gli occhi bassi. Distanti.
Sofia li seguì, chiudendosi la porta alle spalle e fissandoli alternativamente. Sorridente.
Aveva smesso di osservare.
“Sai cosa, Matteo?” sibilò, avvicinandosi implacabile al ragazzo “Mi sono stancata.”
Il tono della francesina era gelido, minaccioso. Eppure, ciò che più spaventò gli altri due fu un particolare irrilevante. Difficile da notare, forse. Un semplice, minuscolo accento che non c’era più. Non aveva detto Mattèo, bensì Matteo.
Terrorizzati, ecco. Da un’inflessione mancante.
“Non credi di aver oltrepassato il limite?” continuò Sofia, ormai vicinissima, attirandolo a sé con fare brutale “Non credi, Matteo?”
Sotto lo sguardo appannato di lui gli aprì la fibbia dei pantaloni, sfilando la cintura senza fretta da ogni passante.
“Tradirmi una volta può anche andare.” sussurrò la francesina, assorta “Ma perseverare nell’errore, no, caro. Non va proprio. Non quando io sono presente. Nemmeno quando io sono assente. Non va e basta.”
“Sofia…” provò lui “Non è…”
“Non è come sembra?” sorrise lei, scoprendo i denti bianchissimi e sfilandogli definitivamente la cintura dai pantaloni “Non è come sembra…” ponderò, voltandosi verso Veronica.
Si rigirava la cinta fra le dita bianche, il capo leggermente inclinato di lato: “Quindi… quindi non hai infilato la lingua nella bocca di questa puttana qui.”
Matteo arretrò di un passo, scuotendo la testa senza convinzione.
“Quindi non ho interrotto niente.” continuò Sofia, fulminandolo “Non stavate per saltarvi addosso.”
“No.” squittì Veronica, lo sguardo basso.
“Certo che no!” sbottò la francesina “Perché vi eravate già saltati addosso!”
“Sofia…” la chiamò Matteo, la voce bassa, calma, implorante.
“Non ci provare neanche!” fremette Sofia, la fibbia della cinta che sfiorava di pochi millimetri la fronte del ragazzo “Non ci provare.” ripeté, scandendo ogni parola.
“Ascolta…”
“No! No che non ascolto! Andatevene all’inferno!” sibilò lei “Tu e quest’altra put…”
“Ecco!” intervenne una voce, interrompendola sul più bello.
Si voltarono tutti e tre: Lorenzo si avvicinava, un ghigno serafico sulle labbra.
“Sapete cosa?” fece, il ghigno che si accentuava “Ho come l’impressione di un déjà vu.”
Sofia si era azzittita, le mani che continuavano a giocare con la cintura di Matteo.
“Hai intenzione di frustarlo?” chiese Lorenzo, il fare innocente “Nel caso lo tengo fermo.”
“Perché invece non te ne vai?” ribatté Sofia, lo sguardo duro “E’ una questione privata.”
“Oh, lo so.” assentì il biondo “Lo so, lo so, lo so. Fatto sta che stanno arrivando altri spettatori, però. E sai com’è, mi sarebbe piaciuto avere una parte in questa bella scenetta.”
Sofia scosse furiosa la testa, troppo sconvolta per capire le parole di Lorenzo.
“No! Non c’è nessuna parte e parte! E’ una questione fra me e lui! Fra me e questo stronzo qua!”
Quando la risatina li raggiunse sussultarono tutti e tre. Eppure Lorenzo li aveva avvertiti.
“Hai visto, Debora?” sghignazzò una voce, chiaramente divertita.
I due si avvicinavano, implacabili.
“Te lo avevo detto che il ragazzo la stronzaggine l’aveva presa da te.”

 

§







 

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Capitolo 18
*** Apnea ***


apnea

 

 

Bugie Bianche

 

    ≈ Apnea  

 

 

 

- Papà? -

Matteo rabbrividì, la bocca arida.

Scosse il capo, serrando gli occhi: escluse tutto, cercando di regolarizzare il respiro.

Eppure li sentiva, ne avvertiva la presenza: lì, proprio attorno a lui… c’era Sofia, c’era Lorenzo, c’era Ronnie; e poi i suoi genitori, Giovanni appena dietro una porta. Cosa avrebbe dovuto fare? Cosa?!

Come diamine faceva a cacciarsi sempre in situazioni così complicate, eh?

Perché non se ne stava buono, zitto e fermo in un angolo, ignorando il mondo circostante?

Non sarebbe stato tutto estremamente più semplice? Probabilmente sì.

Cercò di raggruppare i pensieri, ma gli sembrava un’impresa più ardua di quanto già normalmente non fosse. Non ci riusciva, ecco. Non riusciva a capire cosa diavolo fare. Cosa si aspettavano da lui?

Si passò una mano sul viso, accarezzandolo piano. E ricordò.

Ricordò la mano di Veronica che faceva lo stesso gesto, carezzandolo. Dolce, solleticandogli la guancia. Lieve.

E decise che cosa fare.

Aprì gli occhi di scatto e i primi che incontrò furono quelli di Lorenzo: lo sguardo duro del ragazzo non lo toccò più di tanto. Era un’occhiata omicida molto simile a quello della sorella, e a quella si era già più che abituato.

Lo ignorò, puntando subito verso Sofia: aveva deciso cosa fare e non ci avrebbe messo più di due minuti.

Doveva solo liberarsi da quella situazione, da quel momento di stallo.

Doveva solo andarsene.

