Skyfall

di _Rockstar_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ho avuto un sogno davvero strano questa notte ***
Capitolo 2: *** Rose non esiste più ***
Capitolo 3: *** Persa ***
Capitolo 4: *** Questa non è più la grande città ***



Capitolo 1
*** Ho avuto un sogno davvero strano questa notte ***


Skyfall

Io penso che quando tutto finisce, la vita passi davvero davanti ai tuoi occhi.
E’ come un caleidoscopio di memorie dove tutto torna indietro.
Ma lui non l’ha mai fatto. Io penso che una parte di me già immaginasse,
nel momento in cui lo vidi, che questo sarebbe accaduto.
Non fu nulla di ciò che ha detto o di ciò che ha fatto a ferirmi,
ma i sentimenti che ne derivarono. La cosa strana è che non so
se riuscirò a provare le stesse emozioni di nuovo,
 ma non so nemmeno se dovrei. Sapevo che il suo mondo
 si muoveva e bruciava troppo velocemente,
ma poi ho pensato “Come può il diavolo spingerti
contro qualcuno che sembra un angelo quando ti sorride?”
Forse lui lo sapeva quando mi vide. Credo di aver perso il mio equilibrio.
Penso che la parte peggiore non fu perdere lui. Fu perdere me.

Non so si conosca chi si è fino a quando si perde chi si è veramente.

 

Ho avuto un sogno davvero strano questa notte. Una ragazza dai capelli d’oro si perde in un oscuro e malvagio bosco. Cerca disperatamente una via che la porti fuori da quel spaventoso luogo ma non la trova. Poi incontra un principe ma purtroppo non sa che lui non è chi lei crede che sia. Non sa che lui in realtà è il lupo da cui le avevano sempre detto di stare lontana. Ma ormai non c’è più niente da fare, si è invaghita del ragazzo sbagliato. Così si uccide. 

Cerca di aprire gli occhi ma nessuno sembra notarla. La sua vista è sfuocata e la luce troppo intensa. Cerca di gridare ma le parole le muoiono in gola. Implora le ombre che vede passarle accanto, le prega di spiegarle cosa è successo, ma nessuno le risponde. E’ forse così che si prova ad essere morti? Tutti che ti passano accanto ma nessuno che ti vede veramente, come fosse un fantasma? O era forse quello il paradiso? No, certo che no. Lei non se lo meritava. Poi quando aveva ormai quasi perso la speranza, un volto le si presenta davanti agli occhi. Una donna, ma lei non la conosce. Ha un’espressione dolce e caritatevole nei suoi confronti, le sorride. – Si sta svegliando – le sente dire con una voce sottile e molto lontana. Prova a muovere un braccio ma non succede nulla. Il campo visivo si sta allargando e le immagini cominciando a diventare più nitide. Vede tutto bianco. Pareti bianche, soffitti bianchi, uomini dall’abito bianco e le sue mani bianche. – D-dove sono? – chiede con una flebile voce. Il dolore è immenso. – Bentornata tra noi, Roseleen – le rispose la voce della donna di prima. Non sapeva come e non sapeva perché, ma era viva.  

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Capitolo 2
*** Rose non esiste più ***


