Il Ranch

di Morgana_82
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Episodio I - Parte I ***
Capitolo 2: *** Parte II ***
Capitolo 3: *** Parte III ***
Capitolo 4: *** Parte IV ***
Capitolo 5: *** Episodio II - Parte I ***
Capitolo 6: *** Parte II ***
Capitolo 7: *** Parte III ***
Capitolo 8: *** Parte IV ***
Capitolo 9: *** Parte V ***
Capitolo 10: *** Parte VI ***
Capitolo 11: *** Parte VII ***
Capitolo 12: *** Parte VIII ***
Capitolo 13: *** Parte IX ***
Capitolo 14: *** Parte X ***
Capitolo 15: *** Parte XI ***
Capitolo 16: *** Parte XII ***
Capitolo 17: *** XIII ***
Capitolo 18: *** Parte XV ***
Capitolo 19: *** Parte XIV ***
Capitolo 20: *** Parte XVI ***
Capitolo 21: *** Parte VII ***



Capitolo 1
*** Episodio I - Parte I ***


Il sole stava iniziando una lenta discesa dietro le montagne, ma le terre verdi del Montana erano ancora avvolte da una calda luce dorata. Un cavallo baio e un pony pezzato percorrevano la larga strada impolverata che conduceva al cancello principale della proprietà Mounties, le due figure a cavallo, un uomo e un bambino, erano già in vista dell’edificio principale, che sorgeva sulla curva dolce d’una collina, ma non vi facevano troppo caso, intenti com’erano a ridere tra loro.
-Che faccia ha fatto quella megera quando i finimenti si sono staccati ed è andata a finire con quella brutta faccia nel fango!- il bambino sul pony era piegato in due dal ridere.
L’uomo sul cavallo sorrideva a sua volta -Sì, sì è vero! Hai fatto un ottimo lavoro con quel coltello. Quell’arpia se lo meritava proprio. Nessuno può permettersi di essere maleducato con noi e restare impunito, giusto Tim? -
-Giusto Damian! Siamo la coppia più temibile di tutta la contea!-
Superarono il cancello e se lo lasciarono alle spalle, Damian tornò serio. Il suo viso era molto bello e la luce dorata dava una strana sfumatura bionda al rosso tiziano dei suoi capelli, la pelle, scurita dal sole e dal vento, era costellata da una miriade di lentiggini bronzee e gli occhi, di un castano profondo, lo facevano sembrare più giovane dei suoi ventuno anni.
-Senti,- disse Damian in tono cospiratorio, -adesso dobbiamo stare molto attenti. Mamma tornerà domani, e noi faremo in modo che non venga a sapere di questa piccola scorribanda. Ok? Se scoprisse che ti ho portato a zonzo per il paese, oggi, contravvenendo ai suoi ordini… bhè, è inutile dire che saremmo entrambi in grossi, grossissimi guai. Quindi acqua in bocca, e cerchiamo di finire in tempo il lavoro che ti aveva assegnato-.
Il bambino annuì, e i suoi occhi castani brillarono di malizia infantile, aveva poco più di dieci anni e per lui tutto era nuovo e meraviglioso, -non preoccuparti, entro domattina la staccionata sarà verniciata e la signora Denna non saprà mai niente della nostra piccola escursione-, i due si scambiarono uno sguardo di intesa.
Attraversarono il cortile sollevando leggere nuvolette di polvere bianca. Portarono i cavalli nella stalla e tolsero loro le selle, li strigliarono e li governarono, poi ridiscesero un tratto della collina e raggiunsero un capannone dall’aspetto vissuto. Era la sala comune, dove molti degli altri braccianti della fattoria si erano già riuniti, di ritorno da una faticosa giornata di lavoro.
Damian salutò tutti con un sorriso e una stretta di mano e si fermò a chiacchierare con un paio di loro, -Sei poi riuscito a ripararlo quello steccato, Joe?-
-Sì, Mr. Damian- rispose l’uomo interpellato, stringendo la mano che Damina gli tendeva, c’è voluto chissacché, visto che sta proprio a strapiombo sul burrone di Wyatt, ma adesso almeno non c’è rischio che le vacche caschino di sotto-.
-Ottimo lavoro, Joe-, si congratulò Damian, -sapevo che eri tu il mio uomo-.
-È il mio lavoro Mr. Damian-, rispose Joe asciutto, e ciò nonostante una fila di denti leggermente ingialliti dal tabacco comparve sotto i baffi scuri del bracciante.
Salutato Joe, Damian riempì un boccale di birra per sé e uno di latte e succo di menta per Tim che lo aveva seguito in silenzio, si misero a sedere ad un tavolo e cominciarono a sorseggiare tranquillamente. Si erano appena portati alle labbra il bicchiere che si sentirono chiamare dall’entrata, -Damian, Tim, ma allora siete qui!-
-Buona sera anche a te Devon- Damian salutò con un cenno il nuovo arrivato -siamo appena arrivati, vuoi unirti a noi?-
-No, grazie. Volevo solo avvertirvi che Lei vi sta cerando da questo pomeriggio. È tornata a casa con un giorno di anticipo, e non le è piaciuto affatto non trovarvi. Soprattutto tu Timmy, visto che oggi eri in castigo e che dovevi dipingere la stalla.-
I due disertori si guardarono atterriti. Damian era sbiancato, -stai scherzando vero?- disse rivolto a Devon, -dimmi che è uno scherzo, fratello-.
Ma proprio mentre pronunciava queste parole un silenzio di tomba calò nella sala comune.
Un’alta figura minacciosa si stagliava contro la porta… e aveva in mano un grosso fucile a doppietta.
-Ok ragazzi, TUTTI FUORI.- Ordinò la donna con tono imperioso. Vi fu un immediato strusciare di sedie e rumore di piedi sul pavimento di legno.
-Tutti tranne voi due…- aggiunse, indicando con la canna del fucile Damian e Tim, che per un secondo avevano sperato di potersi defilare insieme agli altri. - Ho un paio di cose da dirvi…

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Capitolo 2
*** Parte II ***


Un silenzio teso calò nella stanza, nessuno parlò per qualche momento. Damian decise di tentare la difesa, -senti ma’, lo so che sei arrabbiata. Però lascia che ti spieghi. Noi...-
Denna fulminò il figlio con uno sguardo.
Era alta, i capelli biondi raccolti in una lunga treccia e gli occhi grigi di un falco. Nonostante fosse ormai vicina ai quarantacinque, dimostrava almeno quindici anni di meno.
Aveva un corpo che la vita dura delle sterminate praterie del Montana aveva forgiato, e che cinque gravidanze sembravano non aver segnato.
-Verrà anche il tuo turno, Damian, sta tranquillo. Adesso taci e lasciami parlare con il bambino-.
Damian guardò Tim con tristezza e rimase zitto. La donna posò il fucile contro lo stipite della porta, raggiunse il tavolo si sedette di fronte a loro. Tim teneva lo sguardo fisso sulla tavola.
-Timothy, guardami-, disse la donna con voce ferma ma pacata, il bambino alzò leggermente gli occhi. Appena, appena.
-Dimmi, Timothy. Hai ridipinto lo steccato?-
-No, signora Denna.-
La donna strinse le labbra, ma mantenne un atteggiamento calmo.
Il bambino viveva con loro da pochi mesi, e non si era ancora perfettamente ambientato, doveva essere decisa, ma paziente.
-E perché non l’hai fatto?-
Tim si rimpicciolì sulla sedia.
-Io mfffmbmbmff-, fu tutto quello che gli uscì dalla bocca.
-Non borbottare, Timothy, e rispondi alla domanda-.
Damian parve in procinto di intervenire, ma la madre lo fermò ancora con un gesto secco della mano, e lui si morse le labbra.
-Perché sono andato in città con Damian-, disse Tim a voce leggermente più alta.
-Io, però, ti avevo espressamente proibito di allontanarti dalla fattoria, è vero?-
Il bambino annuì.
-E perché te lo avevo proibito?-
Tim sospirò, -perché ho marinato la scuola per andarmene in giro. E quindi ero in punizione e dovevo ridipingere lo steccato-.
-Quindi mi hai disobbedito?-
Tim si morse le labbra e annuì con la piccola testa.
Denna si rese conto che il piccolo stava per piangere, e decise di ammorbidire la voce.
-Tesoro, lo so che è difficile per te, abituarsi ad una nuova casa è dura e io voglio che tu ti senta a tuo agio, qui da noi. Fai parte della famiglia adesso, e ti voglio bene esattamente come a ciascuno dei miei figli, e come tutti i miei figli, anche tu devi rispettare delle regole. Non ho mai tollerato la disobbedienza, e non la tollererò da te, chiaro?-
Timothy annuì di nuovo, ormai quasi sprofondato sotto il tavolo.
-Molto bene, adesso va nella tua stanza e rifletti su quello che hai fatto-.
Tim si alzò dalla sedia e scivolò verso l’uscita, silenzioso come un topolino, Denna lo seguì con lo sguardo e il cuore stretto.
 
Damian era ancora seduto sulla sua sedia, e giocherellava con un bicchiere mezzo vuoto. Dopo un momento di silenzio prese fiato e cominciò una frase: -Fors…- non riuscì nemmeno a finire la parola. Denna si alzò di scatto e gli assestò due ceffoni. Uno per guancia.
-SEI UN IDIOTA! UNO SCRITERIATO! UN IRRESPONSABILE!–
Damian si parò le guance con le mani, preso alla sprovvista da quello scoppio improvviso d’ira.
-Ma è possibile che alla tua età tu non riesca a fare a meno di comportarti come un bambino? E il peggio è che ti trascini dietro anche gli altri! Sai bene quanta fatica sto facendo, per cercare di dare un po’ di serenità a quel ragazzino! E sai cosa ha passato in quel maledetto orfanotrofio. Ma non ne hai di sale in zucca? Non riesci a riflettere prima di agire?-
La donna si allontanò dal tavolo, in preda alla collera, borbottando tra sé, -non poteva andarci da solo, a zonzo come un vagabondo, NO! Se lo doveva portare appresso. Mi sembra un ottimo modo per dargli l’esempio. Ma sì, insegnamogli che marinare la scuola e disobbedire sono comportamenti accettabili-, tornò a rivolgersi direttamente al figlio.
-Davvero, Damian, io non capisco, sei un adulto ormai, dovresti essere responsabile. Dovresti riflettere sulle conseguenze delle tue azioni!- Si fermò per osservare il ragazzo che si lisciava le guance rosse.
Era furiosa con lui: perché si comportava in maniera strafottente, infischiandosene del buon senso? Perché si rifiutava ostinatamente di assumersi la responsabilità delle sue azioni? E, soprattutto, perché riusciva sempre a farle perdere il controllo?
Respirò profondamente, tentando di calmarsi. Poi disse con voce più pacata.
-Mi fa piacere che tu abbia legato con Timothy, quel bambino ha un disperato bisogno di affetto. Ma non posso tollerare che tu lo induca a comportamenti sbagliati. Sono stata chiara?-
-Cristallina-.
-Lo spero. Anche perché, mi sembra, non è la prima volta che affrontiamo questo argomento nelle ultime settimane. Giusto poco tempo fa hai trascinato Aril in una rissa da bar. Siete tornati a casa entrambi ubriachi, e lui ha avuto con un occhio nero per due settimane-.
Damian ridacchiò, -sì, quella fu una bella mischia. Pensa che afferrai la testa di...- si accorse di quel che stava dicendo, e che il sopracciglio di sua madre si era pericolosamente inarcato. Si schiarì la gola, -non è la stessa cosa, Aril è quasi un uomo, certe cose le deve imparare-.
Il tono della donna si fece nuovamente più duro, -punto primo: Aril ha solo sedici anni. È minorenne. Punto secondo (e lo sai benissimo): NESSUNO dei miei figli deve imparare a farsi coinvolgere in volgari scazzottate-.
-Oh, mamma! Andiamo… vuoi dire che se qualcuno ci aggredisce non dovremmo difenderci?-
-Non intendo questo, lo sai bene-.
-E vuoi dire che se qualcuno ci manca di rispetto, non dovremmo reagire?-
-Mein Gott, Damian. Non siamo più nel Medio Evo. Certe questioni non si risolvono con duelli all’arma bianca, cosa importa se a qualcuno non siamo simpatici? Se reagisci, scendi al loro livello-.
-Quindi avrei dovuto permettere a quell’arpia di Mary Prachett di continuare a insultarci?-
-Mary Prachett? La moglie del giudice? Perché, che cosa ha detto?-
Damian si rese conto di essersi avventurato su un terreno insidioso, e si pentì di aver pronunciato quell’ultima frase.
-Oh, no… niente di importante. E’ solo un’oca pettegola-, disse in tono vago, cercando di far cadere l’argomento.
-Damian... conosco quella faccia. Cos’è che non mi stai dicendo?-
-Ma niente, davvero. Era solo una stupidaggine. Io e Tim ci siamo imbattuti in lei, allo spaccio, e non è stata molto gentile.-
-E che cosa le avete fatto?-
-Niente, giuro…- il suo respiro, per quanto ci provasse, non ne voleva sapere di rallentare.
-Non giurare. Soprattutto quando sai di star mentendo. Avanti, sputa il rospo. Che le avete fatto?-
Damian si maledisse: si era fregato con le sue stesse mani, stava per cavarsela con una semplice ramanzina, e invece adesso sua madre avrebbe fatto qualunque cosa pur si sapere la verità. E se non l’avesse detta lui, sarebbe andata fino a casa del Giudice per chiedergli cosa fosse successo. Ed a quel punto sarebbe stato molto peggio.
Sospirò profondamente, rassegnato.
-Credo che, ma la mia è solo un’ipotesi, si sia verificato un qualche evento che, inaspettatamente, abbia fatto sì che i finimenti del suo calesse fossero, per così dire, compromessi. Così, quando la signora si è seduta a cassetta, e i cavalli si sono casualmente imbizzarriti, le tirelle si sono staccate... Trascinandola per terra-.
Denna fu seriamente combattuta tra la collera, lo sconforto e l’ilarità più assoluta.
Mary Prachett era davvero una megera maleducata e probabilmente lo spettacolo doveva essere stato esilarante. Ma… -Ti giuro che certe volte mi cadono le braccia. È una donna anziana, santo cielo! Piena di acciacchi, e per di più la moglie del Giudice. Ma ti rendi conto di quello che poteva succedere? E se si fosse rotta qualche osso? E se fosse morta? Ma dove hai il cervello?-
-E’ stato solo uno scherzo innocente, volevamo divertirci un po’-.
Denna lo guardò allibita, -divertirvi? Secondo te mancare di rispetto ad una donna anziana e attentare alla sua vita è un divertimento? Ed anche questo un ottimo esempio per Timothy, davvero i miei più sinceri complimenti, sono molto orgogliosa di te-.
-Oh, dai. Non farla tanto lunga…-
Damian si accorse di aver commesso l’ennesimo grosso errore nel momento stesso in cui le parole gli scivolavano fuori dalla bocca. Ma perché non riusciva a tenere la lingua al suo posto?
Vide gli occhi di sua madre dilatarsi e la mascella irrigidirsi.
-Hai passato il segno, figliolo. Questa volta hai davvero passato il segno. Mi ero ripromessa di essere paziente, di cercare di farti ragionare, m’illudevo di avere a che fare con un adulto. Ma tu, come al solito, ti comporti da ragazzino indisponente. Molto bene, se è quello che vuoi, adesso ti faccio passare la voglia di fare scherzi pericolosi, di vagabondare come un perdigiorno e di rispondere male a tua madre. Ti do una di quelle lezioni che non te la scordi nemmeno fra cent’anni!! Avanti alzati. Giù i pantaloni e chinati sulla sedia-.
-No, dai. Aspetta-, Damian tentò di blandirla, -ti chiedo perdono. Ho sbagliato a risponderti male, non volevo-.
-Troppo tardi. Adesso obbedisci all’istante o, credimi, sarà davvero molto peggio per te-.
Si fissarono in silenzio, Damian aveva cominciato a sudare, -ti prego, mamma-.
Ma Denna non rispose, e continuò a fissarlo negli occhi fino a quando lui non distolse lo sguardo e si alzò.
Lentamente il ragazzo andò a posizionarsi alle spalle della sedia su cui era seduto e si sbottonò i pantaloni, che ricaddero fino alle caviglie.
-Anche le mutande-, impose la voce fredda di sua madre.
Damian chiuse gli occhi e inspirò profondamente, si abbassò le mutande, lasciando scoperti un bel paio di glutei sodi e rotondi e delle gambe lunghe e muscolose.
Si chinò sullo schienale della sedia e si preparò a ricevere la punizione.
Denna, che lo stava osservando con severa rabbia mentre compiva queste operazioni, sollevò la gonna al ginocchio e da uno degli stivali estrasse uno strumento assai conosciuto e temuto in quella famiglia. Si trattava di una verga di vimini intrecciato, lunga un braccio e spessa quasi tre dita alla base, mentre la punta raggiungeva lo spessore di un mignolo. Era dura ma al contempo flessibile.
Tutti quelli che lo avevano provato assicuravano che non era un’esperienza che avrebbero voluto ripetere. Damian, poi,conosceva Ivan particolarmente bene, e lo temeva come poche altre cose al mondo.
La donna fece sibilare lo strumento, che emise un suono cupo e molto minaccioso.
Damian sentì un brivido scendere dal collo fino alle gambe. Il sudore gli si gelò sulla fronte.
Denna si avvicinò alle sue spalle, -inutile dirti che dovrai contare ad alta voce, vero?-
Damian annuì frettolosamente.
-Molto bene- il braccio della donna si levò e...

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Capitolo 3
*** Parte III ***


...ricadde con una forza che non ci si aspetterebbe da una donna. L’impatto e lo schiocco sulle natiche nude furono violenti. Un segno rosso e gonfio si formò subito.
-Uno!- disse Damian ad alta voce. “Dannazione”, si disse, “ho indurito le chiappe. Non devo mai indurire le chiappe! Se no è peggio. Ma è solo il primo colpo. Il primo colpo è sempre difficile. Beh... anche gli ultimi sono difficili… e anche quelli in mezzo lo sono”, il flusso di pensieri fu interrotto da un secondo colpo.
-Due!- si trovò a sperare di riuscire a finire la punizione senza gridare... non ce la faceva quasi mai.
-Tre!-
-Perché con te si deve sempre arrivare a questo?- Chiese Denna con tristezza, -quando crescerai un po’?-
Il braccio di Denna si alzò e ricadde, si alzò e ricadde. I colpi erano fermi, decisi, energici. Il vimini sferzava l’aria con la cadenza di un orologio, la pelle schioccava.
Dopo i primi dieci colpi il sedere di Damian era già gonfio, scarlatto e lui si mordeva il labbro inferiore per non urlare. La sua voce era sempre meno ferma, mentre contava.
Denna non gli diede un attimo di tregua. Desiderava che la lezione si imprimesse molto a fondo.
Ne calò altri dieci in rapida successione, facendo attenzione a che i colpi fossero tutti perfettamente paralleli e mai due di seguito sovrapposti. Quando colpì il solco orizzontale il ragazzo non riuscì a trattenersi.
-Ti prego, basta-, strillò, -mi dispiace. Non lo faccio più!- Le ginocchia gli cedevano e la voce era rotta.
-Che cosa non farai più?- Chiese Denna, dura, fermandosi un attimo a massaggiare il braccio indolenzito.
- Non trascinerò più il bambino nelle mie scorribande, te lo prometto!-
-E poi, cos’altro farai? Una cosa che cerco di insegnarti da quando eri bambino senza evidentemente riuscirci-.
-Penserò! Penserò alle conseguenze delle mie azioni. Penserò prima di agire. Penserò a quanto fanno male le azioni avventate, ma ti prego, basta!-
-Molto bene, ma te ne spettano altri dieci per avermi risposto male-.
-Oh, cazzo-.
Una frustata arrivò dritta a metà delle cosce. Damian strillò e si piegò sulle gambe, schiacciando la fronte sullo schienale della sedia.
-Questa era un extra per la parolaccia-, commentò Denna, -adesso alzati. Non abbiamo finito. Non solo voglio che conti fino a dieci, ma che ad ogni colpo tu ripeta: devo riflettere prima di agire-.
Damian si morse la lingua per non bestemmiare di nuovo. Odiava, trovarsi in quella situazione. Eppure in un modo o nell’altro finiva sempre cascarci.
La mia linguaccia sarà la mia rovina”, si disse.
Il primo colpo arrivò, colpendo la pelle già infiammata.
-Uno, devo riflettere prima di agire!-
Al secondo si piantò le unghie nei palmi.
-Due, devo riflettere prima di agire!-
Contò gli altri otto, soffocando i lamenti.
Al decimo rimase immobile, aggrappato alla sedia, ansimante.
Denna lo osservò. Le natiche e la parte alta delle cosce erano totalmente gonfie e tumefatte. In due o tre punti la pelle si era lacerata. Il ragazzo tremava.
Fu tentata di cedere, ma doveva andare fino in fondo.
-Hai qualcosa da dire?-
Il ragazzo non gli rispose subito. Tirando su col naso, si mise cautamente in posizione eretta. La pelle delle natiche tirava come se fosse ustionata, la sentiva raggrinzirsi ad ogni movimento.
-Mi dispiace-, disse senza guardare la madre negli occhi, -mi dispiace davvero. Non ho pensato a quel che sarebbe potuto succedere. Sono stato irresponsabile e avventato. E non dovevo risponderti a quel modo-.
-A quanto pare le nerbate ti hanno ficcato un po’ di sale in zucca. Adesso rimettiti i pantaloni e sparisci nella tua stanza-.
A fatica e facendo molte smorfie, Damian riuscì a rivestirsi e, zoppicando, si avviò verso la porta.
Fuori era ormai buio, e Denna si affacciò per assicurarsi che il ragazzo ce la facesse a camminare fino a casa. Lo vide salire verso l’edificio che sorgeva in cima alla collina.
Suo fratello Devon era corso in suo aiuto e lo teneva per un braccio.
Tornò dentro e si sedette, affondando la faccia tra le mani.