- Mi dispiace – le disse, sincero. Il tono ovvio, l’espressione schietta. Mi dispiace.

Quasi si strinse anche nelle spalle, disinteressandosi completamente di tutto e di tutti.

Gli dispiaceva, basta.

Fissò gli occhi verdi, dilatati, della francesina e piegò le labbra in un sorriso che sembrava più una smorfia. Stava per voltarsi, dandole le spalle, quando una parola di lei gli riecheggiò nelle orecchie, assordandolo.

Si bloccò, tornando a guardarla, rigido: le si avvicinò, strappandole la cintura dalle mani.

- Non chiamarla puttana – ringhiò, il tono basso così che a sentirlo fosse solamente lei – Se hai un problema, è con me che ce l’hai. Non con lei. Sono stato chiaro? Lei non c’entra niente. Se hai qualcosa da dire, la dici a me. Non te la prendere con lei. -

Nel silenzio del corridoio le ultime parole quasi rimbombarono, rimbalzando da un muro all’altro.

Matteo scosse la testa, arretrando lentamente. Fu con difficoltà che distolse lo sguardo da Sofia, allontanandosi da quegli occhi sgranati, immensi. Si era quasi bloccato, dimentico del suo piano originale, quando la sentì:

- Matteo – lo aveva chiamato con un filo di voce, facendolo irrigidire di riflesso, all’istante.

Si era girato con estrema riluttanza, incrociando lo sguardo bisognoso della donna. E tremò.

Puro dolore, ecco cosa aveva provato. Puro dolore.

Era stata come una stilettata, diritta al cuore.

- No – rantolò, cominciando a mettere spazio fra di loro. Fra lui e loro. Spazio.

- No – ripeté con maggiore forza, lo sguardo che si faceva assente – Non posso. Non potete. No. –

- Matteo – singhiozzò la donna – Ti prego, aspetta un attimo… lasciami spie… -

- No. –

E questa volta era stato categorico. Imperativo.

Non si era avvertita la disperazione, quella no, eppure c’era. Era stato un no dettato dalla paura, dal terrore.

Matteo scappò, le dita che scivolavano lungo il muro: fu con la coda dell’occhio che vide Veronica.

E si ricordò del suo piano originale: quel piano che era andato sbiadendo nella sua mente, ignorato.

- Vieni con me. – sussurrò, rallentando appena.

Veronica sussultò, assottigliando lo sguardo: aggrottò le sopracciglia, l’espressione assorta.

- Voglio andarmene – mormorò ancora lui, tendendo una mano verso di lei – Voglio andare via.

Via da qui. Via da loro… vieni con me -

Veronica non si mosse, lo sguardo perso. Fissava la mano di Matteo senza riuscire a muoversi.

Sentiva di essere osservata, avvertiva la stanchezza che prendeva nuovamente il sopravvento e non aveva la più pallida idea di cosa stesse succedendo. Persa.

Come il ragazzo che la stava aspettando.

- Per favore. - lo sentì bisbigliare, e intrecciò le dita con le sue.

 

 

 

- Non la voglio -

- Bevi –

- Ho detto che non mi va, Bond – mugugnò Michele, stringendo le ginocchia al petto – Dico davvero –

Silvestro sospirò, sedendosi sul tappeto. Poggiò la tazza traboccante di camomilla davanti a sé, osservando il ragazzino che se ne stava raggomitolato sul divano e si chiese quale fosse la prossima mossa.

Non ne aveva idea: non lo aveva mai visto così scosso.

- Un caffè, allora? – sussurrò, cercando invano di incrociare il suo sguardo.

- No –

Silvestro guardò Michele accoccolarsi più a fondo nel divano, stringendosi fra i cuscini, facendosi ancora più piccolo. Fissava un punto indefinito davanti a sé, lo sguardo perso, spento.

Desiderò che Cinzia fosse lì: lei avrebbe saputo cosa fare, cosa dire. Probabilmente lo avrebbe semplicemente preso fra le braccia, togliendogli anche il respiro. Infondendogli quel calore che solo lei riusciva a dare.

Lui non era così: non poteva abbracciarlo e basta, non in quel momento.

Non poteva trattarlo come un bambino, per quanto in quel momento non gli sembrasse altro.

Un bambino.

- Una gassosa? -

Michele neanche rispose, mordendosi un labbro per non lasciarne intravedere il tremore.

Silvestro si sentì stringere il cuore in una morsa letale.

Si alzò, passeggiando avanti e indietro sul tappeto, pensando. Scervellandosi. Doveva trovare una soluzione, qualcosa da fare, qualunque cosa. Non poteva lasciarlo in quello stato.

- Vuoi… -

- Mi lasceresti solo, Bond? – lo interruppe con un filo di voce Michele, il capo reclinato sul divano, inerme.

- No – rispose istintivamente l’uomo, opponendosi – Non credo sia il caso, Mickey. Perché invece non mi parli, eh? Potremmo riuscire a… -

- Vorrei restare solo – ripeté Michele, chiudendo gli occhi – Per piacere –

Silvestro fremette, forzandosi a non ribattere ancora.

Scivolò accanto al divano, la mano che lieve si posava sulla testa del ragazzino: indugiò solo un istante, giusto un attimo. Poi continuò, entrando nella cucina e chiudendosi la porta alle spalle: crollò a sedere, imprecando.

Al diavolo. Al diavolo tutti.