Capitolo I – Rose non esiste più 
 

Si chiese che cosa le stesse succedendo, che cosa fosse capitato e perché non riuscisse a ricordare. Iniziò con cose semplici: Si chiamava Roseleen Snow, un cognome maledetto che avrebbe dovuto portare fino alla fine dei propri giorni, aveva quindici anni ed era nata a Capitol City. Si rincuorò nel sapere che la sua memoria non era sparita del tutto. Non ricordare le faceva paura, era come perdere una parte di se stessa, forse quella più importante. Era viva ma non riusciva a capire perché. Chi l’aveva sottratta dalla morte ma soprattutto da cosa l’aveva salvata? Non capiva, non ricordava. Provò a muoversi ma soltanto piccole parti del suo corpo rispondevano ai suoi comandi. Prima le dita delle mani poi quelle dei piedi. A fatica alzò il braccio destro e lo osservò. La pelle era pallida e cadaverica, la superficie era segnata da profonde ferite ricucite e ormai quasi guarite. Aveva freddo, forse aveva la febbre. Piegò un gamba e poi l’altra, si mise a sedere. Forse non fu la mossa giusta perché la testa cominciò a girarle vorticosamente, così avvicinò le mani al volto e chiuse gli occhi. Dopo qualche minuto passò tutto. In quella stanza non c’era nessuno, tutti gli uomini ch aveva visto al suo risveglio erano spariti o forse nemmeno mai esistiti. Le mancava la voce gentile e premurosa di quella donna, assomigliava tanto a quella della madre. Prese un respiro profondo. Era ancora legata a delle flebo e nella sua mente risuonava quell’odioso suono di quel macchinario che controllava il regolare andamento dei battiti del suo cuore. Voleva scappare via, lontano da quel luogo, ma dove? Non sapeva dove si trovasse. Stava per rimettersi sdraiata quando la porta si spalancò lentamente.
– Sei sveglia, cara – esordì la donna dalla voce dolce.
Rose annuì. La dottoressa aveva dei corti capelli neri e occhi di un colore inusuale, tra il grigio e l’azzurro, davvero poco naturali.
– Dove mi trovo?  - le chiese con voce soffocata
– In un luogo segreto – le rispose la donna osservando una cartella clinica, la sua.
– Dove mi trovo? – chiese più decisa. Voleva delle risposte. La donna alzò lo sguardo
– Non posso dirtelo – appoggiò i documenti.
– Sono felice che tu stia bene, tra poco potrai uscire – le sorrise.
Ed era esattamente ciò che voleva. Passarono poche ore e Rose già riusciva a stare in piedi da sola, il mal di testa era sparito e anche le vertigini. Era veramente guarita ma ancora non si ricordava che cosa l’avesse ferita precedentemente. La fecero rivestire e la lasciarono andare. Scoprì che si trovava in una sorta di ospedale dove, a quanto pare, l’unico paziente era lei. Percorse corridoi e corridoi fino a quando, scortata da due pacificatori e la donna dalla voce premurosa, si ritrovò nella sala d’aspetto di quella strana clinica. Cominciò a pensare di essere pazza e che l’avessero rinchiusa lì per chissà quanto tempo e solo ora che era guarita l’avevano lasciata andare. –
Sono pazza? – chiese Rose alla donna che sistematicamente si mise a ridere
– No, certo che no. – rispose aprendo la porta antipanico, rigorosamente bianca.
Alzò lo sguardo, che aveva tenuto basso fino a quel momento e lo posò sulla prima persona che vide davanti a lei. Era una ragazza circa della sua età o forse più grande. Aveva dei lunghi capelli castani e un sorriso sul volto. Sembrava conoscerla e anche molto bene. Si avvicinò a lei e l’abbraccio. Una sola cosa la colpì immediatamente. Quel profumo così famigliarmente nuovo, una sorta di mescolanza tra vaniglia e menta, un odore dolce e uno forte che annunciava un carattere delicato ma allo stesso tempo determinato.
– Ti ricordi di me? – chiese dolcemente la ragazza guardandola fissa negli occhi. Rose scosse il capo e il sorriso nel volto senza nome scomparve.