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Capitolo 4
*** Parte IV ***


Aveva lasciato cadere il nerbo per terra e, come sempre, fu tentata di spezzarlo in due e gettarlo nel letamaio.
Chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Avrebbe voluto suo marito accanto, quella sera, questi episodi la lasciavano sempre esausta e profondamente addolorata. Purtroppo, almeno per altri due mesi Ezechiele non avrebbe fatto ritorno, era sola e da sola doveva andare avanti. Si sistemò la gonna, si alzò e uscì dalla sala comune, risalì il dolce pendio della collina, per raggiungere la casa, entrò dalla porta verde scuro, nella cucina ampia e accogliente. Prese un paio di sorsi d’acqua da un recipiente di legno sulla cucina, poi salì al piano di sopra. La stanza di Timmy era silenziosa. Bussò.
-Avanti-.
La voce del bambino era esitante, Denna entrò con cautela.
-Sono venuta per parlare un po’ con te, posso sedermi?-
Il bambino era rannicchiato su uno dei due letti nella stanza, con le gambe raccolte al petto.
-Ma com’è buio qui dentro! Perché apriamo le imposte, c’è ancora luce, fuori. Cosa ne dici?- La donna spalancò le finestre, facendo entrare l’aria fresca e la luce tiepida del tramonto. Poi si sedette di fianco a Tim, che affondò la testa tra le gambe.
Denna sorrise, -senti, ho bisogno di un consiglio. Cosa credi che dovrei cucinare per cena?-
Il bambino alzò la testa e la guardò, perplesso, -non lo so-.
-Mhh... aiutami a pensare. Che ne dici del pollo fritto?-
Un lampo negli occhi del bambino le fece capire di aver colto nel segno.
-Sì, il pollo fritto credo possa andare, magari con le patate al forno? E una bella torta di mele, quella con la cannella e le nocciole che ti ho fatto il giorno che sei arrivato. Che ne dici, non hai fame?-
Timmy la guardò palesemente confuso -sì, ho fame. Ma…-, si interruppe a metà della frase.
-“Ma” cosa, Tim?-
-Io, pensavo che lei fosse… arrabbiata-.
-È vero, mi hai fatto arrabbiare. Ma credo che tu abbia capito di aver sbagliato, e che questa cosa non si ripeterà più, vero?-
Il bambino annuì con vigore.
-Ne ero certa. Ovviamente sei ancora in punizione e devi ridipingere lo steccato. Ma questa storia è chiusa-, cinse Tim con un braccio e lui lasciò che la testa gli scivolasse contro il petto della donna.
Il calore di quel contatto era piacevole.
-Allora, che mi dici per la cena? No, perché per la torta ci vuole un po’ di tempo e magari… potrei aver bisogno di un aiutante, cosa ne dici?-
Il viso del bambino si illuminò. Sì, gli sarebbe piaciuto davvero molto aiutare la signora Denna in cucina, lo aveva fatto qualche volta da quando era arrivato alla fattoria e si era divertito, con lei che gli spiegava tutte le cose che voleva sapere.
In realtà la signora Denna era sempre molto gentile con lui, e gli era dispiaciuto davvero tanto farla arrabbiare.
-Sì,- disse entusiasta, -mi piacerebbe tanto aiutare a fare la torta!- Esitò, -Signora, mi dispiace di essere scappato… ma mi piace tanto quando Damian mi porta a fare quelle lunghe passeggiate. All’orfanotrofio non ce lo facevano mai fare, e qui c’è tanto spazio, non come in città. Io vorrei correre tutto il giorno!-
Denna posò un bacio sulla testa del ragazzino -Ma tesoro, questo è un problema che possiamo risolvere facilmente. Vuol dire che da ora in poi faremo tutte le passeggiate che vuoi, a patto che non interferiscano con gli impegni della scuola. Va bene?-
Timmy annuì e la abbracciò, schiacciando la faccia nel suo vestito.
Profumava di menta e fiori di campo.
-Molto bene, allora adesso vai a lavare le mani. Io ti aspetto in cucina-, Il bambino scese con un salto dal letto e scomparve nel corridoio.
Denna uscì anch’ella dalla stanza e sul pianerottolo incrociò Devon, il suo secondogenito, e Aaron, il primogenito della famiglia Mounties. Aaron si passò la mano tra i capelli che, nonostante avesse appena compiuto ventitré anni, avevano già assunto una sfumatura brizzolata.
-L’abbiamo fatto sdraiare sul letto-, disse Devon.
-Bene, grazie ragazzi. Adesso andate a lavarvi, la cena sarà pronta tra poco-.
Devon e Aaron annuirono e fecero per voltarsi, poi Aaron ci ripensò -forse potrei portargli qualcosa da mangiare…-
Denna lo interruppe -Ti ringrazio Aaron, ma le punizioni di vostro fratello sono una questione tra me e lui, restatene fuori. Comunque andrò da lui dopo la cena, lascerò solo che rimugini un altro po’ a stomaco vuoto. Non morirà, non preoccupatevi, ha la pellaccia dura-.
-Come vuoi tu-, sospirò Aaron, e scese le scale seguito da Devon.
 
Denna preparò la torta con Tim e la misero a cuocere. Quando rincasarono anche Lobo e Aril, e tutta la famiglia fu riunita, cenarono.
Il posto vuoto di Damian fu notato dagli ultimi due fratelli e vi fu uno scambio di occhiate, ma nessuno disse niente.
Finita la cena Denna lasciò i ragazzi a mettere in ordine la cucina e salì finalmente da Damian, armata di cassetta del pronto soccorso.
Lo trovò come Aaron e Devon lo avevano lasciato: sdraiato a pancia in giù sul letto, con le natiche martoriate esposte all’aria.
Appena sentì la porta aprirsi il ragazzo sollevò la testa dal cuscino, Denna accese la lampada e si avvicinò al suo letto.
-È tutta la sera che mi lasci agonizzare a digiuno, pensavo ti fossi completamente dimenticata di me-, disse Damian offeso.
-Se sei abbastanza in forma da fare del sarcasmo, forse puoi resistere fino a domattina-, rispose Denna, serafica.
-No, ti prego, fa male da morire!-
-Bene, allora fammi spazio, così daremo un’occhiata a questo povero sederino-.
-Ti diverti a farmi arrossire, non è vero?-
Il ragazzo si alzò molto faticosamente in ginocchio, per permettere a Denna di posizionarsi proprio sotto di lui, e, sempre faticosamente, si risdraiò sulle ginocchia della madre, in modo che le anche vi poggiassero sopra e il sedere fosse ben sollevato.
La donna aprì la cassetta che aveva con sé e ne tirò fuori alcune boccette e tamponi di cotone.
-Ho sentito odore di torta, non me ne hai portato un pezzetto, per caso?- chiese Damian, mentre la donna inforcava un paio di occhialetti ed esaminava la parte lesa.
-Non te la sei meritata-, rispose lei assorta.
-Oh, ma dai! Questa volta mi hai punito molto più severamente di quanto meritassi! Un pezzetto di torta era il minimo per farti perdonare-.
Denna alzò lo sguardo verso la sua nuca e sollevò un sopracciglio, -devo forse darti una ripassata così come mi trovo?-
-No! Scherzavo, scherzavo. Giuro! Le tue punizioni sono sempre giustissime!- esclamò il ragazzo con voce allarmata. Ma in realtà entrambi stavano adesso sorridendo.
Damian tornò serio, -senti, comunque mi dispiace davvero. In fondo sapevo di star facendo una delle mie solite cazzate, però come sempre non ho saputo resistere. Mi perdoni?-
-L’ho già fatto, e lo sai. Quello che mi dispiace veramente è che per farti ragionare io debba sempre ricorrere a questi metodi drastici. Per i tuoi fratelli non sono mai dovuta arrivare a tanto, se non in casi eccezionali-.
Damian non disse niente. Denna aveva cominciato a spalmargli sul sedere il suo rimedio speciale. Una mistura che preparava da sola, a base di veleno d’ape, camomilla, e un ingrediente segreto che nessuno, a parte lei, conosceva. Quel medicamento era eccezionale per il tipo di ferite di Damian… ed ampiamente sperimentato.
Alla fine del lavoro la donna mise dei cerotti dove era necessario e completò l’opera con qualche pacca affettuosa, che fecero sussultare e strabuzzare gli occhi a Damian.
-Ho finito. Per un bel po’ non cavalcherai, e siederai solo sui cuscini. Ma sopravvivrai, come al solito.-
Damian si sollevò un po’ più agilmente, per permettere alla donna di alzarsi.
Una volta in piedi Denna si sistemò la gonna stropicciata e raccolse le cose che aveva tirato fuori dalla cassetta.
-E’ tardi- disse, accarezzandogli i capelli rossi, -vuoi che ti aiuti a metterti a letto?-
-No, grazie. Ho il sedere gonfio ma non sono un invalido, e neanche un bambino-, rispose lui acido. -Molto bene, allora, Immagino che dovrò andare a cercare un invalido o un bambino per dargli questa-, tirò fuori dalla cassetta un involto dalla forma triangolare… che emanava un forte odore di cannella.
-Sei davvero crudele! È tutta la sera che mi sogno quella torta, e tu me l’hai nascosta fino ad ora-.
-Te la do-, disse lei con un sorriso amabile, -a patto che tu ti faccia rimboccare le coperte-.
Damian sbuffò, ma alla fine fu contento di farsi aiutare (ed anche di avere la torta).
Quando il ragazzo fu sotto le lenzuola, e si fu ingozzato con il dolce, Denna spense la lampada e fece per uscire.
-Mamma?- la voce di Damian la bloccò sull’uscio.
-Sì?-
-Buona notte-.
-Buona notte, tesoro-,e uscì chiudendosi la porta alle spalle.
 
Fine episodio

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Capitolo 5
*** Episodio II - Parte I ***


 
-Allora Devon, ripetimelo di nuovo. Perché sto facendo tutto il lavoro da solo, mentre tu te ne stai seduto all’ombra?-
-Ma perché io sono invalido, caro fratello. Mi sono slogato un polso-.
Lobo lo guardò, sollevando un sopracciglio e tergendosi il sudore dalla fronte con una manica. Era un ragazzone alto almeno un metro e novantacinque, sollevava sacchi di granaglie da cinquanta chili sulla spalle poderose, come se fossero cuscini di piume. Tra le sue mani gli scatoloni di legno pieni di attrezzatura da ferramente, parevano pacchetti di Natale.
Con i capelli neri e gli occhi verdi era praticamente l’opposto di suo fratello Devon. Meno alto, ma comunque al di sopra della media, con un corpo snello e longilineo, quest’ ultimo sembrava essere l’unico nella famiglia ad avere ereditato gli occhi azzurri e i capelli biondi della madre.
-E come te lo sei slogato, limandoti le unghie?-
-Ah ah ah… Mi sto rotolando dalle risate-, rispose Devon atono, restando mollemente adagiato sulla sedia, all’ombra del portico dell’emporio.
Erano le nove del mattino, ma faceva già molto caldo per strada. Lobo e Devon erano in paese per fare rifornimento di generi di prima necessità: zucchero, farina, lievito, chiodi e altre cose del genere. Lobo all’inizio era stato contento che il fratello si fosse offerto di accompagnarlo, perché pensava che si sarebbero divisi il lavoro di carico della merce. Invece, Devon si era beatamente accomodato lasciandolo a sbrigare tutta la fatica.
-Ma allora perché hai insistito ad accompagnarmi, scusa?-
-Per dimostrarti il mio affetto fraterno, ovviamente! Sapevo che sarebbe stato un lavoro faticoso e noioso, se affrontato da solo, così ti offro la mia inestimabile compagnia per alleggerirti il compito!-
Lobo roteò gli occhi alle maniere affettate di suo fratello, -te ne sono grato, ma potevo fare benissimo da solo. Mi fai soltanto irritare, standotene lì seduto a guardarmi sudare-.
-Se la metti così… penso che andrò alla Damina con l’ombrello per un bicchiere-.
Si alzò e si aggiustò la camicia di cotone bianchissimo, perfettamente stirata, ma prima che potesse muovere un passo Lobo lo afferrò per una spalla e gli ficcò tra le braccia un sacco di zucchero.
-Tu non ti muovi da qui. Ho capito perché hai insistito tanto per venire, lo sapevo che c’era qualcosa sotto. Volevi solo trovare una scusa per poter venire in paese e incontrarti con una delle tue Colombelle. Eh, no! Hai voluto accompagnarmi? E allora mi aiuti. Altrimenti…- cercò di pensare a una minaccia convincente. Sorrise -…sarò costretto a raccontare a mamma come hai speso il tuo ultimo stipendio, e perché le hai chiesto un anticipo. Non credo che le farebbe piacere sapere che tutte le belle ragazze della città si vestono e si improfumano a sue spese!-
-Non oserai fare la spia? Io sono tuo fratello maggiore, tu mi devi rispetto!-
-Partiamo dal fatto che sei tu a dovere qualcosa a me… e non si tratta di rispetto, ma di almeno quindici dollari. E poi non sfidarmi, se facessi la spia-, assunse un’espressione innocente, -sarebbe solo per il tuo bene fratellino. O vuoi fare la fine di quel Billie Bount, che fu costretto a lasciare la contea a causa di almeno otto padri e venti fratelli inferociti?-
-Non facciamo paragoni stupidi, Billie Bount era un idiota. E non aveva nemmeno la metà del mio fascino e del mio carisma-, disse Devon, depositando il sacco di zucchero sul cassone del carro e sistemandosi i polsini della camicia.
Comunque, non protestò più, e si mise docilmente ad aiutare il fratello a caricare le decine di sacchi, pacchetti e involti.
 
Con quattro braccia anziché due finirono molto prima del previsto e decisero, pertanto, di andare davvero alla Damina con l’ombrello per bere qualcosa di fresco.
Dentro al locale, rustico ma tranquillo e ben frequentato, faceva fresco e vi rimasero volentieri sorseggiando una leggera birra ghiacciata. Fecero conversazione con i pochi avventori che a quell’ora cercavano refrigerio e riparo dal sole, e Devon trovò anche il tempo per incontrare la sua Denise, la colombella di turno.
Quando fu ora di rientrare alla fattoria, salutarono Neil, il proprietario e fecero ritorno al carro.
Golia, il cavallo roano da tiro, nitrì leggermente e drizzò le orecchie quando li vide arrivare.
Devon gli diede un paio di pacche sul collo e un biscotto di avena, prima di sciogliere le redini dal palo.
Controllarono per l’ultima volta che la merce fosse ben salda e assicurata sotto lo sbiadito telone protettivo e salirono sul carro: Lobo, seduto al posto di guida, scosse le regini e Golia si mise in movimento. Devon, nel frattempo, parlava incessantemente, -…e allora Kate mi ha detto di no per la terza volta, ma io sapevo che stava per cedere. Così sono andato da sua sorella, Corinne, che è una racchia. L’ho lusingata un po’ e mi sono fatto rivelare tutti i punti deboli di Kate. Quali fiori, quali colori le piacciono e se c’è un dolce in particolare che le piace. È venuto fuori che le piacciono le stesse cose che piacciono a me! Non è incredibile?-
-Stupefacente-, commentò Lobo senza nemmeno guardarlo.
-L’ho detto anche io. E quindi ho potuto comprare tutti i regali giusti che mi servivano per farla crollare definitivamente. Non ti dico quando le ho portato un sacchetto di quelle scorzette d’arancio ricoperte di cioccolato. Quelle che fa la mamma per Natale, hai presente? Quelle che mangiamo solo io e lei, perché non piacciono a nessun altro. Beh, Kate le adora! È letteralmente impazzita e così mi ha abbracciato di slancio, io l’ho cinta con un braccio, l’ho guardata e…-
Il racconto s’interruppe. Devon prese suo fratello per un braccio, -fermati un po’. Credo di avere appena avuto un’allucinazione!-
Lobo lo guardò aggrottando le sopracciglia -Che significa un’allucinazione?-
-Significa-, disse Devon saltando giù dalla cassetta carro ancora in movimento, -che mi è sembrato di vedere qualcosa di molto strano-, si acquattò e camminò con la schiena curva fino al bordo della strada, si schiacciò contro il muro di un palazzo, e guardò Lobo, premendosi il dito indice contro le labbra, intimandogli di fare silenzio. Lobo tirò le redini con gli occhi sbarrati e la fronte aggrottata: suo fratello aveva forse preso un colpo di sole?
Devon sbirciò oltre l’angolo, nel vicolo secondario. Ma non c’era nessuno. Il vicolo era vuoto. Si rimise in posizione eretta e si sistemò i polsini della camicia. Poi tornò al carro e vi risalì guardando pensieroso Lobo, che lo osservava preoccupato.
-Ma che ti è preso?-
Devon distolse lo sguardo e volse la testa verso il vicolo, -ho visto, o almeno mi è parso di vedere, Vin Schneider-, disse con voce assente.
-Ma chi, il proprietario del Gatto nel sacco? Allora capisco perché ti sei sorpreso. Io credevo che fosse una specie di creatura notturna, allergica al sole o che. Non lo avevo mai visto girare in pieno giorno!- Lobo scosse le redini, ridendo di gusto.
-Ma non è questa la cosa più strana-, aggiunse Devon, ed un sorriso felino gli arricciò gli angoli della bocca, -non puoi immaginare con CHI stesse parlando Schneider! Credo che potrebbe essere la notizia dell’anno-.
-Sei più pettegolo di una vecchia comare, te lo giuro. Allora, con chi parlava, con una ragazza? Questo sì mi sorprenderebbe!- Spinse Golia al trotto: si stava facendo tardi.
-No, nessuna ragazza-, Devon continuava a sorridere.
-Allora non ci arrivo, dimmelo tu. Con chi parlava?-
In quel preciso istante un cavallo pezzato a loro ben noto intersecò la strada poche decine di metri più avanti, galoppando a tutto spiano col suo cavaliere sulla groppa. Devon lo guardò allontanarsi in una nuvola di polvere, poi guardò il fratello.
Dapprima Lobo non capì... poi ebbe un lampo di intuizione, e il suo volto divenne una maschera di stupefazione.
-Noooo! Mi stai dicendo che… Non è possibile. DEVI esserti sbagliato-.
-Nessun errore. Era proprio lui. Nostro fratello maggiore, Mr. Aaron ragazzo-savio-e-coscenzioso, per la prima volta a memoria d’uomo si è cacciato in qualche grosso guaio, me lo sento-.
-Tu fai lavorare troppo la fantasia. Sono sicuro che ti sei sbagliato, o comunque che c’è una spiegazione plausibilissima a quello che hai visto. Che motivo avrebbe Aaron di intrattenere qualsiasi tipo di rapporto con un tipo viscido, antipatico e senza scrupoli come Schneider?-
Devon guardò pensieroso il punto in cui il cavallo di Aaron era scomparso in una nuvola di polvere.
-Non ne ho la minima idea, francamente. Ma sapendo come vanno le cose nella nostra famiglia, non dubito che lo sapremo molto, molto presto-, sorrise di nuovo.
Lobo scosse la testa con disapprovazione