Tornò con il pensiero al ragazzo nell’altra stanza, rannicchiato sul divano: i ricordi si accavallarono prepotenti, invadenti, impossibili da ignorare. La prima volta che lo aveva conosciuto, o meglio, che vi si era imbattuto.

Quando lo aveva richiamato, ammanettato e portato alla centrale.

Sorrise, trovando difficile accomunare le due immagini: la prima e l’ultima. Sembrava assurdo.

E fu questione di un istante.

Un lampo che gli attraversò la mente, folgorante: non era una camomilla che serviva, né un caffè o una gassosa. Era altro, quello che serviva. Sorrise ancora, finalmente soddisfatto di sé.

Estrasse il cellulare e aprì la rubrica, cercando un numero che non usava da un bel po’.

Quando lo trovò assottigliò lo sguardo, poi non indugiò più neanche per un attimo: andava fatto.

Avviò la chiamata.

 

 

 

- Vado a casa. -

Un commento come un altro, apparentemente disinteressato.

Cinzia lanciò un’ultima occhiata all’orologio e decise che sì, era proprio il caso di levare le tende.

- Vado a casa - ripeté, il tono leggermente più alto - Mi accompagni? - aggiunse poco dopo, squadrando con la coda dell’occhio il biondino alle sue spalle.

Lorenzo trattenne un singulto sorpreso e annuì, seguendola verso il parcheggio senza azzardarsi a pronunciare una sola parola. Stava per aprire la macchina, una sensazione di vaga soddisfazione che cominciava a invaderlo, quando sentì:

- Cinzia! -

Sperò di essersi sbagliato con tutto il cuore.

Pregò che fosse solo un brutto scherzo che le sue stanche orecchie gli stavano facendo. Invano.

- Cinzia! Cinzia, aspetta un attimo! Un secondo solo! -

Chiuse gli occhi, appoggiandosi allo sportello:

- Simone, vattene. - sospirò, rifiutandosi anche soltanto di guardarlo in faccia.

- Non è con te che voglio parlare. - ringhiò quello in risposta, il fiato corto per la corsa - Cinzia, ti sto chiedendo un momento. Niente più di un momento. -

- Non me ne frega un cazzo. -

Lorenzo si tirò su, schiudendo gli occhi mentre le labbra si piegavano in un sorrisetto divertito.

- Non lo hai sentito? - fece Cinzia - Faresti meglio ad andartene, Simone. -

- Ora gli dai anche ragione? -

- Non mi ha insultata, lui. -

- A lui non hai mentito, a quanto pare. - ribatté il rosso, avvicinandosi di un passo alla macchina.

- Non ho mentito nemmeno a te. - sillabò Cinzia, l’espressione esausta - E non ho più forze per star qui a discuterne. -

Fece per voltargli le spalle ma la mano di Simone la bloccò:

- Dobbiamo chiarire, aspetta... -

- Non c’è un bel niente da chiarire! -

- Ascolta, forse sono stato un po’ impulsivo, ma... -

- Un po’ impulsivo?! Mi hai dato della puttana, brutto stronzo! -

Simone si massaggiò gli occhi, impegnandosi ad ignorare l’espressione di Lorenzo a metà fra l’esilarato e lo strafottente:

- Potrei farti notare che tu mi hai appena dato dello stronzo, ma non credo sarebbe la tattica migliore, perciò ascolta... -

- Non hai il diritto di giudicare, Simone. -

- ... sto cercando di... -

- Non mi conosci abbastanza per farlo, lo capisci? Così come io non conosco te! Potresti... potresti giurare di non avere alcunché da nascondere? -

- Cinzia... -

- Sei un santo, Simone, è così? Mai fatto un torto, un... -

- Se solo mi lasciassi parlare... -

- No. Sono stanca, davvero molto stanca. -

Lorenzo l’affiancò, facendo tintinnare le chiavi fra le dita:

- Quando vuoi andiamo. - mormorò, il fiato che si condensava in una nuvoletta chiara.

- E sarebbe colpa mia se non ti conosco? - sbottò all’improvviso Simone.

- Cosa? -

- Fuggi sempre, come adesso. Me ne sto qua, intenzionato a parlare, a chiarire e tu? Scappi – scosse il capo, serrando irosamente le labbra - Credi sia semplice per me? Pensi di non avermi ferito anche tu? -

- Come ti permetti? Io non... -

- Hai paura, questa è la verità. Temi un confronto diretto. E fuggi. - continuò imperterrito il ragazzo.

E vuoi sapere cosa significa? Significa che non sei così sicura di te come dai a vedere, che forse in te c’è il dubbio che qualcosa non vada, che... -

- Lorenzo - chiamò Cinzia, aprendo la mano - Dammi le chiavi, guido io. -

- Mi sembri provata - sussurrò quello in risposta - forse non è il caso che tu... -

- Dammi quelle fottutissime chiavi. -

Lorenzo obbedì e si affrettò a prendere posto mentre Cinzia avviava il motore con un’espressione feroce in viso:

- Buonanotte, Simone - sibilò, chiudendo lo sportello.

- Sei una codarda! - gridò quello, arretrando di qualche passo - Stai scappando via con la coda fra le gambe, te ne rendi conto? Dici sempre che... -

Cinzia inserì la marcia e lanciò un’occhiata al suo passeggero, le dita serrate sul volante:

- Ora lo investo. Quant’è vero, lo investo. -

- Per quanto sarebbe una scena cui sicuramente mi farebbe piacere assistere, non credo sia il caso, sai? - mormorò in risposta Lorenzo, sorridendo appena.