– A seguito dell’incidente la signorina ha presentato durante la maggior parte dei test, delle perdite di memoria. Niente di cui preoccuparsi, è soltanto in uno stato di shock. Tutto tornerà normale molto presto. Dovete soltanto aiutarla un poco – spiegò la donna che era rimasta ferma sul ciglio della porta
– Incidente? Quale incidente? – chiese allora Rose ma nessuno sembrò volerle rispondere.
La donna stava per iniziare a parlare ma la ragazza la bloccò sul nascere
– Nessun incidente, niente d’importante. Ne parleremo più tardi, va bene? – Rose annuì.
Perché tutti la trattavano come una bambina e nessuno sembrava avere la voglia di rispondere, era davvero frustrata.
– Possiamo andare ora? – chiese subito dopo
– Certo – le rispose la ragazza accarezzandole i lunghi capelli biondi.
La forte luce le accecò per un momento la vista e per un attimo di secondo si ricordò qualcosa. Prima i raggi del sole, poi una leggera brezza d’acqua marina e dolore, tanto dolore. La ragazza misteriosa la trascinò quasi correndo attraverso delle vie della capitale che le sembrava di non aver mai visto, come se avesse fretta o paura.
– Dove stiamo andando? – le chiese dopo qualche minuto
– Non posso dirtelo ora – rispose lei
– Perché no? – infierì Rose
– Perché è un segreto! – terminò stizzita l’altra.
Tutti questi segreti, tutti questi ignoti luoghi. Che cosa stava succedendo? Arrivarono davanti ad una piccola porta sul retro di un qualche luogo, un negozio forse. Dopo essersi guardata intorno, la ragazza la aprì e la richiuse in fretta dietro di sé. Si ritrovarono in un luogo completamente buio e con un forte e insopportabile odore di chiuso e muffa che fece starnutire Rose. Le luci si accesero e vide che infondo alla stanza erano stati posti uno specchio e una sedia a schienale, sembravano essere finite in uno studio per parrucchieri o qualcosa del genere. Dalla porta di fronte a loro entrò un uomo, veniva chiaramente da Capitol City, non era giovane ma neanche anziano e teneva sulle spalle un telo di seta nero.
– Sei arrivata in ritardo – si lamentò l’uomo
– Lei non smetteva di farmi domande e bloccarsi ogni trenta secondi. Ce la farai? - chiese spingendo Rose verso di lui.
Aveva già visto anche quell’uomo ma il nome ancora le sfuggiva. La fece accomodare e Rose si guardò subito nello specchio. I suoi capelli le ricadevano morbidi e leggeri sulle spalle, forse si erano allungati dall’ultima volta che li aveva visti e questo le fece pensare a quanto tempo fosse passato, poi abbassò lo sguardo sul riflesso dei suoi occhi. Il colore azzurro acqua che aveva tanto amato era sparito ed era stato rimpiazzato da un comunissimo castano con niente di particolare. Il suo cuore perse un battito, si strofinò il volto con il palmo della mano, sperando fosse solo un sogno ma riaperti gli occhi nulla era cambiato –
Che cosa avete fatto hai miei occhi?! – urlò all’uomo, poiché la ragazza era già sparita chissà dove, non l’aveva nemmeno sentita andarsene
– Rose, abbiamo dovuto farlo. Per la tua sicurezza... - le rispose lui. Lei cominciava davvero ad arrabbiarsi
– La mia sicurezza? Di cosa state parlando tutti?! Voglio sapere cosa sta succedendo e lo voglio sapere adesso! – continuò sempre con lo stesso tono.
Era davvero stanca di tutti quei segreti, voleva la verità.
– Non ti ricordi proprio nulla, vero? – Rose non rispose ma osservò l’uomo sedersi su uno sgabello accanto a lei e cominciare a parlare
– Qual è l’ultima cosa che ti sembra di ricordare esattamente della tua vita, l’ultimo momento? – la ragazza ci pensò un po’ su ma le venne in mente soltanto quell’allucinazione che aveva avuto poco tempo prima, la luce, il vento, il freddo.