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Capitolo 6
*** Parte II ***


Varcarono il cancello della tenuta poco prima di mezzogiorno. Videro un gruppetto di persone raccolte nel cortile antistante alla casa, al centro del quale spiccava un uomo dai capelli bianchi, alto, maturo nella sua bellezza. Quando li vide arrivare l’uomo alzò un braccio in segno di saluto ed un sorriso limpido gli illuminò il viso segnato dal sole.
-Papà!- Esclamò Lobo saltando giù dal carro e correndo ad inghiottire il genitore in un enorme abbraccio.
-Come state, ragazzi?- Disse Ezechiele quando riuscì a respirare di nuovo, -vi serve una mano a scaricare il carro?-.
-Ma no, pa’,- rispose Lobo, -sei appena tornato, va dentro e rilassati. Hai già visto mamma?-
-Non ancora. Mi dicono abbia portato il piccolo Timmy a fare un’escursione. Ma non sapeva che sarei tornato oggi, volevo farle una sorpresa. Le ho comprato anche un bel regalo-, mostrò un pacco di forma cilindrica. -Uno splendido cappello all’ultimo grido. Credete che le piacerà?-
Devon sorrise, -ma certo che le piacerà. Tua moglie è vanitosa, anche se non lo ammette! Come tutte le donne, dopotutto.-
Lobo rise sarcastico, -certo, perché sono solo le donne ad essere vanitose, vero?-
Devon fece una smorfia, -Il fatto che tu sia una specie di orso peloso e puzzolente, non significa che qualcun altro non possa avere cura del proprio aspetto!-
-Io non sono un orso puzzolente, razza di damerino effeminato, che non sa nemmeno lanciare un lazo-.
-Forse non so lanciare un lazo, ma di sicuro nessuna ragazza si è mai lamentata di un mio bacio. Al contrario di quanto possa dire tu. Clarissa Hammond scappò via piangendo quando tentasti di baciarla, o sbaglio?-
-Ma avevamo dieci anni!! Stai tirando in ballo un fatto accaduto dici anni fa!-
-Beh, non è colpa mia se è da prima della pubertà che una creatura di sesso femminile che non sia nostra madre si avvicina a te! Forse dovresti usarlo sulle donne il lazo, potresti sperare di acchiapparne qualcuna-.
Il padre ascoltava in silenzio e ridacchiava scuotendo la testa, ma intervenne prima che la discussione degenerasse.
-È questa l’accoglienza per il vostro vecchio? Credevo che mi avreste offerto un bicchiere birra ghiacciata, o almeno che vi sareste chiesti cosa c’è dentro quei pacchi con su il vostro nome…- quell’affermazione ebbe il potere istantaneo di riportare la pace tra i due fratelli.
-Hai portato qualcosa anche a noi?- Chiese Devon con un sorriso da un orecchio all’altro.
-A voi e ai vostri fratelli. A proposito, dove sono?-
Lobo fece mente locale, -dunque, vediamo: Damian e Aril sono con la mandria a nord, a cercare una giovenca intrappolata in un crepaccio. Aaron, invece… non saprei- scambiò un’occhiata con il fratello, per vedere se lui avesse intenzione di dire qualcosa, ma sembrava che Devon non avesse intenzione di parlare, quindi continuò.
-Lo abbiamo visto tornare davanti a noi, ma galoppava come se avesse fretta quindi, chi lo sa-.
-Ho capito, allora forse è meglio aspettare stasera, quando ci saremo tutti, per scartare i regali. Che ne dite? Adesso vado a prepararmi un bagno, altrimenti vostra madre non vorrà nemmeno darmi un bacio-, fece l’occhiolino a Lobo, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.
La mattinata era già inoltrata e dopo poco anche gli altri membri della famiglia tornarono a casa per pranzare. Denna fu straordinariamente contenta di trovare a casa il marito, che non vedeva da diverse settimane.
-Ezechiele!- Esclamò con gioia, lasciandosi stringere in un tenero abbraccio, -non mi aspettavo che saresti tornato così presto. Vuol dire che l’affare è andato bene?-
-Sì, mia cara. Oltre ogni più rosea aspettativa, quest’anno di certo non dovremo stringere la cinghia-.
-Vieni Timothy-, esclamò allora la donna, -dobbiamo festeggiare, ed ho bisogno del mio aiutante di fiducia, ci saranno delle torte da infornare!-
Poco più tardi Damian e Aril, il più piccolo dei cinque fratelli, portando una sorpresa per il piccolo Tim: la giovenca di cui erano andati alla ricerca aveva appena partorito un vitellino il quale, però, aveva una zampa slogata e non poteva essere liberato con la madre. Avevano pertanto deciso di portarlo alla fattoria, per allevarlo loro stessi.
Il bambino fu decisamente entusiasta della novità, e si impegnò solennemente a curarsi personalmente del vitellino. Timmy veniva dalla città, dove le sterminate distese, gli animali i cieli azzurri erano solo figure sui libri. Qualsiasi cosa era per lui una straordinaria ed emozionante scoperta.
Denna si mise ai fornelli, e in breve tutta la numerosa famiglia si accomodò nella sala da pranzo. L’unico assente era Aaron.
Denna chiese agli altri figli se per caso sapessero dov’era, ma nessuno fu in grado di dargli una risposta. Devon e Lobo si scambiarono un’occhiata furtiva, la madre lo notò ma non fece commenti, almeno per il momento.
Il pranzo si svolse in maniera tranquilla e il chiacchiericcio allegro si protrasse ben oltre la fine delle pietanze. Erano le tre passate quando decisero finalmente di sciogliere la riunione di famiglia per tornare ognuno ai propri obblighi.
Denna e Ezechiele si trattennero a tavola anche quando i figli furono usciti, per concedersi qualche minuto di intimità coniugale. Denna si accomodò in braccio al marito e gli cinse il collo con le braccia.
-Ebbene, Mr. Ezechiele Mounties, pensa che ci degnerà della sua presenza per un po’ di tempo? O pensa di essersi sdebitato con un cappellino, di tutte queste settimane di assenza?-
-Mrs. Denna Wolfgang Mounties, credo di poter affermare senza tema d’esser smentito che, per quest’anno, dovrà sopportare a lungo la mia presenza. Le dispiace?-
-No, non mi dispiace. Era ora che ti decidessi a darmi una mano qui, a portare avanti la baracca. Non è facile tutto da sola, sai?-
-Da sola? Ma come, io pensavo di aver fatto un buon lavoro a lasciarti cinque figli che ti dessero una mano-.
-Certo, peccato che a questi cinque figli tu abbia lasciato anche il tuo caratteraccio, la qual cosa non mi è per niente d’aiuto spesse volte. Ci sono momenti in cui credo che non cresceranno mai. Mi sembra sempre di gestire un Kindergarten-.
-Il mio caratteraccio? Ma se sono tutti uno sputo e una stampa con te!- Ezechiele fece una pausa e sorrise, poi strinse sua moglie, -Ridillo-.
-Cosa?-
-Quella parola tedesca. Anche dopo tanti anni doro quando parli nella tua lingua-.
Denna rise, -Meine Liebe-.
Il bacio tra i due coniugi fu interrotto dalla vocina gioiosa e acuta di Timmy.
-Signora Denna! Signora Denna! Il Vitellino ha bevuto tutto il latte! Vieni a vedere, Signora Denna-.
Ezechiele fece un piccolo sospiro, ma sorrise, -Signora Denna?-
-Dagli tempo, prima o poi si sentirà pronto a chiamarmi mamma. Non sarà il sesto figlio a farmi demordere: i primi cinque sono stati sicuramente peggio-.
-Come se la cava il giovanotto?-
-Non c’è male. Ha già fatto comunella con Damian, che non perde l’occasione per scarrozzarlo in giro, a caccia e a pesca. E’ molto intelligente, e apprende con entusiasmo. Da quando abbiamo preso l’abitudine di fare lunghe passeggiate, non marina più la scuola ed è diventato uno studente modello. Ho idea che quell’orfanotrofio dovesse essere un vero carcere-.
-Sono contento, mi piace quel ragazzino, ho intenzione di dedicargli più tempo, adesso che sono tornato-.
-Puoi cominciare adesso: andiamo a vedere questo straordinario vitellino-.
Trovarono Tim sulla veranda, dove il vitellino era stato sistemato, all’ombra e al fresco, su un mucchietto di comoda paglia.
La bestiola, tutta nera e con una sola zampa bianca, sembrava piena di spirito, e già poche ore dopo la separazione dalla madre pareva essere a proprio agio tra gli esseri umani.
-Allora, giovanotto-, disse Ezechiele inginocchiandosi vino a Timmy, -come lo vogliamo battezzare questo piccolo torello? E’ tua responsabilità occupartene, quindi hai anche il dovere di scegliergli un nome-.
Il bambino rifletté attentamente, -ha una sola zampa bianca. Quindi direi che Calzino gli starebbe bene-, guardò i due adulti cercando approvazione.
-Calzino è un nome molto carino, tesoro-, disse Denna.
Un cavallo sudato e con la schiuma alla bocca si fermò bruscamente al centro del cortile, era il pezzato di Aaron e sopra c’era Aaron in persona, anche lui sudato e impolverato.
-Era ora che ti facessi vivo-, gli gridò Denna, -tuo padre è tornato è non vedeva l’ora di salutarti!-
Aaron scese da cavallo e lo portò ad abbeverasi.
-Dove sei stato tutto il pomeriggio?- Chiese ancora Denna, -sembra quasi che tu sia stato inseguito da una tribù indiana inferocita-.
Effettivamente il ragazzo aveva un aspetto terribile, Ezechiele guardò preoccupato il figlio e l’animale, -santo cielo, quel cavallo ha un’aria sfinita, figliolo. Cos’è che ti faceva avere tanta fretta?-
-Ciao Pà, come stai? Fatto buon viaggio?- fu l’unica cosa che gli sentirono mormorare.
-Sì, ottimo, ti ringrazio- rispose l’uomo perplesso, -ma ti senti bene?-
-Sì, scusa, sono solo un po’ stanco. Vado a lavarmi e poi mangio qualcosa, forse dopo uscirò di nuovo. Scusatemi-, e scomparve in casa.
Denna ed Ezechiele si guardarono, sorpresi e frastornati.
-Guai in vista-, commentò Denna., -che genere di guai, non riesco davvero a immaginarlo-, il ragazzo era sempre stato il più morigerato tra i fratelli. Essendo il figlio maggiore si era fatto carico di molte responsabilità, in assenza del padre, per aiutare la madre nella gestione del Ranch.
-Forse siamo diventati vecchi-, disse Ezechiele, -e non ci ricordiamo davvero più come vanno certe cose. Ma io credo che ci sia di mezzo una ragazza-.
Denna rifletté sulla teoria del marito, -Mhh… forse. Ma temo che ci sia sotto qualcosa di più. Indagherò-.
-Credo che, a volte, dimentichi che sono adulti-.
-Io credo che, a volte, siano loro a dimenticarlo-.
-Staremo a vedere, mia cara. Staremo a vedere…-

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Capitolo 7
*** Parte III ***


Aaron salì nella sua stanza e si buttò sul letto. Fu grato di poter disporre di quel luogo appartato, Quando hai una famiglia numerosa, con quattro fratelli minori, la privacy è una cosa rara e preziosa.
Da che potesse ricordare aveva sempre dormito con Devon e Damian, mentre Aril e Lobo condividevano una stanza più piccola, ma da quando era arrivato il ragazzino, Timothy, Aaron si era trasferito in una piccola stanzetta in mansarda, lasciando che Lobo occupasse il suo letto nella stanza dei “grandi” e Tim si era sistemato nella stanza con Aril.
Certo, era stato strano lasciare il letto dove aveva dormito per tutta la sua infanzia, gli era dispiaciuto di lasciarsi alle spalle le chiacchierate notturne con i suoi fratelli. D’altro canto desso aveva il privilegio di disporre di uno spazio tutto suo, la qual cosa gli piaceva molto ed ora gli faceva anche molto comodo.
Si sollevò faticosamente, indolenzito, si spogliò e lanciò i vestiti sporchi in un angolo. Riempì il lavabo con l’acqua di una caraffa che era poggiata vicino allo specchio, immerse dentro tutta la testa, liberandosi da polvere e sudore.
Quando si sollevò l'acqua gocciolava a rivoli lungo le spalle e giù per la larga schiena. Emise un sospiro di sollievo, la frescura dell’acqua attenuò il mal di testa che lo attanagliava, aveva galoppato tutto il giorno sotto il sole, aveva sfinito il cavallo, ma non era riuscito a risolvere nulla.
“Sono nella merda”.
E suo padre era tornato prima del previsto, “Questa non ci voleva. Forse avrei potuto farcela se la mamma fosse stata sola, ma a tutti e due insieme… Ripeto: merda. Devo riflettere, deve esserci un modo, sono un uomo da un pezzo, un bel pezzo… non posso correre a piangere da mamma e papà ogni volta che ho un problema”.
Si guardò allo specchio, la lastra di vetro gli rimandò l’immagine di un bel viso lungo, abbronzato, gli zigomi alti, gli occhi castani leggermente a mandorla. I capelli stranamente brizzolati, nonostante la giovane età. Era alto, come tutti in famiglia, aveva un corpo snello, muscoli guizzanti, delineati da una vita di lavoro con le mandrie.
Da quando era piccolo gli dicevano che somigliava molto a suo padre. Ma adesso non credeva fosse vero, suo padre non si sarebbe mai cacciato in un guaio simile, non sarebbe stato tanto stupido...
Si coprì la faccia con l’asciugamano, per non doversi più guardare.
“Non è il momento di piangersi addosso, ormai il danno è fatto. Spetta a me porre rimedio. Da solo! Possibilmente senza che i mamma e papà lo vengano a sapere”.

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Capitolo 8
*** Parte IV ***


Denna sedeva a cassetta, Golia la stava riportando a casa dopo una scappata in città per delle commissioni.
Cullata dal lento dondolio del carro e dal rumore degli zoccoli del cavallo, la donna rifletteva sullo strano comportamento di Aaron. Il ragazzo, da quando Ezechiele era ritornato tre settimane prima, non era più stato lo stesso.
Era diventato taciturno e passava molto tempo da solo. Stava fuori per giornate intere senza dire dove andava, saltava i pasti. E, nonostante i suoi fratelli lo avessero negato, sapeva che talvolta aveva saltato i turni di lavoro alla fattoria.
Denna aveva tentato di avvicinarlo, per chiedergli se avesse qualche problema, nella speranza che si confidasse. Ma aveva trovato un muro.
“Se si fosse trattato di un altro dei miei figli non sarei stata così discreta e paziente. Ma con Aaron… Lui èquello responsabile, quello assennato e prudente”.
Non riusciva davvero a immaginare che genere problema potesse turbarlo così tanto.
Sospirò, sistemando leggermente le redini, “spero, in ogni caso, che non si tratti di nulla di grave”.
Quella sera il ragazzo non rincasò per cena. Chiese agli altri figli se sapessero qualcosa in merito, ma nessuno seppe rispondere. Solo Lobo e Devon si scambiarono una rapida occhiata, che la madre non mancò di notare.
E va bene, il tempo della pazienza e della discrezione era finito. Adesso voleva davvero sapere cosa diavolo stava succedendo.
 
Devon e Lobo stavano lavando i piatti, dopo cena, quando videro la madre che marciava verso di loro con passo decisamente minaccioso.
-Lobo?-
-Sì?-
-Hai di nuovo svuotato la dispensa in raptus di fame?-
-Cosa? No!-
-Allora perché nostra madre viene da questa parte come se volesse farci il sedere a strisce?-
-Non lo so, ma temo che lo scopriremo presto-.
Denna fu su di loro, come un falco sulla preda, inchiodandoli con la schiena contro l’acquaio.
-Allora ragazzi, adesso esigo di sapere che cosa sta succedendo. E so, ripeto: so! Che voi nascondete qualcosa-.
Devon e Lobo si guardarono.
-Ma’, di cosa stai parlando?-
-Voglio sapere cosa sta combinando vostro fratello Aaron.-
-Oh…-
-Oh… Già! Allora?-
Al silenzio dei due, Denna si erse ancora inarcando un sopracciglio, -sto per perdere la pazienza-.
-Senti, ma’. Noi non ne sappiamo niente. Davvero...-
-Non ci provate. Non ci provate nemmeno. Non mi interessano i vostri giochetti omertosi. So che Aaron si è cacciato in qualche genere di guaio. E so che voi ne sapete qualcosa. Allora?-
-Allora…- Devon sentì la bandana che gli cingeva la gola farsi sempre più stretta.
-Abbiamo solo visto una cosa che ci è sembrata strana. Niente di che, non significa niente-.
-Lo stabilirò io se significa o no qualcosa. Sputate il rospo-.
Devon guardò suo fratello in cerca di sostegno, ma lui era nella sua stessa condizione. Non volevano certo fare la spia su Aaron, ma quando sua madre li guardava in quel modo, quello che li faceva sentire dei bambini sorpresi con le mani nella marmellata… beh, non avevano altra scelta che arrendersi.
-Beh…-
Devon sospirò e cedette, -lo abbiamo visto parlare con Vin Schneider-.
-Quel viscido strozzino? E cosa mai avevano da dirsi?-
-Non lo sappiamo, giuro. Lo abbiamo visto da lontano e lui è subito galoppato via-.
-Non sapete altro?-
I ragazzi scossero la testa all’unisono.
Denna lasciò i due figli cadetti a tergersi il sudore dalla fronte. La notizia che gli avevano dato pareva prospettare guai peggiori di quel che aveva creduto. Eppure, finalmente, aveva almeno un indizio. Trovò il Ezechiele seduto sulla ringhiera del patio, stava fumando la consueta pipa serale. -Vin Shneider-, disse Denna.
Ezechiele la guardò, togliendosi la pipa di bocca e aggrottando le sopracciglia.
-Che significa?-
-Significa che dobbiamo parlare con Aaron in privato e farci dire che cosa succede-.
Ezechiele non disse nulla. Accese un fiammifero e aspirò dal bocchino della pipa.
Quel silenzio fu piuttosto eloquente.
Denna si sistemò sulla sedia a dondolo e insieme aspettarono che Aaron tornasse.
Aspettarono fin quasi a mezzanotte, quando si convinsero che il ragazzo non sarebbe tornato.
Denna posò un bacio sulla spalla del marito e prendendolo per mano lo portò in casa.