- Niente di mortale. Giusto qualche ammaccatura. -

Lorenzo si morse il labbro e quando il piede di lei calò con spaventosa sicurezza sull’acceleratore, sospirò, abbandonandosi sul sedile:

- Ricordami di non farti più arrabbiare. -

 

 

 

- I signori Fiori, immagino. -

Daniele porse loro la mano e annuì, prendendo tempo.

In un certo senso la follia di poco prima era stata confortante: le grida, i litigi, le minacce... il tutto aiutava a distogliere l’attenzione dai veri problemi, o quanto meno da quello che per lui era un grosso problema.

Parlare ai genitori di Matteo. Parlare ai genitori di Giovanni.

Parlare, spiegare, disilludere.

Era un compito ingrato, poco ma sicuro.

- Se volete seguirmi, prego... - mormorò, facendo strada verso la sala infermieri più vicina.

Indicò i divani e fece loro segno di sedersi; con la coda dell’occhio intravide una figura nota passare in corridoio e si affrettò a raggiungerla:

- Anna - chiamò, abbassando poi la voce - Sono con i signori Fiori - fece, conscio che lei avrebbe capito subito - Ci porteresti del caffè? -

Lei annuì, adocchiando cautamente i due all’interno della stanza:

- Sicuro che non servirà qualcosa di più forte? -

- Il caffè andrà benissimo. - ripeté Daniele, ringraziando la collega con un sorriso.

Quando rientrò, fece appena in tempo a sedersi prima che una voce collerica lo aggredisse:

- Avevate parlato di stato vegetativo irreversibile! - eruppe il signor Fiori, scompigliandosi i radi capelli neri - Ci sono stati accenni a una morte cerebrale! Avevate detto che... -

- Signore... -

- Ci avevate detto che era spacciato! -

- Signore, mi ascolti... -

- Per cosa? Per sentire altre sciocchezze? - borbottò quello, come accasciandosi su se stesso.

Daniele serrò le labbra, piegandosi in avanti e poggiando i gomiti sulle ginocchia:

- I pazienti in stato vegetativo, - cominciò, il tono pacato - possono recuperare in modo variabile. -

- Ci era stato detto che per Giovanni non era così. - intervenne la signora, un leggero tremore nella voce - Si era detto che... -

- Mi lasci... signora, mi lasci finire, la prego. -

- Il recupero ci può essere: gradualmente il paziente può, alle volte, riacquistare un certo grado di consapevolezza. Eravamo sicuri che questo non fosse il caso di vostro figlio. -

- E ora non ne siete più sicuri? - guaì lei, stringendo la mano del marito - Ora che... ora che c’è stato questo miglioramento, avete cambiato idea? -

Daniele trattenne il fiato e s’impose di andare avanti. A tutti i costi.

- No, signora. –

 

 

 

- Ho fatto il prima possibile. -

Silvestro accennò un sorriso e fece entrare la ragazzina, l’espressione leggermente incerta.

- Ci stai ripensando, Sil? - ridacchiò lei, estraendo una bustina dallo zaino sbrindellato.

- No. Certo che no. -

- Mi hai fatto prendere un mezzo infarto quando mi hai chiamato, sai? -

- Scusa l’ora tarda. -

- Oh, non per quello! - nicchiò lei - Proprio per la chiamata in sé: se uno sbirro ti contatta, il più delle volte è per qualcosa che non va. -

Silvestro squadrò la furfantella e strinse fra le dita alcune delle lunghe ciocche rosse:

- Non erano blu l’ultima volta? -

- E’ da un po’ che non ci vediamo: li ho tinti anche di verde, nel frattempo. -

Silvestro annuì, osservando l’esile figura che a stento gli arrivava alle spalle: i capelli colorati, il trucco marcato, gli innumerevoli orecchini, i piercing e i tatuaggi... niente di tutto ciò lo infastidiva minimamente; niente, esclusi gli svariati motivi per cui aveva fatto in modo di allontanarla il più possibile.

- Nadia, ascolta... -

Lei scosse la testa, lasciando cadere lo zaino sul pavimento e facendo per raggiungere il salotto:

- Mickey è un amico, - mormorò, aggiungendo subito - o almeno, lo era. Se ha bisogno, io ci sono.  Sempre. -

- Lui non sa che ti ho chiamato. -

- Prevedibile. -

- E’ solo per stasera. Solo una volta. -

Nadia sorrise, pizzicandogli una guancia:

- Non sentirti in imbarazzo per come mi hai trattato, Sil: ero davvero una cattiva compagnia. - ammiccò la ragazza, dandogli le spalle - E ora andiamo a salvare quel mostriciattolo. -

 

 

 

- Dove stiamo andando, Teo? -

Ancora una volta, come sempre, nessuna risposta.

Veronica sospirò, rabbrividendo nell’aria gelida del mattino: rafforzò la presa attorno alle dita di Matteo e gli si appoggiò contro.

Camminavano senza sosta da più di dieci minuti, una brezza leggera che li colpiva in pieno petto.

- Teo, ti prego... dammi un segno che stai bene, almeno. -

- Sto benissimo. - rispose sorprendentemente lui, voltandosi finalmente a guardarla.