– Mi ricordo soltanto una immagine. C’è molta luce, da destra proviene il soffio di una leggera brezza marina e posso sentire il tipico profumo del mare. Sento che ho paura come se stessi per morire – gli confessa.
– Tu sai cosa sono gli Hunger Games, vero? – la ragazza annuisce. Chi non lo sapeva d’altronde.  
– E sai anche di essere stata scelta e di aver partecipato? – No, non lo sapeva, cioè sì ma credeva fosse soltanto un tremendo incubo, ma si sbagliava, era successo veramente. Il suo cuore cominciò a battere più velocemente.
– Beh, hai affrontato la battaglia e hai vinto, quasi almeno… - continuò
– Che cosa vuoi dire con “quasi”? Come si possono “quasi” vincere gli Hunger Games? – gli chiese lei.
In quei giochi o si vince o si muore, non esisteva una via di mezzo.
– Sei arrivata fino alla fine ma sei stata quasi uccisa. Un hovercraft ti ha recuperata appena in tempo per salvarti la vita. – le confessò allora.
Rose chiuse gli occhi. Ora si ricordava tutto. Si chiamava Roseleen Snow, aveva quindici anni e abitava a Capitol City. E’ stata scelta per partecipare agli Hunger Games ed è sopravvissuta, quasi.
– Sean - sussurrò Rose abbracciando l’uomo
– Sì, cara Rose. Mi sei mancata – le rispose lui accogliendo quel gesto d’affetto
– Mi sei mancato anche tu, ma cosa ci facciamo qui? – continuò lei sciogliendosi dalla stretta
– Non potevamo certo farti passeggiare per le vie di Capitol allegramente, Rose. Non sono molto felici, non lo sono per niente e non te la faranno passare liscia – le confessò Sean
– Mi stanno cercando? Ma non dovrei essere morta? – gli chiese dubbiosa e spaventata lei
– Questo è il punto. Lei ha un sospetto che qualcuno ti abbia salvata. Ha paura – Rose sapeva a chi si riferiva: Alma Coin.
– Perché dovrebbe avere paura di me? – Sean sorrise
– Ti sei mai chiesta perché sei stata scelta proprio tu, Roseleen Snow la nipote del presidente e non un’altra ragazza qualsiasi? – lei scosse la testa
– Non è una casualità, lei non lascia mai niente al caso. L’ha fatto per eliminare l’unica persona che avrebbe potuto fermarla. Tu. – il cuore batteva sempre più forte e il respiro era diventato irregolare, era nervosa e spaventata.
– Ma ora ha timore che il suono piano possa avere una falla. Per questo motivo abbiamo deciso di darti una nuova identità – la mente della ragazza cominciava a diventare pesante, troppe informazioni, tutte in un a volta.
– Chi l’ha deciso? – chiese dopo qualche minuto di silenzio
– Katniss e gli altri – le rispose. Adesso si ricordava. La ragazza dai capelli castani era la famosa Katniss Everdeen, colei che era stata la sua mentore durante i giochi, in un certo senso le era mancata.
– Aspetta, ma loro non erano quelli che portarono la Coin al potere? Loro non erano i ribelli? – chiese con un leggero tono amaro di rimprovero nella voce – Le cose sono cambiate anche troppo velocemente, lo capirai presto – le rispose
- Per quanto tempo ho dormito? – gli chiese allora. Di certo non per anni, non era cambiata poi tanto, tranne che per gli occhi, certo.
– Sei mesi, siamo a novembre – Rose non fece in tempo a rispondere che dalla porta sbucò una furente Katniss
– Forza, fate in fretta. Siamo in ritardo! – annunciò toccandosi il polso e indicando un finto orologio
– Le ho dovuto spiegare cosa sta succedendo – si giustificò Sean.
Rose non disse nulla, in un certo senso si sentì tradita. Non riusciva a capacitarsi di cosa fosse successo. Delle persone erano morte e loro non sapevano più da che parte stare, lei aveva perso tutto e loro avevano cambiato idea. Kaniss sparì nuovamente, dopodiché Sean le appoggiò il telo si seta nera attorno al collo e cominciò il lavoro. Le disse che la sua trasformazione sarebbe terminata a breve, a quanto pare le avrebbe tinto i capelli di color castano, doveva diventare una nuova persona. Rose ormai non esisteva più.   