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Capitolo 9
*** Parte V ***


La mattina seguente mandarono Damian e un paio di braccianti a cercarlo, senza alcun successo.
La preoccupazione che gli fosse successo qualcosa cominciò a farsi strada tra i membri della famiglia.
Quando era quasi ora di pranzo Denna di sentì chiamare dal marito. Lo raggiunse sul portico. Scrutava l’orizzonte.
-Arriva qualcuno-, disse alla moglie.
Denna guardò in lontananza, oltre il cancello della proprietà. Vide la polverone sollevata da un cavallo. Sentì una stretta allo stomaco. Sperò che fosse suo figlio.
-Se è Aaron, giuro che gliene dico quattro,- commentò.
Non si trattava di Aaron.
Era un uomo sulla sessantina, con una lunga barba brizzolata.
-Howard-, lo salutò Ezechiele, -che piacere vederti. Cosa ti porta a casa mia?-
Andò a tenere fermo il cavallo, mentre l’uomo scendeva.
-Buongiorno Ezechiele, ti trovo bene-.
Howard Mitchell era uno dei più vecchi e cari amici di Ezechiele, erano stati insieme nell’esercito ed ora lui gestiva un Ranch dall’altro lato della città. In realtà erano diretti concorrenti, ma rimanevano comunque buoni amici.
-E’ successo qualcosa Howard?- Chiese Ezechiele, preoccupato dal tono dell’amico.
-Meglio se ne parliamo in casa. Buongiorno Denna, ti trovo splendida, come sempre-.
-Grazie Howard, è un piacere vederti. Posso offrirti qualcosa? Un caffè?-
-Sì, ti ringrazio mia cara-.
Ezechiele affidò il cavallo ad un bracciante e fece strada all’ospite, conducendolo nel suo studio.
-Che succede?- chiese invitando Howard a occupare una delle comode poltrone, -mi sembri preoccupato-.
L’uomo sospirò, -aspettiamo tua moglie. È una cosa che riguarda entrambi-.
-Così fai preoccupare anche me-.
Denna entrò con due tazze di caffè e occupò la poltrona di fianco al giudice.
-Io-, disse Howard, -sono tuo amico da quando eravamo ragazzi. Sei un uomo orgoglioso, e che non ammetteresti mai di essere in difficoltà. È per questo che sono venuto da te: so bene che tu non avresti mai chiesto spontaneamente il mio aiuto-.
Estrasse una busta dalla tasca interna della giacca e la porse ad Ezechiele.
L’uomo prese la busta, la aprì e ne estrasse una striscia di carta. Era un assegno in bianco. Aggrottò la fronte e guardò Mitchell.
-Che cosa è questo, Howard? Che cosa vuol dire?-
-Vuol dir che so che hai problemi economici, e che sono venuto qui per darti una mano. Scrivi lì sopra la cifra che ti serve. È un prestito, ovviamente, mi restituirai i soldi quando potrai-.
-Problemi economici? Howard, ma di cosa stai parlando?-
L’uomo guardando Ezechiele dritto negli occhi, -vuol dire che non ne sai niente?-
-Assolutamente no! Chi diavolo ti ha detto una cosa del genere?-
Howard sorrise e si rilassò contro lo schienale della poltrona, -lo sapevo-, disse battendo una mano sul bracciolo, -lo sapevo che non poteva essere vero. Quel tizio è solo un losco farabutto-.
-Di chi parli?-
-Un tale Schneider. L’ho sentito con le mie orecchie, vantarsi di avere un debito consistente con i Mounties-.
Calò un gelo silenzioso. I coniugi Mounties si guardarono.
-Beh-, disse Howard, -che cosa sono quelle facce? Che cosa ho detto?-
Ezechiele si alzò dalla poltrona, allontanandosi, e si affacciò alla finestra.
Denna capì che suo marito aveva bisogno di qualche momento per calmarsi e si rivolse all’amico.
-Mi dispiace sinceramente, Howard, che ti sia trovato immischiato in questa cosa. Temo che la colpa di questo increscioso equivoco sia di nostro figlio-.
-Quale dei cinque?- chiese Howard, a quel punto incuriosito e preoccupato.
-Aaron-.
-Ma davvero? Non mi sembra da lui invischiarsi con certa gente. Cosa è successo?-
-Questa è una bella domanda, Howard. Purtroppo ne sappiamo quanto te-, lanciò un’occhiata ad Ezechiele, che restava in silenzio, fingendo di guardare il panorama dalla finestra.
Howard se ne accorse.
-Denna, mia cara, spero di non avervi turbato con la mia venuta. Non era mia intenzione-.
La donna si voltò e si sporse verso la poltrona dove l’uomo era seduto.
-Ma cosa dici, Howard?- Disse prendendo la mano dell’amico, -anzi, la tua premura e la tua amicizia mi riscaldano il cuore. Siamo solo preoccupati per Aaron. Come hai detto, cose di questo tipo non sono da lui-.
Ci fu un silenzio imbarazzato. Ezechiele continuava a guardare fuori dalla finestra.
-Howard, ti fermi per cena?-, chiese Denna cercando di stemperare la tensione.
-Oh, no, ti ringrazio Hettie mi aspetta-.
-Ez, perché non offri un sigaro ad Howard?-
Suo marito di girò, emergendo dai suoi pensieri.
-Sì, cara. Hai ragione. Sono proprio un cattivo ospite-.
-Ma no-, disse Howard, -non ti disturbare. Tanto tra poco devo andare-, si rendeva conto che Ezechiele era turbato, e che probabilmente avrebbe preferito restare da solo.
-Nessun disturbo-, fece Ezechiele in tono più leggero, -è il minimo dopo che hai fatto tutta quella strada per venire qui-.
Denna, avvertendo che la nube era passata, pensò di ritirarsi.
-Bene, adesso se volete scusarmi, vi lascio da soli a fare discorsi da uomini. Devo preparare la cena, con permesso-.
Denna uscì in silenzio dalla stanza, chiudendosi alle spalle i due battenti della porta di noce.
-Temo di averti procurato un dispiacere, venendo qui-, disse Howard quando furono soli.
-No, amico mio, tu non c’entri. Il fatto è che ho un maledetto conto in sospeso con questo Schneider. E adesso mi rispunta fuori così, mettendo in giro voci fasulle sulla mia famiglia…-
-Tu, un conto in sospeso con quel pendaglio da forca?-
-Sì, una quindicina d’anni fa lo avevo assunto qui, al ranch, per fare qualche lavoretto. Gli permisi di dormire in casa mia, vicino ai miei figli, lo feci mangiare alla mia tavola. Come ringraziamento lo sorprendemmo mentre tentava di derubarci. Era solo un ragazzo, all’epoca, e non volli denunciarlo. Speravo si trattasse di una bravata. Comunque lo licenziai su due piedi e lo cacciai dalla mia proprietà-, Ezechiele si alzò e prese due bicchieri da una credenza vicino al camino. Li riempì di whisky e ne porse uno ad Howard, -un mese dopo, un branco di balordi ubriachi venne qui e si mise a sparare conto la mia mandria. Mi ammazzarono un centinaio di capi. Non sono mai riuscito a dimostrarlo, ma sono sicuro che dietro quei balordi c’era Schneider. Fu lui ad mandarceli, per vendicarsi. Ne sono certo-, bevve un sorso di liquore, -adesso rimpiango di non averlo consegnato allo sceriffo, allora. E rimpiango che Denna non lo abbia frustato più forte, il giorno che lo sorprendemmo con le mani nella cassaforte. Anche se credo che di lei si ricordi ancora molto bene-.
Rimasero in silenzio.
-Adesso Aaron dov’è?- Chiese Howard.
-Non lo sappiamo. Non rincasa da due giorni-.
-Una situazione poco piacevole, questa-, commentò Howard.
-Già. E proprio lui, tra tutti i miei figli. Non me l’aspettavo, capisci? Dagli altri me lo aspetto, ma non da lui-.
Howard fece un mezzo ghigno -è in momenti come questo che sono contento di avere solo figlie femmine-.
Ezechiele rise e vuotò il bicchiere.
Conversarono ancora, poi Howard disse che doveva tornare a casa e salutò l’amico.
-Grazie Howard-, lo salutò Ezechiele, -grazie davvero. Sei un amico sincero-.
-Non dire scemenze, Ez. Fino a prova contraria sono io ad esserti ancora debitore. Adesso devo andare, mia moglie mi aspetta per la cena-, montò a cavallo.
Appena l’uomo fu oltre il cancello, Ezechiele entrò in cucina.
-Quel pendaglio da forca!-
Denna lo guardò sbalordito, -ma di chi parli, di Howard?-
-Di Schneider. Ti rendi conto che Aaron si è rivolto proprio a quel farabutto? Il nome della nostra famiglia nella bocca di quel lurido schifoso!-
Denna non disse nulla. Era un evento raro che suo marito perdesse il controllo a quel modo. Di norma era lei a perdere le staffe, e lui a ricondurla alla ragione.
-E va bene-, disse l’uomo, -meglio che mi calmi. Ora dobbiamo solo pensare a risolvere il problema di Aaron-.
-Già, Aaron… con questa sera fanno due giorni che non torna. Sono seriamente preoccupata che possa essergli successo qualcosa-.
-Sta tranquilla, sono certo che stasera lo vedremo tornare fresco e tomo. E tu avrai tutto il diritto di prenderlo per le orecchie e mettertelo sulle ginocchia-.
Denna sorrise e si sistemò la lunga treccia bionda, -spero che tu abbia ragione-. 

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Capitolo 10
*** Parte VI ***


La cena si svolse nel più assoluto silenzio. Tim mangiò la sua porzione di cavolo senza fare capricci. L’umore nero dei suoi genitori adottivi era evidente perfino a lui.
I braccianti si erano già ritirati nel bungalow, alle spalle della casa padronale. Un cane latrava, qualche mucca muggiva. Il resto era silenzio di grilli e cicale, e rumore di posate.
Poterono sentire gli zoccoli del cavallo arrivare da molto lontano.
Tutti si guardarono pensando la stessa identica cosa. Lasciarono i piatti a metà e si affacciarono sul portico.
Il cavallo barcollava e aveva bava alla bocca, sudore bianco gli ricopriva tutto il corpo, misto a polvere. Aveva piaghe da speroni nei fianchi.
Il cavaliere che ne scese non aveva un aspetto migliore. Aaron era pallido come la terra, aveva neri cerchi attorno agli occhi e polvere su tutti i vestiti. Si avvicinò in silenzio al portico e guardò i suoi genitori. Dal loro silenzio capì che sapevano.
-Nello studio-, disse Ezechiele bassa voce, -subito-.
Aaron entrò in casa, evitando di guardare chiunque.
Denna fece cenno agli altri di tornare in cucina, -Aril, il cavallo-.
Nessuno obiettò. Denna scese le scale, dirigendosi verso la selleria.
-E ora dove stai andando?- La rincorse il marito.
-A prendere la frusta. Ho un paio di cose da spiegare a tuo figlio-.
-Mio figlio? Adesso è mio figlio? Comunque non credo che stavolta una frustata possa risolvere il problema-.
-Certo che non lo risolverà. Però mi farà sentire molto meglio-.
-Lo so che non parli sul serio-.
-Davvero? Aspetta che lo abbia tra le mani, e vedrai se non parlo sul serio-.
Ezechiele sospirò. Quando sua moglie prendeva partiva per una strada era peggio di una mandria di bufali impazziti.
-Ascolta tesoro, calmati. Anche io sono furioso, ma qui la situazione è delicata. Aspettiamo di sentire che cosa ha da dirci, dopo cercheremo una soluzione e decideremo che provvedimenti prendere, d’accordo?-
Le si parò davanti e le cinse dolcemente le braccia, guardandola negli occhi. Le posò un bacio sulla guancia e sentì la tensione nel suo corpo allentarsi.
-Va bene, come vuoi. Aspetteremo di sentire cos’ha da dire a sua discolpa-, si lasciò condurre in casa dal marito, ma la sua espressione rimase severa.
 
Aaron si guardò intorno.
Lo scrittoio di noce laccato, il camino, i quadri di caccia appesi alle pareti, le poltrone di pesante tessuto verde. Quelle poltrone gli erano piaciute fin da quando era bambino.
Si sedeva su una di esse con un libro in mano e ne guardava le figure, chiedendo a suo padre di spiegargliele. Tutto era rimasto uguale, da che lui potesse ricordare.
Denna ed Ezechiele entrarono dietro di lui e chiusero la porta.
Adesso avrebbe voluto essere a mille miglia di distanza.
-Ho fatto un casino-, disse sedendosi su una delle poltrone, -un casino enorme. Un casino biblico-.
Cercò lo sguardo dei suoi genitori.
Ezechiele prese posto sulla poltrona di fronte. Denna rimase in piedi, di fianco al marito.
Nessuno dei due parlò.
Aaron cominciò a studiarsi le mani. Osservò attentamente le grinze sulle nocche, i calli lasciati dall’attrito con le redini, i follicoli di pelo sul dorso della mano, le vece che pulsavano. Quando fu certo che la voce non gli sarebbe mancata, parlò.
-Qualche mese fa, in città, mi imbattei in un vecchio amico. Ve lo ricordare Chuck Ayn? Andavamo a scuola insieme. Poi lui si trasferì in California e ci perdemmo di vista. Beh, Chuck mi invitò a casa di alcuni suoi amici, per una partitina a poker. Ero felice di vederlo e accettai, anche se non sono un appassionato di gioco. O meglio… ero. Oh, insomma, arrivammo a casa di questi suoi amici e mi convinsero a giocare-, riprese fiato, la sua voce si fece più distante, -io non lo so. Non lo so che cosa mi è successo lì dentro, seduto a quel tavolo. So solo che ad un certo punto stavo vincendo e la cosa mi piaceva. Avevo un bel mucchio di soldi davanti a me e continuavo a tirar fuori una mano migliore dell’altra. Ci provai gusto. Dopo quella prima sera andai andato altre volte a casa di quelle persone. Giocavo e vincevo sempre. Non facevo altro che vincere. Le somme che si giocavano erano sempre più alte e tutti mi consideravano un campione. Mi rispettavano. Questo durò alcune settimane, fino a che...- dovette fermarsi di nuovo. Sentiva un conato salire verso la gola. Deglutì a vuoto, senza saliva, -una sera persi tre, quattro, cinque partite. Non mi ricordo bene. All’ultima mano non avevo più nemmeno un centesimo, solo che… Non riuscivo a smettere. “Adesso la fortuna girerà”, mi dicevo, “ancora un’altra partita e basta”. E continuavo a giocare. Io… pensavo di avere la mano migliore. Ne ero convinto, lo giuro. Altrimenti non mi sarei mai sognato... e invece, avevo perso tutto-.
-Che ti eri giocato?-
-Cento capi di bestiame-.
Ezechiele si sentì mancare, -cinquemila dollari…-
-Lo so, adesso capisco che è stata una completa follia! Ma in quel momento ero come impazzito. Non riuscivo a smettere. Poi, passato il momento, mi resi conto che non avevo idea di dove trovare tutti quei soldi e certo non potevo dargli sul serio le nostre bestie. Provai parlare con quella gente, a spiegargli che non potevo pagare, ma l’uomo a cui dovevo i soldi non volle saperne. Minacciò di denunciarmi alla polizia federale. Avrei perso la faccia, sarei finito dal giudice e forse anche in galera. Ero disperato. Non volevo che la cosa si venisse a sapere. Non volevo che voi lo veniste a sapere. E così io… mi rivolsi a Vin Schneider-.
Aspettò una reazione. Aspettò che sua madre cominciasse ad urlare, che suo padre gli intimasse di andarsene immediatamente da quella casa. Non accadde nulla.
La cosa cominciò ad essere inquietante, ma continuò a parlare.
-Schneider dapprima fu gentile, disse che mi capiva, che sapeva cosa stessi passando, e che avrei potuto restituirgli i soldi poco alla volta. Gli credetti. Poi, tre settimane fa, è venuto da me, e mi ha detto che i termini degli accordi erano cambiati. Che entro la fine di quest’anno devo restituirgli tutto, con gli interessi. Mi ha minacciato, ha detto che se non avessi pagato sarebbe successo qualcosa di brutto a me e alla mia famiglia. Io… sono disperato-.
Tacque. Non osava alzare lo sguardo.
Cominciò a contare le oscillazioni dell’orologio a pendolo: era l’unico rumore che si udiva nella stanza. Aveva perso il conto quando Denna finalmente parlò, -sai, quel che mi addolora, in tutta questa faccenda-, disse con una voce triste, che fu peggio di uno schiaffo, -è che tu non ti sia fidato di noi. Che tu non ti sia confidato con noi-.
Aaron chinò il capo ancora di più.
-Avremmo potuto trovare una soluzione insieme. Ti avremmo aiutato-, si avvicinò al figlio, -avremmo potuto farti noi un prestito o avremmo potuto fartelo ottenere dalla banca. C’erano tante soluzioni da vagliare, piuttosto che rivolgersi ad un usuraio. Perché non ci hai detto niente?-
-Non lo so-.
-E adesso cosa dovremmo fare, secondo te?-
Aaron scosse la testa. Lui a tutte queste cose non aveva pensato. Si era solo preoccupato di tenere nascosta la cosa. Perché?
-Rispondi a tua madre, Aaron- la voce di suo padre fu come una pugnalata -cosa pensi che dovremmo fare, secondo te?-
Il ragazzo scosse la testa, -non ne ho idea, davvero. Mi dispiace, ma io non so lo so…- si accasciò sullo schienale, le mani premute sulla faccia.
Denna capì che sarebbe stato inutile insistere oltre. Aaron stava per crollare, era evidente che non ce la faceva più a stare in piedi.
-E’ tardi, adesso. Ne parleremo ancora domani, va a letto-.
Aaron guardò sua madre, attonito.
Tutto lì? Niente grida, niente oggetti lanciati, niente botte, niente di niente?
-Ma…-
-Ti ho detto di andare nella tua stanza, Aaron. Subito-.
Aaron si alzò e raggiunse la porta. Sull’uscio guardò i suoi genitori, -buona notte-, fu l’unica cosa che riuscì a dire prima di uscire dallo studio.

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Capitolo 11
*** Parte VII ***


I coniugi Mounties videro il figlio chiudersi la porta alle spalle.
-Cinquemila dollari a una partita di poker, ma ti rendi conto?- sbottò Ezechiele, -e tu lo mandi via così?-
-Non hai visto in che condizioni è? Stava per crollare. Domattina non saremo altrettanto pazienti e mitfühlend. Inoltre, credo sia il caso che io e te ne parliamo, prima-.
-Parlare di cosa?-
-Di cavoli e di re. Ez, ma che domande fai?-
-Hai ragione, scusa-.
Denna sospirò, tutta quella storia era stata un duro colpo, -credo che dovremmo affrontare un problema alla volta-.
Ezechiele si alzò dalla poltrona e andò a prendere la bottiglia di whisky.
-Versane anche a me-, disse la donna, -ne abbiamo bisogno entrambi-.
Ezechiele porse un bicchiere alla moglie e lo riempì.
-Direi che risolvere la questione economica sia in cima alla lista delle priorità-, disse Denna.
-Giusto-, l’uomo buttò giù il bicchiere d’un fiato.
-Per prima cosa, domani credo dovresti portare con te Aaron dal giudice Prachett-.
L’uomo annuì, ma Denna capì che non la stava ascoltando.
-Credi che possa fare qualcosa?- gli chiese, provando a trascinarlo nella conversazione.
-Cosa?- disse lui, distolto dai propri pensieri.
-Il giudice, Ez. Credi che possa fare qualcosa?-
-Non lo so, Denna. Non lo so-.
-Ez, ti prego, reagisci. Lo so che sei amareggiato, ma ho bisogno di te, adesso-.
L’uomo si passò una mano sugli occhi, -hai ragione. Hai ragione. È solo che… tu lo sai, io amo tutti i nostri figli, indistintamente. Morirei per ognuno di loro. Compreso il piccolo Tim. Ma Aaron, l’ho sempre sentito più vicino degli altri, capisci? Ho sempre pensato fosse quello che mi assomigliava di più-.
-E per questo motivo-, disse Denna, -visto che ti somiglia, non ha il diritto di sbagliare come tutti gli altri? Perché, tu non sbagli mai, Ezechiele?-
-Ma certo, certo che sbaglio. Chi meglio di te sa quanti errori ho commesso nella mia vita. Però speravo che, in qualche modo, lui fosse migliore di me-.
-Gli errori di Aaron non sono i tuoi. Non riversare su di lui quelli che pensi siano stati i tuoi fallimenti-.
-Ma, Denna, cinquemila dollari, a una partita a poker!-
-Beh, quello…- disse la donna, esitando, -quello è un tranello in cui chiunque può cadere, dovresti saperlo-.
Ezechiele vuotò il secondo bicchiere d’un fiato.
Denna guardò il suo bicchiere, facendo roteare il liquido ambrato, -è stato uno sprovveduto, e si è comportato da immaturo. Questo non significa che… gli succederà quello che è successo a te-.
-Non deve succedergli-, disse Ezechiele duro, -quella è una malattia dalla quale non si guarisce-.
Denna immaginava quali pensieri lo stessero tormentando, -forse dovresti dirglielo-.
-Cosa, che avevo problemi con il gioco d’azzardo?-
-Sì. Credo lo aiuterebbe sapere che lo capisci-.
Ezechiele si versò un altro mezzo bicchiere, -ci penserò-.
Denna annuì, -altro problema-, disse alzandosi e sottraendo la bottiglia di whisky al marito, -il modo in cui ha gestito tutta questa cosa: credo che un bambino dell’età di Tim avrebbe avuto più buon senso-.
-Infatti. Ma perché diamine non è venuto da noi? Mi prendi la pipa, per favore?-
Denna andò allo scrittoio e aprì il primo cassetto. Dentro c’erano la pipa, il tabacco e i fiammiferi.
Caricò la pipa con il tabacco e la portò a Ezechiele. L’uomo accese un fiammifero e aspirò lente boccate.
-Davvero non capisci il perché?- Chiese Denna, sedendo sul bracciolo di fianco al marito.
-No. Sinceramente no-.
-Beh, sai. Fin da quando era bambino e tu stavi fuori per mesi interi, si è sentito in dovere di fare le tue veci. Si è sempre fatto carico di molte responsabilità. Voleva aiutarmi, evitare che mi sentissi sola. Ha sempre avuto un forte senso del dovere-.
-Non capisco dove vuoi arrivare-, Ezechiele morse il bocchino della pipa con tanta forza da farsi male a un dente.
-Lui è l’uomo di casa, quando tu non ci sei. Da’ ordini ed è visto come il capo famiglia. Temeva di perdere la faccia, per questo non ha detto niente. Non sa affrontare il fatto di non essere perfetto, come te-.
-Che idiozia, io non sono perfetto-.
-Ma lui ti vede così. Come quello che sa sempre cosa fare e cosa dire, in ogni momento. Credo fosse terrorizzato all’idea di deluderti-.
-Ma è proprio quello che ha fatto. Ha tradito la mia e la tua fiducia-.
Rimasero in silenzio per un po’.
-Come pensi di regolarti?- chiese Ezechiele, senza guardare la moglie.
-Vuoi sapere se intendo punirlo?-
L’uomo annuì.
-Sì, ne ho tutta l’intenzione. Per diverse ragioni. Non ultima ricordargli che commettere un errore non è la fine del mondo, e che la redenzione è sempre possibile. Anche se a volte è dolorosa. Comunque prima dobbiamo risolvere la questione del debito-.
-Non sia mai detto che io dia dei soldi a quel farabutto-, ringhiò Ezechiele.
-Non era nelle mie intenzioni suggerirlo-, disse Denna.
Ezechiele annuì di nuovo, -che ore sono? Credo sia il caso di andarcene a dormire-.
-Sì, hai ragione. Domani sarà una giornata lunga-.
Denna accese una candela e spense le lampade a olio.
Uscirono dallo studio. La casa era deserta.
Tutti dormivano già. Salirono in camera da letto.
Il letto matrimoniale li accolse con gioia, come se non aspettasse altro che essere riempito.
Nel silenzio delle lenzuola Ezechiele abbracciò sua moglie, e la tenne stretta.
-Forse è colpa mia. Sono stato un padre assente-.
Denna accarezzò la guancia ruvida dell’uomo, -tu sei stato e sei un buon padre, abbiamo sei figli fantastici. Però a volte sbagliano, semplicemente. Il nostro compito è di ricondurli sulla retta via-.
Non dissero altro.
Denna si addormentò, di lì a poco, mentre Ezechiele rimase sveglio, gli occhi fissi sul soffitto.