Senza una parola si fermò per sfilarsi la giacca e poggiarla sulle spalle della ragazza:

- Stai gelando - sussurrò, poggiando la fronte contro la sua - Scusa -

Veronica accennò un sorriso, la mano che automaticamente raggiungeva la guancia di Matteo:

- Sicuro di star bene? - bisbigliò - Non è da te chiedere così tanto scusa. -

- Sono un po’ scosso, ecco tutto. -

- Scosso? -

- Troppe emozioni tutte assieme. -

- Lo so, lo so e mi dispiace immensamente. Posso fare qualcosa per... -

- Venire con me. - la interruppe lui, riprendendo a camminare.

Veronica si lasciò trascinare, incapace di resistere all’impulso di chiedere ancora:

- Dove stiamo andando, Teo? -

- In un posto in cui potersi schiarire le idee. -

Veronica si guardò attorno nella strada desolata e assottigliò lo sguardo, dubbiosa:

- C’è ben poco di aperto a quest’ora, sai? - borbottò, osservando alternativamente l’unico bar della zona e il lembo di mare qualche metro più in là.

- Quel bar mi sembra aperto - si strinse nelle spalle Matteo.

- E lì vorresti schiarirti le idee? -

- No. Lì voglio bere. -

- Bevendo non... -

- Bevendo si ottenebrano le idee, lo so. Allo stesso tempo, però, si attenuano le restanti emozioni, hai presente? E questo è un bene. Decisamente un bene. –

 

 

 

- Lo hai mancato per un soffio. -

Cinzia sospirò, seccata:

- La smetti di ripeterlo? -

- Lo farei se non fosse che lo hai mancato per un soffio. -

- Non lo avrei ucciso, ti assicuro. -

- Solo perché è stato lui a scansarsi. - la corresse Lorenzo, scuotendo incredulo il capo - Non so se è più forte l’ammirazione nei tuoi confronti o... -

- La paura? - completò per lui la ragazza - Spero ardentemente vinca la seconda. -

Lorenzo inclinò il capo, poggiandolo contro il finestrino:

- Io non ho paura di te, Cicì. -

- Lo dici adesso. -

- Lo dico sempre. -

Cinzia strinse le labbra, arrischiando un’occhiata nella sua direzione:

- Lorenzo? -

- Mmm? -

- Non mi va di tornare a casa. -

- Credevo avessi detto... -

- Non mi va di tornare a casa mia. -

- Ah. -

Lorenzo si raddrizzò sul sedile, una mano che passava nervosamente sul viso:

- Puoi venire da me. –

 

 

 

- Ehi, Mickey, quanto tempo! -

Michele spalancò improvvisamente gli occhi, fissando sconcertato la nuova arrivata:

- Na... Nadia? - balbettò, tirandosi faticosamente a sedere.

- Che carino! - sorrise lei, voltandosi verso Silvestro - Non si è dimenticato di me, allora. -

- Cosa... cosa ci fai qui? -

- L’ho chiamata io. - intervenne inaspettatamente l’uomo, accasciandosi ai piedi del divano - Non ti dispiace, vero? -

- Credevo... avevi detto che... -

- E’ la prima che mi è venuta in mente per tirarti un po’ su. -

- Hai... stai scherzando! -

- Perché? Non ti va di fumare un po’? -

Michele fece cenno alla ragazza di prendere posto al suo fianco, quindi strinse la pelata di Silvestro con entrambe le mani, carezzandolo:

- Ti senti bene, Bond? - gli sussurrò all’orecchio, pacato.

- Quando volete cominciamo, eh. - ridacchiò Nadia, sventolando la bustina piena di polvere bianca.

- Non credo proprio! - esclamò Michele, costringendo Silvestro a guardarlo negli occhi - Cos’è, un test? Dove vuoi andare a parare, sentiamo?! -

- Non è niente di tutto ciò, Mickey. - mormorò quello - Voglio solo parlare con te, aiutarti... -

- E così hai deciso che era il caso di fumare erba?! -

Silvestro fece per rispondere ma la voce lieve della ragazza lo precedette, calma:

- Lo dicevi tu, Mickey, che era il modo migliore. - bisbigliò, una mano sulla sua spalla.

- Cosa? -

- Non ti ricordi? - sorrise Silvestro, lo sguardo dolce.

 

- Fammi uscire, su! Che ti costa? -

Silvestro non si prese nemmeno la briga di negare, troppo preso dall’articolo che stava leggendo.

- Puoi far finta di non aver visto nulla. -

A quanto pareva, esistevano ottime possibilità di mettere incinta una ragazza anche senza avere rapporti sessuali veri e propri.

- Basta che tu mi tolga le manette, dai! -

Era sufficiente un leggero contatto per...

- Voglio uscireee! -

Silvestro roteò gli occhi, sventolando la rivista in direzione della cella:

- Sto leggendo! Sto leggendo, non vedi? La smetti di fare tanto rumore, cortesemente? -

- Se mi fai uscire la smetto, promesso. –

 

- Quand’è che l’avrei detto? -

 

- Sei fatto in questo momento, non è vero? -

- Certo che no, agente. -

- Fa male fumare certa roba, lo sai? -

- Ho detto che non ho fumato! - si difese il ragazzino - Per chi mi hai preso? -

- Per un piccolo furfante ammanettato in una cella del commissariato. -

- Cominciamo... - fece Michele, sollevando l’indice - Non sono piccolo. - sollevò l’anulare – Non sono un furfante. - sollevò il medio - E non sono ammanettato. -

Silvestro si avvicinò guardingo, squadrandolo sorpreso:

- Come hai fatto? -

- Fammi uscire e te lo dico. -

- Non funziona così. -

- Sei troppo rigido, amico. - lo riprese Michele - Vedi tutto o bianco, o nero. La vita non è così, sai? Esistono i colori intermedi: molti, di tutte le sfumature. -

- Fammi indovinare: fumare coca rientra in una di queste sfumature? -

- Certamente. E’ meglio dell’alcol, in molti sensi: aiuta a scendere a compromessi con se stessi, a vedere le cose sotto un’altra prospettiva. Ti apre gli occhi, capisci? E ti rappacifica. -

- Non mi dire... -

- Tu non capisci, amico. -

- Io credo di sì. -

Michele scosse la testa, lanciandogli le manette e poggiando la fronte alle sbarre:

- Non puoi giudicare una cosa se non l’hai mai provata. –

 

Silvestro aprì la busta e la porse a Michele:

- Proviamo. –

 

 

 

- Dove vai? -

Lorenzo represse a stento uno sbadiglio, indicando con la mano il corridoio:

- Divano - mugugnò, stropicciandosi gli occhi.

Cinzia si rigirò nelle coperte e gli fece segno di avvicinarsi:

- Vieni qui, idiota. - lo richiamò - Ci entriamo benissimo in due, no? -

- Non è necessario, davvero. Non è la prima volta che dormo sul divano, ci sto bene. -

- In casa tua? -

- Eh, già. - sbadigliò lui, nicchiando con il capo.

- Stai crollando dal sonno, - sorrise la ragazza, intenerita - Vieni qui e non fartelo ripetere più. -

Lorenzo ondeggiò fino al letto e si lasciò andare, sospirando grato.

- Sotto le coperte, scemo - borbottò lei - Si gela, su, e così scaldi anche me. -

Troppo stanco per muovere la minima protesta, si limitò ad obbedire: scivolò sotto le coperte e con gesti meccanici si adagiò su un fianco, un braccio attorno alla vita di Cinzia.

Solo quando la sentì irrigidirsi realizzò cosa aveva appena fatto:

- Scusa! - scattò, facendo per allontanarsi - La forza dell’abitudine. -

- Non è un problema, - sussurrò lei - davvero, va bene. -

Lorenzo annuì, chiudendo gli occhi e poggiando la fronte contro la schiena della ragazza:

- Sicura di star bene? -

- Sì. Perché? -

- C’è stato un cambiamento, sai, piuttosto repentino e alquanto inquietante -

- Dici? -

- Già: da quando minacciavi di spingermi giù dalle scale a ora. -

Cinzia sorrise, affondando il capo nel cuscino:

- Hai acquistato punti da quel momento a ora. - spiegò, sbadigliando a sua volta.

- Davvero? -

- Oh, sì. Tu non mi hai gridato contro, non mi hai insultato, non... -

- Non sono Simone, insomma. -

Calò il silenzio, la presa di Lorenzo che diminuiva attorno ai fianchi di lei:

- Come fa a piacerti tanto, non lo capisco. -

- Non mi piace tanto. - ribatté lei - Non più. -

Avvertì il fremito di Lorenzo e chiuse gli occhi, pentendosi di aver intrapreso quella conversazione.

- Bugia. - mormorò infine lui, il viso che sfiorava il collo di Cinzia - Se non ti piacesse non saresti qui, con me, e non ci sarebbe niente da dire. -

- Lorenzo... -

- Potrei spiegarti quanto tutto questo mi faccia male, ma fra la stanchezza e il mio stupido orgoglio credo proprio che non lo farò. -

Cinzia non disse una parola, limitandosi a raggomitolarsi contro di lui, gli occhi serrati.

- Dormiamo, Cicì. - biascicò lui, respirandole fra i capelli.

E lei non poté fare altro che obbedire.

 

 

 

- Risplendi, lo sai? Come un angelo. -

Veronica sorrise, annuendo con fare condiscendente.

- Quale parte di me ti piace di più? - domandò Matteo, roteando il bicchiere quasi vuoto.

- In senso fisico? - fece lei, lo sguardo perso a contemplare il movimento del liquido dorato.

- No, oddio forse... - meditò lui, confuso - No, no! Intendevo in senso spirituale. -

Il sopracciglio inarcato di Veronica lo spinse a continuare, cercando di spiegarsi meglio:

- Come ti piaccio di più? Tenebroso come mi hai conosciuto, felice come poco più di un’ora fa oppure annullato come in questo momento? -

- Dunque. - cominciò lei, arricciando le labbra - Partiamo col dire che non sei mai stato tenebroso: stronzo eri, stronzo sei e stronzo rimarrai... -

- Non è vero! Sei cattiva! - biascicò il ragazzo, facendo segno al barista di servirgli un’altra birra.

- Tenebroso? Ti prego! - sbuffò Veronica, ignorandolo - Ho da obiettare anche per il felice, poi. Non eri felice prima, okay? Eri... sembravi fatto, okay? Davi l’impressione di esserti appena fumato una canna, ecco. Una di quelle forti, per essere precisi. -

- Io non fumo, donna. - borbottò Matteo, la frase che stonava alle sue stesse orecchie - Non erba, almeno. Solo sane sigarette. -

- Sane? -

- Spaccio, certo, ma non fumo. -

- Bugiardo. -

Un nuovo bicchiere di birra arrivò nelle mani del ragazzo e tutto sembrò passare in secondo piano.

- Che dicevamo? - domandò dopo essersi concesso due sorsi belli lunghi.