Risponde l'autore: 
Ok, benvenuti al primo vero capitolo del seguito della fan fiction. Beh, spero che l'attesa non vi abbia fatto dimenticare tutto quanto, ma comunque anche se fosse, potete sempre andare a rileggere i pezzi che vi mancano, no? Non vedo l'ora di raccontarvi di più perchè ciò che Rose ha scoperto ora è soltanto l'inizio. Siete interessati e non vedete l'ora di sapere di più? Non posso svelarvi niente ma soltanto farvi vedere il trailer di questo sequel, basta cliccare il link qui sotto. 

http://www.youtube.com/watch?v=mnW-6Uj52T4

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Capitolo 3
*** Persa ***


 

Capitolo II – Persa
 

Dopo circa due ore mi trovavo ancora seduta con gli occhi scrutanti la mia nuova immagine riflessa nello specchio. Dei capelli castano scuro ricadevano perfettamente dritti ed in piega, ma non arrivavano nemmeno alle spalle mentre i miei ricci erano spariti, forse per sempre. Gli occhi continuavano ad essere di quel colore scuro e alquanto finto, almeno per me. Non ero più io, ma era esattamente questo ciò che loro volevano. Come poteva Capitol City identificarmi se nemmeno io riuscivo a riconoscermi? Era una idea geniale in effetti. Senan non si azzardò nemmeno a chiedermi se mi piacevo, sapeva benissimo che gli avrei risposto di no, mi conosceva molto bene, troppo. Si limitò ad appoggiare i suoi strumenti da lavoro sul tavolo a fianco a me e a togliermi il telo di seta dalle spalle.
– Abbiamo finito? – gli chiesi impietrita con un tono davvero troppo freddo
– Certo – rispose lui. Proprio mentre mi stavo alzando la porta si riaprì e nuovamente
Katniss ci ricordò di fare in fretta, ma non ebbe nemmeno il tempo di finire la frase quando posò gli occhi su di me. Non ne capii il motivo, ma la vidi sorrise.
– Perfetta, davvero perfetta. Hai fatto un ottimo lavoro – annunciò ringraziando l’uomo.
– Forza, andiamo – incitò poi me allungando la sua mano che io non afferrai
– Spero tu sia felice ora – le dissi prima di seguirla fuori.
All’esterno, alla luce del sole, nessuna delle due aveva più bisogno di correre, non avevamo fretta e potevamo permetterci di camminare lentamente e goderci quella stupida passeggiata, dirette chissà dove. La gente ogni tanto alzava il volto e mi osservava ma finalmente nessuno bisbigliò al vicino che “ Quella ragazzina era Roseleen Snow, la nipote del presidente”, probabilmente si limitavano soltanto a notare quanto fossi carina o qualcosa del genere. Conoscevo perfettamente la mia città e dopo qualche minuti mi resi conto che ci stavano dirigendo verso la stazione, ma dove eravamo diritte precisamente, che viaggio dovevamo intraprendere?  
– Dove stiamo andando? – le chiesi e dopo qualche minuto che passai a rincorrerla, mi rispose con due sole e povere parole
– A casa – da quel momento smisi di parlare e di farle domande.
In effetti non mi sbagliavo perché neanche un’ora dopo eravamo comodamente seduta su una di quei divani di pelle tipici dei treni di lusso della capitale, non diversi da quelli che trasportavano ogni anno i tributi in città. Passai quella metà giornata a guardare fissa il soffitto, il mio bicchiere d’acqua vuoto che tenevo stretto tra le mani oppure a girarmi e rigirarmi ancora in quello stupido e accogliente letto dalle lenzuola rosse. La mattina dopo, proprio a seguito della colazione, potemmo scendere dal treno. Ad aspettarci non c’era nessuno per il momento, soltanto il vento che soffiava forte ad est. Discesi piano i tre scalini di metallo che mi speravano dal pavimento in muratura della stazione e mi bloccai pochi passi dopo. Mi guardai intorno ma non vidi assolutamente nulla, percepii soltanto freddo e tanta disperazione. Avevo come fatto un salto nel passato, in quel luogo il tempo sembrava essersi fermato a più di mille anni fa. I muri erano ricoperti da profonde crepe dalle quali sbucavano lunghi filamenti di edera velenosa, il pavimento sui cui avevo appoggiato i piedi era anch’esso completamente rovinato, i binari erano arrugginiti, il tetto della stazione era usurato, le finestre incrinate e rotte, il tutto disseminato da secoli di polvere. Da lontano, nascosto dalla nebbia di quel freddo mattino, vidi apparire qualcuno che si stava incamminando verso di noi. Più si avvicinava e più riuscivo a percepire prima i suoi contorni, poi il suo viso e infine i particolari. Aveva dei corti capelli biondi, degli occhi così assurdamente famigliari e indossava una camicia bianca che teneva disordinatamente un po’ fuori e un po’ dentro a dei pantaloni scuri.
– Casa dolce casa – disse Katniss sorridendo e correndo verso il ragazzo per poi abbracciarlo e baciarlo.
Per quei due attimi di secondo mi sentii dispersa, sola, impaurita in quel luogo che nemmeno conoscevo, avevo timore di essere lasciata sola anche per un breve lasso di tempo
– Dove siamo? – chiese nuovamente avvicinandomi a loro
– Non le hai ancora spiegato nulla? – si stupì il ragazzo
– Se le avessi detto qualcosa avrebbe fatto di tutto per non seguirmi. Così è stato più semplice – si scusò allora lei. Il ragazzo lasciò la vita della sua compagna e tolse l’altra mano dalla tasca posteriore dei pantaloni