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Capitolo 12
*** Parte VIII ***


Aaron dormì profondamente fino a tardi. Il sole era già alto quando aprì gli occhi.
Si concesse qualche momento di ozio nel letto. Non aveva molta fretta di alzarsi, in effetti.
Sua madre era stata chiara: “va’ in camera tua”.
Un modo più o meno velato di dire: sei in punizione. Come se avesse ancora otto anni.
“Non che il mio comportamento sia stato particolarmente maturo”.
Adesso, a mente lucida, riusciva a vedere le cose con una certa distaccata chiarezza.
“Sono stato un idiota. Ho deluso me stesso e i miei genitori. Tutto per non ammettere di aver fatto un cazzo di sbaglio. Tutto per il mio stupido orgoglio”.
Si poteva ridurre tutto a questo, insomma: stupido orgoglio.
“Non proprio quel che si dice un nobile movente…”
Rimuginava da un bel po’, quando sentì bussare alla botola della mansarda.
Si sollevò di scatto -Avanti!-
Comparve un vassoio, sotto il quale sbucò la testa rossa di Damian.
-Ho pensato di portarti qualcosa da mangiare-.
Arrivò una zaffata di pane tostato e Aaron sentì lo stomaco contorcersi. Quand’è che aveva mangiato l’ultima volta?
Prese il vassoio dalle mani del fratello e addentò del pane imburrato.
Sott’occhio vide Damian che lo fissava con uno sguardo strano. Non era dell’umore di chiacchierare e decise di ignorarlo. Ma il fratello non smise di scrutarlo.
Dopo un po’ Aaron non riuscì più a sopportarlo.
-Si può sapere che cosa vuoi?-
Damian non rispose subito. Lentamente gli angoli della sua bocca salirono… a formare un sorriso compiaciuto.
Aaron lo guardò sbalordito, -scusa, sbaglio o stai ridendo delle mie disgrazie?-
L’altro chiuse gli occhi e inspirò a fondo, -non parlare, ti prego. Sto assaporando questo momento!-
-Che momento?-
-Lo storico, epocale momento… in cui tu sei nei guai. E io no!-
-Sei un bastardo-, disse Aaron, per nulla divertito, -non c’è niente da ridere. E poi non sai nemmeno di cosa stai parlando-.
-Oh, non ci giurerei-, intervenne Damian, ancora più compiaciuto.
Suo fratello lo guardò aggrottando le sopracciglia, -come sarebbe?-
Damian si esibì in un sorriso da lupo. -Può darsi che, casualmente, ieri sera, mentre eravate nello studio di papà, possa essersi verificato uno strano e misterioso evento… grazie al quale abbiamo origliato con un bicchiere appoggiato alla porta-.
Aaron sospirò con rassegnazione, -quindi avete passato la notte a ridere alle mie spalle-.
-Ma no, fratellino. Cosa dici? Non potremmo mai. Tu sei il nostro esempio di maturità, di responsabilità, di saggezza…-
-Senti, Damian, non sono dell’umore adatto. Se sei venuto qui per prenderti gioco di me, hai proprio sbagliato indirizzo-.
-Oh, e dai! Non farla tanto lunga. Non sei il primo a cui sia capitato di combinare un casino. E non sarai certo l’ultimo-.
Aaron sbuffò e si strinse nelle spalle.
Damian non si perse d’animo, -ti ricordi quando, per fare un po’ di soldi extra, cominciai a vendere una miracolosa crema ricostituente? Beh, i miei clienti non furono esattamente contenti quando cominciarono a spuntargli sulla faccia degli enormi brufoli viola: poco ci mancò che finissi in galera per truffa. E quando convinsi Lobo a perdere contro di me a quel match di lotta libera? Per poco non fummo linciati, quando scoprirono che la gara era truccata… e che avevo scommesso su me stesso per una cifra notevole-.
-Ma questo cosa c’entra, scusa?- Chiese Aaron sempre più infastidito.
-C’entra. È per farti capire che non sei poi così speciale. Hai fatto una stupidaggine, capirai che dramma. Io ne faccio in continuazione… come nostra madre non manca di farmi notare-.
Aaron mandò giù l’ultimo boccone poi si rivolse al fratello.
-E’ questo il problema, capisci? Io non sono come te. Io non combino casini, non faccio cose irresponsabili, non deludo le aspettative-.
-Sì, lo so benissimo che sei Mr. Perfettino, cocco di mamma. Lo sanno tutti. Ma, guarda un po’, stavolta è successo-.
-Già, è successo. E non so davvero come tirarmene fuori. Comunque non sono il cocco di mamma! Anzi, non mi sorprenderei se mi buttassero fuori casa, dopo questo-.
-Se non hanno buttato fuori me, in tutti questi anni, non corri pericolo. Fidati. Comunque, a proposito di mamma, ti sta aspettando nello studio, insieme a papà-.
-Di che umore sono?-
-Oh, direi che sono raggianti. Se avessero della musica sono certo che ballerebbero!-.
-Non sei spiritoso-.
-Dici? Io credevo di sì!-
Aaron fu tentato di rompere il vassoio della colazione sulla testa del fratello, ma sapeva che sarebbe stato inutile. La testa di Damian era notoriamente una delle sostanze più dure sulla faccia della terra.
-Senti, perché non sparisci e mi lasci vestire?-
Damian lo annusò, -fossi in te mi darei ance una lavata. Puzzi di cane morto-.
Aaron lo ignorò e gli ficcò il vassoio tra le mani.
-E dai, sorridi un po’, hai la faccia di un condannato a morte-, disse ancora il fratello, -non hai un ultimo desiderio, prima di salire al patibolo?-
-Se non te ne vai ti faccio ingoiare quella tazza-.
-Va bene, musone. Me ne vado-, prese il vassoio e si apprestò ad uscire dalla stanza. Quando ebbe sceso la scala per metà si fermo un’ultima volta, -ma dopo l’esecuzione potrò avere la tua stanza?-
Uno stivale volò contro di lui, ma colpì la botola ormai chiusa.
La marcia funebre fischiettata da Damian risuonò ancora per alcuni secondi nel corridoio.
Stupendosene, Aaron non poté fare a meno di sorridere. Tutto sommato il fatto che suo fratello prendesse la cosa così alla leggera lo fece sentire meglio. Forse aveva davvero esagerato con tutta questa faccenda.
“Adesso non mi resta altro che affrontare i miei genitori”, il pensiero gli fece sciogliere il sorriso sulla faccia.

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Capitolo 13
*** Parte IX ***


Ricordò che, quando erano bambini, sua madre raccontava la storia di un tizio il quale, vagando per una foresta, capitava davanti alla porta dell’inferno. Sulla porta erano incise le parole “perdete ogni speranza o voi ch’entrate”, o qualcosa del genere.
Ecco: quella era esattamente la sensazione che provava Aaron, stando di fronte alla porta chiusa dello studio.
“Beh”, pensò, “dovrò affrontarli prima o poi”, afferrò la maniglia e scese nell’inferno.
Denna ed Ezechiele lo aspettavano. Lui seduto dietro la scrivania, lei in piedi al suo fianco.
Suo padre aveva profonde occhiaie e la faccia stanca. Gli sembrò terribilmente vecchio
-Siediti, Aaron-, disse Ezechiele stranamente pacato. Il ragazzo obbedì.
-Ti sei riposato?- Chiese sua madre.
Aaron Fece un cenno incerto con la testa.
-Hai mangiato?-, chiese ancora lei.
-Beh-, non sapeva se dirlo, -Damian mi ha… portato la colazione-.
Denna annuì, -bene-.
Ezechiele si schiarì la gola, -Ieri-, esordì, -eravamo tutti stanchi e poco lucidi. Ma adesso, a mente più fresca, desidero riprendere il discorso da dove l’avevamo interrotto, d’accordo?-
-Sì, signore-, disse Aaron deglutendo a vuoto.
-Bene-, disse Ezechiele, -dicevamo che hai un debito di cinquemila dollari con un delinquente che minaccia di farci del male se non gli restituisci i soldi. Dico bene?-
-Sì, signore-, sussurrò Aaron.
-Ovviamente-, disse Ezechiele, -capirai che non è nostra intenzione darti nemmeno un centesimo per pagare quel farabutto-.
-Oh, ma non ve lo avrei chiesto- si affrettò a precisare Aaron, -io troverò il modo di venirne fuori da solo, voi… -
-Non ho finito-, lo interruppe Ezechiele. Aaron si zittì.
-Ciò nonostante, dicevo, siamo pronti a darti tutto il nostro aiuto per venirne fuori. Certo è-, puntualizzò Ezechiele, -che se tu fossi venuto da noi prima, le cose non sarebbero degenerate fino a questo punto-.
-Sì, lo so. Sono stato un idiota-, disse Aaron, amareggiato.
-Su questo siamo tutti d’accordo-, commentò Denna.
-Allora-, proseguì Ezechiele, -adesso ti dico che cosa faremo: andremo a parlare con il caro Vin, e gli proporremo un accordo. Ti faremo ottenere un prestito dalla banca, per l’ammontare esatto della cifra che ti ha prestato e gliela restituirai. Non un centesimo di più. E tu ripagherai il debito alla banca, un po’ alla volta, con il tuo stipendio. Penso che in una ventina d’anni ce la dovresti fare-.
-Non voglio essere pessimista, ma Schneider non mi pare il tipo da accettare una cosa del genere-.
-Beh, sai figliolo, Schneider ha fatto i conti senza l’oste. Forse si è dimenticato che, per quanto io sia una persona pacifica, so anche tirare fuori gli artigli quando è necessario-.
-Non preoccuparti, Aaron-, intervenne Denna, -Vin Schneider è fondamentalmente un idiota-.
Aaron si sentì d’un tratto molto più leggero, eppure profondamente mortificato.
Perché desso le cose sembravano così semplici? E perché i suoi genitori lo trattavano con tanta premura? Avrebbe preferito che gli urlassero contro.
-Sinceramente, non credo di meritare il vostro aiuto. Penso che dovreste cacciarmi di casa a calci. Vi ho deluso, sono un pessimo figlio, io…-
-Oh, ti prego-, lo bloccò Denna, -queste chiacchiere sconclusionate mi fanno venire il mal di testa-.
Fece anche lei il giro della scrivania e si avvicinò al figlio e al marito. Aaron di trovò seduto in mezzo ai due.
-Ti sei comportato da stupido, è vero. Sei stato arrogante, avventato ed anche vigliacco. Però, io so che tipo di persona sei. Sei onesto, sincero, buono. Aver commesso uno sbaglio, anche se molto grosso, non cancella queste cose. L’importante è che tu abbia imparato da quel che è successo, e che la cosa non si verifichi ancora-.
-Puoi sterne certa-, esclamò Aaron.
-Ovviamente questo non significa che non ci saranno conseguenze, per il tuo comportamento-, aggiunse Denna, -quando questa faccenda sarà chiusa, io e te faremo una lunga, lunghissima chiacchierata. Ci siamo capiti?-
-Sì, signora-, ecco: quella era sua madre.
-Bene, adesso tu e tuo padre dovete andare. Sbrigatevi, o non riuscirete a tornare prima di sera-.
 
La giornata si era coperta lentamente di un velo grigio, tirava un vento sottile e fresco.
“Le belle giornate stanno finendo, l’autunno si avvicina”, pensò Aaron.
Padre e figlio cavalcavano in silenzio, lungo la strada maestra. Ezechiele cavalcava il suo roano,Burnt. Dalla fonda usurata appesa alla sella spiccava lucido il calcio del fucile Henry.
Dalla cintura di Aaron pendeva una vecchia colt peacemaker.
Aaron avrebbe voluto dire qualcosa. Qualsiasi cosa, pur di spezzare il silenzio. Solo che le parole restavano come incollate al palato.
Fu Ezechiele a parlare per primo.
-Sai come ho conosciuto tua madre, Aaron?- Chiese l’uomo, guardando davanti a sé.
-Cosa?- disse Aaron, colto alla sprovvista dalla domanda.
-Io e tua madre, lo sai come ci siamo conosciuti?- Ripeté Ezechiele.
-Beh, sì. Ce lo avete raccontato molte volte. Il nonno ti raccolse sulla pista, mentre erano in viaggio verso la frontiera. Eri stato pestato da qualche balordo, e la nonna e mamma si presero cura di te-.
Ezechiele annuì, -sì, esatto. Avevo più o meno l’età di Lobo, all’epoca. Ma ti ho mai raccontato perché ero stato pestato? Perché mi avevano lasciato mezzo morto sulla pista?-
Aaron ci pensò, -no, non credo che tu lo abbia mai detto-.
Ezechiele annui, -sono cresciuto senza genitori, lo sai. Fino a che la mia vita non si è intersecata con quella della famiglia Wolfgang, nessuno si era mai preoccupato di pormi qualche limite. Anzi, nessuno si era mai preoccupato di me, in generale-.
Aaron si fece attento, era una parte di storia della sua famiglia che non conosceva, ed era molto curioso.
-Guardando all’indietro nella mia giovinezza-, disse amaramente Ezechiele, -non c’è quasi nulla che salverei: scelte sbagliate, presone sbagliate, situazioni sbagliate. E, tra un bicchiere e una scazzottata, finii per cadere nella trappola del gioco d’azzardo-.
-Che cosa?- Esclamò Aaron
-Sì-, disse calmo Ezechiele, -hai capito bene. Avevo problemi con il gioco d’azzardo. Dadi, carte, combattimenti. Scommettevo su tutto. Ero malato. Perdevo soldi, lavoro, amici. Vagavo da una città all’altra, da un lavoro all’altro, senza radici, senza uno scopo-.
-Non ci credo, te lo stai inventando-.
-È la pura verità-, insisté Ezechiele. -Ho commesso molti errori, quando ero ragazzo. Alcuni davvero grossi-, guardò il figlio dritto negli occhi, -e li ho pagati cari. Quasi ci ho rimesso la vita. Quella volta avevo perso molti soldi, ed ero pieno di debiti. Pensai di rifarmi truccando una partita a dadi, ma non ero furbo come pensavo. Fui scoperto, e decisero di farmela pagare. Sarei morto, probabilmente, se tuo nonno non mi avesse raccolto sul ciglio di una strada. Lui e tua nonna furono la mia salvezza-.
Aaron rimase in silenzio, cercando di assimilare quelle notizie così sconcertanti.
-Si presero cura di me-, continuò Ezechiele, -non solo fisicamente. Mi aiutarono a dare una svolta alla mia vita. È grazie a loro che sono diventato l’uomo che vedi. Sono stato fortunato. A me piace pensare che mi sia stata concessa una seconda possibilità-.
-Perché mi stai raccontando questa storia-, chiese Aaron, -temi che possa diventare un malato di gioco? Beh, non preoccuparti di questo. Ho imparato la lezione. Non mi avvicinerò mai più ad un tavolo in tutta la mia vita. Te lo assicuro-.
-Non è così semplice, purtroppo-.
-Non mi credi?-.
-Oh, no. Penso che tu creda in quello che dici. Ma so cosa vuol dire avere quel tarlo, nella testa, che scava senza sosta, e ti fa fremere le mani e lo stomaco. Vuoi dirmi che non ci hai mai pensato, da quando hai giocato l’ultima volta? Non hai mai sentito il bisogno di farlo di nuovo?-
Aaron distolse gli occhi. In realtà sì… ci aveva pensato. Molte volte.
-Sono abbastanza forte da resistere. Tu ce l’hai fatta, no?-
-Sì, ce l’ho fatta. Ma non ho detto che sia stato semplice-.
-Che vuoi dire?-
-Innanzitutto ho dovuto volerlo… volerlo davvero. Ho dovuto ammettere di avere un problema, che avevo bisogno di aiuto. E poi, non ce l’avrei fatta da solo-.
-Mamma ti aiutò?-
-Sì, l’amore per lei mi aiutò tanto, fu lo stimolo di cui avevo bisogno. Ma diciamo che anche il nerbo di bue di tua nonna, fu un bell’incentivo-.
Aaron lo guardò, incredulo, -la nonna Bernadette?-
-Quella donna era dura come il granito-, annuì Ezechiele, -capì dal primo momento che ero un combina guai-.
-Non riesco ad immaginarti come un combina guai… e la nonna ti picchiava?- commentò Aaron, sempre incredulo.
-Eccome-, rispose Ezechiele, -me lo ricordo come se fosse ieri. Aveva quel nerbo di bue sempre appeso alla cintura, e lo usava dannatamente bene. Non ci mise molto a inculcarmi il concetto di Disziplin, come era solita dire-.
-Mi ricorda molto mamma-.
-Tua madre è uno zuccherino, al confronto. Credimi-, si interruppe per controllare che suo figlio lo stesse ascoltando, -appena mi rimisi in piedi, dopo essere stato tra la vita e la morte per settimane, la prima cosa che feci fu raggiungere un qualsiasi saloon e sedermi ad un tavolo. Mi giocai i pochi soldi che mi avevano dato per comprare chiodi e altra roba. Mi sentivo fortunato, ed infatti vinsi una sommetta discreta. Quando tornai alla carovana, offrii a Bernadette i soldi della vincita. Volevo sdebitarmi delle cure che mi avevano prestato. Ma tua nonna guardò il denaro come se fosse letame. “Dove l’hai preso?” mi chiese. “L’ho vinto”, risposi io, che non ci trovavo nulla di strano. Lei allora prese il denaro e lo gettò per terra, “questo denaro è maledetto”, mi disse, “Dio ti sta dando una seconda opportunità per redimerti. Non giocare più d’azzardo finché rimani con noi. O te ne pentirai”. Io, in effetti, avevo tutta l’intenzione di restare, perché tua madre con quegli occhi azzurri mi aveva già stregato. Tuttavia né le sue suppliche, né le minacce di Bernadette servirono a tenermi lontano dalle carte. Passarono pochi giorni che mi ritrovai di nuovo nello stesso saloon. Stavolta però la fortuna non fu dalla mia parte, e persi. Tornai alla carovana senza soldi e senza la merce che avrei dovuto comprare. Tua nonna mi vide tornare a mani vuote, e comprese subito cosa era successo. Non ho mai capito come quella donna così minuta possedesse una tale forza bruta. Comunque, mi ricordo solo che nel tempo di un secondo mi ritrovai in ginocchio, con il braccio piegato dietro la schiena e le nerbate che piovevano come fulmini. Ti risparmio i particolari, ti basti sapere che ho viaggiato sdraiato nel carro per una settimana, prima di poter camminare di nuovo-.
-Accidenti… e io che la ricordavo come una dolce vecchina. E dopo di quello hai smesso?-
-No. Come ti ho detto è stato fondamentale che io ammettessi di avere un problema. C’è voluto tempo, e pazienza-. Ezechiele si sporse dal cavallo e posò una mano sulla spalla di Aaron, -figliolo, credimi, io mi fido di te. E so che sei armato delle migliori intenzioni. Voglio solo dirti che, se dovessi sentire di nuovo quel tarlo, quel prurito alle mani… vieni da me. Parlarne è un’ottima medicina. Ed è sicuramente più indolore del nerbo-.
-Grazie papà. Ti prometto che lo farò-.
-Bene. Adesso andiamo a prendere a calci nel culo Vin Schneider-.