- Stavo per contestare il tuo annullato. -

- Non ti sembro annullato? Annientato? Affondato? A... -

- No. Mi sembri semplicemente ubriaco fradicio e, se permetti, non ne vedo la logica. Non... non mi sembra il momento più opportuno per sbronzarsi, okay? Dovresti rimanere lucido, sant’Iddio.

Avere le tue piene, per quanto poche, facoltà mentali. E’ un momento... un momento molto critico, lo so, difficile da affrontare. -

- Non sai di cosa stai parlando, ragazzina. -

- Per quanto difficile, però, lo devi affrontare, Teo. Non puoi... -

- Non hai idea di cosa io debba affrontare in realtà, Ronnie. -

- Dimmelo, allora. Spiegami tutto, una volta per tutte! Cosa ti costa? L’alcol non dovrebbe anche scioglierti la lingua? Eh? - Veronica si girò in direzione del barista poco distante - Non dovrebbe farlo parlare, santo Cielo? E’ sbronzo marcio ma non fa altro che sparare stronzate! -

L’uomo dietro il bancone annuì, l’aria grave, come scusandosi:

- E’ uno degli effetti collaterali, temo. -

- Al diavolo! - sbottò lei, afferrandolo per il colletto della camicia - Stammi bene a sentire: io adesso me ne vado. Non ho intenzione di starmene qui a guardarti mentre anneghi nella birra. Non più. Sono... sono quasi le quattro del mattino. Ho sonno, freddo e un probabile esaurimento nervoso in arrivo. E per quasi tutto posso incolpare te. Quindi buona notte. -

Matteo la guardò mentre si alzava e usciva dal locale: fissò la porta che si chiudeva alle sue spalle e poi chiuse gli occhi, tornando a sorseggiare la sua birra.

 

 

 

Ci aveva messo sette minuti ad arrivare.

Sette minuti. E lei li aveva contati, come una stupida, camminando su quella che avrebbe dovuto essere una spiaggia. C’era il mare, sì, ma sotto i suoi piedi non c’era sabbia.

Era altro. Sassolini, forse. Certo non granelli di sabbia.

Sette minuti e lei li aveva contati. Scandendo i secondi, come un orologio.

E’ questo che sono diventata? Una mera personificazione di un dannatissimo orologio?

Di un patetico, inutile orologio?

- Ronnie! - si sentì chiamare da lontano. Da lui.

Ci aveva messo sette minuti.

- Ragazzina, aspetta! - gridò ancora lui, correndo per raggiungerlo, in ritardo di ben sette minuti.

- Perché? - mormorò lei, rallentando appena il passo - Perché dovrei aspettare ancora? -

- Hai la mia giacca. - ansimò Matteo, ormai a pochi passi da lei.

Veronica si fermò, pietrificando.

Hai la mia giacca.

Sfiorò con dita tremanti l’indumento ancora poggiato sulle sue spalle e poi, con uno scatto quasi isterico, lo gettò via. Lontano. Su quella spiaggia che non era fatta di sabbia.

Matteo si piegò a raccoglierla e le si avvicinò, passo dopo passo.

- Ronnie -

- Vaffanculo -

- Ronnie, se non mi lasci... -

- Hai la mia giacca?! E’ per questo che ho aspettato? - sbottò, girandosi per fronteggiarlo - Giuro, non riuscirò mai a capirti. Puoi tranquillamente crepare per quanto mi riguarda, perché... -

- Scherzavo, ragazzina - sussurrò lui, interrompendola - Stavo solo scherzando. - scandì piano, sistemandole nuovamente la giacca sulle spalle - Un piccolo, minuscolo, scherzetto: così, per stemperare la tensione. -

Veronica arretrò, creando spazio. Spazio fra di loro.

- Che stavi facendo qui? - le chiese Matteo, l’espressione lontana.

- Aspettavo... -

- Me? -

- No. - sibilò lei, furente - L’alba. Volevo vedere l’alba. -

- Mancano ore. -

- Aspetterò. -

- Posso aspettare con te? -

- No. -

Matteo annuì, la guardò e poi annuì ancora.

- Che stai facendo? -

- Mi siedo. -

- Ho detto di no. Non puoi aspettare con me. Non ti voglio qui. -

- La spiaggia non è tua. -

- Non è una spiaggia. -

- Non ti appartiene comunque, qualsiasi cosa sia. -

Veronica serrò le labbra, lasciandosi scivolare a sedere su quella sabbia che non era sabbia.

Lentamente si ritrovò sdraiata, priva di forze.

Gli occhi che bruciavano, le palpebre che spingevano per chiudersi.

A stento lo sentì, come da molto, molto, lontano:

- L’ho lasciata per te. -

Cercò la forza di riaprire gli occhi ma non riuscì a trovarla. Con uno sforzo immane parlò:

- Chi? -

- Sofia. -

- Tu non hai lasciato Sofia. - lo corresse lei, la mente che tornava a quel corridoio, a quell’ospedale.

- Nella mia testa, sì, l’ho fatto. -

- Non nella sua. L’hai tradita, questo sì. E stavi per tradirla di nuovo. Avete litigato, lei è stata sul punto di frustrati, ma... ma ti assicuro che non c’è stata alcuna rottura fra di voi. -

- Lo farò, allora. -

- Per me? - sospirò Veronica, un tremore disperato nella voce.

- Sì, certo che sì. -

- Lo faresti per niente. -

- Come? -

- Credi davvero che basti quello ad aggiustare tutto? - gli domandò lei, coprendo con la mano uno sbadiglio irrefrenabile.