– Ti ricordi di me? – mi chiese. Lo guardai meglio. Sapevo di conoscerlo ma non avevo idea di chi fosse, così scossi il capo.
– Peeta, lascia perdere. Non ha riconosciuto nemmeno me. I dottori hanno detto che passerà tra poco, per fortuna – rispose allora lei al mio posto.
Ecco allora chi era. Era il famoso ragazzo del pane, l’innamorato di Katniss, in effetti aveva senso, perché non c’ero arrivata prima
– Certo che mi ricordo di te, Katniss e ora mi ricordo anche di te – risposi sorridendo per la prima volta da quando mi ero svegliata
– Guarisci molto in fretta, eh?! – mi rispose lui abbracciandomi. Quel calore famigliare che emanava il suo corpo, era così bello rincontrare un vecchio amico.
– Ti racconteremo tutto per la strada, vieni – mi intimò a seguirli e io non potei fare altro.
Camminammo per quasi mezz’ora a passo davvero lento. In qui minuti scoprì che cosa mi era successo in quei mesi che passai a dormire. Avevo veramente “quasi” vinto gli Hunger Games, fui una degli ultimi due concorrenti rimasti nella arena, quella della settantaquattresima edizione. Venni “tradita da un amico” o almeno questo fu ciò che mi dissero e così venni uccisa. Venni dichiarata morta per circa dieci minuti, ovvero il tempo che intercorse tra il mio decesso e il viaggio sull’hovercraft sul quale mi salvarono la vita, ma non del tutto. I medici fecero quello che poterono, ma per qualche motivo rimasi in coma per circa sei mesi. Quando tutti avevano quasi perso la speranza, mi svegliai. In così poco tempo però era cambiato tutto. La Coin aveva acquistato sempre più potere e teneva sotto un rigido controllo tutta la nazione, sia la capitale sia i distretti. Per un primo momento tutto sembrava essere migliorato ma a quanto pare si sbagliavano. La Coin non aveva mai avuto intenzione di liberare i distretti dall’oppressione del governo di mio nonno ma voleva semplicemente ciò che aveva lui. In poco tempo tutti compresero che avevano commesso un grave errore, Alma era identica al presidente che avevano appena giustiziato, se non peggio. La capitale, che dall’aspetto esteriore sembrava ancora così lussuosa stava cadendo sempre più in rovina e i distretti erano in quel momento più poveri che mai. La presidente aveva ricominciato a sfruttarli e a usare le risorse prodotte dagli abitanti per suoi scopri esclusivi e a quanto pare anche misteriosi. Delle voci dicevano che avesse cominciato a commerciare al di fuori dello stato di Panem, con chi o con cosa ancora nessuno lo sapeva poiché ci avevano sempre insegnato che aldilà dei confini non c’era proprio nulla. Per questo motivo alcuni gruppi che un tempo l’aiutarono a salire al potere ora avevano disertato, alcuni invece avevano iniziato a fare il doppio gioco, proprio come Katniss, Peeta e altre persone che nemmeno conoscevo. Avevano intenzione di “colpirla alle spalle”, ma con le poche vere informazioni che avevo ricevuto non avrei potuto spiegarlo meglio di così. E qui entravo in gioco io. Ero l’unica persona rimasta di cui Alma avesse timore e a quanto pare esistevano delle persone così pazze da credere che una ragazzina di quindici anni potesse veramente rovesciare un governo e portare la nazione alla libertà. Io stessa che non li comprendevo come potevo aiutarli? Venni tristemente a conoscenza della prigionia di mio padre e della sofferenza di mia madre. Dio, quanto mi mancavano. Arrivammo così a casa loro. Era una piccola e modesta casa, non molto grande rispetto a quelle dei cittadini più poveri della capitale ma almeno dall’esterno sembrava accogliente. La facciata era in mattoni a vista, sui davanzali delle due finestre erano stati posti dei vasi di primule, dei fiori rigogliosi impossibili da trovare in quel periodo dell’anno. Peeta aprì piano la porta e attese che entrambe fossimo entrate. Il salotto era alquanto spoglio e non tanto decorato, davvero umile e semplice. A destra era presente un camino a legna acceso e sulla mensola sovrastante erano poste tre piccole cornici che contenevano tre diverse foto: la prima raffigurava Peeta stesso e Katniss abbracciati, lui indossa un grembiule e un cappello da fornaio e ha il volto sporco di farina, lei ride e nella mano sinistra tiene stretto un piccolo cupcake al cioccolato, sembrano davvero felici. La seconda foto ritrae invece un uomo, hai i capelli castani e la barba un poco ispida e anche lui sorride, ma stretta alla sua gamba vi era una bambina di circa sei anni, indossa una gonna grigia e una camicia bianca, i capelli sono legati in due trecce. La terza foto ritraeva una ragazza di circa undici anni, hai dei lunghi capelli biondi e tiene in braccio un gatto spelacchiato, anch’essa ride. Non volevo invadere la loro vita e così non ebbi il coraggio di chiederli chi ritraessero quelle due ultime foto, anche se avessi tanto voluto.
– Accomodati pure. Vuoi una tazza di tè e qualche dolcetto? – mi disse Peeta gentilmente. Io gli sorrisi e accettai subito. Mi sedetti sul divano e cominciai a guardarmi meglio in giro
– Come ti senti? – mi chiese Katniss dopo essersi seduta vicino a me
– Persa – le risposi.  