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Capitolo 14
*** Parte X ***


Denna rimase sul portico mentre figlio e marito si allontanavano lungo la strada.
Attese fin quando la polvere sollevata dai cavalli non si posò di nuovo, poi tornò dentro e si guardò attorno: c’era un mucchio di panni sporchi che la occhieggiava da un cesto nell’angolo della cucina, ma questo le ricordò che il sapone era quasi finito. Poi c’erano le stanze da letto da pulire ed il pranzo da preparare.
I ragazzi erano tutti in giro per controllare il bestiame, o a riparare recinzioni, assieme ai braccianti e agli altri cowboy, Tim era a scuola. Non era rimasto nessuno in casa, e nessuno sarebbe rientrato prima dell’ora di pranzo. Denna tirò fuori dal grembiule un blocchetto di carta e una matita usurata corta a malapena quanto due falangi, con i quali si mise a fare un rapido calcolo di quel che gli serviva per il pranzo: farina, patate, latte, uova, piselli, c’era ancora un bel pezzo di formaggio in dispensa da consumare. “Ma prima il sapone”, pensò, e andò nel magazzino.
Prese due sacchi, uno contenente della cenere setacciata e l’altro calce, e li portò in cucina, tirò fuori da un pensile un recipiente di terracotta piuttosto capiente e vi rovesciò l’intero contenuto dei due sacchi.
Fare il sapone era un’arte che aveva appreso dalla madre e, anche se sarebbe stato più semplice andare a comprarlo all’emporio, Denna preferiva continuare a produrlo lei stessa.
Mescolò energicamente calce e cenere, aggiungendo acqua fin quando il composto fu ben amalgamato. A quel punto prese un altro recipiente e lo mise sul fuoco, badando di non farlo avvampare troppo, e vi versò dentro le giuste quantità di olio di semi di lino, olio di semi di cotone e strutto. Quando i grassi furono caldi, senza andare in ebollizione, versò dentro a piccole quantità la lisciva di cenere e calce. Si rese conto di averne fatta più di quanta gliene servisse, e ne lasciò tre dita nel recipiente di terracotta.
Un profumo intenso cominciò a spandersi per la casa. Mescolò con energia oli e lisciva, fin quando il composto fu abbastanza denso ed aggiunse aroma di lavanda e di menta. Poi spense il fuoco e lasciò il recipiente a raffreddarsi.
Si allontanò dal focolare e si terse la fronte con un panno bianco, aveva sudato molto e sentiva le guance in fiamme. Uscì dalla cucina, si sedette sul portico, lasciando che una leggerissima brezza le sfiorasse i capelli umidi. C’era un gran silenzio tutt’intorno.
Le alte montagne verdi, in lontananza, tenevano insieme banchi di nubi grigie, tra le dita delle cime. Poche settimane ancora e ci sarebbero state le prime nevicate.
 “Si deve rinforzare il tetto del fienile, e bisogna riempire per bene la dispensa, prima che arrivi il freddo”. La fattoria, durante l’inverno, sarebbe potuta rimanere isolata per diversi giorni ed era indispensabile essere autonomi.
“Meglio che vada a prendere le uova, o non farò in tempo”, si alzò dalla sedia e si sistemò la gonna, rimettendo in tasca il quaderno e la matita.
Scese i gradini del porticato e fece il giro attorno alla casa, il pollaio era addossato al fienile che sorgeva alle spalle della casa padronale, ed ospitava una trentina di grosse galline rossicce, una decina di esemplari più piccoli dalle piume bianche ed un galletto dal temperamento a dir poco irascibile.
Era arrivata a metà del cortile quando capì che qualcosa non andava.
Di solito le galline la sentivano da lontano e cominciavano a chiocciare presagendo l’arrivo del cibo, eppure continuava ad esserci dovunque un silenzio innaturale.
Forse qualcosa le aveva spaventate, ma cosa? Damian aveva portato con sé i suoi tre cani ed in pieno giorno non poteva trattarsi di qualche volpe o faina. Forse un uccello rapace?
Si avvicinò ulteriormente al pollaio e guardò all’interno della rete. Non sembrava esserci nulla di strano, ma di galline nessuna traccia. Fece scorrere il chiavistello ed entrò guardandosi intorno: non si vedeva nemmeno un volatile. Fece per raggiungere il casotto, e controllare che almeno fossero tutte al sicuro all’interno, ma sentì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto.
Sentì solo il dolore rimbombante e sordo alla testa e poi il sapore della terra.
Una risata compiaciuta.
Gli occhi erano appannati e umidi, non le permisero di distinguere che vaghe ombre e forme in movimento.
-Legatela, imbavagliatela e portatela in casa-, disse una voce nasale e soddisfatta.

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Capitolo 15
*** Parte XI ***



L’insegna del Gatto nel Sacco era appesa su ganci di bronzo corroso.
Il locale si apriva su un vicolo secondario, perpendicolare al corso principale della cittadina, la porta era di legno era malridotta, scrostata e imbrattata di scritte volgari e incisioni. Il peggior locale di tutta la città. Una lurida bettola in cui erano soliti vegetare i perdigiorno, gli ubriaconi e i farabutti di tutta Roundup.
Ezechiele prese il fucile dalla fonda nella sella, e controllò che il meccanismo di sparo fosse libero e ben oliato.
-Pensi che dovremo sparare?- Chiese Aaron, controllando che la sua colt fosse carica.
-No, non credo, ma non si può mai sapere-, rispose Ezechiele.
-Lì dentro sarà pieno dei suoi scagnozzi-, osservò Aaron, riponendo la pistola nella fondina.
-Lo so-, disse Ezechiele con calma, -ma siamo in pieno giorno. Non credo che oserà aggredirci quando tutti possono sentire. E poi, ci siamo fatti vedere da un bel po’ di gente mentre venivamo qui. Non ultimo lo sceriffo-, mise una mano sulla spalla del figlio e lo precedette nel locale.
L’interno non era molto meglio della facciata: il pavimento era una prateria di sputi di tabacco, cartacce e mozziconi di sigari e sigarette, i tavoli dovevano avere almeno vent’anni… ed era improbabile che in tutto quel tempo fossero mai stati puliti. L’aria era densa di fumo e odore di alcol rancido.
-Un bel posticino davvero-, commentò Aaron –adesso capisco perché non è famoso per essere un locale per famiglie-.
Si avvicinarono al bancone, facendosi largo tra un paio di tipacci sbronzi e puzzolenti accompagnati da altrettante prostitute rugose e imbellettate. Una di queste fece l’occhiolino ad Aaron… con l’unico occhio che aveva.
-Cerchiamo Schneider-, disse Ez al barman, l’uomo lo guardò senza rispondere.
-Ehi, amico ci senti?- ripeté Aaron, ma non ottenne altro che un’alzata di spalle.
-Mr. Schneider non c’è. È fuori per affari-, disse qualcuno alle loro spalle.
Si voltarono entrambi e si trovarono davanti un ometto alto a stento un metro e mezzo, vestito con una camicia di seta azzurra e un panciotto di tessuto damascato.
-Lei è?- Chiese Ez, piegando il collo per parlare con il suo interlocutore.
L’ometto fece un cenno con la mano al barman ed agli altri avventori, i quali si allontanarono, lasciandoli isolati e liberi di parlare, -Adrian Smith- si presentò poi, -socio di Mr. Schneider, e lei dev’essere Mr. Mounties-.
-Ci conosciamo?- Chiese Ezechiele osservando chei baffi e il pizzetto appuntito dell’uomo erano di un colore tendente al rossiccio, mentre il cranio era lucido, completamente pelato.
-No, ma ho sentito parlare di lei molte volte da Vincent. Sa, il mio socio è un vero nostalgico, e non fa che parlare di episodi della sua giovinezza-.
-Ma davvero?- commentò Ez indeciso tra sospetto e sarcasmo.
-Può giurarci-, continuò Adrian Smith estraendo dal taschino un sigaro che tra le sue manine affusolate sembrava la canna di un fucile, -e sapesse con quale affetto parla di lei e di sua moglie. Dice sempre che siete stati come genitori adottivi per lui, e che non vede l’ora di potervi ripagare di tutto il bene che gli avete fatto-, l’ometto troncò di netto l’estremità del sigaro con una piccola ghigliottina.
Ezechiele cominciò ad avvertire un certo disagio.
-In ogni caso-, l’ometto si produsse in un sorriso che lo fece assomigliare ad una faina mentre si metteva il sigaro tra i denti, -come posso esservi utile? Siete venuti in semplice visita di cortesia oppure avete qualche affare in sospeso?-
Uno sbuffo di fumo oleoso costrinse Aaron a chiudere gli occhi, e a girarsi per tossire.
Ezechiele, invece, continuò a fissare l’ometto che gli arrivava alla cintola.
-Abbiamo un affare in sospeso con Schneider, sa dirci dove possiamo trovarlo?-
L’ometto tirò un’altra pestilenziale boccata di sigaro e si leccò le labbra con una lingua piccola e rosa, prima di rispondere, -il mio caro socio è attualmente occupato nell’attività di recupero crediti. Attività che, oserei dire, gli procura fin troppo piacere. Non sono sicuro della sua attuale ubicazione, e non credo che rientrerà a breve. Se volete aspettare, posso offrirvi qualcosa da bere. Dalla mia scorta personale ovviamente, non la robaccia che serviamo ai balordi di questa bettola-.
-Ha ben poca considerazione per il suo stesso locale-, commentò Ezechiele.
-Considerazione? Sì, forse ha ragione: non ne ho molta. Ma sa, per tirare avanti ci si deve pur accontentare a volte-, sorrise e tirò un’altra boccata di sigaro.
Ezechiele ne aveva abbastanza. Quel posto gli dava la nausea, quell’uomo gli dava la nausea. Se Schneider non c’era la loro presenza lì era assolutamente inutile, -la ringrazio del tempo che ci ha dedicato Mr. Smith, ma io e mio figlio dobbiamo andare, adesso. Torneremo in un altro momento-, non fece alcun cenno di porgere la mano a Smith il quale lo guardò come se stesse pensando a qualcosa di divertente.
-Sì, certo. Sono ansioso di ricevere la vostra prossima visita. E magari porterà con sé la sua bellissima moglie di cui si sente tanto parlare in città. Buona giornata Mr. Mounties- detto questo girò sui tacchi e se ne andò.
Aaron prese fiato per dire qualcosa ma suo padre lo bloccò, -usciamo da qui- disse, e con un paio di rapide falcate di avviò verso l’uscita.
Furono aggrediti dai raggi del sole che, benché leggermente velato dalle nuvole, si stagliava alto nel cielo. L’aria pulita fu un sollievo dopo il fetore stagnante del locale.
-Torniamo a casa-, disse Ez con una strana urgenza nella voce.
-Pa’ che succede?- Chiese Aaron preoccupato da quella improvvisa premura.
-Non lo so. Veramente non lo so. So solo che voglio tornare a casa subito-, rispose l’uomo e montò in sella sistemando il fucile nella fonda della sella.
-È per qualcosa che ha detto quello strano piccoletto?- chiese ancora Aaron, montando a sua volta in sella, -mi è sembrato che cercasse di insinuare qualcosa, ma non ho capito cosa. Ma chi diavolo era?-
-Chiunque fosse, temo che dovremo ancora averci a che fare. Adesso andiamo-.
Aaron rimase un istante perplesso, di fronte alla premura del padre e lo guardò mentre dava di sprone al cavallo per metterlo al trotto. Schioccò la lingua e diede i talloni al suo pezzato spingendolo ad affiancare il cavallo di suo padre.
-Pa’, ma cosa ti prende? Sembra quasi che tu sia spaventato da qualcosa-.
Ezechiele non rispose, ma guardò il sole, -siamo via da due ore circa, e ce ne metteremo almeno una per tornare a casa, anche galoppando tutto il tempo-.
-Sì-, disse Aaron, concordando con la stima del padre, -ma perché ti preoccupi di quanto tempo impiegheremo a tornare?-
Ezechiele guardò suo figlio, -perché tua madre è sola in casa, non c’è nessuno con lei. Ed io ho una orribile sensazione-, senza aggiungere altro spinse il cavallo al galoppo e Aaron gli fu dietro.

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Capitolo 16
*** Parte XII ***


Il bavaglio le segava gli angoli della bocca ed i legacci ai polsi le avevano bloccato la circolazione, sentiva le mani fredde, gonfie e pulsanti. Una sottile striscia di sangue partiva dal sopracciglio sinistro e le rigava la guancia fino la mento, la tempia le doleva.
I suoi occhi, però, erano vigili e fissavano i tre uomini presenti nella stanza come se pensasse di poterli uccidere soltanto con lo sguardo.
Vin Shneider era seduto dall’altro lato della cucina, faceva dondolare la sedia su cui era seduto, e aveva piantato gli stivali sporchi sul tavolo di lucido legno. L’uomo guardava Denna con un ghigno beffardo stampato sulla faccia segnata da un’acne giovanile particolarmente violenta.
Gli altri due uomini erano in piedi vicino all’ingresso della cucina, uno guardava fuori dalla porta-finestra controllando la strada, l’altro era impegnato in un’accurata esplorazione delle proprie narici, il cui contenuto spalmava poi coscienziosamente sul pantalone lurido.
-Stai aspettando che il tuo caro maritino torni a salvarti, non è vero?- Esordì Shneider, dopo un lungo silenzio, -ma lui non verrà. Ci sta pensato un mio amico a trattenerlo, insieme a quell’idiota di tuo figlio. Ho tutto il tempo che mi serve…-, si interruppe, lasciando cadere i piedi per terra con un tonfo. Estrasse dalla cintura un coltello da caccia usurato e arrugginito, -…per prendere da te tutto il divertimento che voglio-, disse alzandosi e piantando la punta del coltello sul ripiano del tavolo.
Denna continuava a fissarlo dalla sedia su cui era stata legata, una goccia di sangue le era colata nell’occhio, ma lei non sembrava essersene accorta. Schneider sorrise ancora di più e le si avvicinò attraversando la stanza. Si piegò su di lei e le afferrò il mento tra le mani viscide e fredde di sudore –ho un conto in sospeso con te Mrs. Mounties-, le disse alitandole in faccia, mentre con il coltello recideva il bavaglio di stoffa e lo estraeva dalla bocca di Denna, -io non dimentico, sai? Non ho mai dimenticato il modo in cui mi avete trattato, in cui tu mi hai trattato: picchiato e scacciato a calci come un cane randagio-, rimase in silenzio, forse aspettando una replica dalla donna, ma visto che lei rimaneva in silenzio continuò -ed ora, dopo tanti anni di attesa, ho finalmente la possibilità di fartela pagare. Vedi quei miei amici? Sono venuti qui per aiutarmi. So che sei una donna combattiva, e io non ho intenzione di fare troppa fatica, quindi loro ti terranno ben ferma mentre ficcherò il mio uccello nella tua passera rinsecchita. Oppure chissà, magari non è ancora tanto rinsecchita… forse potrei addirittura sperare di metterti incinta, vecchia baldracca. Che cosa ne pensi? Credi che al caro Ez piacerebbe un altro marmocchio?- Mentre parlava aveva cominciato a far scorrere la lama del coltello sulle guance di Denna, la quale continuava a rimanere in silenzio.
Schneider cominciò a trovare quell’atteggiamento irritante. La donna non aveva mosso un muscolo, non dava alcun segno di essere spaventata o intimorita. Se ne restava lì, zitta, senza battere ciglio.
Pensava forse che lui stesse bluffando? Che non avrebbe semplicemente potuto possederla come una cagna qualsiasi? Beh, si sbagliava di grosso. Cominciò ad armeggiare con il cinturone, -Mike, Luke, tenetemela ferma. Voglio dare alla signora, qui, un bell’assaggio della mia…-
-Vin, c’è qualcuno che arriva dalla strada-, lo interruppe Mike, sporgendosi dalla porta per vedere meglio.
-Ma che dici? È impossibile…-
-Come ti pare, ma c’è della polvere. Un cavallo solo, credo-
-Luke, tienila d’occhio, non ho finito con lei-, disse Schneider, e raggiunse Mike alla finestra. Una leggera nube di polvere si alzava dalla strada, non c’era alcun dubbio: qualcuno stava arrivando a guastare i piani di Schneider… 

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Capitolo 17
*** XIII ***


Gli zoccoli del cavallo schioccavano piccoli e regolari sul terreno levigato dal passaggio di carri e bestiame. Una leggera patina di polvere ricopriva le scarpe del cavaliere e i fianchi pezzati dell’animale. Percorrevano la strada al passo, senza fretta, e Timothy respirava a pieni polmoni l’aria di quell’inaspettato giorno di libertà.
Non capita tutti i giorni che la maestra si ammali e si possa saltare la scuola. Non vedeva l’ora di arrivare a casa, per poter prendere la nuova canna da pesca che gli aveva regalato Damian e correre al lago. Sperò che la signora Denna non avesse nulla in contrario, e che gli desse il permesso.
Le avrebbe promesso di tornare prima del tramonto e di aiutarla a preparare la cena. Lei gli avrebbe preparato un cestino con dei tramezzini e gli avrebbe dato un bacio, poi gli avrebbe raccomandato di stare attendo e di non sporgersi oltre la riva. L’acqua è fredda nel lago, ma Tim sapeva che non doveva essere imprudente.
Il cortile del Ranch era deserto, il bambino smontò rapidamente da cavallo e con i libri sotto braccio si fiondò nella cucina.
Qualcosa lo afferrò da dietro brutalmente, strappandogli un gridolino, ma una mano sudata gli venne premuta con forza sulla bocca.
-Tim, no!- La voce della Signora Denna era tremendamente spaventata.
Provò a divincolarsi ma due grosse braccia lo tenevano ben stretto, i libri caddero sul pavimento con un tonfo. Di fronte a lui c’era un uomo bruttissimo, con la pelle piena di buchi. Sorrideva e aveva i denti macchiati di giallo.
Dietro l’uomo brutto la Signora Denna si agitava, legata ad una sedia. Ma cosa stava succedendo?
-Schneider, lascialo! Lascialo andare, ti prego. Farò tutto quello che vuoi, ma lascia andare il bambino-.
L’uomo brutto si girò verso la Signora Denna, -ma bene-, disse, –allora la donna di ferro può essere piegata… se avessi saputo che era così facile ci avrei pensato subito-.
Schneider tornò ad avvicinarsi alla donna e girò attorno alla sedia, posizionandosi alle sue spalle, prese la testa di Denna tra le mani e si piegò per sussurrarle qualcosa all’orecchio. Lei sgranò gli occhi azzurri e contrasse la mascella, fu percorsa sa un brivido. Poi annuì.
Schneider scoppiò in una risata sguaiata gettando la testa all’indietro. Si sollevò di nuovo cominciò a slacciare le corde che tenevano Denna legata.
-Mike, noi adesso andiamo nella stanza accanto-, disse mentre prendeva Denna per un braccio e la faceva alzare, -e se non la senti gemere come una brava puttana… spara al ragazzino-.