- Cosa vuoi che... -

- Vorrei scoprire quale parte mi piace di te. - mormorò la ragazza, raggomitolandosi su se stessa.

- Non capisco. -

- Vorrei assicurarmi, prima di innamorarmi definitivamente di un idiota, di avere almeno una vaga idea di chi tu realmente sia. -

- Ce l’hai quell’idea, ragazzina. -

- E chi mi dice che sia esatta? -

Matteo sospirò, strusciando verso di lei:

- Sai come mi chiamo. - mormorò, il tono di un papà che racconta la favola serale al figlioletto.

La raggiunse, stringendola senza fretta fra le braccia, attirandola a sé:

- Sai che ho ventiquattro anni e una brutta cicatrice sul torace. -

Poggiò la fronte contro quella di lei, i cuori che battevano in sincrono:

- Sai che ho un fratello di nome Giovanni, bloccato da oltre un anno in un letto d’ospedale. -

Intrecciò le gambe alle sue, avvolgendola del tutto, completamente:

- Sai che sono stato con Sofia Amato, una giovane avvocatessa, perché avevo bisogno di tutto l’aiuto possibile per combattere la decisione dei miei genitori di staccare il suddetto fratello dalle macchine. -

Respirò piano, la voce che accennava a morire, tentata di battere in ritirata:

- Sai che quattro lavori non bastavano a pagare l’affitto di metà garage perché tutti i soldi, tutti, a mala pena coprivano le cure e il mantenimento del sempre già nominato fratello. -

Allentò la stretta, sciogliendo lentamente l’abbraccio:

- Sai che prima di incontrare te, niente di tutto ciò era mai stato messo in discussione. Niente era mai stato intaccato, scalfito o toccato. Ogni cosa procedeva secondo un ritmo ben conosciuto: affinato e perfezionato dal tempo; prima che arrivassi tu. Perché? Perché tu mi hai costretto a rivalutare, a rimettere in gioco me stesso. Va bene, però. -

- Va bene? - sussurrò lei, trovando a stento il coraggio di parlare per la prima volta.

- Va bene. Va bene perché quel ritmo non mi servirà più, perché c’è stato un miglioramento. Va bene perché Giovanni sta per svegliarsi e dopo questo niente può più andare male. -

Veronica avrebbe voluto farlo rallentare, suggerirgli di non far crescere troppo la speranza: perché qualcosa dentro di lei le diceva che non era tutto così rose e fiori.

Qualcosa di piccolo, minuscolo, la tormentava. Qualcosa di indefinito.

Avrebbe voluto dirgli di aspettare, di respirare, di calmarsi: sette minuti di riposo, ecco cosa voleva proporgli. Non ci riuscì, però, troppo lenta. Fece appena in tempo a capire cosa stava succedendo.

Un attimo prima era lì con lei, abbracciato a lei.

Un attimo dopo correva verso il mare, sordo al suo richiamo.

- Matteo! -

Scattò in piedi nel momento stesso in cui lui si tuffava in acqua.

Troppo lenta.

- Matteo, che cazzo fai?! - urlò alla notte, scandagliando le acque scure, agitate.

Non aveva fatto in tempo a parlare.

Aveva a mala pena sentito il vuoto che lui aveva lasciato.

Troppo lenta.

- Matteo, torna qui! - gridò, furiosa e incredula - Morirai di ipotermia, brutto cretino! -

Raggiunse la riva in punta di piedi, irrequieta.

Senza parole.

- Matteo. - chiamò ancora.

Troppo lenta.

Gli occhi non smettevano di fissare l’acqua. La videro calmarsi pian piano: tornando cautamente a formare una nera, liscia, tavola liquida.

- Teo. -

E troppo lentamente arrivò a capire.

Nessun movimento.

Quella nera, liscia, tavola liquida non venne scossa da alcun movimento.

- Teo? –

 

 

§

 

 

 

 

 

*Risorge dal mondo dei morti*

Ma no, gente, scherzo: ho solo iniziato l’università.

 

Dunque. E’ passato: un anno, sì, proprio un anno.

Avete in programma una vendetta come si deve o semplicemente non frega più a nessuno?

Probabilmente vi siete dimenticati tutta la storia.

Del resto, lo ammetto, anche a me alcuni passaggi erano sbiaditi (il che è tutto dire, visto che la storia l’ho scritta io). Comunque, come vi sembra?

Se davvero c’è ancora qualcuno (battete un colpo, vi prego, non fatemi soffrire di sindrome dell’abbandono) non posso far altro che inchinarmi. Frustratemi pure.

E, sempre ammettendo che ci sia ancora quel qualcuno armato di frusta, vi sprono a compiere quel miracolo che è il passaparola per far sapere anche a chi mi dava per scomparsa che no, non c’è bisogno di chiamare Chi l’ha visto. E che sono di nuovo qui, in tutta la mia sfolgorante follia.

E che ci sono anche loro: quei bei pazzi che ho creato e che pregano di non essere dimenticati.

Detto ciò, invocato il passaparola, genuflessione avvenuta...

Per qualsiasi commento, critica, idea, sete di vendetta, richiesta, dubbio amletico, proposta di matrimonio, regalo o cartolina sono qui. E su fb. E nel gruppo su fb. E ovunque voi vogliate.

Anche nelle vostre teste, probabilmente. Non che questo sia un bene.

Alla prossima, un bacione,

Sara

 

 

 

 

 

 

 

 

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