Risponde l'autore:
Mi dispiace per il breve periodo di attesa ma sono partita per una settimana e non ho potuto aggiornare. Mi scuso per una seconda volta per il cambio di rpospettiva della storia, questa sarà la novità di questa fan fiction, il point of view potrebbe cambiare in base ai vari momenti della storia e non sarà sempre quello della nostra Rose ma anche di qualche altro personaggio. Quindi per concludere, come sempre fatemi sapere cosa ne pensate. 

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Capitolo 4
*** Questa non è più la grande città ***


Capitolo III – Questa non è più la grande città
 

- Posso capirti – mi rispose allora Katniss dopo qualche secondo di silenzio.
Avvicinai le gambe, che erano lasciate scoperte dal vestito color indaco che mi aveva prestato lei gentilmente e incrociai un piede dietro all’altro. Davvero riusciva a capirmi? No, non era possibile
– No, che non puoi – le risposi sussurrando sperando che non sentisse
– Lo so che può essere dura dopo tutto ciò che hai passato, credimi posso capirti. E’ cambiato tutto e forse hai paura che della tua vecchia vita non sia rimasto granché, ma non è così. Vedi, c’è molta più posta in gioco ora, devi aiutarci. – mi rispose con estrema cortesia e un tono da mamma apprensiva
– E non ti sto imponendo di sostenerci nella nostra impresa. Se accetterai, ho bisogno di sapere che tu sia motiva e che lo farai perché è ciò che vuoi. Va bene? – concluse avvicinandosi di più a me.
In quel momento non pensai molto alle sue parole, sentivo di non avere ancora abbastanza informazioni e non volevo decidere frettolosamente per poi ripensarci e pentirmi.
– Posso pensarci su? – le chiesi. Lei annuì sorridendo
– Ma certo, prendi tutto il tempo che vuoi – non feci nemmeno in tempo a risponderle con un grazie che apparve dalla cucina un entusiasta Peeta con un vassoio e tre tazze di tè e qualche biscotto sicuramente fatti da lui stesso.
– Ecco qua, ragazze – disse appoggiando il tutto sul tavolino davanti a noi.
– Grazie – gli risposi io afferrando la mia bevanda e qualche biscotto che intinsi subito.
Non avevo mai mangiato dei biscotti più gustosi di quelli, a Capitol persino il cibo, come tutte la città, sembrava insapore.
– Posso farvi una domanda? – chiesi appena ebbi finito di bere
– Ma certo – mi rispose lui.
– Lo so che può sembrare strano e forse del tutto inadeguato, ma non ci sarebbe tipo un video con la replica dei giochi? – chiesi un poco titubante ed incerta, mi vergognavo.
Nemmeno io ero sicura di voler rivedere ciò che mi era accaduto, gli altri tributi, i morti, le persone che avrei potuto uccidere. Katniss e Peeta si guardarono per qualche momento negli occhi come se stessero comunicando tra loro non verbalmente, con il pensiero
-Non credo sia il momento… - cominciò lei, ma venne subito interrotta dal ragazzo che con un gesto della mano la richiamò a se, volevano discutere in privato.
Li guardai allontanarsi da me, diretti alla cucina e nascondersi dietro ad una delle pareti in modo che non potessi vederli. Li sentivo bisbigliare tra loro, ma non riuscivo a comprendere cosa veramente si dicessero. Dopo aver girato il cucchiaino nel tè che non avevo bevuto, decisi di alzarmi. Girai per il piccolo salotto osservando con attenzione la stanza. La casa era molto più piccola di quelle a cui ero abituata, sebbene si potesse notare una apparente ricchezza dei tessuti utilizzati per tovaglie o tende e dei materiali con i quali erano stati costruiti i mobili, tutto sembrava così finto e nonostante tutto restava comunque povero. Sfiorai con l’indice destro il porta stoviglie posizionato proprio di fronte a me, era un legno ruvido e nodoso che legato con il resto del mobilio rendeva l’abitazione ancora più scarna ed asciutta. Le uniche parole che riuscii a sentire furono pronunciate da Peeta “Cosa vuoi che le accada? E’ già abbastanza confusa, non credo possa succederle di peggio” Sì, quello era lo spirito. Quando riapparvero dalla cucina mi ritrovarono quasi ad origliare alla porta. Mi allontanai di scatto ma non riuscii a sedermi esattamente dove ero prima, così mi bloccai in mezzo alla stanza. Non riuscivo a credere che, mentre noi vivevamo in una prigione d’oro, loro erano costretti ad abitare in quelle case. Riuscii soltanto a guardarmi le mani pallide, mentre se avessi potuto mi sarei scavata un buco e ci sarei volentieri morta dentro.
– Comunque, Katniss crede che tu… - stava cominciando Peeta
– Noi crediamo. – lo corresse lei
– Noi crediamo… che tu non sia ancora pronta, che tu sia ancora troppo fragile. Preferiamo che sia tu a ricordare ciò che hai passato, non vedere parte della tua vita passare velocemente su uno schermo – terminò come se non fosse nemmeno una sua idea, ma quella della fidanzata.
– Capisco – gli risposi girandomi verso di loro
– Sì, sono stata stupida. Non voglio veramente rivederli, non ancora. Fate come se non l’avessi mai chiesto – conclusi io stropicciando l’orlo dell’abito, dovevo essere davvero nervosa.