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Capitolo 18
*** Parte XV ***


-Denna!- chiamò Ez atterrando letteralmente nel cortile del Ranch con un balzo dalla sella e si fiondò verso il portico, -Denna, dove sei? Devon, Damian, siete in casa?-
Non rispose nessuno.
Aaron, varcò il cancello in groppa al suo cavallo. Il padre lo aveva quasi seminato galoppando lungo la strada polverosa.
-Denna, Lobo, ragazzi! C’è qualcuno?-
Ancora nessuna risposta.
Ez entrò in casa spalancando la porta principale. Il salone d’ingresso era vuoto, tutto taceva. Si precipitò nella sala da pranzo e poi dello studio. Nulla. L’uomo allora si diresse in cucina e si paralizzò sull’ingresso.
Aaron, che gli era dietro, quasi sbatté sulla schiena del padre.
-Che succede, pa’?-
Ez non rispose e il ragazzo allungò il collo oltre le sue spalle.
La cucina era sotto sopra, le sedie rovesciate e un pentolone di lisciva gocciolava il proprio contenuto sul pavimento.
-Ma che diavolo è successo qua dentro?- chiese Aaron, più a sé stesso che al padre.
Ez non rispose alla domanda, ma rimase zitto alcuni istanti, -lo senti questo rumore?-
-Cosa? Che rumore?-
-Fa un giro in casa-, disse Ez, -controlla le stanze al piano di sopra. Ma sta attento, prendi la pistola-.
Aaron annuì, estrasse la colt dalla fondina e si diresse verso le scale sparendo nel corridoio.
Ezechiele rimase qualche altro attimo sull’uscio della cucina. Non osava staccare le mani dagli stipiti della porta. Non sapeva se le gambe lo avrebbero retto. Udì di nuovo quello strano rumore, proveniva dal cortile sul retro. Si rese conto di aver lasciato il fucile nella sella e fu tentato di andare a prenderlo, ma l’ansia si sapere lo stava divorando.
Attraversò la cucina e uscì dalla porta posteriore, una volta nel cortile si accorse subito che il pollaio era aperto, le galline razzolavano ovunque, chiocciando placidamente.
Ezechiele si fermò ad ascoltare. Il rumore proveniva dal fienile. Inspirò profondamente e raggiunse le porta di legno segnato dal tempo, afferrò la maniglia e fece scricchiolare i cardini di metallo.
Per la seconda volta in pochi minuti quello che vide lo lasciò immobile come una statua di sale.
Lo sconcerto fu seguito immediatamente da un tale sollievo che le ginocchia gli cedettero e rimase in ginocchio a contemplare la scena che si stava consumando davanti ai suoi occhi.
Denna, in piedi, con una benda insanguinata sulla fronte brandiva una frusta improvvisata, fatta di corda srotolata. Disteso ai suoi piedi c’era un uomo nudo, sanguinante. Una corda legata attorno ai suoi polsi lo obbligava con le braccia distese sopra la testa, mentre un’altra corda lo tirava per le caviglie, dal lato opposto.
La schiena, le natiche e le cosce dell’uomo erano un reticolo di segni rossi. Sangue colava da molte ferite profonde.
Schneider aveva la faccia premuta contro il pavimento del fienile e non reagiva mentre Denna con cadenza ritmica imprimeva colpi su colpi sul corpo inerme. La corda che mordeva le carni era rossa di sangue.
La parte razionale di Ezechiele riuscì a riprendere il sopravvento e l’uomo trovò la forza di rimettersi in piedi.
Raggiunse la moglie e le afferrò il braccio che stava per calare l’ennesima frustata.
-Denna-, disse piano.
La donna si voltò di scatto verso il marito, la faccia bianca come farina e un livido violaceo sull’occhio, che faceva capolino da sotto la benda. I lunghi capelli biondi erano completamente sciolti, spettinati e coperti di polvere.
Il braccio di Denna si abbassò lentamente e Ez la cinse tra le braccia. Lei rimase rigida dapprima, poi si arrese all’abbraccio del marito, tanto che lui dovette sostenerla.
Improvvisamente si rese conto che tremava. Sua moglie stava tremando. Volse lo sguardo verso il corpo martoriato dell’uomo e l’unica cosa che provò fu un odio profondo.
Qualunque cosa le avesse fatto, per ridurla in quello stato di shock, la punizione ricevuta non era nemmeno lontanamente sufficiente.
Ez non disse nulla, aspettando che lei si riprendesse. Dovettero passare alcuni minuti prima che il tremore cessasse e la donna fosse in grado di articolare delle parole.
Alla fine si staccò dall’abbraccio del marito, riprendendo il controllo di sé stessa e si ravviò i capelli, gettando per terra la corda insanguinata. Ezechiele si abbassò a tastare la gola di Schneider, e tenne il dito premuto fin quando non fu sicura di sentire il cuore battere.
- È vivo-, concluse, -anche se la cosa mi stupisce. Ci sei andata giù pesante-.
Denna contemplò il corpo disteso, -è venuto con due scagnozzi-, esordì, -mi hanno legato e il bastardo ha provato a mettermi paura. Voleva che lo implorassi di avere pietà di me, credo. Non gli avrei dato soddisfazione, ovviamente, se non fosse arrivato Timothy. A quel punto ho dovuto cedere. Ha minacciato di fargli del male! E gli avrei dato tutto quello che voleva pur di metterlo in salvo. Mi ha portato di sopra, in camera nostra. Voleva violentarmi sul nostro stesso letto. Mi ha ordinato di spogliarmi e di sdraiarmi, voleva che…-
La voce gli mancò e Ez le si accostò di nuovo, ma lei gli fece cenno di farla continuare.
-Si è slacciato i pantaloni, è salito sul letto…- Ezechiele si sentì mancare -…quando la porta si è aperta di botto. I suoi stessi scagnozzi lo hanno atterrato con un paio di pugni e lo hanno riportato di sotto. Io mi sono rivestita e sono corsa giù, sperando che Tim stesse bene. Allora li ho trovati lì, nella cucina. I due tipacci avevano legato Schneider e mi aspettavano. “Nessuno di noi due vuole grane, Signora”, mi hanno detto, “e anche se non siamo tipi da chiesa non ci piace che si facciano certe cose alle donne”. Così gli ho detto che se non volevano che li denunciassi all’ufficio dello sceriffo dovevano lasciare Schneider alla mia custodia. Non erano molto contenti e hanno blaterato qualcosa a proposito di un certo Smith. Poi però me lo hanno lasciato-.
Una smorfia di rabbia e disgusto le distorse i bei lineamenti.
-Adesso lo capisco. Ce l’aveva con me, per tutto questo tempo. Per tutti questi anni non ha voluto altro che vendicarsi di me, e io questo lo avrei anche potuto perdonare. Mi pento di averlo umiliato tanto in quell’occasione, davanti a tutti, anche se se lo meritava. Ma non posso perdonare che abbia tentato di fare male ai miei bambini. Ha minacciato Tim, capisci? Un bambino! E anche tutto quel che ha fatto a Aaron, lo ha fatto per ferire me-.
Ezechiele annuì, -Come sta il piccolo?-
-Gli ho dato un infuso di passiflora e l’ho messo a dormire. Era shoccato, ma non gli hanno fatto del male-.
Ez si chinò a slegare le corde che legavano i polsi e le caviglie di Schneider.
-Credo abbia bisogno del medico, è ridotto male. E per quanto abbiamo ogni ragione di odiarlo, non credo tu voglia avere la sua vita sulla coscienza-.
Denna scosse il capo, –non voglio più vederlo in tutta la mia vita, questo viscido bastardo. Fallo sparire dalla mia vista-.
 
 
****
 
Aaron salì le scale cautamente, tentando di non far rumore con la suola dura degli stivali sui gradini di legno.
Si affacciò lentamente al piano superiore, scrutando il corridoio immerso nella penombra.
Le porte delle stanze erano tutte chiuse e non c’era alcun segno della presenza di estranei.
Il ragazzo salì gli ultimi scalini e percorse il corridoio, fermandosi ad ogni stanza aprendo la porta e controllando l’interno. Tutto era in ordine.
Arrivato all’ultima stanza, quella di Aril e Lobo, si accorse che uno dei letti era occupato. Ripose la pistola, si avvicinò e vide il piccolo Tim adagiato sotto le coperte, come un fagottino di stoffa. Che stesse male? Era insolito che dormisse, a quell’ora. Comunque non voleva svegliarlo, quindi fece dietro front e mosse alcuni passi verso la porta. La penombra della stanza, tuttavia, gli nascose alla vista alcuni cubi di legno con cui il bambino aveva costruito un fortino. I cubi rotolarono al suolo facendo un gran fracasso e Tim si svegliò di soprassalto, guardandosi attorno con gli occhi spalancati e dilatati come una civetta.
-Chi è?- chiese con voce sottile.
-Tranquillo Timmy-, rispose Aaron a bassa voce, -sono Aaron. Ero solo venuto a vedere come stavi. Adesso me ne vado, torna a dormire-, ma il bambino scese dal letto e lo guardò con gli occhi ancora sbarrati.
-Come sta la Signora Denna? Quegli uomini sono andati via?-
Aaron si allarmò a quella domanda, -uomini, che uomini? Che è successo Tim, dimmelo!-
Si accorse che il suo impeto aveva spaventato il bambino, già scosso, ma non aveva importanza. Doveva sapere.
-C’erano degli uomini, erano in casa e avevano legato la Signora Denna. Poi mi hanno preso e lei è andata di sopra con uno di loro. Era il più brutto di tutti, e aveva il coltello, e allora gli altri due…-
Aaron dovette sedersi, appoggiandosi al bordo del letto, gli mancava il respiro.
Gli scagnozzi di Schneider, non c’era dubbio. Erano arrivati fin qui. Fino a questo punto, pur di fargliela pagare. Avevano minacciato sua madre, nella sua stessa casa.
“E tutto questo è solo colpa mia”.
-…e allora la Signora Denna mi ha dato da bere una cosa dolce, e poi mi ha messo a letto. Ha detto che andava tutto bene, e che gli uomini se ne erano andati, ma io ho sognato che c’erano ancora. È vero, Aaron? È vero che sono andati via?-
Aaron lo guardò con occhi tristi, -sì, sono andati via, piccolo. Non ti preoccupare-. Si alzò e accarezzò la testa del bambino, -che ne dici di rimetterti a letto ancora un po’?-
-No, ti prego!- implorò Tim, -non voglio stare solo-.
Aaron non seppe come dirgli di no, e lo portò giù in cucina. C’era ancora un gran disordine, quindi sollevarono insieme le sedie e Aaron pulì la lisciva che era caduta per terra, lo sguardo si Tim era meno agitato, ma comunque non ancora tranquillo, e Aaron se ne accorse, -chissà dove sono mamma e papà-, disse con tono fintamente leggero, -forse sono in cortile, è meglio che li chiami-. Il ragazzo di affacciò alla porta posteriore e vide sua madre in quel momento uscire dalla stalla.
Aveva una benda sulla fronte e la faccia più pallida di quando aveva avuto la polmonite, tre anni prima. In effetti sembrava sconvolta e il senso di colpa azzannò le viscere di Aaron come un animale vorace. “Colpa mia”, si disse ancora, e non riuscì ad alzare lo sguardo quando Denna gli fu davanti.
-Tesoro-, gli disse la donna, -sono contenta di vedere che stai bene. Tuo padre sta sistemando un mucchio di letame nella stalla. Sarà qui tra poco-, posò una carezza sulla guancia del figlio, il quale si ritrasse leggermente.
Denna non insistette e rivolse le sue attenzioni al bambino, -Tim, tu sei già sveglio?-
-Sì, Aaron era venuto nella mia stanza e mi sono svegliato. Ha detto che è tutto a posto, e che siamo al sicuro-.
La donna si avvicinò al bambino e lo strinse contro il ventre, -ti ha detto la verità, tesoro. Non c’è più alcun pericolo, adesso-.
Aaron, avvertì quelle parole come pugnalate, l’aria nella cucina si fece pesante più del piombo, distogliendo lo sguardo e uscì all’aperto di corsa.
Incrociò Ez che usciva dalla stalla, conducendo un mulo su cui era gettato un grosso bagaglio, era coperto da un telo marrone.
-Che roba è?- chiese Aaron, perplesso.
-Uno che se l’è presa con la donna sbagliata-, rispose serafico Ezechiele, -e che è fortunato ad essere ancora vivo, secondo me-.
Aaron aggrottò la fronte, -che cosa vuoi dire?- si avvicinò alla soma del mulo e sollevò il telo, -Oh, mio Dio!- esclamò sconcertato, -ma è…-
-Vin Schneider-, concluse Ezechiele.
-Ed è stata la mamma a ridurlo così?-
-Te l’ho detto che se l’è presa con la donna sbagliata, ma è un miracolo che questa faccenda non si sia risolta in maniera ben peggiore-, e gli raccontò la versione integrale dei fatti.
L’umore di Aaron scese ancor di più nel baratro della depressione, e il senso di colpa addentò voracemente altri bocconi del suo stomaco.
-Che cose ne farai di lui?- chiese il ragazzo.
-Lo porterò dal dottor McCoy, e poi andrò ad avvertire lo sceriffo. Se siamo fortunati se ne andrà a passare l’inverno in qualche prigione federale. E sono pronto a scommettere che non sarà più così ansioso di riscuotere il suo credito nei tuoi confronti. È finita, ragazzo, è finita-.
L’uomo batté alcune pacche rassicuranti sulla schiena del figlio, tirò le briglie del mulo e si diresse verso il cortile principale.

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Capitolo 19
*** Parte XIV ***


La porta si chiuse lentamente e i due scagnozzi rimasero da soli.
Mike stringeva ancora il corpicino di Tim tra le braccia pelose, una mano premuta contro la sua faccia.
Il bambino tremava e faceva saettare gli occhi da un lato all’altro della stanza, cercando disperatamente un aiuto che non c’era. Cominciò a piangere silenziosamente, il respiro che affannava.
Mike se ne accorse e allentò la presa. Guardò Luke.
-Non si era mai parlato di sparare a un ragazzino, mi pare-, disse.
Luke convenne con un cenno del capo, -e nemmeno di stuprare la donna-, aggiunse, -dovevamo solo metterle paura, così il quel bastardo poteva prendersi questa famosa vendetta, ma di cose così non s’era mai parlato-.
Mike guardò fuori. Il sole ormai aveva da tempo oltrepassato lo zenit.
-Non mi piace, Mike, -continuò Luke, -qua va a finire male. Io non ne voglio di grane con lo Sceriffo-.
-Nemmeno io-, disse Mike, -e poi non mi piace quando ci vanno di mezzo donne e bambini-, lasciò andare Tim, che rimase una attimo immobile, prima di correre a nascondersi sotto il tavolo.
-Senti- disse Mike -Mr. Smith ci ha detto che dovevamo evitare i guai, e qui mi pare che di guai Vincent se ne stia per tirare addosso un bel po’. Oltretutto ci stiamo impiegando più tempo del previsto. E se torna qualcuno?-
Luke un cenno con la testa, -non mi piacerebbe ritrovarmi con tutti i ragazzi Mounties che mi sparano nei garretti del cavallo o peggio, nella schiena-.
-Nemmeno a me-, concluse Mike.
I due si guardarono in silenzio, poi Mike guardò la porta oltre la quale Schneider era scomparso, -beh, penso che siamo d’accordo-, disse, -mettiamo fine a questa stronzata-.
L’uomo si attraversò la stanza e aprì di scatto la porta. Il corridoio era vuoto e non si avvertivano rumori.
-E dove cazzo sono andati adesso? Ehi, ragazzino, come ti chiami?-
Tim si nascose ancor di più, sperando si sparire dietro una delle gambe del tavolo. Tremava come in preda alla febbre, e le lacrime gli avevano inzuppato la faccia e il collo. La polvere gli si era incrostata sulle guance. Gli occhi erano spalancati, come quelli di un piccolo animale preso in una tagliola.
Luke si abbassò sotto il tavolo, aveva lunghi capelli unti e una cicatrice sul labbro superiore che lo faceva sembrare perennemente disgustato. Tim si ritrovò la faccia dell’uomo proprio davanti alla sua e strillò, cominciando a singhiozzare. Al piano di sopra si sentì un tramestio e mobili che venivano spostati.
Mike sorrise, -beccato. Muoviamoci Luke, prima che succeda l’irreparabile. Lascia perdere il bambino-.
Luke si sollevò e seguì il compagno oltre la porta.
Tim, tra i singhiozzi, udì il rumore dei pesanti stivali da cavallo che pestavano sulle scale. Poi passi di corsa al piano superiore e voci arrabbiate.
Proprio sopra la cucina una gran confusione di tonfi, stridii e grida. Un tonfo più grande degli altri e poi silenzio.

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Capitolo 20
*** Parte XVI ***


-Ragazzi, è pronto a tavola!- gridò Ezechiele.
L’uomo rientrò in cucina, prese un lungo mestolo di legno e lo immerse nel pentolone fumante. Denna sedeva ad uno dei capotavola, e guardava il marito con un accenno di sorriso sulle labbra carnose.
Damian fu il primo ad entrare in cucina, guardò sospettosamente il padre che, mestolo alla mano, si accingeva a versare nei piatti una brodaglia dall’aspetto poco invitante.
-Ma’, perché continui a permettergli di cucinare? Pensavo che fosse Aaron quello nei guai, perché vuoi infliggere a tutti un’atroce punizione?
Denna scoccò un’occhiataccia al figlio, -tuo padre è preoccupato per il mio stato di salute e vuole che io mi riposi, quindi si è offerto di preparare il pasto di questa sera-.
-Sì-, aggiunse Lobo, che era entrato mentre la madre finiva di parlare, -ma sono già due giorni che questa storia va avanti. Io non posso mica morire di fame!- e si sedette pesantemente su una sedia.
-Ehi!- li richiamò Ez, -salve, io sono qui. Mi vedete? E sto ascoltando quello che dite. Se non vi piace la mia cucina, potete anche restare digiuni-.
-Non è che non ci piace la tua cucina, pa’- aggiunse Damian, -il fatto è…-
-Che la tua cucina è una tortura biblica-, concluse Aril anche lui arrivato in quel momento. Ez, esasperato, si pulì le mani sul grembiule, attento a che i volant non si sgualcissero troppo, -è tutta colpa tua-, disse a Denna, -se questi ragazzi sono degli ingrati-.
Denna arcuò le sopracciglia in un’espressione derisoria, -colpa mia? Forse la mia colpa è quella di non averti mai insegnato a cucinare in maniera decente-.
-Ti ci metti anche tu, adesso? Ma davvero la mia cucina fa così schifo?-
-Non te la prendere pa’-, continuò Damian, -ma se i miei cani stessero per morie di fame… non si sognerebbero nemmeno di annusarla quella sbobba-.
-Questo perché quelle tue bestie sono troppo viziate-, concluse Ez, piccato.
-Oh, no!- esordì Devon appena entrato in cucina, -ma perché cucina ancora papà?-
-E va bene-, disse Ez esasperato slegando il grembiule e gettandolo sul tavolo, -allora mi arrendo. E pensare che uno vuol fare solo una cosa buona per la propria famiglia. Ai miei tempi si mangiava qualsiasi cosa avesse un aspetto anche solo commestibile e…-
Una risata soffocata fu stroncata dallo sguardo di Denna che cinse le spalle del marito e lo portò a sedersi al tavolo.
-Tu sei un uomo pieno di qualità, meine Liebe, ma la cucina non rientra tra queste. Vuoi lasciare che me ne occupi io?-
-E va bene, ma non ti stancare troppo-, disse Ez, arrendendosi alle moine della moglie.
-Sta tranquillo, sto benissimo. Perché non vai a vedere che fine ha fatto Aaron?- dopo che Ez si fu alzato Denna prese il grembiule che il marito aveva abbandonato sul tavolo e nel farlo si accostò all’orecchio di Lobo –prendi quel pentolone di poltiglia e portala ai maiali-, sussurrò al figlio.
 
****
 
Aaron se ne stava rintanato nella sua mansarda, Ez bussò e attese una risposta.
Erano passati due giorni da quando Schneider e i suoi scagnozzi erano venuti a casa loro, ma l’umore del ragazzo non accennava a migliorare. Continuava a comportarsi come se fosse un appestato, evitando la compagnia dei familiari e addossandosi i lavori più faticosi e solitari della fattoria. Non aveva mangiato quasi nulla in quei due giorni, Denna temeva che potesse cadere dalla sella, morto di fame, e visto che nessuno rispondeva da dietro la botola, Ez temette che la moglie potesse aver ragione. Bussò di nuovo.
-Avanti-, disse finalmente una voce fioca, Ez sollevò la botola e salì fino a trovarsi con metà del busto dentro la stanza. Era quasi buio ormai ma Aaron non aveva acceso la lampada a olio.
-Abbiamo chiamato per la cena, non hai sentito?- chiese l’uomo strizzando gli occhi per distinguere le forme nella semi oscurità.
Aaron era disteso sul letto, i vestiti da lavoro ancora indosso, teneva le braccia incrociate dietro la testa e volgeva lo sguardo verso la finestra, -non ho molta fame-, borbottò senza voltarsi.
Ezechiele emise un sospiro, -per quanto tempo intendi andare avanti con questa messa in scena?- chiese.
-Non so di cosa stai parlando-, rispose Aaron, sempre voltato dall’altra parte, -ho solo detto che non ho fame-.
-Tenere il muso e fare la vittima non serve a niente-, continuò Ez, -mi aspetto di vederti giù tra meno di un minuto, e non è un’opzione, se te lo stai chiedendo-, senza dare ad Aaron il tempo di rispondere l’uomo richiuse la botola sulla propria testa e ridiscese le scale.
Mentre scendeva la rampa del primo piano sentì il rumore della botola aprirsi, e un sorriso leggero gli arricciò le labbra.
 