– Bene. Io devo andare, il lavoro mi chiama. Vi lascio da sole, ragazze. Ciao.  – annunciò lui prima di afferrare il suo cappotto e uscire quasi come volesse scappare da me, da quella situazione.
Ormai si era fatta sera. Il sole era tramontato e al suo posto era sorta una luna piena , meravigliose come non l’avevo mai visto prima
– Vieni, ti mostro la tua camera – disse Katniss incamminandosi verso la stanza degli ospiti.
– Perché Peeta va via così tardi? – le chiesi mentre tentai di aiutarla a mettere in ordine, ma finii soltanto con lo stare ferma sullo stipite della porta a guardarla fare il mio letto
– Preferisce lavorare di notte piuttosto che alzarsi prima e quindi passare più tempo con me di mattina – rispose lei rincalzando al meglio i lenzuoli sbiaditi.
Quanto mi mancava casa, il mio letto, i miei abiti, la mia famiglia, la mia vita. Dovevo essere sincera, non mi trovavo a mio agio in quel momento. Sentivo come se ogni cosa che dicessi, facessi o addirittura pensassi fosse sbagliata o inappropriata. Avrei tanto voluto nascondermi sotto quelle lenzuola e non uscire mai più.
– Grazie – le sussurrai. Lei non rispose ma continuò velocemente a mettere a posto. Appoggiò il cuscino bianco sul letto e sospirò fiera del suo lavoro appena finito.
– Di niente, Rose – mi rispose accarezzandomi la guancia prima di uscire
– Buona notte – continuò
– Buona notte – le risposi io.
Aspettai fino a quando non vidi da sotto la porta tutte le luci spegnersi e una porta, probabilmente quella di camera sua, chiudersi, poi mi feci cadere sul letto come fossi morta. Non passarono nemmeno dieci minuti che finii per addormentarmi in quella posizione, con gli abiti addosso e il freddo che mi stava lentamente congelando. Mi svegliai proprio nel bel mezzo della notte, potevo vedere chiaramente dalla finestra spalancata il profilo della luna piena e sentire il vento gelido ferirmi la pelle. Ero troppo stanca per alzarmi dal letto e chiudere tutto, così mi limitai a raggomitolarmi sotto le coperte proprio come un gatto e aspettare il giorno. Dalla trapunta cominciava a penetrare la luce del sole, potevo intravedere il colore che produceva in quella stanza, nonostante fosse quasi inverno. Sentii un gallo cantare e per un momento non riuscivo a crederci. Avevo sempre creduto che il fatto che quei volatili cantassero di mattina fosse soltanto una leggenda, ma a quanto pare mi sbagliavo. Mi scoprii il volto e mi misi a sedere. Avevo sperato per tutta la notte che fosse un brutto incubo ma era vero: ero nel distretto dodici e probabilmente non me ne sarei andata per un bel po’ di tempo.  Mi stavo alzando per andare a chiudere quelle stupida finestra quando fui spaventata da ciò che vidi sul mio letto. Un enorme essere mostruoso si era appallottolato sulle mie lenzuola trovandole, a quanto pare, calde ed accoglienti. Aveva il pelo di colore grigio, degli occhi neri e davvero inquietanti e una lunga coda rosa pallido. Dovetti mordermi una mano per non urlare. C’era un enorme topo, e chiamarlo così era certamente un eufemismo, che stava dormendo a pochi centimetri da me. Rimasi bloccata, pietrificata e senza respiro. Lui guardava me, io guardavo lui e nessuno dei due faceva nulla.
– Katniss, aiuto – cercai di sussurrare in modo che la bestia non potesse sentirmi, ma nessuno rispose.
Tentai di allungare una gamba fuori dal letto, lentamente, senza gesti bruschi, ma quella creatura si animò avvicinandosi pericolosamente a me. Mi alzai e corsi via urlando, aprii la porta e mi ritrovai nel bel mezzo del salotto mentre sia Katniss che Peeta stavano amorevolmente preparando la colazione. Mi guardarono straniti, probabilmente stavano pensando a cosa ci fosse di male in me.
– Stai bene? – mi chiese lui appoggiando una tazza sul tavolo.
– No, non sto affatto bene. – gli risposi con un tono un po’ troppo isterico forse
– C’è un mostro sul mio letto ed ha quasi provato a mangiarmi! – continuai indicando la porta dalla quale era uscita.
Era ufficiale: dovevo sembrare pazza. Katniss si alzò a camminò svelta verso la camera, forse potei intravedere un piccolo sorriso di scherno.
– Voi come state? – chiesi imbarazzata dopo qualche minuto di silenzio
– Bene, bene – mi rispose lui trattenendo a stento le risate.
– Bene – ripetei io.
Stavo tamburellando sul tavolo di legno quando lei si rifece viva
– Era soltanto un innocuo topino di campagna, niente di importante – ci disse appoggiandomi la mano sulla spalla
– Ti consiglio di chiudere la finestra prima di andare a letto, non sei più a Capitol City – No, non ero più nella grande città e cominciavo a notarlo soltanto ora.  


Risponde l'autore:
Vi prego umilmente scusa per questa orribile pausa. Vi prego di perdonarmi, lo so faccio schifo. Sono tornata dal mio viaggio circa un mese fa e ogni volta mi ripetevo: "Devo andare avanti con la storia" ma finivo per scrivere soltanto una frase. Dò la colpa per tutto sia alla mia scelleratezza che al blocco dello scrittore che mi ha colpito per più di un mese. Vi prometto una cosa però: posterò un altro capitolo a breve, se non stasera, di certo domani. Scusatemi ancora. 

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