****
 
Compiendo uno dei suoi soliti miracoli, nell’arco di pochi minuti Denna aveva messo su un vero banchetto, cucinando ben due delle sue specialità Grunkohl mit Pinkel(Cavolo nero e salsiccia) e lo Strudeldi mele, il tutto accompagnato da birra ghiacciata fatta in casa.
La famiglia, finalmente tutta riunita, si sedette a tavola e cominciò la cena.
La salsiccia era ben rosolata, il cavolo condito alla perfezione e la birra scendeva giù una meraviglia. Da diverse settimane il clima non era così sereno e disteso a tavola. E gli argomenti di conversazione spaziarono dal tempo che andava peggiorando, al numero di vacche che sarebbero sopravvissute all’inverno. Alle riparazioni che andavano fatte alla casa con l’approssimarsi delle prime nevi.
L’unico angolo buio di quella piacevole scena conviviale era la sedia di Aaron, il quale restava a capo chino, disegnando scarabocchi nel piatto con la forchetta.
Denna e Ezechiele si scambiarono più d’un occhiata durante la cena che fu lunga e abbondante e finì con Aril che raccontava barzellette sconce. Il finale dell’ultima fece ridere tutti e arrossire Denna.
-È da quando avevo a che fare con gli scaricatori di porto a Bremen che non ne sentivo una così sconcia-, commentò scandalizzata, -Aril, poi mi spiegherai dove l’hai sentita, eh?-
-Se è per questo-, intervenne Damian, -io ne so una su un prete, una capra e un divano. Volete sentirla?-
-No!- si affrettò a dire Denna ridendo, nonostante tutto, –credo sia giunto il momento di andare a letto, forza. Sparecchiate la tavola, ma i piatti li laveremo domani-, tutti si alzarono in cozzare di stoviglie uno strusciare di legno su legno.
-Aaron-, disse Denna in un momento di silenzio, -tu va ad aspettare nello studio. Io e tuo padre dobbiamo discutere della tua punizione-.
Calò un gelo improvviso nella cucina. I ragazzi si guardarono l’un l’altro, mentre i sorrisi scemavano. Aaron, che stava alzandosi dalla sedia, rimase a metà del movimento. Guardò i suoi genitori e fece un cenno col capo, poi scivolò fuori dalla cucina, seguito dagli sguardi di commiserazione dei fratelli.
Quando furono soli Ezechiele prese la mano della moglie, -non credi che sia stato già punito abbastanza?- chiese con dolcezza, -credo che l’epilogo di questa orribile vicenda gli siano stati d’insegnamento. Sono certo che non andrà più a invischiarsi con gente così pericolosa-.
Denna scosse il capo, -ti sbagli meine Liebe, non lo vedi come si macera? Si sente responsabile, come se fosse stato lui stesso a farmi del male. Sono due giorni che non fa altro che struggersi per il senso di colpa, e se non lo aiutiamo sarà sempre peggio-.
-Dagli solo un po’ di tempo, vedrai che passato lo shock si riprenderà-.
-Temo di no, e comunque non voglio correre il rischio che, preso dalla depressione, corra di nuovo a giocarsi chi sa cosa al tavolo da Poker. O ti sei dimenticato della situazione da cui tutto questo è scaturito?-
Ez annuì, sua moglie aveva ragione ma… –pensi davvero che un paio di frustate possano risolvere la cosa?-
Denna si alzò e andò a prendere la verga di vimini dall’angolo dietro l’acquaio, -un paio di frustate possono risolvere molte cose-, disse facendo sibilare lo strumento, -e in questo caso espiare fisicamente una colpa che si sente così pesante, può essere un vero toccasana. Senza contare che gli avevo promesso una lunga chiacchierata. E io mantengo sempre le promesse. Hai altre obiezioni?-
-No-, rispose Ez.
-Bene, allora potresti andarlo a chiamare, per favore?-
Ez annuì, il ragionamento di Denna era stringente e aveva senso. Si alzò e uscì dalla cucina.
Aaron stava seduto sul bracciolo di una delle poltrone di pelle dello studio. Quando suo padre entrò il ragazzo si alzò in piedi e lo seguì in silenzio. Non c’era bisogno di dire niente.
In cucina Denna li aspettava con la verga tra le mani. A dispetto, però, di quel che si aspettava, Aaron le vide stampata in faccia l’espressione più dolce del mondo.
Cominciò a sudare freddo.
-Facciamo prima quattro chiacchiere, Aaron, siediti-, gli disse la madre con tono carezzevole. Lui si sedette.
-Dunque-, disse Denna poggiando la verga sul tavolo, proprio davanti al figlio, -vorrei che tu mi elencassi i motivi per i quali dovresti essere punito-.
Il ragazzo si schiarì la gola, -io?-
-Sì-, ripeté Denna placida, -voglio sentirli da te-.
Aaron deglutì, ma aveva la bocca secca –io, credo che, beh… insomma, il motivo per cui dovresti punirmi è che ho rischiato di far ammazzare te e Tim. Ho condotto in casa nostra dei criminali che hanno tentato di…-
-Quindi li hai invitati tu?- lo interruppe Denna.
-Cosa?- chiese Aaron interrompendo il flusso sei propri pensieri.
-Li hai pregati tu di presentarsi in casa nostra quando fossi stata sola, in modo da poter approfittare di me?- gli domandò Denna, con un tono quasi condiscendente.
-No, non in quel senso-, disse Aaron confuso, -voglio dire che è colpa mia se…-
-se ci sono persone al mondo capaci di simili atti nei confronti di donne e bambini?- Continuò Denna.
-No, certo, non volevo dire questo, ma…-
-E cos’è che volevi dire?- Chiese ancora Denna con un sorriso che fecce accapponare la pelle ad Aaron.
-Cioè, io… voglio dire che se non mi fossi invischiato con quella gente tutto questo non sarebbe accaduto-.
-Ecco, finalmente ci avviciniamo al dire cose sensate-, convenne Denna, -quindi ti ripeto la domanda iniziale. Per cosa pensi che dovrei punirti?-
-Beh, penso per… aver giocato d’azzardo, allora? Se non avessi perso tutti quei soldi non sarebbe successo nulla-, disse allora Aaron, con maggior convinzione.
-Il gioco d’azzardo è una malattia. Non potrei punirti perché sei malato-, lo contraddisse Denna.
Aaron era confuso, guardò il padre in cerca di un aiuto, ma lui era una statua di cera -ma, allora… io non so, davvero-.
-Ecco-, disse Denna dolcemente, -era quel che sospettavo. Ti senti responsabile di cose per cui non hai colpa, ma ti sfugge il nocciolo del problema-, Aaron la guardò con aria interrogativa.
-Perché non hai detto a nessuno quello che stava succedendo?- gli chiese lei, -Perché hai aspettato fino a quando il danno era ormai irreparabile?-
Aaron abbassò il capo, -mi vergognavo. E poi…-
-E poi?- lo incalzò Denna.
-…temevo di essere preso in giro da Damian e dagli altri. Come avrebbero reagito se avessero saputo che mi ero messo in un simile guaio? Avrei perso la faccia-.
-Quindi è di questo che stiamo parlando, giusto?- disse Denna -puerile e insensato orgoglio?-
-Credo di sì-, ammise Aaron a capo chino.
-Ecco, è questo il motivo per cui intendo punirti. Sei stato irragionevole e infantile, hai messo la tua vita in pericolo e ti sei rivolto a uno spregevole criminale, pur di non perdere la faccia-.
Ezechiele assisteva alla scena in silenzio, seduto al suo posto, le braccia conserte.
-È vero-, convenne Aaron, -non ho scusanti, mi sono comportato come un idiota-.
-Sono contenta di sentirtelo dire-, Denna si alzò in piedi, -credo ti ricordi ancora bene come si fa, anche se è passato del tempo dall’ultima volta-.
Aaron annuì lentamente si alzò e prese la sedia dov’era seduto. Sì, era passato davvero molto tempo dall’ultima volta che aveva dovuto sottoporsi a quello. “E avrei preferito continuare così, sinceramente”.
Avrebbe preferito anche che suo padre non fosse stato lì, in quel momento. La cosa era già abbastanza umiliante, senza che ci fosse anche lui a guardare mentre veniva battuto come un ragazzino.
Trascinò la sedia fino al centro della cucina.
Sua madre lo osservava a braccia conserte, la verga già pronta.
Un rumore di sedia strusciata li fece voltare entrambi, Ezechiele era alzato in piedi, l’uomo andò ad aprire lo sportello di una delle credenze, una di quelle in alto, che nessuno usava mai e ne tirò fuori un lungo involto di stoffa.
Con l’oggetto in mano, l’uomo si avvicinò alla moglie: -aspetta, Denna-, disse piano.
-Cosa c’è?- chiese la donna, perplessa. Suo marito non era solito interferire con la sua disciplina.
-Se non ti dispiace-, disse l’uomo fissandola con occhi tristi, -vorrei farlo io-. 

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Capitolo 21
*** Parte VII ***


Aaron era pietrificato, al centro della stanza.
Poteva ricordare al massimo un paio di episodi, in tutta la vita, in cui suo padre aveva alzato le mani su di loro. E si era sempre trattato di qualche blando scapaccione.
Denna lasciò cadere le braccia lungo i fianchi.
-Ez, ma… tu?-
-L’ho conservato con cura-, rispose lui amaro, -per ricordare a me stesso quello che ero, e cosa ci è voluto per farmi cambiare-.
-Capisco-, disse Denna.
-Credo sia giusto-, disse Ezechiele.
Denna guardò l’involto che suo marito teneva tra le mani,-è pericoloso-, disse, -sai come usarlo?-.
-Ne ho subìto gli effetti abbastanza spesso-, rispose lui -da sapere bene quel che può fare-.
Denna annuì, -sta attento, però-.
L’uomo le mise una mano sulla spalla, e rivolse la sua attenzione al figlio, Aaron era ancora in piedi, fermo, ascoltando senza capire. Suo padre si fece avanti, e mise l’involto di stoffa sul tavolo, l’aprì lentamente, scoprendo al suo interno un lungo nerbo dalla forma a spirale. Aaron sentì una decisa contrattura alla bocca dello stomaco, la salivazione nella bocca si ridusse all’istante, capì subito di cosa si trattava, per anni da bambini erano stati minacciati di percosse con quello strumento, ma erano sempre rimaste vane minacce. La verga di vimini era di per sé già uno strumento temibile, Aaron sentì le gambe farsi molli.
Ezechiele sollevò il nerbo di bue e lo fece flettere più e più volte tra le mani, la pelle scricchiolò, piegandosi. Dopo averlo manipolato una decina di volte, l’uomo fendette l’aria con lo strumento, che produsse un sibilo profondo, come il lamento di un animale, un suono che si avvinghiò alla gola di Aaron, strozzandola.
-Chinati sulla sedia, Aaron-, ordinò Ezechiele, mentre con la mano sinistra sbottonava il polsino della manica destra, -mettiamo fine a questa faccenda-, e arrotolò accuratamente la camicia, scoprendo l’avambraccio scuro.
La contrattura allo stomaco si fece una stretta dolorosa, Aaron esitò, facendo scorrere lo sguardo da suo padre al nerbo a sua madre, sperava che lei dicesse qualcosa, che si opponesse, -Non mi hai sentito?- disse Ezechiele, -ho detto: chinati sulla sedia-.
La voce di suo padre era bassa, quasi un sussurro, Aaron annuì lentamente e si accostò alla sedia,
-Pantaloni e mutande, via tutto-, aggiunse Ezechiele, perentorio.
Aaron si morse il labbro, poi sbottonò i pantaloni, che caddero per terra frusciando, seguiti dalla biancheria intima. Provò una tale vergogna per quella improvvisa nudità, da provare il desiderio di andare a nascondersi, invece appoggiò il bacino allo schienale e sentì lo spigolo di legno premere contro le ossa dei fianchi. Curvò la schiena in avanti, posò le palme delle mani sulla seduta, il legno usurato dall’attrito era stranamente lucido, intuiva vagamente il riflesso della sua faccia e chiuse gli occhi.
Sentì suo padre muoversi, lo scricchiolio degli stivali di cuoio sul pavimento di legno, lo sentì fermarsi alle sue spalle, il respiro accelerò.
Strinse i denti, contrasse il muscoli delle spalle e inspirò allargando il torace, Ezechiele esitava. Denna lo guardò negli occhi e annuì, non poteva più tirarsi indietro, ormai.
L’impatto sulla parte alta delle natiche fu come una scossa, Aaron spalancò gli occhi, e strinse i pugni. Sulle natiche si formò un lungo segno dai bordi bianchi.
Ezechiele sentiva la gola stretta, -uno-, disse piano.
Sollevò il braccio e il secondo colpo piovve sul ragazzo, Aaron emise gemito soffocato, al confronto, le sferzate di sua madre erano carezze.
-Due-, disse Ezechiele, e sollevò di nuovo il braccio, con lentezza estenuante.
Altro colpo, -Tre-.
Aaron si sollevò di scatto portandosi una mano al fondoschiena.
-Sta giù-, disse Ezechiele.
Mordendosi le labbra Aaron piegò di nuovo la schiena. Il silenzio era soffocante.
-Quattro-.
Fu un riflesso automatico: scattò all’impiedi senza neanche rendersene conto. Il dolore era quasi intollerabile.
-Sta giù, figliolo. Non te lo dirò un’altra volta-.
Aaron annuì con la mascella contratta. Non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe successo se non avesse obbedito.
-Cinque-.
Non riuscì più a trattenersi: gridò.
-Sei-.
Strillò di nuovo, cristosanto, cristosanto, cristosanto…
Ogni colpo era come un lampo rosso dietro agli occhi. Una scossa elettrica.
Il dolore partiva dalle natiche e scendeva nelle gambe, su per la schiena.
-Sette-.
Gli occhi e la gola cominciarono a bruciare.
-Otto-.
Sentiva le natiche pulsare fin nella testa. Le sentiva gonfiarsi, e immaginò i lividi violacei formarsi, espandersi.
-Nove-.
All’attaccatura con le cosce. Cazzo. Il dolore fu tale che non poté fermarsi. Si raddrizzò di scatto afferrando lo schienale con le mani, e contraendo spasmodicamente i glutei.
Stavolta Ezechiele non disse nulla.
Aaron lo sentì muoversi alle sue spalle, -scusa-, disse ansimando, -scusa, non volevo…-
Non fece in tempo a voltarsi, suo padre aveva allungato il braccio sinistro sopra di lui e lo aveva afferrato saldamente, cingendogli la vita. Il piede sinistro dell’uomo si posò con un tonfo sulla sedia. Aaron sentì il ginocchio incunearsi sotto la pancia e premere contro lo sterno, la pressione del gomito di Ezechiele lo obbligò a chinarsi in avanti.
Da quella posizione gli era praticamente impossibile alzarsi.
Suo padre riprese a colpirlo. Adesso le nerbate erano più leggere, ma rapide e ravvicinate.
-Dieci, undici, dodici, tredici-.
Aaron ricominciò a strillare e a divincolarsi.
-Basta! Ti prego. Basta!- Supplicò.
-Quattordici, quindici, sedici-.
-Basta, basta, basta!-.
La stretta di Ezechiele non si allentava.
-Diciassette, diciotto -.
-Papà, ti prego! Basta!-
-Diciannove, venti-.
Ezechiele si fermò e lanciò il nerbo per terra, ma anziché lasciare andare il figlio rinsaldò la presa e cominciò a sculacciare Aaron con la mano nuda.
Per una frazione di secondo il ragazzo non si rese conto di quello che stava succedendo.
Poi capì, e fu come se qualcosa dentro di lui si spezzasse. Le lunghe settimane di stress emotivo gli franarono addosso come l’acqua di una diga esplosa.
Scoppiò in lacrime.
Senza ritegno, senza freni.
Singhiozzò fino a non riuscire più a respirare.
Ezechiele continuò a sculacciarlo con cadenzata decisione. Gli schiocchi sulla pelle erano sonori, netti.
Ad un tratto si rese conto che il ragazzo non piangeva più così forte, anzi, si stava calmando “La tempesta è passata”, pensò, e lo lasciò andare.
-Rivestiti-, disse con calma.
L’uomo si allontanò, voltandogli le spalle, per raccogliere il nerbo lanciato lontano, mentre Denna si alzò e cominciò a sparecchiare la tavola.
Lasciato in balia di sé stesso, Aaron ebbe il tempo di ritrovare un minimo di compostezza.
Riuscì a far salire i pantaloni oltre le natiche tumefatte, a chiuderli e a infilarvi dentro la camicia.
Si terse le lacrime con un fazzoletto di stoffa che aveva in tasca, e si soffiò il naso. Poi rimase così, in piedi, fermo, a fissare il nulla.
Provò uno strano senso di… calma irreale. Come se qualcuno avesse spento di colpo tutti i rumori.
Sentiva la testa leggera, vuota. L’unica sensazione persistente era il dolore.
Le natiche bruciavano come se si fosse seduto su una piastra di metallo incandescente.
Rimase in silenzio, ancorato alla sedia.
Quando si riscosse guardò i suoi genitori. Erano fianco a fianco, vicino all’acquaio. Armeggiavano con gli utensili da cucina, dandogli le spalle. La cucina era perfettamente sparecchiata e in ordine.
“E ora?”pensò, “si aspettano che dica qualcosa?” Fece un leggero movimento e urtò la sedia con un piede, facendo rumore.
Denna di girò immediatamente e Aaron distolse lo sguardo.
La donna sorrise, e toccò la spalla del marito, Ez si girò verso di lui.
Denna prese una tazza e una cuccuma che bolliva sulla stufa. Versò acqua bollente nella tazza e immerse un infusore pieno di fiori di camomilla, si avvicinò ad Aaron e gli porse la tazza.
-Tieni, tesoro. Ti farà bene-.
Aaron prese la tazza e la tenne tra le mani, il calore della ceramica gli trasmise un piacevole conforto. Soffiò sul liquido bollente e provò a bere qualche sorso, sotto lo sguardo attento di Denna, si accorse di avere la mascella ancora contratta, e la lingua secca come una raspa.
La tisana era profumata e delicata.
-Io-, esordì dopo aver bevuto in silenzio, -vi voglio ringraziare-, lanciò un’occhiata a Ezechiele, che stava asciugandosi le mani con un panno. L’uomo si avvicinò a loro e sedette a metà sulla tavola.
Aaron bevve un altro sorso fumante, -credo che le scuse non servano a questo punto-, disse guardando il liquido dorato nella tazza, -e che sia inutile dirvi quanto sono dispiaciuto per avervi deluso, per aver messo a rischio voi la fattoria, o… insomma, per tutto. Ma vi voglio assicurare che ho capito. Ho capito davvero. Ero terrorizzato all’idea di non riuscire a risolvere da solo i miei problemi, all’idea che gli altri sapessero che avevo sbagliato. Ero terrorizzato all’idea di fallire. Adesso penso che l’unico fallimento, in tutta questa storia, sia stato il non riuscire ad affrontare i miei limiti-. Sentì di nuovo le lacrime salire nella gola.
-Ero convinto che non mi avreste mai perdonato per una cosa del genere. E invece voi…-
Un tocco leggero sulla guancia gli fece alzare la testa.
Denna gli si era avvicinata, stava sorridendo.
-Lo so, tesoro, lo so. Va bene così, ora è finita, non parliamone più. Adesso ti porto a letto, ti va?-
-Sì-.
-Ce la fai a camminare?-
-Penso di sì… forse-.
Con cautela e trattenendo le smorfie, Aaron mosse alcuni passi. Denna lo prese sotto braccio e portò fuori dalla cucina.
Ezechiele si accasciò su una sedia, e fu così che Denna lo trovò al suo ritorno, con lo sguardo perso nel vuoto.
-Ma come fai?- chiese alla moglie quando lei gli fu vicino.
-Faccio cosa?- domandò lei cingendogli le spalle con le braccia.
-Tutto. Questo. È sfibrante, è stata la cosa più difficile che abbia mai dovuto fare in tutta la mia vita. Sono esausto, mi viene da vomitare. E tu lo porti avanti ogni giorno, mentre io per mesi e mesi sono in giro per affari… Come fai?- disse Ez, stringendole le mani.
-Faccio solo quel che devo-, disse lei placida.
-Mi dispiace, davvero. Sono un pessimo marito e un pessimo padre, forse dovrei…-
-Forse dovresti smetterla di dire sciocchezze-, lo interruppe lei tirandogli giocosamente la barba brizzolata, -altrimenti mi costringi a riprendere il nerbo e farti vedere come si usa-.
-Oseresti tanto contro tuo marito?- disse lui oltraggiato e delicatamente la tirò per un braccio, invitandola a sedere in braccio a lui.
-Oserei questo e molto di più-, convenne lei baciandolo, adorava il contatto ruvido dei baffi sulle labbra morbide, -ma anche io sono stanca, davvero tanto, non so nemmeno se ce la farò a salire di nuovo le scale-, poggiò la testa bionda sulla spalla di Ez.
L’uomo la strinse, -beh, dovrò pur far l’uomo qualche volta in questa casa, no?- disse, e si alzò in piedi sollevando Denna tra le braccia.
-Sciocco, fammi scendere, ti verrà il colpo della strega!- rise lei aggrappandosi al collo del marito.
-Credi forse che sia così vecchio? Sta vedere!-
I due salirono al piano di sopra, Denna trasportata docilmente da Ez, che la tenne tra le braccia tutta la notte.

FINE CAPITOLO

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